Grice e Bacchin – anypotheton
haploustaton; overo, i fondamenti della filosofia del linguaggio – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Belluno). Filosofo. Grice: “I like Bacchin; as an
Italian he is allows to speak pompously as we at Oxford cannot! But he is
basically saying the commonplace that ‘intersoggetivita’ has a ‘dialectical
dimension’ (interoggetivita come dimensione dialettica) in the sense that the
ego (or ‘l’io’) presupposes the ‘altro’ (as he puts it: ‘a cui’) – therefore;
it is a presupposition of the schema, as Collingwood would have it, alla Cook
Wilson – and thus only transcendentally justified. Bacchin has noted that the
operator ~ is basic in that ‘inter-rogo’ invites a ‘risposta’ whose ‘motivation’
may be ‘implicita’ – the ad-firmatum is motivated by the domanda – which can be
another dimanda: why do you think so? “Why do you ask why I think so?” -- Bacchin is alla Heidegger and other
phenomenologists, with the ‘essere’ versus appare on which my impicata in
‘Causal Theory of Perception’ depend (‘if A seems B, A is not B. Note that
there is no way to express this implicata without a ~. It might be argued that
it can express with some of the strokes or with some expression that would
flout ‘be brief, rather than the simplest” – and which would involve, as
Parmenide has it, the idea of, precisely –altro’ (other than). Note that
Bacchin equivocates on the ‘altro’ – in the dialectical dimension of
intersubjectivity he obviously means ‘tu,’ not ‘altro.’ In the negation or
contradiction (in dialectical terms) of an affirmation – which is involved in
every ‘dialogue’ that Bacchin calls ‘socratico’ or euristico rather than
sofistico (based on equivocation) – the ‘altro’ is the other, A is not B, impying
A is other than B (cf. my ‘Negation and Privation’). This does not need have us
multiply the sense of ‘ne,’ in old Roman!” -- Giovanni Romano Bacchin
(Belluno), filosofo. Dopo aver conseguito la laurea ottenne la libera docenza
in filosofia della storia. Insegnò filosofia della storia e filosofia della
scienza presso l'Perugia. Occupò anche la cattedra di filosofia della scienza
presso l'Lecce. Fu docente presso la facoltà di lettere e filosofia
dell'Padova, tenendo la cattedra di filosofia teoretica. Fu membro della "Società Filosofica
Italiana". Morì sulla spiaggia di Rimini.
Pensiero Cresciuto filosoficamente nella scuola metafisica padovana di
Marino Gentile, intorno agli anni sessanta, Bacchin presto sviluppò una propria
originalità di approccio e di ricerca filosofica, che lo rendono difficilmente
assimilabile ad una qualche corrente o "famiglia" filosofica se non
quella della libera e inesausta teoresi.
A testimonianza della specificità del suo approccio metafisico si può
citare questa sua affermazione. «V'è un
senso metafisico che può andare perduto. Né basta parlare di metafisica e
considerarsi metafisici per possederlo. La perdita del senso metafisico è anche
trionfo del condizionale e quindi dell'ipocrisia: "direi",
"avanzerei la proposta", "mi si passi l'espressione",
"vorrei che il lettore ricavasse l'impressione..'", "anche se
siamo, il lettore ed io,certo ioimmensamente piccoli", "a mio
sommesso avviso" e così via in un continuo spostare l'attenzione su di sé
e in un continuo, inutile, domandare scusa al lettore della
propriascontatapochezza, rivelando che non è poi così scontata da non parlarne.
Nudo e indifeso alla presenza della verità, il metafisico non lo può essere di
meno di fronte agli uomini, i qualidi certo- non sono la verità. » Riferimento costante dell'incessante dialogo
filosofico di Bacchin fu senz'altro l'attualismo gentiliano. Altre opere: “Su le implicazioni teoretiche
della struttura formale” (Roma, Jandi Sapi); “Originarietà e mediazione del
discorso metafisico” (Roma, Jandi Sapi); Sull'autentico nel filosofare” (Roma,
Jandi Sapi); “L'originario come implesso esperienza-discorso” (Roma, Jandi
Sapi); “Il concetto di meditazione e la teoremi del fondamento” (Roma, Jandi
Sapi); “I fondamenti della filosofia del linguaggio” (Assisi); “L'immediato e
la sua negazione, Perugia, Grafica); “Anypotheton” Saggio di filosofia
teoretica” (Roma, Bulzoni); “Teoresi metafisica” (Padova, Nuova Vita); “Haploustaton”
(Firenze, Arnaud); “La struttura teorematica del problema metafisico”; “Classicità e originarietà della metafisica,
scritti scelti” (Milano, Franco Angeli); “La metafisica agevola o impedisce
l'unità culturale europea?”in ‘Il contributo della cultura all'unità europea',
Danilo Castellano, Edizioni scientifiche italiane, Napoli); “L'attualismo nel
pensiero di Marino Gentile, in Annali, Roma, Fondazione Ugo Spirito. Informazioni
biografiche reperibili anche in G.R. Bacchin, Haploustaton, Arnaud, Firenze
1Giovanni Romano Bacchin in Teoresi metafisica, 1984 Berti, Enrico Ricordo di Giovanni Romano
Bacchin, "Bollettino della Società Filosofica Italiana", 1Scilironi,
Carlo Tra opposte ragioni: nota in ricordo di Giovanni Romano Bacchin a dieci
anni dalla morte. in Studia patavina: Rivista di scienze religiose. Filosofia Filosofo
Professore Belluno Rimini. Metafisica del principio.
Si comincia dopo avere cominciato. L’innegabile è innegabilmente. Negare è
escludere un’inclusione indebita. Non v’è limite del sapere. Il luogo del
filosofare è la domanda del luogo per filosofare. Ciò che v’è di originario
nell’esperienza. La filosofia non ha oggetto e nessun oggetto si sottrae alla
filosofia. La riappropriazione metafisica. L’esperienza praticabile è
conversione fattuale in fatto. Funzione della parantesi nell’asserzione e
l’aporia del dogmatico. L’autorità del dogmatico si presenta come critica di
ogni autorità. L’ideale dell’autorità è di essere indiscutibile. Autorità e
intelletto si fronteggiano. Ciò che l’intelletto impone all’autorità è di
essere ciò che pretende di essere. Il luogo della domanda è l’insufficienza di
ciò che si presenta a ciò che, presentan- dosi, non è interamente. L’identità
tra inevitabile e necessario è solo co- struita. Il senso in cui non si può
domandare tutto. Ciò da cui dipendono le valutazioni del domandare. Il senso in
cui non si può non domandare tutto. Domandare tutto è negare di poter asserire.
Paradigma del dottrinario in filosofia. Una richiesta che preceda la domanda di
verità non può essere vera. Il prefilosofico oltrepassa il sapere di non sapere
credendo di superarlo. L’impossibilità di oltrepassare quel ‘limite’ che è la
stessa impossibilità di oltrepassarlo. La costante esistenziale dell’esperienza
e gli equivoci della sua valorazione. La domanda universale investe il
linguaggio come luogo della possibilità dell’errore. Digressione. La base del
filologismo in filosofia. Dell’ingenuità storiografica in filosofia. Le due
direzioni dell’ingenuità storiografica. L’equivoco storico in filosofia.
Equivoco di coscienza storica e conoscenza storica. Le storie della filosofia
rendono la filosofia accessibile al senso comune prefilosofico. L’ideale
sistematico del prefilosofico si prolunga nella storiografia. Filosofare
nonostante la storia della filosofia. Inattualità teoretica dello storicismo.
La nozione dogmatica di storia. Il carattere fideistico della tradizione e il
circolo del riconoscimento. Due figure dell’accoglimento della tradizione: integralismo
e progressismo. La ragione formale come unica ragione delle due figure.
L’ideale immanente del credere è coincidere con il vivere. La ragione. Indice.
Indice formale presiede nel suo uso ciò che la determina nei suoi contenuti. Se
ogni fede è cosmica, ogni cosmo è creduto. La valenza sperimentale è già nella
protomatematica, come si esemplifica in Galilei. Il carattere ipotetico di ogni
riferimento assertorio all’esperienza. Il rischio erme- neutico è considerare
effettivo ciò che è interpretazione, come si esemplifica in Galilei. Il senso
in cui la scienza è alienazione. Ingenuità del ten- tativo di fondare scienza e
filosofia sull’esperienza immediata. Il campo in cui si discute è ciò che
intanto permane indiscusso. Credere di conoscere è non sapere di credere. Il
rapporto tra intendere e pretendere è struttura del conoscere. Il rapporto
strutturale di compreso e comprendente tra universi. Il rapporto di compreso e
comprendente è struttura del contenuto di osservazione. Costanti del progetto
d’esperienza e il vettore di interesse. Il progetto fondamentale e Kant. Il
progetto di filosofare è il modo filosofico di progettare: miraggio del ritorno
all’immediato, Controllabilità e statuto dell’individuale. Ambiguità del
sapersi orientare nel mondo. L’intenzione conoscitiva del fenomeno individuale.
Progetto del conoscere come adeguazione progressiva. Il co- noscere
rappresentato come rappresentazione. Il presupporre è limite presupposto
all’operare. La scienza ignora di essere una fede. La scienza non può sapere
ciò che essa implica, dovendo postulare ciò di cui abbisogna. La considerazione
pensante. La conoscenza scientifica ipotizza la realtà che le consente di
ipotizzare. Tentativo della distinzione tra ‘visione naturale’ e ‘visione
scientifica’ del mondo. Esame della struttura del ‘punto di vista’ nella
configurazione dei sistemi di riferimento. Dopo l’intermezzo ludico, che cosa
si intende per ‘considerazione logica’. La logica formale è il modo formale di
considerare la logica. Il formalismo della logica è il nihilismo della verità.
La conciliazione tra storia mondana e filosofare non può avvenire nella storia
mondana. Ciò che si presenta con la divisione pone la richiesta della
connessione. Il pensiero si affida al linguaggio per essere riconosciuto come
indipendente dal linguaggio. Si esemplifica con l’espressione hegeliana
“movimento dell’essenza”. Si insiste con l’esemplificazione hegeliana. Ancora
esemplificazione hegeliana: la “cosa stessa” non può venire utilizzata. Il
senso della cura–custodia. Il senso in cui il pensare penetra. Il pragmatico è
fittiziamente teoretico. La verità mette in questione ogni discorso intorno
alla verità. Il nesso tra tecnica logica e configurazione funzionale del
concetto. La conoscenza scientifica considera astratto ciò che essa non può
considerare. Rischio dell’equivoco tra mera domanda e domanda pura. L’imporsi
della verità è l’asse delle pseudofilosofie. Volontà di coerenza e volontà di
dominio. Coerenza è fedeltà alla logica di un sistema. Sistema ed esistenza. Esistenza
e chiarificazione. Esistenza e coscienza. Coscienza e punto di vista. Il punto
di vista fondamentale non è un punto di vista. La nozione comune di esistenza e
l’istituzione. Ciò che esiste non è assoluto. Differenza tra teoresi e teoria e
l’impossibilità di scegliere la teoresi. La teoresi, che non è teoria, appare
in una qualche teoria. Poiché l’intero non può essere oggetto, nessun og- getto
è intero. La scienza che escluda la filosofia diventa “filosofia della
natura”. Il mondo della vita impone l’astrazione. La filosofia non vincola a se
stessa le scienze. Ricorso alla formula. La “formula” e l’aporia del metodo
ideale. Il metodo di filosofare è filosofare, ossia domandare. Inevitabilità
dell’astratto. Necessità e cogenza. Il carattere divino della matematica è
l’essenza matematica di Dio anche se Galilei non lo vuole. L’ordine astratto si
esemplifica in Wolff, ma esso è la logica interna della formulazione del
principio di non contraddizione. La “proposizione” è la figura minima del
sistema, la forma del quale è l’equazione. L’ideale del conoscere esclude dal
conoscere l’operare. Le condizioni del conoscere sono riconosciute nella loro
indipendenza dal conoscere, nel conoscere di cui sono condizioni. La relazione,
che è esperienza, non può essere relazione dell’esperienza con altro da essa.
La conoscenza dell’incono- scibilità dello in sé è conoscenza in sé. L’astratto
è inevitabile, ma non necessario. Per dire con che cosa si comincia, si
comincia con la domanda intorno a come si comincia. Affermare la totalità è
dimostrare che es- sa non può venire negata e, dunque, non abbisogna di venire
affermata. La condizione apriori è trovata analiticamente, perché è
contraddittorio che, nel no- stro conoscere, tutto derivi dall’esperienza.
L’uso è unicamente empirico ed è riconosciuto trascendentalmente. L’analisi è
la presenza operante del “principio di non contraddizione”. La struttura
sintetica del giudizio è l’infinitezza dell’analisi. Il giudizio è domanda
infinita di venire fondato. Tra esperienza e giudizio non sussiste rapporto,
perché l’esperienza non può essere un giudicato. La prima forma di mediazione è
l’immediatezza fenomenologica, o medialità. Il contessere infinito del dato non
è dato. Ogni ordinamento di oggetti è teorico. L’oggetto è pluralità di
oggetti. Se è astratto l’oggetto, è astratto il suo contesto. L’intuizione
astrae dal contessere infinito. Ciò che è dato per primo è risultato di un
processo astrattivo: l’intuizione non è originaria. Differenza tra teorica dei
giudizi e teoresi del giudizio. Impostazione. L’interpretazione empirica
dell’oggetto “come tale” quale “oggetto in generale”: trascrizione
generalizzata degli oggetti. La sintesi precede ogni analisi e la condiziona.
Il conoscere presenta un duplice livello: quello del suo fungere che
costituisce l’oggetto, quello della consapevolezza di tale fungere. Il
conoscere muove dalla fiducia nello essere in sé del conosciuto, con base
esclusiva- mente pratica. Può venire formulata anche la contraddizione, dunque
la forma proposizionale non è struttura del giudicare. L’analisi come pre-
senza dell’incontraddittorietà formulata come “principio di non
contraddizione”. Un giudizio media la posizione di altro giudizio: medialità
posizionale o fe- nomenologica. Di volta in volta un giudizio può valere come
analitico o come sintetico. Si intende di sapere con necessità. Se v’è un modo
empirico di conoscere, v’è un modo non empirico di riconoscerlo. Kant conosce
analiticamente che la conoscenza umana è sintetica. Nessun giudizio matematico
è conoscitivo. La ragione dell’aritmetica è un fatto, perché le risulta
possibile ciò che le risulta fattibile. Le categorie. Indice. Indice trovate
dall’analitica sono usate dalla stessa analitica. L’esperienza è condizione del
darsi delle sue condizioni. “Cosa” ha significato operativo. Il tempo è
essenzialmente prassi. Spazio e tempo provengono dalla sintesi dell’intelletto,
ma operano nella sensibilità. L’oggettivazione dell’esperienza è
matematizzazione, di cui il trascendente è negazione. Il trascendentale è, ma
non appare. La sintesi è negazione di se stessa come negarsi reciproco dei suoi
termini. Tempo e durata. La presenza fungente dell’apriori è analiticamente
reperibile nel dato e non lo eccede. La differenza tra conoscere e sapere è
conosciuta e saputa. Conoscere non è sapere e l’oggetto è matematico perché è
oggetto. Esemplificazione con Kant di ambiguità fra matematica e conoscenza. Il
conoscere della matematica, essendo matematico come conoscere, non è conoscere.
La volontà di potenza è l’impotenza dell’io nei confronti delle sue
rappresentazioni. L’io si riferisce a se stesso come dato all’io. Non vi può
essere una ragione pura. Teoresi e finitezza della ragione. Il senso teoretico
dell’inconoscibilità dello “in sé” è quello dell’inoggettivabilità del vero. La
ragione è strumentale per se stessa. Il carattere filosofico della
pricerca. Il carattere dialettico, o negatorio della
filosofia. La dialettica dell identico livello. La dia-letticità
della filosofia e il momento analitico della filosofia del linguaggio. I
limiti di validità dell analisi nella filosofia del linguaggio. Limiti di
validità e valore. Come è possibile una filosofia del linguaggio.
Concetto di "teoria" e sua riduzione. La riduzione del concetto
di teoria e la radice pragmatica dell intellettualismo. La nozione
ateoretica dello "in generale" come base della teoria.
Riduzione del procedimento analitico all inde terminato, cioè al
contraddittorio. Differenza ontologica tra il contraddittorio ed il
negato. La dialetticità come impossibilità di un procedimento analitico
sulla totalità. La domanda totale e la totalità domandata. L intero della
domanda totale e della totalità domandata. La conversione dialettica della
totalità domandata nella esclusività del domandare. La domanda come
riferirsi in atto alla risposta. La problematicità della
"definizione" concettuale. L intersoggettività come
dimensione dialettica. La struttura dialettica dell'implicazione.
L'insignificanza teoretica del disaccordo. La preoccupazione di
raggiungere un accordo effettivo è empirica e filosoficamente ingenua.
Fittizietà del rapporto tra filosofia e senso comune. La superfluità del
problema del "solipsismo". Presenza e coscienza. La
realtà come pensiero si risolve nel pensiero come atto. La realizzazione.
L'attualismo come attualismo puro. La realizzazione come negazione e come
posizione. L'attualismo monistico come naturalismo. La presenza pura. La
coscienza della presenza pura. Il rapporto tra atto ed oggettivazione tra
presenza e pre-sentificazione. Importo teoretico dell'espressione
"Verum et esse convertuntur". La metaforicità intrinseca delia
parola. La "cosa stessa" come l'intero di se stessa. L identità
pensare-essere. Il riproporsi del pensiero su se stesso come origine
della parola "cosa". La duplice funzione della parola
"cosa". Le condizioni ad un indagine critica. L atto critico o
negatorio come atto di pensiero nella coscienza. La ricerca del mezzo
logico adeguato e l interrogazione. I limiti teoretici delle asserzioni
condizionate da interessi. La riduzione pretesa del "sapere"
al "potere" e il concetto ateoretico di
"teoria". L'interpretazione matematicistica nei suoi limiti. La
teoria come formulazione generale. La radice dell'interpretazione
matematicistica. Le condizioni imposte dal concetto d
interpretazione. Il carattere teoretico del controllo sull
esperienza. Lo spostamento del limite come essenziale alle
determinazioni. La determinazione come ritorno dell atto: totalità di
definizione e totalità di esaustione. La totalità di definizione come
"essenza". L' atteggiamento fondamentale umano operante nella
definizione concettuale. Il modo indiretto dì dire l'essenza.
Originarietà e mediazione nel discorso metafisico (Il "Tema";
Svolgimento delle indicazioni teoretiche del "Tema". L'originario
come implesso esperienza-discorso. L'"Esperito" e l'"Esperienza
integrale". Il significato dell'"Implesso"; Il senso
dell'"Originarietà" dell'"Implesso". Il concetto di
meditazione e la teoresi del fondamento (L'impostazione; La
"sospensione" degli enti dall'essere). Giovanni Romano
Bacchin. Keywords: anypotheton, haploustaton; ovvero, i fondamenti della
filosofia del linguaggio, il discorso metafisico – a new discourse on
metaphysics, from genesis to revelations, etymologia di ‘autentico’,
l’esperienza e il disscorso, implesso esperienza-discorso; anypotheton, haploustaton, anypotheton
hypotheton, supponibile, insupponibile, haplloustaton, superlative di haplous,
simplex, simplicior, simplicissum, simplicissmo, complesso, simplice/complesso,
simpliccismo, simplicissimo, complessissimo, complesso proposizionale, semplice
sub-proposizionale – implesso, analisi del concetto d’impicazione – senso e
significato – senso e segno – proposizione – funzione proposizionale –
Whitehead. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bacchin” – The Swimming-Pool
Library.
Bacchio
– Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Bacchius. He was
a member of the Accademia. Antonino attended his lectures. He was the adopted
son of Gaius.
Grice e Bacci – I bagni dei romani –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Sant’Elpidio al Mare). Filosofo
Italiano. Grice: “You’ve got to love
Bacci; he was born in the Italian equivalent of Weston-super-Mare, and
therefore, he dedicated his philosophy to swimming!” – Studia a Matelica,
Siena, e Roma. Scrive “Del Tevere, della natura...”. Pubblica il “De Thermis”,
un saggio sulle acque, la loro storia e le qualità terapeutiche che venne
accolto con entusiasmo. Dopo aver ottenuto la cattedra alla Sapienza e l'iscrizione
all'albo dei cittadini romani, e nominato Archiatra pontificio. I saggi “Delle
acque albule di Tivoli”, “Delle acque acetose presso Roma e delle acque
d'Anticoli”, “Delle acque della terra bergamasca”, “Tabula semplicim
medicamentorum”, “De venenis et antidotis”, “Della gran bestia detta alce e
delle sue proprietà e virtù”; “Delle dodici pietre preziose della loro forza ed
uso”, “L'Alicorno”. Il monumentale trattato “De naturali vinorum historia”, un
compendio in sette libri su tutti i vini conosciuti. Tratta temi relativi alla
vinificazione e conservazione dei vini; Consumo dei vini in rapporto alle
condizioni di salute; Caratteristiche peculiari dei vini; Uso dei vini nell'antichità
classica, Vini delle varie parti d'Italia, Vini importati a Roma, Vini
stranieri. Note DBI. Andrea Bacci la figura le opere, Atti della
giornata di studi tenutasi il 25 novembre 2000 a Sant'Elpidio a Mare. Altri
progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a
Andrea Bacci Collabora a Wikiquote Citazionio su Andrea Bacci Mario Crespi, Andrea Bacci, in Dizionario
biografico degli italiani, 5, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. De Naturali Vinorum Historia De Vinis
ItalEae et de Conuiuijs Antiquorum Libri Septem Andreae BacciI Traduzione del
libro Quinto nella parte dedicata ai vini delle Marche, Gianni Brandozzi,
Associazione culturale Giovane Europa, Filosofi italiani del XVI secolo Medici
italiani Scrittori italiani Professore Sant'Elpidio a Mare Roma Enologi
italiani. In quo agitur de balneis artificialibus,
penes instituta recæperit, hoc tempus non esta deo compertum, nisi quantum
legitur fuisse antiquissimum. Nam ex omnibus monumentis quæad notitiam hominum
peruenerunt, vetustissima huncritum lavationum, perinde necessarium ad communem
vitam commemorant. Balnearum enim mentionem invenio non modo ante ROMANORUM
IMPERIUM. Sed ante asiaticos etiam et chaldæos extitisse. Imòsiiactatis,
antequam ulla extitissetliterarumin ventio, dicterija credamus; extat apud
Pisandrum id circo Calida balnea fuif fe natura bal. cognominata Herculea, quòd
Minerva olim fesso Herculi calida parasset. Vel veterum et Galeni in
Thermis primus la tascoengerit quodammodo ad lauacra homines. Quippe ean ecessitas,
quæ uationumv a primordio rerum monstrauerat mortalibus ex agresti vita victum
quærere, sus. Tecta construere,abæstu& frigoresetueri:eadem &
fordesabluere,mun ditiæquecultum monftrauit.primo quidem quantum
vitæsatisfaceret,donec paulatima liqua industriaadhibita, laffata corpora mollia
quarum foturecrea reedocuit. Verum quando id inftitutum locum aliquem in REPUBLICA
HABE ROMANORUM, VANTA fuerit naturæ solertiaincumulandis gratijsaquarum
spontemanantium et quæ differentiæsinttùm simplicis Elementi, tùm consequentes ex
misturi. Et quisvsusearumin balneis. Hactenus proeoac potuimus explicauimus.
Quis enim pro dignitate naturæ, speciales proprietatescunctarum aquarum sermonem
consequi audeat? In hisautem quæ ad thermarum vsum dicendarestant, sirectèquis
thermarum ARTIFICIALIUM magisteriaconsi dignitas. deret, summum artis cum
natura certamen videri poterit. Ut tnesciam anadeo sciuerit natura elargiri mortalibus
tota diumentorum materiam, torqueadeo diuinæ dispositionis ostentare miracula
inaquis. Quanto maiora funt, quæ arsaddiditornamentain Thermissuis. Præsertimfubila
ROMANI IMPERII maiestate. Inquarum monumentis,quæ exeispartimvidentur et
partimle gunturapud varios authores, nons atisconstatapudme vtra fuerit maior, an
magnificentia operis ad illorum temporum instituta, an commoditas popu.
larisadvtilitatemlauationum.Principiononeftdubium fiprima quasiin cunabula cæterarum
rerum coniectemus, quin ipsa vitæ, ac naturæ necessi quia quia
eidem (vtAthenæus est author)vulcanusmuneris vice feruida suppo fuisset.
Etlivera credimusre tulisse Platonem tamspectatæfapientiæautho rem,superatomnium
seculorummemoriam, quamipsetraditexantiquissi mis monumentis, de Atlantica maxim
a olim insula nun c Oceano ipso occupant aextram Columnas; quam Neptunimunere
cùmomni delitiarum genere Thermar r o n clarssima, habuisse refert ipse etiam
balneas quæ omni cultu ornatæ partim usus, quidem subdiuopaterent, partim verò subtecto
calentia haberent lauacrahy Είμαζα, τ'έξιμοιρα, λοιπάτε θερμα,καιανα cus Sexcenti
sautem post Homerum annis,Hippocratesprimusmedicinæau derat. thor, Thermarumvsum
curandarum ægritudinum causa, tanquamreiiam in Græciacommunitervsitate commemorat,
ac damnauit aliqua. Floruitau tem (ut ratio temporum habeatur) natus primo octogesimæ
Olympiadis ut Hippocrates Soranus tradidit circam Peloponnesiacum bellum:quod teste
Plinio gestu estàtricentesimovrbisRoniæannoexactisanteàRegibusannos
circitersexa ginta,& ArtaxersePersarumRegemagnam Græciæ partem, &
Hellespontú occupante. Poftquæ temporadum Græciaindies Sapientiffimorum virorú
scriptis venirent illustrior, perpetua habemus de Balneis testimonia, Socratis,
Platonis, Aristotelis, cæterorum quesuccessu temporum authorum,qui& Aliam, &
PersiamnonfolùmGręciambalnearumvsumhabuissefamiliarem LaconesTber testantur. Laconesinter
Græcos antiquiores, primamlaudem Thermarum marimiznitanquam suuminuentumsibivendicare
videntur, Dioneauthore: ac abeis tores. pofteà huncmorem reliquas nations didicisse.
Quod confirmatpartium nomina in Thermis Romanis, quæ omnes græcæ
suntvoces,laconicum,Hypo cauftum,Miliarium,& Thermæ ipfæ, nedicam cætera.
Ex quibusconstat vsumThermarumapud Romanos fuise posteriorem, aceasinæmulationem
græcorum constructastestanturMarcus Varroin librode antiquis nomini bus,&
item Vitruuius.VeruntamensubilaRomaniimperijmaiestate, sicut omnes artes
floruere, ac inuenta prius ab alijs meliora cuasére, vnde meri to Roma QUASI
ALTER A MVNDI PARENS dictaest: itaomnium maxi mè Thermarumi nftituta incredibiles,
& supraquàm exprimivnquam pof sit,habuêreprogressus,eatamen
obliterataferèad hancætatem,necliteris mandata, multisforsanèdoctishæcmeliusscientibus.Quamobrem
nos, volentes ad noftrarum lauationum regulam, antiquum Thermarum vsum rcuocarein
lucem; operæ precium eftRomanarum institutaprosequi:inqui bus quæ prima ipsarum
introducendarum ratio fuerit, quisordopartium,& quisvsus,& quæ tandem
ineis medicinæ pars extiterit,percurremus. In Critia, berno tempore, atque
feorsumaliaregibuspriuata,alia viris,aliamulieri bus,aliaitem equis, cæterişúeiumentis.
Posterisveròseculispater Home rus, cuiusscriptisnullumconstatapud Græcos testimonium
antiquius,mul toties calidaruin lauationum mentionem fecit. Præcipuè verò in Odysseæ
lib. 8.vbi Poëtaomnium fermèrituum memoriadignorum obseruátissimus, Thermas
indeliciiscommemorat illisversibus. vic. Homeri lo Aid δωμϊνδαίς τεφίλη, κιθαρίςτε,
χοροίτε, De affiduis primùm venatibus deditos,necminusagrestibus operibusedu
catos, nonaliaferè industriatùm amplificandæ Reipublicę, tùmdefen dendæquùm
opusfuit, præualuiffe, quàm quoddurataiampacislaboribus
corpora,facilèquodcunquemilitiæonussustineredidicerant.Inquo perce
lebremhabemus Quintium Cincinnatum, abaratroaddictaturamvocatum. Itemque C.
Fabritium et Curium Dentatum, qui rure ac militiæ laudatissimi, omni Spicula contorquent,
cursuque, ictuquelacescunt, Abhisergoexercitijs, vterant frequentes, harena, puluereque
conspersi, ac fudoreprofusiatqueoleo,vtseminudi
acexertisbrachijs,cruribusque,vel liberosaltemhabitu, quo degebant, vt effent admunia
propriores, necessario lauationes pofcebant. Qua dere, dum adhuc nouitiavrbs
inhis studijs Patres campum Martium vicinum Tyberi, in quo iuventus post
exercitium Lib.1. c.10 armorum, ludorem, pulueremque dilueret, aclassitudinem,cursusquela
borem natandodeponeret. Qui mos vt paulatim èreipsa, & quasi nemine
Lauationes instituentese in ciuitatem ingessit (quem ve plurimum soletese nouo rūrituum
in Tyberi, introductio)itatandem crescente indiesiuuentute,armorumquefimulac exercitiorumaffiduostudio,viamtamfrugiinstitutiaperuit.
Sanèin ciuile videri nobilem ciuitatem in luculentis Auminis aquis quotidielauari;aclaua
craid circo Asiaticorum, & Græcorum moreparandaesse,quæpostexercitia non ad
munditiam facerentsolùm, verumetiam recrearent, maiusque robur laffatis membrisadiungerent.Quod
tamenpropositumlongissimèdistulêre:
nonquideminscitia,autvecordiatamgenerosæciuitatis, sed propter
Antevrbempueri, & priinęuofore iuventus. Exercenturequis, domitant que in puluerecurrus.
Aut acres tendunt arcus, aut lenta lacertis 7. Aeneid. Lauationum Deprimis Thermarum
institutis in vrbe Roma. Aris quidem constar Romanos illos Quirites,antiquosque
Sabinos, satissuntexemplonobis, hæcfuisseilliusseculiftudia. Non pecuniapræua
lere, non forma, nõ ambitiofo hominum comitatu, non stemmatis dignitate
certare: fed totamvimin proprijanimiexcellentia,viribuscorporis,acexa etacura Rei
pub. collocare. Feruebant honestælaudisemulatione ingenia, vt quosarma,&
propria virtus ad prim s ciuitatis honores euexerant, studio, ac laboreæ quarent.
Quare vbi militiæ in externosceffasset occasio, ROMANORUM quasi natiuo instinctu
dediti ad labores, autrurese agrestibus exercebantope-studia. ribus, autaddisciplinamac
roburcorporis, ciuilibus,ijsquevarijs exercita mentis vtebantur: cursu,disco,faltu,
lucta,& pugilatu,natatione, atque armis. Quem more man t è urbem conditam
fuiffe quoue. APUD LATINO antiquissimum, planèilis versibusrepresentauitVergilius.
necessitas. 36 strenuè adolesceret, præclarum habemus Vegetij testimonium,constituisse
gruentem,au&taque fpatio temporis,spectatævrbisinfinitimasterrasautho
Aquaríper ducen.decre ritate; deaquistandem èvicinis montibus, Auuijsquein
vrbem perducen- tum. 1 (vtegoreor) potissimascauffas:Tùm quiaprimiili Patresnontamfrugifu
turumolimhuncritum existimauêre, quàm luxui, ac mollicieiforelenoci nium; id quod
accidisse, posteà declarabitur. Deinde ob aquarum incom moditatem,quarum
incolles,vbitunchabitabantdifficiliserat,& nonsine maximaimpensa,perductio.
Verùmhoc laucitiædesideriovniuersimin dis, duas dis, decreto S. P. Q.
R. publico ftatutum est: quæ & potuum fimul,& laua tionumritui suppeterent.Quod
factum est primùm M. Valerio Max. P. De cio Mure Coss. (authore Plinio) aqua
Tyberinarī Appia ex Tusculano per ducta, Censore Appio Claudio curante. Aquibusté.
porusdimif. poribus, Tyberinarum aquarum vsus,adeam vsque ætatem tàm potu, quá
sus. lauacrofrequentiffimus, exolescerepaulatimincepit:aclauationum simul,
atque exercitationis gratia (ut tradit Festus Pompeius) Piscina publica ad cli
Piscina Pub.uium Capitolinum iuxtàTyberimestconstituta.Pofteà Thermæconstructę.
stitut& uationumduntaxat,conftitutæ fuerant,haudmagnum habuêre progressum.
Visicùm auctaciuitate, simul atquecrescenteindiesineisiuuentutisapplau. fu; semper
maiorisearum capacitates ratiofuit habenda.& præsertim vbime dicorum
consensu incurationem quoque ægritudinum suscipicæperunt.Ve
rumtamenpostinitiadiuadmodum consuetum fuitangustasfieri,actenebri
cosas;nonenimcalidævidebanturnisiobscuræ;quem admodum fcribitSe
necaadLucillum,fuissebalneum Scipionis Aphricani ad Linternum. Causa verò amplificationis
Thermarum præcipua, fuit Palæstrarum adiunctio. Quippe cùm apud Romanos veteres,
ferèvfquead Augustum,nonadeo multa extiterit architecturæ dignitas, nec adeo
fuerit consuetudinis Italicæ. (vt desuotemporescripsitVitruuius,&
multoetiampost)cumPalęstrisLa uationes habere coniunctas;contentus quisque
ruralibus exercitationibus, ThermeadvelCampo ipfoMartio,&
harenaPlatearum;solasin Thermisobibantla exercitia có uationes. Quo ritu ad
imperium vsque Principum perseuerante (vnde planè stitute.
constarepoteritThermas exercitiorum cauffa fuiffeinstructas)vbicunqueali qua
fierent publica edificia, ac populi celebritas,iuxtà constituebantur &
Thermæ.Exemplo primùm Agrippæ clarissimo;qui ob celebritatem admira bilistempli
Pantheon,atque Campi Martij; iuxtà,Thermas suas extruxit.
SicNeroposteàNeronianassuasiuxtà Agonalem circum, ob Ludos,quiibi fiebant celebres,constituit.
Necfecus authore Suetonio TitusVespasianus dedicato Amphitheatro,Thermas
celeriterextruiiussit: nimirùm ad Amphi Palestrari theatri,& exercitiorum, quæineofiebantcommoditatem.
Donectandem cum Ther.illustratacuniImperijmaiestateArchitecturæperitia,moreGræcorum
Palæ mis coniun-ftræcum Thermis fuêre coniunctæ,vbinimirùm generosa
iuuentus,relictis iamruribus,atqueharenis,simul&
exercitationesobirentomnisgeneris,ac lauarentur. AtquehincnonsolumoperaThermarum
fueruntelegantiùsdi. sposita,atque admodum amplificata, sedtantam etiam
promeruerunt o m niumgratiam,vttotaciuitaspaulatim
hancsusceperitconsuetudinem,fre quentare singulis diebus Thermas, & tàm
Senes,quàm consulares,atque amplissimiordinisviri,necnonartifices,&
matronæ.Proveteriinstituto, acftudiovirium,promunditia,&
prosanitate,atqueomnicuracorporum. Romanarum Thermarum cenfura, atque Magnificentia,
Quæ quoniamfrugiinprimis,obeam, quam dixi causam et ad ritum la.10 Etæ 40 čtio.
A e c ergo initia, atque hæc incrementa fuerunt thermaru m Romanorum. Primò quidem
institutæob ritum laudabilem,quem exer citium,& vitæratioillorum temporum
inuexerat. Deinde au Therme con Therma auCtæobcommunemvtilitatem,&
magnificatæcumpalestris. Eradfum mam tandem amplitudinem, acmagnificentiamperductęobdelicias.quem
ad modum à nobis ex earum aliqua descriptionem on f trabitur. Quan quam id
quidem, prorei, atq;vrbis magnitudine, haudnostroindigeret testimonio,descriptio
quiMedicinęduntaxatineisinstitutaprofiteremur: nisiminusplenèomnes,curnecela
quide Architecturaconscripserunt, earummaiestatem expreffiffent. Nam ria.
quidde Vitruuijlibriseliciemus,nisinudaquædam lineamenta,atqueeaqui Invitruvio
dem nonadmodum explicata,paucaquelocabalnearumsuitemporis,quan-censura.
doperangusta,& blactariafiebantbalnea(vtpauloantèex Senecætestimo niodiximus)
quæeiusætate,& poftcà maximè, locuminter primasædificio rum
vrbismagnificentiashabuêre?Minusàiuniorum scriptis,quimutatis rebusposttotsecula,acminus
concordibus, quifparfimdeeismeminerunt authoribus; fatissibi,atquelegentibus
fecisseratisunt,sivastamduntaxat Thermarum dixerintmolem, acDedaleioperisinstaradmirarentur,
cùm ta men Romanarum rerum magnitudo cunctarum nationum miracula supera-
Medicorum. uerit, non in Thermis folum. Minimè omnium à medicis. Quos turpe h o
dieadrectam lauandiægros institutionem videri deberet hæcignorasse; indi
gnissimumveròproea,quam profitentur Galeniimitationem,quæ vixvlla
essepotestsinehorumrituum notitia, inquibus ferètotaeius doĉtrina versa 20tur. Quam
obremoperæ preciumest, advniuersam instituti nostril rationé, Therme an aliquam
ThermarumVrbanarum,partiumq;ipfarúcensuramfacere.Princi-publicę,an pioThermas
fuissedecreto publico constitutas, (vt eftdictü)non eft dubitan priuata. dum.Nam
idmultæ declarantauthoritatesscriptorum,acmarmoreæ tabu læ,inquibus vel Senatusconsultaleguntur,
vellegespositæinThermis,ve! munera. Quę exmultispofteàritibusdeclarandavenient,vtpotè,inaliquo
publicogaudiosinemercedepræstarisolitas;veloleum gratuitodari.incom muni
veròluctupublicè Thermarum vsum interdicisolitum. Imò in priua tispęnisexéplum legimus
apud Valerium Max. lib.2.Titio pręfectoobigno miniofam deditionem Calpurnium Cor.
Conuictum hominum, & balnearu vsuminterdixisse. Verùm
quinegantThermasoperafuiffepublica,memi sedinThermis:quarumhodieamplitudinem,accelebritatem,hac
sancta religioneintroducta, templanostra, ac pia xenodochia immittantur. Quare &
Thermæ Xeniædicte, quæitaapudgræco scognominarifolebant, quasi hospitales,&
gratuitæ, quo cognomina Thermarum publicarum vtitur manı Thermarum
nissedebent magnificos in eis Imperatorum titulos, qui æternitate nomi-
Thermarum nissui, tantioperismagnitudine affectassevidenturacRomanis suis, vel Po-
magnitudi Oo pulo gratuito constitutasindicant.Quo planum
fitetiam,easfierioportuis secapacissimas. Non enim in templistuncconsueuit
populus congregari, quæidcirco angustafiebant, acsuisquisqueindigetisacpenatibuseratcon
tentus, Tuniorum, nis ratio. Therma xea 40. Vnde perperam inhistorijsretulit Volaterranus,
quiblice. M.Tulliuspro Cælio legitproSenensibus, cùm nus Francisci Patritij
imitatus, Senias primas verò scripta subSenarummenioria.Inter quam
balneainantiquislegantur, quarummeminititem palatine.,credo fuiffe Palatinas, atquehas
xenias per acpublicas,ademissaria Aque Claudiæ adeaspofteå
Cicero,vbiSex.Rosciusoccisus,authoreeodemSene,earum cura erat publici muneris
Max. ductæ. Necminus ætatem, quails & Cato, & Fabius ca, nobilissimos Aediles
antesuam, acsuaetiam & alij, populum inthermis exigend imunditias gratia receptare
niæ dop H. 2 manutemperare folitos. Balneatorestamenin Plautolegimus,
& pofteain Balneatores M. Tullio pro Celio, quieiministerioaderant. EtIureconsulcus.Instru
et Balneato me nto inquit balneatorio legato, balneatores continentur, quoniam
sinerium lega ti. his balneæ vsum suum præber e non possunt. Producto autem seutis
annis instituto ipso ad luxuriam Principum, non solùm capacitatitantæ vrbis con
sultum eft, fed citrà vllam mensuram aut modum, & vt Ammianus aflimi
Thermarunlat potiusprouinciaruminftar,quàmvlliusædificijforma Thermascæpe
numerus Ther.Impe runtextruere. Extatinterprimamonumenta,M.Agrippam,inAedilitatis
munere;quodpostconsulatum gessit,gratuitapræbuiffebalneaquæ'po steasub Nerone,vt
testator Plinius, ad infinitum auxêre numerum. Sextus autem Aurelius victorin
censu partium vrbis, Thermas, amplissima opera Imperatori axii. nominauit. Priuatarum
verò balnearú, quasad priuatosvsus Ther. Priua qui lautè viuerētsibiinproprijs domibus
compararunt, numerum exeodem ta. fubducimusferèdcccLx.quassuccinctèperregioneshicrecensebimus.
Prima s ergo ha r u m duo deci m n o n eft dubitandum, fuisse Agrippę Thermas, qui Ther. Agripeo dé authore Plinio, imperáte
Augusto eiussocero, multa & egregiainvrbe perfecitopera, ac Thermas
fuaslytostrato,acencaustopinxit,& pauimétaex Neroniana. vitropofuit.
ErantautemvltràCampum Martium adfiniftram templiPan
theon,vbinunclocusvulgòCiambelladicitur,vtquæin Campo & inAgo nali Circo exercitaretur
iuventus, hinc Tyberisnaturalem aquam, hincverò
calentiuminThermisaquarumhaberetcommoditatem,vbilauaretur.Ineis verocùm neque capacitati,
nequeadeodelicijs consultumfuisset, eodem au. thore, successitquadragesimocirciterpofteàanno
Nero profusiffimusImpe. rator, quiad Agonalem ipsum CircumsecundasThermassuonomineextru.
xit.Inquibus,vtscribitLampridius,syluasdeputauit;& nonfolùmdulces,
Alexandri. sedvelmarinasaquasinterdum,velalbulasperAquæductusAnienisadduci
Hadriani Traiana. eum
fecissememinitSuetonius.PonitidēLampridiusAlexandrinas,abAle xandro Seuero
extructas in C a m p o Martio, quas quidam easdem esse N e r o nianas putant,
quam tanto imperio fastuo- 30 sam,par erathacquoquenoncareresuperbia.InIli&
SerapideMoneta Regione, c ù m Titus Amphitheatrum dedicasser, Thermas iuxtà
celerite rex truxit, Suetonio;quæ tertiæfueruntImperatoriæ,nimirùm
inAmphitheatri celebritatem& commode (vti diximus) & id circo breues. Quartæiuxtàhas
Traianę, quas Traianusobhonorem Suræ, cuiusstudioad imperium perue
nerat,erexit,acTitiThermismaiores,vbiquæextantmiraAquarum rece ptaculaseptem Salasvulgo
appellant. Priuatæveròintotahac Regione Bal cömodianæneę xxx.I n Regione ad Portam
Capenam, quintæinordinefuerunt Com & Seueria-modianę,quarum &Alexandrum
Seuerum affectassenomen videtur: etiamsi nę. Antoniana. interpriores, acnoftrosantiquarios,
aliquafitdelocis, & temporibus,&
cognominumassignationevarietas.Inquapræterhas,extantalicuiusnomi nisapud
authoresciuium balnea,Torquati,Vettij Bolani, Mamertini, Aba s c antiani,
Antiochiani, & priuatæ aliæ Balneæ Lxxxv. Sextæ in Circo Maximo Antonianæ, quasmaximas
verè dixeris, Spartianoauthore,quieasm e minitadradices AuentinicollisAntoninumImperatoremcognomento
Caracalla minchoasse,perfeciffeveròeundem Seuerum:mirahodie architectu
ra, ratoria. pa. na. Agrippina.
Titi. instauratas. Adhæc P.Victor Hadriani Thermas. Et ex priuatis
Balneisintotahac RegioneLxu11.Eodemtemporeerexitquoq;suasTher-: mas
iuxtàExquilias Agrippina Neronismater
ra,necimitabili,cumPalęstrisconiuncto.Inhac& Varianæ,& Decianępo
sterioresnumeranturaP.Victore,necnon Syriacæaliæcognominatę, & Pri
uatæaliæLXIIII. Seueriquoque nominef uêrein TranītyberinaRegione Scueriane.
Thermæ, eode in Spartiano teste. Necnon Aurelianz,Vopisco. Balneuitem
Aureliane. Ampelidis, Balneum Priscilianæ, & Priuatæ aliæ 1xxxvi. Inter Esquilias
&Montem Celium, apud Titi & Traiani Thermas, PhilippiImp. Thermas
Gordiani. amplifl. ac pofitum
estadperpetuamreimemoriaminipsabasylicadistichuin,deAngelis. Quodlicànobisest restitutum.
QuæfuerantThermæ,nunctemplum estVirginis,auctor El Pivs
ipsePater,cediteDeliciz. ruptèdicuntur,&PriuatæintotahacRegione
1xxv.Porròrecenseturinli. EsquilijsRegioneOlimpiadisLauacrum,vbisummo
colliculoSanctiLau Vltimæ Cæsarum nomine, Constantinæleguntur ThermæinCliuoMontis
Quirinalis. Quas non reparatas, non d e integro ex tructas à Constantin o e x i
ftimo, cùmvetuftofatis appareant opére. Necnonmarmoreæ tabulætestimo
nio,quodlegitur: HAS CIVILI BELLO DEVAST ATAS QVANT VM PVBLICÆ PATIEBANTUR
ANGVSTIÆ PETRONIVS PERPENNA RE STITVIT. Propèhas L.quoq; PauliBalnea,quæ vulgò Balnca
Napolicor- Balnea Pau rentijinPanisperna,monialium ecclesiahodiecelebratur. Adcliuumcollisà
Olympiadis. Suburra Agrippinæ Neronis,quod diximus Balneum, & infrà Nouati
ciuis alix balneæ, vbi S. Pudentianæ est ecclesia. Et Priuatæ aliæ in totum lxxv.
Subinde vede Priuatisreliquisbreuiteragam: erantinquartaRegione,vbi&
Templum Pacis, Priuatæ BalnexLxxv.cum Daphnidisbalneo. InCeli montio xx. InviaLataLXXV.
InForoRomano iXVI.InPiscinaPubli. caxlinn. InP alatioxxvi. PluresinMartialesparsimlegunturThermæ,
Tuccæ,Hetrusci,Grilli,Lupi, Fortunati, Pontij, Seueri, Fausti, Peti,Ti ti, Tigillini,
quarum locanon assignantur. PorròextraVrbem nonminor Thermarum
cultusessedebuit, vtexquarundam preclariscolligimusm onu, Constantina. mentis. Erantad
Hostiam P. Tacij Thermæ, centum Numidicis columnis Thermeer Ooij adscribit Pomponius
Lçtus. Necprocul Gordianorum Domus, quam descri psitIul.Capitolinusadmirandam,ducentascolumnasvnostilohabentem,&
cum Therinisadeolautis,vtprætervrbanas,vixaliæfimileshaberenturin toto orbe
terraru m. In a lta Semita Regione, Viminali colle, Diocletianæ ex - Diocleti.1
1.. tant Thermæ, quasincçperatquidem Diocletianus Imp. cuni ordine exactif
simo, atque amplissimoPalestrarú omnium generum,inquarum opus quadra
gintamilliaChristianorumeum addixisseaccepimus. Ob magnitudinem tamen (v tin Marmorea
tabula legitur)CONSTANTIVS ET MAXIMIANVS OMNICVLTV PERFECTASROMANIS SVIS
DEDICAR.Hę,cùm in fermè ædificio admirandæ permanerent, hodieCartusiensium Mona
tegro sterio Sacræ, Pio Iu11.Pont. Max.subtitulo Sanctæ Mariæ de Angelis
magnificèrestaurantur: Curante M. ANTONIO AMV110.S.R.E.CARD. S. Maria exornatæ.
Arpini suas instituitThermas Cicero,scribens ex Asia ad Q. Fra trem. Erantin Lucullano,
quænunc Frascati vulgò dicitur, Luculli Thermæ, vbi nos integra vidimus
Hypocausti vestigia. Ad Baias autem Thermæ Baians. erantprætervrbanas,supraquàm
quisoptarepotuissetvoluptuofiffimæ,na turaipsaibia quasvberriinè fuppeditante,gelidas,calidas,&
plurifariâfalu bres,quasfatisinsuishistorijscelebrauimus.Quid verò hìc cęteras Italię
pro sequar Philippi. Trarbem L. haberet? Quinetiam Rusticanas, inquibusfamilia
(vt inquit Columella,& Rusticana. exeoPalladius) ferijssaltemdiebuslauaretur:
nequeenimfrequenteniearū vsum robori corporis operariorum conuenire. Similiterhunc
morem acce Aquarum maris, & portuumcommoditate, aquarumduntaxatsustineretpe-':
nuriam;hacinpartevenisseincertamenquodam modo cum naturavisaest, vtaquarum
quoque essetabundantissima. Itaquecumhocdesiderio, crescen teindiesinstituto Thermarum,
& modò aliaatquealiaadducta multo spatio temporis in tantam aquæ venêre copiam,
vt Augustiætate, Strabone teste, pervrbem, atquecloacasomnesinundareviderentur,
& vni uersæpropemodum ędessubterraneos meatus, syphones, acfistulasvndo
sashaberent.Quo temporeM.AgrippaAugustiipliusgener,quem complura
invrbefecisseconstatopera,cultu,atqueedificiomagnifica;aquarum Cu
ratorperpetuus,authorePlinio,alijscorriuatisatqueemendatis,& alijs nouiter
adductis,septingentos lacus fecit.Pręterea fontes c v,Castella Lacusintelligoex
Frontino, alueosbreuimuro,inquibusaquæ reciperen tur,&
aliaexalia,vtfiuntapudnos Fontane,Lauacra,Fullonum stagna, jumentorumaquagia,&
huiusmodipublicacommoda. Fontes, quiprimas ac fyn ceras ex Castello funderent
aquas, pauciores id circo quàm lacus. C a stella,certaAquæductuum receptacula, ad
MęniaVitruuio,&inviarumdi uortijs, vbi aquarum facienda esset distributio.Quale
etiam num visitur in E r quilijs Castellum aquæ Claudiæ, indiuortio ad portam Maiorein
nunc dictá et adpisse reliquas Provincias, quibus Romani imperassent, in
transcursu diversarum lectionum obseruauimus. Prætermultas, quaslegimus Romanis
anti Lacus in vr sequar Thermas, cùmeatempestate vulgò vilaquæ libetdiuitumfuas
balneas quiores, vtquasprimasinGreciadiximus, in Asia,inSicilia,&
apudPersas Hebræorum DarijThermas, quasPlutarchusdescribitditiffimas, &
lautiffimas. EtIose Hifpanorum phus Hebrçorum Thermas ad Ascalonem, ad Tripolim,
ad Damascum, ad Ptolemaidam. Hispaniaqua calidalauari poftfecundum bellum
Punicum à 10 Romanisdidicêre,anteànon consueueruntnisiinfrigidalauari,authorIu
stinusHistoricus.Multæ occurrunt apud authores Thermarum memoriæ,in
Germania,inGallia,inBritannia,aclongè pluraipfarumvestigiavisuntur in Italia, in
quibus vidi sępius per inscitiam etiam doctos virosobstupescere, alij
Theatra,alij Labirinthos, alijmemorandas moles alicuius sepulchri ia ctantes.Quarum
tamenritum legimusvenisseadeocommunem, vtnonco lonias, & municipia solum,sednemo
dignè tùm Romanam militiam profi terivisusesset,quinon haberetsuabalnea,&
gymnasia, inquibuscommi litonessuiexercerentur. Quod de CleandroTribuno equitum
Commodi Cęs.meminit Herodianus. Indomesticisveròvsibusbalneum eratviainci-20
bum,vtnotauit Arthemidorus. Cuiusreipassimhabentur exempla,quùm ex
itinere,labore,acexercitio quopiam balneum primò ingredi consueue rint,&
pofteamolliaquarumfotu recreatiaccumberent. De aquis vrbanisad vsum Thermarumadductis.
Externe. aqua;haud copiaivrbe bequid. Fontes V Ros autem Roma,cùmprætercæterasgratias,quibuseamaltissi
musdecorauit,salubritateaëris,situagriadimperium opportuno, zo adportam SanctiLaurentij,quod
pofteà C.Marijtrophæisinsignitum, adhuc illius retinet n o m e n. Porrò
fingulis castellis aquaruin erant propositi Trophça
suiCastellarij,vtpræclaroquod Romæ legitur epitaphiocostat. D. M. Clemen
Aquarum propria commoda. Mirariveròlicet inprimis ipsarum ductuum fabricam, duétuumma
dignam planècùm magnitudine operis, tùm certè publicaipsavtilitate, quęgnitudo.
Pluribus mundispectaculisproponendaessevideatur.Molesingens,àdimi
dioferèItaliæquædam perducta,partimexcisisac perforatismontibus, par
30timascendens, partim abimis vallibus perimmensosarcussublata, quibus
Aufeia,& 20 fue xit. Etanteà lib. 31. cap. 3. Clarissima inquit Aqua ruinomniumintotoorbefri
goris, falubritatisquepalmapræconio vrbis Martiaest, inter reliquadeûn damlociscentum&
nouempedesaltitudinismensurantur.Vniuersamverò omnium
censuramitahabuitFrontinus.AltissimusAnioestnouus,Proxima Claudia,Tertiumlocum
tenetIulia,quartum Tepula,dehinc Martia,quæ capiteetiam Claudiælibramæquat,deindeAppia,omnibus
humiliorAllie tina. Primaverò,vtpropinquior,& maximècommoda,Appiaadducta co
ftarexTusculano:Cenfore vtfupradiximus Appio Claudio, annovrbisAppiaaqua quæ
perportam Capenam,nuncSanctiSebastiani,inocto vr munera
vrbitributa.Vocabaturhæc quondam Aufeia.Fons autem ipfePico nia. OriturinvltimismontibusPelignorum.TransitMarsos,&
Fucinum La piconia tempus addu tiCæsarum N.Seruo CASTELLARIO Aquæ Claudiæ fecit
Claudia Saba tis& fibi& fuis. Extat Senatus consultum apud Iul. Frontinum,quoaquam
non eratpermissum nisiexcastelloadducere,ne autriui, autfiftulæ publicæ
lacerarentur. Publicisidcirco Thermis, propriacastella videnturfuissecon
ftituta: qualiavidemusintegraadDiocletianasThermas,& adTraianas,mul
tipliciopereconcameratas.In Priuatisautemprima Censorum,aut Aedi
liumeratauthoritas,quorum arbitratupermodulos, digiti, velvncięnomi
necertoannuosolutovectigaliconcedebatur. Legequecautum codem te fte,ne
quispriuatus aliam duceret,quàm quæ exlacuredundaret,quam ca ducam vocabant:
& hancipsam non in alium vsum quàm balnearum, aut
fullonicarumdariessesolitam. Omnem aquaminpublicosvsuserogari
debere.Cæterùmquotnumeroessenthæaquæ,quæ,quonomine,& quo tempore,& vnde
adducerentur,breuiterpercurrendumest. ScribitPro
copiusIustinianiCæs.fcriba,Romæ quatuordecim fuisse aquarum ductus, excocto
latere,ealatitudine,acprofunditate, vtferèequesteripsocúequo
pereosposseteuadere. Nos Frontinum imitati, qui Nerva imperante pręfuit
hisceoperibus curator perpetuus, & fcriptis cuncta sid elitermandauit, octo
aut nouem suo emissario per ductas dicimus. Quę fuerunt ex ordine, Appia,
Anienisvetus, Martia,Tepula,Claudia,Anienisnouus,Iulia,Allietina,& virgo: etiamsi
pofteàduplici, acplurinomine, vtvsueuenit,fuerintcogno minatæ. Nam poft
Frontiniætatem, non aliamlegitur, prętereasfuiss ead ductam, nisieasdem àdiuersis
Imperatoribusautinstauratas, autseductasad bi sRegiones exviginti caftellis distribuebatur.
Quadraginta veròannispo- tus. fteà, exmanubijs PyrrhiRegisEpiri,SpurioGarbilio,L.PapirioCoff.prima
Anienisadductafuit,vtetiamcommodavrbi,& altæoriginissupraTybur.Martiaquę.
Tertia fuit adducta Martia, dicente Plinio lib. 36.c.15.Q.Martius iussusà Se
natu Aquarum Appiæ, & Anienistegulaductusreficere, nouamànomine suo
appellatam, cuniculispermontes actis intràpræturæ cum, Marü. Anienis ve Oo i
1 Triana. cum, Romam non du biè p e t e n s. M o x specum e r s a in Tiburtina
s e a p e r i t n o. uem millibus passuumfornicibusftructis perducta. Primuseam
invrbem per ducereauspicatusestAncusMartius,vnus exregibus.Poftea Q.MartiusRex
inprętura, rursus querestituit M. Agrippa. Hæc Plinius. Hancdemum& Traia
namnuncupatam aseritFrontinus,àTraianoinAuentinumvsq; protracta.
QuartafuitTepula,quaabagroLuculli,quéinTusculanoexvarrone legimus Tepula,. Gn. Seruilius
Cepio, L.CasiusLonginusCollin Capitolium perduxêre, via, quæ PortaMaiorhodie appellatur,claristitulis
Cæsarum, Claudij, Claudiaque VespasianiT, iti,& M.Aurelij. Eamquidemdestinaueratprius
Caligula,per & Curiadaduxitveró Claudiusabvsque xxxvi. lapide, viaTiburtina,
èfontibus Cæ Cerulean ruleo,Curtio,atque Albudino collectam,quibusfæpènominibusscribitur.
Adduxithiç & alteram Anienem, cuiductuiaddifferentiamveteris,Nouus Aniocognomentumfuitinditum,
Frontino authore, qui& ipfumpofteàre Fons Albu
ftituit.Concipiturautemperagrum Tyburtinumxx, milliario,operealtili-. Moad Portam
Esquilinamadducto.AquamveròIuliamadmiscuitcum Tepu laM.Agrippa, viaLatina,quæab
Aurelianoiterurmeftituta, eiuscognomen Juliaquęegassumplit. Ållietinam,quam &
Augustam, miratur Frontinus Augustumpro Aureliana, uidentiffimum Principem per ducere
curasse nullius gratiæ, imò & parum sa Alietina, lubrem,nisi fortecùm
opusNaumachiæ aggredereturtransTyberim. Qui dam ob hoc eam intervrbanas aquas
non numerant. DE AQVA VIRGIN E,QVAM duxitAgrippa,vtPlin,meminitlib.31.c.3.&
deinde Claud. Cęs.Pri mum veròauthorêCaium Cęs. fuisseindicantmarmoreæinscriptiones,quarú
30 vnaineiusaquæductuitalegitur. Tit.CLAVDIVS DrusifiliusCesarAug.
Nominisra-ductusaquæ Virginis destinatosper Cæs.àfundamétisrefecit, acrestituit.Vir
ginis porrò nomen (vt Frontinus scribitnobilis author de aquis vrbanis ) ad
cafum fuithuicaquæ inditum:nam quærentibusa quammilitibus, puellam virgunculam
quasdam venas præmonstrasse, ac il as sequut o s in gentem a q u ç
moduminueniffe.AediculaidcircoVirginisfontiapposita.Quod nomen
posteavidenturadsciuiffe Dianæ, ac Triuiænuncupaffe, quasi Dianæfonsdi Fons
Diane triplex habere dicebatur numen, celebrarisolita, necnon à
triplicifonte,qui- 40 bushæcaquaconcipitur. Vel (vtquibusdamplacetantiquarijs) virginisno
futurna menindicasseIuturnam,quam Nymphamsic dictam (testeVarrone) quòd Nympha.
iuuaret, invotisfuisehabitaminfirmis, quiexeaaquabiberent, facramque in via.
simulat que puteum, qui extat, dive Mariæ
Virgini fuisse consecratum, vt r a n In Triuia.
libetquiseiusnominisinterpretationem accipiat,verumtamen eofit magis
verisimilisnoftrafententia huncfontemfuisse virginéàDiana,& Triuianun Meuiæ,quæ
dinus, Anio nouns 20 vocant Şaloniam, tio. Vel Triuię. & aqua Diançsacra,quęveteribusvirgohabitaest,&
in Triuijs, vt AQVA autem Virgincquoniamsolahæcadnostramhancætatem Romam
perducitur, altioraliquantosermohabendusest. Eam per cupa Primus aute D thor,
ceretur, 10 Latina dextrorsus,longex1, milliapaff. subterraprius, deinde arcuato
opere. Quinta, ac fausti nominis fuit aqua Claudia,vtinfrontispiciolegiturPortæ
id circo hanc ædemei fuisse constitutamasseruntiuxtaipsum fontem,quam
Sinct.Mar.posteàReligioneintroducta,insuperstitionempræteritiseculiabolendam,
JO est Herculaneus riuus, quem refugiens, virginis nomen obtinuit. Hactenus
Ductus lon Plinius. Habetautemductus longitudinesàcapiteadipsum Triuijfontem,girudo.
spatio a bestàvia Prænestina, dicente Plinio.Marcus Agripa & virginéaddu ”
xitaquamaboctauilapidisdiuerticuloduomillia pafsuú Prænestinavia:iuxtà (vt
Frontinus dimensus est) milliariorum XIIII.n a m vbi fpecus subit montių,
vbicircuitcolles,velvallesæquatarcuatoopere, multoshabetflexus. Pro greditur Anienemfuuium,acintersectaTyburtinavia,
& exinde Nomenta na, & proximè Salariavia; tandeminter Collatinam Portamque
estsalaria, & Puteus Po. Pincianam sub colle Hortulorú, qui est hodie
Sanctæ Trinitatis, ad Trivium litianus vicum exilit fonte. Subitautemeum
collempro fundiffimnospecu,cuiusho die puteus altissimus repertus estin medio
viridario, quod magnifico, ac con spicuointotāvrbem ædificio ibi constituit Cardinalisamplish.
POLITIA. 20NVS, & vtrinqueduæ eiusaquæ marmoreæ inscriptiones.Tı.CLAVDII
nomine. Etquo digno tum fuit magnisilis Romanorum Architectis, erita; omni
futuro seculo memorabile Camilli Agripæ Architecti inventum, salientemsuaptes ponte
facit aqua (impulsam tamen in æreum tubum rotis ræ, primam fanèlaudem
promerentur Sanctiffimi D.nostriPivs IIII.& qui - statim ei successit Pivs
V. Pont. Max. quivirginem ipsam aquam ad Virginisper pristina mantiquorum formam
perducerecurauêre. Quippe lapsu temporum hæcaqua varias subijt mutationes,&
quodmirum eft, vsqueà Plinijtem lutem. Pofte àc raffantibus in Italiam,&
invrbemipsamtotbellis,acvaria rumgentium incursionibus: plana in historijs monumenta
habentur, quæ ductio. Refert Platina, Adrianum patria Romanum Pont. Max.d omitisiamaf.
Adrianiin fi&isque Longobardis, anno falutisnoftræcirciter Virginis Stauratio.
Aquæductum dirutum, cumalijsvrbisaquæ ductibus restituisse. Donecite
rumnonmulto poftdirutus, protantarerum,quæsuccessitcalamitate, nuf quam prætdr
e a videtur fuisse restitutus. Nam quod in ipso Trivii fonte legi Nicolai. tur,
Nicholaumv. annoabhinccxII. Virginem fontem restituiffe, planevi detur is Pontifex
haud vllam antiqui ductus huius aquæ partem instauraffe;
sedconfluentesduntaxatèviciniavenascitràpontem Salarium prorefugio vrbis collegiffe,
quæeftminimapars; virgoigitur aqua octauo (vt diximus) est Salonia. Milliario concipitur,vbi
nunc locusà Salone dicitur: Quæcunque fuerithu ius nominis significatio apud
vulgus, quod,vt consueuit huiusinodi aqua run conceptaculafalasdicere,forsan
& hoc obamplitudinem areę Salonem nunc uparit, dicente præsertimFrontino,hunclocumvnde
virgo aqua con- Riuusnúad iicitur, palustrem fuiffe, & vt scaturigines contineret,
lignin operecom-mititur. 40 cupatum, quod nomen ipsum ædis Sancta Maria
invia, vulgari (vt videtur) vocem utila dicitur, pro Sancta Maria in Trivia, vbi multa cum devotione
Beatæ Mariæ Virginis etiam num ea aqua ab infirmis bibitur. De Fonte ergo ipso
quia d huc in Triviæ vico celebris est, non est dubitandum. De origin e a u -
Origo. tem, Pliniusa pertèdicit concipivia Prenestina. FrontinusautemCollatina
ad milliariumoctauum, quæ vtquidam putant,duorumcircitermilliariorü
pore(vtipsememinit )cæpithuius aquæ fimulatque Martiæpenuria: Ambitione (inquit)
ac auaritia in vilas,acsuburbanadetorquentibus publicamsa Artificium per Usurpatio.
Herculews ipsam aquam volubilibus, &
machinis) quæ eximo puteoads ummam planiciem. paffusexilitfonte, actantavbertate,
vt non hortosfolùm,fed & totam quoque subiectam vrbis partem reddat irriguam.
Cuiustam frugiope Agrippe. mu 4 OO 111) munitum, quod nunc quoque visitur
aliqua parte. Iuxtà estriuus Herculaneus. quemtamen non admittit, tùm quia locus
palustris humilisque est, ac v l i g i n e totus obsitus; nec aquæ est satis
vtilis: tùm qui a satis fupe r q; adeam
formam aquæductus Salonia est. Neceum riuum admisisse antiquos,satis apertè de clarantea
Plinij verbaiam allegata. Iuxtàest Herculaneus riuusqué A Salinis refugiens Virginis
nomen obtinuit. Nec secusdimittendaeorum sententia aqua. est,qui ad Salinas
vocatas à Frontino aquas pro Salonia acceperint: cùm hæ longiusinfluantà Salone,
sinistrorsusàvia Præneftina, vcidem Frontinus inquit,passuum
septingentorumoctogintaquævelAppiaaqua,velAppix Appi&origo carestudeat, piètamen
& public vtilitati consulens, opus tàm frugiprofequu Vltimaper tusest, aquamqueVirginem,
adeototseculisdesideratam, hocanno,acmen se MDLxx. decimoseptimo Calen.Septembris,
cummaximo totiusvrbis applausu, ac gaudio perduxit in totum. Consultistamen
prius (vt Sapientissimum decet Principem) Medicis, àquibus & bonitatem aquæ,
et vtilitatem, quam præbere posset huic almæ vrbì re latam comprobauit. Qua
dere Naturaem hæc mea eft sententia: Sanè magnum argumentum bonitatis huius aquæ
hoc Qualitates esseexistimo, quòd hæcaquafueritinvsu, vt nunc quoqueeft, longiffimis
seculis. Quippe hæc primas sempermeruit laudes simulcum aqua Martiain
tercæteras vrbisaquas. Authore Pliniolib.eodem 31.cap.3.d.Quantum vir
gotactu(hocestfrigore)tantumpræstatMartia haustu:alternantehocbo
tactusintfrigidæ, easnonperinde(laudabiles) & haustuesse. Hæcs uccinctè Plin.
Hác aquam Martialis cognominatcrudam, ilisuerlibus. Ritussi placeanttibi Laconum,
Contentus potesaridovapore 30 te influentium, & tepidarum, & frigidarum
aquarum; hanc specialiter vsu Ab experi- balnei comprobat frigore, &
profrigida, metri causa dixitcrudam. Velcru mentis. Dam intelligas eum dixisse in
comparatione aquæ Martiæ, quæ (vt dictúest) vtilior haultuerat, virgo tactu. In
experimentis, tardius hæccoquit legu mina, accibariareliquaque Tyberisaquęlimpidę,&
Cisternalesaliquę.nimi rum quia fluuialeseiusmodi, inrespectu fontium, omni
exutæsuntcrudita te,ac pluuiales magis aëreæ. Cæterùm hęcaquanullis fontium
aquis vide- 40 turmeritò postponenda. Cætera veròquælegunturaquarumvrbisnomina,
autvariæduntaxatipso nomin e sunt, sicut iam plura ali c u i a quę adduximus
nomina:a u t externę sunt Crabra. Sabatina Lacus Saba saporem, inter vrbanas non
adnumerant. Nec Crabram,quæ erataliaaqua, aquæ,nonvrbanæ. Quomodo quidam
Alfietinam, itavocatamobingratū tis.Amnis Tusculanis, vndeaduehebatur, relicta.
NecSabatinam,quamàLacuSa Larus. batis, qui hodie est amnis Larus, nouissima momnium
aquarum breuimo. Io ductio. Martialis. pars per Capenam portam, nunc Sancti
Sebastiani ducebatur in vrbem. Tota ergo virgo aqua Saloniaeft, multisvenarum, &
riuulorum acquisitionibus (vt Frontini verbisvtar) obitervsqueinviam Salariamaucta'.
Quam Pivs IIII. Pont. Max. vt delectabatur vrbem suam æternis monumentis, publi
cisq; idgenus operibus adornare,destinauerat.Pivs verò V. Pont. Max.cũ
fanèprimùm orthodoxamfidemnoftramàtotseculihuiuserroribusvendi no, vtquæ
CrudaVirgineMartiaquemergi. Quo nomine haud quidem cruditatisvitioeāhic Poëta
damnare voluit. Sed mirisex tollens laudibus Hetrusci balneum, blandicie
præsertim, & varieta dulo 20 qua q u a n ı diversæ à prædictis
aquæ. Quod vsu cuenit in eternis id gen us operibus, perpetuams ibiquisque memoriamcomparare.ItaqueprimaTherma
structuræ exemplo, nulloque integrèscriptoremandata literis, nisi
obiteràmultis,& controuersè. Etquæobfitaadeovetustissimisiacetruinis, vt
quanquàm peritissimi multi hacętate antiquarij conquisitiffimè studuerint
easinali quamlucem reuocare:nonminortamenadhucrelictafit, magnis
etiamingenijsconfusio, vtquęsparsim dehislegunturauthoritatesscripto rum,cum
paucisquæipsarumapparentreliquijs concordentur. Inprimis
describendaessetixvoypapíce, basisquetantiedificij,quam noftriadverbúPlan
tamrectè appellant: at hæc diuersissima habeturabe aquam tradit Vitruuius,
neceadem dispositioin omnibus Thermis.Porrò, præterfpatiaplatearum, m i n a
esse tantum aut instauratorum, aut insigniu meor u n d e m constat, h a u d ac
additos lucos, hortosque immensos, ac Lacus, distinguenda effentloca
exercitationum àbalneis.Acloca propriacuique exercitijgeneriassignanda,
vbicominus, acbreuicirco, vbieminusfierent, sub Diuo, subtecto, in Xi stis. Et quæratio
fuisset exercitiorum in Palestris, & quali aexercitia.Quis vsus præter e a
totali a r ú partiu m: & quæ dispositio, Corycęi E, p h e b ç i, E l ç o
thefij, Conisterij, Exhedrarum, Spheristerij, Xistorum. Etdebalneis, fi singulæ
Thermæ plura habebant balnea, at dubiumnonest,quæ naniratio 30 distinctionis, ancommoditati,
an loco, an ordini, vtcunctis legitur fuisse consultum. An omnibus vnum essetcommune
hypocaustum:& feu vnum commune omnibus, seu commune vni partitioni, vt
verisimile fit, quo loco maximècommodo.Anbinæ& ternæ, quælegunturlauationes,eodem
fie rentbalneo, andiuerso.Etsidiuerso,aneadem pluribusferuiebat,ansin
gulisnouaaqua.Velquæ ratiotàmmiriartificijcalefaciendivna hora tantam aquæ
quantitatem, quæ innumerabili populo sufficeret? Vnde & quo certo
ductutantæ aquæ copia? Quæ ratio erat Pensilium Balnearum, quastantocú applause
Vrbis, & totius Italiæ quosdamintroduxisselegitur? Quibusadid valibus, aut balneis,
aut alueisvtebantur? Etsilabrislapideis(vt quidam pu t a n t) quæ videmus per
Vrbem maximis: q u æ e o r u m e r a n t i n balneis dispositiones, & quo situ
ad aquas accipiendas? Etdebalnearijsrebus,quæ fanis expedirent,& quæęgris. Quiddicamdelauandirituperordines;perætates,
perleges,peranni tempora, peripsaexercitia;acde innumerisdenique id
genuscircunstantijs,quasvelnon scriptasabantiquarijs,velper coniectu ramduntax attentatasà
iunioribus, merispotiùserroribus obscuratas, quàm explicatas invenimus? Quar e
n o s d u m h e c aliqua ex parte revocare in lucem intendimus, &
quævsuimaximè medico opportunasunt, exponere,nullam Fos Veneris 1 rum
instituta, atquemomenta Aquarum ductuum habemus. is fchnographia Thermarum, &dehisquetractandafunt.
Cap.v. Hermas verò per partesliterisinstaurare, haudquaquàm presentis muneris
est. Nec facile esset, pro tantæ molis magnitudine, non vnius dulorestituit Hadrianus I. Pont. Max.quam & Ciminam interim
appellariin uenio, àCiminoipsomonteinFaliscis, fonteVenerisdeducta.Drusaauté,
Ciminaaqui Annia,Traiana,Antoniana,Seueriana,Alexandrina,& idgenusaliæ,no.
ferè Dubia in Ther. 2 Oov ferèiuniorum positionemfequemur: sedquátum
exrationeillorumrituum, Spacia Thersimulatque
locorum ipsorum diligenti consideratione colligerepotuimus, percurremus. Spatia
in primis Thermarum videmus amplissima: atque ad eo vt quasdam vndeciesmilliespedumtotaarea
continere constet,authore Baptista Alberto in libris de Architectura. In Diocletianis,
quæ inipsaareaappa rentvestigia,præterspatiavndiqueplatearum,&
prætermembra,quæinfe riusacsuperiusvarijsThermarum ministerijsferuiebant,centum
continent partitiones, vario ac nobiliffim oordine. Nec mirum, siconsidereturpublici
çdificijmagnitudo,inquocommunis fueritratiomaximæciuitatisadexer 10 Magnitudo.
citia corporis, ad balneas, ad disciplinas. In
i s enim communia er nt studia,
tamanimi quàm corporis, necaliaerantartium gymnasia, vndefæpè apud authores Gymnasia
legimus pro balneis. Necminus addelicias: Nam ratio Gymnasia acresipsaostendit,
nonfolùmvsuiinpartibus Thermarumfuiffe consultum, verumetiamvtiuuentus faciliùsadea
studiatraheretur, & delicijsmaximè, & ornamento cunctarum rerum.
Propterea Thermæ neque digniores occupa bantvrbis locos, nequeintervilioresfiebantvicos,
sed vbilocicapacitas, at Forma Ther marum, ac partitið. Queoperis maiestas requireret.Vitruuijtamenętatenon
videturfuissecon suetudinis Italicæ (vtipsescribit)magnificareadeo palæstrasac
Gymnasia in Thermis: vtquibus satisad exercitiafacerenttùm Campus
ipfeMartius,tùm Agonalis, totCirci,totplatex,totaliaexercitationumlocapublica,
& priuata. Sed per angustas fieri, & paruas quales Agrippæ Thermas
meminit Pli nius.Pofteà veroperductoimperiovrbisad luxuriam Principum,non modò
Græcorum more constitutæ, sed dilatatæfuêreamplius,distinctaquem e liusloca exercitationum,
acGynınaliaàbalneis. QualesAntonianæ, acDio cletianæde maioribusextant,acmeliusdispositis:quarum
sinunc præsumná describere magnitudinem, non tam describere, quàm maiorem
partem di gnitatis earum mihi videbor minuere: sedharum m a x i m è,ad notitiam
tanti ritus, fequarvestigia. In his edificationis eratvaria forma, ac varia
dispositio partium: sed a r e a amplissima, q u æ i n quadrum c l a u s a,
tribu s v e l u t i perpetuis circuitionibusdiuisaesset. In
primovndiq;ambitu,quæ męnioruminftar lib.s. 6. 11. totum edificium claudebant,
errant gymnasia exercitationum, varioordine, quædicemus. In secundo, longèlat eque
spatia platearum, Xista, acPlatano nes, ad exercitiasub diuo. In
medio,totaipfamoles Thermarum,quæ sunt membra balnearum,Atria,simul atq; Xifti,
& Palęstrarum amplissimæ porti cus,vbi (authoreVitruuio) Athletæ perhyberna
tempora intectisstadijsexer cerentur, actranfirentstatim ad balneas, vtdelineataprimùmipfarumbasi,
distinctèmagissingulaexplanabimus, 4marum. Thermæ. Ther. Diocl. 1 Oo
vj Hexedra Lalitudopal. 200 choricen Calidaria FO х NAT MC) V
R a THERMARVM DIOCLE Longitudo Platego Atriolum Die Scola riú BВ Spheriferti H
Tostring 71 Apod TOD Schola Longitudo Ρ
Ι Α ΤΑ Laconica Hexedra Basilica Fngida Topida n uนี"
Agaagiâetlume ORIINS Hexedma Hephebri ATRIVM nPoarttaitciuosnis la карэхэн Spheristerium
200 Hacera Lpatlitudo. 2 Hemicyclus
Condste platego Porucus Tres Stadiate Theatric SET VN M M HT NONES
Hexedra A triolum sperifleriâ Laconicü Coniste Hephebell Hexedra pal. Kesedara
LongituPdloa. odyterium Hypocau Dico Engda Hexedra 'Jių rium Porticus Staduatę
Aquagiấetlume pal. OCCIDENS OS Tres salo ирэхэн ATIOTES TIANARVM ICON. ATRIVM n
Paotrattiicounsis Spenfterum I O O O. Basilica Tepida Frigidai Calidariú
Tõstrina A 5oC Hemicjclus sefala ridium PTENTRIO Scola 1
Departibus Thermarum, acexercitationumlocis. N PRIMA ergo facie, quæestadmeridiem,tertiamferèpartemmediamoc
cupabat Theatridium. Quæparseratprincipalis,& tang caputtotiushuius
ædificij: vndeduplicem (vt quibusdam videtur) habebatvsum;alterum extrinsecus,
alterum intrinsecus. Ambitum enim exterioré ponunt fuisse arcuato opere
distinctum,& apertum,quo exéplo patet, circūcolumnium poftbafilicam
Posticã. ecclesiæ Lateranen.Vnde. f.ingrederenturquafiper Posticum, fiuedextrâverte
rentur, fiuefiniftrâ per porticus, apertèvenirentinampliffimam plateam,ac
exindè quò vellent, fiue in palæstras, fiue in balneas. In conspectu verò
interiori ergaplateas, eratTheatrispeciedistinctumcũsedibus,vbi.f.populus,&
maximè nobiles subvmbrameridiei sederetadludorū spectacula, quiinplateisexercitij
causa fierent. Partes verò quæ vt rinqueà Theatri d i o plures sunt, aliqui
balnea putant. Ná quodrotundaformaestvtrinqueinversurisvnum,pinguntessecali
darium, & consequenterponunt vnú Tepidarium,vnum Frigidarium,& vnum
lib.5.c.1 Apodyterium. Nec equidem nega uerim debuisse quæ d ã balnea s e o r f
u m, & quali extra palestras constitui: partimmulieribus,partim
artificibus, &hisquivenien tesàciuitate,statimintrarent, &
quasiextràconspectumpopularemlauarétur, & abirent. Verütamenhæcnonfuiflebalnea,hauddubièvidetur:nam
iuxtàeá ria Sacella. appictionem,nullus hicvidetur Hypocaufti locus: quoddebuite
ffeinmedio, & communevtriqueordinibalnearum,tefteVitruuio,atinmediohiceftThea
tridiummaximum.Nec eratconsentaneum,vtmébraspectaculieffentStuphæ. Deest &
laconicum,nisifortasse hæc opinio confundat laconicum cũ calidario.
Saterat& vnum Apodyterium comune,vtpotevnum vestibulum balnearum: hicduo
ponuntur. EtprætereaTepidariaduo,cùm tamenidemfitTepidarium, quodApodyterium. Meliusergomihivideturdicendū,hæc
fuiffepartimipfius Theatridij membra, & partimlocaadvsumAthletarum.i.eorum,quiexercendi
essentcoram Theatridio, vtpote Conisteria, Elçotesia,& quædam apertè in pla
team, forsane quorum carceres. Duo pofthæc Peristiliaquadracaoblonga, hinc (vt scribit
Plin. Lunior de villa sua) exercitationú generibus.Vel Sacella, vt nota
turperædiculasæquisvndiquespatiisstaruarum. hæceratprimæfacieipartitio.
Porròinalterafacie,quæabaquiloneeodemcomensuhuic refpondet, videntur Gymna fuiffe
maiori ex parte Gymnasia, philosophis dicata, ac Rhetoribus, reliquisq; q
studiis literarum de dissent operam.Vtpot epars magis remota àftrepituAthle
tarum,& litucômodiffimo, tùm propteramenitatévnibrarum (erant.n.inhac
plareaPlatanones,vtdicemus)tùm proptergratafontium murmuria, inNataa
tionéipsamcadentiū. Quaproptervisum estpluribusantiquariis, inmediohoc
Vestibulu. Spatioå Septétrione fuifleprincipale vestibule totius huiusæ dificij.
Exquoper40 Hexedre medios Platanones patebat aditus ad Natationem, & hinc, &
hinc in porticus, in & Hemi-basilicas, Diętas, & atria, quæ pofteà dicemus.
Primùm verò àd extra vestibuli, cycli. & àsinistraerant Ex hedræ pluresclausæ
ante plateam, &cusedibus Hemicycli forma, vt disputantes, & tam loquentes,
quàm audientes sese omnes afpicerent: & aliquæpatentes, cellscholænoftræad leuiora
studia. Maioremverò citer 10 Peristilia fia. atq; hincvnum
àTheatridiq,quasipalestræbreues,veldeābulationes.Acinver Spheriste
surisvtrinque,vnum Sphærifterium,quod diximus rotunda forma,cum plurib. 30
Schola. exercitationum. Gymnasticarum continebant partem duæ vtrinque facies
laterales, hinc, atquehinchabebantpartitiones.Ac fuisseeasadexerci quæ
conformes tiadicatas videtur: tùmquia platexhælateraleserant liberæ,&
amplæmillecir, citer pedum spatio. Tùm
quia membr a ipsa partim erant Hemicycli aperti cũ
sedibus,acvarioornamento,quod apparet,lignorum,acpicturarum:&
partimconisteria, Elæothesia,aliaquemembra advsumAthletarum oppor tuna. Totam
hanc autem primam circunferentiam circundabant continua
porticus,ducentiscolumnisvnostylo. Subinde erantPlatex,amplæ,&.Nam
siædificiorum perfectioproportionibushumani corporis responderedebet,vtVitruuiustradit,perfectisfimèresponder
in Thermis Diocletianis, ac melius quàm constituat ex Græcis Vitruvius. Ex Lib.
3. 20 eniminhis Theatridium, vbieratvestibulum, tanquàmcaput: Apodyteriū,
pectus: Hyppocaustum, Stomachus: vmbilicus, maxima, acregalisbasili-Diocletiana
cainmedio: venter, Natatio. Membrorum veròvtrinque, quæfuntbalnea, rummirifica
atria, palæstræ, porticus, Diętæ, basilicæ; æquaratio, ac mensura eft, vt
braars et de chiorum, acfæmorum. itavtquæ exvnatradeturparte,cadem ex alterapa
basilicaameniffima, vbiconuenirentomnes, quivelinpalæstrasventuriBasilica.
essent,velinbalneas. Idcircosatisampla,ornatuplastices,acpicturis adhucnitetantiquiflimis.
Hinc rectâ in Diętam, quæerateadem capacitate, fed latiortamen basilica, duplici
columnarum stylotripartita: nam media par
teceuatriolum,erataditusinatriummaximum, & inpalestras: capitaverò
hincatquehincdeunebantinhemicyclis, vbifortasseAthletarum ferrentur iudicia
Circuncolí - liberæ, vt dixi, t à m q u æ a n t è Theatr i d i u m Stadium, nia.,erant
xistum, Platanones, & autem,quæeratanteNatationem enim Xista (authoreVi
maximè estiuas idonea. Fiebant adexercitationes Platani, virentesqueidgenusXista,&Syl
)interduasporticusSylux,quæerant caperentre-ua. truuio situantèNatationem,vndeaquarum
arboresconfitæ,aptissimo autemStadium,itafiguratum,inquit Vitruuius,vtpof
frigeria. PoftXiftum, Athletarum cursus, variaque alia sent hominum copiæ fine
impedimento hæ omneserantpartitionesquoquo latere,& gym: spectarecertamina.Atque
veròoperismaiestas,erattotamolesinme Stadium nasiorum,& platearum. Summa,acmultimodisearúmē
dio,quæ communes habebatpalæstrascum balneis bris,acmiriartificij,quàm
vtræquelaterales. Inea Porticus riterintelligendafit. Incipiemusautem
àNatatione, quæpatentiffimapars aspiciebatAquilonem:&
exeaàlatereperbasilicas,acdiệtasveniemusin atria, exindein palæstrasinteriores,
acmaximam bafilicam,& demum ad balnearum membra. Erat in quam Natatio in recessum
e dio ab aquilone, lon Natatio. Gitudinedu centorum pedum, latitudinedimidiominus,
ponte, acarcubus bipartitaadinteriores aditus, vbinunc factaestmaiorisaltaris basilica.
Habe batautemàcastelloproximo Aquæ Martiæ emiffarium, quod per occultos tubos ferebatad
Natationem ipfam aquas.Habebat& supernèadlongitudi-Emissarium nem
fontesvariaspecie,acMusxa,quæ teftePlinio,expumicibus, acero-aqua Mar
fisvetustatefaxisextructa (vt hodie quoque Romæ sunt in vsu) specusima-tię. g i
n e m referebant, ac fiftulis modò apertis, m o d ò clausis, vario, blandisli
moque salientium aquarumlusu, recentessemperaquasinnatationéipfam Fontes,ac
fundebant. Miriscircùmadhibitisornamentis,quorum etiamnumapparetMufaa
ædiculæfignorum,& statuarum, fontiumquevestigia, & columnarum bases. A
Natatione plura, ac nobilissimamembra: primùmabvtroquecapiteerantPorticusna
amplissimæ porticus conformes, nimirùm & adspectaculaNatationum,&
tationis. adrefrigeriaconstitutæ. Etaliæadaltiorem
prospectumporticuspensiles,mi noristylo.Exeuntibusveròàporticu,tamdextrâ,quam
sinistra,eratprimùm fcriptio. 30 Platanones. Dięta. iudicia. I n Atriis
era nt Peristilia, hoc est circü columnia, quæ facie ba n t a t r i u m
oblongum trecentis pedibus, latitudine dimidiominus. vbiin Porticu, orie
simacum sedibus, quæ tertiaitem parte longior quàm lata, eratad exercitia
Corticum. iuuenumdicata. Sub dextra Ephebei erat Corticeum, seu Coryceum à Co.
Coryceum. ryco, quod videtur pilæ genus in Galeno 11. de San. tuenda. Seu
Choriceum Choriceum dictum, Choreisnimirùm, ac saltationibus locus proprius. Proximè
Frigidarium, locus ventis per flatus, feneftris amplis. Ab eoqueiterin Spheristeriú
ro oblongum, & fimplex, ad pilæ ludum aptissimum. Adsinistram Elçothesium,
Spherifleritquæeratad vnctiones faciendascellaolearia. SubhocConisterium, vbificcó
Elçothelium.puluere, velharenaluctaturiseseconspergerent. Ab eoqueiterinPropni.
Conisteriú. geum, vbi erat in ver u r a
porticus Laconicum, quod referemus suo loco p o Propnigeú. iteà. A
Peristilioautem, atrioqueintrantibus ad interiores Palæstras, erant Talastre in
Porticus tres stadiatæ,quas hodie occupat longitudo ecclesiæ.Ex quibus m e
teriores. diaparsamplissima, centumpedumlatitudine, superingentescolumnas,al
Porticusftatissima prominettestudine, cæterùmitafactasecundum Vitruuium, vtilate
Frigidariit. diate. Xistus. ra, quæ
suntvtrinqueadcolumnasmargineshaberent,& qualeshabethodie via ab Hadriani mole
adVaticanumsemitas,nonminuspedum denûm,re
liquaqueplaniciesoctogintapedúm.Itaquivestitiambularentcircùminmar 20 ginibus, non
impediebanturàcunctisfeexercentibus. Hæc autemPorticus ziso'sapud Gręcos
vocitatur,in quo Athletæ in tectis stadijs exercerentur.Quę
quoniamexacteeratinmedio,& velutiincordetotiusedificij,vbimaximè conuenire solebat
nobilitas ad exercitia hyberna, ad ambulationes, & adspe ctacula; cæterasmeritò
exceditpartes, tùm magnitudine, tùmregalimaie stateoperis, altiffimisfuperbiffimisqueprominenscolumnis,&
patentissima vndiqueinperistilia, inbalneas,in Hypocaustum,inNatationein,acfuper
nè feneftris illustrator latissimis. præualereassuesceret: deinde ad sanitatemtuendam,quiduofuerant
fines præcipui:& demumaddelicias. In quibus omnibus mutua Balnearum,atq; Exercitationum
errant beneficia. Nam quantum conferebant balnea lassatis rumque similiter coniunctaeratvtilitas,
acmutuaerantinuicembe Thermarumneficia. Nempe Thermarum ratioduos, imòtreshabebatfines:
primum ad instituta, ac disciplinam iuuentutis,
quæfic viribus corporis, honestis que vitæ conatibus fines et Exercita exercitatione,
aclabore corporibus ad robur virium reparandum, & admuntionum muditiam. Tantundem
rependebant vtilitatis exercitia, fine quibus balnea non tuo beneficia possuntesse
vtilia, maximèsanis. Itaque Galenusinlibrisdetuenda San.mo Non p i l a, non
sollis, non t e paganica Thermis Prz. tali parte, eranthæcmembra,situaliquantifperdiuerfoabeo,quem
assignat €phębeum Vitruuius.PrimòEphæbeum, in medio, hoc autem erat Hexædraamplif
Balnearum 1 Bal. Recurel Atria. De exercitatio num generibus, ac preparationibus
ad balnea. Cap. vir. CONSTAT ergo hactenus,balnearum locainThermis,atqueExer
citationumfuisseconiuncta. Idqueoptimaratione,quoniam vtro
dobalneaRecuratoriaviriumessedixit;modò Exercitia Præparatoriaadbal toria. Exerci
nea.Quod frequenter inalijs authoribuslegimus,& succinctèeoEpigram
tatio,Prapa ratoria. mate colligiturMartialis vnde dieta existimat D. Augustinusin
confessionibus, quòd Bénestaisdivíes,idestquòdan xietatestollat. Ergo vtpro
veteriinstitutogenerosæ Ciuitatis,quam diximus inlaboribusnatam& educatam, magnaeratomniuminThermiscelebritas;
itapro tempore, & pro conditionibus personarum,Exercitationeserantva-
Exercitatio riæ,& invarijslocis. Quippealiæin Palestrisfiebant, aliæinXistis,
aliæinnumloca. Hexedris, subdioalię,instadio,& platearumlibero fpatio; alięinpluribus
fiebantlocis. Necsecus quædam eran tcommunes exercitationes,pueris,
senibus,& iuuenibus, vteo carminenotaturà Martiale. tereolusuum
genera,quorum (vt cætera rumrerum viciffitudincs sunt) vix nomi. Iuuenum De fatu. Præparat, aut nudis tipitisictushebes.
Vara nec iniecto ceromate brachia tendis, Folle decet pueros ludere, follesenes.
Quædam propriæ. Iunioresautlucta, autcursu, autfaltu, autpilaludicriss; Personarum
20 idgenus exercitijscepissentafsuescereinEphebęis.Quemplanèmoremre
exercitatio- presentauit Plautusin Bacchidibus, vbi in personam
seuerisenisindicatpue-nes. Rosprimis vigintianniscum Pedagogo in Palestramantè Solem
exorientem veniffefolitos, d. Βαλανέα Romanorum Puerorum Non harpaftamanu
puluerulentarapis. Vidiffesigiturtum frequentem civitatem,nonfecusatq; hodienossolemus
Vite ratio facrasEcclefiasfestissolennibus, frequentare Thermas. Alios quidem adho
nestos, quos primo instituto proposuimus vitæ conatus.Alios ad sanitatem Ther.
tuendam. Et alios ad oblectamenta tam animi,quàm corporis capienda, pro
celebritate illa populi, pro variarum rerum, ac ludorum spectaculis. Et denique
pro amænitate loci deliciosissimi: vnde barevéesidcirco dictas græca voce Ibi
cursu, luctando, hasta, disco, pugilatu, pila, Saliendo se exercebant, magis q
uam scorto, aut fauijs. Fortiori autemiuuentaiis dem quidemexercebantur, velacrioribusetiáple
runqueludis,halteribus,harpafto,& aliquandocęstu.Velarmorum varijs g e n e
ribus in Palestris. Vel in Hippodromis cursu equì, vel agitatu. Athle - Caftus.
tæ vel stadium spectante populo de cusrrissent, vela c r i pugilatu dimicassent,
Halteres. cum
cęstibusplumbeis,acbaltheis implicatismanibus,quo grauiùs percu terent.
Alijsaltusimul et halteribus, item plumbeis globulis. Alijinsphę
risterijslusifsent pila, vel foliinplateis, vel Harpasto, pilamaxima.
Senio-Harpastum. resquidam, quorum erat ad sanitatem
præcipuastudia,vtrecensuitGalenus, ambulatione duntaxatantèbalneumcontentierant.
Alijclaralectione, vel Senumexer disputatione in Hemicyclis, velde clamatione oratoria,
vel cantumusico. Alijcitationes. modòvnovtebantur, modòalioperoccasionem, exercitij
genere. Id circos. Defa. tu. nec mirum septies quosdam aliquadielauari solitos,
quod apud Plinium le gitur. Alexander Seuerus, vt meminit Lampridiuspostlectionemoperam
Palęftræ, aut Sphæristerio, aut cursui,aut luctaminibus mollioribus dabat, m o
x venieba t in balneum. Aliis supplebant diurni operris labores, quia d r e
Operari j. creandum lassatum viriumr oburvsuriessent balneo. Cæterùm lenis
exercitationis modus erat ambulatio,quam Senes, & Virigraues, &
imbecilles potiffimùmobibant. Dignior adl audem, acdisciplinam,eratexercitatioin
Palestris & armiseorum, quirobustisess entviribus. Etquam oriquazíar, hoc
2. Desa.cu. est vmbra t i l e m pugnam, vt interpretatur Gellius, Græci
appellant, divodepce T e u Tirl, ob salubritatem a gymnasticis dictam,Galeno
teste. Innumera præ Рp nomina ad posteras ætates transiêre. Nec nostræ
professionis est exercitatio Nostrisecunum singulosmodos,aut
genera:quibusiliveteresvterentur, recensê. livita dif ferensaban tiquis. re, quam
partemà Hieronymo Mercuriali, Medico atque Philosopho scientissimo elucubratam,
propediem in luce meditam videbimus.Verùm exco rum exercitiorum censu, quem
fecimus, hanc præcipuam habebimus vtili tatem, considerantes quàm longè
differathic præsens nostri seculi viuendi modus,& maximèPrincipum,necopportuno
pofteros destituemusconfi lio. Sanèvbiillorumtemporum
vitaaffiduisdeditaeratexercitijs,vtpote 10 quæ & fanitatem
conseruarent,& promptiores redderentviresad singula, tàm animi, quam
corporis munera o b e unda; è contra hodie in continuo ocio degitur. Età
Principibus maximè, quiob decorum, ac ampliffimi ordinis maiestatem, semotam à
communi consuetudine degentes vitam;aut curis animi grauibus iugiter tenentur.
Aut siad ludicra aliqui tranfire foleant, ea Exercitianoinertiasunt, tabellæ, alex,
vel Trochinouus modus hàc illuc supermensam stritemporisagitati: inquovitægeneretandemobdefidiain,&
anxietatem,totam breui inertia, cursu vitædeficiant. Quapropter generalisfimum
hoc ac saluberrimum sibi 20 Exercitijnequisqueproponeredebet
institutum,exercitiumnecessariumessead susten cesitas ad vitationem vitæ:
inquire omnes sapientes, variorum quenationum ritussum moconsensu conueniunt. Verùin
quoniam hoc tempore non solùm pluri maveterum exercitiorum generanon funtinvsu,
imòvelipsorum nomina (ut diximus) sunt obscura; necadeoilisvtiessetpoffibile,quinec
Palestras habemus, nec Thermas, proptereàingratiamnoftrorun Principum,aliquot
particularium exercitation numgeneraproponemusexGaleno, atq;alijsan
tiquisauthoribus, quarum multas si non in campis et plateisobirepoterit;
licebitfaltem et incameris et inatrijs,acviridarijsfuis,seruataetiainperso
nægrauitate,percommodèexerceri.Exercitationum (inquitGalenus)com
Exercitatio-pluresdifferentiæinueniuntur. Aliærobustæsunt, & violentę, fiuevehemen
num dife-tes; aliæmediocres,&lenes. Aliæ singulares, aliæcumalio fiunt. Etaliæ
rētiæex Gavni uersas simul corporis exercent partes, aliæ vnam magis,&
aliæalteram. le.2.desan.Vehemens exercitatiodicitur,quę& robusta,&
celerissit:atquehæcmul tergrauequoduistelum iaculari,&
continuatisia&tibusoneremaximo subla tame, pervertere temperaturam
coguntur. Vnde non mirum est, qui præ properam accelerentsenectam, incurrantque
facileautinmorbosrenales,autinpoda gram,autinHemicraniam,aliosqueidgenus
affectus,medioquevelutiin fum tuen to, tash abet differentias. Quædam enim fiuntocylimèagitatis,
quædamrobore, acnixu, quædamfinehis, quædam cum roborepariter & celeritate,
& quæ Exercitatio-damlente.Fodererobustaest,& singularis exercitatio,remigare,discum
nugenera. mittere,mouericeleriter,saltare;idquefineintermissionemaximè. Simili
et ac clivis ambulare.Grauiarmaturatectumceleriteragitari.Continua
tusdiucursus.Et iterfacere.Perfunem manibus apprehensum scandere, modo in
Palestris quo solitum erat puerosexerceri.Velèfune,velperticama nuapprehensa sublimenpendere,acdiutenere.Manibusinpugnum
redu: &tis, iisdemqueprolatis, velinaltumsublatis. Halteribus,feuglobisplus
minusgrauibusleorsumpositis,vtraqueseinflectensmanu attollere.Quæ robustior
erit exercitatio, si qui ad sinistram manum fuerit dextrâ coneturat tollere, &
sinistrà qui ad dexteram. Diuq;,acsępiusidentidem facere.Potest &
foliscruribuserectusacvnolococõsistensceleriterexerceri, modò retrora suminsiliens,
modóinanterioravicifsim crurumvtrunquereferens.Solus fimiliterexerceriest,summispedibusingredi,tensasqueinsublimemanus,
hancantrorsum, illamretrorsumcelerrimèmouere.Sehumi celeritercir cumuoluere, velsolum,velcumalijs.Cum
alijsverò& citràrobur, & violen tiammultæexercitationesperaguntur.
Vtcursusadmetam constitutam.Vel vibratilisar morum meditatio. Summisinuicem
manibusconcertare.Co nes cú alijs. ryco,& paruapilaludere. Stare, nec
finereseloco dimoueri;quo exercitij genereMilo
Crotoniatescelebratur.Velseerectum,& circumactum 10astantemmutare. Complecti
quempiam manibus,digitisquepectinatimiun ctis,isque diuellere seadnitens.
Medium appræhendere,ac sublatum ceù magnumonusprotendere,&reducere.
Luctaytriusqueluctatorisrobur maximèvtipoteruntSeniores,&
quiadmotumsuntimbecilles. Ambula.Vltimò Fri &tiones suppleant. His omnibus ex
ercitationum generibus,imòinfinitis alijs (vtGalenusinquit)docebant Pædotribæexercendumesse:&
velinPa læstris, velextrà, velinaltopuluere, velconculcato, & firmosolo, &
omni noantèbalneum. Quibus & nosiuxtàpræsentemviuendimodum,siuepro
præparatione, fiquis velit ad balneum,feusinebalneo,vtpleriquehodiefa
tecdicere,quæ situborealifrigidas,acpurasstatimàfontibusadmittebat
aquas.EratenimNatatio (vtidiximus) separataà partibus balnearum: citationes, le
cimus, percommodè vtipoterimus. Sed de exercitationum emolumentis 40 alio loco occurretdicere:
nunc ad describendas balnearum partesin Thermis redibimụs, acaliaineisrequisitaexplicabimus.
De Natatione. Ne i principes autemThermarum partes, primùm de Natatione opor
Cap. vii. Рp ij nimi. Exercitatio. prope rium mem brorum.exercet. Luctaricum
roboreest, ambobus cruribus alter alteriu scrus com plecti, minibus intersesecollatis,
& collo. Manua lteratanquamfunecol
loalteriusiniecta,ipsumqueretrorsumtrahere, acreuellere.Pectoribusex aduers o i
n n i x i, magn o se co n a t u i n uicem retrudere. Ad singulares porrò
universalis, attinet electionem, qua parte corporis quis vtivelit, aut indigeat
exerci- particula tatione. Aliæ enim vniuersas simul exercent corporis
partes;quo nomine ludusparuæpilæà Galenoprætercæteracommendatur. Aliæ
vnam magis, aliæalteram exercentpartem, lumbos, crura,brachia,
spinam,pulmonē, Deparuepi thoracem. Itatio, cursusquecrurum exercitationes sunt.
Acrocorisini, hoclxludo. Est festiuæs altationes & Sciamachiæ, crurum, brachiorum,&
manuum pro pria. Lumborum autem, affiduèse inclinare,autpondusaliquod àterra
tollere,autassiduèmanibus sustinere, Spinam transuersim exercet, atollere vt dictum
est alternatimhalteres. Thoracis vero et pulmonis suntpro priæ, maximæ Respirationes.
Cor. Celsus inter exercitationes imbecillisto lib.2. c.8. macho conferentes,claramcommendatlectionem.
Maximaveròvoxvocis quoque instrumentaomniapermouet, dilatatque:naturalemexcitatcalo-Clarale&tio.
rem, & quomagisfitafsidua, eomagisvniuersis corporis partibus communicatur,
vtinnostris concionatoribus experimur et in libro de voceà Gale noestproditum. Hoc
genere exercitationum per vocem, quælenessunt, Lenesexer Lufta. Etio,& amo
tioneetiam quimagis validi. Velequitationessufficiantur, gestationesquebulatio.
seucurru, seuproægrotantibusin Scimpodio,& Sellaportatili Cap. 18.
Nimirùmquia singularis eiuserat, acpropriusvsus, non tàm quidemadlaua
Varzac efttionem,quàm ad exercitium. Eftenim Natare laboriosum, quòd itaiacta
quoddam e rerectè Aristoteles in Probleumatibus, Natationem, oblaborem, cursuico
parat, aquarum periculaexercerentur. Et Galenus testator de suo tempore, pue 1,
Defa.tu,rosin aquis qumasina's Feudasfacere consueuiffe,idest, quòd prima
fiebantin of Pifcina, Piscina P u aquis pueritiæ rudimenta. Itaque præter Tyberis
commoditatem,propria adhuncritumlocaconstituta fuisseinvrbediximus,quæ
diuersisexplicata nominibusinuenimus, Natationes, Piscinas, Stagna, atque etiam
naumachias, Piscinædi&tæ, quòd & pisces hauddubiècontinerent,
nontamenad vsum piscium, nam ad hoc propriaerantviuaria,sed ad munditiam
seruanda aquarum,& amoenitatem. Videturautem exercitatio numhuiusmodi causa,
primùm constituta fuiffe Piscina publica dieta sub cliuo Capitolino, ad
veniebat populus. Exca& piscinæaliquandofuntdictæparticularesNata
tiones,& labra lapidea, qualia Romæ videmus maxima, nec non portatilia, ac lignea
advsum etiam calidarum aquarum. Quod authoritate constatM. 08 Tullijad Q.Fratrem
desuisbalneis,Latiorem (inquit)piscinamvoluissem, vbiiactatabrachianon offenderentur.
Hasà Galeno,acalijsGræcisautho x a n u p u s o ' n ga ribus, modò x o d u a k r
í z s a s, mod ò Bari i su p o e edicta s legimus. Parva autem Solia,
Capesupulco peluesquequercus; quam differentiam planamfaciuot Galeni verba lib.7.
Mé πυελοι. Stagna. thodi, vbi ad ventriculis iccitatem curandam, quæ
Hecticamminetur, nata tioneminbalneo factam consulitivteīsno numerisus, id eft in
piscinis natandocó stitutis, quàmivtotspixpsīsavenoīs. Memorantur porrò &
Neronis Stagna,vbi Amphitheatrumà Martiale poniturinprimis Epigrammatis d. Hic,
vbiconspicuivenerabilisAmphitheatri Erigitur moles Stagna Neronis erant. Quod tamen
stagnumnon plane constatanad natationis usum, anpro Nau stagno circumpofuit, conseuiffe.
Stagnihuiusin Vaticano Naumachiæno Navale Sta minememinit Egelippus Græcus author,
in D. Petri & Pauli martyrologijs. Cæterùm NaumachiapostNatationes&
balneas,altiorisfuitinstitutiquàm Naumachia adnatationem,nec, nifipoftimperiaprincipuminuenta.
Nempe inqua nautici certaminis fieret spectaculum, vel ad disciplinam militarem,
q u ò faci of Finis duplex liùsmilites pericula Aluminum, vel naualis belli, cùın
opus fuisset, possent Naumachię euadere. Sic Polybius refert Romanos primo bello
Punico, quod aduersus Chartaginienses gesturierant, militessuosinnaualidisciplina
exercuisse. Et SuetoniusAugustumcúm effetcótrà Pompeiumiturus, inportuIulioapud
Baias milites in nauali exercitatione tota vna hieme detinuiffe. Vel erat N a u
jucundunfpe Etaculum.
machiævsusaddelectationempopuli,vtcæteraspectacula.Pluraenimerãt q u æ
præberent animo delectationem:primò aluei magnitudo, ac Cyrci c u 1 vivarium. blica. Quam (ut Festus Pompeius est
author) & natatum et exercitationis caussas duo. rat, gnum. xercitium,
tismanibus, accruribusaffiduè, vniuerfæcorporis exercentur partes.Qua Et Oribasiuseaminteraliaexercitationum
generaadnumerat. Imò Natationis in vrbe fuitprimus,acantiquissimus vsus ante
balnea:quando scilicet conftitutæ fuerunt exercitationes in Campo Martio,vbiiuuenes
(te ste Vegetio) puluerem, sudoremque
detergerent, simulatque ad obennda machiafuerità Nerone constitutum.Vsumtamen
vtrunquepræftarepote Neronis no- sicut& de altero eius nominis meminit
Tacitus,claufifle Neronem in mine stagna valle Vaticani spatium, in quo equos
regeret, apud quenemus, quod navali iusdam OZ jusdamamplissimiforma, editaadcommoditatem
tantiludi,inconspectu maximæciuitatis. Deinde classisineam, etiammagnarumnauiumintrodu
Etio, & ludusipsecertaminis. Etdemum populicelebritas, & velipsaaqua r
u m copia, atque amænitas, maris instar tranquillissimi. Et quæ apertis eu ripistantamvimaquarun
vnohaustureciperet,laxaretquefinitospectaculo.Martialis inquo mouet
admirationem aduenæ Martialis,dum sicadulatur Domitiano.locus. Cui lux primas acrimunerisipsafuit.
Ne tedecipiatratibus naualis Enyo (Paruamora est) dices, hicmodò Pontuserat. Ex
quo plane authoritate colligitur, in Cyrcotammarisquàm terræcelebra In Cyrco
rispectaculadebuisse: vbimodòterra (inquit) modòPontuserat. Quod Naumachia.
Cyrci Maximisitus confirmatinterAuentinnm montem,& Palatinum de pressus, inquem
Gabiusæaquæriuus,quemMarianam posteridixerunt,per Gabiusaa petuòinfluit na. na
aqua,vtFrontinuseftauthor, quæ fapore,& crafficiemarinamaquam AugustiNa 2 0
æmulabatur, in q u a faciliùs natat r, t e f t e quo que Aristotele in
Problemati - u m achia: sub colle Hortulorum, ademiffarium aquæ Virginis.
Authore Sueto Domitiani. nio,quiasseritDomitianum circunstructoiuxtà Tyberinilacu
(inter Cain pum Martium scilicet& ipsum collem Hortulorum, vbi nunc iuxtà
Sanctito pluresessentqui exercerentur et quifrequentarent Thermas adca,quă Bal
spectaculaquàm quilauarentur.Eteodemtemporemagnahominum co-nearum.
piaexercebatur, &quivno,& quialioexercitiigenere. Atadbalneasin
trantiumcontinuaficbatsuccessio, nam cùm priores occupassentloca, reli qui (vt scribit
Vitruuius) circunstabant,dum lauarentur. Pleriquesani,ac robusti, poftquàm in
exercitijs incaluissent, nullisferè alijsvtebantur bal neis vtinfràmonftrabitur
nisinatatione. Quæ parsidcircoeratamplissi ma, &
exercitationibustamsubdialibus; quàm interniscommodissima. Vel Balnearum
transiffentdunt axat ad balneas calidas, atque illicoegrelliinsiliebantinfrigisitus.
dam. Summa ergo artificijin balneishæc fuissevidetur, vt in locoessentquả
commodo omnibus seseexercentibus;acmirandiplanè artificijministerijs totaquarum,calidarum
simul,& tepidarum,quæcontinụèexsefunderen turin balneas. Pro commoditate, ac
ratione lauationum, erant omnes ad Рpij meri Et parvndafreti, hic modò
terrafuit. Non credis?spectes dum laxent æquora Martem. ropriè verò ad vsum
naualis certaminis, duæ fuerunt certiffi-qua Maria inæ Naumachiæ. Priina Augustitrans
Tyberim, adductâobidineam Alfieti Sylueftriædesapparentvestigia naualespugnasineo,
penè iustarum Claf fiume didisse. Luxuosissimus Heliogabalus, euripis vino plenis,
naumachia Heliogabali. exhibuisse. Tradit Lampridius. Sed nuncad partes balnearum
proprias acMilanius. De partibus balnearum, esde Milliariis vafisin Hyppocausto.
BÀLNEARVM veròin Thermisnoneam videmuscopiam, quamde BВ exercitationum locis iam
diximus. Ex quo planè videtur, quod mulnum pluralo Exercitatio Siquisades longis
serus spectatoraboris, bus. Alteraverò et magis celebris, fuit naumachia, quam Domitianidixi.
mus Apodyteriú seu Tepidarium. meridiem,vndefolissemperillustrarentur, acfouerenturaspectu.
Nam tó: taeafaciesanteriorerat distincta in duos ordines balnearum, vnusàdextris
Hypocausti,&alteràfiniftris. Etvterqueordo distinguebaturinquatuor Cameras,
conformes vtrinque, ac ita collocatas, vt ex una in aliam Etuplatearum
àsitumeridionaliproposuimus,progressuferèad media pla eratceùvestibulum regaleApodyterium,seu
Tepidarium. Quem lo mirabilem, meritò alterum noftræ ætatis Trimegistum
dixerim. Hinc fini Hypocaustús tror sumn modicus introitus in Hypocaustum. Sive
(vt meliusdicam) super Hypocaustilocum, quirotundaforma, cumopportunishincatquehincmē
Cryptoportibris, nuncprimisNouæEcclesiæfacelisdicatuseft.Totaeniminfràmoles
res. Aftuaria. darum, aliæ frigidarum aquarum ductus, alię calorum æstuaria, aliægrandes
tores vt vocabulo vtar Iure consulti curam succédendi ignem habebant in
Thermis. Eratautem vnicum, teste etiam Vitruuio: collocatum tamenin medio,vtcommuniseiusessetvsusvtrisquecaldarijs,exvnapartevirilibus,
30 exaltera muliebribus. Idqueperopportunaæstuaria,quierantmeatus ab Hypocausto
perpetui, vndecalores occulti in cameras caldariorumipsorum penetrabant. Quod
tetigit in primo Syluarum Papinius Statiusd. Vbilanguidusignisinerrat dioplacet
æneatamenpatinasubiecta. Quorum idemeratnomencum ca meris prædictis,vnum caldarium,
alterum tepidarium, tertium frigidarių. Legitur item Milliaria, a magna
fortasse capacitate, quali plus millelibrarú aquæ caperent. Quippeidgenusvasa, teste
Vitruuio,maximi aheni inftar, actestudinataadcircinum,itaerantcollocata, utex
tepidarioin caldarium quantum quæ calidæ exisset, infueret, de frigidario in
tepidarium adeundem modum. Atque hinc planum artificium est, in quotant opere
laborauimus, quomodo ad communeinvsumtantaaquarum copia exvafisfuppedi
tareturinbalneas. Quod restituo in lucem ex Seneca, quidum ad Lucillum
miradeliciaruminuentasuitemporisdetrectat, hocafferitobiter. Construiteam,
huiusædificij, concameratainuenitur,acdistinctaaddiuerfosvsus. Aliæ Fornacato.
Criptoporticus erant patentes ad refrigeria in magnis caloribus. Aliä сali 40
IO CUS. 20 cum laxum, & hilaremdescribit PliniusadApollinarem, hocest,amænum,
acmollisteporis, tùm solaribusradijsàmeridie illustratum;tùm proximi Hypocausti
vapore laxum:vbi nimirùm ingressuri ad balneas exuebát vestes. Qux
quoniamprimaerat, acnobiliffima Thermarum pars, nobilissimietiá
numapparetartificij. Figura inquadrumoblonga,achemicyclisquaquefa
ciedistinctum,cum aditisvndiqueintercolumniorum,columnisquesuper
nætestudinisaltissimis, quætàmauthoris,quàmoperissummam maiestate ostendunt.
Vnde sapienter hæc pars, proposita est pro prima porticu Ecclesiæà Michaele Angelo
Bonaroto, quem pictura, sculptura et rchitectura cloacæ vnde lauationes exonerarentur,
& aliadenique Hypocaustum,atq; Lib.s.c.10 Hypocaustimembra.EratergoHypocaustum
fornaxinferior, vbifornaca Aedibus,& tenuem voluunt hypocaustavaporem. Vasariatria
Super Hypocaustotriaerant compositavasariaænea, velplumbea (ut Palla Mincepice
Græcis hæc Mirsapíe, Latinis (vt apud Catonem, Senecam, atque Palladium folitum
aditus.Inmedio quidemerat Hypocaustum, vtrinqueveròinversuris La conicum, deinde
consequenter Calidarium,Frigidarium,& tepidarium,vt planèsingula explicabimus.
Principio contram Theatridium, quodinprospe pateret solitumin ipsis milliarijs
dracones, quæerant fistulatavasatubæ instarære tenui, perdecliuemilliariocircundata,vtaquadum
ados draconis con lis canales occultos, quorum aliquæ visæ sunt reliquię in
eruendis ad nouam 2 0 ecclesiam m a c e r i j s: atque ex hinc aquas de duci
solitas in Natationes, in Fonsicis organis n o n absimiles. Quia d firmitatem
quidem, ac robur faciebant Tubi etepi ipsis v a l ibus: simulatque artificio
ferès i miliquonos hodie Romæ nymph e i s s t o m i a. acviridarijsdamus
velarcemusaquas, habebantfiftulasinfra parietes occul tas, q u æ in cameras balnearum,vbi
opportunis locis essent epistomia, infundebant aquas. Quod ex eodem Seneca non
est dubium, d u m n i miæ la uti ti æ adscribit, quod continue aqua calida ex sefunderetur
in balneas,acrecens semper, veluti ex calido fonte per cameras transcurreret.
Et ex Galeno, vë iam decamerarum dispositionibus dicemus. De Laconico, esde Solis
Balnearum. RDINES quidembalnearumin Thermisduosdiximus,vtrinque
scilicetabhypocausto vnum testeVitruuio,alterumvirilium,alte Balnea viri. rum
muliebrium. Nam vtscribit Gelliuslib.io.cap.3.authoritateVar
ronis2.deAnalogia,Pudornon patiebaturvtrunquesexum simullauari,sed do liadoMu
aquarкт epis t o m i j s, fundebantur. Vbi nota harum ductuum in Balneas
alterum arti 30fícium. Eranttubięne ierecti, tresàdextera et tresàsinistra milliarijs,
m u 40 glomerati specie plurieseundem ignemambiret, pertantumfueretspatij, vasis.
quantum acquirendocalorisatisesset. Quare triplex semper aqua invalis,
acinfinitæcopiæ, calida, tepida,frigida, nam successiuas vasexvase Caldarium
piebataquas.primum quidem,quod caldarium dicebatur,superprimavas.
hypocaustistraturacollocatum, tanquam omnium vasorumvalis, calfa tes, Dracones
i 10 са. Etasperdraconisinuo lucra fundebat aquas. Secundumsuperhoc erat
tepidarium, quod a primi vasis vaporibus modicè incalescebat. Tertium Fri-
Frigidariú. gidarium: vtpotequod frigidass tatimab emissario aquas capiebat et quan
tum subiecta vasa vacuabantur, tantum hoc nouarum aquarum infunde- batfinefine.
Emissarij verò huius obscura quoque ratio est. Nam vide-Emisariaa mus quidemad
Thermas ipsas propria aquarum Castella constituta: qualequarum· extatin Diocletianis
poft palestras orientali parte. Etin Antonianisàt ergo Theatridij admeridiein. Horum
tamen altitude nullibi excedit planiciem bal nearum. Nec vllus est modus, neque
artificij vllius vestigium, insummis Thermarum testudinibus, vndetam altè deduci
potuissent aquæ.Videturita que mihià proximis iliscaftellis cóstructosfuiffeinfràpauimentatotiusm
o Tepidarium lib.io.administris balnearijs veletiam iumento alligato, subleuatæ
aquæinsu ipsihypocausto piscinam infundebantur, quæs ponteposteàinsubie pernamn
rursusin Tepidarium,& conse ĉtumFrigidariumcaderent,& exFrigidario,
quenterinCaldarium,velutidiximus. Vnde plenas emper vasa suis aquis imumcalida,
medium temperata, supremum frigida, quæ per fistulasencas hinc atque hinc in
quolibet vase compactas, versis ad vnum quenque actum Tympana Fistulę aqua ac
alias piscinas. Hinc, tanquam a communi fonte, per rotas ac tymparo t e a c na,
ac id genus alias machinas aquæ hau storias, quas describit Vitruuius
commoditas coniungi desiderabat. Quanquam in hisque post Varronis et post
Vitruvi j ętátem f a &t æ sunt, hæc distinctio non sit mihi ve risimili. Q
a n rum. liebria. do auctoritu exercitationum,ac lautitia inThermis,vix
publicas potuisse virorum frequentiæ sufficere videtur.Itaquepromiscuas potius
ex eo tempo refuissereor,achonestismulieribussatisfecissepriuatas,velquasprincipes
Matronas constituisse iam scripsimus, Agrippinæ Neronis matris balneas, terke
inbal Olympiadis,atquealias. Cameræ in quoque ordine quaternæ, Laconicum,
Calidarium, Frigidarium et Tepidarium. Velternæ adminus:hoc enim non
videturdubitandum,non fuisseThermas vno stylo vbique,nequevno ordinepartium et
tam in publicis quam in priuatis. Et hinc in authoribus Celsus. Tanta earum inuenitur
varietas. Quaternas point Celsus lib. 1. cap. 4. dum scribit, Sub veste primùm
paululumin Tepidario sudare folitos: tùmtranfi- Galenus. re ad Calidarium, vbi sudabatur
largiùs, quod ponitpro Laconico: tumque aut in calidamd efcendere,autinTepidam;deinde
in Frigidam. Easdem C.i72ero qua λουτρόν Pyriateriit. Hypocaustü point Galenus
lib.10..Methodi, a Laconico incipiens: Primùm enim inquit ingredientis inaë reversantur
calido:hinc secundò in aquam Calidam defcé dunt,quod propriè aoutcovait appellari.
Ab hac mox in tertiam Frigida ibár: & tandem in quarta sudoren detergebant,
quod erat tepidarium, seu Apo dyterium græce dictum. Inquo&
Celsusdicit,fenouissimèquiselauissent abstergere,& vngereconsueuisse. Quem
planèordinem & inhis Thermis, quarum videmus vestigia, seruatum inuenimus.
Extat Laconicum adsuda tiones inquoqueprimæfacieiangulo vnum, idquenonadeomagnum,hu-
200 iusenim partis noneratvsus communis, nequeadeo necessariusomnibus, vtquibus
fatis ad sudandum exercitiafeciffent. Sed imbecillis proprius et quiminus validiadexercitia,sudoreshocloco
excitabant:subindeintrabát adcæterasbalneas. Nomen autemdeduxità Laconibus: quos
huncritum rium, Laconicum veròc ommuniter omnibus, & Ciceroni quodam loco ad
Sphærifte- Atticum. Suetoniusin Vespasiani Cæs. Vita Sphærifterium hanc partemap-
30 rium. pellat à figuræ rotunditate. Locus quippe concameratus ac rotunda
fpecie, Lib.5.c.10.habens,authore Vitruuio, inhemisphæriolumen,exeoqueclypeumæneú
cathenispendens,percuiusreductiones,acdemissiones perficeretur Suda Clypeus Lationum
temperatura, vaporibusnimirùm ficretentis,veldifflatis. Erat autem huius institutiratio,
vtfcribit Dion in Annalibus, vtfus è intrantesinhac par vfus: t e sudaret et
sub i n d e unctione ad hibita, statim descenderent in frigida. Quod planè
clarius ex Galeno fiet pofteà, ac à Martiali obiter tangitur in Hetrusci
Thermis, ad Oppianuin tribus versibus. tepidum tamen aquarum vaporem potuisse suscipere.
Proinde Celsusineo, affus dixit sudationes lib.z. cap.27. alibi exiccari dixit corpora:
Seneca exani tos .primò instituise, Plutarchusin Alcybiadis Lacedemonijvitaeftteftis.
Græ Calidarium. cialiquando Ilupice Supo's,& nonnullisuTorw50sdictum,ob
igneum ineova Sudatorium.porem:Latinis modo Calidarium,inodò Cella
calidaria,Senecæ Sudato Laconici coni, ncis. mari, ritus si placeant tibi
Laconum Contentus potes arido vapore CrudaVirgine, Martiaquemergi. Vaporíqua
Virginem dixit, & Martiaminhisbalneis Romanasaquas, blandissimifrigo litas
in Laco ris. Videtur autem Laconici aërem,siccum quidem fuisse, atque igneum, Bico.
Galenus & alijmediciinterdum elixari, Oribafius planè aëreferuidu dixit, ac
præhumidum i n Laconico. Quod rationi consonum sit. Nam ex æstuarijs, partim
quidem siccis, ex quibusiaindiximusabhypocaustooccul 10 su tenui calore, diceba t Galenus x. Methodi,
reservatis vniquem eatibus, liquatisque per totum corpus superfluis,sudores, vtilesquemadores
clicere, quæ inęqualias untęquare, cutimlaxare et multa quæsubhac detenta
erant, vacuare. Ex Laconico patet aditus i n Calidarium, quod proprie Calidum So
aoutpór, hocestlauacruindicitur, eodemteste,& calidum Solium. Patetau-lium.
tem hæc pars,duplex magnitudine ad cęteras cameras:vt cuius in balreis maior erat
necessitas, longior in e o f i ebat mora, ac usus frequentior, præsertim
minusvalidis ac imbecillis. Vbi meminisse oportetex Celli verbis, quæ pau Halat
& immodicosextaNeronecalet. Mox tertiolocoeratFrigidarium,seuFrigidumSoliuminquo
aquaexquisi. acviresdensatacutifirmarentur. Qui enim, subdit, hoc modo
àcalidislaua- Vlus. tionibus, sudationibus que laconicis ftatim in frigidam non
descendissent, Paulo post transpirato immoderatius calido innato,totum corpus
frigidius euafiffe sentiebant. Quodfanè frigidælauatiofieri prohibebat,totum
semel corpusconftringendo,&constipando,nonsecusatqueaccideresoletcalen
tiferro,quod quùm infrigidammittitur, & refrigeratur,& induratur. Atque
huius rei causa potissimum constatinuenta fuisse balna, pro imbecilliu vm i
delicetcorporumrobore: hoceftvtimbecilla corporapræcalfacerent, itaque ad frigidum
Soliumpræpararent. Adeoquepræualuit semperfrigidarũvsus, Frigidarum
40vtvixquidam alijsbalneis vterentur. Carmis Maffiliensis Medicus, etate
Neronis prerogativa, scribit Plinius lib. 29. cap. 1. damnatis prioribus Medicis,
ac balneis, frigidalauarihybernis etiam algoribuspersuasit. Merficęgrosin Lacus.Vide
bamussenes consularesin ostentationem vsquerigentes. Ex frigido tandem Solio erat
exitus in Tepidarium, tepidiscilicetaëris,q uod diximus apodyterium, sive spoliatorium.
Etcratfinisinbalnco.Ancè Tepidarium tamen Cella olearia in Diocletianis commodè
est ut videtur Cella Olearia, eademque Tonstrinæ na. tôs penetrare ignes
in cameras, partim aqueis per suostubos ac spiracula, v a pores misti ad hemisperium
Laconicipetentes,sub curuatura magni clypei intenuiffimas conuertebanturaspergines,quæimbrium
modò super capita Facultates. corum,qui morabantur in Laconico depluebant.
Potest autem hæc prima pars lo ante retulimus,vel in calidam fieridescensum,
vel in tepidam, & quali ad uno, tenore vtentis arbitrium potuisse
temperari. Et Galenus in 3. de an, t u e
n d a idem videtur asserere, nimirùmquòd in Calido Solioaqua, exvafisquæ
diximus Miliariorum calidis, tepidis,ac frigidis, poteratadvsum trifariam
tèfrigida, ad hunc videlicet vsu minquit Galenusx.Methodi;vtquæ fuerantFrigidum.So
fòexcalfacta fiue'in lium., anterioribus Solijs, fiucin exercitijs, hicrefrigerarentur,
An balnea calida. fieri, tepidam, aciusto calidiorem. Quam tamenva ri, nempè
temperatam lauationibus, sed in priuatis,vel non videopotuissefieriinpublicis
rietatem, parabatur à Balneatore aqua advsum pu adpriuatosvsus. Nam in Thermis
compara LO Aeftiuo serues vbi piscem tempore quæris. fortas selocus,vbinimirùmoleaseruarentur,atquevnguenta
do Tonstri,aliique odo blicum,vnotenorecalidaomnibus. Quod declarant authoritates
scripto-frigidæ, alia rum, quialias Thermas appellant frigidas, alias blandas, alias
fervidas. Vei frigidas significauit Martialisinprimo Epigrammatum. In Thermisferua
Cecilianetuis. Idem inx. Neronianas indicat fuisse calidiffimas, eo epigrammate.
Temperat hæc Termas nimios priorhoravapores res cal d a Therme alię
resad opportunosvsus,& quivellentbarbæ,& capillorum cultuivacarent.
Unetiones in Eratautem hæc pars vn ade necessarijs, acessentialibus (ut ita loquuntur)
in Thermis, toto ritu Thermarum, quandohiçmoseratcommunissimus,vtquisque lo
tus,simplicis faltem oleivnctionevteretur,tùmvtsudoresinhiberet,tùm
vtfeabextrinsecùsambientisiniuriavendicarepofset. Hunc enim tenorem in omnibus
ferè,quę hùc sparsim adductæ sunt,authoritatibus obseruabis:
primùmlegiturexercitium, deindebalneum, vbifrictiofiebat,& detersio,
inoxstatim frigidæ lauatio, pofteavnctio,posteacibus& potus,vltimòso mnus.
Proinderecolome legissepluriesinvitisPrincipum, ficuti ntermu..10 Oleimunus
nerapublica erat Congiarium,erat Recta, erat Sportula,itaoleum aliquan
publicum. do publicè donatum, quoin communi velutigaudio,quisque frueretur in
balneis.Nimirùm vel Thermis cùmprimùmdicatis,velfaftualiquoPrinci pis.vnctionum
verò,quasquisquesibipriuatimdeferebatadbalneum,luxus legiturinestimabilis. Quidelicatèviuerent,
velimbecilles, odoratisvnguen Balnea contis refouebant spiritus. Quosdam legimus
iuffisse spargi parietes unguento. spersa vn-Vtfimul (equidem puto) &
lauarentur, proiectisinalueositaimbutosaquis ipfis, & vngerentur, fic penetrante
exactiùs vnguento, & odorem, virtu temquesuam diutiusseruante in corpore. Atqueita
Caium Principemsoli tum lauari, testisest Suetonius. Scribit Lampridius
Heliogabalum nunquá inPiscinislauarisolitum,nisiillæcroco, aliisúepreciosisvnguentisperfusæ
fuissent. Velplanè conspersiseo modoadluxum parietibus vtebantur,vedu quis se
parieti confricaret (quod aliqui facere folebant, vt apud Spartianum in Hadrianoleginus)sineministris,acetiam
proprijsmanibusperungilice Balneton ret. Neroautem profusissimus non folùm calidis
balneass pargebatodorib. guentipre-sed & frigidis quoque vnguentislauabatur,
fcribitPlinius.'Recensenturau ciosi. tem hoc in generepræciolamulta,quæ (Galeno
teste) Romanorum lauritia Olea, etvn- inueniffevidetur: vt Mendelium, Cyprinum,
Narcissinum, Susinum, M e guenta pre- galium factum ex balsamo, Regale apud
Reges Parthos primò comparatum. ciofa. Nardinumquoque,quod&
Foliatumdicebatur, Plinio:& alterum Spicatú,
QuodidemNardipisticæpræciosivnguentum legiturinEuangelio.Etitem30 Iasminum
oleum,quododoriscaufla(vtteftiseftDioscorides)non inbal
neissolùm,verumetiaminterepulandum apud Persas, vsurpari consueue. Unguenta in
r a t. Dono, equidem opinor, et in Xenijs. Quem morem d i u Spartanos, at
conuiuijs. Quelonasretin uiffe narrat Valerius quę, Plinio teste, Diapasmata,quasi
conspersoria dixeris, Cyprini pulueris instar, quohodievtimurodoratissimi; dequoebriam,putidamq;Felceniam
illuditMartialis in primo Epigrammatum, eo carmine. Quid?quod oletgrauiusmiftumdiapasmatevirus?
Apodyterií Vt redeamus ergo ad cameras, Apodyteriumerat principium, &
finisinbal gues. 40 M a x.lib.2. vnguenti, coronarumq uein conuiuio dandarum,
secundismensis.Erat& Oenanthinuminter præciosa. Quorum similia aliqua apud Paul.
Aeginetam legimusvnguenta, atqueolea. Multaquei d genu salia apud Plinium
lib.13. inalabastrisferuari solita:nunc omnia rarissima, aut que dam subdititi
a, vel adulterata, tantæ verò e a tempestate copiæ, vevsuscorum ad vulgares quoquede
fuxerit, quodserioarguit Iuuenalis. Moechis Foliataparantur. Diapasmara Ad
sudores autem propri cohibendos, quæda m
ficcis constabnt odoribu, neo; eôdem nimirùm reuertentes, vbiantèbalnearum
vestimentacõsignal sent.Idemqueex Galeniverbisplanèintelligiturx. Methodi: hicenim
dum cunctarentur, actergerentur, corpusadhucpersudorem,innoxiè,accitrà
refrigerationem vacuabatur,acinnaturalem redibatmediocritatem. Porrò vana
quorundam controuersia est, ponere Auicen.trescasas(itaenim interpretantur) in balneo,
easque long è aliter dispositas, quam diximus. Cui bil. cnim dubium non fuisse balneas
vnost ylovbiquenequevno ordine? Defijf setamen pariterapud Arabes hunc ritum,
testator Auerroes in Canticis, acBalnearum nonmirùm imperfectastùmeoshabuiffebalneas,
Nequein antiquiffimisa nidemsły 10exempliseadistinctioquærendaeft: quando Hippocratisætatenon
adeori tè balneaparabantur, quod & ipseinnuit 3. De ratione victus in morbis
acutis. Neque in priuatis multo minus, quas Galenus aliquando perinde damnat, acincommodas,
Depensilibus balneis, ac balneariis rebus. Uenire potuirationem. Nam si Pensiles
balncas intellexeris sublime salueos, Pensile quid & quæ fu per solario locatæessent,
idmagnuninoneft: ficut & Hortospensi lesvidemus, atquehorrea, acmaiusopus, Thębas
Aegyptias pensiles fcribit Plinius. Audiuiqui id artificiumattribuant Laconico,
ècuiussuspensura lusvbique. ENSILIVM veròbalnearum, celebreduntaxatnomenperuenitad
nos, fuis se eas inter maiora illius seculi blandimenta: cæterùm Cap. xi.
namearum fuerit ratio, non facilè ex aut ho r i b u s colligitur. Ponit Valerius
Max,interluxuriæexemplalib.9. CaiumSergium OratamPensiliabal quæ Auicenna
neaprimum facereinstituiffe. Idquet radit Plinius lib.9.cap: Pensilibal 54.L. Crafsi
Ora- neurum inui torisetate,parum
anterempub.occupatam.Queminteraliasvoluptates,& torSergius Ostrearum
afferitinueniffe viuaria, nec tamgulæ causaa, quàm auaritiæ, vt Orata. Quiitamangonizatas
vendebat villas. Eadem testator Macrobius 3. Saturna lium cap.15. Porrò venisse
eas in gratiam popularem planè oftendit Plinius lib.26. cap.3.Asclepiadis Neronis
Mediciçtate: vrbe, inquit, imòveròtota Italia imperatrice, tum primùm vsu balnearum
pensiliadinfinitumblandien te. Extat & Annei Senecę censura ad Lucillum,dePensilibusbalneis:qua
vapores conuersosintenues aspergines, imbriummodo Aqua pensi supercapitacorum, lis.
q u i lauabantur, depluere diximu s. Vel quem ad modum Aqua Pensilis dicitur z
Fluvius p e n & Auuius Pensilis, ita id balneum Pensile fortasse intelligendum,
exquodi-filis. ximus authore Seneca, atque Galeno calidas perpetuò aquas, vel
quales quisquevellet & tepidas & frigidas, velut ex calido fonte depluere,
actran {currerepercameras. Verùm nihililliusblandimentivideoinhis,quam ob rem
populus eascum tanto applausu receperit, & quæ ad authorem adscri: bantur voluptuosiffimum.
Pensiles ergo balneę haud publici videntur fuisse vera balnea instituti, sed in
priuatis extitiffe. Vtquæ priuatum habuêre authorem, & pri-rum Pensi uatamc
aussam,nempèinuentæaddelicias. Necvllumvestigium,nulladeliurnrutio. Hisin Thermispublicismentiohabetur,
Earumveròrationem, inquatanto. perehesitaui,elicioexeodem Plinio, cuidererumantiquarummemoriapri
ma laussupercæterosscriptores, meritòtribuendaest.Pensileenim dicitur rum
inqnit suspensura inuentaest,vtnequid deesset adlautitiam. Hæc ha 3 benturde inuentione,
atquedelicijs Pensilium, quarum tamen non facilèin 40 P suspen
suspenfum,& mobile: qualesipfememinit lib. 19. cap. 5. Tyberij Cesaris
hortos Pensilesmiræ voluptatis,quoshaudquaquam ponitsupersolariolocatos,
sedsuspensos,& mobiles, quos inquit singulis diebuspromouerentadso
lemrotisolitores. Quod idem clarainbalneis authoritate exposuit lib.26.
сар.3.dum Cleophantum Medicum commemorat, authore M. Varrone, alia quoque blandimenta
ex cogitaffe, iam inquit suspendendo lectulos, quo rum
iactatuautmorbosextenuaret,autsomnosalliceret. Iambalneasaui disfima hominum cupiditate
instituendo: easdemscilicet,&suspensas,vtdi xitlectulos.Quam fententiam
confirmantquæmoxpaulòsubiunxitverba, quæ allegauimus; Anxiam nimis fuisse Asclepiadis,
& quorundam eum se." quentium curan,tum primùm Pensili balnearum vsu
ad infinitum blandien te. Easdem & balnearum suspensurasdixitSeneca. Et ValeriusMax.impen
faleuibusinitijscępta,suspensis calidæaquæ balneis. Vnde fiiam mente co
cipiasvidere hominem inbalneo Pensili,velęgritudine debilem,vel volu
ptuofævitæ,çuiusdulcitepore,acleniiactaræ,& nęnijs,& dulciconcentu
tibiarum,somno& quietiindulgeretur, iamnihilpoterisexcogitaresuauius.
Leftuli non Ex quibus intelligitur, neque lectulorum ritum in
publicisextitisse: sed ho erấtin Therrumquoq;, vt Pensilium balnearum, priuataratio
effedebuit, maximèegris. mis. Vtensilia in Neque particulariumquorundam
vtensilium,quorum in balneis aliquando xandrinusPedagogij lib.3. cap.5. consueuiffe
nobilesante ferreadbalneasva sainnumerabilia, aurea,atqueargentea, quorum
hęcquidem adlauandum, illa ad vescendum, alia ad propinandum. Quin etiam
carbonum craticulas, Syndones. &cathedras. Syndonestergendosudoripræparatas,
maximèægris,memi-. nusfitpedesdenos, vtgradusinferiorindeauferat,&
puluinusduospedes. Labrainvr-Hactenus Vitruuius. Quare, vtarbitror, labraistalapidea,
quæmultavide bemarmo-muspervrbemmaxima, vicenos& ampliuspedeslongitudine, erantfortaf-40
s e i n priuatis balne s. Vel aliqua fort af f e in Thermis ad magnificentiam
potius operis, ac ornamentum, quàm advsum. Alioquia d publicum vsum nó
videolocum,nequeadeofuiffevidenturcapaciapopulo. Pofteàvitroquæ dam extructafuiffeconftat.
Pauimentorumautem, ac Lythoftrotorum, quibus alveos, atque ipsas cameras
adornabant, luxus erat inæstimabilis. Quod certe inuentum Agrippæ tefte Plinio
lib. 36. cap. 25. In Thermis, inquit, quas Romæ fecit Agrippa, figlinum opus encaustopinxit,
in reliquis albarioador Sufpenfabal nea, Thermis. mentio fit, quæ pueris
voquisque domino ad balneum ante ferebant. Ut de strigili, quo sudore in detergebant;meminit
Persius eocarmineIronico. Strigiles Ipuer,& Strigiles Crispiniadbalneadefer.
Inęgristamen prostrigilibus,quierantvelofsei,velferrei,velargentei,spon
giavtebantur,Galeno testex.Metho. Idgenuserat& Guttus,quodLe
cythumquoquelegitur, inquoferuabanturoleuni,velaliavnguenta præ 20 30 rea,
ciosa ad balneum. Hydriæ, pelues, alabastri, aliaqueid genusvasa, exau
Vasaaurea.ro,argento, ferro, velinterdum lapidibusquibusdam. Refert Clemens Ale
Labra, nit Galenusx. Methodi. Labraautem ex Vitruuio,& vestigijsipsorumal
ueorum videntur fuiffe extructa in cameris signino opere, atque albario: sic
enimlegiturlib.5.cap.1o. Labrumsubluminefaciendum videtur, nestan tes circumsuisvmbriso
bscurentlucem. Scholasautem labrorumitafieri oportetspaciosas, vtcùm
prioresoccupauerintloca, circumspectantes reli quirectèftare poffint. Aluei autem
latitude inter parieten & pluteumnemi nauit. O nauit. Non dubi èvitreas
facturus cameras, fipriusi dinuentum fuisset. Libro
autem3.cap.12.visasolimscribitBalineasgemmis,acargentostraras,vtnevitres ca
vestigio quidem locus esset. Argento fæminas lauari solitas, argenteis folijs,
meræge m Afiaticori sum missem perin delicijs fuisse apud omnes nationes oftenditur,
hanc par mirans, hydrias, pelues, vnguentorum odores, & alabastros, cunctaauromaditißimg
20 lita, ac miro ornamento instructa; ad socios conuersus, & quasi nimiunı
il DeritibusantiquisinThermisvrbis. Primis ergoThermarum,ac Palæstrarum
institutis,jam partium earum principalium distinctiones,necnon requisitaad
earum vsum magis necessaria tetigimus. De Ritibus verò in eis, atque ordine
publicaemolumentum, quoniam per hæc oblectamenta, assiduafiebatin gymnasijs frequentia,acvarijs,quasdiximuscorporisexercitationibus
af suefiebat iuuentusad armorum industriam,vnde faciliùs posset militiæ labo
res,quando hæc erantprimailliusfeculiftudia, sustinere. Hûc accesserat&
alia causa, quoniam qui tepidescere quodammodo ab honeftis conatibus
cepiffent,perhas delicias retrahebaturà vitijsanimi, sicqueocium, quod
eftomnium malorum fomes, tollebantur, feditionesarcebantur, & omnes populares
corruptelæ. Ex quibus triainter communes ritus videnturesse manifesta. Primùm si
vetustam illam verecundiam, ac Romanum decusrespicias, summam
inThermishonestatemfuisseferuatam. Simaiestatempopu li,omnia ineis fuisse magnifica
& splendida, velutidiximus, & quæ nolentes allicerent, atque etiam
traherent. Sid enique communem causam. Communem, ac liberum earum vnicuique fuiffe
usum. Erat autem hæc balnea- Thermecó. Rum condition communissima, vt singuli balneum
ingressuri Quadrantem solmunes. Uerent balneatori. Quod planèali quæpræclaræ declarant
authoritates: pri Quadrantis mùm M. Tullii pro Cælio, vbi quadrantariam vocat permutationem
balnea em concludam. Asiaticos durante suo imperio luxuofiflimos fuisse, acexeis
Thermalu A Fines, etvti &, probrisseruisse. Pauper fibiquisquevide
eandeinque materiam & cibis seexercentium,aclauationum,haudmirum est hæc instituta
semper maioré mis,acar litatesprin habuisseprogressum;siconsideremus non folùm
hincvitæ cip.iles Ther 30 seruare consueuiffe, fanitatem elegantiam eos, &
roburcorporis;sedquod maius eftinre ز gëtostratę. Baturacsordidus (scribit Seneca
ad Lucillum) nisiparietes balnearūmagnis, a c preciocis orbibus refulsissent.
Alexandrina marmor a Numidicis crustis distincta, operose vndique, &
picturæmodo variataçircunlitio, Vitroconditæ cameræ. Aquainper argenteaeffundebantepistomia,
& adhuc (inquit) ple beiasfiftulasloquor. Relinquocum
hisstatuasillicęternitatidestinatas, operatectoria,picturas, speculariorumlapidumluxus,
quiantècameras præbe bantlumina, & columnarn mingentium numerum, alia quetantioperisor
namentasinefine. Atque hocvnotantùm Plutarchiexemplo,quobalneas primùm ad Gręcos,
& exindeadRomanos huncmorem balnearumema nafse,apud veterum
historiarummonumenta clarum est. Cùm ergo Alexa der Magnusdeuicto Dariorerumtandem
Persię, ac imperijeius potitusesset, balneumque, vt sudorem pugnæ leuaret, ingrederetur;
aquarum ductusad-Darij Ther ludens luxum, Hoccine (inquit) imperare erat. Torifieri
solitam. Indicat & cocarmine Horatius, folutio. 1. Saty.3. Qq dum
xuofiffima. Nuditas in Redde pilam,sonatæs Thermarum,luderepergis? Verecundi
ase nudum quisque in balneas exhibere,& etiamin exercitationes. Cuiusreiinteraliafidem
faciuntstatuæ, præsertimvirotum,inqui bus videtur minuere potuisse corporis
gratiam, ac venustatem, si non pudenda etiam fimpliciterenudataessent.
Nonnullitameninterexercitationes,
autfuccinctafibulaprodiresolebant,autsubligaculis,quæ & subligariavo nihil
foluiffe videntur:teste Iuuenali Satir.2.d. Nec pueri credunt, nisiquinondum
ærelauantur. Quorum tamen priuatafieret lauatio, hora extraordinariaquæeratpoftde
cimā, ij pluri precio lauabant, quod indicate o carmine Martialis lib. 10.
Balneapostdecimanılafo, centumq; petuntur Quadrantes, &c. incommunitamen gaudio,
erataliquandohocmunus interalia Principum, ut gratis lavaretur. Antonini Pij exemplo,
quem balneum sinemercede prestitisse, meminitIul. Capitolinus. Sive ergo proveter
iinstituto, fiueproso Sub ligaculo cabant. AuthoreM.Tullio1.offi.Scenicorum
mostantamhabetveterisdi rumvfus. Sciplinæ verecundiam, vtin Scenasinesubligaculo
prodeat nemo. 40 Tecta tamen non hac,qua debes partelauaris..promi-Cæterùm cum haclicentiabalnei,videturdiuadmodum
perdurassemulie. Eal. Mulierum verecundiam,quænon
promiscuècumvirisintrarentinbalneas,nisi perabusum.Hinctotpriuatarum balnearumnumerus.Etquædam
viden uerecunda. Subligar. E.. dum tuquadrante lauatum 14.annum, Lauari.
Cædere Syluano porcum, & quadrantelauari. Pueri tamen antè Fibula. Bal
Rexibis,&c. Vituperanseum Principem, quivtvnusdemultisqua drāte lauaretur.
Idem Iuuen.authoritate confirmatur in 6.ybi mulieres quas damarguit impudentiæ,
quæ communiter cum viris auderent, inquit ips e,
lutamercede,hocmanifestumest,commune,acperpetuum fuissein Ther Locai Thermis
indultum,vtlocus inbalneo, cuicunque tam primati,quàm plebeio co mis commu
munis esset, atque indifferens. Ex quo intelligitur Tertulliani similitudo nia.
aduersusMarchionem, QUASI LOCVS IN BALNEIS: quiavidelicetnul li e x merito datur,
nectollitur locus in balneis, iam gratuito constitutis, & T intinnabu - ad
usum publicum. Erant autem tintinnabula in Thermis summo quo p i a m fasti gi
oposita, fære factitio conflata, quorum sonitu populum, sicut i h o d i e
adfacra; conuocari lauandihoraeratsolitum.Tintinnabuluminter Xenias exhibuit Martialis,
eo disticho. Virgine visfolalotusabire domum? Facitadeandem licentiam Suetonijauthoritas,
D. Titum Cæs. admissaple Secum plebebenonnunquamin Thermissuis lavisse. Et Aelij
Spartianialia, Hadrianum Cæs. tamprobatævitæ, publicè frequenterselauiconsueuiffecum
multis, verecundia etiam priuatis. Inuafiffe enim consuetudo videtur,ex
affiduis il lisexercitijs, inbalneis. vndefolutohabitu, acseminudiplerunquehominesdegebant,vtnonesset
Idem affirmatquodamloco Clemens Alexandrinus de athletis et martialis si pudor
est, transfer subl igar in faciem. 10 la. Reges lauif. invil. bres. uaret.d.
Dum ludit media populospectantepalæstra Delapsa est misero fibula verpus erat.
Et lib.3. Chionemnotat verecundiæ, quæmuliebriainbalneis contectala tur publicæ
fuisse muliebres, ut Agrippinæ Augustæ Neronis matris. Olym piadisitem balneæ in
Suburra. EtquastransTyberim, quasiextràconspe čtum hominum habuisse Ampelidem,&
Priscilianam ex P.Victorerecensui mus. Conqueritur hac de caussa insuis Amatorijs
Propertiusnon eam esse tum Romanis virginibusin balneis libertatem, quibuscum
more Spartano publice liceretcertare, & lauari, hisversibus. Sed magè virgine
itot bona gymnasij. Quòd noninfamesexercetcorporelaudes cepsbeneinstitutę Reip.lapsus)
totossingulisdiebuslauaricepisse.Invniuer 20sum, qui cunquein exercitijsfuis, autlaboribusdefatigatieffent,vixfanam
vitam putassent, nisibalneasstatimintrarent, vbisudoré,fordespulueremq;
detergerent,acintotum semolliaquarumfoturecrearent. Quoplanèfit, ve Septiesquos
dam lauari. mirumessenondebeat, nequeluxuiadscribendum,quodquidamsepties eadem
dietum lauari consueu erint, quod Plinius in primis refert. Ac posteri scriprores
Commodum Cęf. et Gordianum idasseruntfactitasse. Sicenim intelle
xêrequotienscunqueexercerentur,laffitudinisacrefrictionisvitarepericula,
obstructionestollere,cutis afperitateinlenire, faciei,manuum,ac vniuersi
corporis decorem conciliare. Erant tamen lauandi horæ constitutæ. Scribit
Lauandiho I ul. Capitolinus antem Alexandri Severi tempora numquam Therinasantèau
30 roram apertas fuisse, & semper antè solis occasum claudi consueuiffe.
Communiterv erò lauandihora erat a meridie ad vesperum, quando, inquit Vitruvius,
maxime calidæ auræ a spirare incipiunt. Cuiomnesaliæ authoritates consentiunt.
Hadrianus Cęs. (inquit Aelius Spartianus) ante horam octauam inpublico neminem,
nisiçgrum, lauaripassus est: quod erat duashoras poftmeridiem.Vbi operæ præciumest
Horarum apudantiquosHorologiri rationemhabere,quidiemartificialem
quolibetannitemporedistinguebanttusapudan horisduodecim, &no&tenipervigilias.
Horæergoerantinęquales, maiorestiquos. estate, quialongiorestuncdies; minoreshieme,
& proportionecæteristem poribus.Haud tamen intelligendumest cosà
prandiovsosbalneis fuise: Prădijetcę Nam communiter vir Romanus impransus, autientaculo
tantùm primoma-navfus. nerefectus,bonam dieipartemimpendissetnegocijs:mox
àmeridie,àsexta nimirùm ad decimam horam,exercitijs & balneo;à balneo autem,circa
vi gesimamscilicet& secundamhoram,cenabatopiparè.Quam dieiatqueho rarum
partitionemconquisitèin eo Martialis epigrammate comprehensam habemus.
Primasalutantes, atquealteracontinethora, Exercet raucos tertiacausidicos.
Martialis ma 10 CO, Multa tuæ Spartemiramur iura Palæstræ, Inter
luctantes n uda puella viros. Refert Plutarc husinterlaudabiles Catonisillius
Cenforij mores,hocsum- verecundiă ma:laudiilicefliffe,
quodcùmfilionunquàmlauisset. Imò Val. Max. fcribitinterafines. Deinstitutis antiquis,
necpatercum filiopubere, necsočercum generis lauabatur. Quia interista fancta Vincula,
non magis quàm in aliquo sacra tolo nudaresenefasessecredebatur. Sed transeamusiamadeosritus,
qui com inunivsuretinebanturin Thermis. Perinitia institutihuius, narratSenecaad
Lucillum consueuifseveteresquotidiebrachia,& cruralauare, totosnundi
nisfolùm. Cæterùm poft Magni Pompei ętatē (cuiusmemoria notatur præ ra. Qa ij
Ad quintam variosextendit Roma labores, Sexta quieslafis,septimafiniserit.
Sufficitinnonam nitidisoctaua palæstris, Imperat extructos frangerenonatoros.
Hora libellorum decimaest Euphememeorum, Temperatambrosias cùm tuacuradapes.
Octavam verò dieihoram fuisselauationibus propriam,tùm publica,tùm pri M.
Tullius, uata testantur exempla. M. Tullius scribit ad Atticum de Cesare:
Ambulavit inquitinlittore,pofthoram octauamin balneum, vnctusest,
accubuit,edit, bibitq;opiparè. Horam & distinctionem temporum
aliquamadnotamusex Galenus, Galeno v.deSa.tuen.d. Antoninus Imp. cognomento
Pius, ad curam corporis promptifsimus, subbrumabreuibus, f.diebus, sole
Occidente in palestram ingressus, sub indeole operun & tus lauarierat solitus:
in Solstitio autemhora Thermehie-nona, autfummumdecima. Porrò quod legitur apud
aliquos authores,Ther males, eteftimasaliquasfuise Hiemales,
aliquasAestiuas;hæcnoneratcommunisom niumdistinctio,sedquarundam
àcertocoelisitu dispositio. QualesHiema lesfecissetraditVopiscusAurelianum Cæs.in
Transtyberina regione; nimi rum ad meridiem expositæ,apertè solis fouebantur
aspectu, itaq; ad hie males exercitationes aptissimæ. A e quaratione A estivas
in Gordiano Iunior e meminitIul. Capitolinus, quæ in opaco fit uinter montem
Celium & Esqui Bal.vfuspe-lias,gratas estate exercitationibus præftabant
vmbras. Alioquî penes anni nesannitem tempora, vix vllaeratlauandidistinctio, sedbenèpersonarum.
Nam qui cun que lavabantura d exercitium, in differentert am hiem e, quam
estate lauissent, quando cunquescilicetexercerentur.Sanitatisverò&
mundicieicauf sa:quandocunque opusfuisset,velad priuatamcuique consuetudinem,
vt de Telep o Grammaticom e m i n i t Galen. v. de San. t u. qui lauari
consueverat hieme bis mense, estate quater,medijs verò temporibus ter. Et de
Primigene quodam philosopho, quiquadienonlauisset, febricitabatomnino. Adde
liciasautemac voluptates,velme tacente, priuataquoqueratio essedebuit, 30 &
citràvllamaut regulam, autmensuram. Vnde Meridianælauaționes le Lychniinguntur,
atqueetiam antemeridianę,& vespertinæ. Necnon Medicine introductio.
xi,trimixi,polymixi, idest angulorum & luminum,vnius, duorum,trium,
plurium, Devrilitatibus Balnearum esquandoprimum Dalnceinvfum Medicinavenêre.
seruatur;nonaliam legimusfuiffeRome Medicinamsexcentisannis, quàm balnea. Quod
teftatur Pliniuslib. 29.cap.1. Receptos primùm è Græcia Medicos L.Aemilio,
M.Licinio Coff.vxxxv.VrbisRomæ anno. Quádoqui dempetrarierant, nisiquiob
cæliinclementiam crassarenturmorbi.Nam quæ exmalovitæregimine, acextermis
causiseuenirep.
Andrea Baccius. Andrea Bacci. Keywords: i bagni dei romani, De thermis –
thermal baths – philosophy of thermal baths – implicatura ginnastica – le xii
pietro pretiose – storia naturale del vino, bacco – terme romane – il vino e la
filosofia, bacco ed Apollo, le xii pietre pretiose per ordine di dio I sardio
II topatio III smeraldo IV barconchio IV saphhiro VI diaspro VII lingurio VIII
agata IX amethisto X berillo XI chrisolito XII onice – tevere, le tibre au
louvre, i vini. Thermopolium romanum – illustrazione – incisione terme romanae
– natatio – piscina – ginnasio, mercurial, arte ginnastica. -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Bacci” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Badaloni – colloquenza – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Livorno). Filosofo Italiano. Grice: “I like
Badaloni; he never took the ROMAN story of philosophy – I say story since
history, as every Italian knows, is too pretentious! – seriously until he had
to teach it! “Storia del pensiero filosofico – l’antichita’ is my favourite –
because he does his best to understand Plato’s pragmatics of dialogue as
misunderstood by Cicero!” -- Nicola
Badaloni, Sindaco di Livorno Durata mandato19541966 PredecessoreFurio Diaz
SuccessoreDino Raugi Nicola Badaloni (detto Marco) (Livorno). filosofo. Di
spiccate convinzioni marxiste, è stato uno studioso di Giordano Bruno, Tommaso
Campanella, Giambattista Vico, Karl Marx, Antonio Gramsci. All'attività di ricerca e di docenza presso
l'Pisa, dove è stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia e ha occupato
dal 1966 e per molti lustri la cattedra di Storia della filosofia, Badaloni ha
affiancato un'imponente attività politica nelle file del movimento operaio,
ricoprendo per molti anni la carica di sindaco di Livorno (dal 1954 al 1966),
di presidente dell'Istituto Gramsci, nonché di membro del Comitato centrale del
PCI. I suoi contributi storiografici, salutati fin dall'esordio
dall'apprezzamento di Benedetto Croce hanno messo in luce autori considerati
minori e pensatori inattuali (Niccolò Franco, Gerolamo Fracastoro, Giovanni
Battista Della Porta, Herbert di Cherbury, Antonio Conti) rinnovando
radicalmente, attraverso una collocazione nel contesto storico, grandi figure
viste dalla storiografia idealistica precedente come immerse in una «solitudine
metastorica». Storicismo e filosofia Nella
presentazione dell'ultima pubblicazione di Badaloni nel 2005, Remo Bodei ha
sostenuto che il marxismo, lontano da ogni vulgata, conserva, per lo storico
della filosofia toscano, la sua capacità di strumento di comprensione del
mondo, di erogatore di energie di cambiamento, di guida per lo sviluppo di una
prassi razionale, ancora validi dopo le esperienze del cosiddetto
"socialismo realizzato". Badaloni ha incessantemente ricercato un
legame, nella storia, tra pensiero e azione sociale e sviluppato uno storicismo
di impronta marxista che raccordasse autori lontani nel tempo (come Giordano
Bruno, Gian Battista Vico, Antonio Labriola), ma accomunati dalla tensione al
rinnovamento e alla trasformazione progressiva degli assetti sociali in una
data situazione storica determinata. Così come c'è alterità profonda, ma non
rottura senza legame, tra Hegel e Marx e similmente tra Croce e Gramsci. Altre opere: “Retorica e storicità in Vico”
-- “Inquietudini e fermenti di libertà nel Rinascimento italiano” (ETS, Pisa);
“Appunti intorno alla fama del Bruno”; “Introduzione a Giambattista Vico,
Feltrinelli); “Marxismo come storicismo, Feltrinelli); “Tommaso Campanella”
(Feltrinelli, 'Istituto Poligrafico dello Stato); “Conti. Un abate libero
pensatore tra Newton e Voltaire” (Feltrinelli); “Il marxismo italiano degli
anni Sessanta” (Editori Riuniti); “Labriola politico e filosofo, sta in Critica
marxista, Roma); “Per il comunismo. Questioni di teoria, Einaudi); “Fermenti di
vita intellettuale a Napoli dal 1500 alla metà del 600, sta in Storia di Napoli, Società Editrice Storia di
Napoli); “Cultura e vita civile tra Riforma e Controriforma” (Laterza); “La
storia della cultura, sta in Storia d'Italia, III -(Dal primo Settecento
all'Unità), Einaudi); “Il marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione
politica, Einaudi); “Libertà individuale e uomo collettivo in Gramsci, in
Politica e storia in Gramsci, F. Ferri,
1, Roma, Editori Riuniti-Istituto Gramsci); “Labriola, Croce e Gentile”
(Laterza); “Dialettica del capitale, Editori Riuniti); “Gramsci: la filosofia
della prassi, sta in Antonio Gramsci. La filosofia della prassi come
previsione, in Hobsbawm, E. H., Storia del marxismo” (Torino, Einaudi); “Teoria
della società e dell'economia in A. Labriola, I e II, in Dimensioni”; Forme
della politica e teorie del cambiamento. Scritti e polemiche” (ETS); Movimento
operaio e lotta politica a Livorno”; “Democratici e socialisti in Livorno”
(Nuova Fortezza); “Filosofia della praxis, sta in Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo,
Editrice l'Unità); “Labriola nella cultura europea dell'Ottocento, Lacaita); “Il
problema dell'immanenza nella filosofia politica di Antonio Gramsci, Quaderni
della Fondazione Istituto Gramsci Veneto, Venezia, Arsenale); “Giordano Bruno.
Tra cosmologia ed etica, De Donato); “Laici credenti all'alba del moderno. La
linea Herbert-Vico, Le Monnier-Mondadori); “Inquietudini e fermenti di libertà
nel Rinascimento italiano, Edizioni ETS, Pisa, Nicola Badaloni è inoltre
coautore di due importanti manuali:
Storia della pedagogia, (Laterza); “Il pensiero filosofico. Storia.
Testi. Per le Scuole superiori” (Signorelli Editore). Notizia della morte sul
settimanale Macchianera, su macchianera. Giuliano Campioni, Addio a Nicola Badaloni,
uomo politico e maestro di filosofia, Athenet, Sistema bibliotecario di ateneo,
Pisa. La lezione di Nicola Badaloni di Giuliano Campioni, professore del
Dipartimento di Filosofia dell'Pisa, 20 gennaio,, in Pisanotizie. Nicola
Badaloni, in TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Predecessore Sindaco di
LivornoSuccessoreLivorno-Stemma.svg Furio Diazdal 1954 al 1966Dino Raugi90637957
Filosofia Politica Politica Categorie:
Politici italiani del XX secoloPolitici italiani del XXI secoloFilosofi
italiani del XX secoloFilosofi. Nicola Badaloni. Keywords: colloquenza, la
retorica di Vico. La storia di Vico, storia e storicita, campanella, lingua
utopica. Bruno, Campanella, Gentile, Croce, Labriola, Gramsci. badaloni — implicatura vichiana — libero — biologia
filosofica telesio — vallisneri — lingua
utopica di campanella — “retorica e storicità” — laico — bruno — comune —
comunismo — marchetti — vignoli —Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Badaloni” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Baglietto –
dialettica – filosofia italiana – filosofia ligure – Luigi Speranza (Varazze). Filosofo
italiano. Grice: “I like Baglietto; unlike me, he was a consceinious objector,
but then we were fighting on different camps! I love the fact that his first
tract is on ‘il problema del linguaggio’ in Mazzoni – but then he turned from
‘la bella lingua’ to Dutch! And specialized in Kant, but most notably Heidegger
– ‘mitsein und sprache.’ But he also wrote on ‘eros’ and ‘love,’ – which is
very Platonic of him! And of me, since the ground for my theory of conversation
is on the balance between what I call a principle of conversational self-LOVE
(or egoism, if you mustn’t) and a corresponding principle of conversational
OTHER-love (or altruism, if you must, since I prefer tu-ism – ‘thou-ism’).” Claudio
Baglietto (Varazze), filosofo. Di
origini modeste, dopo gli studi liceali presso il Liceo "Chiabrera"di
Savona, studiò Filosofia all'Pisa e si perfezionò presso la Scuola Normale
Superiore di Pisa, allora diretta da Giovanni Gentile. Baglietto fu assistente
del filosofo Armando Carlini. Negli anni pisani sviluppò idee di riforma
religiosa e morale, in contrapposizione al Cattolicesimo e al Fascismo. Insieme
ad Aldo Capitini, Baglietto organizzava riunioni serali in una camera della
Normale, cui partecipavano giovani studenti, divenuti in seguito affermati
intellettuali, come Walter Binni, Giuseppe Dessì, Carlo Ragghianti, Claudio
Varese. Così Capitini ricordava l'amico
nel suo saggio Antifascismo tra i giovani (Trapani, 1966): "era una mente
limpida e forte, un carattere disciplinato, uno studioso di prima qualità, una
coscienza sobria, pronta ad impegnarsi, con una forza razionale rara, con
un'evidentissima sanità spirituale. Cominciai a scambiare con lui idee di
riforma religiosa, egli era già staccato dal cattolicesimo, né era fascista. Su
due punti convenivamo facilmente perché ci eravamo diretti ad essi già in un
lavoro personale da anni: un teismo razionale di tipo spiccatamente etico e
kantiano; il metodo Gandhiano della noncollaborazione col male. Si aggiungeva,
strettamente conseguente, la posizione di antifascismo, che Baglietto venne
concretando meglio. Non tenemmo per noi queste idee, le scrivemmo facendo
circolare i dattiloscritti, cominciando quell'uso di diffondere pagine
dattilografate con idee di etica di politica, che continuò per tutto il periodo
clandestino, spesso unendo elenchi di libri da leggere, che fossero accessibili
e implicitamente antifascisti. Invitammo gli amici più vicini a conversazioni
periodiche in una camera della stessa Normale [...]". Ottenuta nel 1932 una borsa per perfezionarsi
presso l'Friburgo in Germania, dove allora insegnava Heidegger, in coerenza con
i suoi ideali di nonviolenza incompatibili col Fascismo, Baglietto decise di
non rientrare più in Italia e rinunciò alla borsa, cosa che scandalizza Gentile
(che aveva garantito per lui presso le autorità per il visto). Anche Delio
Cantimori criticò animatamente la scelta di Baglietto, in particolare nel suo
carteggio con Aldo Capitini e con Claudio Varese, accusando i colleghi
normalisti dissidenti dal Fascismo di mancanza di senso di realismo politico,
nonché di senso dello Stato (fu poi lo stesso Cantimori ad avvisare Gentile della
morte di Baglietto). Lasciata Friburgo,
Baglietto si trasfere quindi a Basilea, dove visse da esule, proseguendo gli studi
e dando lezioni private. Morì nel 1940:
è sepolto nel cimitero di Basilea. Il
cammino della filosofia tedesca dell'Ottocento, “Annali della Scuola Normale di
Pisa”, Scritti religiosi. Antifascismo tra i giovani, Celebres, Trapani); "Kant
e l'antifascismo", in Claudio Fontanari e Maria Chiara Pievatolo,
Bollettino italiano di filosofia politica, Pisa, Ospitato su
archiviomarini.sp.unipi. (Saggio inedito di Baglietto, composto a Basilea e da
anni depositato nell'Archivio Marini dell'Pisa) Note. A. Capitini,
L'antifascismo tra i giovani, Celebres, Trapani); Chiantera Stutte, Delio
Cantimori. Un intellettuale del Novecento, Carocci, Roma, che rinvia
soprattutto a Simoncelli, La Normale di Pisa. Tensioni e consenso; Franco
Angeli, Milano); Scritto pubblicato postumo Aldo Capitini. Aldo Capitini Mahatma Gandhi Nonviolenza Claudio Baglietto e la questione morale -- "Phenomology Lab", 2 giugno,.
Claudio Baglietto, Kant e l'antifascismo di Claudio Fontanari, nel sito "Archivio
Marini". Filosofia Università
Università Filosofo Professore1908 1940 Varazze Basilea Nonviolenza Antifascisti
italiani Studenti dell'Pisa. Claudio Baglietto. Keywords. dialettica,
filosofia ligure, baglietto — il kantismo di heidegger — manzoni — filosofia
dell’amore — dialettica —
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baglietto” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Balbillo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Tiberio
Claudio Balbillo. A man of learning, he was much admired by Seneca. He was the
personal philosopher of Nero and wrote a long book on astrology.
Grice
e Balbo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Lucio Lucilio Balbo. L.
Lucilio Balbo, scolaro di Q. Mucio Scevola Pontefice, e soprattutto un
giurista. I shall say but little of
some other Balbus's, mentioned by ancient Authors. Lucius Lucilius Balbus, disciple of Mucius
Scavola, and preceptor of Servius Sulpitius, was an excellent Lawyer. Cicero says, that Servius Sulpitius did
exceed his master, who, by the addition of a mature judgment to his learning,
was fomething slow, whereas his disciple was quick and expeditious. Balbus's writings are lost, to which perhaps
his disciple Servius Sulpitius did not a little contribute, by inserting most
of them in his own.
Grice
e Balbo – Roma – filosofa italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Lucio Cornelio Balbo. Member of the Porch. Consul. Friend of Cicero,
who successfully defended him in a legal action. Comments made by Cicero
suggest he was a member of the Garden.
Grice
e Balbo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Lucilio
Balbo. Q. Lucilio Balbo è chiamato stoico da Cicerone, che nel "De natura
Deorum," gli assegna l’esposizione delle dottrine teologiche stoiche. Ivi Q. Lucilio Balbo dichiara di avere
familiarità con Posidonio. Antioco
d'Ascalona dedica a Q. Lucilio Balco un’opera.
Secondo Cicerone, L. Lucilio Balbo e pari ai più insigni stoici. Quintus Lucilius Balbus (fl. 100 BC) was a
Stoic philosopher and a pupil of Panaetius.
Balbus appeared to Cicero as comparable to the best Greek philosophers. He
is introduced by Cicero in his dialogue On the Nature of the Gods as the
expositor of the opinions of the Stoics on that subject, and his arguments are
represented as of considerable weight.[2] His name appears in the extant
fragments of Cicero's Hortensius, but it is no longer thought that Balbus was a
speaker in the dialogue. Cicero, De Natura Deorum, i. 6. Cicero, De Natura Deorum, iii. 40, De
Divinatione, i. 5. Griffin, Miriam (1997).
"Composition of the Academica". In Inwood, Brad; Mansfield, Jaap
(eds.). Assent and Argument: Studies in Cicero's Academic Books. Brill. This
article incorporates text from a publication now in the public domain: Smith,
William, ed. (1870). "Balbus, Q. Lucilius". Dictionary of Greek and
Roman Biography and Mythology. This ancient Roman biographical article is a
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This biography of a philosopher from Ancient Greece is a stub. You can
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Categories: 1st-century BC philosophersPhilosophers of Roman
ItalyRoman-era Stoic philosophersLuciliiAncient Roman people stubsGreek
philosopher stubsAncient Greek people stubs GRICE E BALBO We must not, as Glandorpius has
done, confound this Balbus with *Quintus* Lucilius BALBUS, the philosopher, and
one of Cicero's interlocutors in the books de Natura Deor. A member of the
Portch. Cicero uses him as a spokesmn for the Porch in De natura deorum.
Grice e Baldini – il
linguaggio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Greve).
Filosofo Italiano. Grice: “I like Baldini, but more so does Austin! In his
collection of ‘lessons’ (lezioni) on ‘filosofia del linguaggio’ (not just
‘sematnica’ or ‘semiotica’) for the distinguished Firenze-based publisher
Nardini, he deals with Austin, but not me!” Grice: “Baldini fails to realise
that I refuted Austdin – when Baldini opposes ‘filosofese,’ I am reminded of my
non-conventional non-conversational implicata – and Austin’s less happy idea of
a felicity condition for a perlocutionary effect!” Grice: “But what I like
about Baldini is that being Italian, he refers to ‘amore’ in his ‘natural’
history of AMicizia – which is all that my conversational pragmatics is about:
Achilles and Ayax must share a lot of common ground to be able to play the game
of conversation, and they do!” -- Massimo Baldini (Greve in Chianti), filosofo.
Si è dedicato in particolare alla filosofia della scienza e alla filosofia del
linguaggio. Figlio dello storico Carlo Baldini, laureato in Pedagogia presso
l'Università degli Studi di Firenze nel 1969, nel 1970 è stato nominato
assistente incaricato di Filosofia; l'insegnamento era tenuto da Dario
Antiseri) presso la Facoltà di Magistero dell'Università degli Studi di Siena.
Nel 1975 è diventato professore incaricato di “Storia del pensiero scientifico”
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di
Perugia. Nel 1980 ha vinto il concorso di professore di prima fascia di
“Filosofia del linguaggio” ed è stato chiamato dall'Bari alla Facoltà di
Lettere e Filosofia. Ha insegnato anche presso l'Università degli Studi di Roma
“La Sapienza” nella Facoltà di Medicina. È stato direttore del Dipartimento di
Filosofia e dell'Istituto di Filosofia presso la Facoltà di Scienze della
formazione all'Università degli Studi di Perugia e direttore della sezione di
Storia della medicina del Dipartimento di Patologia presso l'Università degli
Studi di Roma “La Sapienza”. Nel 1999 è stato chiamato dalla Libera
università internazionale degli studi sociali Guido Carli di Roma per coprire
la cattedra di "Semiotica". Qui ha insegnato anche “Teoria e tecniche
del linguaggio giornalistico e radiotelevisivo”, “Semiotica dei linguaggi
specialistici”. Presso la LUISS ha inoltre rivestito numerosi incarichi
accademici: preside della Facoltà di Scienze Politiche (da giugno 2007);
coordinatore del corso di laurea magistrale in “Comunicazione politica,
economica e istituzionale”, direttore della Scuola superiore di giornalismo, e
direttore del Master di primo livello in “Economia, gestione e marketing dei turismi
e dei beni culturali” (dal 2004). In precedenza, è stato vice preside della
Facoltà di Scienze Politiche, direttore del Dipartimento di Scienze storiche e
socio-politiche, direttore del Centro di ricerche sulla comunicazione. Tre sono
stati gli ambiti di ricerca che più di altri Massimo Baldini ha coltivato: la
filosofia della scienza (con una particolare attenzione al pensiero
dell'epistemologo Karl R. Popper, di cui ha curato anche alcune opere in
edizione italiana), la filosofia del linguaggio, la semiotica della moda. A
partire dagli anni Settanta, Massimo Baldini ha dedicato numerosi lavori
all'epistemologia contemporanea, cogliendone le possibili applicazioni alla
medicina, alla storia della scienza, alla pedagogia e, infine, alla filosofia politica.
Parallelamente, ha rivolto i suoi interessi anche alla storia della scienza e,
in particolare, alla storia della medicina. Un'attenzione particolare è stata
dedicata ai nessi che intercorrono tra l'epistemologia e la filosofia della
politica: sulla scorta delle riflessioni popperiane, ha riletto il pensiero
utopico sia nella sua dimensione storica che in quella teorica. L'altro
grande interesse filosofico di Massimo Baldini è stata la filosofia del
linguaggio. In particolare ha studiato le tesi dei semanticisti generali, un
movimento nato negli Stati Uniti tra le due guerre mondiali e di cui si era
occupato per primo in Italia negli anni Cinquanta Francesco Barone. L'interesse
per la filosofia del linguaggio si è declinato anche in chiave storica: e alla
storia della comunicazione Massimo Baldini ha dedicato numerose opere. Inoltre,
gli studi sulla filosofia del linguaggio si sono incentrati sull'analisi di
alcuni linguaggi specialistici: quello della pubblicità, quello dei mistici,
quello della pubblica amministrazione, quello dei giornalisti, nonché il tema
correlato del silenzio. Tutti questi linguaggi, sono stati studiati nelle
prospettive dell'oscurità e della chiarezza, e dell'oggettività (soprattutto
con riferimento al contesto dell'informazione). La biblioteca
comunale "Carlo e Massimo Baldini" di Greve in Chianti A partire
dalla fine degli anni Novanta, infine, gli interessi di Massimo Baldini si sono
incentrati sul tema della moda, che egli ha studiato dal punto di vista storico
e semiotico, e nelle diverse componenti della moda vestimentaria e della moda
capelli. Tutta l'attività di ricerca di Massimo Baldini è confluita in numerose
opere individuali e collettive, curatele, introduzioni e prefazioni a testi
italiani e stranieri, traduzioni, nonché nella collaborazione stabile con
alcune case editrici e riviste scientifiche. In particolare, presso l'editore
Armando (Roma) ha diretto le collane Temi del nostro tempo, I maestri del
liberalismo, Moda e mode, I linguaggi della comunicazione; presso l'editore
Rubbettino (Soveria Mannelli) la collana Biblioteca austriaca (con Dario
Antiseri, Lorenzo Infantino e Sergio Ricossa). Menzione a parte merita
poi il ricordare che Baldini è stato ed è rimasto nel corso dei decenni un
grande estimatore e diffusore dell'opera del concittadino grevigiano Domenico
Giuliotti, il "poeta-mistico" o "profeta" Giuliotti,
del quale il nostro ha riedito alcune delle sue maggiori opere per lo più per
conto delle edizioni Logos di Roma, oltre a dedicare al medesimo alcune
raccolte di saggi come "Il più santo dei ribelli. Scritti su Domenico
Giuliotti" oppure "Giuliotti. Cristiano controcorrente" (ed.
EMP, 1996), senza contare i volumetti preparati per conto della preziosa casa
editrice La Locusta di Vicenza, a partire dal 1977, in consonanza agli
interessi espressisi e sviluppatisi soprattutto a partire dagli anni ottanta,
quelli che afferivano ai connotati e alle 'modalità' del linguaggio dei
mistici, o alle relazioni intercorrenti fra le dimensioni del silenzio-parola-Parola
di Dio-ascolto. È stato altresì membro del Comitato Nazionale per la
Bioetica; membro del comitato scientifico delle riviste L'Arco di Giano, 'Nuova
civiltà delle macchine, Desk. Morì a causa di un infarto mentre si
trovava a cena con alcuni colleghi universitari. Nel per la casa editrice Rubbettino è uscito il
libro La responsabilità del filosofo. Studi in onore di Massimo Baldini Dario
Antiseri con saggi di amici, colleghi, collaboratori e studenti per ricordare
la figura intellettuale e morale di Massimo Baldini a quattro anni dalla
scomparsa. Partecipano all'antologia Tullio De Mauro e Derrick de Kerckhove. Il
primo maggio è stata inaugurata a Greve
in Chianti la Biblioteca comunale "Carlo e Massimo Baldini".
Sulla filosofia del linguaggio «È chiaro che devo preoccuparmi di essere inteso
da tutti perché penso che la chiarezza sia la cortesia del filosofo»
(José Ortega y Gasset, Cos'è la filosofia?) Secondo Baldini scopo del filosofo
e della sua filosofia è essere chiari: scrisse infatti «l'accusa che più
frequentemente viene rivolta alle opere dei filosofi è quella
dell'illegibilità». I filosofi come dimostra nel suo Contro il filosofese e nel
Elogio dell'oscurità e della chiarezza non seguono sempre questa missione ed in
alcuni casi sembra usino volutamente un linguaggio oscuro ed incomprensibile.
Tre dei filosofi più oscuri secondo Baldini, che ricalca in questo anche il
giudizio di Schopenhauer, sono stati Fichte, Hegel e Schelling. Parlando di
Hegel, Baldini riporta il giudizio di uno scritto di Alexandre Koyré che
definisce la lingua di Hegel "incomprensibile e intraducibile".
Citando inoltre il giudizio di Popper scrive: «Troppo spesso, secondo Popper, i
filosofi vengono meno alla virtù della chiarezza. Con l'oscurità sovente
mascherano le tautologie e le banalità che infiorettano i loro discorsi». Henri
Bergson cita l'esempio di Cartesio, di Nicolas Malebranche e di molti altri
filosofi francesi mostrando che idee molto raffinate e profonde possono essere
espresse nel linguaggio ordinario anziché con circonlocuzioni e ridondanze e
termini che sono causa di equivoci. Baldini afferma che «l'oscurità in
filosofia è, dunque, il modo migliore per fingere di spacciare pensieri, mentre
si sta solo spacciando parole, è una maschera che cela spesso il vuoto di
pensiero o la banalità dei pensieri». Nonostante tutto secondo Baldini, non
bisogna giudicare frettolosamente un filosofo, definendolo "oscuro",
a volte può essere una carenza della nostra conoscenza che ci porta a
respingere come vuoto suono, parole che invece, hanno il loro preciso
significato. Scrivere la filosofia in maniera chiara può avere le sue
difficoltà, Nietzsche infatti afferma che «ci vuole meno tempo ad imparare a
scrivere nobilmente che chiaramente» e Ludwig Wittgenstein che celebra a più
riprese la chiarezza, fa autocritica ammettendo in una sua lettera a Russell
che il suo Tractatus logico-philosophicus «è tremendamente oscuro». Quanti
celebrano la chiarezza in filosofia, sanno bene che ogni lettore di testi
filosofici deve fare proprio il consiglio che Wittgenstein dava a Bertrand
Russell, quando questi si lamentava con lui dell'oscurità del trattato, gli
scrisse: «Non credere che tutto ciò in cui tu sei capace di capire consista di
stupidaggini». Invece, un personaggio che volutamente, secondo Baldini, tendeva
a non farsi capire e a sopraffare linguisticamente («fra gli applausi di
ammirazione») i suoi ascoltatori, è stato Armando Verdiglione. Chi si
avventurava nelle sue opere, fa rilevare il filosofo, si imbatteva in frasi
tipo questa: «Sono tratto da un demone a dire, a fare, a scrivere sempre fra
oriente e occidente e fra nord e sud. Senza luogo della parola. Questo demone è
il colore del punto, dello specchio, dello sguardo, della voce: la moneta
stessa. Punto, sembiante, oggetto scientifico, è indotto dalla pulsione,
dall'instaurazione della domanda, dove l'offerta è il pleonasmo», ed ancora:
«Ecco questo primo rinascimento. Primo in quanto procede dal secondo, ovvero
dall'originario. Secondo dunque non in senso ordinale, non in nome del nome.
Non è neppure nuovo, perché non parte dalla corruzione per arrivare
all'utopia». "Oscuro superlinguaggio" e "gargarismi linguistici
e semantici" sono secondo Baldini il risultato della
"verdiglionite" ovvero di chi si muove "sui sentieri del
filosofese". Secondo Baldini quindi la difficoltà di esprimere alcuni
profondi pensieri filosofici non dovrebbe essere amplificata, è vero che ci
sono pensieri filosofici difficili da esprimere in modo semplice, ma è pur vero
che il filosofo che desidera trasmettere la propria filosofia, dovrebbe fare un
onesto sforzo affinché essa sia quanto più possibile comprensibile al proprio
uditorio. Note Sociologi: è morto
Massimo Baldini, semiologo e filosofo, Adnkronos, 11 dicembre 2008 Contro il filosofeseI filosofi e l'abuso
delle parolepag. 43-49 Contro il
filosofeseFichte, Schelling, ed Hegel: i professionisti dell'oscuritàpag.
50-56 Alexandre Koyré, Note sulla lingua
e la terminologia hegeliana, Interpretazioni hegeliane, La Nuova Italia,
Firenze 1980, pag.43 Bertrand Russel.
L'autobiografia Longanesi, Milano Armando Verdiglione, Manifesto del secondo
rinascimento, Rizzoli, Milano 198323. Altre opere: “Epistemologia e storia
della scienza” (Ed. Città di vita, Firenze); “Campanella ed il linguaggio dell’utopia”
– “Utopia e ideologia: una rilettura epistemologica” Ed. Studium, Roma); “Epistemologia
contemporanea e clinica medica” (Ed. Città di vita, Firenze); “Teoria e storia
della scienza” (Armando Editore, Roma); “I fondamenti epistemologici
dell'educazione scientifica” (Armando Editore, Roma); “La semantica generale”
(Ed. Città nuova, Roma); “Gli scienziati ipocriti sinceri: metodologia e storia
della scienza” (Armando Editore, Roma); “La tirannia e il potere delle parole: saggi
sulla semantica generale” (Armando Editore, Roma); “Congetture
sull'epistemologia e sulla storia della scienza” (Armando Editore, Roma); “Epistemologia
e pedagogia dell'errore” (Ed. La Scuola, Brescia); “Il linguaggio dei mistici”
(Ed.Queriniana, Brescia); “Il linguaggio della pubblicità” “La fantaparola”
(Armando Editore, Roma); “Educare all'ascolto, Ed. La Scuola, Brescia); “Parlar
chiaro, parlar oscuro” (Ed. Laterza, Roma Bari); “Lezioni di filosofia del
linguaggio” (Ed. Nardini, Firenze); “Antologia filosofica, Ed. La Scuola, Brescia);
“Contro il filosofese” (Ed. Laterza, Roma-Bari); “Storia della comunicazione,
Newton & Compton, Roma); “La storia delle utopie, Armando Editore, Roma);
“Il proverbi italiano” (Newton & Compton editori s.r.l., Milano); “Karl
Popper e Sherlock Holmes: l'epistemologo, il detective, il medico, lo storico e
lo scienziato” (Armando Editore, Roma); “La medicina: gli uomini e le teorie,
Ed. CLUEB, Bologna); “Il liberalismo, Dio e il mercato” (Armando Editore,
Roma); “L’amicizia” (Armando Editore, Roma); “Introduzione a Karl R. Popper,
Armando Editore, Roma); “Capelli: moda, seduzione, simbologia” (Ed. Peliti,
Roma); “Popper e Benetton: epistemologia per gli imprenditori e gli economisti”
(Armando Editore, Roma); “Elogio dell'oscurità e della chiarezza, LUISS
University Press e Armando Editore, Roma); “Elogio del silenzio e della parola:
i filosofi, i mistici, i poeti, Rubettino Editore, Soveria Mannelli); “I
filosofi, le bionde e le rosse, Armando Editore, Roma); “L'invenzione della
moda: le teorie, gli stilisti, la storia. Armando Editore, Roma); “L'arte della
coiffure: i parrucchieri, la moda e i pittori, Armando Editore, Roma); Popper,
Ottone, Scalfari, LUISS University Press, Roma 2009. Altri progetti Collabora a
Wikiquote Citazionio su Massimo Baldini
Scheda dell'Università LUISS, su docenti.luiss. Filosofia Filosofo del
XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloAccademici italiani del XX
secoloAccademici italiani Professore1947 2008 18 giugno 10 dicembre Greve in
Chianti RomaProfessori della Libera università internazionale degli studi
sociali Guido CarliProfessori della SapienzaRomaProfessori dell'Università
degli Studi di PerugiaProfessori dell'Università degli Studi di SienaProfessori
dell'BariStudenti dell'Università degli Studi di Firenze. In questo
contributo intendo concentrarmi su alcuni aspetti della teoria aristotelica
dell’amicizia: il metodo di indagine attraverso cui è articolata e acquisita, e
il suo significato dialettico e teorico. Il processo conoscitivo, per Aristotele,
è una transizione da ciò che è “primo per noi” a ciò che è “primo per sé”[1], e
l’indagine sull’amicizia non fa eccezione. Il “primo per noi” contempla la
nostra esperienza della cosa intesa in senso ampio, tale da includere: le
prassi linguistiche e ascrittive diffuse[2], le opinioni notevoli (ἔνδοξα)
condivise da tutti o dai più o dai sapienti o da alcuni di essi[3], i topoi o
luoghi comuni consegnati dalla tradizione, i fenomeni intesi come “fatti della
vita”, ovverosia le ordinarie prassi umane, i comportamenti concreti implicati
nelle relazioni di amicizia[4]. Si tratta di un materiale eterogeneo,
variegato, opaco, bisognoso di sintesi e di articolazione concettuale: il suo
trattamento dialettico preliminare sarà orientato anzitutto a evidenziare le
contraddizioni che tale materiale ospita, per poi cercare di superarle entro
una sintesi superiore la quale, attraverso una teorizzazione positiva ˗
materiata di distinzioni semantiche e concettuali, argomenti, definizioni ˗ ne
salvi gli elementi genuini nella misura del possibile, mostri l’apparenza delle
contraddizioni, e produca così una sorta di “equilibrio riflettuto” fra il
“primo per noi”, da cui pure si sono prese le mosse, e il “primo per sé”, punto
d’arrivo dell’indagine. Una buona teoria dovrà fare giustizia dei caratteri
manifesti dell’oggetto, renderli cioè intellegibili e inferibili[5]; invece una
teoria che negasse questi caratteri, sarebbe ipso facto una teoria deficitaria,
insoddisfacente: non ci riconcilierebbe coi φαινόμενα, che pure sono il suo
originario explanandum. Questa cifra metodologica va tenuta presente, se
si vuole apprezzare in modo non superficiale la trattazione aristotelica
dell’amicizia nelle due Etiche. Perciò è opportuno partire non da Aristotele,
bensì dall’orizzonte teorico-culturale cui egli si rapporta dialetticamente,
nonché dai suoi obbiettivi polemici. Il significato ordinario di «φιλία» ha
un’estensione ben più ampia della nostra nozione di «amicizia»: oltre
all’amicizia propriamente intesa, può denotare anche l’alleanza politica[6], la
vasta gamma dei rapporti sociali, dalle relazioni parentali e matrimoniali a
quelle commerciali, quelle cameratistiche, quelle amorose ed erotiche; insomma,
qualunque interazione umana positiva e non ostile, fra individui o fra gruppi –
ma anche fra uomini e dei[7] – è denotabile come φιλία. Nella caratterizzazione
preliminare che ne offre, Aristotele attinge ai grandi modelli omerico ed
esiodeo, così come ai Sette Savi, ai tragici, nonché al sapere filosofico dei
predecessori (Empedocle, Eraclito, etc.); ma il punto di riferimento dialettico
che, sottotraccia, orienta l’intera trattazione, è il Liside platonico, la
prima indagine filosofica sistematica dedicata alla φιλία[8], nelle cui note
aporie sono peraltro condensate e portate a tematizzazione le contraddizioni
insite nelle istanze della tradizione pre-filosofica globalmente intesa. Il
Liside dunque, fra gli ἔνδοξα e i λεγόμενα, riveste un ruolo
dialettico-polemico primario, anche se non se ne fa alcun riferimento esplicito.
È impossibile in questa sede tentarne anche solo una cursoria sintesi, ma è
necessario individuare perlomeno quelle aporie di fondo intorno alla φιλία che
Aristotele riprende in maniera puntuale[9]. Una importante aporia
(210e-213c), radicata nella dicotomia attivo/passivo, è articolata intorno alla
questione: chi dei due, in una relazione amicale, è l’amico? Chi ama o chi è
amato[10]? Si sonda tutto lo spazio logico delle possibilità, producendo esiti
paradossali (di qui, appunto, lo status di aporia): se 1) è chi ama, ad essere
amico di chi è amato, allora nel caso che chi è amato odiasse chi lo ama, uno
sarebbe amico di chi lo odia! 2) se è chi è amato, ad essere amico, sarà anche
il caso che chi è odiato è nemico, dunque se qualcuno ama qualcuno che lo odia,
allora sarà nemico di un suo amico! 3) se sono amici o chi ama o chi è amato,
indifferentemente, resta fermo che uno potrebbe essere amico di chi lo odia 4)
se sono amici necessariamente entrambi, allora non potremmo essere “amici” di
entità che non ci amano, come la scienza, o il vino, o i cavalli. L’aporia
presuppone l’ampia estensione semantica di φιλία e di φίλος, che da un lato può
avere significato passivo (esser caro a qualcuno), attivo (essere amico di) o
reciproco[11], dall’altro come prefisso (φίλο-) può comporre termini denotanti
amore, passione o apprezzamento per entità impersonali, che non reciprocano. Ma
l’aporia è filosofica, non meramente linguistica[12]. Una seconda aporia
(213d-223b) muove dalla questione se l’amicizia si dia fra simili o fra
dissimili. Se 1) si dà fra simili, allora anche i malvagi sarebbero amici, ma
fra malvagi non si dà vera amicizia (assunzione qui data per vera)[13]; 2) se
si dà non fra simili simpliciter ma fra simili nell’esser buoni, sorge il
problema di come il buono – il quale basta a se stesso[14] – possa trarre
utilità da un altro buono, e viceversa, quando si era precedentemente stabilito
che nessun amico è inutile all’amico (210c6-8); 3) se si dà fra dissimili
contrari, come povero/ricco, sapiente/ignorante etc., allora, daccapo, l’amico
sarà amico del nemico, il malvagio del buono etc.: amico/nemico e
malvagio/buono sono contrari; 4) forse si dà fra certi dissimili non contrari:
chi è intermedio fra buono e cattivo può amare il buono in virtù della presenza
in sé di un “male”, cioè della privazione di bene di cui è conscio e che lo
rende intermedio[15]; così l’amicizia diventa un caso particolare del
desiderio[16], volto strutturalmente a ciò di cui si è privi. Ma anche qui si
ricadrebbe nel caso 1 della Prima aporia: pare che l’amare unidirezionale e non
ricambiato non sia sufficiente all’amicizia, inoltre il buono sarebbe amato
senza amare a sua volta (infatti l’altro gli è inutile giacché egli ha già il
bene presso di sé). A questo punto viene introdotta l’idea che, se noi
cerchiamo nell’amico il bene ma nessun amico può avere il bene pienamente
presso di sé, allora ciò che cerchiamo negli amici è il «Primo Amico», qualcosa
che trascende sia noi che gli amici stessi, di cui questi ultimi sono apparenze
(εἰδώλα)[17]. Le relazioni amicali sono da ultimo orientate verso qualcosa che
trascende entrambi i relati, secondo una dinamica “ascensionale” segnatamente
platonica: ma così l’amico in carne e ossa parrebbe ridotto a mero luogo di
transito di una tensione desiderante che ascende in direzione di un assoluto
ideale. Riesaminando poi la relazione “orizzontale”, si introduce la nozione di
«affine» (οἰκεῖος): forse la φιλία è rapporto col simile in quanto affine, o
familiare; ma l’affinità pare essere reciproca (se A è affine a B, B è affine
ad A), dunque il buono risulta inservibile a chi è già affine al buono;
inoltre, sono affini anche i malvagi. Anche se la trattazione appare un
poco schematica e talora verbalistica, essa tocca problemi speculativi genuini.
Come ci si aspetta da un dialogo “socratico” di Platone, le aporie non trovano
uno scioglimento, se non la paradossale acquisizione che né amanti né amati, né
simili né dissimili né contrari, né affini, né buoni, possono essere amici[18]!
Teniamo dunque a mente questi nodi problematici. L’amicizia è studiata nel
libro VII dell’Etica Eudemia, e nei libri VIII-IX dell’Etica Nicomachea[19].
Mentre la trattazione dell’Etica Eudemia risulta più logica e astratta, quella
dell’Etica Nicomachea è più orientata a salvare i fenomeni, è più empirica e
inclusiva: per cogliere i nuclei teorici di fondo, è sensato muovere dalla
prima, e valutare criticamente quando e perché la seconda propone integrazioni
o discostamenti teorici da quella. Sia la Eudemia precedente alla Nicomachea o
meno[20], in essa appare più nitidamente come la trattazione aristotelica
costituisca una sorta di virtuale controcanto filosofico del Liside
platonico[21]. Etica Eudemia VII introduce il soggetto come specialmente
degno di essere indagato: gli ἔνδοξα universalmente diffusi pongono la φιλία
come il fine stesso della politica, come antidoto all’ingiustizia, come habitus
caratteriale rivolto ai buoni, pongono l’amico come il più grande dei beni
esterni (anche in quanto volontariamente scelto) e l’assenza di amici come il
male più terribile[22]. La φιλία è aspetto centrale dell’etica – soprattutto
entro un’etica eudemonistica imperniata sul bene e sulla felicità – dunque non
sorprende che la sua trattazione occupi quasi un quinto degli scritti etici
aristotelici. Ma altre opinioni notevoli non sono universalmente
condivise: per alcuni il simile è amico del simile (Omero, Empedocle), per
altri lo è il contrario del contrario (Esiodo, Euripide, Eraclito)[23]: sono le
opzioni 1 e 3 della Seconda Aporia del Liside, che pure non viene citato. Si
ricordano poi altre opinioni, topoi tradizionali già ripresi dal Liside: per
alcuni non c’è amicizia fra malvagi ma solo fra buoni (cfr. opzione 1 della
Prima Aporia), per altri solo chi è utile può essere amico (cfr. opzione 2
della Seconda Aporia). Prima di passare alla pars construens, Aristotele
enuncia candidamente il criterio metodologico e lo scopo dell’indagine:
Occorre trovare un’argomentazione che insieme renda conto (ἀποδώσει) al
massimo grado delle opinioni (τά δοκοῦντα) intorno a queste cose, e anche che
sciolga le aporie e le contraddizioni. Ciò avverrà qualora appaia che le
opinioni contrarie sono sostenute con buone ragioni: una tale argomentazione
sarà nel massimo accordo coi fenomeni. E le tesi in contraddizione risultano
mantenersi, se quel che affermano è vero in un senso, ma in un altro no. (Et.
Eud.). Le opinioni diffuse e notevoli
non vanno accolte in modo supino e acritico, ma comprese nelle loro buone
ragioni e, nella misura del possibile, salvate entro una sintesi teorica che
superi le aporie e mostri che le affermazioni apparentemente incompatibili
possano essere vere entrambe, in sensi diversi; così vi sarà anche il massimo
accordo coi φαινόμενα. Questi, i desiderata da soddisfare. Se l’amicizia
è desiderio (altra acquisizione del Liside[25]), il desiderio può essere del
piacevole (appetito) o del buono (volontà)[26], dunque ciascuno di essi ci è
«amico» o caro (φίλον); comunque il piacere si presenta come un bene (o appare
tale o è creduto tale[27]): la prima distinzione da fare è perciò fra bene e
bene apparente (φαινόμενον ἀγαθόν), oggetti del desiderio[28]. La seconda è
quella fra bene incondizionato (ἁπλῶς) e bene per qualcuno[29]: ciò che è buono
simpliciter lo è per l’essere umano in generale, ciò che è tale «per qualcuno»
lo è per certi individui particolari in certe circostanze (per esempio,
un’operazione per un malato); parimenti, vi è un piacevole incondizionato e un
piacevole «per qualcuno» (per esempio, in condizioni fisiche o morali
alterate); Aristotele sostiene che il piacevole incondizionato coincida col
buono incondizionato[30]: ciò che è buono per l’uomo in generale, è anche
piacevole per l’uomo in generale, invece un individuo malato o corrotto troverà
piacevoli cose non oggettivamente buone; né coincideranno il piacevole «per
lui» e il buono «per lui». Un uomo saggio e virtuoso troverà piacevole ciò che
è buono, dunque nel suo caso si identificano bene apparente e bene reale (è
buono ciò che gli appare tale), bene «per lui» e bene incondizionato (ciò che è
bene per lui è buono in generale per l’uomo), nonché bene e piacere: egli è
norma rispetto a ciò che per l’uomo in generale è e deve essere buono e
piacevole, in quanto esprime l’eccellenza della stessa natura umana. A ogni
modo, ciò che motiva un soggetto S deve apparire un bene a S (che lo sia o
meno), e apparire a S un bene per lui (che sia o meno anche un bene in senso
incondizionato)[31]. Ci sono cose per noi buone in quanto le riteniamo
dotate di valore intrinseco, cose per noi buone in quanto le riteniamo utili, e
cose per noi buone in quanto le troviamo piacevoli. Poiché l’amico è un bene
scelto e desiderato ˗ il φιλεῖν è un caso particolare di desiderio ˗ potrà
esserlo per questi tre motivi: come bene in sé, e cioè in quanto è ciò che è e
«per la virtù», o in quanto è ci è utile, o in quanto sia piacevole, «per il
piacere»[32]. Chiariremo successivamente perché il buono in quanto buono,
quando il bene sia l’amico stesso, si identifichi con la sua virtù. Colui
che è amato in base a uno dei tre aspetti suddetti (bene-virtù, utilità,
piacevolezza) diventa un amico ˗ si aggiunge ˗ quando contraccambia l’affetto:
dunque la reciprocità diviene un tratto essenziale dell’amicizia, una sua
condizione necessaria; Aristotele sceglie l’opzione 4 della Prima Aporia del
Liside, ma replica all’obiezione ivi contenuta, secondo cui cose amate come il
vino, i cavalli e la scienza non possono ricambiare, mediante la distinzione
fra φιλία e φίλησις[33]: la seconda è un affetto/desiderio per le cose
inanimate, la prima implica un simile affetto come componente, ma include
necessariamente la reciprocità. Talvolta, una nozione vaga può essere
disambiguata mediante una distinzione semantica, in modo da sciogliere
apparenti contraddizioni e insieme “salvare i fenomeni”. Tuttavia, l’affetto
reciproco sulla base di uno dei tre amabili non è ancora sufficiente perché ci
sia φιλία; tale reciprocità deve essere esplicita, non celata, nota ai due
amici: se amo qualcuno che non lo sa, non siamo amici, nemmeno nel caso lui ami
me e io lo sappia; entrambi devono amarsi l’un l’altro, ed entrambi lo devono
fare in modo manifesto, tale che sia noto all’uno e all’altro. La coscienza di
essere amici è essenziale all’essere amici: qualcuno può credere di essere
amico senza esserlo[34], però nessuno può essere amico di qualcuno senza
credere di esserlo. Se manca la reciprocità, non si ha amicizia ma
«benevolenza» (εὔνοια), cioè desiderio del bene dell’altro; quando quest’ultima
è reciproca e non è celata, allora può divenire amicizia[35]. Le tre
forme di amicizia, rispettivamente basate su virtù, utilità, piacere, secondo
l’Eudemia intrattengono la relazione asimmetrica che Aristotele chiama πρὸς ἓν,
in cui vi è un significato primario o focal meaning cui gli altri, secondari e
derivati, rimandano[36]: l’amicizia a causa della virtù e fondata sul bene è
posta come πρώτη φιλία, «prima amicizia», da cui le altre dipendono dal punto
di vista definitorio. Quindi «φιλία» non denota tre specie di un unico genere,
né è un termine equivoco che denota realtà completamente diverse; è termine
“multivoco”, giacché l’amicizia si dice in molti modi ma in riferimento a un
senso che illumina tutti gli altri, e a cui gli altri si rapportano
necessariamente. Molti critici ritengono che, siccome l’amicizia
“utilitaristica” e quella “edonistica” possono darsi indipendentemente da
quella “virtuosa”, l’idea che esse rimandino necessariamente a quella
“virtuosa” non sarebbe convincente, e proprio per questo sarebbe poi abbandonata
nella Nicomachea[37]. Ma la gerarchizzazione πρὸς ἓν è anzitutto definitoria:
il piacere è un bene apparente (dunque, una declinazione del bene), l’utile è
tale in quanto foriero di bene[38] o di piacere (che, daccapo, è un bene
apparente); dunque i tre amabili sono un bene, un modo di apparire del bene,
una via che porta al bene. Al modo in cui il piacere e l’utilità si definiscono
in rapporto al bene[39] (ma, per Aristotele, non viceversa), così le amicizie
basate sul piacere e l’utile si definiscono in rapporto a quella basata sul
bene come tale: e infatti, come vedremo, ne sono forme imperfette e
difettive. Si noti la pur generica assonanza fra la πρώτη φιλία e il πρῶτον
φίλον, il Primo Amico del Liside: se Platone radica il senso delle relazioni
amicali in un anelito a qualcosa che trascende le amicizie e gli amici stessi
illuminandole, per così dire, dall’alto, Aristotele immanentizza il bene entro
gli amici stessi e le loro relazioni; c’è una amicizia prima, ma non un Amico
primo che si distingua dagli amici empirici e concreti. Il bene che è in gioco
nell’amicizia è ubicato negli amici stessi, è immanente. Qual è la
ragione profonda di questa tripartizione? Si può mostrare in modo puntuale che
si tratta di una risposta alle aporie platoniche: se i platonici pongono come
amicizia solo quella virtuosa, «non riescono a dare conto dei fenomeni»[40],
ove per fenomeni si devono intendere non solo le prassi umane, ma anche gli ἔνδοξα
e i λεγόμενα. Se vi sono tre forme di amicizia, può darsi che alcune opinioni
notevoli e intuizioni siano vere dell’una ma false dell’altra, altre siano vere
dell’altra ma false dell’una, come afferma il passo metodologico succitato. Se
poi a partire da ciascuna delle tre caratterizzazioni si potessero inferire o
congetturare dei rispettivi propria, che coincidano coi rispettivi tratti
manifesti dell’amicizia che parevano aporetici in quanto incompatibili, allora
grazie a questa tassonomia tricotomica le aporie potrebbero essere sciolte,
poiché alcuni di questi tratti caratterizzeranno un tipo di amicizia, alcuni
altri un altro tipo di amicizia. L’amicizia virtuosa, fondata sul bene, è
fra simili in quanto buoni[41]: essa cattura l’opzione 2 della Seconda Aporia
del Liside, nonché l’ideale arcaico, omerico ma anche teognideo e in generale
aristocratico, della φιλία come sodalizio elettivo fra ἀγαθοί; a questo topos
tradizionale, il Socrate del Liside replica che esso è incompatibile con
un’altra idea ben radicata (basata su altri due topoi tradizionali): il buono è
autosufficiente, e un amico gli sarebbe inutile, ma l’amicizia è fondata
proprio sull’utilità reciproca; quest’ultima idea, di matrice esiodea[42] ma
anche un luogo comune confermato dalle prassi umane, non può essere negata, per
Aristotele: sono gli stessi φαινόμενα a mostrare che coloro che intrattengono
relazioni continuative di utilità e soccorso reciproco, si chiamano amici
e si ritengono tali, e così sono dagli altri chiamati e ritenuti. La
contraddizione è apparente, se si postula che l’utilità reciproca è un
prerequisito di una forma di amicizia (quella basata sull’utile) e non
dell’altra (quella basata sul bene). Le relazioni utilitaristiche sono
amicizia, sebbene di un certo tipo; sia queste che quelle fondate sul piacere,
possono sussistere anche fra individui non buoni, persino fra malvagi, sebbene
in forma estremamente labile e instabile: l’opzione 1 della Seconda Aporia del
Liside è anch’essa percorribile, in quanto due individui non “buoni” possono
essere amici sulla base del piacere, e sono simili nella misura in cui
condividono certi tipi di piacere; inoltre, l’intuizione per cui l’amicizia si
dà fra contrari come povero/ricco, sapiente/ignorante etc. ˗ opzione 3 della
Seconda Aporia del Liside ˗ è anch’essa fatta salva, in quanto viene posta come
peculiare all’amicizia utilitaristica, che tipicamente è intrattenuta da
individui in qualche senso contrari (l’uno ha qualcosa che l’altro non ha).
Aristotele riesce a salvare i fenomeni attraverso una distinzione tassonomica
fondamentale, che deve conciliare certe apparenti incompatibilità ma al tempo
stesso preservare una certa unitarietà dell’oggetto: quella di amicizia è una
nozione originariamente ospitale, plurale e polivoca, tanto internamente
differenziata da implicare una demarcazione netta fra l’amicizia virtuosa e le
altre, ma non tanto monolitica da implicare che si escludano dal novero delle
amicizie quelle forme di relazione (utilitaria, edonistica) ordinariamente
denominate così: altrimenti si farebbe violenza al linguaggio e alle “cose stesse”[43]:
a quel “primo per noi” che è lo stesso explanandum originario. Una delle
ragioni per cui l’amicizia virtuosa è detta «prima» nella Eudemia e poi
«perfetta» (τέλεια) nella Nicomachea[44], è che essa è costitutivamente
piacevole, benché non sia fondata sul piacere, e implica la disposizione alla
mutua utilità quando serva, benché non sia fondata sull’utile: dunque contiene
in sé, in certo modo, le altre due. Tuttavia, il piacere che consegue al bene
ed è persino costitutivo di esso, non è lo stesso piacere che fonda le amicizie
edonistiche; il primo è inseparabile dal bene cui consegue[45], quindi
l’integrazione di piacere e utilità nell’amicizia virtuosa non è da concepirsi
come una somma estrinseca o giustapposizione di aspetti positivi (bene + utilità
+ piacere). La perfezione di questa amicizia non è una somma di amicizie
imperfette, è originaria completezza. Nella Nicomachea non vi è traccia
della relazione πρὸς ἓν, e la πρώτη φιλία diventa τέλεια φιλία[46]. Le altre
amicizie qui sono dette tali «secondo somiglianza» a quella perfetta[47]: a mio
avviso, al netto della differenza di linguaggio, la posizione di Aristotele non
muta in modo sensibile fra le due opere; la somiglianza delle amicizie
edonistica e utilitaristica a quella perfetta consiste anche qui nel fatto che
quest’ultima è, per entrambi gli amici, utile e piacevole, dunque contiene
quegli aspetti che fondano le amicizie imperfette, ma non ne è simmetricamente
contenuta. Infatti, ciò che è buono è anche utile e piacevole, mentre ciò che è
utile può non essere piacevole e può non essere buono (né simpliciter, né per
l’individuo) – per esempio, se l’individuo è corrotto e trova per sé utile
qualcosa che lo approssima a ciò che non è il suo bene (anche se egli magari
crede che sia il suo bene[48]) – e ciò che è piacevole può essere inutile o
persino dannoso. Questo vale in generale, e a fortiori vale per gli amici
buoni, utili, piacevoli. In realtà, lo stesso “compito” etico implicitamente
affidato all’uomo, gli è affidato anche in rapporto all’amicizia: l’ideale
umano, incarnato dal saggio che ne è norma ed esempio, è quello di far
coincidere ciò che è bene per sé con ciò che è bene in generale, e ciò che è
piacevole per sé con ciò che lo è in generale; si realizza così anche la
coincidenza di bene e piacere, visto che il buono in generale e il piacevole in
generale si identificano per natura[49]. Ciò importa che occorra anzitutto
essere buoni (saggi e virtuosi) e, essendolo, prediligere le amicizie virtuose
(che sono appannaggio dei buoni): esse non ospitano conflitti strutturali,
soprattutto il bene e il piacere – il confliggere dei quali sopraffà l’acratico
– sono adeguati ab origine, nell’amicizia perfetta, giacché essa è piacevole
proprio in quanto buona. Ma ciò non esclude che i buoni possano intrattenere
anche amicizie fondate sul piacere, o sull’utile[50]: esse però, nell’economia
della loro vita, risulteranno marginali, sia nella quantità che nella
qualità. Può sorprenderci il fatto che alla forma di amicizia più rara e
più “inarrivabile” delle tre (i buoni sono pochi, gli amici a causa del bene
ancora meno) venga ascritta una priorità definitoria, sia essa del tipo πρὸς ἓν
o «per somiglianza». Ma per Aristotele qualunque capacità umana – l’amicizia è
una virtù, le virtù sono capacità acquisite – viene individuata e definita
sulla base della sua eccellenza: è il caso eccellente, in cui un tratto umano è
più pienamente realizzato, che funge da essenza normativa rispetto ai casi
difettivi, deficitari, degradati, imperfetti; per definire, occorre guardare ai
casi migliori, alla modalità in cui una potenzialità è dispiegata ed espressa
più compiutamente, e che misura gli altri casi quasi costituendone un virtuale
dover-essere rispetto a cui essi mostrano la loro manchevolezza. Perciò la teoria
aristotelica presenta al contempo una dimensione descrittiva e una normativa,
fra le quali sussiste una sorta di tensione dialettica. E in effetti le
amicizie fondate sul piacere e sull’utile sono incomplete: vengono
caratterizzate addirittura come amicizie per accidens[51], il che sembra sulle
prime vanificare l’atteggiamento inclusivo adottato da Aristotele come cifra
metodologica, non solo praticata ma persino esplicitata in modo
programmatico[52]. È come se in sede di definizione generale Aristotele fosse
interessato a preservare l’unità della nozione di amicizia nonostante le
differenze, ma in sede di caratterizzazione sinottico-comparativa dei diversi
tipi, ponesse invece l’enfasi sullo iato che separa l’amicizia prima o perfetta
dalle altre, fino a trattare le altre come solo accidentalmente tali. Perché
esse sono caratterizzate come «accidentali»? Chi si ama per l’utile o per
il piacere lo fa «non perché l’individuo amato sia quello che è, ma in quanto è
utile o in quanto è piacevole»[53]: l’utilità e la piacevolezza sono proprietà
relazionali esterne all’essenza dell’amico amato, determinate dagli effetti che
esso ha su chi lo ama, «perché gli uni ne traggono un qualche bene, gli altri
un piacere»[54]; invece l’amicizia basata sulla virtù e la bontà dell’amico
amato, è basata su proprietà intrinseche all’amato, su ciò che da ultimo
l’amato è[55]. Noi siamo il nostro carattere, il nostro carattere è l’insieme
unificato delle nostre virtù, una seconda natura che è frutto prima
dell’educazione e poi delle nostre scelte: noi siamo un sé che sceglie, e i
nostri pensieri, discorsi e azioni manifestano il nostro “sé”. Pertanto,
nell’amicizia perfetta il bene che è in gioco è l’amico stesso che è amato, per
ciò che egli essenzialmente è, mentre il bene che è in gioco nelle altre
amicizie è il bene – nella forma dell’utile o del piacevole – dell’amico che
ama. Anche se l’amicizia è sempre reciproca, resta fermo che nell’amicizia
perfetta il fondamento è, per ciascuno degli amici, l’altro come buono, nelle
altre è invece il proprio bene in quanto utilità o piacere[56]. Nelle amicizie
imperfette la ragione per cui si vuole e persegue il bene dell’altro, resta
radicata nell’interesse proprio come diverso dal bene elargito all’altro e
diverso dall’altro stesso come dotato di valore intrinseco. È questa differenza
radicale a rendere le amicizie imperfette amicizie per accidens: ciò non
implica, si badi, che non siano amicizie[57], bensì che lo sono solo in virtù
del loro somigliare all’amicizia perfetta, seppure in modo difettivo. Ma
l’amicizia fondata sul bene dell’amico non rischia così di risultare
“disinteressata” in un modo psicologicamente implausibile? Solo in apparenza,
in quanto il bene di chi ama è in gioco, ma lo è in quanto coincide col bene
dell’amico: se siamo amici perfetti, siamo entrambi buoni e virtuosi, e il
nostro bene individuale coincide col bene simpliciter: noi, come amici
perfetti, cooperiamo per realizzare il bene in generale[58]; il bene mio e
dell’amico sono voluti – rispettivamente, dall’amico e da me – in conseguenza
del fatto che anzitutto io e l’amico siamo dei beni: se lo siamo l’uno per
l’altro, è perché siamo buoni, siamo dotati di valore intrinseco, e lo
riconosciamo reciprocamente. Non si tratta di una implausibile relazione puramente
altruistica e disinteressata, perché non si fonda – ribadiamolo – solo sul
volere il bene dell’altro, ma anzitutto sull’altro come bene in sé: voglio e
perseguo il bene dell’altro non per altruismo astratto, ma perché l’altro è un
bene. Una nozione comune con cui forse potremmo rendere più chiaro questo
aspetto, è quella di stima. L’amicizia perfetta è fondata sulla stima
reciproca: un amico che stimo per ciò che è e per come è, esemplifica in sé ciò
che è buono, a prescindere da ciò che io posso trarre da lei/lui: «se uno non
gioisce perché l’altro è buono, non c’è la prima amicizia» (1237b4-5). La stima
reciproca presuppone una consonanza di valori, un’intesa su ciò che vale e ciò
che è degno: e visto che i due amici sono virtuosi e buoni, essi valgono e
sanno di valere, per questo valgono anche l’uno per l’altro. Si tratta di una
amicizia in cui coltivare il proprio bene coincide col coltivare l’altro e il
suo bene, e questo coincidere non è accidentale – come accade nelle altre
amicizie – bensì è costitutivo. Invece posso trarre vantaggio da un amico utile
senza stimarlo affatto, così come posso trarre piacere – per esempio,
divertendomici insieme – da qualcuno che non stimo, che non ritengo una persona
buona, degna, valida. L’accidentalità delle amicizie non perfette si
rende perspicua nella loro strutturale instabilità: un rapporto fondato
sull’utilità non avrà più ragion d’essere, qualora uno dei due amici smetta di
essere utile all’altro; i bisogni umani sono cangianti, e tali sono le risorse
altrui per farvi fronte, cosicché anche le relazioni utilitarie sono
essenzialmente mutevoli; lo stesso accade per gli amici secondo il piacere:
cambiano, nel tempo, le fonti del piacere, i “gusti”, e cambiano anche le
capacità altrui di procurarci piacere; l’amicizia piacevole, poi, è precaria
anche perché riguarda tipicamente i giovani, i quali sono di per sé in continuo
cambiamento[59]. Invece la virtù del carattere è cosa stabile: le
amicizie complete sono stabili perché sono fondate sul bene come virtù, che è
costante e non facile a mutare[60]. Il tempo può rendere inutile un amico che
prima era utile, o non più piacevole un amico che lo era, ma difficilmente può
sottrarre a un carattere le virtù, far diventare malvagi i buoni, stolti i
saggi, e dunque minare le basi su cui le relazioni virtuose fra buoni sono
costruite. Per questo l’amicizia completa è specialmente solida, quasi
incrollabile[61], e l’amico virtuoso è un amico «al massimo grado»[62], un
amico «vero»[63]. Un tale amico si renderà utile se può e quando sia
necessario, ma sarà utile perché è un amico, piuttosto che essere amico perché
è utile; e sarà piacevole all’amico, giacché ci risulta tendenzialmente
piacevole frequentare chi stimiamo[64]. Così Aristotele, forte della sua
tassonomia tripartita, deriva dei propria (dei caratteri distintivi) di
ciascuna amicizia, spiegando i fenomeni e riconciliandoci con le comuni
pratiche ascrittive: alcune intuizioni, luoghi comuni e opinioni notevoli sono
vere di un’amicizia, alcune dell’altra. Parlando coi giovani Liside e
Menesseno, Socrate nel Liside si dice desideroso di amicizia più di ogni cosa
al mondo – con una Priamel che restituisce in modo icastico l’idea
dell’amicizia come il più grande dei beni esterni, fatta anch’essa propria da
Aristotele – e invidia ironicamente la loro felicità, visto che sono giovani e
sono diventati amici «in modo facile e rapido»[65]. Si tratta di caustica
ironia, visto che la φιλία che ha a cuore Socrate non è né facile né rapida:
ciò che è dissimulato, è che quella non è verace amicizia, ma altro. Qui c’è
un’aporia in nuce, visto che i giovani che si frequentano, pur con una certa
leggerezza e una conoscenza reciproca non profonda, paiono amici e sono detti
tali, eppure non soddisfano i requisiti della “vera” amicizia non solo secondo
l’idea socratica, ma anche secondo l’opinione diffusa per cui la vera amicizia
è durevole, lenta e difficile a darsi. Aristotele distingue i soggetti delle
attribuzioni incompatibili, salvando la verità di entrambe: l’amicizia
giovanile (per esempio, quella di Liside e Menesseno) è fondata sul piacere, e
ha certi tratti distintivi quali la facilità a prodursi e a decadere,
l’intensità emotiva, e così via; l’amicizia perfetta, tipica degli uomini
maturi (è quella per cui Socrate dice di ardere di desiderio), necessita di una
lunga consuetudine e di una conoscenza reciproca profonda[66], è rara e
appannaggio di pochi, è difficilissima a nascere ma altrettanto difficile a
morire, fondandosi su ciò che in noi vi è di più stabile. Invece, quella utile
caratterizza tipicamente gli anziani, particolarmente bisognosi d’aiuto e
sensibili, per debolezza, al beneficio che può arrecare il mutuo soccorso[67];
inoltre, essa si riscontra nei più, nelle masse, le quali sono più preoccupate
dei benefici personali che del bene e del bello. Fra le amicizie incomplete,
Aristotele ascrive una superiore nobiltà a quella fondata sul piacere, mentre
quella fondata sull’utile è «da bottegai»[68]. In effetti, la condivisione del
piacere è qualcosa di meno strumentale rispetto al trarre vantaggi da qualcuno:
perlomeno il piacere è un fine, non un mezzo; inoltre, il piacere appartiene
alla frequentazione stessa dell’amico, mentre l’utile è a questa completamente
estrinseco: dunque il fondamento dell’amicizia utile è più esteriore e più
contingente di quello dell’amicizia piacevole. Un altro aspetto
problematico del Liside emerge in particolare nella Prima Aporia rispetto alla
polarità attivo/passivo (amante/amato), ma soggiace implicitamente anche ad
altre aporie: l’amicizia sembra implicare uguaglianza e comunanza da un lato, e
differenza e asimmetria dall’altro; si mescolano aspetti tipici del rapporto
pederastico-erotico (amante e amato non sono intercambiabili), aspetti del
rapporto genitoriale, anch’essi per definizione asimmetrici, e relazioni “fra
buoni” simili, potenzialmente simmetriche. Aristotele cerca di articolare
queste istanze entro un quadro più sistematico: la tassonomia delle tre
amicizie si arricchisce di una distinzione trasversale, fra amicizie simmetriche
e amicizie asimmetriche in cui uno è superiore e l’altro inferiore[69]; la
φιλία deve essere reciproca, ma tale reciprocità può essere simmetrica o
asimmetrica (fra superiore e inferiore). I tipi di amicizia sono dunque sei,
giacché si può essere superiori quanto a virtù, a utilità, e a
piacevolezza. La ulteriore distinzione fra amicizie simmetriche e
asimmetriche consente ad Aristotele una esplorazione straordinariamente ricca
dei legami sociali più eterogenei, che assimila alla φιλία e alle sue declinazioni
i rapporti familiari (padre-figlio, marito-moglie, figlio-figlio), i rapporti
politici fra città (in vista dell’utile)[70], gli stessi rapporti fra i
cittadini in rapporto alla loro comunità, i rapporti fra governanti e
governati, le relazioni commerciali, e così via, e indaga le relazioni profonde
fra amicizia, giustizia, concordia, comunità. Non è possibile restituire
nemmeno sommariamente la ricchezza di tali analisi in questo contributo, il
quale si focalizza piuttosto sul significato filosofico e dialettico della
tripartizione in generale: ma fa d’uopo rilevare che le applicazioni di questa
teoria generale sono molteplici e fecondissime. 3. Amicizia
e autosufficienza La tripartizione (con ulteriore dicotomia trasversale)
non scioglie di per sé un nodo aporetico concernente la stessa amicizia
perfetta fra buoni: è l’idea espressa entro il punto 2 della Seconda Aporia del
Liside, per cui chi ha il bene presso di sé è autosufficiente e non ha bisogno
di nulla, dunque l’amicizia di chicchessia gli sarebbe inutile. È vero che
Aristotele ha distinto l’amicizia perfetta da quella utile, ma resta il
problema di comprendere come mai colui che è saggio, virtuoso e buono, bastando
a sé stesso, abbia una qualche motivazione a coltivare un amico, foss’anche un
amico perfetto: «se è felice chi ha la virtù, che bisogno avrà di un
amico?»[71]. L’idea dell’autosufficienza di chi è saggio, virtuoso, felice e
beato, ripresa dal Liside, è un topos tradizionale, quindi ha lo status di ἔνδοξον
ben radicato, di cui va dato conto e di cui va mostrata la compatibilità con la
teoria positiva proposta nonché con altri ἔνδοξα altrettanto ben
attestati. Il problema è affrontato in Etica Eudemia VII 12 e in Etica
Nicomachea IX 9, in maniere parzialmente differenti. L’Eudemia muove
dall’analogia con la condizione divina, paradigma dell’autosufficienza. Ma la
condizione umana può assurgere all’autosufficienza solo nella misura in cui lo
consente la natura dell’uomo, che è animale sociale-politico[72] e può/deve
realizzare questa natura, non quella divina[73]: il bene umano contempla sempre
il rapporto a un’alterità – è καθ’ ἕτερον[74] ˗ quello divino è assoluto
rapporto a sé[75]. L’autosufficienza divina funge da “idea regolativa”, da
norma ideale: l’uomo felice minimizzerà il numero degli amici e si limiterà a
quelli virtuosi, degni di accompagnarsi a lui; proprio il caso di chi non è
obnubilato da bisogni e mancanze, evidenzia il valore intrinseco dell’amicizia
perfetta, perseguita non già per ricevere benefici bensì per fare, dare e
condividere il bene che si possiede. Ma l’argomento successivo – che è molto
complesso e possiamo solo sintetizzare[76] – chiarisce che non si tratta di un
altruismo generico e astratto, in quanto l’amicizia è ingrediente essenziale,
non accessorio, della felicità individuale. Vivere, per l’uomo, è
percepire e conoscere[77], e – prosegue Aristotele ˗ l’aspirazione massima di
ciascuno di noi è, da ultimo, quella di conoscere noi stessi (tesi che rivisita
il celebre monito delfico-socratico); la felicità è costituita dalla conoscenza
di sé in quanto attivi come buoni e virtuosi[78], e la conoscenza di sé passa
per la conoscenza reciproca fra amici: l’amico è «un altro sé»[79], «percepire
l’amico necessariamente è percepire in certo modo sé stesso e conoscere in
certo modo sé stesso»[80]. Condividendo con l’amico i beni, i piaceri e le
attività della vita felice, incrementiamo dunque la conoscenza di noi stessi e
della nostra stessa felicità. La Nicomachea chiarisce la relazione fra il
riconoscimento reciproco degli amici virtuosi e la loro felicità, soprattutto
in un passo speculativamente densissimo: Se l’essere felici
consiste nel vivere e nell’agire, e l’attività dell’uomo dabbene ed eccellente
è per sé virtuosa [..], se poi anche ciò che è familiare/affine (οἰκεῖον) a
qualcuno è tra le cose che lui trova piacevoli, se noi possiamo osservare il
nostro prossimo meglio di noi stessi, e le sue azioni più che le nostre, se le
azioni degli uomini superiori, che siano anche amici, sono fonte di piacere per
i buoni, dato che hanno tutte e due le caratteristiche piacevoli per natura,
allora l’uomo beato avrà bisogno di amici simili a lui, posto che davvero
preferisca osservare azioni buone, e che gli sono proprie, come lo sono le
azioni dell’amico, quando è buono. (Et. Nic. IX 9 1169b31-1170a4)[81] Le
attività di un’esistenza virtuosa e felice sono obbiettivamente piacevoli agli
occhi di un uomo buono, virtuoso e felice a sua volta: vi si rispecchia,
sentendocisi “a casa propria”, e la familiarità determinata da affinità e
prossimità, gli è in sé piacevole. Come si evincerà, la nozione platonica di οἰκεῖον,
introdotta sul finire del Liside come cifra stessa della φιλία, trova una
ripresa puntuale e una valorizzazione speculativa nella teoria aristotelica. Il
prossimo si offre alla nostra conoscenza in modo più trasparente che noi
stessi, giacché la sua distanza da noi lo rende meglio oggettivabile. I due
tratti umani piacevoli per natura sono da un lato la felicità di cui la virtù è
costitutiva, dall’altro la familiarità, che chi è felice è virtuoso riscontra
ed esperisce nel contemplare e cooperare con un’altra esistenza felice e
virtuosa. Le azioni di un nostro amico “perfetto” sono buone e nel contempo ci
sono proprie, cosicché contemplarle è come trovare in esse lo stesso bene che
noi siamo. Potrebbe stupire il riferimento reiterato al tema del piacevole,
quasi che si trattasse di una delle due amicizie non perfette: ma occorre
tenere a mente che il piacevole per natura o ἁπλῶς coincide col bene ἁπλῶς, e
che si tratta di un piacere costitutivo del bene e inseparabile da esso,
piuttosto che di un piacere addizionale ed esteriore rispetto al bene cui
consegue. Se l’altro è sufficientemente prossimo a me, posso de-situarmi e
oggettivarmi riconoscendomi nelle sue azioni, secondo una dialettica complessa
e chiastica di riconoscimento reciproco. «Se l’uomo eccellente si comporta
verso l’amico come si comporta verso di sé, dato che l’amico è un altro se
stesso, allora, così come è desiderabile per ciascuno il suo proprio esserci,
così è desiderabile l’esserci dell’amico, o quasi» (EN IX 9, 1170b5-8). In
questo gioco speculare di identificazioni reciproche, il mio rapporto con
l’altro è mediato del mio rapporto con me stesso[82], l’altro è un «altro me» e
perseguo il suo bene in maniera pressoché equivalente a come perseguo il mio
(quel «quasi» è una concessione al realismo empirico, da cui questa
idealizzazione non vuole disancorarsi); ma è altrettanto vero che il mio
rapporto con me stesso è a sua volta mediato dal mio rapporto con l’altro,
giacché conosco genuinamente me stesso non già con un qualche misterioso atto
introspettivo[83], bensì conoscendo persone simili a me che a loro volta mi
riconoscono simili a sé: questa è la ragione perché v’è bisogno di amici buoni
e virtuosi entro relazioni di amicizia “perfetta”; se la felicità implica
autosufficienza, si tratta di un’autosufficienza umana e non divina, che passa
per l’inclusione del prossimo nella nostra esistenza, e per la cooperazione con
chi scegliamo come degno incarnare il bene e la virtù[84]. Come l’essere amici
non si dà senza il sapere di esserlo anche se si può credere di essere amici
senza esserlo, così l’essere felici (in quanto buoni e virtuosi in attività)
non si dà senza la coscienza di essere felici (in quanto buoni e virtuosi),
anche se è possibile credere di essere felici senza esserlo davvero. E per
sapere chi sono, devo rispecchiarmi in amici simili a me[85]. Ciò importa che
l’uomo beato non avrà bisogno di amici “meramente utili” e “meramente piacevoli”,
invece dovrà avere amici buoni e virtuosi: il topos tradizionale è riscattato
nella sua verità profonda, ma anche oltrepassato in virtù della tripartizione;
in un senso è vero, in un altro no. Essere felici insieme è diverso dal
semplice divertirsi insieme, anche se lo include, ed è diverso dal semplice
aiutarsi l’un l’altro, anche se può includerlo. L’amico perfetto ˗ come
ogni altro autentico bene ˗ è oggetto di scelta razionale[86]. Anche per questo
la teoria aristotelica si distanzia da quella platonica[87]: la φιλία erotica,
già ben presente nel Liside sin dalla sua ambientazione scenica – una palestra,
ove Liside è il «bello del momento» di cui Ippotale è innamorato – viene
relegata da Aristotele a una delle tante forme di φιλία, degna di pochi accenni
espliciti, mentre nel Simposio e nel Fedro, dialoghi ben più elaborati e
costruttivi del Liside, l’eros è la forma di φιλία che viene eletta a oggetto
di indagine paradigmatico. Ma le componenti mistico-estatiche della φιλία
erotica come «follia divina» e frutto di invasamento[88], risultano
completamente marginalizzate entro la teoria aristotelica. L’amicizia più degna
e verace è attività derivante da scelta come desiderio razionale; se la
felicità è attività e i beni che la materiano sono oggetto di scelta, allora
anche l’amicizia, ingrediente costitutivo della vita felice, sarà espressione
di attività, piuttosto che passivo invasamento consistente nell’esser
“posseduti” da uomini o dèi. Il primato etico, fisico e metafisico dell’azione
sulla passione, è anche il primato di un certo tipo d’amore su un cert’altro.
L’amicizia è riportata fra gli amici, e la sua declinazione più eccellente,
normante rispetto alle altre, è caratterizzata secondo la dimensione eticamente
più elevata dell’umano: la ragione che sceglie e governa il desiderio,
piuttosto che esserne governata. L’eros platonico, così bellamente ed
enfaticamente rappresentato nel Simposio e nel Fedro, diventa per Aristotele
solo una delle tante declinazioni possibili di un tipo di amicizia – quella
fondata sul piacere – che è già di per sé incompleta e deficitaria[89].
Secondo l’aporetico excipit del Liside, né amanti né amati, né simili né
dissimili, né contrari né affini, né buoni, possono essere amici[90]; le Etiche
aristoteliche presentano una teoria la quale non solo consente ma anche prevede
che amanti, amati, simili, dissimili, contrari, affini, buoni, e perfino
malvagi possano essere amici; inoltre tale teoria offre le risorse concettuali
per chiarire quali coppie di amici possano e/o debbano avere questo o quel
carattere distintivo, e perché. Spero di avere almeno approssimato il
duplice obbiettivo prefissatomi: mostrare in modo dettagliato e sistematico la
dipendenza polemico-dialettica della teoria aristotelica dal Liside platonico,
e mettere in luce il significato filosofico generale della tripartizione della
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University Press, 3-34. von Willamowitz, U. (1959), Platon. Sein Leben und
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Walker, A.D.M. (1979), Aristotle’s Account of Friendship in the Nicomachean
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Plural States of Recognition, London: Palgrave Macmillan. Zucca, D. (2015),
L’anima del vivente. Vita, cognizione e azione nella psicologia aristotelica,
Milano-Brescia: Morcelliana. Note al testo [1]
Cfr. Phys. I 1: la conoscenza procede da ciò che è più prossimo e più
conoscibile per noi, a ciò che è primo per se o per natura; se tale “risalita”
verso i principi a partire da ciò che ci è immediatamente più vicino è il
metodo della fisica, a fortiori esso si applica all’ambito etico, che è ambito
segnatamente umano: cfr. Et. Nic. I 2, 1095a31-b4, ma anche De An. II 2,
413a11-17 e Met. VII 3, 1029a35-b12. Sul valore epistemologico di questa
differenza, resta decisivo Ruggiu (1965). [2] Per esempio: quando diciamo,
tipicamente, qualcuno «amico» di qualcun altro? Sul rapporto costitutivo fra il
primo-per-noi e il linguaggio, cfr. Wieland (1993). [3] Cfr. Top. I 1, 100 b
21-23; intendo questa definizione di ἔνδοξον come una disgiunzione inclusiva:
se un’opinione è condivisa almeno da uno degli insiemi indicati (tutti, i più,
i sapienti, qualcuno di essi), è un ἔνδοξον, e ciò che lo rende tale può essere
quantitativo, o qualitativo, o entrambi: per esempio, se è condiviso da tutti,
lo sarà anche dai sapienti. [4] Sulla intima connessione fra δοκοῦντα, λεγόμενα
e φαινόμενα, cfr. Owen (1967), Nussbaum (1986b). [5] Cfr. De An. I 1, 402b
16-403a8. [6] Cfr. Herod. III 82, 35 e Tucid. I 137, 4, in cui si trova
l’endiadi «συμμαχίᾳ καὶ φιλία». [7] Nei poemi omerici non vi è il termine φιλία
– le prime occorrenze si trovano in Teognide (Teog. I, 31-38, 53-60, 323-28) –
ma termini analoghi come φιλότης, φίλος sono utilizzati sia a proposito del
rapporto fra uomini che di quello fra uomini e dèi. Sulla φιλία nel mondo
antico, cfr. Pizzolato (1993), Fraisse (1974). [8] Nel Fedro platonico
(228a-e), Socrate confuta un discorso di Lisia sulla φιλία, che Fedro custodiva
sotto il mantello: quindi è verosimile che anche prima della data di
composizione del Liside la φιλία fosse importante oggetto di dibattito e di
riflessione critica. Del resto Giamblico (De Pythagorica Vita, 229-30) e
Diogene Laerzio (Vitae Philosophorum, VIII, 10) attribuiscono già a Pitagora la
prima trattazione filosofica della φιλία. [9] Anche il Fedro e il Simposio si
occupano lungamente della φιλία – l’eros è una forma della φιλία, per Platone
quella più significativa – ma, come cercherò di mostrare, l’indagine
aristotelica dipende sistematicamente dal Liside: per così dire, essa articola
una differente risposta a quelle aporie, rispetto a quella che propone Platone
nel Simposio e nel Fedro. [10] Meglio: se qualcuno sia amico di qualcun altro
in quanto ami o, piuttosto, in quanto sia amato. [11] φίλος + dativo significa
“caro a qualcuno”, φίλος + genitivo indica colui a cui qualcuno è caro, due
individui sono φίλοι, quando sono l’uno “caro” all’altro. [12] Alcuni
interpreti leggono il Liside come un esercizio dialettico, filosoficamente
debole [Versenyi (1975)] o più retorico-sofistico che filosofico [Bordt
(1988)], o dal significato prolettico-introduttivo rispetto ai maturi Simposio
e Fedro [Kahn (1996), ma già Gomperz (2013), Auslage 5, e Willamovitz (1959)];
benché questi due dialoghi successivi ne possano a buon diritto adombrare il
valore intrinseco, tuttavia i temi sollevati dal Liside sono nodi aporetici
sostanziali, e non deve fuorviare il fatto che Socrate mutui il linguaggio e lo
stile argomentativo dal tipo di interlocutore che affronta (per esempio,
“facendo” il sofista col sofista Menesseno, e così via). Per una
interpretazione non riduttiva del Liside e del suo valore speculativo, è
illuminante Trabattoni (2004). [13] Un altro topos tradizionale – per cui la
vera amicizia è fra ἀγαθοί – ricorrente in Platone: per restare all’esempio più
noto, in Resp. I, 351a-e Socrate replica a Trasimaco che fra malvagi e ingiusti
non può esserci alcuna cooperazione né amicizia; era comunque un tema
essenziale per Socrate (cfr. Senofonte, Mem., 2.6 1-7). [14] Sull’ascendenza
omerica di questo topos tradizionale, e sulla sua importanza per Aristotele
(cfr. infra: Par. III), cfr. Adkins (1963). [15] La coscienza del male come
tale è sintomo del fatto che il male è relativo e non assoluto. [16] Qui nel
Liside si tratta di ἐπιθυμία (cfr. 217c). [17] Tralascio qui la questione della
possibile identificazione del Primo Amico col Bene: ciò che rileva, qui, è il
fatto che esso trascenda gli amici concreti, i quali sono tali solo «a parole»
e stanno al Primo amico – che è tale «in realtà» (τῷ ὄντι) – come i mezzi al
fine (cfr. Lys. 220b1-4). [18] Lys 222e1-7. [19] La letteratura sull’amicizia
in Aristotele è sterminata: in luogo di proporre una lunga lista di studi che
comunque sarebbe tutt’altro che esaustiva, nel seguito mi limiterò a citare
alcuni contributi che sono particolarmente pertinenti agli aspetti che
tratterò. Un commento sintetico e preciso a Et. Nic. VIII e IX è Pakaluk
(1998). [20] È il giudizio nettamente prevalente, anche se non unanime. [21]
Sul rapporto fra il Liside e le Etiche aristoteliche riguardo l’amicizia, buoni
spunti si trovano in Annas (1986). [22] Et. Eud. VII 1, 1234b18-1235a4; cfr.
anche Et. Nic. VIII 1. [23] Et. Eud. VII 1, 1155a33-b7. [24] Trad. it.
modificata. [25] Cfr. supra: nota 16. [26] Et. Eud. VII 2, 1235b22-23. [27] C’è
chi crede che il piacere sia un bene, ma c’è anche chi crede che non lo sia
eppure gli appare – porto dalla φαντασία – come se lo fosse. Nell’acratico la
forza della φαντασία sopravanza, nelle scelte pratiche, quella della δόξα. [28]
Il «bene apparente» è qualcosa che appare come bene; ma può anche non esserlo:
tuttavia, anche il bene reale motiva il desiderio solo apparendo come bene.
Dunque «apparente» qui non va affatto interpretato come falsa apparenza. [29]
Et. Eud. VII 2, 1235b30-1236a1. [30] Il piacevole non è l’immediato, ma anche
ciò che non procura dispiacere futuro; Aristotele sa bene che molte cose
dannose possono procurare del piacere immediato. Ma chi non è acratico, conscio
delle conseguenze negative, accorderà il suo desiderio con la sua ragione, e la
motivazione data dall’ipotetico piacere immediato sarà soverchiata dalla
motivazione a evitare danni futuri. [31] Questo punto è più chiaro per come è
presentato in Et. Nic. VIII 2, 1155b23-27. [32] Nelle espressioni δι’ ἀρετὴν,
διὰ τὸ χρήσιμον, δι’ ἡδονήν, la preposizione significa a un tempo «in base a»,
«a causa di», «al fine di»: il rispettivo amabile è ciò che causa
quell’amicizia, ciò che ne costituisce il fondamento o ragion d’essere, ciò che
ne rappresenta il fine [su un’idea analoga, cfr. Nussbaum (1986a)]; nei termini
della nota teoria delle quattro cause (dei quattro sensi del διὰ τί, cfr. Phys.
II 3), potremmo plausibilmente intendere il tipo di amabile come causa
efficiente, formale e finale della rispettiva relazione amicale. [33] Cfr. Et.
Nic. VIII 2, 1155b26-31. Mentre la φίλησις è una passione o affezione (πάθος),
la φιλία è uno stato abituale (ἕξις, 1557b28-29). [34] Cfr. Et. Eud. VII 2,
1237b17-23; Et. Nic. VIII 4, 1156b30-33. [35] Vi è discussione sul fatto che
questa caratterizzazione definitoria offra condizioni sufficienti perché
qualcosa sia amicizia, oppure solo condizioni necessarie; propenderei per la
seconda opzione: per esempio, Aristotele ritiene che per diventare amici deve
passare del tempo, e molti scambiano il desiderio di essere amici con
l’amicizia stessa (Et. Eud. VII 2, 1237b12-22); ma se il desiderio è reciproco,
sussiste già benevolenza reciproca non celata, che non è ancora amicizia. [36]
Sul focal meaning cfr. Owen (1963), Ferejohn (1980). L’exemplum princeps è quello
della Metafisica: la sostanza è il focal meaning dell’essere, tutto ciò che è o
è sostanza o rimanda a una sostanza, al modo in cui tutto ciò che è «sano»
rimanda alla salute e tutto ciò che è «medico» alla medicina (cfr. Met. IV 2,
1003a32-1003b11). [37] Cfr. Fortenbaugh (1975). [38] Può esserlo in modo
mediato, come foriero di un altro utile, al modo in cui qualcosa è mezzo di un
altro mezzo, ma in ultima istanza l’utile è tale perché porta al bene e i mezzi
sono tali perché portano al fine. [39] Per esempio, in De An. III 7, 431a10-13
il piacere è definito come l’essere percettivamente attivi nei confronti del
bene in quanto bene; l’utilità è indefinibile se non come capacità di
avvicinarci a un qualche bene; l’utile sta al bene come il mezzo al fine, e non
vi è modo di definire cosa sia un mezzo, senza chiamare in causa la nozione di
fine. [40] Et. Eud. VII 2, 1236a25-26. [41] Et. Eud. VII 2, 1236b1-2; Et. Nic.
VIII 4, 1156b7-8. [42] Cfr. Esiodo, Opera et dies, 342-360; 707-723. [43]
Chiamare amicizia solo quella prima, equivarrebbe a «violentare i fenomeni»
(βιάζεσθαι τὰ φαινόμενα, Et. Eud. VII 2, 1236b 22). [44] Et. Nic. VIII 4,
1156b7. [45] La prima amicizia, infatti è quella «secondo virtù e a causa del
piacere della virtù» (EE VII 1238a31-32). [46] Secondo Aspasio (164.3-11), Owen
(1960) e Dirlmeier (1967) vi sarebbe comunque focal meaning e relazione πρὸς ἓν,
ancorché non esplicitata. [47] Et. Nic. VIII 5, 1157a32. [48] Se poi
l’individuo è acratico, potrebbe anche non credere che qualcosa sia il suo
bene, ma perseguirlo perché gli “appare” bene e frequentare individui utili a
qualcosa che egli cerca di procurarsi pur sapendo che non è il suo bene: come
uno che frequentasse un pusher in modo costante per procurarsi della droga,
sapendo di farsi del male ma perseverando nel suo comportamento autodistruttivo
(e nelle frequentazioni relative) per debolezza. [49] Sulla rilevanza della
distinzione fra «bene per qualcuno» e «bene incondizionato» in rapporto alla
teoria delle tre amicizie, insiste doverosamente O’Connor (1990). [50] Et. Nic.
IX 10,1170b20-29. [51] Così, nella Nicomachea (Et. Nic. VIII 2, 1156a17), non
nella Eudemia. [52] Cfr. supra: Par. II, 3. [53] EN VIII 3, 1156 a 16-17. [54]
EN VIII 3, 1156a18-19 [55] Cooper (1977) sostiene che le amicizie accidentali
siano tali perché dipendano da tratti accidentali del carattere dell’amico
amato; Payne (2000) replica che anche i tratti in virtù di cui qualcuno risulta
piacevole o utile possono essere altrettanto essenziali di quelli che lo
rendono virtuoso: gli amici perfetti sarebbero scelti «per sé stessi» in quanto
i loro caratteri virtuosi sono scelti come fine e non come mezzo (per altro).
Ma le letture sono forse componibili: l’esser utile o piacevole, anche se
sopravviene a tratti essenziali del carattere altrui, restano esterni
all’altro, in quanto relazionali in un senso diverso dalla virtù; l’esser buono
è sia essenziale e intrinseco all’amico, che scelto per sé stesso e non per
altro, e rende anche l’amico stesso, che ha quel carattere virtuoso, scelto per
sé stesso e non per altro. Cfr. supra: nota 31. [56] In Et. Eud. VII 7,
1241a5-7 si afferma che «se uno vuole per un altro i beni perché costui gli è
utile, li vorrebbe allora non per quello ma per sé stesso; mentre invece la
benevolenza, proprio come l’amicizia, si ritiene che sia rivolta non a quello
che la prova, ma a colui per il quale la si prova. Pertanto, è chiaro che la
benevolenza è in relazione con l’amicizia etica». Qui pare che solo l’amicizia
etica (=virtuosa) implichi la benevolenza, che però è un costituente della
definizione generale di amicizia. Da passi di questo tenore pare che le
amicizie incomplete non siano amicizie in senso proprio, visto che non
soddisfano la definizione; Aristotele è oscillante, è innegabile che vi sia una
tensione irrisolta fra la sua vocazione inclusiva e lo sforzo di enucleazione
della “vera” amicizia come tipologia normante e assiologicamente sovraordinata,
che non è semplicemente una delle tre amicizie ma quella par excellence, di cui
le altre sono approssimazioni manchevoli. Si può accogliere la lettura di
Walker (1979), per cui l’amicizia perfetta soddisfa criteri più severi, le
altre criteri più laschi. [57] Si pensi alla percezione per accidente (De An.
II 6, III 1): essa è comunque studiata come una modalità genuina di percezione:
le ragioni per cui essa è percezione per accidente non inficiano il fatto di
essere genuinamente un tipo di percezione. [58] I due amici perfetti, in quanto
buoni e virtuosi, realizzano l’eccellenza della natura umana, sono esempi del
bene incondizionato e del piacere incondizionato. [59] Et. Nic. VIII 3,
1156a31-1156b1. [60] Et. Eud. VII 2, 1238a11-30; Et. Nic. VIII 3, 1156b17-32.
[61] Può succedere che l’altro cambi, peggiori, o impazzisca, ma non accade per
lo più. Cfr. Et. Nic. IX 3. [62] Et. Nic. VIII 4, 1156b10. [63] Et. Eud. VII 2,
1236b31. [64] La sventura, poi, può rivelare che un’amicizia che pareva
perfetta era in realtà in vista dell’utile (Et. Eud. VII 2, 1238a19-21). [65]
Lys. 211e-212a. [66] Et. Eud. VII 2, 1237b13-27. [67] Et. Nic. VIII 3,
1156a24-31. [68] Et. Nic. VIII 7, 1158a21. [69] Et. Eud. VII 4; Et. Nic. VIII
8. [70] Et. Eud. VII 9-11, Et. Nic. VIII 12-14. [71] Et. Eud. VII 12, 1244b4-5.
[72] Cfr. Pol. I 1, 1253a10-12; Et. Nic. IX 12, 1169b18-19. [73] Et. Eud. VII
12, 1245b15-16. [74] Et. Nic. 1245b18. [75] Et. Eud. VII 12, 1245b18-19. [76]
Si tratta di una complessità anche filologica, dovuta a corruzioni del testo.
Su ciò, cfr. Kosman (2004). [77] Delle tre anime – nutritivo-riproduttiva,
percettiva, razionale – la percettiva e la razionale sono quelle che
discriminano la realtà (cfr. De An. III 3, 427a17-23); la percettiva, poi, è
intimamente connessa col desiderio e, quindi, con l’azione (cfr. De An. III
9-11). Vivere significa realizzare le proprie capacità naturali e acquisite, il
che per l’uomo implica anzitutto l’esercizio di percezione e pensiero (ove
entrambe vanno concepite come connesse all’azione, in quanto coinvolgono anche
desiderio e intelletto pratico). Su ciò, mi permetto di rimandare a Zucca
(2015), Capp. II e VI. [78] La felicità è «una certa attività dell’anima
secondo virtù completa» (Et. Nic. II 13, 1102a5-6). [79] Et. Eud. VII 12,
1245a30; Et. Nic. IX 9, 1166 a 32, 1170 b 6. [80] Et. Eud. VII 12, 1245a35-7.
[81] Trad. it. modificata. [82] In Et. Eud. VII 6 e in Et. Nic. IX 4 si
argomenta che i tipi di relazione che si hanno con gli altri dipendono dal
rapporto che si ha con sé stessi: chi è buono e virtuoso sarà anche amico di sé
stesso in modo armonico e costante – sebbene si possa parlare di amicizia solo
κατὰ ἀναλογίαν (1240a13), nel caso dell’auto-rapporto – chi è malvagio sarà
incostante e in conflitto con sé stesso, e in senso analogico sarà nemico di sé
stesso. Questa idea non contraddice l’idea per cui la conoscenza di sé passa
per la conoscenza dell’altro (Et. Nic. IX 9), ma anzi la completa: il buono e
virtuoso è felice anzitutto in quanto ha un “sano” rapporto con sé, ma si
conosce e realizza come felice solo in quanto ha un rapporto di riconoscimento
reciproco con amici che hanno, a loro volta, un altrettanto “sano” rapporto con
sé stessi. [83] L’idea di un accesso introspettivo infallibile ed
essenzialmente privato ai nostri propri atti mentali, così tipicamente moderna,
è affatto estranea ad Aristotele. [84] Come è naturale porre l’enfasi sul
valore speculativo intrinseco della teoria, così è altrettanto opportuno
ricordare che l’amicizia perfetta aristotelica resta prerogativa di un
sottoinsieme dei maschi adulti liberi; tuttavia, questa tara storica affetta la
teoria dell’amicizia, per così dire, mediatamente: in quanto restringe a quel
sottoinsieme la capacità di realizzare l’eccellenza morale, precondizione della
relazione d’amicizia perfetta. [85] Non uso la locuzione «sapere chi sono»,
anacronisticamente, come il coglimento di me stesso in quanto individualità
irriducibile, magari ineffabile e inaccessibile ad altri – non è certo questa
sorta di soggettività “novecentesca”, che secondo Aristotele giungerebbe alla
coscienza di sé nell’amicizia – bensì come il venire a conoscenza di che tipo
di persona sono. [86] Come bene intrinseco che trascende il livello del
piacevole, è un amabile oggetto di volontà piuttosto che di appetito (Et. Eud.
VII 2, 1235b22-23), e la volontà è desiderio razionale di beni scelti. [87] Un’analisi
sistematica e comparativa delle nozioni di amicizia e amore in Platone e
Aristotele, è Price (1989). Cfr. anche Kahn (1981). [88] Cfr. Phaedr. 265b-c.
[89] La relazione erotica amante/amato, peraltro, è anche meno significativa e
più instabile di altre relazioni fondate sul piacere – dunque, già di per sé
instabili – in quanto in questo caso il piacere «non deriva dalla stessa fonte»
(l’uno gode nell’esser corteggiato, l’altro nel contemplare l’altro, Et. Nic.
VIII 5, 1157a2-10). [90] Lys. 222a3-7. Proverbi, impicatura proverbiale. A
Errare humanum est.jpg Ab amico reconciliato cave. Guardati da un amico
riconciliato.[1] Absit reverentia vero. Bando ai pudori di fronte alla verità.
(Ovidio) Abusus non tollit usum. L'abuso non esclude l'uso.[2] Accidere ex una
scintilla incendia passim. A volte da una sola scintilla scoppia un
incendio.[3] Ad impossibilia nemo tenetur. Nessuno è obbligato a fare
l'impossibile.[4] Adulator propriis commodis tantum suadet L'adulatore tiene di
mira solo i suoi interessi.[5] (Giulio Cesare) Amantis ius iurandum poenam non
habet. Il giuramento dell'innamorato non si può punire.[6] Amicus certus in re
incerta cernitur. Il vero amico si rivela nelle situazioni difficili.[7]
(Quinto Ennio) Amicus omnibus, amicus nemini. Amico di tutti, amico di
nessuno.[8] Amicus Plato, sed magis amica veritas. Amo Platone, ma amo di più
la verità.[9] (Aristotele) Amor arma ministrat. L'amore procura le armi [agli
amanti perché possano essere grati alla persona amata].[10] (proverbio
medievale) Amor caecus. L'amore è cieco.[11] Amor gignit amorem.[10] Amore
genera amore. Amor tussisque non celatur. L'amore e la tosse non si possono
nascondere.[12] Amoris vulnus sanat idem qui facit. La ferita d'amore la risana
chi la fa.[12] Anceps fortuna belli. Le sorti della guerra sono incerte.[9]
(Cicerone) Aquila non captat muscas. L'aquila non prende mosche.[13] Athenas
noctuas mittere.[14] Mandare nottole ad Atene. Fare cosa inutile e superflua.
Ars est celare artem.[15] La perfezione dell'arte sta nel celarla. Audi, vide,
tace, si vis vivere in pace.[16] Ascolta, guarda e taci, se vuoi vivere in
pace. B Barba virile decus, et sine barba pecus.[17] La barba è decoro
dell'uomo e chi è senza barba è pecoro. Bene qui latuit, bene vixit. Ben visse
chi seppe vivere nell'oscurità.[18] (Ovidio) Beati monoculi in terra caecorum.
Beati i monòcoli nel paese dei ciechi. Bis dat qui cito dat. Dà due volte chi
dà presto.[19] Bis peccat qui crimen negat.[20] È due volte colpevole chi nega
la propria colpa. Bis pueris senes.[21] Il vecchio è due volte fanciullo. Bonis
nocet qui malis parcet. Chi risparmia i malvagi danneggia i buoni.[22] Bonum
nomen, bonum omen.[23] Buon nome, buon augurio. C Caecus non judicat de
colore.[24] Il cieco non giudica i colori. Non si può giudicare ciò che si
sottrae alle nostre attitudini. Caesar non supra grammaticos.[25] Cesare non
(ha autorità) sopra i grammatici. Le persone più altolocate non possono avere
autorità se non su quelle cose di cui s'intendono. Canis caninam non est.[26]
Cane non mangia cane. Carpe diem. Cogli il giorno. (Quinto Orazio Flacco)
Caseus est sanus, quem dat avara manus. Fa bene quel formaggio servito da una
mano avara.[27] Causa patrocinio non bona peior erit. La causa cattiva diventa
peggiore col volerla difendere.[28] (Ovidio) Causa perit iusta, si dextera non
sit onusta.[29] La giusta causa soccombe se la destra non è piena [di denaro].
Cave a signatis. Guàrdati dai segnati.[28] Antico adagio in odio a coloro che
sono affetti da qualche imperfezione fisica: guerci, zoppi, ecc. Cave tibi ab
acquis silentibus. Guàrdati dalle acque chete.[28] Cavendo tutus.[30] Se sarai
cauto, sarai sicuro. Cogito ergo sum. Penso dunque sono. (Cartesio)
Commendatoria verba non obligant.[31] Le parole di raccomandazione non
obbligano. Commune periculum concordiam paret.[32] Il comune pericolo prepari
la concordia. Consuetudo est altera natura. L'abitudine è una seconda
natura.[33] D De gustibus non est disputandum. Sui gusti non si discute.[34]
Difficilis in otio quies. È difficile esser tranquilli nell'ozio.[35] Dulce
bellum inexpertis, expertus metuit. La guerra è dolce per chi non ne ha
esperienza, l'esperto la teme.[36] (proverbio medievale) Dum caput dolet,
caetera membra languent. Quando duole il capo, tutte le membra languono.[37] Dum
Romae consulitur, Saguntum expugnatur. Mentre a Roma si delibera, Sagunto è
espugnata.[38] Dum vinum intrat exit sapientia.[39] Mentre il vino entra, esce
la sapienza. Duo cum faciunt idem, non est idem.[35] Quando due fanno la stessa
cosa, non è più la stessa cosa. E Errare humanum est, perseverare autem
diabolicum.[40] L'errare è cosa umana, il perseverare nella colpa invece è
diabolico. Error hesternus sit tibi doctor hodiernus.[41] L'errore di ieri ti
sia maestro oggi. Est in canitie ridicula Venus. È ridicolo l'amore di un
vecchio.[42] (Proverbio medievale) Est modus in rebus, sunt certi denique fines
| quos ultra citraque nequit consistere rectum. C'è una giusta misura nelle
cose, ci sono giusti confini | al di qua e al di là dei quali non può sussistere
la cosa giusta. (Quinto Orazio Flacco) Ex ungue leonem.[43] Dall'unghia si
conosce il leone. Da un atto compiuto si rivela la forza dell'autore, morale o
materiale. Excusatio non petita fit accusatio manifesta (proverbio
medievale)[44] Chi si scusa senza esserne richiesto s'accusa. F Fabas indulcat
fames.[45] La fame addolcisce le fave. Facile est inventis addere.[46] È facile
aggiungere a ciò che è stato inventato. Facile perit amicitia coacta.[47]
Facilmente muore un'amicizia forzata. Facit experientia cautos.[48]
L'esperienza rende cauti. Fac sapias et liber eris.[49] Fa' di sapere e sarai
libero. Felicium omnes sunt cognati. Tutti sono parenti dei fortunati.[8] Fiat
iustitia et pereat mundus. Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo.
Frangitur ira gravis cum sit responsio suavis.[50] Una dolce risposta infrange
l'ira. Frustra sapiens qui sibi non sapet.[51] Inutilmente sa chi non sa per
sé. G Gutta cavat lapidem. La goccia scava la pietra. H Homo longus raro
sapiens; sed si sapiens, sapientissimus. Un uomo lungo (ossia alto) di rado è
sapiente; ma se è sapiente, è sapientissimo.[52] Homo sine pecunia, imago
mortis. L'uomo senza danaro è l'immagine della morte.[53] I Ianuensis ergo
mercator. Genovese quindi mercante.[54] Imperare sibi maximum imperium est.
Comandare a sé stessi è la forma più grande di comando. (Seneca, Lettere a
Lucilio, CXIII.30) In magno mari capiuntur flumine pisces.[55] Nei grandi fiumi
si pescano i grandi pesci. Nei grandi affari si fanno i grossi guadagni. In
medio stat virtus. La virtù sta nel mezzo. (Orazio) In vino veritas. Nel vino
c'è la verità. L M Magnum vectigal parsimonia.[56] La parsimonia è un gran
capitale. (Cicerone) Major e longiquo reverentia.[56] La riverenza è maggiore
da lontano. (Tacito) Mala gallina, malum ovum.[57] Gallina cattiva, uovo
cattivo. Mea mihi conscientia pluris est quam omnium sermo.[58] Per me val più
la mia coscienza che il discorso di tutti. (Cicerone) Medicus curat, natura
sanat. Il medico cura ma è la natura che guarisce.[59] Melius est abundare quam
deficere. Meglio abbondare che trovarsi in scarsezza.[60] Mors tua vita
mea.[56] La tua morte è la mia vita. Mortui non mordent. I morti non
mordono[61] [truismo] Mortuo leoni et lepores insultant. Anche le lepri
insultano un leone morto.[62] Multi multa, nemo omnia novit. Molti sanno molto,
nessuno sa tutto.[63] N Natura non facit saltus. La natura non procede per
salti.[64] Naturalia non sunt turpia.[65] Le cose naturali non sono turpi. Nemo
non formosus filius matri. Nessun figlio non è bello per sua madre.[66] Ne
pulsato portam alterius, nisi velis pulsetur et tua.[67] Non bussare alla porta
altrui se non vuoi che bussino alla tua. Nihil est in intellectu quod non
fuerit in sensu. Nulla è nell'intelligenza che prima non fosse nel senso[68]
Non omne quod licet honestum est.[69] Non tutto ciò che è lecito è onesto. Non
omnibus dormio. Non dormo per tutti.[70] Nomen omen Il nome è un presagio (v.
anche nomina sunt consequentia rerum e conveniunt rebus nomina saepe suis)
(Plauto, Persa, 625) Nomina sunt consequentia rerum. I nomi sono corrispondenti
alle cose. (Giustiniano, Institutiones, 2, 7, 3) O Omne animal post coitum
triste. Tutti gli animali sono mesti dopo il coito.[71] Omne ignotum pro
terribili.[72] Tutto ciò che è ignoto incute paura. Omnia munda mundis. Per chi
è puro tutto è puro. (Paolo di Tarso) Omnia vincit amor. L'amore vince ogni
cosa. (Virgilio, Bucoliche X, 69) Omnia fert aetas. Il tempo porta via tutte le
cose. (Virgilio) Omnis festinatio ex parte diaboli est.[73] Ogni fretta viene dal
diavolo. P Panem et circenses. Pane e giochi [per distrarre il popolo].
(Giovenale, X 81) Patere quam ipse fecisti legem.[74] Subisci la legge che tu
stesso hai fatta. Pectus est enim quod disertos facit È infatti il cuore che
rende eloquenti (Quintiliano, 10,7,15) Pecunia non olet Il denaro non puzza
(Vespasiano) Per aspera ad astra. Alle stelle [si giunge] attraverso aspri
sentieri.[75] Periculum in mora. Vi è pericolo nel ritardo. (Tito Livio, Ab
urbe condita; XXXVIII, 25) Philosophum non facit barbam.[76] La barba non fa il
filosofo. Primum vivere deinde philosophari (Thomas Hobbes) Prima vivere, poi
fare della filosofia. Q Quando Sol est in Leone, bibe vinum cum pistone. Quando
il sole è in Leone [segno zodiacale], bevi il vino col pistone [a garganella].[77]
Qui aquam Nili bibit rursus bibet.[78] Chi beve l'acqua del Nilo la berrà di
nuovo. È destinato a ritornarvi. Qui asinum non potest, stratum caedit.[79] Chi
non può bastonare l'asino bastona la bardatura. Qui gladio ferit gladio perit.
Chi di spada ferisce di spada perisce.[80] Qui in pergula natus est, aedes non
somniatur. Chi è nato in una capanna, i palazzi non li vede neanche in sogno.
(Petronio, 74,14) Qui jacet in terra non habet unde cadat. Per chi giace in
terra non c'è pericolo di cadere.[81] [truismo] Qui medice vivit, misere vivit.
Chi vive sotto la guida del medico, vive miseramente.[81] Qui scribit, bis
legit. Chi scrive, legge due volte.[82] Quisque faber fortunae suae. Ognuno è
artefice del proprio destino. (Appio Claudio Cieco) Quod differtur non aufertur
Ciò che si dilaziona non lo si perde[83] Quod non potest diabolus mulier
evincit. Ciò che non può il diavolo, l'ottiene la donna.[84] (proverbio
medievale) Quot homines tot sententiae. Tanti uomini, altrettante opinioni.[85]
Quot servi tot hostes. Tanti servi, tanti nemici.[85] R Re opitulandum, non
verbis.[86] L'aiuto va dato con i fatti, non con le parole. Rem tene, verba
sequentur Possiedi l'argomento e le parole seguiranno. (Marco Porcio Catone)
Res satis est nota, plus foetent stercora mota.[87] È cosa nota: lo sterco più
è stuzzicato e più puzza. S Salus extra Ecclesiam non est[88] Al di fuori della
Chiesa non v'è salvezza (Tascio Cecilio Cipriano, Lettera, 73, 21) Sapiens
nihil affirmat quod non probet.[89] Il saggio nulla afferma che non possa
provare. Satis quod sufficit.[90] Ciò che è sufficiente al bisogno, basta.
Semel abas, semper abas.[91] Una volta abate, sempre abate. Proverbio
medioevale, affermante che chi ha vestito una volta l'abito sacerdotale non può
spogliarsi più delle idee e delle abitudini ecclesiastiche. Significa anche,
per estensione, che si conservano sempre le idee una volta acquistate. Semel in
anno licet insanire. Una volta all'anno è lecito fare follie. (Seneca)
Senatores boni viri: senatus autem mala bestia.[92] I senatori sono brava
gente; ma il senato è una cattiva bestia. Sero venientibus ossa.[93] Per chi
viene troppo tardi restano le ossa. Si vis pacem, para bellum. Se vuoi la pace
prepara la guerra. (Vegezio) Sicut mater, ita et filia eius. Quale la madre,
tale anche la figlia.[94] Simia simia est, etiamsi aurea gestet insignia.[95]
La scimmia resta sempre scimmia, anche se indossa ornamenti d'oro. Sol lucet
omnibus.[96] Il sole splende per tutti. Vi sono delle cose di cui tutti gli
uomini possono godere. Sorex suo perit indicio.[97] Il topo perisce per essersi
rivelato da sé. Sublata causa, tollitur effectum.[98] Soppressa la causa,
scompare l'effetto. T Timeo Danaos et dona ferentes. Io temo comunque i Greci,
anche se recano doni. (Publio Virgilio Marone) U Ubi maior, minor cessat.
Dinanzi al più forte, il debole scompare.[8] Ubi opes, ibi amici. Dove sono le
ricchezze, lì sono anche gli amici.[8] Ubi uber, ibi tuber.[99] Dove è la
mammella, ivi è il tumore. Dove c'è abbondanza, ivi si forma il marciume, la
corruzione. V Verba movent, exempla trahunt.[100] Le parole commuovono, ma gli
esempi trascinano. Verba volant, scripta manent.[101] Le parole volano, gli
scritti restano. Vigilantibus, non dormientibus, jura succurunt.[102] Le leggi
forniscono aiuto ai vigilanti, non ai dormienti. Vinum lac senum.[103] Il vino
è il latte dei vecchi. Vulgus vult decipi, ergo decipiatur. Il popolo (il
mondo) vuole essere ingannato, e allora sia ingannato.[104] Note Citato in Mastellaro, p. 21. Citato in Tosi 2017, n. 1408. Citato in Tosi 2017, n. 1010. Citato in 2005, p. 6. Citato in Mastellaro, p. 11. Citato in Mastellaro, p. 25. Citato in Mastellaro, p. 18. Citato in Mastellaro, p. 20. Citato e tradotto in 2005, p. 15. Citato in De Mauri, p. 27. Citato in Mastellaro, p. 24. Citato in Mastellaro, p. 23. Citato in Tosi 2017, n. 2265. Citato, con spiegazione, in Umberto Bosco,
Lessico universale italiano, vol. XV, Istituto della Enciclopedia italiana,
Roma, 1968, p. 59. Citato e tradotto in
2005, § 169. Citato e tradotto in 2005,
§ 188. Citato e tradotto in 2005, §
215. Citato con traduzione in 2005, p.
28. Citato in 1921, p. 43, § 161. Citato e tradotto in 2005, § 243. Citato e tradotto in Lo Forte, § 148. Citato con traduzione in 2005, p. 30. Citato e tradotto in 2005, § 256. Citato e tradotto in Lo Forte, § 154. Citato e tradotto in Lo Forte, § 155. Citato e tradotto in 2005, § 280. Citato in Andrea Perin e Francesca Tasso (a
cura di), Il sapore dell'arte, Skira, Milano, 2010, p. 41. Citato e tradotto in 2005, p. 37. Citato e tradotto in 2005, § 305. Citato e tradotto in 2005, § 312. Citato e tradotto in 2005, § 343. Citato e tradotto in 2005, § 344. Citato in Mastellaro, p. 9. Citato in 2005, p. 57. Citato in Arthur Schopenhauer, Aforismi sulla
saggezza nella vita, traduzione di Oscar Chilesotti, Dumolard, Milano,
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2005, § 732. Citato e tradotto in 2005,
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741. Citato e tradotto in 2005, §
744. Citato e tradotto in 2005, §
747. Citato e tradotto in 2005, § 829. Citato e tradotto in 2005, § 835. Citato in 2005, p. 108. Citato in 2005, p. 109, § 941. Citato in Filippo Ruschi, Questioni di
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Editore, Citato e tradotto in 2005, § 1072.
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Olman, Zwei Mädchen suchen ihr Glück: Caleidoscopio berlinese, Edizioni
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2005, p. 248. (DE) Citato in Friedrich
Otto Bittrich, Ägypten und Libyen, Safari-Verlag, Berlino, 1953, p. 7. Citato e tradotto in 2005, § 2167. Dal Vangelo:... tutti quelli che mettono mano
alla spada periranno di spada (Mt 26:52).
Citato in 2005, p. 256. Citato in
2005, p. 258. Citato in Tosi 2017, n.
1174. Citato in De Mauri, p. 171. Citato in 2005, p. 266. Citato e tradotto in 2005, § 2342. Citato e tradotto in 2005, § 2363. Spesso la frase viene attribuita a Cipriano
in una forma diversa: Extra Ecclesiam nulla salus. Citato e tradotto in 2005, § 2415. Citato e tradotto in 2005, § 2421. Citato e tradotto in Lo Forte, § 1034. Citato e tradotto in 2005, § 2457. Citato e tradotto in 2005, § 2472. Citato in 1921, p. 138, § 465. Citato e tradotto in 2005, § 2528. Citato e tradotto in Lo Forte, § 1079. Citato e tradotto in 2005, § 2606. Citato e tradotto in Lo Forte, § 1097. Citato e tradotto in Lo Forte, § 1169. Citato e tradotto in Lo Forte, § 1203. Citato e tradotto in Lo Forte, § 1204. Citato e tradotto in Lo Forte, § 1216. Citato in Proverbi siciliani raccolti e
confrontati con quelli degli altri dialetti d'Italia da Giuseppe Pitrè, Luigi
Pedone Lauriel, Palermo, 1880, vol. IV, p. 140.
Traduzione in voce su Wikipedia. Bibliografia L. De Mauri, 5000 proverbi
e motti latini, seconda edizione, Hoepli, Milano, 2006. ISBN 978-88-203-0992-0
Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, Milano, 1921. Giuseppe Fumagalli,
L'ape latina, Hoepli, Milano, 2005. ISBN 88-203-0033-8 Giacomo Lo Forte, Ad
hoc, Sandron, 1921. Paola Mastellaro, Il libro delle citazioni latine e greche,
Mondadori, Milano, 2012. ISBN 978-88-04-47133-2. Gustavo Benelli, Raccolta di
proverbi, massime morali, aneddoti, ed altro, Carnesecchi, Firenze, 1876. Renzo
Tosi, Dizionario delle sentenze latine e greche, Rizzoli, 2017. Voci correlate
Modi di dire latini Lingua latina Palindromi latini Categorie: Lingua
latinaProverbi per nazione. Proverbi
Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi: Proverbi toscani. A A brigante
brigante e mezzo.[fonte 1] A buon cavalier non manca lancia.[fonte 2] A buon
cavallo non manca sella.[fonte 2] A buon cavallo non occorre dir trotta.[fonte
3] A buon intenditor poche parole.[1][fonte 2] A caldo autunno segue lungo
inverno.[fonte 4] A cane scottato l'acqua fredda par calda.[fonte 5] A cane
vecchio non dargli cuccia.[fonte 2] A carnevale ogni scherzo vale, ma che sia
uno scherzo che sa di sale.[fonte 6] A caval che corre, non abbisognano
speroni.[fonte 3] A caval donato non si guarda in bocca.[2][fonte 2] A cavalier
novizio, cavallo senza vizio.[fonte 3] A cavallo d'altri non si dice
zoppo.[fonte 3] A cavallo di fuoco, uomo di paglia, a uomo di paglia, cavallo
di fuoco.[fonte 3] A cavallo giovane, cavalier vecchio.[fonte 3] A caval nuovo
cavaliere vecchio.[fonte 2] A chi batte forte, si apron le porte.[fonte 7] A
chi Dio vuole aiutare, niente gli può nuocere.[fonte 4] A chi fortuna zufola,
ha un bel ballare.[fonte 4] A chi ha abbastanza, non manca nulla.[fonte 4] A
chi mangia sempre polli vien voglia di polenta.[fonte 8] A chi non piace il
vino, il Signore faccia mancar l'acqua.[fonte 8] A chi non può imparare
l'abbicì, non si può dare in mano la Bibbia.[fonte 4] A chi non vuol credere,
poco valgono mille testimoni.[fonte 8] A chi non vuol credere sono inutili
tutte le prove.[fonte 8] A chi non vuol far fatiche, il terreno produce ortiche.[fonte
9] A chi prende moglie ci vogliono due cervelli.[fonte 4] A chi tanto e a chi
niente.[fonte 2] A chi troppo e a chi niente.[fonte 10] A chi ti dà il cappone,
dagli la coscia e l'alone.[fonte 8] A chi ti porge un dito non prendere la
mano.[fonte 2] A chi vuole fare del male non manca l'occasione.[fonte 4] A
ciascun giorno basta la sua pena.[3][fonte 2] A ciascuno sta bene il proprio
abito.[fonte 4] A donna di gran bellezza, dalla poca larghezza.[fonte 4] A duro
ceppo, dura accetta.[fonte 4] A goccia a goccia si scava la pietra.[4][fonte
11] A goccia a goccia s'incava la pietra.[fonte 2] A gran salita, gran
discesa.[fonte 4] A granello a granello si riempie lo staio e si fa il
monte.[fonte 4] A grassa cucina povertà vicina.[fonte 4] A lavar la testa
all'asino si perde il ranno e il sapone.[fonte 12] A lume spento è pari ogni
bellezza.[fonte 4] A mali estremi estremi rimedi.[fonte 1] A muro basso ognuno
ci si appoggia.[fonte 1] A nemico che fugge ponti d'oro.[fonte 1] A ogni
uccello suo nido è bello.[fonte 1] A padre avaro figliuol prodigo.[fonte 13] A
pancia piena si ragiona meglio.[fonte 8] A pagare e a morire c'è sempre
tempo.[fonte 14] A paragone del molto che ignoriamo, è meno di niente quanto
noi sappiamo.[fonte 4] A pazzo relatore, savio ascoltatore.[fonte 8] A pensar
male, s'indovina sempre.[fonte 15] A pensar male ci s'indovina.[fonte 2] A
pentola che bolle, gatta non s'accosta.[fonte 8] A rubar poco si va in galera,
a rubar tanto si fa carriera.[fonte 1] A san Lorenzo il dente la noce già sente.[fonte
2] A san Martino [11 novembre], apri la botte e assaggia il vino.[fonte 8] A
San Martino ogni mosto è vino.[fonte 16] A san Mattia la neve va via.[fonte 4]
A scherzar con la fiamma, ci si scotta.[fonte 17] A tal fortezza, tal
trincea.[fonte 4] A torto si lagna del mare chi due volte ci vuole
tornare.[fonte 4] A tutto c'è rimedio fuorché alla morte.[fonte 1] A usanza
nuova non correre.[fonte 2] Abbattuto l'albero scompare l'ombra.[fonte 8]
Accasa il figlio quando vuoi, e la figlia quando puoi.[fonte 18] Acquista buona
fama e mettiti a dormire.[fonte 4] Ai bugiardi e agli spacconi non è
creduto.[fonte 8] Ai voli troppo alti e repentini sogliono i precipizi esser
vicini.[fonte 19] A voli troppo alti e repentini sogliono i precipizi esser
vicini.[fonte 2] Abate cupido, per un'offerta ne perde cento.[fonte 4] Abate
rigoroso rende i frati penitenti.[fonte 4] Abbi piuttosto il piccolo per amico,
che il grande per nemico.[fonte 8] Abiti stranieri, costumi stranieri; costumi
stranieri, gente straniera; la gente straniera sloggia gli antichi
abitanti.[fonte 4] Abito troppo portato e donna troppo vista vengono presto a
noia.[fonte 4] Abbondanza genera baldanza.[fonte 4] Accade in un'ora quel che
non avviene in mill'anni.[fonte 2] Accade in un'ora quel che non avviene in
cent'anni.[fonte 2] Accendere una candela ai Santi e una al diavolo.[fonte 4]
Accendere una fiaccola per far lume al sole.[fonte 4] Acqua che corre non porta
veleno.[fonte 4] Acqua cheta rompe i ponti.[fonte 16] Acqua di san Lorenzo [10
agosto] venuta per tempo; se alla Madonna viene va ancora bene; tardiva sempre
buona quando arriva.[fonte 2] Acqua e chiacchiere non fanno frittelle.[fonte
20] Acqua lontana non spegne il fuoco.[fonte 21] Acqua passata, non macina
più.[fonte 22] Ad albero vecchio ed a muro cadente, non manca mai edera.[fonte
4] Ad ogni primavera segue un autunno.[fonte 4] Ad ognuno la sua croce.[fonte
23] Ad ognuno pare bello il suo.[fonte 4] Ad un grasso mezzogiorno spesso tien
dietro una cena magra.[fonte 4] Agosto ci matura il grano e il mosto[fonte 16].
Agosto: moglie mia non ti conosco.[5][6][fonte 1] Ai macelli van più bovi che
vitelli.[fonte 2] Ai pazzi ed ai fanciulli, non si deve prometter nulla.[fonte
8] Ai pazzi si dà sempre ragione.[fonte 8] Aiutati che Dio t'aiuta.[fonte 24]
Aiutati che il ciel t'aiuta.[fonte 25] Aiutati che io ti aiuto.[fonte 16] Al
baciarsi presto tien dietro il coricarsi.[fonte 4] Al bisogno si conosce
l'amico.[fonte 1] Al buio la villana è bella quanto la dama.[fonte 2] Al buio,
le donne sono tutte uguali.[fonte 8] Al buio tutti i gatti sono bigi.[fonte 16]
Al confessor, medico e avvocato, non tenere il ver celato.[fonte 26] Al
confessore, al medico e all'avvocato non si tiene il ver celato.[fonte 2] Al
contadin non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere.[fonte 1] Al
cuore non si comanda.[fonte 1] Al cuor non si comanda.[fonte 27] Al cazzo non
si comanda.[fonte 2] Al culo non si comanda.[fonte 28] Al destino non si
comanda.[fonte 2] Al tempo non si comanda.[fonte 2] Al tempo e al culo non si
comanda.[fonte 2] Al debole il forte sovente fa torto.[fonte 8] Al fratello
piace più veder la sorella ricca, che farla tale.[fonte 8] Al levar le tende si
conosce il guadagno.[fonte 4] Al gatto che lecca lo spiedo non affidar
arrosto.[fonte 8] Al genio non si danno le ali, ma le si tagliano.[fonte 4] Al
medico, al confessore e all'avvocato, bisogna dire ogni peccato.[fonte 8] Al
povero manca il pane, al ricco l'appetito.[fonte 8] Al primo colpo non cade
l'albero.[fonte 2] Al primo colpo non cade un albero.[fonte 2] Al suono si
riconosce la pignata.[fonte 29] Al villano, se gli porgi il dito, si prende la
mano.[fonte 30] All'A tien dietro il B nel nostro abbicì.[fonte 4] All'eco
spetta l'ultima parola.[fonte 4] All'orsa paion belli i suoi
orsacchiotti.[fonte 8] All'uccello ingordo crepa il gozzo.[fonte 2] All'ultimo
si contano le pecore.[fonte 1] All'umiltà felicità, all'orgoglio
calamità.[fonte 8] Alla fame è presto ridotto chi s'imbarca senza
biscotto.[fonte 4] Alla fine anche le pernici allo spiedo vengono a noia.[fonte
8] Alla fine loda la vita e alla sera loda il giorno.[7][fonte 4] Alla fine
loda la vita e alla sera il giorno.[fonte 2] Alla guerra si va pieno di denari
e si torna pieni di vizi e di pidocchi.[fonte 4] Alle barbe dei pazzi, il
barbiere impara a radere.[fonte 8] Alle volte si crede di trovare il sole
d'agosto e si trova la luna di marzo.[fonte 8] Altri tempi, altri
costumi.[fonte 2] Alzati presto al mattino se vuoi gabbare il tuo vicino.[fonte
8] Ambasciator non porta pena.[fonte 2] Amare e non essere amato è tempo
perso.[fonte 4] Ambasciatore che tarda notizia buona che porta.[fonte 2]
Amicizia che cessa, non fu mai vera.[fonte 4] Amico beneficato, nemico
dichiarato.[fonte 4] Amico di buon tempo mutasi col vento.[fonte 4] Amico di
ventura, molto briga e poco dura.[fonte 31] Ammogliarsi è un piacere che costa
caro.[fonte 4] Amor che nasce di malattia, quando si guarisce passa via.[fonte
8] Amor di nostra vita ultimo inganno.[8][fonte 32] Amor, dispetto, rabbia e
gelosia, sul cuore della donna han signoria.[fonte 8] Amor nuovo va e viene,
amor vecchio si mantiene.[fonte 8] Amor regge il suo regno senza spada.[fonte
32] Amore con amor si paga.[fonte 2] Amore di parentato, amore
interessato.[fonte 4] Amore di villeggiatura poco vale e poco dura.[fonte 2]
Amore di fratello, amore di coltello.[fonte 8] Amore è il vero prezzo con che
si compra amore.[fonte 33] Amore non si compra né si vende.[fonte 33] Amore
onorato, né vergogna né peccato.[fonte 8] Amore scaccia amore.[fonte 4] Anche
fra le spine nascono le rose.[fonte 34] Anche i fanciulli diventano
uomini.[fonte 4] Anche il più verde diventa fieno.[fonte 4] Anche il sole ha le
sue macchie.[fonte 4] Anche l'abate fu prima frate.[fonte 4] Anche l'ambizione
è una fame.[fonte 4] Anche la legna storta dà il fuoco diritto.[fonte 4] Anche
la regina Margherita mangia il pollo con le dita.[fonte 35] Anche le bestie le
ha fatte il Signore.[fonte 8] Anche le colombe hanno il fiele.[fonte 4] Anche
le pulci hanno la tosse.[fonte 2] Anche le uova della gallina nera sono
bianche; ma staremo a vedere se anche i suoi pulcini sono bianchi.[fonte 4]
Anche un giogo dorato pesa.[fonte 8] Andar presto a dormire e alzarsi presto
chiude la porta a molte malattie.[fonte 8] Andar bestia, e tornar bestia, dice
il moro.[fonte 36] Anno nevoso anno fruttuoso.[fonte 16] Anno nuovo vita
nuova.[fonte 1] Approfitta degli errori degli altri, piuttosto che
censurarli.[fonte 4] Aprile dolce dormire.[9][fonte 2] Aprile e maggio sono la
chiave di tutto l'anno.[fonte 4] Aprile ogni goccia un barile.[10][fonte 2]
Aprile piovoso, maggio ventoso, anno fruttuoso.[fonte 4] Ara nel mare e nella
rena semina, chi crede alle parole della femmina.[fonte 8] Arcobaleno porta il
sereno.[fonte 2] Aria rossa o piscia o soffia.[fonte 2] Asino che ha fame mangia
d'ogni strame.[fonte 2] Assai bene balla a chi fortuna suona.[fonte 4] Assai
digiuna chi mal mangia.[fonte 8] Assai domanda chi ben serve e tace.[fonte 37]
Assai domanda chi si lamenta.[fonte 8] Assalto francese e ritirata
spagnola.[fonte 2] Attacca l'asino dove vuole il padrone e, se si rompe il
collo, suo danno.[fonte 1] Avuta la grazia, gabbato lo santo.[fonte 8] B Bacco,
tabacco e Venere riducon l'uomo in cenere.[fonte 2] Ballaremo secondo che voi
suonerete.[fonte 4] Bandiera rotta onor di capitano. Bandiera vecchia onor di
capitano.[fonte 2] Basta un matto per casa.[fonte 8] Batti il ferro finché è
caldo. Batti il ferro quando è caldo.[fonte 1] Bei gatti e grossi letamai
mostrano il buon agricoltore.[fonte 38] Bella cosa presto è rapita.[fonte 4] Bella
in vista, dentro è trista.[fonte 4] Bella ostessa, conti traditori.[fonte 2]
Bella ostessa, brutti conti.[fonte 39] Bell'ostessa, conto caro.[fonte 40]
Bella vigna poca uva.[fonte 2] Bellezza di corpo non è eredità.[fonte 4]
Bellezza e follia vanno spesso in compagnia.[fonte 41] Bello in fasce brutto in
piazza.[fonte 1] Ben sa la botte di qual vino è piena.[fonte 4] Ben si caccia
il diavolo, ma Satana ritorna.[fonte 4] Bene per male è carità, male per bene è
crudeltà.[fonte 8] Bene educato, non mentì mai.[fonte 4] Bene perduto è
conosciuto.[fonte 4] Beni di fortuna passano come la luna.[fonte 2] Bevi il
vino e lascia andar l'acqua al mulino.[fonte 8] Bisogna dire pane al pane e
vino al vino.[fonte 2] Bisogna far buon viso a cattivo gioco.[fonte 1] Bisogna
fare di necessità virtù.[fonte 2] Bisogna fare il pane con la farina che si
ha.[fonte 4] Bisogna fare la festa quando cade, e prendere il tempo come
viene.[fonte 4] Bisogna fare la festa quando è il santo.[fonte 4] Bisogna
mangiare per vivere e non vivere per mangiare.[fonte 2] Bisogna prendere gli
avvenimenti quando Dio li manda.[fonte 4] Bocca che tace nessuno l'aiuta.[fonte
2] Bocca che tace mal si può aiutare.[fonte 42] Bocca chiusa ed occhio aperto
non fecero mai male a nessuno.[fonte 4] Botte buona fa buon vino.[fonte 2]
Brutta cosa è il povero superbo e il ricco avaro.[fonte 8] Brutta di viso ha
sotto il paradiso.[fonte 2] Brutto in fasce bello in piazza.[fonte 1] Buca il
marmo fin d'acqua una goccia.[fonte 8] Bue sciolto lecca per tutto.[fonte 8]
Bue fiacco stampa più forte il piede in terra.[fonte 4] Bue vecchio, solco
diritto.[fonte 4] Buon fuoco e buon vino, scaldano il mio camino.[fonte 8] Buon
sangue non mente.[fonte 2] Buon tempo e mal tempo non dura tutto il
tempo.[fonte 1] Buon vino e bravura, poco dura.[fonte 8] Buon vino fa buon
sangue.[fonte 1][fonte 8] Buon vino, favola lunga.[fonte 8] Buona fama presto è
perduta.[fonte 4] Buona greppia, buona bestia.[fonte 8] Buona guardia giova a
molte cose.[fonte 4] Buona la forza, migliore l'ingegno.[fonte 4] Buone parole
e pere marce non rompono la testa a nessuno.[fonte 31] Burlando si dice il
vero.[fonte 4] C Cader non può, chi ha la virtù per guida.[fonte 4] Cambiano i
suonatori ma la musica è sempre quella.[fonte 1] Cambiare e migliorare sono due
cose; molto si cambia nel mondo, ma poco si migliora.[fonte 4] Campa cavallo
che l'erba cresce.[fonte 2] Campa, cavallo mio, che l'erba cresce.[fonte 1] Can
che abbaia non morde.[fonte 1] Cane affamato non teme bastone.[11][fonte 2]
Cane e gatta tre ne porta e tre ne allatta.[fonte 8] Cane non mangia
cane.[fonte 43] Cane ringhioso e non forzoso, guai alla sua pelle![fonte 4]
Capelli lunghi, cervello corto.[fonte 4] Carta canta e villan dorme.[fonte 1]
Casa fatta e vigna posta, non si sa quello che costa.[fonte 44] Casa mia, casa
mia, per piccina che tu sia, tu mi sembri una badia.[fonte 45] Casa mia, casa
mia, benché piccola tu sia, tu mi sembri una badia.[fonte 2] Casa mia, casa
mia, pur piccina che tu sia mi sembri una badia.[fonte 9] Castiga il buono e si
emenderà; castiga il cattivo e peggiorerà.[fonte 4] Cattivo cominciamento, fine
peggiore.[fonte 8] Cavallo da vettura, poco costa e poco dura.[fonte 46]
Cavallo vecchio, tardi muta ambiatura.[fonte 47] Cavolo riscaldato non fu mai
buono.[fonte 2] Cavolo riscaldato, frate sfratato e serva ritornata non furon
mai buoni.[fonte 2] Cento teste, cento cappelli.[fonte 48] Certe macchie ben si
possono grattare ma non togliere.[fonte 4] Cessato il guadagno, cessata
l'amicizia.[fonte 49] Chi a tutti facilmente crede, ingannato si vede.[fonte 4]
Chi accarezza la mula rimedia calci.[fonte 2] Chi accarezza la mula buscherà
calci.[fonte 2] Chi accetta l'eredità accetti anche i debiti.[fonte 4] Chi ad
altri inganni tesse, poco bene per sé ordisce.[fonte 4] Chi alza il piede per
ogni paglia, si può rompere facilmente una gamba.[fonte 8] Chi ama me, ama il
mio cane.[fonte 50] Chi ara terra bagnata, per tre anni l'ha dissipata.[fonte
51] Chi asino nasce, asino muore.[fonte 4] Chi balla senza suono, come asino si
ritrova.[fonte 52] Chi ben coltiva il moro, coltiva nel suo campo un gran
tesoro.[fonte 47] Chi ben comincia è a metà dell'opera.[fonte 53] Chi ben
comincia è alla metà dell'opera.[fonte 2] Chi ben comincia è alla metà
dell'opra.[fonte 1] Chi bene semina, bene raccoglie.[fonte 4] Chi beve vin,
campa cent'anni.[fonte 54] Chi beve birra campa cent'anni.[12][fonte 2] Chi
biasima il suo prossimo che è morto, dica il vero, dica il falso, ha sempre
torto.[fonte 4] Chi caccia volentieri trova presto la lepre.[fonte 4] Chi cade
in povertà, perde ogni amico.[fonte 4] Chi cava e non mette, le possessioni si
disfanno.[fonte 55] Chi cavalca o trotta alla china, o non è sua la bestia, o
non la stima.[fonte 8] Chi cento ne fa una ne aspetta.[fonte 1] Chi cerca di
sapere ciò che bolle nella pentola d'altri, ha leccate le sue.[fonte 8] Chi
cerca lealtà e fedeltà nel mondo, non trova che ipocrisia.[fonte 4] Chi cerca,
trova.[13][fonte 2] Chi cerca trova e chi domanda intende.[fonte 2] Chi coglie
acerbo il senno, maturo ha sempre d'ignoranza il frutto.[fonte 8] Chi comincia
in alto, finisce in basso.[fonte 8] Chi compra il superfluo, si prepara a
vendere il necessario.[fonte 56] Chi compra sprezza e chi ha comprato
apprezza.[fonte 2] Chi conserva per l'indomani, conserva per il cane.[fonte 8]
Chi contro Dio getta la pietra, in capo gli torna.[fonte 8] Chi d'estate secca
serpi, nell'inverno mangia anguille.[fonte 4] Chi d'estate vuole stare al
fresco, ci starà anche d'inverno.[fonte 4] Chi da gallina nasce, convien che
razzoli.[fonte 8] Chi da savio operare vuole, pensi al fine.[fonte 4] Chi dà
ghiande non può riavere confetti.[fonte 4] Chi di gallina nasce convien che
razzoli.[fonte 2] Chi dal lotto spera soccorso, mette il pelo come un
orso.[fonte 8] Chi dà per ricevere, non dà nulla.[fonte 8] Chi del vino è
amico, di se stesso è nemico.[fonte 8] Chi di spada ferisce di spada
perisce.[14][fonte 1] Chi di speranza vive disperato muore.[fonte 1] Chi di una
donna brutta s'innamora, lieto con essa invecchia e l'ama ancora.[fonte 8] Chi
di coltel ferisce, di coltel perisce.[fonte 4] Chi di spirito e di talenti è
pieno domina su quelli che ne hanno meno.[fonte 4] Chi dice A arrivi fino alla
Z.[fonte 4] Chi dice A deve dire anche B.[fonte 4] Chi dice donna dice
danno.[fonte 1] Chi dice donna dice guai, chi dice uomo peggio che mai.[fonte
8] Chi dice male, l'indovina quasi sempre.[fonte 4] Chi dice quel che vuole
sente quel che non vorrebbe.[fonte 1] Chi disprezza compra.[fonte 1] Chi
disprezza vuol comprare e chi loda vuol lasciare.[fonte 2] Chi domanda ciò che
non dovrebbe, ode quel che non vorrebbe.[fonte 2] Chi domanda non erra.[fonte
2] Chi domanda non fa errore.[fonte 57] Chi dopo la polenta beve acqua, alza la
gamba e la polenta scappa.[fonte 8] Chi dorme d'agosto dorme a suo costo.[fonte
2] Chi dorme non piglia pesci.[15][fonte 1] Chi è causa del suo mal pianga se
stesso.[16][fonte 1] Chi è bugiardo è ladro.[fonte 4] Chi è destinato alla
forca non annega.[fonte 58] Chi è generoso con la bocca, è avaro col
sacco.[fonte 4] Chi è in difetto è in sospetto.[fonte 1] Chi è mandato dai
farisei è ingannato dai farisei.[fonte 4] Chi è morso dalla serpe, teme la
lucertola.[fonte 8] Chi non è savio, paziente e forte si lamenti di sé, non
della sorte.[fonte 8] Chi è schiavo delle ambizioni ha mille padroni.[fonte 4]
Chi è stato trovato una volta in frode, si presume vi sia sempre.[fonte 4] Chi
è svelto a mangiare è svelto a lavorare.[fonte 1] Chi è tosato da un usuraio,
non mette più pelo.[fonte 8] Chi è uso all'impiccare, non teme la forca.[fonte
4] Chi fa da sé fa per tre.[17][fonte 1] Chi fa come il prete dice, va in
Paradiso: ma chi fa come il prete fa, a casa del diavolo se ne va.[18] Chi fa
del bene agli ingrati, Dio lo considera per male.[fonte 4] Chi fa il male odia
la luce.[fonte 4] Chi fa l'altrui mestiere, fa la zuppa nel paniere.[fonte 59]
Chi fa la legge, deve conservarla.[fonte 4] Chi fa una legge, deve anche
preoccuparsi che sia eseguita.[fonte 4] Chi fa le fave senza concime le
raccoglie senza baccelli.[fonte 2] Chi fa falla e chi non fa sfarfalla.[fonte
1] Chi fa un'ingiustizia, la dimentica; chi la riceve, se ne ricorda.[fonte 4]
Chi fosse indovino, sarebbe ricco.[fonte 4] Chi fugge il giudizio, si
condanna.[fonte 4] Chi fugge un matto, ha fatto buona giornata.[fonte 8] Chi
getta un seme lo deve coltivare, se vuol vederlo con il tempo
germogliare.[fonte 60] Chi gioca al lotto, è un gran merlotto.[fonte 8] Chi
gioca al lotto, in rovina va di botto.[fonte 8] Chi gioca al lotto, in rovina
va di trotto.[fonte 8] Chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato.[fonte 16].
Chi ha avuto il beneficio, se lo dimentica.[fonte 4] Chi ha da far con un
incostante, tien l'anguilla per la coda.[fonte 4] Chi ha denti non ha pane e
chi ha pane non ha denti.[fonte 1] Chi ha farina non ha la sacca.[fonte 1] Chi
ha fatto ingiuria ad altri, da altri convien che la sopporti.[fonte 4] Chi ha
il capo di cera, non vada al sole.[fonte 61] Chi ha imbarcato il diavolo, deve
stare in sua compagnia.[fonte 4] Chi ha ingegno, lo mostri.[fonte 62] Chi ha
per letto la terra, deve coprirsi col cielo.[fonte 8] Chi ha polvere
spara.[fonte 1] Chi ha portato la tonaca puzza sempre di frate.[fonte 2] Chi ha
prete, o parente in corte, fontana gli risorge.[fonte 63] Chi ha tempo, ha
vita.[fonte 64] Chi ha tempo non aspetti tempo.[fonte 1] Chi ha terra, ha
guerra.[fonte 56] Chi ha tutto il suo in un loco l'ha nel fuoco.[fonte 2] Chi
ha un mestiere in mano, dappertutto trova pane.[fonte 4] Chi il vasto mare
intrepido ha solcato, talvolta in piccol rio muore annegato.[fonte 65] Chi la
dura la vince.[fonte 1] Chi la fa l'aspetti.[fonte 1] Chi lascia la via vecchia
per la nuova sa quel che lascia ma non sa quel che trova.[fonte 1] Chi lascia
la via vecchia per la nuova peggio si trova.[fonte 16] Chi lavora con
diligenza, prega due volte.[fonte 4] Chi lavora, Dio gli dona.[fonte 4] Chi mal
semina mal raccoglie.[fonte 1] Chi male una volta si marita, ne risente tutta
la vita.[fonte 4] Chi male vive, male muore.[fonte 2] Chi maltratta le bestie,
non la fa mai bene.[fonte 8] Chi mangia sempre pan bianco, spesso desidera il
nero.[fonte 8] Chi mangia sempre torta se ne sazia.[fonte 8] Chi mena per primo
mena due volte.[fonte 1] Chi molto parla, spesso falla.[fonte 66] Chi mordere
non può non mostri i denti.[fonte 40] Chi muore giace e chi vive si dà
pace.[fonte 1] Chi nasce afflitto muore sconsolato.[fonte 1] Chi nasce è bello,
chi si sposa è buono e chi muore è santo.[fonte 1] Chi nasce matto non guarisce
mai.[fonte 8] Chi nasce tondo non può morir quadrato.[fonte 57] Chi non ama le
bestie, non ama i cristiani.[fonte 8] Chi non apre la bocca, non le piove
dentro.[fonte 4] Chi non beve in compagnia o è un ladro o è una spia.[fonte 1]
Chi non caccia non prende.[fonte 4] Chi non comincia non finisce.[fonte 1] Chi
non crede di esser matto, è matto davvero.[fonte 8] Chi non crede in Dio, non
crede nel diavolo.[fonte 67] Chi non dà a Cristo, dà al fisco.[fonte 8] Chi non
è con me è contro di me.[fonte 2] Chi non è volpe, dal lupo si guardi, perché
ne sarà preda presto o tardi.[fonte 4] Chi non fu buon soldato, non sarà buon
capitano.[fonte 68] Chi non ha fede, non ne può dare.[fonte 8] Chi non ha il
gatto mantiene i topi e chi ce l'ha li mantiene tutti e due.[fonte 8] Chi non
ha imparato a ubbidire, non saprà mai comandare.[fonte 8] Chi non ha testa
abbia gambe.[fonte 57] Chi non lavora non mangia.[fonte 2] Chi non mangia ha
già mangiato.[fonte 2] Chi non muore si rivede.[fonte 2] Chi non naufragò in
mare, può naufragare in porto.[fonte 8] Chi non può bastonare il cavallo,
bastona la sella.[fonte 4] Chi non risica, non rosica.[fonte 1] Chi non sa
adulare non sa regnare.[fonte 4] Chi non sa fare non sa comandare.[fonte 68]
Chi non sa leggere la sua scrittura è asino di natura.[fonte 69] Chi non sa
niente non è buono a niente.[fonte 4] Chi non sa tacere non sa parlare.[fonte
2] Chi non sa ubbidire, non sa comandare.[fonte 68] Chi non segue il consiglio
dei genitori, tardi se ne pente.[fonte 4] Chi non semina non raccoglie.[fonte
2] Chi non si innamora da giovane, si innamora da vecchio.[fonte 8] Chi non
trovò ombra nell'estate, la troverà nell'inverno.[fonte 4] Chi non vuol essere
consigliato, non può essere aiutato.[fonte 4] Chi parla due lingue è doppio
uomo.[fonte 70] Chi pecca in segreto fa la penitenza pubblica.[fonte 8] Chi
pecora si fa, il lupo se la mangia.[fonte 1] Chi per grazia prega, non ha mai
bene.[fonte 4] Chi perde ha sempre torto.[fonte 1] Chi perdona senza
dimenticare, non perdona che metà.[fonte 4] Chi pesca con l'amo d'oro, qualcosa
piglia sempr e.[fonte 8] Chi piglia leone in assenza, teme la talpa in
presenza.[fonte 8] Chi più ha più vuole.[fonte 1] Chi più ha più ne
vorrebbe.[fonte 2] Chi più lavora, meno mangia.[fonte 4] Chi più ne fa è fatto
papa.[fonte 4] Chi più ne ha più ne metta.[fonte 2] Chi più sa meno
crede.[fonte 1] Chi più spende meno spende.[fonte 2] Chi poco sa presto
parla.[fonte 2] Chi porta fiori, porta amore.[fonte 8] Chi predica al deserto,
perde il sermone.[fonte 71] Chi prende l'anguilla per la coda, può dire di non
tenere nulla.[fonte 4] Chi prima arriva meglio alloggia.[fonte 2] Chi prima
nasce prima pasce.[fonte 1] Chi prima non pensa dopo sospira.[fonte 2] Chi
rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.[fonte 8]
Chi ricorda un beneficio, lo rinfaccia.[fonte 4] Chi ride il venerdì piange la
domenica.[fonte 1] Chi rimane in umile stato, non ha da temer caduta.[fonte 8]
Chi ringrazia non vuol obblighi.[fonte 8] Chi ringrazia per una spiga, riceve
una manna.[fonte 8] Chi Roma non vede, nulla crede.[fonte 8] Chi ruba poco,
ruba assai.[fonte 72] Chi rompe paga e i cocci sono suoi.[fonte 1] Chi ruba un
regno è un ladro glorificato, e chi un fazzoletto, un ladro castigato.[fonte 4]
Chi ruba una volta è sempre ladro.[fonte 4] Chi s'accapiglia si piglia.[19] Chi
s'aiuta Iddio l'aiuta.[fonte 1] Chi sa fa e chi non sa insegna.[fonte 1] Chi sa
fare fa e chi non sa fare insegna.[20] Chi sa il gioco non l'insegni.[fonte 1]
Chi sa il trucco non l'insegni.[fonte 1] Chi sa senza Cristo non sa
nulla.[fonte 8] Chi scopre il segreto perde la fede.[fonte 1] Chi semina buon
grano avrà buon pane; chi semina lupino non avrà né pan né vino.[fonte 2] Chi
semina con l'acqua raccoglie col paniere.[fonte 2] Chi semina raccoglie.[fonte
2] Chi semina vento raccoglie tempesta.[21][22][fonte 1] Chi serba serba al
gatto.[fonte 1] Chi si contenta gode.[fonte 1] Chi si diletta di frodare gli
altri, non si deve lamentare se gli altri lo ingannano.[fonte 4] Chi si fa i
fatti suoi campa cent'anni.[fonte 57] Chi si fa un idolo del suo interesse, si
fa un martire della sua integrità.[fonte 73] Chi si fida nel lotto, non mangia
di cotto.[fonte 8] Chi si fida di greco, non ha il cervel seco.[fonte 74] Chi
si guarda dal calcio della mosca, gli tocca quello del cavallo.[fonte 4] Chi si
immagina di essere più di quello che è, si guardi nello specchio.[fonte 4] Chi
si loda si sbroda.[fonte 4] Chi si prende d'amore, si lascia di rabbia.[fonte
8] Chi si scusa si accusa.[fonte 1] Chi si somiglia si piglia.[fonte 2] Chi si
sposa in fretta, stenta adagio.[fonte 75] Chi si umilia sarà esaltato, chi si
esalta sarà umiliato.[fonte 8] Chi si vanta da solo non vale un fagiolo.[fonte
2] Chi si vanta del delitto è due volte delinquente.[fonte 4] Chi siede in
basso, siede bene.[fonte 8] Chi sta tra due selle si trova col culo in
terra.[fonte 2] Chi tace acconsente.[fonte 1][23] Chi tace davanti alla forza,
perde il suo diritto.[fonte 4] Chi tanto e chi niente.[fonte 1] Chi troppo e
chi niente.[fonte 1] Chi tardi arriva male alloggia.[fonte 1] Chi ti dà un osso
non ti vorrebbe morto.[fonte 4] Chi ti vuol male, ti liscia il pelo.[fonte 8]
Chi tiene il letame nel suo letamaio, fa triste il suo pagliaio.[fonte 8] Chi
tiene la scala non è meno reo del ladro.[fonte 76] Chi troppo comincia, poco
finisce.[fonte 77] Chi troppo vuole nulla stringe.[24][fonte 1] Chi trova un
amico trova un tesoro.[fonte 1] Chi uccide i gatti fa male i suoi fatti.[fonte
38] Chi va a caccia non deve lasciare a casa il fucile.[fonte 4] Chi va a Roma
perde la poltrona.[fonte 2] Chi va all'acqua d'agosto, non beve o non vuol bere
il mosto.[fonte 8] Chi va all'osto, perde il posto.[fonte 78] Chi va al mulino
s'infarina.[fonte 1] Chi va con lo zoppo, impara a zoppicare.[fonte 79] Chi va
piano va sano e va lontano. Chi va forte va alla morte.[25][fonte 80] Chi ha
più fretta, più tardi finisce.[fonte 4] Chi fa in fretta fa due volte.[fonte 4]
Chi pesca e ha fretta, spesse volte prende dei granchi.[fonte 4] Chi va via
perde il posto all'osteria.[fonte 81] Chi vanta se stesso e abbassa gli altri,
gli altri abbasseranno lui.[fonte 4] Chi vende a credenza spaccia assai: perde
gli amici e i quattrin non ha mai.[26][fonte 2] Chi dà a credito spaccia assai
perde gli amici e danar non ha mai.[fonte 2] Chi va alla festa e non è
invitato, ben gli sta se ne è scacciato.[fonte 4] Chi vien di raro, gli si fa
festa.[fonte 8] Chi vince ha sempre ragione.[fonte 82] Chi vive in libertà non
tenti il fato.[fonte 4] Chi vive sei giorni nell'oasi, il settimo anela il
deserto.[fonte 8] Chi vivrà vedrà.[fonte 2] Chi vuol d'avena un granaio la
semini di febbraio.[fonte 2] Chi vuol dell'acqua chiara vada alla fonte.[fonte
4] Chi vuol udir novelle, dal barbier si dicon belle.[fonte 8] Chi vuol esser
libero, non metta il collo sotto il giogo.[fonte 8] Chi vuol essere pagato, non
dev'essere ringraziato.[fonte 8] Chi vuol guarire deve soffrire.[fonte 4] Chi
vuol impetrare, la vergogna ha da levare.[fonte 83] Chi vuol lavoro degno assai
ferro e poco legno.[fonte 2] Chi vuol pane, meni letame.[fonte 84] Chi vuol
presto impoverire, chieda prestito all'usuraio.[fonte 8] Chi vuol provar le
pene dell'inferno, la stia in Puglia e all'Aquila d'inverno.[fonte 8] Chi vuol
saper cos'è l'inferno faccia il cuoco d'estate e il carrettiere
d'inverno.[fonte 8] Chi vuol un bel pagliaio lo pianti di febbraio.[fonte 8]
Chi vuol vedere Pisa vada a Genova.[fonte 85] Chi vuole arricchire in un anno,
è impiccato in sei mesi.[fonte 4] Chi vuole assai, non domandi poco.[fonte 86]
Chi vuole essere amato, divenga amabile.[fonte 9] Chi vuole essere sicuro della
sua farina, deve portare egli stesso il sacco al mulino.[fonte 4] Chi vuole i
santi se li preghi.[fonte 1] Chi vuole la figlia accarezzi la madre.[fonte 4]
Chi vuole vada e chi non vuole mandi.[fonte 1] Chiara notte di capodanno, dà
slancio a un buon anno.[fonte 8] Chiodo scaccia chiodo.[fonte 2] Chiodo
schiaccia chiodo.[fonte 9] Chitarra e schioppo fanno andare la casa a
galoppo.[fonte 8] Ci vuole altro che un'accozzaglia di gente per fare un
esercito.[fonte 4] Ci vuole ingegno per governare i pazzi.[fonte 4] Ciascuno è
artefice della sua fortuna.[fonte 2][27] Ciascuno è artefice della propria
fortuna.[fonte 2] Ciascuno porta il suo ingegno al mercato.[fonte 4] Cielo a
pecorelle acqua a catinelle.[fonte 1] Ciò che è male per uno, è bene per un
altro.[fonte 4] Ciò che lo stolto fa in fine, il savio fa in principio.[fonte
87] Ciò che non si può cambiare bisogna saperlo sopportare.[fonte 4] Col fuoco
non si scherza.[fonte 1] Col latino, con un ronzino e con un fiorino si gira il
mondo.[fonte 4] Col nulla non si fa nulla.[fonte 1] Col pane tutti i guai sono
dolci.[fonte 1] Col tempo e con la paglia maturano le nespole.[28][fonte 2] Col
tempo e con la paglia maturano le sorbe e la canaglia.[fonte 2] Colla sola
lealtà, non si pagano i merletti della cuffia.[fonte 4] Come farai, così
avrai.[fonte 4] Come i piedi portano il corpo, così la benevolenza porta
l'anima.[fonte 4] Comincia, che Dio provvede al resto.[fonte 4] Compar di
Puglia, l'un tiene e l'altro spoglia.[fonte 8] Comun servizio ingratitudine
rende.[fonte 8] Con arte e con ingegno, si acquista mezzo regno; e con ingegno
ed arte, si acquista l'altra parte.[fonte 4] Con gli anni crescono gli
affanni.[fonte 8] Con i matti non ci son patti.[fonte 8] Con l'inchiostro, una
mano può innalzare un furfante ed abbassare un galantuomo.[fonte 8] Con la
pazienza la foglia di gelso diventa seta.[fonte 88] Con la pietra si prova
l'oro, con l'oro la donna e con la donna l'uomo.[fonte 8] Con la più alta
libertà, abita la più bassa servitù.[fonte 4] Con le buone maniere si ottiene
tutto.[fonte 89] Con un bicchier di vino si fa un amico.[fonte 8] Con un occhio
si frigge il pesce e con l'altro si guarda il gatto.[fonte 8] Conchiuder lega è
facile, difficile il mantenerla.[fonte 4] Confidenza toglie riverenza.[fonte 4]
Conserva le monete bianche per le giornate nere.[fonte 8] Contadini, scarpe grosse
e cervelli fini.[fonte 1] Contano più i fatti che le parole.[fonte 90] Contro
due donne neanche il diavolo può metterci il becco.[fonte 8] Contro due non la
potrebbe Orlando.[fonte 91] Contro la forza la ragion non vale.[fonte 1] Contro
la nebbia forza no vale.[fonte 4] Coricarsi presto, alzarsi presto, danno
salute, ricchezza e sapienza.[fonte 8] Corpo satollo anima consolata.[fonte 1]
Corpo sazio non crede a digiuno.[fonte 1] Cortesia schietta, domanda non
aspetta.[fonte 92] Corre un pezzo la lepre, un pezzo il cane; così s'alternano
le vicende umane.[fonte 8] Cosa fatta capo ha.[29][fonte 2] Cosa di rado
veduta, più cara è tenuta.[fonte 8] Cosa rara, cosa cara.[fonte 8] Cucina
grassa, magra eredità.[fonte 4] Cuor contento gran talento.[fonte 93] Cuor contento
il ciel l'aiuta.[fonte 94] Cuor contento il ciel lo guarda.[fonte 2] Cuor
contento non sente stento.[fonte 2] D D'aprile ogni goccia val mille
lire.[fonte 2] D'aquila non nasce colomba.[fonte 4] Da colpa nasce colpa.[fonte
4] Da cosa nasce cosa.[fonte 95] Da falsa lingua, cattiva arringa.[fonte 8] Da
Lodi, tutti passan volentieri.[fonte 8] Da un disordine nasce un ordine.[fonte
8] Dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io.[fonte 2] Dàgli,
dàgli, le cipolle diventano agli.[fonte 96] Riferito alle insidie che l'amore
riserva alle virtù delle fanciulle. Dai giudici siciliani, vacci coi polli
nelle mani.[fonte 8] Dall'asino non cercar lana.[fonte 4] Dall'opera si conosce
il maestro.[fonte 4] Dall'immagine si conosce il pittore.[fonte 4] Dalla mano
si riconosce l'artista.[fonte 4] Dal canto si conosce l'uccello.[fonte 4] Dal
passato è facile predire il futuro.[fonte 4] Dalla casa si conosce il
padrone.[fonte 4] Danaro e santità, metà della metà.[fonte 8] Denari e santità
metà della metà.[fonte 97] Date a Cesare quel che è di Cesare.[30][fonte 2]
Davanti al cameriere non vi è Eccellenza.[fonte 4] Davanti l'abisso e dietro i
denti di un lupo.[fonte 4] Debole catena muover può gran peso.[fonte 8] Dei
vizi è regina l'avarizia.[fonte 98] Del senno di poi son piene le fosse.[fonte
1] Delle calende non me ne curo purché a san Paolo non faccia scuro.[31][fonte
2] Detto senza fatto, ad ognuno pare un misfatto.[fonte 4] Di buone intenzioni
è lastricato l'inferno.[fonte 99] Di chi è l'asino, lo pigli per la coda.[fonte
4] Di dolore non si muore, ma d'allegrezza sì.[fonte 8] Di maggio si dorme per
assaggio.[32][fonte 2] Di malerba non si fa buon fieno.[fonte 4] Di notte si
ritirano i galantuomini ed escono i birbanti.[fonte 8] Di quello che non ti
interessa, non dire né bene né male.[fonte 4] Di tutte le arti maestro è
l'amore.[fonte 8] Dice la serpe: non mi toccar che non ti tocco.[fonte 8]
Dicembre favaio.[fonte 16] Dicono che è mercante anche chi perde, ma questo
presto ridurrassi al verde.[fonte 100] Dieci ne pensa il topo e cento il
gatto.[fonte 101] Dietro il monte c'è la china.[fonte 2] Dietro il riso viene
il pianto.[fonte 8] Dimmi con chi vai, e ti dirò che fai.[fonte 73] Dimmi con
chi vai, e ti dirò chi sei.[fonte 102] Dio aiuti il povero, perché il ricco può
aiutar se stesso.[fonte 8] Dio dà la piaga e dà anche la medicina.[fonte 4] Dio
guarisce e il medico è ringraziato.[fonte 4] Dio li fa e poi li accoppia.[fonte
1] Dio manda il freddo secondo i panni.[fonte 1] Dio mi guardi da chi studia un
libro solo.[fonte 4] Dio misura il vento all'agnello tosato.[fonte 4] Dio vede
e provvede.[fonte 2] Disse la volpe ai figli: "Quando a tordi, quando a
grilli".[fonte 4] Dolore comunicato è subito scemato.[fonte 4] Domandando
si va a Roma.[fonte 2] Domandare è lecito, rispondere è cortesia.[fonte 2]
Donna al volante, pericolo costante.[fonte 103] Donna adorna, tardi esce e
tardi torna.[fonte 8] Donna baffuta sempre piaciuta.[fonte 2] Donna barbuta,
sempre piaciuta.[fonte 103] Donna barbuta coi sassi si saluta.[fonte 2] Donna
bianca, poco gli manca.[fonte 8] Donna rossa coscia grossa.[fonte 8] Donna che
canti dolcemente in scena, pei giovani inesperti è una sirena.[fonte 8] Donna
che dona, di rado è buona.[fonte 8] Donna che piange, ovver che dolce canti,
son due diversi, ambo possenti incanti.[fonte 8] Donna che sa il latino è rara
cosa, ma guardati dal prenderla in isposa.[fonte 8] Donna e fuoco, toccali
poco.[fonte 8] Donne e motori gioie e dolori.[fonte 104] Donna e vino ubriaca
il grande e il piccolino.[fonte 8] Donna giovane e uomo anziano possono
riempire la casa di figli.[fonte 8] Donna io conosco, ch'è una santa a messa e
che in casa è un'orribil diavolessa.[fonte 8] Donna nana tutta tana.[fonte 2]
Donna nobil per natura è un tesor cheonna savia e bella è preziosa ancsempre
dura.[fonte 8] Donna pelosa, donna virtuosa.[fonte 2] Donna pregata nega,
trascurata prega.[fonte 8] Donna prudente, gioia eccellente.[fonte 8] Dhe in
gonnella.[fonte 8] Donna si lagna, donna si duole, donna s'ammala quando lo
vuole.[fonte 8] Donne e sardine, son buone piccoline.[fonte 8] Donne, danno,
fanno gli uomini e li disfanno.[fonte 8] Dopo desinare non camminare; dopo
cena, con dolce lena.[fonte 4] Dopo e poi son parenti del mai.[fonte 2] Dopo il
dolce vien l'amaro.[fonte 8] Dopo il fatto il consiglio non vale.[fonte 4] Dopo
il fatto viene troppo tardi il pentimento.[fonte 4] Dopo il giorno vien la
notte.[fonte 8] Dopo la grazia di Dio, la miglior cosa è la libertà.[fonte 8]
Dopo la tempesta, il sole.[fonte 8] Dopo le fosche nuvole il sol splende più
fulgido.[fonte 8] Dopo vendemmia, imbuto.[fonte 105] Non bisogna lasciarsi
sfuggire le occasioni favorevoli, chi ha tempo non aspetti tempo. Dove c'è
l'amore, la gamba trascina il piede.[fonte 8] Dove è castigo è disciplina, dove
è pace è gioia.[fonte 4] Dove entra la fortuna, esce l'umiltà.[fonte 8] Dove
l'accidia attecchisce ogni cosa deperisce.[fonte 4] Dove la fedeltà mette le
radici, Dio fa crescere un albero.[fonte 4] Dove non c'è amore, non c'è
umanità.[fonte 8] Dove non c'è fieno, i cavalli mangiano paglia.[fonte 8] Dove
non c'è ordine, c'è disordine.[fonte 8] Dove non si crede né all'inferno né al
paradiso, il diavolo intasca tutte le entrate.[fonte 8] Dove non vi è
educazione, non vi è onore.[fonte 4] Dove non vi sono capelli, male si
pettina.[fonte 4] Dove può il vino non può il silenzio.[fonte 8] Dove regna
Bacco e Amore, Minerva non si lascia vedere.[fonte 4] Dove regna il vino, non
regna il silenzio.[fonte 8] Dove son carogne son corvi.[fonte 8] Dove sono i
pulcini, ivi è l'occhio della chioccia.[fonte 8] Dove vola il cuore, striscia
la ragione.[fonte 8] Due cani che un solo osso hanno, difficilmente in pace
stanno.[fonte 4] Due noci in un sacco e due donne in casa fanno un bel
fracasso.[fonte 8] Due polente insieme non furon mai viste.[fonte 8] Dura più
un carro rotto che uno nuovo.[fonte 4] Duro con duro non fa buon muro.[fonte
106] E È cattivo sparviero quel che non torna al richiamo.[fonte 8] È difficile
far diventare bianco un moro.[fonte 4] È difficile guardarsi dai ladri di
casa.[fonte 4] È difficile piegare un albero vecchio.[fonte 4] È difficile
zoppicare bene davanti allo sciancato.[fonte 8] È facile lamentarsi quando c'è
chi ascolta.[fonte 8] È impossibile come cavalcare un raggio di sole.[fonte 4]
È impossibile volare senza ali.[fonte 4] È inutile piangere sul latte
versato.[fonte 98] [truismo] È l'acqua che fa l'orto.[fonte 98] L'acqua fa
l'orto.[fonte 98] È la donna che fa l'uomo.[fonte 57] È lieve astuzia ingannar
gelosia, che tutto crede quando è in frenesia.[fonte 4] È meglio avere la cura
di un sacco di pulci che una donna.[fonte 4] È meglio contentarsi che
lamentarsi.[fonte 8] È meglio correggere i propri difetti, che riprendere
quelli degli altri.[fonte 4] È meglio esser digiuno fuori, che satollo in
prigione.[fonte 8] È meglio essere testa d'anguilla che coda di storione.[fonte
8] È meglio essere uccel di bosco, che uccel di gabbia.[fonte 8] È meglio
essere umile a cavallo, che orgoglioso a piedi.[fonte 8] È meglio gelare nella
nuda cameretta della verità, che crogiolarsi nella pelliccia della
menzogna.[fonte 4] È meglio mangiarsi l'eredità, che conservarla per il
convento.[fonte 4] È meglio meritar la lode che ottenerla.[fonte 4] È meglio
sentir cantare l'usignolo, che rodere il topo.[fonte 8] È meglio testa di lucertola
che coda di drago.[fonte 8] È meglio un esercito di cervi sotto il comando di
un leone, che un esercito di leoni sotto il comando di un cervo.[fonte 4] È
meglio un leone che mille mosche.[fonte 8] È più facile biasimare, che
migliorare.[fonte 4] È più facile lagnarsi, che rimuovere gl'impedimenti.[fonte
8] È più facile prevenire una malattia che guarirla.[fonte 8] È più facile
trovar dolce l'assenzio, che in mezzo a poche donne il silenzio.[fonte 8] È un
bel predicare il digiuno a corpo pieno.[fonte 4] È una bella risposta quella
che si attaglia ad ogni domanda.[fonte 8] Ebrei e rigattieri, spendono poco e
gabbano volentieri.[fonte 4] Ecco il rimedio per l'ipocondria: mangiare e bere
in buona compagnia.[fonte 8] Errare è umano, perseverare è diabolico.[fonte
107] Errare è umano, perseverare diabolico.[fonte 2] Sbagliare è umano,
perseverare è diabolico.[fonte 108] Errore non è inganno.[fonte 4] Errore non
paga debito.[fonte 4] Errore riconosciuto conduce alla verità.[fonte 4] Esser
dotto poco vale, quando gli altri non lo sanno.[fonte 8] Èssere più torbo che
non è l'acqua dei maccheroni.[fonte 8] F Fa quel che il prete dice, non quel
che il prete fa.[fonte 1] Fa quello che fanno gli altri, e nessuno si farà
beffe di te.[fonte 4] Faccia bella, anima bella.[fonte 4] Facile è criticare,
difficile è l'arte.[33][fonte 109] Fare debiti non è vergogna, ma pagarli è
questione d'onore.[fonte 4] Fare e disfare, è tutto un lavorare.[fonte 110]
Fare l'amore fa bene all'amore.[fonte 111] Fate del bene al villano, dirà che
gli fate del male.[fonte 8] Fatta la legge trovato l'inganno.[34][fonte 1]
Fatti asino e tutti ti metteranno la soma.[fonte 4] Fatti di miele e ti
mangieranno le mosche.[fonte 4] Fatti le ali e poi vola.[fonte 4] Febbraio,
febbraietto mese corto e maledetto.[35][fonte 2] Felice non è, chi d'esserlo
non sa.[fonte 64] Femmine e galline, se giran troppo si perdono.[fonte 8]
Ferita d'amore non uccide.[fonte 8] Finché c'è vita c'è speranza.[fonte 1] Fino
alla morte non si sa qual è la sorte.[fonte 8] Fidarsi è bene, non fidarsi è
meglio.[fonte 1] Fidati dell'arte, ma non dell'artigiano.[fonte 4] Fino alla
bara sempre s'impara.[fonte 112] Fortezza che parlamenta, è prossima ad
arrendersi.[fonte 4] Fortuna cieca, i suoi acceca.[fonte 4] Fortuna instupidisce
colui ch'ella favorisce.[fonte 4] Fortunato al gioco, sfortunato in
amore.[fonte 4] Fra Modesto non fu mai priore.[fonte 8] Fra sepolto tesoro e
occulta scienza, non vi conosco alcuna differenza.[fonte 8] Fra un usuraio e un
assassino poco ci corre.[fonte 8] Frutto precoce facilmente si guasta. Fuggire
l'acqua sotto la grondaia.[fonte 4] Funghi e poeti: per uno buono dieci
cattivi.[fonte 8] G Gallina che non razzola ha già razzolato.[fonte 113]
Gallina vecchia fa buon brodo.[fonte 114] Gallo senza cresta è un cappone, uomo
senza barba è un minchione. Gatta inguantata non prese mai topo.[fonte 8]
Gattini sventati, fanno gatti posati.[fonte 115] Gatto e donna in casa, cane e
uomo fuori.[fonte 38] Gatto rinchiuso diventa leone.[fonte 8] Gatto scottato
dall'acqua calda, ha paura della fredda.[fonte 4] Gelosia non mette ruga. Gioco di mano gioco di villano.[fonte 1] Gioia
e sciagura sempre non dura.[fonte 8] Giovani di buon cuore, indoli buone,
crescono cattivi per poca educazione.[fonte 4] Giugno la falce in
pugno.[36][fonte 2] Gli abiti e gli uomini presto invecchiano. Gli abiti e i
costumi sono mutabili.[fonte 4] Gli abiti sono freddi, ma ricevono il calore da
chi li porta.[fonte 4] Gli amori nuovi fanno dimenticare i vecchi.[fonte 4] Gli
eredi dell'avaro sono onnipotenti, perché possono risuscitare i morti.[fonte 4]
Gli eretici rubano la parola di Dio.[fonte 4] Gli errori degli altri sono i
nostri migliori maestri.[fonte 4] Gli errori non si conoscono finché non siano
commessi.[fonte 4] Gli errori si pagano.[fonte 8] Gli estremi si toccano.[fonte
4] Gli idoli separano papa e imperatore.[fonte 4] Gli occhi s'hanno a toccare
con le gomita.[fonte 91] Gli stolti fanno le feste e gli accorti se le
godono.[fonte 116] Gli uccelli dalle stesse piume devono stare nello stesso
nido.[fonte 8] Gli uomini onesti non temono né la luce, né il buio.[fonte 8]
Gobba a ponente luna crescente, gobba a levante luna calante.[fonte 2] Gola
degli adulatori, sepolcro aperto.[fonte 117] Gotta inossota, mai fi
sanata.[fonte 118] Gran giustizia, grande offesa.[fonte 4] Grande amore, gran
dolore.[fonte 8] Greco in mare, Greco in tavola, Greco non aver a far
seco.[fonte 74] Gru e donne fan volentieri il nido in alto.[fonte 8] Guardalo,
figlia, guardalo tutto, l'uomo senza denari com'è brutto.[fonte 4] Guardare e
non toccare è una cosa da imparare.[fonte 2] Guardati da chi accende il fuoco e
grida poi contro le fiamme.[fonte 4] Guardati da cane rabbioso e da uomo
sospettoso.[fonte 8] Guardati da chi giura in coscienza.[fonte 8] Guardati da
chi non ha cura della sua reputazione.[fonte 8] Guardati da chi ride e guarda
da un'altra parte.[fonte 8] Guardati da tre cose: da cavallo focoso, da uomo
infido e da donna svergognata.[fonte 8] Guardati da tutte quelle cose che
possono nuocere all'anima e al corpo.[fonte 8] Guardati dai fanciulli che
ascoltano: anche i piccoli vasi hanno orecchie.[fonte 8] Guardati dai matti,
dagli ubriachi, dagli ipocriti e dai minchioni.[fonte 8] Guardati dai tumulti,
e non sarai né testimonio né parte.[fonte 8] Guardati dal diffamare, perché le
prove sono difficili.[fonte 8] Guardati dal vecchio turco e dal giovane
serbo.[fonte 119] Guardati dall'ipocrisia, perché è una cattiva malattia.[fonte
8] Guardati dalla primavera di gennaio.[fonte 8] Guardati in tua vita di non
dare a niun smentita.[fonte 8] Guerra, peste e carestia, vanno sempre in
compagnia.[fonte 120] H Ha cento volte un uomo flemma e giudizio, alla centuna
corre al precipizio.[fonte 65] Ha bel mentir chi vien da lontano.[fonte 76] Ha
la giustizia in mano bilancia e spada, perché il giusto s'innalza e l'empio
cada.[fonte 4] Ha più il ricco in un angolo, che il povero in tutta la
casa.[fonte 8] Ha un buon sapore l'odore del guadagno.[fonte 4] Ha un coraggio
da leone, quello che non fa violenza ai deboli.[fonte 8] Ho veduto assai volte
un piccol male non rispettato, divenir mortale.[fonte 65] I I baci sono come le
ciliegie: uno tira l'altro.[fonte 2] I cani abbaiano come sono nutriti.[fonte
4] I capponi sono buoni in tutte le stagioni.[fonte 8] I cattivi esempi si
imitano facilmente, meno i buoni.[fonte 4] I debiti sono gli eredi più
prossimi.[fonte 4] I denari del lotto se ne van di galoppo.[fonte 8] I denari
servono al povero di beneficio, ed all'avaro di gran supplizio.[fonte 4] I
desideri non riempiono il sacco.[fonte 4] I docili non hanno bisogno della
verga.[fonte 8] I doni dei nemici sono pericolosi.[fonte 4] I fanciulli
diventano uomini e le ragazze spose.[fonte 4] I fanciulli e gli ubriachi cadono
nelle mani di Dio.[fonte 4] I figli dei gatti mangiano i topi.[fonte 8] I figli
sono la ricchezza dei poveri.[fonte 18] I figli sono pezzi di cuore.[fonte 2] I
fiori tanto profumano per i poveri come per i ricchi.[fonte 8] I frati non
s'inchinano all'abate, ma al mazzo delle sue chiavi.[fonte 4] I gamberi son buoni
nei mesi della erre.[fonte 8] I gatti e i veri uomini cadono sempre in
piedi.[fonte 121] I genii si incontrano.[fonte 4] I genitori amano i figli, più
che i figli i genitori.[fonte 4] I genovesi risparmiano anche sui numeri: li
usano due volte.[37][fonte 122] I giovani vogliono essere più accorti dei
vecchi.[fonte 4] I giuramenti degli innamorati sono come quelli dei
marinai.[fonte 4] I granchi son pieni quando la luna è tonda.[fonte 8] I guai
della pentola li sa il mestolo che li rimescola.[fonte 8] I ladri grandi fanno
impiccare i piccoli.[fonte 4] I loquaci e i vantatori son mal veduti da
tutti.[fonte 8] I matti ed i fanciulli hanno un angelo dalla loro.[fonte 8] I
matti fanno le feste ed i savi le godono.[fonte 4] I medici vogliono essere
vecchi, i farmacisti ricchi ed i barbieri giovani.[fonte 4] "I miei
datteri sono più dolci", dice il vischio che cresce sulla palma.[fonte 8]
[wellerismo] I panni sporchi si lavano in casa.[fonte 123] I paperi vogliono
portare a bere le oche.[fonte 4] I parenti sono come le scarpe: più sono
stretti, più fanno male.[fonte 2] I pazzi crescono senza innaffiarli.[fonte 8]
I pazzi e i fanciulli possono dire quello che vogliono.[fonte 8] I pazzi per
lettera sono i maggiori pazzi.[fonte 124] I pazzi si conoscono dai gesti.[fonte
8] I peccati di gioventù si piangono in vecchiaia.[fonte 8] I poeti nascono, e
gli oratori si formano.[fonte 8] I poveri cercano il mangiare per lo stomaco; e
i ricchi lo stomaco per mangiare.[fonte 8] I poveri hanno la salute e i ricchi
le medicine.[fonte 8] I pulci di vendemmia li tiene l'uomo e non le
femmine.[fonte 125] I ricchi devono consolare i poveri.[fonte 8] I rimproveri
del padre fanno più che le legnate della madre.[fonte 8] I soldi non fanno la
felicità.[fonte 2] I veri amici sono come le mosche bianche.[fonte 4] Il bel
tempo non viene mai a noia.[fonte 9] Il ben di un anno se ne va in una
bestemmia.[fonte 4] Il ben fare non è mai tardo.[fonte 4] Il bisognino fa
trottar la vecchia.[fonte 2] Il bue dice cornuto all'asino.[fonte 126] Il bue
mangia il fieno perché si ricorda che è stato erba.[fonte 2] Il buon ordine è
figlio del disordine.[fonte 8] Il buon nocchiero muta vela, ma non
tramontana.[fonte 8] Il caffè deve essere caldo come l'inferno, nero come il
diavolo, puro come un angelo e dolce come l'amore.[38][fonte 127] Il caldo
delle lenzuola non fa bollire la pentola.[fonte 128] Il cane che ho nutrito è
quel che mi morde.[fonte 8] Il cane è il miglior amico dell'uomo.[fonte 2] Il
cane pauroso abbaia più forte.[fonte 4] Il cane rode l'osso perché non può
inghiottirlo.[fonte 4] Il coccodrillo mangia l'uomo e poi lo piange.[fonte 8]
Il colombo che rimane in colombaia è al sicuro dal falco.[fonte 8] Il colore
più caro agli ebrei è il giallo.[fonte 4] Il coraggio copre l'eroe meglio che
lo scudo il codardo.[fonte 8] Il corpo e l'anima ridono a chi si alza di buon
mattino.[fonte 8] Il corvo piange la pecora e poi la mangia.[fonte 117] Il cuor
cattivo rende ingratitudine per beneficio.[fonte 8] Il cuor magnanimo si piglia
con poco amore, e il cuore dello stolto con poca adulazione.[fonte 8] Il cuore
ha le sue ragioni e non intende ragione.[39][fonte 129] Il dare è onore, il
chiedere è dolore.[fonte 8] Il delitto non si deve tollerare, ma anche meno si
deve approvare.[fonte 4] Il denaro è il nervo della guerra.[fonte 4] Il denaro
può molto, ma l'amore può tutto.[fonte 4] Il diavolo ben si lascia pigliare per
la coda, ma non se la lascia strappare.[fonte 4] Il diavolo fa le pentole ma
non i coperchi.[fonte 1] Il diavolo non è così brutto come lo si dipinge.[fonte
130] Il diavolo vuol farsi cappuccino.[fonte 2] Il diavolo vuol farsi
santo.[fonte 2] Il domandare è senno, il rispondere è obbligo.[fonte 8] Il dono
del cattivo è simile al suo padrone.[fonte 56] Il dubbio è padre del
sapere.[fonte 4] Il fare insegna a fare.[fonte 4] Il fatto non si può
disfare.[fonte 4] Il ferro di cavallo che risuona, ha bisogno di un
chiodo.[fonte 8] Il ferro è duro, ma il fuoco lo rende morbido.[fonte 4] Il
figlio al padre s'assomiglia, alla madre la figlia.[fonte 4] Il filo sottile
facilmente si strappa.[fonte 4] Il fuoco che non mi scalda, non voglio che mi
scotti.[fonte 4] Il fuoco che non mi brucia, non lo spengo.[fonte 4] Il gatto
ama i pesci, ma non vuole bagnarsi le zampe.[fonte 131] Il gatto brontola
sempre, anche quando gode.[fonte 8] Il gatto che si è bruciato, ha paura anche
dell'acqua fredda.[fonte 121] Il gatto è una tigre domestica.[fonte 8] Il gatto
lecca oggi, domani graffia.[fonte 132] Il gatto non è gatto se non è
ladro.[fonte 133] Il gatto non ti accarezza, si accarezza vicino a te.[fonte
134] Il generoso non ha mai abbastanza denaro.[fonte 4] Il gentiluomo chiede
solo il miele, ma la gentildonna vuol anche la cera.[fonte 8] Il gioco è bello
quando dura poco.[fonte 2] Il gioco, il lotto, la donna e il fuoco non si
contentan mai di poco.[fonte 8] Il giudizio è opera di Dio.[fonte 4] Il grano
rado non fa vergogna all'aia.[fonte 135] Il Greco dice la verità solo una volta
all'anno.[fonte 4] Il lamentarsi non riempie camera vuota.[fonte 8] Il lavorare
senza pregare, è una botte senza vino, e oro senza splendore.[fonte 4] Il
lavoro nobilita l'uomo.[fonte 136] Il letto si chiama rosa, se non si dorme si
riposa.[fonte 137] Il lotto è la tassa degli imbecilli.[fonte 8] Il lotto è un
inganno continuo.[fonte 8] Il lupo non caca agnelli.[fonte 2] Il lupo perde il
pelo ma non il vizio.[40][fonte 1] Il lupo quando acciuffa una pecora, ne
guarda già un'altra.[fonte 4] Il magnanimo è superiore all'ingiuria,
all'ingiustizia, al dolore.[fonte 8] Il magnanimo non ricorre all'astuzia.[fonte
8] Il male che non ha riparo è bene tenerlo nascosto.[fonte 4] Il male peggiore
dei mali è il timore.[fonte 8] Il male viene in grandi quantità, e se ne va via
a poco a poco.[fonte 4] Il matrimonio è la tomba dell'amore.[fonte 2] Il
mattino ha l'oro in bocca.[fonte 138] Le ore del mattino hanno l'oro in
bocca.[fonte 139] Il medico pietoso fa la piaga puzzolente.[fonte 140] Il
medico pietoso fa la piaga verminosa.[fonte 140] Il meglio è nemico del
bene.[fonte 1] Il merlo ingrassa in gabbia, il leone muore di rabbia.[fonte 8]
Il miele non è fatto per gli asini.[fonte 4] Il miglior tiro ai dadi è non
giocarli.[fonte 4] Il molto ringraziare significa chieder dell'altro.[fonte 8]
Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.[fonte 8] Il
mulino di Dio macina piano ma sottile.[fonte 141] Il nano è piccolo anche se è
sul campanile.[fonte 8] Il passato deve essere maestro dell'oggi.[fonte 4] Il
passato non deve prendere a prestito dall'oggi.[fonte 4] Il peggior passo è
quello dell'uscio.[fonte 2] Il pesce puzza dalla testa.[fonte 1] Il Piemonte è
la sepoltura dei francesi.[fonte 8] Il poeta ben trova le palme, ma non i
datteri.[fonte 8] Il politico bacia con la bocca, e tira calci con i
piedi.[fonte 8] Il Portogallo[41] è piccolo, ma è un pezzo di zucchero.[fonte
8] Il povero non può e il ricco non vuole.[fonte 8] Il prete, dove mangia, vi
canta.[fonte 142] Il prete vien cantando e va via zufolando.[fonte 143] Il
prete vive ancor un anno dopo morte.[fonte 142] I suoi familiari continuano ad
incassar per un anno i suoi redditi.[42] Il primo amore non si
arrugginisce.[fonte 8] Il primo amore non si scorda mai.[fonte 8] Il primo anno
ci si abbraccia, il secondo si fascia, il terzo anno si ha la malattia e la
cattiva Pasqua.[fonte 4] Il puledro non va all'ambio, se la cavalla
trotta.[fonte 144] Il ramo assomiglia al tronco.[fonte 4] Il ricco ha tanto
bisogno del povero, quanto il povero del ricco.[fonte 8] Il ricco vive, il
povero vivacchia.[fonte 8] Il ringraziare non fa male alla bocca.[fonte 8] Il
ringraziare non paga debito.[fonte 8] Il riso abbonda sulla bocca degli
stolti.[fonte 2] Il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi.[fonte 145] Il riso
nasce nell'acqua ma deve morire nel vino.[fonte 8] Il sapere è di tutti.[fonte
2] Il «se» e il «ma» sono due corbellerie da Adamo in qua.[fonte 4] Il silenzio
è d'oro e la parola d'argento.[fonte 1] Il sospirar non vale.[fonte 8] Il
superfluo del ricco è il necessario del povero.[fonte 8] Il tatto è
tattica.[fonte 8] Il tatto è tutto.[fonte 8] Il tempo è denaro.[fonte 146] Il
tempo è un gran medico.[fonte 147] Il tempo scopre tutto, perché è
galantuomo.[fonte 147] Il tempo vola.[fonte 147] Il termine della notte è
l'inizio del giorno.[fonte 8] Il timore fa trottare anche lo zoppo.[fonte 8] Il
troppo gestire è da pazzi.[fonte 8] Il troppo tirare, l'arco fa spezzare.[fonte
4] Il turco ben può divenir un dotto, ma un uomo giammai.[fonte 119] Il ventre
non ha orecchie.[fonte 2] Il vero infermo è quello che non vuol esser
guarito.[fonte 8] Il vino al sapore, il pane al colore.[fonte 8] Il vino è
buono per chi lo sa bere.[fonte 8] Il vino è forte ma il sonno lo vince, ma più
forte d'ogni cosa è la donna.[fonte 8] Il vino è il latte dei vecchi.[fonte 8]
Il vino è mezzo vitto.[fonte 8] Il vino fa ballare i vecchi.[fonte 8] Il vino
la mattina è piombo, a mezzodì argento, la sera oro.[fonte 8] Impara a vivere
lo sciocco a sue spese, il savio a quelle altrui.[fonte 4] Impara l'arte e
mettila da parte.[fonte 1] In amore e in guerra niente regole.[fonte 8] In
bocca chiusa non entran mosche.[fonte 2] In Campania si inganna persino il
diavolo.[fonte 8] In casa del calzolaio non si hanno scarpe.[fonte 4] In cento
libbre di legge, non v'è un'oncia di amore.[fonte 148] In chiesa coi santi e in
taverna coi ghiottoni.[fonte 1] In compagnia prese moglie un frate.[fonte 1] In
febbraio la beccaccia fa il nido.[fonte 8] In Lazio si nasce coi sassi in
mano.[fonte 8] In lunghi viaggi anche la paglia pesa.[fonte 8] In paradiso non
ci si va in carrozza.[fonte 141] In Sardegna non vi son serpenti, né in
Piemonte bestemmie.[fonte 8] In tanta incostanza e quantità delle cose umane,
nulla, se non quello che è passato, è sicuro.[fonte 4] In terra di ciechi,
beato chi ha un occhio.[fonte 36] In terra di ladri, la valigia dinanzi.[fonte 8]
In vaso mal lavato, il vino è tosto guastato.[fonte 8] Ingegno e capelli,
crescono soltanto con gli anni.[fonte 4] Insieme non vanno la pudicizia e la
beltà.[fonte 4] Inventare è poco, diffondere l'invenzione è tutto.[fonte 4] L
L'abbaiare dei cani non arriva in cielo.[fonte 4] L'abbondanza non lascia
dormire il ricco.[fonte 4] L'abete che fa ombra crede di fare frutti.[fonte 4]
L'abete cresce in altezza, ma la felce cresce in larghezza.[fonte 4] L'abito
non fa il monaco.[43][fonte 2] L'abuso insegna il vero uso.[fonte 4] L'acqua
cheta rovina i ponti.[fonte 2] L'acqua corre al mare.[fonte 149] L'acqua e il
fuoco sono buoni servitori, ma cattivi padroni.[fonte 4] L'acqua fa male e il
vino fa cantare.[fonte 8] L'acqua fa marcire i pali.[fonte 5] L'acqua fa venire
i ranocchi in corpo.[fonte 150] L'acqua di maggio inganna il villano: par che
non piova e si bagna il gabbano[44].[fonte 2] L'acqua non è fatta per
sposarsi.[fonte 9] L'allegria dei cattivi dura poco.[fonte 8] L'allegria è di
ogni male il rimedio universale.[fonte 4] L'allegria è il balsamo della
vita.[fonte 8] L'allegria fa campare, la passione fa crepare.[fonte 8]
L'allegria piace anche a Dio.[fonte 8] L'allegria scaccia ogni male.[fonte 8]
L'allodola vola in alto, ma fa il suo nido in terra.[fonte 8] L'altezza è mezza
bellezza.[45][fonte 2] L'ambizione e la vendetta muoiono sempre di fame.[fonte
4] L'ambizione è nemica della ragione.[fonte 4] L'amore di carnevale muore in
quaresima.[fonte 8] L'amore è cieco.[fonte 2] L'amore è cieco, ma vede lontano.[fonte
8] L'amore fa passare il tempo e il tempo fa passare l'amore.[fonte 8] L'amore
non è bello se non è litigarello.[fonte 103] L'amore non si misura a
metri.[fonte 8] L'amore passa dentro la cruna di un ago.[fonte 8] L'amore
quanto più è bestia, tanto più sublime.[fonte 32] L'amore scalda il cuore e
l'ira fa il poeta.[fonte 8] L'amore senza baci è pane senza sale.[fonte 8]
L'animo fa il nobile e non il sangue.[fonte 8] L'anno produce il raccolto, non
il campo.[fonte 4] L'apparenza inganna.[fonte 1] L'appetito non vuol
salsa.[fonte 151] L'appetito vien mangiando.[fonte 1] L'arancia la mattina è
oro, il giorno argento, la sera è piombo.[fonte 2] Con riferimento a chi fa
fatica a digerire le arance. L'arcobaleno la mattina bagna il becco della
gallina; l'arcobaleno la sera buon tempo mena.[fonte 1] L'arte non ha maggior
nemico dell'ignorante.[fonte 4] L'asino e il mulattiere non hanno lo stesso
pensiero.[fonte 4] L'asino non conosce la coda, se non quando non l'ha
più.[fonte 4] L'assai basta e il troppo guasta.[fonte 1] L'avaro in punto di
morte rimpiange i soldi spesi per la bara.[fonte 8] L'avaro lascia eredi
ridenti.[fonte 4] L'avaro non dorme.[fonte 4] L'avaro non vive, vegeta.[fonte
4] L'avversità che fiacca i cuori deboli, ingagliardisce le anime forti.[fonte
8] L'eccesso degli obblighi può fare perdere un amico.[fonte 4] L'eccesso della
gioia divien tristezza, e l'eccesso del vino ubriachezza.[fonte 8] L'eccezione
conferma la regola.[46][fonte 1] L'eclissi di sole avviene di giorno e non di
notte.[fonte 4] L'edera taciturna si arrampica in cima alla quercia.[fonte 4]
L'elefante non cura il morso delle pulci.[fonte 8] L'elemosina non fa
impoverire.[fonte 4] L'eloquenza del cattivo è falso acume.[fonte 8] L'Epifania
tutte le feste porta via.[47][fonte 1] L'erba del vicino è sempre più
verde.[48][fonte 152] L'erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del
re.[fonte 2] L'erba che non voglio, cresce nell'orto.[fonte 4] L'erba non
cresce sulla strada maestra.[fonte 4] L'eredità paterna ai paterni, la materna
ai materni.[fonte 4] L'errore che si confessa è mezzo rimediato.[fonte 4]
L'errore è un cocchiere che conduce sopra una falsa strada.[fonte 4] L'errore è
umano, il perdono divino.[fonte 153] L'esercizio è buon maestro.[fonte 4]
L'esperienza nel mondo conduce alla diffidenza, la diffidenza conduce al
sospetto, il sospetto all'astuzia, l'astuzia alla malvagità e la malvagità a
tutto.[fonte 4] L'esperienza senza il sapere è meglio che il sapere senza
sapienza.[fonte 70] L'estate ce la porta sant'Urbano e l'autunno san
Bartolomeo.[fonte 4] L'estate davanti e l'inverno dietro.[fonte 4] L'estate di
San Martino dura tre giorni e un pochinino.[49][fonte 2] L'estate per chi
lavora, l'inverno per chi dorme.[fonte 4] L'estate è una schiava, l'inverno un
padrone.[fonte 4] L'estate per il povero è migliore dell'inverno.[fonte 4]
L'eternità è una compera lunga.[fonte 4] L'eternità non ha capelli grigi.[fonte
4] L'eterno parlatore né ode né impara.[fonte 4] L'idolo si adora finché non è
infranto.[fonte 4] L'ignorante ha le ali di un'aquila e gli occhi di un
gufo.[fonte 4] L'inchiostro è il mio campo, su cui posso scrivere
valorosamente; la penna, il mio aratro; le parole, la mia semente.[fonte 8]
L'inchiostro è nero, e tinge le dita e la reputazione.[fonte 8] L'inferno e i
tribunali son sempre aperti.[fonte 4] L'ingegno viene con gli anni, e se ne va
con gli anni.[fonte 4] L'ingratitudine converte in ghiaccio il caldo
sangue.[fonte 8] L'ingratitudine è la mano sinistra dell'egoismo.[fonte 8]
L'ingratitudine è un'amara radice da cui crescono amari frutti.[fonte 8]
L'ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.[fonte 8] L'ingratitudine taglia i
nervi al beneficio.[fonte 8] L'intelletto è nella testa e non negli anni.[fonte
4] L'intelletto non viene mai prima degli anni.[fonte 4] L'interesse acceca
anche i galantuomini.[fonte 8] L'inverno al fuoco e l'estate all'ombra.[fonte
4] L'invidia è annessa alla felicità.[fonte 4] L'invidia è un gufo che non può
sopportare la luce della prosperità degli altri.[fonte 4] L'invidia è una
bestia che rode le proprie gambe, quando non ha altro da rodere.[fonte 4]
L'invidia somiglia alla gramigna, che mai non muore, e da per tutto
alligna.[fonte 4] L'ipocrisia intasca il denaro, e la verità va mendica.[fonte
4] L'ira senza forza, non vale una scorza.[fonte 4] L'ira turba la mente e
acceca la ragione.[fonte 4] L'Italia è il paese dove corre latte e miele.[fonte
4] L'Italia è un paradiso abitato da demoni.[fonte 4] L'Italia per nascervi, la
Francia per viverci e la Spagna per morirvi.[fonte 4] L'occasione fa l'uomo
ladro.[fonte 1] L'occhio del padrone ingrassa il cavallo.[fonte 1] L'oggi non
deve calunniare il passato.[fonte 4] L'olivo benedetto vuol trovar pulito e
netto.[50][fonte 2] L'ombra di un principe dev'essere la liberalità.[fonte 4]
L'ordine caccia il disordine.[fonte 8] L'ordine è pane, il disordine è
fame.[fonte 8] L'orgoglio crede che il suo uovo abbia due tuorli.[fonte 8]
L'orgoglio è stoltezza, l'umiltà è saviezza.[fonte 8] L'orgoglio fa colazione
con l'abbondanza, pranza con la povertà e cena con la vergogna.[fonte 154]
L'orologio dell'amore ritarda sempre.[fonte 8] L'ospite è come il pesce: dopo
tre giorni puzza.[fonte 2] L'ospite e il pesce dopo tre dì rincresce.[fonte 1]
L'ozio è il padre di tutti i vizi.[fonte 1] L'ozio in gioventù non è la via
della virtù.[fonte 4] L'uguaglianza e misurar tutti con la stessa spanna, è la
legge della morte.[fonte 8] L'umiliarsi è da saggio, l'avvilirsi è da
bestia.[fonte 8] L'umiliazione va dietro al superbo.[fonte 8] L'umiltà è il
miglior modo di evitare l'umiliazione.[fonte 8] L'umiltà è la corona di tutte
le virtù.[fonte 8] L'umiltà è la madre dell'onore.[fonte 8] L'umiltà è una
virtù che adorna tanto la vecchiaia, quanto la gioventù.[fonte 8] L'umiltà
ottiene spesso più dell'alterigia.[fonte 8] L'umiltà sta bene a tutti.[fonte 8]
L'umiltà sta bene con la castità.[fonte 8] L'unione fa la forza.[fonte 1]
L'uomo avaro e l'occhio sono insaziabili.[fonte 4] L'uomo deve tenere aperta la
bocca a lungo prima che c'entri un colombo arrostito.[fonte 4] L'uomo fu creato
per lavorare, come l'uccello per volare.[fonte 4] L'uomo ordisce e la fortuna
tesse.[fonte 1] L'uomo politico accende una candela a Dio e un'altra al
diavolo.[fonte 8] L'uomo per la parola e il bue per le corna.[fonte 1] L'uomo
propone e Dio dispone.[fonte 1] L'uomo propone e la donna dispone.[fonte 2]
L'uomo si conosce al bicchiere.[fonte 4] L'uomo si giudica male
dall'aspetto.[fonte 4] L'usura arricchisce, ma non dura.[fonte 8] L'usura è il
miglior apostolo del diavolo.[fonte 8] L'usura è la figlia primogenita
dell'avarizia.[fonte 8] L'usura è un assassinio.[fonte 8] L'usura è vietata da
Dio.[fonte 8] L'usura veglia quando l'uomo dorme.[fonte 8] L'usuraio
arricchisce col sudor dei poveri.[fonte 8] L'usuraio ha un torchio a
sangue.[fonte 8] L'usuraio ingrassa andando a spasso.[fonte 8] La bestemmia
gira gira torna addosso a chi la tira.[fonte 4] La buona cantina fa il buon
vino.[fonte 8] La buona mamma fa la buona figlia.[fonte 4] La buona sorte ogni
vile cuore fa forte.[fonte 8] La calma è la virtù dei forti.[fonte 2] La
capacità si vede nelle difficoltà.[fonte 4] La carestia è il pane
dell'usuraio.[fonte 4] La carne migliore è quella intorno all'osso.[fonte 4] La
carne senz'osso non fa brodo.[fonte 4] La carrucola non frulla, se non è
unta.[fonte 4] La cattiva sorte porta spesso buona sorte.[fonte 8] La cicala
prima canta e poi muore.[fonte 8] La coda è la più lunga da scorticare.[fonte
1] La comodità fa l'uomo cattivo.[fonte 8] La compassione è la figlia
dell'amore.[fonte 4] La concordia rende forti i deboli.[fonte 8] La contentezza
viene dalle budella.[fonte 1] La corda troppo tesa si spezza.[fonte 1] La
cupidigia rompe il sacco.[fonte 4] La dieta ogni mal quieta.[fonte 155] La
difficoltà sta nell'iniziare.[fonte 4] La diffidenza aguzza gli occhi. La
diffidenza è la morte dell'amore.[fonte 4] La diffidenza porta più avanti della
fiducia.[fonte 4] La donna a 15 anni scherza, a 20 brilla, a 25 ama, a 30
brama, a 35 sente, a 40 vuole e a 50 paga.[fonte 8] La donna bisogna praticarla
un giorno, un mese e un'estate per sapere che odore sa.[fonte 8] La donna buona
vale una corona.[fonte 8] La donna deve avere tre m: matrona in strada, modesta
in chiesa, massaia in casa.[fonte 8] La donna e l'orto vogliono un sol
padrone.[fonte 8] La donna ha più capricci che ricci.[fonte 8] La donna oziosa
non può essere virtuosa.[fonte 8] La donna per piccola che sia, vince il
diavolo in furberia.[fonte 8] La donna più sciocca vale due uomini.[fonte 8] La
donna troppo in vista, è di facile conquista.[fonte 8] La fame caccia il lupo
dal bosco.[fonte 1] La fame caccia il lupo dalla tana.[fonte 4] La fame spinge
il lupo nel villaggio.[fonte 4] La fame condisce tutte le vivande.[fonte 4] La
fame non vede la muffa nel pane.[fonte 4] La fame è cattiva consigliera.[fonte
1] La fame, gran maestra, anche le bestie addestra.[fonte 4] La fame muta le
fave in mandorle.[fonte 4] La farina del diavolo va tutta in crusca.[fonte 1]
La fedeltà non è mai rimeritata abbastanza, e l'infedeltà mai abbastanza.[fonte
4] La femmina è cosa mobile per natura.[fonte 4] La fine della passione è il
principio del pentimento.[fonte 129] La fortuna aiuta gli audaci.[fonte 2] La
fortuna del savio ha per figliola la modestia.[fonte 8] La fortuna è
cieca.[fonte 2] La fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo.[fonte 108]
La fretta fa rompere la pentola.[fonte 8] La fretta è una cattiva
consigliera.[fonte 108] La furia non fu mai buona.[fonte 4] La gallina del
vicino sembra un fagiano.[fonte 152] La gatta frettolosa fece i gattini
ciechi.[fonte 1] La gatta grassa fa onore alla casa.[fonte 121] La gatta, mette
il piede davanti alla vacca.[fonte 156] La gatta non s'accosta alla pentola che
bolle.[fonte 38] La gatta vorrebbe mangiar pesci, ma non pescare.[fonte 157] La
gelosia della moglie è la via al suo divorzio.[fonte 4] La gelosia è il
peggiore di tutti i mali.[fonte 4] La gelosia è una passione che cerca
avidamente quel che tormenta.[fonte 4] La generosità è un muro che non si può
alzare più alto di quello che arrivano i materiali.La gente ricca alleva male i
suoi cani, e la gente povera i suoi figlioli. La gente savia non si cura di
quel che non può avere.[fonte 87] La gioventù fugge, e la bellezza
sfiorisce.[fonte 4] La gioventù vuol fare il suo corso.[fonte 4] La lealtà se
ne è andata dal mondo e la dirittura si è messa a dormire.[fonte 4] La lega fa forte
i deboli.[fonte 4] La liberalità è un muro che non si deve rizzare più alto di
quello che comportino i materiali.[fonte 4] La liberalità non sta nel dare
molto, ma saggiamente.[fonte 4] La libertà del povero è di lasciarlo
mendicare.[fonte 4] La libertà è da Dio; le libertà, dal diavolo.[fonte 4] La
libertà è più cara degli occhi e della vita.[fonte 4] La libertà fila con le
sue mani il filo della sua tenda.[fonte 4] La lingua batte dove il dente
duole.[fonte 1] La lingua non ha osso e sa rompere il dosso.[fonte 4] La lingua
spagnola è la più amabile; quando il diavolo tentò Eva, le parlo in
spagnolo.[fonte 8] La lode propria puzza, quella degli amici zoppica.[fonte 4]
La luna di gennaio è la luna del vino.[fonte 2] La luna è bugiarda: quando fa
la C diminuisce, e quando fa la D cresce[fonte 158] La luna non cura l'abbaiar
dei cani.[fonte 2] La luna regge il lume ai ladri.[fonte 158] La luna, se non
riscalda, illumina.[fonte 158] La Lombardia è il giardino del mondo.[fonte 8]
La madre del peggio è sempre incinta.[fonte 159] La madre degli imbecilli è
sempre incinta.[fonte 160] La madre dei fessi è sempre incinta.[fonte 160] La
magnificenza spesso copre la povertà.[fonte 4] La mala erba non muore
mai.[fonte 1] La mala nuova la porta il vento.[fonte 1] La malerba cresce
presto.[fonte 2] La malinconia e le cure fanno invecchiare anzitempo.[fonte 4]
La mercanzia rara è meglio che buona.[fonte 8] La miglior difesa è
l'attacco.[fonte 1] La minestra lunga sa di fumo.[fonte 8] La modestia è il
dattero che matura raramente sull'albero della ricchezza.[fonte 8] La modestia
è madre d'ogni creanza.[fonte 8] La moglie è la chiave di casa.[fonte 8] La
morte ci rende uguali nella sepoltura, disuguali nell'eternità.[fonte 8] La necessità
aguzza l'ingegno.[fonte 2] La necessità fa più ladri che galantuomini.[fonte 8]
La notte è fatta per gli allocchi.[fonte 8] La notte porta consiglio.[fonte 1]
La novella non è bella, se non c'è la giuntarella.[fonte 8] La pancia del
buongustaio è il cimitero dei cibi buoni.[fonte 8] La parola del ricco è simile
al sole, e quella del povero è simile al vapore.[fonte 8] La pazienza è la
virtù dei forti.[fonte 9] La pazienza è una buon'erba, ma non nasce in tutti
gli orti.[fonte 88] La pecora che se ne va sola, il lupo la mangia.[fonte 91]
La peggio ruota è quella che stride.[fonte 8] La peggior carne da conoscere è
quella dell'uomo.[fonte 4] La penitenza corre dietro al peccato.[fonte 8] La
pentola vuota è quella che suona.[fonte 8] La pianta si conosce dal
frutto.[fonte 1] La pigrizia e l'impudicizia sono sorelle.[fonte 8] La pittura
è una poesia tacita, e la poesia una pittura loquace.[fonte 8] La più bell'ora
per il mangiare è quella in cui si ha fame.[fonte 8] La polenta è utile per
quattro cose: serve da minestra, serve da pane, sazia e scalda le mani.[fonte
8] La povertà è priva di molte cose, l'avarizia è priva di tutto.[fonte 56] La
prima acqua è quella che bagna.[fonte 1] La prima gallina che canta ha fatto
l'uovo.[fonte 108] La prima eredità al primo figlio, l'ultima eredità
all'ultimo figlio.[fonte 4] La provvidenza quel che toglie rende.[fonte 4] La
pulce che esce di dietro l'orecchio con il diavolo si consiglia.[fonte 8] La
puttana e la lattuga una stagione dura.[fonte 8] La rana è usa ai pantani, se
non ci va oggi ci andrà domani.[fonte 8] La rana non morde, perché non ha
denti.[fonte 8] La rana, o salta o piscia, ma mai non sbrana.[fonte 8] La razza
comincia dalla bocca.[fonte 8] La roba dei pazzi è la prima ad andarsene.[fonte
8] La ruota della fortuna gira.[fonte 4] La ruota della fortuna non è sempre
una.[fonte 4] La scorza fa bella la castagna.[fonte 4] La scimmia è sempre
scimmia, anche vestita di seta.[fonte 8] La semplicità senza accortezza è pura
pazzia.[fonte 8] La sera leoni e la mattina coglioni.[fonte 2] La sorte è come
ognuno se la fa.[fonte 8] La speranza è cattivo denaro.[fonte 161] La speranza
è il pane dei poveri.[fonte 2] La speranza è il patrimonio dei poveri.[fonte 2]
La speranza è il sogno dell'uomo desto.[fonte 2] La speranza è l'ultima a
morire.[fonte 2] La speranza è la miglior consolazione nella miseria.[fonte
161] La speranza è la miglior musica del dolore.[fonte 161] La speranza è la
ricchezza dei poveri.[fonte 2] La speranza è sempre verde.[fonte 2] La speranza
è un balsamo per i cuor piagati.[fonte 161] La speranza è un sogno nella
veglia.[fonte 2] La speranza infonde coraggio anche al codardo.[fonte 161] La
speranza ingrandisce, l'esperienza rimpicciolisce.[fonte 57] La superbia è
figlia dell'ignoranza.[fonte 1] La superbia mostra l'ignoranza.[fonte 162] La
superbia va a cavallo e torna a piedi.[fonte 1] La terra è madre di tutti gli
uomini ed anche sepoltura.[fonte 8] La troppa umiltà vien dalla superbia.[fonte
8] La vanagloria è un fiore che mai non porta frutta.[fonte 163] La vera
libertà è non servire al vizio.[fonte 4] La verità è nel vino.[fonte 8] La
verità viene sempre a galla.[fonte 2] La veste copre gran difetti.[fonte 55] La
via dell'inferno è lastricata di buone intenzioni.[fonte 1] La vipera morta non
morde seno, ma pure fa male coll'odor del veleno.[fonte 8] La virtù sta nel
mezzo.[51][fonte 164] La vita è breve e l'arte è lunga.[52][fonte 55] La vita è
già mezzo trascorsa anziché si sappia che cosa sia.[fonte 165] La volpe si
conosce dalla coda.[fonte 4] Lamentarsi, supplicare e bere acqua è lecito a
tutti.[fonte 8] Latte e vino, tossico fino.[fonte 8] Lavora come se avessi a
campare ognora, adora come avessi a morire allora.[fonte 4] Lavoro non ingrassò
mai bue.[fonte 4] Le allegrezze non durano.[fonte 8] Le belle penne rendono
bello l'uccello.[fonte 4] Le bellezze durano fino alle porte, la bontà fino
alla morte.[fonte 4] Le braccia e le mani del povero appartengono al
ricco.[fonte 8] Le bugie hanno le gambe corte.[fonte 1] Le bugie sono lo scudo
degli uomini dappoco.[fonte 4] Le chiacchiere non fanno farina.[fonte 1] Le
colombe che rimangono in colombaia, sono sicure dal nibbio.[fonte 8] Le cose
lunghe diventano serpi.[fonte 1] Le cose lunghe prendono vizio.[fonte 1] Le
dita della mano sono disuguali.[fonte 8] Le donne hanno lunghi i capelli e
corti i cervelli.[fonte 4] Le donne hanno quattro malattie all'anno, e tre mesi
dura ogni malanno.[fonte 8] Le bestie vanno trattate da bestie.[fonte 8] Le
cattive nuove sono le prime ad arrivare.[fonte 8] Le cattive nuove
volano.[fonte 1] Le chiavi ed i lucchetti non si fanno per le dita
fidate.[fonte 8] Le disgrazie non vengono mai sole.[fonte 1] Le disgrazie sono
come le ciliegie: una tira l'altra.[53] Le donne hanno lunghi i capelli e corti
i cervelli.[fonte 166] Le donne hanno sette anime... e mezza.[fonte 8] Le donne
ne sanno una più del diavolo.[fonte 2] Le donne piglian bene le pulci.[fonte 8]
Le lacrime sono le armi delle donne.[fonte 4] Le leghe e le corde fradice non
durano a lungo.[fonte 4] Le malattie ci dicono quel che siamo.[fonte 88] Le
montagne stanno ferme, gli uomini s'incontrano.[fonte 167] Le ore del mattino
hanno l'oro in bocca.[fonte 1] Le parole sono femmine e i fatti sono
maschi.[fonte 1] Le piante che fruttano troppo presto, si seccano.[fonte 8] Le
querce non fanno limoni.[fonte 2] Le ragazze sono d'oro, le sposate d'argento,
le vedove di rame e le vecchie di latta.[fonte 8] Le rane han perso la coda
perché non seppero chiedere aiuto.[fonte 8] Le rose cascano, le spine
restano.[fonte 168] Le teste di legno fan sempre del chiasso.[fonte 55] Le
Trentine vengono giù pollastre e se ne vanno sù galline.[fonte 8] Le vie della
provvidenza sono infinite.[fonte 1] Le vie del Signore sono infinite.[fonte 1]
Leggi, rileggi e pondera.[fonte 8] Lingua cheta e fatti parlanti.[fonte 4] Lo
sbadiglio non vuol mentire: o che ha sonno o che vorrebbe dormire, o che ha
qualche cosa che non può dire.[fonte 8] Lo scarafaggio corre sempre allo
sterco.[fonte 8] Lo scimunito parla col dito.[fonte 8] Lo scorpione dorme sotto
ogni lastra.[fonte 8] Lo smargiasso ciancia in guerra, il valente combatte
muto.[fonte 8] Loda il gran campo e il piccolo coltiva.[fonte 169] Loda il
monte e tieniti al piano.[fonte 2] Loda il pazzo e fallo saltare, se non è
pazzo lo farai diventare.[fonte 8] Lontano dagli occhi, lontano dal
cuore.[fonte 170] Lontan dagli occhi, lontan dal cuore.[fonte 2] Luna di
grappoli a gennaio luna di racimoli a febbraio.[54][fonte 2] Lunga lingua,
corta mano.[fonte 8] Lungo come la quaresima.[55][fonte 2] Luglio dal gran
caldo, bevi bene e batti saldo.[fonte 16] Lungo digiuno caccia la fame.[fonte
4] Lupo non mangia lupo.[fonte 2] M Ma in premio d'amore amor si rende.[fonte
33] Maggio ortolano, molta paglia e poco grano.[fonte 16] Maggiore il santo,
maggiore la sua umiltà.[fonte 8] Mai gli uomini sanno essere abbastanza
riconoscenti verso gli inventori.[fonte 4] Mal comune mezzo gaudio.[fonte 2]
Mal può rendere ragion del proprio fatto chi lardo o pesce lascia in guardia al
gatto.[fonte 65] Mal si giudica il cavallo dalla sella.[fonte 3] Male che si
vuole non duole.[fonte 9] Male ignoto si teme doppiamente.[fonte 8] Male non
fare, paura non avere.[fonte 2] Male voluto non fu mai troppo.[fonte 57]
Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.[fonte 8]
Manca tanto la pazienza ai poveri, quanto la compassione ai ricchi.[fonte 8]
Mangiar molto e far buona digestione, è un privilegio che han poche
persone.[fonte 8] Mano dritta e bocca monda possono andare per tutto il
mondo.[fonte 4] Marinaio genovese, mercante fiorentino.[fonte 8] Martello d'oro
non rompe le porte del cielo.[fonte 47] Marzo è pazzo.[fonte 16] Marzo
pazzerello guarda il sole e prendi l'ombrello.[fonte 2] Marzo molle, gran per
le zolle.[fonte 16] Mazza e pane fanno i figli belli; pane senza mazza fa i
figli pazzi.[fonte 171] Medico vecchio e chirurgo giovane.[fonte 172] Medico
vecchio e medicina nuova.[fonte 2] Chirurgo giovane e medico anziano.[56]
Mediocre bestiame ben pasciuto è di maggior vantaggio che molto bestiame mal
mantenuto.[fonte 173] Meglio andare a letto senza cena, che alzarsi con
debiti.[fonte 4] Meglio aperto rimprovero, che odio segreto.[fonte 8] Meglio
dietro agli uccelli, che dietro ai signori.[fonte 8] Meglio essere ben educato,
che nascere nobile.[fonte 4] Meglio essere invidiati che compatiti.[fonte 174]
Meglio fare la serva in casa propria, che la padrona in casa altrui.[fonte 4]
Meglio fave in libertà, che capponi in schiavitù.[fonte 8] Meglio fringuello in
man che tordo in frasca.[fonte 2] Meglio fringuello in tasca che tordo in
frasca.[fonte 2] Meglio il marito senz'amore, che con gelosia.[fonte 75] Meglio
l'uovo oggi che la gallina domani.[fonte 1] Meglio mangiar carote in pace che
molte pietanze in disunione.[fonte 8] Meglio mendicante che ignorante.[fonte
124] Meglio pane con amore, che gallina con dolore.[fonte 4] Meglio poco che
niente.[fonte 1] Meglio soli che male accompagnati.[fonte 1] Meglio tardi che
mai.[fonte 1] Meglio un asino vivo che un dottore morto.[fonte 1] Meglio un
fiorino guadagnato, che cento ereditati.[fonte 4] Meglio un magro accordo che
una grassa sentenza.[fonte 2] Meglio un morto in casa che un pisano
all'uscio.[fonte 2] Meglio una festa che cento festicciole.[fonte 1] Meglio una
volta arrossire che mille impallidire.[fonte 8] Meglio vivere ben che vivere a
lungo.[fonte 64] Meno siamo meglio stiamo.[fonte 57] Mente lieta, vita quieta e
moderata dieta.[fonte 2] Merito non conosciuto poco vale.[fonte 8] Milan può
far, Milan può dir, ma non può far dell'acqua vin.[fonte 8] Mille errori sono più
facilmente pronunciati che una verità.[fonte 4] Moglie e buoi dei paesi
tuoi.[fonte 1] Donne e buoi dei paesi tuoi.[fonte 2] Mogli che non
contraddicono e galline che facciano le uova d'oro, sono uccelli rari.[fonte 8]
Moglie maglio.[fonte 1] Molte cose si giudicano impossibili a farsi prima che
siano fatte. Molte mani fanno l'opera leggera. Molte paglie unite possono
legare un elefante.[fonte 8] Molte volte la belleza più adorabile si unisce
alla stupidaggine più insopportabile. Molte volte si perde per negligenza
quello che si è guadagnato con giustizia.[fonte 4] Molti hanno buone carte in
mano, ma non le sanno giocare.[fonte 4] Molti inventano oro con la bocca ed
hanno piombo alle mani e ai piedi.[fonte 4] Molti parlano d'Orlando anche se
non videro mai il suo brando.[fonte 8] Molti sfuggono alla pena, ma non ai
rimorsi della coscienza.[fonte 8] Molti si immaginano di avere il pulcino, che
non hanno ancora l'uovo.[fonte 4] Molti si lamentano del buon tempo.[fonte 8]
Molti sono i verseggiatori, pochi i poeti.[fonte 8] Molti squartano un gatto e
giurano che era un leone.[fonte 8] Molti voti fanno l'abate.[fonte 4] Molto
denaro, molti amici.[fonte 4] Molto fumo e poco arrosto.[fonte 1] Molto può
nuocere una piccola negligenza.[fonte 8] Morire di fame in una madia di
pane.[fonte 4] Morta la serpe, spento il veleno.[fonte 8] Morto un papa se ne
fa un altro.[fonte 1] Mulo buon mulo, ma cattiva bestia.[fonte 8] Muore il
ricco, gli fanno il funerale; muore il povero, nessuno gli dice: vale.[fonte 8]
Muove la coda il cane non per te, ma per il pane.[fonte 4] N Natale con i tuoi,
Pasqua con chi vuoi. Né col capretto né con l'agnello, si adopera il
coltello.[fonte 8] Né di venere, né di marte non si sposa né si parte, né si dà
principio all'arte.[fonte 2] Né donna né tela al lume di candela.[fonte 8] Ne
uccide più la lingua che la spada.[fonte 2] Ne uccide più la gola che la
spada.[fonte 2] Necessità fa legge e tribunale.[fonte 2] Negli ordini pari, i
pareri sono dispari.[fonte 8] Nel bere e nel camminare si conoscono le donne.[fonte
8] Nel bosco tagliato non ci stanno assassini.[fonte 8] Nel dubbio
astieniti.[fonte 2] Nel monte di Brianza, senza vin non si danza.[fonte 8] Nel
paese degli zoppi, zoppicar non è vergogna.[fonte 8] Nel regno dei ciechi anche
un orbo è re.[fonte 175] Nel regno dei ciechi anche un guercio è re.[fonte 175]
Nel regno di Dio, poveri e ricchi sono uguali.[fonte 8] Nell'autunno non
bisogna più sognare di rose e tulipani.[fonte 4] Nell'estate si deve pensare
all'inverno, e nella gioventù alla vecchiaia.[fonte 4] Nell'eternità si arriva
sempre in tempo. Nell'inverno il pazzo sogna rose, e nell'estate il savio le
raccoglie.[fonte 4] Nella botte piccola c'è il buon vino.[fonte 8] Nella
felicità ragione, nell'infelicità pazienza.[fonte 8] Nella gotta, il medico non
vede gotta.[fonte 176] Nelle sventure si conosce l'amico.[fonte 1] Nessuna
corona è più bella di quella dell'umiltà.[fonte 8] Nessuna fortezza è così
salda che non si lasci conquistare dall'oro.[fonte 4] Nessuna ingiustizia
rimane impunita.[fonte 4] Nessuna mela è così bella che non abbia qualche
difetto.[fonte 4] Nessuna nuova, buona nuova. Nessuno è profeta in patria. Nessuno
può dare quello che non ha.[fonte 4] Nessuno può difendersi dalla beffa.[fonte
4] Ne uccide più Bacco che Marte.[fonte 4] Neve di Dicembre dura fin che dura
la brina.[fonte 8] Niente è più bello di una faccia allegra.[fonte 8] Niuna
guardia è migliore di quella che una donna fa a se stessa.[fonte 4] Non
accettare i rimproveri o consigli da chi educare non seppe i propri figli.[fonte
4] Non aspettar che l'abete porti pomi.[fonte 4] Non basta esser galantuomo,
bisogna anche esser conosciuto per tale.[fonte 8] Non bisogna fare il diavolo
più nero di quello che è.[fonte 8] Non bisogna fasciarsi il capo prima di
romperselo.[fonte 8] Non bisogna mai usare due pesi e due misure.[fonte 8] Non
bisogna scuotere l'orzo dal sacco prima di avere il frumento.[fonte 8] Non c'è
alcuno così povero che non possa aiutare, né alcuno così ricco che non abbia
bisogno d'aiuto.[fonte 8] Non c'è cosa più triste sulla terra dell'uomo
ingrato.Non si muove foglia che Dio non voglia. Non c'è affanno senza
danno.[fonte 4] Non c'è Carnevale senza luna di febbraio.[fonte 2] Non c'è due
senza tre.[fonte 1] Non c'è due senza tre e il quarto vien da sé.[fonte 2] Non
c'è cosa così cattiva che non sia buona a qualche cosa.[fonte 4] Non c'è eretico
che non abbia la sua credenza.[fonte 4] Non c'è fumo senza arrosto.[fonte 1]
Non c'è gallina né gallinaccia che di gennaio l'uova non faccia.[fonte 2] Non
c'è intoppo per avere, più che chiedere e temere.[fonte 178] Non c'è male senza
bene.[fonte 4] Non c'è miglior cieco di quello che non vuole vedere.[fonte 4]
Non c'è pane senza pena.[fonte 1] Non c'è peggior sordo di chi non vuol
sentire.[fonte 2] Non c'è regola senza eccezioni.[fonte 1] Non c'è rosa senza
spine.Non cade foglia che Dio non voglia.[fonte 1] Non ci fu mai frettoloso che
non fosse pazzo.[fonte 8] Non ci rimane nessuna vigna da vendemmiare, e né meno
nessuna donna da maritare.[fonte 179] Non credere a donna, quand'anche sia
morta.[fonte 4] Non destare il can che dorme.[fonte 1] Non dire quattro se non
l'hai nel sacco.[fonte 2] Non dire gatto se non ce l'hai nel sacco.[fonte 180]
Non è arte il giocare, ma lo smettere.[fonte 4] Non è bello ciò che è bello, ma
è bello ciò che piace.[fonte 181] Non è bene esser poeta nel villaggio.[fonte
8] Non è bene riporre denaro in una cassa di cui non si ha la chiave.[fonte 4]
Non è col dire "miel, miel," che la dolcezza viene in bocca.[fonte
117] Non è contento quel che si lamenta.[fonte 8] Non è in nessun luogo chi è
in ogni luogo.[fonte 4] Non è mai gran gagliardia, senza un ramo di
pazzia.[fonte 8] Non è povero, se non chi si crede tale.[fonte 8] Non è sempre
savio chi non sa esser qualche volta pazzo.[fonte 8] Non è sì tristo cane, che
non meni la coda.[fonte 182] Non è tutto oro quel che luccica.[fonte 183] Non è
tutto oro quel che riluce.[fonte 183] Non esiste amore senza gelosia.[fonte 8]
Non fa la stessa viva sensazione il solletico a tutte le persone.[fonte 8] Non facendo
niente, più pena si sente.[fonte 4] Non far mai bene, non avrai mai male.[fonte
8] Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te.[58][fonte 2]
Non fare il male ch'è peccato, non fare il bene ch'è sprecato.[fonte 1] Non
fare il passo più lungo della gamba.[fonte 2] Non gira il corvo che non sia
vicina la carogna.[fonte 8] Non lodare il bel giorno prima di sera.[fonte 4]
Non mettere il carro davanti ai buoi.[fonte 184] Non mettere il rasoio in mano
a un pazzo.[fonte 8] Non mettere un rasoio in mano a un pazzo.[fonte 185] Non
mi morse mai scorpione, ch'io non mi medicassi col suo olio.[fonte 8] Non
nominar la corda in casa dell'impiccato.[fonte 1] Non ogni abisso ha un
parapetto.[fonte 4] Non ogni lettera va alla posta, non ogni domanda vuole
risposta.[fonte 8] Non pensa il cuore quel che dice la bocca.[fonte 4] Non
perde il cervello se non chi l'ha.[fonte 8] Non rimandare a domani quello che
puoi fare oggi.[fonte 1] Non sempre va d'accordo la campana dell'orologio con
la meridiana.[fonte 8] Non serve dire «Di tal acqua non berrò».[fonte 4] Non si
campa d'aria.[fonte 4] Non si comincia bene se non dal cielo.[fonte 4] Non si
dà fumo senza fuoco.[fonte 4] Non si entra in Paradiso a dispetto dei
Santi.[fonte 1] Non si fa niente per niente.[fonte 1] Non si fan nozze coi
fichi secchi.[fonte 186] Non si finisce mai di imparare.[fonte 4] Non si
insegna a nuotare ai pesci.[fonte 4] Non si legge mai libro senza imparare
qualcosa.[fonte 4] Non si possono cavar le castagne dal fuoco colla zampa del
gatto.[fonte 187] Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca.[fonte 1]
Non si può bere e fischiare.[fonte 77] Non si sa mai per chi si lavora.[fonte
4] Non si sta mai tanto bene che non si possa star meglio, né tanto male che
non si possa star meglio.[fonte 8] Non sono cacciatori tutti quelli che portano
il fucile.[fonte 4] Non sono uguali tutti i giorni.[fonte 4] Non ti far povero
a chi non ha da farti ricco.[fonte 8] Non ti fidar d'un tratto, di grazia o di
bontà.[fonte 8] Non ti vantar farfalla, tuo padre era un bruco.[fonte 8] Non
tutte le ciambelle riescono col buco.[fonte 1] Non tutte le lacrime vengono dal
cuor.[fonte 4] Non tutti i matti rompono i piatti.[fonte 8] Non tutti i pazzi
stanno al manicomio.[fonte 8] Non tutti possiamo abitare in piazza.[fonte 8]
Non tutti sono ammalati quelli che sono in letto.[fonte 8] Non tutti sono
infelici come credono.[fonte 8] Non tutti sono infermi quelli che gridano
ahi![fonte 8] Non tutti vedono la serpe che sta nascosta sotto l'erba.[fonte 4]
Non tutto il male vien per nuocere.[fonte 2] Non v'è mai tanta pace in
convento, come quando i frati portano tonache uguali.[fonte 8] Non vi è donna
senza amore.[fonte 8] Non vi è inganno che non si vinca con l'inganno.[fonte 4]
Non vi è lino senza resca, né donna senza pecca.[fonte 4] Non vi è nulla che
ricercando non si possa penetrare.[fonte 4] Non vi è peggior burla che la
vera.[fonte 4] Non vi fu mai gatta che non corresse ai topi.[fonte 8] Non
vendere la pelle dell'orso prima di averlo ucciso.[fonte 1] Non vo' dormire né
fare la guardia.[fonte 4] Notte, amore e vino fanno spesso l'uomo
meschino.[fonte 8] Novembre vinaio.[fonte 16] Nulla è così buono che a lungo
andare non venga a noia.[fonte 8] Nuovo padrone, nuova legge.[fonte 58] Nutri
il corvo e ti caverà gli occhi.[fonte 8] Nutri la serpe in seno, ti renderà
veleno.[fonte 8] O O taci, o di' cosa migliore del silenzio.[59][fonte 8]
Occhio che piange cuore che duole.[fonte 2] Occhio che piange cuore che
sente.[fonte 2] Occhio non vede, cuore non duole.[fonte 2] Occhio per occhio,
dente per dente.[60][fonte 2] Olio di lucerna ogni mal governa.[fonte 2] Oggi a
me domani a te.[fonte 2] Oggi allegria, domani malinconia.[fonte 8] Oggi
creditore, domani debitore.[fonte 8] Oggi fresco e forte, domani nella
morte.[fonte 8] Oggi in figura, domani in sepoltura.[fonte 8] Oggi in pace,
domani in guerra.[fonte 8] Oggi mercante, domani mendicante.[fonte 8] Oggi
pioggia e doman vento, tutto cambia in un momento.[fonte 8] Ogni Abele ha il
suo Caino.[fonte 4] Ogni animale per non morir s'aiuta.[fonte 188] Ogni bel
gioco dura poco.[fonte 1] Ogni bella scarpa diventa ciabatta, ogni bella donna
diventa nonna.[fonte 8] Ogni bene infine svanisce, ma la fama non
perisce.[fonte 4] Ogni cosa ch'è rara, suol essere più cara.[fonte 8] Ogni
disuguaglianza, l'amore uguaglia.[fonte 4] Ogni erba si conosce dal seme.[fonte
4] Ogni fatica merita ricompensa.[fonte 4] Ogni gatta ha il suo febbraio.[fonte
8] Ogni giorno non è festa.[fonte 4] Ogni giorno non si fanno nozze.[fonte 4]
Ogni grillo si crede cavallo.[fonte 8] Ogni lasciata è persa.[fonte 1] Ogni
legno ha il suo tarlo.[fonte 1] Ogni lucciola non è un fuoco.[fonte 8] Ogni
lumaca vede le corna delle altre.[fonte 189] Ogni matto fa il suo atto.[fonte
8] Ogni medaglia ha il suo rovescio.[fonte 1] Ogni pazzo vuol dar
consiglio.[fonte 8] Ogni pelo ha la sua ombra.[fonte 4] Ogni popolo ha il
governo che si merita.[fonte 190] Ogni promessa è debito.[fonte 1] Ogni rana si
crede gran dama.[fonte 8] Ogni rana si crede una Diana.[fonte 8] Ogni scimmia
trova belli i suoi scimmiotti.[fonte 8] Ogni serpe ha il suo veleno.[fonte 8]
Ogni simile ama il suo simile.[fonte 1] Ogni uccello fa il suo verso.[fonte 8]
Ogni uccello canta il suo verso.[fonte 191] Ognun patisce del suo
mestiere.[fonte 192] Ognuno trascura per sé i godimenti dell'arte sua, quasi
venutigli a noia perché ci ha guardato dentro: il cuoco non è mai ghiotto, il
calzolaio va colle scarpe rotte. Ognun per sé e Dio per tutti.[fonte 1] Ognun
vede le proprie oche come cigni.[fonte 8] Ognuno all'arte sua e il lupo alle
pecore.[fonte 2] Ognuno ama sentirsi lodare.[fonte 4] Ognuno che ha un gran
coltello, non è un boia.[fonte 4] Ognuno fa degli errori.[fonte 4] Ognuno
faccia il suo mestiere.[fonte 2] Ognuno ha i suoi gusti.[fonte 193] Ognuno ha
il suo affanno.[fonte 8] Ognuno ha la sua croce.[fonte 1] Ognuno tira l'acqua
al suo mulino.[fonte 2] Orto, uomo morto.[fonte 169] Orzo e paglia fanno il
caval da battaglia.[fonte 8] Ospite raro ospite caro.[fonte 1] Ottobre
mostaio.[fonte 16] P Paese che vai usanza che trovi.[fonte 1] Paga il giusto
per il peccatore.[fonte 1] Pancia affamata, vita disperata.[fonte 4] Pancia
piena non crede a digiuno.[fonte 1] Pancia vuota non sente ragioni.[fonte 1]
Parla all'amico come se ti avesse a diventar nemico.[fonte 8] Pane finché dura,
vino con misura.[fonte 194] Parenti, amici, pioggia, dopo tre giorni vengono a
noia.[fonte 8] Parenti serpenti.[fonte 1] Parenti serpenti, cugini assassini,
fratelli coltelli.[fonte 2] Parere e non essere è come filare e non
tessere.[fonte 2] Parlare francese come una vacca spagnola.[fonte 4] Passata la
festa gabbato lo santo.[fonte 1] Passato il fiume scordato il santo.[fonte 4]
Patti chiari, amici cari.[fonte 2] Patti chiari amicizia lunga.[fonte 2] Pazzi
e buffoni hanno pari libertà.[fonte 8] Pazzo è colui che bada ai fatti
altrui.[fonte 8] Pazzo è quel prete che biasima le sue reliquie.[fonte 195]
Pazzo per natura, savio per scrittura.[fonte 8] Peccati vecchi, penitenza
nuova.[fonte 8] Peccato celato è mezzo perdonato.[61][fonte 196] Peccato confessato
è mezzo perdonato.[fonte 8] Per amore anche una donna onesta, può perdere la
testa.[fonte 8] Per chi vuol esser libero, non c'è catena che tenga.[fonte 8]
Per essere amabili, bisogna amare.[fonte 9] Per fare l'elemosina non manca mai
la borsa.[fonte 4] Per il galantuomo non ci sono leggi.[fonte 8] Per il saggio
le lacrime delle donne sono come gocce salate.[fonte 4] Per imparare qualche
cosa, non è mai troppo tardi.[fonte 4] Per l'abbondanza del cuore la bocca
parla.[fonte 4] Per l'oro, l'abate vende il convento.[fonte 4] Per la santa
Candelora[62] dell'inverno siamo fora, ma se piove o tira vento, dell'inverno
siamo dentro.[fonte 2] Per la santa Candelora se tempesta o se gragnola
dell'inverno siamo fora; ma se è sole o solicello siamo solo a mezzo inverno.[fonte
2] Per natura tutti gli uomini sono simili; per l'educazione diventano
interamente diversi.[fonte 4] Per ogni civetta che si sente cantare sul tetto,
non bisogna metter lutto.[fonte 8] Per quanto alletti la bellezza di un fiore,
nessuno lo coglie se ha cattivo odore.[fonte 4] Per san Lorenzo la noce è
fatta.[fonte 2] Per San Lorenzo la noce si spacca nel mezzo.[fonte 197] Per san
Lorenzo piove dal cielo carbone ardente.[fonte 2] Per Santa Caterina [25
novembre], le bestie fuori dalla cascina.[fonte 198] Per trovare ingiustizie
non occorrono lanterne.[fonte 4] Per un chiodo si perde un ferro, e per un
ferro un cavallo.[fonte 8] Per un punto Martin perse la cappa.[63][fonte 2] Per
una scopa formano un mercato tre donne e assordan tutto il vicinato.[fonte 8]
Perde le lacrime chi piange davanti al giudice.[fonte 4] Perdona a tutti, ma
non a te.[fonte 199] Perdonare è da uomini, scordare è da bestie.[fonte 199]
Pesce che va all'amo, cerca d'esser gramo.[fonte 8] Pianta a cui spesso si muta
luogo, non prende vigore.[fonte 4] Piccola fiamma non fa gran luce.[fonte 8]
Piccola pietra rovesciar può il carro.[fonte 8] Piccola scintilla può bruciar
la villa.[fonte 8] Piccole ruote portano gran pesi.[fonte 8] Piccolo ago
scioglie stretto nodo.[fonte 8] Piglia il bene quando viene, ed il male quando
conviene.[fonte 8] Piove sempre sul bagnato.[fonte 2] Pisa, pesa per chi
posa.[fonte 8] Più alta la condizione, più si deve essere umili.[fonte 8] Più
briccone, più fortunato.[fonte 4] Più il fiume è profondo, più scorre il
silenzio.[fonte 4] Più si chiacchiera, meno si ama.[fonte 8] Piuttosto un asino
che porti, che un cavallo che butti in terra.[fonte 87] Poca brigata vita
beata.[fonte 1] Poeta si nasce, oratori si diventa.[fonte 200] Poeti e Santi
campano tutti quanti.[fonte 201] Poeti, pittori e pellegrini a fare e a dire
sono indovini.[fonte 8] Polenta e latte bollito, in quattro salti è
digerito.[fonte 8] Portare frasconi a Vallombrosa.[fonte 4] Prendi la bruna per
amante e la bionda per moglie.[fonte 8] Preghiera di gatto e brontolio di pulce
non arrivano in cielo.[fonte 131] Preghiera umile entra in cielo.[fonte 8]
Presto e bene, raro avviene.[fonte 8] Prete spretato e cavolo riscaldato, non
fu mai buono.[64] Prevedere per provvedere e prevenire.[fonte 202] Prima della
morte non chiamare nessuno felice.[fonte 4] Prima di ammogliarsi bisogna fare
il nido.[fonte 4] Prima di andare alla pesca esamina ben bene la tua
rete.[fonte 8] Prima di domandare, pensa alla risposta.[fonte 203] Prima
lusingare e poi graffiare, è arte dei gatti.[fonte 8] Prodigo e bevitor di
vino, non fa né forno né mulino.[fonte 8] Pugliesi, cento per forca e un per
paese.[fonte 8] Puoi ben drizzare il tenero virgulto, non l'albero già fatto
adulto.[fonte 4] Putto in vino e donna in latino non fecero mai buon
fine.[fonte 4] Q Qual proposta tal risposta.[fonte 1] Qualche intervallo il
pazzo ha di saviezza, qualche intervallo il savio ha di stoltezza.[fonte 8]
Qualche volta anche Omero sonnecchia.[fonte 204] Quale uccello, tale il
nido.[fonte 205] Quand'anche si trapiantassero in paradiso, i cardi non
porterebbero mai rose.[fonte 8] Quando arriva la gloria svanisce la
memoria.[fonte 2] Quando c'è l'esercito, si trova anche il generale.[fonte 4]
Quando c'è la salute c'è tutto.[fonte 57] Quando canta la rana, la pioggia non
è lontana.[fonte 8] Quando ci sono molti galli a cantare non si fa mai
giorno.[fonte 16] Quando è alta la passione, è bassa la ragione.[fonte 206]
Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla
palma.[fonte 8] Quando fischia l'orecchio dritto, il cuore è afflitto;
quando il manco, il cuore è franco.[fonte 8] Quando gli eretici si
accapigliano, la chiesa ha pace.[fonte 4] Quando il colombo ha il gozzo pieno,
le vecce gli sembrano amare.[fonte 8] Quando il culo è avvezzo al peto non si
può tenerlo cheto.[fonte 2] Quando il fanciullo è satollo anche il miele non ha
più gusto.[fonte 4] Quando il fanciullo ha sette anni, la ragione spunta in
lui.[fonte 207] Quando il gatto lecca il pelo viene acqua giù dal cielo.[fonte
38] Quando il gatto non c'è i topi ballano.[fonte 1] Quando il gatto non può
arrivare al lardo dice che è rancido.[fonte 8] Quando il gatto si lecca e si
sfrega le orecchie con la zampina, pioverà prima che sia mattina.[fonte 8]
Quando il gozzo è pieno, le ciliegie sono acerbe.[fonte 8] Quando il grano
ricasca, il contadino si rizza.[fonte 57] Quando il grano va a male, bisogna
ringraziare Dio per la paglia.[fonte 8] Quando il lardo è divorato, poco val
cacciare il gatto.[fonte 8] Quando il mandorlo non frutta, la semente ci va
tutta.[fonte 8] Quando il padrone zoppica, il servo non va diritto.[fonte 8]
Quando il sole splende, non ti curar della luna.[fonte 8] Quando il tempo è
chiaro in autunno, vento nell'inverno.[fonte 4] Quando in autunno sono grassi i
tassi e le lepri, l'inverno è rigoroso.[fonte 4] Quando l'amore è a pezzi non
c'è alcuna colla che lo riappiccichi.[fonte 8] Quando l'angelo diventa diavolo,
non c'è peggior diavolo.[fonte 4] Quando l'avaro muore, il danaro
respira.[fonte 4] Quando l'Italia suona la chitarra, la Spagna le nacchere, la
Francia il liuto, l'Irlanda l'arpa, la Germania la tromba, l'Inghilterra il
violino, l'Olanda il tamburo, nulla è uguale ad esse.[fonte 8] Quando la barba
fa bianchino, lascia la donna e tienti al vino.[fonte 208] Quando la cicala
canta in settembre, non comprare gran da vendere.[fonte 8] Quando la fame entra
dalla porta, l'amore esce dalla finestra.[fonte 8] Quando la grazia di Dio è
nel cuore, gli occhi nuotano nell'allegria.[fonte 4] Quando la guerra comincia
s'apre l'inferno.[fonte 4] Quando la neve si scioglie si scopre la
mondezza.[fonte 1] Quando la pera è matura casca da sé.[fonte 1] Quando la pera
è matura bisogna che caschi.[fonte 16] Quando la radice è tagliata, le foglie
se ne vanno.[fonte 8] Quando la ragione dorme, il cuore scappuccia.[fonte 8]
Quando la luna è bianca il tempo è bello; se è rossa, vuole dire vento; se
pallida, pioggia.[fonte 4] Quando la rana canta il tempo cambia.[fonte 8]
Quando non dice niente, non è dal savio il pazzo differente.[fonte 8] Quando
non sai, frequenta in domandare.[fonte 209] Quando piove col sole le vecchie
fanno l'amore.[fonte 1] Quando piove col sole il diavolo fa l'amore.[fonte 1]
Quando piove col sole le streghe fanno l'amore.[fonte 2] Quando piove col sole
si marita la volpe.[65][fonte 2] Quando piove d'agosto, piove miele e
mosto.[fonte 8] Quando si è in ballo bisogna ballare.[fonte 1] Quando si è
patito si è inclini a compatire.[fonte 4] Quando si mangia non si parla.[fonte
57] Quando sono fidanzate hanno sette mani e una lingua, quando sono sposate
hanno sette lingue e una mano.[fonte 8] Quando un amico chiede, non v'è
domani.[fonte 210] Quando un povero dà al ricco, Dio ride in cielo.[fonte 8]
Quando una cosa è accaduta, poco vale lamentarsi.[fonte 8] Quando viene la
forza, il diritto è morto.[fonte 4] Quanto più è alto il monte, tanto più
profonda la valle.[fonte 4] Quanto più la rana si gonfia, più presto
crepa.[fonte 8] Quanto più se n'ha, tanto più se ne vorrebbe.[fonte 4] Quattro
lumi non s'accendono.[fonte 2] Quattro nuove invenzioni vanta il mondo:
scorticare senza coltello, arrostire senza fuoco, lavare senza sapone, e invece
degli occhiali vedere attraverso le dita.[fonte 4] Quel ch'è innato per natura,
si porta alla sepoltura.[fonte 8] Quel ch'è raro, è stimato.[fonte 8] Quel che
con l'acqua mischia e guasta il vino, merita di bere il mare a capo
chino.[fonte 8] Quel che è disposto in cielo, conviene che sia.[fonte 4] Quel,
che è fatto, è fatto, e non si può fare, che fatto non sia.[fonte 211] Quel che
è fatto è reso.[fonte 2] Quel che non può l'ìngegno, può spesso la
fortuna.[fonte 4] Quel che non puoi pagare col denaro, pagalo almeno col
ringraziamento.[fonte 8] Quel che è gioco per il forte per il debole è
morte.[fonte 8] Quel che si dà al ricco, si ruba al povero.[fonte 8] Quel che
si fa a fin di bene, non dispiace mai a Dio.[fonte 4] Quel che si fa
all'oscuro, appare al sole.[fonte 4] Quel che supera il mio intelletto, lo
lascio stare.[fonte 4] Quella bellezza l'uomo saggio apprezza che dura sempre,
fino alla vecchiaia.[fonte 4] Quelli che hanno meno ingegno, ne hanno da
vendere più degli altri.[fonte 4] Quello che abbaia è il cane sdentato.[fonte
4] Quello che deve durare per l'eternità non si deve scrivere con
l'acqua.[fonte 4] Quello che è accaduto ieri, può accadere oggi.[fonte 4]
Quello che è passato, è scordato.[fonte 4] Quello che ha da essere, sarà.[fonte
4] Quello che non avviene oggi, può avvenire domani.[fonte 4] Quello che non è
stato può essere.[fonte 4] Quello che non può l'intelletto, può spesso il
caso.[fonte 4] Quello che puoi fare oggi, non rimandarlo a domani.[fonte 4]
Quello che si dice all'eco nel bosco, il bosco lo ripete.[fonte 4] Quello che
si impara in gioventù, non si dimentica mai più.[fonte 4] Quello che si usa non
si scusa.[fonte 212] Quello è mio zio, che vuole il bene mio.[fonte 4] Quello è
un fanciullo accorto che conosce suo padre.[fonte 4] Questo devi sapere che la
gelosia di un Arabo è la stessa gelosia.[fonte 4] Quieta non muovere.[fonte 16]
R Raglio d'asino non giunse mai al cielo.[fonte 2] Rana di palude sempre si
salva.[fonte 8] Rane, malsane.[fonte 8] Render nuovi benefici all'ingratitudine
è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.[fonte 8] Ricchezza mal disposta a
povertà s'accosta.[fonte 8] Ricchezze nell'India, sapere in Europa, e pompa fra
gli ottomani.[fonte 8] Ricchi e poveri non portano che un lenzuolo all'altro
mondo.[fonte 8] Ricco e grande fortuna potrà farti, ma mai il comune senso
potrà darti.[fonte 4] Ricorda che il nemico può diventarti amico.[fonte 8] Ride
ben chi ride ultimo.[fonte 2] Ride ben chi ride l'ultimo.[fonte 2] Roba calda
il corpo non salda.[fonte 213] Roba d'altri, tutti scaltri.[fonte 4] Roma, a
chi nulla in cent'anni, a chi molto in tre dì.[fonte 8] Roma non fu fatta in un
giorno.[fonte 2] Roma santa, Aquila bella, Napoli galante.[fonte 214] Rosso di
mattina, pioggia vicina.[fonte 215] Rosso di sera bel tempo si spera; rosso di
mattina acqua vicina.[fonte 2] Rosso di sera, buon tempo si spera; rosso di
mattina mal tempo si avvicina.[fonte 1] Rosso e giallaccio pare bello ad ogni
faccia, verde e turchino si deve essere più che bellino.[fonte 216] Rovo, in
buona terra covo.[fonte 169] S Salta chi può.[fonte 1] San Benedetto[66] la
rondine sotto il tetto.[fonte 2] San Lorenzo dalla gran calura.[fonte 2] San
Pietro abbracciato, Cristo negato.[fonte 4] San Silvestro [31 dicembre] l'oliva
nel canestro.[fonte 2] Sangue giovane sempre spavaldo.[fonte 8] Sasso che
rotola non fa muschio.[fonte 47] Pietra che rotola non fa muschio.[fonte 2]
Sbagliando s'impara.[fonte 1] Scalda più l'amore che mille fuochi.[fonte 8]
Scherza coi fanti e lascia stare i Santi.[fonte 1] Scherzando intorno al lume
che t'invita, farfalla perderai l'ali e la vita.[fonte 65] Scherzo di mano,
scherzo di villano.[fonte 1] Gioco di mano, gioco di villano.[fonte 1] Schiena
di mulo, corso di barca, buon per chi n'accatta.[fonte 8] Scusa non richiesta,
accusa manifesta.[67][fonte 217] Se ari male, peggio mieterai.[fonte 47] Se
fossero buoni i nipoti non si leverebbero dalla vigna.[fonte 218] Se gioventù
sapesse, se vecchiaia potesse.[fonte 167] Se i gatti sapessero volare, le
beccacce sarebbero rare.[fonte 131] Se il coltivatore non è più forte della su'
terra questa finisce per divorarlo.[fonte 47] Se il ladro lasciasse il suo rubare,
non ci sarebbero più forche.[fonte 4] Se il giovane sapesse di quanto ha
bisogno la vecchiaia, chiuderebbe spesso la borsa.[fonte 4] Se il padre di
famiglia è miope, i servi sono ciechi.[fonte 8] Se il piede destro è zoppo, Dio
rafforza il sinistro.[fonte 8] Se il poeta s'erige a oratore predicherà agli
orecchi e non al cuore.[fonte 8] Se il primo bottone hai fatto essere secondo,
tutti sbagliati saranno da cima a fondo.[fonte 4] Se il re sputa sopra un abete
si chiama subito abete reale.[fonte 4] Se il ricco conoscesse la fame del
povero, gli darebbe del suo pane.[fonte 8] Se il ringraziare costasse denaro,
molti se lo terrebbero in tasca.[fonte 8] Se il tuo gatto è ladro non
scacciarlo di casa.[fonte 8] Se il virtuoso è povero, il lodarlo non basta; il
dovere primo è d'aiutarlo.[fonte 8] Se la pazzia fosse dolore, in ogni casa si
sentirebbe stridere.[fonte 8] Se le lattughe lasci in guardia alle oche, al
ritorno ne troverai ben poche.[fonte 219] Se ne vanno gli amori e restano i
dolori.[fonte 4] Se nessuno sa quel che sai, a nulla serve il tuo sapere.[fonte
8] Se non è zuppa è pan bagnato.[fonte 1] Se non hai mai rubato, la parola
ladro non è per te un'ingiuria.[fonte 4] Se occhio non mira, cuor non
sospira.[fonte 8] Se ognun spazzasse da casa sua, tutta la città sarebbe
netta.[fonte 220] Se piovesse oro, la gente si stancherebbe a
raccoglierlo.[fonte 8] Se son rose fioriranno.[fonte 1] Se ti vuoi nutrire
bene, fai ballare i trentadue.[fonte 8] Se un fratello compie un omicidio, gli
altri non sono responsabili.[fonte 4] Se vuoi che t'ami, fa' che ti
brami.[fonte 8] Se vuoi portare l'uomo a incretinire, fallo ingelosire.[fonte
4] Segui il filo e troverai il gomitolo.[fonte 4] Senza denari non canta un
cieco.[fonte 1] Senza denari non si canta messa.[fonte 1] Senza umiltà tutte le
virtù sono vizi.[fonte 8] Sempre ti graffierà chi nacque gatto.[fonte 8] Senza
umanità non vi è né virtù, né vero coraggio, né gloria durevole.[fonte 8] Seren
d'inverno e nuvolo d'estate, non ti fidare.[fonte 4] Sette in un colpo! disse
quel sarto che aveva ammazzato sette mosche.[fonte 8] [wellerismo] Settembre,
l'uva è fatta e il fico pende.[fonte 16] Si bacia il fanciullo a causa della
madre, e la madre a causa del fanciullo.[fonte 4] Si deve alzare di buon'ora
chi vuol contentare i suoi vicini.[fonte 8] Si dice il peccato, ma non il
peccatore.[fonte 2] Si mantiene un esercito per mille giorni, e non se ne fa
uso che per un momento.[fonte 4] Si parla del diavolo e spuntano le
corna.[fonte 130] Si può conoscere la tua opinione dal tuo sbadigliare.[fonte
8] Si può vivere senza fratelli ma non senza amici.[68] Si stava meglio quando
si stava peggio.[69][fonte 2] Sia l'astrologo che l'indovina ti portano alla
rovina.[fonte 4] Sicuro come il pane.[fonte 4] Sin che si vive, s'impara sempre.[fonte
4] Sol gente di mal'affare, bestie e botte, van fuori di notte.[fonte 221] Son
padrone del mondo oggi le donne e cedon toghe e spade a cuffie e gonne.[fonte
8] Sono meglio cento beffe che un danno.[fonte 4] Sono sempre gli stracci che
vanno all'aria.[fonte 1] Sopra l'albero caduto ognuno corre a fare legna.[fonte
4] Sopra ogni vino, il greco è divino.[fonte 8] Sotto la neve pane, sotto
l'acqua fame.[fonte 1] Spesso a chiaro mattino, v'è torbida sera.[fonte 222]
Spesso chi commette un'ingiustizia, ne subisce una peggiore.[fonte 4] Spesso
vince più l'umiltà che il ferro.[fonte 8] Sposa bagnata sposa fortunata.[fonte
223] Stretta la foglia, larga la via dite la vostra che ho detto la mia.[fonte
2] Larga la foglia, stretta la via dite la vostra che ho detto la mia.[fonte 2]
Stringe più la camicia che la gonnella.[fonte 4] Studia non per sapere di più,
ma per sapere meglio degli altri.[fonte 224] Studio in gioventù, onore alla
vecchiaia.[fonte 4] Sulla pelle della serpe nessuno guarda alle macchie.[fonte
8] Superbia povera spiace anche al diavolo; umiltà ricca piace anche a
Dio.[fonte 8] T T'annoia il tuo vicino? Prestagli uno zecchino.[fonte 4]
Tagliare i capelli con la pentola.[fonte 225] Tagliarli male. Tal lascia
l'arrosto che poi brama il fumo.[fonte 4] Tale padre, tale figlio.[70][fonte 2]
Tanti galli a cantar non fa mai giorno.[fonte 1] Tanti idoli, tanti
templi.[fonte 4] Tanti pochi fanno un assai.[fonte 226] Tanto fumo e poco
arrosto.[fonte 2] Tanto l'amore quanto il fuoco devono essere attizzati.[fonte
8] Tanto l'amore quanto la minestra di fagioli vogliono uno sfogo.[fonte 8]
Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino.[fonte 1] Tempo chiaro e
dolce a capodanno, assicura bel tempo tutto l'anno.[fonte 8] Tenga bene a mente
un bugiardo quando mente.[fonte 4] Tentar non nuoce.[fonte 1] Terra assai,
terra poca.[fonte 169] Terra bianca, tosto stanca.[fonte 227] Terra coltivata
raccolta sperata.[fonte 2] Terra nera buon grano mena.[fonte 2] Testa di
lucertola, collo di gru, gambe di ragno, pancia di vacca, groppa di
baldracca.[fonte 8] Testa di pazzo non incanutisce mai.[fonte 8] Tinca di
maggio e luccio di settembre.[fonte 8] Tinca in camicia, luccio in
pelliccia.[fonte 8] Tira più un pelo di fica che cento paia di buoi.[fonte 2]
Tira più un capello di donna che cento paia di buoi.[fonte 8] Tolta la causa,
cessato l'effetto.[fonte 8] Tondi l'agnello e lascia il porcello.[fonte 8]
Torinesi e Monferrini, pane, vino e tamburini.[fonte 8] Tra cani non si
mordono.[fonte 1] Tra i due litiganti il terzo gode.[fonte 1] Tra il dire e il
fare c'è di mezzo il mare.[fonte 1] Tra l'incudine e il martello, mano non
metta chi ha cervello.[fonte 4] Tra moglie e marito non mettere il dito.[fonte
1] Tradimento piace assai, traditor non piace mai.[fonte 148] Trattar male il
povero è il disonor del ricco.[fonte 8] Tre cose cacciano l'uomo di casa: fumo,
goccia e femmina arrabbiata.[fonte 4] Tre cose fanno l'uomo ammalato: amore,
vino e bagno.[fonte 8] Tre cose simili: prete, avvocato e morte. Il prete
toglie dal vivo e dal morto; l'avvocato vuol del diritto e del torto; e la
morte vuole il debole e il forte.[fonte 142] Tre cose sono rare: un buon
melone, un buon amico e una buona moglie.[fonte 8] Tre sono le meraviglie,
Napoli, Roma e la faccia tua.[fonte 228] Trenta monaci e un abate non farebbero
bere un asino per forza.[fonte 4] Triste e guai, chi crede troppo e chi non
crede mai.[fonte 8] Triste quel cane che si lascia prendere la coda in
mano.[fonte 8] Triste quell'estate, che ha saggina e rape.[fonte 8] Tromba di culo,
sanità di corpo.[fonte 213] Troppa manna, nausea.[fonte 8] Troppa modestia è
orgoglio mascherato.[fonte 8] Troppe soddisfazioni tolgono ogni voglia.[fonte
8] Troppi cuochi guastano la cucina.[fonte 1] Troppo povero e troppo ricco fa
ugual disgrazia.[fonte 8] Tu scherzi col tuo gatto e l'accarezzi, ma so ben io
qual fine avran quei vezzi.[fonte 8] Turchi e Tartari, flagelli dei
popoli.[fonte 229] Tutta la strada non fallisce il saggio che, accortosi a
metà, corregge il viaggio.[fonte 4] Tutte le cose sono difficili prima di
diventar facili.[fonte 70] Tutte le strade portano a Roma.[fonte 1] Tutte le
volpi si ritrovano in pellicceria.[fonte 2] Tutte le volpi si rivedono in
pellicceria.[fonte 2] Tutte le volte che si ride si toglie un chiodo dalla
cassa.[fonte 230] Tutti del pazzo tronco abbiamo un ramo.[fonte 8] Tutti i
fiumi vanno al mare.[fonte 1] Tutti i giorni sono buoni per andare a caccia. ma
non per prendere uccelli.[fonte 4] Tutti i guai son guai, ma il guaio senza
pane è il più grosso.[fonte 1] Tutti i gusti son gusti.[fonte 1] Tutti i
mestieri danno il pane.[fonte 231] Tutti i nodi vengono al pettine.[fonte 1]
Tutti i peccati mortali sono femmine.[fonte 8] Tutti i salmi finiscono in
gloria.[fonte 1] Tutti siamo figli di Adamo ed Eva.[fonte 190] Tutto ciò che
dura a lungo annoia.[fonte 8] Tutto è bene quel che finisce bene.[71][fonte 1]
Tutto il cervello non è in una testa.[fonte 4] Tutto il mondo è
paese.[72][fonte 1] Tutto quello che è bianco non è farina.[fonte 4] Tutto
s'accomoda fuorché l'osso del collo.[fonte 31] U Uccellin che mette coda vuol
mangiare a tutte l'ore.[fonte 2] Uccello raro ha nido raro.[fonte 8] Ucci ucci,
sento odor di cristianucci.[fonte 2] Umiltà e cortesia adornano più di una
veste tessuta d'oro.[fonte 8] Un bel tacer non fu mai scritto.[73][fonte 2]
Un'anima magnanima consulta le altre; un'anima volgare disprezza i
consigli.[fonte 8] Un'oncia di allegria vale più di una libbra di
tristezza.[fonte 232] Un'ora di contento sconta cent'anni di tormento.[fonte
233] Un abete non fa foresta.[fonte 4] Un bell'abito è una lettera di
raccomandazione.[fonte 4] Un buon abate loda sempre il suo convento.[fonte 4]
Un buon principio va sempre a buon fine.[fonte 4] Un cattivo libro ha spesso un
buon titolo, ed una fronte onesta, un cervello ribaldo.[fonte 4] Un cuor
magnanimo vuol sempre il bene, anche se il premio mai non ottiene.[fonte 8] Un
esercito senza generale è come un corpo senz'anima.[fonte 4] Un fido amico, e
ricchezze ben acquistate son due cose rare.[fonte 8] Un fratello aiuta l'altro.[fonte
4] Un granello fa traboccare la bilancia.[fonte 4] Un granello di polvere fa
scoppiare tutta la bomba.[fonte 4] Un ladro non ruba sempre, ma bisogna
guardarsi da lui.[fonte 4] Un lume è più presto spento che acceso.[fonte 4] Un
male tira l'altro.[fonte 4] Un padre campa cento figli e cento figli non
campano un padre.[fonte 2] Un pazzo ne fa cento.[fonte 8] Un piccolo buco fa
affondare un gran bastimento.[fonte 8] Un povero virtuoso val più di un ricco
vizioso.[fonte 8] Una bella barba e un cuor valente adornano l'uomo.[fonte 4]
Una bella giornata non fa estate.[fonte 4] Una bella lacrima trova facilmente
un fazzoletto che la asciughi.[fonte 4] Una bugia ha bisogno di sette
bugie.[fonte 4] Una buona risata si trasforma tutta in buon sangue.[fonte 232]
Una ciliegia tira l'altra.[fonte 2] Una cosa tira l'altra.[fonte 16] Una estate
vale più di dieci inverni.[fonte 4] Una parola tira l'altra.[fonte 2] Una e
buona.[fonte 16] Una ma buona.[fonte 16] Una fa, due stentano, ma a tre ci vuol
la serva.[fonte 8] Una Fenice fra le donne è quella, che altra donna confessa
essere bella.[fonte 8] Una mano lava l'altra e tutte e due lavano il
viso.[fonte 1] Una mela al giorno leva il medico di torno.[fonte 2] Una ne paga
cento.[fonte 1] Una ne paga tutte.[fonte 1] Una rondine non fa primavera.[fonte
1] Un fiore non fa giardino.[fonte 4] Un fiore non fa primavera.[fonte 4] Una
volta corre il cane e una volta la lepre.[fonte 1] Una volta per uno non fa
male a nessuno.[fonte 1] Uno semina, l'altro raccoglie.[fonte 72] Uno si fa la
sorte da sé, l'altro la riceve bell'e fatta.[fonte 8] Uomo a cavallo, sepoltura
aperta.[fonte 2] Uomo avvisato mezzo salvato.[fonte 1] Uomo da nessuno
invidiato, è uomo non fortunato.[fonte 4] Uomo di vino, non vale un
quattrino.[fonte 8] Uomo morto non fa più guerra.[fonte 234] Uomo senza
quattrini è un morto che cammina.[fonte 2] Uomo solitario, o angelo o
demone.[fonte 235] Uomo zelante, uomo amante.[fonte 4] L'uomo misero è un morto
che cammina.[fonte 2] Uovo di un'ora, pane di un giorno, vino di un anno, donna
di quindici e amici di trent'anni.[fonte 8] V Va' in piazza vedi e odi, torna a
casa bevi e godi.[fonte 236] Va più di un asino al mercato.[fonte 4] Val più un
piacere da farsi che cento di quelli fatti.[fonte 8] Val più una messa in vita
che cento in morte.[fonte 4] Vale più la pratica che la grammatica.[fonte 1]
Vale più un fatto che cento parole.[fonte 237] Vale più un gusto che un
casale.[fonte 1] Vale più un testimone di vista che cento d'udito.[fonte 2]
Vale più uno a fare.[fonte 16] Vanga e zappa non vuol digiuno.[fonte 47] Vanga
piatta poco attacca, vanga ritta terra ricca, vanga sotto ricca il
doppio.[fonte 2] Vecchi doni vogliono nuovi ringraziamenti.[fonte 8] Vecchiaia
d'aquila, giovinezza d'allodola.[fonte 4] Vedere e non toccare è una cosa da
crepare.[fonte 2] Vedere per credere.[fonte 238] Vento fresco mare
crespo.[fonte 239] Ventre pieno non crede a digiuno.[fonte 16] Ventre vuoto non
sente ragioni.[fonte 16] Vesti un legno, pare un regno.[fonte 41] Vi sono dei
matti savi, e dei savi matti.[fonte 8] Vicino alla chiesa lontano da Dio.[fonte
2] Vicino alla serpe c'è il biacco.[fonte 8] Vigna nel sasso e orto in terren
grasso.[fonte 240] Vincere un ambo al lotto è un malefizio, che più accresce la
speranza al vizio.[fonte 8] Vino amaro, tienilo caro.[fonte 8] Vino battezzato
non vale un fiato.[fonte 8] Vino battezzato, non va al palato.[fonte 8] Vino
dentro, senno fuori.[fonte 8] Vino di fiasco la sera buono e la mattina
guasto.[fonte 8] Vino e sdegno fan palese ogni disegno.[fonte 8] Vino non è
buono che non rallegra l'uomo.[fonte 8] Violenza non dura a lungo.[fonte 241]
Vivi e lascia vivere.[fonte 1] Vizio di natura fino alla fossa dura.[fonte 2]
Vizio di natura, fino alla morte dura.[fonte 242] Voglia di lavorar saltami addosso,
lavora tu per me che io non posso.[fonte 243] Voglio piuttosto un asino che mi
porti, che un cavallo che mi getti in terra.[fonte 4] Volpe che dorme, ebreo
che giura, donna che piange, malizie sopraffine colle frange.[fonte 4]
Note Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce dedicata su
Wikipedia. Cfr. Matteo, 6, 34. La locuzione latina gutta cavat
lapidem (letteralmente "la goccia perfora la pietra") venne
utilizzata da Tito Lucrezio Caro, Publio Ovidio Nasone e Albio Tibullo. Cfr.
voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Titolo
di un'opera di Achille Campanile del 1930, passato a proverbio e modo di dire
comune. Cfr. Petrarca: «La vita el fin, e 'l dí loda la sera». Cfr.
Giacomo Leopardi: «Amore, | amor, di nostra vita ultimo inganno, |
t'abbandonava». Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce dedicata
su Wikipedia. Cfr. Giovanni Verga, I Malavoglia. Slogan
pubblicitario degli anni Ottanta. Cfr. Gesù, Discorso della Montagna:
«Cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve,
e chi cerca trova». Cfr. Gesù, Vangelo secondo Matteo: «Rimetti la spada
nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di
spada». Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce dedicata su
Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Citato in Giovanni
Battista Rossi, Conferenze popolari per gli uomini nel tempo degli esercizi
spirituali, Tappi, Torino, 1896, p. 164. Citato nel film Riso
amaro. Citato in Dizionario Italiano Olivetti, dizionario-italiano.it.
Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. Libro di Osea: «E poiché hanno
seminato vento | raccoglieranno tempesta». Cfr. attribuite a Papa
Bonifacio VIII: «Qui tacet, consentire videtur». Cfr. voce dedicata su
Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. Cristoforo
Poggiali, Proverbj, motti e sentenze ad uso ed istruzione del popolo, 1821:
«Chi dà a credenza, molte merci spaccia; | Ma un presto fallimento si
procaccia». Cfr. Appio Claudio Cieco, Sententiae: «Quisque faber fortunae
suae.» Cfr. voce dedicata su Wikipedia. La frase è attribuita
(Niccolò Machiavelli, Istorie fiorentine, II, 3; Giovanni Villani, Nuova
Cronica, VI, 38) a Mosca dei Lamberti che, nel 1215, a Firenze, convinse così
gli Amidei a uccidere Buondelmonte de' Buondelmonti; dal delitto nacquero le
fazioni dei guelfi e dei ghibellini. Citato anche nella Divina Commedia di
Dante Alighieri (Inferno, 28, 106-108): Gridò: "Ricordera' ti anche del
Mosca, | che disse, lasso!, 'Capo ha cosa fatta', | che fu mal seme per la
gente tosca". È possibile che Mosca dei Lamberti adattò al momento un
proverbio già noto ai suoi tempi (Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli,
1921); secondo l'Accademia della Crusca (Dizionario della lingua italiana,
1827) corrisponderebbe al latino «Factum infectum fieri nequit». Cfr.
Gesù, Vangelo secondo Matteo: «Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a
Dio quel che è di Dio». Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce
dedicata su Wikipedia. Cfr. Philippe Néricault Destouches, Le Glorieux,
atto II, scena V: «La critique est aisée, et l'art est difficile.». Cfr.
«Facta lex inventa fraus.» Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr.
voce dedicata su Wikipedia. Riferito all'uso di numeri civici di colore
nero per le abitazioni e rosso per gli esercizi commerciali. Cfr. Michail
Aleksandrovič Bakunin: «Il caffè, per esser buono, deve essere nero come la
notte, dolce come l'amore e caldo come l'inferno». Cfr. Blaise Pascal:
«Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce». Cfr. voce
dedicata su Wikipedia. Nei dialetti siciliani e nel napoletano l'arancia
viene chiamata portogallo. La spiegazione è in Strafforello, vol. III, p.
329. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Veste da lavoro usata,
specialmente in Toscana, da contadini e operai. Cfr. voce dedicata su
Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce dedicata su
Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce dedicata su
Wikipedia. Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Cfr. voce dedicata su
Wikipedia. Cfr. Ippocrate: «La vita è breve, l'arte è lunga, l'occasione
è fugace, l'esperienza è fallace, il giudizio è difficile». Citato in
Dizionario Italiano, dizionario-italiano.it. Cfr. voce dedicata Cfr. voce
dedicata su Wikipedia. itato in Dizionario Italiano Olivetti. Cfr.
Gesù, Vangelo secondo Luca: «Nessun profeta è ben accetto in patria».
Cfr. Etica della reciprocità. Cfr. anche Salvator Rosa, iscrizione
riportato su un autoritratto: «Aut tace | aut loquere meliora |
silentio.». Questo detto, ripreso dal Libro dell'Esodo («occhio per
occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per
bruciatura, ferita per ferita, livido per livido»), è chiamato Legge del
taglione. Il proverbio compare in una novella del Decameron di Giovanni
Boccaccio (la quarta della prima giornata). Cfr. Focus storia n. 49, novembre
2010, p. 74. 2 febbraio: in tale giorno la Chiesa cattolica celebra la
presentazione al Tempio di Gesù (Luca 2,22-39), popolarmente chiamata festa
della Candelora, perché in questo giorno si benedicono le candele, simbolo di
Cristo. La festa è anche detta della Purificazione di Maria, perché, secondo
l'usanza ebraica, una donna era considerata impura del sangue mestruale per un
periodo di 40 giorni dopo il parto di un maschio e doveva andare al Tempio per
purificarsi: il 2 febbraio cade appunto 40 giorni dopo il 25 dicembre.
Cfr. voce dedicata su Wikipedia. Citato in Vocabolario degli accademici
della Crusca, vol II, parte 2, Tipografia Galileiana di M. Cellini e c.,
Firenze, 1863, p. 726. Una leggenda simile esiste anche in Giappone: i
demoni-volpe (le kitsune) preferirebbero celebrare i loro matrimoni sotto la
pioggia mentre splende il sole; il regista Akira Kurosawa ne prese spunto per
il primo episodio (Raggi di sole nella pioggia) del film Sogni (1990). 21
marzo, prima della riforma del calendario liturgico del 1969. Cfr.
Proverbio latino medievale: Excusatio non petita, accusatio manifesta.
Citato in Macfarlane, p. 256. Attribuita a Francesco Domenico
Guerrazzi. Cfr. Libro di Ezechiele: «Ecco, ogni esperto di proverbi dovrà
dire questo proverbio a tuo riguardo: Quale la madre, tale la figlia».
Titolo di una commedia di William Shakespeare, scritta fra il 1602 e il
1603. Cfr. Petronio Arbitro, Satyricon, 45, 4. Cfr. Iacopo Badoer:
«Un bel tacer | mai scritto fu». Fonti Citato ne Il nuovo
Zingarelli. Citato in Lapucci. Citato in Carlo Volpini, 516
proverbi sul cavallo, Cisalpino-Goliardica, 1984. Citato in Donato.
Citato in Max Pfister, Lessico etimologico italiano, vol. 3, Reichert, 1987.
Citato in Schwamenthal, § 14. Citato in Schwamenthal, § 29. Citato
in Selene. Citato in Marino Ferrini, I proverbi dei nonni, Il Leccio,
2002³. Citato in Schwamenthal, § 52. Citato in Schwamenthal, §
78. Citato in Schwamenthal, § 85. Citato in Schwamenthal, §
122. Citato in Schwamenthal, § 123. Citato in Schwamenthal, §
131. Citato in Vocabolario della lingua italiana. Citato in
Schwamenthal, § 170. Citato in Macfarlane, p. 118. Citato in
Schwamenthal, § 278. Citato in Schwamenthal, § 235. Citato in
Schwamenthal, § 242. Citato in Schwamenthal, § 243. Citato in
Schwamenthal, § 255. Citato in Schwamenthal, § 281. Citato in
Schwamenthal, § 281. Citato in Schwamenthal, § 288. Citato in
Schwamenthal, § 290. Citato in Schwamenthal, § 290. Citato in
Castagna 1866, p. 137. Citato in Schwamenthal, § 317. Citato in
Vezio Melegari, Manuale della barzelletta, Mondadori, Milano, 1976, p.
35. Citato in Macfarlane, p. 352. Citato in Francesco Protonotari,
Nuova antologia di scienze, lettere ed arti, volume settimo, Direzione della
nuova antologia, Firenze, 1868, p. 454. Citato in Grisi, p. 34.
Citato in Daniela Schembri Volpe, 101 perché sulla storia di Torino che non
puoi non sapere, Newton Compton Editori, 2018, p. 121. ISBN 978-88-227-2521-9
Citato in Pescetti, p. 123. Citato in Grisi, p. 254. Citato in
Paronuzzi, p. 68. Citato in Schwamenthal, § 585. Citato in Giulio
Franceschi, Proverbi e modi proverbiali italiani, Hoepli, 1908. Citato in
Macfarlane, p. 83. Citato in Grisi, p. 24. Citato in Schwamenthal,
§ 768. Citato in Schwamenthal, § 804. Citato in Schwamenthal, §
805. Citato in Volpini, p. 137. Citato in Francesco Picchianti,
Proverbi italiani, A. Salani, 1886. Citato in Schwamenthal, § 848.
Citato in Schwamenthal, § 854. Citato in Schwamenthal, § 878.
Citato in Schwamenthal, § 886. Citato in Castagna 1866, p. 172.
Citato in Grisi, p. 113. Citato in Schwamenthal, § 906. Citato in
Augusto Arthaber, Dizionario comparato di proverbi e modi proverbiali, Hoepli,
1972. Citato in Macfarlane, p. 276. Citato in Temistocle
Franceschi, Atlante paremiologico italiano, Edizioni dell'Orso, 2000.
Citato in Macfarlane, p. 214. Citato in Schwamenthal, § 1066.
Citato in Grisi, p. 11. Citato in Macfarlane, p. 171. Citato in
Amadeus Voldben, Il giardino della saggezza, Amedeo Rotondi, 1967. Citato
in Niccolò Tommaseo e Bernardo Bellini, Dizionario della lingua italiana, 1872,
Unione Tipografico-Editrice Torinese, vol. IV, p. 369. Citato in
Macfarlane, p. 281. Citato in Grisi, p. 106. Citato in
Schwamenthal, § 1324. Citato in Schwamenthal, § 1365. Citato in
Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 583. Citato in
Grisi, p. 247. Citato in Macfarlane. Citato in Schwamenthal, §
1541. Citato in Emanuel Strauss, Concise Dictionary of European Proverbs,
Routledge, 2013. Citato in Macfarlane, p. 112. Citato in Giuseppe
Giusti, Dizionario dei proverbi italiani. Citato in Macfarlane, p.
364. Citato in Macfarlane, p. 299. Citato in Macfarlane, p.
122. Citato in Schwamenthal, § 1742. Citato in Schwamenthal, §
1744. Citato in Schwamenthal, § 1753. Citato in Schwamenthal, §
1754. Citato in Schwamenthal, § 1762. Citato in Schwamenthal, §
1788. Citato in Schwamenthal, § 1796. Citato in Filippo Moisè,
Storia della Toscana dalla fondazione di Firenze fino ai nostri giorni, V.
Batelli e compagni, 1848, p. 73 Citato in Schwamenthal, § 1821.
Citato in Macfarlane, p. 476. Citato in Macfarlane, p. 399. Citato
in Schwamenthal, § 1933. Citato in Alfani, p. 75. Citato in Macfarlane,
p. 103. Citato in Schwamenthal, § 1994. Citato in Schwamenthal, §
2034. Citato in Schwamenthal, § 2035. Citato in Schwamenthal, §
2047. Citato in Castagna 1866, p. 56. Citato in Schwamenthal, §
2142. Citato in Paola Guazzotti e Maria Federica Oddera, Il Grande
dizionario dei proverbi italiani, Zanichelli, 2006. Citato in
Schwamenthal, § 2168. Citato in Grisi, p. 145. Citato in
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Schwamenthal, § 3274. Citato in Macfarlane, p. 263. Citato in
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Volpini, p. 47. Citato in Schwamenthal, § 4901. Citato in
Schwamenthal, § 5487. Citato in Castagna 1869, p. 291. Citato in
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Macfarlane, p. 412. Citato in Grisi, p. 303. Citato in Macfarlane,
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Proverbi e modi proverbiali, Nerbini, 1931. Citato in Grisi, p.
109. Citato in Ugo Rossi-Ferrini, Proverbi agricoli, I Fermenti,
1931. Citato in Grisi, p. 39. Citato in Schwamenthal, § 3271.
Citato in Castagna 1866, p. 18. Citato in Carlo Giuseppe Sisti, Agricoltura
pratica della Lombardia, Milano, 1828, p. 99. Citato in Schwamenthal, §
3296. Citato in Schwamenthal, § 3528. Citato in Florio, lettera
N. Citato in Schwamenthal, § 3566. Citato in Schwamenthal, §
3630. Citato in Castagna 1866, p. 75. Citato in Paronuzzi, p.
66. Citato in Schwamenthal, § 3674. Citato in Pescetti, p. 105.
Anche in Arthur Schopenhauer, Aforismi sulla saggezza della vita, Parenesi e
massime, 29. Citato in Schwamenthal, § 3691. Citato in
Schwamenthal, § 3723. Citato in Grisi, p. 191. Citato in
Schwamenthal, § 3761. Citato in Schwamenthal, § 3770. Citato in
Grisi, p. 270. Citato in Schwamenthal, § 3952. Citato in
Macfarlane, p. 310. Citato in Schwamenthal, § 3992. Citato in
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Schwamenthal, § 4130. Citato in La scienza pratica: dizionario di
proverbi e sentenze che a utile sociale raccolse il padre Lorenzo da Volturino,
Quaracchi: Tipografia del Collegio di S.Bonaventura, Firenze, 1894, p.
457. Citato in Focus storia n. 49, novembre 2010, p. 74. Citato in
Schwamenthal, § 4306. Citato in Schwamenthal, § 4352. Citato in
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Mondadori, Milano, 2011, p. 145. ISBN 978-88-04-60776-2 Citato in
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Schwamenthal, § 4757. Citato in Macfarlane, p. 255. Citato in
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Forconi, Le parole del corpo. Modi di dire, frasi proverbiali, proverbi antichi
e moderni del corpo umano, SugarCo, 1987. Citato in Castagna 1866, p.
136. Citato in Castagna 1866, p. 35. Citato in Castagna 1866, p.
24. Citato in Schwamenthal, § 5051. Citato in Castagna 1866, p.
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Schwamenthal, § 5385. Citato in Grisi, p. 269. Citato in Salvatore
Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana, XII Orad - Pere, Unione
Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1984, p. 1065. Citato in Schwamenthal,
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73. Citato in Gustavo Strafforello, La sapienza del mondo, ovvero,
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5630. Citato in Francesco Grisi, Il grande libro dei proverbi.
Dall'antica saggezza popolare detti e massime per ogni occasione, Piemme, 1997,
p. 12. (EN) Citato in Jerzy Gluski, Proverbs. Proverbes. Sprichworter.
Proverbi. Proverbios. Poslovitsy. A comparative book of English, French,
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vol. I-II, coi tipi di M. Cellini e C., 1870, p. 312. Citato in
Schwamenthal, § 5765. Citato in Schwamenthal, § 5795. Citato in
Schwamenthal, § 5817. Citato in Castagna 1866, p. 39. Citato in
Macfarlane, p. 138. Citato in Schwamenthal, § 5924. Citato in
Schwamenthal, § 5932. Bibliografia Augusto Alfani, Proverbi e modi proverbiali,
Tipografia e Libreria Salesiana, Torino, 1882. Niccola Castagna, Proverbi
italiani, Antonio Metitiero, Napoli, 1866. Niccola Castagna, Proverbi italiani,
pe' tipi del Commend. Gaetano Nobile, Napoli, Donato, Gianni Palitta,
Dizionario dei proverbi, L.I.BER. progetti editoriali, Genova, 1998. John
Florio, Giardino di ricreatione, appresso Thomaso Woodcock, Londra, Grisi, Il
grande libro dei proverbi, Piemme, Lapucci, Dizionario dei proverbi italiani,
Mondadori, 2007. David Macfarlane, The Little Giant Encyclopedia of Proverbs,
Sterling, New York, 2001. ISBN 0-08069-7489-3 Alessandro Paronuzzi, José e
Renzo Kollmann, Non dire gatto..., Àncora Editrice, Milano, Pescetti, Proverbi
italiani. Raccolti, e ridotti sotto a certi capi, e luoghi comuni per ordine
d'alfabeto, Compagnia degli Aspiranti, Verona, 1603. Riccardo Schwamenthal e
Michele L. Straniero, Dizionario dei proverbi italiani e dialettali, Selene,
Dizionario dei proverbi, Pan libri, Volpini, 516 proverbi sul cavallo, Ulrico
Hoepli, Milano, 1896. Aa. Vv., Il nuovo Zingarelli, Zanichelli, Zingarelli,
Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli Editore, Bologna, Strafforello,
La sapienza del mondo: ovvero, Dizionario universale dei proverbi di tutti i
popoli,, vol. III, Augusto Federico Negro, Torino, stampa 1883. Voci correlate
Modi di dire italiani Scioglilingua italiani Categoria: Proverbi dell'Italia. Massimo
Baldini. Keywords: linguaggio, Campanellese, lingua utopica, fantaparola –
phanta-parabola, il proverbio italiano, amici, implicatura proverbiale, proverbi
romani, proverbi italiani, lezioni di filosofia del linguaggio, con D.
Antiseri, indice, grice – filosofia analica, parte I: filosofia analitica
Austin e Grice, parte II tipi di linguaggio. baldini — implicatura proverbiale — i amici —
das mystisch — filosofia italiana della moda maschile italiana — haircuts —
journalese — journal of the Royal Association of Philosophy — lingua utopica —
Campanellese — Empedocle filosofo poeta — Lucrezio filosofo poeta — Parmenide
filosofo poeta — Eraclito l’oscuro — vallisneri — fantaparola — gargarismo —
trabocchetta — rumore — ingorgo — aforismo — Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Baldini” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Baldinotti –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo italiano. Grice: “I
like Baldinotti; Speranza thinks he is a Griceian, just to oppose to the
Italian received view that he is Lockeian! But I say, he is MORE than either!
Baldinotti can quote from Rousseau, and
the French authors that Locke never cared about! And most importantly, he can
SIMPLIFY and need not appeal to Anglo-Saxonisms as Locke does (what does it
mean that a ‘word’ STANDS for ‘an idea’?” --.” Grice: “In fact, as Speranza
showed at Oxford, one can organize a tutorial on the philosophy of language (he
won’t though – he hardly organises!) just using Balidonotti’s rough Latin of first
chapter of ‘De vocibus’!” “All the
material I rely on in my Oxford 1948 talk on ‘meaning’ for the Philosophical
Society can be found there: ‘vox’ significat affectus animae artificialiter,
lachrymal significat affectum animae naturaliter --.” Grice: “Unless she is a
crocodile, as Speranza remarks!” Tutore di metafisica nel ginnasio di Mantova,
pavia, padova. -- Altre opere: “De recta humanae mentis institutione”; Historiae philosphica prima,
et expeditissima adumbratio -- Operationum mentis analysis . De elementis
humanarum cognitionum -- de perceptione et ideas, earumque adnexis -- de
idearum affectionibus, et in primis de realitate, abstractione, universalitate
earumdem -- de simplicitate, compositione, relatione idearum -- de idearum
clartitate, et distinctione, veritate, et perfectione -- DE VOCIBUS -- DE
SYNONIMIS, ET INVERSIONIBUS -- DE VARIETATE LINGUARUM, ET DE MUTUO VOCUM, ET
IDEARUM IFLUXU -- DE USU, ET ABUSU VERBORUM -- DE VERBORUM INTERPRETATIONE --
DE MULTIPLICITI SCRIBENDI RATIONE. De humana cognition. Humana cognitionis
analysis -- de PROPOSITIONIBUS -- de gradibus humana cognitionis -- De
cognitione probabili -- De cognitionum realitate -- De extensione
humanarum cognitionum -- De impedimentis humanarum cognitionum -- de
humanarum cognitionum instrumentis -- De mentis magnitudine, et
perspicacitate augenda -- De analysi, et definitione -- de ratiocinio et
demonstratione -- De nonnullis argumentorum generibus -- De
inductione et analogia -- De methodo generatim -- De methodo
analytica -- De methodo synthetica -- De principiis -- De
hypothesibus -- De ratione coniectandi probabilia -- De fontibus
humanarum cognitionum -- de conscientia -- de ratione -- De concursu
rationis, et revelationis -- De sensibus, deque recto eorum usu
-- De cognitionibus, et erroribus sensuum -- De observatione, et
experientia -- de auctoritate -- De testibus oculatis, et auritis --
De traditione et monumentis -- De historia -- De librorum
authenticitate,sinceritate, suppositione, interpolatione, corruptione, et de
interpretationibus -- de arte hermeneutica -- “Tentamen”; “De metaphysca generali liber
unicum” De existente et possibili, et deiis, quae qua tenus tale est, ad
utrumque pertinent -- De identitate, similitudine, distinctione -- De
composito, simplici, uno -- De infinito. De spatio. De tempore. De causa. De
non nullis impropriis causarum generibus. De Kantii philosophandi ratione et
placitis, ut ad metaphysicam generalem referuntur. S. Gori Savellini,
Cesare Baldinotti in "Dizionario Biografico degli Italiani", Istituto
dell'Enciclpopedia Italiana, Roma. E. Troilo, Un maestro di Rosmini a Padova,
Cesare Baldinotti in: "Memorie e documenti per la storia della Padova",
Padova. Cesare Baldinotti, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. DE VOCIBUS. Voces nostrum studium,et
operam expostulare,fuit iam suo loco (V. Introd.) observatum.Quae cum sint
idearum nostrarum signa, horum tradenda prima divisio est', qua in naturalia,
et artifi cialia distinguuntur. Signum naturale cum re significata habet nexum
ex eius natura derivatum; artificiale vero ex hominum institutione, et arbitrio
aliquam rem significat: lacrymae sunt doloris signum naturale, voces signum
idearum artificiale. Non erit porro alienum de naturalibus signis
advertere, homines non raro ad errorem trahi, dum ex illisrem significatam
inferunt: sunt enim haec signa, vel effectus, qui caussas, vel caussae quae
effectus indicant,ut in signis rerum futurarum. Iidem autem effectus nunc ab
una,nunc ab alia caussa oriun tur;neceadem caussa eosdem semper effectusgignit;
sed multa sunt, quae causarum actionem determinant, suspendunt, et etiam omnino
mutant. Non igitur necessario, et semper SIGNUM NATURALE rem certam innuit; sed
a multi spendet, quod eo una potius,quam alia ostendatur. SIGNA AFFECTUUM ANIMI
SUNT NATURALIA. Eos tamen non semper denotant,et ille in perpetuo errore
versaretur, qui de affectibus ex eorum signis statueret. Sed ad voces
revertamur, quarum origo, indoles, vis, in ideas et mentis operationes,
influxus, usus, abusus, interpretatio leviter attingenda. Quin imo Reid Rech.
sur. l'Entend. tom. I. p.147. arbitratur, eas, quas dicimus causas, esse tantum
RERUM SIGNA.Videmus dumtaxat, quae dam hunc inter se nexum habere, ut si unum
praecedat, aliud illico subsequatur. Id tantum statuere possumus; non vero in
eo, quod prae cedit respectu illius, quod subsequitur, causalitatem, ut aiunt,
inesse, cum haec nullaratione ostendatur. Inter eas quae non prorsus
inutiliter attinguntur, commemorari possunt potissimum nominum divisiones, ad
quarum normam nomen in enunciatione, vel est subiectum de quo aliquid effertur,
vel est praedicatum quod effertur, vel est concretum, remque significat cum sua
forma, vel est ab. Voces INSTITUTIONIS esse signa nempe ARTIFICIALIA, nec
necessarium habere NEXUM CUM REBUS, ad evidentiam probantmuti, et
linguarum varietas. Nam si haberent, organo tantum vocis impedito, sermonis
nullus esset usus, et quae apud omnes eadem sunt, iis demetiam nominibus
appellarentum. Mira autem est non rerum, sed verborum diversitas; et muti sunt
ii, qui surditat elaborant. Nunc vero videamus, an facultates humanae vocibus
AD RES SIGNIFICANDAS INSTITUENDIS sint pares. An videlicet possint homines
linguam aliquam condere. Animi affectus, sensusque vividi doloris et voluptatis
naturalibus quibusdam signis coniunguntur, iisdemque manifestantur: homines
haec facile possunt artificialia reddere, sinempe observent affectus, quos
indicant, nec ea tantum edant impellente natura, sed consulto, ut quae
experiuntur, ceteris manifestent. Quae signa clamoribus non articulatis, habitu
vultus, et gestibus continentur, atque actionis, quam vocant, linguam
conficiunt. Usu autem constat facilem, expeditam secretam idearum
COMMUNICATIONEM hac lingua non obtineri, distantia, et interposito corpore
impediri. Sensim igitur ab ea recedere coguntur homines, ad eamque feruntur,
quae vocis distinctionibus pititur. Hanc ut instituant clamores naturales in
primis pro stractum solamque formam exprimit, vel est categorematicum quod
solum et per se aliquid notat, vel est syncatagorematicum quod ab alio avulsum
nihil certi repraesentat, vel categoricum quod rem categoria comprehensam
obiicit. Sed de his satis, sapiens est non qui multa, sed qui utilia novit.
Negat P. Lamy in Trat. de Ar. log.; et Rousseau disc. sur. l’ineg. parmi les
Hom. parum abesse censet, quin demonstratum sit, fieri numquam posse, ut lingua
ulla suam ab hominibus originem habeat. Ita etiam A. Encycl. A. lang. His e
diametro se se oppouunt Epicurei, quorum hac super re doctrinam Lucretius l.5.
de Nat. rerum exposuit. Diodorus Siculus lib. I. Bibl. quod nobis possibile, et
hypotheticum est, factum habet, omnesque linguas humanum fuisse inventum putat.
Nuperrime in Diss. de ling. orig. ab A. Berol. an. praemio donata Herder
contendit linguas in universum non divinae, sed humanae prorsus esse
institutionis. De hac lingua V. Condil. Gram. part. 1. lib. 1. Sinensium lingua
hanc videtur originem habuisse, ea constat ex monosyllabis 328., quae
pronunciationo variata otficiunt SIGNA, (V. Condil. 100 --
trahunt, et simul iungunt, rerum etiam externarum sonos referunt, et imitantur
(1), unde voces oriuntur, quae elevatione et depressione multum distantes
aliquo modo gestuum et clamorum vim exprimunt (2). Atque ita verborum
dstinctioni consultum, quantum patitur vocis et auditus organum rude adhuc et
inexercitatum. Subtilius, qui haec disputant, quorum etiam aures delicatiores,
similitudinem quamdam inveniunt inter impressionem a rebus, et a verbis
excitatam. Eamque prolatis ex. gr. vocibus "crux",
"mel", "vepres", "furens",
"turbidus", "languidus" distincte sentiunt. Hinc multae voces
(3). Multae etiam facultate, qua pollemus, per metaphoras sive transferentiam
omnia explicandi, et associandi insensibiles ideas sensibilibus. Revera verba,
quae res insensibiles referunt, metaphorica sive transrelata omnino sunt.
Perpetuo autem usu nomina propria evasere, et vetustate multorum etymologia
sensibilis ita evanuit, ut res pror sus in sua SPIRITUALITATE relinquant (4).
Quin immo eadem verba solum confugiendo ad metaphoras sive transferentiam
poterant fabricari. Externa namque forma carent, etsono res insensibiles, unde
earum no mina desumantur. Ac certe per imagines solum et similitudines id, quod
experimur, aliis, qui illud ipsum non experiuntur, possumus explicare. Traité
des connois. hum. t. II.) Alii monosyllaba Sinensium numerant 330. Freret sur
la lang, des Chin. 214., et signa inde componunt 54509. et 80000. Haec loquendi
ratio supponit iudicium aurium subtilissimum.V. Soave Compendio di Lock. l.
III. Ap. al c.I. Hoc facile sibi suadeat quisquis rerum, quae sonorae sunt,
nomina advertat ex gr. "ululare", "hinnire",
"sibilus", "tonitrus", "stridor",
"murmur". Observat Warburthon Ess. sus les Hierogl. actionis lingua,
inventis iam vocibus, homines usos fuisse, Orientales praesertim, quorum
alacritas, et imaginatio vehemens hunc exitum etiam requirit. Atque exempla
permulta ex historia tum sacra, tum profana hanc in rem profert. Ut recte
nomina rebus IMPOSITA sint, quamdam esse debere rerum, et nominum convenientiam
ex ipsa earumdem rerum natura ortam in Cratylo contendit Plato. Sunt enim, ait
ipse, nomina IMITAMENTUM, quemadmodum etiam pictura, et qui rei speciem in
litieras, ac syllabas referre nonnovit, is ineptus nominum opifexest.
Erecentioribus Ioannes Baptista Vico, principii d'una scienza ec., de
similitudine verborum cum forma rerum multis disseruit. Horum nominum exempla
sint cogitatio, voluntas, desiderium, aliaque huiusmodi. V. Traité de la
Formation mechan. etc. Ch.XII. Quod vero homines, ut boc aliisque modis
ad sermonem formandum aptisutantur, fortius incitat, indigentia est, maxima
rerum omnium magistra. Sermonis etiam utilitas, atque necessitas vix paucis
inventis vocibus sub oculos posita. Hinc multi conatus, ut verborum numerus
augeatur, quos felices reddit cognitionum, et idearum COMMERCIUM homines inter
initum. Haec enim se mutuo fovent, et,ut verba commercium illud amplificant,
ita ex commercio novae vires additae, et nova suppeditata istrumenta, quibus
ars faciendorum et deligendorum verborum perficiatur. Nec vero sunt verba
hominum opus, in quo ipsi nihil aliud, quam arbitrium recte sequantur. Est enim
illa analogia im pressionis, et soni imitatio, quam pulcherrime in fingendis
vocibus sequimur. Est forma, et affectio orgaai vo eis, a qua earumdem
elementa, literae praesertim vocales determinantnr. Sunt denique derivata, et
voces artium, et technicae in hominum libertate haud repositae, cum illae
derivationis naturam imitentur. Hac vero vim, et EFFECTUS RERUM SIGNIFICENT
significent. Duo sunt, quae videntur iam asserta impugnare. Primum scilicet
sermonis institutionem requirere, ut de significatu verborum conveniatur.
Conveniri autem inter eos non posse, qui omni sermone destituti sunt. Quasi
vero nulla alia praeter voces ratio suppetat. Qua explicetur quid ipsae
SIGNIFICENT Percipi enim id. Modum transferendi verba necessitas genuit inopia
coactaet augustiis, post autem delectatio iucunditasque celebravit. Cic. de
Orat. III. 38. Notat et illuminat marime orationem tamquem stellis qui. busdam
verbum translatum Idem ib. 48. Huc faciunt quae de linguarum analogia
subtiliter disserunt Valcke naerius in observatt. academicis, Lennep inpraelett.
academicis et Scheidius in orat. de linguarum analogia ex analogicis mentis
actionibus probata. Sed est etiam unde moveantur homines ad res alias per
multas metaphorice appellandas, eas scilicet quas primum obscure, et confuse
percipiunt. Et enim has meditando earum quamdam similitudinem cum aliis
distincte perceptis intelligunt, quorum proinde nomina ad illa transferunt.
Atque in hoc mirifice dele ctantur luce, quae ex rebus claris, et distinctis in
alias obscuras, et confusas diffunditur. potest ex circumstantiis, in quibus
adhibentur, et ex gestibus, qui pronunciatis nominibus res indicarent. In
eamdem etiam rem conferet illa imitatio, atque similitudo. Aliud vero erat
huiusmodi. Summis viris difficultas maxima se semper obiecit in linguis
ornandis, et perficiendis. Qui ergo fieri potuit, ut homines plane rudes, atque
ferini, communione scilicet cum aliis non exculti ex integro sermonem con dant?
Fieri istud quidem non posset, si de perfecto sermone contenderetur, in quo non
tantum apte expressa, quae ad necessitatem pertinent, sed etiam, quae ad cultum
vitae, et oblectationem. In quo multae orationis partes, multae leges syntaxis,
et inflexionum, multa denique, ut numerus, et varietas obtineatur. Haec sermoni
non absolute necessaria sunt, et vix nomina, utaiunt, substantiva, et signum
aliquod numquam variatum ad verbum auxiliare sum exprimendum. Quae quidem
hominis licet sylvestris facultates non superant. Multa in qualibet lingua
videntur esse synonima, voces scilicet, quae unam, eamdemque ideam referunt.
Dubitari autem iure potest, an revera sint. Quin potius statuerem ea, quae di
cuntur synonima, eamdem ideam principalem reddere, accessoria vero differre
plerumque. Atque hoc modo inter se differunt "amo", et "diligo";
"peto", et "postulo", "timeo", et "vereor"
V. Condill. Gram. P. I. Ch. XIV. V. Traité de la form. mechan. du langage V.
II. Ch. IX. et suiv. Condillac Traité des connois. hum. T. II. Grammaire P. I.
Ch. I. II., Maupertuis Diss.sur les moyens etc. pour exprimer leurs idées; Sulzer
de l'influence recipr. de la raison, etc. extat in Ac. Ber. et Vol. IV. opusc.
Select. Mediol. Soave Comp. etc. L. III. Ap. al C.I. Receptum apud logicos
novimus, ut nomina tribuant in synonima, quae secundum unam eamdem que rationem
de pluribus usurpantur, et in homonyma quae rationem naturamque diversam in iis
SIGNIFICANT, de quibus adhibentur, Iam vero homonyma alia dicuntur casu et
citra rationem ac temere im. Synonima stricto sensu accepta, quae nulla idea
accessoria differrent, linguae vitium indicarent. D'Alemb. Elem. de Phil. XIII.
Hac de re notandum est, vocibus duplicem illam ideam subesse. Et, ut
praeteream exempla, quis est, qui non noverit, vocabula quaeque loco, et
tempori, et generi s u scepto orationis non convenire? Quod profecto maxime oritur
ex idea accessoria, quae non solum verba eamdem principalem exprimentia
distinguit, sed eorum etiam opportunitatem deter minat. Quae ergo synonima
habentur, ea profecto non iure; namque discrepant accessoriis illis ideis, quae
rerum diversos aspectus, gradus, et relationes, et adiuncta exprimunt. Imperiti
haec apprime synonima reputant, quorum levia discrimina lin guarum cultores
notant. In eo frequenter peccant ex lexicis pene omnia, quae adolescentes,
misere decipiunt. Duplex distinguitur ordo verborum, et conformatio, naturalis,
et artificialis; seu inversa. Porro quem ordinem habent ideae, idem etiam
verborum est: ordo autem idearum, fertur ad modum, quo in mente sibi succedunt,
vel ad earum dependentiam mutuam,ex qua fit, utaliaealias regant, et explicent,
aliae explicentur, atque regantur. Si primum, ordo, quo exprimuntur ideae,
naturalis erit, quando idem, ac ille, qui in earum successione servatur. Qui
quidem in singulis diversus est. Si secundum, ut ordo sit naturalis, quae alias
regunt, vel ab aliis explicantur praemittendae sunt. Quae reguntur, et alias
explicant postponendae. Secus erit artificialis, seu inversus. Sed unde oritur,
quod ordo inversus orationi vim addat,et siteius quasi lumen quoddam nosque
voluptate perfundat? Scilicet posita, et alia dicuntur ratione, quod rebus
tribuantur aliqua inter se similitudine cohaerentibus. Posteriora haec aptius
vocantur analoga, sive attributionis, quum uni quidem rei primario conveniunt,
reliquis secun dario,sive proportionis,quae pluribus rebus propter proportionem
aliquam accommodantur. Ex hoc fonte methaphorae pleraeque omnesdimanant.
Nonnullarum rerum, atque actionum voces quaedam ex ideis hisce accessoriis
inhonestae, et turpes evadunt; quae ideae si in aliis vocibus omittantur, vel
mutentur,nulla amplius est turpitudo. Unde fit, quod eae. dem res, etverecunde,
etobscoene dicifpossint,etquod ea,quae turpia re non sunt, nominibus, ac verbis
flagitiosa ducamus. vel re. D'Alembert loc. cit. Traité de la form. mech. du
lang. ch. IX n.161. quia eum, quem Rethores MODUM appellant, et numerum
parit; quia imaginationem exercet;quia ideas nimis disiunctas coniungit. Revera
voces ordine inverso positas ad se mutuo referi m u s, ut postulat idearum
ratio. Atque si in periodo multae sint ideae, quae a quadam principalipendeant,
et exiis aliquaehuic praeponantur, postponantur vero aliae, arctius omnes cum
ea coniunguntur. In quo nexu illud praesertim admirabile,quod uno verbo ad integram
sententiam animus revocetur. ET IDEARUM INFLUXU. Varietatem linguarum,et nos ad
confusionem Babylonicam referimus: simul autem liceat statuere,ex diverso
hominum ingenio, et indole,eorumque externis circumstantiis oriri potuisse, et
magna ex parte ortum esse,ut singulae suum -co lorem habeant. Ac ex confusione
illa vocum origines potius, quam ipsaelinguae;quae perfici sensim
debuerunt,etaugeri verborum copia, atque syntaxi, et inflexionibus moderari.
Non una autem in hoc fuit omnium gentium ratio, quod multis causis tum
physicis, cum moralibus tribuendum est. Atque inter eas recenserem caeli
temperiem, non eamdem ubique faciem naturae, rerum aspectus multiplices,
diversas opiniones sive ad civitatem sive ad religionem pertinentes, regiminis
formam, educationem, mores denique et studia. Revera sermonis vis, copia,et
harmonia, et inflexio nationum exprimit characterem,ingenium,atque culturam;ac
eadem linguarum, et gentium fuere semper fata, et vicissitu dines. QUOD IN
ROMANI IMPERII, ET LINGUAE LATINAE ORTU, progressu, et occasu velut sub oculos
positum est. Iunctam, cohaerentem, levem, et aequabiliter fluentem orationem
facit verborum collocatio. de Orat. II. 43. V. D'Alembert Eclair cis. S. X.
Condill. Gram. P. II. ch. XXIV. Art.d'Ecrire L. I. Ch. I. II. V. Traité de la
form. mechan. etc. Ch. IX. INSTITUTIONE DE VARIETATE LINGUARUM, ET
DE MUTUO VOCUM. Sed ex iisdem quoque caussis fit, ut nationes singulae suas
habeant idearum compositiones, et vocibus, quibus aliae carent, utantur. Inde
in interpretando necessitas verborum circuitum saepius adhibendi, cum non
semper verbum e verbo exprimi possit. Indeadeo difficile, libros ex una in
aliam linguam convertere. Atque in hoc lice tomnis cura, et studium ponatur,
adeo singulis linguis suum quoddam inest ingenium, ut nullae fere sint
interpretationes, quae authographi vim, et elegantiam, et nativum splendorem
nequaquam desiderent. Quae quidem eo nos adducunt, ut intelligamus, quem dam
esse posse sermonem, edisci, et percipi omnino facilem. Quem si universalem
veluti linguam cunctae gentes amplecterentur, eo possent mutuum idearum, et
cognitionum commercium inire. Ac difficultas, qua ab hoc impediuntur, ex lin
guarum varietate, et multitudine orta, alia etiam ratione vinci posset,
characteristicam nempe aliquam linguam adhibendo, quae res ipsas, non rerum
voces exprimeret. De bac sermo erit inferius. Interim cum nullus ex hisce modis
adhuc suppetat. Nec ulla spes sit, ut in unum, V. Clericum Art. Crit. tom. I.
part. II. cap. II JII.IV. Linguarum varietas non leve incommodum affert
societati, et progressui scientiarum. Nec enim consultum, ut facile edisci
possent, sed casu magna ex parte conditae, et procurata copia, et ornatus.
Sublatis declinationibus, coniugationibus, et generibus, si substantiva unam
immutabilem terminationem haberent, suam adiectiva, et verba pariter, quae
adverbiorum ope temporibus, et modis distinguerentur. Pullae superessent
regulae grammaticorum, et solius lexici auxilio linguam quam libet
perciperemus. Cumque insuper esset prima illa lingua absurda, et egestate,
atque uniformitatis squalore sordesceret. Maxime erit optandum, ut LATINI
SERMONIS USU conservetur. Locupletissimus namque est hic sermo, electissimis,
et praeclaris verbis abundat, communis hactenus fere fuit omnium eruditorum;
qui eo abiecto, si suam singuli linguam in scribendo usurparent, iam, vel
aliena omnia nescirent, vel in omnium gentium, quae doctrinae laude vel alium
conveniant omnes. Splendescunt, perdiscendis linguis curam, et operam
compellerentur insumere, quam ad rerum cognitionem adipiscendam con tulissent.
Quae hactenus de vocibus dicta sunt, satis ostendunt, easabideis, et cogitandi
modo non parum pendere. Sed magnus etiam est verborum in ideas, et mentis
operationes influxus. Atque in psychologia, si fortasse ad veritatem plane non
sua detur, nullas fere absque verborum usu nos exequi posse. Illud profecto
demonstratur, eo foveri multum, et perfici. Quod probari nunc potest exemplo
mutorum. Earum etiam gentium, quibus signa numerica pro maioribus quantitatibus
deficiant, cetera sint nimis composita. Illi quidem multis omnino ideis
destituuntur, mentisque facultates obtusas habent, nec ad operandum faciles et
expeditas. Hae vero gentes in rebus ARITHMETICIS ne vix quidem progressae sunt.
Tantum signa valent ad humanas cognitiones promovendas vel impediendas. Equidem
arbitror, a veritate abesse longius, qui crederet verba communicationi cum
aliis tantum inservire. Ea menti sistunt obiecta. Nimis composita dividunt. Si
magnifica sint et nobilia, res amplificant, et extollunt. Si humilia, imminuunt,
et deprimunt. V. Laur. Mosheim DISSERT. DE LINGUAE LATINAE CULTURA ET
NECESSITATE V. etiam quae nuperrime Ferrius, et Tiraboschius, Alexander Gorius,
et Clementinus Vannetti in eam habent Alamberti sententiam (Melang. tom. V.)
statuentem bene LATINE scribi non posse, et LATINITATE abiecta studium omne ad
patriam linguam transferentem. Refert Condaminius, quosdam Americae populos,
cum ocesnume rorum supra ternarium non habeant, in hoc arithmeticam eorum
consistere: certevix paucis huiusmodi signis utuntur, iisque ad modum
compositis, ex quofit, ut maiores numeros mente haud comprehendant, et quem
libet ultra vicesimu in indefinite concipiant, atque capillorum numero
comparent.V. De la Condamine Voy. Paw Rech. sur les Americ. tom. II. ch. 27.
Cogitatio, ait Plato in Theaeteto, est sermo,quem mens apud se volvit circa
illa, quae considerat. Cum enim cogitat, secum ipsa disserit adeo, ut cogitatio
sit sine strepitu vocis oratio, aut interior collocutio. Verba sunt veluti
signa algebrica idearum. Brevitati proinde consulunt, multarum idearum
comparationem faciliorem reddunt, mentenique sublevant in consideratione
multarum rerum, atque compositarum: quae verborum utilitates maxime elucentin
modorum mixtorum ideis, quas in nullo exemplari iunctas videmus, sed verbis
exhibentur et comprehenduntur. Verba denique nexus inter ideas augent, eas
facilius, et promptius exsuscitant, distinguunt, quae vix confuse percipe
rentur. Sic technicae in arte pingendi voces omnia alicuius tabulae vitia,
omnemque praestantiam indicant. Quae eos prorsus fugerent, qui illas voces
nequaquam callerent. Quare scientiae, omnesque artes multum debent verborum
inventoribus, ut Linnaeo Botanica; et Ontologia, licet nomenclatione tantum
contineretur, non esset penitus contemnenda. De verborum usu, et abusu haec
fere a Lokio, aliisque melioris notae Logicis accepimus. In primis duplicem
esse usum verborum. Vel enim eo cogitationes nobiscum cooferimus, vel aliis
exprimimus. Illum jam attigimus capite superiore, in quo osten debam, maximas
utilitates ex hoc interno sermone profluere. Cum aliis autem utimur verbis,aut
in vitae civilis consuetudine,vel in studio Scientiarum. Inquo praesertim
distinctioni, et perspicuitati. Ideae in primis connexae inter se sunt ex
analogia rerum, et ex circumstantiis, in quibus acquiruntur. Sed insuper verbis
etiam unae cum aliis colligantur. Quot ideas unum verbum saepius excitat? Atque
ex verbis haec alia utilitas provenit, ut in ideiş revocandis, et disponendis
ordini, quo a nobis comparatae fuere,non adstringamur, sed illum qui magis
placeat, magisque conveniat iisdem tribuimus. V. Bonnet Ess. Analyt. ch. XV. V.
Sulzer loc. iam citato, Micheaelis de l'influ. des opin. sur le lang. etc.
Condil. Art. de penser. part. 1. ch. II. STELLINI OSSERVAZIONE SULLE LINGUE
tom.V. Soave Comp. di Locke I. III. ap. al cap. XI. Scilicet, si circa
ideas maxime compositas, sertim versemus, iisdem nomina, quibus
appellantur, substituimus. Nimis enimesset operosum, eetiam impossibile, omnes
ideas simplices illas componentes mente revolvere. Quod etiam confusionem
afferret, et, ne idearum relationes viderentur, obstaret. Haec habitualis, non
actualis distincta perceptio est idea coeca, et symbolica Leibnitii. circa
notiones prae 1 litandum est, ne per se difficilia reddantur difficiliora. Et
ne rerum INVESTIGATIONES in aeternas quaestiones de nomine abeant. Locutionis
perspicuitas, atque distinctio maxime optanda idearum claritatem, et
distinctionem desiderat: quomodo enim, quae confuse percipimus, aliis distincte
explicarentur? ad eam confert brevitas, in qua tamen habendus modus;nam ut
nimia verborum copia res obruit, ita eorum egestas tenebras rebus offundit.
Denique cum iis, qui loquuntur confuse, vitanda fa miliaritas est,qua nihil
fortius ad idem vitium contrahendum. Ita autem verbis utamur,ut unicuique idea
determinata re spondeat;dequo,sinobiscum tantum colloquimur, nos ipsos debemus
interrogare; si vero cum aliis,et dubium sit, an verba ideas
claras,etdistinctas in aliorum mentem immittant, tunc ea dilucide explicanda
sunt. Id quidem de nominibus idea rum simplicium praestari potest (vix autem
erit necesse), si observanda proponantur obiecta,quae significant,etmodus,et
circumstantiae indicentur, in quibus eorum ideae acquiruntur. Nomina vero
idearum, quae sint compositae, decla rantur earum obiectis exhibitis, et addita
ipsorum definitione; nec enim omnia attributa patent sensibus, et multa indolem
potentiae habent. Quod si haec obiecta non existant.Verborum universalium
magnus est usus, et maxima utilitas; innumera enim individua una tantum voce
comprehendi mus, quae esset impossibile omnia suis nominibus distinguere. Esset
etiam inutile, quia necii, quibus cum loquimur, multoque minus illi, quibus
aliquid scriptum relinquimus, eadem indivi dua agnoscunt. ergo. Sed quae
circa rectum verborum usum,et eorum inter pretationem, de qua inferius,
praecipienda sunt, separari vix possunt ab idearum doctrina iam tradita;
utrisque enim idem finis, avocationempe ab erroribus. Inter eaetiam intimus
nexus, quantus inter voces, et ideas. Nunc lum, quae propius ad verba
pertinent, quaeque eo loci explicata non sunt. ne actum agam, so meratio
idearum, quas simul reflexione, aut pro arbitrio con iunximus. fiat enu Vocibus
demum abutimur, si quae incertam significa tionem habent, non definiantur; si
definitus sensus mPombaur. Si in rebus scientiarum artes consectemur oratorias.
Namque delectant, et movent, mentemque avertunt a philosophico rerum
examine,quas non accurate,sed ad similitudinem exprimunt. In verborum sensu
commutando peccarunt vehementer scholastici. V. Gassendum in Exerc. Arist.
Exerc. I. Y2. Hic cum Logicis fere omnibus non praecipio, abstinendum esse a
tropis atque figuris:rebus enim permultis vocabula metaphorica necessario
imposita sunt, aliis utiliter, cum ex iis orationi splen dor accedere
videatur.V. Condil. Art. d' écrire lib. II. ch.VI.VIII. Translationes propter
similitudinem transferunt animos,etre. Neque vero minor utilitas ex verbis
notionum;.harum nullum archetypum extra nos invenitur iunctas exhibens ideas,
ex quibus componuntur. Id vero praestant nomina, quae illas comprehendunt. Sunt
denique voces, quas particulas appellant Grammatici; his utimur, ut ideas, et
periodi membra, et periodos ipsas interse coniungamus. Quisaneusus mirificus
est, et ex eo maxime vis tota orationis derivat. Rectus erit,si m u tuam
rerumdependentiam, et relationes diligenter consideremus. Haecdeusu. Nunc
de abusu,quirestat,dicendumest. Iam vero abutimur verbis, si iis, nullam ideam,
aut obscuram associemus, adeo ut inania sint, et ambigua: in quo non rarum
estlabi;etmaxime verba notionum virtutis,honoris,et simi lium multo pluribus
sunt meri soni; obiectum namque non referunt, quod sensus moveat, nec illud
quod referunt in in fantia, percipimus. Hinc ea absque ulla significatione
usurpandi longam consuetudinem iam contraximus, a qua ut reMilanius, reflexione
vehementer nitendum est. Sed abusus verborum etiam ex ignorantia, et malitia.
Scilicet, qui partium studio, vel anticipata opinione moventur. Qui vulgo avent
imponere. Qui difficultatum pondere haerent et idearum defectu impediuntur.
Tunc enim vero ii obscuritatem affectant, verbis inanibus se se involvunt, nova
etiam fundunt, atque sesquipedalia. Optimum ergo erit, mentem parumper a verbis
abstrabere, eamque in ideas intendere, ne verborum so nitu hallucinemur. Ut
verba recte interpretemur, advertendum in primis, notiones eius, a quo
adhibentur,'significare. Non igitur suppo natur, omnes iisdem verbis adnectere
easdem ideas, et ipsis rerum realitatem apprime respondere. Quae qui supponunt,
de rebus perperam ex verbis iudicant, et ex propriis aliorum ideas non bene
copiiciunt. Hisce per summa capita indicatis, advertam in primis, duplicem
distingui sensum verborum,proprium scilicet,et tran slatum;namque verba,aut
illam rem exprimunt,cui primum fuere assignata. Vel ex quadam similitudine cum
re ipsis propria eadem verba ad aliam significandam transferimus. Quod si fiat,
sensum habent translatum, secus autem proprium. Nisi quis sensum proprium alicuius
vocabuli accurate perceperit, numquam fieri poterit, ut translatum assequatur;
hic siquidem ad illum refertur. Rerum praeterea conditionem inspiciet,ex qua
oritur, ut quaedam voces potius, quam aliae, ad res sensu translato exprimendas,
electae fuerint. Inde clarius is sensus patebit ferunt, ac movent huc, et
illuc, qui motus cogitationis celeriter agi tatus per se ipse delectat. de
Orat.III.39. Translatio est, cum verbum in quamdam rem transfertur ex alia;
quod propter similitudinem recte videturposse transferri. Cic. ad Heren. IV.
34. V. D’Alembert Eclaircis., sur les Elém. de phil.S.IX. Quam vero
quisque vocibus notionem subiicit, arguere tuto possumus, si multa nobis nota
sint, eaque invicem conferamus; loquentis scilicet ingenium,et characterem;
affectus, oris habitum; linguae, quautitur, vim, etindolem; rem,quam tractat;
circumstantias, in quibus versatur; opiniones, religionem, quam sequitur;demum
popularium eiusmores, ritus, consuetudines. Haac enim omnia efficiunt, ut licet
verba sint eadem, non tamen eumdem significatum, eamdemque vim habeant. Nunc
vero singula verborum genera persequar, deque Difficilius assequimur
sensum verborum, quae notionibus respondent; siquidem praeter caussas nominibus
rerum existentium communes, peculiares etiam concurrunt, ex quibus efficitur,
ut singuli fere has ideas diverso modo componant. Nec eadem semper significatio
est vocibus orationis par ticulas exprimentibus; loquentium igitur, vel
scribentium affe ctus, et praecipue contextus consulatur,cum ex iis sit dedu
cenda. De nominibus relativis, quid advertendum in praesen tiarum,ut recte
explicentur? Porro id muneris iam explevi dum agebam de eiusdem generis ideis.
Quid de nominibus uni versalibus,quod paritereoloci, traditum non sit? Illud
subiungam,voces particulares,aliquis,quidem etc. obscuras esse et
indeterminatas, nec denotare, quae, et quanta subiecta sint; universales vero
aliquando particulariter esse sumendas, aliquando non omnia individua
generum,sed individuorum omnia siores esse, iisnonnulla admoneam,ad quae
semper in eorum interpretatione spectemus. Qualitatum sensibilium nomina,
colorum nempe, saporum, aliarumque huiuscemodi, sensationum etiam doloris, et
voluptatis, non ita accipienda sunt, quasi explicent id, quod est in rebus
extranos positis. Nostras affectiones, sensationesque upice indicant, nec vero
vim,et quantitatem earumdem. Hanc experimur, non autem accurate possumus
efferre. Fit autem sae pius,ut in singulis maior,vel minor multiplici gradu
sit. Dubitari quidem potest,quin ipsae sensationes apud aliquos prorsus
differant, licet omnes iisdem verbis utantur. Omnes arborum folia viridia
appellant; sed adhuc videndum, utrum haec vox eamdem omnibus ideam excitet.
Quam dubitationem ingerit di versa corporis temperies, et habitus, nec eadem
omnino fabrica sensuum;unde certo oritur,affectiones easdem aliquibus inten
aliis languidiores. Nomina idearum compositarum non idem apud omnes. Maxime si
veteres cum recentioribus confe rantur.Ne eas igitur ex nostris notionibus
interpretemur,sed ex illis quae ampliores fortasse, vel angustiores. Nominibus
substantiarum easdem qualitates non omnes complectimur. Nulli essentiam
primariam,a qua eae nascuntur,et quam nemo novit. genera
significare. Quae quidem ex circumstantiis, linguarum indole, ingenio, loquendi
consuetudine patent dilucide. His fere,quae adhuc de vocibus
disserebam,continentur potiora,ex quibus Grammatica philosophica conficitur:
linguarum singulae suam habent, eaque particularis Grammatica dicitur. Est vero
etiam Grammatica universalis,quae principia constituit omnibus linguis
communia.Notandum superest,syntaxim totam legibus concordantiae, et regiminis
moderari. Illae principio identitatis, hae principio diversitatis innituntur.
Verborum disputatio manca videretur, si de scribendi rationibus haudquaquam
dissererem. Non igitur una fuit haec ratio apud omnes,nec omnibus
temporibus;tamen in eo con veniebant, quod signis non ore,sed manu
expressis,quae mente revolvimus, manifestarent. Ac, quae fuere adhibitae,
pictura, symbolis allegoricis, denique signis arbitrariis continentur. Pictura,
aut unam figuram, aut plures exhibet, signa arbitraria, aut ideas,aut syllabas,aut
litteras verborum significant. Scripturae, licet ab ea, qua nunc omnes fere
gentes utuntur, longe dissimilis,specimen aliquod hominibus innotuit per
imagines, quae sui res exhibent, et quas conamur exprimere gestibus, et
clamoribus, ut iis longinqua designemus. Ad has imagines adumbrandas urgebat
necessitas communicandi cum absentibus, et praesentibus explicandi id, quod
verbis efferri non poterat. Inde scripturae origo potius, quam ex cura
committendi nostras cognitiones posteritati. Ac homines ex rerumimaginibusidconsiliicepisse,ut
illas ad suos cogitationes enuntiandas delinearent, omnium pene De usu, abusu,
interpretatione verborum videantur Locke Ess, etc. lib.III. Leibnitz
Nouv.Ess,etc. lib.III. Ioannes Clericus art.crit. tom.I. pari.II. V., silubet,
Du Marsais princip. de gram. Condillac gram. D'Alembert Elem.de Phil. XIII. et
Eclaircis. sur les Elem. etc. S.X. Hinc sensim crescere CONVENTIONIS
SIGNA, etomniatan. dem huiusmodi evadere. Quae sola notiones reflexione
perceptas possunt exprimere;quae ob multos rerum aspectus sunt neces saria.
Namque notiones illae nullam imaginem praeseferunt, nec ulla imago diversas
relationes comprehendit, sub quibus res, ut lubet, consideramus. Signa autem,
quae ex CONVENTIONES sunt, optime quidem ab eo constituta fuissent, qui singula
singulis ideis simplicibus destinasset, suaideis universalibus, aliademum
determinationibus individua constituentibus. Enim vero simul iungendo, et apte
componendo haec signa, res omnes possent distincte explicari. Hoc scribendi modo
philosophus tantum uti potest, nempe ille solus, qui probe noverit, quaenam
ideae simplices illas substantiarum, et notionum componant. Quique etiam adeo
individua observaverit, ut ea possit plane describere. Illum Si V. Paw
Recher. sur les Americ. tom. I. part.V. sect.I. Quemadmodum artis typographicae
occasio fuit ars caelatoria et sculptoria, ita occasio scripturae non inepte ex
pictura derivatur. Praesertim quum non aliter pictura sit obiectorum in oculos
incurrentium scriptura, quam scriptură sit obiectorum quae aures feriunt
pictura. Videsis Augustum Heumannum in conspectu reipublicae literariae cap.
III. Signa huiusmodi spectant ad linguae universalis institutionem. Alia ratio,
qua ad eamdem possumus pervenire, indicata, vix est N. LXXII., LXXXII. V. Soave
Comp. di Locke lib. III. cap. XI. append. II., qui etiam celebriores scriptores
recenset, a quibus ea institutio suscepta fuit. V. Leibnitii historiam, et
commend. characteristicae linguae univers. V. Traité de la Form.etc. ch. XII.
XIII. Mémoires de l'Acad.de Berl., ibi Thiebault videtur succensere Michaelis,
et non ita difficilem, nec vero inutilem, et multo minus perniciosam,
quemadmodum ille, censet linguae universalis institutionem, quae primo illo
modo conti. neretur. Sepositis iis,quae de universali lingua instituenda
excogitari subti. vetustarum nationum monumenta, et gentium sylvestrium
usus confirmant. Quae scribendi ratio picturae affinis, cum auctis cogni
tionibus, relationibus, et indigentiis ad omnia exprimenda non non satis esset
apta, paulatim a signis discessum est rerum i m a ginem referentibus, et huius
pars tantum depicta, et plures ideae uno signo manifestatae. nenses adhibent;
proindeque mirum non est, si tanti apud illos sit literas scire. Quae
difficultas effecit, ut nationes pene omnes eum scribendi m o d u m
probaverint, quo non obiecta, non ideas, sed sonos verborum reddunt; ad quem
duplici via perveniri posse declarabam liter possent, splendideque proponi;
multo fuerit satius consilio adquie scere Ludovici Vivis, cuius haec sunt (De
tradendis disciplinis lib.III. verba. Sacrarium est eruditionis lingua,et sive
quid recondendum est,sive promendum velut proma quaedam conda.Et quando
aerarium est eruditionis, ac instrumentum societatis hominum,e re esset generis
humani unam esse linguam, qua omnes nationes communiter ute rentur: si perfici
hoc non posset, saltem qua gentes ac nationes plurimae, certe qua nos
christiani initiati eisdem sacris, et ad commercia et ad peritiam
rerumpropagandam. Peccati enim poenaesttot esse linguas. Eam vero ipsam linguam
oporteret esse cum suavem, tum etiam doctam et facundam. Suavitas est in sono
sivé simplicium verborum ac separatorum, sive coniunctorum. Doctrina est in
apta proprietate appellandarum rerum. Facundia in verborum et formularum
varietate ac copia. Quae omnia effi cerent, ut libenter ea loquerentur
homines,et aptissime possent explicare quae sentirent, multumque per eam
accresceret iudicii. Talis videtur mihi latina lingua ex iis certe quas homines
usurpant, quaeque nobis sunt cognitae. Quod continuo diligenter, ostendit,
eaque tradit quae merito cum disputatione componantur ab Aloisio Lanzio libris
inscriptionum et carminum praefixa. Sinensium alphabetum Typographicum ex
50000. signis constat. V. Mémoir, concernant l'histoire etc. des Chinois parles
mission. tom.X1., Mopertuis ius auget ad 80000. Iaponenses, licetomnino diversa
linguautan tur, quae tamen Sinenses literis consignant,probe intelligunt; adeo
verum est haec signa non rerum voces, sed earum conceptus delineare. V. Marpertuis
loc. Iam. cit.
Cesare Baldinotti. Keywords: signum, genere, segno, genere, segno naturale,
lacrima, segno artificiale, ‘homo’, conventione, imposizione, idea,
ideazionismo, ‘Locki’ – enciclopedismo, illuminismo, ‘discorso sulle lingue’,
propositione, articulazione, logica, grammatica, forma logica, modus
significandi, imitatmento, il Cratilo di Platone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Baldinotti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Balduino – il
vestigio dell’angelo al Campidoglio –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Montesardo). Filosofo italiano. Grice:
“It is amusing that when we were lecturing with Sir Peter at Oxford on
‘Categoriae’ and ‘De Interpretatione,’ Girolamo Balduino had done precisely
that – AGES before, in a beautiful beach town of Italy! ‘vir Montesardis,’ –“
Grice: “Strawson and I, following an advice by Paulello, drew a lot from
Balduino’s commentary – especially of the Peri Hermeneias, the section on the
‘oratio,’ since we were looking for ordinary-language ways to render all the
modal distinctions (indicative, imperative, optative, interrogative, vocative,
…) that Balduino finds so easy to digest – but our Oxonian tutees didn’t!” -- Girolamo Balduino (Montesardo), filosofo. Studiò all'Padova sotto Marco Antonio Passeri
(detto il Genua) e Sperone Speroni, formandosi nell'eclettismo aristotelico
proprio di quella scuola. Insegna sofistica in quello Studio; passò poi
all'Salerno e all'Napoli. Nella seconda
metà del Cinquecento le sue opere furono occasione di vivaci dibattiti. Alle
sue dottrine si oppose, in particolare, il filosofo padovano Jacopo Zabarella. Altre
opere: “Perì hermeneias”, “De interpretation, “Dell’interpretazione”; “Quaesita
tum naturalia, tum logicalia”. Studi
Giovanni Papuli, Girolamo Balduino: ricerche sulla logica della Scuola di
Padova nel Rinascimento, Manduria, Lacaita, Giovanni Papuli, Girolamo Balduino
e la logica scotistica, in « Acta Quarti Congressus Scotistici
Internationalis», II, Roma, Giovanni Papuli, Dal Balduino allo Zabarella e al
giovane Galilei: scienza e dimostrazioni, in « Bollettino di storia e filosofia
», Raffaele Colapietra, recensione di Ricerche sulla logica della scuola di
Padova nel Rinascimento, Emeroteca della Provincia di Brindisi. Girolamo
Balduino. “De signis”. It. segnare, notare, segnificare, notificare. Primum
oportet ponere quid sit nomen et quiddam in proæmio, ut propositum suæ considerationis
ante quid verbum cognovit et infra ab orationibus rethoricis et poeticis, atque
his quæ affectus explicant, illam se legit. Item tes cum iste liber cum tota
logicae undem modum cong ordine lint considerandæ quo, ex processu resolvente
com, siderandi participet, qui ut ante monstrani est instrumen monstrat cum
inquit primum bum etc. vers tum seu organum notificandi. Quid inter hunc librum
quid nomen quid alios differt? Respondetur. Id interesse et, inter diversos
primum, non intentione, cum libros eandem rem eodem. Sed quod primo exequi
instituimus dicit opor versa prædicata propria, de illa cognoscantur. Q dis
eaq. præs cipia quæ ut deus, et prima in omni tempore, loco, et subiecto dicata
ex fine libri facile inveniri possunt demostrationis prin sunt nes mus,
extremum nam ut posuis cellaria. Sed suppositione in hoc libro et finis, rum
conceptarum res et secundum quid. nam tuimus dicata quinq vocem SIGNIficativam
stag are, ut toto, necessario tra verlrum etc. Hæc verbi, orationis, enunciationis
nominis, nis quibus eædem libro poeticorum est præceptionem tradere finiendo considerant
alterum ut aspernetur et um metrum formandum, bi etc. ponere ergo sumetur non
tanquam res dubia inquirendum sum, verum et constans ponendum primo mento magno
exemplo explicatur artificum idem ligna ut lignum, sit sed ut per seno post incos
unus artifex statua malter, referet tæ, cum suo proprio monius inquiens est, ad
metria positi oest. Ita que non nisi ut enunciativa. Sed de subiecto do post
secund infine. Regulem logicem ponuntur ut notæ orator et poeta enunciativa orationis codem modo ista
des:ante et SIGNIficativas intendit idenim definitionem nomini suer, sitione SIGNIficantes
tionis tantum urilitatem declarat apo demonstra, ad impossibile primo prior de
tione simplici et hæc porest. Sed demonstratio viriali cuius, extranea autem quod
licer hæc omnia demonstrationis Postremo scientiarum. ne viam atrium et
iuxtaponitur uerbo. Magentinus positionis modos modo considerantes est
interpretario posis ab instituto, nomen, aim. Ponere seu constituere. Ammonius
has tres particulas legit cum ergo sunt prædicata propria, affirmationis et
negatio mum ponendum constituat, alterum appetendum explicaretur oportet
definire et fugiat. Poeta ad cocinnum orator vero adornatum. Id, quasi istorum
quid nominis ad efficiendam. Huic quam retuli rei confidera Averrois, definitio
enim inquit Aristotele ingeo navem, alteradarcham considerandi modo, assentit,
Amonius definitiones positiones in arte dicuntur. Metafisicae in hoc libro confiderari
de oratione, in magno com cuiusratio est primopoft. quam per voces clariores mo
prior primo, syllogismus est positis et concessis et concesso, pri oratio in quaquibusdam
attingit. Magentinus syllogism ducente hac tenus. Paul e re niam fiunt. Quos
cis nunc. De utilitate dicimus ab anima, quæ facile opus suum inquitex proposito
patet: ad de et ex inscriptione cepit ergo tertium modorum quos Ammonius attulit. Su subiceti interpretationem
refertur. Quam mitur enim gratia quæri retulimus nam enunciatio ad ins ponere,
primo prosupposito tendatur tet non simpliciter sic enunciatio in to, propositum
quas per voces clariores NOTIFICARE nostrum esse, de oratione enunciativa. Hic autem
finis haberino potest, nisi per hæc præ tertio ait igitur de partibus
tractandum est, quid nomen et quid verbum inquiens et Aristotele verba conne
fit ita res tractatæ alibi differunt. Requires et ens quia propositum
Aristotele quam, necessario. Quona igitur modo sei ungi simplicium essential cognoscenda
differentia locus, tamen hic nomen quid ferme omnis explicatur ex proprio fine quoniam
et uerbum. Juult ergo cum cæteris ista considerat utg syllogism parte
sefficiantur logicus bus ponere sumendum fore pro definire et definit, ut verum
strationi deseruiant, grammaticus vero voces tis compositas incongruum sermonem
ex elemen, ut congruum, siue oportet ponere, id est definire et falsum
declarant. Et novissime ut demons dissentio latina ac sensum accedens ab Aristotele
sidiceret. Sed ab his ad Aristotele verba græca et. nam committeretur nugatio
possunt? ideo dixit primum est erfide hoc infra fit proprius considerandi
oportet ponere id est definire, magis ut
iudico. Hæc ut bene Ammonius cognoscit. Ac.p fine propositis nullo modo tamen, ut
omnia moveri commune commodum est id muniter posito primo top. nono.Tertio et
concello quomodo sumitur procom de mente Ammonii attulimus gratia explicentur
omnibus Aristotele. Quarto pro ea fine ratiocina, pro proprium est. Locis quos
adverbio quod nibuscarentibus pro definitio positione fieri ex Heracliti
sententia via relinquenda non est docentes, fine via eius contemplationem
medio. Secundo poster incommens damus, tenebrisan; circumsusi more feramur, est
igitur enumerat: tray in incertum imperitorum via, illa quam toti logicæ
Aristotele to magno est. coniung nomine et verbo. Pris. primo post secundo post.
et ratiocinatione ex hypothesi. Secundo supra retulimus et hic accepit sed quem
modum Aristotele hic fert. Ex hisitaque patet. Arit, resconsiderandas
acceperit, verbum nullum proj ea considerantur. Quod si orationem ante etiam
posuit et tractavit, non nisi ut genus commune enunciationis, ad verbum. OD rum
ordinem pofuisse) tanquam subiecta et tertio prædi num triplex potestelle
consideratio: primo ut absolute Cara, quideorum, scilicet ponere sive
constituere. Sed SIGNIificant simplices CONCEPTUS. Ita in prædicamentis cons
citorcum primo post in parva commentatione: scieny fiderantur. aliomodo
secundum orationem, ut partes tiasitunius generis fubieéti, quçcúq; exprimis
componitur, sunt enunciationis: sica dhuc librum spectabunt, propter et partes
et PASSIONES horú sunt pse. igitur duo sunt per reaenim inquit traduntur sub
rationem nominis: uet er se predicata, substantia sive essentia quæ per definitione,
et biut SIGNIficant cum tempore aut sine tempore, intulit accidens proprium,
quod per demonlirarionem concluditur. etiam. et traduntur alia huius modi, quæ ad
dictionum secundo post. Inmagno commento cur tantum pertinentrationem, ut enunciationem
conftituunt sed quid istorum proposuit? Ad hoc dicendum mihi uiden quam vistant
iuiri ingenium et iudicium semper cum sum tur: ex primo post res quarueif ecf timperfectum,
et quasi in mente, non habentuere definitiones. Secundo ponendum quod supra
documus, res logicas ut intrumen ta et organa artium et scientiarum, ad proprios fines et quod satis
probatum est supra cum a nobis Ammonius notitiam explicandam referri. His datis
patet ad petitios est reprehensus. Præter eaut diximus nome et verbum nem
responsio: namdum Aristotele quid prædi et orumponen simplicior asunt decem vocum
conceptibus. Amplius dumpropofuit, et propriosfinesquiipsorumpropriafer
rationoininis et ucrbi et fi ut materia adorationemenun rendicuntur accidentia,
anteposuille dicetur sic enim ora, ciatiuam pertineant: tamen corum rationes sunt
commu cionem definiens enunciatilia inquiet non omnis: sed in nes, non ad orationem
tantum contra et æ. ut prædicari de qua verum et falsum explicatur et nomen
quod vox fit si vocibus simplicibus prædicamentorum non possint, licet SIGNIificatrix.
Requirit secundo Ammonius a quo Aquinas cum divo Thomas in ultimo suo dicto contra
Ammonii opis mas accepit. Side simplicium vocum essentia in prædica; nionem consentiam:
nomina et verba in hoc libro tracta mentistra et auit: cur hic iterum repetits
respondet Ammonius. ri,ut cum tempore aut sine tempore SIGNIficant, et non solu
unum quod supra tanquam falsum reiecimus. Nam et fi hæc SIGNIificare dicuntur,
sed et alia huius modi quæ perlig verum dicat. Ut robique easdem res subicto, rationetas
nent ad rationem dictionum. Licet ipse sub inferat, utes men differentes finiri:
nihilo minus differentia quamaddu nunciationem constituunt. Non solum
affirmatigam enun cit est falsa. Dum inquitin prædicamentis voces simplis
ciationem, ut Ammonius afferebat. Si autem ista verba, ces considerariut
indicativæ sunt rerum simplicium quæ Aquinas referret addi et tasuperius ut diceret
qiftain hoc quando cum temporis mensura SIGNIficant, verba: quando libro
traduntur sub ratione nominis et verbi et alia huius, sine tempore cum
articulis explicant, nomina sunt dicen modi, scilicet traduntur quem ad rationem pertinent diction da. Quando pars
affirmationis uel negationis, dictio: cum num, tunc inter nomen, et verbum et dicionem
distingue autem pars syllogismi, terminus. Sed primum inas SIGNA y ret. Sed
primum de mente sua verius credo. nam alii ta differentia dubito: quarationeun quam
fiet: ut substan teridemdi et umforet contrasequodin, Ammonium die sia per le existens
SIGNIficari possit cum motu? maxime ximus. Postular Ammonius et AQUINAS curaliisoras
cum prædicamentares sint completæina et tu. Nam quinto tionis partibus missis,
solum nominis et verbi considen metaph. septimom et septimo primo physic. ens
rationem præposuit? addituretiam. quia libro poetico, quod est, aut existere dicitur,
in decem primasres, seu voces partitur: quo ergo SIGNIficari possunt cum
tempore! nisi diceres ut sunt imperfe et cres, et in motu cum actione, et
passione et generatione lubstantiæ alteratione qualitatis augumento quantitates
et ex accidente mutatione eorum quem ut uo referuntur. Seundo nec dubium solve
revidetur quod dicit. Sed falsum etiam est in prædicamentis rum orationis
partes enumerans, inquit septem elle. Elementum, syllabam, coniunctionem, nomen,
uerbum, articulum, orationem. Ad hoc breviter respondent alig qui Aristotele omifisse
quediximus, tanquam inutilia et ad rectum poetarum metrum spectancia hic solum
mentioq nem fecisse nominis et verbi: pista sunt necessariæ parstes enunciativæ
orationis, inquo, Ammonio non aduery voces considerari, ut ad simplicium rerum cognitionem
dedu satur nec diuo AQUINAS & fi oratio enunciativa quando que cunt. Sed inftan
taliqui. In prædicamentis, Aristotele fini ens in conftetexaliis, non necessario,
simpliciter, omnitempore, quit. Substatia dicitur. sed quam uanère spondeantex Aril.
Quinto meta et Alexandro Aphrodiseo exponente cognoscant, secundum se inquit vero
dicuntur quæcunq; predicamenti figuras SIGNIficant aut secundum Boethium quæcunque
figuras predicationis significant. Itaq. Per Aphrodiseus quod a nomine, vel
uerbo deducitur:lig verbum hoc dici et significare res simplices, prædicamen ca
ad metaph. Non logicum pertinent: sed ut decemu ces, res mediis CONCEPTIBUS A
POSITIONE SIGNIFICANT logie corum considerationi convenient. Tertio dubito et
tan cuti et legendum, et navigandum alegere et navigare verbo originem ducunt.
Similia dici possunt de explicatione Alexandri. Quautitur Ammonius dum de verbo
consin dcrans Aristotele inquit. Verba autem secundum se dicta nomina sunt id
est simplex habent SIGNIficatum nominis eius simplicibus partibus simile, ex
quibus constatoratio. Ita pro Alexandro dicendum. Adverbia plurima ex parte
quam vanam explicationem existimo, dictionem, scilicet affirmationis partem
vocari. Nam quid interest dicere nomen et verbum vocem esse SIGNIFICATRICEM A
PLACITO et afferere nomen et verbum dictionem esse ihuius may de ducia vero
nomine aut a parte orationis simpliciquæ nifestum indicium ex Aristotele
sumitur. Qui ipsam orationem definiensait oratio est vox SIGNIficatrix, cuius
ex partibus aliqua separata SIGNIficat ut dictio, verum non ut affirmatio ergo
idem est dictio, quod nomen. Ut habet translatio Magentini. Et verbum. Ergo
dictio, orationis communis pars erit, non affirmatione stantum. Nisi per appropriationem
dicat illud sed AQUINAS vidensuocesalo, gico consideratas non posse decem simplicissimas
resnis fime diis conceptibus explicare itaenim secundo intely uim habeat
nominis. Et ita si quando goriatura verbo, nihil Alexandri et Aristotele sententiæ
officit. Sed cur particispium, quoquam se pissime in demonstrativis scientiarum
sermonibus utitur, tam hicquam poeticorum libro relis quit? Ammonius dicit, quia
ad nomen et verbum reduciy tur. Alii vero quod idem sft dicunt quia pars
comporis ta non simplex orationis dicitur. Quæ responsio magis perspicua et evidens
iudicio meo est. Nam primo pos ter, secundo, præposuit dupliciter præ
cognoscere oportere, leda sive secundæ intentiones dicentur, nonu tres linere
alia namgquia sunt prius opinari necesse est alia vero quid lationibus denotant
ad philosophiam naturalem spe et an est quod dicitur intelligere oportet sed
cum duas propos tes et metaph. A literalseric, simplicium inquit diction ne rettrese
numeravit et ad hoc respondet Aver, optertia ma veneratione sanctitatis
probarim: in hactamenre' sponsione dissentio: cum decem voces non solum simplices
conceptus sed res mediis conceptibus explicent: loco et subiecto et non nisirespe
et uhorum ut pronomen loco proprii nominis. Adverbium tam hic, quam in libro
poeticorum relinquitur, uel quiaut Ammonius ait, modum dicit quo prædicatum
incit subiecto. aut ut sрее species composita est ex his dicas
etiam o duas præposuit neccessarias signum est q Aristotele dixit dupliciter
præcognoscere oportet et quia lunt, opinari necesse est et quid intelligere oportet
ad tertiam vero præcognitionem der scendens, fineullo necessitates verbo additoait
quædam autem ut rag nam compositaquæ esse et am tertiam naturam non dicunt distinctama
componentibus, explicatis necessariis partibus, coniunctim ex his explicari intelliguntur
verum quicquid sit de Arist. textu et ratione quamdi xi: sufficiens ref ponfiofit:
qhicde simplicibus partibus Aristotele loquitur, quale non est participium.
Coniunctionem omisit, nonquia inutilis, quoniam. infra quod ipseconfirmat hic, et
supra contra Boethii opinionem adduxit Arist. dividet orationem enunciatiuam in
unam simpliciter et coniunctione unam: quæ necessario coniuctionem expostulat. Nec
exomisit ut Ammonius et Aquinas quia pars orationis non est sed pars conne et ensatque
coniungens. quoniam Aristotele coniunctionem poeticæ locutio nian numeravit, tanquam
orationis elementum. Item in cap.quarto Aver dicet, q syllogismus conditionalis
est unus per unam copulativam. Gifoloritur ergo dies est sicut predicativus est
unus per medium terminum sed hic medius terminus necessaria est pars prædicatiui
sive CATHEGORICI syllogismi. Ergoconiunétio syllogismiexpofis
tionefiuehypothetici.Hinc etiam contra eos fequetur inutilemconiun et ionemnonesse:
sed hypotethico fyllor gisino necessariam: ut medium terminum prædicativo syllogismo.
Alii sentiunt propterea coniunctionem omiy filfe de enuntiatione una
simpliciter demonstrationi servienti, non coniun et ione una considerat sed
hanc reo sponsionem suprareiecimus: ea rationeq hic liber etiam ad librum
priorum dirigitur, proximam syllogismo hypothetico positionem seu præmis lamelargiens.
Itemin hoc libro, capit.quarto, propofitam enunciationem ab aliis oratoriisac
poeticis seligens, in has duas partitur. itidemq; definite oratione in libro
poeticorum eam in hasdistribuit feudi uisit species. Dicendum igitur nobis videtur,
proptereahic relictam coniunctionem esse, quia facilis, et Aristoteles sufficiens
erat ea parva cognitioquam tradidit in libro poeticorum. Aut secondo dicasquor
demonstrativa scientia. Et secundo poft. iuxta ordi niamhic propofitum est de vocibus
necessario SIGNIFICATRICI nemquem compositiuum aut componentem appellant, pri
bus agere ad interpretationem per voces clariores efficieendam: quem oém orationem
efficient nam hic libercom munia principia explicat. Dic secondo q in libro
poeticorum cap. septimo, coniunctio significationis est expers: qua de causa
definitioni, quæ perfecta oratio est, nond eses Post ea quid est negatio, o
affirmatio et enunciatio, u oratio, deinde quid sit negatio, a affirmatio, o
enunciatio, oratio. mo genus, quid syllogismus, inde speciem, demonstrationem collegit.
Premponens igitur hic ista duo tangfinem unum in tegrūperse ex genere et specie
constitutum, primo ait enunciationem, deinde oratione, non ita per se intenta:
nobis innato aminus communi ad communiora. Sed hæc responsio improbatur quia.
Si ordinen obis innato, seu aminus communi et im per se et oincipiendum est,
cur latus ordo ex accidente euenit, ut quando gab imperfer et o furnatinitium
quia in libro de anima secundo, textura Magentino cum universe res quas
universalia dicunt singulis præferantur, cur hic non primum de oratione et
genere, deindede enunciatione affirmatione et negatione ex orsus fit Aristoteles
sed primum a nomine et uerbo: nam auta nobilior iincho an dumerat, aut are magiscõi,
ut ordone ceffarius servaretur, non anobiliori, cum negationem affirmationi
prætulerit non acommuniori, quia oratio fuif setante ponenda. Responder ipse. Solere
quandoq; Arist. Hocfacere et are communiori quæ ad singulasres spes et antincipere
quomodo hic dicita nominee SIGNIficante substantiam sive eflentiam et a verbo
SIGNIficante actionem seu passionem, Aristoteles inchoare sed quare istum secundum
necessarium ordinem inter negationem et affirmationem, enunciationem et
orationem non seruauerit, ut Gbioccultumomi fit. Præter ca enunciatio ut finishorum
materialium principiorum prenstantior est, ergo antepor nendafuisset. Amplius
nomen et uerbum, non ideo communiora esse dicimus, q subtantiam aut accidens SIGNISFICARE
dicuntur, sed q voces SIGNIficative apositionelunt, non substantiæ aut
accidentis, ut naturæ terminatæ, sed communiter omnium ratio ergo est sumpta a
processu resolvente finem in causas et principia prima intra rem itas quecum orationem
non omnem, sed inqua est verum et falsum, id est enunciativam, ut finems peculetur,
et hæc ex nomine et verbo, ut materiis, constituatur necessario ergo primum dehis
ponendum quidf snt: deinde complebit reliquas partes processus resolutiui sed subiectum,
ut totum potential primas species continens, cognosci non potest finesuis speciebus,
sicut totum constare non potnifiex suis constituentibus principiis materialibus:
ergo deinde de his quæ ad finem proprium diriguntur, dicendum, quid oratio et
enunciatio, ut completes finisele et us habeatur: quiahec in affirmationem et negationem
dividitur ut pris mophy intelligere et scire, id est intelligere scientificum:
quod Auer. Finem rerum naturalium pofuit. Item genuscum principali sua specie unum
finé constituit, acea uno proce mio proponuntur et epilogo colliguntur: ut primoprio
rumde syllogismo tradaturus, resoluentem processum efficiens a principali fine inchoauit:
de demonftratione et Propositis communibus, ut materia, principiis, quæ
per se SIGNIficant ia omnem orationem conftituunt: nunc de coniumctis ex his principiis
& conftitutis proponit. pri mumq; ait Deinde, ut diximus ex Ammonio, ordinem
et urum proponit de rebus omnibus: deinde de elementis, denotata principiorum constituen
tiu madres constitutas. Et de omni anima prius quam hac autilla animaratio pof
t e a inquit quid ne a t i o affirmati o et c Hic quæris igitur &
causa ordinis a dnoscelatiesta notioribus nobis Diiii gationem affirmationi
prætulerit. Ammonius ait prius nomen perfectius posuit? Item in situs, et ad nosre
asenfuuisus incepit ut Auer. aitineodem libro. de anima de intellectu prius quamdesecuny.
dum locum motiva potentia. Similiter secundum accidens est ut a comunioribus five
minus comunibus pro Milanius. Nam de generatione considerans de ea generatim
sedin ruit: et fi per se non SIGNIficat ut ait Aristotele licet SIGNIfica,
demonftratio intenditur quam syllogifmus. Et primophy. tionem non impediat
perfead hunc librumnon per primo finem proponens rerum naturalium primum, dixit.
Et at, quietiam per se SIGNIFICANTIA principia ut materias spe quoniam intelligere
et scire contingit, id est rationem ellen culari conftituit. Quarenon inutilis quidem
coniun&tioerit: tiam ac naturam ipsarum, inde scientiam per demonstras
sednec necessaria pars SIGNIficans, orationi per se, id est, tionem acquisitam
ratione et eflentia posita et explicata omni conveniens oratio autem divisa in species
duas, per definitionem, in fine explicando, nobilius explicavit, quas monstravimus,
conjunctionem a poetica, ut eius parti ac magis intentum. Sed ad huc dubium remanet
curnes utilem, mutuo accipit sed ad enunciationem relatam ut primo priorum, prius
TEX. BOETHII. ordine ad nos relato, ab imperfecto ad perfectum procedit et
tum negatio enim diuisionem continet, affirmatio autem in compositione
consistit negationem igitur affirmationi præposuit, et magis ad partes accedir,
compositioautem ad totum. Sed ueniat anti uiri fit dictum negation magis
composita dicitur quam affirmatio, cum additione negan cis particulæ, affirmatio
efficiatur negatio. Ad rationem orationem quatenus ex luis materialibus
principiis cons harum alter utra præferatur. Sed contra dicimus, pris mo hic liberad
demonstrationem dirigitur, ut ipse fal dem, fic nece ædem voces. Quarum autem
hæ primum NOTAE sunt, eædem omnibus PASSIONES ANIMAE sunt et quas rum hæ similitudines,
res etiam eædem. Sunt quidem ergo hæc in voce, earum in anima passios ad modum necliter
et omnibus cædem, fic nec eædem voces. sentiens cum Magentino reprehenditura Sueffa.
adiu mentum seu commodumin proæmio, nointractatupræ do secondo phy.tertio.natura
est principium motus et quietis, per se et non secundum accidens ita que ex his
positis sequitur negationem instrumentum explicans con fitione formam eflentiam
q; cognoscimus hoceft agen rium et dirigentium ad ipsas. Oportet igiturante cogno!
Scereea exquibus est definitio: propter eaq ifta præcogni tetur, quææternorum est
non autem ad eaquæ possunt ponitur. Diceret enim ille utilitatem totius libri
et subiecti esse et non esse. Amplius et fiinuno, quod de potens anteponenda, non
utilitatem cognitionis, perquampro tiaadactume ducitur, non esse prius fit eo, quod
est: pofitad eclarari, ac definiri possunt. meæ etiam rationi nontamen simpliciter
in omni natura: cumea, quem poten responderet. In sequenti textu commodum quale
fitex tia continentur, non nisiaba et tu, ac eo quod uere eft in plicari: sed quam
in ordinate ac fine arte id faciat, uides actume dantur præterea cap.quarto enunciationem
in rintalii, retamen idem cum Ammonio sentit quiait Ari. has duas species diuidensinquit.
Prima autem oratio docere uelle nomen et verbum quorum finitiones promi
enunciatiua est affirmatio, deinde negatio ergo analoga, fit, voces SIGNIficativas
esse, quod ifferata vocibus nonli aut per rationem ad aliud nonç que diuisa participatur
ab SIGNIficantibus, ut scindapfus docetom quæ inprimis, ac utrii: fedde hoc fuo
loco dicemus. sicut Ammonius di proxime ab ipfis vocibus in dicentur. conceptus,
scilicet durum promittit: Mihi quod uerius probatur iftud est, primo: quorum interuentures
explicantur.quæ omnia, hic affirmationem et negationem numerariut plures species
enunciationis, id est oppositionem contradictoriam erficientes. Quæ infine fectionis
fecundæ, in hoc conssistit. ut aliquas edeiiciant, deftruant, abiiciant, atque
ne gent; in hoc autem efficiendo potissimam et inprimis vim habet negatio. Quade
causa ibi primum ab Arift .numeratur, ut secondo de anima cum species subiecti
fint plures, ex enumeratione ipsarum precognoscitur esse, id verum in demostratione,
iti demin definitionem ons quod anteponendum est, prius quam tractatus cognitioaut
definitiohabeatur. Secundo sciendum primo topic. ofta Opposita secundum contradictionem protenfa alterum
oppositum explicare.Et primo post. octauo. In antiqua commentatione, de omni
eft quod non inquodam quidem fic, in quodam autem non nec aliquando quisdem
sic, aliquando quidem non. Jitidem & tex. Quinto scire autem simpliciter opinamur:
sed non sophistico monitionis: qua simplici conceptu fine assertione seu compo
iun et a et divisa, notio rem esse quam affirmationem
nam ta, ad eam habendam nos dirigunt at qzillamex præno attendere folemus diligentius
ad contraria, ut nobis ads uerlancia, quam eaquæ sunt nobisi nnata. hæc autem affirmatio,
illa negatio explicat per externa, explicantia ti sefficiunt. Arif. igitur quoniam
dixit oportet nos constituere, siue ponere quid nomen, et uerbum etc et com
muniter hæc erunt voces SIGNIificatiuæ positione aliem fine quodam modo alterum
sed cum iple species ex propriis very explicatione, aliem cum vero. iccircoiftatria
antemani principiis internis definiuntur, I uxta ipsarum naturam, feftat: nesue
definitiones fineratione et fineea quam ipse proprietatem et ut ad commune genus
proportionale tradidit arte ponantur, at constituantur. In hoc textu eu analogum
referuntur, finienda sunt primo, modo hic in proæmio negatio præposita
numeratur, ut instrumeng voces esse SIGNIficatiuas: quod Ammonilis exponens cum
tum est habens ellenorius: secondo autem modo infra in Magentino ait quattuor ad
ho cutilia effe: rem, conceptum, tra et tatu et propria definition subsequitur itainfra
intely vocem, et literas. Amm. autemait Aril. inchoare, nona lectus quando plineuero
est et falso: circa composition rebus, quæ perse, nec simplices sunt nec compofitr:
id nem enim est falsum et uerum. Querunt novissime curuo enim habent conceptus sed
a vocibus, tr"fine quibus dis cem omiserit. Sed Aris . infri ad hoc respondebit
ut supra sciplina et præceptio fieri non potest aitam; nullam facere etiam a nobis
fatis est dictum. Propter ea ad alia contendamus. Aristotele de literis mentionem
g nullius ui funt ad proporto & fiuerafint, dimin Pombaamen ponunturcum
aliammay gis intentam differentiam SIGNIFICARE SCILICET A POSITIONE, NON NATURA
relinquat, quamtamen Alex. et Pfellius prosequuntur et in expositione tex. Ammonius
A uer. ato alii non omittunt unum ergo et idem cum hissentiens, eorum veritatem
confirmo. Cum nominis doctrina et dissciplina ex ante posita fiue præexistenti fiat
cognitione, ftretur et testimonio Auer. confirmetur. primopost.ses cundo. et
Arift. primo Metaph. et apud Alex. pri motop. quarto oportetenimait Arift. ex quibus
eft de finitiopræ scire, fiue ante cognoscere et Alex. inquit definition per omnia
nota et precognita procedit et Averroes primo post. secundo. fic. etiam uerisimile
eft effe dispositionem specierum prænotionum conceptionis id est defiunumeorum quæ
diximus explicatur, nomen et verbum primo secundo. hec autem quandog
imperfctiora, TEX. BOETHIL. Suntergoea, quæ funt in voce earum, que sunt inanie
quandoy perfectiora, minus communia autcomiora. Ma ma, passionum not&,o
eaquæ scribuntur, corum, que gentinusaitq cum evidentia dixerit, abhistanquam abdi
tis et occultis abstinuit. Aquinas dicit gquia Aril. cępitapar sunt in uoce. Et
quem ad modum nec literæ omnibuse et s tibuse numerare: ideo nunc procedit a
partibus ad tol adducam dicitur. aliud effe dicere num note: O quæ scribuntur
eorum IN VOCE. Et queme procedere, quia magis sensate sunt de anima instrumentum,
seu Atat, esse magis minusu e compositam aliud finem habes PASSIONES ANIME SUNT,
o quarumbæ similitudines, res quoquecedem. re ut alterum coniungicum altero, aut
feiungi ab altero enunciet. secundum concedimus: sed exillo affirmationis
naturam magis compositam esse, sequi negamus sed Magentinus dicit q enumeratis nominee
et verbo et aliis eorum definitiones tradendæ erant, quas ponere constistuerat.
Sed hoc Aril. non facit: sed caput proponit quod nobis ad iumento erit sed quod
fit ad iumentum non exiplicat, nec increpandus ame eritut Herminius idem
negationis potius. Secundo respondet p in hisquę possunt efle X non efle, prius
eft non effe quod SIGNIficant negatio, quamefle, quod explicat affirmatio sed ut
species sunt æque genus diuidentes, sunt fimulnatura, nihil grefert Quorum
tamen hæc primum notæ funt, eædem omnibus i ta con la contemplanda.
Quod fi ita est. Cur ergo iftorum quat PASSIONES SEU CONCEPTIONES esse omnibus easdem:id
est tuor meminic? Et si infra longioribus, nunc tamen quod ellea natura: Expolitores
non explicant qua de causa, ad rem pertinent dicamus et brcuiter: finem huius
libri interpretationem esseut fupra pofuimus hæc autem ut lov gicum instrumentum
et organum cognoscendi, ad explicationem rerum dirigitur, ac tanqua multimum
& perfe netemere et fineulla ratione iddrift pofuiffe dicamus. notandum, sexto
topi. In explicandis partibus defini tionis oppositorum, non tantum opus effe oppoftiscum
negation præpofita, sed etiam rebus huius modi, quiz intentum finem refertur interpretatio
uero rerum non busdefinitio feu definitionis pars tanquam habitui conue fit
nisi per voces clariores SIGNIficantes A POSITIONE, aut perl iteras cum voces
defuerint propter eanecresomi lit, sed tanquam fine multimum et in primis intentum
por fuit tertio enim mera meta nemo define consuls nit: nam per se habitus per
privations noscuntur: licet quodammodo id est ut commentator primo pofter, in magna
commentauone et primorheto. cap. quin toinepitomatibus logicalibus explicet alicui
generi ha minum privatio, atque oppositum cum negatione praeposita, alterum manifestet.
quam obrem topica loca constituunt. Qomnibus, aut pluribus ita uidentur. Cum
igitur supra explicasset, li voces SIGNA ESSE A POSITIONE, ex appo fat: fed ftatuitatq;
ponit: sed quomodo et per quæis finis eueniat deliberat. nam primo ethico septimo,
fifinem tanquam exemplar habuerimus, magis intelligemus quæ nobis sunt bona et septim
opoli. in principio: duo funt inquibus omnis commendation bene agendiconsiy
fito cum negatione præmissa, nunc eadem explicat pary ftit. unum ut propositum
ac finis recte agenda subjaceat: alterum ut eas quæ in illum sinem ferant actiones
inueniamus, resigitur hic non relinquuntur sed tanquam fines explicanda ponuntur.
Nec literæ fruftra ab Arift. nume rantur cum vocum fungantur officio: hisq; principibus
explicatis,& quæ scribuntur aperiri intelligimus huius enim caula quæ sunt in
voce conscribimus, ut absentisbus uocibus, res concepta scertius, uberius et firmius
teneremus quæ enim uox, tot philosophorum, a nobis absentium, sententias unquam
aperuit ad quas eorum libri nostam facile deduxerunt, ut possemus aliquando quid
ticulamex opposite positiuo passiones enim et respros prereaq eædem sunt omnibus,
NATURA SUNT, NON EX ARBITRIO ET POSITIONE ex opposito voces, ac scripiuræ quia
non sunt eædem, A POSITIONE, NO NATURA SIGNIFICANT. aHinc etiam differentia vocum
A POSITIONE ET PASSIONUM sive conceptionum et rerum colligitur et approbationem
intelligat, ex græca particular aperitur. quæ diciti quorum quidem. Quæ particula
causam propofiti explicat, non controversiam. Quioaduerba, Ammonius primum obseruat.q
cumde uocibus et literis diceret Arist. ait. quorum ex SIGNA sunt sed passions
similitudines re senserint eorum scripta fæpius repetentes a gnoscere: No rum uocauit.
Quia simulacra rerum naturas, quoadlicet igiturut Ammonius dico nihilo pusesse scriptis.
Sed dico, representant ut inpi et uristidetur inquibus mutarefor magis fuisse conveniens
Arift. nomen & verbum et c des mas præsentatas non licet. litin Socrate pitto
calvo, fi finire per uoces quæ in disciplinis quasalio certo duce mo, oculis prominentibus
SIGNA vero et NOTAE totumha per discimusfacile primas tulerunt: quam
perscripta: bent ab impositione et cogitatione nostra, ut in militum quibus
periti occulta cognoscunt et percepta declarant, SIGNIS ET NOTIS diversis a; institutis
conspicitur. Sed cong Nunc ad litera mueniamus ea quæ in uoce sunt, cons
traquia secondo priorum. de enthimema te tractans. fi stunt, aut continentur, sunt
SIGNA se unorem ounebonor enim duo hæc significat earum passionum i.eorum
conceptuum: quos patitur, id est, ut formis perficitur phantasia, mens, seu anima,
ut Prelliusait et quem scribuntur SIGNA ac NOTAE funt eorum quæ in uoce
consistunt. Etquemadmo gnificans.quiaidemuerbum,lignum,¬auocatur. dum
necliteræomnibusexdem ficneceædem uoces.} Explicata prima definitionis
particula, núc ad secundam accedit q uoces A POSITIONE SIGNIFICANT. Id que approbat
Arifto. ratione fumpta ex opposite cum negation prol tensa. Quodquodam modo notius,
alterum palam facit. primo topico et auo, hinc facile confirmatut experimen Arist.
quod supra de negatione ante posita affirmationi docuimus ratione sed oppositum
ei quod est A POSITIONE elle, estelle A NATURA: quæ eadem omnibus in est ex opsposito
igitur ratio in hunc modum formetur ad conclusionem ex similinotiori in litteris
innuendam, id natura esse dicetur quod eftomnibus idem; natura enim princiy
pium est perse& deomni: quæ igitur non sunt omnibus eadem, non natura sunt aut
significant. A negatione proy Prætereasi hæc differentia uera esset, acillam Aristot.
ex his uerbis intenderet, his tantum nominibus pofitis suffincienter explicasset,
dum diceret. Propterea quod uoces & literæ SIGNA ac NOTAE sunt, A POSITIONE
SIGNIFICANT. PASSIONES vero et RES quia SIMILITUDINES SUNT A NATURA. Ita in
finiendo nomine et uerbo sufficeretsiduntaxat dixisset, nomen et uerbum es tnota
non igitur addendum quog cesfint A POSITIONE SIGNIFICANTES et hic omittendum fuils
set, quod voces & literæ sunt notæ fue SIGNA non eadem, neidem calu, actemere
refricaret. Mihi ita sentiendum videtur. Ovuboloy superior “NOTAM” (NOTARE,
NOTIFICARE), “SIGNUM” (SIGNARE, SIGNIFICARE), “VESTIGIUM” dices re quæ ita dicuntur
quia ut notiora exterius NOTIFICANT, ac ut VESTIGIA pedum significant. Hoera
autem, id est PASSIONES SIVE CONCEPTIONES non ita: quanuis interius priæ definitionis
ad negationem definiti henc propositio, similitudines rerum vocentur: rem tamen
et fiinterius, quia perspicua, approbanda non est: sed lumiper senoi exterius non
aperiunt propterea igitur voces et literas fi, tam oportet, alibi quodam modo declarandam:
Allumy SIGNA ET NOTAS vocauit et PASSIONES
SIMILITUDINES quia ille prio, id eft minor propositio in textu ex oppofito cumne
exterius, hæc interius manifestant. Secundo ex dicti sfaz gatione præposita notiori
in literis et quemadmo! cile reprehenditur syllogismus quem Suella formauitex
dum neque literæ omnibus eædem: fic nec eædemuol litera dum afferit Arifto. uelle
probare voces & literas ces conclusio consequetur. Igitur nec voces A
NATURA SIGNIFICANT a quume uarient, A POSITIONE haberi, conceptiones ver et
SIGNIFICANT et non omnibuseç demerunt. Quorum aux res, cum non euarient, natura
esse. hocto tumuultelle tem.; Approbata minori propofitione ex simili notiori
præceptum et complexionem fiue conclufionem ad qua inliteris, in quibus idem prædicatum
inuenitur. nunc inferenda mait Aristotele in textu ratiocinari. Quæcung sunt
alia duo, conceptus scilicet, seu passions & resmanis aliorum SIGNA VEL
NOTAE, positione se habent. Uult deinde fe stata natura effe et ita ead emomnibus,
inquit ledpal, quom dassumptionem, id est minorem Arift.ponatibi funt Gones animæ
quarum hædi et æ uoces primum nuly quidem igitur quæ sunt in uoce et c. id est
sed nomina et lointeruentu, noræ sunt hæ animæ passiones sunt cæs uerba. Et scripta
sunt signa et notæ aliarum, voces, Ccili demomnibus et res quarumhæ passiones sunt
similitus c et conceptionum, et scripta vocum: sequitur conclusiout dines, etiam
eædem funt. Sed cuius gratia manifestat putatibi qaemad modum nec literæe ædem ficnecuos
Aristot. ipsum definiensait, syllogismus est imperfectus: ex signis ubieodem
uerbo ut itur ad ex plicandum SIGNUM NATURALE E SIGNUM A POSITIONE uana iti demerit,
assignata differentia Magentini. non fita positione ceseæd emerunt ubi sic ingræco
non haberi affirmattur. Sed primær esponsionis partitio, feudiftinentio, quo quod
manifefte falsum eft Toosenim sic latine significat nam modo fit uera in primo suo
membro, supra longios et quem ad modum et ait et uim habere inferendi fæ ribus disservimus
cetera tamquam uera probanus. Seddu pe consueuisse. Sed obiurgandus est Ammonius
qui lis SIGNUM ET NOTAM ait approbationem, id est probationem bitabis Vox SIGNIficatrix
est per se genus nominis et uery bi: igitur vox erit generis pars communis, per
se unum constituens: duo igitur consequuntur. primum naturale ,unā per se constituerecum
artificiali, et ens reale cum enteratio, nis: secondo partem efle intotoniinuscommuni:
signifi care,scilicetapositione,effeinuoce,quæeftmagiscomo munis. Qui modus
improprius dicitur eius, quod est in esse.q nomina,& uerb auoces, & scripta
a positionef SIGNIificent: cum secondo priorum In Epiromatibus logica, libus, de
rhetorica persuasiua et syllogismo contradictoria SIGNA enthimematis et demonstrationis
et topica etiam, non a positione
significent. lignum ergo, et NOTA, commune est ad signum, quod EX ARBITRIO ET inftituto
signifiy alioelle. quartophy.Adprimum&finihilhicneceffario cat,&
signumnaturaconsistens. Secundo propria eius ratiocinatio confutatur: non enim unus
est syllogismus in textu quen suo arbitratu diuisit, sedduo. Vnus quonos mina Aristot.
Et verba voces esse SIGNIFICATIVAS declarat: quod amedi&um est Paulo antedum
primum in textum hoc modo quæ sunt in voce sunt NOTAE ET SIGNA scilicet SIGNIFICANTIA
exterius earum quæ sunt in anima passionum minor siue assumptio, ut pofitio per
se nota, ap Aris. dubitarem res logicas ut habentes esse imperfectum et quasi in
cogitatione ut subiecto: in voce ut SIGNO,aliam naturam ullam sortitas non esse,
quam eamquam anima probationis non indigens ponetur. Cum nomen et uers ex arbitrio
finxit: ut ad aliud SIGNIficandum exterius refe bum definiet, sed nomen et verbum
sunt SIGNA seu voces: ratur. Ficut ea, quæ artificum manuseffingunt præterna
itaq; maior, ergo et c.propositio allumpta est, ut per seno turæopis, lignum, scilicetæs,
aurumue, nil reliquumha ta. SIGNUM est illa græca particula quidem igitur quæ
bent, nisi quod ars uera per sua inftrumenta hoc uelillo uel executionis fit nota,
uel fi neulla approbatione ex propositis inferens, meam sententiam confirmabit
id esse fine approbatione aliqua positum. ut communiter affertum abomnibus: Secundus
syllogismus eriti bi. Etquems admodum et c ut secunda pars definitionis ponatur,
SIGNIFICARE, SCILICET, A POSITIONE. Quod tanquam per se notum, non demonstrat, sed
quia non omnino, cinealiy qua controversia est consessum propter eaquodam modo
ex opposito cum negatione præposita manifestat. Quod in scriptis est manifestius,
a positione sint; et eui dentius conttantius q; manifestent. Syllogismus igitur
erit. quæ non omnibus eadem sunt illa non a natura quæ in omnibus uno modo invenitur:
per se idem in omnibus similiter operans sed A POSITIONE sunt et SIGNIFICANT minor
in textu. Et quem ad modum nec literæ omnibus eædem, fic nec uoces eædem. Ita que
maior propositio syllogismi Suessenon est ad hanc inferendam conclufionem, quam
nostra secunda ratiocinatio intulit et quæa suessa ratiocinationis conclusion
et complexion dicitur, no bisminor secondi syllogismi cum eius approbatione ex
simili literarum uiderur nam fine ulla controuersia ut bene animaduertit Ammonius
scripturæ et literæa positione significant licet quodam modo uertaturindus
biuman nomina et uerba, nátura, ut Plato uideturassere re, anaconfilio, ut Arift.
sentit, significare dicantur. hinc. per se unum constituit cum voce, naturali
opera anima ut fequetur eum non aduerba Arift. ne que sensum dicere. dum
infecunda sua expofitione afferit, quam Alexandri & Afpafii esse confirmat,
hic Aristotele velle colligere similitudi singulare opus naturæ est, fed ut indiuiduum
ab arte for matum. Itaque nec primum sequetur, naturale cum arti ficialiunum per
se constituere: quianon ut naturale, sed nem inter scripta et uoces. Sed q ex hoc
predicato, significa ut arte effectum, formatum cum sua causa formali perl e re
ut non idem, idefta pofitione: quod norius et firmiusin unum efficeredicitur: similiterres
logicas et placitum scriptis uidetur. Inferti demde uocibus significatiuis, tan
uementis arbitrium in uoce contineri affirmamus: non quam genere proximo nominis
et uerbi et omnium alio tamen ut opus naturæ eft, per se unum genus conftituit,
rum. Quærit secundo Ammonius: cur Arift. non dixer fed tantu muta positione, et
confilio, et cogitatione fal cit. uoces sunt SIGNA CONCEPTIONUM. Sed eaquæ sunt
in et um eft, ut vox ad hoc uel illud explicandum ponatur. Voce irespondet primum:
cum triplex fit oratio, concel & ex communi imponentium consiliore feratur.
Sica pra, in uoce; inscripto: de secunda hic loquitur fecuny mentis relatione, que
in uoce ad significandum relinquis do respondet, voces naturae dimus ficut uidere,
audire: aliud eft ergo uoces esse, ut opus naturæ, aliud nomis na et verba a positione
et nostra cogitatione, quæ uoce utuntur, nam quem ad modum ianua dicitur lignum,
& nummusæsue laurum ex arte, quæ imponit figuras et tur, uocem naturæ opus,
artis logicæ inftrumentum et opus artificiale per leunum et ad alterum SIGNA ng
dum relatum conftituitur. Ex his ad id quod secundo consequebatur patet responsio
non enim in conuerniens eft minus commune, quod formam et a&umdig
characteres: eodem modo et uoces dicuntur nomina, cit, contineriin alio magis communi
quod in potentia cum a locutoria
imagination fingunturac formantur, fie exiftensperficiacformariabaliopossitminuscommu;
gna eorum,quæ inanimouoluntantur,& talem sunt formamadeptæ:utex
positionefignificent.signum est uoxmutorum articulata, quæ quianon ex composito
et institutione aliorum eft, ideo nomen
et uerbum non dicis ni.ut de intellectu et cogitativa Auer opinatur de anima
altrice, sentiente et rationali et ex Aristotele confirmatur secundo de anima. Postremo
in uoce, perfe&io placiti, seuarbitrii, confilii, &pofitionis, effet dicendum
sed metaphyfico et naturali hæc quæftio difficilis relinquenda ellerbonitatis, tamen
gratia, quam breuissime poterore spondebo. Sed animaduerten dum primo modo effigiantia
progenuerit. Hoc,alterum comitatur, easdem res logicas, uts ecundo intellecta, ad
logicam non ut scientiam sed artem spectare namearuni, mentis arbitrium, ut externa
causa efficiens assignatur aquo effig ciunturea, quæartiu et scientiarum explicationi
conuer niunt et in uocibus, acaliis notioribus regulis apponuntur primo post secondo
poster tertio ponens dum metaph. Non eodem modo, omnium unitatis per se causam
requiri. Alia nanque, quæ matelriæ conditionibu suacant, ut intelligentiæ fiue mentes,
fta timens et unum persesunt. Aliaquæ ex materiis constant, unum per se fiunt q
hocidem, quod ens potentia erat; idem fit et u:efficiente tantum educented epotens
tiaina et um artificialia per se unum conftituunt, secundo physica secundode
animao octauo, non cum subiecto ut naturæ indiuiduum est, sed ut arte formatum,
viue effigia tum est: artis, ac formæ artificialis esse recipiens. causa enim propria
cum sitars, & esse us artificiale quiderit. Ficut causa propria indiuidui
et esse et in naturalis est forma et substantia, effe tum igitur subftantia erit,
ita proportione et similitudine quadam, quæ de unitate et definitioneres rum artificialium
dicta sunt: fere eadem de rebus logicis, et v ocesignificatrice a positione dicenda
sunt non enim quod in uoce ex consilio et mentis arbitrio pofitumest, quibus
quibu suoxipsa, quali formatur et denominatione exo trin. ecus SIGNIFICARE A
POSITIONE dicitur, atque, ut aiunt, per attributionem placiti, ut formæ specialis,
uoci, ut cantibus omnibus, non definite contractis ad nomen et verbum: nam uox
significativa partem communits imam generis nominis et uerbi et orationis
conitituit non pros materiæ sive generi magis communi ad sunt. Nec incon prie nomen
et uerbum tantum. Differentiam aut eniliter ueniens modus ellendi in alio eft, minus
communisinma rarum abelc mentis quam Ammonius accepita Dionysgis communi fiue formæ
in materia, ut Suetreuidetur, quo fio, lumasab Arist. in libro enim poeticorum ait.
Eles niam quarto physica Primus modus numerator partis in mentum uocem effe indiuuduam:
ergo proprie in uoce sed toto, secundus totiusin partibus tertius specie ingenere,
ad sensum patet literas partes eorum efle quæ scribuntur. Quartus generis in specie,
quintus speciei, leu formem inmai Quæriturcur passiones uocauit et similitudines
uelfimu feria et c. Nec ualetfua obiectio
contra Porphyrium: lacra. Ut Ammonius dicit. Sueffar espondet propter eafie sequeretur
Arist. Intam paucis verbis ambigue dicere. Militudines appellari, qarederiuaniur:
passiones uero, ut animum ipsum perficiunt:c onceptus, ut principilim et ratio intelligendi.
Sed contra, quiarecte Ammonius interpretatur, simulacra rerum dicuntur, non quia
causa, taarebus ut phantasmatibus siue sensu perceptis sed quoniam rerum naturas,
quo ad licet, representant ut in picturis demonstrate in quibus mutare, ac
transformare naturas representatas non licet. Præterea conceptus, nifi
constituantur nouarum rerum uocabula, rem iam concer ptam et cognitam supponunt.
Non igitur proprieprincis piumseuratio cognoscendi dicentur: nisi ut species et
phantasma, ut obiectum alumina intellectus agens, eft des puratum, uta iunt,
formatum et illustratum. Item non explicatquem animum passiones perficiant. quianon
mentem per se impatibile in, ut Auer. opinatur. Sed animam seu mentem phantasticam,
id eft existentem in phantasia ut oprimePsellius explicauit attributiue enim mens
quia dudicit eaque sunt in uoce. Sumitur ut parsminus communis in toto, id est inmagis
communi. cum vero sequitur, sunt SIGNA earum passionum quæ sunt in anima nunc sumitur
ut accidens et forma in subiecto. Sed constraquia æque ipsum inconveniens hoc sequetur:
cum placitum, fiue consilium, uoci non hæreat denominatione interna, id est intrinsecus
sed a confilio imponentium attributum, ut SIGNOf Placitum ergo fiue arbitrium, pactio
et mentis cogitation eft in uoce ut SIGNO non cui extraanis mæ operationem inhæreat:
sed passiones animæ rationa liconueniuntutactueamformantesacperficientesetiam
dum dormimus. Item proprius modus elrendi in alio maxime dicitur ultimus,utinlocoueluale
aliitrans lumptiue, id est per translationem, ut Arift et commentator afirmant.
Tertio queritur quod primo loco quæren dun fuerat an per uoce, ergo aliquid ex propofitis
inferat, an executionis fit nota AQUINAS ait ex præmissis concludere, hoc modo quia
Arift. dixit oportet ponere quid nomen et uerbum et c Shemc sunt uoces SIGNISficatii
caduca et infirmapatibilis et poftremo in homine sola mortalis. Sed hic primum quærocur
solum Arift. passion num et similitudinum seu simulacrorum meminit: Respo
deturcu principio intelletus fiue mens phantastica rerum qualia dumbratas
intelligentias et similitudines recipit, his ut patiens i l lu f tratur u t patibilis
intellectus. Hinc requistur, eas similitudines, ut animam perficiunt phantasticam,
passiones vocari, perficientes, ac illustrantes eamnuilo contrario ante corrupro.
Hemec similitudines dicuntur ut o intendimus ex Ammonio jur rerum naturas quo ad
licet representant et conceptus, ut abintelle et tu patibili seu possibili concipiuntur,
autiam sunt conceptæ. Secundo ponendum intellectum patibilem, idest possibilem
ad passiones et similitudines cum eas primum concipit conferri, ut poteftate eft
omnia illa, tertio de anima quem ad modum TABVLA RASA in qua nihil esta scriptum
siue fir et um. Indeetiam sequitur tertio intellectum semper esse uerum. tertio
de anima id eft non errare. sed intelles Etu ssecundo progressus ultra componit
illas passiones, ut simplicial intelle et a: et hoc quando ßuerequandog false compræhendit
ut infra sectione quinta datur opisnio falsa ac apositione, confilio, fiue arbitrio
opinatur. Buntur sunt notæ eorum quæ sunt in voce, non autemdi dequibus Alexander
forteait dee isdem rebus fæpe uæ: ergo oportet uocum SIGNIficationem exponere, seu
rectius ponere. Contra placet Sueffecum græcis omnibus notam elle executionis. Sed
nec ipse quicontradicit diffi cilere fellitur, non enimdiuus AQUINAS afirmat ergo
aliquid supra tra & tatum, seu, ut
ipsia iunt, colligere supra execustum, sed ex prædicatis ac præceptis inferre, infraconfidei
randaspræ cognitiones ut nosetiam diximus et itaes xecutionis est nota propter eanon
uniuersatim eft uerrum quidem igitur notam efle executionis, quæexan te positis
no ntr a haturnam nomen definiens, nomen in quitquid emigitur eft uox et c. definition
autem nominis exante cognitis partibus sequitur similiter secondo priorum deenthimematetractans,
declarator et posito quidfis gnumdicatur, intulit Enthimema qudem igitur est syllorgismus
imperfectus sed alii arbitrantur, ornatus causa a græcis poni.fica NOSTRIS
LATINIS quidem enim adexory nandam orationem ponuntur: Mihi Arift. uerba et pro
cellum consideranci, quando que epilogi, quando q exer cutionis, siue ornatus ellenota
uidetur: quod facileex fuperiore & inferior scriptura, ne ambigua estimentur,
perspicuum fiet. Quærit Ammonius cur dixerit. quçscri nos diuersos sensus habere
in quo Magentinus fruftraconatur, Alexandrum arguere. itaphi sensusuarii quos exueris
simplicibus cognitis et eifdem, acanaturacon di non sunt literem & elementa
sed horum partes i secundo fiftentibus intellectus coniungit non omnibus iidem
Xerit .literæ et elementa sunt SIGNA eorum, quæ in uoce: duobus modis respondet,
primo hic Arif. de nomine et uerbo, acaliis propositis in proæmio speculari, cuiusmo
aitq si'uerbum Aris ad omnem dictionem extenditur litteræ proprie sub his
continentur quem scribuntur, elemens taueroquæ proprie in prolatione consistunt,
subhisquem in oce. Sed Arift. generatim
loquitur de vocibus SIGNIficatiuis ut pars definitionis eft omnium, quæ in proæmio
definire proposuit. Sed in libro poeticorum elementum definitur, a uox fit indiuidua:
non omnis, scilicet per se significans sed ex qua intelligibilis vox fieri poteft.hic
uero dixit eaquæ sunt in uoce.i.arbitrium, confilium, an passiones simplices quas
de ipsis habemus, easdem res cognitio, intelligentia sunt SIGNA SIGNIFICANTIA
et intelli SIGNIFICARE dicantur: cum semper fint distinguen deutdie gentiam
conceptuun explicantia, non igitur hic eft fers uerfas res continentes Responde
as aliudeile dicere paso mo proprie de elementis ex literis, quæ eadem sun tre,
li fiones primas effe similitudines easdem, id eft a natura cetratione quam diximus
differant, ledde uocibus SIGNIFICANTES fignifi constantes, aliud passionesesse naturales
fimilitudines rem patibilem affirmamus primo de anima tery tio de anima ratione
phantasiæ fiue cogitatiue quæ funt ,l icet a positione et opinantium consili opendeant.
His positis, patethorum duntaxat Arist. meminiffe, quia hæc sola sint uere omnibus
eadem, adquæ anima cons paratur ut potestate recipiens quam obrem passiones
Arift. appellauit alii autem conceptus, aut non iidemdi cuntur, autadillas, quas
diximus passiones et similitudines, reducuntur hæc dehisha et enus quæ tunc docenda
erunt cum de anima dicemus. De æquiuocis ambigunt. id est natura consistentes habebunt:
quibus plura cognosscunt et representant, acreferunt licet voces quarum proprie
ambiguitas dicitur, non naturas inteædem feda positione SIGNIficent: æquoca
enim rem unam cominus nemnon habent: fed tantum uocem et hoc responsio, diz ui
AQUINAS dictis, eft fuita. Sed obiicies ut Suella contra Porphyrium ubi voces funt
eædema consilio, pofitæ, easdem primas conceptiones fine erroreaut falso SIGNIficant;
non ergo ambigue loqui contingeret, ne quedifting bis. ubinamin Ari. patet, similitudines
in primis esseres rum simulacra et naturalia ficutresnatura eædem omnis bus
sunt? Respondeasextertiode anima animam, quodammodo efficiomnia,cum omnium
formas,aut sensu, aut mentes uscipiat et quia singulorum formæ per animam
cognoscuntur, LAPIS autem NON EST IN ANIMA,sed species et forma eius primum lapidem
representans. Primum ergo similitudines et species rem et DURAM LAPIDEM ESSE repre
reautillic Arist.dicit. Ad phantasmata intellectus confers tur, ut sensus ad SENSIBILIA
a quibus natura mouemur: atque impossibile dicitur, qui nuis istangamur. Itemne
celle Arilair, intelligentem phantasmara, id eft eorum SIMILITUDINES, specularit
ex res autem o narura constent, tanquam omnibus perspicuum omittatur. Amnionius
di de anima ad poftremo relatum dixit cæterum prodig tum de hiseflein libris de
anima, scilicet tertio de anir TEX. BOETHIT. De his uero dictum – LAPIS EST
DURA – est inijs, qui sunt de anima, alte rius enim est negocij. Eius demrei uel
diuerfarum nam analoga, ut primum offensioad arteriam, fideconsulto et composito
siat, illac concipiuntur, diuersa continent, ordine, comparatione qua commeat spiritus
uox eft: tussisuero, non eft ea uox: seu proportione adunum collata. tamen
eorum prime intelligentiæ fcuconceptiones eædem dicuntur, id eft naturra non arbitrio
uariæ ficut voces: qux comparatione, reu proportione dicta A POSITIONE
SIGNIFICANT simili ratione ambigua, id eft æquiuoca, primas conceptiones easdem,
nus, quicum SIGNIficatione aliquaemittitur. Sed postula quamuis per eadem loca,
machinamenta proueniat. quia, scilicet non ex proposito accidit nam aitfi necogitatio
ne aut consilio vox missa, non est vox nam “hocomnino” in definitione uocis collocandum
eft quoniamuox eft so in guere differentes, qui satis ex notis locibus, atque
errore, conceptionibus conftituere poffent, quod fit ads sentant, nam
intellectus omnium, de rebus senfibilibus primum uenit, ex quibus VISA quædam et
similitudines procreat ad quasintelligens feconuertit et cum intelli
uersariorum consilium ,aut quid ueline Dicas his disting dioneuti opus non effe,
quibus ita hæc nomina sunt perspicua et communia, ut quasidomi ab ipsorum positione
nascantur. Sed his qui quasi modo nascentes de notissimis rebus atque nominibus
hæsitant, nihilq; ab aliisexplicar tum nouerunt: qua de causa, diftinctio in
bis nominibus fiet, quæ habentur dubia: quorum res abditæ et arbitrium consilium
plurimarum rerum et conceptum non gie necesse est simul phantasma aliquod
speculari. phang ialmata enim, sicut sensibilia sunt: præterquam tertiode
aninia sunt sine materia. fecido natura constant similitudines: non ex arbitrio
pendent: quia ad similitudines comparatur patibilis intellectus, ut natura pure
potentia aut poteft ate recipiens tertio de anima in natura enim anime ef tunum
natura agens, alterum natura patiens ficut in omnia lia natura monstratur tertii.
Prætes perspicuuin dicitur. Ad textum nunc redeamus. Ex uerbis his collige quod
supra docuimus uenforqui dem igitur quandog ad exornandam orationem ab Ari.
poni, ut hic: nilenim ex supra cognitis infert, neque alia quid exequendum. seu
tractandum proponit. Queresab Arift.cur istorum naturam dillerere diligentius et
proprietates omittis? quibusg ab animantibus instrumentis uocalibus proueniant:
pulmone et aspera arteria, aquos ma at conceptus dicit mentis primi, quid
intererit quo minus fint phantasmata: Respordet an neque alii phantasmata sunt,
uerum non fine phantasmate tum in rum primo, uocis materia aer præstatur. ab
altero, voces graves et acutæ effigiemfumunt.& q articulate dicantur a
lingua, palato labiis, ac dentibus ut animæ rationalis motioni deseruiunt curhçcitidema
positionc, alteraa natura confiftant atque fimilitudines rerum sint primum
fimulacra, voces uero passionum ligna, ac notæ dicans tur: Ad hæc omnia putoAristot.
respondere propterea abeo essereliaa o alterius est pertra &ationis, id eft
ad alium pertinent modum considerandi naturalem deani, ma: nam pertra et are quanam
ratione istaabaninia, ac instrumentis eius proueniant, an a voluntate pendeant,
ut operationes, ad animam, suum proprium principium res rum voces primo res generatim
SIGNIificare, sedl ogicos feruntur, de quibus ut supra diximus, secundo de
anima differit ubi vocem significativa mex imagination animæ uoluntaria, Conum
appellat: hinc ergo patet voce sesse SIGNIificatiuas sic enim ad interpretatio
rum primo conceptus quod ex definitione Platonis aquo Grammatici acceperunt confirmant
nomen nem dicuntur conferretex et apositione SIGNIifica re quia ab imaginatione
SIGNIficant et voluntate ut commentato at Arist. asserunt. Arist. enimait oportet
animatum esse ucrberans et cum imaginatione aliqua, id eit voluntaria cuius rationem
adducens, inquit sunt in aninia et quarum passionum eq voces primum gnasunt etc
sed contra quia eodemmodo nomen defini, tura logico, poeta, atque grammatico id
autem ut verum fit in definition nominis declarabimus secundo fin nisharumuo cum
eft idem ei ad quem oratio enunciatiua refertur hicautem eft interpretation rerum
conceptarum, quæ idem sunt quod conceptus: SCOTUS vero quæstione secunda
respondet conceptus SIGNIficarerem, ut similitudo et speciesrei, non ut accidens
animæ dicitur, Sed non quæritur hoc, sed duntaxat, an voces principaliter, seu vox
enim est quidam SONUS SIGNIFICATIVUS NON NATURALITER ut SIGNIficatiuus est sonus respirati acris sicut
tussis sed ab alio libero movente hunc aerem ad arteriam. Ing quit etiam Themistius
acute hunc locum perspiciens hus iusergoaeris quem spirando reddimus percussion
et quibus imaginationem passivi intellctus nomine appels landamcensuit tertio de
anima primo de anima ex quibus tam obscuris verbis non potest concludi aliud, nifiquod
poftremo deduximus non enim video quid suadi et a sequatur, fi primi et aliia primis
conceptibus non sunt phantasmata, non tamen sine phantasmate, line quo nihil
intelligit animam, nisi conceptus primo phantasmata representare et necesario:
ut intulimus. Mihi autem VISUM eft, sermonem Arift. adomnia supra di et a
potuisse referri, cuius uerifimile argumentum poteft esse. dixit dictum eft, quidem
ergo in his quæ de anima, id est libris duobus secondo et tertio: ut retulimus;
non tertio solum ut Ammonius opinatur. Et ut finem tandem quærendi faciamus paucis
ad hæcadditis, poftres moquæramus nomina fiue uoces an primo SIGNIficent res, an
conceptus? Quidam respondent, grammaticos finientes quod substantiam vel
qualitatem significet et hic Arift.quæ in voce, ligna sunt earum passionum quæ de
his quidem igitur dicemus in his que de anima alterius enim estnegocij: et um
hoc Arift. Dehis quidem dictum efti nhis, quæ in primis res aut
conceptiones significent. Propterea uerius ad rem et senfum accedens, respondeo
et nobiscum, sinominibus non concinnat suella, re tamé idem affirmat cum Alexandro
primum pono voce tanquam ultimo in? Tentumfinem et principalius, mediatetamen, SIGNIficare
RES et extremum, voces, an res ipsas SIGNIficent in contrariam partem Arift. et
Comment. et quæ scribuntur SIGNA et no iæ sunt eorum quæ in voce & li uoces
PRIMO SIGNIFICANT CONCEPTUS, et conceptus primum res, scripturæ ergo primum
uoces declarant sed contrarium, leniuum teltimonio et experimento monfiratur. Quia
scriptura homini et cei terarum rerum dequibus philosophi differunt, utimur, rei
cum ipsarum explicandarum causa præterea epistola in uen fecundo autem minus
principaliter, sed IMMEDIATE CONCEPTUS quæ duo afferta exemplo a scie manifestant
urnam ascia ut instrumentum efficit immediatum sed principale seu princeps efficiens
est artificismanus quod declar ta affirmatur, ut certiores faciamus absentes, siqu
id esset rans primo de anima octauoThemist ait qprincipale ac ultimo intentum
cognosci et definiri, indiuiduum dicitur: fed alio intermedio cognito forma uero
uniuersalis fine alio medio: ut tamen ad indiuiduum cognoscendum refertur. Hæc di
et ahisrationibus approbantur. Id quod eos scire aut nostra autipsorum interesset:
igiturres poftremo, ut ultimü & finis, explicari intenduntur. Item fi quæ scribuntur
SIGNA sunt vocum, autearum quæ extraani mam, quod impossibile eft, aut in anima:
uoces autemin anima conceptus dicuntur, quos ad rerum explicationem in primis uoces
SIGNIficant, ad quod SIGNIficandum nouos referriut sinem supraretulimus. Nunc ade
aquæ adducerum nominum inventorim posuit hic autem ad rem explicandam uoces consticuit
id.n. de uerbo considerans Aril. et manifestans uerbum SIGNIficare, approbat, quia
consftituit intellectu. sed VOX PROLATA hominis tunc conftituit, et quie
cerefacit intellectum non cum ad conceptum: sed ad naturam humanam deducit ergo
voces et nomina tanguls timum finem in primis intentum res explicabunt licetins
ter mediis conceptibus præterea primo elenchorum pris banturex Arift. respondebo.
Non solum querendum quid philosophus dicat. Sed quid convenient errationi et
sententiæ suæ vere opinetur audiendum. Hunc enim in modum. Aristoteles Intelligimus
quæ scribuntur, sunt notæ eorumquç in voce i. confilii et arbitrii in voce quæ
secondo intellectus et conceptus res explicantes dicuntur. Sici nterpreteris
quæ ex Arift. adducuntur que scribuntur sunt lignaeorü, quæ in voce i.explicant
cum voces defuerint ea, quem ex plicantur per voces, quarum uice fungitur immediateer
go uoces sed non tanquam ultimum et extremum, quod mo, uocum finem declarans Arist.
ait: quoniam res addil serendum afferre non poffumus, utimur nominibus loco
rerum ad explicationem ergo rerum, consideration uocum referturnon conceptuum, ut
fine mulcimum. Amplius. Idem opus exercetcumeo, cuiusuicemgerit, utdeconsu
metaph. Ratio illiusrei, cuius nomen est SIGNUM, definition eft uox igitur rei per
definitionem explicatæ, SIGNUM dicetur. Item teftimonio fenfuum confirmatur:quorum
clara& certaiudiciasunt, eorumquærationeetiamiudis cantur.Ad quidenimtam diu
expectamus, flagitamusuo le, rege et pro-consule, siue proregein vollendiscontro
uersiis perspicuum est. Scripta autem vocum uicem exercent. Idem ergoextremum significatum
habebunt. explicationem, scilicet, conceptarum rerum. Amplius literarum inventor,
ad rerum explicationem direxit et Auer. Ait scri cum interpretationem: nisi ueri
inuenié di gratia in rebus, pturas SIGNIficare uerba, id est fine medio et
SIGNIficata uer quas cognoscere cireftatuimus I denim uolumus et borum cum forte
uoces defuerint, hæc dequestionibus ardemus defiderio tang extremum. Ad hæc.fi conceptus
sunt inftrumenta ipsa rumuocum ut ad rerum notitian mediis conceptibus ducant nó
igitur ultimum et extremum que verum adbucest. SIGNUM autem huius est, hır coce
e ruus enim aliquid SIGNIficat, sed non dumuerum aliquid, vel falsum, fi non uelese,
uel non esse addatur, uclfine pliciter, uel fecundum tempus. Est autem quem admodum
in anima aliquando quidem o falsum. Nomina quidem igitur ipsa Q verba consimi
liafuntei intelligentiæque est sine composition neo diuie suimus et rationibu sacsensibus,
rationem confirmatibus fone, ut “HOMO” uel “ALBUM”, quando non aliquid additur:
nes approbauimus. Pugnabis poftremo, fi uoces, mediis con queenim falsum, nequeuerumadhuc
est. SIGNUM autem ceptibus explicationem rerum efficiunt: cum immediate bus
ueritas et falfitas inuenitur, hæc autem conceptus sunt, non res ipsę. respondeasuerum
et falsum in conceptibus, ut in rerum similitudine inueniri: quæadipfarumuerará
rerum cognitionem refertur uerum in rebus est, ut in causa. In poft prædicamentis
cap.de priori et in fine huius primi libri itap attributiue. i. per attributionem
et collationem ad res, veritas in conceptibus erit: uere autem, ut in causa, in
rebus. Dices propter quod unum quod am tale et illudma césrefertur, ueascia admanus
artificum: quod suprapor SIGNIficatum non ab organo sumi oportere: sed ultimo
explicare conftituunt. nam quod uicem alterius perficit, dum uerum aliquid uel falfum;
si non uel esse uel non effe fatis, ac principale SIGNIficatum vocum dicentur.
Etfiobiicietati quidem intellectus fincuero, uel falso, aliquando autem cuiiam
quis Arift. textum, quem retulimus voces PRIMUM SIGNIFICARE CONCEPTUS intelligas
fine medio alio. non tamen,ut necessees thorum alterum in effe, fic etiam in uoce.
Circa compositionem n. o divisionem, eft uerum,o falfum. No ultimum &
extremum SIGNIficatun. Nam uoces dicuntur SIGNIficare conceptus, ut rerii sunt
similitudines ut ab ipsis rebus conceptus uenisse ad intelletum dicamus, quas
novissime, ut finem et ultimum intermedias conceptibus per voces clariores
NOSCAMUS. Nec secundum eorum argumentum concludet. Voces ea in primis ut finem SIGNIficare
in quis mina igitur ipsa et verba consimilia sunt ei, qui fine comegis. Si ergo
voces mediis conceptibus explicantres, igitur uoces magis et inprimis conceptus,
q res ipsa saperient. Dic Aristoteles locum ualere in causa principe. i. principali
non iuuante tanquam instrumento, quomodo conceptus a duo intellecus et cogitation
fine vero uel falso, aliquando autem cuiiam necesse est alterum horum ineses, ic,
etiam inuos ce. Circa compositionem enim et divisionem estuerum conceptus, ut accidentia
denotent, nunquam substantiam explicabunt. Paucis, ut supra, respondeas, tocum
propria addatur, uel simpliciter uel secundum tempus et extremo fine intent. Quod
quandoq substantia quando g accidens appellatur. Huic veritati Alexander et
Themistius ascribunt, etc. Ammonius non dissentit. Secundo quæs ritur, an scripturæ
siue quæ scribuntur, tanquam ultimum Magentinus hunc in modum Aristotelis textum
cum præce denticonne et tit.cum duo sint investigata. Primiiquonam modo nominis
et uerbi SIGNIfication intelligenda ellerutrum TEX. BOETHII. Est autem, quem ad
modum in anima, aliquando positione, divisione est, intellectui. Ut “HOMO”, uel,
“ALBUM”, quando non aliquid additur, neque enim falsum. Ne huius est, quia
“hircocervus” aliquid significat sed none E hæc duo fineab
Aristotele, posita, causam et finem curitapo ratiocinatur. Quem ad modum in anima
intelle usquando fuerit, non declarant:ut.l. quid nominis partium definir
tionis nominis et uerbiorationis, enunciatiuæ tang præs cognitions ponag ntur. Alterum
etiam secondo dicúrey fello. Non et enim video ubi investigauerit Aristotele
inquibus verum et falsum inveniretur. Quod nucquog inueftigare constituat. Item
pugnantiacum Ammon. dicit. aitenim in anima eft quando querum aut falfum et ita
probatio Ammonius per hæc utilitate in ad institutæ commentatio, esset
minorisibi. Circaca in positionem. n.intellectus et di nis propositum tradi cum.
C. verum et falsum sit in mentis uifione meftuerum aut falfum conclufio ut claratuncre
concepribus et uocibus ut SIGNIficantibus et quodnumcdo linqueretur ergo itaerit
in uoce sed uere arguit ex hypo cet philosophus non in his simplicibus sed compofitisue
theli, non potential cathegorico syllogism nam cumpos rum et falsum spectari non
nominibus nisi ut peroratio fitionem quodammodo ignotam manifestet, non syllogir
n e m enunciatiuam a firmativam coniunctis, vel per negativam divisis, ita gnó in
quit hæc quæ diximus Aristotele docuif m o arguit. Ex quo aliud ignotum natura
concluditur, sed ex hypothesi, ut diximus et infradicemus. Prætere aut Commen
et Ammonius asserunt ibi circa compofitionem enim & diuisionem non minorem sed
approbationem unius partis antecedentis apponit. Aliquádo intellectus cumuero et
falso fit SIGNUM est particula enim quæcau sam propositi denotat, scilicet quia
verum et falsum sunt circa compositionem, id est affirmatione, quaaliquid cum
falsum in compositione et divisione sequuntur intentiones se: sed nunc docere
et in conceptibus et vocibus ut SIGNI? SIGNIficatiuis, falsum & uerum spe
et ari,dum coniunguntur aut diuiduntur non persesumptis. Addeex Amm.hæc Aris. Nunc
docere ut alteram orationis parte mante cognoscat. Dices pro Magentino illa quæ
dixit, ab Amm.ferem aduer bum superiori textu sumpfife cuminquit cumhæcitaq
percaquæ nunc dicunturtradentur. Iuocesesse SIGNIficati was rerum mediis
conceptibus tum uel maxime quibus in rebus quocunq fuerit modo ueritatem ac
falfitatem scruz tariconuenict C. inhoctex. Addés uero quem in textu supe
intellectus. i. sunt in anima, sexto metaph. Ergo eruntin riori confideret ait.
de quibus in præsentia nobis perpen uocibus seu uerbis significantibus ipsas conceptiones,
ut fioest. Utrumin rebus anmentis conceptibus, an uocibus, Comen. animaduertit.
Exhis declaratis etiam patet,q in aninquibufdam. harumduabus: anetiamin omnibus.
telle et usfitali quando finc uero aut falso, idq; tangexsuo fiin uocibus qualibus
his scilicet compofitis non nomine & uerbo et prædicamentis, ita incompositis
conceptibus qui causa funt locum, no per le in simplicibus nec compo! Fitis rebus)
Sed animaduerte quod dixerit nobis perpensio uisionez.i. line uero aut falso hæc
exemplo manifeftat subs inprçsentiaeft) quod tamen inferius considerabit. neg
dicitab Arifthæcquæ ipse perpendit, inveftigata nec'ait Inveftigasse Aristan SIGNIficatio
nominis et uerbis olī, pen deatexuocetantum, an ex intelligentia uel rebus: sed
quo cunq; fueritmodo, inhisueritas & falfita seft, ute xplicátis bus instrumétis
hac enim ratione res ipfa sabiecit adquas famen ut extremum et finemultimum explicandas,
uoces ter et non admittunt: ergo nec dequominus: nistuery et conceptiones animæ
referuntur, q siquispiamhęcquæ bum effe affirmatum, aut non effe negatum addatur.
fim eft fine uero aut falso, quando cuihorum alteruminesse necesse eft, ita et
in uoce: hoc totum eft propofitio maior, affumptio et minori bi.circa compofitionem
enim et diui rionemestuerum et falsum et non circa simplicia, ita ergo erit in
voce. Sed contra: quiaminor hæc effe debuiflet: fed alio componi SIGNIficatur, aut
diuifioné, id est negationé, qua explicatur prçdicatum a subie&to disiúgi.
et uerum et opposite perspicuum utcorolarium et consfequens posuitcū ait. nomina
quidemigituripsa et uerba consimiliasuntei intelligentię fiue intellectuiquiestfine
compositione et di ftantię et accidétis: “HOMINIS”. C. et “ALBI” . utexhisomniaalia
prædicamenta intelligatur. quando. n. his non aliquid ads ditur, fcilicet uerbum
prædicatum “ALBUM” cum “HOMINE” suz biecto coniungens, neque falfum ne que uerum
adhuc eft. Hoc denominehyrcoceruimanifeftat, nanquehuiusinor di compofita
nomina uidentur uerum aut falsum admity exvocetanti: m, aut sola intelligentin,
an ex resolumuos ex Anmonio dicimus non probarit, inutrunq zfitdi&tum. Cesitemper
animi sensus rerum elle interpretes. Secundo inquibusuerum et falum inuenireiur
quòdnunequoß idoftendendti Arist. proponit. fedutrunchiltorum reiicio. non
eniin fupra inuestigauit. Sed pofuit, ut persenorum, AQUINAS dicitq postquam
tradiditordinem SIGNIficationis uocum, hic agitde diuersa uocum SIGNIficatione:
quarum quædam uerum & falfum SIGNIficant: quædam non. Sedli
cetuerumdicatur, ut de Ammonioreiulinius: tamenfine nomina et uerba SIGNIficatiua
efle, cx hoc peaquæsuntin cuius gratia ista ponantur,fubricuit: Licédumigiturcum
uocefunt SIGNA ET NOTAE SIGNIFICANTES PASSIONES nullomes diointerie et o, hisautem
mediis, tanquam ultimui, res explicare. prçterea non uideo ubi inuestigarit, an
nominis et uerb SIGNIgnificatio intelligenda esset ex uoce tantum, aut
intelligentia tantum, aut ex re solum: fed hoc posuit sunt uæ, quibus etiam differebantabaliis:
nuncuelleconstitue quidem ergoquę funt in uoce et c ut SIGNIficatio sumatur non
ex uoce tantum, nonintelligentia, fed arbitrio,cognitione, et CONSILIO et imponentium consensu, quem in uoce re feuante cognoscere
differétiam, qua oratio differtano mine et uerbo: et quaoratio enunciatiuaaboraroriis
poeticis optantibus et c.separatur et quoniamquępones reoportet et
antecognoscere, ut per senota, non isialiquo facili instrument innuidebent nullo
modo demonstrari. Propterea ex fimili seu hypothefi, &cóceflo, acpofitotery
expaétione et confilio reliquerunt acuoci per attributio né dederunt at nullamentio
eftfaéta de rebus, anabeasu mendaeflet SIGNIicatio nominis et uerbi quoniam maxiy
m u m esset ignorationis, ac inscitiæ in Arift. argumentum, firem tam
perspicuam, nec dubiain pro occulta quæliffet tiam definitionis partem et
differentiam manifeftat.cũ inz quit. esid. ubi, ',proenim Magentinus uertit. ut
causam hic assignareuelit ut Ammonius et Aquinus dixerút, acdubia. cuieniniuelrudi
dubium uideretur, nomen et uerbum quod ut organum & instrumentum SIGNIficant
a rebus, inftrumenti SIGNIficatiu et organi cognoscendi alte rum, SIGNIficationem
habere, cum tantü SIGNIficentur, & nul lomodo SIGNIficent ine SIGNIficare &
explicare ,utorgas num logicum uideantur? Item ea SIGNIficatioerat nomio nis et
uerbiponenda, quæ ut præcognitio partium definitionisadea cognoscendadirigeret hæcautem
eftuoxa de quo nunc differemus aitergo de antecedente syllogismi exposito ficutuelquem
admodu menim eft in anima intellectus cogitatio, intelligentia vóruceenim ifta SIGNIficat.)
aliquando quidemsine uero uel fallo: aliquandouer rocui necesse esthorum
alteruminesse. Ex hoc posito et notiori antecedente infert quodammodo ignotumin
choantibus consequens ficetiam in uoce ut SIGNIS ET NOTIS CONCPTVVM erit, aliquando
sine uero uel fallo ut in nominibus et uerbis, aliquando cuinecesseestiam horum
alterumin effe: ut in oratione enunciatiua, Suellaueroita pofitione SIGNIficans,non
res tantum SIGNIficata: a uoce ergo et intelligentia in voce relicta, Ctributa fiue
attributa SIGNIficatio nominis et uerbi pident, no ar ebus. Amplius: Suela nam
licet fupra male textum Arist. declararit Sucr sa, nun cueritatecoaaus idem
dicit quodnosin explicans do philofopho dicebamusp ofitisduabus partibus defini
tioniscómunibusnomini et uerbo et orationi enunciatis pliciter, efle, quamartemutexemplar,
adopuseffin latenus inc aliquiduocum: neceorum quæ in uoce, no ut
gendumexteriusafpicit, qopusexarte notioriinmates finis: cum conceptus prior fit
uoce et ueritate quem in uoce confiftit: non ut agens.quia res agens est, a qua
oratioues taut falsa vocatur sed non difficileest Amm. et Aquinas. sententiam
et opinionem, a Suessæ argumentis defendere. primum, absurdum affirmat. Conceptus
non tangformam SIGNIficant: qui in voce tang artificiali materia relinquuntur: quo
esseueriautfalliinuoce, cumnecaliquidfintvocum, nec cumuiuocessuntnotæ: Exhisrespondemus:
rationem eorum quæsuntin uoce: Peroenimabeocumsupra dixe ritArift. Eaquæfuntinuoce
etc.nonnifiarbitrium, et placitum, cogitatiointelligitur: ut ipse metcum locum
interpretans, opinatur: ergo conceptus est aliquid existens in voce, non utopus
naturaleest, sed arte.i. uoluntate: confi et um.
Itemipfeconfiteturuocemsignificatiuam,communeges nusnominisuerbi& orationisenunciatiuęuocari:nõuo
lessuntsimilitudinesrerum.Seddicessecundomenunc cé, utnaturaleopus. ergoutacognitione,
imaginatione pugnantiadicerecumhis, quæanteacontraAnimo.Boe uoluntaria effi&taeft:utsignumfitadaliudextraexplican
thium,& Scotum diximus: orationen dariinméte et no dum relatum: Et fecundodeanima
Averroes et Themist. tioremesseea, quæinuoceconfiftit. Diximusadhçcartis
fumentes ab Arift. asserunt: essentiamuocisinterpretatis inuentoribu sueliaminuentam
docentibus, ineodem no efle percussionem aeris anhelati, ad membrum quod cana
tioremesse artem, acconceptionescūuero& falsoinani dicitur, abexpulfioneanimæ
imaginatiuæ uoluntariæ: et ma, quam exterius opus effictum: ficinpropofito,excong
infraqinessendo uocem necesse est ut percutiens habeat ceptibus rationem coposuit,
notioribusapositione signifi animamimaginatiuam, tuoluntatem:effentiaergouol
catis:quiquodammodonotiores:utindu&ionesensata cispendet abipso conceptu et
placito reliéto a positione patet infraenim sectione quinta ex opposition maioriin
in uoce, tangforma et uox uropus naturæ interpretans mente, explicatitae! Tein uoce:
Item placitum eft caufa, a placito ab animaetiá,tangagente, depédet:nam secundo
de anima. percussiorespiratiaerisad uocala arteriam ab anima quæinhispartibus uoxeftutefficien
tecausa hinc Cómen. Inprincipiocómentiait oportet igiturut percussioaerisanhelati
ab anima, queestisismé præcognitionem partistertię definitionisratiocinatur:no
brisadcannam, fitillud quodfacituoc a et inmediocom igitur demonftrationem
effect quæadnaturaliterignos menti primum enim mouensinuoce,estanima,imagina
tiua et concupiscibilis et ideouox eftsonusilliusprimi uolentis & mouentis.
Etq etiamdicipofsitquodammo dofinisuocum, perspicuum est ex his,quæ fupradocuio
mus: fine muocum effè eriam res conceptas: namorgal na ad eorum opera, tang
finem & ultima, diriguntur.pris mo topic..cumnonpropterse, sedpropteralterum
exo petantur:sed uoces SIGNA sunt ET NOTAE CONCEPTUUM adquos
explicandosreferimus: finesergomedii,licetnon ultimi tumdir igitur. Secundo post.primo.
necillam utperitus ad rem per se nota efficere potuit. ne ipse suampręcogni
tionum artem confirmaturus experiment contrarioinfir maret. Itidemminimeconsecurionem
ualeredicimus:ra tio ex caufis eft notioribus, ergodemóftrationempropter quid
aut simpliciter constituereaffirmabitur.quoniam alte rum& pręcipuum demonftratiodi
&arequirit.utadigno tum naturaliter dirigatur, non ad pręcognitionem ponendam,
utpersenotam:nam primopofte veręetiàdefis uocabuntur:Exhisfacileeiusrationibus respondemus.
nitiones, quidtantum nominis non ueræ definition suim haberedicunturab Auer. utpræcognitionessunt:ita
et fi hæc præcognitio ex caufamonftretur, nonutdemonstras tiua, fedutexfimiliaccepta,
et uisa, et alibideclarata; pros ptereatopica potius, quàmdemonftransuocanda:noto
pica,o fitdubia, autfalfa,immouera, sed hic accepta alig biuisa philosopho et hic
posita, utc redita:dequo latius ressecundum feeffedicantur, nótamenapudeosquicon
ceprus et res conceptas ignorant: adquarumexplication nem, utultimum, referuntur.
Adtertiamdeagentedico: inquit exAmmonioait. Primo quiahæcconfi& anomina rem,
agensremotumuocari: aquo intellecus phantasticus falsum significare uidentur: ut.
Aquinas ait. Sedcótra.quia fimilitudiné abftrahit: sedanima,utnaturaagens,uocem
ab Aristotele dicitur sed non dum uerum aut falsum signifi interpretantem tang operationem
propria mefficit, &lo cant. Nifi effe aut non effe addatur: ergoutrunque signis
gicotradit: cuilogicusproprium considerandi modum ficareuidentur. Item causa assignandafuiffet,
curexem attribuens,utinftrumentum significandi & explicandicon
pliscöpositis (que uerum dignificare potius etiá uidentur) Ad primam,utpatet,
intelligentia, inuoceartecong fi et tareli&ta,eft,utaliquiduocis.i.forma. Ad
secundam Q non fitfinis,nonualet,idpriuseft,ergonon finis:Deus enim eftpriormotu&creatura,quæad
Deicognitionem deducunt, ut signa et effe&taadsuumfinemcognoscenda
directa:fimiliterdicaturdeuocibus, & ficóceptusprio riaexternareli&um: manifeftum
eft argumentum qdixit Arist. bon uoces: sedeaquæsuntinuoce, suntsignapass
fionum et conceptuum,utnaturaliumsimulacrorum et res rum fimilitudinum. i.cóceptusapositione,(utratio)signi
exfimilinotiori, et fuperiusab Arif. pofito, exlibrisdeani maprocessisle:
ficutinanima eftaliquandointelle us fineueroautfalso, aliquandocum horum
altero: ita& in uoce: et de uero et falso loquitur utAlex. et Ammo.ac cæteriboni expositoresaffirmant)orationisenunciatiuæ,
et denominibusfignificantibusaplacito,nonutnaturas quamobremuoces significant cúfiuntnotæ.
Necproptes reao conceptusutcaufedicuntur.quosnomina et uoces tanquam SIGNA et effetusimitantur, afferendúeftArif.des
monftrantem rationem efficere: namhich ypotheticè ad Deoda nieprimotopic. dicemus.
Quæruntcur Arift.fis &aprotulitexemplapotiusquàmuera.Sueflasumens ut
pliciter, quod præsentis efttemporis.aut secundum tome pus.i.præteritum&
futurumut Com. explicauit. De Am monii expositione dicemustunc,cumaddubiaresponden
bimus. Quæritprimú Suessa.qualisnam ratiocinatio Aris. fuerit(quéadmodum
inanima quandoq intelligétiafine ueroautfallo, quando quehorumalterumnecetle eft
in esse.respondet. Aquinas et Ammo. intex. præcedenti,nes liderat, accognoscit:
Respondendum ergoest uteftdig &um Arift. exhypothefileu positione,& ex fimili
notion riprocedere: quod quemadmodum particuladenotat. dum asimili: sed a causaquamimitatureffectus,
proceder re. nam Ammo. ait: circa enunciatiuam orationem quæ quæsupraetiam Aril.
poluit: namproptereauoxfignum exillorumcomplexuefficitur, uerum et falsum spectari.
¬aexterius explicansdicitur, qapositione et intellig ante voces quoq; hæccircaconceptuscósiderari.utqui
causæ uocuinlunt,aquibusconceptusfimplicesfineueris tate, & compofiticum
uero & falsodefignantur & declas tantur: Responsionem improbat Suelta: quia
conceptus non causaueriaut falliinuocetang formasunt:cumnuls duftioncperspicuum
eft ut Amnioniusanimaduertit no tioremartem Seddices ratione inaliniilieffe&
et tamex ignotis concludes re, nanieaexquibushic ratiocinatur, extertiodeanima infrasumuntur:
hæcautemtanquam ardua,& inchos antibus difficilia,utphilofophus,&
relinquendasupra nosmonuit: Satis huicrationi faciendum arbitror ex his,
gentiaatqzarbitriopendet:ineo presertimartific equivoces impofuit: uel ab impositis
et Gibi notis nominibus, regulas logicæ docet:in mente enim artificis&
docétis ing E ii quærimus, ad que causa hæc nondirigitur. Tertio dicit:
ut quçinintelle&usuntfolo.sednefcioquçueritasdicipót,
cuinihilextraresponderinre:cum infra& inpoftpredi camentisdicatur abeoq
resest, uelnoneftoratiodicitur uerauelf alla remota aūt causa et prima radice, ceterade
ftruinec effe eft. Item Aristotele de vocibus loquitur. Propterea mihi hoc libet
dicere. Hac de causa fiais exemplissuasen tentianicomproballe,o fi&aamer a positione
significant: & ideo magisobuia& perspicuaacconsuetafuntadexpli candum: ut
quod ámodonotiora, ut magisuulgata, exars omnemueritatem haberiin compofitione&
diuisione.ne excludatur ueritas apud Platonem in intelligibilibus,& in
telligentiisfiuemenubus,& apudArift.desimpliciuming telligentia et abstractis:
fedeam que in pronunciatiuissubs est motibus, scilicet cum discursu: seu ratiocinatione:
quæ perenunciatiuam fitorationem.&inniotibuspronuna ciatiuis,non invoce
solum (intelligas) exiftentibus:fices nimtextui Arift.&
eiusdillisaduersantiadiceret.sedetia ne&diuifionefalsum & uerumremouerineceffeeft:pro
ptereaergodixit, (circacompositionem at causam noia ret: sed ad nomina in uoce
descendens ait non significare uerum, aut falsum: significare enim proprium
eftnomi num, quæinuocea compositione significanteconfiftunt. PetitAmmonius
quomodo uerum fit, circacomposicios innueretueritatem non in rebusreperiri:fedinhisetiam,
nem et divisionenelle uerum et falsum. Responder non nonutitur: ficut utiturhis,
quæ falsum significare maxime affirmantur. fecundam causam adducit: utinnueret,
non solum nomina simplicia ad ueritatem explicanda indiges reuerbo sed etiam
ipsa composite. Sed idem est dicendum de nominibus compositis ueris, nosautem de
fictis proprie non bitrio plurimorum: exhistamenfi&lisnominibus, aliaue
ca intelligendasunt. exempla autem innotescendi gratia inuenta, exuulgatis&
consuetistr ad endafunt et lificadi cantur: quibustaméuerum facilius inueniamus,
autinuen tum facilius doceamus: Petit Suella cur Aristotele.dixerit conpositionem
significare cum uero et falso, non autem significare uerum aut falsum i
respondet, hoc differreinter significare uerum et significare cum uero:quias
ignificare ueru potest uere in nomine simplici inueniri:u.g.hoc nomen uerum aut
fallum, simplex verum significat.i. se ipsum: sed significare cum uero, eftfignificare
cum uerbi complexu ut de uerbo dicetur, significare cum tempore, notempus: ut dies
et annus sedlicethęc dubitatione relinquenda foret, cum id quærat, quodin Arift.textunoneft:tamenneaus
inmotibus pronunciatiuis, ideftquicaufafuntutper enung ciatiuam orationem pronuncientur,ueritasergoquacon
ditorum ingenia, obuiriau&oritatem fallantur, ponere& cipitur,aut
enunciatur aliquid ineffc alicui,folum circa con pofitionem &
diuifionemeft,utspeciesorationisenuncia tiuæ.dixieam ueritatem
circacompofitionem elle,quæ concipiturinmente, uelexplicaturinuoce,&
quaprædiy catuminesse subiectoaffirmatur:quoniam primotopic.4, loca accidentis
propriè dicuntur,quibus potentes fumus concludere hæc alteriineile:& ideo locaeducentia
uerum enunciative propofitionis dicuntur loca accidentis et veritatis qua aliquid
alicui in esse concipitur vel explicatur:Sci scitatursecüdo Ammonius cur
Aristotele dicens nomina igitur et uerba consimiliaíunteiqui sine compositione
et divisione est intelleclui exempla protulittantum nommun, non uerborum
dicens, ut “homo” vel “album”. Respondet per hominem nomen: per “album” verbum fumpfiffe:
non eata meninquitratione, qua verbum proprie inferius definitur. Sed quia
Aristotele statuit, omnemvuocem quæt erminum prædicatum facit, verbum appellanda.
Sed responsio hęc improbandauidetur: primum q Arift.nondieetinfraprę
refellereconstitui:non.n.Aristotele dicit compositionem cum uero aut falso significare:
sed ait circa. n. compositionem et divisionem elle veritatem et falsitatem. Item
de “hircoscervi” nomine afferuit. “Chircocervus” aliquid SIGNIficat, sed non dum
uerum aut falsum de nominibu sergoopposiy dicatumu erbum appellandum fore: quod
fictiam dices tum dicit eiquod Suellafingebat: nomina non significare ret, exemplum
albiquod posueratantea, adexplicandum uerum aut falsum, sed significare sine vero
aut salso: Eiusery uere uerbum, inutile videretur:Aliter igitur responden, gore
sponfioin textu Aristotele.infirmatur, cum denominibus dum. His exemplis dicta inchoantibus
comprobandaque compositis neget significare verum aut fallum: differentia etiam
abeo assignatauerbis Aristotele, adversatur Ampliu snec potuisset Aristotele dicere,
compositionem et diuisionem verum significare, na in compositio.i.affirmatio et
divisio.i.negay cumuerbonominibus:tamenutnotaprædicatumcuin ciosumerenturinuoce
quo infrade oratione enunciatiua dubieto connectens, dubiumfaciunt, anuerum &
failum dicetur. Litoratio significans verum vel falsum, &inqua fignificent,
signum est. Ammoniusetiam tanquam duy eftuerum& falfumutinfigno externo significante:nam
oratio in mente, non significate positione, ut hic intelli, bium quærit de uerbis
primæ et secundæ personæ “ambulO”, “ambulaAS” et in quibus tertia persona et certas
statuitur. Git SIGNUM est opde nominibus fimplicibu s& compofitis, line uerbo,
intulit dicens nomina igitur ipsa auteur bacó similia sunt fine compositione et
divisione intellecus. lt homo et album hircocervus quæ et si aliquid simplex significent,
non dum tamen uerum aut falsum hæc autem nomini in voce sunt, noninmente:
quiafiutinmēte essent, ut ningit. quæ veritatis et falsitatis videntur capacia.
Licet nonperfe, fedcomplexuhorumuerborum cũcertispery fonis.nonitadubium eft de
nominibus, dequibusinse acceptishæstat nemo, an veritatem significant aut falsitatem:
Quærit nouissime Ammonius quid intellexerit Aristotele. Per simpliciter, uel secundum
tempus cum ait. (hircocery considerentur, non dicerenturno significare uerum aut
falsum et q effent fimilia intellectui fine compositione& diy uifione: quiaessentipseintelle&us,seuintelligentiafineue
roautfallo: Dicendum igiturin questionem potiusuerten dumcurdixerit.(circac
compositionem.et divisionem, ut inmentesunt, est verum et falsumj denominibus autem
in uocecorolarieinferens,ait:(fineuerbonondum uerum uusenim
aliquidsignificat:fednondum uerumaliquid autfalsum, finon, ueleffeuelnonesseaddatur,uelfimpli
citeruel secundum tempus. respondet sermonem Arif. ad eadem referens verba, inquiens:
nifi effe addatur fimplicis ter,ideftnisi effe addaturindefinite et
indeterminate significans: ut “Fuit hircocervus” est, auterit. Non definiens, ac
determinansan hodie, sero, anmane, perendie etc. vel aut falsum significare. Ad
quod respondendum, quod fecundum tempus, ideftnifiaddatur cum aliqua determis
propterea vox quando eftfineuero&fallo, quandoque natione tempori addita præsenti,
præterito, uel futuro, cum his, quia circa compofitionem et divifionem intelle,
sciliceterat,eft,erit,herianno superiori, hodie uel cras, & us eftuerum
& falfum:ex quo intulit de nominibus in autsuccessiuotempore.quam
tamenexplicationemaci uoce, gfintfine uero, X fallo ex eadem causa, pfimiliasing
intellectui fine compofitione et divisione: circa quæuerum cipiens Magentinus uel
in latinum vertens non intellexit: cumpereffef smpliciter et omnino, in, finitoacdetermi
& falsum uersatur, ut caulam, quaposita, uerum aut falsum i ponitur. &
hac remota (ut in nominibus fineaddito uery natotemporeintelligat. Ad tempus uero
et in tempore infinito. tragelaphuserat, uel erit, hęc.n.infinitafunt: fed
bouidetur, quæ fimiliasuntintelligentięfinecompositio eft presentist emporis, aitdefinitumelle:l
iceteft,utdeDeo facilius conftitutam sententiam approbant verba aute in ut dicetur
quandam compositionem significant, quam licet ex se non habeant, sed ex alio, ex
compositis, scilicet dicitur infinitum significet: Idem Deus, erat, et est,
sed in aliis rebus, tempore non definite uti murita. Hinc liquet, igitur erunt:
quæ et fiacu et explicite verbii, prædicatum et subiectum ut nomina non contineant,
illata men eximigit, ergo et hic per tempus dimpliciter, tempus præsens, 8C per
secundum tempus præteritum vel futurum: quæ pros ptereanuncupantur et lunt, quere
tempus prælensciry cunstant, iuxtas; ipsum ponuntur: propterea dixit, secun
significat, quemadmodum in oratione quaestequus ferus. Ofitis et precognitis partibus
definitionis nominis ac nunc ad definitione sponendas integras ac totas accedit:
sed Ammonius querit cur primo de nomine ade verbo definis dum tempus quod non simpliciter
et ina et ueft. Sed quod.tionem assignet? respondet, proptere a nomen uerbo esse
præteriit uel futurum est: solum præsens simpliciter et in actuest utre et te. Aquinas
exposuit. Nec Sueffe confutatio ualet et que liber differentia temporis est tempus
secundu quid: quoniam per aliquid ab aliis differentiis differt: quod autemper partem
est, fecundumquid, non simplicitertas antepositum, qnomen substantiả.i. naturam
et vim rerum significat: verbum vero a&ionematqz affetionem, quænel Cellario
naturam acuimmouentem supponit. contraarguit Sueffa. substantia non nisi per accidentia
cognoscitur, prius ergo verbum definiendumq nomen: Ad instantiam, Am Icesse dicetur:
primo clenchorum. Sedĝfalla hæc fit monius facile diceret substantiam cognoscifine
describir improbatio patet, quiaens, cumin substantiamens simplisciter diuidatur
& accidens, inaĉtum simpliciter, et potens tiam secundum quid, ne quaquam uere
divideretur: quia per aliquid differ substantia ab accidente et potentia ab
aétu, &fi proprie differentiam non habeant. Item ratiofal lit. lihęc species
per aliquam differentiam acuprecipue differt, rrgo per partem. Igitur secundum
quid. accidenti aut posteriora accidentia vero per substantias definiri, ut priores:
fic Aristotele primo naturam quam motum finiuit, aquamotus, ut perseprincipio, prouenit:
& materiam primo phy..g formam. phy. quæ a materia cuiu nitur&
datellelustentatur, Aliteripse respndet, proptere a nomen uerbo prætulisle,
onotius est. Et iterbi feconuenire Arist. affirmauit, sed enunciationitantu: erunt
igitur enunciationes, cum enunciationis proprium opusef signum. sed compositionem
acueritatem comsignificat quan fician. Suellanouariis Sorticularumdi et tis et
improbatis sententiis, hocuisum est: literas et nomina quo ad prima eorumimpo fitionem,
non significare nidi in complexum, nec cum uero et falso: sed quod quo ad nova impositio,
nem, significare possunt cum vero et falso: propter eaqapo in compositione
explicare fine additouer bonó possunt. Dis fitione sunt. Nung tamen erunt
propositiones aut enuncia cas Querbumetsi compositionem extremorum aétu non
tiones: propter eanóualereait, a, significat cum uero aut dicat, a et tionem tamen,
et affectionem significat, quæ causa fallo, ergo enunciation erit. Quoniáin quit
oportetinantes est, qpredicatum seu appositúsubie &ofiue suppositocon
cedenteaddere. significet ex prima impositione, nonau iungatur, uerbum ergo lempereftunio
comiungens apritu temex nova institutione. Sed contrahancadditam conditio
dinesaltem cum in propositione non est. Sedcunsecundum nem ex proprio arbitrio.
Enuciatio prima impositiones isse, acpurú accipitur: nomina uero sunt composita,
seu quæ significat propriecum vero et falso. Ego ubi est proprium apta sunt pera
& tumuerbi coniungi, proptere a nomina pen opus, necessario propriumerit instrumentum:
neq; enima denta verbo, quasi formauniéte et verbiianoíe quasimai nova aliqua
institutione propriú opus a proprio inftrosen teria, qunici habetp uerbum. Ut
materiaaŭt, tempore pre iungipoteft: proptereafi. a. b. c, etc. novis aut
antiquis concedit forma, & prius,utfacilius& ordinenecessitatisnos Giliis&pofitioneimpositasunt,
ad verum et falsum, seu ut menanteafiniendu. Verbum vero, quniéda funt,
prçsuppo ipfi volunt cum uero et falso significandum. enunciationes nés, posterius
ut ignotius et the posterius explicandú: quas quando secundū se,
acpurumdicetur. Ipsum.n.sic purumi nullüueritatis et compositionis, aqua verum
explicatur, est dam, nonperse, sed quam sine compofitis nominibus non est
intelligere. Gi ergo hac de causa nomem præponit verbo, q notitia verbi in
compositione verum explicantis, non pont, intelligi sine nominibus compositis.
Ita et nomina, uerum illud, quod Ammonius, tempus simpliciter &
omnino, ponentium CONSILIO coplcctuntur. Exemplo simili Amm sus ideftindetinite
et indeterminate significans, appellabat, Ma, gentinus dicit esse tempus
finitum et determinatum. Et parsticula, quam Ammo. adom né temporis
differentiam rer pra, cum dicimus "curro", "curris", nin
git, pluit, complexuhorūuer borum cúcertis intelle&is personis, cú vero et
fallof sgnificant. ferebar, Magentinus ad solum præsens direxit. falsum igir. Keywords: il vestigio
dell’angelo, Campidoglio Inv. # 334, donazione di papa Gregorio, logicalia,
interpretatio, interpretazione, logica, signum, segno, nota, notare, notante,
segnante, notificare, segnante, vestigio, il segno del’angelo, campidoglio, san
michele, vestigo, etym. dub. ves-stigium, foot-print. – segno naturale – segno,
genere e specie – genere: segno. Specie: segno naturale, vestigio, marca, nota..
segno artifiziae, segnar per posizione, arbitrio, a piacere, consilio. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Balduino” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Banfi – Eurialo
e Niso; ovvero, la tradizione vichiana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Vimercati).
Filosofo Italiano. Grice: “What I like about Banfi is that he is more
‘important’ than it seems, at least to Italians! He has written bunches, but my
favourite are two: his ‘l’interpretazione’ (Banfi makes a distinction between
‘esegesi,’ ‘interpretazione’ and ‘TEORIA dell’interpretazione,’ in a slightly
non-Griceian use of ‘teoria’ – and his essays on ‘eros e prassi,’ for indeed
the second strand (eros e prassi) is the base for the former (interpretazione):
unless you CARE, why interpret – which is indeed, a performance?!” -- Antonio
Banfi seenatore della Repubblica Italiana LegislatureI, II Gruppo parlamentareComunista
CircoscrizioneLombardia Dati generali Partito politicoPartito Comunista
Italiano Titolo di studioLaurea in Lettere UniversitàUniversità Humboldt di
Berlino ProfessioneDocente. torico della filosofia, traduttore, accademico e
politico italiano. Fu sostenitore di un razionalismo aperto e antidogmatico in
grado di attraversare i vari settori dell'animo umano. A lui è intitolato
il Liceo Scientifico con Sezione Classica Aggregata del suo comune natale,
Vimercate. Antonio Banfi nacque a Vimercate, in provincia di
Milano, in un ambiente familiare formatosi su principi cattolici e liberali
della borghesia colta lombarda, nella quale da generazioni combaciavano una
moderna e positiva idea del cattolicesimo e un razionale illuminismo
tecnico-scientifico. La ricca e vasta biblioteca in possesso della famiglia
diventò per il giovane grande stimolo di conoscenza nei suoi studi, quando da
Mantova, dove frequentava il Liceo Virgilio, ritornava a Vimercate, dove
assieme alla famiglia trascorreva le vacanze estive. Nel 1904 incominciò
a frequentare i corsi universitari alla facoltà di lettere della Regia
Accademia scientifico-letteraria di Milano e ottenne, dopo quattro anni, la
laurea con lode, discutendo (con il relatore Francesco Novati) una monografia
su Francesco da Barberino. Incominciò a insegnare all'Istituto
Cavalli-Conti di Milano e contemporaneamente proseguì con grande determinazione
gli studi di filosofia (con Giuseppe Zuccante per la storia della filosofia e
Piero Martinetti per la teoretica); il 29 gennaio 1910 prese la seconda laurea
in filosofia, discutendo con Martinetti una tesi intitolata "Saggi critici
della filosofia della contingenza", contenente tre monografie sul pensiero
di Boutroux, Renouvier e Bergson. Con la borsa di studio attribuita
dall'Istituto Franchetti di Mantova ai laureati meritevoli, Banfi decise di
andare in Germania e iscriversi, con il suo amico Confucio Cotti, alla facoltà
di filosofia della Friedrich Wilhelms Universität di Berlino, dove strinse
amicizia con il socialista Andrea Caffi. Nella primavera del 1911 ritornò in
Italia e partecipò a vari concorsi, ottenendo una supplenza di Filosofia prima
a Lanciano, in seguito a Urbino; per molti anni assunse diversi incarichi in
varie sedi scolastiche. Banfi conobbe una ragazza, la contessa Daria
Malaguzzi Valeri, con la quale dopo poco tempo, il 4 marzo 1916, si unì in
matrimonio civile nel municipio di Bologna. Durante la guerra, già riformato al
servizio di leva, si dedicò con senso di servizio e scrupolosa diligenza
all'insegnamento e, per la penuria di insegnanti richiamati al fronte, oltre
alla sua cattedra fu costretto a ricoprire altri incarichi; solo agli inizi
dell'ultimo anno venne aggregato come soldato semplice all'ufficio annonario
della Prefettura di Alessandria. Nei primi anni del dopoguerra Banfi, pur
non militando nel movimento socialista, assunse in modo molto deciso posizioni
di sinistra e partecipò, come iscritto alla Camera del Lavoro,
all'organizzazione della cultura popolare, diventando in poco tempo una delle
personalità più in vista del mondo culturale democratico alessandrino; venne
nominato anche direttore della biblioteca di Alessandria, da cui fu in seguito
allontanato dal nascente squadrismo fascista. Nel 1925 fu tra i firmatari del
Manifesto degli intellettuali antifascisti, redatto da Benedetto Croce. Nel
1931 Piero Martinetti, che era stato collocato a riposo d'autorità per aver
rifiutato di giurare fedeltà al fascismo, lo propose come suo successore per
l'insegnamento della Storia della Filosofia all'Università degli Studi di
Milano, dove, a partire dal 1941, fu maestro di Rossana Rossanda. Diresse
la rivista Studi filosofici, pubblicata dal 1940 al 1949. Nel secondo
dopoguerra, con le elezioni politiche del 1948, fu eletto per le liste del
Partito comunista,nel Senato della Repubblica. Il mandato fu confermato alle
successive elezioni del 1953. Il razionalismo critico Magnifying glass
icon mgx2.svg Problematicismo. Antonio Banfi può essere considerato il maestro
della corrente filosofica che in Italia si è denominata Razionalismo critico e
che ha avuto anche derivazioni significative nel campo della pedagogia
teoretica con il Problematicismo. In sostanza, usando il concetto kantiano di
ragione, Banfi la considera come la facoltà di un discernimento critico,
analitico, presupposto trascendentale che sistematizza l'esperienza, i dati
empirici, non pervenendo a dogmi o a sistemi di sapere chiusi e assoluti. Il
principio razionale permette di cogliere e comprendere la realtà nelle sue
complesse determinazioni: senza questo principio, che va assunto appunto come
trascendentale, la realtà sarebbe caotica e solo contingente ed esperienziale
oppure interpretata secondo la Metafisica o sistemi di pensiero chiusi e non
problematici come richiesto dalla scienza e in generale dalla complessa
dinamica del mondo umano e naturale. L'apertura della ragione è talmente ampia
che anche le filosofie assolutizzanti vengono poste come possibilità di verità,
seppur parziali ("È bene tener presente che il pensiero non pensa mai il
falso in modo assoluto"). La filosofia è lo strumento indispensabile per
l'analisi critica del reale, non deve tendere a un sapere assoluto, ma porsi il
tema privilegiato della coscienza, purché questa coscienza sia "coscienza
della relatività, della problematicità, della viva dialettica del reale".
Si sfugge al relativismo possibile seguendo le orme di Socrate: l'eticità prevale
quando, non potendo esistere se non come tendenza verità assoluta, le verità
relative sono assunte come problema, cioè come ricerca interrogante e
incessante fondante l'intero processo conoscitivo. Le conclusioni sono, come
nell'ambito scientifico (la scienza è lo strumento pragmatico della ragione, la
filosofia lo strumento teoretico) non false ma possibili, non solo provvisorie,
ma reali. Le categorie che Banfi propone per sintetizzare la sua proposta
filosofica, sono quelle di "sistematica" del sapere, fondata su un
significato antidogmatico della ragione, una "sistematica" aperta per
il rinnovamento critico di tutte le strutture razionali e di un umanesimo
nuovo, radicale, che ponga l'uomo al centro dell'indagine razionale e nella sua
realtà storico-effettuale, che forma la sua coscienza concreta nel mondo reale:
dunque critica alla metafisica ma necessità della filosofia, il sapere
costruttivo garanzia di libertà e concretezza. Il confronto che Banfi predilige
è con gli indirizzi filosofici della prima metà del Novecento, in particolare
la Fenomenologia, il neokantismo di Marburgo, il neopositivismo,
l'Esistenzialismo, ma negli ultimi anni orienta sempre più il suo interesse al
Marxismo, di cui condivide gli assunti fondamentali leggendoli alla luce del
suo razionalismo critico, come si evince dalla raccolta postuma Saggi sul
marxismo editi nel 1960. Archivio Si segnalano tre fondi archivistici del
pensatore: "Fondo Antonio Banfi" presso la Biblioteca Panizzi
di Reggio Emilia. L'archivio, insieme con la biblioteca personale di Banfi,
dopo la morte del pensatore venne donato alla provincia di Reggio Emilia
insieme con la costituzione del "Centro studi Antonio Banfi”. In seguito,
il Centro si trasformerà in "Istituto Banfi", con sede a Reggio
Emilia. Nel, l’archivio e la biblioteca personale del filosofo sono stati
depositati alla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, a seguito di un accordo
tra Soprintendenza Archivistica per l’Emilia-Romagna, Comune e Provincia di
Reggio Emilia. La biblioteca conserva anche l'archivio di Daria Malaguzzi
Valeri e l’archivio delle carte di Clelia Abate, segretaria del Fronte della
Cultura e allieva di Banfi. Archivio "Antonio Banfi e Daria Malaguzzi
Valeri" presso la Biblioteca di Filosofia dell'Università degli Studi di
Milano. Il fondo archivistico contiene diverse centinaia di documenti
conservati da Daria Malaguzzi Valeri, moglie del filosofo, e da lei usati nella
stesura del libro Umanità, pubblicato nel 1967 per le Edizioni Franco di Reggio
Emilia. I documenti del fondo coprono l'intero arco di vita di Antonio Banfi ma
risultano particolarmente ben rappresentati gli anni giovanili; da segnalare
soprattutto il ricco epistolario con la futura moglie, riferito e la
corrispondenza con Piero Martinetti, durante la sua docenza presso la Regia
Accademia Filosofico Letteraria di Milano e poi dal suo ritiro di Spineto.
"Archivio privato familiare Antonio Banfi" conservato presso
l'Università degli studi dell'Insubria. Centro Internazionale Insubrico Carlo
Cattaneo e Giulio Preti, riunisce migliaia di lettere, biglietti, cartoline
postali, plichi e buste, conservati in 33 raccoglitori a loro volta inseriti in
15 buste, per una consistenza di circa 1,5 mi. Gran parte dell'archivio è
costituito dal carteggio tra Antonio Banfi e Daria Malaguzzi Valeri,
sposatisi Il rapporto epistolare con la
moglie, infatti, non si limitò alla sfera affettiva e familiare, ma affronta
spesso tematiche filosofiche (ad esempio, la frequentazione di G. Simmel durante
il giovanile soggiorno a Berlino, nel 1909-1911, o la ricezione dell'opera e la
personale conoscenza di E. Husserl) e di attualità, nella concretezza dei
riferimenti a eventi e circostanze del presente e ai rapporti sociali coltivati
da Banfi come pensatore, studioso, organizzatore culturale e uomo politico. Altre
opere: “La filosofia e la vita spirituale” – lo spirito, l’animo, vita, animo
vitale – (Milano, Isis); “Principi di una teoria della ragione” (Firenze, la
Nuova Italia); “Pestalozzi, Firenze, Vallecchi); “Vita di Galileo Galilei”
(Lanciano, R. Carabba); “Sommario di storia della pedagogia” (Milano, A.
Mondadori); “I classici della pedagogia: Rousseau, Pestalozzi, Capponi,
Gabelli, Gentile” (Milano, Mondadori); “Studi filosofici: rivista trimestrale
di filosofia contemporanea” (Milano); “Saggio sul diritto e sullo Stato, Roma,
Rivista internazionale di filosofia del diritto); “Per un razionalismo critico,
Como, Marzorati); “Lezioni di estetica raccolte Maria Antonietta Fraschini e
Ida Vergani, Milano, Istit. Edit. Cisalpino); “Vita dell'arte, Milano,
Minuziano); “Galileo Galilei” (Milano, Ambrosiana); “L'uomo copernicano,
Milano, A. Mondadori); “La crisi dell'uso dogmatico della ragione, Milano,
Bocca);:La filosofia del settecento, Milano, La Goliardica); “La filosofia
critica di Kant” (Milano, La Goliardica); “La filosofia degli ultimi
cinquant'anni, Milano, La Goliardica); “La ricerca della realtà” (Firenze,
Sansoni); “Saggi sul marxismo, Roma, Editori Riuniti); “Filosofia dell'arte”
(Roma, Editori Riuniti). Note
"Perciò appunto non ho dimenticato i tuoi interessi e sarei lieto
che fossi tu a succedermi, In questo senso ho scritto, richiesto da Castiglioni
stesso, che ora è preside, a Castiglioni. Ho consigliato lui e con lui la
facoltà ad accaparrarsi te per la F.[ilosofia] e Banfi per la St.[oria]
d.[ella] F.[ilosofia]"; Lettera n. 108 Piero Martinetti a Adelchi
Baratono, 21 dicembre 1931, in Piero Martinetti Lettere, Firenze,, Rossanda, Rossana, La ragazza del secolo
scorso, Torino, Einaudi, Vedi scheda del Senato della RepubblicaI
Legislatura. Vedi scheda del Senato
della RepubblicaII Legislatura. Cit. in
"Il marxismo e la libertà di pensiero", "Saggi sul
marxismo", Editori Riuniti, 1960, pag.152
A.Banfi, La mia prospettiva filosofica, in La ricerca della realtà,
Fondo Banfi Antonio, su SIUSA Sistema Informativo Unificato per le
Soprintendenze Archivistiche. 3 dicembre.
Centro Internazionale Insubrico Carlo Cattaneo e Giulio Preti per la
filosofia, l'epistemologia, le scienze cognitive e la scienza delle scienze
tecniche, su dicom.uninsubria. 3 dicembre.
G. M. Bertin, Banfi, Padova, MILANI, 1943 E. Garin, Cronache di
filosofia italiana (1900), Bari, Laterza,Bertin, L'idea di ragione e il
pensiero etico-pedagogico di Antonio Banfi, Roma, Armando, Papi, Il pensiero di
Antonio Banfi, Parenti, Firenze 1961. F. Papi, Banfi Antonio, in Dizionario
Biografico degli Italiani, Treccani. A.
Erbetta, L'umanesimo critico di Antonio Banfi, Milano, Marzorati, 1978. Antonio
Banfi tre generazioni dopo. Atti del convegno della Fondazione Corrente,
Milano, Il Saggiatore, Milano 1980. Roselina Salemi, banfiana, Parma, Pratiche, 1982. G.
Scaramuzza, Antonio Banfi. La ragione e l'estetico, Padova, Cleup, 1984 Luciano
Eletti, Il problema della persona in Antonio Banfi, La Nuova Italia, Firenze, Centenario
della nascita di Antonio Banfi, Reggio Emilia, Istituto Banfi, 1986. Livio
Sichirollo, Attualità di Banfi, Urbino, QuattroVenti, 1986. Francesco Luciani,
Incontro con Banfi, Cosenza, Presenze Editrice, Neri, Crisi e costruzione della
storia. Sviluppi del pensiero di Antonio Banfi, Napoli, Bibliopolis, Papi, Vita
e filosofia. La scuola di Milano: Banfi, Cantoni, Paci, Preti, Milano,
Guerrini, 1990 Paolo Valore, Trascendentale e idea di ragione. Studi sulla
fenomenologia banfiana, Firenze, La Nuova Italia, Scaramuzza, Crisi come
rinnovamento. Scritti sull'estetica della scuola di Milano, Milano, Unicopli,
Luciani, Polemiche della ragione. Gramsci, Banfi, Della Volpe, Cosenza, Arti
Grafiche Barbieri, 2002. Giovambattista Trebisacce, Antonio Banfi e la
pedagogia, Cosenza, Jonia editrice, Papi, Antonio Banfi e la pedagogia,
Cosenza, Jonia editrice, Chiodo G. Scaramuzza (a cura), Ad Antonio Banfi
cinquant'anni dopo, Milano, Unicopli, 2007. A. Vigorelli, La nostra
inquetudine. Martinetti, Banfi, Rebora, Cantoni, Paci, De Martino, Rensi,
Untersteiner, Dal Pra, Segre, Capitini, Milano, B. Mondadori, Giovambattista
Trebisacce, La pedagogia tra razionalismo critico e marxismo, Roma, Anicia,
2008. D. Assael, Alle origini della scuola di Milano. Martinetti, Barié, Banfi,
Milano, Guerrini, Sacaramuzza, Estetica come filosofia della musica nella
scuola di Milano, Milano, CUEM, Miele, Antonio Banfi Enzo Paci. Crisi, eros,
prassi, Milano, Mimesis,. M. Gisondi, Una fede filosofica. Antonio Banfi negli
anni della sua formazione, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,. A. Crisanti,
Banfi a Milano. L'università, l'editoria, il partito, Milano, Unicopli,. Maria Corti Antonia Pozzi Luciano Anceschi
Rossana Rossanda Pietro Bucalossi Piero Martinetti Scuola di Milano Altri
progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o
altri file su Antonio Banfi Antonio
Banfi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Antonio Banfi, su
siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le
Soprintendenze Archivistiche. Antonio
Banfi, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Opere di Antonio Banfi, su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. Opere di Antonio Banfi. Antonio Banfi / Antonio Banfi (altra
versione), su senato, Senato della Repubblica.
La morte a Milano del sen. Antonio Banfi articolo del quotidiano La
Stampa, Archivio storico. Massimo Ferrari, Piero Martinetti e Antonio Banfi, in
Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Marcello Gisondi, La formazione intellettuale e
politica di Antonio Banfi. Tesi di dottorato discussa presso l’Università
Federico II di Napoli (a.a. /) "Antonio Banfi a Milano", sito della
mostra allestita dal 22 maggio al 13 giugno
presso la Biblioteca di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano Filosofia
Università Università Filosofo del XX
secoloStorici della filosofia italianiTraduttori italiani Vimercate
MilanoAccademici italiani del XX secolo Direttori di periodici italianiPolitici
italiani del XX secolo Professori dell'Università degli Studi di Milano Antifascisti
italiani Senatori della I legislatura della Repubblica Italiana Senatori della
II legislatura della Repubblica ItalianaStudenti dell'Università Humboldt di
BerlinoTraduttori all'italianoTraduttori dal franceseTraduttori dal greco
all'italianoTraduttori dall'inglese all'italianoTraduttori dal latinoTraduttori
dal tedesco all'italiano. Antonio Banfi. Keywords. Eurialo e Niso; ovvero, la
tradizione vichiana; banfi — spirito vitale — storiografia filosofica —
istituto di storia della filosofia — ragione e conversazione — criticismo —
conversazione con hegel — personalismo — l’interpersonale — sovranità — lo
stato italiano — lo stoicismo romano — enea e marc’aurelio — acerrima indago —
diritto criminale — kantismo —Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Banfi” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Baratono –
stilistica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Grice:
“I like Baratono – especially his ‘stilistica italiana’ – if I were to offer an
English stylistics I would not count as a philosopher – but that’s because
‘English’ is spoken by more than Englishmen, while Italian ain’t!” Grice:
“Baratono thinks he is a sensist alla ‘Giovanni Locke,’ which he possibly is.” Grice:
“In the typical Italian way, instead of focusing on the classics – Roman
philosophy – he read sociology and psychology and came up, in a typically
Italian way, with a ‘sintessi,’ ‘la psicologia del popolo’ alla Wundt.” Grice:
“If Austin punned on sense and sensibility – Baratono takes ‘sensibilia’ VERY
sensibly – as the basis for ‘aesthetics,’ seeing that ‘aesthetikos’ IS
Ciceronian for ‘sensibile’.” – Grice: “Baratono is Griceian in his search for
what he calls the ‘elementary’ – he applies ‘elementary’ to ‘fatto psichico’:
judicativo e volitivo – both based on the ‘sensibile’ – or rather on
probability and desirability – credibility and desirability --. His use of
‘sense’ does not quite fit the Oxonian ‘sense datum,’ since the will is
involved in the sensibile – or, in his wording, it is the anima (or psyche)
that searches for the corpus -- -- The compound is something like the
hylemorphism – the form is sensible – and the volitive (prattica) and
judicative (teoretica) components of the soul operate on this.” -- Fra i maggiori esponenti del Partito
Socialista Italiano nel periodo fra le due guerre. Vive sin dalla giovinezza a Genova, dove
compie i suoi studi. Si laurea in filosofia. Insegna a Genova, Savona,
Cagliari, Milano. Baratono si iscrive al
PSI subito dopo la fondazione e viene eletto consigliere comunale a Savona,
aderendo all'ala intransigente in forte polemica con i riformisti. Entra nella
Direzione nazionale del partito. Alcune battaglie politiche lo vedono emergere
come figura di primo piano del socialismo italiano, come quella che Baratono
porta avanti capeggiando la frazione comunista unitaria al Congresso di
Livorno. L'accettazione con riserva dei 21 punti dell'Internazionale comunista
di Mosca determina la clamorosa scissione e l'uscita dei comunisti dal Partito Socialista.
Presenta al congresso la mozione massimalista. Diviene deputato. Confermato per
la terza volta membro della Direzione socialista, mentre la maggioranza
massimalista si orienta per la scissione dei riformisti, al Congresso di Roma sostiene
fortemente l'unità, anche per il timore dell'affermarsi delle forze fasciste.
Dopo il Congresso di Roma, aderisce al Partito Socialista Unitario e diviene un
assiduo collaboratore di Critica Sociale. Collabora al “Quarto Stato”. Con il
consolidamento del regime fascista, si dedica esclusivamente ai suoi studi
filosofici. Torna all'attività politica
all'indomani della Liberazione, con collaborazioni sull'Avanti! riprendendo i
suoi studi di critica marxista.
Note «Perciò appunto non ho
dimenticato i tuoi interessi e sarei lieto che fossi tu a succedermi, In questo
senso ho scritto, richiesto da Castiglioni stesso, che ora è preside, a
Castiglioni. Ho consigliato lui e con lui la facoltà ad accaparrarsi te per la
F.[ilosofia] e Banfi per la St.[oria] d.[ella] F.[ilosofia]». Lettera n. 108,
Piero Martinetti a Adelchi Baratono, 21 dicembre 1931, in Piero Martinetti
Lettere (1919-1942), Firenze,, Fonti Vittorio Mathieu, «BARATONO, Adelchi» in
Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 5, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1963. Altri progetti Collabora a Wikisource
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degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Adelchi Baratono, su Liber
Liber. Opere di Adelchi Baratono, su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Adelchi Baratono,. Adelchi Baratono, su storia.camera, Camera
dei deputati. Filosofi italiani del XX secoloPolitici italiani del XX
secoloAccademici italiani Professore1875 1947Nati l'8 aprile 28 settembre
Firenze Genova Politici del Partito Socialista ItalianoDeputati della XXVI
legislatura del Regno d'ItaliaStudenti dell'Università degli Studi di
GenovaProfessori dell'Università degli Studi di Genova Professori
dell'Università degli Studi di CagliariProfessori dell'Università degli Studi
di Milano. Critica dei valori ed estetica metafisica. Psicologia critica dei
valori e metafisica estetica. Carissimo Groppali. Nella tua pubblicazione dal
titolo Psicologia sociale e psic.collettira, trovo rammentato un mio articolo
(comparso nel quarto fascicolo del l'Archivio di Psic.coll.).con queste parole citato;
non posso fare comequel buon figliuolo di Renzo Tramaglino, che, a sentir dire
che la sua Lucia era una bella baggiana, per amor dell'epiteto lasciava passare
il sostantivo. Lasciami invece un po'brontolare contro la seconda parte del tuo
giudizio. E, quantunque in fatto di scoperte scientifiche nessuno si possa dire
assolutamente il primo scopritore, permettimi di dare al Sighele quelch' èdi Sighele,
ea me quelchesembramio. Per il nostro caso,
la scoperta piùimportante, acuisono giunti questi autori, è la semplice
constatazione del fatto, che gli atti estrin secanti la emozione d'un individuo
riproducono in altri individui ana loghe emozioni ed atti volontari. Ebbene: prima
e più completamente di quegli scienziati, Spencer e pervenuto alla medesima
legge con la sua teorica della simpatia; e per di più aveva spiegato il fatto
diquella suggestione con la ragione sociale, osservando che un atto emotivo non
puo suscitare nei pre senti un sentimento corrispondente se non vi fosse stata
l'esperienza propria o atavica che avesse associato quell'atto all'emozione
reale unitamente sofferta; trovandone perciò la genesi nella convivenza
sociale, per essere gl'individui associati sottoposti alle medesime cause di
piacere e dolore. Adunque io nel mio studio potevo passarmi di citare altre
teorie, oltre quella spenceriana, quando ridussi il fenomeno collettivo a
fenomeno simpatetico. E fin qui non ho fatto, nè ho detto di fare, nessuna
scoperta: ma soltanto ho applicato la legge spenceriana a un nuovo gruppo di
fatti, da Ini non considerati specialmente. Ripeto: io non ho sostenuto come
mia scoperta, ma ho soltanto accettato e meglio dimostrato, che il fatto
psichico del delirio collettivo ha per sostrato il giuoco delle emozioni e
rappresentazioni, cioè il fatto simpatetico. A questa domanda non puo
rispondere nè Sighele, che non è mai entrato nel campo della psicologia
generale, nè,c ome si sa, Spencer e gli associazionisti, che si contentavano di
descrivere il fatto, riducendolo a uno schema associativo,ciòche,come
spiegazione, ha ilvalore di una tautologia, senza svelarne il meccanismo, cioè
il rapporto fra gli elementi; né I materialisti, che ne davano una ipotetica spiegazione
anatomo-fisiologica, senza entrare nella pura psicologia. Dall'altraparte, rispondere
a quelle domande significa trovarele ragioni ultime e più generali del fenomeno
collettivo. Vale a dire, ridurlo completamente. Questo ho tentato io di fare;
di qui comincia il mio studio genuino. Me ne sono vantato? ho soltanto asserito
che tentavo di muovere un Sighele intui, che i fatti caratteristici della
emozione di una folla si possono ridurre a qualcosa di più generale, ov'entri
quella facoltà dell'imitazione, quella suggestione, con le quali altri avevano
spiegato il contagio morale; perciò egli, se mal non ricordo, senza nulla
aggiungere di proprio, si rifere alle teorie di Bordère, Ebrard, Jolly,Tarde,
Sergi, Espinas ecc. ecc. Ho dunque accettata una legge, o, meglio, ladescrizione
di un fatto generale, che si potrebbe enunciare cosi. In due individui associate,
A e B, la percezione degl’atti corrispondenti alle emozioni di alcuno destando
in altri la rappresentazione di piaceri o dolori analoghi, suscita piaceri o
dolori analoghi e gliatti corrispondenti. In questo enunciato c'è qualcosa di
mio. Ma non mi curo di metterlo in luce. Piuttosto ti rivolgo la domanda:
osservato il fatto, Spencer ne trova la ragione sociologica. Ma vi è qualcuno
che ne trova la ragione *psicologica*? Come una rappresentazione emotiva può
diventare un'emozione attuale, condizione e stimolo di atti volontari? Passo
nel cammino della psicologia collettiva. Tu puoi scusarmene, perché conosci il
tripudio di chi lavora per la scienza, che oggi è ancor l'unica nostra
ricompensa. Adunque il rimanente studio, la risposta a quella domanda è mio. Mio
nelle premesse, che si riferiscono al saggio, “I fatti psichiri elementary”,
dove dimostro che la legge più generale della psiche è data dalla serie dei
fatti emotivo -conoscitivo -volitivo, quando si consideri questa come
l'espressione di un rapporto, per cui il primo termine rappresenta l'energia
determinante degli altri. Mio nell'applicazione al fenomeno collettivo, dove le
multiple rappresentazioni emotive devono agire sopra ognuno degli individui
come altrettante emozioni reali attenuate, ma accumulate sulla prima; onde
l'esaltazione propria della folla. Tutte queste tesi sono diverse da quelle
sostenute e dall'intellettualismo e dal volontarismo. Epilogando: Sighele
giunse a ridurre il fenomeno collettivo a un fatto generale enunciato come
legge; e Spencer da la spiegazione sociologica di questo fatto. Ma, perchè vi
fosse una spiegazione *psicologica*, bisogna aver trovato non solo
l'associazione, ma anche il rapporto tra gli elementi associati; il quale
rapporto di dipendenza, cioè di condizione e stimolo, dove, per ridurre completamente
quel fenomeno, coincidere col rapporto o legge più generale della psiche.
Questo ho cercato difare: e, poi che in modo particolare avevo stabilita la
serie dei fatti psichici veramente elementari e il loro rapporto, cio è la
legge psicologica generale, anche particolare, dove riuscire l'inferenza al
fenomeno collettivo. Non posso, egregio e carissimo amico, riassumere in poche
pagine quello che, a giudizio mio ed altrui è già troppo strettamente riassunto
ne'miei saggi. A te, che liconosci, e che possiedi un forte ingegno intuitivo,
basta questo richiamo; e spero che ti persuaderai, che Sighele restaugualmente
uno de'nostri migliori scienziati, anche senza regalare a lui, che non ne ha
bisegno, quelle due o tre pagine con le quali si termina il mio saggio. Spero
ancora più fervidamente, che tu non mi dia del noioso e del l'immodesto per
questa mia lettera, e che sempre mi creda il tuo. Adelchi. Nacque a Firenze
dove il padre, Alessandro, originario di Ivrea, si era stabilito dopo il
trasferimento della capitale del regno da Torino. La madre, Ermelinda Rossi,
era fiorentina. La famiglia si fissa definitivamente a Genova, e compiuti gli
studi classici, frequenta l'università, addottorandosi in lettere e in
filosofia. Suo principale maestro fu Asturaro, del cui indirizzo sociologico B.
risentì nei suoi primi lavori (Sociologia estetica, Civitanova Marche; Sul
problema religioso,in Riv. ital. di sociol.), così come, successivamente, sube
l'influsso di Morselli e delle sue lezioni di psichiatria. I suoi interessi
psicologici sono documentati in questo periodo da numerose pubblicazioni (I
fatti psichici elementari, Torino; Sulla classificazione dei fatti psichici, Bologna;
Energia e psiche, in Riv. di filos. e scienze affini). Psicologia e sociologia
venivano, poi, naturalmente a fondersi in una wundtiana psicologia dei popoli (Sulla
psicologia dei popoli, Genova), permeata di una filosofia scientificamente
concepita. Questo movimento culmina nei Fondamenti di psicologia sperimentale
(Torino), che risentono ancora dell'influsso positivistico, nella ricerca di
una filosofia scientifica, ma cominciano, al tempo stesso, a rivelare la sua originalità
filosofica. Contemporaneamente coltivava il proprio gusto estetico frequentando
i circoli letterari, le mostre di pittura, i caffè degli artisti. Pubblica un
volumetto di versi (Sparvieri,Genova, con acqueforti di Edoardo De Albertis),
che sarà seguito da altre poesie (Lettera - Notturno - Congedo), articoli
letterari e frammentarie commedie, comparsi generalmente in Riviera
ligure. Questo duplice interesse, psicologico, ed estetico, accompagna il
filosofo per tutta la vita, ma non senza trasformarsi radicalmente,
dall'originario positivismo, in una personale forma di sensismo, dove tornavano
a incontrarsi il significato etimologico e il significato moderno della parola
"estetica". L’anno del congresso internazionale di filosofia di
Bologna, a cui B. partecipa - egli, che l'anno prima aveva celebrato I funerali
del positivismo italiano (in Lavoro nuovo), pubblica la Psicologia sintetica, in
cui l'aspetto filosofico e quello scientifico-sperimentale della ricerca erano
nettamente divisi, e la psicologia venne assegnata al secondo. Conseguita
la libera docenza, tenne corsi e conferenze all'università di Genova - oltre
che all'università popolare - prendendo a interessarsi del problema pedagogico,
strettamente congiunto con quello politico. Quattro Discorsi sull'educazione
furono da lui riuniti in un volumetto, e alcuni anni dopo uscì la sua opera
fondamentale in materia: Critica e pedagogia dei valori (Palermo). Dalla
politica si er sentito attratto. Le sue convinzioni etiche lo indussero a
militare nelle file del socialismo; tuttavia, anche nell'attività politica,
egli conserva quell'atteggiamento aristocratico e leggermente distaccato che lo
caratterizzava sul piano culturale, ciò che tolse mordente alla sua azione. Per
le elezioni amministrative, redasse in collaborazione con Gennari un ordine del
giorno, votato poi all'unanimità dal Consiglio nazionale del partito, dove si
dichiara che dei comuni ci si doveva impadronire per parálizzare tutti i poteri
e tutti i congegni dello Stato borghese, allo scopo di accelerare la
rivoluzione proletaria. Rispetto alla rivoluzione russa, si pronuncia contro
l'accettazione senza riserve delle ventuno condizioni poste da Mosca per
l'adesione alla Terza Internazionale, ma e messo in minoranza nella riunione
della direzione. Cerca inoltre di evitare ogni scissione a sinistra, anche a
costo dell'espulsione dei riformisti, che rappresentavano l'ala destra del
partito: questo suo punto di vista, sostenuto prima e durante il congresso di
Livorno, trova tuttavia la via sbarrata dal successo degl’unitari. Dalla sua
dirittura morale e portato all'intransigenza. Antimassone, respinge
l'anticlericalismo di maniera, auspicava la libertà dell'insegnamento. Turati ha
a definirlo "il filosofo della direzione del partito". Eletto
deputato nella legislatura, sedette al parlamento, ma l'avvento deli fascismo
lo costrinse ad abbandonare l'attività politica (nella quale rientrano anche
scritti come Le due facce del marxismo italiano, Milano e Fatica senza fatica, Torino).
Più fortunata divenne, a, questo punto, la carriera universitaria. Titolare a
Cagliari, si occupa, tra l'altro, di Problemi universitari (Mediterranea) e
vagheggia un progetto Per la riforma della facoltà filos. (Atti della Società
ital. per il progresso delle scienze), che fu combattuto dal Gentile (Giorn.
crit. d. filos. Ital.). Passa a Milano, sulla cattedra di P. Martinetti (che si
era ritirato per non prestare giuramento) e torna all'amata Genova,
stabilendosi sulla riviera di Sant'Ilario. Qui riceve volentieri i suoi
studenti e colti visitatori, attratti da una fama, che, specialmente dopo la
pubblicazione di Arte e poesia (Milano), si estese oltre la cerchia dei
filosofi di professione. Riprese l'attività politica negli ultimi anni,
soprattutto in forma di collaborazione a giornali e di rielaborazione di vecchi
scritti di critica marxista. L'ultimo articolo, L'etica dell'economia marxista,
uscì sull'Avanti! alla vigilia della morte. Al suo nome è intitolato l'istituto
universitario di magistero di Genova. La sua prima formulazione
pienamente matura della filosofia può essere considerata il volume Il mondo
sensibile, introduzione all'estetica (Messina), preparato da alcuni degli
scritti raccolti in Filosofia in margine (Roma); in esso si vuol raggiungere la
"prova esistenziale" della spiritualità del contenuto sensibile.
Contro l'impostazione gnoseologica che soggettivizza il mondo, propugna
un'impostazione estetica che vede nel mondo sensibile, preso per se stesso,
"la forma dell'esistenza". Tale dottrina fu chiamata
"occasionalismo sensista", in una comunicazione alla sezione
piemontese dell'Istituto di studi filosofici
(Per un occasionalismo sensista, in Concetto e programma della filosofia
d'oggi, Milano). La denominazione esprime l'intento di "riflettere sulla
pura forma invece di prenderla quale rappresentazione di altro (soggetto od
oggetto) posto come un contenuto irreducibile a quella forma. L'esperienza
estetica ci mostra che un'ide a pura esiste come forma pura,
sensibilmente, e che questa forma sensibile vale per sé, in un rapporto formalmente
sentito con certezza, che diciamo verità. Ciò costituisce un valore sensibile
direttamente, diverso sia dal valore del sensibile (che rappresenta il valore
specificamente teoretico) sia dal valore del sentimento (che rappresenta il
valore pratico). L'esserci sensibile interessa il pensatore o l'uomo pratico
solo come ostacolo da superare, ma riempe di meraviglia chi guarda il mondo con
gli occhi spalancati sol per la gioia di vedere, e così ne può apprezzare la
bellezza. Queste idee sono esposte in Arte e poesia,e messe alla prova non solo
a contatto con estetiche come quelle di Burke e di Focillon, a cui iscrisse
introduzioni (Milano), ma con la stessa opera poetica, per es. di un Verlaine,
di cui ripubblica in Italia una raccolta di Poesie, conintroduzione (Milano).
Arte e poesia si conclude con una "apologia della forma", la quale
sembra a torto imprigionare lo spirito e limitare il valore solo perché, in
realtà, lo determina e lo realizza. Rovesciando l'istanza idealistica, secondo
cui il valore sta in un'unità spirituale che si riduce a un'esigenza
puro-pratica, a una rappresentazione di ciò che non è, dichiara che l'anima
cerca il corpo, non viceversa, che lo spirito cerca la forma, la filosofia la
poesia. Sicché il valore non appare più la premessa indimostrabile di ogni
esistenza, ma il risultato intuitivo della stessa forma sensibile.
Bibl.: F. Della Corte, A. B., in Genova, Sul B. Ipolitico: F. Meda. Il
Partito Socialista Italiano dalla Prima alla Terza Internazionale, Milano, I
deputati al Parlamento per la legislatura, Milano, M. Carrea, Per una filosofia
del socialismo, in Osservatorio, Genova, Nenni, Storia di quattro anni, Roma, Tasca,
Nascita e avvento del fascismo, Firenze, Turati-A. Kuliscioff, Carteggio.
Dopoguerra e fascismo, a cura di A. Schiavi, Torino, vedi Indice. Inoltre per
alcuni scritti del B., in Critica Sociale, degli anni 1923-24, vedi Critica
Sociale, a cura di M. Spinella, A. Caracciolo, R. Amaduzzi, G. Petronio, III,
Milano, Indici, a cura di M. T. Lanza. Sul B. filosofo, oltre l'esposizione del
proprio pensiero fatta da lui stesso in Il mio paradosso, in Filosofi ital.
contemporanei, Como, Milano, cfr. U. Spirito, L'idealismo ital. e i suoi
critici, Firenze, Volpe, Crisi dell'estetica romantica, Messina, Sciacca, Il
secolo XX, Milano, Faggin, Il formalismo sensista di A. B.,in Riv. crit. di
storia d. filos., Assunto, B. e
l'estetica moderna, in L'Italia che scrive, Bertin, L'estetica di B.,in Studi
filosofici, Bontadini, Dall'attualismo al problematicismo, Brescia, Talenti, A.
B., Torino (con bibl.). Adelchi Baratono.
Keywords: stilistica, breviario di stilistica italiana, fatto psichico
elementare, i fatti psichici eleentare, psicologia filosofica, illuminismo,
implicatura luminaria, implicatura escataologica, politica ed etica, la
filosofia al margine: gentile, croce, natura umana, esperienza, il mondo
sensibile, estetica, il bello, il sublime, criticismo, assiologia, hume a
Cremona e torino, spirito, animo, forma logica, l’eneide, riviera ligure,
“Rivera Ligure”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baratono” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Barba –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Gallipoli). Filosofo italiano. Grice: “I
like Barba, but then I like Gallipoli – and he was born and died there, at
Villa Barba. His main interest was Roman philosophy, which he studied at
Naples! – The Roman occupation in Southern Italy brought ‘a breath of fresh
air,’ as Barba has it, to the old “Grecia Magna” tradition --.” Grice: “Barba
is very clear: ‘Epigrafia filosofica latina,’ o ‘epigrafia filosofica romana’
surely ain’t Grecian!” -- Figlio di Ernesto,
conduce gli studi a Gallipoli, per poi trasferirsi a Napoli presso il zio,
Tommaso Barba. Tommaso Barba e presidente della Gran Corte. Studia grammatica e
materie letterarie nella scuola di Puoti. Si laurea in Filosofia. Studiare nel
R. Collegio Cerusico e divenne professore di anatomia umana comparata. Insegna
scienze e lettere al ginnasio di Gallipoli e fu sovrintendente scolastico ed
Assessore delegato alla Pubblica Istruzione.
Fu arrestato ed esiliato a causa delle resistenze al governo. I membri
dell'Associazione Democratica posero una scritta: "Nato dal popolo, Per il
popolo si adoperò". A lui fu intitolato il Museo civico di Gallipoli. Note
AnxaEmanuele Barba, su anxa. 21 aprile
13 ottobre ). Scheda sul sito del
Museo Emanuele Barba. Filosofi. Emanuele Barba. Keywords. epigrafia latina,
iscrizione latina, iscrizione greco-romana, la iscrizione di Platone sulla
porta dell’academia, ageometretos medeis eisito, Delville pittore belga
(Libert), a Italia crea ‘L’ecole de Platon,’ per la Sorbonna. I vasi di Barba – gemelli, fratelli siamesi,
ecc. Monete romana, Gallipoli, colonia romana, ‘Proverbi e motti del popolo
gallipolino” – poesie di Barba sulla morte del re d’Italia, risorgimento –
esilato, carcere – la filosofia di Barba, barba filosofo. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Barba” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Barbaro – il
Daniele – filosofia italiana – filosofia veneziana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo. Grice:
“This can be confusing to Oxonians, althou we are familiar with the Hanover
dynasty! Daniele Barbaro, a faitehful nephew, commented on his uncle’s, Ermolao
Barbaro’s, ‘translation’ of Aristotle’s rhetoric – I shouldn’t even be saying
this since it’s implicated in the title where Ermolao features as ‘interprete,’
and the ‘commentarium’ is due to Daniele.” Grice: “On top, Daniele wrote about
‘eloquenza,’ but his comments on his uncle’s vulgarization into latin of
Aristotle’s vulgar-greek (koine) rhetorica – is perhaps more Griceian – since
there is little conversational about Daniele Barbaro’s ‘eloquenza,’ while the
rhetoric (or ‘rettorica,’ as he prefers) is ALL about ‘dialettica’ and
dialogue!” -- Daniele Barbaro patriarca
della Chiesa cattolica Portret van Daniele Barbaro Rijksmuseum SK-A-4011.jpeg
Ritratto di Daniele Barbaro, attorno al 1561-1565, opera di Paolo Veronese,
presso il Rijksmuseum di Amsterdam Template-Patriarch (Latin Rite) Interwoven
with gold.svg Incarichi ricopertiPatriarca
di Aquileia. Nato 8 a Venezia Nominato patriarca 17 dicembre 1550 da papa
Giulio III Deceduto13 aprile 1570 (56 anni) a Venezia. Ritratto da Paolo
Veronese, 1562-1570 (Firenze, Palazzo Pitti)
Villa Barbaro a Maser Pratica
della perspettiva, 1569 È noto soprattutto come traduttore e commentatore del
trattato De architectura di Marco Vitruvio Pollione e per il trattato La
pratica della perspettiva. Importanti
furono i suoi studi sulla prospettiva e sulle applicazioni della camera oscura,
dove utilizzò un diaframma per migliorare la resa dell'immagine. Uomo colto e
di ampi interessi, fu amico di Andrea Palladio, Torquato Tasso e Pietro Bembo.
Commissionò a Palladio Villa Barbaro a Maser e a Paolo Veronese numerose opere,
tra cui due suoi ritratti. Daniele
Matteo Alvise Barbaro o Barbarus fu figlio di Francesco di Daniele Barbaro ed
Elena Pisani, figlia del banchiere Alvise Pisani e Cecilia Giustinian. Suo
fratello minore fu l'ambasciatore Marcantonio Barbaro. Barbaro studiò
filosofia, matematica e ottica all'Padova.
Fu ambasciatore della Serenissima presso la corte di Edoardo VI a
Londra, dall'agosto 1549 al febbraio 1551, e come rappresentante di Venezia al
Concilio di Trento. Nipote del patriarca
di Aquileia Giovanni Grimani, fu suo coauditore nella sede patriarcale di Aquileia.
Venne promosso in concistoro a patriarca "eletto" di Aquileia
(coadiutore), con diritto di futura successione, ma non assunse mai la guida
del patriarcato perché morì prima dello zio. All'epoca tale carica era quasi
una questione di famiglia per i Barbaro, infatti furono patriarchi di Aquileia
ben 4 Barbaro. Ermolao Barbaro il Giovane, patriarca di Aquileia dal 1491 al
1493, Daniele Barbaro, patriarca di Aquileia, Francesco Barbaro, patriarca di
Aquileia dal 1593 al 1616, Ermolao II Barbaro († 1622), patriarca di Aquileia
dal 1616. Fu forse nominato cardinale in pectore da papa Pio IV nel concistoro
del 26 febbraio 1561 e mai pubblicato.
Solo i Grimani, con cui erano imparentati, occuparono più volte il
patriarcato (ben sei). Partecipò a varie
sedute del Concilio di Trento a partire dal 14 gennaio 1562 fino alla sua
chiusura. Atre opere: commentarii di Aristotele Retorica del suo pro-zio
Ermolao Barbaro il Giovane (Venezia); Compendium scientiae naturalis di Ermolao
Barbaro il Giovane (Venezia); Commento sull’archittetura d Vitruvio, pubblicato
col titolo “Dieci libri dell'architettura di M. Vitruvio” (Venezia). Di essa
pubblica anche una versione in latino intitolata M. Vitruvii de architectura,
(Venezia). Le illustrazioni sono realizzate da Palladio --; un trattato sulla
geometria, prospettiva e scienza della pittura, La pratica della perspettiva (Venezia);
un trattato sulla costruzione delle meridiani, “De Horologiis describendis
libellus” (Venice, Biblioteca Marciana, Cod. Lat. VIII, 42). Più tardi si
scopre che il testo del Barbaro affronta la tecnica di strumenti come
l'astrolabio, il planisfero, il bacolo, il triquetrum, e olometro di Abel
Foullon. Cronache, probabilmente riprese da Giovanni Bembo nella Cronaca Bemba.
Aurea in quinquaginta Davidicos Psalmos doctorum graecorum catena interpretante
Daniele Barbaro electo patriarcha Aquileiensi, Venetiis, apud Georgium de
Caballis. Note La pratica della perspettiva, 1569,
consultabile online (testo italiano + tavole originali) Giuseppe Trebbi, Barbaro Daniele, in Nuovo
Liruti: dizionario biografico dei friulani. 2: l'età veneta. A-C, Forum
editrice universitaria, Udine 2009374
Eubel, Hierarchia Catholica Medii et Recentoris Aevi, III39, che cita
gli Acta camerarii 9, f. 37 e gli Acta vicecancellarii 8, f 7 Louis Cellauro, Daniele Barbaro and Vitruvius:
the architectural theory of a Renaissance humanist and patron, Papers of the
British School at Rome, 72 (2004),
293–329 Pio Paschini, Daniele Barbaro letterato e prelato veneziano del
Cinquecento, Rivista di storia della chiesa in Italia, Władysław Tatarkiewicz,
History of Aesthetics, III: Modern
Aesthetics, edited by D. Petsch, translated from the Polish by Chester A.
Kisiel and John F. Besemeres, The Hague, Mouton, 1974. Daniele Barbaro, Pratica
della perspettiva, In Venetia, appresso Camillo, & Rutilio Borgominieri
fratelli, al Segno di S. Giorgio, Robert Devreesse, La chaine sur les psaumes
de Daniele Barbaro, in Revue Biblique, Giovanni
Mercati, Il Niceforo della Catena di Daniele Barbaro e il suo commento del
Salterio, in Biblica, Storia della
fotografia Villa Barbaro. Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Giovanni Vacca, Daniele
Barbaro, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Daniele
Barbaro, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Giuseppe Alberigo, Daniele Barbaro, in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Daniele Barbaro, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Daniele Barbaro,. David M. Cheney, Daniele
Barbaro, in Catholic Hierarchy. Daniele
Barbaro, su museogalileoMuseo Galileo, Firenze. 21 ottobre. Daniele Barbaro
(15141570), su mathematica.snsEdizione Nazionale Mathematica Italiana, Pisa,
Centro di Ricerca Matematica Ennio De Giorgi. 21 ottobre.Salvador Miranda,
Barbaro, Daniele Matteo Alvise, su fiu.eduThe Cardinals of the Holy Roman
Church, Florida International University. PredecessorePatriarca di
AquileiaSuccessorePatriarchNonCardinal PioM.svg Giovanni Grimani17 dicembre
155013 aprile Aloisio Giustiniani Umanisti italiani Nati Venezia
VeneziaBarbaroPatriarchi di AquileiaAmbasciatori italiani. DELLA ELOQUENTIA,
DIALOGO. INTERLOCVTORI: L'ARTE, LA
NATVRA, ET L'ANIMA. R. IO VORREI VOLENTIERI Natura, che noi disputassimo insieme,
se però l'ufficio del disputare alla tua conditio nesi conuenisse. NAT. Il disputare
é cosa da te ò arte, figliuola mia. Ma se à me stesse l'ammaestrarti, di presente
direi, che tra il tuo intendimento, o il mio, alcuna differenza non fusse, da
che dentro ti venija se il contender meco. AR. Al almeno desidero tale
occasione. NAT. Vano, o dannoso desiderio é il tuo, si perche io non sono
mai ociosa, come perche tu sempre dei non mes no abbracciare il bene che
cercare la verità delle cose. AR. Niena te più migioua, che il bene, ne che il
vero più mi diletta. NA. In questo almeno tu m’assomigli, che ouunque sia,
ch'io mi ritrdovi, il vero sono, o il bene di ciascuna cosa. AR. si, ma tu alla cieca ne vai, e io di tanto amo ogn'uno,
che con deliberato consiglio, o anati veduto fine faccio, lo difar bene. NAT.
Emmipur manifesto che la tua grandezza è di nascondere te stessa quantopuoi, o
di accoltarti à me. AR. Questo é, maciò aviene, perche tu prima di me al mondo venisti,
o gli huomini a’ tuoi piaceri adulasti, innanzi ch'io ci nascessi; o questa mia
imitatione non ti accresce dignitade alcuna. Percioche, nella formica vile
animaluzzo e più degna, nell’huomo meno onorato, ancor che questo quella
imitando, l'estate per lo verno ſiproueda. La mia industria, o natura, fa
maggiore il tuo povero patrimonio. NAT. Che accrecimento farebbe ella, se io
non ti lasciassi che accres cere? Tupure, se uuoi, ben sai, che ogni opera presuppone
il soggetto, senza il quale nulla si può fare. Que so da me, non da te procede.
Oltra che appresso giusto giudice il secondo. A secondo luogo, non che il
primo, ti faria denegato. AR. Giusto à tua scelta intendi colui, che te à me
anteponga; ma nonſai che per la età molto ti concedo. NAT. E'mipiace di
ragionare an poco tea cosopra questa materia, poi che tant'oltra procedutaſei,
che di te con buona equità midolga. Dicoti adunque, che in ordine di onoranza
ne prima ſei, né ſeconda. Ar. Chi adunque à noi ſopraſta? NAT. Chi ne fece
ambedue é il primo senza mezo dalui nace qui. Tu doppo me sei. NAT. Adunque
mentono coloro che affer mano, te effer madre uniuersale, poi chetu ſteſſa non
nieghi eſſere d'altruifattura? NAT. Ad un modo io ſono madre,ad un'altro
figlia. A R. Adunque di te coſa picprestante ſi truoua? NAT. Chi ne dubita? Ma
io per eſſere å gliumaniſentimenti vicina, tutta fiata ſon preferita. AR. Hai
tu conoſcimento di fine alcuno? NAT. Certo no; ma nel gouerno del tutto io ſon
drizzata, e quafi addeſtrata dalpadre mio. AR. In che dunque é ripoſta queſta
tud gloria? NAT. Tanto potente, ſaggio, w buono é il mio fattore, che la ſua
gloria in me mirabilmente ſoprabonda. AR. Sommi più voltemarauigliata di
coteſta tua occulta uirtù, dalla quale tu ſei cosi gentilmente
guidata.jpelefiate mi è uenuto in animo di cre dere che ella forſe habbia
potere di trar mead imitarti diforza; ergo però diſcorrendo,etpiù dentro
penetrando, bo giudicato eſſere gran famiglianza tra quelprincipio, che ti
muoue, &me, ondeper la ſea creta uirtu,non tua,io mi muouo ad operar come
tu fai. Ma poi mi pare,che,ſe il diſcorrere l'ordinare,e il ridurre àfine le
coſeantiue dute, è ufficio mio,io ſia inanzi di teſtata nel Cielo appreſſo il
padre tuo, che egli habbia l'opera mia uſata in generarti ò produrti NAT. In
altra guiſa io faccio le coſe mie tule tue, di quella del fattor noſtro,
chenehafatte, & create.Però guardati dinon giudi care troppo animoſamente
le coſe, figurando le inuiſibili, & occulte per le uiſibilio manifeſte. Ma
perchecosi agramente mi condane ni? ſe in qualunque modo tu uuoi per le coſe
già dette chiamar mi, ò madre, è figlia, o ſorella, ó amica ſeisforzatadi
nominarmi? no mi tutti di congiuntione, amicitia, oſtrettezza. Egli non ſi uuol
có. si correre a furia. AR. Non ti adirare ó Natura, che io non ho contra te
mal uolere, né il finemio é ſtato cattiuo, anzi per lo tuo ef faltamento ho
uoluto raffrenare la mia credenza, che era di ſapere con qual calamita io
tirata fußi ad operare come tu fai,e mi uenu to ben fatto per lo ragionamento, che
éftato fra noi, perche hauen do noi do noi ritrouata l'origine del noſtro
naſcimento, ſiamoſicuré della no ftra nobiltà, come quella checon la eternità
ſipareggi,o dal primo fattore d'ogni coſa proceda. Ma ben mi duole, & per
queſto ti ho chiamata,cheà molte ſciagure ſia la grandezza mia ſottopoſta.Et
quanto maggiore è lo stato mio, tanto àpiù pericoli mi ueggio eſſer ſoggetta.
NAT. Quai ſciagure, oquai pericoliſono queſti? AR. Saper dei Natura, madre mia,
che in tutte le parti delmondo mi truouo hauer molti miniſtri,de quali neſono
alcuni,chemifanno una gran uergogna, a oltre à ciò miſono di danno infinito, o
per lor cagione io ne ſento male. Perche non indrizzando me al debito fine,
anzifieramente in abuſo ponendomi, come buona, utile, oono reuole cheio
ſono,rea,dannofa, & uituperabilemifanno. Ondegli huomini per mezo mio
ingannati da loro, certi de' loro danni, main certi di chi la colpaſiſia,
s'accendono d'ira contra dime, à guiſa di co loro,che le ſpade,o non
glihomicidi punir uoleſſero. NAT. Tu non ſei ſola nelmale di si fattioltraggi,
tutto'l dime ne uengono afe ſai. Percioche producendo io ogni coſaà beneficio
della vita di chi ci naſce, moltiſciagurati epieni dimal talento, maleufando
l'arti ficio loro,empiono iltutto diconfuſione, auelenando, uccidendo,in,
gannando, eoffendendoſenza riguardo alcuno; e chi ode o xede taliſceleraggini,
maledice ogni mia fattura. AR. Duraper certo ėlaforte noſtra,però che il uolgo
cieco, &ignorante non ſa,chereo non è quello, che in bene uſar
ſipuote.Maper uer direzio poco mi marauiglio, ſe il ueleno auelena,ò il
ferrouccide, ma ben grandeam miratione miporge,quädo il cibo, di cuiſiuiue,cosi
ſpeſſo in cattiuo umore ſi conuerte,che alla morte conduce. Et ciò dico à
fine,chetu Sappia quantoiogiuſtamente mi dolga,che lapiù pretiofa parte,che
tupergratia del tuo fattoreall'huomo cõcedi conla quale egli poſ fan debbia
altrui eſſere d'infinito giouamento, cosi ad offeſa Sia, ex à danno preparata,
che niente più. NAT. Chié quelmaluagio Oingrato,che tal coſa ardiſca di fare? AR.
L'Anima, o la più diuina parte di lei. NAT. Perseguitiamola dunque, o facciamo
la citare dinanzi al tribunal diuino, Voglio, che ella dica la cauſa ſua. AR.
Ma prima uoglio,che infingendo noi con eſſo lei,tanto la prendiamo che ella
dica à noi ogni ſuaeſcufatione. NAT. Né la giuſtitia del Giudice, né la uerità
del fatto, nela tua dignità ricerca tale inganno,eſſendo quello ſincerißimo,la
coſa uerißima, otu quel la,che del medeſimo errorej, del quale ſei per
riprender lei, puoi eſ A 2 Ser accufatd. A R. Ben di..Ma io altrimenti non
ſonouſata difure. Ma eccoti queſta ingrata,che di molte parti, et eccellenti
doni da noi dotata d'alcuna gratia,che futta le habbiamo,non ſi ricorda,contre
mecon me fteſa,o contra te per li beni, che dato le hai, altiera ſi lieua.
Aſcoltiamola alquanto. ANIMA. Iddio vi ſalui ſorelle amantißime, delle qualiund
mi rende atta l'altra mi fa gagliarda als l'operare. AR. Et te ancora ſecondo
il tuo buon uolere, ma dins ne, che usi tu cercando? AN. Te ſopra tutte le coſe.
AR. In parte difficile ti ſei riuolta, perciò che biſogna, che tu oſſeruicon di
ligenzatutte le operationi, a modi di coteſta noſtra commune amis ca. A N. Hoio
ad impiegare tanta fatica, innanzich'io t'imprens da? AR. Et poſponere a queſta
ogni altra cura,ben che dolcißima cura ti fia, per la ſperanza dello acquiſto,
che ne farai. Ma che parte di me conoſcer deſideri? AN. Indifferentemente,ſe
poßibil fuſſe, tutte le uorrei, tutte le abbraccerei tutte le poſſederei. Ma
ora grado mifia tant'oltre procedere, ch'ioſappia altrui paleſare i cons cetti
miei. AR. Più chiaramente midi quel che uuoi,perche in molte maniere giouar ti
poſſo d'intorno à cosi fatto dimoſtramento di penſieri. Vuoi tu ſapere conqual
nodo di ragione ſi ſtringa ung parola con l'altra quale ſia la concordanza de'
numeridelle per fone, ode' uocaboli delle coſe, et con quai regole dirittamente
fifcri Me? AN. Queſta parte io la preſuppongo. AR. Forſe tu uai cer cando
d'intendere con quale unione una coſa con l'altra conuengd, per poter'à tua
uoglia diſcorrere,argomentare,o foſtenere le cons teſe AN. Né ciò intendo per ora, ma di più
diletteuol parte ho curd. AR. Tu uuoi tutta fiata porgere diletto col parlar
ſoauiſ fimamente,à guiſa di delicata uiuanda acconciandoi numeri,il ſuono, per
l'armonia delle uoci eſprimenti coſe piaceuoli, & grate à i fenfi umani? A
R. 10 uorrei più adentro penetrare, né tanto effer folles cita di piacere alle
orecchie,quanto di giouare all'animo, operò dimmiſe hai più parti, quaſi
figliuole,cui ſi conuenga la cura del ras gionare. AR. Honne, o hauer ne poſſo
ancora molte altre, che nonſono in luce; ma tra le altre una ue n'ba, che non è
leggitima; un'altra la quale bēche leggitima ſid, pure e di tāto riſpetto, che
rare Holte ſilaſcia al mondo compiutamente uedere. La prima in tanto da me é
hauuta per buona, in quanto ella inſegna di conoſcere gli ingan ni del parlare,
e à fuggire i ciurmatori. Laſeconda e da me coſto dita, &guardatamolto, percheio
temo, che gli huomini di malaf fare non la ſuijno. Et eſſendo ella di
bellezza,o di forma ſopra ogni altra eccellente gran pericolo miſoprafta
Jlquale tolga lddio, ma doue non paſſa la maluagità umana: doue non penetra
l'audacia? ego di queſto, poco fa, la Natura, a io ci doleuumo, et
penſauamo,che tu fußi quella tu, che d'ogni male Q uergogna noſtra fußi
l'apporta trice. A N. Perunared eu perfida, che ſi truoua, non crediate di
gratia, che oggi di tutte ſieno tali,perche da me ui prometto,che als tro che
onore non hauerete, AR. Bene, o cosine cape nell’anis mo. Che uuoi tu adunque
da me ſapere? AN. 10 cerco molto, Ò
Arte, à modo mio di posſedere coteſta tua cosi bella, o riguardata figliuola,à
benefitio deipopoli, o delle genti, o à gloria tua, di me,dicui altro cibo più
ſoaue non truouo. AR. Prega tu prima la Natura, che à te conceda corpo ben
diſpoſto, oformato, aſpetto graue, o gentile, uoce chiara, á eſpedita
fianco,modo, o mouimen ti conformialla virtù, che deſideri". Appreſſo poi
à me prometterai congiuramento di non ufare già mai la figliuola mia,uezzofa,
inſos lente, « che tanto uagaſia delle bellezze ſue, che per farſi uaghegs
giare in ogni luogo, in ogni tempo, in ogni propoſito ſenza riſpetto alcuno
compariſca. Et con luſinghe eadulatione dal ben fare le genti, o i popoli
aſcoltanti rimuoua. AN. Se ottimo uolere, fe oneſtédimanda ritruoua luogo
appreſſo di te, o Natura, con ogni af fetto ti priego, chetu mi dia quello
chel'arte mi perſuade, che ti dis mandi, corpo gratiofo,formato,odotato di
quelle parti, che conue nientiſono alualore della figliuola fua. Etſe bene in
alcun tempo io non ti poteßi di tanto donorimeritare,pure non ceſſerò di
eſſertiſem pre obligatißima. NAT. Siati la gratia, che dimandi, conceſſa. A N.
Io tigiuro ó Arte,perquella diuinità, che ſi truoua maggiore, di accoſtumare la
tua figliuola à giouare ouà ben far’altrui, né per modo alcuno permettere, che
ella ſeguagli apperiti diſordinati, ma circoſpetta ſempre, oſempre riguardeuole
compariſca. AR. CO si habbi la chiarezza del ſangue, la libertà, eccellenza
della pas tria, ibeni da gli huomini defiderati, come ciò facendo,alcolmo della
gloria à pochi conceſſa,peruenirai. NA. Felice patria,che di tale, e
tant'huomoſaràfornita. Maqual patria le dareſti tu,ó Ar te? AR. A'mia uogliale
darei quella,in cui le leggi poteſſero piit, che gli huomini, doue la maggior
parte alla commune utilità s'ina drizzaſſe; antica,nobile,illuſtre,e di
quelgouerno, nel quale il bes ne di tutti glialtri gouerniſiconteneffe, qualeforſe
non più che unds'e s'è ritrouata,oſi
ritruoua al mondo, oforſe tu, o Natura,conſentia ſti di prepararle il più ſicuro
& comodo luogo, oil piie forte fito, cheueder ſi poſſa,nonmeno al mare che
alla terra uicino,cui di gra tiaſpeciale ancora il Cielo concede priuilegio di
eſſer nimica d'ogni tumulto, o ſeditione,parca,pia,oreligioſa, con
inſtitutiottimi temperata: NA. Troppo di cuore commendi, o lodi queſta tua
Città, eforſe à ciò fare queſto t’induce,che tu in eſſa puoi il tuo ud lore, o
la tuaforza chiaramente dimoſtrare. Ma tu, ó Anima, già ricca di tanti doni,
chefatti t'habbiamo, che dici? A N. Le gratie non ſonopari al uolere,io attendo
quello, che attender dei, &sò lo ſtudio,che tu ſei ſolita di porre nelle
coſe tue;mi& rendo certa, che tuſai ancora, che ritrouando io
unatemperatißima compleßione di corpo,à quella dò la umanaperfettione, o come
quella temperanza cade, cosiſopra di eſſa declina ilmio ualore. Làondeſono
alcune co ſe, allequali io non degno la uita concedere. Ad altre ueramente dos
no la uita,ma le operationi di quella cosi ſono occulte, che in forſe fi ftà di
credere ſe in eſſe la uita ſi truoui. Altre uita,ſenſo, omouis mento da me
hanno comealcune intelligēze, et amore, coſa nobile et ueramente diuina. NAT.
Queſtomipare,checosi ſia map ure als cuna fiata io ueggo, che le anime uan
ſeguitando le compleßioni de' corpi. Onde poiſono alcuni ſdegnoſi, alcuni
manſueti, altriuanno dietro alle apparenze, altrialle fauole più che alla
uerità fi danno, emolti in ogni pruoua, ſoda ex inquiſita ragione uan
ricercando. A N. Et queſto èquello da me tantodeſiderato dono, che e di ſapes
re in tal guiſaſpiegare i concetti miei,ch'io ſatisfaccia à tanta diuer. ſità
di nature, o d'ingegni. NAT. Quando tu ſarai giunta à quel paßo,chetu ſappia
per mezo dell'arte cosi ben gouernarti con ogni maniera di perſone, dotte,roze,ciuili,
barbare, umane, e inumane, allora potrai à tua uoglia mitigar’anco gli adirati,
fpingere i pigri, raffrenare i feroci, ingagliardire i deboli; et di uno in
altro cótrario à uiua forza ogni anima tramutare. A N. Coteſta é und magica
eccellentiſsima. Ma tu Arte,cui è dato di ritrouare alcune uie ragio neuoli di
peruenire alla cognitione di coſe non conoſciute, incomincia da quelle che
facili, en eſpedite ad inuiarmi al deſiderato fine riputes rai. Ar. Cosi
uoglio, o à te farò capo, ó Natura, dinuouo addis mandandoti,di che beni uuoi tu
adornare queſta noſtra nouella ſpoſa? NAT. Hollo già detto, a più aperto ti
diſtinguo,dar le uoglio, ol tre al corpo ben formato unauoce grata, chiara,
eguale, che ogniſuonoageuclmente ſi pieghi, e che ſe ſteſſa inſino all'eſtremo
ſoſtenti. AR. Et io le dimoſtreró parole atte ad eſprimere leggia dramente ogni
concetto,pure,ampie, illuftri, eleganti ſeuere,giocona de,
accoſtumate,ſemplici,uere, tarde, ueloci, ofinalmente tali, che abbracceranno
la uera idea di me in queſtoeſſercitio. Et di più io l'inſegnerò di collocarle
si fattamente inſieme, che diletteranno ſema pre, o non falliranno già mai; or
iu Anima farai ociofa? AN. Hauendo io per gratia di te Natura le coſe
conuenienti, oper tud corteſia ò Arte le parole conformi, farò si, che niuno in
mepotrà de fiderare ne penſamento neſtudio alcuno. NAT. 10 a' ſenſi tuoiſot
toporrò tutte le coſe, dalle quaifacilmēte ti uerrà fatto di prendere argomento
di ragionare. Tu fin tanto non mancherai di diligenza. AR. Paterno, oſaggio
ricordo. Però che con la diligenza ogni giorno teſteſſa auanzerai, ella ti farà
poßibile ogni impoßibilità,ela la é la perfettione, lalode di tutte le opere de
mortalijà cui cons giunte ſono tutte queſte coſe, cura, induftria, penſamento, fatica,eſſer
citio, imitatione de migliori, «il tempo padre d'ogni coſa. Credi adunque à me
quelloche la lunga eſperienza mi haidimoſtrato, cioé, che niente giouano
imieiprecetti,niente le regole, niente gli ammae ſtramenti,ſenza la
diligenza,con la quale oltre alla inuentione, all'ordine delle coſe,otterrai di
accommodar la uoce alle parole, eſpri mendo le umili con baſſo, o rimeſſo
ſuono, le pure coniſchiettezza, le afpre con durezza,abbaſſando, &
inalzando queſto beato inſtrué mento à que' tuoni, che ſaranno conuenienti. An.
Coteſte fono leggi da eſſere oſſeruate allora che io ſarò col corpo congiunta.
Pers cheben ſai chenė lingua, nė uoce habbiamo, nė però egliſi uuoldire cosi ad
ogn'uno,in che maniera tra noi fauelliamo. NAT. 10 ſo be ne, chegli huomini
andrannofauo leggiando di noi, come altre fiate hanno detto chele cannucce
parlarono, ilche é maggior miracolo, che ſe gli Indiani uccelli eſprimono le
uoci umane. A R. Se già col mio aiuto uolarono gli huomini, molte coſe
inſenſate hebbero mo uimento, che marauiglia potranno oggi maiprendere del
parlar nos ſtro? AN. Che debbo dir’io? partita ora dalluogo,oue il parlaa re é
uiſibile, l'intendimento ſenza fauella ſi ſcuopre, muoueſi ſenza luogo,e
s'impara ſenza discorso. AR. Coteſti miracoli, che tu ci narri,ſono ſegno, che
tu non habbia biſogno dell'opera noſtra. AN. Tu di vero, ſeio nella mia
primiera ſimplicità mi rimaneßi. Ma diſcendendo dalpuro o purgato eſſere, o venendo
quaſi ad un'aria infettata e corrotta,molto mi ſento dal mio primo ſtato ria
moſſa. NAT. Peggio ti auerrà meſcolandoti con la masſa matea riile del corpo. A
N. Ad ogni modo mi biſogna ſtar ſottopoſta. AR. Non uſciamo di ſtrada,macome
buoni mercatanti accontiamo inſieme. Haßi dunquefin'ora promeſſa di uoce
eſpedita, di copia di parole, di modo conueniente di accomodar la uoce alle
parole;oraci reſta di affettare le parole alle coſe. Cheditu Natura? NAT. Die
co, ch'egli è più che neceſſario queſto affettamento,ſenzail quale le parole
ſarebbon uane et ſenza frutto, però accreſcendo le doti, che io intendo dare à
coſtei, promettole di dimoſtrarle nelle coſe mie us na certa uerità, alla quale
accoſtandoſi, potrà ſeco tirare ogniforte di gente, o di tale ueritàſenza
dubbioti affermo eſſerne ogn'uno capace. A'R. Già tre corde di queſto liuto
ſono accordate, uoci, parole, a coſe. Reſta, che nelle coſeſi ueda una certa
conuenienza con eſſo teco,ò Anima, e con le parti tue; che ne riſulti la
perfetta e compiutafoauità della deſiderata armonia. Però aiutamia ritros uare
le tue più ſecrete parti, epiù occulte uirtù, acciò cheſi ſappia qual parte di
te, con quai coſe, « con che parole, et con che attione ſi debba muovere. A n.
Piacemi queſta diſpoſitione mirabilmene te ofappi,che auenga;ch'io nonſia ſtata
col corpo già mai, nientes dimeno come nouella ſpoſa nella caſa del padre molte
coſe hoſapute, che mi aueranno quando ciſarò legata. A R. Ora incomincia à dir
mene alcune. AN. Hogià inteſo,che quando io ſarò con eſſo il cor po, molte mie
forze emoltemie uirtù ſi ſcoprirāno,le qualiora non ſi conoſcono. Et prima ne
gli occhi io ſarò il uedere, nell'orecchie l’u dire, nel palato il guſto, per
ogni luogo oparti del corpo faró ſentimento, nel cuore principio diuita,di
ſenſo,etdi mouimento.Ben che ad altra intentione altri riguardando,la origine
di tai coſe ad al tre parti aſſegnerano. In un luogo ſarò fantaſia,in altro
memoriain altro ingegno,et per tutto ſarò anima.Et ſe il corpo fuſſe di tal tem
pra, chegli fuſſe diffoſto à riceuere ogni mis uirtù, farei nelle orecs chie la
uiſte, o ne gli occhi l'udito, quantunque per molti accia denti, che uengono à
i corpi, l'animepouerelle uſar non poſſano le forzeloro, da che nacque
l'opinione di coloro, che dicono "credos no che noi moriamo inſieme col
corpo.Ma io ti giuro per quell'onnis potente maeſtro, che mi fece che
noiſiamoimmortali, oſe ora io fo noſenza il corpo,perche non ſi dee credere che
io reſtar poſlı dapoi, che'l corpoſarà disfatto? AR. Tutto chemolte ragioni aſſai
pro Babiliper l'und ei per l'altra parte mi muouano,pureal modo,che io
Sonoſolita di cercare la uerità delle coſe,io non ſono puntoſicura del la
voſtra immortalità, però rimettendomi à qualche maggior ſapien za, che la mia
non é, mi gioua di credere che noi uiuiate eternaměte. A N. Più oltraiſe fenza
il corpo conoſco,fo ueggio, econoſco di conoſcere,miapropria operatione, che
dirai tu poſcia dello eſſer mio? AR, Ritorniamo al cominciato ragionamento. An.
Ben ti dico ora delle forze mie, perche io conoſco di dentro, e di fuori,
dentro con la fantaſia, col diſcorſo, o con l'intelletto, o ciò si dia
mandavolontà, come quello del ſenſo appetito, il quale hauirtù di
porſiinanzialle coſe diletteuoli, o di fuggire le diſpiaceuoli.La no lontà è
Regind. AR. A'me pare, che tu mi hábbiposto inanzia gli occhi la forma di una
ben'ordinata Republica, nella quale ui ſia il Principe, iCoſiglieri,i
Guardiani, et gli Artefici. Mainfinitamentemi doglio d'alcuni, che per molti
ſecreti auenimenti, de' quali non fan renderealtramente ragione, corrono à
fabricar nomi, che nonſono, et con quegli impauriſcono le genti,aguiſa delle
nutrici,che ſpauenta, no ifanciulli con le fauole, quindi è nato il nome della
Fortuna,cui ca pital nimica io ſempreſonoſtata, nõ percheio creda,che à quel nome
alcuna coſariſponda, maperche mimoleſtalafalſa opinione di colo ro, che non
ſolamente uogliono, che ella ſia una coſa come le altre, che ſono, ma le
attribuiſcono la diuinità. NAT. 10fo bene, che la for tuna non è fattura mia.
ART. Né di me'ancora. An. Molto mea no dimeauezza à coſe stabili e
impermutabili. ART. Laſcida mola dunque andare, o ueggiamo ſe io ti bo
ben’inteſa, due ſono i conſiglieri,per quanto io comprendo,ragione,
&appetito, daiquali commoſſo e perſuaſo,s’induce à fare, eoperare il tutto,
perche ora nė difortuna,nédi uiolenza alcuna ragiono. A N. Senza dub bio,ſe
riguardi al nome, maſaper dei, che ſotto queſto nome di appea tito ſi
comprendono due conſiglieri,l'uno, nel quale è poſto l'iracons dia,che è come
difenſore dell'altro,nelquale è posta la cõcupiſcenza. AR. O diquantimali, e di
quante conteſe l'uno e l'altro de gli appetiti ſuoleſſer ſemenza. An. Queſto
non già auiene pur il dritto gouerno in tirannia non ſi tramuti. Diritto gouer
è quel lo,nel quale,chi deue ubidire, ubidiſce, ochi dee comandare, cos
manda". La ragione adunque di queſta piccola città preceder deue allo
appetito, e non permettere, che egli ad abandonate redini cors sendo, ſeco
dietro la tiri. AR. Moltomipidce quello che tu di,eso B per che 1 jo per
ricompenſa di tal piacere voglioti ſcopriremoltiſecreti, che io bo d'intorno
alle predette coſe.Ma dimmi tu prima queſta una parte, nella quale é riposta la
ragione,diche hai tu inteſo cheella eſſer deb bia adornata? NAT. Diſcienza o di
buona opinione ART, Vero é, per che la ſcienza é ilpiù bello adornamento, che
s'habs bia, al qualeſe s’auicina la buona opinione,ò che gentileabito é que ſto,diche
l'animaſiueſte apparando le ſcienze. Alora ella acquiſta laſua
perfettione,allora ella é pronta à conſeguire il deſiderato fine, & quaſi
ſeſopraſeinnalzando auanza ogni coſa mortale, o ſi cons giungecon la diuinità.Ma
come di coſa precioſa,orara, difficile,or non da noi ora cercata,non ne
ragioniamo, ma ritorniamo alla buong opinione, la quale si come la ſcienza è
una certa cognitione delle cofe occulte, nata da uere og manifeſte cagioni,
cosi eſſa opinione è una incerta notitia,nata da alcune dubbioſe cagioni, alle
quali l'anis ma con timore difallire, odi errare, s'inchina. Per uoler'adunque
ottenere l'intento fuo,é biſognoconoſcere il modo,col quale dapia gliareſi
hanno,o, comeſidice, farſi beneuoli i detti conſiglieri,ac cio che acquiſtata
lagratia loro, l'animaſi muoua àfareleuoglie di chi parla.Muoueſiadunque la
ragioneuol parte,che è nell'anima, că lepruoue, ocon le ragioni; & tal
mouimento s'addimanda inſegna re. Etperche la ragione è uno de'
conſiglieri,prudente,etſuegliato, perd nell'ufficio deŪ'inſegnare é di mestiere
diacuto epronto inten: dimento, mal'appetito in altro modoſimuoue.Il primo, che
è detto Concupiſcibile,richiede una certa piaceuolezzaet cõciliatione. Pero
ciòche cosi di dentro i petti umaniſono da quello tirati. Ilſecondo gli
fpigneàforza, operò cõ eſo egliſiuuole uſare uno impeto, a cui più propriamente
queſto nomedimouimento ſi conuiene, che à gli al tri; e comedebito è lo
inſegnare,cioè il dimoſtrare con ueriſimil pruoua le propoſte coſe, cosi è
onoreuole il conciliare, o neceſſario il muouere. Ma da ogni afficio di queſti
tre peruiene lapropria dileto tatione. An. Io ſo almeno,che altro diletto non
ho che lo apparda re. AR. Et tu prouerai appreſo quanto piacere naſca negliapa
petiti. An. 10 pure ſono auifata cheeſſendo in eßi ripoſte le umaa ne
affettioni, nonpuò eſſere che ſenza riſentimento di dolore ſimuou wano. ART. In
ogni affetto, & mouimento d'animo,dolore, o piso cere ſono compagni.Oruedi
quáto sfrenataſia l'iracondia, oquana to doloroſo ſia l'adirato,et pure
conoſcerai, che lo appetito,et la ime ginatione della vendettaglie piùfoane che
il mele. Ho duucrtito,che nc ELOQVEN Z A. ii negli eſtremi dolori gli huomini
hauuto hanno piacere di dolerſi, ayo il non poter ciò fare, èſtato loro di
doppia doglia cagione, non cbe à loro elettionehaueſſero uoluto l'occaſione di
dolerſi,ma poſti neldo lore; dolce coſa il poter'à lor uoglia ramaricarſi hāno
riputato. Dilet ta ueramente la ſperanza,ma il deſiderio la tormenta. Peßima
coſa è la diſperatione tra tuttigli affetti umani, maſola è ſicura contra la
morte. Mauannetu diſcorrendo nelle altre perturbationi,che trouca rai nella
allegrezza ſteſſa un mancamento diſpiriti, ounatenerez xa, che al pianto ti
condurrà fpele fiate.Però io tiſcuopriròintorno à tai coſe bellißimiſecreti. A
N. sidigratia; percioche queſte mi paiono leuere, epotentifuni, con le quai ſi
tirano l'altrui ate nos ſtre uoglie. A R. 10 ho inſegnato a' mieifedeli,che non
fieno fema pre folleciti d'intorno ad unoaffetto, per fuggire la noia con la
uda rietà dellecoſe, imitando la Natura, la qualeamaſopra modo il udm riare,o
il mutare le coſe ſue. NAT. Vero è, perche chiaramente dei vedere la diuerſità
delle ſtagioniedei tempi, la grandezza co l'ornamento de i cieli, la
moltitudine delle coſe e delle apparenze, ch'io ſonouſata di dare alle coſe
mie. AR. O'quanto io leggo fo pra il tuo libro è Natura;ma non abandoniamo
l'impreſa. Deiaduna que fapereè Animà un'altroſecreto, non meno delſopra detto
bello, degno da eſſere apprezzato. Jo ti dico che tu auuertiſca bene di nõ
ſollecitare con tutte le forze ad unoſteſſo tempo i detti conſiglieri, perche
l'anima trauiata in molti mouimenti, non attende comeſi dee ad un ſolo.L'eſperienza
ti moſtrerà, che ad un'bora né gliocchi, di belißime pitture,né l'orecchie di
ſoauißime confonanze potrai pies: namenteſatiarejma compartendole opere, meglio
aſſai per guſtare i diletti,e i piaceri delſenſo,uederai quanto può
queſtaſeparata pers ſuaſione. Inſegna adunque. Inſegnato che hauerai, muoui,apporta
le facelle, et eccita con gli ſtimolide gli affetti l'animo de gliaſcoltanti.
AN. O' Arte tu ſarai ſempre arte. A n. Et tu anima ſaraiſempre anima. A N.
Eſſendo io anima, o da te ammueſtrata,diuentero Ar te, o tu eſſendo in me Arte,
Anima diventerai. A R. Nuouo miracolo,didue coſe farne una; ma digratia non ci
laſciamo ſuiare dalle occaſioni,che in uero alcuna uolta épiùdifficile la
ſcelta, che la inuentione. Ora foniamo a raccolta, o quaſi ſotto uno ſtendardo
ria duciamo le tue;uirtù, dalle quali fin’ora habbiamo iregali aßiſtenti
ragione, concupiſcenza,oira. Reſta, che andiamo alle altre parti.; AN. Cosi
faremo, o da eſſa memoria ſidarà principio. AR..O B quanto tiſon tenuta in
nomeſuo,che mi giouerebbe duuertiré un'afa fetto di Natura, ſe altra fiata in
quello abbattendomi, la memoris preſta nõ mi diceſse, Eccoti,ò Arte,quello che
ancora uedeſti. Che es ſperienza ſitruouain meſenza di eſſa?chis'accorgerebbe,
che in al. cuna di uoi, ó Anine, io miritrouaßi, ſe non fuſe la memoria come
guardiana, teſoriera ditutte le parti dello ingegno? onde con ues rità ſidice,
Che tanto fa l'huomo, quäto ſiricordaNaſce la memoria dal bene ordinare,
l'ordine dello intendere, odal penſamento, però poſſo io con le imagini in
alcuni luoghi riposte artificioſaméte indura rela memoriadelle coſe. NAT. A
lungo andare tu le ſeipiù toſto di danno, che di prò alcuno,però non mipiace
altro che uno eſſercitio, di eſſa memoria,cheſi fa mandando motte coſe à mente.
A R. Che fai tu di eſſercitio • Natura, l'ordine della quale è ſempre conforme?
il tuo fuoco ſempre tiraall'insù, la tua terra per lo dritto all'ingiù di
fcende, o cot ſuo giuſto peſo al centro rouinando à modo alcuno non fi può
uſare alla ſalita.volgeſiilcielo tutta fiata raggirandoſi in ſe medeſimo, ogni
tua legge e impermutabile, o tutto che i tuoi mona ftri, le tue ſconciature
alcuna volta ci diano da marauigliare, pus ge ſono tue fatture,néſono alla tua
generale intentione repugnanti, mal'Anime da uno in altro cõtrario trapaſſando,
buone di ree,et ree di buonediuengono. NAT. Io conoſco il biſogno in quel modo
che gli occhi comprendono la notte, che é priuatione di luce, ma ben ti
dico,chela memoria da me con molta cura é guardata nella compoſiz tione
dell'huomo. A R. Io l'ho auuertito nel tagliare di eſſo, egomi fono
marauigliata con quanta cura difeſo hai quella parte,nella quale éla memoria collocata,hauendole
dato nella parte di dietro della tes ſta un'oſſo fermo, e rileuato,che da
ogniſtranieraforza nella difens da.Tui in temperata umidità e la impreſione, e
in ſecco proportios nato la ritentione delle coſe. Ma tu Arima,la cui nobiltà
fi fa manife ſta per tante & tali operationi, di ciò il tuo fattore ne
ringratierai, regolando con la ragione i tuoi appetiti, penſa,ordina, ocon lo
eſa fercitio conſerua la memoria quanto puoi,percheciò facendo,tale di
senterai,quale deſideri, e conoſcendo te ſteſſa, conoſcerai l'altre tue forelle,
& come della più onorata di eſſe la tua ragione ſopraſta alla loro, il tuo
dritto deſiderio ſarà lor freno, onde infinita riputatione acquiſterai,perche
di leggieriſicrede à colui,in chiſifida, et facilmen te ſi fida in chi ſi
truoua autorità, w credito, il qual naſce dalla inte grità,o bontà de' coſtumi,
o queſto é,ch'io deſideroſa, fe altra ſi truoua del bene,temo aſſai non
abbattermiin perſonemalungie.AN: In che potranno ufare la loro malu agità, non
eſſendo lor data ſede? ART. Come io non ti niego,che il uiuer bene,es
accoſtumatamente non ſia di gran giouamento à farſi luogo nel coſpetto degli
huomini, e acquiſtarlagratia de gli aſcoltanti,cosi non ti conſento che l'has
uergli dalla ſua,per uirtù, oforza di parole non ſi poſſa fare. A N. Perche
inſegni tu coteſti incanteſimi? A R. Il mio ualore e tale, che io poſſi in
parti contrarie e repugnanti, ſenza che io deſidero ſcoprire in altruiſimili
inganni,e però biſogna conoſcergli, cosila uerità ſtadi ſopra, ola bugia
cade'uinta in terra,cosiſiponfine alle conteſe, cosi ſi terminano le liti, cosi
ſi ammolliſce le durezze degli adirati, s'attura le rabbie de’ ſeditioſi, ſi
ſollieua l'autorità delle leggi caduta contra il uolere di quegli, che ſtimando
l'oro, l'argento, più cheil douere, & à prezzoſeruendo, poſpongono la
ſalute coma mune alla utilità priuata.o quanto nei publici mali,e nei tempi pe
ricoloſi compenſo pigliarſi ſuole dal parlare digraue et onorato cit. tadino,le
cui parole condite diſenno,ſeco hanno l'alleggiamento d'o gnimalinconia,che
gliafflige. An. E dunquegran difetto d'huos mini da bene? AR. Senza dubbio, o
ciò auiene perche la uia dis ritta è una,male torteſono infinite, però di raro
ſi vede tra mortali, chi per la ſola camini. Ma tuſcordata ti ſei
d’un'altrauirtù, la quale per mettere le coſe dinanzi a gli occhi (il che
éſommamente richies ſto)non ha pari.Di queſta uirtù, perche ella ha grande
amicitia co i ſenſi corporali,o é molto confuſa,come quella, che é lo ſpecchio
ges nerale di tuttii ſentimenti umani, o perciò è detta imaginatione; di queſta
uirtù dico, non hauendola tu ancora eſſercitata, non ne haifin ora alcuna
parola mosſa. Io odo dire che nella imaginationeſirifere bano le imagini, e le
apparenze da ſenſi riceuute,et beneppeſſo in lei cosi ſtranamente tramutarſi
che i ſogni non ſono cosi turbati, et con fuſi, là onde molti ſono detti, o
riputati fantaſtici, altri ſi fanno Re O signori,o talmente par loro eſſere
que'tali, che ſi credono di eſ ſere,che riſo eg compaßione mouono a chigli vede.
Alcuni uanno, come ſi dice,in aria fábricando, et tanto ſi ſtannonel lor
penſiero fißi, che forſennati,e pazzi da tutti creduti ſono. A R. Quanto piùe
uanamente ſpender ſi ſuole tal uirtù, tanto à maggior prò li deue ue
farla,& adoperarla. Per queſta l'huomo prima taleſi fa, qual uuole che
altri ſieno. Perche egli prima dentro diſe ſi propone la coſa, che egli cerca
dare ad intendere altrui, con quel migliore e più eccelslente modo cheſi può,
auolendo egli metter’altri a pianto, non tera rà mai gli occhi aſciutti. Simile
forza nella pittura ſi dimoſtra,lo ar tefice della quale, ogni forma, che egli
cerca di far uederenelle ſue tele, primanella imaginatione fermamente ſi
dipinze, o quanto più belli,o gagliarda è la ſua imaginatione, tantopiù
illuſtre, o loda. ta e la ſua pittura. Molte forme, oſembianze ſono de gli
adirati,ma una più eſprimela forza dell'iracondia; queſta una deue inanzi alle
altre eſſer poſta nella fantaſia, o à quela il pennello e la linguafi deue
indrizzare; en cosi tutta fiata il più efficace modo o di moues re, o di
dilettare, ò d'inſegnare por ſi dee chiragiona,inanzi,accioche egli ſi habbia
l'aſcoltatore come deſidera.Et queſta è la utilità grans de di coteſta
tuapericoloſa potenza,pericoloſa dico,perchemolti no ſanno ufarla à
feruigidello intelletto, ocredono, che lo imaginarſi ſia intendere odiſcorrere.
Ma laſciamo queſto da parte;o racco: gliamo le tue uirtù. Che mi hai tu dato
fin'ora? An. Mente,uolons tà,appetito,memoria,imaginatione. A RT. Molto mi piace.Nella
mente, che uiporremo altro, ſenon buona opinione, con l'ufficio dello
inſegnare? Làonde la uolontà ſi muoua ad abbracciar le coſe. Et nel lo
appetito,che ui ſtarà ſenongli affetti,eccitaticol muouere, &col dilettare,
Là onde l'animo ſia uiolentato à bene eſſequire? Della me. moria non dico
altro, né della imaginatione, percheſono ambedue di ſopra aſſai bene ſtate de
noi diſtinte. Ora bella coſa udirai, oda non eſſer à dietro laſciata. A N. Che
mi dirai tu? ART. Dicoti,che doppo la eſpedita dimoſtratione di tutte le tue
parti, fa di meſtiere di ſapere in qual maniera elleſieno dipoſte à riceuere la
impreſione dei loro oggetti. Perche uana, ofriuolafatica quella ſarebbe, di chi
af fettaſſe in parte al pianto diſpoſta ſenza alcun mezo porre il piacere.
Credi tu che eguale prontezza hauerai allo imparare,et allo adirars ti?
Indrizza adunque i tuoi penſieri à gli ammaeſtramenti, che io ti uoglio dare,
oſaperai comedeueeſſer' apparecchiato l'animo dico. lui che ricerca la pruoua,
edi colui che è pronto all'affettione, imis tando i buoni medici, i quali prima
uannoinueſtigado quai partiſieno guaſte, o quaiſane,eappreſſo, le guaſte uanno
disponendo à rices uere i rimedij conuenienti; e primaleniſcono, e ammolliſcono,
poi apportano la medicina. L'anima adunque, nella quale la ragione fi dee
porre, acciò che dia luogo alle pruoue, et accettar poſſa la buona opinione, e
iſcacciare la contraria,deue eſſere ripoſata, e quieta,et non in modo niuno
affettionata, et trauagliata. Perche eſſendo il piancere,cheha l'anima, quando impara,
foauißima coſa, biſognofache ellaſia lontana da ogniturbatione, operò molto
male è conſigliato colui chenel conſigliar'altrui uſa la forza, o la violenza
degli aps petiti, °li affetti, laſciando il ripoſo della verità daparte;
qual contento può riportar colui, che partito dal Senato dica, per qual ragione
ho io aſſentito?perche ho io cosi deliberato?Buona coſa è l'hauer’alla uerità
conſentito,mamiglior'e, ciò hauerfatto ragion neuolmente più toſto che à
forza,perche in tal caſo non pure ſifabe ne,maſiſa di far bene; di che non è
coſa più diletteuole w gioconda. Habbiaſi dunque l'animo ripoſato di colui
cheattende la ragione; queſto ageuolmenteſi può fare, ponendoſiprima di mezo
trail si o il no,come chiſta in dubbio.Però che più prontamëte ſi prende para
tito,et ſi ammette il uero dubitando,che portando ſeco alcuna opinio ne. Macome
diſpoſto ſia lo appetitoalle coſeſueattendi,che loſaprai con una bella
diuiſione degli affetti. Perciò che in eſſo appetito gliaf fetti ripoſti
ſtanno,comet'ho detto. Ogni affetto e d'intorno al male, ò d'intornoal bene,
truouiſi pure lo affetto in qualunque parteſi uos glia. Ecco nel tuo
generoſoſoldato,cui é conceſſo l'adirarſi, opren. der l’armi quando biſogna
dico dello appetito iraſcibile,d'intorno al bene uiſta la ſperanza, e la
diſperatione. Laſperanza é uno aſpetta re il bene, la diſperatione è un
cadimento da quello aſpettare. D'in = torno al maleuiſta l'ira, la manſuetudine,
il timore, ol'audacia. Ira é appetito diuendetta euidente per riceuuto
oltraggio Mania ſuetudine èraffrenamento dell'ira, oambedue queſti affettiſono
in torno almale,difficile,etpreſente.Il timore é un aſpettatione di noia, ouero
un ſoſpetto di eſſere diſonorato.Et queſta ſichiamauergogna. Il primo,ouero é
temperato,ouero eccede la miſura. Dal temperato neuieneil conſiglio,dall'altro
la inconſideratione,il tremore, & altri ſtrani accidenti.Laconfidenza,
«audacia, é contrario affetto. Et queſte perturbationi tutte ſono d'intorno
almale che dee uenire.Nel L'altro appetito, in cui è poſta la concupiſcenza,
d'intorno al bene ui ſta l’amore,il deſiderio, a l'allegrezza. D'intorno al
male l'odio, o l'abominatione, di cui ſegno infelice e la triſtezza, dalla
quale naſce l'inuidia, la emulatione, lo ſdegno, o la compaßione,quando auiene
che la triſtezza detta ſia de i maliouero de i beni altrui. Ma nelle co fe
proprie affligendoſi l'huomo tre alleggiamenti ritruoua. Il primo ė ripoſto nel
proprio ualore, perche niuno ſcelerato é compiutamente aüegro.L'altro è meſſo
nel conſiderare il dritto della ragione, werita 16 D ' Ε ι ι Α fuerità delle
coſe, da che naſce la ſofferenza figliuoladella fortezza. L'ultimo é la
conuerſatione di alcuno amico, perche ne gli amici e ripoſta la ſoauità della
uita. Ritornando adunque allo amore, ti dico, che Amore è uoglia del bene
altrui,eu ſe é mouimento d'animo a far bene, li dimanda gratis. Senonſopporta
concorrenza, geloſia, lela ſopporta ad onefto fine, amicitia. L'inuidia non
uorrebbe, che altri haueſſe bene,ſe benuifuſſe il merito. Lo ſdegno non lo
uorreb be, non ui eſſendo il merito La emulatione il uorrebbe anche per ſe. La
compaßione ſi duole del male altrui, temendo il ſimilenon da uengu á lei. Etciò
ti puòbaſtare in quanto ad una brieue dichiaraz tiore di tutti gli umani
affetti. Ora econueniente, che tu ſappia in che modo à ciaſcuno d'eſſi tu ſia
diſpoſta, acciò che tu ſappia poi als truiſimigliantemente diſporre. Eſſendo
adunque l'appetito uarias mente affettionato, quandoſi ſdegna,quandoinuidia,
quando aborris ſcequando ama, quando teme, quandofpera, equando in altro mo. do
é trauagliato,acommoſſo, aſcolta un bellißimo ſecreto, ilquale non ſolamente à
diſporre gli animi à qualunque affetto è buono, ma in ogni operatione é
neceſſario, & benche oggi mai per uero ammies ſtramento della uita da
ogn'uno ſi dica, RIGVARDA AL F 13 NE, non é però d'ogn’uno l'applicare alle
attioni o opere de' mor tali, cosi belle ſentenza. Laſcerò da canto le coſe,
che non ſpettano alla noſtra intentione,ſolo dirotti quanto io deſidero, che
ſia negli af fetti oſſeruato. Deiſapere che egli ſi truoua una maniera
diparlare, la quale in molte, manifeſte parole effrime la forzı, ey la natura delle
coſe; e quelle molte, omanifeſte parole altro non ſono, che le parti della coſa
eſpreſſa. Queſtamanieradi parlare é detta Diffie nitione. Ora dunque io ti
ammoniſco, che nel muouere gli effetti pri ma tu habbia à riguardare alla
diffinitione di ciaſcuno,come al deſide rato fine. Però cheſe la diffinitione
rinchiude in certi termini la nas turi della coſa propoſta, ſenza dubbio
querrà, che il conoſcitoredel la natura, o delle parti deltutto diffinito,
oeſpreſſo, indrizzerà tutte le forze dello ingegno ſuo, à ciò fare,et tale
aiuto preſterà abon dantißima copia di ragionare, o diſciogliere ogni
occorrente diffi cultà, e durezzé. Eccotiſe ſai, che l'ira é deſiderio di
uendetta per riceuuto oltraggio, o ſe mirerai in queſto fine, non anderai tu
dia ſcorrendo, in qual modo eſſer debbia diſpoſto all'ira colui, che tu uora
rai hauere ſcorucciato? o conchi, oper qualicagione, & quanti modiſieno di
oltraggiare altrui? Et ciòin ogni affetto facendo,non ti farai ſignore, &
poſſeditore dello animo di ciaſcheduno? Et rans to più dimoſtrerai con la uoce,
& co i mouimenti del corpo, te tale. effere, quale uorrai,che altri
ſia,certamente si. La diffinitione adun queé il ſegno,al quale ſi deue
attentamente guardare. Ora inbrieue ti dico dell'ira, che eſſendo ella uoglia
di uendetta,è neceſſario,che lo adirato ſi dolga, o dolendoſi appetiſca alcuna
coſa, dalche naſce,che repugnando altri à gli umani deſiderij, ouero à quelli
alcuno impedi mento ponendo, ouero in qualunquemodo ritardande le uoglie al
trui, porga cigione di adirarſi, cioé di deſiderare uendetta,ilperche nella
ſtanchezza nell'amore, nella pouertà, e ne i biſogni ſonodiſpoſti i petti umani
agramente al dolore cagionato dall'ira, epiù cheſono ideſiderijmaggiori, più
apparecchiati, oprontiſono all'ira, o al furore. Lo hauer male di chi s'attende
ilbene,lo eſſere in poco pre gio tenuto, ò diſubidito, o prezzato, o per
ingratitudine, ò per ingiuria ſenza prò dello ingiuriatore, ſono tutte
diſpoſitioni al predet to mouimento.Giouamolto, oin queſto, & in altri
affetti ſaper. la natura,ilpaeſe, la fortuna, ela conſuetudine di ciaſcheduno.
Se adunque ſi accende nell'ira in tal modo, chië diſonorato, o iſcordas
to,ſenza dubbio acqueterai colui cheſarà onorato, riuerito,ubidito, ammeſſo, et
riputato;ouero, chiſiſarà uendicato,a cuiſarà dimandato perdono con la
confeßione del fallo, incolpando la violenza, enon la uolontà. Deueſi dare
molto al tempo, oalla occaſionein ognicoſa, operò ne' conuiti, ne i diletti,
one igiuochigli umani appetitifoa no più alla manfuetudine inchinati
Dell'amorealtro non tidico, le non che eſſendo eſo soglia del bene altrui,
l'eſſere cagione, mezano, interceſſore, aiutore al bene altrui,diſpone
ageuolmente à tale affets to ciaſcuno. Et perche Amore appreſſo, é una
ſimiglianza, w unios ne di uolere, però coluiſarà più amato, ocon l'animo più
abbrace ciato, il quale dimoſtrerà d'eſſere d'un'animo, o d'una uoglia steſſa
con noi. Ilche nelle allegrezze, one i dolori ſi conoſce, o neį biſoa gni
ancora; non ſolo nelle perſone amate, ma ancora negli amici de gli amici. Allo
Amore riferiſco la Benuoglienza, e l'Amicitia, las quale, ben che affetto non
ſia, pure è nata da eſſo amore, che è uno de gli umani affetti. Qui non é luogo
di più diſtintamente ragionare dell'amicitia; de gli oggetti, delle parti, e
delſine ſuo. Perciò che altroue nei graui ragionamenti di filoſofia ciò ſi
conuiene. Baftiti d'hauere per ora la ſuperficie, el'apparenza. Ritorno adunque
e ti dico,che ipiaceuoli,coloro, cheſidimenticano dell'ingiurie i с faceti,
imanſueti, gli officiofi uerſo i lontani, atti ſono ad eſſer'amati. Peril
cótrario ſapersi chedire intorno all'odio,il quale è ira inſatia: bile, da
uendetta, da tempo,daruina alcuna non mitigato; occulto ine ſidiatore,
ymortale, nato da in giurie o ſoſpetti. Al quale diſpoſte ſono altre nature
più, altre meno, o à megliodiſporle,biſogna ams plificare le ingiurie, «
iſospetti,acciò che nonſoloſi brami una ſema plice uendetta, ma la diſtruttione
della perſona odista. Del timore, odella confidenza, che ne attendi più, ſe di
queſta, ed'ogni altra perturbatione ne i uolumi degliſcrittori, et nelle
pratiche umane'ne Jei per uedere aſſai? Timore e turbation d'animo, nata da
ſoſpetto di futura noia. Et però chi temeſa ó penſa dipotere ageuolmente
eſſer’offeſo, eda chiſpecialmente, ſopraſtando il tempo,es la occas: fione.
Etchiciò non ſoſpetta,non é al timore diſpoſto comeé chi ſem pre éſtato
fortunato, chi ſempre miſero, chi è copioſo d'amici, di ros 64,09di potere,chi
é fuggitoſpeſo dalle ſciag ure, ode pericoli,ego altriſimiglianti;o
que'taliſono confidenti, &audaci. Euui altra maniera di timore, non
didanno,madi biaſimo; alla quale diſpoſtiſos no i giouanetti,i riſpettoſi,
oriuerenti, quelli cheuoglionoeſſer' ha uutiper buoni da ' più uecchi, o da
ſimili, opari. Et però aûa loro preſenzaſonopronti ad arroſire. Non cosi ſono i
vecchi,perche non credono,che di loro altri ſoſpettino quelle coſe, che ſono
ne' giouani, come laſciuie,amori, euanità. Etperche il diſonore è coſa, cheuies
n'altronde, però gli ſpiritidalſangue à quellaparte, che più lo ricer inuiati
ſono.Ladoueil uiſo ſi tignediquel roſſore, cheſi vede. il contrario nei timidi,
nel cuore dei quali il ſangue ſi riſtringe, per ſoccorſo di quella parte, che
teme la offenſione.Nella uergogna ſi abbaſſano gli occhi, come che tolerar
nonſi posſa la preſenza dicos lui, che è giudice de i difetti umani. Queſto è
ne' giouani aſſai buon ſegno di gentil natura. Però che pare, cheuergognandoſi
conoſcas no idifetti, ey habbiano cura di quelli. Non uogliopire diſcorrer’ina
torno all'audacia, allo ſdegno, alla compaßione, alla emulatione, « al la
inuidia. Però che molto ne uedraiſcritto, eragionato da altri. Ben non ti poſſo
tacere del male acerbo, mortale, ch'io uoglio à quella fiera indomita,
eabomineuole dell'inuidia, che all'udir ſolo il nomeſuo, ſtranamentemi muouo.
Lafigura,i modi, ai coſtumi di eſſa ſono da gran poetadeſcritti. Di queſta mi
dolgo, per eſſer quels la, che più regnaneimiei seguaci. Là doue il fabro al
fabro, il mes dico al medico,l'uno artefice all'altro, inuidia portano ſempremai.
M4 ca,Md tacciamoora di queſto, e poicheragionatohabbiamo di te, delo le parti
tue,delle quali taci, che in eſſeſi ſtanno,e delle loro difpofia tioni,
addimandiamo la Natura quaicoſe a’quai parti di te conuena gono, acciò che
accordando la foauißima armonia della umana elo quenza con piacere, og
utiledegli aſcoltanti uditi ſiamo apieno por polo raccontare i miracoli della
Natura. ' AN. lo ueggio ben oggia mai' ' Arte, che tuſei quella chefai l'acume,
ò la ſottilezzadell’oca chio mortale nel ſecreto della diuinamentetrapaſſare.
AN. Anzi per te, ó Anima,coteſto mirabile ufficio s'acquiſta, la cui cognitione
tanto apporta di lume, e chiarezzaad ogniprofeßione, o scienza, che ucramenteſi
può dire chetuſia ilprincipio d'ogni conoſcimento Etperò chiunqueſtima; ola
uſanza di uno leggieri eſſercitio, o il ca fo tanto potere quanto tu, o
io.uagliamo, grandamente s'allontana dal uero. Tu t'abbatterai in un ſecolo
impazzito, d'huomini, i quali s'accoſteranno ad imitare più uno, che l'altro,
olo imitar loro non faràſenon manifeſto rubamento, ſciocchi,oferui imitatori,
che non Sapendo, perche altri s'habbiano acquiſtato il nome, tutta via in ciò
s'affaticano. Altri perche hanno unaſcelta di belle, &ornate pde role
uogliono ad uno ſteſſo tempo fcoprirle accomodando à quelle i concetti loro; ma
che poi ſono cosi rozi, a inetti,cheſenza ordine, Ofuor di tempo le metteranno,
e diranno, Io cosi dißi,perche cosi ha detto alcuno de' più preſtanti.
Queſtiſono gli incomodi delfecom lo. Nat. O`quanto m’increſce perciò eſſere
ſtimatapouera «biſo gnoſa, come che à me manchi alcunafiata,che donare, o che
nel cer care l'altrui teſoro l'huomo perda,ò non conoſca il ſuo. AR. Chi ſempre
ſegue, ſempre ſta di dietro, chi nonua dipari,nõ puòauan zare. Male
hauerebbonofatto i primi inuentori delle coſe, fehae veſſero aſpettato,chiloro
douea farla ſtrada. Et troppo pigro écoe lui, cheſi contenta del ritrouato.
Ionon porgo già mai la mano a chi laſcia, oabandona la naturale inclinatione,
come bene ho ueduto que' ali non conſeguire il deſiderato fine. NAT. Mi turbano
apa preſſo quelli, ò Arte, che tanto di me ſi fidano, che te laſciano à dies
tro". A R. Non ti dißi da principio, chenoi erauamo unite, e che ciò che
appare di uarietà, e diſomiglianza tra noi,e in un principio ricongiunto? Che
miditu? Chiunque opera alcuna coſa da me drizzato, uſa una regola commune,
& uniuerſale, che à molte, diuerſe nature feruendo,quelle uniſce, o lega in
uno artifi cio medeſimo, perche io ſono la conformità,o la ſimiglianza;altri
acutifono, eſuegliati, altriſeueri,& graui,altri piaceuoli,&eles ganti
per natura. Vnaperò e l'arte,una éla uia, che ciaſcuno al ſuo ſegno conduce.
Quando adunque l'arte precede,facile e lo imitare; lodeuole il rubare, &
aperta la ſtrada alſuperare altrui. Et in tal guiſa bene ſilpendeſenza lo
auantarſi di eſſer ricco, a fenza dar ſos: spittione di uergognoſo furto.
Accompagnifi dunque nelle ciuili con teſe il core, ola ſcrima,cioè la natura,
el'arte, ogſi uederanno poi que’miracoli, ch'io ſo fare. Ma laſciamo tai coſe,
e incomincia o Natura, o dimmi, in che modo le coſe tue fiſtanno, che di eſſe
cosi dileggieri gli huomini ſi uanno ingannando NAT. Sappi ò Arte, che ogn'uno
che ci naſce, ſeco porta dal naſcimento ſuo unacerta ins clinatione alla uerità,
donde auiene, che inſieme con glianni creſcens do ella in parteſuole il uero
congetturare, laqual congetturi opis nione più toſtocheſcienza uferai di
chiamare. Laſcio la uſanza mia imitatrice,chefino da primiannirecarſuole molte
opinioni, che poi dipenacon l'altra certezzaſileuano, parlerò di quella
ſembianza più toſto, che ſembiante di uero,cheé atta nata à muouere l'umane
mentia far giudicio delle coſe. Dico adunque, alcune coſeeſſer da ſe ſteſſe
manifeſte, chiare, altre, niente da ſe hanno di lume, edi
fplendore,mailluminate da quelleche ſeco hanno la luce, ſi fannoa? fenſi
umanipaleſi; nel primo gradoé il Sole, o tutti que' corpi, che ſon chiamati
luminoſi. Nel ſecondo ſono i corpi coloriti, i quali non hannoin ſe ſcintilla
di chiarezza, ma d'altronde ſono illuminati. Il fimigliante ſi ritruoua nello
intelletto. Iljaale riceuendo alcune coſe diſubito quelle apprende, og ritiene.
Però che quelle ſeco hannoil lume loro, ſe à me ſteſſe il fabricare de' nomi,
io le chiamerei Noti tie, ouero Intendimentiprimi. Ma poi altre ſono, che non
hannoda ſe lume, ó uiuezza alcuna,&però di quelle ſifa giudicio con
ſoſpetto di errare, fe da altro luogo la loro intelligenza non uiene; quinci ė
nata la opinione, la quale come opinione, che ella é, né uera ſitruoua, ne
falfa. Il difetto naſce daquelli uirtù,chepoco dianzi diceſte.Pero che le coſe
mie fono, come ſono,mariceuute nell'anima, e da' ſenſi al la fantaſia per
alcune debili ſembianze traportate, ſtranamente meſcolate, fannodiuerſe opinioni.
Ben’é uero, ch'io non faccio una co ſa tanto diuerſa da un'altra, che l'huomo
dueduto non poſſa alcuna Somiglianza tra eſſe ritrouare. A R. Molto mi piace
che l'animadi ciò nonſia fatta capace, perche accadendoleſpeſo mutare le
opinioni umine, e da uno in altro contrario traportarle, molto deſtramente
biſogna adoperarſi,et diſimiglianza, in ſimiglianzaà poco a poco pas
fando,perchelo errore in eſe ſimiglianze ſinaſconde, tirar le menti, che no
s'aueggono di una in altra ſentenza. An. Et chi può queſto ageuolmente fare? A
R. Chi con diligenza inueftiga la natura dela le coſe ſottilmente, uedrà in che
l'una con l'altra ſi conuenga, ma non chiamiamo però la opinione
incerta,cognitione à queſto ſenſo,checo lui, che ha opinione ſappiaſempre
quella eſſer’incerta, o dubbioſt conoſcenza, ma bene che in ſe conſiderata,
come opinione da chiuna que hauerà il uero ſapere,ſarà riputataincerta. NAT. O
quans to mi nuoce in questo caſo,la uſanza inſieme con la età creſciuta, lds
quale à guiſadimeſtesſa, ferma talmente le coſe nelle menti umane, che bene
ſpeſſo la bugia, più che la uerità in eſi ritruoua luogo. Et peròcredono molte
coſe che nonſono, ouerofe ſono, ad altro modo di quello, che ſono, uengono
giudicate. Etfe pure dirittamente appreſe ſono, altre cagioni lor danno,che le
uere, e quelle ch'io so eſſere in mediati o continuate à gli effetti. Et queſto
auiene quando la ragio ne inchina più al ſenſo che all'intelletto, « più
all'apparenza, che al l'eſſenza. AR. Tu hai più dell'Arte,o Natura,che di te
ſteſſa,cos si bene uai diſtinguendo i tuoi ragionamenti. NAT. Non te ne ma
rauigliare, ò Arte,perche io qual ſono,tale mi dimoſtro, oſe di me medeſima
parlo, cometu uedi io lo faccio in quel modo, chetu altre uolté hai confeſſato,
che io ragionereiſe io fußite. AR. Quello che io dico, lo dico per
amınaeſtramento di coſtei, laqualanche non ſi dee marduegliare di queſta
apparenza del uero. Perciò che è aſſai als l'huomo ſaggio, che le buoneragioni
gliſieno ſemprequelle ſtelle, da quelle ne prenda la ſimiglianza del uero, che
per lo più muoue le umane menti, oin eſſe ageuolmente ſi pone, al che fare,
opportuna, ocomoda coſa é ricordarſi, in che maniera per lo pulſato l'huomo ſe
ſteſſo habbia ingannato, o in qual modo ancora, e per qual cagione altri
ingannatiſi fieno da loro medeſimi, in uero te ne riderui, uedens do alcuni che
penſano, ogni coſa, che precede un'altra, cffer di quella cigione, ò che lo
eſſer fimile ſia il medeſimo. Ne per ciò direi che l'os pinione fuſe
ignoranza,comenon dico, eſſa eſſere ſcienza, perche la ſcienza e stabilità,o
fermata da uero, e infallibile argomento, en la ignoranza non è di coſe uere.
Onde naſce,chela opinione è un abi to mezano tra il uero intendimento, o
l'ignoranza, differente dal dia bitare in queſto che la opinione piega più in
una, che in un'altra par te, il dubitare tiene in egual bilancia la mente tra
l'affermare, o il negare, eye però biſogna riuocare in dubbio le coſegià
ammeſſe,e di mojtrare quäto pericolo ſia il giudicare. Da queſtone naſcerà la
que ſtione, e la dimanda, la quale diſponendo le menti alle ragioni; quan to
leuerà della prima opinione, tanto porrà di quella, che tu uorrai, o à ciò fare
uia non é appreſſo quella che ua per le ſimiglianze delle coſe.Partipoco,ò
Anima,cotesti uirtu? penſi tu,che ſia cosi facile il perſuadere? ó credi tù
chegià biſogni con dritto giudicio, o con ſal do intendimento penetrare dalla
ſuperficie alla profondità delle coſe? A N. Da che occulta radice l'apparente
bellezza dicoteſta tua figli uola,nel cuiadornameiito la Natura ſola non baſta.
NAT, Ora ogniſentimento mi ſi ſcuopre, ó Anima, da costei, emanifeſta uedo
eſſermifatta la cagione,per la quale molti miei amiciſono diſonorati. ART. Quai
ſono coteſti amicituoi? NAT. Quei, che inueftis gando uanno iſecretimiei, le
ripoſte cagioni delle coſe,i movimenti, le alterationi, &i naſcimenti
d'ogni coſa, o che non ſicontentano di ſtare par pari de gli altri
huomini,manobilitando la ſpecie loro con le dottrine traſcendono i cieli. AR.
Che ſtrano accidente può ueni re à perſone cosi pregiate, come ſono iſeguaci
tuoi, ogli amatori della Sapienza,i quali comerettori delmondo, felicißimi,er
beatißis mi eſſer deono riputati? NAT. Queſti fedeli miei à punto ſonoquel li,
che più de gli altri ſono diſonorati. An. In che coſa? ART. Aſcolta digratia;
mentre che gli ſtudioſidi meſi ſtannoſoli, ein par te ripoſta comeſchiui
dell'umano confortio,non é loda • grido onora to, che con ammiratione delle
gentinon gli eſſalti o inalzi infino al cielo. Mapoi che compareno, et uěgono
alla luce,ſono prima da ogn'u no guardati, si per la eſpettatione già conceputa
della virtù loro, si an cora per la nouità dell'abito, o dell'aſpetto,et del
portamento,ogn's no lor tiene gli occhi addoſſo, a attentamente ſi dimoſtra di
uolergli udire. Io non ti potrei eſprimere con che grauità poi aprono la boca
ca, e con che tardezza poimandano fuori le parole, etquanta ſia la dimora de i
loro ragionamenti, i quali poi che da principio nonſono in teſi dalle
genti,comecoſe lontane dalla umana conuerſatione, non cosi toto uiene lor tolta
la credenza, per che purſiattende coſa miglios respire conforme alla opinionede’uolgari,iquali
dalla prima eſpets tatione inuiati danno i ſeſteßi la colpa del non capire la
profondità de' concetti loro. Mapoi che nel ſeguete ragionare s'accorgono pur
in tutto di non poter’alcuna coſa da que'beati ritrarre, et che ogn'os ra più le
coſe intricate, ar le parole aſcoſe ogni lume d'intelligenza Hanno lor
togliendo, quanto ſcherno, Dio buono, jego quanto riſo ſe ne fanno. AR. Jo
grauemente miſdegno, ó Natura, & mi dolgo di ſimili auenimenti, poi chegli
infelici non fanno drittamente ſtimar le coſe, benchefino al fondodi eſſe
paſarſi credono,maforſe è, cheſtan do eßiſemprein altro, quando poi allo in giù
riguardando ueggono l'altezza loro, a la profondità delle coſe terrene, uanno
uaccillando con gli occhi; ocomparando il cielo alla terra, ſtimano ld terra un
minimo punto, o una bella città un niente che nobiltà, che chiaa rezza diſangue
può eſſere appreſſo coloro, che ſeſteßicon la eterni tà miſurando, tutti da uno
ſteſſo principio uenuti affermano?Che rica chezzaſarà grande appreſocoloro, che
ſi ſtimano poſſeditori del cie. lo? qual prouiſione daſoſtentare i popoli farà
colui il quale quaſipa ſciuto del cibo de i Dei,altro non guſta, altronon
ſente,altronon din fia,cheſempre ſtare alla ſteſſa menſa? ne credono, che
altriſieno in bi sogno? Queſte coſe io direi in loro efcuſatione. Ma che
midiraitu di quelli cheſonoſtudioſi della vita ciuile,ochefanno le cagioni
de’mu. tamenti de i Regni, e delle Rep.le conditioni de principi, gli ufficij
di ciaſcuno,le uirti, gli abiti uirtuoſi? Non credi tu, che queſti ſie no più
auenturati de gli altri? NAT. Peggio, percioche il ſapere ciaſcuna delle dette
coſe,hauer le diffinitionid'ogni uirti, ocoa noſcere diſtintamente ogni buona
qualità,non é aſſai, ma egli biſogna uſar tanto teſoro al governoaltrui per ſalute,
ocomodo uniuerſaa le, e oltre all'uſo hauer parole al preſente maneggio oalla
ciuile uſanza accomodate. ART. Dondeprocede coteſta loro cosi ſot tile
ignoranza: forſe cosi eleggono penſando di eſſer' hauutiper dot
tiæintelligentiparlando in cotalguiſa?Ma questa é una groſſezza infinita,perche
non é piacere, che s'agguagli àquelloche prende ľa ſcoltatore quando impara
&intende ciò che uien detto.Sai tu duns que la cagione di cosi fatto errore?
NAT. Forſe è,perche non ha uendo eſsi alcuna eſperienza della conuerfatione
cittadineſca, fanno quelguidicio dimolti cheſonoſoliti di far d'alcuni pochi,
loro come pagni,co i quali tutto’l giorno con uarie diſputationi argomentando
trapaſſano,ne mai ſono riſoluti. ART. Et io ancora cosi credo, pe rò guardati ó
Anima, di non entrare nel loro no conoſciuto collegio, ò ſe pure ui uorrai
entrare tanto iui dimora,quanto alcun giouamen to ne puoi ritrarreper la ciuile
amminiſtratione. Nel resto pronta, et ſuegliata nel coſpetto degli huomininon
meno alla ſcuola eall'acas demia,che alla piazza,alla corte, o alſenato
intentafarai, o uſans do. D E L L A. doistiche le gi,con mozeme uoci
raptorersi, percbe riund coſa é få mots, creudire ripublicico:lizále uanie dig
esioni, o le Haitat parole di moint, i quali razlo" 2r.do le ébloro per la
Città frendere unsguerra,realize, ne: i mezi di efl: u21 riguardando, riaprindo
le ſcuole de presa deguono, di 7: oro, oargos:ht::opia ficcrente del mondo, o
cercano chifu il primo ins kantore deli'arxi chifrino in ROMA trionfale,
cbisitrouo le naui, chui brizla i czasu, et ilere ciance si fatte,cbenc
irfegn2":0,ne dis last250,14.1widojiore della prostione de' daruri, delle
genti, o del *010, col quale s bubbis a fartal guerra. Il percbelo. To poi
auies fie, cbei nero perini,çia deguamente di loro parlando, ſono con grue de
11ratione acoltati. NAT. Cotto e mio dono,percbe ditus to potere affreuz! cusi
mi truono,che wina forzaglimetto irrar ci i tuoi ſegussi. AR. Et forſe corne
sfrenati causlii, gli fai tel mezo del coro pericolare; pero sili eccellente
natura,che ta lorda, sorrei che mi falje l'aiuto rio.percbe meglio, o çik
ficuri aadribs 6290 per lefiziglianze dre coſe. An. Bisogna dunque pik skatie
rigliz- guardare, cbe al wero? A R. Cosi biſcgna; o quedo porriaz slitacels il
facesi, sı il donerci tu fare, o ciaſcuno, che * pis airtai perjuadere, accio
cbe fiso aſcoltato, o inteſo dude geri, lezasli barefeito -Is bagis nga 14.0,
får cbe in ejja las casicae spetto dd zero. Queto per fo cjjere, cbei şià f-
931 babe bis 10 c50 surorit: b4xx.: predoi popoli cbei nácti inges gs. An.
Dizni gratis, çusio é cbegli buozi idaro fede: cazzo, cbe apps uto, nos lo
faze0 percbeloro piace il nero? Ar.. As. Paepiuere già saco: 507 co:cf-:: ta?
Forzz aidake,che il sero lis és glicucuitico? Ax Pacte danese giàceil serezos
bruszni P -T271? AR Perikliois tragises filer cxz. AX. Aja -- 22:04 ks:0
600leri: del bero. Às. SostraTrao Adira.secte lazaratsie sesi tid: acts
indiscrezi!4.cezecklacteaefepie regiaze, o lomatto; c (72.0: 1, o
Resmitironine. cedriersdieedia 2.3 " To Rossiradizioro Boricitis 32 2
ciasto nigirisececeáciless Aires22:22: carte.ro 2:46, 13:3050: 22: 15: 4:15,cheſe
la opinione con la ragioneſarà legata, per modo niuno potrà fuggire,anzifuori
dell’eſſerſuo leggiadramente uſcita nõ più opinio ne,maſcienza ſi potrà
nominare. A N. Dimmi, ſe'l uerifimile e tale ad ogn'unoegualmente. AR. Nó. An.
Che differenza ci fai tu? A R. Grande. Ben'è uero,che quando io dico ueriſimile,
io intendo ciò che pare alla più parte. Ma diſtinguendo dico, la più parte però
effere ode gli huomini ſenza dottrina,o degli huomini letterati. Et altro ſarà
il ueriſimile,che parerà à gli Idioti, altro à iperiti. AN. Inſegnami à
conoſcere queſto uerifimile. AR. Il ſegno della ſimia glianza alcuna fiata ſi
ritruoua in eſſaſuperficie delle coſe, cheſenza diſcorſo di ragione ſono
riceuute,o appreſe daiſenſi umani; da ciò naſce il veriſimile, che pare
egualmente a tutti, come auienedimolte miſture, che's'aſſomigliano à l'oro,
cheſe il giudicio filaſciaſſe al ſenſo ſolo,per oro da ogn’uno ſarebbono
hauute. Alcune uolte il detto fe gno emeſcolato con alcuna ragione,accompagnata
col ſenſo, oque sto é quello, che pare àmo!ti. Speſſo più di ragione, che di
ſenſo ſi mette, e ciò è quello,che pare à i piùſaggi; o quarto più dalſenſo
s'allontana,o s'accoſta la ragione all'intelletto, tanto de' più saggi, edi
pochi ſarà l'apparenza del uero. Ma laſciando coteſte più ina
terneſomiglianzedel uero, bauendo tu àfare. con la moltitudine, quelle
attendi,che a tutti,ò alla partemaggiore appariranno; &co: si ogniforza di
proponimento nelle altrui menti rompendo, farai la uoglia tud. AN.
Queſtomipiace. Ma uorrei, che tu m'inſegnaſi à congetturar quello chepuò eſſere.
Dimmi, ſe n'hai ammaeſtramen to alcuno. A R. Dimandane pur la Natura. AN. Non
n'hai tu ancora poter’alcuno? A r. sibene; ma la Natura operando, Sa meglio
dime,quello che èpoßibile. An. Dimmi tu dunqueò Naz tura,quai coſeeſſer poſſono?
NAT. Tutte quelle il principio delle quali ſi ritruoua. An. Adunque ui ſarà
l'arte deldire, poi che'l prin cipio di lei ſi truoua? ilquale nõ é altro, che
l'ojferuatione,che fu l'Ar te di te ó Nitura. Ar. Che uai tu mettendo in dubbio
quello che fie qui habbiamo fermato? ſegui. NAT. Se quello chepiù importa, ò
che piie uale, ò che ha più difficultà, fiuede, ſenza dubbio il meno
importante, il più debile, il più facile ejer potri. A n. Adunque ſe l'arte
puòridurre gli huomini rozialla uita ciuile, meglio potrà gli ammaeſtrati
inalzare algouerno della Città? A R. T4 pur uti argomentando. AN. Mercé tua,
che giàmiſei fatta familiare. A R. Queſto ſo io, che poſſeduta che io ſono
dalle anime,dimoſtro il. Α ualore, il piacere, o la facilità dell'operare. NAT.
se può eſſer la cagione, chivieta che lo effetto non posſa eſſere? et ſe
queſtoé, quel la di neceßità ſi haue. Quello che ſegue dimoſtra,che può eſſere
quel lo che antecede. In ſomma ogni coſa può offere, di cui naturale appeti
toſi uegga, o dalla poſibilità delle parti naſce quella del tutto. Dals
l’uniuerſale il particolare, o dal meno quello che più comprendeſi congettura.
Vna metà, il ſimile, il pare ricerca l'altra metà, l'altro Simile, o l'altro
pare. Etſeſenza arteſi puòfar’una coſa molto me glio ſi farà con artificio, ſe
chi meno può opra, chi più può non opes rera egli ancora? Chene attendi più,ſe
queſto ti può eſſere à baſtan za à farti aprire gli occhi è ritrouare il fonte
della eloquenza? AR. Et io già mitruouoſatisfatta in queſta parte,che alle coſe
appar tenenti all'intelletto ſi conuiene; però aquelle io uorrei,che paſſaßi,
lequaliſono da eſſere ne gli appetiti collocate.Et attendo,che tu quel le
brieuemente mi dimoſtri,etdiffiniſca, acciò che l'anima oggimaicõ. tenta
dellaſeconda promeſſa,alla terza,et ultima ſi riuolga. A N. Per qual cagione, ò
Arte, dimanditu le diffinitioni della Natura? ejendo ſuo carico il diffinire. A
R. Perche ora io non attendo le eſquiſite, Oregolate diffinitioni,maquelle che
dalla più parte delle gentiſono ammeſſe, delle quaiquaſiſenz'artificio ſe ne
può formare un numero infinito. An. Tu ſei molto circoſpetta. AR. Seguiò Natura,
féle coſe àgli umaniappetitidi lor natura piacere, o dispiacere posſo no
apportare,òpur l'Anima ne li fa tali. NAT. Senza dubbio non folo elaAnimaha
uirtidi apprendere, ofuggire le coſe, ma in effe ancora e nonſo cheda eſſer
fuggito,ouero abbracciato. Quädo adun que tra la coſa, o l'animaſi truouaalcuna
conformità, allora lo appe tito ſi muoue ad abbracciarla, o queſto mouimento,ſi
può dire, no minar defiderio,ilquale è appetito di coſa che nõ ſi
poßiede,cõforme però à quella uirtù ò parte dell'anima, che l'appetiſce; ma
quando no ui é queſta conformità,tra gli oggetti, o l'anima,ella gli aborre, o
fugge, né ſolamente oue o anima,oſentimento ſi truoua cotefti ab bracciamenti,e
fugheſiueggono,ma doue occultamente io ſonoſoli ta di operare, doue non éſenſo,
ociò faccio con un ſemplice inſtinto, ilquale al mio poteree tale, quale al tuo
é la conoſcenza. Coteſto in ſtinto ogni coſa conduce alla conſeruatione, o
albene; & dalmale & dalla morte il tutto ritragge quanto può. Maper
dirti de gli huo mini, ſappi, che eſſendo tra le coſe oppoſte, ole parti de gli
animi lo ro,conuenienza,quando auiene,che quelli ſíenopreſenti,oche laſcia no
impreſſa la loro qualità,in quellapartechegli appetiſie, allora ſi genera
ildiletto, e l'allegrezzanata dalla morte delprimo deſides rio, perche
poſſedendo la coſa deſiderata, il diſio è già conuertito in piacere.
Ilqualpiacere altro non é,cheadempimento di uoglie. Tu conoſcerai, cheil guſto
tuo bauerà conformità con le coſe dolci; da queſta nenafcerà
l'appetito,auenendo poi,chele coſe dolci uicine fica no à quella parte,doue il
detto ſenſo dimora, eche in eſſa laſcino la lor qualitàimpreſſa,che é la
dolcezza, nonha dubbio,che quella par te nonſia per bauer diletto, egiocondità.
Il ſimigliante uedrai in ogni tua parte, Et per lo contrario ſi ſente noia, e
diſpiacereo nella priuatione delle coſe deſiderate, o nell'hauere le difformi,
oaborrite, ecome il principio di ottenere il bene era il deſiderio dalla
ſperanza accompagnato,cosi il principio di hauere la noia, era la fuga dal
timore commoffa. Etcome nella prima impreſione la ſperanza in gio is fi
conuertiua, cosi nella ſeconda la paura ſi tramutaua in dolore. Eccoti adunque
i quattro principali affetti diuoianime. AN. Vor reiſaperè,o Natura, in cheſia
poſta la conueneuolezza, che é trale coſe, ole parti mie. NAT. Percheioſono
tale in ciaſcuna coſa, quale io mi truouo, però nelle coſe eſaéripoſta per me;
maperche poi auenga,che io tale mi truoui in ciaſcuna coſa,dimandane chi cos si
ab eterno prouid. AR. Or l'anima tiparetroppo curioſa? ma dimmi quai coſe,à
qual parte dell'anima ſono conformi. NÁT. In fomma il uero é il bene, &per
tal cagione, quello che è uero,uien giu dicato bene. Ar. Che intendi tù bene?
NAT. Ciò che daogn'u no,e da ogni coſa uien deſiderato, &uoluto. A R. Qual
bene Ć cercato daữ’intelletto? NA T. Dimandane coſtei AN. il ſapee re, la dritta opinione. NAT.
Dalla uolontà? AR. Ogniabis to di uirti. NAT. Da gli appetiti. AR. Ogniutilità
® dilets to AR. Che naſcerà poi, ò Natura, dal deſiderio ditai coſe? NAT. Lo
sforzo, o lo ſtudio de'mortali per conſeguirle. An. Buui alcuno inganno de gli
appetiti intorno al bene, come ui é l'ingan no dell'intelletto intorno al uero?
NAT. Grandissimo. AN. Et come ſe il bene e cosi conforme all'anima? NAT. Non
hai tu udito poco di ſopra, come l'anima era d'intorno al uero, opure anco il
ue to le era molto conueneuole, et proportionato? AN. Ben'inteſi, che la
cognitione del uero era molto confuſa, riſpetto alla fantaſia. A'R. Cosi é. Et
di nuouo ti dico, afferino,che ogn'uno confufae mente apprende un bene,nelquale
par che l'animo s’acqueti, et quels lo deſideri,mapoi da gli appetiti
traportato (come prima era l'intele letto dalla fantaſia ) e aquegli rivolto
ſmarriſce la uera strada di quel bene, al quale ciaſcuno digiugner contende,
moſſo dalla interna forza della Natura. Et in quella ſtrada,orapiù lentamente,
ora più. velocemente camina, troppo è meno amando, et deſiderando quello, che
con miſura dourebbe amare,ò defiderare. Indië nata la ingorda uoglia delle
ricchezze, lo sfrenato appetito dei piaceri, vtalbora la pigritia, om
negligenza dell'ocio; &deſiderando altrilapropria con ſeruatione,
s'inganna, credendo,che il bene altrui,ſia la ruina ſua,oue ro temendo di
perder’i ſuoibeni, fauori,gratie,amiſtà,onori,o lodi, ſi muoue alla ingiuria,alla
inuidis,alla uendetta. Et di qui naſce quello di che tutto di ſi contende fra'
mortali, il giuſto, lo ingiufto,ildouere, l'equità, l'utile, oaltre coſe, che
ſono cagioni di liti, o di conteſe Per il diletto adunque, & per il comodo,
ciaſcuno ſi muoue à fare. Et benefarà quello, alquale ogni coſaſi riferiſce,
ouero ſiriferirebbe, • perragione, o per appetito, o per natura.Et ciò
cheopera, difende, conſerua,accreſce,accompagna, ſegue,ordina,et ſignifica il
bene,bene ſi chiama, operò la felicità, o tutte le parti ſueſarannobuone, a le
uirtie ſopra tutto ſono benidiſua natura degni,bencheàmoltinon ſono cosi
apparenti. Ilpró,l’utile, il piacere ebene, perche l'utile ė mezo di conſeguire
il deſiderio, oil piacereè moltoalla natura cona forme. A N. Fermati un poco,
& dimmi,come non eſſendo beni cosi apparenti le uirtù de coſtumi,gli
huominiſieno uenuti in cognis tione di quelle: AR. Credi, ó Anima,che ogni
maniera di bene, che appare à gli huomini, éſimiglianza di quel bene, che non
appare,e chi uuole drittamente giudicare da coteſti apparenti beni, potrà ris
trouare la uia di peruenire alla cognitione di quegli, cheſono in ſebe ni, o
che fanno la uera, es ſola felicità,più deſiderata,che conoſciu taima non ſta
bene ora difiloſofare intorno a tal coſa. Baſtiti, ch'io ti ritruoui la uia,
per la quale gli huomini ſono andati a ritrovare i beni dell'animo, o le uirti
interiori. Dicoti adunque, che uedendo i mortali nel corpo umano molte buone
conditioni, hanno congetturas to, ancora nell'animo ritrouarſi alcune ottime
qualità, à quelle del cor po in qualche parte conuenienti. Dimandane la Natura,
quali ſieno le doti del corpo,che tu ſaprai da me poſcia quali ſienogli
ornamenti tuoi. AN. Dimmi ò Natura, fe egli ti piace, diche beni adorni tu i
corpi umani? NAT. Prima diſanità, o di forza,poidi bellezza, O d'integrità
diſenſi. An. In checonſiſte la ſanità? Nat. Nels la. la proportionata
meſcolanza degliumori principali, enell'uſo di ej 14,6 queſta proportionata
meſcolanza, ueramente ſipuò chiamare una egualità ragioneuole. ART. Credi tu, o
Anima,di eſſer’al corpo inferiore? AN. Non già. ART. Credi adunque, che in te
eſſer deue una certa egualità. Il cui ualore conſiſte nell'uſo. A N. Quale uuoi
tu che ella ſia? AR. Quella che Giustitia ſi chiamna,fers ma, o coſtante
volontà di render a ciaſcuno ilſuo. Ma che dici tu delle forze? NÅT. Dico, la
gagliardezzaeſſer’una uirtù del cor po,poſta nel potere à ſua uoglia
abbattere,atterrare,et uolgere ogni alieno impeto con leggiadria. AR. Bella,
aneceſſaris uirtù neli aa nimo. Perqueſto giudicarono ifaggi,eſſer la fortezza,
laquale reſis ſtendo à gli impetidella fortuna,ſola nė"ſuperbanel bene,ne
uile nelle auuerſità ſi dimoſtra, &fola guida nella militia della uita mortale
uin cendo,glorioſamente trionfa. NAT. Che dirai tu della bellezza del corpo,
laquale è una proportione di membra, o di parti tra ſe ſteſ fe, o col tutto
conuenienti dauiuacità di colori, et gentil gratia acs compagnata? AR. Tumi
dipingila temperanza dell'animo,laqua le in ſe ſteſſa raccolta,
ecompoſta,inuera, o proportionata miſura conſiſte, tanto può di dentro,che di
fuorinel corpo il ripoſato, o quieto penſiero uedi, dolce, ogratioſa maniera ſi
conoſce, & quafie una conſonanza di tutte le conſonanze. NAT. Che coſa
trouerai tu nell'anima,conformealla integrità dei ſenſi, come alla bontà della
uiſta, alla perfettione dell'udito, « al uigored'ogni ſentimento? ART. La prudenza,
la quale consiste in saldo, o sincero conoſcia mento delle attioni umane: A N.
Egli mi pare, che io ſia da Dio creata à fine, che le coſe mie fieno ſcala
all'altezza di quello. AR. Che penſitu altro, ò Natura? NAT. Nulla, ſenon che
conchiudo frame, che gli huominiſi ſieno aueduti delle uirtú interiori per le
qua lità eſteriori. AR. Senza dubbio, a molti anche ſi ſono ingannas ti, oper
una ſimiglianza, che hanno le uirtù con alcuni uitij, se lo Cangiando il nome
hanno detto chela tardezza ſia moderata pruten za,la liberalità ſia la
larghezzaſenzamiſura; e cosi all'incontro il prodigo ſia liberale. Et non hanno
conſiderato, eſſergran differenza tra il ſaper dare, er il non ſaper
conſeruare.Et queſto è quel ueriſimi le nei beni, che muoue ſpeſſo lementi,
ogli appetiti umani. Orain brieue l'ordine,l'ornamento,e la coſtanza delle coſe
handimoſtra to le uirtù, ou appreſſo la concordanza di tutte le operationi, o
la grandezza, che le ſopra feſteſſa inalzają si come in ogni arte, com in ogni scienza
biſogna hauer’alcuna coſa manifesta, e chiara, dalla quale da prima ella naſca,
o s'augumenti,cosinella felicità, bed ta uitaſi richiede,
euidentefondamento,preſo dui benimanifeſti à i ſen ſi umani,dalquale
s'argomenti il uero, ottimo fine, operò dalle predette coſe ſiſtima,quella
eſſer felicità, che con proſpero corſo tracorre,tutta diſeſteſsa, tutta di ſua
uoglia, tutta piena,tutta d'ogni parte abondeuole, ocopioſa, eyd'intorno à tai
coſe ricordati ſeme pre della diffinitione, da unaparte conſiderando, che coſa
é bene,di! l'altra diſtinguendo quello che é del corpo, da quello, che é
del’ani mo, e come ciaſcuno in molte parti ſi diuide.perciò che cosi ne trar:
rai quella abondanza di coſe che tuuorrai,doue meritamente la pres detta
parteſi può dar tutta alla inuentione, laquale e il fondamento della noſtra
fábrica. Partidoadunque tutto quello cheſotto il nome di bene, ò uero, ò
apparente ſi conciene, trouerai la felicità con tutte le ſue parti,o trouerai,
che'l fuggire dal maggior male,ſia bene, et l'acquiſto delmaggior bene, « il
contrario delmale; & queſto, pera che molti s'affaticano, e che i nimici
lodano alcuna fiata.Et che ſifa ſenza incomodo, feſa, fatica, ò tempo, ſe é
diſiderato; ofinalmente tutto è bene,uero, apparente, v dubbio, quello che
uiene deſiderato. AN. Che dirai tu del piacere? AR. Grande ueramente è la fore
za del piacere, & del dipiacere, percheſin da fanciulli ſi uede, che il
tuttoſi fa per tai contrarietà. Et s'io uoleßi pienamente ragionarti, io non
finirei cosi toſto, però di eſſo alcune brieui ſentenze io ti pros pongo,dalle
quaiſe ne ritrarrà quella ſimigliäza di uero, che in tai be niſi può trarre.
Dicotiadunque,che quelle coſe grate ſono, dipid= cere,che ſono alla natura
conformi,come hai diſopra ſentito; pero à ciaſcheduno grato ſarà quello,à che
eglidi natura ſua ſaràinchinas toje per la medeſima ragione,foaue,et gioconda
coſa é la conſuetudi ne, come quella chemolto alla natura ſi confaccia. Perche
quello, che speſſo,et per lo più ſifa, è molto uicino a quello che ſempre ſi
ſuolfa re. Caro e quello,che non ſi trde per forza,perche la forza é contra
natura, onde i trauagli,lecure, e ogni maniera diſtudio, odi pens ſiero,che
turbi la quiete dell'animo, perche é uiolēto,arrecca moleſtia o diſpiacere.
Seforſe la conſuetudine non l'ammolliſce. Cosi per con trario il diletto, il
giuoco, il ripoſo,la ſicurezza ilſuono, et la rimeßio ne, come coſe di ogni
neceßitá lotane. Néſolo col ſenſo uicino ſiprende piacere delle coſepreſenti,
ma con la memoria,con la ſperanza,del lequali una riguarda le paſſate, l'altra
le future. Lepaſſate apportano nella ricordatione aſſai diletto,perche la
imaginatione le fa quaſi pres ſeriti, e ſe erano graui, o noioſe, con lieto, o
piaceuol fine fatte ſos no dolci, eſoauile coſe buoneche hanno à uenire nello
ſferare con fortano, comele preſenti nel goderle,ouero nel imaginarle, ilche
ſuos le à gliamantiuenire, iquali non hanno ripoſo ſenon quanto penſano alle
coſe diſiderate. Lauittoria ė foauißima coſa, ó lo auanzare il compagno, or
però ogni maniera digiuoco ſuol dilettare la caccia, l'uccelare, la peſcagione,
et appreſſo l'onore,ogni gratitudine, ogniri uerenza,inſin l'adulatione piace
infinitamente. Lo imparare ancora é coſa piaceuole, onde la imitatione delle
coſe è giocondiſſima, tutto che le coſe imitate non dilettino, perche nõ la
coſa eſpreſſa,malo sfor zo, e il contraſto dell'arte ſuol dilettare. Indi è
nato, che la pittura, le statue,o l'opre finte aggradano chi li mira. Ne più ti
uoglio af faticare,o Anima,in dimoſtrarti,quello cheda te, et in te prouerai ef
ſendo con eſſo il corpo.o quanto ti fia dipiacere il dominar’ultrui il
comandare il ridurre à compimento le coſe incominciate, il veder riu ſcire ogni
tua deliberatione, e finalmente tutto quello, che al bene t’indrizzerà,ò dal
male ti ritrarrà. AN. Se queste coſe ſono buo ne, come tu di, per qual cagione
ſipuò errare nel deſiderarle, nel cercarle? A R. Due mouimenti,ò Anima in te
conoſcerai, l'uno de' quali da eſſa Natura riceuerai, e l'altro riporterai
teco. Nel primo niuno errore puoi commettere,perche non è colpa tua, che alcuna
co ſa ſi truoui,che ti diletti; ma nelſecondo ageuolmente puoi cadere, eſſendo
in tua mano il freno di non conſentire cosi à pieno à quella prima voglia&,
non riguardare alla ragione, che con certo conſiglio al gouerno de'primi
appetiti guidar tidee. Maperche per lo primo, O naturalemouimento gli
huominifanno il più delle loro operatio ni però debbonoeſſer ueriſimilmente
guidati,o é creduto per lo più, che ciaſcuno faccia con deliberatione quello
cheegli fa, ſeguendo il primo inſtinto; néſi conſidera che in teſi truoua uirtá
libera, o po tente,dalla quale ognilode, o ogni biaſimo procede. Etacciò che el
la ſiapiù drittamentegouernata, eccoti l'autorità delle ſacre leggi, nella
quale è poſta la ſalute, e la correttione d'ogniumano errore. Contra le
quaichiunquepreſume di opporſi, dal proprio conſiglio abandonato, è dato in
preda alle ſue proprie uoglie,e ſottoposto ale la pend, come quello cheiniquo,
o ingiuſto ſia. Ora in brieue ti dico, che eſſendo eſſe leggi nelle rep. àgli
animi quaſi medicine delle loro infirmità, o rimedijà i loro errori, biſogna
ſapere ogni maniera di gouerno, gouerno,
in che eglipiù fermo fia,da che uegna il cadimento di quels lo, et quanti
ſienoi contrarij ſuoi,per poteralla cõmune utilità con le Sante
inſtitutioniliberamente prouedere. NAT. Matu non dimo ſtri, ò Arte, che alcune
leggi ſono eterne, er immutabili, non da gli huomini ſecondo gli ſtati loro
ordinate, ma dallo editto diuino, o da me inuiolabili ſtatuite, communi,&
uniuerſali à tutte le genti, lequai non più allo Indiano,cheallo
Ethiope,eguali, in ogniſecolo, in ogni luogo ſi Sogliono ritrouare, non ne
igrandiuolumiſpiunati da' morta li,manel libro della eternità impreſſe,et
ſigillate in ciaſcuno che ci na ſce. AR. Coteſte leggi,ó Natura,non ſono
ritrouamenti umani, né ſecondo le occaſioniformate, ma eterne, econtinuate ad
un modo in permutabile, del quale non tocca à me il ragionare, «pint é quella
ch'io non dico di eſſe, o forſe quella equità,dichefpeſoſi ragiona, al tro
nonė, che la leggeſcritta nel cuore d'ogn'uno per correttione di quella cheè
poſta per commune uolere di ciaſcun popolo. An. Dun que nelle umane leggiſi
truoua errore? AR. Nongià, ma ben può eſſereche ilfondatoredi eſſe al tutto non
proueda,et chenon conſide ri molte coſe,lequaiperalcuno accidente, come, che
molti ne ſieno fanno uariare i giudicij, e in queſto caſo la equità, &
l'oneſtà può aſſai, operò molto prudente, oqueduto biſogna cheſia, chiunque
forma le fante leggi, « che il più che può tolga il potere à gli huos mini di
giudicare da ſe ſteßi. Però cheben ſai, quantopericoloſopra ſtà nel giudicio,
riſpetto allo amore, all'odio, e ognialtra perturbae tione umana. Matempo è, cheſi
dia fine à queſta parte, perche aſſai sé detto d'intorno alle uirtù
dell'anima,e d'intorno alle coſe appars tenenti ad eſſa, si di quelle che allo
intelletto, come di quelle, che ape partengono allo appetito. In quanto che
elle hanno ſimiglianza del uero, delbene, dj appartengono alla inuentione. A N.
Tutto che ó Arte, inanzi à gli occhimiſieno le coſe, che tu m'hai dimoſtras te,
hauendole tu ſopra la Natura delle coſe ſtabilite,pur uorrei ſapes re
alcunſecreto, come diſopra molti me n'hai ſcoperti, quando tra noi ſi ragionaua
delle parti mie. AR. Io non per naſconderti alcu na coſa miſon taciuta,
maperche eglimipare, cheda te ſteſſa potrai ogni ripoſte bellezza conſiderare,
uedere, che da que' beni che di ſopra habbiamo diſtinti,naſcono treparti
principali dello artificio no ſtro. Però che ſe il bene é utile,nenaſce quella
parte, che é posta nel conſigliare, laquale ſi uſa neiſenati. Se'l fine è
giuſto, quell'altrapare te, che delle ingiurie ciuili,ò criminalitra i popoli
fa mentione, felfie ne 1 1 ne é honeſto, allora ampia, o magnifica materia
ſipreſta di lodare nelle pompe, et ne i trionfi le opere glorioſe, ma il ualore
delgraue, o riputato Cittadino,primanel ben fare,poi nel ben conſigliareſi di
moſtra. AN. Diche coſa più ſi conſiglia? AR. Di quello, che: più abbraccia
l'utile uniuerſale. Etprima d'intorno al corpo delle uettouaglie, odel uiuere
per ſoſtenimento di ogn'uno, odella difen fione per ſicurtà de i popoli, delle
ricchezze perſoſtenere la difes Ja. Dapoi delle ſacre leggi, e della religione
per ottenere l'ultis mo, o deſiderato fine. ANI. Che ſi ricerca nel conſigliare?
ART. Prudenza, beneuolenza, animo, ſecretezza, e celeris, tà nello eſſequire. A
N. Gli ineſperti adunque,imaligni, i timis di, i uani, i pigri huomini, non ſono
atti al conſigliare: ART. Non già. Necoloro, che non ſanno conſigliare ſe
ſteßi. Ma odi: alcuni ſecretidi queſta parte, forſe non uditi fin'ora. Vuoi tu
ſapere un modo mirabile di conoſcere glianimi de' mortali? AN. Queſto eil tutto.
A R. Sappi,checiò, che ſecreto nell’hkomo ſi truoua, forza cheſia in alcun
ſentimento di eſſo,ò di dentro, o difuori.Sentis, mento chiamo ora ogniparte di
te ó Anima. Et però uolendo tu ri trouar coteſto ſecreto, tenterai ogni
ſentimento, perche quando es toccherai quella parte,nella qualee ripoſto il
ſecreto di alcuno, o pia ceuole, ò noioſo,che egli fi fia,ſenza dubbiomanderà
fuorialcuniſea gni,comemeſſaggieridelle uoglie ſue,ocon alcuneſimiglianze dimo
ſtrerà quello,che egli ſipenſa di haueredétro diſe naſcoſo; aguiſa di una corda
chealſegno tirata di un'altra; quandoritruoua la conſon: nanza,ſimuque, a ſuona
di pari armoniacon quella.Da queſta reues, latione dipende la uittoria, eu
l'onore di chi parla nel coſpetto degli huomini.Etqueſto è un ſecreto ripoſto
aſſai, wodegno di penſamento.. L'altro è, che a conoſcereil giuſto, e lo
ingiuſto,biſogna riguardas re al fire,alquale ciaſcuna coſa deueeſſer
meritamente riferita, pera, che quando ſia, che dal debito fine alcuna coſa ſi
rimuoua, allora ne ng ſce la ingiuria,la quale éuna eſpreſſa maniera di
ingiuſtitia. Aqueſta ingiuria altri ſono più diſpoſti a farla, che à patirla,altri
per lo cons, trario. Et questo biſogna conſiderare per potere in quella parte
uas lere, ii cuifinalgiudicio rizuarda il giuſto, o l'ingiuſto. Altri ſes creti
ui ſono, ma io mi riſeruo là doue della applicatione ragiones remo, cioè
quandoſi dirà il mododi porre le coſe nell'anima. Ma che marauiglia è queſta?
doue é gita l'Anima, ò Natura? Perche te ne ridi tu? come ſono ingannata? come
tolto mi viene il poter ſeguire E l'incominciato ragionamento? NAT. Aſpetta ó
Arte, non titurs bare, toſto merrà, con chi tu habbi à ragionare. Ora uoglio
che noi ci tramutiamo, o che cifacciamopalpabili, o viſibili. AR. Che
mutationimiusi predicando? NAT. Taci, attendi. Eccomi qui di corpo,e di formaumana.
AR, Guardami ancora tu, ch'io ſo no trafigurata,à chimiſomigli tu o Natura? NAT.
Io non ſaprei à coſa alcuna ſimigliartijmubene io uedo, che tu hai molto del
graue nell'aſpetto, e nello andare, onel uestire,et à pena io ardiſcofiſarti.
gliocchi à doſſo. Et mi viene una certa tenerezza di lagrimare. A R. Coteſto é
ſegno,che tu mi ami et riueriſci;et tanto più ch'io ti ſcorgo un certo roſſore
nel uolto, e ti odo ſopirare. Ma che ti pare de gli occhi miei? NAT. Tu
haideldiuinoin eßi,come cheſieno di coloa re celeſte, o di luce penetrante. A
R. Et de capelli,chedi tu? delle ciglia? NAT. Quelli ſono neri, a queſte rare,
e di oneſta grandezza. ART. Saitu di cheſieno ſegni le predette coſe? NAT. Non
già,ma bene ſtimo, che tu t'habbifigurata in quel mo do difuori,che tuſei di
dentro, cioè piena d'intelletto, edi capacità ftudiofa delbene,folerte,er
ſuegliata comeſei. A R. Tudi il ues ro, e dipiù il naſo aquilino, le orecchie
egualiil collo brieue, il pete tolargo, le ſpalle große, le braccia, le palme,
ø i diti lunghi, tuttiſou no ſogni euidenti dello eſſer mio. NAT. Ma tunonſei
peròtroppo grande,bencheiltuo mouimento ſia tardo, elo ſtarediritto, chedie
moſtrino te manſueta, umana, a piaceuole. Ar. Se non fuſſe il mio continuo
penſamento, mi uedreſti ancora più allegra. Ma guarda quantiſtrumentiadoperar
mi conuiene perporre in opra quello che io nella mente diſegno. NAT. 10 ſono
dite più ſemplice, o piis ſchietta comeuedi. AR. Tu mifai ridere con tante
mammelle. NAT. A punto io fo ridere ogni coſa per tante mie mammelle, pero che
credi tu, chelefemine, noni maſchi habbiano tai parti? AR: Perche le femine
ſono quelle chepartoriſcono, però biſo gna, che come eſſe danno la uita, cosi
diano il notrimento,etperò han no le dette parti come iſtrumenti della
nodritione. NAT. Quans te adunque nedebbo hauer’io, eſſendo madre dituttele
coſe? AR. Tu hairagione,ma chi é quel giouane cosi bello, che incontro ne uie
ne? NAT. L'anima,che poco dianzi era ſola,ora è accompagnata col corpo. AR.
Chemiracoli fai tu ò Natura? NAT. Credi tu Arte ſapere ogni coſa? AR. 10 fo
bene quello, che credo, ſo che le genti non crederanno queſte mutationi, che tu
o io facciamo. NAT. E LO QVENZA. NAT. Pochi ſono i ueri Sauij., però non diamo
orecchie al uolgo. Eccoti il deſiderato aſpetto, conſidera o miſura le parti
fue, che ria trouerai bella,o proportionata compoſitione. Ar. Che carne gen
tile, odelicata, non però troppo molle, guarda chedignità,che maa niera
chefronte allegra, « ſignorile,chipotrà dire che egli nonhab bia ad eſſere
pieno di coſtumi, o d'ingegno? NAT. Ben ſai,che io gli ho la promeſſa ſeruata
in tutto. ART. Rallegromi ueramen. te, o mi pare, che tu ſeimolto miglior
maeſtra di me, ma che nome gli daremo?.NAT. Quello che conuengaà chi lo fece.
ART. Io ne ho poco che fare. NAT. Anzi tugli hai dato, & darai il
miglior'eſſere;ben’è uero,ch'io ne ho la parte mia, o il mie fattore la ſua.
ART. Chiamiamolo dunque DINARDO. NAT. Perche? AR. Perche Dio, Natura, &
Arte il donarono. NAT. Tu mi allegri con tal fabrica di nomi. A R. In molte
lingue io ho queſto potere, il quale e poco da gli huomini conoſciuto. NAT.
Mipiace, ma perche non l'hai tu dacapo a piedi minutamente miſurato? AR.
Micuſui lo hauerglidimoſtrato, che la oratione eſſer dee.comeil corpo umano, o
hauere principio,mezo, & fine.Etche le partiſue deono corriſpondere à
ſejteſe, al tutto con dignità,e decoro? Et si comenel capo ſono tutti i
ſentimenti del corpo, cosi nel principio eller deono ripoſti i ſentimentidella
oratione. A lui pofciaſtarà di ore dinar la predetta materiafecondo il biſogno,
facédolo auuertito, che i teftimonij delle opere de’ mortaliſono le coſe che
ſtanno d'intorno à quelli. Et però mi gioua di nominarle circostanze, percioche
fa cendo,o operando l'huomo alcuna coſa, ha ſempre inanzi,ò apprefe ſo il
tempo,il luogo,le perſone, il modo, ilfine, le quaicoſe fanno fede ſe
l'operaſua è buona, orea. Da coteſta conſideratione, ſi ſtima chi ragiond, e
con chi,ſe è la occaſione di dire ſe in questo, o in quel luo, goſtarà bene di
parlareſe ilfine è buono,et altre coſe,alle opere ap pertenēti. Ma tu
gratioſißimo Giouane, che con tăto fauore delcielo ſeinato,ti ricorderai tu
quelle coſe che dette habbiamo fin'ora? Non titurbure,cheio ſono l'Arte, e
queſta è la Natura,con la quale tu, eſſendo Anima ragionaſti. Din. In che
maniera ſono le coſe ſchiette, oignude, oin che forma ſono le compoſte,che cosi
uiſiete mutate, piacemi di hauerui riconoſciute, o cosi uiaffermo di ricordarmi
di quanto s'è detto. ART. 1o non mipoſſo ſatiare di guardarti. NAT. Che
giouanezze ſono queſte? ART. Non ti dolere, o Natura, che la bellezza delle
opere tue ſia da me riguardata con E 2 marauiglia. NAT. Poi che io à tale fon
uenuta, che pienas mente ho ſatisfatto al deſiderio tuo, e chef Anima pronta
s'è die moſtrata, comincia tu ancora ò Arte ad inſegnarci ilmodo, col quale
applichiamo le coſe all'Anima. Et perché non più aſtratte ſiamo,ma
compoſte,però voglio,che con le eſperienze degli ingegni altrui, eo con
glieſempi, cheſono oſtaggi della verità, e con l'uſo quotidiano, tu ti rivolga
à darci ad intendere la forza di L’ELOQUENZA UMANA. AR. Cosifarò. Ma tu ò
Dinardo, preſteraimi udienza, enon las ſciare à dietro coſa, ch'io ti dica.
Marauiglioſae ueramente la forza ola virti di LA FAVELLA UMANA. Perciò che oltre
alla intentione de i concetti e delle uoglie di uoi mortali, che per essa si
fuole con besneficio univerſale, &euidente diletto appaleſare, non é in uoi
ſentismento alcuno, l'appettito del quale non ſia da quellafieramente eccia
tato, e commoſſo; a chi uoleſſe di ciò prender debito argomento. ogn'hora,che
ueniſſe bene, riguardando à i modi, cheſiuſano tra uoi, ritrouerebbe le coſe à
i sensi ſottopoſte alcuna uolta effere di minor uirtù in muovere ciaſcuna il
ſenſo ſuo, che IL PARLARE, qualhora egli fia con bello, efficace, es
maeſtreuole modo formato, o fabricato, o appreſo doppo alcuna più profonda consideratione,
conoſcerebbeese fere QUASI INFINITO IL VALORE DI ESSO PARLARE,come che ſolo
allo intellets to dimoſtri la ſoſtanza, ela ragione delle coſe, it che à niuno
altro sentimento, quantunque la Naturaſempre atutti liberaliſima ſtata fia,né
é,në fu, nefarà conceſſo già mai. Quante cofe del cielo, quante delle
intelligenze, quante del divino PER MEZZO DELLA LINGUA, ſenza l'aiuto de
gliocchiò d'altro ſentimento ſi fanno? Il parlare èſolo dimoſtras tore della
ſoſtanza, IL PARLARE E SOLO PER UNIVERSALE MINISTRO DELL’ANIMA, IL PARLARE E
SOLO STRUMENTO DELLA RAGIONE, ma onde é o Dinardo, che ne gliquenimenti, et ne
gli atti degli huomini tanta forza discens da NELLE PAROLE? DINARDO. Credo
ueramente, cheeſſendocidato da eſſa Natura IL PARLARE, come tu dici, affine,che
LE NOSTRE BISOGNE, I NOSTRI PENSIERI ALTRUI MANIFESTIAMO, gran potere in quella
FAVELLA debeba eſſere, la quale da uero, &ſaldo intendimento, e da sforzes
uole diſiderio procedendo, tale difuori apparirà, quale di dentro nele l'animo
dimorando ſtaraſi. ART. Ben di. Eſſendo adunque le pas role come oſtaggi delle
uoglie, o de concetti, bifogna, come tra’ sis gnori auiene,dare gli oſtaggi
alle perſone conuenienti, e però prens dendo noi DINTORNO AL PARLARE quelmiglior
partito, che ſi conviene, soglio,che picde inanzipie mettendo or, gentilmente
più oltre pafé fando ritrouiamo le maniere, egli ASPETTI DELL’ORATIONE, oconfia
deriamo quale PARLAMENTO à qual coſa, età qual perſona fi conuenga. DINARDO. Di,
ch'io t'aſcolto. AR. Non è dubbio, che riportando IL PARLARE per gl’orrecchi
alle anime de gli ascoltanti, la forza dello intendere, o del volere, bisogna
in questo viaggio dar mouimento,et modo ad eso PARLARE. Perciòche lo
intendimento ó la uoglia nell'anisma ſi ripoſano, o iui come nel ſuo caro nido
dimorano, ne ſi potreba bono da quello senza ragione, et artificio, dipartire.
Al che fare accõa ciamente uoglioin prima che in ciaſcuna forma, o maniera di
L’ORATIONE ſi truoui IL CONCETTO DELLE COSE INTESE, ca DESIDERATE , il quale
par oraſia detto, ey nominato SENTENZA. Appreſſo uoglio, che ci sia lo
artificio dileuare LA SENTENZA dall uogoſuo, & là doue farà biſoagno,
leggiadramente portarla, perche SIMIGLIANDO LA SENTENZA AL RISPOSO E ALL’ANIMA,
diremo, che l'artificio sia la machina, il modo conueniente di levare il peſo
della SENTENZA dalla MENTE umana Ma perche si vede, che l'anima usa le forze sue,
oadopra il corpo come strumento, però à ciaſcuna forma di LA ORATIONE appresso
l'artificio, Ry LA SENTENZA, le ſidarà PAROLE, e uoci, per mezo delle quali potrà
l’anima delle sentenze la ſua uirtù, le forze ſue gentilmente ad opearare. Ma
perche aspetto alcuno non si potrà vedere, oueſieno le pare ti, la compositione
di eſſe, IL COLORE, i contorni, oifinimenti del tutta, desidero condonar alle
parole i suoi COLORI, il ſito, o le parti qua ſi membra, o i ſuoi termini,
accioche altri allo aspetto, o alla forma conosca quali oſtaggiſienodati
dall'anima DEI I SUOI RIPOSTI E SECRETI INTENDIMENTI. Chiameremo dunque i
colori FIGURE, le parti membra, il ſito compositione, il finimento chiuſa o
termine della oratione. Et perche uan a fatica ſarebbe la noſtra, le haueßimo
folamente formasto si bella creatura affine che ella ſifteſle, népunto
ſimoueffe, pexo come uiuo s'intende quel corpo, cui mouimēto e conceſſo, cosidaremo
AL NOSTRO PARLARE il ſuo paſſo, ò uero il ſuo corso, il quale ſifarà col ripofo
di alcune parti, e col mouiméto di alcune altre, come farſi vede ne gl’animali,
o perche con altro mouimentoſi muoue uno adirata, con altro un manſueto, o
altro é il paſſo d'huomo graue, & atteme pato, altro d'un leggiero, &
ancorafreſco di età, però nello spatio, per lo quale haverà da correre, o
caminare LA ORATIONE, uoglio che ſi conoſcaogni interna qualità delle cose
perlo mouimento, e per lo rispoſo di LE PARTI DEL SERMONE, ewe perchedi sopra
habbiamo dato à cias fcunaparte il nome che à formar UNA MANIERA DI PARLAMENTO ſi
richies de däremo ancora à queſta ultima il nome ſuo, si ueramente che il
riposfo, yo il mouimento delle parti ſotto uno steſſo uocabolo ſi rinchiuda,
poi chiamato fia ó Numero, o numeroſo componimento. Din, Qual Dedato
potrebbecosi belle figure, a fare, adornare, come fai tu ò Arte! Raccolgofin
tanto quelloche io ho da te sentito fin’ora, odi * co,che tu uuoi, che LA
ORATIONE habbia una qualità, che conuenga alle cose, o alle perfone soggette, o
queſta iſtessa qualità, formaá maa inierazò guiſa dimandi. Ari Cosie, DINARDO.
Tuuuoi appresso, che ciaſcuna forma primieramente habbia la sua SENTENZA, che
altro non è che il concetto della cosa, dapoi l'artificio, che é il modo di les
uarla dalluogo ſuo, ne queſto ti baſta, a però uuoi ire grandamente fi
conſideri con quai PAROLE si posſa pixi acconciamente RAGIONARE, a esprimere la
OCCULTA uirtù delle SENTENZE, diſponendo quelle PAROLE, e dando loro iſuoi
COLORI, o finalmente rinchiudendole in alcuni termini accio che ſieno alla SENTENZA
eguali, come l'Anima à tutto il cor. Spo, oaciaſcuna parte dare il fuo numeroſo,
e MISURATO mouimeto, che col ripoſo, o con la uelocità del tempo preſente ſi
miſuri. ART. Cosi u'ho detto DINARDO: Ogni coſa mi pare d'intendere ragioneuolmente,
ſolo che tu uoglia dichiararmi alquanto d'intorno a questo numero ſo componimento,
che NvMERo hai nominato. Et io fon diſpoſta àfarlo, sueramente, ch'io uoglio
prima partitamente ragionare, ego distinguere le maniere, e le forme predette,
decioche tu fappia il numero dici aſcuna determinatione. Dico adunque, lapris
smaguila, esla prima formadouer eſſere la LA CHIAREZZA, la quale ſotto dife
contiene la PURITA, o la ELEGANZA del DIRE, anzi più presto da queſte maniere
ne riſultala cagione, che nel primo luogoſi riponga queſta forma perche niuna
coſa più ſi ricerca, ò ſi diſideradachi jagiond, cheil laſciarſi intendere, il che
altramente non ſi può fare fenzá LA PURITA DEL DIRE, la mondezza, la quale oggi
uoglio, che ELEGANZA fi chiami da noi. Ma percheſpeſſo auiene, chesforzans doſi
alcuni di eſfer’inteſi, cadono in forma umile, ego dimeſſa molto les cuando,
otogliendo della dignità, della grandezza del PARLARE, però appreſſo la
predetta forma,fi'dirà della grandezza, o GRAVITA DELLA ORATIONE, quale
damoltealtre forineprocede, che ſono ques ste, Mueftd, Comprensione, Asprezza;
Veemenzt, splendore, viuacie tài boppo LA CHIAREZZA, e la grandezza del DIRE a
me pare che ſi conuenga conoſcer’un'altra forma; ta quate tutto il corpo della
os ratione con la conuenienza delle parti, ornamento, osgratia recando, bella,
en miſurata ſimoſtra, v però mi gioua di nominarle Bellezzi, alla quale
un'altra formaſi darà, uolubile, preſta, perche tèggiaa dramente ſi muoua,
leggiadramente dico a fine, chene troppo sciolta, né troppo legtta ſiueggia. Et
ſe la chiara, a la grande, e la bella, o la veloce forma sono tanto richieste,
quanto previ dá te ſteſſo cona ſiderare che diremo noi di quella, nella qual ſi
dimoſtrano imodi, i coſtumi delle persone? Et diquell'altra, chefa credere ogni
coſa, che fi dice esser uerissima? Certo non meno queste, che quelle esserticare
deuriano, quando in queſte sta ripoſta ogni riputatione di CHI PARLA; et ogni
credenza delle coſe, cosi uoglio nominar quella forma, la quae le ſecondo le
nature, & gli abiti delle genti ua ragionando ſotto della quale è la
ſimplicità, la giocondità, o l'acutezza; e quels l'altra ancora, che uerità ſi
dimanda, ſono forme, ſenza le quali morta, e spenta ſarebbe la oratione. Et in
queſto numero ſono chiuſe le maniere, o le guiſe, delle quali alcune haueranno
le loro ſentenze, &i loro artificij, e l'altre parti diſtinte, es ſes
parate dalle altre; alcune comunicando inſieme, ſi confarànno, o nelle ſentenze,ò
nello artificio, ò nelle parole, ò nelle figure;o nel reſto, cos me chiaramente
uedrai. Queſte uoglio, chetu da feſteſe, come ſemplici forme riguardi diſtinte
l'una dall'altra. Perciò che non quel lo cheſitruoua, maquelloche può eſſere, uoglio
che tra te medeſimo rivolgendo conſideri, e ciaſcuna forma, come tale, ew tale
conoſchi. DINARDO. Io t'intendo, Tu vuoi, ch'io sappia considerare ogni guisa
di ORATIONE in se stessa, onde poi a scelta mia io possa questa con quella, et
quella con altra meſcolando, di più ſemplici formarne una bella coinin
poſitione. AR. Che credi tu, che uaglia poicoteſta mescolanza, che nella purità
ritenga grandezza, a peſo, nella ſemplicità, forzkiego fplendore, et habbia nella
grandezza del bello, e diletteuole, mache afþramente piaceuole, e piaceuolmente
aſpra ſi dimoſtri, pungendo; gungendo, comeſi dice ,ad un'horafteli, & facendo,
chequello, che è nelle sentenze ampio, o ripieno, ſia nello artificio ampio, ad
leggida dro? Et in tal modo accompagnando le figure d'una forma con le PAROLE
d'un'altra, di più contrarij (coſa alla natura medeſima riputatd. impossibile)farne
una amore uole fratellanza, onde poiqueſto genes roſo accozzamento di coſe
repugnanti empia ogn’uno di marauiglia. DINARDO: Non mi accender pir di gratia,
diquello che io ſono, cos minciami oggimai à formare ciaſcheduna delle dette
maniere, accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima delle coſe,
e del PARLARE. DE Ï Ï A parlare. A R. Bendi. Dei dunque ſapere che comenel l'Anima,
al. tra parte è quella che apprende la ragione, alfra quella, che é da gli
effetti commoſſi, come dicemmo, o nella Natura altre ſono le coſe allo
inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la orationeſaranno,
le quali conuerranno alle coſe dello intelletto,als cune alle coſe della uoglia,
odello appetito, o quando queſto non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di
poter acconciamente indurs re opinione è affettione con la forza della fuuella.
Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme da te ſtesſo potrai intendere
qual forma à qual coſaſi confaccia. DINARDO. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara
con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli ſecondo la occaſio ne,in qualunque
libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intorno al
Numero, o numeroſo componimento. ART. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai
ſecondo il bisogno. Sappi adunque, è Dinardo, chequalhora alcuno ſi rivolga à
conſiderare il modo, es la ragione del medicare, che ritrouando alcuna bella cosa
nella medicina, uoglia giudicioſamente applicarla ad IL ARTE DEL DIRE, non è
dubbio, che egli non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,
grandiſsima ſimiglianza. Ecco la medicina cerca di indurre sanità, oue ella non
ė, ò di conſeruarla doue ella fi truoua. Il ſimile fa queſt'arte, d'intorno
alla buonaopinione, perche conogni ſtudio s'affitica di metterla, ò di
mantenerla oue ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con
qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o preferuata, cosi queſt'arte opra con
l'anima, e con le parti sue con le forme del PARLARE. La medicina quantopiù può
fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo, con mele ò con
zucchero, ò con altra coperta mitigando il peßimoſapore, ego l'odore delle
medicine, ne da queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon
offendere quell ſentimento, che prende iſuoi ris medij, il qualſentimento é
negli orrecchi ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità del ſuono fa
trapaſſar’inſino all'anima la opinione, quantun que ſia di coſa dalla natura
aborrita. Et finalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette,
non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù
dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiosa
FAVELLA, non ti posſo in poca hora dichiarare, perche troppo grande é la forza
delſuo numeroſo componimento; il quale portando ſeco ageuolißimamente il ualor
delle PAROLE, o delle SENTENZE, paſa,e penetra per ogni parte dell'anima, deſ
leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è
però da dimandare alcuno Idiota, onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche
queſto giudicio è più proprio dell'intelletto, che del sentimento umano.
Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione,
che LE PAROLE più ad un modo, che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio
numeroſe, ritrüoua il tutto eſſere alla natura, quanto al ſuo principio,
conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi; però che io ne ho grandißima
parte. Et perche tuſappia quello che la natura, a quello che io ti poßiamo
prestare, dico,che la natura ha posto alls cor nelle orecchie il ſuo piacere
& diletto, uuole chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità, a
dolcezza di IL DIRE; al che fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare,
che'l numero, ola fosnità delle PAROLE. Il qual numero biſogna, che di ſua
uoglia uegna nella ORATIONE, si perchefa ORATIONE, e non musica, si perfuggir
la fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole inganno pare, che
uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, opera leua loro ogni perſuaſione,
o fede. Ma quando con ine certo, & non conoſciuto numero, dolce però, e
foaue, SI COMPONE IL PARLAMENTO, oſi lega inſieme il faſcio della SENTENZA,
& del'intendimento, fena za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi
riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, ogni regola continouata del uerſo; continouata
dico, peroche lo ſteſſo numero più volte replicato facilmente ſiriconoſce, o
fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato, conſueto ritorno, più alſuono, che
alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi, il numero de'
quali ufae to, e conoſciuto, più dall'arte, che dalla natura procedente. Ma
percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee restare l'ORATIONE,
che OSCURA, cu piaccuole ne rimarrebbe, però numeroſa o compoſta ella fi dis
fidera grandemente. Ora da che nasca, o per qual cagione diuerſamente offer
conuenga numeroſa l'ORATIONE, quanto à me s'appartiene dirò bries uemente, dichiarando
prima, che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo componimento. DINARDO. Queſto ordine à
meſommamente diletta, però di cuore ti prie go, che più diſtintamente che puoi,
me lo dimostri. AR. La neceßità uuole, che LE PAROLE ſieno pari alla SENTENZA, perche
à queſto fine ſi ragiona, comeſi è detto, accioche quanto habbiamo di dene
troſi dimoſtri di fuori, doue mancando o accreſcendo PAROLE, o il CONCETTO
interno non ſarebbe ESPRESSO, come nella mente dimora, ò IL PARLAR ſarebbe
ociofo, ò mancheuole. Maperche la ſentenza nell'anima è finita O terminata, però
debbon’eſſer finite, os terminate in quantità LE PAROLE, che dimostrano. La qual quantità inſieme
ragunata, Giro, o circuito nos mineremo il quale altro non ſarà, che pieno o perfetto
abbracciamento del LA SENTENZA. Questo abbracciamento di pari accompagnando la
uirtù di ef LA SENTENZA, puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori,
ſecondo le parti di LA SENTENZA; a
ciaſcuna parte é composta di PAROLE, oſi chiama Membro, o Nodo; osi come ogni
parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuo fine, e il ſuo mezo, o il corpo medeſimo
e terminato, & finitocosi, le parti dello abbracciamento, welfo
abbracciamento ſarà finito, o terminato. In tutto queſto spatio adunque, che è
tra il principio, il fine di ciaſcuna parte, e tra il cominciamento, es la
chiuſa, che s'è detto chiamar ſigia ro, ė forza, che la lingua alcuna uolta
s'adagi, o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno, oſi muoua più ueloce,ò piu tarda
ſecondo la qualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto mouimento, miſurato
col tempo di IL PROFERIRE, para toriſce il numero, del qual ragioniamo, uero
figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare, o molto piu nel fine,
che nel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi che nel mezo.Et perche di
eſſo Numero gl’orecchi fanno giudicio in quanto al sentimento del piacere, o
del dispiacere, per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi,
ol'intellettofos lo come ti dißi, ne cerca la cagione però, hauendoſifin'ora in
parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene, in parte dico, perciò
che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce, odiuerſe maniere
hanno dia uerfo numero. Però cominciando a trattare di LE FORME DEL DIRE daremo
a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroueremo
quello che con ragione ſfarà dimostrato. DINARDO. Molto bene auif di far mi capace
di questa magnifica o illusſtre compoſitione; però ſegui, che con maggior
deſiderio, che prima, fono apparecchiato di aſcoltarti, perche mi pare, che ora
tu facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La prima forma e nominata CHIAREZZA, la
qual nasce da purità, og da eleganza, come s'è detto. Pero essendo ella quaſi
un tutto, acciò che meglio ſi manifeſti, ſi dirà delle parti fue, & prima
della mondezza opile rità, poi della scelta, o eleganza. Deefl dunque dare alla
purità del dire quelle SENTENZE, le qualiſono di piana intelligenza, & non
hanno bisogno di piu consideratione,come per lo pia fono, o effer deono le
narrationi delle co fe, come qui. Leggi. DINARDO. Tancredi, principe di Salerno,
fu signore affai umano, di benigno aspetto. AR. Eccoti, che senza alcuna fatica
di diſcorſo ogni mediocre in. gigno
gegropuò capire ilſentimento della SENTENZA già letta, come ancora in
questi uerfi. Leggi. DINARDO. Io son Manfredi, nipote di Costanza Imperatrice.
Et molti eſſempi ſono della purità nelle nouelle, la SENTENZA delle quali per
la maggior parte è molto alla uolgar’intelligenza fottoposta, pur che
partitamente ſa ciaſcheduna inſe conſiderata, percio che pua re non ſarebbono,
quando adalcun fineſi riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il
ſentimento loro, comeſe in questa guifa ſi dicesse. Essendo Tancredi principe
di Salerno Signore aſſai umano, per che queſta SENTENZA non ſarebbe terminata, o
finita, douendo attendere a quel io, che segue, o però più preſto oſcura
ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque altro intendimento, chi uuoleſſer
puro nella SENTENZA, las quale stando nell'anima, dee cljer con tal'artificio
leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto,cosi di
fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua.
Et però daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di
perſona,o di modo, ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella
ſentenza: DINARDO. La quale percioche egli, sicomei mercatanti fanno, andava
molto in tornoapoco con lei dimoraua, s'inamora d’uno uomo chiamato Roberto.
AR. Non lascia eſſer pura cotesta SENTENZA, quel trammezamento, che dice, percioche
egli,si come i mercatanti fanno, anda molto intorno, o questo adiuiene, perche
ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi
eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come
ſtanno, ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi. Delle PAROLE ueramente
con le quali ſi dee uestire la purità breue ammaestramento ſi daràperche, tutte
le parole, piane, facili, ufitate, bricui, O communi ſono all'anima della
purità molto proportionate, onde le trae portate, le ſtraniere, le lunghe,
& quelle, che la lingua pena à PROFERIRE, o l'intelletto a CAPIRE fono
dalla purità lontane, però purissime sono queste. DINARDO. Cheà me
pareuaeßer’in una bella, « diletteuole ſelua, & in quella andar cacciando
ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu che la neue bianca, or in
brieue spatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da me nonſi partiua,tutta
uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non partiſſe, le mi pareua
nella gola hauer meſſo un cola no d'oro, e quella con una catena d'oro tener
con le mani. ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar le PAROLE adognima
niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle, o colorirle,on de
ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura delle parole, al la
purità ſotto poſte, é il dritto,ecco. DINARDO. Nicolò Cornacchini fu nostro
cittadino, o ricco huomo. ARTE Et quiancora DINARDO. Aſolo adunqueuago, «
piaceuole castello posto ne gli estremi gioghi delle nostre Alpiſopra il
Triuigiano ecfi come ogn’uno dee sapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non
cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo, Di Aſolo,
uago & piaceuole castello poſſe ditrice fu la Reie na di Cipri. Ma puro e
per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola puro non ſia, doue
ſi dice Arneſe, uoce straniera, ancora nello artificio non é puro per quello
tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circostanze
del castello uago, piaceuole, pera che ritarda il sentimento de gl’acoltanti,
oui mette le circonstanze del luogo. DINARDO. Dunque erra chi uolendo cßer puro
usa parole non pure, artificio, ò figura d'altra maniera, della oratione? AR:
Errerebbe ſe egli credeſſe, otentasse d'eſſere in ogni parte puro, &netto,
& non usasse quello che ſi conuiene, ma non erra uolendo alla purità del
dire porgere «grandezza o dignità. Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe
ſteſſa conſiderata, e però la purità del dire ha le parti ſue distinte, os
ſeparate dalle altre; nė ſolamente il dritto è figura, di questa forma, o
maniera, ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprensione
della quale ſi dirà poi, ora trattiamo delſito, odella compositione delle
parole, Dico nella purità, cs mondezza del dire douerſi mettere le parole insieme
con quel modo, che piu uicino ſia al FAVELLARE, uſitae coſenza molta cura, caffettatione
semplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna PAROLA di queſta forma
biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni difficultà di lettere, o di ſillabe, accioche
la uoce di suono e quale, temperato, non impedito ufciſſe fuori, cosi nella
compositione biſos gna guardare di acconciare talmente, che pine tosto nate,
che fabricate appariſcano,come nello eſempio già letto del sogno ſi conoſceud.
Conſided ra tu poi la forza, & lo spirito di ciaſcuna lettera, e di
ciaſcuna fillaba, come la natura in tutte ha posto la ſua piaceuolezza,
durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono delle parole, della loro
diſpoſitione, ucdi che la A ſi forma nella più profonda parte del petto, o eſce
poifuori con alta восс, uoce, riſonante, onde lo spirito di eſſa grande, oſonoroffente,
odi laſe guente, ch'é, B. LA B é puraſnella, deſpedita,come è afpra'la C. quando
è fine della fillaba, ISA C, órauca quando è posta inanzi la A à la V come per
lo contrario e di dolce, ſpeſſo, o pieno ſuono, precedendo alla I. @alla E.co.
me qui. Salabetto mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al
piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo.
Conſidera poi da te stesso il restante delle lettere, in che maniera eſſa
natura diſua propria qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai onde nde ſce più
questa,chequella compoſitione. Le parti, & le membra, della purità esser
deono breui, & ciaſcuna dee terminar'il suo sentimento, non ritar: dando
con lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del popolo, come
qui, D. Suol’eſſere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole
nembofofpinti errano, otrauagliano la lor uia, colſegnodella indiana pie tra, ritrouare
la trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo, non Ria lor tolto il
potere, & uela, ogouerno, là doue eßi di giugner procaca ciano, ò almeno
doue più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna parimente in minore ſpatio
raccogliere il sentimento di ciaſcuna para te, oueſt uuole eſſer puro, ofare in
questo modo, benche le PAROLE fieno ale quanto dure. Leggi. DINARDO. Chino di
Tacco piglia l'Abbate di Clugni, a medicalo del ma le di stomaco, « poi il
laſcia, L'abbate ritorna, in corte di ROMA, o il rico cilia con Bonifatio Papa,
o fallofriere dell'ospedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta
norma oſſeruata, come, qui. Leggi. DINARDO. Pace non trouo, e non ho da far guerra,
E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene in queſta altra
parte. DINARDO. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò che il senso è
troppo ritardato, o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità
quello chebiſogna d'intorno alle SENTENZE, allo artificio, aile PAROLE, alla
figura, alla compositione, & alle parti di cſa. Reſta, che ſi tratti del
numero, & del finimento, cioè della chiuſa, odel ter mine della SENTENZA,o
delle parti ſue. Dico adunque, che nello andare, ego nello spatio di queſta
forma non ſi dee eſſere néueloce, ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi, one
i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione, co dal fine, però ſapendo
quale eßer dee la compoſitione dele PAROLE, quale il fineztutto quello, che ſotto
di queſte partiſ contiene DA AD INTENDER QUELLO CHE SI E DETO, perche quantoſi ricerca alla com positione si
é dichiarito resta che ſidica del finimento ogniſentenza, ogni giro può finire,ò
in alcuna parola tronca, o in parola piena, ſienoque ſte parole, ò di due, ò di
tre,ò di piu ſilabe, o ancora di una. Le parole pie ne, e compiute ò
ſonoſdrucciolofe, & uolubili, o ſalde, oferme, opers che non ſoloRidce
conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco la vicina, o proſima, però
partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luogo ſuo. Comeadunque uoglia la
purità terminare le chiuſe ſue, aſſai chiaro ofer dee. Perciò che aßimigliandoſi
elle al dire cotidiano, fugge il fine del le parole tronche, come ſono quelle
andò, corfuftarà, o C. perche le medesime dee nella dispositione fuggire, come
ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine, che per lo più la natura
a’uolgari dimostra, ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in
parole piene, & perfete te, fuggendo le tronche, ole fdruccioloſe, che
alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare, perche quello cheſi
dice, ſi dice per la maggior parte de I finimenti, e delle chiuſe della purità.
Da questi adunque odalla dispositione riſorge quella miſura, che noi numero
addimandiamo. Eſſendo adunque la chiuſa ſimile alla dispoſitione, la
diſpoſitione non isforzeuole, ma temperata, enaturale, fcguita che il numero
dell'uno, o, dell'altro figliuolo ſarà, à quelle fomigliante. Ben'è uero, che
la forza di cia fcuna manierà, e ripoſta piu toſto nelle altre parti, che nel
numero, eccetto, che nella bellezza, douc l'ornamento, e il numero grandementeſ
cerca, as molto piùè ne i uerfi, nella poesia, che altroue, o questo dico,
acciò che fu non metta piu ſtudio, doue non biſogna riportandoti a gli orecchi,
il giudicio delle quali da eſſa natura é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è
Dinardo, quanto giouala mondezza, opurità del dire alla chiarezza. Ma perche
questa ſemplice forma non può daſefola si chiaramente parlae re che non uiſia qualche
impedimento, però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri, con la eleganza
aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro, piu questo ordineche
quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplice purità del
dire, il qual'aiuto èpiù presto nell'artificio, che nelle ſentenze ripoſto.
Però che ella ſi sforzafar ogni SENTENZA CHIARA e aperta,non che le pure già
dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della eleganza, o prima dello
artificio, colquale ella lcuar fuole ogni SENTENZA nella mente riposta. AR. La
ceeganza e maniera, che porta chiarezza à tutte le maniere della oratione, operò
non tanto alla purità, dove ella manca soccorre, quanto à ciascaduna forma opra
intelligenza, o facilità, daquesto nasce, che la eleganza dalla purità del dire
in alcuna cosa é differente. Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara, oaperta,ma
la eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun sole, che ogni
oſcurità, che per quella poteſſe uenire, leua, o diſgombra, o però in ogniſentenza ella
può molto, si con l'artificio fuo, si co i colori, le figure. L'artificio
adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto, acciò che ella ſia inteſa,
cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DINARDO.
Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe
Poiſeguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa
nella proſa,comequi. DINARDO. Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de'
quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una
fia alqua to me comendare, & l'altra il biaſimare alquanto altrui, ma prio che
dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo partirmi il purfarò. AR. Vedi
quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello aſcoltare con tali
auuertimenti, Appreſſo i quali aſſai bello artificio, s'intende quela to, che
per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le quali non ſi in tenderebbe
ageuolmente il reſtante. Leggi. DINARDO. Ma per trattar del ben, ch'io vi trovai,
Dico de l'altre coſe, ch'io ui ho ſcorte. AR. Se il poeta qui non doueſſe
dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che ſono in disgratia di
Dio, non haur ebbe potuto dare ad intendere facilmente il beneche ne riuſci
poi,per hauer lo inferno cers Cato. Ecco qui dalla medeſima neceßità costretto
quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta nella egregia Città di FIRENZE,
auuertendo pri ma chi legge, in queſto modo. DINARDO. Mapercioche qualefuße la
cagione, perche le coſe che appref fo Rileggeranno, aueniſſeno, non ſi poteua
ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare, quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla
miconduco. AR. Ecco qui ancora un'altra bella preparatione di coſe, fatta per
le uare ogni impedimento, chepoteſſe offendereilrimanente. DINARDO. Ma io mi ti
uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci
uoleſti uenire, e non poteſti, alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente
veduto, comefoleui, & oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo, non
ti rendei gli tuoi danari, AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine
di coſe, e ſecondo, che elte ſon fatte, narrandole, ė artificio ſcelto, &
elegante, però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DINARDO.
Veramente quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora
materia del mio canto, AR. E qui ancora DINARDO. Et canterò di quel ſecondo
regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’al Ciel diuenta degno. ART. il
fimigliante modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo
uedrai. Suole ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le
riſpoſte partitamentecome qui. Leggi. DINARDO. Saranno per auentura alcuni di
uoi, che diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppo licenza usata.
ART. Eccola dimanda ſeguita la ſolutione. DINARDO. La qual coſa io niego, percioche
niuna cosa esi disonesta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno.
ART. Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te
inſieme posto habbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbia fcufato, ma quelmodo
non ha dello elegante, comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme
allora quando diſſe, Leggi. DINARDO. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni,
che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta
coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni
han dete to peggio,di coinmendarui, come io fo. Altri più maturamente moſtrando
di uoler dire, hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro
queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te
neri della miafamamo ſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente, àſtarmi con
le Muse in Parnaso,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi. Etſon di quegli
ancora,che più difpettoſamente, che ſauiamente parlando, hannodete to,cl’io
farei più diſcrettamente à penſare, donde io poteßi hauer del pae ne, che
dietro a queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa
eſſere state le coſe da me raccontateui, che come io le ui porgo s'ingegnano in
detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe
contra dello autore ſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è
cosi elegante,come il primoartife cio,ben che in tanta confuſione egli
ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo
aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni, perche
non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN.
Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me
raccontare, non una nouella intera,ma parte di una. AR. Et ne poeti ancora fi
oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN.
Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di
meritar mi ſcema la miſura? A R.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte
della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda,
doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima
àleſtelle. Secondo la ſententia di Platone. AR. Ben che tu ueda qui le propoſte
effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello
cheſegue. DINARDO. Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente,
e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In queſto luogo non tanto
la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi
dee dire, quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui
ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia
quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti
luoghiſegnati. DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio
che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual
luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui
moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leua dalla mente
ogni ſenienza,oraſi dirà con quai parole più acconciamente ella ragioni,
oquesto brieuemente ſi farà.Vſa la eleganza le medeſime parole, che la
purità,chiare,piane,natie,o tali,che niuna durezza in eſe ſi truoui. Et
perònonſono eleganti,né con eleganza diſposte le parole che dicono, Amen due
ſopra gli mal trattiſtracci caddero à terra,&quelle, Non curandofar gli
falſ, o quelle che nellapurità dicemmo,Ghino di Tacco piglia l'Abba te di
Clugni. Da quelloche ſi è detto delle parole, tu puoi uedere chedalla
difpofitione di eſſe,le parti,i finimenti, &il numerononſono dalla purità
lontani,anziſonole coſe steſſe. Leggerai,come gentilměteſi sbriga dalle co
fe,come brieuemente rinchiuda il ſentimento, come puramente elegga, o
temperatamenteſi muoua questa nouella di Ricciardo de' Manardi,otro uerai
parole parti, chiuſe,numerio fiti diparole purißime, oelegantisſa me. Ma le
figure di queſtaforma fono diuerſe molte, tra lequali ottiene il primo luogo la
ordinatione, laquale è unafigura,che da quello cheſi dia ce,dimostra altro
ſeguirne, come qui. DÍN. Et accioche quello chemi par difare,conoſciate,oper
conſes guente aggiugnere, o menomare poßiate à uoſtro piacere,con pocheparo le
we lo intendo di dimostrare. AR. Et ancora qui della fortunaparlando. DIN. Le
quai noiſcioccamente nostre chiamiamo,ſeno nelle ſue ma ni, oper conſeguente da
lei ſecondo ilſuo occulto giuditio ſenza alcuna po ſa, d'uno in altro,o d'altro
in uno fucceßiuamente ſenza alcun conoſciuto ordine da noi,eſſer da lei
permutate. AR. Egli ſf ordina, come ſi è detto anco nel proporre di quante coſe
fha da dire,con lo auuertimento di dire prima una coſa,o poi un'altra.Il che
inquanto abbraccia più coſe,ė Comprenſionedella qualeſi dirà. Main quanto
diſpone, acconcia allo intendimento,epuro,eleganteo chiaro.Al
trafiguraèſcelta,eelegante,oltra la predetta nominata Partitione, lde quale
Afa,quando noi,due coſe è piùſepariamo parlando, come qui. DIN. Et il
tacere,oil parlareoggimai mi ſonoegualmente diſcari, perciò che nè quello
debbo,ne questo poſſo. AR. In molti modipuòpartitamente ragionare,come qui con
mola ti efſempi ſi dimostra. DIN. Tra per la forza della peftifera mortalità,
per lo eſſeremol ti infermimalſeruiti,& abbandonati. AR: Etqui ancora. DIN.
Et tra che egli s'accorſe, si come huomo, che molto aueduto erd, Otrache da
alcuno fu informato,trouò dal maggiore al minore Co. ART. Etaltroue. DIN.
Carißime dore,siper le parolede fauijhuomini udite, o si per le cofe da me molte
uedute or lette. AR. Appresso le dette figureit ripigliamento è bellißimo
colore della eleganza, come quelloche alla obliuione,alla oſcuritafoccorra, in
quca ſto modo, DIN: E perche mifogliate immantenente Del ben,che adkor’adhor
l’anima fente? Dico che ad hord ad bora, Vostra mercede, iofento in mezo l'alma
Vna dolcezza inufitata e noua AR. Et nella proſa, come qui. - DIN.
Ilchemanifestamente potrà apparire nella nouella, laquale dl raccontare
intendo,manifeſtamente dico,non il giuditio di Dio, maquello de gli
huominiſeguitando. · AR. Queſto ripigliamento appreſſo la chiarezza e di non
poco peſo alla oratione, come figura molto uicina al raddoppiamento, ilquale è
di for za marauiglioſanell'arte deldire,o,òinterpretado,ò interrogado,ò riſpon
dendodi ſubito alla eleganzaconuerrà grandemente.Etper contrarioRfan ra nella
oſcurità,la quale naſce da confuſione,& diſordine, nel’animofia tà, o ne
gli affetti grandementeſi ricerca,perche in eſil'animo dallo ema pito
traportato ogni coſa difordina,o la mente confonde. E adunque la confufione
alla ſcelta,& elegante oratione contraria,come la meſcolanza, alla purità,
da ambedue, cioè confufione, meſcolanza, naſce la oſcurità, come da quell'altre
due la chiarezza del dire. Della quale pora uoglio che à baſtazaſa detto,o
dimoſtrato.Resta chefi ragioni del la grădezzadel dire,acciò che il pericolo
della baſſezza,odell'umilità,che Hella chiarezza ciſopraſta,con l'autorità
della orationeſ leui in tuttó. DELLA GRANDEZZA DEL DIRE, prima della Maeſtà.
ESSEND'O la grandezza del dire unamaniera, che oltra l'uſato modo di ragionare
inalza, ø follicuala oratione, è di neceßità di molte parti compoſta delle
quali altre faranno daſe ſteße altreinſieme alcune co fe raccommunando faranno
un tutto magnifico, generoſo. E adunque la grandezzafatta dalla maestà,dalla
comprenſionedalla ucemenza, dalla ui uacità,dallo ſplendore,o dall'apprezza.La
maeſtà, ola comprenſione da ſeſtanno,ohanno le parti loro dall'altre
ſeparate.Etperò di clje prima di rò, poi dell'altre partitamente. La maestà del
dire é maniera conueniente alle coſe grandi,o Rfa quan do di eſſe con dignità,o
ornamento ſi ragiona.Leſentenze ueramentedela la maeſtàſono prima quelleche
appartengono à Dio, o alle diuine coſe,co uerità e decoro efpreffe,come
queſte.Leggi, DIN. Conueneuole coſa è carißimeDonne,che in ciaſcuna coſa, che
l'huomo fa,dallo ammirabile,oſanto nome di colui,ilquale di tuttofufate tore,
le diaprincipio. AR. AR. Dapoi,le coſe
appartenenti alla natura umana, come qui. Leggi. DIN. Natural ragione è di
ciaſcuno che ci naſce, la ſua uita quantū que può,aiutare,e conferuare, &
difendere. ART. Et appreſſo quelle,oue le ſecrete cagioni delle coſe
inuestigane do, & dimoſtrando ſt uanno,lequai poco appartengono alla uita
ciuile, po co dico, perche alcuna uolta ſi diconoperfare alcuna fede à
quellochedicia mo,come qui. DI N. Andiamo adunque,& bene duenturoſamente
aſſagliamo la nde ue, che Iddio alla noſtra impreſa fauorcuole ſenza uento
prestarle,la citien ferma. AR: La maeſtà è uſata per lo più ne i proemij delle
nouelle. Perció che in eßi fi contiene il fine, perlo qualeſi racconta il tutto,&
percheil fi ne, per utile,a giouamento de gli huomini ſi ricerca,però di coſe
al uiucre appartenenti con grandezza maeſtaſiragiona.Leggi queſto principio,
come è pieno di alta,o degna ſentenza. DIN. Credefi permolti filoſofanti,che
ciò che s'adopra de mortali, Rade gli Dij immortali diſpoſitione,&
prouedimento. AR. Degne adunque di riuerenzaſono le coſe di Dio, però chiunque
di quelle altramente ragiona,ė dalla maeſtà del dire lontano, perche chida
ramente da te comprenderai,che niuna maeſtàſi truoua là,doue il mutamē to in
Angelo, d’un frate ſi narra, &doue in alcuni altri luoghi non ſi dicon no
coſe alla religione conformi,con quella uerità e decoro, che ſi conuica ne,
&però aliena dalla maeſtà équcũa comparatione, chedice, DIN. Si come eterna
uita é ueder Dio, Ne più ſ brama,né bramarpiulice, Cosi me, Donna, il uoi
ueder, felice Fa in queſtobreue, efrale uiuer mio: AR. Lo affetto di chi
ragiona ſcuſa chiunque parla in tal modo, pere che lo acceſo deſiderio
acciecal'intelletto,ela lingua come di ebbri uacil la,ofa dire che gli Angeli
aſpettano di uedere il bel uiſo delle amate los rou che la preſenza di quelle
adorna il Paradiſo, altre coſe,le quai pe rò ſotto altra form !,che questa ſi
riduranno.Sarà dunque ſeuera,o degna, epiena di maeſtà la ſeguente ſentenza.
DIN. La gloria di colui che tutto mouc Per l'uniuerjo penetra, e riſplende In
una parte più, e meno altroue. ART. Et per la più parte degno e il preſente
poema,dalquale aj na turali, co umane,o diuine ſentenze,ſecondo la macià delle
coſe leggendo ne ritrarrai, come qui,
DIN. Le coſe tutte quante Hann'ordine tra loro,e queſto è forma Che l'uniuerfo
à Diofa ſomigliante. Qui ueggion l'altre creature l'orma De l'eterno ualore,
ilqualefine, Al qual'èfatta la toccata forma. A R. Et finalmente pieniſono i
uolumi de i buoniſcrittori. Leggi. DI. ciaſcuno, che bene, o onestamente unol
uiuere, dee in quan topuò, fuggire ogni cagione, laquale ad altrimenti fare il
potere cons durre AR. Et qui, D I N.Manifesta coſa è cheogni giuſto Re,primo
oſſeruatore dee eſſe re delle leggifatte da lui. AR. Baſtiti queſto d'intorno
alle ſentenze della formapredetta. Ord, con che artificio dal lor ſoggiorno
leuareſi debbano,intenderai.Percheadū que piene di maestà ſono
quelleſentenze,che di Dio, & delle diuine coſe, delle umane,& naturali,
peròfanno con fiducia O certezza è afferman do,ò negando,ſarà l'artificio della
maestà. Negando,come qui. DIN. Ne creator,necreatura mai Cominciòci, figliuolfu
ſenzaamore O ' natural, o d'animo, e tu'l ſai. AR. Affermando,come qui, DIN. Lo
natural fu ſempre ſenza errore Ma l'altro puote errar, per mal'oggetto oper
poco, ò per troppo di vigore. A R. Leggi pure,chenon mancano effempi. DIN. Le
coſe, che alferuigio di Dio N fanno, deono far tutte nete tamente. AR. Et qui,
DIN. Chiunque fouente fa male,egli certamente non é Iddio,& chii que Iddio
e,egliſenza dubbio non puòfar male. AR. Laeſpreßione ha gran forza
nell'artificio di quella forma com me qui. DIN. Veramente fiam noi poluere
eombra, Veramente la uoglia cieca,e ingorda, Veramente fallaceè la ſperanza,
AR. Et qui ancora DIN. 57 DE LL A DIN. Nel ciel, che più de la ſua luce prende,
Fu'io, euidi coſe, che ridire Nésà, ne può, chi di la sù diſcende. A R. Hanno
in queſta forma le allegorie peſo, or forzagrandißima, eperò le ſacre lettere
di allegorie ſono ripiene,etutto il preſente poema è quaſi una continuata
allegoria,coſa molto alla ſuamaeſtà diprofitto,co d'ornamento, &però la
leonza,il leone,la lupa, e tutto quello chein tute ta l'opera gli
appariſce,èuna raunanza di allegorie, degna « grande for pra modo.Conſidera
come queſt'altro poeta uolendo innalzar le coſe baſe, Qumili grandemente ſi dà
alle allegorie,facendo con quelle i cotidiani aue nimenti si grandi apparire
che ifatti d'arme, ole coſe marauiglioſe di na tura si grandi nonſono.Ecco,
DIN. Quando dal proprio ſito ſi rimoue L'arbor, che amogià Febo in corpo umano,
Soſpira e fudaà l'opera Vulcano, Per rinfreſcar l'afpre ſaette à Gioue. AR.
Questa grandezza di coſa, altro non uuol dire,ſenon,che nel partiredi un luogo
ad un'altro della donnafua, fieramente era il Cielo tura bato da uenti, « da
tempefta.Et cosi il reſtante di questo fonetto, omolti de gli altri,che ſeguono
per l'artificio delle allegorie,ode gli enigmi, mis rabili appariſcono,à chi
gli legge.ENIGM Iſono modi oſcuri di dire, come qui, Fortuna, chi t'intende,
non t'intende, Efa chiſei,chi non ſa chi tufa. Tale adunque é l'artificio della
maestà. Reſta óra à dirſi delle altre par tijeg prima delle parole.Sono alcune
lettere, lequali fanno leparole ampie, e di ſpirito sforzeuole,come la A la
0,però quelle parole, che ſono di tai lettere, odiRllabe di eſſe fatte,ſaranno
alla maestà del dire conucnicne tißime,tanto più diforza haueranno,quanto
auanzeranno le duefillas be,odi maggiorſignificatione faranne.come qui. DIN.
Quel, che infinita prouidenza, o arte, Moſtrò nel ſuo mirabil magistero, Che
creò questo, e quell'altro emiſpero, E manſueto più Givue, che Marte. ART. Et
ancora in un'altro luogo. Perſeguendomi Amor’al loco uſato Ristretto, in guiſa
d'huom, ch'aſpetta guirra, Che prouede,e ipaßi intorno ferra, Di mici antichi
penſier mi saua armato. AR. Sono ancora le parole traportate,di grandezza, e
maestà mdo rauiglioſa, «perche molti credono il loro dritto pagare,ſe degni,
ogran di riputando,poi gonfi fono o freddiper la troppa licenza,cbe piglia no
nel trasferire,però alcuna coſa ti ſcoprirò d'intorno alle traslationi, bel
lage degna,o di profitto non mediocre. Voglio,che dalla bruttezza del uitio
ſpauentatoda quello alla uirtù ti riuolga,o però di quelli dirò, i qua li cosi
gonfiamente,o cosi freddamente parlando, come fanno,ſono da ogni ſaldo giuditio
abborriti. Alcuni di queſti hanno ardire di fingere,odi co por
nomi,oparoleſenza alcuno raffrenamento di conſideratione,chiamar do il Cielo
oculoſo,il mare ueligante, la terra granifera, o di queſte s'eme piono
ifogli.Altri danno à nomi ſtranieri,dalla antichità rifiutati,nuoui, oſcuri,o
di niunſentimento,coſa fpenta,o agghiacciata, comeeßiſono, che uuoi tu più
freddo,che'l continuare in fimili inuentioni? Tuſei l'ombra del l'angustia,il
diadema della mestitia,un'atto fatale,o si fatti. Peccano mola ti dando ad
ognicoſa i loro aggiunti, ilche quando nonſifa per diletto, o con
circonfpettione,come per condimento del dire,affettato,inſipido,o rin
creſceuoleſ truoua, comeſe in luogo diſudoreſi diceſſe,il liquoredelle car
niperlo caldo ſtillato,o non le feſte,ma la celebrità delle feſte,ne i triona
fi,ma la grandezza de i trionfi,&alere gonfiezze, ilqual uitio in alcuni ė
ucnuto al fommo,o però parlandoeßi più che pocticamente & fuor di të
po,fannocoſe degne di riſo, o di compaßione,fono oſcuri &ociofiſatiano,
Orincreſcono fieramente.Leggi. DIN. Potrei,poſcia che il vento della licentia
datami di ragionare ba tanto inantifpinta la naue del mio parlamentoper l'ampio
pelago di si fat ta materia,conducerui distintamente à uedere checoſa è
difpofitione. AR. 1o mene rido di tai coſe, guarda quanto meglio ſi èdetto qui
nel uerfo, o con più modestia. DIN. O'uoi, che ſete in piccioletta barca,
Defideroft d'aſcoltar ſeguiti Retro almio legno,che cantando uarca, Tornate à
riveder inoſtri liti Non ui mettete in pelago, cheforſe Perdendo me
rimarreſteſmarriti. AR. Ecco,chedi più ampia materia ragionaua il Poeta, &
non diffe la naue del ſuo parlamento,o altroue diſſe, Per correr miglior’acqua
alza le uele Ormai la nauicella delmio ingegno Che laſcia retro à ſe mar si
crudele, Etquandopurepiù arditamenteegli baueſſe alcuna traslatione uſata, dico,che
egli era Poeta, o hauea ſotto la penna materia,ſe altra ne è,gră dißima, o
d'ogni parte degna; o poteua ben laſciarſi portare(dirò cosi) dal uento della
licenza,ma uedi ancora nella proſa in miglior modo ridotta laſopradetta
traslatione. DIN. Madonna,aſſai m'aggrada,poi che ui piace, per questo campo
aperto Wlibero, nel quale la uoštra Magnificenza ci ha meßi,del nouella.
re,d'eſſer colci, che corra il primo arringo. AR. Ma riuolgiti à queste
fredde,çocioſe maniere,& leggi, DIN. La real conditione del quale ſaria
stata di più felice uita,odi più beata memoria,che uerun'altra mai,ſe il
generoſo della bontà di lui,hax uelle men creduto al maligno della
fraudealtrui. AR. E' ancora più ſpento qui. DIN. Nel finedelle parole
cadendogli giù per le gote alcune lagrie me non men groſſe,che calde, le compaßioni
delle ſuepietadi transformaro. no l'ira in manſuetudine. 1. AR. Di che giudicio
dotati,di che eſperienza ammaestrati,e di quan ta gratia eſſer deono adornati
coloro, i quali uogliono traportare le paro. le nate à ſignificar’una coſa,
alla di chiaratione d'un'altra, nonſi può cosi brieuemente eſporre.Baſtiti per
tuo ammaeſtramento,che tu fugga le ridic cole,perche ſono de' comici,le gonfie,
percheſonode' tragici, le austere dure,perchenon ſono euidenti, & infine
quelleche dallalunga ſi uanno tra endo,comeſe alcuno chiamaſſe la ſapienza lo
ſteccato della anima, l'acqua loſpecchiodi Narciſo, ò che diceſſe le faccende
qui uerdeggiano,o altre coſe sifatte. Biſogna adunque deriuare le parole da
coſe facili,& di pres fta intelligenza, con queste i due pocti le loro
fittioni mirabilmente innale zarono, delle quali piene ormai ne ſono tutte le
carte.Alte parole appreſſo ſi odono quelle del nome,or del uerbo partecipi
comeAmante, Ardente,co quelle ancora Andando, Vergognando,percheſono di ampio o
largo fpiris to.Et nel loro andare ſonoadagiate graui. Et di queſta ſia detto
aſſai. Ora con quai colori, ofigure adornar ſi debba la maeſtà delle parole, ſi
di rà,o prima,che alle coſe clgne unafalda confirmatione del proprio gilidi
tio, come un fermo tratto di pennello,rileua mirabilmente la oratione.Pere che
non è uera grandezza quella, della qualeſi tiene alcuna dubitanza,cu però
grande è quella parte. Leggi. DIN. Chi il commendò mai tanto, quanto tu il
commendaui in tutte quelle coſe laudeuoli,di che ualoroſo huomodee eſſer
commendato? certo. certo non a torto. AR. Ma quel giuditio,cheſeguc,ė fatto con
timore na dubbioſamente te proferito,però non ha del grande,benche al modeſto
dire, grandemente fi conuegna. DIN. Che ſe i miei occhi non mi
ingannarono,niuna laude da te data glifu, ch'io lui operarla,o più mirabilmente
chele tue parole non poteca no eſprimere,non uedeßi. ART. Conſidera quanto
togliedella maeſtà di quel ſonetto,che con mincia, Perſeguendomi Amoral loco
uſato, quel timido o ſoſpetto giudicio che dice, quella che ſe'l giudicio mio
non erra,Era più degna d'immortaa le ſtato, Et tanto più quanto quest'ultimo
uerfo non ha quelſuono,che gli al tri hanno.Douea ſenza temenza giudicare
ancora questo autore. Leggi, DIN. Et perciò che la gratitudine,ſecondo ch'io
credo,fra l'altre uir tùėfommamente da commandare. AR. Perche la ſentenza è
degna, a ricercaua un colore,che terminaf se il ſentimento.Nequesta figura
ſolamentealla maeſtàſ conuiene, ma tut te quelle che alla purità
ſirichieggono,delle quai di ſopra ſe ne è detto afa ſai.Et ciò ſifa,perche la
maestànon entri in tumidezza, o cada (diroco. si )in quella infermità che
idropiſia é nominata. Le parti, le membra eſſer deono bricui ſenza alcuna
lunghezza di giriyil che ſi uede ne'ſauij huomini, iquali breuißimamente uanno
raccom gliendo le coſe loro in fentenza, & detti,come oracoli.Leggi, DI N.
Giuſtitia moſſe il mio alto fattore. Fecemi la diuina potestade, Laſommaſapientia,e'l
primo amore. A R. Et qui ancora. DIN. Iſon Beatrice, che tifaccio andare, Vegno
dal loco oue tornar diſo, Amor mi moſſe, che mifa parlare. ART. Etqui. DIN. Gli
animi noſtri ſono eterni,perche difuggeuole uaghezza gli inebriate.Mirate uoi
come belle creature ci ſiamo,o penſate quanto dee of ſer bello colui, di cui
noi ſiamo miniſtre. AR. Inſomma,degno è ilſeguenteparlare in ogni ſua parte.
Leggi, DIN. Et queſto altrimenti non ſi fa,che à quello Iddio gli noſiri ani mi
riuolgendo,che ce gli ha dati. Ilchefarai tufigliuolo,ſe me udirai, o
penſerai,che eſſo tutto queſtoſacro tempio,chenoi mondo chiamiamo,di ſe
empiendolo hafabricato. ART. AR. Et qui ancora dicoſeumane. DIN. La uirti
primieramente noi,che tuttinaſcemmo, o naſciamo equali,ne distire,o quegli, che
di lei maggior parte haucuano, o adopee rauano, nobili furon detti, e il
rimanente rimafe non nobile. A R. La diſpoſitione o il ſito delle parole nella
maestà del dire dee tal mente ordinarji,che non ui ſia concorſo di uocaboli,
onde la bocca ſi apra ſconciamente. Voglio poi,che le paroleſdruccioloſe, con
più libertà uilica no,che nella parità, o tal ſuono eſſe legate inſieme diano,
quale ft deſides raua,che da ſe steſſo diſciolte faceſſero.Il ſimileſi dice
nella chiuſa, o nel finimento,operò il fine in parole manche non deeper alcun
modo hde uer loco in questa forma, deſidero la uarietà de' finimenti,o de i
princia pi, ma fieno di parole cheauanzino le dueſilabe, oquello cheper la più
ſarà tale in tutto il giro, farà il numero, che in queſtaforma ft ricere ca.
Leggi tutto il ſopra detto effempio, che ciò chen'ho detto, chiaramena' te
wedrai. Et ciò della maeſtà ti può bastare. Eſſendo la comprenſione alla grane
dezza del dire comela eleganza alla chiarezza, e eſſendoſi della male stà detto,
come di forma, che da ſemedeſima di tutte le ſueparti era cone tenta, nè ad
altra maniera, Òſentenze,ò numeri, ò parole, ò artificio, o ale": tra
qualità concedeuia,nėda altri alcuna coſa pigliaua, non è fuori dira. gione che
ſi dica ora della comprenſione, uera, ounicaforma da folleuare ogui baiſao
umile maniera della oratione. Et pero delleſueſentenze fi dirà prima, poi delle
altre parti. Le ſentenze di queſta forma,ſono quel le, che chiamano altro
ſentimento, o che raccolgono,operò in queſtapar te la comprenſione è oppoſta
alla purità del dire,nella quale dicemmo,non eſſer’alcuno raccoglimento.
Raccoglimento intendo,quando quello che piis i riſtringe nel meno,come una coſa
commune in generale, alla ſpecialità ė ristretto. Leggi, Certißima coſa é
adunque,ò Donne, che di tutte le perturbationi dell’d nimo,niuna coſa é cosi
noceuole, cosi graue, niuna cosiforzeuole o nio. lenta, niuna che cosi ci
commoud,ogiri,comequellafa,che noi amore chia mia mo. Eccoti che la
perturbatione è un genere commune ſotto il quale ſi rac coglie l'amore, che è
una ſpecie di perturbatione. Raccoglieſi ancora lo in determinato v oſcuro,allo
aperto & terminato,comequi. Molte nouelle,dilettoſe Denne à douer dar
principio à cosi lieta gior. nata,come questa ſarà,per douere eſſere da me
raccontate miſi parano das uanti,delle quali una più nell'animo me ne piace. Et
qui ancora molto più lines. $ 9 fi uede per due raccoglimenti. Et come che à
ciaſcuna perſona stia bene, à coloro maßimamente éria chieſto,li quali già
hanno di conforto hauuto mestieri, & hannolo trouato in altrui.Fra quali ſe
alcuno mai ne hebbe,ò gli fu caro,ò già ne riceuette piacere io ſono uno di
quegli. Riduceſt tutto il tutto alla parte ſia quel tutto è del tempo, ò del
luogo, ò d'altra coſa. Del tempo,come qui, · 10 amaiſempre,ey amo forte ancora.
Del luogo ancora, come qui, In Frioli, paeſe quantunque freddo,lieto di belle
montagnedipiù fiumi e di chiarefontane,è una terra chiamata Vdine. Suole
ogniſentenza, che chiama o ricerca ſentimento alcuno, eſſere di quella forma,o
appreſſo tutte quelle che alla purità ſono repugnanti nelle quali ogni
circostanza di luogo,di tempo dimodo, oogni accidente, che
preceda,accompagni,ófegua,alle coſe ſiſuoleaggiugnere.Come fe egli R diceſſe in
queſta guiſa, in sù la meza notte con molti'armati al luogo del le
guardieſoprauenne,fdegnato per la ingiuria fattagli il precedente gior no.Ecco
checon molte circostanze ſi narra il fatto,oR amplifica mirabil mente la
coſa.Come in queluerſo ancora, Giouane incauto,diſarmató, e ſolo. Chiamano
altroſentimento alcuni in questo modo, Ma si come àlui piacque,il quale eſſendo
egli infinito, diede per legge incommutabile à tutte le coſe mondane bauer fine,
il mio amore oltre ad ogn'altro feruente,o il quale. AR. Non legger piùche da
teſteſſo poi nel predetto luogo potraiper comprenſione eabbracciamento uedere
tantagrandezza di oratione che niente più. Abbracciano alcuneſentenze
mirabilmente,o ſono quelle, che la ragio nedella coſa in ſe ſteſſe
ritengono,come s’io diceßi,L'ira de'mortali immor tale eſſer non dee,e queſta,
Aſai dimanda chi feruendo tace. Et quell'altra. Un bel morir tutta la uita
onord. Etſimiglianti. Senza timor uiue chi le leggi teme.: Che il perder tempo,
à chi più sàpiù piace. Queste fonole ſentenze,che abbracciano a comprendono, ma
l'arte H 2 difolleuareè prima in ogni tramezamento. Leggi, Alla qual coſa fare (come'chein
ciaſcuna età stia bene il leggere « l'u dire le giouenili coſe, & c.
Etſopra l'altre questa. Percioche non amare,come che ſia,in uoſtra stagione
nonſi può, quane doſi uede, che da Natura inſieme col uiuere a tutti gli
huomini è dato, cbe ciaſcuno alcuna coſa ſempre ami, oſempre diſii,pure io, che
giouane fono, gligiouani buomini,« le giouani donne conforto oinuito.
Maggiormente queſti tramezamenti inalzano la oratione comeuedi, i quali uanno
meſcolando le ragioni con le coſe, o fanno la oratione ampia ecircondotia, o
uſanſiſpeſſo da queſto Autore nelle fentenze baſſe, co me qui, Le quai coſe,quantunque
molto affettuoſamente le diceſſe, conuertite in uentocome le piu delleſue impreſefaceano,tornarono
in uano. AR. Lo andare per gli gradi raccogliendo,ė artificio di quella fora
md, come qui, Figliuola miaio credo,che gran noiaſa ad una bella edelicata
donna come uoi ſiete,bauere per marito un mentecatto,ma molto maggiore la cre
do eſſere d'hauere un geloſo. Et queſta ancora. Leggi, Drmare ciaſcheduna delle
dette maniere, accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima
delle coſe, e del parlare. 40 DE Ï Ï Á parlare. A R. Bendi. Dei dunque ſapere
che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella,
che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe
allo inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la
orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto,als cune alle
coſe della uoglia, odello appetito, o quando queſto non fuſſe, né uia, nė
ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione
con la forza della fuuella. Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme da
te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN. Ricorditi
difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli ſecondola
occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima deſidero ſa per
alcuna coſa d'intornoal Numero, o numeroſo componimento. ART. Laſciati à me
guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è Dinardo,
chequalhora alcuno ſi rivolga à conſiderare il modo, es la ragione del medicare,
che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina, uoglia giudicioſamente
applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli non ſia per uedere tra
la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza. Ecco la
medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue ella fi
truoua.Ilſimile fa queſt'arte,d'intorno alla buonaopinione, perche conogni
ſtudio s'affitica di metterla,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La medicina
conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o
preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel
parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento
recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il
peßimoſapore, ego l'odore delle medicine, ne da queſta gentilezza ſi parte la
mia figlis uola, cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris
medij,il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità
delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione, quantun que ſia di coſa
dalla Natura aborrita. Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune
coſe ui mette, non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte
apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi
conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare, perche
troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento; il quale portando ſeco
ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per
ogni parte dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi del
uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda,
ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto, che
delſentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente huomo
quale ſia la cagione, che le parole più ad un modo, che ad un'altro diſposte
fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo
principio, conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi; però che io ne ho
grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a quello che io ti
poßiamo prestare,dico,che la Natura ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo
piacere & diletto, uuole chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità,
a dolcezza del dire; al che fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare,
che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero biſogna, che di ſua
uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la
fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole inganno pare, che
uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione,
o fede. Ma quando con ine certo, & non conoſciuto numero,dolce però, e
foaue,ſi compone il parld. -mento, oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza,
& del'intendimento,fena za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi
riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola continouata del uerſo;
continouata dico, peroche lo ſteſſo numero più volte replicato facilmente
ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato, « conſueto ritorno,
più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il
numero de' quali ufae to,e conoſciuto,più dall'arte,che dalla Natura
procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee
restare l'oratione, che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però numeroſa o
compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per qual cagione
diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene dirò
bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come ponimento.
DINARDO. Queſto ordine à me sommamente diletta, però di cuore ti prie go,che
più diſtintamente che puoi,me lo dimostri. AR. La necessità uuole, che le
parole ſieno pari alla ſentenza,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è
detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o
accreſcendo parole, o il concetto interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente
dimora, ò il parlar ſarebbe ociofo,ò mancheuole.Maperche la ſentenza nell'anima
è finita Otermina ta,però debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le
parole, che la sentenza dimostrano. Laqual quantità inſieme ragunata, Giro, o
circuito nos mineremo ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento
del la ſentenza. Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la
ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori, ſecondo le parti
della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó
Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo
mezo, o il corpomedeſimo e terminato, & finitocosi, le parti dello
abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to. In tutto queſto
ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il
cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua
alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno, oſi muoua più ueloce,ò
piu tarda ſecondo laqualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto mouimento, miſurato
col tempo del proferire, para toriſce ilnumero, del qual ragioniamo,uero
figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare, omoltopiu nel
fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche
di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento del piacere,
o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi,
ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però, hauendoſifin'ora in
parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò
che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce, odiuerſe maniere
hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo
a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo
quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di
questa magnifica oillus ſtre compoſitione; però ſegui,che con maggior
deſiderio, cheprima,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare,che ora tu
facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza,laqual
naſce da purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un
tutto, acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della
mondezza opile rità,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità
del dire quelle ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno
biſogno di piu conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi
delle co fe,come qui. Leggi. DIN. Tancredi, Principe di Salerno, fu Signore
affai umano, di benigno aſpetto. A R. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di
diſcorſo ogni mediocre in. gigno gegropuò capire ilſentimento della ſentenzagià
letta, come ancora in questi uerfi.Leggi. DIN. Io ſon Manfredi, Nipote di
Coſtanza Imperatrice. ART. Et molti essempi ſono della purità nelle nouelle, la
ſentenza delle quali per la maggior parte è molto alla
uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe
conſiderata, percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi riguardaſſe,
oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in questa guifa
ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai umano, per che
queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che
ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque
altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella ſentenza, las quale stando
nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di
dentro dimostra il concetto,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun
accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita
ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo. do,ò d'altro
auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza: DIN. La quale
percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco con lei
dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer pura
cotestaſentenza,quel trammezamento,che dice,percioche egli,si come i mercatanti
fanno,andaua molto intorno, o questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo,
di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo,
&neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti
quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee
uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche, tutte le parole, piane,facili,ufitate,
bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto proportionate, onde le trae
portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che la lingua pena à proferire, o
l'intelletto a capirefono dalla purità lontane,però purisſime ſono queste. DIN.
Cheà me pareuaeßer’in una bella, « diletteuole ſelua,& in quella andar
cacciando ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu che la neue
bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da me nonſi
partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non
partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una
catena d'oro tener con le mani. F 2 ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar
le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle,
o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura
delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini
fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. Aſolo adunqueuago, «
piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il
Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non
cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo,DiAſolo,uago
&piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di Cipri. Ma puro e per la
figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola puro non ſia,doue ſi dice
Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello
tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze
del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti,
oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro
uſa parole non pure, artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione? ÁR:
Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro, &netto,
& non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del
dire porgere «grandezza o dignità. Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe
ſteſſa conſiderata, e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os
ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o
maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della
quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole, Dico
nella purità,cs mondezza del dire douerſi met: tere le parole inſieme con quel
modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta cura,caffettatione
ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna parola di queſta forma
biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche
la uoce di ſuono e quale, temperato, « non impedito ufciſſe fuori,cosi nella
compoſitione biſos gna guardare di acconciare talmente, che pine tosto nate,
che fabricate appariſcano,come nello eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud.
Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna
fillaba, come la natura in tutte ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, &
tifa rai queſto giudice del ſuono delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che
la A ſi forma nella più profonda parte del petto,o eſce poifuori con alta
uoce,riſonante,onde lo ſpirito di eſſa grande,oſonoroffente,odi laſe guente,
ch'é,B. LA B é puraſnella,deſpedita,come è afpra'la C.quando è fine della
fillaba,ISA C, órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e
di dolce,ſpeſſo, o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto
mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é
ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo. Conſidera poi da te
ſteſſo il restante delle lettere, in che maniera eſſa natura diſua propria
qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai onde nde ſce più questa,chequella
compoſitione.Le parti, &le membra, della purie. rità effer deono
breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con
lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo,come qui,
D. Suol’eſſere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti
errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la
trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il
potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue
più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna parimente in minoreſpatio
raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer puro, ofare in
questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco
piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi il
laſcia,L'abbate ritorna, in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio Papa,o
fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma
oſſeruata,come, qui. Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra, E temo,
eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene in queſta altra parte.
DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò che ilſenſo è troppo
ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità quello
chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla figura,
alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del numero,
& del finimento,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o delle
parti ſue.Dico adunque, che nello andare, ego nello ſpatio di queſta forma non
ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi,one i
mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo
quale eßer dee la compoſitione delelc le parole, quale il fineztutto
quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto,
perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del
finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola
piena,ſienoque ſte parole,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una. Le
parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde,oferme,
opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco
la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go
ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer
dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le
parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà,o C.perche le mede. fime dee
nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di
quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con
tanta religioneſifiniſca in parole piene, &perfete te,fuggendo le
tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo
parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per la mage gior parte de
ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione
riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa
ſimile alla diſpoſitione, «la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,&
naturale,fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà, à quelle
fomigliante.Ben'è uero,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto
nelle altre parti,che nel numero, eccetto, che nella bellezza,douc
l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, « nella
poeſia,che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio,doue
nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giudicio delle quali da eſſa natura é
ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza, opurità
del dire alla chiarezza; ma perche questa ſempliceforma non può daſefola si
chiaramente parlae re che non uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le
ſia di aiua. to mestieri,con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un
modo, che un'altro,piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando
eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del dire,ilqual'aiuto èpiù presto
nell'ar. tificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni
ſentenza chiara &aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo
adune que della cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni
ſentenza nella mente riposta. AR. La cleganza e maniera, cheportachiarezza à
tutte le maniere della oratione, operò non tanto alla purità, douc ella manca
foccorre, quanto à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto
nafce, che la eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente.Perciò
che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta,ma la eleganza nella grandezza, e
magnificenza del dire ecomeun ſole, che ogni oſcurità, che per quella poteſſe
uenire, leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con
l'artificio fuo, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare
ogniſentenza dallo intelletto,acciò che ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento
innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi
in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à
luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi.
DIN. Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi
conuerràfar due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me
comendare, &l'altra il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė
dall'una,ne dall'altra non intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto
gentilmente | sbriga lo intelletto dello aſcoltare con tali
auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio, s'intende quela to,che per
chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le quali non ſi in tenderebbe
ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar del ben, ch'io ui trouai,
Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. A R. Se il poeta qui non doueſſe
dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che ſono in diſgratia di
Dio, non haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il beneche ne riuſci
poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima neceßità costretto
quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta nella egregia Città di
Firenze, avvertendo pri ma chi legge,in queſto modo. DIN. Mapercioche qualefuße
la cagione,perche le coſe che appref fo Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua
ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla
miconduco. A R. Ecco qui ancora un'altra bella preparatione di coſe,fatta per
le uare ogni impedimento,chepoteſſe offendereilrimanente. DIN. Ma io mi ti uoglio
unpoco ſcuſare,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti
uenire, e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente
veduto,comefoleui,& oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo,non ti
rendei gli tuoi danari, AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine di
coſe, e ſecondo, che elte ſon fatte,narrandole,ė artificio ſcelto, &
elegante,però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente
quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del
mio canto, AR. E qui ancora DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que
l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il simigliante
modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole
ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte
partitamentecome qui. Leggi. DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi, che
diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART.
Eccola dimanda seguita la solutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna
coſa esi difoneſta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART.
Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te
inſiemepostohabbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbiafcufato, ma quelmodo
non ha dello elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme
allora quando diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni,
che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta
coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni
han dete to peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando
di uoler dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro
queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te
neri della miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le
Mufe in Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli
ancora,che più difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to,cl’io farei
più diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a
queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere
state le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in
detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe
contra dello autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è
cosi elegante,comeilprimoartife cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe
di eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa
doue dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche non di ſubito
riſponde, ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti,
ch'io uegna à far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non
una nouella intera,ma parte di una. A R. Et ne poeti ancora fi
oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN.
Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar
mi ſcema la miſura? AR.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della
eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita.
DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la
ſententia di Platone. AR. Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme
collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello cheſegue. DIN.
Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente, e però pria
Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In queſto luogo non tanto la eleganza
dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire,
quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui
ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che
ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti
luoghiſegnati. DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio
che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual
luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui
moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leuarmare
ciaſcheduna delle dette maniere, accion che io ueda il fine della deſiderata
catena dell'anima delle coſe, e del parlare. DE Ï Ï Á parlare. AR. Bendi.
Dei dunque ſapere che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la
ragione,alfra quella, che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o
nellaNatura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal muouere appartenenti,
cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello
intelletto,als cune alle coſe della uoglia, odello appetito, o quando queſto
non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re
opinione è affettione con la forza della fuuella. Però auuertiſci, che nel
trattamento delle forme da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi
confaccia. DIN. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi
obligo di leggerli ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu
uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero, o numeroſo
componimento. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno.
Sappi adunque, è Dinardo, chequalhora alcuno ſi rivolga à conſiderare il modo,
es la ragione del medicare, che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina,
uoglia giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli
non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima
ſimiglianza. Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di
conſeruarla doue ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte,d'intorno alla
buonaopinione, perche conogni ſtudio s'affitica di metterla,ò di mantenerla oue
ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer
debs bia riſanata, o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le
partiſue con le formedel parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia
chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con
altra coperta mitigando il peßimoſapore, ego l'odore delle medicine, ne da
queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon offendere
quelſentimento,che prende iſuoi ris medij,il qualſentimento é negli orrecchi
ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la
opinione, quantun que ſia di coſa dalla Natura aborrita. Etfinalmente la
medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette, non tanto gioueuoli alle
parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo
infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca
hora dichiarare, perche troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento;
il quale portando ſeco ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle
ſentenze,paſa,e penetra per ogni parte dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà,
e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno
Idiota,onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più
proprio dell'intelletto, che delſentimento umano. Giudicando adunque, o
conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione, che le parole più ad un
modo, che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto
eſſere alla Natura, quanto alſuo principio, conueniente, ma quanto alla perfettione
non cosi; però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la
Nde tura, a quello che io ti poßiamo prestare,dico,che la Natura ha posto alls
cor nelle orecchie ilſuo piacere & diletto, uuole chequelle affaticate fi
folleuino con la ſoauità, a dolcezza del dire; al che fare niuna coſa è più
potente nel uostro ragionare, che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual
numero biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e
non muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la quae le con
luſingheuole inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti,
operò leua loro ogni perſuaſione, o fede. Ma quando con ine certo, & non
conoſciuto numero,dolce però, e foaue,ſi compone il parlamento, oſi lega
inſieme il faſcio della ſentenza, & del'intendimento,fena za dubbio il
tutto con credenza, o diletto ſi riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola
continouata del uerſo; continouata dico, peroche lo ſteſſo numero più volte
replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato,
« conſueto ritorno, più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara,
oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to,e conoſciuto,più dall'arte,che
dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del
tutto non dee restare l'oratione, che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però
numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per
qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene
dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come
ponimento. DIN. Queſto ordine à meſommamente diletta,però di cuore ti prie
go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri. A R. La neceßità uuole, che
le parole ſieno pari alla ſentenza,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è
detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o
accreſcendo parole, o il concetto interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente
dimora, ò il parlar ſarebbe ociofo,ò mancheuole.Maperche la ſentenza nell'anima
è finita Otermina ta,però debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le
parole, che laſenten F DEELLA za dimostrano. La qual quantità inſieme ragunata,
Giro, o circuito nos mineremo ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto
abbracciamento del la ſentenza. Questo abbracciamento di pari accompagnando la
uirtù di ef la ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori,
ſecondo le parti della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi
chiama Membro, ó Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il
ſuofine, e il ſuo mezo, o il corpo medeſimo e terminato, & finitocosi, le
parti dello abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to. In
tutto queſto ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte,
e tra il cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che
la lingua alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi muoua più
ueloce,ò piu tarda ſecondo laqualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto
mouimento,miſurato col tempo del proferire, para toriſce ilnumero, del qual
ragioniamo, uero figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare,
omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel
mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento
del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione
de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però,
hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in
parte dico,perciò che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce,
odiuerſe maniere hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle forme
del dire daremo a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora
ritroue remo quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di
farmicapace di questa magnifica oillus ſtre compoſitione; però ſegui,che con
maggior deſiderio, cheprima,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare,che
ora tu facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza, laqual
naſce da purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un
tutto, acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della
mondezza opile rità,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità
del dire quelle ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno
biſogno di piu conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi
delle co fe,come qui. Leggi. DIN. Tancredi, Principe di Salerno, fu Signore
affai umano, di benigno aſpetto. AR. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di
diſcorſo ogni mediocre in. gigno. gegropuò capire ilſentimento della
ſentenzagià letta, come ancora in questi uerfi. Leggi. DIN. Io son Manfredi,
Nipote di Costanza Imperatrice. ART. Et molti eſſempi ſono della purità nelle
nouelle, la ſentenza delle quali per la maggior parte è molto alla
uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe
conſiderata, percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi riguardaſſe,
oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in questa guifa
ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai umano, per che
queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che
ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque
altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella ſentenza, las quale stando
nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di
dentro dimostra il concetto,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun
accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita
ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo. do,ò d'altro
auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella sentenza: DIN. La quale
percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco con lei
dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer pura
cotestaſentenza,quel trammezamento,che dice,percioche egli,si come i mercatanti
fanno,andaua molto intorno, o questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo,
di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo,
&neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti
quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee
uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche, tutte le
parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto
proportionate, onde le trae portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che
la lingua pena à proferire, o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane,però
purisſime ſono queste. DIN. Cheà me pareuaeßer’in una bella, diletteuole ſelua,&
in quella andar cacciando ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu
che la neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da
me nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non
partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una
catena d'oro tener con le mani. F 2 AR DEL LOA: ARTE Non è poco hauer giudicio
di ritrouar le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel
diſporle, o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la
figura delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò
Cornacchini fu nostro cittadino, o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. Aſolo
adunqueuago, « piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre
Alpiſopra il Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di
Cipri. ARTE Non cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato,
Dicendo, DiAſolo,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di
Cipri. Ma puro e per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola
puro non ſia,doue ſi dice Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello are. tificio non
é puro per quello tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per
quelle circoſtanze del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il
ſentimentode gli aſcoltanti, oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque
erra chi uolendo cßer puro uſa parole non pure, artificio,ò figura d'altra
maniera,della oratione? ÁR: Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in
ogni parte puro, &netto, & non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non
erra uolendo alla pu rità del dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora
uoglio che ogni maniera ſia in ſe ſteſſa conſiderata, e però lapurità del dire
haurà le. parti ſue distinte,os ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è
figura, di questaforma, o maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario
als la comprenſione della quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom
poſitione delle parole, Dico nella purità,cs mondezza del dire douerſi met:
tere le parole inſieme con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae
coſenza molta cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in
ciaſcheduna parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni
difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale, temperato,
« non impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di
acconciare talmente, che pine tosto nate, che fabricate appariſcano,come nello
eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, &
lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba, come la natura in tutte
ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono
delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda
parte del petto,o eſce poifuori con alta восс, uoce,riſonante,onde lo ſpirito
di eſſa grande,oſonoroffente,odi laſe guente, ch'é,B. LA B é
puraſnella,deſpedita,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C,
órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e di
dolce,ſpeſſo, o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio
dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é ciò
che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo. Conſidera poi da te
ſteſſo il restante delle lettere, in che maniera eſſa natura diſua propria
qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai onde nde ſce più questa,chequella
compoſitione.Le parti, &le membra, della purie. rità effer deono
breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con
lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo,come qui,
D. Suol’essere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti
errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la
trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il
potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue
più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna parimente in minoreſpatio
raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer puro, ofare in
questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco
piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi il
laſcia,L'abbate ritorna, in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio Papa,o
fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma
oſſeruata,come, qui. Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra, E temo,
eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene in queſta altra parte.
DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò che ilſenſo è troppo
ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità quello
chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla figura,
alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del numero,
& del finimento,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o delle
parti ſue.Dico adunque, che nello andare, ego nello ſpatio di queſta forma non
ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi,one i
mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo
quale eßer dee la compoſitione delelc le parole, quale il fineztutto
quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto,
perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del
finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola
piena,ſienoque ſte parole,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una. Le
parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde,oferme,
opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco
la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go
ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer
dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le
parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà,o C. perche le mede. fime dee
nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di
quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con
tanta religioneſifiniſca in parole piene, &perfete te,fuggendo le
tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo
parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per la mage gior parte de
ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione
riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa
ſimile alla diſpoſitione, «la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,&
naturale,fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà, à quelle
fomigliante.Ben'è uero,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto
nelle altre parti,che nel numero, eccetto, che nella bellezza,douc
l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, « nella
poeſia,che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio,doue
nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giu. dicio delle quali da eſſa natura
é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza, opurità
del dire alla chiarezza; ma perche questa ſempliceforma non può daſefola si
chiaramente parlae re che non uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le
ſia di aiua. to mestieri,con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un
modo, che un'altro,piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando
eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del dire,ilqual'aiuto èpiù presto
nell'ar. tificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni
ſentenza chiara &aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo
adune que della cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni
ſentenza nella mente riposta. AR. La cleganza e maniera,cheportachiarezza à
tutte le maniere della oratione, operò non tanto alla purità, douc ella manca
foccorre, quanto à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto
nafce, che la eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente.Perciò
che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta,ma la eleganza nella grandezza, e
magnificenza del dire ecomeun ſole, che ogni oſcurità, che per quella poteſſe
uenire, leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio
fuo, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza
dallo intelletto,acciò che ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento innanzi fatto
di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade
Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à luim'increbbe
Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi. DI N. Mipiace à
condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe
molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra
il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non
intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto
dello aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio,
s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le
quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar
del ben,ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. A R. Se il
poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che
ſono in diſgratia di Dio, non haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il
beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima
neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta
nella egregia Città di Firenze,auuertendo pri ma chi legge,in queſto modo. DIN.
Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo
Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare,quafi
dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. A R. Ecco qui ancora un'altra bella
preparatione di coſe,fatta per le uare ogni impedimento, chepoteſſe
offendereilrimanente. DIN. Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi,
che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune ci
uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo di
ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari, AR. In fine ogni
precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo, che elte ſon
fatte,narrandole,ė artificio ſcelto, & elegante,però tutte le propofitoni
de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne
la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora
DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di
ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i principij
di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza porre
artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi.
DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi, che diranno,ch'io habbia nello
ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART. Eccola dimanda ſeguita la
ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che
con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo
alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa
di ſefatta, opoi s'habbiafcufato, ma quelmodo non ha dello
elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando
diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni, che queſte
nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta coſa nonė,
che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to
peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler
dire, hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte
coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della
miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente, àſtarmi con le Muse in
Parnaso,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più
difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to,cl’io farei più
diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste
fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state
le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento
della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello
autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante,comeilprimoartife
cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso
auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle
predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia
cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad
alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella intera,ma parte di
una. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare
cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza
altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura? A R.Queſta éuna
propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi
è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita.
Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo
la ſententia di Platone. AR. Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme
collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello cheſegue. DIN.
Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente, e però pria
Tratterò quella chepiù ba di felle. In queſto luogo non tanto la eleganza
dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire,
quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui
ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia
quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti
luoghiſegnati. DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio
che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual
luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui
moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leuarmare
ciaſcheduna delle dette maniere, accion che io ueda il fine della deſiderata
catena dell'anima delle coſe, e del parlare. A R. Bendi. Dei dunque ſapere che
comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella, che
é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe allo
inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la
orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto,als cune alle
coſe della uoglia, odello appetito, o quando queſto non fuſſe, né uia, nė
ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione
con la forza della fuuella. Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme da
te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN. Ricorditi
difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli ſecondola
occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima deſidero ſa per
alcuna coſa d'intornoal Numero, o numeroſo componimento. ART. Laſciati à me
guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è Dinardo,
chequalhora alcuno ſi rivolga à conſi= derare il modo, es la ragione del
medicare, che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina, uoglia
giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli non ſia
per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza.
Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue
ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte,d'intorno alla buonaopinione, perche
conogni ſtudio s'affitica di metterla,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La
medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata,
o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel
parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento
recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il
peßimoſapore, ego l'odore delle medicine, ne da queſta gentilezza ſi parte la
mia figlis uola, cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris
medij,il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità
delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione, quantun que ſia di coſa
dalla Natura aborrita. Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune
coſe ui mette, non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte
apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi
conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare, perche
troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento; il quale portando ſeco
ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per
ogni parte dell'anima Ειοο ν Ε Ν Ζ Α. dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà,
e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno
Idiota,onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più
proprio dell'intelletto, che delſentimento umano. Giudicando adunque, o
conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione, che le parole più ad un
modo, che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto
eſſere alla Natura, quanto alſuo principio, conueniente, ma quanto alla
perfettione non cosi; però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia
quello che la Nde tura, a quello che io ti poßiamo prestare,dico,che la Natura
ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo piacere & diletto, uuole chequelle
affaticate fi folleuino con la ſoauità, a dolcezza del dire; al che fare niuna
coſa è più potente nel uostro ragionare, che'l numero, ola fosnità delle
parole. Il qual numero biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si
perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la
quae le con luſingheuole inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli
aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione, o fede. Ma quando con ine certo,
& non conoſciuto numero,dolce però, e foaue,ſi compone il parld. -mento,
oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza, & del'intendimento,fena za
dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, «
ogni regola continouata del uerſo; continouata dico, peroche lo ſteſſo numero
più volte replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti
l'ordinato, « conſueto ritorno, più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa
aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to,e conoſciuto,più
dall'arte,che dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o
ſciolta del tutto non dee restare l'oratione, che oſcura, cu piaccuole ne
rimarrebbe,però numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che
naſca, o per qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione,
quanto à me s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia
NVMERO, ò numeroſo come ponimento. DIN. Queſto ordine à meſommamente
diletta,però di cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri.
AR. La neceßità uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza,perche à queſto
fine ſi ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri
di fuori,doue mancando o accreſcendo parole, o il concetto interno non
ſarebbeeſpreſſo, come nella mente dimora, ò il parlar sarebbe ocioso, ò
mancheuole. Maperche la ſentenza nell'anima è finita Otermina ta,però
debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le parole, che laſentenza
dimostrano. Laqual quantità inſieme ragunata, Giro, o circuito nos mineremo
ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza.
Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la
ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori, ſecondo le parti
della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó
Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo
mezo, o il corpomedeſimo e terminato, & finitocosi, le parti dello
abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to. In tutto queſto
ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il
cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua
alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi muoua più ueloce,ò
piu tarda ſecondo laqualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto mouimento,miſurato
col tempo del proferire, para toriſce ilnumero, del qual ragioniamo,uero
figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare, omoltopiu nel
fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche
di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento del piacere,
o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi,
ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però, hauendoſifin'ora in
parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò
che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce, odiuerſe maniere
hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo
a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo
quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di
questa magnifica oillus ſtre compoſitione; però ſegui,che con maggior
deſiderio, cheprima,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare,che ora tu
facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza,laqual
naſce da purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un
tutto, acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della
mondezza opile rità,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità
del dire quelle ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno
biſogno di piu conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi
delle co fe,come qui. Leggi. DIN. Tancredi, Principe di Salerno, fu Signore
affai umano, di benigno aſpetto. AR. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di
diſcorſo ogni mediocre in. gigno gegropuò capire ilſentimento della ſentenzagià
letta, come ancora in questi uerfi.Leggi. DIN. Io ſon Manfredi, Nipote di
Coſtanza Imperatrice. ART. Et molti eſſempi ſono della purità nelle nouelle, la
ſentenza delle quali per la maggior parte è molto alla
uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe
conſiderata, percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi riguardaſſe,
oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in questa guifa
ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai umano, per che
queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che
ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque
altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella ſentenza, las quale stando
nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di
dentro dimostra il concetto,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun
accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita
ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo. do,ò d'altro
auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza: DIN. La quale
percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco con lei
dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer pura
cotestaſentenza,quel trammezamento,che dice,percioche egli,si come i mercatanti
fanno,andaua molto intorno, o questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo,
di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo,
&neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti
quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee
uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche, tutte le
parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto
proportionate, onde le trae portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che
la lingua pena à proferire, o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane,però
purisſime ſono queste. DIN. Cheà me pareva eßer’in una bella, diletteuole ſelua,&
in quella andar cacciando ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu
che la neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da
me nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non
partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una
catena d'oro tener con le mani. F 2 ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar
le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle,
o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura
delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini
fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. A solo adunqueuago, «
piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il
Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non
cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo,DiAſolo,uago
&piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di Cipri. Ma puro e per la
figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola puro non ſia,doue ſi dice
Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello
tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze
del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti,
oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro
uſa parole non pure, artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione? ÁR:
Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro, &netto,
& non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del
dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe
ſteſſa conſiderata, e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os
ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o
maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della
quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole, Dico
nella purità,cs mondezza del dire douerſi met: tere le parole inſieme con quel
modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta cura,caffettatione
ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna parola di queſta forma
biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche
la uoce di ſuono e quale, temperato, « non impedito ufciſſe fuori,cosi nella
compoſitione biſos gna guardare di acconciare talmente, che pine tosto nate,
che fabricate appariſcano,come nello eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud.
Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna
fillaba, come la natura in tutte ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, &
tifa rai queſto giudice del ſuono delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che
la A ſi forma nella più profonda parte del petto,o eſce poifuori con alta
восс, uoce,riſonante,onde lo ſpirito di eſſa grande,oſonoroffente,odi
laſe guente, ch'é,B. LA B é puraſnella,deſpedita,come è afpra'la C.quando è
fine della fillaba,ISA C, órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo
contrario e di dolce,ſpeſſo, o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me
qui.Salabetto mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer
tuo, cosi é ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo. Conſidera
poi da te ſteſſo il restante delle lettere, in che maniera eſſa natura diſua
propria qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai onde nde ſce più
questa,chequella compoſitione.Le parti, &le membra, della purie. rità effer
deono breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con
lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo,come qui,
D. Suol’eſſere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti
errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la
trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il
potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue
più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna parimente in minoreſpatio
raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer puro, ofare in
questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco
piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi il
laſcia,L'abbate ritorna, in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio Papa,o
fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma
oſſeruata,come, qui. Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra, E temo,
eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene in queſta altra parte.
DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò che ilſenſo è troppo
ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità quello
chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla figura,
alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del numero,
& del finimento,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o delle
parti ſue.Dico adunque, che nello andare, ego nello ſpatio di queſta forma non
ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi,one i
mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo
quale eßer dee la compoſitione delelc le parole, quale il fineztutto
quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto,
perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del
finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola
piena,ſienoque ſte parole,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una. Le
parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde,oferme,
opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco
la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go
ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer
dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le
parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà, o C.perche le mede. fime dee
nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di
quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con
tanta religioneſifiniſca in parole piene, &perfete te,fuggendo le
tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo
parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per la mage gior parte de
ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione
riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa
ſimile alla diſpoſitione, «la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,&
naturale,fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà, à quelle
fomigliante.Ben'è uero,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto
nelle altre parti,che nel numero, eccetto, che nella bellezza,douc
l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, « nella
poeſia,che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio,doue
nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giu. dicio delle quali da eſſa natura
é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza, opurità
del dire alla chiarezza; ma perche questa ſempliceforma non può daſefola si
chiaramente parlae re che non uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le
ſia di aiua. to mestieri,con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un
modo, che un'altro,piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando
eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del dire,ilqual'aiuto èpiù presto
nell'ar. tificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni
ſentenza chiara &aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo
adune que della cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni
ſentenza nella mente riposta. AR. La cleganza e maniera,cheportachiarezza à
tutte le maniere della oratione, operò non tanto alla purità, douc ella manca
foccorre, quanto à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto
nafce, che la eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente.Perciò
che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta,ma la eleganza nella grandezza, e
magnificenza del dire ecomeun ſole, che ogni oſcurità, che per quella poteſſe
uenire, leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con
l'artificio fuo, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare
ogniſentenza dallo intelletto,acciò che ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento
innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi
in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à
luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi. DIN.
Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar
due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare,
&l'altra il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne
dall'altra non intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga
lo intelletto dello aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai
bello artificio, s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne
narra fenza le quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN.
Maper trattar del ben,ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte.
A R. Se il poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di
quegli,che ſono in diſgratia di Dio, non haurebbepotuto dare ad intendere
facilmente il beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui
dalla medeſima neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità
peruenuta nella egregia Città di Firenze,auuertendo pri ma chi legge,in queſto
modo. DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo
Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare,quafi
dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. AR. Ecco qui ancora un'altra bella
preparatione di coſe,fatta per le uare ogni impedimento,chepoteſſe
offendereilrimanente. DIN. Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi,
che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune ci
uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo di
ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari. AR. In fine ogni
precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo, che elte ſon
fatte,narrandole,ė artificio ſcelto, & elegante,però tutte le propofitoni
de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne
la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora
DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di
ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i principij
di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza porre
artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi.
DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi, che diranno,ch'io habbia nello
ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART. Eccola dimanda ſeguita la
ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che
con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo
alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa
di ſefatta, opoi s'habbiafcufato, ma quelmodo non ha dello
elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando
diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni, che queſte
nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta coſa nonė,
che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to
peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler
dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe,
cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della
miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le Mufe in
Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più
difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to,cl’io farei più
diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste
fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state
le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento
della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello
autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante,comeilprimoartife
cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso
auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle
predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia
cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad
alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella intera,ma parte di
una. A R. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare
cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza
altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura? A R.Queſta éuna
propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi
è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione
Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. A R. Ben che
tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza
quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel tuo uelle
Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In
queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo
auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di
riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio
della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi
dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati. DIN. Ma
hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro
riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio
quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto
fin qui,con che arte la eleganza leuarmare ciaſcheduna delle dette maniere,
accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima delle coſe, e del
parlare. DE Ï Ï Á parlare. A R. Bendi. Dei dunque ſapere che comenell'Anima,al.
tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella, che é da gli effetti
commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal
muouere appartenenti, cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali
conuerranno alle coſe dello intelletto,als cune alle coſe della uoglia, odello
appetito, o quando queſto non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di poter
acconciamente indurs re opinione è affettione con la forza della fuuella. Però
auuertiſci, che nel trattamento delle forme da te ſtesſo potrai intendere qual
forma à qual coſaſi confaccia. DIN. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con
glieſſempi, eio mi obligo di leggerli ſecondola occaſio ne,in qualunque libro
di queſti,che tu uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero,
o numeroſo componimento. ART. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo
il biſogno. Sappi adunque, è Dinardo, chequalhora alcuno ſi rivolga à conſi=
derare il modo, es la ragione del medicare, che ritrouando alcus na bella coſa
nella medicina, uoglia giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è
dubbio, che egli non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che
ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza. Ecco la medicina cerca di indurre ſanità,
oue ella non ė, ò di conſeruarla doue ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte,d'intorno
alla buonaopinione, perche conogni ſtudio s'affitica di metterla,ò di
mantenerla oue ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con
qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o preferuata,cosi queſt'arte opracon
l'anima, e con le partiſue con le formedel parlare.La medicina quantopiù può
fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo,con mele ò con
zucchero, ò con altra coperta mitigando il peßimoſapore, ego l'odore delle
medicine, ne da queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon
offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris medij,il qualſentimento é negli
orrecchi ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità delſuono fa trapaſſar’inſino
all'anima la opinione, quantun que ſia di coſa dalla Natura aborrita.
Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette, non tanto
gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù dell'altre
coſe al luogo infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiofa fauella,non ti
posſo in poca hora dichiarare, perche troppo grande é la forza delſuo nus
meroſo componimento; il quale portando ſeco ageuolißimamente il ualor delle
parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per ogni parte dell'anima,deſ leroſa di
queſta foauicà, e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è però da
dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche queſto
giudicio è più proprio dell'intelletto, che delſentimento umano. Giudicando
adunque, o conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione, che le parole
più ad un modo, che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua
iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo principio, conueniente, ma quanto alla
perfettione non cosi; però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia
quello che la Nde tura, a quello che io ti poßiamo prestare,dico,che la Natura
ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo piacere & diletto, vuole chequelle
affaticate fi folleuino con la ſoauità, a dolcezza del dire; al che fare niuna
coſa è più potente nel uostro ragionare, che'l numero, ola fosnità delle
parole. Il qual numero biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si
perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la
quae le con luſingheuole inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli
aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione, o fede. Ma quando con ine certo,
& non conoſciuto numero,dolce però, e foaue,ſi compone il parld. -mento,
oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza, & dell’intendimento, fena za
dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, «
ogni regola continouata del uerſo; continouata dico, peroche lo ſteſſo numero
più volte replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti
l'ordinato, « conſueto ritorno, più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa
aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to,e conoſciuto,più
dall'arte,che dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o
ſciolta del tutto non dee restare l'oratione, che oſcura, cu piaccuole ne
rimarrebbe,però numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che
naſca, o per qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione,
quanto à me s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia
NVMERO, ò numeroſo come ponimento. DIN. Queſto ordine à meſommamente
diletta,però di cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri.
A R. La neceßità uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza,perche à queſto
fine ſi ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri
di fuori,doue mancando o accreſcendo parole, o il concetto interno non
ſarebbeeſpreſſo, come nella mente dimora, ò il parlar ſarebbe ociofo,ò
mancheuole.Maperche la ſentenza nell'anima è finita Otermina ta,però
debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le parole, che la sentenza dimostrano.
Laqual quantità inſieme ragunata, Giro, o circuito nos mineremo ilquale altro
non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza. Questo
abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la ſentenza,puòhauere una ò
piu parti, o maggiori, o minori, ſecondo le parti della ſentenza;@ ciaſcuna
parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó Nodo; osi come ogni parte del
corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo mezo, o il corpomedeſimo e
terminato, & finitocosi, le parti dello abbracciamento, welfo
abbracciamento ſarà finito, otermina to. In tutto queſto ſpatio adunque,che è
tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il cominciamento, es la
chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua alcuna uolta
s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi muoua più ueloce,ò piu tarda
ſecondo laqualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto mouimento,miſurato
col tempo del proferire, para toriſce ilnumero, del qual ragioniamo,uero
figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare, omoltopiu nel
fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche
di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento del piacere,
o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi,
ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però, hauendoſifin'ora in
parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò
che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce, odiuerſe maniere
hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo
a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo
quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di
questa magnifica oillus ſtre compoſitione; però ſegui,che con maggior
deſiderio, cheprima,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare,che ora tu
facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza,laqual
naſce da purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un
tutto, acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della
mondezza opile rità,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità
del dire quelle ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno
biſogno di piu conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi
delle co fe,come qui. Leggi. DIN. Tancredi, Principe di Salerno, fu Signore
affai umano, di benigno aſpetto. A R. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di
diſcorſo ogni mediocre in. gigno gegropuò capire ilſentimento della ſentenzagià
letta, come ancora in questi uerfi.Leggi. DIN. Io ſon Manfredi, Nipote di
Coſtanza Imperatrice. ART. Et molti eſſempi ſono della purità nelle nouelle, la
ſentenza delle quali per la maggior parte è molto alla
uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe
conſiderata, percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi riguardaſſe,
oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in questa guifa
ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai umano, per che
queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che
ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque
altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella ſentenza, las quale stando
nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di
dentro dimostra il concetto,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun
accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita
ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo. do,ò d'altro
auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza: DIN. La quale
percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco con lei
dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer pura
cotestaſentenza,quel trammezamento,che dice,percioche egli,si come i mercatanti
fanno,andaua molto intorno, o questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo,
di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo,
&neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti
quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee
uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche, tutte le
parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto
proportionate, onde le trae portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che
la lingua pena à proferire, o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane,però
purisſime ſono queste. DIN. Cheà me pareuaeßer’in una bella, diletteuole ſelua,&
in quella andar cacciando ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu
che la neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da
me nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non
partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una
catena d'oro tener con le mani. F 2 AR ARTE Non è poco hauer giudicio di
ritrouar le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel
diſporle, o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la
figura delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò
Cornacchini fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. Aſolo
adunqueuago, « piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre
Alpiſopra il Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di
Cipri. ARTE Non cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato,
Dicendo,DiAſolo,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di
Cipri. Ma puro e per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola
puro non ſia, doue ſi dice Arneſe,uoce straniera, ancora nello are. tificio non
é puro per quello tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per
quelle circoſtanze del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il
ſentimentode gli aſcoltanti, oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque
erra chi uolendo cßer puro uſa parole non pure, artificio,ò figura d'altra
maniera,della oratione? ÁR: Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in
ogni parte puro, &netto, & non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non
erra uolendo alla pu rità del dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora
uoglio che ogni maniera ſia in ſe ſteſſa conſiderata, e però lapurità del dire
haurà le. parti ſue distinte,os ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è
figura, di questaforma, o maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario
als la comprenſione della quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom
poſitione delle parole, Dico nella purità,cs mondezza del dire douerſi met:
tere le parole inſieme con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae
coſenza molta cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in
ciaſcheduna parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni
difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale, temperato,
« non impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di
acconciare talmente, che pine tosto nate, che fabricate appariſcano,come nello
eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, &
lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba, come la natura in tutte
ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono
delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda
parte del petto,o eſce poifuori con alta voce,riſonante,onde lo ſpirito di essa
grande,oſonoroffente,odi laſe guente, ch'é,B. LA B é puraſnella,deſpedita,come
è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C, órauca quando è posta inanzi la
A à la V come per lo contrario e di dolce,ſpeſſo, o pieno ſuono,precedendo alla
I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia
perſona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al
comando tuo. Conſidera poi da te ſteſſo il restante delle lettere, in che
maniera eſſa natura diſua propria qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai
onde nde ſce più questa,chequella compoſitione.Le parti, &le membra, della
purie. rità effer deono breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non
ritar: dando con lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe
polo,come qui, D. Suol’eſſere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o
fortuneuole nembofofpinti errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana
pie tra,ritrouare la trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non
Ria lor tolto il potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca
ciano,ò almeno doue più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna
parimente in minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt
uuole eſſer puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto
dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le
di ſtomaco, « poi il laſcia,L'abbate ritorna, in corte di Roma,o il rico cilia
con Bonifatio Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer
dee la predetta norma oſſeruata,come, qui. Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho
da farguerra, E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene
in queſta altra parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò
che ilſenſo è troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque
della purità quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile
parole, alla figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi
tratti del numero, & del finimento,cioè della chiuſa,odel ter mine della
ſentenza,o delle parti ſue.Dico adunque, che nello andare, ego nello ſpatio di
queſta forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i
ripoſi,one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal
fine,peròſapendo quale eßer dee la compoſitione delelc le parole, quale il
fineztutto quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender
quellocheſi è detto, perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito
reſta che ſidica del finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in
alcunaparola tronca,oin parola piena,ſienoque ſte parole,ò di due,ò di tre,ò di
piu ſilabe,o ancora di una. Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe,
& uolubili,o ſalde,oferme, opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema
parola di tutta la chiuſa, ma anco la uicina, o proſima,però partitamente ſi
dirà di ciaſcun finimento al luo go ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare
le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire
cotidiano,fuggirà il fine del le parole tronche, comeſono quelle
andò,corfuftarà,o C.perche le mede. fime dee nella diſpoſitione fuggire,come
ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine,cheper lo più la Natura
a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in parole
piene, &perfete te,fuggendo le tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta
nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per
la mage gior parte de ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque
odalla diſpoſitione riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo
adunque lachiuſa ſimile alla diſpoſitione, «la diſpoſitione non
isforzeuole,matemperata,& naturale,fcguita che il numero dell'uno, o,
dell'altro figliuoloſarà, à quelle fomigliante. Ben'è vero,che laforza di cia
fcuna manierà,e ripoſta piu toſto nelle altre parti,che nel numero, eccetto,
che nella bellezza,douc l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto
piùè ne i uerfi, nella poeſia,che altroue, o questo dico, acciò che fu non
metta piu ſtudio,doue nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giu. dicio delle
quali da eſſa natura é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo,quanto
giouala mondezza, opurità del dire alla chiarezza; ma perche questa
ſempliceforma non può daſefola si chiaramente parlae re che non uiſiaqualche
impedimento,però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri,con la eleganza
aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro,piu questo ordineche
quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del
dire,ilqual'aiuto èpiù presto nell'ar. tificio, che nelle ſentenze ripoſto.
Però che ella ſi sforzafar ogni ſentenza chiara &aperta,non che le pure già
dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della cleganza,o prima dello
artificio,colquale ella lcuar fuole ogni ſentenza nella mente riposta. AR. La
cleganza e maniera,cheportachiarezza à tutte le maniere della oratione, operò
non tanto alla purità, douc ella manca foccorre, quanto à ciaſcaduna forma opra
intelligenza, o facilità,daqueſto nafce, che la eleganza dalla purità del dire
in alcuna coſa é differente.Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta,ma
la eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun ſole, che ogni
oſcurità, che per quella poteſſe uenire, leua,o diſgombra,o però in
ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo, si co i colori,«le
figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto,acciò che
ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da
ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio
albergo à ſdegno s'hebbe Poi seguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente:
AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi. DIN. Mipiace à condiſcendere à
conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei
costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra il biaſimare
alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo
partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello
aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio,
s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le
quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar
del ben,ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. AR. Se il
poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che
ſono in diſgratia di Dio, non haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il
beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima
neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta
nella egregia Città di Firenze,auuertendo pri ma chi legge,in queſto modo. DIN.
Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo
Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare,quafi
dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. A R. Ecco qui ancora un'altra bella
preparatione di coſe,fatta per le uare ogni impedimento,chepoteſſe
offendereilrimanente. DIN. Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi,
che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune ci
uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo di
ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari, AR. AR. In fine
ogni precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo, che elte ſon
fatte,narrandole,ė artificio ſcelto, & elegante,però tutte le propofitoni
de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne
la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora
DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di
ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i principij
di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza porre
artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi.
DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi, che diranno,ch'io habbia nello
ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART. Eccola dimanda ſeguita la
ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che
con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo
alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa
di ſefatta, opoi s'habbiafcufato, ma quelmodo non ha dello
elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando
diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni, che queſte
nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta coſa nonė,
che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to
peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler
dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe,
cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della
miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le Mufe in
Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più
difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to,cl’io farei più
diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste
fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state
le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento
della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello
autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante,comeilprimoartife
cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso
auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle
predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia
cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad
alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella intera,ma parte di
una. A R. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare
cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza
altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura? AR. Queſta éuna
propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi
è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione
Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. A R. Ben che
tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza
quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel tuo uelle
Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In
queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo
auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di
riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio
della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi
dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati. DIN. Ma
hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro
riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio
quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto
fin qui,con che arte la eleganza leuadato per ſostegno la grandezza o
magnificenza del dire,cosi nella grandezza è pericolo di uſcire in forma che
non habbis ornamento, proportione,o peròſe le darà per miſura, o bellezzafua
unaforma diligente,accurata,o ben composta, laquale in termini conuc. nienti
richiudendo l'ampiezza della oratione,o ſangue, o colore amabi le en gratioſo
le donerà,ondeil tutto miſurato, & temperato marauigliofan mente ſipotrà
uedere.Questa forma nėſentenze, ne artificio ſeparato dal l'altreforme ritiene,ma
ogniſuaforza nelle parole,nelſito di oſſe, ne i luo mi,onelle altre parti e
ripoſta.Seperò dare non le uogliamo quellefenten ze, che acuti fono,o diſottile
intendimentodelle qualiſi dirà poi. Le paro le adunque di queſtaforma ſono le
foaui,leggiadre,bricui, difacile intelli. genza,iſchiette,o con gran
circoſpettione traportate. Perciò che le trasla tioni in queſtaforma eſſer
deono rarißime, o lefigure di questa miſurata Oben compoſta manieraſono le
repetitioni. Leggi, Per meſ ua ne la Città dolente, Per me ſi ua ne l'eterno
dolore, Per mefi ua tra la perduta gente. AR. E molto bella eornata queſta
figura, os tanto più ha di ornde mento,quantoquello che ſi replica,augumenta,o
creſce. Come qui. Amor, che à cor gentil ratto s'apprende, Preſe costui de la
bella perſona Che mifu tolta,e'l modo ancor m'offende. Amor che a nullo amato
amarperdona, Mipreſe del coſtui piacer si forte Che, come uedi ancornon
m'abbandona. amor conduſſe noi ad una morte. A R. Se alla repetitione
aggiugnerai la interrogatione, ſenza dubbio tu entrerai nella maniera forte
ucemente comequi. Qual'amore,qual ricchezza,qualparentado baurebbe le lagrime,
o i K sospiri pospiri di Tito con tanta efficaciafatti à Gilppo nelcuorfentire,
che egli perciò la bellaſpoſa,gentile,&amata da lui haueße fatta diuenir di
Tito, fe non coſtei? Quai leggi.Quaimi nacce?oc. AR. Tu da te stesſo poi quanto
ornata ſa ducemente queſta parte conſiderando uedrai; tanto più ſeappreſo le
dettefigure ancora ui porrai la conuerſione della quale di ſopra s'è detto.Nėti
marauigliarefe(una me defimafiguraſia da altrefigure ornata willustrata.Pero
che la lingua di queſtiornamenti é capacißima. Laſcia che à fuo modo altri
ragioni, tu neſarai giudice,ola coſa iſteſſa te lo dimostra. La conversione
adunque è figura di queſta idea, a Rſuol fare quando in quella ſteſſa parola
pià membri ſ laſciano terminare,come nello eſempio ora letto. Bella è ancora la
ritornatacheſi fa quando la parola cheſegue, comincia da quella in che la
precedente finiſce,come qui. Leggi, Di me medeſmo meco miuergogno. Et qui, Et
confoauepaſſo a campi difcefa,per l'ampia pianura sùper le rua giadoſe erbe in
fine à tanto che, & c. AR. O uero in questo modo. Infiammò contramegli
animi tutti, Egli infiammati infiammar si Auguſto, che lieti onor tornaro in
tristi lutti. AR. Et ancora il Bifquizzo come nell'uno Poeta ſi dicra Ch'io
fuiper ritornar più uolte uolto, Et l'altro. Il fiorir queſte innanzi tempo
tempio. Da poi la predetta ui ſono anco altre ornatisſimefigure, come è illoro
aſcendimento,ala tradottione o altre. Lo ascendimento R fa quando le parti che
ſeguono,cominciano dalle parole medeſime,nelle quali uan tere minando le parti
precedenti,con questa conditione che ſi mutino, le cadenze di esse parole. Come
qui, Nel dir l'andar,ne l'andar lui più lento. AR. Ouero in queſt'altromodo.
Luſca, io non poſſo credereche queſte parole uengano dalla mia donnd, eperciò
guarda quello che tu di.Et ſe pure da lei ueniſfono,non credo che con l'animo
fermo dire le tifaccia.Etſe pure con l'animo le diceſſe, il mio Rignore mi fa
più onorecheio non merito: A R. La tradottione ė figura,che replicando la
steſſa parola,nonfolde mente dimoſtra la intentione di chi parla,ma
mirabil'ornamento accreſce oue ella ſtruoud.come qui, Laurd, che'l uerde
lauro,e l'aureo crine. AR. Molto diligente as accurata figura e quella cheſifa
quädo due, • più partifraſecongiunteſi ſogliono proferire.Leggi, Et utile
conſiglio potrannopigliare, & conoſcere quello che fa dáfug gire,o che ſia
fimilmente da ſeguitare. AR. Et qui, A cui grandi ey rade,o à cui minute pelje.
AR. Forza ė,che onunque in una bella,& adornata figura s'abbatta un bel
giuditio, egli conoſca es ſenta dentro difealcuna dolcezza; com meſe uno udirà
in questo modo ragionare. Riſpoſemi non huomo,huomo giàfui, E li parentimiei
furon Lombardi, Mantovani per patriambedui, Nacqui ſub Iulio ancor che foſſe tardi,
E uißi à Romaſotto il buon ’Auguſto, Al tempo de gli dei falſie bugiardi
Poetafui,e cantaidi quel giusto Figliuol d'Anchife,che uenne da Troia, Poi
che'lſuperbo Ilion fu combuſto. AR. Non ſentirai tu per queſta diſgiuntione,per
la quale ogni parte ſotto ilſuo uerbo è rinchiuſa,una diligenza gentile del
Pocta:si comelà,do we dice, Io ſon Beatrice,che ti faccio andare, Vegno dal
loco, oue tornar diſſo, Amor mi molle, che mifa parlare. Et molto piùſe nella
proſa detto ritrouaſi A que' tempi che i noſtri maggiorihaueano l'occhio al
gouerno di que ſta Republica,eta riconoſciuta la uirtù de'buoni, dauanſ i
compenſi dei danni riceuuti per la patria,chi robaua il publico,era castigato;
fioriua dia na giouentù dedita alla mercantia, oucro alle lettere, laſciauaſi
il facerdos: tio, la militia da' noſtri queſta,per che i cittadini non
pigliaſſero l'arme contrafe ſtoßi,quello,acciochefuſſero più finceri i parenti
afar giudicio delle coſe importanti. ART. Vedi,che narrando partitamente,
oſenza congiugnimene to alcuno, il parlareè ſpedito, la figura ornata,
odiletteuole ſopramo do il ſuono di eßa oratione. Al cui ornamento il traportar
delle parti di oßa gioua mirabilmente, come quando ſi dice, Al costei foco,alcolei
grido. K 2 Giouin Giouinettopoß'io nel coſtui regno. Et qui. Vſate le colei
bellezze. In queſto caſo nonf dee di tanto leuar dall'ordine loro le parole,
che la ſentenza oſcura deuenti,come diſſe, Che i belli,onde miſtruggo,occhi mi
co la, di che èquaſ piena quella canzone. Verdi panni,ſanguigni,oſcuri,operſ.
Bello alquanto èquel tranſportamento chedice. Or non odio per lei, per
mepietade Cerco, che quel non uo,questo non poſſo. Concedeſ però a '
Poetimaggior licenza per riſpetto della neceßità del uerfo,nel quale ancora più
ampio luogo fanno gli ornamenti che nella profa.pure non èche del bello
nonhabbiano aſſai quelle figure, che per le negationi affermano,come s'egliſi
diceffe, io nol niego, cioè io il confefe fo.Et quella,non è alcuno,che nol
creda,cioè ogn’uno il crede.Poi non taca que,cioè parlò, e diſſe. Suole ancora
chi fcriue amaggior bellezza circoſcriuendo le coſe, con più parole,quello che
conuna può eſprimere come qui, Era giàl'hora,che uolge il deſio, A'nauiganti,e
inteneriſceil core, Il di,che han detto à i dolci amici,A Dio, AR. Et cosiA
chiama il Sole Pianeta,che distingué l'hore, e diceft. laprudenza di Mario,la
fapienzadi Catonein luogo di dire Mario prila dente, o Catone faggio,&éappreßo
bella figurala innouatione i com me qui, Parte preſ in battaglia,e parte
ucciſt. Et quia Taciti ſolieſenza compagnia, N'andauan l'un dinanzi e l'altro
dopo. AR. Ecco come la bellezza ogni formaabbelifce,ne per tanto auenga che
ella moltefigure, molti lumidimoſtre,di quelle ſolamenteſt contene ta,ma
ſtudioſa del diletto sforza di ragionare uariamente. Là onde per fuggir la
fatietà con mirabile artificio è uſata di uariare la oratione. Et questo
ſuolfare primieramente doppo molte uoci di piene «ſonore lettere
ponendonealcune dibaſſe U rimeſſe.Dapoifuggendo la continuatagiacia tura de gli
accentiſopra una medeſimafillaba,ora nelle ultime,ora in quet le,che uanno
innanzi adeffe gliſopramette,o di più in mezo delle lunghe le corte parole
framettendo gratia &adornamento le giunge. Bella coſa ė si come tra
cittadini vedere gli ſtranieri, cosi tra le nostre parole alcuna adirai che
alicna fa,o meſcolare le ifquifite con alcuna detle popolari, le BMOWE huone
con le uſate, finalmente la elettiöne in queſta parte può aſai, la quale
ritrouandofi in ſaldo w ſottilgiudicio, dimoſtra in un'eſſere tutto quello che
col conſiglio di molti eletto a ricolto effer potrebbe però non degnale
uili,ſcaccia le brutte,fugge le aſpre, abbracciale eleganti ſceglie
leſignificanti, o con copia marauigliofa uaria la difpofitione, i të pi,ilnumeroje
i finimenti;nė di pari lunghezza formeràle parti delparlaa re,nėripiglierà
una'steßa figura,un tempo medeſimo,un modo Amile, una perfona pari,ma quaſi
un'adorno pratola oratione di molta varietà fora mando, diletto, o
gioia,recherà ſempremai.Leggiprima qui, comeil Poce ta i medeſimi nomi non
ridice in uno steßo luogo. Io credo checi credette,ch'io credeßi, Che tante
uoci uſciße da quei bronchi, Da genti cheper noiſi naſcondeffc., Però diſſe il
maeſtro,ſe tu tronchi Qualchefrafchetta d'una deste piante, Penſter c'hai
ffaran tutti monchi. Allor porfi la mano un poco duante, E colfi un ramufcel da
un gran pruno, E'l tronco fuo gridò perche miſchiante. Da chefattofupoi
diſanguebruno, Rincominciò à gridar,per che mi ſterpiš Non hai tu ſpirto di
pietade alcuno? Huominifummo, oorfemfatti sterpi, Ben douerebbe la tua man più
pia, seſtatefoßim'anime di ferpi? Comed'un ſtizzo uerde,che arfo Ria, Dal'un de
lati cheda l'altro geme, Bi cigolaper uento che ua uia. Cosi di quella ſcheggia
ufciua inſteme, Parole,e ſangue,ond'io laſciai la cima Cadere,e dette come
l'huom che teme. A R. Tu puoiuederein quanti modiilPoeta ha uoluto variar
leparon ko con quanta felicità egli lo habbia ottenuto. Il che in molti luoghi
può in elo uedere.si come là,doue parlando del lago gelato, lo chiamaora
ghiaccio,era uetro, ora gelozora groſſo,o duro uello,ora ghiaccio, ora geld ti
guazzi, ora eterno uzzo,oragelata,ora cristallo orafaſcia gelata, ora fredda
crostázora lagrime inuetriate, &fimili altre parole ufa variando il poema.
Il fimigliante hannofatto,fono perfare tutti gliſcrittori di non D B 1 L me.
Leggerai mirabili eſſempi della narietà in tanti principij di giornar Odi
nouelle cheſono in quell'autore, o leggerai anco l'ultima parte del ſecondo
libro di quest'altro che comincia. Che andiamo noipure tutta uia di molti
amanti et diletti ragionando. Maė tempo di ritornar’omai alle altre parti della
formapredetta,ope ró d'intorno alle membra dei ſapere chela lunghezza di eſſe
in queſtafor. ma èpix deſiderata,chela breuità ocortezza,non però uoglio, che
si lo ftremo ti fermi,macon più disteſe parti che nella eleganza uorrei,che
leſue ſentenze liportaſjero,che le parole di effe in tal guiſa ſi
collocaſſero,et ſ terminajſe queüa oratione,che uariate alſopradetto modoil
faſtidio o la satietà ſi fuggiſſe, oin grado ogni sprezzata coſa ci ueniſſe. Il
numero al uerfo uicino in questaforma ci uuole,il qual numero primaſarà di quel
la maniera,che di ſopra ti ho detto, cioè ripoſo o mouimento, ouero tempo di
proferire,ò da poi di un'altra,che ora io ti dimoſtrerò. Perciò chemolto bene
all'oratione può dar formanumeroſa et bella, la qualeſia nata da ue na certa
neceßità delle coſe ben composte, o conſiderate, come il contra. porre i
contrarij, o le coſe diſcordi l'una all'altra con miſura corriſpone
denti,ritrouare i ſimiliipari, o altre coſe ſomiglianti à queste,delle quali
partitamente e con eßempio ne dirò, Sono alcune membra,ò nodi della
oratione,iquali hanno le lor ſentenze oppofte,ma con una corriſpondenza tra
loro mirabile temperate. Ilprimo cfſempioſarà di quello che ſi chiama Pare,il
qualeſi fa quando le parti che Äihanno à corriſpondere ſono quaſi di pare
numero di ſilabe, odi tempi, quafi dico,però che queſta parità di ſillabe, o di
tempi con ſaldo intendie mento o giuditiodeue eſſereſtimata, et nõ del tutto
pari.L'eßempio di que ſta forma e questo. Dou’elladifonestamente amica ti fu,
ch'ella oneſtamente tua moglie diuenga. ART. Nel predetto effempio in duemodi
ſiuede effer fatta numero, ſa la oratione primaper la parità delle ſillabe,la
quale nelle parti ſi uede poi per la contrarietà corriſpɔndenteperche amica
omoglie, ſono contra rij, oneftamente o difonestamente fo:10 contrarij,
oppoſti,ſolodi pari ud queſto. Leggi, Quiui à niunoſi cerca inganno,a niunoſifa
ingiuria. ART. I contrarij adunque fanno la oratione offer numeroſa,come an
cora qui, Et di gran lunga é da eleggerpiù toſto il poco oſaporito, che il mola
to o infipido. ART. tornare. 2 ! TAR. Ne i ſimili ancora cade il numeroſo
concento in modochequando in fimil ſuono la chiuſa finiſce,ne rinſulta il
numero. Quel roſſore, che in altri ha creduto gittare,ſopra di ſe l'ha ſentito
A R. Speſſo auiene,che per fuggire il ſoſpetto di cotesto artificio, la simiglianza
de ifinimenti delle parole in mezo delle parti ſi ponga, com me qui, Poi
ueggendo,che questoſuo, conſumamento,più tosto che emendamento della cattiuità
del marito potrebbe eſſere. Et qui. Che più dispettosamente,che
fauiamente,parlando. Molti eſempi ritrouerai da teſteſſo di queste numeroſe
maniere, nate dalla corriſpondenza delle parti.Ora vorrei, che bene aucrtißi di
non re. plicare piùuolte cotesti adornamenti,di non affettar tanto la conſonana
za delle parti,che cadeßi in fastidio,ouero infospetto de gli aſcoltanti. Et
per queſta reggerai medeſimamente il uerfo,nel quale caduto in più luoghi Ruede
l'autore delle nouelle,il quale à mepare che di ciò molto curato nõ
habbia.Beneuero,che con mirabile perfettione riempie le parti ele měs bra della
ſua fauella quando diuide i nodi de' ſuoi giri in tre parti, come qui Percioche
niun'altro diletto,niun'altro diporto, niun'altra confolatione laſciata ti ha
la tua eſtremafortuna.Etqui, Et ſe qualunque di quelle fuſſe in Salomone,ò in
Aristotile,ò in Seneca, 'haurebbe forzadi guastar'ogni lorſenno,ogni lor uirtů,
ogni lor ſantità. Et qui. Maquantoſenfante, quanto poderoſe,di quantoben cagion
le fore ze d'Amore,& c. Conſidera la distintione de' membri in quella
nouella, doue introduce to ſcolare,la uedoua,perche cosirichiedeua la dotta
perſona dello ſcolare. AR. E degno di conſideratione il numero delle fillabe,
chenelle parti, che hanno à riſpondere l'una all'altra,ſ mette. Perciò che
quando una pare te di troppo l'altra auanzaſſe,non ne ſeguiterebbe alcuna
numeroſa compo Rtione,però buone onumeroſe appaiono eſſer queſte. Accioche come
per nobiltà d'animo dall'altre diuiſe fiete, cosi ancora per eccelentia di
coſtumiſpartite dall'altre ui dimostriate. ART. Maqui appare alquanto lunghetta
la riſpondenza, &la die fagguaglianza demembri.Leggi. Quanto piùſ parla de'
fattidellafortuna,tantopiù à chi uuole lefue co fe ben riguardare,ne reſta da
poter dire, ÄR. ART. Può eſfer’ancora,che non ſi gusti il numeroper la
lunghezza delleſueparti,benche fieno quaſi paricomequi, Egli auieneſpeſſo, che
sicomela fortunafotto uili artialcuna uolta grandi teſori di uirtù
naſconde,cosi ancoraſotto turpißime forme d'huo. miniſtruowa marauiglioſ
ingegni dalla natura eſſere stati ripoſti. AR. S'io ti uoleßi ogni coſa
moſtrare d'intorno alla bellezza del dire, troppo ritarderei gli ſtudij che hai
afare,o pocoti laſcerei da eſercia tarti d'intorno allaeloquéza umana.Peròp trapaſſare
alle altre forme,par lerò della ueloce e pronta maniera della oratione; la
forza della quale è nello artificio,più tosto,onelleſeguenti parti,che nelle
ſentenze riposta. L'artificio adunque della prestezza eà brieui dimande
brieuementeria fpondere.Leggi. S'amor non èche èdunque quel ch'ioſento?:: Ma s'egliè
amor,per Dio che coſa è quale? Se buona,ond'ċ l'effetto afpro e mortale? Se
ria,ondési dolce ogni tormento? ART. Ouero il fare molte dimande, con forze di
ſpirito obrer uits: Non era egli nobile giouane? Non era egli tra gli altri
ſuoi cittadini bello? Non eraegli valorofo in quelle coſe che d' giouani
s'appartengono? Non amato? Non bauuto caro?Non uolentieri ueduto da ogni huomo?
AR. Le membra,quaſ parole eſſerdeono bricui «uolubili, oche pa ia che in eſſe
fail monimento del parlar noſtro, oltre alla ſignificatione delle parole nelle
quali ėripoſta la forza dela efpreßione di ogni forma. Leggi. Soli bastano,
accompagnati creſcono, und mille nefå, odelle mille in brieue tempo mille ne
naſcono,per ciaſcuna ſono aſpettate giocondißime,no aſpettate uenturoſe, ſono
cari ageuoli,ma diſageuolivia più care inquanto le uittoric acquiſtate con
alcuna fatica fanno il trionfo maggiore, donare, rubbare, guadagnare, guiderdonare,
ragionare,ſoſpirare, lagrimare, rotte, reintegrate,prime ſeconde,falje,o
uere,lunghe bricui, tutte fonodiletteuo li tutte ſono gratiofe. AR. Vedi che
mouimento apporti ſeco questo parlamento, il quale quando l'huomo è riſcaldato
s'aſcolta con marauiglia delle genti. Confia Ate anco nellaforzadelleparole, o
nelſuono, onella compoſitione. com mequi. E già uenia sì per le torbid onde, Vn
fracaſſo d'un ſuon pien difpauento, Per cui tremauan' amendue le ſponde, Non
altramente fatti,che d'un uento: Impetuofo per gli auuerſardori, Chefier la
ſeluaſenza alcun rattento Gli ramiſchianta,abbatte, e porta i fiori
Dinanzipolucroſo uaſuperbo Etfafuggir lefiere e gli pastori. ART. Tanto uoglio
che tu ſappia della preſtezza del dire. Perciò che date medeſimopuoi
comprendere quanto « ilconcorſo delle uocali,ore forezza delle fillabe pa
lontana da questa forma,esfapere che ogni ina dugio di proferire, ogni
raccoglimento,ogni giro, impediſce il mouimento fuo. Reſta adunque a dire della
formaaccostumata,o delle fueparti, la. quale e, cheſi conuiene alle cocoalle
perſone in tal modo chequello che ſi chiama Decoro, molJa chiaramente ſi ueda Et
però la detta forma ſota to di ſe quattro maniere principaliſ uede contenere.
La primaė la unilta ubaſſezza. L'altra é la piaceuolezza o il diletto. La terza
e l'acutezza Uprontezza. Et l'ultima la moderatezza della oration. Delle quai
fore menecessariamente in queſta forma si ragiona, perche cosi porta la natua
rade gli huomini,i quali sono ó uili, o riputati, è piaceuoli, o moderati. La
bajezze dangue e forma infima, e dimessa del dire, alle roze, o idiote persone
convenicnte, à femine, fanciulli non diſdiceuole: da Comici, rie chieſta ouſata
pia toſto che da Oratori, o eloquenti buomini,o piu tom Ho nelle cauſe de
priuati, che ne i communiconſigli ricercata,quando uor rai attribuire il parlar
a quella perſona, cui non ſidifdice la baffizza. Cá dono in queſta ſimplicita
di dire i paſtori, aquelli che le coſe.boſcarecce Man deſcriuendo,o però le
ſentenze di queſtaformaſonopiu baſſe Qumi li, opiùfacili che quelle della
purità oſcioltezza del dire. Là onde ala cuni giuramenti ſciocchi à
qneſtamaniera ſi confanno. O Calandrino mio dolce, culor del corpo mio, quanto
tempo t'ho defide Tatob’dauerti edi poterti tenere a mio fenno.Tu m'hai con le
piaccuoa lezza tuațratto il filo delacamicia, tu m'hai aggrattigliato il cuore
con la tua ribecca. Può egli eſſer che io titenga? Leggeraila tutta, otutto che
in questa formauiſabaſſezza, non è però ela ſenza artificio, percioche per
dimoſlrarla pulefe,fi fuole alcuna fista minutamente ogni coſa deſcriuere,u
ogni particolarità chia rire, introdurre alcune ſcioccheriſpoſte, ò ſemplici
contentioni di coſe, che non rileuano con detti, le ſentenze de quali ſono
grandi, ma le parole ſciocche, at rozze. Leggi. L Cominciò à dire ch'egli era
gentilhuomo per procuratore, roy. Begli bauea diſcudi più di milantanouefenza
quellich'egli hauea àdarealtri che erano anzi piùche meno e che egliſapeus tale
coſe fare; ct dire che domine pure unquanche. ART.. A tuo agio nie leggerai
ilrestante,mauedi la contentione: Guatatala un poco in cagneſco per
amoreuolezza la riniorchiaua '; ege ella cotale ſaluatichetta, facédo uiſtadi
non auederſene andaua pure oltra in contengo. Seguita che tutta ëbaſſa per li
giuramenti, per le beffe, con per alcuni rabbuffi, come qui. Vedi bestial buomo
che ardiſce, là doue io Pid, parlar prima di me, laſcia dir à me, Et alla reina
riuolta diſſe,Madonna, costui mi uuol far. conoſcer la moglie di Sicofanta,ne
più ne meno come scio con lei ufata nor, fußi, che mi uuol dar' à uedere chela
notte prima che Sicofanta giacque con lei meſſer Mazza entraffe in monte nero
per forza,e con ſpargie mento di fangue oio vi dicoche non é ucro,anzi u’entró
pacificamente: La deſcrittione del fante di fracipolld;& della
fante,ėbaſſa,er propria di queſta formaa alcuni lameti cô parole ufitate &
popolari. Leggi. Dime,oimė Giãnel mio io fon morta,ecco ilmarito mio,chetri fto
il faccia Dio,che ſi tornò, « non ſo che queſto ſi uoglia dire. ART. Et alcuni
prouerbiemodiſono dimeßi. Leggi.: Et cosi al mododeluillan matto doppo il danno
fece il patto, muoia. foldo, oniua amore, e tutta la brigata. ART. Dalle
fentenze di queſta forma ſipuò far congettura quai parole, ochenumero,
oquaichiuſe ad effali conuengonc, Però cheari tificioſamente da ogni artificio
lontana offer deue ogni ſua parte, & imie tare la ſemplicità, ogroſſezza
delle perſone. Io non uorrci queſtaforma in unpocma grande, o genoroſo; o
dubito che per questa ragione da ale cuni ripreſo noſia uno de i
piùcarifigliuoli ch'io habbia,ilqualefpeſo per dire ognicoſaminutamente cade in
parole baßißime,come quando dife. Vn’amme non faria potuto dirſt, Quero.
Etmentre che la giù con l'occhio cerco, o quello che ſegue Trale gambe pendeuan
le minuggia La corata parea, e il tristo ſacco. Et il reſto. E non uidi già mai
menare ſtregghia A ragazzo aſpettato daſignorfo, Et la doue diſſe che Tencuan
bor done alle ſue rime. Md ora al diletto paſſando, dirò, che per diletto de
gli aſcoltanti ale cuna uolta l'oratione ad una forma s'inchina la quale tutta
e riposta nellä, bautentione delpoeta,però gioconda
diletteuolemanieras'addimanda ĝrellache la ſemplice edimeſſa alquanto più
rileua ealla fauola, ó fala uoloſa narratione ſi uolge. Là onde leſentenze di
questa formafaranno contrarie alla forma della dignità del dire; &però
diletteuoli o gior conde ſono quelle, doue ragionano inſieme la Diſcordia, o Gioue,
o in quel dialogo d'Amore, oue R dimostra in che guiſa difcendeſſe fra more tali
Amore.Sonoanco grate,ga dolci quelle ſentenze chehanno quelle coſe ntinutamente
deſcritte, lequali per natura loro hanno onde piacere difense timenti umani, es
però la deſcrittione dell'amenißima valle delle Donne a molto grata ad udire.
Conſidererai di quanta dolcezzaſia ſtato amaeſtro Simone il ragionaméto di
Bruno, quando egli deſcriſſe la brigata, che giudi in corſo,og de i loro
follazzi, opiaceri,e delle altre coſe diletteuoli che egli uedeus in udiua. Ma
è bene che tu ſappia, come di quelle coſe, che a ſenſi ſono ſottoposte, alcune
fono oneste, alcune diſoneste. Le diſor Heiste ſe paleſamentesi ſcuoprono co
iloroproprij uocaboli, offender for gliono le caſte orecchie;benche non
offendano quelliche nė di dirle, ne di farle R logliono tergognare,maſe con
diſcretomodoleggiadramente cura prono la bruttezza loro,non pure non perdono il
diletto quando ſono inteſe, ma molto più di ſoauird ſeco recano à gli
aſcoltanti: Narra lo amore di due cognatiilpoetaDante,o uolendo il finedieſſo
quantopiù poteua onestan mente ſcoprir diffe. Quel giorno pia non ui legemmo
auante, cioé attena demmo ad altro che à legger quello, che fu cagione del
nostro amore, o cosi quá lo l'altro poeta diſſe, Con lei fuß'io da cheparte il
ſole. E non ci Medeß'altri che le ſtelle.Ocosi in mille modi ó per le coſe
antecedenti, per quelle cheſeguono,eſſendo meno diſoneste,le
difoneſtißimèappalefar ft poſſono ne è pocalode dichi ſcriuezin tale occaſione
abbattědofi,ſenza offen fione anzi con diletto delle oneſte perſone deſcriuer
le coſe meno che oneſte. Intělaſi adunque la coſa, ofuggaſi la bruttezza delle
parole,o in queſto modo ſarà foaue, &diletteuole il parlar uoſtro. Alquale
gli amori,le bele lezze de i luoghi,igiardinizi prati,i fiori le fontane,la
prima uera, le pite ture, o altre coſe piaceuoli aggiungendoſi,ſenzadubbio ſi
dimoſtrerà la predetta forma,della quale anco di ſopras é detto aſſai, quando
del diletto, della gioia tiragionxi,che naturalinēte inuouc ogni coſa creata.
Et cosi ſecondo l'affettione di ciaſcuno ſi porge ſolazzo opiacere col
ragionare. L'artificio,et le parole della giocõdità tolteſono dalla
primaformadel dire chiamata purità, onettezza. Voglio bene in queſto paſſo,che
co più licen zoufigliaggiunti,ſegno e che i pocti loſtudio de' quali è proprio
il dilet? tare, allora più dilettano quando più belli;eacconiodatiaggiunti-
fono? wfati di porre ne' verſi loro, ecco Leggi. L & Giace nella fommità di
Partenio,non'umile monte della pastorale Arct. dia,un diletteuolepiano di
ampiezza non molto patioſo,peròche'l ſito del luogo nol conſente ma,di minuta,
o uerdisſima, crbetta si ripieno, cbe fe: le lafciue pecorelle congli auidi
morſi non uipafceffero,ui ſi potrebbe dom gni tempo ritrouar merdura. ART.
Tutti i principii delle giornateſono à proua fatti per dileta tarc, eperò inshi
13 ziunti uiſono meſcolati come tu potrai uedere. Egli lliſuole anchora
interporre de i ucrſi per. dilettare, ma con destro modo, Perciò che non
mipareche bence ſtia, che la compoſitionc babbia del uer fo come qui. Cofi
detto, et riſposto,e contentato, doppo, un brieue.filentio di ciaſcuno. ART.
Ecco che nella proſa ui è il uerlo,ſenza quel propoſito che: io ti diceua,però,
biſogna rompere i ucrſi con alcuna parola,eccoti uer: foc, Postbaueafine alſuo
ragionamento, madicendo. Pofthauca fine Lau, retta.al ſuo.ragionamento non è
più verſo, benche queſto.autore altrowe: non foſſeſchifatodal uerfo,come quando
diſſe. Poſcia che molto commendata l'hebbe, Disleale, o spregiuro, e traditore,
Etpoi con un ſospir aſſai penſoſo, Luogo moltoſolingo, ofuor. dimano.. Et
questi uerſi quanto ſono migliori,tanto più ſono da.cſfer fuggiti nel fic lo
della oratione, fenon quando,o per eſſempio, o per autoritade, o per di: letto
ſono tolti da poeti. Ora delle figure di questa faperai,che alla giocondaforma,
oltra le fi gure che alla purità,Q umiltà. conuengono quelle ancora non
disd.cono, che alla bellezza ſi danno,o peròle membra pari di ſimili cadimenti
le rime, i biſguizzi, itramutamenti; i circoli, le uoci.ſimiglianti, il
fingeri: de i nomi ſonofigure di questaforma. Leggi i ſimili cadimenti.
Tranquilla lite de'giudicanti ristora.le fettche gucrreggianti, in quel le con
le ſeuereleggi de gli huomini, la pisceuolezza della natura,meſcoa. lando a
queſti nel mezo de gli nocentisſimi guerreggiantipure, ø inno.. centisfime paci
recando. Nellefſempio letto ui troucrai anco la bellezza di contrari, la parità
de'membri, perche niente ci uicta,che una ſtela figura da molti lumi ancora
illuminata, fi poffa fare illuſtre e luminoſa. Laura, che il ucrde lauro,c
l'aurco crine.. Eſcherzo di upci ſimiglianti. Il mormorar dett'onde,bisbiglio,
ſpruzza.. reribombo,gracidare, fonoparolefinte,cha con diletto cfprimeno il
fatto, ecco quando colui diffe,Filli,
Filli,fonando tutti i calami, parue ueram mente che i calami fuſſono tocchi col
fiato di dettopaftore, o quello ſem zafar motto alcuno. Rimafu quella di coſtui
che diſſe. Tanto d'intorno à quel più bello, quanto pià de Thumido fenting di
quello, Et perpiù adornamento et diletto, diſſe anco. L'acqua laquale alla ſua
capacità ſoprabondaua. Et comei falli meritano punitione, Cosi i beneficii
meritano guidero: done. Nella rima è pofta. la dolcezza de' Poeti di questa
lingua, dallaqual.rima chi ardiſſe ò tentaſje per alcun mododidipartirf, toſto
ſi pentirebbe. Le rimepiùuicine fono più dolci: Qucta licenzadel
rimaremoderatamente Bplglia de proſatori, purche di affettata dilettatione:
disoneſto ſegno non porga. Voglio bene la compoſitione di questa forma,numeroſa
epiù al uerſo uicina che l'altre, ma il uerfo per ogni modo le tolgo. Guarda
con chefacilità ſipotrebbe coteſta proſa alla dolcezza deluerfo ridurre.Leg.
Vna fede medeſimatraloro per le menti unafermezza, unoamore in agni faſo, in:ogni
tronco,inognirina,,uede l'amante la faccia dolce delld. fua.belladonna,o ella
quella del ſuoſignore. Ma.ora non: voglio che tantoti piaccia la forma predetta
che tralaſcian do la dignità,o grandezzadeldire, procuri.con ogni ſtudio il
diletto piacere cheda quella fola procede, Perciò che io non uorrei che alcuna.
parte del tuo ragionamento ſenza piacer s udiſſe, di.che l'aſcolta,ilqual pia
cere naſce ancora. dalla Idea dell'altreforme, o dalle orecchie allo animo,
trapaſſando ogni parte di eſſo fparge di diletto marauiglioſo, perche moe.
uendo diletta, o dilettando li mouc, inſegnando ſimilmente fi.moue,,
odiletta.in quanto che lo inſegnare il mouere,o il dilettare, ſono opera. tioni
non distinte l'una dall'altra. Mi. laſciamo queſta quiſtione. ad altro, tempo,
o ancora nonstiamo troppo in.questa forma tutta.di altra confla deratione, come
quella.cbe al Posta.grandemente conuenga, alquale pocta. i giuochi, po le coſe
ridicole ſi confanno, operò di. cße ora non te ne dia 60, e tanto piu adietro
di buon cuore ti laſcerà queſta matcria ', quanto di: ſacopioſamente damoltine
è ſtato ſcritto,etragionato. Larifponfione: ad ogni parte è anco figura di
diletto. Leggi. Laquale ciiba fattinc i corpi.delicate,o morbide, negli animi.
timide opaurofe,ne le menti benignc, opietoſe, obacci dute le corporalifora ze
leggieri, le uoci piacsuoli, o imouimenti de imembrifoaui.. Ms or a pasfiamo
all'acutezza del.dire, forma inucro egregia. &. piùalto penfamentoche altra
meriteuple. Peroche ella contiene le ſentenza fic,deltuttocontrarioalla umiltà,
«baffezza della oratione, ej in uero altro dicendo,altro intende.Percioche è
dicoſeche hanno in ſeforza,et uds Forela onde lo artificiaė proferire le
alteodifficili intentioni pianaměte, o con facilità, e le umili &abictte
che paianoalte,o degne: onde i primo modo é,quandofi piglia una parola in altra
ſignificatione che nella ufata confueta maniera,ne pcro e meno conuencuole et
propriafe gli wiguardaalla forza della uoce,che la uſala, « conſucta, come qui.
Non creda donna Berta oſer Martino * -Prueden un furar altro offerine. 9.
Wedergli dentro al conſiglio diuino. Che quel puo furger,oquel può cadere. C:
il secondo modo e quello cheſi fa non
mettendo la parola, doueela berie Starebbe, ilche abufione s'addimanda; come ė
à dire allegrezza inſanabile, in luogo di dire allegrezza grandißima. Seguita
il terzo modo di porre. una þarola pia uolte'., ma che ſempre ſia ad un modo
istefjo pigliata, come dicendo,ſecglimuore, morirà tutto, perche uiuendo non
uiue.Vſaſi ancora biquestaforma un altro artificio aljai degno di
conſideratione ilquale ft fa quando il parlare ſi fa pieno ditraslationi,o per
la moltitudine di quelle lifa ogn'horpiùmanifesto. Leggi. Eeleggi fon,ma
chiponmanoad eſſe Nullo, percheil paſtor, che precede i Ruminar può,manon ha
l'ugne. foffe, Perche la gente che ſua guida uede ** Pur à quel bel ferir on
fella é ghiotta Di quelfi paſce, opiù oltre non chiede. ART. Et in queſto altro
loco ancora Nel mezo del camin di noſtra uita Mi ritrouai in unaſelua oſcura
Che la diritta uia craſinarita. ART. Acuti ſono ancora quei rimedij,che uanno
quafi medicando le dile rezte delle Tralationi con alcune altre piu chiare,
ecco dire il fiato della morte é duratralatione. Ma dire della morte, e ſpigne
col ſuo fiato il noe ſtro lume,e acutamente raddolcita la aſprezza fua. O
qui.Con altezza di: animo propoſe di calcar la miſeria della fori una.Voglio
ancora,che acuto fa ilporre inanzi yliocchi le coſe con bella colligatione di
ſignificantißia me parole,Vuoi tu ucdere la celerità del tempo. Leggi. a
Delaurco albergo con l'aurora istanzi E to 1vs K $ *** siratto ufciua it ſol
cinto di raggi, Che detto baureſt',.' Apur corcò dianzi. Jo uidi il ghiaccio, e
li preſſo la rofa, Quaſi in un tempo il granfreddo, e ilgran caldo. Che pure
udendo par mirabil cofa Veggo la fuga del miouiuerpresta. Anzi di tutti, et nel
fuggir delſole, La ruina del mondo manifesta Voi tu uedere dipinta la oſcurità.
Leggi. Buio d'inferno, o di notte priuata D'ogni pianeta ſotto pouer ciclo
Quant'eſſer puo di nuuol tenebrata: ART.No ſolaměte leparolefanno l'effetto,ma
te fllabe, et le lettere steffe Vedi quáte fiate uie replicata la quinta
lettera come lēte baſſa,co oſcura. Sotto queſtaforma i beidetti ſi coprendono,
et quei mottiurbani,che co dimeſe parole dicono altißime coſe.Là onde alcune
ſentēze, la ragione delle quali in effe ſi conticnejacute ſono, o di ſuegliato
ingegno ſegnimanifesti. come à dire, le minacce fon arme del minacciato. sēdotu
huomo penſa alle coſe humane o offendo mortale nõ hauerl'odio immortale, o
quello.Rade volte è ſenza effetto quello che uuole ciaſcuna delle parti. Queſte
ſono le parti principali dellaforma ſublime; & acuta,nellealtre haida
ſeguitare la purità o eleganza del dire. Ma della Modestia,o Circonfpettione
del parlarenelquale conſiſte quanta gratia tuti puoi con gli aſcoltanti acqui
Atare,dirò,pregandoti caraméte,che tu uoglia questaſopra tutte l'altre ele
gere,abbracciare,et fauorire in ogni tuo ragionamēto. Modesta è adunque quella
forma del dire che le proprie coſe abbaſſando innalza le altrui, o quaſi cede e
toglierſi laſcia del ſuo, il che opinione acquista di grābone tade appreſſo chi
ode.Le ſentezedi quellafono quelle che dimostrano l'ani mo di chi parla alieno
dalle contētioni, il deſiderio di fuggire, o terminar le coteſe,ildiſpiacere
d'accufar altrui, il poter dimoſtrar maggiorpeccati dell'auuerfario,«nõfarlo,et
quello che ſi fafarlo sforzatamēté,ė astretto dalla uerità,o p no laſciar
opprimere gl'innocēti,uerfo de'quali,chi dice, A deue dimostrare cõ queſta
formaofficiofo,et benigne,comefece coſtui. Leggi. Mi piace condiſcendere a'
conſigli de gli huomini,de quai die cendo mi conuerrà far due coſe molto a'
miei coſtumi contrarie;luna fia al quanto me commendare o l'altra il biaſmar
alquanto altrui,o auilire. ART. Molti huomini eccellenti nelle lodi, che date
hanno a i loro cittadini uſati ſono di dire, uoi faceſte, uoi uinceste,mánel
dimoſtrare alcana coſa meno che oneſta de' fatti loro,hanno detto per
modeftia.Noi perdesſimo, noi malefi portasſimo, noialquanto imprudentemente to
gließimo la guerra. A questeſentenzeſi aggiugne l'artificio, ilquale con Rate
nel dire di fero delle proprie coſe modeſtamente, con dubitatione
facendolegrditamente minori di quello cheſono; eſcuſando per lo contras rio gli
auuerfarii,oucro con ragione, conalquanto di timore accufando li,permettendoli
alcuna coſa a fuomodoin loro diffeſa pronuntiare,acció sonſi dia ſoſpetto al
giudice dioffer contentiofo,& amicodelle liti, in que ſto caſo voglio,che
tu uſ parole baſſe, et pure, oquelle che hanno manco forza nelle tue lodijonel
biaſimo de gli auuerfari, però quelle figure a questaformaſono accomodate,nellequali
con deliberato conſiglio alcuna coſaſ pretermette,quiſando però l'aſcoltante di
tale deliberationc.Inbrie ue ti dico, cbe la disſimulatione, che ironia
s'addimanda, quenga, che ale cuna volta morda cu pungasėperò artificio,o figura
di queſta materia,nel laqual alcuni Greci riuſcirono mirabilmente.
Lacorrettione, oil giudi cio con timore ſonocolori di questa idea. Come quando
ſi dice, S'io nca sn'inganno,s’io non erro, cosi mipare,ofimiglianti modi, i
quali quanto più banno del leggiadro, tanto più dilettano,o fanno l'effetto,
che ſi ricer 14. La correttione e in quel luogo. Si come prima cagione di
queſto peccato, fe peccato é, perciò che io t'accerto. ART. Et la
disſimulatione iui. Godi Fiorenza, poi che ſei si grande. ART. Belmodo e
modešto é quando o il biaſimo, o la lote ſi fa dar da una terza perſona, perche
meno ha d'innidia il teſtimonio altrui, che'l noftro, operò in queſto Poeta nel
dire la origine fua, uedrai modestia ma rauiglioft, Leggi ancora qui.
Nobilisfime giouuni, à confolatione delle quai io mi ſono meſſo à cosi lunga
fatica io mi creda aiutandomi la diuina gratis ſi come io auiſo, per gli uostri
pictofi preghi non gia per i mei mcriti quello compiutamente ha Herfornito, che
io nel principio della preſente opera promiſi di douer far. ART. Etil principio
della quarta giornata i ripieno di queſti modi. Ma tempo è di ucnire all'ultima
forma di queſto ordine, ma prima in die gnità o perfettione,comequella, ſenza
laquale niuna delle altre può nel l'animo entrare de gli aſcoltanti,dico della
uerità, a laquale benche la moc desta e dimeſſaforma piu che l'altre
s'auicinano,nientedimeno non è da di Te,che ella debbia dall'altre offer
abbandonata, imperoche non è opinione, òaffetto,che ſenza eſſa indurre ſi
poſſa, queſta fa credere che cofiſia,come Adice,questa moſtra l'animo di
chiragions, queſta èfrutto diquella uir ta che tùche noi chiamiamo
imaginatione,cosi potente nel porre le coſe dinanzid gli occhi,et cosi efficace
ad ottenere ogni nostra intenţione.Dimoftrafl adia que l'aniino di chi parla in
questo modo,cioèſenzamezo alcuno rompendo in uno effetto,perche la natura in
queſta guiſa ui diſpone chequandoſiete iņuno affetto ſenza altra ragione in
quello entrando le dimoſtrate, cosi l'a ra,lo ſdegno, il diſo, il dolore,o
ogniaccidente ſi fa paleſe. In ſommaſe je fidate,o diffidate, c teneteſperanza
d'alcuna coſa ſe allegrezza uimuoue 'ò noia alcuna,ueracißimi pareranno gli
affetti uoftri,ſe da quello che defe derateſenza porui tempo di mezo
cominciante. Leggi. Fiamma del ciel si le tue trecce pioua Equi doue il Poeta
dimanda aiuto Quando uidi costui nel gran diferto. Miferere di me cridai à lui.
A R. Come qui è uitiofo, doue un nụncio corre al palazzo à dan nog ua alla
Regina della preſa della città, es ardere etſaccheggiare ogni coſa, o
incomincia con lunga narratione,dicendo, id ui dirò diffuſamente il tutto. Ma
ritorniamo, hauendo il Porta di mandato aiuto à Virgiliopiù bricue che può gli
da notitia diſco perche l'affetto lo pronaua à chiedergli pohc cagione egli ſi
trouaſje in quel luo. soſeluaggio,dice. Ma tu perche ritorni à tanta noia? Etfa
maggiore il ſuo affetto replia çando, perche non fali il dilettoſo monte. Là
onde poiil Poeta pien di mara uiglia di ueder Virgilio, non gli riſponde, ma dà
loco allo affetto,et dicca Leggi. orſe tu quel Virgilio, equella fonte, Che
parge di parlar si largo fiume, Ripoſi lui con uergognofa fronte, Et piu
ritornando all'effetto di primajo de gli altri poeti onor',e tume. AR. Vedi
comele Discordia con Giove adirata in tal modo comincia. Parti Giove,che io, la
qualeprodußi, et conſeruo il mondo,degna fia di doc uer’eßer biaſmata da
ciaſcaduno. AR. Serbati in questo caſo à dimostrare che inte più uaglia la
natur ra,che l'arte, o otterrai la credenza del uero che tu uuoi. Dire con
uolubi li parolc é ſegno di uerità, l'infigner d'hauerſi ſcordato, il
dimostrare die ſere dall'artificio lontario, o lo ejer dulla ucrità commoſſo,il
correggerſ daſeſteſſo,lo cſclamare in alcune parti quafi rapito dal uero, o
finalmene, te una diligente traſcuragine, & una traſcurata diligentia può
far’apparenza diuero.Ecco quanto bene appare,ola modeftia, ola verità ufar la
Discordia,doue dice, Etſel mio eſſere pien di miſeria mi ci rende in diſpetto
l'effer Dea (coa me tuſei ) onata al gentilißimo modo delfangue two pieghi il
tuo anis mo ad aſcoltarmi benignamente. oRati' stato ilmio minacciare più tos
fto fegno di diſperatione, che cagion d'odio è di ſdegno che tu mi debbi
portare. AR. Et poco dipoi. Io parlerò Gioueaffine di farti pietoſo alla mia
miſeria,non con animo d'effer lodatacome eloquente;muoue il dolor la mia
lingua,parte,et diſpone a fuo modo le mie parole, o quale id'l ſento nel core
tale,à te uegnia allos recchie,cheſenza offer altramente artificioſa,Oornata,affai
ti perſuaderà l'oration mia à dolerti di me,la qualedi tanto nonſon
conformeallo affan nocleoue quello continuamente m’afflige,queſta toſto fi
finirà, o ad ogni richiesta tua s'interromperà,però che qualunque uolta cofa
dirò, che mena zogna ti paia ſon contenta di dichiararla,accioche picciolo
error nel prin cipio nonſi faccia grande alla fine: AR. Vedi quanto efficaci
ſtenote eſclamationi. O‘Amor quanti, o quali ſono le tue forze: AR. Et là doue
dice, o felici anime,alle quali in unmedeſimo di auer re il feruente amore o la
mortal uita terminare,o piú felicife inſieme ad uno medeſimoluogo n'antaſte, o
felicissimi fe nell'altra uitaſi ama.com toi vi amate; come di qua faceste.
Questa eſclamationefa parere la cofa uera, ilfalimento bella, la ſentent za
degna,o grande,le parole aſpra, o acerba, oil numero fplendida,o generoſa.Al
predetto artificio s'aggiungono le parole conuenienti alle cos feale appre
nell'ira, le pure, o le fimplici nella comuniſeratione. Leggi. Ahi dolcißimo
albergo di tutti imiei piaceri,maledetta fia la crudeltà di colui checon gli
occhi della fronte or mi tifa uedcre. Affai m'ora con quelli dellu
mēteriguardarti à ciaſcun’hora.Tu hai il tuo corſo finito, et di tale,come la
fortuna tel concedette tiſe ſpacciato.Venuto ſe alla fine,alla quale ciaſcun
corre,laſciate hai le miſerie del mondo, o le fatiche. AR. Conſidera le
parti,le parole, o le figure di questa forma nella effempio ora letto, ote
ſimili uſorai nelle occaſioni che ti ucrranno, et uce derai uſcirne opora
maraniglioſa. Vodi che cömiferatione ſi truoua in que fe parole. Caro mio
signore, fe la tua anima oralcmiclagrimc uede, oniuno i conoſcimentoóſentimento
doppo la partita di quella rimane a corpi,rice. dei benignemoute l'ultimo dono
di colei, laquale tu uiuendo cotato amasti. Vedi ancora qui la ſomiglianzadel
ucro grandemente adopraſi in rio fpondere alle coſe,che potriano eſſer
dimandate. Andreuccio,io ſuno molto certa, che tu ti marauigli, & delle
carezze,le qualiiori.fo.a delle mie lagrime;si come colui chenon miconoſci,oper
quentura mai ricordar nonm'udisti,matu udirai toſto coſa, la quale più tifarà
forſe marauigliare, si come è ch'io ſia tua ſorella. AR. Eccoti,che con una
coſa più incredibile fa parere il falſo eſer aero. Vſafi questo modo nel
raccontare,nello amplificar le lodi, ouero i uituperii delle genti,ouero in
narrare le coſe fuori dell'ordine naturali,e rare.Con una antiucduta
eſcuſatio::e,come qui, Carißime Donne à me ſipara dinanzi a doucrmifi far
raccontare una uerità,che ba troppopiù di quello che ella fu, dimenzognaſembianza.
AR. Vera in ſoiamaè quella formadel dire, nella quale confiderata la natura
delle coſe la uarietà de gli affetri,la uſanza del uiucre, con prue
denza,riguardo dimostra le coſe fuggendo il coſpetto dello artificio, &
però molto leggiadramente fidce procedere nell'accurata, obella forme del dire
nella quale più vale il numero etl'artificio, che nell'altre.Sicno dun que gli
ſpirtidi questa forma partiper tutto il corpo,accompagnati dal Sanguedella
bellezza,odal mouimento della celerità del dire,che facila menteſi otterrà il
deſiderato fine.Ne gl'affetti grandi,bricui ficno le mem bra,uiusci le parole,nel
resto il giudi.io di chi parla habbia luogo.Et qui Na ilfine delleformc o
maniere del direin quanto che di ciaſcuna partie samente ſi può dirc. Ma non sarà
il finedi esse in quanto bisogna sapere il modo di usarle, ed accomodarle nella
civile oratione. Perciò che colui ne oratore, ne erudito parcrebbe il quale
come nouel cfſercitaßcle predette maniere daſe steſſe ignude, o inconipote, onde
l'artefuafi manifestaffs, oegli di abomincus defatietà, ct fastidio ricmpicſſe
le orecchie, o gli animi de gli aſcoltanti, Bella coſa é adunque il meſcolare
inſieme le predette forme, o farne una ortima miſtura,dalla quale n'uſcirà
l'ottima,o uniuerſale idea della oratio nc; appreſſo la qualeſarà quellà, che
mancherà alquanto da quella ottima meſcolanza,cosi di grado in gradofcemundo
ilterzo,il quarto, o l'ul timo luogo occuperà l'oratore. Della prima operfetta
compofitione dela leformeio non ti trouerei per ls uerità chi in questa lingua
potefje, pere che gli ſcrittori di efla hanno hauutaaltra intētione, cheformarela
città M dincica dineſca minicra,ben che per quello ch'io ſtimo,non anderà
molto, che alcu noci naſcerà atto a questa grandezza,alla quale più tosto manca
la fatie ča,che il modo.Ora in quale forma debbia abondarc la eloquenzafaperaiz
per che la chiarezza,la ucrità, quella cheaccoſtumata ſi chiama, fono le
formeprincipali di tutta la manicra ciuile.Dapoi appreſſo io amerei la celerità
del dire con quelle forme poi,che alla grandezzafi danno, tra le quali io
eleggerei la comprenſione.Le altre ueramenteſecondo il tempo; er la occafione
reggendomi abbraccerei con quella ſcelta, con quella di fcretione che
uolentieri,ut non isforzate păreſſero ucnire riel parlar mio Ben'è uero, che
molte ſono le intentioni de gli huomini, equelle con dilia genza offer dcono
confiderate. Chi uuole de i ſecretidi natura parlare, bo delle coſe morali dee
abondar'in grandezza senza alcuno volubile movimeto. Chi ueramente cerca
narrare ifatti de mortali,comeſi fa nella iſtoria, elleggerà la
ſchiettezza,ocleganza,nella quale è ripoſto l'ordine delle co fe,cu dei tempi,a
riguarderà primai conſigli,ale deliberationi, poi le attioni, o ifatti,o
finalmente gli auenimentio fucceßi. Neiconſigli di moſtrerà quelloche deue
cffer lodato,o quello che merita biaſimo nelle at tioni,i fatti,ole
parole,ilmodo, il fine. Et ne ifucceßi dimostrerà ció the alla uirtù,o ciò che
alla fortunafi deve attribuire.Chi ne ifenati uud l'esprimere la forza dell’eloquenza,perche
il peſo delle coſe ſară poſto fore. pra lepalle di chiragiona, biſogna abondare
in grandezza,o dignità, di mostrar cura openſamento,il che non uale ne i
giudicij, ſe non ſono di coi. Le graui,aimportanti,perche in eſſe più
fimplicità,baſſezzaſi ricerca, eſſendo quegli per lo più di coſe edi
buominipriuati. Nel difendere, ale fai uale la forma accoſtumata, obalfa,ſe non
quando arditamente il fatto Rinega. Poco ancora ui ſi vedrà di uolubile,o
presto mouimento. Ma non. cosi nello accuſare,douc oajpro, uecmente,o uiuo cſer
dee l'accuſato re. Chi lola. fi dee dare alla bellezza,o al diletto, o
apprezzare lo fplene dore fenza ucсmenza, o celerità. Et in brieuc,biſogna
aprir gli occhi; eje nello imitare i dotti,o eccclenti huomini.ſi richiede
conſiderare; di che for ma eßt ſieno più abondanti,o di che meno;accioche
ſapendoper qual caz glorie eß istatilicno tali,ancora non ſia tolto il potere à
gli studioſi di ace coſtarſi loro, o aguagliarli,o le poßibilc é,che pureé
paßibile al modo già detto di ſuperargli. Et chi.pure non uoleſſe la
fatica,poteße almeno giudicare i loro fecreti. Molti, o minuti ſono i precetti
d'intorno a questo offercitio,maio non uoglio più affaticarmi,effendo quegli in
molti,o gran di uolumi ordinatamente ripoſti, oltra che ilnostro diſcorſo à
niunopuò på rere terc imperfitto,quando egli uoglia la noſtra intentione
riguardare,laqua le è stata di fare i fondamenti della eloquenza, auuertire di
quanta co gnitione elſer debbia chi à quella ſi dona; sopra i quali fondamenti
ſono for date l'articelle de' maeſtri, o gli esercitij de' giovanetti. Baſtiti,
ô Dinare do, che tu ſia giunto là, doue di giugnere deſideraui, o che tu habbi
ueduto un circolo della tanto deſiderata cognitione. Però che dalle parti
dell'anie ma incominciaſti,o in eſſe ſei ritornato,hauendo il corſo tuo ſopra
di natů ra, ci sopradi me fornito, come sopra due rote di quel carro,cheper lo
apet to cielo ti condurrà uittorioſo, o trionfante. Daniele Matteo Alvise
Barbaro. Daniele Barbaro. Keywords: archittetura, palladio, prospettiva,
retorica, ordine cronologico: Ermolao Barbaro il vecchio – Ermolao Barbaro il
giovane – Daniele Barbaro – Temisto, index nominorum, interpretazione e
commentario di Barbaro sul commentario di Tesmisto sull’analitica posteriora –
manoscritto, Bologna. Manoscritto delle ‘Adnotationes ad analyticos priores’ –
commentario diretto su Aristoele e no via Temisto – Villa Barbaro – lezione
privati di Barbaro sull’organon di Aristotele – analytica priora e analytica
posteriora, non al studio GENERALE, ma alla sua propria villa!. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Barbaro” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Barbaro – il
vecchio – filosofia italiana – filosofia veneziana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo
italiano. Umanista --. Grice: “As much
as Speranza LOVES Daniele Barbaro, I prefer Ermolao Barbaro; after all, he was
his uncle – I mean, Ermolao was Daniele’s uncle – and therefore HE taught HIM;
I mean, Ermolao, as a good philosophical uncle, taught the ‘minor’ (literally,
since he was his junior) Barbaro.” "Some like Barbaro,
but Barbaro's MY man." Ermolao Barbaro detto il Vecchio. Umanista
e vescovo cattolico italiano. Sendo stato uomo degnissimo, m'è paruto
farne alcuna menzione nel numero di tanti singulari uomini, acciocché la fama
di sì degno uomo non perisca (Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri
del secolo XV). Ancora bambino comincia a studiare lettere conVeronese, e il
successo di quest'accoppiata allievo-maestro fu tale che tradusse in latino le
favole d’Esopo. Fece poi i suoi studi universitari a Padova dove si laurea.
Successivamente si trasfee a Roma dove entrò al servizio della cancelleria
papale. La sua carriera nella curia romana fu così fulminea che Eugenio IV lo
nomina protonotario apostolico e gli concesse la diocesi di Treviso. Il
rapporto con il pontefice, però, si interruppe bruscamente quando, dopo che gli
era stata promessa la nomina a vescovo di Bergamo, il papa assegna il posto a
Foscari. Lascia Roma e viaggiò per l'Italia ma, dopo una serie di
peregrinazioni, tornò a lavorare in curia. Si trasfere poi a Verona dove
Niccolò V lo designa vescovo e dove si sistemò in pianta stabile, tranne una
breve parentesi a Perugia come governatore. Messer Ermolao Barbaro, gentiluomo
viniziano, fu fatto vescovo di Verona da papa Eugenio, per le sue virtù. Ebbe
notizia di ragione canonica e civile, ed ebbe universale perizia di teologia, e
di questi istudi d'umanità; ed ebbe nello scrivere ottimo stile. Fu di
buonissimi costumi, e nel tempo di papa Eugenio si ritornò a Verona al suo
vescovado, e attese con ogni diligenza alla cura, e vi accrebbe assai e onorò e
multiplicò il culto divino. Era umanissimo con ognuno. Ridusse nel suo tempo il
vescovado in buonissimo ordine, così nello spirituale come nel temporale. Aveva
in casa sua alcuni dotti uomini, in modo che sempre vi si disputava o ragionava
di lettere; ed era la sua casa governata, come si richiede una casa d'uno degno
prelato. S'egli compose (che credo di sì) non ho notizia alcuna. Compose. Nulla
se ne ha alle stampe trattane qualche lettera, ma più opuscoli manoscritti se
ne hanno in alcune biblioteche, e fra essi la traduzione della Vita di S.
Anastasio scritta da Eusebio di Cesarea. Note
Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, ed.
Barbera-Bianchi, Firenze. Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura
italiana, ed. Firenze, Vol. VI, pag. 808
Società storica lombarda, Archivio storico lombardo, ser.4:v.7, L'Umanesimo
umbro: Atti del IX Convegno di studi umbri. Gubbio, 22-23 settembre, 1974,
Perugia, Vespasiano da Bisticci, cit. pag. 195
Girolamo Tiraboschi, cit. pag. 808 Opere (alcune moderne edizioni
italiane) Ermolao Barbaro il Vecchio. Orationes contra poetas. Epistolae.
Edizione critica a cura di Giorgio Ronconi.Firenze: Sansoni, Facolta di
Magistero dell'Universita di Padova Ermolao Barbaro il Vecchio. Aesopi Fabulae.
A cura di Cristina Cocco. Genova: D.AR.FI.CL.ET., Trad. italiana a fronte
Hermolao Barbaro seniore interprete. Aesopi fabulae. A cura di Cristina Cocco,
Firenze: Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2007. Il ritorno dei classici
nell'umanesimo. Edizione nazionale delle traduzioni dei testi greci in eta
umanistica e rinascimentale. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, ed.
Firenze, Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, ed.
Barbera-Bianchi, Firenze, 1859. Pio Paschini, Tre illustri prelati del
Rinascimento: Ermolao Barbaro, Adriano Castellesi, Giovanni Grimani, Roma,
Facultas Theologica Pontificii Athenaei Lateranensis, 1957. Emilio Bigi,
Ermolao Barbaro, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 6 luglio 2018. Voci correlate
Ermolao Barbaro il Giovane Collegamenti esterniDavid M. Cheney, Ermolao Barbaro
il Vecchio, in Catholic Hierarchy. Predecessore Vescovo di Treviso Successore Bishop
CoA PioM.svg Lodovico Barbo Marino ContariniPredecessoreVescovo di VeronaSuccessoreBishopCoA
PioM.svg Francesco CondulmerGiovanni Michiel · Biografie Portale Biografie
Cattolicesimo Portale Cattolicesimo Treviso Portale Treviso Venezia Portale
Venezia Categorie: Umanisti italianiVescovi cattolici italiani Nati a Venezia Morti
a Venezia BarbaroVescovi di TrevisoVescovi di VeronaTraduttori dal greco al
latino. Ermolao Barbaro, il vecchio. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Barbaro” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Barbaro – il
giovane – filosofia veneziana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo
italiano. Grice; “Very good.”, ermolao – the younger – il giovane, non il
vecchio -- "Speranza likes Ermolao Barbaro the Younger, but
Ermolao Barbaro The Elder is MY man." -- H.G. Ermolao Barbaro il Giovane. Avea profondamente
meditato sopra i doveri che impone il carattere di legato a chi lo sostiene e
sopra le avvertenze che devono servirgli di norma nella pratica degli affari,
ónde servir con vantaggio il proprio governo e riportare onore anche da quello
presso di cui risiede. Ei ne ha indicate le tracce in un pregevolissimo opuscolo
in cui la prudenza apparisce compagna
della onestà del candore, ed è venuto a delineare in certa guisa il suo
ritratto. Ma lo stesso suo merito fu a lui cagione di grave calamità. Cardinale
di Santa Romana Chiesa Hermolaus Barbarus Ritratto di Ermolao Barbaro, opera di
Theodor de Bry. Patriarca di Aquileia. Ordinato presbitero. Nominato patriarca da
papa Alessandro VI. Consacrato patriarca. Creato cardinal da papa Innocenzo
VIII. Ermolao Barbaro detto "Il giovane" -- è stato un umanista, patriarca
cattolico e diplomatico italiano, al servizio della Repubblica di
Venezia. Comincia l'educazione elementare con il padre Zaccaria Barbaro,
politico e diplomatico veneziano, poi in tenerissima età e mandato a Verona dal
pro-zio Ermolao Barbaro, vescovo della città e umanista di fama, per studiare
lettere latine con Bosso. Per perfezionarsi passa a Roma dove ha come
insegnanti prima Leto e poi Gaza. Un cursus studiorum concluso con successo. E laureato
poeta, a Verona, da Federico III. Segue a Napoli il padre, titolare
dell'ambasciata veneziana, e proprio nella città partenopea scrive la sua prima
opera ovvero il “De Caelibatu”. Traduce
tutto Temistio, pubblicato poi, in parafrasi. Tornato in Veneto consegue a Padova
il dottorato in arti e quello in diritto civile e canonico. Subito dopo fu
nominato titolare della cattedra di etica. Come professore insegna soprattutto
sulla Nicomachea di Aristotele, mettendo in guardia i suoi studenti dalle
traduzioni in latino di Aristotele e predicando il ritorno alla traduzione
diretta dal greco, proprio come face lui. Sono infatti di quegli anni i
commentari all'Etica e alla Politica e la traduzione della Retorica. Abbandonato
l'insegnamento accompagna nuovamente il
padre in missione diplomatica a Roma. E promosso senatore della Repubblica di
Venezia e ma stavolta in veste ufficiale, si reca a Milano con il padre per una
nuova ambasceria. Il primo incarico diplomatico arriva quando, insieme a
Trevisano, rappresenta a Bruges la Serenissima in occasione dei festeggiamenti
per l'incoronazione a ‘re dei romani’ di Massimiliano d'Asburgo e nell'occasione
fu investito cavaliere. Dopo un'esperienza come savio di terraferma, e finalmente
nominato ambasciatore residente a Milano dove si accredita e rimane in carica.
Venne creato cardinale in pectore d’Innocenzo VIII nel concistoro, ma non venne
mai pubblicato. L'ottima gestione della legazione veneziana a Milano, in tempi
davvero turbolenti come quelli della reggenza di Ludovico il Moro, gli vale un
anno dopo la nomina ad ambasciatore a Roma alla corte d’Innocenzo VIII. Ed e qui
che avvenne la catastrofe. Il giorno dopo la morte del patriarca di Aquileia
Marco Barbo, Ermolao erasi recato all'udienza del papa, per fare istanza
acciocché fosse differita la nomina del patriarca successore, finché il senato
non gli e ne avesse presentato, secondo il consueto, la nomina. Ma il papa,
senza punto badare a cotesta istanza, nomina lui appunto in patriarca di
Aquileja; aggiungendogli, essere questa grazia una giusta ricompensa al suo
sapere ed alla sua virtù. Il Barbaro in sulle prime si rifiutò dall'accettare
la dignità, che il pontefice conferivagli; ma quando Innocenzo gli e lo comandò
in virtù di santa ubbidienza, si vide costretto a sottomettervisi ed obbedire.
Allora il papa sull'istante lo vestì del rocchetto, di cui, per darglielo, si
spogliò uno dei cardinali colà presenti; e poscia in pieno concistoro fu
preconizzato patriarca di questa Chiesa. La procedura era rigorosamente
contraria alle leggi della repubblica che vietavano ai propri ambasciatori,
senza la previa autorizzazione del senato, di ricevere incarichi o nomine dai
principi presso i quali erano accreditati. Allora, per giustificare la
violazione procedurale, il Papa scrisse una lettera al Doge chiedendogli di
confermare la nomina, ma il Consiglio dei Dieci, competente in materia,
delibera comunque che Barbaro deve rinunciare al patriarcato. Cosa che, dopo un
po' di tira e molla, prontamente fa. Scelse, per farla più solenne, la
circostanza del giovedì santo alla presenza del papa e di tutto il sacro
collegio. Ma il papa non la volle accettare. Né l'obbedienza sua agli ordini
del senato basta per anco a giustificarlo. Poco avveduto, non pensa di spedirne
a Venezia la stessa sua dimissione al senato, ad onta dell'opposizione del
pontefice; mostrandosi dal canto suo per tal guisa fedele ed obbediente alle
leggi del suo governo. Più avrebbe inoltre dovuto lasciar Roma e ritornare a
Venezia. Ov'egli si fosse regolato così, l'affare avrebbe cangiato di aspetto,
e sarebbesi ridotta ad una semplice controversia di giurisdizione tra la corte
di Roma e la Repubblica di Venezia. Ma essendo rimasto in quella capitale, ad
onta della fatta rinunzia, né avendone dato avviso al senato, egli fu riputato
veramente colpevole in faccia alla legge, e perciò costrinse il senato ad usare
verso di lui ogni misura di rigore. Come risultato di questo pasticcio fu
bandito perennemente dalla repubblica e interdetto da qualsiasi ufficio
pubblico e privato. Quanto al patriarcato di Aquileia, tecnicamente, ne rimase
titolare ma il senato oltre ad avergli impedito, con l'esilio, di recarvisi
fisicamente, ne congelò le rendite patriarcali e nomina Donato in suo vece,
anche se la nomina non fu ratificata dal papa. Ne deriva una situazione di
stallo, durante la quale la diocesi patriarcale fu amministrata da Valaresso
(anche Valleresso), vescovo di Capodistria, con il titolo di Governatore generale. Barbaro
rimase a Roma dove decise di dedicarsi a tempo pieno ai suoi studi. Pparticolarmente
importanti, oltre alla composizione di Orationes et Carmina in latino e alla
pubblicazione delle “Castigationes Plinianae,” disputazioni scientifiche sulle
imprecisioni e sulle invenzioni della Naturalis historia di Plinio, sono l’epistolario filosofico che si scambiò
con Poliziano e Pico, che, insieme, costituirono un vero e proprio
«triumvirato, a que' giorni potente e celebratissimo nelle scienze e nelle
lettere. E sventuratamente colto dalla pestilenza che serpeggia nell'agro
romano. Giunta a Firenze la nuova del suo pericolo trafisse altamente il cuore
dei due suoi celebri amici Poliziano e Pico. Si lagnavano essi che la sua
perdita seco involge il destino delle buone lettere, sembrando loro che in un
sol uomo pericolasse l'onere delle cose romane. Pico anzi volle tentar di
soccorrerlo, inviandogli col mezzo di suo corriere un antidoto ch'ei medesimo
componeva e che credeva atto a domare il morbo pestilenziale. Ma quando arriva
a Roma l'espresso, era di già passato tra gli estinti. Note De Legato, recuperato dal cardinal Quirini da
un codice della Vaticana e stampato per la prima volta nelle annotazioni alla
Deca II della sua Thiara et purpura veneta
Giovanni Battista Corniani, Camillo Ugoni, Stefano Ticozzi, I secoli
della letteratura italiana dopo il suo risorgimento, Torino, Contemporaries of
Erasmus, op. cit.91 Bruno Figliuolo, Il
Diplomatico E Il Trattatista: Ermolao Barbaro Ambasciatore Della Serenissima,
Napoli, Guida Editori, Bettinelli, Risorgimento d'Italia negli studj, nelle
arti, e ne' costumi dopo il mille, Bassano, Bettinelli, cit.219 Antonino Poppi, Ricerche sulla teologia e la
scienza nella scuola padovana del Cinque e Seicento, Rubbertino, Branca, La
sapienza civile: Studi Sull'umanesimo a Venezia, Firenze, 1988,67 Eugenio Albèri, Relazioni degli ambasciatori
veneti al Senato, Firenze, Cappelletti, Le chiese d'Italia della loro origine
sino ai nostri giorni, Venezia, Cappelletti, Bernardi, Ermolao Barbaro o la
scienza del pensiero dal secolo decimoquinto a noi, Venezia, 1851,12 I secoli della letteratura italiana,
Bettinelli, Risorgimento d'Italia negli studj, nelle arti, e ne' costumi dopo
il mille, Bassano, Eugenio Albèri, Relazioni degli ambasciatori veneti al
Senato, Firenze, 1846 Giuseppe Cappelletti, Le chiese d'Italia della loro
origine sino ai nostri giorni, Vol. VIII, Venezia, 1851 Jacopo Bernardi,
Ermolao Barbaro o la scienza del pensiero dal secolo decimoquinto a noi,
Venezia, Giovanni Battista Corniani, Camillo Ugoni, Stefano Ticozzi, I secoli
della letteratura italiana dopo il suo risorgimento, Torino, 1855 Vittore
Branca, La sapienza civile: Studi Sull'umanesimo a Venezia, Firenze, 1988 Bruno
Figliuolo, Il Diplomatico E Il Trattatista: Ermolao Barbaro Ambasciatore Della
Serenissima, Napoli, Guida Editori, 1999 Antonino Poppi, Ricerche sulla
teologia e la scienza nella scuola padovana del Cinque e Seicento, Rubbertino,
2001Thomas Brian Deutscher, Contemporaries of Erasmus: A Biographical Register
of the Renaissance and Reformation, University of Toronto Press, 2003 Altri
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Giovane, in Catholic Hierarchy.Salvador Miranda, BARBARO, iuniore, Ermolao, su
fiu.edu – The Cardinals of the Holy Roman Church, Florida International
University. Ermolao Barbaro, in Treccani – Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Emilio Bigi, BARBARO, Ermolao, in Dizionario
biografico degli italiani, vol. 6, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, PredecessorePatriarca
di AquileiaSuccessorePatriarchNonCardinal PioM.svg Marco Barbo Nicolò
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italianiDiplomatici italiani Nati a VeneziaMorti a RomaBarbaroAmbasciatori
italianiPatriarchi di AquileiaTraduttori dal greco al latino[altre] Ermolao
Barbaro. Keywords: il celibato, lettera a Pico, lettera a Poliziano, traduzione
della retorica, commentario all’etica nicomachea, comentario alla politica. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Barbaro” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Barcellona – i
soggeti e le norme – filosofia siciliana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo
italiano. Grice: “Perhaps my favourite by Barcellona is “I soggetti e le norme”
– vide my conversational norms – and ‘soggeto’ of course relates to
‘intersoggetivita,’ a pet concept of Italian phenomenology!” Grice: “Of course,
for us British subjects (to the Queen), the idea of ‘soggeti’ cannot quite make
sense! But Barcellona’s point is fascinating: the Romans did have the concept
of a sub-iectum and an ob-iectum: they like a symmetrical expression formation,
too! Barcellona shows that we have to speak of ‘soggetti’ to get
intersoggetivita – and then the norma – a very Roman concept, which as J. L.
Austin said (following John Austin), does not quite translate as ‘norm’ – “We
don’t use ‘norm’ in ordinary language.””
Barcellona shows that it is ‘I soggetti’ i. e. at least a dyad that
makes ‘the noi trascendentale’ adding up ‘l’io trascendentale’ with ‘il tu
trascendentale’ and ‘l’altro trascendentale’ that we get the norm. Barcellona
got to the idea after seeing the French film, ‘l’un et l’autre’!” -- Pietro Barcellona, deputato della Repubblica
Italiana LegislatureVIII Gruppo parlamentarePCI Dati generali Partito politicoPartito
Comunista Italiano Titolo di studioLaurea in giurisprudenza ProfessioneDocente
universitario Pietro Barcellona (Catania ),
filosofo. È stato docente di diritto privato e di filosofia del diritto
presso la facoltà di giurisprudenza dell'Catania. È stato membro del Consiglio
superiore della magistratura. Si laurea
in Giurisprudenza nel 1959. Nel 1963 consegue la libera docenza in Diritto
Civile e insegna a Messina. Dal 1976 al 1979 è componente del Consiglio
Superiore della Magistratura. Ha diretto il Centro per la Riforma dello Stato,
fondato con Pietro Ingrao. Nel 1979 è
stato eletto deputato nelle file del Partito Comunista Italiano ed è stato
membro della commissione giustizia della Camera fino al 1983. A causa della sua formazione teorica
materialista, ha suscitato nel molto
scalpore la sua conversione raccontata nel libro Incontro con Gesù. Docente emerito di filosofia del diritto
all'Catania. Altre opere: “Diritto privato e processo economico” (Jovene
Editore); “L'uso alternativo del diritto, Laterza); “Stato e giuristi tra crisi
e riforma, De Donato, Bari); “Stato e mercato tra monopolio e democrazia, De
Donato); “La Repubblica in trasformazione. Problemi istituzionali del caso
italiano, De Donato); “Oltre lo Stato sociale: economia e politica nella crisi
dello Stato keynesiano, De Donato); “I soggetti e l’intersoggetivo della norma”
(Giuffrè); “L'individualismo proprietario, Bollati Boringhieri); “L'egoismo
maturo e la follia del capitale, Bollati Boringhieri); “Il Capitale come puro
spirito: un fantasma si aggira per il mondo, Editori Riuniti); “Il ritorno del
legame sociale, Bollati Boringhieri); “Lo spazio della politica. Tecnica e democrazia,
Editori Riuniti); “Dallo Stato sociale allo Stato immaginario. Critica della
ragione funzionalista (Bollati Boringhieri); “Laicità. Una sfida per il terzo
millennio, Argo); “Diritto privato società moderna, Jovene); L'individuo
sociale, Costa & Nolan); “Politica e passioni. Proposte per un dibattito,
Bollati Boringhieri); “Il declino dello Stato. Riflessioni di fine secolo sulla
crisi del progetto moderno, Ed. Dedalo); “Quale politica per il Terzo
millennio?, Ed. Dedalo); “L'individuo e la comunità” (Edizioni Lavoro); “Le
passioni negate. Globalismo e diritti umani, Città Aperta); “Le istituzioni del
diritto privato contemporaneo, Jovene); “Tensioni metropolitane, Città Aperta);
“I diritti umani tra politica, filosofia e storia, A. Guida); “La strategia
dell'anima, Città Aperta); “Diritto senza società. Dal disincanto
all'indifferenza, Ed. Dedalo); “Fine della storia e mondo come sistema. Tesi sulla
post-modernità, Ed. Dedalo, “Il suicidio dell'Europa. Dalla coscienza infelice
all'edonismo cognitivo, Ed. Dedalo); “Critica della ragion laica, Città Aperta);
“Diagnosi del presente, Bonanno); “La parola perduta. Tra polis greca e
cyberspazio, Ed. Dedalo); “L'epoca del postumano, Città Aperta); “La lotta tra
diritto e giustizia, Marietti); “Il furto dell'anima. La narrazione post-umana,
Ed. Dedalo); “L'ineludibile questione di Dio, Marietti); “L'oracolo di Delfi e
L'isola delle capre, Marietti, Elogio
del discorso inutile. La parola gratuita, Ed. Dedalo); “Viaggio nel Bel Paese. Tra
nostalgia e speranza, Città Aperta); “Incontro con Gesù, Marietti); “Declinazioni
futuro/passato. Poesie, Prova d'autore, Il sapere affettivo, Diabasis); “Il
desiderio impossibile, Prova d'autore”; “Passaggio d'epoca. L'Italia al tempo della
crisi, Marietti); La speranza contro la paura, Marietti); “L'occidente tra
libertà e tecnica, Saletta dell'Uva); “Parole potere, Castelvecchi,. Sottopelle.
La storia, gli affetti, Castelvecchi); La sfida della modernità, La Scuola,.Barcellona
e la pittura Una delle più grandi passioni di Pietro Barcellona, è stata senza
ombra di dubbio la pittura. Comincia a dipingere all'età di 20 anni. Due sue
opere si trovano in esposizione permanente presso il "Museo dei Castelli
Romani". Un suo quadro fa parte della collezione permanente della
Salerniana, Galleria Civica d'Arte Contemporanea "Giuseppe
Perricone". Vanta diverse personali:
1959"Mostra Città di Catania"; "Galleria Arte Club"
di Catania, con testi critici di Manlio Sgalambro e Salvo Di Stefano;
"Galleria Arte Club" di Catania. Espone un nucleo di ventiquattro
opere sul tema "La città della donna" con testo critico di Giuseppe
Frazzetto; 2002"Tensioni metropolitane" presso "Fondazione Luigi
Di Sarro" di Roma; 2002"Galleria Quadrifoglio" di Siracusa;
"Fondazione Filiberto Menna" di Salerno; 2003"Mitologia del
quotidiano" presso "Galleria La Borgognona" di Roma, con testi
in catalogo di Simonetta Lux e Domenico Guzzi; "Contrasti" presso
"Galleria Tornabuoni" di Firenze, con testo in catalogo di Fabio
Fornaciai e dello stesso Barcellona; 2004"Museo dell'Infiorata" di
Genzano; "L'impossibile completezza" presso il "Museo
Laboratorio di Arte Contemporanea" di Roma, Patrizia Ferri e Mario de
Candia; "Il desiderio impossibile" presso "Le Ciminiere",
Sala C2, di Catania, con testo critico di Mario Grasso. Saggi sull'opera di
Pietro Barcellona Su Pietro Barcellona,
ovvero, riverberi del meno, Atti del Convegno di Studi su alcune opere di
Pietro Barcellona, Mario Grasso. Prova d'Autore,. 154-4 W. Magnoni, Persona e società: linee di
etica sociale a partire da alcune provocazioni di Norberto Bobbio, Glossa
Edizioni, Milano, M. De CandiaFerri,
Pietro Barcellona raccontato dai suoi amici, Gangemi, Greco, Modernità, diritto
e legame sociale, in «Materiali per una storia della cultura giuridica»,
Pegorin, Emergenza Antropologica. Pietro Barcellona e la lotta in difesa
dell’umano Riconoscimenti Il 29 marzo, il Comune di Misterbianco (CT) gli
intitola una piazza. Note Pietro Barcellona, su Camera VIII
legislatura, Parlamento italiano.
"Barcellona: Mi converto, dal Partito Comunista a Gesù. Ragusa
News. l'Unità, "Pietro Barcellona, Il Piacere di
Dipingere"//archiviostorico.unita/cgi-bin/ highlightPdf.cgi?t=ebook& file=/golpdf/uni_2003_05.pdf/
11CUL31A.PDF&query= Andrea%20 carugati Corriere della Sera. Omaggio a
Pietro Barcellona pittore, giurista e filosofo.//archivio storico.corriere/2006/febbraio/01/
Omaggio_Pietro_Barcellona_pittore_giurista_co_10_06017.shtml Inaugurata la piazza intitolata al prof.
Pietro Barcellona | Misterbianco.COM. Napolitano: Pietro Barcellona fu un
protagonista in Italia. Messaggio del Colle ai funerali del giurista, ex
parlamentare Pci e membro laico del Csm[collegamento interrotto] articolo
pubblicato da La Sicilia, 9 settembre, sito lasicilia. Filosofi italiani del XX
secoloFilosofi. Pietro Barcellona. Keywords: i soggeti e le norme, filosofia
siciliana, Barcellona, comune di Messina. Conte di Barcellona, lo stato
imaginario, i soggeti, l’intersoggetivo della norma, communita intersoggetiva,
discorso futilitario, societas, communitas, socius, seguire, ‘follow’,
Toennies, communitario, stato keynesiano, stato imaginario, anima smartita,
conflitto e cooperazione sociale, anima smarrita, communitas, immunitas,
sociale, societas, discorso inutile, Grice, end of conversation, goal of
conversation, deutero-esperanto, linguaggio privato, i soggeti,
l’intersoggetivo. --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barcellona” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Barié – Enea –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “”My
favourite of Barié’s is his parody of Apel: “il noi trascendentale”!” -- I like
Barié; he commited suicide, which is not that rare among philosophers – same
percentage than the general population – cf. Durkheim, “Le suicide: a
sociological enquiry,””. Grice: “Barié tried to play with the idea of the
transcendental, and he did – he applied it first to “I” (‘l’io
trascendentale’). When I wrote my thing on personal identity, I preferred the
pronoun ‘someone,’ to stand for ‘I’, ‘thou,’ and the allegedy THIRD ‘person,’
‘he.’ – Barié has also edited Vico’’scienza nuova,’ and provided a ‘compendium’
of the SYSTEMATIC kind, favoured by some, of the history of philosophy, with
sections on ‘roman’ philosophy (“l’epicureanismo romano,” “lo stoicism
romano,”) --.” Grice: “Perhaps the
closes Barié comes to me is in his ‘The
concept of the ‘transcendental,’ since I struggled with that in “Prejudices and
predilections,” where I feign to think that perhaps ‘transcendental’ is too
transcendental an expression and should be replaced by ‘metaphysical,’ but my
tutee, Sir Peter, being more of a Bariéian, disagreed wholeheartedly!” – Grice:
“I cherish Apel’s comment on Barié: “Surely, if we are going to have ‘l’io
trascendentale,’ we need at least ‘l’altro trascendentale,’ or as I prefer ‘il
tu trascendentale.’” Partendo da posizioni kantiane pervenne a una posizione da
lui stesso definita neotrascendentalismo, scuola di pensiero di cui fu il fondatore.
Nato il 19 ottobre 1894, si avviò agli studi di diritto che concluse solo a
seguito del primo conflitto mondiale, che lo vide impegnato inizialmente come
ufficiale di cavalleria e poi come aviatore. Nel 1924 ottenne la laurea in
filosofia. Inizialmente attestato su
posizioni kantiane (La dottrina matematica di Kant nell'interpretazione dei
matematici moderni, 1924, e La posizione gnoseologica della matematica, 1925),
nel corso del suo progredire intellettuale Barié perviene a una posizione
filosofica critica nei confronti della dottrina kantiana. Di questo passaggio è
emblematica l'opera Oltre la Critica, del 1929, che mette in luce le difficoltà
della dottrina precedentemente sostenuta.
Il periodo metafisico Oltre la critica segna il punto di svolta
dell'attività filosofico-intellettuale di Barié, che comincia a sviluppare un
interesse metafisico, forse dovuto all'influenza di Piero Martinetti, del quale
era stato allievo. In questo senso il filosofo, nel suo primo approccio alla
metafisica, si pone su un binario che era già stato di Spinoza, salvo poi
rendersi conto del fatto che anche la posizione spinoziana è in realtà
insufficiente per tentare di risolvere il dilemma della relazione
essere-pensiero. Si ha quindi l'approdo di Barié al pensiero leibniziano,
testimoniato dell'opera del 1933 La spiritualità dell'essere e Leibniz. L'approdo al neotrascendentalismo e Il
Pensiero Libero docente dal 1929, ottiene la cattedra universitaria,
spostandosi di conseguenza a Genova, Roma e infine Milano, nella cui università
succede al suo maestro Martinetti nella cattedra di filosofia teoretica.
Consapevole del fatto che, per quanto superata, la lezione antidogmatica di
Kant non poteva essere completamente ignorata, Barié inizia una profonda
revisione del proprio sistema teoretico che lo porta a diminuire drasticamente
le sue pubblicazioni (di questo periodo sono il Compendio sistematico di storia
della filosofia, 1937, e Descartes, 1947) e che culmina con la pubblicazione de
L'io trascendentale (1948). Nel 1950 fonda l'istituto di filosofia dell'Milano
con lo scopo di renderlo centro propulsivo di una discussione
filosofico-culturale con le realtà filosofiche del tempo che si sarebbero
confrontate con la nuova visione di Barié, adesso orientato verso una
concezione di filosofia come metafisica, ossia di metafisica quale causa della
realtà sensibile e del pensiero. Con lo stesso scopo nacque nel 1956 la rivista
Il Pensiero. Altre opere: “La posizione gnoseologica della matematica – e
dell’arimmetica in particolare” 7 + 5 = 12” (Torino, Bocca); “Oltre la critica
della ragione e del giudizio, il criticismo (Milano, Libreria editrice
lombarda); “Spirito e anima: La spiritualità dell'essere e Leibniz” (Padova, MILANI);
“Compendio sistematico di storia della filosofia con particolare attenzione
alla filosofia romana sino Cicerone” (Torino, Paravia); “L'io trascendentale
non-psicologico” (Milano-Messina, G. Principato); “Il concetto trascendentale”
“Il trascendentale” (Milano, Veronelli. Note Atti del V Congresso Internazionale di
Filosofia, Napoli, 1924 riproduzione
fotografica (p.1-109) da OpalLibri antichi
riproduzione fotografica. Assael, Giovanni Emanuele Bariè, Milano, CUEM,
Assael, "Il neotrascendentalismo di Giovanni Emanuele Barié", in
Rivista di Storia della Filosofia, 2009; (4),
731–759. Davide Assael, Alle origini della scuola di Milano: Martinetti,
Barié, Banfi, Guerini e associati, Milano, 2009. Milano Accademia scientifico-letteraria di Milano
Università degli Studi di Milano Scuola di Milano Giovanni Emanuele Barié, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Giovanni Emanuele Barié, su sapere, De
Agostini. Giovanni Emanuele Barié, in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Giovanni Emanuele Barié, su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Filosofia
Università Università. Giovanni Emanuele
Barié. Keywords: Enea, lo stoicism romano, Enea, eroe romano, eroe stoico,
Catone, il noi trascendentale, vico, storia vichiana, arimmetica. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Barié” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Baricelli –
filosofia italiana – Luigi Speranza (San Marco dei Cavoti). Filosofo italiano.
Grice: “Italian philosophers can be eccentric; Baricelli started commenting
Plato but his masterpiece is a philosophical tract on sweat, as experienced by
the athletes Plato was familiar with!”Medico, chimico e filosofo di fama
italiana ed europea, Giulio Cesare Barricelli- nacque a San Marco dei Cavoti e
fu da molti, pure erroneamente, ritenuto originario di Benevento o di San Marco
Argentano in Calabria. Erudito e
studioso di poliedriche attitudini e capacità, studiò medicina e si interessò
di filosofia, tanto che ancora giovanissimo fu autore di commenti alle opere di
Platone, mentre nel pubblicò l'opera in quattro libri De hydronosa natura sive
de sudore umani corporis, sulla natura e la terapia della sudorazione umana,
nelscrisse l’Hortulus genialis, edito a Colonia e Ginevra ove raccolse antidoti
e sudi sulle intossicazioni, e successivamente diede alle stampe il Thesaurus
secretorum, opera in cui sono elencate le cure ed i rimedi per svariate
malattie e problematiche quotidiane. Nel
1623 pubblicò poi un trattato sull'uso del siero del latte e del burro come
medicamento, intitolato De lactis, seri, butyri facultatibus et usu, e nello
stesso anno gli fu conferita la cittadinanza beneventana. Cultore di studi
umanistici Barricelli scrisse anche alcuni epigrammi latini e morì in Benevento
tra il 1638 ed il 1640. A San Marco dei
Cavoti, nel corso degli anni, gli vennero intitolati un antico circolo
ricreativo (sec.XIX-XX), la scuola elementare ed infine la strada ove si
trovava l'abitazione in cui visse, già denominata Via Pastocchia, che ospita
anche un monumento in suo onore, opera dello scultore Giulio Calandro A
proposito dell'intitolazione della scuola, su espressa richiesta dell'allora
commissario prefettizio Mario Jelardi, l'insigne storico Alfredo Zazo propose
la seguente epigrafe che ne riassume le doti i meriti: A GIULIO CESARE BARRICELLI CHE DEL
RINASCIMENTO EBBE LO SPRITO INFORMATORE E LA VASTA ATTIVITA' PROFUSE NEL CAMPO
DELLA SCIENZA MEDICA DELLE LETTERE E DELLE SPECULAZIONI FILOSOFICHE IL COMUNE
DI SAN MARCO DEI CAVOTI A RICORDO ED INCITAMENTO PER LE GENERAZIONI CHE IN
QUESTA SCUOLA SI EDUCANO NEL FERVORE E NELLA FEDE DEI NUOVI GRANDI, AUSPICATI
DESTINI DELLA PATRIA XXVIII OTTOBRE 1942XX E.F.
Opere. “De hydronosa natura sive de sudore umani corporis”; “Hortulus
genialis”; “Thesaurus secretorum De lactis, seri, butyri facultatibus et usu. Alfredo
Zazo, Dizionario bio-bibliografico del Sannio, Napoli, Angelo Fuschetto, Giulio
Cesare Baricelli, Andrea Jelardi, Dizionario biografico dei Sammarchesi,
Benevento. nis Hortuli Genialise RERVM MEMORABILI VM, QVAE IN HORTVLO Geniali
continentur elenchus. A Beſton accenfus,perpetuòarder. A cos. poribus effe
&tus procreari. Admirandumauxiliuin advefica calculum, qwo abſque inciſione
diffoluitur de expurgator Alapides renum vefica frangendos mirabile remedium Ammantium
lac ab alimentis recipere qualita tem. Agricola nonſemel tempeftates e
Serenitates pre dicunt. Abſyntbiumroborat ventry Abfynthij Romani mira i 170
Abſalonformararus. Acorescapitis bufonefanartit Achatis lapidismirabilis Acetum
ad i &tus venenosov Acetiſcyllitici miraoperato Adam eratſapiennriſsimus
Aegyptiſ in annimenfura 233 Aegyptiorum opinio de elementis. Isbe Aepyptij in
morborum -Chrafacileadiguem recara 178 Aemorrhagia(electumprefidiuna Aegypti
hierogliphicis vacabant Aegyptiorumarcana ait quartanam Aegyptijregesopera
magnifica do admiranda an. Liquitus conftruxiffe.zi. Aegye MONACENSIS. REGLA
BIBLIOTHECA Tunt. Aegyptiorum in condiendiscorporibus obferuatio. Levis
ſalubritatem ad vite produktionem maxå moperè videmusconducere. 34 Aegyptiorum
Auditim ir lapidis á vefsica extra Sione Aegyptij quomodoignea prefidia
component Aerisnatura quomodo nofcatur Afflictionem tribuere intellettum.
Agricolafilicibus in horreis cur vtantur. 200 Agricola cwufdam interitus.
Alexandri mors.quo veneno fuexit caufata Alexandri ſudoredolens. 197 Alexandri
uder.fanguineus. Alexandrimagnanimitas in ftudiofos Amazones mammas dextras
ſecabant. Amoris originis controuerfia Amantes surfacile irafcantur, Ambarum vi
ebrietatemfaciat Animalia quadam Arni tempora pradicero. An transformatio
realis detur. An animal in igne viuere poſsie Anni computum diuerfimode fa
&tum Animalia ex putri materia non ſemper extitiffe. Anicularum quarundam
facinona. Antimony in vitrum redu & io. Anuli Bubali ad gramphum vtiles Anularis
digitus cordi amicus Antora napello inimiciſsima Anginaprafocatina vt
compefcatur Animalia a vteerikus Dis dicata, Anguil Anguillarum cum Aquilone
affe &tus Animantiumcobur à cominé oritur. Anni climacterici quales.
Annibalisſtratagema in boftes. Anniprefagia à quercus galiis: Ancitodorum
aliquor obferuationes A priteftium virtus mirabilis Apri ægrotantes hederam
quarunt. Api efum infauftum veteribus Apri dentes adanginan dompleuritidem
vtiles Apes imminente pluuia adalucaria redeunt Apiumri usherbafcelerata; Apum
mirabilisſagacitasdan officium Aqua mirabilis ad viſusdefectum Aquilinumlapidem
partum accelerare, 126 Aquafrigidaqualiter apparetur. Arcades qualiter annum
computabant Archelai Regis in populos immanitasi go Arboris
ficusmirabilisnatura: Arietislingualantium ostendit. Araneorum reła in medicina
vfurpata Arbores quandoquein lapides mutate Artemiſia quando in radicibus
carbonem producati Articulares dolores quomodo curentur. Archelaus
Rexaſtronomie ignarus Ariſtotelis opinio demularum ortu. Ariftotelis rerum indagator,
Ariſtolochia piſces ftupidosfacit. Archelaus turrim incombuſtibilem fecit:
Aſphaltirisla 'usmirabilis natura, Apronomia medicis neceſaria Ararum vomitu
humores expurgat. Aparagor um 2u corporis nitorem producit. Afphespropè halico
ibum fiupidi Aſparagi vi mirabiliter erefcant Ap.dum natura qualis. Athenien
esfacerdotes cicutam comedebant Atrila canis instarlatrabat Athenienfium ura
erga fiicos Aues vfu Taxi nigra fiunt. Auri vfus in medicina Aufonij locus de
mecha uxore Afilici odor vermesgignis Bafilijanhabitat pelicudinibm Aphrice
Ibid. Bafilifcum haudàgallo excludi. Bardana mira vis in affe& u uteri.
Bituminis vis in hiſterica paſs. Braſsica, dorura fimul fatahereunt. Bruta
aliquot lafciuiffe in fominas, Bryonia mira virtus in affe&tu-matricis.
Braſsica fuccus contra ibrietatem. Britânnurum præfidium in furiofos.
Bubuloftercore colicam,anari. Bufonis lapis cóntra vinena. Bufonis.mira
propriet as in Aſcite. Arnes dura utfiant teneriores. Canes.obmutefcunt vmbra
Hyena. Capramaximèepilepſia tentatur, Capillorum defluussm laudano curare Cani Canicula
exortum à veteribus previſum, Carnes cocta,quomodo crude videantur Canes fabrorum
exiguos habent lienes Cancri vini quomodo co &tifimulentur Capre in
luftinis montibuseuomunt Capilli noftri plantis affimilantur Caftratilienem,
dan vitella ouorum deglutire ne. queunt. Cauſtica remedia,qualia adftrumas Caryophillgte
vis adcorporismacular Caftorei teftespropèrenes adeffe Caminus quo fumum non
emittet, Calphurnius beftia uxores dormientes necabat.Catelli membrorum dolores
confopiunt, Cacodamonem mali nnncijpraſagiumattuliffe Calendula folis amica.
341 Capiuacceiopinio de menftruofanguine Cantharidum mira vis nocendi Carthaginienfium
prefidium ad deftillationes in. fantium. Cati.cerebrum hominesdementat.
Cornilacrymaſworesſuſcitat, Corui renouantnr eſos ferpenris Cervi carnes ad
vita produftionen Cepamab Hyppocrate deteftari Ceruorum vita longiſsima Cerius
Alatus Francorum inſignie Cerninum penem.conceptum facere. Ceraforum aqua
epilecticis vtiliſsima Chamedrij mira vis ad lienofos Chalcanti vfus
quidoperetur Chymici forebantapud veteres: Cibm Chuslapidusquomodo apparetur.
Cicutam uterinum furorem domare Cicuta virginum mammas detumat Cynorrhodi radix
ad hydrophobiam Cyminum hominibupallorem inducere. Cyprinorum vfuspodlagricis
infeftus Cyprini officulü caluarisad spilefiä mirabile Clarorum virorumexitus.
Lorui morientiúm fæditatem fentiunt Colicu dolor quomodofanetur. 88 Collegium
veterum pro tuendaſanitate Cotoneorumfeminaadcombufta Confedtio
fenibuspraftantiſſima Corpusutglabrum reddipofit Corpora venenatá vtnofcantur.
Coralline vis adlumbricos Corniplanta hydrophobiam ſuſcitat Consensus de
disensus animantium Corneliu Celji valetudinis precepta. Creationis mundi
opiniones. 10 Croci metallorum.compofitio.:
Crinesmulierum qua via denfiores fiant Cupreff folia Strumas auferre.
Cur fit vtquis clauos vomere videatur. Cucumeres oleum abborrent. Cur quiti
impronisè moriantur. D. Ature flores Defunium capillorum ab hydrargiro, Demoris
afturia apud indos. IS Democrittfedulitas in olei caritare. Demofthenes
quomodocuraffet lingue impedimen Denti Dentium dolores bufonis tibia
janari: Dentium ftupor
àportulacaremouetur Dentium dolores paſtinaca marina radio conquieſterr Defipientia
mulieribus familiaris, Digiti annularis ſympathia. E. EBura
quoartificiocolorentur. Ebriy variafufcipiunt deliria Echini ſagacitas in
ventorum mutationibus Elephant's in fæminam mirusamor Empiricorumremedi4periculofa
Epistola quomodo in ouo celetur Equam grauidam marem admittere. Equagrauida
fomas occiditur,abortit Equorum teftes ad ſecundas depellendas praftan.
tiſsimi. Equusphaleris accinctus acrior.fot.Asies rugata quomodo emendentur.
Faciem hominis diuerfimode alterari Familia in Creta mire faſcinatrices Faces
ardentes ex Betula corticibus Fætor extin &ta lucerna grauidisperniciofu Febricitantium
fitis qualiter compefcatur Febrem à quodum pifceillico exitari. Fæmina aliquot
inrares mutate,, Fæmina pruritu corripiuntur in pudendis in prima menftriornm
eruptione. -Fæcula Brionie in affecte vteri Feniculorum femina aliquando
exitialia Filij Filij â parentibus figna recipiunt. Ficorum
efumfudoremparerefætidum Filices ab
agris qualiter exterminentur. Flores in Aegypto fine odore. Flamma quomodo in
aqua excitetur. Fluuij aliquot mirabilis natura. Fructum vinearum, iumentorumg
interitus pre ſagium Ferarum natura in hominibus mirum in modum deft. 8a Fons
mirabilis apud Garamantes. Frigida post pharmacü exhihita, felici fucceffu Fraxinum
ferpentibus inimicum: Furiofi in pleniluno,magis infaniunt. Futi vulnera
quomodo curentur. Fungi ubi in lapides mutentur. fumus hydrargiri quid efficiat
Galenu,Medicorum princeps Aline appenfo milui capite furisunt. Galega,
defcordij vis contra peftem. Gallinarum.stercus adfungorum viru. Gallinarum adeps quomodo diu ſeruetw.. 28%
Gallina quomodofæcunda fiant. Gentium.don populorum ingenia. Germanorum mos
circa coitum. Gigantes quando in orbe fuerint, Gymnofophifta apud Indos
mirabiles. Grauidationis muliersus affertio.Grauida mulieres marein admittunt.
Grauida conceptü quomodo valeant occisltare. Grauidaaliquando fætupariuntfine
vnguibus. Gra Greuide mulieres
curpallida. Greci de Iudeorum monumentis nihiladduxe H. Auftulus aqua matutinus falubris.
Heclaignis aqua nutritur Hemicrania Gagate fubmouetur. Homicrania à carduo benedi&to fanythr.
Herfetes ceroro tabacci coufanari. Hellebori nigti ele&tio in Anticris.
Hederam cumvino habere diſcordiam Hemorrboidailisherbe mira virtus, Hellebori
nigriextra & nm. Hybernie
miraaerisſalubritas, Hidropsà viridi lacerto confanata Hydrophobosè poto catuli
congulo aquam illico ap petere. Hippocratis opinio de balbisdefe&tiua,
Hydrargiri minera quomodo reperiatur. Hyppiatriquo studioftellas albas in
equorum fu cis confingant Hydrophobia rara dicuffion Hydrargiri mira natura..Hydrargirum remedium
eft advermes. Hydrargirum utilead celidolorem Hydrargirumremedium in pofte.
Hydrargirum defluuium capillorum facere. Hominis vite longitudinis breuitatis
figna, Homo repertus mira vaftitatis. Hominumcur aliquotfubtilioris, vel
graffiorisin. genijfiant. Homines
Principis vitam imitantur. Horai. Homines inuenti miragracilitatis. Hominis compofitionismirabilia Hominesquomodo
fiant abfemy. Hominum corpora olim vafta
Ibis in degyptofolum moratur, Ignispraſidra admorbos fele &ta. 303 Infantes
à quibusnutricibm ladandi. Infantis inumbilicum animaduerfio. Indi ante
Hiſpanorum tranfitum variolas baud paffi funt. 88 Infania ex folano fyluatico
quomodo emondetur.85 Indus quidam longiffime vite. Infantes eiulareautoladein
mammillu, Infantium ruptura ut curentur.
Infantes vipreferuentur ab epilepfie. Infantes ànutricibus mores
recipere Infantis umbilicum conceptum
facere. Inser Lupum eAgnum diſcordia.
Inter brafficam, de vitesfympathis.
Iumenta clitellaria fibilo, cantu á laboribus fubleuari Aminas aris&
vitrileo extrahi Lapidis ignem redensis compofitio. Lapathiam camas
duras,teneruofacit, Lacerta apudIndosmira magnitudinis, Lu,fanguisaliquandopluers
viſs. Lepusannis decemviueredicitur. Letargicos à Satureia vigiles fieri.
Leonardi vatri de partu opinio. Leones
Leonesaftatttertianam patiuntur.
Leporumnonomnes hermaphrodui, Leo timet Gallung. ISO Linteaapud Indos
igne depurari, Littera aurei coloris quomodofiant: Lignum èviſco Latum
diſcutita Lienem adcorporis turpitudinem valere
Lolium praun inducit ſyptomata. 86 Lolij nocumenta Aceto fanari. Ibid.
Lups afpe&tu homines obmuteſcunt. Irupi pauci reperiuntur,ones autem multa Zapi
quomodo ouibus nacere nequeant., Lumaca lapispartum,accelerat Ludi in
conuinijsfeftiuiquales, Lupi,canes, doFeles ut curentur, Lupi in fenio ſerpentesin
renibus.generant. Luna confinusad
inferiora, mirabilis. Lue gallica canis
infeftus Lumbricosquandoquegenerari virulentos MAmirimum vitulum àfulmine non
ladi, izg Aris yubri admiranda: Maleficas artesir Septentr. exerceri Mascitius, quàm fæmina animatur,
Maritimarumtempestatumprafagia Maculanigre in morbisquid portendant.
Mădragoravitibus infundit vim ſoporiferam: Mares in mammillisſapè Lachabent..
Marina pallinace radiusad dentiumdelores yti lis. Mommarum sum vtero ſympathis
Medicinepraktamsia quanta fit.. Menftrualisfanguinis immanita, Medea an fuerit
venefica. Memoriaquo prafidio augeatur.
Mercury pojisura in hominūnatiuitatibus, quan tum valeat. Mergorum i anferum
proprietas contraHydropho biam.. Mellis vfu vita vtiliffimus. Medicina multa
abanimalibus capta. Meſpulilignum ab ab ortu preferuat. Menftrua plerifqs
fæminis in fenio. Mirabiles in hominibusproprietates dari. Mithridates
inculpatè venena bibebat. Mithridatis antidotum ad venena. Mirafontis
inEpgroproprietas, Mille pedum preparatio adcalculos. Mille folium aduulnera conſolidanda.
Morborumprauorum natura, Morus planta prudentiffima. Morfusquidam à cane rabido
latrauit. Mors inArthritide
quandofuccedat. Mures futurorum praſcj.
Muftela cur rutam comedat. Multa prafidia ab animalibus homines
accepije.Mulierum capilli quomodo in vermes mutentur.zo Monftruofa Dæmonis
apparitio. Mulieres pregnantes vt nofcantur. Muftella fanguisadepilepfiam.
Mundi creatio.ornatus. Mullus sterilisatem producit. Mulierum pinguedoſuamis.
Mutin Mulieresrarò inebriantur.
Mulorumgenuspropagare nequit. Mulieresin. Ponto animalibus.nocentes. N: Natura
presidentia in brutis.. Natsuitates.hominum quando ob'eruende Natura
arcanaprovira producenda. Neronis crudelitas quoque pads a nutrice wiginem
fumpfit. Nero Tapfiam magnificauit. Nereides, Sirene lepe vifa fust: Nili
proprietu admiranda Niues rubentes in Armenie. Nodi in vmbilico infantis quid
sotentas Nuxairiftica quomodofiat vigore for O Learum fterilitatis preſagium:
olei, vini,fegetumquefterilitatis prefagium. olei balneumproconkulfis laudatum.
aleun amigdalarum dulcinm advariolarum veftigia probibendu. olea Minerka a
yeteribu dicata: slei cinemani
raracampofis. elina olinarum oleum
adunguium pannas. tur. Par Oleum latris colicum affe& um domato Oleum lixiuio miftum albeſcit. Opthalmia
aliquando.folo afpe & u communicar
@ris ulceraquomodofanemtur: Oryalus viſu auriginoſos.sanat.. Orestis
cadauer odto cubitorum. fa de corde Cersui.corina uznena.. Oxes capite
mouentpluuialmininente. Quesalba ubi nigrefiant. P Arimdi difficultasquandoqueà curto umbi lco
prouenit. Paracelfafalſaopinio dehomunculipartu. 108 Panaritiumqualiter illico
fanetur. Parthi, Scytheque quo venenofagittas linjrent.Pestilentitemporeinter
precipua præfidia.neris Aifcatio fummum
iudicatur. Papauer agreſte contra pleuritidem, Papauer ſolisfpheraminfequitur,
Perfa.aliis coquinas replebant: Pediculicorpora morientium relinquunt Beftem ex
occulta antipashia oriti. Penna Ibidis ſerpentes-terret, Perniones:quomodo fanentur: Phalangii'ueneni
opera. Phrensuci cur fortiſsimifint, Phrenetidem exnigro-corallio quiefcere
Bhreneticialiquando mirabilia loqui. Pharmacum dare, quando periculofum. Philomenaà vipera deuoratut. Pifa Piſces marinifalubres, japidi, Pifiesfrixi
quomodo in venenum tranfeunt. Pici mirandulani ingenium; Picem cum oleo habere colligantiam Pici
opinio de fcientiarum varietate. 16 Portulæca foment contra lumbricosa
Plurimamèterra furfum rapi iterumque deorfumi cumpluuiis precipitarz. Polypodijmira viscontra cancrosa Porri
caputquomodo augeri pofsit: Potentia imaginatiua in conceptu mirabilis. Planta
fimileseffe&tu fimiles, vinute... Pluvia imminentisprofagia. Plumburglans
in coli dolorepraffans. Prognoftica tempestatis pluusoſa. Prafodiam mirabile ad
calculos Preſedia admiranda inangina. Pfli, do Marfi ferpentibus amici.
Pulchritudo, deformitas afpeétuo quid portono. dat. Pulchritudo corporis quo
termino confitna. $. Euella à teneris veneno odusara. Pulſus deficientes
anfemper mali, Queen Vanium profit neris puritasin peffe. Wartanarii improuifo rimore fananiky. Mr. Qua
via volucrumpennacolorentur. Quartana quomododebellerur.
Quibuscorpusflorsfcit,his lien decrefcit. Quo artificio es aduratur. QuorumdamiAnimalium vitalongitado Quorumdam
animalium naturl. Quorumdam homină virtutes, & ornamenta. quo artificio mares ab. uxoribus. [tyfcipere
vales Quo Artificio duriſsimafaxa frangerevaleamus. Quomodo in
urdieriſomasexcitari valeamus.341 mks. R Aneterreftris oleum aditrumas !
Rexbarbarumcidoniatum gravidisfummum medicamentum. Rerum Sympathiam in aliquot brutis Admirabi.
lem effe;. Rută inter alexiteria medicaméta cõnumerari, Rores marini virtus
miranda, Ruta mira. vis contra venenum. S jabbarici junijmiraproprietas,
Sanguis menftruus quandoque ex oculis velgingi uis excluditur, Salis prunelle
virtus,de compofitio. Sartyriam carnofum venerems excitat,flaccidum vero
extinguat. Sanguis menstrualisexucis, ſcarabais venenū. Sanguis caninus
hydrophobis vtilis. Saliua bominisfcorpionesnecat. Scarabei miraproprietas.
Scarabai cornuti vis in febre ciendo. Sciffure laborum.usmanuum remed. Scythe
quomodo diuabfque cibo vivant: Berpentesquibus fufficibusarceantur.
Sene&tutisincommodah Sepermusinter mafculos meră retinet virtutã. Serpeniums
ona, velgenitura in pornfumptaSerpenting gignunt. Singulis quopatto cohibeatar,
Socij Diomedis in volucres conneri. Solis confuxm ad inferiora maximus. Solatri
potencia contra parafitos.
fomniorsuspreſagia à Deoconcedi. Sodami -Gomorrbi fruétus vari. Solis
defe & us quomodo comprehendatur. Spurij robuftiores legitimis fuus. 95
Spe& acula veterum vbi celebratamagis. Spuweis epilepticis non femper filo
Spatiuwvil e fecundum Acryptias. Stygis Arcadiemortifera natura. Sirumarum
mirum remediusa. Strumaper vrisano quandoquepurgalai Sterilituin bomine
ytdiriwratur SAMIremedium temporepeffu. Succinum parium mulieris accelerare,
Syrupus fpinæ infeftorie ad temelusume. SS SwimeisterSidera calidißima. T.
sbacci vw apud Iudos. Talpeoleum ad Aruma. Taurifanguis inter VEREBANwerari.
Taurilapillu veſice contracalcules. Taum Philoſopbw famen cabiberet. Ferro
lenonia contra ventna. Tbagfia mira vis in facillasi. SO Thappa Thapſia
veſsicas, do ademata excitat. Torpedinismira vis in capitis dolores.
Trauli,cobalbi,do femilingues unde finns. Tuberum efufrequenti hominescadunt.
Aleriane vis contra epilepfiam, V Variola,morbilli affe&tmnoni, Verruce quomodo extirpentur. Verbena vis in
capitis doloresi Verbena virtus contra frumas Vermium in corporibus hominum
varia figura 18 periuntur Vermes rubei in cerebro adnati. Verbafci florss Sole aecedente decidunt,
Veterum fepulchra mitèconftrudia Veterum ruditasdo, in foribendovarietas. Vena
ſarustella ſpleneticis auxiliatrix Veterum in nuptiisconfuetudo. Veteres
equoram lacrymas admirabantur. Venenumà diſsimili extinguigecontra Vermes in
cordis.capſula exorti Ventorum mutationes ab Echmo previderi. Vifusacies,in
quibus fueritadmiranda. Víres collapſa odoribus reſarciri poffunt. Vitrioli,
com fulphurisoleumad vermes. Vipera catellosfuosparit,utnutrit Vipera inter
ſerpentes fola parit animal vinã.ibe Viperamorſus Hellebori nigri radicibus
fanan. Vinum pro Afthmate ſele&tum Vito longena quomodo apparemme zur. Vina
Vina alba quomodo rubra fant, Virginitatismulierum figna. Vitrum quo modo
diuidarur. Vinum venenatumquibus profuerit. Vinum à veteribusfeminis interdi
& um. Vifcum quercinum epilepticis falutare. 318 Vitri puluerem calculus
comminuere.Vimivſus elephanticisfalutaris.Vlcera formicantia quomodo breui
fanentur. Vricornu proprietas, bet cognitio. Volatilium,piſciumque
fecunditatispreſagia. Vrtica folia ſalutem, vel mortem informi in lotio
prefagiunf. DeMedicinepraftantia. Edicina decçio demiſla eft: ita
Mercurius Trifmegiftus apud Aegyptiosſapientiſsi. profectoad fluxilis natura
goltre remedium Deus altiſsimus ho minibus conceſſit; vt fanitatem conſer.
uare, &perditam recuperare commodè valeamus. lofa autemà vitæ conftituto
termino, & à morte nequaquam viuen. sia omninoliberare; ſedcorpora à cor
suptione, & feftinadiſſolutione præfer uarepotius iudicatur. Amazonescur
mammasdextras refecauerint. Mazones illæ, tantum à ſcriptori bus celebratæ,propterea
fibi má. mas dextras refecari curabant, vt magis A armis gerendis aptæ fierent;
vel potius Demannum, & brachiorum impedire • tur motus. Mihi zutem Galeni
opinio 7. Aphor. 43.ex fententia Hippoc. admo dum placet; qui has mulieres id
feciffe aferuit, vt manus dextra robuftior cua detet.Hocautem à ratione alienum
mi. nimèeft, quippe nutrimentum,quod in mammam dextram à natura diſtribui
debebat,totum in manum, & brachium immittebatur. Strab. lib. 11. Olearum
fterilitatis prefagium. Ergiliarum occultatio, & emerso Sucularum
tempeftuofi fideris, fi pluuiofam tempeftatémouerit, & vitis, &olei
germinationé fuffocabit.Ex hac cauſa Democritus olei præuifa caricate, magna
vilitate oliuas in toto co tractu coemit, mirantibus, quipaupertatem, do &
rinam, & quietem homini oble & a. mento cffeſciebant: at vt apparuit
cau. fa, & ingens dinitiarum acceffio,reftituis mercedem, contentusleita
probaffe, 0. pes fibi in promptu eflc cum vellet. Ex Fran, luncino in Sphæra. Do&oris
Medici, & Philofophi, Hortulus Genialis. DeMedicinepraffantia. Edicina
decçio demifla eft: ita Mercurius Triſmegiſtus apud Aegyptios ſapientiſsi
musfcriptum reliquit. Hát profecto ad fluxilis natura noltre remèdium Deus
altiſsimus ho minibus conceffit; vt fanitatem confere uare, & perditam recuperare
commodè valeamus. lofa autem à vitæ conftituto termino, & à morte nequaquam
viuen. sia omnino liberare; fed corpora à cor ruptionc, &feftina
diſſolutionepræfer uarepotius iudicatur. Amazones cur mammasdextras
refecauerint. AMiszonesilla, tantum àfcriptori.. mas dextras
reſccaricurabant,vt magis armis gerendis aptæ fierent; vel potius De manuum,
& brachiorum impedire tur motus.Mihi autem Galeni opinio 7. Aphor.
43.exfententia Hippoc. admo. dum placet; qui has mulieres id feciffe aferuit,
vt manus dextra robuftior cua deret.Hocautem à ratione alienum mi. nimé eft,
quippe nutrimentum, quod in mammam dextram à natura diſtribui debebat,totum in
manum, & brachium immittebatur. Strab. lib.11. Olearum fterilitatis
præfagius. Ergiliarum occultatio, & emerGo Sucularum tempeftuofi fideris,
fi pluuiofam tempeſtatemouerit, & vitis, & olei germinationé
fuffocabit. Ex bas cauſa Democritusolei præuifa caritate, magna vilitate oliuas
in toto co tracta coemit, mirantibus, quipaupertatem, do & rinam, &
quietem homini oble & a mento effe ſciebant: at vt apparuit cau. $ a, &
ingens dinitiarum acceffio,reftituit mercedem, contentusleita probaffe, o pes
Sbi in promptu effe cumi vellet. Ex Frap, lundino in Sphæra. V O aqua Nili, Nilifluminisproprietas uædam
aquæ reperiuntur, quæ fæ. cunditatem proprietate quadam inducere celebrantur:
ita eſt quæ ſua vi nitroſa, vt voluit Seneca 3. Natur. quæſt. natura. fæpè
vteros per petua fterilitate occluſos aperuit, & conceptumfecit: Vnde
mulieres in AE gypto,vtfcripfit Ariſtot.quinos, & qua ternos frequenrer
fætus edunt; ratio non alteri tribuitur, quàm Nili aquæ, quæ illis in potu
familiariſlima eſt. De Mundicreatione. N qua Anni parte Müdus à Deo crea
tusfuiflet,diſcordes interſe ſcriptores funt, vt Hebræi, Iſmaelitæ, Chaldæi,
Arabes,Aegyptij,Græci, & Latini.Mula ti enim in Aeftate, nonnulli in
vere,alij verò in Autumno conditum fuifle con tendunt. Moyles fuiſſe in Autumno
affe. rere videtur, cum in Geneli dicat, Ger minet terra berbam virentem,
&facientem emen, Glignum pomifera faciens fru &tung iuxtágenusfuum.Ex
Aegyptijs nonnulli A eſtate creatum afferunt. Inter Latinos Cardinalis
Aliacenfis vere nouo condi tum voluit.Inſuper variant,quia Plane tas aliquot
afferunt in mundi principio fuiſſe creatos in fuis domibus: Solem ſci licet in
Leone, Lunam in Cancro, Martē in Scorpione, Saturnum in Capricorno, Venerem in
Libra,Mercurium in Virgi ne, Iouem in Sagittario. Alij, Planetas volunt, in
fuis altitudinibus, præter Mercuriú,omnes fuiffe collocatos. Que autem opinio
fit verior, D.Thomas 4 fons dif. 2. artic. 8. videnduseft. Murium fagacias.
Vres ex ônibus animalbusquo dám do cognofcuntur. Cum enim domus aliqua conſenuit,
&ruinamaliquam iamcom minatur, primi ſentiunt; & reli & is fuis
cauernis, priſtiniſque fiabitationibus, domum relinquunt, properè fugientes,
aliudque domiciliú quærunt. Aelianus de var, hift.lib.z.& Leuisius Lempius
do fest. nat. Pluuja Mamodofuturorum præcij effe Pluuioſa tempeftatis
Prognoſtics. ' Ergiliarum occafus matutinus, lo nubile Coelo accidat, hyené plu.
uiofam denunciat,fi fermo Cælo,alpe ram.Sic Veneris,aut Martis per Pleiades
tranfitus aliquot dicbus pluuioſam ciet tempeftarem.Saturnus inſuper cum cor
pore, aut radijs ad a &turum accedit, i dem minatur.Ex
Plinio,óobferuat.Stadi. Agricola non femel tempeftates, & f renitates
predicant. Vltos profe & o cognoui pafto res, plerofquc agricolas, quiin
prædicédislerenitatibus, & tépeftatib. magnæ mihi erant admirationi,quare
tanquamcnriofus fciſcitabar, qua via, &ordinc hęcſcirent?ratus forfan
fimpli ces, &idiotas non poflc tanta certitudi. ne futura prænoſcerc;nifi
vel Dei mu. nere, vel Demonisa & uid fieret. Exre latu diuerfas ftellarum
conftellationes abijs experientia cognitas, no & u, ani.
maduerti:quarüobferuatione vera pre M dicunt. Experti enim ſupt Pleiades in
Autumno, quæ in principio no&is ori. untur cum Marte, velVenere mouere
tempeftatem. Aréturum non fine gran dine emergere. Hadorum ortum & oc.
cafum tempeftatem pluvioſam in regio. nibus noftris prænunciare; & alia,
quæ in promptu tales habent, licet alijs no minibus hæc fidera nominent. Quare
mirum non eft, priores ftellarum per fcrutatores circa carum prædi& iones
multa nobis reliquiffe,cum id ſapientia, & obferuatione perfecerint, quod
iam idiotæ fine magiftro facere valent. Valeriana miraviscótra epilephan.
leriana ſylueftris, quęlpontènal. citur,præter innumeras, quæ ab au &
oribus ei tribuuntur virtutes, hancia diù, in multis, atque in fe ipfo Fabius
Columna in bifter, plant. expertam ape suit,vt ſemel,velbis radicis puluerisco
chlearij dimidium cumvino,aqualadte, aut alio quouis decétifucco & proggro
sicómcditate, & ætate fumptü,epilep Valeri Ga correptos liberet. Extirpatur
ante quam caulem edat, & puerisexhibetur, & preſertim infantibus, qui
morbo hoc facilè laborant. Retulit auctor ſe multis puerulis lac propinafle;
multiſ“; amicis donodediffe: qui deinde diuino prius numine glorificato,
puluerehuiusplan tæ illis reftitutá fanitatem affirmarunt. Transformationes
hominumin beſtia as noneffe reales. Vædá monſtruoſæ hominü tranſ formationes in
beſtias à multis au Storibus fcribuntur; & inter alias, de il la Maga
famoſiffima Circe, quæ ſocios Vlysis in deftiasfertur mutaffe: de Ar codibus,
qui forte ducti tranſnatabant quoddam ftagnum atq; ibi conuerteba tur in Lupos:
de Diomedis ſocijs, qui in voluitres conuerſi ſunt, plurima'addu cunt. Hoc non
fabuloſo mendacio,fed hiftorica affirmatione multi confirmat, vt in fpec.
natut.Gib. Vincentius Beluacenſis retulit. Aflerunt enim (vt ajtSolinus
)velmagiciscantibus, vel her barum veneficio in feras corpora tranſ formari.
Dicunt in experimento Neuros populos Aeftatis tempore in lupos mu tari, deinde
fpatio, quod his attributun eft exacto, inpriſtinam faciem reuerti, Anautem
huiuſmodi trasformatiorea. lis ſit vel illufivè facta àDemone,D.Au guft.lib.
18. de ciuit. Dei ita nodum enu. cleauit: Quod transformationes homi numinbruta
animalia,quæ dicuntur ar te Dæmonum faétę,non fuerint fecun dum veritatem; fed
folum fecundum apparentiam. Quippe opus hoc tantum Deieft; vt in Concil, lacro
A Acyrano fancitum eft. Demonis aftutia apud Indos. Erba, quam Tabacchum
appella mus, apud Occidentales Iodos in magno cratpretio.Cum eniminter hos dere
graui agebatur,ad Sacerdotemil. lico accedebat,quitotuoegotiúexpone bát.
Sacerdos auté corá illis fronde, vel furculum Tabacchiſumebat, qua carbo. nibus
inic & ta, fumum peros, & nares ex. cipiebat, & inftar mortuiin
terrá cade bat. Paulo poſt conſumptis fumivirto bus in cerebro, reſponsa, ſed
ambigua, prout Dæmones perilluſiones, & fimu Jachra fuggefferant, populo
dabat;qua tanquam religioſa, & veriſsima cunati recipiebant. Ita profi eto
hominum ini. micus Gentiles decipere confueuerat. Monardes de rebus Indicis.
Quid Picusdefcientiarum varietate fentiret. CH *Vm quodam die Ioannes Picus Mi
Urandula de fcientiarum varierate diſſereret,in Hebrçorú,inquii,Philofo phia,
omnia funtveluti quodam numi ne facra, & in maieftate veritatisabdita Ceu
prodigia quædam, & arcana myfte sia. In Græcorum veròdifciplinis, in genium,
acumen, & omnigena eruditio apparet, vt nulla vnquam gens fuerit, quæ
dicendi copia, & ingenij elegancia cam illis poffitconferri.InRomanaved sò
Academia, ca ferè omnia, quæad ci. witaté, & vitæ morespertinent,
&graui. *, & copiosè funt explicata,ac magni fica ficè diđa. Sic ve
grauitas maximè Roo manis, & imperijmaieftas,Grçcisinge nium, &acumen;
Hebræis do & rina fe. cretior, & quaſi diuinitasaſiribi poſsit,
Crinitus da honeft. diſcipl. lib.g. Subditos, Principis vitam vtpluri.
mumimitari Rincipis vitam fubditi maximopere imitantur. Hinc fa & um eft,vt
ex Philofophica vita Marci Imperatoris, magnum virorum doctorum prouentu
ærasilla tulerit. Solent enim plerumque homines vitam Principis æmulari iux. ta
illud Platonis à Tullio in epift.ad Lé tulum reperitü: Quales fum in Republica
Principes,sales folers effe cines.Quapropter ex bonitate Principis Marci,
plurimila philoſophari finxerunr,vt abeo ditarë. tur. Ex Herodiano, &
Xiphilino. Rutam allium ferpentibuset werfari. Vtä odor,allija; ferpentibus max
ex teftimonio Ariſtotelis 9.de.biſtor. animal.c. 6. habemus muſtelam, cum
dimicatura eft cum ſerpentibus, rutam comedere. Hac etiam ratione ducti Perfæ(auctore
Simone Sethi ) coquinas allijs replebāt, vt ipfasà ferpentiú contagio
tuerentur. Animaliaoriri, & viuere poſſe in ig ne compertum eft. Agna
admiratione dignum eſt illud, quod ab Ariſt. s.de hiftor.
animal.6.19.adducitur; animalia ſcilicet oriri, & viuere in igne,cum
elementum hoc omnia comburat: & nullatenus pu treſcat. In Cypro, inquit,
infulaærarijs fornacibusvbi, Calcites lapis ingeftus compluribus diebus
crematur,beſtiola in medio igne naſcuntur pennatæ,paulo mufcisgrandibus maiores,
quæ per igne Saliant, & ambulent. Equidem fià tanto viro hocnon aperiretur;
vix credere homincs auderent, cum totum rationi aduerſetur; fed hæc, & alia
maiora à po fentiſlimanatura fieri poſſunt, 10 Lacus Lachs Affhaltitis
mirabilis natura. Yommemoratione dignum puto Alphaltitis lacus naturam expo
nere.Salfus ille quidem,ac ſterilis eft,fed tanta leuitate, vt etiam, quæ
grauiſſima ſunt,in eum iacta fluitent:nec quiſquam demergi in profundum ne de
induſtria quidemfacilè poſſit.Denique Veſpaſia mus, qui eius viſendica uſa
illucaccelle sat, iuſfit quoſdam natandi infcios, vin &is poſt terga
manibus, in altum deijci, & euenit omnibus, vt tanquam vi fpiri. tus farſum
repulfi, deluper Auitarent. Joſepbas lib. 5.de bello Iudaicri.9. Piſces marinos
falubriores, & fapidi. ores efe fluminum piſcibus. lices, tum pidiores, tum
falubriores ſunt ijs, qui in fuminibus, ftagnis, lacubus, auc riuulis
viuunt.Salfedo enim duriorem facit carnem, & fubtilioris fubftantiæ. Contra
in piſcibus, qui ſunt in fiumini bus, &perinde eorú caro excrementitia eſt
muccoſa, & infuauis. Vndeapud Co. lumellam extat lepidum didū. Philip pus
cum ad Numidam hofpitem deue niſlet, & fibi è vicino fluminelupi for moſum
appofitúdeguftaffet,ex puiſſet guc dixit: Peream ni piſcem putauerim ! vſque
adco à Tyberino,velmarino dif. ferre putauit, vt illum piſcis nomine in. dignum
iudicauerit. Mulieris cinni fogant ſerpentes, da in vermesmutantMr. ulierum
capilli, quibustantopere gaudent, & pro quorum ſtructu ra in exornandis
multum conſumunt te. poris,cremáei, ferpentes abigere vifi sūt: fin autem in
aquam inijciantur, in ver mes non diù retenti commutantur. Plurimos homines
aqui per tenebras, de per lucem vidiffe. Erum natura opulentiſsima admi ſus
aciem,oculoſgue ſplendentes pręſti tit; vt multi felium more noctu vagari
liberè potuerint. Legitur de Alexandro per tenebras æquè,ac per lucem vidiſſe;
viſum adco acerrimum habuit Galenus, quod in lomnis, patefactis repentè pal
pebris, magnamante oculos lucer via debat, vtiplede ſe fidem facit lib. 7.Hip
port. Go Platon, plac.6.4. At mirabilior erat TiberijCeſaris proprietas; qui in
tenebris exactè videbat;de qua re adeo admiratur Tranquillus, vt id pro mira
culo ſcribat. Cibusfapidiſsimus quomodo apparetur. Viſapidissimum cibum habere
de liderat, Gallinaceos pullos, qui la &te & panis micis laginati lipt,
in menſa procuret, ij profe &to præſtantiſsimum ſaporem exhibent, mireque
cum palate ineunt gratiam. Andereriam carycis nu tritus, tum ad medicinam, tum
ad gula faporem eſt optimus, & piçlertim iccur. Vnde non mirum L in Inſula
Hiſpa niola apud Indos, porci harundinibus zacchari faginatitantæ, ſapiditatis,
& bonitatis ſint, vt febricitantibus etiam exhibeantur, Gigan eft muccofa,
& infuauis.Vndeapud Co. lumellam extat lepidum di& ú. Philip puis cum
ad Numidam hofpitem deuc niſlet, & fibi è vicino flumine lupi for mo ſum
appofitú deguftafſet,exfpuillet guc dixit: Peream ni piſcem putauerim !
vſque,adco à Tyberino,velmarino dif. ferre putauit, vt illum piſcis nomine in.
dignum iudicauerit. Mulieris cinni fogant ferpentes, do in vermes mutantur.
ulierum capilli,quibustantopere gaudent, & pro quorum ſtructu rain
exornandis multum confumunt té poris,cremári,ſerpentesabigere vifi sūt: fin
autem in aquaminijciantur, in ver. mes non diù retenti commutantur. Plurimos
homines aqui per tenebras, acper lucem vidiffe. REErum natura opulentilsima
admi randam fæpiſsimè hominibus vi. ſus aciem,oculoſque ſplendentes pręſti tit;
vt multi felium more noctu vagari liberè potuerint. Legitur de Alexandro per tenebras
æquè, ac per lucem vidiſſe; viſum adco acerrimum habuit Galenus, quod in
fomnis, patefactis repentè pal pebris, magnamante oculos lucern vi. debat,
vtipfe de ſe fidem facit lib. 7.Hip porr. Platon. plac.6. 4. At mirabilior erat
Tiberij Ceſaris proprietas; qui in tenebris exactè videbat; dequa re adeo
admiratur Tranquillus, void pro mira culo fcribat. Cibusſapidiſsimus quomodo
apparetur. QlideraGallinaceos, pullos,quila &e & panismicis
laginatiſipt, in menſa procuret, ij profe &to præſtantiſsimum ſaporem
exhibent, mireque cum palato ineunt gratiam. Anderetiam carycis nu tritus, tum
ad medicinam, tumad gulæ faporem eſt optimus, & pięlertim iecur. Vnde non
mirum G in Inſula Hiſpa niola apud Indos, porci harundinibus zacchari
faginatitantæ, ſapiditatis, & bonitatis ſint, vt febricitantibus etiam
exhibeantur, Gigantes in orbequando fuerint? G. Igantum foboles paulo ante Dilu
(uium apparuit, patet hoc in Geneſi c.6.quando ingreſſi ſunt blijDei ad fili as
hominum: poſt autem Diluuium aliqui fueruntgigantes, qui tamen non multo
tempore durauerunt. Bonitas e nim naturæ (vt inquit Abulenfis c. 3:
Deuteronomij) in cibis, & afpectu cæli ad terran habitatam remen humanum in
tanta virtute continebat, vt tanti robo ris, & ftaturæ homines ætas illa
produ. ceret; Poftea paulatim deficiente natu, ra,tanquam ad fenium múdus ifte
decli. nauit, & humana corpora cum viribus minorata funt. Adfacies mulierü
rugatas ſelectum præfidium. (N gratiam rugatarum mulierum, & quæ maculas in
viſu fortitæ fuerint, quo ſenium, turpitudinemque faciei abfcondere valcant,
optimum adduca mus præſidium. Alumen tritum, & cum recentis oui albumine
agitatum,ſi dein de ferbuerit in olla,& { patula ligno coti nuo
mouebitur,in vnguenti ſpiſfitudi nem tranſit. Hoc f biduo, vel triduo facies
mane & vefperi collinitur, non modò emaculari & erugari, verum ſum
mepulchram &gratam eam reddi ani maduertent. Maxima eft folis excellentia,
do in hec inferiorainfluxus. Am maximè Homerus Solis natura, & excellentiam
admirabatur, vt illú Deorú patré,hominūá; vocauerit. Ipfe enimomniú aftrorú Rex
eft, & tempora cuncta moderatur: annos,menfes, & di os diſtinguit,
& efficit; nos fua luce læti ficamur, & eiuscalore ſanamur. Ipfe vi.
rentes herbas, & terræ nafcentia germi. narefacit, & flores redolere.
Ipſefruges, producit, fructusmaturat, aerem puri ficat, lucem affert,
tenebraſque repellit, elementa tranſmutat,animalia gignit, gemmaſque pretiofas
cum admirandis viribus ex terræ viſceribus mira virtute spitøre facit, Hominųm
ipſe, cum ho mine Gigantes in orbequandofuerint? Glucos Igantum foboles paulo
ante Dilu (uium apparuit, patet hoc in Genefi c.6.quando ingreſſi funt
alijDeiad fili as hominum: poſt autem Diluvium aliqui fueruntgigantes, qui
tamen non multo tempore durauerunt. Bonitas e nim naturæ (vt inquit Abulenfis
6. 3. Deuteronomy )in cibis, & aſpectu cæliad terran habitatam femen
humanum in tanta virtute continebat, vt tanti robo ris, & ftaturæ homines
ætas illa produ ceret; Poftea paulatim deficiente natu, ra,tanquam ad fenium
müdus iſte decli. nauit, & humana corpora cum viribus minorata ſunt.
Adfacies mulierürugat asſeleétum præfidium. Ngratiam rugatarum mulierum, &
quæ maculas in viſu fortitæ fuerint, quo ſenium, turpitudinemque faciei
abſcondere valcant, optimum adduca mus præſidium. Alumen tritum, & cum
recentis oui albumine agitatum, fi dein de ferbuerit in olla, & ſpacula
ligno coti nuo mouebitur,in vnguenti fpiffitudi nem tranfit. Hoc ſi biduo, vel
triduo facies mane & vefperi collinitur, non modò emaculæri & erugari,
verum ſum mepulchram &gratam eam reddi ani. maduertent. Maxima eft folis
excellentia, din hec inferior ainfluxus** TO Am maximè Homerus Solis natura,
& excellentiam admirabatur, vtillu Deorú patré,hominúý; vocauerit. Ipſe
enim omniú aftrorú Rex eft, & tempora cunctamoderatur: annos,menſes, &
di es diftinguit, & efficit; nos fua luce læti. ficamur, & eius calore
ſanamur. Ipfe vi. rentes herbas, & terræ nafcentia germi. nare facit, &
flores redolere. Ipſe fruges producit, fructus maturat, aerem puri ficat, lucem
affert, tenebraſque repellit, elementa tranſmutat,animalia gignit, gemmaſque
pretiofas cum admirandis viribus ex terræ vifceribus mira virtute qpicere
facit, Hominum ipſe, çum ho minegenerat,& tandem quicquid in ter ra oritur,
& occidit, corrumpitur &ge neratur, in eius poteftate eft:fic ait Ari
ſtot.z.degener.d corrupt. quod propter acceſsú, &receffum Solis in circulo
ob liquo,fiuntgenerationes, &corruptio pes. Hæc, & alia tali lideri
Creator om. pium largituseft. Falfißimum eft Salamandramin igne viuere pole. B
Ariftotelc, & Aeliano,Salaman dram non modò in igne viuere, verum etiam
illum extinguere proditú eſt. His ſuffragatur Plinius lib.io.c. 67. qui tantum
alleruit Salamandræ rigore elle,vt igné glaciei ad inſtar extinguat, Hi autem
famigeratiſſimi viri dormi. tare videntur, cum omnia & comburi, &
conſumi ab igne poſle iudicentur, Falſum ergo axioma eſt;breuique fpatio
animalillud, antequã comburatur, licet rigidiffimú foret, in igne viuere
verifia mile eft.Totú hocexperientia innotuit. Narrat enim Matthiolusin
lib.2.6.56.Dia foridisin agro Tridentino,Veris,& Au. Tumpi tempore,maximam
Salamandra rum copiam reperiri,fe autem,vtexpe rimentum caperet eius, quodde
Sala mandra vulgo fertur, plurimas in igne conieciſſe, fed eas prorſus
exarſifle,bre uique penitus eſſeconſumptas. Sabbaticifluuj admirada proprietas.
I Nter Arcas, & Raphandas ciuitates (teſtimonio Iofephi.7.de bel. Iudaico )
regni Agrippę, Sabbaticus fluuius repe ritur, ita à leptimo die, quem ludzire
ligiosè colunt, appellatus. Hic copiofus fluit, nec meatu ſegniseſt,
mirabilemg; naturam obtinuit, liquidem interpofitis lex diebusà fonte luo
deficit,audumq; & ficcum alueum relinquit. Quod auté mirabilius eft, nulla mutatione
facta ſeptimo die fimilis exoritur, talemque continuo ordinem obferuare pro
certo ab omnibus cognitum eft. Quam fitexitiofumpro lattandisine Fantibus
vitioſas eligerenutrices. Vtrices pro lactádis puerulis ma lis moribus imbutas,
vitiofas, in. B eptas, crudeles vel ſuperbas reijciendas exiſtimo: mites autem,
benè moratas, fine vitio, & prudentes cligendas. Pueri enim ex ijs educati
ob acceptum nutri mentum à parentum natura recedunt, & 1 ad nutricisvitia,
vel prudentiam aliquá inclinationem habent. Indelegitur Ne Pi ronem
crudeliffimum à fuis progenito ribus longè degeneraffe(quamuis pravá
inclinationem vincerepotuiſſer) ijenim benigniffimi fuerant: ipſe autem à crue
delillima nutrice lactatus, & connutri tus, propriam matrem interfecit.
Menſtrualisfanguinis mulierum immanitas. Aximum contagium in mulieris i ei F
credidit.Refert enim nouellas vites eius pernecari contactu,rutam, &
hederam illico mori, apesta & is aluearijs fugere, lina nigrefcere, aciem
in cultris tonſor rum hebetari, æs graue virus & ærugi nem contrahere:
equas, li lint grauidæ, ta &tas abortire,multaque alia pernicio famala ex
illius contactw fieri tradidit. Sed longe à veritate diftar hic auctor:
cuiuslibet enimmulierisfanguinēmen i ftruum virulentum effe falfamum eſt, quippe
in ſana muliere, non differt & Yanguis à fanguine vitiumque illius in i
quantitate tantum perliftit,vtbenè Ca piuacceusin fua Praxi recenſuit, fecus
eft in morboſa muliere, ex menftruali enim iſtius fanguine nõmodopericula, quæà
Plinio adducuntur, eueniunt, ve - rum etiam alia. Equidem canes epoto ·
menſtruo in rabiem vertuntur. Homi nes in he & icā, & phthiſim, fià
veneficis, eis in potu tribuitur, deueniunt: Oleze contacte ſterili fcunt. Alia
ctiam ex il lius virulentia contingunt, quæ reticere melius eſt.
Frigidumpotumpoſt pharmacum af fumptum magnæ vtilitatis afue tis fuiſſe.
Egrotabat oliin in Sicilia Prorex Ioannes à Vega: ſumptoque Phar maco ſegniter
purgationem habebat. Medicusfamiliaris, vtaluum irritaret, juris pulli ſine
ſale pararú cyathum co B 2 A ram Principe habebat; illumque nau. ſeantem, &
tale brodium abhor. rentem, vtebiberet exorabat. Super ueniens autem Philippus
Ingraſsia, iua ris vice, libram aquæ frigidæ cum vn cia zuccarimediocris
albedinis propi. mauit. Erat enim ille frigidæ potioni af fuetus,atqueiecore
percalidus. At frigi. da cpota, deſtructa eft confeſtim naufea fedatilque
nonnullis in ore ventriculi morſibus, talem è veftigio purgationé feliciter
perfecit, vt gratias referre In graffiæ pro tali frigidæ potione,cupiens,
argenteum illud vas,in quo repofita fri gida fuerat, pretij aureorum nummo. rum
quinquaginta, gratiſsimo animo donauerit. Ingraff. de.frig.por.poft medic.
Verrucas cuiufdam animalculi liquo reperfanari. Eferam quod mihi in Apuliæ quo
dam loco, circa verrucas fucceflit. Expetebat à me quidá nobilis, qui ma. nusà
verrucis nimis deturbatas habebat aliquod pro illis abigendis præſidium. Ego
coram nonnullis multa,quæ aliàs RII veriſſimaefle comprobaueram,illicon it'o
fulebam.Inter hosrufticusquidam ino to pináter,fe ele &tiffimum habere
remedia pro ijs penitus dirimendis non rogatus I. faſſus eſt. Sciſcitor quale
fit, animalcu Di lum eſſe dixit: ad experimentum veni Before mus, ægro
confentiente. Ruſticus ani. i malculum inuenit. Hoc'in floribns 1. Eringij,
& Cichorez æftiuo tempore uk moratur,eft coloris calaſsini, cum ma of culis
rubeis, & quodammodo aſsimila tur proportionecorporiscantharidiyli y cet
paruulum ſit. Acceperat aliquot 12 i- fticus, & ſingula in ſingulis
verrucis d... * gitis exprexit: exibat liquor quidam, o manus intumuit, &
doluit,fed cum mo. derantia: intra tres dies detumuit, & fana facta eſt,
nec verrucę ampliusviſę ſunt. Tauriſanguinem inter lethalia vene na
connumerari. Nter atrociſsima, & fuffocantia ve nena Tauriſanguinem
recenter epo tum connumeramus; congelatur enim 2. in ventriculo,
reſpirationemqueimpe s diens, hominem fuffocat. Themiſtocles B 3 Athe Inesta Athenienfis
tanti veneni tentauit expen rimentum. Hic enim ciuium inuidia à Patria
relegatus,ad Artaxerxem confu git, à quo diues factus eſt.Dum autem in patriam
ingratiam Artaxerxis pugnare cogeretur,in Dianæ téplo,hauſto Tauri fanguine,
vitam cum morte commuta uit.Ex Plutarcbe. Quo artificio duriſsim afaxafrangen
re valeamus. Aris ſaxa non alia re frangendag quam larido accenfo retulit Ola
us.Hoc equidem rationi conſentaneum efle ducimus, cum pinguehumidum,fax lique
commiftum illud fit, ob id enim flamma potens & acris eſt diùque ma net.
Annibal verò dum Alpium rupes, ingreſſurus Italiam, comminuereopta ret, faxa
potentiſsimo igne concalefacta; acerrimo aceto humectabat;:ita enim ea
molliebãtur,& in fruſta cædebátur, fra ctioniq; facilior erat locus.ex Tiro
Liuip. De lapidis Asbeſti mirabilivirtutes LAsbeſtos lapis,qué Arabia, &
Arcadia producit, fi verus & probus fuerit, femel accenſus perpetuam
flammam retinere videtur.ExhocGentilestemplorú cane delabra conficere folebant,
clarè ani maduertentes fortiſsimam flammam & i * inextinguibilem elucere,
quęnecabima bribus,nec tempeſtatibus extingueba tur. D. Auguſtinus lib.21.deCiuit.Deiz.
Athenis Veneris Phanum fuiſſe referty in quo de di&to lapide lucernæ
conſtru Etæfuerant,quæ aliqua intemperie ex tingui minimè poterant. Aegypti
Reges opera magnifica, &admirane da Antiquitus conftruxiſle. Pera ab
Aegypti Regibus conſtria & a omni admiratione digna ſem per exiſtimaui. Hi
porrò Labyrinthoi rum,Pyramidümqueprimifuerunt au & tores, & Mauſolea
fepulchra, & Obe. Hifcos erexerunt, Ferunt admiffo faci: nore, Pheronem
Regem è veftigio vi-, Cum amififfe,decennioquecæcum -fúiſle. Vndecimo autem
anno ab vrbe Buci, accepto Oraculo, quod viſum reci peret, fi oculos mulieris, quæ
tantum B 4 lui ſui viri amplexibus contenta fuiſſet, cum terorumque virorum
expers, lotio ab luiſet. Hic ante omnia vxoris lotiura tentauit, cum autem
nihil cerneret in. finitarum mulierum vrinam experiri voluit; viſuque
recuperato, præter eam (vxorem enim eandem duxit )cuius lo tio vilum accepit,
omnes concremauit. 'Abea autem calamitate liberatus, cup alia in alijs templis
donaria pofuit, om nia egregia ad memorię diuturnitatem, tum maximè
memorabilia,ac fpe &tacu lo dignain templo Solis gemina faxa, quosobelos
vocant à figuraverucēzenam cubitorum longitudinis,octonum lati tudinis.
Pelõdor. Virg.ex Herod. lib.z. Cacodamonem malinuncijpræfagium aliquando
attuliffe. Arcus Brutus cumexercitu ex A Gia nocte media & profunda dum
fplendidum erat lumen, & filentium vndique caftra tenebat, multa fecum
memoria recolebat. Cum autem ad fe venire aliquem præſentiret, intentus
MarcusBrutuscumexercituexA intentus ad
introitum afpiciens,horren dam, & monſtruolam corporis feri &
terribilis ſibi aſliſtere imaginem reſpex it.Quis (inquit)interrogans erutus,ho
minum, aut Deorum es,quid tibi vis? quidad nos veniſti?Murmurans ille,tu. us Ô
Brute(dixit)malus genius ſum, in Philippis me videbis. Tum brufus nihil
perterritus, Videbo, reſpondit,cogita. bundusqueaccubuit. Verum Caſsiana
cognita clade deinde, cogitationeſque fuas videns, & fpes fallaces
ſublapſas re tro referrifin Philippis fibiipfi mortem coniciuit.Ex Plutarcbo.
olei, vini,ſegetumgſterilitatis prafagia. Irij vefpertinus occaſus, fi biduoana
teuertat, vel fequatur Plenilunium, fegeti rubiginem,&foreftentibus vre.
dinem pronunciat. Procionis occafus veſpertinus,fi interlunio eueniat, flores
ti yiti, & oleu germinanti iniuriam ex vredine adfert.Aquilæ verfpertinus
ex. ortus, & Arduri occalus, in Pleniluniú B S incidit, & olei&
vivi ſterilitatem, vtros quetum florente denunciat Ex Iunitino - deris
falubritatem advitæproduction anem maximopere videmuscon: ducere.. N Hybernia
quaſdam Infulas, ir quia bus homines longiſsimæ vitæ funt, re periri compertum
eſt,tanta eft enim ibi: aeris ſalubritas,vtvita humanalongiſsi me producatur,
Cum autem ad maxia. mam ſenectutem homines deueniunt, deficiente pauliſper
humido radicali, caloris naturalis opera, quia anima pro-. pter complexionis
bonitatem recedere: nequit, in corpore magni ſuſcitantur dolores: Idcirco
illius regionis homie nes poft diuturnos labores, vitam aber forrétes, longèà
propria regione fede portari procurant;præſertimque ad lo. cum minus falubrem,
vbifaciliter mon n'antur. Abulenfis in Genef.c.2.6. Anania: in Vnis.Fabrica.
Linica.magna proprietatisapud! indos fiering 1 Maximi valoris lintea ex
Asbeſti. no lino,& Amiancho lapide con texere Indiani fo !ent. Hæc in ignem;
proie & a flammam quidem concipiunt, detrimentumautem nullum recipiunto Cum
autem vſu commaculata Indi hæc lintea depurare coguntur, (ſpreto more noſtro
)non aqua,non cinere, vel ſmege mate vtuntur; fed in ignem proijciunt::
certiſsimoexperimento perdocti ab eo non cóluni modò; ſed potius-exempta.
fplendeſcere,nihilqueillis deperire. Ta.. le Carolum V..Imperatorem nonnulli
habuiffe ferunt. Mizaldus. Hominibus àgraui valetudine opa preffis varias
hominum figuras appa: rnilleſepißime, expertum oft. Ignum ſpeculatione illud
fempers primuntur valetudine ex affe &to cere. bro, an actu Demonis figare
diuerſçapa pareant? Quippèno ſemel audiui, non. mullos. Dæmanes,alios verò
fæminas. B 6 vidiſſe, vt inter cæteros Alexander ab Alexandro de ſe teſtatur.
Cum (inquit) Romæ ægravaletudineoppreffus eſſem iaceremque in lectulo,fpeciem
mulieris eleganti formamibiplanè vigilanti ap paruiſſe confiteor, quam cum
infpicerem diù cogitabundus,&tacitus fui, repu tans nunquid ego falfà
imagine captus, aliter,atque res eſſetafpicerem,cumque meos ſenſus. vigere,
& figuram illam pufquam à me dilabi viderem, quæ nam illa effet
interrogaui, quæ tum fubridens & ea quæ acceperat verba reſpondens, quaſi
me planè derideret, cum diù me fuiſſet intuita diſceſlit. Quomodo au hæcfiani
in lib. 1. de pita hominis difa fusè enucleamus. Hydropes lethales multoties ab
occul. tis,abditiſq præfidiisdifparuiſſe. Vltiequidem morbinon à me dicorum
remedijs, fed à caufis abditis curati funt.Refert Schenkius l.be 3.obferuat.
Medicinal, Chriſtophorum quendamin deſperata hyeme, ab hs drope lethali hac via
fanatum fuifle. Illi dormienti in Sole aprico lacertus viri. dis occurrit in
laxatumque eius finum irrepfit, & toto cotempore, quo dormi. it,per
tumentem,nudatumqueventrem oberrauit. Poft horam expergefa & us lacertum in
ſinu ſubfultare animaduer tit, quem veluci homini amicum & in noxium
dimilit. Huic ab eo tempore hydropicus tumoromnis,citra alia re media intra
paucosdies ſubſedit, & diſ paruit. Quicafus mirabilis eft: & non minori
admiratione dignus, Bufonis fylueftris, quam fit proprietas. Hoc e nim animal
fi per ventrem fcinditur, & fuper renes hidropici ligatur, aquofita tem per
vias vrina, quæ in Aſcitelupet abundat,mirabiliter educit.Hoc VVie rus
expertuseft,Napaulli ſecreto rema dio hydropicorum aquas Colubri a quatici
lapide ventriapplicato ſenfim abfumunt. Infuper vituli marini pelle aquam
corpori fuffulam Hermolaus Barbarustolli prodidit. Cæca igitur,& abdita via
multos hoc morbo ſanari comperimus. B7 Mediana
II Medeamà veneficiorum calumnia a Diogene fuilevindicatam., moriæ
ſcriptoresmandarunt,Meo. deam illam concelebratam magicis arti bus, maximam
dediffe operam, ijſque latiſsime fúille inſtructam.Hic.n.apud Srobæum
dicebat,Medeam fapientem, non veneficam fuifle, que acceptis mole libus, &
effæminatishominum corpo, ribus confirmabat ipfa gymnaſijs,acex ercitationibus,
& robulta vigentiaque reddebat.Hinc, vt veriſimile eft,faina emanauit, quod
illa coquendo carnes hominibus ivuentutem reftitueret, Si. enim ad ea, quæ de
ipfa dicuntur, quod nocturnis horis coram Luna proftrata maleficia fuo nudato
corpore pararet, refpicimus, vt patet per Seneca in Tras gæd.7.Quod vero alia
attinet de quie bus ipſam accuſent, neſcio quomodo. ab infamia eam liberare
valeamus. ImPlenilunio vtplurimum furioſos: vehementius infanire Luna dum Soli
opponitur, vehementius furiofos infanire obſerua-: mus: tunc enim ex.
fuperabundantium humortin copia-cerebrum ad cranium vique intumeſcit,eofque ad
furiam du.. cit.Hac (vt reor) caufa, furioſos Britan. ni luna quarta
decimaverberibus affli., gunt,conſiderantesſailicet ſanguinem, & fpiritum
tunc temporis efferuefcere.. Verbera.autem non fine ratione ad talie um ſalutem
conferre videntur; vt enim larga proſperitas ad inſaniam homines, ducere
potenseft:ſic dolor, & calamitas, prudentiam inducere conſueuit: quod,
fapientiæPrinceps perbellè fignificauit: dum dixit, affli &tionem tribuere
intele lectum.Bodinus in tbeat.net, Annicomputumdimēſuramàquin
bufdamnationibusrudiordine fuiffeconstructiuni Noi.certus modusapud felos Ar
gyptiosfemper fuit, eorum enim Sacerdotes ab Abrahamoedocti,& verá
anni-menſura, & Solis curſumcogno., frese fcere valuerunt. Apud alias
nationes di ípari numero, parique errore annus no tatus eft:fiquidem Arcades
trium men. fium annum faciebát. Lauinij tredecim. Acananes fex.Gręci reliqui
314.diebus. Romulus annum decem menſibus, qui 304.dicbus conficiebatur
ordinauit.Hic å Martio incipiebat,eo quod Marti fuo genitori credito, menſem
hunc dicaue rat.Numa poft Romulum quinquagin. ta dies computo huic addidit,
annum. que conſtituit 354.diebus. At. C.Cæſar Aegyptios imitatus, ad curſum
Solis, quidiebus365.& quadrante conſtituie tur,annum dirigereftuduit.
Céſorinus, & Suetonius. Solatri maioris, e Serpent arie mio
norispotentiacontraparafitos mirabilis eft. Irabilis profecto Solatri maio.
ris, fiue herbæ Bella donna radicis potentia eft: fi enim contrita, &
exiccata vnius ſcrupuli pondere per horas ſex vino infunditur,illudque
facacolatura uno homini potui datur,vt illecibum guftare nequeat,efficiet. Hoc
paraſitis idoneum eft remedium,hi'enim aperto ore,tanquãomnia deuoraturi,in
menſa cófident;fed hac via pænas luent, quip pè alios vidcbunt comedentes, ipſi
ta men inſtar Tantaliin menſa fameſcent. Vnde apud conuiuas ridiculi, &
confuſi apparebunt.Sanantur hiconfeftim ace to bibito.Idem facit radix Aron,
fiuc -minoris Serpentariæ in acetarijs recens contrita;qui enim guſtauerit,
apparebit Suffocari cibumque relinquet. Sanatur hie allio comefto. Ventorum
ortum,occafumque terre AremEchinuinmirafagacitatehomi nibuspraſagire.
*ErreftrisEchini, quiautumnalitě. pore in vineis, dumoſilque fpinis verfari
præcipuè conſueuit, in ortu oc cafuque ventorum præfagiendo mira l'eft
fagacitas.Horum porrò latibula du obusconftru &ta foraminibus, quorum
alterum Boream, alterum verò Auftrú reſpiciat,conſtructa reperiuntur. Pre fentientes
autem Boream Auſtrum,ali umve ventum fufHaturum, longè abe orum ortu, vnum vel
alterum cauernæ meatum obturant; ventorum enim cog nitio-ijs innata eft, vtab
ipſisſe tueri va Jeant.Hoc ordine Venatores Echinorú Jatibula, eorumque
fagacitatem cond derantes, nulla ſtellarum obferuatione habita, fed folum ex
cauernarum mea. tibus clauſis,velapertisVentorú indagia nem cófequentur. Ex
Plutarcho in Dialog. Animi pudorem, timoremque hu. manorumcorporum diuerfimoda
faciem alterare. agna inter animi pudorem, & ti morem cum vtrumque fit
triſti. riæ foboles, videturdiſparitas:quippe in pudorehomines facie
rubefcunt,timen tes verò pallefcunt. Natura(vt inquit Macrobius 7. Saturn. ),
cum quid ei oc currit honeſto pudore dignum, imum petendo penetrat ſanguinem,quo
conto moto diffuſoque cutis tingitur,rubora; saluitur, Thelelius auté (vt ex
Taſſone citatur M citatur) faciem in
pudore,voluit affe &iū recipere, & proinde erubeſcere. Hocà ratione
alienum haud eft, fiquidem vo lunt Philoſophi naturam pudoretacta, fanguinem,inftar
velamenti ante fe ten dere.Experientia infuperhoc docet, e rubeſcentes enim
manum fibi ante faci. em frequenter opponunt. At timentes palleſcunt,quia
natura cũ quid extrinſe. teoccurrens metuit, in profundum de. mergitur: ita
&noscum timemus,late bras quærimus, & loca occulta, Natura itaque
defcendens,vt lateat,fanguinem fecum trahit, quo demerſo dilutior cuti. humor
remanet,pallorqueſuccedit. Animaliaex putrigenita materit inmundiprimordio
minimè fuiffe. Væ ex putri materia generantur, ſex animalium genera communi ter
exiſtunt. Quædam enim, vt bibio nes, quæ ſunt minutifsima animalia,ex vini
exhalationibusfiunt,vt papiliones ex aqua.Quædã ex humorú corruptio pibus
proueniunt: vt vermes in fter core,velciſternis. Quædam ex cadaue ribus, vt
apes ex iumentis:crabrones,fi ue muſcægrandes,quæ volando ſonant. Scarabæi liue
mufcæ virides ex equis, vel canibus mortuis: fcorpius de caucti mortui
carnibus:ſerpens de medulla ſpi næ humanæ. Quædam ex lignorum pu tredine, vt
teredines, qui lunt vermek intra ligna, quando non abſcinduntur tempore debito,
exorti. Quædam ex fructuum corruptione, vt girguliones ex fabis. Quædam ex
herbarum corrup tela, vttinex.Hçc autem in mundiprin cipio immediatè à Deo
creata fuiſſe, nulla ratio confiteri cogit,cum ipſa na turaliter ex corruptione
procedant;poſt autem mundi exordium huiuſmodi ex corruptelis generationes
eueniſſe verili mile eft;Deus tamen feminarias cauſas horum materijs indidit,
fine quibusori. ri non potuiſſent.Abulenfis in Genefi 6.2. Defygis Arcadia
mortifera natura, Alexandrimorte. Circa
Gerialis. ferunt, ille, CircaNonacrinin Arcadia,fons quidá teperitur è
petraexoriés, quęStyx ab in colis appellatur, tantæ mortiferæ natu rę, vt ſumma
celeritate corrúpat corpo ra. Equidemprotinus hauſta (Seneca teſtimonio 3
quaft.natur.)induratur,in Itarque gypſi ſub humore conftringitur, & ligat
viſcera.Quia autem, nec odore, nec fapore notabilis eft,fæpè fallit, nec ea
epota,amplius remedio locus eft.Fe runt nonære,non ferro, non teſta aquí
huiuſmodi continere,necaliter quam in equi vngula ferri poſſe. Huius vemeni
potu,magnumAlexandrum in Babylo. nia fuiſſeextin & um multi ſcriptoresre
medico,ob aquę feritatem in media po tione repentè veluti telo confixusinge
muit; elatuſque (vt ait Iuſtinus) è conui yio ſemianimis, tanto dolore
cruciatus eft,vt ferrum in remedia poſceret, & è tałtu hominum velut
vulnere indole. fceret. Achores tineafque capitis,ex bufonis oleofeliciter
fanari. Dum 46 prope Luceriam Apuliæ ſemel me dicinam faceren, ibi quendam
achori bus,tineiſque per multos annos turpi. ter affe & um,cui varia
fuerant applicata temedia,omnia tamen inutiliter, prop termorbi reſiſtentiam
repperi. Tande noſtro conſilio hicele &tè ex pharmaco purgatus, folum
linimento ex oleo in quo ad exactam co &tionem Bufo fue Rana terreſtris
ebullierat, optime cura tus eft, quippe fimplici hoc remedio per paucosdies in
capitevtens, fanus, & capillatus fa & us eſt; durante autem lini mento
piliersortui,vulſellis à chirurgo extirpabantur. De Cerui lachryma, eiuſque in
ciendo fudore potentia. Antæ creditur elle efficaciæ Cerui lachryma in
Tudoreciendo, vt' li grana quinque vel ſex potui dětur, totü corpus fere folui
iudicemus.De hac lo quens.Abinzoar lib. I.tra &. 13.6.6. le tria grana Azir
filio Regij magiſtri equitum in lacte, vel aqua cucurbitæ, vel.roſatæ
exhibuiſle:retulit,illumque à virulento ictero liberaffe.Hæcautem in Ceruis
ante ceptelmum annum (teſti monio Scaligeri)nulla eft,temporis au tem proceſſu
generatur, & in iuglandis molemaccreſcit.Dicitur magnam habe read venenum
efficaciam, vt in Afia fe Hiciſsimo fucceflu fæpè experiuntur. Vires infirmorum
collapſas, odoribus refarciripoffe. Nfirmorum deperditas vires non potionibus
modò,verum atqueodo, ribus reftaurari pofſe obſesuatum eft. Aiunt enim
Democritú in dies aliquot, amicorumgratia pomi odore vitam fic bi prorogalle.
Hinc multi panem cali dum vino odorifero immerfum nari busadmouentægrorum, quem
a tem. poribus, & coſtis cataplafmatis more imponimus,vtique vires egrigie
reſti tuimus.ConciliatorApponenſis mori. búdá vitá, ex croco, & caſtoreo
cótuſis, vinoq; cómiſtis producere fecófueuifle tefta. teftatur,ſenibuſque eam compofitioné
exhibuiſſe, nullatenus olfa & u magis quam potu profuiſſe.Ferreriuslib.2.Me
thod. De olei Balnei mirifica in morbis præftantia. O Lei Balneum, vt Herodotus
anti quiſsimusmedicusprodidit, quià diuturnis affliguntur febribus, à laſsitu
dine, vel neruoſarum partium dolori bus oppreſsis,conuulfis, & vrinæ, fup
preſsis laudatiſsimum,ac ſalutare efic remedium experimur. Vidit huius pre
ſidij experientiam Heurnius in quoda extenuato, ac ferè exhauſto, dumeflet
Patauij:illum enim validiſsima occupa uerat conuulfio,at tepidi olei pleno vafe
immerſus,ac fotus fanuseuafit.In lib.no ftro de Hydron.nat. Adam & fuos
contemporaneos, perfc. etiſsimamrerumnaturalium ha buiffe cognitionem. Nter
aliasrationes, quas Abulenſis in Genef.in c.f.de longiſsima vitæ pri. morum
parentum,quiannum ferè mila Jeſimum ateingebant,retulit,hácaddux
it;quod'Adam'rerum naturalium perfe Etamà Deo cognitionem habuit.Intele lexit
enimfru & uum, herbarum,lapidú, lignorum, animalium, mineraliumque
virtutes, & do&rinam, quibus vita hv mana diutius conſeruari poterat;
quæ omnia contemporaneos,(vt ipfi etiam vitam producerent longiſsimèJedocuit.
Hæc autem cognitio, & ex diluuio, & gérium diuifione perdita
eft.Reperiun turtamenin præfentiarum multa mira bilia,naturęque ſecretiſsima
apud ſapi entes, à temporuminiuria foslitan vin dicata; quæ aliquando
hominesvidentes aut audientes, tanquam lupernaturalia opera admirantur
Rutaminter alexiteria medicamenta connumerari: Nteralexipharmaca præſidia,
Rutam minimęconditionis haud efſc perhia bent,fiquidem ieiuno ftomacho come fta
multos à veneņiviçulentia liberaſſe C. degi
legitur. Dehac Athenæus in 3.Deipn.la. quens, Archelaum Ponti Regem fuos
populos veneno interimete confue uifie fcribit, illos autem à quibufdam edo
&tos, ob id antequam è domibus ea grederentur,quotidieRutam cdere fo litos
à Tyrannicrudelitate.le.defendiffe. Solaſuſpenſione, capitiscruciatus verbenam
mitigare. Trabilis eft Verbenæ proprietas M.in dolore capitis mitigando; 'fi
quidem à Petro Foreſto traditur hoc folo præſidio quendam fuifle perſana
tum.Ille netlis remedijs, quamuis opti mis curari potuerat,non venæ ſectione,
non ſcrupis digerentibus, neque steco &tis pilulis,cucurbitulis, nec alijs
topic cis auxilijs. Cum autem nulla iuuarent semedia,ad collum
Verbenaviridisafe penſa eſt, & fanus fa & us eft,lib.9.ebſer.3.
Detkapſie virtute in fugillatis faci nandis,Neronisquecalle. ditate. Nero
Imperator in ſui Imperij ex 36 ordio Thapfiam,eiuſque excellé to tiam
magnificauit; Ille quidem dumno. & u incederet incognitus, & in multos
impetus faceret,nå ſemel facies fugitla Do ta,cutifq;livida,piftula; ab illis
fuerat. L. Confeftim hic,ex Thapfia,thure, & cem ra commiſta,linimento
ljuentem vifum collinibat,quopræſidio antelucem à fe da
ſugillationeliberabatur; dum autem die in populiconſpectu, faciem fanam
oftenderet,facinoris ſui famam, & igno. miniam occultabat. Ex Durante in
Her. 25 g. barie. I je obſtétricibus animaduerfio. præcidendo diligentia
adhibenda eft;quippefi ni mium curtè vmbilicus religatur,ætatis progreſſu
pariédi conatumreftringere, imminenti vitę periculo,poteſt. Ex M46 mbiaCornace.
De arboris ficusmirabili natura. I coctu faciles habere deſideramus, in arbore
ficus eas ſuſpendemus, ita votum noftrum procul dubio aſſeque mur: credo
forſitan ob acutum, & incil: uú odorem, quem arbor Ipirat id cauſa
ri;velforſitan occulta cæcaque proprie tate.At quod mirabiliusin huius arbo.
ris natura eft, Taurum indomitum, fe rumque in eodem alligatum manfuef cere
tradunt. Neſcio autem annaturali via propter-odorem,an aliqua antipa thia, quæ
inter talia exiftat hoc eueniat. Audiui tamenà multis vtrumqueexpe rientia
fuille confirmatum. Quomodoà vitriolo arislaminas.ex. trahere valeamus. Lui
momenti illa cognitio, quomodo à vitrioloæris lamellę extrahantur,ape riam
modum, qua facilitate id affequi valeamus.Bulliatur Romanumvitrio. lum in olla
cú aquafontis: in eaque cha lybis lamina per horæ quaternionem demergatur:
extrahito demum chaly bem, ipſumenim lamellis æris inftar suginis colligatum
habebis, quęculcro radende fút, vt alias chalybem immera. gere
pofsisznouaſquelamellas extrahe.. re. fiquidem tamdiù corradi poterunt, quouſq;
Vätrioli portio in aqua fuerit. Arrigat aures ingeniofus; quia ex hoc: minimo
principio multa, precipuèinre: medica, yrilia aſſequetur. oléum vitrioli,&fulphuris
rostris: lumbricos plurimumvalere. NITlfi magnis experimentis præſtana tiſsimum
remedium ad puerors i lumbricoscomprobalſem,haud audia. rem hic inter arcana
ſele &tà fóre repezia nendum confiteri: quippe tanta eft eiuss virtus,&
potentia, vt mortuos ferè pur erosè vermibus ad vitam trahat. Hic: induſtria
paratur,In libris ſingulis aque fontis oleifulphuris, vel vitrioli chimi.. cè
extractorum, aliquotguttulaadden dæ funt,ita vt aqua acidula frat, quæ pu
eris,natuque maioribus danda eft diù noctuque ad placitum,.e & enim præſtaa
tiſsimæ virtutis 0 T! 10 Da DeCaraba mirabili virtute invuula cafum,Amygdalaruamque
tu. mores ArtinusRulandusvirin chimicis M celeberrimus in Amygdalarum
inflāmatiene, & tumore, vuulæquecaſu ex humoribus à capite fluentibus exci
tatis ſola Carabâmirabiliaparauit-Prie mo fuffimétum cófuebat,hoc modo ex.
ceptü.Accipiebat Carabæ albiff. drach. 7.qua redacta in puluerem craſsiorem,
& carbonibus impofita,fumus per infa dibulum,ore excipiebatur ab ægro mar.
ne,meridie, & veſperi, multa vtilitate, Accipiebatetiam fermenti veteris
vnc.. & quam moreemplaftri linteolo indu cebat, afperfoque Carabæ albæ pul
uere vertici imponebat per diem,per noctem vero fequétem recens applica bat.
Quibus paucis remedijs, &ex fola: quaſi Carabayquam plurimos à fauci um
tumoribus, vuulæque cafu,Amyg dalarumque inflámationibus oppreſlos perſanauit.
Ex eiusCurationibus. Spina HorTvivs GENIALIS Spine infeftoriæ Baccas" ad.
Tenaf mumexfalfapituita expertiſsimum verumque ad illum exiftere remedium. St
mihi remedium pro Tenafmodo quadam fortafle mille kominum, qui endemiali fere
morbo hic ſugebant per fanafle quam citiſsime. Syrupum ex Baccis fpinæ ceruinæ,
fiue infectorice: Aromatario parariiufferam. Hæinfine: O & obris, cum bene
maturuerint, collie guntur, exprefloque fucco cum melle vel Zuccaro ad
formamfyrupi ducitur: additurque in fine maſticis, velzinzibes sis, anih, vel
cinamomiad drach.j.vet? in maiori dofi, fi libuerit.Datur hic fy rup.ab vnce
vſque ad duas cumpauco vino dilutus,abitemijs datur cum aqua cinamomi:epoto,
cibatur eger,parceta men, & ieiuno ftomacho, præcipiturque ne
dormiat.Equidem vna die fanaturę ger, foluitur enim aluus,abfque mole tia,
& excretis féroſis.viſcidilg; humorib. Tolo hoc preſidio integrè liberatur
C Ariet mo Arietis linguam futurum in
ouibus milanitium,commonftrare.. M Irantur multi Virgilium in 3.. nere, vt
linguam paftores conſpicere debeant, deſinant autem admirari, cau ſam enim
adducimus ex Plinio, quipro pterea Arietum ora introſpici à pafto ribus voluit,
quia cuius coloris ijlin guam habuerint, tále in fætibus gene randis
forelanitium. Audiui à multis, hocyeriſsimum reperiri. Ouis enim e. tam cum
vterum gerit,fi linguam habueritnigram nigrum pariet agnum, fi albam album,
& fic de aliis coloribus. Ridiculüm eft quod fertur; Bafilifcum
àGalliouoexclwdi.. On modo à plebeiis verum atq;: à nonnullis ftudiofis,
Bafilifcum: abouo galli veteris connaſci perhibe tur. Fingunthi ex aliquorum
fcriptorú teſtimonio, quos eriam ego perlegia: Gallo decrepito, quiſeptimum,
aut no.. olm, vel ad fummum decimum quar.. Na tum annum agat, ex putrefacto
ſemine, aut humorum illuuie altiuo tempore, ouum conflári, ex quo ab eodemfoto (vt
à Gallinis alia fouentur oua ) Bafi... liſcusoriatur.Sed hoc animal nemo vio
dit,habitat enim (auctóre Plinio ) in Aphricæ folitudinibus: proinde hæc creo
dere difficile eſt. Inſuper ſi hanc fpecie em mafculinam poſſe fætare conceſſum.
eflet, contingeret etiam inalijs, quod minimèobſeruamus. Mihi aliquotoua: in
experimentum à mulierculis allata fünt, dicentibusGallum peperiſſe: erát
oblonga,& in caudam ſerpentis quibuſ dá nodulis terminabátur:at hæc à
Gallie nisex plurium ouorum minutorů col ligatura (cu kuperfætatione,non autem
a Gallis fieri dixi. Homines ex impromiſo Lupi afpects: veluti mutosdo;
attonitos fieri. Vlgatiſsimum illud eft, hominesex improuiſo Lupi aſpectuadeo
mutos& attonitos fieri,vt nec fari, nec vociferari valeant. A Lupiquadá prietate
id fieri aſlerunt, contenderse tes Lupum,fiprior obuium quempiam
conſpexeritillico vocem adimere, can demque illum luere pænarn,ſiab homis ne
prius videatur. Ad hænugæ ſuot.Si quidem ex terribilişimprouiloqueLu.. pi aſpe
&tu,homines terreri, timoteque concutiqveriſimile eft: ex timore autem:
valido mébra frigefieri ex raptu ad in teriora fpirituum,inde corporis, &
ar.. tuum fieri impedimentu, vociſque pri uationem mirum non eft.Alijalia fin
gunt, mihi autem hęc omnia ad folum timorem,tanquamad caufam proporti Onatam
reducere viſum eſt.. Multa facinoraàMagisanicalis perpetrari pole. Etulit
Leonardus Vairus lib.1.de: Faſcino multas hac noftra tempe fate exiſtere
aniculas, quarum impurie tate,nonpaucos effaſcinari pueros illofa quenonmodoin
grauiſsimum incidere diſcrimen,verum etiam acerbam fæpiſe fimè ſubire mortem.
Pecudes inſuper: partuqalacte priuari,equospacreſcene R Falcin Cquote &
emorislegetes abſque fructu colligi, arbores arefcere;ac denique omnia per ſum
ire quandoque videri, AFucovulnera illata,Muſcis contri tisbreuifpatio
perſanari.. " Vm quadam die apud amicos alie, quot cómorarer,& læti in
měla de more varia confabularemur; ecce vous ex ijs in ſuperiori labro à Fuco
animali vulneratur,quo morſu ſtatim intumuit vulnus,cum maximo patientis
dolore, Amici in riſum ſoli, patientismedelam minimeprocurabant.Ego quidem
alias morfus hos curafle recordabar; quare confeftim, vt nonnullas muſcas
feruus meus caperet, iulli, quas contritas, dum fupermorfū
impofuiſset,breuidolorie datuseſt;.tumorq, cúmaximapatientis lætitia;aliorúg,
admiratione detumuit, Quafacilitate vlcera formicantia dan cacoëthica
fanarivaleant. Vidam amicus meus, cumir Hya pochondrijs,vicera formicátia,pra
maque, quæ à nonnullis vermes dicun Q tur,paffus eſſet, ſauitatcm,poftmultat do
& ifsimis medicis tētạta remedia, ac. quirere non potuit:ylcera enim licet
fac pari viderentur;renouationem tamen continuo recipiebanta,Vltimò poftan..
nos,& menfes in empiricum chirurgum incidit:quipaucorum dierum ſpatioita
hominem perſänauit. Abluebat primo vlcera albo vino,tum ex - patellis -mari-.
nis puluerem, fiue cinerem Ex Corici bus(exemptis interioribus) couſperge-.
bat,vltimoherba marina vlcera coope riebat; faſciaque premebat, femel in die
hoc vſus remedio vigintidierum fpatio, ægerconualuit. Procurauit arcanum a..
micus, & mihi fideliter communicauit, Fallſsimumeft, quod fertur Viperă o
coitu mafculumoccidere,ipfamque asfuis.catultsinpartunecarie LAG Grauiſsimis au
& oribusaffirma, mine) maſculi caput'abſcindere (ille.n.. infæminæ os caput
inferit ) & fic củoca. sidere, ſed poenam täti facti illam luere. ſiquia fiquidem
Viperinicaruliconcepti, gra-. Jiores facti vifceramatris cofrodunt,e am que
occidunt. Sic voluit Plinius lib. 10.&Nicander in Thoriacis, quare Vipe.
ram aiunt diciab co, quod vi pereat,aut vipariat.vtrumque autem falfifsimum
effe, & experientia, & grauiſsimorum e. tiam ſcriptorum auctoritate
cognitum eſt.Apollonius apud Philoftratum Vi... peram aliquando viſam fuiffe
catulos ſuos; quos peperiſſet lambere, & expolire aſſeruit. Bodinus in
nat.theatr.lib. 33 in Gallia,ad Clapum Pictauorú flumen, vbi
Viperæfrequentiores ſunt, vtriuſq. fexus viperas lagenis vitreis inclufas fu
iffe reculit;illafque peperife, & conce piſle vtroq; parente fuperſtite,
Matthi olurs ex. Obferuatione FerdinandiIm perati Neapol.Pharmacopolæ Viperam
parere catulos ſuos, & non occidiafts-, ruit;catuloſque-non viſcera
matris,led membranas quibns incladuntur diſrúa pere. Quarerectiusſentimus,fi
Vipera non à vi parere,vel perire dicimus,fed quafit quaſ Viuiparam, quod non
oua, vtcæ.. teri ſerpentes, ſed viuum animal pariat. Iraulos, balbos, &
femilingues fieri ob nimiam cerebri bumiditatem, VA communiseft fententia ab
expe rientiaalienumreperitur. Rauli, & Balbi non ob cerebri hus midam
intemperiem fiunt, vt ferè omnes autumant; inueniuntur enim hi' modo
calidi,modo frigidi,modo humi di,vel ficci, vt & reliqui, qui nec Traus
li,nec Balbi funt;imò & hi modo (putis " abundant; modo ijs
carent:quare non ob bumiditatem nimiam cerebri buiure modi Traulos-& Balbos
fieri, fed obt varietatem mearuum, in intrimentis; pertinentibusad locutionem
exiftenti um, docuit experientia.Porrò Trauli, qui literam R.exprimere nequcunt,
in media palatiregione, vbi quartum eſt osfuperiorismaxilta, duo inueniuntur
foramina, quæ nullo modo adeo aperta & obuia sút, vt ijs, qui optime
loquútur, Balbis veròiuxta dentes maioraobſer. samus foramina,per quæ ſtillans
pitui ta,linguamque irrigans in parte illa an. teriori,bleſam locutionem facit;;
vnde bleſi, & ſemilingues fiunt: quod fi hæc non eflent haud balbutarent,
licet à ca pite copiofa defcéderet pituita, vtmul tis contingit, quiex hac
tamné balbi non fiunt.Quare fententiaHippocratis2.A phor.32.malè verificatur,
cum afferit, balbos ob frigidam, humidamque ca pitis intemperiem fluxu tentari:
Auxio. enim talis & Balbis, & non Balbis fuc cedit: concurrit tamen hæc
fluxio, vt caufa remota, qua aliquando cum pro zima,dicitur affe &tum
facere poffe, fi. iunctatuerit:: fola autem facere nequit. vemale
Hippocrates,& alijopinati ſunt ExSanctorio Sander.de pit.en.lib.3.
Morbosperniciofos; velmortem,veb affectus longitudineminducere. Jana ciuitate,
& in circum vicinis propè Neapolim perniciofifsimi orto funtmorbi,vbiſectis
aliquibus corpo, tibus, eorum Ventriculus bilis copiaz, vitellinæ plenus
inuentuseft, eiuſque: tunicæ, & inteſtina eodem colore per tincta viſa
ſunt. Meatusqui ad fellis; chiftim protendit, ab humoribuscraf fis, viſcoſis,
& tenacibus obftru & us ea. rat. Fellis veſica diſſecta, bilis flaua
haud inuenta eſt; fed eius vice atra, & inſtar atramenti nigerrima.Hepar
quo ad externam partem album erat, in in terna autem nigrum, &atrum, veluti
carbo accenſus, & extindus. Langueno tes,in febrium initio,vomitu,
&nauſea, moleftabantur. Eorum lotia craſla icte. rica, & fubrubra
ſemper erant. Omnes. ferè erant icterici, & longo tempore,ſi: qui
euadebant,indigebant, vt fanitatem acquirerent, Ex -Io. Bapt:Cauallario deMore
bo Nolano, ſeu demorbo epidemiali Lupicur paucireperiantur, ouess autem multa
Tidetur quafi abftrufum illud quxar, aucs autem multæ?'profecto in partu plures
lupaedit catulos,quamouis,quæ vnicum, vt plurimum parit; Inſuper o. ues, &
agni in hominú alimoniam con tinuo occiduntur; luporum autem caro eſui apta non
probatur; nihilominus Q. ues-agni, & arietes ſemper in maioriny mero
reperiuntur, quă lupi.Huius cau fa, prima eftDei bonitas, qui tam imma ne
animal in eius ſpecie excrefcere non permittit, in facra enim Gen. c. 7.Noe, vt
ex omnibus animantibusnūdis fepa, tena, & feptenamaſculum, & foeminam
in arcam tolleret monituseft:ex immu dis vero duo, & duomaſculum, & foe
minam. Secunda cauſa luporum eft faga citas, & in propriam
ſpeciemimmanitas. Hi enim;cum rationesviuedi deficiunt, ob cibi inopiam in
multo numero con ueniunt:atque in circulo vnus poft aliú currit;vt apud vulgum
á villicisparatur ludus,diciturque Řotalupo;primusau tem,qui viribus
deſtirutus, currere ne. quit &in terram cadit,fit aliorum cibus,
renouaturque ludus ad omnium faturi taté.Hæceſt poitísimaratio huius ſpeci Vhelin
ei decremen i, alius enim comedit alii um. Ex Aeliano vt reor, Antimonij in vitrum
reductio, eiuſ quevires in medicina. 7ltri ſtibium,quod in longis, & dif
ficilibus morbis propinatur, in e. pilepfia fcilicet,melarcholia,podagra,
elephanticis, reſolutione, in febribus quotidianis,tertianis, &
quartanis,peſti fentia correptis, venenatis, hydropicis, tæphaleis, ictericis,
& fimilibus; robu ſtis tamen corporibus, ita præparatur. Stibiū, quod ex
auri fodinis colligitur, in puluerem tenuiflimum contunditur, teriturq; &
fupra ignem in fi &tilio, rude ferrea,aut cochleari continuo agitando
vritur, vſquedum omnis humor,ac fu mus euaneſcat, quod in ſex,aut octo ho rarum
fpatio expeditur:deinde calx có teritur, carilloque impoſita,in fornacē inter
candentes carbones collocatur, & igne luculentiſsimo vrgetur,dū liqueſ. cat
picisiftar,poftea ſuper marnorfun ditur,atq; fic ex Stibij vncirs duodecim, vitri
ipfius hyacinthi modo pellucidi, wacja M vncias quinque coliges. Andernacus Co
ment-z.Dialog.7.de nou. vet.med. Solo Metronchita auxilio mulieres
offepragnantes (omiſsis ceterisindio cys)experimur. Vlta apud fcriptores,
quibusin primis menfibus mulieré præge nantem comprehendere valeamus, inu.
dicia reperiuntur.Dienntmulti,lorij tab. fpe &tione grauidas nofci;fillud
album, clarumque fuerit,in eoque atomi afcen dentes, &
defcendentesapparuerint. Alt ex ſuppreſsis menſibus,deie &to appeti. tu,vomitu,
& nauſea ante prandiumid conſequuntur.Nonnulliex la & te in.ma
millis,ex arterijs gulæ fi plus iuſto pul fant,ex lentiginibus,fi in mulieris
facie oriútur,ex tumefa & is mámillis, & a ful co earú capitú colore
pregnátes venatur. Cæteri tú ex his, tú ex pódese circa pe dé,ex: vmbilici
egreſſu, ſiin dies fit ma ior, ex tumefa &tis venis, quæ vidétur in nariú
angulis iuxta lachrimalia. Obfte trices.digitisexperiútur an vteriorificiáfue-fat
claufum, vel apertum, ex claufo te nim grauidationem patefaciunt. Non défunt
alij, qui Hippocratis Aphorifs mis confiſi hydromel, & fuffumigia e x
periuntur,epoto enim hydromelle poſt cenam, fi tormina fequentur arguunt
prægnantem eſſe mulierem.-Siilia fuf fumigio acuta per pudenda vfa fuerit,
fiadnaresodores non perueniunt ', in dicant vtero eſſe gerentem.Hæc autem
figna, quia pathognomica non funt ve lúti futilia reijcimus,& tanquam
abſurdaad meros Empiricos committimus. Nonenim ex lótij afpe & u vere mulie
rem efle prægnantem diuinare poſlumus,nam meatus vrinarius cum vtero:
nihilcommunehabet,lotijque claritasy; albedo,& bulloſa granula in eo,poflunt
morbosetiam ſignificare, vtin cachochimo corpore ſæpius obſeruamus; hoc itaque
indicium prægnantium verum non eſt:Nonexmenſibus ſuppreſsis,nó ex vomita,
&nauſea, ſiue appetitus de iectione hoc conſequimur: quia affc & i
oneshęc ex multiscaufis, in m ulieribus, quæ pregnantes non funt, affe
&tiones e uenirepoffunt. Non ex lacte in mam millis; quia id etiá virgines
habere pof Lunt,vt voluit Hippocr.Inſuper inult mulieresin primis
menfibuslacinon ha bent: lacergo non eſt grauidationis ved irum indicium
Pulſatio arteriarum gule, ſolito crebrior conceptum peculiariter haud
arguit,quia ex retentismenfibus, {plenis & ventris tumore & ex pituita
in -pe &tore colle &ta etiam fieri poteft.Len tigenes non in folo
conceptuapparent,:: quippeſignumihoc,neque omnibus,nes queſemper competit,
& in nonprægnā. tibusetiamifta fiunt.Mammillæ tumes fa &tæ,earumque
capitum fuſcus color, communiafignafunt &retentis menfi bus,&
prægnantibus.Pondus circa pe & en,non in grauidismodò fed, in rete tis
menfibus, in mola, & veficæ calculo obſeruatur, Ymbilici egreffusex mul 6
tis caufis præter naturam fieripoteſt,nó ergo peculiare grauidarú indicium eft,
Yenæ tumefadęin nariú angulis iuxta lachrimalia, non in grauidis.modo ap 7 parent,
fed in quolibet abdomin's &fplenis tumore,& in occlulis menfi bus.
Obſtetrices anatomiæ ignaræ de queunt intimumVteri orificium tange
sc,licetmanibuscontractent,illud enim valdeà labijs matricis diftás eft,ipfe au
té externá Vteri tantummodo orifici um tractare poffunt, quod femper, &
grauidis, & non grauidis apertum ma net, experimentum Hippocratisde hy
dromelle, & acuto luftumigio non æter næveritatis eft, vtGalenus &
Auicenna comprobarunt. His itaque indicijs vere conceptum explorari non pofle
expla natumeft.cognoſcimus tamen ſigno e uidenti & infallibili indicio
prægnan tes mulieresin primismenfibusMitren chitæ fue Specilli, quo liquores in
Vte rum inijciuntur,auxilio.hoc apud vete. resin magno vſu erat. Profecto;li
illius in foramen Vteriexternum apicemin. mittimus, quod fumma cum dexterita te
finiftræ manusdigito indice inuenie. mus non enim quilibet inexpertus in
yenirefciet, eft ſiquidem externum V. çeri foramé in vuluæ apice particula obe
longa, & duriuſcula, quæ exigui penis puerorum exprimit imaginem)ſi ex pice
ſpecilli liquor aliquis fuauiſsimus ficut efle vini tenuiſsimi pauxillumine
forte exiſtente coneep'u fequatur:abt ortus) exprimitur, breui tractu votum I
affequemur, Sienim obturatum eſt in timum vteri foramen, quod fit concep tu
pera & o liquor Vterum non ingredi gur,& mulier faftidij njhil
perfentiet. Sin autem ex intromiſlo liquore velli, cationem paruam pertulerit
mulier: quod facile fiet ex maximo ſenſu parti um vteri,vưiquegrauida non erit;
& V teri intimum foramenapertum reperiea tür, vt experientia liquoris
oftendet. Sand.Sanctor.lib.1.de vitand error. Periculofum eft pifces frixesin
humido locarefor matos fomedere; Nter magna venena piſciú frixorú,
quireſeruantur inhumido, vel qui Aeterint cooperti calido vaſculo, eſus eft;bi
enim in lethiferú cómutantur ver nenú, &fymptomata pernicioforú fun gorum
corporibus inferút, quæ quan doq; non ftatim,ſed poft diem, vel bi duum
eueniunt: oportet igitur frixos pifces in loco aperto,vtfrigeant, demita tere,
fi venenimalitiam cupimus euita re.Ex ArnoldoVittan.lib.de venenis, 10. Lałtis
balneum procorporis decoratie onemultum præftare. Pud veteres lactis Balneum
max A idve vu, illiusfiquidem lotione,corpora, & candore, & venuſta te
vigebant. Hinc memoriæ proditum eſt Poppeiam Neronis vxorem quin gentas ſecum
aſellas ducere conſueuifle, quarü lacte,vt candefieret, totü corpus
balneabatur. Mercurialis de Decoratione. Germantantiquitùs corporis firmi
tadinimaximèvacabant. M Agna profe &to faude Germano rum conſuetudo,digna
iudicatur in corporum hominum vigore confir mando:ijenim legem habuerunt,neant
te ætatis vigelimum annum, quiſpianti Venereis amplexibus commiſceretur, recte
exiftimantes corporum viresà nim mis tempeſtivo coitu eneruari.Cefar 6. de
belloGalico. Fæminas vtero gerentes, libenter: marem admittere:bruta autem
grauida nequaquam. ! Olie Vam diſsideatmulier à brutis gra uidationis tempore,
bene nouit A rift.7.de biſt. animal. cap. 4. Hæc enim ſigrauida clt, marem
admittit,brutoru vero omniumſola equa coitum patitur à conceptų, reliqua
autemminime. Ma nifeftifsimum eſthoc in ſpeciehumana mulierem grauidam coitum
pati, & ap petere. Cicutam,vterinum furoremex ": tinguere. Icet cicuta
inter frigida connume. retur venena, præcipuè quæ in quis, &lacubus
inuenitur,furoris tamen vterini, fiue Satyriaſis remedium it. Hic affectus
Veneris eſt immoderatus appetitus, cum vteriardore, & delirio, Narrat Diuus
Baſilius quaſdam vidifle fæminas, quæ Cicutæ potione rabioſas capiditates
extinxerunt.Hoc legiturs. Liebe Homil.fup.Hexaemeron,cuiusverbanotr nulli
intelligunt de ciborum appetitu, ego tamen potiusadfurorem vterinum, &ad
renereos incentiuosappetitus de ducerem, cuius auxilio compefcuntur: quippe
Athenienſes facerdotes cicutæ vfu,libidinisincendia extinguere con
ſueuiſſeproditum eſt. Variolas &morbillosmorbos effe no yos, &
hereditaria, &paterna prom prietate vagari. Agna eft difcordia inter
feripto, origine. Aflerunt multi, hos fub nomi neexanthematum, veteres
intellexiſſe, cauſaſque illorum reliquias efle excre mentifanguinis menftrui,
quo nutriun fur fætusin vtero, & naturam, fiue calo. remnaturalem, ita
exprimunt materiá, & efficientem. Alij minimeà veteribus fuille cognitos
volunt, digladiantur que:num vitio.coli,vel ab internis cor. poris principijs
apparuerint: quippe Arabes, quorú tempore cæpiffe hic mor buscreditur, eos
peftem efle, fierique in pefte, & à corrupto cælo contendunt. de Equidem
ante Arabum tempora nul lus-reperitur au & or, à quo morbos hos LT aut
generatos, aut clare explicatos ha beamus.Proptereamulti latini, &non nulli
inter ipſos Arabes, propter labem menſtrualem, lactis corruptionem, vi &tus
rationem, & alias cauſas fieri fcrip ferunt.In tanta rerú difficultate,
& ob > fcuritate.Hieronymus Mercurialis vir d octiſsimus, hosefle
morbos hæridita o rios,ortúqueà cæli vitio temporeſcrip e torum Arabum, &
proinde à veteribus haud fuifle cognitos enucleauit. Adhu ius viri opinionem
libenter deuenie, quippęſi à menftruivitio, homines in ficerentur, quia hocab
Euæ peccato à mundiorigine fempiternum fuit,debu iffent homines hac menftruorum
labe conta&i ſemper Variolas, & Morbillos pari,tamcn vec inprimaætate,
nec poſt Noe,nec ante ſcriptores Arabes quem piam hos habuiſle, apertè legitur.
Aperiunt iſtorú fundamentum efleiro walidú bruta fanguinea,hæc enim (teſti
monio Arift.6.de hiſtor.animal. 18. ) mé ſtruas purgationes habent, & inter
cæte. ra Equus,Canis, & Alinus,tamen hæc à Variolis, & Morbillis non
tentantur. At quodhuius reimagis negotium conua lidat,eft,Indosante
Hifpanorútranſitú nequaquã Variolas paſſos, dirco non à reliquiis nutrimentià
menſtruo fangui ne,velab iſtius excremento ortú ducunt Morbilli; quia ſià tali
fuifsét variolarú, morbillorúq; origines,vtiq;ij hos mor bos experti fuiſſent.
Legitur apud Ra mufiúIndiæ incolas,vitioCęliplurimos Variolis fuiffe extinctos,
eoq;tempore, quo noftriáb illis gallicam luem accepe runt, cordemmet viciſsim à
noftris Va riolas, & Morbillos recepiſſe.Suntergo hi morbi noui à Cælo
productiprimò, cuius vitio adco homines fædati funt, vtin pofterosper
hæreditatem maliſée minarias cauſas tranſmittant, proinde morbi hæreditarij
dici merentur, quia paterna proprietate vagantur. Ex Mer. caridi. A1 th
Dearaneorum telis,earumque ufuo inmedicina. Iro artificio Araneus telas ordi M
tur, quibusmufcaspro vi&u ta. piat, hasad Tertianę febris circuitusde
pellendos,multi præftantes, & celébres tempeftatis noſtremedici,non fine
feli ci fucceflu in vfum præſtitere:fiquidem exiis, & populeo vnguento
pilulas pam rant,corporiſque locis,horisaliquot an, - te acceſsionem,in quibus
arteriariume uidens deprehenditur pulfátio, colligātas &relinquunt; indė
votum conſequun. tur. Ioannes Moibanus. - Natur& cautela inmenftrualimulier
rum fanguine purgandomaxi-, ma eft, MalenAgna eſt, in depurandis femina rum
corporibus à menſtruali luc, naturæ fagacitas; quippe fi oculos habuerit
meatus, quibus lingulis men fibus illam deponere conſueuerit,nouas adi illius
expulfionem vias molitur. Proptera.multæ, ex oculis cruentas, laie.
chrymas,aliæ ex narium venis farguinis profluuium emisêre,nonnullæ ſputa ru
bentia pafſæ ſuntin menftruorum cefla tione.Ipfein quadam ancilla noſtra, cui
menſtrua occlufa erant, ex gingiuisſan guinem profundere obferuati.Atquod
magnam infert admirationem, multæ per minimum manusdigitum,& per an nularem
fingulis menfibusfanguinis fu. fionem habuerunt,vt in religiofa qua dama
foeminanon menſtruante ter in fin niſtra manu Ludouicus Mercatus fami. geratus
medicus obferuauit. Inter rutam do braſsicam nullam imao effe antipathiam.
Xſèriptoribus in re ruſtica malti, fi. fecus rutam feratur, braſsicam illico
arefcere tradunt. Aliam von adducant cauſam, & rationem, quam antipathiam,
& diſparitatem quandam inter talium naturam.F utile autem eſt hotum argua.
mentum, nulla enim inter rutam, & braſsicam.contrarietas eft, quia tamen
alte. Elec NO altera prope alteram
areſcit, id in cauſam eſle poteft,quiavtraque calida, & ficca - eft, inde
facile euenire poteft, vt ob humiditátis inopiam altera, vel amba i ariditate
perdantur. Pediculos morientium corpora miris Jagacitate relinquere. on leue à
Medicis præfagium à pediculis in grauibus hominum valetudinibusſumitur. Hi
profe &to in moritüris; quandờadeo intenfà eft huis morum corruptela, ve
calor innaus re foluatur, vel putreſcat, circaventricule regionem, vel
fub-mento, vbi maior eft " ealiditas congregantur,parteſque extrbó mas,
tanquam calore proprio orbatasderelinquunt. Quodcalorem proprium penitus
exſolui cognouerint, ab infirmi corpore mira celeritate longius abeſle:
confpiciuntur. Lemnius. De Achatis lapidismirabili. natura A Chates lapis, qui
ex India fertur, tum coloribus diuerſis, tum ve D4 piss TA m nis variari confpicitur, ex quorum in..
terſectione diuerlæ imagines multoties, fabricamtur.Quod autem mirabilius eft,
nuncferarum genera, flores, aut nemo ra,nuncvolucres, autRegum naturales, hic
lapis portendir effigies: quippe fer tur in Achate Pyrrhi Regis, & capuri,
& feptem arbores in quadam planitie ap parentes extitiſſe, Ex Camillo Leonardo
de. lapidib. Ferarum natura in hominibus mie rum in modum deteftanda.. On eſt à
ratione alienum, quod de Attila circumfertur, quod Canis more latraſſet: quippe
Ioannes; Langius clari nominis medicus ab equi-. tibusComitis Palatini
feaudiuifle retu lit, quod in Auftria homine, qui latra. tu,ac curlus
pernicitatecumcanibus co tenderet, & cũillisin ſyluis illæfus ve
naretur,vidiffent. Hæcauténaturaabfq; dubio deteſtanda eft, quippe tales. im
manes ſunt, & in hominum occiſiones procliues, vtAttila crudeliſsimus fuit,
NRege in es Ees & in viuentium cædes pronus, à quo tot Vrbes, & populi
vaſtati ſunt.. Non modòinfæminaslaſcinire homi: nesverum, etiam brutacernuntur.
Omines laſciuire in fæminas, nec nouum,nec inauditum eft cum anebo fub humana
fpecie contineantur. Quod autem bruta in eafdem laſciuiant, mirabile
eft,Plutarchus in Dialog. Ele phantem in Alexandria fæminam qua- - dam,quæ
coronas ſutiles componebat, fuiffeque Ariſtophano Grammatico rio ualem,
adamaſſe retulit: A micę,per pla team tranſiens Elephas,&poma, & frum
& us donabat, multiſque indicijs, & a morem, & ad fervitutem
promptitudi nem declarabat,læpeque à latereafside bat, & laſciuè mammarum
loca tange bat,Serpens etiam quidam (teſtimonio eiuſdem )puellam ardentiſsimè
adama uit,no & u ad illam accedebat, placide. - que amplectebatur, &à
latere dormie bat, luce autem aduentante nulla illata kelione
diſcedebat.Parentes,ne à ſerpé tele. t n itas te læderetur, aliò puellam
afportarunt: Ille autem ad amicam vltimo peruenit, quá
nonmorefolito'amplexa,ſed qui dam amantium ira in illam irruit, ma nuſquepuellæ
nodis vinciens,caudæ exe tremitate amicæ tibias verberebat, profecto præreritę
fügæ,atqueablentiæ: iniuriam vlcifci videbatur: Quomodofamine vterogerentes:
conceptumvaleantoccultare. Aximam Sabini cuiuſdam Roe mani vxoris in occultando
conceptu referam ſagacitatem, quo præfi dioaliæ confimiliter,fi optabuntfæmiö.
næ à conceptionis.indicijs faciliter oe cultabuntur.Illa quidé dû aliæ
mulieres; fecum lauabantur ventris tumorem ce.. Jare cupiens, vnguento, quo
ruffas, & aureascomas.reddebat,ab vtero corpus vniuerſumlinire folebat.
Illius erat vis pinguitudinem, ſiue carnis inffationem, aut laxitatem efficere,
propterea com. Go: lange in corporis particulis vtebatur, Hlud
tumeftumrepletumque redde MA bat, ventriſque tumorem ' occultabat. Parabatur(vt'
puto )'vnguentum ex res bus rubificairtibus,& puftulas inducend tibus,calcefcilicet,auripigmento,
tiap s. fia, & lulphure, hæc enim alijs rebus co --- mifta veteres ad
capillorum cultum cad 1 piebát,ſin a.in aliqua corporisparticula applicantur ex
magna caloris vijaut hu mores ex alto ad fummum:trahuntur; aut ipfis
fuſis.gignuntur:flatus cutis, & extima corporisſuperficies attollitur,
& in maiorem molem ducitur.Ex Plutarc... inlib - epwTikā. Fructuum,
vinearum,iumentorumga interitus praſagium. Agnun à mori germinatione ca
Lpiturpræſagium, mörus enim. ideo à Theophraſto prudentiſsima vocatur, quia
omnium nouiſsima gera minat, & pruinis non tangitur: Idcirco fructus, &
Vineæ à mori germia minationeà pruinis liberi fünt. Ea tam menquando à pruina
lædi contingit(fia: D G quidemosi M Ty & fiquidem læſam in Aegypto, vt in
pſala mo77 legimusMoyfis, tempore prodia tur fuiſſe )Colimaximamarguitintema
periem,& proinde fructuum, vinearum. que interitum declarat.Atmaius ab vl.
mo &perſicopræfagium capimus, quip pèvlmi, & perfici, folia, præter
tempus decidentia,peftem inomniiumentorű,. &pecuino genere præfagiűt. Ex
Cardano., Fætoremextinéta, lucerna vteroge Trentibus,infeftumeffe,& ini.
micuin... Dor extinctæ lucernægrauis,adeo tur, vt in abortum faciliter
conducat. Id: alleruit Ariſtot.8.de hiſt. animal.c.24. vbi non modo mulierés
grauidas,,verú. didit.Profecto malus odor fi odor. fi prægnana. tjú corpora
ingreditur, quia fætus im becilliseft, & à quolibet alteråtur,facili
negotio inficitur, eius caro tenerrima, & ſpiritus inde abortusſequitur..
At no Kemelextinctalucernæ fætor perniciē. quoque Ila He 4 i quoquc hominibus
attulit, vt carbones in cameris teſtudinatis facere accenficó. fueuerunt. Duos
monachos retulit Pe. trus Foreftus in obferunt. medicin..cum nodu cellam
ceruiliariamintrașent, vt fæcem cbullientem exportarent,(fortè candela extincta
)cum exitum non inue nirent,ſuffocatosfuiffe,ac mancmortu. os effe inuentos.
Infania,&furori àfolanofluatico contrattis vinum potentiſsimnmfora gulare
eſe prafidium. Olamur. fyluaticum, quodà multis Belladonna dicitur,tantæ eft
immani tatis,vtinlaniam, &furorem hominibus eiusacinos.comedentibusinducat,
AC cidit cuidam (referente. Hieron. Trago dib.i.hiftor. ftirp.) quiin fylua
plantam vi. derat talis calus: hicmultos decerpfit acinos, & deuorauit:
altera verò die in tantam inſaniam,& furorem deuenit, vt plerique illum à
Dæmone obſeſlú cre derent.Intellecto tamenmorbo, vinum fortiſsimumà. Trago illi
propinatum Spelaria D? esto) eft, quo
facto conſopitus,paulòpoft con ualuit, & abfquelslione vixit, Lolium
tritico ", alýſque cerealibus: commiftum varia hominibusfymptom mata
attulille. Anis,in quo- lolium fuerit, ſtuporem quendam,ac veluti temulentiam
efi tantibusparit cum fòmno inexpugna. bili.Id Gatenus afferuit lib.1.de
Aliment: facult.Etenim (inquit )cum anni confti tutio praua afiquando fuiffet,
lolium tritico affatim ispaſci contigit, quo haud feparato, quod paucus effet
tritici prouentus ftatim quidem multis caput dolere cæpit ineunte æſtate in
cutemula torum,qui comederant vlcera; & alia fymptomatafunt fubfequuta, quæ
fuc corum.prauitatem indicabant, Lolijta. mennocumento acetum efle præſenta
Deum remedium iudicatur. Quare tum Htritico,tum abalijs feminibus cerealio
busdiligenterloliumfeparandum eſt. Scorpio Scorpioidem herbam Scorpionum: iltus
feliciter fanara. Irabilis eft herbæ Scorpioidis in: M Scorpiones potentia,illi
quidem huius tactu,exocculta diſcordia exani. mantur, &intermoriuntur,
tantam in ter eosanthiphatiam natura indidit.As' quodmirabilius eſt exanimati
Scorpi. ones,fi Hellebori albi radice tanguntur; ad vitamreuocantur.
Propterea.Scorpi oides,Scorpionum ictibus impoſita fe liciter & citilsimè
illorum virus mor, - tificat,viculque perſanat ex, cuius prz. tentancain illos
virtute à Scorpione now. men fumpfit, & Scorpioidesdi&ta eft.
Mirabilesin biomiwibus proprietatesquase doger adfuiffe. Dmiranda profe &to
in homini bus quandoque vifa funt. Regem Pyrrhum aiuntpollicemindextro pede
natura habuifle, cuius, taču lies nelis medebatur: bunc cremari eum religae A
réliquo corpore haud potuifle perhibet.. De Samplone legitur infacrisLitteris,
quod in capillitio mirabilem contineret virtutem, qua aduerfis quibuslibet re
fiftere audebat. Veſpaſianūtactu.& fali ua, & fine his quandoquenon
paucis af feátibusmedicatumeffe tradunt.Ego e. quidem idiotam cognoui hominē,
qui Ipuitione ſola in osinfirmi ranulas per fanabat, &licet primoafpe &
u a&u De Monisid perfeciffe dubitauerim, quieui tamen,cum fimpliciter
curamagere illú: cognouerim. Dolorem colicum Bubulo ftercore per Sanari. Agnam
Bubulo ſtercori" dolorem colicum fanandi indidit efficaciamquippè apud
fcriptores legi, & à fide dignis audiuiffe viris afferit Geſnerus, illius
potu complures ruſti.. cos fuiſſe liberatos,qui enim ftercus ari dú in iuſculo
bibit, ftatim fanatur. Hinc apud multos mosortus eft,vt nonnulli nonmodo ipſum
excremét aridum,ve rum. 1 E1 uum recens,
& expreflum iufculis ebi bant, & melius habeant. Ego quidéru fticis
tantummodo remedium præbe rem, nobilibus vero, ne nausean indu cerem,non
auderem,cum nobiliora pro ijs habeamus præfidia, ſufficerent tali.. bus ex
eodem ftercore cataplafmata, vt enim reor,ex proprietate tale auxilium colico
dolore vexatis,ſubire confueuit. Epilepſiamfrumafqueverbena ako xilio
evaneſcere. Aturalis Magiæ profeſſoresverbes: nam (Sole Arietemi ) colle &
am graniſque pæoniæ fociatam, contritam, & ex vino albo hauftam per colato,
epilepticosinftar miraculi fana. re prodidere.Hoc exHermetetraditur.
Nop.minoreft ejuſdem radicis efficacia, quippe collo eius appenfa, qui ſtrumas,
patitur,mirū,ac infperatum adfert pra fidiumReferunt Aſtrologi hanc Vene ri
effe dicatú, ffrumaſque delere,quod Veneri ancilletur, quæ collo præeft,
propter Taurum eius domicilium.. Ex. Durante inHerb. N 1 1 1 1 i Arbores
quandoque in lapides commutantur: N Danico mari, iuxta Lubecenfem vrbem Alberti
Magni'ætate, arboris ramus inkientus eft cum Nido, & pullis, qui cum in
lapidem omnes, cum arboré & nido eflent conuerfi,purpureum ta = men,(vtipfe
retulit Jadhuc colorem fa um retinebant. Georgius Agricola eti am memoriæ
tradidit,in Elpogano tra étu, iuxta oppidum à Falconibus cog nominatum, Abietes
integras cum cor tice in lapides verſås elle,atque, quod maius eft, in
rimisetiam porphyritidem Japidem continuifle, quod maximè foc Tertiſsimæ naturæ
operibus tribuen dum eſt. Bardanamaiorcum mulieris piero magnam baber
ſympathiami quæ MPerfomatia diciturinmulieris yra rum, magnaque eft cum illo
eius fym. pathia, quippe illius foliun lämmo ca. pite geftatum matricem furſum
tollit, fub planta pedis deorſum. Propterea huiufmodipræfidium aduerſus matri
cis ſuffocationes,præcipitationes, ac tiſo locationes præſtantiſsimum à multis
iudicatur. Ex Mizaldo, Quomodo literas axrei colorispinger. valeanks. VI T
literas aurei coloris habere pole fimus,auri ſolia quot libuerit, eli gemus
quibns mellis tres vel quatuor guttas miſcebimus, hæc infimul conte renda funt.
ad vnguenti fpiſsitudinem, in ofleoque vaſculo conferuanda, Cum autem ad
ſcribendum.huiuſmodi mir ftura vti volumus,aquæ gemmaræ ali quid addendum eſt;
vt operi liquorap tior exiftat:ita profe & ò litteras habebi.
musincomparabiles. Ex Alex. Pedemono Lano. Qyomodoveftigia; & défórmitates
vario lis,&morbillis bomines poſsint. euitari. Ne 92 E morbillos. in facie, corporeque hominum
remaneant, expertifsimum apud me, quod in publicam vtilitatem placuit
aperire,eftpreſidium,quo vten tes pueri puella quedeformidate, quæ ab ijs
relinquitur, carebunt. Cum va riolæ, fiuemorbillimartruerint, & in medio
oculi quafi albicantes enricu erint, quod eft fignum bonæ matura tionis,omni
die bis oleo amygdalarum dulcium recers. expreffo plura leuiter oblinire
oportet, donecexſiccentur, ita profe & ò, vt fæpius experiri libuit, ve
Itigia non remanebunt; & quod melius eft,oleum hoc'excoriatas variolasmira.
bilíter ad fanitatem perducit. Quantum in hominibus: vfus vene norum valeat.
Ithridates fæpè veneno epoto, adeo venenorum tis auxilijs corpus
diſpoſuit,vtcitra of fenfam venena ebiberet. Cum autem à Pompeio profiigatus
eſſet,atque in ex trema:I trema fortunæ miſeria conſtitutus, è vi e taillæſus
diſcedere feſtinabat, quaprop ter venenum hauſit, & pluſquam fatis
eſſet,nectamen emori potuit,cum con tinuus venenorum vſus in hominum naturam
pertranſeat.Ex Plinio. Inhominibus vermes figura maximè differunt. V 23 5
admodum funt differentes, quippe in quodam Antoniano CanonicoMon tanus
obſeruauit.Hiccolico dolore tor quebatur, cuius moleftia Hierameram
deuorauit,vermemque deiecit.Erat ille viridis, figura lacerti, ſed craſsior,
hirfu. tusq;, & pedibus quatuor innexus.Breui tempore à fera propulſa,
canonicus obia ic:contra illa in vitrea phiala aql a plena, per menſes aliquot
viua ſuperſtitit. Ex codemMontano lib.4.6.19. Calculusrenum, veficæque in homi
mibus, quopacto confumi valeat. Lapil t
Apillus, qui in Tauri veſica,men {e Maio reperitur, magnam habet in conſumendo
calculo efficacia. Hic fi vino imponitur, mutato paululum ſa pore, colorem
croceum contrahit. De hocvino quotidierecens effufo, donec lapis vino
impofitusomnino conſum peus lit, à calculo infirmos bibere opor. tet. Hac enim
ratione, nó modo calculú comminui, verum etiam conſumi mul. tos experientia
edocuit. Ex Quercetane. Filiosà parentibusfignum aliquod recipere,
vulgatifsimumet. " Ilii omnes patrium aliquid, aut aui tum ad vnguema
retinere folent,ver Tucam ſcilicet, vel cicatricem, vel effi giem,velmores,
autmanuum lineas.In domo noftra omnes à parentibus verru cam in brachio
habuimus, & Marcellus filius meus ex me confimiliter. Proue niunt hæc à
feminum miſcela, ſpiritu umquevtriuſq; parentis ſeminaliú,auo rumq; effuſione.
Proptera etiá ſuccedit, File (fire fi feminain filiorum generatione benc
mifcentur,atque in minimas partesiun guntur) vt fætus robuſti euadant. Hac enim
rationefpurij robuftiores exiſtunt quoniam ob amoris vehementiam, ve triuſque
ſemina multum, beneque.co. ráiſcentur:Ex Cardano de subtit. go D: Marerubrùm in
plantisproducendis terre vigorem obtinuiffe videtur, to Adel D mare rubrum
afbos nulla in terra prouenit,præter fpinam, quç dipras vocatur. hęc autem
propter fer uores, &aquę penuriam rara etiam eſt, quippe non nifi quarto,
quintoue anno pluit, & tuncquidem impetuoſe, breai quam te?mpore. At- in
mariexeunt plantz, cat quelaurum & oleam appellant.Läu rus arię fimilis in
toto eft, olea folio ta tum fru & um oleę proximuin his noftris oliuis
parit, & lachrymam -emittit,ex qua medici, Irftendo fanguini medica Hentủ
compopunt: Cú auteaquỵ plures inceflerit,fúgi iuxta mare quodãin loco crum HM
erumpunt,qui Sole tacti, in lapidem co mutantur. Ex Tbeophr.in 4. de hift.plan.
Incapillorum defluuio ex Hydrargynı lac epotum peculiare iudicatur auxilium..
rifabris capillorum defluuium in ducere conſueuit, aliaque ſymptomata; quæ
tales in mortis pericula conducunt. Pro huius immanitate, vtiin potu capri no
lacte, illudque cum pane commede re,fingulare & expertum eft remedium;
quippe ſedata illius vi,atque potentia,à veneni morte liberanturægri, &
piliite rum nafcuntur. Ex Foreſto in obſeruat.med. Inter Lupum, Agnum maximam
effe antipathiam. Tantralis difcordia,vt ipfisemor., tuis in eorum chordis id
etiä eluceſcat. Si enim ex Lupi, Agnique inteſtinis, chordæ conficiuntur, in
inftrumentis muſicis applicatas minime concentum vocefque lonoras reddere,fed continuo
tadas Bo ta &tas dillonare obſeruatum eft:at quod mirabilius eſt, agninas
chordas à Lupi funiculis corrodi, & confumi, fi fimul n repofitæ
fuerint,comprobatum eſt. I demde Aquilæ, &anſerum plumis fer tur, Aquilæ
enim pluma naturali antia pathia anſerinas poſitæ interplamas, vt docuit
experientia eas conlumunt & corrodunt, Quadam pro Epilepſia admiranda
reperiun. RiaabHoratio Augenio ioluiscá. (ult.pro epilepfia curanda magne
efficacię proponuntur remedia. Primo lococarbo eftille odoratus, qui fub Ar
timiſiç radicibusęſtiuo folftitio colligi tur, quiper dies40.infirmis,aliquocon
ucnienti liquore exhibendus eft mane ieiuno ſtomacho.confircor ego cuidam,
epileptico huiuſmodi remedium ada modumprofuiſſeSecundo loco,Mufte lę fanguis
adducitur, hic pręſtantiſsi. mus proepilepfia ſananda cenſetur,au. joris
experimento, vidit enim fanatum E epilep probauit, fanari confueuit. Colligitur
epilepticum fupra 25.annum,ſolo huius fanguinis vfu potati ſcilicet ftatim at
queè venis exiſtadvoc.ij. cum vnaacer. ti:Vltimo loco tefticuli Apri,aut faltem
Verris fiueSuis domeſtici-Venere vtéris; &tefticuliGalliexiccati in furno
mira biles cenfentur;hi in puluerem tenuiſsi. mèredađi, cum zuccaro mifcentur,
& decem continuis diebus epilepticis ad drach.tres,cum aqualettonicæfelici
cũ fuccefsu.exhibent. Flatuofam inmembrisconuulfionem lignoce peſcoperfanari,
Onoulſio illa, quęà flatu in mufcus lis, & membrisoritur cum dolore, Chanc
noftrirampham,ſiue gramphum.yo cát)nodis ligneis à viſco, quod in quer.
cubus'adnafcitur, vt experientia com С. viſcuin aftiuo tempore,Sole in Lepois
fickere commorante,tunc enim perfectia onis complementumadeptum eft, Dc. bent
nodi ligneiillius, loco patienti fu perponi, vtitarimfiatus: diffugiat,pio gui
ficco, renuiq; prædirum eftlignum, * aut occulta ratione, vtvoluirCardanus
Confiteor,multis taleprælidium ad pre feruationem meconfuluiſie,votumque $
fuiſſe aſſequutosſola iſtius ligni tuſpen y fone. Annult ex bubalorum cornibus
| huiufmodi etiam dolores prohibere multa experientia, ex eodem Cardano i
obferuati ſunt. Quomodo nonnullorum animalium vent num corpora vostra
ingrediatur. Pedido Halangium cum aliquem momor. dit, quamuisparuum fit
animal,ex. - iftimare tamen debemus, venenum ex ipſius ore, primo quidem in
ſuperfici em,deinde vero in totum corpus defer ri, Præterea marina turturis,
ficuti, & terreni Scorpionis aculeus, quamuis ir extremam illam
acutiſsimamque par temfiniatur, vbi nullum foramen eft, per quod venenum deijci
pofsit,neceffe en eft vt excogitemus ſúbftantiá quianda ineſſe illi,aut
fpirituale,autAgidam,qnz E vt mole minima, ita facultate eft quam
maxima.Siquidécú nuper fuiſſet quida ict Scorpione, videormihi eſle(inquit)
percuſſus grandine:eratque omninofri gidus,frigidoq;fudore perfufus.Quip pe vbi
exicta parte,pertotam iplamce leriter diſtributa fuerit venenivis,con tingiteam,
endemrurſus.contactu,in fingulas ſubiectarumei partium recipi: mox ex illis
inalias continuas, done: in aliquam peruenerit principe:quo tem forémortis
periculum inftar. Ad hanc remin primis conferunt vincula parti bus fupernis
inie & a, abſciſsioque pare tium venenatarum. Noui equidem ru fticum,quiepoto
è viperis medicamen to, reſciſlo priusdigito euafit, ficut, & alium
quendamqui ſola ſectione circa medicamen eſt liberatus. Hac Galat. 3. deloc.
aff. Mirabile ad Strumas gurturis, ramicem, Adem44 Yemedium. Dmirandum remedium
ad ſtru. A mas. Cupreſsi foljaneque teneri. ora,neque duriora in puluerem com
di minties, tortiuo vino confperges, atque ita volutabis, dum in fæcis corpus
coe TH ant, inde fruma, velramex indecitur, pe tertio primum die foluitur medicamen
tum, contractum locum inuenies, quidie o gitis-exprimidebec rurfus ad tres dies
idem pharmacum applicabis,eodemque modofolues, &exprimes; feptimodie, vel
ad fummum pono, ſtrumæ velut miraculo abolebuntur. Valet etiam ada
ramicégutturis, parotidas,omnemdur se ritiem, & ædemata. Hie tollerininhere
fit.Chirurg.6... Peftilenti tempore in:er pracipua-prafidia: aeris
re&tificatio fummum iudicatur. Mnilaudedignus, omniq; decore admirandus
Hippocratesiudican dus eft,qui peſtem illam ex AEthiopia ad Græciam venientem,
non aliorepu lit auxilio, quá aeris purificatione.Præ cepit enim,vt per totam
ciuitatem ignes accenderétur; qui non è fimplici folum materia,fed etiã
beneolenti conftarent. Qua propter, & coronas odoriferas, florefquearomata,vnguenta
pinguiſsi magrati odoris, & alia iucundosodores fpirantia, ciues
igniſpargebant, quo paa Eto aer purusfa & useft,& ijà peſte tuti
fuerunt. Ea fuit magni Hippocratis dia ligentia. Ex Galeno. Portaldara fenuinis
contra lumbricas: magna estefficacia. Nlumbricis necandis nonmodòPon tulacz
aqua ftillatitia aptiſsima iudi.. catur,verum etiam illius femen.Narrat enin:
Arnaldus Villanoua, quendam puerum, dum effet in mortis periculo
Conſtitutuspropter lumbricorum mula titudinem drach.jem. feminis Portula cæ cum
lacte fumpfiffe,atque lumbricas multos emiſiſke,fuiffequeliberatum. Quorundam
animalium vita terminus con. ftitutus,quis fit. epusannis decem viuere fertur,
& Catus totidem. Capra o & o. Afinus triginta.Quisdecem: fed vir
gregisfæpè quindecim. Canis quatuordecim, & quandoque vigintiTaurus.
quindecim. Bos,quia caftratus,viginţi. Sus, & Pauo viginti
quinque.Equus-vigioti,&non punquam triginta, inuenti funt, quiad
quinquageſimum peruenerint.Colum biodo, vti etiam Turtures. Perdix vi. ginti
quinque, vt &Palumbus, qui non nunquam ad quadrageſimumperuenit. Ex Alberto
Låddoloresarticulares electuariano mirabile. Periam electuarium illud mirabia
le, quo ego in doloribusiun &tura rum, & in arthritide cum felici
fucceffua nor femel vfus fum. Huius auctor Pem trus Bayrus eft,licetipfe
Galenicompofitionem efle dicat in -lib.18: fuæ Praski. Confiteor fubito ſoluere
finemoleſtia, ignitum caloré extinguere, & membra patientis adeo
contemperare, vtmultas viderim, endédie, qua pharmacum acce. perant, à ſella ad
locú propriúſine alte rius auxilio languētes redire. Capiútur Hermos Qua
propter, & coronas odoriferas į floreſquearomata, vnguenta pinguiſsi
magrati odoris, & alia iucundosodores fpirantia, ciues igni ſpargebant,quo
paa cro aer purus fa & useft, &ijà peftetuti fuerunt. Ea fuit magni
Hippocratis dia ligentia. Ex Galeno.. Portulara feminis contra lumbricos. magna
est efficacia. Nlumbricis necandis nonmoddPon tulacæ aqua ftillatitia aptiſsima
iudim. catur,verum etiam illius femen. Narrat enin: Arnaldus Villanoua, quendam
puerum, dum eſſet in mortis periculo! Conſtitutuspropter lumbricorum mula
titudinem drach.jem. feminis Portula cæ cum lacte ſumpfiffe,atque lumbricas
multos emifiſke,fuifíeque liberatum. * Quorundam animalium vita terminus.com
ftitutus,quis fit. epusannis decem viuere fertur, & Catus totidem.
Capraodo. Alinus triginta.Quisdecem: fed virgregis læpè. quin io rabia quindecim.
Canis quatuordecim, & quandoqueviginti.Taurus quindecim. Bos,quia
caſtratus,viginti. Sus, & Pauo viginti quinque.Equus-viginti, & non
punquam triginta, inuentiſuật, qui ad quinquagefimum peruenerint.Colum biodo,
veietiam Turtures, Perdix vi. ginti quinque, vt &Palumbus, qui nons nunquam
ad quadrageſimum peruenit. Ex Alberto Laddolores articulares electisarianos mirabile.
le,quo ego in doloribus iun & tura rum, & in arthritide cum felici
fucceffu non femel vfus fum. Huius auctor Pew trus Bayrus eft, licetipſe
Galenicompo fitionem efle dicat in lib.18. fuæ Brasti. Confiteor ſubito ſoluere
ſinemoleſtia, ignitum caloré extinguere, & membra patientis adeo
contemperare,vtmultos viderim, eadédie, quapharmacum acce perant, àſella ad
locú propriú fine alte rius auxilio languētes redire. Capiútur Hermodactylorum
alborum à cordis fuperiorimundatorum, & Diagridii an..
drach.ij.cofti,cymini,zinziberis,cario phyllorum an.dracij.trita, &
cribellata conficianturcum fyrupo fa & o exmelle, & vinoalbo inuicem
coctis,donec ſyru. pi bene codi formam recipiant. Dofis eſtà drach. ij.ad drac.
iiij.fecundum in firmi tolerantiam. Auctorconfitetur ter ab huiuſmodi doloribus
fuiffe correp tum,& femperinaurora huiusele & uarij (quod Diacoftum
vocat )vnc.ſem, acces piſſe, & in vna die conualuiffe. Ego dia-. gridium in
minoridofi,exhibuifemper & beneſucceſsit. Periculofumeft Bafilicum
continues adorari. Vantį ſit periculi, herbæ Baſilica frequens odoratus
plenus,ex Hol Jerij exacta obferuationeperfpicitur. Quidam enim Italus ex
continuo eius odoratuin vehementes, &longos inci-. dit dolores capitis ex
Scorpionein cere bro epato,cuius caufa morsconfequuta eft ck Ratio apud aliquot
huius euentus,ea potiſsima eft, quod Bafilici folia ſub te. ftafi & ili
putrefaéta in Scorpiones mu tentur, ex quo arguunt, frequentem o. doratum
animalcula quædam Scorpio onuminftàr, in cerebro geocrare. Vte cumque tamen
fit, Bafilici odoratus ad Syncopim, & animi hominum deliquia, mirumin modum
prodelle compertum cfts Piſcem Torpedinem, dolores capitis àcaufa calida
feliciter fanare. Nter fele & a, & quae dolores capitis à caula calida
auferunt remedia,Tor. pedo piſcis eft. Aitenim Celfus, quem ſequutus eft
Seribonius Largus, huius Puciscapiti affricatu,adeo tales dolores remoueri vtin
pofteru redire nequeant. Cauſa torpedinis qualitas eft,ipfa enim viua in mari,
& procul, & à longin $ quo velfi haftá; virgaveattingatur,tor porem
piſcatoris mébrisinduceredici. tur, vt Plinius lib.23.prodidit. Idcirco
etMatthiolus dixit) mirum non eft huiuſmodi affe& us, quodam ftupore:
feliciter ſola confricatione fanare. Queex occulta natura proprietate fiunt,
mirabilia videri. Aturæ arcana femper hominibus, admirationem præſticere:ratio
eſt,, quia caufas ignoramusproprias, & pro.. pterea in ſpeculandis his ce
pitamus, necaliud nobisreftat, quam føla admi. ratio. Quis enim non admiratur,
cur: Hyænæ vmbræ conta & u, canesobmya. teſcant?Cur Eryngium ore Capræſum.
ptum totum gregem fiftat? CurGallina, appenfo miluicapite nunquam quiefcea. re
valeant? Curappenſo allij flueſtris capite in ouis collo, quz in grege omnes
antecedat, Lupi ouibus nocere neque.. ant? Profe &to hæc mirabilia funt,
& in refum fympathias, & antipathias, & na-. turæ arcana
reducuntur. Nonnulla animaliareiuuenefcere: proditur. Agnum natura quibuſdam
anie. inalibus pro fene&tute euitandai, COA conceſsit releuamer, Ceruus
enim elu, ſerpentum renouari dicitur, quippès dum fentit fene&tute fe
grauari, ſpiritu, per nares è cauernis ſerpentes extrahit, fuperataque veneni
pernicie,illorum: pabuloreparatur.Colubri quoque alijq; ferpentes quoniamper
hybernas latebras. vifum obſcurari ſentiunt, primo vere, maratro, feu feniculo
feſe affricát,illud, que comedunt, ita vifum recuperant, &, exacuunt, &
vetuſta tunica depoſitag pelleque priori reiuuenelcere dicuntur.. Qgorandam
animalium carnes ad vitæ lorem. gitudinem palere. Longifsima vita aliquorum
ami.. malium vel eorum proprietate, multi fapientés vitæ longitudinem in
hominibusinuenire conati funt,volunt enim carnium efu longæ vitæ animali um,vită
poffe produci, re& ecenſulen. tes ſolidá nutrimentă,multú,diùq nutri R,
& à morbis defendere. Hac ratione Ceruicarnesprecipuè iuuenisadlógitu L6 dinem
vitæ valere autumant, Reculit Plinius quafdam nouifle principes fæ
minas,omnibus diebus Cerui carnes de paſtas, & longo ævo febribus, caruiffe..
Dioſcorides lib.z.longam ſençđuter cos agere dixit, qui Viperę carnibus,
veſcuntur.Propterea Pliniuslib.13»An tonium Muſam Cæſaris Augufti medi cum
dicebat, Viperas in cibis ijs dediffen qui ab vlceribus incurabilibus affligea
bantur,ratus hoc auxilium, vitam illis, producere,atque omnesſanafle.Exlib.3;
Conuiuij noftilitterarij. Abfürdan, ridiculain effe Paracelli opic. nionem,de
homunculi inpbialia vitrea g !.. meratione, de partu. NPara Onmodo
ridicula,ledinfanda eft: Paracelfi, damnatæ memoriæ opi-. niode homymauliconceptione,
& partu.. Scripſitenimex feminehumano in ama pulla vitrea. conie & o:;:
& aliquandiù: fub cquino, fuma, Itabulato, homun-. Cului culum gencrari. Vt
autem hanc hypo.. thefimfaliam ille impiusdoceret, exo uo fumpfit conie
&turam,quod cum op ſeruaret in loco calido concludipofle, & ex eo
tandem pulliim excludi, perſuaſit hoc idem in humano ſemine in vitreo vaſculo
reclufo poffe contingere. Sed vana, & fabulofa ſunt eius figmenta, fi-.
quidem ex putrefa& o femine, in an. pulla fub fimo recondita talis homun..
culi partus fieri nequit, qualis enim eft cauſa,çaliseffe & us
conſequitur,proinde ex putrefacto nihil,piſi corruptum ori.. tur. Infuper in
fetusconceptu,vt ex fa. ais:diuiniverbidecretis capitur,ſemen virumque viri:
&mulieris concurrere opuseft, præterhęę conceptio haud ori turniſi. fuerit
vterus benetemperatus, tanquam hortulus à Deo deftinatus ad hanc prolem, cui
fanguis maternns fi mulaffluar: quippè fi.materni- fanguinis
deficeretappulfus,necfemenaugeri,nec ali planıę inftar, necpartes conformari
pollenr,, vt omnium philofophorum E. 7 conſenlus eft. Ad hæc inter fætum, &
vtero gerentem fympathia quædami requiritur, vr calorem, & nutrimená. tum à
matre recipiat, & à fætu viuena te inatsis calor augeatur: & abia' ad
cona coctionem, & produ &tionem feliciter fuccedant. Quæ omnia fallain
effe Pas tacelfi coniecturam atgtrunt: ille enim non perfpexit in ouofemen,
exquo puls dus fit, fimulcum alimento vernaculo conferri, & in teſta per fe
porracea tans quam invteroquidemconcludi; ex qua pullus ali, & refpirare
pofsit Semen vero humanum caloris, & fpiritus Cu iuſdam viuifici particeps,
&conforss quorum vi, & beneficio fir generatio, antequam in vitream
ampullam per funderetur, eodem temporis veſtigio exhalaret, & conceptio
euanefceret: Hue aceedit, quod deeſt fanguis, quo femen nutritur, &
augetur. Adde quod per ampullam vitream, fub fimo recon ditam tetas fpirare
nequiret confuta.. maergofunt Paracelfiftarum fomnia,& fabula fabulofa
eorum magiftri conie & ura; & vana de homunculi partu affertio. Ex.
Georgio Bertino Campano. In Armenia nines rúbentes fieri. Iues omnes(fublata
philofophand tium ratione)albæ funt, & ita ius d cat fenſus, vtnon immcrito
Plinius lib. 17. capite z: niuem vocaverit cæle ftiumaquarum ſpumam.
Nihilominus Euftachius Homeri interpres, in Ara menia niues rubentes confpici
retulit. Harumcolorçm multi fapientes rummi Aantes, non natura niues rubentes
fieri, fed accidentaliter illic voluere. Illa enim loca minio luxuriant, cuius
colo re ex halātiones, è quibus in Armenia ninesgenerantur, pallutæ, rubedincm.
acquirunti. Pro quartana febrejſalitaremedia. A Rnaldus Villanoua pra fecreto
ha. buit in febrequarrapaexhibere taxi barbaſsi radicem ex vino per dúashoras.
mote acceſsioné, & Dominus osdecorde: Ceruiad drach. Itidemex vino
alterator di& amocretico, ſaluta, chamedrio, chamæpithio, &myrrha ex
fucco abfynthit ad ſcrup.ij.caftorei eriam, & bituminis anſcrup. ij. ex
vino: Alij,vt quartanam excutiant, infirmis dum in acceſsione affliguntur,
timorem ex improuifo incu tiunt. Proptera Titus Liuius fcripfit, Quin &
umFabiuin Maximum in con fictu febre quartana fuille liberatum... Terra Lemonia
contra venena miram: babet efficaciam. Nterpræſtantiſsima auxilia contra
venena,terra Lemniaconnumeratur, quæ ad Cantharides,& adLeporem ma rinú
adeò pręſtat, vt quadam proprie. tate, deuorata, omnevenenum per vomitum
expellat, quemadmodum mul tis experimentis hæc omnia didicifle.
Galenusconfitetur, Lumacalapidem,partümulierum facilitati. Icitur Lumaca,
lapidem nobiliſsi.. me virtutis in capitcretinere, qué fi trio I tritum
ftranguriofis liquore aliquo conuenienti dederis, vrinam foluere, i breuiterq;
fanare comprobatum eft. AL mirabilem baberingrauidamulierecó. Senfum:quippe
appenfam fi ſecum por tauerit,in abortum minimè incidet, fin autem tempore
partus tritam,cum vino capiet,multa facilitate pariet: fiquidem lapides
himeatusmuèaperiunt, è qui-. bus fætui facilior datur tranfitus. Ex: Ifidoro..
Kamum fympathian in aliquet bruto mirabilem. elle Izaldus lib. 1. arcan:
&Podinus: lib.3,theat.nat.obſeruatű,exper tumque audiuiſſe aiunt,Vaccam,Quem
Equam, Afellam, Canem Suem, Felem; fimiliaq, foeminei generis animalia do
meſtica, & manfueta, dum vtero gerunt, autinterire, autabortum parere, fi
mas ex quo conceperunt,ma&tetur autocci.. datur,tam valida eft,ac
vehemens-illo rum inter fe fympathia. Hoc autem an verum fit,confiteor,
menondum fuiffe expertum.. oletno Oleam -arborem puritatis virginitate of
amantifsimam. Liva fimanuvirginea plantatur, & educatur,,vberiores fructus
præbe redicitur:, vſque adeo puritatis eſtamā tiſsima, & labis nefcia.
Hacde cauſa, ve Teor,abantiquis ſapientibus olea, Mi neruæ dicata, &
confecrata füit. Audiui equidem àmultis, alearum à laſciuis mulieribus non
femel fuifle collectas fructus,calq; fequenti amo parum fru &
ificaſſe,ExCarolo Stephanointideraruftia Aftronomiam Medicis effe neceffariam.
PRudens Phyſicus Aftronomiam in telligere debet, aliter perfe& usMe dicus
effe nequit.Cum autem ægros -Cųe rare intendet, Lunam afpicereoporte bit, fi
enim plena cſt,crefcitfanguis, & humiditas in homine, & beftiis, &
me dulla in plantis, ita voluit Hippocr.inl. dediſciplina Mahemas: qui apud
Galore peritur.Cum ergo quis in morbum in ciderit,fi Luna è combuſtione
exit,tunc iei creſcit infirmitas vfque ad oppofitio bis gradum, quo tempore per
a &to cceli themateaſpicienda Luna eſt,an cum alia quo planetarum ſocietur
fortunato, vel & infortunato;numin malovelbonofue. titalpe & u; &
an dominúdomus mortis. afpexerit; ita enim de morte, & vita; de morbi
longitudine, & breuitate infire morum accuratiusconie &turarepoterit..
Ex Hippers. 10ak. Ganjucto. Saturni,Martiſque coniun tionem inTauro,
Bobuspeftilentiam pradicere futuram. A. Strologorum ex multaobſeruan tia
decretum eft, cum Saturnus. Hupiter,& Mars, vel iftorum duo fimul iun
&ti fuerint ſub humano figno, cona. currenti ad eam ftellarum fixarun vea
Denoforum animalium afpe & u,morbos peftilentes hominibus effc futuros. Ex
diuerſitate autem Zodiaci brutis quan doque contagium appariturum, faluis
hominibus. Vnde notat Auguftinus Sueſſanus in comment.Apotelaſmatum Pro. Lomai,non
multis ante annis,obferualle, cum SaturniMartiſque coniun & io in Tauro
horrendiſsima frigora'excitallet, magnam Bobus calamitatem eueniffe. Ques autem
licet imbecilliores, füper tites tamen fuiffe. In Boues tamen pe ffis illa
defçuit propter cceleſte fignum, ad quod terreftris Bos refertur. Quæfi fuiffet
in Ariete, forfitam in Oues graf fata effet. Anno 1479. in figno humano Martis,
& Saturni fuit coniunctio (tefti monio Ficini ) & peftis crudeliſsima
ho mines inuafit,,vt& prius anno1408. & omnium peſsimaanno 1345. ex
trium Planetarium infimul conjun & ione. suffiiu bituminismulieres ab
byfterice '. 3 Vltis experimentis comproba audio,, lieres ab vtero ſuffocatas
lubitòad ſanie. tatem reuocari, & quod mirabiliuseft, Hyſterică extemplobituméacceſsionen
corrigere, fiue crudum, fiue vſtum mu. licrum naribus admoueatur. Propterea
mulieres,quętali pafsioni obnoxięfunt lans paſsione liberari. CA lana exceptum,
fiue goſsipiocolloap penſum,Medicorum conflio (Mizaldo · auctore ) in romullis
locis habent, vt e, crebo olfactu paroxyſmum arceant. Cantharides quandoque
ſolo olfa & u fangui. nens, veltactuècorpore euacuajſe. Antharidumvis,
& venenú in fane guine purgando per vrinam, apud paucos incognita eft,
quippe in potui ex ceptas non modò veſicam exulcerare, verumatque
fuffocationes, & horrenda ſymtomatainducerecomprobatum eft. Imò tantæ
feritatis funt, vt quandoqué & tactu,vel olfactu hec efficiant,vt cui
damchirurgo Mediolani ſucceſsit, qui bis fanguinisprofluuio correptus fuit per
vrinam,folum portando cauterium ex cantharidibus in Byrfa. Ex Micbarle
Rafraljo. Podeortum fit adagium, Naniga Anticres. } MXneotericisMedicis,nigrum
Vlta obſertatione &à prioribus, & neotericis, helleborum ad infanos,
& mente captos peculiare auxilium eſſe, probatum eſt. Huiuspotio licet
periculoſa fit, cú cau telatamen fumpta, mirabiliter ijs pro deffevidetur.
Hellebori virtutem De. moſthenes innuere volebat, dum acti. onem mouens
Aeſchini, vt ſeſe pur. garet helleboro dicebat.Hoc in Anti. cyris duabus
ele&tiſsimum, & magniva. loris naſcitur, quo nauigare oportere a dagium,
quiab intania Canari cupit vt Strabo lib.9.Geograph,loquitur. Hinc Stephanus
deHelleboro loquens addit, Anticorenſem quempiã fuiſſe, quiHer çulem dato
Helleboro infania libera uerit, Grauidas simio fale prentes, parerifetus fine
vnguibus. Noneftàratione aliepum, quodab Ariſtot.dicitur 7 de biftor.animal.c.4
mulieresgrauidas, fi nimio ſale in cibis vſæ fuerint,fætusparere finc vnguibus
vngues enim,vt dixit Hipporc.in lib.de care FOS. 1 Carnibusex glutinoſa, & viſcida
materia geperátør, hincaecedente Galitorum v. Tu,materia illa viſcida adeo
attenuatur, &adimitur, vtfacilè illorum ortusde. ficiat.Comprobatur
hocetiam in ladá, tibus, quibusex aſsiduo, & nimio ſali torum vſu,lacomne,
paulatim deficere conſueuit. Oui badiin conuiuijsiucundi, feftiuiquelas
beantur. N conuiuijs profecto,vt hilariter'iu: Du { 11 X G 3 epulétur,tron
femel ludi aliquotper io cum apparantur qui omnes in iftanti um riſus,
&cathihnos mutantur. Inter multoshi erunt Feftiui:Si lintea;& map pæ
calchanti puluere confricantur, qui foti fe deterſerint ea parte nigrifient;li
ceti lintea prius candidiſsima apparue. sint.Si cultri fuccocolocynthidis, vela
fòe ta & ifuerit,amara oíaex ijs incita le tiétur:ex afla fætida autem
cuncta fæti da audientur:Si fuperpaſtillos nuper e fixos inſtrumétorü chordas
minutim in difasproieceris inftar vermium à calore V contracte apparebunt,
naufeamque rei inſcijs mouebunt. quibus vinum potui dabitur,cui caftancarum
cruftæſubtili ter tritæ fuerint inie & xà ventris «crepi
tibusſollicitabuntur. De amorisorigine aliquet controuerfia. OlentesPhyfici
amoris originem, velpotius furoris amatorijreperi te indaginem,ex
correſpondenti homi num complexione, leu verius ex con formi ipfius fanguinis
qualitate,nempe calida proficiſcivolunt, hancenim como plexionem valde amorem
gignere af firmarunt, Aſtrologi inter eos amorem exiſtere aiunt, qui in codem
aftrorum gradu conſiſtunt,vel qui in aliqua con Itellatione ex æquo
participant, & con formes ſunt,tunc enim fe redamare có. fingunt. Alij
Philoſophi amorem naſci afferuerút, quoties noftra luminainde.
fideratumobic&um conijcimus,voluat cnim quoſdam fpiritus ex ſubtiliſsimo,
puriſsimoque fanguine cordis noftri in rem concupitam exhalare, acque ocyſsi *
IN me ad mè ad oculos noſtros recurrere, ibique a in vapores'& 'humores
refolui,quifen. fim ad correlapſi, diffuſiq;per corpus, in oculis, rei dilectæ
quandam idem, inſtar fimulachri, & imaginis,non aliter, quam in fpeculo
macula permanet ve nenofi oculi, vel menſtruatæ,auriginoſi, aut fimili aliquo
morbo infecti, impri munt.Hacde caufa miſerum amafium, hiſce nouisille &tum
fpiritibus,qui natu ralem fuam fedem repetunt, & ad cor permeant, perditam
libertatem fuam dolere, lamentarique cogi affirma. Nonnulli autem naturalis
fcientiæ ad. 'modum ftudiofi,cum multa de amoris fcaturigine eſſent
imaginati;nec veram tam furiofi morbi originem inuenif. fent: in
hæcproruperunt:Amorem effe neſcio quid,natum neſcio vnde, qui vee wit neſcio
quomodo, &accendit nefcio quo pa&to,certam aliquam rem, &per ſonam.
Hominem apud Indos longiſsimam pitam babuiſſe. F Apud Lufitanicæhiſtoricæ
fecènti ores ſcriptores(interquos eft Fer din. Caſtanneda:)fidei probatiſsimę,
longa narratione, & certa, cuidam nobia li,apud Indosannorū, quibus vixit
tre. to centorum, & quadraginta fpatio,iuuenis tæ florem ter exaruiffe,
& ter refloruiffe: inuenimus:atque ex cuiuſdam Epifcopi relatu
nouiterpercurrimus.(Hocprofe to mirabile eft, & paucifsimis à Deo conceſſum.
At non minori admiratione illud dignum eft,quod à Langio de Or benouoproditur,inſulam
quádam fu. ifle repertam, Bonicam nomine,in qua fontis reperiatur ſcaturigo
cuius aqua vino preciofior fenium epota in iuuen tutem cómPomba. Ex lib.
1.debominis vita, vbi de Priorifla anu facta, & reiuueneſs eente fcribitur.
Hydrargyriminer aquomodo inueniatur. Ńter metallica ônia,hydrargyro ex
cellétius vix inueniri aliud cryditur, cum ad infinita tale accómodetur.Soler
tiinduftria opus eſt, vt vbi eius mineræ fit ſcaturigo coniectores deprehendant;
propterea menſbus Aprilis, & Maiiſub aurora, ſereno autem cælo afcendétes,
vapores in montibus fpe & ant; ſi enim inftar nebulæ fuerint, non altius
feat tollentis,fed humillimæ, ac quaſi terrae ad hærentis, argenti viuiibi ſedem
eſſe allequuntur. Ex Cardanode Subtil. Aqua mirabilis pro viſus obfuritate.
Periam aquam, quam ſcribuntre ſtituiſſe viſum cęco nouem anno. rum.R.ſucci
apij,feniculi, verbenæ,cha medryos, pimpinellæ, Garyophilatæ,
Caluię,chelidonię,rutę,centinodię,mor { usgallinæ,garyophyllorum, farinæ vo.
latilisan.vnc.j. piperis craſsiuſculètrití, nucis muſchatę,ligni aloes an.drach.
iij. Omnia imergătur in vrina pueri, & lex: ta partevini maluatici.
Bulliátbreuite pore, tú exprime,& percola.Repone va le vitreo benè obturato.Hora
sóni fingu. las guttas ſingulis oculis inftilla. Holler. Roris
marinipraftantiſstma'virtutes, Lanta illa, quam Romani, & Itali Roſmarinum
dicunt, inter plantas: nobiliſsima eft, magiſque quam ex F 2 iſtimetur
excellens, quamuis mulcitu. dine, & frequétia vilefcat.Eftenim fem per
virens,nulli nocens, & multis infir mitatibus inimica maximè comitiali
morbo, quiferè dæmoniacuseſt. Radix eius cum melle purgatvlcera, tormini. bus
medetur, & medendis ferpentum i & ibus cum vino bibitur.Prodeſt etiam
contra morbum Regium in vino cum pipere. Et tanto contra maiora mala præualet,
quanto maiori gaudet tutela, & fauore cæleſti, à quo omnis virtus
confouetur. Naturefagacitas in difficillimis morbus fac mandis magna ift. Agna
eft naturæ fagacitas in ali quot morbis ſanandis,qui medi. corum auxilijs
perdifficilc eft,vt ad fa nitatem perducantur. Ketulit Alexan. der Veronenſis
lib.2. Anatem.c.9.tr ulie rem Venetam,acum crinalem, qua cirri capillorum
intorquentur, quatuor die gitorum longitudine ore detinuiſle, dú obdormiſceret,
fomnoque ſopitam de M glutif Etv ghuiuifle: decimo autem menſe, quod m mirabile
eſt, per vrinam eminxiffe.Lan. Er gius etiá in alia iuuencula,quæ aciculam
deuorauerat, id etiam eueniffe fcribit, e Naturæigitur induſtria maxima eſt. *
Lapidis compofitio ignē fricationereddernisi. Ricatione cuiuſdam lapidis
facilli meignem excutere poterimus. Hæc eius eft compoſitio. Capimus ſkyracis,
calamitæ, ſulphuris, calcis viue, picise an.drach. iij. Camphorædrach.j,Alpalit.
dre iij critahæc pobanturinvalesce Teoroptimèconcoctecca Hapidécouertátur.Hic
panno fricatusu ceditur,fputo veròemoritur.ExRole! Naturam beftis,ad corporis t
ütelammulta remedia indicaffe. PlurimaşürNaturæ beneficiaquebê ftiis fuiffe
conceffa legimus.Hæcpro fectoruminans Plutarchus, præadmi. rationeinextaſin
raptus,Maturan mulo.. to plura in pecudes, quam in hominem contuliffe dixit.
Quippefibeſtijs Fors bus accidit.Naturamoxantidotum in F dicauit. Hinc Palumbes,
monedula, merulę,perdices, Lauri folijs deguftatis humores fuperfluos
expurgant. Lupi, Canes,Feles ſięgrotant,vel li excreme torum colluuie ftomachum,
vel viſcera oppleta fentiunt, gramina comedunt ra, re perfufa,herbam frumenti,
&rapiſtru decerpunt:quibus ſtomachum, aluumg; exonerant.Columbæ,turtures,pullique
gallinacei in morbis heliofelinum degu far. Teſtudincs morſus ſibi in flictos
ci cuta perfạnant.Cerui volnerati dictami paſtufagittas, excutiunt.Ivuiteladůmu
res venatur, ruta ſe munire confueuit,. vc validiuseosoppugnet. Vrlimandra-. *
goram quærunt in mala valetudine. A. priauté egrotanteshedera ſe colligunt.,
Ceteraverò animalia pro virę tutela di uerfa alia retinent auxilia.Ex
Arifter.pl njo,Nipho,&aliis. Lapidem Aetitem mulierum partus. accelerare.
Maison Agnam intulitnatura Aetitilapi. diin partu prægnantium accele rando
efficaciam: quippefiearum coxis argento cóuolutus partu inſtante fuerit
ligatus, miram ytero generabit láxitam tem,ex qua prægnantesfacilius parient.
Ab Aquilis pręlidium hoc'captum reorg illa enim dum arctiores ſe ſentiunt &
oua cum difficultate pariunt, Ae titem quærunt, ex quo laxiori matricis
orificio facto,leniusoua excernūt.Hinc Aeritis S-apis, Aquilinus di & us
eft, quiaz Aquilă hos in nidum portant,ibiq;verii reperiuntur. Intellexi ex
feminis, pria marias aliquot hos lapides in vſu,& pre cio habere,beneratas
partuslaboresfu Bleuare. Hellebori nigriradićem, Viperemorfus in bon Aysſanare.
(N magna æſtimatione apud multosis Helleborinigri radix habetur, ipſa enim
inter carnem, & pellem iumentià Vipera demorfiinſerta proculdubio faa -
mat.Confiteor profe &to fubulcum qué dam porcorú numerüigne perfico, fiue
cryſipelate peftilenti pollutum (hunc morbum vulgares, eo quod porcorum caput
in excreſcentiamagná deuenit,apo pellap (męobſeruante adfanitatéducti funt..
pellant Capoatto.) fola huius radice om.. nes incolumes feruaffe.In porcorum
au. ribus cultello circulum ad viuum fane guinem formabat,deindecentro,ex ſtye.
lo ferro perforato,radicisfruſtulum éfo. fingebat, ad paftumý;porcosmittebat,
ita equidemſolo học auxilio, omnes Hippiatros in equorum faciepitorum euul,
maculas albasfacere. N hominum canitie frequentescapil. larum euulfiones, vt
nonnulliin viu habent,vituperantur, eo quod illorum cuulſa niaior
generaturcmitics:Hippia atri enim cum maculas albas in equo-... tum facie
fingere intendunt, frequeno tiſsime pilosextirpant, qua continuata
euulſione,pilos excreſcere albos exper tum eft. Queapud Veteresmagis
erantcelebrata: pectaculam Nterorbis terręcelebrata {pe& aculag, Mauſolæum,
hoceft: 9.Maufoli ſepul chrum ES Noun
ehrum;Coloſſus folis apudRhodiosios uisOlympici fimulachturm,quodPhidias
-fecitex ebore:MuriBabylonis,quos ex. citauit Regina Semiramis; Pyramides in
Aegypto; Obeliſcus in via nobiliſsima Babylone à Regina ſupradicta erectus,
Rodigingso Marinum Vitulum à Cåeli fulmine non mo leftari. O pauci ſunt
ſcriptores,quiMaria num Vitulum, (multa obferuatiu. one peracta) à fulmine
incolumem effe perhibent.Propterea Seuerum Imperaitorem Lecticam fuam
Vitulimarinico riocontégi voluiſſe legimus,hoc enim animal ex marinis, à Cæli
fulminemio nimè percuti audiuerat. Inde fa &tum elte vt veteres,
pauidi,pefulmine ferirena tur, tabernacula ex iftiuspellibus con-.. tecta
retinerent,ita profecto àCæli fula. mine præſeruari poflcputabant. ExPline.
Captaminter bruta maxima Epilepsia tentari: Ippocratesin lib. de facro -morbou:
H Fs (si liber ille genuinus eius est) vt ab ' Èpilepſia homines præferuari
valeant monet, neque in caprina pelle decum. bendum effe,neq; eandemgeſtare
opor tere,beneratus tale animal; maximè ab Epilepſia tentari. Hocetiam
Plutarchus rerum naturalium perfcrutator indefef ſusaſleruit:propterea
veteresSacerdotes ab eius carne,ve morbida,abftinuiffe fe runtur, neguitantibus
aut tangențibus. modo, aliquid eiusmorbi induceretur.. Dinum in Asthmatisçura
ſele &tiſsimim.". V TInum pro fanando Aſthmate ab, mo, quo pater eius
cum fælici ſemper: fucceflu vſus eſt,adducitur. Habet yie. ni dulcis, quaie
potiſsimùm Verpacia eft,non craſsi,ſedtepuis,mellicraticoctii an, lib.decem:puluer.
Foliorum Tabe. bacciexicc.in vmbra vnc.j radicum polypodii quercini
recentis,acminutiſ.. fimeconcili ync.iij.radicum hellenij re..
motomcditullio,& inciſarum unc. iij..:? macerentur horis 48.poftea
verocolentur per manicam Hippocratis vocatam, conſeruetur vinum inloco frigido.
Dá - tur vnc. vj. pro vice; ſingulis diebus,; horis ante prandium quinque.
Homines a phrenttide correptos sania fortiores fierii On pauci admirantur, cur
homi. nesphreneticiflicet in ſanitate debiles fuerint prius ) ipfis fanis
fortiores: euadant?Equidem à morbi naturato- · tum procedere verendum non eft:
cum autem in phrenitide magis, ob exficcationem lædantur nerui fenſitui, quam
motiui, nulli dubium eft, tales quo ad motum ipſis ſanis fortiores, &
debilio. res, quo ad virtutem fenfitiuam fieri;: ratio omnium eft,quia
operationes,ner uorum fenfitiuorum humiditate magis perficiuntur: fecusmotiui.
Huicadiun gitur, quod phrenetici (mente læſa ). doloremnon fentiunt,idcirco
fortiores.com Ek Arculano. Tuberum efufrequenti, bomines in epile Pliam
incidere. 2 M2Aximopere (ve valuit Simeon Zethus) ſuberum continuattis v fus
vituperatur: adeo enim hornines crebro eorú eſu afticiuntur, vtepilepti ci;vel
apoplectici fiant. Apud veteres autem in pretio habebantur,illifq; cum Colo
quandam affinitatem,nec niſi to. nante loue nafai, credidit antiquitas.. Vnde
Iuuenalis: Facient optat atonitrus CHAS - Offri de corde Cerui à morfibus
venenofas; hos minespreferu476. Irabilis eſt profecto oſsiculorum, proprietas,
quæ in Ceruorum; corde reperiuntur;geſtata enim ad præ feruandiim à beftiarum
venenofarum morſibus, & i & ibusmaximeproſunt. In officinis tanquam
præſtantiſsimum an.. ridotum contra venenum, & febres pe tulentes,hxc eſſa
conſeruatur, &cum feelicifucceffu mediciindiesad hæc valere experiuntur::
multi tamen pre. ofic.cordis ceruipi, os.bubulum tradunt in magnam languentium
perniciem, & ped.com M propi eterمه 27 that medicorum afamiam.Ex Alexan.fro
Be Pedido. Hemicranian lapide Gegatisſummoueri. MW Vleo experimento Democritus:
Hemicranian, lapidis Gagatis ſo'a ad collum appenfione tolli com.. probauis
fcribit enim huiufmodi lapi. dem geftatum ſeinperniagis ponderare, quam
antequam appendatur: quafi in eo quædam attrahendi in fe fe humo. rem,à quo
dolor in parte cranij fufcitam. tar proprietasreperiatur.Mercurialis.
Epilepritof non perpetuoconcidere nee quefpumam facere. Vicomitiali morbo
laborátnánili in magoa ventrico !orum cerebriz cralo s humoribus obftru &
ione conci dere, & fpumam ferre confueuerunt: ſe cus vero in alijs cauſis,
vtin quadapu.. ella Aretina Beniuenius obferuauit. In cidit illa in Epilepfiam,
tamen neque concidebat,pequeexorefpumam emito. tebat. Sedſtanscaput hinc indecücere
wice uice, ac fi quid infpicere vellet
mous bat; nihil interim loquens, nihil fenti ens.Cum auté ad fe reuerteretur,
inter rogata quid egiflet, penitus ignorabat. Cauſam Beniuenius exiſtimauit,
quod non caderet quod contra & io, & tenfio ad cerebrum non
ferretur,cumfolus va por ſurſum aſcenderet: ex quonullor gore cerebrum ipfum
intentum, abot dinatis motibus-reliqua membra pre feruare potuit. Vermes rubros
in hominum cerebro, in qua dam epidemia natos effe. y Beneuenti,cum multi
ignoto morbo decederent è vita, medici tandem, hoc morbo quedam mortuum
incidere voluerunt, & in huius cerebro vermem cubeum breuem inuenerunt,
quem cum mulrismedicamentis vermesoccidendi vim habétibus interficere
nequiuiſſent, fruſta raphani inciſa in vino-maluatico vltimo decoxerunt,quo
vermis occilus eft,atque hoc eodem remedio deinde - mili morbo, quali epidemico
affe & i omness. Omnes curabantur. Foreftusex lib.Corne tỷ Roterodam.
Capillorum defluuium ex Laudano curari. TOn femel morboacuto egrotantia bus
(-ſiad fanitatem reducuntur è capite capillos decidere expertumelt. His
facilliinè fuccurritur huiufmodilia nimento, quo 'capillorum defluuium non
folum amouetur verú etiam amiſsi irerum renouantur. Laudanum cum vi. ño, &
oleo rofato ad decentem vnguen ti fpiſsitudinem coquitur, quo caput v niuerfum
linitur; breuique capillatum redditur, Ex Bayro.. An empiricis
tradararemedia,mortem ! non paucis:attulije.. ftrum baudelt, remedia, quæ ab
Kempricis adhibentur, morté aliquádo hominibus attulife, ij a. nulla ra. tione,
nullaq; methodofuffulti, fed fola experiméti indagine,nec caufasmorbo Tum verè
cognoſcere,nec ordine auxilia applicare poſiúnt.Proptereamilesquida
inmorboinueteratoluinepotis,quicapi. Member Aximopere (ve valuit Simeon
MZethus) ſuberum.continuattis V.. fus vituperatur: adeo enim, hornines crebro
eorú cſuafticiuntur,vtepilepti ci;vel apoplectici fiatt. Apud veteres autem in
pretio habebantur, illiſq; cum Colo quandam affinicatem, necniſi toe. nante
loue nafai, credidit antiquitas.. Vinde Iuuenalis: Facient opfataronitrua,
Cen45 -offi de corde Ceuiàmorfibus venenofisshos minespreferuatge -Irabilis eſt
protecto oſsiculorum, proprietas, quæin Ceruorum corde reperiuntur;geſtata
enimadpræ • Tóruandum à beſtiárum venenofarum I morſibus, & i&
ibusmaximeproſunt.In officinis tanquam præſtantiſsimum an-. ridotum contra
venenum, & febres pe.. bilentes, hæcoſſa conſeruatur, & cum. foelici
fucceffumcdiciindiesad hæc va lere experiuntur:: (multi tamen pro. ofic.cordis
ceruidi, osbubulumtradunt in magnam languentium perniciem, & M pedice medicorum
afamiam.Ex Alz xan.fro Bem nedido. Hemicranian laide Gagatia ummoueri. Viro
experimento Democritus Hemicraniam, lapidisGagatis fola ad collum appenfione
tolli com.. probauis fcribit enim huiufmodi lapi. dem geſtatum
ſempernagisponderare, quam antequam appendatur: quafi in eo quædam attrahendi
in fe fe humo rem,à quodolor in parte cranij ſuſcita.. tar
proprietasreperiatur.Mercurialis. -Epileptites nonperpetuo concidere nee que
fpumam facere, Vicomitiali morbo laborát nánili in magoa ventricolorum cerebria
crais humoribus obftruatione eonci dere, & fpumam ferre confueuerunt: ſe
cus vero in alijs caufis, vt in quadá pu ella Aretina Beniuenius obferuauit. In
cidit illa in Epilepfiam, tamen neque concidebat,pequeexore fpumam emit tebat.
Sed ftans caput hinc inde cucere vice, ac fi quid inſpicere vellet mout
bat;nihil interim loquens, nihil fenti ens.Cum auté ad fe reuerteretur,inter
rogata quid egiflet, penitus ignorabat. Caufam Beniucnius exiſtimauit, quod non
caderet quod contra & io, & tenfio ad cerebrum non ferretur, cum
folusva por ſurſum aſcenderet: ex quo nullori gorecerebrum ipfum intentum, ab
of dinatis motibussreliqua membra præ feruare potuit, Vermes rubros in hominum
cerebro, in quae dam epidemia natos effe., Beneuenti, cum multi ignoto morbo;
decederent è vita, medici tandem, hoc morbo quedam mortuum incidere voluerunt,
& in huius cerebro vermem rubeum breuem inuenerunt, quem cum
multismedicamentis vermesoccidendi vim habétibus interficere nequiuiſſent,
fruſta raphani inciſa in vino maluatico vltimo decoxerunt, quo vermis occiſus
eft,atque hoc eodem remedio deinde se smili.morbo, quali epidemico affe &
ij, omnes Nous ) omnes curabantur. Foreftusex lib.Corne-, i Roterodam.
Capillorum defluuium ex Laudano curari. "Onfemel morboacuto egrotantia bus
(-ſiad fanitatem reducuntur ) è capite capillos decidere expertumelt. His
facillimèfuccurritur huiufmodilia nimento, quo capillorum defluuium non ſolum
amouetur verű etiam amiſsi irerum renouantur. Laudanum cum vi. ño, & oleo
rofato ad decentem vnguen ti fpiſsitudinem coquitur, quo caput y niuerfum
linitur, breuique capillatum redditur, Ex Bayro.. An empiricis
tradararemedia,mortem ! non paucis:attulife: ftrum baudelt, remedia, quæ ab
tempricis adhibentur, mortéali quádo hominibusattulife,ijn. nulla ra. tione,
nullaq; methodo fuffulti, fed fola experiméti-indagine,neccaulas morbo. Tum
verè cognoſcere,nec ordine auxilia applicarepoflunt.Propterea miles quidā.
igjorbo inueteratoluinepotis,quicapi N + 136 tis achoribus erat fædatus,
finecautio. os,more empiricorum,nec ætate obfer uata, vnguentum ex arſenico,
ſulphure viridiæris, femine ſinapis confe&tum capiti appofuit;ita enim ex
quodam lio bro remedium collegerat, & mane ſee quenti puer ille, qui erat
duodecim an norum, in lecto mortuus inuentus eſt. Hi profe& o fru & us
empiricorum ſunt. ExValefio.. Triplici auxilio homines longauam vitam Af
quirerepofle. Ifi hominum frequens luxus exo NA vita
songior,ſaniorquevideretur,hi ay tem in luxum,epulas, & otia effuli, vix
trigefimum exceduntannum, abſque. fene & utis aliquo veftigio,vita enim los.
gæua,non luxu,& profufione nimia, fed triplici tantum remediocomparatur;fie
quidem pareitas cibi, & potus, bonus cibus,& moderatum exercitiummorta
- lium vitam, ex Philoſophorum decre to,producere valebunt.Bartholom.Males **
Dino Gagorio. Nmin Quo paéto fingultum
cohibere valeamus. Onleui angaſtia angultum ho• mines cruciare quandoque vide
mus adeò quod multiin longiſsimā via. giliam huiuſmodi affe & u ducti funt,
Multi funt, quieximprouifo timorem ſingultientibus incuitientes,votum alle
quumtur: alij verò auricularidigito ito bentintus aures diu confricari;Lyfimam
chus tamen apud Platonem, fternuta. mento afperfione aquæ frigidæ, & re
{pirationis coñibitionefingultum cxčke ti propalauit. Quopado plebrios, tincios
en admiration nem -dustus. Plebeiprofe &to qui populi parsfino plicior
eft,ex leuifsima occaſione fa. cilè in admirationé ducuntur. Si optas autem vt
adftantes credantvel magico Çarmine, vel quodammiraculo te open. rari, manècum
Verbaſcum flores aperit æſtiuo tempore, iispræſentibus leniter moueto plantam:
flores enim paulatim decidunt, & exiccatur, cum magno ile. lorum ftupore,
fiquidem illius plantæ hæceſt proprietas, vt (Sole accedente ) flores decidant.
Quod fi magis irridere velis inutiliter aliquid murmurabis, vt admiratio
excrefcat, vltimòtandemor mpia in rifum finiantur. Ex Porta. Memoriam è thure
epoto maximè Augeri. Maximo hominibusadiumento eſt firma memoria, triftitiæ
verò, & Jabori, imbecillitas, iis præſertim, qui bonarum litterarum ftudio
incúberec ptant. Ita autem cófirmatur.Thus albife Gmuin in pollinem attritum,&
cú vino, li hyemsfuerit,velaqua deco & ionis paſ fularü, fięſtas;epotum,inLunęaugmen.
to,oriente Sole, necnonmeridie, & oC- t caſu, mirum in modum memoriam aya
gere fertur. Ex Rafi. Quo pačtofamis importunitascohibeatur: Vis Taurum
Philoſophum, eiufq; mendo famisimpetu? profe& o dumfa. maemaximèmoleſtabatur,
eius importurnitatem, compreſsis hypochondriis & ventris ſtri & ione
compefcebat. Apud. Aulum Gellium. Mulierem grauidationis tempore pallefcere.,
debilioremque effe. TOnlinerationemulieres, quoté pore vterum gerunt, virore
pallia dæ fiunt, purus enim illarú fanguiscono tinuò ex corpore deftillat,
& in vterum à natura demittitur, vtfætú tú nutriat; tú eius procuret
augmentü.Cum autem ipfis paucior in corpore-refideat fanguis neceſſe eſt fieri
pallidas, atq; alienos ci Bos appetere.In ſuper exco,quia fanguis folitusipfis
minuitur,debiliores fieri ne celle eſt. ExHippocr. lib. 1. de morb.mulier..
Myrifticam nucem à vira geftat am, vigo rofiorem fieri. MIrabilis eft
nucismyriſtice, quava cant muſcatam, cum homine fym pathia: ſi enim à
viro.geftatur, nomodò vigore proprium cóferuare, verù etiam
turgere,magifq;fucculentam, & ſpecio ſam ficrialkunāt, pręfertim
fiiuuenilis adultæque ætatis homines circumferát Ex Liuinio Lem. Hepaticos,
Gtienoſos decodochamading fanari. INter præſtantiſsima remedia, quæ I
hepaticis, & lienofis adhibentur pri mum Chaniædrium locum retinet: fie nim
ex aceto deco & a,per pluresdies ex. hibetur,hepaticos,atquelienoſos pro.
culdubio fanat: multisequidem experi mentis comprobatum eft tale decoctí
viſceraab infar &tu liberare:propterea ini febribus chronicis, eo quod
obitruction tres mire abigat, fdelici fùcceffo à multis: pro fingulari ſecreto
audio vſurpari. Pulfus deficientes,&intermittentes in ix. uenibus mortem
prædicere, O Vanti timoris in languentibus,pul sus deficientes, vermiculantes,
& formicantes exiſtant,apud Medicos notiſsimum eſt: ij enim ex proſtrata
natura exorti,exitiú efle in foribus aftédūt. In. termittentes autem duorúpulfuum
ſpa tie tio,non modò in omnibus fufpe & i ha bentur, verum etiam omnibus
maxime iuuenibus exitiofifunt; diſséticGalenus, qui in pueris, &fenibus non
ita fore ti mendos afleruit.Huius rei habuitexse. rimentum Proſper Alpinus in
Iacobo Antonio Cortulo octuagenario,pleuri. tiro, & febreardente vexato,
cui pulfus fuerunt cùm intermittentcs, tum defi cientes; tamen ille citò
conualuit.lib.s. de med. method. Mitbridatis Regis, ad venena maximum Antidotum.
D Euico Mithridato Rege maximo, in eiusArcanis Pompeius inuenifle in peculiari
commentario ipfius manu exarato compofitionem antidoti dici Inr.Cóftabat ex
duabus nucibus ficcis ite ficis totidem, & ruræ folijs viginti fimul
tritis, addito falisgrano.Si aliquis hoc iciunus allumeret, rullum ei venenum
nociturum illa die affirmabat, Ex Plinio. ONO Slidera Quo artificio offa,
velebora colorari valeant. I offa,vel ebora coloratahabere de lideramus,ca in
primis oportet abim munditiis purgare; deinde in aluminis aquadecoquere,tum
demumin vrină, vel calcis aquam in qua diffolutum fit verzioum, rubrica, aut
cæruleus color, fiue alius quem volumus immittere, & vna iterum coquere.Cum
autem perfri gerata in eodem etiam liquore fuerint, extrahenda ſunt; &
pulchra, & bellè tin eta habebimus. Alexius Pedemont. BRICA Bryonieradicio
è vinoalbo decoctum, hyfte. ricam paſsiorem reprimere. Ryonia in
fedandamulierum hyſte rica paſsione,egregiam habere vir tutem multis
experimentis dicitur.Ex multis obſeruationibus in quadam mu liere, quæ quotidie
ferè per multos an nos hocaffectu laborauerat, à Matthio lo experta eft. Hæccum
ſemelper heb. domadam, cius confilio, ſub fccti ingressum, vinum album, in quo
ip fius radicis vncia efferbuerat, hauſſet ex illa paſsione optimè conualuit.
Ne tamen amplius in fuffocationes deueni ret vteri,perannum integrum hoc me
dicamento vía eſt, nec morbus iterum recidiuauit. Quo fuffitu Serpentes
venenati à domibus, velpradiis arceantur. Vlta equidem reperiuntur, quo rum
ſuffitus adco o diolus eſt, vtà loco, vbi is. fiat,penitus arçeantur. Scribit
Florentinus in Geo pon. Venenatam feram numquam accef luram, vbi adepsceruinus,
aut radix Centaurij maioris, autLapisGagates aurDictamus creticus,aut Aquilæ,
vel Milui fimus cú ftyrace miftus fuffatur. Ex Gal. autem habemus in lib.de
med. fac. parab.ad Solonem.Pyretrum, ful phur,cornu ceruinum, pinguedinem,&
pulmonem Afini accenfum,ac fuffitum, cuncta animalia venenoſa efficaciter fu -
gare compertum elle. Herpetes exedentesTabucoicereto felicitors Sanuri.
Terorymus Aquapenders inl.:.de Tumoy prenat.6.20.5xedcotes her petes teſtatur
curaſſe quoad totum cor pus, ex ſero Caprino expurgatione con fecta,fæpèautem
cum fa !fæ parille de co & ione:partes affectas aquis therma lbus D.Petri
lauabat,vltimoiis, felici cum fucceſfu ſequens admouitCeratú. R.Succi Tabacci,
ſeu herbæ Reginæ vnc. iij.Ceræ citrinæ nouiſsime.vnc. ij.Refie næpinivnc.j.
Rofinz Tyerebintinæ vnc.j.Oleimyrtini quantum fuffic. pro formando Ceroto. Vina
alba, qua induſtrie inrubramu tentur. A Lba vina abſque vllo detrimento in
rubra(auctore Mizaldo ) tatim Conuertuntur,lipuluerem mellisad du rilsimă
conliltentiam deco&i, & ficcati in vinum albuin proiecerimus, &
tran Suaſandomiſcuerimus,Idautem minori faſtidio efficier lapathorum radix, fi
re cens, vel ficca in vinum mittitur. Flores in Aegyptoprope Nilum inode tar os
exiftere. O Dorin ficco fundatur, eidemq; in nititur;hinceuenit(auctore Theop.
6.de cauf.plantar.) vt fru & us agreſtesvro - banis ſui generis
odoratiores,eo quod - ficciores exiſtant vrbanis,habeátur.Heç quoq; caufa
eft,quod in Aegypto mini mèodorati flores naſcantur;vt n. Plini - us prodidit,
Aegypti aer à Aumine Nile tum nebulofus, tum roſciduseſt: cuius cauſa odor in
foribusadimitur. Abfynthium ventriculum roborare ſo lum adftri& ione.
Vantam Abſynthium in roboran do ventriculo vim retineat,in mul. tis locis à
Galeno exprimitur:bancau tem virtutem non ab amaritudinem fed propter adftri
& tionem abfynthio inefle verfimilc eſt. Conſtat hoc totum ab eius fucci
natura, qui corroborandi facultate deſtituitur, ex eo, quod ter rez partes, in
quibus adſtringendi vis poſita eſt, ab ipſo feparantur. Succus itaque folum
amarulentiamhabet, quz tantum abeft, vt ventriculum roboret, fed vt potius
illum infeſter. Ex epote Chalcantho, albos pilos è capi te decidere. Icet
Chalcanthi, fiuc vitrioli vſus, e reſumpti, apudGalenum ſuſpeatus habeatur: à
multis tamen audio maximè commendari. Inter graues fcriptores, Rbaſes eft,qui
29. Continentis, 6.24. ſe habuifle amicum quendam ſcribit; qui potata vitrioli
drachma, propènoctem pilos omnes, quos in capite habebatal bos, abiecit.Res
profe &to mira eft, pbrenitidem ex nigro Coralio felicitar Sanari. Oralium
nigrum, quod Antipallas, fiue Antipatkes dicitur,inPhrenitide morbo corrigendo,
& fanando perquá Airam habere facultatem exiſtimatur. Hoc nigerrimi.coloris
eft, & ob varie. tatem in magno precio tenetur, & cótra huiuſ HORTvĆvs
G & NI ALIS. 14h ** Merete huiuſmodi affectum tanquam præftan tiſsimům
remedium vſurpatur. Ex Ense lio de Gemmis lib. 3: Lethargicosà Satureia capiti
admota excitari. Vltis experimentis obſeruatum reperio,Satureiam cumfloribus
vino incoctam, & calentem occipitiad. #motam, Lethargicosdifficili ac
pertina E ci sono oppreſlos, ac veluti raptos exci tare, & reuocare.Vt
autem curæ folici $, or fit exitushuius decoctiguttæ aliquot fe infirmiauribus
inftillandæ funt. Hana diſchius. I peftilentias quasdam occulta anispat hia ho
minum corpora depafcere. M Vlta reperiuntur,quæ occulta qua dam antipathia, cun
&tis hominis bus aduerfantur. Huiuſmodi fuit aura illa peſtilens, quæ ex
arcula aurea in quá miles forte quidam inciderát (referente Iulio Capitolino )
in Babylonia orta eft, Ex hac nata fertur peſtilentia, quæ in - de Parthos
orbemý; compleuit. Huic haud abfimilis, vel prauior vtique fuit G peſtisilla,
quæ anno 1348.ab oriente in cipiens (teſte Guidone Cauliacenſi ) vniucrlum fere
orbem peruagata eſt, tảntaq; lauitie peragrabat, vt vix quar ta hominum pars
ſuperſtes euaferit. Bra M. Infantes eiulare quoties lar, nutricum mammas
papillas pangit. Slidua experientia comperimus f A mammasnutricum, &
papillas lancinat, & pungit,quippead infanculos tunc nu trices redire
videntur ftatim; cum pa pillarum mordicationem, ſiue vellica. tionem ſentiunt.
Duplici autem id fieri caufa credendum eft; vel quia quo tem porecoctionem
infantulus perfecit, eo dem momento nutricis vbera complen. tur, vel quia
tutela Angeli Cuftodisin fantis nutricem ad officium, leuiſsima vellicatione
follicitat.Hoc verius vide. tur eo,quod modo citiusmodo tardin fanteseiulant:
& vtriuſq; ſtatus non lem per idem eft. Ex Bodino lib.3.Theanatu. Sales Han
7 Salis Prunella virtus, &compofitio. al prunella,ob fingularem vim do
lores mitigandià quauiscaufacalida &inflammatione excitatos, quam reti-,
net, a nodynum minerale à chymicis apo pellatur. Eius compoſitio talis eſt:Para
tur ex,nitro optimo; quod in cruſibulo. funditur, paulatim ſuperinijciendo flom
res ſulphuris,quieiuspingaedinem tole Junt, idqueadeo pellucidum, purum que
reddunt; vt fi luper lapidemmar moreum effundas; omninò clarum, &
dlaphanuin appareat vitri inſtar: quod? đšinde Sal ſjuelapis
prunelle.dicitur,Sa lutare eit remediú ad ardentiſsimills febrem Hungaris
familiaré extinguento - dam, & edomandam:cuius ferocia tana' ta eſt, vt
ægrotantium linguas prorſus nigras, & prunis ardentibusfimiles ef ficiat.
Cum autem tanti ſymptomatislę. vitia extinguatarhuius vlu,leniatur, &
opprimatur: Sal prunellæ apellatus eft. Eft præterea idem remedium magnum
diureticum,& diaphoreticum. Querceta mus in Pharmacopes. 63 Hy ilico appetere.
1 adduxeram: qui Leonem, Gallum ve.. Hydrophobos è poto Catuli coagulo aquami
Iris laudibusCatuli coagulum in Aetio, ex tollitur: Illud enim fi femel tantum
ex aceto Hydrophobici guftauerint;ſta rim eos,aquæ pofus cupiditatem capere: ob
id medicamentum hoc præftantiſsi muth iudicamus, in huiuſmodi enim afa fe &
u, nulla falus ſalubrior iudicatur, quam aquæ potus: quo deficiente,mors in
foribus ſemper eſte Cur Leo Gallum timeat abfolutaz " izquifitio.
CVVmquodam die Cercelliani gra tia apud Carolum Cifellum luriſ conſult.
clariſsimum, meique amiciſsi. mum effem, forteinter nosde Gallina tura orta
fuir diſputatio; illa preſertim, cur Leo illum timeret? Pro dubii folu. tione
Ficinú inlib. z. de vit a celit. compar: reri ſcripfit, eo quod in ordine
Phoebeo, Gallus eſt Leone ſuperior. Hoc etiá ex Proclo confirmare volui, qui, Apollinca
Dæmonem;qui alias fub Leonis figura apparuerat, ftatim obiecoGallo diſpa ruiffe
prodidit. Ifle-autem quia bonarú Jiteraum citra legalem fcientiam admo
dumftudiofus et contraria rationeLeo i. nis timorem euenire contendebat. Ada
ducebat Leonardum Vairum in lib. 1. de Fafcino, quiex Gallorum oculis ſemina i
quædam, ac fpiritus exire profitetur gr I quibus Leonib'dolor,acmeror incredia
bilis inčuciatur, inde veluti effafciñatas ritere.Ego quidem licera Lucretio
hac etiam opinionem fuftentari viditlemi tamen poft,pleraque vltro, cirroque
inter nios de re hac ventilata;confeſſus füi apud me neutram opinionem vide ti
validam. Vbienim naturales rationes præualēt,nec ad Aftrologicas,nec adoc
cultascófugiendium eft.Leonesquoniá bile faya, & copiacaloris abundant,faci
le fit,vt ex fonoraGalli voce comoucka tur:ita profecto Canesex leui etiam al 2,
G4 terius 30 II terius latratu faciunt. Infuperrubicun da Galli criſta,flammæinftar
rutilantis, primo afpectu,colorisratione,bilem in Leonibus celeri motu excitat,
vt panni rubri armenta quædam fugare, & mo uerefolent,inde fit, vt
quodammodo Leones &afpe&tum, & Gallivocem ti meant. Haud tamen
credendum eft in iis (ledato primo impetu ) perpetuotimo. rem ex hac beftiola
durare, & induci poffe. Corues, morientium feditatem ſentire, ob id
fuperte&um infirmorum crocitare. Orui, quia hominibus meliorem habent
odoratum, vt voluitÀrift, corporis morituri fætidum odorem de longe fentiunt:
fecus eft in hominibus, licet prope maneant. Propterea ſuper te & um
infirmiCorui volitant, &cro. citant, quando eius corruptio, &fædi tas
magna eft, vt ea paſcantur: huiufmo dienim animalium genusrerum foeti
darummaximeauidum eſt; quibus pa fcitur: Charlie [ citur: idcirco in bellis,
&in peftilenti tempore, cum corpora mortuorum vel hominum velarimaliū humi
ia&a funt; Coruorucopiaprcualet.Homines vulga tes, & quiparú prudétes
funt;dů Coruos crocitantes fuper te &tum infirmiaſpici unt, illum
moridebere afferunt:hoc au. tem falfum eft: ii enim tantum fæditaté
inſequuntur. Sæpè tamen Déus permit tit Dæmonesin Coruorum, & aliorum animalium
forma ſuper domos: vel in domibusmorientiúapparere, quando be ftialiter
vixerút. Et Bernardino de Buftis. Quo artificio es aduratur, ut cinnaba.
ricolorem acquiraté Iæsvífum colore cinnabari, & ad ru bedinem verlum
habere volueris, o quemadmodum vult Diofcorides; AC i cipe
æristaminascuttricoftę profundas: non ſint autemęris alias fufi, quia in hoc
ſemper ſtannum commiſtum eſt, Has e ſuper ignitos carbones apta, cum autem i
illæ rubeſcere incipient,ſulphurispul.. uerem tenuiſsimum leniter deſuper có iicito,
Sleepin ijáto', videbisenim (cellante fulphuris Máma) Pris (quamu'as euidenter
extra hi,& euelli.Tumodol.perfe & e nó pol. Te cuelli cognoueris,
addito ſulphur. remtoties, quouſque lamulæ eradicari videantur:caue tamen
nevrantur, & ad nigredinem vergant. Extinéta tandem Sulphuris flamma, &
refrigeratis lami. nis;æris rubei ſquamulas habebis magni valoris,quasloco
Hydrargyri præcipi-. tati in medicamentis recipies alias aut tem huius vires
apudGalen. & Dioſco videto. Theodorus Ga4, quedinfelicitertex Arist,',
deHydrophobia conuerterit, à crimine abfoluitur. Heodorus Gaza vir do &
iffimus, dumArift.tex.8.de hiftor,animal.c. 22 traduceret,omnia animantia
voluit à Cane rabidodemorfa, ip - rabiem ági,. ac mori, excepto homine. Hoc
autem qqantum ſit falfum,quotidianademon Strát obferuantia. Homines n. demor
fi; in rabiem aguntur, & pereunt; niſi Tectè curentur, vtcuidam (pauci sunt
menses) hic iuueni accidit, quià Canc rabido in manu demorfus, nullo adhibi, to
to medico, fed folum circulatoribus com fiſus, in 40.die in furorem deuenit;
quo temporelicetme parentes vocaffent,fas s &o tamen
preſagio,quodbreuimorere I retur, tanquam deploratū reliqui. Hęc
igiturTheodoritradu & io pleroſq; in vi rioslabyrinthos deduxit:multin.,tum
i vtGazá defenderent,tum iavtArifto telem ab erroris ſuſpicione vindicarent,
textum ita acceperunt animantia omnia à cane rabido correpta interire, hominē 3
verò folum abſque periculo non ferua. rizita expoſuitIulius Pollux. Alii verès
inter quos eft Leonicenus, textum malè fuifle conuerfum, veleſle depra suatum
contendunt, & fic loco a pocos i legendum mpirs afferunt, quafi ho
mocorreptus, &in rabiem, & mortem deueniret, fed non ita citiùs, vt
ceteris animalibuscontingit.Hic fenfus quoad - negotij veritaté ver
eſt,quiahômo pro i pter oprimú téperamétum, tardius, qua: cætera violatur:tamen
Ariſtotelisinten. 2 tio neutiquam eſt ipfe enim ex profeſſo hominem à rabie,
& morte ſeruari fcri pſit,cuius textů Gaza fideliter traduxit, neque
deprauatum, neque commutan dum exiſtimo, quia mens Philoſophi peruerteretur.
Vtauté Ariftopinjoom nibus innoceľçat; hydrophobiamin ho minemorbum elle nouum,
illiuſq;tem peftateincognitum proponimus,ex quo iure expofuit animantia omnia
é: Canis rabie emori, homine excepto,quia hæc lues in homine nondú innotuerat.
Con-. firmat opinionem noftram Plutarchus 8. Sympoſiacorum, in probl.9. dum
exfen tentia AthenodoriMedici ſcripfit, hy drophobiam eſſe morbum nouum, atq;
apparuiſſe tempore Aſclepiadis, qui Sub Pompeio Romæ claruit. Confir mant etiam
hoc Scriptores ante Aſcle piadem, quideHydrophobia mentio. nem aliquam haud
faciunt:e od lima. nifeſtum fuiffet, non video cur lub fie lentio tantum morbum
occultaſſent, E go quidem Hydrophobiam antiquitus haud extitiſſe,perſuaderemihi
nonpof fum:innotuiſſe autem veriſimile eft, nó ob aliud, niſi quia morbushic
non ſtaa tim à vulnereaperitur: Siquidem multi in 40.die rabiunt, aliqui poft
fextum, autoctauum menfem,vel etiam poſtane num, vt fcribit Gal. Auicenna
adnota - uitpoftfeptimum; Albertus poft duo decim.Propterea
antiquitus,&precipue Ariſtotelis tempeftate,huius morbi cau fa
nóaduertebatur à Medicis innoteſce bat quidem aquę timor taméàcanisvul nere
& tabiem, & illa praua ſymptoma ta oriri imaginabantur: idcirco Ariſto
teles etiam, interillos, hominem com morſum à canerabido,necrabidum fi eri,nec
emori ſcripfit. Alai radicem pro expurg andis vomitu te nacibushumoribus à
ventriculo,effico cißimum eleremedium. Vanta Git Affari radicis non modo in
ciendo yon: itu,verum etiam in expurgandis àventriculo. & ab eius par
tibus, humoribus craſsis & tenacibus ef ficacia,fapientum aliquot edocuit
obler: uatio: fiquidem multinon folum in vis tiis ventriculi, ſed etiam in
quartanafea bre, aliisque longis affectibushac eua cuationefeliciſsimo
cũfucceflu va funt.. Præparatur è fcrup.ij.aut Drach.j.radio cis Affari, quæ in
hydromelite, aut para fularum decocto fit diſſoluta, cuitan - tillum cinamomi,
&firupi violar. ade iicitur. Ex Fernelio. In conftruendis ſepulebris
veteresfuiffeadu! modum diligentes... Xáca Veteres in conftruendis fer
Epulchris, webantur diligentia:id circo admiratione maxima dignum eft illud,
quodà Ludouico Vluenarratur memoria patrum fuorum fepulhrim fuifleerutum, in
quo ardens lucerna inuenta eft.Hæcibidem (vt infcriptio ata * teftabatur Jante
Ann.M.D.condita'erat, - & poſita: manibusautēcontreccata, ex templo in
puluerécóuerſa eſt.Ex Langit. Ganicula exortum à veteribus maxime fuiße
obferuatum. Canis cAničulæ exortus antiquitus à prifcis ex eius colore, deami
ſtatu côtecturam capiebant. Illan, fiobfcurior, & veluti: caliginofa
oriebatur, graui, & peftilenté foreannu;ficlara & pellucida ſalubre ac
proſperu predicebant.Heraclides Põticubi. Aegyptiorum de'quatuor elementis
opinio. Vatuor elementa feceruntAegy, & fæmiam conftituunt. Aerem marem
iudicant,quà ventus eft, feminā, quà ne bulofus, &iners. A quam
virilevocant mare,mulieréómnem aliam.Ignévocát maſculum;qya arder fáma; &
fæminami quà luct;& innoxius eft tactu. Terram fortioré marem
vocent;faxiscautibusq; fæminçnomen aſsignant, tractabili ad culturam. L:
Senecakb.z.Natur. Quaft. Pbreneticos aliquandomirabilia loqui. Mirabile eft,
quod aliquádoin Phre« neticisobfcruamus,isturum enim, aliquot(benè inflammato
cerebro )}in guaLatinaloqui vel carmina cóponere cum prius fuerint eorum igna
viſ funt, fed quod mirabilius eſt, Nicolaus Flo rentinus refert, fe fratrem
phrenericum habuiffe, qui futura pradixit, quæ euer nerunt, ita vt eius
prædictiones magna ex parte poftea veræ inuentæ fuerint:de quibus tamen
fanusexiftens,nullam ha: bebat cognitionem. Infantium rupturn; qua via Sanare:
valeamus. Vltis obferuationibus, nullum remedium; Salubrius infantium rnpturis
inueniri expertum eſt, quam extritis cochleis, thure, &oui albumine
emplaftrum confectum. Hoc enim fi pare in affi &tæ apponitur,& infantes
eo temporinlecto detinétur miram in fa nando' affectu retinet efficaciam. Ex
Matthiolo. Digitum anularem, maximam cum cords retinere ſympathiam. Valem
anularis digituscum corde habeat confenfum, in animi defe & ibus, & in
fyncope experimur. Qui e. nim à talibus paſsionibus vexantur,vel. licato
articulo anularis digiti,feu medi. ci, vel attritu auri ad eundem cum croci
momento eriguntur. Per hunc prefecto vis quædamrefocillatrix ad cor perue nit,ex
qua ab animidefe & u collapſi vi gorantur, & in priftinam valetudinem
redeunt. Ex Lennio. Carnes code quomodo cruda vje deantur. N lautis
conuitiis,nevoraces gulofi que carnes coctas comedant, ticarti ficium
parabimus.Excipitur:leporis,aut agni ſanguis, quem congelatum, & fico.
catum in puluerem comminuemus,hic: fi fuper carnes coetas fpargitur ftatim
foluitur, illæq; colorem proprium mu tantes ſanguinofæ videbuntur, venau
feabundus, reijcias. In comeffationi.. bus contra paraſitoshoc eſt ele
&tumra medium. Ex Vuerckero... Adoris plcera, labiorumque fciffuras exper
HomasThomaiusin Idea fuivirida rij, Nicolaum Zannonem Chirur. gum guim Rauennæ
retulit, mirabili fucceffu: & artificio,oris, gingiuarum linguæ,&:
palari, nulla alia re, quam radicis penta phyon, fiue quinque foliorum decocto
vlcera fanare,atque labiorum fciffuras linimento,ex oleoamygdalarum dulci-, um,
cera, &maſtice, quam breuiſsimè adianitatem perducere. Exapri
tefticulis,fterilitatem in bomi nibus remoueri. MA Agnaeft vxoratis inquietudo,
& Gerileſque exiſtere: propterea.vt à xan to infortunio liberentur,
prolemq; ha beant,peraliquot dies ieiuno ſtamacho vir, & vxor cum iure
galli veteristeſti culorumapri,que verrisin vmbra exico catorum puluerem
capiant:ita profectò. breui tempore optatumadipiſcentur, vt in multisfterilibus
ex quacunq; cau « fa non ſemel expertum eft.Ex Democrito. Bufonistibiisdentium
doloreseuanefcere.'. Nter maximos cruciatus à quibus; dolores perniciofiſsimiexiſtimătur,ad?
cò quod multi & in animideliquia,& in manias deuenerint, multi etiam in
vitę deſperationem.Huius doloris remedio. um in odioſo & abominabili
animali natura repoſuit. Aperiam hoc arcanum maximum. Tibiæ Bufonis, fiue' ranz
terreſtris à carnibus mundatæ, fi fuper dentes condolences fricabuntur,imme
diatè dolorem remonent; adeoque cru ciatus ceffabit, vt quafi in dentium ſum
perficie dolor collocatusvideatur. Ex. perire modo, & fruere tanti arcani
theo fauro. Ex Florauanté. Cepam ab Hippocratemaximèdeteftario ' £pam
Hippocrates afpeétu inagis, quam efú coinmendauit, viſu bonā, elu malam elle
dicens. Idcirco lucubram tionibus, & litterarum ftuţiis addi& is
fùmmècauenda eft: oculos enim vitiati &viſum obtenebrat,bilemque exacuit..
Villicis, & folloribus, qui literis non ind. cumbunt huius eſús maximè
collauda tur: eius enim calore vires ad opera exercitanda magnopere
excitantur.Ex Plinio.. C Anima 164 B1: 1 c: L L /, Animalibus naturam non modo
terra, perum etiam fi um pra termino conftituiffe. Agna fuit conftituendis
terrarum terminis, & fitu quibufdam animalibus: ne simul vbique viuentia,
& hominibus & fibi ipfis perpetuo effent nocumento. Pro pterea
animalium pleraque in diuersű à proprio addu &ta fitum vtplurimum ægrotant,
& moriuntur. Hinccolligi musin Meda, Sylva Italia, non niſiin: parte
repeririglires. In OlympoMaceo doniæ monte Lupi minimè habitant, nec in Creta
Infüla. In Africa nec Vrfig. nec Apri, nec Cerui, necCapreæ viden tur: In
Illyria, Thracia, & Epiro Afini paruigenerantur: In Scythica terraa.. tem,
&Celtica neclunti Alini, nec vio. uunt Leones in Europa, Pantheræ in Aſia,
Ibisin Aegypto lolum commora tur. In Creta: nec Vulpes, nec Vrfifunt, necaliud
animal maleficum pręter Pha langium. In Ebulo Cuniculi non funt, catent in
Hiſpania, & Balearibus, In Seripho inſula Ranæ ſuntmutæ,illæ au tem fialiò
transferuntur, vocales fiunt. In Italia mures aranei venenati ſunt hos tamé
regio vltcrior Apenninohaud generat. Ceruiin Hellesponto ad alie nos fines non
commeant. In Ithaca illati lepores no viuunt. Sunt & alia animalia quæ in
determinatis locis, &non vbiqi viuunt, & generantur. Apjefum in menfis
apud Veteres infauftum extitiffe. X veteribus maiores nullum A pij genus in
cibis admittere folebant defun &torum enim epulis feralibus ab ipſis erat
dicatum, vtex Chryfippo Pli nius retulit. Multiautem non folum ex hoc, quia
ſepulchra coronabantur,Api umà veteribus fuiſle damnatum à men ſis, fed etiam
quia eius eſu viſus dimis nuitur, & Epilepſia generatur autumát: vnde à
Mcdicis nutrices moneri conſue lo, (frequenti enim huius vſu, lactum
decrementum, tum malam recipit qua titatem ECO 9. i > Samen litatem )vt ab
Apio abſtineant,ne lacté tes in morbum comitialem proni fiant. Dicunt in eorum
caulibus nonnulli cru diti ſcriptores vermiculos naſci, eoſque fterilefcere,
qui comederint in vtroque fexu: Satyri teſticulum carnofiorem Veneris in.
cendia excitæreflaccidum vero extinguere. Atyrium; quod Canis teſticulos vo
cant,magnæ apud fapientes eſt conſi derationis:in hoc enim,tum Venerem
excitandi,tum reprimendi à natura vi. detur eſſe remedium collocatum. Quip pè
maior planta bubulus, quiplenior, & mollior eft,ex ſuperflua &ventola
eius humiditate, in potu aſſumptus Veneris incendia excitate cóſueuit: minor
verò, qui flaccidior, & aridior eft illa reprime re,Veneremque
extinguerevidetur. Ob id(vt aiunt) in Theſſalia mulieres molle teſticulum in la
&te caprino ad ſtimulan. doscoitus,& bibere,& hominibus inpo tu;præparare
ſolent.Quod autem in Sa tyrio mirabilius eft,aiunt, alterú alterius in poo Sier o in potu ſumptų potentiam &
efficaciam refoluerezlı vterque teſticulusvpà exhi betur. Sterilitatem
hominibus,à fterilibus animali " bespoffe prouenire. I verum eſt, quod ab
Athenæo pro dicur,Malluin ter in vita parere,relis quoque tempore fterilem
efle, quod in eius vtero naſcantur vermiculi, à quibus femendeuoratur non
abfque rationeex iftius naturahomines pofle fterileſcere. Terpſicles apud
eundem dicebat.Mul lus enim fi viuusin vino fuerit fuffoca. arus,atque id vir
biberitçrei venerea -o peram darenon poffe creditur, quod ex 3 Plinio etiam
confirmatur, qui veneris incendia extinguere fcripſit. Cynorhodiradicem ad
Hydropbobiam pluri mum valere. Dmorſum canis rabidi vnicum " A
Pemedii,quodá oraculoroperti proponit Pliniuslib.8.cap.41. Hæc radix Hlueftris
roſæ eft, quæ Cynorhoda apl pellatur.NarratB.Fulgofius de quadam s fæmina quæ
per ſomniú admonita eft, vt 12 Hvide vtradicem Cynorhodi filio à cane ra. bido
demorſo, & aquas iam metuenti præberet, quæ ftatim ex Hifpania affer ri
curauit radice qua Hydrophobicus ce, lerrimè fanitati fuit reftitutus. Ex Gem.
m4Cofmacrit. lib.1. ap 6. Hominis vitam quibusfignis long am,velbres nem
metiamur. Ominis vita pomo perfimilis effe videtur; quod aut maturum,deci. dit
Spóte,aut ante iniuria tempeſtatum, ventorumue impetu deijcitur. Vitae breuis
figna colligimus, raros dentes, prelongos digitos,ac plumbeum habere colorem.
Contra longæ, incuruos hu meros, nares amplas, & tria ſigna primis
contraria, multos ſcilicet dentes, breues digitos, craſfosque atque clarum
reti. nere colorein Forcius. Extra£tum Hellebori nigri ad morbos inue ter
atosmagnaeffe praftantia. N thrities atqueaffectibus inueteratis, iiſque
potiſsimum, qui ex atro, & meo lancho T! ta ļ lancholico humore excitantur,
extra Ecü migriHellebori,remedium praſtancil efimum femper clle
inueni.Capianturnie gr Hellebori radices à fordibus purga tæ, & in pila
terantur groſſo modo: in fundantur vino albo,& in vafe terreo e bulliantur
quousquc radices benè emol liantur, quo facto prælo exprimantur,& iterum in
vaſe terreo leniter ebulliat (deic & is tamen radicibs) quod fucrit
expreſsum. Acquiret fuccus (piſsitudi nem inftar picis, quicum modico cinna.
somo,& pulucre aniſorum miſcendus eft. Dofis in grandioribuseft fcrup.ſem.
in minoribusà granis quatuor vſque ad ſex. Datur cum zuccaro in forma pilalar.
Confiteor in obſtructionibus, in c pilepticis, retentione menftruorum ex
cralforum humorum infarctu, & in alijs inueteratis affectibus, mirabiles
huius remedij fucceflus vid.Conficitur eti, am extra & um fine expreſsionc,
& cffi. - Cacifsimum cſt. AdLejenem induratum ejufqueobfrationen
efficacifsimaprafidia TE 3 Inte Nter ea remedia, quelienem, &fple. neticos
ab obſtru &tionibus liberare reperta sút,mihi femper ex voto fuccef
GtAbſinthijRomanideco &tum,ieiuno ftomacho epocú,quod à Cornelio Cel fo
fummècoromendatur:Vt autem eura felicior ſuccedat poft cibum,aqua Fabri
ferrarij; in qua pluries ignitum ferrum extindum fit, Lienoſis præbenda eft.
Experientia id totum manifeftauit, ani Talia enim apud huiulmodi fabrose
nutrita, ob eiuspotum, exiguos habere lienes obferuatur. Beniuenius, ciuem
Florentinum per feptennium ſplenis fcirro malè affe & um curaffe gloriatur,
atque ſolo eſucapparorum, & aqua per lanalle.Debenttamé hæc remedia mul to
tempore vfurpari,vtfcopú attingat. Hominem quendam fuiffe repertum, mira
vaftitatis,&ingluuiei. NdixeratMaximilianusCæſar Ann, MDX I.apud Auguſtú
comitia: quã. do illi vir quidam, prodigiofæ vaftita tis, & craſsitudinis
oblatus eft;at in illo incredibilis, & inſatiabilis erat ingluuies itavt
integrű virtulü crudun,vel ouem UN It incođá vna vice deuoraret, nec taméfa.
mem expleta diceret. Ferunt(vt Surius) hominēBorealibus regionibus ortú fuiſ fe,
vbiob locorú frigora folent homines elleedaciores.Hoc taménon folú in Scp
tentrionalibus partibus,verú etiam alibi bi repertú cft:Voraces n.fupramodú
fuifle referunt Aeliano auctore lib.3.de var. hift.) Pityreú Phrygem, Cambeten
Ly dium,Charidamcleonymu,Pifandrum, Charippum,Mithridatem, Ponticum.Et e
Anaxilas comicus dicit, Cefiam quendā infinitæ voracitatis extitifle. Antidot
erum aliquet contra penenum ab ſeruationes. Rcareca Viperamorfus, per impofi
tioné tormentille à campo penſili colle etę,illico liberatus eſt,Altercum ingen
ti dolore, & ardore premeretur fuper | dextra spatula, & ita angeretur,
vt vix ſe s pedibuscontinere, oculis videre, & lo. qui poſſet, veritus neà
fcorpione eller comorſus,oleum bibit,multú vomuit,& à dolore leuatus eft,
& quod mirabilius, Ha in ſpatula
nihil erat ſigni,vbi prius fue rat dolor.Quidametiamà fimili dolore, &
tremore correptus ex aflumpto Bolo armeno cum aceto ſubito cuafit.Puellus etiam
putredinem timens, & vermes al fumpfit Scordeum, &liber fa & us
eft. Ex Franci.Thomaſio depeste. Quoartificio Cancri pixiextemplo sodi vi
deantur. Inum ſublimatum, fiue aqua vita magnam habet efficaciam ia rubi
ficandis cancris viuis: propterea fi vis homines in admirationem dicere,accipe
viuos Cancros atque in vino fubliaato fubmergas, ita enim confeftim ruber
cent,acli perco &ti eflent cantaeft illius aquæ caliditas, & energia,vt
inſtar ignis exardeſcat: admiratio tamen indenaſci cur, quod rubefa &
i,& viui ab aqua e. cmpti ambulent. Quorradoflamme excit etw inagha. I
calcem non extin & am accipias,Sul & lalnitrum in partes æquales, ac
bene omnia fimul ailccas, puluis perabitur, qui forqui in aqua proiectus
inflammabitur, ac ducem reddet: quod parui mométi haud Berit,prçcipuè ſinodu
luce indigebis.Po e terit id fieri in valčulo aqua pleno, vt™ quidá amicusmeus
dū no & u in itinere lefſerexpertus eft,qui totum mihi fideliter comunicauit.
9 vbivigent morbi, ibi maximè remedia oriri. M.Agna eft Naturę prouidentia ia
ado iuuandis hominibus,quippè obſeros suatú eft,vbi aliquimorbi copiosè vaga.
ctur, ibi remedia accomodataad illlorum exterminiūnaſci voluiffe.Hincinaphri
bea, quę ferpentú eft feracißima,aromata? tanquã eorű veneno antidota,oriuntura
In Argo Scorpiones plurimi videntur; propterea ibi Locuſta adverſus Scorpio.
nesinſurgensnafcitur: ApudIndos Os cidentales Gallica lucs viget,ibi lignum
SanaaGuaiacum di& á exoritur, & il. lincad nosdefertur.Catharides
veneno ierodunt:ex illis remediú caput, alias & e pedes earum exiftere
obferuamus.Quia Stellionibus mordentur, iiſdem in potu Ghana fumptis,fanantur
Crocodili adeps, fi in ipfius vicera inftillatur,ſuo veneno me deri videtur.
Scorpiones,Draco mari. nus, & Paſtinaca contriti, & eorum pla gis
impofiti,procul dubio fanánt. Na. pellusmortiferum venenum eft, vbita men
nafcitur,ibi Antorareperitur.cuius radices cốntra Napelliperniciem,fingu Jare
ſuntpræfidium. Animantium lac ab alimentis recipere gut litatem. Lacomnein
animantium corporibus alimeati recipere qualitatem adeo verum et vt
demonftratione nonegeat: liquidem nutrices ex prauo in vidure giminenon ſemel
infecifle infantesvifa funt,hac etiá caufa lacin ijs modò.craf fum,modò
liquidum,aut ferofum cer nitur,eo quod cibusaut craffus, aut in eiſsius
fuerit,modò infantium cóftrin git aluum,modò ſoluit,quod vel con ſtringentia
vel foluentia nutrices come derint,Hocin pecoribus etiam manife ftum eft:in
locis enim vbi hæc fcamoniú Helleborum,aut mercurialem comedit, vtiq; lacomne
ventré,& ftomachūſub vertit: quemadmodú Dioſcorides in Iul ftinis moribus
contingere prodidit: vbi ficapre albúveratrū pro pabulo habue i fint, primo
foliorúpaftueunmere, & ea rá lacnauſea n epotứcreare atq; ftoma chúvomitionibus
offendere ait: Cum a.. adftringétibus pabulis,robore,lentiſcogs frondibus
oleagincis, & terebintho pe cus hocveſcitur, lac ſtomacho accómoe
datiſsimügenerare veriſimile eft. Ex pulcbritudine, da deformitate aſpoetuse'
mures viuentibus coniectusari. MAgmá nobis afpe&tus pulchritudo
veldeformitasnon folurn in homin I nib,fed etiã animalibus,& plátis
preſtaci cóiectură,qua benignos vel prauosmon res & naturas veoarifolemus;
intuitu nó pulchri corporiszfpeciofiq; afpe &tusmité naturam, benignofq;moresin
homine illo perfiſtere conieéturamus: contrain I deformicorpore,turpiafpe &
u timemus. enim neſcio quid calliditatis, & malitie i In animalibus
laudamus catellos, canes Venaticos, & ſagaces, venamur in eis benignam
naturam, & mites mores: (6.. tra in Maloſsis,inLupis,Pantheris, & fi
milibus, timemus crudelitatem, maliti am, & voracitatem. In plantisex pul
chritudine venamur falutares naturas, ex deformitate autem noxias, Rola,Li
lium, & Iris nobis præftát argumentum, quamplurimis pollere virtutibus: con
tra Cicutam, Aconitum, Napellum.ex deformitate enim plantarumhuiuſmo di,mortem
nobis poſſeinducere arbitra arur. Ex Poria in pbyſiognom. 1: partibus
Septemrionalibu sdeficitate tes exaceri. Laus Magnus de gentibus Septena. rrionalibus
loquens: Sunt (inquit ) Biariniidololatrę, & hamaxobii,Scytha. rum
more,atquein falcinandis homini.. bus inftru & iſsimi; quippè oculorum, aut
verborum, aut alicuius alterius rei maleficio, homines fæpe ad extremam maciem
deducút & tabefcêdo perdunt.. In hamorrhagia fele&tißimum praſidium.
Nfluxu fanguinis narium copioſople.. 5i9; & in animi deliquia, &
fyncopim deur.. perati intercant. A periam quod mihi deueniunt, multoties etiam
tanti peri cali bicmorbus eft,vtægrià ſalute deb u,fem * per adhibere
profuit.Burſa paftoris co I trita, ficum ouialbugine, & aceto,com i mifta
fuerit, & frontiapplicatur, confe * ftim fanguis conftringitur;ve mihinon £
femel in infirmorumcuracontigit. Vi in febricitantibus fitis, lingua ardor
compefcatur. Nfebricitantiú querimonijs ex ſiti, & linguæ ardoribus,
Criſtalli vfus inter præcipua iudicatur remedium. It lad enim fi diù in aqua
frigida agitatur, &ore deindedetinetur, fitim & calore corrigit, atque
linguam humectat: ma ioris tamen virtutis eft lapis albus, qui in lysacis
capite reperitur. hic porrò ſub lingua agitatus non modo fitim ca
loremquerefrenat; verum etiam faliva in ore excitat: vnde febricitátibus,&
ma kimè, fiticuloſis prælentaneum iudicae tur effe præadium. Ex Lemnio. Skolen
Al ignis prefidia fuiſsimè in morbis CW AX: dis Aegypties TerueTATE. Var
Aegyptij admodum proclives in languentium cura,adignea prælia dia
eligeada,propterea vftione vtuntur afthmatelaborantibus,in ſtomacho frie
gido,humidoque ab humorumque dea Auxu, &facibus repleto,Hepar,& Lic nem
obduratum, &refrigeratum,multa cum vtilitate inucunt; Hydropicos ſub
vmbilico, &fub hypochondrio finiftro linea petia ignita adurunt. In
doloribus dorfi,lumborum,colli, & orenium arti culorum,in ſpina dorli,lumbis,collo,
& alijs partibusdolore cruciatis,hocpræſi-. dium frequentant, In tumoribus
à crue. dis, pituitofisquc humoribus generatis ad ignem confugiunt, tanquam
auxiliú quod citò multosmorbos curet, inopia queproprium efle autumant. Ex
Alpines de Medic. Aeg opri.. Centium, & populorum ingenia bifuris,
prouerbäs: excogitari.. Vlius Scaligeri vir acutiſsimi inge nij,Gentium,&
populorum naturas tum ex hiſtorijs, tum ex prouerbijs, at que ex ore vulgi ita
excepir. Alanoruto luxus:Africanorum perfidia: Europeorü acritas.Mótani afperi.
Campeſtres mol liores,deſides.Maritimi prædones, mi ftis tamen moribus: eadem
ratione In fulani quoqueſunt.Indimobiles, inge nioſ, magiæ ſtudioſi,numcro
fidenteso Affyrij,Syri ſuperſtitioſi. Perſæ, Medi Baštriani,Pyrrhi,Scythæ,Sibi,Phryges,
Cares,Cappadoces,Armeni,Pamphilij, mercenarij, atquealijsbellicoſi, Aegyp tiz
ignaui,molles, ſtolidi, pauidi. Afria cres infidi,inquieti.Aethiopesanimofi,
pertinaces, vitæ mortifque iuxta con temptores. Thraces,Myfi,Arabes,Mo.
ſchouitæ, Pæones, Hungari,prædones. Illyrij, Liburni,Dalmatrz, iactabundi,
Germani fortes, limplices, animarum prodigi, veri amici, verique hoſtes,Sue.
tij.Noruegij.Grunlandi, Gorri, beluæ, Scoti non ininus. Angliperfidi, inflati,
feri,contemptorës,ftolidi,amentes, in ertes, in hoſpitales,immanes. Itali con
Atatores irrifores,fa &tioſi, alieni fibiip kis bellicofi,coacti,ferui vine
(cruiant, E H Dci 318 ! CEL: 1: 1: Dei contéptores. Galli ad rem attenti,
mobiles,leues,humapi,hoſpitales,'pro-. digi,lauri,bellicoli,hoftium contempto
ges,atque idcirco ſui negligentes, impa rati, audaces, cedentes labori,
equites, omnium longè optimi.Hifpanis vi& us, afper domi,alienis menfis
largi, alacres, bibaces,loquacesyia & abjadi lor 3.Poc-, tices. SCMabaum,Solis
Lunaque coniunčtionen piuentibus oftendere. Irabile eft, quod à natura Scara-.
bæus animal notifsimúedidicit, omnibus enim Solis, L'unaque coitum apertè
demonftrat.Hicex bibulo fter core pilulam ab ortu, ad occaſum totá. döverlans,
in orbis imaginem effingit, quam xxviii.diebus peracta humiicro beobruit ibique
candiu abfcondit, dum ZodiacuniLunaambiens fiat interme.. itiis,&
fileat:tum foueamaperit, & fide-. THM coniunctionem denuncians,nouam pralem
cdit: hæc enim eft iftius beſtio la necalia nafcendi origo Ex Mizeldo.i. exo # Bobilin 2x Quorundam aimalistu natur &..
Oseft conftans, afinus piger,equus: libidineincenditur, petitąue impe.. tnosè
femellam;lupusmiteſcerenequit; Vulpes inſidiola, aſtuta callida: Ceruus
timidus;Formicalaborioſa:Apis parca: Canis gratioſus, ad amicitiam propēlus,
Leoſolitarius,expers focietatis,nunqua pabulum externum admittens, tanta vocis
magnitudine, aut fonitu, vt ſolo Tugitu celerrimaanimantia profternat; Visſa
pigerrima,ſolitaria,corporegraui, compacto, indiftin & o: Panthera vehea
menis,& ad impetus faciendospropenfa, pernixoyedi& a quaſitota
fera.Anguis fæniculi paſtu oculorum lippitudinem carat: Formica temporishyberni
pabu lum æfiate condit:Item - fides in canibus, in elephante manſuetudo,ftudium
ore of natus in Pauone, çura vocis amanæ ſuam, uiſque in Lufcinia.Forciuss.
Cervorum vitam,eße lengisimam. Piabat Magnus Alexander poſteria -jari, Ceruorum
vitæ loogicudinem oftenders,propterea multoscapi iuſsit, quibus aureos torques
in collo in neđi voluit: in ijs temporis curri culum erat expreffum,
&Alexandri deo creturn; illorum aliquot poft centum annosab Alexádri morte
capti fuerunt, qui adhuc ætatis ſenium minimè pręfe ferebant.Ex Plinio.
Mafculinum fuum citius in ptero, gianfo mining animeri.. X omnium ferè
Scriptorum opi nionemaremfætum citiùs in vtero, quam fæminam animari capitur,
aiunt enim marem io dextra parte matricis ex feminecalidiori concipifæminam:
verò ex ſemine frigido, ſiue minus calido in finiftra partematricis,
quæcomparatiuè ad alteram frigida eft.Hincmasdie40. foemina verò 80.vel90..vt
plurimuma nimaridicitur:quod frigidum tardum fit,&pigrum in ſua operatione:
calidum. autem velox: idcircò virtutem forma tricem invno femine velocius,
& citius mébra organizare, & formare, quam in alio obferuamus. Ex
DominicoTbolofano fuper Leuit.cap. 1 o. Pici PictMirandulaniingenium, quam
maximè collaudatum. A,&, + PiciMirandulani,& ingenium, & &
multiplicem do & rinam collaudabant, & miro ordine
extollebant:Quando(in quit Picus) ron eft,vthac in re mihi,aut meo ingenio
velitisbiandiri: quin refpi.. cite potius afsiduis vigilijs, atq; lucu
brationibus,quàm noftro ingenio plau 9 dendum: & fimul aſpicite fupelle
& ilem noftram,atque librorum thefauros:oité I debat porro Picus
bibliothecam egre. gio ornatuconſtructam,atque omnigem nis libris ex varia
eruditione refertam. Ex Crimite InHydrargyro onnis metallica Supernatare.
Akreexcepto. Ercij,vel fi mauis, Argenti viui; proprietas mirabilis cit, quòd,
omnia mineralia ferè,vtplumbum, fer Tum, æs, & alia ponderotiſsima(excepto.
auro )in eo fuperpatent: aurum ditem, * fundum petir, & eius recipit, cola
rem, quiignis tantùm opeabfumitut & in fumú mali odoris refoluitur. Hu. jus
nidor, & virulentia nauſeam, nocu mentumque adftantibus inducit: inde
membra ſtuporem recipiunt, & nerui relaxantur; vt fæpifsimèip inauratorio
bus obferuatur. Ex Lem. oleicinnamomai rara o pretiofa como pofitio,plerisque
incognita. Icinnamomiolcum ad diuerfas infira: mitates parare optabimus caperec
portet, cinnamomicontriti lib.j.quam adinftar liquid: pultis cum oleo amyg-:
dalarum dulcium commiſcere ftude bimus, tum demum duodecim dierum ſpatio in
loco tepido clauſo vaſculo fituabimus, poftmodum ex torculari totam id
exprimatur fortiter: hac ett nim methodo oleum, odoris,.coloris, &
faporiscinnamomihabebimusad vo tum. Hocadvires reparandas, & Vio letudinem
conferuandam rarum eft ro medium, prodeft parturientibus, & in ftomacho
debilitatotam interius,quàna exterius vfurpatur; ngritudines frigi 18g A E das
arcet, & in partibus corporis ro u borandis eft tantæ efficaciæ, vt vix ale
v toruin conſimile inueniatur remedium.. e Marimum Herinaechin
tempeftates:mariti w pracognofcere. Dmiranda profecto: eft' Marini Herinacei
proprietas: hic paruus pifciculus eſt, nullatenus tranquillita tis tempore
naturali propenſione futu ram præcognoſcit tempeftatem. Ea im. minente ita fe
præparat: faburram fa cit, lapidem ore percipiens, ne maris flu &
us,vndaqueimpetuofæ facile eum diocodimouere, atque huc illuc in pellere
valeant. Nautæ id afpicientes: fucuram tempeftatem à piſciculo hoce. do &
ti percipiunt, ob id anchoras & fue. des, & fe ipfos parant,
tempeſtatibus maris reſiſtere poſsint.Ex D.Ambrofia, Miracuimdam fontis in
Epiro Proprietasi A naturz proprietas illius fontis, qui in Epiro (vbi Dodonæi
louis tema. plum olim inftru &tú erat, quacaufa hic faces facer di &tus
eft ) inuenitur. Ille fri. gidus eft, & immerſas faces, ſicut cx teri
extinguitcum: autemfine igne pro culadmouentur,mirabiliter accedit, A bulenfis
fuperGeref.cap. 13. de hoc menti onem facit, afferitque huiuſmodi pro prietatis
cognitionem Adam, & conté poraneis fuiffe apertam, diluviogue &
gentiumdifperfione effle perditam.vide Pomponium Melam. mHecla ignem emiffum,ficcis.extingui,
to que verò nutriri. Dmirationem, &fidem omnem ſuperaret, ignem ab aqua
nutriri, & non extinguiintelligere,nifiGeorgi us Agricola,vif noftræ
tempeftatis me moria dignus,oculatus adfuiffet in He cla.Narrat hic in Inſula
Irlandia mon tem nomine Heclam exiftere,, ex quo ignis emittitur,vt hodie in
Vulcanopro. pe Siciliam,Sicaniam dicam, & Puteo lis in loco vocato le
Fumarole, obſer uamus. Ille autem à cæteris diſsimilis ficcis extinguitur, aqua
verò alitur. Ex lib:noftro de Hydrom:Naty. Hominum aliquot fubtilioris,
plerofque au tem groſsioris ingenij adeffe. Ropterea Aftrologi, & præcipuè
Al. bumas,hominum aliquos fubtilioris i ingenij,aliquosverò groſsioris inueniri
volunt: quia in eorum natiuitate Mer. curius, vel bonam,vel malam habet pòa'
fituram.In quorú enim natiuitate Mer. curius in domo,velexaltatione Solis fue
sit, ij ſunt ingenio prædici; fi verò fuerit + in domo Lunæ, nafcuntur
groſsioresor Ptolemæus, Bropoſ. 70. in quorum ortu | Luna reſpicit Mercuriú,
fapientes fieri voluit;contra autem amentes:quiaLuna virtutes naturales
infundit,Mercurius verò rationales:vnde eum virtutes naa turales,quibus
corpusguberdatur, rati onem reſpiciunt, ille nafcitur sapiens; cùm autem non
refpiciunt, amens. Hac etiam de cauſa efficitur mentis hebes, & obliuiofus,
qui in natiuitate Mercurium babuerit retrogradum: fi enim dire &tus
fuerit,ingenijceleris fiet. HancAſtrolo. gi ducunt rationem, quòd ftellæ nóim.
peditæ,luas faciant naturales operatio nes; oppoſitum autem,fiimpediuntur.
Hisdecaufis frequenter Aſtrologosve sa pronoſticare de moribus hominiume"
accidit; non quòd ita neceſſariò eue. niant, fi homo per voluntatem, ratico pis
legem magis, quam ſenſusſequi vo luerit:fed quia pronuseſt ad ſequendum
appetitum fenfitiuum, in quo Aſtra influunt. Raxael. Matr. in Addit. Bartol..
Bibyl. Galenum omniumporiamcorporis, folum perfe& ifsimè inter veteres,
morbos Caraffe. Ratapud Aegyptiosinuiolabile de cretum, vt fingulis morbis,
finguli adhiberentur medici. Hinc illorum 0. cularii, auricularij, &
alterius,morbo rum nomenclaturæ aliquot vocabantur: arbitrabantur enim fieri
non pofle, vt v nus omnium curarum difciplinam re&tè teneret; quamuis in
vnadoctus habere tur, vt BaptiftaFulgofuslib. 2. adnota uit. Galenus tamen
illic temporis inter veteres, naturæ miraculum, omnium corporis humani partium,
tanquamfa. E pientiſsimus,morbusperfe& ifsimè fo lus curare nouit. In
lib.de Pet. Art.Med.c.2. Grecos feriptores de Iudeorum monumenti rutibi
pertractafle Riſteas, cuiushodielibellus extat de Translatione In terpretum,refert;
Ptolomeum Philadel phum, fecundum Aegypti Regem poft Alexandrum, quæluille ex
Demetrio Phalereo, quem ille inſtruendæ biblio thecæ præfecerat, curGræci
ſcriptores,.nullá dehiftoriis, &monumétis ludæo rummentionem feciſſent
reſpondiffe autem Demetrium, tentafle quidem id facere Theopompu,&
Theode&tem,no biles in primis fcriptores, & quedá ex lu.. dæorum
monumentis ioleruiſle fcriptis fuis: fed mox taméluifſe temeritatis pe
nas:illum enim amentia: hunc cæcitate diuinituspercuflum; ſed poftea mali fui
caufam agnofccntes, & ex animo dolen tes, placato Deo,ſanitari elle
reſtitutos. Eufebius lib.8 De Prapar. Euang. A Cane qido demo- fum, inftarCanis
la traffe proditumeft. Ex corrupta imaginatiua non femel à cane rapido commorh
latrare vifi funt:cognouit enim NicolausFlorenti nus quendam, quià cane rapido
morſus, curationem vulneris minimè quæfiuit; exercuit hic per dies 35.negotia
ſua abſ. que læſjone, maneautéfequentis diei è lecto ſurgens retrò vxorem ſuam
inftar canis ſtetic, cæpico;pofteam latrare: dú autemab illa
reprehenderetur,lubridés ſurrexit, idque pluries eadé die reperi uit. Serò
corrupta ex eius ratio, & die 40.mortuusà morſu illato repertus eft. In
Arthritidey Chiragra, quando mors fuccedas. Arò mortem in Athritide, & Chi
R corporis ignobilibus humor refideat; hinc (nouo haud fuperueniente morbo)
tales àmortis periculo, vexatidoloribus vindicantur. Has tamen mori com pertum
eft, quando circa finiftrum pectoris finum, cui cordis turbinatus mucro ſubeſt
humorum colluuies den cumbat,atque Gniſtræ manus digitus an Bulan Di mularis nodum acquirat, ac valde intu i
meſcat.ex Lemnis. Lienen ad -corporis tarpitudimem maximè Talere,
Vantacoloristurpitudine,qui ab in dicuntur,exiſtant, in dies obſervamus, non
modò in illius obftru &tionibus, verùm atqueScirrhis, alijſque tumori -
ribus. Hioc iure dicebat Galenus z.de Natur. Facult. Quibus corpus florefcit,
his lienem decreſcere,ac vice verla,qui bus lien creſcic, illis corpus tabeſcere,
& o vitiofis repleri humoribus. Caufa om nium eft, quòd lien ab infar
&tu fa & us imbecillis,nequit(fa &ta humorum ſeparatione in Hepate)
melancholicum fuc cumad ſe attrahere: hinc demiflus ille cum fanguine
corporisatro colore ani. bitum maculat. Iumenta clitellaria in itinare fibilo,
da Cana In à laboribus fubleuni. Vlicęconcencusſongriſ numeri maximè homines
delectant, ob id multi & cymbala, & alia muſica inftrumenta
frequentant, vt animus à mæftitiis fubleuetur. Hac coniectura obferuatum eft:iumenta
clitellaria in la boribus, & itinere, cantu, & libilo al
leuari:propterea mulones, vt muli, ce seraqueiumenta dicellaria,& tarcinam,
& alia onera minus laboriosè fentiant, tincionabulorum torques in illorú
col. lisfufpendunt, quorum fonitu, huiuſ modi valdedele &tari cognouerunt,
& perinde refici, & à laſsitudinc fubleyari. Ex Vairo kb.z.da Fafcine,
Mafalas nigras in acutis morbis apparentes, exitium prefagics. Neer ligna,
mortem languentiuni, quæ præſagiunt in febris acutis, illud maxime obſeruatu iudicaui
dignū, quod à Sauonarola multa experientia com probatum eft. Sienim infacie,
ſeu genis ægrerum,maculæ nigræ obortæ contpi cientur,prcculdubio languentis
exitium minantur,quippè venenofæ, & peftiferę materiæ in corpore predominiú
redun dere arguunt, ex quo mors ſubſequitur. Has cum obſeruaſiet Sauonarola, ex
tali ľ prognognoſtico,magnumhonorem fua ifle confequutum refert. Acetum adictus
venenofos epotumplurimum valere. X Cornelij Celli obferuatione ace tum pertum
eſt:quippecùm puer quidam ab j. afpide ictus eſſet, & partim ob ipſum
vulaus,partim ob immodicos æftus, fiti premeretur,cum in locis ficcis aliumhu
morem nó reperiret,acetum, quod fortè ſecum habebat, ebibit, & liberatus
eſt: coniecturandum eft acetum, quamuis refrigerandi vim habeat, habere etiam
difsipandi,quo fit, vt terra reſperſa co spumet. Propterea eadem vi veriſimia
le eft, fpifleſcentem quoq; intus humo. rem hominis, ab eo diſcuti, & fic
dari fanitatem, lib.s.de ictu afpidis. A quodam piſtisgenere febrem illico ex
citari. N Arota flumine Inſulæ Zeilã quod. dam piſais genus reperiri referunt,
quod manuapprehéfum febrem accen, 1 dat.Equidem piſcesillic neutiquam el
culenti ſunt, liceat flumen fitpiſcofiſsi mum, qui tamen piſcem febrium appel
fatum retigerit,confeftini à febre corri pitur;ſed quod mirabilius eſt, demiſſo
piſce, ftatim liberauit.Cardanus, & 566 lig.in Exercit. Fæminas in
maresfuiße commutatas fabulo fum non est. Pudmultosauctores ex pluribus obferuationibus
notatum reperio, foeminas in mares quandoque commu taras fuifle:referam folum,
quod tempo reFerdinandi I.RegisNeapolisfueceſsit. Erat Salerni quidarn
Ludouicus Guara rea, à quo quinque filiæ fufceptæ funt, quarum natu maioribus
duabus, alteri Francifcæ, & alteri Carolæ erat nomen. Hæ ambæ cùm
perueniffent addecimu quintum annum,in mares mutatę funt: ijs enim genitalia
membrainſtar marių eruperunt,mutatoquehabitu pro mari bushabiciſunt:
Franciſcus, &Carolus nuncupati.Ex Fulgoro. Sene & utis incommodatam
corporis quàm Animai NKINGT ANTUT: Quanta fint in fenibus, & corporis,
& animi incommoda, non modò à Scriptoribus, verùm arquecontinua,ob
feruatione experimar,vt iure afferere libeat,hanc hominis poftremam ætatis $
partem miferrimam iudicari. Mortales enim cùm ad fene &tutem perueniunt *
cor eorum affcum eſt,caput tremulú, (piritus languidus, anhelitus færidus,
frons caperata, corpus recuruum, nares mucores deftillant, vifus debilitatur, i
capilli decidunt, dentesputreſcunt. In fuper ſenes ſunt iracundi, inexorabiles,
moroſi,nimis creduli, rarò obliuiſcun. tur iniuriarum,laudantveteres, prælen
tia damnant,triſtes ſunt, languidi, iniu cundi, &
alperi:ſuntauari,ſuſpiciofi, o. neroli,difficiles.Exquibus fene &tutem
fentina, & cloacam efleomnium ford ú, & immunditiarum ætatis noftræ
confia tendum eft.Ex Lauren. Cupero. + Magnum Alexandrum, corporis ſudorem ha
buiffe redoleni em. Rat Magnus Alexander tam re & a humorúarmo I 2 nia,
& temperamento conftitutus, vee iusanhelitus odorem balſamiexpiraret; imò
fudor, quem è corpore emittebat, tanta ſuauitate, & fragrantia redolebat,
vt quoties eiuspori recluderentur, gra tiſsimis odoribus perfufus crederetur.
Quod autem mirabile, & difficile credi tu eft,cadauer eius tam
fuauiterſpira bat, vt aromaticis ſpeciebus repletum efle iudicauerint.. Ex
Quinto Curtio,& lib. noftro de Hydron.Natur. Diuerfe quorundam hominum
virtutes, ornamentA. P tibus,tumanimi magnificentia col. laudantur,omnes in paucis
earum per. fe &tionem, confirmant. Porrò Ablalo nisformam, &
pulchritudinem extol lunt:robur, &fortitudinem Sampfonis: fapientiam
Salomonis: agilitatem, & celeritaté Afaelis:diuitias, & opes Creo G:
liberalitatem Alexandri:vigorem, & dexteritatem Hectoris: eloquentiam
Homeri: fortuuam Augufti: Iuftitiam Traiani: zelum Ciceronis. Veteran Baderoase
no canna, & in papyro penna fcribebate Veterim ruditas, &infcribendo
vari Arbara equidem,& mifera erat ve teruminfcribendo ruditas:ij enim primò
in cinere, deindein corticibus, & folijsarborum,pofterin lapidibus,mox in
lauri folijs, exinde in laminis plum beis,conſequenter in pergameno, & tan
dem in papyro fcribere politiſant.Erat præterea illis in modo fcribendi, ins
Itrumentorum diuerfitas: in petrisenim:. ftylo ferreo, in folijs penicillo, in
cinere digito,incorticibus cultro in pergame. Eorum etiam atramentum varium
erat, primum fuit liquor pifcis illius, quem nos ſepiam appellamus;deinde
mororú fuccus;ad hæcex fuligine caminorum; mox eft fynopica rubrica,aut minio;
vl. timò tandem ex galla,gummi,, & vitrio o lo fieri cófueuit. Bx
Strabonede situOrbis. $ InAngira prauosatiuspilulami rabiles Periamnunc pilulas
meas maxi mæ efficacia, quibus in angina 3 prafo А pręfocatiua à cratsis
frigidiſý; humori bus exorta, ſéper cu felicifucceeflu vfus fum.Interalias
obſeruationes, in quibus tale medicamétum libuit experiri, luc cefsit calus in
R. Petro de Stephano Archipresbytero Cercelli, qui ferè fufa focatuserat, quare
vocatus anno 16156 vt eius ſaluti confulerem; cognito mora bo, quòd ex craſla
& viſcida à capite de ftillatione fieret, pilulas meas in aurora
exhibui,non fine loſephi de Simoncin medicinaDo&oris, mei collegæ admis.
ratione, qui rennebat quodammodo. medicamentum. Eratpilularum come pofitio ex
trochis, alandahal, & Aloes an.Scrup.Sem.j.Diagrid.Scrup.Sem.cú ſyrup.de
líquiritia conficitur maſſa. Ex hac plurimępilulæ,vtfacilius æger de glutiret,
confe&tæ fupe:Hisdeglutitis, iuriscicerum fubitò cya mbum propine. re foleo,quemadmodum
in hoc feci, qui fine moleſtia euacuauit, & breui delituit dolor &
gulętumor,benè reſpirauit,be nècomedit, & vna die fanus factus eft,
cummaxima multorum admiration & lgtigia. His pilulis vfus eftGalenus ad
linguam tumefactam, vi lib. 14. Method s med. ſcriptum reliquit: Capitis noftri
capillos, plant arumnatura mo ximè aRimilari. M Agnácapitisnoftris
capillicumplá tis retinent fimilitudine: quemaddum n.plantę nónullæ humoris
defe& u. inarefcétes contabeſcút,aliç verò alienis naturæ ipfarum humoribus
occurſantes: o pereunt; fic &capitis noftricapillisaccia: -1 dit:vel n.ex
humiditatisdefe & u,quanu. triútur; vel ex eiuſdé prauitate corrum- 3
puntut, & decidunt.inc defluuiú & alir eapillorūdefe& us in
cap'oriútur.Ex Gal. Qya dia volucrum pennits varite coloribus tirgere valeamus:
I volucrú pennas variisco !oribus tin--, gere 1 ter abluereoportet; mox in aqua
alumi.. nis decoquere,atq; du calent,in aquá cro co colorarā, ſi flauas eas
cupimus, conii. * ciemus:lina.cæruleas, in fuccú, aut vinü acinorú ſambuci vel
ebuli.In diluto fio. ris æris virides fiunt: codémodo colore minij,atraméti,
alteriusue coloristin &tas habebimus. Agric Poftulanie,à meluannesBerardinus Agricolas,
Filicibus pro frumentoconfervant do in borreis pri. Oftulauit Mazzocca à
Vitulano,magna expe cationis adoleſcens, ob flagrantem in ſtudia amorem, cuius
familjaritas apud me gratiſsima eft:CurAgricolę pto fru mento conſeruando,
filicibus pro ftra gulis in horreis vtantur; Equidem hu ius ingenium, &
animi indolem fepè de miratus fum: proptera in recurioſiſsima complacere
volui.Vtuntur Agricolæ fie 1 cibus in horreis, vt cerealia à corrupte la
præferuent: quippè filix à proprietate generationi obeft, hinc agrifilice pleni
reputantur fteriles. Hinc filix epota ne cat vermes, &ex aluo deiicit: in
grauie dis necar fætum, mulieresque reddit ſteriles: quapropter multa ratione
agria cula (1.cet tanti arcaniline ignari) filio cibus pro frumentorum
ſtragulis vtun ter: quia illorum corruptioni maxime refiftuor. Terrestres
Lumbrices digitorum panaricium: fanats. Panae sol PAnaricium in latere vnguium accidit,
&interapoftemata numeratur,quod tantum inducitdoloris, vt patiens, ne. que
diu, nequenoctu dormire valeat. Prohuiuscuratione, & dolorislenitione
multimultafcribunt: egoprofe & dcer. tiſsimo experiméto multoties compro
baui, lumbricos terreſtres viuos ſuper pánaricium alligatos,præfertim in prin.
cipio,mirabilitet apoftemacompefcere, & fanare, vt vix diei fpatium affe
&tus pertranſeat. € Galega, atqueScordimir am,contra lüemo peffifentemefe
efficaciam. M Trabile obſeruamus Galege, & Scordii efle virtutem cótra
febres malignas, & peſtilentes; fi quis enim Galegęfoliainacetariis,
autcarniú iure femetindiefumplerit,afebre hactutus, & incolumis
præferuabitur. Idem (Gam leni teſtimonio ) Scordium efficere pro batum
eft:fiquidem ex.veterum quorú, dammonumentis aduerfus putredinem Scordium
fingulare effe. remedium tra đitur, vt j.de Antid.capaz. legimus:nam Is cum nteremptorumcadauerain
pręliog multosdies infepulta máſillent; quęcund que ſuper ſcordium.fortè
fortuna cocia derant, multò minùs aliis computrue. runt; ea præfertim
particula,qua(cerdi um attigerant:ob quáremomnibus per ſuaſum eft,tam reptilium
venenisquàm noxiis medicamétis quæ corpusputred ſcere faciunt, fcordum
aduerfari. Anni bal. Camil En. Nodos. in infantis ombilico filiorumrume-, rum
haud oftendere. Pleriqueexnodis inkantis primènato bliorum numerum ex eadem
matre: naſciturumcognoſcere profirenturthoc autem caretratione;fæpèenim fit, vt
illa moriarur, aut cafta viuat:vel plutesge neret filios, & pariat, quàm
nodorum numerus exiſtat;fiue plures viros habeat: è quibuscum alio plures, cum
alio paung ciores filios fuſcipiat. Proptereà certio. kiratione afferendum,in
nodorum vm bilici primi infantis coniectura, exiſtin, mosfæcundosvteros
plerumque plures ! nodosininfátis parerevmbilicofteriles; miebe autem paucos,
eofque non ad vnguem diſtincos, vt frequens obſtetricum obą feruatio
demonftrat, & vt euentui hæc talia, vtplurimum concordare.viden i tur. Ex
Carda. 8.de Oryalum quem ſolo afpeétu auriginoſosbom. mines ſanare. Irabile
eſt, quod de Oryalo aue ecircumfertur. Hæc potrò talem dicitur fuiſle naturam
ſortita, vt icteria cum affectum, à quo homines plerum que moleſtantur, ad ſe
valeat ſolo oculorum afpectu attrahere; proinde vocao tur I &teribus,fiue
Galgulus à multis, ab ' Ariſt. autéin biftor.animal.Goryon. Sed 1 quod
mirabilius eft, auriginofus homo ab alite viſus fanatur,ales verò moritur.
Homines, quandoque ſolo intuitu Ophtbaho miam contrahere. Vita obieruatione
animaduerti Ophthalmiam fiue lippitudinis morbũ quádoq; contagiosú elle, &
folo perinde afpe & uab hominibuscontrahi:: oculi enim tunc adeò
perniciofam vim. $ retineat, xt in alios propriumaffectum, 6 ciacus ejaculari valeant. Pulchra ratione hoc
Vairuslib.j.de Fafci, quomodofieri por fit, differuit:Siquidem animus malèaffe
& us fuum quoque corpusmalè habet; ob id fianimusaliquomcrore, aut vi. tio
afficitur,colores.corporisetiam im mutar:ſi enimab inuidiacentatur,pallo re,
&croceoscolore corpus. inficit. Inde fitetiam,winuidia tabefcentes,ftocle.
Jos.inaliquem. liuentes.defigunt, animi fimul venenum vibrent, &
quafivirule.. tis iaculis confodiant.Proptereamirumi non-ef, hominesaliquando
ſolo.aſpe & uindippitudinemincideres,vt Hieron nymus,
Thomafiusmedicusinſignis, (dú ipfe Neapoli ftudijs.vacarem ) defeipfo. teftatus
eft. Adlapidessenum,din neficefrangendos mine rabile remedium.. Vidam -medicus
ecuditus, ad lapin desfrangendostanquam admiran dium.parauit cibum,cuiusefficaciam
a. dedimirabilem eſle cognouit,včad.lapi.. desexpellendos non folumà
renibus,& retisa;ſed etiamab anulo comedentis, efficacius remedium haud
confedus fu. erit.Paraturex hepate, pulmone, reni. bus,tefticulis cum priapo
hirci, quæ cú & croco, cinnamomo, & mellemifcentur, ac ijs hirci
inteſtina implentur.Doſis fint duæ, aut tres.buccella Res porrò mon ftruofa,faveraeft.Ex.Micbaele
Pafebl. lib. 1.Metbed.Meck. Veterum medicornmpro conferuanda Sanin tate
collegium lans Rifx potentiſsimus Afiæ, & Syrie, quialter Alexanderdi
&tus fum, it (vt ex Ariftiin libisecret.fiuede Regin.
Principa.habetur)medicos præftantiores exregionibus Indiæ, GregiæMediæ,, ac
aliarum mundi parcium congregauit, quibus impofuit,vttalem inuenirent medicinam,
qua fi homo vteretur, nec. medicis,nec adia: mediciņa indigeret, pollicitufque
fuitRex dirüsimus maxi mumpræmiumefle daturum.Illi autem pro maturèconfülendo e
rrium dierum fpatio postulato collegiú iniuére. Mox ad Regem cùmomnes cffent
requiſiti Sanages Grocus Medicinæ peritiſsimus, qui pręter ceterosdo &
trina & fciētiarua tilabat omniú conſenſu Regiindicauit, quòd fumere quoủibet
manè aquábisplez noore,efficiat,vt homo fanusperfiftat, &alia haud
indigeatmedicina.blocpro feccò à rationealienu non eft:vtenim in Arabum,
Græcorumque antiquifsimis voluminibus inuenitur,aqua ponderofitatis ratione ad
ftomachi fundum ten dit,auget calorem, & citiùs comprimit, & digerit
cibos, digeftionig; maximè au: xiliarur,ceteriſk; mébris corporispluri
múconducit. Fabrorú exemploid torú inquiritur, quiin accenſoscarbones mo dicum
aquæ conijciunt,vt ignis vi'maioriaccendatur.Idcirco binos aquæclear ræ hauftus
manè potare, menfe Iunio præſertim, propter choleram reprimen dam, multum
confert ad fanitatem cone feruandam. EfBurtbolam. Moles in lib. de;
ſanit.tuer.. Alexandrum Magnum fudorem fanguineum in pugna habuiſſe. * Vdare
fanguinem puruminteradri Skadar randa, quæ rard luccedunt,puimera. SUT 1 tur:vbenim in aliquot fudorex láguinis i
iclore cruentus corpore malè affecto,: vifuseft; & is nequaquam
fineadmiratie one, & iftuporezita di illeexputo danguis:
nexortusfuerit,atquein corpore fano; ) vtique maiorem præſtat-negotijcaufam
inueftigandi cupiditatem; vt futiſsimè nobisinlib.de Hydraniofazatura.olimedia
to pertraétatuet Referam nunc quod, Magno: Alexandro euenit; dum eſſet in
extremevitae pcriculo conftitutus.Is cũ, in pugna quadamedererum fumma cum
Indis.decertaters lub @ diarioque milisere
deititueretoMilqucadedcholera:luccés, [useftzvékotocorpore purú languinédes
fudauerit; Barbariſgulecotus igneis filáns misardere vifus fit.Hocautemtantum
ijs terroris-ingcfsit, vt fe Alexandra.com mittere coactant, Lüpathium rantie
darworetaſtas,tenetrier mas, efung aprusreddere. Rat apud veteres Lapathiorum
vfus, pecu liare,eft,vt carnes; &vedulia cú hiselixata vel link dugaa
yesulta, & coriacea,terit titatem, & mollitiemacquirant.Propte. rea,quòdcibos
concoctu faciles przſta, bant,& aluumemolliebant à vecerum à mélis
raròhujuſmodi abfuifle legimus. Catoncorum feminum:muccaginem combusa fionibus
maximèopitulai Nter præftantifsimaauxilia, quæ có buftionibus: adhibentur',
feminun cotoneorum muccagipesretinent prin cipatum. Referam:Petri Foreſti in
pro prio filio experimentum, Ille matri obo. fequioſus,,cümtefta carbone ignito
re pletamkappostaret,cecidit & igneoculos. combuftitit: Putem cum temen
cotone. orum in quâ raſaceam coniecifset,atq;
muccagineoculosiçpiusabluiffet;mira culi-infarpuer-comualuitabfq; combus
ftionis veſtigio. Hoc etiãauxilio in f. milibus cafibus feliciſsimè ſemper vsű
fuiffe,idemconfirmat, In lib.6. Obf. Medo Aegyptiospermotas figuras,fenfus,or.
rummemoriameffingereconfueuiffe. A Egyptiorum fcientia,quia inter
cæterasprecelleroreratapud ve teres, (illa enim ab Abrahan originem habuit)
dcirco,& rudimento, &Hiero glyphicis ferè occulra indicabatur. Si à qui
illorum primi per figuras animaliú (CornelijTaciti teftimonio)léfusmétis
elfingebant, & antiquifsimamonumera humanæ memoriælaxis impreſla cer.
auntur, & literarum inuentores perhi. bentur. Hinc in quibufdam Obeliſcis:
- látcerę reperiuntur,quæRegum illorum diuitias, acpotentiamdeclarant. Per a -
pis enim fpeciemmella conficientis Re. gem oftendebant. Siquem memorem s
fignificare volebant; leporem aut vul. pemauritis auribus, quod fummieſlent
auditus,& inlignismemoriæ,effingebát: fi veròmalum crocodilum:fi velocem,
vel rem citò factam,accipitrem; quonis hæc aliarum fermè auium fit velociſsie
ma. Si inuidum, anguillam, quòd cum piſcibus fit intociabilis.Si iuſtum,oculü:
Gliberalem, dextram manum, digitis paſsis:fiauarunn,ijfdem compreſsis.Per
inſtrumenta quædam, & membra hu. mana pleraque fcribe Jant. De bis vide Pie
arium, Diodorum, Srabonem. lum ritatem,
&mollitiem acquirant.Propte. rea, quddcibos concoctu faciles præſta,
bant,& aluumemolliebant à veterum à mėlis raròhujuſmodi abfuifle legimus.
Cotoncorsimfeminum -muccaginemcombuso fionibus maximè opitulari. Nter
præftantiſsimaauxilia, quæ có. buftionibus adhibentur',, feminum, cotoneorum
muccagines retinent prin cipatum.Referam:PetriForeſti in pro prio filio
experimentum. Illematri obo... fequiofus,cum teſtá carbone ignito re pletamkappúrtaret
cecidit& igncoculos, combuft Pitemaeumtemen cotone. orum iniquárafáceam
conieciſset,atq; muccagineocalosiçpiusabluiffet;mira. culiinffarpuce
-Conualuitabſq; combus ftionis veftigio. Hoc etiãauxilio in fi milibus cafibus
feliciſsimè femper vsű fuiffe,idem confirmat, In lib.6.obf. Medo
Aegyptiospermotasid pguras, fenfus, re rum memoriam effingere confueuiffe.
Aegyptiorum fcientia,quia inter teres, (illa enim ab Abraham originem habuit)
dcirco,& rudimenen,& Hiero glyphicis ferè occulta indicabatur. Si qui
illorum primi per figuras animaliú 5 (CornelijTaciti teftimonio )jēlusmétis -
elfingebant, & antiquifsimamonuméta humanæ memoriæfaxis impreſia cer.
auntur, & literarum inuentoresperhi. bentur. Hinc in quibufdam Obeliſcis
látceręreperiuntur,quæ Regum illorum diuitias, ac potentiam declarant. Per a
pis enim fpeciem mella conficientis Re. gem oftendebant. Si quem memorem
ſignificare volebant; leporem aut vul pem auritisauribus, quod fummieſſent
auditus, & inlignis memoriæ,effingebát: fi veròmalum crocodilum: lì velocem,
vel rem citò factam,accipitrem;quonis bec aliarum fermè auium fit velociſsi
ma.Si inuidum, anguillam,quòd cum piſcibus fitinfociabilis.Si iuftum, oculu: G
liberalem, dextram manum, digitis paſsis:fi auaruin ijfdem compreſsis. Per
inſtrumenta quædam, & membra hu. mana pleraque fcribe vant. De bis vide
Pie. crium,Diadorum,cSrabonem. Quamethodo peftilenti tempore àluenos tueri
yalcancus. Retiofa,acbreuis theriaca reperitur, qua homines ab aere peſtilenti,
ad jun & o vitę regimine,præferuari poſsúr: Sumuntur caricæ,nuces iuglandæ,
folia rutæ, &iuni peri baccæ pondereæquali, confundanturfimul, atq cum
aceto ro faceo, vel communi diffoluantur; mox per pannum colentur, fuauiterg;
expri mantur;ſuccus verò, qui percolabit,fero uetur: vnúenim iftius cochleare,
mane ieiuno ftomacho ſumptum,non finit illa die hominemà peſtilentia corripi.
Ex Alpbane de Pefter Olivarum oleum unguium pun &tura mira biliter fanare.
IN fedando dolore vnguium expun, Aurisacu,vel ferro,atq; iisperſanan dis,nullam
remedium oleo oliuarum fa lubrius inuenitur; confiteor multa oba
feruatione,multisa; experimentis id toa tum comprobaffe. Honefta mulier; ac
vnicè dilecta, Laura de Otaro, mea vxor cariſsima, no femel, dum varia-ad femi liæornamentum,acu
contexerer, in vn guibus digitorum pun&a eft; limplicita menoleo oliuarumio
puncturiscollini to;&dolor confeftim euanuit, & falus introducta
eſt.Ego profe & ò ſemel pun. aus ferri cufpide ſubter pollicisvngue com
ſanguinis effufione, fubitò ad lini mentum ex oliuarum oleo, antequam
aquamtetigiſſem,deueni;quo adhibita dolor delituit,atque vulnus vnà breui ter,
& conſolidationé, & fanitatéhabuito Admirandüauxiliü ad vefica calculã,quoabt
que inciſione diffoluitur,& expurgtur. Nter admiranda auxilia, quæ ad cal
INTE culoſos adhibentur, connumerandum iudico remedium, à do &tiſsimo Hora
tio A ugenio experimento confirmatú in epiftolis addu& um,quo abfque inci
fione in vefica multorum Japides com minuit,& expurgauit.Réferam qua via
id, innotuita Aegrotabat calculo veſicæ cuiuſdam Typographi filius Romæ poft
varia aſſumpta remedia,cùm nulla lub fequutá noſlet ytilitatem,fecaricupidus;
de pretio cû Nurfino artificecóuenerate propterea Sacerdotem iufsit accerf ri,
vt ſumptis Ecclefiæ facramentis, fex le &tione moreretur, animæ fuiffet
confultum.Religiofus ex focietate Iefu, audita confeſsione, proponit illi phare
macum,de quo in leipfo, & in alijs peri culum fecerat: expeririæger voluit,
& magna aſsiſtentium admiratione fana s:Pharmacum ita erat concinnatum.
Puluerris Millepedum præparar,drach, i.ad fummum Scrup.iiij.aquæ vitæ vnc.
Sem.iuris cicerum rub.vnc. ix.velx.ca piatæger calidum,horis quinque ante
prandium. Efectus medicamenti talis fuit. Horarin duarum fpatio totum corpus
incalefcebat, anguſtiabatur z grotus fitiebat, ac ferè loco ſtare non
poterat,aliquandocirca pubem dolores vrgebant.Vrina hora quinta cceperunt
cralsiores:feddi,fed non multæ.Secunda die à pharmaco contingebant eadem,
fedvrinæcopioſiores, & craſsiores.Ter tia labulumapparuit multum. Septima
tandem adeò plena fabulo vifæ funt, ve rectequis diceret,easnihil efte quamfabulum
aqua diflolutum: omnia in me liorem ftatum redigebantur, ita vt, qui
proximèincididebebat, liber abomni malo nona fuerit die. Miliepedum ad
calculosRenum VP fuca preparatio. PRæparantur Millepedes ad Renum Velicæque
calculos talimodo r.Az fellorumquam volueris quantitatem, vinoquealbogeneroſo
abluito diligen ter, mox in ollam copiicito nouam, vi tro obductam, lutoque
aliquopiam ile lam incruſtato, demú in furno exiccen tur,ita vt poſsit in
tenuem puluerem rc. digi; tumverò affunde vini ciufdem gee neroli quantum
poterunt imbibere, & rurfus exiccato, ac tertiò imbibito & exiccato vt
ſupra,quartò veròpuluerem irrorato aqua fragarum deſtillationis &olei
exCalchanto Scrup.j. permifce to inuicem, & exiccato rurſus: vbi verò fic
fuerit exiccatum in tenuiſsimumque puluerem redactum,feruetur in vale vi. treo,aureo,yelargento.
Es codem. Frequentem ficoram efum fudorem parere abominabilem. Licetficorumvfus
multa hominibus commoda părturiat; ran & ij citifsi mè nutriunt, &
impinguant corpora, aluum emolliunt, & per vrinas, & per ambitum
corporis non pauca excernunt excrementa: tamen eorum continuus, & frequens
vfus fudorem generat abomi. nabilem, & corporis fæditatem; indici um huius
rei eft, quòd illorum eſu pe diculorum copia innaſcitur. Hinc apud Rhodiginum
lib.6.Antiquar. teet. Anchie molum, & Moſchuni Sophiſtas,legitur tota vita
fuiſſe hydropotas,acficis modò folitos veſci, & tamen robuſtos extitiflc,
ſed adeò fætentes,vt propter abomina bilem fudorem certatim in balneis aba.
liis excluderentur. Mulieres eximiam, &fuauemrerinete pinguedinem. Orpora
mulierum fuauiori, & ma: ori fulciuntur pinguedine, quàm hominium ipſa,quæ
profe& ò ob ſiccitaa tis, dominium,minùshumidi, & oleofia C ttatis
retinere videntur. Propterea apud Plutarchú 3.Sympol -4.habemus, vbi mul sta
cadauera promifcuè erất cóburenda, veterú tempeftate, temper decévirorú vnú
mulier brcímiſceri ſolitú: qualiil lud vnú tantú ſuppeditaret pīguedin is, vt
cętera faciliùs cócremari valuiſsent, Aſtu demonum, mirabiles in hominum.cor
poribus effectus procreari.: ribus Dæmonis aftu cffectus con ců, ſpiciuntur, vt
quando quis euomat am icus, clauos, pilos,oflamagna: vel quòd plumæ in lecto
fint ingeniofifsimè con ferta:multæ enim de iis obferuationes apud Hieronymum
Mengum in Malleo Maleficar. Paul:Grillandum, & Delrium reperiuntur. Quomodo
autem hæc fieri pofsint, talis eft ratio: aut enim ifta funt Diaboli
illufiones,ita quòd ea videátur, quz vera non funt, fiue per a&iua natu
ralia hoc efficiétia, ſiueper acrifiam,fiue per aeriscondenfationem;aut funt
vera; quippe Diabolusinuifibiliter huiuſmodi in hominis ftomacho intulit, &
exinde viſbi. Emin viſibiliter
educit,licet ram magna vide antur; nam &ea diuidere, & integrare poteft
faltem apparenter,eò quòd loca ſiter huiuſmodi corpora, & partes eorú, ad
nutum moueantur, & ad inuicem con glutinéter,Deo non impediente. Summa
Sylueftrina de Malefic. Carduum Benedi& um ab Hemicrania homi. nes preferuare.
X India Carduum Benedi& um pri mùmomniumad Imperatorem Fri dericum honoris
gratia fuiſle miſſum multi hiſtorici autumant, quod miris laudibus, ob
peculiares eius virtutes, planta hæccelebrabatur,&obidà mula tis Carduus
Sanctus dicitur. Hæcenim venena lupcrai, &confert cùm vlceri bus, tùm
vulneribus, eft præfentaneum remediumad peftem, necat vermes, & vtero
prcdeft, & in cibo, & potu viit pata, ab immenfoillo præferuat capitis
dolore, quemHemicraniam vocant. Ex Trago. Infantes preferuari Apoplexia.Epilepfia
fumpto prime fyropo de Cichor.cum Rhabar. vei Corallio, aut ſucco Rute. tibus
morbus epilepticus,apud au * Etores noftros paſsim legitur, ob id af. feetus
hic vocanturà nonnullis iLorbus * puerilis, liue mater puerorum: Vtau iem cùm
ab Epileplia, cùm apoplexia ghi præferuari valeant, multa obſerua tioneexpertum
eft,iis,antequam lacgu ftent, in primo ortu prebendo fyropum in cichorea cum
Rhabarbaro drach. ii.ab $ hacluepræſeruari,vt Nicolaus Florer - tinus fatetur.
Arnaldus Villanoua Co mit rallium laudat:nam fi diligenter triti të y Scrup.Sem,
infans hauſerit cum lacte, antequam aliquid guſtat, nunquam in Epilepſiam
incurrere obſeruauit. Ego quidem Marcello,Hieronymo, &Mare i co Antonio
filiolis meis ſuccũ ruiæ cum modico auro ad ſcrup. ii. cuilibet dedi, antcquam
lac guſtarent, &gratia Deiab Epileplia immunes exiſtunt.Helionora, K. quæ nunc
ablactatur, feremortua nata eft fumptoque & ieiunato paruo cochle airo
ſyropi de Cihor. cum Rhabar.re uixit, epilepfiam nunquam adhuc palla eft.
Menſtrualem mulieris fanguinema Tontta # nimaliaefe venenum. Nter naturæ arcana
reponendum eſſe iudicaui,quodàMetrodoro Sceptio traditur
demulierismenftrualifangui ne.Mulieres fiquidem fimenſtruationis ſpatio nudatæ
ſegetes ambiunt, erucas, vermiculos,fcarabços,ac alia noxia ani malcula
decidere faciunt. Tale enim à natura ijs virus inuentum eft.Non folú autem
huiuſmodi animalculis menftru alis mulierum fanguis nocere creditur, verùm
atque grandioribus; quippè cao pes, ex Plinij teftimonio menftruofan guine
guſtato, in rabiemutari vifi funt, quorú morſus inter difficillimos mora ſus
fanatu reputatur. At de re hac fupe riùsaliàs tractauimus. Thapfiam veficas,do
ademata corporifuper poftam excitare. Magna profectò eft Thapſiæ effi cacia in
veficis, & ædematibus ge nerandis,idcirco à nonnullis in peftife Eris
febribus vbi veficantia neceffaria súc cum felici ſucceſſu vſurpari audio.Cùm
autem corporis locum aliquem inflare quis deſiderat, veloſtentationis, vel cu o
riofitatis gracia, ponatur Thapfia in low i co conftituta:ibi enim breui
veſicas, & ædemata excitabit; vt tandem citra læ fionem id ſuccedat & breui
etiam fol jů uantur, cheriacam linire, vel curninum, i aut acerü fuperponere
oportet. Ex Car dano lib.8.devaret. | Antivfum inmedicinapro conferuanda va
letudine mirabilem obtinera proprie Mlimbi Irabilis efficaciæ aurum in medi
Lcina eſt:quippe innumeras illud pro corporis tuenda fanitate retinet vir.?
tutes.Eiusvſusin vino maximèexcellit capiunturpropterea aurilamellæ, quæ
ignitętoties in vino extinguútur,donec ferueat iſtud,mox colatur, &
vſuiſerua tur. Vigum bocpotatum ventriculo imbecillo fuccurrit, concoctionem ad
iuuat,foedum colorem emédat, & prin. cipalia membra coroborat, &
rcſarcia. Proinde obferuatum reperio,cor ab illo roborari prauos humores calore
fuo abi fumi,vitales ſpiritusclarificari, hepatia que plurimum prodeffe fua
virtute ile lius vſum. Multi certiſsimo experimen, to huiufmodi vinum vitam
prolongare cognouerunt,fpiritufque fynceros face re,atque virestotius corporis
renouare Nonnulli leproſis multum conducere Scribunt,ve ex Mizaldo, &
Zacharia à Puteo capitur. Quercetanus Auri falia in aliqua betonicæ,autabfinthij
confer lacommiſta, ac deglutita ſua fpecifica facultate vétriculú corroborare
fcripfit, Aliquot animalia ex nature eorumfimili tudine à veteribusfais Dầsfuiffe
dicat. veterum infania in rum falſa religione: quippe,& i nimalibus cultum
reddidiffe,infinitis ae lijs federibus, & naturalibusrebuscircú. fórtur.
Inter alia, quædago apud eos PO animalia erant, quæ ex naturæ illorum
proprietate, & fimilitudine, vtreor, ali quibus Dijs reperiuntur fuisſe
dicata. Hinc Canis Diana { ace: eft, Aquila lo 1 ui, Tigris Baccho,Pawo
luponi,LeoCy beli,EquusNeptuno,Cygnus Apollini, Anguis Aeſculapio, CoruusPhoebo
A finus Libero,GallusMarti,Colúba Vara neri,No& ua Mineruæ, Lupus Marti,
Anſer Iunoni,Soli Phenix.Ex Fonio. Veri V nicornu proprietas, eiusque cognisio,
Erum Vnicornu, quod in febribus peftiferis propinatur languentibus veilitate
maxima,in fyncopemaximo. Pere prodeffe videtur.Illud auté non ex eo
cognofcitur, quòd bullas excitet, vt plerique hominum ignari perſuaſi ſunt:
hocenim quodlibet cornu etiam facit: fed alia, diuerfaque methodo. Hoc eſt
præcipuum experimentum. Si ſcobem eius củ arſenicogallina,turturi,aut co
lumbædeuorandum dabimus, fi fuper Itesmanſerit, vel vnicornuftatim poft
arſenicum fumptum datum fuerit)verí K 3 & legitimum Vnicornu pronuntiabi
mus. Alii in aurificis fornacem demit. tunt, fiodorem cornu à ſe emittet,ve
rumefle prędicapt.Nonnulli experime toʻreferunt, quòd in vftionepon omni no
comburaturſed, augeatur potius minimeque in vſtione fætorem cornu *habeat, tt
in cornu ceruinioexperirilor elet. Ex Føreſto. Oxo artificio mulierum cinni
crocei euadant. CApillorum cullui mulieresmaximè vacát, illud autem
iisoprabilìus eft, vt Aauitiem acquirant. Referam mo dum, quo votum aflequi
poſsint. Su mito Rhabarbarifabæ magnitudinem, fæniGræci, croci fylueftris,
liquiri tiæ tabacci, corticum aranciorum quan.. titatem adtui libitum, paleæ
triticæ ft. militer, his quernum cinerem addito,, & incoquito, vt
tribusdigitisdefcen dat aqua, inde lauentur capilli: tanta enim fauitie“
redundabunt, vt illos aurcos eſledicas.,. Ex Porta in Phitogn. tipios A4
itib...Adexcitandum in fenibus nauralem caló lorem, eorum; vires deperdit
assenquandika confectio præftantiſsima. "Heſauris profecta comparanda eſt,
Marſilio Fici 4. no, in lib.z.devita producenda, Medicina Magorum appellatur,
quippe ſpiritus, naturalem, vitalem, & animalem fouet, confirmat,&
Toborat; & proptereaſenie bus præſtantiſsima eſt. Conſtat hæcex
thurisvnc.ij. myrrhæ vnc,j. auri in fo lia ducti drach. fem. contundere fimul į
tria oportet, atque aureo quodam mero confundere, & in pilulas ducere. Sumi
kä tur huius-mifturæ portiuncula inaurora ieiuno ſtomacho; in æftarecum aqua:
roſacea; in hyeme verò cum exiguo Quomodo febris in aliquo confeftim induci
palent.. VI febrem in aliquo velad oftentatio.. nem, vel ad remedium, curioſi
tatemque inducereoptabimus,(fiquidem in conuulfionibus, parakyſi, aliisque
frigidis affe & ibus,non parumaliquádo K4 febrew meri potu. 14 Sheh febrem excitare profuit, ) Scarabe cor buti in
oleo decoquantur, illogue arte ria brachialis iniungatur: tanta enim eſt corum
potentia, vt confeftim febris, & accenſiones corporis criantur. Ex Car
Nuno. Amultis animalibus anni tempora precognoſci. Tdcntur profe & ò
plerac; animalia anni temporaprecognoſcere:fiqui dem ex corum inſtinctu, illa
homines commentiuntur. Grues enim autumni tempore ad loca calida peruolant, hye
mis frigora fugientes. Hirundines ver nali tempeftate ad regiones noftras re
meant. Ficedulæ, coturnices. aliaque multa volucria, in anni temporibus,pa bula
commutare,aliaque loca adire con ſpiciuntur. Hæc autem non Ver, Autu mnum,vel
Hyemem dire & è præſentiút, quemadmodum nonnulli falsò ſibi per fuafi funt;
fed verius ex facta alteratio neà calido, vel frigido in eorum corpo ribus,fiue
occulta qualitate,has viciſsi sudines facere cognouerunt. Am ago Amantis ex
leuiſsima quidemoccafione sie furcenfere folent.: Viperditè amant,leui alioqui
mo mento iraici videntur: ratiohuius rei eft, quiainiurias, licet leues, graues
iudicant. Grauefiquidem exiftimatur, vtilleiniuriam in te committat, cui ma
ximeplacere ftudeas. Cæterùm quem admodum fubitò dolet», qui contra fui habitus
propenfionem facere quippiam conátur; ita &amantem facere conſpi cimas;moxtamen
rixarum,& odisper nätde, rurfusque fupplex iugumſubacta ceruice repofcit.Ex
Leona dojachine, IN Plenilunio, Nouilunio Pharmaci ex bibitionem àMedicis
maximè deteftai. Vlra rationc à Medicis in. Pleni junio, & Nouilunio
Pharmacam ehitatur: fiquidem Luna,cùm interme Hriseftzomhiijo caret
lumine,atqueſub radijs lotaribus ia &ta, & proinde ſolica caret
humiditate, quo fit vt corpora ne ftra magis licca maneant, & virtusteten
trix robuftior exiſtat. Idcirco fin No puilunio ipharmacum ægris exhibetur;a K
5 abfquedubio humores noxiosagitabit, atqueob retentricis facultatis inobedie.
entiam parum euacuabit.InPlenitapig ob Lunç porentiam corpora noftu yali de
calefcunt,humoresque augetur,Hing In pleniluniis no &tesicalidioreselle ex
perimur,cuius caufa, cailorem à centro ad circumferentiam attrahi, verilmile:
eſt's quas propter fihumores, corporis: noftriad ambitum tendunt, procul dus
bio pharmacum improbatur:illudenim à circumferencia ad centrum trahitmg. tumque
natureperuertit, quo facilefut cedit;vt virtus kadetur,&humorumsys
tiacuatio,velmale,veldeprauana.coring gat: Ex loann,de Pitch
19continuatamaſculorum generatione Jep, LR timanm mirabilembakere virtutem.:
TIG apud multos fcriptores repe rifles, feptimun mafculum com tinuatæ
generationis mirabilem habere virtutem interhæc noftra embammata minimehoc
adieciſlem. Volunt enim quando aliquis ſeptem filios maſculos Continuatim &
inter eos fæminam nul, Quod autem in
Hydrargiro mirabile pullam ſuſcipiat, ſeptimum mirabilem virtutem & ftrumas,
& alios plerofque effe & us retinere ſanandi, An autem ve rum fit,
ncſcio,cupio tamen à fapienti bus experiri. Forum Hydrargiri, fuperpofito
yclamine, 1: in molem Mercuriimatari, Yrifices dum valamineralla inau. rare
cupiunt, Hydrargiro pro bo peremoliendo vtuntur; illud autem in igneimpofitumin
fætores grauem, & fætidas exhalationesreſoluitur,pernici--- ofas quidem,
niſi abijscautè'euitantur. iudicatur, eft iftud, ſiſuper illius fumá linteolum
extendimus, in quo colligi. poſsit, vtique in argentum viuum fu moſitas illa
icerum conuertitur, & Hya, drargiram renouatur. Experimur hoc. etiam in
carbonum fumofitatibus in traffas fuligines reuertuntur, licet die uerfimodè ab
Hydrargiro,Ex Lemnie. Eæculas Bryonia viera mundificando mirane babere pirtutem.
5 K Singularis profe & ò fæcularum Bryo. niæ,tum pro matrice muodificanda,
tum ad hiſtoricas ipſius paſsionesſanan das eſt efficacia:quippe ex multis
expe. rimentis comprobatum eft,in huiuſmo di affiEtibus curadis inter
remedia,prin cipatum habere. Referam ipfarum con ſtructionem, Exprimatur pręło
ex Bry onix conciſis radicibus, & contufis fuca cus.crit primò
turbulétus,idcirco in va ſe aliquo afferuādus eft, vefæcalisma. teria
ſubſideat: detineatur in locofrigi doper paucosdies; in hoc enim fpatio
finclinato vaſculo,viturbulenta aguia) Separetur, & proijciatur) fæces
albiſsi mas inſtar amyli in fundo inueniemus quas iterum in pluribusvafculis
vitreis, aut terreis diuiſasin vmbra vt, exiccen tur feruabimus;ita
protectòintra paucas horaşexiccabitur, & formáanjyli acqui rarexpreſlum,
quã Bryonize foculá no minamus.Hac fingipoſſunt pilulex.aut xij. granorum
pondere, & cú palico ca ſtorci, & alfęferidę ſummü; ac precipuú. aratur
remediú cótra affcctusnarratos. Fæculæ huiufmodi etiamfi diffoluütur, inaqua
florum faþarú pro fuco ad orna tum mulierum,paneaſque defendas ef ficacifsimæ
funt.Ex Quercerano, Miſaldo, &Zubariaà Puted. Millefolium ad conſolidande
vulnera misam babere potentiam. Lurimis experimentis comprobatú audioMillefólij
virtutem ad vulne rum coitionem, indielğue nouis obſer: uationibus
confirmari.Referam folum quod ab Hellerioin Chirurg.adnotatur. Cuidam deciſus
naſus erat,qua osin car tilaginem definit: Ruſticus propenden tem partem
alteridigitis coniunxit,her bam tuſam,& èvino nigro tritam,quod Millefolium
appellant,impegit, rudius omnia colligauit, vede celerrimè reſti. tit fanguis
profuens, & vulnus pulchra e cicatrice brcui coijt. Chymicam aztem, reterum
tem; eftate floruiſe. Pud Veteres i maximo prctio ars p !eriſq;illiusftudio
vacabátur:inginte s A K7 enim diuitiarum copias illa methodo homines
componebant,quibus ditiores facti cum Regibus bellum adibant.Pro. pterca
DiocletianumCæſarem legitur poftquam Achillem Aegyptiorum Du cem o &
omenſcsin Alexandria obſeſsú: profligaflet, omneschymicæ artis libros,
diligenti ſtudio conquiſitos, deflagral. fe: pereparatis opibus, Romanisfacilè.
repugnarent. Ex Suidt, oOrolio. Quoartificio corpus glabrum reddi: poßit L Itet
varüs modis corpus depilatum; &glabrum reddipoſsit,nulla tamen via
præftantior eft,Varronis teftimo nio, quàm loca lauare aqua; vbi Bufo nes
decocti fint,donecad tertiam redcat: - quippè- fi tali decocto corpus Jauetur,
proculdubio glabrum,&fine pilis had bebitur.. Natiuitatis hominum tempora à
multis: obferuari On leuis profectò eſt.multorem: ſcriptorum obſeruatio in
homia. EN lp mum natiuitatis tempore: à multis enim occafiopibus temperamenta
corú. variant, &plerique àrnaturæ terminis, roaximédiftrahantur.
Porròquiinipfor terremotus i momento nafcuntur femper patent in tonitru ſemper
lan guidifumo qardenet Cometa coex ar... dendi complexjoneargentesfuntainter's
Lühiikempordebiles cuadunt, vel fals, temi Ariſtotelis teftimonio ) melan-;
eholici, & atrabile laborantes. Hydárrgýrum non effe vendnum in paura:
fumptums quam itme', fed adver: mes nes andas exiftere remedium ydrargyrum, vel
fimauisargenti vionm, quodà multis venenum exiftimatur, feliciſsimo fucceflu
contra vermes exbibeturjzáptægue certitudi-. nis illud in Hiſpania reputatur,
vtmu lienes, tenellis pueris, quila ĉçis vomi.. ty laborant, ad quantitatern
granorum trium in propria fubftantia propinare audgár:bacn, via morbuscellare
videtur: frequen A Hedmare frequentatisexperimentis. Ego quidem viduam mulierem
curani, quæ nouem dierum fpatio vomitibus continuis ex vermibuslaborauerat,
& ferè triduono comederatznec cibum retinere valuerat. Haiccùm fcrup.ij.
bydrargyri mortifica tii, cum tantillo adoniipropinaffem abfque vlla moleſtia
peraluum centum, & pluresemifitvermes, &eademdie lis berata eft, &
folita exercuit domi, & foris negotia,magna profe & ò parentum ſemper
eventu, domique continuò a quamhabeo, in quaHydrargyrum, in. furum retineo,
illaa que puerulis pro vermibus libentiſsimèconcedo, nec ad hucquempiam ex illo
noxiam recepifle expertus ſum. Vfuseft hoc remedioad
vermesmecandos,MatthiolusHoratius, Augenius, & plerique alii celebres viri,
qui omnes huiusauxilii maximè extol. lunt beneficium. Datur pueris in lub:
ftantia Scrup. ji grandioribus Scrup.ij. vel drach.j. Corrigitur illud, &
nrore ficatur in mortario vitreo cum zuccaro rubeo: ibi enim tam diù conteritur,
vt in partes inuiſibiles diffoluatur; ne au tem in priſtinam formam iterum
redeat, * olei amigdal,dulc.gurtulas binas adde re oportet, & cum zuccaro
rof. violato, vel cidoniato ieiuno ftomacho languen mtibus propinatur.Sciant
igitur curioſiin hac dofi nullum præbere periculum,in # maiori tamen non
dedi,neque concede tem:licet apud Aufonium Epigram.10. o legatur hydrargyrum
contra medicinas venenofas valere. * Datura flores, com ſemper, hominem in
ri(was; concitane. M ! Tra eſt Daturæ potentia in faſcinan.. dis, vt ita dicam,
hominum men tibus, adeò quòd, qui illiusflores, vel Temen ſumpſerit, à riſu,
cachinnisque non defiftat,donec més alienata ex plan tæ viribus in priſtinem
redeat tempera mentum, Apud Indos à furibus Datura vfurpatur;fores enim, vel
femen in ci bos eorum, quosdepredari volunt, exhi. bent, & in mentis
alienationé, & in riſum 2. conci. MA
it concitant: ita profecto furádi parantin duftriam.Durat illorum riſus, &
mentis error, viginti quatuor horarumtermipc.. Ex Gozdab Horto. Lupesſenio
confectos in renibus venenoſosgeo net areſerpentes. Agnum profectò in
præſentiarü arcanum aperio, multis hucuſ. que incognitum de luporum natura. Il
lud eft,cur à Lupis animalia commorfa modòfanentur,modòautemmoriantur..
Anquòdluporum aliqui venenoſi, ali qui verò ſine veneno exiftant?Equidem
CarolusStephanus lib7 Jus Agricult.cap.i. ſe obſerualle fatetur, ib Luporum
fenum renibus,primò ferpentes vno pede.Jona giores, & breuiores, qui
temporisſpa tio venenauſsimi effecti,Lupum enecás. Hac via facilius nobis
tribuiturconie &tura deLuporum morfibus.Si enimle piiuuenes fuerint,
animahaa, momor derint, ex benigniori eorum natura, mortem baud
inferunt,vtmultoties ob feruamus, niſifortè.vulnera in principi buscorporis
fuerint locis, vel tá grádia, vimori neceflc fit.Sin auté ſenio fuerint confe
& i,proculdubio leuiſsimo morſu animalianecabút,propter peculiare ve nenum
inLupo delitefcens,quod víu ve nit,vtpieraq; præmorla animalium, vel moriantur,
velmembrum morſum pu treſcat, vtfaltem difficillimè curetur. Ex. Gaſp Benkino.
Qualiartificio ab vxoribus homines mafcu losfilios fufcipere pale ant. Vita à
Scriptoribus ad marium M reperimus:hæcautem præcipua, & ve riora effe
exiftimaui.Primovthomo ex exceatur,folidiorig;vtatur cibo,atq; ra rius cócubat:
ita n. & calidius & fpiflius fe. méeuadit,fita; prolificum, &
aptiſsimum ad marium conceptum. Secundo mater, & incongreffu fuper
latusdextrum recubat & à coitu confeftim fuper illud conqui elcat: Siquidem
Hippocratesmaſculosin dextris,fæminas verò in finiſtris genera-. ri ſcripſit.In
dextris enim ab Hepate fo. uetur ſemen,quod eſt calidum: in ſini. ftris autem à
liene frigido quoquo pa.; do refrigeratur, & ad fæminarunt 3
conceptum'præparatur.Tertiò ſpiranti tibus Aquilonibus concubant, Auſtris vero
defiftát:Aquilo enim admares fuf. cipiendos accommodatiſsimum eft,Au fter verò
ad fæmellas. Capimus huius rei ab ouibus experimentum, quæ fiflá. te Aquilone
concipiunt, marem ferunt; Auſtro autem foeminam. Multi, inter quos Cardanus
eft,ad marium concep tum Mercurialis maſculæ elum extol lunt,hæc duos quafi
coleos pro feminie bus habet, & ab vtroq; coniuge depaſta, marem inducere
occulte vi exiftimatur. Magnumele in hac inferiora Lune con fluxum. Trabilis
profectò eft Lunæ vis in hæc inferiora: ipfa enim noctes illuminat, & fuper
humida poteſtatem haber,marisfluxus, & refluxus per quae draturasfuas
intētiùs, & remifliùs facit; quippèdum oritur,maria intumeſcunt, & in
æftuariafluunt, quoufque ad circu. lum meridianum illa perueniat; cùm autem ad
occafum inclinat, Oceanus ab æftuarijsrefluit ingurgites; quando ſub M Orizonte,
percurrit,mare ad confueca æftuaria conuertitur, quoad nocte me dia meridiei
circulum Luna atringat; poſtremdcùm ad Orienté tendit,Ocea Rusquoque ad folitos
alueos regurgitat. Ipſa in Agricultura rebus dicitur do, mina;propterea antiqui
gentiles, qui in terræcultura proficere optabant, Lund libamina ſpecialiter
obtuliſſe dicuntur; y ocabatur Diana, ſiue Latonia virgo, aut Plutonia coniux
velProſerpin. Leonardi asri deOdtimeftri pariu ſenten tiamdebilem effe. Peculatur
Vairus in lib. 2.de Faſcino, Cur partus odimeſtris vitalis mini mè lit,innuit
hic, vir alioquin doctus, talem partum non viuere, ob femen im perfectum:quia
non datur ſemen (vtar guit )quod ad illud tempus fætu procre. are valeat:
ſicutin genere triticiquod dam eft,quod tribus menſibusgignitur; quoddam verò,
quod nouem menſibus: fed debile eft huius fundamentum, quá do in Hifpania,
& Aegypto o & imeltres partusões vitales efle perhibcãt:Potior ergo
concluſionis ratio requiritur,quam nos alibi tábgemus. somniarumprofagizà Deo
diuinare, aliqus bus bominibus concedi. On omnibusfomniorum diuina N
doconcellavidetur,fed quibusà Deo ex ſpeciali gratia permittitur. Qui anim
fomnia proprio ingenio diuirare intendunt (dempta fomniorum intere pretatione,
quæ & caulis naturalibus in naſcitur, quorum præfagium ad media cos
pertinet) aut cæcutiunt, & delirant; aut dæmonum fallacijs inuoluuntur.
Iofeph apud Pharaonem, & Daniela pud Regem Chaldæorum (vt infacris habemus)
quia diuina afflati erant ſapi entia, fomnia diuinabant.Propterea mi niftris
fuis Pharaonem audita fui fom. nijinterpretatione,dixifle legitur: Num
inueirepoterimustalem virum, quifpiriru Deiplenusfit? & Rex Babylonis ad
Da. nielem:Audiui de te,queviäm fpiritum De orum habeas, ce
ſcientia,inselligentiaq, as Sapientia amplioresinuentafunsin tq.ExTa úello. Inter
Polypodium, & Cancrosmagxam in. eſſe antipathiam. Axima videtur inter
polybodie M, i quòd fi polypodiumſuper cancirú abie ceris viuum, breuiſpatio
tum pedum cortices,cum vngues ille eijcier:tanca eft i iſtius plantæ in illum
particularis viru 3 lentia,& efficacia.Ex Mashioto, Ć Dengan Ibidis,
ferpentesattonitos reddere. Irabilis eſt ibidis pennarumvis M contra ſerpentes,
quippe fi illius penna ad illorum quempiam inijcitur, Confeſtim in
veſtigiogreffus hæret: ad mirabiliustamé eft, quòd ſerpens quer pis
frondibuscontacta moriatur, quare circulatores aftantibus mirabilia fæpè
protrahere à racione inconucniens elle a non debet:multa enim iis funt, quæ ad
i mirandaiudicantur:quemadmodum eft Viperam viſo Fago perterri:experimé. "
to enim probatum eſt, illiusramo ante hocanimal iniecto, veluti attonitú fie
si, nec ampliusmoueri Hoc etiá cuenic Gha. ti ſi barundine feuilsime percutitur:
fin verò iterum eadem vipera incutitur confirmari videtur, & fugam repentè
adire. Mulieres rard inebriari, acbrd autem ſenes, Ontrariam naturam ſenile
corpus, Contd & muliebre fortita funt:ob id mulie. res rarò ab ebrietate
corripi afpicimus, crebò tamen'ſencs. Mulier quidem hu mida eft, vtà cutis
cenitate,& fplendo re.comperimus, fenex contra ſiccus, cucis
afperitas&ſqualor confirmat. M11, lier ex aſsiduis purgationibus fuperfluú
exonerat; ſenex autem ex corporis duri. tie,luperfluanonexcernit.Mulieriscor.
pus, quia variis purgationibus crat de putatum, pluribus foraminibus fuit có
fertum; non ſic ſenis corpus,propterea naturales meatus à corporis ſiccitate,
& duricie potiùs obſerantur. Hæc funt în caula, vt ebrii fenes facilè fiant,
muº lieres verò perquàm rard. Nam fià mu. liere largè vinumfuerit hauſtum,
illud magnam mulieris humiditatem incidens,vtiq;vimluam perdit; dilutiulý; fit,
& cerebriſedem non petit: nam per. varia foramina mulieris illius vapor re
Currit, & celeriter eius fortitudo euanel cit.In ſenibus vinum
contrarietatem no recipit: quia corpusillorum ficcum eſt; ob id vinum firmiter
adhæret, cerebría que petit, quia in durioribus membris; & aridis(vt ita
dică ) exhalatio nulla fit: hincab ebrietate facilècapiücur. Ex MA crobio
7.Saturn. Qua induſtria in vrgenti fomno, quis vac leat excitari. Agnus
Alexander,vt ingerendo imperio, occupatior eſſet,magnú contra ſomnum excogitauit
remedium, quoſi quis vtetur,facilèin ſomni graui tate excitari valebit. Ille
Vas æneu pro pè lectum conſtituebat, & pilamæneam fiue argenteam manu
compreſſam ha bebat,brachiumque ſuper vas illud ap tè componebat,vt pila in
ſomno elapſa in æneum procideret, & à fonitu excita retur, &
furgeret.Mira equidé fuit hu. ias ingenij dexteritas, licet hæc Alexandri
dormitatio potius quàm fomnus dici poſsit.Ex Ammiano Marcellino. Quibusfignü
corpora venenata cognoſci yaleant. L Icet venenorum genera multa fint, ex quo
difficile fit omnia figna repe rire,quibus cognofci valeant,afferam ta men qua
mcthodo corpora, quæ venenü fumpferint,intelligere poſsimus. Porrò magna fit in
corpore commotio, dum quis venenum hauferit;præcipuè fiillud calidæ fuerit
naturę:doloribus enim va lidis,atqueacutis in ſtomacho, & inte kinis
torbonibus languens cruciabitur, præcordiorum fentiet anguſtiam, fati gabitur
vomitu,& fuxu ventris, ſudor fuſcirabitur in fronte cum vultu frigi do:
colorægri erit pallidus, pulſus de bilis, inzqualis, & inordinatus,fynco pi,
&animi deliquiis affligetur. Hæchi omania, vel in maiori parte fuccedunt, o
porter celerrimèinggris.vomitum pro uocare, vt aflumptum vencnum eiicia ur. Ex
pal.Vilan. Luem Gallicam non modò homines,fed canes etiam inuidere. Tanta eft
morbi Gallici quandoque immanitas, vt non modò ex vno lan guente,vel
reſpiratione,tactu, autcom merci oplures homines ea lue polluan tur; verùm
atque canes, ſi vicera, vel vnguenta infirini lingere potuerint.Ex I perientia
hoc edocuit; viſus eft enim & quidam canis Gallica lue captus, quihe I
riſui emplaſtra linxerat. Ex obformatore if Iulii Scaligeri. 6. Poet. Quotermi
nocorporis hominispulchritudo conftitui debeat. Arii equidem funt Scriptores in
conſtituendo termino longitudi nis, & latitudiniscorporis pulchri:ihter
quos, ſententia loannis Goropii, in fua Gigantomachia, magis acceptanda vide
tur à fapientibus:colligit exHomeride Creto longitudinem hominis pulchri de
bere eſſe quatuor cubitorum, latitudi nem verò vnius cubiti. Cymrinum bominibus
palliditatem corporis inducere. More Multa profectd ſunt, quæ vultus colorem
hominum deflorare ob ſeruantur: fiquidem panis hordeacęi v fus facit homines
pallidos.Ex Ariftot. A quælutulentæ potus, vſus ſalitorum, & immoderata
Venus valde colorem de. turbant: inter ea tamen, quæ ex proprie. tate
decolerare putantur, Cyminivſus, &olfactus eſt. Duo enim de hoc exem pla
habentur apud Plin.lib.20.C.24.V. num fe &tatorum Portij latronis, qui, ve
illius imitarenturpallorem,cymino fre quenter vtebátur:alterum eſt Iulij Vine
dicis,qui, vt Neronen falleret,palloré Sibicymino conciliabat. Ex Mercurialide
Decorat. Regem Archelaum maximè Aſtronomie fi iffe imperitum. T
minibusneceffariaiudicatur,vt malè ciuitates, refpublicas;hominumo; cætus fine
illorumobſeruatione ij con leruare valeant.Vtique horum ope té pora,annos,
menſes, & horas metimur, &ſine his in, varia labyrintha inuolui mus mur.Hoc
apertè ille imperitus Aſtrono miæ Rex Archelaus oftendit,qui (vt vi ri ſummæ
fidei fcriptú reliquerunt) ob Solis Eclipfim,cuius caulam ignorabat, *
tantotimore correptus eft,vt regiam is clauferit,filium totonderit, iudicia è
fo ro fuftulerit, & iuriſdi& ionem penitts en intermiſerit: vltimum
enim orbis diem. eſſe arbitrabatur.Ex Magino. Mira grecilitatis quofdam bomines
fuilfe repertos. X Aeliano,& Athençoquofdam ho mines extremæ gracilitatis
fuiſſe * colligimus:legitur enim quendá Arche ftratum vatem fuiſſe, qui captus
ab ho ftibus tantæ gracilitatis repertus eſt, vt cùmlanci apponeretur, pondus
vnius obolihabuiſſet,quod incredibile,& ferè ridiculum exiftimatur.Philetas
Couse. tiaminuentuseft, quem ex gracilitate E vſque adeò inualidum fuiffe
fcribunt, vt ne à vento deijceretur, pondera ferrea pedibus, & foleis
geftare coge { retur, Anguit. Emine Anguillas cumAquilone mirambabere fyme
putbiam. Trabilis profe & ò conſenſus eſt, quem Anguillæ cum Aquiloni.. bus
habent: ipfis enim ſpirantibus fex. dies fine cibo, & aqua has viuere
fertur; cum Auftrisautem diſſentiunt, quippe his flátibus diu ſine cibo, &
aqua illæ vi.. uere non poflunt. Ex Bodino in Theat. Aſparagorum vſum corporis
facere pitorem. Nter ea,quæ nitorem; &pulchritudia nem tur, Aſparagorum
vfusconnumeratur, cuius efficacia à multis in corpore colo.. rando ferè
mirabilis iudicatur. Aſpara.. gi fætentem reddunt arinam, & perilla pratos
corporis expurganthumores:eb: id mirum non eft,fi,ijs euacuatis,corpus reliquum
non modò odoratum redda tur, ſed etiam nitidum, & coloratum: quippeex
humorum prauorum conge. rie, & palliditas, & defloreſcentia nobis
jonaſcitur, quibus ceflantibus, ceſat de. formitas, & colornitidus
exoritur. Ex Auicenna. Picem cum oleo; maximam babere colli gantiam. E X
congeneri ferènatura Picem, Rea ſinam, & hujuſmodi, magnam cum oleo
affinitatem retinereobferuamus:fi manus enim pice, vel refina fædantur vtique
eas oleum extergit,idque ob col": Tigantiam oritur. Oleum furfur tollit,
furfur aqua eluit; aquam demumlintco: ficcamus.Ex Cardino Mularumgenuse
propriapecieminime propag ari: MVlasequidem,& monftraconfimis lia,nec
parere,nechium genus prou pagare obferuamus:id fieri aiuntmulti;. ab
improportionato generandi tempe ramento: veriùs tamen cum Bodino in
Theau.Natur: hot contingere exiftimo, une fpecierú fit infinitas: natura enim
in finitatem abhorret. Ariſtoteles in Syria fupra Phænicesmulas parere ſcriplīt;
& Theophraſtus in Cappadocia illas genus 3, propagare voluit:tamen hoc
veriſimile haud eſt. Propterea magis credendum reor, in illis locis Aſinarum
quoddams: genus oriri mulabus conſimile, potiùs, quàm mulas, quarum partus à
noftris. prodigiofus, & funeftus effe dicitur, vt Iulius Obſeq.inlib de
prodig: adnotauit. Leones, Sole in Leone'peragrante,a'febribus, moleftari:
Irabileeſt, quod in Leonumfpecie contingit,dum Sol Leonis cælefte fignum
ingreditur:ijenim à febre tertia.. na in toto fyderis fpatio excruciantur:a deà
quòd fateri oportet, talium genus cum hoc fydere antipathiam habere &
tertianam recipere'; proinde Leoninaà multis hæcfeprisapperiatur,bene iudi.
cantibus, Leonemeſſe peculiarem. Leo. nes hoc temporetertio quoque die paſo
cuntur,neciemel etiam accidit, vt bidu um,veltriduum inediam ſufferāt, Ster
custunc ficciſsimum, & vrinam fatente excernunt,vt Ariſtotelesadnotatum re
liquit.Aiuntmulti, hocà natura forſitan eſſe factum,vt ferociſsimæ beſtiæ quo
quo pacto cohiberetur impetus, & à fre quentiori rapina coerceretur. Quo
artificio in fenibus barbas, albofque cam pillosdenigrare pale amus. Eferam
notabilem miſturam qua, ' R Jeant.Sumito lixiuij communis quantú volueris,
decoque in eo faluiæ, & lauri folia cum corticibusiuglandium viri. dium;
mox laua, aut ablue madefa &ta fpongia:ita enimnigredinem compara bis, quæ
diu durabit, &lætaberis effectu. Ex Porta: Mergum,& Anferem aquaticum
in Hydrsa phobiam plurimum valere Ntercuncta animalia adnotauit Arie ftoteles
Anſerem aquaticum folùm non rabire, ob id à multis huius efum in Hydrophobia
maximè celebrarur: mirifico autem experimento contra ram. bidi canis morlus
valere dicitur Mergus qui in aquis & maridegit, quippe ab Ace. tio,eius eſu
Hydrophobosillicoaquam efflagitare narratur. Lacertasmira magnitudinisapud
Indos iz... Meniria NInfula Sancti Thomę, quçdam La IN Ls certæ ſpécies miræ
reperitur magnitu dinis,quæ admodum illius gentibus fa miliaris, eft.In Ioſula
etiam Capraria,, quæ vna èFortunatis eft, ingentis ma gnitudinis hæc animalia
cerpūrur;habis tatores autépro ijs interficiendis, bom. bardis,fiue
ſolopetis,alijfque bellicis in. ftrumentis vtuntur. Ex Amate Luſsin Dia. ofcer.
In educandis iuuenibus, miran fulle aibe: niexfium induftriam. Moser Oserat
Athenientum in iuvenum educatione, vtij cothurnicibus, fio uc qualeis, aut
gallis pugnantibus ftudi. an impendcrent:Solent enim hiermo. di
volucres,vfquead extremam virium defeâionem certare. Qulo exemplo ad
ſubeundapericula; & vulnera contem merida, ifamınabant iuuencs increpan tès
au:bus minus ingenioſos effe homi. nes, non debere.Exsotino apud Lucianum
Serpentum eumapudl kudosfrequentari.. NCuba Inſula penes Indos,ferpentes loua
totius corporis ipecie, ac forma prediti inueniuntur,quippe ſelquipedis IM I
plerumque longitudine exiftunt,& ex terra, & aqua viuunt:Quod autem
apud illas rationes mirabilius videtur inlay tioribusmenfis, horum animalium e
fum,tanquam ibum ſapidiſsimum free quentari.Fx Petro Bembo. Quomifico,Po
ticaput; inmiram intumeſcentiam redderevaleamus. NterAgriculturæ arcana, non
infimi momenti methodus eſt, quaporri cam put in tumorem magnum reddere poro
Gimus.Aperiam abftrufum artificium:Si enim porri caput,arundine, vel ligneo
ſtylo pupugeris,atq; raporum,vel cucu- merum fomen vti foramine occultaueris
proculdubio propria capeo in tan tamtumorem deuenire, vtid prodigio- fum
iudicetur, Ex Mizaldo. Iwer Fraxinum, &Serpentes miram adeffe Antipathiami
Raxini fuccus ad ferpentum morfuss mirabili fuccelu à medicis vſurpa nec fine
ratione: hanc enim plans tam Serpentes, ex occulta antipathia ji miro odio
infequuntur: fiquidem illius L6 yobras OX tur, vmbras tùm matutinas,tùm
veſpertinas euitant,& lógiusaufugiunt. Retulit Pli nius lib. 16.cap. 13.ex
fraxino experi. mentum quòd figyrum frondibus fra xini,& igne apparatur, in
cuius medio ſerpens lit proiectus,procul dubio ferá in ignempotius, quàm in
fraxinu aufu gere:tantusefthorum diffenfus, &co. culta ſerpentum
inimicitia., Virginitatem in mulieribus, qua viaexperizi: paleamus. L Apathiū
maius in aperienda mulica rum virginitate aftantibus magnam retinet efficaciam:
ſi enim ex huius folijs faraturfuffumigium,fiue hęc fuper ig. nitos carbones
inijciuntur,vteffument, vbi mulierum fit corona, cum odor ad pudenda mulieris
perueniet, illius bon. nitatem,vel malitiam oftendet: quippe fi viro copulata
fuerit,abfque dubio v rinabit, fim verò fuerit virgo,vrina po tiùs
conftringitur, quam emictatur.Ide etiam faccre autumant,lignum Agallo chum,
fiue Xiloaloem, vel femen portu-, acæ fi fuper carbonesiniecta,adeò effument,
vt ad pudenda mulieris odor va leat penetrare: mouetur enim in deflo ratis
vrina quantò citiùs, fecùs verò in virginibus.Ex.Perta. Quomodo ex duabus aquis
claris, lac effings re illud valeamus.quod Virginale Pocatur. Ac illud,quodà
pleriſque ob colo Cris ſimilitudinem,liue ex nouo ori gine, Virginale
appellatur, ex duabus, aquis artificiosè corifedis exoritur ad multa equidem
corporis mala yti. Lifsimum.. Eius modus talis eft. Su mito lithargyrij in
puluerem redacti Vnc.ija acetialbivnc.si.commiſta infi-, mul per filtram lineum
deſtillato, & a quam clară habebis.Vtautem alteram componas, fumito Salis
gemmæ Vnc.), Aquæ cómunis, fiuepluuialis claræ Vnc. Mimiketo fimul, & fic
bimas habebisa quas magni valoris. Cùm verò vel ad oftentationem, vel
curioſitaré fiue ne. celsitatem lac Virginale conficere opta bis,aquas vtrafque
coniungesfimul mil cendogita profectò confeftim laquor la L7 Ereus M deus ſuſcitabitur, qui Virgineusvoca.
tur.Verrucæ in manibus fi hoc lacte per dies aliquot beneconfricantur, euanef
cunt. Impetigines,omneſq; faciei macu. læ,rubores, & ex foleardores,
hoclini. mento facillimè curantur. Caftrates lienem,velonorum vitellós durios?
res deglutire non poffe. Irabilc elt i: lud,quod in caftratis, circa cibum
obferuatur: hi enim nec lienem,nec duriores ouorum vitels losdeglutirepoffunt,
vt frequentiſsima apud multosinoleuirexperientia.Retulit Bodinus in
ſuoTbea.tales priùs fame fe necari pati, quàin lienem vorare por fe.Huius
reialia non creditur effe ratio, quã xſophagiiſtorú ex nimia adipecoão |
guftatio, & cóftri& io; cũ auté lienis fub-. Itātia spõgiofa
&flatuoſa fit,atq; in mã. ducationemagis infletur;facile fit, vtiji i ex
ælophagi anguftia talem cibum deo to glutire nequeant. Eadem ratio eftino uerum
vitellisdurioribus', qui ex ſuba Itantia glutinoſa,per anguftum non facie la
tranſeunt. Spatium humanæ vita, centum annorum fom cundum degyptios
compenſariin. teruallo. in. * " Vriofa magis, quàm veritari confo näns
mihi videtur Aegyptiorum aliquotopinio,dehominum vitęmenfu, ra:quippe illorú
multi, qui medcata cadauera feruart conſueuerant, ex quada conic & ura à
cordis humani ponderede fumpta in eam deuenerefententiam, ho. minisviram centum
annorum fpatio de Gniri.Sumebant experimentum in cora poribus, quæ fine
labemoriebantur; ho rumenim anniculi duarum drachmarú. pondtrisgcorretinere
videbantur, bini quatuor;& fic in iingulis annis, quo in anno quinquagelimo
bomines centum. drachmiscor in pondere retinere affiras mabant:à quinquagefimo
binas: dracha mas fingulisannis decreſcere, atque à cordis pondere detrahi,
minuijè dicea. bant, &fic in anno centefimo ad primum, fui ponderis:
fecundum iftorum conie... awan,corredibat.Ex Teicntio / arrone. Claro Pblibotomiam ex vena ſaluatella,
pleneticis: plurimumprodeffe. "VrabatGalenus ſpleneticum qué dam;&
cumdiù (vtipfe narrat)de illius cura eſſet ſollicitus,atque diligen. ter
remedia quæreret quadam nođeſó niauit,fe in infirmo de vena faluatella, quæ eft
interminimú,& annularem ma nus digitos ſäguinétrahere; quod fecit, &
fanatus illeeſt. Hoc diuinæ bonitati tribuendúexiſtimo, quæ multoties, ho mines
per bonosfpiritus dirigit, vt ca perficiant, quæ in corpornm valetudine
concernuntur.Ex Bartbol.Sibylla. Gymnoſophiftas apud indosmire,viſus, &in
genij dexteritatis inueniri. MIIrabile profectò illud eft; quod de
-Gymnoſophiſtis quibusdam apud Indos narratur. Hienim ab exortu, vf quead Solis
occaſū; oculis contentiscan. didiſsimi fyderis orbē intuentur,inglo bo igneo
rimantes fecreta quædam,a renilgue feruentibus perpetem diem al ternis
pedibusinfiftunt.Ex Solino. Quibus auxilysforumarum materia,per pri nis
paleasensachari. Bseruatum eft huiufmodi præfi O sibus euaneſcere.Adhibentur
primò in firmis aliquot clyfteria, ex fucco bryo niæ, & mercurialis,oleo,
& fale concin nata, quibus patiens tum gelu, tum ma. terias.viſcidas
copiosè purgari videbi. tur:mox cum oleo amygdalaru dulciū, vel mali aurantij
coleis, manè dilucu.. lo, cantharidum præparatarum grana quinque,velſex iuxta
corporis naturama. capiet.Cantharides autem per horas 24.. in aceto
infundantur,deindeexiccentur, &in puluerem reddantur.Hic enim ea.
rumpræparationis modus eſt. Huiul modiauxilijsftrumarummaterias, vri pas
euacuari compertum eft., Obferua uit hocDo & orPhyficusJoannes Domi. nicus
Donnus,cuitis familiaritas,animi queindoleseſt mihiſemper gratiſsima, mihique
tale remedium communicauit; robuſtis tamen corporibus folú adhibe ducéleo: ex
illius enim experiméto do lors BARCE- 1 II! lores ad inftar parturientis circa
pe &tine tale præſidium commouereaudiui. Alijs etiam modis, & auxilijs
(trupęcurătur, quippe fioleo,in quo rana terreſtris,tal pa vellacerto, (vulgò
dicitur racano )fi ue lacerta magna vocata ebullierit, diú ftrumæ,purgato
corpore, liniantur,abf que dubioexiccátur, & euaneſcunt.Het animalia viua
prius in oleo fuffocantur, cùm ad carnium ab oſsibus ſeparationé ebulliunt,
& oleum mirabile ad ftrumas componitur. Nonpulliad earum extir. pationem
caufticis vtunturmedicamen tis, quorú potentia caro aperitur, & ftru
mæetiacuantur.Componuntur hęc talia ex arſenici fublimati drach.j. lithargyrij
aur. & aluminis roccean.drach.ij.fabari vftulatur:numero quinq; hæc in
pulue. rem reda & a cum frumenti farina,aceto que acerrimo mifcentur, &
fit malfa, è qua orbiculi, vel plancentulæ formantur & exiccantur in Sole,
vel furno,admoué tur fuper ſtrumas, &fpatio horarum24. opus perficiunt,
Alexandri Magni magnanimitas in pofteros: ftudiofas. MVlta ratione Alexander
Macedo Magnusdi& us eft',cùm eius excel lentia non modò in litteris
apparuerit.. Ille quidem, vt Ariftoteles de animali bus
hiftoriasfcriberet,multa liberalitate in pofterum vtilitatem, octingenti auri
talenta, cum tribus hominum millibus dedit, vt fyluas,aularia, & viuaria,
omnis. generis diſquirerét, & opusab ipio per.. ficeretur.Illi autem per
Europain,Afriw. - Cam, & Afiam peragrantes,multa anima: tium gencra ad
Ariſtotelem attulerunt, quarum difle & ionibus, de vniuerfa fen? rè horum
natura accuratiſsimè Philofon phus fcribere potuit.Ex loanne Bodeno. I WA
Mulieres quafdam in oculis, equi effigiem, pel: geminaspupilas babere compertum
eft. NO On rarò quædam mulicres magæ reperiuntur, quæ vt plurimum a-. niculæ
funt, hominibus, animalibusý; vilu,nocentės. Solent hæ in fingulia, acut
oculis, velgeminam habere pupillam, (vt HieronymusMengus de Arte Exe orciſt.
adnotauit ) vel equi effigiem, quemadmodùm nonnullas Pontumin colentes habuiſſe
legitur. Referuntex iftarum oculis quofdam emittiradios, qui non ſecus iacula
& ſagitrę pro homi num cordibus faſcinandis exiftunt, ità profe & ò
totü pernicioſa quadam qua litate corpus inficiūt,breuique velnullo temporis
conſumpto interuallo,homie nes,bruta,ſegetes,arbores polluunt, & ad
interitum tæpè deducunt. sanguinem caninum HydrophobosCupareba PotumAutumant
Galenus N Serapio,& pleriq;fapiêtes,fangui nis canini potu,
canisrabidimorſum ca. rari teftantur: quæautem fit ratio,apud hos non legitur.
Referam tamen, quæ àMarſilio Ficino in lib. z. de Vit.produc. adducitur. Ego
opinor (inquit) ſali ziam canis rabidi venenoſam, impreſ fam hominis
pedilæſo,per venas paula tim ad corafcendere more veneni, nifi quid in
tereadiſtrahat.Si igitur interim canis alterius fanguinem ille biberit,fan guis
illecrudus ad multashoras natat in ftomacho, eum denique velutperegrie - num
deie & uro per alium. Interea cani. pus languis ifte,faliuam caniná fuperio
ra membra prenſantem, priufquam ad præcordia veniat, deriuat ad ftomachű: ná
&in canino ſanguine virtus eft ad faa liuamcanis attrahendam, & in
ſaliuavia ciſsim viftus ad fimilem fanguinem proſequendum. Venenum igitur à cor
defemotum, fanguiniqueimbibitum, in aluo natanti, vnà cum ſanguine per
inferiora deducitur, hominemque ita relinquit incolumen. Corallinam, ad
puerorum vermes necandos maximè laudari. COMOrallinæ, quam plerique muſcum
marinum appellant, in puerorum ť vermibusnccandis,miraeft virtus, & cf.
ficacia.Hanccirculatores in plateis vene dere folent,talegue remedium ad lum
bricorum internecionem, fummis lau. dibus extollunt. Profectò à veritate in hoc
negotio haud abſuot:hoc enim cão teris medicamentis, in rehacaccommo
datis,excellétius eft:experimento fiqui. dem comprobatum eft non modòlum.
bricos interficeretale præfidium; verùm atque eadem die, cùin aſtantium admi
ratione, oxpellere, vtiure dixit Mat thiolus, quòd quandoque viſus fit puer,
quiex aſſumpra huiuspulueris drachma, a centum vermes excreuerit. Qua induſtria,
labioram,meruum, capia tamgmamilarum citifsimèfifuras fanate vale anus. Periam
ele &tiſsimum præfidium, A tumque mamillarum fiffuris feliciſsimo fucceflu
fere millies vfus fum. Sumiro lithargyrii argent, myrrhæ, zinziberis an,vncj.redigantur
omnia in puluerem fubtilif. & ex cera recenti, melle,& oleo oliuarum ad
fuffic. fiat vnguentú. Vfus talis eft: primò liniantur fifluræ ex hu mana
ſaliua, mox defuper in tela exten fum applicetur vnguentum,ita cquidem paucis
diebus fanantur, Rhabarbarum cidoniatan, y terogerensabs que periculoalue
exonerare. IN graudis mulier bus, cùm grandi inorbo affliguntur, magna cautela
ſo lent medici medicamenta cuacuantiae ligere: vel enimhaud porrigunt,ne con
Ceptum diſperdant, & matrem occidant; velmitiſsima, & benigniſsima
excogi tant, & propinant. Multi Rhabarbarum ob eius caliditatem, &
amarulentiă recu fát: ſed perperá quidé, quádo illud cido nio Correptú, inter
ele& ifsima &benig piſsima connumerari debeat, Rcferam i qua induftria
à Ludouico Mercato,viro celeberrimo,prçparetur.Sumanturcoto nea, ab interraneis
repurgata, tes diuifa, (ſed fuperftite pellicula, quæ valde eft odorata) in
aquadonec tabuc rint ebulliant: mox per linteum colata, & exprefla,
optimolaccaro coquantur, & dumid fit,adiicies ad lib.j. huius con
diturz,vnc.j.Rhabarbari. Doſis cuius fit vnc.j.vel Aliud cidoniatum compo
nitur, quod eftgratius, & abfq; moleftia efficacius euacuat. Diuidatur
cidopium &fub God &in par 1 (264 & fublatis feminibuscủfolliculis,
parti um ciuitates puluere optimi Rhabar, negligenter triti,ac Drach.j.velj.-
aut ij.imp cátur, vel, ſi affectus poftulaueri agarici tantundem, vel foliorum
ſene; mox vniantur cidonij partes, papyro que inuoluantur, & ligata in
clibano,vel furnello coquantur ad perfe &tam co & i onem;poftremò abie
&tis medicamentis internis, pulpa manducetur. Hoc pro fe & ò medicinæ
genus fecurè cuacuat, & viſcera omnia corroborat. Animantium robur animi, à
femine inge terari. Vanta fit feminis efficacia, in aoda. cia hominibus
comparanda, nullo aliomedio ſecuriùs cognoſcitur, quàm caſtratorum natură
compéfare.Hipro fextò ſtatim atque teftibus priuantur, animi robur amittunt,
atque máſueſcár: fiquidem & à fpirituumcopia, & calore potiſsimùm
naſcitur audacia, quæ in teſtium natura valde { pongiola ge. merantur, & ab
ijs in corpus deferuntur.Ob id Galenus,in lib.1.de femine,le méSolicóparauit,
quod ſuo fulgoreorbe illuſtrat;iuxta cuius fulgorcs ſemē,& ipi rituú,&
caloris potentia, ferè corpusil luſtrare admonemur.Hinc Aegyptijſa
pientiſsimi,cum Regem fractum, hebe temq; repreſentare volebant,meritò Ti.
phonem caſtratum pictabant benè ani maduertentes,nil poſle verius hominem
infirmum oftendere,quàin hominem fie nc ſemine. Aegyptiorum aliquot ad
Quartanam febrens ſecreta experimenta. х bris quartanas Aegyptis familiaria
ſunt, hoc pro ſele &tiſsimo remedio ha bent,ægrotisdeco &tum ex menta
para. tum ad femilibram,calidum cum (polio ſerpentis puluerizatibinisdrachmisan
te accefsionem per horam propinare.A, lij cum decocto affati temporeacceſsio
nisvomitum procurant cum felici fuo. ceffu.Sunt & nonnulli,quiante acceſsio
nem pilularum drachmam exhibent. M He exagarici,gentianę,caftorei,mytrhe, rutæ
an, drach.ij.piperis longi,calamia romatici,crocian. fcrup.iv.theriacæ an tiquæ
drach. iij.conftant, & cum ſyrupo de granat. dulcib.conficiuntur. Aliis ve
ſitatiùs eft,exhibere drach. agarici,cum myrrhæ ſcrupulo, diſſoluram in pulegi
deco & o, Ex Alpino de Medic. Aegyp. Auesbacciarum taxi eſu nigro colore
fieri. Axus inter plontas virulentiam ha bere maximam videtur: quienim fub
iftius vmbra dormire audebit, in grauem affe & ionem incidet. In baccis
autem venenum potiſsimum viget.nam à viris comeftæ,ventris profluuia, atque
funefta pericula mouent: boues illarum vfu moriútur, quemadmodum &peco ra,ffortè
has comederint, Aues verò iftarum eſu minimè moriuntur, penna rum autem color
in nigrediné mutatus, Chelidonium Lapidem MIT APN epilepfiam baberepirtutcm.
VIItrus Chelidonii lapidis à pleriſque maximè extollitur: prelentaneum enim
Epilepticis réputatur remedium, adeò quòd non pauci iſtius vſu à tanta morbi
forociate liberati funt. Feruntin. Autumni principio,Luna creſcente, hũc
lapidem à ventre hirundinis extrahi, & contricum aliquo liquore epilepticis
in potum propinari:quippe facultatem re tinere dicitur, tenacem, & vifcidum
hu morem, qui caufa caducimorbi eſt exica candi. Multi,chelidonium non folùm
elu, fed etiam ſola ſuſpenſione, Epilep ticos à proprietate ſanare contendunt,
Ex Lomnio. Miram interafpides, & halic acabum inejſe Antipathiam. Irabilem
natura inter alpides, & halicacabum, quemaiorem veſi cariam inuenit
diſlenſum, & antipathi am:ijenim, fi iuxtà huiuſmodi plantæ radices quoquo
pacto corpora admoue rint,tanta ſtupiditate, & fomnolétia cor Tipiontur, vt
amplius nequeant excitari. Ariftotelem rerumcaufis maximum noſcena dis
adhibuiffe ftudium M M 2 Erat Aristoteles adeò cauſarum re, Erum cognitionis
ftudiofus,vedie cilè quiefceret, nifiad quæfitum exas ctum ſcrutinium deueniret:
ob id cumà. graui valetudineopprimeretur,atq; me dicus citra morbicausa,pleraq;
vetaret, fertur(teſtimonio Polybij ) sc.medico dixiſſe:Nemecures,vt bubulcú,
& for forem; fed prius caufas ediſſere, & ita pre ceptistuis facilè
memorigeratum habe bis.Cum autem in Chalcide exularet;ati que Euripi, qui inter
Aulidem Bcotia portum,& Eubeam infulam ſuntaugu iti freti,feptiesinterdiu
noctuq;alternis fluctibus ſtato tempore refluerent, ille maris recurſus
excogitans,atque caulam reddere non valens, tanto mærore affe & us eft,vtmorti
occumberet. Ex Iufting Martyr. Infates a nutricib mores,& téperiē recipere,
nfantes profe & ò à nutričibus non foi lùm circa temperiem, fed etiam mo
res multum recipere videntur.Ob id fat pienterà veteribus,Romulum à lupafu.
idela &tatum, proditum eſt, velhocfinx I erring erint, vel vera narrauerint;
fuit enimRo mulus ferinis moribus, callidus, fortif limus, &
incommodipatientifsimus.At præter hunc,multosà feris enutriros, & educatos
legimus; num autem hoc ijs, ex animi feritate fuerit tributum peſcio. Scribitur
Cyrum à cane fuiſſe nutritum, TelephumHerculis,filiumà cerua,Pelia Neptuni
filium abequa, Alexandrum Priamià vulpe,A egiſthum à capra,quo rum
inores,apudScriptoresnoti ſunt,vt apertènofcamus, quid nutrices infanti bus
afferant.Equidem quià capra lactá tur,ftulti fiunt, & fälaces;& ita
hircuselt;. quare ex hac conie & ura tales euadere in.. fantes, quales
fuerint& nutrices com perimus;fed mores virtute animi mode fari poffunt.
Qdo artificio vitrum diuidere valeamus. Icet vitrú folum ab adamante, cùm
plicabile haud fit, diuidiinueniatur, tamen alia induſtria etiam compertú eft
illud poſle diuidi,vt Cardanusrecenſuit Hic eft modus: Filum fulphure, &
oleo irabue, L M3 370 imbue,locum circunda,accende, repete, donec locus
optimècalefcat;mox confe ftim alio filo, aqua frigida madefa&to circundato,
& vitro in eo loco fractum, &diuiſum habebis.Ego quidéalio artie ficio,
& fecuriori vitrum, diuido,caſug; hoc mihi notuit. Habebat quadam die
cyathum vitri vino ſublimato,fiue aqua vitæfemiplenum, ad curiofitatem non
nullorum amicorum,a quamin flammá, accenfa candela,reddidi, vt vinum fub.
limatum accendi folet, confuiripta all tem flamma, cyathusin medio diuifus eſt,atque
co potiſsimùm loco, quema qua fupernatans attingebat.Ita ex curio.
loexperimento, vitruin diuidere apud alios amicosnon lemel valuir Gallinaceum
ftercusà fungorum virulentia bomines tueri. ' Vngorummalitia,ex multorum ex..
perimento, pleroſquevita priuauit quia autem homines ab illorum elu ob luxus
abſtinere nequeunt,referam quid àGaleno,tanquam arcanum,pro iſtorú. Fe
virulentia extirpanda,leu ſuperanda ada notetur.Erat in Myſia medicus quiho
mines penè ſuffocatos ab elu fungorum ad vitam ducebat, remedioa; tanquam
arcano quodam vtebatur: huncprecibus exorauit, vt tantum auxilium aperireta
Stercus gallinaceum ille adduxit, quo contrito ad- læuorem vtebatur, & cum:
oxycrato,autoxymelite propinabat in firmis, qui celeriter omnesadiutiſunt. Hoc
vſus fuitmox in quibuſdam Vr- r banis Galenus, & verum inuenit: nain: qui
præfocabantur, paulò poftvome bant pituitofum humoré omninò cral hiſsimum,
& exindeplanè liberati funt. Infuper Myſius ille vtebatur huiuſmodi
præſidio in diutinoColi dolorecú oxyo melite,propinato vino, velaqua, cum
felicifsimo fucceffu lob id Galenus ex Bolilongo dolore fpafmo correptos,ta li
remedio quoſdam perſanauit: nam & hoc colicum doloremaufert, qui caufa
ſpaſmi eſt.Ex Gal.16.simplic.cap.io. Varia deliramenta di vini
potentißimipotua.r exoriri. M 41 Multa Vlta equidem deliria in ijs,quia vino
potentiſsimo inebriantur, fecundùm humorum in corpore prædo-. minium ſuſcitari
ſolent:quippe iltorum nonnulliin riſum maximum mouentur, aliqui plorant,pleriq;
vociferantur, alij. profund ſsimo lomno quiefcunt.Refert Alphinus,in lib.de
medic, degypt. muliere quandam à vini potu largiori ebriam, primònimis euafifle
hilarem,atq; in ho.. mines la ciuiffe, quoscomplectebatur, & ofculis
tenebat;moxèrifu, & cantu, ad ram, & furias deueniffe ex quibus fami..
liares eam pertimentes, præcauebant;de. inumin mæftitiam,vtdefun &tos lamě.
tabili voce deploraret;poftremò à fom. no oppreflam,omnem ebrietatem digef
fiffe.Caufa omnium eft, quia vinum pri mòcalefacit,fecundò adurit,tertiò refri
gerat; ſi potésfuerit, & immodeſte poti. Ego profe & ò quendam cognoui,
qui a pud Marchionem primum Sancti Marci dominum meum erat in culina,vt lances
vaſaque culinaria in dies-collueret; vo cabant Iulium Colauentre. Hic epoto vino
grandi, quodBeneuento pro domi 13 ni menſa forebatur in tam immanemde uenit
ebrietaté, vt Dæmoniacus appare ret,os,manufq; extorquebat,in fe ipfum
fæuicbat, ia &tabatq; membra, & infinita agebat deliramenta. Aulæ
Sacerdos fa cris libris accingebatur ad exorcizandú hominem: quando vocatus,
ebrium illi effe faffus fum,meoqueiuſſu ferula,mo Te puerorum, circa
nates,flagelliſá; con tačius, breui ebrietatem dereliquit. Syrium inter
fydera.calidißime exiſtere matuth., Riente Syrio tantum aëris concipi.. præ
ardore langueſcant;canes in rabiem trahuntur;furiunt viperx, & ferpétes;
ftuant mariajaer occultam nocendi qua. fitatem recipit;ſemina, ia era ſub tali
ſy dere,minimènafcuntur: talis profectò eft Syrij natura. Exlib.2.de
Hydr.natur. Viterum in nuptis mulieribus varios fuiffe mores, o confuetudines..
3 MS Non N.DE dumprima On vna equidem
apud Veteresin. nuptis fæminis erat confuetudo: quippe conſueuerát homines in
finuPer. fico, littoreg;Orientali, Virgines nobi. les nubiles haud deflorare,
nifi brachijs, margaritarıım ļineis ornatæ incederent:: ab id illæ in
magņo.erantprecio.Deſije. a nuncmosille, & margaritæ vilius illice.
muntur.E « Garzi4 ab Horto. Catullus, in nuptijs Pelei, Tetbidw, aliam natat
con ſuetudinem, Virgo nupta, noctecun marito erat concubituva, ita tra &
abatur:ante coitum eiuscollinen.. fura filo circumdato meníurabatur,mae
nèhocrepetebant,quòd fi latius, quam vt filo comprehenderent, collum inueni
ebant, defloratam ça nocte cenfebant:ſin: Vitò dibilomaius,integram, aut antea.
fuille deuịrginatam habebant. Aļijalias. habuere confuetudines. Pupauetagrefte
mirabiliter Pleuriticum mere bum fanare, Efeet Galenuspapaueradolores miti gare,
atq; interanodyna reponiina multis locis referat;tamen agrelte,pleu, ritidem,in
lib deremed paras.facil.confel, - fus eſt perſanare. Aperiam quodà mo nacho
empirico mirabili fucceflu in hoc morbo fa & um vidi.Hic folia & ſemina
agreſtis papaueris,in vmbra exiccata,ſe cum continuo deferebat:cum autê quis
laterali morbo infeftabatur, eius confr lio ſanguinem à brachio ſecundum ca 1
nones extrahi curabat,mox deco&ú fo liorum in brodio pulli collatum, cum
drach.j.velj- iplius papaueris ſeminis capillamentorum, quæ poft colaturam
addebãtur,capiebat tepidè, & ieiunio * ſtomacho. In loco doloris hæc
Epithe. cata adhibebantur.Parabantur ex pul yere roris marini, &
ſalis,farina, & aqua" tres placentulæ,quæ ſuper calido latere in
firmam ſubſtantiam ducebantur: hiss locus,epithematis inſtar,fouebatur, &
breui tim dolor euanefcebat, tum etiá: apoftema rupebatur, & infirmus ad
fa. lutem magna admiratione priftinam rew. dibát, Corni plantam,
Singuinarie,vel SörbiHydrom phobiam curatam fufcitare. 1.1 ter 276 Je Nterrerum
admiranda, connumera tur aliquot plantarum energia, quæ ſopitam, atque curatam
in hominibus Hydrophobiam ſuſcitare, & renouare couſueuere. Pluries etenim
obferuatum reperio à Canerabidocommorfos, fi plă tam corni, yel fanguinariæ
tetigerintan. te annum exa & um, velfub forbo dor mierint, ineuitabiliter
in rabiem incide. Tę. Salius in lib.de affe&. part, virus hoc potius à toto
ſubſtantia, quàmàtempe ramenti ratione ſufçitari prodidit; nec enim à taląu,
necab vmbra intemperi es introducipoteſt. Itaquemirabileelt, ab iis lopitam
rabiem renouari, quod. fieri non poſſet, niſicum rabidalue, ha plantæ aliquam
haberent antipathiamy cuius alia potior haud adduci poterit ratio, quam
tetigimus, quod huiufmodi a proprietate hocperficiant. Qua induſtria penenum
illumptum deſcen.. diffe ad gibbum Hepatis pèlinteftina. rognoſcere valeamus...
iquopropinato,nullamajor me dicis, difficultas exoritur, quam veneni
refidentiam reperire, vtritè ca adhibe antur pręfidia, quæ talia oppugnare re
perta ſunt. Si enim venenum fuerit in ſtomacho,vomitum proderit excitare; fecus
autem,li tranſiuerit hepatis regio nes,Hiceft modus. Ponaturoui vitellus
cumalbugine, cum infirmi lotioin ma tula;fiinfra paucashorasnigrefcit, &
fee tet, venenum adiecoris gibbú peruenit; Tip verò rugetur,çitrinefcat, &
non fæte at, inteſtina haudtranfiuit. Hinc indica tionem corradimus, veneno ad
inteſtina Traiecto,non conferre vomitum prouo care, ExBAYTO. Plantas
peduconfimiles;congeneres retine YENİKHI€s. MVltis experimentiscomprobatum
Teperio,plátas,fruticelý; ligna, quę quadã aſpectus ſimilitudine cóueniunt,
congeneres retinere vires.Sic multi mea dicorum peritiſsimi locolingniGuaiaci,
Buxo vtuntur;loco falſę parillæ,ſmilace it aſpera, loco ſaſſafras,
žylucftrifoeniculo; pro polypodio, filicecligunt; protipfa M 7 na nyhor leum pro myrto,liguitrů; pro ea
buio,fambucum;pro china radicem no ftræ arundinis;pro Rhabarbaro, hippo
lapathú.Hçcn.facie corporeg; aſsimilá. túr,proindecöſimiles vires habere exia
ftimatur. Exlib.noftro de Hydran. Natur. Inter Arundinem. Fräcem,may nam inefſe
extipathiam. Aturali quodam odio inter ſe Fi lix, &Afando diſsidere
videntur: moritur enim filix, quæ ab arundinem: plantis circundatur; &
arundo quæ à fio licum virgultis: quo dudi experimen to agricolæ, arundinis
folia in colendis agris, vomeribus alligant, perſuaſi ab iſtorūdiſſenlu,
ſilices ab agris extrudere, &,vt audio votum in dies conſequütur. Apri
dentem ad Cynanchen, Pleuritiden mirabiliter valere. Agna eft efficacia dentis
Apriin NA ! uis eius oleo linino excipitur, ac locus affe &tus tangatur cum
pennę' extremitaa: tę,cx Arnaldo, & Auicenna habetur,bảo morbum
præfeptiſsimè curari.In curan da pleuritidenon minor eft virtus eius. propterea
folent practicantes admiſcere tum fyrupis,tum electuarijs huiufinodi dentis
puluerem,benèpoſcentes ab oc ! culta,&aperta proprietate talem pulue rem
prodeſſe: quippè extenuādi, & exic, candi vim habet. De hocdente mirum.
feribitur;occiſo enim Apro recentar,ip fius détes adeo feruere referüt, yt
capil losadmotos nonnunquam comburant. Id accidit., quia Apricalór magous eſt;
dumý; occiditur, ira & exercitatione fer uefcit; proinde dentespropter
denſam ſubſtantiam, magnamrecipiunrcalidita tem,cuius indicium ipmaeſt.
Aparagos ju arundineros fatosmirabiliter ex. crefcere. FAximuseft inter
arundines, & af par gos naturalis cófenſus;idcir... Iragos, &
pulchriores, & core pore?s atq; ſapidiores habere op tabit,ue, arundinetis
leminare procu rabitquippe ex naturali ſympathia mi rum in modum excreſcere,
& germinare, animaduertet. Meani co qui MVltis profe& ò notiſsima eft,
an Viero gerentes eſu cotoneorum induftrios; acuri ingenij parere filios..
Mirab Trabile eft illud, quodà multis de cotoncorum proprietate affirmari audio:
ſi enim.grauidæ mulieres,quàm læpius cotones-comedere folitæ fuerint, filios
& induſtrios, & maximaingenij pårere dicuntur:fiquidem cotoneis mia ram
hanc facultatem ineffe credunt. A. liud autem mirum in ijsreperiri apud
Mizaldum legi,grauidas mulieres háud parere, velfalte difficulter fætum ede
re,ſi in cubiculo, quotempore partus fuerint,cotosca feruauerint: credo ex
eorum conftringentiodore, velocculta. rationeid euenire. Heder am cum vinomiram
habere diſcordiam. tipathia, quæ inter hederam, & vinuinànatura infita eft;
fi enim ex hc deræ trunco cratera componitur, in qua vinum dilutumfuerit impofitum,pro
cul dubio vinum confeftim effluesfun detur aqua verò intus retinebitur,adeò vini
impatiens hedera exiſtimatur.Hoc ducti experimento nonnulli in vinise mendis
hederæ poculis vtuntur: ita e quidem num purum, vel dilutum vi num
exiftat;examinani, & cognoſcunt, Volatilium piſciumg;fecunditatis,Ginteria.
Tuprafagia. Oletin quibuſdam annis animanti bus quædam peculiaris peſtis graſſa
ri;hinc fit,ve (liannus valde pluuioſus extiterit(auium, volatilium, bombycú
ſericeorum,araneorum,erucarum,inte.. ritum videamus;piſcium verò ftirpiúq;:
fertilitatem, & valetudinem.Annus ay. tem ficcusvolatilibus (apibus
excepris) falutaris iudicatur;piſcibus verò perni... ciofius:ficut enim in
angulto aere, obim. pediram reſpirationein,fuffocamur, vi. uereque nequimus;ita
piſces in anguſtis aquis concluſi diu vicam agere mini mè poſſunt. Gallinarum
adipem(accharo obuolutam,vor modò a corruptela preferuari;verùm atque oleum
redderepretiofis fimun. Mira Mina Ira equidem eft facchari virtus, in
conferuandis àcorruptela adi pibus. Cum quadam hyemePrudenria filiamea
gallinarum adipes collegiſſeter acfaccharo albo benè conuolutasin va
ſculorepofuiflet,æftate ſubſequenti, il lud oleo femiplenum reperit, adeòpel
lucido, vtcumad medeferret excellen tius haud inueniri poffe iudicaui. Hoc
licet illa pro exornandis capillisvtere tur, tamen pro mitigandis corporis do
loribus,pro carnis (cabritie tollenda, ae liifque infirmitatibus vtiliſsimum
effe į cenfeo:Quod autem mirabiliusiudicaui: adipes illas:poft multos annos
conſerua.. tas, eodem colore,atqueodore, quo re-: centesin vafculo fuerunt
claufæ anim aducrti. A quodam Chirurgo amicoet ia nintellexi,humanam adipem
faccha. ro conuolutam;per longifsima tempo ra à carie, & rancido
præferuari: quodiſi. ita eſt, credo in omnibusanimantiumde. dipibus id
euenire.Qrare Magpatú cor pora condienda melius faccharo imple. ta, quàm
aromatibus pofle conſeruari crederem;eò magis, quia hoc præſidio, corpora in
propriocolore, vi deadipe dixi perfifterent. Cucameres naturali odżo
oleumabborreres - aquam verò appetere. INteſtina iudicatur diſcordia, quæ in,
ter cucumeres, & oleum ineft: nam, & ijaquam,appetere.à lege naturæ
viden. tur.Proinde virentes, atque è propriis. plancis pendentes, vafcula ff
aqua plena ſübterhabuerint,adeò longius extrahús, tur, vtaquam inſequiex
certitudine ex. iſtimentur; fin autem oleum fub his fue. rit eie & tum
procul dubio in feipfos, ve Juti vncus, retrahuntur;fiquidem ij olei
impatientes ex naturali antipathia co gnofcuntur.ExMatthiolo, Mandragoram
pitibusapplántatam,vim il tis infundere ſoporiferam. T Antam habét Mandragora
inducena, di ſoporem efficaciam, vteius pom vel comeſta, vel odorata,quandoque
ca taphoram exuſçirent. Illud autem mi rabilc eft, vitibus Mandragoram com
plantatam, propriam iis naturam infun-. dere, adeò quòd vinum ex huiuſmodi: confectum
ſophrem bibentibusinduce reconſueuerit, vt Rhodiginus adnota-, uit. De
Mandragora Iulius Frontinus hiſtoriam feripſit Strathagemwoz.Arn balà Carthaginenfibus
cõrra Afrosmit. ſus fuerat, qui cùn ſciret gentem illam vini auidam eſſe,in
quibuldam vini do liis, quæ in caſtris habebat, Mandragore copiam
coniecit,indeleui comiſſo bello, ex induſtria celsit, fugamque ſimulauit.
Barbari,occupatis caltris,auidèmedica. tum merũ cùmhaufiffent, in captapho ram
lapſi ſunt, & ab Annibale trucidatia: Quando, Aegypti mortuorum corpora
come dire foleant: E condiendis mortuorum corporibus, Aegyptiorum ex monumena
tis multa, tum ab Hérodoto, tum à Cæ. Jio Rhodigino exempla afferuntur. Ae
gyptii enimmortuoscondiunt, atq; do mi feruant: Ageſilai cadauer cera condi.
tum fuit, yt & Perfæ facere folent; Alex andri corpus melle colitum eſt.
Apud Iudæos exmyrrha, & aloe cadauera con diebantar,vé apud Ioanné
Euangeliſtam cap. Iceportabile equindependenciaenels C. 19. legimus:
quippeNicodemus myr rhæ, & alocs ad libras fermè centum mi. furam fecit pro
corpore Ieſu Saluatoris noftri condiendo. Magorum eratmos, non humare fuorum
corpora, nifià fer - ris ante laniata forent: Affyriorum Re gure fepulchra in
paludibus condita fu ile tradunt. Mellis vſum, vita hominibus inducere
diuturnitatem. Nenarrabili equidem potentia mel, corruptione cuſtodire valeret,
à natura productúeft:propterea Plinius l.20.maximè huius virtutem ad miratur, ClaudioqueCæſari
Hippocen taurum, exAegyptoin melleallatum, vt citra cariem eſlet, commendauit:
nam & hoc corpora computraſcere non ſinit; fiquidem multi fenium longum
mulſi tantum intinctu tolerauêre.Celebre eft mellis exemplum in Pollione, qui
cen tefimum annů excefsit: hicenim ab Au. gufto interrogatus, qua ratione,
&ani mi, & corporis vigorem, maximè cuſto difíet,hocreſpódiſſe fertur:Melle
intus, foris oleo. Proditur etiam Corficæ in fulæ populos, ex aſsiduo mellis
vfu, vi. tæ acquirere diuturnitatem, cuius rei li cet Diodorus non comprobet
exemplu eò quòd mel Corficú peſsimum cente at, tamen non per hoc vſum mellis ad
vi tæ produ & ionem improbauit. Gulinas ouaparere quolibet anni temporefi
femina urtica, velcanabisin cibis habuerint. Scripſit Ariftoteles6.de
Hiftor.animal. cap. 1, Gallinas toto anno oua parere, exceptis duobus menlibus
brumalibus. Hoctamen tempore, quo à fætura deti ftunt, ferninis vrtica, &
canabis auxilio faciliter gallinæ fæcundantur:fienim in cibis iſtorum ſemina
Ticca comederit, procul dubio tota hyemis tempeſtate, non modò calidis
temporibus oua pari ent. Hæc profectò earum corpora cale. faciunt, & ad
fæcunditatem diſponunt. Curyepbylatam infantium maculas è corpo Olent tenella
infantium corpora, dű vtero exiftunt materno, maculis 0 pore extricare.
Solenereexiftuntmaterno, quibusdam, næuis, lituris, veruciſque, quæ à matris
imaginatione fiunt, com maculari: hæcporrò quali ſigilla impri muntur,
&difficulter poft ortum elui poſluņi. Pro iis delendis principatum
habetCaryophyllata, cuius vis,& po tétia in huiuſmodi maculis extricandis,
mirabilis iudicatur.Sumitur enim plan ta hæc cum ſuis radicibus in fine menfis
Maij, quo tempore virtus vigorofror eſt atque à terreitate emundata, in alem
bicco deftillatur, mox ex aqua ſtil lata infantium lituræ maculæque Tæpius
lauantur, abſque dubio, eua. Deſcunt. Vrrica folia in lotio infirmi cuftodita,
vitam, vel interitumpreſagire. Ira equidem, ex abdito naturæ eſcrutinio, in
vica,morteq; infirmi praſagienda, vrticæ virtus,&potentia eft. Si enim
recensplanta extirpatur, ac -24.horarum ſpatio ia ægri lotio aderua tur,
vtiquefiviridis colore permanebit ex multorum experimentis,falutem, & vitam
infirmiſignificare dicitur:fin auté haud A cantu haud viridis cuſtoditur,colorema;
mura bit,mortem, velgrauepericulum deno tare, Ex Caftore Durante. Philomelam
axem miro conſenſu à viperade. pafci. Vis Philomela cx cantu dulciſsi mo
omnibus cognita eft; incogni tus autemeiusconfenſus eſt, quoà Vipe rà depaſci
permittit:dum enim ſub ar bore,in quacantans auis fuerit, viperam viderit
paulatim ex illa defcendit,&ad viperam accedit, vt illi fiteſca. Ex Thoma
Tomai. Caftorem fià canibus inuaditur, minimè te fticulos fibi amputare.
Linius,Solinus, & grauiſsimorú Scri ptorum multi,caftorem fibi teſticu. los
amputare referunt, quoties venato tes ipfum canibus aggrediuntur quafi confcius
exiſtat,quod(ijs reciſis ) à mof tis periculo ſit ereptus; fiquidem vena tores
hæc infequuntur animalia, vt ex his accipiant,quodad medicinam vſur patur.' Rci
autem veritate hi om. nes grauiter errant; quippe caftor, Ppioru testiculi
iuxta ſpinam inclufi funt, vt multis ex anatome obferuatum. eſtiſte rum error
ex velicis quibuſdam ortus eft, quæ in vtroque, maſculo & fæmina, loco
teſticulorum pendent, flauo plenæ liquore ad medicinam vſurpatæ. Has vocant
caſtereum aromatarii, teſticuii autem minimè lunt. Quo atsficio miliciæ Duces,
vt hoftes offen danti gnemmiſsilem perniciofum -con ponere valeant. APeriam
potentiſsimiigpis miſsilis, fiue artificiari compoſitionem,cuius potentia tanta
eft, vt eiusminimaItilla non modò hominem viuum, verùmat que ferrum comburere
valeat. Sumun turſandaracæ factitiæ lib. 1o. ſulphuris viui lib.4.oleiè rafa,
fiue ex adipealbur ni ftillari lib. 2. ſalinitrifib.j. thuris lib.j.camphoræ
vnc.6.vini ſublimati, fi ue aquævitæ optiinę vnc.14.Omniahọc lento igne bene
mifceátur; deinde fupa obuoluta, atque accenſa in ollis, in ho ſtes
inijciuntur. Ignishic, infernalis di citur,tum ex eo,quòd mirabilia agat; tū N atque
ex Paracelfi impij ceſtimonio, qui retulit fc à quodam Dæmone fuille hunc ignem
edocum. Demoſthmen lingua duritiem, quibuſdama Lapillis confregiffe. DEmetrius
Phalereusalloquutus.com, quomodo fibi curaſſet linguæ impedi menta ſciſcitatus
eft.Habebat enim ille linguam duram, & ſcabram, &proinde adoratoriam
exercitationem impoten. tiſsimam ). Sanatam refpondit atque la. xatam fuiffe
linguam raſpondit ex non nullis lapillisoreretentis, quibus loqui
conabatur.Cuius Demofthenis præfidi í um difficilem habentibus loquutionem
faluberrimum iudico, vtexpeditius fer mo citari valeat.Ex Plutarcho. Vinum
quoddam àferpentibus venenatum, pleroſque àdifficillimis morbisconfanaffe.
Trabilise{t hiltoria,quęáProlpe Milocro Alpino,lib.4.de Medic.Method. de vino à
ſerpentibus venenato affertur In cella vinaria quidem ciuis Ferrariz inter alia,vinidolium
habebat, quod (i ne operculo diù apertum extiterat: - & proinde compluresſerpentes,quos
vul gus angues, & anzasappellant,ingreſsi in vinum ſuffocati, &
putrefa& i fuerát. Multiægroti ex febribuschronicis; atq; difficillimis
vexati morbis ignari,quod ſerpétes in eomortuielent, vinum à ci ue emebant
illud, quod guſtui gratum iudicabant, & breui fanati ſunt. Alij ab huius
viniſama ſuaui, cum paucos dies bibillent,itidem lanati funt, & poft hos
alijitidem eodem modo fere innumeri. Quare vinidominus tantæ vini faculta tis
admiratusvinum e dolio torum edu xit, & ferpétes complures ſemi putridos
inuenit,qui ré manifeſtá planè fecerunt. Veteres equorum lacrymas inter auguria
recepiſſe. Agnifaciebant veteres equorum Llachrymas, atq; ex ijs auguriun
vaniſsimumrecipiebant.Propterea ante Cæfaris mortem ad Rubiconemcqui dedicati
ab eo flebant,idquemagno au gurio excerptum eſt. Illorum autem N 2 inanitas,ſiue
ruditas vt ita loquar, mani feftiffima nobiseft:fiquidétépeftate no ftra fæpius
equos collachrymātes afpici mus, necperinde ex ijs alicui ſiniſtri quid
accidereobſeruamus. Vt ipſe non Semelexpertusfum, æftate potiſsimum equos
lachrymari conſpexi, idcirco vel illorum naturá efle,velmorbú iudicaui.
Crocimerallorum compofitio. Fferam Quercetani, Croci metal. Jorumcompoſitionem,
qui potens medicamentum tam vomitiuum, quàm purgatiuum fimul eſt, variisque
affecti bus accommodatum. Præparatur cum zquis partibus MagnefiæSaturninæ,
& Nitri inuicem mixtis, & inflammatis in quodã crucibulo vt vtar artis
vocabulis, & remanebit quædam materia calcina ta in colore Hepatis, quz
puluerizata, rubicunda apparet inſtarcroci Martis, quæque dulcoranda eft: Doris
-grana x. vel xij.cum vino,aut ațio liquore. Hominis compoſitionis mirabilia.
Ntet mirabilia, quæin hominis com I pofitionecontingunt,illud quidem mirum
eft,quòd tali corporis fit colla tusproportione,vt partes omnes pera. que toti
cópofito correſpondeat. Licet auto in eius ftatuia nec certa nec deter,
minatareperiatur mēſura;ex hominibo enim aliquibreues,aliquilongi ſunt;la
pienus nihilominus perfectioré homi. nis ſtaturam è ſex pedibus cóftareiudi
cauerunt, vel quod ſaltem feptem non trárcédar.Interproportiones voluit Vi
truuius cubitum quartam partem totius corporis exiftere; eandemſ;penſurat.
eſſed capitis vertice, ad pectorisinitisko Manus longitudo à cõiun &tione
ad mee dijdigiti extremūcorporisdecimapars: eft.Facies à capillorum radicibus
ad ex® tremum barbę,eade eſt menſura.Maior pollicis coiú & io,oris
eftaltitudo.Tota manustotius faciei menfura eft, Maior iudicisconiun &tio,frontiset
altitudo, cilijs fcilicet ad capillorum radices; cæ teræ autem iftius coniun
& iones, nafi longitudinem oftendunt:Hominisproe funditas, ſi ſub brachiis,
pe& ore, & hu merismeluratur,ftaturæ illiusmedietas: 3 reperi
inanitas,ſiue ruditas vt ita loquar,mani. feftiffimanobiseft:fiquide tépeftate
no ftrafæpius equos collachrymātes afpici mus, necperindeex ijsalicui finiftri
quidaccidere obſeruamus. Vt ipfe non femelexpertus fum, æftatepotiſsimum equos
lachrymari conſpexi, idcirco vel illorum natura efle, velmorbú iudicaui.
Crocimet allorumscompofitio. Fferam Quercetani, Crocí metal. A medicamentum tam
vomitiuum,quàm -purgatiuum fimul eſt, variisque affecti busaccommodatum.
Præparatur cuin zquis partibus Magneſiæ Saturninz, & Nitri inuicem mixtis,
& inflammatis in quodá crucibulo vt vtar artis vocabulis, & remanebit
quædam materia calcina ta in colore Hepatis,quz puluerizata,
rubicundaapparetinftar croci Martis, quæque dulcoranda eſt: Dofis -grana x..
vel xij.cum vino,aut alio liquore. Hominis compofitionis mirabilia. I'
poſitione contingunt, illud quidem mirum mirtim eft,quod tali corporis fit
colla tus proportione,vt partes omnes pera quetoti copofito correfpondeat.
Licet autē in eius ſtatura nec certa,nec deter, minata reperiatur mēſura;ex
hominibe enim aliquibreues,aliquilongi ſunt; la pienas nihilominus perfectiorë
homi nisſtaturam è ſex pedibus cóftareiudi cauerunt, vel quod faltem feptem non
trárcédat.Inter proportiones voluitVi truuius cubitum quartam partem totius
corporis exiftere;eandemg;menfurami eſea capitisvertice, ad gedorisinitiúko
Manuslongitudo à cõiun & ionead mes dijdigiti extrema corporis decimapars:
eft.Facies à capillorum radicibus ad ex tremum Barbę,eadé eſt menſura.Maior
polliciscóiú & io,oris eftaltitudo.Tota manustotius facieimenfura eft,
Maior Indicisconiun & io,frontisettaltitudo,a cilijs fcilicet ad capillorum
radices; cæ teræ autem iftius coniunctiones, naf longitudinem
oftendunt:Hominisprop funditas, fifub brachiis,pe & ore, & hu
merisméluratur, ftaturæ illiusmedietas. 3 rreperitur. Cæteræ partes cum
aliistra. bentrationem,vtſuperius tetigimus. Apedumnaturam mirabilem effe. IN
Neer terreftria animalia,Aſpidum ne, tura mirabilis iudicatur. Ex his enim mas
& fæmina infimul vitam agunt, ta. tula; amoris affectus inter ambdsinge
ritur, vtfi cafu illorum alter occiditur viuens occiforem infequi, quouſque fo
dj,necem vlciſcatur,hauddeſinat.Quod autem mirabilius eft,ex Plinij, &
Ifidori Teſtimonio, occulta proprietate occiío on noicit,(talem ifs natura
indidit ) igi quemIrruit, licet in quantovis hominu agmine reperiatur.
Præceptum ergoo. mnibus eflc velim,vtocciſo iſtorum ani malium quopiã,celeri
fugaiter occiſor arripiat,ne à compare animali veneno fiſsimoinfeftetur,
Leporesomneshaudeffe bermaphroditos,con traVeterum opinionem. Mneslepores
vtriufq; lcxusexiſte re voluerunt Veteres, quod & M. Varro ctiam tradidit.
Error tamen eſt, vt diuturna docuit experientia, quama feulos fculos à fæminis
lexu eſſe diſcreros cognitum cft. Porrò tantorum inſcitia, abhoc, vt
reor,ortaeft, quia in leporum genere lępius, quàm in aliis animantibus
hermaphroditos reperimus: inde Hee brei naturæ arcana intimiùsſubodors tes,
leporéfæminino vocabulo léper ex planarunt,ARNEBETH, eò quòd in iis
foemineusſexuspræualet magis.Rej ve ritate noomncs hermaphroditiſunt,vt ex
peritiſsimis venatoribus audiui; exic & ione multorum cognoui,ficut.com iam
Bodinus edoctus fuit,vtivrhluth confitetur. Equidem Hermaphrodig plurimi
funt,fedfæcunditatem fervita. rumminimè recinéignecmares vnquam vtero gerunt,
necminus fuperfætant. Mirabilen eße Imaginationis po tentiam n vtero gerentibus
imaginationis po tentia apertè cognoſcitur.Si enim illæ inter virorum amplexus,
& fuauia,ali quid intensè cogitauerint, facilè in in.. fántium
corporisexternis partibus imax ginata imprimunt. Hinc variæ rerum formar Ire N forme,næui,lituræ, verrucæ, & alia figa na
in infantibus impreſſa conlpicimus, Lingmultæ ex leporum obeutu fætuse-, dunt
ſciſſolabello,aliæ fimis naribus,ore diftorto, vultumonftruofo,labris turpè
prominentibus,corporedifformi,ocu-, liſq; horrendis infantes genérant: quia
conceptus, vel grauidationis tempore, turpia,monſtruoſa,& horribilia fixa
co gitatione excogitarunt-Fæminisidcirce, præſertim nuptis,pulchrasimaginesda
mihaberecófulerem,atq;à turpibus av effe,ne pręuia imaginatione fætus mó.
Atruoſos, turpefá; concipiant. Veteres, Climaftericos annos admodum ti muiffe.
1 A mationis apud Aſtronomos exi ſtunt &re vera videtur in quolibet anni
feptenario quædam hominis mutation deò quod, ficuti in morbis dies criticos
timemus,ita in vita hominum annosClin mactericos,qui à multis ſcalares dicun
tui, quòd gradatim eueniant.Sunthi an ni, .Inte hos annos 49.63. magis
periculosos credunt; quiaconſtant è feptenario, duplici, &nouenario
complicato,obfero uatumq; àgrauibus auctoribusreperio, maiorem hominum partem
io anno 63. Mori contingere.Idcirco hos veteres ada modumpertinebant,&, vt
capiturin Gellio lib. Auguftus itaſcripfit ad Ça ium nepotem:Spero te lætum,
&bene uolum celebraffe, quartum & fexagefi mumannum natalem meum:nam,vt
vi des,Elimactericum communem fenio rum omnium, tertium & 'fexageſimum
annum euafimus. Dehis tractatum edi dit Iofephus de Roſsi à Sulmona vtilem
&jucundum. fMundiprimordiisinter homines, es ferpema tes
antiparhiaminfurrexiffe. IRRreconciliabile odium eft, quod inter homines,&
ferpérescadit,adeò, quòd expauefcit homo fi ferpentem inuenit, antvidet;magis
autem fæmina: fiquidé obſeruatum audio gravidam mulierem (vifo ferpéte )præ
timore abortire.Hu. ius difcordia illa ratio potiſsima eft quodàmundiprimordijs
ínterkanc, & QUnca Semuan -illum Gt ſtatuta inimicitia, & irreparaa
bile odium, quo altera-, alteram fpecia em inſequatur. Carolum V I. Francorum
Regem, Ceruum 4 latumpro infigniprimò habuiße. Iluanettum Rex Carolus venandi
cauſa fe contulerat, canum latratibus excitatusin fugam Ceruus, æneam tore.
quem collogerere viſuseſt, quem vena bulis,aut ferro appeti Rex prohibens,in
calles, & retia compellit.Erarin torque latinis litteris infcriptum:HocmeCçſar
donauit. Exeotempore Caroluserua alatum pro inſigni habuit; &alii,regibus
inſignijs (quęlilijsaurcis tribus conftát) circa latera, Ceruos duos apponere
con fueuerunt. Gaguilis in vita Carol. V I. HANC. Reg. Insaanimantia confenfum,
&difcas diane ineffe. Vllidubium inter animantia fym pathiam, &
antipathiam efle inter trpiantes ſubditur: fiquidem muſtelam miro eiulatu in
bufonis os deuorandam inueherelegimus; & bufonern in ferpen Npathi Lisa I
tis,botræ vocati, os ingredi.Inſuperci cutam, fturno eſle cibum; homini vero
venenum in dies obſeruamus: atqueveo Fatrum cotumices nutrire, hominem autem
lædere non eft ambiguum. Senaterem quendam, exconiuge liberos ſur dos,
&mutosfufcepiffe omnes. nature. omnesex, &mutos ſuſcipi,itaequidem à
Fernelio obferuatum eft in quodā Senatore.Cre didit Ambianus huius reiobfcuram,
& cæcam eſſe rationem, mihi autem altera fubeft, quæa Phyficis minimè
differt: fi quidem auditio grauis, atque ſurditas quæ à natalibus viſa fit à
conformatio nis vitio exoriens, hæreditarios mor bosgenerare creditur, &
perinde libe ros, exhuiuſmodivitioſis,ſurdos, &muin tos excitari:fæpè autem
non in filiis,ſed ! in nepotibus hæclues oriri videtur. Apud Garamantes.
mirabilem fonterros obferuari, Dmiranda profe& ò, eft fontis il.com
ARJiusproprietas, quiin oppido Der 1 bris apud Garamantes reperitur. Hices nim
die friget, no&c verò æftuat; adeò quòd memoratu incredibile videtur,
quomodoin tambreui temporis fpatio tantam natura ſui faciat varietatem. Equidem,
quinoéte fontem afpicit, ibi flammasignefqueæternos exiſtere cres dit:quiautem
die hyemales ſpectat: fca. tebras, vtique fontem perpetuò rigere exiſtimat.
Propterea Debris apud mudi nationes inclyta eſt: eius enim aqua qualitatem
excæleſti vertigine,mutare confpiciuntur.Ex Solino. Quo artificio Caminus per
ſuperiorem "api cem ſolum fumum emittere valeat. N Caminorum fru & ura,.non
modi aim tufferimus laboris, ne ignis fi molimtesin nos ipfos erumpant: fiqu.
dem in ventorum mutationc facile fit, vt fumi quandoque potius defcendant;
quàmadapicem aſcendant: ventorum enimvisillos deprimit, deſcenderequc
percaminum cogit. Egotale ad fumi ferlum impulfionem excogitaui artif. simm.Struktur
Caminus, cuiusfuperius fafti. zor faftigiu rotundú fit,ibique foramen la
pidibus fi &tilibus conſtructum fit: mox ahenum inſtar tympani ex-ære, in
cuius latere feneſtella extracta ſit, fuper lapi des affigito: ftylifớ
ferreisfubcingito; ita tamen,ve intus vagari, mouerique commodèpoſsitapta demum
fuper fer reos ftylos, & lebeten?' ex ære infuper vexillum,quod feneftellam
fubiec dia recto habeat,taliq;induſtria,vtin quo libet vexilli motu, moueatur,
& calda riumin gyrum,ita profe & ò è feneſtella, ventis
oppofita,fumuserumpet, & non deſcendet.Pleriq;, vt fpero, huit noftro
fcruinio,ineliorem addent Atructuram. meamque opinionem noníſpernent.
Adconftruendum celerrime Horologium muncrabile in paritte. Ncoritruendis,
pingendiſque ſolari, bus Horvlogiis, non modo lintā me ridianam,opuseft
imienire, vthorarum tempus fidele reperiamus, rerum atque Ortum, & Occalum,
Borcam, &All ftrum cum Aquinoctia, & Solftitia: in is.n.
Solarismotusquarnaxime variat. N 7 Ego quidem, vt labores fugiamus, tale
excogitaui artificium.Globum planum. extabula lignea formato in cuius medio
ftylus ferreus ſitus fit;diuidito mox glo. bum lineis,ex centro ad extremum du
cendo illius in 24,portiones, demumin globiapice horas ſignato, &vltimo in
patiete contra Solis radios affigito. Vt auté ex Solaribus vmbris diei, horas
ve nari poſsis,Horologium portatile afpici. conglobumý; ad horam illam accommo.
dato:ita profectò,abfq;alio auxilio, ce ferrimèHorologiumvmbratile in pari cre
habebis.In Aequinoctijs, & Solftitijs 1 eodem portatilis Horologijauxilio,fa.
cillimè ad horarum æqualitatem globů reducere poterimus. Infancium pir uitam, è
capitefluerem, quo artificio Chartaginenſes fiftere procurandTing, Xinfantium
pituita, in capiteredú. dante,plerique fuecedunt morbi in. ter alios, morbus
comitialis exoritur, qui à multis puerilis vocatur, quòd ijs,ve plurinum,eueniat..
Vt autem infantes ab huiuſmodi pręſèruarent Pæni, illorú vedas capitis lana
ſuecida inurere,pitu. itainý; fuentem hoc præfidio compefa cere conſueuerunt.
Athiopes infantes te ditos,ab ipſo quoq; natali die,in fronte adurút,ita profe
& ò tumcapitis, tumo culorü humorfiftitur. Apud Inſubress. ex teſtimonio
Mercurialis, & pleroſque populos,veícribit Scipio Mercurius,l ditos
infantes fetonein collo muniunt, quod falutáre experti funt aduerſus mor.
bos,qui à capite Huunt, Inmise rasis pluuie,quapotiora ixdiceniny præfagia.
pluuiam imminentem,tum ex Gallo rum cantu intempeſtiuo,tum ex fre quenti
cornicis crocitarione multi præ dicunt.Hisautem addendum puto muf cas(ca
imminente)pulice's, pleraqzani malcula à furore vexari, intentula;mer il dere:hæc
enini à vaporum inaerem ctc. rationc à radijs falar bus perturbantur. Infuper (pluuia
imminente )odoris fra. grátia in floribus sétitur;apes ad alueária -
sedcut;bufones, vermeſi;èterraakédut Brina vifa eft per dies præcedentes; catti
manibus caput, quafi linientes, compri munt; ouescapitacommotient:afini hu
miles habent aures; ftercora fumát, ma legue olent.Horum omniumratio, va
poresàSole exhumidisfublatifunt:pro. inde animalia,cerebra humida habentia,
nonnulla magis extorquentur. Vinum à Verrribus fuiffe mulieribus inter di&
um. Agna fuitVeterum à vinivfuab. Itinentia:illudautem adeò muli. eribus erat
interdi & um,vtcapitale iudi. cium inirct,quæ vinum biberet. Porrò inoleuit
confuetudo,vtcognati, & affi. mes, mulieres ofcularentur, ore explo rantes,
an ex vinum bibiffent. Idem ve fusMafsilienfibus, Mileliis, pluribus; Græcorum,
&Barbarorum gentibusin,. valuit, apud quos muliereshydropota, & viri
erant abftemiz: Intermemoran da illor um temporum,EgnatiusMetel fus, vxorem,
quod vinum biberet,fufte necafe dicitur. Quo artifii io è plumbo Antimonii
flores ex Habere paleamase Ape nij, fiue Stibinon femel extrahere Periam
artem,qua flores Antimo à plumbo valui, quo præſidioin multis corporis affe
& ionibus feliciſsimo euétu voor.Capito Plumbicampanam, è qua aromatarij
rofarum aquam ftillatitiam extrahunt; hæc habet æris fundum: tu verò txargilla
eligito,quodacerrimoa etto fupra medietatem implendum con fuilo,eaq; induſtria,qua
rofæ ftillantur, in aceti deftillatione carbonibus bene ignitisagendum cít:caue
tamen, ne totus fillet acetum, ne aqua extracta vftioné fentiat.Hæcaqua auri
colore eft, fapore xerò facchari, & mellis; mirabilis tamen tum in potu,
tum extrinfecè vfurpata, ob ftib j flores ex plumbo extre & os. vomitu,
& aluo purgat, ob id frigidis affectionibus,obſtructionibusý; vtiliſ. fima':
In vlceribus putridis, fætidis acoribus, ſcabie, herpere exedente, & aliis
huiuſmodi,maximi eſt valoris.Doe ſis in potu ſît vnc.ij. Deforisad placitū.
Clarorum virorum exitum aliquot inte felicem fuiffe Aniene fluuio Aeneas poft
tot vi. & orias, torque clara facinora periiffe dicitur: nec
diſsimilisRomulo, Cæfari, Alexandro,Annibali,Scipioni, Iugur thæ,Mithridati,
atque alijs innumeris mors ſucceſsit:per quàm n. pauci viriex iis, qui
clari,atque illuſtres tum virturi bus, tum fortuna habiti funt, quos non
infælix exitus,tanq: á pro exemolo,fós offentäuérit porterial text caligero.
Defipientiam, mulierum natuefamiliarem indicati. MVlieres vtero
gerèntes,fiàphrenia tide capiuntur,Galeni teftimonio, rarò confanefcere legimus,
vt fcribit tamen Cælius Aur.femper minus graui ter,minuſquc periculosè, quam
viri,mu lieres ægrotant.Hoc autem, vt Merci. sialis opinatur,ab alia ratione
continge re non poteft, quam ab ipfarum natura, cuius familiarius eft
defipere,quam viri. Mirabile Annibalis, contra Romanos nauala fratagemia.
Nfolita,& mirabilis Annibalis milita Eisafutia contra Romanos iudicarur: hic
enim bello naturali cum iis dimica. curus, cum impares vires habere anim
aduerteret,rale ſtratagema inuenit. Ser pentibus, quorumvenenumconfeftim
enecat,pleraſq;ollas impleuit,opertasq; repente in hoftes iaculatus cít, quorum
ictibus plurimi cecidere.Hifceftratage matibus vir hic tanquam alter ſerperis,
multoties hoftium manus effugere con fucuit.Ex Gdenoin lib.de tbet.Akrijon
Ambarum cum vino alicui exbibitum, cena feftiminducere ebrietaisn. Mbarum, quod
à vulgo Ambrageye ſea vocatur,fomiſsisatiopam falfos opinionib &
bituminofis fontibus,qui in maris profunditate exiftunt, oritur, Hocautem
primòliquidum eft,cùm ve rò aquarum impetu ſurfum rapitur, ex
aerisfrigiditatecondenſatur, & Amban rum fir:Siquidem in maris concauo, ple
raq; mollia,teneraque obfèruantur, & interalia Coralliú, quod ex aqua exea
ptum, citiſsimè lapideſeit. In Ambaro illud mirabileiudicatur, quod ab alique
antequam vinum hauriat,odoratum, ina sttar ebrii eladat: cum vinoa, propina tū,confeſtim
notabiléinducere ebrieta tem multis experimentis eft comproba. tum. Ex Simeone
Sethi Greco auctore. oleam Lathyris Tympaniam, Colicas, affe& iones
mirabiliter ſanare. Irabile quidem,quod è Cataputię -ſeminibus extrahitur,
oleum eft, quippein expellendismorbis,qui à filao tu luccile;frigidis oriuntur,
principem habet locum.Contundantur huius ſemi na, atq; in aquatam
diùebulliant,vt ex cocta videantur;mox oleum in aqua fu pernatans cochleari
colligendúeft. Mos eft apudIndos tale oleum cómodius per decoctionem, quàm
expreſsionem cola ligere. Vfurpaturhoc feliciſsimo fuccef. fuin Tympania,colicis,
iliaciſq;dolori. bus,ftomachiaffe & ione,aurium furdita te,atq, in iis
morbis,qui à ſuccis frigidis, fatua;fiunt. Huius gutta aliquo lique re in potu
ſumpta aquam citrinam euan euat,in articulorumq; doloribus pitui tam,
humoreſque frigidos. Extrinfecè vfurpatur in omni Hydropis ſpecie: vbi tamen
flatuofitas viget, maximam in expellenda proprietatem habere vi detur. Ex Don
Garzia ab Horto. Verenum à diſsimili extingui; à fimili vero angeri.
Hocpropriumelle veneni,àfapien Lrioribus proditur, à diſsimili ex. tingui,
& a ſimili augeri, & robuſtius fi erizea propter non femel à perfidisho
minibus exhibita venena nullius valo risfuifleobſeruatum eft,cùmeadiſsimi
libusfuerint fociata. Aconitú, & Napel lus miram retinent vim necandi, com
pefcitur accamen corum potentia à ve neno diſsimili, ex quorum diſsimilitu
dine,vtriuſq;vis hebetatur.Mira eftAu. fonii hiſtoria de vxore mæcha, quzma
rito venenum propinauerat, vt a. illud robuftius effet, Hydrargyrum miſcuit ex
quo toxici virtusdempta eft, & vir immunis euafit. Hoc epigrammate ille
monftrat; Texica Zelotypadedit vxor mecha marito, Necfatis ad mortem, credidit
effe datum: Miſcuit HA Mifcuit agente
lethaliapandera viui, Cogeret vt celerem visgemindanecem. Digid at ber fiquis
faciunt difiseta venenü; Ansideram fumet,quiſociala bibet. Ergo inter fefe dum
noxia pocula cortant, Cele lethalisnoxafalurifora Protinus,Go Vacuos duipetiêre
receffiua, Lubrica deie& is,quaria nota cibis. Quanpia cura Deumprodeft
crudelier vxor, Elçüm fata voluns,bina venena juuans. Cornelij Celfy de
valetudine fanorum bomsi num conferuandatutißimapræcepta. Nter
grauiſsimosmedicos,& fcripto res,nemo eft,qui in conſeruáda fano rum hominú
fanitate oculatior exiſtat. Afferă ciusverba ', ytfaluberrima iſtius præcepta
rectius intelligantur.Sanus ho mo,qui,&bene valet, & ſuæ (pontis eft,
nullis obligare fe legibusdebet, ac neq; medico,ncq; dcalipta egere.Húcoportet
varium habere vitæ genus, modo ruri eſſe,modòin vrbe,fæpiuſý; in agro: na
uigare, venari,quiefcere interdum: fed frequentius fe exercere.Siquidé ignauia
corpus hebetat labor firmat; illa matură lepc ſenectute,hic longăadoleſcentiá
reddir. Prodefteciâincerdúbalnco interdú,aquis frigidisyti;modòvngi,modòipsú
negli gere:nullú cibigenus fugere,quopopu. lus-vtatur:interdú in cóuiuio eſie,
inter. dum ab eo ſe retrahere:modò plus iufto, modò no ampliusaffumere:bis die
poti us quàm femel cibú capere, & fèper quá plurimum,dummodo hunc
concoquat. Secl vt huiusgenerisexercitationes cibi queneceſſarij
ſunt;ficathletici, ſuperua. cui. Nam, & intermiſſus propter ciui. les
aliquas neceſsitates ordo exercitati. onis,corpusaffligit, & ea corpora,
quæ more eorum repleta funt,celerrimè, & fenelcunt, & ægrotant. Hæc
firmis ſer: uapda fune,cauendumquene inſecunda valecudine, aduerfæ præſidia
cenſum mantur.Ex lib.i. Socrati à familiariDeironcde Plasonis indole Somnium
fuiffe immiſſum. Solene quandoq;malifpiritus homi nibus fomnia ingerere
futurarum re rú, vel Dei permiflione, vel vt nos ipfos dedecipiant. Hinc
Socratem legimus, vidiffe per ſomnium,oloris pullum ſibi in gremio plumefcere,
qui continuò exorcispennis & expanfisalis, in altum aduolans, fua tiſsimos
cantus edebat. Poftridie Pla tone adducto, hic eft (inquit ) Cygnus, quem ego
præterita nocte cam fuauiter canentem fomno videram. Hocfomnium, ve fcribit
Henricus de Aſsia, à fpirira fa. I miliari, ſub forma Cygni, quem Athe
nienſesVeneri dicarunt, fuit immiſsum Socrati, vt Platonem in diſciplinam re
ceperit ', à quo, quum ipſe uilil ſcrie ptum reliquerit, dulciſsimi ipfius
& Caluberrimai fermones proderentur, Magia ſeu inc antatianis ris. Onmeras
eſſe præftigias, quæ magica? arte efficiuntur; multis exemplis notum eft, fed
vno in primis, quod deſcribere vifum eft. Rufticus quidam magnis doloribus
ventriculi vexaba tur:: quos etfi variis, medicameutis depellere cogar zur illi
tamen non 1 ceffarunt, fed potius in dies recrudeſcere vifi funt. Quare
agricola doloruin impati ens, cultello ſibi guttur abfcidit. Dum au tem tertio
die mortuus ad fepulchrum ef ferretur, à duobus chirurgisin magna ho. minum
frequentia, illius ventriculus iraci. fus eſt. In ee (res mira, &
prodigiofa ) lignum teres, & oblongum,quatuor excha. lybe cultri, partim
acuti, partim ferræ in. ftar dentari, ac duo ferramenta aſpera re. perta
fuerunt:quorum fingulaſpithamęlos gitudinem excedebant. Aderat, &capillo.
rum inuolucrum globi inftar. Credibileen fanè, hęcin ventriculi cauitate
congeſta fu iffe, non alia arte, quàm Dæmonis aftu,& dolo. Quo artificio
epiftolam, in ouo celatam alicui afcribere valeamus Nter ſcripturarum
furtiuarum arcana non infinum locum tenere exiftimo, in ouo epiftolam celare,
atq; amico ſcribere, Videbis enim oui putamen illæſum, mun. dung; illo tamen
exempto, difruptos; cha paeteres apparebunt. Aperiam ſecretum. S? Atramento, ex
gallis, alumine &aceto con. fecto, in ouicortice literas ſignabis, votum
pffequeris. Has oportet in Sole calente ex ccare, mox ouum in muria concoquere
ita enim à cortice characteres euaneſcune, & ad interna gradiuntur:ſiquidem
putami. ne exempto, notæ oui durato albumine in ueniunturEx.Carolo Stephano. In
aquafrigida captanda maximum veterum fuiffeftudium. Aximam antiqui curam
adhibebát, vt aquam frigidam pro ætatis in. cendio temperando conferuarent:
quareex niuibus eam parabant, vt Athenæusretulit. Dequa re perbellè loquebacur
Seneca, & panas montium in voluptates transferunt, Alexandrini aquam
Soletepentem, in fene ftris ad ventorum incurfus exponebant, vt poctu
frigeſceret;manè autem inte Solis or ruin hani ponebant, folijſque lactucæ, ac
que pampinis iniectis frigidam tuebantur. HocGalen.parrat.6. Epidemior.
Plasarchu: 6.Sympus cotibus & filicibus aquæ inietti hoc fieri fcripfit.
Neronis autem in re har ftudium nobiliſsimum fuiffe proditur: ise genim,
vtninis voluptate, ablque njuisia iniuria fruererur, feruentem aquam vitro
immifiam in niues refrige jarimandabat:Ex Heur nie. Ecua Fæminas in prima
menftruorum eruptione in Venerem maximè incitari. e Erunpune,fceminis bera
exurgunt:Pana guis ille,inftar occifi animalis videtur, atq; in maiori copia
erumpit, cùm vbera ad du os digitos prominent, que tempore puella rum vocem in
grauiorem mutari confpici. mus, Illud autem maximè adnotandum eft, in prima
menſtruorum eruptione puellas in pudendis,valida tentigine, prurituque core
ripi,ex quo ad Venerem incitantur: quare per tempus illud cautè cuſtodiri
exiſtimo. Ex Arift.7.de Hift.anim. Qua induſtria Aegypti lapides à
vefica,abfiga incifione extrahant. Irabile quidem eſt Aegyptiorum ftudium in
extrahendo lapide à ve fica abſque inciſione, quando noftrates me dici,
lapidarij ſine illa facerenequeant, idque cum magno languentium vicę periculo.
Hiligneam cannulam accipiunt, octo di. gitorum longitudine, & digiti
pollicis latia tudine in opere abfoluendo. Hanc colisca nali admouent,
fortiterque infufflant;neau. tem flatus ad interioraperueniat, extre. mū
pudendimánu altera perftringunt, fo. samen deinde cannulæ claudunt, vt virga 0
% cabang M N eagalisiotumeſcat, latiorq; fiar. Quo facto miniſter digitoin ano
pofito, lapidem pau Jatim ad canalem virgæ, atq; in eius vasex tremun deducit.
Quivbipræputio lapidem appropinquare ſentit,cannulam à virgæ ca nali fortiter,
impetug; amouet, & lapis ex. trahitur. Ex Alpino. Mult a praſidia ab
animalibus, bomines accepiffe. On pauca equidem præſidia funt, quæ ad hominum
tutelam ab animalibus accepta ſunt. Chelidoniæenim virtutein ad oculorum morbos
ab Hirundine accepi. mus, quæ hanc conquirit herbam,vt furorú filiorum oculos,
vel vitiatos, vel.cæcos cu rer, Fæoiculi virtutem ad eandep tutelam ab'anguibus
didicimus, Ab Ibide, quæ in ftar Ciconię auis eft, clyftris vſum habui mus: nam
& illa roftre marinamaquam al lumere folet, illoſ; pro clyfteri vtitur, vt
ventrem nimis onuftum exonerare valeat. Inſuper marinus equus, Hyppopot mus di
etus, venarum fectionein nos docuit: illef. quidem mala oppreffus -valetudine,
ad re center fuccifas arundines graditur, acutio. riſ;cuſpidefanguinem è
cryrjuin venis adi mit. Quod autem in hocmirabile eft, vela guinem cohibeat, in
fimo, vel cono volutatur, & ica vitam tuetur, & fanguinem fim ftit. Ex
Plinio, alis. Equorum teft:cilos ad ſecundas depellendas miram babere pirt
utern. Ingularis profecto Equi teſticulorum ad nulierum fecundasdepellendas eft
pro prietas, adeò, quod teftatur Genſerus in e pift. Rufticum quendam,
quinquaginta in puerperis feliciter hoc vſum fuiſſe reme dio. Vfus eit &
Horatius Augerius in plu. ribus mirabili euentu: præſtantiſsimuin id circo à
grauibus auctoribus indicatur re ne diun),nam, & pluribusiam deploratis pro
fuit.Capiunturteſticuli equ: caftrati,& tria ftillatim conciſi in forno
exiccantur, quorü puluis quantum capitur tribusdigitis è jure bibendas datur in
neceſsitate; idé; fi opus eit, bis, auc ter reperitur. Humanam faliuam
Scorpiones interimere. Ominum faliua Scorpionibus infe ttiſsimum venenum eít,
adeò quòd ca tacti confeftim intereanc. Porrò ijs, ſaliua fora ſubſtancia
aduerfaelt, ve Galenus lib.io fimp, medic. experimento confeffus eft; ist. nim
à fola faliua morientem vidit Scorpio. nem, id; celeriter patientem à faliua
elue riencium, aut fit jentium; tard autem ab 3 illis,qui cibo, potuque fuerant
impleti,ina. liis autem proportione, Apium riſus,bominesridendo interfi. cere.
Scelerata eft herba quæ Apiamrifusdicia cur, quod ridendo homines interficiar:
fi quis enim gnftauerit ieiunus vtique ridendo exanimabitur, vt Apuleiusteftatus
eft: Ex hacillud adagium ortum habuit:Sardonius siſus; nam & Sardonia eriam
vocatur.Porrò on ex rifu, qui hác guftauerint, moriuntur fed potius,vt placet
Saluſtio neruos labio rum, & orismuſculosillius, qui eam come dit,
contrahere facit,adeò, vtridendo mori videatur. Qua induſtria Partbi, Scytheque
Sagittarum aciem venenajunt: AR'thorum, Scytarumque toxicum, quo fagicrarum
acies inungi folebant, humano fanguine, & viperinaſanie confta bat,
tantæquc feritatis erat hoc venenum, ve leui tactu animal interimerer, Equidem
Scythæ viperas recenter enixas venantur, eaſque diesal.quoccontabelcere finunt,
do necip fapien putre.cane, mox com visus hominis fanguine in ollam effuſo, eam
ex quifite coopertam; fimoque obrutam com putrefcere finunt, cuius demum.1. ick
or fan. PAT fanguini ſupernatans, fiue ferum cuni vipe rarum faniecommixtum
lethale Scytharum toxicum eft. Ex Arift. Plinio, & Langio.
Succinumpterogerentibus exbibitum, mire partum accelerare. Mvicis experimentis
comprobariaudio ſuccinum parturientibus drach. ſemis pondere ex vipo albo potui
dátum, mirè par tuin accelerare. Hoc eriam facit eius oleum, fi gutta tantum ex
aqua verbenæ parturienti propinatur.Quidātamen medicusHetrufcus (Fallopii
teftimonio )exhibebatfcrup.i.bora• cis in decoctomatricariæ, velfabinæ diffolu
tæ difficulter parientib.mirag; faciebat: bre ui enim temporis fpatio
feetus,vel viuus,vel mortuns egrediebatur. Habebat ille medi euis pro arcano
præftantiſsimum hoc auxili um tamen neſcio quomodo postea fuerit de fetum. Ex
Andernaco Serpentum oua genituramí per imprudētiam in petu haufta,ſerpentesin
corpe ribus procreare: Dmiranda fuccedunt quandoq; fym dem imprudenter cum ea
femina, vel ova ſerpentú hauriuntur, è quibus moxſerpentes generantur. Genſerus
in lib 2. hift animal cap, de Ranis Rubetis, bufones in ventriculis in
reftinifq; hominum haufta eorum genitura, fieri, &nutriri probauit. Iacobus
Manlius, in lib.experim.in cuiuſdam equitis, exhau * Ita cuiufdam lacunæ aqua,
vbi erantſemina Serpentum, in ventriculo plures angues fu. iflegenicos
prodidit: quibus per internalla extractis, medicorum auxiliis, fanus factus
eft. Leuinus Lemnius Vermiculos cauda tos, atg; infolita forma beſtiolas vomitu
ciectas nouit. In nonnullis lacertas à phar. maco fuifle eductas obferuatum
eft, vt Gé. maCoſmocrit vidit. Quare maxima in a quæ potu hominibus opus eſt
animaduerfi. one huiufinodi exhanftis, pernicies corpo. Tis conſequatur. In
deſperato coli dolore Hydrargyruin, v4. glandem plumbeamexbibitam, multos
confanaffe. Irabile videtur, Hydrargyrum,quod à mulis venenum reputatur, in
der. peraro coli'dolore exhibitum, plurimun prodell:. Equidem Marianus Sanctus,
ex multorum confilio, qui ab hoc lethali mor bo fanati fint, fuadet, fi
obstructio perfeue rauerit, & fæces per os extrudantur, hau fire cum aqua
fola argenti viui libras tres, Probat hic exratione vinetuin feu duplicatű
inteltinum Hydrargyri pondere explicari, fæces detrudi,vermelý; fi ibi fuerint
interi. mi, &ægrum liberari. Haud ab hoc difsi mili auxilio quidam nobilis,
poft alia ten tata ad morbi huiuſinodi acerbita tem ma. chinamenta, liberatus
eft. Hic hauftis olei amygdalarum dulcium fine igne extraćti vnc. iij.cum vino
albo, &aqua parietariæ mixcis, mox deuorata glande pluoibea ar gento viuo
illita, planè à colico cruciatit euafit, illamque exano abſquelaborerede didjt.
Ex Pareo lib. 16. Infæniculorumfeminibus, vim quando que exitialem deliteſcere.
Grauibus ſcriptoribus comprobatur, ſerpentes fæniculorum elu, &fene ctam
exuere,&oculorum aciem rnonare. Hinc iis affricantur oculi anguium, vt vo.
tum affequantur, Ex attritu foeniculorum feminibus, praya quædam imprimitur qua
litas, è qua venenati producuntur vermi. culi,quorum eſu multi in peſsima
deuene. runt ſymptomata, &ab alexiteriis rarò ad iusj funt, tanta huius
veneni potentia eft. Quare foeniculorum ymbelli,antequam co. medantur,
aperiantur, & diligenter concu, tjantur, vtå vermibus emundentur. Præ, OS
Habis A A ſtabit al quantifper in frigida macerare. Ex Balthajaro Pifanello,
Noua admirandag; prafidia, ad Ang i nam, gutturules apoflemata. Fferanı
fingularia auxilia, è quibus ex grauiſsimis fcriptoribus, ad anginam &
gutturis apoſtemata mirabilia contigiffe proditur.Lignum hederæ ad gutturis
apoſte. mata à proprietate valere fcribit Ioannes Marquardus: quippe obſeruatum
eft, come dentem excochlearihederæ ligneo, fiue bi. bencem in aliquo ipfius
vafe ligneo, num quam, vel raro in gutturis, vel vuulæ apo. temaińcurrere,
Rubeta cocta, &pro em plaftroSynachicis impoſita,cófefim liberat.
Vermes.quandog, in cordis capſula pro creari, è quibus mors ſubitanea
pleriſqueexoritur. Abulofum haud eft, vermes in cordege: nerari. Hoc enim
Melues docet, Holle rius, Marth. Cornax, Alexius Pedemonta. nus, & alij
loan, Hebenftrit, in lib. de Pette, Principem quendam ex morbi fæuitia peri
iffe narrar, cuius cadauere diffecto, vermis albus præacito roſtello, eoq;
corneo præ. ditus, cordi adhęreſcere deprehenfus eft. Exmedicis, ſucco alii
feram hanc, tanquain ex indubitato remedio, interimi probatü eft. Petrus
Sphererius (vt ScheukinsBarratti lem
fiorentinum morte fubitanea correpti, atq; diſſecatum obferuauit, in cuius
cordis caplula vermis viuus repertus fuit. Aiunt multi certiſsimo
experimenco-ficco allii,ra phani, & nafturtii hos vermes pecari, qui, ex
teſtimonio Pedemontani, in corde deli teſcentes,ſyncopim, Epilepfian, &
mortem inferre folent. Mares pleroſque in mamillis, mulierum instar, lac
producere. Icet marium mamillæ fpiffa carne in fuiffe productum obferuatum eft.
Nouit hoc Arift. vtlib. 1. dehiſt. animal. docuit. Veſali us non femel id
confpexiffe in 1: 4. 15. Anat. commemorat, & Hieronymus Eugubius in libell,
de lacte: fic & Cardanus,lib. 1. de Sub til. qui ianuæ vidit Antonium
Denzium, è cuius mamillis lactis tantum profluebat, vt infantem fernè lactàre
potuiffet. At hifto ria, quæ affertur ab Alex. Benedicto mira. bilis eft:
aitenim, Syrum quendam,mortua coniuge, è qua infans ſupererar, ybera filio
admouiffe, ècuius ſuctu tanta lactiscopia i pupillam manauit, vt exinde loco
matris nn trire valuerit. Ego quidem in duobus filiis meis, in primis diebus à
partu obferuaui, ab obftetrice.mamillas cofrectatas, lacimpulſo (magno multorum
ftupore) emififfe: idậ; in aliis etiam infantibus contpexi, Lumbricosquandoque
tantaprocreari pi Tulentia, vt interior a corporis perfurare valeant. Nfanda
equidé fymptomata à vermibus aliquando proueniunt: refert enim Om bibonus, lib.
4. de morb. infant. Lumbricos ex vmbilico cuiuſdam erupiffe. Tralliani
teſtimonio habemus, hæc animalia ob ali menti inopiam inteftina laceraffe,
fuiffe ob ſeruatum. Id etiam ab Aegineta confirma tur: jofuper Hollerius
confpexit, vermes per inguina, & vmbilicum prorupifle. Ma. gna igitur cura
opus eſt in horum redua dantia, ne interioracorporis valeant lace fare, A
Infamis vmbilicam, & Ceruinumpenem mirabiliter conceptumfacere. Lexander
Benedictus, 1.30. de curand. morbis,vmbilicü infantis, qui fponte caditquoquo,
modo in ciboſumprú, fiigno rauerit mulier,adconceptum facere, pro.
didit;illumg; in brachialibus à muliere ge ftacuin conceptum inhibere eredir.
Cerui. aum inſuper penena aridum, & in fari. namredactum, oboli pondere, à
coitu forminis datum; procul dubio ad concipien. dum prodeffe experimento
probat, Baueri. us tamen conf: 50.vterum ceruinum fingu lari dote ad conceptum
valere prædicat, Vlmi vſum, recentem Elephantiafim curare fuiffe obferuatum.
Inquam certum remedium, Vimi vfus in curanda recenti Elephantiaſi à laco. bo
Douinero, lib.Tic.7. prædicatur. Vidit enim adoleſcentem tali affetu laboranté,
& decoctionis Vimi vſu (factis faciendis ) conualuiffe. Ea equidem pro omni
potu vte barur in quolibet paſtu, cum pauco vino al. bo, &cantiſudores
mouebantur graueolen tes, vt vix illos cuftodes ferre poffent. Ita viſcera
purgabantur, &magaa yrinæ copia excernebatur, quibus excretionibus fanus
factus eft. Cyprinorum efum podagricis elle infeflum. Vamuis inter piſces,
Cyprinusnobi. lifsimus exiftimetur, cum optimum præbeat nutrimentum,
exquiſitiſsimigsexi Atat faporis; tamen podagricis infeftuin ef. fe obferuatum
eft. Nouit enim podagroſum Iulius Alexandrinus (vt retulit lib. 15.6. 6.. de
salubr. ) cui Cyprinorum efu pinguium, parata érat femper podagra, ve in manu
illi th effet, eo pacto accerfere, cùm vellet. G Puluere pellis leporine,
perniones à Sep tentrionalibusfanari. Laus, lib. 2. Rerum Septentrionalium,,
tilsimè perniones experiri fcripfit, qui mor bus, non aliis ab iis fanatur
remediis, quàm puluere pellis leporinæ. Plinius verò Rapú domeſticum feruen's
calcaneis impofitúla. nareretulit. Ego ex Carolo Séephano, inlib. de Ragraria,
in quodam expertus ſum reme dium, & bene fucceflit. Accipit ille, ficos
crematos, è quorum puluere, & cera yngné tum parat;hoc pernionibus
impofitum bre uiliberat patientes. Hydrargyrum loco amuletigeftatum à pefte
faſcinog corpora defendere. Arfilius Ficinus, & P. Droerus, in lib. M,
fienim auellana perforatur, &extracto in. teriori nucleocum acicula,
argento viuote pletur, & collo fuspenditur; mirum in mo dum à peſte corpora
tuta reddit: ira profe etò à peftifera lue fæniente fe defenderuut multi. Hoc
eriam præfidio mulieres lactan. tes, à faſcivatricibus, ne lac fic ademptum,
quo infantes alendi funt, præferuari poffe, i Thomas Iordanus, in libe dePefte,
prodidit. - Q " ppe multis experimentis obferuatum re, tulit (hoc fecum
geſtao - ullas prorſus laga. ruin, lamiarú aut ftriguin infidias lacrátibus
nocere. CNICO Meſpili lignum,collo appenfum grauidas ab abo orth preferuare. Wm
quadam æſtate apud D. Ioannem Nicolaumn Cucillum Brancacium, mei amantifsimun,
ytpuerum curarem interef ſem, fortè inter me, & Doininam D. Man. já
Cotoneam e Toleris, eius vxorē, de abor tus præſeruatione, tunc vtero gerentem,
có: uentum est. Retulit domina hæc Meſpili li gnum collo appenfum mirè ab
abortu gra uidasdefendere;idq; millies à fuis maiori bus foiffe expertum.
Confiteor in plerifq;, tale lignum fuifle à me expertum, atq;certú, & rarum
remedium ſemper inueniffe fe: fi quidein multæ aborrientes, & dolore, &
fã. guinis fluxu (appeofo ligno reſtrictæ ſunt, &ab abortuſeruatæ, adeò
quòdined parti cularem virtutem abortú prohibendiinefile seor, Qua
induftriabomines abſtemios reddere valeamus. Vleis experimentis comprobatum re
perio Anguillas, vel Mullos in vino M fuffo peri sfuffocatos vini faftidium
inducere: & enim ex eo bibant homines, procul dubio abfte mii fiunt.
Infuper philoſtratus in vita Apol loni, ona noćtuæ elxaca, & infantibus pro
cibo allata, hydropotos in tota vita illos reddere ſcripſit. Mizaldus, Ragam
viridem, ex iis, quæ in fontibus ſaliunt, viuam in vi. no fuffocatam, idem
efficere, fi tale vinum potetur, prodidit. Rotundam Ariſtolochiam mirè piſces
ftu pidos reddere. Ira eſt Ariſtolochiæ virtis in piſces: ipfa enim illos odore
ad fe al licit,moxftupidos reddit. Proprerea fi eius radicem contritam, calciq;
commiſtam, fiue eius decoctionem cum calce pacato flumine aut maris littore
piſcatores confpergent, piſces agminatim confluere videbunt. Ili autem puluere
deguftata, veluti examina ti ſupernatantes capientur. Puellam veneno ab
infantia nutritam, Alexandro ab Indorum Rege fuiße miffam. Ndorum Rex Alexandri
fortunæ inuidés, vt illum interimeret, miræ pulchritudi nis mifit puellam,
ratus forfitan Alexandru confeftim cum ea concubiturum. Illa au tem Nappelli
veneno ferè à cunabulis erat educata, propterea more Serpentum ſcin tillances
habebat oculos. Hos Ariftotelesar piciens, caue tibi ab hac (dixit ) 6 Alexan
der; nam virus peftilentiſsimum alit, vode tibi exitium paratur. Poft paucos
dies pleri q; proci huius commercio venenari periere ex quo Ariſtotelis
praſagium mirabile fuit iudicatum. Ex Auerroe. Quale fitigneum prafidium,
quodin morbis ab Aegyptis, & * Arab.bus vfurpatur. N lib. deMedicina
Aegyptiorum prodi. dit Alpinus, quo pacto illiin morbis cor. pora adurant.
Accipiunteniin lineam peti. am cubiti longitudine, latitudine verò tri um
digitorum, quam ad formam pyramydis aptant goſsipioque implent; ipfius latior
pars, parti adurendæ applicatur, alterumg; capuc accendunt, comburió; cam dia
per miteant, ye faſciculus crematur. Continuò ramen dum cutis vritur, ferro
circumcirca accingunt carné,ne caloris incendio aliqua oriatur inflammatio.Hocinfuperinuolucro
parando obſeruant, vein medio meatus ex iftar fafciculi: ita enim euentatio fue
refa piratio aliqua paratur, In vftione autem per aćta offium medulla in
carneaduſta, quoad eſchara cadat yantur.Hic vrendi modusAe. gyptiis &,
Arabibus familiaris eft. Olim in Creta familiasquaſdam mirè faſes:
natricesadfuiffe A quoſdam, tum fæminas in hiſce parti bus animalibus,
pueriſque laudando faſci num attuliffe: adeo quodij;fiad ouile, por cileque
quodpiam adiuiffent,confeftim in teritum pleriſque produxiffe: Quare mirum haud
eft, quod legitur in Creta quaſdam fa. milias adfuiffe, quæ laudando faſcinum
is. ferebant. His profectonatura quædam ferè venenofa efficitur, & ex
oculis inde fpiritus efflant venenatos,quibusanimalia,pueri, & grandiores
faſcino maculantur. Laudando autem venenum promptiusoperatur: fiqui dem laus
propria, gaudium affert, quo cordis fpirituumque dilaratio oritur, & veneno.
a ditus præparatur.Ex Fracaſtorio - de fymp. sta Antypat.rer. Cyprint verticis
oſsiculum mirabiliter Epilep. ticisfubuenire. N Cyprini caluarix vertice
quoddam re peritur ofsiculum triangulare lapidisin ftar, quod in curanda
Epilepſia; principeng loců obtinereaiunt. Táta enim efficacia epi lepticicis
fubuenit, vt morbusis numquam reuertatur,Hoc, vbifuturæ in vertice calua six
Cyprinicômitrútur intus fubfiftit,prop I cerea terea ſi illa capello
penetratur, ſtacim fora profilit,Andernacushoc ofsiculum nummi Germanici
cruciferi appellati,magnitudine exiſtere prodidit,atque ſalutare eſſe Epilep
fiæ remedium, Calphurnius Bestia Romanus qua pia vxores dormientes interemerit.
Nonnulliex veteribus in venenisnofçé & dili gentiam inter alia Aconitum
venenorus omnium elle ocyfsimam comprobarlot: fi quidem tactis huiufinoti
veneno genitali bus lexus faninini animaliuin, eodem die mortem inferre viſiun
eft.Hacvia Calphur nius beitia, veditaretur forſiçan, vxores dor mientes
interemit, de quo à M.Cæcilio ac cufatus eft.Hincilla -atiox peroratio eius in
digito mertuas. Confimili induftria Ladica laus Neapolis Rex, cum cuiuſdam
medici Prochytami filiam adamaret, cum eaque concumberet, Florentinorum
confilio ex cinctus eſt, AcetoStitillitieo Bythagoram vitam longiſsi
meproduxiße. Afecit:feripfit enim eius viulongāhonia nes vitá conſequi, &
vfquead eius extremum: finem permanere integrè, & dextra valetu dine.lole
cu quinquagefimum ageret awaum hoc
remedio vfus eft &eius vfu ad centefi. muum, & decimum ſeptimum
productus et integer & nulla vnquam aduerfa valetudine tentatus: cuius
optimam facultatem admira. tus, confanguineis co umuuicauit, vt illings vfum
haberent. Oleiom lixiuio mixtum in lattis fpeciem tran fire. ' rmè experimen: o
oleum lixiuio mixtú, fi diuag retur,in lactis ſpeciem tranfire, comprobatum
eſt: eft enim lixiuium tenue, atque calidum,oleum autem cum aêreum fit à
lixiuio attenuatur, & proinde aerem con cipit,ex qua albedoiunaſcitur. In
aquis etis am, quæ diu agitantur,lactis ſpecies quædam exoritur ex confimili induſtria.
huius indi. In cium ſpuma eft, quæ cun fic tenuis, aérem concipit, &
dealbatur, Ex Cardano. Quainduftria Scythe abſque cibo, potu per plures
diesexiftant. Miraett herba Scythicæ operatio, qua scythæ per plures diesfiue
cibo, po - tuque viliere dicuntur. Hanc ij circa Boeri. am inueniuntcreſcentem,
& ad famem ficou timque tolerandam vtuntur: fi quidem guftu dulcis, vt
liquiritia eft, & in ore detenta fa mis, fitifq; fenfum habetar, Idem apud
cales C: Hippice præſtat, eò quòd hæc planta equis confimilem generet effectum.
Aiuntmulci, Scythas his herbis duodesos eriam dies, fac mem, &ſicim non
ſentire.Ex Martbiolo. Catellos calorem natiuum augere, membros rumque dolores
conſopire. P Ro excitando nativo calore, membro. rumque cruciatibus
demulcendis, Carelo li præſtantiſsimi(Galeni teſtimonio,7. Me thod
med.)exiſtimantur:illorun autem hu. ius naturæ haud omnes habentur, fed ijpræ
cipuè,quibus pilus concolor eft. Propterea in Chiragra, podagra, & in omni
Arthri. tis fpecie cruciatus, quamlibet efferatos, parti affectæ adhibitos s
præſtantiſsime confopire àmalcis comprobatuni repe ris. plurima è terra
furſumtapi, iterumque deorfum cum pluuis pracips tari, Aximam
yellera,rang,vermiculi,lapil li,ligna,vabijgeneris frumentacealac, fanguis,
& id genus alia terræ permixta, quæ cum pluuijs quandoque præcipitari
afpici. mus,, nobis præftant admiracionem, adeo quod à cafu infolito plerique
perterriti, Cæli mipas metuunt; Celiat aixen admira. tio,fi eorúcauſas
penfitamus:hæc enim pri mo mò ventorum effluuijs, ventorumque inipe tu terræ
permixta furfum feruntur,mox cum pluuijs iterum deſcendunt. Propterea nec
ſemper mirum,autinſolens à ſapientibusiu dicatur: CorneliusGemma,
inCoſmitriticaca 6.hæc caufas legitimas à coeleftibus Syzygi. is habere
prodidit: fed tamen eo vſque pro gredi ſoiere,cum fpecie fua, tum magnitu
dine,vt etiam in portentis principem inue niant locum, Cum Pſylis, &Marfis,
Serpentes haudbabere inimicitiam. M Irabile eft, Serpentes, quià mundi pri
uerfam,inimicitiainque iniuere,cum - Pſyl lis, & Marfis nec odium nec
difconuenienti am retinere, Neceſſe ctenim elt, ve ijs aliqua miftio non omnino
contraria oriatur,auto dor, autaliud, è quo fpecies minus ingraca videatur; ita
profecto inter homines ipſos. criam contingit: quandoque enim fine cauſa
nonnullos odimus,alios amamus,prout re sum.fpecies ad animam noſtram perue.
niunte, quibus conuenientiam, & diſconnenientiain capta mus. Ex Fracastor
rian - ) Oling Olim vasta, ego robuſtafuifle bominuincor pora. Vamuis
Plinius,cæteriq;ſcriptores, ho ninum corpora, robur, vitam ſemper imminui
conquerantur;tamen olim Gigan ces extitiffe, &vaſta hominum fuillecorpo. ra
negandum non eft.D.Auguftinus lib.15.de Ciuit.Dei.dentem gigantis in quodam flu
mine inuentum fuiffe prodidit,quiminutim diuiſus,centum ex noftris dentes
ſuperabas. De Pailante ſcribitur admirandum.Hic Ae neam contra Turnum Regem
Rutilorum adiuuit, mortuustandem, & fepultus, vbi nunc Roma eft, (reference
Solino)Anno O. atingefimo poft Chriftum Dominum dam quiædam ædificia
Romefierentcafu in ſepul chro quo arte mirabili cum lucerna ardenti códitus
erat, inuétus eft, & integer erectus altitudinem nuricapite excellebat.Quid
de Aiace, & quid de Turno; & de ingenti,faxo, quodvterque in hoftem
conjecir, referatur nouúhaud eſt.Quid tandem de Oreſte, filio
Agamemnonis,cuiuscadauer oéto cub tirá longitudinem excedebat, atque de alijs
in numerisdicatur,apud fcriptores reperitur. Idcirco præter ftirpem giganteam,quæ
poft diluuiumimminuca eft, alia corpora vastitatem & robur maximum
retinuiffe conce. dendum eft; in præfentiarum verò homi. num corpora huiuſmodi
comparata, tam pufilla funt, vt præ illis inania effe videan tur. Ex Helinando
Chronographo. Equum Phaleris accin&tum pulcbris, acri oremfieri., chris
ornantur phaleris, tum acriores, tum pulchriores iudicentur. Eſt de his cla.
rum exemplum de Bucephalo Alexandri, qui phaleris accioétus Regijs neminem
præter Alexandrum (teftimonio Aeliani) ad fe aſcendere paciebatur, &
quoderat 18 illo mirabilius, veaſcenſus facilior effet, demittebatur cum
dominus equitare vole bat.Phaleris autem remotis,quilibet medi. aftinus
aſcendere, &tractare poterat. Ego quidem domimulam habeo,cuius tanta eft
ſagacitas,vt fi feruus meus ephipium parat, habenafque illa humilis,demiffa,
& quafi gaudens perfiſtic,viAernatur, hilariſque in. cedit, & acrior:
fin autem clitellas, calcitro fa, indomita, feraque confeftim fit, necta lem
ſarcinam, niſi vinctis pedibus ferre ſu Atinet, adeò quòd feruus ab opere
defiftere cogitur. Exitiofißimum effe homini,ſub Lunaradijs ſomnum facere.
Vnæproprium eft,in hæc inferiora hu miditatem immittere: quare exitioſum
elt,lub eius radijs diu dormire; quippè dor mientes obleruatum eft ægrè
excitari, atque proximos infanis fieri, Lunæ vires in lignis, quæ ad ædificia
colliguntur,potiſsimum ex perimur:conciſa enim Luna creſcente, funt ferè
emollira per humoris conceptionem, idcirco tanquam inepta à fabricis reijciun
rur. Agricola 'experimento cognouerunt, fruméta de agris in Lunæ diminutione
colo lecta diutius ficca permanere. Hæc à veterie bus Lucina vocabatur, & à
parturientibus inuocabatur: Lunæ enim diftendere rimas corporis,meatibuſgue
viam dare munus eft: propterea, tale ſydus partui ſalutare, illum.
queaccelerare putabant. Archelaum,Mithridatispræfe&tum, ligneam turrim
incombuſtibilem confeiffe. Dmiranduin profectò iudicatum eft
AArchelai,Mithridatispræfe&ti,cótra Syllam commentum:hic enim turrim ligue.
ain iocombuſtibilem condidit,quam fruftra ille incendere conabatur. Erat
currista. bulata alumine collinita, in ijs autem cruſta durior erat obducta,
& alumen, plumbique albi albicineres
pigmentis copioſè commifti: quia induſtria ab igne feruata ſunt. Confio mili
artificio,Ceſar ex larigna materia cir. ca Padum,Caftellum etiarn conftruxit,
Ex Lemnio. Viſcum quercinum fola fufpenfioneEpilepti. cis fubuenire. X
grauibusfcriptoribusmultiorbicua losè viſco querciofola ſuſpenſione vulgari
filo transfixos idem præftare in 2 molienda,& præcauendaepilepfia tradunt,
quod peonię maſculæ radix,aut ſmaragdus è collopendens efficere creditur,
Reculit Iacchinus in Epilepticerum curatione, fe mel ea ratione,qua ligno
guaiaco vtimur, Viſcum quercinum per dies 40. propinafre, & profuiffe
quidem, non tamen Worbum abituliffe,nequelicuilleiterum id temedij iofaciliori
morbo experiri. Isterbraſsicam o vites maxisnum ineſe dif fenfum. Focabilis
equidem difcordia inter braſsicam, & vites reperitur, propte reade
Reruftica fapientes fcriptores, VICCE à braſsica offendi, deterioreſque &
fucco, &odore, fi ſecusplancatur, fieri prodidere. Experimento hoc
comperitur:nam gerinen ijspropius cu accellerit, auerſü ab inimico Notabilis compulſum
odore retrograditur. Infuper G inollam, vbi braſsica elixatur, vini vel mi
nimum conijcitur, quippe nec braſsica cona coqui vnquam poterit, & quod
mirabilius eft, colorem proprium amitter. Hacmotira tione ſapiéres,ebriis
braſsicæ ſucçú propinát, quo ebrietas ſubitò foluitur. Conuiuates pa riter, ne
à vini copia potenciaģ; offendantur (Germanorum inftar ) braſsicam crudam primò
comedere debent: ita enim viruna ad ſatietatem, abfq; ebrietaris periculo haua
rire valebunt. Cati nigerrimiefum cerebrum, homines dementare, Ericulofum eft,
verſicoloris, &maximè nigerrimicati cerebrum alicui efirm prz bere: ad
iufaniam enim homines ducit, & quod peius, cerebri meatus obftruit, ſpiri.
Etuſý; impedit animales, Inter fcriptores Per trusApoinenfis, huius efuadeò io
ſanirehow' mines dixit,vt præftigiis quafiobnoxii videa antur. Ponzertus
pariter cati pilos venenoſos eſſe prodidit, citly; anhelitumfebrem heoti cam
induccre. Exbetulacorticibus, ardentesfaces comparari Etulæ cortices non modò
ignem confe. tim recipiunt, verùm atque flammam pariung Mha pariunt ardentem; quo fit, vepleriq;
faces, pro noctis obſcuritate fuganda, ex iis com. ponaot, bene rati lucidiorem
has flammam, quãpini fædam parere: ex liquore autem picis inſtar, qui dum
vtuntur deftillat, oriri hociu dicatur, cuius natura cùm facile accendatur,
mirum haud eft: talem effectum producere. Hæmorrhoidalemn berbam contactu Hamer
rboides fünare. Ira eft Hæmorrhoidalis vis, & poté. tia in perfanandis
Hæmorrhoides: fi enimhuius radicibus, Hæmorrhoidales do lentes tanguntur, atq;
illæ per diem circa fe. mur ferantur, & mox in camino fumanti (afpendantur,
procul dubio effectusfanatur: fiquidé Hæmorrhoides que atq; radices ex iccărur,
fiaccelcıyor: qua caufa herba ab effe ctu nomen deduxir, nec immeritò: namin
iftarum infiammatione, &doloribus, fi hu us radices contufæ applicantur,
confeftim, & dolor, & inflammatio mulcentur. Ex Ex Tante. Marine
Paltinuca radium,identium do loresmitigare. entium dolores multis experimentis
ex Marinæ pattinacæ radio mitigari vifi func; huius eniin radio, qui in piſcis
cauda cpa, situr, dentes tanguntur, & gingina ſcari. ! x herbis non paucæ
Ecale ſcar ficantur, quo præſidio quan cítiſsime dolor euanefcit. Prodidit
Dioſcorides, lib. 2,64p. 9. radiuin hunc dentes frangere, & e
urcare.quomodo autem hoc perficiat docu it Plinius lib. 3. cap 4. Conteritur
enim is, & cum Helleboro albo miſcetur, quorin miſtura fi dentes illiti
fuerint, fine vexatio ne extrahuntur, Plerasg, berbas, Solisexortum, &
occafuma ostendere, Solis ortum, & OC cafum noffe videntur tantaq;huius
lyde. ris ſectandi,talibus auiditas nafcitur, vt Gr. miter inter kas, &
folem magnam in ſe lym pathiam credamus. Profe&to fos calendula in Solis
ortu aperitur, &in occafii clauditur; ex quo villicorum horologium à nuleis
di citur. Sequuntur Solis fphæram non modo papauer, & illudtithymalli
genus, quod vo. cant helioſcopon; ſed etiam malua, lupini & cichorea;
intenſius autem Lotus herba re ctatur, &exortum quotidianum, &occafum
noſcit. Hæc (Theophrafti teitimonio ) cau lem, &florem veſpere mergit,
& circa me. diam noctem tota in lacum irruit, & adeo occulcatur, vt nec
manu admiffa quis valeat inuenire, verciturmox panlatimg; erigitur, &in
Solis exortu extra aquas confirrgit; for P 3 reing Temą; aperit, & patefacit, caliterá; etiam
num confulit, vc alièab aqua abeffe videa quarum Sodo Qualssin Sodomi, &
Gomorriveſtigiso riantur fru & us. LtiſsimiDei decreto quinq; vrbes 211a
ciquicus incentæ ſunt wuum, & Gomorrhum præftantifsimæ fiudj erbantur.Harum
in fauillis quædam noſcú. tur veſtigia; Giquidem cæleftis ignis reliquiæ adhuc
perfiftunt. Quod autem illic admira bile perfpicitur.viridancia fpectantur
poma, formaci vuarum racemi, nec quis elt, qui e dendi haud cupiditatem habeat:
illa. autem manibus capta faciſcunt, & in cinerem refol. uuntur,
fumuggsexcitant, quafiadhucarde ant. Ex Egeſippalib. 4. Magnam inter vterun,
ammasinef Seſympathiam. On exiguus inter mulierum vterum, & mammas
contéplatur confenfus: quip pe alterum alterius pathema oftendere on laruamus,
A venis inter has partes coniunctis maximè ratio ošteditoriri ſympathiá:ex iis
e nim materias ab vtrifq; contentis transferring &exonerari experimur.In
menftruorum re dundantia Cucurbitula fub mammisappofita, fluxum cohiberi ab
Hippocrate docemur, Lactis copia in
puerperis dum magna grauit q; fuerit, die feptimo puerperii octauo, 10 nog; in
vterum à naturaefunditur. Suppreisi menfes in virginibus, & viduis caftis,
non femel io mammasrefiliunt, & la & tis copiam fuſcitant. In mulierum
pubertate accedente menftruo vtramq; parteni creſcere vidernus. Quo artificio
Solis defectumfirmiter com prehendere paleamus. Aria induſtria pleriq; conantur
folis defectam deprehendere;hocautem có pertum eft, artificio illius
defectionem fir miter apprehendi, Pelues hora inſtanti capi. antur, quæ non
aqua, fed aut oleo, aút pice implendæ ſunt; ratio enim fuadet, humorem pinguem
non facile curbari, atq; imagines perinde, quas recipit conſernare. Equidem in
magines in liquido & immoto tantum appa rereconfueuerunt, propterea in
olen, & pi. ce, commodius, & firmius, quomodo Luna Solilc opponat,
& illum abſcondat accipere poterimus. Ex Seneca in Natur. Quaft.
Virginummammillarum tumorem acis cuta impediria Ac inter alias, cicuta pollet
efficacia, vt contufa cum vmbeila, atq; virginü B H mammillis impofita, tumorem,
& excref centiam valeat prohibere; fortaffe nutrimé cum impedit, quo minus
augeantur, vt in pu crorun tefticulis fuccedit, fi hæc adhibetur: ijenim
reatibus alimenti obtufis facilè ex iccantur. Aperiani in hoc loco quod à Bon
doletio nultis experimentis comprobatum Teperio de piſce Squarina: hicenim
mulie. rum mammis fuperpofitus, illas adeò con. ftringit, ve virginum mammillæ
appareant; credunt multi in genitalibus eundem fimili ter effectum producere.
Quercusgallis, anniprafagia comparari. Napoleon Onmodò à Plinio, verùm atq; à
plea riſq; rei rufticæ ſcriptoribus obſerua tum fuiffe comperio, à gallis
quercus maio sibus præfagium aliud anni, quodapud vece res in magno fuiſſe
pretio,&opinione legi. tur. Aperiuntur gallæ, quando integræ funt, ibig;
muſca, aranea, aut vermiculus repe. ritur: fiquidem planta hæc in gallis
huiuſmo di aninialium gignere confueuit. Si mufca volar, angi fertilitatem
& bellum futurum præſagiunt; ſin vermiculus repit, annonæ carentiam
arguunt; fi autem aranea profiliet fummam caritatem, & peftilentes affectus
prædicunt. His ego adderem, præfagia hu. iufmodi, fi Deo placuerit, confimiles
ſecta. tur elientus. Vitri puluerem, calculos comminuere. ron folum Galenus,
fed Anicenna, & mouendos vitri puluerem excollunt quomo do autem hæc fieret,
plurimum infudiui; tandem quæ ab Abecizoare componitur,mihi ex voto ſucceſsit,
& vitrum adurere didici. Capitur vieri albi, & perſpicui fruftulum,
quod terebinthina coll nire oporter totum, nyox tandiù in prunis detinere,
veexcandel. cat; hoc demum in aqua exſtinguicur, ſepti. eſg; iteratur, primò
tamen linitur, fecundò cxcoquitur, vltimò extinguitur; quo peracto, vitrum
conteritur, & in puluerem lubciliſsi mum mutacur. Propinamus languentibus
au rei pondus vel drach.j. cum vino albo, & ef ficaciter calculos comminui
experimur. Quo artificio aëris naturimexplorare valeamus. Eris qualitatem,
& naturam cum ex plorare libuerit, fpongia bene ficca, atq; munda ſèreno
cælo per noctem fub diuo exponenda eft; illa eniin fiſicca mane fuerit, ficcu's
P5 АБЫ liceus & aër erit; fi
humecta,nimbolus; fi anoll cervda,humidus,acroridus Inſuper ft recente pané
eadem induftria expofueris, di corrupto,ficuin contrahere videbitur;à fic co,
fiec ficcus;ab Humido aucem, à ftacu pro prionon mutabitur.Siaër fuerit
peftilens, carnesexpofitæ corrumpuntur,atque colo rem mutant;fic eciam &
adipes.Siaércraf fus erit,patebit in marmore, & filicibus, qnę in cali
natura admodum madere folent; cós tra verò in aere'tenui, liges humidus eſſet,
hę enim in tali con ica humeſcunt. Ex CATO dano. Quali fratagemate homines,
mortui Š videantur. Vltis experimétis confirmatum repe rio fublimatum, ffue
aqua vitæ cum fale miſce tur, ac in patina (ſublata qualibet alia lua ce )
accenditur in cabiculo, nocturno tem pore, vbi homines reperiantur; fiquidem
ipfi immobiles fuerint, fpeciem mortuorús repræſentabunt. Pleriq; vt Aethiopes
fin gant, lucernam accendunt oleo plenam, cum quo ſepia atramentum fit dilucum,
fi we calchantuni, aut ærugo, nec fine ratio ne:oftédit enim,lux eorû colores,
quæ in iis sát quæaccédācur: oportet tamen iu cubi culorcliquas luces adimere,
Nerein VA No Nereidesfaciehumana dy venufta, prezi que fuifferepertas Ereides,
quas vulgus Birenas appela lat, plurimæ in locis maritimisinué tę funt;quodauté
cátusdulcedine nauigātes hein foporem perliciant, & capiant,nos. in lib. 1.
de Hominis vita, abundedifferui mus, vbi de Tritonibus, Nereidibus, ho.
minibuſqs in maridegēribas, quos marinos vocant tractatur; Poetarumq; fabulæ
eno. dantur, Vidithas Theodorus Gaza & Gee orgius Trapezont ius, homines
nagnæ e ruditionis: Gaza in Pelepomeno exorta maris tempeftate, Nereidem
proiectain in lidcore reperije viuentem, & fpirantem, ynleu hrniano, facie
decora, corpore fqua mis hirto ad pubem vſq, cætera autem ia locuftæcaudam
definebant: ad hanc viſen dam magnus fuit concurſus, illa tamen e vac maefta,
crebrog, ſuſpirio fatigata & frequentia hominum circumdata gemitus dedit
& lacrymas emiſit,quibusmacus mi. fericordia,ad mare deduxit, vbimagno im
petu fluctus fecauit, & ex oculis omnium cuanuit. Quid Trapezontius,
pleriqs. alii viderint, in loco cita. to narrauimus De Apunx natura, earumque
mirabiliſa gacitate. Tu quidem anceps fui in fcrutanda A
pummellificatione,foetu, & cera:nam & apud auctores magna reperitur
controuer. fia, num illæ ge nerent, & aliundeprolem habeant.Poft auem
exactum fcrutinium cu iufdam amici va lido experimento Ariftoter lis opinionem
veram eflecomprobaui;fiqui dem Apese floribus fauos conftruunt, exar borum
lacryma ceram fingunt, & mella ex aëris'rore captant.Hæ primum fauos confi.
ciunt,mox fotin collocant, ore calidum ſpirantes,vt vitain recipiat.Mellificanræfta.
te, & autūno cibi caufa;mel autem autinale cleatius eft.Foetus in vere
ferotino debilis fit: nã & naiori ex parte emoritur. Multi aiunt oliuas,
& examinum copiam cógenerem ha. bere nataram: nam fi altera augetur, alcera
abundans fit: fi vna deficit,altera deprimitur ratio eft:nam mella ficcitates
augent;lobo. lem verò imbres; quofit, vt ſimuloliuæ, & sopia examinam fit.
Vinorum aliquot existere genera natura mirabilis. R aliquot vinorum genera mirabilis
naturæ quod? co A quod vua & guftu, & fenfuà cæteris minime diſcrepanr,
nec vinum á ymis; tamen quod Heracliam Arcadiæ fit, viros reddicinfancs epotum,
& mulieres fteriles: & apudcabyni. am Achaiæ abortum facic: & in
Thiffo vi num quoddam lomaum producit; quoddam verò, vigiliam Ex Tbeophraſto
lib.9. Plant. Quoartificio ignem manibus abſque læfione tractare valeamus. Pud
plerofque fcriptores inueni, ig nem fine læſione poffe tractari, fi tri.
tomaluauiſco cum ouorum albumine, ma.. nus liniuntur,ac defuper alumen
inducitur.. Hoc autem experimentuin à Magno Alber to captum eſt, apud quem
aliud legitur hu. ius negotijartificium:fi enim Ichthyocolle, & aluminis
æquales partes capiuntur, & ad inuicem commiſcentur, fiacetum his ſuper
funditur; quicquidtali miſcellanea illitum in ignem proijcitur, vtique non
comburie tür. Menftrua in ſenio ferèquibufdam fæminés 46 cidere. Vàm fallax fit
tum Ariſtotelis, tum ali orum iudicium,quodin mulieribuscir ca quadragefimum
annum,fiue quinquagefi mum menftrua deficiant, quotidiana demone strat
experiencia. Mulierem hic cognoui, Qyour P7 Victoriam nomine, eamque honeftam
& bene morigeratamshuic in anno 45.méftrua ceffarunt, & faufta
valetudine vixit,cum au tem fexagefimum ferè annum attingeret, ce teilli menfes
rubei,bonique coloris redie. De vberague, quæ priusflaccida erant,more:
virginum turgidula facta ſunt lactifque tan ta copia impleta,vt impulſu
ferretur: quarez, vt puerulú filiæ fuæ lactaret àmeadmonita eft. Alteram
cognoui, quæ vfque ad annum 65.femper menftrua paffa, & hodie viuit, &
menftrua fingulis menfibus fuentia habet Hæcautem raròcontingunt..
Bufonislapidem contra venena mirabileinha bere virtutem. Pleriſque lcriptoribus
excollitur lapiss ille terreſtrisinuenitur: ſiquidem contra venena folo
contactu valere expertü eft; propterea inflationes abeftijs venenatis illatas
diſcute re, venenúq; elicere aiut.Scribit Lemnius, tu mores, & dolores ex
forieibus,araneis, vel pis,fcarabeis,gliribus, aliifuevenenofis 2. nimalibus
caufatos fclo lapidis blaul do attritu.euanef cere Aquarum Fluuios natur&
mirabilis repe $ rire. N multis locis aquarum exortas, mira cfficaciæ
inuenirilegimus Scribit Arift. in terra Aſsirithidæ aquas naſci, quas cum oues
biberint,moxgs inierint, nigros agnos generare. In Arandria dnos ineffe fluuios
ad.. notauit, quorum alter candorem, alter nio gritiem facit pecoribas:at
Scamander am gis, quem Homerus Xanthuniappellauit, fia uas reddere oues
creditur. Mirabilers in concepta imaginationis effe per rentiam Maginationis
potentiam tam miram effe Phyfici confitentur ve viſa per cóceptum in partu
fæpiſsimè eluceſcant. Referam hi ftoriain admirandam ex Ludouico Vives 12; de
Ciuit.Dei de huius negotio conſcriptam In Brabantia Buſco ducis quædam vrbs
eft, in qua more eiufdem Prouinciæ quodam die rempli vrbis feſtum celebratur,
quo tempore varii ludi apparantur.Sunt aliquot, qui ſtato die diuorum perſonas
induunt:nönulli vera Dæmonů.Ex his vnus cū viſa puella exarfif. fet, &
demúfaltado ſe ſe recepiſſet, & apreprā Vt er at perfonatus vxore fua in le
&tum con. ieciſiet,ſe exeaDanonem gignere velle di.. cells D cens, concubuit, & concepit inulier:
clim autem in partuinfantem peperiffet,'s fimul ac primum editus eft, Calcitare
cæpit forma, quali Dæ nones pinguntur. Dentium.stupores à portulaca confeftim
amoueri: Entium ftupores,qui ab acidis.edulijs Connarci confueuere,ex aqua aut
luc co, vel frondibus portulacæ commanfis, quam citifsimèdiffoluuntur.Ipfe cum
qua-. damæftate cùm fiti maxima, tùm dentium: ftupore affligeretur,cömanfis
ipfius frondi bus, &à fit, &à ftupore fubito liberatussú, Ab amico
quodam audiui parculacæ fuccúi collinitum,abfque dubio verrucas exter
minare,mihiautem experiundi locus haudi adhuc datus eft. Ex Aphrodiſeo,
Ceraferum aquam ftillatitiam in Epilepfia ! fummumeſſeremedium. Ninitis
experimentis Ceraſorum aquam 10 laccurrendis Epilepticis conprebari reperio
propierea à loanneAgricola in lib.. Herbar.maximèetiam extollitur. Qua pro vita
producenda inter arcana natu 12 connumerentur. APudreru naturalium (crucatores
acer rimos inueni, idque in arcanis conſer wari Hellebori nigri fólia Saccharo
cómilta degluci deglutientem ad iuglandis magnitudinenia in offenſam
valetudinem, ad ſenectutem vſ. que conſeruari.InfuperSilicem ignitum lin.
teiſque parum madidis inuolutum,& pedi. bus applicitum,pernicioſos
valetudinis vaki pores extrahere. Quoartificio in mulieribuscrinesdenfiores,
copiofiores comparare paluamus. Nter ſelectiſsima prælidia, quæ ad capil lorum
copiam generaodam ineffe cre duntur,Maluæ radix connumerari poteft:: fi enim
caput mulierum livinio lauatur in quo elixa fit maluæ radix, & deinde fucco
maluæ crines, inungantur, profecto ya bercim prouenient, & cicila fimé.
Giulio Cesare Baricelli (n. San Marco dei Cavoti) è un filosofo. De
hydronosa natura sive de sudore umani corporis Hortulus genialis Thesaurus
secretorum De lactis, seri, butyri facultatibus et usu Indice
baricelli — implicatura sudorosa — de hydronosa natura — de medicinae
praestantiae — amazones cur mammas dextras resecaverint — olearum sterilitatis
praesagium — nili flumines proprietas — de mundi creatione — murium sagacitas —
pluviosa tempestatis prognostica — agricolas non semper tempestates et serenitates
praedictunt — valeriana miravis contra epilepsiam — transformationes hominum in
bestias non esse reales — daemonis astutia apud indos — quid picus de
scientiarum varietatis sentiret — subditos principis vitam ut plurium
imitari — rutam et allium serpentibus adversari — animalis oriri et vivere
posse in igne compertum est — lacus asphaltritis mirabilis naturae — pisces
marinos salubriores et rapidiores fulminibis esse — mulieris — hominos —
cibus — gigantes in orbem — mulieres — excellentia — falsissimum est
salamandran in igne vivere posse — sabbatici — lactandis infantibus menstrualis — pharmacum — animal — tauri —
faxa — aegypti reges — sterilitatis praesagia — aeris salubritatem — lintea —
hominibus — hydropes — plenilunio — nationibus — romulus — serpentaria —
echinum — animi pudorem — animalia — alexandri morti — sanari — cervi sudori —
vires — balnei — adam — rutam — verbenam — anima — aeris — sulphuris —
caraba — baccas — linguam — galli — homines — magis — fuco — cacoethica —
vipera — traulos — morbos — lupi — vitrum — pregnantes — periculo — pro
corporis — corporum hominum — utero — paterna — araneus telas — menstruali —
rutam — corpora — achatis — hominibus — hominem — utero — praesagium —
utero — tritico — scorpionum — hominibus — bubulo — epilepsiam — arbores
lapides — bardana — literas — homines — hominibus — hominibus — filios
parentibus signum — mare rebrum — hydrargyri — lupum — epilepsia — flatu corpora — pestilenti — efficacia — animalium
— seminis — basilicum — torpedinem — animalia — armenia — febre — lumaca —
amantissimam — astronomiam — martisque — passione cantharides — adagium — parere fetus —
iucundi —de amoris origine — aqua — virtutes — sagacitas — lapidis — naturam —
partus — amorfus — equorum — spectacula — marinum vitulum epilepsia — vinum — homines — homines — cervi
— gagatis — epilepticos — hominum — laudano — mortem — pacto — a viro —
hepaticos — mortem — mithridatis — ossa — bryonia — herpetes — vina alba —
flores — absynthium — chalcantho — coralio — lethargicos — infantes — prunellae
— catuli — gallum — corios — artificio — theodorus — radicem — dilligentes —
canicula — quatuor elementis — phreneticos — digitum — carnes — vicera —
testiculis — dentium — hippocrate — animalibus — apii — satyrii
testiculum — hominibus — radicem hominis
extractum — praesidia — hominem — antidotorum — cancri — quomodo — morbi —
animantium — pulchritudine — septentrionalibum — hemorraghia — lingua
ardor aegyptios — gentium — solis —
animalium — cervorum — masculinum fetum — mirandulani — hydrargyro — incognita
— tempestates — epiro — hecla — hominum — galenum — graecos — cane — athritide
— lionem — iumenta — acutis — acetum — piscis — foeminas — corporis —
alexandrum — hominum — ruditas — angina — capillos — volucrum agricolas — galege infantis — oryalum — homines — lapides —
collegium — alexandrum — laparhiorum — feminum — aegyptios — methodo — olivarum
— admirandu — millepedum — frequentem — mulieres daemonum
carduum — infantes — menstrualem — corpori — medicina — animalia —
unicornu — mulierum — naturalem — febris — precognosci medicis — masculorum — hydrargiri — bryonia consolidanda — chymicam — corpus — hominum —
venenum — semen — lupos — homines — luna — leonardi — hominibus polypidium ibidis — mulieres — industria corpora — gallicam — hominis — hominibus —
regem — homines — aquilone — usum — usum — oleo — genus — leones — artificio
mergum lacertas educandis — artificio — serpentes — virginitatem virginale — vitellos — humana vita — vena —
materia — alexandri — mulieres — hydrophobos
puerorum labiorum — utero semine — aegyptorum — taxi — epilepsiam —
aspides infantes — vitrum — homines —
vini — syrium — nuptis — agreste — hydrophobiam — hepatis — viventes —
arundinem cynanchem parere filios
vino — praesagia gallinarum —
aquam — mandragoram — corpora — vita hominibus — semina — infantium —
vitam philomelam castorem — duces lingua — vinum — equorum croci
hominis — aspidum
hermaphroditos imaginationis
potentian — climactericos — inter homines — carolum animantia
liberos — garamantes caminus horologium — infantium praesagia — vinum — virorum — familiarem romanos — ambarum — tympaniam — venenum
— toxica socrati magia — epistolam — aqua frigida menstruorum
lapides — homines testiculos humanam salivam homines ridendo — parthi — partum
accelerare — serpentum hydrargyrum vim —
anginam — vermes mamillis lumbricos —
infantis elephantiasim cyprinorum
leporine — hydrargyrum — gravidas
homines abstemios — aristolochiam — alexandro morbis — creta —
cyprini calphurnius bestia romanus —
aceto oleum — scythae catellos — plurima
— martis — robusta hominum corpora — equum — homini lunae — mithridiatu —
viscum — vites — betulae haemorrhoidalem — dentium dolores — sodomi — uterum —
solis — virginum — praesagia — vitri — aeris — homines — facie humana apum
natura vinorum ignem menstrua virtutem aquarum in conceptu imaginationis esse
potentiam dentium stupores epilepsia pro vita producenda mulieribus Giulio Cesare
Baricelli. Keywords: sweat, il sudore umano, sudore e la regola, stirgilo,
amore, Socrate, Aristotele, controversia sull’origine del sentiment dell’amore,
Socrate, l’idea di causa in Aristotele. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Baricelli” – The Swimming-Pool Library.
Baroncelli –
compassione – filosofia ligure – filosofia italica – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Savona).
Filosofo italiano. Grice: “I like Baroncelli – he can be hyperbolic – “Mi manda
Platone,” surely he only requested! My favourite is his ‘compassione,’ which is
‘calco’ of ‘sumpatheia’ and therefore at the core of my balance between
conversational egoism and conversational altruism.” Flavio Baroncelli (Savona) filosofo Nato e cresciuto a Savona, si laurea in
filosofia all'Genova nel 1969 con relatore Romeo Crippa, di cui diventa
assistente. Insegna Storia dell'età
dell'Illuminismo all'Trieste. Dal 1977
al 1981 è di nuovo a Genova, dove tiene la cattedra di Storia della filosofia
moderna. Nel 1981 diventa ordinario all'Università
della Calabria. L'anno successivo ritorna a Genova dove prende la cattedra di
Filosofia morale. Nel 1988 un grave
incidente motociclistico durante una vacanza in Turchia lo allontana per
qualche periodo dall'insegnamento e dalla ricerca, attività che riprende
all'inizio degli anni novanta come visiting scholar all'Madison, nel
Wisconsin. Nel frattempo collabora con
molti quotidiani e periodici, come La Voce di Indro Montanelli, Village, Il
diario della settimana, il Secolo XIX.
Tornato a Genova, diviene molto amico del filosofo Franco Manti,
segretario generale dell’Istituto Italiano di Bioetica. Riprende la vita
accademica per allontanarsene a causa della malattia che lo porterà alla morte
sopraggiunta nel 2007. Il pensiero di
Baroncelli ripropose un'etica planetaria alla luce del mondo globalizzato,
invitando a riconsiderare i valori e le identità storiche dei gruppi umani
occidentali riorientandoli a favore di un sistema di valori e di identità
individuali e culturali di tipo mobile e pluralistico. Ha qualificato le varie
culture come sistemi aperti in grado comunicare e di essere traslati o
esportati ovunque nel mondo, nella convinzione che gli esseri umani
appartengano tutti alla stessa specie e siano tutti abitanti dello stesso
pianeta. Pensiero e la ricerca
Profondamente influenzato da David Hume e dallo scetticismo inglese, si è
occupato in prevalenza di temi etico-politici come il razzismo, la tolleranza,
il liberalismo e il politically correct.
Altre opere: “Un inquietante filosofo perbene: saggio su Davide Home” (La
Nuova Italia, Firenze); “Sulla povertà, idee leggi e progetti nell'Europa
moderna, Herodote, Genova-Ivrea); “Il razzismo è una gaffe” “Eccessi e virtù
del "politically correct", Donzelli, Roma); “Viaggio al termine degli
Stati Uniti Perché gli americani votano Bush e se ne vantano” Donzelli, Roma); “Mi manda Platone, Il Nuovo
Melangolo, Genova Saggi "Giustizialismo" in Ragion Pratica, "Post-fazione"
a Lysander Spooner, No treason, "Etica e razionalità. Un finto
divorzio?" in Materiali per una storia della cultura giuridica, Il
riconoscimento e i suoi sofismi" in Quaderni di Bioetica, "Come scrivere sulla tolleranza" in
Materiali per una storia della cultura giuridica. Note
Franco Manti per la fondazione Pubblicità progresso, Manti, Diversity,
Otherness and the Politics of Recognition, in Nordicum-Mediterraneum, 14, n. 2, Akureyri,, Ospitato su archive.is.
Citazione: To Flavio Baroncelli, a friend I met only too late, / whose lively
intellect, critical sense, friendliness / and clever irony I just had time to
appreciate. Info dalla pagina del
Dottorato in filosofia dell'Genova. Registrazione audio[collegamento
interrotto] dell'intervento a una trasmissione di Radio 3 dall'archivio RAI
Trascrizione di un dibattito con gli studenti sulla tolleranza dal Enciclopedia
Multimediale delle Scienze Filosofiche di Rai Educational Necrologi Bertone,
Vittorio Coletti, Salvatore Veca e Pietro Cheli. Altri dello scrittore Bruno
Morchio e dell'amico Daniele Miggino. Sezione speciale della rivista
Nordicum-Mediterraneum dedicata a Flavio Baroncelli. Pagina di Wordpress su
Flavio Baroncellicon alcuni testi inediti. Flavio Baroncelli. Keywords: compassione,
filosofia ligure, Home, etica, ragione, giustizia. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Baroncelli” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Barone –
linguaggio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo
italiano. Grice: “I like Barone, but I’m not sure he likes me! You see, in
Italy, there’s ‘scienze filosofiche,’ and ‘scienza’ was indeed a way to describe
philosophy! But at Oxford, you have to take the great go! Lit. Hum., and I
doubt Barone did! – ginnasio e liceo, as the Italians have it! Therefore, his
views on ‘filosofia e linguaggio,’ never mind his rather pretentiously titled
‘logica formale,’ ‘logica trascendentale,’ ‘algebra dela logica,’ etc. have
little to do with, well, Italian!” Laureato in Filosofia a Torino nel 1946 come
allievo di Augusto Guzzo e Nicola Abbagnano, visse a Viareggio. Professore di
Filosofia teoretica all'Pisa, dove fu preside della facoltà di Lettere e
filosofia dal 1967 al 1968, fu poi docente di Filosofia della scienza nonché
direttore dell'Istituto di Filosofia nella stessa università (1960-80). Insegnò
anche Filosofia morale alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Si dedicò
soprattutto a studi di storia e filosofia della scienza, pubblicando numerosi
libri. Nel 1979 curò l'edizione italiana delle opere di Niccolò Copernico.
Socio nazionale dell'Accademia delle scienze di Torino (dal 12 febbraio 1985),
della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in Napoli, e dell'Accademia
Nazionale dei Lincei, a Milano fu presidente del Centro del C.N.R. di studi del
pensiero filosofico del Cinquecento e del Seicento in relazione ai problemi
della scienza. Pensiero Particolarmente
interessato alla filosofia di Nicolai Hartmann, Barone ne trasse spunto per un
confronto tra la dottrina realistica e quella neoidealista. La sua riflessione
filosofica si sarebbe poi focalizzata sui problemi epistemologici e della
filosofia della scienza. Come
pubblicista affrontò temi etico-politici sul rapporto tra individuo e società
dal punto di vista della ideologia liberale e liberista. Il tema principale delle opere di Barone
riguarda la filosofia della scienza e la storia della scienza e della tecnica.
Si deve a lui la prima pubblicazione in Italia di una monografia sulla
filosofia neopositivistica. Il suo
pensiero si contraddistingue per lo stretto rapporto tra epistemologia e
storiografia della scienza, settore, questo, in cui Barone ha preso in
particolare considerazione il tema della nascita dell'astronomia moderna, da
Niccolò Copernico a Keplero e Galilei.
Intorno agli anni sessanta, inoltre, Barone si è dedicato con
particolare attenzione agli sviluppi culturali, epistemologici e filosofici
della nascente informatica. Altre opere:
“L'ontologia di Nicolai Hartmann” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Rudolf
Carnap, Edizioni di Filosofia, Torino); “Wittgenstein inedito, Edizioni di
Filosofia, Torino); “Il neopositivismo logico, Edizioni di Filosofia, Torino);
“Assiologia e ontologia: etica ed estetica nel pensiero di N. Hartmann,
Torino); “Leibniz e la logica formale, Edizioni di Filosofia, Torino); “Nicolai
Hartmann nella filosofia del Novecento, Edizioni di Filosofia, Torino); “Logica
formale e logica trascendentale, I, Da
Leibniz a Kant, Edizioni di Filosofia, Torino); L'algebra della logica,
Edizioni di Filosofia, Torino) Metafisica della mente e analisi del pensiero,
Edizioni di Filosofia, Torino) 1748: viaggio di Hume a Torino, Edizioni di
Filosofia, Torino); “Mondo e linguaggi” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Determinismo
e indeterminismo nella metodologia scientifica” (Edizioni di Filosofia,
Torino); “Concetti e teorie nella scienza empirica, Edizioni di Filosofia,
Torino); “Nicola Copernico, Opere (F. Barone), POMBA, Torino); “Immagini
filosofiche della scienza, Laterza, Roma-Bari); “Pensieri contro, Società Editrice
Napoletana, Napoli); Teoria ed osservazione nella metodologia scientifica,
Guida, Napoli); Verso un nuovo rapporto tra scienza e filosofia, Centro
Pannunzio, Torino); La fondazione dell'ontologia di Nicolai Hartmann (F. Barone),
Fabbri, Milano); Leibniz, Scritti di logica (F. Barone), Zanichelli, Bologna). Note Francesco Barone, Neopositivismo, in
Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani,
Barone, Francesco, in TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Sito ufficiale, su
francescobarone. Francesco Barone, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Francesco Barone, in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Francesco Barone, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Opere di Francesco Barone, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Francesco Barone,. David Hume, il filosofo della non certezza di
Francesco Barone, La Stampa, Addio a Barone il filosofo che diffidava dei
paradisi in terra di Dario Antiseri, Corriere della Sera, Archivio storico. Francesco
Barone. Keywords: linguaggio, assiologia, la semantica di Leibniz, la sintassi
di Leibniz, logica matematica, logica formale, logica trascendentale, logica
aritmetica, Hume a Torino, simbolo, logica simbolica, Leibnitii opera
philosophica, assiologia ed ontologia, mondo e linguaggio. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Barone” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Barone –
dialettica fiorentina – filosofia italiana – Luigi Speranza (Alcamo). Filosofo
italiano. Grice: “I like Barone; at last a priest that takes Italian humanism
SERIOUSLY!” -- Dopo avere finito gli
studi teologici nel Seminario Vescovile di Mazara del Vallo, fu ordinato
sacerdote il 13 marzo del 1937. Frequentò, quindi, la Pontificia Università
Gregoriana di Roma dove conseguì la laurea in Filosofia trattando la tesi dal
titolo: L'Umanesimo filosofico di Giovanni Pico della Mirandola. Ebbe subito la nomina di Canonico della
Collegiata di Alcamo, poi dal 1949 al 1956 quella di Vicario foraneo e
Visitatore dei Monasteri; dal maggio 1951 fu nominato anche Canonico Onorario
della cattedrale di Trapani. Nel mese di
novembre 1956 fu pure nominato Cameriere Segreto Soprannumerario di Sua
Santità; fu quindi professore di lettere e filosofia del Seminario di Mazara
del Vallo e, per 16 anni, delegato Vescovile alla dirigenza dell'Istituto
Magistrale legalmente riconosciuto "Maria Santissima Immacolata" di
Alcamo. Per diversi anni, è stato anche
Rettore della Chiesa della Sacra Famiglia e della Badia Nuova; inoltre è stato
membro del Consiglio Presbiteriale diocesano e docente di Filosofia presso il
Seminario Vescovile di Trapani. Altre opere: “Il Santuario; Alcamo); “La Nuova
parrocchia di S.Oliva; ed. Bagolino, Alcamo); “Giovanni Pico della Mirandola profilo
biografico del celebre umanista; ed.Gastaldi, Milano-Roma); “L'Umanesimo
Filosofico di Giovanni Pico della Mirandola Studio del Pensiero Pichiano;
ed.Gastaldi, Milano-Roma); “Quattro saggi; ed. Accademia degli Studi
"Ciullo", Alcamo); “Donna IdealeIdeale di donna; ed. Accademia degli
Studi "Ciullo", Alcamo); “Didactica Magna di Comenius (traduzione
italiana); ed. Principato, Milano); “Scuola Libera, ed. Bagolino, Alcamo); “Il
Vero Maestro -Lineamenti di educazione; ed. Bagolino, Alcamo); “Verità e Vita;
ed. Cartografica, Alcamo, De hominis dignitate, di Giovanni Pico della
Mirandola, Firenze); “La Congregazione di Gesù Maria e Giuseppe nella chiesa
della Sacra Famiglia di Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo); “La più
bella preghiera, Alcamo); “Antologia pichiana: letture filosofico-pedagogiche;
ed. Virgilio, Milano); “La docta pietas, di Sebastiano Bagolino erudito
alcamese del sec.XVI; tip. Bosco, Alcamo); “Maria fonte di Misericordia e Madre
dei Miracoli Patrona di Alcamo; tip. Sarograf, Alcamo); “Dialogo con gli invisibili;
tip. Bosco, Alcamo). Note
trapaninostra,//trapaninostra/libri/salvatoremugno/Poesia_narrativa_saggistica/Poesia_narrativa_
e_saggistica_ in_provincia_di_Trapani_02.pdf
Tommaso Papa, Memorie storiche del clero di Alcamo, Alcamo, Accademia di
studi Cielo d'Alcamo, Papa, Memorie storiche del clero di Alcamo, Alcamo,
Accademia di studi Cielo d'Alcamo, trapaninostra,// trapaninostra/ libri/salvatoremugno/
Poesia_narrativa_saggistica/ Poesia_ narrativa_ e_saggistica _in_ provincia_di_Trapani_
Vincenzo Regina Tommaso Papa Identities-Biografie Biografie Cattolicesimo Cattolicesimo Letteratura Letteratura Categorie: Presbiteri italiani Insegnanti
italiani del XX secoloFilosofi italiani Professore Alcamod Alcamo. Giuseppe
Barone. Keywords: dialettica fiorentino, pico, umanesimo toscano, pico,
pichiano, pichismo, uomo, degno, la degnita dell’uomo. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Barone” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Barsio –
dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Mantova). Filosofo
italiano. Grice: “I like Barsio – he reminds me of G.Baker – there he is,
Baker, succeeding me – and an American! – as tutorial fellow in philosophy at
St. John’s, and dedicating his life to Witters – So when reminiscing, in my “Predilections
and prejudices” about them years, I said, “God forbid that you dedicate your
life to the oeuvre of a minor philosopher like Witters – it’s good to introject
into a philosopher’s shoes as you attain to grasp the longitudinal unity of
philosophy, but look for a non-minor pair of shoes!” – “Barsio is a radically
minor philosopher – in that, he never had to grade – I always hated grading and
seldom did it! – since he lived under the Gonzagas at Mantova – and he just
phiosophised to the sake of the pleasure he derived from it! My favourite is
his elegy to his enemy, Pomponazzi – but his satirical curriculum vitae is
fantastical, but possibly true!” -- Noto anche come Vincenzo Mantovano,
frequentò le corti del marchese Federico II Gonzaga e di sua moglie Isabella
d'Este, alla quale pare avesse dedicato il poemetto Silvia e la corte del
marchese di Castel Goffredo Aloisio Gonzaga, al quale dedicò il poema latino
Alba. Studia filosofia a Bologna. Altre opere: “Silvia, poemetto in tre libri,
Pamphilus; Alba, dedicato al marchese Aloisio Gonzaga, signore di Castel
Goffredo; Labyrintus, dedicato a Federico II Gonzaga. Ireneo Affò, Vita di
Luigi Gonzaga detto Rodomonte, Parma., su books.google. Gaetano Melzi,
Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani, Milano,
Giuseppe Coniglio, I Gonzaga, Varese, su books.google. Vincenzo Barsio, in Dizionario biografico
degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. ICCU. Vincenzo Barsio., su edit16.iccu. Marsio.
Vincenzo Barsio. Keywords. dialettica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barsio”
– The Swimming-Pool Library.
BARTOLI search.gianpaolo
--
Grice e Barzaghi –
scuola di anagogia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Monza).
Filosofo italiano. Grice: “Barzaghi is a genius; the Italians hate him! In his
“Compendio di storia della filosofia,” there’s no mention of Cicero!” – Grice:
“Barzaghi is the Italian Copleston – what is it with religious minds – cf.
Kenny – that have this inclination towards the longitudinal unity of
philosophy?!” – Grice: “Barzaghi just ignores the most prosperous period in
Roman philosophy; not so much Romolo, but whatever happened in Rome after that
infamous ‘embassy’ of Carneade, an Academian, Critolao, a peripatetic, and
Diogoene di Celesia, a stoic!” -- Direttore
della Scuola di anagogia, fondata dal cardinale Giacomo Biffi. Discepolo del
filosofo Gustavo Bontadini e frate domenicano, è stato l'interlocutore
privilegiato di Emanuele Severino sulla questione di Dio e del
cristianesimo. Nella sua opera Oltre Dio, Barzaghi si interroga
dapprima sull’essenza del cristianesimo per giungere ad affermare la necessità,
per il credente, di assumere alcune fondamentali posizioni filosofiche riguardo
la vera comprensione della realtà: «Se il Cristianesimo è essenzialmente la
partecipazione della vita di Dio, cioè della vita eterna, per comprenderlo
occorrerà porsi dal punto di vista di Dio, cioè dell’eterno» (p. 13). Secondo
Barzaghi, l’Essere assoluto «non può essere inteso come qualcosa accanto ad
altre cose, e conseguentemente diviene il punto di vista rigoroso per
l’ispezione del tutto» (p. 17). In questo senso, la filosofia di Emanuele
Severino, che si presenta come alternativa al teismo, offre in realtà per
Barzaghi il fianco a un nuovo percorso argomentativo in favore dell’esistenza
di Dio (un Dio però non inteso come oggetto: da qui il titolo dell’opera, che
evoca esplicitamente un’espressione di Dionigi): se ogni cosa è eterna, e tale
dunque è anche il suo apparire, esso deve continuare ad apparire, eternamente,
anche quando “non appare”. «Dunqueafferma il filosofo –, se tale apparire non
permane nell’orizzonte dell’apparire che è la mia coscienza, perché consta
l’apparire-scomparire dell’ente, deve comunque continuare ad apparire […] in
modo determinatissimo, dunque alla sola scienza di Dio cui eternamente appaiono
gli eterni. Non ammettere questa scienza di Dio, cioè Dio, significa ammettere
che l’apparire, che è pur un non-niente, sia un niente nel momento in cui non
appare più determinatamente, individualmente» (p. 24). Questa scienzachiamata
nel linguaggio tomista scientia Dei visionis«ha la fisionomia dell’apparire
infinito di cui parla Severino nei suoi scritti» (p. 17). Nel pensiero
barzaghiano, il punto di vista sub specie aeternitatis (dal punto di vista
dell’eternità) diventa la condizione imprescindibile di tutta la riflessione
teologica e filosofica. In teologia, solo questa prospettiva riesce a rendere
metafisicamente plausibile l’affermazione rivelata dell’«Agnello immolato nella
stessa fondazione del cosmo» di cui parla il libro dell’Apocalisse, così da
poter parlare di una «inseità redentiva dell’atto creatore». Nella riflessione
filosofica, poi, la prospettiva sub specie aeternitatis consente di avere uno
sguardo «dialetticamente onninclusivo», per cui ogni ente rispecchia in sé
l’eternità del tutto e di ogni altro ente secondo la nozione di exemplar.
Ne Il fondamento teoretico della sintesi tomista, Barzaghi propone appunto
l’idea di exemplar come cardine speculativo, approfondendo e oltrepassando la proposta
di S. M. Ramírez, neotomista spagnolo (1891-1967) di individuare nella
“dottrina dell’ordine” la struttura più sintetica di tutto il pensiero di
Tommaso d'Aquino. L’exemplar rappresenta «il minimo di complessità per muoversi
nel massimo della complessità» (p. 31). Ma per compiere questa operazione di
analisi, occorre esprimersi attraverso l’analogia, «riflesso logico
gnoseologico dell’ordine ontologico [e] mezzo inventivo ed espressivo del
conoscere» (p. 47), che acquisisce conseguentemente una notevole importanza nel
pensiero di Barzaghi. Nell’esemplare (exemplar) si trova il centro della
spiegazione causale, dal momento che in esso si presenta in modo simultaneo
tutto l’ordine che lega le cause aristoteliche: il fine, l’agente che intende
il fine, la forma implicata, e la materia che la deve accogliere. E l’esemplare
trascende la mera dimensione funzionalistica: in quanto contiene tutto
(compreso l’esemplante nel suo riferirsi all’esemplato), è una totalità, e
possiede quindi caratteristiche di liberalità e assolutezza: è «sottratto alla
dipendenza e al dominio» (p. 90). In una frase, che sintetizza bene il punto di
vista anagogico della filosofia e della teologia di Barzaghi: «Dio, conoscendo
se stesso, conosce tutte le possibili realizzazioni similitudinarie della
propria essenza, cioè tutte le essenze create e creabili» (p.
96). Seguendo infine l’esempio specifico di Bontadini, suo maestro, egli
fa risiedere nell’atto creatore intemporale la consistenza della totalità delle
cose, cioè delle creature, giacché queste sono «nulla come aggiunta a Dio» (p.
98). Secondo tale prospettica dell’exemplar, si può così realizzare, senza
aporie dogmatiche, la visione del Deus omnia in omnibus (Dio tutto in
tutto). Il dibattito con Severino Il primo dibattito fra Giuseppe
Barzaghi ed Emanuele Severino avvenne nel 1995 nella forma di disputa tra le
posizioni della teologia cattolica tomista e quelle della filosofia
severiniana. Il dibattito trovò, al di là delle aspettative degli
organizzatori, alcuni punti di possibile convergenza, che portarono il
filosofo-teologo alla pubblicazione di Soliloqui sul divino (1997), in cui
l’autore cerca per la prima volta di rileggere le intuizioni di Severino in un
modo che egli definirà più tardi voler essere quello con cui Tommaso d'Aquino,
filosofo e teologo cristiano, leggeva e faceva tesoro dell’insegnamento
filosofico di Aristotele, filosofo pagano. Ciò rese il rapporto fra i due
pensatori un dialogo di reciproca conoscenza e stima. Il 2 novembre 1999
Severino dedicò a Barzaghi un articolo sul Corriere della sera, in cui indicava
il sacerdote monzese come il fautore del più interessante tentativo di
riportare la sua filosofia al contesto cristiano da cui si era volontariamente
staccato. In tale articolo, il filosofo ateo definiva “aperto” il dilemma sulla
possibilità o meno per il cristianesimo di porsi come casa abitabile per l’uomo
contemporaneo, a patto però di diradare, sull’esempio di Barzaghi, la nebbia
che circonda il discorso religioso attraverso una ripulitura dei concetti a
partire dal punto di vista dell’eterno. Seguirono poi altri dibattiti pubblici,
come quello a Milano e quello a Bologna. Altre opere: “Metafisica della
cultura” (Bologna, ESD); “L’essere, la ragione, la persuasione, Bologna, ESD);
“Diario di metafisica. Concetti e digressioni sul senso dell’essere, Bologna,
ESD); “Soliloqui sul divino. Meditazioni sul segreto cristiano, Bologna, ESD);
“Philosophia. Il piacere di pensare, Padova, Il Poligrafo); “Oltre Dio, ovvero
omnia in omnibus. Pensieri su Dio, il divino, la Deità, Bologna, Barghigiani);
“Maestro Eckart, Cinisello Balsamo, Ed. San Paolo); “Anagogia. Il Cristianesimo
sub specie aeternitatis, Modena, ETC); “Lo sguardo di Dio. Saggi di teologia
anagogica, Siena, Cantagalli); “Compendio di storia della filosofia, Bologna,
ESD); “Compendio di filosofia sistematica, Bologna, ESD); “La Fuga. Esercizi di
filosofia, Bologna, ESD); “L’originario. La culla del mondo, Bologna, ESD); “Il
fondamento teoretico della sintesi tomista. L’Exemplar, Bologna, ESD); “La
maestria contagiosa. Il segreto di Tommaso d’Aquino, Bologna, ESD); “Il
Riflesso, Bologna, ESD); “Lezioni di dialettica, Bologna, ESD); “Il bene comune
secondo S.Tommaso d’Aquino, in “Communio” L’alterità tra mondo e Dio: la verità
dell’essere e il divenire, in “Divus Thomas”, Ambientazione teologica del concetto
di “gioia”,in I. Valent, Cura e la salvezza. Saggi dedicati a Emanuele
Severino, Bergamo, Moretti & Vitali); “I fondamenti metafisici della
mistica, in M. Vannini, Mistica d’oriente e occidente oggi, Milano, Paoline, La potenza obbedienziale dell’intelletto
agente come chiave di volta del rapporto fede-ragione, in “Angelicum”, Articolazione
teoretica della teologia trinitaria in chiave tomistica, in A. Petterlini, G.
Brianese, G. Goggi, Le parole dell’Essere. Milano, Bruno Mondadori, Desiderio e
abbandono. Maestro Eckhart e Tommaso d’Aquino: le due facce di un'unica
metafisica, in C. Ciancio, Metafisica del desiderio, Milano, Vita e Pensiero); Anagogia
epistemica, in R. Serpa, Antropologia, metafisica, teologia. Studi in onore di
Battista Mondin, filosofo, teologo, ciclista, Bologna, ESD); L’unum argumentum
di Anselmo d’Aosta e il fulcro anagogico della metafisica. Essere logici nel
Logos, in T. Rossi, Figurae fidei. Strategie di ricerca nel Medioevo, Studi, Roma,
Angelicum University Press, Anagogia: voce in “Enciclopedia Filosofica”,
Milano, Ed. Bompiani, L’epistemologia teologica di Tommaso d’Aquino. Analisi e
approfondimento, in G. GrandiL. Grion, Rivelazione e conoscenza, Soveria Mannelli,
Rubbettino,L’intero antropologico. Con Gentile oltre Gentile verso una
rifondazione metafisica dell’antropologia tomista. Ovvero le virtualità
tomistiche del discorso filosofico sull’autocoscienza e la corporeità umana, in
“Divus Thomas”. Il luogo poetico e contemplativo del sapere
filosofico-teologico. L’anima del giudizio scientifico, in “Divus Thomas” Mistica
cristiana come estetica assoluta, in
Mistica forum, Bologna, Lombar Key, Fenomenologia, metafisica e anagogia,
in “Divus Thomas”, Il bisbiglio del “Logos” e il suo riflesso nella ragione, in
“Divus Thomas”, Il destino sempiterno dell’Occaso. L’inseità mistica della
ragione, in A. Olmi, L’eredità dell’occidente. Cristianesimo, Europa, nuovi mondi,
Firenze, Nerbini, La commozione come filosofia del valore. Saper nuotare negli
affetti. L’ambiente invisibile della vita cristiana: il Fondamento, in V.
Lagioia, Storie di invisibili, marginali ed esclusi, Bononia University Press,
Bologna, Abitare teologicamente la natura. Lo sguardo metaforico di Tommaso
d’Aquino. Teoresi e struttura. Riflessioni e approfondimenti sulla
rigorizzazione bontadiniana, in “Divus Thomas” Creazione dal nulla o relazione
fondativa, in S. PinnaD. Riserbato
Fenomeno & Fondamento. Ricerca dell’Assoluto. Studi in onore di
Antonio Margaritti, Città del Vaticano, Ed. vaticana, Anagogia e teoria del
fondamento, in “Divus Thomas” Metafora. La trasparenza nella trasposizione, in
M. RaveriL. V. Tarca, “I linguaggi dell’Assoluto, Milano, Mimesis,, L’eternità
dell’essente in teologia, in G. GoggiI. TestoniAll’alba dell’eternità”. I primi
60 anni de ‘La Struttura Originaria’, Padova, Padova University Press, Dibattito
con E. Severino, in “Divus Thomas”. Il quadro anagogico e i segreti della
musica di J. S. Bach. La Ciaccona e il Contrappunto XIV de L’Arte della Fuga,
in “Divus Thomas”. A. Postorino, La scienza di Dio. Il tomismo anagogico di
Giuseppe Barzaghi... Data l'importanza
dell'anagogia nel pensiero di Barzaghi, gli è stata commissionata la stesura
dell'omonima voce sull'Enciclopedia filosofica (Bompiani), nonché, sul versante
teologico, la voce «mistica anagogica» sul Nuovo dizionario di mistica
dell’Editrice vaticana. RaiCultura: Dio
e il concetto filosofico di eternità del Tutto
Dialogo tra Emanuele Severino e Giuseppe Barzaghiparte 1 e parte 2 E. Severino, Nascere. E altri problemi della
coscienza religiosa, Articolo pubblicato sul Corriere della Sera, Dionigi, I
nomi divini (testo critico di M. Moranicommento di G. Barzaghi), Bologna, ESD,,
II, 3. All'alba dell'eternità. I primi
60 anni de 'La struttura originaria' (UniPa)
Apocalisse 13, 8 Cfr. G.
Barzaghi, Lo sguardo di Dio. Nuovi saggi di teologia anagogica, Bologna, ESD, Santiago
María Ramírez op, De ordine placita quaedam thomistica, Salamanca, San Esteban,
Barzaghi, Lo sguardo di Dio. Saggi di teologia anagogica, Siena,
Cantagalli, UniPdL’eternità
dell’essente RaiScuola: Giuseppe Barzaghi.
Dio e il concetto filosofico… Si veda ad
esempio: E. SeverinoG. Barzaghi, L’alterità tra mondo e Dio: la verità
dell’essere e il divenire, in: “Divus Thomas” Severino, Nascere. E altri
problemi della coscienza religiosa
Dialogo Severino-Barzaghi a Milano
Giornata di studio dello Studio filosofico domenicano di Bologna RaiCultura. Giuseppe Barzaghi, Dio e il
concetto filosofico di eternità del Tutto su raicultura. Interviste ai
filosofi: Giuseppe Barzaghi su you tube.com. Giuseppe Barzaghi. Keywords: scuola
di anagogia, ana-gogia, il quadro anagogico, anagogia, greco ‘anagogia’.
Implicatura storica, la porta di velia, girgentu, l’implicatura di milesso, il
segno di boezio, filosofia italiana. Scuola di anagogia, Bologna, fidanza,
Aquino, filosofia romana, carneade, l’ambassiata greca a Roma, filosofia, la
scuola di Crotone, l’impicatura di Gorgia di Leonzio. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Barzaghi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Barzellotti –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “The
good thing about Barzellotti’s treatment of Cicerone’s dialettica is that he
pours in all his expterise on two fields: Italian mentality, Roman mentality –
so he can understand, in a way an Englishman cannot, the way Cicerone dealt
with the ‘dialectic,’ Athenian dialectic, if you wish, and turned it into a
‘Roman’ dialectic --. He of course never considers English interpreters, only
German! And refutes them!” -- “You’ve got to love Barzellotti – he is critical
of the idea of ‘Italian philosophy,’ but not of what he calls ‘The Oxcford
school of philosophy,’ – Philosophy has no country-tag; she belongs to
humanity; a DOCTRINE, or a school, may have a ‘national’ identification – And
part of the problem with Italian philosophy is that there was Italian
philosophy before there was Italy!” Grice: “My favourite is his tract on
Cicero, who he sees as an Italian!” -- Senatore del Regno d'Italia nella XXII
legislatura. Allievo di Terenzio Mamiani e di Augusto Conti, entrambi filosofi
spiritualisti, si professò poi seguace del Neokantismo. Si interessò
soprattutto alla storia della filosofia con particolare riguardo ai problemi di
psicologia artistica e religiosa. Ebbe la cattedra di Filosofia morale alle
Pavia e di Napoli. Divenne professore di Storia della filosofia all'Roma. Fu
ammesso all'Accademia nazionale dei Lincei. Nominato senatore del Regno
d'Italia. Fu iniziato in Massoneria
nella Loggia Concordia di Firenze, appartenente al Grande Oriente
d'Italia. Altre opere: “La morale nella
filosofia positive” (Firenze: M. Cellini); “La rivoluzione italiana” (Firenze:
Successori Le Monnier); “La nuova scuola del Kant e la filosofia scientifica”
(Roma: Tip. Barbera); “David Lazzaretti di Arcidosso (detto il santo), Bologna:
Zanichelli); “Monte Amiata e il suo
profeta, Milano: Fratelli Treves); “ “Santi, solitari, filosofi: saggi
psicologici” (Bologna: Nicola Zanichelli); “Studi e ritratti, Bologna:
Zanichelli); “Taine, Roma: Loescher); “L'opera storica della filosofia, Palermo:
R. Sandron). Note Vittorio Gnocchini,
L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma, Cappelletti, Giacomo
Barzellotti, in Dizionario biografico degli italiani, 7, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
Barzellotti, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1930, giacomo-barzellotti. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Giacomo
Barzellotti, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per
le Soprintendenze Archivistiche. Giacomo
Barzellotti, su accademicidellacrusca.org, Accademia della Crusca. Opere di Giacomo Barzellotti, su open MLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Giacomo Barzellotti,. Giacomo Barzellotti, su Senatori d'Italia,
Senato della Repubblica. Filosofia Filosofo
del XIX secoloFilosofi italiani Professore Firenze PiancastagnaioAccademici dei
Lincei. Se questa ricostruzione, che vengo tentando, del
movimento filosofico nella seconda metà del secolo XIX in Italia,dovesse rigida
mente obbedire alle leggi di una storia della filosofia,alcuni scrit tori,che
rientrano nel nostro quadro, ne andrebbero certamente esclusi. Lo notammo a
proposito di T. Mamiani;e torna opportuno dichiararlo per Giacomo Barzellotti.
La prima legge della storia della filosofia è, che il suo oggetto è costituito
dal pensiero filosofico, ossia dalla metafisica, o concezione della realtà, che
voglia dirsi.E però non potranno far parte di essa gli spiriti che a questa
conce zione non abbiano comunque lavorato,o che non ne abbiano sentito il
bisogno o che non ne abbiano avuto le forze. Il Mamiani non ne ebbe le forze,
benchè vivamente desiderasse di pervenire a una filosofia, e ben presto creasse
a se medesimo l'illusione di esservi pervenuto. Il Barzellotti pare invece che
non abbia sentito il biso gno; e, ingegno letterario anche lui, abbia cercato
nell'attività este tica piuttosto che nella speculativa il vanto di scrittore:
più accorto in ciò e sia detto a sua lode del Mamiani, che per voler essere
quel che non era, non fu nè anche quel che fino a un certo segno,avrebbe potuto
essere. Il Barzellotti, invece, è stato uno degli scrittori italiani più
noti e più letti dell'ultimo trentennio del secolo: il suo nome può dirsi a
buon dritto che sia divenuto popolare: il solo forse tra quelli di scrittori di
cose filosofiche. Chi non ha letto i due volumi di saggi pubblicati dallo
Zanichelli: Santi, solitari e filosofi (1) e Studi e (1)Santi, sol.efil.,
saggi psicologici, Bologna, Zanichelli,2.a ediz.,ritratti?(1).A questa
popolarità egliappuntoaspirava,consciodelle attitudini del suo ingegno; e ha
messo da parte i problemi, a cui non era nato. Li ha messi da parte come
fanno tutti quelli che limettonodaparte,--negandone il valore. Ma nell'averlimessi intanto
da parte per suo conto è il suo merito e il segreto della sua fortuna
letteraria. Rileggiamo una confessione, che è nella prefazione ai Santi,
solitari efilosofi: « Più d'una volta al sentirmi chiedere quasi come tessera
d'ingresso ai posti distinti dell'insegnamento o al favore di certi
cenacoli letterari o filosofici una di quelle professioni di fede assoluta nei
dommi di qualche sistema,ho pensato involontariamente a quelle domande che le
signore fanno spesso nei giuochi di sala o nei loro albums profumati, mettendo
vi in mano illapis per la risposta:-- Guardi, mi faccia ilpiacere di dirmi o di
scrivermi qui, subito,che cos'è l'amore,e poi che cosa ella pensa dello
Shakespeare epoianche,secrede, del Goethe;ma chelarispostasiabreve,la prego,non
più che dieci righe,perchè,quaggiù,vede,ha da seri vere anche la mia
nipotina ». Vale a dire:il Barzellotti ha bensì aspirato ai posti
distinti dell'insegnamento filosofico.C'era avviato,era quella la sua car
riera:e l'ha percorsa ormai tutta con onore,fino alla cattedra di storia della
filosofia nell'università di Roma; ma egli non ha potuto mai persuadersi
che per occuparsi di filosofia bisognasse aver fede assoluta in un sistema:che
per mangiar frutta,direbbe Hegel, bi sogna contentarsi di mangiare
ciliege,pere,uva ecc.Non che pro prio abbia ricusato la filosofia, in generale.
La sua filosofia l'ha avutaanche lui; ma «diametralmente opposta»
aquelladichigli venne sempre chiedendo a qualesistemaegliaderisse;opposta
«appunto in questo: che il suo resultato più sicuro, e ormai consentito da
quanti oggi vivono la vita intellettuale dei nostri tempi, si è la
dimostrazione critica dell'impossibilità di chiuder la mente umana inunaforma
sistematica d'interpretazione dell'universo da potersi dire definitiva per la
scienza».Un'opposizione,come puòvedere chiunque abbia studiato con mente
filosofica la storia della filosofia, affatto illusoria:fondata sopra quella
confusione dell'universale e del particolare (per rispetto al concetto della
filosofia) messa in canzonatura da Hegel nel luogo citato dell'Enciclopedia. In
realtà, nessuna forma sistematica ha voluto mai essere definitiva; ma
s'è (1) St. e ritr., ivi, 1893. sforzata di organizzarsi a sistema,
per essere qualche cosa di filoso fico, per vivere nel pensiero, che non può
esser pensiero senz'esser uno. E lo stesso Barzellotti nota una volta che
perfino il Kant,il grande avversario dei sistemi,costrui anche lui la sua
Critica in forma complicata ma strettamente organata di sistema. E che
questo orrore dei sistemi significhi, pel Barzellotti,non negazione critica
della metafisica (com'egli, si vedrà,avrebbe voluto significasse), ma, a
dirittura, liquidazione,anzi evaporazione della filosofia, negata nella sua
universalità perchè negata in tutte le sue forme particolari;loattesta,non
foss'altro,ladichiarazioneseguente: che il valore intimo di cotesta sua
superstite filosofia « sta tutto nel penetrar ch'essa fa oggi del suo spirito
critico i metodi e la parte più alta delle scienze naturali e matematiche non
meno che delle morali».Sit diva, dum nonsitviva.L'ideale delfilosofo,Helm holtz
(tante volte citato dal Barzellotti): un fisico. Voltando,quindi,in
effetti le spalle alla filosofia,ilBarzellotti sentiva bene di non dover
riuscire ostico ai nemici della filosofia, ossia agl'ignoranti di filosofia. Le
sue idee intorno a questo punto della secolarizzazione delle menti,
riescono molto interessanti e istruttive, perchè aiutano a intendere tutta la
psicologia dello scrit tore:« Tra noi in Italia,oggi,lo so da lunga
esperienza,solo a far balenare un momento sul frontespizio d'un librolatestadifilosofia
c'è da vedersi impietrar davanti dallo spavento o dalla noia quante facce di
lettori s'eran chinate a guardarlo ». Di chi la colpa? Della filosofia o dei
lettori? Il Barzellotti avrebbe una gran voglia di gettarla tutta addosso alla
prima; m a poichè una certa filosofia deve credere di coltivarla anche lui,una
filosofia invisibile perchè cela tasi nelle scienze speciali o nell'arte, un
pochino di colpa l'ha pur da dare ai lettori, lamentando « quell'abito come lo
chiamerò d'antipatia o di pigrizia mentale? – che nella scienza e
nell'arte ci fa rifuggire dalle forme più alte e più complicate del
pensiero, che ci sanno di aspro o di esotico ». Ma, s'intende, il maggior torto
è della filosofia: È l'effetto del discredito meritatissimo, in cui la
filosofia cadde tra noi parlando per tanto tempo il gergo barbaro del pensare e
dello scri vere di troppi ormai che ne hanno fatto una casistica da medio evo
in ritardo,e che,o predicassero dal pulpito delle nostre scuole ortodosse,o
negassero Dio e l'anima mettendo in cattivo italiano i loro imparaticci
francesi, inglesi o tedeschi, hanno nella filosofia impedito tra noi quasi sino
ad oggi quella definitiva secolarizzazione delle menti che per tutto fuori di
qui segna da un pezzo l'avvenimento della cultura moderna. In Italia,un lettore che abbia familiare l'abito di mente
inseparabile dalla cultura e dalla scienza contemporanea,è raro che,aprendo per
distra zione o in mancanza d'ogni altra lettura,un libro di filosofia,non lo
faccia con quello stesso viso con cui un giornalista della capitale si la
scia,in viaggio,dare le ultime notizie di una crisi ministeriale da un suo
corrispondente di Cuneo o di Brindisi.E avrà anche torto;ma che dire,quando il
fatto stesso del mancare tra noi un pubblico di lettori per la filosofia mostra
chiaro che in Italia la filosofia non sa,meno rare eccezioni,farsi leggere,cioè
non sa pensare e scrivere,non voglio dire coipiùepeipiù,ma almeno
coipiùcolti,con coloro che pensano;il che poi significa ch'essa non vive ancora
tra noi la vita della mente contemporanea? La filosofia, per vivere la
vita di questa mente contemporanea, deve abbandonare il suo barbaro gergo. Si
potrebbe pensare dataluno che l'unico movimento di qualche vigore che si sia
avuto in Italia negli ultimi tempi,è quello hegeliano di Napoli. Ma quello,
secondo il Barzellotti, riuscìpiùascuoter elementi,chea fecon darle di germi
durevoli,a cagione appunto della sacra tenebra delle formule, nella quale
i più di quegli scrittori s'avvolgevano, del gergo tra barbaro e bizantino che
facevano parlare al loro pensiero oracoleggiante (1). Ma, che cosa è questo
gergo e quest'oracoleggiare se non la forma specifica della filosofia,inaccessibile,naturalmente,
non solo ai più, ma anche ai più culti, quando la loro cultura non abbracci
anche la filosofia; e la filosofia non liquida o vaporante nella sua astratta universalità,
ma solidae concreta nellasuccessione progressiva delle sue forme storiche, fino
a quella, alla quale una determinata ricostruzione della storia mette capo? E
la secolariz zazione dello spirito, e il farsi leggere della filosofia che
altro p o s sono significare se non distruggere quella differenza specifica
che costituisce il valore del grado spirituale proprio della filosofia?
Intendiamoci: non già che il filosofo debba scriver male. Il Barzellotti dice
della Vita del Vico che « ha dal lato letterario il difetto di tutti i
libri delgranfilosofo: èmalescritta»(2). E non è vero,com'è vero invece che è «
mal composta,oscura,involuta ). Oscuro e involuto rimase appunto gran parte del
pensiero delVico; e quindi l'oscurità e l'involuzione della forma. Ma il Vico
scriveva benissimo,esprimendo con efficacia potente d'immagini i (1) Vedi
lo scritto Il pessimismo filosofico in Germania e ilproblema m o. rale dei
nostri tempi, nella N. Antologia p.
56. (2) Dal rinascimento al risorgimento, Palermo, Sandron. suoi concetti;
ma,s'intende,quando avevadeiconcetti:laddoveè certo, come lo stesso Barzellotti
dice, che a lui mancò « la co scienza chiara, luminosa del proprio pensiero,
che è la parte prima ed essenziale dello scrittore ». In altri termini, egli
non pervenne alpossessocompletode'suoiconcetti,parecchideiquali,enon i secondarii,
rimasero in uno sfondo di penombra in quella gran mente che così largo
giro ne volle stringere nella sua speculazione, sbozzata con persistente
lavorìo intorno a una materia non veramente
omogenea,tradistoriaedifilosofia.IlVico scrive male dove e in quanto pensa
male; e questo è il Vico che non conta nella storia. Ma ilVico che conta,
il filosofo vero e proprio è uno scrittore sommo.E non potrebbe essere
altrimenti,perchè l'arteelafilosofia non sono due muse sorelle,ma l'unico
Apollo,lo spirito,che non sale alla filosofia se non attraverso l'arte, e non
supera mai se stesso, come avvertì per primo Aristotile, se non conservando se
stesso, crescendo sempre sopra disè.– Chiscrivemale,perciò,appunto perchè
scrive male non è filosofo. Ma lo scriver bene del filosofo non è lo scriver
bene del poeta;altrimenti verrebbe meno la differenza, tra l'uno e l'altro, che
nessuno vuol negare. E comeil poeta scrive sempre bene se vien poetando, così
il filosofo scrive bene anche lui se, anzi che pensare a scriver bene, pensa
piuttosto e riesce a filosofare, anche a costo di finire per ravvolgersi in un
gergo. Non c'è pure il gergo della poesia? O non era poeta chi diede
l'espressione classica della impopolarità essenziale delle forme alte dello
spirito nell'odi profanum vulgus? Pel Barzellotti,invece,il filosofo può
farsi leggere,se si contenta di metter da parte la filosofia. Nella menzionata
confessione, premessa ai Santi, solitari e filosofi (1), lo dice chiaro: « lo
vorrei, senz'aver l'aria di presumer troppo,poter dire press'a poco
quello che un amico mio diceva ai lettori d'un
giornale,annunziandovi la prima edizione del Lazzaretti: perdonate a
questo libro quel po' di filosofia che l'Autore ci ha voluto,a ogni
costo,mettere (giacchè patisce, poveretto!,diqueste malinconie);perdonateglielaingrazia
di quel tanto dipiùedimeglioche illibro visaprà farpensare
oviracconteràovidescriverà come opera d'arte».Vedremo fra pocoinche
consiste quel po' di filosofiadacuiilBarzellottinon s'èvoluto mai distaccare;ma
non bisogna dimenticare,che quel che di più e di meglio egli ha inteso di
mettere ne'proprii scritti (1) Santi, p. 52 n. Perchè dunque parliamo
qui del Barzellotti, e in questa parte dedicata ai platonici Ecco: queste
note, senza voler essere propriamente una storia,mirano piuttosto a rivedere
criticamente i giudizii correnti intorno agli ultimi scrittori italiani di
filosofia. Ora il Barzellotti, per giudizio comune, avrebbe partecipato al
movimento dei nostri studii filosofici, e avrebbe agito nella cultura
nazionale appunto come filosofo. Domandate ai suoi molti lettori se egli
sia uno scrittore di filosofia o un prosatore, un artista;
novantanove su cento vi risponderanno che è sì un artista,ma un
artista-filosofo, o meglio un filosofo-artista; uno dei pochi, o il solo
dei nostri filosofi, che abbia saputo liberare la scienza della forma
pedantesca della scuola e del barbarico gergo abituale, per esporla in
saggi eleganti, ossia in maniera accessibile a tutte le persone colte e di
gusto. Ripeterebbero, insomma, quel che il Barzellotti stesso ha sempre
pensato e detto di sé. Perchè, bisogna pur dirlo, niente riesce più a
render perplessi e a sviare igiudizii,di questa specie di sofisticazioni
della scienza,operate dai secolarizzatori o popolarizzatori della medesima. Il
po ' di filosofia viene apprezzato non in ragione del suo valore,che può
esser nullo,ma in ragione dell'arte, in cui si diceepuò parere che si siamesso;
l'operad'arte,egual mente, non è giudicata con tutta la severità che si
userebbe verso le opere di arte pura, che non avessero quella difficoltà
di una materia ribelle all'elaborazione artistica; e i critici letterarii,
inetti a giudicare quel po'di filosofia, indulgono a quell'arte gravida o
sazia di sapere. Perchè, s e h o detto che il Barzellotti è u n artista
più che un filosofo,non credo poi (se mi è lecito proprio questa volta una
digressione letteraria che possa dirsi un artista finito, e che il suo
capolavoro (Lazzaretti) siaun capolavororiuscito. È ilmeglio riu scito di
questi suoi tentativi artistici, pel senso vivo del paesaggio e dell'anima
popolare di quell'angolo della Toscana, in cui il Barè al di qua della
filosofia: è qualche cosa che può far pensare,una riflessione morale e
psicologica;è soprattutto opera d'arte.Dello scritto su David Lazzaretti, che
può forse considerarsi come il capolavoro del Barzellotti, il quale i nesso si
propos e ben sì di fare uno studio di psicologia religiosa,lo stesso autore
dice che « vorrebbe essere,se pure non pretende troppo,un'opera d'arte,ma
senzadar nel romanzo ».Vedi in questo fasc. l’art. del Croce, pp.
337-8. zel lot ti era vissuto fanciullo, e tornato spesso a rinnovare le
sensa zioni dei primi annim. Ma anche lì quel po'di filosofia come
stuona in quell'ambiente pastoraleenell'ingenua psicologiadel misticismo
lazzarettiano! E come appiccicato è lo studio sull'origineelosvol gimento e i
caratteri di quel moto religioso sulla cornice dell'im mediata azione, in cui
l'autore l'ha voluto inquadrare, per aver agioa descrivere meglio iluoghi,che
furono scena dei fatti del Lazzaretti,e individuare itipi de'suoi
seguaci!L'azione, troppo povera,è una gita di caccia,a cui l'autore per altro
non partecipa, restando sempre in disparte ad almanaccare sull'anima del
barocciaio di Arcidosso.Dopo la caccia c'è una colazione,sull'erba;e alacolazione
questa volta pare pigli parte anche Barzellotti. Ma quale parte? Egli titrova
nel cerchiounuomo del paese, Filippo, il,bigonciaio, un discepolo del
Lazzaretti; e subito ne profitta, dicen dogli che avrebbe avuto caro di sapere
« molti particolari intorno aDavid e alla vita che i suoi seguaci avevano fatto
con lui in quelluogo »,lisulla torre di Monte Labbro Il lettore,nemico
della filosofia, a cui il Barzellotti s'indirizza, s'aspetterebbe la conversa
zione dell'autore con Filippo,il quale dovrebbe farci entrare a poco a poco con
i suoi ricordi in tutto quel mondo morale che l'autore
civuolrappresentare.Difficileimpresa,certo;ma soloachi,come ilBarzellotti,non
avesse davvero il suo Filippo rivelatore vivo e parlante nella fantasia;
sibbene gli scritti del Lazzaretti,gli appunti delle relazioni fornitegli da
amici del luogo,le deposizioni dei lazza r e t t i s t i, e poi i volumi d
e l Renan, e l e opere dell’Hartmann e q u a l che fascicolo del Nineteenth
Century sul tavolino. Barzellotti,che pure ha scritto un bel saggio sulla
sincerità nell'arte,in quel punto della sua opera non si ricorda di quelle
sue giustissime idee: e dopo aver detto come inducesse Filippo a
parlare,continua: « Mi rispose con un leggero atto della testa che
acconsentiva,e ci mettemmo tutti amangiare ».Ma alla conversazione non ci fa
assistere.«E ora mi pare da vero tempo che anche i lettori conoscano per:filo e
per segno i fatti cui ho accennato tante volte, e li conoscano, quello che più
importa,in ordine alle loro cause e alle condizioni sociali e morali de'luoghi,
o, come oggisidice, dell'ambiente nelquale ebbero origine ».E segue infatti il
corpo,per dir così,dello studio sul Lazzaretti: centoquaranta pagine (1), in
cui Filippo e la colazione sondimenticati.Poi l'autoreripiglia:«Questecosemi
andavano per la mente cinque anni dopo la morte di David mentre
co'miei (1) Santi, pp. 121-262. amici stavo nel piazzale davanti
all'eremo di Monte Labbro.Passato quel silenzio profondo dei primi
bocconi. »;– e torna a saltar su finalmente Filippo,che però il B. non ci fa
mai udire.Sicchè nel l'immaginazione dell'artista durante quella
colazione,oltre che per tutte le considerazioni seguenti sul carattere della
fede di Filippo, ci sarebbe stato il tempo per andar pensando a tutte quelle
140 paginediroba! L'elemento descrittivo e drammatico resta affatto estraneo e
sovrapposto allo studio storico-psicologico. E questa so vrapposizione,questa
mancanza di fusione,che accuserebbe per sè, quando non vi fossero le
dichiarazioni esplicite dello scrittore,le sue preoccupazioni artistiche,
mentre egli realmente non si mette mai inunasituazionesinceramenteartistica, sono
il maggiordifetto che io vedo in questi suoi tentativi d'arte.- E un altro mi
sia lecito anche notarne,che è in fondo una conseguenza del primo,e mi fa
tornare al mio soggetto speciale: la lungaggine, la prolissità dello
scrittore:difetto da lui stesso additato come uno degli effetti più gravi della
rettorica, della vuotaggine di gran parte della lette ratura italiana. « Solo
chi ha poco o nulla da dire dice sempre di più di quello che dovrebbe dire
»(1).Appunto,la esiguità del con tenuto spirituale del Barzellotti gli ha fatto
scrivere molte e molte pagine a cui s'attagliano parecchie delle osservazioni
da lui fatte intorno a cotesto difetto della letteratura italiana, dominata
dallo ideale umanistico.Non c'è scritto di lui in cui sia detto breve e chiaro
quello che l'autore s'è proposto di dire;e spesso si stenta ad afferrare il suo
concetto, tra le molte parole non abbastanza precise e determinate,in cui egli
si sforza d'esprimerlo,cioè di concretarlo,quasi per una serie di
approssimazioni al pensiero, che non si riesce afermare inuna
formavivente.Tipica,per questo riguardo,mi sembra la prolusione letta a Napoli
nel 1887:La morale come scienza e come fatto e il suo progresso nella storia
(2). E valga per esempio questo squarcio,che ne tolgo a caso: Perchè è
bene che io lo dica fin da ora,o signori,anche a titolo di quella schietta
professione di fede scientifica che mi pare d'esser tenuto a farvi qui. Il
modo in cui io concepisco la legge intima dell'organismo e della vita delle
scienze morali o,meglio,delle scienze che io chiamo più propriamente umane,e
quindi dell'etica,che se ne può dire quasi il centro, non è quello stesso che
pare presupposto da quanti oggi ponendo, (1)Dal rinascimento al
risorgimento, p.206. (2)Rivista ital.difilos.del FERRI, con ragione,
l'esperienza a fondamento di tutto il sapere umano,non di stinguono con qual
divario profondo il processo di costruzione ideale del pensiero scientifico sui
dati sperimentali si faccia nelle dottrine naturali e in quelle morali e
storiche. Là l'ufficio, l'opera della scienza sta nel ritrarre, nel rilevare a
uno a uno, sino a i piùintimi, i tratti della fisonomia eternamente immota e
impassibile della natura, che anche nel l'inesausta ricchezza delle sue
produzioni, ripete eternamente se stessa; stanel far penetrare,se posso dir
cosi,la parola,più e più criticamente riveduta delle teorie e delle
ipotesi,quasi scandaglio che tenti un fondo impossibile però a toccare mai
tutto,sempre più verso l'ultima espres sione approssimativa di un vero che,
inesauribile in sé,sappiamo però essere e durare ab eterno eguale a sè stesso.
Ed ecco perchè, una volta messe queste scienze sulla via maestra del metodo
sperimentale, e fu, o «signori, merito imperituro della filosofia del sec.XVI,
latradizione del l'acquisto lento, faticoso, ma sicuro del vero,vi si stabili
con una fermezza che non ha pur troppo riscontro alcuno nella storia delle
scienze del l'uomo e della società. In questa l'opera ideale
costruttiva,la funzione che vi ha il pensiero scientifico di assimilare a sè il
vero dei fatti sperimentati e osservati e di trarlo quasi in sostanza sua, è,
mi pare, tutt'altro. È un farsi, uno svol gersi della vita e dell'organismo
riflesso della scienza insieme con quello spontaneo del vero umano e sociale
che si spiega,che fluisce inesauribilmente ricco, fecondo e vario ne'secoli.E
l'occhio delle scienze morali, intento a scrutarne le leggi,è simile a quello
di un osservatore che da punti di prospettiva via via sempre nuovi
studiasse, camminando, le forme,le proporzioni e la direzione di un'immensa
folla di oggetti che gli simostrano dinanzi. Sbaglierò; ma a me pare che,
tolti i fronzoli e i particolari inutili, il pensiero adombrato in tutta questa
pagina sarebbe stato espresso forse più chiaramente, se si fosse detto press'a
poco così: lescienzemoralisifondano,alparidellescienzenaturali,sul
l'esperienza;ma siccome la natura è sempre quella, el'uomohauna storia, le
verità scoperte dalle scienze naturali hanno una stabilità e fermezza
incompatibile con quelle via via determinate dalle scienze morali, alle quali
spetta di seguire il processo storico del loro o g getto. Egli è che al
Barzellotti, mente coltissima, è mancata proprio quella qualità ch'egli è
andato sempre cercando:l'intimità,il con tatto dell'anima con le cose. Quindi
l'artifizio e lo stento,la forma levigata, elegante,ma alquanto vuota e sonora.
Le sue professioni difedefilosofica,percuilodovremmo aggregareaineokantiani,
sono semplici adesioni formali, spesso ripetute con la premura di chi tiene ad
apparire spirito moderno, del proprio tempo (come (1) Nella N.
Antologia, Fil. Sc. Ital. egli ha detto di sè
tante volte); ma non corrispondono a una par tecipazione effettiva della sua
mente ai problemi critici e morali, ridestati dal ritorno a Kant.Lo scritto,che
secondo lo stesso Bar zellotti, dovrebbe essere più significativo per questa
sua adesione al criticismo (La nuova scuola del Kant e la filosofia scientifica
contemporanea in Germania ) (1); e al quale egli infatti s'è riferito ogni
volta che ha voluto documentare l'affermazione sul suo in dirizzo di pensiero,è
un'esposizione informativa,condotta innanzi senza un indizio di vero consenso,
che le considerazioni dei neo kantiani trovassero nell'anima dell'autore. E
quando verso la con chiusione questi dice che « la natura relativa d'ogni
nostra cogni zione sensata è inconciliabile colla pretesa che ha il dommatismo
di determinare positivamente l'essere delle cose in se stesse, di poter
penetrare sino alle sostanze e alle forze ch'egli suppone al di là de'fenomeni
» non puoi dire sicuramente se questo sia il pensiero di chi scrive,o il
pensiero di quegli scrittori di cui que sticihaparlato. Meno che meno potresti
cogliere ilpensierodel Barzellotti nel suo precedente scritto La critica della
conoscenza e la metafisica dopo Kant, lavoro prevalentemente storico, per cui
l'autore si attiene più alle storie del Fischer e dello Zeller, che alle
fonti originali. In una storia dell'idealismo postkantiano,di cui questo
scritto voleva essere un saggio (ma si arrestò allo Schelling), un neokantiano
vero non può non far apparire i suoi criterii filosofici;
e non c'è sforzo d'oggettività storica che possa fargli dire che
l'interpetrazione realistica (a cui tenne sempre più fermamente lo stesso Kant)
della critica risponde alla lettera del kantismo,e l'interpetrazione
idealistica del Maimon,del Beck,del Fichte, ri sponde piuttosto allo spirito.
Un neokantiano non avrebbe scritto che il concetto realistico del noumeno (come
qualche cosa che è in sè,indipendentemente dalle forme del conoscere,ed opera
sui sensi)è in Kant un residuo del dommatismo antico che la Critica non era mai
riuscita a spogliarsi interamente, e che stuonava coi risultati negativi e
idealistici della dottrina della conoscenza;e che era una contradizione (2): un
pensiero non pienamente consentaneo a se stesso in ogni sua parte. Al
Barzellotti il partito di superare idealisticamentelaCritica,come fece ilFichte,
dopo l'Enesidemo, pare «ogni giorno più,non che consigliato, imposto
inesorabilmente dalla necessità logica che trascinava le dottrine del Kant
alle loro ultime conseguenze». Ma tutto questo è detto,anziripetuto, non
con l'accento energico di una convinzione maturata per proprio conto;sibbene
con quella stessa indifferenza che è propria di chi osserva da spettatore
assolutamente disinteressato. Che cosa pre cisamente debba pensarsi di quel
benedetto noumeno,che è lo spettro pauroso dell'idealismo moderno,non sembra
che sia affare che tocchi l'animo del Barzellotti: il quale potrà dirsi a sua
voglia neokantiano(2);ma nonfarà mai ilneo-kantiano,perchè non sen tirà mai
veramente il problema filosofico. E non ha fatto quindi nè anche
ilplatonico,benchè all'indi rizzo dei platoneggianti italiani egli si
accostasse ne'suoi scritti gio vanili,il principale dei quali è la tesi Delle
dottrine filosofiche nei libri di Cicerone, in cui si vede ancora lo scolaro di
A. Conti edi T. Mamiani. Egli doveva pensare anche a sè quando,discor rendo
della Filosofia delle scuole italiane,— della quale fu sempre uno dei
compilatori ordinarii,e se ne poteva dire la sentinella avan zata verso le
letterature filosofiche straniere,di cui scriveva una cronaca;– disse: «I
collaboratori di quella Rivistahannopienali bertà di pensiero e di discussione;
anzi varii tra di essi professano dottrine molte diverse da quelle del Mamiani;
ma si raccolgono intorno a lui come al rappresentante più autorevole di
quel moto speculativo,che aiutò il nostro risorgimento e ci riscosse da una
inerzia intellettuale di più che due secoli » (3). Anche al Barzellotti,
insomma,piaceva di essere un filosofo delle scuole italiane,insieme col
Mamianielasuaonrevolgente. Anche aluipareva,p.e.,che il«merito innegabile della
scuola hegeliana(diNapoli)apparirebbe maggiore allo storico imparziale,se essa
avesse tenuto più conto delle disposizioni naturali e tradizionali dello
spirito italiano » (4). Egli dunque si mise nella schiera del Mamiani; e io non
potevo staccarnelo, non avendo potuto trovare ne'suoi scritti la dottrina
filosofica sua, che ne lo separasse. Vedi specialmente le proteste nella
pref, ai Santi,p.xxm n. (3) La filosofia in Italia, nella N. Antologia (4)
(1) Nella Rivista difilos,scientifica. Cosi nel libro sul Taine qui
appresso cit.,p. 168 dirà sempre: « La dot trina idealistica chefa del mondo
sensibile esterno un mero ordine di fenomeni e di segni datici dalle
sensazioni, debba dirsi, per ora almeno, l'ultima parola della scienza, venuta
a confermare la parte indubbiamente vera delle teorie del Berkeley e del Kant
».Vedi poi l'articolo su L'idealismo di A. Schopenh. e la sua dottrina della percezione,
nella Fil. dellesc.ital.; la cui conclusione favorevole ai filosofi che « tempo
e spazio accolgono in se elementi, a u n tempo, ideali ed empirici, subbiettivi
e obiettiv i, hanno il loro essere e la loro legge così nel pensiero come
nelle cose,così in noicome fuori di noi – non vedocomepossaacc
larsiconl'idealismo berkeleiano! Masipuòpar lare di contraddizione? (4)
Credaro nel Grundriss di UEBERWEG-HEINZE. Cfr. La morale come scienza e come
fatto, Riv. ital. di filos., e la pref. ai Santi,p.xxi n. Nella prolusione
con cui iniziò a Pavia il suo insegnamento ufficiale universitario, nel 1881,
Le condizioni presenti della filosofia e il problema della morale (t), puoi
ravvisare tutto lo scrittore. Ivi più schietta la professione di fede
neo-critica: l'idealismo da Fichte a Hegel accusato non solo di aver voluto
costruire luni verso da un sol punto, con un solo principio assoluto,ma di
avere altresì dimenticato « quello che le aveva lasciato detto il maestro, che
cioè,se i fatti senza le idee sono ciechi,queste alla lor volta, non cimentate
coll'esperienza, riescon vuote e ingannevoli » (tra vestimento del genuino
pensiero kantiano e disconoscimento del genuino pensiero hegeliano); la
riflessione filosofica definita per artifizio(2); approvato- comegià nella
Morale della filosofia positiva l'indirizzo psicologico-sperimentale dato
dagl'inglesi alla filosofia dello spirito; fatto buon viso alla loro teoria
della re latività del conoscere (dove l'autore vede un kantismo
ricondotto addietro fino a Berkeley (3); dato corpo in certo modo a quella
specie di eccletismo, che gli è stato talvolta attribuito (4), e a
cui egli stesso in alcuni scrittisi può dire che abbia accennato parlando
di una mediazione tra il criticismo e l'evoluzionismo (5); rifatta un'altra
volta la storia del ritorno a Kant, nonchè della scuola spe rimentale
inglese,per conchiudere che oggi il filosofo « non prova più in sè quello
che pure era,ed è tuttora,così proprio de'meta fisici, il sentimento superbo di
un preteso primato sui cultori dell altre scienze, la vana persuasione di
potersi segregare da loro nella solitudine di un infecondo sapere assoluto,
superiore alle indagini pazienti de fatti e all'esperienza, e ambizioso di
tutto darle, senza nulla riceverne ». Qui si abbandona,come ognun vede,
esplicitamente l'eterno proposito della filosofia. Niente di superiore ai fatti
e all'esperienza. Il filosofo non deve aspirare se non,come tutti gli altri
scienziati,a fornire col proprio lavoro alcuni pochi tra gl'infiniti dati, tra
le infinite verità d'esperienza e di ragionamento a c cessibili alla mente
umana nel suo sublime tentativo d'interpretare l ' unità delle cose e
delle loro leggi. Nien t'altro che dati ! Non c e r t o
«un'assolutadisperazionedelvero»,ma «una fede assai condizionata nel valore di
quelle forme del vero che la mente umana accoglie in sè successivamente »;
un « abito di mente critica inquisitiva per eccellenza, che non riposa mai o
quasi mai in una conchiusione, che rifà di continuo i proprii
convincimenti ». Abito di mente, insomma,da spettatore,non da artefice
della verità. E chi lo afferma si vede bene che,accortosi della vanità di
questo affaticarsi perenne nel tentativo sublime,quanto a sè,intende
mettersi da un canto,e stare a vedere.Qui, nella ricerca della verità, non
c'è l'anima del Barzellotti.Di questa ricerca egli non vede se non una
vita vana,dicui nessuno spirito può vivere.Onde vidirà: l'uomo è nato non tanto
a pensare quanto ad operare.E per operare ci vogliono quei saldi
convincimenti,che la scienza non può dare. Perciò è che la filosofia non può
prendere il luogo delle credenze religiose. Il Barzellotti non dice
propriamente perchè, e gira attorno a questo problema,che è dei più delicati
circa il valore della filosofia. Ma fa alcune osservazioni,che ritraggono lo
spirito dello scrittore. Non tutti possono vivere su principii, che siano
il risultato del ragionamento; infiniti sempre attingeranno la norma delle
azioni « dal cuore,dall'immaginativa, dalla fede, dalla per suasione affettuosa
immediata, da un che in somma non ragionato, m a sentito e intuito ».
Contro chi cred e, come il Renan, che p o s s a la scienza un giorno
trasformare e governare tutta la vita,bisogna notare che « delle due forme di
conoscenza ond'è capace la nostra mente, la concreta e diretta,o vuoi
intuitiva, ha sull'astratta e sulla riflessa infiniti vantaggi nella pratica
della vita. Se non che,tale appunto quale è, ottimo istrumento e guida
all'azione, la conoscenza intuitiva ha in sè questo di più specialmente proprio
e suo e d'opposto all'indole del sapere scientifico; appunto perchè
concreta, particolare e attinta dalla viva esperienza e quasi dal contatto
delle cose e degli uomini, essa è tutta individuale, e per ciò
incomunicabile:più che vera e propria cognizione, potrebbe dirsi un certo tatto
finissimo. La scienza stessa., in ciò ch'essa ha in sè di più intimo e
d'organico, presa come un tutto che si muove e vive d'una vita inseparabile da
quella d'ogni mente che l'ha in sè e l'ha fatta sua propria, riesce non meno
individuale e incomunicabile di quello che sia l'intuito, l'arte, l'esperienza
immediata,la convinzione istintiva ». Quindi l'inefficacia della scienza;
quindi il segreto della forza delle religioni,che s'impossessano di tutto
l'uomo. Perchè la religione abbia quest'afflato, che manca alla scienza, il
Barzellotti non dice.E la verità dell'osservazione consiste,a parer mio,nell'esperienza
personale dell'autore, di cui essa deve ritenersi un indizio. È la scienza
sua,da cui egli si sente ingombra la mente,non riformata l'anima,che non può
cacciar di nido la religione. Se la metafisica, l'alta veduta speculativa
investe tutto l'uomo nei grandi pensatori, egli è che il pensatore in fondo è
un artista.Onde ilBarzellotti plau dirà al pensiero del Taine (in Idéal dans
l'art): « che tra i diversi modi,in cui l'uomo coglie la verità delle cose,il
più potente e il più vero è l'Arte.Essa infatti penetra,per dir così,giù sino
al cuore del grande organismo della natura,e non si limita a darcene,come
falascienza,soloilprofiloesterno,leleggigenerali quantitative,ma ce n'esprime
l'intimo senso,ce ne fa sentire nel loro lavorìo se greto le forze vitali, le
potenze originarie e germinali » E al Taine tributa la gran lode di aver avuto
« anima e mente da ca pire come la scienza,che ci dà solo gli elementi generali
e comuni dei fatti e delle cose,non riesca nello studio dello spirito umano a
rendercene tutto il vero, se non è compenetrata con l'Arte, che intuisce il
particolare, l'individuale, ciò che sfugge all'analisi e al l'astrazione » (2),
E l'autore continua: « Qui sta con buona pace
dellapedanteriatogataditanticheoggisichiamanodotti– la superiorità
dell'Arte,se siagrande e vera, sulla scienza pura, quanto al comprendere l
a vita, il carattere e i sentiment i u m a n i. Si può esser certi infatti che
nessuno specialista, nessuno scienziato nello stretto senso della
parola,arriverà mai a scuotere una di quelle grandi verità della coscienza e
dell'ordine morale,che finora sono state trovate tutte dai fondatori di religioni,
dai metafisici sommi – artisti del pensieroessipure—
daipoeti,dagliscrittori,da co loro che il volgo degl'indotti e dei dotti chiama
uomini non p o sitivi » Ippolito Taine, Roma, Loescher E così ci accostiamo al
po'di filosofia del Barzellotti: a quel po'almeno, che è la nota metafisica
vera e sincera, che risuona nel l'anima sua. E questa nota suona spesso
negli scritti del Barzellotti, benchè non sia che una nota. La religione,dice
in uno scritto su L'idea religiosa negli uomini di stato del risorgimento, è
«qualcosa di analogo all'artee d'irriducibile,per una legge del nostro
spirito,ad altre forme della sua vita interiore »: « la cer tezza delle verità
religiose venirci dal sentimento e dall'intuito, e appartenere a un ordine
affatto diverso da quello della certezza che cipossonodare le dimostrazioni
della ragione» (1).– Enellostudio La giovinezza e la prima educazione di A.
Schopenhauer e di G. Leopardi: « L'uomo, egli (lo Sch.) soleva dire con parole
che esprimono forse l'aspetto più nuovo e più vero della sua filo sofia, ha le
sue radici nel cuore, non nella testa » Quindi quel sentimento,che in uno
scritto,anche precedente,sullo stesso Schopenhauer, è detto « ormai cessato da
un pezzo in Germania; ma dura tuttavia, e cresce nei lettori colti d'ogni
paese.: quello del bisogno che tutti abbiamo,ma che in specie gli studiosi
hanno di stringersi in più intima armonia colla natura e colla realtà »
(3). Questo estetismo o misticismo estetizzante venne al B. dai ro mantici
tedeschi,dallo Schopenhauer,oggetto di suoi studi insistenti? Certo non ha che
vedere col suo preteso criticismo, che è uno scetticismo ingenuo, appena
larvato. Ma visiriconnettenelsensoche, dimostrandoci il temperamento spirituale
dell'uomo, ci fa inten dere la sua naturale avversione alla vera e propria
filosofia.Questo estetismo a me pare appunto la tendenza naturale del suo
spirito; e non prende infatti la forma dimostrativa e sistematica,che in altri
scrittori si atteggia almeno a una critica gnoseologica del natura lismo, dal
Barzellotti non mai fatta; ma resta sempre una ten denza, che determina
l'indirizzo degli studii del Barzellotti, quando egli trova la sua strada.Più
che un concetto pensato e ragionato dalla sua mente,è un carattere reale della
sua mentalità:per cui egli si può dire che abbia trovato la sua strada quando
ha comin ciatoa scrivere I suo studiieritrattiesaggi psicologici, intorno a
scrittori,indirizzi di cultura,epoche o popoli:dove non ha certo teorizzato
sulla tendenza, che ho detto, ma ha obbedito ad essa, cercando il concreto,
l'individuum ineffabile, con l'intuizione del (1) Dal rinasc. al risorg. Santi.
- l'artista, vedendo, come
egli disse, « nello studio dell'uomo oltrechè un'arte d'intuito e di divinazione felice,la lenta opera d'una scienza
che ormai ha saputo prendere la sua via in disparte dai sistemi »:
rimettendo,insomma,in armonia sè con se stesso, riducendo tutta la filosofia all'arte,
cui natura più lo traeva. Se nonsivogliadire arte,dicasi storia; ma illavoro
mentale del Barzellotti non mira al di là della rappresentazione individuale
del concreto.E questa è la sua filosofia; la quale ha inteso a «unireilpiùpossibile-
egli dice l'arte alla scienza » e « provarsi a ritrovare sui modelli
vivi, che danno la storia, le biografie intime e l'osservazione delle cose
sociali,quanti più poteva dei tratti veri,parlanti di quell'anima umana, che la
scienza delle scuole e delle accademie ci ha per troppo tempo fatta conoscere
solo in copie vaghe,generiche,lavorate di fantasia e di maniera »(1). Da
S. Agostino al Lazzaretti, dalla psicologia delle tentazioni a quella del
pessimismo filosofico, dal Taine al Nietzsche, dallo spi rito paganeggiante del
rinascimento alla tempra morale della deca denza, alla religiosità dei nostri
uomini del risorgimento, al river bero della nostra anima nazionale nella
letteratura, il Barzellotti dall'8o in circa ad oggi si può dire che abbia
raccolto tutte le forze della sua mente intorno a particolari problemi storici
di psicologia, cercando così attraverso i procedimenti intuitivi dell'arte
quella ve rità alla cui visione non s'era potuto elevare col metodo razionale
del pensiero speculativo:spargendo, in verità,gran copia di osser vazioni fini
ed acute principalmente sulla storia dellaforma mentis, com'egli ama dire, del
popolo italiano.Se incotestaarte, peraltro, egli sia riuscito di solito a
toccare il segno,non è il luogo questo di ricercare: se dovessi esprimere il
mio giudizio, direi che per sif fatte indagini di storia psicologica al
Barzellotti manca,per otte nere la rappresentazione piena e viva dell'anima
umana,ciò che forma davvero lo storico e l'artista: lo sguardo diretto
all'intimo della individualità; la quale non si potrà mai ricostruire,se non
s'affisa prima di tutto il centro vitale del suo organismo; laddove il
Barzellotti gira troppo con considerazioni e divagazioni generali intorno ai
personaggi e agli stati morali presi a studiare.E gli manca altresì, per lo
più, quella piena e diretta conoscenza dei particolari, in mezzo ai quali
soltanto è dato d'imbattersi negl'individui vivi, in quelle anime vere, che il
Barzellotti è andato cercando. Santi. Di questa sua veduta estetizzante
dello spirito umano bisogna ricordarsi per intendere nel loro genuino
significato i motivi della comunicazione fatta dal Barzellotti intorno al
metodo storico nella trattazione della storia della filosofia al congresso
romano di scienze storiche: contro la quale insorse il vecchio Lasson
in nome della universalità della ragione e della scienza. Pel Barzel lotti
la filosofia dev'essere rappresentata dallo storico come la filo sofia di una
nazione o di un'altra,quale in una certa epoca essa si costituisce in stretta
attinenza con tutte le condizioni della cultura circostante, e sulla base degli
abiti e delle forme di mente individuali del filosofoo prevalenti nel tempo
dilui.E certo una storia per ogni parte compiuta della filosofia non può non
tener conto ditutta cotesta condizionalità dei sistemi filosofici; ma ad un
patto: che si rammenti non essere la condizionalità, nè qui nè altrove, la
realtà condizionata;e quando tutta la cultura contemporanea che agi sullo
spirito di Kant sia nota,e tutta spiegata la psicologia per sonale di questo
pensatore e del suo secolo,restare tuttavia da in tendere tutta la sua
filosofia, in quel che ha di veramente filosofico, ossia di valore universale
ed eterno. Qui la verità affermata dal Lasson,edal Barzellotti disconosciuta,
per quel suo occhio, fatto per vedere il particolare,cieco all'universale. E
poichè l'universale è l'intimità vera delle menti speculative,anche qui ei
conferma ilsuo difetto di attitudine vera a penetrare nell'intimo degli
spiriti. Egli vede i pensatori, e non vede il pensiero; e però non vede n è
anche veramente i pensatori. Ne son prova isuoi molteplici saggi
sullo Schopenhauer e sul Kant. Ma Barzellotti è stato forse letto
invano per la cultura intellettuale e morale italiana? Io non credo. Non è stato
un filosofo, e neanche un artista riuscito. Ma è pure stato un nobile
scrittore, che ha agitato molte menti e molti cuori intorno a questioni morali
e religiose troppo trascuratetra noi; è stato un lucido specchio di molta parte
della cultura filosofica straniera contemporanea; ed è stato un forbito
scrittore, imitabile esempio ai pedanteschi filosofanti italiani degli ultimi
tempi. -- Di alcuni criteri direttivi dell'odierno concetto della storia,
che restano tuttora da applicare pienamente e rigorosamente alla storia della
filosofia, massime di quel periodo che va dal Rinascimento a Kant, negl’Atti
del Congr. intern. disc. stor. (Roma). -- Fra i più malagevoli
ufficj della critica istorica è per certo il determinare come e quanto
contribuisca l'ingegno di ciascun popolo alla sua grandezza intellettuale e
civile, di quanto egli sia debitore alle tradizioni dei suoi maggiori, o alla
civiltà delle nazioni contemporanee; que stione ardua, e più che alla storia
appartenente alla filosofia, perchè risguarda una legge intima ed arcana della
natura, onde nell'armonia delle facoltà umane s'avvicenda l'operare e il patire,
il conservare e il produrre, la reverenza alle tradizioni e la libertà
dell'ingegno inventivo. Alla difficoltà d’un tale esame, la quale cresce a
misura che ci avanziamo verso i tempi più antichi,in cui fanno difetto i
documenti e le notizie necessarie ad illustrarne la storia, sono dovuti i
giudizj severi di molti critici in torno alle lettere e alla filosofia de’ romani
-- giudizj che introdotti da un pezzo nelle scuole, e avvalorati dal quasi
comune consentimento, negano del tutto o quasi del tutto indole nuova ed
originale alle manifestazioni dell'ingegno latino. Gl’argomenti che si allegano
per sostenere tali sentenze io mi dispenserò dal recarli, e perchè assai noti
nella storia delle lettere e della filosofia, e perchè tutti [Questa ultima
affermazione tanto più è conforme alla storia, in quanto, sebbene la maggior
parte dei critici odierni ricusi da un pezzo nome autorità di filosofo al
senatore romano, è per altro consentito da tutti che i suoi scritti filosofici
si conservarono chiari per benefica efficacia lungo tutta la decadenza delle
lettere e delle scienze latine, e per avere mantenuto e trasmesso nei principii
dell'Era cristiana, e giù pel Medio Evo le dottrine della filosofia greca alle
scuole de'Padri e de'Dottori] concordi nel sostenere che ai Romani, poco atti
sin da principio per naturale tempra d'ingegno, e di stolti per lunga età dalle
intestine discordie, dalla brama del dominare e dall'esercizio delle armi, e
finalmente abbagliati dallo splendore della civiltà greca, manca una libera
disposizione a ritrarre e a creare il vero ed il bello negl’esercizj della
scienza e dell'arte. Degerando, Brucker, Tennemann, Ritter, Kuehner ed altri. Ai
quali argomenti quando per sè non rispondesse abbastanza la ragione istorica, la
quale vieta potersi sempre dedurre da ciò, che un popolo fa in certe condizioni
di tempi e di civiltà, quello che in altre condizioni avrebbe potuto e saputo
fare. Se non mostrasse il contrario la scuola dei giureconsulti, che dalla
coscienza del genere umano e dalle forme logiche greche compose con tradizione
costante quella scienza del gius costitutrice delle nazioni europee, se l’ “Eneide”
emula all'Iliade, Lucrezio maggiore d'Esiodo, la Commedia di Plauto, le storie
di Livio, di Sallustio, di Tacito, la satira togata di Giovenale e di Persio,
l'elegie di Catullo non indicassero assai che il genio latino, libero nella
imitazione, sa aggiungere all'ideale del vero e del bello un che d'universale e
di solenne, un certo senso pratico e positivo, e un'intima rivelazione degl’umani
affetti, ignota fin allora ai gentili e resa più perfetta dal cristianesimo, io
mi restringerei alle sole opere filosofiche di CICERONE, che sono, parmi, una
fra le prove maggiori del come la scienza dei nostri padri, modestamente
operosa, recasse la sua parte alla civiltà universale. e all'età
del Rinnovamento. Ritter, Hist. de la Phil. ancienne, Paris, Ladrange. Kuehner,
M. T. Cic. In phil. E jusq. Partes merita. Hamburgi. La storia della filosofia
ci mostra di fatto che CICERONE fu a’ padri latini molto in pregio, e
segnatamente a Lattanzio che lo chiama eccellente, e lo cita nel de Opificio
hominis, e nelle Institutiones divinæ più volte; poi a Agostino che ri conosce
dall' “Ortensio” la preparazione al cristianesimo, e in più luoghi della Città
di Dio,e altrove lo cita o ne tira le dottrine; altresì a san Girolamo che
tanto l'amò da riferire in una sua epistola il sì famoso castigo avu tone
divinamente, poichè, meglio di cristiano, meritava chiamarsi “ciceroniano.” Fra
iDottori più principali è noto come Boezio togliesse da Tullio il pensiero
sulle consolazioni perenni della filosofia, e apparisce lo studio che di questo
egli fa sì da'pensieri e sì dallo stile; come Aquino ne arrechi l'autorità in
più luoghi della sua Somma, come Alighieri lo meditasse. Più tardi Erasmo
esalta CICERONE con lodi famose. Dopo, l’autore della “Scienza nuova” attinge
in parte dal libro “De Legibus” la filosofia d’un gius ideale eterno celebrato
nella città dell'universo col disegno della provvidenza. Ad una fama sì lunga e
sì costante, e che per certo dove avere una causa non soltanto, come si afferma
generalmente, in quella forma popolare e spontanea, onde le dottrine del
filosofo latino si porge all'educazione morale e civile, ma nell'intrinseco
loro valore speculativo, non disconosciuto nè anche oggi da uomini egregj
(Forsyth, Life of Cicero, London), contrastano singolarmente i giudizj di
alcuni critici. La opinion e espressa da tali giudizj, a volerla riassumere in
breve, è la seguente. M. T. Cicerone, ingegno universale, acutissimo e disposto
ai combattimenti dell'eloquenza, più che alle severe indagini speculative, pensa
e compì negli anni del suo ritiro dalla pubblica vita un compendio
largo, chiaro, eloquente della filosofia in servigio dei suoi connazionali
di giuni sino a quel tempo di tali studj, o costretti ad attingerli da fonti esoteriche.
Da questa pretesa insufficienza dell'ingegno speculativo di Tullio, dal fine
pratico e letterario ch'e'sipropose, e dal difetto di studj preparatorj la
Critica deduce la natura delle sue dottrine; le quali, benchè guidate sempre da
criterio sano, e da una retta applicazione del senso comune, non vanno troppo
addentro nei fondamenti della scienza, affermano per lo più senza esame maturo,
nè costituiscono, come le dottrine dei migliori filosofi, un largo e ben
architettato disegno di scienza. Brucker, Hist. Crit. Phil., Tennemann, G.
Bernhardy, Grundriss der Römischen Litteratur. Braunsweig. Facendoci a cercare
l'origine di tali giudizj abbastanza severi, parmi se ne potrebbe addurre
innanzi tutto una causa assai remota, ma in parte relativa al modo ben
differente, con cui gl’antichi e i moderni giudicano il valore di certi uomini
e di certi principj. Tale è la ri forma cominciata in Italia col Bruno, col
Cartesio in Francia, e in Inghilterra con Bacone, che spezzando ogni autorità
del passato, e quanto sino allora un'eccessiva venerazione avea recato a
fastidio, proclamò l'assoluta libertà della riflessione filosofica, l'assoluta
novità dei sistemi. Come s'intendessero quella libertà, e quella novità; e
quali resultati ne seguitassero alle lettere, alle scienze, alle arti, al
vivere privato e civile, come se ne avvantaggiasse o ne patisse la morale e la religione,
la scuola, la famiglia e lo stato romano, non è qui luogo a mostrarlo, e le son
cose oggimai troppo note. Nè io voglio negare i benefizj innegabili della
riforma,e soprattutto di quella introdotta nelle scienze sperimentali da
Galilei, e da Bacone; chè, se la riflessione libera ed esercitata desunse
mirabili frutti di dottrina da ogni campo dell'umano sapere, e se ne
avvantaggiò la scienza dell'uomo, ne crebbero l'erudizione, la filosofia, le
discipline morali e civili; perfeziona i suoi metodi la medicina, si levò
gigante la chimica, la geologia sfogliando il libro della natura vilesse le
età del mondo. Se tanti incrementi ne provennero alle industrie e alle
manifatture, onde il viaggiatore trascorre paesi e province con velocità più
che umana, e in mend’un baleno il salutori congiunge gl’amici, benchè separati
dalla immensità del l'oceano, di tutto ciò alla riforma della filosofia è debi
trice l'Europa. Ma le è pur debitrice di quella inquieta brama del sapere
speculativo, onde si successero sistemi a sistemi del tutto nuovi sui più
impenetrabili misteri della conoscenza umana, e quel nuovo si cerca da molti
nell'inusitato e nello strano più che nel vero; così co minciata in Italia la
licenza della riflessione esaminatrice sui fondamenti della filosofia, ecco il
panteismo superbo del Bruno e del Campanella. Poi, scontenti del panteismo, ci
diedero dottrine dualistiche il Malebranche e il Guelinx, l'idealismo e il
sensismo ci vennero dal Berckeley e dal Locke, lo scetticismo dal Bayle e dall’
Hume; più tardi le sconfinate immaginazioni degl’alemanni,e un ridurre Dio e
l'universo all'uomo, dall'uomo al pensiero, dal pensiero all'idea, dall'idea
novamente alla materia, ed ultima conseguenza di tutto uno scetticismo più
sconsolato, un correre con tinuo a una felicità e a una beatitudine ignota
senza raggiungerla mai;ecco i resultati dell'aver voluto tutto inno vare! Posta
in tal guisa la filosofia su questo cammino delle restaurazioni assolute, e
detto una volta che la scienza dee rifar la natura (non,come è chiaro,dovere
anzila scienza presuppor la natura tal quale essa è, con tutti i suoi dati, con
tutte le sue relazioni, dover verificarla, non annientarla), l'indirizzo
introdotto nell'esercizio del pensiero filosofico da quella folla di sistemi
eccessiva mente inquisitivi, doveva esser tale,che quando poi, soffermata un
istante la foga delle invenzioni, il pensiero istesso si sarebbe rivolto sopra
i suoi passi, e ne sarebbe nata compiuta e perfetta la storia della filosofia,
quella storia ritenesse come presupposto del suo metodo, che unico,o quasi
unico criterio per giudicare della eccellenza di un filosofo e della sua
filosofia, fosse l'assoluta indipendenza del pensiero esaminatore dallo stato
della naturale certezza, fosse in una parola la compiuta novità del sistema. A
questo criterio, desunto dallo scetticismo e padre di parziali opinioni, furono
conformati più o meno quei metodi falsi e incompiuti che si seguirono da oltre
mezzo secolo in qua nello scrivere storie della filosofia, onde ne derivò in
Francia e nella Germania una folla di libri, come ad esempio la storia
comparata dei sistemi di Degerando,e la storia di Tennemann,dove si giudi cano
le varie filosofie alla stregua del problema sull'origine dell'umane
conoscenze, e dall'avvicinarsi che esse faccian più o meno alle dottrine del
criticismo di Kant; e un tal criterio ci spiega come più tardi negli storici
più temperati e meno imparziali, segnatamente alemanni, e nei filosofi delle
altre nazioni, immuni dal criticismo, continuasse ereditato dalla riforma
questo soverchio studio dei sistemi inventati, esclusivi, che ricusano dalla
natura qualunque presupposto sull'efficacia delle potenze conosci tive, e se ne
avvalorasse l'opinione levata a cielo ne’diarj e ne’libri di filosofia, sulla
così detta individualità d'ogni sistema,e incomunicabilità delle dottrine
speculative. C o n siderate le quali cose,non dovrebbe far maraviglia se quel
tempo che corse tra lo scorcio del secolo decimosesto e i principj del
decimosettimo,quando Italia e Francia, stanche dell'autorità abusata dagli
scolastici, volevano innovare tutta quanta la scienza (e fu allora appunto,come
nota Brucker, che si tentarono i primi lavori speciali sulle dottrine dei romani
e di CICERONE),se quel tempo, dico, non era troppo opportuno a giudicare
imparzialmente una filosofia studiosa delle più antiche e venerate tradizioni. E
nel vero anche più tardi in tutto il secolo XVII, se n'eccettui coloro che
rifiutarono i dubbj del Cartesio, ma tennero il suo metodo d'esaminare la
coscienza, quali Bossuet, Fénelon e i più segnalati di Porto Reale, agli altri
che s'appresero ai dubbj, e venner giù giù negando i pregj dell'antichità, nemici
d'ogni tradizione, non poteva andare a genio davvero quella riflessione modesta
e tranquillamente efficace che il grande oratore avea recato sulle verità
eterne della coscienza, desumendone le armonie universali delle dottrine
temperate dal senno e dalla moderazione latina. (Vedi l'opinione che ebbero di Tullio
Pomponaccio e Campanella, citati dal Brucker. Ma d'altra parte, se per
ispiegare questa opinione si nistra invalsa in Europa contro la letteratura e
la filosofia d'un popolo, che fu per eccellenza il popolo delle tradizioni, giova
riportarci alle sorgenti diquella critica, ec cessivamente nemica al passato,
questi giudizj poco reve renti che oggi si ripetono dai più, apparvero solo
nella storia della filosofia nata ne'principj del secolo passato in Germania ed
in Francia.Tra I francesi, per tacere dei più antichi, Degerando vi spende un
capitolo nella sua Storia comparata dei Sistemi, dove enumerati prima gli
ostacoli che impedirono ai Romani un proprio esercizio dell'indagine
speculativa,nota opportunamente non essere stata abbastanza osservata dał
comune degli storici la grande efficacia che ebbe l'ingegno latino sulla filosofia
trapiantata, ond'essa assunse colore ed indole più positiva, e dalle soverchie
astrazioni si ricondusse al reale. Passa poi ad esaminare gli scritti di
Cicerone nel quale rinviene le note distintive d'ogni altro filosofo ro
mano,cioè una scienza desunta dalle greche tradizioni e composta con metodo
ecclettico dalle scuole differenti, una scienza accessibile ad ogni
intelligenza educata, e confa cente a spirar vita nell'eloquenza, ne'costumi,
nell'arte politica; scienza supremamente pratica e applicabile agli individui e
agli stati. Histoire comparée des systèmes de philosophie considérés
relativement aux principes des connaissances humaines, par Degerando. Giudizj
assai meno temperati comparvero in Alemagna, dove fiorendo mirabilmente le
discipline filosofiche e istoriche, e pubblicandosi tuttodì lavori speciali che
illustrano con somma accuratezza ogni parte delle lettere antiche, prevalse
però più che altrove la severità della Critica, che negava ogni nota originale
alle lettere e alle scienze C Tra i critici alemanni va
innanzi agli altri in ordine di tempo e di autorità Giacomo Brucker vero
fondatore della storia della filosofia. Ma considerando però il capitolo dove
egli parla della filosofia de'romani e di CICERONE, ti accorgi tosto che
quell'uomo dottissimo moveva egli pure dal presupposto non esservi stata in
Roma che una semplice continuazione delle scuole greche; e secondo le varie
specie di queste scuole divide lo storico il suo trattato intorno alle dottrine
romane annoverando CICERONE tra iseguaci della Nuova Accademia; quantunque
confessi poco appresso ch'ei non seguì alcuna forma particolare di setta, ma
inclina a quel Sincretismo istituitoda Antioco. Veramente Brucker nel proporsi
il quesito,perchè mai i romani e CICERONE non crearono una filosofia propria, non
ne accusa, come oggi Forsyth, la infelice disposizione dell'ingegno latino -- the
unmetaphysical character of the Roman intellect. Life of Cicero. Ma quanto ai
Romani in generale ei ne trova la causa nelle occupazioni della vita civile, e
nella setta Accademica, che criticando e sindacando tutti isistemi, svogliava
gl'intelletti da nuove speculazioni; e quanto a CICERONE, nella natura del suo
ingegno, più immaginoso assai che penetrativo, ond'egli (dice lo storico)
prefere il probabile all'esame profondo del certo, e delle dottrine rappresenta
nelle sue opere la parte viva e oratoria più che il severo ordine dei giudicj e
delle deduzioni,e la generale armonia del sistema. Brucker, Hist. Crit. Phil. Al
giudizio dato da Brucker si avvicina in gran parte quello di Tennemann,e nelle
loro opinioni v'ha molto di vero e di certo, oltre la solita accuratezza nella
esposi 8 latine, appoggiandosi ben di frequente a così deboli prove da
far credere quasi che la movesse un'infelice gelosia di nazione. Ora da qualche
anno in Inghilterra e nella stessa Germania si torna con più studio al passato,
e molte parzialità si correggono; ed io sono certo che ri composta in pace
l'Europa, ilprimo debito di giustizia alle memorie latine lo pagheranno gli
scrittori di quelle grandi e generose nazioni. zione dei fatti;ma per quanta
possa essere la reverenza dovuta ai due storici insigni della filosofia, come
non accorgersi che il loro esame,informato da un criterio an ticipato e
parziale, riesce insufficiente a cogliere il vero significato d'una dottrina,
come quella di CICERONE, la cui nota essenziale consiste nel rifiuto d'ogni
opinione di setta, e in un principio universale, che supera ogni si stema? Ma
se tanto può dirsi a buon dritto del Brucker e del Tennemann, merita più
speciale considerazione l'esame assai temperato,e per certo ingegnoso,che fece
degli scritti filosofici di Tullio, Ritter nella sua storia della Filosofia
antica. Le indagini dotte e meditate di Ritter movendo dai tempi antistorici
della Filosofia,e procedendo lungo i tempi della civiltà indiana, ionica e
delle colonie italo greche fino all'origine delle scuole socratiche, da queste
al loro declinare e disperdersi in una confusione di sistemi sparpagliati e
sofistici, giungono a quello ch'ei chiama terzo periodo dell'antica filosofia,
all'età che intercede tra ilcadere delle repubbliche greche sotto la romana, la
rovina di quest'ultima, e il sorgere del Cristianesimo. Due cause potenti egli
allega del nuovo indirizzo preso in quella età dalla filosofia greco-romana,e
le ritrova nella storia delle due nazioni, che allora si ricambiavano una
vicendevole efficacia nelle lettere, e nelle scienze, e nel vivere privato e
civile. Nei Greci, perchè la costoro scienza impoverita oramai dall'uso
eccessivo della facoltà creatrice nei tempi anteriori, dallo scadimento della
li bertà e dei costumi, e costretta, per accomodarsi all'in gegno e
all'educazione dei nuovi dominatori,a vestire le forme ed il metodo d'una
disciplina scolastica, non d e sunse più le sue dottrine immediatamente dalla
riflessione, ma ritornò agli antichi sistemi,li paragonò,li esaminò, li
accordò, desumendo da essi stessi e incompiutamente, non dalla natura intima
del pensiero, il principio del l'esame e dell'accordo. Nei Romani, perchè essi
non of frirono ai Greci alcuna guarentigia di riforme scientifiche, ma
vissuti sino a quel tempo in mezzo ai tumulti della vita civile,e fra lo
strepito delle armi,tranne una certa tendenza, che li moveva agli ordinamenti
giuridici, nè la natura, nè la educazione loro si porgeva punto alle indagini
della scienza. Quindi (osserva il dotto alemanno) era ben naturale che, date
quelle condizioni morali,civili e scientifiche, dall'accoppiamento dell'ingegno
greco e latino derivasse un Ecclettismo erudito; derivò infatti; e di questa
filosofia, l'indole della quale è sostituire la li bertà della scelta alla
libertà dell'ingegno inventivo, accomodarsi alla natura degli
scrittori,abbandonato l'or dinamento scienziale non fidarsi all'esame, e se occorre,
attenersi principalmente all'autorità del consentimento comune,eitrovò la più
importante manifestazione,oltrechè nel pendio generale dei tempi,nella
vita,nell'animo e nelle opere di Cicerone. Ei ne considerò con raro accor
gimento la vita,e vedendo come la parte ch'ei tiene nella storia della
Filosofia, è perfettamente d'accordo con quella che occupò nella storia civile
dei tempi; come furono le medesime qualità e gli stessi difetti che, se lo
levarono alto nella vita pubblica e nella filosofia, non gli consen tirono per
altro di giungere al sommo e nell'una e nel l'altra, ricercò queste qualità e
questi difetti nell'indole di lui, e non gli parve rinvenirvi accoppiata alla
vivezza dell'ingegno oratorio, al sentimento squisito del diritto, all'amore per
gli altri,e particolarmente pe'suoi,all'ope rosità indefessa,a una rara
previdenza dell'avvenire,quella sicurtà in sè stesso e quella fermezza di
volere che costi tuisce il grande scrittore e l'uomo di stato. Condotto, egli
dice, dall'efficacia di condizioni esteriori a filosofare, come nella sua
gioventù, mentre applicava la filosofia all'esercizio dell'eloquenza,egli avea
frequentato le prin cipali scuole di Grecia, così nel suo ritiro dalla pubblica
vita non seguì una dottrina particolare, ma trascelse il meglio di tutte; la
quale incertezza di studj, che non a p profondivano la scienza, ma la
assaggiavano appena, ri sentiva della incertezza della sua condizione politica,
perchè ei scrisse le sue opere principali durante gli scon volgimenti del
primo triumvirato,la dittatura di Cesare e il consolato di Antonio,tempi
calamitosi per la libertà, nei quali escluso da ogni ingerimento civile, e
fuggendo il cospetto degli scellerati, andava consolando la sua soli tudine
colle meditazioni della scienza. Era quindi ben naturale che il grande oratore,
vissuto da lunghi anni in tanto splendore delle pubbliche faccende, non si ripo
sasse volentieri negli ozj solitarj delle sue ville; la d e bolezza innata
dell'animo suo, come gli avea impedito di rimaner fermo al governo delle cose
civili, di valersi della sua autorità per contrastare ai principj della ti
rannide cesarea, ora gl'impediva di darsi a tutt'uomo agli studj della
filosofia; ed ei ne scriveva ad Attico, e all'amico dipingeva con vivi colori
questo penoso on deggiar ch' ei faceva tra l'amore onde era tratto agli studj,
e il desiderio di prender parte ai pubblici affari, tra la sfiducia sua nelle
consolazioni della scienza,e una sublime speranza che lo levava al disopra
delle umane cose. Da queste intime qualità dell'indole di CICERONE deduce
l'istorico Alemanno la natura della sua filosofia, ch'è,secondo lui,un moderato
scetticismo,espressione fe dele di animo titubante; scetticismo moderato,perchè
seb bene talvolta, oppresso dal peso delle sventure proprie e della patria, ei
mostri dubitare del vero eterno e della virtù, nondimeno conserva sempre
intemerata la nobiltà della vita, e il desiderio di una morte gloriosa; ma
tuttavia scetticismo, perchè riconoscendo la natura assoluta del vero, ammette
solo come verosimili le dottrine che ne d e rivano, e dubitando interroga tutte
le scuole, prende ad esame tutte le opinioni greche,e accordandole insieme più
con intendimento politico, che con vero criterio di scienza, ne vuole
arricchire il patrimonio della romana letteratura. Sennonchè tra le varie
dottrine in cui si di videvano le scuole greche, una ve n'era che s'accordava
mirabilmente agli intendimenti, e all'ecclettismo scettico abbracciato da
Cicerone; e questa era la dottrina della Nuova Accademia.Se Tullio infatti
poneva ilfondamento della filosofia in un dubbio moderato sui principj
delle umane conoscenze, la Nuova Accademia, guidata allora da Filone, che
gli era stato maestro nella sua giovi nezza, riconosceva come legittimo questo
dubbio, e lo temperava con la verosimiglianza; se l'oratore romano voleva che
le dottrine della filosofia conferissero ad a d destrare il pensiero e la
parola negli esercizj della elo quenza, nessuna scuola si porgeva meglio a
questa di sciplina della scuola dei Nuovi Accademici, che oltre all'essere
stata sempre frequentata da uomini eloquentis simi, si riduceva in sostanza a
un metodo disputativo; infine se egli raccoglieva le principali dottrine della
filo sofia greca,per comporne una scienza accomodata all'in gegno eall'educazionefilosoficadeisuoilettori,laNuova
Accademia,che disputava contro tutti e di tutto, che la sciava al filosofo la
maggiore libertà dei proprj giudizj, gli si porgeva opportuna a disegnare in
brevi tratti ai Romani lo stato della filosofia passata e contempo ranea, ad
innamorarne i lettori, senza perderli in vane e astruse dottrine, o incatenarli
a un sistema. Cice rone dunque (secondo l'opinione del Ritter) come ecclet tico
dubitante,come oratore e come espositore della filo sofia greca ai Romani, abbracciò
le dottrine della Nuova Accademia; e va notato particolarmente, sì perchè
questa è l'opinione più universalmente accettata intorno alla vita filosofica
di Tullio, e alla parte che tengono le sue dottrine nella storia della
filosofia, e perchè il comune degli storici ricollega quasi sostanzialmente a
quel si stema le sue opinioni sulle parti principali in cui si divide la
scienza. Così opina anche il Ritter, e prendendo ad esame le opere tulliane,
secondo la tripartizione plato nica della filosofia più comune agli antichi
(egli avverte però che,stante l'incertezza dello scrittore e delle dottrine e
la loro qualità, tutta pratica e positiva, la distinzione delle tre parti non è
abbastanza spiccata), rinviene in tutte più o meno chiaro,più o meno deciso il
dubbio della Nuova Accademia. V'ha dubbio deciso nella parte fisica, perchè ivi
abbondavano più che altrove le dispute e le contradizioni dei filosofanti;
dispute sulla natura delle cose, dispute sull'esistenza e sulla natura di
Dio e sua provvidenza, sulla natura dell'anima e sua immortalità; e di tutti
questi veri Cicerone o dubita compiutamente,o ammette solo una leggera
verosimiglianza. V'ha dubbio anche maggiore nella parte logica, anzi è questa
la più povera e la meno determinata di tutte le sue dottrine,e perchè ei la
collegava meno d'ogni altra agl' interessi pratici della vita,e perchè il
sensismo degli Stoici e degli Epicurei, che aveva a combattere, non potea tener
fronte agli argomenti della Nuova Accademia; finalmente v'ha dubbio manifesto
anche nella morale, perchè s'ei con traddice ricisamente alla ignobiltà delle
dottrine epi curee, la controversia tra gli Stoici e i Peripatetici lo lascia
indeciso da un lato tra un'idea trascendente della virtù, a cui lo muove la
grandezza dell'animo romano, dall'altro la fragilità di natura; incertezza che
pure lo segue nella politica, e nelle attinenze della politica colla morale.
Talchè Ritter movendo dal presupposto che la filosofia di Tullio non
fosse che eloquente dell'indole particolare dello scrittore e dei tempi, negò
ogni certezza e ogni legame di scienza in
ciascunasuaparte;ogniconcatenamentologicaledelle tre parti tra loro (perchè
quella logica e quella fisica non sono per lui che un'appendice della morale,
considerata da Tullio com'arte pratica della vita); negò ogni unità di disegno
scientifico, perchè mancava allo scrittore l'unità del principio fondamentale,
posto dalla riflessione, e a cui rispondesse l'universale armonia del
sistema.Onde a rias sumere in breve ciò che rappresentino alla mente del
l'istorico tedesco le dottrine tulliane,direi ch'e'le con siderava qualcosa più
e qualcosa meno d'un ecclettismo; ma una scelta a cui manca e libertà di
riflessione e criterio di scienza. (Hist. de la Phil. anc.) una manifestazione [Se
noi ci siamo alquanto trattenuti nell'esporre le opinioni di Degerando, Brucker
e Ritter, è stato segnatamente per due ragioni; la prima perchè poteva recare
non piccola luce intorno ad una questione che abbiam preso ad
esaminare,e su cui sono infinite le dispute dei critici e de'filosofi, il
giudizio degli storici migliori che vanti la nostra scienza; e in secondo luogo
affinchè i pochi cenni, che ne abbiamo dato,muovano gli studiosi a ricercare
con maggior diligenza le variazioni e iprogressi, che ha fatti sino a noi la
critica sulle dottrine filosofiche di Cicerone. Questa critica non pare
immeritevole di qualche considerazione, perchè rappresenta quasi in sè stessa
quel moto graduale dell'esame, e quel lento chiarirsi de' principj supremi, che
governano i fatti, o n d e si generava in Europa la storia della filosofia. I
primi tra questi storici,come Stanley e De Burigny, che nuovi del cammino, e
spaventati dalla grandezza dell'impresa, fecero lavori imperfetti e meglio
tentativi di storie, che storie vere, o tacquero affatto, o poco parlarono di
Cicerone che nella modestia delle proprie opinioni (magnus opinator) non aveva
dato un sistema. Negli storici se guenti, che abbiamo citato, e segnatamente
nel Brucker quella critica comincia a chiarirsi;vi si medita con più ampio
concetto la parte che ebbero i Romani nell'adu nare le greche dottrine, nel
farle proprie, e trasmetterle a noi;Cicerone v'è considerato,non già come un
filoso fastro qualelochiamò ilPomponaccio,ma comeunvasto e ben disciplinato
intelletto,che,scorrendo ilcampo della filosofia greca, ne chiamava a rassegna
ad uno ad uno i sistemi. E contuttociò quella critica era ancora ben lon tana
da un esame profondo e spassionato delle dottrine tulliane; dovevansi emendare
molte inesattezze, tor via molte preoccupazioni (qual era,per esempio,quella
che faceva di Cicerone un perfetto seguace della Nuova Accademia, e un
ecclettico dubitante), e, quel che soprattutto importava,trattandosi di M.
Tullio,che tanto ritrasse da Socrate e nel metodo e ne'principj,conveniva
cercare per entro alle sue dottrine l'immagine della vita e del carat tere
dello scrittore. Tale intendimento apparisce in alcune memorie del sig.Gautier
de Sibertche hanno per titolo,Examen de la philosophie de Cicéron, lette all'Accademia
francese delle Iscrizioni e Belle Lettere, nella seconda metà del secolo
scorso; dove si esamina accuratamente la parte oggettiva delle dottrine
tulliane, si dimostra il vincolo di sistema che le congiunge, e si difende
dalle accuse di scetticismo la fama del grande Oratore. Lavoro merite vole di
molta considerazione per sanità e profondità di giudizj, se a questa non
nocesse talvolta l'aver guardato più alla materia delle dottrine che alla loro
forma scien tifica, e considerato Cicerone come filosofo compiuto e dommatico
in ogni parte,anzichè avvolto di continuo nelle dispute degli opposti
sistemi.(Mémoir. de l'Acad. des Inscript. et Bell. Lett.) A questi difetti
sembra (come vedemmo) riparare in gran parte l'esame del Ritter, che sebbene
ritenga molto delle sue opinioni private e di quelle della filosofia che lungo
tempo ha dominato in Germania, nondimeno rias sume in breve quanto di meno inverosimile
può dirsi sul preteso ecclettismo ciceroniano. E dirò anche di più, che l'esame
del Ritter, fondato com'è in una conoscenza profonda delle opere di Cicerone,
contiene innegabili verità, qual è quella,per es.,che nello svolgimento delle
dottrine del grande Oratore esercitasse una singolare efficacia i suoi tempi,
la sua nazione, la sua indole propria; che speciale qualità di questa indole
fosse sovente un ondeggiare fra la fiducia e la dispera zione del vero e del
bene eterno,e che a queste dubbiezze contrastasse efficacemente il senno
pratico della natura romana. Ma d'altra parte noi siamo ben lungi dal credere
che il dotto Tedesco,e quanti innanzi e dopo ne tennero le opinioni, abbiano
considerato nel suo vero aspetto l'indole delle dottrine tulliane; chè, se non
può negarsi da un lato esservi in esse un che di necessariamente re lativo alle
condizioni dei tempi e alla natura dello scrit tore, e quindi mutabile, non
necessario e contraddicente alla natura assoluta e apodittica della scienza,non
è men vero dall'altro ch'ei pur rinvenne nell'intimo delle dot trine
contemporanee, e nello studio profondo dei veri eterni specchiati in sè stesso
e negli altriuomini,un criterio certo, universale, infallibile da costituirvi
la scienza. V’ha dunque nella filosofia di Cicerone questo che di oggettivo e
di soggettivo, di relativo e di assoluto, di mutabile e di necessario; m a
l'una e l'altra qualità si ricollegano insieme per nodi di universale armonia;
armonia di relazioni tra l'uomo di un tempo e l'uomo di tutti i tempi,tra il
romano e l'abitatore di tutta la terra, tra Cicerone oratore e politico e
Cicerone filosofo; armonia esterna e oggettiva a cui risponde quell'altra
interiore, attestataci dalla coscienza, tra il pensiero e l'affetto, tra la
volontà e la ragione,tra l'intelletto e le verità immortali. E certo a queste
considerazioni, disco nosciute dal Ritter e dagli altri critici Alemanni, badò
Raffaele Kuehner,autore sin qui del più compiuto esame delle dottrine di
Cicerone ch'io mi conosca,edito in A m burgo l'anno 1825,quando rispondendo al
quesito pro posto da uomini dottissimi; se Cicerone meritasse o no il nome e
l'autorità di filosofo,pensava che algrande Ora tore s'appartiene giustamente
quel titolo per l'ampiezza dell'ingegno,la vasta cognizione delle dottrine
contem poranee, l'uso ch'egli ne fece volgendole in latino a cul tura e
ammaestramento dei suoi concittadini, e infine per la facoltà unica in lui,
ond'egli seppe abbracciare tanta mole di scienza, fissare l'indagine della
riflessione sulle verità principali, e comparando tra loro le varie dottrine,
ricomporle coll'efficacia del proprio giudizio in unità di sistema.(M.T. Cic.in
phil.ejusq:partes merita, Auc.R. Kuehner.Hambur. Pars altera.Cap.VI; Utrum
Cic.philosophus judicandus sit,nec ne,anquiritur) E questi pajono anche a m e i
meriti veri e innegabili del senatore romano; e nondimeno ogni qual volta io
rileggo quelle sue opere, nelle quali spira tanta univer salità di pensieri e
d'affetti, universalità veramente latina, incui ilvero è sìprofondamente
immedesimato col buono, e tutta s'accoglie la sapienza delle scuole socratiche,
mi pare che la critica delle sue dottrine possa ricevere a n cora notevoli
perfezionamenti, sempre che col chiarirsi Posto ciò, non sarà difficile,
parmi, determinare con sufficiente chiarezza in quali confini si contenesse
l'effi cacia che l'ingegno di Cicerone ebbe nella riforma della filosofia
quand'essa fu trasferita di Grecia in Roma, e in quali vicendevoli attinenze
stiano tra loro quanto di già meditato e discusso gli venne dalle scuole
d'oltremare, e quanto vi seppe recare egli stesso rivolgendo il pensiero sui fondamenti
della scienza, questione che (conforme a quanto è detto più sopra) noi ci siam
proposti di chia rire nel presente discorso, fermandoci a tre punti segna
tamente:cioè,qual era la condizione della filosofia greco romana ai tempi di
Cicerone, e con qual metodo egli esaminasse e combattesse le dottrine delle
principali scuole tentando di conciliarle; finalmente qual filosofia derivasse
dalla deliberata opposizione e dal metodo compositivo del l'Oratore
latino. successivo di quella legge,che regola la filosofia nel tempo, se
ne va perfezionando la storia. Ora quella legge può solo spiegare, a mio
avviso,l'ufficio della filosofia de’Giureconsulti e di Cicerone, e dall'ufficio
desumerne la na tura e i principj. Può spiegarne l'ufficio, già manifesto e considerato
da molti rispetto alla Giurisprudenza e agli ordini militari e politici, alla
Religione e all'Architettura, che è di comprendere in sè il buono degli altri
popoli, tentando ridurlo a nuovi ordinamenti di scienza; può spiegarne la
natura, che è appunto quella comprensione universale, tanto diversa
dall'ecclettismo, che procede per accozzamento disordinato dei sistemi,anzichè
ricomporre le intime relazioni delle verità naturali sul disegno della
coscienza;finalmentepuòspiegarneilprincipio,cheèl'esa me
dell'uomointeriore,contrappostosull'esempiodiSocrate al dubbio, o all'esame
arbitrario e imperfetto dei sistemi contemporanei; tre punti importantissimi, a
mio parere, e che, ben meditati, danno luogo a chiarire i principali problemi
esaminati sin qui dalla critica sulle dottrinedel sommo Oratore. Gli storici
più reputati della filosofia si accordano tutti in mostrarci un manifesto
scadimento delle dottrine greche,il quale apparve dopo il fiorire dell'antica
Acca demia e del Peripato, e crebbe fino ai tempi di Tullio,
accompagnandosi,come suole avvenire il più delle volte, colle vicende degli
ordini privati e politici. I quali sin dalla prima metà del secolo V avanti
l'èra volgare venuti a mirabile altezza d'incivilimento, e generatori in pochi
anni di tanti miracoli di virtù e di dottrina, quanti presso altre nazioni può
appena rammentarne la storia di molti secoli,mancata la virtù che liaveva
nutriti,prima ancora d'invecchiare, si corruppero e precipitarono, rappresen
tando in sè stessi un'immagine stupenda, abbenchè fug gitiva, della vita
dell'uomo. E invero la gioventù della Grecia fu tutta in quei memorabili anni
ne'quali i suoi figli per ben due volte ricacciarono in Asia gl'invasori
Persiani, in quei combattimenti ne'quali la sua m a rina doventò signora del
Mediterraneo, ne crebbero i suoi commerci e le sue industrie, ne trassero
argomento a sublimi ispirazioni i poeti e gli artisti; così da quel primo
incitamento si propagò in tutte le repubbliche greche,e segnatamente in Atene,
un moto fecondo d'opere, d'istituti,di dottrine,d'eleganti costumi,che nutriva
in sè nella crescente corruzione del Gentilesimo germi di
rinnovamento,fecondati più tardi dalla riforma di Socrate e dalla filosofia di
Platone, nelle dottrine de'quali tu vedi scolpita quella vita operosa del
pensiero e de'co stumi popolareschi, quel conversare continuo, quelle di spute
in piazza e per via, quella reverenza delle tradizioni sacre,quel sentimento
profondo del divino e dell'immor tale che accompagnava la giovinezza del popolo
greco. Ma passata appena una generazione dal fondatore del l'antica Accademia,
le conseguenze della malaugurata guerra del Peloponneso si facevano sentire, l'abuso
scon II. umana sigliato delle libertà cittadine recava frutti di
servitù, e la Macedonia invadeva.Chè se quella può dirsi con qual che ragione
l'età virile del popolo greco,nella quale raf forzatosi di potenti ordini
militari e principeschi sotto il regno di Filippo, portò guerra con Alessandro
nel cuore dell'Asia,vendicandoiTrecento delleTermopili,èquesta una virilità che
giàdeclina a vecchiezza;e n'è indiziola filosofia d'Aristotele,superiore a
Platone nel severo or dinamento scienziale, e nell'indirizzo fecondo dato alla
riflessione sul reale e alle scienze d’esperimento,ma su perato da lui nella
sublimità della dialettica, nella vi vezza delle tradizioni sacre, e nella
idealità del sistema. M a ormai la discesa dei tempi non si poteva più tratte
nere; e la Grecia passata dal dominio degli Spartani a quello de Macedoni, dai
Macedoni, morto Alessandro e diviso il regno nei successori, sotto un tritume
di piccole tirannidi, non ebbe nè anche, come più tardi avrebbe avuto l'Italia
del secolo XVI,un legame di alleanza poli. tica fra i suoi stati tanto da
conservare un'effigie qua lunque d'unità nazionale,e mancò,come l'Italia del se
colo XVI,di quella efficacia di salde istituzioni che una monarchia prudente
suole introdurre nei popoli guasti da libertà licenziosa. Non è quindi a
maravigliare se quella stessa Atene, che avea veduto un Pericle non attentarsi
a spogliare delle apparenze civili l'autorità quasi regia consentitagli dai
cittadini, pativa più tardi la signoria d’un Demetrio di Falera,e quel popolo
istesso,che avea punito di morte Socrate accusato d'irreligione, salutava col
nome d’iddio un Demetrio Poliorcete, e lui pro fanatore d'ogni cosa e divina
accoglieva nei sacri penetrali del Partenone. Sono questi i segni più
indubitati della vecchiaia d'un popolo, e quel lento e continuo scadere
dell'ingegno e della vita del popolo, oltrechè negli ordini politici,appariva
in ogni altra parte della sua civiltà. Scadevano sempre più gli ordini
materiali, perchè a quel primo moto di commercj e d’in dustrie,nutrito dalle
libere istituzioni,era succeduto quel solito languore, quel ristagno
d'operosità, che è conse guenza necessaria (e noi lo sappiamo)
delle arti dei go verni assoluti;e la signoria de'mari, ristretta per l'in
nanzi agli stati del continente e dell'Arcipelago greco,si allargava ora ai
Fenicj, agli Asiatici, agl’Italioti.Si cor rompevano i costumi, e la corruzione
tanto più rapida procedeva, quanto più nel crescente oscurarsi delle anti che
tradizioni si sentivano funesti gli effetti delle cre denze gentili; e quella
vita di raffinata eleganza non più temperata dal moto e dalla severità
dell'educazione re pubblicana, si affogava ne'diletti del senso; e al senso,
non più al pensiero, servivano le arti del bello divenute adulazione di tiranni
e di meretrici; infine di tutto ciò come causa ed effetto risentivasi la
filosofia, di rado a v versando, più spesso secondando il pendio della corrut
tela universale. E noi, lasciato da parte lo scetticismo, che fece un breve e
inopportuno tentativo in Pirrone,di remo più specialmente dei principali
sistemi fioriti in questa età, e che spiegarono maggiore e più diretta effi
cacia sulla filosofia latina. Onde mossero dunque questi sistemi? Ritenendo
essi qual più qual meno, sebbene con notevoli alterazioni, il metodo e il
fondamento delle dottrine socratiche, co minciarono da un ritorno ai sistemi
che avean posto fine all'età antecedente della filosofia italogreca, ritorno
evi dentissimo negli Stoici, e che ci spiega com’essi, mentre derivarono da
Socrate la loro morale,e ne ritennero in parte il dualismo, retrocedettero in
fisica al panteismo degl'Ionj, e come contrastando alle lusinghe dei tempi
coll'idea sublime del bene, li secondarono poi brutta mente desumendo la causa e
la ragione suprema dalla materia e dal senso. E anche questa volta la
confusione del panteismo nacque da un modo fantastico e altutto ar bitrario di
conciliare ciò che si presenta alla ragione ed al senso,la immobilità
dell'essenza e la mobilità del fenomeno, il mutabile e l'immutabile, l'ente e
il non -ente, il necessario e il contingente, il relativo e l'assoluto; e più,
da un pervertimento del concetto di causa prima.Per pensare, 0, meglio,immaginare
quella conciliazione, bisognava porre un unico principio, in cui
esistessero ab eterno identifi cati in stato di quiete una potenza ed un atto
indeter minati ambedue, e che si determinassero poi al momento in cui
l'universo dall'indeterminatezza primordiale dovea passare alla forma e agli
atti successivi.Gli Stoici y'an darono alterando il concetto di causa prima.
Causa, essi dissero, è ciò per cui una cosa s'effettua; ora niente pro duce un
effetto, che non sia corpo; dunque l'essenza uni versale di tutte le cose è un
che di corporeo; e quindi essi partivano dal punto direttamente opposto a
quello dacuierano mossi Platone e Aristotele;chè,sel’Ateniese e lo Stagirita
concepivano la materia come negazione di essere (to un ow), e il primo
segnatamente poneva l' es senza assoluta nell'incorporeo e
nell'intelligibile,gli Stoici invece concepirono la materia corporea come il
primo principio e l'intima realtà delle cose tutte. Ma che cosa era questa
materia? Questa materia primitiva ch'è in Platone e in Aristotele, e che più
tardi troviamo negli Scolastici, senza qualità e senza forma, sostanza oscura,
infinitamentepassivaesuscettibilediforme,infinitamente divisibile,è una
finzione immaginativa, è una vTÓGeols (nel doppio significato antico e moderno)
collocata a capo delle cose tutte per ispiegarne in un modo qualunque la possi
bilità,ed eludere l'antico assioma ex nihilo nihil;ma non avvertivano que'
pensatori che, se v'è un caso in cui l'as sioma abbia un vero valore, è appunto
questo,poichè la materia pura potenza è un che vuoto,nudo ed inefficace, è il
nulla vestito dalla fantasia delle qualità del reale. Cercata la causa nel seno
medesimo dell'effetto, anzi iden tificata coll'effetto, il germe del panteismo
doveva svol gersi necessariamente,e sisvolse.Come?Si tornò al di namismo di una
parte degli Ionj, e poichè fondamento del dinamismo è l'ammettere che il moto
fenomenale delle cose si faccia per isvolgimenti di forze intrinseche ad esse,
si concepì nella essenza intima dell'universo,che a somiglianza d'Eraclito
dicevasi dagli Stoici essere il fuoco artificioso, rūp témuczor,un'energia
primitiva,un che infinitamente attivo,cagione unica di tutti i fenomeni delle
cose,e della loro forma determinata,perchè traendo ad atto le forze intime
della materia, ne va foggiando questo univers0 sensibile,(τον θεόν σπερματικός
λόγον όντα ToŬ zoopov. Diog.L.,VII,136,e Cic., De N. D. La falsa induzione che
per vizio d'antromorfismo finge le potenze e gli atti universali della natura
ad esempio delle facoltà umane,non si arresta qui, ma informa da cima a fondo
la fisica degli Stoici. Essi considerando che in noi principio primo di moto e
d'at tività è l'anima, chiamavano anima quella virtù infor matrice delle cose
tutte, e l'universo rassomigliavano a u n grand e animale; perchè, diceno
(usando un argomento di panteismo rigoroso adoperato più tardi dal Campanella
), se le parti del mondo sono animate,sarà animato anche il tutto, e se le
varie parti del corpo sono mosse dall’anima, e l'anima è governata dalla
ragione, anche i moti del mondo proverranno dall'anima universale, il cui princi
pato risiede nella ragione. Quest'atto, anima e ragione dell'universo per gli
Stoici era Dio; e quindi si capisce com'essi trasportando sempre nel divino le
facoltà del l'umano, concepissero Dio da un lato come principio prov vidente e
ordinatore, e dall'altro come energia primitiva, come causa e unità di tutti
imoti fenomenali,e perchè,m e n tre lo simboleggiavano sotto la cieca e
inevitabile neces sità del destino (dep.zpuéva), che contenendo la materia
l'agitava di causa in causa con movimento perpetuo, attribuissero a questo
spirito divino abitatore della m a teria la divinazione delle cose
future.(Cic.,De N. D.,De Divin., De Fato,pass.)Concependo in tal modo la
materia come contenuta e vivificata intimamente dall'unità della forza divina (unità
che per il principio della filosofia s o cratica distinguevano in forze
secondarie ed opposte),non è maraviglia che gli Stoici, tornando anche in
questa parte agli Ionj,attribuissero qualità divine alle grandi potenze della
natura, come agli astri,agli elementi,ai vizj, alle virtù,e segnatamente
all'anima umana,e ne deri vasse la loro interpretazione fisica delle mitologie.
Quindi dai principj della loro scienza naturale uscivano la logica e la
psicologia.Che cosa è l'anima?Essa per gli Stoici,come tuttele altre cose,come
Dio stesso,ècorporea;ma come forza primitiva e principio di moto partecipante
all'atti vità universale, intimamente è divina; e la sua unione col corpo la
immaginavano come una compenetrazione, sì per il loro principio della
compenetrazione delle so stanze, e sì per la somiglianza, che l'anima dell'uomo
ritiene coll'anima universale compenetrante e vivificante l'universo delle
cose;e come quest'anima universale, seb bene distinta in altre forze seconde,è
in sè stessa prin cipio unico de'moti e de'fenomeni delle cose, così in noi
tutti i fatti dell'anima riducevano all'unità del principio dominatore
(nepovezov ) che è fonte e causa motrice delle facoltà seconde. E qui è
notevole assai,che mentre l'in dirizzo dato all'osservazione dell'uomo
interiore dalla riforma di Socrate salvava gran parte della psicologia stoica
dalle conseguenze materialistiche del principio che la informava, quella loro
inclinazione a studiare i soli fenomeni della materia ricomparve nella dialet
tica, e ne proveniva il sensismo. Movevano anche que sta volta da un cattivo
concetto di potenza e di causa. E valga il vero. A quel modo stesso che in
fisica aveano pensato la prima potenza e la comune possibi lità delle cose come
un che vuoto e privo naturalmente d'entità e d'efficacia, così immaginarono
nell'anima la possibilità del conoscimento come una potenza nuda, inefficace e
priva di contenuto,simile, dicevano, ad una pergamena senza caratteri (ώσπερ
χαρτίoν άνεργον εις c.Troypapiv ), dove, svegliatosi l'atto dell'anima (come
l'atto primitivo di Giove nella materia) all'occasione delle sensazioni,
imprime le rappresentanze o le pav Tuoive delle cose. Che cosa poi fossero
queste fantasie è facile a immaginarlo, e ce lo dice anche il nome. Nel quale
comprendevano gli Stoici la totalità dei fatti interiori presenti alla
coscienza ed originati tutti dai sensi, nè potevano dare al conoscimento altra
qualità in fuori dalla sensibile, e perchè l'anima umana,come parte delDio
animantelecose tutte,ritiene ilsuo modo di conoscere,che conforme alla sua
natură è un cono scere sensitivo, e perchè essa stessa l'anima è corpo, e
perchè, l'essenza universale di tutte le cose essendo cor porea, non si può dar
conoscenza se non di corpo. Or che ne veniva da ciò? Ne veniva che ammettendo
essi da un lato ogni conoscenza derivare dai sensi, dall'altro non potendo
negare la natura dell'intelligibile necessaria, assoluta e profondamente
opposta alla natura del sensibile, ponevano le idee come una trasformazione
della sensa zione operata dall'anima, precedendo in tal modo i sen sisti
francesi. M a, di grazia, sì gli uni che gli altri sfug
givanoforseallanecessitàdellacontradizione? Ne rimaneva una intrinseca al loro
sistema e maggiore di tutte,quella cioè di negare all'anima un primo principio,
una capa cità naturale al conoscere e immaginare ch'essa poi ve nutale la
materia di fuori, doventi all'improvviso o p e rante e di operazioni tutte sue
proprie. M a in tal modo il sensista tira più là la questione, e non la
risolve; per chè,quando eisarà pervenuto a un dato termine dellasua
dimostrazione, io gli mostrerò com'ei si trovi in opposi zione diretta ai
principj su cui l'ha fondata. Dice:Nego nell'anima qualunque notizia primitiva
e fontale delle idee;e aggiunge:ecco però come nell'anima stessa si generano
quelle idee.L'oggetto esterno fa impressione sui sensi; i sensi per mezzo dei
nervi comunicano le i m pressioni al cervello,e l'uomo acquista l'idea
dell'obbietto sentito. Ma è qui appunto dov’io prego il sensista a darrestarsi.
Poichè, manifestatasi in noi la notizia, che al certo provenne dall'occasione
de'sensi, se la mente si volge a considerarla nella sua natura,vi riconosce
bensì da un lato un referimento esterno all'obbietto onde spe rimentammo
l'efficacia causale,ma d'altro lato vi scuo pre anche una più intima e segreta
relazione cogli atti dello spirito, e coi sommi principj del vero, obbietto i m
mediato della potenza conoscitiva.Tale contradizione che deriva dal confondere
insieme la natura del sentimento e delle cose e la natura ideale, non potranno
mai fug gire i sensisti, se pure essi non vorranno ammettere la
conseguenza più legittima del loro sistema,vo'dire il m a terialismo; al qual
proposito bene osserva il Leibniz nei Nuovi Saggi (lib. II), che coloro i quali
s'immaginano l'anima informa di una tavoletta,o di un pezzo di cera,in cui
nulla sia scritto prima della sensazione, trasferiscono in lei le condizioni
passive e inefficaci della materia. Se consideriamo adunque attentamente il
sistema de gli Stoici,esso ci si presenterà da un lato come un pan teismo,
dall'altro come un dualismo. È un panteismo se guardiamo a ciò che, secondo il
Ritter, ne formava il d o m m a fondamentale, all'unità primigenia e finale
delle cose tutte e al concatenamento o consenso delle parti della natura
informata dall'anima universale e divina, ond'era costituita per gli Stoici la
legge del Fato; ma è invece un dualismo,se vi meditiamo la opposizione tra Dio
anima del mondo e il corpo del mondo, tra la materia e la forma, il passivo e
l'attivo, il più e m e n perfetto nelle esistenze, l'unità assoluta di Dio e la
diversità delle cose,diversità che pur dee terminare una volta rientrando nella
indifferenza primitiva di Dio. La quale opposizione, che ha reso non ben
definito il giudizio di parecchi istorici sulla qualità di questo sistema, io
credo derivasse non tanto da quella medesima incertezza tra la confusione
dell'età orientale ed italo-greca e il nuovo bisogno delle distinzioni
dialettiche, che è pur manifesta nelle dottrine di Platone e d'Aristotile, quanto
dall'avere gli Stoici, più assai de'loro predecessori,esagerata l'in duzione
che dalla notizia dell'uomo litrasportava a quella dell'universo e del divino.
E fu qui dove peggiorarono assai dai sistemi anteriori. Peggiorarono in fisica,
perchè seb bene Platone nel Timeo dimostrasse che l'universo tutto quanto era
animato,e Aristotile,adombrando per via con
trariaildivenirehegeliano,trasformasselamateriaintutte lecose,ambedue
silevaronpiùalto,eoltrequell'universo animato e al di là di quella materia,l'uno
contemplò l'Ar tefice divino, da cui s'irraggiava nelle cose e nelle anime la
luce degli esemplari eterni, e l'altro intravide il fine supremo desiderato
dalla universale natura; peggiora E d ecco circa in quei medesimi anni,
nei quali fioriva Zenone Cizico,e spiegava le sue dottrine infette di panteismo
e di dualismo (verso l'a. 300 prima di Gesù Cristo), apparire la negazione
particolare dei sensisti e degli idealisti con Epicuro e con Arcesilao. E
quanto al primo, chi ben consideri la sua filosofia, vi troverà un nuovo e
sempre crescente pervertimento delle dottrine o anteriori o contemporanee; chè
se già era cattivo indi zio in Zenone e in Crisippo l'imitazione degli Ionj e
d'Eraclito, fu pessimo in Epicuro il ritorno ai sofisti della stessa età
italo-greca, e segnatamente a Democrito. Notammo anche come nonostante la
rigidità e l'altezza della morale stoica,vi si scorgeva chiaro un esame s e m
pre più imperfetto e parziale dellaumana coscienza;ora questo è anche più
manifesto negli Epicurei, i quali non si contentarono come gli Stoici, lasciate
da un lato le naturali tendenze,di porre la virtù e la beatitudine in un
sublime disprezzo dei beni della vita;m a scesero più basso restringendo l'una
e l'altra al godimento dei piaceri del corpo; e riducendo i piaceri dell'animo
alla speranza e al ricordo dei piaceri del senso.Nel che essi secondavano
bruttamente l'abbandono sensuale dei tempi; nè già mi reca maraviglia,in quella
età in cui,rotto il freno ad ogni licenza, si maturava negli ozj voluttuosi la servitù
della rono in logica,stante che se Platone,giunto alla nozione suprema
dell'essere,se ne faceva scala per salire agli universali divini, e Aristotile
distinguendo dal senso l'in telletto, poneva in quest'ultimo l'apprensione
dell'uni versale, gli Stoici non ammettevano che il senso, e dal senso
desumevano la necessità della scienza; peggiora rono finalmente in morale
all'osservazione compiuta e perfetta delle tendenze naturali, qual era
nell'Accademia e nel Peripato, sostituendo un esame sempre più povero e
sminuzzato della coscienza morale,onde il concetto del bene diventò più che
umano, e quell'idea solitaria e i m passibile della virtù parve quasi uno
scherno in mezzo alle infinite sventure deitempi.(Cic.,De Fin.,IV,V.
Ritter,XI,L. 1,2,3,4.) Grecia, quando la Nuova Commedia svelavaagliocchi
delle moltitudini affollate le più seducenti sembianze del vizio,e ne'ginnasj
d’Atene convenivano le meretrici a disputare co'filosofi,immaginarmi Epicuro
che siede dettando nei suoi giardini in mezzo alle gioje del convito i precetti
della morale.Eppure più secoli dopo in una etànon meno ar rendevole al senso di
quella d'Epicuro,e che precedè di poco quel tuono di uno dei più grandi
rivolgimenti eu ropei, v'ebbe chi nelle scuole de'filosofi difese Epicuro mostrando
velato nei suoi precetti morali sotto l'appa rente arrendersi al senso un
rigore più che da stoico; ma quel rigore, nota bene CICERONE (De Fin.), e r a
un finto stoicismo e una maschera da saggio,che mal si addiceva sul volto del
filosofo gozzovigliante,era una sod disfazione
ch'e’dava,malgradosuo,all'autoritàdelsenso morale e della pubblica opinione. E
poi,se quel sistema mancava d'ogni fondamento scientifico,come poteva cer care
nella necessità dei principj ilpernio della morale?E che tutto per Epicuro
fosse relativo,contingente,fuggitivo, nulla universale,necessario e assoluto,
lo mostra il con cetto ch'e’s'era fatto del giusto,stabilito da lui come una
norma destinata a tutelare la vita del saggio,e che quindi mutava
sostanzialmente a seconda degli interessi civili.Posto così a capo dei precetti
morali il puro sen timento animale,non poteva non derivarne una logica (o,come
Epicuro la chiamava,una Canonica) che peggiorasse il sensismo del Portico e non
movesse un passo oltre la sensazione. Infatti, mentre gli Stoici andavano
almeno fino all'idea che proveniva dalla percezione, e passavano dal soggetto
all'oggetto per l'attinenza di causalità (Vedi CICERONE nel secondo degli
Accademici), Epicuro,lasciata da parte l'idea,riconosceva il criterio del vero
nella sola realtà della sensazione, e negando che dal senziente si desse certo
passaggio all'entità del sentito, lastricava la via all'idealismo degli
accademici e alle dottrine scet tiche d'Enesidemo e di Sesto Empirico. Infine;
negata ogni interiore attività dello spirito, riconosciuta nella sola
opposizione dei resultati sensibili la verità e la falsità della
sensazione,ristretti i fondamenti delle inda gini scientifiche alla pretta
significazione delle parole, a m o 'dei Nominalisti; ecco in due parole la
logica dell’Orto (Cic., De Nat. Deor.) Nè a diverso cammino si volgeva la
fisica fondata da Epicuro sull'atomismo meccanico di Democrito. Ora,se ben con
sideriamo, questa dottrina naturale del filosofo di Samo paragonata al
dinamismo stoico è un nuovo perverti mento della ragione scientifica,e più che
con la filosofia del senso si accorda con quella della materia. E di fatto,
laddove gli Stoici che avean molto de'materialisti, pur trascendevano il
fenomeno sensibile,e vi rinvenivano l'intima energia, l'intimo atto che dava
vita e movimento alle cose, gli Epicurei lasciando da un lato la potenza
nascosta, se ne stavano contenti agli effetti, cioè alle trasformazioni
esteriori delle molecole materiali. Quindi la dottrina d'Epicuro intorno agli
atomi, mentre,come nota il Ritter, ha l'apparenza d'essere la confutazione
della sua logica materiale fondando tutta la scienza del mondo su quelle nature
elementari, non accessibili al conoscimento, n'è invece (dico io) la riprova
maggio re, perchè io non veggo in quelli atomi se non un abbaglio di fantasia
che pretende spiegare in modo ar cano i fenomeni più ovvj dell'aggregazione e
della dis gregazione molecolare.(De Fin.,L.I.)Che manchi,come io diceva più
sopra,nelle dottrine del filosofo di Samo qualunque criterio di scienza, si
vede quindi da ciò che in quelle intimamente repugna fra i principj e le con
seguenze. Egli non ammetteva nell'ordine dell' essere niente che non cadesse
sotto l'apprendimento dei sensi; ma
poseaprincipiodituttelecoseilvuotoimmensoegli atomi nè sensibili in modo alcuno
nè intelligibili. (De Fin.,L. 1. 6.) Credè immaginando la spontanea diversione
degli atomi dalla perpendicolare, sottrarsi alla inesora bile legge del Fato; m
a s'imbattè in un'altra potenza non meno cieca e inconcepibile, nella potenza
del caso. (De N. D.,L. I;De Fato, C. X.) Finalmente un ultimo indizio di quanto
poco conto ei facesse dei veri i m m o r tali presenti alla coscienza
dell'uomo, è che voleva spe gnere per mezzo delle sue indagini fisiche quel
concetto arcano dell'infinito per cui la nostra mente dalle cause seconde si
leva fino alla Causa prima, quell'intimo senso di stupore e d'ammirazione che
destano in noi,le tempeste, ifulmini,le meteore,icieli
sereni,lenottistellate,le so litudini de'mari, voce della natura a cui risponde
dal profondo dell'anima un'altra voce che ci parla di Dio. (Lucr.,De
rer.nat.,Ritter,L.X,C.II.Vedianche gli op. di Plutarco tradotti dall'Adriani:
1. Che non si può vivere lietamente secondo la dottrina di Epicuro;2. Della
superstizione.). Contemporaneo d'Epicuro, e un poco posteriore a Zenone,poneva
Arcesilao i fondamenti dell'idealismo ac cademico. L'incertezza delle notizie
intorno alla sua vita e ai suoi scritti ha dato occasione a purgarlo
dall'accusa di filosofo dubitante,dicendosi ch'e'non negava ilpositivo delle dottrinesocratiche,
ma soloopponevailsuodubbio temperato al dommatismo stoico di Crisippo (Vedi
Gautier de Sibert, Mem. de l'Ac. des Inscrip. et Bell. Lett., tom.XLIII),e
Sant'Agostino nel libro Contra Academicos, L. III, p. 111), ci rappresenta
questa dottrina come un domma filosofale, svelato prima nell'insegnamento del
l'antica Accademia, e ristretto poi nel mistero all'appa rire del sensismo
stoico, e adombrante l'intimo significato della filosofia di Platone: due
essere i mondi, uno intel ligibile, l'altro sensibile; quello vero, verosimile
questo, perchè fatto a somiglianza degli archetipi eterni; del primo per via
delle idee generarsi nel saggio la scienza, del secondo una semplice opinione
di verosimiglianza.M a quando io penso che il vescovo d'Ippona dettava quel
libro poco innanzi la sua conversione, scampato appena dal dubbio della nuova
Accademia, e che per guarire lo scetticismo inveterato del tempo cercava le più
riposte armonie della sapienza antica colle dottrine cristiane, attingendo
principalmente a fonti neoplatoniche; quando ritraggo dalla testimonianza
concorde dei più deglistorici che Arcesilao andò più là di Socrate, dicendo non
potersi nè anche sapere di saper niente, che aprì scuola d'insegnamento pro e
contro ogni opinione, negando in tal modo il vero assoluto e ammettendo
soltanto quello relativo ai principj d'ogni sistema; e che finalmente quel suo
idealismo operò direttamente sul dubbio univer sale degli Empirici; allora son
tratto ad attribuire a un pervertimento delle dottrine Socratiche, e alla
efficacia de’tempi quello che Agostino riferiva al semplice accor gimento
d'Arcesilao.(Cic.,De Oratore,III,18.)Socrate opponendo all'orgoglio del sofista
la modesta affermazione del saggio,negava potersi trarre da una cavillosa
dialettica l'onnipotenza della ragione, e dalle dottrine meccaniche degli lonj
il conoscimento intimo delle cose.Platone tenne fermo quel dubbio, temperandolo
col conosci te stesso, e sceso a considerare i più riposti veri dell'umana
coscienza, vi riconobbe il combattimento della ragione coll'appetito,
dell'intelletto colla carne, quel non so che d'immortale e di terreno ch'è in
noi, e che lampeggia nelle serene aspi razioni del vero,del bello e del buono,e
s'abbuja nelle tempeste de’sensi;quindi trasportando quell'intimo co noscimento
all'esteriore forma delle cose,e al giudizio della loro perfezione, ne derivò
la dottrina dell'ente e del non ente, della üln e del c o s. E qui (si noti)
consisteva essenzialmente il positivo e il negativo delle dottrine platoniche.
Poneva egli, è vero, da un lato il concetto della scienza nel salire dai
particolari agli universali,da ciò che muta a ciò che non muta, dalla
sensazione al l'idea che rappresenta l'essenza, e il fondamento della sua
dialettica stabiliva nel cogliere fra i molteplici ele menti de'fatti
particolari il concetto supremo che tutti li contiene.Ma d'altra parte mosso dall'idea
trascendente della scienza,e dalle tradizioni delle dottrine panteistiche
orientali ed eleatiche, onde germinava il dualismo, egli faceva del
particolare, del mutabile, del sensibile un che intimamente oscuro,e non
soggetto al conoscimento,perchè partecipante della materia che è l'opposto
dell'ente,e alle Matematicheealla Fisicaindagatrice de'fattinegònome di
scienza. Si dirà forse ch'e'rimediava a questa dualità riconoscendo necessaria
attinenza tra gliArchetipi divini e le cose, e nella mente dell'Artefice eterno
che le informava della perfezione di quelli, e nella mente dell'uomo per via
della reminiscenza, onde per lui si dava reale pas saggio dalla opinione al
sapere; m a la illazione del d u b bio, che scendeva dalle premesse del suo
sistema,non si arrestava, perchè, se a Dio è coeterna la materia,e l'una è
negazione dell'altro, chi mi assicura che fra termini sì disparati possa darsi
attinenza di conoscimento?nè,derivato da Dio l'intelletto, basta la sola
ipotesi ch'egli fingeva della preesistenza degli animi nostri in una vita
anterio re,e un debole legame di verosimiglianza tra iparadigmi e le cose,'per
verificare la certezza di quelle notizie che civengonodaicontingenti.E
perfermo,indebolitacosìdal principio della filosofia platonica la relazione tra
il cono scente e ilconosciuto,non v'era che un passo a negare o l'uno o l'altro
di questi due termini; e il termine intelli gibile negarono gli Stoici, alle
cui innovazioni aveva aperto la via il semi-panteismo materiale del Peripato, e
quella negazione sensistica esagerarono gli Epicurei col restrin gersi nello
studio della materia; restava a trarre l'altra conseguenza del sistema
platonico negando il sensibile, e ciò fece Arcesilao colla sua dottrina
ideale-scettica, scetticismo però non al tutto compiuto, perchè non n e gava
l'entità del vero nelle cose, m a poneva soltanto in dubbio la loro
corrispondenza reale coll'apprensione del l'intelletto. È dunque vero in parte
quel che affermava Agostino che la dottrina della nuova Accademia (o media che
voglia chiamarsi) ebbe la sua ragione d'origine nel fondo del sistema di
Platone,e la sua ragione di svolgi mento nel sensismo contemporaneo di
Crisippo, m a è anche vera l'osservazione del Ritter che quel metodo di dubbio
fu corruzione del metodo socratico, e resultò dall'idea della scienza qual era
nell'antica Accademia,idea troppo trascendente la certezza naturale,e che
togliendo l'atti nenza tra il soggetto e l'oggetto imprigionava il pensiero
nella coscienza solitaria, e al dualismo innestava la Critica della
conoscenza.(Ritter,tom.XI,C. VI.Conclus.) La quale non ancora matura e
compiuta in Arcesilao si svolse nei successori, perchè,laddove il filosofo
Pitano sostenendo la sua tesi contro i sensisti moveva special mente dalla
fallacia de'sensi e dall'oscurità della materia; Carneade,che gli
successe,introdusse in quella tesi maggior rigore scientifico,quando esaminò ex
professo l'entità della relazione inclusa nel conoscimento, e distinguendo
nella percezione sensitiva o rappresentazione due lati,uno ri
feribileall'oggetto,l'altro al soggetto,mostrò XIX secoli prima del Kant non
darsi vera certezza del sapere, per chè il conoscente trae in propria forma la
materia del conosciuto. V'ha egli dunque un nuovo peggioramento in Carneade? Sì;
perchè e'negò fede espressamente alla validità della ragione, dicendo non
potersi dare un crite rio certo pel ritrovamento del vero, e dovere contentarsi
il sapiente della semplice verosimiglianza; onde per lui l'idealismo accademico
si accostò sempre più alla nega zione universale, che compiendo le dottrine
anteriori di Pirrone, ricomparve più tardi;e n'è prova evidente il pas saggio
ch'e'fece dal dubbio sui fatti esteriori al dubbio sull'entità oggettiva delle
idee universali che si specchiano nella coscienza, manifestato da lui
ambasciatore per gli Ateniesi in Roma nel discorso sulla giustizia,dove to
gliendo nota d'universalità e d'assolutezza al concetto del
bene,abbattevaifondamenti dellamorale(Cic., De Rep., L. 1. Ritter,L.
XI,Cap.VI.) 5.E ildiscorsodiCarneadeudivanoaffollatiiRomani, nella cui patria
splendeva quella gran scuola paesana dei Giureconsulti dove l'idea della
personalità umana,e la n o zione del dovere e del diritto si desumevano da
principj d'immortale necessità, e dove la natura della legge dovea definirsi
più tardi congenita alla natura di Dio.(V. Cantù, St.
Un.Brucker,Degerando,Ritter,Kuehner.Cic.,Tusc.IV, 1,2,3.) È noto infatti come
fino dal secolo XVII G. Batt. Vico nel suo libro De antiquissima Italorum
sapientia indagando nella storia de’fatti umani iprincipj universali che
reggono il sapere, trovasse vestigj di antichissime e profonde speculazioni
ne'linguaggi primitivj d’Italia; il che,se non prova che presso quei
popoli, come ad esem pio i latini (intesi per lungo tempo e unicamente ai ne
gozj civili),fiorisse un vero e proprio esercizio d'indagini scienziali, mostra
però che v'era nel loro ingegno un'in tima disposizione a filosofare. E questa
disposizione d o veva attuarsi quando ilpensiero latino libero dalle stret
tezze presenti, e sollevato a un ideale più ampio,dal sen timento di nazione si
sarebbe volto a considerare l'umana natura specchiata in sè stesso, e
nell'universalità della storia. Queste erano le preparazioni e le cause del
fatto; l'occasione esterna venne dalla celebre ambasceria di Cri tolao,
Carneade e Diogene babilonese. (A. di R. 585. V. gli autori soprac.) Volgeva
intanto a metà ilsecondo se colo innanzi l'Era volgare,e Roma,vinto Antioco in
Asia, distrutta Cartagine,e sottomessa definitivamente la Grecia colle guerre
Macedoniche, e colla memoranda presa di Corinto,riceveva dai vinti la
tradizione delle arti e delle discipline civili per parteciparle novamente e
sott'altra forma all'Europa ed al mondo. Ma quelle arti e quelle discipline che
giungevano d'oltremare non più informate dalla libera spontaneità dell'ingegno
dei padri, educato alla scuola del sentimento civile e del magistero divino, ma
guaste dal dubbio della nuova Accademia,e infette da signorie corruttrici e da
profonda sensualità di costu mi,trovarono nei Romani dismesso l'abito della
severità antica, e omai volgente a rovina quella repubblica inde bolita dalle
mollezze d'Affrica e d’Oriente. Sallustio, C a til.,C.X.c.f.XI.XIV. Non
èquindiamaravigliarechenon ostante i tentativi di molti ingegni valorosi,
dall'unione di due civiltà semispente non nascesse un grande rinno vamento; chè
ogni rinnovamento è possibile quando nelle rovine dei popoli s'accoglie una
favilla immortale di vita, e un impulso efficace li risospinge ai principj; non
possibile allora,in quelli anni ultimi dell'Era pagana, in cui, ecclissato ogni
lume d'antiche tradizioni, spenta la famiglia e ridotto in pochi lo stato,
Europa, Affrica ed Asia precipitavano nella barbarie. Nè c'inganni quel moto
apparentemente efficace di letteratura e di scienza ma era 3
nifestatosi nelle città greche, e nelle corti di Pergamo e
deiTolomei.Tranne inRoma, dove fino allamorte d'Au gusto durarono potente
incitamento alla libertà degl'in gegni le sembianze,e la memoria degli ordini
repubblicani, nel resto d'Europa nell’Asia e nell'Affrica le lettere e le
scienze doventarono trastullo di principi e di cortigiane, o sollievo di popoli
in gioconda schiavitù sonnecchianti, o (come apparisce da Filone Ebreo,dalla
Kabbala,da Apol lonio Tianeo,Moderato, Nicomaco, Plutarco, Apuleio ed altri)
doventarono contemplazione solitaria di pochi stu diosi, onde alla spontaneità
dell'arte che crea sottentrò l'erudizione ragunatrice dei commentatori e degli
illustra tori, e il panteismo greco -asiatico da cui poi derivarono gli Alessandrini;
e un vero e fecondo avanzamento ebbero soltanto le scienze matematiche e
d'esperienza sostenute dai principi e dalle città mercantili e dalla agiatezza
dei tempi.Ma d'altra parte (ed è un esempio che s’è rin novato più volte)
indietreggiavano ogni giorno più le di scipline speculative;nè solo (come
vedemmo)quanto alla materia,ma altresì quanto alla forma scientifica dei si
stemi;perchè, se è legge connaturata all'umano intelletto che in quella
dirittura necessaria di relazioni, che passa tra il soggetto esaminato e la
riflessione esaminatrice, consista intimamente il metodo d'una scienza,una
volta guasta o distrutta la notizia dei veri principali, se ne scom piglia
l'indirizzo della riflessione, non si ravvisa più chiara l'integrità della
coscienza su cui cade l'esame,e n'è dis fatta la scienza. Richiamando ora in
breve le cose discorse, che mai ci mostra la storia della filosofia da Socrate
a Cicerone? N o n altro che un continuo scadere della riflessione scientifica
da sistemi più ideali e che al sentimento del divino e del l'immortale
accoppiavano il rispetto delle più antiche e v e nerate tradizioni, ad altri
infetti di materialità e dispregia tori d'ogni magistero divino ed umano;quindi
da dottrine che offrono più ampio disegno di riflessione,e più perfetto
ordinamento scienziale,si sdrucciola ad altre che alla c o m prensione totale
della coscienza e delle sue relazioni fanno seguire un esame
monco,spicciolato,minuzioso,eaimetodi positivi e dogmatici (benchè misti di
legittimo esame) im e todi semplicemente negativi e gl'inquisitivi. Questo è il
pen dío naturale del pensiero filosofico in quell'età,che dalle altezze del
disputare platonico ci conduce nelle ruvide a n gustie di alcuni trattati
aristotelici,dagli archetipi eterni, all'anima informatrice della materia
corporea, poi al Dio animante di Zenone e agli aridi sillogismi di Crisippo per
terminare nel materialismo d'Epicuro, e nella negazione della nuova Accademia;
che infine dalla interpretazione sublime della Mitologia,qual era in Platone,ci
guida all'in terpretazione fisica e storica degli Stoici e d'Evemero. Ma la
nuova Accademia di contro alle dottrine d'Epicuro,se non forse quanto alla
materia, era un nuovo peggiora mento quanto alla forma scientifica, perchè
Epicuro rico nosceva almeno molti veri, e offriva un disegno di pro prie
dottrine sulle principali teoriche della scienza; gli Accademici negavano
soltanto, e, tranne poche e sparpa g l i a t e affermazioni i n fisica e d i n
moral e, restringevano il soggetto della filosofia al problema del conoscimento;
ora da questo idealismo che solo ammetteva pochi veri par ticolari, e
scioglieva ogni attinenza del conoscimento coi proprj obbietti, non v'era che
un passo alla negazione scientifica d'ogni verità della scienza, e da questa al
d u b bio popolare e grossolano e ai sistemi empirici e positivi che non sono
più scienza. E anche allora fu detto o sot tinteso da uomini dottissimi che
unico criterio del vero era il mancare d'ogni criterio,che la scienza era ilm e
todo,e che unica e naturale forma del pensiero filosofico era la storia;e da
questi abbagli di critica stemperata che sirinnovano anche
oggiinFrancia,inAlemagna einItalia, nacque l'ecclettismo erudito degli Stoici e
de'Peripatetici, e le dottrine empiriche d'Enesidemo e di Sesto,come oggi dagli
eccessi della critica Kanziana pullularono gli Empirici Alemanni, l'Ecclettismo
del Cousin e la Filosofia P o sitiva di Augusto Comte.In quelle condizioni
della filosofia era,com'oggi,indispensabileunariforma,elariforma,come moto
contrario alle cagioni del male, dovea consistere segnatamente nel tornare
ai princip j della coscienza n a turale, abbracciando la universalità dei
suoi veri, e affer mando interoeindivisibileciòchelesetteaffermavano spar
pagliato e diviso.Fu questa l'opera immortale di Cicerone, e a tentarla egli
ebbe occasione e conforto dalle qualità dell'ingegno latino, mosso da antiche
tradizioni e da indole propria allacomprensione delle attinenze scienti fiche,
dallo stato politico e civile di Roma, e dal contrasto ai dubbj che laceravano
la scienza. Di fatto, se era pos sibile una riforma in tanto scadimento di
civiltà e di dot trine, più che altrove ella dovea tentarsi in Italia ed in R o
m a, dove le sacre tradizioni primitive s'erano conser vate più schiette per
opera degli affetti di famiglia e d e gli ordinamenti civili; durava ancora
potente l'efficacia della civiltà etrusca ed italica, ed ora dilatato il
dominio romano all'Europa, all’Affrica e a gran parte dell'Asia, vi
correvano,come a centro comune delle genti conosciute, la scienza, la letteratura,
le arti, le industrie, compagne della grandezza, e vi s'accoglieva,quasi a
compire la m a e stà della gran repubblica dominatrice,lacoscienza del ge nere
umano.Quindi in Roma era più che altrove potente ilsentimento dell'universale, condizionenecessariaal
na scere della Filosofia. D'altra parte,se volgiamo gli occhi alla Grecia,ci si
presenta un turbinìo d'opinioni e di sette a cui non tien dietro la storia; la
filosofia era lacerata in sistemi che ponevano la scienza nel paralogisma, e
sempre più tralignanti dagli istitutori scendevano il pen dío della negazione
universale; gli Epicurei e i Cirenaici, facili secondatori della corruttela dei
tempi, ogni giorno più sprofondavano nell'ateismo e nel senso;i Platonici e
iPeripatetici,come Cratippo,Stasea,AndronicodiRodi, Alessandro Afrodiseo si
diedero all'erudizione, e poichè non sapevano creare nulla di nuovo,rimestarono
con cri tica infeconda le dottrine anteriori; lo stoicismo con P a nezio e con
Possidonio, allontanatosi dall'aridità delle dottrine di Zenone, favorì
l'eloquenza trattando la filoso fia in modo più popolare,e ravvicinandosi alle
altre scuole socratiche; ravvicinamento anche più manifesto in Filone e in
Antioco,contemporanei ambedue e maestri di Cice rone, l'ultimo dei quali segnatamente
intese a conciliare il Portico colla nuova Accademia,e riconobbe la validità
del conoscimento. Infine secondavano da un lato quell'in dirizzo le dottrine
romane qual più qual meno imitatrici delle greche, e perciò prive di u n metodo
proprio e di proprie speculazioni; mentre dall'altro lato (sebbene al quanto
più tardi) si apparecchiava nelle dottrine de'N e o platonici e Neopitagorici
greci un congiungimento tra la sapienza orientale e le scuole socratiche.
Sembrerà forse a qualche lettore che dettando questi cenni sui principali
sistemi antecedenti a M. Tullio, ci siamo allontanati di troppo dai confini di
una semplice introduzione; m a il rimanente di questo discorso farà m a nifesto
che a ben chiarire la natura del filosofo nostro,i suoi intendimenti,lefontidellesueopereeilconcettoche
egli ebbe di riformare e riordinare la scienza, era neces sario distendersi
alquanto intorno alle scuole precedenti e contemporanee e all'efficacia loro
sulle parti della filo sofia. Per fermo allorchè l'oratore latino, fuggendo
nella solitudine di Tuscolo e di Cuma il cospetto degli scelle rati,poneva mano
all'Ortensio, appariva,come ben notailRitter,una straordinariapo vertà di
speculazioni scientifiche in tutta Europa; poche e sparpagliate verità
rimanevano intatte nei fondamenti del sapere; l'umana coscienza illuminata una
volta dai principj morali, allora in quella rovina d'ogni umano prin cipio
taceva, e al mancare della materia desunta dalla considerazione dell'animo
umano,la forma scienziale, seb bene apparentemente raffinata, impoveriva ogni
giorno. Impoveriva di fatti la logica, venuto meno colle dottrine di Zenone il
vero concetto del principio e dell'atto del conoscimento, e ridotta da
Arcesilao e da Carneade a cogliere solo, sfuggendo gli universali, le contradizioni
particolari dei varj sistemi;il semipanteismo stoico e dei Platonici
posteriori, confondendo sempre più l'ente col non-ente, il finito
coll'infinito, il relativo coll'assoluto, uccideva la fisica e s'attraversava
al buon uso dei m e 37 todi sperimentali; la morale per
ultimo risentiva d'ogni setta,massime della epicurea, le cui ultime dottrine ve
nute in luce nel secolo scorso dai papirj Ercolanesi colle opere di Filodemo
Gadarense, contemporaneo e famigliare di CICERONE, testimoniarono anche una volta
la vacuità e i vaneggiamenti di una scienza decrepita.(Vedi Hercu lanensium
Voluminum quue supersunt.Nap.,1793.) Pertanto in quelle condizioni di civiltà e
di dottrine due sole vie rimanevano aperte all'indirizzo del pensiero
speculativo; o un ecclettismo erudito, o un ritorno all'uni versalità e
all'unità della scienza coll'indagine dell'uomo interiore,del senso comune,e
delletradizioniscientifiche e religiose; impresa che, sebbene difficilissima e
degna di sublimi intelletti, non poteva esser sorgente a specula zioni copiose,
mirando più che altro a sceverare il certo dall'incerto, il teorematico dal
problematico, il necessario dal mutabile, il consentito dal disputato. La qual
cosa, mentre è una conferma dei meriti di Cicerone come filo sofo,e della
modesta grandezza della sua dottrina, ci spiega il divario notevole che lo
distingue dai filosofi contem poranei, e la brevità delle speculazioni latine;
e di fatti, se è vero che la storia della filosofia ci offre a quegli anni in
Roma un ecclettismo erudito, testimo nianza imperfetta dell'universale
disposizione degl' inge gni a ritornare sul passato, e a ricostituire la
scienza sull'armonia delle attinenze universali, è anche vero che Cicerone,
solo tra i suoi contemporanei, tentò ridurre l'ec clettismo romano a vera e
propria forma di scienza, imi tatore e seguace di quella scuola dei
Giureconsulti, che desumendo dalle consuetudini e dal gius naturale la santità
delle leggi, aveva aperta la via ad un ritorno della rifles sione filosofica
sulla coscienza morale. Quella sentenza del Segretario fiorentino, che af
ferma,doversi ogni umana istituzione ritirare verso i principj, fa manifesta a
chi consideri il cammino del pensiero e delle opere umane nelle età della
storia,una legge di scadimento e di progresso, di barbarie e di ci viltà, di
rovine e di restaurazioni, che si verificò in ogni tempo, così negli ordini
civili,come in quelli della filo sofia. La ragione di questo fatto m i sembra
chiara e nel l'un caso e nell'altro;è chiara negli ordini civili,iquali, se
hanno per principio e per fine l'adempimento delle necessità umane e la
conservazione del viver sociale,una volta allontanati da quello riescono a
contraddire la loro natura; è chiarissima poi nella scienza, e massime nella
filosofia, che costituita nel proprio essere di scienza pri ma da un ripiegarsi
della riflessione sul pensiero come pensiero,e sulle verità
universali,ricereimmediatamente dalla natura ilproprio soggetto,ipostulatiedilmetodo.
La filosofia dunque,come scienza sovrana che ha imme diatamente innanzi a sè la
ragion di sè stessa, è ripen samento del pensiero naturale e delle sue
leggi,è,in una parola, ripensamento della natura; la qual cosa concessa, sembra
doversi dedurre ch'ella abbia altresì nella natura la possibilità di un
indefinito svolgimento, e la possibilità delle proprie riforme, se pure non
vuol pensarsi che l'ef fetto sia inadeguato alla causa, e la vita dell'animale
e della pianta alla virtù generativa del proprio germe.A chi affermando
diversamente volesse mostrarmi, o che il pensiero non vale a trar fuori dalle
prime notizie, con progresso indefinito di dimostrazione,la scienza, o che la
riflessione del filosofo può introdurvi alcunchè non sup posto antecedentemente
dalla natura, io addurrei per ragione la coscienza, spettacolo sublime dei
fatti interni e dei più ardui problemi sulle verità principali, evidente e
misterioso ad un tempo,dove si acchiude come in ger me la possibilità del
sapere che si svolge ne'secoli, ad durrei per ragione la storia,che ci mostra
d'età in età i più grandi intelletti muovere alla ricerca del vero ignoto
dall'affermazione compiuta della coscienza, deftinirne le più alte questioni
concordemente alle tradizioni più a n tiche, e alla parola del genere umano e
di Dio, e fra i delirj e i vaneggiamenti delle sette conservare e tra mandarsi
l'un l'altro la Filosofia perenne. La testimonianza più lampeggiante di questa
verità ne’secoli pagani sono per certo le due riformedi Socrate e di Cicerone;
entrambi trovarono la filosofia perduta in dubbiezze infinite; entrambi la
rilevarono con uno sforzo supremo tornandola alla coscienza; l'Ateniese divino
in gegno, e iniziatore fecondo di un moto speculativo che non è ancora
cessato;più modesto intelletto ilRomano, ma non meno benemerito della buona
filosofia,per avere tentato, solo, in un popolo nuovo fino allora a ogni eser
cizio di speculazione e nell'universale scadimento della civiltà e della
scienza, ciò che il Maestro avea potuto compireincondizionimeno
avversedelsapereedeipub blici costumi. Per convincerci di ciò,basta paragonare
la Grecia dei tempi di Socrate con Roma dei tempi di CICERONE. E nel vero quel
principio di corruzione e di sfi nimento che il paganesimo già da lungo tempo
recava in sè stesso, s'era mostrato segnatamente in Grecia sin dal
D'altra parte i tempi in cui Cicerone, nato in ARPINO di famiglia provinciale il
terzo giorno di gennajo -- coss. C. Atilio Serrano, e Q. Servilio Cepione),
venne a Roma per apprendervi l'esercizio dell'eloquenza, che gli e via alle
cause del foro e al pubblico arringo, sono tempi di più profondi rivolgimenti
civili, conseguenza delle due grandi questioni che da lunghi anni empivano la
storia romana, la prevalenza degl’OTTIMATI sopra la plebe, la prevalenza di
Roma sopra il resto di Italia e del mondo. Cantù, St. Univ. Già sin da quando
tonò la prima volta nel foro la potente parola de’ Gracchi, un moto profondo in
favore delle franchigie popolari e dei diritti di cittadinanza romana s'e venne
propagando in Roma e nel rimanente d'Italia, e quel moto crebbe cogli anni, e
coll'ampliarsi della potenza repubblicana, e ruppe finalmente nelle dissensioni
civili di Mario e di Silla, e nella guerra sociale. Cominciarono allora
que'tempi pieni di sedizioni, di esilj e di sangue, ne'quali la libertà,
mantenutasi per tanti anni incorrotta, fu solo istrumento dell'ambizione di
pochi, e la gloria militare, guarentigia d'indipendenza, venne adoperata a
sovvertire le leggi; non più libera nel fôro la parola degli oratori,non più
inviolata la persona e le sostanze d'un cittadino romano, dispersa la pubblica
ricchezza, venduti a chi più li pagava i consolati e le
amministra l'entrare della guerra del Peloponneso; poichè pessimo segno
del decadimento di un popolo è sempre il succedere delle interne gare alle
lotte d'independenza; ma il vivo agitarsi della gente greca, calda ancora di
gioventù vi gorosa,ne'commerci,nelle riforme civili,ne'viaggi,nel
l'agricoltura, nelle arti, manteneva allora negli ordini materiali e politici
qualche seme di bene,e negli ordini in tellettuali volgeva le menti allo studio
amoroso del vero l'efficacia della filosofia italica, che avea recato dal
l'Oriente gran parte delle tradizioni primitive, la fantasia greca, intesa a
rendere l'animo interno nelle manifesta zioni dell'arte plastica, e infine una
gagliarda educazione del pensiero nella dialettica de sofisti. zioni
delle province, interrotti i giudizj, annullati i d e creti del senato e del
popolo; così passarono i settanta anni precedenti al regno d'Augusto, finchè
l'abuso della libertà messe capo ad un governo assoluto.Causa di tanta rovina
fu per fermo la crescente corruzione d'ogni principio morale, chè una libertà
partorita dal sangue di tanti uo mini grandi, e da secoli di virtù, non si
perde senza crollare i fondamenti dell'edifizio civile; e qual fosse a quel
tempo la pubblica moralità in Roma,ce lo dice Sal lustio complice e accusatore
dei delitti narrati. Sall., Catil. Quellacorruzione,profondanegli ordini
civili, non appariva minore negli ordini dell'intel ligenza; innanzi tutto
perchè, il progresso intellettivo di un popolo non andando mai scompagnato dal
suo pro gresso morale,e la scienza essendo un che vivo, affet tuoso, e
supremamente civile, l'armonia del sapere col l'armonia della vita è legge
innegabile nella storia delle nazioni; e secondariamente perchè la scienza era
stata sino a quel tempo più spesso istrumento di dominio in mano degl’OTTIMATI che
manifestazione della coscienza e dell'indole latina. Scendono da questi fatti
due considerazioni impor tanti sul nostro filosofo. Prima che, mentre (come
nota più d'uno storico) la letteratura e la filosofia fu colti vata in Roma dai
principali uomini di stato come arte di governo, Cicerone mostrò co’suoi
scritti ch'e'fece della scienza e della cultura, non già un istrumento per domi
narelarepubblicaesalireaglionori,ma,uomo dipace qual era,e conservatore degli
ordini civili che avean for mata la gloria degli avi, studiò la scienza del
vero l'arte del bello per contrapporla alla corruttela de tempi, e
all'oscurarsi d'ogni principio morale. La seconda con siderazione è che Tullio
s'oppose segnatamente, e con maggior vigore che a qualunque altra,alla dottrina
degli Epicurei.Ora,se consideriamo che l'epicurea era quella fra le scuole
contemporanee che avea posto più profonde radici in Roma,e che mentre ciò era
al certo l'effetto della civile corruzione, ne doventava poi alla sua volta. M
a qui c'imbattiamo subito in una questione importante. Cicerone e egli soltanto
condotto a filosofare da cause straordinarie ed esteriori? quando si pose a
scrivere aveva egli profondamente meditato sui più ardui problemi della vita e
dell'animo umano? possedeva quell'ampiezza e universalità di studj speculativi
necessaria per indirizzarlo nella via della scienza? Parecchi critici tra i
quali Ritter, Degerando, e Bernhardy lo hanno negato, e affermarono non potersi
chiamare “filosofo” vero esso che studia la filosofia come semplice istrumento
dell'arte di persuadere. Sembra altresì che una simile domanda gli e stata
fatta da taluni fra i contemporanei, quandoudiamo lui stesso, il testimone più
autorevole nella storia della sua vita, re plicare espressamente dicendo: io nè
cominciai tutto a un tratto a filosofare, nè da’primi anni della mia vita
consumai in questo studio mediocre opera e cura,e allora, quando meno parera,
io era maggiormente intento a filosofare -- De Nat. Deor. -- parole che
potrebbero forse sembrare dettate da soverchio amore di sè stesso, se i primiindizj
che ci rimangono de'suoi studj, e le opere antecedenti alle filosofiche non
mostrassero assai che il suo ingegno sivolse'sui principj, sui metodi e sui più
ardui problemi della scienza prima. Della qual cosa uno fra gl'indizj più certi
si è l'ain piezza e la comprensione ch'e'diede a'primi suoi studj, indizio
notevole per chi ricordi il disprezzo che i più fra i romani contemporanei
affettavano verso la filosofia relativistica di Carneade. Ma in Cicerone apparisce
un sentimento vivo, e quasi direi religioso, dell'unità della scienza; poeta
elegante e vigoroso, poi traduttore di cose filosofiche, udiva i più eccellenti
m a e stri d'ogni filosofia, studia con Q. Mucio Scevola il giure, coi più
autoreroli cittadini la scienza delle cose una causa, vedreino essere
immenso il beneficio che il grande uomo recò alla sua patria, più ancora che
come riformatore filosofo, come riformatore civile. civili, la
declamazione con Esopo e con Roscio, ed ebbe a maestri di rettorica Molone
Rodio, e Demetrio di Siria. Cic. Bruto, Forsyth, The life of M. T: Cicero, London.
Nutrito l'ingegno con tanta larghezza di cognizioni, appena si fece avanti nel
foro,si accorse,com'egli stesso ci dice (Brut.93,e pro Archia, V I), ch e a
costituire il perfetto oratore non e su f ficientela destrezzaelacopiadella parola,
ma bisognava che la materia scientifica desse pienezza e fondamento alla forma
dell'arte; quindi ei considerò sin d'allora la filosofiainunmodo involuto e comprensivo
come una scienza che abbracciava le regole della vita,dell'arte oratoria,del
diritto, d'ogni disciplina umana e divina, philosophiam matrem omnium
benefactorum benequedictorum(Brut.93); omnis rerum optimarum cognitio,atque in
iis exercitatio philosophia nominatur (De Orat.); concetto univer sale, che
apparisce in uno fra i primi suoi- scritti, nel de Inventione, dove parla delle
virtù secondo le dottrine platoniche, e introduce l'eloquenza fondatrice delle
città e del consorzio civile. Un tal concetto che certo doveva poi chiarirsi
cogli anni, e uscirne un disegno più specifi cato di dottrine morali e
speculative, mostra che il suo amore per la filosofia si accrebbe col suo
progresso nel l'eloquenza, talchè in lui (come osserva Ritter) l'oratore
preparò lo scrittore in filosofia, ed anzi leggendo attentamente il De oratore,
il Brutus e l'Orator vi senti spirare da cima a fondo un alito di speculazione
di scienza.Il dialogo De oratore è finto a imitazione del Fedro, e la tesi sostenuta
dei disputanti appartiene intimamente alla filosofia, poichè trattasi ivi di
sta bilire se l'eloquenza sia una dottrina universale od un'arte, s' ella debba
restringersi al puro esercizio del la parola, o allargarsi alla scienza delle
cose divine ed umane. E qui v'è contrapposto deliberatamente nelle stesse
persone dei disputanti il concetto più ampio e più universale,e per conseguenza
più filosofico,che Ci cerone avea del sapere, al concetto parziale e negativo
de'suoi contemporanei; Crasso infatti, che rappresenta l'opinione
dell'Autore, movendo dal principio che una sola è la sintesi delle materie
scientifiche,e che su tutte può e deve cadere l'esercizio dell'eloquenza,reputa
ne cessario al perfetto oratore quasi tutto lo scibile u m a n o, e conferma
questa sentenza coll'autorità degli antichi presso i quali l'arte del pensare e
del dire erano state sino ai tempi di Socrate indivisibilmente congiunte. Lo
stesso argomento è trattato nell'altra opera Orator, dov'egli cercò pure
l'ideale dell'oratore perfetto assumendo a principio le idee archetipe di
Platone; talchè l'armonia della scienza colla vita, dell'una e dell'altra colla
letteratura e coll'arte,l'accordo della materia scien tifica colla forma
oratoria, e della ragione col gusto, costituisce nei libri rettorici di
Cicerone una vera e pro pria unità di concetto. Considerando questo principio
universale,a cui il filo sofo latino rannodava le discipline letterarie,e
l'alto sen timento ch'egli ebbe dell'arte, io sempre meglio mi per suado che la
vita d'oratore e di politico fu per lui un apparecchio necessario agli scritti
speculativi. Più tardi, allorchèlalibertàvenneinmano degliscellerati,eilgran
cittadino si astenne volontariamente dall'esercizio della pubblica vita,tornò
agli studj non mai interrotti dalla giovanezza, cercandovi la pace che gli
negava l'animo addolorato per le sventure civili,una nuova occasione ad
esercitarvi l'eloquenza muta nel senato e nel fôro, un mezzo per confortare a
virtù le fiacche generazioni, e arricchire la letteratura della sua patria di
questa nuova gloria, sino a quel tempo non partecipata coi Greci (Tusc., De
divin., De off., Ad f a m. ). Chi considerasse partitamente un solo di questi
fini, senza comprenderli tutti nell'unità della mente e dell'animo dello
scrittore, mostrerebbe di non averlo compreso; a lui l'inclinazione oratoria e
l'amor nazionale porgevano il pensiero di un nuovo accordo della scienza
coll'arte nelle opere di filo sofia, onde si aprisse questo nuovo campo
intentato agli ingegni latini; i mali e le necessità del suo tempo gli consigliavano
le dottrine morali e civili come riforma dei costumi corrotti, e
dall'intendimento letterario,nazionale e morale insieme congiunti e
contemperati uscì per l'ef ficacia dell'ingegno,degli studj anteriori, e della
riflessione psicologica, la riforma speculativa. La quale armonia di cause
determinanti e di fini fra l'animo dello scrittore ed i tempi, è notevole in
Cicerone; perchè vi si fonda quella unione socratica tra il vero ed il buono,
onde la filosofia di lui, come quella d'ogni socratico, tanto più è affermativa
e solenne,quanto più gli argomenti metafisici hanno attinenza colle ragioni
morali, nè ciò per quello che oggi si chiama senso pratico, e che si crede
diviso dalla ragione speculativa, m a perchè appunto la ragione prima del
conoscimento si riconosce identica colla legge dell'operare. Se tali erano i
fini, con cui si accinse a filosofare, tra l'indole positiva e morale delle sue
dottrine, e il loro cri terio speculativo non v'ha per fermo alcuna
contradizione, chè anzi quella contradizione apparente,che Ritter e Bernhardy
han creduto di rinvenirvi, si dilegua tosto quando raccogliamo dalla piena
lettura delle opere filo sofiche un'idea complessiva del concetto della
filosofia, e seguendo le varie definizioni ch'egli ne diede,perveniamo fino al
punto in cui concepisce chiaro l'ordine scienziale. Il primo e più
notevole concetto ch'egli ebbe della filosofia, considerata come vera dottrina,
si è di una scienza moderatrice delle azioni e istitutrice della vita: vitæ
philosophia dux, virtutis indagatrix, expultrixque vitiorum; animi medicina
philosophia; a questo propo sito il conosci te stesso di Socrate ei lo prendeva
in un senso puramente morale, senso che apparisce più volte nella Repubblica,e
nelle Leggi, e nelle Tusculane, dove si agitano questioni relative alla vita e
ai costumi,e per quanto abbiamo da chiari indizj appariva pure nell’Orten
sio,opera perduta,dov'ei tesseva l'elogio della filosofia rac comandandola allo
studio dei concittadini come dottrina su premamente morale e
civile.(V.Hort.,fram.,e specialmente il fram. 21, L. I. ed. di Lipsia) Ora
siffatto concetto involgeva di necessità un criterio scientifico; innanzi tutto
perchè chi medita l'ordinarsi d'una dottrina scienziale, qualunque ella sia,ad
un eser cizio d'operazioni, si suppone averne penetrato l'intima essenza in cui
quel principio regolatore risiede; e poi perchè il vero relative alla vita,sebbene
manifestoin noi pel sentimento morale, s'attiene alle parti più vive e più
affettuose dell'essere umano,ond’è mossa la rifles sione a ripensare da sè
stessa e con proprj principj l'ordine speculativo delle conoscenze. Pervenuto a
tal punto il filosofo, non ha da fare che un passo per racco gliersi nella
coscienza morale, e quindi trar fuori con metodo ascensivo e discensivo
d'induzione e di deduzione tutto quanto il disegno dell'edifizio scientifico;
la qual cosa apparisce a chi prenda ad esaminare in Cicerone l'ordinamento
logico degli scritti morali. Dove si scorge com'egli procedendo di passo in
passo nell'induzione, dall'idea morale di legge e di diritto, che lampeggiava
nella coscienza d'ogni cit tadino di Roma,si levò a concepire un ordinamento di
relazioni e di gradi dagli esseri inferiori a'supremi; re lazioni che
intercedevano tra Dio e l'uomo per l'eccel lenza della ragione, tra uomo ed
uomo per somiglianza di natura intellettuale e socievole; e quindi usciva una
specie d'equazione ideale tra Dio e le creature, tra gli enti ragionevoli, e i
non dotati di ragione, per la reci procanza dei doveri e dei dritti;e vi
s'acchiudevano in germe Teologia naturale, e Antropologia, Cosmologia e
Filosofia del buono. Questo largo disegno di veri morali fu il principio da cui
Tullio moveva nella via della scienza, e lo mostrano i libri politici e civili
antecedenti in ordine di tempo alle altre opere speculative. 3. Ora
soffermiamoci un poco.Mostrato così per suc cinto quale idea egli avesse della
Scienza prima e dei suoi principj, domandiamo che cosa debba pensarsi sul
dubbio accademico quasi universalmente a lui attribuito. La questione su tal
soggetto,disputata a lungo dai critici e storici della Filosofia, durante
il secolo scorso,mentre gl'ingegni si dividevano incerti tra l'amore
dell'antico e la curiosità del nuovo,e l'Enciclopedia affermava dogma ticamente
le sue negazioni, mosse ne'più de'casi dal pre supposto che Cicerone,come
seguace della Nuova Acca demia, ponesse il dubbio universale a fondamento di scienza.
Così opinò Bayle,e,sebbene alquanto meno risoluti,lo affermarono Brucker, Degerando
e Bernhardy. Per combattere una siffatta obbiezione non rimanevano alla critica
che due sole vie; o negare di pianta lo scettici smo della Seconda Accademia, o
rifacendosi da un nuovo e più accurato esame delle dottrine di Tullio, cercare
quale e quanta efficacia vi esercitasse quel dubbio, o come metodo
semplicemente,o come principio fondamen tale ed interno. La prima di queste vie
fu seguita dal sig.Gautier de Sibert in una memoria scritta da lui sui Nuovi
Accademici,la seconda da Raffaele Kuehner.Ma il critico francese,sebbene
dottissimo,quando volle mostrare che la Nuova Accademia non negava la
possibilità della scienza, contraddisse alla storia, nè rispose al quesito del
come conciliare la certezza dei libri morali di Tullio col dubbio quasi
assoluto d'Arcesilao e di Carneade. L’alemanno mostra invece con maggior verità
come il filo sofo nostro, seguace della Nuova Accademia quanto al metodo
inquisitivo dei veri particolari,ne temperasse per altro il dubbio
ravvicinandolo alle fonti socratiche. Ma
ilKuehner,cheraccolseconstudioletestimonianze fatte da Tullio ne'più de'proemj
sulla bontà e la modera zione del suo metodo,non ha considerato abbastanza nei
libri morali come a quel precetto apparentemente negativo dinon cercare che il probabile,edirattenerel'assenso,con
trappongasempre,ad esempiodiSocrate,l'altrosuprema mente affermativo del
conosci te stesso.Nè il tornare che egli fa tante volte a raccomandare ilfamoso
placito del savio ateniese, si prenda come artifizio rettorico,o come vano e
miserabile ossequio alle tradizioni. L'esame più diligente e spregiudicato
delle sue opere (io lo affermo sin d'ora) mostra che il dubbio universale e
sistematico, il dubbio di Carneade,del Cartesio e del Kant,non antecedeva
nella mente dell'oratore-filosofo allo stato di scienza. Egli,prima
d'esserefilosofo,come uomo,come romanogiàsisentiva e si riconosceva nel vero;e
quel vero,a cui l'animo spon taneamente piegava sin da'primi anni per
inconsapevole virtù di natura,l'intelletto glielo mostrava più tardi adu nato,
e come raccolto nell'evidenza interiore; evidenza non solitaria,non priva
d'oggettività,non fenomeno puro, quasi paesaggi riflessi sulla tela da magico
apparecchio dilenti,ma uno spettacolo interno,a cuirispondevano. tre grandi
attinenze dell'uomo con sè stesso,coll'universo e con Dio; un'armonia d'enti
che la scienza dovea tras formare in armonia di principj. “Nam quum animus
cognitis perceptisque virtutibus, a corporis obsequio indulgentiaque
discesserit, volupta sed Delphico deo tribueretur. Nam
quiseipsenorit,primum. A questo proposito ci giova riferire le sue parole tolte
da un luogo eloquente del dialogo delle Leggi, dove egli stesso in propria
persona descrive il concetto ed il metodo della scienza prima. Ita fit (così il
testo latino, che io trascrivo per maggiore esattezza secondo l'ediz. di Lipsia
riveduta da Klotz) ut mater omnium bonarum rerum sit sapientia, a cujus amore
Græco verbo “philosophia” nomen invenit, qua nihil a dîs immortalibus uberius,
nihil florentius, nihil præstabilius hominum vitæ datum est. Hæc enim una nos
quum ceteras res omnes tum quod est difficil limum docuitutnosmet
ipsosnosceremus:cujuspræcepti tanta vis et tanta sententia est,ut ea non homini
cuipiam, aliquid se habere sentiet divinum ingeniumque in se suum sicut
simulacrum aliquod dedicatum putabit, tantoque munere deorum semper dignum
aliquid et faciet et sentiet, et,quum se ipse perspexerit totumque
temptârit,intelliget quem ad modum a natura subornatus in vitam venerit
quantaque instrumenta habeat ad obtinendam adipiscen damque sapientiam, quoniam
principiorerumomnium quasi adumbratas intelligentias animo ac mente conceperit,
quibus illustratis sapientia duce bonum virum et ob eam ipsam causam cernat se
beatum fore temque sicut labem aliquam dedecoris oppresserit, omnem que mortis
dolorisque timorem effugerit, societatemque caritatis coierit cum suis,
omnesque natura coniunctos suos duxerit, cultumque deorum et puram religionem
su sceperit, et exacuerit illam,ut oculorum,sic ingenii aciem ad bona eligenda
et reiicienda contraria, quæ virtus ex providendo est appellata prudentia, quid
eo dici aut cogitari poterit beatius?Idemque quum cælum,terras,maria rerumque
omnium naturam perspexerit eaque unde ge nerata,quo recurrant,quando,quo modo
obitura,quid in his mortale et caducum,quid divinum æternumque sit viderit,
ipsumque ea moderantem et regentem paene prehenderit seseque non unius
circumdatum mænibus loci, sed civem totius mundi quasi unius urbis agnoverit, in
hac ille magnificentia rerum atque in hoc conspectu et cogni tionenaturæ, diimmortales,
quam seipsenoscet!quod Apollo præcepit Pythius, quam contemnet, quam despi
ciet, quam pro nihilo putabit ea,quæ vulgo ducuntur amplissima! » Atque hæc
omnia quasi sæpimento aliquo vallabit disserendi ratione, veri et falsi
iudicandi scientia et arte quadam intelligendi quid quamque rem sequatur et
quid sit cuique contrarium. Quumque se ad civilem societatem natum senserit,
non solum illa subtili disputatione sibi utendum putabit, sed etiam fusa latius
perpetua oratione, qua regat populos, qua stabiliat leges, qua castiget i m
probos, qua tueatur bonos, qua laudet claros viros, qua præcepta salutis et
laudis apte ad persuadendum edat suis civibus,qua hortari ad decus,revocare a
flagitio, con solari possit adflictos factaque et consulta fortium et sa
pientium cum improborum ignominia sempiternis monu mentis prodere. Quae cum tot
res tantæque sint, quæ inesse in homine perspiciantur ab iis, qui se ipsi
velint nosse, earum parens est educatrixque sapientia. De Leg. Qui s'espone a
dettatura del nostro filosofo il suo metodo dell'osservazione interiore
induttivo e deduttivo, quale uscì dalle dottrine di Socrate e di Platone, e
si continuò, accolto dal Cristianesimo, lungo le scuole m i gliori
dell'universale Filosofia. Vi si distinguono tre cose: lo ciò che antecede; 2o
ciò che accompagna; 3o ciò che sussegue alla scienza. Lo stato che antecede la
scienza non è il dubbio, m a un riconoscimento pratico e speculativo
dell'ordine universale.L'uomo ha innanzi tutto un sentimento ar cano della sua
somiglianza con l'Essere infinitamente perfetto; e quel sentimento della
dignità umana, e quel l'aspirazione all'immutabile e all'assoluto in cui vero e
buono sono congiunti, e la ragione procede da uno stesso fonte identica colla
legge morale, risveglia in lui l'evidenza intima de principj speculativi,
ond’e’si leva alla cognizione di sè stesso e di Dio, capisce pei mezzi
l'eccellenza del fine a cui nacque, e costituendo in ar monia pensiero e
volere,premette la riforma morale di sè stesso alla riforma speculativa.Due
condizioni del sog. getto rendono possibile in lui la contempla zione dell'og
getto che è scienza:prima la retta disposizione dell'animo purificato
spiritualmente dalla morale, l'istinto sociale educato dalla vita civile,
l'istinto religioso santificato e nutrito dal culto; in secondo luogo rende
possibile la scienza la capacità delle potenze conoscitive, che non sa rebbero
potenze ordinate alla notizia del vero,se un che di determinato e d'efficace,
se una verità prima non le costituisse tali nell'essere loro;ma è prima necessaria
la retta disposizione dell'animo,perchè ilpensiero avvalorato dalcuore (animo
acmente) ravvisi nell'intellezione prima (adumbrata intelligentia), un
po'confusa e indeterminata, le notizie riflesse. Ciò posto, si procede allo
stato di scienza,e il filo sofo movendo dall'esperienza interiore, col soccorso
della Dialettica dottrina delle conseguenze e conciliatrice dei contrarj,
levasi alle ragioni supreme dell'essere, del co noscere e del fare,si forma i
concetti d'origine e di fine, di contingente e di necessario, di temporaneo e
di eterno, che gli sono via a discendere di nuovo alla notizia di sè stesso e
del mondo, notizia comprensiva ed universale che lo palesa inferiore soltanto a
Dio, eguale ai suoi simili, e cittadino dell'universo. 3. Dall'ordine
universale della Scienza prima discen dono due dottrine applicate, e strette in
vincoli di co munanza fra di loro: la eloquenza civile e l'arte dello stato.
Tali erano per Cicerone i fondamenti, ed il metodo della scienza. Ora ecco,
secondo che riassume un istorico recente della Filosofia, quali erano isuoi
criterj: « Nella coscienza di noi stessi Cicerone, come Socrate,più di So crate
forse perchè romano,sentiva l'universalità del vero, distinta dalle opinioni
particolari,e l'amore che tende al vero, e l'essere nostro sociale e religioso,
relazioni uni versali anch'esse; e però egli inculcava sempre di fermar
l'occhio in ciò ch'è proprio dell'uomo,ossia nella retta ragione (De off); e
contro gli Epicurei fa valere gli affetti più generosi dell'animo (ivi, e negli
Acc.e ne'Tuscul.e quasipertutto);echiama insoste gno il senso comune e le
tradizioni umane e divine.Così ne' libri Tuscolani adopera l'autorità del senso
comune a dimostrare l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima umana,e dice
ne' Paradossi contro gli Stoici: « Noi più adoperiamo quella filosofia che
partorisce copia di dire, e dove si dicono cose non molto discordi dal pen
sardellagente.»(Proem.) E nelleseguentiparolede' Tu scolani si vede com’ei
raccogliesse,di mezzo alle opinioni varie,le tradizioni universali de'filosofi
e le divine;« Inol tre,d'ottime autorità intorno a tal sentenza (cioè l'im
mortalità dell'anima) possiamo far uso; il che in tutte le questioni e dee e
suole valere moltissimo (in omnibus, caussis et debet et solet valere plurimum
); e prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate); la quale quanto più era
presso all'origine divina (ab ortu et divina progenie ) tanto più forse
discerneva la verità.» (Tusc.,I,12).E tra'filosofi, ch'egli cita,preferisce
appunto Ferecide,come antico,antiquus sane;e indine conferma l'autorità con
quella di Pitagora e de'Pitagorici;il nome de quali, egli dice, ebbe per tanti
secoli tanta virtù che niun altro paresse dotto. E dice più oltre
che, secondo Pla tone,la filosofia fu un dono,ma quanto a sè,una inven zione
degli dèi: « Philosophia vero omnium mater artium, quid est aliud,nisi, ut
Plato ait,donum, ut ego, inventio deorum? » Nel che s'accenna il principio
divino della Sapienza e della tradizione.(Conti, St. della Filo sofia) 4. Se
per ciò che risguarda i principj e i fondamenti della filosofia egli mosse
direttamente da Socrate affer mando la chiarezza naturale del soggetto
scientifico,e l'efficacia della conoscenza, quanto poi al metodo più
propriamente detto, indagatore dei veri particolari, fu se guace, o come ci
dice egli stesso,restauratore della Nuova Accademia (deserte discipline et iam
pridem relicte ), restaurazione che, a mio parere, può e debbe chiamarsi una
vera riforma; perchè l'idealismo d'Arcesilao e di Carneade tralignava nel
dubbio, e, piuttosto che all'An tica Accademia, si ricongiunse agli scettici
dell'età italo greca e a Pirrone; m a Tullio attingendo alle fonti socra tiche
si riscontrò nelle tradizioni genuine della sua scuola. Questo fatto s'è
rinnovato in Italia nel secolo XVII, quando Galileo Galilei tornando al vero
metodo aristote lico dell'induzione, restaurava la filosofia naturale; più
peripatetico in ciò, come egli stesso scriveva al Liceti,di tutti i
peripatetici de'tempi suoi. Riassumendo il tutto in poche parole, Cicerone
attri buiva alla filosofia universalità di fini, di principj e di metodo, e
tutto ciò comprendeva,come Socrate,nel senso generalissimo della voce sapienza,
talchè dopo averla descritta ne'libri oratorj come un semplice esercizio di
raziocinio, e in alcune opere morali come una dottrina puramente pratica e
positiva,ne'Tuscolani e nel secondo libro degli Officj la chiamò con significato
più largo: scienza delle cose divine ed umane e delle loro cagioni. Suolsi
affermare comunemente dai critici e dai filosofi che Cicerone diè prova di
scarso ingegno speculativo non componendo le sparse verità in un sistema
ordinato. La quale accusa vuol bene determinarsi; perchè,se con essa
si nega che Cicerone aggiungesse copiose speculazioni alla materia delle
dottrine contemporanee, e che componesse le verità antecedentemente trattate
dalle scuole socrati che in un compiuto e perfetto sistema, ha ragione la cri
tica, m a la critica ha torto,se vuol negare che a Cicerone mancasse qualunque
disegno di scienza, o un proprio cri terio per l'ordinamento formale delle
dottrine. L'affermar ciò, rispetto a Cicerone, importerebbe nel vero affermarlo
pure di Socrate,e d'ogni altro riformatore; chè il sistema della filosofia di
Tullio (se così vuolsi chiamarlo), come quello di Socrate, non è ordinato
secondo un disegno po sitivo corrispondente all'ordine del soggetto ripensato
dalla coscienza, m a si svolge nella stessa opposizione alle sette, e in quella
opposizione egli scuopre il concetto della scienza,e il metodo,e i criterj che
gli son guida,indizio manifesto che,mentre da un lato egli demoliva le dot
trine sofistiche dei contemporanei, edificava dall'altro sui fondamenti
incrollabili della coscienza umana. Ora si avverta come il considerare in tal
modo questa temperata efficacia della speculazione di Tullio, che ri pensa e
rifà le dottrine degli altri con un proprio criterio positivo di paragone e di
scelta,in contrapposto alla pas sività negativa dell'eclettico erudito che
ricopia quelle dottrine e le raguna nella memoria,anzichè comporle nella
riflessione; è metodo forse non seguito fin qui dai prin cipali critici di
Cicerone,e tale che potrebbe condurre a meglio comprenderlo e giudicarlo col
chiarire molte que stioni, tra le quali non ultima quella sull'uso ch'egli fece
dell'autorità quanto ai fonti delle sue dottrine,trattata a lungo in Germania,
e sì bene dal Kuehner nel capitolo quinto, parte seconda della Dissertazione
citata. E tale è il metodo che noi abbiam preso a seguire, ond'escono
alcune conseguenze e regole pel nostro esame. In primo luogo, poichè solo per
nostro avviso, il contrapporre Tullio a'suoi contemporanei può dimostrare
quanta altezza d'ingegno e potenza d'analisi gli abbisognasse per isceverare
dalla confusione de'sistemi le verità principali, chiarirle e ordinarle in
forma di scienza, terremo l'uso d'esporre ogni volta le principali
opposizioni de' sistemi, e poi qual giudizio ne recasse il filosofo latino.In
secondo luogo avremo questo a principio di critica, notato da altri, che,
poichè le opere di Cicerone sono per la m a s sima parte dispute scritte, e,
come tali, ritraggono nei varj personaggj il conflitto delle opinioni, e le
nature differenti degl'interlocutori, convien distinguere con ogni diligenza
quando egli riferisce la propria, e quando l'opi nione degli altri, quando egli
stesso prende parte al dia logo, o si tien fuori, quando tratta ex professo una
m a teria,oquandosoltantol'accenna (V.Degerando, Brucker, Kuehner, Middleton.)
Finalmente si consideri bene che l'ordine di questo ragionamento mostrerà come
una pro gressiva verificazione dei principj supremi nella mente di Tullio, a
misura ch'egli passa dalla filosofia fisica alla logica, e poi alla morale; ed
è perciò che qualche argo mento interrotto in una parte delle dottrine, verrà
ab bandonato e poi ripreso in un'altra, quand'egli,conside randolo sotto un
aspetto diverso, sempre più lo verifica, e sempre più lo chiarisce. Le fonti da
cui trarre le dottrine di Cicerone, sono principalmente i suoi libri di
filosofia, che ci pervennero la maggior parte, se n'eccettui le traduzioni
Oeconomica Xenophontis,Protagoras ex Platone, Timæus de Universo (trad., come
app. dal proem., dopo gl’Accademici; i libri vriginali, Hortensius de
philosophia,Consolatio de luctu minuendo (scritta poco prima dei Tuscolani), De
Gloria, Commentarius de virtutibus,Cato,sivelausM. Catonis, Deiure civili in
urtem redigendo; de'più fra'quali rimangono frammenti. Gli altri, non interi
tutti, e che in ordine di tempo si distribuiscono cosi: De republica,De
legibus(composti dopo il De republica), Paradoxa,Academicorum (ne fece due
edizioni dette Acad. priorum in 2 libri, e posteriorum,in 4 libri;della prima
c'è rimasto il secondo libro, della seconda il primo; anno 709),De finibus
bonorum et malorum; Tusculanarum disputationum (compiti avanti la morte di
Cesare), De natura Deorum, De Divinatione, De fato, De officiis, Cato major de
senectute, Lelius de amicitia (scritto dopo il Catone maggiore
av.gliOfficj);furono variamente distinti dai critici secondo la loro materia e
la forma. Ritter li distinse in riposti ed in popolari, clistinzione che più
esattamente potrebbe ridursi all'altra de'dialoghi speculativi, come i libri
Accademici, de'Fini, delle Leggi,della Natura degli Dei;dagli scritti che hanno
È noto quanto siasi discusso tra i critici sulle dale dei libri di
Cicerone.Cilusa principale del dissenso è il non trovarsi d'accordo quauto al
determinare l'anno della nascita dell'Autore. Forsyth lo dice nato il 3 di
gennaio, ma aggiunge in nota a p. 2, che, secondo il calendario Giuliano, egli
sarebbe nato l'ottobre. In questo anno pongono la sua nascita Middleton,
Kuehner ed altri autori meno recenti;onde seguita che,mentre, a cagione
ll'esempio,essi fanno il De consolatione,l'Orlensio,gli Accademici, il De
finibus e le Tuscolane, e le opere De Natura deorum, De Divinatione, De Fato, De
Offi riis, Cato Vajor e Lælius; il Forsyth e l'edizione di Lipsia (riveduta dal
Clolz so quelle dell'Orelli e dell'Ernesti), riferiscono i primi cinque
trattati. Noi stiam o col critico di Lipsia, e col Forsyth,perchè mollo
recenti,e temperati assai nei giudizj.Del resto di parecchie opere si conosce
la data.Intorno a quella del De Republica e De Legibus rimane qualche
incertezza. Il dott.P. Richarz. in una dissert., De politicorum Ciceronis
librorum tempore natali (Wir ceb.), stabilisce avervi speso Cicerone oltre a
dieci anni, Questa ed altre molte dis sertazioni di critici tedeschi e
francesi, citate da noi,ricevemmo dalla cor. tesia dell'illustre A. Vannucci, a
cui rendiamo pubblica testimonianza di gratitudine. un fine pratico,ad
esempio gli Officj,dell'Amicizia,iPara dossi, le Tusculane e qualche altro. Noi
abbiam seguito l'altra distinzione più principale, ammessa da tutti icri tici,
e che fino a un certo punto concilia l'ordine logico o sistematico o tematico dei libri coll'ordine di tempo, tra le opere
fisiche – filosofia naturalis -- De natura Deorum, De divinatione, De fato, e
il Somnium Scipionis parte della Rep.), le logiche -- Academicorum, Topica, De
inventione, etc. --, le morali – De finibus,Tusculanarum, Paradoxa, De legibus,
De officiis, De republica, De senectute, De amicitia). Avvertendo che la distinzione
non siprenda troppo assoluta, ma che si guardi alla qualità che prevale. Fonti
secondarj, ma dausarsiconmolto riserbo, sono,secondo nota opportunamente
Middleton nella vita di Cicerone,le Orazioni e l’Epistolario; e noi vi
aggiungiamo le opere rettoriche, segnatamente il De Ora tore e l'Orator. La
distinzione accennata delle opere fisiche,logiche e morali risponde al concetto
della scienza, e al metodo della antica Accademia seguito da Tullio nell'ordina
mento generale delle dottrine, e ne partisce la filosofia nelle tre grandi
teoriche dell'essere, del conoscere e del l'operare. Premessi questi principj
generali, si passi ora al l'esame più specificato delle dottrine. Il prendere
ad esame con quella larghezza e diligenza,che è necessaria alla critica istorica,
le varie parti delle dottrine tulliane, è cosa invero che ricerca un abito non
ordinario di osservazione, e un sentimento vivo delle attinenze scientifiche;
perchè, sebbene, come fu notato nel capitolo antecedente, non si trovi
nell'Arpinate un pieno disegno di filosofia ordinata a sistema, basta leg gere
alcuno dei suoi libri speculativi per accorgersi tosto ch'ei ritraeva da
Socrate,non soltanto ilmetodo esterno del disputare e la sobrietà dell'esame, m
a altresì quella riflessione larga e compiuta, onde l'Ateniese coglieva
nel l'universo delle idee la unità della scienza. E di fatto socratici veri
sono, come ben nota Ritter,tutti coloro che videro chiaramente la necessità di
collegare la scienza de'fatti interni con quella dell'universo, l'osservazione
morale coll'esperienza e la fisica colla psicologia. Nes suno dunque fu più
vero e perfetto socratico del nostro Autore. Anch'egli si accorse, come già il
suo Maestro, che se un sentimento naturale, abbenchè indeterminato,
dell'attinenza tra il pensiero nostro e gli oggetti, mosse la riflessione
ne'primi passi della scienza a riconoscersi per illusione identica col mondo
esteriore,illusione da cui poi i Pittagorici, gli Eleati e gli Ionj traevano il
pantei smo,e uscì la dialettica de'sofisti, un secondo passo a ristorare la
scienza caduta nella materia e nelle astra zioni eccessive, doveva essere
l'affermazione dell'uomo interiore, e di quella sintesi intellettiva e morale,
sola realtà oggettiva, in cui mirando il pensiero potesse rav visaresèstesso in
attinenza colle cose con Dio.Suquesti fondamenti Socrate restaurava la vera
dottrina dell'es sere,dottrina che tratta di Dio,dell'universo e dell'uomo,
considerati nella loro esistenza, natura e relazioni su preme, e abbraccia in
sè le scienze fisiche e matemati che, la teologia naturale, la psicologia e la
cosmologia. Tutto ciò veniva compreso dagli antichi sotto il nome universale di
Fisica (usato in più luoghi da Cicerone ), e la Fisica includevano nella
Filosofia, perchè questa trat tando degli enti nel loro ordine universale
contemplato interiormente dalla coscienza,porge alle dottrine d'osser vazione
esteriore il soggetto e i principj. Or qui bisogna avvertire che questa unione
intima delle parti scienziali, sentita vivamente dalle scuole antiche italiane,
e confer mata da Socrate (il quale, nemico della fisica sofistica degli
Ionj,favorì invece coll'osservazione interiore la fisica buona), dava
occasione, come sempre, ad un bene e ad un male; il bene era l'altezza della
riflessione scientifica, che comprendendo nell'unità de'principj
l'intelligibile e il sovrintelligibile, la natura e il divino, scorgeva
sempre più addentro i legami che stringono la teologia naturale, la
psicologia e la cosmologia; il male era che le scienze sperimentali così intimamente
collegate alla filosofia spe culativa,mentre se ne avvantaggiavano da un lato
rispetto all'universalità, traendo dall'accordo colle altre parti del l'umano
sapere occasione a più vera e perfetta compren sione della propria materia,
dall'altra ne scapitavano quanto ai metodi, allorchè all'osservazione esteriore
o induttiva, che sola ci può condurre alla notizia dei corpi, si volle
sostituire la deduzione, che da pochi generalissimi, posati a priori, scendeva
di salto, come nota Bacone, al particolarede'fatti. Due
fontiperennid'errorenellescienze sperimentali furono pertanto il panteismo e il
dualismo; ilprimo,perchè,data l'unità di sostanza,ne consegue la medesimezza
dell'ordine ideale col reale,onde deduce il filosofo darsi vero passaggio dalle
idee alle cose,senza necessità di sensata esperienza; il secondo, perchè, fatta
coeterna a Dio la materia,ne viene alterato il concetto di finitudine, e il
mondo si pensa non più finito e tem poraneo, m a infinito ed eterno, e animata
la materia e incorruttibiliicieli;pertalmodo panteismo edualismo ci diedero la
fisica fabbricata a priori, quale fu nelle scuole dell'India,nelle
Pittagoriche, nelle Eleatiche, in Platone, negli Stoici e nei Peripatetici del
medio -evo. Le quali considerazioni son necessarie,parmi,a chiunque voglia
esaminare la metafisica di Cicerone, e chiarire come mai,mentre la fisica superioreeledottrinesuDio,
sull'uomo e sull'universo sono fondate da lui sopra prin cipj sì alti, vi
prendono pochissima parte e indiretta le indagini sperimentali. Ai tempi
dell'Arpinate in cui, venuta all'ultima corruzione laGentilità, si rinnovarono
esiesageraronotutti gli errori delle età anteriori, quello strano accozzo delle
scienze fisiche colle metafisiche era venuto al suo colmo, e potente occasione
di scetticismo era il contrasto delle opinioni. Ora v è un luogo sulla fine
degli Accademici primi,dove Tullio descrivendo in persona propria la di scordia
delle sette contemporanee nelle tre parti della scienza,e volendo
mostrare come quella discordia giusti ficasseildubbio dellaNuova
Accademia,sitrattienepiùspe cialmente sulle dottrine de'Fisici (Acad.) D a quel
luogo apparisce che il panteismo e il dualismo italico spingendo all'eccesso
l'induzione astrattiva, per stabilire l'identità della sostanza prima, avean
con cepito a priori un'essenza nascosta e universale delle cose distinta dalle
loro qualità manifeste pel senso,e che si convertiva in tutti gli elementi; m a
sulla natura di quest' intima essenza si disputava segnatamente tra le scuole
pittagorica, eleatica ed ionica. D'altra parte sor geva questione tra le
differenti scuole socratiche sull'or dine e sui destini dell'universo;gli
Stoici ammettendo una continua successione di mondi, affermavano temporaneo il
presente ordine delle cose; Aristotele lo diceva eterno; i primi trasportando
l'immagine dell'uomo nel principio supremo, concepivano Dio provvidente nei
particolari e negli universali; m a Stratone da Lampsaco e Democrito gli
rifiutavano ogni ingerimento nelle cose del mondo, inentre
Aristotile,accordandogli la provvidenza dei generi e delle specie, gli negava
quella dei particolari. Tal m e todo di ragionare a priori sull'essenza delle
cose,occulta intimamente all'umano intelletto,non piaceva a Tullio,
ond'e'consigliavaun piùmodestosapere; mostravacome la notizia, che noi
acquistiamo de'corpi, movendo dagli effetti, non comprende l'intima essenza e
l'efficacia delle cause, e se all'occhio stesso dell'anatomico, che pur p e
metra ne'corpi, non si manifesta l'attività che li avviva, molto meno ella si
manifesterà al Fisico, che non può tagliare e dividere la natura delle cose per
indagare i fondamenti su cui posa laterra. Procedendo di questo passo l'Autore
faceva vedere negli Accademici, nei Tusculani e nel libro della Natura degli
Dei,come i dubbj opposti alle eccessive affermazioni de'Fisici intorno alla
essenza delle cose si trasportavano dalla Nuova Accade mia sull'esistenza,natura
e destini dell'anima,sull'esi stenza e natura di Dio e sue relazioni
coll'universo, e sulle altre principali verità della scienza. Nei luoghi
citatiadunque e in qualche altro ancora,in cui l'oratore latino dipinge il
dissidio delle scuole sulle verità naturali, non può negarsi ch'egli si faccia
seguace della Nuova Accademia; e non pertanto s'ingannerebbe col Ritter chi,
attingendo di preferenza a quei libri che han fine principalmente metodico, e
dove le dottrine della Fisica superiore si toccano per incidente, ne inferisse
il dubbio universale di Cicerone sui fondamenti di tutta la scienza. Nella
fisica ciceroniana si vuol distinguere infatti le verità problematiche dalle
teorematiche; le prime ri feribili all'intima essenza e natura de'corpi, alle
leggi de’loro moti,alla costituzione fisica dell'universo;l'altre risguardanti
l'esistenza e natura di Dio, dell'uomo e del mondo, considerati nell'ordine
loro e relazioni supreme. Quanto ai problemi naturali,egli non impugnava la pro
babilità che la scienza pervenisse a risolverli, e, come primo presupposto
somministrato dalla filosofia alle dot trinesperimentali,ammetteva
lapercezionede'corpi;ma di contro all'orgoglioso dommatismo degli Stoici, degli
Ionj e degli Eleati gli pareva assai più degna del saggio la modesta
verosimiglianza della Nuova Accademia,e fu per certo impresa vantaggiosa alla
Fisica, in una età come quella quando gli errori del panteismo,e il difetto dei
metodi e degli istrumenti toglievano fede alle verità di sensata esperienza,
professare una modesta ignoranza del vero per arrestare in tal guisa i rapidi
progressi dello scetticismo universale. E lo scetticismo, diceva Cicerone, si
sarebbe aperta la via quando que'filosofi dommatici non avessero considerato,
come sentenziando con assoluta certezza di cose occulte e dubbiose, si
toglievano poi l'autorità d'affermarne altre d'evidenza maggiore; os servazione
importante e che mostra come anche rispetto alla scienza sperimentale Tullio
non professasse un dub bio assoluto, m a riconoscesse un ordinamento di gradi
dal verosimile al certo. Acad .prior.e De repub. M a la prova maggiore si è
che, mentre le intermi nabili e vane questioni ond'era ingombra la fisica, lo
la sciavano sconfortato e dubbioso,un desiderio nutrito dall'ingegno potente e
dall'animo roma no,loinvogliava delle indagini naturali,di quelle indagini onde
ci leviamo sopra noi stessi, e dispregiando la picco lezza delle umane
cose,proviamo un vivo sentimento del divino e dell'immortale. « Nè anche io penso
(così scrive Cicerone) che sidebbano tor via tali questioni dei fisici; poichè
viè un certo naturale alimento degli animi nel considerare e
contemplare la natura;ce ne sentiamo inal zati,e fatti più grandi, e nel
pensiero delle cose supe riori e celesti dispregiamo queste nostre del mondo
come leggiere e di nessuna importanza; anche l'indagine stessa di cose
grandissime e occultissime diletta oltremodo; se poi c'imbattiamo in qualcosa
che sembri verosimile,l'ani mo nostro è compreso da quel piacere che
supremamente è degno dell'uomo.» (Acad.prior., De fin.,IV,5). Innamo rato
quindi della fisica, come fonte di più alte specula zioni, egli rigettava le
fantasie grossolane di Democrito e d'Epicuro . De fin. Loda Zenone perchè
imitatore dell'antica accademia diligente indagatrice della natura (De fin.); e
i quesiti del l a fisica che lo mossero a tradurre il Timeo di Platone, gli
avevan det tato qualche anno avanti le pagine più eloquenti del trattato sulla
Repubblica; il ragionamento di Filo e lo stupendo sogno di Scipione. De rep., De
fin., Tuscul. Due conseguenze,per quanto ci sembra,discendono dal
contesto generale dei passi sopraccitati,e da una lettura complessiva dei libri
fisici di Cicerone: 1o che il filosofo latino, a misura che dalla ricerca delle
cose sensibili, e dell'essenza loro occulta all'intelletto dell'uomo,argo mento
de problemi, si levava col discorso induttivo ai teoremi della scienza,
scopriva illuminate da una luce interiore le verità più alte, sebbene in mezzo
alle tene bre del gentilesimononardisse determinarle; 2ache,ofosse la dottrina
stoica a cui pendeva,o l'indole viva e meri dionale del suo ingegno, nella
natura egli sentiva e rico nosceva il divino; e tale attinenza sentimentale e logica
della sua mente tra ilfinito e l'infinito,tra il contingente e
l'assoluto, tra il temporaneo e l'eterno gli era scala a pensare la relazione
ontologica;e questa poi per abito alsemipanteismo-dualistico di Platone e degli
Stoici lo conduceva probabilmente a immaginarsi l'intelletto umano emanato da
Dio,e Dio e le creature supreme disgiunte dall'universo de'corpi. In questo
metodo che sale per gradi di verosimiglianza dalla natura al divino, metodo
improntato sulle meditazioni socratiche,sta l'essenza della fisica di
Cicerone,e n’escono chiarite e per ordine le sue dottrine sull'esistenza e
natura di Dio, dell'universo e dell'uomo, sulla provvidenza e sulla libertà
dell'arbitrio. 2. La dottrina sull'esistenza e natura di Dio tiene il primo
luogo nella fisica di Cicerone.La causa di questo primato apparisce evidente
innanzi tutto per la sovranità incontestata dell'idea di Dio nella scienza.
Dio, oggetto necessario e reale assoluto ed eterno che si manifesta come prima
causa al di fuori di sè stesso nell'universo degli enti, e li governa volgendo
l i a d un fine immortale, che ne è prima legge,in quanto si rivela
all'intelletto dell'uomo nel mondo degl'intelligibili,come ragione
prima,signoreggia per fermo tutto l'ordine scienziale;e infatti,sebbene l'inda
gine della coscienza interiore sia principio e fondamento al sapere nell'ordine
della riflessione, è pur certo che i veri, i quali si dicono da’filosofi più
noti rispetto a sè stessi, e son centro d'infinite relazioni, come quello di
Dio,partecipano all'uomo quell'ampia veduta ideale,che sola lo conduce alle
armonie della scienza. Nè il primato del concetto di Dio si menoma punto se la
mente sale da ciò che muta a ciò che non muta,e dalla natura al di vino, una
volta ch'ella v’ascende guidata da un concetto necessario d'attinenza causale,
attinenza di termini cor relativi, l'uno dei quali è Dio stesso presente con
arcana e invisibile efficacia nel soggetto pensante. Anche senza l'unità assolutadeipanteisti,lafilosofiasicompone
dunque in forma di scienza,e la psicologia e la cosmologia si congiungono
insieme nel massimo problema della teologia naturale.La qual cosa è assai
provata dal metodo di Socrate, che movendo dalla coscienza produsse in
Platone una compiuta armonia di sistema, e aiuto il filosofo latino,
venuto in tempi di povere e scucite speculazioni, a ser bare un vincolo di
dottrine nei suoi libri di fisica, che scritti in ordine successivo di materie
e di tempo,debbono quindi esser presi ad esame da noi come un solo trattato.
Premesse queste cose, viene spontanea la domanda: quale
fosseilpensierodell'oratorelatinointorno a Dio.Se dopo una attenta lettura dei
passi delle sue opere, dove tal pensiero s'accenna,e un diligente ragguaglio di
questi passi tra loro,ci facciamo tal quesito, verrà spontanea pure
larispostach'egli dell'esistenzadiDio,diquelladell'anima e sua immortalità,
della provvidenza e del libero arbitrio non dubitava,e soltanto accoglieva una
più o meno decisa incertezza quanto al determinarne la natura; e il suo
criterio in sì ardua questione della filosofia era un vivo intuito e un
sentimento più vivo dell'eccellenza e della armonia delle cose palesata
internamente dalla coscienza morale, esternamente dai principj supremi di
universale consenso.(Kuehner. Scholten, Dissertatio philosophico-critica de philosophiæ
ciceronianæ loco qui est de Divina Natura. Amstelaed. In questo criterioioravvisoil
riformatore e il filosofo vero; il riformatore, perchè m o veva da ciò che v’ha
di più vivo e di più efficace nel l'uomo, dall'autorità delle tendenze morali,
il filosofo, perchè non se ne stava già al testimonio privato e indi viduale,ma
con deliberata indagine scientificacercavale note del vero nella ragionevole
natura dell'uomo, e nel suo carattere d’universalità. Tale osservazione è degna
d'es sere avvertita sin d'ora,perchè parecchi istorici della filo sofia,tra
iquali anche Ritter,considerando ilmodo ora dubitativo, oradommaticoconcui Cicerone
si esprimeinsif fatta dottrina, ilsuo riserbo nell'accettare le opinioni degli
altri, nell'esaminarle, nel ventilarle, han voluto dedurre che egli in questa
parte,filosofo di non troppo sottili spe culazioni, più che a una severa
riflessione, se ne stasse al sentimento individuale destituito da criterj
scientifici. (Ritter, Hist., Brucker, Degerando.) M a questi
storici non hanno considerato a quali tempi si abbattè Cicerone; tempi di
sfrenate passioni, di orribili scelleratezze, di guerre sterminatrici, ne'quali
ogni fon damento dell'edifizio civile crollava, e la scienza,abban donato il
sublime ministero di propagatrice del vero, si prostituiva alguadagno. Alloralavocedel
senso comune e degli affetti naturali, alterata dalla Gentilità, non so nava
nelle plebi,quale una volta,testimone dei veriuni versali e delle tradizioni
primitive; la voce del popolo non era più quella di Dio. Allora la tradizione
scientifica, che ravviata da Socrate s'era andata continuando, benchè con
notevoli alterazioni,lungo le scuole socrati che, pervertita dagli ultimi
sofisti avea perduto ogni sen timento del vero;talchèalfilosofo,chenon avesse
voluto o bestemmiar colle plebi o delirar coi sapienti, non ri maneva che
cercare iprincipj della scienza nella propria natura non corrotta e
nell'antichità veneranda. Ecco il fondamento che cercò Cicerone alle principali
dottrine della teologia,ed ecco icriterj che lo guidarono in mezzo ai
ravvolgimenti delle scuole sofistiche. Qui per altro è necessario notare
che,quando diciamo che in tempi di sì corrotta filosofia Cicerone ebbe e
metodo, e indagini pro prie,e guide non fallaci del vero,noi non lo rappresen
tiamo immune del tutto dalla funesta efficacia delle dot trinecontemporanee, nèintendiamo
ch'e'fossesì fortunato da ravvisare scevre d'errore nel santuario della
coscienza le verità principali.- Ebbe egli compiuta e perfetta n o tizia della
natura di Dio e delle sue perfezioni? conobbe senza mischianza d’errori i d o m
m i della spiritualità e i m mortalità dell'anima umana?ravvisò semplici e
schiette, senza infezione di panteismo e di dualismo,le attinenze dell'Ente
supremo coll'intelletto dell'uomo e col mondo? - I o so che tali quesiti furono
proposti più volte dagli storici della filosofia, e poichè parve che Tullio non
s e m pre rispondesse chiaro e deciso all'esame dei postulanti, gli fu negato
nome e autorità di filosofo, e valore d'in gegno speculativo. (Brucker lo
difese dall'ateismo; redi Bayle, Diz. Art.Spinoza).E veramente la
conclusione Il metodo ch'e'si propose apparisce manifesto dai tre libri D
e natura Deorum; e tal metodo discende dal fine di tutto iltrattato. Or qual
eraquelfine? Chiamare scenderebbe di necessità dai principj, quando si
potesse provare che la riflessione scientifica s'è trovata in ogni tempo nel
medesimo stato di certezza di contro al sapere naturale e al soggetto della
scienza,o che lo spirito umano nonsegueun cammino
diprogressivosvolgimentonellaetà dellastoria;e sela criticamoderna immune da
preoccupa zioni, adoperasse sempre una stessa severità imparziale nell'esame
d'ogni filosofo. Ma la cosa procede ben altri menti; perchè da un lato il
razionalismo alemanno coi suoi seguaci d'ogni paese, che ammette ogni
perfeziona mento scientifico come un prodotto spontaneo e succes sivo della
ragione nel tempo,non potrebbe,senza rischio di contraddire ai principj del
proprio sistema, negare che la forma logicale e il fondamento delle dottrine
dei filo sofi antichi sia rispetto a quel de'moderni notevolmente imperfetto;
d'altra parte il filosofo del Cristianesimo, che afferma oscurate e corrotte
prima della venuta di Cristo le tradizioni e le verità primitive, e restituite
dalla parola rivelatrice del Verbo quelle tradizioni e quelle verità
all'intelletto dell'uomo redento, non può non ravvisare nelle dottrine
cristiane un perfezionamento notevole delle dottrine gentili; infine, ed è
conseguenza del già detto, nessuno rimprovera ai filosofi Indiani, Italo-Greci,
a So crate, a Platone, ad Aristotele l'ignoranza, l'errore e le manifeste
dubbiezze intorno a parti sostanzialissime della scienza. Le quali cose
premesse, è inutile,parmi, far conside rare al lettore di Cicerone ch' e' non
vi troverà deter minato senza ondeggiamenti d'idee e d'espressioni il con cetto
di Dio; anzi dirò di più che tal concetto in parecchi luoghi delle sue opere
(come nel De natura Deorum ) apparisce più assai negativo che positivo. Resta
ora che cerchiamo in breve per quale indagine lenta e progressiva giungesse il
filosofo nostro a una verificazione sempre m a g giore di quel concetto
divino. ad esame le principali opinioni de'filosofi intorno a Dio,
discuterle,confutarle, e mostrare come le loro controversie sovra una parte sì
nobile della scienza siano ben sovente occasione e pericolo di scetticismo. Con
questo intendimento venuto egli ad esporre l'occasione del dialogo, racconta
come essendo stato invi tato nel tempo delle Ferie latine in casa
dell'accademico C. Aurelio Cotta pontefice e suo familiare e trovatolo insieme
con C. Vellejo, che allora avevavoced'esserein Roma ilprimotragliEpi curei,e Q.
Lucilio Balbo, stoico da paragonarsi ai più prestanti fra iGreci, cominciarono
questi a disputare, lui presente, della natura degli Dei, spartendo tutta la m
a teria in tre punti principali; vale a dire: se vi fossero Dei,quale fosse la
natura loro,e quale intervento aves sero nelle cose del mondo e degliuomini. La
qual spar tizione è conservata in appresso sì nell'esposizione delle dottrine
di Vellejo e di Balbo, come nelle risposte di Cotta, che replicando ogni volta
a ciascuno di loro, li confuta entrambi. Il dialogo sulla natura degli Dei,che
è dei più im portanti fra i libri speculativi del nostro autore, si riduce in
sostanza a una esposizione viva ed eloquentissima delle incompiutezze dei
sistemi sofistici, contraddicenti alla c o scienza e al suo naturale
riconoscimento, e si vede quivi come gli errori più perniciosi sul concetto di
causalità prima che è fonte a noi del concetto di Dio,accumulati da secoli,
corrompevano allora le speculazioni gentili. Il panteista, immedesimando Dio
colle creature, pervertiva l'idea della sua natura infinita e assoluta,
introducendo nell'ente senza difetti il maggior de'difetti,la negazione
dell'infinito e dell'assoluto; il dualista che svolge l'unità primordiale del
panteismo, segregando il Creatore dalle cose create e indiando la natura, si
perdeva nella contra dizione immortale di due infiniti coeterni, onde
moltiplicando il divino, l'annienta; il materialista e l'idealista l’un o
affogato nel senso, l'altro confinato nella fredda solitu dine dell'idea, o si
vedevano dileguare il concetto di Dio tra i fenomeni della materia, o lo
perdevano di vista nelle indefinite astrazioni; m a l'uno e l'altro riuscivano
a n e garlo,perchè sempre si nega per necessità di sofisma l'evi denza non
affermata per difetto di logica. Ora egli è a p punto questa legge inesorabile
dell'errore che Cicerone volle rappresentare mettendo alle prese l'Epicureo con
lo stoico, e sottoponendoli entrambi al sindacato della Nuova Accademia. E invero
quell'ardita e sconsigliata filosofia d'Epicuro che riesce sì lusinghiera
vestita dello splendore di Lucrezio, si mostra in tutta la sua nudità nel
discorso di Vellejo (Lib.I, dal C. VIII al XXI).Po neva egli come certo che gli
Dei sono,perchè la natura avea impressa negli animi di tutti la loro anticipata
notizia (apódnbev),e ne accennava vagamente l'essere e la figura, facendoli
eterni e perfettissimi e conformati a si militudine umana,ma non da materia
corporea e sensi bile,bensì da un fortuito accozzo d'immagini simili rin
novantisi all'infinito (imaginibus similitudine et transi tione perceptis); gli
Dei così costituiti dipingeva beati, e non curanti nè di sè stessi, nè delle
cose pertinenti agli umani. Ora è chiaro che le conseguenze d'una siffatta dottrina
eran ridurre la natura di Dio ad un puro con cetto della mente,ad un'immagine
d'inerzia non conci liabile coll'ordine e col moto d'ogni cosa creata. Ma a più
alto concetto di Dio si levava lo stoico Lucilio. Gli Stoici che,come vedemmo
nella prima parte,ammettevano contenuta nell'indeterminatezza primordiale della
materia passiva, oscura, divisibile, capace all'infinito di forme un'intima
energia che traendola all'atto ne costituiva la vita dell'universo, concepivano
Dio in questa vita,e m o vevano per affermarlo esistente dall'universale
consenso, dai prodigj,dall'armonia delle cose,e dalla eccellenza dello spirito
umano. Sostenuta da questi argomenti la prova fisica della provvidenza di Dio
che va dal C. XXXIII al LXVII del libro secondo, è uno dei più mirabili tratti
dell'eloquenza romana. Giunti a questo punto,se esaminiamo la polemica della
Nuova Accademia contro le dottrine d'Epicuro e di Crisippo, ci si presenta la
questione, a lungo agitata nelle scuole, qual sia in questo libro il vero
pensiero di Tullio su Dio,e se il dubbio accademico si manifesti in lui sotto
la per sona di Aurelio Cotta. I critici più antichi lo affermarono
risolutamente, alcuni più recenti come Scholten, Kuehner e Ritter, con qualche
riserbo. M a sì gli uni che gli altri si avvicinarono al vero senza
comprenderlo a pieno; perchè essi ponevansi ad esaminare quel libro preoccupati
dal concetto che Cicerone conforme a ciò che dice in varj de'suoi proemj,e nel
proemio del De natura Deorum, partecipassequividel tutto il dubbio fon
damentale e sistematico, il dubbio di Carneade sulle verità principali; laddove
bisognava invece considerare come il quesito proposto risguardasse intimamente
il complesso delle dottrine, nè quindi potesse essere risolto badando a qualche
frase staccata, m a solo serbando nell'esame la rigorosa armonia delle parti
col tutto. Alla qual cosa, se non m'inganno, noi ci aprimmo la strada sin da
prin cipio,quando distinguemmo nell'oratore latino due parti, e quasi due forme
dell'indagine scienziale; per l'una, che chiamerei intrinseca e dommatica, egli
si ravvicinava ai principj socratici, e ammetteva i fondamenti del vero nei
fatti della coscienza; per l'altra estrinseca e negativa, che eraildubbio della
Nuova Accademia, moderatamente partecipato da lui, egli confutava i sistemi
contemporanei con dedurre da più negazioni particolari una compiuta
affermazione del vero. Assumendo egli in tal guisa le dot trine d'Arcesilao,
più come istrumento metodico e inqui sitivo,che come sostanza delleproprie
opinioni,ed anzi, quel che è maggiormente notevole, rifiutando il dubbio
fondamentale sulla validità della scienza,stabilito da A r cesilao e da
Carneade, doveva avvenire (siconsideri bene) che il fondamento delle teoriche
tulliane contraddi più volte a quella sua apparenza di dubbio,talchè vi fos
sero in lui quasi due persone distinte, l'una delle quali negava,l'altra
implicitamente edecisamente affermava. Ora si avverta un poco come questa
contradizione, non però sostanziale,apparisca, più che altrove,evidente
nel l'opera che noi esaminiamo; e come,introducendosi ivi da un lato Cicerone
che assiste al dialogo senza prendervi parte, e dall'altro Cotta che vi
sostiene la parte di con futatorecol metodo della NuovaAccademia,èdato occa
sione alla critica di verificare con bastante certezza le sue opinioni,
raffrontando insieme la persona del ponte fice con quella dello scrittore. A
persuadersi di ciò ba sterebbe considerare qualmente, se Cicerone intendeva
celarsi sotto la persona di Cotta,era inutile allora che introducesse sè
stesso;ma egli si dipinse là in mezzo a que'disputanti, chiuso in un silenzio
veramente sublime, per rappresentare in sè l'immagine viva del sapiente, che,
sebbene certo per natura di veri infiniti, tuttavia procede cauto e riguardoso
all'acquisto della certezza scienziale. Noi affermiamo sin d'ora che Cicerone
possedeva da n a tura la certezza del teorema che prendeva a chiarire, perchè
egli stesso,alludendo a ciò nel proemio dove dis corre in persona propria, ci
dice che le discordie dei dotti intorno a materie importanti sono occasione
potente di scetticismo anche a coloro che han fiducia in qualche cosa di certo
(I. 14); e perchè i due primi capitoli del libro primo sono un testimonio
irrepugnabile del come il filosofo latino ponesse l'esistenza di Dio e la sua
prov videnza sui fondamenti della certezza morale. Il dubbio di Cicerone nel
libro De natura Deorum era dunque semplicemente verificativo delle ra gioni già
possedute, e avea per fine sostituire alla cer tezza naturale la certezza
scientifica. M a d'altra parte chi guardi le dottrine della Nuova Accademia,
quali ci sono rappresentate nella persona di Cotta,che le conduce alle ultime
conseguenze,siaccorge tosto che la loro indole negativa non era già apparente e
metodica, m a procedeva dall'intima essenza dell'idea lismo d'Arcesilao, il
quale dubitando d'una reale corri spondenza tra l'essere delle cose e le
potenze conosci tive, dovea dubitare pur anco della certezza naturale e del
senso comune, testimone per lui d'un'ingannatrice evidenza. Questa è la
ragione per cui Cotta nelle sue ri sposte moveva dal negare agli Epicurei ed
agli Stoici la nozione preconcetta di Dio, attestata dal senso co mune. Ora
siavvertacome la Nuova Accademia non affermando un proprio e fermo fondamento
di vero negli umani giudizj, e solo una tal quale verosimiglianza eguale per
tutti, mancava di prin cipj certi e positivi da costituirvi la scienza,e
conseguen temente anche di un criterio sicuro a cui ragguagliare la critica
de'sistemi contrarj. Questi sistemi, conforme alle opinioni della Nuova
Accademia, non erano quindi alcun chè di vero o di falso secondochè si
avvicinavano o si dilungavano dai principj irrepugnabili della scienza; con
tenevano tutti, sebbene in gradi differenti, la verosimi glianza concessa
all'umano intelletto, e solo quando il legame logico, che intercede di
necessità tra le conse guenze e i principj, non era strettamente serbato,
allora soltanto si dava in essi l'errore. Un tal criterio, sostan zialmente
negativo e relativo,abbisognava (sidirà)diun criterio positivo e assoluto
desunto dall'evidenza de'prin cipj supremi,su cui posa incardinata la necessità
logica d'ogni sistema;ma laNuova Accademia non vibadava, e ragguagliando
ciascuna filosofia colle premesse del pro prio sistema, tentava coglierla in
evidente contradizione. (Nelle opere di Cicerone passim.) Un si manifesto
contrasto tra il dubbio verificativo e scientifico del nostro Autore, e il
dubbio scettico della Nuova Accademia apparisce in ogni passo de'suoi libri, in
cui egli introduce la persona di qualche Accademico che confuta gli opposti
sistemi; apparisce poi più evi dente che mai nella conclusione del De Natura
Deorum, dove Tullio, uditi i filosofi disputanti, termina dicendo: la
disputazione di Cotta (Accademico) sembrò a Vellejo (Epicureo)più vera;a me
l'altra diBalbo (Stoico)più verisimile; il che è quanto dire che la Nuova
Accademia dubitando di Dio si avvicinava agli Epicurei, mentr'egli, certo di
questo vero,si allontanava dagli uni e dagli altri accettando in parte le
dottrine del Portico.E che dim e gli opoteva eglifareinmezzoalturbiníode’sistemi?Estinte
quasi del tutto le sacre tradizioni, il consentimento p o polare offuscato dai
vizj, da un lato, imbestiati nella materia negavano gli Epicurei la
spiritualità del concetto di Dio, e la sua provvidenza, dall'altro negavano gli
Accademici la efficacia del senso comune nell'affermare Dio,e sottili
argomentatori lo contrapponevano al male; ai primi Tullio opponeva nel proemio
citato la dignità dell'umana mente,ilbisogno innegabile della religione
consentito da tutti;ai secondi,l'efficacia del testimonio universale,gli
affetti dell'animo,isupremi principj della ragione e la libertà del volere (Tusc.,
d e Nat. Deor., De Leg., passim);del resto egli pendeva verso gli Stoici,e perchè
consentivano il consentito da lui, e perchè lo in namorava quel loro sublime
concetto della umana eccel lenza e dell'armonia delle cose.Come poi egli
movesse dalla coscienza morale, osservata al lume d'un criterio scientifico,
sarà dimostrato in altra parte di questo dis corso col libro delle Leggi, dove
l'efficacia esercitata nell'animo nostro dall'idea d'una suprema sanzione gli
faceva porre a proemio di tutte le istituzioni civili Dio provvidente,e
allegarne per prova la natura dell'uomo, solo fra gli animali, in cui sia
innata la notizia di Dio, e alberghi un animo immortale originato dal cielo. De
Leg. Premesse queste considerazioni, se ne possono dedurre tre cose. Il vero
intendimento di Cicerone nello scrivere il De Natura Deorum fu,esporre e
confutare i principali sistemi contemporanei, e a tal fine egli assunse come
istrumento metodico e inquisitivo il dubbio della Nuova Accademia,senza
accettarne lo scet ticismo; 2o Cicerone non rappresentò sè stesso nella per
sona di Cotta, m a soltanto la forma estrinseca del m e todo proprio; 3o Il
filosofo latino volle significare nelle parole del proemio, e della
conclusione,e nel silenzio ser bato in tutto il dialogo ch'egli aveva di Dio un
alto concetto, che quel concetto nella sua mente era certo di certezza
naturale, m a che in mezzo alle tenebre del Ge n tilesimo e alla discordia dei
dotti,non ardiva determinarlo in ogni sua parte, e sostituirvi una assoluta cer
tezza di scienza. Ora si domanda, perchè non riuscisse a Cicerone definire a sè
stesso questo concetto. Dimostra l'Ontologia come l'intelletto dell'uomo
investigando le proprietà metafisiche dell'ente in ordine ai concetti
universali, distingue l'essenza dall'essere di una cosa;quella come idea
generale rappresentante una possibilità di cose indefinita, questo un che
d'attuale, di esistente e di determinato in sè stesso. Ora si badi che ciascuna
cosa esistente, sebbene offerta all'intendimento dell'uomo dall'intelligibilità
universale della sua essenza, in quanto è esistente,vale a dire in quanto è un
atto reale dell'essere, cade per via de'sensi sotto l'apprensione delle potenze
conoscitive,e come tale è appresa particolare e finita; dall'apprensione poi di
molti finiti nella serie degli atti intellettuali la mente dell'uomo,soccorsa
dalla riflessione, le va si al concepimento delle cose infinite. Ma il concetto
dell'infinito, che è cima della piramide ideale,può es sere inteso in diversi
significati; l'un significato che ci offre l'entità assoluta, necessaria e in
ogni sua parte perfetta; l'altro che ci rappresenta una semplice entità
indetermi nata,e un mero portato dell'astrazione mentale.Però seb bene un
intervallo notevole disgiunga nell'intelletto del filo sofoe dell'uomo volgareitre
concetti del finito, dell'infinito e del non definito, merita di essere
considerata quella ragione qualunque di rapporto e di similitudine per cui essi
possono scambiarsi talvolta. La riflessione naturale aiutata dal lume della
scienza e dalla pienezza delle tra dizioni divine, avea concepito ab antico,
indi al termine dell'Era pagana ravvisò con evidenza maggiore nelle dot trine
cristiane l'idea dell'infinito assoluto, dell'ente per essenza correlativa
necessariamente all'idea del finito, vide in quest'ultimo, naturalmente
determinato e imper fetto,come non darsi possibilità d'attoinfinito,così nean
che necessità d'eterna esistenza,onde dedusse ilfinito procedere per atto
creativo dall'infinito, il temporaneo dall'eterno,il contingente dal
necessario.Tale è la teorica cristiana della creazione, fondata sopra una serie
logica di concetti, la cui necessità è confermata a noi tutti fino dai
primi anni in una voce interiore che ci parlò sublimi cose di Dio,in un
continuo desiderio,che ci travaglia inconsapevoli per tutta la vita in cerca
d'una perfezione immortale. Nel procedere che fa la mente a questo apice dei
concetti v’ha per altro un pericolo d'arrestarsi per via;chè sebbene
ilsentimento e l'intuito dell'infinito non possa verificarsi nell'uomo senza
una segreta unione del l'intelletto con Dio (qualunque poi sia questa unione,e
in qualunque modo s'effettui), e sebbene per l'attinenza di creazione l'atto
infinito ed eternale del Creatore costi tuisca nelle cose finite alcunchè di
somigliante a sè stesso, cioè un'indefinita potenzialità d'atti,di forme, di m
o menti,è però assurdo scambiare quell'attinenza coll'iden tità, e quella
potenzialità indefinita coll'infinito che la pone.Tale assurdo è l'origine del
concetto d'indefinito applicato alla causa creatrice.Fingasi ch'io pensi
iltempo, lo spazio, o l'indefinita potenza del mio pensiero; allora (e può
facilmente avvenire ciò che tutti provammo alla vista di pianure interminate e
di mari, o in un facile abbandono della mente a sè stessa), se in quell'arcana
presenza di Dio la fantasia prende il di sopra sulla r a gione, io mi
rappresento quell'ordine d'atti, di durate, di coesistenze come infinitamente
continuato, continuato per una perpetua remozione di limiti che, a dir
così,sono e non sono ad un tempo; e quell'abbaglio di fantasia si muta in un
concetto reale,ed io penso l'infinito,l'eterno, l'immenso di Dio sotto
l'immagine d'indefinito.Così nacque ilpanteismo in Asia,in Italia ed in
Grecia;e così pen sano l'assoluto i panteisti Alemanni, e l'Hegel segnata
mente. Veduta la differenza d'origine dei tre concetti di finito, d'infinito e
d'indefinito,si domanda ora quanto all'essere loro quale d'essi sia negativo.
Per fermo l'infinito,se ne togli il materiale significato della parola,
evidentemente nel suo concetto non ha nulla di negativo, desso che non ha
limiti ond'è costituita negli enti la negazione dell'es sere; non limiti di
contingenza,perchè necessario, non limiti di tempo, perchè eterno, non
limiti di modi e di mutazioni,perchè assoluta sostanza;anzi èinfinitamente
positivo come causa infinita, e perchè dotato d'efficienza assoluta pone dal
nulla l'effetto, e perchè ne rappresenta in sè in modo sopraeminente e
immensurabile le perfezioni finite.Il finito poi da un lato è negativo nella
sua essenza ideale, come rappresentante all'intelletto un che fornito di limiti,
dall'altro lato è positivo nel suo essere come atto sussistente e determinato;
l'indefinito che è propria mente l ' i po y dei greci, è negativo nell'essenza
e nel l'essere;nell'essenza c o m e astratta potenzialità del finito,
nell'essere come un qualcosa che perennemente diviene, e non è mai; e dico che
è negativo in ogni sua parte, per che se il positivo del finito consiste
nell'essere determinato come atto individuo e concreto, l'indefinito che nega
quella indeterminatezza, si riduce ad una pretta astrazione mentale e per
ultimaconseguenzarisolvesiinnulla.A chipoisi maravigliasse che ilconcetto
d'indefinito,cima delle astra zioni, si fosse pôrto per tanto tempo e a tante
nobili menti in luogo del concetto più naturale assai d'infinito a spiegare la
divina entità, io addurrei per ragione lo strano giuoco della fantasia che
nelle nature vivamente passionate si mesce alle operazioni delle potenze cono
scitive, addurrei l'oscurarsi delle sacre tradizioni onde avviene che
nell'animo abbandonato a sè stesso la divina luce dell'intelletto soggiaccia
agli adombramenti del senso, e infine, ultima conseguenza di ciò,la superbia
dell'uomo che Dio e l'universo volle rassomigliati a sè stesso. Io parlo cose
ben chiare a chi abbia sufficiente notizia della Storia della Filosofia, quando
dico che la Paganità tutta avanti l'Era volgare,e nell'Era volgare tutti i
filosofi più o meno infetti di paganesimo ignorarono ilvero con cetto
dell'infinito applicabile alla natura di Dio;dico il vero concetto,e non escludo
che anche tra'pagani alcuni, e segnatamente Platone,vi si accostassero in
parte; tale è l'evidenza suprema di quella idea all'umano intelletto, e tale il
sentimento non repugnabile che la creatura rav vicina al Creatore. Ma tornando
alnostro filosofo,egli,come tuttipiùo meno gli antichi, come tutti i pagani,
rimase molto al di qua dal concetto genuino e legittimo dell'infinito. C o n
tuttociò,sebbene nel De Natura Deorum rappresenti del concetto di Dio la parte
più negativa,tra perchè quivi egli procedeva per metodo d'eliminazione
confutando i sofisti, e perchè mostrò avvicinarsi all'idea indefinita che ne
avevan gli Stoici,è noto alla Storia della Filosofia che nelle sue dottrine
s'incontra sovente l'altro concetto più positivo degli attributi dell'anima
considerati come corre lativi, o analogici agli attributi di Dio. Questa
teorica, accennata in fine del De Natura Deorum, ritorna negli ultimi capitoli
della Repubblica,e nel primo libro dei Tusculani. Argomento di quei capitoli
della Repubblica è il sogno di Scipione Affricano imitato dalla Repubblica di
Platone, ed è necessario fermarvisi un poco, perchè, sebbene ivi si tratti
dell'immortalità come premio delle virtù domestiche e civili, e perciò la
materia contenga un intendimento morale,l'essenza di quelle dottrine si ri
connette intimamente alla fisica.La ragione poi è chiaris sima. Nel fondo di
tutti isistemi gentili, per quanto con nessi consottilissime prove, eanimatidaun
intimo principio diidealità,siannidava pur sempre una ragione dimateria lismo,
procedente dall'idea indefinita ch'essi qual più qual meno s'eran formati
dell'infinito,e che originandosi da un ristagno dell'immaginativa nei fenomeni
della m a teria e del senso,ivi la riconduceva pur sempre giù dalle altezze più
metafisiche della scienza. I Gentili, e segna tamente gl'Ionj, considerando in
tal guisa l'operare delle cause naturali,per quindi dedurne la prima causa del
l'universo,tra i fenomeni esterni posero particolare atten zione al moto, e
perchè al moto si riducono sostanzial mente tutte le trasformazioni della
natura, e perchè al moto s'attribuisce in generale la causa de'fecondamenti
terrestri; il moto poi richiede un'intima forza motrice delle sostanze,
altrimenti non si spiegherebbe come, data l'inerzia della materia,dall'una sostanza
e'si comunichi all'altra;ecco perchè negli antichi panteisti e semipanteisti, e
nei loro imitatori moderni primeggia il concetto di forza (Büchner, Forza e
Materia ); applicate poi questo concetto delle forze particolari
all'universalità delle cose, e immaginate un'unica sostanza a cui segua
necessaria mente un'unica forza, e avrete il panteismo dinamico di Capila,
degl'Ionj, del Timeo e degli Stoici.Questo sistema dinamico ritiene nel suo
fondo l'impronta del pensiero che lo concepisce. Di fatto, poichè in esso la
riflessione procede astraendo per ragionamento induttivo lungo una serie di
cause modali dalla più manifesta e determinata ad una occulta e generalissima
cui sidà ilnome di causa prima, e tra le cause modali,fornite di più intima e m
a nifesta efficacia,l’anima,che ha coscienza viva del proprio essere,è tratta a
concepire sè stessa per prima, ne viene che l'ultima causa si pensi ad immagine
dell'anima come un alcunché diuno,origine difattimolteplici,presente col
l'unica attività a ogni parte della materia informata,fonte di vita, di
movimento,di senso. Stabilita questa dottrina panteistica,apparisce chiaro
quali conseguenze ne prover ranno alla dottrina dell'anima. Il filosofo gentile
che dal concetto dell'anima è tratto a pensare la causa prima dell'universo, e
la natura di Dio che lo informa, discen dendo novamente da Dio e dall'universo
in sè stesso, immaginerà l'anima d'origine e d'attributi divini (h u m a nus
animus decerptus ex mente divina. Tusc.), ne spie gherà l'intima efficacia e il
modo d'operare delle sue facoltà a somiglianza della natura divina, e
finalmente confondendo l'eternità, attributo dell'ente infinito, col
l'immortalità che appartiene agli spiriti finiti, farà eterna e immortale
l'anima,dicendo con Platone che essa è una causa,origine di moto ad
altre,senzaorigine essa stessa e perciò senza fine. De Rep., e Tusc. Questa è
la sostanza del sistema panteistico (o semi panteistico) esposto dal filosofo
nostro negli ultimi capi della Repubblica. Ivi descrivendosi in modo stupendo
la costituzione dell'universo, si rappresenta la terra circon data dalle nove
orbite dei pianeti animati da divine menti, dei quali l'ultimo che
contiene tutti gli altri,è sommo e principe Iddio. D a questi fuochi sempiterni
disceso l'animo dell' Da queste considerazioni apparisce quanto sia intima
mente collegata alla teologia naturale la psicologia del filosofo latino.Se noi
volessimo recare per esteso la ra gione più generale di questo legame, e
spiegare coi filo sofi recenti quel modo d'induzione correlativa, onde la mente
negando al finito le sue limitazioni, si leva a cono scere l'infinito di
Dio,trascenderemmo di troppo itermini della presente questione. Invero la
notizia che all'uomo è concessa dell'assoluto divino,procedendo per analogie e
rap presentanze il cui contenuto ci è pôrto da elementi speri mentali, dee
riuscire di necessità inadeguata all'oggetto; uomo, è il divino esso pure
che governa e muove il corpo come il divino principe, l'universo;sempiterno,immortale,
rinchiuso nel corpo come in un carcere,e desideroso della sua dimora
celeste,dove restituito dopo la morte in premio delle virtù cittadine godrà
eternamente la compagnia degli spiriti immortali.In questo luogo son chiare le
remi niscenze di Platone e degli Stoici; ma degli Stoici v'è poco; laonde io
non vi riconosco col Ritter un prevalere del concetto stoico di materialità sul
concetto della spiritualità divina (Hist. de la phil. anc.); perchè, sebbene
Cicerone volendo abbellire della fantasia le sue dottrine fisiche ai lettori
romani,riproducesse ivi la parte più immaginosa e più sensibile del sistema pla
tonico del Timeo,è noto come quelle immagini nascon dono nell’Ateniese una
idealità di concetti sublimi,e più m'è argomento che Cicerone in questo luogo
si scostò dagli Stoici, il vedere com’ei faccia immortale non sol tanto l'anima
universale, m a anche le anime particolari, mentre per confessione del dotto
Alemanno, « era con forme alle dottrine degli Stoici il ricusare all'anima indi
viduale, come parte dell'anima universale, l'immortalità insensoproprio.» (Ritter,
Physique des Stoïciens. Vedi però nelle Confessioni del Mamiani, Ontologia,
acutamente accennata l'opinione contraria.) inadeguata, io dico, perchè
l'animo che giunge al concetto di Dio trascendendo infinitamente sè stesso,non
può far sì che nelle conseguenze di quella induzione non soprabbondi tuttavia
il sensibile e il contingente che si conteneva nelle premesse; e perchè in
quella via che dalla natura ci mena al divino,noi siamo ancora molto di qua dal
ter mine che dovremmo varcare,sebbene pur di qua piova su noi la luce
incommutabile dell'infinito riflessa dal l'universo a quel modo istesso che il
sole, non ancora spuntato sull'orizzonte, si rifrange scintillando nel mare. È
questa la vera causa per cui Cicerone, comecchè s'avanzasse d'assai soccorso
dall'indole sublime,e l'universalità dell'ingegno latino, non giunse però (e lo
vedemmo) al concetto ben determinato dell'infinito; ma è vero altresì che uno
fra gli studj più belli della Storia della Filosofia si è il cercare nei suoi
libri popolari e speculativi come il concetto di Dio,correlativo a quello del
l'anima, si va grado a grado perfezionando nelle opere fisiche, finchè perviene
alla sua pienezza nelle dottrine morali. Un primo passo di questa ardita
speculazione noi lo vedemmo nel De Natura Deorum,libro essenzialmente istorico
e disputativo, in cui Cicerone, avvolto nella di scordia delle sètte,e inteso a
paragonarle tra loro e a c o m batterle con ogni argomento,non sa affermar che
ben poco, e si restringe all'esame delle altrui opinioni; tien dietro a questo
nell'ordine de'suoi pensieri il Sogno di Scipione, dove il concetto di Dio si
determina meglio, e apparisce anche più chiara la tendenza alle dottrine
platoniche; m a quelle dottrine sono trattate ampiamente nel primo libro delle
Tusculane,testimonio del suo metodo che de sume i principj dell'osservazione
intima della coscienza, e si sforza, trascendendo il creato, di profondarsi nel
l'essenza di Dio. In quei capitoli si tratta dell'immorta lità, secondo il
metodo della Nuova Accademia;cioè vuol provarsi (giusta l'intendimento metodico
del libro) come ammessa o non ammessa la indistruttibilità dell'anima
umana,segua in ogni modo che la morte non è da te mersi; l'immortalità poi si
dimostra movendo dalla tra dal dizione degli antichi, tradizione efficace
quod propius aberant ab ortu et divina progenie, dal consenso univer sale che è
legge di natura, manifesto nelle consuetudini, nelle leggi, nelle cerimonie,
negl'istituti, e dal senti mento naturale, onde alberga nelle menti degli
uomini, e segnatamente dei grandi,il desiderio della gloria che Cicerone chiama
con bella immagine un augurio de'se coli futuri. Sostenuto da tali prove la cui
efficacia de riva dal fondo del pensiero platonico, egli per ispiegare la
condizione dell'anima dopo la morte, ricorreva a de terminarne la natura, e
contro gli Stoici che le aveano concesso un'immortalità temporanea, affermava
con ra gione essere più difficile assai pensare l'anima rac chiusa nel corpo,
che immaginarla libera da ogni m a teria, e tornata ad abitare nel cielo
ond'ella è discesa. In queste parole si accenna la spiritualità che prevale tra
gli attributi dell'anima; sennonchè il nostro filosofo,che avea penetrato il vero
senso scientifico della parola, dicendo: ciò che è spiri tuale, sebbene non
percepibile al senso, andar soggetto per altro all'apprensione del
conoscimento, venuto poi a determinarlo, rimase un po'titubante;onde,sebbenetra
cinque elementi, che secondo Aristotele costituivano la sostanza terrestre,
scegliesse il quinto non nominato, più che non inteso a costituirne l'essenza,
e rifiutasse le gros solane fantasie d’Aristoxeno,di Democrito e d'Epicuro, quando
se la immaginò separata dal corpo, necompose una dottrina non al tutto
spirituale. Concedansi queste incertezze, da cui non anda assoluto neanche
Platone, al bujo sempre crescente delle speculazioni gentili.Ma da modesti
principj si leva il filosofo latino alla sublimità della scienza. Egli è tanto
inclinato con Platone ad affermare l'anima come una natura perfetta e immune da
ogni contagio colla materia, che la vuol rinchiusa nel corpo come in un
carcere; colle dottrine della filosofia moderna ne inferisce la semplicità dal
sentimento unico ch'ella ha del molte plice;riproduce,come nella Repubblica, il
noto argomento platonico tolto dall'eternità de'principj motori, e chiama
plebei quei filosofi (gli Epicurei)che non ne consentivano l'efficacia; espone
anche l'altro che all'anima attribuisce l'immortalità per l'intuizione degli
eterni esemplari. Che dunque inferiva da queste prove? Egli stante la
incertezza de'filosofi contemporanei, non si perdeva a determinare in che
proprio consistesse l'essenza dell'anima, o dove la sua sede nel corpo; atte
nendosi al concetto di causa,rivendicava al ragionamento induttivo sui fatti
interiori la sua validità di contro al l'induzione delle scienze sperimentali;
e si volgeva agli empirici materialisti,maravigliandosi come negassero poter
concepire l'essenza dell'anima separata dal
corpo,essiche pur tanto poco conoscevano dell'initimo operare della
materia; argomento valevole anch'oggi a smascherare i pretesi nemici della
Metafisica,se la reverenza alla ne cessità logica de principj fosse mantenuta
nel fatto, come è predicata a parole,da quanti amano chiamarsi seguaci delle
discipline speculativ e. (T u sc., Cf. Cato M., de Am. Meditando i capitoli
della Repubblica e delle Tuscu lane, alcuni del Catone Maggiore e del Lelio, e
qualche squarcio delle Orazioni (Miloniana), si vede in tutta la psicologia del
nostro filosofo, anzi in ogni parte della sua fisica questo ritorno costante dell'induzione
correlativa;nè sfugga all'osservazione del critico una nota importante di
questa dottrina, e cioè che, sebbene parrebbe a primo aspetto avere Cicerone
desunto la cer tezza scientifica della esistenza e delle perfezioni di Dio
dalla contemplazione dell'universo e dell'animo umano, apparisce invece in più
luoghi che un sentimento vivo del l'eccellenza di Dio,nutrito dall'indole
religiosa, e dalle tradizioni latine, dà lume e certezza al concetto positivo
dell'anima. E invero, se egli mostra talvolta di dubitare della semplicità e
immortalità dell'anima u m a n a, dell'esi stenza di Dio e delle sue perfezioni
infinite non dubita mai.«L'origine dell'anima umana,egli diceva nel De
consolatione, non può in alcun modo trovarsi su questa terra. Non v'ha in
essa niente di misto, nè di concreto o di terrestre; niente d'aria, d'acqua o
di fuoco. I m perocchè tali sostanze non sono suscettibili di m e m o ria,
d'intelligenza o di pensiero, nulla hanno in loro che ritener possa il passato,
prevedere il futuro, c o m prendere il presente; le quali facoltà sono
unicamente divine, e non possono in guisa alcuna essere venute nel l'uomo,se
non discendon da Dio. La natura dell'anima è perciò d'una specie
singolarissima, e da queste comuni e cognite nature distinta; talchè, qualunque
esso sia, ciò che in noi sente e gusta,vive e si muove,deve essere per
necessità celeste e divino, e però eterno. Infatti Dio stesso,che èinteso da
noi,non può intendersi in altro modo che come una mente liberissima e
pura,sgombra da ogni concrezione mortale, che vede e move ogni cosa, e sè
stessa con sempiterno moto; di questa sorta e di questa stessa natura è l'anima
umana.» Con queste parole conchiude Cicerone nel primo dei Tu sculani la
dimostrazione dell'anima e di Dio, dimostra zione mirabile per lucentezza
speculativa, e per schietta e dignitosa eleganza; qui lo vedi abbandonato al
nobile istinto del genio, e a un'immortale devozione pel bello, levarsi nel
mondo degli universali, nella dimora degli spiriti eterni, e indovinare quasi
sui vestigj di Platone i fondamenti ove posa la teologia del teismo; salvochè,
se il lettore tien dietro al procedere delle prove, e al le game segreto che le
connette,s'accorge tosto come per l'abito d'indurre dalle cause modali manchi
alla sua d e finizione di Dio la vera trascendenza logica del concetto, sebbene
(come vedremo) ve lo ravvicinasse d'assai nel primo delle Leggi la viva
coscienza dell'ingegno latino. La maggior parte di coloro che ci hanno
preceduto nella critica di Cicerone, hanno esaminato diligentemente l'indole
delle prove a cui s'appoggiava la dottrina del l'immortalità, e alcuni andarono
tant'oltre, nonostante le sue continue e ripetute affermazioni,che da certe epi
stole consolatorie agli amici (la sedicesima e l'ultima del libro V,e la
ventunesima del libro VI, ad Diversos)de Principio etherio
flammatus Iuppiter igni Vertitur et totum collustrat lumine mundum, Menteque
divina cælum terrasque petissit: Quæ penitus sensus hominum vitasque retentat,
Ætheris æterni sæpta atque inclusa cavernis. » (De suo Consul. De Divin. dussero
ch'egli ne dubitava; m a a queste accuse rispose vittoriosamente Gautier de
Sibert nell'Accademia di Francia,e Kuehner piùtardiloconfermava.Delresto per
ciò che risguarda gli attributi divini, e se Cicerone ammettesse uno o più
dèi,e se quest'unico Dio facesse veramente eterno,onnipotente,necessario, immutabile,e
qual fosse conforme alla sua dottrina la condizione degli animi separati dal
corpo, questione trattata da parecchi critici, io son d'avviso che tutto ciò
non possa stabilirsi con assoluta certezza, varie opere del nostro filosofo es
essendo andate perdute, nè trattando egli espressamente tali materie nelle
altre che ci sono rimaste.E nondimeno per chi mediti senza preoccupazione i
suoi libri v'è tanto ancora quanto basti a mostrare,come in mezzo a una re
pubblica corrottissima e ad uomini scelleratissimi l'ora tore latino cercasse
nel concetto genuino di Dio e del l'immortalità un degno conforto alle sventure
civili, e un magnanimo entusiasmo alla sua parola propugna trice ultima delle
libere istituzioni; egli che in uno dei suoi poemi,composto nel bel mezzo della
vita politica, avea definito Dio con quella immagine sublime di vera poesia:
Oratornandoalla dottrinateologica, questosegregare la mente dell'uomo da ogni
natura corporea,e sublimarla a una parentela soprannaturale con Dio, il che è
già accennato nel sogno di Scipione,dove nel senso platonico la natura
materiale del corpo è opposta a quella del l'anima, e la vita nostra è chiamata
una morte ci dà oc casione a stabilire un punto importante della fisica di M.
Tullio, cioè il suo dualismo, o semipanteismo. Di tal dualismo mi pare
sipossano arrecare due cause;l'una comune
allaleggeconcuisisvolgonoisistemifilosoficinella storia,l'altra ristretta particolarmente
all'ingegno di Cice rone.Quanto alla prima causa,se ricordiamo ilgià detto in
torno al modo con cui l'uomo partendo da sè stesso conce pisce nell'indefinito
del suo pensiero l'indefinito di Dio,e l'anima lungo la serie delle cause
modali da sè,prima causa più manifesta e più vicina a sè stessa,immagina la
divina causalità, intenderemo come fra le contradizioni del panteismo quella
che subito si porgeva più chiara alla riflessione esaminatrice,fosse la
medesimezza dell'anima e di Dio infi niticollamateriafinita,passibile,imperfettaedalrifiutodi
questa contradizione uscisse il dualismo di Dio e della m a teria,dell'anima e
del corpo,dell'intelletto e del senso.Tal dualismo desunto da Platone, benchè
in fondo contradit torio esso pure,indica un vivo sentimento dell'eccellenza di
Dio e dell'essere umano, e mi piace riconoscerlo come proprio degli uomini
sommi; laonde è ben naturale vi dovesse aderire Cicerone, non tanto perchè
innamorato degli esempj delle scuole socratiche la cui efficacia infor mava
vivamente le dottrine romane, quanto perchè poco amante della incertezza delle
scienze sperimentali, e testi mone egli a sè stesso dell'altezza dell'umano
ingegno,la cui onnipotenza tante volte gli apparve ne'combattimenti immortali
della tribuna. (Vedi più luoghi negli Ufficj e segnat. L. III, c. XLIV, ed
opere pass.) E poi se quel dualismo soddisfaceva da un lato le aspirazioni dei
più grandi intelletti, e metteva la notizia diDio al sicuro da ogni condizione
del finito, d'altro lato il concetto astratto che dava di quello la scuola
socratica faceva nascere il dubbio sul come spiegarne le relazioni, pur
necessarie, coll'universo dei corpi. Tal dubbio implicava il solito quesito sul
come conciliare l'ente col non -ente, il finito coll'infinito, il relativo coll'assoluto,
la perenne mutabi lità de'moti fenomenali colla quiete immutabile dell'es senza
prima, quesito continuamente proposto dalla G e n tilità,nè mai risoluto,perchè
mancava a sciogliereilnodo il vero concetto d'attinenza creatrice.(Vedi
Platone,Sofi sta.) Quindi la mente desaggj ondeggiava di continuo da un
termine all'altro di quella contradizione immortale. Enrico Ritter, più volte
citato, esaminando il sentire del filosofo latino intorno a siffatto quesito, e
rappresentando con vivi colori quell'opposizione ch'ei pose tra la natura e il
divino, non ne conobbe forse la causa più vera; la quale gli sarebbe apparsa
evidente se in luogo di vol gersi soltanto all'indole dello scrittore, l'avesse
cercata in questa contradizione che affaticava da più secoli la filosofia
pagana. Ma il Ritter s'appose anche in parte, poichè quel vivo intuito delle
perfezioni divine ed umane, e della differenza tra la materia e lo spirito che
prima avea salvato Cicerone dalla dottrina d’un'unica sostanza, ora lo teneva
sospeso nelle contradizioni del dualismo, massima delle quali era il contrasto
tra la libertà divina ed umana e le leggi fatali della natura che spegneva ogni
fede nella provvidenza, nel libero arbitrio e nella religione degli avi. Come
il nostro filosofo mantenendo il dualismo inten desse di conciliare l'efficacia
della prima cagione nelle cagioni seconde col moto necessario dell'universo,
come spiegasse quell'atto misterioso di causalità con cui l'in finito si
congiunge al finito, e lo comprende e lo sostiene senza identificarsi con esso,
e, mentre faceva con Platone emanato da Dio l'intelletto,rivendicasse all'altra
parte del l'uomo,identica colla natura sensibile,l'autonomia de'pro prj atti,e
l'imputazione morale,è quesito di non poca dif ficoltà, sì perchè la sua
dottrina fisica del dualismo non è abbastanza accertata,e perchè d'altra parte
ne’libri che esaminiamo al presente, ma più ne'morali, s'incontrano
affermazioni decise e ben ragionate sulla provvidenza di Dio e la libertà
dell'essere umano. (De Leg., Fin., Tusc., N. D., Catil., pro Marcello, ad Att.,
ad Div. Certo s'egli non fosse nato nell'ultima età dell'era pagana, e avesse
accolta quella teorica della creazione ex nihilo, chiamata giustamente da
Terenzio Mamiani una delle maggiori conquiste ottenute dalla speculativa dei
nuovi tempi sulle età trapassate, (Conf.) ha tratto dalla notizia di Dio
creatore un concetto chiaro delle sue re lazioni col mondo, e i due ordini
naturale e soprannatu rale gli sarebbero apparsi intrecciati fra loro per quel
legame di causa che congiunge la teologia colla scienza del mondo.Ma
Cicerone,come tutti igentili,rifiutavala dottrina della creazione, sebbene
proposta alla mente dei filosofi e delle plebi forse dalla memoria d'antiche
tradi zioni, il che mostra un frammento del libro terzo De Natura
Deorum,conservatocidaLattanzionellibro secon do,c.8 delle Istituzioni divine.
Esclusa la teorica del congiungimento tral'infinitoeilfinitoperattinenzacrea
tiva,non rimanevano,come vedemmo, che due sole vie;o l'unità consustanziale di
Dio e dell'universo,o l'assoluta separazione di questo da quello, del
molteplice dall’uno, dell'assoluto dal relativo. M a la dottrina de'panteisti
menata alle sue ultime conseguenze,oltre all'incorrere in quella lunga serie di
paradossi e di antinomie che in parte accennammo, e la cui dimostrazione ha
esercitato per tanto tempo l'ingegno de'filosofi d'ogni parte d'Eu ropa,
repugnava secondo Cicerone all'indole pratica e positiva del politico e del
cittadino; laonde egli la c o m battè acutamente colle armi della Nuova
Accademia nel quesito proposto dagli Stoici sulla divinazione o previ sione del
futuro. Secondo questa dottrina che usciva dalle premesse della fisica di
Zenone,l'uomo poteva prevedere ilfuturo daisegnidellecoseanimateodinanimate,essen
dochè l'universo fosse collegato ab eterno da un ordine necessario di cause
efficienti;ordine necessario nell'uomo, che era una particella o determinazione
dell'anima uni versale;necessario nella natura,dove ogni fatto è gover nato da
leggi, e racchiude in sè la ragione de'fatti con secutivi; necessario in Dio
stesso che, immutabile per sè, si trasforma ne'fenomeni della natura come in
uno svol gimento fatale della propria esistenza. Questa dottrina che si finge
esposta dal fratello di Cicerone nel primo De divinatione,è poi confutata dal
l'autore nel libro secondo; e quel dialogo è di somma importanza nella storia delle
credenze umane,perchè trattando la gran questione del soprannaturale agitata ai
tempi di Tullio,riproduce nel calore della controversia quello stato penoso
degli animi,sospesi nell'incertezza dei più nobili veri, e in un'età in cui la
rovina del politeismo già preparava il rinnovamento cristiano. La conciliazione
tra l'ordine necessario del mondo e l'autonomia dell'essere umano è accennata
nell'operetta de Fato.Questo libro,o meglio questoframmento,dove si espone un
dialogo avuto dall'Autore presso Pozzuoli con Aulo Irzio, console, scritto, insieme coi due libri della
Divinazione,a supple mento dell'altra opera de Natura Deorum per sostenere la
libertà dell'arbitrio contro il concatenamento fatale delle cause, e temperare
le ultime illazioni de'panteisti e de'dualisti contemporanei. Il metodo
dell'osservazione, applicato nei soli termini della natura sensibile,menava al
lora (come oggi) alcunifilosofisperimentali ad accettarela dottrina del Fato
(detto dagli Stoici eiuzpuévn),inteso come un ordine e una serie di
forze,manifestanti la natura di cause, e che s'intrecciano fra loro d'effetto
in effetto per leggi costanti d'antecedenza e di conseguenza.Ora è chiaro che
da questa dottrina condotta alle ultime conseguenze,
uscivaalteratol'ordineuniversale,eilconcettodinecessità che lo sovraneggia. Era
alterato dal panteismo,dove ve rificandosi l'identità de'due ordini
soprannaturale e natu rale,ogni atto fisico ed umano si riduceva a un deter
minarsi necessario della causa divina; era alterato dal dualismo che opponendo
Dio allanatura,e immaginando quest'ultima come sospinta da un ordine fatale di
cause intrinseche ad essa,non poteva spiegare in eterno come in quest'ordine
naturale si dessero fatti liberamente o p e rati. Ma Cicerone si schermiva da
questi errori ricor rendo alla osservazione interna, e al concetto di causa.
Che cos'è la libera volontà? salità poi non dee intendersi costituita
dalla pura e s e m plice successione de'fatti,ma dallasuccessione lorounita
coll'efficienza degli uni sugli altri.Or dunque (riprendeva ilfilosoforomano
controCrisippo),argomentano benegli Una libera causa;lacail Stoici
dicendo che nell'ordine prestabilito della natura tutto si opera per cause
antecedenti ed esterne, m a non hanno ragione se vogliono turbata questa legge
della n a tura dall'operare dell'arbitrio; « poichè quando diciamo di volere o
non volere qualche cosa senza una causa, fac ciamo uso non buono di una
consuetudine del linguaggio comune, intendendo dire, senza causa esterna ed
antece dente, ma non senza una causa qualunque;di fattiil moto volontario degli
animi ha tale natura che è in nostropotereeciubbidisce,non peròsenzacausa;chè
la causa di tutto ciò è la sua stessa natura (XI).» Non ci è permesso riferire
qual fosse in ogni parte la dottrina diTuiliosullalibertàdelvolere,perchè il libro
De Fato racchiude importanti lacune; m a apparisce però da più luoghi ch'egli
la fondava sulla certezza dell'imputabilità degli atti umani,e per tal via si
apriva il passaggio dalle opere fisiche alle morali,nel modo che appositamente
e con ordine verrà dimostrato nel capitolo quarto. Concludendo, alle dottrine
sin qui esaminate si re stringe le serie delle opere fisiche di Cicerone. Nelle
quali vuolsi considerare com'egli avviluppato in una moltitu dine di sistemi
contradittorj e negativi,e costretto ad esercitare l'esame della riflessione
sopra una materia scientifica ingombra nelle parti più sostanziali dalle te
nebre del sofisma, distinse le verità disputabili dai teoremi della
scienza,sceverò con critica coscienziosa ilbuono ed il certo delle filosofie
contemporanee ponendo l'una a ri scontro dell'altra, e temperandole ne'loro
eccessi. Per tal modo le principali verità mantenendosi intatte, soc correvano
il pensiero a ricostituire l'Ontologia nei prin cipj della scienza cristiana; e
questo è davvero un m e rito insigne e innegabile della fisica ciceroniana,
come altri notati da noi sono la sua temperanza verso le affer mazioni
eccessive degli sperimentali, il concetto di Dio, ravvicinato alla dottrina di
Socrate,e sciolto,per quanto erapossibileallora, dallecondizionielimitazionidell'uomo,
la natura spirituale dell'anima,la sua libertà dimostrate in tempi di
abbattimento morale e di costumi nefandi. Su questi principj fondava
l'oratore latino la sua fede religio sa;chè se (come nota bene Vannucci) «
nella Divinazione ed altrove, allontanandosi dalle forme timide della Nuova
Accademia con argomentazione più forte che in ogni altro scritto combattè da
arditissimo novatore le credenze usate già come istrumenti oratorj e politici,e
mostrò il vano e il ridicolo dell'arte divinatoria, e dei prodigj, e delle
imposture sacerdotali; » Senatore e console di R o m a, egli voleva una fede
ritemprata alle sorgenti incorruttibili della morale, e che diventasse vero
fondamento alla rico stituzione civile della sua patria. 1. Se la scienza, come
affermammo più volte, è un portato delle naturali notizie; se, ritenendo essa
nel suo svolgimento la natura del principio che la informava, la unità dell'oggetto
scientifico, riconosciuta dalla riflessione, si fonda in un primitivo ordine di
veri presenti tutti al l'armonia della coscienza,che costituisce il soggetto
scien tifico; nessuno può dubitare che i principj della teorica del conoscere,
o della Logica non si colleghino intima mente con quelli della teorica
dell'essere, coi principi dell'Ontologia. Il fondamento di questo legame che, a
n teriore al fatto della scienza, si riproduce tal quale nella scienza stessa,
ha la sua ragione nell'idea della persona lità umana, da cui, come da unico
fonte, rampolla la triplice attività dell'esistere,del conoscere,dell'operare;
l'ha nella stessa natura del vero che unico in sè, se lo esamini sotto duplice
aspetto, è prima essere nelle cose, e poi si fa vero contemplato
nell'intelletto. La medesi mezza delle due parti suddette della filosofia
apparisce per modo indiretto nella continua attinenza che strin fra loro le
questioni più importanti della logica e del l'ontologia dai più remoti principj
della nostra scienza fino ai tempi a noi più vicini. È un fatto omai noto nella
storia della filosofia come il quesito fondamentale della logica, qual sia
la relazione che corre tra l'ideale e il reale, quale la corrispondenza tra le
leggi del pensiero e quelle della natura, e se dandosi passaggio dall'intelli
gente all'inteso,se ne costituisca la possibilità della scienza, quesito
contenuto ab antico nella materia delle specula zioni pagane, ricevesse la sua
vera espressione scientifica dalle dottrine critiche della Riforma. È altresì
noto ai di nostri come dalla posizione deliberata di tal quesito si diramarono
due scuole; il Criticismo francese e alemanno, e il Criticismo cristiano, che
cominciato dai Dottori e dalla buona Scolastica ne'tempi di mezzo,segue a
fiorire segna tamente in Italia ai dì nostri. Ambedue queste scuole, di verse
sostanzialmente nei principj ontologici del sistema, dissentono pure nella
logica. La prima desumendo le sue dottrine dal panteismo e dualismo antico,
resuscitato più tardi da un ritorno della civiltà cristiana ai dommi del
Gentilesimo,disconobbe l'attinenza manifestatrice che per legge di natura
intercede tra il pensiero e le cose, tra il soggetto e l'oggetto, e
quell'attinenza ode naturò in identità colle dottrine d'un'unica sostanza, o
riduce a separazione ammettendo col Cartesio un'intima differenza tra le qua
litàdell'esteso elequalità del pensiero, d'onde il sistema delle cause
occasionali del Malebranche, quello dell'armonia prestabilita del Leibnitz e lo
scetticismo di Bayle e Kant. La seconda scuola movendo dal principio che la
libertà del pensiero scientifico soggiace per legge di natura alla condizione
di non potere alterare l'ordine necessario degli enti fra loro, trovava con
sublime e trascendente concetto il legame dell'idealità col reale e nell'intima
essenza dell'atto creativo di Dio, che pose primitivamente una coordinazione
d'atti fra l'essere delle cose e gl'intelletti creati; e in Dio stesso nella
cui n a tura infinita e impartibile s'immedesima l'idealità colla realtà, la
realtà dell'essenza coll'eterne idee rappresen tative e causative degli enti
creati. Or che si deduce da c i ò? Che se il principio del Criticismo, ond'è
ridotto a problema il teorema della conoscenza, ha un intimo riscontro nei
fondamenti della dottrina dell'essere, e i si. Ma qui cade per altro una considerazione
importante. Il panteismo e ildualismo,sebbene alterassero dai fonda menti la
dottrina della conoscenza o distruggendo la re lazione ond' è manifestativo il
pensiero, o affermando un'incomunicabilità primordiale tra ilsenso e la
materia, principio di corruzione e d'ignoranza, e lo spirito eterno emanato da
Dio, non negavano per anco esplicitamente nè l'un termine nè l'altro
dell'attinenza conoscitiva;e quando in un sistema, sia pur guasta e
corrotta,sia pure implicitamente negata,siconserva nell'intimo significato
delle dottrine la piena comprensione del soggetto su cui
cadelascienza,qualunquedisputaintornoaiprincipalipro blemi si offre sempre con
probabilità di scioglimento alla riflessione esaminatrice. Quella probabilità
cessa quando sensismo, materialismo e idealismo, negando due parti sostanziali
del soggetto, l'intelletto e l'idea manifestante, causa e mezzo del
conoscimento, e la cosa manifestata, termine della cognizione, si chiudono la
via ad affermare intera la notizia dell'essere umano, denaturano il legame che
intercede tra l'ideale e il reale, e rendono impossibile la psicologia, ingannatrice
la logica. Un breveaccenno di questa legge necessaria che si riscontra nella
storia delle controversie filosofiche, l'abbiamo già fatto nella prima parte
toccando dei sistemi principali che apparvero dal primo scadere della scuola
socratica fino ai tempi dell'Arpinate; allora fu osservato da noi come a n
dasse di pari passo coll'oscurarsi sempre maggiore dei veri principali e delle
antichissime tradizioni l'impoverire della forma logicale dei sistemi,e come
l'ultimo grado di questo scadimento fosse segnato dal sistema d'Epicuro, e
dalle dottrine logiche della Nuova Accademia. Ora poi stemi che alterarono
questa dottrina sono contemporanei ai primordj della filosofia, antichissimo
deve essere il fon damento del Criticismo; e ne sono testimonj le più strane
teoriche sul modo del conoscimento procedenti dalla fisica de'sistemid'India,
d'Italia,diGrecia,come,ad esempio, gli atomi di Capila,gl'idoletti diDemocrito,leimmagini
fluenti d'Epicuro e di Lucrezio. ci sia permesso venire su questo
proposito a maggior particolari, perchè, giunti a questa parte delle opere di
Tullio dove conviene esaminare la controversia tra gli Stoici e l’Accademia
sulle dottrine del conosci mento,rappresentatada luineilibriAccademici,importa
massimamente il notare perchè e come ai tempi del filo sofo latino,o poco
avanti,ilproblema fondamentale della logica si fosseristretto alla percezione
sensitiva; e come dal punto diverso e dai confini onde le due parti dispu tanti
consideravano il quesito intorno al conoscere, di penda il valore delle prove
allegate, e il principio su premo che governa la controversia. 2. Venendo
dunque al proposito, il sistema d'Epicuro e le dottrine dell’Accademia, non che
lo scetti cismo e l'empirismo finale ci palesano quasi una spos satezza del
pensiero greco,che non val più ad abbracciare la totalità del soggetto
scientifico con quell'ampiezza di principj e di leggi con cui Platone e
Aristotele l'avevano abbracciata;ma un peggioramentoimportantenellaforma
scienziale già si notava nel sistema degli Stoici. Consi derate un poco la
sostanza di quelle dottrine,e vi troverete due principj che danno a tutto il
sistema due qualità e due aspettiben differenti.Il cardine del sistema di Ze
none è infatti l'unità primordiale e finale delle cose tutte, la unità della
sostanza prima indistinta e indeterminata, che poi si determina e si partisce
per l'efficacia del prin cipio attivo e divino svolgendo da un unico germe la
dualitàde'principj.La sostanzaprima,distintaallorain un'anima e in un corpo
universali, causa delle anime e dei corpi particolari, costituisce l'essere del
mondo che rappresenta la vita di Dio; quella vita diffusa in tutte le cose
animate ed inanimate le fa partecipare per un in timo principio di
compenetrazione alla natura e all'effi cacia di Dio,e l'anima umana,ch'è più
vicina a quella sorgente universale, ne ritrae maggiormente, informando e
compenetrando il corpo, a somiglianza dell'anima uni versale, e come quella
riducendo a un solo principio m o tore le facoltà seconde; talchè per gli
Stoici dall'unità dell'essenza prima esce identificato l'intelligibile col
reale, il pensiero cogl’oggetti, l'intendimento col senso. Considerato
inquestegeneralità il sistema di Zenoneabbraccia tutto intero il complesso dei
veri palesati dalla coscienza, alterandone la natura col Panteismo.Ma se vieni
ad esa minarlo più particolarmente, allora i molti principj con tenuti nel seno
fecondo della materia prima,e in lei de terminati più tardi, il divino e materia,
anima e corpo,intelletto e senso, pensiero ed oggetti,scompajono tutti,e
siriducono ad un solo; alla natura informe e indeterminata della materia.
Allora ti apparirà vizio capitale di quel sistema la riflessione esaminatrice
che, sebbene apparentemente voglia svincolarsi dal senso e dalla materia,
concependo a m o 'degli Ionj dinamici nel seno dei fenomeni naturali un'intima
energia infinitamente diversa dalla materia, e cagione di que'moti,non sa
dominare la fantasia, e ab bandonata al pendío voluttuoso dei tempi,trasporta
in quella forza primitiva e in Dio stesso, che la pone in atto, le qualità
corporee. Così la dottrina degli Stoici sin dalle sue radici s'infettava di
materialismo. Ora è tale il ri scontro dei veri principali nella legge
necessaria del co noscimento, che, oscurato il concetto di Dio e delle cose, se
ne oscura alla mente dell'uomo la nozione di sè stesso Non è dunque a
maravigliare se per gli Stoici al mate rialismo in fisica tenesse dietro il
sensismo in psicologia; quindi,giàloaccennammo,alterato ilvero concettodi
potenza conoscitiva,scambiarono inostril'occasionedel l'atto apprensivo, che ci
viene dai sensi,colla causa intima di quello,veramente causatrice, che è
l'attività dello spi rito;quindi,non bene distinto l'operare dei sensi e del
l'immaginativa dall'operare dell' intelletto, diedero al complesso dei fantasmi
le qualità del pensiero. In questo esame parziale e negativo delle facoltà del
soggetto, quale ci offre la psicologia degli Stoici, si nascondeva per fermo
una potente causa di scetticismo;chè movendo dal lato indiretto da cui la Stoa
considerava il fatto dell'umano conoscimento, e negli angusti confini in cui
restringeva la coscienza delle interne operazioni dell'animo,era facile
93 a sottili ragionatori trovare appiglio per dubitare di qual che
cosa o di tutto.Vi si prestava la natura dell'idea, che avendo il proprio
essere in un'attinenza manifestatrice, se la consideri identica ai fatti
animali, ti doventa un mistero; vi si prestava la natura del senso,
inesplicabile, oscuro e sostanzialmente erroneo, se non lo risguardi illu
minato dalla luce dell'intelletto; vi si prestava infine la fantasia perenne
creatrice del falso, facile a denaturare coi più vivi colori del senso gli
ultimi resultati della p o tenza astrattiva. Così dal sofisma degli Stoici (e
sofisma vuol dire sempre difetto) germinava quello dell’Accademia. Chè, se fu
cattivo abito della riflessione esa minatrice nelle dottrine di Zenone il fare
ombra dei fe nomeni materiali allo splendore delle idee,e ridurre quasi ciò che
v'ha di più vivo nell'umana personalità allo sviluppo meccanico delle funzioni
apprensive,fu pessimo nella Accademia,non già l'opporre ilvero all’er rore,il
compiuto all'imperfetto esame della coscienza,lo che essa non fece; m a
profondarsi nelle sole astrazioni, m a restringersi nel pensiero
vuoto,fenomenale, apparente, o al più negl'inganni d'un fallace conoscimento.
Quindi a una negazione di negazione si riduceva ai tempi di Tullio, o poco innanzi,
la polemica tra gli Stoici e la Accademia.Ed ecco (ciò che cieravamo proposti a
mostrare) perchè dopo i notevoli perfezionamenti che la dialettica avea
ricevuto dalle scuole italica ed eleatica, da Platone e dall'Organo
aristotelico, la teorica sulle fonti del cono scimento, complessiva di tanti
veri, s'era allora ristretta alla disputa sulla percezione sensitiva. 94
Tal disputa, dipinta con tanta verità di colori da Tullio nei due libri degli
Accademici Primi, e massime nel se condo (chè il breve frammento rimastoci del
primo degli Accademici Posteriori, dedicato a Varrone, si riduce ad una
semplice esposizione istorica delle principali scuole socratiche), rappresenta
in fondo la lotta di tutti i tempi tra ildommatismo inconseguente e lo
scetticismo presun tuoso. Quel venire ai cozzi di opinioni eccessivamente af
fermative con altre assolutamente inquisitive era, come dei nostri,
un portato naturale dei tempi di Tullio,tempi di contradizioni profonde, nei
quali, come oggi, da una parte tutto si disfaceva con rabbia sterminatrice,
dall'altra con puntigliosa rigidità si sosteneva qualunque lato anche debole e
imperfetto del vero,imperfettamente considerato. La superbia e ildisprezzo
erano le armi con cui si scon travano i combattenti, e l'una e l'altro stavano
bene a quelliuomini,eloquenti,come noi,nell'esaltareiprincipj, e non logici
quanto conveniva nel dedurre da quelli le gittime conseguenze; altrettanto
facili ai propositi gene rosi,quanto
difficilinell'eseguirli;filosofidaaccademia,e da piazza; politici predicanti la
severità antica nelle m o l lezze moderne; uomini a cui mancava la lena di
levarsi sulle ali del pensiero alle universali armonie della scienza nel
vero,nel bello e nel buono,capaci soltanto d'impri gionarsi nelle angustie
d'una dialettica ingannatrice o p ponendo sofisma a sofisma,contradizione a
contradizione. Quindi massimo argomento in questo, come in simili casi, del
difetto delle due parti che disputavano, era che, se tu esamini l'una e l'altra
con animo non preoccupato, e poi non imiti il Cousin, che dall'accozzo fortuito
degli errori volle ricomporre il corpo formoso della filosofia, quasi statua da
brani dispersi sopra antiche ruine, m a cerchi di compirle ambedue colla
pienezza dei veri atte stati dalla coscienza naturale, soltanto allora elle
t'appa riranno perfette, e risoluta la tesi, ti vedrai brillare al pensiero la
luce d'un irrepugnabile convincimento. La disputa è finta da Cicerone come
avvenuta presso Baule in una villa d'Ortensio, presenti lo stesso Ortensio,
Catulo e Lucullo. Gl'interlocutori principali sono Lucullo e Cicerone. Lucullo
sostiene le parti d'Antioco, del Portico, contro Filone, dell’Accademia. Tullio
quelle di Filone contro Antioco. Or qual era il principio da cui moveva, e
quali i punti più segnalati in cui si spartiva il ragiona mento? Qui occorre
ridurci a memoria un'importante osser vazione del Ritter. Il quale nella sua
Storia della filosofia antica, tenendo dietro all'indirizzo che la dottrina
sulle fonti del conoscimento avea preso da Aristotele in poi, quando nota
la differenza segnalata che correva tra gli Stoici e il filosofo di Stagira,
mentre questi moveva sì dalla sensazione, ma senza negare il resultamento del
l'attività intellettuale dell'anima, laddove gli Stoici, più vicini in ciò agli
Epicurei,cercarono di ravvicinare di più in più il pensiero razionale alla
sensazione concependolo solo come una sua conseguenza e trasformazione,
aggiunge inoltre che nell'evitare le grandi difficoltà, le quali si o p p o
nevano alla dimostrazione di quel loro sensismo, si rias sume intera la
dottrina degli Stoici intorno al criterio del vero. Ritter. L'osservazione di Ritter
è giusta. Di fatti per quella solita opposizione che trovi in ogni filosofo di
setta tra le tendenze vive dell'animo e l'indirizzo artefatto della
riflessione, si vedevano negli Stoici due disposizioni opposte che imprimevano
qualità contradittorie al loro sistema; da un lato il pendio del l'età e il
decadimento della forma e della materia scienti fica li inchinava al sensismo e
alla meditazione incompiuta del soggetto su cui cade la scienza; dall'altro la
tradi zione socratica e la voce non muta del senso comune li chiamava ad
abbracciare il complesso dei veri di natura, le facoltà dell'animo e i termini
loro, e a rendere p o s sibilmente perfetta la forma scienziale; antitesi
d'opposte tendenze che pur si specchia in quell'ondeggiare continuo del loro
sistema tra il panteismo ionio e il dualismo so cratico. Ora che ne veniva da
ciò? Dal lato imperfetto da cui gli Stoici consideravano l'umana coscienza
quanto alla dottrina del conoscimento, resultava ch'essi sbaglia vano il
concetto di potenza,di causa,di relazione, fondamenti primi di tal
dottrina;quindi la loro logica si re stringeva alla dimostrazione del
conoscimento acquistato per via de'sensi,di cui ponevano l'essenza nella
rappresenta.zione vera o comprensiva (parrugia 2270)atlyn), ch'è un patire
dell'anima,a cui risponde da un lato l'operare del l'oggetto sentito,
dall'altro l'operare dell'anima stessa che conseguentemente alla sensazione
ricevuta assente,giudica e ragiona.Ma qui, giova il ripeterlo, stave la fallacia
dell'argomento; gliStoicimovevano dalnulla,edaquelnullaface vano uscire la
pienezza del soggetto e dei principj costituenti la scienza.E veramente io non
negherò mai alla buona filosofia che ilfatto della percezione sensibile,intesa
come attinenza reale tra il sentito e il senziente, mi riporti al l'esistenza
di due termini de'quali l'uno è causa esterna e occasionale della sensazione,
l' altro è causa intima e veramente efficace; non negherò mai che l'illazione
di causalità mi mova ad affermare la reale natura dell'ente che opera sugli
organi de'sensi,e che il concetto di po tenza m'induca a concepire nelle
facoltà conoscitive un qualcosa che le costituisca operanti,un che di positivo
e d'efficace che risponde alla passività negativa del sentimento; m a io nego
agli Stoici quel loro metodo di facili illazioni, onde identificata la potenza
intellettiva col senso volevano dedurre in virtù di universali prin cipj da una
condizione passiva delle facoltà del sog getto l'efficacia dell'intendimento, e
dalla sensazione mutabile e fenomenale l'incommutabile necessità della
scienza.Ma ilfatodellalogicanon's'arrestava;egliStoici ristretti in tal modo
nelle angustie dei fenomeni sensibili, tanto più quanto levavano lo sguardo
alla cima del sa pere,rammentando le tradizioni del Sofo ateniese, vede vano
l'importanza di ribattere le prove degli avversarj che paragonavano la
mutabilità e l'incertezza de'fatti animali colla natura assoluta del vero
contenuta negli universali concetti,onde germoglia e si sviluppa la scienza.
Quindi proveniva il bisogno vivamente sentito da loro di movere da un fatto e
da principj indubitabili ed evidenti -- Acad. Quindi la necessità di
mostrare,primo, come si possa distinguere la rappresentazione falsa dalla vera;
secondo, come movendo dal reale della rappresenta zione apparisca che la mente
stessa che è fonte dei sensi, e che essa medesima è senso,abbia una naturale
energia per cui tende a ciò che la move al di fuori; mens ipsa que sensuum fons
est,atque etiam ipsa sensus est,naturalem vim habeat quam intendita deaquibus movetur.
Da questo concetto,fondamentale nella logica degli Stoici, [La prima
parte cadeva sulla domanda: se la perce zione sensibile avesse impressi in sè
certi segni della v e rità dell'oggetto rappresentato; il che negava la Nuova
Accademia,affermando che in una percezione,fosse pur vera, non era alcuna certa
nota per distinguerla da una falsa; dubitavano dunque che per mezzo dei sensi
l'entità della cosa sentita passasse tal quale ella era nell'appren sione del
soggetto conoscitore. Posta in tal modo la questione, è chiaro che poichè il
mezzo di passaggio del vero conosciuto dalla cosa, occasione del sentimento, alle
potenze conoscitive, è il senso ed isuoi organi, conveniva innanzi tutto,a
provare la realtà della cognizione, argomentarla dalla veracità naturale dei
sensi.Dai quali movendo Lucullo ne afferma chiaro e indubitato il
giudizio,nulla valendo, ei dice,gli artificiosi argomenti degli avversarj
intorno alle false apparenze delle percezioni; poichè: 1°,dato che i sensi
siano sani,col buono uso ch'io ne faccio posso ret tificarne i giudizj,posso
coll'esercizio e coll'arte aumen tarnemirabilmente laforza; 2°,ilsensoèdimostratovero
ne'suoi giudizj dal successivo lavorìo della mente sulla materia da esso
somministrata formandosene i concetti delle qualità e delle specie che son via
ai principj più universali, ai quali naturalmente l'intelletto dà fede, e tolti
i quali ogni arte,ogni scienza,ogni regola della vita cadrebbe. Tutta la
teorica si regge manifestamente sul principio di causa e di relazione. Se io,
diceva Antioco, ho sperimentato in me l'effetto della percezione sensibile,
questa mi riporta ad una causa per via d'una necessaria attinenza. Ma Filone
invece (e in ciò è imitato dagli scet tici odierni) ammettendo la possibilità
del fenomeno come di un che vuoto,di una mera apparenza senza alcun con tenuto,
poneva come probabile che la sensazione non ci scoprisse l'entità di veruna
cosa. M a, riprendeva A n tioco, primieramente oltre i naturali giudizi e i
giudizj scientifici, che nascono e si fanno manifesti in noi per l'occasione
de'sensi, dal germe del conoscimento spunta 98 il ragionamento d’Antioco
si dirama in due capi: della percezione e dell'assenso. Il ragionamento di
Lucullo, compreso dal quinto al ventesimo cap.del secondo
librodegliAccademici,edove l'umano intelletto fa prova di quella forza
irresistibile che in mezzo alle contradizioni del sofisma pur lo sospinge ai
principj universali del vero, è uno dei più mirabili tratti della filosofia e
della eloquenza latina, e chi n'ha seguito con gioja confidente il cammino,se
poi si volge ad aspettare la risposta di Cicerone, gli par di vederlo quale si
dipinge con vivezza egli stesso « non minus c o m motum quam solebat in caussis
majoribus. » Egli per aprirsi la via a dimostrare la sua tesi, non move da una
professione di scetticismo assoluto, m a bensì da una cri tica temperata; e si
fonda in special modo sull'argomento con cui Arcesilao avea combattuto Zenone,
cioè sull'in discernibilità delle percezioni vere dalle false,onde avve niva
che al sapiente non rimanesse alcun assenso deciso, m a una semplice opinione
di verosimiglianza. Comunque sia, s'è domandato da molti. Cicerone non sostiene
egli in questo libro le parti dello scetticismo accademico contro le dottrine
stoiche della percezione? non si professa più volte ne'proemj delle sue opere
seguace della riforma il fiore dell'appetito istintivo, il quale se voi mi
negate avere persuoproprio enaturaltermineilvero,inquanto è conosciuto
appetibile, io sono condotto ad affermare nell'uomo l'assurdo di più facoltà
naturali che natural mente s'ingannano. Poi il falso non può mai essere ter
mine dell'apprensione intellettuale,perchè ilconoscimento coglie di sua natura
l'essere delle cose, ma il falso è appunto,rispetto al conoscimento,lanegazione
dell'essere; dunque il falsonon può mai cadere sotto ilconoscimento.
Finalmente, se nulla è vero, sarà almen vero questo che nulla è vero, perchè
una scienza,una dottrina qualunque, per essere costituita nella sua natura,
ch'è ordine di veri conosciuti,ha bisogno,come di un metodo e di un fine a cui
vada e a cui giunga,così di un principio da cui mova indubitabile e certo. Lo
stesso ordine di concetti desunto dal principio di potenza e di relazione regge
a un di presso la teorica dell'assenso (Guyaute 985e»). introdotta
da Arcesilao? non scrisse egli i due libri,che voi esaminate, per mostrare ai
Romani l'ottimo metodo del filosofare sull'esempio della Nuova Accademia? non
han ripetuto e non ripetono ancora a una voce quasi tutti gli storici della
filosofia che Tullio, seguace nella sua gio ventù dell'Antica Accademia,
s'accostò già maturo alla Nuova, a cui lo traeva il suo istinto oratorio, lo
scetti cismo de'tempi, l'animo incerto in tanta folla didottrine
contradittorie, e la forma ecclettica di filosofia ch'e'si era proposta? Dunque
Cicerone nelle tre parti della scienza,emassime inlogica, seguitò il dubbio dell’Accademia.(Brucker,
Degerando, Bernhardy, Ritter).Tal conclusione,di cui demmo qualche accenno nel
cap.Idi questa parte,sebbene apparentemente provata da parecchj testi divisi
del filosofo nostro, da varie sue esplicite affer mazioni,e segnatamente da
tutto il tenore di questi due libri, dove e'prende con lungo ragionamento in
persona di Filone a confutare la certezza delle notizie che ci ven gon dai
sensi,e dove in ultimo contrappone ex professo la sua dottrina del dubbio
sistematico e della probabilità alle contradizioni in cui si lacerava la logica
contempo ranea, tal conclusione, dico, non regge avanti al tutto delle dottrine
esaminate spassionatamente, e avanti a quella norma di critica, che ponemmo sin
da principio,di badar bene alle opinioni che Tullio combatte,e ai metodi che
rappresenta in sè stesso senza per altro interamente accettarli. Le
affermazioni eccessive della critica odierna, bene merita per tanti rispetti
della civiltà e della scienza,hanno la loro sorgente esse pure nel falso
principio del Criti cismo speculativo, che togliendo il pensiero scientifico
fuori delle sue naturali armonie con sè stesso, colle cose, col Creatore e col
genere umano, non riconosce più nello scienziato e nel filosofo l'uomo,e fa
della più socievole fra le dottrine un gergo incomprensibile e
solitario.Bisogna invece nell'esame dei sistemi non uscir mai dalla n a tura di
que'tempi, di quegli uomini, di quelle passioni, di que'pregiudizj, di quelle
consuetudini; bisogna immaginarsi i filosofi quali furono in realtà, disputanti
e pensanti, uomini di tribuna e di tavolino, soggetti essi, come noi, alle
contradizioni frequenti di qualche dottrina anche erronea concessa nel calore
della disputa alle prove degli avversarj, colla interna coscienza, testimonio
irrepugnabile al vero. Tale è più volte ilcaso di Cicerone, e tal metodo noi
tenemmo nella parte fisica delle sue dot trine, e terremo nella logica e nella morale.
Il Ritter scrittore accuratissimo nella critica'de'filo sofi,e alemanno davvero
nella coscienziosa ricerca dei passi e dei documenti, talvolta, ci duole a
confessarlo, compo nendo con disegno ingegnoso brani staccati di varie opere,
ne fa resultare in conferma delle proprie opinioni un si gnificato che forse
non germoglia dalla totalità del sistema. Così nell'esame della dialettica di
Tullio, sebbene non n e ghi che il filosofo latino si leva al concetto dei
principj e delle idee universali, cardine dell'intelligenza, pure af ferma che
in logica ei riferì una singolare importanza al sentimento, pigliando questa
parola nel significato in cui laintendono iRazionalisti,come di un che
sostanzialmente opposto alla scienza, e soggetto alla cieca fatalità de gl’istinti.
Hist. Ma inprimo luogo, oltrechè Cicerone (e lo vedremo meglio in morale) non
fece mai del sentimento un qualcosa di opposto alla scienza, e anzi lo allegò
sempre in un significato essenzialmente scientifico, quale una necessaria
attinenza del l'affetto spirituale col vero -- De Fin. -- è poi
esattaabbastanza l'asserzione di Ritter, checioèiprincipj fondamentali della
sua filosofia naturale lo conducessero
alledottrinelogicheperviadellasensibilità? Sefosselecito affermare risoluto
contro l'autorità dello storico insigne, direi invece che due cause,intrinseca
l'una,l'altra estrin seca alle dottrine di Tullio,lo guidarono in logica a con
clusioni direttamente opposte, e lo ravvicinarono (pro gressorarointanta corruzionedi
tempi) aidommi sublimi dell'Antica Accademia. In tal questione egli si trovò in
mezzo al proprio semipanteismo e dualismo e alle dottrine materiali e
sensistiche di Zenone. Non è egli vero che il dualismo semipanteistico da
un lato rifuggendo alle con tradizioni del panteismo che più repugnano
agl'ingegni sovrani, e gratificando dall' altro agli affetti spirituali,
segregò la materia da Dio, lo spirito dal senso,e pose la ragione del conoscere
nella medesimezza fondamentale dell'intelletto divino e degl'intelletti
secondarj? Ora tal sistema, partecipato da quasi tutte le scuole socratiche e
da Tullio,rompeva l'attinenza tra il pensiero e I pensati, tra l'ideale e il
reale, e restringeva l'intendimento alla semplice e inefficace visione degli
universali. Se così è, pare che il filosofo latino dovesse essere ben lungi dal
porre nei resultati delle potenze sensitive la certezza del conoscimento;e lo
prova la sua fisica dove sull'esem pio di Platone si rigettano i metodi delle
scienze speri mentali come incapaci di somministrare una sicura notizia
de'corpi, e l'indagine naturale si ammette solo come via di levarsi in virtù di
principj superiori ai veri della scienza soprannaturale; lo prova la sua
psicologia che tante volte contrappone il fenomenale della materia e del corpo
al l'essenza dello spirito, che afferma il commercio dell'anima col corpo
risiedere in una semplice comunicazione di moto, isensiesseresoloun
emissariodell'anima,un'intelligenza ammezzata, e la personalità umana un
gastigo. (Tuscul., De Leg.,De Rep.nel sogno di Scipione). L'altra causa
estrinseca che allontanò Cicerone dalla fede che altri poneva nel conoscimento
prodotto dai sensi, è l'opposizione ch'ei dovette fare al dommatismo degli
Stoici, nella quale opposizione si vede che, mentre da un lato egli temperava colla
moderazione dell'ingegno latino il dubbio eccessivo a cui l'avrebbero forse
condotto le dottrine della Nuova Accademia, dall'altro sapeva con raro acume di
logica smascherare e combattere le intime contradizioni degli avversarj. Qual
era la fonte di tutte queste contradizioni? Noi già la conosciamo;era l'eterna
differenza che corre tra il sentimento mutabile e fenome nale e l'incommutabile
necessità della scienza. Questa necessità sembrerebbe a primo aspetto
bastantemente di mostrata nel sistema degli Stoici dal porre ch'essi
face vano il conoscimento scientifico nel possesso delle idee pure, e nel
rappresentarcelo quasi l'ultimo grado di ferma convinzione,a cui lo spirito
umano perviene col passare pei gradi intermedj della ouzoté0:015 – “adsentio”
-- e della 2.zténnyes – “comprehension” -- , movendo come da suo principio
dalla suurusis, o rappresentazione sensibile – il “visum”. (Ritter; Cic.,Acad.).
Ma, seconsideriamo meglio,gli Stoici con quella loro immagine della mano stesa
e del pugno chiuso ed aperto determinavano in qualche modo l'idea di una
differenza tra il sentimento e ilsapere,ma non uscivano dai fenomeni
animali,non sapevano accen nare quella nuova parte essenziale intrinseca al
soggetto, che congiunta colla oggettività della percezione costituisce il
conoscimento; laonde la Nuova Accademia avrebbe po tutodirloro:è vero che
ilsaperedifferiscedalsenso,che il possesso sicuro delle rappresentazioni
resulta dalla c o n trazione e dall'energia dello spirito(TÓvos);ma sepervoi
l'intelletto non è che il travestimento del senso,mostra teci orsù come la
potenza derivi dall'impotenza, l'asso luto dal relativo, il necessario dal
contingente. Ora la Nuova Accademia senza levarsi a questi principj universali
ch'essa non ammetteva,ma, giusta il suo costume, no. tando piuttosto quelle
contradizioni che sidesumevano dal sistema stoico paragonato a sè stesso, pure
implicitamente li confessava. Fallita infatti agli Stoici la definizione del
concetto della scienza dato per via dell'attività spontanea dell'anima,non
rimaneva loro altro scampo che ridurre la ragione del conoscimento alla
indubitabilità della p e r cezione vera.Ma come mai dimostrare tale
indubitabilità? Questo mutamento notevole che doveva introdursi nel l'indirizzo
della questione sul problema della conoscenza per la legge a cui è soggetta
necessariamente la vita d'ogni sistema,è attestato dalla storia; perchè,come os
serva il Ritter, i primi Stoici dimostravano la necessità del sapere per quella
forza interna dell'animo che si mani festa nell'atto d'apprendere la
sensazione,e pel bisogno d'ammettere qual termine della facoltàintellettivaeap
petitiva il vero ed il bene; laddove gli Stoici susseguenti, al numero
de'quali appartiene Crisippo, vedendo che ciò contraddiceva ai principj del
sensismo,trassero alle ultime illazioni il sistema ponendo il criterio del
conoscere nella rappresentazione vera che si manifesta da sè stessa come
prodotta da un obbietto reale analogamente alla sua natura. Nonpertanto una
grave difficoltà rimaneva sempre a risolvere anche dopo la modificazione
introdotta da Crisippo. Chè se il vizio fondamentale di tutta la loro dot trina
stava nel disconoscere quell'intreccio d'attinenze interne ed esterne ond'è
manifestativo ilpensiero;iprimi Stoici guardarono troppo al lato interno e
soggettivo di quelle attinenze, mentre Crisippo, eccedendo per l'altra parte,
si fermò unicamente all'esterno; e quindi rima neva sempre intatto il quesito,
se la rappresentazione percetta offrisse piena e indubitata qual era la realità
dell'obbietto rappresentato. E invero si ponga mente. Fingasi che un oggetto
qualunque a cui noi riferiamo date proprietà di freddo, di caldo, di liscio, di
ruvido, d'ottuso, di tagliente etc., faccia impressione sui miei organi s e n
sorj,e che l'impressione, trasmessa per la treccia de'nervi al centro del
senso, sia occasione a farmi concepire l'idea d'entità; se io esamino allora lo
stato interno della mia coscienza, il fatto del conoscimento, unico in sè, mi
si paleserà resultante da una mirabile armonia di fatti se condi, successivi
bensì nell'esame della riflessione, con temporanei tutti nell'atto delle
potenze spirituali. Ciascuno di questi fatti sarà l'operare d'una special
facoltà, e cia scuna di quelle operazioni avrà il proprio termine; io poi che
mi faccio ad esaminare quel nodo d'attinenze tra il soggetto e gli oggetti,
vedo che la qualità dell'atto conoscitivo resulta bensì dalla qualità di
ciascuno di quelli atti secondi, ma la sua certezza proviene da una legge di
natura che li costituisce contemporanei e correlativi. Fa'che io tolga via col
pensiero o l'uno o l'altro di quegli atti e i termini loro, quella stupenda
armonia di natura mi si spezza davanti agli occhi, e io cado di n e cessità
nello scetticismo; tolgo via l'impressione sensibile [Il sistema
cristiano, che movendo dalla formula di creazione riproduce in uno stupendo
ordinamento di veri palesati dall'intimo della coscienza l'universale armonia
del creato, può soltanto offrire un'adeguata risposta ai quesiti dello
scetticismo sulla questione del conoscimento; perchè solo in quel sistema le
attinenze dell'umano p e n siero con sè e cogli obbietti sono rigorosamente
serbate, nè può lo scettico separando o negando creare vane a p parenze quasi
dell'intelletto segregato in sè stesso,o della fantasia o del senso producenti
fenomeni vani non retti ficati poi dal paragone dei giudizj mentali. L'ingegno
di Agostino che meglio d'ogni altro comprese in sè stesso le armonie del
Cristianesimo e della scienza de'Padri, dava un esempio del confutare cristianamente
gli scettici nell'opera Contra Academicos, dove chiaro apparisce lo studio
profondo degli scritti di Cicerone, e come quei e il termine materiale? e
la conoscenza mi si presenta come un fenomeno soggettivo;non vedo più l'azione
dello spirito e il termine ideale in cui cade? e il conoscimento doventa un
qualche cosa d'estraneo a me stesso, un in ganno misterioso del senso e della
materia.Quest'ultimo segnatamente fu il vizio fondamentale della dottrina degli
Stoici nuovi, e in ciò,nota bene Cicerone, essi furono assai meno conseguenti
degli Epicurei. Costoro movendo dal principio, che data unapercezione fallace
mancava ogni criterio per verificare la certezza delle umane notizie, ponevano
quel criterio nella realtà stessa del fenomeno sensibile, più conseguenti,
dico, degli Stoici, i quali non ammettendo come veretuttelepercezioni,ma
soloquelle che presentavano in sè l'evidenza della cosa percetta, nè
riconoscendo d'altronde, come sensisti,la natura pro pria dell'intelletto a cui
solo spetta il giudizio sui r e sultamenti del senso, si chiudevano la via per
discernere la conoscenza vera dagl'inganni dell'immaginazione; e quindi a buon
dritto la Nuova Accademia allegava contro gli Stoici i soliti argomenti della
fallacia del senso degl'inganni dei ragionamenti sofistici. Acad. -- germi
immortali di vero che il filosofo romano seppe raccorre con rara indagine
scientifica nel suo tentativo di conciliare le scuole greche,producessero una
vitaope rosa di scienza fecondati dal calore di una dottrina rin novatrice. Nel
libro Contra Academicos Sant'Agostino serba a un di presso lo stesso ordine
della disputa seguito da Lucullo e da Cicerone, move dagli stessi principj,
ribatte le medesime contradizioni;ma un non so che di insolito, d'efficace,
d'affettuoso che annunzia una civiltà e una religione nuova tu lo senti là
dentro,e non tanto nello stile che, non paragonabile mai all'eleganza tulliana,
ritrae pur qualche volta la vivezza e il brio del parlare improvviso, quanto
nell'energia insolita dell'argomentare che sfuggendo iparticolari, dove
facilmente sipuò intro durre il sofisma, si rifugia nell'evidenza de'principj s
u premi. Ma ilmodo d'argomentare usato da Sant'Agostino non calzava agli
Stoici; chè essi non ammettendo un'in tima e reale attività dello spirito
distinta dal senso e capace di rettificarne gl'inganni, non potevano rinvenire
nell'essere stesso della percezione segni indubitati ch'ella fosse verace; e il
loro concettualismo non li lasciava af fermare contro il dubbio aceennato dalla
Accademia sulla validità del pensiero. Gli storici della filosofia ci han
serbato in fatti memoria di una strana dottrina degli Stoici procedente del
resto dall'intimo del loro sistema e da quella tendenza dualistica che vi si
mesco lava ai principj del panteismo.Qual era questa dottrina? Gli Stoici
ponendo in fisica per un lato la realtà delle cose nella sostanza corporea, nè
per l'altro costretti dalla logica riuscendo a negare del tutto l'essere delle
idee universali, distinsero queste dal reale corporeo,e ne fecero alcunchè di
non reale, ma capace d'essere concepito dall'intelletto ed espresso in
proposizioni (Asztóv). Distingueno quindi due specie di vero; il sensibile
contenuto nelle percezioni de'corpi, e il pensabile ristretto alle in
tellezioni della mente,questo procedente da quello e a quello correlativo;
volevano con tale dottrina porre su stabili fondamenti la necessità de'principj
in cui cade la scienza, nè gli acuti pensatori s'avvidero che, se l'idea
può rappresentarmi il reale, ciò accade appunto in con seguenza ch'ella stessa
è reale, non s'avvidero che n e gando qualunque conformità tra il concetto
universale e l'essenza del concepito, si cade nel concettualismo rinno vato poi
da Abelardo nei tempi di mezzo.La Accademia recava alle ultime loro illazioni
questi falsi prin cipj della scuola stoica; dal principio del sensismo traeva
occasione a dubitare della veracità della percezione sen sitiva; moveva dalle
conclusioni del concettualismo per negare la realtà del pensiero imprigionato
in sè stesso, e diceva (argomento assai notevole infatti) la dialettica non
potere giudicare delle leggi della geometria,perchè aliene dal proprio ordine
di veri,non giudicare delle pro prie, perchè non può il pensiero rivolgersi
sopra sè stesso per giudicarsi. L'argomento è di recentissima data,come ognun
vede,e lo ripetono anch'oggi iseguaci del Comte, I Positivisti francesi. E
recenti pure sono le conseguenze che ne deduceva la Nuova Accademia; poichè
racchiuso una volta il pensiero in sè stesso, e negata la sua atti nenza colle
cose reali,manca ogni criterio a risolvere il problema dei giudizj
contradittorj,nè v’ha che un passo a dedurne che dunque la contradizione è una
legge ne cessaria dell'intelletto. Questa ultima conclusione, che accenna per
altro un notevole perfezionamento della rifles sione nelle teoriche del
criticismo, è dovuta al filosofo di Conisberga,m a già è racchiusa
implicitamente nei sofismi disgiuntivi della Nuova Accademia. Ac. Costituita
dunque in questi termini, la controversia sulle fonti del conoscimento
conduceva la Nuova Acca demia a uno scetticismo assoluto,e noi già ne vedemmo
non dubbj segni in Carneade; m a era qui appunto dove Cicerone si arrestava
temperando col suo vivo sentimento dei veri naturali e colla moderazione latina
gli eccessi del metodo da lui fino allora seguito. Quindi usciva la sua teorica
sulla verosimiglianza delle percezioni sensibili che riporterò così riassunta
dal Ritter. « Les Stoïciens,en admettant la possibilité de saisir quelque chose
avec tant de précision qu'il ne puisse y avoir erreur,n'accordaient ce savoir
qu'au sage. Ils ne faisaient donc en cela que de refuser cette espèce de savoir
aux hommes ordinaires, car eux-mêmes ne pouvaient dire quel est l'homme qui est
ou qui a été sage; ils regardaient, au contraire, tout le monde comme insensé,
et refusaient en conséquence le savoir véritable à tout le monde. Cicéron
n'aspire pas à un pareil degré de savoir; mais il veut que le non -sage aussi
sache quelque chose,c'est-à-dire, qu'il ait une per suasion de la vérité des
phénomènes sensibles,sans cepen dant pouvoir y croir avec une parfaite
certitude.Son opinion est, qu'il y a des impressions sensibles auxquelles nous
pouvons nous fier, parce qu'elles ébranlent fortement notre sens ou notre
esprit;mais sans pouvoir cependant les adop ter comme parfaitement vraies.Telle
est sa théorie de la vraisemblance. Il ne veut pas faire disparaître la
différence entre le vrai et le faux; nous avons raison de tenir quelque chose
pour vrai et de rejeter autre chose come faux; mais nous n'avons aucun signe
certain de la vérité et de la fausseté.Il croit pouvoir prévenir
l'objection,qu'il y a ce pendant ceci de certain,qu'il n'y a rien de certain en
te nant aussi pour vraisemblable seulement qu'il n'y a rien de certain. C'est
ainsi qu'il se purge du reproche que la théorie qui donne tout pour incertain
est impossible dans la vie pratique, car cette vie se conforme à la vraisem
blance, et la plus part des arts qui s'y rapportent avouent même qu'ils ont
plutôt pour but la conjecture que la science. Il ne voit d'autre différence
entre son opinion et celle des dogmatiques, si ce n'est que ceux-ci ne dou tent
pas de tout ce qu'ils soutiennent;mais qu'il est vrai qu'il considère au
contraire beaucoup des choses comme vraisemblables, qu'il peut suivre, sans
pouvoir cependant les affirmer avec una parfaite certitude. On voit bien que
cette théorie de la vraisemblance s'éloigne un peu de la doctrine de la
nouvelle académie, du moins telle que Carnéade l'avait exposée; car elle
n'aspire pas à un art de tout rendre également vraisemblable et
invraisemblable, mais elle tient quelque chose pour vraisemblable, autre
chose pour invraisemblable. Cicéron remarque même qu'en ce point il s'écartait
de ses maîtres, particulière ment pour ce qui est des préceptes de la morale.Il
avoue à la vérité qu'il n'est pas assez hardi pour réfuter le doute de nouveaux
académiciens,par rapport à la morale, mais il désire les atténuer. » (Stor.,
vol. IV, pag. 108, 109, 110 tradotta dal Tissot.) 4. Il fondamento della teoria
tulliana sulla verosi miglianza è dunque nella questione del criterio del vero;
e qui, segnatamente nel giudizio sulle percezioni sensibili, apparisce il moderato
scetticismo dell'oratore latino;m o derato, dico, e parmi sia chiaro dopo le
cose predette che egli avvolto, come Socrate, in mezzo ai combattimenti del
dommatismo e dello scetticismo eccessivo, serbò una norma scientifica
nell'affermare e nel dubitare, temperò gli Stoici non accordando una fede
illimitata al solo te stimonio de'sensi; temperò gli Accademici sostituendo al
loro dubbio,uguale per qualunque opinione,una graduata verosimiglianza ne’ casi
particolari, combattè gli uni e gli altri rigettando il dubbio assoluto sui
principj fondamen taliesulleveritàteorematiche.(Vediiproemj particol. De Off, De
Div.,De Nat.Deor., Acad. La sua psicologia in quelle parti che si collega alla
logica, sebbene qua e là infetta del dualismo socratico, fa fede com'egli emendasse
il vizio della scienza contemporanea opponendo all' i m perfetta riflessione
de'sofisti un esame comprensivo del umano soggetto. Con metodo induttivo egli
moveva dalla coscienza, ed ivi,riconosciuti inaturali concetti dell'oltre
naturale e dell'intelligibile, s'innalzava con essi alla c o gnizione
dell'animo -- Tuscul. Nell'animo distingueva la ragione dal senso;la
ragione,sovrana delle facoltà umane,ha un immortale e quasi divino istintodel
vero,legame primigenio tra il Creatore e icreati;isensi, satelliti e nuncj
dell'anima,le danno di molte cose certa notiziaconfusaeammezzata,cheèun qualche
fondamento alla scienza, e la scienza ne sorge per la libera efficacia
dell'animo, che comprendendo in sè il particolare e ilm u tabile dei
sentimenti, si leva alle idee e alle nozioni uni versali; quindi i sensi ben
guidati da natura,nè torti da mala educazione, hanno una naturale rettitudine
al vero, nell'animo dove cade il libero giudizio della riflessione, ivi
soltanto può introdursi l'errore. De Leg., Tusc., Ac. Così col metodo induttivo
di Platone egli sale fino ai principj più universali, d'onde col deduttivo
d'Aristotele ridiscende ai particolari; e ne son prova i libri rettorici. Tra i
quali merita speciale considerazione la Topica, o logica inventrice, intitolata
a Trebazio giovane giurecon sulto e discepolo dell'autore,e dove ogni precetto
è ac compagnato da esempj di giurisprudenza. In questo libro che ha per
soggetto tutte quelle distinzioni e scomposizioni dialettiche che si ricercano
per l'invenzione degli argo menti, e si operano sui concetti che ne sono
signifi cativi, Cicerone divide la logica in inventiva e giudica trice, la
prima delle quali parti porge gli argomenti per disputare,la seconda li
dispone,li analizza e lim a neggia per persuadere.La logica
Ciceroniana,osservata altresì ne'dialoghi,ed esposta nel De Inventione, e nel
De 'Oratore, è in fondo la istessa logica d'Aristotele quale più tardisimo dificòne
gli StoicienellaNuova Ac cademia, e l'accettarono in gran parte i giureconsulti
romani e gli oratori; la qual cosa, perciò che risguarda i Topici, si disputava
lungamente, non sono molti anni, in alcune università tedesche, come apparisce
da un'ac curata dissertazione,De fontibus Topicorum Ciceronis,di Giovanni
Giuseppe Klein. (Bonnae) Ivi l'autore prendendo ad esame la questione proposta
dai critici a n teriori,se e quanto e con qual metodo Cicerone seguisse in
questo libro la Topica d'Aristotele che ci pervenne, ovvero se attingesse ad
un'altra di presente perduta, come qualche critico mostrò sospettare; conclude
dopo un dili gente ragguaglio dei due scrittori,che le opere loro quanto
aiprincipj,e in molte partisecondarie,differiscono note volmente; che Cicerone
nella sua Topica non si propose (il che apparirebbe a prima giunta dal proemio)
di fare un semplice compendio dei libri Aristotelici;ma resulta da tutto
il contesto avere l'oratore latino attinto la m a teria del libro dai Rettorici
dello Stagirita e da alcuni precetti degli Stoici e della media Accademia,e poi
averla composta col proprio giudizio in una forma di vera e par ticolare
disciplina. Sui Topici di Cicerone scrisse con fine più filosofico un ampio e
bel commento Severino Boezio,in cui la storia della filosofia ravvisa il primo
passaggio tra le dottrine dei Padri e quelle de'Dottori,tra l'ultimo spirare
della civiltà latina sotto le conquiste de barbari e ilprimo rinnovarsi delle
lettere e delle scienze nella nostra Italia.Or quel c o m mento, che all'indole
del trattato, già di per sè stesso analitico, accoppia il rigore della
dialettica della Scuola, e congiunge i nomi di Aristotele, di Tullio, di
Trebazio Testa e di Severino Boezio, mi rappresenta al pensiero l'armonia delle
scienze giuridiche colla filosofia, dell'ana lisi colla sintesi,della
dialettica colla storia, della pratica colla speculazione, dell'amore operoso e
civile colla sa pienza cristiana. 1. Entrando ora a parlare dei libri morali,
apparte nenti alla teorica sulle azioni, l'ordine della materia sembra
invitarci, come facemmo nei capitoli precedenti, a dire qualche cosa in
generale del disegno scientifico che li collega, e delle attinenze loro più
immediate e più rigorose colle altre parti della filosofia di Cicerone. In vero
la scienza morale nata sui rudimenti del senso co mune,quale Socrate la menava
a conversare famigliar niente fra gli uomini,e più tardi venne accolta e
trasmessa sino a noi dalle scuole migliori, si può assomigliarla ad uno
stupendo poema, se guardiamo la sublimità de'suoi veri,illegame che unisce i
principj alle conseguenze,e l'armonia delle speculazioni colla parte più
affettuosa dell'uomo e colla vita civile. Il principio n'è dato dalla
IV. natura, presupposto indispensabile della scienza; chè la riflessione
posta una volta su quel cammino ov'essa pro cedendo incontra e ravvisa ad una
ad una leveritàpiù prin cipali della Filosofia, move dai primordj della vita
vege tativa e animale,manifestati nella puerizia dai sentimenti indefiniti e
dagli istinti,passa su su agli inizj della vita razionale, allorchè quei
sentimenti illuminati dallo splen dore della conoscenza si palesano come
tendenze amorose al vero, al bello ed al bene; in quei termini riconosce la
ragione di fine,ed il fine,considerato come qualcosa onde nasce armonia nelle
operazioni d'un ente,guida la rifles sione al concetto di legge, d'un archetipo
assoluto ed eterno che per mezzo dell'intelletto indirizza il volere a
un'immortale destinazione. Principj naturali, bene, fine, legge; ecco i
concetti che, intrecciati mirabilmente fra loro nell'armonia della coscienza,
costituiscono l'ordito dell'Etica, allaquale, considerata per questo rispetto come
scienza direttrice della più nobile parte dell'umana n a tura, fan capo le
altre scienze costitutrici della filosofia. La Fisica, come la intendeno gl’antichi,
la quale meditando il principio primo dell'essere nell'universo e nel l'uomo,ne
ravvisa facile il fine che nell'universo è un termine oltrenaturale di naturali
armonie, desiderato dagli enti tutti, e nell'uomo è un'idea di perfezione
immortale, appresa confusamente, nè mai raggiunta nell'ordine delle creature.
La Logica, perchè trattando dell'ente sotto la ragione di vero,ne scorge
facileilpassaggio alla ragione di bene pel concetto d'amabilità, testimonj i
sentimenti più schietti della natura che antecedono ilvero e ne ger minano come
tendenze ed affetti. Vi conduce la Scienza dei doveri e dei diritti;chè dovere
e diritto sono concetti eminentemente morali in quanto da un lato discendono
dall'idea della legge,le cui divine esigenze s'impongono alla coscienza degli
enti creati,capaci di cognizione,pur ri spettando quelli enti nell'ordine della
loro natura; dal l'altro lato vengono su dall'idea dell'uomo,ente dotato
d'intelletto e d'amore,che riconosce in sè e nel suo libero arbitrio la
sanzione di quella legge,la quale osservando si sente capace d’immortali
destini. Così l'ontologia, la logica, la scienza delle obbligazioni e il gius
di natura si appuntano, come in unico centro, nella morale, da cui pur si
dirama il gius civile, la politica, la legislazione, la storia e ogni altra
scienza meditatrice dell'uomo. Il Cristianesimo, dottrina e religione
moralmente inci vilitrice, che nata in tempi di costumi nefandi operò un
mirabile rivolgimento nella vita dell'uomo, ponendo a capo dei suoi precetti
l'amore santificato da tanto sangue di martiri, e ad esempio dei nuovi costumi,
l'immagine più che umana del figlio di Maria,il cristianesimo solo poteva dare
un perfezionamento vero alle teoriche della morale. E quel perfezionamento lo
diede allorchè dichia rando senz'ombra di dubbio l'infinita natura di Dio,la
finita natura dell'uomo, si valse dell'idea intermedia di creazione per
assorgere al concetto più puro delle loro attinenze, potè meglio chiarire
l'idea di fine, di bene e di legge,ricostituire l'ordine dei fini nella natura
in telligibile e sovrintelligibile, vedere l'uomo e l'universo ordinati a un
disegno della provvidenza;e quindi,posto a capo di tutta la Filosofia il
concetto di Dio, se ne sparse nuova luce sulle dottrine del soprannaturale e
del naturale, sulla psicologia e la logica, sulla teorica dei doveri e dei
diritti; le scienze politiche e civili e la storia ne apparvero nobilitate. Il
che è tanto vero, che quel tendere continuo dalle miserie di nostra natura
all'i m mortale, all'assoluto, all'eterno,può solo spiegarci le sca turigini
arcane onde move un'aura d'ineffabile bellezza, chela scienza cristiana
respira,sono ormai più che quat tordici secoli, dai dialoghi di sant'Agostino,
e dalle let tere di san Girolamo in poi,sino alla Divina Commedia, alla Somma
dell'Aquinate,e alle sublimi fantasie di Serbatti. Considerate le quali cose,
se alcuno mi domandasse onde accadde che la Paganità, in tanto e continuo sca
dere di costumi e di scienza, riconobbe più volte, senza pur cadere in errori
sostanzialissimi,le principali verità della morale,di che abbiamo esempj
segnalati nelle Indie, in Magna Grecia e soprattutto nelle scuole
socratiche e in Cicerone nostro, addurrei per risposta la vivezza delle umane
tendenze e l'efficacia de'sentimenti,che ger minando da naturaciportano
inconsapevolialvero ignoto, l'istinto della socievolezza e l'amore per gli enti
della medesima specie, che essendo un vivo bisogno dell'uomo, gli mantiene
fresca nell'animo la voce degli affetti do mestici e civili, e infine la notevole
differenza che corre fra l'apprensione astratta del vero e il sentimento che
n'hai nella vita, onde spesso il filosofo discorda dal l'uomo, e il popolano e
la povera vecchierella fanno a m mutolire coll'evidenza della rozza parola il
superbo sa piente.In Grecia,e segnatamente inAtene,dove nacque Socrate, e dove
si conservava nell'amore del bello e nei gentili attici costumi un germe di
rinnovamento, rimase aperta la via a tornare sulle antiche tradizioni,
attestate dalla coscienza e dal linguaggio, e a derivarne, come scintilla da
selce,i principj della morale che fanno sì bella parte delle scuole socratiche.
M a quei principj (già lo sappiamo) erano forse più facili a ravvisarsi l’età
sus seguenteallasocratica,inRoma;e perchèinRoma s'era insanguinata e commista
la civiltà dei popoli italici, in cui si manifestò ab antico una notevole
inclinazione alla scienza avvivata dal sentimento e da fini di pratica a p
plicazione,eperchè in Roma erafioritaefiorivalascuola dei Giureconsulti, il cui
pernio era l'idea morale della legge e del dritto,e infine perchè, se una
riforma era da farsi in tanta corruzione di civiltà e di costumi,in tanto
scadimento delle relazioni domestiche e civili, e nella notevole prevalenza che
da circa due secoli avean preso le dottrine epicuree, certo quella riforma
dovea comin ciare dai principj della morale.L'Etica ciceroniana, che è uno dei
più nobili tentativi fatti dall'umano ingegno per opporsi, senz'altro ajuto che
l'evidenza del vero de sunta dalla natura viva, alla rovina d'un'intera nazione,
era dunque preceduta da un grande preparamento; chè giammai si compie un gran
fatto senza che nei tempi e nella società,da cui nasce,se ne acchiudano i germi.
E i germi della riforma morale iniziata da Tullio furono, oltre le
condizioni civili e politiche di tutta l'Italia e di Roma, i Giureconsulti e le
sètte, alle quali s'oppose il riforma tore; le splendide tradizioni delle
scuole socratiche, e segnatamente idommi platonici,aristotelici e stoici;ivi
egli mirando componeva il disegno scientifico della sua morale;-m a quel nobile
magistero l'avrebbe ajutato ad accozzare brani di verità,non a comporre una
vera dot trina, a ragunare nella memoria, non ad unire nella ri flessione
esaminatrice, s'e'non avesse avuto l'occhio in un principio più alto, superiore
ad ogni opinione e ad ogni setta, nell'esemplare della natura considerata nel
suo popolo, in Italia, in Grecia, in Europa, nelle genti tutte conosciute, e
più viva in sè stesso, cittadino gene roso,scrittore sommo,oratore che tante
volte dall'alto della tribuna avea signoreggiato gli umani affetti colla parola
onnipotente. Questa meditazione profonda dell'uomo interiore, il cui fine era
dedurre le ragioni del giusto dalle attinenze dell'anima e dell'universo con
Dio,valse a Cicerone le accuse di quell'acuto intelletto che fu Michele Montai
gne. M a il Montaigne, osserva opportunamente un altro scrittore francese,
cercava forse troppo sovente materia al sorriso nell'invilire l'uomo e nel
rassegnarlo tra i bruti; Cicerone lo stimava creato a qualcosa di più alto e di
più solenne (ad majora et magnificentiora quædam ), e riconosceva da Dio la
nobiltà dell'umana natura,e l'ef ficacia della ragione e del libero arbitrio,
per costituire la morale e con essa la vita civile su fondamenti non peri turi.
Premesse queste considerazioni, l'Etica di Tullio, in cui Francesco Forti
osservava rappresentarsi la maturità della ragion naturale presso gli antichi,
si distingua i n nanzi tutto in due parti determinate intimamente dal
l'indirizzo del suo pensiero speculativo nell'esame dei veri morali,
estrinsecamente dalla forma filosofica de'trat tati. U n a parte è teoretica e
principalmente speculativa; e in essa Cicerone esaminò la ragione delle
tendenze n a turali nell'umano soggetto per ispiegare il problema
sulla natura dei beni, e si levò coll'induzione da questo esame ai concetti
universali di legge, di dovere, di diritto (De finibus, De legibus); l'altra
parte, in cui prevale un fine pratico o di applicazione, movendo essa pure dai
principj fondamentali, innanzi chiariti, scende a determi narli nella vita
dell'uomo individuo e sociale e nelle dot trine sulle forme di governo
(Tusculanarum, Paradoxa, De officiis,De republica,De amicitia eDe senectute).Se
poi si considera bene,nella prima parte di tal distinzione, avvertita pure dal
Kuehner, è compresa manifestamente un'indagine soggettiva e oggettiva;
soggettiva e ogget tiva ad un tempo,perchè nel problema, posto da Tullio
intorno alla natura dei beni, la riflessione scientifica si volge da un lato
sulle tendenze e sugli affetti spirituali, mentre dall'altro vi riconosce un
riferimento necessario a qualcosa d'assoluto, d'immutabile,d'infinito, di essen
zialmente oggettivo, all'esemplare di legge, da cui si ge nera in noi
l'obbligazione morale; e quindi è che la teorica de'Fini si distingue nel
filosofo nostro da quella del Dovere,e sorge fra l'una e l'altra, come centro
unitivo delle armonie morali, la teorica della legge. Ponendo mano impertanto
all'esame della parte speculativa,cominceremo dalla dottrinadeiFini, trattata
ex professo, e con intendimento al tutto scientifico, nel libro D e finibus, a
cui fanno corredo con secondaria i m portanza, e con oggetto non immediatamente
speculativo, le Questioni Tusculane, e l'operetta dei Paradossi. Thorbecke in una sua dotta dissertazione
universitaria sul principio della Filosofia e degli Officj desunto dalle opere
di Cicerone, osserva che il quesito dei Fini,o del sommo bene,occupa un luogo
principalis simo nella sua morale. Il critico tedesco allega a questo proposito
l'autorità stessa del nostro oratore, che più volte nelle sue opere, e
segnatamente nel primo libro degli Officj (I,3),riferisce ilfondamento delle
dottrine morali alla disputa sul fine dei beni,e nel De finibus nota oppor
tunamente contro gli Stoici non potersi separare, come [Due metodi
si presentavano alla riflessione esamina trice per risolvere il problema sulla
natura dei beni. L'uno,che èmetodo comprensivo edessenzialmente scien tifico,
necessario in qualunque parte della filosofia,e so prattutto indispensabile in
questa, stava nel riprodurre esattamente coll'ordine del pensiero speculativo
l'ordine del soggetto, nell'abbracciare quella stupenda armonia di tendenze e
di fini, che ci manifesta l'uomo interiore senza nulla
tralasciare,nullanegare,nullaesaminare im perfettamente. L'altro metodo invece,
che s'informava dalle qualità negative e parziali del sofisma, consisteva nel
dimezzare colla scienza ciò che la natura avea unito, nel considerare l'essere
umano soltanto in certe sue dis posizioni e facoltà, tralasciando le altre,
nell'offrire come opera compiuta del vero e di Dio un informe viluppo di
contradizioni e d'errori. Questa seconda fu la via torta e fallace seguita
dalle sette grecoromane; quello il m e todo di Socrate e della coscienza
tracciato da Tullio, come n'è testimone l'intero trattato de'Fini. La quale
avvertenza occorre fare fin d'ora;perchè parecchj storici della Filosofia
trovarono anche in questa parte della m o [ termini identici d'una stessa
relazione morale, il principio dell'operare e il fine dei beni. Tale suprema
importanza scientifica del trattato dei Fini si desume ancora dal con siderare
che la materia di quel problema si estende per un larghissimo campo di
relazioni intercedenti fra la psicologia e le dottrine morali.Invero il
filosofo,che pone mano a risolverlo,bisogna che mova dai rudimenti di natura,
comprenda con diligente esame tutto l'essere umano,e rifacendosi dalle prime
tendenze,dove appena appena si manifesta l'affetto, e da quelle che palesano
nel sentimento, nell'associazione dei fantasmi e nella m e moria lo svolgimento
della vita animale, e il germe del raziocinio, si apra la strada ad esaminare
tutto l'uomo nella conoscenza che più tardi acquista dell'essere pro prio,dei
proprj doveri,delle prime notiziescientifiche,e a considerarlo come parte della
famiglia, come individuo e come membro della civil società. rale di
Cicerone un appicco alle accuse;dissero non avere egli compreso il vero aspetto
scientifico della questione dei Fini, e poichè, sprovveduto di un saldo
criterio di scienza, tentava comporre le più disparate dottrine, quali erano
quelle degli Stoici e degli Accademici e Peripatetici antichi, la tentata
conciliazione provare anche una volta la povertà del suo ingegno speculativo. Ritter,
Brucker. A una simile accusa, benchè apparentemente sostenuta da
validiargomenti,rispondemmo altravolta,eciparve che la prova più solenne e
palpabile contro le afferma zioni dei critici avversi forse il prendere in mano
le opere del filosofo latino, svolgerle con diligenza, ed esponendo que'suoi
dialoghi pieni di tanta vita d'eloquenza e di speculazione, rappresentarlo,se
fosse possibile,alla fan tasia dei lettori quale io me lo immagino là nelle cam
pagne di Tuscolo e di Cuma seduto all'ombra della quer cia di Mario, e inteso a
conciliare le negazioni de'sofisti nell'affermazione compiuta dell'umana
coscienza. Il dialogo de'Fini è diviso in tre giornate,e ciascuna comprende una
disputa,nella quale Tullio assume sem pre la parte di giudice e di confutatore,
argomentando in favore d'Epicuro, degli Stoici e dell’Antica Accademia il
consolare L. M. Torquato, M. Catone e L. Pupio Pisone. Il dialogo è introdotto
ora nella villa di Cicerone in quel di Cuma,oranellabibliotecadiLucullopresso
Tuscolo,e in fine all'ombra silenziosa deplatani nell'Accademia d'Atene. Per
cominciare dalla disputa contro Epicuro,occorre qui rammentarci come nella
prima parte di questa tesi esami nando le principali scuole che fiorivano in
Grecia avanti i tempi di Cicerone, e tra queste la scuola epicurea, vi trovammo
un nuovo e sempre crescente pervertimento delle dottrine anteriori o
contemporanee,e come tal per vertimento consistesse,a nostro avviso, in un
esame sem pre più povero e parziale del soggetto su cui cade la scienza,
manifestato, segnatamente in fisica, col fermare l'osservazione al nudo
meccanismo degli atomi,in logica con ridurre ogni facoltà dello spirito al
senso, e nella morale restringendo la virtù e la beatitudine ai piaceri del
corpo e i piaceri dell'animo alla speranza o al ricordo dei piaceri del
senso.Una siffatta dottrina,che spegnendo ogni più nobile tendenza dell'uomo,
riduceva il sapiente alla condizione del bruto, subito la riconosci come il por
tato d'un ingegno profondamente sofistico, solo il sofisma togliendo all'uomo
l'intuito vivo delle armonie di natura; chè, posto a capo dell'Etica il puro
sentimento animale, se ne oscura la notizia dell'uomo, ente capace non solo
disentimento,ma d'intellettoed'amore,noncapiscipiù la possibilità del dovere
che dee cercarsi per sè,non già per diletto,e s'offende la dignità dell'umana
natura e delle virtù ponendo fra esse la voluttà come una meretrice in
un'assemblea di matrone. De fin., De off. Tali sono gli argomenti, tolti
altresì dalle in time contradizioni di quel sistema, che Cicerone vibra di
rimando contro Epicuro colle armi d'una concitata elo quenza,e davvero la sua
risposta a Torquato è un con tinuo contrapporre a un cattivo e sofistico esame
del l'umana natura, un esame più alto e più vero delle sue leggi, de'suoi
destini, del suo aspirare all'immutabile e all'assoluto;chèilnobile animo
dell'accusatorediVerre, e del persecutore di Catilina e d'Antonio poneva da
parte ogni dubbio combattendo nelle dottrine epicuree una tra le cause maggiori
dell'affrettata rovina di Roma. M a v'è un luogo,noterole su tutti gli altri,in
cui l'Ora tore latino, volendo mostrare come l'affetto abbia efficacia viva e
spontanea per ricondurci nel vero,rappresenta quella contradizione tra il
pensiero e l'operare, tra le dottrine e la vita,non rara neppure ai dì nostri
in uomini spon taneamente inclinati al bene per virtù di natura, e che han
guasta la mente da malvage filosofie. In quel luogo egli si volge a Torquato, e
invoca la sua coscienza di cittadino, il suo desiderio di gloria, le tradizioni
de'suoi avi famosi e il suo magnanimo affetto alla patria in te stimonio delle
dottrine da lui professate; e gli chiede p e r chè mai non oserebbe sostenerle
nei comizj, alla presenza del popolo, o in pieno senato. Crede egli con intimo
coif vincimento unico fine della vita ilpiacere? E allora perchè mai v'è
tanta contradizione tra quello che fa e dice come cittadino e quello che
sostiene come filosofo? Teme egli forse l'odio del popolo? Ma badi, risponde
Cicerone, che in questo caso l'errore dell'intelletto non venga raddiriz zato
dal cuore; badi che il sentimento universale, onde ogni popolo della terra si
leva come un sol uomo a con dannare Epicuro,non sia iltestimonio interiore e
inappel labile della natura, repugnante alla teorica del piacere! Questo
intimo disaccordo tra la ragione ed il cuore, tra le dottrine della scienza e
la vita civile, rappresen tato in Torquato, oltre al mostrarci un alto
principio della filosofia di Socrate e di Tullio, che vuole il cono scimento
del vero costituito da un'interiore armonia del l'affetto coll'evidenza, serve
poi in questo caso a ritrarre mirabilmente i tempi dello scrittore, e a
partecipare al dialogolavitaeilmovimento deldramma.I tempi di Cicerone in molte
parti somigliavano ai nostri. Dismessa a poco a poco nelle mollezze la severità
del costume, s'era affievolito negli animi umani, per l'abito fatto a dottrine
sensuali, quel profondo discernimento del retto che non patteggia mai colla
coscienza,e sdegna chiamare con altri nomi da quello che sono il bene ed il
male. Quindi, come sempre avviene, l'errore nelle opinioni d o
ventavapoicausanon lievedidecadimento neicostumipri vati e civili,e non
pertanto alla corruzione profonda degli intelletti e delle volontà contrastava
potentemente nei più, e in special modo nel volgo,l'efficacia ingenita dell'af
fetto del bene. Ora questo che ad altri poteva sembrare niente più che un
argomento di fatto della differenza tra le opinioni volgari e le dottrine dei
filosofi, avea per Cicerone il valore di una prova scientifica, come testimo
nianza resa dalla natura ai supremi principj morali, e questa testimonianza ei
la vedeva,da un lato nell'efficacia degli affetti osservati in ogni individuo,
e dall'altro nel riscontrarsi la veracità di questi affetti coi pronunciati
solenni e infallibili del senso comune. Sennonchè, mentre nel secondo libro
de'Fini era i m presa di non grande difficoltà pel filosofo latino il con
futare Epicuro la cui dottrina mancava d'ogni severo prin cipio di
scienza, la sua parte di giudice e di contradittore doventa non lieve quando
nel terzo e nel quarto libro egli prende ad esame la morale del Portico difesa
dall'autorità e dalle parole di Catone Uticense.E invero,qualunquevolta a
mostrare la solidità e l'ampiezza dei principj etici e speculativi su cui
Zenone fondava la teorica de costumi, non bastasse il suo esame diligente
dell'animo umano e degli affetti spirituali osservati in ogni età della vita,
varrebbe soltanto ilrichiamare ch'ei faceva la morale, nelle sue parti più
generali, ai sommi principj della scienza della natura. Il filosofo di Cittio
avea fondato la sua dottrina sul riconoscimento pratico e speculativo del
l'ordine naturale, espresso in quella sentenza:vivi confor me alla natura.
Πρώτος ο Ζήνων... τέλος είπε το ομολογ ouuevos rõ qurat Eno, così Diogene
Laerzio; e in quella sentenza, chi ben la consideri, si riconosce l'efficacia
del l'insegnamento socratico, continuato in Zenone, onde a v veniva, e lo
notammo più addietro, che, mentre la sua logica e la fisica erano infette da un
esame parziale e meschinamente sofistico dell'universo e dell'uomo, la m o rale
offriva un assai più largo disegno di veri speculativi. Il principio fondamentale
dell'Etica degli Stoici era fuor d'ogni dubbio il concetto puro e assoluto del
bene in attinenza cogli affetti spirituali;tuttavia se fu merito insi gne di
quella dottrina che essi pervenissero a tale concetto dopo un largo esame
psicologico delle umane tendenze,il vizio era che partiti dalla comprensione
totale dell'essere nostro e giunti all'idea di virtù, restringevano ogni cosa a
quest'ultima,non abbracciando più tutto l'uomo nello spirito e nel senso,
nell'intelletto e nel cuore, in sè stesso e nelle condizioni esteriori. Le
cose, diceva Zenone, si conoscono dall'uomo o per esperienza,o per giudizio di
causa,o per analogia, o per raciocinio comparativo, e in quest'ultimo cade la
notizia del bene, alla quale l'animo ascende universaleggiando da quelle cose
che sono secondo natura. Laonde dal concetto del bene come d'un che ideale,
assoluto e simile soltanto a sè stesso, venne poi il concetto della virtù,
al quale il filosofo del Portico saliva per la nozione intermedia d'onesto. Che
cos'era l'onesto? L'onesto per gli Stoici altro non era che la convenienza
dell'atto umano colla natura, riconosciuta dalla ragione; e quindi essi
dicevano, avvolgendosi in un paralogisma, che poichè quel riconoscimento
pratico e razionale avveniva nella pienezza delle facoltà intellet tuali dopo
l'infanzia, che è quella età in cui le prime cose conformi a natura (prima
nature) (tá apota xato qusiv) si appetiscono inconsapevolmente,da queste prime
inclina zioni della natura move il principio dell'operare, ma non però quelle
cose,che n'erano il termine, si annoveravano tra i beni. Questo principio era
vero in parte, ma nel l'esagerarlo sta il vizio fondamentale della morale del
Portico; l'esagerazione poi consisteva in considerare l'atto m o rale come
avente a fine sè stesso, niente altro che sè stesso, nell'astrarre da ogni
condizione esterna della vita privata o civile, e da quell'armonia che
intercede tra la ragione e gli affetti, onde il libero volere o è condotto o
conduce; nel porre in petto al sapiente quella virtù fredda, impassibile,
solitaria, divisa dell'universo e da Dio, come immobile quercia radicata nei
macigni delle Alpi. Se poi si considera più addentro nelle ragioni isto riche
del sistema, il concetto eccessivo della virtù ci p a lesa un vivo contrasto
della morale stoica coi tempi. Qual fosse il secolo di Zenone facemmo vedere
più in nanzi. Ora se immaginiamo in quel secolo un uomo di gagliardo volere e
di generosi propositi, che ponga mano alla filosofia coll’intendimento di
fortificare il co stume,e di avviarlo ad un fine più alto,subito si capi sce
come a quell'uomo, profondamente ristucco dalla ignavia dei tempi, la vita del
saggio dovesse sembrare una lotta continua della ragione innamorata del bene
cogli affetti interiori, col rigoglio dei sensi, colle ree c o stumanze civili,
e l'onesto una perfezione quasi supe riore all'umana, e conseguibile solo da
pochi sapienti. (De finibus, tutto il libro terzo; Kuehner e Thorbecke passim.)
Esponendo e confutando i principj più generali della morale
stoica,abbiamo esposto in gran parte intorno a questa materia le opinioni del
filosofo nostro. Solo ci ri mane da cercare in qual modo egli svolgesse le
proprie dottrine morali in contrapposto alle dottrine del Portico, e come
l'erroneo concetto del bene supremo da lui combattuto nel quarto libro, movesse
la sua riflessione a pensare un più vero e men difettivo scioglimento del gran
problema morale.Non v'ha forse luogonelleopere da noi esaminate,in cui questa
facoltà potente dell'inge gno speculativo di Cicerone si faccia meglio
manifesta, e con essa il suo metodo delle attinenze che concilia gli opposti
sistemi nell'unità non divisibile dell'uomo. I principj su cui è fondata la
confutazione, movendo dalle idee più comuni e più popolari intorno alla poca
conve nienza delle dottrine del Portico colle necessità e cogli usi della vita
civile, procedono poco appresso a cercare le cause più remote del paralo gisma
nei fondamenti del sistema avversario.I giudizi del filosofo latino, informati
da un metodo rigoroso d'esame, cadono sempre sul concatenamento scientifico
delle dot trine, e sulla loro armonia coll'indole del soggetto; nè
sembreranno,iocredo,eccessivamente severi,come parvero a Kuehner, qualorasipensiche
Cicerone,traisistemi maggiormente seguiti a'suoi tempi, preferiva ad ogni altro
lo stoico, e che inoltre la storia moderna della filosofia riassumendo l'esame
di lui sulle dottrine m o rali del Portico, solennemente lo confermava. In prova
di ciò Enrico Ritter, più volte citato, considerando l'idea che del saggio
s'erano formati gli Stoici, e su cui fondano la morale, vi scopre il principio
d'ogni lor paradosso, e di parecchie false opinioni sulla vita dell'uomo;
poichè, se da un lato, egli nota,si nascondeva in quella idea un alto
intendimento civile, ne veniva poi necessariamente alterato il concetto della
vita e dei doveri affermandosi quivi l'apatia del saggio, ovvero (come suona in
greco quella parola) il suo affrancamento assoluto da ogni pas sione e da ogni
causa esterna che turbasse la tranquillità del suo spirito. Ritter, Morale
des Stoïciens, Questa era un'ambiziosa ostentazione del sommo bene, così la
chiama ilnostro Oratore,ostentazione degna d'una filosofia da ottimati che
faceva privilegio della s a pienza, e l'appartava lungi dalla modesta sublimità
del senso comune. Laonde gli Stoici (prosegue Tullio), per non essere da quanto
il volgo, mutavano i principj della natura,dicevano che l'uomo è anima e
corpo,che visono nel corpo alcune cose desiderate da noi come beni; m a
poi,avendo fatto nell'uomo eccellente l'animo sopra ogni altra sua facoltà,
designarono per modo la natura del bene sommo come se l'anima non sovrastasse
soltanto,ma fosse unica parte della umana persona. E qui è notevole davvero
come ricercando il nostro filosofo le cause ultime dell'errore nel principio
stoico del bene supremo,si va gradatamente avvicinando al con cetto positivo e
scientifico della morale.Io dico che dalla confutazione degli Stoici esce un
concetto positivo e scien tifico della morale, perchè quivi egli non segue le
forme irresolute della Nuova Accademia, nè desume gli argo menti più validi
dalle contradizioni relative e parziali del sistemaavverso,ma
procedepiùinnanzi, indagasottilmente l'intervallo che separa il conoscimento
diretto dal cono scimento riflesso, e pone la vera indole della scienza nel suo
differire dalla natura,a quel modo che il compiuto differisce dall'incompiuto,
l'attuale dal virtuale e il per fezionamento dal perfettibile. La scienza, dice
Cicerone, move dai principjdi natura, e come tale ha nella stessa natura la
possibilità d'ogni suo sviluppo ulteriore; la scienza non crea l'uomo,ma ne è
un perfezionamento, non genera le notizie dirette,m a le chiarisce,le
distingue, le corregge,le riduce a principj; non disegna ella stessa l'immagine
dell'umana virtù, nè dispone l'uomo a desi derarla, m a trae in atto quelle
essenziali e ingenite dis posizioni; talchè l'opera sua è un continuo
avvicinarsi al concetto del bene,seguendo un archetipo eterno di perfezione, e
somiglia all'opera dello scultore che riceve da altri già disegnata e delineata
la statua per ridurla poi a compimento colla virtù del proprio scalpello.
« Ut Phidias potest a primo instituere signum idque perficere, potest ab alio
inchoatum accipere et absolvere,huic similis est sapientia: non enim ipsa
genuit hominem,sed accepit a natura inchoatum. Hanc ergo intuens debet
institutum illud quasi signum absolvere.Qualem igitur natura homi nem
inchoavit? et quod est munus,quod opus sapientiæ? quid est quod ab ea absolvi
et perfici debeat? Si nihil in quo perficiendum est præter motum ingenii
quemdam, id est,rationem,necesse est huic ultimum esse ex virtute agere:
rationis enim perfectio est virtus: si nihil nisi corpus, summa erunt illa,
valetudo, vacuitas doloris, pulcritudo,cætera.Nunc de hominis summo bono quæ
ritur. Quid ergo dubitamus in tota ejus natura quærere quid sit effectum? Quum
enim constet inter omnes,omne officium munusque sapientiæ in hominis cultu esse
occu patum, alii ne me existimes contra Stoicos solum di cere, eas sententias
adferunt, ut summum bonum in eo genere ponant, quod sitextra nostram
potestatem,tam quam de inanimo aliquo loquantur, alii contra, quasi corpus
nullum sit hominis, ita præter animum nihil cu rant, quum præsertim ipse quoque
animus non inane nescio quid sit -- neque enim id possum intelligere --, sed in
quodam genere corporis, ut ne is quidem virtute una contentus sit,sed appetat
vacuitatem doloris.Quam ob rem utrique idem faciunt, ut si lævam partem negli
gerent, dexteram tuerentur, aut ipsius animi, ut fecit Herillus, cognitionem
amplexarentur, actionem relinque rent. Eorum enim omnium, multa
prætermittentium, dum eligant aliquid,quod sequantur,quasi curta sententia. Atveroillaperfectaatqueplena
eorum,quiquum de hominis summo bono quærerent,nullam in eo neque animi neque
corporis partem vacuam tutela reliquerunt.» Questa bella dimostrazione,
che il Kuehner annovera tra le dottrine interamente proprie di Tullio, e che
trascorre con tanta signoria di sè stessa dalle nature inferiori alle
superiori, ponendo la legge che governa il sapere a riscontro colla legge
dell'universo, mostra quanto alto fosse pel filosofo romano il concetto della
Scienza Prima,ed è uno splendido testi monio della sua potenza speculativa e
dell'universalità dell'ingegno latino.Concepiva il Romano lascienzacome un
ripensamento della natura, e la natura, considerata nell'ordine che la informa,
era per lui un'arcana ar monia d'attinenze; talchè la scienza ei la immaginava
come un ripensamento delle naturali relazioni, che in tercedono tra i varj
gradi della vita nell'universo, tra le varie parti della natura fisica,
intellettiva e morale nell'uomo, e poi tra la natura e la speculazione, e tra
la speculazione e la vita civile. Filosofo vero è per lui chi ripete
veracemente,tal quale gliela diè la coscienza, quell'armonia di natura;filosofo
falso o sofista chi con fondendo o separando riesce a negarla. Quindi era
sofista l'epicureo, che meditando l'uomo solo nella parte più bassa di sua
natura, e chiudendo gli occhj davanti alla luce non estinguibile
dell'intelletto, poneva nel piacere il supremo dei beni; era sofista Erillo che
disconoscendo la libera attività del volere, confinava la virtù nell'in tuizione
inefficace e disamorata del vero scientifico; ma non errava meno lo stoico, che
pervenuto al concetto di virtù movendo dalle naturali tendenze, a un tratto le
abbandona per rifugiarsi in un ideale di sapienza che alla natura dell'uomo contraddiceva.
Cf. De legibus. Considerata sotto questo rispetto,l'idea altamente c o m
prensiva,che Tullio s'era formata della scienza morale, lo ravvicinava ai
principj delle scuole socratiche.La ra gione parmi assai chiara;poichè,posto
una volta,com'è di fatto, la scienza non essere altro che un fedele ripen
samento dell'umano soggetto, e dall'ordine dei principj intrinseci ad esso
venire l'ordine esterno costitutivo del metodo dilei;ammesso inoltre
infilosofiailrinnovamento essenziale d'ogni riforma essere,come nelle
istituzioni ci vili, un ritorno verso i naturali principj dell'animo; da ciò
consegue che la misura per determinare la bontà del metodo d'una scuola, e il
suo avanzare o allontanarsi dall'istituto riformatore,sarà ilparagone tra la
pienezza della forma scienziale e l'integrità della materia esaminata; talchè,
dato un degeneramento delle scuole successive dal principale istitutore, chi
prendesse a confutarle richia mandole ad un esame più pieno dell'umana
coscienza, s'incontrerebbe per via diretta negl'intendimenti del ri formatore.
Tale è il caso da noi esaminato rispetto al filosofo latino. Il principio della
morale delle scuole so cratiche è il conosci te stesso. Ora è noto quale fosse
la pienezza e la comprensione del significato, che il filosofo ateniese dava a
quel precetto in ogni parte della filosofia, e come il sentimento della
perfezione ideale, connaturato all'ingegno greco, e reso più vivo dalle armonie
pitta goriche,traesse lui,uomo di smisurato intelletto, a im maginare la virtù
costituita da un armonico concorso delle facoltà umane fra loro e coi termini
esterni, e a conce pire il cittadino nell'ideale dell'uomo perfetto. Tale
indirizzo dell'ingegno greco nei principj costi tutivi della morale seguitarono
Platone e Aristotele; ma l'uno, giovane della fantasia e dell'affetto,e nato in
una civiltà, giovane ancora, e che serbava nell'evento delle istituzioni civili
tutte le speranze d'un avvenire glorioso, sebbene affermasse l'effettuamento
del bene assoluto non potersi dare q u a g g i ù, perchè il bene assoluto è
l'ente i n finito, in sè e per sè sussistente,e partecipato solo im
perfettamente dalle cose finite, pure faceva consistere la virtù in un continuo
avvicinarsi dell'uomo a quell'esem plare immortale di perfezione, e riconosceva
nei beni ter reni un'effigie lontana e appena un'analogia della beatitudine
eterna (Quo i w s i s Sew. De rep. e Thea et. ). Aristotele, ingegno più virile
e più temperato e ritraente dai tempi, in cui, perduto il fatto delle libere
istituzioni, se ne ve niva creando con affetto maggiore la scienza, se rinvenne
il perfetto della vita nell'intuizione del vero specula tivo, si volgeva di
preferenza alla pratica, e faceva del pensiero un semplice avviamento
all'azione, della politica la parte principalissima della sua morale. Il
concetto del bene, rimasto assai indeterminato nelle dottrine del
figlio di Sofronisco, si bipartisce dunque nel l'Accademia e nel Peripato;
Platone lo congiungeva alla psicologia e alla dialettica; Aristotele lo
ravvicinava alla politica; con che, si avverta bene, noi vogliamo solo far
notare certa speciale prevalenza nella forma scientifica delle due scuole, non
già determinare una essenziale diver sità nei fondamenti della morale. Chè la pienezza
dell'osser vazione interiore, tanto raccomandata da Socrate, durava lungo tempo
ancora nei successori d'Aristotele e di Pla tone, e fu tra le cause principali
ond'essi, concordi con Zenone nel sostanziale del sistema, ne combatterono il
metodo e il concetto del bene supremo come un trali gnamento dalle dottrine dei
loro istitutori. Da queste considerazioni s'inferisce più cose.Primie ramente
si comprende come il pensiero dell'oratore latino sulla teorica del bene morale,
considerato sotto il rispetto o semplicemente speculativo, sia universale,
comprensivo e di un importante valore scientifico, sia un testimonio di più del
suo risalire mediante un principio più alto e più generale,non certamente
partecipato dalle scuole negative e sofistiche,
ai veri supremicostituenti la scienza. Da que ste considerazioni esce
anche nuova luce sull’intendimento a cui mira il libro De finibus. Quest'opera
è di una singolare importanza per la storia della scienza morale, e, a
considerarla bene, si vede che Tullio a fin di mostrare e chiarire la perfetta
dottrina sulla natura del bene su premo, si valse del metodo più famigliare a
Socrate e a Platone, metodo che potrebbe dirsi ab absurdis, assai usato nelle
dimostrazioni dei problemi di Geometria;pose cioè più concetti particolari e
negativi del bene perfetto, e su via di contradizione in contradizione si levò
elimi nando, e integrando insieme, al concetto più universale e più
comprensivo. Per talmodo egli,imitando il Socrate del Convito, del Fedro e
della Repubblica,addestrava il giovane ingegno latino a scoprire nel
particolare e nel mutabile delle opinioni l'idea universale che signoreggia la
scienza. Conforme a tal metodo, se egli nel primo e nel secondo libro confutava
Epicuro mostrando quant fosse difettivo il suo principio che ponera
il bene ed il fine nel puro sentimento animale,e se nel terzo e nel quarto
esponendo e correggendo le dottrine del Portico richiamava i filosofi a
meditarne la parte imperfetta, cioè il prevalere soverchio del principio
spirituale e sog. gettivo nel concetto del bene;nel quinto libro intro dusse a
coronamento della morale ilsistema dell'Accademia e del Peripato. Questo libro
è una sintesi di tutta quanta la scienza; vi si studia l'uomo dai primi
rudimenti della vita vegetativa e animale su su fino agli albori della vita
intellettiva e morale; vi si mostra come l'istinto primitivo della
conservazione esca in sentimento, il sentimento germini in affetto,e
quell'affetto,incerto e inconsaputo da prima, a poco a poco coll'apprensione
più viva di noi stessi e della differenza che ci distingue dagli
altrianimali,simuta inconoscimento; vis'insegna come debba la filosofia tener
conto nelle sue meditazioni di questa piega üei sentimenti animali e
spirituali, perchè le sono scala all'evidenza del vero che più tardi la ri
flessione esaminatrice coglie nei penetrali della coscienza. Invero quando io
leggo il trattato dei Fini non mi posso capacitare come vi siano stati alcuni
critici che han vo luto scoprire nel quinto e nel quarto libro, e nella con
ciliazione ivi proposta tra gli Stoici e l'Antica Accademia, non altro che un
misero tentativo dell'eclettismo latino; poichè (giova ripeterlo)mentre
investigava ilfine scientifi camente,Cicerone conciliava le scuole,ma
integrando col metodo dell'osservazione interiore; procedeva sì ravvici
nandoisistemide'filosofi,ma ilprincipiodellaloroarmo nia desumeva
dall'esemplare della natura, ch'è sistema immortale di Dio. Vedi riassunto e
citato diligentemente ilDe finibus nella dissertazione già allegata di G. R.
Thorbecke, e in quella di Kuehner, Vedi pure per ciò che risguarda ilconcetto
di tutto il trattato l'importante dissertazione di Hinkel: De variis formis
doctrine moralis Peripatetico rum usque ad Ciceronem, earumque cum cæterarum
scho larum placitis comparatione. Marburgi Cattorum). Il concetto
scientifico della morale di Cicerone, quale noi l'abbiamo meditato sin
qui,comprendendo nella sua pienezza tutti i principj costitutivi di quella
dottrina, e unificando in un termine superiore, che era l'integrità del
soggetto umano, le contradizioni parziali delle scuole, dà luogo a risolvere
una delle più importanti questioni mosse dagli storici sulla morale
dell'oratore latino. I m perocchè ci spiega in qual modo, concorde coll'antica
Accademia e col Peripato nei principj supremi e nel l'idea del bene e della
virtù, quanto poi alle parti a c cessorie,che avevan per fine determinare il
contegno del saggio rispetto a sè stesso,e nelle relazioni civili,egli se
condasse talvolta gli Stoici la cui severità, civilmente con siderata,glipareva
un argine saldocontrolastraboccata corruttela dei tempi. Procedendo con tal
criterio, i libri attinenti a questa parte soggettiva della morale appajono
informati da un solo ed unico disegno di scienza,e ven gono distribuiti per
classi in ordine al metodo e agli in tendimenti. Infatti dall'opera dei Fini,
la quale tiene la parte suprema dell'Etica, ch'io chiamai soggettiva, e
discorre del bene e della vita con fine immediatamente scientifico, scendono
conforme a questo principio le Questioni Tusculane, e il libro dei Paradossi. Manifestano
un fine positivo o d'applicazione e un esercizio di metodo le dispute
Tusculane,dove in mezzo ai precetti stoici,esposti nella maggior parte
dell'opera, traluce l'intendimento di offrire, in tanta corruttela delle
pubbliche istituzioni e dei costumi romani,un alto esemplare del saggio,capace
di volgere le menti a studj più generosi; e divisa la filosofia in più
questioni (loca),si prende in ciascuna a ribattere le istanze proposte col
metodo della Nuova Accademia. Poi un semplice esercizio di metodo forense
rivelano i Paradossi, nei quali Tullio poco dopo la morte di Catone Uticense
prese a lodare secondo i principj stoici le virtù dell'amico, e mostrò agli
studiosi dell'eloquenza come qualunque soggetto di filosofia, il più remoto
dalle opi nioni volgari,si porgesse ad un utile esperimento dell'in gegno
oratorio. « Ego vero (così egli dice nel Proemio) illa ipsa quæ vix in
gymnasiis et in otio Stoici probant, ludens conieci in communes locos.» 3.
Insino a questo punto, esponendo fedelmente l'in dirizzo delle indagini
speculative di Cicerone nella con troversia intorno al bene supremo,noi
paragonammo volta per volta le sue opinioni coi principali sistemi
contemporanei. Da quindi innanzi procederemo con metodo di verso e più spedito,
giunti a parlare di quella parte della sua filosofia, dove egli si avvenne a
minori opposizioni,e dove la sua riflessione era soccorsa più largamente dalle
idee nazionali e dai principj del Diritto romano. mente la parte
soggettiva della morale,che,come vedem il fine dell'operare affetti e nel più
intimo della coscienza mo sinqui,indaga umani, e col riscontro di Tullio non
lieve di veri incer avvalorata indubitabili tezza alla riflessione più che
altrove cadendo l'indagine affettuosa dell'essere mai dalla scienza, potea far
velo al giudizio; separabile o perchè la discordia senza metodo più ragione i
problemi e le controversie. Ma con si governa sicuro, e con più evidenti da
sottili argomenti, offriva ai tempi esaminatrice. Forse perchè in quella
oggettiva della nella quale egli,esaminate tendenze,el'istinto filosofale sulla
umano,ilfomite delle sette vi avea moltiplicati principj morale di Cicerone la
parte, ossia quella parte le naturali felicità, e ciò che per rispetto del
della l'adempimento bene e alla suprema universale della legge e del dovere. E
proprio feconda speculazione va dal soggetto all'oggetto dall'esame e
conoscitive eterni, tanto più, come chi senta del fine, si leva al concetto
idealità anche in, che quanto più il nostro questo è im fatto notevole,trascende
minuto delle potenze affettive alla contemplazione per la via della scienza
degli intelligibili animoso procede della valle a una alleggerirsi vista
interminata il respiro uscendo dal basso teorica della della filosofia di
pianure e di mari. La e del dovere è dunque il fondamento legge civile di M.
Tullio; e certo a questa chiarezza dei sommi parte più delle passioni,non E
vera degli,perquanto nella piega a noi costituisce tempi di pensiero il
sensibile,e passa principj morali da cui ella è desunta,e dove il pensiero
del filosofo latino si ferma per rinvenire le armonie più remote della scienza
morale colle dottrine dello stato e della vita politica, conviene attribuire
quella pienezza di speculazioni largamente intrecciate all'esame del mondo e
dell'animo umano,onde il libro delle Leggi riassumendo le teoriche civili,si
rannoda da un lato col dialogo dei Fini e coll’Etica soggettiva,e dall'altro
cogli Officj e col libro della Repubblica. Talchè, a voler direpienamente il
pen siero del filosofo romano, tutta la scienza morale sì del l'individuo come
dell'umana famiglia, e la filosofia civile nelle sue più remote congiunzioni
colle altre dottrine, muovono, come due maestose riviere di fiumi perenni, da
quel fonte immutabile, che è il concetto della eterna legge. Le dottrine della
filosofia civile di Cicerone furono da molti anni soggetto di lunghe e
diligenti ricerche in Germania, in Inghilterra ed in Francia, tanto che su
questa più che sopra qualunque altra parte delle sue opere forniscono le
biblioteche copiosa materia di lavori storici, critici e dottrinali agli studj
dei commentatori e dei filosofi.La quale abbondanza di ricerche sulle dottrine
posi tivedelfilosofolatinoprovennealcerto,cosìdaunatalquale novità e armonia di
disegno scientifico che egli dava ai suoi studj sulla filosofia civile,
applicandovi l'esempio di Roma e i larghi principj della Giurisprudenza e del d
i ritto latino;come da quell'opinione invalsa universalmente tra i dotti
ch'egli avesse un ingegno più fecondo nel l'applicare che nel trovare, più
acconcio ad esporre i pre cetti della scienza che a fondarne i principj per via
di rigorose indagini speculative. Ma niente è più contrario a questa opinione
quanto un severo esame del libro De legibus. Meditando con attenzione questo
dialogo,uno dei più eloquenti che mai uscissero dalla fantasia largamente
inventiva del nostro filosofo, ti accorgi tosto essersi in gannati a partito
coloro i quali sull'autorità di alcune poche parole di lui nel cap. VI: «
quoniam in populari ratione omnis nostra versatur oratio,populariter
interduin loqui necesse erit », vollero indurre doversi annoverare questo
trattato fra i libri mancanti di vera speculazione scientifica, e volti ad un
fine semplicemente pratico popolare.Ora per risolvere una siffatta questione,
non certo di poca importanza nella critica della morale di Cicerone, e
risguardante quei principj che ne collegano le varie parti in u n disegno
ordinato di scienza, io distinguo nel libro De legibus due rispetti parimente
importanti in cui può essere considerato:un rispetto istorico, o giu ridico, e
un rispetto semplicemente speculativo. E a par lare innanzi tutto del primo,
non debbo lasciare indietro come dal 490, età della prima guerra cartaginese,
al 628, anno della distruzione di Numanzia, mentre gran parte all'oriente e
all'occidente d'Europa, e l'Africa stessa venivano in potere dei Romani, la
repubblica (come dice il Forti) rapidamente si corrompesse.S'indeboliva a poco
a poco l'ordine delle famiglie, si mutava la moderazione in crudeltà e
capriccio, l'ossequio e l'ubbidienza in vile condiscendenza ai vizj con animo
rivolto a sciogliersi dai legami della famiglia, perdera forza la religione del
giu ramento; nel VI secolo frequenti i privilegj, caduta in discredito
l'autorità sacerdotale, frequenti le prorogazioni degl'imperj; indi a grado a
grado cessava Roma dal l'avere una costituzione fissa e un prudente consiglio
che la dirigesse, e s'avviava all'anarchia popolare. Di queste condizioni
civili,che rendevano sempre più facile il vivere sciolto da ogni legge morale,
dovea risentirsi la disci plina del dritto. La quale nata da una viva
disposizione dell'ingegno latino a ricercare la suprema legge del vero nella
moralità delle azioni, e guidata dalla sublime idea del giure che G. B. Vico
riconobbe nel linguaggio dei primitivi italiani, si perfezionava tra il sesto
secolo e il settimo a causa del bisogno vivamente sentito di ridurre le
consuetudini a leggi scritte, per l'uso delle lettere greche, per lo studio
dell'antichità necessario alla notizia delle leggi,e per l'efficacia della morale
stoica.Va frat tanto la sparsa materia del diritto romano non si ordi nava in
forma di scienza; non già che molte massime generali delle XII tavole e
dei pretori non fossero d e sunte dall'intimo della filosofia, e che
l'applicazione e lo svolgimento delle dottrine non desse impulso efficace al
l'ingegno speculativo de'Giureconsulti.Vi s'opponeva un difetto,antico nella
costituzione romana,percuicadendo in dissuetudine le leggi, spesso occorreva di
rinnovarle, l'autorità troppo larga dei legislatori, onde, al dire di Cicerone,
si studiavano piuttosto gli editti del Pretore e le opere dei Giureconsulti,
che il testo delle XII tavole, e poi il moltiplicare delle massime e delle
questioni per cui avveniva che la scienza, anzichè ordinarsi a sistema con
universalità di disegno, si veniva soltanto applicando gradatamente ai bisogni
civili. M a verso la metà del settimo secolo,quello stesso in cui Cicerone
scriveva la Topica,eaRoma epertuttoildominiodella repubblica s'era da un pezzo
largamente propagato lo studio della filosofia e delle lettere greche,l'ingegno
romano già esperto nell'esercizio della logica, e maturo all'abito della rifles
sione interiore, cominciò a dare forma più rigorosa di scienza alle discipline
del giure. Uno di coloro che più vi si volse, e che, per testimonianza di
Cicerone,vi recò un vero abito del raziocinio nutrito da studj profondi di
filosofia, fu il giureconsulto Servio Sulpicio,di cui si parla con molte lodi
nel libro De claris oratoribus ; e dopo lui il nostro filosofo, al quale chi
legga il libro delle Leggi non può negare il merito insigne di avere meditato
una riforma del giure, desumendone l'origine,come dice egli stesso, dall'intimo
della filosofia, e tentato un codice del diritto pubblico per sopperire al
bisogno,allora viva mente sentito,di ridurre a principj universali e a dise gno
ordinato le sparse discipline del Diritto romano. (Libro I, e sey.) Ma questo
stesso proporsi una riforma del giure e meditarne l'ordinamento scienziale, chi
non vede ch'era già nella mente del nostro filosofo un naturale appa recchio
all'indagine speculativa dei principj morali? L'oratore latino a cercare che
cosa è legge, mosse,come i giureconsulti odierni, dalla considerazione di due
rispetti nei quali la legge può meditarsi, cioè in quanto ella
esiste nel fatto come regola coattiva delle azioni, ovvero in quanto ha una
ragione d'esistere,o vogliam dire una origine razionale (Forti). Ei risguardò
di preferenza il secondo rispetto, e cercando nella sua definizione l'ottimo
ideale, « si rifece da un gius naturale anteriore alle leggi, variabili secondo
il volere dei legislatori,norma razionale al paragone della quale si potesse
distinguere la legge buona dalla cattiva, che in sostanza è una violazione del
giusto sostenuta dalle forze della società. Questo termine di confronto delle
leggi civili lo ravvisava nella legge di natura,ossia nella somma ragione
dell'economia che gli dèi, signori dell'universo, avean posta nel governo delle
coseumane.Da questofontederivavalagiustiziaassoluta ed eterna, che definisce il
bene ed il male indipendente mente dagli stabilimenti sociali e dalle opinioni
degli uomini. Idea di assoluta giustizia,che,come Cicerone avverte
egregiamente, non può star separata dalla credenza reli giosa in un supremo
legislatore cui sia a cuore il bene e l'avanzamento dell'umanità. I comandi e
le proibizioni di questa legge suprema sono noti agli uomini, secondo Cicerone,
per natural lume di ragione, solchè essi vogliano esaminare se stessi e
consultare la coscienza. Laonde è da considerare sapientissimo il detto dell'antico
savio, che pone a fondamento di sapienza il conoscer sè stesso. Conoscendo sè
stesso, l'uomo vede di essere naturalmente socievole, e va persuaso che la
società è uno stato neces sario al genere umano.Vede eziandio che gli uomini
tutti fanno una sola famiglia, che ha un padre e regolatore comune,che tutti
ama ugualmente e gliobbliga a vicen devoli uffizj. » Francesco Forti, nome caro
alle lettere e alla giurisprudenza toscana,così riassumeva nel I libro delle
sue Istituzioni civili le dottrine del dialogo sulle Leggi; ed io lo citai
augurando che per suo esempio il trattato insigne del filosofo latino porgesse
materia di larghe e fruttifere meditazioni agli studiosi del Diritto. Tra le
cause adunque che dettarono a Cicerone il dialogo delle Leggi, sono in primo
luogo da annoverarsi l'incertezza del vero senso del giure per la
moltiplicità delle massime,deglieditti, delle leggi,degl'interpretanti, onde
spesso si perdeva il significato filosofico e morale nella aridità delle
formule, ed era opera di scienza vera e fruttuosa il ricondurvi le umane menti;poi
una ragione politica che voleva richiamate ai principj morali le libere
istituzioni;ed infine un contrasto alle scuole greche, e specialmente alla
Nuova Accademia,la cui dottrina po teva riuscir fatale all'Etica e alla
Giurisprudenza, fon data com'era,non già sull'osservazione interiore o sopra un
vero criterio scientifico, m a sui deboli artifizj della dialettica e del
sofisma. Ora si consideri bene come ilnotare diligentemente questo con trasto
del filosofo latino colle scuole negative degli asso luti principj morali,ci
mena a poco a poco a scoprire la parte altamente speculativa delle sue indagini
intorno alle leggi,la quale dobbiam confessare avere sin qui assai poco
considerata i critici e i commentatori. Eppure ogni età della storia (e lo
notammo più innanzi) ci porge ampie e innegabili testimonianze di questo
tornare della riflessione all'esame della legge morale e della genesi dei sommi
principj che ne derivano, e si manifestano all'intelletto fecondi
d'innumerevoli attinenze con qua lunque parte dello scibile umano,ogni volta
che le dot trine dei sofisti pullulate dalla profonda corruzione civile e
dall'intepidire del senso morale, ponevano il bene ed il giusto
nell'attraimento degli istinti animali, e nel l'esca dell'interesse. In quei
tempi di grandi sventure private e pubbliche, massima delle quali è per certo
il dilungarsi degli ordini civili dalla notizia dei sommi prin cipj, gl'intelletti
più alti,nutriti nella meditazione e negli studj dell'antichità, mossero la
riforma morale da quella relazione chiarissima e primitiva che intercede tra
l'in telletto e l'assoluto, e si manifesta nell'energia dell'im perativo
morale.Questo intendimento di opporsi allo scet ticismo coll'esame della realità
oggettiva del supremo concetto di legge,è manifesto nelle teoriche del Vico,è m
a nifestissimo in quelle degli Scozzesi, e dettò le pagine più eloquenti
di quel famoso libro che s'intitola dalla Ragione pratica,sebbene
l'affermare,come essofa,chelamia ra gione è un che d'imperativo, che la mia
volontà vi si sente soggetta, e che quindi m'accorgo che quell'impero è
universale e viene da Dio legislatore,creatore e prov vidente, sia pronunciato
assolutamente contrario al si stema della scuola critica e alle dottrine del
filosofo di Conisberga. M a poichè in questo luogo facemmo espressa menzione
del libro della Ragione pratica,vogliamo invitare inostri lettori a seguirci in
un paragone per certo singolare e inaspettato delle dottrine di due
differentissimi ingegni. Il filosofo di Conisberga, abbeverato alle dottrine
del Cartesio, e seguace, benchè inconsapevole, dello scetticismo di Hume, Kant
i primi baleni di quella filosofia, onde più tardi sfolgorava la rivoluzione
fran cese, ammise a fondamento del suo sistema l'assoluta impossibilità di
trapassare dal soggetto all'oggetto, rap presentando il pensiero racchiuso in
sè stesso e pensante le cose con proprie forme o categorie. La qual dottrina,
oltre al contraddire, come fa, alla natura del pensiero e all'evidenza
immediata della percezione,e porre il filo sofo nell'assoluta impossibilità di
edificare la scienza nel tempo stesso ch'egli sipropone ilproblema,se lascienza
è possibile, distrugge ogni certezza morale, e vieta alla mente di aggiungere
mai colla riflessione scientifica l'ori gine vera della legislazione assoluta.
Per Kant (osserva giustamente Mamiani) l'anima è onninamente legisla trice di
sè medesima e crea l'assoluto dovere,crea,dico, non meno di un assoluto; e
quella forza invincibile di approvare o di biasimare è pur fattura dell'anima,
onde ella identicamente e simultaneamente è comando e obbe dienza, è autorità
ed obbligazione, è diritto e dovere, è attiva e passiva, è finita e infinita
(perchè ogni assoluto vero è infinito), e rimordesi talvolta amarissimamente
delle azioni contrarie all'imperativo di cui ella stessa è autrice spontanea. Cotal
dovere e cotale legislazione assoluta che emerge tutta ed unicamente dall'umano
subbietto, appare nel Kant (se è lecito dirlo)più contradit toria assai che negli
Stoici antichi e nei moderni panteisti germanici.Imperocchè appo entrambe le
scuole la volontà e libertà umana si sustanzia in ultimo con la divina e
assoluta. Quindi nelle loro dottrine morali ricomparisce la contradizione
perpetua d'identificare azione e passione, finito e infinito e così proseguì;ma
non vi si dee ravvi sare cotesta forma particolare di ripugnanza tanto più
deplorevole quanto la scienza morale à un carattere sacro e interessa il genere
umano e la vita civile più che altra disciplina quale che sia. » Confessioni. Tale
è pertanto la differenza notevole che corre tra le contradizioni morali del
Kant e quelle del nostro filo sofo. Già vedemmo parlando delle dottrine sulla
natura come da parecchj luoghi dei suoi trattati apparisca assai chiaro
ch'egli, seguace del semipanteismo platonico e stoico,faceva consustanziali
l'intelletto umano eildivino; la qual dottrina applicata nel dialogo delle
Leggi avrebbe dovuto condurlo per legittima illazione a identificare la natura
infinita del precetto morale colla ragione finita dell'uomo.Ora una volta
ammessa questa dottrina,come mai poteva dedurne il filosofo l'azione
trascendente e as soluta dell'imperativo morale sull'anima nostra? Come
concluderne che la ragione perfetta, in quanto risplende dell'assoluto concetto
del bene, s'impone alla mente e prende natura di legge? E d'altra parte è
chiaro a chi sia mediocremente versato nella storia della nostra scienza che
l'oratore roman o, il quale rifiuta nel libro De finibus la parte soggettiva
della morale del Portico,come il su perbo concetto del perfezionamento umano,l'indifferenza
ai beni esteriori e l'eguaglianza delle imputazioni, qui nel dialogo delle
Leggi ne accettò pienamente la parte oggettiva, vo'dire l'idea della legge
eterna e i concetti dell'obbligazione e della città universale. Tale repu
gnanza del semipanteismo platonico e stoico accoltoda Cicerone coll’autonomia
dell'umano arbitrio, e coll'effi] [Veramente non è ben chiaro se Cicerone
si facesse mai tal domanda; ma, a dirla breve e come io la penso, il sentimento
più naturale e spontaneo ch'io ritrassi dalla prima lettera del libro De
legibus, fu una ferma opinione che il filosofo latino movendo dalla indagine
sul concetto di legge,soccorso dalle tradizioni del diritto romano, d o vesse
riuscire a rappresentarsi quell'azione trascendente della legge morale
sull'animo nostro siccome derivata dall'intima natura di un assoluto,distinto
dalla ragione dell'uomo e a lei superiore. Argomento valevole assai per
confermarmi in tale giudizio,è l'altezza a cui poggia l'indagine speculativa di
Tullio,che allontanatosi dal l'esame particolare e sottile delle scuole
antecedenti e contemporanee, e dalla parte soggettiva della stessa d o t trina
stoica,riordinava la scienza tutta al lume dei sommi principj, più tardi usciti
a fondamento della sapienza cristiana.cacia trascendente di quella virtù onde
si genera in noi l'obbligazione morale, involge un importante quesito di storia
della filosofia. Nel quale si domanda, se il filosofo latino propose giammai nettamente
innanzi all'esame della sua riflessione questa controversia da cui dipende il
principio costitutivo dell'obbligazione e del bene m o rale; e se chiese a sè
stesso come potessero mai conci liarsi l'identità di natura tra l'intelletto
divino e l'intel letto dell'uomo con quel sentimento di soggezione assoluta che
in noi s'accompagna all'impero della legge morale. Un'altra prova di non lieve
importanza è altresì la dif ferenza notevole che corre tra i libri fisici e
morali del filosofo nostro.In quelli egli dubita il più delle volte,e,meno che
nei principj fondamentali,segue irresoluto leforme della Nuova
Accademia;neilibrimorali partuttoun altr'uomo, e le sue conclusioni rivelano
sempre una maravigliosa armonia del sentimento colla riflessione speculativa. A
l tresì non v'è dubbio alcuno che i concetti correlativi di Dio e dell'anima
umana e del libero arbitrio,assai inde terminati nel De natura deorum,nelle
Tuscolane, nel Sogno di Scipione e negli Accademici primi,qui nel libro delle
Leggi profilano più nettamente le loro fattezze,e ne discende ordinata e
architettata nelle sue verità uni versali tutta quanta la scienza.Il concetto del
divino sopra ogni altro giunge in questo libro ad un'altezza scono sciuta alla
maggior parte dei filosofi antichi.Egli è rap presentato al lume delle
tradizioni romane come inente eterna ed eccelsa che tuttoprovvede,che a tutto
impera,e veste idue caratteri dell'arbitrio e dellam o ralità, che, al dir del
Gioberti, ne costituiscono le origi nalifattezze. L'indagine tulliana della leggesuprema
pa lesa poi,per mio avviso,un vigore non ordinario d'ingegno speculativo.Posta
a capo di tutto ilragionamento lano zione di legge universale come un riscontro
delle leggi particolari e una misura intelligibile a cui ricorrendo si potesse
apprezzare l'essenza delle cose giuste od ingiuste, tal nozione presentava in
sè due rispetti intimi ambedue eambeduenecessarj.Lapoteviconsiderarecome
idealità suprema,come infinitagiustiziaonde ilgiusto sipartecipa, benchè
imperfettamente, alle cose finite, e come primo assoluto ed universale, che
volgendo le menti alla comune dispensazione del bene porgesse quasi l'unità
morale del l'umana famiglia. Considerata nel primo rispetto, la n o zione di
legge si offriva alla mente del filosofo latino come idealità suprema e
assoluta,e come un intelligibile primo che rappresentando ilperfetto
nell'ordine della ra gione le si imponeva come regola dell'operare.Egli dunque
concepiva quella nozione come un vivo riverbero dell'as soluto, e poichè
l'assoluto è divino, e la sua idea si palesa partecipata come luce dall'alto
nella perfetta ragione dell'uomo, unico di tutti gli animali che abbia innata
nell'animo la notizia di Dio, quell'idea gli parve una partecipazione segreta
ed arcana dell'assoluto nell'umano intelletto. Udiamo le sue parole: « Est
quidem vera lex recta ratio,naturæ congruens,diffusa in omnes,constans,
sempiterna, quæ vocet ad officium jubendo, vetando a fraude deterreat, quæ
tamen neque probos frustra jubet aut vetat nec improbos jubendo aut vetando
movet.Huic legi nec abrogari fas est neque derogare ex hac aliquid
una licet neque tota abrogari potest,nec vero aut per senatum aut
per populum solvihaclegepossumus,neque estquæ rendus explanator aut interpres
ejus alius,nec erit alia lex Romæ, alia Athenis, alia nunc, alia posthac, sed
et omnes gentes et omni tempore una lex et sempiterna et immutabilis continebit
unusque erit communis quasi magisteret imperator omnium
deus:illelegishujusinventor, disceptator, lator, cui qui non parebit, ipse se
fugiet ac naturam hominis aspernatus hoc ipso luet maximas p æ nas,etiam si
cætera supplicia, quæ putantur, effugerit. De Repub. -- riportato da Lattanzio
Instit.div. – Stupenda definizione èquestadel principio regolatore degli atti umani,e
tale da mostrare una volta per sempre che qualcosa più di una semplice
continuazione delle scuole greche s'acchiudeva nei prin cipj dell'Etica romana.
Vi s'acchiudeva la speranza e la promessa immortale del Cristianesimo!
Considerato al lume di questi principj, il dialogo delle Leggi ci si offre come
una sintesi vasta di tutta la scienza. Una volta posto con tanta chiarezza
ilconcetto di legge nella cima dell'umana ragione,e l'umana ragione stretta da
un legame arcano d'attinenza coll'assoluto, se ne chiariva alla mente del
nostro filosofo la nozione di Dio e quella dell'uomo e dell'universo, e il
fondamento primo dei doveri civili. La causa di tutto ciò era per fermo nel
l'intima natura del metodo di lui,ilquale movendo dalla coscienza morale e dal
vivo sentimento dell'obbligazione, coglieva nel suo stesso principio la più
ampia e la più feconda di tutte le armonie scientifiche; siccome quella in cui
soggetto e oggetto si trovano unificati in un ter mine superiore e
trascendente,onde poi si diparte,come da unico centro, l'ordine universale
delle idee e quello dei fatti.La qual cosa non accade per certo nella ragione
informatrice del sistema di Kant, e degli altri critici e razionalisti moderni.
In tali sistemi il pensiero (per valerci delle loro stesse parole) non esce mai
da se stesso,non coglie la realità viva e concreta che è pre sente all'intuito,
nè anche, dico, in questa parte della filosofia de'costumi, dove la mente
afferma ogni volta per ingenita necessità di natura l'indipendenza del pre cetto
morale assoluto dall'atto informatore del nostro spirito. Non ha dunque la
filosofia soggettiva un punto stabile e fermo in cui getti le prime fondamenta
dell’edi fiziomorale,eillegameintimodeipensierichene con nette le parti, non
avendo corrispondenza nella realità obbiettiva dei sommi principj,dee riuscire
per necessità fenomenico, relativo e contingente. Eppure, come ben nota il
Gioberti,vano è il voler riformare la dottrina del Buono senza risalire ai
principj, che è quanto dire, senza considerarla come una scienza
seconda,fondata sui canoni della scienza prima. (Del Buono,cap.III.) Questa
nobile impresa, degna di un condiscepolo dei Giureconsulti romani, fu tentata
dall'Autore del dialogo delle Leggi. L'esame della sua dottrina,solo che
illettore se lo riduca per poco al pensiero, ci ha mostrato assai largamente
che il metodo Socratico dell'osservazione in teriore lo condusse nei libri
fisici e logici ad accettare il conoscimento come un dato legittimo della
scienza,e nella disputa contro gli Stoici intorno al fine quel metodo istesso
lo avvertiva doversi trovare la ragione constitutrice del bene per rispetto
all'uomo nell'indagine piena dell'umano soggetto. Da questa cognizione
dell'animo si levava il Romano per l'evidenza dei comandi morali alla notizia
più perfetta di Dio,e lo concepiva come mente e ragione infinita in cui posa
l'idea della legge eterna, di questa legge obbiettiva,immutabile,
necessaria,anteriore a tutte le leggi civili, più antica d'ogni città e d'ogni
gente, e coevaa quel Dio che governa laterraedilcielo.Da Dio è disceso l'uomo;
egli uscito nel mondo ultimo degli ani mali, allorchè la natura fu disposta ad
accoglierlo,benchè mortale nelle altre parti dell'esser suo,nell'animo è ge
nerato da Dio.Egli solo quindi tra tutti gli animali ha notizia del Creatore,
solo è capace di virtù, e può valersi in suo servigio dei frutti della terra, e
inventò per a m maestramento della natura innumerevoli arti che imitate poi
dalla ragione gli procacciarono le cose necessarie alla vita. L'uomo
dunque è primitivamente simile a Dio; similitudine che può vedersi dal fine a
che la natura stessa lo destinava, e dai mezzi che gli diede a conseguire quel
fine; conciossiachè prima ordinò la intera costituzione del mondo in suo
beneficio, e all'uomo stesso diede conosci mento veloce, e del conoscimento
ministri e satelliti i sensi,e gl'impresse nell'intelletto certe oscure nozioni
di cose innumerevoli che furono in qualche modo fonda mento allascienza:Diede
anche all'uomo forma dimembra acconce a significarne la natura
intellettuale;poichè,mentre gli altri animali fece inchini alla terra per l'uso
del pasto, il solo uomo rivolse al cielo quasi alla contemplazione del l'antica
sua patria, e ne atteggiò il volto per modo che vi si leggesse profondamente
scolpita l'effigie dell'animo. Sarebbe lungo il seguire M. Tullio in
questa larga deduzione dei veri morali e psicologici ch'egli trasse dal
concetto di legge. Basti per noi l'osservare che son belle e vere dottrine, più
tardi ripetute dai Padri e dai Dottori e dalle recenti scuole
italiane,l'autorità assoluta dell'im perativo morale,la sua attinenza con Dio
provvidente, l'idea dell'imputazione e dell'atto umano, e finalmente quella
grande città in cui l'ordine mondano e sopram mondano si congiungono insieme
nella universale comu nione degli spiriti eterni. (De leg., lib. I.) Esaminata
la legge nel suo primo rispetto,vale a dire in quanto essa è
obbiettiva,necessaria,immutabile, eterna, il filosofo latino passa a
considerarla come un principio universale, che si dispiega al di fuori di sè
stesso in un ordine di relazioni,ed è norma comune dell'operare agli umani
intelletti. E qui egli veniva cercando la comunità del concetto di legge nella
somiglianza di natura intel lettuale, onde avviene che a significare tutta quanta
la umana specie vale una sola definizione,e principio del consorzio civile è la
comune e vicendevole partecipazione del giure. « Non est enim (egli diceva)
singulare nec solivagum genus humanum.» Quindi esce altresì nel primo della
Repubblica la bella definizione della città, fonda mento alle sue dottrine
politiche: « est igitur respublica] [Il cardine della morale di Cicerone
posa dunque manifestamente in questa dottrina della legge, il cui merito
insigne si è di avere volto le sparse discipline del diritto romano
contemporaneo ad un ordinamento più razionale, e fondata la metafisica e la
filosofia civile sopra principj assoluti di scienza. Questo intendimento del
nostro ora tore è tanto più manifesto,in quanto che egli,dopo spie gata per
ordine la dottrina della legge suprema, assume nel primo libro la questione più
tardi agitata nel De finibus, e contro le dottrine di coloro che il buono misu
ravano dall'utile, si distende a provare la virtù sola d e siderabile per sè
stessa, e l'efficacia del buono venire dalla natura anzichè dalle mutabili
opinioni. La qual cosa, mentre è una prova di più per mostrare come
l’oratore-filosofo dai punti capitalis simi della morale, scendesse con unità
di concetto alle più remote applicazioni, prende in fallo quei critici che
supposero di fresco avere Cicerone abbandonato improv visamente la dottrina
dell'Antica Accademia sulla legge naturale per accettare il metodo peripatetico
nel suo più recente trattato dei Beni. Ma innanzi tutto noi d o m a n diamo a
quei critici come mai,se Tullio si ribellò più tardi alla ragione informatrice
delle dottrine platoniche, qui nel libro delle Leggi espone con fronte sicura
la stessa teorica trattata nei Fini? In secondo luogo, fra le due opere v'è
certo diversità nella ragione del metodo esterno (procedendosi deduttivamente
nel libro delle Leggi, e induttivamente nel libro dei Fini), ma la diversità
non involge alcuna contradizione; poichè nel trattato dei Beni, quando
esaminava quella controversia da parte dell'umano res populi; populus
autem non omnis hominum quoquo modo congregatus, sed cætus multitudinis juris
consensu et utilitatis communione sociatus,» dove egli af ferma ilnesso
primitivo tra il diritto naturale e ildiritto delle genti, e contro Platone che
attribuiva l'origine del consorzio umano alla debolezza
degl'individui,riconosce invece quell'origine nella comunità di una legge
assoluta e soprammondana. cætus 1 soggetto, affermò nella vita presente non
pervenire l'uomo al compiuto adempimento del fine se non svolgendo e perfezionando
ogni parte integrale di sua natura,laddove qui nelle Leggi salito ad un
concetto più universale, m e ditò oggettivamente l'idea del buono e
dell'obbligazione, riconoscendovi un'assoluta efficacia indipendente dall'atto
dello spirito umano.Così da questi due larghissimi aspetti in cui può essere
meditata la materia della scienza m o rale, e dove all'intelletto del filosofo
appajono congiunti l'assoluto e il relativo, il contingente e il necessario,
l'anima e Dio,deriva secondo la mente di Cicerone, il vero e più ampio concetto
della dottrina sul buono. La diligente esposizione impresa da noi degli scritti
del filosofo latino ci ha condotti,come avranno osservato i lettori, a
trattenerci alquanto intorno alla parte specu lativa delle sue dottrine morali,
e segnatamente intorno ai due trattati De finibus e De legibus. La qual cosa
abbiamo fatta coll'intendimento di porre innanzi agli occhi degli studiosi i
principj fondamentali e il disegno scien tifico dell'Etica latina,esposta da
Cicerone,sembrandoci che questo esame fosse stato assai leggermente condotto
sin qui dai critici precedenti, i quali o tenerano Cicerone in luogo di un
eclettico e di un moralista positivo e spe rimentale, o non facendo professione
di filosofi, conside ravano nei suoi trattati meglio la parte istorica e lette
raria che l'intimo nesso e il metodo speculativo delle dottrine.Eppure convien
confessarlo) questa critica preoc cupata e parziale è sommamente contraria alla
giusta estimazione dei libri speculativi di Tullio.Per essa avviene che i
principj e la unità delle sue dottrine morali ci ri mane ignota per sempre; ci
sfuggono le più alte indu zioni che il grande oratore e i Giureconsulti
adoperarono intorno ai pronunciati del senso comune,e riesce un fatto senza
ragione alcuna quell'ampia utilità applicativa del l'Etica romana,da tutti
riconosciuta,se il filosofo morale non ne rintraccia i principj nelle
speculazioni più remote intorno al vero ed al buono. Premesse queste
osservazioni, veniamo ora alla parte positiva dell’Etica tulliana,
nella quale ci terremo più brevi secondo è richiesto dalla natura
principalmente fi losofica di questo scritto. L'indagine che si contiene nel
primo libro delle Leggi, porge naturalmente il passaggio dai supremi principj
speculativi alle dottrine pratiche della morale, pel con cetto d'obbligazione e
di vicendevole comunanza del giure, onde il libero arbitrio sperimentando in sè
l'efficacia trascendente del precetto morale, e riconoscendovi un impero
incondizionato che si dilata nell'universalità del l'umana famiglia, si sente
stretto all'osservanza degli officj religiosi, individuali e civili. Officio
dunque (così lo domandavano le scuole socratiche) è illibero conformarsi della
virtù all'impero della legge morale. E importa assai determinare il significato
scientifico della parola, perchè si capisca come la teorica dell'officio che ha
tanta parte nel sistema del Portico,mentre discende immediatamente da quella
del dovere (considerato nella sua genesi razio nale),ha poi certi suoi
peculiari rapporti che la connet tono colla parte più positiva della scienza
morale. Due specie d'officio distinguevano gli Stoici.L'officio retto o
perfetto (29Tóptospa, zadrzov téheLov) che cade uni camente nel saggio,o in
colui che abbia ottenuto l'ultimo grado del perfezionamento morale;e l'officio
comune,o medio (2997zov uésov),che era un ordinario conformarsi della virtù
agli obblighi della vita privata e civile,o,come direbbesi oggi popolarmente,un
fare da persona dab bene. Ora insorse controversia tra i critici, se Cicerone
nel suo trattato, da tanti anni notissimo nelle scuole, de finisse
scientificamente l'officio. Il Manuzio e il Facciolati difesero Cicerone; il
Lilie con altri più antichi, citati dal Kuehner, giudicò veramente omessa
quella definizione; mentre il Binkes,il Kuehner e il Grysar avvisavano avere
Cicerone definito soltanto l'officio medio, di cui prese a trattare
espressamente nel suo libro,in quelle parole del capitoloIII,1.I:«medium
officiumidesse,quodcur factum sit ratio probabilis reddi possit. » (Vedi Lilie,
Comment.de Stoic. doctrin. mor.ad Cic. libr.De off.,1, Kuehner. Fran. Binkes, Responsio
ad quæst. juridicam etc., Franeq., Prolegomena ad Cic .libr. De Off. scripsit, Grysar,
Köln). Questa opinione dei commentatori tedeschi tanto più è conforme alla
natura del libro D e officiis e al metodo espositivo che quivi si propose
l'autore, in quanto che egli stesso ci dice nel capitolo III: due questioni
potersi fare intorno all'officio; l'una che si riferisce al fine dei
beni,l'altra che cade nei precetti ai quali in ogni parte si può conformare
l'uso della vita; parole meritevoli di speciale considerazione, conciossiachè
mentre spiegano quell'intimo nesso scientifico che annoda le dottrine p o
sitive colla teorica del bene morale, stabiliscono poi il vero oggetto del
presente trattato,il quale non è altro, come giustamente osserva un critico
moderno, che la determinazione dei nostri doveri particolari. Coloro d u n que
che dal libro degli Officj prendevano argomento a ravvisare nel filosofo latino
un mediocre valore scientifico, perchè egli trattando dell'officio non si
solleva ai supremi principj della morale, non osservarono quale attinenza corra
tra i libri speculativi e pratici della sua morale, onde egli investigato prima
che cosa è il bene nell'umano soggetto (De finibus), si leva alla nozione
oggettiva di legge (De legibus), e scende per ultimo alle applicazioni più
remote dell'Etica nella vita privata e civile. (De of ficiis, De republica, De
amicitia, De senectute.) Migliore giudizio invece recarono quei critici, segna
tamente francesi, i quali considerando di preferenza questo speciale rispetto
tutto positivo e civile, in cui possono meditarsi gli Officj, quindi desumevano
i pregj e i difetti del libro. Infatti il trattato degli Officj non è un'opera
semplicemente speculativa,o un'opera di psicologia. Ivi si richiamano, è
vero,le altre parti delle dottrine m o rali, vi si accenna la distinzione
stoica tra l'officio per fetto e l'officio comune,e il pensiero dello scrittore
si leva talvolta a indagare la qualità morale degli atti nel l'intima natura
dell'uomo,ma l'intendimento primo a La gentilezza degli Attici
educata nell'ordine m a t e riale della civiltà da fina eleganza di costumi, e
dallo spettacolo d'una natura ridente, li traeva ad una viva e, quasi
direi,religiosa ammirazione del bello,onde il pen siero dalla convenienza e
armonia delle parti reali che genera il perfetto nei corpi,passava
all'invisibile bellezza degli animi. Ma in Rom a dove ogni istituzione fu vôlta
sin da principio a rafforzare i legami che vincolavano il cittadino allo stato,
e il rispetto delle relazioni civili superava a gran pezza gl'interessi
domestici e il culto delle arti, regnava dominatrice siffatta la pubblica opi
nione che in lei risedeva il solo e inappellabile arbitrio di giudicare le
azioni. E per fermo i Greci considerando nella virtù la corrispondenza ideale
che corre tra l'ar monia interiore dell'animo nostro e le forme più elette
della natura sensibile,la nominarono bellezza, pei Romani la virtù sono quasi
convenienza delle azioni colle leggi sociali. Laonde Cicerone che qui negli
Officj la conside 148 cui mira quel libro, è un intendimento civile, e
Tullio che lo compose dopo la morte di Cesare, quando to nava per l'ultima
volta nel fôro in difesa delle libere istituzioni, volle lasciare a suo figlio
in luogo di testa mento il codice più compiuto della morale politica. A questo
proposito nel libro degli Officj merita spe ciale considerazione una dottrina
che pel modo in cui fu trattata da Tullio palesa un rispetto istorico,e un'atti
nenza immediata colle istituzioni e coi costumi di Roma. Tale è la dottrina del
decoro (Tpétrov), esposta nel capitolo XXVII del libro primo. Cicerone,osserva
acutamente il Ritter, traduceva nei Paradossi la sentenza degli Stoici:
crcpovovaysoró 2.016; il solo buono è bello, collepa role: quod honestum sit,id
solum bonum esse;onorabile è solamente ciò che è buono. Ora questo diverso
concetto che i Greci e i Latini s'erano fatto della virtù, e che più volte
ritorna nel De officiis, come in quel libro in cui Cicerone conformò forse
maggiormente le sue dottrine morali al pensare e al sentire romano, si spiega
assai facilmente ricorrendo alla Storia. rava in un rispetto quasi
esclusivamente civile, l'accom pagnava al decoro, o vogliam dire a quella luce
esterna di onoratezza, onde la stessa virtù si porgeva all'ammi razione della
pubblica coscienza. Considerato per questo rispetto, il libro D e officiis,
mentre si attiene alle altre opere speculative, presenta nelle sue parti più
sostanziale un vero ordinamento di scienza. Il filosofo latino segue
liberamente Panezio, e perchè autore di un ottimo libro intorno agli Officj,
adesso perduto, e perchè assai temperato nelle dottrine dello stoicismo,come
portava l'età.Da Panezio,eforseda Pos sidonio, continuatore di lui, trasse in
gran parte le dot trine intorno all'onesto ed all'utile, che offrono soggetto
ai due primi libri, e v’aggiunse del proprio la materia del terzo, ovvero il
combattimento dell’utile coll'onesto, omessa dallo scrittore greco. La parte
più bella e più filosofica di tutto il trat tato, e dove splende più pura la
nobiltà dell'animo di Cicerone, è quella dov'egli toccando le relazioni della
politica colla morale, biasima altamente quei fatti, nei quali l'interesse
dell'utile pubblico avanzò le norme della giustizia e della onestà, e propone
al figlio i più sui blimi esempj dell'antica virtù ne'quali l'animo ritem
prando possa uscire incontaminato dalle scelleratezze dei tempi. E i tempi
dovevano esser tristi davvero, se con sideriamo parecchj esempjd'ingiustizia
contemporanea che Tullio ricorda al suo Marco, e ch'egli sebbene commessi da
uomini potentissimi nella repubblica e amici suoi, ge nerosamente condanna.Nè
dee far maraviglia che fosse cosìa chi consideri come il disgiungersi della morale
dalla scienza di stato è uno dei maggiori indizj della corru zione civile, e
che tutto allora in R o m a precipitava a ro vina, religione, costumi, esercito,
cittadinanza, popolo, senato, magistrati, privati; e in quel rovescio d'ogni
cosa e divina poneva i fondamenti sanguinosi la ti rannide degli imperatori.
Nel terzo libro, discorse le attinenze della politica colla morale, passa il
filosofo latino alle attinenze della umana morale colle altre
scienze sociali, la Giurisprudenza e l'Economia. In queste pagine di Tullio, a
sempre più smentire l'opinione di quelli che non trovano nei giure consulti
romani le tracce d'una profonda speculazione,si vede chiaramente come la
giurisprudenza latina, benchè costituisse da sè stessa un vero e proprio corpo
di scienza con norme immutabili e fisse, con ordine scienziale di dottrine,
desumeva da'principj della filosofia i suoi fon damenti; il che mostra Cicerone
citando parecchie que stioni esaminate dagli antichi giureconsulti, e definite
con formule certe che più tardi assunsero la forza di legge. La qual cosa
apparisce vie più manifesta quando ne' seguenti capitoli Tullio, dopo definite
alcune questioni di morale, appellandosene al testimonio della coscienza e
della retta ragione,quasi a riprova di quei principj ne cerca il riscontro
nella più antica e venerata delle legislazioni romane, nella legge delle XII
Tavole. Questo ricorrere ai più vetusti testimonj, oltrechè era proprio al
metodo di Cicerone, che cercava nell'antichità più presso all'origine divina,le
verità naturali più schiet te,e le prime tradizioni,ha qui un'importanza
d'oppor tunità, perchè egli di fronte alla corruzione della morale civile
voleva additare lo scadimento della repubblica. Lo che è chiaro in tutto il
libro; chiarissimo poi dove avendo citato gli esempj di Fabbrizio e di Cammillo
e dell'antico senato romano,soggiunge l'infamia di L. Silla che coll'autorità del
senato raggravava i dazj antichi so pra alcuni popoli che se n'erano sciolti
pagando, nè restituiva il danaro; e prorompe con mobile sdegno: p i r a tarum
enim melior fides quam senatus! Il De officiis accolto nelle scuole d'Europa
sino dal primo risorgimento delle lettere antiche, e stampato per la prima
volta a Magonza, levò di sè tanta fama da affaticare per ogni tempo l'acume
degli eru diti e dei commentatori. Un esame critico di questo trattato, che
Paolo Janet chiama « il più belmonumento filosofico della letteratura latina, »
fu recentemente pro posto dall'Accademia delle scienze morali e
politiche di Francia,e ne usciva nel 1865 il libro del signor Arthur
Desjardins col titolo: Les devoirs, essai sur la morale de Cicéron. In
quest'opera ricca d'ingegno, di filosofia e di larga dottrina in ogni parte
della giuris prudenza e delle lettere antiche,l'autore con utile esem pio, che
vorremmo rinnovato in Italia, prende a esami nare largamente il libro De
officiis, ne mostra le varie attinenze coi principj supremi della morale
tulliana, e lo confronta coi migliori filosofi antichi, e coi giurecon sulti
moderni. È un lavoro di critica larga e profonda, in cui la gravità del
soggetto è abbellita dallo stile ele gantemente sereno. E accresce lode al
critico francese la schietta imparzialità dei giudizj, onde egli intento solo a
conoscere la verità, difese da ingiuste accuse la fama del grande oratore, ne
osservò opportunamente le omissioni o la brevità soverchia per quel che risguarda
i doveri verso il divino, la famiglia e noi stessi, e rappresentò il De
officiis come un codice compiuto di Etica civile, in cui si ragiona dei doveri
del cittadino verso lo Stato,e il concetto della umana famiglia e della carità
universale perviene a tale altezza da annunciarci vicino il grande rinnovamento
dell'evangelo. Dai principj della filosofia civile e dai precetti par
ticolari intorno ai costumi si varca alla teorica dello Stato. Questafuesposta
da Ciceronenel De republica,giudicato universalmente dai critici come una delle
opere le più ori ginali del nostro autore.Gran parte ne andò sventu ratamente
perduta,ma le reliquie del primo e del se condo libro fanno assai splendida testimonianza
che l'ora tore latino vi avea diffuse largamente le memorie della antichità
greca, le grazie severe dell'eloquenza,eigrandi insegnamenti della vita
politica. Quando prese a trattare dello Stato,egli avea innanzi a sè due scuole
egualmente illustri, egualmente seguite dagli scrittori: la scuola di Platone e
la scuola d'Aristotele. Ma ei dovette certo considerare che l'ingegno
dell’Ateniese, poderoso d'in venzione e di veduta speculativa, non intese forse
nei termini del vero le attinenze della filosofia colla politica.
Il merito insigne di aver sostituito alle dottrine ideali l'autorità
degli esempj, è pur quello della Repubblica di Cicerone. In quest'opera,
spartita in sei libri, e condotta con larga unità di disegno, il grande oratore
imitò Platone nella forma letteraria e nel tono dello stile, del resto si
attenne al metodo aristotelico; e volendo fare opera non solo utile alle lettere,
ma vantaggiosaallapatriae alle più
lontanegenerazioni,incarnòisuoiprecettinelgrande esempio di Roma. L a dottrina
sui reggimenti civili si r i duce alla disputa delle tre forme monarchica,
aristocra tica e popolare, alle quali egli preferiva la mista, invo cando le
ragioni d'Aristotele e di Polibio e tutta quanta la storia di Roma. Da queste premesse esce a compimento delle
dot trine morali la disputa sull'immortalità. E qui Cicerone lasciando al tutto
le orme dei Greci, seguì l'indole pro pria e della sua nazione, e fece di quel
problema una vera e compiuta dottrina. Forse l'incertezza in cui aveano la
sciata la controversia sui destini dell'anima i panteisti [La quale,
mentre ha bisogno per disegnare e applicare le civili istituzioni di ricorrere
talvolta ai principj uni versali della natura,non può trascurare per altro nel
l'ordine dei fatti le imperfezioni dell'essere umano, e quella lunga serie
d'esperienze infelici per cui soltanto nella storia dei popoli si perviene ad
applicare le istitu zioni alle necessità dei tempi. A questo metodo, chiamato
da'Cesare Balbo un metodo razionale, si opponeva l'altro sperimentale
d'Aristotele. Il filosofo di Stagira, disposto per natura d'ingegno a un
accordo più perfetto della spe culazione col senno civile,e cresciuto alla
scuola di Fi lippo e d'Alessandro, intravide con occhio più fermo le armonie
delle dottrine scientifiche coll'esperienza, applicó alla scienza dello Stato
quell'analisi sicura e paziente che negli ordini del pensiero e della natura lo
avea condotto a creare la logica e la fisica; raccolse da ogni parte gli esempj
dei governi migliori, li ordinò, li paragon ), li ridusse a principi, e ne
trasse la sua Politica fonda mento della scienza civile. Ma a tali prove di ragione e difatto altreseneag
giungevano per lui desunte dall'affetto individuale e civile. L'indole del suo
ingegno, inclinato a quanto v'ha di più grande e di più sublime nelle opere
della natura e di Dio, gli svegliava nell'animo un vivo desiderio dei sommi
estinti, e massimamente di quelli la cui vita consacrata alla patria nelle
scienze,nelle lettere, nelle arti, nei pubblici negozj, li raccomanda alla
riconoscenza di Roma. Gran parte,e la più bella forse della sua vita,s'era pas
sata nella società di quei grandi; chè molti n'avea co nosciuti da giovinetto,
e seguiti nello studio delle leggi e nella pratica del fôro; di molti avea
udito favellare al padre e agli zii paterni, m a di tutti gli restava impressa
nell'anima una memoria viva e costante, siccome di per sone domestiche e
care.La vita lungamente agitata nei pubblici affari in tempi di grandi
rivolgimenti, non gli tolse quest'abito di ritornare sul passato, e perchè vi
pendeva l'animo naturalmente mite, e disposto a racco gliersi in sè stesso, e
perchè la sua parte di conservatore lo menava in politica a desiderare il
ritorno della virtù e degli antichi costumi. Più tardi le sventure della patria
lo strinsero a ritirarsi dalla vita pubblica, e allora la fantasia nutrita
negli studj speculativi gli consolava spesso colle grandi memorie i dolori
civili e le meditazioni della scienza. E quindi si spiega perchè quelle
meditazioni,in cambio di riuscire una fredda copia delle opere greche, gli si
convertivano spesso in dialoghi vivi e passionati, e l'abito di conversare coi
s o m m i estinti gliene porgesse gli interlocutori, e si spiega altresì come
la dottrina del l'immortalità occupi tanta parte nel Sogno
dell’Affricano e dualisti italici e greci, contribuì non poco a svogliarlo
d'immaginarie astrazioni, e volgerlo a una via più sicura. Fatto è che nelle
Tusculane,ma più nel De republica e negli opuscoli popolari della Vecchiezza e
dell'Amicizia, egli chiese di preferenza le prove dell'immortalità alla coscienza
morale, alle antiche tradizioni, ai riti delle tombe, al desiderio, connaturato
nell'uomo, del divino e dell'assoluto.] e nel Catone Maggiore, dov'egli
imitando il Socrate di Platone, paragonava sè stesso ai sommi che l'avean
preceduto, e si consolava di speranze immortali. Un'altra occasione,
opportuna a indirizzare le medita zioni del nostro filosofo sulla controversia
dell'immorta lità, e a dettargli intorno al soggetto affettuosi e mesti
pensieri, fu per certo la morte della sua Tullia, avvenuta il mese di Febbraio
dell'anno 709. Nelle solitudini della sua villa presso Astura, là dove avea in
animo d'inal zare un tempio alla figlia perduta, egli scrisse un libretto che
poco appresso indirizzò ad Attico, e che intitolava Consolazione. Su questo
libro,adesso perduto,gli eruditi studiarono a lungo,e dai pochi frammenti che
Cicerone stesso ci conservava,e da quel che ne dissero parecchj scrit tori
antichi,in special modo Lattanzio nelle Istituzioni di vine,tentarono
restituire per sommi capi il disegno gene rale e lo spartimento delle materie.
Schneider ne ragionava in un saggio dove suppose Cicerone avere trattato a
lungo dell'immortalità degli spiriti nell'opera della Consolazione, come
apparisce in gran parte dal primo libro delle Tuscolane. La quale supposizione,
che riteniamo a buon dritto per certa,ci fa grandemente deplorare la perdita di
questo monumento della letteratura latina,una forse delle opere più originali
di Cicerone,e da mostrare come il desiderio della figlia perduta gli volgesse a
più gravi e più solenni ispirazioni l'ingegno naturalmente fecondo. Può
sembrare opportuno ai lettori (se pure ne avemmo in questo esame della
filosofia di M. Tullio) che noi dopo aver discorso delle scuole precedenti o
contem poranee all'oratore latino,del suo metodo e concetto della scienza e
finalmente dei libri fisici, logici e morali, con sideriamo adesso sotto un
rispetto più universale il valore speculativoel'indoledellesue dottrine.La qual
cosa,ol tre all'essere richiesta dalle leggi severe delle discipline
scientifiche, in cui l'uso della sintesi non deve mai scom pagnarsi da quello
dell'analisi,si porge opportuna a con futare l'accusa, che da alcuno potrebbe
esserci mossa,di attribuire al più grande degli oratori latini una potenza
d'ingegno speculativo che mai per avventura non ebbe. La critica intorno alle
opere dottrinali di Cicerone, ne gletta dagli eruditi e dagli storici più
antichi, e infor mata a una severità eccessiva da quelli del secolo scorso e
del presente, è tempo ormai che ritorni a più maturo
esameeapiùimparzialigiudizj. Ma ciòammesso,non resta men fermo quell'altro
supremo pronunziato che Tacito invocava eloquentemente in un'età scellerata
come norma dell'ottima condotta civile, e che comanda allo spirito umano
di seguire una via lontana del pari dalla venerazione cieca, e dal disprezzo
non ragionevole del l'autorità. A questa via ci siamo attenuti nell'esame delle
opere di Cicerone. E non pertanto al critico che prende in mano quei suoi
scritti così varj, così fecondi, dove si mesce tanta parte della vita e delle
memorie latine, soprag giungono di tratto in tratto infinite difficoltà; non
ultima per certo quella, avvertita altra volta da noi, di accom pagnarlo
nell'indagine di tanti sistemi discordi, di racco glierne le sparse dottrine,e
quindi ricomporle nell'armonia dei principj e delle conseguenze. La
imparzialità delle opinioni, e il largo apprezzamento di quel tanto di vero e
di buono, che si trova sempre in ogni sistema, mentre costituisce un pregio
capitale della filosofia di Cicerone, fa sì che ella non si porga sempre
favorevolmente al giudizio della critica odierna,la quale troppo più spesso
vien cercando nelle materie speculative lo stupore delle invenzioni, anzichè la
legittima novità dell'esame e delle attinenze scientifiche. Ma per contrario
nulla v'è d'in ventato, nulla di strano nella filosofia di Marco Tullio. Ella è
la filosofia del senso comune e delle grandi tra dizioni, la quale, per
definirla con uno dei nostri filosofi, « non presume in alcuna cosa di saperne
più là della stessa natura:ma di questa,invece, si dichiara attenta disce pola,
e ne accetta i pronunziati siccome oracoli;.... filosofia tanto riguardosa e
modesta, quanto serena e sicura nei suoi giudicj,e della quale fu detto averla
Socrate pri mamente levata dal cielo,e condotta a conversare famigliarmente in
mezzo agli uomini.” (Mamiani). Tale è l'indole vera della filosofia di Marco
Tullio; e contuttociò crediamo avere abbastanza mostrato in que sto nostro
lavoro, come alla semplicità de'principj e dei metodi si congiunga,segnatamente
nella parte morale,il procedimento rigoroso e l'unità di scienza. Coloro
poi che misurano il valore degli ingegni spe culativi dall'ardimento delle
innovazioni, e giudicano Marco Tullio una povera mente perchè dice
egli stesso di professare dottrine non arroganti, e non molto disco ste dalle
opinioni popolari, non hanno considerato a b bastanza in quanti modi si possa
esercitare la spontaneità del pensiero nelle materie scientifiche. V'hanno
infatti di quelle filosofie che esaminando e sindacando combattono gli errori
de'tempi loro;ve ne hanno altre che esponendo un nuovo ordine di pensieri,
ricostituiscono sopra diversi fondamenti l'edifizio scientifico;e nell'un caso
e nell'al tro l'intelletto del filosofo è attivo nelle materie esami nate od
esposte, e in quella efficacia speculativa v'ha pure sempre del nuovo. La
critica e l'esposizione delle dottrine speculative, sebbene quanto alla forma
estrin seca de pensieri sia opera d'arte, quanto alla materia è un esercizio
rigoroso di ragionamento e di filosofia; im perocchè al critico, se non vuol
fermarsi nella superficie, m a penetrare nel fondo e nell'anima delle
cose,convenga rifare,a dir così,il concetto dell'autore e trasformarsi in lui
stesso,convenga svelare illegame intimo che annoda le idee principali,
concepirne una moltitudine di acces sorie, da cui soltanto rampollano quelle,
vedere i trapassi e le attinenze più remote tra concetto e concetto,e scom
posta la totalità del sistema, ricomporla poi novamente colla viva efficacia
del suo pensiero. Apparisce da queste considerazioni che la novità e il valore
speculativo delle dottrine di Tullio si potrebbe soltanto dedurre dalla critica
assennata, e spesso profonda, ch'e'fece delle dottrine a n tecedenti e
contemporanee, raccogliendo con rara lar ghezza di principj e d'esame quanto di
meglio gli por gevano le scuole greche, per suggellarlo dell'impronta latina,e
svogliare iconnazionali della imitazionede'fo restieri. Questa parte espositiva
e confutativa delle greche dottrine, che tanto prevale nei libri tulliani, noi
la m o strammo contrapponendo ai pensieri proprj del sommo oratore l'analisi
de'sistemi da lui combattuti ed esposti; e tanto più perchè sappiamo essersi
affermato piùvolte da critici insigni che mancò a Cicerone una notizia pro
fonda della filosofia greca, mentre è cosa omai notissima Cicerone adunque
può innanzi tutto considerarsi come un istorico insigne della filosofia, degno
d'essere raggua gliato con Aristotele e con Platone per l'ampio studio delle dottrine
antecedenti e contemporanee. Chè se dai critici più recenti è tenuto a ragione
come fonte non principale di storia, perchè spesso allega testi divisi, e
perchè l'indole della sua riflessione scientifica lo menava non di rado,come
Platone,a suggellare del proprio pen siero le dottrine d'altri sistemi, ogni
età debbe essergli riconoscente d'aver campato tanta e sì nobile parte delle
greche meditazioni dalla ingiuria de'tempi e dalla barbarie degli uomini. Ma
d'altro canto, dopo una lettura ben considerata degli scritti tulliani, può
egli negarsi che vi si rinvenga una parte dommatica, e un esercizio suo proprio
della riflessione speculativa? A una simile domanda ci sembra avere
bastantemente soddisfatto nella parte antecedente di questo discorso
coll'esporre ilmetodo di Cicerone nelle principali teoriche della scienza; e
qui facemmo manife sto come un tal metodo di fina osservazione consistesse per
lui nel ridurre ai semplici elementi delle verità prin cipali i sistemi, e,
sceverati gli errori, comporre un'altra volta quelle verità nell'ordine del
sapere. Difficile i m presa,che in tempi funesti alla scienza ricercava un in
gegno universale, e un potente esercizio della riflessione. La quale,adoperata
da Tullio al lume dell'evidenza in teriore, lo condusse a salvare dal naufragio
dello scetti cismo le più nobili parti delle dottrine speculative.In Fisica
mantenne la distinzione, quantunque non piena, tra il finito e l'infinito, il
contingente e il necessario, la natura e il divino, l'esistenza del divino,
dell'universo e dell'uomo, la natura delle cose corporee inferiori alle
spirituali e all'eterne, l'ordine universale, la eccellenza della] filosofia [nelle
storie che la critica degli antichi scrittori, segnatamente per opera degli
Alessandrini, fioriva ai tempi di lui, eruditissimo nella lingua de' Greci, da
cui tradusse più libri di letteratura e di scienza, e che indirizzava i suoi
scritti ai più culti ingegni di Roma.] ragione, il libero arbitrio e
l'immortalità. In Logica tenne salda la capacità del conoscimento a cogliere il
vero, il concetto di potenza, i sommi principj della ragione, la evidenza
interiore, la distinzione tra senso e intelletto e il metodo inventivo delle
conoscenze. Nella Morale al lume dei sentimenti interiori e del senso comune
ricom pose il sistema perfetto di quellascienza,e
salendocon metodo induttivo dalle tendenze e dai fini della natura all'oggetto
universale di legge e di dovere, ne seppe d e durre tutto l'ordine dei veri
relativi alla famiglia, all'in dividuo e allo stato.Veramente se ad un
uomo,apparso in quella età quando tutta la scienza,divenuta un pro blema, si
lacerava fra i delirj di una moltitudine di so fisti, nasca il pensiero di
ricomporla a sistema, e riassu mendo l'impresa di Socrate,raccolga le verità
principali in una sintesi vasta; e se vissuto in mezzo ai pregiudizj di un
patriziato superbo, e in tempi d'ateismo e di co stumi nefandi, egli invochi a
soccorso della riflessione speculativa l'esame delle antiche tradizioni e delle
verità fontali, contenute nella coscienza del genere uma n o e nei
piùnobiliaffetti, aquest'uomo,parmi, non sipossanegare il nome di filosofo
grande. L'indagine dei dommi primitivi e dei sentimenti nella natura e nel
linguaggio dei popoli voleva in Cicerone un ingegno forte e addestrato a
meditare, e un uso continuo dell'osservazione interiore. Del che sono splendido
testimonio le Orazioni, l’Epistole, il primo libro delle Tusculane, il secondo
e il quinto dei Fini e il proemio delle Leggi; che esposti senza preoc
cupazione rettificherebbero d'assai il giudizio sul valore speculativo dei suoi
libri, e mostrerebbero com'egli esa minasse con vero criterio di scienza
l'umana natura nelle varie età, nelle diseguaglianze de'sessi, degl'ingegni e
de gli ordini civili, e sino dall'alto della tribuna, o seduto agli spettacoli
del circo cogliesse le verità eterne della coscienza nelle manifestazioni
spontanee del sentimento popolare. Parecchj critici di Cicerone, e segnatamente
quelli che gli negano ogni facoltà d'ingegno speculativo, non hanno inoltre
considerato qual uso ei facesse della tradizione scientifica,e come, movendo
dalla coscienza, contrappo nesse all'esame imperfetto e negativo de sistemi un
esame comprensivo di tutto il sapere. Dissi più volte ch'egli moveva dalla
coscienza; e questo fatto dell'osservazione interiore, manifestissimo nelnostro
filosofo,ogni volta che egli prende a trattare importanti materie morali, non
può mai andare disgiunto nell'esame compiuto dei suoi scritti dallo studio
ch'e'fece de'sistemi antecedenti e contem poranei, perchè ci porge la più
intima ragione del suo metodo esterno, chiamato da molti impropriamente un
eclettismo;e ci spiega come nella viva armonia dell'animo umano egli cercasse
quell'unità informatrice delle sue dottrine,che il metodo sincretico d'Antioco
e d'altri eru diti avrebbe indarno aspettato dall'accozzamento inge gnoso di
cento scuole. Certo Cicerone non ebbe quella potenza inventrice d'ingegno
speculativo, e quella rara felicità degli ardimenti metafisici, che hanno
Socrate, Platone, Aristotele tra gli antichi,e tra imoderni Cartesio, Emanuele
Kant e Vico. Il suo ingegno non altrettanto acuto, rapido e penetrativo, quanto
uni versale,comprensivo e solenne,più che in escogitare nuove dottrine, e in
architettare sistemi mirabili per ipotesi a u daci e tirati a filo rigoroso di
logica, piacevasi nel sot toporre ad esame le antiche dottrine,sceverarne gli
errori, ribatterne le istanze,scoprire nuove armonie della ra
gionescientificacolsensocomune, e iltuttopoi ricom porre in un vasto disegno di
scienza concorde colle arti, coi costumi e colla vita civile. Nel che
mirabilmente lo secondavano itempi.Allora,come era avvenuto nel secolo di
Socrate,e come per molte parti accade ora nel nostro, si manifestava nella
condizione delle discipline morali un'imperiosa necessità di riforma. L'eccesso
delle specu lazioni avea spossati gl'ingegni, e la scienza e l'arte tor navano
al vero della natura,unica fonte delle opere grandi. Era dunque suprema
necessità deporre la vana superbia delle innovazioni assolute, farsi discepoli
della natura, tornare agli adagj della sapienza popolare, e chiedere
alla tradizione de savj, non già il supremo criterio del vero,m a il
sindacato delle opinioni attinto nella coscienza più eletta del genere umano.
Tale è la parte modesta, e a un tempo solenne, che Marco Tullio rappresenta
nella storia della filosofia. Se ne'suoi scritti prevale il criterio della
tradizione scien tifica, perchè poco o nulla rimaneva da aggiungere alle speculazioni
dei filosofi greci; e se, parlando ai concitta dini innamorati della
letteratura e delle dottrine stra niere, si mostra studioso al sommo
dell'altrui autorità, confessa però nel 1° degli Offici, ch'e'non seguiva gli a
n tichi come interprete, m a per proprio arbitrio e con li bero esame attingeva
ai loro fonti. È scritto nel primo dei Fini che egli sosteneva quelle dottrine
soltanto che erano approvate da lui,e vi aggiungeva un ordine pro prio di
scrivere. Come poi quest'ordine di scrivere (si gnificante non altro che un
ordine di pensieri) si esten desse per lui al collegamento necessario di tutta
la scienza, te lo dice in quelle parole dei Tuscolani (II, 1): « Difficile est
in philosophia pauca esse einota,cui non sint aut pleraque aut omnia.» Noi
dunque invitiamo gli studiosi delle lettere e della filosofia antica a prendere
in più seria considerazione quella sentenza, divenuta pur troppo comune, che fa
del filosofo latino non più che un seguace d'Antioco, e un modesto raccoglitore
delle dottrine greche. Di quanto in tervallo egli si lasciasse discosti i
migliori filosofi greci contemporanei può apparire assai manifesto a chi
ricordi quanto è detto nella prima parte di questo discorso. Fra i latini poi
non sapremmo chi contrapporgli,se non forse il dottissimo M. Terenzio Varrone
suo familiare, rammen tato nel primo degli Accademici,e della cui filosofia per
altro o poco o nulla sappiamo. Veramente, ammesso che l'oratore romano fosse un
eclettico, nella schietta e ger mana significazionedellaparola,eglinon
solo(siconsideri bene ) avrebbe dovuto accettare le principali dottrine della
scienza tal quali gliele porgeva la Grecia, senza nulla mutare o innovare,ma
l'autorità della tradizione scien 11 tifica sarebbe stata per lui
unico e assoluto criterio per venire dall'opinione al sapere.Ma per contrario,
esami nando nella loro pienezza le dottrine di Tullio, si vede ch'egli, anzichè
inchinarsi a servile imitazione, intese l'uso dell'autorità come un legittimo
ossequio della ra gione al vero riconosciuto per altrui testimonianza, e
propose a sè stesso il gran problema (chiarito poi dai moderni) del passaggio
dalla certezza naturale o volgare alla certezza scientifica. Pensatore e
scrittore di cose fi losofiche in una età in cui la scienza si divideva tra un
dommatismo eccessivo e uno scetticismo quasi assoluto, stimò che avrebbe ben
meritato dell'umana ragione e della patria,seguendo una filosofia modesta in
mezzo agli estremi del tutto credere e del tutto negare; e scelse a suo metodo
la verosimiglianza della Nuova Accademia senza parteciparne lo scetticismo.
Condotto da questo metodo in mezzo alla confusione dei sistemi e alle rovine
dell'edifizio scientifico, ne sottopose ad esame le princi pali dottrine, e
nelle parti incerte e dubbiose ammise più gradi di verosimiglianza; le verità
d'evidenza interiore affermò risoluto. Nella fisica sperimentale non ebbe che
verosimiglianze; in teologia naturale, in cosmologia,in psicologia ed in logica
ondeggiò tra il verosimile e il certo; nella morale soggettiva e oggettiva,
nelle teoriche del Diritto e dello stato romano si volse alla luce innegabile
della coscienza e affermò con certezza assoluta. Talchè in cia scuna parte
delle sue dottrine, e nella successione delle tre parti fra loro si nota quest'ordine
di gradi che vanno dal verosimile al certo. Tale procedimento, che si attiene
all'intimo del suo pensiero speculativo,l'osservi anche talvolta nella forma
estrinseca e nell'ordine logi cale delle dottrine.Imperciocchè,mentre isuoi
scrittisono per la maggior parte inquisitivi e disputativi,e la disputa ferve
specialmente nelle teoriche dell'essere e del cono scere e nei principj della
teorica dell'operare, quanto più procediamo nell'esame di questa, e dai giudizj
dei sistemi particolari e dalle pure opinioni ci leviamo al concetto del divino,
che pose nell'umana ragione,a testimonianza di
sè stesso,laleggemorale,lacontroversia gradopergrado diminuisce,e questa
parte,cominciata col De finibus,dia logo contenzioso, segue col De legibus e
col De officiis, opere espositive, terminando colle dottrine della Repub blica,
e co'dialoghi popolari dell'Amicizia e della vecchiezza. Esaminando nella
successione dei libri fisici, dialettici e morali questo procedimento del
pensiero di Tullio, le sue dottrine ci rappresentano quasi un tentativo di
ricom porre la filosofia nell'ordine perfetto delle conoscenze. Fu provato
assai largamente nel Capitolo primo della seconda parte, e in più luoghi delle
dottrine morali, come il nostro filosofo concepisse chiara la relazione che
inter cede tra la pienezza del soggetto scientifico, su cui si volge il
pensiero, e la unità oggettiva de'principj che danno legamento e connessione
rigorosa alla scienzaprima. Certo,checchè ne dicano il Brucker e il Bernhardy
(il secondo de'quali afferma che gli ultimi fondamenti del sapere rimasero
dubbiosi per Cicerone),apparisce evidente dai libri morali che il nostro
oratore seguendo la ragione informatrice del sistema platonico e dell'Etica di
Zenone, intese la sovranità dell'idea del Buono nell'ordine delle cognizioni, e
cercò in quel principio la più vasta di tutte le sintesi, che gli porgesse
unificata e spiegata nelle più remote sue applicazioni tutta la scienza. La
qual cosa crediamo avere posta sufficientemente in chiaro, esami nando il
dialogo delle Leggi. Ma il por mente a questa unità informatrice delle
dottrine tulliane, ci spiana la via per vedere come il suo metodo conciliativo
delle scuole particolari si risolvesse inun criterio intrinseco di ragione. Quistail
divario essenziale tra la filosofia di Cicerone e la filosofia degli eclettici.
L'eclettico infatti raccogliendo le sue dottrine da sistemi contradittorj e
infetti sostanzialmente d'errore, come non può sperare di levarsi mai colla
riflessione a principj assoluti di scienza, così è costretto a scambiare la
vera filosofia,che è semplice ed una,con un viluppo di multiformi dottrine
senz'armonia e senz'accordo.
La verità,cheèingenita,assoluta,immortale,nonpuò uscire in eterno
dall'accozzo fortuito del falso; e la scelta a b bandonata a sè stessa e senza
un criterio intrinseco ed uno, mancherà sempre di principj saldi, universali,
apodittici. La qual cosa non conobbe abbastanza quella scuola fran cese,fiorita
nella prima metà di questo secolo, e a cui giu stamente si attribuisce la lode
di avere spento il sensismo, e restaurati gli studj istorici della filosofia
nella nostra Europa, quando sentenziava che i sistemi più avversi si compiono
tra loro, e che lo spirito umano procede d'er rore in errore per cammino non
interrotto alle armonie della Scienza prima. Ma Cicerone intese ben altrimenti
il principio costi tutivo delle sue dottrine. Per lui la tradizione scientifica
trovava un riscontro nell'esame immediato dei fatti in terni, e quindi egli
desunse il criterio con cui variamente conciliava i sistemi. Ora a questo
criterio che è la parte propria ed originale di sua dottrina, e che rappresenta
un vero esercizio dell'indagine filosofale nel sindacato delle scuole
particolari,fa d'uopo aver l'occhio per ve dere come e quanto egli attingesse
ai fonti delle opere greche. Sennonchè in tal questione, come osserva Kuehner,
che ne disputava a lungo, e con rara diligenza, si affacciano naturalmente non
lievi difficoltà. In primo luogo, perchè M. Tullio, fornito di varia e
multiforme erudizione, volse in proprio uso tutte le migliori dottrine
dell'antichità italica e greca; secondariamente, perchè parlando di un dato
soggetto, non se ne stava contento all'autorità di un solo autore, m a
interrogava la m a g gior parte di quelli che ne avevano trattato, moltissimi
tra’ quali andarono per noi sventuratamente perduti; e infine perchè il nostro
filosofo o tace non di rado, o accenna di passaggio i fonti a cui attinse, o
soltanto rammenta gli autori quando gli accade di confutarli. Passando poi a determinare
il metodo con cui Cicerone attinse ai greci filosofi, osserva giustamente il
critico te desco che questo metodo si esercitava in tre maniere. Traduceva egli
dal greco, trasportando liberamente in latino, tanto (come egli stesso ci
avverte nell'operetta “De optimo genere oratorum”) da serbare il colorito e la
forza nativa del testo. Nelle altre opere filosofiche segui principalmente un
solo autore, adoperandovi sopra con libera efficacia di riflessione ilsuo
giudizio,e componendo le materie con proprio ordine di pensieri;ricorse ad
altri scrittori ove quello che seguiva fosse riuscito mancante, e v'aggiunse
del proprio.Era altresì suo costume inter rogare varj libri che avean preso a
trattare un m e d e simo soggetto, e ove fosse stato possibile il conciliarli,
trar fuori dalle loro dottrine un tutto perfettamente connesso ed armonizzato. Quindi,prosegue
Kuehner,è necessario al critico di Cicerone avvertire con diligenza gli
scrittori da lui citati e accennati, raffrontare spesso i suoi libri coi grandi
monumenti dell'antica filosofia, che ci pervennero intatti, osservare quello
ch'egli trasse dai suoi maestri,e non piccola luce daranno le congetture
assennate e prudenti. Esposte queste norme più generali di critica, noi
non seguiremo più oltre l'erudito tedesco nell'indagine minuta intorno alle
fonti delle dottrine tulliane. Tale indagine infatti, oltrechè si
allontanerebbe di troppo dal l'indole speculativa e dai confini di questo
scritto,e riu scirebbe inutile al tutto per noi che non neghiamo avere il
filosofo latino attinto le sue dottrine migliori dall'an tichità greca, è piena
altresì d'incertezza e di congetture là dove i fonti originali andarono
perduti, e dove riesce difficile lo sceverare quanto appartiene all'ingegno del
nostro filosofo, e quanto debba invece attribuirsi all'au torità stessa dei
Greci. Del resto, concludendo coll'au tore della dissertazione, M. Tullio
ne'libri fisici, e in special modo nella disputa sull'immortalità,seguì princi
palmente Platone; nei libri logici e nella questione sul criterio della
verosimiglianza e sulla percezione sensitiva, attinse dal Portico e dalla Nuova
Accademia; nei libri morali poi, discepolo degli Stoici e dell'Antica Accade
mia e del Peripato per ciò che risguarda le dottrine speculative del bene e
della legge, nelle materie politi che e civili seguì a preferenza
Aristotele,Teofrasto e Polibio. L a qual cosa per altro vuole essere intesa
discre tamente; poichè, a considerare bene il metodo con cui egli compose i
varj sistemi, si vede che, sebbene in più luoghi attinse separatamente dagli
Stoici e da Platone,tut tavia la natura dell'ingegno latino lo menava a tempe
rare l'austerità degli Stoici colle massime dell'Ateniese; il che fece in più
luoghi, e segnatamente nel secondo libro della Natura degli Dei, e nel primo
della Divina zione. Come poi usando le opere dei greci scrittori, è attingendo
ai loro fonti la materia di sue dottrine, ei conservasse non pertanto la libertà
dell'ingegno, con queste parole lo attesta il Kuehner: « Negari quidem non potest
Ciceronem disputationes suas philosophicas e Graecorum fontibus hausisse; sed
græca non interpretis modo ad verbum in linguam latinam convertit,sed suum ipse
iis adjunxit judicium, suum scribendi ordinem,viam rationemque atque orationis
lumen.Reputemus nobiscum, quantum ingenii judiciique dexteritatis Cicero
probaverit in hauriendis sapientiæ præceptis e græcorum philosophorum
monumentis. Nam ex omnibus omnium æta tum græcorum philosophorum disciplinis,
ex hac ingenti materiæ quasi silva,ea delibavit,quæ ad fingendos mores
sapientiæ præceptis,et ad omnem vitam conformandam vim omnino habebant
saluberrimam.” Cicerone dunque, a riassumere il tutto in poche parole,non fu nè
Stoico,nè Accademico, nè Peripatetico, ma fu vero Socratico con libertà di
riflessione e di esame. Come Socrate, egli non compose un sistema per fetto di
cognizioni, m a tentò una riforma; non pervenne agli estremi resultamenti delle
indagini iniziate da lui, ma ne accennò la via più sicura; non chiuse tutta la
scienza nell'ambito angusto d'un'ipotesi, d'un'inven zione o d'un fatto; m a
assorgendo colla mente alla più feconda delle armonie scientifiche, che è la
ragione m o rale, vedeva in un'occhiata spiegarsi da quella sintesi
l'ordinamento necessario della scienza prima. Per certo l'ingegno onnipotente
dell’Ateniese, la cui efficacia dura da ventiquattro secoli nell'indirizzo
delle dottrine specu lative, è unico esempio, e non mai superabile, nella
storia della filosofia. Ma consideri un poco il lettore, come al filosofo
romano, ingegno senza dubbio men vasto e meno inventivo, mentre si
attraversavano per via le stesse dif ficoltà, e forse maggiori,non arrisero
altrettanto propizie, quanto al greco, le condizioni dei tempi e dei pubblici
costumi. Tullio non s'abbattè,come Socrate, ad un po polo,qual era quello
d'Atene, poderoso della fantasia, supremamente inclinato da natura agli studj
speculativi, e innamorato d’un amore infinito del bello e del perfetto. La
gente romana, sebbene felicemente disposta a sentire ciò che è certo e
applicabile fra i resultamenti dell'umano ingegno, sebbene disciplinata nelle
deduzioni morali dal magistero dei Giureconsulti, ritenne per se coli quei
costumi severi e quell'abito politico e militare, non facilmente conciliabile
colla vita meditativa della scienza e dell'arte. Più tardi allorchè l'impero
esteso a due terzi del mondo, e il vivere agiato, e la necessità di allontanare
il pensiero dallo spettacolo della tirannia nascente, volgeva i migliori tra i
Romani agli studj della filosofia, maestra ai vincitori d'ogni arte e di ogni
disciplina civile, li trasse a sè, sviando la sponta neità degl'ingegni col
facile diletto dell'imitazione. Chè, se ciò non può dirsi assolutamente delle
lettere e delle scienze latine da chi consideri quel tanto d'originale che pur
v'è nelle imitazioni di Lucrezio, di Catullo e di Virgilio, e che sappiamo
esservistato nei libridiVarrone,ora perduti,non resta men vero che tanta era la
servitùdel pensiero ai tempi di Tullio da costringerlo a scusarsi pubblicamente
per avere usata la propria lingua nelle materie speculative. Opera altamente
civile, altamente romana fu adun que quella che imprese il nostro filosofo,
procacciando di volgere il linguaggio latino alla significazione dei veri
scientifici. Nel che, tanto più egli si mostrò gran maestro, quanto minori e
maggiormente imperfetti erano gli esempi di coloro che l'avean preceduto.
Amafinio e Rabirio epicurei, rammentati da lui nel libro terzo delle Tuscolane
e ch'egli dice non averlettoneppure,scris sero primi di cose filosofiche in
modo informe ed incolto. Più tardi Tito LUCREZIO Caro esponeva splendidamente
nelpoema De rerum natura la filosofia d'Epicuro; ma tutti questi scrittori, dei
quali il secondo non era uscito dalle pastoje della poesia didascalica, non
aveano potuto al certo esercitare un'alta efficacia sul linguaggio filo sofico
di Roma,ristretti com'erano nelle cerchia d'un sistema povero e meschinamente
sofistico.Noi dunque con corriamo ben volentieri nella sentenza del Ritter,
assicu rando che soltanto ai tempi di Cicerone la filosofia volse in proprio
uso l'idioma latino; la qual cosa,per quanto è lecito pensarne ai moderni, può
unicamente affermarsi dei libri di lui dove la lingua filosofica è già formata,
e dove la parola si porge per modo mirabile ad ogni m o venza e inflessione del
pensiero. L'impresa che Cicerone tentava, era dunque novissima, e l'istrumento
ch'egli ha fra mano, il meno acconcio a compirla. Perchè non si trattava già
d'esporre le dottrine d'un solo filosofo, come avean fatto Amafinio, Rabirio e
Lucrezio,ma con veniva volgersi a tutte le scuole, e addestrare il linguaggio
latino nell'intero ámbito della scienza.Talvolta, è vero, gli mancò la parola
più appropriata al concetto, e ristretto entro i termini d'una lingua non
disciplinata ancora nelle indagini troppo sottili, procedè incerto sulla
significazione di qualche frase scientifica appresa dai Greci; m a nella maggior
parte dei suoi scritti egli ebbe in grado supremo la facoltà di lumeggiare e
colorire l'idea, e di far sì che il pensiero rispondesse nella p a rola, come
figura bella in limpido specchio. Sentenziando ch'è vana impresa e da fanciulli
voler dire con favella ornata le cose sottili, plane autem it perspicue posse,
docti et intelligentis viri -- De fin. -- seguì uno stile che fosse egualmente
lontano dalla forma splendida degli oratori, e dalla aridità faticosa di parec
chj contemporanei. Quinci egli trasse quel genere d'ora zione che negli Officj
chiamò æquabile et temperatum. L'ingegno universale e comprensivo di
Cicerone apparisce in ogni parte delle sue dottrine. Venuto in Roma, dove
facevano capo le faccende d'Italia e del mondo, tollerante per natura delle
altrui opinioni, e disposto a tolleranza maggiore dallo studio. Intorno allo
stile filosofico di Cicerone scrive con molta dottrina Ferrucci, in un suo
discorso “De singolari meriti di Cicerone nella lingua ed eloquenza latina,
edito recentemente in Pisa coi tipi del Nistri. La severità della
meditazione scientifica è in lui sempre solenne, ma variamente temperata
dall'indole del soggetto. E sobrio l'uso delle metafore. Il periodo procede ora
maestoso, ora interrotto, ora veloce, ora lento, a sconda della materia, e
talvolta, come negli Accademici, imita il linguaggio familiare, talaltra, come
nelle Tuscolane, sembra avvicinarsi piuttosto alla forma oratoria. Chi poi
considerasse a parte a parte la varietà degli stili nelle opere differenti,
osserverebbe potersi queste distin guere in più classi, modernamente in più manière,
corrispondenti ai varj tempi in cui l'autore le scrive. Il “De republica” e il “De
legibus”, appartenenti al primo tempo, in cui egli era ancora indefessamente
occupato nei negozj pubblici e del foro, hanno più del carattere oratorio. “Gli
Accademici”, il “De finibus”, il “De natura deorum”, scritti poco prima la
morte di Cesare, palesano uno studio deliberato, continuo della severa forma
speculativa; laddove nel “De officiis”, nel “Cato Major” e nel “De amicitial”
t’av vedi come l'abito della meditazione e la lettura degli ottimi esemplari o
avessero condotto al miglior temperamento dello stile didattico colla forma
oratoria. Imitatore delle melodie d'Iocrate, e innamorato dello splendore di
Platone, ch'egli chiama il divino dei filosofi, lo segue non soltanto nella
forma estrinseca de' suoi trattati, e nel metodo del dialogizzare, ma improntò
sul Fedro, sulla Repubblica, sul Fedone, sulle Leggi i tratti più belli delle
opere sue, rimasti fino a noi come uno dei monumenti più solenni delle lettere
antiche imparziale che fa delle dottrine contemporanee, con trasse per tempo
quell'abito universale d'osservazione, e quel sentimento delle armonie
scientifiche, così vivo in ogni tempo nelle menti romane, in lui straordinario.
Cresciuto intempi funesti alla libertà, e testimone di quanti esilj e di quanto
sangue contaminasse l'Italia la rabbia scellerata di Mario e di Silla, egli in
mezzo allo strepito delle armi e all'imperversare delle civili discordie
applica dì e notte con ardore inestimabile ad ogni generazione di studj. Più
tardi per restaurare la salute, inde bolita dalla pratica del fôro, si reca in
Grecia, dove udì le scuole migliori, peragra tutta l'Asia, si trattenne a Rodi,
e torna in patria ammaestrato da una larga notizia d’uomini e di cose,e dalla
famigliarità coi più pre stanti oratori. La sua eloquenza, nutrita negli spazj
dell'Accademia, ebbe ampiezza misurata e solenne, tanto diversa dalla nervosa
concisione di Demostene, e quale s'addiceva alla pienezza e solennità de'suoi
pensieri. Nella ragione intima dell'arte sua cirimane occulta, qualora si
consideri nel “De oratore”, nel “Bruto” e nell'”Orator” il significato
vastissimo ch'egli riferisce alla parola elo quenza. Quindi il largo concetto
dell'unità del sapere, espresso in varj luoghi del “De oratore”, e meglio in
quella sentenza: « omnem doctrinam ingenuarum et humana rum artium uno quodam
societatis vinculo contineri,» ci fa manifesto com'egli intendeva l'officio
dello scrittore,e come nella sua vita di cittadino, d'oratore e di filosofo si
mostrasse uno degli uomini più universali che mai siano apparsi nel mondo. Come
uomo di stato, egli vagheggiò la carità universale del genere umano, e ne
scrisse mirabili parole negli “Offici” e nelle “Leggi.” Giovane ancora, patrocinando
la causa di una donna Aretina, giustifica le pretensioni delle città italiane
alla cittadinanza romana. Nel suo consolato sven tando la congiura di Catilina,
salvava da pericolo certo e imminente la libertà di Roma,e tentava comporre
l'or dine senatorio e l’equestre in un saldo partito contro il prevalere della
fazione plebea.Come avvocato e come oratore politico (così scrive di lui
Vannucci),«creò un nuovo genere d'eloquenza composto di tutto ciò che v'era di
più bello a Roma. Per giungere a questo con l'amore e con l'entusiasmo,che è
padre di tutte le egregie cose, coltivò gli studj trascurati da altri, e con
siderando che il poeta e l'oratore dal lato degli orna menti hanno, com'egli
scrisse, molte cose comuni, con esercizj poetici ingentili e perfezionò lo
stile latino. Ricerca i modelli più famosi dell'eloquenza romana,svolse i
Greci,ne tradusse per suo uso le orazioni più belle.Sti mava che per esser
grande oratore si vuol sapere ogni cosa,e avere tutte le dottrine come compagne
e ministre. Quindi afforzò la sua ragione colle dottrine dei grandi filosofi,
si arricchì della scienza del diritto, non lasciò niuno studio da banda; e così
apparecchiato rappresentò nel fôro la grandezza romana ingentilita dall'arte
greca, e apparve come splendido esempio dell'oratore perfetto, di cui mandò a
noi il ritratto ne'suoi scritti didattici.» (Studi storici e morali sulla
letteratura latina, Firenze, Le Monnier) Non è dunque maraviglia se, dis posto
per abito di mente e per disciplina a sentire l’uni versalità in ogni cosa,
espose più tardi ne'suoi scritti speculativi ilmeglio delle scuole greche, e
tornando ai fondamenti e ai principj di tutto il sapere, vi cercò quel legame
unitivo che desse vita e armonia alle sparse membra della tradizione
scientifica. Se in lui dopo l'oratoreeilpoliticoconsideratel'uomo, dovrete
riconoscere negli scritti speculativi profondamente scolpite le tracce del sentimento
e dell'animo suo. In essi,quanto alla manifestazione degli affetti, ritrovi
quella sua schiettezza d'indole generosa, quegli amori potenti di gloria, di
famiglia e di patria, quell'abbandono di t e nerezza,ond'era caro finchè visse
ad ogni anima gen tile, e l'incertezza dei propositi, che talvolta lo rese in
feriore all'impeto degli avvenimenti, e un desiderio di lodi un po' troppo
sincero lo sentì qua e là nell'irreso lutezza delle espressioni e nello stile
maestoso non senza, pompa. L'esempio di Roma antica ch'egli seguì e
studio con amore,quale un perfetto monumento di sapienza civile ,non gli
tolse però di vederne e di biasimarne i difetti, come l'eccessivo potere del
popolo che spesso trascorreva in licenza, l'abuso dell'autorità ne'patrizj, le
guerre volte a istrumento di grandezza privata,la prolungazione degli imperj,
idisordini quotidiani nel fôro, e quelle leggi agrarie e sui contratti, la cui
promulgazione sciogliendo i diritti di proprietà e l'osservanza della fede, era
un vero attentato alle basi della società civile. Dalla critica meno benigna si
allegano alcuni passi dei suoi scritti politici in cui parve dimenticare i
principj della giustizia e della moralità lodando il tirannicidio, tentando
giustificare col titolo della civiltà il primato oppressivo dei Romani sulle
altre nazioni, ammettendo come teorica di condotta civile il cangiar partito a
seconda delle circostanze.Nè io lo difendo da queste accuse;ma rammento solo
per debito imparziale d'istoria, che le stesse ragioni recate da lui a' suoi
tempi per giustificare le conquiste romane, sono state addotte in pieno secolo
XIX da una delle nazioni più civili del mondo per iscusare non meno odiose
conquiste; e che,se la storia non giustificò Tullio nel diritto, l'ha in parte
giustificato nel fatto, mostrando di quanto lume di civiltà la moderna Europa
sia debitrice alle conquiste romane. I giudizj intorno alla sua condotta morale
e politica, già di troppo benigni nelle opere del Middleton, e del
Niebuhr,troppo severi in quelle di Melmoth, Drumann e Mommsen, furono non ha
guari saviamente temperati in un bel saggio di Forsyth, venuto alla luce in Londra, e di cui abbiam veduta
quest'anno una nuova edizione. Tullio, così osserva sapientemente il biografo
inglese, fu qualche volta debole, timido, irreso luto,m a a tali difetti
rispose in altre condizioni di tempi con una nobile condotta civile. Ei si
diportò da uomo e da cittadino nella congiura di Catilina, e nel finale c o m
battimento contro il triunviro Antonio.Chè se non sem pre fu pari agli
avvenimenti che lo incalzavano, se non sostenne coraggiosamente l'esilio, e
restituito in patria, ondeggiò a lungo tra la parte di Cesare e quella
di Pompeo, bisogna considerare quanto difficili tempi fossero quelli a
chi, come lui, non avea mai patteggiato colla coscienza, e riconosceva nella
religione del giuramento, e nella santità dei costumi civili il principio
tutelare delle libere istituzioni. Questo alto sentimento del buono,po
tentissimo nel nostro oratore, è la ragione che diede sublimità vera alle sue
dottrine morali; e ci spiega come nei libri degli Officj, della Repubblica e
delle Leggi egli desunse i principj fondamentali della filosofia civile dal
concetto più puro dell'onesto e della legge; e vissuto in tempi nefandi intese
a conciliare l'interesse dell'utile pubblico colla giustizia assoluta,
nell'idea della famiglia, nell'idea dello stato, nel possesso, nella
legislazione e nei diritti di guerra e di pace. Tale pure è l'opinione esposta
dal signor Gaston Boissier ne'suoi dotti articoli sulla politica di Cicerone,
stampati nella Rivista de'Duc Mondi. Corre adesso in Europa un tempo assai
propizio alla critica degli scrittori latini.Invero gli studj che accompa
gnarono fra noi ilprimo risorgimento delle lettere anti che, mossi da curiosità
e da desiderio di un passato a cui la notte tempestosa dei tempi di mezzo
sembrava aver cresciuto splendore, non mantennero sempre una giusta eguaglianza
fra il libero esame e l'ossequio dovuto alle tradizioni. Ma tal difetto venne largamente
emendato in età più vicina, allorchè da molti si esaminò solo per negare,e le
passioni politiche e religiose fecero impaccio più volte alla schietta
manifestazione del vero. Oggi la quiete dei tempi,e questo nuovo ricomporsi
d'Europa a monarchie nazionali,avvicinando i popoli tra loro e ren dendo sempre
più facile il sindacato delle opinioni, per suade le menti a giudizj più severi
e imparziali. Ne mancano esempj di queste nuove condizioni della critica
odierna, segnatamente per ciò che risguarda gli studj del l'antichità latina;
non ignorano infatti i nostri lettori che,mentre in Germania il Bernhardy e il
Mommsen giudicarono con molta severità Cicerone, in Francia e in Inghilterra
hanno parlato con bella temperanza delle sue dottrine morali e
della sua vita politica il Desjardins e il Forsyth. Fra noi gli studj istorici
della filosofia o non furono sin qui troppo favorevolmente accolti, o rimasero
oscuri nella solitudine dei gabinetti, mentre le lettere esercitavano un
ufficio civile, e all'unità e all'indipen denza dava opera l'intera nazione. È
tempo oggimai che torniamo a così nobili studj;e la critica istorica e
filosofica faccia prova di richiamare nella memoria ricono scente degli
Italiani la storia di quel popolo da cui venne il Desjardins e il Forsyth.
Fra noi gli studj istorici della filosofia o non furono sin qui troppo favorevolmente
accolti, o rimasero oscuri nella solitudine dei gabinetti, mentre le lettere
esercitavano un ufficio civile, e all'unità e all'indipen denza dava opera
l'intera nazione. È tempo oggimai che torniamo a così nobili studj;e la critica
istorica e filoso fica faccia prova di richiamare nella memoria ricono scente
degli Italiani la storia di quel popolo da cui venne la prima luce delle nostre
istituzioni. Allora soltanto le dottrine di Cicerone saranno meglio studiate e
apprezzate, e la natura comprensiva dell'ingegno romano,dicuiegli fu esempio
solenne, ci apparirà come una sintesi vasta e feconda in cui s'accoglieva la
coscienza dei popoli antichi.Giacomo Barzellotti. Keywords. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Barzellotti” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Basilide – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Member of the Porch. A teacher of Antonino
Grice
e Basilio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. He studied philosophy alongside the future emperor Giuliano.
Grice
e Basso – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Lucio Aufidio Basso. According to Seneca, Basso was a follower of the
philosophy of The Garden, who bore witness to his school’s teachings in the way
he coped with coped with prolonged ill health.
Grice
e Basso – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Tito Avianio Basso Polieno. A member of the Porch.
Grice
e Bataces – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Nizza). Filosofo
italiano. A pupil of Carneade.
Grice e Battaglia –
valori italiani – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palmi). Filosofo
italiano. Grice: “You gotta like Battaglia; he plays with the Italian language
in ways I cannot play in the English language; e. g. consider his
philosophising ‘between being and value,’ ‘tra l’essere e il valore.’ Surely
the thing is the copula: A is B, A is worth B.’
-- “A e B,” “A vale.” “A vale B.” – “We cannot say that a dollar is
worth a dollar --. Stricctly, we CAN, it’s true – but the implicaturum is ‘I’m
an idiot or a philosopher.” Grice: “And I can say, “Socrate e,’ i. e. Socrates
is. And ‘Socrates vale,’ i.e. Socrates has value.’” Grice: “When I did my linguistic botanising on
‘value,’ I followed Austin’s misadvice: never contrast with Anglo-Saxon, but
actually ‘worth’ in Anglo-Saxon WAS a verb, and cognate with Battaglia,
‘valere.’!” In seguito al terremoto di Messina lasciò la Calabria,
trasferendosi con tutta la famiglia a Roma, dove intraprese il suo percorso di
studi. Si laurea con una tesi su Marsilio
da Padova. Ottenuta la libera docenza di filosofia e un contratto
d'insegnamento dall'ateneo capitolino, si trasferì a Siena, dove vinse la
cattedra nella medesima disciplina. Si
sposta da Siena a Bologna, dove già teneva delle lezioni. Nell'ateneo bolognese
insegna, contemporaneamente, filosofia morale e filosofia del diritto nella
Facoltà di Filosofia, di cui e preside. Rettore dell'ateneo di Bologna. Il Comune
di Bologna gli ha dedicato una strada, e Bologna intitola a suo nome la Biblioteca
del ‘Dipartimento’ di filosofia. È stato autore di numerosi saggi in diverse
branche del diritto e della filosofia e, in loro connessione, sulla storia del
pensiero, sia antico che modern. Tale interesse declina anche in chiave
pedagogica, a testimonianza dell'intensa attenzione rivolta alla storia quale
concreta fonte dell'organizzazione sociale umana e del complesso e diffidente
approdo allo spiritualismo. Con i
sostenitori attualisti dell'autonomia della categoria filosofica della
politica, pensa che occorresse lasciare alla storia tout court quanto non fosse
pensiero sistematico, preservando così la storia delle dottrine da ogni
contaminazione con le dialettica sociale e istituzionale". Altre opere:“Cuoco e la formazione dello
spirito nazionale in Italia” (Bemporad, Firenze); “Marsilio da Padova e la filosofia
politica del Medioevo” (Felice Le Monnier, Firenze); “La crisi del diritto
naturale: saggio su alcune tendenze contemporanee della filosofia del diritto”
(La Nuova Italia, Firenze); “Diritto e filosofia della pratica: saggio su
alcuni problemi dell'idealismo contemporaneo” (La Nuova Italia, Firenze); “Thomasio
filosofo e giurista” (Circolo giuridico di Siena);“Scritti di teoria dello
stato” (Giuffré, Milano); “Orientamenti metodologici nella storia delle
dottrine politiche” (Tip. Nuova, Siena); “Problemi metodologici nella storia
delle dottrine politiche ed economiche” (Foro Italiano, Roma); “Corso di filosofia
del diritto” (Soc. editrice "Foro italiano", Roma); “Il domma della
personalità giuridica dello Stato” (Zanichelli, Bologna); “Impero Chiesa e
stati particolari nel pensiero di Alighieri” (Zanichelli, Bologna); “Libertà ed
uguaglianza nelle dichiarazioni francesi dei diritti: testi, lavori preparatorii,
progetti parlamentari” (Zanichelli, Bologna); “Il valore nella storia” (Upeb,
Bologna); “Il problema morale nell'esistenzialismo” (Zuffi, Bologna); “Saggi
sull'Utopia di Tommaso Moro” (Zuffi, Bologna); “Cenni storici intorno al
concetto di lavoro” (Zuffi, Bologna); “Filosofia del lavoro” (Zuffi, Bologna);
“Lineamenti di storia delle dottrine politiche” (Giuffré, Milano); “Morale e
storia nella prospettiva spiritualistica” (Zuffi, Bologna); “Nuovi scritti di
teoria dello stato” (Giuffré, Milano); “I valori fra la metafisica e la storia”
(Zanichelli, Bologna); “Linee sommarie di dottrina morale” (Patron, Bologna); “I
valori della pratica e l'esperienza storica” (Patron, Bologna); “Il valore
estetico” (Morcelliana, Brescia); “Cinque saggi intorno alla sociologia” (Istituto
Luigi Sturzo, Roma); “ Parva Desanctisiana” (Patron, Bologna); “Economia,
diritto, morale” (Coop. libraria universitaria editoriale bolognese, Bologna);
“Croce e i fratelli Mario e Luigi Sturzo” (Longo, Ravenna); “Rosmini tra
l'essere e i valori, Guida, Napoli); “Mondo storico ed escatologia” (Clueb,
Bologna); “Le carte dei diritti: dalla Magna Charta alla carta del lavoro”
(Sansoni, Firenze); “Le carte dei diritti: dalla Magna Charta alla Carta di San
Francisco” (Sansoni, Firenze); “Meis, I problemi dello stato moderno”
(Zanichelli, Bologna); “Sanctis, Lettere a Villari” (Einaudi, Torino); “Lettere
di Meis a Spaventa” (Azzoguidi, Bologna); “Il pensiero pedagogico del
Rinascimento” (Sansoni, Firenze); “Locke, Antologia degli scritti politici” (Il
Mulino, Bologna). Il pensiero di Felice Battaglia, Atti del Seminario promosso
dal Dipartimento di Filosofia di Bologna (29-30 ottobre 1987), Nicola Matteucci
e Alberto Pasquinelli, Bologna, CLUEB, A cent'anni dalla nascita, Bologna,
Baiesi, Dal filosofo all'uomo, Atti del
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Chiofalo, Palmi, Arti Grafiche Edizioni, 1991, . M. Ferrari, La filosofia
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Paganini, Vallardi, Milano, Marchello, Felice Battaglia, Edizioni di Filosofia,
Torino 1953. Nicola Matteucci, Felice Battaglia, filosofo della pratica, in
Atti della Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna, Classe di Scienze
Morali, Rendiconti, (ora rifuso in Id., Filosofi politici contemporanei, Il
Mulino, Bologna, Polato, «BATTAGLIA, Felice» in Dizionario Biografico degli
Italiani, Volume 34, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Scerbo, Felice
Battaglia: la centralità del valore giuridico, Edizioni scientifiche italiane,
Napoli, Anzalone, Lo abstracto y lo concreto en la Teoría del Derecho de
Battaglia. Felice Battaglia y el dilema entre Croce y Gentile, Atelier, Barcelona, A. Anzalone, Felice Battaglia. Per una teoria
giuridica tra idealismo crociano e gentiliano, Euno edizioni, Leonforte, (290 ). A. Anzalone, Las aparentes
contradicciones de la filosofía jurídica y política de Felice Battaglia, in
«Studi in onore di Augusto Sinagra»,
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Anzalone, El Estado, sus fines y su relación con el derecho. La perspectiva de
Felice Battaglia, in “Lex Social (Revista jurídica de los Derechos Sociales)”,
Anzalone, La integración europea como modelo para Latinoamérica según Felice
Battaglia, in «Temas de Filosofía Jurídica y Política», Número 5, SFD, Córdoba,, 11–41. Girolamo Cotroneo, Felice Battaglia e
la "filosofia dei valori", in Benedetto Croce e altri ancora, Soveria
Mannelli, Rubbettino, Onorificenze Dottore honoris causanastrino per uniforme
ordinariaDottore honoris causa — Universidade de São Paulo. Ufficiale
dell'Ordine di Leopoldo IInastrino per uniforme ordinariaUfficiale dell'Ordine
di Leopoldo II Cavaliere dell'Ordine di San Gregorio Magno (classe civile)nastrino
per uniforme ordinariaCavaliere dell'Ordine di San Gregorio Magno (classe
civile) Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiananastrino per
uniforme ordinariaGrande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana —
Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino
per uniforme ordinariaCavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della
Repubblica italiana. Vittor Ivo Comparato, Vent'anni di storia del pensiero
politico in Italia, Il pensiero politico, Università degli Studi di Bologna,
fondata nel sec. XI. Annuario degli Anni Accademici (JPG), Bologna, Tipografia Compositori,
195419. Dettaglio decorato, Presidenza
della Repubblica. 27 giugno. Sito web
del Quirinale: dettaglio decorato. Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. ULTURA MODERNA - Quaderni di Storia, Filosofia e Politica cura di
Battaglia L'opera di Vincenzo Cuoco e la formazione dello spirito nazionale in
Italia R. BEMPORAD & FIGLIO - Editori - FIRENZE Rappresentanti per il
Piemonte: S. LATTES & C. Torino. R. BEMPORAD & Firenze, Stab. Pisa
& Lampronti. La tradizione italica. Il Settecento e la sua importanza.
L’Italia ritrova sè stessa nella sua storia. Il processo unitario.
L'erudizione: Muratori. La filosofia: Vico. Antitesi al cartesianismo.
Esperienza filologica. Italianismo di Vico. De antiquissima italorum sapientia.
Vico impersona la nuova tradizione. A lui si ricollega Cuoco. La fortuna di Vico nell'alta Italia e
le origini del nuovo pensiero. Cuoco e i suoi studiosi. La rivoluzione
napoletana. La cultura rivoluzionaria e prerivoluzionaria. Razionalismo,
astrattismo. La classe colta di Napoli. Riformismo governativo. Rottura tra stato
e borghesia. Carattere passivo della rivoluzione. Le origini sacre della nuova
Italia. Gli storici della letteratura e della vita del popolo italiano, che
vogliano trattare del Risorgimento nostro con piena e sicura conoscenza di
cause e di effetti, devono necessariamente rifarsi al secolo XVIII. Nel secolo
XVIII sono le scaturigini di quel vasto e nobile movimento, denso più di idee
che di fatti, poi che i pochi e modesti avveni menti ricevono luce ed
acquistano nobiltà solo nel riflesso delle idee, di quel vasto e nobile
movimento, ripeto, che condurrà all'unificazione e all'indipendenza italiana.
Mi rabile la continuità della vita di questo popolo antico d'Italia: i secoli,
che ad una critica occhialuta sembrano i più torbidi, si presentano, poi, a chi
sappia investigarli con amore e con coscienza, gravi di preparazione, pon
derosi d'esperienza: è tutta una vita che si prepara, si svolge, sente il
bisogno di concretizzarsi, finchè scoppierà in foga d'eroismo e di volontà. È
una preparazione lenta diuturna faticosa, la quale fa emergere figure grandi di
filosofi e di poeti, di giuristi e di uomini di governo o di chiesa. La critica
ha il dovere di rivendicare questi secoli e di valutarli al paragone di
concetti superiori di filosofia. È ridicolo condannare alcune età nel corso
d'un popolo, alcuni secoli in blocco per altri secoli, chiamare questa età di
decadenza, quella età di fioritura. I periodi storici, le ere, i secoli sono
quello che sono con le loro istituzioni, col loro pensiero, con la loro arte,
con i loro uomini, soprattutto coi loro uomini. È ridicolo condannare i se coli
XVII e XVIII per il XIX, come si usava sino a venti anni fa, critico spietato,
Minosse che giudica e manda senza appello, il nostro maggiore poeta, Giosue
Carducci. I secoli XVII e XVIII hanno invece diritto alla nostra ammirazione
come i secoli, in cui i destini della patria si sono venuti maturando,
attraverso un rinnovato fervore di pensiero, di critica, di storiografia,
preludio modesto mafaticoso di opere civili, attraverso un rifoggiarsi,
insomma, della coscienza nazionale, che da universalmente umana tende a
divenire più veramente, se pure più ristrettivamente, italica. È forse, se l'affer
mazione non trovasse nella sua rigidità una smentita nell'oceanica figura di
Vico, un chiudersi in noi stessi, un rinnegare gli ideali cosmopolitici, per
ritro vare il particolare più veramente nostro, l'essenza della stirpe. La
storia è l'esperienza del nuovo spirito, che gradual mente viene formandosi. Il
popolo della penisola s'astrae, si ritira, si allontana dalle grandi
competizioni politiche e culturali europee. Il centro del mondo si è spostato:
non più Roma, ma Parigi, Lisbona, Madrid, Londra, Vienna. Mentre le altre genti
si gettano tumultuose nel 7 fervore della conquista, nella lotta per il
predominio, e noi siamo le vittime, la nostra razza si chiude nel guscio della
propria coscienza, nel culto della propria essenza. Perchè? Per essere più
italiani, per essere noi stessi, per riacquistare a noi tutto noi stessi, per
sapere il nostro passato, per foggiare nello spirito l'avvenire. Così
quell'Italia, che ai miopi occhialuti corifei dello storicismo positivo sembra
assente tra la seconda metà del Seicento e la prima metà del Settecento, per
riacqui stare vita nuova proprio con la critica razionalista pre
rivoluzionaria, e poi con « gli immortali princípi » del l '89, è invece viva e
desta, sempre, in ogni tempo, per ritrovarsi, essa stessa, di fronte
all'irrompere delle giovani schiere galliche con un patrimonio nobilissimo di
schietto pensiero italico, di sapienza civile antica, di esperienza politica
nuova. Lo storico deve valutare tutto. La storia della cultura, ben altra cosa,
notiamo, dalla storia dell'arte, particola ristica, d'un subiettivismo che
rinnega ogni sviluppo che non sia nello spirito individuale e creatore, ha una
sua mirabile continuità, una sua ininterrotta evoluzione: l'oggi sorge dal
passato, nel passato si prepara il pre sente, il presente è la fucina in cui si
foggia il futuro. La storia deve valutare tutto e trovare i nessi ideali tra
gli avvenimenti, se vuol essere storia, cioè studio critico e superiore delle
idee, che muovono gli uomini gli uo mini sono sopra tutto idee, spirito —, e
non cronaca astratta di ciò che gli uomini fanno e potevano anche non fare. Lo
storico deve dunque, se vuol rinvenire l'origine vera del nostro Risorgimento,
salire assai più indietro che di solito non si faccia ed osservare più le idee
che i fatti, poi che i fatti a volte sono puri e semplici fenomeni senza
conseguenze, che si spengono come stelle cadenti nel cielo dopo un breve ciclo,
mentre le idee vivono, germinano nell'oscurità, generano altre idee, seguendo
la trama fatale del corso delle stirpi. Le idee rivelano quel mondo dello
spirito, ove si foggiano gli eventi, rivelano il segreto della génesi de'
popoli, il loro assurgere all'im 8 pero, le cause della grandezza politica.
Dietro il fatto sto rico c'è l'idea, la cui vita, vita storica cioè dinamica,
lo studioso deve analizzare nella sua complessa formazione e non rinnegare per
i preconcetti del proprio cervello. La rinascita dell'elemento italiano,
particolaristico e nazionalista, è un fatto estrinsecamente assai prossimo a
noi, intimamente preparato da lunga meditazione, da lunga speculazione, da
lunghe ricerche. Una storia vera della cultura, specie della cultura politica,
non può non ricollegarsi al secolo XVIII, anzi al secolo XVII, per ri trovarvi
le origini vere dell'Italia di oggi. Dove si foggia questa nuova coscienza,
questa nuova italianità? Nell'angolo della penisola, che per il mo mento (siamo
nel secolo XVIII), guardando in modo sommario la distesa temporale della storia,
è il più li bero dall'influsso culturale straniero. Non Venezia, non Milano,
non Torino, non Firenze.... Napoli. Venezia è decaduta non già, come la
retorica vuole, per la corruzione d'una nobiltà festaiola e carnevalesca, ma
per un fatto storico ed economico incontrovertibile, perchè la vita commerciale
d'Europa ha disertato le antiche vie dell’oriente, per spaziare negli oceani,
ove le navi venete non possono andare, troppo lontane dall'infelice scalo della
città di San Marco (1 ). Torino è più francese che italiana, più sabauda che
nazionale. Firenze è il centro d’uno Stato troppo piccolo, per imporre un'idea
politica alle città vicine, ed è estenuata per il rigoglio anteriore. Milano
sola può essere il centro delle nuove fortune nostre, e vedremo poi come essa
col di sastro della Partenopea riprenda tutto il tesoro ideale del popolo
italiano per rendersene degna depositaria. Ma Milano oggi è troppo aperta
all'influenza straniera, risente troppo gli effetti d'una vita non propriamente
italiana, è troppo cosmopolita, troppo mondana. Biso gna che il rinnovamento si
inizi altrove. Milano poi com pirà l'unità spirituale dell'italianismo, sui
primi anni (1 ) M. Rosi, L'Italia Odierna, Torino, 1922, vol. I, p. 13 e sgg 9
dell'Ottocento, fondendo i due elementi propri della no stra natura: il suo
positivismo, più o meno razionalistico secondo i tempi, con
l'idealismo.concretamente storico e critico del mezzogiorno, per foggiare quel
carattere mentale del rinato popolo italiano, che rifugge così dalla metafisica
nubilosa di certe filosofie straniere come dal materialismo volgare, ritrovando
la sua sana vita in tima nel ponderato storicismo d'una filosofia dello
spirito. Napoli, posta dalla natura nel più incantevole luogo della penisola,
arrisa dal cielo e dal mare, beatificata dal sole, Napoli mite e pensierosa
impersona la nuova vita nazionale; essa, chiusa nella sua remotezza dalle
grandi vie commerciali dell'alta Italia tra Francia ed Austria, sola può
custodire il patrimonio culturale della nazione. L'Italia era senza dubbio
indietro di fronte alle grandi speculazioni, di fronte alla grande cultura
straniera. Car tesio, Grozio, Spinoza, Locke, Hobbes erano nomi re centi per la
gloria della filosofia delle altre stirpi, nomi grandi illustri, pietre miliari
nello sviluppo del pensiero moderno. Che avevano gli italiani da contrapporre?
Nulla, fuor che la loro povertà nuda ed altera. Lo spirito ita liano era chiuso
in sè stesso, ho detto, quasi disdegnoso della merce straniera, che gli si
voleva donare. E pure questa cultura, questa filosofia straniera pas sava da
noi ed acquistava diritto alla cittadinanza, spe cie a Torino e a Milano, in
quelle città più aperte ai nuovi rapporti civili. Il cartesianismo ovunque si
imponeva e con esso il classicismo francese lineare geometrico arido. L'Italia
però non filosofava. Il Muratori nella sua solitu dine di Modena cercava,
ricercava, spogliava, compilava con foga di ricostruttore, traeva dagli archivi
polverosi i resti della storia nostra, e il lavoro di paleografia e di
trascrizione diveniva poi lavoro di sceveramento, d’ana lisi, di critica. Il
nuovo italianismo rinasce con un rin novato fervore di studi storici. « Il
serio movimento scientifico » scrive Francesco De Sanctis « usciva di là dove
si era arrestato, dal seno stesso dell'erudizione. Lo studio del passato era
come una ginnastica intellet tuale, dove lo spirito ripigliava le sue forze.
Alle raccolte 10 successero le illustrazioni. E vi si sviluppò uno spirito d'in
vestigazione, di osservazione, di comparazione, dal quale usciva naturalmente
il dubbio e la discussione. Lo spi rito nuovo inseguiva gli eruditi tra quegli
antichi monu menti. Già non erano più semplici eruditi: erano cri tici » (1 ).
A Modena, intanto, studiava il Tiraboschi, a Roma il Crescimbeni, a Napoli il
Gravina; altrove Raf faele Fabretti, Francesco Bianchini, Scipione Maffei e con
essi una vera pleiade di dotti « segnano già questo periodo, dove la scienza è
ancora erudizione e nella eru dizione si sviluppa la critica ». A Napoli e poi
in un remoto paese del Cilento si for mava intanto il Vico. E a Giambattista
Vico bisogna rial lacciare tutto il complesso movimento filosofico politico
meridionale, tutta la fortuna dell'italianismo, di cui lo scrittore del quale
imprendiamo lo studio, Vincenzo Cuoco, è il rappresentante maggiore. La
filosofia del Vico nasce da una parte in antitesi al cartesianismo aritme tico
e razionalista, dall'altra sopra una perfetta consape volezza, sopra un vero
fondamento di ricerca storica, nell’un caso e nell'altro come reazione al
pensiero stra niero e ritorno alle fonti nostrane. Solo l'antitesi al cartesianismo,
cioè alla filosofia im perante, avrebbe potuto portare il Vico ad affermare
l'im possibilità d'una scienza della natura, e in questa scienza era la gran
cieca fede del razionalismo, e la sicurezza d'una scienza perfetta nel mondo
umano, morale e sto rico. La conversione del vero col fatto (verum ipsum
factum), impossibile nel mondo naturale agli uomini, di vien possibile nel
mondo morale. Per conoscere una cosa occorre farla, o rifare il processo
creativo: ciò è impossi bile nell'ordine naturale a tutti, fuor che a Dio,
divien possibile nell'ordine umano, spirituale e storico, fatto dall'uomo, nel
quale l'uomo opera come Iddio. Le scienze morali, la politica, la poesia
perdono il mero carattere di probabilità e brillano di pura luce nello spi (1 )
F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, Milano, Treves ed., 1917, v.
II, p. 240. 11 rito. È un nuovo principio gnoseologico, il vero è riposto nel
fatto: a questo principio si rifà tutto il nuovo sistema storico. Ma
domandiamoci: questo nuovo principio, che è il nucleo d'ogni futura filosofia
dello spirito, quest ' in versione, che è la nuova gnoseologia, era possibile
come semplice reazione ad un cartesianismo, che al Vico era pervenuto, sia
pure, come scrive il De Sanctis (1 ), in una forma antipatica e menomatrice dei
suoi studi, ma certo non in maniera del tutto opprimente e scettica? Io credo
di no o almeno credo che la rivoluzione non sa rebbe stata possibile senza
considerare un nuovo ele mento, le pure ricerche storiche, che portarono in
fine il Vico a conclusioni inattese. Il Vico, scritto il De ratione studiorum,
il De antiquis sima italorum sapientia, s ' ingolfò negli studi eruditi di
storia antica, di diritto romano, negli studi di diritto naturale, di pura
linguistica, di filologia. Dice bene quindi Benedetto Croce che, se pure il
grande napoletano non fu condotto alla filosofia, al nuovo orientamento della
sua gnoseologia, in virtù di un processo puramente filolo gico, certo lo
stimolo e la materia gli furono offerti da gli studi sopra detti, « attraverso
i quali egli ebbe a fare un'esperienza solenne; e cioè che quella materia di
studio (1) Ecco quel che scrive F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 246. « La
materia della sua cultura è sempre quella: dritto ro mano, storia romana,
antichità. La sua fisica è pitagorica, la sua metafisica è platonica,
conciliata con la sua fede. Base della sua filosofia è l'Ente, l’Uno, Dio.
Tutto viene da Dio, tutto torna a Dio, l'unum simplicissimum di Ficino. L'uomo
e la natura sono le sue ombre, i suoi fenomeni, ecc. ecc.... ». Dentro a questa
coltura e contro a queste credenze venne ad urtare Cartesio. La coltura non ha
valore: del passato bisogna far tavola. Datemi materia e moto, ed io farò il
mondo. Il vero te lo dà la scienza ed il senso. Cosa dive niva l'erudizione di
Vico, la fisica di Vico, la metafisica di Vico? cosa divenivano le idee divine
di Platone? e il simplicis simum di Ficino cosa diveniva? e il dritto romano,
la storia, la tradizione, la filologia, la poesia, la rettorica non era più
buona a nulla? Nella violenta contraddizione Vico sviluppo le sue forze, ecc.
». 12 non poteva essere e non era elaborata dal suo pensiero senza l'aiuto di
certi princípi necessarî, che gli si ripre sentavano in ogni parte della storia
da lui presa a medi tare. Un tempo gli era sembrato che le scienze morali,
ragguagliate al metodo matematico, occupassero, quanto a sicurezza, l'infimo
posto. Ora, nella quotidiana fami liarità con quelle scienze, gli veniva
apparendo il con trario: niente di più sicuro del fondamento delle scienze morali
» (1 ). Verum ipsum factum: « ove avvenga che chi fa le cose, esso stesso le
narri, ivi non può essere più certa l'istoria » Il nuovo pensiero italiano
s'afferma schiettamente storicista: il carattere della tradizione se guente
serba questo carattere: Cuoco, il discepolo di Vico in un'età caratterizzata da
una profonda negazione della storia, riaffermando l'italianismo, riafferma la
storia, Tutta la filosofia dell'autore della Scienza nova nasce da questa
scoperta, e questa scoperta nasce da un'affan nosa ricerca storica. La
resistenza a Cartesio, a Malebran che, al razionalismo francese sarebbe rimasta
resistenza, cioè in parte incomprensione, se il Vico non avesse potuto superare
Cartesio stesso in una nuova visione della realtà. Solo la gran vita della
storia, l'eterno farsi de' po poli, gli imperi che sorgono si mutano si
sviluppano muoiono, solo l'analisi delle istituzioni politiche, del di ritto,
delle religioni, delle lingue, delle arti ne' loro par ticolari potevano dargli
la superba certezza:... il pen siero si fa, il pensiero è in quanto diviene, in
quanto ha una sua propria dinamica. Il vero è in quanto noi lo facciamo, in
quanto lo rifacciamo pensandolo. Le scienze morali s'aprono a nuova vita. Solo
in esse v'è perfetta scienza, vera conoscenza. « Il pensiero è moto che va da
un termine all'altro, è idea che si fa, si realizza come (1 ) B. CROCE, La
filosofia di Giambattista Vico, Bari, G. Laterza, G. Vico, La scienza nuova
giusta l'edizione del 1744, a cura di F. Nicolini, Bari, Laterzam GENTILE, Dal
Genovesi al Galluppi, Napoli, Edizione della Critica, 1903, p. 34 e sgg. 13
natura, e ritorna idea, si ripensa, si riconosce nel fatto. Perciò verum et
factum, vero e fatto, sono convertibili; nel fatto vive il vero; il fatto è
pensiero, è scienza; la storia è una scienza, e, come ci è una logica per il
moto delle idee, ci è anche una logica per il moto dei fatti, una storia ideale
eterna, sulla quale corrono le storie di tutte le nazioni » (1 ). Ora
ritorniamo al nostro argomento. Non interessava me tanto ridire quel che sul
Vico fino ad oggi si è detto e che coglie assai bene la génesi e il valore
della spe culazione del grande napoletano, se non per dimostrare come la nuova
filosofia d'Italia, il nuovo italianismo nasca da una vera e propria esperienza
critica ed erudita. Il Vico stesso nel De antiquissima italorum sapientia es
lignuae latinae originibus eruenda aveva compiuto uno sforzo mirabile di
ricerca etimologica, che lo aveva por tato ad affermazioni di grande audacia e
nobiltà, se pure non accettabili, quale l'esistenza di una setta filosofica
italica preromana, l'esistenza d’un'antica filosofia etrusca, generatrice d’un
linguaggio filosofico, che poi trascorse in altre lingue nostre, quali il
latino, in cui si trovano singolari tracce altrimenti inspiegabili, filosofia
autoctona nostrana, antichissima, di cui Pitagora stesso sarebbe un fievole
epigono. Nella sua seconda gnoseologia il Vico rinnegherà il principio
informatore dell'opera: il linguag gio cessa d'essere in rapporto alla logica,
trova la sua spiegazione « nei principi della poesia, cessa d'avere la sua
origine nella volontà per acquistare maggiore sponta neità e naturalezza, Ma
intanto resta acquisito lo sforzo vichiano della conquista d'un vero
italianismo pre latino e preellenico, sforzo in parte rinnegato dallo stesso
autore, che trova al suo pensiero nuove vie, ma sforzo non perciò meno degno,
dal punto di vista culturale nazionalista. È una riconquista dell'italianità
nella tra (1 ) F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 248. (2) Vedi B. CROCE, La
filosofia di G. B. Vico, pag. 50 e sgg.; B. SPAVENTA, Prolusione e introduzione
alle lezioni di filosofia, Napoli, Vitale, 1862, pag. 38 A sgg. 14 dizione,
nella storia. La storia è fatta dall' uomo: la storia d'Italia dagli italiani:
trovare lo sviluppo della storia italiana significa trovare lo sviluppo di
quella volontà, di quello spirito, di quelle idee, che formano il popolo
nostro. Dai « rottami dell'antichità » nasce la storia italiana. Nel Nord della
penisola la cultura era razionaliştica e cosmopolita. I dotti parlavano
francese, non potevano sottrarsi all'influsso di Cartesio o di Locke. A Napoli
invece la cultura è storica e filosofica e particolaristica mente italiana,
sebbene pur comprensiva ed universale. Il Vico (1 ) si sottrae al pensiero
europeo, ritorna a Pita (1 ) Intendere il Vico e staccarlo in un certo senso
dallo sfondo comune delsuo secolo è necessario per colui, che voglia studiare
il secolo XVIII, in cui senza dubbio sono le origini della nuova Italia e del
nuovo pensiero. Ciò non ha saputo fare, per esempio, Gabriele Maugain, autore
di un dotto Étude sur l'évolution intel. lectuelle de l'Italie de 1657 à 1750
environ (Paris, Hachette), in cui ritorna ed insiste l'antica tesi (carducciana
tra l'altro ) d'una decadenza e di una stasi dello spirito nazionale durante un
periodo più o meno lungo. Ma, se non accettiamo questa visione parziale del
fenomeno, come poi spiegarci tutta la fio ritura del secolo XIX? Dobbiamo
crederla davvero, mancando una tradizione italica, una fioritura estrinseca,
mero riflesso della cultura rivoluzionaria francese prima e romantico -germa
nica poi? O invece il periodo anzi detto è periodo di prepara zione metodica, e
in esso sono i germi della nuova Italia? Questo viene al pensiero di chi legge
il libro accennato, in conclusione assai dotto ed interessante. Questo venne al
pen siero di Giovanni Gentile, che nella Critica recensì nel 1910 l'opera del
Maugain (recensione riveduta e ristampata in Studi vichiani, Messina,
Principato, 1915 ), e che, pur riconoscendo che nel complesso, se si eccettui
la figura titanica del Vico, questa storia è una storia di cui non abbiamo
molto a com piacerci, nota come il Maugain la renda più malinconica di quanto
non sia. A prescindere dal fatto che proprio nell'età di cui si tratta (1657-1750)
fiorisce Vico, e Vico per noi è il genio dell'Italia nuova, la tradizione
insomma a cui il succes sivo italianismo si ricollega, occorre pensare che, «
dopo la metà del secolo XVIII, dalla morte rinascerà la vita, e si preparerà
l'Italia che accoglierà la Rivoluzione, e si scuoterà tutta, e ri prenderà la
sua via in tutte le manifestazioni della vita spiri tuale, e si aprirà un varco
nella politica de grandi Stati, e ri. sorgerà come nazione ». Ora ciò sfugge
all'autore del libro. 15 gora, a Platone, ai filosofi cristiani da un lato,
dall'altro, come vedemmo, procede da sè, per una via del tutto nuova. La
Scienza nova è, come scolpì il De Sanctis, « la Divina Commedia della scienza,
la vasta sintesi, che riassume il passato e apre l'avvenire, tutta ancora in
gombra di vecchi frantumi, dominati da uno spirito nuo vo » (1 ). Essa non è
intesa per il momento, non importa ! Lo stesso Vico non si rende conto dei
formidabili svi luppi che si trarranno dai suoi studi. Ma il seme, get tato in
glebe feconde, germoglierà. Il pensiero meridio L'Italia rinasce e si rinnova,
dal cosmopolitismo antinazio nalistico nel culto d'un universale umano l'Italia
diviene na zionalistica nel culto d'un tradizionalismo più nostro, pur non
dimenticando d'esaurire il mondo morale nella filosofia del Vico, proprio nel
periodo che al Maugain sembra morte e stasi. Ben nota il Gentile a proposito (Studi
vichiani ). Non bisogna dimenticare che quella stessa che diciamo morte, è una
morte relativa; ed è anch'essa vita, perchè condizione e momento di quella che
dicesi vita: e senza intendere l'una, non è possibile giungere all'
intendimento dell'altra. Tutto sta a non cercare la vita nella morte: e non
volere una cosa nell'altra. Lastasi del periodo studiato dal Maugain non è il
progresso della creazione, ma è pure progresso, se è la pre parazione del
progresso ulteriore. Noi infatti non potremmo intendere l'Italia nuova, nutrita
dalla cultura europea compene trata con la tradizione nostra, quale la troviamo
p. e. nella poe sia del Foscolo e nell'Italia tutta del tramonto del secolo
XVIII e degli albori del seguente, [ quale la troviamo, mi permetta l '
illustre Maestro la chiosa, nel nostro Vincenzo Cuoco] se la innestassimo
immediatamente all'Italia tutta italiana, crea trice in filosofia come in arte,
maestra ancora all'Europa tutta, e vivente di una vita spirituale sua, del 500
e del primo 600. L'Italia dal 1657 al 1750 è l'Italia che accoglie il riflusso
della cultura europea, su cui ha esercitato ella prima l'azione sto rica
rinnovatrice: e in questo lavoro di riassorbimento, che dev'essere ed è anche
reazione (esempio solenne Vico), è la vita sua nuova rispetto al passato. Il
senso di questa vita nuova, se non m'inganno, non c'è nel libro del Maugain....
». Precisamente così: può darsi che chi rilegga i fogli dei vari Giornali de'
letterati vi ritrovi morte, ma chi trascorra le su date carte del Muratori e le
induzioni geniali del Vico non può che rinvenirvi la vita, e le origini grandi
della nuova patria, la fonte onde trassero la linfa vitale Cuoco e Foscolo. (1
) F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 253. 16 nale si ricollega tutto al Vico e
col Vico medita i nuovi concetti e i nuovi concreti problemi della storia e
della vita; col Vico si presenta, dopo la caduta d'una repub blica, ad
incontrare il pensiero settentrionale per ani marlo, per storicizzarlo nella
realtà dello spirito, donde nascerà la nuova cultura veramente nazionale, e non
più lombarda toscana napoletana. Così solo si possono spiegare molti atteggiamenti
della cultura di Monti e di Cesarotti, di Manzoni e di Foscolo. La tradizione
vichiana è in fine la tradizione del più puro italianismo. Da Napoli passerà a
Milano, intanto notiamo come a Napoli stessa, nel suo centro ideale, là dove il
genio di Giambattista s'era formato nell'umiltà borghese della vita d'ogni
giorno, fra amarezze familiari, fra disavventure accademiche, fra
l'incomprensione di quella che la retorica chiama alta cultura e poi non è che
la più presuntuosa saccenteria, come a Napoli stessa questa tradizione non fu
sempre dominante, nè sempre uguale, battuta in breccia dal francesismo, prima
carte siano, poi illuminista, volterriano, ecc. Comprensione vera e propria,
infine, il Vico non ebbe neppure in vita (1 ): immaginiamo, dunque, se dopo la
morte del grande au tore della Scienza nova la patria potesse intendere affatto
l'oceanico spirito del suo figliolo. « Certamente a Napoli, nel secolo
decimottavo, ci fu in molti una confusa coscienza della grandezza dell'opera
vichiana; ma in che propriamente questa grandezza con sistesse non si poteva
determinare, perchè facevano an cora difetto l'esperienza e la preparazione
adeguate » (2 ). Lo stesso discepolo ideale del Vico, colui che a, detta di
Vincenzo Cuoco, solo può condurci al maestro, solo può servirci di guida per
raggiungere i suoi voli, non fu immune da contaminazioni estrinseche: il
vichismo in Mario Pagano è mescolato al nuovo sensismo francese (3 ). (1 ) B.
CROCE, La filosofia di G. B. Vico, pp. 270 e sgg. (2 ) B. CROCE, La filosofia
di G. B. Vico, p. 286. (3 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, p. 289. Cfr.
VINCENZO Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, Bari, Laterza
Nella carriera sublime della 37 potè volgersi alla compilazione d'una legge -
base per la repubblica, e architetto un progetto. Il lavoro porta nell'edizione
che ho sott'occhio il seguente titolo: Pro getto di costituzione della
repubblica napoletana del 1799 per Mario Pagano, Giuseppe Logoteta e Giuseppe
Cestari (1 ), ed è diviso in un Rapporto del Comitato di Legislazione al
Governo provvisorio, opera del Pagano, chè lo stile e tutto lo appalesa, e in
una Dichiarazione dei diritti e doveri dell'uomo, del cittadino, del popolo e
de' suoi rap presentanti, a stendere la quale fu certo maxima pars il celebre
autore dei Saggi politici. Per mezzo di Vincenzo Russo il Pagano dovette farne
pervenire una copia al Cuoco. Questi rispose coi Frammenti (2 ). di uno
scrittore. Potremmo a questo punto intraprendere una confutazione delle
operazioni del Tria, ma non lo facciamo, per chè la confutazione scaturisce da
tutto il nostro lavoro, e perchè già fatta da N. RUGGIERI, op. cit., p. 34 e
sgg. e da M. ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg., i quali non hanno nulla
tralasciato per lu meggiare storicamente la complessa figura del molisano. Noi
per conto nostro abbiamo insistito su questo punto per mettere in guardia il
lettore su certi atteggiamenti del Cuoco, che, certo in antitesi con
l'atteggiamento del tempo suo, occorre valutare da un punto di vista molto
elevato, quasi metastorico, come quello che spesso trascende l'èra sua per
incontrare nel passato e nell'avvenire la più vera essenza del popolo nostro. (1)
Seguo per la Costituzione del Pagano l'edizione nap. del Rapporto al cittadino
Carnot sulla catastrofe napoletana del 1799 per LOMONACO, con @enni sulla vita
del l'autore, note e aggiunte di MARIANO D'AYALA ed infine il Pro getto di
costituzione della repubblica napoletana del 1799 per MARIO PAGANO, LOGOTETA E
CESTARI, con note di LANZELLOTTI, Napoli, Tip. di M. Lombardi. (2) I Frammenti
si credono quasi certamente anteriori al Saggio, scritti quindi proprio durante
la rivoluzione, a meno che non si riesca a provare, il che non mi sembra facile,
che siano stati scritti col Saggio o del tutto dopo. Del resto ideal mente
vanno innanzi. N. RUGGIERI, op. cit., p. 17, li crede an ch'egli, scritti
durante il tempo della Partenopea: a pag. 132 della sua monografia conferma il
suo giudizio cronologico, e in nota dà notizie sulla bibliografia del Progetto
del Pagano, inedito fino al giorno, in cui il Cuoco stampa il Saggio con l'ap.
pendice dei Frammenti, pubblicato la prima volta a Napoli nel 1820 da Angelo
Lancellotti, seguito da 30 note, 10 sue, 20 38 La critica al progetto ci mostra
intero l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua lucida netta precisa opposizione
agli immortali ed astratti princípi. Ma prima due parole su Vincenzo Russo.
Potrebbe sembrare un puro caso che le lettere siano a lui indirizzate. Si dirà:
una grande ami cizia univa il Russo al Cuoco, amicizia d'antica data, in
trinsichezza fraterna; si dirà: il Russo ha fatto pervenire all'amico studioso
il Progetto di costituzione, ond' egli ne prenda visione per le sue ricerche,
quindi è naturale che a lui sia diretta la critica ideale della legge. Sì,
tutto ciò va bene, ma non bisogna dimenticare che proprio Vin cenzio Russo è il
rappresentante tipico dell'astratto rivo luzionarismo, di cui il nostro fa la
requisitoria, proprio il Russo il corifeo dell'estremismo che il Cuoco detesta (1
), proprio il Russo, il socialista che crede furto la proprietà che l'amico
invece pone base della nuova società e del nuovo ordinamento civile, come
diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere assumeranno un duplice valore, di
critica scientifica e giuridica, d'opposizione ad un si stema politico
culturale. Sono, ripeto, l'una contro l'altra due filosofie, due sistemi, il
sistema rivoluzionario, esu berante e fiducioso nel momentaneo trionfo
dell'idea, il sistema liberale moderato, più realistico, che solo nel tempo
lentamente spera di vedere sanzionata dalla storia la sua forza. Chi era Vincenzio
Russo? (2 ). Basta leggere i suoi Pen del Cuoco, ripubblicato con le sedicenti
note del Lancellotti nella cit. edizione napoletana del '61. ROMANO, op. cit.,
p. 22 e p. 62 e sgg. crede i Frammenti anteriori al Saggio. Lo stesso il CROCE,
La rivoluzione napoletana, p. 108. (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p.
108 e sgg., scrive a proposito del Russo e del suo estremismo: « Certo, anche
gli amici che gli volevano bene e l'avevano in grande stima per la sincerità e
nobiltà dei suoi convincimenti, come il suo compagno della prima giovinezza
Vincenzo Cuoco, non potevano appro vare la via senza uscita per la quale egli
si era messo ». (2 ) Su V. Russo vedi B. CROCE, La rivoluzione napoletana, pp.
85-112; nonchè G. DE RUGGIERO, Il pensiero politico meri dionale nei secoli
XVIII e XIX, Laterza ed., Bari, 1922, p. 120 e sgg., che ci offre una buona
analisi del pensiero del 39 sieri politici, sui quali lo stesso Cuoco esprime
nel Saggio un giudizio (1 ) un po' incolore, sebbene ne tra peli una critica,
per intendere il suo astrattismo. Rileg giamo, a proposito, le parole di
Benedetto Croce. Il suo sistema si fondava « sull'idea di una repubblica popo
lare, in cui ciascuno possederebbe un pezzo di terra da coltivare direttamente
e da trarne i mezzi di sussistenza. Non testamenti e non atti tra vivi, e
neanche succes E sioni legittime; alla morte del possessore la quota di lui
sarebbe tornata alla repubblica per una nuova di stribuzione. Gli uffici
esercitati dagli stessi cittadini agricoltori, epperò senza stipendio, altro
che i mezzi di sussistenza a coloro cui fosse tolto il tempo di lavorare
personalmente la terra; al qual uopo si sarebbero fatti leggieri prelevamenti
sulle quote dei coltivatori. L'in dustria, domestica e ridotta al puro
necessario; e il com mercio ridotto, del pari, a permuta di cose necessarie.
Nessun lusso di nessuna sorta; l'istruzione si sarebbe ristretta principalmente
alla morale repubblicana e ai princípi dell'agricoltura. Nessuna religione,
tranne forse « un tal quale vincolo di fratellanza nel centro di una idea
sublimamente tenebrosa »; e quindi, non classe sa cerdotale. Non grandi città:
una serie di piccoli villaggi costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni,
non più guerre, tranne quelle per liberare le nazioni oppresse o per respingere
tentativi di oppressione. Le nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi
formato, come termine ultimo, la « Società universale » (2 ). Era nel Russo,
come in molti rivoluzionari, special l'insigne martire del '99, specie nelle
sue derivazioni dal Leib nitz e dal Rousseau. Un sunto delle dottrine del Russo
ci of frono V. FIORINI e F. LEMMI. Il periodo napoleonico dal 1799 1 al 1815,
Milano, Vallardi, 8. d., p. 167 e sgg. (1 ) Il giudizio (Saggio, L, p. 209) è
il seguente: « La sua opera de Pensieri politici è una delle più forti che si
possano leggere. Egli ne preparava una seconda edizione, e l'avrebbe resa anche
migliore, rendendola più moderata ». In quel miglio ramento nella moderazione
sta tutto Cuoco ! (2 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. 40
mente meridionali, un misto curiosissimo di anticlerica lismo e di romanità, di
filosofia ellenica e di razionalismo moderno, di evangelicità e di naturalismo,
che univa insieme Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella e Tacito,
Platone e Saint- Just, un misto di fierezza spartana e di retorica petroliera,
di rigidità catoniana e di montatura civica. Ma se guardiamo il Russo e la sua
opera (1 ), non vi troveremo certo il gonfio anticlé ricalismo e le diatribe di
Francesco Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare il giovinetto
Manzoni, ma non potè incantare la posterità; troveremo, invece, contrasti,
contraddizioni, astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un regime di
vita e una aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto (2 ). Nella pre
fazione ai suoi Pensieri politici scrive: « Io non ho volta la mente nè alle
antiche repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste
legislazioni: ho consul tato nelle cose stesse la verità ». Quindi un desiderio
di analizzare l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra di essi fondare la sua
repubblica, mentre i bisogni stessi individualmente indeterminabili, concetti
economici in sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In fondo anche il Russo è un
astratto e non si distingue dai repubblicani, se non per ingegno, non certo per
diversità di metodo e di pratica politica. Basta rileggere i Pensieri e lo
studio del Croce per convincersi che i suoi concetti, democra tizzazione
sistematica, educazione repubblicana e sta tale, fraternità tra i popoli, sono
quelli della generalità, (1) La prima edizione dei Pensieri politici è
dell'anno 1798, allorquando il Russo, esule da Napoli, trovavasi a Roma, e fu
stampata per sottoscrizione:Pensieri politici diVINCENZIO Russo, napolitano,
Roma, presso il cittadino V. Poggioli, anno I della ri stabilita repubblica
Romana. L'opera fu ristampata in Milano tra il 1800 e il 1801 (Milano, anno IX,
Tip. Milanese in Strada nuova, n. 561 ); e poi ancora a Napoli nel 1861 (ed. a
cura del D'Ayala ) e nel 1894 (ed. a cura di B. Peluso con pref. di E. De
Marinis). Vedi a proposito B. CROCE, La rivoluzione napole tana, p. 98, p. 112.
(2) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 92 e sg. 33 civile. Aggiungiamo a
ciò quella sua ritrosia, quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo
detto, e comprende remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo della
sua critica. Ma la causa principale del suo atteg giamento negativo è sopra
tutto, innanzi tutto spirituale culturale. Che cosa è la rivoluzione per lui,
nutrito di studi con creti d'economia e di storia? La documentazione della
risposta sta in tutto il Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi
del movimento sovversivo, dovesse pensarla come si espresse in seguito,
altrimenti non si spiega in qual maniera egli abbia potuto in piena repub blica
scrivere i suoi Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al
Progetto di costituzione di Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio,
nella Lettera del l'autore a N.Q. scrive: « Come va il mondo ! Il re di Na poli
dichiara la guerra ai francesi ed è vinto; i francesi conquistano il di lui
regno e poi l'abbandonano; il re ritorna e dichiara delitto capitale l'aver
amata la patria mentre non apparteneva più a lui. Tutto ciò è avvenuto senza
che io vi avessi avuto la minima parte, senza che neanche lo avessi potuto
prevedere: ma tutto ciò ha fatto sì che io sia stato esiliato, che sia venuto
in Milano, dove, per certo, seguendo il corso ordinario della mia vita, non era
destinato a venire, e che quivi, per non aver altro che fare, sia diventato
autore. Tutto è concatenato nel mondo, diceva Panglos: possa tutto esserlo per
lo meglio ! » (1 ). Egli dichiara che nella rivoluzione tutto si i è svolto
senza che egli vi abbia avuto nessuna parte, senza che egli vi sia intervenuto.
L'affermazione è vera solo in quanto si sappia intenderla. Il Cuoco ha preso
parte agli avvenimenti politici del tempo, egli primo lo sa, e i nuovi studi lo
confermano, anche quando per prudenza tace con il fine di non compromettere
persone, che non vuol compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la
natura del suo lavoro, studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende
prevenire il giudizio della (1 ) V. Cuoco, Saggio storico] posterità sugli
avvenimenti, di cui è stato spettatore e di cui imprende la narrazione,
s'esprime diversamente. « Dichiaro che non sono addetto » scrive « ad alcun par
tito, a meno che la ragione e l'umanità non ne ab biano uno. Narro le vicende
della mia patria; racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de quali sono
stato io stesso un giorno non ultima parte; scrivo pei miei con cittadini, che
non debbo, che non posso, che non voglio ingannare » (1 ). Dunque di fatto
l'autore stesso accetta la partecipa zione. Che vuol dire? Cuoco sin
dall'inizio della rivo luzione ha la coscienza della passività di questa, in
quanto è opera d'una classe colta, che ha suoi bisogni speciali, più
intellettuali che materiali, e non opera del popolo, il vero agente delle
grandi rivoluzioni; ha la coscienza della fatalità del movimento repubblicano,
in quanto non spontaneo, scaturito invece da contraccolpi internazionali, che
nessuno può evitare e dirigere; ma nello stesso tempo egli non può sottrarsi al
terribile vortice che lo attrae, perchè la sua educazione e in parte la sua
cultura sono quelle della classe dirigente, perchè conosce la nobiltà dei
propositi di questa, perchè sa, e questo sovra ogni altra cosa è decisivo,
l'ignominia che da dieci anni in qua ha guidato i Borboni e i loro fa voriti,
incapacità, cupidigia, sfrenatezza. La rivoluzione per Vincenzo è davvero un
fatale vortice. La parola « vortice » per caratterizzare la rivoluzione ricorre
spesso ne'suoi scritti. Egli non ne condivide le idee, ne critica la genesi, ne
prevede la triste fine, ciò non per tanto non può sottrarsene perchè i suoi
bisogni, la sua classe, la sua posizione sociale infallibilmente lo traggono ad
una par tecipazione, che noi possiamo, come la rivoluzione stessa, chiamare
passiva (2 ). Nè basta ! Egli vede che la rivo luzione di Napoli è più francese
che italiana; che gli uomini, che sono alla testa della cosa pubblica, sono più
(1 ) V. Cuoco, Saggio storico, I, p. 16. (2 ) Oltre i brani citati cfr. Saggio
storico, VIII, p. 47; XV, p. 84; XVI, p. 90. 35 illuministi che non i pensatori
francesi, che s ' astrag gono dalla realtà e costruiscono sull'acqua, alla
ricerca d'un bene che dovrebbe provenire dalla pura ragione, senza nessi con i
bisogni concreti delle masse, senza legami con l'immanente vita pubblica, che
vuole essere soddisfatta con provvedimenti specifici e non con le pa role.
Questo il Cuoco nota, e doveva aver già notato da un pezzo: fin dai primi
processi del '94 il giovine Vin cenzo ha dovuto notare l'astrattismo
repubblicano, con sacrato del resto dal sangue de' martiri, e meditarlo
aspramente, molto aspramente, se poi darà nel Saggio giudizi rudi contro i
fanciulli e gli studenti infrancio sati (1 ). Queste poche osservazioni bastano
a spiegarci il contegno di Vincenzo Cuoco nei grandi eventi del 1799, contegno
di critica, dunque, dovuto ad un diverso tem peramento culturale, ad una vera
antitesi o incompati bilità d'educazione e di metodo tra il nostro e i suoi
compatrioti, non già, come qualche storico vuole (2), ad un vero e proprio
antifrancesismo, antifrancesismo, che, se potè essere difesa de costumi e del
pensiero italiano contro la moda straniera, non fu mai astio contro la nobile
nazione gallica, nella quale anzi l'autore degli articoli del Giornale
italiano, di cui parleremo a lungo, ebbe grande fiducia per l'avvenire d'Italia.
Questo può spiegarci la natura dei Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, che
ci appaiono non l'appendice, come giusta mente nota il Romano, ma i precedenti
solidi e sobri del Saggio storico (3 ). (1 ) M. Rosi, op. cit., v. I, p. 206 e
sgg.; B. CROCE, La rivo luzione napoletana, pp. 194-230, ove troverai
abbondanti notizie sui primi movimenti sovvertitori a Napoli, sui primi
processi, sulla morte eroica di De Deo, Vitaliani e Galiani. (2 ) P. HAZARD,
op. cit., 219 e sgg. (3 ) Prima di andare innanzi bisogna pur dire poche parole
intorno ad una questione cuochiana. Si tratta d'un argomento già dibattuto e
risolto, ma su cui mette conto indugiarsi, poi che la figura del nostro dal
contrasto s'avvantaggia e non è menomata. U. Tria in una sua nota, Vincenzo
Cuoco a propo sito di due sue lettere inedite, pubblicata in Rassegna critica
della 36 Dopo che il Governo provvisorio di Napoli fu diviso in due
commissioni, la legislativa e l'esecutiva, la prima letteratura italiana, v.
VI, (1901 ), p. 193 e sgg., getta gravi ac cuse sulla figura morale del
molisano. Le lettere, sulle quali il Tria basa la sua requisitoria contro il
nostro autore, sono state alui date dal signor L.A.Trotta di Toro (Molise). «
In tutte e due le lettere », scrive il Tria « il Cuoco di scorre liberamente
con il fratello (Michele Antonio] di sè stesso, dei suoi interessi, dei
progetti, delle speranze sue. Evidente mente egli non si angustiava del suo
avvenire, non perchè le difficoltà incontrate aMilano fossero moltissime, ma,
anelando egli a raggiungere una condizione migliore e più comoda degli indugi
si infastidiva, e per sè stesso e per il vantaggio dei suoi, che sempre aveva
nel cuore. Nè gli studi sulla storia degli an tichi italiani, che proprio in
quegli anni andava facendo, nè le vicende non liete della patria sua oppressa,
nè il rumore degli inauditi successi di Napoleone lo distoglievano dal suo
particu lare, siccome avrebbe detto molto esattamente il Guicciardini ! », Cosi
il Tria: e tutto ciò, perchè il povero Cuoco, pur tra le angu stie economiche
dell'esilio, rivolge il pensiero ai suoi cari ! Ma fin qui poco male, se il
Tria, basandosi su alcune frasi dello scri vente, non avesse voluto gravar la
mano anche sull'uomo poli tico. Vediamo prima di tutto le frasi incriminate. In
quel tempo, siamo tra il 1871 e il 1802, il governo borbonico era disposto a
concedere al Cuoco il perdono, ma egli lo rifiutò. « A che ritor nerei io in
patria scrive l'esule al fratello. —- Se io fussi reo, accetterei un perdono:
ma un uomo che non ha avuto la viltà di far un delitto, un uomo che ha potuto
esser condannato solo perchè si trovò strascinato in un vortice che egli
odiava, ma a cui era im possibile resistere; un uomo in cui l' amor della
patria, della pace, della virtù non sono parole, un tale uomo non deve cer
tamente esser contento di un perdono che gli lascia sempre l'apparenza di reo ».
Alte sublimi parole, che non possiamo non raffrontare con quelle non meno alte
e sublimi, con cui l'Ali ghieri rispondeva all'amico fiorentino, che gli
annunciava l'umi liante grazia del sospirato ritorno in patria. Ebbene in esse
il Tria vede un indice di disdegno verso la rivoluzione, dal Cuoco designata
col nome di vortice. « Le parole sue» commenta, « hanno un certo sapore di
pentimento e di ritrattazione, che non gli fanno onore: ora egli sconfessa gli
atti e gli scatti del cittadino Cuoco, che pure, durante la Repubblica, s'era
reso benemerito della patria; si dice un fuorviato, dimentica i compagni di
lotta, di patimenti, li rinnega », Abbiamo citato abbondevolmente dal Tria,
tanto più per di mostrare come ci si discosti dal vero, quando, sedotti dalle
ap parenze ci si abbandona ad esse, senza penetrare nello spirito 45 senso che
le costituzioni siano una formazione assoluta mente irriflessa e popolaresca,
che il giurista osserva senza intervenire, passivo, ma nel senso che non
possano prescindere, sia pure quando sono opera di studio perso nale e di
ricerca dotta, dalla concreta realtà della nazione. La faccenda si chiarifica.
La Volkseele dello Schelling, la coscienza giuridica popolare del Savigny
diventano, sono nel Cuoco, più concreto e positivo, i bisogni del po polo,
bisogni economici e materiali, religiosi e morali, qualcosa di più tangibile. «
I nostri filosofi, » scrive « sono spesso illusi dall'idea di nu ottimo, che è
il peggior nemico del bene. Se si volesse seguire i loro consigli, il mondo,
per far sempre meglio, finirebbe col non far nulla ». « L'ottimo non è fatto
per l'uomo.... » (1 ). Costoro, ai quali accenna il critico, sono i
rivoluzionari astratti, che credono ad un universale, che non è, e vanno tanto
alto da perdere ogni contatto col mondo. Una costituzione non può scaturire dal
cervello di un uomo, come Pallade dal cervello di Giove, armata e folgorante;
deve sorgere dopo mature riflessioni, sulla natura della nazione deve avere una
base. « Questa base deve poggiare sul carattere della nazione, deve precedere
la costituzione; e mentre con questa si determina il modo in cui una nazione
debba esercitare la sua sovra nità, vi debbono esser molte cose più sacre della
costi tuzione istessa, che il sovrano, qualunque sia, non deve poter alterare »
(2 ). Nessuno può « törre al popolo tutti i suoi costumi, tutte le sue
opinioni, tutti gli usi suoi, che io chiamerei base di una costituzione » (3 ).
Il Cuoco, se osserviamo bene la questione, distingue due momenti: una
elaborazione incosciente del popolo che crea istituti giuridici, per
consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza; una elaborazione cosciente
e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel popolo era mera pratica senza
norma. Questi due momenti si compene (1 ) Framm. I, p. 219. (2 ) Framm. III, p.
245. (3 ) Framm. III, p. 245. 46 trano e sono indispensabili. La consuetudine,
senza la legge, può divenire anarchia, dominio della volontà parti colare. La
legge, che astragga dalla volontà dei singoli, è mera parola, generalità senza
significato. Siamo lon tani dallo storicismo tedesco dell'Hugo e del Savigny.
La base, alla quale accenniamo, è d'una grande com plessità. Il
costituzionalista, in particolare il legislatore, deve avere riguardo non solo
ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni economici, ma anche ai pregiudizi,
ai difetti, ai mali del popolo. La vita non è ottima, nè buona: è male e dolore.
Gli uomini sono buoni e cattivi, generosi ed egoisti, eroi e birbanti. Il più
grave pericolo è che il legislatore, più filosofo che uomo politico, alla
ricerca dell'eterno dimentichi il transeunte, alla ricerca dell'ottimo
dimentichi il buono, creda non esservi il male. Le costituzioni debbono parlare
alla fantasia e ai sensi dei popoli, avere una certa solennità, quasi un ele
mento sacro, perchè « dopo le sue opinioni ed i suoi costumi, il popolo nulla
ha di più caro che le apparenze della regolarità e dell'ordine » (1 ). È un
consiglio di este riorità. Poco importa ! Le plebi amano l'esteriorità. «
Quelle leggi sono più rispettate dal popolo, che con mag giori solennità
esterne colpiscono i sensi » (2 ). Dunque, ammesso che un legislatore possa
dare una costituzione, interpretando più che sia possibile le esi genze di una
nazione, come potrà e dovrà egli compor tarsi?.Un popolo ha dei costumi. « Non
vi è nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale non abbia de costumi,
che convien conservare; non vi è governo quanto si voglia dispotico, il quale
non abbia molte parti convenienti ad un governo libero. Ogni popolo che oggi è
schiavo fu libero una volta.... Quanto più pesante sarà la schiavitù di un
popolo, tanto più questi avanzi degli altri tempi gli saran cari; perchè non
mai tanto, quanto tra le avversità, ci son care le memorie dei tempi felici.
Quanto più il governo che voi distruggete è stato (1 ) Framm. III, p. 246. (2)
Framm. III, p. 246. 47 barbaro, tanto più numerosi avanzi voi rinvenite di an
tichi costumi; perchè il governo, urtando troppo violen temente contro il
popolo, l'ha quasi costretto a trince rarsi tra le sue antiche istituzioni, nè
ha rinvenuto nei nuovi avvenimenti ragione di seguirli e di abbandonare ed
obbliare gli antichi » (1 ). Nello sviluppo storico nulla si perde
completamente: l'evoluzione vitale degli uomini e delle istituzioni loro è
trasformazione e non distruzione, onde sotto la scorza della modernità si
possono ritrovare i nuclei ancor verdi dell'antico. La tradizione non è un
culto senza dèi, pro prio de' letterati e de ’ filosofi, è la vita della
nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi che rappresenta la sua
continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore, come colui che è più
vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le manifestazioni più svariate
della loro attività privata e pubblica. « Questi avanzi di costumi e governo di
altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano, sono preziosi per un
legislatore saggio, e debbono formar la base dei suoi ordini nuovi. Il popolo
conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli viene dai suoi mag giori;
rispetto che produce talora qualche male, e spesso grandissimi beni. Ma coloro,
che vorrebbero distruggerlo, non si avvedono che distruggerebbero in tal modo
ogni fondamento di giustizia ed ogni principio d'ordine so ciale? Noi non
possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori antichi facevano: facciamo
almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli son sempre i loro antichi.
Un popolo, il quale cangiasse la sua costituzione per solo amor di novità, non
potrebbe far altro di meglio, che darsi una costituzione all'anno. Ma, per
buona sorte, un tal popolo non esiste che nella fantasia di qualche filo sofo »
(2 ). Un legislatore quindi può realmente fare del bene alla nazione, ma deve
seguire la natura, cioè la na zione stessa nel suo spirito, e trarre da essa il
sistema costituzionale, non il sistema costituzionale da princípi (1 ) Framm. I,
p. 220 e sg. (2 ) Framm. I, p. 221. 48 che non sono nella natura, ma nella
testa dei filosofi. « Tutto è perduto quando un legislatore misura la infi nita
estensione della natura colle piccole dimensioni della sua testa, e che, non
conoscendo se non le sue idee, gira per la terra come un empirico col suo
segreto, col quale pretende medicar tutt'i mali » (1 ). Vincenzo Cuoco ci si
presenta come un tradizionalista e un moderato. Non bisogna distruggere per
distruggere, perchè si può perdere il buono per un problematicissimo ottimo;
non bisogna atterrare, perchè non sempre si può ricostruire; non bisogna aprire
un novus ordo, perchè i novi ordines dei filosofi sono in cielo e non in terra.
Bi sogna costruire su quel che già è, edificare sulle fonda menta della storia,
che non soffre soluzioni di continuità, riformare e non distruggere. « Io non
credo la costitu zione consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e
del cittadino » (2 ). Essa è qualcosa di più profondo: è il popolo, il quale da
sè stesso trae le norme regolatrici della sua esistenza, della sua attività,
della felicità. « E chi non sa i suoi diritti? Ma gran parte degli uomini li
cede per timore; grandissima li vende per interesse: la costituzione è il modo
di far sì che l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a
venderli, nè costretto a cederli, nè spinto ad abusarne » (3). Ciò è possibile
solo in quanto la costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella
umana felicità, alla quale abbiamo ac cennato. Le rivoluzioni nascono da un
malessere economico generalizzato. Le costituzioni post-rivoluzionarie debbono
ristabilire l'equilibrio, il benessere, l'armonia, la vita pa cifica ed
operosa. Per fare ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della nazione,
i suoi costumi, il suo carattere. Ecco perchè Cuoco ci dice che, se egli fosse
invitato a dar leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e conoscerlo; ecco
perchè Cuoco ci dice che egli (1 ) Framm. I, p. 221. (2 ) Framm. II, p. 233. (3
) Framm. II, p. 233. 41 forse più accentuati da una dinamica naturale d'ora
tore, da un estremismo fervente, che voleva, credo, far dimenticare in una vita
intemeratamente vissuta un istante di antica debolezza (1). Queste esagerazioni
non sono proprie del tempera mento meridionale, ed in genere italiano. Ma, come
bene osserva il Romano, calcando un giudizio di G. Zito (2 ), « mentre
all'inizio del movimento, i nostri alle teorie nuove davano di proprio la
misura e la calma, in seguito invece l'intrepidezza deduttiva propria del
tempera mento francese, non trovò più freni neppur da noi, e sovente le
dottrine non furono sottoposte a tentativi di analisi e di giudizio » (3 ). Ed
è proprio così ! Anche Mario Pagano, mente geniale e solida, è travolto dalla
corrente e segue l'andazzo. Il suo vichismo non è coerente a sè stesso, e
risente gli influssi esterni, e, se pure gli studi suoi non sono pura
speculazione metafisica, « giovevole se mai nella scuola e presso che inutile,
se non pure dan nosa, nell'attrito reale del governo di uno Stato » (+), è
certo però che il grande autore del Processo criminale si mostrò insufficiente
all'ardua opera della ricostru zione. Dare la costituzione ad un popolo è
l'opera più grande che un uomo possa a sè stesso assegnare, opera da far
tremare le vene e i polsi non solo ai legislatori di oggi, ma a menti divine,
come quelle di Platone e di Aristo tele. La costituzione non può essere una
sovrastruttura, che i dirigenti impongano ad un popolo, perchè le costi tuzioni
non si dànno ab externo, ma si formano nelle coscienze prima che sulla carta,
e, se pure si impongono, non si reggono sulle armi e sui fucili. Il popolo è
una realtà concreta viva palpitante, ne' suoi molteplici bi sogni, ne ' suoi
desiderî, ne' suoi costumi, ne' suoi pre (1 ) B. CROCE, La rivoluzione
napoletana, p. 87. (2 ) G. Zito, Vita cd opere di Mario Pagano, Potenza, Tip.
Garramone, 1901, passim. (3 ) M. ROMANO, op. cit., p. 61. (4 ) ROMANO, op. cit.,
p. 63. Il giudizio sull'opera del Pa gano è eccessivo e non può essere
senz'altro condiviso da noi. 42 giudizi. Egli non sopporterà mai una legge, che
non intende la sua intima vita e il suo benessere, che tra scenda la sua
natura. « Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni
individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale, se
tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia mancante di
proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo difforme cui
sieda bene; ma, se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorchè essa
sia misurata sulla statua modellaria di Poli clete, troverai sempre che il
maggior numero è più alto, più basso, più secco, più grasso, e non potrà far
uso della tua veste » (1 ). Non esiste un ottimo costituzionale, esi ste un
buono relativo alla vita delle singole genti. « Le costituzioni si debbono fare
per gli uomini quali sono e quali eternamente saranno, pieni di vizi, pieni di
er rori; imperocchè tanto è credibile che essi voglian de porre que' loro
costumi, che io reputo una seconda natura, per seguire le nostre istituzioni,
che io credo arbitrarie e variabili, quanto sarebbe ragionevole un calzolaio
che pretendesse accorciare il piede di colui cui avesse fatta corta una scarpa
» (2 ). I due raffronti con la veste e la scarpa, tratti dal mondo fisico, sono
d'una evidenza mirabile. Il legislatore deve intendere il popolo, e costruire
sulla base dei bisogni del popolo. Il popolo non parla. Ma per lui parla tutto,
costumi, usanze, religione, pregiudizi, vizi. Le costituzioni non si fanno nei
gabinetti e negli studî, nelle scuole e nelle accademie, nascono da sè, sotto
l'impulso di concrete esigenze dell'anima collettiva, o più vichianamente della
collettività, e il legislatore non può essere che un interprete di essa
collettività, della (1 ) Seguo il già citato testo del NICOLINI, edito dal
Laterza di Bari, che come tutte le altre ed. cuochiane, porta i Fram menti di
lettere a V. Russo in appendice al Saggio. Per le ci tazioni basterà quindi la
sigla Framm. seguita dal numero d’or dine I o II ecc., e dalla pagina
dell'edizione barese, Framm. I, p. 218. (2 ) Framm. I, p. 219. 43 sono sua
coscienza, non già il saggio che dal suo cielo di sa pienza impone norme e
nomi. L'obietto delle costituzioni sono gli uomini, e gli uomini sono pieni di
vizi, pieni di errori. Ora, chi si propone di legiferare deve prendere gli uomini,
come sono, e non andare alla ricerca di un ottimo, che in na tura non è,
contentarsi di rendere felici gli uomini, e ren dere felici gli uomini si può
solo, soddisfacendo alla loro natura, che è un misto di buono e di cattivo,
d'eticità e di pregiudizi, di religione e di ferocia. Siamo, come ognun vede,
penetrati nel pieno della critica cuochiana, ma la mia mente, riflettendo su
queste acutissime osservazioni, non può non instaurare un pa ragone tra il
relativismo giuridico del nostro e lo stori cismo germanico di Gustavo Hugo e
di Federico Carlo Savigny. È curioso ! Negli stessi anni, nell' infierire della
rivoluzione francese, o quando ancor fresche ne le conseguenze, con basi,
cultura diametralmente diverse, con intendimenti presso che uguali, scrivono in
Italia il Cuoco, in Inghilterra il Burke, le di cui Riflessioni sulla
rivoluzione francese sono del 1790, in Germania l'Hugo che nello stesso anno
1790 formula in un suo libro quei prin cípi, che poi il Savigny, nel 1814,
nella polemica col Thibaut, svilupperà nell'operetta: Della vocazione del
nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza. Ma tra il Savigny e
l'illuminismo rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero germanico,
tra il Cuoco e la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli scrive i
Frammenti nella rivoluzione stessa, quando già i san fedisti di Ruffo sono alle
porte della città. Notiamo però come un certo parallelo c'è: il nostro si
ricollega al Vico, tradizione perenne d'italianità; il Savigny parla di una
coscienza giuridica popolare, che non può non tro vare la sua origine nella
filosofia idealista tedesca, Schel ling e Hegel, ai quali il grande giurista si
ricollegano. Guardiamo brevemente la questione. Col Cuoco siamo da un punto di
vista filosofico giuridico più innanzi, ma il parallelismo non manca. Che cosa
è il diritto per il Sa vigny che combatte l'unificazione legislativa e la codi
44 ficazione proposta dal Thibaut? Non certo un quid astratto, vivo nel solo
pensiero del legislatore. Il diritto ha úna vita sua propria nella vita d'ogni
giorno, che non è che consuetudine irriflessa e pratica comune. Ricor diamo lo
Schelling: il principio dello spirito collettivo, principio animatore in
perpetuo divenire, si sviluppa dalla sua filosofia, dall'evoluzione stessa
della natura nell'infinita sua produttività, concepita non più come mero
oggetto, ma come soggetto, nucleo di sviluppo di tutto il pensiero germanico,
che dal dualismo di Kant risolve il problema, attraverso Schelling, in Hegel,
ul tima conseguenza della posizione kantiana. Il concetto evolutivo della
natura trascorre nel diritto. Il diritto è la manifestazione d'una coscienza
giuridica che è nel popolo, il quale popolo ha una sua anima (la Volkseele
dello Schelling ), che determina la morale, l'arte, il lin guaggio, e così pure
il diritto e la costituzione politica. Quel che nello Schelling è generalmente
accennato all'ori gine della costituzione e degli ordini civili, nel Savigny è
applicato ad una questione concreta: se convenga im mobilizzare il diritto,
elaborazione istintiva e irriflessa, viva nella consuetudine, in un sistema di
codici. Donde una illazione: la costituzione, legge fondamentale, non può che
essere la risultante d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il
legislatore può cogliere ed inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come
il grammatico studia la lingua già formata e non crea la lingua. Il Cuoco più
concretamente non arriva alle conclusioni un po' anarchiche del Savigny, il
quale in reazione ad una filosofia che pretendeva di sistematizzare e creare
tutto a fil di logica, si appalesa ostile ad ogni costituzione scritta, come ad
ogni codificazione; il Cuoco ammette in vece che un legislatore possa compilare
un progetto di costituzione. Ma come? Il legislatore deve interpretare i
bisogni del popolo, alla felicità del quale vuol provve dere. Il principio base
è uno. « Le costituzioni durevoli sono quelle che il popolo si forma da sè » (1
). Ciò non nel (1 ) Framm. I, p. 218, 33 civile. Aggiungiamo a ciò quella sua
ritrosia, quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo detto, e comprende
remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo e della sua critica. Ma la
causà principale del suo atteg giamento negativo è sopra tutto, innanzi tutto
spirituale culturale. Che cosa è la rivoluzione per lui, nutrito di studi con
creti d'economia e di storia? La documentazione della risposta sta in tutto il
Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi del movimento sovversivo,
dovesse pensarla come si espresse in seguito, altrimenti non si spiega in qual
maniera egli abbia potuto in piena repub blica scrivere i suoi Frammenti di
lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al Progetto di costituzione di
Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio, nella Lettera del l'autore a
N.Q. scrive: « Come va il mondo ! Il re di Na poli dichiara la guerra ai
francesi ed è vinto; i francesi conquistano il di lui regno e poi l'abbandonano;
il re ritorna e dichiara delitto capitale l’aver amata la patria mentre non
apparteneva più a lui. Tutto ciò è avvenuto senza che io vi avessi avuto la
minima parte, senza che neanche lo avessi potuto prevedere: ma tutto ciò ha
fatto sì che io sia stato esiliato, che sia venuto in Milano, dove, per certo,
seguendo il corso ordinario della mia vita, non era destinato a venire, e che
quivi, per non aver altro che fare, sia diventato autore. Tutto è concatenato
nel mondo, diceva Panglos: possa tutto esserlo per lo meglio ! » (1 ). Egli
dichiara che nella rivoluzione tutto si è svolto senza che egli vi abbia avuto
nessuna parte, senza che egli vi sia intervenuto. L'affermazione è vera solo in
quanto si sappia intenderla. Il Cuoco ha preso parte agli avvenimenti politici
del tempo, egli primo lo sa, e i nuovi studi lo confermano, anche quando per
prudenza tace con il fine di non compromettere persone, che non vuol
compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la natura del suo lavoro,
studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende prevenire il giudizio
della (1 ) V. Cuoco, Saggio storico] posterità sugli avvenimenti, di cui è
stato spettatore e di cui imprende la narrazione, s'esprime diversamente. «
Dichiaro che non sono addetto » scrive « ad alcun par tito, a meno che la
ragione e l'umanità non ne ab biano uno. Narro le vicende della mia patria;
racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de'quali sono stato io stesso un
giorno non ultima parte; scrivo pei miei con cittadini, che non debbo, che non
posso, che non voglio ingannare » (1 ). Dunque di fatto l'autore stesso accetta
la partecipa zione. Che vuol dire? Cuoco sin dall'inizio della rivo luzione ha
la coscienza della passività di questa, in quanto è opera d'una classe colta,
che ha suoi bisogni speciali, più intellettuali che materiali, e non opera del
popolo, il vero agente delle grandi rivoluzioni; ha la coscienza della fatalità
del movimento repubblicano, in quanto non spontaneo, scaturito invece da
contraccolpi internazionali, che nessuno può evitare e dirigere; ma nello
stesso tempo egli non può sottrarsi al terribile vortice che lo attrae, perchè
la sua educazione e in parte la sua cultura sono quelle della classe dirigente,
perchè conosce la nobiltà dei propositi di questa, perchè sa, e questo sovra
ogni altra cosa è decisivo, l'ignominia che da dieci anni in qua ha guidato i
Borboni e i loro fa voriti, incapacità, cupidigia, sfrenatezza. La rivoluzione
per Vincenzo è davvero un fatale vortice. La parola « vortice » per
caratterizzare la rivoluzione ricorre spesso ne' suoi scritti. Egli non ne
condivide le idee, ne critica la genesi, ne prevede la triste fine, ciò non per
tanto non può sottrarsene perchè i suoi bisogni, la sua classe, la sua
posizione sociale infallibilmente lo traggono ad una par tecipazione, che noi
possiamo, come la rivoluzione stessa, chiamare passiva (2 ). Nè basta ! Egli
vede che la rivo luzione di Napoli è più francese che italiana; che gli uomini,
che sono alla testa della cosa pubblica, sono più (1 ) V. Cuoco, Saggio storico,
I, p. 16. (2 ) Oltre i brani citati cfr. Saggio storico, VIII, p. 47; XV, p. 84;
XVI, p. 90. 35 illuministi che non i pensatori francesi, che s ’ astrag gono
dalla realtà e costruiscono sull’acqua, alla ricerca d'un bene che dovrebbe
provenire dalla pura ragione, senza nessi con i bisogni concreti delle masse,
senza legami con l'immanente vita pubblica, che vuole essere soddisfatta con
provvedimenti specifici e non con le pa role. Questo il Cuoco nota, e doveva
aver già notato da un pezzo: fin dai primi processi del '94 il giovine Vin cenzo
ha dovuto notare l'astrattismo repubblicano, con sacrato del resto dal sangue
de' martiri, e meditarlo aspramente, molto aspramente, se poi darà nel Saggio
giudizi rudi contro i fanciulli e gli studenti infrancio sati (1 ). Queste
poche osservazioni bastano a spiegarci il contegno di Vincenzo Cuoco nei grandi
eventi del 1799, contegno di critica, dunque, dovuto ad un diverso tem
peramento culturale, ad una vera antitesi o incompati bilità d'educazione e di
metodo tra il nostro e i suoi compatrioti, non già, come qualche storico vuole (2),
ad un vero e proprio antifrancesismo, antifrancesismo, che, se potè essere
difesa de costumi e del pensiero italiano contro la moda straniera, non fu mai
astio contro la nobile nazione gallica, nella quale anzi l'autore degli
articoli del Giornale italiano, di cui parleremo a lungo, ebbe grande fiducia
per l'avvenire d'Italia. Questo può spiegarci la natura dei Frammenti di
lettere a Vincenzio Russo, che ci appaiono non l'appendice, come giusta mente
nota il Romano, ma i precedenti solidi e sobri del Saggio storico (3 ). (1 ) M.
Rosi, op. cit., v. I, p. 206 e sgg.; B. CROCE, La rivo luzione napoletana, pp.
194-230, ove troverai abbondanti notizie sui primi movimenti sovvertitori a
Napoli, sui primi processi, sulla morte eroica di De Deo, Vitaliani e Galiani. (2
) P. HAZARD, op. cit., 219 e sgg. (3) Prima di andare innanzi bisogna pur dire
poche parole intorno ad una questione cuochiana. Si tratta d'un argomento già
dibattuto e risolto, ma su cui mette conto indugiarsi, poi che la figura del
nostro dal contrasto s’avvantaggia e non è menomata. U. Tria in una sua nota,
Vincenzo Cuoco a propo sito di due sue lettere inedite, pubblicata in Rassegna
critica della 36 Dopo che il Governo provvisorio di Napoli fu diviso in due
commissioni, la legislativa e l'esecutiva, la prima letteratura italiana, v.
VI, (1901), p. 193 e sgg., getta gravi ac cuse sulla figura morale del
molisano. Le lettere, sulle quali il Tria basala sua requisitoria contro il
nostro autore, sono state alui date dal signor L. A. Trotta di Toro (Molise). «
In tutte e due le lettere », scrive il Tria « il Cuoco di scorre liberamente
con il fratello [Michele Antonio] di sè stesso, dei suoi interessi, dei
progetti, delle speranze sue. Evidente mente egli non si angustiava del suo
avvenire, non perchè le difficoltà incontrate aMilano fossero moltissime, ma,
anelando egli a raggiungere una condizione migliore e più comoda degli indugi
si infastidiva,e per sè stesso e per il vantaggio dei suoi, che sempre aveva
nel cuore. Nè gli studi sulla storia degli an tichi italiani, che proprio in
quegli anni andava facendo, nè le vicende non liete della patria sua oppressa,
nè il rumore degli inauditi successi di Napoleone lo distoglievano dal suo
particu, lare, siccome avrebbe detto molto esattamente il Guicciardini ! ».
Cosi il Tria: e tutto ciò, perchè il povero Cuoco, pur tra le angu stie
economiche dell'esilio, rivolge il pensiero ai suoi cari ! Ma fin qui poco
male, se il Tria, basandosi su alcune frasi dello scri. vente, non avesse
voluto gravar la mano anche sull’uomo poli tico. Vediamo prima di tutto le
frasi incriminate. In quel tempo, siamo tra il 1871 e il 1802, il governo
borbonico era disposto a concedere al Cuoco il perdono, ma egli lo rifiutò. « A
che ritor nerei io in patria — scrive l’esule al fratello. - Se io fussi reo,
accetterei un perdono: ma un uomo che non ha avuto la viltà di far un delitto,
un uomo che ha potuto esser condannato solo perchè si trovò strascinato in un
vortice che egli odiava, ma a cui era im possibile resistere; un uomo in cui l
' amor della patria, della pace, della virtù non sono parole, un tale uomo non
deve cer tamente esser contento di un perdono che gli lascia sempre l'apparenza
di reo ». Alte sublimi parole, che non possiamo non raffrontare con quelle non
meno alte e sublimi, con cui l'Ali ghieri rispondeva all'amico fiorentino, che
gli annunciava l'umi liante grazia del sospirato ritorno in patria. Ebbene in
esse il Tria vede un indice di disdegno verso la rivoluzione, dal Cuoco
designata col nome di vortice. « Le parole sue» commenta, « hanno un certo
sapore di pentimento e di ritrattazione, che non gli fanno onore: ora egli
sconfessa gli atti e gli scatti del cittadino Cuoco, che pure, durante la
Repubblica, s'era reso benemerito della patria; si dice un fuorviato, dimentica
i compagni di lotta, di patimenti, li rinnega ». Abbiamo citato abbondevolmente
dal Tria, tanto più per di mostrare come ci si discosti dal vero, quando,
sedotti dalle ap parenze ci si abbandona ad esse, senza penetrare nello spirito
37 potè volgersi alla compilazione d’una legge- base per la repubblica, e
architetto un progetto. Il lavoro porta nell'edizione che ho sott'occhio il
seguente titolo: Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799
per Mario Pagano, Giuseppe Logoteta e Giuseppe Cestari (1 ), ed è diviso in un
Rapporto del Comitato di Legislazione al Governo provvisorio, opera del Pagano,
chè lo stile e tutto lo appalesa, e in una Dichiarazione dei diritti e doveri
dell'uomo, del cittadino, del popolo e de' suoi rap presentanti, a stendere la
quale fu certo maxima pars il celebre autore dei Saggi politici. Per mezzo di
Vincenzo Russo il Pagano dovette farne pervenire una copia al Cuoco. Questi
rispose coi Frammenti (2 ). di uno scrittore. Potremmo a questo punto
intraprendere una confutazione delle operazioni del Tria, ma non lo facciamo,
per chè la confutazione scaturisce da tutto il nostro lavoro,e perchè già fatta
da N. RUGGIERI, op. cit., p. 34 e sgg. e da M. ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg.,
i quali non hanno nulla tralasciato per lu meggiare storicamente la complessa
figura del molisano. Noi perconto nostro abbiamo insistito su questo punto per
mettere in guardia il lettore su certi atteggiamenti del Cuoco, che, certo in
antitesi con l'atteggiamento del tempo suo, occorre valutare da un punto di
vista molto elevato, quasi metastorico, come quello che spesso trascende l'èra
sua per incontrare nel passato e nell'avvenire la più vera essenza del popolo
nostro. (1 ) Seguo per la Costituzione del Pagano l'edizione nap. del 1861,
Rapporto al cittadino Carnot sulla catastrofe napoletana del 1799 per FRANCESCO
LOMONACO, con cenni sulla vita del l'autore, note e aggiunte di MARIANO D'AYALA
ed infine il Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799 per
PAGANO, LOGOTETA e CESTARI, con note di LANZELLOTTI, Napoli, Tip. di M.
Lombardi. (2 ) I Frammenti si credono quasi certamente anteriori al Saggio,
scritti quindi proprio durante la rivoluzione, a meno che non si riesca a
provare, il che non mi sembra facile, che siano stati scritti col Saggio o del
tutto dopo. Del resto ideal mente vanno innanzi. N. RUGGIERI, op. cit., p. 17,
li crede an ch'egli, scritti durante il tempo della Partenopea: a pag. 132
della sua monografia conferma il suo giudizio cronologico, in nota dà notizie
sulla bibliografia del Progetto del Pagano, inedito fino al giorno, in cui il
Cuoco stampa il Saggio con l'ap. pendice dei Frammenti, pubblicato la prima
volta a Napoli nel 1820 da Angelo Lancellotti, seguito da 30 note, 10 sue, 20
38 La critica al progetto ci mostra intero l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua
lucida netta precisa opposizione agli immortali ed astratti princípi. Ma prima
due parole su Vincenzio Russo. Potrebbe sembrare un puro caso che le lettere
siano a lui indirizzate. Si dirà: una grande ami cizia univa il Russo al Cuoco,
amicizia d'antica data, in trinsichezza fraterna; si dirà: il Russo ha fatto
pervenire all'amico studioso il Progetto di costituzione, ond' egli ne prenda
visione per le sue ricerche, quindi è naturale che a lui sia diretta la critica
ideale della legge. Sì, tutto ciò va bene, ma non bisogna dimenticare che proprio
Vin cenzio Russo è il rappresentante tipico dell'astratto rivo luzionarismo, di
cui il nostro fa la requisitoria, proprio il Russo il corifeo dell'estremismo
che il Cuoco detesta (1 ), proprio il Russo, il socialista che crede furto la
proprietà che l'amico invece pone base della nuova società e del nuovo
ordinamento civile, come diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere assumeranno
un duplice valore, di critica scientifica e giuridica, d'opposizione ad un si
stema politico culturale. Sono, ripeto, l'una contro l'altra due filosofie, due
sistemi, il sistema rivoluzionario, esu berante e fiducioso nel momentaneo
trionfo dell'idea, il sistema liberale moderato, più realistico, che solo nel
tempo lentamente spera di vedere sanzionata dalla storia la sua forza. Chi era
Vincenzio Russo? (2 ). Basta leggere i suoi Pen del Cuoco, ripubblicato conle
sedicenti note del Lancellotti nella cit. edizione napoletana del '61. Il
ROMANO, op. cit., p. 22 e p. 62 e sgg. crede i Frammenti anteriori al Saggio.
Lo stesso il CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108. (1 ) B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, p. 108 e sgg., scrive a proposito del Russo e del suo
estremismo: « Certo, anche gli amici che gli volevano bene e l'avevano in
grande stima per la sincerità e nobiltà dei suoi convincimenti, come il suo
compagno della prima giovinezza Vincenzo Cuoco non potevano appro. vare la via
senza uscita per la quale egli si era messo ». (2 ) Su V. Russo vedi B. CROCE,
La rivoluzione napoletana, pp. 85-112; nonchè G. DE RUGGIERO, Il pensiero
politico meri dionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza ed., Bari, 1922, p. 120 e
sgg., che ci offre una buona analisi del pensiero del, 39 sieri politici, sui
quali lo stesso Cuoco esprime nel Saggio un giudizio (1 ) un po ' incolore,
sebbene ne tra peli una critica, per intendere il suo astrattismo. Rileg giamo,
a proposito, le parole di Benedetto Croce. Il suo sistema si fondava «
sull'idea di una repubblica popo lare, in cui ciascuno possederebbe un pezzo di
terra da coltivare direttamente e da trarne i mezzi di sussistenza. Non
testamenti e non atti tra vivi, e neanche succes sioni legittime; alla morte
del possessore la quota di lui sarebbe tornata alla repubblica per una nuova di
stribuzione. Gli uffici esercitati dagli stessi cittadini agricoltori, epperò
senza stipendio, altro che i mezzi di sussistenza a coloro cui fosse tolto il
tempo di lavorare personalmente la terra; al qual uopo si sarebbero fatti
leggieri prelevamenti sulle quote dei coltivatori. L'in dustria, domestica e
ridotta al puro necessario; e il com mercio ridotto, del pari, a permuta di
cose necessarie. Nessun lusso di nessuna sorta; l'istruzione si sarebbe
ristretta principalmente alla morale repubblicana e ai princípi
dell'agricoltura. Nessuna religione, tranne forse « un tal quale vincolo di
fratellanza nel centro di una idea sublimamente tenebrosa »; e quindi, non
classe sa cerdotale. Non grandi città: una serie di piccoli villaggi
costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni, non più guerre, tranne quelle
per liberare le nazioni oppresse o per respingere tentativi di oppressione. Le
nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi formato, come termine ultimo, la «
Società universale » (2 ). Era nel Russo, come in molti rivoluzionari, special
l ' insigne martire del '99, specie nelle sue derivazioni dal Leib nitz e dal
Rousseau. Un sunto delle dottrine del Russo ci of. frono V. FIORINI e F. LEMMI.
Il periodo napoleonico dal 1799 al 1815, Milano, Vallardi, s. d., p. 167 e sgg.
(1 ) Il giudizio (Saggio, L, p. 209) è il seguente: « La sua opera de Pensieri
politici è una delle più forti che si possano leggere. Egli ne preparava una
seconda edizione, e t'avrebbe resa anchemigliore, rendendola più moderata ». In
quel miglio ramento nella moderazione sta tutto Cuoco ! (2) B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. 40 mente meridionali, un misto
curiosissimo di anticlerica lismo e di romanità, di filosofia ellenica e di
razionalismo moderno, di evangelicità e di naturalismo, che univa insieme
Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella e Tacito, Platone e Saint-
Just, un misto di fierezza spartana e di retorica petroliera, di rigidità
catoniana e di montatura civica. Ma se guardiamo il Russo e la sua opera (1 ),
non vi troveremo certo il gonfio anticle ricalismo e le diatribe di Francesco
Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare il giovinetto Manzoni, ma
non potè incantare la posterità; troveremo, invece, contrasti, contraddizioni,
astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un regime di vita e una
aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto (2 ). Nella pre fazione ai
suoi Pensieri politici scrive: « Io non ho volta la mente nè alle antiche
repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste legislazioni: ho
consul tato nelle cose stesse la verità ». Quindi un desiderio di analizzare
l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra essi fondare la sua repubblica,
mentre i bisogni stessi individualmente indeterminabili, concetti economici in
sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In fondo anche il Russo è un astratto e
non si distingue dai repubblicani, se non per ingegno, non certo per diversità
di metodo e di pratica politica. Basta rileggere i Pensieri e lo studio del
Croce per convincersi che i suoi concetti, democra tizzazione sistematica,
educazione repubblicana e sta tale, fraternità tra i popoli, sono quelli della
generalità, (1) La prima edizione dei Pensieri politici è dell'anno 1798,
allorquando il Russo, esule da Napoli, trovavasi a Roma, e fu stampata per
sottoscrizione:Pensieri politici diVINCENZIO Russo, napolitano, Roma, presso il
cittadino V. Poggioli, anno I della ri stabilita repubblica Romana. L'opera fu
ristampata in Milano tra il 1800 e il 1801 (Milano, anno IX, Tip. Milanese in
Strada nuova, n. 561); e poi ancora a Napoli nel 1861 (ed. a cura del D’Ayala)
e nel 1894 (ed. a cura di B. Peluso con pref. di E. De Marinis ). Vedi a
proposito B. CROCE, La rivoluzione napole tana, p. 98, p. 112. (2) B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, p. 92 e sg. 41 forse più accentuati da una dinamica
naturale d'ora tore, da un estremismo fervente, che voleva, credo, far
dimenticare in una vita intemeratamente vissuta un istante di antica debolezza (1
). Queste esagerazioni non sono proprie del tempera mento meridionale, ed in
genere italiano. Ma, come bene osserva il Romano, calcando un giudizio di G.
Zito (2), « mentre all'inizio del movimento, i nostri alle teorie nuove davano
di proprio la misura e la calma, in seguito invece l ' intrepidezza deduttiva
propria del tempera mento francese, non trovò più freni neppur da noi, e
sovente le dottrine non furono sottoposte a tentativi di analisi e di giudizio
» (3). Ed è proprio così ! Anche Mario Pagano, mente geniale e solida, è
travolto dalla corrente e segue l'andazzo. Il suo vichismo non è coerente a sè
stesso, e risente gli influssi esterni, e, se pure gli studi suoi non sono pura
speculazione metafisica, « giovevole se mai nella scuola e presso che inutile,
se non pure dan nosa, nell'attrito reale del governo di uno Stato » (1 ), è
certo però che il grande autore del Processo criminale si mostrò insufficiente
all'ardua opera della ricostru zione. Dare la costituzione ad un popolo è
l'opera più grande che un uomo possa a sè stesso assegnare, opera da far
tremare le vene e i polsi non solo ai legislatori di oggi, ma a menti divine,
come quelle di Platone e di Aristo tele. La costituzione non può essere una
sovrastruttura, che i dirigenti impongano ad un popolo, perchè le costi tuzioni
non si dànno ab externo, ma si formano nelle coscienze prima che sulla carta,
e, se pure si impongono, non si reggono sulle armi e sui fucili. Il popolo è
una realtà concreta viva palpitante, ne' suoi molteplici bi sogni, ne' suoi
desiderî, ne' suoi costumi, ne' suoi pre (1 ) B. CROCE, La rivoluzione
napoletana, p. 87. (2 ) G. ZITO, Vita ed opere di Mario Pagano, Potenza, Tip.
Garramone, 1901, passim. (3 ) M. ROMANO, op. cit., p. 61. (4) ROMANO, op. cit.,
p. 63. Il giudizio sull'opera del Pa gano è eccessivo e non può essere
senz'altro condiviso da noi. 42 e giudizi. Egli non sopporterà mai una legge,
che non intende la sua intima vita e il suo benessere, che tra scenda la sua
natura. « Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni
individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale, se
tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia mancante di
proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo difforme cui
sieda bene; ma, se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorchè essa
sia misurata sulla statua modellaria di Poli clete, troverai sempre che il
maggior numero è più alto, più basso, più secco, più grasso, e non potrà far
uso della tua veste » (1 ). Non esiste un ottimo costituzionale, esi ste un
buono relativo alla vita delle singole genti. « Le costituzioni si debbono fare
per gli uomini quali sono quali eternamente saranno, pieni di vizi, pieni di er
rori; imperocchè tanto è credibile che essi voglian de porre que' loro costumi,
che io reputo una seconda natura, per seguire le nostre istituzioni, che io
credo arbitrarie e variabili, quanto sarebbe ragionevole un calzolaio che
pretendesse accorciare il piede di colui cui avésse fatta corta una scarpa » (2
). I due raffronti con la veste e la scarpa, tratti dal mondo fisico, sono
d'una evidenza mirabile. Il legislatore deve intendere il popolo, e costruire
sulla base dei bisogni del popolo. Il popolo non parla. Ma per lui parla tutto,
costumi, usanze, religione, pregiudizi, vizi. Le costituzioni non si fanno nei
gabinetti e negli studî, nelle scuole e nelle accademie, nascono da sè, sotto l
' impulso di concrete esigenze dell'anima collettiva, o più vichianamente della
collettività, e il legislatore non può essere che un interprete di essa
collettività, della (1 ) Seguo il già citato testo del NICOLINI, edito dal
Laterza di Bari,che come tutte le altre ed. cuochiane, porta i Fram menti di
lettere a V. Russo in appendice al Saggio. Per le ci tazioni basterà quindi la
sigla Framm. seguita dal numero d'or dine I o II ecc., e dalla pagina
dell'edizione barese. Framm. I, p. 218. (2 ) Framm. I, p. 219, 43 1 sono sua
coscienza, non già il saggio che dal suo cielo di sa pienza impone norme e
nomi. L'obietto delle costituzioni sono gli uomini, e gli uomini sono pieni di
vizi, pieni di errori. Ora, chi si propone di legiferare deve prendere gli uomini,
come sono, e non andare alla ricerca di un ottimo, che in na tura non è,
contentarsi di rendere felici gli uomini, e ren dere felici gli uomini si può
solo, soddisfacendo alla loro natura, che è un misto di buono e di cattivo,
d'eticità e di pregiudizi, di religione e di ferocia. Siamo, come ognun vede,
penetrati nel pieno della critica cuochiana, ma la mia mente, riflettendo su
queste acutissime osservazioni, non può non instaurare un pa ragone tra il
relativismo giuridico del nostro e lo stori cismo germanico di Gustavo Hugo e
di Federico Carlo Savigny. È curioso ! Negli stessi anni, nell' infierire della
rivoluzione francese, o quando ancor fresche ne le conseguenze, con basi,
cultura diametralmente diverse, con intendimenti presso che uguali, scrivono in
Italia il Cuoco, in Inghilterrà il Burke, le di cui Riflessioni sulla
rivoluzione francese sono del 1790, in Germania l'Hugo che nello stesso anno
1790 formula in un suo libro quei prin cípi, che poi il Savigny, nel 1814,
nella polemica col Thibaut, svilupperà nell'operetta: Della vocazione del
nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza. Ma tra il Savigny e
l'illuminismo rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero germanico,
tra il Cuoco e la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli scrive i
Frammenti nella rivoluzione stessa, quando già i san fedisti di Ruffo sono alle
porte della città. Notiamo però come un certo parallelo c'è: il nostro si
ricollega al Vico, tradizione perenne d'italianità; il Savigny parla di una
coscienza giuridica popolare, che non può non tro vare la sua origine nella
filosofia idealista tedesca, Schel ling e Hegel, ai quali il grande giurista si
ricollegano. Guardiamo brevemente la questione. Col Cuoco siamo da un punto di
vista filosofico giuridico più innanzi, ma il parallelismo non manca. Che cosa
è il diritto per il Sa vigny che combatte l'unificazione legislativa e la codi
44 ficazione proposta dal Thibaut? Non certo un quid astratto, vivo nel solo
pensiero del legislatore. Il diritto ha una vita sua propria nella vita d'ogni
giorno, che non è che consuetudine irriflessa e pratica comune. Ricor diamo lo
Schelling: il principio dello spirito collettivo, principio animatore in
perpetuo divenire, si sviluppa dalla sua filosofia, dall'evoluzione stessa
della natura nell'infinita sua produttività, concepita non più come mero
oggetto, ma come soggetto, nucleo di sviluppo di tutto il pensiero germanico,
che dal dualismo di Kant risolve il problema, attraverso Schelling, in Hegel,
ul tima conseguenza della posizione kantiana. Il concetto evolutivo della
natura trascorre nel diritto. Il diritto è la manifestazione d'una coscienza
giuridica che è nel popolo, il quale popolo ha una sua anima (la Volkseele
dello Schelling), che determina la morale, l'arte, il lin guaggio, e così pure
il diritto e la costituzione politica. Quel che nello Schelling è generalmente
accennato all’ori gine della costituzione e degli ordini civili, nel Savigny è
applicato ad una questione concreta: se convenga im mobilizzare il diritto,
elaborazione istintiva e irriflessa, viva nella consuetudine, in un sistema di
codici. Donde una illazione: la costituzione, legge fondamentale, non può che
essere la risultante d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il
legislatore può cogliere ed inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come
il grammatico studia la lingua già formata e non crea la lingua. Il Cuoco più
concretamente non arriva alle conclusioni un po' anarchiche del Savigny, il
quale in reazione ad una filosofia che pretendeva di sistematizzare e creare
tutto a fil di logica, si appalesa ostile ad ogni costituzione scritta, come ad
ogni codificazione; il Cuoco ammette in vece che un legislatore possa compilare
un progetto di costituzione. Ma come? Il legislatore deve interpretare i
bisogni del popolo, alla felicità del quale vuol provve dere. Il principio base
è uno. « Le costituzioni durevoli sono quelle che il popolo si forma da sé » (1
). Ciò non nel (1 ) Framm. I, p. 218. 45 senso che le costituzioni siano una
formazione assoluta mente irriflessa e popolaresca, che il giurista osserva
senza intervenire, passivo, ma nel senso che non possano prescindere, sia pure
quando sono opera di studio perso nale e di ricerca dotta, dalla concreta realtà
della nazione. La faccenda si chiarifica. La Volkseele dello Schelling, la
coscienza giuridica popolare del Savigny diventano, sono nel Cuoco, più
concreto e positivo, i bisogni del po polo, bisogni economici e materiali,
religiosi e morali, qualcosa di più tangibile. « I nostri filosofi, » scrive «
sono spesso illusi dall'idea di nu ottimo, che è il peggior nemico del bene. Se
si volesse seguire i loro consigli, il mondo, per far sempre meglio, finirebbe
col non far nulla ». « L'ottimo non è fatto per l'uomo.... » (1 ). Costoro, ai
quali accenna il critico, sono i rivoluzionari astratti, che credono ad un
universale, che non è, e vanno tanto alto da perdere ogni contatto col mondo.
Una costituzione non può scaturire dal cervello di un uomo, come Pallade dal
cervello di Giove, armata e folgorante; deve sorgere dopo mature riflessioni,
sulla natura della nazione deve avere una base. « Questa base deve poggiare sul
carattere della nazione, deve precedere la costituzione; e mentre con questa si
determina il modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovra nità, vi
debbono esser molte cose più sacre della costi tuzione istessa, che il sovrano,
qualunque sia, non deve poter alterare » (2 ). Nessuno può « tôrre al popolo
tutti i suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, che io
chiamerei base di una costituzione » (3 ). Il Cuoco, se osserviamo bene la
questione, distingue due momenti: una elaborazione incosciente del popolo che
crea istituti giuridici, per consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza;
una elaborazione cosciente e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel
popolo era mera pratica senza norma. Questi due momenti si compene (1 ) Framm.
I, p. 219. (2 ) Framm. III, p. 245. (3 ) Framm. III, p. 245. 46 trano e sono
indispensabili. La consuetudine, senza la legge, può divenire anarchia, dominio
della volontà parti colare. La legge, che astragga dalla volontà dei singoli, è
mera parola, generalità senza significato. Siamo lon tani dallo storicismo
tedesco dell'Hugo e del Savigny. La base, alla quale accenniamo, è d'una grande
com plessità. Il costituzionalista, in particolare il legislatore, deve avere
riguardo' non solo ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni economici,
ma anche ai pregiudizi, ai difetti, ai mali del popolo. La vita non è ottima,
nè buona: è male e dolore. Gli uomini sono buoni e cattivi, generosi ed
egoisti, eroi e birbanti. Il più grave pericolo è che il legislatore, più
filosofo che uomo politico, alla ricerca dell'eterno dimentichi il transeunte,
alla ricerca dell'ottimo dimentichi il buono, creda non esservi il male. Le
costituzioni debbono parlare alla fantasia e ai sensi dei popoli, avere una
certa solennità, quasi un ele mento sacro, perchè « dopo le sue opinioni ed i
suoi costumi, il popolo nulla ha di più caro che le apparenze della regolarità
e dell'ordine » (1 ). È un consiglio di este riorità. Poco importa ! Le plebi
amano l'esteriorità. « Quelle leggi sono più rispettate dal popolo, che con mag
giori solennità esterne colpiscono i sensi » (2). Dunque, ammesso che un
legislatore possa dare una costituzione, interpretando più che sia possibile le
esi genze di una nazione, come potrà e dovrà egli compor tarsi? Un popolo ha
dei costumi. « Non vi è nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale
non abbia de' costumi, che convien conservare; non vi è governo quanto si
voglia dispotico, il quale non abbia molte parti convenienti ad un governo
libero. Ogni popolo che oggi è schiavo fu libero una volta... Quanto più
pesante sarà la schiavitù di un popolo, tanto più questi avanzi degli altri
tempi gli saran cari; perchè non mai tanto, quanto tra le avversità, ci son
care le memorie dei tempi felici. Quanto più il governo che voi distruggete è
stato (1 ) Framm. III, p. 246. (2) Framm. III, p. 246. 47 barbaro, tanto più
numerosi avanzi voi rinvenite di an tichi costumi; perchè il governo, urtando
troppo violen temente contro il popolo, l'ha quasi costretto a trince rarsi tra
le sue antiche istituzioni, nè ha rinvenuto nei nuovi avvenimenti ragione di
seguirli e di abbandonare ed obbliare gli antichi (1 ). Nello sviluppo storico
nulla si perde completamente: l'evoluzione vitale degli uomini e delle
istituzioni loro è trasformazione e non distruzione, onde sotto la scorza della
modernità si possono ritrovare i nuclei ancor verdi dell'antico. La tradizione
non è un culto senza dèi, pro prio de letterati e de ' filosofi, è la vita
della nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi che rappresenta la sua
continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore, come colui che è più
vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le manifestazioni più svariate
della loro attività privata e pubblica. « Questi avanzi di costumi e governo di
altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano, sono preziosi per un
legislatore saggio, e debbono formar la base dei suoi ordini nuovi. Il popolo
conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli viene dai suoi mag giori;
rispetto che produce talora qualche male, e spesso grandissimi beni. Ma coloro,
che vorrebbero distruggerlo, non si avvedono che distruggerebbero in tal modo
ogni fondamento di giustizia ed ogni principio d'ordine so ciale? Noi non
possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori antichi facevano: facciamo
almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli son sempre i loro antichi.
Un popolo, il quale cangiasse la sua costituzione per solo amor di novità, non
potrebbe far altro di meglio, che darsi una costituzione all'anno. Ma, per
buona sorte, un tal popolo non esiste che nella fantasia di qualche filo sofo »
(2 ). Un legislatore quindi può realmente fare del bene alla nazione, ma deve
seguire la natura, cioè la na zione stessa nel suo spirito, e trarre da essa il
sistema costituzionale, non il sistema costituzionale da princípi (1 ) Framm. I,
p. 220 e sg. (2) Framm. I, p. 221. 48 che non sono nella natura, ma nella testa
dei filosofi. « Tutto è perduto quando un legislatore misura la infi nita
estensione della natura colle piccole dimensioni della sua testa, e che, non
conoscendo se non le sue idee, gira per la terra come un empirico col suo
segreto, col quale pretende medicar tutt'i mali (1 ). Vincenzo Cuoco ci si
presenta come un tradizionalista e un moderato. Non bisogna distruggere per
distruggere, perchè si può perdere il buono per un problematicissimo ottimo;
non bisogna atterrare, perchè non sempre si può ricostruire; non bisogna aprire
un novus ordo, perchè i novi ordines dei filosofi sono in cielo e non in terra.
Bi sogna costruire su quel che già è, edificare sulle fonda menta della storia,
che non soffre soluzioni di continuità, riformare e non distruggere. « Io non
credo la costitu zione consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e
del cittadino » (2 ). Essa è qualcosa di più profondo: è il popolo, il quale da
sè stesso trae le norme regolatrici della sua esistenza, della sua attività,
della felicità. « E chi non sa i suoi diritti? Ma gran parte degli uomini li
cede per timore; grandissima li vende per interesse: la costituzione è il modo
di far sì che l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a venderli,
nè costretto a cederli, nè spinto ad abusarne » (3 ). Ciò è possibile solo in
quanto la costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella umana
felicità, alla quale abbiamo ac cennato. Le rivoluzioni nascono da un malessere
economico generalizzato. Le costituzioni post - rivoluzionarie debbono
ristabilire l'equilibrio, il benessere, l'armonia, la vita pa cifica ed operosa.
Per fare ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della nazione, i suoi
costumi, il suo carattere. Ecco perchè Cuoco ci dice che, se egli fosse
invitato a dar leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e conoscerlo; ecco
perchè Cuoco ci dice che egli (1 ) Framm. I, p. 221. (2 ) Framm. II, p. 233. (3
) Framm. II, p. 233. 49 vuol ritornare all'antico, e all'antico ricollegare il
pre sente, perchè il popolo ama le antiche istituzioni, che in passato gli han
pure dato felicità; ecco perchè il Cuoco vuol riformare solo ove è male ed ove
le istituzioni antiche non rispondono più ai nuovi bisogni, ed è tra
dizionalista all'eccesso, laddove la mania novatrice cerca distruggere istituti
e norme consacrate da secoli. Questi i convincimenti del critico. Ma che cosa
in vece era avvenuto a Napoli, qual'era, com'era la costi tuzione che Mario
Pagano aveva elaborato? Ogni po polo ha una individualità ineffabile. Il popolo
napole tano, quindi, ha pur esso una sua natura specifica, che risulta da un
complesso di cose. Parliamo perciò, dice il Cuoco all'amico Russo, « della
costituzione da darsi agli oziosi lazzaroni di Napoli, ai feroci calabresi, ai
leggieri leccesi, ai spurei sanniti ed a tale altra simile genìa, che forma
nove milioni novecento novantanove mila nove cento novantanove decimilionesimi
di quella razza umana che tu vuoi tra poco rigenerare » (1 ). Cioè discendiamo
ai fatti, al concreto, vediamo se il progetto costituzionale del Pagano
risponde alla natura delle cose. Il Cuoco ri sponde risolutamente: « Per questa
razza di uomini par mi che il progetto donatoci da Pagano non sia il migliore.
Esso è migliore al certo delle costituzioni ligure, romana, cisalpina; ma al
pari di queste è troppo francese e troppo poco napolitano. L'edificio di Pagano
è costrutto colle materie che la costituzione francese gli dava: l'architetto è
grande, ma la materia del suo edifizio non è che creta » (2 ). Il Pagano,
nonostante il suo vichismo, è caduto nell'er rore tipico di tutti i
rivoluzionari alla francese, ha cre duto in un ottimo che non è; ha creduto
negli immortali princípi che le masse non intendono, poi che gli uomini sentono
solo i bisogni e non i princípi che parlano al l'intelletto di pochi; ha fatto
quella, che il critico mo lisano chiama una costituzione da tavolino; « e
quindi ne è avvenuto, che siesi perduta la vera cognizione delle (1 ) Framm. I,
(2) Framm.] cose e della loro importanza » E nel dispiacere del fallimento, che
al nostro appare evidente, c'è una punta d'ironia, che al lettore è facile
avvertire pur nell'amiche volezza dell'espressione: « Oh ! perdona. Non mi
ricor dava » dice il Cuoco al Russo « di scrivere a colui, che, sull'orme della
buona memoria di Condorcet, crede possi bile in un essere finito, quale è
l'uomo, una perfettibilità infinita. Scusa un ignorante avvilito tra gli antichi
errori: travaglia a renderci angioli, ed allora fonderemo la re pubblica di
Saint- Just. Per ora contentiamoci di darcene una provvisoria, la quale ci
possa rendere meno infelici per tre o quattro altri secoli, quanti almeno, a
creder mio, dovranno ancora scorrere prima di giugnere all'esecu zione del tuo
disegno » (2 ). Anche l'amico fedele Vincenzo Russo, come il grande maestro
Pagano, è un illuso, un astratto ! Ma osserviamo bene. Quest'astrattismo, che
il Cuoco rimprovera al suo Pagano, non è solo del Pagano, è di tutto un
sistema, che il nostro vivamente deplora. Primi i francesi, coloro per cui la
rivoluzione nacque spontanea esplosione di lungamente compressi bisogni, per cui
il moto repubblicano fu attivo e non passivo com'è a Na poli, caddero negli
stessi errori. « I francesi aveano fondata la loro costituzione sopra princípi
troppo astrusi, dai quali il popolo non può discendere alle cose sensibili se
non per mezzo di un sillogismo; e quando siamo a sillogismo, allora non vi è
più uniformità di opinioni e non si potrà sperare regolarità di operazioni » (3
). Di ciò il molisano dà un esempio concreto. In Francia si volle stabilire
come norma costituzionale il diritto all'insur rezione. Ma senza quelle
circostanze, che l'accompagna vano e la dirigevano in qualche paese
dell'antichità, ove simile norma era stata applicata, essa non poteva pro durre
che sedizioni e turbolenze, seguite da una reazione violenta del governo
attaccato, in barba ad ogni princi F (1 ) Framm. III, p. 241. Framm. I, p. 220.
(3 ) Framm. III, p. 247. 51 pio legale. « Per buona sorte della Francia »
commenta iro nico il nostro « questa massima fu guillottinata con Robe spierre
» (1 ). Vedete, dice, « la costituzione romana era sensibile, viva, parlante.
Un romano si avvedeva di ogni infrazione dei suoi diritti, come un inglese si
avvede delle infrazioni della Gran carta. In vece di questa, immagina per poco
che gli inglesi avessero avuto la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del
cittadino: essi allora non avreb bero avuto la bussola che loro ha servito di
guida in tutte le loro rivoluzioni. I romani eccedettero nella smania di voler
particolarizzar tutto, per cui negli ultimi tempi formarono dei loro diritti un
peso di molti cameli. Ma, mentre conosciamo i loro errori, evitiamo, anche gli
ec cessi contrari, e teniamoci quanto meno possiamo lon tani dai sensi. Se la
molteplicità dei dettagli forma un bosco troppo folto nel quale si smarrisce il
sentiero, i princípi troppo sublimi e troppo universali rassomigliano le cime
altissime, dei monti, donde più non si riconoscono gli oggetti sottoposti » (2
). Questi sono gli errori dei francesi. L'esasperazione dei princípi dovea
portare necessariamente agli errori fatali. Questa è l'idea che il Cuoco ha
della costituzione francese del 1795. Una « costituzione è buona per tutti gli
uo mini? Ebbene: ciò vuol dire che non è buona per nes suno.... » (3 ). Il
Pagano, ritorniamo a lui, s'è ingolfato negli stessi errori. Seguiamo il nostro
autore nel suo excursus e nella sua critica minuta del progetto; ma per
intendere come egli colpisca nel segno, e come i Frammenti siano una
meditazione veramente profonda, una critica sincera e non sistematica,
rileggiamo le prime righe del Rapporto al governo provvisorio, che precede la
Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell'uomo, e che è certo opera di Mario
Pagano. « Una costituzione, che assicuri la pubblica libertà, e (1 ) Framm. III,
p. 247. (2) Framm. III, (3) Framm. I, p. 219. p. 247. 52 che slanciando lo
sguardo nella incertezza de ' secoli av venire, guardi a soffocare i germi
della corruzione e del dispotismo, è l'opera la più difficile, a cui possa
aspirare l’arditezza dell'umano ingegno. I filosofi dell'antichità, che tanto
elevarono l'umana ragione, ne presentarono i principii soltanto, e le antiche
repubbliche le più celebri e sagge ne supplirono in più cose la mancanza con la
· purità de' costumi, e colla energia dell'anime, che ispirò loro una sublime
educazione. Gran passi avea già dati l'America in questa, diremo, nuova
scienza, formando le costituzioni de' suoi liberi Stati. Novellamente la Fran
cia, che ha contestato straordinario amore di libertà con prodigi di valore, ha
data fuori altresì una delle migliori costituzioni che siansi prodotte finora ».
Fin dalle prime battute si sente l'uomo geniale, ma insieme lo scolastico, che
ha bisogno di rifarsi ai prece denti generici (1 ). Il Comitato di legislazione
« ha.... adottata la costitu zione della madre repubblica francese. Egli è ben
giusto, che da quella mano istessa, da cui ha ricevuto la libertà, ricevesse
eziandio la legge, custode e conservatrice di quella. Ma riflettendo che la
diversità del carattere mo rale, le politiche circostanze, e ben anche la
fisica situa zione delle nazioni richiedono necessariamente de' cam giamenti
nelle costituzioni, propone alcune modificazioni, che ha fatte in quella della
repubblica madre, e vi rende conto altresì delle ragioni che a ciò l'hanno
determinato ». La derivazione è confessata, e con essa l'astrattismo. Senonchè
il Pagano afferma una esigenza, che in lui na poletano e vichiano, deve essere
sincera, ma che resta poi in pratica insoddisfatta: tenere conto dei bisogni pe
(1 ) L. PALMA, I tentativi di nuove costituzioni in Italia dal 1796 al 1815, in
Nuova Antologia, a. XXVI, v. XXXVI, 16 no vembre, 1-6 dicembre 1891, p. 441. Il
Palma ci offre una buona analisi della costituzione di M. Pagano in rapporto
alle altre costituzioni francesi ed italiane del tempo, nonchè un'acuta critica
di essa, critica che fondamentalmente coincide con quella cuochiana. Sulla
costituzione del Pagano vedi pure V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., Milano,
Vallardi, s. d., p. 170 e sgg. 53 ) ) culiari della nazione alla quale si
provvede; e nel resto dell'opera legislativa si rivela per quello che è, cioè
un mero teorico. Vediamo. « La più egregia cosa che ritrovasi nelle moderne co
stituzioni, è la dichiarazione de' dritti dell'uomo. L'uguaglianza non è un
diritto, ma la base di tutti i diritti, che da essa scaturiscono. «
L'uguaglianza è un rapporto, e i dritti sono facoltà. Sono le facoltà di
oprare, che la legge di natura, cioè l ' invariabile ragione e cono scenza de '
naturali rapporti, ovvero la positiva legge sociale, accorda a ciascuno ».
Sembra di leggere un trat tato di filosofia giuridica e non un rapporto di un
comi tato legislativo, che presenta un progetto di legge. « Da tal rapporto
d'uguaglianza di natura, che avvi tra gli uomini, deriva l'esistenza, e
l'uguaglianza de' dritti: es sendo gli uomini simili, e però uguali tra loro,
hanno le medesime facoltà fisiche e morali: e l'uno ha tanta ragione di valersi
delle sue naturali forze, quanto l'altro suo simile. Donde segue, che le
naturali facoltà indefi nite per natura, debbano essere prefinite per ragione,
dovendosi ciascuno di quelle valere per modo, che gli altri possano benanche
adoprar le loro. E da ciò segue eziandio, che i dritti sono uguali; poichè
negli esseri uguali, uguali debbono essere le facoltà di oprare. Ecco adunque
come dalla somiglianza ed eguaglianza della na tura scaturiscano i dritti tutti
dell'uomo, e l'uguaglianza di tai dritti ». Io qui non istò a riferire come
Mario Pagano « dall'unico e fondamentale dritto della propria conservazione »
derivi « la libertà, la facoltà di opinare, di servirsi delle sue forze
fisiche, di estrinsecare i suoi pensieri, la resistenza all'oppressione »,
modificazioni tutte del primitivo innato diritto, che l'uomo ha di na tura, il
conservarsi. Tutto il sistema si sviluppa con una logica impeccabile filosofica
e giuridica, e noi non sap piamo che ammirare la grandezza di uno spirito
geniale e deplorare la sua morte immatura e tragica. Le defini zioni paganiane
sono stupende di sintesi. Ecco la li bertà ! « La libertà è la facoltà
dell'uomo di valersi di tutte le sue forze morali e fisiche come gli piace,
colla !! 54 sola limitazione di non impedire agli altri di far lo stesso ».
Tutto s ' impernia su un principio - postulato e scaturisce di lì. Dal primo
fonte di tutto il diritto deriva la pro prietà, poi che « la proprietà reale è
una emanazione e continuazione della personale ». Gli stessi diritti ci dànno i
doveri; i diritti e i doveri dei cittadini, i diritti e i doveri dei magistrati
e dei pubblici funzionari, e così di seguito. Nè mancano sani princípi
costituzionali, che occorre an che oggi meditare. V'è un vigile e vichiano
senso della dinamicità delle costituzioni, che, sebbene carte sacre di un
popolo, non per questo sono inviolabili, cioè non mo dificabili, poi che la
vita stessa e le rinnovate esigenze delle nazioni dànno origini a riforme
naturali nel loro stesso seno. « La società vien formata dalla unione delle
volontà degli uomini, che voglion vivere insieme per la vicende vole garanzia
de proprii dritti. L'unione delle forze fa la pubblica autorità, e l'unione de'
consigli forma la pubblica ragione, la quale, avvalorata dalla pubblica
autorità, diviene legge. Quindi l ' imprescrittibile dritto del popolo di mutar
l'antica costituzione, e stabilirne una nuova, più conforme agli attuali suoi
interessi, ma demo cratica sempre; quindi il dritto di ogni cittadino di es
sere garantito dalla pubblica forza, e il dovere di con tribuire alla difesa
della Patria; quindi finalmente i dritti e i doveri de'pubblici funzionarii,
che per delega zione esercitano i poteri del popolo sovrano, e per do vere sono
vittime consacrate al pubblico bene ». E dire che ancor oggi questo principio
della vita giu ridica, che è dinamicità come ogni altra manifestazione dello
spirito, non è inteso, e la riforma dello Statuto ita liano è temuta come un
terribile evento sovvertitore, mentre le leggi fondamentali sono una vuota forma
senza contenuto materiale, vuota forma premuta da esigenze nuove, e, purtroppo,
dal più sfacciato illegalismo dei partiti ! Ma, se dal Rapporto passiamo al
Progetto costituzio nale, quanto astrattismo ! Quanta artificiosità ne' sin
goli istituti, in quell'eforato, che ricorda Sparta, ma che 55 non è che il
direttorio o potere esecutivo francese; in quella distinzione tra assemblee
primarie ed assemblee elettorali espresse dal seno delle prime; in
quell'istituto censorio, che arieggia la censura di Roma, ma che in uno Stato
moderno e vasto è inconcepibile e vano ! Se guardate il Progetto di
costituzione nel suo complesso la critica del giovane Cuoco vi appare
pienamente giusti ficata e altamente vera. Essa non si limita ad appunti
d'ordine pratico, ma risale pure ai princípi, e traccia, direi, l'abbozzo d'una
nuova scienza costituzionale, che nel nome di Vico e di Machiavelli da un lato,
di Monte squieu dall'altro, vuol essere positiva senza cadere nel l'empirismo.
La sovranità del popolo si manifesta in due maniere: la legislazione e
l'elezione. Negli Stati antichi, nelle città primitive, a base democratica, il
popolo stesso era legi slatore: negli Stati moderni, che trascendono la greca
Tól.is, la romana urbs, numerosi di popolazione, vasti di territorio, il popolo
sovrano può legiferare solo per mezzo della rappresentanza. La costituzione del
Pagano adotta il sistema rappresentativo, ma lo travisa, per mezzo di
un'assurda divisione delle assemblee popolari in primarie, alle quali spetta il
compito di eleggere un certo numero di cittadini, ai quali è deferito il
compito supe riore della scelta del deputato, e in elettive, alle quali è
assegnata la vera sovranità, la nomina del rappre sentante in seno al
Consiglio. Così il prescelto è allonta nato, divenuto rappresentante della
nazione napolitana e non del dipartimento che lo nomina, dal popolo, di cui
dovrebbe sentire i bisogni e rendersene esponente. Il Pagano, in sostanza, non
accetta l'elezione con man dato. Il Cuoco vuole invece che il deputato riceva dalle
popolazioni memoriali veri e propri, utili avvertimenti, e che, durante
l'esercizio della sua carica, viva a contatto con le sue masse elettorali, e
non si perda ne' meandri d'una politica, che, per volere essere nazionale e
generale, finisce per essere astratta e generica. Tutte le deficienze del
sistema parlamentaristico, specie nelle degenerazioni de' nostri paesi, saltano
al pensiero, nelle lungimiranti 56 notazioni del nostro autore. E dire che non
era necessario che guardarsi attorno per rinvenire il sistema più adatto ai
fini, che la Commissione legislativa o il Pagano per lei si proponeva ! « La
nazione napolitana offre un me todo più semplice. Essa ha i suoi comizi, e son
quei par lamenti che hanno tutte le nostre popolazioni; avanzi di antica
sovranità, che la nostra nazione ha sempre difesi contro le usurpazioni dei
baroni e del fisco. È per me un diletto (e qui il Cuoco pensatore diviene un
pochino lirico ) ritrovarmi in taluni di questi parlamenti, e ve dervi un
popolo intero riunito discutervi i suoi interessi, difendervi i suoi diritti,
sceglier le persone cui debba affi dar le sue cose: così i pacifici abitanti
delle montagne dell'Elvezia esercitano la loro sovranità; così il più grande,
il popolo romano, sceglieva i suoi consoli e deci deva della sorte
dell'universo » (1 ). Il sistema nostro na zionale è il più spontaneo, il più
naturale, consacrato dalle glorie dei nostri comuni, enti che hanno avuto un
giorno in una storia grande indipendenza e forza, ed hanno subìto un'evoluzione
millenaria. La costituzione francese del 1795 ha distrutto tutto ciò. « I
municipi non sono eletti dal popolo, e rendono conto delle loro operazioni al
governo, cioè a colui che più facilmente può e che spesso vuole esser ingannato
» (2 ). Ma il Cuoco si spiega tutto. La storia insegna molte cose. L'ac
centramento in Francia è naturale: questa nazione non ha avuto mai
l'esperimento dei comuni, una vera e propria municipalità, poi che questo paese
ha trovato l'unità assai presto. In Italia la faccenda è assai diversa. In
Italia il comune è stato un istituto spontaneo, espres sione della rinascente
romanità contro il feudalismo fer rato, istituto che non è morto mai, e s'è
sviluppato, perpetuato, anche allorquando da ente sovrano è dive nuto ente subordinato
entro gruppi politici più vasti, come il principato o signoria e lo stato
monarchico. Il Cuoco non dice tutto ciò, ma si intravede chiaramente (1 )
Framm. II, p. 223. (2 ) Framm. II, p. 224. 57 che questo è il suo pensiero. «
Io perdono » scrive « ai fran cesi il loro sistema di municipalità: essi non ne
aveano giammai avuto, nè ne conoscevano altro migliore: forse non era nè sicuro
nè lodevole passar di un salto e senza veruna preparazione al sistema nostro.
Ma quella stessa natura, che non soffre salti, non permette neanche che si
retroceda; e, quando i nostri legislatori voglion dare a noi lo stesso sistema
della Francia, non credi tu che la nostra nazione abbia diritto a dolersi di
un'istituzione che la priva dei più antichi e più interessanti suoi di ritti !
» (1 ). Il sistema costituzionale, dunque, che ha alla sua base il comune, è il
più naturale per noi, poi che l’ente comu nale è l'espressione prima di quei
bisogni complessi che abbiamo detto essere la base imprescindibile di ordini
durevoli. In poche parole, ecco tracciate le funzioni del comune, funzioni
varie e molteplici, dirette ad assicu rare la più immediata soddisfazione de'
bisogni elemen tari primordiali di una gente ! « Ciascuna popolazione dunque,
convocata in parlamento (questo nome mi piace più di quello di assemblea: esso
è antico, è nazionale, è nobile; il popolo l'intende e l'usa: quante ragioni
per conservarlo !), eleggerà i suoi municipi. Essi avranno il potere esecutivo
delle popolazioni, saranno i principali agenti del governo, e dovranno render
conto della loro condotta al governo ed alla popolazione. La loro carica durerà
un anno. Tu vedi bene che fino a questo punto altro non farei che rinnovare al
popolo le antiche sue leggi » (2 ). Tutto trova la sua consacrazione nella
storia italiana. Affermare il comune è il primo passo. Ad esso occorre
attribuire tanto potere da assicurargli la possibi lità di vivere e di
prosperare, vale a dire occorre dargli una vera e propria autonomia amministrativa.
« La mia prima legge costituzionale sarebbe, che qualunque popo lazione della
repubblica riunita in solenne parlamento possa prendere sui suoi bisogni
particolari quelle determi (1 ) Framm. II, p. 224. (2 ) Framm. II, p. 225. 58
nazioni che crederà le migliori; e le sue determinazioni avran vigore di legge
nel suo territorio, purché non siano contrarie alle leggi generali ed agl '
interessi delle altre popolazioni » (1 ). La legge è la volontà generale. Ogni
individuo ha d'al tra parte una volontà particolare, che costituisce la sua
legge e la sua libertà. Il sorgere dello Stato afferma la legge generale, ma il
suo ingrandirsi moltiplica le vo lontà particolari, onde sempre cresce e
s'acuisce un fa tale dissidio tra le due volontà, la generale e la partico
lare, tra lo Stato e l'individuo, tra l'autorità e la libertà, tra la sovranità
e l'autonomia, dissidio che in certe cir costanze anomali può portare al
disfacimento dello Stato, tendendo l'uomo per natura ad affermare la sua indi
pendenza, lo Stato la sua universalità autarchica. La legge, quindi, nella sua
stessa génesi è destinata a cozzare contro l'individualismo umano, onde quanto
più generalizza e si astrae tanto più divien tirannica. C'è il pericolo insomma
che si venga a creare una discrepanza tra volontà pubblica e volontà privata.
Il rimedio è solo nel decentramento. « Quanto più dunque le nazioni s '
ingrandiscono, quanto più si coltivano, tanto più gli oggetti della volontà ge
nerale debbono esser ristretti, e più estesi quelli della volontà individuale.
Ma, affinchè tante volontà partico lari non diventino del tutto singolari, e lo
Stato non cada per questa via nella dissoluzione, facciamo che gli og getti
siano presi in considerazione da coloro cui maggior mente e più da vicino
interessano. Vi è maggior diffe renza tra una terra ed un'altra che tra un uomo
ed un altro uomo nella stessa terra. Se la base della libertà è che ad ogni
uomo non sia permesso di far ciò che nuoce ad un altro, perchè mai ciò non deve
esser permesso ad una popolazione? Perchè mai, se una popolazione abbia bisogno
di un ponte, di una strada, di un medico, e se tutto ciò richiegga una nuova
contribuzione da' suoi (1 ) Framm. II, p. 227. 59 cittadini, ci sarà bisogno
che ricorra all'assemblea legi 4 slativa, come prima ricorrer dovea alla Camera?
Come si può sperare che quelle popolazioni, le quali erano im pazienti del
giogo camerale, soffrano oggi il giogo di altri, i quali sotto nuovi nomi
riuniscono l'antica ignoranza de' luoghi e delle cose, l'antica oscitanza?... »
(1 ). È as sicurata così la forza dello Stato e la libertà dell'indi viduo.
L'individuo si sente più libero, se per lui opera il comune, la sua espressione
diretta, poi che il comune è a lui più vicino, è la immediata manifestazione
della sua sovranità di cittadino. Si dirà al Cuoco: ma anche la legge, la
volontà generale è tale in quanto è la risultante d'una convergenza di consensi
e di volontà particolari; che anche lo Stato opera sul fondamento del diritto,
e in questo senso è Stato di diritto, e nella forma del di ritto, in quanto
ogni suo atto è manifestazione giuridica, cioè libero volere della collettività;
ma tutto ciò non esclude e menoma la grande verità affermata dal mo lisano. La
volontà generale che s ' esprime nello Stato è lontana dai sensi del cittadino,
in quanto la sua realtà concreta è una formazione etica di volontà mediata,
ond' essa è lontana dalla possibilità d'esaurire tutta la complessa natura
della nazione; mentre la volontà che si estrinseca negli atti del comune, alla
quale il Cuoco vuol dare carattere di legge, surge spontanea dalle più intime
fibre dell'anima popolare, realizza bisogni vera mente profondi, parla infine
ai sensi e alla fantasia, di quegli elementi de' popoli, che vichianamente
possiamo considerare eterni fanciulli ed eterni primitivi. I risultati pratici
di questo sistema sono incalcolabili. « Quante buone opere pubbliche noi
avremmo, se più li bero si fosse lasciato l'esercizio delle loro volontà alle
popolazioni » (2 ). Vi sono paesi per i quali, esemplifica l'autore, un porto,
una rada è indispensabile, e che, in pochi anni, sotto la pressione di esigenze
inderogabili, avendo sufficienti libertà, lo costruirebbero: ebbene, que (1 )
Framm. II, p. 229. (2 ) Framm. II, p. 230. 60 ste stesse popolazioni oggi,
posto un freno all'iniziativa individuale, attendono dal governo quel che non
viene. Si potrebbe obiettare: ma queste affermazioni sono le affermazioni d'un
federalista ! No.... Il Cuoco stesso ha prevenuto la domanda, ed ha distinto
tra autonomia e separazione, tra Stato su base decentrata e Stato fede rativo.
L'autonomia non rinnega l'unità, anzi la conso lida, mentre la federazione per
popoli schiettamente par ticolaristi e campanilisti, com'è l'italiano, è un
primo passo verso la disgregazione. Tra il sistema accentratore alla francese,
in cui gli organi periferici ricevono tutto dalla capitale, e il sistema
federativo di Stati alla sviz zera, ove ogni gruppo gode di leggi sue proprie,
ha un parlamento suo proprio, c'è lo Stato unitario su largo decentramento
amministrativo, e a quest'ultimo sistema il nostro molisano si volge. « So
gl’inconvenienti che seco porta la federazione; ma, siccome dall'altra parte
essa ci dà infiniti vantaggi, così amerei trovar il modo di evitar quelli senza
perdere questi. Vorrei conservare al più che fosse possibile l'attività
individuale. Allora la repub blica sarà, quale esser deve, lo sviluppo di tutta
l'attività nazionale verso il massimo bene della nazione, il quale altro non è
che la somma dei beni dei privati. L'atti vità nazionale si sviluppa sopra
tutt'i punti della terra. Se tu restringi tutto al governo, farai sì che un
occhio solo, un sol braccio, da un sol punto debba fare ciò, che vedrebbero e
farebbero mille occhi e mille braccia in mille punti diversi. Quest'occhio
unico non vedrà bene, lento sarà il suo braccio; dovrà fidarsi di altri occhi e
di altre braccia, che spesso non sapranno, che spesso non vorranno nè vedere nè
agire: tutto sarà malversazione nel governo, tutto sarà languore nella nazione.
Il go verno deve tutto vedere, tutto dirigere » (1 ). Nel sistema cuochiano
l'attività privata è garantita. Il necessario conflitto tra la volontà generale
e la volontà particolare si risolve con lo stabilimento d’una naturale delimita
(1 ) Framm. II, p. 230 e sg. 61 zione di competenza. L'individuo e gli enti a
lui più vicini agiscono in pieną indipendenza: allo Stato resta la funzione,
che a lui è più propria ed è manifestazione vera della sua sovranità, la guida
e il controllo supremo. Vincenzo Cuoco, come ognun vede, nelle sue ricerche di
natura costituzionale è fisso ad una realtà storica che non può fallire, e
cerca di stabilire un edifizio incrollabile. La natura opera in questo mondo
umano e crea diversità, onde tutto ci si appalesa nella sua ineffabile
particola rità, nel mondo fisico e nel mondo morale. I governi operano su
questo mondo degli uomini, e la loro volontà è sempre generale. Le norme
giuridiche attraverso cui s'esprime questa volontà dello Stato sono quindi
fatal mente generali, hanno origine da un processo d'astrazione, riferendosi non
al singolo, ma ai singoli in quanto formano una classe, una media, un tipo. Ai
subietti per natura diversi di bisogni, di aspirazioni, di carattere sovrasta
una norma unica uguale indistinta, e però entro certi limiti tirannica. È
fatale, non può essere diversamente. Ciò non toglie che questo hiatus, che può
divenire con trasto, tra la libertà dei singoli e l'autarchia sovrana dello
Stato, cioè tra la volontà particolare e l'autorità suprema, debba, ed è
doveroso, colmarsi. Ecco: lo Stato impone dei tributi, esprime la sua volontà
in forma giu ridica, che non può non essere quindi generale; ma in tanto i
prodotti di una nazione, dai quali debbono i tributi raccogliersi, sono diversi:
una popolazione ha solo derrate, un'altra manifatture, una terza produce olio e
deve realizzare la sua ricchezza in novembre, un'altra è dedita alla pastorizia
e la ha realizzata in luglio, laddove un industriale ogni giorno produce, e
così via.... « Ben duro esattore sarebbe colui che obbligasse tutti a pa gar
nello stesso tempo, e nello stesso modo; e questa sua durezza che altro sarebbe
se non ingiustizia? Al l'incontro tu non potresti giammai immaginare una legge,
la quale abbia tante eccezioni, tante modificazioni, quanti sono gli abitatori
della tua repubblica: non ti resta a far altro se non che imporre la somma dei
tributi e farne la ripartizione sopra ciascuna popolazione, la 62 sciando in
loro balìa la scelta del modo di soddisfarla; così la volontà generale della
nazione determinerà l'im posizione, la particolare determinerà il modo: questa
non potrebbe far bene il primo, quella non potrebbe far bene il secondo » (1 ).
Tutto ciò è la necessaria conseguenza di un sistema mentale potentemente fuso e
senza una con traddizione. È naturale che l'astrattismo alla francese si faccia
sostenitore d’una unitarietà soffocatrice del par ticolare umano, poi che vede
i princípi, che sono schema tici ed astratti, e non le cose, che rinserrano in
loro l'ineffabilità dell'opera della natura, la quale non crea una foglia simile
ad un'altra foglia. È naturale all'in contro che lo storicismo vichiano di
Vincenzo Cuoco vo glia discendere alla realtà, e nella realtà dedurre e sag
giare i princípi, così come l'oro si saggia dall'orefice esperto sulla pietra,
e su questa realtà edificare il sistema. Per finire questo argomento, sul quale
mi sono assai diffuso, perchè lo ritengo interessante, noto che il Cuoco va
ancora più in là, concedendo una certa autonomia ai cantoni, un quid come i
nostri circondari, ai dipar timenti o provincie. « La costituzione francese
confonde municipalità con cantone: cosicchè ogni cantone potrà avere più
popolazioni, ma non avrà mai più di una mu nicipalità. Io distinguo due
parlamenti: uno municipale per ogni popolazione di un cantone; l'altro
cantonale per tutte le diverse popolazioni che compongono un can tone medesimo
» (2 ). Ma anzichè fermarci e analizzare la critica che il nostro fa alla
divisione cantonale, qual'è p. 231. p. 236. (1 ) Framm. II, (2 ) Framm. II, La
Costituzione del Pagano organizzava il territorio in di. ciassette
dipartimenti, che sono enumerati al tit. I, art. 3 del Progetto. L'articolo 5
al quale si riferisce il Cuoco dice: « Ciascun dipartimento è diviso in cantoni,
e ciascun cantone in comuni: i limiti de'cantoni possono ancora esser
rettificati o cambiati dal Corpo legislativo, ma in guisa che la distanza di
ogni co mune dal capoluogo del cantone non sia più di sei miglia ». Il titolo
VII, art. 173, dice: « In ogni dipartimento vi ha una amministrazione centrale,
e in ogni cantone almeno un'am ministrazione municipale ». 63 in Francia,
vediamo com'egli crede debba essere orga nizzata l'amministrazione. « Sei tu
ormai » scrive al Russo « persuaso della ragionevolezza dell'articolo, che io
vorrei fondamentale nella costituzione nostra? Tu mi conce derai anche questo
secondo: se due o tre popolazioni diverse avranno interessi comuni, potranno
provvedervi allo stesso modo; ed, ogni qual volta le loro risoluzioni saranno
uniformi, avranno forza di legge obbligatoria per tutte le popolazioni
interessate » (1 ). Ecco quindi una comunità d'interesși, che genera co munità
d'opera. Sono i bisogni che muovono gli uomini, la loro attività legislativa,
la loro vita pubblica. Occorre salire dal basso in alto, cioè dal senso all '
intelletto, dal cittadino al governo, e non viceversa. Adopero una simi
litudine, che al Cuoco certo piacerebbe. L'individuo è il senso, il governo
l'intelletto dell'organismo sociale. L'intelletto che agisce senza l'
esperimento del senso è l'astrazione. Lasciamo, dunque, all'intelletto la
direzione, ma lasciamo al senso la avvertenza dei bisogni, che solo
l'esperienza immediata può dare. Una delimitazione di competenze è la salute dello
Stato. La visione netta e precisa del problema costituzionale, che ebbe
Vincenzo Cuoco e che trascende ogni limite di tempo, poi che certe questioni
anche oggi hanno il loro peso, ci si appalesa nella posizione che assegna al can
tone. Vi sono bisogni, che pur non essendo generali, non sono più particolari,
ma riflettono esigenze comuni a due o tre comuni: occorre che i comuni che
formano il can tone li risolvano insieme. « Imperocchè, avendo ogni po
polazione alcuni interessi particolari ad alcuni altri co muni, è giusto che
talvolta prenda delle risoluzioni comuni e tal altra delle particolari » (2 ).
Tuttavia il Cuoco non mi sembra che voglia attribuire al diparti mento quella
larga autonomia che assegna al comune. Perchè? L’autore dei Frammenti non lo
dice, ma chi ha penetrato il suo pensiero intende facilmente. Il comune (1 )
Framm. II, p. 235. (2 ) Framm. II, p. 236. 64 è una formazione naturale,
consacrata dal tempo, ri spondente a bisogni concreti vigili e immediatamente
primi della società. Il dipartimento è una figura ammini strativa, che può
avere importanza entro i limiti d'una competenza ben precisa. Se al
dipartimento si dà una forza che di natura non ha, si crea un piccolo Stato
nello Stato, si perde la sua qualità di nesso d'unione tra il comune e il
potere centrale (1 ). Come ognun vede si agitano qui questioni ancor oggi vive
nella coscienza politica della nazione nostra, que stioni, che, dopo un
sessantennio di convivenza unitaria, non hanno ancora avuto una loro pratica
risoluzione e un impostamento concreto. È tipico ed interessante notare come
tutti i progetti di riforma costituzionale ed amministrativa siano partiti
dall'Italia meridionale, la quale è forse la più danneggiata dal rigido sistema
cen tralizzatore, che noi attraverso il Piemonte abbiamo ereditato dalla
Francia. Nel '60, occupando Garibaldi la Sicilia, alcuni patrioti, Crispi,
Mordini, agitarono il pro blema, fra l'incomprensione delle masse e peggio del
governo, che li tacciarono di separatismo (2 ). Il Cavour stesso, mente lucida
e serena, non intese il problema, e non condivideva i vari progetti di governi
regionali, che si presentavano da altri a lui vicini; ed era natura lissimo:
egli conosceva più l'Inghilterra e la Francia che non l'Italia meridionale e
centrale. Ma la natura si vendica degli uomini, e le crisi politiche hanno
origine dalla questione sovra detta. Vincenzo Cuoco l'ha intuito (1) Questa è
la ragione per cui l'autore (Framm. II, p. 236) scrive: « Ma le unionicantonali
non debbono occuparsi di altro che delle elezioni che la legge loro commette:
inutile, inco modo, pericoloso sarebbe incaricarle di oggetti che richiedes
sero una riunione troppo frequente. I cantoni, seguendo questi principi,
potrebbero essere un poco più grandi di quelli di Francia ». (2 ) M. Rosi,
L'Italia Odierna, v. I, t. II, p. 988 e sgg.; M. Rosi, Il risorgimento italiano
e l'azione di un patriotta co spiratore e soldato, Roma- Torino, Casa ed.
nazionale, 1906, p. 228 e sgg. 65 troppo bene, per non comprenderne il valore.
Ma, pur troppo, tra l'Italia settentrionale e l'Italia meridio nale c'è ancora
un hiatus troppo vasto, perchè le stesse idee possano germinare nel cervello
positivo de gli uomini del nord e nel cervello storicista degli uo mini del
mezzogiorno. Notiamo: l'esperienza politica delle due parti d'Italia è troppo
diversa, perchè la com prensione sia facile. Il comune nell'Italia
settentrionale fu piuttosto sinonimo di particolarismo e di fazione, mentre
nell'Italia meridionale seppe chiudersi in limiti più naturali
d'amministrazione. E ciò era necessario per un'altra considerazione. Laddove
nell'Italia alta si eb bero infiniti domíni, monarchie e repubbliche, varie suc
cessive preponderanze straniere, l'Italia centrale e meri dionale, superato il
dominio bizantino e il longobardico, che non s'estese del resto oltre Benevento
che per un tempo brevissimo — s'assettò sotto i papi e sotto i Nor manni, e chi
ricevette il dominio in eredità lo ricevette nella sua complessità, senza
infrangerlo. Quindi, mentre nell'Italia del sud non si teme l'autonomia, perchè
questa non può infrangere vincoli millenarî, nel nord si teme l'autonomia,
perchè si teme la sua degenerazione, il fe deralismo, e con il federalismo,
quella che si vuol chia mare la questione meridionale, che ai miopi della poli
tica appare questione separatista, mentre è puramente amministrativa. Errore,
che non esito a chiamare defi cienza d'educazione politica e di comprensione
storica ! L'Italia ha raggiunto l'unità non per un caso furtuito, per l'opera
di tre o quattro genî più o meno ispirati, ma per un processo graduale
spontaneo secolare di compene trazione di pensiero e di interessi. La storia
segue una trama eterna, e questa trama non s'infrange. Scombusso latela,
violatela, provatevi a romperla, essa si rifà con i tro di voi, e si
ricostituisce. L'Italia è fatta e non può disfarsi, poi che la sua unità è
opera delle cose e non dei singoli individui. Nel suo seno vi sono i vincoli
d'una unità ancor maggiore e non i germi della dissoluzione. E, se pure vi sono
germi dissolvitori, saranno altri, ma non il comunalismo, nome, che se vuol
significare fazione e campanile, è superato da un pezzo. Crisi vi furono, vi
sono e vi saranno, ma furono sono e saranno crisi ammi nistrative politiche
economiche, ma non mai nazionali. La storia, e non il genio di alcuni ispirati,
ha fatto l'Ita lia, la storia la guida nel suo travaglio e la guida sicura,
anche fra le crisi, di cui ho detto la natura, senza il bi sogno di uomini,
fatali patres patriae, che ogni cinque minuti si arrogano il diritto di
rafforzarla, d’epurarla, e, modestamente, di salvarla ! La critica, come ognun
vede, alla costituzione del Pa. gano è addirittura radicale: troppo francese e
troppo poco napoletana; per essere ottima men che buona, mediocre; come quella
francese del '95 per sancire gli immortali princípi non discende alla vita
positiva. I particolari dimostrano a sufficienza l'astrattismo della
concezione. Il paese elegge 170 rappresentanti, i quali il Pagano di vide in
due gruppi: 50 membri formano il Senato, 120 il Consiglio. Il Senato più
austero e savio approva o re spinge ciò che il Consiglio ha proposto. Il
critico però sempre fisso ad una realtà che non sfugge, l'elemento economico
nella vita dei popoli, si domanda: a qual divisione d'interessi corrisponda
questa divisione di Ca mere: « In Inghilterra ha una ragione, perchè gli uo
mini non sono eguali; ha una ragione anche in Ame rica, poichè, sebbene gli
americani avessero dichiarati tutti gli uomini eguali per diritto, pure – ed in
ciò han pensato come gli antichi (1 ) non si sono lasciati illudere dalle loro
dichiarazioni, ed han. veduto che ri mane tra gli uomini una perpetua
disuguaglianza di fatto, la quale, se non deve influir nell'esecuzione della
legge, influisce però irreparabilmente nella formazione della medesima. Gli
americani han ricercata nelle ric chezze quella differenza che gl'inglesi
ricercan nel grado. (1 ) E noi possiamoaggiungere come.... Cuoco stesso. Il
Cuoco non è davvero per il suffragio universale, nè per una limita. zione
plutocratica, come gli americani, o per una limitazione di classe come gli
inglesi, ma per una limitazione di educa. zione politica, e lo proveremo
appresso. 67 La costituzione francese ha adottato inutilmente lo sta bilimento
americano » (1 ). In sostanza, non essendovi nes suna diversità di bisogni tra
le due Camere, che rappre sentano la stessa borghesia che le esprime, essendo
uguale nell'una e nell'altra la possibilità della corruzione, la distinzione
non ha una ragione pratica. È un altro esempio della concretezza del pensiero
politico del no stro scrittore. La nazione napoletana, mentre per il potere
legisla tivo, offre, come abbiam detto una sua tradizione pae sana, alla quale
il giurista può rifarsi, non offre pari menti una forma indigena di potere
esecutivo potere è pure il più indocile e il più difficile ad organiz zare.
Difficoltà questa più grave oggi, in cui le costitu zioni si creano a tavolino
nel pieno oblìo degli uomini. « Forse non siamo stati mai tanto lontani dalla
vera scienza della legislazione quanto lo siamo adesso, che crediamo di averne
conosciuti i princípi più sublimi » (2 ). Non esiste una costituzione giusta,
una costituzione ottima, esistono costituzioni che più o meno rispondono ai
bisogni di un popolo. Un popolo rozzo avrà una costi tuzione rudimentale, la
quale gli sarà più utile della costituzione del Pagano. Un popolo culto avrà
una costi tuzione sublime, e sol questa potrà essergli utile. Perchè parlare
quindi in via assoluta? È questo un vero e pro prio bisogno di ciò che tocca i
sensi, il trionfo dello sto ricismo. La costituzione è di per sè una mera
forma, che è vuota, se tu non le dài un contenuto di sensibilità umana, un
contenuto essenzialmente storico, cioè dina mico. Portate il diritto a contatto
con la vita, e la vita vi darà la direttiva, il metodo, i princípi (3 ). Voi
andate (1 ) Framm. II, p. 237. (2 ) Framm. III, p. 241. (3) Nel Platone in
Italia (a cura di F. Nicolini, Laterza, ed., 1916, v. I, p. 45) il Cuoco scrive:
«.... In Taranto si disputa tutt' i giorni sulla miglior forma di governo; e
taluno difende gli ordini popolari, altri si lagna che quelli, che si hanno,
non sieno abbastanza oligarchici.... Tornate ai vostri affari -- ho detto io a
molti di questi tali; 68 ricercando una norma, che delimiti il potere esecutivo
dal potere legislativo, che ponga un freno all'arbitrio e tenga il governo
entro la legge: è come cercare l'astratto ! Sono elementi questi di una
costituzione che solo una pratica civile può darvi. Stabilite un principio
desumen dolo dalla costituzione inglese, non è detto che possiate farlo valere
da noi. L'Inghilterra ha fissato per prima questa divisione dei poteri, ed è
stata in ciò scrupolosa; così la Francia, la Svizzera. « Ma questa divisione di
forze dipende dalle circostanze politiche di una nazione; e bene spesso lo
stato delle cose ed il corso degli avveni menti vincono la prudenza dell'uomo:
cosicchè, volendo troppo dividere la forza armata, si corre rischio d’in
debolirla soverchio, e sacrificare così alla libertà della co stituzione
l'indipendenza della nazione » (1 ). È facile ve dere ciò in concreto. Ogni
nazione ha bisogno della forza per la sua difesa, e questo bisogno è vario,
secondo molte circostanze etnologiche, storiche, geografiche, ecc. In
Inghilterra, per esempio, la Carta costituzionale è animata da un sentimento
d’estrema diffidenza verso l'elemento militare, nel timore che questo si faccia
stru mento del governo per opprimere le libertà, onde il so vrano stesso non
può disporre della forza armata, ed è necessario un atto parlamentare ogni anno
per mante nere un esercito. Questi princípi hanno origine nelle lotte tra
monarchia e popolo, e trovarono la loro risolu zione pratica nella
Dichiarazione dei diritti (anno 1689 ), nel definitivo abbattimento degli
Stuart e nell'ascesa al fate in modo di star meglio nelle vostre famiglie, e
starete anche meglio nelle città. Se voi vi volete occupar sempre degli affari
pubblici, senza curar i vostri interessi privati, rassomi. glierete quei
viaggiatori, i quali, per la curiosità di osservar gli edifizi pubblici nella
città in cui arrivano, trascurano di tro varsi un albergo, e poi si dolgono che
in quella città si alberga male. Se volete esser cittadini felici, diventate
prima uomini virtuosi. « I vostri maggiori eran liberi perchè forti e virtuosi.
» (1 ) Framm. III, p. 243. 69 trono degli Orange. Ma il problema così com'è
stato risoluto in Inghilterra, non può essere risoluto altrove: il bisogno che
Albione ha d'un esercito è minimo, poi che la natura stessa, il mare difende le
sue coste dalle aggressioni straniere. Il potere esecutivo può perciò benissimo
essere menomato nelle sue manifestazioni mi litaresche, mentre non potrebbe essere
menomato, senza che la nazione venga indebolita, qualora dovesse ab bandonare
la sua autorità sull'armata, sulla flotta, unico e grande presidio dell'isola.
È possibile tutto ciò in Francia? Evidentemente no. A Napoli? Neppure. Da noi
diminuire il potere esecutivo, togliendogli l'alta di rezione dell'esercito,
significherebbe porre il paese in braccio allo straniero. D'altra parte quello
stesso po tere esecutivo, che non ha energia sufficiente per difen dere le
frontiere, ne avrà sempre tanta da opprimere un collegio elettorale, per fargli
subire la sua volontà estrinseca. Gli antichi, nota il Cuoco, « invece
d'indebolire i po teri,... li rendevano più energici, e così, essendo tutti
egualmente energici, venivano a bilanciarsi a vicenda » (1 ). Oggi i
legislatori invece mirano più alle apparenze, per seguono una delimitazione di
forze e di competenze, che non ha ragione di essere, ed ignorano il vero
equilibrio delle cose. La ripartizione delle forze consiste in un'ar monia di
opinioni, è la risultante d’un lungo processo storico di educazione politica. «
I costumi de' maggiori, il. rispetto per la religione, i pregiudizi istessi dei
popoli servon talora a frenare i capricci dei più terribili despoti, anche
quando al potere esecutivo sia riunito il legisla tivo.... » (2 ). È la natura
che mette un limite all'arbi trio nella stessa educazione, nello stesso senso
civile del popolo. Una nazione ha, in sostanza, il regime che si merita. A
volte gli stessi tiranni sono fatali. Quando per soverchio amore di ordine, di
regolarità una repub blica, poniamo, vuol togliere alle popolazioni usi, co (1
) Framm. III, p. 244. (2 ) Framm. III, p. 244. 70 stumi, religione, per
uniformarle ad una prassi desunta da princípi, il déspota può darsi che sia
accolto come un liberatore. Il concretismo storico del Cuoco qui raggiunge le
sue vette più alte. L'autore stesso dei Frammenti, dopo pochi anni, dovette a
lungo meditare su queste stesse analisi, veggendo come i fatti avessero
confermato le sue induzioni con l'avvento di Napoleone al duplice trono di
Francia e d'Italia, tra il plauso delle popola zioni stanche di regolarismo
repubblicano. « È pericoloso estendere soverchio l'impero delle stesse leggi,
perchè allora esse rimangono senza difesa. Le leggi da per loro stesse son mute:
la difesa la dovrebbe fare il popolo; ma il popolo non intende le leggi, e solo
di fende le sue opinioni ed i costumi suoi. Questo è il peri colo che io temo,
quando veggo costituzioni troppo filo sofiche, e perciò senza base, perchè
troppo lontane dai sensi e dai costumi del popolo » (1 ). Il popolo ha sue
esigenze d'ordine e di regolarità, in dipendentemente dall'ordine e dalla
regolarità che gli si vuole imporre estrinsecamente, e da queste esigenze na
scono spontanei contrappesi costituzionali, limiti al l'esercizio de' poteri.
Vuoi che egli resti attaccato alla legge, e se ne faccia quasi il tutore? Devi
sfruttare la sua natura, pure i pregiudizi. Vuole solennità? Dà alle leggi
solennità quasi jeratica. La costituzione gli sem brerà cosa sacra, la
rispetterà e la farà rispettare. L'uomo, però, è sopra tutto interessi,
plasmato com'è da bisogni materiali. Su una base economica e materiale riposa
in parte la sua natura. Dividete i poteri esterior mente, non avrete fatto
nulla: il più forte invaderà il campo del più debole, ne nasceranno crisi,
conflitti, pre dominii. Per frenare la forza non vi può essere che un solo
mezzo: dividere gli interessi. Da una disarmonia d'interessi nasce l'armonia
degli ordini civili, poi che ciascuno difenderà il proprio interesse e sarà
impedito a (1 ) Framm. III, p. 246. 71 sua volta di violare l'interesse altrui.
« Fate che il potere di uno non si possa estendere senza offendere il potere di
un altro; non fate che tutt'i poteri si ottenghino e si conservino nello stesso
modo; talune magistrature perpe tue, talune elezioni a sorte, talune promozioni
fatte dalla legge, cosicchè un uomo, che siasi ben condotto in una carica, sia
sicuro di ottenerne una migliore senza aver bisogno del favor di nessuno; tutte
queste varietà, lungi dal distruggere la libertà, ne sono anzi il più fermo so
stegno, perchè così tutti i possidenti, e coloro che sperano, temono un
rovescio di costituzione, che sarebbe contrario ai loro interessi » (1 ).
Questa la vera sapienza costitu zionale: il resto è pregiudizio ed empirismo.
Si è pensato a diminuire la forza del governo, aumentando il numero delle
persone a cui è affidato. Il numero impedisce, sì, l'usurpazione, ma porta seco
la debolezza. I romani avevano il Senato, ma operavano per mezzo de' due
consoli, o meglio per mezzo del dittatore. « L'unità im pedisce la debolezza,
che porta seco la dissoluzione e la morte politica della nazione ».
Quest'affermazione unitaria del Cuoco avrà, come dimostremo, grande im portanza
per la successiva evoluzione del suo pensiero, e sarà la base della
legittimazione politica dell'impero napoleonico. Un altro punto
interessantissimo è questo. Le costitu zioni sono istituti sociali, umani, e
però vivi di vita pro pria. Il giudizio sul loro valore è lento, graduale, si
può avere solo dopo lungo tempo, sulla base degli effetti pro dotti e non in
base a princípi di ragione. Occorre cono scere i popoli, e vedere se esse
costituzioni rispondono alla loro vita, alla loro natura: solo il tempo può
darci un giudizio definitivo. Quindi nessuno può dirci se la monar chia o la
repubblica sia buona o cattiva. « Un re eredita rio», dice Mably, parlando
della costituzione della Svezia, « quando non ad altro, serve a togliere agli
altri l'ambizione (1 ) Framm. III, p. 247. (2) Framm. III, p. 249. 72 di
esserlo; ed io credo la monarchia temperata meno di quel che si pensa nemica
degli ordini liberi » (1 ). In piena rivoluzione il Cuoco afferma che non è
detto che la repub blica estremista e radicale sia la panacea di tutti i mali,
e che vi possano essere sistemi più rispondenti alla realtà nazionale, che
garantiscono meglio l'unità del reggimento politico e la libertà stessa, senza
cadere nella debolezza, che di solito interviene allorquando il potere supremo
per essere nelle mani d'un direttorio di più persone nelle mani di nessuno. Già
spuntano nell'autore dei Frammenti idee, che germineranno e che renderanno
sempre più coerenti i suoi princípi, espressioni profonde di convincimenti
sinceri e di meditazioni severe, non opportunismi servili, come ha voluto
dimostrare qual che critico che del pensiero del grande molisano ha ca pito ben
poco. Il popolo è quello che è, con le sue virtù e con i suoi vizi. Il
legislatore non deve che osservare, e dar leggi conformi alle condizioni reali
dei subietti, sfruttando vizi e virtù, tutto disimpegnando, tutto cercando d'ar
monizzare positivamente. Nel Progetto del Pagano c'è un primo istituto, la
censura, che rivive ed arieggia la censura latina; c' è un secondo ufficio,
l'eforato, che ri corda un nome spartano anche nella sostanza, avendo il fine
di tenere i poteri pubblici nel proprio cerchio, non partecipando ad alcuno di
essi. Il Cuoco loda quest'ultima magistratura, ma non nasconde la grave verità:
non vi può essere forza estrinseca, fuor dalle cose stesse, che mantenga
l'equilibrio ! In quanto alla censura siamo sem pre allo stesso punto: molta
nobiltà di sentimenti, poca concretezza. Come provare che un cittadino viva ari
stocraticamente, agisca con alterigia, « sia prodigo, avaro, intemperante,
imprudente...? ». Se la nazione è corrotta, se gli strati sociali sono corrosi,
la censura non potrà fare nulla di nulla. « Libertà ! virtù ! ecco quale deve
esser la meta di ogni legislatore; ecco ciò che forma tutta (1 ) Framm. III, p.
250. 73 la felicità dei popoli. Ma, come per giugnere alla libertà, così la
natura ha segnata, per giugnere alla virtù, una via inalterabile: quella che
noi vogliam seguire non è la via della natura » (1 ). La virtù, anch'essa, non
è un assoluto, quindi non esiste un termine a cui ricondurre le norme della
vita. Lo stesso entusiasmo per la virtù può produrre in un paese disgregamenti,
e per essere troppo spartani o romani si può cessare d'essere napoletani o
milanesi. La notazione è sottile e vera, in un tempo in cui ogni buon
repubblicano era un Bruto, uno Scevola o che so io in quarantottesimo, pronto a
recitare la sua parte tragica d'eroe e di tirannicida. « La virtù è una di
quelle idee, » scrive il Cuoco, « non mai ben definite, che si presentano al
nostro intelletto sotto vari aspetti; è un nome capace di infiniti significati.
Vi è la virtù dell'uomo, quella delle nazioni, quella del cittadino: si può
considerar la virtù per i suoi princípi, si può considerare per i suoi effetti
» (2 ). Può darsi che esi sta un'assoluta virtù, ma questo concetto non può che
riflettere la filosofia morale. Il legislatore deve mirare a ben altro fine che
ad una virtù superumana sublime, deve mirare a stabilizzare un costume « che
non renda infelice il cittadino », deve cioè trovare quell'armonica delimitazione
tra libertà e libertà, tra volontà partico lare e volontà particolare, che sola
può rendere pacifica l'umana convivenza. « Il fine della virtù è la felicità, e
la felicità è la soddi sfazione dei bisogni, ossia l'equilibrio tra i desideri
e le forze » (3 ). Il nostro autore è un politico. A lui non in teressa
l'universale etico, che riconosce e legittima nella sua sfera ideale ed eterna;
a lui interessa la morale po sitiva, che altro non è che la conformità del
costume del (1 ) Framm. VI, p. 261. La critica cuochiana coincide affatto con
quella che un valente costituzionalista moderno ha fatto dei due istituti del
Pagano, l'eforato e la censura: vedi L. PALMA, op. cit., p. 442 e sgg. (2 )
Framm. VI, p. 261. (3 ) Framm. VI, p. 262. 74 singolo cittadino col costume
della nazione (1 ). Il diritto ci appare, quindi, come un minimo etico, che
assicura una certa non esagerata regolarità ed uniformità di vivere civile.
D'altra parte il Cuoco riconosce che, se il diritto deve limitarsi ad osservare
dati di fatto e a porre norme alla convivenza, stabilendo una pura e semplice
hominis (1) Il concetto che una costituzione politica può assicurare la
felicità umana solo in quanto ha un fondamento sulla virtù politica; e, questa
alla sua volta rafferma, appare assai fre quente nel Platone in Italia. Arehita
(v: I, p. 87) dice: « Ciò, che veramente è necessario in una città; è che
ciascuno stia al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad
ottener l'uno e l'altro, sono necessari egualmente la scienza e la
subordinazione... -- Non perdete la stima del popolo, diceva Pittagora, se
volete istruirlo. Il popolo non ode coloro che disprezza. Di rado egli può
conoscer le dottrine, ma giudica se. verissimamente i maestri, e li giudica da
quelle cose che sem. brano spesso frivole, ma che son quelle sole che il popolo
vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto? Quando si · tratta d'istruirlo,
tutt' i diritti sono suoi: tutt' i doveri son nostri, e nostre tutte le
colpe.... Tutte quelle dottrine destinate a pro durre riforme popolari hanno
bisogno di collegi, d'iniziazione, di segreto. Tutt' i popoli hanno avuto di
simili collegi. Sono i primi passi che ogni popolo fa verso migliori ordini
civili. I vo. stri misteri di Eleusi e quelli di Samotracia hanno la stessa
origine: ma nè sul principio sonosi occupati de' nostri oggetti, perchè nati in
età più barbara; nè oggi possono esser più utili, perchè resi troppo comuni.
Come pretendete che gl'iniziati emen dino il costume di Atene, se voi ateniesi
siete tutti iniziati?... ). « Non son questi, o Archita ), disse allora
Platone, « i soli mali che jo temo per tali collegi. Essi talora possono
separarsi dal resto degli uomini, e perdersi o dietro astruse inutili
contemplazioni, o dietro l'ozio e gli agi che il rispetto del popolo loro dona.
Questo male io temo ogni volta che si separano le instituzioni morali dalle
civili. Del resto la morale di Pittagora è nell'in trinseca natura dell'uomo.
Essa rinascerà, non ne dubito, sotto altri nomi ed in altre terre. Rinascerà,
quando la corruzione dei costumi e degli ordini civili e la miseria generale
avrà ridotti gli animi all'estremo de' mali. L'estrema corruzione nei costumi
de' popoli produrrà l ' estrema austerità ne' precetti de' pochi saggi che
allora vi saranno; l'estremo de' mali produrrà l'estre. mo del coraggio, della
temperanza, della virtù, e risorgeranno sotto altri nomi la sapienza ed i
collegi di Pittagora. Possan non separarsi mai dalle leggi e dalla società !
Possano non riunirsi mai con - vincoli troppo tenaci !... ». 75 ad hominem
proportio, la politica deve andare più in là, assicurare una felicità presente,
dalla quale sola può scaturire la virtù, ed inoltre aiutare lo sviluppo della
felicità, creare la felicità futura e di conseguenza la virtù futura. La sferà
del politico, pur non attingendo il sü blime vertice dell'indagine etica che
non può vigere che nel mondo teoretico, la sfera del politico, sfera del tutto
pratica, anzi economica, trascende, com'ognun vede, la pura determinazione
giuridica: La vita umana è una ë complessa nello stesso tempo, perchè uno e
complesso è lo spirito: La felicità politica, e quindi la virtù pub blica, ci
appaiono come una formazione vastissima, ri: sultando da elementi molteplici,
d'indole spirituale, reli giosa, materiale. Un elemento però è sovra gli altri
im portante, l'economico, pur che lo si sappia intendere in sepso lato. « Il
fine della virtù è la felicità » (1 ). Per un politico l'affermazione non suona
male, specie dopo the egli stesso ha ammesso la possibilità d'un'altra ricerca
superiore, i cui termini sono di natura teoretica, che po trà influire sulla
ricerca positiva, essendovi innegabili vincoli di reciprocanza, ma che non si
connatura con questå. « La felicità è la soddisfazione dei bisogni ossia
l'equilibrio tra i desideri e le forze ». Sottentra l'elemento economico. « Ma,
siccome queste due quantità sono sem pre variabili, così si può andare alla
felicità, cioè si può ottener l'equilibrio oscemando i desideri o accrescendo
le forze » (2 ). Il selvaggio cura poco il suo simile: la sua economia è, entro
certi limiti, economia individuale iso lata, L'uomo civile non può prescindere
dal resto del mondo: la sua economia è solo per astrazione individuale,
concretamente è economia collettiva sociale. I bisogni di quest'uomo sono
bisogni dinamici e progressivi. Il con cetto della società ha implicito il
concetto della progres sività, poi che è impossibile pensare una società umana
statica, senza condannarla ad una prossima morte. I bi sogni umani sono in
continuo sviluppo: il lusso, quel che (1 ) Framm. VI, p. 262. (2 ) Framm. VI,
p. 262, 76 chiamiamo lusso, è la manifestazione di bisogni nuovi, null’affatto
superflui, poi che sono la cagione d'ogni umano progresso. Sorgono nuovi
bisogni, ma con essi nasce spesso un disquilibrio, l'infelicità, poi che non
sempre le forze bastano a produrre i beni necessari per soddisfare i nuovi
bisogni. Che vale predicare gli antichi precetti di moderatezza, fulminare le
nuove esigenze so ciali, la ricchezza? La storia corre incessantemente il suo
corso ideale. Nuove età: nuovi bisogni: disquilibrio di forze produttive: poi,
di nuovo, equilibrio per una reintegrata armonia tra forze economiche e
bisogni: infine ancora un secondo disquilibrio per esigenze sottentrate
nell'ambiente, e così in eterno. La dinamica economica è un avvicendarsi
continuo d'equilibri successivi, d'equi libri turbati che si compongono in un
nuovo punto. L'intuizione cuochiana è lucida ed anticipa di molto alcune vedute
economiche moderne. Il fine della politica è assicurare quest'equilibrio tra
forze e bisogni, tra forze e desideri, come dice il Cuoco. « Se tu ci
insegnerai», scrive « la maniera di soddisfare i nostri bisogni, se farai
crescer le nostre forze, c' ispirerai l'amore del lavoro, schiuderai i tesori
che un suolo fertile chiude nel suo seno, ci esenterai dai vettigali che oggi
paghiamo per le inutili bagattelle dello straniero, ci renderai grandi e
felici: e, senza esser nè spartani nè romani, potremo pure esser virtuosi al
pari di loro, perchè al pari di loro avremo le forze eguali ai desidèri nostri
» (1 ). Le ricerche del Cuoco sono le ricerche dell'uomo politico. Il molisano
è troppo superiore per credere che la sua analisi esaurisca ogni altro problema:
egli stesso dice al Russo: « Ti dirò un'altra volta le mie idee sullo studio
della morale, sulle cagioni per le quali è stato tanto trascurato presso di
noi, sulle cagioni delle contraddizioni che ancora vi sono tra precetti e
precetti, tra i libri e gli uomini; e forse allora converrai meco che di questa
scienza, che tanto interessa l'umanità, non ancora si conoscono quei prin (1 )
Framm. VI, p. 262 77 cípi che potrebbero renderla utile e vera » (1 ). A me
sembra di vedere una netta distinzione tra filosofia e politica, tra etica e
pedagogia generale: quel che in una sfera ha un suo profondo valore è
insufficiente nell'altra. « L'amor del lavoro mi pare che debba essere l'unico
fondamento di quella virtù, che sola può avere il secol nostro. La cura del
governo deve esser quella di distrug gere le professioni che nulla producono, e
quelle ancora le quali consumano più di ciò che producono;,e ne verrà à capo,
se stabilirà tale ordine, che per mezzo di esse non si possa mai sperare tanto
di ricchezza quanto colle arti utili se ne ottiene » (2). Il governo deve dare
un vero e proprio impulso alla produzione: le forze giovani anzi che dirigersi
agli impieghi pubblici debbono svilup parsi altrove, alle industrie, ai
commerci, e sovra tutto alla campagna. « Il lavoro ci darà le arti che ci
mancano, ci renderà indipendenti da quelle nazioni dalle quali oggi dipendiamo;
e così, accrescendo l'uso delle cose nostre, ne accrescerà anche la stima, e
colla stima delle cose nostre si risveglierà l'amor della nostra patria » (3 ).
È una vera pedagogia politica in cui i princípi vivono al contatto con la
realtà, in un sano relativismo, che, non scendendo alla bassezza
dell’empirismo, respinge da se ogni astruseria. Oggi specialmente, in cui la
filosofia po litica è di moda e si riconduce pure la pratica più volgare agli
eterni princípi; questo nobile realismo ideale, sia permessa la parola,
dovrebbe insegnarci più d'una cosa. La rivoluzione pretende di rinnegare la
storia, s'af ferma come antistorica; ma di fronte ad essa, per un processo, che
non è solo di reazione, ma di sviluppo - da Vico a Cuoco è lo stesso genio
italico lo storicismo rinasce, critica della stessa rivoluzione e entro certi
limiti sua rivalutazione. Il Cuoco non rinnega la rivoluzione, anzi mostra di
conoscerne i benefíci, che poi enumererà con lucida visione nel Saggio e
soprattutto ne' suoi articoli (1 ) Framm. VI, p. 261. (2 ) Framm. VI, p. 263. (3
) Framm. VI, p. 263. 78 milanesi. Ma l'astrattismo in materia legislativa è
dele terio, ed occorre superarlo, riconducendo il diritto alla vita. Sentimento
profondo, che il nostro non tradirà mai, e sarà sempre alla cima del suo
pensiero nel lungo corso, che noi ci sforzeremo di seguire. La critica del
progetto di Pagano ci appare, quindi, come la manifesta zione d'un sistema, che
nel molisano è organico ed in tero, non l'opposizione piccina d'un
antirepubblicano. Nè Vincenzo Cuoco si smentì mai. Le notazioni che egli volge
alla costituzione partenopea, rivolgerà più tardi nel Saggio alla costituzione
francese, che a lui sembra troppo poco adeguata ai bisogni del popolo. « Chi
para gona la Dichiarazione de ' diritti dell ' uomo fatta in America a quella
fatta in Francia, troverà che la prima parla ai sensi, la seconda vuol parlare
alla ragione: la francese è la formula algebraica dell'americana » (1 ). Ma
quanto queste idee fossero in lui radicate e profonde, possiamo ancora meglio
dimostrare. Nel Giornale italiano, ricevuto l'annunzio che la patria di Alcinoo
e di Ulisse ha riacqui stato l'indipendenza, costituendo la così detta Repub
blica settinsulare, scrive alcune sue opinioni che è op portuno rivedere. « È
difficilissimo giudicar di una costi tuzione. La migliore non è sempre quella
che per astratti argomenti si dimostra ottima, ma bensì quella che è più
uniforme al costume de' popoli: a quel costume che esi ste sempre prima della
costituzione; e, se è simile, la rende vicina e durevole; se diverso, la
indebolisce e la distrugge.... ». Qual'è dunque il principio che solo può
sanzionare la bontà d'una costituzione? Noi lo sappiamo: il tempo, il quale ci
confermerà se essa risponde a bisogni concreti; la storia, la quale ci dirà se
essa si riconnette allo sviluppo della nazione, sviluppo o corso, al quale
occorre necessariamente rifarsi, come ad incrollabile base, poi che il processo
della vita non soffre soluzioni di con (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p.
39. 79 tinuità. « La storia de' tempi passati », ci ammonisce il Cuoco, è la
norma di quelli che ancora debbono ve nire » (1 ). (1 ) L'articolo è intitolato
La costituzione della repubblica set tinsulare; Giornale italiano, 1804, 15
febbraio, n. 20, pp. 78-79. Nelle pagine seguenti del mio lavoro avrò frequente
bisogno di rifarmi al Giorn. ital., in cui c'è il meglio dell'ingegno po litico
del Cuoco, e citerò largamente disul testo. Siccome, peraltro, molti dei più
significativi articoli del foglio milanese sono stati ristampati in appendice
alle opere critiche del Ro MANO e del Cogo, se è del caso, darò tra parentesi,
dopo le indicazioni dirette del Giorn. ital., le indicazioni delle ristampe.
Altri cinque articoli cuochiani sono stati ripubblicati da G. Gen tile insieme
col Rapporto al re Murat e Progetto di decreto per l'ordinamento della Pubbl.
Istruzione nel Regno di Napoli col titolo di Scritti pedagogici inediti o rari
(Roma-Milano, Albrighi e Se gati ed., 1909). Allorquando poi il mio lavoro era
già compiuto sono usciti alla luce due altri volumi contenenti quanto di V.
Cuoco rimaneva disperso: Scritti vari a cura di N. CORTESE E di F. NICOLINI,
Bari, Laterza ed., 1924. Forse sarebbe stata op portuna una ristampa di tutti
gli scritti del Giorn. ital., ma gli egregi editori non hanno creduto di farla,
limitandosi a ripro durre per intero ben ventisette articoli, e sono i
maggiori, e a dare, a mo' di appendice, un catalogo ragionato degli altri ri.
masti fuori. S'intende che io ho rivisto le mie citazioni sull'edi. zione
laterziana, che, dal punto di vista della correttezza, offre i maggiori
affidamenti. Il « Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana ». Il Saggio storico mostra in atto il sistema negativo
ab bozzato nei Frammenti. – Lo storico e l'artista. – La. Rivoluzione francese
è attiva, quella napoletana pas siva. L'astrattismo. - La corte e il governo. –
I re pubblicani e il popolo. - L'arte del Saggio. I Frammenti di lettere
dirette a Vincenzio Russo ideal mente vanno innanzi al Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana, sebbene tipograficamente in tutte le edizioni cuochiane
seguano, quasi a mo' d'appendice, questo. Essi sono una vera e propria formulazione
di princípi filosofici giuridici economici, che Vincenzo Cuoco desume da un'esperienza
storica e politica insieme, antica e mo derna nello stesso tempo. Larghi sono i
raffronti tra le costituzioni classiche e le odierne, tra costituzione odierna
e costituzione odierna, e la critica si svolge tra compara zioni ed appunti
acutissimi. È l'opera di una eccellente testa politica, che ha legittime
pretese di teorizzatore e di sistematico. V'è un ordine logico ferreo, una
disciplina storica, una consequenzialità impressionante. Avremmo desiderato che
questo sistema in abbozzo il Cuoco stesso avesse sviluppato, ma noi posteri,
ammirando la sua eletta figura, non possiamo domandargli più di quanto ci ha
dato, se non nel dolore di vedere quanta parte del suo genio sia andata
dispersa nell'esilio, nella po vertà e infine nelle malattie. È il libro d’un
pensatore 81 che ad una astratta ideologia oppone il suo paesano realismo
storico. Vincenzo Cuoco assiste allo svolgersi degli avvenimenti, giudice
imparziale, ma non per que sto inattivo e mutolo, e vede la storia rinnegare i
suoi ideali, l'errore trionfare e fatalmente sommergere l'edi fizio
repubblicano. La vita segue una via che è fatale che segua. L'errore trae
l'errore, l'estremismo l'estremi smo. L'astruseria rivoluzionaria forza le cose,
e la storia sembra calpestare lo storicismo, i princípi, che la specu lazione
ha desunto e desume dall'osservazione del suo eterno corso. La storia sembra
seguire uno spiegamento, che non è quello che il passato legittima. Vedremo,
invece, come, superato il vortice, sia la storia stessa che illumina le verità
cuochiane: sarà il periodo del Giornale italiano, il periodo napoleonico
dell'impero. « L'uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si cangiano,
tutt'i suoi affetti, giunti all'estremo, s'indeboliscono e si estin guono: a
forza di voler troppo esser libero, l'uomo si stanca dello stesso sentimento di
libertà. Nec totam liber tatem, nec totam servitutem pati possumus, disse
Tacito del popolo romano: a me pare, che si possa dire di tutti i popoli della
terra. Or che altro aveva fatto Robespierre spingendo all'estremo il senso
della libertà, se non che accelerarne il cambiamento? » (1 ). « Questo è il
corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il po polo si agita
senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la felicità è
nel mezzo » (2 ). Tale è la vita: dalla sua stessa negazione scaturisce
un'afferma zione. La rivoluzione rinnega la storia, e la storia prende la sua
rivincita sulla rivoluzione. La rivoluzione afferma il diritto alla sommossa:
Robespierre, figlio della rivolu zione, lo nega ghigliottinando; il popolo
stanco lo afferma sul capo di Robespierre. La cos za storica stess sem bra
distrutta da tutta una tragica serie di fatti, ispi rati alla più astrusa
ideologia: la realtà annichilisce i repubblicani e li conduce alla perdizione;
l'equilibrio si (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p.- 99. (2 ) V. Cuoco,
Saggio storico] ristabilisce, si riconferma ciò ch'era stato negato. Onde ben
scrive, a mio avviso, il De Ruggiero, affermando che l'esperienza
rivoluzionaria dà un nuovo significato alla negazione, in quanto questa è la
crisi feconda di un rin novamento della vita storica. La crisi, in sostanza,
non può non apparire che come una critica degli avveni menti passati e delle
istituzioni da essi nate, che non giudica arbitrariamente, sovrapponendo una
verità a priori, ma svolge dagli errori stessi un latente spirito di verità (1
). Questa, infine, la ragione dell'ottimismo rela tivo del Cuoco. L'esperienza
politica del Machiavelli do veva necessariamente finire, data la sua natura, le
sue premesse, i suoi fini, nel pessimismo o nell'amarezza. L'esperienza del
nostro, certo più tragica, più dolorosa, più densa di dolore, che non quella
del segretario fioren tino, sfocia, ed è naturale, in un equilibrio, che è
quanto dire in un bene relativo, in Napoleone. Tra l'astrattismo e Napoleone
c'è la rivoluzione, la prassi sanguinosa, il rinnegamento del passato, la
critica assoluta delle isti tuzioni millenarie, l'apriorismo giuridico, la
democratiz zazione, universale, l'esaltazione dei princípi. La storia procede
con continuità mirabile, ma nella sua stessa continuità c'è un processo di tesi
antitesi ed un supera mento implicito, c'è infine la vera dinamica dello spi
rito, dell'idea, che muove gli uomini e le nazioni. La rivoluzione e Bonaparte
sono due aspetti della stessa realtà: « il passato, negato violentemente, si
riaffaccia alla vita nell'atto stesso della negazione » (2 ). La critica
dell’astrattismo razionalistico, che ne' Frammenti abbia mo osservato e colta
nella teoria, nel Saggio è mostrata e, direi, vista in atto, nello stesso
spiegarsi della storia. È la storia stessa, che, nell'indicare la fatalità del
pro cesso storico determinato dai princípi e dalla prassi re pubblicana,
giudica d’un metodo e d’una mentalità. La storia sembra dire: queste norme
hanno portato a tale orribile scioglimento, giudica tu, lettore, della loro
bontà ! (1 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 167. (2 ) G. DE RUGGIERO, op. cit.,
p. 168. 83 In ciò è riposto quel carattere di sana sapienza, quel l'obiettività
del Saggio, per cui Luigi Settembrini ben potea paragonarlo ad una tragedia
greca (1). Ed il raf fronto non è davvero stiracchiato. La Provvidenza vi
chiana vi tiene il posto dell'antico Fato nell'urto degli eventi, e gli uomini
stessi, che hanno determinato la ! catastrofe con i loro errori, con le loro
incongruenze, sog giacciono ad un destino, che sembra irrevocabile. Sono essi,
gli uomini, che determinano lo scioglimento, o sono poveri burattini nelle mani
d'un ignoto motore? Ma la storia è reciprocanza e v'è perfetta conversione tra
causa ed effetto: gli uomini, che fanno la storia, soggiacciono ad essa. Il
Cuoco parla spesso di un vortice (2 ), in cui egli stesso fu tratto, e da cui
potè districarsi a mala pena, dopo aver perduto i beni e la patria, vortice che
egli non ammirava, se pure non odiava, come vuole il Tria, ma che distrusse sul
palco ferale tante nobili esistenze, parla insomma di un vortice, che non è
altro che la rivoluzione. Che cosa è mai? È superiore alla volontà degli uomini?:
No, esso è fatto dagli uomini nel loro delirio, nel loro ! errore, e gli uomini
possono averne sicura conoscenza, poi che essi ne sono i fattori, ma averne
conoscenza, si gnifica in un certo senso superamento e distacco da esso. Nei
Frammenti era la teoria, la metodologia. Il Saggio storico è la vita in atto,
la tragedia greca in isviluppo, le passioni colte nel loro urto. Questa è la
ragione per cui esso è un'opera d'arte, una grande opera d'arte. Lo spi rito
dello scrittore rifà il processo della storia, segue il corso delle idee, e lo
fa con tale intensa visione da ri crearcelo in un miracolo di luci, di
chiaroscuri, di sfu I mature. V'è l'anima insomma, laddove prima era il
pensiero; la fantasia, laddove prima era l'intelletto, la fantasia che
s'esprime per immagini e tutto risolve nella immagine. L'opera d'arte è attinta
in un processo d'obiet (1 ) L. SETTEMBRINI, Lezioni di letteratura italiana,
Napoli, Morano ed., 1882, v. III, p. 282. (2 ) V. Cuoco," Saggio storico,
Lettera dell'autore a N. Q., p. 11: I, p. 16; VIII, p. 47; XV, p. 84, 84
tivazione, che non esito a dire perfetto, onde non v'è affatto, o assai
raramente, quel contrasto ibrido tra l'ar tista che intuisce e lo storico che
analizza quale può rin venirsi in molte opere di simile genere, poi che tutto è
compenetrato e fuso, attraverso una lunga maturazione, che dovette certo essere
prima consapevolezza di pen siero, meditazione di cause e di effetti, e poi
immedia tezza nervosa e rapida d'espressione (1 ). Invano tu cercherai nel
Saggio un elemento estrinseco all'artista e allo storico. Lo storico si fonde
con l'artista, ma lo stesso storico è perfetto. L'uomo pratico non con turba
l'artista, che supera nella visione l'enunciato fine utilitario della sua
narrazione; il partigiano non con turba lo storico. Leggete invece il Rapporto
al cittadino Carnot del vesuviano Francesco Lomonaco. Quante escla mazioni,
quanti interrogativi, quante tirate oratorie, quanti pistolotti repubblicani,
quanto anticlericalume, quanta montatura ! V? è l'uomo delle nobili passioni,
ma v'è pure l'uomo pratico, che per raggiungere un suo fine, non esita di
caricar di tinte fosche la storia, non esita un momento per indossare la toga
dell'avvocato. Infatti chi può negare la presenza d'una passionalità che di
strugge la storia, d'una coscienza turbata ed oscura, che è la negazione d'ogni
vera espressione artistica? (2 ). Nel Cuoco nulla di tutto ciò. (1 ) La
questione della cronologia del Saggio a me sembra oramai risoluta. Fausto
Nicolini, in una sua nota all’ed. barese del Saggio, p. 357 e sgg., la riassume
e ne trae le migliori conseguenze. Perciò non ho che da rinviare il lettore a
quanto il Nicolini ha egregiamente scritto. Del Saggio poi possediamo numerose
edizioni, di cui alcune buone, molte mediocri scorrette ristampe, nonchè
traduzioni straniere: vedi N. RUGGIERI, op. cit., p. 173; e la nota del
Nicolini all’ed. laterziana. (2 ) Ogni possibile raffronto tra il Cuoco e il
Lomonaco è assolutamente impari. Già lo osservò il Gentile ne' suoi Studi
vichiani, p. 361, nota, là dove critica un giudizio di G. Na. tali, che nella
sua monografia La vita e il pensiero di Francesco Lomonaco, Napoli,
Sangiovanni, non esita a chiamare il suo scrittore predecessore in molte idee
di Vincenzo. Scrive il Gen tile: « Tra le superficialità del Lomonaco e le
vedute profonde 85 Chi si accinge a studiare il pensiero cuochiano, i mo menti
ideali dello spirito del grande molisano, non può non rifarsi ad un
avvenimento, che per lui, come per noi, è la fonte, donde scaturirono tutti i
successivi avveni menti, la rivoluzione francese, di cui la rivoluzione parte
nopea non è che un tardo episodio. Il Cuoco, che studia più le idee che i
fatti, le idee che sono degli uomini, le idee che muovono gli uomini, lega la
storia napoletana alla francese, e di questa ci dà un quadro ricco e vasto. «
Le grandi rivoluzioni politiche occupano nella storia dell'uomo: quel luogo
istesso che tengono i fenomeni straordinari nella storia della natura » (1 ).
Le rivolu zioni-sono come le malattie nel corpo umano, i periodi sismici nel
mondo geologico. Le generazioni si succedono incolori uguali, finchè « un
avvenimento straordinario sembra dar loro una nuova vita ». Le rivoluzioni sono
un'misto di bene e di male, gravi di effetti buoni o cat tivi, come le crisi di
crescenza nel corpo d’un fanciullo. « In mezzo a quel disordine generale, che
sembra voler distruggere una nazione, si scoprono il suo carattere, i suoi
costumi e le leggi di quell'ordine, del quale prima si vedevano solamente gli
effetti » (2 ). Le rivoluzioni sono esperienze politiche, dalle quali non si
può prescindere, perchè sono nell'ordine stesso della natura. Esse rinnegano a
parole il passato, di fatto poi lo riconfermano, e nella negazione della storia
il filosofo ritrova lo sviluppo fatale della storia. Guardiamo la rivoluzione
di Francia, a la più gran rivoluzione dicui ci parli la storia » (3 ). Essa
scoppia improvvisamente, rinnegatrice di tutto un passato: una analisi
immediata ci dirà che lo stesso passato l'ha pre parata, e allo stesso passato
essa si ricongiunge, onde è stato possibile a molti il prevederla. Gli uomini
sono cie del Cuoco c'è tale abisso, che non è lecito raccostare i due nomi, se
non per illustrare l'ambiente in cui si muoveva lo spi rito del Cuoco, o per
far meglio vedere la sua superiorità ». (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, I. p.
15. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, I, p. 15. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, II,
p. 17, 86 chi, ma la storia, fatta dagli uomini, non è cieca, ed ha una sua
logica, nella cui grandezza noi siamo come dispersi. Gli uomini sono ciechi e
sono inclini a scambiare il processo della loro mente con il processo della
storia, e, peggio, a credere i suoi sviluppi mero sviluppo d'un pen siero loro
individuale. Il filosofismo francese ha preceduto la rivoluzione: ciò non
significa che esso abbia generato la rivoluzione. La storia non s'esaurisce
nella filosofia, come non s'esaurisce nell'economia: la storia è d'una
complessità mirabile. « I francesi illusero loro stessi sulla natura della loro
rivoluzione, e credettero effetto della filosofia quello che era effetto delle
circostanze politiche nelle quali trovavasi la loro nazione » (1 ). Ma la
filosofia non compie simili miracoli, non sovverte un mondo, tutt'al più aiuta
gli uomini ad insistere ne' loro errori di metodo. Così accadde in Francia. Il
Cuoco con ciò non nega l'alta importanza umana della filosofia, vuol
semplicemente delimitare la sfera di ogni attività e ad ognuna assegnare il
posto che le com pete; anzi egli stesso ritiene che in ogni operazione umana
debba richiedersi la forza e l'idea, e nelle rivoluzioni, come è necessario il
popolo, sono necessari i filosofi, i conduttori, « i quali presentino al popolo
quelle idee, che egli talora travede quasi per istinto, che molte volte segue
con entusiasmo, ma che di rado sa da sè stesso formarsi » (2 ). Il compito dei
filosofi è chiarificato: essi debbono trarre i princípi della storia e della
politica, non dal loro cervello ed assumerli come postulati inderoga bili, ma
dalla vita del popolo, dalla natura eterna del l'uomo, che non è solo
intelletto, ma vichiamente anche senso e fantasia. Credere un avvenimento
gigantesco, come la rivoluzione francese, frutto soltanto del pensiero
filosofico è uno sminuirlo in una visione ristretta e par ticolaristica. La
vita non è solo attività teoretica, è me diatamente anche attività pratica,
politica ed economica. Pur tenendo di vista il sorgere e l'imporsi delle idee, (1
) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 37. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XV, p.
82. 87 occorre investigare i bisogni e lo stato dei popoli per ve dere quanto
essi siano stati i propulsori d’un moto, che è determinato, ma non cieco, anche
nelle sue più crudeli manifestazioni. La rivoluzione francese non si può in
tendere, se non s'intende tutta la storia che la precede. La Francia
monarchica, la gloriosa potente monarchia accentratrice era un paese di abusi:
« la rivoluzione non aspettava che una causa occasionale per iscoppiare » (1).
Il Cuoco analizza tutto ciò, e l'analisi breve serrata ner vosa, che egli fa,
è, senza dubbio la cosa migliore, che si possa scrivere sul turbolento periodo:
gli stessi storici francesi non ebbero mai nessuna di quelle lucide intui zioni
che fanno grande il molisano. « Tra tanti » si doman da « che hanno scritta la
storia della rivoluzione francese, è credibile che niuno ci abbia esposte le
cagioni di tale avvenimento, ricercandole, non già ne'fatti degli uomini, i
quali possono.modificare solo le apparenze, ma nel corso eterno delle cose
istesse, in quel corso che solo ne determina la natura? » (2 ). Nessuno,
rispondiamo, perchè è fatale negli uomini vedere solo alcuni individui di genio
e trascurare le masse e le cose; credere un moto preparato dai secoli un
fenomeno sporadico senza stretti legami con l'antico; una rivoluzione, opera
d'un intero popolo, com presso a lungo dall'ineguaglianza, la manifestazione di
pochi genî o d'un partito. Il Cuoco, ho detto, ci dà una disamina dei
precedenti della grande rivoluzione, che sfida i tempi nella sua tacitiana
concisione. Val la pena di riferirla: non si può estrarre il succo da ciò, che
di per sè è tanto concentrato, che togliere una parola val quanto distruggere
una meditazione. « La leggenda delle mosse popolari, degli eccidi, delle ruine,
delle varie opinioni, de' vari partiti, forma la storia di tutte le
rivoluzioni, e non già di quella di Fran cia, perchè nulla ci dice di quello
per cui la rivoluzione di Francia differisce da tutte le altre. Nessuno ci ha
de scritto, una monarchia assoluta, creata da Richelieu e (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, VII, p. 37. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 38, 88 riforzata da
Luigi XIV in un momento; una monarchia surta, al pari di tutte le altre
d'Europa, dall'anarchia feudale, senza però averla distrutta, talchè, mentre
tutti gli altri sovrani si erano elevati proteggendo i popoli contro i baroni,
quello di Francia avea nel tempo stesso nemici ed i feudatari, ivi più potenti
che altrove, ed il popolo ancora oppresso; le tante diverse costituzioni che
ogni provincia avea; la guerra sorda ma continua tra i diversi ceti del regno;
una nobiltà singolare, la quale, senza esser meno oppressiva di quella delle
altre nazioni, era più numerosa, ed a cui apparteneva chiunque vo leva, talchè
ogni uomo, appena che fosse ricco, diven tava nobile, ed il popolo perdea così
financo la ricchezza; un clero, che si credeva essere indipendente dal papa e
che non credeva dipendere dal re, onde era in continua lotta e col re e col
papa; i gradi militari di privativa de' nobili; i civili venali ed ereditari,
in modo che al l'uomo non nobile e non ricco nulla rimaneva a sperare; le
dispute che tutti questi contrasti facevano nascere; la smania di scrivere, che
indi nasceva e che era divenuta in Francia un mezzo di sussistenza per coloro i
quali non ne avevano altro, e che erano moltissimi; la discus sione delle
opinioni a cui le dispute davan luogo ed il pericolo che dalle stesse opinioni
nasceva, perchè su di esse eran fondati gl'interessi reali de' ceti; quindi la
massima persecuzione e la massima intolleranza per parte del clero e della
corte, nell'atto che si predicava la mas sima tolleranza dai filosofi; quindi
la massima contrad dizione tra il governo e le leggi, tra le leggi e le idee,
tra le idee e li costumi, tra una parte della nazione ed un'altra;
contraddizione che dovea produrre l'urto vicen devole di tutte le parti, uno
stato di violenza nella na zione intera, ed in seguito o il languore della
distruzione o lo scoppio d'una rivoluzione. Questa sarebbe stata la storia
degna di Polibio » (1 ). La Francia ha mille cause per muoversi. La rivoluzione
(1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 38. 89 s'esprime dal seno d'un popolo in
travaglio secolare, sca turisce da desideri compressi, da bisogni materiali, da
un malessere durevole. Che ci hanno a che fare i filosofi? I filosofi servono,
se mai, a conturbare quel che è chiaro, a far credere opera loro quel che è già
nella storia, a far scambiare come esigenza intellettuale quel che è esigenza
economica nel suo più vasto significato. Enormi sono gli abusi, terribili i
contrasti; più astratti, quasi per necessità, i princípi riformistici, come
quelli che voglion compren dere un numero più grande di fatti umani. Ecco
l'errore ! I francesi deducono i loro princípi dalla metafisica, e cadono
nell'errore « di confonder le proprie idee colle leggi della natura » (1). È
una ' falsa visione del reale questa in cui possono cadere tutti gli uomini che
seguono idee soverchiamente astratte. Commentando le incon gruenze dei
repubblicani della Partenopea il Cuoco escla ma: « Io credeva di far delle
riflessioni sulla rivoluzione di Napoli, e scriveva intanto la storia della
rivoluzione di tutt ' i popoli della terra, especialmente della rivolu zione
francese. Le false idee che i nostri aveano conce pite di questa non han poco
contribuito ai nostri mali » (2 ). Siamo sempre ad un punto: gli uomini credono
troppo ne' loro princípi e non s'accorgono che i principi sono spesso
astrazioni, credono in essi e ' non osservano che intanto la storia si muove
oltre i princípi. La rivolu zione è opéra dei filosofi? Altro che filosofi ! «
Il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni >>
è il popolo (3 ). Guardate questo popolo: si muove mai esso dietro i filosofemi?
No. « Il popolo non intenderà, non seguirà mai' i filosofi » (). Perché? La
ragione è una sola, vichiana. Il popolo è senso e fantasia: i filosofi in
telletto. Date al popolo princípi: non li intenderà. Com primete il popolo,
esacerbatelo: il suo senso s'esaspererà, la sua fantasia s'accenderà violenta,
vremo una crisi vasta ' e potente, la rivoluzione. (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, VII, p. 39. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 96. (3) V. Cuoco,
Saggio storico, Prefazione alla sec. ed., p. 5, (4) V. Cuoco, Saggio storico,
VI, p. 30, 90 La rivoluzione nasce da bisogni positivi, cioè dal senso e dalla
fantasia popolaresca. Ciò non toglie che il suo pervertirsi, il suo incrudelire
provenga invece dalla falsa filosofia. L'origine è naturale, lo sviluppo
abnorme: lo spunto è popolare ed economico, le conseguenze degene razioni di
princípi, intellettualistiche. Sono le astruserie dell'ultima ora che portano
seco loro gli inconvenienti propri delle grandi rivoluzioni, i capricci de'
potenti, le fazioni, le turbolenze, il sangue. « Chi guarda il corso della
rivoluzione francese ne sarà convinto » (1 ). I saggi sono inutili a produrre
una rivoluzione (2 ), ma i pseudo saggi possono condurre un moto già evoluto
sur una falsa via. Ecco perchè la rivoluzione francese ha un vizio d'origine,
che dovrà riuscire fatale alle rivoluzioni, che qua e là scoppiarono, riflessi
incolori e pur gravi della grande rivoluzione: essa parla troppo alla ragione,
poco al senso e alla fantasia, e i popoli, si sa, sono tutto senso, tutta
fantasia. Quanto più i pensatori navigano in sfere superne, tanto meno i popoli
li intendono, anzi, a volte, sono i popoli che accendono le controrivoluzioni,
se i princípi di ragione urtano le avite tradizioni, i sacri costumi, i
millenari bisogni. La critica è profonda, e, come ognuno intende, coin volge
tutta la rivoluzione francese, ma è una critica, che nel Saggio storico appare
per incidenza, e che tocca allo studioso di rilevare. La storia è tutta una
catena, in cui un avvenimento non si può astrarre dagli altri. La vita delle
nazioni oggi è così complessa, che, trattando della stessa Napoli e della sua
politica, non si può prescindere dalla politica generale dell'Inghilterra, della
Francia, della Spagna. Nel passato una rivoluzione potea apparire un evento
isolato, poteva chiudersi quasi in una barriera sanitaria; oggi, in tempi
nuovi, deve fatalmente trovare addentellati un po' ovunque. La rivoluzione
francese suscita un incendio repubblicano in Italia, a Milano, a Roma, a
Napoli. Ma in questa stessa considerazione (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII,
p. 40. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione alla sec. ed., p. 6, 91 sta il
primo e capitale appunto alla rivoluzione parte nopea, di cui il Cuoco
esclusivamente si occupa. Lo storico critica lo svolgimento della grande
rivoluzione francese, ma non nega l'origine pienamente legittima di essa, la
riconosce nata da un secolare stato anomalo di cose, per cui il popolo, attivo
e industrioso, ma ciò non pertanto trascurato ed isolato politicamente,
reagisce e d'un balzo acquista di diritto ciò che di fatto aveva già acquistato.
Nulla di tutto ciò a Napoli. Quivi la rivolu zione è un mero riflesso di quella
gallica, è nella sua na scita e nel suo affermarsi passiva. L'aggettivo passivo
ha fatto epoca, e val quanto dire impopolare. Le idee passano di paese in
paese, perchè trovano ovunque in gegni culti atti a riceverle e a meditarle; i
bisogni sono invece ovunque diversi, da nazione a nazione, da po polo a popolo,
anzi da regione a regione, da provincia a provincia. Quel che a Parigi è
spiegabile, a Napoli ' non lo è: quel che a Napoli è naturale, in Calabria
cessa di esserlo, diviene artefatto. Mentre tutto il pensiero europeo, dalla
Germania all'Italia, dall'Inghilterra alla Russia, dalla Spagna alla Svizzera,
è infranciosato, ra zionalista, illuminista, i bisogni dei popoli sono sostan
zialmente e profondamente diversi in ogni angolo del vecchio continente
europeo. Come poter condurre realtà di lor natura ineffabili e particolari ad.
aderire a prin cipi uniformi, se non sforzando lo stesso ordine delle cose?
Così.a Napoli. Invece di fare una rivoluzione na poletana, si fece una
rivoluzione francese in piccolo. « Le idee della rivoluzione di Napoli » scrive
il Cuoco « avrebbero potuto esser popolari, ove si avesse voluto trarle dal
fondo istesso della nazione. Tratte da una co stituzione straniera, erano
lontanissime dalla nostra; fondate sopra massime troppo astratte, erano
lontanis sime da’sensi, e, quel ch'è più, si aggiungevano ad esse, come leggi,
tutti gli usi, tutt'i capricci e talora tutt'i difetti di un altro popolo,
lontanissimi dai nostri difetti, da' nostri capricci, dagli usi nostri » (1 ).
La rivoluzione (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XV, p. 83, 92 francese, in
sostanza, e qui è il nucleo di tutte le consi derazioni successive, è attiva,
cioè risultante di molte plici elementi economici e politici; la rivoluzione
napo letana passiva, cioè frutto di opinioni labili. Ma guardate gli uomini ! I
monarchi europei credono la rivoluzione francese questione d'opinioni e la
perseguitano, mentre, se era in realtà questione d'opinione, sarebbe caduta di
per sè stessa; il re di Napoli crede cosa grave e profonda, invece, ciò che nel
suo nascimento era ' un ' po ' moda e opinione, la tormenta ed incrudelisce,
finendo per creare col suo contegno un generico malcontento. Lo stesso
atteggiamento politico estremo in due circostanze diverse finisce per produrre
i più gravi effetti. Le conseguenze di non mirare entro la natura delle cose !
È un astratti smo, che Vincenzo Cuoco non vede solo nella rivoluzione, ma ne'
governi, nei patrioti e nei codini, nella filosofia e nella scienza militare.
La reazione, al primo manifestarsi della rivoluzione francese, è tutta ispirata
a questa visuale errata. Le potenze europee si coalizzano contro la Francia:
effetto: la Francia, di fronte al pericolo straniero, è un sol uomo, si arma,
si oppone, vince. « Una guerra esterna, mossa con.... ingiustizia ed
imprudenza, assodò una rivoluzione, che, senza di essa, sarebbe degenerata in
guerra civile » (1 ). È l'astrattismo, il solito astrattismo del tempo, che
crede forzare l'ordine delle cose. La Francia deve ras sodare la sua
insurrezione; ha contro di sè tutta l'Europa: la guerra le diviene
indispensabile per vivere. È l'oppo sizione stessa che costringe il paese alla
lotta. Quindi si sviluppa un sistema di democratizzazione universale, di cui i
politici interessati si servono, a cui i filosofi applau dono in buona fede; «
sistema che alla forza delle armi riunisce quella dell' opinione, che suol
produrre, e ta lora ha prodotti, quegl'imperi che tanto somigliano ad una
monarchia universale » (2 ). (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, II, p. 18. (2 ) V.
Cuoco, Saggio storico, II, p. 20. 93 A Napoli lo stesso errore dei governanti è
aggravato da circostanze peculiari. Il principio della rivoluzione francese
trova una nazione florida ed esuberante di pen siero e di studi economici,
giuridici, filosofici, un paese che trae dalla Francia molte cose, ma tutte le
concre tizza in una tradizione paesana, che si ricollega al Vico. La rivoluzione,
se pure in questo ambiente è possibile una rivoluzione, è affare d'opinione. Ma
a Napoli mancano i repubblicani. Pochi giovinetti, presa la testa - dalle
novità straniere, si proclamano sovversivi, vestono alla francese, parlano
francese, seguono insomma la moda. Convien disprezzarli. No, il governo muta
rotta, incru delisce. È proprio quella politica, che più conveniva evi tare,
volendo rimanere saldi nella grave crisi, che agi tava tutto il mondo civile (1
). « I nostri affetti, preso che abbiano un corso, più non si arrestano. L'odio
segue il disprezzo, e dietro l'odio vengono il sospetto ed il timore » (2 ).
Gli uomini s'oppongono violentemente, gli a ffetti s ' inacerbano: laddove con
un metodo diverso la situazione potea dominarsi, è lo scompiglio. « I mali
d'opinione si guariscono col disprezzo e coll'obblio: il popolo non intenderà,
non seguirà mai i filosofi » (3 ). A Napoli il popolo non partecipa a nessun
movimento: la rivoluzione, quindi, è lecito presumere, non c'è, non ci 16 li la
ti (1 ) È lo stesso concetto che V. Cuoco esprime nel Platone in Italia, v. I,
p. 43: « Nel portico di Falanto si ragunan tutti i giorni, molti, la cura
principale de quali è di ragionar della guerra e della pace di tutti popoli
della terra... Forse un giorno taluno imporrà fine al loro cicaleccio. Archita
non lo cura, ad onta che il più delle volte si parli di lui, e non sempre con
giustizia. E qual giustizia sperare da coloro che siedono tutt' i giorni in un
portico per ragionar di regni? 0. presto o tardi si credono di esser re. Ma
Archita, a taluno che gli ha con sigliato di vietar taliadunanze, ha risposto:
—Tu vuoi dunque che il popolo creda alle parole di costoro? Nessun uomo mostra
la sua stoltezza, nè il popolo se ne accorge mai al primo mo mento. Se vuoi
smascherar lo stolto, lascia che parli lungamente. Gli chiudi tu la bocca al
primo istante? Corri il rischio di farlo riputar savio (2) V. Cuoco, Saggio
storico, VI, p. 29. (3) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30. 94 sarà. Ma, ecco,
la polizia perseguita quei giovinetti, che hanno per moda il fare le corse a
cavallo per Chiaia e Bagnuoli, imitando gli antichi greci, che leggono ne' pe
riodici le cose della rivoluzione francese e ne parlano ai loro barbieri e alle
innamorate, ecco, le opinioni diven tano sentimenti, il sentimento genera
l'entusiasmo, l'en tusiasmo si comunica: « vi inimicate chi soffre la perse
cuzione, vi inimicate chi la teme, vi inimicate anche l'uomo indifferente che
la condanna; e finalmente l'opi nione perseguitata diventa generale e trionfa »
(1 ). Una politica sbagliata insomma ingenera errori nuovi. Si perde il senso
della moderazione e si cade nell'estre mismo. Si vuol sangue, si condanna (2 ).
Pochi a Napoli intendono la rivoluzione francese, pochissimi l'approvano,
nessuno la desidera: eppure si crea un ambiente insurre zionale, laddove non
era. « Il mezzo per opporsi al con tagio delle idee lo dirò io? non è che un
solo: lasciarle conoscere e discutere quanto più sia possibile. La di scussione
farà nascere le idee contrarie » (3 ). Il governo di Napoli invece è pavido, e
il timore rende deboli e inetti, ci offre sprovvisti all'assalto inimico. «
Vince una rivoluzione colui che meno la teme » (+ ). Questa incomprensione
della realtà sociale, che il Cuoco trova nella prassi politica preventiva della
corte di Na poli, deriva dallo stesso astrattismo che domina i go verni europei
coalizzati, è lo stesso astrattismo che guida i giacobini di Francia e i
patrioti di Napoli. Non per nulla tutti gli attori del fòsco dramma, gli uni e
gli altri hanno bevuto alle acque della filosofia illuminista, che per la
ragione rinnega il senso, e ripone tutta la sua fiducia nell'umano intelletto e
nella sua ideologia. Eccone le conseguenze. Vedremo in seguito il comportamento
dei (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30. (2 ) Il tratto saliente di questa
pre -reazione è la condanna a morte di tre giovani, De Deo, Vitaliani e Galvani:
la morte del De Deo fu sublime. Vedi quel che ne scrive B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, p. 204 e sgg: (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p.
41. (4 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 42. 95 repubblicani, ora dobbiamo
osservare più particolar mente la politica governativa e la sua insufficienza.
La rivoluzione a Napoli, abbiamo detto, nasce come opinione, quindi passiva; la
corte finisce per renderla necessaria, sforzando il cammino storico della
nazione, suscitando vasti malcontenti in tutte le classi del po polo, ne'
signori e nella borghesia, perseguitando dotti filosofi ed economisti, un
giorno già vanto e decoro della corte stessa, nel popolo, intaccando gravemente
i suoi interessi. Vediamo quest'ultimo punto, il quale ci mo strerà pure
l'importanza che Vincenzo Cuoco dà all'ele mento economico nella storia e nella
politica. La storia per lui non è pura idea, come per gl’intellettualisti, che
finiscono per negarla, nè pura economia, come per i ma terialisti storici: la
storia è più complessa assai. « La storia si può suddividere in tante parti
quanti sono gli aspetti sotto de' quali gli avvenimenti umani si vo gliono
considerare » (1 ). Ogni scienza particolare ha una sua storia, ma quel che noi
consideriamo come la storia per eccellenza non s'esaurisce in alcuna ricerca
partico lare. Lo spirito è complesso pur nella sua unità, così com plessa è la
vita dei popoli, che è attività pratica e teore tica, prassi ed economia,
intelletto e fantasia. Onde lo storico deve tener conto di tutto, e di tutto
deve rendersi conto. Ma non anticipiamo ! Il Cuoco dà molta importanza
all'elemento economico, ma non esaurisce in esso il pro cesso storico, lo
sviluppo d'una nazione. Qual è la posi zione geografica, e di riflesso
economica, del regno di Napoli? Ove portano questo Stato i bisogni generali?
Qual'è quindi la direttiva più naturale della sua politica? Quando Napoleone
discende in Italia, la penisola è divisa in piccoli Stati, i quali uniti
avrebbero potuto opporre resistenza, disuniti era fatale che cadessero. Que sta
contingenza mostra quanto lo stato politico degli italiani sia infelice, senza
amor di patria e senza virtù militare. Di fronte al genio d’un gran capitano
tutte (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 31. 96 le barriere caddero come
scenari vecchi: gli austriaci furono messi in fuga, Venezia disparve colla sua
imbe cille oligarchia, la distruzione del governo teocratico del Pontefice non
costò che il volerla. Napoli sola per un complesso di cose poteva resistere. A
Napoli c'era un governo monarchico forte, che garantiva una maggiore
compattezza, una certa disciplina, un esercito, un po polo che bene o male
seguiva il suo sovrano, c'era un popolo, e dietro di esso una classe colta che
voleva stu diare e vivere. Tutto rendeva possibile l'esistenza felice della
monarchia, pur nel vortice che dilagava in Eu ropa. Non fu così: la politica
borbonica da qualche anno seguiva, e ora sotto la pressione napoleonica con
tinuò a seguire, l'andazzo antifrancese de' governi coa lizzati, ed urto in una
condizione di cose secolare e pro fondamente sentita dalle popolazioni
meridionali. Il regno di Napoli era per sua natura una potenza me diterranea.
Tutti i suoi interessi lo portavano ad una politica mediterranea, ad una
politica, vale a dire, il cui centro di sviluppo fosse il bacino del
Mediterraneo, ad un commercio con l ' Oriente, con Tunisi, con la Francia, con
la Spagna. Queste le esigenze del paese: la volontà della regina dominatrice
co' suoi favoriti della corte e del governo dispose diversamente. Lo Stato
diventò ligio all'Austria, potenza lontana, dalla quale il paese nulla aveva da
sperare e tutto da perdere, che finì anzi per coinvolgerlo in continue guerre.
Le cause di questo errore si riconducono ad uno di quei concetti, che nel Cuoco
sono alla base di tutto il suo pensiero: il disdegno di tutto ciò che è
straniero. L'ita lianismo del Cuoco, che si vuol porre di solito come mero
antifrancesismo, è, entro certi limiti, un po' xenofobismo. Egli vuol inoculare
agli italiani un sicuro orgoglio nazio nale, un vero bisogno d'essere
esclusivamente italiani. La rivoluzione napoletana, come in genere tutte le
rivoluzioni italiane del tempo, sono la negazione dell'italianismo, negazione,
che, notiamo, è cominciata da lungo tempo e si perpetua tra gli errori de'
governi e dei repubblicani. È un indirizzo mentale, che il Cuoco combatte
ovunque 97 lo trova. Egli non è antirivoluzionario, perchè critica i patrioti:
egli non è antiborbonico, sol perchè critica il go verno. La sua critica ha
origini più grandi: bisogna riguar darla quale espressione d'una mentalità
politico- giuridica più italiana, più grande che non tutti i sistemi che la ri
voluzione ha maturati, d'una mentalità politica, che si rivolge combattiva
ovunque vede la sua negazione. L'azione rivoluzionaria è una prassi
d'astrattismo fran cese: è naturale che Vincenzo Cuoco non ne condivida le
direttive.. La politica di Maria Carolina di Napoli e del suo favorito Acton è
poco napoletana, molto austriaca: è naturale che Cuoco alla luce delle sue idee
ne riveli le incongruenze e le manchevolezze. La pietra di paragone: l'Italia,
Napoli, il popolo e i suoi bisogni. Tutte le poli tiche, che astraggono da
questo elemento insuperabile, sono rovinose. Maria Carolina, salendo al trono
meridionale, dovea dimenticare di essere una tedesca, pensare di divenire
napoletana, se voleva divenire davvero regina di Napoli e cessare di essere una
principessa germanica. Volle in vece essere novatrice, cioè sforzare la
tradizione, gli usi, i costumi del nuovo ambiente, sviluppando una frivola
smania per ogni cosa estera, sia materiale, sia intellet tuale. Dalla moda per
il vestire si passò a quella per il costume e per i modi, si parlò francese od
inglese, e si ritenne poco obbrobrioso non sapere l'italiano; l'imita zione del
vestimento e delle lingue portò di conseguenza l'imitazione delle opinioni. «
La mania » ammonisce il « per le nazioni estere prima avvilisce, indi ammi
serisce, finalmente ruina una nazione, spegnendo in lei ogni amore per le cose
sue » (1 ). La stessa ineguaglianza in tutti i rami dell'ammi nistrazione.
Ovunque si navigava nell'astrazione. Chi potrebbe mai pensare la felicità e la
potenza, a cui un governo savio ed attivo, cioè nazionale, avrebbe potuto
portare il paese, sviluppando l'energia pubblica, ed esen Cuoco (1 ) V. Cuoco,
Saggio storico, V, p. 29. 7 -- tando il paese perciò dalla dipendenza
manifatturiera estera, proteggendo le arti, sviluppando il commercio ! Invece
no: non v'è provvedimento borbonico che non si possa rimproverare. « L'epoca in
cui giunse Acton era l'epoca degli utili progetti: qual progettista egli si
spac ciò e qual progettista fu accolto; ma i suoi progetti, ineseguibili o non
eseguiti o eseguiti male, divennero cagioni di nuove ruine, perchè cagioni di
nuove inutili spese » (1 ). Il Cuoco non fa distinzioni: il male è nella ra
dice, nella mentalità del tempo. Si spera in un ottimo assoluto, che è il
peggior nemico del bene, e si finisce per far male: si è miracolisti e si
riduce a terra ogni utile antica istituzione. Gli ordini antichi bene o male
assicuravano la vita civile: perchè distruggerli ab imo, anzi che rif marli?
Chi era Acton, chi era questo favorito, che voleva ! « Acton non conosceva nè
la nazione nè le cose. Voleva la marina, ed intanto non avevamo porti, senza
de' quali non vi è marina: non seppe nemmeno riattare quei di Baia e di
Brindisi, che la natura istessa avea formati, che un tempo erano stati celebri
e che poteano divenirlo di nuovo con piccolissima spesa, se, invece di seguire
il piano delle creature di Acton, si fosse seguito il piano dei romani, che era
quello della natura » (2 ). Un esempio della vacuità del favorito di Maria
Carolina. Napoli, dato che è un paese mediterraneo, aveva bisogni marinari. I
bar bareschi erano i suoi nemici diretti, i nemici dei suoi commerci, che con
le loro scorrerie finivano per rovinare. Occorreva proteggere le navi
mercantili, occorreva una flotta di piccole navi veloci e leggiere da opporre
alle navi da corsa. Acton volle provvedervi. Manco a farlo appo sta, la flotta
che fece costrurre, era composta di legni pesanti, da combattimento e non da
guerriglia. Io non posso indugiarmi su questo argomento, poi che il mio assunto
non è quello di dare la contenenza del (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VIII, p.
45. (2) V. Cuoco, Saggio storico, VIII, p. 46. 99 Saggio storico, ma di
tracciare un profilo ideale del pen siero di Vincenzo Cuoco nelle sue svariate
manifesta zioni, seguendo fin dove è possibile la cronologia delle opere del
molisano, tradendola ove essa complica lo sviluppo sistematico dello spirito.
Non mi indugierò quindi ad enumerare gli errori, l'atteggiamento del go verno
verso Napoleone, l'aggressione durante la sua as senza, la marcia di Mack, capo
dell'esercito borbonico, su Roma. Mack.... Se volete un ultimo esempio di
astrattismo, basta pensare al generale austriaco, al quale il governo di
Napoli'affidò le sue fortune. Cuoco non è un uomo di guerra, ma ha il buon
senso di cogliere il punto debole di duci della natura di Mack, inclini a
scambiare le loro idee con l'universo. La scienza militare è una scienza
positiva, scienza d'osservazioni particolari, che ripugnano, alle
schematizzazioni. Mack invece era la dottrina in per sona, ma faceva i piani a
tavolino, risalendo col pen siero ai princípi della sua scienza, senza
collaudarli con la realtà, che gli si parava dinanzi. « Vuoi conoscere » do
manda il Cuoco « a segni infallibili uno di questi capitani? Soffre pochissimo
la contradizione ed i consigli altrui: il criterio della verità è per lui, non
già la concordanza tra le sue idee e le cose, ma bensì tra le sue idee mede
sime. Prima dell'azione sono audacissimi, timidissimi dopo l'azione:
audacissimi, perchè non pensano che le cose pos san esser diverse dalle idee
loro; timidissimi, perchè, non avendo prevista questa diversità, non vi si
trovan pre parati. Affettano ne' loro discorsi estrema esattezza; ma questa è
inesattissima, perchè trascurano tutte le diffe renze che esistono nella natura
» (1 ). Simili uomini, come Acton e Mack, sono deleterii in ogni tempo, furono
rui nosi ai Borboni, in contingenze delicatissime. Date queste premesse, la
sconfitta, la fuga del re, l'in ganno della partenza, l'ingresso de' francesi
nella capi tale, il governo repubblicano, la proclamazione della Par (1 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XII, p. 72. 100 tenopea ci appaiono necessari sviluppi
di tutti gli elementi, che abbiamo precedentemente analizzato. Ma la storia del
Cuoco procede con la stessa spietata critica, per cui l ' in dagine penetra
acuta negli avvenimenti e nelle determi nazioni umane, come il bisturì nel
corpo d'un paziente, e ne rivela i mali, ne appalesa gli errori. Ancora le
stesse deficienze, ancora la stessa visuale falsa. Repubblica e popolo sono due
cose distinte. Vediamo i due gruppi. Chi sono i repubblicani di Napoli? Sono
repubblicani tutti coloro che hanno beni e costume. L'aristocrazia, la
borghesia, la classe accademica, gli studenti, il clero an che alto,
l'ufficialità dànno il contingente maggiore dei patrioti: filosofi, finanzieri,
giureconsulti, vescovi, teologi, giornalisti, poeti. Nel moto del '99 non è
davvero il pen siero che manca. Ma basta l'idea a muovere i popoli, a
sovvertire un ordine secolare, a riformare ab imo gli istituti d'una nazione?
Tra le file dei repubblicani c'è, abbiam detto, quanto di meglio ha prodotto il
mezzo giorno d'Italia in tutti i rami dello scibile umano, ma non si può negare,
che anche a Napoli si sia prodotto quel fenomeno tipico di tutti i
sovvertimenti, l'arrivismo, la speculazione. Molti hanno la repubblica sulle
labbra, pochi nel cuore; molti l'esaltano, pochi la raffermano. Alcuni hanno
voluto accusare il Cuoco di parzialità, anzi di malvolere verso le nobili
figure de ' martiri del '99 (1). Ma il Cuoco è storico e non travisa ! Che
meraviglia che accanto a Pagano ci sia il faccendiere, accanto a Russo li
procacciante, accanto a Conforti il paglietta in cerca di clienti, accanto a
Grimaldi il soldato che vuol far car riera ! È la storia d'ogni giorno, più o
meno triste, ma sempre uguale. Il Cuoco del resto sa sollevare la testa e
notare le grandi figure ed eternarle. Questi repubblicani il molisano distingue
in due gruppi: coloro che vogliono più un cangiamento che un buon cangiamento,
per pescare nel torbido, coloro che in buona (1 ) Cfr. U. TRIA, op. cit., p.
158 e sgg. in Rassegna critica della letteratura italiana, vol. VI, (1901); L.
CONFORTI, op. cit., p. 21 e sgg. 101 fede vogliono imitare tutto dalla Francia;
i furbi, in somma, e i fantastici (1 ). Ma la virtù a Napoli è grande. Mentre
in tutte le altre rivoluzioni è l'elemento cattivo, che fa sorgere principi
pessimi, qui vi sono i princípi non buoni, che fanno cadere uomini buoni ed
eletti. La memoria dello storico s'in china dinanzi ai martiri del '99. I
patrioti sono uomini colti, superiori, il fior fiore della nazione: forse
questa stessa loro origine è la causa prima che li allontana, sele zionandoli,
dalle masse, e quindi dalla realtà d'ogni sana politica. Gli uomini sono buoni;
i princípi che essi pro fessano, gli ordini cattivi. La loro virtù è una virtù
stoica, il loro spirito romano, la loro morale superiore, troppo superiore a
quella comune delle plebi: quest ' è stata una delle cagioni della ruina (2 ).
Uomini i patrioti insufficienti tutti, nel giudizio sereno dello storico, a
creare e a diri gere uno Stato, grandi solo nella morte: la loro fine con sacra
alla posterità la loro sublime grandezza. Il Cuoco è davvero nella sua analisi
uno scettico, e sa esaltare l’eroi smo, come abbattere la falsa politica. Lo
stesso uomo, che enumera errori errori errori, è poi colui che con pa role
degne di Tacito, esaltatore delle ultime aristocra tiche virtù, descrive la
difesa strenua degli ultimi nuclei rivoluzionari dinanzi all'irrompere delle
torme sanfedi ste, la distruzione del forte di Vigliena, oppure la ca duta di
Altamura. L'assedio di Altamura, per esempio, è scolpito con una concisione ed
una rapidità mirabili: l'eroica disperata lotta rivive paurosa nella nostra
fantasia. Il salto del forte di Vigliena, la battaglia navale di Procida delle
flot tiglie barcarecce di Caracciolo contro le munite navi di Nelson mostrano
un Cuoco, non solo freddo analista, cri tico spietato d'errati metodi
legislativi e costituzionali, ma un Cuoco, direi, lirico e commosso, preso dal
fascino delle figure eroiche, che la storia suscita fra errori e de lusioni,
onde ei può nel crollo della sua, dico sua, repub (1 ) V. Cuoco, Saggio storico,
XV, p. 84, nota. (2) V. Cuoco, Saggio storico, XXXVI, p. 157. 102 blica
esclamare esaltato: « Si sono tanto ammirati i tre cento delle Termopili,
perchè seppero morire; i nostri fecero anche dippiù: seppero capitolare
coll'inimico e salvarsi; seppero almeno una volta far riconoscere la repubblica
napoletana » (1 ). Ma lo spirito politico di Vincenzo Cuoco non può non far
risalire alla sventatezza, all'impreparazione dei pa trioti la causa dello
sfacelo; non può, esaltando virtù e meriti, dimenticare l'insufficienza e la
vacuità del me todo legislativo, che doveva dar le norme direttive al nuovo
ordine. Si è detto (2 ) che la storia del Cuoco non è scritta con un fine ben
netto. No, il fine c'è: la condanna spietata d'una mitologia costituzionale e
filosofica, af finchè l'Italia ritorni alla sua tradizione e non ricada sugli
antichi errori. I saggi sono inutili a produrre le ri voluzioni; i filosofi
navigheranno sempre in beate astra zioni, ma invano credono di poter muovere
con i loro pensamenti i popoli, poi che questi non si muovono che sotto
l'urgenza di concreti bisogni. A Napoli, come al trove, c'era un popolo:
bisognava tenerne conto, inter pretarne i desideri. I patrioti non ne fecero
caso. Tutta la rovina della repubblica s'impernia su questa incompren sione
sociale. Il popolo, sappiamo, è il grande, il solo agente delle rivoluzioni e
delle controrivoluzioni (3 ). Credere un moto rivoluzionario determinato dalla
filosofia è una semplice illusione, che solo i francesi potevano concepire. La
rivo luzione deve parlare ai sensi e alla fantasia, non solo all'intelletto,
cioè alle plebi, e non solo ai pensatori. A Napoli c'era un popolo, che in
qualche modo aveva di che lagnarsi della più recente opera de' Borboni: biso
gnava farlo agire, soddisfare i suoi desideri, cointeressarlo alla nuova
ricostruzione, legarlo allo Stato: allora solo, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico,
XLVIII, p. 188. (2 ) U. TRIA, op. cit., p. 196, in Rassegna critica della lette
ratura italiana, v. VI, (1901 ). (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p.
5. 103 fatto ciò, la repubblica poteva dirsi basata su un piedi stallo
incrollabile. In una rivoluzione è necessario il numero e l'idea. Le idee
repubblicane si sarebbero potute rendere popolari, ove si avesse voluto trarle
dal fondo istesso della nazione. Quando la rivoluzione scoppia, il popolo
ondeggia tra le due fazioni, i patrioti che vede padroni della capitale, il re
che vede fuggire ignominiosamente. È il momento ! Il popolo dubita della
saggezza del sovrano, della sua magnanimità, lo coglie in peccato di
vigliaccheria, dubita, e chi dubita condanna a metà. Si può rendere il popolo
partecipe all'azione, invece si fa di tutto per allontanarlo. « La nostra
rivoluzione » scrive Cuoco « essendo una rivo luzione passiva, l'unico mezzo di
condurla a buon fine era quello di guadagnare l'opinione del popolo » (1 ). Ma
repubblicani e popolo sembrano nonchè due classi, due popoli diversi per idee
costumi lingua. I primi sono fran cesizzanti; il secondo per natura
tradizionalista, attac cato alle sue istituzioni, ai suoi principi, alla sua
reli gione, ai suoi pregiudizi. Tra gli uni e gli altri c ' è un divario di due
secoli di cultura e di storia. I dirigenti invece prescindono da ogni elemento
nativo, quell'ele mento che si deve coltivare, essendo tutto nel popolo. Co
loro, che sono ancora napoletani, nota con amarezza lo storico, e che
compongono il maggior numero, sono in colti. Ritorniamo al solito concetto: la
moda straniera è la causa di tutta la rovina (2 ). « Le disgrazie de' popoli
sono spesso le più evidenti dimostrazioni delle più utili verità. Non si può
mai gio vare alla patria se non si ama, e non si può mai amare la patria se non
si stima la nazione. Non può mai esser libero quel popolo in cui la parte, che
per la superiorità della sua ragione è destinata dalla natura a governarlo, sia
coll’autorità sia cogli esempi, ha venduta la sua opi (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, XVI, p. 90. (2) Il giudizio cuochiano coincide col giudizio degli
storici più recenti: vedi V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 104. 104 nione ad
una nazione straniera: tutta la nazione ha per duto allora la metà della sua
indipendenza » (1 ). Mancava alla rivoluzione l'orgoglio nazionale, che solo
può salvare i popoli nelle loro crisi. Si voleva imitare la Francia e si
dimenticava Napoli, si obliava che la gente meridionale avea una sua specifica
natura diversa dalla natura delle genti galliche. In Italia c'era un comunali
smo, che in Francia non era mai stato; a Napoli c'erano cento volghi diversi
l'uno dall'altro, in Francia un popolo compatto ed omogeneo. I repubblicani
dovevano tener conto di ciò, e trovare un interesse comune, che riunisse
dirigenti e diretti, governanti e governati. « Quando la nazione si fosse una
volta riunita, invano tutte le potenze della terra si sarebbero collegate
contro di noi » (2 ). Il popolo non è mai né borbonico nè sovversivo, nè nero
nè rosso: « i popoli si riducono » osserva con acutezza il nostro autore « a
seguir quelli che loro offrono maggiori beni sul momento » (3 ). Il popolo di
Napoli così avrebbe seguito i rivoluzionari, se questi gli avessero dato spe
ranze di miglioramenti, avessero intesi i suoi desideri, avessero rispettato
gli istituti a cui era legato, avessero riverito la religione dei suoi avi. «
Che cosa è mai una rivoluzione in un popolo? Tu vedrai mille teste, delle quali
ciascuna ha pensieri, interessi, disegni diversi dalle altre. Se a costoro si
nta un capo che li voglia riu nire, la riunione non seguirà giammai. Ma, se
avviene che tutti abbiano un interesse comune, allora seguirà la ri voluzione
ed andrà avanti solo per quell'oggetto che è comune a tutti » (1 ). Ma per fare
ciò bisogna andare cauti: non bisogna di struggere. Bene o male gli istituti
esistenti assicurano la convivenza, occorre riformarli, migliorarli, non ab
batterli al suolo: « il voler tutto riformare è lo stesso che voler tutto
distruggere » (5 ). (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 91. (2 ) U. Cuoco,
Saggio storico, XVI, p. 92. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 42. (4 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 94. (5 ) Framm., p. 219. 105 Il popolo di
Napoli, nota il Cuoco, ha una sua religione. Osserviamo la natura di questa
religione, e vedremo che essa non ripugna ai principi della democrazia. « La
reli gione cristiana ridotta a poco a poco alla semplicità del Vangelo;
riformate nel clero le soverchie ricchezze di po chi e la quasi indecente
miseria di molti; diminuito il numero dei vescovati e dei benefici oziosi;
tolte quelle cause che oggi separan troppo gli ecclesiastici dal go verno e li
rendono quasi indipendenti, sempre indifferenti e spesso anche nemici, ecc.
ecc.: è la religione che meglio d'ogni altra si adatta ad una forma di governo
moderato e liberale » (1 ). In ciò il cristianesimo è assai diverso dal
paganesimo, che, basandosi su un'idea di forza, non può produrre che schiavi
indocili e padroni tirannici. La no stra religione si appoggia su princípi di
libertà, su prin cípi di fratellanza, su princípi di giustizia, e sembra quindi
la più adatta per legare il popolo allo Stato. La reli gione, nota il Cuoco
ripetendo un pensiero del Conforti (2 ), è un elemento insopprimibile nella
vita dello spirito umano, dal quale quindi non si può prescindere. « Non è
ancora dimostrato che un popolo possa rimaner senza religione: se voi non
gliela date, se ne formerà una da sè stesso. Ma, quando voi gliela date, allora
formate una religione analoga al governo, ed ambedue concorreranno al bene
della nazione: se il popolo se la forma da sè, allora la religione sarà
indifferente al governo e talora nemica » (3 ). Questi i concetti di Vincenzo
Cuoco (4 ). Lo Stato deve avere una sua religione, ed imporla: Stato e Chiesa
nazionale debbono concorrere al benessere gene rale. Princípi che meritano un
superiore approfondi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 129 e sg. (2 ) Sulla
posizione religiosa del Conforti in confronto al Cuoco vedi B. LABANCA,
Giambattista Vico e i suoi critici cat tolici, Napoli, Pierro ed., 1898, p. 414
e sgg. (3) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 130. (4) V. FIORINI e F. LEMMI,
op. cit., p. 137. I due insigni storici concordano pienamente col Cuoco nel
ritenere che gli errori dei repubblicani in fatto di religione hanno non poco
influito ad allontanare il popolo dalla rivoluzione. 106 mento, che noi faremo
in seguito: resta acquisito in tanto l'alto e moderno ideale, che il molisano
aveva della religione (1 ). La rivoluzione napoletana fu la negazione di questi
princípi. Sorse democratica, s'affermò anticlericale e vi lipese l'alto valore
etico della dottrina cristiana e catto lica, per sostituirla con una generica
morale laica. Si ab bandonò all'incomprensione dei subalterni un problema
grave, anzi gravissimo, come il problema religioso. « Il po polo si stancò tra
le tante opinioni contrarie degli agenti del governo, e provò tanto maggiore
odio contro i repub blicani, quanto che vedeva le loro'operazioni essere
effetti della sola loro volontà individuale » (2 ). Il governo in sostanza era
agnostico, non conduceva ex professo una politica antireligiosa ed
anticlericale, ma lasciava fare, e gli emissari in provincia si sfogavano
contro i beni ec clesiastici o peggio contro il culto professato. Il popolo,
colpito in uno dei suoi più profondi affetti, s'affermò san fedista contro lo
Stato. È questo un episodio, ma certo il più saliente, dell'incomprensione tra
quelli, che Cuoco, nonchè due classi, due popoli volle chiamare, i repubbli
canti dirigenti e le popolazioni subordinate. Alla religione alcuni volevano
opporre una generica morale civile e laica. Si negava il cattolicesimo, si
affer mava di contro la libertà. Ma che cosa è la libertà, se non un mero
astratto? Chi chiedeva la libertà? Non certo quelle popolazioni rurali, che il
governo così bel lamente fraintendeva, « La libertà delle opinioni, l'abo
lizione de ' culti, l'esenzione dai pregiudizi, era chiesta (1 ) Nel Platone in
Italia (v. I, p. 84) ritornano spesso con: cetti consimili, indice della
mirabile armonia dell'ingegno di V. Cuoco: « Nelle città colte le leggi civili
debbono esser tutte diverse dai precetti di religione e di costumi: chiare,
precise, inesorabili. Ma sapete voi perchè? Perchè, quando si deb bono
riformare, il che avviene spessissimo, il popolo tien altri precetti da seguire.
Se il popolo allora si trovasse senza co stumi e senza religione, si
distruggerebbe per anarchia, prima di darvi il tempo necessario a riordinare le
leggi », (2) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 131. -107 da pochissimi, perchè
a pochissimi interessava » (1 ). L'er rore, ripeto, è nelle basamenta, in un
oblìo completo del popolo, nell'astrarsi ne'sublimi princípi per dimenticare la
vita e le sue molteplici manifestazioni. Eppure, ep pure, nota con rimpianto il
Cuoco, si poteva riuscire, si potevano sfruttare le forze ignote, ma
inesauribili del po polo, e creare così una insuperabile barriera al legittimi
smo borbonico. « Il popolo è un fanciullo » (2 ): se ne intendi la complessa
psicologia, lo porterai dove vuoi: basta che tu intuisca la sua natura. « Il
popolo è ordina riamente più saggio e più giusto di quello che si crede » (3 ).
Il talento del legislatore consiste nel sapere sfruttare que sto innato senso
di saggezza e di giustizia nelle più adatte contingenze, così da « menare il
popolo in modo che fac cia da sè quello che vorresti far tu » (4). Ovunque c'è
un male da riparare, un abuso da riformare, presentandosi come salvatore il
riformatore, che non distrugge per me todo, ma procede per osservazione
diretta, troverà sem pre il popolo che saprà seguirlo e rincorarlo. Il Cuoco
osserva acutamente che a volte il malcontento nasceva dal volersi fare talune
operazioni senz'appa renza, senza quelle solennità tipiche, che la plebe ama,
perchè sono nella tradizione. Si trattava di forma e non di sostanza. Ebbene, i
repubblicani preferivano urtare contro questi apparati, anzi che secondarli,
perdere l'ar rosto per non volere il fumo. La filosofia politica di Vincenzo
Cuoco a proposito della rivoluzione si concreta in una sola constatazione. «
Ecco tutto il segreto delle rivoluzioni: conoscere ciò che tutto il popolo
vuole, e farlo; egli allora vi seguirà: distinguere ciò che vuole il popolo da
ciò che vorreste voi, ed arre starvi tosto che il popolo più non vuole; egli
allora vi abbandonerebbe » (5 ). Una prassi rivoluzionaria, che si (1 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 104. (2) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 106. (3
) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 108. (4) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p.
107. (5) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 95. 108 allontani da questo
elementare principio produce effetti incalcolabilmente gravi e perniciosi. « La
manìa di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione » (1 ). Le
rivoluzioni nascono dai bisogni, ma dietro i bisogni sono gli uomini, e gli
uomini sono idee, idee vive palpitanti, non astratte e categoriche, sono senso,
sono fantasia, sono religione, sono molte cose in uno. Ogni nazione ha un
patrimonio di idee, il risultato d'una esperienza secolare, d'una vita non
interrotta mai: essa è attaccata a questi princípi, vivi nella sua coscienza,
presenti alla sua atti vità. La rivoluzione scompiglia questo stato mentale, ma
è un errore credere che si possa distruggere tutto, far sottentrare alle idee
antiche idee del tutto nuove, ai princípi antichi princípi opposti. La
rivoluzione può so pire molte cose, ma esse, idee e princípi, si rifanno sulla
rivoluzione; come la pressione s'indebolisce, affiorano novellamente ne
contrasti. Il popolo è scosso, tentato ne' suoi convincimenti: se voi
esagerate, ritorna sui suoi passi. Anche nelle idee v'è uno spiegamento, una
natu rale continuità: non rompete il processo: è da savi: « il popolo passa per
gradi dalle antiche idee alle nuove, e sempre le nuove sono appoggiate alle
antiche » (2 ). Ogni nazione ha un suo spirito, una sua mente, dice Cuoco.
Questo spirito soggiace ad un processo, non al trimenti che lo spirito
individuale. L'estremismo poli tico, in qualsiasi suo aspetto, di destra o
sanfedista o legittimista, di sinistra o repubblicano o giacobino, riceve la
sua condanna nelle osservazioni del molisano. Le idee nel loro spiegamento non
possono essere sforzate, perchè, come ho detto, trovano nello stesso momento
della loro negazione un' implicita affermazione. L'estremismo, in sostanza, è
un vero e proprio sforzo estrinseco, che si esercita sullo spirito e sul popolo.
Le idee giunte allo estremo, debbono retrocedere. Si riforma più di quel che è
nelle esigenze de' popoli; il popolo crede le riforme su perflue, cerca di
sottrarvisici; bisogna che il governo, se (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII,
p. 96. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 97. 109 vuol mantenere il suo
punto di vista, le faccia osservare con la forza: ecco come un malinteso
riformismo legi slativo conduce all'estremismo, al terrore statale, alla fine
della repubblica a Napoli, a Robespierre in Francia. « L'uomo è di tale natura,
che tutte le sue idee si can giano, tutt' i suoi affetti, giunti all'estremo,
s'indeboli scono e si estinguono: a forza di voler troppo esser libero, l'uomo
si stanca dello stesso sentimento di libertà » (1 ). I popoli hanno un corso
naturale tra l'estrema servitù e la licenza, estrema libertà, corso eterno che
tutte le genti percorrono ! I princípi non debbono correre innanzi alla storia,
sforzandola a seguirli, poi che essa si vendica de ' princípi ed afferma la sua
autonomia. La vendetta è nel sangue, nella reazione legittimista a Napoli, nella
ghigliottina che abbatte Robespierre a Parigi. Da un estremo si ricorre
all'altro, e così via, finchè non si ritrova l'equilibrio: il liberalismo
moderato. Il Cuoco è l'esponente più vivido del liberalismo italiano. La sua
figura si illu mina alla luce di questa idea liberale, grande sopra tutte le
idee, la quale ha saputo dare agli italiani l'Italia. Da tutto il Saggio
storico l'insopprimibilità del liberalismo, non come teoria, ma come prassi
costituzionale e politica, appare evidente. Non mi accusi il lettore di
sforzare la fisionomia intellettuale del Cuoco, no, poichè io mi rife risco a
ciò che leggo, e mi faccio cauto interprete di ciò che trovo, e documento. «
Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il popolo
si agita senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la
felicità è nel mezzo » (2 ). Del resto queste opi nioni, che ora vediamo in
atto nella storia, che il”Cuoco fa degli avvenimenti napoletani, di cui fu
attore, spetta tore e giudice, rivedremo sotto un nuovo aspetto, allor quando
egli stesso ci dirà come e sino a quanto la storia, che si sviluppò dopo il
crollo della Partenopea, abbia dato a lui ragione, vale a dire allor quando
considere remo Cuoco di fronte alla figura di Napoleone, Cuoco di (1 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 99. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p.
102. 110 1 2.02 fronte al problema teorico e pratico, filosofico e costitu
zionale dello Stato, Cuoco di fronte all'ideale dell'unità della patria.
Notiamo: quest'atteggiamento di modera tismo cuochiano non è estrinseco, non è
solo il principio base della critica rivoluzionaria, è anche l'elemento
unificatore di tutta la filosofia politica del molisano, l'ele mento che le dà
coerenza, e che egli trova impersonato in Napoleone, il restauratore
dell'ordine, il corifeo delle idee medie. L'estremismo è esaltazione di
princípi: allo Stato si sostituisce la setta: all'ordine costituzionale
l'associa zione fuori e a volte contro lo Stato: al diritto codificato le norme
del partito. Moderatismo significa: libertà nella legge, i partiti nello Stato
e non fuori dallo Stato, diret tiva unitaria della vita civile, garanzia nel
diritto. Come il Cuoco vedrà incarnata e realizzata questa sua conce zione, è
cosa da studiarsi in seguito (1 ). La rivoluzione del '99, che per il Cuoco è
veramente l'esperienza del sistema abbozzato ne' Frammenti, nella stessa
degenerazione de' princípi, riconferma il nostro nelle sue aspirazioni. Egli,
che dalla storia trae ogni in segnamento – la storia è la fonte d'ogni
pedagogia poli litica scrive: « La storia di una rivoluzione non è tanto storià
dei fatti quanto delle idee » (2 ). Conoscere il corso delle idee nella storia
significa impadronirsi d'una tale sapienza, che ci permette di evitare ogni
errore poli tico. Gli errori di Napoli? Denudiamo la realtà dai fron zoli della
retorica, dice Cuoco, esponiamoli nella loro cru dezza, perchè gli uomini,
gl'italiani si ravvedano. A Napoli abbiamo avuto perfino un esperimento di
terrorismo. È mirabile la definizione psicologica del feno meno. « Il
terrorismo è il sistema di quegli uomini che vogliono dispensarsi dall'esser
diligenti e severi; che, non sapendo prevenire i delitti, amano punirli; che,
non sa pendo render gli uomini migliori, si tolgono l'imbarazzo (1 ) Questa
fondamentale coerenza del pensiero di V. Cuoco è stata più che a sufficienza
dimostrata da M. ROMANO, op. cit., p. 90 e sgg. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico,
XXXVIII, p. 169. 111 che dànno i cattivi, distruggendo indistintamente cat tivi
e buoni. Il terrorismo lusinga l'orgoglio, perchè è più vicino all'impero;
lusinga la pigrizia naturale degli uomini, perchè è molto facile » (1 ). Il
Cuoco non lo dice, ma lo pensa: i governi deboli sono i più inclini all'abuso
costituzionale, al terrorismo di Stato. Tutte le considerazioni, che lo storico
trae dai fatti, convergono verso uno scioglimento, che ci appare fatal mente
consequenziario. L'estremismo terroristico, l'ultima ratio de' governi prossimi
a cadere, si mostrò più d'ogni altro sistema inutile. Il tribunale
rivoluzionario, che si macchid del sangue dei Baccher (2 ), non salvò la repub
blica pericolante. Stringiamo le fila della trama, che siamo venuti dise
gnando, portiamoci col pensiero di nuovo alla critica del l'opera governativa,
alla génesi della repubblica, all'azione legislativa e costituzionale dei
rivoluzionari, all'estremi smo di molti patrioti, e ci apparirà vero quanto il
nostro autore scrive sull'ineluttabilità dello scioglimento. La sto ria del
Cuoco corre, si può dire precipita, ad un fine. Non c'è avvenimento, pagina che
non ci ammonisca: ecco un male, ecco un malinteso ! Perciò quando noi ci avvici
niamo agli ultimi ruinosi eventi, non possiamo che dire: era fatale !, sia pure
con rimpianto, con dolore. Ho detto in principio che nel Saggio storico si nota
una mirabile obiettività, quell'obiettività del creatore, che sola può dare il
capolavoro; ho detto che la personalità dello scrittore non s'intrude mai
praticamente nello svi luppo narrativo e nel progresso degli avvenimenti: la
storia si svolge da sè, corre sul suo binario logico, senza estrinseci sforzi.
Ciò non toglie che il Cuoco a volte rompa con sublime sapienza l'esposizione
per ammonire, per parlare ai suoi posteri, per consigliare: è lo storico che è
consapevole della sua missione, dell'altezza del suo inse gnamento. Questa
pedagogia non è, però, fuori dall'arte, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXVIII,
p. 160. (2 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 115 e sgg. 112 personalità
pratica esterna all'arte, ma si risolve, attra verso una viva commozione dello
spirito, in una forma fantasiosa, in una espressione immaginifica, insomma,
nell'arte stessa. « La sua personalità » scrive assai bene Guido De Ruggiero (1
) « non s'intrude arbitrariamente nel corso degli avvenimenti; essa non è che
raramente la sua empirica e circoscritta soggettività, è più spesso invece la
drammatica personificazione del giudizio storico, è quella soggettività
superiore dove l'oggettività degli av venimenti e la soggettività dello storico
sono fusi in un sol getto ». È insomma il processo creativo della vera storia,
che conduce alla vera arte, risolvendo l'empirica personalità, in quell'alta
subiettività, che forma l'essenza della storia e dell'arte. La forma
precettistica qui non è un elemento estrinseco alla storia, è la gran voce
della storia. La critica spietata degli avvenimenti politici lo porta ad
accalorarsi per la sua stessa valutazione filoso fica, lo porta a
constatazioni, ad esclamazioni, in cui tu senti a volte un rimpianto, perchè
uomini di ingegno s'ingolfano in lotte, che il nostro stima senza uscita, a
volte una gioia profonda, in cui tu senti il pensatore che discopre un
principio sano di vita. Così, dopo una disa mina minuta di idee e di fatti, il
Cuoco può ésclamare, e nell'esclamazione io sento un dolore profondo romper la
glacialità dell'analista: « Tutti i fatti ci conducono sem pre all'idea, la
quale dir si può fondamentale di questo Saggio: cioè che la prima norma fu
sbagliata, ed i mi gliori architetti non potevano innalzar edificio che fosse
durevole » (2 ). Le premesse dello scioglimento sono d'ordine spirituale, sono
metodologiche, politiche. I susseguenti errori, mili tari, giuridici,
religiosi, le disfatte, le congiure realiste appaiono inevitabili. Le truppe
repubblicane agiscono in territori infidi, fra popolazioni ostili; i capi sono
ine sperti, troppo giovani; i francesi portano aiuti sempre più (1 ) G. DE
RUGGIERO, op. cit., p. 189. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXIX, p. 163. 113
scarsi; al contrario i borbonici sono ben diretti, ben vet tovagliati, sempre
più numerosi; le plebi sempre più fa vorevoli ad essi: sono particolari, ma che
non possono distogliere il pensiero dal principio sopra espresso, sola ed unica
causa della sciagura. Il disastro appare la logica cruda conseguenza di
premesse false. Tutto il Saggio ci porta in un mondo di rivoluzione, ove la
critica è cruda e precisa, ma ove la simpatia umana non manca. Vincenzo Cuoco
possiamo credere che rappresenti nel pensiero italiano quella medesima
posizione ideale che Edmund Burke rappresenta in quello inglese. Un raf fronto
minuto, particolareggiato tra i due scrittori non è stato fatto. Esso
riuscirebbe assai interessante, e po trebbe dimostrare come in ogni lato della
vecchia Eu ropa l'opposizione alla rivoluzione si faccia in nome d'un ritorno
alla tradizione nazionale. Il liberale moderato Cuoco è il rappresentante
tipico dell'italianismo risor gente: il Burke whig, cioè in sostanza liberale,
non crede ancora esaurita la missione delle antiche classi storiche, almeno
nella vecchia Inghilterra. È facile vedere alcuni punti di contatto tra i due
scrittori d'opposizione. Fre quentemente il Cuoco deplora l'esagerazione dei princípi
di libertà e d'eguaglianza. Gli uomini, se, di diritto, dinanzi alla legge,
sono uguali, serbano una originaria disugua glianza nel fatto: vi sono i buoni
e i cattivi, gli operosi e i parassiti, i borghesi industriosi e i lazzaroni
oziosi, gli aristocratici colti e gli aristocratici gaudenti: il governo dello
Stato deve essere riserbato ai migliori, cioè ai bor ghesi, e lo vedremo
documentato in seguito, poi che questi soli sono maturi. « Quando le
pretensioni di eguaglianza si spingono oltre il confine del diritto, la causa
della libertà diventa la causa degli scellerati. La legge, diceva Cicerone, non
distingue più i patrizi dai plebei: perchè dunque vi sono ancora dissensioni
tra i plebei ed i pa trizi? Perchè vi sono ancora e vi saranno sempre, i pochi
e i moiti: pochi ricchi e molti.poveri, pochi indu striosi e moltissimi
scioperati, pochissimi savi e moltissimi stolti » (.1 ). Se diamo una scorsa ai
Discorsi parlamentari o alle Riflessioni sulla rivoluzione francese del Burke
scaturi scono osservazioni assai consimili, nel senso, che pur am mettendo
liberalmente una rotazione di classi, il politico inglese crede ad un ordine
sociale, in cui l'aristocrazia d'Inghilterra ha ancora una sua propria missione.
Certo vi sono differenze tra i due scrittori, ma le analogie sono sempre
interessanti. S'intende, l'aristocrazia politica del Burke, il lievito, possiam
dire, della grande vita costituzio nale d'Inghilterra è qualche cosa di diverso
dalla nobiltà italiana, con la quale parola il molisano indica « un ceto che
più non deve esistere, ma che ha esistito finora » (2 ). Ma le nazioni hanno
svolgimenti diversi e bisogni spesso opposti: quel, che nell’un paese si chiama
con lo stesso nome che nell'altro, a volte è una cosa sostanzialmente diversa,
secondo varî elementi. Ma non posso lasciare questo argomento senza notare come
lo stesso Burke nelle sue Riflessioni sulla rivoluzione francese si rifaccia ad
una valutazione, nella sua natura, simile a quella del Cuoco. Il liberale Burke
nella rivoluzione d'Oltre manica vede la negazione del suo moderatismo, una ri
voluzione, che prescinde dalle realtà peculiari d’un po polo, quale l'inglese,
la cui vita è un esempio dimirabile continuità politica, una rivoluzione che
pretende di struggere il passato, anche laddove il passato è il presup posto
d’un non disprezzabile presente; uno Stato, che rigetta alcune classi per
altre, invece di sintetizzarle in una volontà superiore ed unica; uno Stato,
che rigetta elementi sociali di primissimo ordine, senza pensare che si possano
utilizzare per la vita civile, perché hanno ancora energia e sopra tutto hanno
quell'esperienza pub blica, che ad altri manca. All'inglese, per cui la vita
civile dei popoli è un prodotto graduale d'una evoluzione storica
incancellabile, per cui la costituzione de' padri è una conquista continua,
nell'aderenza più completa coi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 100. (2
) V. Cuoco, Saggio storico, XX, p. 109. 115 n mille bisogni d'un popolo
secolare, la nuova pretesa di derivare un ordinamento democratico, valido per
tutte le genti del globo, desumendolo dalla pura ragione, appare veramente
ridicola. Mi sembra che il parallelo tra il Cuoco e il Burke non potrebbe
essere più calzante, sia pure tra numerose differenze. Il Burke è un oratore,
un parlamen tare, pratico e sensibile politico, che non risale mai a con
siderazioni superiori, pur quando la sua critica potrebbe coinvolgere non solo
la mentalità rivoluzionaria francese, ma una mentalità, che è di tutti i tempi
e di tutti i paesi. Il Cuoco invece, testa politica ma di volo più robusto, dai
particolari ascende ai princípi, dai fatti ritorna alle idee, che hanno un
corso eterno ed uno sviluppo continuo, per foggiare un suo sistema, che, collaudato
da una espe- ' rienza moderna ed antica, ha in sè qualcosa di ferreo. Sì, il
Cuoco si può raffrontare al Burke, ma il Saggio storico 1 « è un'opera capitale
di pensiero storico, la quale, come osserva B. Croce (1 ), tiene in certo modo
in Italia, e forse con maggiore altezza filosofica le celebri Riflessioni sulla
rivoluzione francese », non fosse altro per la vastità del campo
d'osservazione, per il senso vigile, che vi do mina, della storia, come eterno
farsi, come eterno divenire dello spirito umano. Della maggiore levatura del
moli sano sull'inglese noi abbiamo una prova sicura e positiva
nell'atteggiamento definito di fronte alla rivoluzione: il Burke da una critica
superiore passa presto all'op posizione sistematica, vedendo pura ribellione,
mero ri voluzionarismo, semplice neomania, anche ove vè sano liberalismo,
desiderio d'un nuovo pacifico equilibrio, rifor mismo contenuto entro limiti di
saggezza, sicchè i benefici effetti del movimento gli sfuggono: il Cuoco,
invece, rico nosce le origini delle rivoluzioni come legittime, e le spiega
completamente; nega, sì, l'applicazione universale dei princípi da essa
desunti, ma, nello stesso tempo, sa va lutare l'importanza della nuova
situazione creatasi, dalla (1) B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel
secolo XIX, Bari, Laterza ed., 1921, v. I, p. 9 e sgg. 1 116 quale nessun
paese, nè l'Italia, nè l'Inghilterra, può prescindere (1 ). Siamo giunti alla
fine del nostro discorso sul Saggio storico. Come quest'opera sia nata, dal
punto di vista materiale, ove sia stata scritta, come sia stata concretata, a
noi importa assai poco. L'esame che ne abbiamo fatto non può non essere
sommario, incuneato com'è in un più vasto problema: il pensiero politico di
Vincenzo Cuoco, che non si esaurisce, come comunemente si crede, nel Saggio, ma
trova il suo naturale sviluppo e comple mento negli articoli del Giornale
italiano, che il molisano venne scrivendo negli anni 1804-1806, dopo il grande
successo che ebbe il Saggio nell'ambiente milanese (2 ). Il Saggio storico, per
chi ricerchi la sua genesi spirituale, si svolge spontaneamente dai Frammenti
di lettere a V. Russo, de cui principi è la riprova vissuta, l'espe rienza. Se
la rivoluzione di Napoli ha avuto una utilità, è questa: il foggiarsi d'una
coscienza italiana, che all'estre mismo e all'astrattismo oppone una veduta
moderna e positiva della vita pubblica. Nel Saggio, abbiamo detto, dette (1 )
Conobbe il Cuoco quando scrisse il Saggio storico sulla ri voluzione napoletana
le Reflections on the French Revolution di Edmund Burke? Con ogni probabilità,
sì. Le sopra Reflections furono pubblicate per la prima volta neil' ottobre del
1790, vale a dire dieci e più anni prima dell'opera del no stro. Nel Saggio
stesso vi è una nota in cui il nome del Burke spicca evidente e col nome un suo
giudizio (II, p. 18 ). Il Cuoco conosce assai bene i princípi costituzionali
inglesi e ne fa sfoggio nelle sue opere. Il popolo inglese lo interessa assai,
e le scritture d'autori inglesi ha spesso fra le mani e le recensisce nel
Giornale italiano (cfr. 1804, n. 17, 8 febbraio, p. 68; -1804, n. 28, 5 marzo,
pp. 111-12; 1804, n. 54, 5 maggio, pp. 215-216; 1804, n. 58, 12 maggio, p. 228;
ecc. ). Che l'opera del Burke, V. Cuoco conoscesse assai profondamente, lo
dimostra una re censione (cfr. Giorn. ital., 22 settembre 1804, n. 114, p. 446),
ove egli discorre abbondantemente e fa un largo elogio di una traduzione
italiana d'una opera estetica del celebre autore in glese, Essay on the Sublime
and Beautiful, Tutto ciò mostra una conoscenza delle cose d'oltre Manica assai
profonda, prima e dopo la pubblicazione del Saggio. (2 ) N. RUGGIERI, op. cit.,
p. 34: G. Cogo, op. cit., p. 10. 117 non è tutto il Cuoco, non è tutto il suo
pensiero politico, ma è certo quanto di meglio abbia prodotto il suo genio, dal
punto -di vista artistico. Il Gentile, giudice di alto valore, crede il
Rapporto al re Murat per l'ordinamento della pubblica istruzione, di cui avremo
a parlare in seguito, quando tratteremo d'altri atteggiamenti spirituali del
Cuoco, crede dunque il Rapporto, insieme con il Saggio storico, « ciò che di
più notevole produsse il pensiero napoletano in quegli anni agitati tra il '99
e il '20 » (1 ). Ma ciò riguarda più il valore politico dell'opera, di cui
diciamo, piuttosto che il valore artistico. Dal punto di vista puramente
storico, dal 1801 in poi gli scrittori hanno cercato in varî modi di far luce
sugli avvenimenti napoletani, ma le conclu sioni, alle quali si è pervenuto,
sono sostanzialmente quelle del nostro autore (2 ). Sembra impossibile che un
individuo, che, come il Cuoco, scrive pochi mesi dopo la sciagura, di cui è
stato egli non piccola parte, possa superare i fatti stessi e la sua per sonale
passionalità, in una lucida espressione artistica, che di converso è anche una
mirabile storia umana. Lo storico si leva sugli avvenimenti, e il suo sguardo
pene tra a fondo nello spirito degli uomini e nel corso delle cose, allargando
la sua visuale dai fenomeni particolari ai princípi che sono eterni, dal
problema peculiarmente napoletano a questioni che sono europee, a considera
zioni più largamente umane. L'artista poi trova l'espressione più adeguata e
palpi-. tante in una forma, che non si sa se più ammirare per la sua immediata
precisione o per la sua sinteticità taci (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p.
279. (2 ) Un'offensiva anticuochiana tenta L. CONFORTI, op. cit., P: 21 e sgg.,
ma da un punto di vista assolutamente errato é falso. Dopo quanto abbiamo
scritto per il Tria una confuta zione delle affermazioni del Conforti ci appare
inutile, anche perchè non potremmo che ripetere ciò che già fu detto dal
RUGGIERI, op. cit., p. 104 e sgg., e dal ROMANO, op. cit., p. 99. 118 tiana, a
scatti, nervosa, e pur viva e palpitante (1 ). In un mondo di riflessi e di
chiaroscuri, di luci e di ombre, le figure dei tragici eroi del '99 appariscono
scolpite per l'eternità, appaiono martellate nel marmo da una mano
michelangiolesca. Io non conosco pagina di storico mo derno, che mi animi la
trista figura del Vanni, bieco stru (1 ) Anche qui non mancarono i critici. Il
GIORDANI, per esempio, in un abbozzo di opera, che aveva intenzione di scri
vere col titolo di Studi degli Italiani nel secolo XVIII, discor. rendo di
quelli che « sono venuti in tanta stoltizia che hanno fermato non esservi arte
alcuna di scrivere », osserva che in vece: « l'esperienza e la ragione e
l'autorità de' primicomprova che vi è: ed è fra tutte difficilissima: e ben lo
notò Cicerone che pur futra’ principali. Ma dovette credersi più savio ed
esperto di Cicerone quel Vincenzo Cuoco che scrisse non darsi arte di scrivere,
e quello che in poche parole affermò, ben con troppe carte, quanto a sè,
confermò ». (Scritti editi e postumi, pubblicati da A. Gusalli, Milano, Borroni
e Scotti, 1856, v. I, p. 187 e sgg). Giudizio addirittura stroncatorio ! Del
resto l'ar tifizioso Giordani per la sua cultura accademica, per la sua
mentalità scolastica era il meno adatto ad intendere la spon taneità geniale
dello scultore del Saggio. Ben altro giudizio di quello del Giordani dovea dare
di V. Cuoco il Manzoni, per esempio ! Forse per reazione al Giordani il
SETTEMBRINI (op. cit., v. III, p. 280) nella sua felice esaltazione del Saggio,
come opera di pensiero, in cui il Cuoco, pur narrando i fatti da pa triota, «
li considera da filosofo, e la sua filosofia non è tutta francese, ma è anche
senno italiano, è la sapienza storica di Giambattista Vico e di Mario Pagano »,
venendo quindi a dire della lingua della grande opera, « nella quale si sente
il mesco lamento di due popoli », il francese e l'italiano, prorompe: « Che
importa a me di lingua non pura e di francesismi, se io non me ne accorgo
perchè le cose che dice mi occupano tutta l'anima, e in quella lingua torbida
io vedo e sento tutto quel torbido rimescolamento diuomini e di cose? È la
lingua stessa del Filangieri, del Beccaria, del Verri, con qualche cosa di più
che viene da un profondo sentimento di dolore. Dopo il 1815 i grammatici s'
intabaccarono con la Polizia e con l' Indice, e dissero che gli scrittori del
tempo della Rivoluzione furono scorretti di lingua, anzi barbari, anzi senza
italianità, e da non leggersi, e da dimenticarsi: e così Vincenzo Cuoco fra gli
altri fu proscritto da tutte le potestà. Noi dobbiamo conoscere quest'uomo che
fu il solo scrittore di pregio che i napoletani ebbero durante la rivoluzione,
il solo che in sè stesso raccoglie il senno e la fortuna di un regno ». 119
mento borbonico di reazione, con tratti così rudi ed espres sivi, come quelli
dello scrittore civitese. « Lo sguardo di Vanni era sempre riconcentrato in sè
stesso; il colore del volto pallido- cinereo, come suole essere il colore degli
uomini atroci; il suo passo irregolare e quasi a salti, il passo insomma della
tigre: tutte le sue azioni tendevano a sbalordire ed atterrire gli altri; tutt'
i suoi affetti at terrivano e sbalordivano lui stesso. Non ha potuto abitar più
di un anno in una stessa casa, ed in ogni casa abitava al modo che narrasi de '
signorotti di Fera e di Agrigento. Ecco l'uomo che dovea salvare il Regno ! » (1
). V’è in questa prosa lucida e insieme aderente alla realtà dello spirito,
tutta l'eloquenza di Livio, tutta la concentrata possanza di Tacito, v'è la
acutezza di Ma chiavelli, l'oscura densità di Vico. Una parola scolpisce un
individuo, una immagine ci rende un uomo. « Schipani rassomiglia Cleone di
Atene e Santerre di Parigi. Ripieno del più caldo zelo per la rivoluzione,
attissimo a far sulle scene il protagonista d'una tragedia di Bruto, fu eletto
comandante di una spedizione desti nata passar nelle Calabrie, cioè nella due
provincie le più difficili a ridursi ed a governarsi, per l'asprezza dei siti e
per il carattere degli abitanti. Non avea seco che ottocento uomini, ma essi
erano tutti valorosi e di poco inferiori di numero alla forza nemica » (2 ).
Ecco come un raffronto, anzi due raffronti ci dànno il tipo dell'eroe gia
cobino, pieno di pseudo-romanità teatrale, e perciò lon tano dal secolo, in cui
vive ed opera. Dovrei continuare.... Caracciolo e la battaglia navale di
Procida, la difesa del forte di Vigliena sono nella narrazione del Cuoco poche
righe, ma s'imprimono indelebilmente nella memoria di chi legge e suscitano una
larga fantasia. Le pagine che lo scrittore dedica alla reazione sanfe dista e
alla caduta della repubblica fanno fremere. Chi non ricorda il combattimento
intorno ad Altamura? (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 35. (2) V. Cuoco,
Saggio storico, XXXIII, p. 150, 120 « Il disegno di Ruffo era di penetrar nella
Puglia. Al tamura formava un ostacolo a questo disegno. Ruffo l'assedia;
Altamura si difende. Per ritrovare esempi di difesa più ostinata, bisogna
ricorrere ai tempi della storia antica. Ma Altamura non avea munizioni bastanti
a di fendersi; impiegarono i suoi abitanti i ferri delle loro case, le pietre,
finanche la moneta convertirono in uso di mi traglia; ma finalmente dovettero
cedere. Ruffo prese Altamura di assalto, giacchè gli abitanti ricusarono sem
pre di capitolare; e, dove prima nelle altre sue vittorie avea usato apparente
moderazione, in Altamura, sicuro già da tutte le parti, stanco di guadagnar gli
animi che potea ormai vincere, volle dare un esempio di terrore. Il sacco di
Altamura era stato promesso ai suoi soldati: la città fu abbandonata al loro
furore; non fu perdonato nè al sesso nè all'età. Accresceva il furore dei
soldati la nobile ostinazione degli abitanti, i quali, in faccia ad un nemico
vincitore, col coltello alla gola, gridavano tutta via: Viva la repubblica !
Altamura non fu che un mucchio di ceneri e di cadaveri intrisi di sangue » (1 ).
Ma ove il Cuoco raggiunge le vette dell'eloquenza, e la sua espressione è
cristallina, d'una cristallinità meravi gliosa, è nelle pagine da lui dedicate
alla ricordanza dei grandi caduti, ai mani grandi di Cirillo, di Grimaldi, di
Caracciolo, di; Carafa, di Conforti, della Fonseca. Alle volte è un episodio
che lo scrittore riferisce, un aneddoto, una parola pronunziata: basta, una
figura s'illumina. Io non so, ma, forse, non c'è biografia dell'autore dei
Saggi politici che valga le poche righe, che Vincenzo, discepolo riverente,
dedica al maestro immortale. « Pa gano Francesco Mario. Il suo nome vale un
elogio. Il suo Processo criminale è tradotto in tutte le lingue, ed è ancora
uno delli migliori libri che si abbia su tale oggetto. Nella carriera sublime
della storia eterna del genere umano voi non rinvenite che l'orme di Pagano, (1
) V. Cuoco, Saggio storico, XLV, p. 183. 121 che vi possano servir di guida per
raggiugnere i voli di Vico » (1 ). V'è una grandezza degna di Machiavelli.
Insomma il Saggio storico non è solo un monumento di sapienza politica e di
grande istoria, ma è ancora un capolavoro d'arte, forse la più grande opera di
prosa italiana, che dal Machiavelli al Manzoni si sia scritta. I protagonisti
del dramma, e il poeta li coglie in atto, in tutta la loro spiritualità,
illuminati da una luce di pen siero, possono sembrare ad alcuno marionette
agitate da un triste fato. Non è così ! Gli uomini determinano gli eventi, sono
gli operatori della vita civile, dell'orribile rivoluzione; sono essi stessi,
poi, che cadono sotto il peso dei loro errori. La loro autonomia così è salva.
La storia del Cuoco è storia di idee, da cui uomini potrebbero ban dirsi ed
essere sostituiti con lettere dell'alfabeto, X, Y, 2.... Sì, è vero, poichè
l'autore mira alle cose, agli interessi, ai bisogni; ma non dimentichiamo che i
bisogni, gli inte ressi, le cose, sono in quanto vi sono gli uomini: il Cuoco
politico, che scaccia la personalità dalla storia, è vinto dal Cuoco artista,
che a tratti nervosi ed icastici scolpisce una figura, anima una creatura
umana. Lo storico ab- · braccia un vasto quadro, e ricerca il corso eterno di
quelle idee, sulle quali corrono gli eventi delle nazioni, e per lui gli uomini
sono elementi particolari e transeunti, meteore, che oggi sono e domani non
saranno: l'artista, integrando lo storico, anima gli uomini, e di essi e del
loro spirito vede piena la vita, di cui essi stessi sono i fattori. Tra storico
ed artista, insomma, c'è una supe riore armonia. « Il realismo della
rappresentazione, la nettezza del [ contorno » scrive Giovanni Gentile « il
rilievo delle figure, la luce di tutto il quadro » fanno del Saggio « una delle
maggiori opere storiche di tutte le letterature. Gli uo mini ci vivono ntro con
la vita individuale della loro psicologia, intuita in atto, e con la vita
storica, e più vera, degli interessi che rappresentarono, delle idee onde (1 )
V. Cuoco, Saggio storico, L, p. 208. 122 furon investiti, della logica che li
governd. Pochi i nomi, e le figure appena abbozzate a tratti rapidi, scultorii,
quasi danteschi: l'interesse dello scrittore è per l'in sieme, per le cose,
come ei diceva, e per le idee, da cui gl'individui son dominati, e che giovano
più all' istru zione di chi legge. Pure, dove sorgono quelle mozze figure, è
tanto il sentimento che lo scrittore vi spira dentro, e così fosca la luce in
cui le avvolge, che l'opera politica, più che storica, s'anima del patos d'una
tragedia » (1 ). Questo giudizio riecheggia con maggior precisione il giu
dizio, che sul capolavoro cuochiano ebbe ad esprimere Luigi Settembrini (2 ).
Il De Sanctis conobbe il Cuoco; se pur non integralmente, conobbe certo il
Saggio storico e il Platone in Italia, ma in lui non vide il maggior pro satore
dell'èra napoleonica; non vide che un mero disce polo di Giambattista Vico. Del
resto ai critici come ai poeti non possiam chiedere più di quel che ci hanno
dato, quando quel che ci hanno dato, ed è il caso di Francesco De Sanctis, è
perfetto. (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 351 e sg. (2 ) Luigi SETTEMBRINI.
Napoleone e la sua politica generale. L'antifrancesismo di Cuoco: reazione
italiana. - Il prin cipio monarchico s'incarna in Napoleone. - I benefici della
rivoluzione. - La borghesia. - La proprietà base del nuovo ordine civile. -
Quarto stato: proletariato. - Milizia. - Liberismo e protezionismo economico. –
Lo Stato napoleonico. - L'unità d'Italia in rapporto alla politica generale
europea. - Anglofobia di Cuoco. Stato e religione. - Giurisdizionalismo. Una
illazione, forse fuori di posto, che si suole trarre dall'atteggiamento di
Vincenzo Cuoco di fronte alla rivo luzione di Francia e al giacobinismo
napoletano, è quella di un vero e proprio suo antifrancesismo. Paul Hazard nel
suo bel libro La révolution française et les lettres ita liennes, parlando del
molisano, al quale egli dedica un buon capitolo, che io credo una delle cose
migliori che sul nostro sia stata scritta, ponendo in rilievo la sua op
posizione all'astrattismo giacobino, accenna non solo ad una reazione culturale
dell'italianismo, e fin qui tutto è legittimo, ma crede di poter rinvenire una
vera e pro pria opposizione di natura politica (1 ). È un punto non solo
storicamente importante, ma anche degno di di (1 ) P: HAZARD, op. cit., pp. 218
e sg. 124 scussione per intendere un nostro giudizio sul Cuoco, che abbiamo
detto essere assai coerente nel suo sviluppo spirituale, affermazione e
giudizio, che ora — è venuto il tempo dobbiamo dimostrare, per respingere, di
ri flesso, la taccia, che all'autore del Saggio è gettata di opportunismo e di
particolarismo. Solo risolvendo questo problema, potremo intendere la
situazione del Cuoco a Napoli, la sua visione generale della politica
repubblicana e poi di quella napoleonica, la sua concezione dello Stato, la sua
risoluzione d'un antico problema, i rapporti tra Stato e Chiesa, tutte
questioni che formano la materia del presente capitolo. La critica, che il
Cuoco fa della rivoluzione francese - astrattismo, esaltazione di princípi,
democratizzazione universale – non è solo critica metodologica e filosofica, ma
anche critica politica. Che cosa egli vede nei francesi? Nei francesi vede un
popolo, il quale tende a sostituire il proprio spirito, la propria natura, la
propria tradizione allo spirito, alla natura, alla tradizione nostra. L'opera
cuochiana, vista nel suo complesso, è dunque una reazione al francesismo
dilagante in nome della cultura e delle glorie italiane, in nome della nostra
storia: ben ha fatto l' Hazard, allorchè, sia pure con qualche esagerazione
propria della dimostrazione assunta, ha impersonata que sta cultura, questa
gloria, questa storia proprio in Vin cenzo Cuoco. Tutto l'atteggiamento mentale
di Vincenzo è diffidenza contro i francesi e contro coloro che credettero di po
tere imporre senza difficoltà gl' immortali princípi con le baionette. Il
Saggio storico, che il critico francese de finisce l'esame di coscienza del
popolo italiano, è infine la denunzia documentata di un sistema che non va; è
la critica senza tregua di un ibridismo politico che la realtà smentisce. La
documentazione non potrebbe es sere più sicura e più ricca. E il modo questo di
porta la libertà, l'uguaglianza, la fraternità? di farsi amare dalle
popolazioni illuse? Il popolo italiano, sembra dire il Cuoco, che aspetta
l'indipendenza, e fors'anche l'unità, dall'opera altrui, s'adagia in una troppo
beata attesa di 125 ciò che non sarà mai. La libertà, l'unificazione, l'indi
pendenza occorre sapersele conquistare attraverso un'o pera lunga indefessa
grave. Bisogna rendersi degni di miglior fortuna, e però bisogna rendersi prima
spiritual mente migliori: divenire prima cittadini in ispirito della gran
patria Italia per poi esserlo di fatto. Attendere la libertà come un dono dagli
altri? Ohimè ! La libertà, prima di essere libertà civile, è libertà di
pensiero, auto nomia di cultura. Possiamo mai essere liberi noi, che prima di
essere italiani, vogliamo essere francesi, noi che nelle cose più banali e più
grandi, nella foggia del vestire e nell'ordinamento costituzionale, ci
allontaniamo sempre più dalla nostra natura per acquistarne un'altra estrin
seca? Le nazioni hanno un corso che è unitario e lineare, perchè determinato da
un primitivo impulso, che costi tuisce il fondo materiale e morale della loro
vita. « Una nazione che si sviluppa da sè acquista una civiltà eguale in tutte
le sue parti, e la coltura diventa un bene generale della nazione » (1 ). Ecco
quindi come l'elemento cultu rale si lega intimamente alle fortune politiche di
un paese. Una nazione, che imita un'altra, perde ogni com pattezza, ogni
omogeneità, ogni ideale coerenza, e non può che restare inferiore al modello,
che ha dinanzi, senza considerare che la perdita dell'unità spirituale porta
seco fatalmente la perdita dell'unità politica, se questa già c'è, ' o ritarda
la sua formazione, se questa manca. « Non può mai esser libero » ammonisce il
Cuoco « quel popolo in cui la parte che per la superiorità della sua ra gione è
destinata dalla natura a governarlo, sia coll’auto rità sia cogli esempi, ha
venduta la sua opinione ad una nazione straniera: tutta la nazione ha perduta
allora la metà della sua indipendenza » (2 ). A ciò bisogna aggiungere
considerazioni d'altra natura. Il Cuoco nel suo stesso fondo culturale è
antirepubblicano, antirepubblicano per princípi, che trascendono la sua stessa
esperienza politica, la sua prassi civile. Ci obiet (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, XVI, p. 90, nota. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 91. 126
teranno: ma la sua partecipazione al moto del '99, par tecipazione (1 ) che
oggi al lume della critica storica appare più importante che per l'innanzi non
fosse sem brato, come si spiega? È dovere del buon cittadino ser vire la
patria, qualunque sia la forma di governo, qua lunque sia il suo reggimento
politico. Senza dimenticare che tra i Borbonici malversatori e le nobili figure
re pubblicane di Cirillo, di Pagano e di Ciaia Cuoco sapeva fare le opportune
distinzioni. Io credo che l'opposizione antirepubblicana e antigia cobina del
Cuoco derivi da veri e propri princípi filoso fici, oltre che da pura ostilità
pratica, che potrebbe anche essere un fenomeno transeunte. Nei Frammenti di
lettere, cioè nel pieno della rivoluzione scriveva che « un re ere ditario...,
quando non ad altro, serve a togliere agli altri l'ambizione di esserlo »; e
che egli credea « la monarchia temperata meno di quel che si pensa nemica degli
ordini liberi » (2 ). A me pare che il Cuoco inclini ad una forma di monarchia
costituzionale vera e propria. La vita dei popoli corre uno sviluppo
prestabilito. Dall'assoluta ti rannia all'assoluta libertà è un passo, da un
eccesso al l'altro eccesso: il punto d'equilibrio, che salva l'unità e la
coerenza interiore delle stirpi, è la monarchia costitu zionale. La libertà è
un astratto. Bisogna che il popolo se ne renda degno, ed abbia nello stesso
tempo un inte resse nella libertà, in quanto questa effettivamente mi gliori la
convivenza civile. Bisogna in sostanza che il popolo sia maturo per le
conquiste rivoluzionarie, e com prenda: se non è così, gli stessi più alti
benefíci si con vertono in pericoli. È matura, si domanda il Cuoco, l'Eu ropa
per l'assoluta libertà, per la repubblica? È matura Napoli per accogliere
ordini rivoluzionari? La risposta (1 ) Alludo alla preparazione del moto
insurrezionale in Avi. gliano, all'opera repubblicana che il nostro preparò in
Basili cata. Questa attività cuochiana era rimasta nell'ombra fino a ieri:
il primo che l'ha studiata e documentata è stato M. Ro MANO, op. cit., p. 19 e
sgg. (2 ) Framm. III, p. 250. 127 non lascia dubbio. I popoli hanno ancora
bisogno d'una guida, hanno bisogno d'una forza, che li tenga costretti nei
limiti d'una volontà generale, pur contemperando questa con una maggior
autonomia delle volontà parti colari o individuali. Questi sono gli ordini
costituzionali. Gli ordini giacobini sono costituzionali a parole, in realtà
sono anarchici, libertari. La saggezza dei popoli è ancora da ritrovarsi: i
popoli sono ancora più fantasia e mito, senso e leggenda anzi che pensiero ed
intelletto: i gover nanti mostrano di non avere intesa questa complessa e
primordiale natura loro. I popoli hanno bisogno d'un in telletto, che li guidi
ed eserciti ciò che essi, tutto senso e poesia nel significato vichiano, non
possono esercitare, la volontà dell'intelletto. « Un sovrano saggio sul trono »
scrive il molisano, « è meno raro d'un popolo saggio ne' comizi » (1). Notiamo
che il Cuoco scriveva queste righe, quando l'astro di Napoleone non brillava
ancora di pura luce, di tutta la luce grande che doveva poi spiegare, quando
egli scrivendo non poteva menomamente pen sare che dalle repubbliche di Francia
e d'Italia doveva svolgersi il consolato, l'impero. Il Cuoco ci appare dunque
coerente. I suoi sentimenti, ripetiamo una sua frase ti pica, sono eterni. In
Napoleone egli vedrà realizzato po sitivamente tutto il suo grande ideale.
Nessuno potrà accusarlo di particolarismo, d'amore per il suo parti culare. Ora
nella repubblica francese Vincenzo Cuoco vede pre cisamente la negazione di
tutto il suo sistema politico, l'astrattismo formulante vuoti schemi per
chiudervi l ' ineffabilità delle determinazioni naturali; la democra (1) Framm.
III, p. 242. Quanto quei sentimenti siano ra dicati nel Cuoco puoi vedere
leggendo i suoi articoli su pro blemi politici: in particolare cfr. Giorn.
ital., 1804, 30 maggio, 2 giugno; n. 65, 66; p. 260, p. 264; 1805, 2, 7, 17
gennaio; n. 1, 3, 7; pp. 3-4, pp. 11-12, pp. 26-28. Nel Platone in Italia, v. I,
p. 142 e sgg., riconferma il suo pensiero, « riafferma », come scrive il
ROMANO, op. cit., p. 85, « la sua fiducia in ungoverno misto, temperato, tra la
monarchia, l'aristocrazia e la democrazia ». 128 zia universale, che cerca di
sovrapporsi a popoli, diversi di coltura e di interessi, per costringerli ad
accettare un governo monotono uguale; la volontà generale, che cozza con le
volontà singole; un pazzo alternarsi d'anar chismo e di tirannia. Che cosa è
mai questa benedetta libertà, che i francesi portano? È la più sfacciata
tirannia. Essere libero signi fica adattarsi al metodo, all'andazzo giacobino;
se no, guai a chi si oppone: le baionette strappano il consenso liberamente
mancato. La libertà imposta non è più li bertà, cioè libero volere, libera
determinazione. La libertà data dalle repubbliche, nota Vincenzo, è sempre più
dura che non la libertà data dai re. Sembra un paradosso, ma è così. Le
repubbliche sono infatuate dai loro prin cípi, e credono che tutti siano
desiderosi di comparteci parne, e quando li vedono ripudiati, li impongono, poi
che non vedono bene e felicità fuori di essi. L'antifrancesismo, dunque, di
Vincenzo Cuoco real mente ha radici profonde in questioni di metodo e di po
litica. Il Cuoco non è un repubblicano. Egli vagheggia forme costituzionali,
che sintetizzino l'indirizzo potente mente unitario dello Stato con le volontà
autonome delle popolazioni. Queste considerazioni di natura generale possono
spie garci vari punti della biografia di Cuoco, che altrimenti sarebbero
destinati a rimanere senza delucidazioni; pos sono darci la ragione della
scarsa sua partecipazione alla rivoluzione partenopea, la ragione forse della
sua sal vezza dopo la prigionia borbonica, la ragione del suo iso lamento a
Milano prima che un nuovo ordine un po' più schiettamente italiano e meno
repubblicano non venga a costituirsi; questioni, assai gravi, come ognun vede,
ma che acquistano maggior luce, se le si riconducono ai princípi, che sopra
abbiamo accennato. Il pensatore, che, criticando il progetto di costituzione
del Pagano, scriveva a Vincenzio Russo amaramente ed ironicamente nello stesso
tempo: « Oh ! perdona. Non mi ricordavo di scrivere a colui, che, sull'orme
della buona memoria di Condorcet, crede possibile in un es 129 sere finito una
perfettibilità infinita »; il pensatore, che così ironicamente pungeva l'amico,
è lo stesso uomo, che oggi a Milano esule ricorda a un suo intimo il suo co
stante odio contro i Galli (1 ). « Non ti pare che io era profeta » scrive «
quando in faccia a Scipione Lamarra (generale e carceriere dei repubblicani del
1799 ) mi dissi cisalpino? E profeta anche più grande, quando diceva tanto male
dei francesi? Eccomi dunque cisalpino, per chè in Milano, ed odiator de'Galli,
quale lo era nel '93, nel '94, nel '95, nel '96, nel '97, nel '98 e finalmente
in Capua nel '99. I miei sentimenti sono eterni. » Il Cuoco ci appare come il
più genuino rappresentante di un pensiero politico in tutte le sue
manifestazioni in an titesi col pensiero e con la prassi politica francese. Il
suo spirito storico e pratico lo rimena al Vico, l'investi gatore profondo delle
leggi, che governano il corso delle nazioni, al Machiavelli, che dai fatti trae
le norme della vita pubblica, al Montesquieu, il più acuto studioso della
natura delle leggi e della loro conformazione ai bisogni fisici e spirituali
de' popoli. Nel Saggio, ricordiamo, dopo avere analizzato quanto la rivoluzione
era lontana dalla vita italiana e napoletana, quanto i bisogni nostri eran,
diversi da quelli francesi, quanto i nuovi princípi erano astrusi, scrive delle
righe assai importanti per una com prensione del suo pensiero. « La scuola
delle scienze mo rali e politiche italiane seguiva altri princípi. Chiunque
avea ripiena la sua mente delle idee di Macchiavelli, di Gravina, di Vico, non
poteva nè prestar fede alle pro messe nè applaudire alle operazioni de '
rivoluzionari di | Francia, tostochè abbandonarono le idee della monar chia
costituzionale » (2 ). Ecco, l'opposizione politica di viene una vera e propria
reazione culturale in nome del l'italianismo. Non mi sembra più il caso ora di
dubitare circa la po (1 ) La lettera che segue, pubblicata per primo da M. Ro
MANO, op. cit., p. 269, in parte fu poi ripubblicata da G. GEN TILE, Studi
vichiani, p. 350. (2 ). V. Cuoco, Saggio storico] sizione del Cuoco di fronte
alla rivoluzione. Il Cuoco non è repubblicano, è monarchico costituzionale. Il
Cuoco è antifrancese perchè è troppo profondamente italiano. La posizione non
potrebbe essere più chiara. Questa rinnovata posizione di critica non conduce
però Vincenzo ad un isolamento politico totale. Egli s'oppone ad uno stato di
cose profondamente radicato nella vita contemporanea, ma crede suo dovere
agire, operare in un mondo di illusi e di dormienti, mostrare agli italiani
quanto essi siano in errore, ripudiando la loro essenza per una natura
estrinseca. Come nel '99 egli, vagheggia tore d'una repubblica costituzionale
indipendente, da fondarsi subito dopo la partenza dei Borboni, prima del
l'ingresso dei francesi, d'una repubblica nazionale, non soggetta ad alcun
influsso estraneo, che sapesse intendere la natura del popolo, e su questo solo
trovasse la base d'ogni suo operare, rendendolo partecipe ed interessato, non
seppe, non potè abbandonare i suoi generosi compa gni per problemi e dissensi
di carattere teorico, e si senti travolto in quel vortice che pur non amava;
così oggi, a Milano, ricostituitasi bene o male una parvenza di libertà
italica, egli è al suo posto di combattimento, assertore infaticabile delle più
pure idealità nazionali. La vita ha una sua particolare dialettica. Questo spie
gamento non è lineare uguale, ma inframmezzato da cu riosi contrasti: una
affermazione è implicita nell'atto stesso della negazione. La rivoluzione
francese, che nega la storia, è nella storia, e afferma la storia. Tutto il
movi mento post -rivoluzionario, in antitesi alla rivoluzione, nasce da uno
stesso getto, con la rivoluzione. L'illumini smo afferma l'assoluto della
ragione e da questa desume formule e princípi ad informarne la vita. Il nuovo
pen siero trova il fondamento di tutto nello spirito, che è in sè e fuori di
se, istoria e natura, sviluppo continuo, pro duttività infinita, principio
attivo. Il Fichte in Germania in parte è ancora nella rivoluzione; lo Schelling
e l'Hegel, e con essi tutto il movimento storicista nella politica e nel diritto,
sono già fuori dalla rivoluzione. La filosofia della rivoluzione non aveva
prodotto un vero sistema costitu 131 zionale, aveva ondeggiato tra troppo
opposti princípi, per finire ad uno Stato, il cui contenuto etico era e non
era. La nuova filosofia riconsacra nella natura lo spirito, e lo spirito
sublima nello Stato, sua perfetta creazione. La fatale necessaria evoluzione
dello spirito porta allo Stato, e in esso celebra, diciamo pur così, tutto sè
stesso. Chi dice Stato dice realtà ed ideale, autorità e libertà, forza e
consenso. È la reazione dello Schelling e dell’Hegel alla rivoluzione. È la
stessa reazione, ma anticipata, di altri filosofi della restaurazione. In
Italia questa reazione, che però è una rivalutazione dello Stato monarchico nel
suo contenuto etico, è fatta da Vincenzo Cuoco. Col Cuoco, giornalista nella
repubblica cisalpina e poi nel regno italico, la rivoluzione muore, depone il
berretto frigio, lascia il posto allo Stato, come manifestazione ultima d'un
processo etico, in cui la libertà è nel con senso, l'unitarietà nella forza.
Pochi hanno notato l'importanza del molisano, come rivendicatore del principio
monarchico. Si è detto che egli è il primo, che si faccia araldo del problema
unitario in quanto problema spirituale e pedagogico; ma si è dimenticato che
nel suo pensiero il fine della rinascita morale è una unità, che non può
ottenersi che nella mo narchia. Affermazione questa, notiamo, che non implica
alcun assoluto politico, ma che è la risultante di mere contingenze storiche,
di una vera impreparazione popo lare a più ampie libertà, da studiarsi, dunque,
nell'am biente, in cui e per cui il Cuoco l'esprime. Il processo pedagogico,
che deve condurre all'unità, è un processo nulla affatto rivoluzionario, anzi
evolutivo. Mentre in Germania questa rivalutazione è posteriore: alla
rivoluzione, mentre in Germania il Fichte, il futuro autore dei Discorsi alla
nazione tedesca, scrive il suo Con tributo alla rettificazione dei giudizi del
pubblico sulla ri voluzione francese, che non può non essere, nel grave
incendio sovvertitore, una partecipazione a quei princípi che agiscono in tutto
il movimento, ed insieme una loro legittimazione; in Italia lo spirito
nazionale nasce nella stessa rivoluzione, come reazione d'una sostanza speci
132 ficamente italiana ad una forma vuota ed estrinseca che le si vuol
sovrimporre. Napoleone per Cuoco è la creatura di genio, che impersona in sè
tutto il nuovo ordine di cose, che sorge dalla rivoluzione e alla rivoluzione
s'op pone, ordine di cose che il pensatore ha previsto sin dai primi bagliori
dell ' incendio giacobino. Le prime pagine del Saggio storico, la Lettera
dell'autore all'amico N. 0., la Prefazione alla seconda edizione sono la
conferma di tutto ciò, che siamo venuti faticosamente esplicando fin qui. In
questi scritti la figura del gran capitano è esal tata: ma, se leggiamo
profondo, più che l'uomo fatale sono esaltati il nuovo ordine di cose e i nuovi
princípi ci vili, che affiorano nella politica generale di Francia. Il Cuoco,
dopo alcuni anni dalla rivoluzione di Napoli, di cui era stato spettatore, si
rivolge indietro, rivede con la fantasia accesa tutti gli avvenimenti, che nel
breve corso d’un anno, il 1799, la storia ha suscitato nella sua patria: il
regno del Borboni ruinato mentre minaccia la conquista d'Italia, un monarca
debole abbandonare i suoi Stati, la libertà sorgere e stabilirsi quando meno la
si attende, i fati combattere la buona causa, e poi gli er rori e il crollo;
rivede tutto con la fantasia e, facendo ciò prova il piacere di chi, essendo
stato giudice impar ziale, ha profetato un avvenire, nascente sulle contrad
dizioni del presente. L'uomo dei Frammenti è infine il profeta di Napoleone. «
Desidero » scrive Vincenzo nella Prefazione alla seconda edizione del Saggio
storico « che chiunque legge questo libro paragoni gli avvenimenti dei quali
nel medesimo si parla a quelli che sono succeduti alla sua pubblicazione.
Troverà che spesso il giudizio da me pronunziato sopra quelli è stata una
predizione di questi, e che l'esperienza posteriore ha confermate le
antecedenti mie osservazioni » (1 ). La storia ha uno'svi luppo che non falla:
lo storico, il quale intende le idee che sono eterne, e non gli uomini che
brillano un istante, può a ragione divenir profeta. V'è nelle righe sopra
citate (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 8. 133 la soddisfazione
dell'uomo, che vede la conferma d'una realtà, che non gli sfugge. « Io ho il
vanto » aggiunge « di aver desiderate non poche di quelle grandi cose che egli
[Napoleone] posteriormente ha fatte; ed, in tempi nei quali tutt' i princípi
erano esagerati, ho il vanto di aver raccomandata, per quanto era in me, quella
moderazione che è compagna inseparabile della sapienza e della giu stizia, e
che si può dire la massima direttrice di tutte le operazioni che ha fatte
l'uomo grandissimo. Egli ha verificato l'adagio greco per cui si dice che gl '
iddii han data una forza infinita alle mezze proporzionali, cioè alle idee di
moderazione, di ordine, di giustizia. Le stesse lettere, che io avea scritto al
mio amico Russo sul pro-. getto di costituzione composto dall'illustre e
sventurato Pagano, sebbene oggi superflue, pure le ho conservate e come
monumento di storia e come una dimostrazione che tutti quelli ordini che allora
credevansi costituzionali non eran che anarchici » (1 ). V'è qui tutta la spiegazione
della nuova situazione, che s'è imposta e di cui il Cuoco si sente partecipe.
La rivoluzione era un vortice, che se egli non odiava, certo non amava, al
quale s ' era abban donato un po' passivamente, più per criticare che per
esaltare, più per negare che per affermare: libertà, fra ternità, vane parole;
virtù e gloria: parole astratte, lon tane dall'intendimento del popolo. Il
regno d'Italia, l'impero di Francia, ora, sono invece realtà concrete, ove la
prassi politica è ispirata al concreto, al benes sere delle genti, è ispirata
ad un principio monarchico unitario, che trova una precisa e sicura
delimitazione tra volontà generale e volontà particolari, tra governo ed
individuo, in una nuova visione costituzionale, per cui lo Stato è concepito
come sublimazione dello spi rito, come forza e consenso, e quindi come autorità
e libertà. Il Cuoco dinanzi a Napoleone si trova nell'atteg giamento di chi
osserva una realtà, a lungo deside rata, finalmente concretata nella politica
generale euro (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 9. 134 pea, e non
nell'atteggiamento dell'adulatore che leva lodi per averne compensi. Si è
voluto dipingere il nostro come un volgare, se pur d'ingegno, procacciante, ma
coloro, che hanno sostenuto questa tesi non hanno esaminato certo per intero
gli scritti del molisano, o hanno perduto per il particolare quell'esatta e
continua visione d'in sieme, che ci spiega solo la natura d'una mentalità poli
tica. Il Cuoco è l'uomo dai sentimenti eterni, l'eterno an tigiacobino, e in
Bonaparte vede l'uomo geniale, sintesi delle nuove idee, che si sono venute
formando, di libe ralismo, di moderazione, d'equilibrio. Come sorgono quegli
uomini, che per il volgo sono usurpatori, che per lo storico non sono che
l'espressione d'una fatalità storica, determinata da bisogni insiti nelle
nature umane? « La mania di voler tutto riformare porta seco la
controrivoluzione: il popolo allora non si rivolta contro la legge, perchè non
attacca la volontà generale, ma la volontà individuale. Sapete allora perchè si
segue un usurpatore? Perchè rallenta il vigore delle leggi; perchè non si
occupa che di pochi oggetti, che li sottopone alla volontà sua, la quale prende
il luogo ed il nome di volontà generale, e lascia tutti gli altri alla volontà
in dividuale del popolo. Idque apud imperitos humanitas vocabitur, cum pars
servitutis esset. Strano carattere di tutti i popoli della terra ! Il desiderio
di dar loro sover chia libertà, risveglia in essi l'amore della libertà contro
gli stessi loro liberatori » (1). L'usurpatore ha una ragione di essere nella
stessa esagerazione della rivoluzione, rallenta il vigore delle leggi antiche,
lascia pochi oggetti a sè, il resto alla volontà singola. Mentre le repubbliche
nel l'esaltazione dei princípi cadono dalla tirannia all'anar chia,
dall'eccesso d’una volontà generale, che vuol sof focare ogni autonomia o
volontà subiettiva, all'eccesso di volontà individuali che non s'accordano in
una vo lontà generale, e viceversa, il monarca trova più facil mente
l'equilibrio, che nelle ere primitive è nella forza, (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, XVII, p. 96. 135 nelle ere evolute nel consenso. Il giacobinismo,
esaltando sè stesso, parimenti ha sviluppato una nuova opinione pubblica.
Napoleone è il rappresentante di questa nuova opinione pubblica. Non è detto
che il potere, che si viene accentrando in un singolo, quando si sia trovata la
delimitazione sovraccennata tra individualità e legge, sia per sè stesso
cattivo: quand'esso, anzi, è saldo sicuro, può anche essere umano e temperato.
È carattere pro prio dei principi deboli essere sospettosi e feroci, mentre i
sovrani, potenti su basi di consenso e di forza, non possono che essere
equanimi, larghi, liberali. Tutta la logica storica cuochiana porta alla
monarchia: la monarchia, date le condizioni dei tempi e degli uomini, è la
migliore forma di governo. Napoleone, ho detto, sorge dalla rivoluzione, e ad
essa si oppone. Il Cuoco stesso ha la lucida intuizione che al sistema
giacobino si è sostituito un sistema nuovo su nuove basi. Ciò non pertanto
egli, ingegno superiore sto rico, portato a valutare le conseguenze ultime
della ri voluzione, di fronte al nuovo reggimento instaurato, sa trovare i
benefíci che da questa sono scaturiti insoppri mibilmente per l'uman genere.
L'articolo Varietà (1 ) che il molisano pubblicò nel suo Giornale italiano, i
primi giorni del 1805, è un vero e proprio esame di coscienza, dinanzi alla
nuova situazione politica, che trova le sue origini, pur negandole, nella
rivoluzione. Col nuovo anno che si apre Vincenzo Cuoco s'arresta e guarda
indietro: molti mali da un lato, molti beni dall'altro: nonostante i grandi
errori, le grandi deficienze, si può notare un progressivo cammino sulla via
della saggezza. « Gran parte dell'Europa fa grandi progressi verso un ordine
migliore. « In Francia nell'anno scorso le opinioni sono diventate più
concordi, gli ordini più regolari. Le idee di rivolu- · (1 ) Giorn. ital.,
1805, 2, 7, 17 gennaio; n. 1, 3, 7; pp. 3-4, pp. 11-12, pp. 27-28: Varietà (ristampato
in Scritti vari, v. I, pp. 134-144 col titolo La rivoluzione francese e
l'Europa). 136 zione, divenute una volta estreme, han fatto avverare il detto
di Mirabeau che l ' esaltazione de' princípi altro non è che la distruzione de'
princípi. Ma, incominciando tali idee a retrocedere dal 1795, non potevano
arrestarsi se non giunte ad una forma di ordine regolare. Imper ciocchè ciascun
costume richiede una forma di governo, e ciascun governo ha in sé talune parti
essenziali, senza le quali, invece di costituzioni, si hanno que' mostri po
litici, i quali soglion aver la vita di un almanacco. Possono sembrar sublimi
agli occhi de’ mezzo- sapienti, ma sem brerebbero comici agli occhi de'
sapienti veri, se l'espe rimento de medesimi non costasse tanto all'umanità. Ri
conosciuta una volta necessaria la concentrazione del potere, è indispensabile
renderlo ereditario; altrimenti sarebbe lo stesso che aprir la via a perpetue
guerre ci vili. Esempio ne sia la Polonia. Nè vale il dare al primo magistrato
il diritto di nominar il suo successore, poichè l'esempio di Roma antica e
della Russia ben dimostrano che questo ordine di successione non basta a render
lo Stato sicuro dai tristi effetti dell'ambizione de' privati. Reso una volta
il potere ereditario, è necessario rivestirlo di tutte le apparenze esteriori
della dignità, perchè queste accrescon la forza della opinione, e la forza
delle opinioni serve a risparmiar quella delle armi, della quale non si può mai
far abuso senza pericolo. Un governo, il quale non ha per sè la forza
dell'opinione, si chiami pure con quel nome che si voglia, sarà sempre un
governo militare, il pessimo di tutti. Un governo, il quale, avendo già tutto
il potere, procura di fortificarsi coll'opinione, se questa opinione non è di
sua natura teocratica, tende a cangiarsi da governo militare in governo civile.
« Tale è l'ordine delle cose, immutabile, eterno. L'ar restarsi dopo una
rivoluzione in mezzo a questa progres sione è lo stesso che dar fine ad una
rivoluzione per in cominciarne un'altra ». Come ognun vede, il pensiero di
Vincenzo Cuoco, nella sua limpidezza, non lascia dubbio alcuno. Il nuovo or
dine costituito, cioè Napoleone, ha la sua origine nella rivoluzione, ma la sua
ragion d'essere nella negazione 137 della rivoluzione, la sua base concreta ne'
bisogni dei popoli di trovare il loro punto d'equilibrio tra gli estre mismi di
destra e di sinistra in quel consenso, che nel mondo moderno solo può
fortificare i governi. In Napo leone il Cuoco vede il restauratore dell'ordine
civile, ma non vuol vedere, nello stesso tempo, il militare, il con quistatore.
Il governo militare, che si erige sulle baio nette, gli ripugna: non per nulla
egli ha parteggiato nel '99 per la repubblica, ha salutato con letizia la
partenza dei borbonici dalla sua Napoli. Il governo, che tiene in pugno la cosa
pubblica e la direzione dello Stato, deve avere seco la forza del consenso, e
da questa derivare la forza delle armi. Altrimenti si cade in quel governo mi
litare, che, come dice il nostro autore, è il peggiore dei governi, come
quello, che, essendo odiato, sovrapponen dosi alle volontà dei cittadini,
rinnega le esigenze, i bi sogni, gli interessi delle popolazioni. Lo Stato del
Cuoco non è nè lo Stato paterno, di polizia del Wolff, nè lo Stato
rivoluzionario, che pone un limite insuperabile alla sua autorità in una
visione anarchica dei diritti subiettivi. Nello Stato del Cuoco confluiscono
vari e complessi ele menti, dal Rousseau al Vico, dal Montesquieu ad Aristo
tele. Se vogliamo caratterizzarlo, diremo che è Stato di diritto, che importa e
riposa su un contratto sociale, non storico ma immanente alla vita stessa dello
Stato, sin tesi di attività e di diritti singolari, Stato infine che non pud
agire che sub specie juris, nella forma del diritto, in quanto il diritto
stesso, nella sua natura generale, è alla fine riaffermazione e consacrazione
delle libere vo lontà particolari, che lo costituiscono. Il molisano è ugual
mente lontano dalle esagerazioni rivoluzionarie, che egli stesso definì
anarchiche e non costituzionali, come dalle affermazioni di coloro, che in
Napoleone avrebbero vo luto il signore dei gratia, superiore ad ogni volontà na
zionale. Egli, ingegno storico, sente che tra Napoleone e il regime assoluto
c'è una rivoluzione, e la rivoluzione non si può nè politicamente ne
teoreticamente superare a ritroso, onde s'arresta nel giusto mezzo, e ci dà un
con cetto dello Stato, che si ricollega sotto alcuni aspetti al 138 Rousseau e
al Vico, che ha, pure, qualche rassomiglianza con la teorica kantiana, sebbene
il nostro del Kant cono scesse assai poco, e più per seconda mano che per let
tura diretta (1 ). Il Cuoco afferma in sostanza la monar chia liberale
moderata, che assomma in sè l'autorità e la forza con il consenso e l'autonomia
(2). Le opinioni degli uomini, aggiunge continuando il Cuoco, sono discordi: è
fatale che siano discordi, poi che v'è stato di mezzo una rivoluzione, e gli
uni parteggiano ancora per essa, gli altri ancora la maledicono. Perchè
l'equilibrio si ristabilisca, è necessario che sorga un or dine nuovo tra le
varie opinioni, diverso dall'ordine an tico distrutto, diverso dal nuovo che si
desiderava. Sono concetti di moderazione, che appaiono anche nel Platone.
Michele Romano ha fatto un'analisi minuta di questo ro manzo sotto l'aspetto
politico, e noi, che seguiamo un'al tra strada, vi rinveniamo facilmente la
conferma delle nostre affermazioni, ed una prova diretta della coerenza
cuochiana. « Viene anche per le nazioni il tempo ineluttabile dei mali; il
tempo in cui tutta la forza è nelle mani di coloro che non hanno virtù, e
qualche virtù rimane solo a co loro che non hanno forza; onde avviene che tra
le scel lerate pretese de' primi, tra le inutili tenacità de'secondi, tra quei
che tutto voglion distruggere e quei che tutto voglion conservare, sorge una
lotta asprissima, funesta, in cui i primi a cadere son sempre coloro i quali
osan parlar le parole di moderazione che dopo venti anni di strage e di orrore
diventa l'inutile pentimento di molti e l'unico desiderio di tutti ». La
moderazione, commenta però il Romano, non è virtù negativa in politica, perchè
« noi cresciamo andando avanti; ci conserviamo rima nendoci al nostro posto; ma
non possiamo riformarci tornando indietro, perchè indietro non si ritorna mai »
(3 ). Ai partigiani dell'ordine antico si può rispondere che (1 ) G. GENTILE,
Dal Genovesi al Galluppi, p. 377. (2 ) M. ROMANO, op. cit., p. 81 e sgg. (3) M.
ROMANO, op. cit., p. 84. 139 non è stato Bonaparte a distruggerlo: sono stati
essi stessi con la loro viltà, con la loro caparbietà. « Ai parteggiani della
libertà si può rispondere che la Rivoluzione non è stata interamente inutile.
Si è ot tenuta una forma di governo costituzionale, e, quando anche si volesse
credere che questa non sia ancora per fetta, si è sempre ottenuto molto
avendone una. Le ot time costituzioni sono figlie del tempo e non di sistemi.
Quali sono le parti loro più belle? le più rispettate. E quali le più
rispettate? le più antiche. Quindi due ve rità: 1° Per ottenere una buona
costituzione, è necessario aver, quasi direi, un antico addentellato al quale
attac carla. 2 ° Per giudicare di una costituzione è necessario il tempo,
perchè le nuove, non potendo ancora goder il rispetto del popolo, ancorchè sien
ottime, si credon cat tive. Col tempo, i vari corpi, che formano il governo, di
ventano più rispettati dal popolo, e perciò più potenti anche in faccia al
governo; e la libertà pubblica diventa maggiore. Intanto è sempre un gran bene
per una nazione che il suo capo s'intitoli tale per le costituzioni della Re
pubblica; che si parli di libertà civile, di libertà di per sone, di libertà di
stampa; che vi sien delle magistrature incaricate di vegliare alla loro
custodia; che vi siano delle assemblee nelle quali si riuniscano i migliori di
cia scun dipartimento e di ciascun cantone per proporre ciò che credon più
utile allo Stato. Tutte queste istitu zioni han prodotti finora molti beni e ne
produrranno ancora. In ogni caso, la religione è stata per sempre riu nita allo
Stato col vincolo della tolleranza; la feudalità è stata abolita per sempre, e,
quando anche risorgesse un patriziato, potrebbe esser quello de'greci e de '
romani, eccitator di grandi azioni e non già oppressore de'grandi ingegni; è
stata aperta libera e larga la via della gloria ad ogni specie di merito; non
vi saranno più le dispute e le persecuzioni de'gesuiti e de'giansenisti; non vi
sarà più la funesta distruzione de'tre stati, de' quali uno era con dannato a
pagare e soffrir tutto e a non aver mai nulla; le imposizioni saranno ripartite
egualmente fra tutti; le proprietà saranno tutte della stessa natura, e le
persone 140 della stessa classe. Questi vantaggi si sono ottenuti, nè si
perderanno più, e questi vantaggi non sono mica pic cioli ». Tutta la filosofia
cuochiana è rinserrata qui. È natu rale che, quando un ordine nuovo di cose si
afferma dopo turbamenti generali, questo si presenti come una pana cea di tutti
i mali, e temperi l'antico con il nuovo in una fiducia mirabile di sè stesso:
spazza via l'antico, e in tanto crea una nuova aristocrazia, se non di sangue,
d'armi; distrugge la teocrazia, e intanto vuol l'accordo con la religione;
sgomina l'anarchia, e dà una nuova costituzione, che, sia pur limitatamente, ha
la sua impor tanza; si basa sull’autorità, ma non prescinde dal con senso. Il
nuovo reggimento è in fine un reggimento eclet tico, ma è quel che ci vuole
dopo una rivoluzione, è quel che ci vuole in un'epoca, che ha bisogno di freno
per non dilagare nella licenza, di libertà per non rammaricarsi del passato
soppresso. Lo spirito del bonapartismo è in questo eclettismo moderato, che è
classico e moderno nello stesso tempo in arte, che è illuminista nello stesso
tempo che afferma la tradizione in filosofia, che è autoritario e non disprezza
il costituzionalismo in politica. Ma a noi poco importa la prassi politica del
primo console e del l'imperatore, a noi interessa il pensiero di Vincenzo Cuoco
in quanto sistematizza tutto un insieme di idee, proprie dell'èra sua, sia
sotto un aspetto critico, sia sotto un aspetto di simpatizzante affermazione.
Il senso squisitamente politico del Cuoco ci si appalesa sotto un altro punto
di vista. Il Saggio storico, abbiamo osservato, mostrava la rivoluzione in
atto, e di essa era la critica spietata e fiera. Ma la rivoluzione ha prodotto,
ha spiegato tutti i suoi effetti, ha sommerso un mondo, ne ha instaurato uno
novello. La realtà storica è quello che è, s ' impone senza rimedio. È
possibile rinnegare i benefici evidenti della rivoluzione? Il Cuoco risponde di
no. La rivoluzione ha prodotto benefíci senza pari in Italia e in Francia, e in
certi limiti anche altrove, ha ab battuto la feudalità, ha riattivata la vita
de' popoli in un ritmo più robusto. Il Cuoco ancor oggi crede che la 141
rivoluzione si sarebbe potuto evitare, con una savia mo derazione sia de'
governi sia de' popoli, ma la storia è stata quel che è stata, e non si ritorna
indietro per le recriminazioni. Oggi è inutile ogni constatazione artifi cioso,
occorre pensare a trarre i maggior frutti possibili dalla concreta realtà. « Le
crisi sono nate dall'ostinazione per cui i governi non hanno voluto mai
soddisfare [ i reclami dei popoli]. Con una savia moderazione, invece di
rivoluzioni distrut tive, si sarebbero ottenute utili riforme ». Il ritornare
oggi con ostinazione agli antichi princípi sarebbe lo stesso che preparare
nuovi torbidi rivoluzionari. Sono ' con cetti questi assai radicati nel Cuoco:
ritornano frequente mente ne' suoi articoli nelle forme più varie. Altrove
scrive: « Cangiamo di nuovo lo stato delle idee, facciamo prevalere l'opinione
di qualunque partito; e vedremo tutta l'Europa turbarsi di nuovo. E, sia
qualunque l'opi nione che noi vorremo far prevalere, l'effetto sarà sem pre lo
stesso » (1 ). La storia non si supera a ritroso. Ri tornando allo scritto, di
cui noi segnamo il filo ideale, vi troviamo una sicura legittimazione delle
nuove forze (1) Giorn. ital., 1804; 11, 23, 30 luglio, 1, 11 agosto; n. 87, 88,
91, 92, 96; pp. 350-351, pp. 356, pp. 367-68, pp. 371-372, pp. 393-394:
Politica (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 28-43 sotto il titolo Il
sistema politico europeo al principio dell'Otto cento ). Riporto in nota uno
squarcio dell'articolo, in seguito al brano citato. « Facciam ritornare in
campo i princípi che han dominato dal 1793 fino al 1798. Che avremo?
Nell'interno, incertezza nel potere, che lo rende più impotente nel bene, più
sospettoso e più crudele nel male; divisione tra i vari rami del potere
medesimo, onde l'anarchia e la guerra civile; l ' in certezza dei principi,
onde ne diventa l'uso difficile ai buoni e facile l'abuso agli intriganti ed ai
prepotenti. Nell'esterno, da una parte l'ambizione, che prende le apparenze di
democratiz zazione universale e diventa tanto più terribile quanto che alla
forza delle armi riunisce quella delle opinioni; dall'altra, il timore e
sospetto; dall'una e dall'altra, minacce, tradimenti, inganni di popoli e di
re, guerre interminabili e feroci ». Il quadro è fosco: è impossibile ritornare
ai princípi puri della rivoluzione, come è impossibile una restaurazione del
regime prerivoluzionario: il separamento è inderogabile. 142 ((umane espresse
dal capovolgimento rivoluzionario della borghesia. È una osservazione costante,
che da tre secoli in qua (anzi si potrebbe dire dall'epoca delle crociate ),
tutti gli Stati dell'Europa sono cresciuti di forza per l'accresci mento del
numero, dell'industria, dell'attività di quella parte della popolazione che
chiamavasi in Francia, e si potrebbe chiamar presso ogni nazione, terzo stato.
Quelli tra' popoli dell'Europa furono i primi a risorgere dalla barbarie,
dall'ignoranza, dalla debolezza, che primi sol levarono questo terzo stato.
Tali furono l'Italia, l ' In ghilterra, la Spagna. Quei popoli ne' loro
progressi s’ar restarono, che, per la forma del loro governo, tennero questo
terzo stato più oppresso: l'oligarchica Venezia, la Polonia. Quei popoli
soffrirono rivoluzioni e sedizioni asprissime, ne' quali il terzo stato non fu
distrutto ne ottenne giustizia.... E non vi è termine di mezzo. Lo stato di
oppressione è uno stato di guerra. Uno de' due: o convien che la classe
predominante distrugga la ser viente, o convien che divida con lei tutti i
vantaggi della vita civile. Nel primo caso, eviterà le sedizioni in terne,
perchè agli estremamente miseri che soffrono pa zientemente, la miseria toglie
loro, come diceva Omero, la metà dell'anima; ma, invece delle sedizioni
interne, avrà debolezza esterna grandissima, e sarà lo Stato esposto al furore
del primo che vorrà occuparlo. Tale è stata la sorte della Polonia; e perchè
non direm noi che è stata la sorte di tutti gli Stati ove ancora è feudalità?
Nel secondo caso, non solamente si accrescerà la forza esterna, ma si renderà più
durevole la tranquillità in terna, perchè la parte più numerosa del popolo non
avrà alcun motivo di doglianza;, ed, essendo la nazione piena d'amor di patria
e di orgoglio nazionale, mancheranno anche quei fomenti di sedizioni, i quali
vengono dalla stolta ammirazione degli stranieri ». Il terzo stato, la
borghesia, è il lievito del nuovo ordine, è la parte più sana della nazione,
che rivendicati i suoi diritti, è quella che, ugualmente lontana dalla potenza
corruttrice e dall' indigenza mortificante, realizza nella 143 modernità quella
classe dei migliori, che Aristotele ha indicata come la più adatta a reggere la
cosa pubblica. E precisamente nel senso aristotelico il molisano intende la
borghesia, non dunque come una casta chiusa e dit tatoria, ma come una classe,
in cui liberamente conflui scono le forze vitali del popolo tutto, una classe
insomma aperta a tutti coloro, che per virtù d'ingegno e di atti vità s'elevino
dall'indigenza. « Le idee, i costumi, gli ordini pubblici di tutta l'Eu ropa »
scrive il nostro in un altro suo articolo (1 ) che adduco a conferma di quanto
vengo dicendo « tendono al ristabilimento di una nobiltà più antica, meno di
struttiva e più illustre: a quella nobiltà della quale si gloriavano i Fabi,
gli Scipioni, i Camilli, de ' nomie degli esempi de'quali noi italiani dovremmo
esser più superbi che di quelli degli Agilulfi e de ' Gundebaldi. La proprietà
diventerà la base di tutte le costituzioni: quella proprietà che sola può tener
uno Stato lontano dalla letargica in dolenza dell'oligarchia e delle funeste
commozioni del l'oclocrazia, perchè nè lo priva dell'opera di molti, i quali
possono colla loro industria acquistare un podere, ma non potrebbero mai
disfare l'ordine de’ secoli passati e darsi un antenato che non hanno; nè,
dall'altra parte, affida la cosa pubblica alla fede, sempre dubbia, di co loro
i quali non hanno verun interesse a sostenerla. Non altra base che la proprietà
avea la costituzione di Roma, e noi abbiamo anche ciò che non poteano avere i
ro mani, cioè riputiamo proprietà anche l'industria ed il sapere. È la natura
delle cose che ha comandata questa differenza: i romani non aveano altra
industria che l'agricoltura e per molti secoli non conobbero studi più gravi di
quelli necessari a vincere i loro vicini. T (1 ) Giorn. ital., 1804, 14, 16,
18, 30 gennaio, 8 febbraio; n. 6, 7, 8, 13, 17; pp. 22-23, p. 27, pp. 30-31, p.
51-52, pp. 66-67: Osservazioni sullo stato politico dell'Europa (ristampato in
Scritti vari, v. I, pp. 13-28 sotto il titolo Il sistema politico europeo al
principio dell'Ottocento in uno con l'altro articolo cuochiano da noi già
accennato, Politica. 144 « Io non nego che le varie circostanze, nelle quali
potrà trovarsi una nazione, possan render necessarie molte modificazioni; ma la
massima fondamentale rimane sem pre la stessa. Il migliore de' governi, diceva
Aristotele, è quello in cui governano i migliori; e, siccome essi non si
potrebbero mai ricercare ad uno ad uno, così il migliore dei governi è quello
in cui preponderano tutte quelle classi, nelle quali per l'ordinario si
ritrovano gli uomini migliori ». L'aristocrazia nuova, di cui l'autore nostro
discute a lungo, è, come ognuno bene intende, la borghesia. Questa classe, che
è la più numerosa, in quanto classe aperta a tutti, in quanto esprime la forza
di coloro, che si sono potuti sollevare dalle masse, dal proletariato, dal
l'artigianato, per darsi all'industria ed agli studi, ha di nanzi a sè un vasto
cammino da compiere, è destinata, ove non lo sia già, ad essere la classe
dirigente. Ritornando allo scritto sulla rivoluzione francese e i suoi effetti,
dal quale abbiamo preso le mosse, vi ri troveremo sempre le stesse idee. « Il
gran generale osserva il Cuoco « il profondo ministro sono uomini rari. Chi s '
impone la legge di ricercarli tra dieci, li troverà più difficilmente di colui
il quale li ricerca tra mille, tra tutto il popolo.... »). Ma non bisogna
abusare; la rivoluzione francese aprì la via alla canaglia. Ritorna il Cuoco
antigiacobino, l'odia tore de ' princípi esaltati, della democratizzazione uni
versale. « Si obliò la profonda osservazione di Aristotele, il quale avea detto
che l ' ottimo de ' governi era quello in cui predominavan gli ottimi, ma che
questi ottimi non si dovean nè si potevan ricercare individualmente, bensì
doveansi ricercare per classe; che vi era in ogni Stato una classe di ottimi, e
che questa era composta di co loro i quali non fossero nè corrotti per
eccessiva ric chezza né avviliti per soverchia povertà. Quindi la pro prietà,
nella nuova forma di governo, è divenuta con ragione base delle costituzioni.
Alla proprietà è ben af fidata la custodia delle leggi: i proprietari, dice lo
stesso 145 Aristotele, sono i più atti a tal fine; e come no, se le leggi son
tutte fatte per difendere i proprietari? Ove però non si tratta di custodire ma
di agire, ove non basta la volontà, ma vi bisogna la mente, è necessario
sostituire alla semplice proprietà l’educazione; che val quanto dire mettere il
merito personale nella stessa linea della pro prietà. Quella parte di popolo,
dice lo stesso Aristotele, la quale non ha nè proprietà né educazione; sarà su
bordinata se sarà contenta: è un gravissimo errore darle tutto e non darle
nulla ». A me sembra che il problema politico non potrebbe essere impostato dal
Cuoco in migliore maniera possibile. Che cosa sono le costituzioni, gli
istituti, gli ordinamenti, così come li studia la storia del diritto e il
diritto stesso, se non vuoti astratti? Quel che a noi importa non è la forma in
sè, che ci appare morta senza un contenuto umano, ma il contenuto stesso. Le
costituzioni in realtà sono, e con esse tutta la struttura giuridica d’un
popolo, in quanto in esso popolo c'è una classe dominante, ri stretta o vasta
importa poco, certo qualitativamente mi-. gliore, che le determina, e non per
via di pura ragione, ma d'analisi concreta sulla realtà viva e pulsante delle
masse, una classe dirigente, che si fa interprete sicura della società che
l'esprime. La storia del diritto, io credo, anzi che studiare morte
sovrastrutture, dovrebbe stu diare come classi dirigenti, per natura condizioni
coltura [ estensione diverse secondo le varie epoche, possano de terminare
tutto un complesso sistema giuridico e costi tuzionale. In tal caso la storia
del diritto, studio di strutture vuote di realtà concrete, si risolverebbe
nella politica, studio d’un vero contenuto umano, pulsante d'attualità. Ma
questo è un problema teoretico, che nel caso nostro importa relativamente, e la
di cui formulazio ne, a me sembra, sorge spontanea dal pensiero cuochiano. Come
ognun vede, la vita moderna nella sua vasta for mazione non poteva essere
tratteggiata in maniera più vivace, più rispondente al vero, a ciò che poi sarà
la realtà dello Stato moderno, di quanto è nell'analisi del grande molisano. Una
classe di migliori, che per la sua stessa composi zione e formazione è atta a
modificarsi e ad evolversi con la storia, tiene il reggimento dello Stato. Lo
Stato libe rale non è, come lo Stato assoluto e patrimoniale, sta tico, anzi è
il più atto ad ulteriori sviluppi. La base imprescindibile di esso è la
proprietà. La proprietà è la sua difesa, il suo presidio naturale. Chi ha una
sua pro prietà, mobile ed immobile, industriale o fondiaria, in tellettuale o
commerciale, tende per natura a conservarla e a migliorarla. Fate sì che uno
Stato si appoggi alla classe dei proprietari, questo Stato è al sicuro da ogni
attacco contro la sua compagine, poi che troverà sempre la sua difesa in
coloro, che, difendendo lo Stato, difendono i loro beni, i propri interessi.
Ove lo Stato transige sul l'inviolabilità della proprietà, tradendo le sue basi
e le sue origini, viene a mancare la classe de ' possidenti alla tutela della
cosa pubblica, e, se non interviene una pronta reazione a ristabilire
l'equilibrio, è il crollo, lo sfacelo. Abbiamo così uno Stato liberale, che,
pur tendendo alla sua conservazione in ogni manifestazione giuridica, si
afferma come dinamico e progressista, trovando però nella sua stessa
composizione un limite ad un progresso, che potrebbe divenire, se spinto troppo
oltre, anarchico e rivoluzionario. Questo concetto dello Stato borghese, che
solo nella proprietà può trovare una base salda, perchè non data
dall'estrinseca volontà legislativa, ma dagli umani in teressi per natura
conservativi, questo concetto politico della vita moderna non è nuovo, nè
sporadico in Vin cenzo Cuoco. Ne’ Frammenti è l'esempio di questa gran coerenza
del molisano, il di cui sistema politico non ha mai un'origine estranea alla
realtà umana, anzi tutto è organato ed ispirato a princípi superiori di logica
ed insieme ad una sicura visione storica. Dopo aver soste nuto che la
costituzione non può crearsi a tavolino, pre scindendo dalla vita, dopo aver
affermato che le costitu zioni debbono essere vive sensibili parlanti, e noi
abbiamo a lungo detto di ciò, il Cuoco viene ad analizzare il proble ma: come
si possa organizzare una divisione de' poteri. 147 « Dopo che avrete » scrive «
divisi i poteri, assodata la base della costituzione e fortificata la legge col
l'opinione e colle solennità esterne, per frenare la forza vi resta ancora a
dividere gli interessi. Fate che il po tere di uno non si possa estendere senza
offendere il potere di un altro; non fate che tutti poteri si otten ghino e si
conservino nello stesso modo; talune magi strature perpetue, talune elezioni a
sorte, talune pro mozioni fatte dalla legge, cosicchè un uomo, che siasi ben
condotto in una carica, sia sicuro di ottenerne una migliore senza aver bisogno
del favor di nessuno; tutte queste varietà, lungi dal distruggere la libertà,
ne sono anzi il più fermo sostegno, perchè così tutti i possidenti, e co loro
che sperano, temono un rovescio di costituzione, che sarebbe contrario ai loro
interessi. Per questa ragione negli ultimi anni della repubblica romana il
senato ed i pa trizi furono sempre per la costituzione » (1 ). Se voi vi
addentrate nel pensiero dello scrittore, ve drete però che egli, pur disposto a
dare alla proprietà la massima importanza tanto da fondare su di essa il
sistema politico moderno, non giunge mai a darle una origine metafisica, e
quindi a concepirla come un quid di eterno e di immutabile. Ed è naturale:
l'origine della proprietà non è in princípi generali filosofici, ma in quel che
nell ' uomo è senso, cioè bisogni mutevoli e transe unti. La stessa natura
dell'uomo, che vichianamente dà origine alle costituzioni, dà origine alla
proprietà, base degli odierni ordini civili. La natura, a cui accenno, non è la
natura intellettuale, ma quella natura primordiale e plebea, tutta senso e
fantasia, bisogni ed esteriorità. Quindi teoricamente non è impossibile un
sistema costi tuzionale, che prescinda dalla proprietà: resta a vedere come
questo sistema risolva il problema economico e pratico della vita, che sempre
bisogna aver di mira: lo che, evidentemente, non è facile ! Il titolo della pro
prietà !? È un po' arduo trovarlo nella metafisica.... (1 ) Framm. III., p. 247,
148 « Voler ricercare un titolo di proprietà nella natura è lo stesso che voler
distruggere la proprietà: la natura non riconosce altro che il possesso, il
quale non diventa pro prietà se non per consenso degli uomini. Questo consenso
è sempre il risultato delle circostanze e dei bisogni nei quali il popolo si
trova. Tutto ciò che la salute pubblica impe riosamente non richiede, non può
senza tirannia esser sottomesso a riforma, perchè gli uomini, dopo i loro bi
sogni, nulla hanno e nulla debbono aver di più sacro che i costumi dei loro
maggiori » (1 ). È chiaro ! La pro prietà ha un'origine schiettamente
economica, e questa origine posa su un consenso generale, ma storico, cioè
null’affatto immutabile ed eterno. Una giustificazione dell'istituto secondo i
principi del diritto di natura ap pare a Cuoco poco soddisfacente. Solo i
bisogni e gli interessi lo consacrano e lo legittimano: la ragione e la volontà
giuridica spiegano, ma non esauriscono il pro blema (2 ) Dato il concetto che
Vincenzo Cuoco ha della borghesia, che per lui non è una classe chiusa,
capitalistica, oppres siva nel monopolio della vita pubblica, è naturale che
egli non parli mai o assai di rado del cosiddetto proleta riato o quarto stato,
il quale per altro non ha, ne ' tempi di cui ci occupiamo, una sua fisionomia
sociale ed eco nomica. Se il Cuoco vede un quarto stato, lo vede, se mai, (1 )
V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 123 e sg. (2 ) In tutta questa esaltazione
della proprietà C., mi sembra, reagisce in parte alla rivoluzione, che nelle
sue esagerazioni ha cercato di scrollarla. Lo stesso Russo, l'amico del nostro,
non è tenero per i proprietari, e basa il suo sistema su un ele mento
comunistico. Io non faccio che rimandare il lettore, che si interessa del
problema, allo studio su V. Russo del CROCE (La rivoluzione napoletana, p. 90 e
sgg. ). Lo stesso Edmund Burke in Inghilterra reagà agli attacchidialcuni
giacobini con tro la proprietà, e ne affermò il gran compito sociale: è questo
uno de tratti comuni tra l’A. delle Reflections on the French Revolution e l'A.
del Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli. Il problema, di cui sopra ci
siamo occupati, fu studiato da M. ROMANO, op. cit., p. 152, il quale peraltro
non si diffuse molto. 149 nell'artigianato, il quale è il germe di ciò che noi
chia miamo proletariato, ma da questo differisce sotto molte plici aspetti.
L'artigiano è libero lavoratore, il prole tario è il salariato della grande
industria. La grande industria è il prodotto di condizioni, che in Italia, al
tempo in cui il nostro medita, non si sono ancora svolte nella loro interezza.
Le questioni attinenti al quarto stato sfuggono perciò al Cuoco, ma non in tal
misura che egli non vi accenni brevemente in qualche articolo del Gior nale
italiano (1 ). Sarebbe pur questo un tema interes santissimo; senonchè,
diffondendoci, noi usciremmo dal nostro assunto: tracciare una linea generale e
sommaria del pensiero politico di Vincenzo Cuoco. Se con il pensiero noi
andiamo agli scrittori politici, che il secolo XIX offre al nostro studio,
invano trove remo un quadro così vivo della società post -rivoluzio naria, ed
un intuito così immediato dei problemi, che ne agitano la compagine. Basterà
che noi riferiamo ciò che il molisano dice intorno ai benefici effetti della
rivo luzione, e che sono i capisaldi di tutta la vita successiva, per intendere
quanto lungimirante fosse il suo senso po litico e quanto fine la sua visione
economica. Un effetto importante del sovvertimento è un progres sivo
migliorarsi della morale pubblica. Quanto grande posto il Cuoco faccia alla
morale e alla religione nella vita civile de ' popoli è un problema, sul quale
dovremo indugiarci dopo. Una seconda conseguenza è « la perfezione della mi
lizia, poichè essa non è perfetta se non dove il nome di soldato si alterna con
quello di cittadino; e questo non può avvenire se non dove non siano nè
esenzioni nè pri vilegi ». Tutto il pensiero della rivoluzione si rivela nella
sua intima radice antimilitarista. Perchè? Lo Stato as (1) Giorn. ital., 1804,
6 febbraio, n. 16, p. 64, Economia po litica: a proposito di una cassa
filantropica a beneficio degli artigiani; Giorn. ital., 1804, 7 maggio, n. 55,
pp. 210-220: Pub blica beneficenza, a proposito della mendicità e dei problemi
connessi. 150 solutista era da esso considerato come estrinseco alla volontà
dei subietti singoli, come tirannico e nemico: l'esercito nelle sue mani una
forza passiva ed antide mocratica. Lo Stato repubblicano, il vero Stato rivo
luzionario, alla sua volta, riposa invece su un consenso così largo, da
ammettere, ed è un estremo, il diritto alla sommossa, e il consenso così concepito
non ha biso gno della forza a suo sussidio (1 ). Il Cuoco naturalmente non può
condividere questi princípi. Il suo Stato è stato di diritto, ma per natura
tende alla conservazione, e re spinge ogni attacco alla sua compagine anche
violente mente. Il contratto sociale, che è alla base della sua co stituzione,
non è un contratto storico, ma è immanente alla struttura dello Stato, cioè
bisogna riguardarlo come una esigenza ideale ed un presupposto della vita
civile stessa. Il Cuoco deriva il principio dal Rousseau, ma lo anima alla luce
di superiori meditazioni vichiane. Lo Stato sintetizza le volontà individuali o
le libertà indi viduali (libero volere è libertà ), ma, appunto perchè in ogni
momento della sua esistenza è tale, si afferma come autoritario, contro chi
rompe o cerca di rompere l'armonia delle volontà concomitanti al fine sovrano.
Il contratto sociale eterno, che è alla base della vita stessa, in quanto è
convergenza di volontà e di diritti particolari, dà allo Stato il diritto
generico della difesa e della conservazione. In ciò la filosofia giuridica del
Cuoco si differenzia dalla filosofia della rivoluzione e, pur mantenendo alcuni
punti di contatto con quella del Rousseau, si avvicina alla filo sofia di
alcuni pensatori germanici. Nell'uomo si realiz zano due qualità di sovrano e
di suddito, in quanto lo Stato è sintesi di volontà singole e insieme volontà
ge nerale, che non ammette peraltro sottrazioni, anzi ri chiede la più assoluta
sottomissione. In ogni atto giuri (1 ) Notiamo che persino la costituzione
inglese ha tolto al re e al potere esecutivo ogni possibilità di disporre della
forza armata. Il principio è stato superato durante la guerra, date le
condizioni eccezionali, ma resta sempre base degli ordini ci vili dell'isola.
151 dico dello Stato è implicita la volontà generale, la quale volontà generale
non permette che alcuno possa evitare la sua autorità. Ecco il principio della
forza, che integra il consenso; ecco lo stato di diritto, che nelle sue mani
festazioni sovrane diviene militare. Gli stessi cittadini, che sono sudditi di
una volontà generale e sovrani, poi chè sono gli elementi costitutivi di essa,
sono anche soldati, cioè forza diretta a tutelare il rispetto alla legge, la
cui genesi, ripeto, è nel popolo, pur trovando la sua manifestazione più piena
e sintetica nel monarca, sim bolo della continuità nella vita giuridica e
storica della nazione. Mentre tutta la filosofia della rivoluzione inglese, la
filosofia dell'illuminismo e del giacobinismo sono anti militaristiche - e le
costituzioni, da esse scaturite, sot traggono al potere esecutivo ogni forza
armata —; il pensiero politico del Cuoco, più addentro nelle concrete esigenze
della vita, è in senso altamente nobile milita ristico. La milizia, sotto i
Romani dovere e diritto, anzi più diritto che dovere, del cittadino, diviene
nel mondo feudale mestiere e prestazione con alla base un ob bligo
contrattuale, ritorna nel mondo moderno diritto del cittadino, che dà allo
Stato la forza morale del con senso, e la forza materiale delle armi, senza le
quali il consenso è mera parola e lo Stato s'espone indifeso agli attacchi di
pochi faziosi. Di ciò noi troviamo la con ferma in tutti gli scritti cuochiani,
dal Saggio storico al Platone in Italia. Dice assai bene il Romano: « L'anti
militarismo, così notevole nella letteratura meditativa del secolo XVIII,
permane nel Cuoco solo in quanto si ri ferisce alla bruta forza messa a
sostegno della tirannide. Con questa sarà militare il governo ma non il popolo;
e d'altra parte un popolo senza virtù militari passerà per vicende politiche
più frequenti e più crudeli » (1 ). Con un governo costituzionale, lo Stato
sarà forte, ma il po polo, essendo esso stesso che dà l'elemento materiale per (1
) M. ROMANO, op. cit., p. 88. 152 l'esercizio della sovranità, avrà tanto
coraggio da non sopportare alcuna inconsigliata modificazione dei suoi di ritti.
Quest'alto sentimento dell'importanza civile della milizia meglio vedremo,
allorquando il Cuoco, apostolo dell'unità italiana e della resurrezione morale
del popolo nostro, rincorerà i suoi concittadini a ritornare agli an tichi sani
esercizi bellici. E passiamo ad altro. « Il terzo vantaggio » continua il
nostro autore « e mas simo, sarà quello di abolire l'antico pregiudizio che con
dannava all'ignominia l'utile industria, e specialmente l'agricoltura. Divenuta
una volta la proprietà la massima tra le distinzioni civili, questo farà sì che
il primo sen timento sociale sarà il desiderio di accrescerla, e quindi
un'attività maggiore nell'industria. Un mezzo secolo fa, l'abate Coyer destò
gran rumore in Europa pel suo opu scolo Sulla nobiltà commerciante. Egli però
non faceva che predicar l'imitazione dell'Inghilterra, ma non tentò mai
d'esaminar la cagione per la quale in Inghilterra era comune ciò che si
reputava paradosso in Francia. L'industria inglese era figlia delle rivoluzioni
che quella nazione avea sofferte più frequenti e più feroci delle altre. È
un'osservazione costante che, quando le rivoluzioni finiscono in bene,
l'agricoltura fa nuovi e rapidissimi progressi. Questo fenomeno, osservato
negli altri secoli, si è ripetuto anche nel nostro entro la Francia. L'in
dustria, e specialmente agricola, fa grandi progressi, ed i progressi
dell'industria non possono esser mai divisi da quelli della pubblica morale.
Esser buon cittadino non è altro che esser cittadino utile, e cittadino utile,
diceva Catone, vuol dire buon agricoltore >> Il nuovo Stato, appunto
perchè Stato di consenso, lascia la massima libertà individuale; afferma la
volontà generale in tutto ciò che pertiene all'esercizio della so vranità, ma
lascia intatta la volontà particolare in ogni sua estrinsecazione, ove essa, s
' intende, si muova in una sfera determinata. Ogni attività, che non coinvolga
l'essenza sovrana dello Stato, è lasciata alla volontà dei singoli subietti: il
commercio, l'industria, la navi gazione, l'agricoltura, l'istruzione, con
riserve debite, 153 sono lasciate alla libera autonomia dei cittadini. Appa
riscono qui i princípi del liberismo economico, che ap pare già ne' primordi
dell'economia politica, nei Fisio crati, nella scuola liberale inglese e
francese, e giù di là ne' nostri maggiori scrittori, per essere l'anima d'ogni
ulteriore sviluppo della scienza. Secondo me, entro certi limiti, non si può
dubitare di un liberismo vero e pro prio nel Cuoco. Lo Stato assoluto, basato sul
principio patrimoniale regio, non potea di fatto non essere Stato monopolistico,
come quello che mirava ad un utile particolare e non collettivo, di classe e
non generale. L'equilibrio econo mico è la risultante di libere forze
individuali, è ciò che nasce dall'esplicazione di queste attività. Ciò che è, è
quanto di meglio si possa concepire. Questi princípi liberali, che noi troviamo
sviluppati in Adamo Smith, in Ricardo, in Giovan Battista Say, ecc. non sono in
antitesi notiamo ai principi della filosofia cuochiana, per meata di vichismo.
Le nazioni, dice il Cuoco col Vico, le società umane, i popoli sono governati
da leggi naturali eterne, che hanno un proprio sviluppo, un proprio spie
gamento, dietro un impulso originario ab antiquo. Gli uomini non possono mutare
queste leggi, perchè ciò che è dato dalla natura stessa meglio soddisfa le
esigenze umane, quindi rappresenta ciò che, date le condizioni sociali e civili,
di migliore si possa imaginare. È l'ordine delle cose che determina l'ordine
costituzionale, e non la nuda filosofia: è l'ordine delle cose che determina
l'or dine economico, e non l'astratta economia. Di ciò ab biamo una prova
diretta nel Cuoco. Esiste, secondo il nostro, una vera scienza economica, ma,
appunto perchè questa scienza ha una base non dommatica ed apriori stica, ma di
fatto e storica, i princípi che la governano sono pochi, di loro natura « tanto
semplici e pochi» che « scompagnati dall'esperienza » divengono « incerti e fa
cili ad esser corrotti » (1 ). I princípi dell'economia sono (1 ) V. Cuoco,
Scritti vari, v. II, p. 89. 154 pochi, perché sono i princípi stessi della
natura. La na tura determina l'ordine e lo sviluppo delle cose umane, in tutte
le loro conseguenze. Lasciamo operare la natura, e questa condurrà a sviluppi,
che sono quanto di meglio si possa immaginare ed operare per predeterminazione
umana, ammesso cioè che gli uomini, lasciato da parte ogni intendimento
utilitario individuale, mirino apriori sticamente ad un fine utilitario
generale. La disarmonia di contrastanti interessi porta all'armonia
dell'utilità col lettiva, ad un utile generale, lo stesso che si avrebbe, qua
lora gli uomini abbandonassero, ed è mera astrazione, l'egoismo economico
nativo, che li porta alla ricerca della soddisfazione maggiore de' propri
bisogni anche a sca pito altrui. Lo Stato cuochiano quindi è Stato liberista:
il prin cipio però notiamo è tutt'altro che chiaro, e lo stesso no stro autore
lo intorbida e spesso lo rinnega. Il legislatore interviene a limitare
l'attività economica individuale, solo in quanto quell'attività lasciata a sè
stessa, in de terminate circostanze sociali anomali, possa risolversi in un
danno collettivo, o in quanto quest'attività indivi duale, nel rimuovere gli
ostacoli che le si oppongano, agisca fuori dal lecito giuridico. Il Cuoco è
troppo for temente concreto per potere formulare princípi astratti e crederli
validi per un'universalità di fatti. I princípi economici, ha detto sono pochi,
perchè poche sono le leggi eterne della natura; i casi concreti invece sono
molti moltissimi: quindi il principio economico trova nella realtà mille
limitazioni, e solo un'analisi caso per caso può ri solvere un problema
positivo che ci si presenti. Liberismo o protezionismo? Questione fino ad un
certo punto astratta. La vita nelle sue manifestazioni reali può ren dere
necessario il protezionismo, e lo può presentare, vi sono pur de' casi, come un
male minore di quello, che si avrebbe lasciando sfogare le libere forze
economiche. « Niente si cura produrre chi non è sicuro di vendere. Or, perchè
gli abitanti di uno Stato possan vendere molto e con vantaggio, è necessaria
una certa potenza politica nello Stato. È necessaria, perchè possa ottenere 155
dalle altre nazioni que patti equi, i quali non si otten gono se non quando
taluno creda che noi possiamo ot tenerli anche contro sua voglia. I popoli,
dice Melun, e noi diremo i governi, non si regalano nulla. Se non siete forte,
sarete sopraffatto. Non solamente non otter rete condizioni giuste, ma sarete
costretto a soffrirne delle ingiustissime » (1 ). Come mai il Cuoco, di cui
abbiamo veduto il pensiero nella sua sostanza liberista, sembra tradire così i
suoi princípi? In realtà, la concretezza del suo pensiero non può permettergli
apriorismi nè costituzionali, nè econo miei, ond’ei bene intende quanto
necessario sia il prote zionismo in certe contingenze politiche. Non dimenti
chiamo, poi, che non si può parlare di liberismo asso luto in un'età, in cui
ferve continua la lotta tra la Francia e le coalizioni europee, fra la Francia
e l'Inghilterra do minatrice de’mari, in un'età in cui ogni mezzo politico diviene
spietato per vincere economicamente, e le armi del contrasto non sono più la
libera concorrenza tra im prese nel campo internazionale, ma il sequestro marit
timo, il boicottaggio, il blocco. La realtà dell'èra napo leonica, tragica nel
conflitto tra il genio e le forze avverse, impone all' impero il protezionismo.
Il Cuoco lo crede ne cessario per evitare danni maggiori, senza però condurre
questa tattica positiva a princípi generali e valevoli in eterno (2 ). Ma dove
il pensiero cuochiano attinge una verità eco nomica di prim'ordine è in un
principio, al quale il no stro accenna ne' Frammenti di lettere a Vincenzio
Russo, (1 ) Giorn. ital., a. 1806; 5, 6, 7, 8 gennaio; n. 5, 6, 7, 8; pp.
19-20, pp. 23-24, pp. 27-28, pp. 31-32; Politica: (ristampato in M. ROMANO, op.
cit., in Appendice; ed ora negli Scritti vari, v. I, pp. 201-213 col titolo La
politica inglese e l'Italia ). (2 ) Mi sembra che anche il ROMANO, op. cit., p.
155, creda così. Dopo aver riportato in nota il brano da me sovra ci. tato
aggiunge: « Anche qui è palese che il protezionismo del Cuoco non moveva da
teoriche astratte, sibbene dall'esame delle condizioni storiche del suo tempo.
E che avesse ragione allora.... non è chi non veda », 156 principio, al quale
egli stesso non dà alcuna elaborazione, ma in cui è il germe di dottrine, che
nella stessa nostra Italia hanno avuto così bello sviluppo. « Una nazione si
dirà virtuosa, quando il suo costume sia tale che non renda infelice il
cittadino; e se tutte le nazioni potessero essere sagge a segno che, invece di
farsi la guerra e di distruggersi a vicenda, si aiutassero, si giovassero,
questa sarebbe la virtù del genere umano. Il fine della virtù è la felicità, e
la felicità è la soddisfazione dei bisogni, ossia l'equilibrio tra i desidèri e
le forze. Ma, siccome queste due quantità sono sempre variabili, così si può
andare alla felicità, cioè si può ottener l'equilibrio o scemando i desideri o
accrescendo le forze. Un uomo, il quale abbia ciò che desidera, non sarà mai
ingiusto; perchè naturale e quasichè fisico è in noi quel senti mento di pietà,
che ci fa risentire i mali altrui al pari dei nostri, e questo solo sentimento
basta a frenare la nostra ingiustizia, sempre che la crediamo inutile. L'uomo
selvaggio non cura il suo simile, perchè non gli serve: egli solo basta a
soddisfare i suoi bisogni, che son pochi. Debbono crescere i suoi bisogni,
perchè si avvegga che un altro uomo gli possa esser utile, ed allora diventa
umano. Per un momento nel corso politico delle nazioni le forze dell'uomo
saranno superiori ai bisogni suoi; allora que st'uomo sarà anche generoso. Ma
questo periodo non dura che poco: i bisogni tornan di nuovo a superar forze;
l'uomo crede un altro uomo non solo utile, ma anche necessario: ed allora non
si contenta più di averlo per amico, ma vuole averlo anche per schiavo » (1 ).
Per il Cuoco la felicità è ciò che con linguaggio più pro prio possiamo dire
soddisfazione de' bisogni, possibilità di sfruttare le qualità fisico -
chimiche de ' beni, dati de terminati bisogni individuali. L'uomo è felice,
cioè sod disfa interamente i suoi bisogni, realizza uno stato di ap (1 ) Framm.
VI, p. 262. Errerebbe colui che nel brano citato volesse vedere un abbozzo di
morale utilitaria: il problema mo rale ben altrimenti è impostato da V. Cuoco.
157 pagamento, trova un punto d'equilibrio, quando non v'è contrasto tra
desideri e forze. La visione però è moderna in ciò che segue. I bisogni,
aggiunge lo scrittore, non sono da comprimersi, tut t'altro, anzi è d'uopo
dargli il modo d’esplicarsi. « Invano tu colla tua eloquenza fulminerai il
nostro lusso, i no stri capricci, l'amor che abbiamo per le ricchezze: noi ti
ammireremo, e ti lasceremo solo ». L'economia privata e pubblica dà l'esempio
continuo di nuovi bisogni che sorgono, che non trovano soddisfazione che
parzialmente, e poi per le mutate condizioni delle produzioni vengono
soddisfatti sempre meglio. Il progresso civile è una ca tena ininterrotta di
bisogni nuovi e di soddisfazioni ade guate che si sviluppano. Che vale gridare
catoniana mente contro le troppo molteplici esigenze della vita moderna? Quel
che è non si discute. Passarvi sopra sa rebbe un condannarsi ad una eterna
infelicità. L'equi librio tra i desideri e le forze non può mantenersi che per
breve tempo, perchè tosto che si realizza, intervengono nuovi bisogni
impreveduti per romperlo. Nella realtà, anzi, è impossibile concepire un vero e
proprio equili brio: quel che più ci dà l'idea di questo mondo eco nomico è una
serie di equilibri tra desidèri nuovi e forze preesistenti, tra bisogni nuovi,
che dan luogo a nuove domande di beni atti a soddisfarli e lo stato della produ
zione, che s'adatta all'oscillazioni delle domande. Qual'è il comportamento
naturale dello Stato in tali contin genze? « La cura del governo deve esser
quella di distrug gere le professioni che nulla producono, e quelle ancora le
quali consumano più di ciò che producono; e verrà a capo, se stabilirà tale
ordine, che per mezzo di esse non si possa mai sperare tanto di ricchezza
quanto colle arti utili se ne ottiene ». Il Cuoco continua in una esaltazione
del lavoro agricolo ed industriale, e in una deplorazione degli impieghi, che
chiama pericolosi per chè fomentano le ambizioni. Con ciò noi usciamo dalla
pura indagine economica. L'autore lascia intravedere la possibilità d'un
intervento statale in un campo che noi ne 158 vorremmo libero. Ma nel molisano,
purtroppo, i concetti economici non sono chiari: il Cuoco indulge troppo spesso
a forme d'economia statale, che portano ad un interven tismo e ad un
protezionismo fuor di luogo, che, se sono a volte spiegabili come espressioni
di circostanze ano male, non hanno mai ragioni scientifiche tali da imporli per
una pratica economica generale (1 ). (1 ) Bisogna pur riconoscere che elementi
estrinseci interven gono a turbare la mera analisi economica, onde il Cuoco so
stiene forme d'economia statale e d'intervento per altre ragioni, nobili e
spiegabilissime. Dopo gli studi del RUGGIERI (op. cit., p. 39) e del Cogo sopra
tutto (op. cit., pp. 13-23, pp. 59-66) non v'è alcun dubbio che l'opera
statistica Operazioni sul di partimento dell'Agogna anzichè al cittadino
Lizzoli Luigi come appare estrinsecamente dal frontespizio dell'opera (Dalla
tip. Nobile e Tosi, 8. d. ), debba attribuirsi al Cuoco, che la scrisse per
incarico dell'amico tutta di suo pugno, sia pure consigliato dal Lizzoli.
Orbene in detta opera (cap. XII, Istruzione pubblica, p. 107) il Cuoco tratta
dell'importanza delle scuole di disegno e de' vantaggi che da questa specie
d'educazione si ritraggono. « Saremo sempre » scrive poi « i servi degli esteri
fin che crede remo che essi sieno i nostri maestri: chi ha perduto la stima di
sè stesso, ha già perduto tre quarti della sua indipendenza. Or questa stima di
noi stessi non si perde tanto ammirando i genî che ha prodotto, e le grandi
azioni che ha fatte una na zione estera, quanto ammirando di soverchio alcune
cose che sono per loro natura indifferenti, e che forse anche sarebbero
migliori tra noi, se come nostre non fossero disprezzate. Pochi sono sempre
presso qualunque nazione coloro che intendono e pregiano le prime, e questi
pochi per lo più hanno uno sviluppo tale di ragione che impedisce l'abuso
dell'ammirazione. Ma mol. tissimi sono quelli che ammirano le chincaglierie, i
ventagli, le fibbie, i mobili, le stoffe, e che aspettano da Lione, o da Londra
il figurino della moda. Tra cento uomini convien trovare cin. quanta donne, e
quarantotto altri esseri inferiori alle donne, i quali ragionano così: in
Inghilterra le fibbie, i mobili, le scarpe sono migliori delle nostre: dunque
gl' Inglesi sono migliori di noi. Allora tutto è perduto. Le nazioni estere
attaccano sempre la parte più numerosa e più debole di un'altra nazione, e l'at
taccano per le vie del comodo e del bello; e quindiè che un go verno savio deve
procurar sempre di dare alla nazione propria gran facilità di mezzi, onde poter
vincere in questa concorrenza, e questa cura deve formar la parte principale
della pubblica istru zione ». 159 Abbiamo studiato come il Cuoco concepisca lo
Stato, Stato di diritto basato sul consenso e realizzante la sua sovranità
nella maggior pienezza, Stato militare e forte; abbiamo anche studiato come
questo suo Stato sia in fine lo Stato che egli vede sorgere per opera di
Bonaparte. Il Cuoco a me appare come il teorizzatore di quel tipo di Stato, che
alla storia è passato col nome di napoleonico. Abbiamo già dato in parte la
giustificazione di ciò che i legittimisti ben poteano chiamare usurpazione, ma
che per il nostro è lo sviluppo logico delle cose, è la fine di tutto un
processo storico: occorre però ritornare sul l'argomento per una più vasta
documentazione. La storia non s'interrompe. Il primo console diviene presto
imperatore di Francia e poi re d'Italia (1 ). Tutto il movimento spirituale che
porta dalla repubblica ita liana al regno italico, trova la sua spiegazione
negli scritti cuochiani. Sul Giornale italiano il molisano manda fuori le sue
Considerazioni sopra il senato - consulto (2 ), scritto denso di pensiero
politico, ove la monarchia napoleonica trova un'adeguata giustificazione nella
natura stessa delle cose, nel corso della storia, che tra due estremismi, la
tirannia e l'anarchia, trova il suo equilibrio nella costi tuzionalità. I
contemporanei non possono intendere Napoleone: la sua figura complessa sfugge
ad essi, perchè la conside rano isolatamente, avulsa dal moto storico, in cui
opera e dal quale è determinata, moto storico, che solo la po sterità potrà
intendere. Avevamo una repubblica. Come va che dal direttorio, dal consolato
decennale, dal conso lato a vita, dalla presidenza si passa all'impero e al
regno? « Noi diciamo, pieni di stupore: – Come mai ha potuto avvenir questo? —
E coloro che ci han preceduto, molto tempo prima che avvenisse, lo avean
predetto (1 ) M. Rosi, op. cit., p. 230 e sgg. (2 ) Giorn. ital., 1804, 30
maggio, 2 giugno; n. 65, 66; pp. 260, 264: Considerazioni sovra il senato -
consulto (ristampato dal Ro MANO, op. cit., in Appendice; ed ora in Scritti
vari, v. I, pp. 103-108, col titolo Napoleone imperatore). 160 inevitabile ».
L'impero è sorto, perchè tutte le idee por tavano all'impero. L'analisi di
tutti i precedenti storici, senza i quali ogni evento ci appare estrinseco, è
fatta dal nostro con una lucidità mirabile. La rivoluzione francese, prima di
scatenarsi sulle piazze e sui patiboli col terrore, aveva tentato un
esperimento costituzionale. Una monarchia moderata sarebbe stata quanto di
meglio potea avere in quel momento la Francia. « La rivoluzione scoppiò, perchè
era inevitabile. Tutte le idee degli uomini non ebbero allora altro scopo che
quello di formare una monarchia costituzionale; ma si errò nel circoscrivere il
limite del potere esecutivo, e se ne creò uno troppo debole e troppo poco
rispettato ». Si inde bolì costituzionalmente il potere centrale, togliendo
così ogni difesa agli stessi ordini civili, aprendo la via alla licenza
trionfante. Gli errori in questo campo furono in numerevoli. Il potere
legislativo esercitò un predominio eccessivo, inframettenze internazionali, in
campi che pra ticamente, se pur non logicamente, spettano all'autorità
amministrativa. La forza ' armata fu divisa, parte al re, parte al popolo: la
monarchia fu esautorata, ma il paese resto senza presidio alcuno. Il potere
esecutivo perse ogni autorità sul legislativo, e si giunse all'assurdo di
togliergli parte sia diretta sia indiretta, sia d'iniziativa sia di veto, nella
decretazione e nella sanzione delle leggi. Si separò ancora interamente il
potere esecutivo dal giu diziario, e al re fu vietato l'ultimo residuo
d'autorità: il diritto di grazia e d'amnistia, che pur tanto serve a sanare
situazioni in via strettamente giudiziaria irre solubili. « Che ne avvenne? La
monarchia costituzionale, simile ad un colosso di arena, si sgretolò e cadde ».
S'immaginò poi la costituzione del 1793. Un altro ec cesso. Per non cedere la
Francia il potere esecutivo ad un organo specifico, esso fu assunto dalla
stessa conven zione nazionale. « L'epoca, in cui noi ebbimo distrutto ogni
potere esecutivo, si può chiamar l'epoca in cui al governo si sostituì la
guillottina ». « Eravamo giunti all'estremo. Era necessità retroce dere. Si
comprese l’errore della riunione de' poteri e, 161 colla costituzione del 1795,
furon di nuovo separati. Si comprese che la forza fisica di uno Stato dovea
esser una sola, e che questa dovea dipendere dal governo. Le at tribuzioni
della guardia nazionale furono limitate; il co mando della forza armata, il
pieno comando, fu dato al Direttorio, a cui furon dati attributi più ampi che
al re ». Come ognun vede il processo della storia è sempre lo stesso: un
estremo porta all'altro estremo, ma nel l'urto e nell'antitesi si sviluppa
spontaneo un supera mento, che rappresenta il nuovo e logico equilibrio. La
costituzione del '95 avea molti difetti che dovevano in breve distruggerla: la
lentezza e la mancanza del se greto in azioni, che esigono rapidità ed unità di
comando; l'incertezza del sistema nel troppo rapido cambiamento del Direttorio;
l'ambizione de' membri che componevano il Direttorio stesso. Gli effetti del
sistema: vittorie inu tili, vertiginose disfatte, discredito all'interno e
all'estero. La storia continua il suo processo, alla ricerca d'un punto
d'equilibrio stabile. La costituzione del 18 bru male fu un rimedio solo in
parte. Comincia l'ascesa di Napoleone, ascesa che ora ci appare naturale,
inquadrata come è nella continuità d'un processo che si svolge con una
particolare logica. Invece che a cinque membri, il potere esecutivo fu affidato
ad uno solo, togliendo ogni lentezza alla vita statale; il potere fu prolungato
per dieci anni, evitando la troppo frequente rotazione di governi; s'evitò ogni
ingerenza legislativa nella sfera na turale d'azione del potere amministrativo
restituito così alla sua sovranità. Una volta preso questo cammino, le idee
andarono fino alla fine: per rendere l'ambizione privata meno nociva, si ebbe
il consolato a vita e si diede al console il diritto di nominare il successore.
L'ascesa di Napoleone appare così pienamente spiegata nella storia. V'è
perfetta reciprocanza: gli uomini deter minano la storia ed operano per la
storia; sono liberi perchè sono i fattori della storia, sono schiavi perchè
soggiacciono alla loro opera. « Ciò che è avvenuto posteriormente non è che il
com pimento di tali istituzioni. L'eredità rende il potere più 11 - F.
BATTAGLIA, 162 sicuro, ed in conseguenza ne rende l'esercizio più dolce; la
responsabilità de' ministri corregge ogni abuso che dal l'eredità potrebbe
avvenire. Coll'eredità e colla responsa bilità si riuniscono due cose che
paiono di loro natura inconciliabili: la libertà e l'impero ». Quand' io ho
analizzata la critica rivoluzionaria nel pensiero cuochiano, ho avvertito come
da questa critica nasca tutto un sistema politico, di cui la storia è la con
sacrazione e la legittimazione. Eccoci giunti al punto, in cui ciò che il Cuoco
ha preveduto trova la sua realtà e la sua riprova materiale. La storia ha un
processo dialet tico eterno, le cui grandi linee approssimativamente si possono
cogliere, pur quando l' ineffabilità de' partico lari ci sfugge. Il Cuoco ha
osservato le idee, che sono eterne e non fallano; ha trascurato gli uomini, che
brillano un istante ed ingannano, se li si astrae dal corso ideale delle cose:
le sue deduzioni fondate sulla natura umana non sono fallite, ed hanno avuto la
più piena sicura conferma. Com'ognun vede, siamo giunti a Napoleone attraverso
uno spiegarsi logico delle cose. Bonaparte è la risultante di tutta una
convergenza d'elementi, che allo storico e al politico acuto non isfuggono, e
de ' quali noi abbiamo descritto la natura. Bonaparte è il creatore di quel
tipo di Stato, che, pur lasciando il più vasto campo alle atti vità
individuali, esercita unitariamente il suo compito sovrano, e, pur riposando
consensualmente su un con tratto sociale, in ogni istante vero nella convergenza
delle volontà subiettive, sa trovare la sua difesa in una forza attiva che non
falla. Un'esperienza rovinosa di frammen tarismo e di debolezza porta
all'impero (1 ). Si è avuta troppo lunga pratica d'anarchismo costituzionale,
d'insuf ficienza esecutiva, perchè si possa continuare sulla stessa strada. I
popoli non possono prosperare, quando gli or dini civili non rispondono alla
vita stessa. La vita è vo lontà unitaria; lo Stato è sovranità, cioè
estrinsecazione di quella volontà suprema, che è alla base d'ogni atti (1 ) V.
FIORINI (F. LEMMI, op. cit., p. 619. 163 vità umana coordinata in società. Ogni
menomazione del principio porta all'anarchia. Le costituzioni debbono ri
spondere a quelle esigenze eterne ed immutabili, senza le quali gli organismi
sociali deperiscono e muoiono. Curioso e tipico è osservare come ugualmente
nella storia il Cuoco trovi la legittimazione di altre figure in signi di
capitani e di uomini eletti, il duca Valentino, Cromwell. Mi si permetta la
parentesi, anche perchè si tratta di considerazioni che illuminano direttamente
il nostro argomento. In uno scritto (1 ) il molisano immagina che un suo amico
possegga un manoscritto antico, descrivente un viaggio per l'Italia nel secolo
di Leone X, secolo aureo e grande nella sua pura italianità: dall'opera egli
desume un collo quio tra l'anonimo autore e il Machiavelli. Non istard qui a
riferire il dialogo, che si svolge animato e profondo di politica, tra i due,
nel quale Vincenzo tenta una giusti ficazione di quell'atteggiamento del grande
fiorentino, che i secoli hanno battezzato con l'epiteto di machiavel lismo.
L'Anonimo' nota al Machiavelli che il mondo lo accusa d'avere insegnato massime
di tirannia ai Medici e di avere presi per suoi modelli uomini scellerati, Ca
struccio e il Valentino. Alla prima obiezione il Machia velli risponde che egli
tanto poco è stato fautore dei signori della sua città, che questi al contrario
lo han per seguitato come troppo caldo fautore della libertà della patria; alla
seconda obiezione oppone un ragionamento assai acuto, sul quale merita
fermarvisici un po '. « Ascolta. Per Castruccio ti dirò che, scrivendo la sua
Vita, non ebbi altro pensiero che quello di ridestar gli animi degl'italiani,
inviliti tra l’ozio e la cura de' cani, della caccia, delle donne e dei
buffoni, all'amor delle cose militari, mostrando loro coll' esempio di un uomo
illu stre che per questa sola via si può ascendere alla gloria e all'impero....
». (1 ) Giorn. ital., 1804, 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11; pp. 35-36, pp.
39-40, pp. 43-44: Varietà (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 42-52 sotto il
titolo Due frammenti d'una storia della poli tica italiana ). 164 « Ma pel duca
Valentino?... » « Perchè quelli che egli oppresse e distrusse eran più
scellerati di lui.... Tra tanti scellerati io preferiva quello che almeno
dirigeva le sue scelleraggini ad un fine più nobile e tendeva a riunir
l'Italia, che gli altri, con iscel leraggini più vili, dividevano e desolavano.
L'Italia non avea altro più da sperare: niuna virtù ne' popoli, niun ordine di
milizia. Quei tanti tirannotti, che la laceravano, si facevan ogni giorno la
guerra; ma questa guerra non decideva mai nulla. Nel massimo de' mali, era un
sol lievo diminuirne il numero. Valentino sarebbe rimasto solo. Più grande,
sarebbe stato più umano ed avrebbe accomodati i suoi pensieri all'ampiezza del
nuovo impero. Senza rivali, sarebbe stato anche senza sospetti e senza
crudeltà. L'Italia avrebbe cominciato a goder la pace, e dopo due età avrebbe
incominciato ad avere anche la virtù.... ». Il pensiero del Cuoco è chiaro. La
giustificazione del Duca è nei suoi stessi fini. Il secolo di Leone voleva
questi mezzi, e da essi non si poteva prescindere: un uomo, che aveva per
iscopo di realizzare la sua personalità, non po teva non agire in quella
maniera. Oggi la storia è cam biata. Napoleone non è il Valentino; Napoleone è
un ambizioso, il nostro autore non lo disconosce, ma un ambizioso, che unisce
la gloria alla virtù. Coloro che lo han preceduto sono inetti metafisici,
incapaci di portare la nazione ad un fine grande. Qual è la ragione etica e
storica, che possa impedire al genio di farsi strada e di trovare nella sua
stessa personalità la sanzione del l'impero? Nessuna. Tutte le cose invece
additano Na. poleone come il restauratore degli ordini civili sconvolti, come
colui, che può dare allo Stato un potente indirizzo unitario (1 ) (1) È curioso
ed interessante come l'anglofobo Cuoco spieghi e legittimi il Cromwell. In un
articolo del Giorn. ital., 1804, 5 marzo, n. 28, pp. 111-12: Considerazioni sul
libro in. glese « Uccidere non è assassinare » e sul diritto delle genti (ri
stampato in Scritti vari, v. I, pp. 81-85 col titolo L'assassinio politico e le
violazioni del diritto delle genti) scrive, a proposito 165 Napoleone ha
inoltre un titolo maggiore al trono, un titolo più nobile, il quale sta
maggiormente al cuore di Cuoco: egli ha dato all'Italia quell'unità, e in parte
quel l'indipendenza, che è stata il sogno di tanti pensatori e di tanti martiri
della Partenopea. Vedremo, in seguito, quando verremo a parlare della pedagogia
e dell'ita lianismo del nostro, come il problema unitario italiano sia anzi
tutto un problema spirituale, cioè educativo, e poi un problema politico.
Limitiamoci ora a vedere la cosa piuttosto dal di fuori, per poi penetrarla
meglio nel suo intimo. Bene o male s'è costituito nell'Italia settentrionale
uno Stato unitario. Quel che al Cuoco interessa è che, nella nostra patria, si
cominci a vivere italianamente, a pen sare nazionalisticamente. Altri dirà: il
nuovo organismo è accodato al carro di Napoleone ! Che importa ciò, se
quest'uomo grande ha di mira il bene comune dell'Italia, sua patria d'origine,
e della Francia, sua patria di ele zione. Il nuovo regno non ha con l'Impero'
se non quel vincolo di solidarietà reciproca, che lega il benefi cato al
benefattore: Napoleone è il pegno tra i due po poli, comune sovrano di due
nazioni sorelle. Come mai il Cuoco così irrimediabilmente antifrancese ora è
così strettamente francofilo, incline ad intendere i benefici dell'alleanza e
dell'amicizia franco- italiana, fino a ringraziare Iddio, che ha voluto porre
Italia e Francia sotto il comune scettro d’un uomo solo? La risposta è
implicita in tutto il pensiero politico del no stró scrittore. di un'operetta
del colonnello SEXBY, Killing is no murder e dell'attentato contro Napoleone
del febbraio 1804 queste con siderazioni sulla posizione storica del lord
protettore Cromwell: Dopo le crudeli stolidezze degli evangelici, de'puritani,
de' livellisti e di tutto quell'infinito numero di sette religiose e politiche,
che si agitavano allora in Inghilterra come igra nelli di sabbia quando spira
il vento di mezzogiorno ne' deserti dell'Arabia,... era inevitabile che
sorgesse finalmente un uomo atto a ricomporre in un qualche modo le cose. Ciò
che è ine. vitabile è sempre il minor male », 166 La Francia, che il Cuoco non
ama, è la Francia repub blicana, sinonimo d'astrattismo e di debolezza, che am
mannisce ai popoli parole vacue di libertà di fratellanza d'uguaglianza, e
intanto depreda musei archivi bibliote che, saccheggia case private, taglieggia
le stesse città che dice d'aver liberato. La Francia rivoluzionaria, che egli
descrive con così foschi colori, non può dare a noi l'indi pendenza e l'unità.
La Francia, che invece esalta, è la Francia che ha superato la rivoluzione, ha
ricostituito gli ordini pubblici sconvolti, ha trovato in Bonaparte, la sintesi
superba della sua rinascita. L’unità che il molisano osserva realizzata nel
nuovo Stato è, però, un'unità più politica che spirituale, più estrinseca che
intima. Bisogna dunque operare ancora per rendere le fondamenta del nuovo regno
salde ed eterne, bisogna formare quel che manca: la coscienza dell'italianità,
la volontà unitaria, un nazionalismo. A ciò mirano gli sforzi del Cuoco,
pedagogo dell'Italia, « il pedagogista del primo risveglio della coscienza
nazio nale » (1 ). Abbiamo il Regno italico libero indipendente, punto di
partenza per estendere a tutta la penisola i benefici d’un nuovo ordinamento. È
il gran sogno di Vincenzo Cuoco, che s'esalta, egli, temperamento posi tivo,
ovunque veda un barlume d'unità italiana, lo stesso sogno che lo farà fervido
murattista ne' suoi ultimi anni, sembrandogli d'intravvedere in Gioacchino il
desìo am bizioso d’un più vasto dominio. Certo l'autore del Saggio storico
avrebbe voluto che il nuovo organismo nazionale sorgesse più naturalmente, per
virtù d'italiani, per il formarsi e il maturarsi d'uno spirito civile nostrano,
per un processo politico naturale, senza quell'intervento napoleonico, che pur
serba sempre il suo peccato d'origine: la sua esteriorità. Ma, tutto è fatale
necessario nella storia. « Quella ragione, per la quale gl'italiani, reggendosi
a repubblica, non potrebbero for mar mai uno Stato potente, quella ragione
istessa fa sì (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 335. 167 che uno Stato
potente, tra le tante divisioni di luoghi e di animi, non possa sorgere in
Italia se non per mezzo dell’unione; e questa unione, non essendo più figlia
della virtù e degli ordini antichi, non può ottenersi se non per la forza. E
come mai non sarà straniera la forza, quando ogni forza patria è già da tanto
tempo distrutta? » (1 ). La repubblica non fa per noi, come non fa per i
francesi: essa è disgregazione e ruina, mentre occorre unitarietà e forza per
superare i mali e i dottrinarismi del secolo. La Francia repubblicana, dannosa
a sè stessa, non potea essere benefica per poi: i suoi rapporti con l'Italia
eran rapporti di sudditanza e non di parità. « I legami che ci uniscono alla
Francia » scrive il Cuoco, « sono legami di necessità e di vantaggio
vicendevoli. Era naturale che la Francia vincitrice volesse usare della sua vittoria;
ma, finchè la Francia ebbe apparenza di governo repubblicano, la sorte d'Italia
non fu per certo molto felice, perchè pessima è sempre la condizione de' paesi
conquistati o dominati dalle repubbliche. Par che la somma delle libertà tutta
si concentri entro le mura, e fuori non rimane che l'oppressione. Forse è
inevitabile nell'ordine della natura che l'estremo de 'mali non si possa
evitare senza rinunciare a quell'estremo de' beni, a quell'ottimo che si chiama
con ragione il peggior ne mico del bene, e mettersi in quella mediocrità che
forma la base de governi temperati. La Francia, quando ella stessa non avea
governo, prometteva agli altri popoli un governo simile al suo: con promesse,
per tutt' i popoli, fallaci, perchè non poteano eseguirsi; per l'Italia, an
corchè potessero eseguirsi, dannose. Imperciocchè, am messo per vero che i
costumi degli europei viventi fos sero capaci di pure forme repubblicane,
rimane però sempre problematico se con forme puramente repubbli cane l’Italia,
il di cui male più grave stava nella divi (1 ) Giorn. ital., 1805, 1, 3, 6
aprile; n. 39, 40, 41; p. 158 pp. 161-162, pp. 165-166: Sul regno d'Italia (ripubblicato
in, parte da G. Cogo, op. cit., pp. 134-136; ed ora in Scritti vari, V. I, pp.
149-158). 168 sione, avrebbe potuto mai riunirsi; e se, non riunendosi, poteva
acquistar forza e vera indipendenza; e se, senza indipendenza e senza forza,
preda del primo che volesse invaderla, avrebbe mai potuto perfezionar gli
ordini suoi? ». Ritorniamo alla critica rivoluzionaria di cui abbiamo parlato.
Il popolo italiano, pur diviso e suddiviso, ha una sua fisionomia speciale,
bisogni propri, antichi ordini na zionali, che non possono mutarsi ed adattarsi
ai sistemi nuovi d'oltralpe. Napoleone agisce diversamente: crea in Italia un
Regno nuovo e lo pone direttamente sotto il suo scettro, ma nello stesso tempo
gli dà, almeno in parte, una certa autonomia governativa, che intenda i bisogni
e gli interessi locali, gli dà un esercito proprio, che sol levi lo spirito popolare
depresso e lo riabiliti dopo un fiacco passato; gli dà istituzioni, leggi
proprie. V'è una politica imperiale, politica estera, amministrazione ge
nerale, la stessa in Italia e in Francia, dipendente dalla volontà del monarca.
V'è poi una politica locale, diretta alla soddisfazione di esigenze specifiche,
che varia da luogo a luogo, lasciata alla volontà delle popolazioni, che
intanto s’abituano alle gestioni pubbliche, alle fun zioni civili, dalle quali
sino ad oggi erano state tenute lontane. « Il cangiamento di governo che è
avvenuto in Francia, per quanto sia stato necessario ai francesi, si può dire
però che sia stato egualmente utile agl'italiani. Di tutti i legami che univan
questa a quella non rimane che l'al leanza; alleanza, che, se alla Francia è
utile, all'Italia è indispensabile. Il Regno dell'Italia è divenuto proprietà
dello stesso sovrano, e questo sovrano è il più grande uomo del secolo: egli
saprà, egli potrà e, ciò che più im porta, egli vorrà farlo prosperare. Questo
uomo avea già due titoli i più giusti alla sovranità: quello di creatore e di
restauratore dello Stato. Le circostanze politiche del l'Europa gliene dànno un
terzo, più giusto di tutti: la necessità di difendere ancora per altro tempo lo
Stato che egli ha creato, la necessità che ancora ha questa nazione dei
benefíci suoi », 169 H In Italia non si è formato ancora uno spirito pubblico
nazionale, una comunione d'idealità, un italianismo in somma. L'unità, che
Napoleone ha dato a noi, è un'unità che non può trovare altra ragione che nel
suo genio. L'in dipendenza per volontà intrinseca del popolo è un as surdo: in
Italia non c'è ancora un popolo consapevole della sua natura e della sua forza.
L'unica possibile ri soluzione del problema italiano è quella che la storia ha
sancito. Il fatto nuovo avrà per effetto di mostrare agli italiani, come la
convivenza comune ed unitaria sia possibile, anzi vantaggiosa; come essi uniti
siano più forti che non separati; come essi abbiano da sperar tutto da un
avvenire libero, e tutto da perdere ricadendo negli antichi errori. I germi di
quest'esperienza non andranno perduti, morto Napoleone, poi che la storia non
ritorna sui suoi passi, e procede infallibilmente. Qui il Cuoco è davvero il
profeta dell'avvenire. Siamo in un campo puramente politico. Ho detto che ci
riserviamo di studiare in seguito la maniera con la quale il Cuoco crede
possibile una unità italiana più in tima, di natura spirituale, attraverso
un'alta pedagogia, che cementi per l'eternità, ciò che il genio d’un uomo ha
potuto realizzare in maniera affatto pratica, e, nella sua stessa génesi,
estrinseca. Prima però di venire a questo problema, che formerà un capitolo del
presente lavoro, bisogna gettare uno sguardo rapido sulla politica gene rale
europea, in cui il nostro scrittore ebbe intuizioni ge niali e alcune poche
insufficienze tipiche. Per chi ritorna col pensiero alla tormentata storia del
secolo XIX, l'unità d'Italia appare come una necessaria conseguenza di forze
politiche in pieno sviluppo, come l'inderogabile fine d'un non mai interrotto
processo. La questione italiana, considerata da un punto di vista po litico,
appare, senza dubbio, come una grande questione europea. L'Italia è il centro
del Mediterraneo, il centro pulsante della vita civile di tante stirpi, il transito
tra l'Oriente mistico e voluttuoso e l'Occidente pratico e po sitivo; il paese
destinato a moderare, se libero ed uno, tutte le competizioni di predominio
commerciale, ad ali 170 mentarle, se disgiunto e schiavo, in quanto nessuna
grande potenza permetterà mai ad un'altra un dominio incontrastato sulla
penisola, che domina tutti gli sbocchi marinari e commerciali europei. L'unità
italiana è il fulcro del problema dell'equilibrio europeo. Le guerre
cesseranno, in gran parte, quando le nazioni si convince ranno di questa grande
verità: l'unità d'Italia è la condi zione indispensabile d'un assetto europeo
duraturo. È il concetto centrale del Saggio, il concetto animatore della
politica cuochiana. Vincenzo Cuoco si è tuffato nel vor tice che non amava, la
rivoluzione, solo perchè aveva una lontana vaga speranza d'indipendenza e di
unità italiana. « La rivoluzione di Napoli, rimpiange l’esule della Ci salpina,
potea solo assicurar l ' indipendenza d'Italia, e l'indipendenza d'Italia potea
solo assicurar la Francia. L'equilibrio tanto vantato di Europa non può esser
af fidato se non all'indipendenza italiana; a quell'indipen denza, che tutte le
potenze, quando seguissero più il loro vero interesse che il loro capriccio,
dovrebbero tutte procurare. Chiunque sa riflettere converrà meco che, nella
gran lotta politica che oggi agita l'Europa, quello dei due partiti rimarrà
vincitore che più sinceramente favo rirà l'indipendenza italiana » (1 ). La
visuale politica di Vincenzo è senza dubbio vasta e profonda. La lotta tra le
grandi nazioni s'impernia sul Mediterraneo: la questione unitaria cessa di
essere, come per molti patrioti del tempo, strettamente nazionale, e s'inquadra
in problemi più complessi, europei. Gli uomini politici del Risorgimento,
purtroppo, non intesero questa grande verità, e la storia, si può dire, operò
per virtù naturale delle cose, fra l'incomprensione anche di menti riccamente
dotate. Per lo stesso Cavour la lotta è una questione continentale di
importanza limitata. Solo un po'tardi, ma a tempo, lo statista piemontese,
nell'im presa garibaldina del '60, s'accorge dall'atteggiamento in (1 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XLIII, p. 178. 171 glese quanto importante sia il
problema meridionale nel gioco delle forze mediterranee. Tutta la maggiore o
minore bontà della politica delle varie nazioni europee, vien giudicata dal
Cuoco alla stre gua di questo fine superiore, secondochè abbiano esse più o
meno favorito l'equilibrio internazionale nell'unità d'Italia. Abbiamo uno
scritto cuochiano, già innanzi ci tato, assai interessante per la comprensione
integrale del suo italianissimo pensiero politico, scritto del quale io darò un
largo riassunto, poi che mi sembra che non sia stato considerato dagli studiosi
a sufficenza (1 ). L'arti colo, Osservazioni dello stato politico dell'Europa,
è una sintesi mirabile delle intime ragioni della storia europea negli ultimi
secoli, delle lotte per il predominio, dell'as setto italiano. Lo studio è determinato
dalla lotta, che si riacutizza, tra l'Inghilterra e Napoleone, ma il Cuoco
supera le contingenze politiche e risale a notazioni di ca rattere assai ampio.
Nella vita moderna due sono le pietre miliari dello sviluppo storico, il
trattato di Westfalia e il trattato di Amiens, i quali segnano come due epoche
ben distinte della vita europea, dopo Carlo V. « Quello che si chiama in Europa
tempo di pace non è che il tempo della minor guerra possibile. L'equilibrio
politico dell'Europa è la causa principale di tutte le guerre e di tutte le
paci: gli uomini e le nazioni travagliano con una mano a distrug gerlo e coll'
altra a ristabilirlo. Vi sono sempre due na zioni preponderanti, le quali, a
calcolo sicuro, si fanno. la guerra un giorno sì ed un altro no; e la guerra
dura finchè ad una non riesca di acquistar sull'altra una su periorità tale che
sensibilmente faccia preponderare uno dei bacini della bilancia e faccia
nascere il bisogno di un equilibrio novello. » Le potenze, che fino a Westfalia
detennero il dominio in Europa, furono la Francia e la Spagna. Alla pace di (1
) Giorn. ital., Osservazioni sullo stato politico dell'Europa (vedi in
precedenza, p. 143 ). 172 Westfalia si scoprì la ragione della debolezza
spagnuola, a Nimega questa si riconfermò: l'Inghilterra surse a prendere il
posto della Spagna nella rivalità con la Francia. Queste le linee sommarie
della storia. Vediamo, e qui sta il punto che a noi interessa, quale sia la
posizione della Spagna nella vita continentale e quale l'intima ra gione della
sua fiacchezza. La Spagna e la Francia erano due nazioni di forze quasi uguali,
l'una più grande, l'altra meglio preparata: la Spagna poteva ' trionfare, ma
non riuscì. Perché ! La Spagna diventò potente, perché la fortuna delle
successioni riunì sotto uno stesso scettro metà dell'Europa, perchè Colombo le
donò l'America, perchè potè guadagnare in un primo tempo gli animi degli
italiani divisi, discordi, e contro altri irritati. Ma, una volta acquistato un
dominio enorme, attese più ad estenderlo ancora, anzi che a rinforzarlo, ad
arricchirsi materialmente anzi che moralmente: l'espulsione degli ebrei, le
persecuzioni religiose, le dispute teologiche, i governatori rapaci furono le
piaghe della sua compagine. La mancata risoluzione del problema italiano, e qui
vo glio insistere, fu secondo il Cuoco la causa prima della mancata
affermazione della Spagna. « Se la Spagna, potendo riunir l'Italia o formarvi
un grande Stato, l'avesse fatto, avrebbe, ottenuto un eterno poten tissimo
alleato. Ma il fato avea riserbato ad altri tempi l'uomo grande cui era
commesso questo disegno. La volle ritenere distruggendola. Montesquieu dice che
la ritenne arricchendola: da troppo impure fonti avea bevuto Mon tesquieu la
storia nostra ! Dopo averli impoveriti e spo polati, questi paesi divennero per
la Spagna cagioni di spese e non di forza. Difatti la Francia attaccò sempre la
Spagna, non già nel centro della monarchia, ma nella Borgogna, nelle Fiandre,
nell'Italia, nelle provincie lon tane, le quali non si potevan difendere per
loro stesse, ed i successori de' bravi Gonsalvi, De’ Leva e D'Avalos si
perdettero inutilmente sulla Mosa e sul Po. La Spagna s ' indebolì per conservar
ciò che conservar non poteva ». L'errore politico, causa della rapida decadenza
spa 173 gnuola, è il non aver voluto costituire uno Stato d'Italia, libero ma
alleato, onde colpire la Francia avversaria da ogni lato; l'errore politico
della Spagna sta dunque nell’aver trattato l'Italia alla stregua delle colonie
ame ricane, anzi peggio, perchè in Italia la dominatrice di silluse un popolo
grande colto e capace, mentre fuori sfruttò solo genti barbare o semibarbare, tribù
selvagge. La politica francese nella lotta per il predominio, secondo il Cuoco,
fu l'opposto di quella spagnuola. La Francia divenne potente, mostrando di
proteggere gli italiani, proteggendo veramente l'Olanda, aiutando i principi
dell'Impero: così detta le condizioni a Munster; sostiene il Portogallo, si
allea con l'Inghilterra: indebo lisce in Europa e nelle colonie, la rivale. I
francesi sono forti, desiderosi di dominio, ma non si lasciano accecare dalle
ambizioni. Luigi XIV, il superbissimo monarca, non giunge mai ad aspirare al
dominio del mondo; ed è dif ficile trovare nelle storie un principe più di lui
moderato nelle vittorie. « La Francia ebbe per sistema quasi eterno di susci
tare sempre un'altra potenza contro la sua rivale. Ho detto che fece risorgere
il Portogallo e l'Olanda; fece uso anche del gran Gustavo, e chiamò le forze
svedesi sulle sponde del Reno. Dopo le vittorie di Eugenio e la pace di
Utrecht, la monarchia austriaca di Germania era divenuta infinitamente più
potente di prima. La Svezia non bastava più a contenerla. La Prussia, con
popolazione più numerosa, con sito più opportuno, era più atta al bisogno; e la
Francia fece sorger la Prussia. «Tale è stata la condotta colla quale la
Francia è giunta a tanta grandezza. È la condotta della saviezza, della
giustizia e della generosità ». Cuoco non accenna qui all'Italia. La Francia
ovunque suscita Stati liberi contro le sue rivali, la Spagna e l'Au stria, ma
non crea un Regno d'Italia: ecco la causa del suo non completo trionfo. «
Vediamo che han fatto gl'inglesi ». Battuta la Spagna, la cui insufficienza si
fa palese a Westfalia e poi a Nimega, l'Inghilterra prende il posto della
Spagna. L'Inghilterra 174 è il fomite per tanti anni sino ad oggi, pensa il
Cuoco, di tutte le guerre in Europa: per la sua stessa natura non può
mantenersi forte che con la guerra. « Il vero baluardo dell'Inghilterra è
l'immensa quantità de'capitali che ha accumulati: con questi conserva la sua
superiorità ma rittima, perchè con questi mantiene quelle flotte che gli altri
non possono costruire. Ma, siccome questi capi tali li può accumular qualunque
altra nazione, tostochè abbia industria, commercio e pace; così gl'inglesi deb
bono sostenere la loro superiorità con una continua guerra ». Dalle guerre di
successione ad oggi, alle guerre contro Napoleone è la stessa ragione che muove
gli iso lani a battersi. Ma questo metodo è assurdo e pazzesco: « l'Inghilterra
tende più rapidamente della Spagna alla sua dissoluzione ». Il Cuoco, senza
dubbio, s'inganna, ma s'inganna su dei particolari. La visione d'insieme a me
sembra luminosa, se pure in tutti i suoi punti non accet tabile. Gl'inglesi
prolungano le guerre, oltre il necessario, avidi desiderano troppo. Nella
guerra di successione di Spagna perdettero per un orgoglio male inteso ciò che
Luigi XIV voleva cedere prima delle vittorie del Villars. In essi nullà della
magnanimità de' romani. Essi sono forviati dalla saviezza dalla lusinga di più
felici successi. Alla guerra sono spinti dalla loro natura marinara stessa,
nella guerra permangono per migliorare il loro stato. Così ieri, così oggi:
così nelle guerre dinastiche di suc cessione, così nelle guerre nazionali di
oggi. E dire che l'Inghilterra con questa sua iniqua poli tica estera va
perdendo i frutti d ' un'antica continua savia politica interna di tolleranza e
di libertà ! Coloro, che ne' secoli favoriscono quella che il Cuoco chiama «
naturale irresistibile inclinazione a migliorare politica mente » lo stato de'
popoli, « o presto o tardi vincono gli uomini ed i tempi ». « L'Inghilterra è
giunta ad un grado di prosperità immenso; fin dall'epoca di Luigi IX, l'in
terna sua amministrazione era superiore a quella degli altri popoli: ce lo
attesta un uomo, che io chiamo al tempo istesso il Villani ed il Macchiavelli
della Francia, il signor di Joinville. Perchè? Perchè l'Inghilterra fu la prima
175 à riconoscere la proprietà e la libertà civile. Perchè i papi furono fino
al secolo XI gli arbitri di tutta l'Europa? Per chè, in tanta barbarie e
ferocia, erano i soli che predi cavano la pace; perchè abolirono la schiavitù;
perchè, dice Leibnizio, erano i più savi e i più giusti uomini dei loro tempi,
e senza i papi l'Europa sarebbe caduta in mali peggiori. Dopo il XII secolo
cangiarono massime, e la loropotenza incominciò a diminuire. Perchè la Fran cia
e la Svezia vinsero nella guerra dei trent'anni? Perchè sostennero il partito
della tolleranza, dell'umanità, delle idee liberali de'popoli tutti.
Nell'ordine eterno delle cose, la legge è sancita anche per i potenti; anche i
popoli hanno la loro morale: chi la trascura, chi la calpesta, o presto o tardi
ruina. I francesi promettevano agl'italiani grandi ed utili cangiamenti; non
quelli che la stoltezza de’tempi fa ceva millantare in un'epoca che si chiamava
di riforma ed era di distruzione,ma quelli che ogni uomo savio sperava da quel
disordine dover sorgere un giorno. Imperocchè gli utili cangiamenti- sogliono
incominciare per lo più da vivissime commozioni; ed errano egualmente coloro
che, amando troppo queste, voglion perpetuarle, e coloro che, temendole
soverchio, disperano di un fine migliore. Il destino dell'Italia era quello
che, dopo tre secoli di languore e d'inerzia, dovesse finalmente risorgere a
nuova vita. Inglesi, qual male vi avean fatto i discendenti di Galileo, di
Raffaello, di Virgilio, di Cicerone? Ed il vo stro Wickam ha ricoperte le loro
terre di tanti orrori ! Ed invece di concorrere al loro risorgimento, non avete
neanche voluto riconoscere la repubblica italiana ! » (1). Il Cuoco s'esprime
chiaramente. La sua anglofobia non ha origine, come sembrerebbe a prima vista,
in un en tusiasmo cieco per la politica di Napoleone contro l'acer rima isola
ribelle, ma si giustifica alla luce di supreme esigenze pratiche. La pietra di
paragone in tutta questa (1 ). A. BUTTI, L'anglofobia nella letteratura della
cisalpina e del regno italico, in Archivio storico lombardo, a. XXXVI (1909 ),
p. 434 e sgg. 176 analisi critica è la necessità dell'unità d'Italia, che tutti
intendono come fatale, ma che non tutti amano. Alcuno potrebbe dire che questa
visione pecca di so verchia parzialità bonapartistica, perchè il nostro scrit
tore non rivolge alcun incitamento, alcun rimprovero all'imperatore, per
spronarlo a condurre a buon fine l'opera intrapresa, di cui il regno d'Italia
non è che un buon cominciamento, che attende ulteriori sviluppi. Non è così.
Vincenzo stesso intende quanto poco ab biano fatto i francesi, e la sua parola
non è servile. « Se io dovessi parlare al governo francese » scrive nel Saggio
« per l'Italia, gli direi liberamente che o convien liberarla tutta ò non
toccarla. Formandone un solo go verno, la Francia acquisterebbe una
potentissima alleata; democratizzandone una sola parte, siccome questa pic cola
parte nè potrebbe sperar pace dalle altre potenze nè potrebbe difendersi da sè
sola, così o dovrebbe pe rire abbandonata dalla Francia o dovrebbe costare alla
Francia una continua inutile guerra.... L'Italia è più utile alla Francia amica
che serva, e quindi è meglio renderla libera che provincia » (1 ). Nella
Lettera a N.Q., dinanzi al Saggio storico leggiamo gravi parole. « Se io
potessi parlare a colui a cui (il ] nuovo ordine si deve, gli direi che
l'obblìo ed il disprezzo appunto [delle idee di moderazione] fece sì che la
nuova sorte, che la sua mano e la sua mente avean data all'Italia, quasi dive
nisse per costei, nella di lui lontananza, sorte di desola zione, di ruina e di
morte, se egli stesso non ritornava a salvarla. Un uomo gli direi, che ha
liberata due volte l'Italia, che ha fatto conoscere all'Egitto il nome francese
e che, ritornando, quasi sulle ale de’vènti, simile alla folgore, ha dissipati,
dispersi, atterrati coloro che eransi uniti a perdere quello Stato che egli
avea creato ed illustrato colle sue vittorie, molto ha fatto per la sua gloria;
ma molto altro ancora può e deve fare (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLIII, p.
178, nota. Cfr. an che tutto ciò che il Cuoco scrive a Napoleone nella Lettera
del. l'autore all'amico N. Q. che va dinanzi al Saggio storico,' a mo' di
prefazione, di cui solo poche righe ho riferito nel testo 177 per il bene
dell'umanità. Dopo aver infrante le catene all' Italia, ti rimane ancora a
renderle la libertà cara e sicura, onde nè per negligenza perda nè per forza le
sia rapito il tuo dono ». Queste righe il Cuoco scrive in piena Cisalpina, non
molti anni prima dell'articolo del quale ci siamo occupati. Queste righe furono
stampate, pub blicate, lette. La voce di Ugo Foscolo nella famosa de dicatoria
a Bonaparte liberatore non è più liberale della voce del Cuoco, anzi, direi,
che quest'ultimo nel suo genio politico metta il dito sulle piaghe, ond'è
afflitta l'Italia, con energia ed acume maggiore che non faccia il poeta de
Sepolcri. E dire che v'è sempre colui che vede l'adulazione, laddove questa non
c'è, e c'è solo un alto elogio per un uomo grande, il più puro interessamento
per le sorti della patria nostra ! Se ora ci accingiamo a dare un giudizio
sintetico sulla visione politica che il Cuoco ebbe dell'Europa e dell'Italia,
possiamo dire con sicurezza che la storia ha dato in gran parte ragione al
grande molisano, in minima parte gli ha dato torto. La questione italiana, a
chi la studia oggi, mentre l'unità non solo politica, ma eziandio, come il
Cuoco l'ha desiderata, spirituale, è un fatto compiuto, appare sopra tutto una
questione di politica generale europea e me diterranea e non limitatamente
nazionale. Gli uomini del Risorgimento, attori coscienti e incoscienti della
sto ria, mossi da idee e da forze, di cui essi erano gli espo nenti e non i
creatori, videro poco: noi storici e critici possiamo affermare certi fatti con
maggiore sicurezza, e figurarci l' unità nazionale come un fenomeno prepa rato
da secoli nella coscienza del popolo, legato da se coli intimamente ad una
realtà spirituale e ad una storia, che si celebrava con mirabile continuità
ovunque. La rivoluzione francese desta dall'imo dello spirito italiano, sia
pure come reazione allo stesso giacobinismo, un mo vimento di rivalutazione
civile, di cui il nostro è il mag giore rappresentante, ma non crea menomamente
un fe nomeno, le di cui origini sono assai più remote. Invero il Risorgimento
s’è manifestato come un movimento altamente spirituale da un lato, come un
problema d'equilibrio europeo dall'altro. Mazzini e Gioberti sono stati il
lievito della rinascita, ma essi non s'intendono se non si comprende il
pensiero del loro precursore Cuoco. L'equilibrio politico è stato la causa
prima, per cui il terzo Napoleone discese nel '59 in Italia contro l'Austria;
l'equilibrio mediterraneo è stato la causa, per cui l'Inghilterra permise
l'opera di Garibaldi nel '60, opera che l'imperatore de francesi prima osteggiò,
e poi, inconscio e gabbato dal Nigra e dal Cavour, finì per per mettere. Il
Cuoco intravide il problema, e, se errò ne' partico lari, nessuno può
condannarlo. L'Inghilterra per il molisano è la nemica naturale del l'unità
italiana. È ciò vero? La storia ha dimostrato di no. La stessa politica, che
egli attribuisce alla Francia di liberare i popoli per farne alleati ed opporli
ai suoi rivali, è stata la politica dell'Inghilterra, quando nel '60, di fronte
al Piemonte vincitore della guerra contro l'Austria, preferì un Regno d'Italia,
signore del mezzo giorno della penisola, grande e forte, ad un Regno di
Sardegna, grande sì da dominare tutto il settentrione, ma non tale da sottrarsi
al vassallaggio della Francia. L'Inghilterra dopo il '59, durante l'impresa
garibaldina, favorì l'Italia per le stesse considerazioni, di cui abbiamo
parlato: suscitiamo un forte organismo statale contro la Francia, aiutiamolo ad
esimersi dal legame con Napo leone III, esso ci sarà riconoscente, e non ci
nuocerà La storia procede così: uno Stato crea un altro Stato, questo dapprima
debole è legato all'astro del suo geni tore, poi s ' ingrandisce aiutato sia
dalla sorte e dalla sua intima virtù, sia da altri che abbia interesse a svilup
parlo, poi, un bel giorno, divenuto potente, saluta i suoi padroni, inizia il
suo corso fatale, la sua naturale evolu zione. Egoismo, mancanza di
riconoscenza, diranno i mo ralisti, che nella vita vogliono attuate le idee del
loro cervello ! È della storia, rispondiamo. L'.Italia sorge na zione dal
conflitto austro - inglese, trova ausilio nella Francia, nell' Inghilterra in
seguito contro la sua stessa 179 antica protettrice, oggi è autonoma e forte:
sarebbe ri dicolo che oggi seguisse la politica de' suoi vecchi mag giori
amici, essa che ha in sè forze latenti è, in isviluppo, più esuberanti e vitali
che non l'Inghilterra e la Fran cia. La storia consacra interessi, bisogni,
volontà e non precetti) filosofici aprioristici.... Che il Cuoco nella storia
vegga uno spiegamento di bi sogni naturali ed omogenei, ci si appalesa
facilmente, se riguardiamo la condanna, che egli fa di organismi storicamente
gloriosi, un giorno potenti, oggi deboli, fiacchi, superati. La caduta
dell'antica repubblica di San Marco nel Saggio storico è espressa nella sua
gelida obiettività, un sospiro, senza un rimpianto. L'Italia di fronte a
Bonaparte, che nel 1796 discende per la pri mavolta da noi, si trova « divisa
in tanti piccoli Stati », che", uniti potrebbero però opporre qualche
resistenza. Il papa propone un'alleanza difensiva. I Savii di Ve nezia
rispondono che da secoli nel loro paese non si parla di alleanze, che è inutile
quindi far proposte. Venezia con ciò sottoscrive la sua condanna di morte. «
Per qual forza » si domanda il Cuoco « di destino avrebbe potuto sussistere un
governo, il quale da due secoli avea distrutta ogni virtù ed ogni valor
militare, che avea ristretto tutto lo Stato nella sola capitale, e poscia avea
concentrata la capitale in poche famiglie, le quali, sentendosi deboli a tanto
impero, non altra massima aveano che la gelosia, non altra sicurezza che la
debolezza de ' sudditi e, più che ogni nemico esterno, temer doveano la virtù
dei propri sudditi? ». « Non so che avverrà » conclude « del l'Italia; ma il
compimento della profezia del segretario fiorentino, la distruzione di quella
vecchia imbecille oli garchia veneta, sarà sempre per l'Italia un gran bene »
(1 ). Quanto diverso il politico Vincenzo Cuoco, che nella sua fredda
obiettività interpreta la storia presente, dal poeta Jacopo Ortis, che getta
uno sguardo sulle età di gloria che furono, piene di luce e di epopea, e sulle
ruine della senza (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, III, p. 22. 180 patria, non
trova di meglio, disperato dell'avvenire, che darsi la morte ! Sotto i colpi di
Napoleone un altro antichissimo Stato cede: il potere temporale de' papi. Il
trattato di Tolen tino ha una importanza senza pari per la storia. Mentre ne'
tempi trascorsi, i papi vinti, sgominati, afflitti si rifiu tarono sempre di
porre a base delle trattative la benchè minima particella del territorio della
Chiesa, a Tolentino per la prima volta per la storia si fa uno strappo, si
passa sopra ai diritti inalienabili e imprescrittibili della Sede Romana.
L'organismo antico invero è tarlato: un pro cesso storico di disgregazione
s'inizia, di cui il Cuoco non può vedere le conseguenze, ma che noi oggi
possiamo ben studiare. « La distruzione di un vecchio governo teocra tico » non
costa a Bonaparte « che il volerla » (1). La politica di Napoleone dal '97 in
poi ne' riguardi della Chiesa, il modo con cui egli impianta il nuovo ed
antichissimo problema delle relazioni, merita un acuto studio, che non possiamo
fare. Limitiamoci a vedere come Vincenzo apprezzi e giustifichi la visuale
ecclesiastica dell'imperatore. Non dimentichiamo che il Cuoco è nato in quel
Regno di Napoli, che nello stesso secolo XVIII ebbe a sostenere fiere lotte
contro la Curia, in cui il giu risdizionalismo ebbe una vera e propria teorica
non solo in iscrittori insigni come Giannone, D’Andrea, Capasso, Aulisio,
Conforti, ma anche in ecclesiastici eletti come il famoso arcivescovo Giuseppe
Capeceletrato (2): l'atteg. giamento cuochiano solo tenendo presente tutti
questi precedenti può apparirci chiaro. Prima però di venire a discutere questo
aspetto del pensiero del nostro, dobbiamo intendere quale posto egli assegni
alla religione nella vita dello spirito e nella vita dello Stato. Lo Stato deve
avere una base spirituale, la quale non può essere data che dall'istruzione
umana da un lato, dalla religione dall'altro. Lo Stato per il Cuoco è stato (1
) V. Cuoco, Saggio storico, III, p. 23. (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 391.
181 etico, sintesi di volontà libere, e come tale non ha alcun limite alle sue
funzioni, se non nelle volontà particolari stesse che determinano la volontà
generale; esso non può essere agnostico, in quanto l'attività religiosa è uno
degli elementi che costituiscono la sua stessa natura, che stanno alla base
della sua vita. La funzione educativa è di tale importanza che lo Stato del
Cuoco, concepito come so stanza etica, non può disinteressarsene. La religione,
anche se lo Stato non volesse occuparsene per principio, rientrerebbe nel
quadro civile e pubblico, cioè sottoposto alla sovranità, nel fatto stesso che
essa non può nè vuole prescindere d'operare nel campo educativo. Anche lo Stato
agnostico di fatto deve riconoscere la religione, quando insieme con essa opera
nel terreno vivo della pe dagogia, nella sfera perciò delle coscienze singole.
Che cosa è per il Cuoco la religione? In una sua nota scritta su un foglietto,
lasciato inedito e pubblicato per la prima volta da G. Cogo nel suo tante volte
da me ci tato volume, egli si pone il formidabile quesito, se sia possibile una
delimitazione tra la morale e la religione (1 ). Vediamo. « In questi ultimi
tempi » egli scrive « si è domandato se si dovesse o no separare la religione
dalla morale, e si è risposto da tutti che si dovea; si è domandato se si po
tesse, e mille han risposto che si poteva; si è tentato di separarla, e quasi
nessuno vi è riuscito. Io non credo che abbiano sciolto il problema coloro i
quali hanno tratti i princípi della nostra morale e de' doveri nostri da una
profonda analisi del cuore umano, o dall'ordine generale dell'universo, o dalla
dignità dell'uomo; sublimi idee, ma inutili pe'l popolo il quale intende queste
cose meno del l'esistenza di una divinità !... Persuadiamoci: per esser ateo ci
vuole uno sforzo, e tutto nella natura ci parla di Dio. Coloro che,
restringendo l'idea della divinità a quella che noi abbiamo, invece di dire:
questo popolo ha un'idea della divinità diversa della nostra, o per imbe (1 )
G. Cogo, op. cit., p. 80. Vedi anche V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 653.
182 cillità o per malizia han voluto dire che non aveva ve runa idea della
divinità, han pronunziato l'assurdo di credere che una nazione selvaggia
potesse avere più forza d ' intelligenza della nazione culta; perchè di fatti
che altra è presso tutt' i popoli la prima idea della di vinità se non quella
di una forza di cui non possiamo nè evitare ne comprendere gli effetti? » In
sostanza il Cuoco non condanna coloro che credono la religione sopprimibile, o
almeno la credono distin guibile dalla morale, ma si limita positivamente ad
una affermazione: il popolo ha una religione, di essa non può fare a meno. Ben
nota Giovanni Gentile (1 ) come il Cuoco, ingegno eminentemente politico,
capace di ele varsi sicuro alle vette più eccelse della filosofia, ami,'una
volta attinto il sommo, ridiscendere al concreto della storia, lasciando a
mezzo ogni pensiero speculativo. Ogni problema, sia pure di natura teoretico,
al molisano si presenta nelle sue relazioni con la vita d'ogni giorno, con la
vita pratica dell'individuo e dello Stato. Noi nel caso nostro andavamo alla
ricerca d'un presupposto di natura ideologica, e ci imbattiamo in un problema
co stituzionale; ci attendevamo una dimostrazione di prin cípi, e il Cuoco ci
dà senz'altro il principio, come mero dato di fatto. « L'idea di una divinità
si può chiamare una proprietà intrinseca dello spirito umano. Se la verità di
cui noi siam capaci è la coerenza di una nostra idea con tutte le altre, l'idea
di una divinità sarà eternamente vera, e coloro che vogliono distruggerla non
possono opporle che parole le quali s'intendono meno ». La religione ci appare
come un quid d'insopprimibile, di non superabile, in quanto è un elemento
eterno della stessa nostra natura umana. « La prima idea che gli uomini hanno
avuto della di vinità è stata quella della forza; la seconda quella della
giustizia, la terza quella della bontà. Ecco il corso natu 11 ) G. GENTILE,
Studi vichiani, p. 376. 183 rale delle idee degli uomini. Se noi non daremo
loro una divinità, essi se ne formeranno mille, le quali spesso non
comanderanno quello che il bene dell'umanità esige, per chè l'idea di un nume è
potente sullo spirito umano ed è capace di far obliare i doveri dell'umanità
per quelli della religione ». Ritorniamo ad un concetto assai caro al Cuoco, di
cui il Saggio ci offre la conferma. « Non è ancora dimostrato che un popolo
possa rimaner senza religione: se voi non gliela date, se ne formerà una da sè
stesso » (1 ). E perchè un popolo non può restar senza religione? Perchè la re
ligione è la morale fantastica del popolo, e il popolo ha bisogno di qualche
cosa che lo guidi e lo governi. Io credo che sia questo il pensiero del Cuoco.
L'uomo colto può superare la religione nella filosofia, il semiconcetto nel
concetto, trovando la norma della sua condotta nell'as soluto etico (2 ); il
popolo, invece, ha ancora bisogno d'una morale d'autorità, e quindi
parzialmente estrin seca, le cui basi non possono non essere religiose. Nelle
origini la religione è tutto: diritto, cosmologia, morale: nella religione
tutte le forme della vita trovano un prin cipio autoritario e un fondamento. La
distinzione fra l'una attività e l'altra è assai tarda. Il popolo però oggi ci
offre l'immagine, almeno in parte, dell'umanità primi tiva. La religione per
lui è tutto, perchè, essendo, come dice il Cuoco, forza giustizia bontà, è la
base insopprimi bile, nel suo pensiero, d'ogni educazione, d'ogni morale,
d'ogni diritto umano. Togliete questa base, egli non vi ubbidirà, perchè non
trova più alcuna cosa che legittimi l'ubbidienza all'autorità. Il legislatore
deve porsi da un punto di vista pratico, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p.
130. Vedi a propo sito B. LABANCA, op. cit., p. 411. (2 ) Questo superamento,
come vedremo in seguito, è più formale che sostanziale. Il Cuoco non crede
possibile una mo rale fuor dalla religione. L'uomo colto concettualizza ciò che
pel volgo è senso e fantasia, ma dinanzi al mistero si arresta pur esso. La
filosofia sistematizza quel che nel popolo è senza ordine, ma non rinnega la
religione, 184 e rendersi interprete della natura dei subietti, che vuol
disciplinare: se egli vuol regolare tutta l'educazione, in staurare una morale
uniforme e sicura, dare un diritto ri spondente a bisogni concreti, egli non
può prescindere da quest'elemento dello spirito, la religione; anzi su questo
elemento- base, nativo ed originario nella natura umana, edificherà il suo
edificio civile. Ecco come un problema di natura filosofica si è con vertito in
un problema politico, anzi nel problema poli tico per eccellenza, come quello
che involge tutta la vita giuridica della nazione. Da quanto abbiamo detto
derivano due corollari im portanti. Lo Stato, che combatte la religione entro
le sue stesse terre, quando la religione è la religione di tutti, è uno Stato
che ha sbagliato grossolanamente tattica: egli concepisce la religione come
mero fenomeno tran seunte, come pregiudizio, ignora che essa è nello spirito
dell'uomo un momento insopprimibile. Lo Stato agno stico, lo Stato neutrale in
materia di fede, è ugualmente uno Stato senza base, come quello al quale il
problema fondamentale d'ogni vita civile viene a sfuggire, cioè il compito
educativo, pedagogico. Lo Stato non può dar mai al popolo un'educazione
interamente laica. Il popolo è quello che è. La religione è radice di ogni suo
convinci mento, opera della natura e non de' preti. L'educazione popolare non
può essere che educazione, non dico reli giosa, ma su base religiosa. Date al
popolo i concetti di libertà, virtù, bontà, egli non vi comprende, perchè egli,
eterno barbaro, eterno fanciullo, non intende il linguag gio della ragione.
Date al popolo miti, leggende, precetti in forma sensibile semifantastica, egli
non solo vi intende, ma vi segue, perchè egli ha potente la facoltà fantastica
dello spirito, e tutto intuisce prima di pensare, e tutto vede e crede prima di
rendersi conto di ciò che vede e crede. Un'educazione popolare non può non
informarsi a questi principi. Chi ne prescinde, e va predicando l'istruzione
areligiosa e civile, naviga nell'astrazione. Ma del problema scolastico, come
problema pedagogico e statale dovremo occuparei in seguito; qui notiamo la 185
prassi politica dello Stato di fronte ad una realtà eterna, la religione. Lo
Stato, se vuole avere un fondamento incrollabile nel popolo, deve parlare al
popolo, e, se al popolo vuol parlare, deve parlargli nelle forme a lui
familiari, cioè il linguaggio fantastico della favola, il linguaggio semi
concettuale della religione, in quanto solo questo intende e non altro. Lo
Stato deve in sostanza utilizzare ai suoi fini la religione, come ogni altra
realtà umana. Nulla di odioso. Lo Stato fa il suo proprio bene, che collima con
gli interessi della popolazione che si vede meglio com presa, con le
aspirazioni universali della religione. Co loro, che credono di potere far la
guerra alla religione, ed incitano lo Stato ad una lotta impari, poi che esso
non può contare che su pochi, mentre la religione ha dietro di sè masse
compatte di credenti, non sono che de' vol gari astrattisti. Qui noi possiamo
ben vedere quanto il Cuoco si stacchi dal pensiero tipico della rivoluzione e
segua una strada tutta sua. Il giacobinismo è anticlericale; il Cuoco non è nè
clericale nè anticlericale, guarda la vita nel suo con creto, e si accorge che
lo spirito umano ha esigenze re ligiose. Il Lomonaco urla, s'inquieta, scara
venta invettive contro la Sede Romana, contro i leviti, contro i falsi sa
cerdoti; il Cuoco analizza, studia, infine edifica: due tem peramenti, due
mentalità diverse, due metodi antitetici: l'uno caduco, l'altro eterno. La
nota, sulla quale io vengo facendo le mie conside razioni e che a me appare
d’una importanza grande, con tinua ancora: « Io dirò a questo proposito un mio
pensiero. Coloro i quali per far la guerra ai preti han voluto segregarli dalla
società non hanno inteso il modo di combatterli. Era im possibile che in questa
guerra non vincesse quella causa che piaceva ai (sic ) Dei. Se fosse dipeso da
me, mi sarei con dotto diversamente: avrei riunito la religione allo Stato » (1
). (1 ) Seguono importanti considerazioni che io non posso ri portare: cfr.
Cogo, op. cit., p. 80 e sg. 186 mo La politica che il Cuoco consiglia è
confessionista. Que sto significa edificare su fondamenta incrollabili,
edificare sulla stessa natura degli uomini. Nel Platone in Italia, Archita
esprime concetti assai simili e stabilisce che il diritto, pur mantenendosi ben
distinto dalla religione, di questa si serva per raggiungere i suoi fini (1 ).
Il Cuoco non investiga in fine l'essenza vera della reli gione, anzi, come può
notare chi legga il bellissimo scritto di Giovanni Gentile sul nostro, egli in
ogni suo tenta tivo filosofico s'arresta timoroso dinanzi alla formida bile
incognita della divinità, e china il capo riverente. V’è in Cuoco un nucleo di
trascendenza, che nella nuova teologia vichiana è del tutto superata (2 ). « Il
savió» scrive nel Platone « si ritira in sè stesso, riconosce che la nostra mente
è una particella della divinità, che noi non riamo. Vede in questa massima il
fondamento della mo rale umana, e tenta di stabilirla e diffonderla, non con
misteri ristretti agli abitanti d'una sola città....; non con istorie, che
ciascuno può credere e non credere; ma con ragioni tratte dall'intrinseca
natura delle menti di tutti gli uomini, e dalle quali nessun uomo possa opporre
altro che l'ostinazione. Ecco il primo dovere del savio. Il se condo è quello
di compatire il volgo, che cerca ad ogni momento delle cose sensibili, ed i
filosofi, che, per stabi lir la virtù, si adattano talora al desiderio del
volgo » (3 ). Siamo sempre ad un punto. Una base religiosa della mo rale non
può mettersi in dubbio. Mentre l'uomo colto, pur arrestandosi dinanzi al
mistero della trascendenza, ha nella ragione, se non una impossibile
spiegazione, una maggior coscienza della rivelazione; il volgo ha bisogno di
vedere e di sentire anche le cose più immateriali nel travaglio inesauribile
della fantasia. Solo la religione può rendere vicina agli uomini la sublime
norma della morale: la religione, fondamento della morale, essa stessa pensa a
renderla viva nella coscienza. (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 84 e sg. (2 )
G. GENTILE, Studi vichiani, p. 385. (3 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 133. 187
Non posso negare che in tutto ciò vi sia una vera e propria incertezza. La
verità è che il Cuoco non è filosofo, e de' grandi problemi filosofici non può
darci un'esplica zione adeguata. La questione per lui è tutta politica e
pratica, e, se s'ingolfa in discussioni teoretiche, lo fa per ridiscendere più
agguerrito sul terreno pratico. Alcuno potrebbe obiettare che da questa
contamina zione di morale civile e di religione, di politica e di reli gione,
vengano a scapitarne sia lo Stato sia la religione, in quanto lo Stato penetra,
si dice, in una sfera non sua, la religione viene ad essere subordinata ad un
fine mon dano. Non è così, ripeto. Il Cuoco stesso ci avverte che v'è netta
delimitazione di fini, tra Stato e religione, in quanto il primo persegue un
fine politico e gli trova la base sua naturale nello spirito e nella natura
umana, mentre la seconda dal fine poli tico si astrae o dovrebbe astrarsi
limitandosi ad un'opera meramente interiore. Sul terreno politico non v'è
possibilità di conflitti, ammesso che la religione si volga all'eterno ed
obblii il mondano. Sul terreno spirituale v'è identità d'oggetto, il
miglioramento interiore del po polo, cooperazione e non antitesi. In ogni caso
v'è vi cendevole vantaggio: lo Stato deve favorire, pur essendo tollerante, la
religione, perchè persegua i suoi fini super terreni; la religione deve aiutare
lo Stato, perchè questo possa in terra fruire materialmente d'ogni
miglioramento morale degli uomini: l'uomo veramente in ispirito reli gioso non
può non essere un buon padre di famiglia, un buon cittadino. Da quanto abbiam
detto è evidente come il Cuoco non cada affatto nell'errore di molti,
proclamando uno Stato, per il quale non v'è che una sola religione, ed è
intolle rante verso le altre. Lo Stato del Cuoco persegue un fine politico
ed utilizza ogni forza fisica e morale che trova, utilizza quindi anche, col
vincolo d’un vantaggio reci proco, le forze smisurate della religione dominante
la cattolica nel caso nostro e a questa dà benefici, come li darebbe ad un
qualunque altro ente pubblico che per segua un fine collettivo e civile, senza
che ciò significhi > 188 intolleranza verso gli altri culti, che possono pur
essi fruire di benefíci, ove il loro fine collimi col fine statale. Lo Stato
agisce nel suo interesse pratico, ond'è chiaro quanto sia necessario un
controllo continuo da parte sua sulle istituzioni ecclesiastiche, controllo che
non può essere altrimenti ispirato che a superiori esigenze di di fesa pubblica
e di polizia. (1 ) Sino ad ora abbiamo parlato della religione come fa coltà
dello spirito, come insopprimibile realtà umana, e il caso di conflitti tra
Stato e religione non poteva a noi presentarsi se non come un caso abnorme. Ma
il problema politico particolare e il caso d'un conflitto nella sfera pratica
può presentarsi, quando noi non consideriamo la religione, ma la Chiesa,
l'istituto universale, che può porsi e si pone di fronte allo Stato con uguali
caratteri d'eticità e di assolutezza, e con pretese che a volta usur pano le
facoltà proprie dello Stato nel campo giurisdi zionale. Date le premesse che
abbiamo poste, il Cuoco non può negare il giurisdizionalismo dello Stato e la
subordina zione entro i suoi confini d'ogni istituzione ecclesiastica alla
legge. L'educazione religiosa non sfugge al controllo dello Stato: l'attività
ecclesiastica culturale non può sot trarsi alla norma comune. Il Cuoco
differisce solo dai giurisdizionalisti antichi, in quanto ha un senso
vigilissimo dell'importanza della religione, « un'intuizione sicura dello
spirito nella sua vita politica » (2 ). Con questa sua concezione dello Stato
come sostanzia lità etica, è naturale che il nostro non solo « della reli gione
come della filosofia, in quanto servono anch'esse come elementi riformatori
della coscienza civile » faccia « uno strumento del fine politico », ma non
possa ne (1 ) Dopo quanto abbiam detto, ci appare affatto falsa l'af fermazione
di B. LABANCA, op. cit., p. 409, che il Cuoco non abbia mai approfondita la
questione religiosa. (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. 189 ammettere che
la Chiesa di Roma, istituto fuori dello Stato, possa entrare a competere con lo
Stato in que stioni che involgono la sua sovranità. Libertà di culto e
d'istruzione, ma controllo dello Stato, subordinazione allo Stato ! Lo Stato
agisce nella forma del diritto, e il diritto pone un obbligo ed una tutela: la
religione ha, di conseguenza, l'obbligo di agire ne' limiti delle norme
giuridiche, e la libertà di operare come crede in essi, li bertà che si traduce
in una tutela civile contro i violatori di essà. Ognuno sa come t si siano
svolte le relazioni tra lo Stato e la Chiesa sotto Napoleone, sa come Pio VII
si mo strasse conciliante col déspota di Francia, come si giun gesse al
Concordato tra Francia e Santa Sede (1801 ), come il papa presenziasse
all'incoronazione di Parigi, come presto la politica giurisdizionalista
degenerasse in tirannia, per finire attraverso varie occupazioni (Ancona, 1805;
Civitavecchia, 1807; tutte le Marche, 1808), con l'arresto brutale del
Pontefice in Roma (1809), con la di chiarazione della fine del potere temporale
(maggio 1809). Noi non abbiamo documenti tali dá permetterci di seguire il
Cuoco nel suo pensiero dinanzi a tali e sì gravi eventi: dovendo stare allo
spirito dell'opera sua fin qui studiata, potremmo, credo, con quasi certezza
dire, che egli non partecipasse alle violenze ultime di Napoleone contro Pio
VII. Tuttavia per intendere come il Cuoco ponesse il pro blema de' rapporti tra
Stato e Chiesa, possiamo esami nare un suo articolo, Considerazioni sul concordato
del febbraio del 1804 (1 ). La pace religiosa è uno degli elementi
indispensabili della vita civile. Una nazione, che serri in sè discordie
chiesastiche si trova in condizioni peggiori d’una nazione, che alimenti in sè
le fazioni, poichè, mentre queste sono (1 ) Giorn. ital., 1804, 1, 4, 6
febbraio; n. 14, 15, 16; p. 56, pp. 59-60, pp. 62-63: Considerazioni sul
Concordato (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 62-70 col titolo Stato e
Chiesa ). 190 alimentate da meri bisogni materiali, le prime traggono origine
da esigenze spirituali, ben più profonde e durevoli. I turbamenti di molti
Stati derivano appunto dal credere che fenomeni di natura religiosa si possano
vincere con i metodi comuni, con i quali si distruggono le sedizioni. La
Francia in principio ha seguito queste massime, e ne ha fatto una tristissima
esperienza: la religione stessa è decaduta, ha perduto buona parte dell’utilità
sua; lo Stato ha subìto più d'una menomazione nella sua auto rità. «....
Chiunque ha un cuore deve applaudire (siamo, quando il Cuoco scrive, nel 1804,
e il conflitto tra Napo leone e Pio non s’è ancora delineato ) all'umanità
colla quale un governo savio ed un pontefice degno per le sue virtù del posto
eminente che occupa, ponendo fine ai dubbi, ai timori, alle querele, ne hanno
data quella pace che è preferibile a mille trionfi. La prudenza ha trovata la
via nelle angustie tortuose che vi erano tra il sacerdozio e l'impero ». Fin
qui, come ognun vede, ci troviamo di fronte a frasi d’occasione, a concetti ben
noti del Cuoco, altre volte espressi e ribaditi nello stesso Saggio storico.
Gli Stati sono tanto più forti, quanto più gli elementi della vita materiale e
spirituale convergono ad un fine unico. Lo Stato, ove diritto e religione non
cozzano in sieme, ma da punti opposti realizzano una stessa verità, è lo Stato
più forte che si possa immaginare. Guardiamo la storia: le nazioni floride sono
quelle, ove l’armonia tra diritto e religione, autorità e libertà, s'è meglio
pre sentata. Nel 1804, commentando la storia che Melchiorre Delfico avea
scritto della repubblica di San Marino, dopo aver ricordato che negli Stati non
è tanto l'ampiezza del territorio, il numero degli uomini, la forza degli
eserciti, che conta, quanto la virtù de ' cittadini e la giustizia degli
ordini, scrive riferendosi al fatto che il fondatore del pic colo Stato fu un
religioso: « Sulla porta della maggior chiesa leggesi questa iscrizione: Divo.
Marino. Patrono. Et. Libertatis. Auctore. Iscrizione che rammenta il de creto
col quale gli Ateniesi dichiararono Giove arconte perpetuo della loro
repubblica; iscrizione forse unica tra popoli moderni, i quali per lo più hanno
la religione di 191 visa dallo Stato, e degna che si mediti dai ministri del
l'una e dell'altro » (1 ). Il sogno del Cuoco mi sembra molto simile al sogno
di Dante e di Marsilio da Padova: una Chiesa, ricondotta alla natìa purezza,
riaffermante novellamente col divino Maestro che il suo regno non è di questa
terra: impero e papato, Napoleone e Pio, con diversi mezzi, con scopi diversi,
l'uno terreno, l'altro celeste, operano concordi in terra per assicurare il
benessere dei popoli. Il Con cordato, al quale specificamente si riferisce il
Cuoco, è il documento del nuovo patto. Breve patto invero ! Ma il Cuoco nel
1804 è fiducioso di un avvenire religioso di pace, che non sarà, crede
sinceramente che le antiche lotte giurisdizionali siano definitivamente della
storia e non più della vita: l'analisi, perciò, che vien facendo, è meramente
storica, è uno sguardo su un passato, che, pia illusione, non ritornerà più !
Nei primi secoli, riassumo il pensiero del nostro, si disputò pochissimo di
giurisdizione. Il divin Maestro aveva detto che il suo regno non è di questa
terra, onde non si potette confondere ciò ch'era di Dio con quel che spettava a
Cesare. Le dispute furono sul dogma. Costan tino mirò solo a mantenere l'ordine
nelle dispute, ma i suoi successori Ariani, Nestoriani, Eutichiani si mischia
rono ad esse, e l'impero ne fu turbato: lo stesso Giusti niano cadde
nell'errore. In Italia solo Teodorico mo strò bene ciò che un principe savio
deve alla religione. Egli la rispettò e la fece rispettare. Rigido conservatore
dell'autorità regia, fu giusto giudice nella controversia tra il pontefice
Simmaco e il suo competitore Lorenzo. « Teodorico volea esser il sovrano
egualmente e de’laici e de ' preti ». Ma anche i suoi successori non ebbero la
di lui virtù. Surse così in Europa un nuovo ordine di cose. « Delle vicende
della giurisdizione ecclesiastica nell’Oc cidente hanno scritto moltissimi, tra
i quali un gran nu mero forse non è stato esente da ogni spirito di partito. (1
) Giorn. ital., 1804 25 giugno, n. 76, p. 308: Memorie stori che della
repubblica di San Marino, ecc. 192 ) ). Noi crediamo che l'indicar le ragioni,
per le quali si con fusero i limiti delle due giurisdizioni, sia il più giusto
elogio che far si possa e del nostro governo e della Santa Sede (! ), che con
tanta prudenza li hanno ristabiliti. Tutto ciò —— scriveva San Bernardo ad
Eugenio papa, suo discepolo — tutto ciò che tu hai ricevuto non da Cri sto, ma
da Costantino, io ti consiglio a ritenerlo a seconda de ' tempi, ma non mai a
pretenderlo come un diritto Il consiglio, che il molisano ripete al Pontefice,
è un consiglio altamente politico. Il Cuoco dice: io riconosco che, in
determinate contingenze storiche, il papa, posto tra barbari armati, crudeli,
pronti alla violenza, abbia dovuto far ricorso alle armi per difendersi, abbia
quindi desiderato il potere temporale; oggi le condizioni sono mutate,
l'autorità regia non vuol menomare il prestigio della Chiesa, anzi vuole
accrescerlo, difenderlo, arric nirlo; a che dunque serve il potere temporale?
Il po tere temporale ci appare come il resto inutile d'età sor passate, poi
che, la base del rispetto e dell'autorità non è più nella forza e nelle armi,
ma nella giustizia e nella virtù. Il patrimonio di San Pietro è intangibile !
Ma perchè? Serve alla difesa della Chiesa.... Serviva: ora non più ! Le parole
che il Cuoco ripete sono le parole della sa viezza, le parole che la storia,
che non torna indietro, consacra nella realtà della vita. L'abdicazione ai
diritti antichi significa potenziazione della Chiesa nelle coscienze degli
uomini, ritorno alla purezza antica degli Apostoli. La Chiesa Romana ha in
sostanza un duplice elemento: un elemento dommatico, che nessuno pensa a
menomare, specie l'autorità pubblica, che non intende penetrare in una sfera
che non è sua; un elemento politico, determi nato dai tempi, soggetto a flussi
e a riflussi, ma sul quale il conflitto con il potere civile è stato e può
essere sempre facile. Il punto di minore resistenza è il dominio temporale, che
oggi è una vera barriera per una (1 ) Si riferisce sempre al Concordato. 193
comprensione tra Stato e Chiesa, e che occorre superare, perchè i rapporti
divengano da buoni ottimi. La Chiesa abdichi ad ogni temporalità, lo Stato
riconoscerà tutta la grandezza della religione, la potenzierà praticamente, le
darà tutti i mezzi per attuare in terra il compito antico. Certo le ragioni del
dominio temporale sono profonde, ma sono tutte storiche, cioè superate; mentre
le ragioni della grandezza spirituale della religione sono eterne, cioè presenti
alla nostra coscienza umana insopprimibil i mente. Che le condizioni, che han
reso il dominio temporale necessario per la religione e il suo bene, siano
sorpassate, il Cuoco lo dimostra con una acutissima analisi, sulla quale merita
fermarsi. I barbari, discesi dalle provincie nordiche dell'impero romano,
permisero, essi meno civili, ai vinti culti e ricchi di sapienza, di vivere
secondo le loro leggi, le loro usanze, i loro istituti. Nacque così, crede il
molisano, quella specie di giurisdizione personale ignota agli antichi, donde
poi scaturì la distinzione de' fori. « A poco a poco le menti degli uomini si
avvezzarono a concepire due legislatori diversi ed uno Stato entro un altro
Stato ». I vescovi professarono la giurisprudenza romana e l'adattarono ai
nuovi bisogni, divennero feudatari, divennero ministri, cancellieri dei grandi
sovrani. L'elemento romano trovò in essi un baluardo contro la sopraffazione.
La Chiesa insomma fu nell'alto Medio Evo davvero un faro di luce nelle tenebre.
Essa predicava l'umanità e la libertà, essa sola potè dichiarare la schiavitù
contraria alla religione. Tutti questi elementi contribuirono a darle una forza
grandissima, che si tradusse presto in un dominio terreno. È naturale quindi
che un mutamento profondo negli ordini sociali porti seco un mutamento negli
ordini ec clesiastici. La storia ha uno sviluppo che non permette a lungo
superfetazioni antisociali. « Noi scorriamo rapi damente » scrive il nostro
autore « sopra un soggetto che è di sua natura vastissimo. Ci basta avere
indicate le cagioni principali. Conosciute queste, è facile conoscere che, a
misura che gli uomini s'incivilivano e gli ordini pubblici ritornavano verso la
loro perfezione, dovea ces sare tutto ciò che la sola infelicità de' tempi avea
consi gliato, introdotto, tollerato; e dovean segnarsi di nuovo quei confini
entro de' quali la sovranità temporale fosse più energica e meglio ordinata, e
l'autorità religiosa più augusta e più sicura. Così dal caos emerse l'ordine, e
fu a ciascuna cosa assegnato il suo luogo ». Questo or dine il Cuoco vede
avverato in un giurisdizionalismo con fessionista, che tende a volte ad un vero
e proprio con fessionalismo all’austriaca. Gli elementi di questo sistema non
possono essere esposti brevemente, onde occorre pas sarvi su, Vincenzo Cuoco,
se noi guardiamo ora dall'alto le cose, e cerchiamo di raccogliere le fila di
ciò che siam venuti dicendo, ci si appalesa come un fermo sostenitore dei
diritti dello Stato, concepito come sostanza etica, sostenitore che non ammette
alcuna menomazione di quei caratteri salienti che abbiamo veduto. Egli si pre
senta come un vero e proprio giurisdizionista, rappre sentante di quel
giurisdizionalismo, che lo storico co nosce nelle forme del leopoldinismo, del
giuseppinismo e sopra tutto del tanuccismo. Che il Cuoco sia giurisdizio
nalista nel senso sovraccennato, molti elementi lo testifi cano. Egli è
giurisdizionalista, ma nello stesso tempo il suo Stato è confessionista,
sebbene tollerante: anzi il nostro lo consiglia ad essere più confessionista
che può, perchè gli interessi dell'autorità civile e dell'autorità ec
clesiastica collimano perfettamente. Lo Stato del Cuoco trova una Chiesa
dominante e le dà di fatto privilegi, benefíci, considera i suoi sacerdoti come
pubblici fun zionari, investiti di vere e proprie funzioni pubbliche,
esercitanti un compito che il potere supremo non solo riconosce ma subordina al
suo controllo: la stessa educa zione religiosa è vigilata dagli organi
centrali. « Il che» come ben nota Giovanni Gentile « non viene, in conchiu
sione, a soggiogare quello che non è soggiogabile, lo spi rito religioso e
scientifico, alle forme giuridiche istitu zionali dello Stato; ma soltanto a
risolvere nella vita concreta dello Stato l'elemento sociale e pratico di co
teste forme superiori dello spirito, le quali, se sono ideal 195 mente
sopramondane, storicamente rientrano anch'esse nella sfera dei rapporti
sociali, materia del diritto » (1 ). Questo giurisdizionalismo confessionista
del XVIII se colo, anteriore alla rivoluzione francese, aveva nei prin cipi e
negli statisti un fondamento di vere e proprie credenze e convinzioni
religiose, che portavano, come os serva lo Scaduto (2 ), all'affermazione d'una
supremazia nel campo morale della Chiesa sullo Stato. Il giurisdizio nalismo
napoleonico ha invece cause più politiche che re ligiose, s ' ispira più
all'analisi delle condizioni storiche contemporanee che ad altro. Il Cuoco
segue quest'ultimo indirizzo, temperandolo col tanuccismo, vale a dire, ri
conoscendo l'altezza etica della Chiesa. Nulla ci induce a credere che egli
fosse specificamente cattolico prati cante, ma da un'analisi minuta de' suoi
scritti, da un manoscritto inedito sull' Ideologia, di cui ci dà' notizia il
Gentile, dal Platone in Italia, noi possiamo ritenerlo uno spirito
profondamente religioso. La sua filosofia serba anzi resti di trascendenza, e
la sua teologia, se è lecito così esprimersi, ritorna ad una posizione che il
Vico, suo maestro ideale, avea già superata (3). Egli differisce dagli
scrittori politici del tempo suo, scettici e agnostici, per i quali il
confessionismo ha basi puramente effimere, dif ferisce dunque per il fatto che
nella religione vede un elemento insopprimibile della vita dello spirito. Da
noi la religione dominante è la cattolica: non vi è legge che da essa e dalla
sua morale possa prescindere. Il suo in gegno, la sua sicura intuizione delle
varie attività dello spirito, lo porta ad un riconoscimento che non è solo do
veroso in linea di principî, ma è savio in linea politica per lo Stato che
voglia realmente attuare la sua missione, e sulla natura umana costruire il suo
edificio istituzio nale. « Il primo dovere di chi ama la patria è quello di (1
) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. (2) F. SCADUTO, Diritto ecclesiastico
vigente, 1923, Cortona, v. I, p. 19 sg. (3) G. GENTILE; Studi vichiani, p. 385.
Una parte dell’Ideo logia è stata ripubblicata in Scritti vari, v. I, pp.
297-302. 196 rispettare la religione de' padri suoi; il primo dovere di chi ama
la religione è quello di rispettare il governo della patria, senza di cui non
vi sarebbe alcuna religione ». Qui mi sembra che veramente il Cuoco si
distacchi dal l’età che fu sua, e all'astrattismo filosoficizzante e scet tico
sostituisca la realtà insopprimibile dello spirito, che è anche religiosità,
ed, essendo religiosità, non può essere che tolleranza. CAPITOLO V. Nazionalità
e italianismo nel « Giornale italiano ». Le origini della nuova Italia. Il
concetto di naziona nalità presso Cesare Paribelli e Francesco Lomonaco. Presso
Vincenzo Cuoco. - Sua visione spiritualistica del problema unitario e
nazionale. - Mezzi per formare una nuova coscienza nazionale. Abbiamo nella
prima parte di questo studio a lungo parlato del pensiero costituzionale di
Vincenzo Cuoco, quale egli di fronte all'astrattismo rivoluzionario dei
giacobini franco- italiani sistematicamente espresse ne'suoi Frammenti di
lettere dirette a Vincenzio Russo, e quale poi mostrò in atto negato in quel
Saggio storico, che resta ancora il più mirabile documento dei terribili giorni
che passarono alla storia col nome di Rivoluzione napoletana e con la gloria
d'eroismi non emulabili. Nel nostro lavoro abbiamo studiato il concetto che il
molisano si è fatto dello Stato e dei suoi attributi, la visione della vita giu
ridica e politica, e, infine, il modo ond'egli fissa il mille nario problema
dei rapporti tra l'autorità civile e l'auto rità ecclesiastica. In tutta questa
nostra analisi abbiamo visto come unitario sia il pensiero del nostro autore,
che abbiamo definito il più vivo esponente dell'italianismo di fronte ad ogni
forma, ad ogni espressione di vita, che non sia consona al nostro spirito, alle
nostre esigenze, ai nostri bisogni, alla nostra tradizione. 198 L'italianismo
del Cuoco ci si appalesa in tutta l'opera sua multiforme e molteplice, e noi
non avremmo bisogno di insistervi più, se in esso non vi fosse un elemento
nuovo che lo differenzia dall'italianismo di tutti i con temporanei e degli
immediati ' posteri: il modo in cui egli concepisce la nazione e lo spirito
nazionale. È que sto il punto sul quale verterà la nuova indagine. Giustamente
Benedetto Croce, nella prefazione a La ri voluzione napoletana del 1799, dice
che chi cerca « le ori gini sacre della nuova Italia » deve di necessità
rifarsi ai fatti della Partenopea (1 ). Il tragico fato della repubblica
disperde per la penisola centinaia di patrioti, gente, che, per quanto
dottrinaria, astratta, più francese di costumi e di pensiero che italiana, ciò
non pertanto ha una fede rigida e calorosa nei destini immancabili della patria.
È il polline vivo, che trasportato dalla tempesta fecon derà in altri liti, e
poi s'esprimerà in nuovi fiori e in nuovi frutti. Sarebbe facile fare dei nomi
e degli scritti, ma uscirei dal mio compito e mancherei con ciò dal mio pro
posto: ricorderò solo due scritti molto importanti per due ragioni, in primo
luogo perchè in essi l'indagine storica può rinvenire le prime idee
sull'indipendenza e sull'unità della nazione italiana; in secondo luogo perchè
dal con fronto, che di essi si farà con le pagine cuochiane, sca turirà la
diversa posizione spirituale, che il Cuoco rap presenta. Cesare Paribelli, ex
ufficiale di Ferdinando IV, dal 1793 al 1799 rimasto quasi sempre in prigione per
ragioni politiche, poi membro del Governo Provvisorio a Napoli, il 18 giugno
1799, essendo incaricato d’una missione a Parigi, proprio mentre le sorti
repubblicane volgevano al peggio (il 17 giugno Ruffo accorda la resa alla città
di Napoli e la Partenopea è finita ) scrive un Indirizzo dei Patriotti Italiani
ai Direttori e Legislatori Francesi, in cui, dopo avere espresso numerose
lagnanze contro gli stra nieri nemici ed amici, dopo avere descritto la misera (1
) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. XII. 199 condizione dell'Italia
tutta, dopo avere enumerati i voti delle varie regioni conclude con profetiche
parole. « Legi slatori e Direttori, invoca, osate alfine di soddisfare il voto
universale dell'Italia, e di proclamare la sua indi pendenza e la sua riunione,
il di cui centro esiste già nella santa energia dei figli del Vesuvio, nello
spirito repubblicano dei montagnari Liguri, nello sdegno invano ritenuto dei
figli dell'infelice Vinegia, e nella disperazione di tutti i rifugiati
Piemontesi, Romani e Toscani, cui non resta più ormai verun'altra alternativa,
che o di cercare per via d'una morte volontaria un asilo nella tomba, o di
crearsi di bel nuovo, per mezzo d'una volontà ferma e determinata, il felice
avvenire, che era stato promesso alla loro Patria. Legislatori e Direttori del
popolo fran cese, parlate, e la Repubblica Italica esisterà. Un'assem blea
Nazionale e un Governo provvisorio, riunito in Fi renze nel centro dell'Italia,
saranno invito a tutti gli abitanti di queste belle contrade; un'armata
ausiliaria sarà formata, lo stendardo Italico sventolerà nell'aria ac canto al
vessillo tricolorato, e gl ' intrighi stranieri sa ranno sventati ancor questa
volta; e il secolo decimonono vedrà folgorare questi due astri vittoriosi e
protettori, che annunzieranno all'Austria e al gabinetto Brittanico la vicina
distruzione, o ai discendenti dei germani e agli abitanti delle tre isole,
ormai troppo serve, la prossima loro libertà (1 ). Il documento è
importantissimo, e la sua importanza appare ancor maggiore, se si pensa che è
esso stato ver gato, quando le sorti non solo di Napoli e d'Italia, ma anche di
Francia, volgevano al male, e molti pavidi disperavano. Lo stesso pensiero, un
po ' più tardi, esprime Francesco Lomonaco in uno scritto, enfatico e gonfio di
forma, ma caldo e commosso d'amor patrio: il Rapporto fatto al cit tadino
Carnot, fiera requisitoria contro le malefatte degli (1 ) B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, p. 335; M. Rosi, op. cit., v. I, p. 215 e sgg.; V.
FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 151 e sgg 200 stessi francesi in Italia,
malefatte, che non ebbero altro effetto che quello di allontanare sempre più le
simpatie del popolo dalla causa rivoluzionaria. Anche il vesuviano Lo monaco
sente che in Italia si sta formando una volontà che non era per l ' innanzi, ma
invano si sforza di spie garsela filosoficamente, troppo imbevuto com'è di rigi
dismo giacobino. Egli enumera i diritti, quelli che egli almeno dice diritti
del popolo italiano, all'unità e all'in dipendenza, quegli elementi che
l'indagine sistematica del secolo XIX poi preciserà come i presupposti del con
cetto di nazionalità. L'Italia, non divisa da grossi fiumi nè da grandi mon
tagne, separata dalle Alpi e dal triplice mare dagli altri popoli, forma una indissolubile
unità geografica: è questo il primo elemento della nazionalità. Gli abitanti
che l'a bitano hanno la stessa tinta di passioni e di carattere, godono d'un
eguale germe di sviluppo morale e di fisica energia, hanno gli stessi
interessi, la stessa lingua, la stessa religione: tutto li addimostra per
membri della stessa famiglia: sono questi nuovi e complessi elementi della
nazionalità, elementi etnici, linguistici e religiosi, che si pongono accanto
al primo elemento geografico. Aggiungete a ciò una ininterrotta tradizione
storica, per cui uno è il processo evolutivo della stirpe, uno il fasto e la
sventura, come uno l'avvenire, ed avrete l'ultimo elemento, che informa di sè
un popolo e cementa quel che possiamo dire d'una nazione (1 ). Gli italiani
hanno perciò un diritto naturale, ab aeterno acquisito, all'unità e all '
indipendenza. La Francia, dice in sostanza lo stesso scrittore, può e deve
riconoscerlo positivamente. Solo così l'Italia, dopo tanti secoli potrà vedere
sanate le sue molte e sanguinose piaghe, che la tormentarono e la tormentano. «
Qual riparo » scrive il Lomonaco « a tanti mali? Qual rimedio a piaghe sì
profonde? Come imprimere alle de (1 ) F. LOMONACO, Rapporto al cittadino
Carnot, ecc., in se guito al Saggio storico di V. Cuoco, Laterza ed., Bari,
1913, p. 323. 201 presse ed avvilite fisonomie italiane il suggello dell'an
tica grandezza e maestà? Uno dei principali mezzi, se condo me, è l'unione.
Perchè termini il monopolio in glese, e i vili isolani cessino di arricchirsi
su le rovine del continente; perchè si oppongano argini all'ambizione del
l'Austria, la Francia abbia una fedele alleata, la condotta della Prussia sia
meno equivoca, il gran colosso dell’im pero russo stia immobile ne ' ghiacci
del nord, la Spagna divenga stabile amica della gran repubblica; perchè, in una
parola, vi sia in Europa bilancia politica e si disec chi la sorgente delle
guerre, è d'uopo che l'Italia sia fusa in un solo governo, facendo un fascio di
forze. Rea lizzandosi quest'idea, gl'italiani, avendo nazione, acqui steranno
spirito di nazionalità; avendo governo, diver ranno politici e guerrieri;
avendo patria, godranno della libertà e di tutti beni che ne derivano; ecc. » (1
). La ragione prima dell'unità italiana così è un fattore esterno, quello di un
presunto equilibrio europeo, quello d'una nuova armonia tra i popoli, tra le
genti del nostro belligero vecchio continente. Questi gli antecedenti dell'idea
unitaria, queste le sante origini di quel concetto di nazionalità (2 ), che
troverà poi in Giuseppe Mazzini il suo apostolo. Il Cuoco, che a Na poli visse
ed operò, che con tutti i patrioti di Napoli a lungo ebbe rapporti, non può non
agitare gli stessi senti menti. Ma questi da lui come vengono trasformati, in
lui quanta nuova luce acquistano ! Esule dalle sventure della Partenopea,
visitato Marsi glia, Chambery, Parigi, dopo Marengo, nel dicembre 1800 il Cuoco
è a Milano, ove presto pubblica il Saggio e i Fram menti (3 ). Io non mi
indugierò neppur brevemente sul l'attività del molisano nella Repubblica
cisalpina (poi italica ) e nel Regno italico, attività vasta e complessa di (1).
F. LOMONACO, op. cit., p. 327. (2 ) Chi vuole avere notizie più ampie veda La
rivoluzione napoletana del CROCE, ove vi è un largo studio sull'argomento, pp.
329-342. (3) N. RUGGIERI, op. cit., p. 3 ]. 202 studioso, di cui sono documento
le Osservazioni sul Dipar timento dell'Agogna, che vanno sotto il nome di L.
Lizzoli, sebbene siano, come è stato indiscutibilmente dimo strato (1), del
nostro scrittore, e i frammenti su la Sta tistica della Repubblica italiana,
opera scientifica di vasto respiro (2 ), che dimostrano quanto alto fosse il
bisogno del nostro autore d'esaurire ogni forma di realtà umana, poichè solo
sovra una conoscenza adeguata di essa si può fondare un coerente edificio
politico e legislativo. Sono punti questi oramai acquisiti alla storia e su
essi non mi soffermo. Vengo piuttosto ad un altro punto, la fonda zione del
Giornale italiano, che tanta larga parte ha nella formazione della nostra
coscienza nazionale, che primo agita, nel fulgore della gloria napoleonica, il
problema unitario. In quel periodo tumultuoso, che comprende i primi decenni
del secolo XIX, Milano è il centro culturale più cospicuo d'Italia. Napoli,
dopo le aspre lotte giurisdi zionali con la Chiesa, dopo il fiorire della sua
Università, dopo la gran luce diffusa da Filangieri, Galiani, Pagano, Cirillo,
caduta la breve repubblica del 1799, colla restau razione del Ruffo, aveva
visto disperso tutto quel te soro di sapienza che cinquant'anni di attività
scientifica aveano accumulato. Torino era un centro troppo ristretto, ancor
provinciale e particolaristico, sebbene già comin ciasse a dar segno di nuova e
più ampia vita, ma non poteva offrire assolutamente nulla, dato che con le vit
torie del Bonaparte aveva perduto l'antica libertà. Di Venezia, di Firenze, di
Roma inutile parlare. Milano dunque ne ' primi anni del nuovo secolo è il
centro più attivamente colto d'Italia. Grandi in essa sono le memorie del
popolo, grande la tradizione recente. « Ivi si era formata prima la scuola del
giansenismo, e poi la scuola de' diritti dell'uomo »; ivi « la 6 Società
patriot tica ”, divenuta poi Società popolare, aveva lavorato alla diffusione
delle idee nuove ». Come rileva Francesco (1 ) N. RUGGIERI, op. cit., p. 40; G.
Cogo, op. cit., pp. 13-23, (2 ) G, Cogo, op. cit., p. 24 e sgg. 203 De Sanctis (1
) ivi s'era espresso, contemporaneamente forse ai primi tentativi
giurisdizionalisti del Tanucci, un moto, diretto principalmente contro la curia
romana, per sonificata nei gesuiti, e contro l'aristocrazia, che pur non avendo
portato ad immediati mutamenti politici, annun ciò importanti riforme civili
per il miglioramento del l'uomo, che già erano concrete conquiste civili, allor
quando il turbine rivoluzionario si scatenò, distruggendo tutto, l'antico e il
nuovo, il cattivo e il buono, ciò che doveva crollare e ciò che era degno di
restare. A Milano aveva scritto il Beccaria, instaurando nel campo penale nuove
dottrine, che, reagendo a tutto il sistema degenere del medievale processo
inquisitorio, preludono ad un mi rabile fiorire delle dottrine criminalistiche;
il Verri aveva disputato di economia, di finanza, di sociologia; il Caffè aveva
agitato nelle menti più illuminate i nuovi pro blemi filosofici e scientifici,
le nuove posizioni artistiche, che appassionavano non solo l'Italia, ma la
Francia e l'Europa tutta. Questa la tradizione, che ne' primi anni del nuovo se
colo Milano rinnova in una vita sempre più grande e degna. Le varie rivoluzioni
vi hanno fatto affluire esuli non solo da Napoli, ma da ogni parte d'Italia,
poeti e filosofi, soldati e commercianti, giureconsulti ed econo misti (2 ). È
il periodo grande della vita milanese; il pe riodo in cui, per dare tre
illustri nomi, appena da poco spento il Parini, cantano Monti Foscolo Manzoni.
Nulla da meravigliare se in questo ambiente d’intellettualità si agitano quelle
questioni, che poi lo stesso secolo XIX vedrà realizzate e risolte, concreterà
insomma nell’azione politica. L'animo ardente di Vincenzo Cuoco in questa
società così vivace ed attiva trova tutta lo stimolo per destarsi da quella sua
natural pigrizia, che lo stesso Manzoni in (1) F. DE SANCTIS, Saggi critici,
Milano, Treves ed., 1918, v. III, p. 2. (2 ) R. SORIGA, L'emigrazione
meridionale a Milano nel primo quinquennio del secolo XIX, in Bollettino della
Società pavese di storia patria, a. XVIII (1918 ), pp. 102-117, pp. 119-121,
204 lui notava, e della sua nuova attività, oltre gli scritti statistici su
citati, sono testimonianza gli articoli sul Gior nale italiano, che egli
pubblica il 2 gennaio 1804 e di rige continuamente fino all'agosto del 1806,
fino cioè al suo ritorno in patria, avvalendosi della cooperazione di due
valentuomini, Bartolomeo Benincasa e Giovanni d'Aniello (1 ). Seguendo il
nostro metodo di non occuparci di pro blemi biografici, noti a sufficienza,
sorvoliamo sulla fon dazione del foglio milanese (2 ), e vediamo piuttosto che
cosa esso rappresenti nella storia dell'idea nazionale, quale sia il suo
rapporto con i precedenti ideologici del nazionalismo, che abbiamo visto in
Paribelli e Lomonaco. Che cosa è innanzi tutto la nazione per Vincenzo Cuoco? È
qualcosa di già acquisito, di rigidamente fatto, di sta tico, o invece qualcosa
da acquisirsi, da farsi, di dina mico, qualcosa insomma che diviene in un
processo inin terrotto? Esiste realmente e storicamente una naziona lità
italiana, che è formata con questi e con quegli altri elementi, che sono questi
e quelli, e nulla più? E quali sono questi elementi? Abbiamo noi perciò un
diritto na turale ad essere nazione, diritto che gli stranieri non pos sono
contestare, donde scaturisce un correlativo supe riore dovere a permettere la
nostra unità nella forma d'uno Stato indipendente e sovrano? Sono questi al
trettanti problemi, ai quali dovremo singolarmente ri spondere. Se noi
ritorniamo col pensiero agli scritti del Paribelli e del Lomonaco, noi vediamo
in essi uno sforzo a definire concretamente gli elementi costitutivi di questo
concetto di nazionalità, che poi alla resa dei conti finisce per man care e per
sfumare, proprio nel momento, in cui pure essi credono d'averlo conquistato e
fissato. Nè è a dire che (1 ) V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 655. (2 )
Cfr. A. BUTTI, La fondazione del Giornale italiano » e i suoi primi redattori,
Milano, Cogliati ed., 1905 (estr. dall’Ar chivio stor. lomb., a. XXXII, fasc.
VII); vedi pure N. RUGGIERI, op. cit., p. 43 e sgg.; nonchè G. Cogo, op. cit.,
pp. 30-34. 205 l'insufficienza sia dovuta all'insufficienza della loro cul tura.
Uomini di ben maggiore preparazione si sono sfor zati d'esaurire criticamente
il contenuto della naziona lità e non ci sono riusciti. Ogni elemento, tra
quelli da noi presi in esame, si rivela attivo nella formazione della
nazionalità, ma poi non può essere a rigore accolto come necessario essenziale
costi tutivo. Ancora: vi sono elementi, che a volta sono, a volta non sono;
altri che operano storicamente con una certa intensità, ed altri con una
intensità maggiore o minore. Il Lomonaco accenna ad elementi geografici,
etnici, lin guistici ed eziandio religiosi, quali antecedenti del nostro
concetto, del concetto che noi tutti abbiamo di nazione, per cui gli italiani
sono fatti per essere membri d'una sola famiglia. Tutti questi egli afferma
come la base concreta, sovra la quale s'aderge il superiore diritto a che
l'Italia sia un solo Stato. Data questa concezione naturalistica, la
conseguenza che ne scaturisce è una sola: il popolo italiano ha una superiore
ragione a divenire indipendente, a trovare la sua forma giuridica in un
reggimento uni tario; gli stranieri non debbono che riconoscere positiva mente
quel che Dio o la natura, o altri che dir si voglia, segnarono sulle coste
delle montagne e nel corso de'fiumi, separando la patria nostra dalle altre
patrie, facendo si che essa, geograficamente delimitata dalle Alpi e dal mare,
sia abitata da una sola gente, parlante un solo idioma, avente una sola
religione, una sola storia, una sola mis sione, una sola somma d'interessi.
Ecco perchè il Paribelli e il Lomonaco si rivolgono ai francesi. Essi sono i
più forti, essi possono perciò estrin secamente donare all'Italia quell'unità
statale, a cui senza dubbio ha diritto, perchè la nazionalità è una realtà non
da farsi, ma già fatta e perciò statica. Quel che ancora non è fatto ma da
farsi è lo Stato uno ed indipendente, considerato come esterno alla nazione,
quasi come una sua sovrastruttura, che può essere e può non essere, ma che, sia
o non sia, lascia inalterata la nazionalità. Può esservi la nazione e non
esservi lo Stato, e viceversa. Lo Stato sarà il riconoscimento susseguente ed
esteriore d'una 206 realtà già concretizzata, e quindi definitiva, che è la na
zione con quegli elementi che sappiamo. Contro questa concezione s’oppone il
Cuoco Nessuno de gli elementi positivi della nazionalità può dirsi essenziale
al concetto di nazionalità. Prendiamoli uno ad uno, ed ognuno di essi ci
apparirà fallace e transeunte. Costruire sovr’essi val quanto costruire sovra
la sabbia. Che è la terra se non una mera quiddità naturale, che in sè e per sè
non ha che una importanza relativa, tant'è vero che gli ebrei sono nazione pur
fuori dal territorio nativo, e lo sono dopo quasi due millenni da che si sono
dispersi per il mondo? Che è la religione, se noi la concepiamo come religione
comune di tutti, con quei determinati solenni riti e con quella certa gerarchia
ecclesiastica, se non un astratto? Ma d'altra parte ognuno di questi ele menti,
ed altri che abbiamo sorvolato, acquistano mag giore consistenza, se noi li
guardiamo non già nella loro estrinsecità e nella loro astrattezza, ma se li
consideriamo nella loro significazione spirituale, vale a dire in quanto noi li
compenetriamo di noi, de ' nostri affetti, de' nostri sentimenti. Non è più
allora la terra fisica geografica, « bagnata » come dice il Lomonaco « dal
Mediterraneo, dal l ' Jonio, dall'Adriatico, e separata dagli altri popoli da
una catena di monti inaccessibili », ma bensì quella terra che ci vide nascere
e vide nascere i nostri avi, ove i nostri avi sono sepolti, saranno sepolti i
nostri padri, saremo sepolti noi pure, quella terra ove noi lavoriamo ed amia
mo, ove lavorarono le generazioni che furono e compi rono grandi cose, quelle
grandi cose, di cui si vede ancor oggi la testimonianza nelle grandi
costruzioni, nelle opere plastiche, ne ' carmi, nelle.storie, che ci commovono
e ci fanno fremere d'orgoglio. Non è più allora la religione cattolica romana
con i suoi dommi scritti e rivelati, fissati perennemente ne' sacri libri,
bensì quella religione che vive ne ' nostri cuori, e ci anima nelle opere
degne, ci rimprovera nelle indegne, ci consola nelle disgrazie, che brilla come
speranza di luce futura, che noi sentiamoogni momento, sempre nuova e presente,
sempre viva e rin novantesi. 207 La nazione insomma è in noi, è quella maggior
consape volezza che noi abbiamo di noi, onde ci sentiamo fratelli di tanti
altri individui, che perciò poniamo non come estranei a noi, ma simili
ne’sentimenti e negli affetti, for manti una superiore unità spirituale. Non è
perciò nè il territorio, nè la lingua, nè la razza, nè l'interesse che de
termina la nazionalità, il suo essere e il suo contenuto, ma siamo noi stessi,
che con la nostra spiritualità affermiamo i vari elementi di volta in volta
come costituenti la nazio nalità, e li plasmiamo in una suprema volontà, che è
co scienza ed energia. La nazionalità così non è fuori di noi, ma in noi; non è
materia o natura, ma spirito; non è contenuto, ma forma del più vario contenuto.
Le conseguenze di questa posizione sono incalcolabili. La nazionalità non è,
diviene; non è qualche cosa di preesistente alla nostra determinata energia
spirituale, ma coeva con essa, perchè da questa posta e generata in ogni suo
momento. Tale più alta visuale del problema il Cuoco esprime in quel Disegno di
un giornale italiano, che egli presentò nel 1809 al vice- presidente della
Repubblica italiana Fran cesco Melzi d'Eril (1 ). La nazione, egli dice, non è
formata; si tratta anzi di formarla. « Fra noi non si tratta di conservar lo
spirito pubblico, ma di crearlo. Conviene avezzar le menti degli italiani a
pensar nobilmente, condurle, quasi senza che se ne avvedano, alle idee che la
loro nuova sorte richiede, e far divenire cittadini di uno Stato coloro i quali
sono nati abitanti di una provincia o di paesi anche più umili di una provincia
» (2 ). Da ciò è facile vedere come la con cezione naturalistica sia superata:
la nazione non esiste (1 ) Il documento tratto dall'Archivio di Stato di Milano
è stato pubblicato dal prof. ATTILIO Butti in appendice alla sua op. cit.,
nonchè ristampato da G. GENTILE: VINCENZO Cuoco, Scritti pedagogici inediti e
rari, Roma-Milano, Albrighi e Se gati ed., 1909, p. 3 e sgg.; e poi da N.
CORTESE e F. NICOLINI: VINCENZO Cuoco, Scritti vari, Bari, Laterza ed., 1924,
v. I., pp. 3-12. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 4. 208 in natura, come
mera entità di fatto, ma nello spirito, come superiore unità ideale.
Quest'unità dello spirito, che poi è energia plasmatrice e volontà
realizzatrice, come abbiamo detto, consiste di due parti principali: « la prima
è la stima di noi stessi e delle cose nostre; la seconda è l'accordo de'
giudizi di tutti su quegli oggetti che possono essere utili o dannosi » (1 ).
Io direi: è in primo luogo autocoscienza, consapevolezza di noi e delle nostre
pos sibilità; in secondo luogo quell'atto, per cui il nostro io particolare,
coincidendo con tutti gli altri particolari in una sola volontà, s'afferma come
universale. La nazione così null'altro è che volontà di nazione, e, siccome con
cretamente la volontà è in noi uomini, la nazione è in noi, quella nazione che
noi amiamo, sospiriamo, che noi idoleggiamo ne' nostri pensamenti, che vediamo
cantata ne' grandi poeti, che desideriamo grande e possente nel futuro come lo
fu nel lontano passato, che infine noi vo gliamo ed affermiamo in ogni nostro
pensiero ed atto, onde ogni nostra opera o scritto reca l ' impronta d'un
superiore carattere, che è il carattere di nostra gente. La stessa così detta
tradizione nazionale non è, non ha alcun valore, se non nel presente, se non in
quanto la poniamo come presente, e perciò solo operativa di grandi cose,
incitamento a maggiori grandezze. Se noi l'assu miamo come passato, essa
null'altro è che retorica, sban dieramento inutile di grandi fatti, su cui
tutti possono meritamente ridere. « Un giornalista di Londra o di Pa rigi può
mille volte al giorno ripetere ai suoi compatrioti: Noi siamo grandi. Egli sarà
sempre creduto. Un giornalista italiano, se pronunzierà questa stessa propo
sizione, desterà il riso; ed una proposizione di cui si è riso una volta, dice
Shaftesbury, non può produrre mai più verun buon effetto » (2 ). Anche la
tradizione, come tutti gli elementi della nazionalità non deve essere fuori
degli uomini, ma veracemente parlare agli uomini. La sto ria resta mera
erudizione passiva inerte, se la riguardiamo (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I,
p. 3. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 4. 209 come un frigido insieme di
fatti; ma se questi fatti par lano ad uomini, e ad essi dànno maggior
consapevolezza di loro stessi, ond'essi acquistano maggiore energia e vo lontà
di dominio, allora la storia diventa davvero maestra de' popoli. Così la
tradizione ben'intesa diviene autoco scienza, stima di noi stessi. « Alla stima
di loro stessi » scrive il Cuoco « e delle pro prie cose debbono le grandi
nazioni e quella energia, per cui han fatto le grandi operazioni; e quella
pazienza, per cui han sopportati grandi mali e sacrifizi gravissimi; e quell'
affezione al proprio governo, che si raffredda ed estingue dall'idea che esso
non operi bene o che un altro operi meglio; e finalmente quella costanza ne'
pensieri, ne' disegni e nelle operazioni, la quale, fondata sul rispetto che
abbiamo per i nostri maggiori, può sola farci ottenere i grandissimi effetti.
Quando si analizzano le nazioni, si trova che i beni ed i mali, la verità e gli
errori sono misti egualmente da per tutto, e che la differenza tra l'una e
l'altra non dipende da altro che dalla loro diversa ma niera di pensare e di
sentire » (1 ). Posto ciò, allorquando la nazione non si è ancora con cretata
nella forma di uno Stato, non può esservi un di ritto, una pretesa a Stato
unitario, che noi possiamo esi gere dagli stranieri, aventi verso di noi un
corrispondente dovere al riconoscimento. Lo Stato è sì riconoscimento di
nazionalità, ma non riconoscimento estrinseco di altri, ma bensì intima
affermazione della nazionalità in ogni suo momento. Dire volontà di nazione e
dire volontà di Stato nazionale è la stessa cosa: affermare la nazione val
quanto affermare lo Stato nazionale. E siccome la nazione non è, ma diviene; lo
Stato non è, ma diviene. In un senso altamente ideale esso è anche quando
giuridicamente non è riconosciuto dagli altri Stati, in quanto è in noi che lo
poniamo ed operiamo per realizzarlo, e lo realizziamo continuamente in ogni
nostro atto. Come si tratta di fare lo spirito pubblico, la coscienza
nazionale, si tratta di (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. 14 fare lo Stato, e lo si fa, facendo lo spirito
pubblico e la coscienza nazionale. Circa la seconda parte della nazionalità,
dello spirito pubblico, il Cuoco dice, c'è poco da aggiungere: è il pro blema
dell'accordo di più uomini nelle idee utili (1 ), onde la loro volontà si può
considerare come una sola volontà. Basta presentare queste idee utili,
presentarle caldamente sinceramente, presentarle spesso, perchè tutti siano
d'ac cordo. « È necessario che tutti gli uomini convengano in tre cose: in
rispettar i governi, in rispettar la religione ed in praticar la morale; e se
tra queste cose si potesse stabilire una progressione, io non avrei veruna
difficoltà di dire che la corruzione della morale porta seco il di sprezzo
prima della religione e poscia del governo. È na tura dell'uomo trascurar prima
i doveri, indi conculcar le leggi che sanciscono i doveri, e finalmente
disprezzar coloro dai quali ci vengono le leggi » (2 ). Dato che lo Stato
moderno null'altro è che nazione, coincidendo la volontà di Stato con la
volontà di nazione, e posto che questa non è fuor di noi, ne viene che la
volontà statale non è estrinseca al soggetto, ma a lui intima e connaturale:
anzi la volontà di Stato coincide con la nostra in quanto que sta si pone come
universale, una ed armonica con tutte le altre. Il rispetto al governo non deve
essere una coa zione, ma un'accettazione libera, poichè nell'atto go vernativo
vediamo l'espressione di posizioni da noi con divise, anzi da noi volute. Il
rispetto quindi allo Stato è in quanto nello Stato vediamo la sublimazione di
quanto di meglio è in noi, e, siccome lo Stato del Cuoco è stato etico, e, in
termini giuridici, professionista, ne scaturiscono come conseguenze
inderogabili: il bisogno che i soggetti rispettino la loro religione che è
anche religione di Stato, pratichino la loro morale che è anche morale di
Stato. Vincenzo Cuoco, in quella parvenza di Stato unitario che è la Repubblica
italica, poi Regno italico, si pone (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2
) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 8. 211 dinanzi una sublime missione, un
compito titanico: for mare la coscienza di quel che sarà o diverrà la nazione
italiana. Il problema che abbiamo esaminato nei napo letani del '99 è
invertito. La rivoluzione imponeva una unitarietà estrinseca, mirava a formare
un sentimento vuoto ed astratto di pseudo - solidarietà umana; il Cuoco invece
s'affisa nell'interiore degli uomini, opera sui loro spiriti, ne ridesta quella
coscienza che il nuovo secolo XIX dirà nazionalità, e che infine null'altro è
che un atto d'energia volitiva, che plasma e fonde in sè ogni parti colare
contenuto. V'è il popolo, quel popolo che i giacobini idolatravano e levavano
alle stelle, ma a questo popolo la patria non è da darsi bell’e fatta, compiuta
e grande, attraverso l'opera di pochi disinteressati idealisti, o italiani o
stra nieri; no, questo popolo deve agire, vivere pur esso, sen tire i grandi
problemi del tempo, acquistarne la cono scenza, prepararsi liberamente
l'avvenire. Il Cuoco pone il popolo come elemento indispensabile della vita
civile, come il grande operatore della storia in tutti i suoi sviluppi. La
rivoluzione sublima in teoria il popolo, ma di fatto ne ha poco rispetto;
poichè crede po terlo dominare dal di fuori, e fargli subire i nuovi sistemi
politici, come già subiva i vecchi, vuote sovrastrutture, in cui può vibrare
ogni mutevole realtà. La rivoluzione infine è ne' giacobini, che sono i pochi,
non nel popolo, che è la molteplicità. Il Cuoco crede ciò un grande errore, ed
è questa la grande sua trovata, ond’egli meritamente s’as side tra i grandi del
nostro paese. Se vogliamo creare quella realtà spirituale che è la nazione, non
possiamo prescindere dal popolo, dal popolo che abbiamo visto nel Saggio essere
il solo autore delle rivoluzioni e delle con trorivoluzioni. Il principio della
storia è in lui, e in lui sono tutte le più remote scaturigini della vita.
Parlare al popolo, dunque, e ridestarlo, inserirlo nel pulsare della cosa
pubblica, fargli acquistare dignità e sensibilità, e allora esso non odierà le
istituzioni o non sarà ad esse indifferente, in quanto queste vede fuor di sè
stesso, ma le amerà come sue, espressione della sua più alta eticità, 212 e con
le istituzioni amerà la morale e la religione, che con le prime vedrà
intimamente legate. Oggi, dice il molisano, esiste bene o male una Repub blica
o un Regno italico; il popolo però ancora ne è fuori: bisogna unire i due
termini, perchè solo così il primo sarà veramente un ente vitale, il secondo
un'unità cosciente e non una molteplicità naturale e perciò bruta. Se domani,
il Cuoco non lo dice ma noi lo intendiamo, vicende storiche nuove
distruggeranno la mal connessa unità napoleonica, e nuovi stranieri invaderanno
il bel suolo d'Italia, se in questo domani il popolo sarà ancor sopito o morto
alla vita pubblica, ohimè, non vi sarà speranza più di unità e di indipendenza;
ma, se per av ventura questo popolo noi lo avremo educato, istruito, reso
elementó vero dell'attività sociale, oh, allora non vi sarà bisogno di
lunghissime lotte perchè la volontà co mune di nazione, la volontà di Stato
libero si concreti, s'imponga in giuridiche affermazioni dinanzi agli stra
nieri, che le subiranno e le riconosceranno ! Così il problema politico in
Vincenzo Cuoco diventa sopra tutto problema pedagogico, anzi il problema peda
gogico per eccellenza, come quello che è destinato a creare un popolo, una
nazione, uno Stato (1 ). Ben nota Guido De Ruggiero che, laddove il carattere
spirituale dei moti, che dalla rivoluzione si espressero, sfuggiva ai
rivoluzionari, anche ai più eletti, il Cuoco intende la nuova esigenza e vuol
essere educatore: nella sua grandezza come peda gogista intendiamo la sua
grandezza come storico e po litico (2 ). Certo gli ostacoli a questa missione,
a questo fine sono grandissimi, ma non per ciò il molisano si sbigottisce:
quanto maggiori sono gli ostacoli tanto più bello sarà il premio nell'avvenire.
Oggi in Italia non v'è nazione, non v'è senso unitario; siamo poveri, pochi,
disgregati, senza un esercito vero e (1 ) P. ROMANO, Per una nuova coscienza
pedagogica, G. B. Pa ravia, s. d. (1924 ), Torino, p. 106. (2 ) G. DE RUGGIERO,
op. cit., p. 175. 213 proprio; non importa, tutto si farà, ammonisce Cuoco, ed
esce in una profetica dichiarazione di fede, che, ancor oggi, commove e rende
superbi nello stesso tempo. « Ogni Stato » scrive « ha un periodo da correre.
Tutte le nazioni piccole son destinate ad ingrandirsi o a perire. Quelle non
periscono, le quali dispongon per tempo le loro menti all'ampiezza de’destini
futuri; onde, quando il corso de gli avvenimenti loro presenti le occasioni
opportune, esse, per mancanza di preparazione, non si ritrovano impo tenti » (1
). L'unità d'Italia prima sia nello spirito, poi certamente sarà nella vita
giuridica: ma noi non possiamo presu merla in questa se non ci sforziamo di
concretarla in quello. Dalla frase che io ho richiamato appare chiaro quanto
caldo sia in Cuoco il pensiero unitario: non basta quella parvenza d'autonomia
che la Francia ci dà e Na poleone mantiene, occorre di più, occorre che ciò che
è Italia a Milano sia Italia a Scilla, e viceversa, occorre la vera unità, cioè
lo Stato nazionale. Questo non è un di ritto del passato inestinto e
inestinguibile, sacra eredità di generazioni trascorse, ma unità da formare ex
novo attraverso un'opera diuturna e disinteressata, in cui tutto ciò che è
diritto e storia antica deve rifondersi e rifog giarsi nel presente, diritto e
storia nuova, perchè nuova volontà e nuova consapevolezza. La storia in un
certo senso è peso bruto, se non si vince come passato; è atti vità
propulsatrice, se noi la riviviamo e ne ritragghiamo incitamento. Perciò tutto
il Giornale italiano è pieno di storia, di memorie antiche, di riesumazioni
dotte, d'in formazioni nazionalistiche: ma tutto ciò non è materiale d'archivio,
da biblioteca, bensì esempio da prospettarsi ad animi italiani, ond'essi vibrino
di un legittimo orgoglio, che non è comodo adagiarsi in una indiscussa
superiorità o antico primato italico, ma incitamento a nuove opere. Ecco ciò
che si propone all'incirca il Giornale italiano: un'alta opera di pedagogia
pubblica. (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 7. 214 Questo giornale,
divenuto rarissimo, per lungo tempo è stato dimenticato dagli studiosi, ma oggi
ad esso si è ritornati, e in esso si sono rinvenute le vere ideali origini, di
questa nostra Italia, di cui il Risorgimento è stato la cosciente affermazione,
non l'estrinseco dono di questo o di quello, sia esso il terzo Napoleone o il
Gabinetto britannico. La direzione cuochiana al Giornale italiano durò tre anni:
sono tre anni d'un apostolato fervido sincero ele vatissimo, senza mai un
minuto di riposo. Nessun pro blema, giuridico o politico, etnografico o
storico, econo mico od agricolo, militare o industriale, sfugge alla mente di
Vincenzo, e tutto egli rivolge ad un ben noto fine, poichè, com'egli stesso
osserva, « per formar la mente de’ lettori, è necessario che l'opera istessa,
abbia una mente, cioè un fine unico, e parti tutte corrispondenti al fine » (1
). L'importanza di questo foglio non isfuggì ai più acuti studiosi delCuoco.
Già il Romano lo proclamò « un nobi lissimo apostolato di italianità (2 ) », e,
come il Cogo ri leva, questa affermazione il sopra detto critico convalida con
prove sicure, sebbene sarebbe stato forse opportuno che egli vi avesse fermato
un po' di più la sua atten zione (3 ). Parimenti sul Giornale italiano ha
scritt oltre il Cogo, Paul Hazard, il quale nel suo obiettivo e felice intuito
ha ben visto quanto il Cuoco si differenzia dai gia cobini francesi e quanto
rigidamente affermi la sua na zione (). Ma, nonostante il loro acume, il
Romano, il Cogo, l'Hazard, non poterono avere quella sensazione sicura della
grandiosa importanza di quel giornale, che solo noi oggi possiamo apprezzare
dopo che ulteriori studi hanno messo in luce come quegli scritti della gazzetta
milanese, spesso non firmati, o sottoscritti con la sem plice sigla C., fossero
letti da un giovanetto idealista ap (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2
) M. ROMANO, op. cit., p. 136. (3 ) G. Cogo, op. cit., p. 32. (4 ) P. HAZARD,
op. cit., p. 231 e sgg. 215 pena uscito dall'università, che li postillava e li
trascri veva, da Giuseppe Mazzini: piccola favilla atta a destar gran fuoco.
Per raggiungere i suoi alti fini tre sono i mezzi che il Giornale italiano si
propone, e che esplicitamente di chiara: in primo luogo, « presentare al
pubblico quanto più spesso si possa le memorie degli altri tempi: non, come
talora si è fatto, sfigurate e dirette a turbar gli ordini che si avevano, ma
quali realmente sono, e per confermar colla stima di noi stessi gli ordini che
abbiamo »; in se condo luogo, « incominciare a misurarci, almen col pen siero,
colle altre nazioni »; poi, « ragionar frequentemente sulle operazioni nostre
», onde acquistare coscienza delle nostre possibilità, delle nostre virtù e dei
nostri vizi (1 ). Tutti questi tre mezzi miravano ad un fine unico, far
comprendere agli italiani che « chi oggi non è grande » e « quasi diffida di
poterlo divenire », lo sarà, come « lo è stato una volta » (2 ). Nel luglio
1805 Vincenzo Cuoco, recensendo uno scritto del Monti, di quel Monti, che egli
pur non troppo ammira come personalità morale (3), scritto col quale il poeta
cesareo esalta l'Eroe, che' la gratitudine nazionale in voca « nel tempo stesso
suo conquistatore, suo liberatore, suo Re », non loda l’autore per il suo
lodare l'Eroe, « soggetto tanto comune qual è sempre », ma bensì per la novità
che ha saputo trovare e per « l'interesse che ha saputo destare rammentando le
antiche glorie italiane, e le sciagure e l'avvilimento, che alla gloria
succedettero, ridestando le ombre de' tempi antichi, e dopo di esse l'ombra di
Dante, di quel poeta del quale nessuna nazione p. 5. (1 ) V. Cuoco, Scritti
vari, v. I, p. 5 e sgg. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, (3 ) Vedi N.
RUGGIERI, op. cit., p. 163; nonchè A. LEVATI, Saggio sulla storia della
letteratura italiana nei primi venti cinque anni del sec. XIX, Milano, Stella
ed., 1831, p. 131 e sgg., e G. MAFFEI, Storia della letteratura italiana, 3a
ediz. corretta da P. THOUAR, Firenze, 1853, v. II, p. 259, n. 3, ai quali il
Ruggieri stesso rimanda. 216 può vantarne un altro più pieno di civile sapienza
» (1 ). « Non altri » commenta « vi era di più opportuno di Dante all'occasione
solenne che Monti celebrava; di Dante il quale forse il primo incominciò a
illuminar le opre infi nite degli antichi italiani per ammaestramento de' mo
derni; di Dante il più zelante dell'antica gloria degli italiani; il più severo
censore della corruzione nella quale ai suoi tempi l'Italia era caduta; di
Dante che tutti i suoi studi e tutte le sue cure dirigeva al solo fine del
risorgimento dell'Italia; e con quali arti vi tendeva ! Col predicare tra gli
abitanti delle varie parti nelle quali era allora divisa l'Italia l’unione, e
negli ordini pubblici la concentrazione del potere moderata dalle leggi ».
L'alta coscienza del Cuoco vede in Dante il simbolo d'ogni attività della
stirpe, e per il divino poeta ha un vero culto, come lo hanno e l'avranno tutti
i grandi fattori della nostra storia e della nostra civiltà, da Manzoni a
Carducci, da Mazzini a Gioberti (2 ). E la sua volontà d'esaltare tutto ciò che
è italiano, e in Italia ha avuto origine e nascimento, si compenetra con un
felice intuito storico, per cui il fenomeno politico (1 ) Giorn. ital., 1805,
27 maggio, n. 63, p. 274: Visione del professore V. Monti. Per altri accenni
del Cuoco sull’Alighieri vedi Scritti vari, v. I, p. 235, 257; v. II, p. 267. (2
) L'alto concetto che V. Cuoco avea della grandezza di Dante si addimostrò
chiaramente in una circostanza spiace vole, in una di quelle tante polemiche,
con cui gli stranieri cercano di menomare quel che è nostro e di impicciolirlo.
Avendo un giornalista dei Débats scritto che una vita di Dante poteva ritenersi
a priori una lettura sonnifera, e che la Divina Commedia era l'opera di un
piccolo politico, di un poeta bar: baro, del quale solo pochi frammenti
potevano dirsi buoni, il molisano rimbecca: « Sia permesso all'autore
dell'articolo di ignorare la storia, e non saper quanto Dante fosse politica
mente grande. La gloria del sublime poeta ha offuscata quella del profondo
politico, ed il maggior numero degli uomini ram menta l'autor della Divina
Commedia e quasi oblìa l'autor della Monarchia, libro che, ad onta delle
spinosità scolastiche onde è ricoperto, racchiude pensieri profondi, e, ciò che
più importa, non è molto lontano dai nostri attuali bisogni ». Vedi Giorn. Ital.,
1804, 25 gennaio, n. 11, p. 45. 217 e culturale è mirabilmente rappresentato.
Esalta il se colo XVI, « il secolo in cui rinacquero tutte le arti e tutte le
scienze, e tutte rinacquero in Italia, e dall'Italia si diffusero per tutto il
resto ancor barbaro dell'Europa; si scopersero due nuovi mondi, e tanti mali e
tanti beni si aggiunsero all'antico; sursero nuove sette religiose, ed il
fermento che esse produssero fecondò li primi semi di quella libertà di pensare
che dovea col tempo produrre e la sana filosofia e l'imsensato pirronismo »; ma
subito si entusiasma, e, quasi a suggellare tanta gloria, esclama: « e tutti
questi avvenimenti o nacquero o agitaronsi o compironsi in Italia o per
l'Italia o per l'opera degli italiani...! » (1 ). Il secolo XVI è il secolo di
Leonardo, di Raffaello, di Michelangiolo, di Cellini, di Palestrina, di Ariosto,
di Tasso, di Machiavelli. Il Cuoco è un ammiratore del se gretario fiorentino.
E chi mai, se si eccettui Francesco De Sanctis, intese così profondamente
l'autore del Prin cipe e delle Deche? Anzi astraendo e generalizzando un
parallelo tra il Cuoco e il Machiavelli si può fare, ed è stato fatto (2). «
Più di uno » nota Giuseppe Ottone « ha paragonato [ Il Cuoco) al Machiavelli,
perchè al pari di lui trovò i princípi e le formule di un rinnovamento della
coscienza nazionale: e come il Machiavelli segna il punto nel quale i fervori umanistici
si incarnano nella realtà della vita politica, e, svestito il paludamento
retorico, si rivelano nelle linee semplici e precise di un nuovo ideale, così
il Cuoco, dopo un secolo di vaneggiamenti filosofici e col concorso di una dura
esperienza, per la quale si fondono come cera le antiche illusioni, ci rivela
rinnovata e con sapevole di sè la coscienza italiana » (3 ). (1 ) Giorn. ital.,
1804, 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11; pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44:
Varietà: (vedi in precedenza, p. 163 ). (2) G. OTTONE, Vincenzo Coco è il
risveglio della coscienza nazionale, Vigevano, Unione tipografica vigevanese,
1903, Ap pendice B. LABANCA, op. cit., p. 407 e sgg. (3) G. OTTONE, op. cit.,
p. 4. 218 « Le ragioni che possono suggerire il pensiero di una certa affinità
tra i due scrittori sono parecchie: 1° la tradizione, superficiale e scolastica
più che al tro, della trasmissione dell'ideale unitario; 2º una certa affinità
nelle circostanze che hanno sug gerito all'uno e all'altro scrittore di
attendere alle fatiche dello scrivere; 30 il comune intento di ricamare sul
tessuto della storia il disegno della loro personale esperienza e delle loro
convinzioni; 40 le frequenti citazioni che il Cuoco appunto fa di detti e
sentenze del Machiavelli; 50 la comune ammirazione per Roma repubbli cana » (1
). Ma non è questo che a noi interessa vedere, poi che i paralleli hanno sempre
un valore approssimativo, dato che prescindono dalle mutevoli condizioni dei
tempi, che di volta in volta sono e non si riproducono più, onde il
Rinascimento, fenomeno sopra tutto culturale e in su bordinata politico, non si
può mai raffrontare col Risor gimento, fenomeno soprattutto politico sebbene
anche culturale. Quel che a noi invece interessa, ripeto, è la nuova luce che
il Cuoco riverbera sul segretario di Fi renze, onde per vie diverse da quelle
che tiene Ugo Fo scolo, tende a scagionarlo dai « giudizi ingiusti che il
maggior numero degli uomini dà sugli scritti suoi ». A ciò immagina che un suo
amico conservi il mano scritto d'uno de' suoi antenati, che visse nel secolo di
Leone X ed ebbe rapporti con i grandi uomini del tempo: in questo manoscritto
l'avo descrive una sua conversa zione col Machiavelli sovra un tema politico.
La discolpa del grande fiorentino non potrebbe essere più completa e sicura. «
Il maggior numero (degli uomini), dice il Machiavelli, è ingiusto, perchè pieno
di passioni e servo de' partiti. Io (1 ) G. OTTONE, op. cit., p. 51.
Giustamente nota l’A. che l'ideale unitario nel Machiavelli è scolastico,
laddove nel Cuoco è più profondo ed intimo. 219 ho voluto scrivere senza
passione veruna; non ho seguito nessun partito, e li ho offesi tutti. Ho
scritto per gli uomini ragionevoli, e questo è stato il mio torto: gli uomini
ragionevoli son pochi ». Il Cuoco perciò intende studiare e giudicare il Machia
velli realisticamente, da un punto di vista storico, pre scindendo da ogni
giudizio a priori (1 ). Ha il Machiavelli insegnato massime di tirannia ai Me
dici, ha preso per modelli uomini scelleratissimi quali Ca struccio e il duca
Valentino? Nulla di tutto ciò. Egli ha visto i costumi e gli ordini dei suoi
tempi, e li ha descritti. Ha detto ai principi: che fate? voi non sapete essere
nè buoni nè cattivi, voi finirete con l'essere nulla e vi per derete; voi non
avete religione e virtù, necessarie allo Stato, e finirete per distruggerle
negli altri. Ha detto: siate giusti, e, se pure qualche volta vorrete
permettervi di derogare dalle leggi della giustizia, sia questo a voi soli
permesso, non agli altri, non a tutti. Ecco un Machia velli più umano dell'uomo
foscoliano: che temprando lo scettro a' regnatori gli allòr ne sfronda, ed alle
genti svela di che lagrime grondi e di che sangue. (1 ) Che questa sia proprio
la posizione, sulla quale il Cuoco crede di poter pervenire ad una esatta
comprensione di Ma chiavelli politico, lo dimostra assai bene un passo di un
altro suo articolo: Giorn. ital., 1806, 5, 6, 7, 8 gennaio, n. 5, 6, 7, 8; p.
19, pp. 23-24, pp. 27-28, pp. 31-32: Politica (ristampato in Scritti vari, v.
I, pp. 201-213 col titolo La politica inglese e l’Italia ). « Quelli li quali
leggono » scrive il Cuoco « le opere di Macchiavelli colla stessa attenzione
colla quale leggono un romanzo, e quegli altri i quali lo giudicano senza
averlo letto (com'è accaduto al padre Possevino ed a tutta la scuola ge suitica
) credono che Macchiavelli abbia date lezioni di tiran nide o abbia voluto
rappresentar quella stessa parte che rap presentò Samuele al popolo ebreo. Io
son persuaso che Mac. chiavelli non volle fare nè l'una nè l'altra cosa, ma
vide i costumi e gli ordini de' suoi tempi, e ne giudicò con una mente la quale
era superiore ai tempi suoi, e che in conseguenza doveva esser per necessità
ammirata o biasimata, e sempre senza ragione, perchè non era mai ben compresa ».
220 Ma perchè invece di parlare ai sovrani non ha parlato ai popoli? Ha tentato
di parlare anche ai popoli, ma si è avveduto che avrebbe parlato, dati i tempi,
invano. I principi si muovono per il loro potere, i popoli per la loro virtù.
Sperimentati i popoli tra i quali viveva, non ha potuto dir loro: fate uso
della vostra virtù; essi non l'avevano. Invece si è rivolto ai principi ed ha
detto: fate uso del vostro potere; e questo precetto prima o dopo avrebbe
dovuto produrre gli stessi effetti del primo, « perchè è tanta l'efficacia
della virtù che, anche simulata, vale a ricomporre gli animi e gli ordini delle
nazioni ». Ma perchè ha scelto come suo esempio il duca Valentino? Perchè
quelli che il duca oppresse e distrusse erano più scellerati di lui, e fra
tanti scellerati ha preferito quello « che almeno dirigeva le sue scelleraggini
ad un fine più nobile e tendeva a riunir l'Italia, che gli altri, con iscel
leraggini più vili, dividevano e desolavano ». Da queste notazioni scaturisce
ben netto il giudizio che il Cuoco fa del Machiavelli, giudizio ben diverso da
quello che ne davano tutti gli storici e ne dà lo stesso Foscolo, che si
arresta sbigottito di fronte alla crudezza e alla rigidità delle massime
politiche dell'autore del Principe. Ma il molisano troppo vigile senso storico
e troppo realismo ha in sé per arrestarsi, ed il suo giudizio infine coincide
con quello di Francesco De Sanctis (1). Conobbe questi proprio lo scritto
cuochiano? Io ne du bito assai; ma certo è che i due critici si incontrano,
spinti forse ad un punto comune da un solo ideale, da studi similari sovra la
grande opera vichiana, da un eguale temperamento meridionale, più nobilmente
concreto nel suo idealismo critico che non astratto in un nebuloso atomistico
positivismo. (1 ) « C'è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le
lingue, il Principe, che ha gittato nell'ombra le altre sue opere. L’autore è
stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo
valore logico e scientifico, ma nel suo va. lore morale. E hanno trovato che
questo libro èun codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine
giustifica i mezzi e il successo loda l'opera. E hanno chiamato machia. 221 Il
Cuoco risulta da questo nostro esame un esaltatore caldo delle glorie italiche,
ma la sua esaltazione non è un'esaltazione cieca fanatica, bensì cosciente
illuminata da fine senso storico, per cui ogni uomo, poeta o statista, ogni fenomeno
politico, glorioso od infausto, deve inse rirsi nel suo tempo, ove trova le sue
radici, cioè la sua determinazione genetica. Dante è Dante nel suo tempo;
Machiavelli è Machiavelli nel suo. Quel che per essi potea avere una ragione,
per noi può anche non averla. In ogni caso noi non dobbiamo essere dinanzi a
loro passivi, ma assorbirli, farli nostri, sentirli, fare la loro esperienza no
stra, affinchè la loro vita spirituale non resti campata in cielo ma si saldi
con la nostra, e si continui e si perpetui. Quest'alta dignità umana di
Vincenzo lo differenza ben nettamente dagli stessi suoi cooperatori. Ben rivela
a questo proposito l ' Hazard che, per esempio, il Benin casa esercita nel
giornale una propaganda continua d'ita vellismo questa dottrina. Molte difese
sonosi fatte di questo libro, ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o
quella intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata
e un Machiavelli rimpiccinito ». (F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 50). «
Machiavelli bisogna giudicarlo da un alto punto di vista. Ciò a cui mira è la
serietà intellettuale, cioè la precisione dello scopo, e la virtù di andarvi
diritto senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da
riguardi accessorii o estranei. La chiarezza dell'intelletto, non intorbidato da
elementi so prannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo ideale. E il suo
Eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che com prende e regola le
forze naturali e umane, e le fa suoi istru menti. Lo scopo può essere lodevole
o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la voce e
protestare in nome del genere umano.... Ma, posto lo scopo, la sua am mirazione
è senza misura per colui che ha voluto e saputo con seguirlo. La responsabilità
morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la responsabilità è nel
non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella fiacchezza. Ammette il
terribile; non ammette l'odioso e lo spregevole. L'odioso è il male fatto per
libidine o per passione e per fanatismo, senza scopo. Lo spregevole è la
debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove l'intelletto ti dice che
pur bisogna andare ». (F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 69 ). 222 lianità
esaltata, che finisce per divenire noiosa nella sua metodicità, che fa pensare
al partito preso. Si tratta di geografia: sono gli italiani che hanno scoperto
India ed America (1804, n. 6 ); si tratta del sistema di Gall: esso è stato
preceduto da trovate di italiani (1804, n. 140); si tratta d'arte tipografica:
il primato italico con i vari Bo doni è indiscusso (1805, n. 55): e così in
materia di belle arti, di poesia, di teatro (1 ). Il Cuoco ha un altro metodo,
spesso esagera sull'infe riorità dei suoi connazionali di fronte agli
stranieri, ma esagera non per altro che per provocare una specie d'emu lazione,
una specie di slancio a cose più alte. Nè è a dire però che la lode manchi al
Cuoco, no, anzi gli abbonda, e si rivolge non solo ai grandi antichi, ma anche
ai contemporanei più eletti o a coloro che da poco sono mancati ai vivi. E in
quest'elogio quasi sempre co glie nel segno, e le sue osservazioni sono quanto
di più giusto si possa concepire. Esprime un giudizio su Verri, ed il giudizio
gli sgorga caldo, come un'apoteosi. « Egli fu » scrive « sublime filosofo,
profondo letterato; il primo storico della sua patria, la quale avanti di lui
non aveva avuto che cronichisti privi per lo più di filosofia, di cri tica, di
gusto; magistrato zelante, attivissimo, autore o almeno parte principale di
tutte le utili riforme che can giarono quasi interamente la vita politica della
Lom bardia austriaca ». E il Verri richiama alla mente un altro grande, che in
una disciplina delicatissima, come quella dei delitti e delle pene, segna
l'inizio d'una nuova èra. « A Verri deve l'Europa Beccaria. Egli fu quasi
l'oste trico di un genio grandissimo che taceva compresso dal l'indolenza a cui
era portato per fisica costituzione » (2). Spesso sono nomi, grandi ma non
abbastanza noti, quelli ai quali si riferisce, e allora il Cuoco si accalora e
la parola diviene incitatrice ed eloquente, sebben dolorosa (1 ) P. HAZARD, op.
cit., p. 235. (2) Giorn: ital., 1804, 4 luglio, n. 80, p. 323-324, Scrittori
clas sici italiani di economia politica. 1 223 nello stesso tempo per la
incomprensione degli italiani. Parlando d’economia trova modo di ricordare un
pio niere di questa scienza e di richiamarvi l'attenzione na zionale, Giammaria
Ortez. « Chi era questo Giammaria Ortez? Ecco una domanda che tutti gl'italiani
fanno, e che intanto farebbe torto a tutti gl'italiani se un uo mo di tanto
merito quanto Ortez, non avesse voluto egli stesso rimanersene ignoto, non
sapremmo dir se per mo destia o per orgoglio; modestia sempre lodevole,
orgoglio spesso nobile in un secolo corrotto, ma tanto l'una quanto l'altro
eccedenti quei limiti tra quali si contiene la virtù » (1 ). In questa difesa
del nome italico il molisano muove contro tutti gli stranieri che a lui
ingiustamente s’oppon gono e divengono dispregiatori delle glorie nostre. Recen
sendo infatti nel giornale un opuscolo di Vincenzo Monti, Del cavallo alato
d'Arsinoe, nel quale il poeta si scaglia contro Salvatore De Coureil, che con
gallica fatuità aveva osato menomare glorie purissime d'Italia, il Cuoco lo
loda assai di ciò. « Noi non entriamo in questa disputa.... Ma il sig. De
Coureil chiama Parini cattivo poeta; Alfieri, se non mediocre, almeno non degno
di tante lodi quante gliene dànno gli italiani sol perchè non hanno altri tra
gici; ecc. ecc.... Haec non sana esse, non sanus juvet Ore stes » (2 ). (1 )
Giorn. ital., 1804, 24 novembre, n. 141, p. 573: Economisti italiani. (2)
Giorn. ital., 1804, 24 novembre, n. 141, p. 574: Il cavallo alato di drsinoe di
V. MONTI. Nè la tutela vigile che il Cuoco fa del buon nome italico s’ar resta
qui: allorquando « un Lalande dice con pueril sangue freddo, che l'Italia non
ha oggi un solo (un solo? ) uomo di merito»; allorquando il tragico -comico,
drammatico -sentimen tale e memorioso Kotzebue tratta tutti gl'italiani da
ignoranti, da incolti e quasi da canaglia » (Giorn. ital., 1805, 18 agosto, Sup
plemento al n. 98, pp. 577-8, Necrologia ), egli è là, e s'appa lesa bellicoso
difensore d'italianità. Recensisce un opuscolo di Luigi Bossi, in cui questi
vendica « l'onore italico trattato con poca civiltà dal sig. Akerblad », egli
pur sempre ha dinanzi a sè un alto fine civile: la difesa delle nostre
intangibili glorie 224 Da questa rapida scorsa attraverso il Giornale italiano
appare chiara la posizione di Vincenzo. « Noi italiani ab biamo un maggior
numero di uomini grandi che non le altre nazioni », ma noi non li conosciamo
neppure per la nostra apatia: « longa urgentur nocte, carent quia vate sacro » (1
). La pianta uomo da noi cresce florida, ma gli ' italiani non la coltivano; e,
se vicendevolmente non si ignorano, gli italiani si disconoscono. « Dotati gl'
italiani dalla natura di grandissimo ed acutissimo ingegno, non mancano di
cognizioni ed osservazioni, e nell'angolo più incolto si ritrova talora un uomo
il quale vale per dieci accademici. Che pro? Le sue osservazioni, le cognizioni
sue vivono una brevissima vita, ristretta tra i confini di una picciola terra e
muoiono con lui. Gli italiani sono grandi, ma l'Italia rimane picciola » (2 ).
E così gli stra nieri si avvantaggiano su noi: scoperte che furon fatte da
italiani, poi vengon ripresentate come novità francesi o inglesi, e magari da
noi ammirate, da noi che forse le avevamo vilipese e trascurate. E nel rilevare
ciò Cuoco non esita a discendere a problemi pratici, per dimostrare, per
esempio, come un ramo d'industria, la pastorizia « tanto utile » e largamente
sfruttata all'estero, sia stata esercitata tecnicamente per la prima volta da
un italiano, il Dandolo, il quale poi l'ha diffusa con grande dottrina e
ripetuta esperienza (3 ); come, ancora, certe pratiche agricole generalizzate
in Inghilterra o altrove, siano po steriori d’un buon secolo a ricognizioni
nostre, del tutto (Giorn. ital., 1805, 22 luglio, n. 87, p. 470: A proposito
della « Lettre » di L. Bossi allo SCHLEGEL ). Sovra Lalande, Kotzebue e
Akerblad vedi G. Cogo, op. cit., p. 89-90, ove di essi si parla
esaurientemente, dando biblio grafia e notizie. (1 ) Giorn. ital., 1804, 28
marzo, n. 38, p. 152: Scrittori italiani di economia politica. (2 ) Giorn.
ital., 1804, 19 novembre, n. 139, p. 566: Biblioteca di campagna, ecc. (3)
Giorn. ital., 1805, 25 febbraio, n. 24, p. 96: Del governo delle pecore
spagnole e italiane, ecc., saggio di VINCENZO Dan. DOLO: sovra il Dandolo vedi
G. Cogo, op. cit., p. 88. 225 nostre secondo il giudizio degli stessi stranieri
(1 ); come, infine, addirittura pretese scoperte fisiche intorno a cui inglesi
e galli si disputano il primato siano scoperte, ri trovati di un filosofo il
cui nome va per la maggiore, nientemeno di Giambattista Vico (2 ). Tutte queste
osservazioni rispondono ai mezzi, con cui il Cuoco si propone di raggiungere il
suo fine: la formazione della coscienza nazionale e dello spirito pubblico.
Bisogna cominciare a misurarci con gli stranieri, ond'essi così ci p. 87. (1 )
Giorn. ital., 1805, 31 ottobre, 2, 4 novembre; n. 148, 150, 152; p. 874, pp.
882, p. 889-90: Giudizio sopra tre istituzioni agrarie. A proposito di questo
articolo vedi G. Cogo, op. cit., (2 ) « Abbiamo parlato della scoperta fatta da
un inglese della virtù che hauna sfera magnetica nuotante nel mercurio di
rivolgersi intorno al proprio asse, e d'indicare così la la titudine e la
longitudine. Ora i francesi disputano agli in glesi l'onor della scoperta, e
pretendono che questo fenomeno trovasi descritto nelle Efemeridi geografiche di
Busch, 1803. È pur graziosa cosa veder altri popoli disputarsi la gloria di ciò
che è italiano. Nella Vita che Vico ha scritto di sè stesso (e la scriveva
circa il 1730, quasi un secolo prima di Busch e del l'inglese ), quest'uomo
parla di una nuova teoria che egli avea imaginata per ispiegar il fenomeno
della calamita, e da questa sua nuovateoria trae la conseguenza che la calamita
non solo si dirige al polo, ma anche al zenit, onde vien poi la rotazione
intorno al proprio asse, l' imitazione, diciam così, del giro della terra, ecc.
Ķico conchiude dicendo che questa nuova proprietà si sarebbe osservata tosto
che si fossero fatte dell'esperienze, in modo che la calamita avesse potuto
svilupparla. Non parliamo della ragione che mosse Vico a far questa congettura:
essa era figlia di una ipotesi forse falsa. E qual altra ragione può aver altro
fondamento che un'ipotesi, o qual altra ipotesi può dirsi vera? Del resto Vico
proponeva un'esperienza: dovea farsi e non si fece. Ma già da due secoli
l'Italia non mancava di sommi ngegni, perchè questi li producono il suolo ed il
cielo: però l'italiani più non navigavano, più non commerciavano; i overni non
si curavano di nulla ed i privati curavan solo lo studio delle leggi o della
medicina, dal quale speravan ric chezza, quello della teologia, che li
promoveva ad un canoni cato, e qualche sonetto, unico mezzo che un uomo
d'ingegno avea per vedersi aprire la casa d'un grande... ». (Giorn. it., 1804,
6 'ottobre, n. 120, p. 489, Senza titolo: vedi V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p.
244. 15 appariranno sempre meno grandi di quello che presu mono di essere, e
noi appariremo sempre più grandi di quel che noi stessi non crediamo. Se essi
poi di fatto « sono oggi più grandi di noi »; « non importa: appariranno sem
pre tanto meno grandi quanto più ci saranno vicini, e perderanno quella
riverenza che suole aversi per le cose lontane » (1 ). Ma in quest'esaltazione
dell'italianità l'autore del Sag gio storico non è cieco, anzi, laddove vede
una deficienza, la rileva, la rileva, direi, con crudeltà e freddo sguardo
d'anatomista. Gli italiani, per esempio, hanno rinvenuto quella filosofia delle
lingue che è una scienza tutta nostra, ma i piccoli nipoti, i discendenti di
quel Vico, che in essa tant’orma stampò, non che curarla, l'hanno abbando nata (2
): gli italiani hanno creato i più splendidi melo drammi e libretti, che si
conoscano, orbene, oggi essi stessi non sono capaci di darci nulla più di
buono, e la deca denza del libretto porta seco la decadenza della musica (3 ):
gli italiani un dì maestri nella difficile arte della sacra eloquenza, oggi
sono inferiori agli stranieri che da noi hanno appreso (4 ). Questa posizione
critica, che tanto distingue l'italiani smo del Cuoco da quello del Benincasa o
del Lomonaco, si rivela anche nel terzo mezzo dal molisano adottato per creare
un sentimento unitario: il ragionar di frequente delle cose nostre. « Delle
cose nostre o non ne abbiamo parlato, o ne abbiam parlato con insensato
disprezzo e con più insensata lode; cose le quali, sebbene opposte, pure per la
natura dello spirito umano, che oscilla sempre tra gli estremi, non sono
inconciliabili tra loro ». Delle cose nostre occorre invece ragionare
obiettivamente, senza (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 5. (2 ) Giorn.
ital., 1804, 25 febbraio, n. 24: Sullo studio delle lingue (ristampato in
Scritti vari, v. I, p. 78 e sgg., col titolo G. B. Vico e lo studio delle
lingue come documenti storici). (3 ) Giorn. ital., 1804, 8 ottobre, n. 121, p.
493: Spettacoli. (4 ) Giorn. ital., 1804, 25 aprile, n. 50, p. 200: Varietà (ristam
pato in Scritti pedagogici, pp. 16-22; ed ora in Scritti vari, v. I, pp. 89-92,
col titolo di Eloquenza ecclesiastica ). 227 accenderci troppo, con scienza e
ragione, e allora saremo davvero illuminati, e allora troveremo « mille volte
motivi di renderci migliori e non mai di crederci pessimi » (1 ). A questi
princípi superiori il nostro uniforma l'analisi, che, di volta in volta, fa dei
più importanti fenomeni del tempo. Recensendo, per esempio, un libro dell'avv.
An tonio Corbetta sulla malavita, (2 ) ritiene che tra le altre cause, che
questa alimentano, la più importante și debba ritrovare nell'educazione
insufficiente. « Noi non abbiamo costume ». « Noi non abbiamo educazione fisica
». « Noi non abbiamo educazione dello spirito. I figli del popolo non imparan
da fanciulli nulla di ciò che.... dovrebbero sapere quando sono adulti». Ecco
come Cuoco getta rapi damente la luce sul fenomeno, e dal fenomeno risale alle
cause, anzi alla causa per eccellenza, più remota, ma più vera. Provvedimenti
di sicurezza? Ma questi sono insuf ficienti per eliminare il male, una volta
note le cause de terminanti. Se volete estirpare la delinquenza, consiglia
Vincenzo, i mezzi non sono la reazione e il carcere, ma le istituzioni sociali
con una intensa opera di pedagogia preventiva. Che abbiamo fatto, si domanda,
in questo campo? Nulla. Ecco come un problema giuridico diviene un problema di
natura superiore, pedagogico, anzi filosofico: l'educa zione del popolo, di cui
il Cuoco è il più strenuo soste nitore, e che egli pone sovra basi nuove e
geniali. Ma questo problema, che poi è il fulcro del pensiero del mo lisano, il
problema insomma per eccellenza, noi esamine remo più a lungo, quando verremo a
parlare del Rap porto e Progetto di decreto per l'ordinamento della pubblica
istruzione nel regno di Napoli. (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 6. (2)
Giorn. it., 1804, 20 agosto, n. 100, p. 410: Osservazioni di un ex giudice, ecc. L'opera filosofica di Cuoco nella Repubblica
e nel Regno italico non si esaurisce nei molte plici articoli del “Giornale
italiano”. La filosofia italica di Cuoco si continua nel “Platone in Italia”,
nuova ed alta testimonianza di quello spirito che vediamo in opera
ininterrottamente dai frammenti agli scritti del foglio milanese. Questo
sentimento nazionalistico, che ha il suo centro sol nello spirito e non fuori
di esso, è la gran trovata, il punto fermo del molisano, e compenetra il suo Platone.
Quello stesso uomo, nota giustamente Hazard, che scrive che “ama di morir per
la sua patria,” con la sua Napoli, “poichè essa più non esiste”, mentre Cuoco vive ancora, ed aggiungeva che ad
essa ha consacrati tutti i suoi pensieri. Ora consapevole sempre di più di
quanto nel saggio storico ha pur detto, cioè che l'amore di patria nasce dalla
pubblica educazione. Ora scrive un saggio il cui solo fine è sempre lo stesso:
creare lo spirito nazionale, e crearlo, presentando quanto più spesso si possa
le memorie dei tempi gloriosi. Che questo e lo scopo del suo “Platone in Italia”
nessun dubbio. E Cuoco stesso che ce lo dice. Il Platone dice Cuoco, in una
lettera al vicerè Eugenio è “diretto a formar la morale pubblica degl'italiani,
ed ispirar loro quello spirito d’unione, quell’amor di patria, quell’amor della
milizia che finora non hanno avuto.” Il “Platone in Italia” di Cuoco perciò è
un romanzo a tesi, o, se volete, un romanzo didattico, se con ciò noi vogliamo
riferirci al suo fine, lasciando impregiudicata assolutamente l'ulteriore
valutazione filosofica. E chi lo legge con cura non può non accorgersi di
questo scopo, estrinseco sì all'arte, ma non allo scrittore, di questo scopo
che Cuoco persegue, e per il quale solo sembra vivere. La trama del “Platone in
Italia” in sè è tenuissima, tanto tenue che Cuoco quasi non se ne accorge, onde
appena l'abbozza per tosto sorvolarla. Un greco, Cleobolo, fa un viaggio
culturale nella Magna Grecia con il suo tutore, Platone. Platone e il suo
scolaro visitano le più importanti città d'Italia: Crotone, Taranto, Metaponto,
Eraclea, Turio, Sibari, Locri, Reggio, ecc., e conosce direttamente o
indirettamente i più fieri popoli della pe [ROBERTI, Lettere inedite di G.
Botta, U. Foscolo e V. Cuoco, in Giornale storico della letteratura italiana. La
lettera del Cuoco è ora ri prodotta in Scritti vari. Cuoco, Saggio storico. BUTTI,
Una lettera di V. Cuoco al Vicerè Eugenio nella miscellanea Da Dante al
Leopardi, per Nozze Scherillo -Negri, Milano, Hoepli. La lettera è ora ripro.
dotta in Scritti vari] pennisola, i sanniti e i romani, ammira le opere d'arte,
disputa di filosofia, si innamora di Mnesilla. Cleobolo stringe con Mnesilla un
bel nodo d'amore. La trama è questa. Ma vien meno dinanzi all'urgere d'un
contenuto didascalico svariatissimo, che la spezza, la frantuma, e in fine ce
la fa dimenticare. Nè il “Platone in Italia” è sotto questo riguardo un romanzo
originale. Anzi ha i suoi bravi antecedenti, tra cui sopra tutti importante
quel “Voyage du jeune Anacharsis en Grèce,” che ha una grande diffusione in
Francia e fuori, che ovunque ebbe ammira tori ed imitatori. Ma nella maggior
parte de' casi, come nota il Sanctis, il viaggio di Platone e Cleobolo è “un
semplice mezzo, con un altro scopo ed un altro contenuto,” che non sia quello
vero e proprio di descrivere paesaggi e monumenti. Lo scopo non è più il
viaggio. Lo scopo e l'espressione di certe idee e sentimenti, fatta più
agevole, con questo mezzo. I secoli XVIII e XIX amarono il romanzo viaggio,
come del resto anche il romanzo-epistolario, perchè col suo meccanismo si piega
ad ogni finalità. Il “Platone in Italia” di Cuoco anzi è nello stesso tempo
viaggio ed epistolario, è un insieme di lettere spedite visitando l'una dopo
l'altra le varie città d' Italia. Il viaggio, come forma letteraria, può
servire a qua lunque scopo ed avere qualunque contenuto. E cera, che può
ricevere ogni specie d'impressione; marmo, che può configurarsi secondo il
capriccio dello scultore. È difficile trovare una forma più libera, più
pieghevole al vostro volere. Passate da una città in un'altra: nessun limite
trovate al vostro pensiero. Potete incontrarvi con gli uomini che vi piace;
immaginare ogni specie d'accidenti; saltare dalla natura ai costumi, da'
costumi al l'anima; visitare, qua e colà, come vi torna meglio; rin chiudervi,
tutto solo, nella vostra stanza, e fantasticare, filosofare, poetare, mescere,
a vostro grado, sogni, ghiri bizzi e ragionamenti, dialoghi e soliloqui,
visioni e rac conti. Se voi vi proponete uno scopo particolare, questo v '
impone il tal contenuto, il tale ordine, la tal proporzione: insomma v’impone
un limite, che non procede dal mezzo liberissimo di cui vi valete, ma dal fine
che avete in mente. Ma se voi leggete l'opera del Barthélemy e la raffron tate
con l'opera cuochiana, una differenza vi balzerà su bito agl’occhi, nell'alto
fine che il nostro scrittore s'è proposto e che nel francese, naturalmente,
manca del tutto. È il fine, quello che interessa il Cuoco, e che da lungo tempo
egli persegue ne' più vari modi. Il Giornale italiano, a questo proposito, ci
mostra come l'idea d'un viaggio educativo nei vari reami della storia si sia al
molisano altre volte presentata. Tra tante opere che ci si dànno ogni giorno,
buone, mediocri, cattive quella descrivente un viaggio, per esempio, nel secolo
di Leone X, non sa rebbe certamente la meno utile per la nostra istruzione e
per la nostra gloria ». Così scrive, e di questo viaggio ideale, di cui
immagina che un suo amico conservi l'an tico manoscritto d'un suo maggiore, dà
un saggio in quel colloquio col Machiavelli che abbiamo a più riprese ve duto (2
). Il fine dunque è quello che occupa l'animo del nostro, e questo domina
tutto, soffoca, purtroppo, ogni intendimento che pedagogico non sia [Il
romanziere cerca di scusare questa deficienza di trama, che si risolve in una
deficienza fantastica e quindi in una deficienza artistica, e nella prefazione
scrive che la sua storia e rinvenuta in un antico manoscritto, autentico,
perchè ritrovato da suo nonno proprio fra le fondamenta d'una sua casa,
ergentesi sovra quel suolo ove un dì superba e Eraclea, manoscritto che è
lacerato in varî punti e perciò lacunoso, onde varje situazioni, prima
accennate, non sono poi svolte e tanto meno condotte a fine: ma questa è una
scusa che non scusa nulla, poichè tutti sanno che il manoscritto non è se non
nell'immaginazione del Cuoco, nè più nè meno come l'anonimo ma [DÉ SANCTIS,
Saggi critici, v. III, pag. 290 e seg. (2 ) Giorn. ital., 1804; 21, 23, 25
gennaio; n. 9, 10, 11, pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44: Varietà (vedi p. 163
del nostro lavoro ). (3) L. SETTEMBRINI] -noscritto dei Promessi Sposi è
nell'immaginazione di Don Alessandro. Perciò l'esiguità della trama si deve
unicamente al sopravvento di fini estrinseci all'arte, pedagogici e didascalici.
E gli stessi personaggi, che la piccola trama lega, sono e non sono. Noi li
vediamo e non li vediamo. Soprattutto, noi non li vediamo mai in azione, in
atto, con i loro caratteri e con le loro passioni. A rigore possiamo dire che
non sono protagonisti di nessun dramma, poichè ci – Platone e il suo scolaro
italiano -- appaiono, se mai, nella stessa funzione del prologo in certi
antichi componimenti teatrali, che si limita ad annunciare ciò che fu o sarà e
fa alcune sue considerazioni. Essi hanno perciò un nome, come ne potrebbero
avere un altro. Non sono essi quelli che contano, conta quel che dicono, o che
per essi dice Cuoco. Da questa condizion di cose, è evidente, scaturisce un
dissidio insanabile tra quello che è arte, e che perciò non ha nè può avere un
fine estrinseco a sè stessa, e lo scopo stesso dichiarato dall'autore: il
rammentare agl’italiani che essi furono una volta virtuosi, potenti, felici, he
furono un giorno gl'inventori di quasi tutte le cognizioni che adornano lo
spirito umano. Come il Vico nel “De antiquissima italorum sapiential” si pone
dinanzi il fine di dimostrare qual filosofia si debba trarre dalle origini
della lingua latina, quella filosofia che in antico dovè certo essere
professata dai sapienti italiani. Così il Cuoco si propone di dimostrare che,
nel pas sato più remoto, tra i popoli, che abitarono la nostra penisola, ve ne
furono di civilissimi, popoli, la cui civiltà fu persino anteriore alla civiltà
ellenica, che dalla prima riceve luce, e non viceversa. E come chi voglia
intendere il ”De antiquissima” non deve tenere nessun conto del suo titolo e
del proemio, e di tutte le vane investigazioni che qua e là, vi ricorrono dei
riposti con cetti, che, secondo Vico supporrebbero talune voci latine, per
considerare unicamente in sè stessa questa dottrina che Cuoco pretende
rimettere in luce dal più vetusto tesoro della mente e dell’anima italica, e
che non è altro che una dottrina modernissima, quale puo essere costruita da
esso Vico. Così chi voglia comprendere il vero spirito del “Platone in Italia”
di Cuoco deve prescindere dall'esil nucleo romantico, come dalla faticosa
ricostruzione archeologica, e considerarlo nella sua attualità. Esso non
esprime i pensieri nè di Archita nè di Cleobolo, ma i pensieri del Cuoco,
scrittore del Regno italico, meditante sulle proprie personali esperienze, e
non sulle esperienze di venticinque secoli avanti. All'anno di grazia vanno,
per esempio, riferite tutte le abbondanti considerazioni sulle leggi, sulla
religione, sulle istituzioni, sulle rivoluzioni, Ma l'opera di Vico è un'opera
dottrinale, filosofica, per cui lo sforzo di superamento temporale è facile. L’opera
del Cuoco è un romanzo che vuol pure essere consi derato dal punto di vista
dell'arte. Da ciò un insormontabile dualismo, onde noi veniamo risospinti
dall'Italia del VI secolo di Roma all'Italia del secolo XIX di Cristo, da
Platone a Vico, da Archita a Napoleone, dai filoneisti di Taranto ai giacobini
di Francia, da Alcistenide e Nicorio a Monti. E in questo urto di due visioni
opposte e con trastanti l'arte fugge via, e noi non sappiamo ove finisca la
finzione e cominci la realtà. La funzione è troppo evidente, perchè noi
possiamo ingannarci. V'è troppa erudizione, troppi richiami di testi classici,
e non solo greci, ma anche latini, medievali, moderni, perchè la fantasia possa
godere d’una pura contemplazione. E chi è quella Mnesilla, che disputa così
bene d'arte e di musica, se non un'estetica moderna, che conosce Vico? E chi è
quel Cleobolo, che cita opinioni del Filangieri e del Pagano, e parafrasa
persino versi del Petrarca? [GENTILE, Studi vichiani, p. 95. (2 ) L.
SETTEMBRINI, In una lettera che Cleobolo scrive all'amata è detto. Così,
passando di pensiero in pensiero e dimonte in monte, spesso sopraggiunge la
sera; e, mentre par che tutta la natura dorma, solo il mio cuore veglia,
innalzandosi col pensiero fino a quegli astri eternamente lucenti che [ E chi è
quel Platone, che non ignora i princípi della nazionalità e con Archita disputa
di filosofia moderna! La contaminazione è troppo evidente, e la filosofia
pitagorica e platonica si mesce in uno strano viluppo con quella vichiana. Da
ciò, notiamo, scaturisce non solo, come abbiam detto una deficienza grande
nell'opera d'arte, ma anche nell'importanza filosofica del Platone in Italia. È
questo un'opera d'arte? Un lavoro filosofico? Uno scritto politico? Nulla di
tutto ciò, e pure tutto ciò misto in una unità singolare. Non scritto storico,
perchè, a parte il valore molto discutibile del suo metodo, che egli si propone
di ragionare e giustificare più tardi, con una di quelle dilazioni, che svelano
appunto l'incertezza del pensiero e l'oscurità da vincere, Cuoco è troppo
preoccupato da fini estrinseci alla storia, artistici ed educativi] non
filosofia, perchè Cuoco non segue un indirizzo unico, ma si trova costretto dal
l'imbastitura della narrazione a mescere quel che è patrimonio dell'antichità
con quella vigile coscienza tutta moderna e vichiana della spiritualità del
reale. Non opera d'arte per ragioni sovradette, poichè Cuoco non riesce mai a
trovare in sè quell'assoluta pacatezza della fantasia, che sola può generare
creature vive. L'arte «non c'è principalmente nota » il Gentile « perchè Cuoco
non si dimentica abbastanza in questa visione confortante, che a un tratto gli
sorge nell'animo, di un'Italia grande per virtù private e pubbliche, perchè
retta da una saggia filosofia. E corre a ogni po' col pensiero all'Italia per
cui scrive, all'Italia presente, piccola, inferma, senza spirito pubblico,
senza amor di grandezza, senza orgoglio di nazione, senza forze vive: e
ondeggia tra la statua brillano sul mio capo; e, dopoaverli riguardati ad uno
ad uno, il mio occhio si ferma in quella fascia immensa, la quale pare che
tutto circondi l'universo. Di là si dice che le nostre anime sien discese, ed
ivi ritorneranno e rimarranno unite per sempre! [G. GENTILE, Studi vichiani, p.
375. 235 che avrebbe da animare, e sè stesso che egli quasi non crede da tanto;
e gli trema la mano ». Non c'è l'opera d'arte, ma il lavoro non è cosa del
tutto morta e caduca. Ci sono parti molto belle, in cui realmente l'animo si
placa in una commossa visione d'amore, o in un paesaggio italico, ricco di
tinte forti calde sfumanti (1 ); poi c'è una sempre vigile volontà, tesa in un
fine, che, se è estrinseco all'arte, non è mai fuori dall'autore, ma pur sempre
in lui, e l'accende di sano amore di patria e d'alto nazionalismo. C'è in somma
una matura attività dello spirito, che, sia che [Per dare un esempio dell'arte
del “Platone in Italia” di Cuoco, trascrivo un brano, che già al RUGGIERI apparve
degno d'attenzione: è una lettera di Cleobolo. Ieri sera sedevamo in quel
poggio il quale tu sai che domina il mare e Taranto. È il sito più delizioso
della villa ch'ella tiene nell'Aulone. E noi non sedevamo propriamente sulla
sommità, ma in mezzo della falda, come in una valletta, la quale, ren dendo più
ristretto l'orizzonte, par che renda più ristretti e più forti i sensi del
cuore. Il sole tramontava; spirava dal l'occidente il fresco venticello della
sera, che scendeva a noi turbinosetto per l'opposta falda del colle. Eravamo
soli, io ed ella, e nessuno di noi due parlava, assorti ambedue in quella
languida estasi che ispira il soave profumo de' fiori di primavera, forse più
grave la sera che la mattina ne' luoghi frequenti di alberi. Di tempo in tempo
io rivolgevo i miei occhi a lei, ma un istante dipoi li abbassava; ella li
abbassava come per non incontrarsi coi miei, ma un istante dipoi li rial zava,
quasi dolendole di non averli incontrati.... Vedi quel l'arboscello di cotogno?
— mi disse (e di fatti ve ne era uno a dieci passi da me) — vedi come il vento,
che si rompe in faccia agli annosi ulivi ed ai duri peri, pare che sfoghi tutta
la sua prepotenza contro quel debole ed elegante arboscello? Quanta verità è in
quei versi di Ibico: Il mio cuore è simile al cotogno fiorito, che il vento
della primavera afferra per la chioma e ne con torce tutti i teneri rami!... Tu
non hai detti tutti i versi di Ibico; no escləmai io tu non li hai detti tutti....
Esso è stato nudrito colla fresca onda del ruscello che gli scorre vicino; ma
nel mio cuore un vento secco, simile al soffio del vento di Tra cia, divora....
Io voleva continuare; ma ella mi guardò e le vossi.... Qual potere era mai in
quel guardo, in quell'atto?... Io non lo so; so che tacqui, mi levai e ritornai
in casa, se guendola sempre un passo indietro, senza poter mai più alzar gli
occhi dal suolo.”] eccesso e analizzi le antiche istituzioni del Sannio; sia
che valuti i germi della futura grandezza di Roma, sia che da questi discenda
ai fatti moderni, e indirettamente dica della rivoluzione francese e de'
popoli, che tra un l'altro amano posarsi nelle opinioni medie o magari tro vare
la pace in un Napoleone, tiranno restauratore del l'ordine, rivela pur sempre
un uomo d'alta coscienza, con sapevole di sè e del suo posto nel suo popolo.
Noi dimentichiamo l'artista mal riuscito, il metafisico contaminato, lo storico
poco sicuro, ma ammiriamo il pedagogo, che dai dati concreti della storia umana
trae un non perituro insegnamento. Cuoco parla non a sè stesso, poi che non si
pone dal rigido punto di vista subiettivo proprio dell'arti sta, ma a noi, a
noi italiani; e per noi vibra, per noi di sputa, per noi parla. Platone non
parla al suo discepolo Cleobolo. Archita non parla ai suoi tarantini. Ponzio
non parla ai suoi sanniti. Ma tutti e tre, attraverso il Cuoco, si rivolgono a
noi, e il loro insegnamento mira a formare una più sicura anima italica. Certo
questa posizione è un po' monotona, e riporta l'autore ad insistere su punti
già precedentemente esposti nel Saggio, nei Frammenti, nel Giornale italiano,
ma, se guardiamo l'arduità dello scopo, la difficoltà d'attingerlo, le
ripetizioni non appariranno mai soverchie. Da noi non si tratta, dice il Cuoco,
di conservare lo spirito pubblico, ma di crearlo, e la creazione è opera lunga,
spesso do lorosa. La tesi principale del ”Platone in Italia”, che del resto non
è una novità cuochiana, ma una trovata del Vico, è che nella nostra penisola vi
sia stata una civiltà, come ho detto, anteriore alla greca, quella etrusca, che
per il mondo ha diffuso luce di sapere filosofico e splendore d'arte, della
quale civiltà quella ellenica e pitagorea è un posteriore riverbero.
L'opinione, sia essa tramontata, come pretendono alcuni, per cui le origini
greche del pitagorismo sono indubbie, sia essa vera, come sostengono altri, per
cui l'autonomia della civiltà etrusca e delle susseguenti civiltà italiche è
parimenti comprovata, è profondamente radicata nel Cuoco, la di cui serietà
scientifica non può essere posta in dubbio. Il Cuoco è fortemente compenetrato
di essa, e, laddove crede di vederla comprovata dai fatti, l'animo suo trema
d'intima com mozione e di passionata esaltazione. Al tempo del viaggio di
Platone, la Magna Grecia è in decadenza. Molte città, che già furono grandi,
vennero nelle civili dissensioni rase al suolo. Altre, che un dì dominarono
molte terre, sono ridotte a piccoli borghi. Stirpi, che hanno un passato
glorioso, fiere delle loro milizie e dei loro trionfi, ora languono nell'ozio e
nella effemina tezza. Ma, ovunque, a chi mira intimamente le cose s'appalesano
i segni dell'antica grandezza e dell'antica forza, diffusi ne' monumenti
architettonici, vivi negli ordini civili, parlanti nelle costruzioni
filosofiche del pensiero e dell'arte. “Io credo, dunque,” dice Ponzio a
Cleobolo, “ciò che dicono i nostri sapienti, i quali dan per certo che ne'
tempi antichissimi l'Italia tutta fioriva per leggi, per agricoltura, per armi
e per commercio. Quando questo sia stato, io non saprei dirtelo. Troverai però
facilmente altri che te lo saprà dire meglio di me. Questo solamente posso
dirti io: che allora tutti gl'italiani formavano un popolo solo, ed il loro
imperio chiamavasi etrusco. Mentre la Grecia è ancor giovane, l'Italia è assai
antica e sul suo vecchio suolo già due epoche s'avvicendano: l'una è scomparsa,
l'altra è in isviluppo, e solo esteriormente potrà dirsi ellenica, nelle
innegabili im migrazioni dei greci. Nel suo spirito è italica, erede della prim.
Pitagora, che la impersona, null'altro è che un mito, ma un mito italico, una
sintesi concettosa della sapienza, ma una sintesi tutta italica. Come nella
natura vi sono terribili sconvolgimenti fisici, per cui la faccia della terra è
alterata, i monti si fendono ed aprono larghe valli, in cui scorrono nuovi
fiumi che prima non erano, mentre i vecchi veggono alterato il loro corso, così
nella storia antiche catastrofi hanno distrutto una fiorttura senza pari e
modificato organismi civili possenti. Sappi dunque, dice Cleobolo a Platone,
riferendo un colloquio che egli ha avuto con un sacerdote di Pesto, che un
tempo tutta l'Italia è stata abitata da un popolo solo, che chiamavasi etrusco.
Grandi e per terra e per mare eran le di lui forze; e, de' due mari che, a modo
d'isola, cingon l'Italia, uno chiamossi, dal nome co mune del popolo, Etrusco;
l'altro, dal nome di una di lui colonia, Adriatico. Antichissima è l'origine di
questi etruschi.. Le memorie della sua gloria si confondono con quella de'
vostri iddii e de ' vostri eroi. Ma chi potrebbe dirti tutto ciò che gli
etrusci opra rono nell’età de' vostri eroi e de' vostri iddii? Oscurità e
favole coprono le memorie di que' tempi. Posso dirti però che gl’etrusci
estendevano il loro commercio fino all'Asia. Gl’etruschi signoreggiavano tutte
le isole che sono nel Mediterraneo, ed anche quelle che sono vicinissime alla
Grecia. Dall'ampiezza dell'impero giudica dell'antichità. Quest'impero però era
troppo grande e poco omogeneo, più federazione di città che stato unitario,
onde esso avea in sè stesso il germe della dissoluzione. Non mai si era pensato
a render forte il vincolo che ne univa le varie parti. Ciascun popolo ha
ritenuto il proprio nome: era il nome della regione che abitava, era quello
della città principale. Che importa saper qual mai fosse? Non era il nome “etrusco”.
Ciascun popolo ha governo, leggi e magistrati diversi. Non vi e nè consiglio,
nè magistrato comune se non per far la guerra. Da ciò trassero origine grandi
mali che distrussero ogni organizzazione: La corruzione de' costumi produce la
corruzione delle arti, le quali sono de' costumi ed istrumenti ed effetti, e
poi generò la corruzione della religione, la quale, corrotta, accelera la morte
delle città. Perciò l'Etruria, o Italia, si sfasciò per legge naturale di cose.
Così cade, o Cleobolo, commenta il pellegrino Platone, qualunque altro impero
ove non è unità. Così cade la Grecia,, se non cessa la disunione tra le varie
città che la compongono, tra gl’uomini che abitano ciascuna città.
Imperciocchè, ovunque è sapienza, ivi si tende al l'unità. All'unità si tende ovunque
è virtù, il fine della quale è di render i cittadini concordi e simili. Nè
possono. esserlo se non son buoni. La vita istessa di tutti gl’esseri non è se
non lo sforzo degl’elementi, che li compongono, verso l'unità. Ovunque non vi è
unità, ivi non è più nè sapienza, nè virtù, nè vita, e si corre a gran giornate
alla morte. Ma la morte non è mai interamente morte, bensì tra sformazione,
cioè riduzione in nuove forme di vita, forme nuove, che della prima vita
mantengono alcuni elementi originari ed altri novelli acquistano. Così
l'Italia, divenuta deserto nella ruina, tosto si ripopola di genti, di città,
si organizza, si riabbellisce, e si ri presenta composta all'ammirazione
universa. Ma la civiltà italica, che possiamo dire pitagorea, nella sua essenza
è pur essa autoctona, se pure apparentemente ellenistica. Quando le colonie si
sono stabilite in Italia, le stirpi indigene dalle montagne eran discese al
piano, e due civiltà s'erano espresse. Noi disputiamo, osserva un italico a
Cleobolo, per sapere se i ellenici abbian popolata l'Italia o gl'italiani
abbian popolata la Grecia. Ed intanto è l'una e l'altra regione sono state
forse popolate da un popolo – l’ario --, il padre comune degl’elleni e
degl'italiani. Comune è perciò l'origine dei due popoli, ma, stanziatisi in
diverse sedi, gl’italiani hanno avuta una fioritura più precoce che non gl’ellenici,
che pure ai tempi di cui trattiamo, sembrano i più civili, i maestri degl’italiani
in ogni campo dell'umana attività. L'antico primato italico però ancor si
conserva, trasformato sì, ma sempre attivo, e si manifesta. Su questo primato
italico il Cuoco insiste, insiste, insiste calorosamente. E la sua tesi
nucleare. La pittura e in Italia già vecchia ed evoluta, allorquando Panco,
fratello di Fidia, «ipinse ne' portici di Atene la battaglia di Maratona, riempiendo
di stupore i suoi concittadini per la rassomiglianza che seppe mettere nelle
immagini dei duci greci e dei capitani nemici [Furono gl'italiani che primi danno
opera alle matematiche, e ne fecero un istrumento principale della loro
filosofia. Prima che Teodoro reca agl’elleni la scienza degli italiani, in
Grecia, le idee geometriche sono puerili, frivole, con traddittorie. Invece, gl'italiani,
potenti per un istrumento di filosofia tanto efficace, fanno delle scoperte
ammirabili in tutte quelle parti delle nostre cognizioni che versano sulla
quantità: nella geometria, nella astronomia, nella meccanica, nella musica; ed
hanno spinte al punto più sublime e più lontano dai sensi tutte quelle altre
che versan sulla qualità. La stessa arte della guerra e delle milizie in Italia
si perde nella remotezza de' secoli, onde ancora ai tempi di Platone gl’italici
mantengono indiscussa la loro superiorità. La guerra presso gl’elleni ancora è
duello, scienza rudimentale. Presso gl’italiani l’arte della guerra è savio
urto di masse e organica distribuzione di manipoli. La stessa legge, che regola
la convivenza nella penisola, e originaria e nazionale, frutto di una intima
esperienza sociale, e perciò nel loro complesso immuni da contaminazioni
eterogenee. Le romane XII tavole quindi non sono mai derivate, come alcune
storie vogliono, da Atene, poiché Atene nulla poteva dare a un popolo, come il
romano, discendente da popoli dell’ateniese più antichi. Vedete dunque, dice
Cleobolo ad alcuni legati di Roma, che una parte delle vostre leggi è più
antica della città vostra. Un'altra è sicuramente più antica di quei dieci che
voi dite aver imitate le leggi d’Atene. Voi mi avete recitate le leggi de’
dieci e quelle dei re, le quali dite esser state raccolte da Sesto Papirio
sotto il regno del buon Servio Tullio. Alcune, che voi recitate tra quelle, le
ripetete anche tra queste. Tali sono tutte quelle che regolano gl’auspici, l’assemblee
del popolo, il diritto di giudicar della vita di un cittadino, e che so io!
Queste dunque già esistevano in Roma; ed e superfluo correr tanti stadi e
valicare un mare tempestosissimo per prenderle da un popolo che non le ha. Tre
quarti dunque del vostro diritto non ha potuto esser imitato da noi. Vi rimane
una quarta parte, ed è quella appunto nella quale può aver luogo l’imitazione,
perchè può stare, senza sconcio alcuno, ed in un modo ed in un altro. Tali sono
le leggi sulla patria potestà, sulle nozze, sulle eredità, sulle tutele. Ma
queste cose sono dalle vostre leggi ordinate in un modo tanto diverso dal
nostro, che, se mai è vero che i vostri maggiori abbiano inviati de' legati in
Atene, è forza dire che ve li abbian spediti per imparare, non ciò che
volevano, ma ciò che non volevano fare. Passando nel campo delle arti belle,
tra gl’elleni la poesia drammatica è meno antica che tra gl'italiani. Ben poche
olimpiadi, dice un comico italiano, Alesside, a Platone e Cleobolo, contate
dalla morte di Tespi e di Frinico, padri della vostra tragedia. Quando il
siciliano Epicarmo si ha già meritato quel titolo di principe della commedia,
che, più di un secolo dopo, gli ha dato il principe de’ vostri filosofi,
Magnete d'Icaria appena balbutiva tra voi un dialogo goffo e villano, che tutta
ancor oliva la rusticità del villaggio ove era nato. Quando la commedia tra voi
nasceva, tra noi era già adulta. I poemi omerici stessi nel loro nucleo
fondamentale sono stati elaborati in Italia, poichè di favole omeriche gl’italiani
ne hanno più degl’elleni, e quelle elleniche cominciano ove le italiche
finiscono. In tutto ciò noi non possiamo non notare il partito preso, la
volontà di dimostrare ad ogni costo quel che il Cuoco a priori afferma,
l'originario primato italico. Ma lo scopo nobilissimo, che ha dinanzi, vale a
fare perdonarelo varie inesattezze. Nel tempo in cui Platone e Cleobolo
iniziano il loro viaggio per l'Italia, la Magna Grecia è in dissoluzione. I vari
popoli hanno fra loro relazioni saltuarie ed estrinseche. Non si sentono
fratelli animati da un'unica missione. Guerre, dissensioni, lotte sono
frequenti, donde scaturisce una condizione di perpetua incertezza. Vedi, da una
parte, l'Italia simile a vasto edificio rovinato dal tempo, dalla forza delle
acque, dall'impeto del terremoto. Là un immenso pilastro ancora torreggia
intero, qua un portico si conserva ancora per metà. In tutto il rimanente
dell'area, mucchi di calcinacci, di colonne, di pietre, avanzi preziosi,
antichi, ma che oggi non sono altro che rovine. Ben si conosce che tali
materiali han formato un tempo un nobile edificio, e che lo potrebbero formare
un'altra volta. Ma l'antico non è più, ed il nuovo dev'essere ancora. È l'unità
che si è infranta, per cui alla primigenia unitaria forza statale è sottentrata
la debolezza della molteplicità, mal celata dall' invadente forza belligera di
alcune stirpi, come i sanniti, o dal fasto di altre, come i tarentini. Ma
questa molteplicità tende quasi per fatale legge di natura all'unità, e
dall'indistinto pullulare delle genti dove pur sorgere chi di esse fa una sola
gente, un nome unico: ‘Italia.’ Pure, se tu osservi attentamente e con costanza,
ti avvedrai che le pietre, le quali formano quei mucchi di rovine, cangiano
ogni giorno di sito; non le ritrovi oggi ove le avevi lasciate ieri. E mi par
di riconoscere un certo quasi fermento intestino e la mano d'un architetto
ignoto che lavora ad innalzare un edificio no vello. È la gran fede del Cuoco. Da questa unità o da
questa frammentarietà dipende l'avvenire della penisola. Tutta l'Italia, dice
Cleobolo, riunisce tanta varietà di siti e di cielo e di caratteri, e nel tempo
istesso sono questi caratteri tanto marcati e forti, che per essi mi par che
non siavi via di mezzo. Da ranno gl'italiani nella storia, come han dato
finora, gl’esempi di tutti gl’estremi, di vizi e di virtù, di forza e di
debolezza. Se saranno divisi, si faranno la guerra fino alla distruzione. Tu
conti più città distrutte in Italia in pochi anni, che in Grecia in molti
secoli. Se saranno uniti, daranno leggi all'universo. Cuoco però ha fede che
questo suo ideale non resterà mero ideale. Questo ideale si concreta in una
entità statale, in un impero, che all'itala gente dalle molte vite darà
organizzazione e potenza. Cuoco dice che questo ideale non è nuovo, ma quasi
conformandosi ad un antico vero, il dominio etrusco, è risorto e di continuo
risorge nelle più elette menti. Lo stesso Pitagora concepì l'ardito disegno di
ristabilir la pace e la virtù, senzadi cui la pace non può durare. Pitagora volea
far dell'Italia una sola città; onde l’energia di ciascun cittadino ha un campo
più vasto per esercitarsi, senza essere costretta a cozzare continuamente con
coloro, che la vicinanza, la lingua, il costume facean nascer suoi fratelli e
la divisione degl’ordini politici ne costringeva ad odiar come nemici. E l'energia
di tutti non logorata da domestiche gare, potesse più vigorosamente difender la
patria comune dalle offese de’ barbari. Egli dava il nome di barbari a tutti
coloro che s’intromettono armati in un paese che non è loro patria, e chiama
poi barbari e pazzi quegl’altri, i quali, parlando una stessa lingua, non sanno
vivere in pace tra loro ed invocano nelle loro contese l'aiuto degli stranieri.
Egli sole dire agl'italiani quello stesso che Socrate ripete agl’elleni. Tra
voi non vi può nè vi deve essere guerra: ciò, che voi chiamate guerra, è
sedizione, di cui, se amassivo veracemente la patria, dovreste arrossire. Sia
stato Pitagora un essere umano di fatto vissuto, sia egli invece un'idea, un
mito elaborato dalla fantasia delle stirpi indigene, nel quale esse han fatto
confluire i risultati ultimi di tutte le loro secolari esperienze, ciò dimostra
l'antica radice, le remote propaggini nella co scienza collettiva del problema
unitario. Ma come attingere l'unità? Ritorniamo a posizioni che noi già
sappiamo. Il problema è un problema etico e pedagogico insieme. A questa meta
non si può pervenire senza virtù e senza ottimi ordini civili. Onde non vi sia
chi voglia e chi possa comprar la patria, chi voglia e chi possa venderla. Ma
l'ambizione di ciascuno, vedendosi tutte chiuse le vie della viltà e del vizio,
sia quasi co stretta a prender quella della virtù. È necessario istruir il
popolo. Un popolo ignorante è simile all'atabulo, che diserta le campagne:
spirando con minor forza il vento delle montagne lucane, porta sulle ali i
vapori che le rinfrescano e le fecondano. È necessario istruir coloro che
devono reggerlo. Un popolo con centomila piedi ha sempre bisogno di una mente
per camminare, e, con centomila braccia, non ha una mente per agire. Ma
quest'educazione pubblica, che occorre diffondere, non deve essere per sua
natura uniforme, uguale per tutti, bensì multiforme, varia, secondante le
infinite varietà che la natura umana ci offre: deve essere educazione vera,
cioè deve parlare agl’spiriti, e perciò deve essere in essi, e non fuori di
essi. Diversa perciò l'educazione della classe dirigente da quella delle classi
povere, diversa però non nell'intima qualità. L'una e l'altra si volgono alla
stessa natura umana e alle stesse potenze dello spirito. Un popolo, dicono
alcuni, il quale conoscesse le vere cagioni delle cose, sarebbe il più saggio
ed il più virtuoso de'popoli. Non è invero così. Riunite i saggi di tutta la
terra, e formatene tante famiglie. Riunite queste famiglie, e formatene una
città: qual città potrà dirsi eguale a questa! Nessuna, risponde il Cuoco o
Archita per lui. Essa non meriterebbe neanche il nome di città, perchè le
mancherebbe quello che solo cangia un'unione di uo mini in unione di cittadini.
La vicendevole dipendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata e sicura
la vita e la perfetta indipendenza dagli stranieri. È necessario perciò ai fini
dello stato che gl'indotti coesistano accanto ai dotti, come i poveri accanto
ai ricchi, perché si realizzi quell’armonica convergenza di forze distinte che
è la vita. Ciò, che veramente è neces sario in una città, è che ciascuno stia
al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad ottener l'uno e
l'altro, sono necessarie egualmente la scienza e la subordinazione. Diversa
sarà l'educazione dei poveri da quella dei dirigenti. Ma una educazione per i
primi deve pur esservi. E per istruirli bisogna avere la loro stima. Non
perdete la stima del popolo, se volete istruirlo. Il popolo non ode coloro che
disprezza. Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica severissimamente i
maestri, e li giudica da quelle cose che sembrano spesso frivole, ma che son
quelle sole che il popolo vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto?
Quando si tratta d'istruirlo, tutt'i diritti sono suoi. Tutt’i doveri son
nostri, e nostre tutte le colpe. Al popolo occorre insegnare tutto ciò che è
necessario per agire, tutto ciò che può rendergli o più facile o più utile il
lavoro, più costante e più dolce la virtù. Al savio, invece, è necessaria la
conoscenza delle cagioni vere, perchè sol col mezzo della medesima può render
più chiara, più ampia e più sicura la conoscenza delle stesse cose. Al volgo
conoscer le vere cagioni è inutile, perchè non potrebbe farne quell'uso che ne
fanno i savi. È necessario però che ne conosca una, in cui la sua mente si
acqueti. E questa necessità è tanto imperiosa, che, se voi non gli direte una
cagione, se la farneticherà egli stesso. Errano perciò i filosofi che credono
opportuno divulgare la filosofia è mettere il popolo a contatto con i sublimi
princípi della vita. Del resto ben diversa è la natura del dotto filosofo e del
popolano. Laddove il savio è ragione, il popolano è tutto senso e fantasia. Il
popolo è un eterno fanciullo che ha sempre più cuore che mente, più sensi che
ragione. E quindi ad esso bisogna parlare con quello stesso linguaggio che
s'usa con il fanciullo, dan dogli in un certo qual modo cose e massime già
fatte. Bisogna parlare al popolo dei suoi cari interessi, e parlarne con il
linguaggio che a lui più si conviene, con parabole e proverbi. Se è vero che gl’esempi
muovon più dei precetti, le parabole, le quali non sono altro che esempi,
debbon muovere più degli argomenti. I proverbi, che a noi possono sembrare
inintelligibili, perchè ignoriamo i veri costumi dei popoli per i quali furono
immaginati, sono nella rude concettosità adattissimi per lo scopo prefissoci.
La stessa virtù non la si può inculcare al popolo se non con mezzi diversi di
quelli che ci si offrono nella filosofia. La virtù è saviezza: la saviezza ha
bisogno di ragione, e la ragione ha bisogno di tempo. I pregiudizi, gl’errori,
i vizi che nella fantasia de' popoli vanno e vengono come le onde del nostro
Jonio, riempi rebbero sempre di nuova arena quel bacino, che tu vuoi scavare a
poco a poco per formarne un porto. È necessità piantare con mano potente una
diga, che freni la violenza delle onde sempre mobili. Prima di avvezzare il
popolo a ragionare, convien comandargli di credere. E, per convincerlo che il
vero sia quello che tu gli dici, convien per suadergli, prima, che non possa
essere vero quello che tu non dici. Non cerchiamo l'uomo che abbia detto più
verità, ma quello che ha persuase verità più utili. E, se talora la necessità
ha mossi i grandi uomini ad illudere il popolo, cerchiamo solo se l'hanno
utilmente illuso. Sono queste conclusioni che già sono implicite nel saggio
storico, ma riescono sempre interessanti, sia per il loro intrinseco valore,
sia per la forma con la quale l'autore ce le prospetta. Questa educazione che
mira a far sentire l'interesse comune alla virtù, e quindi a radicarla in
eterno, deve precedere la stessa attività legislativa, se non si vuole che essa
cada nel vuoto. Quando tu avrai incise le leggi della tua città sulle tavole di
bronzo, nulla potrai dir di aver fatto, se non avrai anche scolpita la virtù
ne' cuori de' suoi cittadini. La legge e la costume sono i principali oggetti
di tutta la scienza politica. La prima risponde all'ordine eterno che è nelle
cose, sempre perciò buono e vero; i se condi invece presentano estreme varietà,
e, nella maggior parte dei casi, ci si presentano anzi che come correttivo
delle prime, come deviazione da esse; onde coloro, che traggono da una corrotta
natura de' popoli le norme obiettive del vivere, invece di evitare il male,
spesso lo sancisce, e la sua opera pedagogica manca. La legge è sempre una,
perchè la natura dell'intelligenza è immutabile. Mutabile è la natura della
materia, di cui gli uomini sono in gran parte composti; e quindi è che il
costume inclina sempre ad allontanarsi dalla legge. È necessità, dunque,
conoscere del pari la natura sempre mobile di questo fango di cui siamo
formati, onde sapere per quali cagioni i nostri costumi si allontanano dalle
leggi, per quali modi, per quali arti possano riavvicinarsi alle medesime; il
che forma l'oggetto di tutta la scienza dell’educazione. Nn di quella
educazione che le balie soglion dare ai nostri fanciulli, ma di quell'altra che
Licurgo e Minosse seppero dare una volta agli spartani ed ai cretesi. La
ignoranza di una di queste due scienze ha moltiplicati sulla terra i funesti
esempi di quei legisla tori, i quali, volendo tentare riforme di popoli, hanno
o cagionata o accellerata la loro ruina. Imperciocchè, pieni la mente delle
sole idee intellettuali delle leggi ed ignoranti de' costumi de ' popoli, li
hanno spinti ad una meta a cui non potevan pervenire, perdendo in tal modo il
buono che poteano ottenere, per avere un ottimo che era follia sperare; o,
conoscendo solo i costumi ed igno rando il vero bene ed il vero male, hanno
sancito i me desimi, ed han fatto come quel nocchiero, il quale, non conoscendo
il porto in cui dovea entrare, e servendo ai venti ed all'onde, ha rotto
miseramente il suo legno tra gli scogli. La legge però resterà sempre un astratto, se
gl’uomini non ne intenderanno la sua necessarietà e, quel che più conta, la sua
utilità. È d'uopo a ciò che essa sia accom pagnata non solo da pene, onde possa
con efficacia di storre gli animi dai vizî, ma eziandio da premi, onde possa
allettare alla virtù. Occorre parlare agli uomini un lin guaggio utilitario ed
edonistico, se si vuole essere seguiti da essi. E questa scienza, che si occupa
dei premî e delle pene, è difficilissima, perchè inutili sono senza premî e
pene le leggi, e arduo è calcolare l'adeguato rapporto so pra tutto delle pene
con i costumi dei popoli. Il crimi nalista perciò deve studiare non tanto i
rapporti giuri dici, di per sé astratti, ma i soggetti di essi rapporti, entità
concrete e viventi, e rispetto a questi porsi piut tosto in veste d’educatore,
anzi che di carceriere, e peg gio di boia. « La scienza delle pene e de' premî
» dice il Cuoco con perfetta sicurezza « appartiene alla pubblica educazione. La
legge, date alla città, hanno necessità di uomini atti ad eseguirle, che
veglino alla loro esecuzione. Le leggi, ho detto, sono nell'ordine eterno delle
cose, onde la filosofia a lungo le ha ritenute provenienti dalla divi nità.
Perciò il primo dovere degli esecutori è di comandare ne' limiti di esse, sovra
la loro base, poichè solo così si adempie l'universa volontà di Dio, o meglio,
s'attua l'ar monia immanente nelle cose. « Ora, ordinate le leggi di una città,
per qual modo ritroveremo noi gli uomini degni di eseguirle? Questa èla parte
più difficile della scienza della legislazione: perchè, da una parte, le buone
leggi senza il buon governo sono inutili; e, dall'altra, sulla natura del
migliore de’governi gli uomini son più discordi che su quella delle buone leggi.
Anche questo secondo problema è di natura spirituale e pedagogica: la
preparazione della classe dirigente, la sua natura, ecc. non possono non
rientrare in quella scienza, di cui abbiamo visto i caratteri e le forme. In
quanto al problema subordinato se sia da accogliere il governo di un solo, di
pochi, o di molti; il governo ereditario o l'elettivo; e tra quest'ultimo
quello regolato dalla nascita, dagli averi, dalla sorte, questo è un pro blema
essenzialmente relativo e che del resto abbiamo già storicamente esaminato in
altra parte di questo la voro. La risoluzione è offerta dal Cuoco in poche
parole che giova riportare. « Noi diremo il miglior de' governi esser quello
che non è affidato ad uno solo, perchè un solo può aver delle debolezze; non a
tutti, perchè tra tutti il maggior numero è di stolti; ma a pochi, perchè pochi
sempre sono gli ottimi. E questi pochi avranno obbligo di render ragione delle
opere loro, onde la spe ranza dell'impunità non li spinga o ad obbliare per
negligenza le leggi o a conculcarle per ambizione; e perciò divideremo il
pubblico potere in modo che le diverse parti del medesimo si temperino e
bilancino a vicenda, e, dando a ciascuna classe di cittadini quella parte a cui
pare per natura più atta, riuniremo i beni del governo di uno solo, di pochi e
di tutti. Ma piuttosto altre considerazioni occorre fare, che ci riportano ad
un punto troppo caro al Cuoco perchè noi possiamo dimenticarcelo: le
considerazioni intorno alla religione. Abbiamo già visto i rapporti tra
autorità reli giosa ed autorità statale, il posto che la religione deve
occupare nello Stato, e lo abbiamo visto da un punto essenzialmente storico,
cioè in rapporto ai tempi del mo lisano: ora dobbiamo esaminare lo stesso
problema da un diverso punto, osservando quale posto può occupare la religione
nella formazione spirituale dei popoli. La religione è un fatto spirituale dal
quale non si può prescindere. « Quindi è che erran egualmente e coloro i quali
credon poter tutto ottenere colle sole leggi civili, e coloro che credono poter
colla religione e coi costumi supplire alle medesime. Questi renderanno le vite
dei cittadini e le loro sostanze dubbie, incerte; quelli rende ranno vacillante
lo stato dell'intera città. È necessità che vi sieno egualmente costumi,
religione e leggi: uno che manchi, la città, o presto o tardi, ruina. Il
bisogno della religione per il Cuoco non si basa tanto su ragioni ideali quanto
su ragioni pratiche. Lo Stato, che assorbe in sè la religione, s'eleva agli
occhi de'singoli e acquista maggiore rispetto. Nè è a dire che esso con ciò
menomi la religione, in quanto vita dello spirito, poi che esso assorbe quel
che può assorbire, infine il lato estrinseco e mondano della religione,
lasciando intatto il dommatico. I paesi, in cui i patrizi conservano
autorità, sono quelli in cui essi esercitano il sacerdozio, e in questi paesi
la religione può moltissimo sui costumi. « E forse queste due cose [ religione
e costumi, Stato e Chiesa) sono naturalmente inseparabili tra loro; perchè nè
mai religione emen derà utilmente i costumi se non sarà dipendente dal go verno;
nè mai religione, che non emendi i costumi e non ispiri l'amor della patria,
potrà esser utile allo Stato » (1 ). Ora concepite in questa maniera le due
classi dei ricchi e dei poveri, dei savi e degli stolti, il Cuoco riguarda la
vita pubblica come una loro armonizzazione continua, in una evoluzione
ininterrotta. Ricco non vuol dire a priori savio, ma è certo che il ricco,
coeteris paribus, può pro curarsi un'educazione superiore, che il povero non
può procacciarsi che in casi eccezionali, onde quasi sempre, nella sua
indigenza, resterà ignorante e spesso stolto. L'opposizione tra savi e stolti
si può in linea generalis sima presentare come opposizione tra patrizi e
plebei, op posizione delucidata anche dal fatto che i patrizi, cioè coloro che
nelle epoche primitive s'affermano negli Stati e perpetuano la loro posizione
dirigente per eredità di sangue e di censo, sono, per lunga consuetudine e
pratica pubblica, i più atti al reggimento civile, mentre i plebei, gente nova,
spesso portata su da súbiti guadagni, sono di solito inesperti e fiacchi,
perchè ignari del nuovo go verno della cosa statale. Il segreto della varia
vita delle città è nella saggia ar monia di queste due forze, l'esperienza
matura dei patres e la giovinezza audace delle classi nuove. Quelle nelle quali
i primi furono troppo fieri difensori dei loro diritti lan guirono: i patres
non vollero essere giusti, preferirono es sere i più forti, onde fu mestieri
che divenissero tirannici ed oppressori: conservarono i loro privilegi, ma il
prezzo di questi privilegi fu la debolezza dello Stato, che al primo urto
divenne preda dell' inimico. Quelle altre, in cui la plebe per atto
rivoluzionario acquisì d'un tratto i suoi diritti, ebbero sempre costituzioni
ispirate più dalla vendetta che dalla sapienza, e poterono durare, per lo più,
breve tempo, per turbolenze e dissensioni interne. Ben diversa è la vita degli
Stati, ove si giunge ad una reciproca graduale integrazione de' due opposti in
una vitale sintesi. È nell'ordine eterno delle cose che « le idee non possano
mai retrocedere », ed hanno vita felice soltanto « quelle città nelle quali e
la plebe ed i grandi vengono tra loro ad eque transazioni. Ma pur tuttavia il
Cuoco. concepisce la lotta di classe non solo come un utile spediente, purché
mantenuta ne' limiti della legge per giungere ad un buono e durevole reggimento
politico, ma come necessità di vita: e qui è un punto fermo della sua dottrina
politica, che nel suo saggio storico non appare, e che nel ‘romanzo’, “Platone in
Italia,” si rivela nella sua luminosa chiarezza. Or vedi tu questa lotta eterna
tra gli ottimati e la plebe, tra i ricchi ed i poveri? In essa sta la vita non
solo di Roma, di Atene, di Sparta, ma di tutte le città. Ove essa non è, ivi
non è vita: ivi un giogo di ferro impo sto al cittadino ha estinte tutte le
passioni dell'uomo e, con esse, il germe di tutte le virtù, lo stimolo a tutte
le più grandi imprese. Al cospetto del gran re, nessun uomo emula più l'altro:
e che invidierebbe, se son tutti nulla? Quanto dura la vera vita di una città?
Tanto quanto dura la disputa. Tutti popoli hanno un periodo di vita certo e
quasi diresti fatale, il quale incomincia dall'estrema barbarie, cioè
dall'estrema ignoranza ed op pressione, e finisce nell'estrema licenza di
ordini, di co stumi, di idee. Nella prima età i padri han tutto, sanno tutto,
fanno tutto, posseggon tutto. Se le cose si rima nessero sempre così, la città
sarebbe sempre barbara, cioè sempre fanciulla. È necessario che si ceda alla
plebe, poco a poco, ed in modo che non se le dia ne meno nè più di quello che
le bisogna: l'uno e l'altro ec cesso porta seco o pericolosa sedizione o
languore più funesto della sedizione istessa. È necessario che il popolo
prosperi sempre e che abbia sempre nuovi bisogni, per chè questo è il segno più
certo della sua prosperità. Guai a quella città in cui il popolo non ha nulla !
Ma due volte ma guai a quell'altra, in cui, non avendo nulla, nulla chiede ! È
segno che la miseria gli abbia tolto non solo, come dice Omero, la metà
dell'anima, ma anche l'ultimo spirito di vita che ci rimane nelle afflizioni, e
che consiste nel la gnarsi. È necessario però che il popolo e pretenda con
modestia, e riceva con gratitudine, e non cessi mai di sperare » (1 ). Da
queste considerazioni il molisano trae una impor tante conclusione. Se la vita
è molteplicità, ma molte plicità non inorganizzata, bensì tendente ad unità, la
molteplicità è pur necessaria per attingere quella diffe renziazione di
funzioni, il cui convergere forma la felicità dello Stato. La vita di questo
perciò è varietà, e non può essere diversamente: l'uguaglianza assoluta è un'u
topia, anzi un'utopia dannosa. « Vi saranno sempre pa trizi e plebei, perchè vi
saranno sempre i pochi ed i molti; pochi ricchi e molti poveri; pochi
industriosi e molti scioperati; pochissimi savi e moltissimi stolti. I
partigiani de' primi si diran sempre patrizi, quelli de'se condi sempre plebei.
Allorquando la plebe avrà tutto il potere pubblico, e i patrizi nulla più
avranno a cedere, allora, « dopo aver eguagliati a poco a poco gli ordini, si
vorranno eguagliare anche gli uomini; dopo aver eguagliati i diritti, si vorrà
l'eguaglianza anco dei beni: e sorgeranno da ciò dispute eterne e pericolose.
Eterne, perchè la ragione delle dispute sussisterà sempre: vi saranno sempre
poveri, vi saranno sempre uomini da poco, i quali pretenderanno e crede ranno
di meritar molto. Pericolose, perchè tali dispute moveranno sempre la parte più
numerosa del popolo: i poveri, gli scioperati, i viziosi, tutti coloro i quali,
nulla avendo che perdere, non ricusan qualunque modo si of fra a guadagnare....
Le assemblee diventeranno più tu multuose, le decisioni meno prudenti. I
cittadini dalle sedizioni civili passeranno alla guerra. Fra tanti partiti
nascerà la necessità che ciascuno abbia un capo; tra tanti capi uno rimarrà
vincitore di tutti. Ed avrà fine così la lite e la vita della città. Da ciò
scaturisce un'altra conclusione, che è una ri prova di precedenti nostre
osservazioni circa la politica cuochiana: i più adatti al pubblico reggimento
non sono nè i ricchi, pochi e tirannici, nè i poveri, molti e ti rannici in
senso inverso dei ricchi, ma bensì quel ceto medio, che con forme diverse e
diversi aspetti, secondo i vari tempi e la mutevole realtà storica, è nello
stato. I migliori ordini pubblici sono inutili se non vengono affidati ai
migliori cittadini. Quelli sono, in parole ed in fatti, ottimi tra gli ordini,
i quali fan sì che la somma delle cose sia sempre in mano degli uomini ottimi.
Ma dove sono gli uomini ottimi? Essi non son mai per l'ordinario nè tra i
massimi, corrotti sempre dalle ric chezze, nè tra i minimi di una città,
avviliti sempre dalla miseria. Ecco qui ritornare il concetto da noi già
esaminato di un governo temperato, equilibrio di forze opposte, e perciò
armonia e giustizia, la quale giustizia null'altro è se non obiettiva elisione
d'ogni antagonismo e d'ogni dissension. Ove avvien che siavi un ordine scelto,
ma nel tempo istesso la facoltà a tutti d'entrarvi, tostochè per le loro azioni
ne sien divenuti degni, ivi tu eviti gli scogli del l'oligarchia e della
democrazia. Il popolo non permetterà che i grandi, per gelosia di ordine,
trascurino il merito; i grandi non soffriranno che altri si elevi per via di
viltà e di corruzione: per opra de’secondi eviterai quella dissi pazione che
ne' tempi di pace dissolve le città popolari; per opra de' primi eviterai
quella viltà per cui le città oligarchiche temono i pericoli, e quel livore col
quale si oppongono ad ogni pensiero nobile ed ardito, e che vien dal timore dei
grandi di dover ricorrere al merito di un uomo il quale non appartenga al loro
numero. Queste città così temperate sono quelle che fanno più grandi cose delle
altre, perchè non vi manca mai nè chi le pro ponga nè chi le esegua. Soltanto
attraverso questa coscienza politica dei diri genti, attraverso
quest'educazione dei poveri, attraverso questa organizzazione di classi, sarà
possibile realizzare quell’unione che è nel pensiero del Cuoco: fare delle
varie stirpi italiche un popolo unico. Come nelle singole città è possibile un
contemperamento di interessi e di volontà singole, così nella più vasta Italia
è possibile un armo nizzamento di stirpi, di genti, d' ideali diversi. Ma,
mentre nelle città il processo d’unità procede dal l'interno all'esterno,
poichè una tirannia imposta estrin secamente è sempre nociva e deleteria;
nell'Italia il processo unitario può essere affrettato dalla conquista e poi
cementato dall'opera pubblica e pedagogica, dalla religione unica e dalla legge
unica. Il primo effetto della filosofia, dice il Cuoco, è quello di avvezzar
gli uomini a considerar la conquista non come un mezzo di distrug gersi, ma di
difendersi. E e, aggiungiamo noi, si di fende spesso più validamente colui,
che, essendo forte impone la sua ragion civile, la sua legge agli altri, e non
si assopisce in una pace senza parentesi d'attività belli gera, assopimento che
può diventare anche sonno e poi ancora morte. La conquista perciò non deve
rimanere mera conquista, cioè estrinseca forza, ma deve conver tirsi in
attività pubblica, imporsi alle volontà, plasmarle di sè, unificarle nel nome
d'un superiore verbo, il diritto. Questa, ammonisce il Cuoco, è la missione
d’un popolo tra i tanti popoli della penisola, che Platone e Cleobolo nel loro
viaggio incontrano, missione divina, missione il cui spiegamento d'altra parte
è nell'attualità della storia. Certo Platone e Cleobolo, nel frammentarismo
italico del V secolo, non avrebbero mai potuto dire quel che Vincenzo pone in
bocca loro; ma le loro osservazioni, per quanto il nostro spirito critico le
riferisca all'autore del romanzo, non possono non commoverci, e la commozione è
in noi com'è nel molisano. In una prima età, scrive Platone all'amico Archita,
le città vivono pacificamente, e perciò s ' ignorano; ma in un secondo tempo si
conoscono, e quindi si fanno guerra, o con le armi o con le sottigliezze del
commercio; ma questa conoscenza e questa guerra non sono mai distruzione, ma
reciproca integrazione: « da questa vicendevole guerra, sia d'armi, sia
d'industria, io veggo un'irresistibile ten denza di tutte le nazioni a riunirsi;
e, siccome ciascuna di esse ama aver le altre piuttosto serve che amiche...,
così veggo che, ad impedire la servitù del genere umano ed a conservar più
lungamente la pace sulla terra, il miglior consiglio è sempre quello di
accrescer coll' unione di molte città il numero de' cittadini, prima e
principal parte di quella forza, contro la quale la virtù può bene insegnare a
morire, ma la sola cieca e non calcolabile fortuna può dar talora la vittoria ».
« Non pare a te » continua il filosofo antico caldo ne' suoi accenti e
attraverso lui il magnanimo Cuoco « che la natura, colle diramazioni de' monti
e de' fiumi, col circolo de' mari, colla varietà delle produzioni del suolo e
della temperatura de'cieli, da cui dipende la diversità de' nostri bisogni e
de' costumi nostri, e colla varia mo dificazione degli accenti di quel
linguaggio primitivo ed unico che gli uomini hanno appreso dalla veemenza de
gli affetti interni e dall'imitazione de’vari suoni esterni; non ti pare,
amico, ch'essa abbia in tal modo detto agli abitanti di ciascuna regione: — Voi
siete tutti fratelli: voi dovete formare una nazione sola? Da ciò scaturisce la necessità della conquista
come mezzo per affrettare dall'esterno un processo naturale: chi si assume
questa missione, diviene arbitro e stru mento della Provvidenza, Provvidenza
che per il Cuoco, come del resto per Giambattista Vico, è nell'immanenza della
storia, piuttosto che nella celeste trascendenza del divino posto fuori di noi:
questo l'intimo concetto, se pur qualche volta tradito dall'esteriorità delle
parole e dei simboli, nonchè da una certa oscillanza di pensiero. In Italia,
intuisce Platone, un solo popolo sarà di ciò capace, il romano, che sovra la
fiera rudezza dei san niti, sovra la imbecillità effeminata dei greci del mez
zodì, sovra la volubilità dei galli del Nord imporrà la sua legge, il suo
diritto, strumento d’universale civiltà, e che, in un lontano avvenire, venuto
a contatto con i cartaginesi e poi con i greci, non solo li debellerà come
entità politiche, ma solo s'assiderà dominatore del Me diterraneo e del mondo. Rimarrà
un solo popolo dominatore di tutta la terra, innanzi al di cui cospetto tutto
il genere umano tacerà; ed i superbi vincitori, pieni di vizi e di orgoglio,
rivolge ranno nelle proprie viscere il pugnale ancor fumante del sangue del
genere umano; e quando tutte le idee liberali degli uomini saranno schiacciate
ed estinte sotto l'im menso potere che è necessario a dominar l'universo, e le
virtù di tutte le nazioni prive di vicendevole emula zione rimarranno
arrugginite, ed i vizi di un sol popolo e talora di un sol uomo saran divenuti,
per la comune schiavitù, vizi comuni, sarà consumata allora la vendetta degli
dèi, i quali si servono delle grandi crisi della natura per distruggere, e
dell'ignoranza istessa degli uomini per emendare la loro indocile razza. Grande
sogno questo, in cui vibra tutto l'animo nostro in uno con quello del Cuoco, ma
che noi critici non dob biamo lasciare nel passato inerte e perciò morto, come
quello che non ritornerà più, ma trasportare nel presente del Cuoco, cioè nel
presente del 1806, che noi vediamo e pensiamo tale, quando in un' Italia scissa
e menomata da straniere superfetazioni, sia pur benigne come quelle
napoleoniche, l'unità era davvero un sogno; nel nostro presente, nella nostra
vita, che non è stasi, ma divenire, e perciò slancio, espansione, conquista
prima di noi stessi, della nostra maggiore unità, e poi del vario mondo dei
commerci e delle genti, che noi non vogliamo lasciare fuori di noi, inerte
grandezza da contemplare taciti am miranti, ma rendere nostre, per la nostra
civiltà, che è civiltà latina. Considerato da questo punto di vista altamente
poli tico, prescindendo da ogni considerazione artistica o filo sofica, il
Platone in Italia riacquista una grandissima importanza, « riacquista » come
ben dice il Gentile « tutto il suo valore, ed è la più grande battaglia,
combattuta dal Cuoco, per il suo ideale della formazione dello spirito pubblico
italiano. È l'animato ricordo d'un tempo che fu e d'una grandezza, che sta a
noi rinnovel lare, in cui tutta l'Italia si pose maestra di civiltà tra i
popoli, che da essa appresero le cose belle della vita, la poesia, il teatro,
la musica, la scultura, la pittura, che da essa intesero i primi precetti del
vivere e le norme de ' savi reggimenti; in cui l'Italia ebbe un'egemonia indi
scussa, che nella storia non si ripresenterà più se non forse nel Rinascimento:
ma, oltre che ricordo, è nello stesso tempo vivo presente, perchè molte
considerazioni che si fanno riferendosi all'Impero etrusco, alla Magna Grecia,
a Roma calzano nella loro semplicità, s'adattano alla nostra travagliata vita
moderna: ciò fa del Platone un libro, la cui importanza trascende la sua
deficienza artistica, il suo ibridismo filosofico. Perciò un solo raffronto
legittimo, quello tra il Platone e un altro grande libro, il Primato morale e
civile degli italiani, come quelli il cui obietto è uno solo, e la materia
alfine è pur essa comune: un'alta nazionale pedagogia politica. Questo
parallelismo fu prima accennato dal Gentile (2 ), ma poi sbozzato da un
francese, acuto studioso del Cuoco, al quale nel nostro studio abbiamo
frequentemente cennato, Paul Hazard (3 ). ac (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani,
p. 386, (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 387. (3 ) P. HAZARD, op. cit., p.
246. Anche P. ROMANO, op. cit., p. 5 raffronta il Cuoco e il Gioberti e dice
che il “Platone in Italia” è la preparazione del Primato morale e civile degli
Italiani. Il principio genetico dei due libri è lo stesso: una na zione non può
esplicare le forze vere, che sono in essa in potenza, nè può di esse usare, se
non ha la coscienza d'avere queste forze, o almeno la coscienza di poterle
sviluppare, e quindi dispiegare nella storia: perciò bi sogna nutrire un
orgoglio nazionale, che, basato sulla concreta realtà, è legittimo, non
arbitrario. Ma, d'altra parte, laddove il Primato giobertiano, pur riannodan
dosi, attraverso le glorie romane, alle remote genti italo pelasgiche, trova il
suo asse, il suo fulcro nel Papato, espressione di purità religiosa e
d'originaria sapienza, e si rinnoverà, se il presente sarà a sufficienza legato
al passato, cioè alla tradizione medievale- cattolica; il Cuoco, pur mantenendo
ferma la remotissima storia italo -pela sgica ed estrusca e poi ancora romana,
pur riconoscendo l'alta missione civilizzatrice della Chiesa nel Medio Evo,
questo primato vuol rinnovellare solo nel gioco delle li bere forze, espresse
da quella tragica crisi che è la rivo luzione francese ed italiana, nel loro
sviluppo, e nello spiegamento della loro maggior coscienza; nello Stato laico,
insomma, che afferrni sì la religione, come luce alla plebi, ma affermi pure
una sua intima naturale ra gione, che con la religione non ha nulla a che fare.
E in quest'accettamento delle nuove forze popolaresche, alle quali bisogna
parlare, perchè la volontà di nazione sia realmente nazione, e la volontà di
Stato realmente Stato, Vincenzo Cuoco si lega ad un altro grande, Mazzini,
tanto diverso da Gioberti, ma pur con questi entusiasta caldo nella visione del
futuro popolo dell'Italia re denta. CAPITOLO VII. L'educazione nazionale nel
pensiero cuochiano. Il popolo e la scuola. - I tre caratteri di una educazione
nazionale: universalità, pubblicità, uniformità. - Tre gradi in una completa
educazione: scuola elementare, media, universitaria. - Morale e religione nella
scuola. - Educazione filosofica. Quanto sopra abbiamo detto segna ben precisa
la po sizione di Vincenzo Cuoco come politico e pedagogo nel Regno italico. Il
Platone e gli scritti del Giornale italiano sono i do cumenti luminosi del
periodo milanese della vita del l'autore, e basterebbero a dargli una gloria
non dubbia nelle lettere del nostro paese, confortata anche da una amicizia
intellettuale, che egli godette con uomini come il Monti e il Manzoni (1 ). Con
il 1806, ritornati i francesi oramai a Napoli, Vin cenzo pur esso riede in
patria, preceduto da una vasta notorietà e annunciato da missive ufficiali del
governo di Milano per quello meridionale. È l'ultimo tratto della nobile vita
del molisano, che, attraverso una fiera ma (1 ) B. LABANCA, op. cit., p. 409;
N. RUGGIERI, op. cit., p. 48; B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 172; G.
GEN TILE, op. cit., p. 389. 261 lattia di nervi e di mente, si concluderà il 13
dicembre 1823 con la morte, tratto di vita, che è pur ricco di atti vità
pubblica, per cui il nostro attinge cariche supreme (1 ), nonchè di un'opera
dottrinale e pratica nello stesso tempo (2 ), il Rapporto e il Progetto di
decreto per l'ordi namento della pubblica istruzione nel Regno di Napoli, che
di per sé sola basterebbe ad assicurargli un posto eminente tra i pedagogisti
dell'epoca, Rapporto, che, seb bene tragga « occasione da un incarico
speciale.... agli inizi del regno murattiano » non è « il prodotto dell’oc
casione, poichè come vedremo, risponde nelle linee prin cipali, a idee
profondamente maturate dal Cuoco in tutta (1 ) G. GENTILE, op. cit., p. 390. (2
) Oltre il Rapporto il Cuoco lavorò in vari campi dello sci bile, e della sua
attività sono documento varie pagine raccolte nel secondo volume degli Scritti
vari. Del Rapporto e del Pro getto di decreto esistono numerose edizioni: una
prima, senza data e senza frontespizio, fatta a spese del governo prima del 10
ottobre 1809 per tenere il luogo del manoscritto nelle distri buzioni che del
Rapporto e del Progetto si fece al re, ai mini stri e ad altre autorità, e
quindi non pubblica; una seconda, che dovea essere il primo volume delle Opere
di V. Cuoco, raccolta iniziata nel 1848 a speso di Luisa de Conciliis, nipote
del gran molisano, e naturalmente non venuta mai a compi mento, edizione che
porta il titolo: Progetto di decreto per l'or dinamento della pubblica
istruzione seguito da un Rapporto ra gionato per V. Cuoco (Napoli, Migliaccio,
1848); una terza infine, che uscì alla luce nel primo tomo della Collezione
delle leggi, de' decreti e di altri atti riguardanti la Pubblica Istruzione
promulgati nel già Reame di Napoli dall'anno 1806 in poi (Na poli, Fibreno,
1861). Sovra queste edizioni, tutte e tre scor rette, il Gentile trasse la sua
edizione critica del Rapporto e del Progetto, corredata di documenti e note bio
-bibliografiche illustrate, che inserì negli Scritti pedagogici inediti o rari (pa
gine 49-276 ). I criteri critici di collazione delle tre suddette edizioni,
seguìti dal Gentile, non furono dismessi da N. Cortese e da F. Nicolini, che
dovettero far posto sia al Rapporto che al Progetto negli Scritti vari (v. II,
pp. 3-161 ), correggendo ta lune sviste e supplendo in talune omissioni il loro
illustre pre decessore. Nonostante che gli Scritti vari abbiano visto la luce,
allorquando questo lavoro era già compiuto, le citazioni sono state su di essi
rivedute definitivamente anche per la parte pedagogica. 262 ī la sua carriera
di scrittore e di uomo politico, in rela zione con le questioni fondamentali
del tempo suo » (1 ). Evitando di entrare nell'analisi dei fatti, che al Rap
porto precedettero e che perciò lo determinarono, perchè oramai sufficienza
noti, vengo a studiare le idee che in esso si agitano ed i loro addentellati
con tutto il pen siero cuochiano. L'istruzione è la chiave di volta d'ogni sistema
po litico. E, come ogni sistema politico mira al benessere sociale, in quanto
questo è realizzato eticamente dallo Stato, così chi questo benessere vuol
attuato, deve ope rare col mezzo dell'istruzione e della scuola. Il Cuoco vuol
rendere grande uno indipendente il popolo italiano, dan dogli veramente il modo
di formarsi una coscienza na zionale. Ma praticamente come? Con la scuola. « La
sola istruzione, risponde, può far diventare volontà ciò che è dovere. La sola
istruzione può renderci l'antica gran dezza e l'antica gloria » (2 ). Il
termine di riferimento di questa istruzione è pur sempre il popolo, nel di cui
spi rito dovranno essere alimentate le più nobili idealità pub bliche e civili,
alimentate da un lato dall'opera giorna listica, dall'altro dalla scuola. Per
comprendere questo punto occorre riferirsi, aver presenti le condizioni del
popolo e della scuola ne' primi decenni del secolo XIX. Di chi era la scuola?
Non certo del popolo, il quale, assente in tutte le manifestazioni della vita,
era assente anche nella scuola. Di chi dunque? Di pochi fortunati, dotati dalla
sorte dei mezzi necessari, onde formarsi quel che si suol dire una cultura: i
nobili, i possidenti delle campagne, i borghesi e i commercianti nelle grandi
città. La rivoluzione ha il grande merito di avere richiamato l'attenzione dei
governanti sulle masse popolaresche, ha il merito di aver compreso che solo
queste sono il nucleo dello Stato, e che cointeressarle alla cosa pubblica equi
vale eternare lo Stato stesso. Ma la rivoluzione non po (1 ) G. GENTILE, op.
cit., p. 336 e sg. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 3. 263 teva dare nel
campo educativo, e in generale formativo, buoni risultati, dato il suo
astrattismo e la sua filosofia, troppo razionalista, lontana com'era dai
bisogni e dagli interessi delle classi basse. Il Cuoco di contro accetta il
postulato rivoluzionario, per cui dal popolo non si pre scinde, ma lo rinnova
col suo concreto senso storico della realtà: bisogna, dice, non elevare il
popolo alle nostre supreme idee di libertà, di virtù, di moralità, che, in
quanto assolute, esso non comprenderà, ma noi discen dere a lui, entrare nel
suo spirito, nel suo sistema men tale, e, attraverso un progresso graduale e
lento, mostrar gli l'utilità, oltre che la necessità ideale, della libertà,
della virtù, della moralità. Questo compito, essenzial mente pratico, si può
assolvere con la scuola, che prende l'uomo fanciullo, e lo conduce
all'adolescenza, e magari alla gioventù, maturandone i sentimenti con un
processo intimo ed interiore, non mai estrinseco e forzato. Sol tanto così il
popolo entrerà nello Stato, rafforzandolo e potenziandolo. Sentite come ragiona
il Cuoco. « Le rivoluzioni » scrive « sogliono svelare il gran segreto della
forza di quel po polo, che ne' tempi di tranquillità suol esser la parte pas
siva di uno Stato. La rivoluzione francese lo ha messo in istato di produrre
grandi beni e grandi mali: la sua condizione è cangiata in gran parte degli
Stati dell'Eu ropa. Chiamarlo a parte della difesa dello Stato e delle leggi
senza istruirlo è lo stesso che renderlo pericoloso, facendogli fare ciò che
non sa fare. Volerlo ritenere inu tile, qual era prima, è lo stesso che voler
condannare lo Stato a perpetua debolezza esterna, a frequente disordine
interno. Debolezza, perchè è sempre debole quello Stato che non è difeso da’
cittadini, e non sono cittadini co loro che occupano col loro corpo sette palmi
di terra in una città, ma bensì coloro che contano tra i loro doveri l'amarla
ed il difenderla. Disordine, perchè le leggi e le istituzioni politiche non
hanno la loro garanzia se non nella volontà del maggior numero, e, se questo
maggior numero non è istruito, o non ha volontà o spesso ne ha una contraria
alla legge.... Tutto in Europa mostra la 264 necessità di dare al popolo, e
specialmente alla classe degli artefici e degli agricoltori, una nuova
educazione ed ispirargli l'amor della patria, delle armi, della gloria
nazionale » (1 ). Indietro non si torna ! Avranno i conser vatori tutte le loro
buone ragioni per fossilizzarsi in forme statali superate, ma essi non potranno
mai negare al popolo, quello che a lui si deve: l'educazione, A coloro che
obiettano che il popolo è un ammasso inemendabile di vizi e di passioni è
facile rispondere. « E pure tra questo popolo noi viviamo; questo popolo forma
la parte più grande della nostra patria, da cui di pende, vogliamo o non
vogliamo, la nostra sussistenza e la difesa nostra; e noi abbiam core di dormir
tran quilli, affidando la nostra sussistenza e la difesa nostra a colui che noi
stessi reputiamo pieno di ogni vizio ed incapace d'ogni virtù? ». A coloro poi
che dicono il popolo essere senza mente, o che ripetono il vecchio sofi sma
aristotelico, esservi uomini nati a servire ed altri nati a governare, è pur
facile controribattere. « Ebbene questo popolo nato a servire, questo popolo
che non ha mente, è quello che tante volte vi fa tremare con quei delitti, ai
quali lo spingono quella miseria, quell’ozio, quella roz zezza in cui, per
mancanza di educazione, voi lo lasciate. Se la religione non avesse presa un
poco di cura della educazione sua, qual sarebbe mai questo popolo? ». Oggi non
si può tornare indietro: il bisogno dell'edu cazione è immanente, sentito da
tutti, sovrani e sudditi, governanti e governati. « Non mai il bisogno dell'educa
zione è stato maggiore. Tutti gli usi antichi, che tenevan luogo di precetti,
vacillano: gli uomini, dopo i troppo vio lenti cangiamenti di ordini e d'idee,
soglion cadere nel l'anarchia de'costumi, che è peggiore di quella delle leggi.
Non mai vi è stato bisogno maggiore di educare quella (1 ) Giorn. ital., 1804;
n. 61, 62, 75; 21, 23 maggio, 23 giugno; pp. 243-44, pp. 247-48, pp. 303-304:
Educazione popolare (ri stampato in Scritti pedagogici, p. 23 e sgg.; ed ora in
Scritti vari v. II, pp. 93-102 ). 265 parte della nazione che chiamasi popolo e
diffonder l'istru zione ne' villaggi e nelle campagne ». Per queste sue
considerazioni il Cuoco si ricollega al grande pedagogista prerivoluzionario, a
Jean- Jacques Rousseau, il solo forse che primo sentì le vive pulsanti forze
del popolo nuovo ed il bisogno di provvedere alla di lui istruzione,
riferendosi alla sua natura e all'evolu zione delle sue facoltà (1 ). A chi noi
daremo mai questo alto compito di creare degli uomini consapevoli del loro
posto nella società ! La risposta del Cuoco non è dubbia. Dato il carattere
etico -giuridico che egli attribuisce allo Stato, è ovvio che l'educazione
debba essere impartita, o almeno control lata, dallo Stato. L'educazione mira a
formare buoni cit tadini: è naturale dunque che lo Stato » volontà collet tiva,
somma di volontà individuali, da essa non possa prescindere. « Posto questo
bisogno nello Stato » osserva giustamente il Gentile « di consolidare sempre
più le pro (1) Del resto il concetto di natura e quello d'educazione e di Stato
nel Rousseau hanno un significato ben più profondo di quanto generalmente non
si creda. Vedi a questo proposito il libro di G. DEL VECCHIO, Su la teoria del
contratto sociale, Bologna, Zanichelli, 1906, p. 32. « È.... massima (del Rous
seau ) che nella realtà si distingua ciò che è fattizio, ossia sopravvenuto per
arbitrio ed arte dell'uomo, da ciò che è na turale, ossia fondato nell'essenza
medesima della cosa. Questo ha valore di norma rispetto a quello. La natura è
dunque per Rousseau il principio del dover essere, più ancora che quello
dell'essere. Essa esprime la realtà in un senso filoso fico e non già fisico;
rappresenta la sua ragione e non la sua contingenza ». Ma questa concezione
della natura, propria del Rousseau, nel Cuoco viene integrata e corretta, come
nota il GENTILE (Studi vichiani, p. 419), con la concezione storica dello spirito.
« Ed è in verità non una contaminazione delle due filo sofie, ma la schietta
pedagogia del Vico, che aveva più salda mente fondata (benchè con fortuna
storica senza paragone minore) che non il Rousseau, il motivo di vero del suo
natu ralismo: l'autonomia dello spirito ». A due distinte fonti oc corre
ricondurre la pedagogia cuochiana, al Rousseau che gli dà vivo il senso
dell'essenza prima d'ogni realtà, al Vico che gli dà la consapevole riduzione
della stessa realtà allo spirito nella sua dialetticità. 266 prie basi nella
coscienza nazionale, è evidente che l'istru zione, come pensavano i pedagogisti
della Rivoluzione francese, e come prima aveva insegnato il Montesquieu per lo
Stato democratico, è funzione di Stato. Poichè lo Stato si regge sulla
coscienza nazionale, e questa si forma con l'istruzione pubblica, rinunziare a
questa è per lo Stato un assurdo: sarebbe come rinunziare a sè stesso » (.1).
Il compito educativo certo non si esaurisce nella scuola, ma questa trascende:
l'ecclesiastico, il filosofo, il legi slatore tutti e tre mirano allo spirito e
al suo sviluppo, ma la loro opera è di necessità insufficiente, se non è in
tegrata dall'attività generale e pubblica dello Stato. Scuole di morale, laiche
od ecclesiastiche, possono pur vivere, occorre però che lo Stato le controlli,
e le adatti sempre meglio allo scopo, alla finalità che esso si pro pone, e le
riconduca a questo, ove se ne allontanino. Sarà perfetta quella città, quello
Stato, in cui il sa cerdote, il filosofo e il legislatore si saranno messi di
ac cordo, e concorreranno ugualmente all'educazione del popolo. Stabilito il
punto primo che l'educazione deve essere dello Stato, ancorchè sia educazione
religiosa, fissiamo i suoi caratteri: essa deve essere in primo luogo univer
sale, poi pubblica, infine uniforme. L'educazione deve essere universale. Il
Cuoco concepi sce la vita da un punto di vista spiritualistico. Vita non è
vegetazione o deambulazione, è coscienza della propria posizione nel mondo,
perciò è innanzi tutto attività dello (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 408.
Noto a questo propo sito come soltanto tenendo presente il concetto di Stato
qual'è nel Rousseau, il Cuoco poteva giungere a concepire uno Stato educatore.
« Quando il Rousseau parla (Vedi DEL VECCHIO, op. cit., p. 33) della « nature
du corps politique », non intende con ciò di riferirsi alla guisa onde lo Stato
si presenta nei fatti; ma alla ragione dell'essere suo ingenerale, all'esigenza
suprema, cui esso ha da corrispondere.... La libertà e l'uguaglianza, fon date
nell'essenza stessa dell'uomo, debbono aver nello Stato la loro assoluta
sanzione ». E la libertà e l'uguaglianza bisogna intendere in un senso
spirituale e non empirico, intimo e non estrinseco. 267 spirito. Lo spirito è
qualcosa di inscindibilmente uni tario, onde l'educazione dev'essere
inscindibilmente uni taria. Tutto, scienze ed arti, scienze fisico - naturali e
scienze morali, debbono convergere ad un sol centro, lo spirito. I secoli
barbari potranno dire « non esservi alcun rapporto tra le scienze e le arti » (1
); i secoli di pro gresso, in quanto più hanno consapevolezza della realtà
mirano ad unire le disiecta membra di quel che in astratto sarà questa o quella
scienza a noi precostituita, ma che in concreto non è che una elaborazione
dello spirito, una nostra formazione, e nello spirito attinge l'uni versale.
Perciò, dice il Cuoco, « noi adopriamo la parola istruzione nel suo più ampio
significato; ed in ciò, oltre d'imitare tutta l'Europa colta, abbiam la gloria
di se guire gli esempi domestici. I nostri pittagorici, forse i più savi
istruttori di tutta l'antichità, niuna parte della vita umana escludevano dalla
pubblica istruzione » (2 ). L'educazione, in secondo luogo, deve essere
pubblica. L'Italia è sempre stata una terra feracissima di ingegni, ricca di
uomini grandi, ma costoro, maturatisi in am bienti apatici e morti alla
cultura, hanno molto contri buito alla propria gloria, poco alla gloria dello
Stato e al benessere della collettività. Poichè « la nazione non era istruita,
essi fecero molto per la gloria loro, nulla o poco per l'utilità della patria;
tra essi ed il popolo non eravi nè lingua intelligibile, nè mezzo alcuno di
comunica zione » (3 ). Occorre quindi che lo Stato dia un'istruzione ai suoi
cittadini, onde le loro forze non vadano disperse, ma convergano sempre più e
meglio ad un fine unico,. il progresso civile. Ma il fatto che l'istruzione sia
pubblica e statale si gnifica dunque la morte delle scuole private, specie in
un paese come l'Italia ed in particolare Napoli, ove la scuola privata ha una
storia nobilissima? No certo: le scuole private sussistano pure gestite da
chiunque, ma (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 4. (2 ) V. Cuoco, Scritti
vari, v. II, p. (3) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 4. 5. 268 lo Stato ha
l'alto controllo a che i maestri siano degni e moralmente e culturalmente, a
che la materia d'in segnamento sia comune a quella delle scuole pubbliche, a
che non si propaghino per mezzo loro dottrine con trarie all'ordine pubblico e
alla moralità media della società. Il fatto però che l'ente pubblico, cioè lo
Stato, dia una educazione ai suoi cittadini non significa che tutti i cit
tadini debbano divenire altrettanti dotti. Lo Stato non pud perseguire questo
fine. Ricordiamo quel che il Cuoco dice nel Platone in Italia, laddove osserva
che una città di soli savi non meriterebbe nemmeno il nome di città, perchè le
mancherebbe ciò che solo tramuta una congre gazione d’uomini, in città, in
Stato: « la vicendevole di pendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata
e sicura la vita e la perfetta indipendenza dagli stra nieri » (1 ). Accanto al
savio è necessaria la coesistenza della massa dei non savi, e in questa è poi
necessaria una ulteriore differenziazione di funzioni, per cui l'agricoltore
non sia calzolaio, il muratore non sia mugnaio. Coloro che si propongono un
assoluto illimitato eleva mento intellettuale del popolo cadono nell'errore,
poichè vogliono l'impossibile e il dannoso: l'impossibile, « per chè non si può
giungere alla perfezione nelle scienze se non per la stessa via, per la quale
vi si perviene in tutte le arti, cioè dividendo gli oggetti del lavoro ed occu
pandosi di un solo; il che da un popolo intero non si può fare, poichè, per
sapere, dovrebbe egli rinunciare ai mezzi di vivere »: il pernicioso, « perchè
rimanendosi il popolo a mezza strada, avremmo una nazione di mezzo sapienti; ed
un mezzo sapiente, diceva il Chesterfield, è unpazzo intero » (2 ). Da ciò
consegue che l'istruzione, sebbene pubblica, non può essere uguale per tutti, e
come nel paese vi deb bono essere i ricchi e i poveri, i conservatorie i
filoneisti, (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 86. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v.
II, p. 5. 269 così vi debbono essere i dotti e gli indotti, i più colti e i
meno colti. Vi sarà perciò una istruzione per pochi, che diremo sublime o alta,
una per molti, che diremo media o secondaria, una per tutti, che diremo
elementare o pri maria. La prima è destinata al progresso delle scienze, la
seconda ha per iscopo di diffondere i trovati dell'alta cultura nella vita
commerciale industriale agricola a con tatto con il popolo, la terza di dare
allo Stato fedeli sud diti, virtuosi e morali cittadini. Questa tripartizione
della scuola rivela il gran senso pratico del nostro autore, a cui della vasta
gamma della vita umana nulla sfugge e si perde. Ma la discriminazione non si
ferma qui. Occorre che l'istruzione, che lo Stato impartisce alle donne, sia
diversa da quella, che impar tisce agli uomini, e che per le donne stesse
sianvi pure le tre forme o gradi di scuola sovra dette. L'istruzione alle donne?
È questo un tema caro al Cuoco. Le donne, scrive nel Platone, hanno il
grandioso compito di allevare figli per lo Stato, e di allevarli non nel senso
comune, cioè di nutrirli, ma di istillare in essi i primi sensi della vita
sociale, i primi germi, che poi nell'interiorità dello spirito si
svilupperanno. Esse, che hanno un così alto compito, conviene che abbiano una
adeguata preparazione. Infatti, scrive il Cuoco, « non può dare al figlio
l'educazione di un cittadino colei che ha la condizione e la mente di una serva
» (1. ). Perciò lo Stato si deve preoccupare dell'educazione femminile, e
provvedervi in modo da non turbare l'ordine della natura e la sua essenza:
educare le donne da donne, ed educarle secondo la diversa posizione sociale che
nel mondo esse avranno: e « quando le donne saranno educate, sarà com piuta per
metà l'educazione degli uomini » (2 ). Una questione subordinata è quella della
gratuitità del l'istruzione. Deve essere questa gratuita per tutti? No.
L'istruzione inferiore o primaria, appunto perchè ha i (1 ) V. Cuoco, Platone,
v. I, p. 25. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 21. 270 caratteri della più
vasta generalità, è offerta dallo Stato a tutti senza retribuzione alcuna, ma
l'istruzione media e superiore, siccome risponde ad utilità non solo sociale,
ma altresì particolare, deve essere pagata da chi ne usu fruisce, salvo sempre
a fare condizioni di favore a chi, essendo sfornito di beni di fortuna,
s'addimostri degno per altezza d'ingegno di essere mantenuto agli studi dallo
Stato, che un giorno o l'altro con le opere sue glo rificherà. Infine, in terzo
luogo, l'istruzione deve essere uni forme. Dopo quanto abbiamo detto
l'uniformità dell'istru zione appare chiara: in ogni suo grado, inferiore medio
e superiore, in ogni suo aspetto, maschile e femminile, l'istruzione deve
essere uniforme, svolta con gli stessi programmi, con gli stessi metodi, con
gli stessi libri. Il Cuoco non si nasconde i gravi difetti insiti nell'abuso
d'un simile sistema: le scienze possono anche arrestarsi, poichè la discussione
e il contrasto sono il vero e più efficace stimolo al progresso: si può
generalizzare un abito di servilità verso il passato, che è quanto di più
nocivo per la vita, che si sviluppa in un irrefrenabile superamento dell'antico
nel nuovo. Perciò questa uniformità non si può intenderla in un senso assoluto,
ma bensì relativo. Ognuno che insegna deve insegnare, previa autorizzazione
dello Stato, ed in segnare sulla base di un programma -metodo anteceden temente
presentato alle superiori autorità pubbliche. I corsi impartiti da privati non
avranno effetto accade mico, se non in seguito ad un esame dinanzi ai docenti
di Stato. Lo Stato inoltre esamina e giudica i libri di testo che andranno per
le mani dei giovani. Certo questo sistema potrebbe portare con sè il più grave
degli inconvenienti, lo staticizzarsi dell'insegnamento, il chiudersi in for
mule, in programmi, in metodi, cioè in quanto di più astratto si possa
immaginare. Per eliminare tutto ciò il Cuoco propone una direzione o ministero
di tecnici, che aperto a tutti gl'influssi scientifici europei, nell'opera sua
di controllo riconosca meriti e punisca abusi, ed 271 in ogni caso abbia di
mira il progresso e lo sviluppo del l'attività spirituale (1). Posti questi
princípi fondamentali, Vincenzo Cuoco abbozza un suo vero e proprio progetto di
riforma sco lastica, particolareggiato e minuto, monumento insigne di sapienza
pedagogica, in cui davvero noi sentiamo vi vere quella che è la scuola moderna.
Noi non possiamo seguirlo fino alle ultime delucidazioni, ma ci proponiamo di
astrarre dall'opera quei princípi generali, che più hanno relazione con
l'assunto politico. Caratterizzando la scuola primaria il nostro scrittore dice
che questa, oltre a dare le prime nozioni della lettura e della scrittura, mira
a formare una morale, volendo significare che mira a formare una moralità media
so ciale. È un punto importante. La morale è necessaria per gli aggregati
umani, ed è necessaria in sè e nella sua uniformità. Possiamo anzi osservare
che essa è un bi sogno dello spirito che la elabora e la pone. Questo pro cesso
di formazione è un processo spontaneo. Lo Stato non può ignorarlo. O esso
interviene e lo promuove, al lorquando prende i fanciulli nelle prime scuole e
li porta giovinetti fino alle superiori, plasmando e riplasmando le loro
coscienze, o esso inattivo assisterà a degli svi luppi spirituali, dai quali
può anche ricevere danno. « È necessario che ai popoli si dia (una morale ]:
altri. menti se la formeranno da loro » (2 ). Questo compito, il dare al popolo
una morale, è af fidato alla scuola primaria, allorquando l'uomo è tenero ed
atto a ricevere le più svariate nozioni e a compene trarle di tutto il proprio
afflato spirituale. Se questa mo rale « la riserbate all'età adulta, quando già
l'uomo ha sentito ed ha agito, voi gliela darete tardi; egli si tro verà di
aversene già formata un'altra: siete sicuro che non sia diversa dalla vostra, e
che, essendo diversa, vi riesca di distruggerla? » (3). (1 ) V. Cuoco, Scritti
vari, v. II, p. 14. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 16. (3 ) V. Cuoco,
Scritti vari, v. II, p. 16. 272 La prima morale, quella dell'infanzia, è la più
pro fonda. Il fanciullo la riceverà, quando il suo animo è ancora puro, in
sublime stato d'innocenza, scevro di passioni conturbatrici, e non la
dimenticherà mai più, poichè essa gli è divenuta abitudinaria, vale a dire con
naturale al proprio esssere. E, se tutti i fanciulli saranno stati educati
dallo Stato allo stesso modo, l'opinione dei singoli sarà coincidente con
l'opinione universale. Qui si rivela un grande senso pratico. Non basta im
porre la legge ai singoli, occorre sentirne la necessarietà od anche, ov'è
possibile, l'utilità, perchè essa non resti un astratto, ma vibri davvero nella
coscienza collettiva: e questo è il compito della morale. Lo Stato perciò di
Cuoco non si preoccupa dell'istru zione letteraria soltanto, ma anche, e sopra
tutto, del l'istruzione morale e politica. Dell'istruzione religiosa non si
preoccupa « perchè appartiene ai di lei ministri » (1 ). Ma quest'affermazione
non bisogna assumerla in senso rigido. Dato il sistema politico del Cuoco, per
cui lo Stato è stato professionista e giurisdizionalista, è ovvio che lo Stato
non può disinteressarsi di quell'educazione reli giosa, che, ancorchè si ponga
fuori dalle mura delle aule scolastiche, mira agli spiriti, cioè agli uomini,
che sono poi cittadini. La religione è un mirabile strumento d'educazione, an
corchè non sia l'educazione stessa. Come può lo Stato ri manere indifferente
dinanzi ad essa? « È necessario che la legge le dia la norma, perchè spetta
alla legge, alla sola legge, il determinare qual debba essere la virtù del
cittadino. È necessario che la filosofia le indichi i mezzi, perchè la
filosofia è quella cui spetta conoscere il cuore e la mente umana e le vie per
insinuarvi la virtù e la saviezza » (2 ). Ma d'altra parte la stessa educazione
di Stato deve (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 12. (2 ) Giorn. ital.,
1804, n. 61, 62, 75; 21, 29. maggio, 23 giugno; pp. 243-44, pp. 247-48, pp.
303-4: Educazione popolare (vedi p. 264 del presente lavoro ). 273 avere
carattere religioso. Il Cuoco ha detto che la reli gione non s'insegnerà nelle
scuole: va bene: ma l'in segnamento, ' specie il primario, non sarà efficace se
non sarà circonfuso di quello spirito religioso, che parla alle anime semplici.
Il dotto trova nell'assoluto etico il soddisfacimento delle sue esigenze di
libertà; l ' indotto, il fanciullo hanno bisogno di quella morale rivelata ed
oggettiva che è la religione. In un articolo del Giornale italiano il Cuoco,
par lando di una scuola normale danese, atta a creare ottimi maestri, scrive
che « il popolo deve esser istruito, ma non deve esser dotto: ad ottener
ambedue questi fini, non vi è altro mezzo più efficace che dargli de' maestri
egual mente lontani dall'ignoranza e dalla pedanteria; met terli in tutt'i
punti dello Stato, onde sieno.in contatto col popolo, nè il popolo abbia
bisogno di cercarli; rive stirli di un carattere che pel popolo è il più sacro,
cioè del carattere religioso » (1 ). Quindi anche l'istruzione ele mentare,
ancorchè laica e gestita e controllata dallo Stato, non può prescindere da quel
carattere, che diremo in senso assai largo religioso, come quello che meglio
risponde all'indole e alla natura del popolo, che è tutto senso e fantasia e
poco ragione. Sovra questa base religiosa si potrà fondare una mo rale civica, poichè
chi è buon credente in massima sarà buon cittadino, e sulla morale poi si
assicurerà il rispetto alle leggi e allo Stato. Ma la base di tutto è la
religione. E, siccome la pubblica autorità « si occupa dapertutto a fare sì che
vi sieno istituzioni uniformi di quelle idee che più importa che sieno comuni e
concordi, così dia una norma anche per le istruzioni che fanno i ministri
dell'altare; le quali, se non sono concordi colle altre, sa ranno inutili; se
sono discordi, diventeranno nocive ». Da tutto ciò una illazione. « Riuniamo (esse
non si avreb bero dovuto separar giammai) le istruzioni della casa, (1 ) Giorn.
ital., 1804, 29 ottobre, n. 130, p. 528-29: Utilità pubblica. 18 - F. BATTAGLIA.
274 del fòro, del tempio; tolgansi una volta quelle diversità di princípi, per
cui ciò che la legge economica di una famiglia richiede è condannato dalla
legge politica di tutta la città, e ciò che la patria impone è indifferente per
la religione; facciam sì che costumi, leggi, religione non abbiano che un sol
fine, che è quello di render i cit tadini più virtuosi e la patria più felice »
(1 ). È la naturale logica conseguenza di quella visuale che il Cuoco ha dei
rapporti tra Stato e Chiesa e del posto che egli attribuisce alla religione
nella vita dello spirito, so luzione tirannica, se si vuole, ma altamente
liberale, se si pensa alla natura dello Stato cuochiano, Stato etico, attuante
una sua libera finalità superiore ad ogni parti colare transeunte ed assommante
in sè tutte le varie ma nifestazioni della vita. Lo Stato del Cuoco ha molti
punti di contatto con lo Stato del Fichte e dell' Hegel. « E ogni - volta »
nota giustamente il Gentile « che si sente forte mente la sostanzialità etica,
il valore ideale e morale dello Stato (il che avviene quando piuttosto si
guarda all'idea di esso o a uno Stato futuro, che non quando si abbia
sott'occhio un determinato governo, il quale di tanto è imperfetto a
rappresentare realmente lo Stato, di quanto è inferiore alle idealità che nello
Stato pure si agitano, senza raggiungere la forma giuridica ), così della
religione come della filosofia, in quanto servono anch'esse come elementi
riformatori della coscienza civile, si fa necessariamente uno strumento del
fine politico » (2 ). Laddove l'educazione primaria deve mirare alla fan tasia
e al senso, e perciò deve essere essenzialmente re ligiosa, l'educazione
superiore deve essere filosofica, cioè mirare allo spirito nelle sue più
elevate manifestazioni razionali. Le qualità proprie d'ogni vera educazione, in
quanto spirito, l'unitarietà sopra tutte, si rivelano ora. « L'educazione ben
diretta non ha tanto in mira d’in segnare una o due idee positive di più o di
meno, quanto (1 ) Giorn. ital., 1804, 25 aprile, n. 50, p. 200: Varietà (vedi
p. 226 del presente nostro lavoro ). (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416.
275 d'ispirare l'amore di una scienza e dare alla mente una attitudine maggiore
a comprenderla. Quasi diremmo che non si tratta di formar un libro, ma un uomo:
giacchè ad un libro rassomiglia un uomo meramente passivo, il quale tante idee
tiene quante se gliene son date; mentre al contrario il carattere della mente è
quella di esser at tiva, creatrice, capace di formare le sue idee, ordinarle,
saperle insomma dominare in tutti i modi e signoreg giare » (1 ). Il concetto
realistico della vecchia pedagogia è superato. Il maestro, infine, è tale in
quanto è nello spirito del discente, in cui si compie quel processo, per cui la
nozione divien vita, cioè atteggiamento spirituale e s’armonizza in un vasto
tutto, la personalità. La scuola non è accademia, ma intima affermazione di
coscienze formatesi gradualmente in un logico libero sviluppo. Tutto il vecchio
macchinario formalistico deve essere bandito: il giovane deve essere posto a tu
per tu con i grandi scrittori, poeti storici filosofi, senza il tramite di quei
cimiteri di formule che sono le grammatiche, senza il tramite di quelle carceri
di idee, che sono le retoriche e le poetiche: il giovane deve mirare al
contenuto ideale delle cose, formarsi quel che si può dire estrinsecamente un
metodo acquisitivo, ma che in sostanza null'altro è che una forma dello spirito
inscindibile dal suo conte nuto. Questo stesso carattere unitario deve offrire
l'istru zione superiore. Una differenziazione di facoltà o scuole speciali e di
cattedre s ' impone per i fini professionali che si perseguono, ma «
l'istruzione vera è quella che tutte le parti dello scibile ci presenta ben
ordinate, tutte ce le addita e ci mette nello stato di poter da noi stessi
trattenerci intorno a quella che più ci piace » (2 ). Messo dinanzi ai mezzi
con cui si può progredire nello spirito, il giovane deve scegliere,
perfezionarsi nel sapere, af fermarsi nella gara della vita. (1 ) V. Cuoco,
Scritti vari, v. II, p. 25. (2) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 53. 276 Se
ora l'istruzione media ed universitaria, come ho detto deve avere carattere
filosofico, ne deriva una pro fonda trasformazione di tutto ciò che era per l'
innanzi. Un esempio solo basterà per mostrarci le infinite conse guenze di
questa nuova posizione. L'eloquenza per gli antichi null'altro era che uno
strumento per il ben scri vere, e questo bene scrivere tutto si imperniava
sovra il gioco delle grammatiche, delle retoriche, delle poe tiche. Ora,
osserva il Cuoco, la filosofia s'è impadronita delle materie dell'eloquenza. Nè
è a dire questa una usur pazione, ma una legittima rivendica di ciò che la
filosofia già possedeva in antico, cioè con i Platoni e gli Aristo teli. La
forza del dire, la perspicuità dello stile non di pendono da cause estranee a
noi, come le norme più o meno buone apprese sui " libri scolastici, ma
dalla ric chezza della nostra vita interiore, « dalla forza e dal nu mero delle
idee presentate al nostro spirito » (1 ). Perciò quello che nella riforma del
Cuoco serba il vecchio nome di eloquenza, diviene una vera filosofia del bello
o este tica, che dir si voglia, come quella che direttamente mira allo spirito
e alle sue manifestazioni fantastiche, cioè artistiche. Ne il Cuoco si arresta
qui, ma seguendo la sua idea che la vera grammatica non possa essere se non
nella vita del periodo, in quanto questo scaturisce dalla mente originario e
fresco, vagheggia una grammatica universale e filosofica, che insegni il meccanismo
di tutte le lingue sulla base della comune uniforme mente umana (2 ). La stessa
filologia, come la stessa erudizione e lo stesso studio dei monumenti antichi,
sia grafici che tecnici, « ha le sue idee astratte, ha la sua parte filosofica;
perchè ha (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v p. 56.. II, (2 ) Qui più che mai si
palesa quel concetto della natura, per cui nelle cose occorre distinguere quel
che è fattizio accessorio da ciò che è essenziale ed originario, che il Cuoco
attinge come abbiamo veduto dal Rousseau ed integra con una sicura intui. zione
dello spirito in ogni suo aspetto o attività di vita, che de riva certamente
dal Vico. 277 le sue regole universali applicabili ai fatti di tutte le na
zioni. » (1 ). Bisogna uscire dallo studio del fatto in sè e per sè, sia esso
un documento grafico o un rudere ar chitettonico, risalire allo spirito,
all'idea che ha mosso un popolo o un individuo a crearlo. E come nello spi rito
umano c'è un'essenzialità comune, dalle conclusioni particolari ad un popolo
occorre risalire a conclusioni più vaste, a generalizzazioni più audaci,
investenti il nu cleo della universalità, seguendo questi stessi princípi, che
il Vico ha divinato nella sua Scienza nova. Giambattista Vico, analizzando la
filologia dei greci e dei romani, ha così fissato le norme per ogni filologia,
ha stabilito leggi sicure, addimostrando non le leggi che governano il
linguaggio dei singoli, ma bensì quelle che governano il linguaggio delle
nazioni. E così si dica, per i miti, per le norme giuridiche, per i riti. « In
tal modo la scienza dell'erudizione diventa veramente filosofica; e ciò, che
sappiamo de ' greci e de ' romani, diventa utile ad intendere ciò che della
filologia delle altre nazioni o ignoriamo o conosciamo imperfettissimamente »
(2 ). (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 62. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari,
v. II, p. 62. Conclusione. Ed ora che abbiamo analizzato la personalità di Vin
cenzo Cuoco in tutte le sue manifestazioni politiche e pedagogiche, ci sia
lecito concludere, pur sapendo quanta parte del pensiero del molisano sia
rimasta fuor dalle linee tracciate. Qual'è la posizione del nostro scrittore
nella storia culturale d'Italia? Posto a cavaliere tra il secolo XVIII e il XIX
è il più importante rappresentante di quel che un critico francese, Paul
Hazard, ha detto l'italiani smo, e che, se nel secolo XVIII s'impersona nel pen
siero storicista, e perciò antirazionalista, di Giambattista Vico, reagente
contro l'astrattismo razionalistico di Car tesio, nonchè contro il materialismo
di altri minori, in nome di supreme esigenze dello spirito; nel secolo XIX si
impersona nel Cuoco, che animato dall'alta tradizione nazionale muove contro ogni
forma di vita, che italiana non sia, e quindi non connaturale a noi, e perciò
non veramente storica ma rigidamente morta, astratta, vuota d'ogni vibrante
contenuto umano. È un'ideale continuità quella che lega il Vico al Cuoco, è la
gloria perenne del pensiero italico rinascente, quando le straniere
infiltrazioni sempre più sembrano soffocarlo. Il Vico rappresenta un profondo
rinnovamento nella filosofia, e perciò in tutte le attività umane, che dal me
todo filosofico non possono prescindere: la politica, la storia, la
giurisprudenza, l'economia. Asserendo lo spi 279 rito fonte prima d'ogni realtà
morale, asserisce la vera libertà, libertà che nè il Medio Evo nè il
Rinascimento, moventisi ancora nell'antico dualismo dell'essere e del divenire,
potevano assolutamente concepire. Egli è il primo, che sente il dinamismo dello
spirito e pone le grandi proposizioni della filosofia moderna: il mondo del
l'arte sensuoso e fantastico, il mondo della storia delle nazioni concretato
nelle istituzioni e nelle leggi, il mondo della religione e della moralità
s'originano da noi, in noi trovano la loro fonte prima perenne inesauribile,
nella continua attività dello spirito. E, se teniamo fermo questo punto, tutto
ci si discopre trasformato, e quel che prima era estrinseco, incasellato, morto
diviene intimo, libero, vivo. Ma questa posizione implica un nuovo e diverso
processo: la realtà spirituale non si conosce, se non affi sandosi nelle più
varie manifestazioni delle sue concretiz zazioni, vale a dire discendendo al vero
storico, per poi risalire di nuovo allo spirito prima e remota scaturigine:
l'unità dello spirito non si comprende se non attraverso la molteplicità, e
viceversa la molteplicità non si com prenderebbe se non per il tramite
dell'unità. Chiamiamo filosofia la scienza dell'idea eterna ed im mutabile, di
ciò che non è transeunte e contingente; chiamiamo filologia la scienza dei
fatti umani, assom mante in sè ogni mutevole prodotto storico: occorre con
ciliare l'una con l'altra, la filologia con la filosofia. È il grande assunto
del Vico: porre questo nesso correlativo: non v'è filosofia senza filologia, nè
filologia senza filosofia. La mente umana è l'origine dell’una e dell'altra,
produce l'idea, il vero filosofico, come genera il fatto umano, il vero storico.
Da ciò scaturisce che la sua realtà è questo mondo degli uomini, in cui siamo
nati ed in cui ci muo viamo, in cui dobbiamo foggiare la nostra individualità
ed agire per noi e per gli altri, per il nostro particolare e per lo Stato, in
cui vive il nostro miglior noi. E questo il Vico esprime nella notissima
icasastica frase: « questo mondo civile certamente è stato fatto dagli uomini,
onde se ne possono, perchè se ne debbono, ritruovare i prin cípi, dentro le
modificazioni della nostra medesima mente 280 umana » (1). Questo il nucleo
profondo della filosofia del Vico, che Cuoco acquisisce e fa sangue del suo
sangue, movendo da esso a rinnovare la struttura della politica e della
pedagogia tradizionale: Il Cuoco in senso rigido non è filosofo vero, come
colui nel quale rimangono vecchi e irresoluti reliquati intellet tualistici
nonchè contraddizioni insanabili, per cui in qualche punto è ancor più indietro
del suo istesso maestro; ma il suo grande merito è l'aver posto in termini poli
tici quel che in Vico era filosofia, e l'aver visto quale inesauribilità di
situazioni poteva germinare dalla vec chia esperienza vichiana. In un mondo
vuoto e falso quale quello della rivolu zione italo - francese, egli,
riinnestandosi al Vico, dà alla nazione quel senso storico che le mancava, e le
ridona * quella comprensione sicura della realtà, quella fiducia, che solo può
scaturire da una ferma credenza in noi, nelle nostre possibilità, nel nostro
avvenire. Nella rivoluzione napoletana si è detto con felice frase sono i germi
dell'unità d'Italia, e, notiamo, non solo dal punto di vista estrinseco, ma dal
punto di vista anche intellettuale. Con il cadere della Partenopea, diecine e
diecine di esuli si diffondono per il Nord d'Italia, ed ivi portano il loro
sapere, la loro cultura filosofica più o meno permeata di vichismo, il loro
diritto, la loro economia: da ciò nasce una più intima comunione di spiriti,
una più attiva fratellanza di idee tra italiani ed italiani. E chi resta
insensibile a questo gran movimento cultu rale, in cui sono non pochi e piccoli
germi di quel che sarà il Romanticismo? Nessuno, direi: non v'è alta co scienza
che per effetto di questa propaganda non vi chianeggi. È un po' la moda, ma una
moda benefica, che porta ad una migliore intesa tra uomini di diverse regioni
d'Italia, che erano per secoli rimaste quasi estranee tra loro. Più gli studi
si approfondiscono e più questo fenomeno (1 ) G. Vico, Scienza nova, v. I, p.
172. 281 appar vero, ' e, notiamo, anteriore in un certo senso al l'opera
stessa di Vincenzo Cuoco. È di ieri, recentissimo, uno scritto di Luigi Rava,
che ci informa di una rivista, fiorita a Venezia verso il 1796, tre anni prima
dunque dell'esilio del nostro molisano, il Mercurio d'Italia, in cui Ugo
Foscolo giovinetto fa le sue prime armi e pubblica i suoi precoci scritti, La
Croce, l'Ode a Dante, La morte di *** ed altri componimenti di minore
importanza (1 ). Ebbene in un articolo anonimo sovra l'Abbozzo di un quadro del
progresso dello spirito umano del Condorcet v'è un raffronto tra le dottrine
del francese e quelle di Giambattista Vico. È proprio ca suale questa
coincidenza? E il Foscolo giovinetto, che del Vico poi certo si nutrì come
dimostrano molte idee dei Sepolcri e degli scritti critici, rimase insensibile
al richiamo di questo grande filosofo italiano, « così poco conosciuto fuori
della sua Napoli »? (2 ). Ma i veri apo (1) Luigi RAVA, Le prime armi del
Foscolo giornalista: il Mercurio d'Italia, in Rivista d'Italia, a. XXVII (1924),
v. I, fasc. III, pp. 257-279. (2 ) Un certo quale influsso vichiano forse
inconscio si può rinvenire in Carlo Gozzi e nella posizione assunta con le sue
ce lebri Fiabe contro il Chiari e il Goldoni, in cui certo egli rappre senta
una tradizione veramente italica, se pure esausta dal tempo, contro una riforma
che a lui pareva una volgarità, troppo permeata di verismo com'era. Lastessa
ricerca del fan tastico per il popolo in una società razionalista, superba
della infinita sicurezza dell' intelletto, è una posizione vichiana. « Il
contenuto » scrive il DE SANCTIS, (Storia, II, p. 305 e sg. ) se è il mondo
poetico com'è concepito dal popolo, avido del meraviglioso e del misterioso,
impressionabile, facile al riso e al pianto. La sua base è il soprannaturale
nelle sue forme: miracolo, stregoneria, magia. Questo mondo dell'immagina
zione, tanto più vivo quanto meno l' intelletto è sviluppato, è la base
naturale della poesia popolana sotto le più diverse forme: conti, novelle,
romanzi, storie, commedie, farse. La vecchia letteratura se n'era impadronita,
ma per demolirlo, per gettarvi entro il sorriso incredulo della colta
borghesia. Rifare questo mondo nella sua ingenuità, drammatizzare la fiaba o la
fola, cercare ivi il sangue giovane e nuovo della com media a soggetto: questo
osò Gozzi in presenza d'una società scettica e nel secolo de’lumi, nel secolo
degli spiriti forti e 282 stoli del vichismo sono nell'Italia settentrionale
gli esuli napoletani del '99, come osserva B. Croce (1 ), sono Vin cenzo Cuoco,
Francesco Lomonaco, Francesco Salfi, il Massa, il De Angelis ed innumerevoli
altri minori ma pur degni. Per la loro opera si può dire che non vi sia grande
scrittore che non vichianeggi. L'influsso che il Cuoco od altri esercitò sul
Foscolo, è indiscutibile. A noi non risulta alcun documento com provante
possibili e diretti rapporti Cuoco - Foscolo, ma è certo che, se il molisano
ebbe relazioni, anche super ficiali, con amici del poeta dei Sepolcri, questi
non potè ignorare l'autore del Saggio storico (2 ). Ma sia o non sia stato il
Cuoco od altri (3 ) a far conoscere il Vico al Foscolo, de’belli spiriti. E
riuscì ad interessarvi il pubblico, perchè quel mondo ha un valore assoluto e
risponde a certe corde che, ma neggiate da abile mano d'artista, suonano sempre
nell'animo: ciascuno ha entro di sè più o meno del fanciullo e del popolo ».
Del resto l'ultimo editore di C. Gozzi, Domenico Bulferetti, (Le memorie
inutili, Torino, 1923, vol. due) non ha potuto ne gare che lo spirito
dell'autore delle Fiabe assuma atteggia menti non certo consoni al tempo suo e
alla veneta società, come tutte le società del tempo illuminata, ma riecheggi
un po' il nuovo storicismo meridionale, pur senza essere riuscito a provare una
diretta influenza di quest'ultimo sugli studi del suo autore. (1 ) B. CROCE, La
filosofia di G. Vico, p. 289; B. CROCE, Storia della storiografia, v. I, p. 12.
(2 ) G. ROBERTI, in Giornale storico della letteratura italiana, a. XII, v.
XXIII, pp. 416-427. Il Roberti raccoglie nell'arti colo alcune lettere che C.
Botta, U. Foscolo, V. Cuoco inviarono al suo bisavolo paterno, Giovanni Giulio
Robert (poi italianiz zato in Roberti). Le lettere di Foscolo sono delle mere
com mendatizie di due esuli meridionali, uno certo Piscopo, l'altro un anonimo,
che il Roberti crede, senza peraltro dimostrarlo, che sia il Lomonaco. Da ciò
si deduce sicuramente che Ugo ebbe rapporti con meridionali e con amici diretti
del Cuoco. (3 ) Vedi a proposito G. PECCHIO, Vita di U. Foscolo, Città di
Castello, Lapi, ed., 1915, p. 170, p. 210 e passim. P. HAZARD, op. cit., p. 241
osserva: « Son influence se répandra même dans la littérature pure, où en
trouvera des traces chez Monti et chez Foscolo. Toux ceux lacomprennent les
articles que Cuoco consacre à son maître (Vico] ». Ora F. NICOLINI nella Nota
agli Scritti vari di V. Cuoco, v. II,p. 397, dice che gli 283 gli scritti del
poeta stanno lì a testimoniare come pro fondamente nutriti essi siano di
pensiero vichiano: così il processo dell'incivilimento descritto nel carme, per
cui furono nozze e tribunali ed are, che diero alle umane belve essere pietose
di sè stesse e d'altrui, è derivato di-. rettamente dalla Scienza nova, ove è
meditato il pas saggio dall'età degli dei alle grandi società eroiche (1 ); e
così pure il costume che tolse i miserandi cadaverici avanzi alle fiere e li
provvide di sepoltura (2 ). Parimenti articoli del Giornale italiano furono
letti attentamente, « molto letti » oltre che da V. Monti e A. Manzoni anche da
U. Fo scolo, e allo scopo di provare ciò rimanda ad una recensione, in cui il
molisano parla del libro Della Tumulazione di A. DELLA PORTA, Como, Ostinelli,
in cui « è, come si vede, il medesimo fondo di idee vichiane, a cui.... s’
ispirò il Foscolo nei Sepolcri » (v. I, p. 254). (1 ) B. CROCE, La filosofia di
G. B. Vico, p. 172. (2) Confronta i su citati brani foscoliani con i seguenti
di Vico: à Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per
immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lon tane, divisamente fondate,
custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte
contraggono matri moni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; nè tra
nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più
ricercate cerimonie e più consagrate solennità che reli gioni, matrimoni e
seppolture. Chè per la Degnità, che « idee uniformi, nate tra popoli
sconosciuti tra loro, debbon avere un principio comune di vero, dee essere
stato dettato a tutte, che da queste tre cose incominciò appo tutte l'umanità,
e perciò si debbano santissimamente custodire da tutte, perchè 1 mondo non
s'infierisca e si rinselvi di nuovo » (Scienza nova, v. I, p. 173). «
Finalmente, quanto gran principio dell'umanità sieno le seppolture, s'immagini
uno stato ferino nel quale restino insep polti i cadaveri umani sopra la terra
ad esser esca de corvi e cani; chè certamente con questo bestiale costume dee
andar di concerto quello d'esser incolti i campi nonchè disabitate le città, e
che gli uomini a guisa di porci anderebbono a mangiar le ghiande, colte dentro
il marciume de’ loro morti congionti. Onde agran ragione le seppolture con
quella espressione su blime Foedera Generis Humani ci furono diffinite e, con
minor grandezza, Humanitatis Commercia ci furono descritte da Ta cito ». (Scienza
nova, I, p. 177 ). Notiamo che nel primo brano citato il rinselvarsi sta per
284 lo stato ferino dei figli della terra, duellanti a predarsi, primi avi
dell'uomo, quei cannibali che s ' imbandiscono convito delle carni umane, così
vivi nel mondo rifinito de Le Grazie, non si intendono, se non riferendoci ad
un sistema filosofico che è certo quello del Vico (1 ), si stema che
siffattamente compenetra l'opera del poeta, che questa trascende e si riflette
in tutti gli scritti pro sastici, sia pure storici e critici (2 ). Onde tutta
la sua cri tica trova il nucleo originale nei nuovi portati dell'este
significare il ritorno allo stato selvaggio primitivo, onde la parola selva
significherebbe lo stato stesso, e che precisamente in questo senso il primo e
il secondo termine sono stati as sunti da Ugo Foscolo nella celebre Orazione
inaugurale: « le umane belve ancor vagabonde per la grande selva della terra » (Opere,
ed. Lemonnier, v. II, p. 21 ); nonchè ripetuti da un gio vane, pur esso
destinato a divenire un grande scrittore, da GIOSUE CARDUCCI: « fuggendo per la
gran selva de la terra il nato de la donna ululò già co' leoni a la preda
cruenta: indi con vitto ferin la vita propagando, incerti videsi intorno i
figli: e lui cedente de la materia a le vicende eterne l ' immane salma, per lo
gran deserto dilaceraro i lupi ». (Rime, San Miniato, Tipografia Ristori, 1857,
p. 84). (1) La vita preistorica è con viva arte descritta dallo stesso Vico
nelle prime pagine dell'opera sua, laddove accenna alle prime trasmigrazioni
marittime: «.... gli antenati di coloro che furono poi gli autori delle
trasmigrazioni medesime: furono dapprima uomini empi, che non conoscevano niuna
divinità; nefari, chè, per non esser tra loro distinti i paren tadi co'
matrimoni, giacevano sovente i figliuoli con le madri, i padri con le
figliuole; e, finalmente, perchè, come fiere be stie, non intendevano società,
in mezzo ad essa infame comu nion delle cose, tutti soli e, quindi, deboli e,
finalmente, miseri ed infelici, perchè bisognosi di tutti i beni che fan d'uopo
per conservare con sicurezza la vita. Essi, con la fuga de propri mali,
sperimentati nelle risse, ch'essa ferina comunità produ ceva, per loro scampo e
salvezza, ricorsero ecc. » (Scienza nova, v. I, p. 27 ). (2 ) Il vichismo del
Foscolo è stato rilevato da N. TOMMASEO, Storia civile nella letteraria,
Torino, 1872, ma certo non com preso, troppo imbevuto, com'era il critico, di
passioni oscura trici d'un equanime giudizio e di false idee d’un'arte pedago
gica: il brano, al quale intendiamo riferirci, è stato raccolto nell'antologia
del TOMMASEO, Scritti di critica e di estetica scelti da A. ALBERTAZZI, Napoli,
Ricciardi ed., s. d., p. 192 e sgg. 285 tica vichiana, che prima scuote le
vecchie scolasticherie, a base di retoriche e di poetiche per penetrare nello
spi rito vivo e fantastico dell'opera d'arte (1). Ma l'influsso più importante
e diretto Cuoco lo eser cita direttamente sul Monti col quale ebbe rapporti epi
stolari (2 ), nonchè disappunti letterari, dovuti al fiero" giudizio che
l'autore del Saggio faceva circa il carattere del poeta cesareo assai volubile
in politica; e sul Man zoni di cui fu davvero intimo (3 ). Le lezioni universi
tarie, dal primo tenute a Pavia, specie la prolusione Della necessità
dell'eloquenza (1 ), il Discorso sulla storia longobarda del secondo (5 ), sono
la prova sicura della dif fusione delle dottrine del Vico. (1 ) Vedi a
proposito come Foscolo intende l'eloquenza e confrontala con il modo come
l'intende il Cuoco: G. PECCHIO, op. cit., p. 210, nota; B. ZUMBINI, Studi di
letteratura ita liana, Firenze, Le Monnier ed., 1894, p. 267; G. A. BORGESE,
Storia della critica romantica in Italia, Milano, Treves ed., 1920, p. 248 e
sgg., sopra tutto p. 266: « non è una scoperta, dice quest'ultimo, quella dello
Zumbini che anche le lezioni di eloquenza siano tutte nutrite di concetti
vichiani; anzi fa rebbe una scoperta chi indicasse uno scritto capitale del Fo
scolo, nel quale la filosofia della Scienza nova non abbia bene o male la sua
parte ». (2 ) G. Cogo, op. cit., p. 181; N. RUGGIERI, op. cit., p. 47; P.
HAZARD, op. cit., p. 241; vedi anche V. Cuoco, Scritti vari v. II, pp. 318, 367,
passim. (3) N. RUGGIERI, op. cit., p. 48, il quale in nota richiama G.
CAPITELLI, Patria ed arte, Lanciano, Carabba ed., 1887, p. 182 e sg.; vedi V.
Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 285; v. II, pp. 318, 358, 367, 397, passim. (4 )
V. MONTI, Prose e poesie, Firenze, Le Monnier, 1847, v. IV, p. 31 e sgg. (5 )
A. MANZONI, Prose minori con note di A. BERTOLDI, Firenze, Sansoni ed., s. d.,
p. 22 e sgg. Allorquando questo lavoro era già ultimato usciva per le stampe
l'opuscolo di G. GENTILE, Vincenzo Cuoco; commemorazione tenuta a Campo basso
nel primo centenario della sua morte, Roma, C. De Al berti ed., *1924.
L'influsso vichiano, per il tramite del Cuoco, nota il prof. Gentile, si rivela
« non solo per l'alto concetto in cui dimostra di tenere il grande filosofo
napoletano, ma anche e principalmente per la forma definitiva della sua mente,
per alcuno dei caratteri più significativi della sua individualità di 286 n Nè
questa si arresta qui, ma plasma disè tutta la nuova critica d'arte, e in parte
la nuova storiografia, rifonden dosi con dottrine di diversa origine e di
diversi paesi, specie con i canoni romantici di Germania: a chi legge gli
scritti del Berchet (1 ), del Torti (2 ), del Di Breme (3 ), non sarà difficile
rinvenirvi idee e proposizioni vichiane. Così, gradualmente per opera del Cuoco
e di pochi altri napoletani, il pensiero nazionale si vien formando attra verso
un apporto di storicismo e d’idealismo meridio pensatore e scrittore, quale è
rappresentata sopra tutto ne romanzo. Poichè anche Manzoni pensatore e
scrittore è un realista che non conosce tipi astratti, ma vede sempre gli uo
mini e li rappresenta come sono in fatto storicamente; non repubblica di
Platone e neppur feccia di Romolo; ideale col suo limite, come diceva De
Sanctis: tutto determinato, vero e certo: e così in questa determinatezza e
limitazione e storia, tutto segnato dal dito di Dio, tutto,come aveva insegnato
Vico, governato da una Provvidenza che non precede per mi racoli, ma opera
naturalmente attraverso gli stessi effetti delle cose e le azioni degli uomini.
(1 ) Vedi BORGESE, op. cit., p. 105: « il Berchet s'era nutrito degli scrittori
più audaci d'oltremonte: la Staël, il Bouterweck, gli Schlegel erangli
familiari; conobbe non leggermente la let teratura inglese e la tedesca; dei
nostri venerò sopra tutti il Vico e il Beccaria. Vari fili della vita
intellettuale d'Italia, annodandosi, davano origine alla nuova critica e alla
nuova letteratura;.... nel secolo decimottavo la filosofia aveva silen
ziosamente ed oscuramente rinnovato gli spiriti e s' era con pertinace lentezza
accostata alla letteratura, col Vico, non compreso, col Cesarotti non comune
ragionatore, col Beccaria autore di un trattato dello stile: e, se forza di
filosofare non ebbe il Berchet, questi filosofi studiò e ammirò non debol mente
». (2 ) BORGESE, op. cit., p. 189: « il Torti fu uomo di non co mune coltura e
d'ingegno e, cosa a quei tempi molto rara, conobbe il Vico e si richiamò alle
leggi da luisegnate, senza divenire per questo critico grande ». (3 ) L'ampia
influenza del Vico si stende su tutta l'opera di Ludovico Di Breme e su quella
di tutti i redattori del Concilia tore, ed è stata ben messa in luce
dall'ultimo editore dell'abate piemontese C. CALCATERRA (L. d. B., Polemiche,
Torino, Unione tip. - editrice torinese, s. d. (1923 ) ], che dell'idealismo
dei primi romantici, della loro reazione ai vecchi sistemi filosofici, dei loro
studi, fa un'ampia disamina. 287 nale al positivismo e al razionalismo
settentrionale. È certo un processo lento e faticoso, ma nondimeno si curo, le
di cui conseguenze ultime occorre osservare non soltanto nel campo critico e
storiografico, ma anche, e sopra tutto, nel campo politico. « Eppure si come
giusta mente nota Giovanni Gentile « nonostante la propaganda del Cuoco,...
quantunque i germi da lui seminati sian caduti in intelligenze delle maggiori
del secolo, si può affermare che la voce del Cuoco come banditrice della verità
vichiana non trovi nessuna eco in tutto il resto del secolo. Altri scrittori,
segnatamente il Gioberti, hanno lavorato ad educare le menti italiane al
realismo poli tico; altri filosofi, segnatamente lo Spaventa, hanno la vorato a
sviscerare il nucleo centrale della filosofia vi chiana; ma fino ai nostri
giorni nessuno ha visto in questa filosofia così nettamente e fermamente come
Vincenzo Cuoco il nuovo metodo, veramente rivoluzionario, " del pensare
storico e politico e un potente irresistibile argo mento per un programma
politico nazionale. Egli, per questo rispetto, rimane sulla soglia del secolo
XIX, maestro unico solitario: un veggente » (1 ). Con ciò vo gliamo
semplicemente dire che se le dottrine vichiane nel campo estetico, attraverso
la propaganda del Cuoco, dànno subiti e luminosi effetti, nel campo politico,
que sti effetti sono più lenti e tardi, quasi misconosciuti al lorquando si
manifestano: Vincenzo Cuoco è un maestro senza discepoli, o meglio, con un solo
discepolo, e per avventura grandissimo, Giuseppe Mazzini. Quel che nel Cuoco
abbiamo detto realismo politico, derivazione stretta di tutto l'insegnamento
della Scienza nova, non è destinato a perire, ma, rinnovandosi, tra sformandosi
porta alle più grandi conquiste del secolo: « primo, a riconoscere e a mettere
in rilievo l'individua lità insopprimibile di tutte le formazioni storiche; se
condo, a negare che un popolo, come un individuo, possa nulla ricevere di
fuori, e che possa progredire ed elevarsi senza uno sforzo proprio fondato
sulla stima di sè e sulla (1 ) G. GENTILE, V. Cuoco: commemorazione, p. 13 e
sg. 288 fiducia delle proprie forze » (1 ). Questi due postulati gran diosi e
veri, posti dal Cuoco nella coscienza degli Italiani, non si distaccheranno più
da essa, e formeranno il nucleo di tutta l'educazione nazionale e di tutta la
pratica po litica, che si sintetizza nell'opera di Mazzini. Ora i nuovi studi
di F. L. Mannucci circa la prima fase del pensiero mazziniano hanno messo bene
in luce come il genovese non solo si sia nutrito del Vico (2 ) per il tra mite
del Michelet (3 ), ma in suoi privati zibaldoni abbia recensito e fatto
estratti de ' numerosi e vivi articoli, che (1 ) G. GENTILE, V. Cuoco:
commemorazione, p. 14. (2 ) L'influenza del Vico su Mazzini è stata ben posta
in luce prima che dal Mannucci dal BORGESE, op. cit., p. 291 e sgg. « Egli era,
come il Foscolo, lontano dal finalismo dommatico che impediva in ogni modoal
Tommasèo di trarre vita e nutri mento dalle dottrine del Vico. Epperò egli era
in condizioni più felici di quei due che l'avevano preceduto nell’a i mirazione
pel Vico, e se ne disse discepolo con convinzione non minore, ed anzi ne
persuase lo studioproprio per il rinnovamento della storia letteraria. « Il
vuoto esistente nella filosofia », egli la mentava, « deve naturalmente
ripetersi nella critica letteraria, che è la filosofia della letteratura »; e
la filosofia ch'egli desi derava era proprio la Scienza nova. « Il vincolo »,
disse altrove, paragonando le antiche congerie erudite che usurpavano il nome
di storie letterarie con quelle che venivano in onore per effetto del
rinnovamento romantico, « il vincolo che annoda in un popolo le istituzioni, le
lettere e i progressi della civiltà, indovinato un secolo innanzi dal nostro
Vico, fu posto in chiaro, sottomesso ad analisi e diede cominciamento ad una
sola scuola, il cui scopo santissimo or s'irride da chi non sa, o non cura
comprenderlo ». E si compiaceva che ora molti libri e molti studiosi traessero
il Vico da quell'obblìo a cui per cento anni lo avevano condannato le
baieerudite e l'inerzia degli animi». (3 ) F. L. MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e
la prima fase del suo pensiero letterario: l'aurora d'un genio, Casa ed.
Risorgi. mento, Roma, ecc., 1919, p. 16, p. 23 e sg., p. 66 e sgg., p. 143. Il
Mannucci ci rende edotti che uno dei cinque mss. da lui stu diati, di cui due
sono aPortomaurizio in casa dei sigg. Cremona eredi Ferrari, tre nel Museo del
Risorgimento a Genova, con tiene una recensione dei Principes de la philosophie
de l'histoire traduits de la Scienza Nuova de Fico et precédés d'un discours
sur le système et la vie de l'auteur, par J. MICHELET, professeur, ecc., Paris,
Renouard, 1827. Vedi a proposito di questa versione fran cese, CROCE. La
filosofia di G. B. Vico, pp. 289, 291, 304. 289 il Cuoco andava pubblicando sul
Giornale italiano, firman doli con la semplice sigla C (1 ). E in questi
zibaldoni il lettore commosso può rinvenirvi annotate le Osserva zioni sullo
stato politico dell'Europa, le Considerazioni sul Concordato, in cui Vincenzo
getta uno sguardo rapido non solo sul passato e sul presente d'Italia, ma anche
nel più lontano avvenire, risolvendo, da una parte, sovra basi giurisdizionali
il millenario problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, dall'altra la questione
dell'equilibrio europeo. È interessante notare, pure, come il Mazzini, po
stillando il famoso scritto cuochiano sul Machiavelli, da noi a più riprese
richiamato, laddove il molisano loda con il segretario di Firenze il duca
Valentino, perchè tra tanti scellerati principotti avrebbe potuto rimanere
solo, nota: oltre a questo aggiungerei che un tiranno si spegne più facilmente
di cento ». Esuberanze giova nili che il Cuoco avrebbe rimproverato e che lo
stesso Maz zini maturo avrebbe certo rinnegato ! Sicuramente.... Ma io amo
pensare il giovane Giuseppe, appena uscito dal l'università, chino sulle pagine
del Cuoco, e, meditabondo, ripensare con lui le sorti della patria e la sua
redenzione morale non attraverso giuridici compromessi o speranze d'equilibrii
europei, ma attraverso un'azione che è pen siero, perchè guidata dal pensiero,
attraverso un pen siero che è azione, perchè mirante agli uomini e alle loro
coscienze. Il grande merito del Mazzini è precisamente l'avere accettato le
ultime conclusioni politiche cuochiane ed averle con un apostolato senza pari
concretate nella vita. Il popolo, il popolo, che il Cuoco vede nell'avvenire
nucleo vibrante della patria, diviene il fondamento della repubblica del
Mazzini, e in suo nome e per lui l'Italia (1 ) Il fatto che gli articoli non
siano firmati che con una si gla, il fatto che negli zibaldoni il Mazzini non
citi espressamente il Cuoco fa pensare al Mannucci (op. cit., p. 107, n. 101 )
che il grande agitatore non abbia mai pensato che gli articoli da lui letti nel
Giornale italiano fossero proprio di V. Cuoco: così pure GENTILE, V. C.:
commemorazione, p. 26. In quanto poi al Saggio storico il prof. Gentile
sostiene nella stessa pagina che il genovese non solo lo conobbe ma lo
menzionò. 19 F. BATTAGLIA, 290 diviene dopo tante lotte una e indipendente,
diviene nazione e Stato. Il Cuoco intuisce che il problema unitario è un
problema di coscienze, Mazzini lo conferma, e nel binomio Pensiero e azione
redime l' Italia. Questa vasta trama d'influssi, che la dottrina cuo chiana, in
tutti i suoi attributi, sopra tutto nelle inter ferenze politiche, ha
esercitato nel pensiero italiano, specie settentrionale, meriterebbe uno studio
a parte, ma a me basta averne tracciato le somme linee, il filo conduttore,
perchè risulti ai lettori uno essere il processo che porta all'unificazione
d'Italia nel nome di una tra dizione secolare, che dal Vico va al Mazzini e che
un'unità così raggiunta, vale a dire attraverso una compenetra zione graduale e
lenta di spiriti e d'idee, per quanto ancor recente, è troppo salda, perchè
alcuno possa te mere di vederla infranta nell'urto fragoroso d'interessi
antagonistici internazionali o classisti, perchè altri si ar roghi il non
ammissibile diritto di salvarla e di rappre sentarla. 4 Nota bibliografica. Ho
seguito i testi più sicuri dal punto di vista tipografico, cioè: VINCENZO
Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 a cura di Fausto
Nicolini, Bari, Laterza ed., 1913, che ho raffrontato con l'edizione milanese
del Sonzogno, 1820, e con quella fiorentina del Barbèra, 1865; VINCENZO Cuoco,
Platone in Italia a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza, ed., 1916-24, volumi
due; VINCENZO Cuoco, Scritti pedagogici inediti o rari raccolti e pubblicati da
Giovanni Gentile, Roma-Milano, Albrighi e Se ganti ed., 1909. Gli articoli del
Giornale italiano ho veduto sul testo originario, ma spesso mi sono servito
delle ristampe in appendice alle opere critiche del Romano e del Cogo.
Allorquando il mio lavoro era già compiuto sono usciti i due volumi di scritti
cuochiani, che integrano nella raccolta degli Scrittori d'Italia laterziana il
Saggio e il Platone: VIN CENZO Cuoco, Scritti vari a cura di N. Cortese e F.
Nicolini, Bari, Laterza ed., 1924, volumi due. Con questa stampa quanto di
meglio è stato scritto dal grande molisano è oramai stato dato al pubblico, e
ben poco resta da fare nel campo dell'ine dito. Non tutti gli articoli del
Giornale italiano invero hanno tro vato l'attesa ripubblicazione, ma, sebbene
alcuni scritti di una certa importanza siano stati posti fuori, quei ventisette
che il Cortese e il Nicolini hanno scelto, uniti al catalogo ragionato dei 292
rimanenti, bastano a dare un'idea più che sufficiente al let tore dell'attività
pubblicistica del nostro autore. Va data lode ai due insigni editori Cortese e
Nicolini per non avere lasciato da parte gli articoli; che il Cuoco ha
pubblicato nel Corriere di Napoli e nel Monitore delle due Sicilie, i quali,
sebbene assai meno interessanti di quelli del Giornale italiano, pure possono
essere utili, e per avere di essi pure offerto un catalogo ragio nato. S’
intende che ho riveduto il testo di tutti gli scritti minori di Vincenzo Cuoco
sovra la nuova edizione laterziana, che offre i migliori affidamenti di serietà
e di rigore, sopra tutto per la ortografia, che, specie nei fogli originari del
Giornale italiano, è la più volubile e ineguale. P. ALBINO, Biografie e
ritratti degli uomini illustri della pro vincia di Molise, Campobasso, 1864, I,
pp. 1-36; F. BALSANO, Vincenzo Cuoco e gli studi della gioventù italiana in
Rivista Bolognese, a. II, v. I, fasc. IV, aprile 1868; F. BATTAGLIA, Critica
rivoluzionaria e tradizione nel pensiero di V. Cuoco in Studi politici, a. I,
fasc. 4-5, aprile 1923; A. BUTTI, La fondazione del « Giornale italiano » e i
suoi primi redattori (1804-1806), Milano, Cogliati ed., 1905 (estr. dall' Arch.
stor. lomb., a. XXXII, fasc. VII ), alla quale operetta si riferisce la
recensione di G. OTTONE in Riv, stor. it., a. XXIII, za serie, vol. V (1906 ),
p. 341 e sgg.; A. BUTTI, Una lettera di V. Cuoco al vicerè Eugenio, nella
miscellanea Dai tempi antichi ai tempi moderni (per nozze Scherillo- Negri),
Milano, Hoepli ed., 1904, p. 529 e sgg.; A. BUTTI, L'Anglofobia nella
letteratura della cisalpina e del regno italico, in Archivio storico lombardo,
a. XXXVI (1909), p. 434 e sgg.; C. CANTONI, Giambattista Vico, studi storici e
comparativi, Torino, Civelli ed., p. 23 e sgg.; N. CAPRARA, V. Cuoco, Isernia,
1919 (1 ); (1 ) L'indicazione dell'opuscolo non è esatta, poichè la sola copia
che ho potuto vedere manca del frontespizio: del resto si tratta di uno scritto
di mero inte resse bio - bibliografico. 293 9 G. Cogo, Vincenzo Cuoco, note e
documenti, Napoli, Jovene ed., 1909 (cfr. le recensioni di G. GENTILE in
Archivio stor. nap. XXXIV (1909), pp. 588 e sgg., poi ristampata in ap pendice
agli Studi vichiani, Messina, Principato ed., 1915; di G. GALLAVRESI in Il
Risorgimento italiano, a. III, fasc. I - II, p. 223 e sgg.; e ancora di G.
GALLAVRESI in Arch. stor. lomb., a. VII, (1910), p. 462 e sgg. ); L. CONFORTI,
Napoli nel 1799, critica e documenti inediti, Napoli, De Falco ed., 1886, p. 21
e sgg., passim (una confuta zione di molte affermazioni ingiuste dell'autore è
in N. RUG GIERI, Vincenzo Cuoco, Rocca San Casciano, Cappelli, ed., 1903, p.
104 e sgg., nonchè in M. ROMANO, Ricerche su V. Cuoco, Isernia, 1904, p. 99 );
B. CROCE, La filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza ed., 1911, passim;
B. CROCE, La rivoluzione napoletana del 1799, terza edizione, Bari, Laterza,
1912, passim; B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel secolo XIX,
Bari, Laterza, 1921, vol. I, p. 8 e sgg; R. DE RENZIS, Il risveglio degli studi
intorno a V. Cuoco in Italia moderna, 1905; G. DE RUGGIERO, Il pensiero
politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari, Laterza ed., 1922, p. 166 e
sgg.; F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, Milano, Treves ed., v.
II, p. 309, p. 327 (accenni ); F. DE SANCTIS, Saggi critici, Milano, Treves, v.
III, p. 291; A. FRANCHETTI, Storia d'Italia, Milano, s. d., Vallardi, p. 557 e
sgg.; G. GENTILE, Studi vichiani, Messina, Principato ed., 1915 (in cui è
ristampato lo studio Un discepolo di G. B. Vico: Vincenzo Cuoco pedagogista,
già pubblicato in Riv. pedagogica, a. II, 1908); G. GENTILE, Dal Genovesi al
Galluppi, Napoli, edizione della Critica, 1903, p. 375 e sgg. G. B. GERINI, Gli
scrittori pedagogici italiani del secolo XIX, G. B. Paravia ed., 1910, Torino,
pp. 30-44; F. GUEX, Storia dell' istruzione e della educazione, trad. o note
con app. su Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico di G.
VIDARI, G. B. Paravia ed., s. d., Torino, v. II, p. 314 e sgg.; 294 e P.
HAZARD, La révolution française et les lettres italiennes, 1779-1815, Paris,
Hachette ed., 1911, p. 218 e egg.; B. LABANCA, Giambattista Vico e i suoi
critici cattolici, Na poli, Pierro ed., 1898, p. 406 e sgg.; A. LEVATI, Saggio
sulla storia della letteratura italiana nei primi venticinque anni del secolo
XIX, Milano, Stella ed., 1831, p. 228; G. MAFFEI, Storia della letteratura
italiana, riveduta da P. Thouar, Firenze, Le Monnier ed., 1853, v. II, p. 259,
p. 348 e sgg.; F. L. MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e la prima fase del suo
pensiero letterario; l'aurora di un genio, Casa ed. Risorgimento, Roma, 1919,
(cfr. recensione di G. GENTILE in Critica, v. XVII, p. 317 e sgg. ); G. B.
MARCHESI, Studi e ricerche intorno ai romanzieri e ro manzi del ' 700, Bergamo,
1903; A. MARTINAZZOLI E CREDARO, Dizionario illustrato di peda gogia, F.
Vallardi ed., 1901-5, Milano, v. I, p. 420 e sgg. (1 ); 0. MASTROIANNI,
Ricerche storiche pubblicate per delibera zione del R. Istituto d'
incoraggiamento di Napoli, Napoli, Pierro ed., 1907, p. 196 e sgg.; P. MONROE
ed E. CODIGNOLA, Breve corso di storia dell'edu cazione, trad. di S. CARAMELLA,
Vallecchi ed., 8. d., Firenze, v. II, pp. 207 e sgg.; G. NATÁLI, Nel primo
centenario della morte di V. Cuoco in Rivista d'Italia, a. XXVI, fasc. XII (15
dic. 1923); G. NATALI, L'idea del primato italiano prima di V. Gio berti, Roma,
1917 (estr. dalla Nuova Antologia ); G. NATALI, La letteratura italiana nel
periodo napoleonico, 1916 (estr, dalla Rivista d'Italia ); G. NATALI, La vita e
il pensiero di F. Lomonaco, Napoli, San giovanni ed., 1912 (estr. dagli Atti
della R. Accademia di sc. mor. di Napoli: cfr. GENTILE, Studi vichiani, p. 361
); L. PALMA, I tentativi di nuove costituzioni in Italia dal 1796 al 1815 in
Nuova Antologia, a. XXVI, fasc. XXVI, 16 novembre, 1-16 dicembre 1891, p. 433 e
sgg. (1 ) L'articolo Cuoco è fifmato A. Martin azzoli. 295 1 G. OTTONE, V.
Cuoco e il risveglio della coscienza nazionale, Vigevano, Unione tip.
vigevanese, 1903 (cfr. le recensioni di A. LEONE, in Riv. stor. ital., a XXI,
s. 3a, v. III, pp. 57-8; di A. Butti, in Giorn. stor. d. lett. it., a. XLIV (1904),
p. 240 e sgg.; di S. Rocco, in Rass. crit. d. létt. it. a. IX (1904), p. 277 e
sgg.; e infine di G. G[ ENTILE) in Arch. st. per le prov. nap., a. XXX (1905),
p. 73 e sgg. ); G. OTTONE, La tesi vichiana di un antico primato italiano nel «
Platone » di V. Cuoco: contributo alla storia del risveglio nazionale nel
periodo napoleonico, Fossano, Rossetti, 1905, (cfr. recensioni di A. Butti, in
Giorn. st. d. lett. it., a. XLVII (1906), p. 157 e sgg.; di S. Rocco, in Rass.
crit. d. lett. it., a. XI (1906), p. 181 e sgg. ); G. OTTONE, Mario Pagano e la
tradizione vichiana del secolo scorso, Milano, Trevisini, 1897; G. PEPE,
Necrologia: Vincenzo Cuoco, in Antologia, a. XIV (1824), p. 99 e sgg. (riprodotta
dinanzi a varie edizioni del Saggio storico del Pomba di Torino ); I. RINIERI,
Della rovina d'una monarchia; relazioni storiche tra Pio VI e la Corte di
Napoli negli anni 1776-1779, Torino, 1901, p. 484 e sgg.; G. ROBERTI, Lettere
inedite di C. Botta, U. Foscolo e V. Cuoco in Giorn. st. d. lett. it., a. XII,
v. XXIII (1894), p. 416 e sgg.; M. ROMANO, Ricerche su V. Cuoco, politico,
storiografo, ro manziere, giornalista, Isernia, Colitti, 1904 (cfr. recensioni
di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett. it., a. IX (1904 ), p. 147 e sgg.; di A.
BUTTI, in Giorn. st. d. lett. it., a. XLVI (1905), p. 412 e sgg; infine di G.
GENTILE, in Critica, III (1905), p. 39 e sgg., ristampata in Scritti vichiani,
p. 427 e sgg. ); M. ROMANO, Una pagina inedita di V. Cuoco su G. B. Vico, nella
miscellanea: Scritti di storia, di filosofia e d'arte (nozze FEDELE- DE
FABRITIIS ), Napoli, Ricciardi ed., 1908, p. 181 e sgg.; P. ROMANO, Per una
nuova coscienza pedagogica, G. B. Pa ravia ed., s. d., Torino, pp. 102-124; N.
RUGGIERI, Vincenzo Cuoco: studio storico critico con una appendice di documenti
inediti, Rocca S. Casciano, L. Cappelli ed., 1903 (cfr. recensioni di B. CROCE,
nella Critica, v. I (1903), ſ. pad 296 p. 298 e sgg.; di G. R[OBERTI), in
Giornale st. d. lett. it., a. XLII (1903 ), p. 429 e sgg.; di F. TORRACA, in
Rass. bibl. d. lett. it., a. XII (1904 ), p. 132 e sgg.; di S. Rocco, in Rass.
crit. d. lett. it., a. IX (1903), p. 34 e sgg.; di C. R [INAUDO), in Riv. stor.
it., a. XXI, 3a 8., vol. III (1904), p. 58 e sgg ); L. SETTEMBRINI, Lezioni di
letteratura italiana, Napoli, Mo rano ed., 1872 v. III, p. 279 e sgg.; R.
SÓRIGA, L'emigrazione meridionale a Milano nel primo quinquennio del secolo XIX,
in Bollettino della società pavese di storia patria, XVIII (1918 ), pp. 102-117,
pp. 119-121; U. TRIA, Vincenzo Cuoco a proposito di due sue lettere ine dite in
Rass. crit. d. lett. it., v. VI (1901 ), p. 193 e sgg. (cfr. RUGGIERI, op. cit.,
p. 94; ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg. ); A. Zazo, Le riforme scolastiche di
Gioacchino Murat, Roma, Albrighi e Segati ed., 1924, (estratto dalla Rivista
pedagogica, a. XVII ). « Nel 1905, scrive il GENTILE (Studi vichiani p. 336),
l'Accade. mia delle scienze morali e politiche di Napoli bandì un concorso sul
pensiero politico di V. Cuoco, da studiarsi anche nei mss. acquistati dalla
Nazionale di Napoli. Fu presentata una sola memoria, ancora inedita, di M.
ROMANO, Di V. Cuoco consi derato come scrittore politico e dei mss.
recentemente acquistati dalla Nazionale di Napoli (sulla quale vedi F. PERSICO,
Rel. sul concorso per il premio annuale dell'anno 1905 sul tema « Di Vincenzo
Cuoco, ecc. » nei Rend. dell'Acc. ecc., tornata del 22 dic. 1906 ». Circa
questi mss. vedi Suppl. alla Riv. di bibl. ed arch., 1905, pag. 3, nonchè
RUGGIERI, op. cit., p. 63; Cogo, op. cit., p. 45, n. 13, il quale ultimo di
essi mss. abbondante mente si serve, documentando le sue acute asserzioni, e
infine CROCE nella Critica, a. I (1903 ), p. 299. Del Cuoco si sono occupati
varî autori in storie generali politiche e letterarie, di cui citerò soltanto
alcuni più noti: V. FIORINI e F. LEMMI, Periodo napoleonico dal 1799 al 1814,
in Storia politica scritta da una Società di professori, Milano, Vallardi, s. d.
passim; F. LEMMI, Le origini del Risorgimento italiano (1789-1815), Milano,
Hoepli, 1906, passim; M. Rosi, L'Italia odierna, Unione tip.- editr. torinese,
1922, v. I, p. 206, p. 238, passim; G. MAZZONI, L'Ottocento, Milano, Vallardi,
1913, p. 106-7, p. 131-32, e passim, in Storia letteraria scritta da una 297
società di professori; V. Rossi, Storia della letteratura italia na, Milano,
Vallardi, 1915, v. III, p. 243; A. D' ANCONA e 0. BACCI, Manuale della
letteratura italiana, Firenze, Barbèra, 1914, v. V, p. 132, v. VI, p. 386-7 (1
); F. TORRACA, Manuale della letteratura italiana, settima ed., Firenze,
Sansoni, 1918, v. III, p. II, p. 441 e sgg. Il primo centenario della morte di
V. Cuoco è stato degna mente ricordato agli italiani, oltre che dalla
pubblicazione dei due volumi di Scritti vari per cura di N. Cortese e di F.
Nico lini, dalla commemorazione di Campobasso tenuta da G. GEN TILE (Vincenzo
Cuoco, Roma, Alberti ed., 1924). Preannunziando o annunziando la ricorrenza
scrissero del grande molisano S. ARCOLESE, Vincenzo Cuoco (1823-1923 ), in Il
popolo molisano, 15 marzo 1923; G. COLESANTI, Un realista; Vincenzo Cuoco, in
Il mondo, 13 dicembre 1923 (2 ); F. BARIOLA, Vincenzo Cuoco, in Gazzetta delle
Puglie, febbraio 1924; F. Mo MIGLIANO, Commemorazione di V. Cuoco, in
Conscientia, 2 feb braio 1924. Ottima sotto ogni rapporto è la prolusione al
Corso di Fi losofia Giuridica tenuta nella R. Università di Firenze da G. DE
MONTEMAYOR: La buona politica: dal Vico al Cuoco al Risorgimento Italiano (Roma,
Soc. Anonima Poligrafica 1925). Altra raccolta di scritti per uso scolastico.
V. CUOCO - Educazione e politica (Bemporad 1925 ) fu composta, pre ceduta da
una larga introduzione, da G. MARCHI. (1 ) A pag. 387 v'è una duplice
inesattezza: ad A. BUTTI sono riferiti gli scritti, Un articolo dimenticato di
V. Cuoco sugli scrittori politici italiani, in La Critica, II, p. 337 e Una
pagina inedita su G. B. Vico in miscellanea Per nozze Fedele- Fabritiis, p. 181,
la riesumazione dei quali spetta, del primo a B. CROCE, del secondo a M.
ROMANO. (2) L'articolo del Colesanti era presentato su Il mondo come facente
parte di un numero unico cuochiano da pubblicarsi in Campobasso, che non ho
potuto avere nè vedere. INDICE CAP. I. La tradizione italica Pag. CAP. II. I «
Frammenti di lettere a V. Russo » e la critica rivoluzionaria. 27 CAP. III. Il
« Saggio Storico sulla rivoluzione di Napoli » 80 CAP. IV. Napoleone e la sua
politica generale. 123 CAP. V. Nazionalità e italianismo nel « Giornale
italiano » 197 CAP. VI. Il « Platone in Italia » e la tesi di un antico primato
italico.. >> 228 Cap. VII. L'educazione nazionale nel pensiero cuochiano
260 Conclusione 278 Nota bibliografica. ·Felice Battaglia. Keywords: valori
italiani, essere italiano, valori italiani, “spirito nazionale in Italia” -- ius, giure. –
spirito nazionale, spirito italico, spirito italiano, spirito nazionale in
Italia, Vicco, Cuoco, roma antica, Etruria, ‘la tradizione italica’, il
‘Platone’ di Cuoco, ‘Cuoco non e un vero filosofo’, Gentile, Schelling,
volksseele volksgeist, anima di una nazione, anima universale, animus di una
nazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Battaglia” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Battista – la percezione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Nicosia). Filosofo italiano. Grice: Very good. – Giovanni
Battista – he assumed the name “BONOMO” Gabriele
Bonomo Frate Gabriele Bonomo o Bonhomo – Appartenente all'Ordine dei Minimi.
Scrive un saggio sulla “trigonometria”. e inventò un orologio automatico. Entra come frate nell'Ordine dei Minimi con
il nome di Gabriello e fu assegnato al convento di Santa Oliva di Palermo. Pietro Riccardi, Bibliotheca mathematica
italiana dalla origine della stampa ai primi anni del secolo XIX, Editore
Soliani, Antonio Muccioli, Le strade di Palermo, Editore Newton & Compton,
1998127. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Biografie: di
biografie Categorie: Teologi italianiMatematici italiani del XVIII
secoloFilosofi italiani Professore Nicosia (Italia) PalermoMinimi. Batista.
Giovanni Batista. Giovanni Battista. Battista. Keywords: percezione, trigonometria,
orologio automatico, la filosofia della trigonometria, Comte, la trigonometria
nella matematica italiana, Venezia, la filosofia illustrata, la teoria causale
della percezione. Refs.: “Grice e Battista” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Bausola –
solidarietà – filosofia italiana – Luigi Speranza (Ovada). Filosofo
italiano. Grice: “I would call Basuola a Griceian – he speaks of the ‘reasons
for solidarity,’ which is exactly the point I want to make, alla Kant, in
‘Aspects of reason,’ as people kept asking me for the rationale – i. e.,
literally, the rational basis – for conversational cooperation – People agree
that conversation is rational; but my stronger thesis is that it’s cooperation
which is rational. That is Bausola’s point.” “Basuola has also explored the
topics of ‘inter-personal relation’ from a philosophical rather than
sociological perspective – and therefore into the compromise between self-love
and other-love, or freedom and responsibility --. A genius! That he also
admires my latitudinal and longitudinal unity of philosophy (‘storiografia
filosofica,’ as the Italians call it) is a plus, or bonus!” – Figlio di
Filippo, scultore cieco di guerra ed Eugenia Bertero. Conseguita una formazione
cattolica attraverso le scuole primarie delle Madri Pie, fondate da Paolo
Gerolamo Franzoni, e dei Padri Scolopi, gli studi liceali lo vedono a Novi
Ligure al Classico Statale "Doria" dove «la materia che veramente fu
per lui una rivelazione è la filosofia».
Sceglie così la facoltà all'Università Cattolica a Milano, dopo un
incontro con Padre Agostino Gemelli e Monsignor Francesco Olgiati, vincendo
anche il concorso per un posto gratuito nel Collegio Augustinianum. Fra i suoi
docenti emergono due figure che per lui sono «maestri di vita e di pensiero»,
esponenti di spicco del movimento neotomista: Gustavo Bontadini e Sofia Vanni
Rovighi. Diventa così libero docente di filosofia morale nel 1962. Nel 1970
vincendo la cattedra di storia della filosofia viene chiamato alla Cattolica,
dove dal 1974 al 1979 è ordinario di filosofia morale passando poi, nel 1980,
ad ordinario di filosofia teoretica. È preside della facoltà di lettere e
filosofia dal 1974 al 1983. Nel 1982 è
chiamato a far parte del Pontificio Consiglio della Cultura istituito da
Giovanni Paolo II per il periodo 1982-1992. Nel 1983 dell'Università Cattolica
del Sacro Cuore ne diventa il Rettore, carica che mantiene fino al 1998. È stato anche direttore della Rivista di
filosofia neo-scolastica, ininterrottamente, dal 1971, e dal 1984 della rivista
Vita e Pensiero e condirettore della Rivista Internazionale dei diritti
dell'uomo. Inoltre ha diretto la sezione di filosofia moderna della collana dei
Classici della Filosofia dell'Einaudi Rusconi. Ha fatto parte del Direttivo del
Centro di metafisica istituito dalla Cattolica, e per esso ha co-diretto la
collana di pubblicazioni Metafisica e storia della metafisica. Tra gli altri incarichi e funzioni è
stato: Socio dell'Accademia Nazionale
dei Lincei nella categoria scienze filosofiche; Membro dell'Istituto
LombardoAccademia di Scienze e lettere; Membro del direttivo della Società
Filosofica Italiana; Vice Presidente del Comitato Scientifico e Organizzatore
delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani dal 1985 al 1994; Consulente
della Sacra Congregazione per l'Educazione Cattolica; Presidente di una delle
Commissioni del Convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana a Roma
dal 30 ottobre al 4 novembre 1976; Moderatore di uno dei cinque ambiti del
Convegno ecclesiale Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini a Loreto
dal 9 al 13 aprile 1985; Uditore al Sinodo straordinario dei Vescovi indetto
dal Papa per il 20º anniversario del Concilio Vaticano II; Studi Sul piano
teorico, le direttive di indagine di Bausola sono soprattutto quella etica
(fondazione della morale), quella antropologica (il problema della libertà; il
tema della cultura e della cultura cristiana in particolare), e quelle della
metafisica e della gnoseologia. I suoi interessi principali di studioso sono
rivolti, sul piano storico all'idealismo e al neo-idealismo, esperto a livello
internazionale di Friedrich Schelling e di Blaise Pascal i suoi studi sono
rivolti anche a Franz Brentano, John Dewey e al pragmatismo, alla tematica
esistenzialista. Caratteristico delle opere di Bausolalà dove si tratti dello
studio di filosofi del passato, o del nostro tempoè il legame tra ricostruzione
storica e ripensamento critico, secondo criteri teoretici: un orientamento
volto, attraverso il dialogo con alcune delle più importanti prospettive della
filosofia moderna e contemporanea, ad un ripensamento della concezione classica
del sapere. La sua attività pubblicistica si è svolta sul terreno filosofico,
politico-culturale, etico-religioso, e si è realizzata su giornali e su riviste
di cultura. Altre opere: “Saggi sulla
filosofia di Schelling” (Milano, Vita e Pensiero); “L'Etica di John Dewey,
Milano, Vita e Pensiero); “Filosofia e storia nel pensiero crociano, Milano,
Vita e Pensiero); “Metafisica e rivelazione nella filosofia positiva di Schelling,
Milano, Vita e Pensiero); “Etica e politica nel pensiero di Benedetto Croce,
Milano, Vita e Pensiero); “Il pensiero di Schelling); “Conoscenza e moralità in
Franz Brentano, Milano, Vita e Pensiero); “Indagini di storia della filosofia.
Da Leibniz a Moore, Milano, Vita e Pensiero); “Lo svolgimento del pensiero di
Schelling. Ricerche, Milano, Vita e Pensiero); “Il problema del valore nella
filosofia analitica, Milano, Scuole Grafiche Opera Don Calabria); “Il problema
della libertà. Introduzione a Sartre, Milano); “Filosofia della rivelazione.
Federico Guglielmo Giuseppe Schelling” (Bologna, Zanichelli); “Introduzione a
Pascal, Bari, Laterza); “Friedrich W. J. Schelling, Firenze, La Nuova Italia);
“Filosofia Morale. Lineamenti, Milano, Vita e Pensiero); “Natura e progetto
dell'uomo: riflessioni sul dibattito contemporaneo, Milano, Vita e Pensiero); “Libertà
e relazioni interpersonali: introduzione alla lettura di L'essere e il nulla,
Milano, Vita e Pensiero); “Pensieri, opuscoli, lettere di Blaise Pascal, con Remo
Tapella, Milano, Rusconi); “Libertà e responsabilità, Milano, Vita e Pensiero
“La libertà” (Brescia, La Scuola); “Le ragioni della libertà, le ragioni della
solidarietà” (Milano, Vita e Pensiero); “Fra etica e politica, Milano, Vita e
Pensiero. Onorificenze Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura
e dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'oro ai benemeriti della
scuola della cultura e dell'arte — Roma, 2 giugno 1981 Commendatore dell'Ordine
al merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCommendatore
dell'Ordine al merito della Repubblica italiana —Cavaliere di gran croce
dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCavaliere
di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana — Roma, 2 giugno
1988 Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine di San Gregorio Magnonastrino per
uniforme ordinariaCavaliere di Gran Croce dell'Ordine di San Gregorio Magno
Note Anna Maria Bausola Grillo, Adriano
Bausola nei ricordi della sorella, ne Atti del convegno "Studi di Storia
Ovadese", pubblicazione dedicata alla memoria di Adriano Bausola,
Accademia Urbense di Ovada, Avvenire, su swif . Quirinale: dettaglio
decorato. Sito web del Quirinale:
dettaglio decorato. Sito web del
Quirinale: dettaglio decorato. Emilio
Costa, Un Ovadese nel mondo della cultura italiana: Adriano Bausola, filosofo,
in URBS Silva et flumen, Alessandro Laguzzi; Edilio Riccardini, Atti del
Convegno Studi di Storia Ovadese, Ovada, Accademia Urbense, Costa, Un Ovadese
nel mondo della cultura italiana: Adriano Bausola, filosofo, URBS silva et
flumen, trimestrale di storia locale dell'Accademia Urbense di Ovada, Anno su
archiviostorico.net. Flavio Rolla, Adriano Bausola, filosofo. Ricordo
dell'illustre ovadese a 10 anni dalla scomparsa, URBS silva et flumen,
trimestrale di storia locale dell'Accademia Urbense di Ovada, su
accademiaurbense. Dal sito filosofico.net: Adriano Bausola Diego Fusaro, su
filosofico.net. blogphilosophica.wordpress Lorenzo Cortesi PredecessoreMagnifico
Rettore dell'Università Cattolica del Sacro CuoreSuccessoreStemma UCSC.png
Giuseppe Lazzati19831998Sergio Zaninelli Filosofia Università Università Filosofo del XX secoloAccademici
italiani Professore Ovada RomaBenemeriti della scuola, della cultura e
dell'arteCavalieri di gran croce OMRICommendatori OMRIStudenti dell'Università
Cattolica del Sacro CuoreRettori dell'Università Cattolica del Sacro
CuoreProfessori dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Adriano Bausola.
Keywords: solidarietà, storia in Croce – “The problem with Bausola is that he is
a Roman!” – Grice. Croce, fascismo, totalitarismo, utilitarismo, egoita,
noi-ita, Marx, conflitto, cooperazione, soderale, anche solidaria, Butler,
egoism, altruismo, self-love, other-love, self-love, benevolence, ichheit,
wirkheit, weness, we-ness, io-ita, ioita – Archivio di Filosofia – noi-eta,
noi-ita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bausola” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Bazzanella – il
luogo dell’altro – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste).
Filosofo italiano. Grice: “I like Bazzanella; he has a totally different
background from mine, but we can communicate – I have focused on conversational
communication; he specializes in televisional communication; he has used
Heidegger’s concept of contamination to elucidate that of structure .” Grice:
“My favourite of his tracts must be one on ethics and topology, broadly
understood, which is all that my theory of conversational helpfulness is about
– Bazzanella entitles his essay, ‘il lugo dell’altro,’ playing with the
strictness of his topological approach as applied to the ethos that results
when ‘ego’ meets and communes with ‘alter.’”
Partecipa a tre edizioni della Biennale di Venezia e a una edizione
della Biennale di Architettura. Di formazione fenomenologica e tutee di Rovatti,
inizia la sua attività filosofica a con un saggio su Jankélévitch, per poi
approfondire il pensiero di Heidegger, Husserl, nonché di autori francesi del secondo
dopoguerra quali Derrida, Foucault, Lacan, Merleau-Ponty, Deleuze e Guattari. Delinea
una echologia. Ipotizzando che l'ontologia non e che una finzione o un
dispositivo di tipo immunologico, storicizzabile e tipico della società
occidentale. Successivamente elabora l’echologia inserendola nel contesto più ampio
del senso -- applicandola al consumo. Espone a Udine "Size". Il suo sviluppo della performance introduce
nella gestualità del corpo le nuove tecnologie multimediali sulla scia delle
installazioni di Tony Oursler. Alla
Biennale di Venezia progetta un'installazione multimediale (Blue Zone)
che inaugura una serie di opere ispirate alla "morte dell'arte". In
una mostra surreale, quasi post-human, le opere degli artisti sono ricoperte da
un velo, mentre in una serie di monitor sparsi negli spazi espositivi vengono
riprodotti i volti degli artisti che cercano di descrivere a parole le loro
opere invisibili. Alla Biennale di Venezia del, invece, propone
un'installazione (Overplay), inserita nel contesto di un palazzo veneziano, in
cui 16 iPad riproducono in maniera casuale e differenziata delle domande
generate da un software. Si tratta di un'evoluzione del progetto "Tautologia"
nel quale invece il programma riproduce in rete una serie infinita di pensieri
filosofici. Dal pensiero debole al pensiero orizzontale. Bazzanella
declina la debolezza nel senso di un passaggio dalla profondità della
metafisica a un'idea del superficiale di cui vede alcune tracce presenti in
Husserl, Merleau-Ponty e Heidegger. In questo passaggio il relativismo non
viene più interpretato come una manifestazione del nichilismo, bensì come il
tentativo di articolare una filosofia di una “relazionie orizzontale” che tende
a scardinare l'impianto della logica aristotelica. L'echologia è un
termine che Bazzanella desume da Deleuze a proposito di Tarde. Nella genesi
delle Categorie di Aristotele ci siano stati movimenti contrapposti, in cui
soltanto in una seconda istanza sarebbe prevalsa un'impostazione
"usiologica", “ouisologia” -- cioè basata sulla centralità della
"sostanza" (ousia, stantia, essential, izzing, x izzes y. Questo passaggio è decisivo poiché segna il
definitivo abbandono delle suggestioni della filosofia presocratica (Velia,
Parmenide, Zenone, Crotone, Empedocle da Girgentu) ponendo le basi di quello
che sarebbe stato l'impianto della filosofia occidentale. La lateralizzazione,
dunque, della categoria di “échein” (hazzing – habitus) nel suo duplice
significato di "avere" (Grice: x hazzes y”) e di "essere in
relazione" ha comportato il privilegio dell'"essere" e di
un'ontologia che impone un principio ed una gerarchia verticale, colla,
suddivisione tra la "cosa" ed il "oggetto" (Grice’s
‘obble’). x Fid y. La relazione diadica
x/y e una “echo-logia, e non una “onto-logia”. L’echologia e decostruttiva.
L’echo-logia evidenzia come ogni costruzione di senso, prima che “onto-logica”
od ‘ontica’ e fondata sull’ente e
articolata sulla relazione o, come li definisce Bazzanella,
sull’”essema”. In “Echologia,” attraverso una rilettura del concetto di “aletheia”
(disvegliamento), sviluppa una teoria del senso secondo la quale il senso non
può sussistere senza un rapporto essenziale con il “non” senso. Ciò significa
che le classiche legge di Parmenide dell’identità, la legge della non-contraddizione,
e la legge del terzo escluso sono costruite sopra una superficie illogica. La
legge logica e una forma di copertura (vegliamento) dell'”àlogon”
(‘irrationale’). Bazzanella sostiene inoltre che la legge logica (a izz a,
non-a non izz a, a o non-a), dipende mimeticamente o iconicamente da una
relazione essematica esprimibile come una pre-posizioni che istanzia una
relazioni senza referenza a le due relati. La preposizione "in" (‘jack IN the
box). La preposizione "con" (p & q, p con q). La preposizione
"di” (il perro di Strawsn). La preposizione “ri-" (Grice ri-torna).
Si tratta di una filosofia al limite della pensabilità. Invita a non concepire la
cosa o l’oggetto. Invita a concepire la *re-lazione* (re-ferenza) -- che
vengono ad esempio esperite dal neonate. l'"in" esprime l'in-essere
del feto nel grembo materno – Jack in the box, il feto nel grembo. Il
"con" esprime l'essere-con la propria madre e il suo seno (“Achille e
Teti”, “Romolo con la lupa”, La madre di Ascanio. La madre di Enea. La madre di
Romolo (Rea Silva). Il padre di Romolo: Marte. Il "di-" echeggia nel “dià”
del “dia-framma” rappresentato dal liquido amniotico rispetto al mondo esterno.
Il dia-framma della dia-logo. El dia-lettico. Il "ri-" allude alla
ri-petizione e al carattere originariamente ossessivo del bambino che cerca
sicurezza ri-petendo sempre i medesimo gesto (pianto, sorriso) e i medesimi suono (‘ma-ma’ ‘da-da’). L'impostazione
relazionistica che è partita da una fenomenologia dell'orizzonte per
articolarsi attraverso un'echologia e una teoria del senso, trova il suo
significato nel "paradigma immunitario. Lo desume da Foucault e,
soprattutto, da Gehlen, Sloterdijk ed Esposito. Se l'Ego si trova ggettato"
nell'Altro sin dalla nascita, cioè in una relazione che viola la legge della
logica e, soprattutto, che non consentono un ancoraggio rassicurante alla cosa ed
all’ oggetto, deve proteggersi e difendersi. Questo processo avviene però in
analogia con il sistema immunitario del corpo. Cioè l'Altro, il non-Ego, il
non-senso (o anche il "reale" come lo definisce traendo spunto dalla
definizione di Lacan) non può essere addomesticato che attraverso l'Altro. Il
senso ha una funzione difensiva e immunizzante e si basa su una
"mimesi" del reale mediata dall’essema. Il senso "imita" iconicamente
così il non-senso, ne è una sorta di estrusione. Questo paradosso implica anche
una riconsiderazione del soggetto e della relazioni di soggeti
(l’inter-soggetivo), soprattutto alla luce del suo dispiegamento a partire dal
cogito cartesiano. Il soggetto non coincide con un'identità, un "io"
pre-costituito. L’”io” rappresenta una funzione immunologica in cui l'individuo
assoggetta una cosa o un’altra persona, delegando le medesime ad affrontare il
reale al proprio posto. Il soggetto è un a-soggetto nel doppio senso di
non-essere-soggetto e di as-soggettare (ab-sub-jectum, ad-sub-jectum). La
communita inter-soggetiva rappresenta il paradigma di un processo di normo-tipizzazione
in cui una relazione essematica il puro cum senza relati, in questo caso si
trasforma in una difesa immunologica nei confronti del "fuori". Riprende
il dispositivo come orizzonte di potere intersoggetivo che funge da barriera o
filtro nei confronti del reale, nonché da sistema di controllo endo-geno e
normalizzante. La normotipia da' senso a una relazione nella misura in cui
riesce a bilanciare più o meno efficacemente il senso e il non-senso. Il
rischio di un sistema di senso, infatti, è paradossalmente quello di un eccesso
di senso. Ciò implica infatti una psico-tizzazione della comunità intersoggetiva,
e, quindi, una sorta di non-senso di ritorno. Gli esempi sono ormai
classici: il marxismo declina nel leninismo e degenera nello stalinismo. Il fascismo dai un
presupposto socialista diviene un
totalitarismo spietato e annientante. Si tratta di un *eccesso* di senso, di un
surplus immunitario che, se inizialmente intendeva distanziare e filtrare il
reale, comporta alfine una sorta di "divenire-reale" del senso
stesso, un'insensatezza reattiva e reazionaria. È in tale prospettiva che il
modello di senso tardocapitalistico sembra svolgere una funzione
autoimmunitaria. Il soggeto non ha a che fare soltanto con un processo di
stretta pertinenza economica, ma con un orizzonte di senso condiviso che permea
ogni aspetto dell'esistenza itersoggetiva. Società dello spettacolo e società
dei consume momenti in cui in particolare si esplica il capitalism non
sarebbero che una forme dialettica di reazione all'eccesso di senso del
totalitarismio. Si tratta di un bilanciamento tra un'evasione nell'immaginario
e un ri-torno al reale che si manifesterebbe nel momento stesso del consume. Note A. Fabris, La noia, il nulla, in «aut aut»,
n. 270, La Nuova Italia, Firenze, Bonami, La dittatura dello spettatore,
Catalogo generale della 50. Esposizione Internazionale d'Arte. La Biennale di
Venezia, Marsilio, Venezia, Storr (a c. di), Pensa con i sensi, senti con la
mente, Catalogo generale della 52. Esposizione Internazionale d'Arte. La
biennale di Venezia, Marsilio, Venezia, Birnbaum (a c. di), Fare Mondi,
Catalogo generale della 53. Esposizione Internazionale d'Arte. La Biennale di
Venezia, Marsilio, Venezia, Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso
al Collège de France, Feltrinelli, Milano, Esposito, Immunitas. Protezione e
negazione della vita, Einaudi, Torino, Esposito, Communitas. Origine e destino
della comunità, Einaudi, Torino, Tempo e linguaggio. Studio su Vladimir
Jankélévitch, Franco Angeli, Milano, Orizzonte. Passività e soggetto in Husserl
e Merleau-Ponty, Guerini e associati, Milano, Contaminazione. L'idea di
struttura in Heidegger, Franco Angeli, Milano, Spazio e potere. Heidegger,
Foucault, la televisione, Mimesis, Milano, Il luogo dell'Altro. Etica e
topologia in Jacques Lacan, Franco Angeli, Milano, Idee per un'echologia
fenomenologica, Franco Angeli, Milano, Echologia. Introduzione a una
fenomenologia della proprietà e a una critica del pensiero ontologico, Asterios
Editore, Trieste, Fede, echologia, sapere, Asterios Editore, Trieste, La
Fabbrica, Trieste, FrancoPuzzoEditore, Trattato di echologia, Mimesis, Milano, La
fabbrica, FPE Editore, Trieste, Il ritornello. La questione del senso in
Deleuze-Guattari, Mimesis, (Milano). Il tardocapitalismo. Decorsi e patologie
di una rivoluzione permanente, Asterios Editore, Trieste, Etica del
tardocapitalismo, Mimesis, Milano, Logica e tempo, Abiblio, Trieste, Autoscrittura,
Asterios Editore, Trieste, Religio I. Senso e fede nel tardocapitalismo,
Mimesis, Milano Religio II. La religione
del soggetto, Mimesis, Milano. Indignatevi, Asterios Editore Trieste. Oltre la
decrescita. Il Tapis Roulant e la società dei consumi, Asterios Editore,
Trieste. Lacan. Immaginario, simbolico e reale in tre lezioni, Asterios,
Trieste. Filosofie della paura. Verso la condizione post-postmoderna, Asterios
Editore, Trieste. La filosofia e il suo consumo. Nuovo realismo e postmoderno,
Asterios Editore, Trieste. Religio III. Logica e follia, Mimesis, Milano. Eros
e Thanatos. Senso, corpo e morte nel XX Seminario di Lacan, Asterios Editore,
Trieste,. Come. Linee guida per una immuno-fenomenologia, Asterios Editore,
Trieste,. Il numero e il fenomeno, Asterios Editore, Trieste. Il tragico e il
comico nell'epoca del grillismo e del trumpismo, Asterios Editore, Trieste.
Simbolo e violenza, Asterios Editore, Trieste. Del fallimento. Simbolo e
violenza II, Asterios Editore. Filosofi italiani del XX secoloFilosofi.
Emiliano Bazzanella. Keywords: il lugo dell’altro – etica e topologia, L’echologia
di Grice (dal greco ‘echein,’ avere, hazzing), essema, essematica, inessema,
coessema, diaessema, riessema, aritmetica. Esposito, communita, immunita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bazzanella” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Beccaria – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “I
would call Beccaria a Griceian, but I’m not sure he would call me a Beccarian!”
Grice: “His explicit, rather than implicated, Griceian ideology is in the
opening chapter on “Lo stilo conversazionale’ – he notes that the implicaturum
ain’t a part of the ‘sintassi’ of the ‘proposizione’ which is explicated – he
adds that ‘senses’ should not be multiplied because your addressee may get YOUR
sense, but trust he will lose interest if you keep multiplying – “to the risk
that he won’t get your sense in the last place!” – Grice: “Like me, Beccaria
was a unitarian philosopher; his tract on ‘I piaceri’ is delightful, very
pleasant read!” – If Austin and us met on different grounds and pubs, Beccaria
met at the caffe, and he liked it – Italians, unfortunately, only know him for
his tract on guilt and punishment!” – Grice: “Most Italians don’t even consider Beccaria an Italian philosopher but
as a member of the Accademia dei Pigne, as part of the illuminismo Lombardo
--.” Grice: “The philosophical panorama or landscape of Italian philosophy is
much diverse than our Oxonian dialectic!” --
One of the most essential of Italian philosophersReferred to by H. P.
Grice in his explorations on moral versus legal right, studied in Parma and
Pavia and taught political economy in Milan. Here, he met Pietro and Alessandro
Verri and other Milanese intellectuals attempting to promote political,
economical, and judiciary reforms. His major work, Dei delitti e delle pene “On
Crimes and Punishments,” 1764, denounces the contemporary methods in the
administration of justice and the treatment f criminals. Beccaria argues that
the highest good is the greatest happiness shared by the greatest number of
people; hence, actions against the state are the most serious crimes. Crimes
against individuals and property are less serious, and crimes endangering
public harmony are the least serious. The purposes of punishment are deterrence
and the protection of society. However, the employment of torture to obtain
confessions is unjust and useless: it results in acquittal of the strong and
the ruthless and conviction of the weak and the innocent. Beccaria also rejects
the death penalty as a war of the state against the individual. He claims that
the duration and certainty of the punishment, not its intensity, most strongly
affect criminals. Beccaria was influenced by Montesquieu, Rousseau, and
Condillac. His major work was tr. into many languages and set guidelines for
revising the criminal and judicial systems of several European countries. Se
dimostrerò non essere la pena di morte né utile, né necessaria, avrò vinto la
causa dell’umanità.» (da Dei delitti e delle pene) Cesare Beccaria
Bonesana, marchese di Gualdrasco e di Villareggio (Milano), giurista, filosofo,
economista e letterato italiano considerato tra i massimi esponenti
dell'illuminismo italiano, figura di spicco della scuola illuministica
milanese. La sua opera principale, il trattato Dei delitti e delle pene,
in cui viene condotta un'analisi politica e giuridica contro la pena di morte e
la tortura sulla base del razionalismo e del pragmatismo di stampo
utilitarista, è tra i testi più influenti della storia del diritto penale ed
ispirò tra gli altri il codice penale voluto dal granduca Pietro Leopoldo di
Toscana. Nonno materno di Alessandro Manzoni, Cesare Beccaria è
considerato inoltre come uno dei padri fondatori della teoria classica del
diritto penale e della criminologia di scuola liberale. nacque a Milano
(allora appartenente all'impero asburgico), figlio di Giovanni Saverio di
Francesco e di Maria Visconti di Saliceto, il 15 marzo 1738. Fu educato a Parma
dai gesuiti e si laureò in Giurisprudenza il 13 settembre 1758 all'Università
degli Studi di Pavia. Il padre aveva sposato la Visconti in seconde nozze nel
1736, dopo essere rimasto vedovo nel 1730 di Cecilia Baldroni. Nel 1760
Cesare sposò Teresa Blasco contro la volontà del padre, che lo costrinse a
rinunciare ai diritti di primogenitura (mantenne però il titolo di marchese);
da questo matrimonio ebbe quattro figli: Giulia, Maria (1766-1788), nata con
gravi problemi neurologici e morta giovane, Giovanni Annibale nato e morto nel
1767 e Margherita anch'essa nata e morta nel 1772. Il padre lo cacciò
anche da casa dopo il matrimonio, così dovette essere ospitato da Pietro Verri,
che lo mantenne anche economicamente per un periodo. Teresa morì il 14
marzo 1774, a causa della sifilide o della tubercolosi. Beccaria, dopo appena
40 giorni di vedovanza, firmò il contratto di matrimonio con Anna dei Conti
Barnaba Barbò, che sposò in seconde nozze il 4 giugno 1774, ad appena 82 giorni
dalla morte della prima moglie. Da Anna Barbò ebbe un altro figlio,
Giulio. l suo avvicinamento all'Illuminismo avvenne dopo la lettura delle
Lettere persiane di Montesquieu e del “Contratto sociale” di Rousseau, grazie
ai quali si entusiasmò per i problemi filosofici e sociali ed entrò nel
cenacolo di casa Verri, dove aveva sede anche la redazione del Caffè, il più
celebre giornale politico-letterario del tempo, per il quale scrisse
sporadicamente. Dopo la pubblicazione di alcuni articoli di economia, nel
1764 diede alle stampe Dei delitti e delle pene, capolavoro ispirato dalle
discussioni in casa Verri del problema dello stato deplorevole della giustizia
penale. Inizialmente anonimo è un breve scritto contro la tortura e la pena di
morte che ebbe enorme fortuna in tutta Europa e nel mondo e in particolare in
Francia. Contro le posizioni di Beccaria uscì, nel 1765 il testo Note ed
osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene di Ferdinando
Facchinei. Le polemiche che ne seguirono contribuirono alla decisione di
mettere il trattato di Beccaria all'Indice dei libri proibiti nel 1766, a causa
della distinzione tra peccato e reato. Nel 1766 Beccaria viaggiò poi
controvoglia fino a Parigi, e solo dietro l'insistenza dei fratelli Verri e dei
filosofi francesi desiderosi di conoscerlo. Fu accolto per breve tempo nel
circolo del barone d'Holbach. La sua giustificata gelosia per la moglie lontana
e il suo carattere ombroso e scostante, fecero sì che appena possibile tornasse
a Milano, lasciando solo il suo accompagnatore Alessandro Verri a proseguire il
viaggio verso l'Inghilterra. Il carattere riservato e riluttante di Beccaria,
tanto nelle vicende private quanto nelle pubbliche, ebbe nei fratelli Verri, e
soprattutto in Pietro, un fondamentale punto di appoggio e di stimolo
soprattutto quando iniziò ad interessarsi allo studio dell'economia. Come
Rousseau, Beccaria era a tratti paranoico e aveva spesso sbalzi d'umore, la sua
personalità era abbastanza indolente e il carattere debole, poco brillante e
non portato alla vita sociale; ciò non gli impediva però di esprimere molto
bene i concetti che aveva in mente, soprattutto nei suoi scritti. Tornato
a Milano nel 1768 ottenne la cattedra di Scienze Camerali (economia politica),
creata per lui nelle scuole palatine di Milano e cominciò a progettare una
grande opera sulla convivenza umana, mai completata. Antonio
Perego, L'Accademia dei Pugni. Da sinistra a destra: Alfonso Longo (di spalle),
Alessandro Verri, Giambattista Biffi, Cesare Beccaria, Luigi Lambertenghi,
Pietro Verri, Giuseppe Visconti di Saliceto Entrato nell'amministrazione austriaca
nel 1771, fu nominato membro del Supremo Consiglio dell'Economia, carica che
ricoprì per oltre vent'anni, contribuendo alle riforme asburgiche sotto Maria
Teresa e Giuseppe II. Fu criticato per questo dagli amici (tra cui Pietro
Verri), che gli rimproveravano di essere diventato un burocrate. Gli studiosi,
però, considerano questi giudizi ingiusti dal momento che Cesare Beccaria si
dedicò ad importanti riforme, che richiedevano una notevole preparazione
intellettuale, non solo amministrativa. Fra queste ci fu la riforma delle
misure dello stato milanese, intrapresa prima di quella del sistema metrico
decimale francese, e a cui Beccaria, insieme al fratello Annibale, dedicò quasi
vent'anni della sua vita. (La riforma, notevolmente complessa, coinvolse alla
fine solo il braccio milanese. La successiva riforma dei pesi non fu mai
realizzata.) Il suo rapporto con la figlia Giulia, futura madre di
Alessandro Manzoni, fu conflittuale per gran parte della sua vita; ella era
stata messa in collegio (nonostante Beccaria avesse spesso deprecato i collegi
religiosi) subito dopo la morte della madre e lì dimenticata per quasi sei
anni: suo padre non volle più sapere niente di lei per molto tempo e non la
considerò mai sua figlia, bensì il frutto di una relazione extraconiugale delle
numerose che la moglie aveva avuto. Beccaria non si sentiva adeguato al ruolo
di padre, inoltre negò l'eredità materna alla figlia, avendo contratto dei
debiti: ciò gli diede la fama di irriducibile avarizia. Giulia uscì dal
collegio nel 1780, frequentando poi gli ambienti illuministi e libertini. Nel
1782 la diede in sposa al conte Pietro Manzoni, più vecchio di vent'anni di
lei: il nipote Alessandro nacque nel 1785, ma pare fosse in realtà il figlio di
Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e Alessandro, e amante di Giulia.
Prima della morte del padre, Giulia abbandonò il marito, nel 1792, per andare a
vivere a Parigi insieme al conte Carlo Imbonati, rompendo i rapporti
definitivamente col padre, e
temporaneamente anche con il figlio. Beccaria morì a Milano il 28
novembre 1794, a causa di un ictus, all'età di 56 anni, e trovò sepoltura nel
Cimitero della Mojazza, fuori Porta Comasina, in una sepoltura popolare (dove
fu sepolto anche Giuseppe Parini) anziché nella tomba di famiglia. Quando tutti
i resti vennero traslati nel cimitero monumentale di Milano, un secolo dopo, si
perse traccia della tomba del grande giurista. Pietro Verri, con una
riflessione valida ancora oggi, deplorò nei suoi scritti il fatto che i
milanesi non avessero onorato abbastanza il nome di Cesare Beccaria, né da vivo
né da morto, che tanta gloria aveva portato alla città. Ai funerali di Beccaria
era presente anche il giovane nipote Alessandro Manzoni (che riprenderà molte
delle riflessioni del nonno e di Verri nella Storia della colonna infame e nel
suo capolavoro, I promessi sposi), nonché il figlio superstite ed erede,
Giulio. Beccaria fu influenzato dalla lettura di Locke, Helvetius,
Rousseau e, come gran parte degli illuministi milanesi, dal sensismo di
Condillac. Fu influenzato anche dagli enciclopedisti, in particolare da
Voltaire e Diderot. Partendo dalla classica teoria contrattualistica del
diritto, derivata in parte dalla formulazione datane da Rousseau, che
sostanzialmente fonda la società su un contratto sociale (nell'omonima opera)
teso a salvaguardare i diritti degli individui e a garantire in questo modo
l'ordine, Beccaria definì in pratica il delitto in maniera laica come una
violazione del contratto, e non come offesa alla legge divina, che appartiene
alla coscienza della persona e non alla sfera pubblica. La società nel suo
complesso godeva pertanto di un diritto di autodifesa, da esercitare in misura
proporzionata al delitto commesso (principio del proporzionalismo della pena) e
secondo il principio contrattualistico per cui nessun uomo può disporre della
vita di un altro (Rousseau non considerava moralmente lecito nemmeno il
suicidio, in quanto non l'uomo, ma la natura, nella visione del ginevrino,
aveva potere sulla propria vita, e quindi tale diritto non poteva certamente
andare allo Stato, che comunque avrebbe violato un diritto
individuale). Il punto di vista illuministico del Beccaria si concentra in
frasi come «Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni
eventi l'uomo cessi di essere persona e diventi cosa». Ribadisce come è
necessario neutralizzare l'«inutile prodigalità di supplizi» ampiamente diffusi
nella società del suo tempo. La tesi umanitaria, messa in risalto da Voltaire,
è parzialmente da lui accantonata, in quanto Beccaria vuole dimostrare
pragmaticamente l'inutilità della tortura e della pena di morte, più che la
loro ingiustizia. Egli è infatti consapevole che i legislatori sono mossi più
dall'utile pratico di una legge, che da principi assoluti, di ordine religioso
o filosofico. Beccaria afferma infatti che «se dimostrerò non essere la morte
né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell'umanità». Beccaria quindi si
inserisce nel filone utilitaristico: considera l'utile come movente e metro di
valutazione di ogni azione umana. Monumento a Cesare Beccaria,
Giuseppe Grandi, Milano L'ambito della sua dottrina è quello
general-preventivo, nel quale si suppone che l'uomo sia condizionabile in base
alla promessa di un premio o di un castigo e, nel contempo, si ritiene che
sussista fra ogni cittadino e le istituzioni una conflittualità più o meno
latente. Sostiene la laicità dello Stato. Adotta come metodo d'indagine quello
analitico-deduttivo (tipico della matematica) e per lui l'esperienza è da
intendersi in termini fenomenici (approccio sensista). La natura umana si
svolge in una dimensione edonistico-pulsionistica, ovvero sia i singoli, sia la
moltitudine, agiscono seguendo i loro sensi. In poche parole l'uomo è
caratterizzato dall'edonismo. Gli individui possono essere parago dei «fluidi»
messi in movimento dalla costante ricerca del piacere, intesa come fuga dal
dolore. L'uomo però è una macchina intelligente capace di razionalizzare le
pulsioni, in modo da consentire la vita in società; infatti certamente ogni
uomo pretende di essere autonomo e insindacabile nelle sue decisioni, ma si
rende conto della convenienza della vita sociale. Ma la conflittualità rimane e
quindi bisogna impedire che il cittadino venga sedotto dall'idea di infrangere
la legge al fine di perseguire il proprio utile a tutti i costi, pertanto il
legislatore, da «abile architetto», deve predisporre sanzioni e premi in
funzione preventiva; è necessario tenere sotto controllo i «fluidi», inibendo
le pulsioni antisociali. Tuttavia Beccaria sostiene che la sanzione deve
essere sì idonea e sicura, a garantire la difesa sociale, ma al contempo
mitigata e rispettosa della persona umana. «Il fine delle pene non è di
tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già
commesso. Può egli in un corpo politico, che, ben lungi di agire per passione,
è il tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare
questa inutile crudeltà stromento del furore e del fanatismo o dei deboli
tiranni? Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le
azioni già consumate? Il fine dunque non è altro che d'impedire il reo dal far
nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle
pene dunque e quel metodo d'infliggerle deve esser prescelto che, serbata la
proporzione, farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli
uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo.» «Parmi un assurdo che le
leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono
l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini
dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio» (Dei delitti e delle
pene, cap. XXVIII) Illustrazione allegorica da Dei delitti e delle pene:
la giustizia personificata respinge il boia, con in mano una testa, e una
spada. La pena di morte, “una guerra della nazione contro un cittadino”, è
inaccettabile perché il bene della vita è indisponibile, quindi sottratto alla
volontà del singolo e dello Stato. Inoltre essa: non è un vero deterrente
non è assolutamente necessaria in tempo di pace Essa non svolge un'adeguata
azione intimidatoria poiché lo stesso criminale teme meno la morte di un
ergastolo perpetuo o di una miserabile schiavitù: si tratta di una sofferenza
definitiva contro una sofferenza ripetuta. Ai soggetti che assistono alla sua
esecuzione, inoltre, essa può apparire come uno spettacolo o suscitare
compassione. Nel primo caso, essa indurisce gli animi, rendendoli più inclini
al delitto; nel secondo, non rafforza il senso di obbligatorietà della legge e
il senso di fiducia nelle istituzioni. Questa condizione è assai più
potente dell'idea della morte e spaventa più chi la vede che chi la soffre; è
quindi efficace ed intimidatoria, benché tenue. In realtà così facendo viene
sostituita alla morte del corpo la morte dell'anima, il condannato viene
annichilito interiormente. Tuttavia non è la punizione fine a sé stessa
l'obiettivo di Beccaria, ma egli utilizza questo argomento dell'afflittività
penale per convincere i governanti e i giudici, in quanto il suo fine resta
eminentemente rieducativo e risarcitivo (il condannato non deve essere afflitto
o torturato, ma deve riparare il danno in maniera economico-politica, come
previsto da una concezione puramente utilitaristica e di giustizia anti-retributiva).
Beccaria ammette che il ricorso alla pena capitale sia necessario solo quando
l'eliminazione del singolo fosse il vero ed unico freno per distogliere gli
altri dal commettere delitti, come nel caso di chi fomenta tumulti e tensioni
sociali: ma questo caso non sarebbe applicabile se non verso un individuo molto
potente e solo in caso di una guerra civile. Tale motivazione fu usata, per
chiedere la condanna di Luigi XVI, da Maximilien de Robespierre, il quale era
inizialmente avverso alla pena capitale ma in seguito diede il via ad un uso
spropositato della pena di morte e poi al Terrore; comportamenti del tutto
inammissibili nel pensiero di Beccaria, che infatti prese le distanze, come
molti illuministi moderati, dalla Rivoluzione francese dopo il 1793. La
tortura, “l'infame crociuolo della verità”, viene confutata da Beccaria con
varie argomentazioni: essa viola la presunzione di innocenza, dato che
«un uomo non può chiamarsi reo fino alla sentenza del giudice». consiste in
un'afflizione e pertanto è inaccettabile; se il delitto è certo porta alla pena
stabilita dalle leggi, se è incerto non si deve tormentare un possibile
innocente. non è operativa in quanto induce a false confessioni, poiché l'uomo,
stremato dal dolore, arriverà ad affermare falsità al fine di porre termine
alla sofferenza. è da rifiutarsi anche per motivi di umanità: l'innocente è
posto in condizioni peggiori del colpevole. non porta all'emenda del soggetto,
né lo purifica agli occhi della collettività. Beccaria ammette razionalmente
l'afflizione della tortura nel caso di testimone reticente, cioè a chi durante
il processo si ostini a non rispondere alle domande; in questo caso la tortura
trova una sua giustificazione, ma egli preferisce comunque chiederne la totale
abolizione, in quanto l'argomento utilitario viene in questo caso sopraffatto
comunque da quello razionale (il fatto che è ingiusto applicare una pena
preventiva, sproporzionata e comunque violenta). Il carcere preventivo
Beccaria mostra dubbi e raccomanda cautela nella custodia cautelare in attesa
di processo, attuata negli ordinamenti penali solitamente in casi di pericolo
di fuga, reiterazione o inquinamento delle prove, e alla sua epoca
assolutamente discrezionale e ingiusta. «Un errore non meno comune che contrario
al fine sociale, che è l'opinione della propria sicurezza, è il lasciare
arbitro il magistrato esecutore delle leggi, d'imprigionare un cittadino, di
togliere la libertà ad un nemico per frivoli pretesti, e il lasciare impunito
un amico ad onta degl'indizi più forti di reità. La prigionia è una pena che
per necessità deve, a differenza di ogni altra, precedere la dichiarazione del
delitto; ma questo carattere distintivo non le toglie l'altro essenziale, cioè
che la sola legge determini i casi, nei quali un uomo è degno di pena. La legge
dunque accennerà gli indizi di un delitto che meritano la custodia del reo, che
lo assoggettano ad un esame e ad una pena.» Può essere necessaria, ma
essendo comunque una pena contro un presunto innocente, come la tortura
(concezione garantista della giustizia), non deve essere attuata tramite
arbitrio di un magistrato o di un ufficiale di polizia. La carcerazione dopo
cattura e prima del processo è ammessibile solo quando ci sia, oltre ogni
dubbio la prova della pericolosità dell'imputato: «pubblica fama, la fuga, la
stragiudiciale confessione, quella d'un compagno del delitto, le minacce e la
costante inimicizia con l'offeso, il corpo del delitto, e simili indizi, sono
prove bastanti per catturare un cittadino. Ma queste prove devono stabilirsi
dalla legge e non dai giudici, i decreti de' quali sono sempre opposti alla
libertà politica, quando non sieno proposizioni particolari di una massima
generale esistente nel pubblico codice». Le prove dovranno essere quanto
più solide quanto la prigionia rischi di essere lunga o pesante: «A misura che
le pene saranno moderate, che sarà tolto lo squallore e la fame dalle carceri,
che la compassione e l'umanità penetreranno le porte ferrate e comanderanno
agli inesorabili ed induriti ministri della giustizia, le leggi potranno
contentarsi d'indizi sempre più deboli per catturare». Egli raccomanda
inoltre la piena riabilitazione per la carcerazione ingiusta: «Un uomo accusato
di un delitto, carcerato ed assoluto, non dovrebbe portar seco nota alcuna
d'infamia. Quanti romani accusati di gravissimi delitti, trovati poi innocenti,
furono dal popolo riveriti e di magistrature onorati! Ma per qual ragione è
così diverso ai tempi nostri l'esito di un innocente? perché sembra che nel
presente sistema criminale, secondo l'opinione degli uomini, prevalga l'idea
della forza e della prepotenza a quella della giustizia; si gettano confusi
nella stessa caverna gli accusati e i convinti; perché la prigione è piuttosto
un supplizio, che una custodia del reo, e perché la forza interna tutrice delle
leggi è separata dalla esterna difenditrice del trono e della nazione, quando
unite dovrebbono essere». Il carattere della sanzione Frontespizio
di Scritti e lettere inediti del 1910 Cesare Beccaria, incisione da Dei
delitti e delle pene Beccaria indica come la sanzione deve possedere alcuni
requisiti: la prontezza ovvero la vicinanza temporale della pena al
delitto l’infallibilità ovvero vi deve essere la certezza della risposta sanzionatoria
da parte delle autorità la proporzionalità con il reato (difficile da
realizzare ma auspicabile) la durata, che dev'essere adeguata la pubblica
esemplarità, infatti la destinataria della sanzione è la collettività, che
constata la non convenienza all'infrazione essere la «minima delle possibili
nelle date circostanze» Secondo Beccaria, per ottenere un'approssimativa
proporzionalità pena-delitto, bisogna tener conto: del danno subito dalla
collettività del vantaggio che comporta la commissione di tale reato della
tendenza dei cittadini a commettere tale reato Non dev'essere comunque una
violenza gratuita, ma dev'essere dettata dalle leggi, oltre a possedere tutti i
caratteri razionali citati, e sprovvista di personalismi e sentimenti
irrazionali di vendetta. La pena è oltretutto una extrema ratio, infatti
si dovrebbe evitare di ricorrere ad essa quando si hanno efficaci strumenti di
controllo sociale (non deve inoltre colpire le intenzioni in maniera analoga al
fatto compiuto: ad esempio, l'attentato fallito non è paragonabile a uno
riuscito). Per questi motivi è importante attuare degli espedienti di
“prevenzione indiretta”, come ad esempio: un sistema ordinato della
magistratura, la diffusione dell'istruzione nella società, il diritto premiale
(premiare la virtù del cittadino, anziché punire solo la colpa), una riforma
economico-sociale che migliori le condizioni di vita delle classi sociali
disagiate. Beccaria si dichiara inoltre sospettoso verso il sistema delatorio
(cosiddetta collaborazione di giustizia), da usare solo per prevenire delitti
importanti, in quanto incoraggia il tradimento e favorisce dei criminali rei
confessi dando loro l'impunità. Per quanto riguarda l'istituto premiale
nella pena già comminata, cioè le amnistie e la grazia, essi possono essere
usati ma con cautela: al condannato che si comporta in maniera esemplare
durante l'esecuzione della pena o in casi specifici, ma solo in caso di pene
pesanti, esse possono essere concesse; suggerisce però di limitare la
discrezionalità del governante e del giudice, poiché egli teme che lo strumento
della clemenza venga usato per favoritismi, come nell'Antico Regime, eliminando
anche pene lievi a persone che siano potenti o vicini politicamente o
umanamente al sovrano: «La clemenza è la virtú del legislatore e non
dell'esecutor delle leggi», scrive infatti. Pertanto il fine della
sanzione non è quello di affliggere, ma quello di impedire al reo di compiere
altri delitti e di intimidire gli altri dal compierne altri, fino a parlare di
"dolcezza della pena", in contrasto alla pena violenta: «Uno
dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l'infallibilità
di esse. La certezza di un castigo, benché moderato farà sempre una maggiore
impressione che non il timore di un altro più terribile, unito con la speranza
dell'impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre
gli animi umani, e la speranza, dono celeste, che sovente ci tien luogo di
tutto, ne allontana sempre l'idea dei maggiori, massimamente quando l'impunità,
che l'avarizia e la debolezza spesso accordano, ne aumenti la forza. L'atrocità
stessa della pena fa sì che si ardisca tanto più per schivarla, quanto è grande
il male a cui si va incontro; fa sì che si commettano più delitti, per fuggir
la pena di uno solo. I paesi e i tempi dei più atroci supplicii furon
sempre quelli delle più sanguinose ed inumane azioni, poiché il medesimo
spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore, reggeva quella del
parricida e del sicario. (...) Perché una pena ottenga il suo effetto basta che
il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di
male deve essere calcolata l'infallibilità della pena e la perdita del bene che
il delitto produrrebbe. Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico.»
Il diritto all'autodifesa: sul porto di armi Il pensiero di Beccaria sul porto
di armi, che egli riteneva un utile strumento di deterrenza del crimine, si
riassume nelle seguenti citazioni: «Falsa idea di utilità è quella che
sacrifica mille vantaggi reali per un inconveniente o immaginario o di troppa
conseguenza, che toglierebbe agli uomini il fuoco perché incendia e l'acqua
perché annega, che non ripara ai mali che col distruggere. Le leggi che
proibiscono di portare armi sono leggi di tal natura; esse non disarmano che i
non inclinati né determii delitti, mentre coloro che hanno il coraggio di poter
violare le leggi più sacre della umanità e le più importanti del codice, come
rispetteranno le minori e le puramente arbitrarie, e delle quali tanto facili
ed impuni debbon essere le contravvenzioni, e l'esecuzione esatta delle quali
toglie la libertà personale, carissima all'uomo, carissima all'illuminato
legislatore, e sottopone gl'innocenti a tutte le vessazioni dovute ai rei?
Queste peggiorano la condizione degli assaliti, migliorando quella degli
assalitori, non iscemano gli omicidii, ma gli accrescono, perché è maggiore la
confidenza nell'assalire i disarmati che gli armati. Queste si chiamano leggi
non prevenitrici ma paurose dei delitti, che nascono dalla tumultuosa
impressione di alcuni fatti particolari, non dalla ragionata meditazione
degl'inconvenienti ed avantaggi di un decreto universale» Influenza Anche
Ugo Foscolo rileverà nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis che "le pene
crescono coi supplizi". L'opera ed il pensiero di Beccaria, inoltre,
influenzarono la codificazione del Granducato di Toscana, concretizzata nella
Riforma della legislazione criminale toscana, promulgata da Pietro Leopoldo
d'Asburgo nel 1787, meglio conosciuta come "Codice leopoldino" col
quale la Toscana divenne il primo stato in Europa ad eliminare integralmente la
pena di morte e la tortura dal proprio sistema penale. Il filosofo
utilitarista Jeremy Bentham ne riprenderà alcune idee. Le idee del
Beccaria stimolarono un dibattito (si pensi alle critiche che Kant gli mosse
nella sua Metafisica dei costumi) ancora vivo e attuale oggi. Citazioni e
riferimenti Monumento a Cesare Beccaria, Milano Nel 1837 venne realizzato
un monumento a Cesare Beccaria, opera dello scultore Pompeo Marchesi, posto
sulla scalinata richiniana del palazzo di Brera. Venne inaugurato un secondo
monumento in marmo a Milano (oggi piazza Beccaria); a causa del deterioramento,
nel 1913 il monumento fu sostituito da una copia in bronzo. Gli è stato
dedicato un asteroide: 8935 Beccaria. Il carcere minorile di Milano è a lui
intitolato. A lui è intitolato un prestigioso Liceo Classico milanese, il
Ginnasio Liceo Statale Cesare Beccaria. A lui è dedicato uno dei 3 dipartimenti
della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano. Altre
opere: “Del disordine e de' rimedi delle monete a Milano”; “Del delitto e della
pena” (Livorno, Marco Cortellini). Giovanni
Claudio Molini); “Ricerche intorno alla natura dello stile”; “Elementi di
economia pubblica”; “Raccolte di articoli Gli articoli di Beccaria in «Il
Caffè» Collana «Pantheon», Bollati Boringhieri). Due volumi, Genealogia
Dati tratti da genealogia settecentesca della famiglia Beccaria con indicazione
della discendenza di Cesare Beccaria”; “Simone «attese a negozi con
prosperità”; Gerolamo «tesoriere di vari luoghi pii, uomo di molti
trafici” Sposa Isabella Busnata di Giovanni Stefano. Galeazzo
«I.C. causidico nel civile». Francesco “cassiere generale del Banco
Sant'Ambrogio sino a morte ed agente del luogo Pio della Carità». Sposa Anna
Cremasca.Filippo «Successe al padre nel posto di cassiere suddetto, che poscia
rinunciò e si fece sacerdote». Anastasia«Monaca in Vigevano»
Giovanni «Alla morte di suo padre ebbe un'entrata di scuti 5000 con
che la trattò alla cavalleresca». Sposò Maddalena Bonesana figlia di Francesco
(«rimaritata nel conte Isidoro del Careto»). Francesco «Fece
aquisto de sudetti feudi di Gualdrasco e Villareggio nel vicariato di Settimo
per istrumento 3 marzo 1705 rogato dal notaio Benag.a. Creato marchese nel 1711
per cesareo diploma». Sposò Francesca Paribelli di Nicolò «da Sondrio nella
Valtellina». Giovanni Saverio Secondo marchese di Gualdrasco e di
Villareggio. Ereditò il cognome Bonesana del prozio Cesare Bonesana. Con
decreto, entrò a far parte del patriziato milanese. Sposa Cecilia Baldironi Maria
Visconti di Saliceto Cesare Terzo marchese di Gualdrasco e di Villareggio.
Sposò Teresa de Blasco Anna Barbò Giulia Sposò Pietro Manzoni.
Anna Maria Aloisia Giovanni Annibale Margherita Teresa Giulio Quarto marchese di
Gualdrasco e di Villareggio. Sposò nel 1821 Antonietta Curioni de Civati
Francesca Cecilia Cesare Antonio Maddalena Sposò Giulio Cesare Isimbardi Tozzi.
Annibale Sposò nel 1776 Marianna Vaccani Francesco (1749-1856)Sposò
Rosa Conti (vedova Fè). Carlo Sposò
Rosa Tronconi Giacomo Filippo Mariaabate
Carlo Teresamonaca Chiaramonaca Nicola Francesco Laureato
in legge, membro del collegio dei giurisperiti, fu anche giudice a Milano e a
Pavia. Giuseppe Marianna
Ignazio Anna Maria Sposò un Cattaneo «fisico»
Gerolamo«Canonico ordinario del Duomo» AngiolaSposò Alberto
Priorino nel 1619. Tendente al deismo Il
nome di «marchese di Beccaria», usato talvolta nella corrispondenza, si trova
in molte fonti (tra cui l'Enciclopedia Britannica) ma è errato: il titolo
esatto era «marchese di Gualdrasco e di Villareggio» (cfr. Maria G. Vitali,
Cesare Beccaria. Progresso e discorsi di economia politica, Paris, Philippe
Audegean, Introduzione, in Lione, 20099. )
John Hostettler, Cesare Beccaria: The Genius of 'On Crimes and
Punishments', Hampshire, Waterside Press, Indicata come "Ortensia" in
Pompeo Litta, Visconti, in Famiglie celebri italiane. Renzo Zorzi, Cesare Beccaria. Dramma della
Giustizia, Milano, Pirrotta, art. cit C.
e M. Sambugar, D. Ermini, G. Salà, op, cit..
Emanuele Lugli, 'Cesare Beccaria e la riduzione delle misure lineari a
Milano,' Nuova Informazione Bibliografica non riposa sul Lario F.Venturi, Settecento riformatore, Einaudi,
Torino, Sambugar, Salà, Letteratura modulare,
I Dei delitti e delle pene,
capitolo XII Cesare Beccaria, la
scoperta della libertà, con Lucio Villari, Il tempo e la storia, Rai Tre
Dei delitti e delle pene, capitolo VI
Dei delitti e delle pene, Capitolo XLVII
Dei delitti e delle pene, Capitoli 38 e seguenti Dei delitti e delle pene, capitolo 46, Delle
grazie Dei delitti e delle pene, capitolo
27 I. Kant, La metafisica dei costumi,
traduzione e note di G. Vidari, revisione di N. Merker, 10ª ed., Roma-Bari,
Laterza, «Il marchese Beccaria, per un affettato sentimento umanitario,
sostiene [...] la illegalità di ogni pena di morte: essa infatti non potrebbe
essere contenuta nel contratto civile originario, perché allora ogni individuo
del popolo avrebbe dovuto acconsentire a perdere la vita nel caso ch'egli
avesse a uccidere un altro (nel popolo); ora questo consenso sarebbe
impossibile perché nessuno può disporre della propria vita. Tutto ciò però non
è che sofisma e snaturamento del diritto».
Teatro genealogico delle famiglie nobili milanesi, su Hispanic Digital
Library. Felice Calvi, Il patriziato
milanese, Milano, 1875, 52-53. Nella genealogia settecentesca è indicato un
Nicolò abbate. Pietro Verri, Scritti di
argomento familiare e autobiografico, G. Barbarisi, Roma, Franco Arese, Il
Collegio dei nobili Giureconsulti di Milano, in Archivio Storico Lombardo,
Cesare Beccaria, Ricerche intorno alla natura dello stile, Milano, Società
tipografica de' classici italiani, Cesare Beccaria, Scritti e lettere inediti,
Milano, Hoepli, Cesare Beccaria, Opere, I, Firenze, Sansoni, 1958. Cesare
Beccaria, Opere, II, Firenze, Sansoni, Introduzione a Beccaria, Enza Biagini,
Roma-Bari,Laterza, 1992 Antoine-Marie Graziani, Fortune de Beccaria,
Commentaire, Dei delitti e delle pene Diritti umani Ergastolo Tortura Pena
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di Cesare Beccaria, su Liber Liber.
Opere di Cesare Beccaria / Cesare Beccaria (altra versione), su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Cesare Beccaria,. Audiolibri di
Cesare Beccaria, su LibriVox. Vita di
C.Beccaria, su zam. V D M Coterie holbachiana V D M Illuministi italiani Filosofia Letteratura Letteratura Categorie: Giuristi italiani del
XVIII secoloFilosofi italiani del XVIII secoloEconomisti italiani Milano
MilanoFilosofi del dirittoIlluministi UtilitaristiLetterati italiani Oppositori
della pena di morte Studiosi di diritto penale del XVIII secolo Criminologi
italiani Storia del diritto Nobili italiani del XVIII secoloStudenti
dell'Università degli Studi di Pavia. Refs.: Luigi
Speranza, "Grice e Beccaria," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Delle idee espresse, e delle idee
semplicemente suggerite. Un altra osservazione non meno importante che generale
sarà intorno al diverso effetto che le idee accessorie pos sono produrre quando
siano espresse coi termini loro corrispondenti, o quando siano semplicemente
suggerite o destate nell' animo di chi legge o di chi ascolta. Espresse
nuocerebbero al fascio intero del le sensazioni; destate solamente lo giovano,
non solo perchè la picciola fatica che facciamo, e l'applauso interno del
nostro ritrovato ci rinfranca l'attenzione sul restante, ma molto più perchè è
legge della nostra sensibilità che tutt'altra forza abbiano le idee espresse e
le taciute, e tutt'altra attenzione esigono da noi quel le che queste. Ora le
attenzioni saranno tanto più lunghe o più frequenti, tanto più si nuocono tra
di loro, e scemano l'attenzione al tutto; mentre per lo contrario quei lampi,
rapidi e passeggieri di attenzione che balenano, in noi per tutte le idee
espresse, e confusa per il tutto e debolissima sarà la percezione deile parti,
o solamente ad alcune noi faremo idee accessorie e non espresse, accrescono
delle sensazioni senza nuocere all'attenzione ed all'energia del tutto. Abbiamo
semplicemente il numero dimostrato che la quantità d'impressione momentanea non
deve eccedere che tre o quattro sensazioni ordinarie, perchè per tante e non più
la mente umana è capace di una simultanea attenzione: la vivacità degli oggetti
presenti non le concedono una maggior ampiezza ed u na maggiore
comprensibilità. Nelle cose lette o ascoltate, in luogo della vivacità e della
realità che è nell'oggetto quando è presente, vi è la vivacità e la realità
della parola visibile o auditiva se noi dunque volessimo tutte le accessorie,
che si tacciono, esprimere, veremmo ad offendere quella legge determina e
limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale, o lo sforzo della
mente si porterà su destate che le attenzione, cioè solamente di alcune
l'immagine corrispondente alla parola si risveglierà nella mente, ed allora le
altre parole rimanendo insignificanti. Se dunque una parola racchiude nel suo
concetto molte e varie sensazioni, come 'spada', 'esercito', 'nave', ec. cosic
chè la mente dalla parola medesima non sia determinata a considerar più l'una
che l'altra delle sensazioni componenti 1 e terruzione al senso, e
distruggeranno l'effetto delle altre in vece di aumentarlo., faranno i n 43
suc, ma sibbene sia piuttosto sforzata a co nsiderarle tutte in una volta,
accaderà che condensando due o tre di queste parole intorno ad un'idea
principale, vi saranno non due o tre accessorie soltanto unite e destinate ad
aggiunger forza al la principale, ma invece un molto maggior numero, quante
saranno le sensazioni egualmente comprese sotto i nomi di 'spada', 'esercito',
'nave', ec.: tutte queste varie e numerose sensazioni non essendo più
immediatamente le une che le altre suggerite, tutte concorrono
contemporaneamente ad associarsi colla principale; onde l'effetto reale che ne
cede si è, che la fantasia nostra resta distratta é confusa. Per lo contrario,
se invece de' nomi 'spada', 'esercito', 'nave', ec., si dicesse 'ferro',
'soldato', 'vele', e che questi nomi si condensassero attorno ad un'idea
principale per formarne un senso, si osservi che le tre sole nozioni e precise
sensazioni comprese nel proprio significato delle tres uddette parole si quelle
ogni sono che immediatamente, e prima di altra, si risvegliano nella fantasia;
saranno quelle che immediatamente si uniranno colla principale. Ma per forza di
onde associazione non tra lascerà la parola di 'ferro' di suggerire rapidamente
le altre sensazioni comprese sotto la parola 'spada'; quella di 'soldato',
quelle di 'esercito'; quella di 'vele', quelle di 'navi'. Ma essendo priamente
queste sensazioni suggerite pro associate colle parole 'ferro', 'soldato', e
'vele', ma con le idee che nuocere alla principale così facilmente. Ecco chiaramente
spiegato ciò st che io intendo per idee suggerite e per idee espresse, mentre
però tutta questa teoria sarà resa più evidente dopo che nel progresso io avrò
parlato de' nomi speciali ed appellativi, e de' traslati. sono. E de sta que
immediatamente risvegliano, non pos Le idee semplicemente suggerite non entrano
nella sintassi della proposizione, la quale regge senza di quelle: non sono non
SI. Accipite hanc animam, me que his exolvit e curis, quanta folla d'idee si
risveglia in chi legge quelle sole parole, in quella occasione dette, dulces
exuviae: la sintassi regge senza che si risveglino queste idee, onde la mente
non trovasi affaccendata a raccapezzare un senso complicato e in molte parti
diviso e coll'accennar sol tanto la spada di Enea sotto il nome di una spoglia,
cioè di una cosa da lui portata e da lui ricevuta in dono, quanto teneri e
contrastanti sentimenti non ci sentiamo fremere interiormente! Egli è
evidente che una medesima serie d'idee per intervalli di tempo più lunghi occupa
la mente se siano espresse, di quello che se siano taciute, per chè un maggior
tempo si consuma nella percezione della parola, per la durata della quale si
continua la presenza dell'idea corrispondente di quello che sia con durevoli
nella mente quanto le idee che eccitate sono dalle parole immediatamente,
quantunque come le altre, alla occasione di quelle, si risveglino; onde con
minore dispendio ditempo e di forzesi ottiene un più grande effetto. Quando
Virgilio fa dire à Didone: 'Dulces exuviae dum futa, Deusque sinebant, a
rendere più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali, il che
renderebbe annoiante e faticoso il netto coucepimento del tutto, oppure essunto
nella rapida ed affollata successio ne d'imagini che per forza di associa zione
si eccitano reciprocamente. Tanto è ciò vero, che non sarà inutile il qui
osservare che molte espressioni non so no preferibili alle altre, se non
appunto perchè la sensazione auditiva o della parola è materialmente più dell'
altra. È più bella e più nobile pressione la parola cocchio della carrozza non
per es parola visibile breve l'azzardo capriccioso dell'esser meno comune ed
avilita pressione, giacchè tant'altre che nelle bocche di tutti sieno
continuamente; cio nonostante nè si rigettano, nè per meno belle son riputate,
ma soltanto p e r chè è parola più breve, e l'idea da un più rapido segno è
rappresentata; onde si ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e
ditempo. Ora se le idee taciute fossero tutte espresse, noi verremmo mente
nostra dividerebbe in più tempi ciò che per l'unità dell'idea principale
dovrebbe essere rinchiuso in un solo; il che rendendo l'accessorio principale,
pro la durrebbe e confusione nella chiarezza, e noia nelle unioni diseguali e
sproporzionate d'idee fatte nella mente nostra. Tanto è vero che il tempo (che
altro nonè per noi che la successione delle idee degli esseri sensibili) è una
quantità alla quale non la scienza del moto solamente, ma le scienze tutte e le
belle ti e la politica debbono aver considerazione; perchè tutte le più fine e
le più sottili ed interiori, egualmente che le più complicate e più grossolane
ed esteriori operazioni dell'intelletto sotto l'inesorabile suo dominio si
fanno e si manifestano. Fra la moltitudine delle idee accesso rie che si presentano,
quali sceglieremo per essere espresse, quali serberemo per essere semplicemente
destate? In primo luogo, tramolte accessorie analoghe e moltissimo simili fra
di loro, e che si risvegliano reciprocamente ed infallibilmente l'una l'altra,
una sola sarà l'espressa, le altre taciute; perchè se tutte fossero espresse,
ciascheduna espressione replicando le idee di tutte le altre, vi sarebbe
superfluità e ridondanza che fastidio produrrebbe e stanchezza, e d i spendio
di tempo. La ripetizione delle idee accessorie non produce lo stesso. In
secondo luogo, tra la moltitudine delle idee accessorie vi saranno, oltre le
analoghe, quelle che sono più distanti, ciascheduna delle quali avrà le sue
rispettive simili ed associate: di queste ognu na apre la mente ad una serie
d'impressioni, e sono direi quasi capi -idee e c a pi- pensieri; queste saranno
le espresse, perchè non si destano reciprocamente, ed effetto della
ripetizione delle idee principali; queste si rinfrancano come tali nella mente,
e divengono perciò come un centro di luce che il tutto riscalda e rischiara;
quelle ripetute annebbiano e dissipano l'attenzione dalle principali: per lo
contrario, se una sola sia 1 espressa, le altre analoghe semplicemente destate,
la quantità d'idee ed'impressione rinchiusa in una sola espressione diviene più
grande, e per conseguenza più piacevole, restando picciola la insipida
sensazione dell'udito l'occhio, che abbiamo tempo considerabile esige le idee e
dell'immaginazione: così veniamo ad ottenere un più grand'effetto in più breve
tempo; problema è solo l'oggetto de'meccanici,m a della morale e della
politica, anzi di tutta la filosofia e del visto che un a che non to spese
del necessa è necessaria l'espressione per eccitare, ossia
perchè la mente possa percorrere tutte queste differenti progressioni d'idee.
Sarà dunque eccellente la combinazione di quelle accessorie colla principale,
in cui tutte le accessorie espresse siano ca pi-pensieri, e non molto analoghi
ed associati tradi loro, e moltissimo colla principale per una delle tre
indicate sorgenti per cui le idee vicende volmente si legano. Una riflessione
soggiungo intorno al l'effetto delle idee espresse e taciute; cioè che tra una
espressione e l'altra, per i limiti e la debolezza de'sensi esterni, tanto per
mezzo dell'occhio quanto per mezzo dell'udito, corre un picciolo intervallo di
tempo e, per così dire, di silenzio e di riposo: se vi sono idee desta te e non
espresse, queste come lampi di mente riempiono questo vuoto senza stan chezza;
ma se tutte sono espresse, si moltiplicano i vuoti e non si riempiono; il che
porta diminuzione di piacere e stanchezza per l'aumentata fatica delle
espressioni da leggersi o da ascoltarsi. Quanto più grandi epiù forti saranno
le idee accessorie espresse, tanto più numerose pos ono essere le idee taciute,
ma riamente destate da quelle, perchè l'efficacia delle prime tende e rinforza
l'attenzione che con più rapidi voli slancia si ad abbracciare le idee non
espresse senza pregiudicare all'interesse del tutto, e perchè espressioni più
grandi e più forti fermano l'immaginazione di chi legge o d'ascolta, essendo
manifesta legge della mente nostra di trovarsi obbligata ad impiegar un tempo
maggiore nella considerazione delle idee a misura che sono più grandi e più
forti: onde per questo tempo necessario, per questa dimora, per così dire,
della mente su di un oggetto, quantunque egli medesimo per la forza é grandezza
sua esiga tutto questo tempo maggiore di attenzione, cio nonostante la mente,
dall'impeto concepito a percorrere una serie d'idee quasi trattenuta, più
facilmente potrà ricevere altre idee rapidamente risvegliate all'occasione di
espressioni forti ed energiche. Chi ben considera, e ritorna sulla esperienza
dell'animo suo, potrà facilmente scorgere che sempre che un grande ed
interessante o ggetto fermi il pensiero, e percuota improvvisamente l'
immaginazione, questa dopo considerato quell'oggetto, nell'atto che si riscuote
e si risveglia dall' inten sione nella quale trovavasi, per così dire, attuatae
raccolta, non si abbandona su bito all'ordinaria impressione delle cose che le
stanno d'attorno, ma sibbene de stasi in lei una moltitudine d'idee tutte
relative non solo a quella straordinaria impressione che l'ha percossa, ma
ancoraa se stessa, ed alle passioni dalle quali è dominata. È da ciò che i
boschi, nei cupi e vari ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le
solitudini antiche dei monti ove signoreggia illimitata la natura, che la vista
del mare che si allarga fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti
l'attonita immaginazione, som no ricercati da coloro che più amano di pascolare
i loro pensieri, ed esercitar l'animo liberamente e senza distrazioni dal la
considerazione di se medesimi; mentre coloro i quali odiano di rientrare in se
stessi, e cercano fuggire in certo modo e sottrarsi dal sincerissimo accusatore
pensiero, si gettano nel minuto e sempre u niforme vortice della vita comune,
gli oggetti della quale sono atti bensi a spin 51 ľ 1 gertato l'animo
fuori di se stesso in un continuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo
attonito e pensieroso. Per lo contrario, più picciole e più deboli saranno le
accessorie espresse; la scelta si farà su di quelle che ne risvegliano un minor
numero, perchè la differenza tra le une e le altre essendo minore, e sovente
più importanti e più forti potendo essere le destate che le espresse, si corre
rischio che le idee dell'autore siano perdute divista, e confuso ed interrotto
riesca l'effetto del tutto sopra le immaginazioni varie e non legate da
sufficientemente forti ed esterne sensibili manifestazioni. L e deboli
accessorie espresse, secondo abbiamo di mostrato, debbono essere molte, accioc
chè il numero compensi la debolezza; m a molte idee espresse occupano un tempo
ch' esclude molte idee taciute o sottinte se, altrimenti di troppo
allontaneremo il concepimento dell'idea principale. L e accessorie forti, per
una contraria ragio ne, debbono essere poche in ciascun m o mento
d'impressione; m a poche forti la scierebbero del vuoto negli intervalli n e
cessari dell'espressione,che da molte idee non espresse debb'essere supplito.
Delle idee espresse, e delle idee semplicemente suggerite. Un altra
osservazione non meno importante che generale è intorno al diverso
*effetto* che una idea *accessoria* puo produrre quando è *espressa* col
termino corrispondente, o quando è *semplicemente suggerita o *destata*
nell'animo di chi ascolta. Espressa nuocerebbero al fascio intero della
sensaziona; destata solamente lo giove, non solo perchè la picciola fatica che
facciamo e l'applauso interno del nostro ritrovato ci rinfranca l'attenzione
sul restante, ma molto più perchè è legge della nostra sensibilità che
tutt'altra forza ha la idea espressa e la idea taciuta, e tutt'altra attenzione
esigono da noi quella le che questa. Ora l'attenzione è tanto più
lunga o più frequente, tanto più si nuocono tra di se, e scema l'attenzione al
tutto. Mentre per lo contrario quei lampi, rapidi e passeggieri di attenzione
che balenano, in noi per la idea espressa, e confusa per il *tutto* e
debolissima è la percezione della *parte* o solamente ad alcune noi
faremo idea accessoria e non espressa, accrescono della sensazioni senza
nuocere all'attenzione ed all'energia del tutto. Abbiamo semplicemente il
numero dimostrato che la quantità d'impressione momentanee non deve eccedere
che *tre o quattro* sensazioni ordinarie, perchè per tante e non più la mente
umana è capace di una simultanea attenzione. La vivacità dell'oggetto presenti
non le concede una maggior ampiezza ed una maggiore comprensibilità. Nella cosa
ascoltate, in luogo della vivacità e della realità che è nell'oggetto quando è
presente, vi è la vivacità e la realità dell'*espressione* se noi dunque
volessimo l'accessoria, che si tacce, esprimere, veremmo ad offendere quella
legge determina e limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale,
o lo sforzo del recipiente si porterà su destate che le attenzione, cioè
solamente di alcune l'immagine corrispondente all'espresione si risveglie nella
mente, ed allora le altre espressioni rimaneno insignificanti. Se dunque
un'espressione racchiude nel suo concetto o senso molte sensazioni -- come
'spada', 'esercito', o'nave' -- cosicchè la mente dall'espressione medesima non
sia determinata a considerar più l'una che l'altra delle sensazioni componenti
e l'interruzione al *senso* della profferenza, e distruggeranno l'effetto delle
altre espressione in vece di aumentarlo., faranno in suc, ma sibbene sia
piuttosto sforzata a considerarle tutte le sensazioni in una volta, accade che,
condensando l'espressione intorno ad un'idea *principale*,
vi è un'idea accessoria soltanto unita e destinata ad aggiunger forza
alla idea principale, ma invece un molto maggior numero, quante sono le
sensazioni egualmente comprese sotto l'espressione 'spada', o 'esercito'
o 'nave'. Le varie sensazioni, non essendo più immediatamente le une che
le altre suggerite, concorrono contemporaneamente ad associarsi coll'idea
principale. Onde l'effetto reale che ne cede si è, che la fantasia nostra resta
distratta é *confusa*. Per lo contrario, se invece dell'espressione 'spada', o
'esercito', o 'nave', si dicesse 'ferro', o 'soldato', o 'vele', e che questa
espressione si condensa attorno ad un'idea principale per formarne un senso, si
osserva che la sola nozione e precisa sensaziona compressa nel proprio
significato dell'espressione 'ferro', o 'soldato' o 'vele', si quelle ogni sono
che immediatamente, e prima di altra, si risvegliano nella fantasia
-- è quella che immediatamente si une coll'idea principale. Ma per forza
di onde associazione non tra lascerà l'espressione 'ferro' di suggerire
rapidamente altre sensazioni comprese sotto l'espressione 'spada'; quella di
'soldato', quelle di 'esercito'; quella di 'vele', quelle di 'navi'. Ma essendo
priopiamente questa o quella sensazione *suggerita* propriamente, associata
coll'espressione 'ferro' o 'soldato' o 'vele', ma colla idea che nuocere
all'idea principale così facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò che io
intendo per una *idea suggerita* e per una *idea espressa*, mentre però tutta
questa teoria è resa più evidente nel nome o espressione speciale,
l'appellativo, e nel traslato. E de sta que immediatamente risvegliano, non
pos. Un'*idea semplicemente suggerita* non entra nella sintassi o forma logica
della proposizione, la quale regge senza di quella. Non sono non. Quando
Virgilio fa dire à Didone: 'Dulces exuviae dum futa, Deusque sinebant, accipite
hanc animam, me que his exolvit e curis" -- quanta folla d'idee si
risveglia in chi ascolta quelle sole espressioni, in quella occasione dette,
'dulces exuviae'. La sintassi latina regge senza che si risveglino quest'idea
semplicemente suggerita, onde la mente non trovasi affaccendata a raccapezzare
un *senso complicato* e in molte parti diviso e coll'accennar sol tanto la
spada di Enea sotto l'espressione di una spoglia, cioè di una cosa da lui
portata e da lui ricevuta in dono, quanto teneri e contrastanti sentimenti non
ci sentiamo fremere interiormente! Egli è evidente che una medesima idea
per intervalli di tempo più lunga occupa la mente se è espressa, di
quell'idea che se è taciuta, per chè un maggior tempo si consuma
nella percezione dell'espressione, per la durata della quale si continua la
presenza dell'idea corrispondente di quello che sia con durevoli nella mente
quanto le idee che eccitate sono dall'espressione *immediatamente*, quantunque
come le altre, alla occasione di quelle, si risveglino; onde con minore
dispendio di tempo e di forze si ottiene un più grande effetto. a rendere
più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali, il che
renderebbe annoiante e faticoso il netto coucepimento del *tutto*, oppure
essunto nella rapida ed affollate imagini che per forza di associazione si
eccitano reciprocamente. Tanto è ciò vero, che non è inutile il qui
osservare che un'espressione E1 non e preferibili ad altr'espressione E2, se
non appunto perchè la sensazione auditiva o dell'espressione è materialmente
più dell' altra. È più bella e più nobile pressione l'espressione 'cocchio' (o
'se p, q') dell'espressione 'carrozza' (o 'p o non q') non per l'azzardo
capriccioso dell'esser meno comune ed avilita epressione, giacchè tant'altra
che nella bocca di tutti è continuamente. Cio nonostante nè si
rigettano, nè per meno bella è riputata, ma soltanto perchè è
espressione più breve e l'idea da un più rapido segno è rappresentata. Onde si
ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e di tempo. Ora se l'idee
taciuta divienne espressa, noi verremmo la mente nostra dividerebbe in più
tempi ciò che per l'unità dell'*idea principale* dovrebbe essere rinchiuso in
un solo; il che rendendo l'idea accessoria una idea principale, pro la durrebbe
e *confusione* nella chiarezza, e noia nelle unioni diseguali e sproporzionate
dell'idea fatta nella mente nostra. Tanto è vero che il tempo, che altro non è
per noi che la successione delle idee degli esseri sensibili, è una quantità
alla quale non la scienza del moto solamente, ma le scienze tutte e le belle ti
e la politica debbono aver considerazione. Perchè la più fina e la più sottile
ed interiore, egualmente che la più complicata e più grossolana ed esteriore
operazioni dell'intelletto sotto l'inesorabile suo dominio si fanno e si
manifestano. Fra l'idea accessoria che si presenta, quali sceglieremo per
essere espressa, quali sceglieeremo per essere *semplicemente destata*? In
primo luogo, tra una accessoria analoga e moltissimo simile e che si risveglia
reciprocamente ed infallibilmente l'una l'altra, *una sola* sarà l'espressa
(l'acqua liquida), l'altra *semplicemente* taciuta. Perchè se
'liquida' è espressa, ciascheduna espressione replicando
l'idea è superfluità e ridondanza che fastidio produrrebbe e
stanchezza, e di spendio di tempo. La ripetizione di una idea accessoria non
produce lo stesso. Tra l'*idea accessoria* è, oltre l'analoga, quelle
che è più distante (disparata), ciascheduna delle quali ha la sua
rispettiva simile ed associata (acqua liquida, bambino non-adulto). Di questa
ognuna apre la mente del co-conversatore ad una serie d'impressioni, e è direi
quasi capi-idea e capi-pensiero. Questa è l'idea accessoria
*espressa*, perchè non si desta reciprocamente, ed effetto della ripetizione
dell'idea principale ('bambino'). Questa si rinfranca come tale nella mente, e
divienne perciò come un centro di luce che il *tutto* ('il
bambino è un'adulto') riscalda e rischiara. Quella (non-adulto)
ripetuta annebbia e dissipa l'attenzione dall'idea principale ('bambino'). Per
lo contrario, se una sola sia l'idea espressa, le altr'analoga *semplicemente
destata*, la quantità dell'idea e dell'impressione rinchiusa in una *sola*
espressione ('bambino' = umano non adulto) diviene più grande, e per
conseguenza più piacevole, restando picciola la insipida sensazione dell'udito,
che abbiamo tempo considerabile esige le idee e dell'immaginazione. Così
veniamo ad ottenere un più grand'effetto in più breve tempo; Questo problema
non è solo l'oggetto de'meccanici, ma della morale e della politica, anzi di
tutta la filosofia! Abbaimo visto che un a che non to spese del
necessa è necessaria l'*espressione* per *eccitare* (o comunicare), ossia
perchè la mente possa percorrere la progressione dell'idea del discorso. Sarà
dunque eccellente la combinazione di quell'idea accessoria coll'idea
principale, in cui l' accessorie espresse siano capi-pensieri ('ha una
calligrafia bellissima') e *non* molto analoga ed associata e moltissimo
coll'idea principale ('è un pessimo filosofo') per una delle ndicate
sorgenti per cui le idee vicende volmente si legano. Una riflessione soggiungo
intorno al l'effetto dell'idea espresse e dell'idea taciuta. Tra una
espressione E1 e l'altra, E2, per i limiti e la debolezza de' sensi esterni,
tanto per mezzo dell'udito, corre un picciolo intervallo di tempo e, per così
dire, di silenzio e di riposo. Se vi è idea semplicemente
destata e non espressa, questa come lampi di mente riempiono questo vuoto senza
stanchezza. Ma se l'idea è espressa, si moltiplicano i vuoti e non si
riempiono; il che porta diminuzione di piacere e stanchezza per l'aumentata
fatica dalla quantita d'informazione dell'espressione totale (ill moto
conversazionale) da interpretare. Quanto più grande e più *forte* ('bella
calligrafia) è l'idea accessoria espressa, tanto più numerosa
puo essere l'idea semplicemente taciute, ma riamente destata da quelle, perchè
l'efficacia dell'idea espressa tende e rinforza l'attenzione che con più rapidi
voli slancia si ad abbracciare l'idea non espressa ('è un pessimo
filosofo') senza pregiudicare all'interesse dell'espressione totale, e
perchè l'espressione più grande e più forte ferma l'immaginazione del
co-discorsante, essendo manifesta legge della mente nostra di trovarsi
obbligata ad impiegar un tempo maggiore nella considerazione di una idea
('è un pessimo filosofo?') a misura che è più grande
e più forte. Onde per questo tempo necessario, per questa dimora di
processamento, per così dire, della mente su di un oggetto, quantunque egli
medesimo per la forza e grandezza sua esiga tutto questo tempo maggiore di
attenzione, cio nonostante la mente, dall'impeto concepito a percorrere un'idea
quasi trattenuta, più facilmente puo ricevere altr'idea rapidamente risvegliata
all'occasione di una espressione forte ed energica ('Ha bella calligrafia').
Chi ben considera, e ritorna sulla esperienza dell'animo suo, puo facilmente
scorgere che sempre che un grande ed interessante oggetto fermi il pensiero, e
percuota improvvisamente l' immaginazione, questa dopo considerato
quell'oggetto, nell'atto che si riscuote e si risveglia dall' intensione nella
quale trovavasi, per così dire, attuata e raccolta, non si abbandona subito
all'ordinaria impressione delle cose che le stanno d'attorno, ma sibbene
destasa in lei un'idea relativa non solo a quella straordinaria impressione che
l'ha percossa, ma ancora a se stessa, ed alla passione dalla quale è dominata.
È da ciò che i boschi, nei cupi e vari ravvolgimenti dei quali erra il
pensiero, che le solitudini antiche dei monti ove signoreggia illimitata la
natura, che la vista del mare che si allarga fra mille nazioni, oggetti immensi
e tanto occupanti l'attonita immaginazione, sono ricercati da coloro che più
amano di pascolare i loro pensieri, ed esercitar l'animo liberamente e senza
distrazioni dal la considerazione di se medesimi. Mentre chi odia di rientrare
in se stessi, e cerca fuggire in certo modo e sottrarsi dal sincerissimo
accusatore pensiero, si getta nel minuto e sempre u niforme vortice della vita
comune, gli oggetti della quale sono atti bensi a spingertato l'animo fuori di
se stesso in un continuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo attonito e
pensieroso. Per lo contrario, più picciola e più
debole è l'idea accessoria espressa. La scelta si farà su di
quelle che ne risvegliano un minor numero, perchè la differenza, essendo
minore, e sovente più importanti e più *forti* potendo essere l'idea destata
che l'idea espressa, si corre rischio che le idea, intenzione, significato
dell'autore è perduto (involontariamente) di vista, e confuso ed
interrotto riesca l'effetto del tutto o l'espressione totale sopra l'immaginazione
non legata da sufficientemente forte ed esterne sensibile manifestazione
('-- è un pessimo filosofo'). L'idea debola accessoria espressa
debbe essere molte, acciocchè il numero compensi la debolezza. Ma un'idea
espressa ('bambino) occupa un tempo ch'*esclude* un'idea taciuta o sottintesa
('non-adulto'), altrimenti di troppo allontaneremo il concepimento di un'idea
principale. L'idea accessoria forte, per una contraria ragione, debbe essere
minima in ciascun momento d'impressione. Ma poche forti la scierebbero del
vuoto negli intervalli n e cessari dell'espressione,che da molte idee non
espresse debb'essere supplito. Dello
espresso e dello semplicemente suggerito, un’osservazione non meno importante
che generale è intorno al diverso effetto che una proposizione, non
principale, ma *accessoria*, puo produrre quando *espressa* o
quando è semplicemente suggerita dal conversatore, o destata
nell'animo di chi con che conversa. Espressa nuocerebbero al fascio intero
della sensazione; destata solamente lo giove, non solo perchè la picciola
fatica che facciamo e 1'applauso interno del nostro ritrovato ci rinfrancano
l'attenzione sul restante, ma molto più perche è legge della nostra sensibilità
che tutt’altra forza ha una proposizione espressa e una proposizione taciuta o
semplicemente suggerita, e tutt’ altra attenzione esigono da noi conversatori
civile quella che questa. Ora l'attenzione è tanto più lunga o più
frequente, tanto più si nuoce tra di se, e scema l’attenzione al tutto
comunicato; mentre per lo contrario quei lampi rapidi e passaggeri
d'attenzione, che balenano bruci per la proposizione accessoria *semplicemente
suggerita* o destata e *non* espressa, accresce il numero di sensazione senza
nuocere all’attenzióne ed all'energia del tutto comunicato. La quantità
d’impressione momentanea non deve eccedere che tre o quattro sensazioni
ordinarie, perchè per tante, e non più, la mente umana è capace di una
simultanea attenzione. La vivacità di un oggett presente -- la spada di Enea --
non le concedono ima maggior ampiezza ed una maggiore comprensibilità.
Nell'espresso, in luogo della vivacità e della realità che è nell'oggetto
quando è presente, vi è la vivacità e la realità della *espressione* che
representa (di modo iconico o altro) la spada d'Enea. Se noi dunque volessimo
la proposizione accessoria che si taccie esprimere verressimo ad offendere
quella legge che determina e limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre
la quale, o lo sforzo d'interpretazione si porterà su il tutto communicato
(espresso e semplicemente suggerito) e confusa per il tutto e debolissima sarà
la percezione delle due parti (l'espresso e lo semplicementee suggerito) o
solamente ad alcune, noi faremo attenzione cioè solamente di alcune 1'immagine
o concetto o segnato o significato o senso corrispondente all'espressione si
risveglie nella mente, ed allora un altr'espressione rimanendo *insignificanti*
o superflua, fa inter- ruzione al senso della proposizione comunicata, e
distrugge l'effetto delle altre in vece di aumentarlo. Se dunque una
proposizione espressa racchiude nel suo concetto molte e varie sensazioni, come
"Questa spada e bella", "L'esercito e bravo", "La nave
va," ec., cosicché la mente dalla proposizione espressa medesima noù sia
determinata a considerar più l'una che 1'altra delle sensazioni componenti ma
sibbene sia piuttosto sforzata a considerarle tutte in una volta accaderà che
condensando due o tre di queste proposizioni intorno ad un proposizione
*principale*, vi saranno non due o tre proposizioni accessorie soltanto unite e
destinate ad aggiunger forza alla proposizione principale, ma invece un molto
maggior numero quante saranno le sensazioni egualmente comprese sotto la
proposizione espressa, "La spada e bella", "L'esercito e
bravo," "La nave va", e tutte queste varie e uumerose
sensazioni, non essendo più immediatamente le uno che le altre suggerito, tutte
concorirono contemporaneamente ad associarsi colla proposizione principale;
onde l'effetto reale che ne succede è, che la fantasia di nostro conversatore
resta distratta e confusa. Per lo contrario, se invece della proposizione
"La spada e bela", "L'esercito e bravo", "La nave
ve", spa* da si dicesse "Il ferro e formidable", "Il
soldato e bravo", "Le vele va", e che questi proposizioni si
condensassero attorno ad una proposizione principale per formarne il senso
complesso, si osservi che le tre sole nozioni e precise sensazioni comprese nel
proprio significato o senso delle tre suddette proposizione espresse piu
specifica sono quelle che immediatamente e, prima d’ ogn’ altra si risvegliano
nella fantasia. Onde saranno quelle che immediatamente si uniranno colla
principale. Ma per forza di associazione non tralascerà la parola di fer- ro di
suggerire rapidamente le altre sensazioni comprese sotto la parola spada quella
di soldato quelle di;, esercito quella di vele quelle di navi.;, Ma non essendo
queste sensazioni sug- gerite propriamente associate colie parole ferro,
soldato e vele, ma Con le idee che queste immediatamen- te risvegliano non
possono nuocere, alla principale così facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò
che io in- tendo per idee suggerite e per idee * espresse, mentre però tutta
questa teoria sarà resa più evidente dopo ‘ che nel progresso io avrò parlato
de’ nomi speciali ed appellativi, e de’ traslati. Ee idee semplicemente,
suggerite Digitj^ed by Google 3o non entrano nella sintassi della
pro- posizione la quale regge senza di, quelle: non sono durevoli nella mente
quanto le idee che eccitate sono dal- le parole immediatamente, quantun- que
come le altre alla occasione di quelle si risveglino; onde con mino- re
dispendio di tempo e di forze si ottiene uu più grande effetto. Quan- do
Virgilio fa dire a Didone: Dulces exuviae dum fata, Deusque sinebant, Accipite
hanc animam, meque his exolvite curi», quanta folla d’idee si risveglia in citi
legge quelle sole parole, in quella oc- casione dette, dulces exuviaes la sin-
tassi regge senza che si risveglino queste idee, onde la mente non tro- vasi
affacceudata a raccapezzare un senso complicato e in molte parti diviso; e
coll* accennar soltanto la spada di Enea sotto il nome di una spoglia, cioè di
una cosa da lui por- tata e da lui ricevuta in dono quan-, to teneri e
contrastanti sentimenti noa ci sentiamo fremere interiormente! Egli è evidente
che una medesi- ma serie d’idee per intervalli di tem- po più lunghi occupa la
menta se siano espresse, di quello che se siane taciute perchè un maggior tempo,
$T si cotìsuma nella percezione della pa- rola per la durata della quale
si con- tinua la presenza deir idea corrispon- dente di quello che sia consunto,
nella rapida ed affollata successione d* immagini che per forza di associa-
zione si eccitano reciprocamente. Tan- to è ciò vero, che non sarà inutile il
qui osservare ohe molte espressioni non sono preferibili alle altre appunto
perchè la sensazione auditiva o visibile della parola è materialmen- te più
breve dell’ altra. E* più bella e più nobile espressione la parola cocchio
della parola carrozza non per l’azzardo capriccioso dell’ esser meno comune ed
invilita espressione, giac- ché tant’ altre che nelle bocche di tutti sieno
contiuuamente cionono-; stante nè si rigettano nè per meno belle son riputate,
ma soltanto perchè è parola più breve, e l’idea da un più rapido segno è
rappresentata; onde si ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e di
tempo Ora se le idee taciute fossero tutte espresse, noi verressimo a rendere
più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali il che rende-,
rebbe annojaote e faticoso il netto, se non. Sa concepimento del tutto, oppure
fa mente nostra dividerebbe in più tem- pi ciò che per 1’ unità dell’ idea
prin- cipale dorrebbe essere rinchiuso in un solo; il che rendendo 1*
accessorio principale, produrrebbe e confusione nella chiarezza, e noja nelle
unioni diseguali e sproporzionate d’ idee fatte nella mente nostra. Tanto è
vero che il tempo (che altro non è per noi che la successione delle idee degli
es- è una quantità alla qua- le non la scienza del moto solamente, ma le
scienze tutte e le belle arti e la politica debbono aver considera- zione
perchè tutte le più fine e le; più sottili ed interiori egualmente, che le più
complicate e più grossola- ne ed esteriori operazioni dell’ intel- letto, sotto
l’ inesorabile suo dominio si fanno e si manifestano. Fra la moltitudine delle
idee accessorie che si presentano, quali sceglieremo per essere espresse, quali
serberemo per essere semplicemente destate? In primo luogo tra molte accessorie
analoghe e moltissimo simili fra di loro, e che si risvegliano reci- procamente
ed infallibilmeute l* una l’ altra uua sola sarà 1’ espressa > le y peri
sensibili ) Digitized by Google 33 altre taciute perchè se tutte fossero;
espresse, ciascheduna espressione re- plicando le idee di tutte le altre, vi
sarebbe superfluità e ridondanza che, fastidio produrrebbe e stanchezza e
dispendio di tempo. La ripetizione delle idee accessorie non produce lo stesso
effetto della ripetizione delle idee principali queste si rinfrancano; come
tali nella mente, e divengono perciò come un centro di luce che il tutto
riscalda e rischiara quelle ri-; petute annebbiano e dissipano 1’ atten- zione
dalle principali: per lo contra- rio se una sola sia 1* espressa le al-,, tre
analoghe semplicemente destate, la quantità d’ idea e d’ impressione rinchiusa
in una sola espressione di- viene più grande, e per* conseguenza più piacevole
restando picciola la, insipida sensazione dell’ udito e dell* occhio che
abbiamo visto che uu, tempo considerabile esige a spese delle idee e dell’
immaginazione: così ve- niamo ad ottenere un più grand’ effet- to in più breve
tempo problema che; nonè solo l’oggetto de’meccanici ma della morale e della
politica anzi, di tutta la filosofia. lu secondo luogo, tra la moltituaine
dell© idee accessorie vi saran- no, oltre le analoghe, quelle che sodo più
distanti, ciascheduna delle quali avrà le sue rispettive simili ed asso- ciate;
di queste ognuna apre la meu- te ad una serie d’impressioni, e sono direi quasi
capi-idee e capi-pensieri; queste saranno l’ espresse perchè non, si destano
reciprocamente ed è ne-, cessaria F espressione per eccitare ossia perchè la
mente possa percorre- re tutte queste differenti progressioni d’ idee. Sarà
dunque eccellente la combinazione di quelle accessorie col- la principale in
cui tutte le accesso- rie espresse siano capi-pensieri, e non molto analoghi od
associati tra di loro, e moltissimo colla principale per una delle tre indicate
sorgenti per cui le idee vicendevolmente si legano. Una riflessione soggiungo
intorno all* effetto delle idee espresse e ta- ciute; cioè che tra una
espressione e F altra, per i limiti e la debolezza de’ sensi esterni, tanto per
mezzo del- F occhio quanto per mezzo del- F udito, corre un piccolo interval-
lo di tempo e, per così dire, di silenzio e di riposo se vi sono idee;
35 queste come lampi di mente riempiono questo vo- to senza stanchezza;
ma se tutte sono espresse, moltiplioano i voti e non si riempiono il che porta
diminuzio- mentata fatica delle espressioni da leg- gersi o da ascoltarsi.
Quanto più gran* di e più forti saranno le idee acces- sorie espresse tanto più
numerose, destate e non espresse,; ne di piacere e stanchezza per 1* au.
possono essere le idee taciute, ma necessariamente destate da quelle, perchè l*
efficacia delle prime tende e rinforza 1* attenzione che con più rapidi voli
slanciasi ad abbracciare le idee non espresse senza pregiudica- re all* interesse
del tutto, e perchè espressioni più grandi e più forti fer- mano T
immaginazione di chi legge od ascolta, essendo manifesta legge della mente
nostra di trovarsi obbli- gata ad impiegar un tempo maggiore nella
considerazione delle idee a mi- sura che sono più grandi e più forti: onde per
questo tempo necessario, per questa dimora per così dire della,, mente su di un
oggetto quantunque, egli medesimo per la forza e gran- dezza sua esiga tutto
questo tempo maggiore di attenzione ciononostan-, Digitized by Google
36 te la mente, dall’impeto concepito * percorrere una serie d’ idee
quasi trat- tenuta più facilmente potrà ricevere, altre idee rapidamente
risvegliate al- P occasione di espressioni forti ed energiche: chi ben
considera torna sulla esperienza dell* animo suo» potrà facilmente scorgere che
sempro che un grande ed interessante oggetto fermi il pensiero, e percuota
improv- visamente P immaginazione, questa do- po considerato quell’oggetto,
nell’at- to che si riscuote e si risveglia dal- Pintensione nella quale
trovavasi, per così dire, attuata e raccolta non si, abbandona subito
all’ordinaria impres- sione delle cose che le stanno d’ at- torno ma sibbene
destasi in lei una, moltitudine d’idee tutte relative non solo a quella
straordinaria impressio- ne che P ha percossa ma ancora a,, ed alle passioui
dalle quali se stessa è dominata. E’ da ciò che i boschi nei cupi e varj
ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le solitudini an- tiche de’ monti
ove signoreggia illi- mitata la natura che la vista del, mare che si allarga
fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti P attonita immaginazione,
sono ricer-, e ricati da coloro che piu amano di pa- scolare i loro pensieri,
ed esercitar P animo liberamente e senza distra- - zioni dalla considerazione
di se me- desimi; mentre coloro i quali odiano di rientrare in se stessi, e
cercano fuggire in certo modo e sottrarsi dal sincerissimo accusatore pensiero
si, gettano nel minuto e sempre unifor- me vortice della vita comune, gli og-
getti della quale sono atti bensì a spioger l’animo fuori di se stesso in un
coutinuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo attonito e pen- sieroso. Per
lo contrario, più piccio- le e più deboli saranno le accessorie espresse, la
scelta si farà su di quel- le che ne risvegliano un minor nu- mero, perchè la
differenza tra le mie e le altre essendo minore, e sovente piu importanti e più
forti potendo essere le destate che P espresse si, corre rischio che le idee
dell’ autore siano perdute di vista e confuso ed, interrotto riesca l’effetto
del tutto sopra le immaginazioni varie e non legate da sufficientemente forti
ed esterno sensibili manifestazioni. Le deboli accessorie espresse, secondo ab-
biamo dimostrato debbono essere, molte, acciocché il numero compenti la
debolezza; ma molte idee espresse occupano un tempo eh* esclude molte idee
taciute o sottintese, altrimenti di troppo alloutaneressimo il concepimento
dell’ idea principale. Le ac- cessorie forti, per una contraria ra- gione
debbono essere poche in cia-, scun momento d’impressione; ma po- che forti
lascierebbero del voto ne- gl* intervalli necessarj dell* espressione che da
molte idee non espresse debb’essere supplito. Cesare
Beccaria. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Beccaria” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Becchi – l’incubo –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo Italiano. Grice: “Becchi is pretty
controversial; a good reason why he is not invited to the New World for
“Italian Studies”! – My favourite is his tract mocking Umberto Eco’s “Il
pnedolo di Foucault,” “L’incubo di Foucault”! – But Becchi is a jurisprudential
philosopher like Hart, and perhaps more than Hart did, knows what’s he’s doing!
-- Paolo Becchi -- Paolo Aureliano
Becchi (Genova), filosofo. Laureato in
filosofia, si è poi trasferito in Germania dove ha collaborato come assistente
alla cattedra di Filosofia e Sociologia del Diritto della Facoltà di
Giurisprudenza dell'Università del Saarland, e in seguito come borsista per il
Deutscher Akademischer Austauschdienst (DAAD). Attualmente è Professore di
Filosofia del Diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Genova. Inoltre
fino al è stato professore presso
l'Lucerna. Ha prodotto circa 200 pubblicazioni su temi concernenti la filosofia
del diritto, la storia della cultura giuridica e la bioetica. Nel si
avvicina al Movimento 5 Stelle, venendo definito dalla stampa l’“ideologo del
movimento” ma a gennaio del lo abbandona
criticandolo duramente e scrivendo ad aprile il libro Cinquestelle &
Associati. Di recente ha focalizzato il discorso politico sulla categoria del
sovranismo ed in particolare sul concetto di sovranismo debole, detto
althusiano; coniugando così, istanze federaliste e sovraniste in linea con la
Lega di Matteo Salvini. I suoi
interventi di natura politica sono raccolti nel suo blog. Fino alla metà
del era noto al pubblico del piccolo
schermo per le interviste e i talk show in cui dibatteva. È attualmente editorialista di Libero e de Il
Sole 24 ORE, oltre ad avere un blog sul sito de Il Fatto Quotidiano. Altre
opere: “Morte cerebrale e trapianto di organi. Una questione di etica
giuridica” (Morcelliana); “Quando finisce la vita. La morale e il diritto di
fronte alla morte” (Aracne); “Giuristi e prìncipi. Alle origini del diritto
moderno” (Aracne); “Il principio dignità umana” (Morcelliana), “Nuovi scritti
corsari (Adagio Editore); “I figli delle stelle. L'Italia in moVimento”
(Adagio); “Colpo di Stato permanente” (Marsilio); “Apocalypse Euro” (Arianna);
“Oltre l'Euro” (Arianna); “Napolitano, re nella Repubblica. Per una messa in
stato d’accusa (Mimesis): “Cinquestelle & Associati. Il MoVimento dopo
Grillo (Kaos); “Referendum costituzionale. Sì o no. Le ragioni per il no e il
testo della «controriforma» (Arianna); “Come finisce una democrazia. I sistemi
elettorali dal dopoguerra ad oggi (Arianna); “Italia sovrana (Sperling &
Kupfer); “Democrazia in quarantena. Come un virus ha travolto il Paese”
(Historica) Note Biografia sul sito Genova Archiviato in.
M5S, Grillo scomunica (di nuovo) Becchi: “Non ci rappresenta”. Lui:
“Tolgo il disturbo”, ilfattoquotidiano, Perché dico addio al Movimento 5 Stelle. Parla
Paolo Becchi, formiche.net, 5 M5S, Becchi lascia il Movimento: “È diventato
partito stampella di Renzi. È finito il sogno”, ilfattoquotidiano, 5 gennaio. 9
gennaio. Per un’idea ‘federativa’ di
Stato nazionale, in "ParadoXa", Skytg24, Becchi: “Repubblica? Il
giornale dell’orfano”. Bellasio lascia lo studio. La redazione della tv si
scusa con Calabresi, ilfattoquotidiano, Paolo Becchi Blog ufficiale, su paolobecchi. wordpress.
Opere di Paolo Becchi,. Registrazioni di
Paolo Becchi, su RadioRadicale, Radio Radicale.
Filosofia Politica Politica Filosofo
del XXI secoloAccademici italiani del XXI secoloBlogger italiani GenovaProfessori
dell'LucernaProfessori dell'Università degli Studi di Genova. Paolo Aureliano
Becchi. Paolo Becchi. Keywords: l’incubo, filosofia politica, dignita,
soveranita, giurisprudenza, filosofia della giurisprudenza, repubblica. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Becchi” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Bedeschi – dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Alphonsine). Filosofo italiano Grice: “You gotta love
Bedeschi – at Oxford Jurisprudence is not considered Philosophy, but in Italy,
‘filosofia politica’ is at the centre of it all – and Bedeschi knows it – this
is because Italians take Hegel seriously with his ‘dialectic;’ and while I did
speak profusely of the Athenian versus the Oxonian dialectic or dialexis, I
skipped the Hegelian dialectic! Bedeschi doesn’t – and Hegel leads to the reset
of it!” -- Giuseppe Bedeschi
(Alfonsine), filosofo. Docente di storia della filosofia all'Università La
Sapienza di Roma, ha insegnato all'Cagliari e all'Istituto Universitario
Orientale di Napoli. Studioso di Hegel e del marxismo, ha approfondito in
seguito la storia del pensiero liberale. Caporedattore dell'Enciclopedia del
Novecento, direttore dell'Enciclopedia delle scienze sociali e
dell'Enciclopedia dei Ragazzi, è membro del comitato scientifico della rivista
"Nuova storia contemporanea" e collabora al supplemento domenicale de
Il Sole 24 ORE. Altre opere: “Alienazione
e feticismo nel pensiero di Marx” (Bari, Laterza); “Introduzione a Lukacs”
(Bari, Laterza); “Politica e storia in Hegel” (Roma-Bari, Laterza); “Introduzione
a Marx” (Roma-Bari, Laterza); “La parabola del marxismo in Italia” (Roma-Bari,
Laterza); “Introduzione a La scuola di Francoforte (Roma-Bari, Laterza); “Storia
del pensiero liberale” (Roma-Bari, Laterza); “Il pensiero politico di Hegel”
(Roma-Bari, Laterza); “Il pensiero politico di Tocqueville” (Roma-Bari,
Laterza); “La fabbrica delle ideologie: il pensiero politico nell'Italia del
Novecento” (Roma-Bari, Laterza); “Liberalismo vero e falso, Firenze, Le
lettere); “Il rifiuto della modernita: saggio su Jean-Jacques Rousseau”
(Firenze, Le lettere); “La prima Repubblica (1946-1993). Storia di una
democrazia difficile” (Soveria Mannelli, Rubbettino, Opere di Giuseppe Bedeschi,. Giuseppe
Bedeschi, su Goodreads. Registrazioni di
Giuseppe Bedeschi, su RadioRadicale, Radio Radicale. Profilo su RAI Educational, su emsf.rai. 16
marzo 21 dicembre ). Giuseppe Bedeschi
sul RAI Filosofia, su filosofia.rai. Filosofi
italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1939d Alfonsine. Giuseppe
Bedeschi. Keywords: dialettica, la parabola del Marxism in Italia, liberalismo,
conservatorismo, italia, fabbrica di ideologie”, sulla parte conservatrice, I
conservatori in italia, Scruton, ‘conservatismo’, nel dizionario di politica
del partito, la dialettica hegeliana, dialettica, dialexis. The two references
‘Sulla parte conservatrice’ and ‘I conservatori’ given in that entry, studio
della ideologia nell’italia del Novecento, Giuliani, prima guerra, veintenna. Refs.:
Luigi Speranza, “Bedeschi e Grice” – The Swimming-Pool Library.
Belleo.
search – Bedoni. search – Belloni, Camillo
--
Grice
e Belluto – dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo italiano. Grice: “You gotta love
Belluto; he shows that the philosopher is the master of grammar – his
explanation of modi of the different ‘perfect’ orations—is genial and exactly
what I tried to convey in my lectures on ‘mode’: vocativo, imperativo,
optativo, indicativo – That this belongs in dialettica is obvious – since all
modi share the same logic, and that’s Belluto’s point!” -- Bonaventura Belluto, o Belluti (n. Catania), filosofo. Nato da distinta e facoltosa famiglia, studiò
diritto civile all'Catania. Entrato nell'Ordine dei Frati Minori Conventuali
nel 1621, emise la professione religiosa l'anno successivo. A Roma studiò
teologia presso il Collegio sistino di San Bonaventura dove conobbe il
confratello Bartolomeo Mastri di Meldola del quale divenne compagno
indivisibile di studio e di lavoro come reggente degli studi prima al convento
di Cesena, quindi a Perugia e poi a Padova. Durante questo periodo, entrambi
operarono per il rinnovamento della tradizione e per una nuova interpretazione
della dottrina scotista tale da soddisfare la nuova cultura religiosa
dell'epoca. Pubblica a Roma con la
collaborazione di Bartolomeo Mastri il primo volume di filosofia scolastica,
dal titolo “Disputationes in Aristotelis libros physicorum, quibus ab
adversantibus... Scoti philosophia vindicator” che ha il fine di essere diffuso
nelle scuole francescane per far conoscere la filosofia di Scoto difendendola
dalle critiche d’Aquino i e dai travisamenti operati da altri interpreti tra i
quali i gesuiti. Successivamente
pubblica un piccolo trattato di logica, “Institutiones logicae, quae vulgo
Summulas, vel logicam parvam nuncuparunt” (Venezia). Ad opera dei due filosofi
fu pubblicato un “Cursus integer philosophiae ad mentem Scoti” che riune le “Disputationes”, le “Disputationes in libros de coelo et de
metheoris”, le “Disputationes in libros de generatione et corruptione” e le “Disputationes
in libros de anima”. Il “Cursus” e un'opera, con fini esclusivamente didattici
e divulgativi del pensiero scotista, dove manca ogni riferimento alla cultura
filosofica e scientifica contemporanea. Alla fine della comune reggenza a
Padova i due filosofi si separarono. Belluto torna a Catania dove fu ministro
provinciale di Sicilia e di Malta, distinguendosi per intelligenza e saggezza
di governo. In questo periodo esercita anche la carica di consultore e censore
per l'Inquisizione. Nell'ambito del piano di rinnovamento del pensiero di Scoto
oltre all'insegnamento della sua filosofia i due filosofi progettarono un corso
di teologia che Mastri sviluppa con il trattato D”e Deo in se” mentre Belluto
continua l'elaborazione dell'opera “De Deo homine” della quale fu pubblicata
solo la parte riguardante le “Disputationes de Incarnatione dominica ad mentem
Doctoris subtilis”. Tema specifico e quello della predestinazione di Maria:
argomento questo che non apparteneva alla dottrina di Scoto ma che cerca di
risolvere applicando i principi del maestro nel senso che applicò alla
predestinazione della Vergine Maria la dottrina scotista della predestinazione
assoluta di Cristo. Note F. Costa, IlBonaventura Belluto, (1603-1676).
Il religioso, lo scotista, lo scrittore, Roma 1976 La Sicilia e l'Immacolata: non solo 150 anni:
atti del convegno di studio, Palermo, Diego Ciccarelli, Marisa Dora Valenza,
Officina di Studi Medievali, 2006 p.172
Francesco Costa, Il primato assoluto di Cristo secondo Bonaventura
Belluto, OFMConv. (+1676), in "Miscellanea francescana", Cesare
Vasoli, Belluti, Bonaventura, in: Dizionario Biografico degli Italiani, Roberto
Osculati, Gli Opuscoli morali di Bonaventura Belluti. Duns Scoto Bartolomeo
Mastri V D M Francescanesimo. INSTITVTIONVM LOGICALIVM. Nomina transcendentia
infinitari possint verbum adiectiuum & substantiuum de Secundo adiacente
sint verba apud Log, de attinentibùs ad formam syllogiſmi, De oratione, quid
sit, quotuplex, oratio necesario debeat constare verbo, quid sit propositio, seu
Enunciatio, quotu De terminis, ac eorum affectionibus, Quanam sit recta Enunciationis
definitio.quotuplex sit terminus. Quomodo Enunciatio vocalis dicatur vera, vel
communi. falſa. Quæ dctiones fubeant rationem, divisio in catheg. bypotb. sit
generi sin termini. Species. An dentur termini in cap. 4. Quid sit propositio
cathegorica b quotuplex. propositione mentali, Determinorum multiplicitate
ratione fignifi Dub. 1, Qualis sit diuisio propusitionis in veram, falsam, affirmativam,
negativam, quid sit signum [segno], a quotuplex uniuersalem o particularem qui sint termini mixti
inter cathegoremati qualis sit diuisio propositionis in modalem cum syncathegorematicum
de inesse qui sit terminus complexus o incomplexys Capo, 5. Quid sit propositio
modalis, & quotuplex, Cap: 3. Determinorum multiplicitate in ratione modi
qualis sit divisio propositionis modalis significandi in compositam o diuitam. Quid fit terminus
connotatiuus. n.g Quid sit propositio bypothetica, oquotuplex, D emultiplicitate
terminorum in ordine ad res P.20 fignificatas. Dubi. An bypotbetica propositio
benèdefiniatur.n. De Uniuerfalibus, fue Prædicabilibus. Divisio bypothetice in
conditionalem. De Prædicamentis, primode absolutis. copulativam & disiunctiuam sit generis in species De
prædicamentis respectivis, De legibus eorum, quæ funt in Predicamento, De
oppositione cathegoricarum simplicium. De Terminorum collatione inter se, An
inter contradictoria detur medium, Varia terminorum supposition quod sint species oppositionis, An suppositio
competat adiectivis de æquipollentia, o conversione categorical. Quo pacto
differente suppositio determinata, rum simplicium & confusa, Quomodo equipolleant
ſubcontraria, De reliquis terminorum proprietatibus, propositio affirmativa
depredicato infins, Determinis componibilibus aquipolleat negative de predicato
finite explicantur quidam termini in fchalis fre è contra quentiffimi, De
oppositione, æquipollentia, &conuersione catbegoricarum, modalium, ac etiam
hypotheticarum propositionibus exponibilibus, insolubili de Propositione & eius
affectionibus, bus, propositiones exponibiless int catheg vel by Comez de nomine
o verba, pot. & quomodo contradicant solum nomen finitum rectum sit propositiones
insolubiles sint catheg, vel by nomen apud Logicum, pot.cies de Argumentatione,
& eius affectionibus de attinentibus ad materiain syllogiſmi. oquotuplex
fit Argumentatio formalis. De syllogismo Demonstrativo. De speciebus
argumentat. Quoi fint argumentationiss pecies, og mun ald. precognitionibus eo
perecognitis quod sint precognitiones, omnis consequentia sit argumentatio de
regulis communibus bona argumentatione. Quid depaſſionepre cognoscatur. nis. De
fcientia demonftrationis effectu liceat argumentariex fuppofitioneimpos Dub.V n.An
dentur scientia de novo. sibili, de neceffitate principiorum, ubi de modis de
inductione, ubi de ascensu, descensu, per feitatis Que predicentur in primo
modo dicendi per Dei. inductio fit bona, formalis consequentia, vel
argumentatio, modus intrinsecuspredicetur in primo modo De syllogifmo, &
eius principis constitutiuis, dicendi per se. n.is obi de figuris eiusdem quo patto
quartus modus dicendiper se disse unde dicantur maior, o minor in syllogism rat
a secundo. Propositio per se convertatur in propositio, conclusio sit de essentia
syllogismi nem per fe. detur quarta figura De demonstratione propter quid De
principis regulatiuis syllogismi Ancaufa virtualis pofit in seruire demonstra
dub us. quodnam sit principium precipuum regulationi siuum syllogismi quomodo
illud axioma propter quod, unum regule generales, especiales cuiuscunque si
quodque tale & illud magis. gure alignantur. De demonstratione quia
Alignantur modi cuiuscumque figura cum. De medio demonstrationis.corum
exemplis. De numero quaffionum modi syllogismorum sint sufficientere numerati.
figura dentur modi indirecte concludentes sicut in prima de syllogiſmo topico,
de inductione modorum imperfectorum ad perfectos. De varis speciebus syllogiſmi
cathegorici. De materia tum remota tum proxima syllogiſmi topici. detur syllogismus
constans ex propositinibus non significantibus de numero predicatorum de locis
topicis de Syllogismo hypothetico & alijs syllogismi, de locis intrinsecis
speciebus de locis extrinsecis un de finepetende divisions syllogifmi, De locis
medijs.fint eſentiales. Digifmus, ut fic, fit genus demonftratiui, opici, co
Sopbiſici.De arte inueniendí medium, ac bene disputan de syllogismo sophistico
de modis seu instrumentis sciendi fallacis in genere An detur diftin & tiomedia
interdiftin & tionem reslem,orationis, de Fallaciis extra dictionem. Impiegatura del
segnare. Ex variis capitibus solent termini multiplicari et variæ
eorum divisiones assignari, ex parte nimirum significationis, ex parte modi
significandi, et ex parte rei significatæ. Ex primo capite, quantum ad præsens
spectat, solet in primis dividi vocalis terminus in significativum et non
significativum. Ille est, qui aliquid significat, ut hæc vox homo, qui naturam
significat humanam, ille est, qui nihil qui nihil fignificat, ut "blittri",
"buf", "baf". Sed ut ista divisio sit recte tradita
intelligi debet de termino in prima acceptione assignata cap. præced. nam in
secunda acceptione omnes termini sunt significativi, cum esse possint subiectum
et prædicatum in propositione. Terminus igitur vocalis in tota sua latitudine
sumptus dividitur in significativum et non significativum. Quæ divisio ut bene
percipiatur, cum terminus vocalis constituatur in ratione significantis per
significationem, videnduın est quid sit significare & quid signum [segnante,
segnare, segnato] a quo verbum "significare" derivatum est. [A cloud
may sign but a cloud does not 'make' [fare] a sign -- you cannot order a cloud,
'make a sign!' 'Signify', "Fa un segno!"]. Signum (ex August. De
Doct. Christ. cap. i) est illud [x], quod præter sui cognitionem, quam ingerit
sensibus, facit nos venire in cognitionem alterius [y], v. g. hæc vox
"homo" præter speciem, quam imprimit in auditu, ut sonus est, facit
nos venire in cognitionem alterius scilicet naturæ humanæ, unde signum [segnante]
debet esse tale, utillo cognito per sensus, mediante illo deinde veniamus in
cognitionem rei, cum qua signut habet *connexionem* [any link will do]. Hinc
significare nil aliud erit, quam aliquid aliud a se distinctum *re-præsentare*
potentiæ cognoscenti. Ex quo patet signum dicere ordinem et ad potentiam
cognoscentem, cui *re-præsentat* et ad rem significatam [signata, segnata],
quam re-præsentat. Dividitur porro signum in formale et est illud, quod absque
sui prævia cognitione aliud nobis [dual scenario] re-præsentat & in eius
cognitionem ducit, quales sunt species impressa et expressa respectu proprii
objecti et in instrumentale, quod præ-supposita sui cognitione facit nos in
alterius cognitionem venire, ut imago respectu Cælaris, vestigium respectu feræ
transeuntis. Qua de causa Scotus 2. d. 3.quæst. 9. et quol.14, hoc secundum
signum appellat medium cognitum, quia ut ducat in cognitionem *signati*
[segnato], prius petit ipsum cognosci, illud vero primum vocat præcise rationem
cognoscendi, quatenus præcise est quo aliud cognoscitur et non quod
cognoscitur. Signum autem instrumentale est, de quo agimus in præsenti et quod
proprie dicitur signum et definitur ab August. citat, ea tamen definitio etiam
formali conveniet, si prima pars dematur & dicatur signum esse, quod facit
nos in alterius rei cognitionem venire. Hæc tamen signi descriptio, quamvis sit
ab August, tradita & ob tanti doctoris authoritatem ab omnibus passim
recepta, non recipitur a Poncio disput. 19. Log. quæst. i, eamque impugnat quo ad
veramque partem. Quo ad primam quidem cum ait signum [segnante] esse id, quod
præter sui cognitionem, quam ingerit sensibus, etc. redarguit, quia non
complectitur omne signum, quia possent dari *signa spiritualia*, quae
deducerent in cognitionem aliarum rerum, nec possent percipi a *sensibus
materialibus*. Quo ad aliam vero partem, in qua ait. Quod signum facit nos
venire in cognitionem alterius eam impugnat, tamquam ab Arriag. traditam, quia
obiectum facit nos in cognitionem sui venire et tanem *non* dicitur signum.
Rursus Deus ipse facit nos venire in cognitionem multarum rerum eas nobis
revelando, nec tamen ab illo vocatur signum illarum rerum. Præterea cognitio
est signum rei quae cognoscitur per ipsam & tamen non facit nos in
cognitionem venire. Sed nimis audacter insiciatur Poncius doctrinam D.
Augustini, quam omnes venerantur, ut communis Magistri, unde mirum esse non
debet, quod saepius hic auctor minimo rubore suffusus doctrinam Scoti
praeceptoris audeat impugnare. Optima enim est illa descriptio quo ad omnes
partes, si bene intelligatur, nam duae solent assignari conditiones alicuius,
ut alterius rei signum dicatur, una est, quod nos ducat in illius rei
cognitionem, altera est, quod ducat in eius cognitionem, quatenus cognita,
quarum conditionum utramque *optime* [cf. optimality] exprimit definitio signi
ab Augustino tradita. Nam per primam partem definitionis secundum exprimit
conditionem. Vulc enim rem, quæ inservire debet pro alterius signo, prius
nostris sensibus cognitionem sui ingerere debere, specificat autem signum esse
debere *sensibile*, quia ut notat doctor 4. d. 1. quæst. 2. & 3. *signa
sensibilia* sunt *maxime apta pro statu ipso excitare intellectum coniunctum a
sensuum ministerio dependentem, ut in alterius rei cognitionem veniat. Per
alteram vero partem definitionis altera quoque conditio exprimirur, contra quam
nil urgent instantiæ a Poncio adducta, quia obiectum facit venire in
cognitionem sui, non alterius, nec facit venire in cognitionem sui, quatenus
cognitum, ut facit signum, sed quarenus cognoscibile. Nec etiam *Deus* hoc modo
ad instar signi ducit nos in rerum cognitionem, quatenus cognitus, sed eas
revelando, quod adhuc facere posset, etiamsi prius a nobis non cognosceretur.
Cognitio denique esse signum rei cognitae per ipsam formale, ut dicebamus, non
autem instrumentale, quod solum *proprie* dicitur signum et ab Aug. definitur
& ideo cognitio proprie loquendo non dicitur facere nos venire in
cognitionem rei, quam re-præsentat, quia non ducit nos in cognitionem illius
rei, quatenus cognita, sed ut medium cognitum, sed ut racio cognoscendi. Solum
autem signum instrumentale est illud, quod hic definitur. Et hoc signum
instrumentale adhuc *duplex* [like vyse and vice?] est, aliud *naturale*, et
est quod *ex natura* sua independenter ab hominum voluntate [those spots mean
measles] aliquid [measles] re-praesentat, ut fumus ignem [where there is smoke,
there's fire], et universaliter omnis *effectus* [causa/effectus] suam causum,
qui præsertim si *sensibilis* [fumus] erit, dicetur signum causae juxta sensum
definitionis allatæ. An vero ita e contra *causa* dici posse signum sui
*effectus*, negat Hurtad. disput. 1. sect. 4. quia etsi causa cognitio ducat in
cognitionem *effectus*, tamen, non es ordinata ad illum re-præsentandum. Sed plane
non minus ordinata est cognitio *causæ* ad nos ducendum in cognitionem
*effectus* a priori, quam cognitio *effectus* sic *ordinata* ad notitiam
*cautiam* a posteriori, quare ratio Hurtad. parum valet. At inquirare alii,
quod licet ita res se habeat, sola tamen cognitio, quae per *effectum* habetur,
dicitur haberi per signum, unde sola demonstratio a posteriori, quae est *per
effectum*, dicitur *a signo* et ideo solum *effectus* dici potest signum
*causæ*, non e contra. Verum neque hoc viget, licet enim cognitio habita *per
effectum* veluti sensibiliorem *causa*, magis proprie dicatur *a signo*, nil
tamen impedit, quin et cognitio habita *per causam* possit dici *a signo*
absolute loquendo. Potest igitur etiam *causa* dici signum sui *effectus*, et
praesertim quando *sensibilis* est, unde a theologis sacramenta dicuntur
*signa* *gratia*, cuius sunt *causa*, ita clare colligitur ex Doctore 4. d. 1.
quaest. 2. De secundo principali et sequitur Casil. cit. & Arriaga
disputat. 3. sect. 2. Aliud vero est *signum artificiale* [not conventional!
ars/natura], seu *ad placitum* et est: quod ex hominum impositione aliud
re-præsentat, sic ramus est signum venditionis vini, sonus campanae est signum
lectionis [the bell means the bus is full], et vox illius rei, ad quam
*signi-ficandum* est imposita. Ubi tamen est advertendum etiam in vocibus ipsis
non tamtum significationem ad placitum reperiri posse, sed etiam naturalem, ut
patet de gemitu infirmorum et latratu canum et ideo terminus vocalis
*signi-ficativus subdividi solet in *significatiuum naturaliter et ad placitum
et hic ad dialecticum spectat non quidem secundum suam realem entitatem, ut vox
est, et sonus quidam in aere *causatus*, sed secundum quod impositus est ad res
ipsas *signi-ficandas* et conceptus mentis exprimendos, in hoc enim sensu voces
pertinere dicuntur ad institutum dialecticum, ut dicemus disp. de vocibus, ubi
etiam declarabimus, per quid constituatur ratio signi. Special section on ‘sign’ – two sections. General
definition of sign, following Augustine, but with objections by Ponzio. Second
section, the criterion between artificial (‘a piacere’) and mere natural signs.
Segno – segnare – segnante, segnatum. Bonaventura Belluti. Bonaventura Belluto.
Keywords: dialettica, “Institutiones logicae, quae vulgo Summulas, vel logicam
parvam nuncuparunt”, section on ‘segno’ – signum. The teacher ringing the bell
means that Strawson should go to the tutorial. The branch of grapes means that
Grice is selling wine from his orchard. Rather than ‘artificiale’ ‘a piacere’
is better, ‘ad placitum’. Scottism against Thomism in Italy – x means y in
terms of cause and effect. The problem of God, should sign be always
‘material’?—Etimologia di ‘segno’ – relazione con greco ‘semeion’ neutro. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Belluto” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Bencivenga – il piacere – filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio Calabria). Filosofo italiano. Grice: You’ve got to
love Bencivenga; my favourite is his little tract on ‘pleasure,’ but he has
philosophised on one of Austin’s favourite concepts – that of ‘game’ – gioco –
which he applies to communication and philosophy – he thinks that Austin took
philosophese too seriously – ‘implicatura,’ ‘perlocution,’ – when it was all
meant in fun – as a joke –“. Dopo la laurea in filosofia alla Statale di
Milano, Bencivenga ha lasciato presto l'Italia, trasferendosi prima in Canada
per gli studi di dottorato e poi negli Stati Uniti, dove ha intrapreso la sua
carriera accademica insegnando, dal 1979, all'Università della California a
Irvine. I suoi interessi di studio, nel
corso del tempo, hanno riguardato la logica formale (negli anni settanta), la
storia della filosofia (negli anni ottanta), l'etica, la filosofia politica. Ha
pubblicato numerosi testi sulla storia della filosofia e su specifici argomenti
filosofici, come logica, estetica, filosofia del linguaggio, in forma
dialogica, saggistica, trattatistica – “Teoria del linguaggio e della mente”
(Bollati Boringheri --, con scrittura aforistica – “Anime danzanti” (Aragno) --
o affrontando singole figure storiche (come Hegel e Kant). Ha scritto inoltre
diversi testi introduttivi alla filosofia e a sue tematiche, desti un pubblico
più vasto, e alcuni libri di poesie. “La filosofia in trentadue favole”
(Arnoldo Montadori) è un saggio ripubblicato
negli Oscar Mondadori. Pur potendo essere raccontato a un uditorio di bambini,
il saggio si pone l'obiettivo di rivolgersi al bambino presente in ogni essere
umano, che lo rende capace di stupirsi e incantarsi di fronte alle domande
della filosofia. Il saggio è stato riedito in edizioni aumentate (a
quarantadue, cinquantadue, sessantadue e ottantadue favole). “Giocare per
forza: critica della società del divertimento” (Arnoldo Mondatori) è dedicato
all'importanza del gioco e all'esame critico del sovvertimento di senso di cui
esso è stato fatto oggetto nella società contemporanea: trasformato in
industria, il divertimento ha perduto la sua naturale collocazione, quale
manifestazione della sfera fantastica, ricerca libera e volontaria. Trasposto
in una dimensione 'industrializzata' e organizzata, il gioco si qualifica come
attività passiva e ripetitiva, espressa all'insegna di rapporti psicologici
coattivi che snaturano completamente il senso dell’Homo Ludens di Johan
Huizinga: il gioco del lotto e l'intrattenersi con videogame o slot machine
diventano forme di subire passivo, una dimensione alla quale è precluso il
manifestarsi dell'agire ludico dell'uomo attraverso l'attività fantastica della
psiche umana. In un mondo in cui domina
la dimensione organizzata del divertimento, si apre all'uomo una prospettiva
impoverita dell'esistenza, in cui si realizza la perdita del senso profondo del
gioco, una prospettiva che l'autore considera esiziale perché, nelle sue stesse
parole, «se perdiamo il gioco perdiamo la stessa umanità». Pubblica il saggio “L'etica di Kant: la
razionalità del bene” (Bruno Mondatori), una riflessione sul concetto di Etica
in Kant e sul fondamento logico-razionale del Bene. L'Etica consiste nel negare la preminenza al
nostro punto di vista, aprendosi all'esperienza altrui, all'ascolto di tutte le
altre voci e presenze che hanno diritto a occupare un posto nella riflessione
comune. Di converso, la negazione dell'etica consiste esattamente nella
negazione di questo diritto, nell'impedire agli altri la partecipazione alla
riflessione collettiva, la possibilità di offrire all'esperienza comune il
contributo particolare della propria ragione. Questa partecipazione coinvolge
ciò che si chiama l'"uso pubblico della ragione", un'espansione della
dimensione privata della ragione, quest'ultima intesa come la sfera d'uso che
ci è concessa, ad esempio, nell'esercizio dei compiti derivanti da necessità e
ruoli della nostra vita e della nostra professione. L'Etica è come un "fuoco
immaginario", impossibile da attingere. Ma ciò che conta veramente è il
percorso attraverso cui ci si muove in direzione di questo "fuoco",
un cammino in grado di aprire l'uomo a nuove acquisizioni, schiudendone gli
orizzonti al di fuori di pregiudizi e preconcetti. Si pone poi il problema di come considerare
l'etica in un contesto dominato dalla corruzione: l'etica non lascia spazio
alla rinuncia e al cinismo, anche se spesso quest'ultimo può presentasi in
forma artefatta, dissimulato da "realismo", e per questo non
immediatamente riconoscibile. Riprendendo la celebre riflessione sulla
«banalità del male» di Arendt (per Bencivenga, la massima interprete kantiana
del XX secolo), il bene ha una logica e una ragione, un fondamento da cui non è
invece sorretto il male. Quest'ultimo, infatti, trae origine proprio dalla
rinuncia alle ragioni dell'etica, si insinua proprio nelle lacerazioni
dell'etica lasciate aperte da questa rinuncia. Diversi suoi contributi sono
apparsi negli anni su vari giornali italiani, come La Stampa, il Sole 24 Ore,
l'Unità, ecc. Altre opere: “Le logiche libere” (Bollati
Boringhieri); “Una logica nei termini singolari” (Bollati Boringhieri); “Il
primo libro di logica” (Bollati Boringhieri); “Tre dialoghi: un invito alla
pratica filosofica” (Bollati Boringhieri); “Giochiamo con la filosofia” (Arnoldo
Mondadori); “La filosofia in trentadue favole” (Arnoldo Mondadori); “La filosofia
in quarantadue favole”; “La filosofia in cinquantadue favole”; “La filosofia in
sessantadue favole”; “La filosofia in ottantadue favole”; “La libertà: un
dialogo. Il Saggiatore); “Oltre la tolleranza. Feltrinelli); “Il metodo della
follia. Il Saggiatore); “Filosofia: istruzioni per l'uso. Arnoldo Mondadori); “Platone
amico mio. Arnoldo Mondadori); “Manifesto per un mondo senza lavoro,
Feltrinelli); “Per gioco e per passione, Di Renzo); “La rivoluzione copernicana
di Kant. Bollati Boringhieri); “Filosofia: nuove istruzioni per l'uso. Arnoldo
Mondadori); “I passi falsi della scienza. Garzanti 2001, Premio Nazionale
Rhegium Julii); “Una rivoluzione senza futuro. Garzanti); “Parole che contano.
Da amicizia a volontà, piccolo dizionario filosofico-politico. Arnoldo
Mondadori); “Le due Americhe. Perché amiamo e perché detestiamo gli Usa”
(Arnoldo Mondadori); “Dio in gioco: logica e sovversione in Anselmo d'Aosta”
(Bollati Boringhieri); “Il pensiero come stile” (Bruno Mondadori); “La
dimostrazione di Dio. Come la filosofia ha cercato di capire la fede” (Arnoldo
Mondadori Editore); “La filosofia come
strumento di liberazione” (Raffaello Cortina); “Parole in gioco. Arnoldo
Mondadori); “La logica dialettica di Hegel. Bruno Mondadori); “Il piacere.
Indagine filosofica. Laterza); Filosofia in gioco. Laterza); “Filosofia chimica”
(Editori Riuniti); “Il bene e il bello. Etica dell'immagine” (Il
Saggiatore Prendiamola con filosofia.
Nel tempo del terrore: un'indagine su quanto le parole mettono in gioco); “Giunti La scomparsa del pensiero. Perché non
possiamo rinunciare a ragionare con la nostra testa. Feltrinelli); “Filosofo
anche tu. Siamo filosofi senza saperlo. Giunti); “La stupidità del male. Storie
di uomini molto cattivi” (Feltrinelli); “L'arte della guerra per cavarsela
nella vita” (Rizzoli Bur); “100 idee di cui non sapevi di aver bisogno”
(Rizzoli Bur); “Critica della ragione digitale. Feltrinelli); “Nel nome del
padre e del figlio. Hoepli; “I delitti della logica” (Arnoldo Mondadori); “Abramo,
tragedia in tre atti. Aragno Case.
Cairo Il giorno in cui non tornarono i
conti. MdS, “Annibale, tragedia in tre atti” (Aragno); Amori. MdS; “Alessandro,
tragedia in tre atti” (Aragno); Ada. Lettera a mia madre. Arsenio. Poesia Panni
sporchi. Garzanti); Un amore da quattro soldi. Aragno); Polvere e pioggia.
Aragno Poesia dei miei coglioni.
Galassia Arte); “Le parole della notte. Di Felice Amore per Milla. Di Felice. Interventi di
Ermanno Bencivenga Archiviato il 13 giugno
in. da SWIFTSito web italiano per la filosofia premio Rhegium Julii, su circolorhegiumjulii.wordpress.com.
Blog ufficiale, su sites.uci.edu. Opere
di Ermanno Bencivenga, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Ermanno
Bencivenga,. Profilo dal sito dell'UCI
Department of Philosophy Testi di e su Ermanno Bencivenga dal sito dell'UCI
Department of Philosophy Biografia dal sito del Festivaletteratura di Mantova. Da
un quarto di secolo ormai parlo di gioco, e intorno a questo tema ho raccolto
tutte le attività che hanno per me il più profondo significato. Ho detto che il
linguaggio e la mente sono spazi ludici, che lo sono la soggettività e la
politica, che letteratura e filosofia sono giochi intellettuali. Ho scritto un
libro polemico nel quale criticavo varie attività che nel mondo contemporaneo
sono presentate e propagandate come forme di gioco e invece ne rappresentano
l’opposto: una violazione e repressione del gioco. Ma non ho mai spiegato con
cura che cosa intendo per gioco, non ho mai articolato i molteplici risvolti di
questo intricato concetto. Lo faccio qui, e forse è bene che lo faccia alla mia
età e dopo tante vicissitudini e traversie: forse un libro così, su un
argomento per me di tale importanza, poteva solo presentarsi come sommario di
un’esperienza di vita, come enunciazione della sua morale. Questo dunque
è il libro di tutti i miei libri e ogni mia forma espressiva è stata un suo
episodio. Che io mi sia dedicato alla logica o alla poesia, abbia esplorato
problemi metafisici o dialogato con i grandi della storia del pensiero, abbia
insegnato, parlato in pubblico o scritto articoli di giornale, non ho fatto che
pratica della sua composizione, non ho trovato che esempi delle sue tesi. Di
conseguenza, nel prepararlo, ho dovuto affrontare una difficoltà: quella di
mantenere una precisa misura. Il libro non poteva diventare un’enciclopedia:
doveva essere chiaro ed efficace, breve anzi, e gli stimoli che avrebbe offerto
alla lettura non dovevano causare distrazioni per un percorso che volevo
coerente e risolto in sé stesso. Se ho realizzato i miei scopi non sta a me
dire; aggiungerò solo una nota di commiato. In quella costellazione variegata
che è il mio lavoro di quarant’anni c’è un sole (un faro, l’aveva chiamato
l’amico Luciano Genta in un’intervista di molto tempo fa): Immanuel Kant. E c’è
un centro di forza, a lungo nascosto per quanto instancabilmente operoso e ora
infine venuto alla luce. Ringrazio Alessandro Giuliani, Ignazio Licata, Cinzio
Lombardi, Pasqualino Masciarelli, Daniela Mazzoli, Fabio Paglieri e Paolo
Zorzato per i loro commenti a una versione precedente del libro. Un ringraziamento
e un ricordo particolari vanno a Nuccia, antica compagna di giochi, che, fin
quando ha potuto, ha seguito queste pagine con l’intelligenza, il rigore e la
sensibilità di sempre. Roma, novembre 2012 Avvertenza Di regola, le citazioni
sono accompagnate dall’autore, dal titolo della fonte e dai numeri delle pagine
(le altre informazioni bibliografiche sono contenute nella Bibliografia in
fondo al volume), con le eccezioni seguenti: Quando mancano autore o titolo è
perché (a) sono menzionati nel testo che accompagna immediatamente la
citazione, (b) nel libro viene citata una sola opera di quell’autore e l’opera
è già stata menzionata, oppure (c) la citazione è tratta dalla stessa fonte
della citazione precedente. Quando mancano le pagine è perché sono le stesse
della citazione precedente. Infine, quando una citazione è inserita nel testo
(anziché presentata a parte, in corpo minore), la sua iniziale maiuscola o
minuscola è stata adattata alle esigenze del contesto. 1. Il gioco Una
bambina di due anni entra in una stanza per lei nuova, cosparsa di oggetti
ignoti. Si muove incerta dall’uno all’altro; li prende in mano, osservandoli
curiosa e perplessa da ogni punto di vista; li assaggia e li mordicchia con i
suoi piccoli denti; li scaglia per terra e per aria; li fa rotolare sul
pavimento, seguendone il percorso e le reazioni; ci infila dentro le mani
cercando di smontarli, di farli a pezzi; li picchia con forza per trarne un
suono e sorride quando rispondono. Poi si accovaccia in un angolo,
raccoglie intorno a sé tutti questi suoi tesori e li combina in forme sempre
nuove: un cerchio di libri e scarpe con un telefono in mezzo, una pila di
pentole e stoviglie, un orsacchiotto che guarda in cagnesco un altoparlante. Il
portiere ha appena raccolto una palla morta. Potrebbe rilanciare lungo, oltre
il centrocampo; ma preferisce l’appoggio al difensore di fascia, appena fuori
dall’area. Il terzino scatta veloce: gli avversari sono sbilanciati dall’altro
lato del campo, lui ha un’autostrada davanti e il centinaio di metri che lo
separa dalla linea di fondo è la distanza giusta per le sue doti di velocista
potente e armonioso. In affanno, sopraggiunge infine un marcatore, ma prima che
si stringa troppo il terzino si ferma di botto in un fazzoletto di terra. Ha
spazio, ancora per una frazione di secondo; lancia un cross morbido per la
testa del suo centravanti, chiaro punto di riferimento a dieci metri dal
portiere. L’attaccante ne ha due addosso, che lo spingono e lo strattonano
rischiando il rigore e gli bloccano la visuale della porta, così invece di
schiacciare direttamente a rete fa da torre e deposita la sfera sui piedi
dell’ala che si è appostata sul secondo palo. Non c’è che da spingere, il
pallone varca la linea bianca, lo stadio impazzisce. Tutto questo miracolo di
perfetti gesti atletici, di geometrie essenziali non è durato neanche un
minuto. Sono due esempi di un’attività che chiamiamo «gioco»; ma non è affatto
evidente che sia lecito usare per entrambi la stessa denominazione. Sembra anzi
un arbitrio, un capriccio; sembra non possano esserci modi più disparati di
occupare il tempo. La bambina agisce in assoluta libertà, guidata solo
dall’inclinazione del momento; non accetta alcuna barriera tra ciò che è
in gioco e ciò che non lo è, tra mosse consentite ed escluse; non
contempla un limite temporale per quel che sta facendo, e infatti si dovrà
sempre e comunque interromperla, e quando lo si farà lei manifesterà con vigore
il suo disappunto; non ha uno scopo, non vuole ottenere nulla – null’altro,
cioè, che continuare a giocare. I calciatori, invece, vivono un episodio che
dura esattamente novanta minuti (più recupero); sono soggetti a regole che è
compito dell’arbitro e dei suoi collaboratori far rispettare alla lettera (e
che domani provocheranno discussioni a non finire sui giornali e nei bar);
hanno l’obiettivo di vincere la partita, segnando un gol più degli avversari, e
per questa via conseguire fama imperitura e ingaggi stratosferici. Che cosa ci
può offrire l’uso di una stessa parola con significati tanto diversi se non una
penosa confusione? E non è finita, non per me almeno. Consideriamo infatti un
passo come il seguente, dalla Critica del giudizio: È un principio
trascendentale quello col quale è rappresentata la condizione universale a
priori, sotto la quale soltanto le cose possono diventare oggetti della nostra
conoscenza in generale. Invece, un principio si chiama metafisico quando esso
rappresenta la condizione a priori, sotto la quale soltanto oggetti, il cui
concetto deve esser dato empiricamente, possono essere ulteriormente
determinati a priori. Così il principio della conoscenza dei corpi, come
sostanze e come sostanze mutevoli, è trascendentale, quando s’intenda che il
loro mutare debba avere una causa: è metafisico, invece, quando s’intenda che
quel mutamento debba avere una causa esterna; perché nel primo caso basta che
il corpo sia pensato solo mediante predicati ontologici (concetti puri
dell’intelletto) – per esempio, come sostanza – per conoscere a priori la
proposizione; laddove nel secondo deve essere messo a fondamento di questa
proposizione il concetto empirico di un corpo (come una cosa mobile nello
spazio), ed allora si può vedere interamente a priori che l’ultimo predicato
(del movimento prodotto solo da una causa esterna) conviene al corpo (p. 21).
Queste frasi compaiono in un libro che rappresenta uno dei massimi vertici
della filosofia occidentale, e io ho sostenuto a più riprese che la filosofia è
un gioco. Non solo la filosofia, perché l’ho detto pure dell’arte e della
letteratura, ma anche la filosofia. E che cosa giustifica l’accostamento di
espressioni così nobili dell’ingegno umano a una partita di calcio o alle
peripezie di una bimba da poco in grado di reggersi in piedi? In filosofia si
fa terribilmente sul serio, ci si concentra sui temi che più contano, che dànno
senso alla vita e all’esperienza del mondo, e si fa di tutto per sviscerarne la
struttura, per arrivare in proposito all’unica, esatta verità; non ci si sta
divertendo (sviando, cioè: andando a spasso) per godere della novità e della
sfida. In ballo non ci sono soldi o il plauso delle folle, e neppure il piacere
che deriva da qualche ora trascorsa spensieratamente. Tutt’altro: il pensiero
qui è acuto come uno spillo e profondo come l’oceano, diretto come un raggio laser
verso problemi per cui le folle non provano (ahimè) alcun interesse,
anche perché sono spesso trattati in termini (come quelli del passo citato) che
le folle troverebbero incomprensibili; e talvolta l’esito di tanto ossessivo
impegno, di tanta rigorosa dedizione, di tanta puntuale insistenza sull’uso di
formule corrette e ragionamenti apodittici è un infuso di cicuta propinato al
tramonto o il rogo in una piazza romana, fra i pellegrini convenuti per l’anno
santo. Anche questo è un gioco: quello che stiamo conducendo adesso, voglio
dire, quello suggerito dall’inizio del mio libro. Ed è importante capire che
gioco sia. Potrebbe essere come quando si mettono accanto due vignette che
raffigurano situazioni del tutto diverse – che so io?, il varo di una nave e un
compito in classe – e si chiede che cosa abbiano in comune. E, aguzzando bene
la vista e non lasciandosi distrarre dalle forme più prominenti, si finisce per
scoprire che la superficie di un banco coincide con la bandiera spiegata, o la
barra del timone con il righello. Un gioco così non è nuovo, per rispondere
alle domande che ho posto qui sopra. Si mettono accanto un ragazzo che
costruisce un castello di sabbia, un campione di scacchi alle prese con
un’apertura inconsueta, Guernica ed Essere e tempo e ci si interroga su quali
siano i dettagli che si ripresentano identici in ciascuna situazione.
Stabilendo, per esempio, che si ha sempre a che fare con un esercizio fine a sé
stesso o con un affrancamento dell’essere umano dalla servitù del bisogno. Identificando
il gioco, insomma (quel che lo rende tale), con una singola, astratta
caratteristica di ogni gioco particolare, tanto astratta da far scomparire ciò
che un gioco particolare ha di vivido e intenso, di suggestivo e appassionante.
Che cosa rimane dell’inventiva del trasformare un passeggino in un’automobile,
dell’eccitazione di tirare un rigore all’ultimo istante, della sconfinata
ingegnosità (e sublime impertinenza) della prova ontologica anselmiana quando
le dichiariamo ridotte a una qualsiasi concisa definizione che ci dia l’essenza
del gioco? Non è questo il gioco a cui voglio giocare. È invece un gioco
analogo a quello del labirinto. C’è un punto di partenza e noi siamo lì,
carichi di tutta la nostra individualità, di tutto ciò che ci rende irripetibili,
inconfondibili con chiunque altro. Davanti a noi ci sono bivi e ostacoli,
comodi varchi che potrebbero finire in un vicolo cieco e strettoie malsane per
cui potremmo trovare il passaggio agognato. E c’è una meta che ci aspetta al
termine di un tracciato arduo e sofferto; ma una meta da raggiungere interi,
non assottigliati in un’ombra priva di peso e di spessore, anzi avendo
acquisito maggior peso e spessore per le avventure vissute e i rischi corsi,
avendo visto maturare anziché spegnersi le nostre opinioni e i nostri
sentimenti. Nel linguaggio della filosofia, i due giochi che ho descritto
sarebbero ribattezzati con i nomi di Aristotele e di Hegel: il primo fautore di
una logica analitica che divide (analizza) oggetti ed esperienze nelle loro molteplici
caratteristiche e quindi astrae le caratteristiche comuni costituendo concetti
universali che diventano il luogo privilegiato della sua azione; il secondo,
invece, di una logica dialettica che unisce (lega) oggetti ed esperienze fra
loro, senza perdere nulla della loro complessità, mediante un tessuto
narrativo, una storia che gradualmente trascende l’uno nell’altro mantenendo
però l’uno presente e attivo nell’altro, un po’ come il monello dodicenne è
trasceso, ma ancora presente e attivo, nell’attempato capitano d’industria. Più
avanti potremo riprendere in mano questa terminologia filosofica e precisarla
meglio; ora è tempo di giocare, di trovare la via nel labirinto. Dovremo
spiegare il punto di partenza: il gioco della bimba di due anni – spiegarlo
come si spiega una vela, mostrando tutto quel che le pieghe nascondono. Dovremo
avere sempre chiaro in mente l’obiettivo: ritrovare quel gioco e quella bambina
nella Critica del giudizio, passando per il gioco del calcio e molte altre
tappe. E dovremo affrontare false piste e pericoli, cioè tutte le domande e
obiezioni che già ci siamo posti e quelle che dovremo ancora porci, e superarle
senza lasciare sul terreno alcun elemento significativo del punto di partenza:
senza smarrire l’incanto che affascina la bimba, il brivido con cui tenta un
nuovo gesto o una prospettiva strampalata, il piacere riflesso nel suo sorriso,
il paziente e prezioso sviluppo della sua personalità che si realizza
attraverso questi um ili, intimi passi. 2. Il punto di partenza
Cominciamo con la bimba, dunque; studiamone la situazione e (per quel che
possiamo capirlo) lo stato d’animo. La prima cosa da notare è che il suo
comportamento è trasgressivo: sovverte ogni abitudine sull’uso «corretto» degli
oggetti con cui ha a che fare e ogni aspettativa che chiunque si sia formato in
proposito. Parte di questa sua natura rivoluzionaria è dovuta al semplice fatto
che la bimba non sa quale sia l’uso corretto degli oggetti: non sa, per
esempio, che con una spillatrice si cuciono dei fogli e se ne serve invece come
di un grosso pesce nella cui bocca spalancata inserire l’«esca» di una pedina
della dama, e chi la vede sorride e osserva bonario quanto ingegnoso sia il suo
spirito, quanto la sua immaginazione sia in grado di sopperire ai difetti
dell’ignoranza. Magari il benevolo spettatore prenderà la spillatrice e ne
dimostrerà con sapiente manovra pedagogica il funzionamento: la userà per
realizzare in quattro e quattr’otto un bel quadernetto degli appunti che
porgerà alla sua pupilla, perché colga subito un elemento decisivo della sua
educazione formale prossima ventura – perché l’esperienza attuale non rimanga
«solo un gioco». E avvertirà una profonda frustrazione quando l’indisciplinata
(presunta) scolara in erba si guarderà bene dall’imitare il suo esempio e
realizzare altri dieci quadernetti, e cercherà piuttosto di infilare le dita
dentro la spillatrice e strapparle i punti, cioè i piccoli denti affilati di
questo pesce goloso, intenzionato a divorare tutte le pedine della dama.
Scuoterà la testa, il nostro insegnante per il momento mancato, e si consolerà
pensando che è solo questione di tempo: prima o poi la bimba imparerà il minimo
indispensabile per un comportamento «come si deve» e allora ci si potrà
costruire sopra e darle altre utili lezioni, senza questo continuo cambiare le
carte in tavola che sarà forse motivo d’allegria per lei ma è anche, per tutti
gli altri e per la sua stessa crescita, un’inutile distrazione. Il secondo
commento va in senso opposto al primo, indicando che con il suo procedere
caotico e informale la bimba impara un’enorme quantità di cose molto
importanti. Non quante siano state le guerre puniche o chi abbia malgovernato
l’Italia negli ultimi anni; questi contenuti li apprenderà a scuola,
quando ci andrà, o da altre autorevoli e comunque successive fonti
d’informazione. Ora invece impara a vivere nel suo corpo, a distenderlo e
ritrarlo; impara quali resistenze è in grado di superare e a quali altre deve
cedere; impara a valutare le distanze fra le pareti e fra gli oggetti sparsi
per la stanza; impara la struttura complessa di quegli oggetti, rigirandoli fra
le mani e guardandoli e toccandoli da ogni angolo. Vocalizzando reazioni
emotive alle sue vicende, impara a padroneggiare la sua voce, ad articolarla e
modularla: a trasformare suoni rozzi e primitivi in un flusso sonoro di grande
ricchezza e flessibilità, nel quale inscenare il dramma del linguaggio. Non è
un’esagerazione dire che tutto quel che facciamo sul serio lo abbiamo un giorno
imparato giocando, purché non si dia dell’imparare – cioè della conoscenza –
un’interpretazione puramente intellettuale, che lo legga come una relazione fra
un soggetto ed entità astratte quali idee o proposizioni (i «contenuti» cui
accennavo). Certo sarebbe possibile, e per me desiderabile, imparare il teorema
di Pitagora o le valenze chimiche giocando; ma sta di fatto che la maggior
parte di noi li impara in situazioni d’imbarazzante rigidità. Non potrebbe
impararli affatto, però, se non avesse acquisito abilità «elementari» che
tendiamo a prendere per scontate ma che, riflettendoci, ci riempiono di
ammirato stupore: nel caso specifico, l’abilità di comprendere quel che ci
viene detto, di coglierlo come uguale a sé stesso nelle mille differenze di
tono e pronuncia di parlanti diversi, di adattarlo al contesto nel quale è
inserito. Prima dei tre anni un bambino impara tutto ciò senza sforzo – alcuni
bambini in più lingue – mentre i cultori dell’intelligenza artificiale ancora
non sono riusciti a produrre un meccanismo di traduzione automatica decente. E
impara a riconoscere e categorizzare oggetti nello spazio, distinguendoli dallo
sfondo; a interagire ed empatizzare con altri esseri umani; a bilanciarsi sulle
gambe e muoversi disinvoltamente in ogni direzione. Se pensiamo alla fatica con
cui, in età posteriori, quello stesso bambino ormai cresciuto tenterà
d’impadronirsi di una lingua straniera, di una teoria scientifica o di uno
strumento musicale, non possiamo non rimpiangere la facilità con cui
l’apprendimento avveniva nell’infanzia, e il fatto che l’infanzia sia
terminata. Ho menzionato l’apparente contrasto fra il carattere sovversivo del
gioco e la sua sconfinata capacità di insegnare. Sembra esserci un contrasto,
qui, perché di solito concepiamo la conoscenza (oltre che in termini astratti)
come rispecchiamento di una realtà data, da acquisire senza modificarla. Io
vengo a sapere che piove osservando in modo neutrale lo spettacolo che mi si
porge attraverso i vetri della finestra, piegandomi con assoluta
deferenza all’indipendente oggettività della pioggia e facendo del mio meglio
perché i miei piani, le mie esigenze e la mia immaginazione non la turbino. Se
avvertissi troppo forte l’anelito per una bella giornata di sole e una fantasia
troppo vivida me ne rappresentasse una davanti, finirei forse per illudermi
(parola importante, sulla quale ritornerò) che non piova, per rimanere vittima
del gioco delle mie emozioni e delle mie facoltà mentali – e non saprei più che
tempo fa. Il che senz’altro è ragionevole, ma non va frainteso. Non c’è nulla
di sbagliato nel desiderio di una conoscenza che rispecchi la realtà; ma non ne
segue che il metodo migliore per soddisfare tale desiderio sia adagiarsi in una
supina e passiva registrazione di circostanze a noi aliene. La realtà va costantemente
sfidata, messa sotto pressione come farebbe uno scienziato con i suoi
esperimenti di laboratorio: il suo carattere oggettivo non è un dono che ci
viene generosamente elargito ma il residuo di un’attività ininterrotta da parte
nostra. Per essere conosciuta, la realtà va esplorata; e il gioco è il
paradigma di questa esplorazione. La tensione fra trasgressione e apprendimento
può così essere risolta. Senza arrivare agli estremi di Bacone, per il quale
dovremmo costringere la natura con le sevizie a rivelarci i suoi segreti,
l’apprendere è un fare, non un puro constatare, o meglio è un constatare che
risulta da un fare. Se ci fossimo limitati a guardare la luce che emana dal
sole e da altre fonti luminose, la concepiremmo ancora come un fluido che
pervade l’aria. Invece abbiamo proiettato un fascio di luce su uno schermo
attraverso due fessure, osservando fenomeni d’interferenza e concludendo che
eravamo in presenza di onde. Prove successive ci hanno convinto che la luce si
comporta anche come se fosse costituita da particelle, e ragionando su questo
paradosso siamo arrivati alla meccanica quantistica che, sebbene in certa
misura inintelligibile, dà previsioni più accurate di ogni altra teoria nella
storia della fisica. Possiamo dire di aver raggiunto una perfetta conoscenza
della realtà? No di certo; ma non credo ci siano dubbi che abbiamo imparato
sulla luce molto più di quanto ne sapessimo in passato, e che abbiamo fatto
grandi progressi perché non siamo rimasti con le mani in mano, perché in
analogia con i grandi viaggiatori e scopritori di continenti del Rinascimento
ci siamo inoltrati in un terreno ignoto e lo abbiamo percorso in lungo e in
largo come cavalieri erranti, scrutando qua e là e menando fendenti
all’impazzata e a volte commettendo veri e propri errori – scambiando mulini a
vento per giganti. Il primo cavaliere errante è il bambino; il terreno ignoto
che esplora è il suo ambiente; i continenti che scopre sono oggetti di
uso comune, il che potrà sembrare banale solo a chi non consideri quanto indispensabili,
irrinunciabili siano tali scoperte e non ricordi che non c’è altro modo di
scoprire alcunché. Si potrebbero seguire alla lettera delle istruzioni,
ovviamente, e se ne diventerebbe prigionieri. Pensate per esempio ai diversi
atteggiamenti che un ragazzo e un adulto hanno spesso nei confronti di un nuovo
dispositivo elettronico. Il secondo segue istruzioni; il primo invece schiaccia
tutti i tasti e tenta tutte le combinazioni operative; come risultato, quando
il secondo si trova in difficoltà deve chiedere aiuto al primo. Perché il primo
ha errato, in entrambi i sensi della parola, quindi ha imparato davvero: non
solo quel che gli era stato detto ma anche, forse, quel che nessuno gli avrebbe
potuto dire, quel che nessuno sapeva, quel che stava intorno a quel che ognuno
sapeva e che mai si sarebbe visto se non si fosse andati a zonzo, girovagato,
per divertirsi – per deviare cioè dalla strada battuta. Le parole
«divertimento» e affini sono usate sovente come sinonimi di «piacere» e affini;
«mi sono divertito molto» ha nella maggior parte dei casi lo stesso significato
di «è stata un’esperienza molto piacevole». Il legame che ho appena tracciato
fra divertirsi e imparare getta una luce provvidenziale su questa particolarità
semantica: provvidenziale come sa esserlo l’evoluzione. Ha fatto bene la
natura, operando per mutazione e selezione, ad associare un vivo piacere alla
nutrizione e al sesso, come incentivo ad attività essenziali per la
sopravvivenza dell’individuo e della specie, e altrettanto ragionevole si è
mostrata nel farci vivere il divertimento, la divagazione, come fonte di gioia,
se è vero che divagare è il modo migliore di apprendere. L’ampio spettro
d’intercambiabilità fra piacere e divertimento suggerisce addirittura che
esplorare ed errare abbiano un valore adattativo più alto, o almeno più
capillare, di mangiare e accoppiarsi: non esiste occupazione umana che non
provochi «divertimento» per qualcuno, ma non sempre le stesse occupazioni
sarebbero definite dalle stesse persone «erotiche» o «gustose». Ad ogni buon
conto, arriviamo così a identificare un’ulteriore caratteristica della scena
ludica primaria: la bimba prova un indubbio piacere, che sembra durare per
tutto il tempo in cui gioca. Lo tradiscono talvolta i suoi sorrisi e gridolini
di eccitazione, ma in modo più ovvio (perché più continuo) la sua assoluta
concentrazione e apparente instancabilità, le sue proteste quando viene
interrotta, il suo pronto ritornare a quel che tanto la avvince quando le
proteste hanno effetto. Ed è il piacere che prova a motivarla a giocare: non
c’è in questa attività nessun secondo fine; l’attività è fine a sé stessa,
perseguita in completa autonomia (in accordo con una delle possibili
definizioni analitiche di gioco). La bimba non si aspetta nessun risultato, non
intende conseguire nessun obiettivo, o quantomeno nessun risultato o obiettivo
esterni. Nonostante tutto quel che ho detto sulla funzione pedagogica del
gioco, non è per imparare che si gioca: quale che sia il vantaggio adattativo
che il gioco procura, ognuno di noi gioca all’unico scopo di giocare. Nelle
prime pagine del suo I giochi e gli uomini, Roger Caillois lascia
apparentemente la porta aperta a un’interpretazione strumentale delle attività
ludiche, nel senso di un loro contributo all’addestramento fisico:
Contrariamente a quanto si sostiene spesso, il gioco non è un apprendistato del
lavoro. Esso non anticipa che in apparenza le attività dell’adulto [...]. Il
gioco non prepara a un mestiere preciso, esso allena in generale alla vita aumentando
ogni capacità di superare gli ostacoli o di far fronte alle difficoltà. È
assurdo, e non serve a niente nella vita reale, lanciare il più lontano
possibile un martello o un disco di metallo, o riprendere e rilanciare
continuamente una palla con una racchetta. Ma è utilissimo avere dei muscoli
possenti e dei riflessi pronti (p. 12; corsivo aggiunto). Alla fine del libro,
però, la chiude con decisione: Il gioco non è esercizio, non è neanche gara o
prodezza, se non in sovrappiù. Le facoltà che esso sviluppa beneficiano
certamente di questo allenamento supplementare, che è per di più libero,
intenso, divertente, creativo e protetto. Ma funzione specifica del gioco non è
mai quella di sviluppare una capacità. Scopo del gioco è il gioco stesso (p.
195). A testimonianza del fatto che il gioco non è facile da capire, affiora in
queste ultime battute un nuovo elemento di tensione. È naturale infatti porre
in contrasto il gioco fine a sé stesso con quanto si fa «sul serio»; ma che
cosa c’è di più serio, per la bimba, dell’immersione totale, dell’assorta
partecipazione con cui vive le sue trasgressioni e i suoi esperimenti? È quando
le si vorrà imporre un comportamento giudicato desiderabile dai grandi che si
mostrerà svogliata e distratta come chi non prenda la cosa sul serio; lo farà
anche quando le si vorrà dare da mangiare, una volta soddisfatta la fame più
immediata, e si calmerà e riprenderà il suo sguardo intento e le sue mosse
accurate appena i grandi si saranno allontanati e le sarà possibile giocare con
il cibo. In Homo ludens, Johan Huizinga conferma l’esistenza di un problema
quando scrive: «l’opposizione gioco-serietà non pare né conclusiva né stabile»
(p. 23). E più avanti dichiara: «Bambini, calciatori, scacchisti giocano con la
massima serietà senza la minima tendenza a ridere» (p. 24). «L’autentica,
spontanea mentalità del gioco può essere quella della profonda serietà. Il
giocatore può arrendersi al gioco con tutto l’essere» (p. 45). Càpita spesso
che termini ritenuti descrittivi di come va il mondo abbiano un valore assai
più decisamente prescrittivo: fungano, cioè, da ricette implicite su come
il mondo dovrebbe andare. Una persona è spesso detta normale non perché
rappresenta una media statistica ma perché meglio si adatta alle norme di chi
così la descrive, e il senso comune è spesso comune solo a chi lo chiama in
causa per dar credito a una propria tesi. Qui siamo di fronte a una situazione
analoga. Le cose che si fanno sul serio sono quelle cui si dedica pazienza,
sforzo, attenzione costante, e per chi sia stato «appropriatamente»
socializzato pazienza, sforzo e attenzione dovrebbero essere profusi
nell’andare al lavoro, nel preparare la cena e nel lavare i piatti. Che nel
fare cose del genere si risulti svogliati e distratti, che non si riesca a
prestar loro la cura che meritano, è giudicato un’anormalità, per quanto
sovente succeda, per quanto oneroso sia adempiere alla norma che viene così
(implicitamente) assunta. La bimba che stiamo osservando ci rivela la vanità di
tali pretese: rivela nel modo più chiaro che per lei il gioco è l’attività più
seria, anzi perché qualcosa sia davvero preso sul serio (non si voglia soltanto
che lo sia) deve entrare a far parte di un gioco. Superata anche questa
difficoltà, sembriamo aver ottenuto un’immagine incondizionatamente positiva
del nostro oggetto di studio. Il gioco sovverte abitudini e aspettative, ma non
solo questa sua natura irrispettosa è compatibile con una sua funzione
educativa: sembra che non ci sia un modo migliore, forse non ci sia un altro modo,
di educare che sfidando lo status quo ed esaminandone minuziosamente tutte le
possibili alternative. Il gioco è piacevole ed è praticato per il piacere che
dà; eppure è l’attività più seria, forse l’unica attività che venga condotta
con autentica serietà. C’è però ancora un aspetto del gioco che occorre
discutere, ed è un aspetto stavolta inquietante. Il gioco è pericoloso;
violando abitudini e aspettative ci si può far male, ed è probabile che i
grandi lo sappiano – che, se la bimba è stata lasciata sola nella stanza a
giocare, gli spigoli più acuti siano stati tolti di mezzo, le prese di corrente
siano state coperte e le finestre siano ben chiuse (già il fatto che avesse a
disposizione una spillatrice avrà sollevato qualche perplessità). Abitudini e
aspettative richiamano alla mente un’atmosfera di inerzia, di tedio, di
mediocrità; e nell’immagine che ne abbiamo dato finora il gioco emerge, per
contrasto, come eroico e innovativo, fantasioso ed eccitante. Ma su abitudini e
aspettative si fondano contesti che ci rassicurano, che ci permettono di
guardare al futuro con fiducia, almeno finché il futuro somiglierà al passato –
a quel passato che ha gradualmente dato luogo al costituirsi di abitudini e
aspettative. Chi gioca, d’altra parte, non mette in crisi solo il suo ambiente
e magari le altre persone che lo popolano: mette in gioco, e in crisi, anche sé
stesso, e questo comportamento avventato implica inequivocabilmente dei
rischi. Di gioco si può morire. «Il gioco può sempre diventare un fatto
pauroso», afferma lo psicoanalista Donald Winnicott in Gioco e realtà. «I
giochi regolamentati [in inglese games, parola che in seguito dovrà essere
discussa] e la loro organizzazione debbono essere considerati come parte di un
tentativo inteso a tenere a bada l’aspetto pauroso del gioco» (p. 88;
traduzione modificata). Incontriamo così un ulteriore ostacolo sul nostro
cammino, un enigma da risolvere prima di poter raggiungere la prossima tappa.
Stabilito che il gioco ha tutte le caratteristiche positive che ho elencato,
urge però un’analisi di costi e benefici se vogliamo mantenerne una concezione
generalmente provvidenziale. Vale la pena di educarsi attraverso una piacevole
attività di trasgressione se tale attività minaccia la nostra integrità fisica
o psicologica? Non sarebbe stato meglio per l’evoluzione scegliere percorsi
meno arditi: associare un vivo piacere, per esempio, proprio a quell’ascolto e
a quell’applicazione degli insegnamenti di un esperto cui il gioco, irridente,
fa gli sberleffi? Sarà anche vero che giocando impariamo di più; ma non è
preferibile talvolta, o sempre, imparare meno, se l’imparare mette a
repentaglio la nostra esistenza e il nostro benessere – le ragioni, cioè, per
le quali vorremmo imparare qualsiasi cosa? In che senso un’attività che ci fa
spesso correre pericoli può essere funzionale alla nostra sopravvivenza?
3. Caos e ordine Nell’antica mitologia greca non esiste una creazione dal
nulla. Quel che dà origine al mondo così come abbiamo imparato a conoscerlo e
abitarlo è invece una variante globale delle pulizie primaverili: al caos
originario (quindi in particolare privo di inizio) si sostituisce un cosmo,
cioè una struttura ordinata che obbedisce a leggi definite. Noi da tempo non
crediamo più nella storia di Zeus e delle sue lotte sanguinose con Crono, i
Titani e svariate altre forze oscure e ancestrali (forse non ci credevano
davvero neanche i greci); in secoli di sviluppo scientifico abbiamo elaborato
un modello ben più articolato e plausibile dell’universo e delle sue origini. Solo
recentemente, però, tale sviluppo ha cominciato a incidere in modo critico su
quello che era rimasto un elemento fondamentale di accordo con le favole
antiche: risiediamo in un cosmo e di conseguenza basta (in linea di principio,
perché poi la cosa è difficile e magari impossibile da realizzare) scoprire le
leggi che lo regolano per poterne prevedere con assoluta certezza il
comportamento futuro. Se così fosse, non sarebbe una cattiva idea fidarsi delle
istruzioni di chi è più esperto di noi: le leggi del cosmo dovrebbero essere
sempre le stesse e chi le ha viste all’opera più a lungo di noi dovrebbe essere
in grado di darci in proposito indicazioni preziose. Non sembrerebbe economico
o vantaggioso che ciascuno di noi dovesse invece riscoprire – giocando,
esplorando e contestando – quel che è comunque già noto. Se pure traessimo un
grande piacere da queste pratiche, ci sarebbe da chiedersi – riformulando in
altri termini le domande con cui ho chiuso il capitolo precedente – perché la
biologia associ un piacere simile a un’attività che nella migliore delle
ipotesi è inutile e nella peggiore è controproducente. Certo è possibile che le
leggi «scoperte» da chi è vissuto e ha operato prima di noi siano sbagliate;
nella scienza non solo le teorie si sono spesso reciprocamente confutate e
avvicendate ma sembra addirittura all’opera una perversa induzione in base alla
quale ogni teoria un tempo ritenuta corretta si è poi rivelata fallace –
dunque, probabilmente, lo saranno anche le teorie che oggi riteniamo corrette.
Questa allarmante conclusione, però, varrebbe solo per quel che la
scienza offre di più profondo e sofisticato, non per quella sua solida
struttura intermedia che appare costituita di verità inoppugnabili. Nel saggio
Sulla libertà John Stuart Mill, paladino di una discussione pubblica il più
possibile aperta e coraggiosa, considera un problema il fatto che su un numero
crescente di tesi il progresso scientifico abbia pronunciato una sentenza
definitiva (quindi, in particolare, indiscutibile) e auspica che si ricorra a
espedienti fittizi – che so io? a sostenere accanitamente che la Terra sia
piatta – per ridar significato e vividezza a credenze che altrimenti rischiano
di trasformarsi in puri dogmi. In assenza di dibattito non vengono dimenticati
solamente i fondamenti di un’opinione, ma viene dimenticato sovente il
significato dell’opinione stessa. Le parole che la esprimono cessano di
suggerire idee, o suggeriscono solo una piccola parte di quelle idee che in
origine comunicavano. In luogo di un concetto vivido e di una convinzione viva,
rimangono soltanto alcune frasi ritenute meccanicamente; oppure, se rimane
qualcosa, è solo l’involucro o il guscio del significato, mentre la sua essenza
più pura è andata dissolta. Col progresso dell’umanità, il numero delle
dottrine che non vengono più messe in discussione o in dubbio sarà
costantemente in aumento, e il benessere del genere umano può essere quasi
misurato dal numero e dalla rilevanza delle verità che hanno raggiunto la
condizione di verità incontestate [...]. Il venire meno di un aiuto così
importante all’intelligente e viva comprensione di una verità – com’è quello
offerto dalla necessità di spiegarla o di difenderla dagli avversari –
rappresenta un inconveniente non di poco conto. Là dove questo vantaggio viene
a mancare, confesso che sarei contento di vedere i maestri del genere umano
sforzarsi per trovarne un sostituto, un espediente per far sì che le difficoltà
della questione siano presenti alla coscienza di colui che la affronta, allo
stesso modo in cui lo sarebbero se gli venissero imposte da un avversario
agguerrito, impegnato a convertirlo. Con tutto il rispetto per Mill, però,
siamo daccapo: sarà appassionante riscoprire il senso di opinioni generalmente
accettate sottoponendole a critiche fittizie ma, al di là dell’intensa emozione
che provoca, a che cosa serve questo esercizio? Non converrebbe invece
riservare le nostre risorse ludiche per le questioni che si collocano ai
margini della conoscenza, dove non si è ancora raggiunto un pacifico accordo e
quindi le opinioni attuali saranno verosimilmente contestate in futuro? Una
modesta replica alla sfida suggerita da queste domande emergerà nel quinto
capitolo: se non mantenessimo attiva in noi la pratica della contestazione, sia
pure senza vantaggi diretti, non potremmo risvegliarla quando lo giudichiamo
opportuno. Come suggerivo poc’anzi, però, la scienza contemporanea ha fatto di
meglio: ha mostrato che è vantaggioso contestare non solo quel che è in
discussione o in dubbio (esercitandosi magari prima con quel che non lo è) ma
anche tutto ciò che si ritiene ormai acquisito. Un primo passo in tal senso
viene dalla teoria del caos. A dispetto del suo nome, questa teoria non
dichiara che il mondo non sia mai uscito da una condizione di disordine e non
ci siano leggi che ne regolano il funzionamento. Le leggi ci sono, codificate
come sempre nella fisica moderna da equazioni matematiche, ma le equazioni sono
altamente non-lineari. Per esse, cioè, non vale la condizione seguente (tipica
delle equazioni lineari): a variazioni minime nell’input (diciamo, nell’istante
di tempo considerato) corrispondono variazioni minime nell’output (diciamo,
nella posizione spaziale di un certo corpo; quindi in istanti molto vicini fra
loro il corpo sarà in posizioni molto vicine fra loro). In un’equazione
non-lineare, una variazione impercettibile nell’input può causare conseguenze
catastrofiche nell’output, secondo la metafora suggerita dal famoso
effetto-farfalla: il battito d’ali di una farfalla in un punto della Terra può
causare, dopo un certo numero di passi, un uragano di spaventose dimensioni in
un altro punto. Nel linguaggio tecnico della filosofia, la teoria del caos non
cambia la sostanza metafisica dell’universo, e infatti il caos che essa evoca è
descritto come deterministico, fedele alla posizione tradizionale (per quanto
oggi un po’ in crisi) secondo cui il passato determina necessariamente il
futuro. Sconvolge però l’epistemologia del nostro rapporto cognitivo con il
mondo. In ogni situazione in cui ci troviamo, sapremo solo in misura
approssimativa come stanno le cose: i nostri strumenti di osservazione e di
controllo hanno una portata limitata e, se per caso non l’avessero, perderemmo
la testa davanti alla quantità infinita di dati (perlopiù irrilevanti) che ci
fornirebbero (un po’ come la perdiamo davanti all’incontrollabile quantità di
dati fornita da Internet). Il che non creerebbe problemi se una conoscenza
approssimativa delle cause ci desse una conoscenza approssimativa degli
effetti: se potessimo stabilire grosso modo che cosa seguirà da che cos’altro.
L’effetto-farfalla ci costringe ad accantonare questa ipotesi favorevole:
informazioni che al momento sono sotto la soglia osservabile dai nostri
strumenti o che, se osservabili, rimarrebbero alla stregua di un fastidioso
rumore di fondo, potrebbero in seguito acquisire un peso decisivo e confutare
drasticamente ogni nostra previsione – trasformarla in qualcosa che non è vero
approssimativamente, o fino a un certo punto, ma non è vero per nulla. In un
caos del genere, il fatto che esistano leggi (cioè equazioni matematiche che ne
descrivano il comportamento) o che le conosciamo ha scarso peso ai fini della
nostra capacità di adattarci al mondo. Le equazioni non-lineari, in generale,
non sono solubili con i metodi dell’analisi matematica; il meglio che si possa
fare, in generale, è simularle a un computer e osservarne il percorso –
senza peraltro mai sfuggire al problema che ho indicato: la nostra simulazione
sarà efficace nella misura in cui avremo dato i valori «giusti» ai parametri
significativi, ma spesso basterà un’alterazione infinitesima in uno di questi
valori per cambiare radicalmente la situazione. Che cosa ci converrà fare
allora? Le equazioni non-lineari attraversano fasi anche estese di linearità;
nel caos esistono nicchie anche cospicue di cosmo. In tali nicchie il futuro
somiglia al passato e, per chi ci vive, le previsioni degli esperti risultano
accurate e le loro istruzioni valide. Sarebbe una pessima idea, però,
estrapolare da un’accuratezza e validità locali una loro variante universale,
perché le cose possono cambiare enormemente e molto in fretta. È preferibile
procurarsi una polizza di assicurazione: rispettare previsioni e istruzioni
finché dànno buona prova di sé, ma continuare anche incessantemente a
sperimentare concezioni alternative del mondo e modalità alternative di azione.
Vale a dire: conviene incoraggiare la trasgressione dell’autorità
(intellettuale e operativa) costituita, l’esplorazione fine a sé stessa e il
rischio che vi si accompagna – perché il gioco, secondo il detto popolare, vale
la candela. E, siccome (già vi accennavo e ci ritornerò) non si può
improvvisare un atteggiamento trasgressivo da un momento all’altro, dopo aver
seguitato per anni a genuflettersi deferenti verso «chi ne sa più di noi»,
conviene (alla natura e anche a noi, in quanto capiamo che in questo caso è
meglio non ostacolarla) lasciare i cuccioli umani liberi di godersi il loro
gioco, precisamente nel senso delineato nel capitolo precedente. Fin qui la
teoria del caos, ma c’è di più. C’è la teoria della complessità, dove (in una
lettura, lo ammetto, un po’ radicale, che peraltro si accorda bene a mio parere
con importanti conclusioni kantiane) la sfida alla visione tradizionale è di
carattere metafisico, dove anzi si mette in discussione il concetto stesso di
metafisica. La conclusione raggiunta dalla teoria del caos è che il mondo sia
troppo complesso perché noi possiamo conoscerlo in modo certo ed esauriente, e
questa tesi (epistemologica) continua a essere vera nel nuovo scenario, ma come
conseguenza di una tesi assai più forte, in base alla quale non esiste «il
mondo», inteso come ente unico e onnicomprensivo, dotato di una sua propria
struttura, indipendente dal fatto che lo si conosca o meno. Esiste invece un
numero indefinito di descrizioni diverse, formulate in vocabolari fra loro
incommensurabili; quindi prima di poter accedere a domande su che cosa ci sia e
che natura abbia occorre scegliere un vocabolario e così determinare un
particolare ambito descrittivo, nel quale sarà possibile fornire una risposta a
quelle domande. Non si può dire come stiano le cose, insomma (ed eventualmente
fino a che punto siamo in grado di conoscerle), finché non si sia deciso
in che linguaggio dirlo. (E parole come «scegliere» e «deciso» vanno prese alla
lettera: la selezione di un linguaggio non è un evento a sua volta determinato;
è invece condizione necessaria perché possa darsi, nel suo ambito, una
qualsiasi determinazione.) Vediamo di capirci con un esempio. Davanti ai nostri
occhi allibiti si svolge una seduta del Senato italiano, con il solito contorno
di urla, parolacce, insulti e spintoni. Questa, verrebbe da dire, è la realtà
oggettiva, e non c’è che da diventarne consapevoli. Si potrà provare a
spiegarla, ma prima di lanciarsi in una siffatta operazione bisogna appurare
che cosa sia effettivamente successo – e debba essere spiegato. E su questo non
ci sono dubbi. Davvero? Certo per me è naturale, essendo io un essere umano,
leggere la situazione in termini di esseri come me e di oggetti di media
grandezza (scranni, sedie, microfoni) come quelli con cui sono abituato ad aver
a che fare. Ma la stessa identica scena potrebbe essere descritta in un
linguaggio, per esempio, di particelle elementari, e in quel linguaggio la
frase «X ha dato una bastonata a Y» (memore in ciò dell’infelice destino di
Tiberio Gracco, in un altro Senato di epoche remote ma di clima analogo) non
avrebbe corso: non potrebbe essere né direttamente formulata né tradotta in
un’altra frase di uso corrente (o insieme di tali frasi). Oppure, invece di
spostarci dalla media grandezza a uno sguardo microscopico, potremmo andare in
direzione inversa ed esprimere in un linguaggio ideale e astratto la nostra
accorata testimonianza di quanto sia caduta in basso la civiltà occidentale e
di come atti di ingiustizia, violenza e volgarità siano conseguenze inevitabili
di una perdita dei valori di riferimento, e in questo linguaggio non ci
sarebbero bastoni e nemmeno particolari individui ma solo, appunto, valori e
princìpi, contraddizioni logiche e (forse) loro risoluzioni dialettiche. Oppure
potremmo muoverci lateralmente, per così dire, e, rimanendo sempre al livello
degli oggetti di media grandezza, vedere la scena con gli occhi non di un
giornalista affascinato dai pettegolezzi della politica ma di un usciere che
appena il baccano sarà finito e gli onorevoli si saranno allontanati dovrà
pulire l’aula. (E si noti come l’ultima possibilità citata permetta di affinare
e approfondire quel che ho detto in precedenza: che io sia un essere umano
potrà influire in parte su come mi viene «naturale» leggere una situazione, ma
molto dipenderà anche, al riguardo, da che tipo di essere umano sono – fra
l’altro, da qual è la mia occupazione.) Secondo la teoria della complessità,
vale per molti dei linguaggi in cui «la stessa» situazione può essere descritta
che nessuno di essi sia riducibile a un altro: ciascuno rappresenta un punto di
vista autosufficiente che costituisce la sua realtà, e non c’è una realtà
neutrale e autonoma, «sottostante» a queste diverse costituzioni. Un
particolare linguaggio potrà essere o non essere deterministico, nel suo ambito
descrittivo il futuro potrà somigliare o non somigliare al passato; ma anche
chi avesse un controllo assoluto di un linguaggio deterministico e potesse
formulare in esso previsioni del tutto certe rimarrebbe in presenza di
un’infinita, irrimediabile apertura a linguaggi diversi e dovrebbe operare una
scelta fra tali linguaggi, sia pure implicitamente o inconsciamente, prima di
poter emettere qualsiasi frase dotata di senso. Una delle difficoltà più ardue
con cui si è costantemente confrontata l’intelligenza artificiale è il
cosiddetto frame problem: il problema della cornice. Un computer è uno
strumento di prodigiosa efficienza una volta che gli sia stato assegnato un
compito preciso: sa ricordare, calcolare e combinare dati a velocità e con
rigore sovrumani. Perché ciò accada, però, deve prima ricevere questi dati;
qualcuno glieli deve dare. Qualcuno, cioè, deve configurare per lui il compito
da eseguire e assegnarglielo: incorniciare un quadro ben definito della
situazione e chiedergli un intervento specifico entro quella cornice, alle
condizioni che essa pone. Sono esseri umani quelli che provvedono alle cornici
dei computer, e gli esseri umani non hanno bisogno che altri lo facciano per
loro: ovunque si trovino, sono in grado di decidere da soli quale sia il
compito prima di tentare di eseguirlo – e magari poi lo eseguiranno con
prontezza inferiore a un computer, ma è proprio per questo che sono stati gli
esseri umani a inventare dei computer che li assistessero e non viceversa. Che
cosa fa la differenza fra gli uni e gli altri? Una volta inquadrato, un
problema sarà risolto applicando istruzioni valide in quel quadro; ma non
possono esserci istruzioni su quali siano le istruzioni da applicare prima che
il problema sia inquadrato, perché ciò presupporrebbe che l’inquadramento fosse
già avvenuto; quindi un approccio che si serva solo di istruzioni (come è stato
finora quello disponibile a un computer) non può avere successo. Posto di
fronte a un quesito analogo, Kant invocava il giudizio, che, in contrasto con
le istruzioni, non può essere imparato a memoria e poi eseguito meccanicamente
ma solo essere stimolato e perfezionato mediante l’esercizio e l’esempio. Il
quesito però rimane: esercizio di quale pratica? esempio di quale
comportamento? La mia riformulazione del quesito ci riporta al tema principale
della nostra discussione. Quel che un essere umano impara (e a tutt’oggi un
computer non ha imparato) a fare è selezionare un punto di vista appropriato
dal quale vedere le sue circostanze, e nessuna selezione può avvenire nel
vuoto. L’esercizio che è opportuno per acquisire questa capacità deve
dunque consistere nel mettere in gioco i punti di vista più svariati e
adattarli alle circostanze, finché uno fra essi ci sembri (a torto o a ragione)
il più appropriato e facendolo nostro (almeno temporaneamente) noi procediamo a
interagire con le circostanze in quell’ottica, applicando le istruzioni, o
regole, che l’ottica determina (con modalità che studieremo nel prossimo
capitolo). L’esempio che può aiutarci in proposito avrà a che fare con altre
persone che fanno la stessa cosa. E la «cosa» di cui stiamo parlando ha un
nome, che non a caso ho già usato: gioco. Senza la continua, piacevole
trasgressione di abitudini e aspettative che abbiamo identificato con il gioco,
rimarremmo bloccati in un’unica prospettiva e forse qualcuno (dall’esterno)
dovrebbe premere un nostro tasto per farci scattare in una prospettiva diversa.
Violando l’uso appropriato di tutto ciò che ha intorno, il bambino sta
addestrandosi a sviluppare un suo senso di appropriatezza che gli permetta di
inquadrare un compito senza che altri lo facciano per lui. E, se volessimo
davvero che un computer acquistasse la stessa capacità, dovremmo avere il
coraggio di lasciar giocare anche lui – come suggerivo anni fa, un po’
preoccupato delle conseguenze del mio stesso suggerimento, in Giocare per
forza. Riassumendo, l’itinerario che stiamo percorrendo nel continente gioco ci
aveva posto davanti a un ostacolo: sembrava irragionevole che i nostri istinti
privilegiassero un’attività che avrà sì valore educativo ma comporta gravi
rischi. L’ostacolo è stato affrontato e superato, chiarendo che non ci sono
alternative plausibili al correre rischi di questo tipo. Indipendentemente dal
fatto che ogni ricetta di vita elaborata in passato potrebbe rivelarsi
sbagliata, è comunque vero che le ricette che fossero al momento «giuste» sono
state elaborate sulla base delle regolarità riscontrate finora e saranno prima
o poi contraddette dalla natura caotica del mondo; quindi è bene adottare un
atteggiamento sperimentale ed esplorativo che allarghi l’ambito delle nostre
possibilità di concezione e di azione ben al di là di quanto è utile adesso –
perché non possiamo sapere che cosa sarà utile in futuro, quando la nostra
nicchia diventerà inospitale. Inoltre, questo stesso sperimentare ed esplorare
è indispensabile se vogliamo essere più che semplici esecutori di compiti: se
vogliamo determinare quali siano i compiti da eseguire. C’è qualcosa di
eccessivo nel gioco; esso sembra richiedere qualcosa (o molto) di più del
necessario (ricordiamo la segnalazione da parte di Caillois del suo «sovrappiù»).
Stiamo cominciando a capire, però, che per ottenere il necessario si deve
spesso scommettere sull’eccessivo, su ciò che al momento non conta, che
al momento è solo possibile. 4. Regole Avendo così tutelato la natura
provvidenziale della sua attività, torniamo alla bimba che gioca e portiamone
alla luce un aspetto che era rimasto in ombra. Per quanto trasgressivo ed
esplorativo, impertinente e creativo, il gioco ha dei limiti. La bimba può
percorrere la stanza in lungo e in largo, ma si scontrerà infine con le pareti;
può rigirare per ogni verso gli oggetti disponibili e combinarli nei modi più
inaspettati, ma dovrà piegarsi al fatto che questi oggetti hanno una certa
forma, sono composti di un certo materiale, hanno un certo peso e certe
dimensioni, una superficie ruvida o levigata, sono rossi piuttosto che neri,
sonori piuttosto che ottusi, luccicanti piuttosto che opachi. E lo stesso
varrebbe per qualsiasi altra situazione e in qualsiasi altro ambiente: ci
sarebbero sempre dei parametri che determinano l’impossibilità di certe mosse e
l’irraggiungibilità di certi obiettivi. Quando gioca, la bimba può fare molto,
e molto di sorprendente, ma non può fare tutto. Per dirla altrimenti, la mia
descrizione del gioco ne ha sottolineato la tendenza a ribellarsi a ogni fonte
di autorità, sia essa la tradizione, il buonsenso, gli espliciti comandi o
divieti di un «superiore» o la soggezione che proviamo nei confronti di quanto
è utile o opportuno – e ci costringe a comportarci in un modo specifico per
conseguirlo. In contrasto con ogni attività asservita e deferente (a una
persona, a un compito, a un ruolo, a uno scopo esterno), il gioco si presenta
come spontaneo: pronto a seguire idiosincrasie e ghiribizzi, a cambiare
direzione, a ricominciare da capo senza sentirsi vincolati a quel che si è già
realizzato o raggiunto, per nessun altro motivo che il puro piacere di giocare.
Ha insomma tratti che normalmente associamo alla libertà, e Huizinga è
d’accordo: «Ogni gioco è anzitutto e soprattutto un atto libero. Il gioco
comandato non è più gioco» (p. 26). Da qui a trovare nella libertà, quindi nel
gioco, l’essenza della nostra umanità e a lanciarsi in un peana celebrativo di
una specie biologica che sacrifica il proprio tornaconto alla pratica del
superfluo, del gratuito, dell’errabondo il passo sarebbe breve; ma non cederò
(per ora) a questa tentazione. Mi chiederò invece che cosa si debba intendere
per libertà e risponderò che di solito non s’intende un’infinita capacità
di arrivare dappertutto e ottenere qualsiasi risultato bensì la capacità di
operare una scelta entro un ambito più o meno ristretto di opzioni. La libertà
che noi conosciamo non è una condizione assoluta, sciolta cioè da ogni legame,
da ogni relazione; è sempre e solo un determinato grado di libertà, come quello
che mi è consentito dai miei arti, che certo mi dànno una notevole libertà di
movimento ma non mi rendono possibile ogni movimento. Nel primo capitolo ho
mostrato quanto ambigua appaia la parola «gioco» e mi sono proposto di
riscattare questa (apparente) ambiguità: di raccontare una storia in cui i suoi
vari significati siano connessi, nascano l’uno dall’altro per motivi
comprensibili. In lingue diverse dall’italiano l’ambiguità sembra ancora
maggiore: parole come «play», «spielen» e «jouer» possono anche significare che
si recita o si suona uno strumento – e anche questi significati dovranno essere
catturati dalla mia storia. Qui però voglio notare un’altra vicissitudine
semantica del gioco (Huizinga ci informa che essa «è comune al francese, all’italiano,
allo spagnolo, all’inglese, al tedesco, all’olandese e [...] al giapponese», p.
66), illustrativa della tesi che sto articolando adesso. Chiamiamo «gioco»,
infatti (o «play», o «Spielraum», o «jeu»), lo spazio libero che (per esempio)
una vite ha nel suo foro filettato, quando non aderisce a perfezione, quando
«balla». È anche in questo senso che la bimba gioca: le pareti, il pavimento e
i vari oggetti che vi giacciono sopra le permettono un certo gioco, un certo
(limitato) spazio di discrezione, che lei occupa ballandovi, riempiendolo con
le sue piroette e i suoi salti. Ed è questo il ruolo principale, ritengo, che
il gioco ha nella nostra vita, il fondamento ultimo di ogni suo contributo alla
nostra sopravvivenza e al nostro benessere. Quella che ho appena enunciato
è una tesi controversa e audace, una sfida a inoltrarsi per un ispido percorso
nel labirinto e una promessa che per tale via procederemo più spediti verso il
traguardo. Devo dunque giustificare la tesi, convincere i miei compagni di avventura
ad accettare la sfida. Per farlo, torniamo al valore adattativo del gioco. In
primo luogo, ho detto, esso funge da polizza di assicurazione: esplora
comportamenti alternativi cui rivolgersi quando le equazioni non-lineari che
controllano il mondo dovessero impazzire; risponde al caos esterno dando luogo
a un microcaos privato, cercando di anticipare le prossime sorprese che
l’ambiente ci offrirà con mosse a loro volta imprevedibili e destabilizzanti.
In secondo luogo, ci educa a slittare costantemente da una prospettiva
all’altra, a non rimanere inchiodati a un singolo modo di percepire la nostra
situazione, a «incorniciarla» dagli angoli più diversi, perché questo
slittamento diventi a sua volta un’abitudine e ci aiuti a scegliere in ogni occasione
la cornice adeguata in cui inquadrare i nostri problemi e le nostre esigenze.
Entrambe le funzioni implicano una medesima conseguenza: il gioco deve avere un
oggetto, ci deve essere qualcosa con cui si gioca, quindi qualcosa che
inevitabilmente offre resistenza al gioco. I comportamenti alternativi cui mi
rivolgerò quando quelli attuali facessero cilecca devono trovar posto in un
qualche ambiente specifico: per folle che sia diventato il mondo, devo comunque
sperare che ci sia ancora intorno a me un mondo oppure non varrebbe la pena di
indulgere in nessun comportamento. Lo stesso vale per le mutazioni
prospettiche: una prospettiva è sempre di, o su, qualcosa; una cornice
racchiude sempre un quadro. Il gioco dunque potrà (e dovrà) essere sovversivo
ma non uniformemente distruttivo; la libertà che in esso si esprime ci porterà
a varcare la soglia di quanto finora era stato considerato lecito o vantaggioso
ma non ad annullare la legittimità di ogni soglia e di ogni limite e ad
azzerare ogni possibile struttura in un’esplosione universale e universalmente
catartica. Al di là della soglia che varchiamo ne troveremo un’altra, che
definirà la nostra azione ludica; fatta a pezzi una struttura ne appronteremo
un’altra, che darà alla nostra azione concretezza e sostanza. La sostanza e la
concretezza di un sogno, forse; ma non del nulla. A rendere difficile lo studio
e la valutazione della nostra forma di vita è soprattutto il suo mantenersi in
precario equilibrio tra fattori e istanze contrastanti, il cui peso opposto va
tenuto in debito conto, evitando facili ma deleterie riduzioni a uno dei piatti
della bilancia. Questa considerazione cade a proposito con il termine che
stiamo esaminando, nella fase in cui siamo dell’esame: che il gioco
trasgredisca le aspettative è vero ma non va portato all’estremo, dando luogo a
una retorica della trasgressione in quanto tale, aprendo la strada a una
trasgressione così generalizzata e globale che alla fine non le rimanga più
niente da trasgredire. Sapete bene di che cosa sto parlando: di quegli
intellettuali (o artisti, o politici rivoluzionari) che il film C’eravamo tanto
amati rappresentava con sapiente ironia nel personaggio interpretato da Stefano
Satta Flores, sempre «oltre», sempre terrorizzato dall’eventualità di poter
andare d’accordo con qualcuno e infine schiacciato nella più banale e
televisiva delle ossessioni. Non è strano che questa retorica copra spesso
atteggiamenti conservatori, quando non biecamente reazionari: se la nostra
trasgressione equivale semplicemente a far saltare in aria tutte le polveriere,
allora nel vuoto che avremo creato (e sotto la protezione del fumo con
cui avremo oscurato la vista) si rifaranno avanti per inerzia le solite mosse e
i soliti valori. Negarli è un momento essenziale della costruzione di
un’alternativa, ma non può essere l’unico momento perché una negazione, in sé e
per sé, non costruisce nulla; e se nessuna nuova costruzione è disponibile ci
adatteremo, magari a malincuore (e con la coscienza un po’ sporca), nelle
baracche cui siamo abituati, per quanto danneggiate siano dalla nostra azione
trasgressiva. L’umile gioco della vite ci offre un antidoto a tanto mal riposto
entusiasmo. Ci invita a non trasformare il gioco in una condotta esorbitante,
cioè ex orbe, fuori dall’orbe terracqueo; ci ricorda che il gioco avviene
sempre in un contesto, ha sempre un orizzonte (vale per l’orizzonte, come per
la soglia, che varcatone uno se ne troverà un altro) e consiste nel modulare le
nostre reazioni al contesto, nel navigarne con perizia le correnti, nel
manipolare con gesti insospettati e inauditi quanto popola il contesto senza
però rifiutarlo in blocco, senza chiudere gli occhi davanti alla sua specifica
consistenza, alle sue particolari proprietà, che possono essere manipolate in
certi modi ma non in altri. È gioco (come quello della vite) approfittare del
grado di libertà che mi è lasciato dai miei impegni di lavoro per imparare il
russo o andare in palestra; non sarebbe gioco bruciare la casa e tutti i miei
averi e allontanarmi senza meta nella notte. Ci sono circostanze in cui può
essere giusta una scelta così radicale, ma solo come premessa per un gioco
ancora da inventare, in un ambiente ancora da scoprire, non come essenza di un
gioco già in atto. Chi risulterà convinto da queste mie argomentazioni sarà ora
disposto a seguirmi per la via che ho intrapreso e avrà nel contempo imparato,
vedendola all’opera in un caso paradigmatico, un’importante lezione: quanta
pazienza occorra per evitare prevaricazioni e assurde semplificazioni, quanta
saggezza sia necessario conservare nel mezzo delle pratiche più dissacratorie.
Incontreremo altri esempi con la stessa morale; per ora riaffermiamo la
conclusione raggiunta con una variazione sulla metafora dell’orizzonte. Il
gioco è sempre parzialmente trasgressivo; ci sono sempre per esso una figura
che il gioco mette in discussione e uno sfondo che rimane fuori portata. E si
badi che questa è una metafora, quindi lo sfondo può benissimo far parte della
figura quando «figura» sia presa in senso letterale (e viceversa). Per la bimba
che gioca (in un certo modo) con la spillatrice, il normale uso di tale
strumento fa parte della figura che viene contestata, ma la sua forma e
solidità fanno parte dello sfondo – oppure, tornando alla metafora precedente,
fanno parte del foro filettato nel quale balla la vite. A riprova della
pazienza che ho definito indispensabile, quest’ultimo sommario del risultato
acquisito ha già bisogno di una correzione, o almeno di una precisazione contro
possibili malintesi. Potrebbe sembrare infatti che la forma e la solidità della
spillatrice, o di qualunque altro elemento appartenga allo sfondo, vi
appartengano in senso oggettivo, siano presupposti del gioco della bimba
indipendentemente da come lei agisca; e questa apparenza è errata. Ma, come con
molti errori, discuterlo ci aiuterà a capire meglio l’intera faccenda. I
bambini non sono soltanto simpatici e allegri scavezzacollo, non passano tutto
il loro tempo giocando con fantasia e con profitto. Talvolta fanno i capricci,
urlano e strepitano, si divincolano e picchiano i pugni per terra, o su quello
che fino a un istante prima era l’oggetto del loro gioco. Quando si abbandonano
a simili sfoghi, spesso il motivo è che l’oggetto si rivela un ostacolo ai loro
piani, sordo alle loro richieste, impermeabile alle loro sollecitazioni. Il
cubo non vuole saperne di rotolare come una palla; la palla continua a
scivolare giù dal cubo sul quale si vuole che stia ferma, e neanche il cubo
riesce a stare sopra la palla. Allora il bambino, frustrato e irritato,
afferrerà cubo e palla e li getterà contro il muro, e manifesterà una
disperazione tanto insanabile quanto, per fortuna, solitamente di breve durata.
Non sta a me dire quanto durano in media i capricci di un bambino o come
risolverli il più in fretta possibile; non sono uno psicologo, dell’età dello
sviluppo o di altra età. So però come descrivere e spiegare quel che accade,
nella migliore delle ipotesi, quando i capricci si siano risolti; so fornire
un’impalcatura concettuale per comprenderlo e servirmene per articolare
ulteriormente l’impalcatura concettuale del gioco. Il bambino può perdere
interesse per un oggetto così recalcitrante, così poco collaborativo, e
rivolgere la sua attenzione altrove. Può farsi distrarre e consolare dalla
mamma. Ma può anche – e questa è per noi la migliore delle ipotesi, quella che
ci aiuta a proseguire nel nostro cammino – accettare quanto nell’oggetto si è
mostrato recalcitrante: accettare che l’oggetto non possa essere contestato in
quel modo, a quel livello. Un cubo può passare per mille peripezie, entrare in
mille storie, ma non rotola; ed è necessario prenderne atto se si vuole davvero
farci qualcosa – qualcosa di diverso dal gettarlo contro il muro. Quando il
bambino ne ha preso atto, questa proprietà del cubo recede sullo sfondo, ma ciò
non vuol dire che perda importanza. Tutt’altro: ognuna delle figure che il
gioco costruisce e sostituisce a quella originaria, a quella che viene violata
e trasgredita, è un elemento variabile del gioco, può esserci o non esserci, comparire
o sparire, senza che il gioco cambi, perché esso consiste proprio nel
generare figure così variabili. Lo sfondo, al contrario, definisce il gioco: ne
detta le condizioni. Accompagneremo il cubo per mille peripezie compatibili con
il fatto che non rotola. Chi pensasse che il cubo rotoli starebbe giocando
(senza troppo successo, presumo) un altro gioco. Appropriata soggettivamente
dal bambino, la resistenza esercitata da un oggetto diventa interna al gioco:
ne diventa una regola. «L’attributo essenziale nel gioco», dichiara Lev
Vygotskij in Il processo cognitivo, «è una regola che è diventata un desiderio»
(p. 146), e continua: è una regola interna, una regola di autorepressione e
autodeterminazione, come dice Piaget, e non una regola a cui il bambino
obbedisce come a una legge fisica. In breve, il gioco dà al bambino una nuova
forma di desideri. Gli insegna a desiderare mettendo in relazione i suoi
desideri con un «Io» fittizio, con il suo ruolo nel gioco e con le regole di
questo. Inoltre per Vygotskij, a differenza che per Jean Piaget, «si potrebbe
[...] proporre che non esiste gioco senza regole» (p. 138), e Huizinga è
d’accordo: «L’essenza del gioco [...] sta nel rispetto alle regole» (p. 86). Da
un po’ di tempo nel nostro paese si parla una strana lingua, soprattutto in
ambienti giovanili, aziendali e in generale «al passo» con la cultura popolare
più avanzata. A un italiano rozzo e approssimativo si mescolano termini
inglesi, insieme con strafalcioni che vorrebbero essere termini inglesi ma invece
non hanno corso (o senso) in nessuna lingua. Chi parli questo gergo (o se
preferite lingo) non sarà rimasto particolarmente colpito dal mio giustapporre,
nel primo capitolo, il gioco della bimba e il gioco del calcio; si tratta
chiaramente, avrà pensato, della differenza tra play e game, quindi non c’è
motivo di perplessità. Sarebbe facile obiettare che le due parole, in inglese,
sono assai più intimamente legate di quanto questa semplice distinzione faccia
supporre: che si dice «to play a game», i partecipanti a un game si dicono
players e l’italiano «giocoso» si può tradurre altrettanto bene con «playful» e
«gamesome». Io qui intendo, però, fare un altro discorso, che riprende la
chiusa di quello stesso primo capitolo: rilevare l’importanza della strategia
intellettuale sottesa alla distinzione e chiarire che, per motivi altrettanto
importanti, me ne dissocio. Ho detto che la logica aristotelica è analitica
perché fondata sull’analisi, sulla divisione; e ho aggiunto che adotterò invece
una logica dialettica, hegeliana. Aggiungo ora che le due logiche nascono da
due diversi atteggiamenti nei confronti della contraddizione, dell’incoerenza.
Nella logica analitica, la contraddizione è il più terribile spauracchio e,
ogniqualvolta se ne profili la minaccia, il rimedio universale è appunto il
divide et impera: il significato che sembrava contraddittorio consta in realtà
di due (o più) significati distinti, che sarebbe meglio, per evitare
confusioni, etichettare con due distinte parole – se è il caso, con termini
tecnici introdotti all’uopo. Non c’è vera contraddizione, per esempio, fra
l’educazione intesa come formazione di una personalità e come passaggio di
contenuti nozionistici (che non forma nessuno): è che la stessa parola è usata
in sensi diversi, quindi sarebbe meglio usare parole diverse, diciamo
«educazione» e «istruzione». La logica dialettica, invece, si nutre di
contraddizioni come se ne nutre una storia e, in generale, ogni struttura
vitale: è affrontando e superando il contrasto radicale fra il suo desiderio
d’indipendenza emotiva da un lato e quello di stabilire un legame affettivo
dall’altro che un adolescente arriva a ridefinirsi non più come membro della
sua famiglia di origine ma come partecipe della fondazione di una nuova
famiglia; e in questa ridefinizione i due elementi del contrasto che lo
lacerava non sono dimenticati – sono anzi la sostanza stessa della nuova fase
del suo sviluppo, che è ora quella di una persona tanto indipendente quanto
emotivamente legata. È bene per me reiterare qui la mia scelta logica di fondo
e specificarla meglio perché siamo arrivati a un punto nodale del nostro
percorso, in cui si apre chiaramente un bivio fra le due strategie. Tutto quel
che ho detto finora del gioco della bimba, del suo significato adattativo, dei
rischi che comporta e dell’opportunità di correre tali rischi può essere
considerato appartenente a un singolo significato (analiticamente inteso) della
parola «gioco». Un significato complesso e intricato, da svolgere con cura, ma
ciò nonostante un unico significato perché non infetto da alcuna
contraddizione. Ora però ci troviamo di fronte al fatto, apparentemente
innegabile, che il gioco del calcio è identificato da un insieme di regole e il
gioco della bimba no; quindi, da un punto di vista analitico, deve trattarsi di
«giochi» distinti. In questo spirito Caillois, per fare solo un esempio (ne
farò un altro più avanti), divide i giochi in categorie contrapposte,
affermando: «I giochi [...] non sono regolati e fittizi. Sono piuttosto o
regolati o fittizi» (p. 25). E poi precisa: «[la] classificazione proposta
[...] [che distingue giochi di competizione, di fortuna, di travestimento e di
vertigine] non avrebbe alcuna validità se non si vedesse con evidenza che le
suddivisioni che essa stabilisce corrispondono a degli impulsi essenziali e
irriducibili» (p. 30; corsivo aggiunto). Il lavoro svolto in questo capitolo mi
consente, nello spirito della logica dialettica, di gestire la contraddizione
in altro modo, perché mi consente di riconcettualizzare alcuni aspetti della
situazione della bimba come regole del suo gioco e di stabilire così la
parentela fra i due tipi di gioco, che in questa luce sarebbero meglio detti
due fasi del gioco – di un gioco che, nella sua evoluzione da una fase
all’altra, rimane sempre uguale a sé stesso. Ridefinizioni come quella che
incontriamo qui sono possibili solo a uno sguardo retrospettivo. Se le nostre
osservazioni e i nostri dati fossero limitati al gioco della bimba, sarebbe
peregrino parlare del fatto che la bimba rinuncia a far rotolare il cubo come
della sua assunzione di una regola. Per dirne una, questa è una «regola» che
nessuno ha formulato e di cui addirittura forse nessuno è cosciente. Ma dal
successivo punto di vista di giochi come il calcio, le cui regole sono sancite
da istituzioni ufficiali e applicate (si spera) alla lettera da tutti i
praticanti, è possibile cogliere l’analogia con quella primitiva forma di
adeguamento: vederla come il germe che sarebbe poi fiorito in regole
precisamente codificate e trasmesse, come una manifestazione ancora implicita
di una caratteristica che si sarebbe successivamente fatta largo con evidenza.
Tale è appunto la logica della vita. Il senso dell’essere un bambino subito
quietato da una ninna nanna, o affascinato da oggetti di forma semplice e pura,
si coglierà solo quando l’adulto che quel bambino sarà diventato si rivelerà un
critico musicale o un geometra di prima grandezza; solo allora sarà possibile
raccontare la storia che è quel senso. Così, almeno, si procede nella logica
dialettica che ho adottato; in logica analitica, si potrebbero solo smembrare
le situazioni ed esperienze infantili e definirle in base ad alcuni tratti
(essenziali) che risultassero dallo smembramento, e andrebbero nettamente
distinti dai tratti che definirebbero le situazioni ed esperienze dell’adulto.
Nel caso specifico del gioco, come già accennavo, Piaget nega che quelle del
bambino molto piccolo siano regole, e dichiara (aprendo un tema sul quale dovrò
ritornare): prima del gioco in comune non potrebbero esistere delle regole vere
e proprie: esistono già delle regolarità e degli schemi ritualizzati, ma simili
rituali, essendo l’opera di un individuo solo, non possono comportare quella
sottomissione a qualcosa di superiore all’io, sottomissione che caratterizza
l’apparire di ogni vera regola (Il giudizio morale nel bambino, pp. 29-30).
Vygotskij, invece, scopre le sue carte hegeliane (e quelle della sua fonte)
quando, nella stessa pagina in cui esprime il suo disaccordo con Piaget, cita
il detto di Marx secondo cui «l’anatomia dell’uomo è la chiave dell’anatomia
della scimmia» (p. 138). Decenni più tardi, e senza citare nessuno, Steve Jobs
avrebbe affermato che si può ricostruire il senso della propria vita – in
inglese, connect its dots – solo per il passato, non per il futuro. Ecco allora
come la ridefinizione del gioco della bimba si estende alle prossime fasi del
nostro itinerario: Se è vero che il gioco è trasgressivo, è anche vero però che
la sua trasgressione ha luogo in un ambito che non viene a sua volta
trasgredito. Questo ambito dà al gioco condizioni, cioè regole, precise e ne
definisce l’identità – determina che gioco sia: il gioco condotto a quelle
regole. Nell’ambito delle sue regole, un gioco rimarrà tale in quanto è
trasgressivo e anche esplorativo, piacevole e rischioso; ma, più complesse e
articolate sono le sue regole, più complesse e articolate dovranno essere la
sua trasgressione, esplorazione eccetera. Un buon giocatore di scacchi
conoscerà bene le regole e avrà studiato molte partite dei grandi maestri del
passato, ma sarà un buon giocatore non perché ricorda e saprebbe ripetere
fedelmente le une e le altre quanto piuttosto perché, sapendo tutto quel che
sa, è in grado di sorprendere il suo avversario con una variante inedita o un
misterioso sacrificio – anzi, tanto più sarà bravo quanto più saprà sorprendere
un avversario che abbia conoscenze pari alle sue, magari usando le conoscenze
stesse per elaborare tattiche ancora più originali e sorprese ancora più
intense. Nelle parole di Caillois: «Il gioco consiste nella necessità di
trovare, d’inventare immediatamente una risposta che è libera nei limiti delle
regole» (p. 24). Tutto bene, sembra. O forse no. L’unificazione dialettica che
abbiamo così realizzato fra giocare con palle e cubi e giocare a calcio o a
scacchi reagisce ora in modo inquietante con la giustificazione provvidenziale
che avevo dato del gioco. È straordinariamente utile, dicevo, per un cucciolo
umano imparare giocando a controllare il suo corpo e i suoi movimenti, a riconoscere
e manipolare oggetti nello spazio, a dialogare ed empatizzare con i suoi
simili. Quando però questi straordinari progressi siano già stati effettuati,
qual è il senso e il valore del correre dietro un pallone o dello scervellarsi
su un’apertura di cavallo? Se il mondo è caotico, sarà una buona idea
esercitarsi ad abitare scenari diversi da quello attuale; ma che idea è
concentrarsi su attività come quelle appena citate? Ci aspettiamo che il mondo
diventi un giorno un gigantesco stadio o una gigantesca scacchiera? O abbiamo
invece a che fare, in questi casi, con delle forme di tic, di dipendenza: con
circostanze in cui quel che una volta dava piacere per ottimi motivi adesso
continua a dare piacere senza nessun motivo, e noi non sappiamo farne a meno?
5. Microcosmi Che un’attività o un’inclinazione originariamente proficue si
cristallizzino in un vano manierismo, in un’assurda coazione a ripetere è certo
possibile, e nel caso del gioco accade di frequente. In Giocare per forza,
dicevo, ho esaminato varie patologie ludiche, varie sembianze posticce in cui
si presenta qualcosa che non è più se non lo spettro del gioco, un parassita
che ne ha invaso l’area vitale soffocandone l’energia, la scoperta e il
piacere; le patologie non insorgerebbero se non si desse la perversa
possibilità che ho appena riconosciuto – se il gioco non potesse andare alla
deriva, non ci andrebbe così spesso. Per quanto ampiamente diffuso, però,
questo esito negativo non ha portata universale per il gioco condotto,
soprattutto dagli adulti, in ambienti fittizi e addomesticati come un campo di
calcio o una scacchiera. Al contrario, rimane vero in tali casi che l’esito
negativo è una perversione e che esistono modi legittimi di abitare quegli
ambienti fittizi e ottime ragioni per cui debbano essere fittizi. O forse
«fittizi» non è il termine giusto; più oltre dovremo riprendere in esame la
questione, con risultati su cui al momento converrà soprassedere. Cominciando
con la ragione più semplice, chi non gioca mai finirà per atrofizzare
completamente la sua capacità ludica così come chi non si muove mai finisce per
atrofizzare i suoi muscoli; una certa quantità di gioia trasgressiva, di
istruttiva esplorazione deve trovar posto nella nostra esistenza se non
vogliamo trasformarci in automi, morti prima del tempo pur continuando a
respirare e a metabolizzare il cibo. Se occupazioni e pratiche quotidiane non
ci lasciano molto tempo per il gioco, non avremo alternativa a trovarlo in
spazi riservati, in microcosmi di libertà entro i quali sfuggire a obblighi e
impegni. (E sarà un destino tanto più atroce e beffardo vedere questi presunti
spazi serrarci in nuove forme di schiavitù: vedere la nostra presunta libertà
arenarsi nel tetro cerimoniale di una slot machine o del «gioco» del lotto.) L’agilità
non si conquista una volta per tutte ma va mantenuta con uno sforzo costante:
in ambito fisico, con le corse e le flessioni mattutine; in ambito mentale, con
il sudoku e le parole crociate; in ambito ludico, improvvisando una discesa
da centrocampo o un arrocco – se non si dànno altre circostanze in cui ci
sia lecito improvvisare. Per addentrarci più a fondo e nelle pieghe più
complesse del problema, riprendiamo in considerazione il carattere rischioso
del gioco. È necessario tollerarlo, dicevo nel terzo capitolo, perché senza
correre rischi non potremmo sostenere il delicato equilibrio, sempre temporaneo
e sempre da rinegoziare e reinventare, richiesto da un mondo caotico e
costituzionalmente imprevedibile. Elaborare nuove strategie e comportamenti inusuali
è a sua volta una strategia preziosa se nessuna strategia sarà efficace per
sempre, e il gioco assolve questa indispensabile funzione. C’è però una strada
intermedia fra l’arrivare impreparati alla prossima catastrofe (ecologica,
finanziaria, sociale) e l’affrontare ogni catastrofe possibile prima che
diventi reale: affrontare piccole catastrofi sostitutive e rappresentative di
quelle che potrebbero capitare, giocare non direttamente nel mondo, e con il
mondo, ma ancora una volta in un microcosmo, una palestra che ci permetta di
compiere qualche avventata manovra senza correre gravi pericoli. Non proprio le
avventate manovre di cui avremmo bisogno quando si prospettasse un’autentica
catastrofe, forse; ma manovre abbastanza simili a quelle da darci una speranza
di salvezza. In altra sede ho articolato questa tesi commentando un passo del
Principe di Machiavelli; qui riassumerò in breve l’aspetto che ci riguarda. Il
principe, dice il Nostro, deve ininterrottamente addestrarsi alla guerra; ma
come può farlo quando la guerra non c’è e manca l’opportunità di farne pratica?
Risposta: in periodi di pace l’esercizio bellico del principe dovrà essere
condotto andando a caccia. Si metteranno così in azione doti che in guerra
saranno di grande utilità: la resistenza alla fatica, il compatto e
disciplinato lavoro di gruppo, la disinvoltura nel gestire varie configurazioni
del terreno. E lo si farà in modo tanto più adeguato allo scopo finale quanto
più quello scopo sarà presente al principe e ai suoi compagni: quanto più essi
non si lasceranno assorbire inerti dai meccanismi della caccia ma se ne
serviranno attivamente come di una scusa per giocare alla guerra. Immaginando
nemici appostati su una collina o nascosti nella macchia; ragionando su come
sventarne la minaccia e ridurli in proprio potere. Certo sarebbe più
realistico, quindi più efficace, inscenare una vera guerra, con vero
spargimento di sangue; numerose narrative distopiche molto popolari di questi
tempi raccontano un futuro angoscioso in cui un’umanità perduta si diletta con
simili trastulli. Chi (come me) ritenga inviolabile il rispetto per l’integrità
fisica e psicologica di ogni persona rifuggirà con orrore da
manifestazioni di tale vividezza e preferirà «accontentarsi» della lezione di
Machiavelli. Una lezione che dobbiamo generalizzare e dalla quale dobbiamo
trarre importanti conseguenze. Prepararsi alle sorprese che il futuro ci
riserba esige che abbandoniamo la serena, un po’ soporifera certezza delle
abitudini consolidate e ci mettiamo in gioco. Non necessariamente in modo
estremo, però, se arrivare all’estremo significa far violenza a noi o ad altri.
Possiamo metterci in gioco per procura, compiendo mosse che in parte somigliano
a quelle che dovremmo compiere nei momenti effettivi di crisi, e sperare che
quando tali momenti verranno ciò che abbiamo imparato, per quanto
insoddisfacente rispetto all’originale (quel che in parte somiglia è anche in
parte diverso), ci aiuti a sopravvivere e a prosperare. È questo il ruolo del
calcio e degli scacchi (oltre al loro contributo, già menzionato, nel tenere il
corpo o la mente «in forma»): chi sa sfuggire con destrezza a un marcatore
riuscirà forse a farlo davanti a un attacco ben più insidioso; chi sa
anticipare dieci mosse del suo avversario saprà forse anticipare il percorso di
una meteora o di un tornado. Poco fa ho chiamato questi «giochi per procura»;
voglio ora insistere sul termine perché è indice di un cruciale slittamento
semantico. Ogni sportivo sa quanto valgano gli allenamenti per far bene in gara
o nella partita; e sa che, per quanto preso tremendamente sul serio, un
allenamento non è mai la stessa cosa di una gara o di una partita. Troppi
fattori emotivi entrano in circolo quando si è alle prese con i cento metri di
una finale olimpica o l’ultimo incontro di un torneo: fattori che, per quante
volte si siano ripetute le mosse che si eseguiranno allora, rendono quella
situazione totalmente diversa – diversa proprio perché in essa non si può
ripetere nulla, perché è unica e irripetibile. Propongo di concepire la
grandissima maggioranza di quelli che comunemente denominiamo giochi come
allenamenti in questo senso. In certi casi noi stessi, o qualcosa o qualcuno
che conta molto per noi, siamo letteralmente in gioco; e questo è il gioco che
ci definisce, che ci qualifica come animal ludens, come l’animale che non ha
una nicchia ecologica ma, forzando costantemente i limiti della sua
adattabilità e sopportazione, ha fatto del mondo intero (questo mondo, per ora,
e domani, chissà, anche altri) la sua nicchia. Quelli che denominiamo giochi
sono spesso forme di allenamento al gioco per antonomasia, in cui si corrono i
veri rischi e si ottengono i veri benefici: un gioco che è bene in generale
rimandare fino a quando non diventerà inevitabile. Ottenendo in tal modo il
doppio vantaggio di assaporare la stabilità degli angoli di cosmo che si
annidano in un universo caotico e coltivare al tempo stesso, senza farsi
troppo male, abilità e mosse che potrebbero servirci quando il caos reclamerà
il suo dominio. Con una (già menzionata) limitazione, frutto scomodo della
relativa comodità dei giochi per procura: un allenamento non è mai la stessa
cosa della partita. In quanto puramente rappresentativo della partita, è
vittima della logica della rappresentazione: qualcosa è sempre rappresentato da
qualcos’altro, da qualcosa di diverso. La mia immagine nello specchio mi
rappresenta, ma non posso accarezzarla; i deputati in Parlamento mi
rappresentano (o almeno dovrebbero farlo), ma solo in quanto accetto di ridurmi
a una particolare costellazione di interessi; la caccia rappresenta la guerra,
o il calcio rappresenta un’invasione del terreno avversario e una violazione
della sua porta, della sua intimità, o gli scacchi rappresentano una raffinata
combinazione di intrighi, trappole e agguati, ma da queste violazioni e da
questi agguati nessuno dovrebbe uscire menomato o deflorato. (E forse è questo
il motivo per cui eccellono in tali rappresentazioni coloro che ne
marginalizzano il più possibile il carattere rappresentativo e in un certo
senso lo dimenticano: riescono cioè a disattivare nella loro pratica la
consapevolezza che si tratta solo di un gioco – su questo tema di grande
importanza ritornerò alla fine del capitolo.) Ernst Gombrich, che citerò ancora
in seguito a proposito del rapporto fra gioco e arte, rileva in A cavallo di un
manico di scopa (p. 14) che per un bambino un manico di scopa rappresenta un
cavallo solo in quanto può essere cavalcato, non perché gli somiglia. E, in
Arte e illusione, conferma ed estende il rilievo: L’essenziale dell’immagine
non è la sua verosimiglianza, ma la sua efficacia in un certo contesto
operativo. Può essere anche verosimile, allorché si ritiene che questo possa
contribuire alla sua efficacia (p. 112). Ho detto che i giochi per procura si
svolgono in microcosmi: ambienti ristretti e fittizi che simulano condizioni
reali. Potrebbe sembrare un paradosso che la bimba da cui è iniziato il nostro
percorso giochi nel mondo e i membri di una squadra di calcio, invece, in una
copia in miniatura del mondo, considerando quanto è piccola la stanza in cui si
muove la bimba in confronto allo stadio affollato e urlante in cui ha luogo la
partita; e sarà bene allora sottolineare che la miniatura di cui stiamo
parlando si riferisce a dimensioni non spaziali ma esistenziali. Nel suo
piccolo spazio la bimba investe tutta sé stessa, e bisogna farle attenzione e
proteggerla per evitare che questa sua assoluta dedizione abbia effetti
distruttivi; davanti alle folle oceaniche degli stadi si compie invece un rito
dalla fisionomia precisa ed esclusiva, in cui solo alcuni movimenti e
atteggiamenti sono legittimi. Le barriere che separano questo microcosmo dal
mondo sono assai porose, certo; il gioco vero è sempre sul punto di prendere la
mano a quello finto, con effetti talvolta tragici; ma la possibilità che l’uno
si trasformi nell’altro non nega la loro distinzione. Fa solo notare che non si
tratta di una distinzione neutrale, definita una volta per tutte: come la
repressione freudiana, va mantenuta a ogni istante esercitando appropriate
resistenze, e nel momento in cui le resistenze vengono meno il microcosmo è
inghiottito dal gioco globale, in cui ci si fa male davvero. Quest’ultima
osservazione ci costringe a rivisitare le conclusioni del capitolo precedente.
(In un labirinto, oltre a girare a vuoto e percorrere sentieri tortuosi, si
deve talvolta fare qualche passo indietro.) Lo sfondo, cioè le regole, avevo
concluso, definiscono il gioco a cui stiamo giocando; le figure che tracciamo
sullo sfondo costituiscono la nostra attività ludica. Le regole determinano la
topologia del microcosmo in cui abbiamo deciso di risiedere e a quelle regole
noi vi risiederemo con maggiore o minore creatività e godimento, da buoni o
cattivi giocatori quali siamo. Occorre però evitare il malinteso che la
distinzione tra figura e sfondo, tra regole e creatività, sia, una volta
decisa, mai più contestabile, che non sia essa stessa in gioco. In una scena
esilarante di Butch Cassidy, Paul Newman viene sfidato a duello da un membro della
sua banda, un bruto gigantesco che dà l’impressione di poterlo sbudellare con
facilità. Senza scomporsi, Butch/Paul lo avvicina e gli dice che, prima di
lottare, devono mettersi d’accordo sulle regole. Il mostro lo guarda allibito;
in quell’attimo di sconcerto Butch gli assesta un poderoso calcio al basso
ventre e poi, quando si piega in avanti, una robusta mazzata in faccia con i
due pugni congiunti. Il duello è finito prima ancora di cominciare, prima
ancora di stabilire le regole alle quali doveva essere condotto. Siamo così
tornati per altra via alla complessità sancita dalla fisica e quel che
sembravamo aver capito quando ne abbiamo parlato la prima volta si trasforma
ora in un oscuro dilemma. (In un labirinto, càpita di ripassare per lo stesso
punto e di non riconoscerlo.) Il mondo è infinitamente ambiguo, avevamo
concluso: non obbedisce a regole univoche ma risulta invece da una
sovrapposizione di sistemi di regole fra loro incommensurabili, entro ciascuno
dei quali si potranno anche fare previsioni senza però poter prevedere, di
volta in volta, in che sistema sceglieremo di vivere. Non c’è, anzi, il mondo
ma ci sono questi sistemi molteplici, e nello slittare dall’uno all’altro ci
spostiamo da un mondo all’altro. Nel linguaggio che stiamo utilizzando adesso,
potremmo dire che ciascun sistema è un microcosmo, un particolare ambiente
ludico; ma qui abbiamo anche detto che ogni microcosmo corre sempre il
rischio che i suoi confini non tengano, che il mondo reale (il mondo del gioco
reale) che fa pressione su quei confini li sfondi e a un tratto ci si possa far
male davvero. Come la mettiamo, allora? Esiste un mondo reale che fa pressione
sui microcosmi, sui sistemi di regole, sui giochi; oppure vale quel che si è
detto nel terzo capitolo, che esiste un mondo solo dopo che si sia scelto un
sistema di regole? Una risposta semplice e lapidaria a questa domanda è:
valgono entrambe le cose. Non c’è nulla di semplice, tuttavia, nel significato
della risposta. Per cominciare, occorre intendersi: se un «mondo» dev’essere
una struttura definita, che contenga oggetti specifici con specifiche proprietà
e relazioni, allora non esiste un mondo senza la scelta del vocabolario che lo
fonda (in accordo con le spiegazioni date nel terzo capitolo). Possiamo anche
dire, però, che «così va il mondo», cioè che esso non va come si pensava un
tempo (e come ancora pensano in molti): non è indipendente da una scelta; le
cose non stanno in nessun modo finché non si sia deciso come descriverle – e
anche questo è, in senso lato, un modo in cui stanno le cose. Da questa banale
distinzione terminologica segue una conclusione tutto men che banale: se «al
mondo» non ci sono che microcosmi, allora quel che fa «realmente» pressione su
un microcosmo, «il mondo» che minaccia di sommergerlo, sono altri microcosmi.
Un gioco è sempre e soltanto minacciato da altri giochi (nel senso che è sempre
possibile slittare dall’uno agli altri). Giocare con le regole invece che alle
regole di un particolare gioco (come faceva Butch Cassidy) non significa situarsi
in una dimensione neutrale, fuori da ogni gioco, dalla quale il gioco e le sue
regole possano essere contestati; significa sempre e soltanto collocarsi in un
altro gioco. Nel percorso compiuto finora abbiamo già provato qualche
sconvolgimento prospettico; abbiamo già visto talvolta l’anatra tramutarsi
sotto i nostri occhi in un coniglio. Qui siamo arrivati a un nuovo episodio
dello stesso tipo. In partenza, sembrava ovvio che la bimba stesse giocando e i
suoi genitori no (quando, per esempio, si assicuravano che fossero coperte
tutte le prese e chiuse tutte le finestre prima di lasciarla giocare
indisturbata); che gli atleti su un campo di calcio giocassero ma gli operai
che montavano le porte no; che ci fosse differenza tra giocare alla guerra e
fare la guerra (davvero, invece che per finta). Ora questa ovvia differenza non
solo non è più ovvia; non è più nemmeno una differenza. O meglio, una
differenza c’è ma non è quella tra un gioco e un non-gioco, o tra un ambiente
fittizio e uno reale. Se per la bimba non c’è niente di più serio del suo
gioco, e se in generale i giocatori prendono il loro gioco molto sul serio, è
perché non c’è distinzione sostanziale fra gioco e attività serie: un’attività
seria è un gioco preso sul serio, un’attività definita da uno sfondo di regole
in cui una o più persone decidono di immergersi, un microcosmo entro i cui
confini una o più persone decidono di abitare. Prendere sul serio qualcosa vuol
dire assumere un atteggiamento di completa concentrazione e rifiutarsi di
ammettere qualsiasi distrazione, qualsiasi alternativa alla pratica corrente.
Succede ai bambini che giocano, agli adulti ossessionati dal poker o dalla
roulette e agli altri adulti, molto più maturi e responsabili, che si dedicano
anima e corpo al loro lavoro. L’analogia fra tutte queste situazioni è
evidente, o almeno dovrebbe esserlo, ma noi di solito riusciamo a non vederla
inforcando gli occhiali normativi (o prescrittivi) di cui ho parlato nel
secondo capitolo: chi si concentra sul proprio lavoro fa bene perché sul lavoro
ci si deve concentrare; chi si concentra sulle avventure di una bambola
dimostra il proprio carattere infantile; chi si concentra sul poker è
dipendente e malato. Mettiamo da parte queste norme introdotte di straforo,
senza valutazione e senza critica, e rimaniamo su un piano descrittivo, là dove
l’evidenza dell’analogia è innegabile. Ci apparirà allora con improvvisa
chiarezza una nuova prospettiva sull’intera faccenda: la realtà «seria» non è
che un gioco senza alternative riconosciute, su cui non si avverte la pressione
di altri giochi. Il lavoro è la realtà di chi non vive le sue regole come una
scelta; il poker è la realtà del giocatore ossessivo. (Il che non modifica il
fatto che alcuni giochi possono [a] essere più ampi e ramificati di altri, meno
disponibili alla ripetizione, a provare e riprovare le stesse mosse, e più
propensi a esiti dolorosi e devastanti o [b] rappresentarne altri, con tutte le
ambiguità connesse alla rappresentazione, quindi che [c] si possono limitare i
danni giocando «per procura» a giochi puramente rappresentativi di quelli più
rischiosi.) C’è un’importante precisazione da fare su quel che ho appena detto:
è necessario correggere subito la rotta per non andare fuori strada.
Sembrerebbe, a questo punto, che ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato
nel prendere un’attività sul serio, il che non è vero. Torniamo ancora una
volta alla bimba: sbaglia forse, lei, a immergersi in modo assoluto, totale,
nelle figure che costruisce? Niente affatto: praticare un gioco con pazienza,
con dedizione, nell’oblio di ogni alternativa, è il modo migliore per
familiarizzarsi con il suo particolare microcosmo, per esplorare tutta la
creatività, tutto il «gioco» consentiti dalle sue regole. Ma domani la bimba
sarà in un’altra stanza, o in giardino, o sul sedile posteriore di
un’automobile, dove incontrerà altre resistenze che accetterà come regole
di un altro gioco; ed è questa flessibilità che la protegge dall’ossessione,
che anzi trasforma la sua momentanea ossessione in un punto di forza. Ogni
gioco, mentre è giocato, va preso sul serio; quel che ne conserva anche il
carattere di gioco (oltre a quello di serietà), per chi lo pratica, è il fatto
che gli siano presenti, magari implicitamente, altri giochi. Nell’Essere e il
nulla, Sartre parla di un cameriere che si è trasformato nello stereotipo di un
cameriere, e che cerca così di sfuggire alla coscienza di essere un cameriere.
Adattando il suo esempio al mio discorso, direi che al cameriere manca ogni
senso di alterità e che senza alterità non c’è vera identità: c’è solo un magma
indifferenziato nel quale siamo avvolti senza rimedio. Gli manca un lampo di
quell’ironia che segnala l’alterità e gli permetterebbe di vedere (da un altro
punto di vista) quel che sta facendo come uno dei tanti giochi possibili – come
qualcosa che non lo inchioda fatalmente a un ruolo e proprio per questo gli
permette di vivere il suo ruolo con serenità. Ho avuto la fortuna, talvolta, di
veder affiorare questo lampo d’ironia (che sarebbe come dire, per me,
d’intelligenza) in un bambino, di solito intorno ai due anni, e mi sono reso
conto allora che avevo davanti un essere umano. In Verso un’ecologia della
mente, Gregory Bateson arriva a una conclusione analoga, formulata nei termini
logico-matematici che gli sono abituali. Un gioco, dice, è generalmente vissuto
in un’atmosfera paradossale: nell’ambito della premessa «Questo è un gioco» e
quindi di indicazioni contrastanti a prendere sul serio quel che si fa e anche
a non prenderlo sul serio. «È nostra ipotesi che il messaggio “Questo è gioco”
stabilisca un quadro paradossale, paragonabile al paradosso di Epimenide [cioè:
quel che sto dicendo adesso è falso]» (pp. 225-226). Ma tali paradossi,
analoghi a quelli della teoria degli insiemi (come «l’insieme di tutti gli
insiemi che non si appartengono si appartiene e non si appartiene») non vanno
esorcizzati (come fa Bertrand Russell introducendo la sua teoria dei tipi
logici), perché nella loro assurda, irriducibile complicazione sono l’essenza
stessa dell’attività e della vita. La nostra tesi principale può essere
riassunta in un’affermazione della necessità dei paradossi dell’astrazione.
L’ipotesi che gli uomini potrebbero o dovrebbero obbedire alla teoria dei tipi
logici nelle loro comunicazioni non sarebbe solo cattiva storia naturale; se
non obbediscono alla teoria non è solo per negligenza o per ignoranza.
Riteniamo, viceversa, che i paradossi dell’astrazione debbano intervenire in
tutte le comunicazioni più complesse di quelle dei segnali di umore, e che senza
questi paradossi l’evoluzione della comunicazione si arresterebbe. La vita
sarebbe allora uno scambio senza fine di messaggi stilizzati, un gioco con
regole rigide e senza la consolazione del cambiamento o dell’umorismo (p.
235). Alla fine del capitolo precedente mi ero posto un problema: qual è
il senso di giochi dai quali non sembriamo imparare nulla d’importante, che
sembrano servire solo a passare (ad ammazzare?) il tempo? La «soluzione» del
problema ha finito per negarlo, ridisegnando l’intera cartografia che ne
tracciava il territorio. Non ci sono giochi utili per conoscere il mondo reale
e altri oziosi e gratuiti. Ci sono solo giochi, che rimangono tali finché
rimangono al plurale e smettono di esserlo (diventano reali) quando ne perdiamo
di vista la molteplicità. Anche in questo caso, la molteplicità non cesserà di
esistere e noi dovremo pur sempre difenderci dalla sua intrusione; la nostra
difesa però non sarà (per usare ancora una volta metafore freudiane) un
consapevole, versatile negoziato fra istanze ugualmente legittime e in grado di
scambiarsi le parti, di mescolarle e così rinnovarsi continuamente, ma una
rimozione di fissità nevrotica che con l’altro non dialoga e che proprio per
questo all’altro prima o poi si arrenderà. 6. Calma e gesso Nel gioco del
biliardo, che un mio compagno di liceo definiva «giusto e saggio», càpita di
trovarsi davanti a situazioni molto complicate. La palla che dobbiamo colpire è
coperta dal pallino o dal castello (sto parlando di un biliardo all’italiana, o
eventualmente alla goriziana, con due palle, un pallino e cinque birilli, o
eventualmente nove); possiamo prenderla solo di sponda, quindi invece di
sparare subito d’istinto conviene esaminare le nostre opzioni con calma, e
meglio ancora se nel frattempo ingessiamo la stecca per evitare che dopo tante
elucubrazioni scivoli malamente nel tiro (probabilmente a effetto) che
decideremo di tentare. Fuor di metafora, quando si percorre un itinerario
tortuoso e accidentato come quello attuale è buona idea fermarsi ogni tanto e
considerare la nostra posizione, che magari dopo numerose giravolte è cambiata
e va rivalutata nella nuova forma che ha assunto e nelle nuove condizioni e
opportunità che ci offre. È quanto mi propongo di fare in questo capitolo,
prima di riprendere il cammino. Nelle ultime pagine abbiamo compiuto, ho detto,
un rivolgimento prospettico. Naturalmente, mi sono affrettato a trarne le
conseguenze e a ridisegnare alla sua luce il nostro territorio. Ma qualche
minuto di pausa supplementare e qualche riflessione più articolata sono
opportuni, per apprezzare la radicale novità della mappa che sta emergendo.
Siamo partiti con una distinzione forse talvolta (in casi limite) vaga ma di
solito, apparentemente, piuttosto chiara. A nascondino e a pallacanestro si
gioca; quando si prende il tram per andare in ufficio o si prepara la cena non
si gioca – e chi lo facesse non starebbe davvero preparando la cena o andando
in ufficio; starebbe facendo chissà che cosa, con l’alibi di preparare la cena
o andare in ufficio. Ora però abbiamo detto che ci sono solo giochi. Vogliamo
dire che quella distinzione apparentemente chiara (ma, ho affermato, non
«sostanziale») va abbandonata? E che senso ha parlare di gioco, di attività
ludica, se non esiste nessun altro tipo di attività: se il fatto che
un’attività sia un gioco non la pone in contrasto con nient’altro di quel che
possiamo fare? Non abbiamo così inopinatamente perso per strada il concetto
stesso di cui volevamo rendere conto, alla cui comprensione abbiamo dedicato
tanti sforzi? Ho detto che un gioco è definito da uno sfondo su cui il gioco
elabora le sue figure; ho detto che c’è concorrenza, e lotta, sulla natura di
questo sfondo, che si gioca non solo alle regole ma anche con le regole. E ho
detto che quello che stiamo conducendo qui è un gioco, di carattere
trasformativo (o dialettico): che esso ci porta (per esempio) a vedere il gioco
di una bimba trasformarsi nel gioco del calcio. Stiamo ora arrivando a capire
meglio che gioco è. Parte di quel che questo gioco fa è trasformare il rapporto
tra figura e sfondo nell’essere umano (dove «essere» è inteso come verbo; alla
fine del viaggio suggerirò che la qualifica «umano» potremmo lasciarla cadere e
che la trasformazione riguarda tutto l’essere). Normalmente (e ricordiamo la
norma sempre implicita in simili espressioni) si pensa che il gioco sia una
figura un po’ strana e misteriosa tracciata sullo sfondo delle comuni, serie
occupazioni quotidiane. Il suo posto è marginale, letteralmente ai margini
della vita ordinaria: pertiene all’infanzia, ai giorni di festa, alla vita di
scioperati e nullafacenti («Chi ha fame non gioca», dice Caillois a p. 14). E
c’è da chiedersi se serva a qualcosa. Il rivolgimento prospettico che abbiamo
attuato ci mostra un quadro completamente diverso: una condizione umana in cui
lo sfondo, la normalità, la norma sono attività ludiche, condotte per il puro
gusto e il puro piacere che dànno, e le attività strumentali, tese a uno scopo
esterno a sé stesse, al conseguimento di un risultato, sono un mistero da
spiegare. Nell’Educazione estetica Friedrich Schiller arriva a una conclusione
analoga quando afferma: «l’uomo gioca soltanto quando è uomo nel senso pieno
del termine, ed è interamente uomo solo laddove gioca» (p. 56). E la spiega,
anche, in modo simile all’articolazione che ho fornito qui, come il risultato
di una costante tensione fra esigenze opposte: «deve esservi un elemento comune
tra impulso formale e impulso materiale, cioè un impulso al gioco, perché solo
l’unità della realtà con la forma, della contingenza con la necessità, della
passività con la libertà porta alla perfezione il concetto di umanità» (p. 54).
In una famosa scena di 2001: Odissea nello spazio un nostro antenato ominide
solleva da terra un lungo, robusto osso e lo agita senza senso e senza
intenzione di qua e di là. Per gioco, potremmo dire. Finché, casualmente,
l’osso urta un cranio che giace lì vicino e lo frantuma, e così lo scimmione
scopre (con enorme eccitazione) di avere in mano un’arma e nella prossima
scaramuccia con un gruppo di avversari la usa per commettere un omicidio.
Kubrick vuole raccontarci la storia di una specie (la nostra) feroce e
sanguinaria; ma storie simili e meno cruente si potrebbero raccontare su
un’altra scimmia che con la medesima casualità scopra come far cadere un
cespo di banane da un albero, o come adagiare un tronco per traverso su un
ruscello e usarlo da ponte. Jerome Bruner, in Natura e usi dell’immaturità,
riassume storie analoghe in questo modo: Sarei tentato di avanzare l’ipotesi
poco ortodossa secondo la quale nello sviluppo dell’uso degli strumenti è stato
necessario un lungo periodo di attività combinatoria opzionale e libera da
qualsiasi pressione. Per sua natura l’uso di strumenti (o l’incorporazione di
oggetti in attività qualificante) ha richiesto la preliminare possibilità di
un’ampia varietà di esperienze sulla quale potesse poi operare la selezione (p.
37). Una caratteristica fondamentale dell’uso di strumenti negli scimpanzé come
nell’uomo è la tendenza a sperimentare varianti del nuovo pattern di attività
in differenti contesti [...]. Probabilmente è proprio questa «spinta alla
variazione» (piuttosto che la fissazione per rinforzo positivo) che rende tanto
efficace la manipolazione nello scimpanzé (p. 41). Il gioco, data la sua
concomitante libertà da rinforzi e il suo collocarsi in un ambiente
relativamente libero da pressioni, può produrre la flessibilità che rende
possibile l’uso di strumenti (p. 43). La libertà espressa nel gioco sarebbe
dunque il serbatoio inesauribile da cui sfociano tutte le attività serie:
cristallizzazioni perlopiù temporanee e locali cui ci affezioniamo e che
ripetiamo con fedeltà perché si sono rivelate inaspettatamente preziose, mentre
il gioco continua. (Ritroviamo così, come cifra del gioco, l’investimento
nell’eccessivo e nel puramente possibile, da cui viene distillato con pazienza
ciò che finisce per apparire utile o anche necessario.) L’immagine che stiamo
disegnando è quella di uno spettro di comportamenti (analogo allo spettro dei
colori), a un’estremità del quale c’è pura libertà (comportamenti del tutto
caotici e imprevedibili) e all’altra pura costrizione (comportamenti del tutto
fissi e stereotipi). In modo analogo, Caillois sovrappone alla sua già citata
categorizzazione analitica di vari tipi di gioco un’ulteriore tassonomia
organizzata in modo graduale: [Si possono] ordinare [i giochi] fra due poli
antagonisti. A un’estremità regna, quasi incondizionatamente, un principio
comune di divertimento, di turbolenza, di libera improvvisazione e spensierata
pienezza vitale, attraverso cui si manifesta una fantasia di tipo incontrollato
che si può designare con il nome di paidia. All’estremità opposta, questa
esuberanza irrequieta e spontanea è quasi totalmente assorbita, e comunque
disciplinata, da una tendenza complementare, opposta sotto certi aspetti, ma
non tutti, alla sua natura anarchica e capricciosa: un’esigenza crescente di
piegarla a delle convenzioni arbitrarie, imperative e di proposito ostacolanti,
di contrastarla sempre di più drizzandole davanti ostacoli via via più
ingombranti allo scopo di renderle più arduo il pervenire al risultato ambìto
[...]. A questa seconda componente do il nome di ludus (p. 29). E anche Piaget
parla di polarità: il gioco non costituisce una condotta a parte o un tipo
particolare di attività tra le altre: esso si definisce soltanto mediante un
certo orientamento della condotta o in virtù di un «polo» generale verso
cui converge quest’attività nel suo complesso restando caratterizzata
così ogni azione particolare dall’essere più o meno vicina a questo polo e dal
tipo di equilibrio che c’è tra le tendenze polarizzate (La formazione del
simbolo nel bambino, pp. 213-214). il gioco si riconosce da una modificazione,
variabile di grado, dei rapporti di equilibrio tra il reale e l’io. Si può
sostenere dunque che, se l’attività ed il pensiero adattati costituiscono un
equilibrio tra l’assimilazione [del reale all’io] e l’accomodamento [dell’io al
reale], il gioco comincia quando la prima predomina sul secondo [...]. Ora, per
il fatto stesso che l’assimilazione interviene in ogni pensiero e che
l’assimilazione ludica ha per solo segno distintivo il fatto di subordinarsi
l’accomodamento invece di realizzare un equilibrio con esso, il gioco si deve
considerare collegato al pensiero adattato da una gamma di stati intermedi, e
solidale con tutto il pensiero, di cui esso non costituisce che un polo più o
meno differenziato (pp. 218-219). Io però intendo proporre qui un’operazione
più radicale. Invece di trovare il gioco in una parte dello spettro e il
non-gioco in un’altra (o, come fa Caillois, giochi diversi da una parte e
dall’altra), intendo rivoluzionare il senso della parola «gioco», decidendo che
il gioco sia non un’attività specifica («questo è un gioco e quello non lo è»)
ma un aspetto di ogni attività, un suo parametro: il parametro che misura
quanta libertà l’attività esprima. Che ci siano solo giochi vorrà dire allora
che tutte le attività possono essere misurate relativamente a questo parametro,
anche se per alcune la misurazione darà un valore assai vicino allo zero. In
modo inversamente proporzionale alla libertà di un comportamento cresce, nello
spettro, la presenza e l’importanza delle regole; quindi, se ammettiamo che gli
estremi dello spettro (il grado zero di libertà e il grado zero di regole)
siano astrazioni puramente ideali, confermeremo quanto si è detto nel quarto
capitolo, che cioè ogni gioco si svolge a determinate regole – intendendo la
frase nel nuovo senso che ha ora acquisito: ogni attività ha insieme un aspetto
regolamentato e uno ludico. Mentre varchiamo una soglia per affrancarci dalle
strettoie che al suo interno ci opprimono, troveremo un’altra soglia; e sarà
nell’interazione tra il nostro desiderio di affrancamento e i limiti con cui
quel desiderio si deve confrontare che la nostra libertà guadagnerà contenuto e
sostanza, e realizzerà strutture sempre più articolate, complesse e funzionali.
Quando siamo d’accordo che così stanno (così vediamo) le cose, nulla ci
impedisce di ammettere un uso informale e colloquiale della parola «gioco» in
riferimento a specifiche attività. Un gioco, potremmo dire, è un’attività il
cui parametro ludico è elevato, o almeno significativo; un non-gioco è
un’attività il cui parametro ludico è trascurabile. In modo analogo, gli esseri
umani potrebbero essere disposti su uno spettro in base alla loro altezza, e da
un certo punto in avanti (impossibile da determinare con esattezza) le persone
con un’altezza elevata, o almeno significativa, verrebberro dette,
semplicemente, alte. Rimarrebbe vero, con questa convenzione, che in
generale (il senso della precisazione sarà chiaro tra breve) il nascondino e la
pallacanestro sono giochi ma il preparare la cena e l’andare in ufficio no; e
sarebbe anche vero che le slot machines e il «gioco» del lotto, avendo un
parametro ludico praticamente nullo, non sono giochi ma imposture. Che
all’indomani del rivolgimento prospettico si possano dire le stesse cose di
prima non equivale però ad averne moderato l’impatto, ad avergli spuntato le unghie.
Categorizzare le attività umane in termini di uno spettro come quello che ho
descritto non è un’operazione innocente, perché implica che ogni attività, per
quanto scontata e ripetitiva, abbia almeno implicito, almeno potenziale, un
certo grado di libertà, e che dunque in essa ci sia spazio (ci sia gioco, come
quello della vite) per esplorare e apprendere, per rischiare e trasgredire.
(Così come ogni attività ludica può venir soffocata da un eccesso di regole.)
Nel mondo ordinato degli antichi greci, ogni cosa aveva il suo posto e lo stato
naturale era la quiete – lo stato, cioè, in cui era ogni cosa quando aveva
raggiunto il suo posto. (Questo valeva sulla Terra. Nei cieli, i corpi si
muovevano con il moto più simile alla quiete: il moto circolare uniforme, che
ritorna sempre su sé stesso.) E capire quel mondo voleva dire «tagliarlo
seguendone le nervature»: riflettere nelle nostre classificazioni concettuali
la precisa e definitiva articolazione delle sue differenze. In base a questa
logica, fra gioco e non-gioco esisterebbe uno scarto qualitativo: si
tratterebbe di qualità diverse, anzi opposte, e nulla potrebbe essere l’uno e
l’altro insieme. Che il nostro mondo sia caotico implica che in esso sia
naturale non la quiete ma un movimento costante e irregolare, e non solo il
movimento di una cosa da un posto all’altro ma anche un movimento che riguarda
l’essere di quella cosa, che costantemente e irregolarmente ne cambia la
definizione e le caratteristiche più intime. La nostra nuova prospettiva sul
gioco s’inquadra in un mondo siffatto, in cui l’essere gioco non è un destino
degli scacchi o del tennis e l’essere non-gioco un destino dell’avvitare un
bullone o dello spolverare il mobilio. Gioco e non-gioco sono invece
opportunità sempre aperte; e può essere sufficiente, a volte, il battito d’ali
di una farfalla perché la più ottusa delle routine si accenda d’improvvisa
follia (manifestando il pizzico di follia che già conteneva) o perché la più
audace delle avventure s’incagli su un binario morto. 7. Illusioni Nel
quarto capitolo ho detto che quella di figura e sfondo è una metafora: che le
«figure» non hanno necessariamente nulla di visivo. Una metafora estende l’uso
di una parola al di là dei suoi contesti abituali, dandole un senso traslato,
inappropriato e incongruo ma spesso suggestivo (in quanto suggerisce
associazioni, emozioni, ricordi). È anch’essa un gioco, di parole appunto; e
come tale ce ne dovremo occupare a tempo debito. Per ora mi limito a osservare
che se una metafora può traslare, trasferire il senso di una parola allora quel
senso, si presume, ha un’origine da cui essere trasferito: che si diano sensi
metaforici presuppone che ne esista uno letterale. Giulietta non è,
letteralmente, il sole; ma quel che ci permette di capire che cosa il poeta
intenda con questa frase è la nostra familiarità quotidiana con un astro che è
il sole nel senso più proprio del termine. Anche questa distinzione verrà in
seguito contestata; ma qui prendiamola per buona perché ha molto da insegnarci.
Un cambiamento di prospettiva, di punto di vista, può essere un evento di
natura astratta, che ci coinvolge solo a livello concettuale. Abbiamo sempre
pensato a noi stessi come a fedeli esecutori di istruzioni ricevute
dall’esterno, da una guida o un capo più o meno benevoli, e tutt’a un tratto
comprendiamo («ci salta agli occhi», metaforicamente parlando) di quante
microdecisioni sia intessuta la nostra esecuzione di un compito, e quanto siano
quelle decisioni, quelle scelte forse inconsapevoli ma importanti, a determinarne
il successo, invece della pedestre acquiescenza a modelli alieni. Se pure
adoperiamo un vocabolario percettivo per descriverla (dicendo per esempio che
abbiamo imparato a «vederci» in modo diverso), questa trasformazione è di
carattere intellettuale, logico; riguarda una «prospettiva» che è
un’interpretazione, non una direzione nello spazio. Esistono però anche casi
come il seguente (ne parla fra gli altri Jacques Lacan). Il famoso quadro Gli
ambasciatori di Hans Holbein, se guardato di fronte, presenta una strana forma
in basso (Lacan la paragona a uova fritte); ma se, mentre ce ne allontaniamo,
ci giriamo ancora una volta a guardarlo (forse perché quella forma misteriosa
ci ha inquietato) ecco che da quel punto, letteralmente, di vista scorgiamo
infine l’immagine che il pittore voleva mostrarci (e capiamo il messaggio
che voleva lanciarci – ogni trasformazione percettiva ha una ricaduta
intellettuale, ma non vale l’inverso). Le uova fritte sono diventate un
teschio. Nell’universo infantile, cambiamenti letterali di prospettiva (su un
corpo, un oggetto, una situazione) sono tra le fonti più intense di gioia. È un
mondo popolato di smorfie, guizzi, voltafaccia, nel quale nulla diverte di più
del vedere personaggi di dimensioni gigantesche, che normalmente costringono a
guardarli dal basso in alto, rotolarsi per terra, camminare a quattro zampe,
magari con un bambino in groppa per fargli vedere dall’alto spettacoli di
solito inaccessibili: una nuca, del cuoio capelluto, delle stanghette di
occhiali. Nella vita adulta, occasioni del genere sono più rare, limitate come
sempre accade con il gioco a ricorrenze catartiche (il carnevale, le vacanze,
il sesso) e occupazioni specifiche (l’attore, il clown). Quel che conserva una
frequenza più costante sono non tanto occasioni quanto particolari oggetti
multiformi, insieme artistici e illusori, anzi artistici perché illusori (come
ben aveva capito Gombrich, che al tema dedicò il suo capolavoro Arte e
illusione). A questi loro aspetti mi rivolgerò adesso, cominciando dal secondo.
Abbiamo già incontrato il paradosso della rappresentazione: di una cosa, cioè,
che ne rappresenta un’altra, diversa da sé stessa. Una rappresentazione,
aggiungo ora, è in certa misura un’illusione; in particolare, una
rappresentazione percettiva come quelle su cui mi concentrerò qui è (in certa
misura) un’illusione percettiva. Nel linguaggio ordinario, «illusione» non è un
termine neutrale: accenna a qualcosa di falso, di ingannevole; è legato a
giudizi di valore negativi, usato con intento critico. Dobbiamo evitare di
rimanere vittime di illusioni; dobbiamo conoscere la realtà che le illusioni ci
nascondono. Voglio prendere le distanze da tali giudizi e dalle norme che essi
sottintendono: norme che favoriscono stabilità e conformismo nella visione del
mondo. Osservo invece che dentro «illusione» c’è la radice del gioco e il
prefisso «in» annuncia (se solo stessimo a sentire quel che diciamo) che
un’illusione (ci) mette in gioco. Questo è il senso in cui voglio usare la
parola, respingendo ogni ipotesi di inganno o di frode e sostituendola con un
richiamo positivo alla sfera ludica. È in questo senso, per esempio, che nubi
di una certa forma possono illuderci che un destriero stia galoppando per il
cielo: rimettendo in discussione il fatto che quelle siano nubi, che il cielo
abbia una sua determinata, fissa configurazione, che certe cose (certi animali)
non vi abbiano corso. L’epigrafe del capitolo L’immagine nelle nubi, in Arte e
illusione, è tratta da Antonio e Cleopatra di Shakespeare, e recita: Talvolta
noi vediamo una nuvola prendere forma di drago; talvolta un cirro la forma di
leone o d’orso o di turrita cittadella o d’un aereo picco; di forcuta montagna,
di azzurri promontori vestiti d’alberi, che fanno cenno colle chiome al mondo
giù e ci illudono gli occhi con un gioco d’aria (p. 172). A mente fredda diremo
poi, forse, che le nubi hanno rappresentato un cavallo, sigillando il gioco in
un’espressione paradossale che lo esorcizza invece di spiegarlo (e, se viene
ripetuta abbastanza spesso, darà probabilmente l’illusione di aver capito –
metterà in gioco che cosa voglia dire «capire»); quando invece il gioco ci
catturerà, ci accoglierà in sé, vedremo davvero – e nessuno potrà dirci che non
lo vediamo – il cocchio di Fetonte scalpitare a precipizio verso il suo
infelice destino. L’«in» di «illusione» è una particella, una preposizione,
ambigua (ha un significato che è a sua volta in gioco). Può introdurre un
complemento di moto a luogo («vado in piazza») e allora indicherà oggetti che
ci attirano, ci seducono a entrare in un gioco; ma il complemento può anche
essere di stato in luogo e allora s’insinuerà che il gioco ci ha avvolto, che
abitiamo al suo interno. L’ambiguità, e la tensione che l’accompagna,
traspaiono nel nostro rapporto con le nubi, se oscilliamo fra il notarne
(dall’esterno) una semplice ma affascinante analogia con la criniera di Pegaso
e l’abbandonarci all’altalena cui l’analogia allude, senza riposare nell’una o
nell’altra condizione. Sono anche attivate da oggetti creati proprio a tale
scopo, creati ad arte; e così slittiamo da una delle nostre parole all’altra.
«Artificiale» si oppone a «naturale», ed è un contrasto da prendere con
beneficio d’inventario. Molto ci sarebbe da dire su quanto sia naturale per gli
esseri umani costruire oggetti diversi da quelli che trovano già fatti. Ma non
è il discorso che m’interessa qui; accetterò l’idea che un albero è un oggetto
naturale e la casetta che gli è stata costruita sopra è artificiale, e dirò
quindi che gli oggetti che ci imprigionano in un gioco perpetuo, o almeno di
una certa durata (ci imprigionano in un comportamento libero? poco fa ho detto
che il gioco può catturarci; c’è una guerra condotta su queste parole, su che
cosa vogliano dire «libertà» e «schiavitù», ed espressioni del genere fanno
ampie concessioni all’avversario), sono in gran parte artificiali e, quando
acquisiscono una buona reputazione sociale, vengono qualificati come artistici.
L’anatra/coniglio cui ho fatto riferimento in precedenza appartiene a questa
classe di oggetti: basta continuare a guardarlo, senza fare altro, per veder
apparire alternativamente l’una e l’altra figura. E si noti a che livello
l’oggetto agisce: quel che stiamo guardando non sono nubi che diventano un
cavallo, stelle che diventano un leone e nemmeno un’anatra che diventa un
coniglio – è un disegno di un’anatra che diventa il disegno di un
coniglio. L’anatra/coniglio è un giocattolo: non una parte dell’ambiente che
noi sottoponiamo a pressioni e rivoluzioni ludiche, ma un oggetto deputato
precisamente a consentirci e facilitarci tali pressioni e rivoluzioni – un
oggetto nato per essere elemento di un gioco. E per questa via siamo arrivati
una prima volta a dama; abbiamo raggiunto nel nostro percorso una prima sublime
manifestazione dell’ingegno e della perizia umani. Abbiamo raggiunto l’arte,
che possiamo ora definire come la costruzione di oggetti che consentano e
facilitino il gioco percettivo, il sovrapporsi e lo scambiarsi di immagini
multiple, l’illusione percettiva. Torniamo al quadro di Holbein e trascuriamo
la sorpresa con cui saprà accomiatarci. Rimane il fatto che questo oggetto
artificiale ci dà l’impressione di essere al cospetto di due distinti
gentiluomini, riccamente vestiti e circondati da svariati simboli di potere,
cultura e intrattenimento; ma, anche mantenendo la nostra posizione frontale
rispetto alla scena, scorrendo gli occhi è facile vedere al loro posto una
tavola bidimensionale ricoperta di colori a olio, e poi tornare a vedere i
gentiluomini, e poi ancora la tavola, e magari, se il gioco ci appassiona,
sforzarci di svelare il segreto di tale sortilegio – avvicinarci e allontanarci
dal dipinto per cogliere il punto esatto in cui un’immagine dà luogo all’altra,
in cui i gentiluomini si fanno avanti, robusti e vitali, dal legno e dal
pigmento che ne evocano la presenza. Lo stesso vale per i sobri tratti che in
uno schizzo o in un fumetto dànno vita a un personaggio e al suo umore, per le
trombe e i timpani che nella Sesta di Beethoven ci immergono in un temporale,
per le volte e le vetrate che da una cattedrale gotica ci trasportano in una
selva oscura, attraversata da lampi di luce divina. Ogni oggetto artistico sa
illuderci, invitarci a un gioco aperto fra le sue molteplici incarnazioni,
ispirarci a un’oscillazione gestaltica che ne costituisce, in quanto appartiene
all’arte, la ragion d’essere. Lo stimolo [...] è infinitamente ambiguo, e
l’ambiguità in sé [...] non può esser vista: può solo essere indotta dal
confronto di diverse letture che tutte si adattano a una stessa configurazione.
Credo [...] che il dono dell’artista sia di questo genere. Egli è un uomo che
ha imparato a guardare criticamente, a saggiare le sue percezioni provando
interpretazioni diverse o opposte, sia per gioco che seriamente (p. 282). Il
piacere che proviamo davanti a un quadro, affermava il grande critico
neoclassico Quatremère de Quincy citato da Gombrich, dipende esattamente dallo
sforzo che la mente fa per creare un ponte tra arte e realtà. È proprio questo
piacere che viene distrutto allorché l’illusione è troppo completa. «Allorché
un pittore costringe una grande estensione in uno spazio ristretto, quando mi
porta attraverso gli abissi dell’infinito su una superficie piatta e fa
sì che l’aria circoli [...] mi piace abbandonarmi alle sue illusioni; ma voglio
che ci sia la cornice, voglio essere certo che ciò che vedo in realtà non è
altro che una tela o un semplice piano» (p. 254). Se questo gioco viene a
mancare, se l’illusione diventa inganno, allora in modo solo apparentemente
paradossale per chi abbia seguito la parola nella deriva semantica che ho
proposto, l’illusione scompare: «la perfezione dell’illusione ne ha segnato
anche la fine» (p. 253; traduzione modificata). E talvolta l’artista gioca
anche con l’illusione (gioca con il gioco stesso) e con le aspettative
culturali che le sono associate: l’orinatoio di Duchamp ci riporta indietro, al
bambino per cui i migliori oggetti con cui giocare sono quelli d’uso comune, e
insieme ci ricorda che un oggetto non è mai solo, è sempre vissuto in un ambiente
che ne determina il ruolo; quindi un orinatoio in un museo è qualcosa di più (e
di meno) di un orinatoio in un bagno e ci racconta qualcosa non solo di sé ma
anche di noi stessi. Siamo noi a illuderci (a giocare con il fatto) che
visitare un museo sia un’operazione equivalente a guardare dal buco della
serratura, lasciando tutto – tutta l’arte – com’è; mentre invece è proprio
quella nostra visita a costituire l’arte. In molti punti del labirinto in cui
ci siamo inoltrati si aprono altri labirinti: la struttura tortuosa
dell’insieme si riflette nella struttura di molte delle sue parti (simile in
ciò agli strani attrattori della teoria del caos, in cui ogni dettaglio ha
complessità tanto infinita quanto il tutto). Qui siamo arrivati a un punto
siffatto: sull’arte si potrebbe scrivere un altro libro, o una biblioteca. Ma
resisterò anche a questa tentazione e mi rimetterò in marcia, dopo aver fatto
tre precisazioni. In primo luogo, devo insistere che non ho collegato gioco e
arte in modo analitico, scoprendo delle loro caratteristiche comuni. L’attività
artistica è attività ludica, più precisamente un gioco percettivo che ci porta
a vedere oggetti in prospettive e con risultati diversi da quelli abituali;
dunque è la stessa attività praticata da un bambino che rigira un cubo fra le
mani per vederlo da ogni lato. Se il cubo è una scatola che ha trovato in
cucina, il caso è identico a quello delle immagini nelle nubi; se invece è un
oggetto (un giocattolo) che gli è stato comprato apposta perché lui esegua tali
rotazioni, corrisponde al quadro di Holbein (e chi ha costruito il giocattolo
corrisponde al pittore). Gli oggetti ufficialmente giudicati artistici sono più
raffinati di quelli con cui si diletta un bambino (anche se ciò non vale sempre
per l’arte contemporanea, da Duchamp in poi); ma ciò vuol dire solo che
un’attività (ludica, in questo caso) può essere praticata con maggiore o minore
maestria, non che si tratta di attività diverse. Chiunque abbia
partecipato a una settimana bianca ha sciato, pur non danzando sulla neve con
la grazia di Ingemar Stenmark. E non lasciamoci turbare, nell’enunciare questa
tesi, dalle inevitabili proteste di chi sostiene che l’arte ha valore solo per
sé stessa (l’art pour l’art) e non va assoggettata alla funzione quasi-evolutiva
che le ho conferito. Nessuno meno di un appassionato giocatore, totalmente
immerso nella sua partita, è in grado di apprezzarne il contributo a un più
vasto ambito d’interessi. Al limite, questo genere di passione acceca, come
osserva Gombrich in A cavallo di un manico di scopa: gli scrittori di estetica
ci dicono da tempo che cosa l’arte non è, e si sono tanto preoccupati di
liberare l’arte da valori eteronomi, che hanno finito con il creare al centro
di essa un vuoto, alquanto impressionante (p. 25). In secondo luogo, l’arte è
solitamente concepita come prodotta da certe persone (gli artisti) e fruita da
altre (il pubblico); le prime sono considerate attive e le seconde ricettive,
passive. Nel modello freudiano del motto di spirito, nucleo di una generale
teoria estetica, il piacere provato da chi ascolta una barzelletta e il riso
che ne segue sono causati proprio dal suo essere inerte e trovarsi a un tratto
libere energie psichiche che prima servivano a reprimere dei contenuti
inaccettabili, in seguito all’azione di un altro (chi racconta la barzelletta,
usando a tale scopo le stesse energie e quindi provando meno piacere e non
ridendo affatto). È un modello che potrà andar bene per le oscene vicissitudini
dell’industria artistica contemporanea: per opere teatrali e liriche davanti
alle quali beatamente assopirsi dopo una lauta cena o per croste e
installazioni rifilate da furbi mercanti a ricchi e incolti borghesi. È anche
un modello, però, che viola e stravolge la comunità d’intenti e d’impegno che esiste
fra un pittore, un architetto, un musicista e il suo pubblico. Chi guarda un
quadro, ammira un edificio o ascolta una sonata non saprebbe, perlopiù,
dipingere, progettare o comporre con la stessa abilità, ma può godere
dell’esperienza solo in quanto è coinvolto nelle stesse scoperte e sorprese
dell’artista: solo in quanto l’artista (come l’animatore di un gioco di
società) sa coinvolgerlo in quelle attive scoperte e sorprese. Si può essere
autentici spettatori di un’opera d’arte solo nella misura in cui si è a propria
volta artisti: solo in quanto si è in grado di far riecheggiare in sé la stessa
esplosione gestaltica che l’autore ha provato. Ancora Arte e illusione di
Gombrich e ancora una sua citazione, questa volta da Filostrato, biografo del
filosofo pitagorico (contemporaneo di Cristo) Apollonio di Tiana: «Ma
questo non significa forse – propone Apollonio – che l’arte dell’imitazione ha
un duplice aspetto? Uno è quello che porta ad usare le mani e la mente per
realizzare imitazioni, l’altro quello che realizza la somiglianza unicamente
con la mente?». Anche la mente dell’osservatore ha la sua parte
nell’imitazione. Anche una pittura a monocromo, o un rilievo in bronzo ci
colpiscono come qualcosa di somigliante: li vediamo come forma ed espressione. «Perfino
se disegnassimo uno di questi indiani con del gesso bianco, – conclude
Apollonio, – apparirebbe nero perché ci sarebbero sempre il suo naso
schiacciato, i suoi spessi capelli ricciuti e la sua mascella sporgente [...] a
rendere nera l’immagine per chi sa usare gli occhi. Per questo dico che coloro
che osservano opere di pittura e disegno devono possedere la facoltà imitativa»
(p. 173). In terzo luogo, chi propone una «naturalizzazione» di un aspetto
della nostra vita caratterizzato da pesanti risvolti normativi è spesso
accusato di farne evaporare ogni norma e lasciarci privi di ogni criterio o
giudizio di valore. Tale è il caso, per esempio, dell’etica, disciplina
normativa per eccellenza, quando la si riduca alla teoria della scelta
«razionale»: d’accordo che mi converrà accettare e rispettare certi patti, ma
che cosa resta allora dell’intuizione che, indipendentemente dalla convenienza,
sia giusto accettarli e rispettarli? La mia posizione complessiva non ha simili
conseguenze; l’etica (normativa) ha in essa un ruolo sostanziale, anche se
diverso dalla ricognizione e dal chiarimento concettuale che competono alla
metafisica. In questo libro, destinato alla ricognizione del territorio ludico
e al chiarimento dei concetti che lo popolano, di etica non mi occuperò; ma non
voglio congedarmi dall’argomento che stiamo trattando senza notare che definire
l’arte un gioco percettivo ci offre un coerente e plausibile sistema di valori
interno per oggetti artistici. C’è chi gioca a scacchi e chi a filetto; chi a
bridge e chi a briscola. Tutti quanti possono divertirsi; ma è indubbio che, in
quanto giochi, gli scacchi siano meglio del filetto e il bridge meglio della
briscola. Il filetto è decidibile: esiste una strategia sicura per chiudere in
parità ogni partita. A briscola (quella comune, tralasciando le sue infinite e
complicate varianti) di solito vince chi pesca i carichi (soprattutto quelli di
briscola). Dopo un po’, ci si annoia. Gli scacchi e il bridge, invece, non
stancano mai: con un repertorio limitato a trentadue pezzi o cinquantadue carte
sanno proporci una messe inesauribile di combinazioni diverse e richiedere usi
sempre nuovi del nostro talento e della nostra ingegnosità. Si può capire come
per molti diventino un’ossessione; è difficile immaginare persone altrettanto
ossessionate dal filetto o dalla briscola. Con l’arte è lo stesso. Ogni oggetto
artistico ci mette in gioco, ma talvolta il gioco è esile e di scarso respiro.
L’orinatoio di Duchamp ha rivoluzionato la nostra prospettiva su pratiche sociali
consolidate (e ne ha irrimediabilmente scosso la solidità); ma dubito che
l’ennesimo esempio di arte «trovata» solleciti più di una scrollata di
spalle o di uno sbadiglio (in chiunque non sia un critico che su queste cose ci
vive o uno sciocco in cerca di «investimenti»). Guardiamo invece al viso della
Gioconda: le labbra atteggiate a un sorriso, gli occhi tristi e pensosi, e il
conflitto fra questi due poli della condizione umana proposto (ma non risolto)
in un’espressione di incomprensibile, miracoloso, fragile equilibrio. Se anche
avessimo un tempo infinito, potremmo non smettere mai di oscillare dall’uno
all’altro «suggerimento» e di stupirci di un ossimoro presentato con tanto
candore e tanta armonia. Il capolavoro di Leonardo è un perfetto oggetto
artistico perché in esso potremmo a lungo e ripetutamente perderci (illuderci)
e da ogni siffatta avventura emergeremmo con uno sguardo nuovo sul mondo.
8. Il fattore in gioco Una cosa che ho appena detto può dare adito a
perplessità, quindi devo affrontarla e risolvere il relativo problema prima di
proseguire. Ho detto che chi gioca a filetto o a briscola può divertirsi.
Questo magari succede perché non ha grandi doti intellettuali e il filetto e la
briscola sono alla sua altezza. Ma che dire di quanti si dilettano di giochi
semplici proprio nella loro semplicità, pur cogliendone perfettamente i limiti?
Di quanti godono della tombola natalizia con un piacere forse regressivo ma non
per questo meno intenso? Una volta a Parma, durante una presentazione di
Giocare per forza, uno spettatore mi rivolse una domanda analoga. «Quando ero
ragazzo» disse «i miei compagni e io “giocavamo” a guardar le macchine passare
per strada, e ci eccitava molto vedere una macchina inconsueta. In che senso un
gioco così è innovativo, esplorativo, istruttivo o trasgressivo? È di una
banalità assoluta; eppure noi ci divertivamo un sacco». L’osservazione è acuta
e pertinente: un buon esempio di quanto ci sia da imparare se, in un’occasione
pubblica in cui si parla del proprio lavoro e si dovrebbe avere completo
controllo della situazione, invece di reiterare una predica risaputa e inutile
si accetta di mettersi in gioco e di raccogliere gli stimoli straordinari che
ci vengono dispensati da chi dialoga con noi. Ma veniamo al punto. Supponiamo
dunque che una famiglia (allargata) costituita da persone di notevole spessore
intellettuale si ritrovi durante le vacanze di Natale per giocare a tombola.
Tutti sono consapevoli dell’estrema semplicità del rito; eppure le ore
trascorse in questa operazione d’imbarazzante infantilismo sono serene ed
eccitanti, gradevoli e ilari. Come spiegarlo? Se interrogati, i protagonisti
potrebbero giudicarla una forma di abbrutimento: una provvida parentesi fra
occupazioni di rigore e profondità encomiabili ma anche, a lungo andare,
insostenibili. Dobbiamo crederci? Dobbiamo ammettere che, in qualche caso, il
gioco e il suo piacere vadano cercati proprio nel carattere brutale ed
elementare di certi comportamenti? Nel puro sfogo che essi esprimono? Non necessariamente.
Basta osservare che, se stiamo giocando e se il presunto oggetto del
nostro agire è un’attività socialmente considerata ludica, non ne segue che
questa attività sia il gioco cui stiamo giocando. Forse stiamo giocando ad
altro, con la scusa di giocare a quel gioco socialmente riconosciuto. Che cosa
succede quando una famiglia (allargata) si ritrova per le vacanze di Natale?
Che persone con scarsa dimestichezza reciproca oppure (peggio ancora) con
ricordi di una dimestichezza ormai tramontata, alla luce del modo in cui sono
cresciute e maturate, si costringono a condividere spazi ristretti per qualche
giorno, con l’obbligo supplementare di manifestare ripetutamente reazioni
estatiche a tale improvvisa, temporanea, spesso faticosa vicinanza. Non devo
dilungarmi in dettagli: drammi di notevole veridicità (e crudeltà) sono stati
scritti in proposito. La tombola o la briscola possono allora costituire
un’area neutra nella quale sperimentare senza troppi rischi mosse e
atteggiamenti che in altri contesti potrebbero far male ma qui, nell’atmosfera
lieve di un gioco, hanno «corso legale» e consentono preziosi passi avanti nel
difficile compito di trasformare quella che di nome è una famiglia nel senso di
una concreta familiarità. Stiamo dunque assistendo a una scena in cui si
sovvertono e si rinnovano le proprie competenze e i propri ruoli, si esplorano
i propri rapporti con altri che, nonostante il disagio e l’occasionale
ostilità, sono pur sempre cari e s’imparano strategie per distillare l’affetto
dal disagio, e tutto questo accade mentre si gioca a tombola, ma non riguarda
la tombola. La delicatezza e la sottigliezza dei tentativi che vengono condotti
in quest’area protetta e la ricchezza di insegnamenti che se ne derivano (senza
rifletterci, senza neppure esserne consapevoli, ma in modo estremamente utile
per il prosieguo e il successo dell’effimera convivenza) sono lontane toto
coelo dall’insulsaggine degli ambi e delle cinquine. Considerazioni analoghe
valgono per i ragazzi che «giocano» a veder passare le macchine, o a chi
scorreggia più forte o dice più parolacce. Se pensiamo che il fattore in gioco,
in casi del genere, siano le scorregge o le parolacce, dovremo modificare
radicalmente la nozione di gioco che abbiamo elaborato. Ma non bisogna pensarla
così; e per capirne le ragioni dobbiamo distanziarci dalle etichette correnti e
anche da quelle che gli stessi giocatori (si) attribuiscono. Le competizioni di
cui sopra sono giochi, ma non è detto che chi gioca partecipando a tali
competizioni stia giocando a scorreggiare, e si stia divertendo perché
scorreggia. Forse sta giocando, esattamente nel senso in cui ho definito il
gioco, a qualcos’altro di ben più complesso (a socializzare con dei coetanei, a
mettere sotto pressione la sua fisicità ed emotività), mentre tutti i presenti
(e lui stesso) sono distratti dalle scorregge; ed è anzi importante che
ne siano distratti, perché altrimenti il gioco cui stanno davvero giocando non
sarebbe altrettanto trasgressivo e innovativo, esplorativo e istruttivo, e
piacevole. Questa osservazione mi consente di precisare il punto con cui ho
chiuso il capitolo precedente e di prendere posizione rispetto a un tema che
per molti autori ha grande importanza nel definire il gioco ma nella mia
trattazione, finora, è stato oggetto di commenti piuttosto negativi. Cominciamo
con la precisazione. Ho detto che la Gioconda è un oggetto artistico di sublime
efficacia e ho liquidato quanti salutano con entusiasmo un po’ di sassi
dispersi «ad arte» in un museo come stupidi o conniventi. Devo ammettere che
non è sempre così (per quanto riguarda i sassi). Talvolta l’entusiasmo è
genuino, e genuinamente ludico. Se è vero che la fruizione di un’opera d’arte è
un gioco che coinvolge insieme i sapienti indizi lasciati dall’autore e
l’attivo contributo dello spettatore nel trasformare quegli indizi in un gioco
percettivo, è anche vero che i due elementi coinvolti in questa interazione
possono esserlo in misura molto diversa: esiste anche qui uno spettro di
opzioni, che va da uno spettatore inerte, sedotto suo malgrado, a uno invece
iperdisponibile a raccogliere ogni più remoto, implicito invito – perfino ciò
che non potrebbe essere vissuto come un invito senza tale sua immensa
disponibilità. Socialmente, molte delle persone che si collocano all’estremità
benevola dello spettro sono vittime di una posa, di una moda, di chiacchiere
senza sostanza e senza costrutto. Per noi però, qui, non importa: non stiamo
facendo sociologia ma disegnando uno spazio logico, una struttura concettuale,
quindi è sufficiente che sia possibile un’alternativa meno funesta per doverne
rendere conto. E il conto è presto reso: così come si può giocare con passione
e con gioia, da bambini, con gli oggetti più banali, e impararne fondamentali
lezioni di vita, lo si può fare da grandi con le molte banalità che popolano i
musei d’arte contemporanea. In entrambi i casi, gli oggetti con cui si gioca
sono solo minimamente responsabili dell’emozione e del piacere provati e
dell’apprendimento che ne segue. Non sono essi il principale fattore in gioco:
è lo spettatore (o il bambino) a sobbarcarsi la maggior parte del lavoro.
All’estremo opposto dello spettro, oggetti come la Gioconda hanno un valore
universale in quanto sanno parlare anche a chi non è disposto a impegnarsi
personalmente per dar vita a un dialogo – sanno parlargli anche se resiste,
anche se fa di tutto per convincersi che non gli si stia dicendo nulla. Il tema
che finora è stato trascurato (o peggio) e su cui è bene spendere qualche
parola è il gioco d’azzardo. Un autore che gli attribuisce sovrana
importanza è Caillois, che se ne serve per porre un’ulteriore radicale
distinzione in campo ludico – tra il gioco infantile (e animale) e quello
adulto: I giochi d’azzardo appaiono giochi umani per antonomasia. Gli animali
conoscono i giochi di competizione, d’immaginazione e di vertigine [...]. In
cambio, gli animali, esclusivamente immersi nell’immediato e troppo schiavi dei
loro impulsi, non sono in grado di immaginare una potenza astratta e
insensibile al cui verdetto sottomettersi anticipatamente per gioco e senza
reagire. Attendere passivamente e deliberatamente un pronunciamento del fato,
rischiare su questo una somma per moltiplicarla proporzionalmente al rischio di
perderla, è atteggiamento che esige una possibilità di previsione, di
rappresentazione e di speculazione, di cui può essere capace solo un pensiero
oggettivo e calcolatore. Ed è forse nella misura in cui il bambino è vicino
all’animale che i giochi d’azzardo non hanno per lui l’importanza che ricoprono
per l’adulto. Per il bambino, giocare è agire (p. 35). Buona parte dei giochi
comunemente detti d’azzardo può già essere inclusa nella rete concettuale che
ho esposto. Nel poker, per esempio, sia le carte che mi vengono di volta in
volta offerte dal caso sia gli avversari che affronto (e su cui amplieremo il
discorso nel prossimo capitolo) possono essere visti come condizioni oggettive
del gioco, sue regole né più né meno della particolare natura geometrica di un
cubo o di una palla; e a queste condizioni io esprimerò la mia capacità e
creatività né più né meno che se giocassi a scacchi o a calcio. Sembra rimanere
totalmente esclusa da questo ambito, però, una classe di giochi in cui non si
può manifestare nessuna capacità o creatività, in cui non si può mai migliorare,
mai diventare buoni giocatori, in cui si può solo assistere imbelli al modo in
cui la sorte gioca con noi: il lotto, la roulette, le slots... Nella maggior
parte dei casi chi «partecipa» a tali giochi, ho sostenuto in Giocare per forza
e ripetuto qui, è vittima di un imbroglio, di un asservimento truffaldino delle
sue legittime aspirazioni liberatorie a rituali il cui unico scopo è
l’estorsione di (suo) denaro; il che contrasta con l’esaltazione prometeica,
nobile, perfino mistica dell’azzardo in Caillois e altri. Hanno semplicemente
torto, questi autori? Sarebbe un errore affermarlo, e l’osservazione fatta
sopra ci permette di capire perché. Il gioco del lotto, ho detto nel sesto
capitolo, è molto vicino al grado zero di ludicità; se mantenuto a livelli moderati,
ha l’unico effetto (e senso) di causare una periodica emorragia pecuniaria e
magari saldare alcuni debiti psicologici che una persona ha con sé stessa (o
con altri). Può anche essere praticato, però, a livelli eccessivi, e allora il
suo senso cambia. Allora, su basi del tutto inconsistenti ma con esiti non per
questo meno fatali, una persona può trovarsi alle prese con un gioco che non
accetta di farsi rinchiudere entro limiti precisi, il cui ambito invade tutti i
microcosmi limitrofi e attenta a quella che è considerata la sua vita vera – la
sua sopravvivenza e il suo benessere. Depurato di ogni altro aspetto, qui
il gioco compare nella pura forma di rischio; ed è innegabile che in esistenze
ordinate e ripetitive, consuetudinarie e noiose l’affiorare del rischio sia
vissuto come il richiamo a una vocazione dimenticata, a un impegno tradito con
sé stessi. Chi sperpera le proprie risorse puntando sui numeri del lotto, o
della roulette, o sulle combinazioni di una slot, sta dunque talvolta giocando
– o meglio, direi, formulando una solenne promessa di un gioco a venire. Ma
tutto ciò non riguarda il lotto: il lotto, in quanto tale, non ha un parametro
ludico di valore abbastanza cospicuo da poter essere considerato un gioco, così
come non si può considerare alto un nano. Con la scusa del lotto, il giocatore
sta mettendosi alla prova, rinunciando alla sua sicurezza economica, emotiva e
anche familiare e personale, chiamando in causa tutto quanto per lui appariva
già deciso, già stabilito, in attesa di un rispettoso necrologio. Siccome
questo mettersi alla prova è l’essenza stessa della vita, il fascino di un
simile azzardo è comprensibile; purtuttavia voglio insistere che, senza negare
il fascino, non siamo in presenza di un vero gioco ma (ripeto) della promessa
di un gioco. Ho detto nel quarto capitolo che la semplice trasgressione non
costruisce nulla e che far saltare in aria la propria dimora e incamminarsi
nella notte può essere il preambolo di un nuovo gioco ma non ne costituisce lo
svolgimento. Il puro azzardo va spiegato allo stesso modo: è il ripido crinale
su un precipizio che minaccia di inghiottire tutto quel che siamo e suggerisce
che potremmo essere altro, radicalmente altro. Ma non sarebbe gioco buttarsi
giù per il precipizio e non lo sarebbe rimanere immobili e attoniti sul
crinale, nonostante l’intenso brivido che entrambe le esperienze ci darebbero.
Sarebbe gioco, invece, familiarizzarsi con il crinale o il precipizio e
realizzarvi un inaspettato insediamento, o percorrere con destrezza crescente
il crinale fino alla prossima valle. Non compiacersi del brivido e del rischio,
insomma, o lasciarsene sopraffare, ma integrarli in quell’equilibrio con atti
educativi e costruttivi che Schiller giudicava manifestazione del vero impulso
ludico e della vera umanità. (Un discorso analogo, ma che poco ha a che vedere
con l’azzardo, si potrebbe fare per molti di quanti giocano al lotto con
moderazione; anche loro non giocano al lotto, ma facendo finta di giocare al
lotto partecipano a un gioco sociale costituito da messaggi onirici,
numerologia superstiziosa e magia metropolitana. Un gioco che diventa un
linguaggio per una comunità, e talvolta una sfida per quella comunità
«ufficiale» che è basata su rigorose procedure scientifiche, leggi comprovate e
soprattutto «autorità competenti» sentite come estranee e predatrici. Un
ulteriore esempio, questo, di come sia necessario chiedersi, per ogni caso di
esperienza [presunta] ludica, «A che gioco giochiamo?».) Il fascino e
l’esaltazione mistica dell’azzardo sono spesso legati, in autori quali Caillois
e Huizinga, all’attribuzione al gioco di una natura sacrale; è opportuno quindi
chiarire la mia posizione al riguardo. Sono d’accordo che esista un’analogia
formale tra il gioco e il sacro, in quanto entrambi sono definiti da precise
barriere (regole): «Formalmente la nozione di delimitazione è assolutamente una
e identica per un fine sacro o per un puro gioco» (Homo ludens). E sono
d’accordo che ci sia un’altra analogia fra la presenza dell’azzardo (del
rischio) nel gioco e nel sacro: L’esito del gioco d’azzardo è di natura una
sacra decisione. Lo è ancora laddove un regolamento dice: a parità di voti
decide la sorte. Solo in una fase progredita dell’espressione religiosa, sorge
la nozione che verità e giustizia si manifestano perché un dio guida la caduta
dei dadi o la vittoria nella lotta. Giurisdizione e ordalìe sono radicate
insieme in una pratica di decisione propriamente agonale, ottenuta sia con un
sorteggio sia con una lotta. La lotta per vittoria o perdita è sacra per se
stessa. Quando è animata da concetti formulati di giustizia e di ingiustizia,
allora si eleva nella sfera giuridica, e quando è dominata da concetti positivi
d’una forza divina, allora si eleva nella sfera della fede. Qualità primaria di
tutto questo è però la forma ludica (p. 125). La mia coscienza laica si rifiuta
di andare oltre. Uomini e donne giocano in ogni sfera della loro esistenza; in
particolare, esistono sacerdoti scherzosi e autori come Gilbert Chesterton che
parlano della religione come di una forma suprema di umorismo. Ma esiste anche
un sacro che è oppressione e nevrosi, gerarchia e cieca obbedienza, nel quale
vedo ben poco di ludico; e c’è un gioco che è sberleffo fatto a Dio (pensate
alla morte del Perozzi/Philippe Noiret in Amici miei) e violazione della
barriera o del recinto che ci rinchiudono – sacri o meno che siano. Perché
il legame fra gioco e sacro possa apparire convincente bisogna appunto
insistere sull’azzardo come elemento più autentico del gioco e quindi spingerlo
all’estremo, finché diventi l’Azzardo con la A maiuscola di Abramo o di Pascal.
E l’azzardo così concepito e vissuto ha un effetto paralizzante, che può essere
riscattato solo da un intervento esterno: da un’entità trascendente che ci
conferisca arbitrariamente una grazia. Non voglio negare che la grazia e
l’abbandono a essa ci salvino (anche se, per me laico, è la grazia che l’un
l’altro ci facciamo); ma in questa rarefatta atmosfera oracolare non trovo più
nulla della serena intraprendenza, dello sforzo ingegnoso, del piacere
insolente e, sì, del brivido presto dominato e a sua volta goduto che tessono
per me la trama del gioco. 9. Compagni di gioco Torniamo ancora una volta
alla bimba che gioca in una stanza. Il suo gioco incontra resistenze, ho detto,
che ne definiscono lo sfondo e ne articolano le regole. Nel modo in cui ho
descritto la situazione finora, le resistenze sono offerte da quelli che
comunemente denominiamo oggetti: le pareti, la palla, la spillatrice.
Immaginiamo però ora di introdurvi un altro essere umano: affianchiamo alla
bimba Sara un coetaneo di nome Tommaso e osserviamoli mentre giocano insieme.
In un certo senso, Tommaso e la palla presentano gli stessi problemi. Anche di
Tommaso bisogna tener conto, come della palla. La palla non vuol saperne di
rimanere in equilibrio sul cubo e Tommaso non vuol saperne di dare la palla a
Sara, quando l’ha afferrata dopo l’ennesimo scivolone dal cubo. In entrambi i
casi, questi inconvenienti possono causare violente frustrazioni (nel caso
della palla, come abbiamo visto, Sara potrebbe fare i capricci; con Tommaso
potrebbe litigare) oppure con entrambi si può arrivare (magari dopo una
successione di capricci e litigi) a una pacifica convivenza. Se e quando ci si
arriverà, Tommaso incarnerà un ulteriore insieme di regole cui il gioco deve
adeguarsi, un ulteriore insieme di spigoli esistenziali da scansare con
abilità, manipolandoli come si fa con gli spigoli fisici di una scatola o con
la rotondità della palla. Il comportamento di Tommaso diventerà parte della
struttura che Sara imparerà a riconoscere e sulla quale il suo gioco eserciterà
pressione, traendone lezioni di grande influsso su giochi futuri. (I maschi
sono prepotenti, concluderà per esempio Sara, ma facilmente distratti. Tommaso
stringe tanto forte la palla proprio perché io mostro di volerla per me. Basta
non farci caso, dedicarmi interamente a qualcos’altro, e la lascerà andare.)
Nel quarto capitolo ho citato un passo in cui Piaget giudica impossibile che un
bambino si dia regole da solo. Per il tramite di Émile Durkheim, secondo cui la
religione nasce dalla pressione del gruppo sull’individuo («Il gruppo [...] non
potrebbe imporsi all’individuo senza rivestire l’aureola del sacro e senza
provocare il sentimento dell’obbligo morale», Il giudizio morale nel bambino,
p. 98), questo giudizio lo porta a collegare una volta di più il gioco e il
sacro: La regola collettiva è dapprima qualche cosa di esterno
all’individuo e per conseguenza di sacro, poi a poco a poco si interiorizza ed
appare come il libero prodotto del consenso reciproco e della coscienza
autonoma. Ora, per ciò che riguarda la pratica, è naturale che al rispetto
mistico della legge corrisponda una conoscenza ed un’applicazione ancora
rudimentali del loro contenuto, mentre al rispetto razionale e motivato
corrisponda una conoscenza ed una pratica dettagliate di ogni regola (pp.
22-23). Una volta di più, non sono d’accordo: il bambino, come ho spiegato, può
darsi regole da solo purché queste siano viste come regole con il senno di poi
di chi ricostruisce retrospettivamente il suo sviluppo. Eppure, per una via che
Piaget non approverebbe, anch’io arriverò a concepire una forma di comunità
come condizione, se non proprio necessaria, almeno predominante di ogni gioco,
che per me è quanto dire di ogni gioco regolamentato: non tanto la comunità di
cui parla lui, costituita spesso da figure autoritarie che decretano le regole
(«Dal momento in cui un rituale viene imposto ad un bambino da adulti o da
ragazzi maggiori per i quali egli ha del rispetto [...] oppure [...] da quando
un rituale risulta dalla collaborazione di due bambini, esso acquista per la
coscienza del soggetto un carattere nuovo, che è precisamente quello della
regola», pp. 27-28), quanto piuttosto la comunità del suo teatro interiore.
L’itinerario cui ho appena accennato includerà questo capitolo e il successivo,
e il suo primo passo consiste nel notare che le situazioni descritte finora non
equivalgono a un giocare insieme. L’espressione «Sara gioca con Tommaso», e in
generale «X gioca con Y», può infatti essere intesa in due sensi piuttosto
diversi. Quello che ho descritto è il senso in cui Sara gioca con Tommaso come
gioca con la palla, o un adulto che disponesse di grande potere (e si
compiacesse di averlo, e di darne prova) potrebbe giocare con i suoi simili
come se fossero pedine della dama o birilli del bowling: il «con» in tali casi
introduce un complemento di mezzo. È anche possibile, e auspicabile (vedremo
perché), che il «con» introduca un complemento di compagnia: che Sara giochi
con Tommaso, o un adulto meno squallido di quello immaginato prima giochi con i
suoi simili, nel senso che Tommaso o gli altri adulti siano non elementi o
pezzi ma compagni del gioco. Che cosa succede quando si manifesta questa
seconda possibilità? Per capirlo, stabiliamo che un gioco sia costituito da una
serie di sfide rivolte all’ambiente (inteso sempre come ambiente esistenziale,
non soltanto fisico, quindi inclusivo di abitudini e aspettative), ciascuna
produttrice di una figura possibile ma di solito non realizzata in
quell’ambiente. Il letto è fatto per dormirci sopra e io (con grande fatica) mi
ci infilo sotto; l’interruttore è fatto per tenere la luce accesa o spenta e io
lo manovro in continuazione causando un costante lampeggiare (e, a lungo
andare, fulminando la lampadina); il tavolinetto è fatto per appoggiarci
bicchieri e tazzine e io lo uso come scalino per arrampicarmi sulla credenza.
Quando un gioco è praticato insieme da due o più compagni, quando cioè due o
più persone presenti al gioco vi sono presenti come giocatori, non come pezzi
del gioco (o come spettatori), ciascuno contribuisce ad accrescere il
repertorio di sfide di cui il gioco è costituito. Le sfide anzi si accavallano
le une sulle altre: se Tommaso usa il tavolinetto per arrampicarsi sulla
credenza, Sara ci metterà sopra un paio di grossi libri perché si riesca a
salire più in alto; se Sara s’infila sotto il letto, Tommaso vi trascinerà
anche palle e cubi, e tenterà di replicarvi tutte le evoluzioni che riuscivano
più facili all’aperto. Con tanta inventiva a disposizione, capiterà che qualche
sfida sconvolga le resistenze accettate come regole dai giocatori e cambi la
natura del gioco. D’accordo che la porta è chiusa e le pareti non retrocedono;
ma, guarda un po’, se spingi questa levetta la finestra si apre e tuffandosi
oltre il davanzale si esce in giardino! Ho detto che «costruire figure» è
un’espressione metaforica; talvolta però il gioco costruisce in senso
letterale. Seguiamo uno di questi episodi per un attimo, perché si tratta di un
tipo di costruzione che in seguito acquisterà notevole importanza. Spostiamo
Sara e Tommaso (più grandicelli) su una spiaggia e osserviamoli mentre
edificano un castello di sabbia. L’idea generale è semplice: si scava, con le
mani o con la paletta, e si usa il secchiello pieno di sabbia umida per
innalzare torri o il rastrello per raccogliere sabbia a forma di mura. Se un
solo bambino fosse responsabile dell’operazione, lavorerebbe eccitato per un
po’ e quindi forse rimarrebbe a corto di idee e si fermerebbe, contento di
rimirare il risultato; in due, invece... Uno pensa che con il secchiello si può
raccogliere acqua dal mare e circondare il castello con un fossato; l’altra
s’industria immediatamente a metterci sopra un rametto a mo’ di ponte, e il
primo allora va in cerca di una corda perché il ponte diventi levatoio. Una si
serve di una pietra per rappresentare il portone e l’altro ricopre il palazzo e
le mura di finestre e feritoie, e allora la prima fa sporgere armi dalle
feritoie, puntandole contro il nemico. Ogni nuova idea che l’uno offre cambia
il contesto in cui il gioco si muove, e nel contesto così mutato «viene
naturale» all’altra un’altra idea, che a sua volta cambia il contesto aprendosi
a ulteriori avventure, in una rincorsa ininterrotta di coraggio e creatività.
Un gioco coinvolge un certo numero di oggetti (talvolta puramente mentali, o
ideali), che il gioco usa entro limiti accettati come sue regole, e ha almeno
un soggetto che conduce la manipolazione: ha almeno un giocatore. Gli oggetti
possono essere inanimati, animati o anche umani; il soggetto sembra dover
essere animato (cani e gatti giocano, con gomitoli di filo, con topi o con i
loro padroni; al termine del libro suggerirò – già vi avevo accennato – che la
restrizione a soggetti animati, e forse la distinzione stessa fra enti animati
e non, sia da mettere in discussione). Un gioco che abbia un solo soggetto
sarebbe un solitario, e nel prossimo capitolo mostrerò come gli autentici
solitari siano rarissime eccezioni; ora m’interessa elaborare un altro punto,
illustrato dalla discussione condotta qui sopra. Un gioco che non sia un
solitario risponde infinitamente meglio alla sua natura di gioco, così come due
specchi paralleli dànno luogo a infinite riflessioni, perché moltiplica le
opportunità di trasgressione ed esplorazione, di apprendimento e relativo
piacere, permettendo a ognuno dei partecipanti di trarre spunto dal contributo
degli altri per mosse più libere e devianti di quanto lui mai sarebbe riuscito
a scoprire da solo. C’è però un risvolto meno edificante della faccenda: se è
vero che un gioco giocato insieme è più un gioco di uno giocato in solitudine
allora è anche vero che un gioco giocato insieme è più pericoloso di un
solitario. Quando prima ho parlato dei due bimbi che, riunendo le loro forze,
riescono a spalancare la finestra, molti avranno rabbrividito e io mi sono
affrettato a rassicurarli facendo capire che si trattava di una finestra al
pianterreno. Ma il problema era solo rimandato, non risolto, perché è chiaro
che i bambini di un altro esempio (come alcuni bambini reali, diciamo il figlio
di Eric Clapton) potrebbero fare la stessa scoperta ai piani alti di un
grattacielo, con esiti disastrosi. Il rischio continua, e anzi si accentua, fra
gli adulti, soprattutto fra i giovani adulti, che sovente si trovano spronati
dall’essere in gruppo a mosse devianti che ne mettono a repentaglio
l’incolumità (o la salute altrui) – e che non compirebbero isolati. Ogni
genitore avrà considerato eventualità del genere e molti, purtroppo, hanno
dovuto affrontare non il timore di un’astratta considerazione ma il dolore di
una concreta tragedia, non potendo capacitarsi di come il loro «bravo ragazzo»
(o brava ragazza) avesse potuto lasciarsi trascinare dalle «cattive compagnie»
a comportamenti distruttivi o criminali, e per lui (o lei) del tutto anomali,
addirittura irriconoscibili come suoi. Non intendo certo negare l’intensità o
la validità di tali preoccupazioni e sofferenze (sono un genitore anch’io), ma
insisto sulle tre tesi seguenti: (a) Le varie caratteristiche del gioco ne sono
componenti organiche e vitali, quindi il gioco va preso (o rifiutato) in
blocco, tutto insieme. Esplorazione e apprendimento non possono essere
disgiunti da violazione e rischio (per quanto il rischio possa essere ridotto
giocando «per procura»). (b) Il gioco è prezioso per la nostra forma di vita
(direi anzi per la vita in quanto tale), ne è una componente irrinunciabile:
meno gioco vuol dire meno umanità. (c) Il gioco è tanto più gioco se giocato
insieme, quindi (in ossequio alla formula aristotelica che fa dell’uomo un
animale sociale) siamo tanto più umani quanto più giochiamo con altri (dove il
«con» introduce un complemento di compagnia). Come gestire allora i pericoli e
i timori di cui ho detto? La mia risposta si applica in generale a tutti i
rischi in cui il gioco (anche solitario) incorre e a tutti i mali che può
causare: per proteggersene è opportuno non meno ma più gioco, e non meno ma più
gioco fatto insieme. Un ragazzo che sia stato troppo a lungo «bravo» e poco
avvezzo alla compagnia e all’esempio di altri sarà facilmente travolto dalla
prima circostanza in cui si ritrovi in un gruppo che agisca in modo
trasgressivo ed eccitante: per prepararlo a vivere questa circostanza con un minimo
di ragionevolezza nulla funziona meglio di una socializzazione ludica precoce e
continua, che lo metta in grado di riconoscere gli straordinari vantaggi ma
anche le trappole di una reazione a catena che può tanto riscaldare le nostre
emozioni e il nostro ingegno quanto bruciarli. L’unica cosa che mi ha dato
fiducia, quando ho pensato ai miei figli in tali circostanze (e in mia assenza)
è stato il fatto di sapere che in circostanze analoghe (pur se meno estreme)
c’erano già stati, in tempi in cui potevo ancora evitarne le conseguenze più
gravi. Il gioco dunque, e in particolare il gioco in compagnia, è, direbbe
Huizinga, «innegabile» (p. 20). Stabilita questa tesi, è il momento di
affrontare un aspetto del gioco che finora ho tralasciato e che per molti ne è
invece (come per altri l’azzardo) caratteristica essenziale: il fatto che esso
si presenti come competizione, come scontro, come lotta. In Giocare per forza
ho parlato di teoria dei giochi, come uno dei vari modi in cui il gioco è
violato e la sua natura distorta. La teoria dei giochi ha avuto origine
definendo «gioco» un’attività competitiva in cui si affrontano avversari con
l’obiettivo di batterli – di vincere quel che loro perdono (la teoria lo chiama
un «gioco a somma zero») – e su questa base ha conosciuto fortunate (e
sciagurate) applicazioni in politica e in economia. (Solo più recentemente ha
cominciato a studiare anche i giochi cooperativi, in cui i giocatori vincono
insieme.) In modo analogo, Piaget afferma che i giochi regolamentati (i quali,
come abbiamo visto, non esauriscono per lui tutti i giochi) sono
necessariamente competitivi e hanno necessariamente come obiettivo la sconfitta
di uno o più avversari: i giochi di regole sono giochi di combinazioni
sensorio-motrici [...] o intellettuali [...] con competizione degli individui
(senza di che la regola sarebbe inutile) e regolati sia da un codice trasmesso
di generazione in generazione sia da accordi momentanei (La formazione del
simbolo nel bambino, p. 209; corsivo aggiunto). il gioco di regole [...] è
ancora soddisfazione sensorio-motrice o intellettuale e, inoltre, tende alla
vittoria dell’individuo sugli altri (p. 247). È un sintomo rivelatore del
diverso atteggiamento espresso dalla mia teoria che le nozioni di avversario,
di competizione (o combattimento) e di vittoria non vi abbiano una dignità
autonoma o un senso unitario: in esse s’incontra ambiguamente una pluralità di
esperienze distinte, fra cui è bene non fare confusione. Per capirci,
supponiamo che io giochi a tennis con qualcuno. Posso giocarci come con uno
spigolo o una parete: dopo un certo numero di tentativi ed errori, capirò come
avere la meglio e ripeterò religiosamente (a proposito del sacro, e di quanto
spesso non sia ludico) le stesse mosse – quelle che hanno dimostrato di
«funzionare». Smetterò di esplorare, di trasgredire, di correre rischi e quindi
di imparare; il mio non sarà più un gioco. Posso anche, però, entrare in un
dialogo con l’altro giocatore in cui ciascuno inciti l’altro a mosse ignote e
avventate, per vedere che cosa càpita, e prima o poi l’ignoto diventerà
familiare e ciò che era avventato verrà eseguito con maestria; starò allora
giocando con un compagno e traendone tutta la ricchezza di stimoli, l’inventiva
e la soddisfazione che sempre derivano dal giocare insieme. Oppure posso fare
l’una o l’altra cosa per ottenere poi (c’è di solito uno scarto temporale, in
tal caso: il gioco è stato piegato alla logica di una prudente e oculata
gestione delle proprie risorse) un premio in denaro o una fama di ottimo
tennista; di conseguenza, se pure esploro e mi metto alla prova, corro rischi e
imparo, quello non è un gioco perché ha un fine strumentale ed esterno (oppure
è un gioco solo in quanto riesce ad affrancarsi da questo fine esterno e a
liberarsi, magari inconsapevolmente, dalla logica della prudenza). La
percezione del mio «avversario», in questi diversi casi, sarà molto diversa, e
sarà molto diverso che cosa voglia dire «combattere» o «vincere». Nel primo
caso si combatterà e si vincerà letteralmente: si affronterà un altro e lo si
ridurrà in proprio potere, perpetuando i sinistri riti della violenza (più o
meno simbolica). Nel secondo caso si combatterà per fare un passo avanti nel
gioco e si vincerà se si riuscirà a farlo; potrei dire che si combatterà con (e
si vincerà su) sé stessi, salvo che, come appunto spiegherò nel prossimo
capitolo, si è raramente soli quando si gioca, quindi preferisco dire che i due
giocatori combatteranno e vinceranno insieme superando lo stadio che il gioco
aveva prima raggiunto per ciascuno di loro. Nel terzo caso questa opportunità
di crescita, e il contributo che le dànno la presenza e l’azione del compagno,
saranno a loro volta asserviti alla volgarità e alla miseria dell’esercizio del
potere sull’altro – che può non essere il compagno stesso, il quale può
fungere invece da complice (da allenatore, per esempio). Non c’è nulla di
oggettivo o di neutrale, in conclusione, nel chiedersi chi sia il mio
avversario in un gioco o chi alla fine abbia vinto. Se queste domande sono
intese nel modo più comune, e sancito dalla più tradizionale teoria dei giochi,
ciò che ne traspare è un’istanza maligna che nega al gioco la sua libertà, il
suo abbandono e anche il suo specifico piacere (che non è quello di abbattere e
umiliare un altro giocatore). Dobbiamo cogliere l’ambiguità e – qui davvero, e
nel senso più ovvio – combattere perché il gioco non ne esca con le ossa
rotte. 10. Azione! Il gioco che più appassiona i bambini è quello di
impersonare chi li circonda, soprattutto chi li incuriosisce o li attrae (in
senso positivo o negativo). Talvolta mimano attività in cui hanno visto
occupati i protagonisti del loro universo familiare – genitori, zii, fratelli
maggiori. Li vediamo allora affaccendarsi intorno a finti fornelli, sgridare una
bambola che fa le bizze, distendersi su una sedia abbandonati alle cure di un
«parrucchiere»; la mia figlia più piccola, quando aveva da poco imparato a
parlare, riempiva quaderni di geroglifici incomprensibili e, a chi le chiedesse
che cosa stava facendo, rispondeva con sussiego «Faccio i compiti». Talaltra
ricalcano con imbarazzante fedeltà gli atteggiamenti, le espressioni, i
manierismi di un altro: li vedi corrugare la fronte, spingere avanti il petto,
usare parole e frasi idiosincratiche in un modo così sfacciato ed estremo
(proprio per la sua innocenza) che non può non sembrare caricaturale e invitare
al sorriso (ma vedi più avanti). Il tutto culmina in manifestazioni molto
appariscenti: le mascherate con lenzuola e tovaglie davanti allo specchio, le
facce dipinte con colori di guerra, le vite alternative vissute con amici,
parenti e spesso figli immaginari. Le feste commerciali rivolte a pratiche
analoghe e destinate a rinvigorire periodi di stanca del mercato – il vecchio
carnevale, il più recente Halloween – non sono che citazioni esauste di tanta
passione, sensibilità e allegria. Gli adulti non sono da meno. L’umanità, ho
sostenuto altrove, non è che una forma superiore (cioè più raffinata, più
articolata) di scimmiottamento: tutti riceviamo frammenti di personalità da
amici del cuore, sconosciuti intravisti una volta sul tram, artisti di successo
o anche individui odiosi e ributtanti ma tali da imporsi alla nostra
attenzione, sia pure per un minuto. E niente ci dà più piacere dell’inscenarli
in una pantomima: complici una buona bevuta o una situazione di alto tenore
emotivo, imitiamo con gusto, con abilità, con estrema attenzione ai dettagli.
Il momento migliore di Novak Djokovic, secondo me, non è stato uno dei suoi
servizi fulminanti o dei suoi incredibili recuperi difensivi, e neppure uno dei
tanti trionfi nello Slam o nella Coppa Davis: si è verificato in uno dei primi
turni di Flushing Meadows, qualche anno fa, quando ancora aveva vinto
poco e a un tratto, prima di una partita, dilettò il pubblico copiando con
sorprendente precisione i tic in fase di battuta di Rafael Nadal e Maria
Sharapova. Il piacere che ne provarono gli spettatori era analogo a quello di
cui ho parlato nel settimo capitolo, esaminando il rapporto fra un artista e il
suo pubblico: l’artista crea e noi ne riconosciamo l’azione perché abbiamo in
noi la capacità (magari latente) di vedere o ascoltare quel che lui vede o
ascolta (e quindi mostra); l’attore «entra» in un personaggio e noi ne godiamo
perché comprendiamo che cosa voglia dire entrarci. Nell’antica Atene la
naturale teatralità dell’essere umano era non solo praticata e apprezzata: in
un mondo privo di scritture sacre in cui sentenze e parabole erano raccolte dai
testi poetici, drammaturghi e commediografi dominavano la vita culturale. Da
ciò Platone si dissocia con severità nella Repubblica, bandendo ogni
rappresentazione teatrale dal suo Stato perfetto. Anzi, non proprio ogni
rappresentazione: il filosofo ha una sua teoria in proposito, e ragionarne ci
aiuterà a proseguire nel nostro cammino. La teoria si compone di due tesi
principali, una descrittiva e una normativa. In primo luogo, Platone sostiene
che ogni recita ha delle conseguenze sul carattere di un individuo: assumere un
ruolo significa identificarsi, per quanto parzialmente e temporaneamente, con
quel ruolo, e l’identificazione lascerà tracce nella nostra identità – la
contaminerà con le caratteristiche del personaggio di cui ci siamo presi
carico. Da allora in avanti, volenti o nolenti, non saremo più soltanto noi stessi:
avremo incorporato un estraneo che continuerà ad abitarci, anche se forse in
sordina e in disparte. Questo estraneo potrebbe essere un criminale o un
mostro: pensiamo a Bruno Ganz che recita la parte di Adolf Hitler nel film La
caduta, oppure a Medea o Riccardo III. Ma potrebbe essere Gandhi interpretato
da Ben Kingsley, o Atticus Finch interpretato da Gregory Peck, o semplicemente
una brava persona come il Mr. Smith di James Stewart che va a Washington a dire
la sua. Qualcuno vorrebbe fare delle differenze fra questi casi: può essere
pericoloso imitare un malvagio, direbbe, ma non c’è nulla di preoccupante nel
farlo con individui normali, o addirittura encomiabili. Qui interviene la
seconda tesi di Platone, quella normativa, che stigmatizza non solo la
cattiveria ma ogni forma di diversità: ciascuno dei cittadini della repubblica
è «tagliato» per uno specifico compito, cui deve assolvere con la pazienza di
una formichina, e qualunque attività possa distrarlo da tanta devozione va
rifuggita come la peste. Bando a ogni passione estranea, dunque; bando a ogni
musica ritmata e suggestiva; e bando soprattutto all’infezione che il contatto
con ogni altra indole, con ogni altro repertorio di mosse e di abitudini
potrebbe causare in un individuo così letteralmente «tutto d’un pezzo». Se pure
si trovasse su un palco, davanti a un pubblico, il nostro eroe non dovrebbe che
recitare monologicamente, monodicamente e (diciamolo!) monotonamente sé stesso,
per confermare e rafforzare quella coerenza inesorabile del suo io che sarebbe
invece attenuata e imbastardita dall’affiorare di impulsi e gesti alieni (e
queste sono le uniche rappresentazioni teatrali ammesse da Platone nella sua
repubblica). Ho già detto che in questo libro eviterò perlopiù i discorsi
normativi. Sono in totale disaccordo con i valori enunciati da Platone, ma
caliamoci sopra un velo e limitiamoci a una considerazione. La repubblica
ideale sarà forse di casa nel mondo della realtà più autentica, quella
illuminata dal sole che i prigionieri della caverna non vedono; nella caverna,
però (dove i prigionieri, varrà la pena di notare, sono continuamente testimoni
di uno spettacolo, anzi di uno spettacolo fatto di ombre, un vero e proprio
antesignano del cinema), domina non quella realtà, con tanto di noiosa
conformità alle proprie tendenze e funzioni e «sano» orrore per ogni tentazione
ad allargarne l’ambito, ma invece l’«apparenza» difettosa e biasimevole di cui
Platone ci ha appena dato una brillante descrizione. Ciascuno di noi (nel mondo
terreno) non fa che scimmiottare e scopiazzare il suo prossimo, e l’operazione
(Platone insegna) non è innocua: nel compierla, ciascuno di noi diventa un po’
il suo prossimo, lo incarna, fa del suo corpo un palcoscenico su cui l’altro
può giocare il suo ruolo. È una delicata questione metafisica se, quando un
attore recita un personaggio, faccia appello a qualcosa che gli appartiene o si
adegui a un modello esterno; anche a tale riguardo ho le mie idee e le passerò
qui sotto silenzio. Perché in ogni caso la pratica di un attore e di tutti noi
in quanto attori, in quanto osservatori e imitatori della molteplicità, umana e
non, che abbiamo intorno, è sempre la stessa: che il germe di un personaggio ci
ingravidi a sorpresa con una sua forma che possiamo solo accogliere passivamente,
come avrebbe detto Pirandello, o giaccia invece sepolto negli abissi della
nostra psiche, come avrebbe detto Stanislavskij, l’unico modo per far crescere
tale germe, per attualizzarne la possibilità, per farlo venire al mondo,
consiste nel prestare attenzione a come si è sviluppato ed è maturato in altri,
nell’emulare questi altri passo passo, nel rifletterne movenze ed espressioni –
forse inconsapevolmente ma efficacemente. E magari facendo loro violenza,
perché riduciamo la loro complessità a un ritratto in filigrana, a una singola
voce che arricchisce il nostro coro, o perché perdiamo di vista il loro
significato schiacciandolo su uno schema puramente motorio. Come farebbe un
bambino: il bambino che rimane dentro di noi e lì non cessa di godere del suo
gioco più intenso e appassionante. (Un gioco che, sia detto fra parentesi,
spesso finisce per indispettire quel che c’è di più platonico negli adulti:
quando un bambino fa il verso a qualcuno, è facile passare dal divertimento e
dalla tenerezza all’irritazione e al rimprovero.) La recente scoperta dei
neuroni specchio ha dato dignità scientifica a questa intuizione: gli esseri
umani si riflettono l’uno nell’altro e si capiscono perché vivono sia pur
vicariamente, sia pure in modo traslato le medesime esperienze. Io so quel che
fai perché mentre lo fai in certa misura (come preparazione all’atto, non come
atto vero e proprio, e comunque in senso appunto solo motorio) lo faccio
anch’io: mi atteggio e mi dispongo come vedo fare a te, e con tali atteggiamenti
e disposizioni sono in grado di seguirti nel tuo percorso. La prossima volta
forse, in tua assenza, saprò inoltrarmici da solo. Incontriamo così di nuovo la
biologia e di nuovo stupiamo dell’avvedutezza con cui un piacere tanto vivo è
associato a una qualità di grande importanza evolutiva. L’essere umano (ci
ricorda ancora Aristotele) è un animale sociale: non si realizza, non diventa
quel che dovrebbe essere se non in comunità con altri esseri umani, traendone
esempio e stimolo per foggiare il suo comportamento. La microfisica
dell’umanità, dunque, l’atto elementare che, costantemente ripetuto e
ricombinato in mille forme con sé stesso, ci rende umani, è il modesto miracolo
dell’imitazione di un esempio. Di alcuni di questi atti saremo intimamente consapevoli:
guarderemo ai loro archetipi con venerazione e sentiremo un profondo impegno
nei loro confronti; ne riceveremo ispirazione e indimenticabili modelli di vita
e di saggezza. Ma casi tanto sublimi non avrebbero luogo (né lo avrebbero le
mode che con stanca regolarità uniformano un’intera generazione a uno
stereotipo) senza l’umile sottobosco del rispecchiamento quotidiano: di quegli
impercettibili aggrottamenti di sopracciglia, torsioni del naso, accenti
peregrini con cui ci riscopriamo bambini impertinenti. Quel nostro aspetto così
serio e edificante ci è possibile perché da piccoli abbiamo giocato e da grandi
abbiamo continuato, spesso nostro malgrado, a giocare, a impersonarci l’un
l’altro. A impersonare anche i malvagi, perché anche da loro c’è da apprendere,
fosse solo per rimanerne alla larga: nel dramma della vita, insegna Plotino,
servono anche i cattivi caratteri, per dare la massima completezza all’insieme.
C’è di più. Quello dell’imitazione non è solo uno dei tanti giochi che,
inaugurati con aspetto dimesso nell’infanzia, sanno crescere con l’età fino
a raggiungere splendide vette. È la base che sottende tutti i giochi, il
materiale di cui ogni altro gioco si nutre. Per capirlo, torniamo sui nostri
passi e riprendiamo in esame un contrasto che avevo segnalato nel capitolo
precedente (suggerendo che potesse risultare poco significativo): quello tra
giochi solitari e giochi fatti in compagnia. Chiediamoci: esistono davvero, i
solitari? Tanto per cominciare, un bambino non giocherebbe affatto se non fosse
coinvolto in un ambiente emotivo in cui si sente (comunque stiano concretamente
le cose) in compagnia di qualcuno, sotto gli occhi (benevoli) di qualcuno. «Il
“bambino in carenza”» dice Winnicott «è notoriamente irrequieto ed incapace di
giocare» (p. 162). Questo perché «il gioco implica fiducia e appartiene allo
spazio potenziale tra (quelli che erano in origine) il bambino e la figura
materna, con il bambino in uno stato di dipendenza quasi assoluta e la funzione
adattativa della figura materna presa dal bambino per scontata» (p. 90;
traduzione modificata). In termini epigrammatici, «il bambino è solo soltanto
in presenza di qualcuno» (p. 154). Che dire allora dell’adulto? Osserviamo una
situazione in cui io stesso sono occupato in un gioco senza altri partecipanti
o testimoni, magari in uno di quei giochi di carte che si chiamano proprio
«solitari», e poniamoci riguardo a questo particolare episodio la stessa
domanda formulata sopra: sono davvero solo, mentre gioco? Posso immaginare
circostanze in cui la risposta sia «Sì», ma si tratta di circostanze aberranti,
eccezionali. Se giocassi automaticamente, pensando ad altro, potrebbe capitarmi
di fare una mossa a caso e poi, ritornato improvvisamente in me stesso,
rendermi conto che la mossa è vantaggiosa e acquisirla come strategia
consapevole, perfino abituale. Oppure la casualità potrebbe essere frutto di
disperazione: le ho provate tutte e niente funziona, quindi provo una mossa
assurda, che assurdamente funziona. Circostanze del genere non sono da escludere:
anche un comportamento individuale obbedisce alle leggi dell’evoluzione, dunque
non è escluso che in esso si verifichino mutazioni stocastiche. Ma non è così
che il mio comportamento si evolve nella maggior parte dei casi. Quasi sempre
mentre gioco «da solo», prima di fare una mossa, io esploro più o meno
sistematicamente e consciamente una serie di alternative, e ne traccio almeno
per un po’ le conseguenze, cioè mi colloco, colloco svariati «me stesso», in un
certo numero di mondi possibili – ciascuno contraddistinto da una particolare
mossa – e confrontando fra loro queste diverse eventualità decido infine quale
sia la mossa da fare, o il mondo possibile da abitare davvero. I vari me stesso
coinvolti nel processo di deliberazione appena descritto avranno caratteri
diversi: qualcuno sarà più audace e qualcun altro più cauto, ci sarà chi
ama le carte rosse e chi le nere, chi non si dà pace se non saltano fuori
presto i re e chi è disposto a lasciarli nel mazzo fino all’ultimo; e a loro
volta tutti questi diversi caratteri li avrò mutuati, in generale, da persone
che ho incontrato, da cui ho tratto lezioni e le cui lezioni adatto alla
situazione in cui mi trovo, selezionando quelle che mi sembrano più opportune.
Insomma, se conduco il gioco in quel modo specifico è perché altri, le cui
mosse e strategie ho incorporato, stanno giocando con me (complemento di
compagnia) e aiutandomi a vedere la situazione in tanti modi diversi – a
metterla appunto in gioco. La morale di questo discorso è che gli autentici
solitari sono, come già accennavo, rarissimi. Succede assai raramente che
quello spostamento di prospettiva, quell’esplorazione di terreni non altrimenti
battuti, quella violazione di quanto è noto e consueto che costituiscono il
gioco mi arrivino dal nulla, non abbiano a fondamento che un mio cieco
arbitrio. Quel che succede più di frequente, invece, è che gli apparenti
solitari (e le apparenti «idee originali» con cui dò un contributo «creativo» a
un gioco fatto con altri) siano giochi fatti in compagnia di persone
fisicamente assenti ma ben presenti nella mia pratica. E come ottengono la loro
presenza tali persone assenti? Ho usato la parola «incorporato» poco fa,
applicando la stessa metafora di quando prima ho parlato del fare del nostro
«corpo un palcoscenico su cui l’altro può giocare il suo ruolo» (e prima ancora
ho espresso il rifiuto platonico di questa forma di metabolizzazione del nostro
prossimo): la presenza degli assenti si ottiene imitandoli – scimmiottandoli
oppure atteggiandosi e disponendosi come loro secondo il modello dei neuroni
specchio. Fatta salva la sporadica occorrenza di mosse devianti e ludiche che
emergano dal puro caso, l’imitazione è la madre di tutti i giochi: ogni altro
gioco si svolge su una scena che il gioco dell’imitazione ha popolato di
personaggi e storie. Ho sempre trovato affascinante il fatto che la battuta che
dà inizio a ogni ripresa cinematografica sia «Azione!». A prima vista, la
battuta non ha senso: quel che la segue non è un’azione; al massimo la rappresenta;
coloro che vi «agiscono» non stanno facendo quel che pretendono di fare, e
tutti lo sanno – loro stessi, il regista, il pubblico. Perché «Azione!»,
allora? Ci saranno senz’altro motivi contingenti che hanno dato origine alla
battuta, ma non m’interessano; m’interessa invece che sia rimasta, perché se è
rimasta il motivo è, ritengo, che c’è in essa una profonda, illuminante
giustizia. Nella rivoluzione concettuale proposta nel quinto e sesto capitolo
la vita umana era intesa come un insieme di giochi più o meno regolamentati,
più o meno vincolati a parametri fissi, e per converso più o meno
espressione di libertà; il gioco era la norma e le attività solitamente
giudicate serie erano giochi ristretti e limitati. Qui possiamo arrivare alla
medesima radicale costellazione di idee per una strada diversa (in un
labirinto, strade diverse ci portano spesso a un’identica meta). Che cos’è
un’azione? È corsa sul posto, routine, acquiescenza a ogni abitudine e
aspettativa? È ripetizione del già agito? Forse, ma solo nel senso della
straordinaria intuizione kierkegaardiana per cui l’unica vera ripetizione
sarebbe una novità, e le stesse cose non sono mai le stesse cose. Nel comune
senso della parola, invece, nella comune ideologia che informa il senso della
parola, una ripetizione non è un’azione. Il mio computer non agisce quando
applica alla lettera (ripetutamente) le istruzioni che gli ho dato: tutto quel
che c’era da fare l’hanno fatto le istruzioni, il computer non «fa» che
confermarle. Solo una mossa che cambia qualcosa, che stupisce, che scombina le
carte è un’azione, solo allora siamo attivi. Quindi solo il parametro ludico
del nostro comportamento lo costituisce come azione, nella misura in cui si
manifesta. Solo il gioco è azione. Ma è nella teatralità, ho detto, che il
gioco trova il suo humus, il terreno fertile sul quale crescere, e una
produzione cinematografica ha il pregio di mostrarci questa teatralità ridotta
a scene elementari, a quella che ho chiamato la microfisica dell’umanità, il
modesto miracolo dell’imitazione di un esempio. Niente più di tale costante e
ripetuto (!) miracolo merita di essere annunciato con «Azione!». 11.
Giochi di parole A questo punto del nostro percorso ci troviamo davanti a un
abisso, non meno impervio e minaccioso di quello che nel canto XVII
dell’Inferno separa Dante da Malebolge, e che il poeta e la sua guida riescono
a superare solo aggrappandosi a Gerione, mostruosa e malevola bestia. Abbiamo
compiuto un’accurata perlustrazione di tutta l’ampia e variegata area dei giochi
fisici, quelli che coinvolgono i nostri organi e sensi corporei e ci permettono
di percepire altri oggetti nello spazio e di interagire con essi. Abbiamo
scoperto nel gioco di una bimba elementi con un ruolo identico a quello delle
regole del calcio; abbiamo esplorato il gioco fatto insieme, nello stesso modo,
da bambini e da adulti; abbiamo perfino catturato nella nostra rete le arti
figurative, plastiche e musicali come giochi sensoriali. Rimane però il fatto,
sembra, che il nostro corpo non esaurisce il nostro essere: che quest’ultimo
contiene anche, molti direbbero, componenti spirituali che non occupano spazio,
che palesano anzi una radicale alterità nei confronti di tutto ciò che occupa
spazio. A una di tali componenti ho accennato nel secondo capitolo, quando ho
paragonato il modo in cui la bimba apprende qualcosa dal suo gioco al procedere
della scienza. Chiaramente quello della scienza è un procedere metaforico, un
metaforico «inoltrarsi in un terreno ignoto»: la scienza non si muove (per
quanto gli scienziati lo facciano) e non può letteralmente procedere o
inoltrarsi. Lo stesso vale per la poesia, la filosofia e tutte le altre
discipline di natura verbale o mentale; se pure riuscissimo a dimostrare che
queste discipline hanno un carattere ludico, come potrebbe esserci più di
un’analogia fra il loro carattere ludico e quello, diciamo, del tennis? Come
potrei continuare a insistere che il tennis e il «gioco» dell’Etica spinoziana
sono (sia pur dialetticamente) la stessa cosa? Qui sono in ballo (in gioco) due
cose diverse, ci ha insegnato Cartesio: la nostra anima è una cosa distinta dal
nostro corpo, dunque gioca ad altri giochi. Il meglio che io possa fare, si
concluderà, è trascurare questa differenza ed evidenziare alcuni tratti che
tali diversi giochi hanno in comune: tornare cioè precipitosamente a una
visione analitica del gioco che lo riduca a un’essenza astratta e abbandoni al
suo destino tutta la zavorra – in particolare la zavorra fisica – che
finora mi sono trascinato dietro. Non sono d’accordo. Ai giochi verbali e
mentali voglio arrivare come Dante arriva in Malebolge, con tutto il mio corpo
e ancora vivo (cioè giocoso), non facendomi sostituire da un ectoplasma. E, se
ciò cui intendo aggrapparmi per eseguire questo salto mortale non è una bestia
mostruosa, è però un’inversione che qualcuno giudicherà altrettanto mostruosa
nell’ordine logico in cui solitamente (e ingannevolmente) vengono disposti i
termini della questione. Qui sopra ho accennato un po’ di corsa a «discipline
di natura verbale o mentale»; ora però è bene rendersi conto che verbale non è
lo stesso che mentale – uno si riferisce a parole e l’altro a idee o concetti –
quindi se verbale viene associato a mentale si tratta d’intendersi su come
funziona l’associazione. Più precisamente, si tratta di decidere se verbale
vada spiegato partendo da mentale, cioè mentale sia la base, il fondamento e
verbale quel che gli si associa, che su tale fondamento si regge, o se invece
valga l’inverso. Chi accetti la radicale distinzione fra anima e corpo
sceglierà il primo corno del dilemma. Per esempio, un filosofo del linguaggio
come Geach (che, non a caso, ha scritto anche su Cartesio) ci dirà che, se pure
una scimmia o il vento nel deserto emettessero un suono del tutto
indistinguibile dalla parola «albero», quella non sarebbe un’occorrenza della
parola «albero» perché ciò che rende «albero» una parola non è il suo suono ma
il suo significato, e solo una mente (che, presumibilmente, né la scimmia né il
vento hanno) ha accesso a quelle cose astratte, ideali, non spaziali,
spirituali insomma, che sono i significati. Quasi un secolo prima di Geach, il
fondatore della linguistica contemporanea Ferdinand de Saussure aveva
addirittura stabilito che il rapporto di significazione valesse fra due oggetti
mentali – la rappresentazione mentale del suono «albero» (non il suono stesso)
e la rappresentazione mentale di un albero – trasformando di fatto la
linguistica in una branca della psicologia e il linguaggio in qualcosa che
compete solo a enti che abbiano una psiche (un’anima, appunto) e solo in quanto
tali enti esercitino le loro funzioni psichiche (non in quanto abbiano un
corpo). La drastica scissione che cartesianamente attraversa ciascuno di noi
viene così esaltata a livello cosmico: tutto l’essere, non solo il mio, è
radicalmente diviso fra uno spirito che parla perché è consapevole del
significato di quel che dice e una natura che è irreparabilmente muta – anche
se emette suoni, e quale che sia la ricchezza e complessità di tali suoni, non
vuole dire nulla. Se in principio era il Verbo, non si trattava del Verbo in
quanto lo sentono le mie orecchie, ma in quanto lo capisce la mia mente. Io
scelgo la direzione inversa: è la mente a reggersi sul linguaggio e non c’è
differenza sostanziale, sebbene certo ci siano molte differenze specifiche, tra
il linguaggio di un essere umano e quello di una scimmia o del vento. Ci vorrà
una buona dose di testardaggine per rimanere attaccati a questa mostruosità, ma
confido che facendolo sarò in grado di superare il baratro che incombe e
traghettare il gioco verso sublimi creazioni spirituali senza perderne per
strada la fisicità. Nel resto di questo capitolo mi occuperò dunque di giochi
verbali e nel prossimo di quelli mentali. Cominciamo definendo con esattezza il
problema. La teoria tradizionale del linguaggio, cui io mi oppongo e di cui
Geach e de Saussure sono autorevoli rappresentanti, afferma quanto segue: Il
linguaggio è un mezzo di comunicazione fra menti. Quando io parlo con un
interlocutore A, ho un certo contenuto B (un’idea, un desiderio, un giudizio)
nella mia mente, lo codifico in un linguaggio che suppongo A conosca ed emetto
dei suoni che in quel linguaggio significano B; A recepisce i suoni, li
decodifica e acquisisce il contenuto B, che d’ora in poi avremo in comune. La
comunicazione ha avuto successo e il linguaggio ne è stato prezioso ma in fondo
inessenziale strumento. Se io so che sono le cinque meno un quarto e ti dico
«Sono le cinque meno un quarto», anche tu verrai a sapere che sono le cinque
meno un quarto; ma è un peccato che per informarti di che ora sia io debba
scegliere un percorso così tortuoso. Sarebbe tanto più semplice se tu potessi
leggere nella mia mente, se la comunicazione potesse avvenire per via
telepatica. C’è da stupirsi che per una volta l’evoluzione si sia impegolata in
un rituale maldestro e aperto a ogni sorta di inconvenienti (cattiva pronuncia
da parte mia, cattiva ricezione da parte tua, insufficiente competenza
linguistica, rumori di fondo...). Come combatterò questa teoria? Dimostrandola
sbagliata? Solo un ingenuo si porrebbe un simile obiettivo: introducendo
opportune complicazioni, una teoria può essere protetta da dati empirici
«recalcitranti» o sue inerenti assurdità. Il modello geocentrico afferma che
Mercurio e Venere girano intorno alla Terra ma noi li vediamo sempre molto
vicini al Sole? Niente paura: basta aggiungere un certo numero di epicicli e i
conti tornano. Il mondo è sovrappopolato e io rifiuto categoricamente ogni
forma di controllo delle nascite? Perché dovrei preoccuparmi? Forse che un Dio
onnipotente, dopo averci detto «Crescete e moltiplicatevi», non saprà salvare
capra e cavoli? Una teoria avversa non si affronta cercando di confutarla ma
costruendole accanto un’altra teoria più plausibile, più potente, più elegante
e lasciando che sia il pubblico a decidere. Nella peggiore delle ipotesi, se il
pubblico rimanesse fedele alla concorrenza, avremmo almeno ampliato il numero
delle opzioni disponibili: avremmo allargato il gioco. Albert Mehrabian,
professore di psicologia alla Ucla, afferma che, quando una persona ci comunica
i suoi sentimenti o stati d’animo, solo il 7% della fiducia che ci ispira,
quindi dell’efficacia della comunicazione, dipende dalle parole che usa, mentre
il 38% dipende dal suo tono e il 55% dal suo comportamento non verbale, o body
language – il che spiegherebbe fra l’altro perché veicoli eterei e immateriali
come la posta elettronica diano origine a tanti malintesi e corti circuiti
emotivi. A riprova della capacità di resistenza delle teorie, un fautore della
posizione tradizionale non si lascerebbe turbare da fatti del genere.
Categorizzerebbe malintesi e corti circuiti come incidenti di percorso
(privilegiando così la norma sui dati, per quanto frequenti) e aggiungerebbe al
modello un epiciclo: la mente non codifica il suo significato in un messaggio
soltanto verbale ma in una performance inclusiva di gesti, atteggiamenti del
viso e del corpo, ritmi e inflessioni di voce. (Già il fatto che il relativo
comportamento venga qualificato come body language segnala il tentativo di
asservire il corpo a ulteriore elemento di trasmissione di un contenuto che non
gli appartiene.) Io invece prendo questi fatti molto sul serio e ne traggo la
morale opposta: noi comunichiamo, cioè ci capiamo reciprocamente e mettiamo in
comune non solo sentimenti e stati d’animo ma anche idee e opinioni, perché
siamo innanzitutto corpi e una lunga consuetudine a vivere in mezzo ad altri
corpi (e a rispecchiarne le mosse) ci ha educato a coglierne ogni variazione,
ogni indugio, ogni forzatura come significativi, né più né meno di quanto un
esperto marinaio sappia trarre le conseguenze di ogni minimo trasalimento della
massa d’acqua al cospetto della quale vive e opera (o una scimmia sappia fare
con un’altra scimmia, con il mare o con i visitatori dello zoo – per il vento
occorrerà attendere la fine del libro) Una piccola parte delle mosse fisiche
che comprendiamo e mediante le quali comunichiamo è costituita dall’emissione
di suoni, e anche qui capiremo di più e comunicheremo meglio quanta più
familiarità avremo con il corpo che ci funge da interlocutore – con il tipo di
suoni che ce ne possiamo aspettare. Con uno sconosciuto adotteremo
comportamenti guardinghi e stilizzati, sintomo dell’incertezza e apprensione
che proviamo; chiederemo per esempio nel tono più neutro possibile che ore
siano, ed è paradossale che la tradizione che qui sto contestando assuma casi
di natura così marginale e deviante come modelli ideali di comunicazione. Per
me l’ideale sono invece i casi in cui varie persone sono immerse in un progetto
o in un impegno comune, e le parole che si scambiano sono perlopiù ridondanti,
echi di quel che si è già comunicato in modo non verbale: un’asserzione
diffonde e ufficializza quanto tutti hanno già riconosciuto, un’espressione
d’incoraggiamento conferma il sostegno emotivo che tutti già avvertono. (E,
invece di suggerire parlando di body language che il comportamento sia una
specie del genere linguaggio, preferisco suggerire che il linguaggio sia una
specie del genere comportamento usando termini come linguistic behavior.) Ma,
si dirà, il linguaggio non è usato solo in situazioni come quelle che ho
descritto, in cui l’ascoltatore è in presenza di quel che gli viene comunicato:
in cui un sentimento, un’intenzione o un’idea sono espressi da un parlante che
gli è direttamente accessibile, con tutto il suo essere, e quel che il parlante
dice è in buona parte superfluo, considerando in quanti altri modi «dice» la
stessa cosa. Il linguaggio è un prezioso mezzo di comunicazione perché ci
permette di comunicare anche significati che ci sono assenti. Il parlante può
raccontarci che cosa gli è capitato ieri in ufficio, o che disastro ferroviario
sia avvenuto in India, e non solo: può essere lui stesso assente e raccontarci
queste cose al telefono, o scrivercene in una lettera o per posta elettronica;
e noi acquisiremo comunque tali informazioni, ne sapremo di più alla fine dello
scambio di quanto ne sapessimo all’inizio. Non è comunicazione, questa? E non è
suo strumento un linguaggio distaccato dal corpo? Non intendo negare simili
ovvietà. Teorie alternative devono spiegare gli stessi fatti, non scegliersi i
fatti più convenienti, ma li spiegheranno stabilendo diverse relazioni di
dipendenza, collocando diversamente gli accenti; dunque mi prenderò la libertà
di rimandare a più tardi la spiegazione del linguaggio come racconto e
formulerò invece una domanda che sembrerà, a chi sostenga la priorità del
mentale, mettere il carro davanti ai buoi. Mi chiederò: se la funzione
fondamentale del linguaggio non è quella comunicativa, quale potrebbe essere?
Ai miei avversari sembrerà che io possa porre tale domanda solo dopo aver
fornito un’interpretazione convincente, dal mio punto di vista, del carattere
narrativo del linguaggio; ma cambiare teoria (ripeto) vuol dire anche cambiare
priorità, e in particolare ritengo che il racconto linguistico diventi
perfettamente comprensibile se prima rispondo alla mia domanda. Nel quinto
capitolo ho detto che un gioco come il calcio o gli scacchi è un microcosmo
nel quale rappresentare mosse ludiche che sarebbe in generale troppo rischioso
praticare «dal vivo» e ho discusso la logica della rappresentazione: qualcosa è
sempre rappresentato da qualcos’altro, quindi gli è simile per certi aspetti ma
se ne differenzia per altri. Se mai si verificasse una situazione in cui il
gioco vicario che abbiamo condotto dovesse rivelare la sua utilità (in cui
l’elaborazione di piani intricati per guadagnare un alfiere dovesse aiutarci in
una manovra di aggiramento diretta a conseguire una promozione), c’è da sperare
che a risultare decisivi siano gli aspetti in cui i due contesti sono simili,
non l’infinità di aspetti in cui non lo sono. Stando così le cose, una
rappresentazione che somigli di più all’originale sarà più utile di una che gli
somigli di meno: più riuscirà a seguirlo nei suoi dettagli, nelle sue
modulazioni, nella sua incalcolabile architettura frattale, più sarà probabile
che, quando si abbia a che fare con l’originale, si sappia come muoversi con i
dettagli che allora risulteranno pertinenti. Nessun mezzo rappresentativo
disponibile agli esseri umani può rivaleggiare su questo terreno con il
linguaggio (sebbene il computer, affermavo in Giocare per forza, stia emergendo
come un pericoloso candidato): l’eccezionale quantità e qualità di suoni che
riusciamo a produrre ci permette di costruire rappresentazioni estremamente
particolareggiate di oggetti, situazioni ed eventi, e di esplorare ludicamente
queste rappresentazioni con vantaggi potenziali molto maggiori di quelli
consentiti da un gioco sportivo o da un gioco di carte. Il linguaggio è, in
primo luogo, uno spazio di gioco.nGuardate al modo in cui un bambino vive il
linguaggio. Spezza le parole, le stiracchia, le unisce in aggregati inconsueti
e scorretti, è attratto dalle loro risonanze, dal rumore che fanno, e spesso
combina quei rumori con altri che noi giudicheremmo «inarticolati»; per lui le
parole sono oggetti da manipolare, mettere sotto pressione e violare tanto
quanto palle e cubi. Questa, per me, è la scena primaria del linguaggio, il
prototipo che ne chiarisce il ruolo e il senso. In età adulta, a rimanere più
vicini all’intimità e al calore della scena primaria sono i poeti; sono loro
più di chiunque altro a giocare con le parole e a trattarle, giocandovi, come
cose. Ancora una volta reinterpretando il passato alla luce del suo futuro,
dunque, vedendo il bambino alla luce del poeta che promette di diventare,
potremmo dire che l’uso primario del linguaggio è quello poetico. Il che
equivarrebbe a riascoltare bene questa parola: poieo è fare, in greco, quindi
il poeta è creatore, e lo è proprio in quanto gioca, perché solo chi gioca
inventa, supera l’esistente nel nome di un processo innovativo che solo il
gioco consente di realizzare. Se le parole sono (trattate come) cose le si
potrà associare ad altre cose, e mediante tali associazioni costituire quelle
corrispondenze fra parole e cose che sono alla base del significato delle
parole. Quando ero piccolo a casa dei miei nonni, d’estate, raccoglievo tappi di
bottiglia (di birra, di Coca-Cola) e poi li usavo per rappresentare eserciti e
battaglie. Ogni tappo era un soldato, e quando il tappo era rovesciato il
soldato era morto. Detta altrimenti: ogni tappo significava un soldato, e che
il tappo fosse rovesciato significava che il soldato era morto. Nel linguaggio,
invece di tappi, pedine o gettoni, e invece delle configurazioni in cui possono
comparire tappi e pedine, usiamo nomi e verbi e loro configurazioni, di cui
abbiamo imparato il significato (le associazioni) osservando e scimmiottando
padri e madri, cugini e amici di famiglia, e acquistando attraverso i nostri
errori una dimestichezza sempre più sottile con le mille sfumature, cadenze e
intonazioni che organizzano quei significati, in modi mille volte più complessi
di tappi e pedine, mille volte più disponibili a scatenare la fantasia ludica.
Ogni gioco ha delle regole, abbiamo visto: va a sbattere contro spigoli e
pareti. Nel caso di un gioco linguistico, del linguaggio in quanto gioco, le
regole non sono ostacoli o limiti fisici ma sociali. Ho usato il termine
«scorretto» per spiegare come un bambino opera con le parole; un atto è
scorretto (o corretto) in relazione a una norma, ed è la società a imporre le
norme linguistiche e a designare quello del bambino come un comportamento
linguistico scorretto. Lasciato a sé stesso, il linguaggio non fa che seguire
un’inarrestabile deriva metaforica e metonimica, trasformato costantemente dai
poeti che lo abitano (cioè da tutti coloro che lo parlano) e che tendono a
volgerlo in un gergo familiare o di gruppo e infine in un idioletto,
comprensibile solo a chi lo parla. Ma la libertà – lo sappiamo – è rischiosa;
bisogna limitarne l’ambito e il potere. Intervengono allora discipline
(ascoltiamo anche questa parola: anche le sue associazioni ci dicono qualcosa)
normative: grammatica, logica, semantica, retorica, stilistica, che sanciscono
quali combinazioni di parole siano accettabili, quali associazioni fra parole e
(altre) cose siano significanti, a quali fra le molteplici tappe della deriva
linguistica si possa attribuire l’etichetta di un significato letterale
(cercando così di fermare la deriva: un significato letterale è una metafora o
metonimia su cui ci siamo arenati), quali ritmi e cadenze abbiano valore estetico.
L’uso comune del linguaggio si colloca su uno spettro analogo a quello discusso
nel sesto capitolo (anzi, è proprio lo stesso spettro). A un estremo c’è
l’assoluta licenza di una vocalizzazione esasperata; all’altro gli anodini
enunciati della filosofia del linguaggio anglosassone – «The fat cat sat on the
mat; he saw a big rat», «Il gatto è sulla stuoia»: perfettamente grammaticali,
costruiti con termini assolutamente privi di ambiguità, ciascuno
indissolubilmente legato a una singola associazione, e proprio per questo,
direi, incapaci di esprimere un qualsiasi significato o dar vita ad alcuna
comunicazione. Né l’uno né l’altro degli estremi (per quanto citato nei testi
di filosofia del linguaggio) è mai effettivamente realizzato; quel che incontriamo
nelle nostre quotidiane vicissitudini è un universo multiforme di mediazioni
fra gli estremi. Incontriamo parole e frasi che in certa misura fanno ossequio
alle norme (tanto maggior ossequio quanto minor fiducia abbiamo nell’ambiente)
e in certa misura le trascendono colorandole di esperienze personali,
immettendovi il gusto saporito, talvolta un po’ nauseante, di una sceneggiata
che coinvolge tutto il corpo, non solo le labbra e la lingua. Come in ogni
altro caso, regole rigorose diventano l’occasione per una creatività più
raffinata, per un gioco più sagace anche se indubbiamente più difficile, come
il bridge è più difficile della briscola. Pensate a quanto è costrittiva la
forma di un sonetto: quattordici endecasillabi divisi in due quartine e due
terzine, rimati secondo pochi e precisi schemi. Come ci sarebbe da aspettarsi,
la grandissima maggioranza dei sonetti è mediocre e noiosa – adiacente
all’estremo regolamentato dello spettro linguistico. Quando però recitiamo (la
poesia va recitata ad alta voce, per motivi che ora dovrebbero essere ovvi!) un
capolavoro di Dante, Petrarca o Foscolo, ci rendiamo conto che senza quelle
costrizioni non avremmo potuto scoprire tanta ingegnosa libertà, e goderne. E
la medesima libertà è espressa, non sempre a questi livelli, da ogni
parlante/poeta in ogni linguaggio: quando inventa una battuta, adatta a nuovo
uso una parola, raccoglie e concentra le sue emozioni in una frase a effetto,
improvvisa una cantilena per un figlio che non vuol saperne di dormire. In
ciascuna di queste occasioni la vocazione ludica del linguaggio si riattiva: le
regole diventano un trampolino per un tuffo ancor più avvitato e carpiato,
invece che una camicia di forza. È arrivato il momento di affrontare il
linguaggio dell’assenza e, nel farlo, di distinguerne con cura le due modalità
che prima avevo indicato. Il linguaggio, dicevo, può essere usato da un
parlante per descrivere qualcosa di cui il suo interlocutore non è e non è
stato testimone; in tal caso, è il significato del linguaggio a essere assente
(a chi ascolta). Ma, aggiungevo, anche il parlante può essere assente:
l’interlocutore può essere fisicamente solo e il linguaggio apparirgli come
testo scritto. Questa seconda modalità sembra ora la più inquietante, per la
mia posizione. Che cosa ne è in essa della corporeità della comunicazione,
delle parole trattate come cose, della libertà di giocarvi e di creare? Quando
leggo un resoconto scritto di una seduta parlamentare o di una sparatoria, di
solito non ne conosco l’autore (il suo è per me «un mero nome»): capisco quel
che c’è scritto perché le parole hanno il loro significato abituale e le frasi
sono composte in modo grammaticalmente corretto. Sarà vero che molti testi di
filosofia del linguaggio mi restituiscono un’immagine stantia e retriva del
loro argomento; ma anche questi testi sono scritti in un linguaggio, e io li
leggo e li capisco. Capisco «The cat is on the mat» e capisco il senso di
questo esempio. Non è vero dunque che i testi scritti suggeriscono una visione
del linguaggio del tutto opposta alla mia, e affine a quella tradizionale?
Andiamo per gradi. Consideriamo prima il caso in cui il contenuto di un
racconto ci sia assente (non ne siamo stati testimoni) ma la persona che lo
racconta ci sia presente, e immaginiamo che più persone ci facciano un racconto
con lo stesso contenuto, descrivano per esempio lo stesso disastro ferroviario
in India. Ne segue che tutti ci comunicano la stessa cosa? Che, pur assumendo
che controllino al massimo i loro movimenti e mantengano un volto impassibile,
ne riceviamo le medesime informazioni? Forse sì, se intendiamo «informazione»
nel senso più comune, e profondamente legato al modello mentalistico del
linguaggio: un pacchetto di enti immateriali (chissà come faranno degli enti
immateriali a entrare in un pacchetto!) che va trasferito da una mente
all’altra. No, invece, se ascoltiamo quel che «informazione» ci sta dicendo: se
a contare per noi è quanto una comunicazione ci forma, ci cambia, ha un
influsso temporaneo o permanente su di noi. Se prendiamo il termine in questa
seconda accezione (che io preferisco), dovremo ammettere che le parole scelte
da ciascuno dei narratori fanno un’enorme differenza per l’efficacia del suo
discorso: che il loro suono, il tono e il ritmo con il quale sono pronunciate,
le loro associazioni, le risonanze o dissonanze che hanno con altre parole
dello stesso discorso, la forza con cui tutte queste parole sono concatenate
l’una con l’altra suggerendo un’immagine unitaria e l’inventiva con cui questa
immagine si rinnova senza sosta, illuminando angoli oscuri e chiamando in causa
prospettive balzane, possono coinvolgerci in un gioco vivido ed eccitante, in
cui costantemente elaboriamo aspettative sul prossimo passo e le vediamo
confermate o contraddette, e proviamo sorpresa e frustrazione e incanto e
disgusto, e alla fine sentiamo di aver percorso noi stessi quel territorio e di
conoscerlo bene anche se ciò non è vero – anche se il territorio non somiglia
affatto a quel che ci è stato comunicato e ci ha informato. Oppure le parole
possono essere spente e banali, sfilacciate e risapute, e dovremo fare un
grosso sforzo per mantenere desta l’attenzione su quel che vogliono dire perché
sembra che non vogliano dire niente, e alla fine ci sarà difficile ricordarle e
capire che cosa è successo, in India. Un logico sentenzierebbe che entrambi i
discorsi esprimono lo stesso pensiero e hanno lo stesso valore di verità, e
magari sarà così, quando «pensiero» e «valore di verità» siano stati definiti
in modo opportuno; ma allora si dovrà concludere che pensieri e valori di
verità hanno poco a che fare con quel che succede quando ci raccontiamo
qualcosa. Il linguaggio non è mai dell’assenza. L’assenza esiste, non ci sono
dubbi: cose e persone ci mancano, spesso per sempre. Ma il racconto non ha
altra funzione che evocare queste cose o persone: la parola è innanzitutto
magica. Con le sue limitate risorse – qualche nota, qualche alterazione di
timbro o volume – richiama quel che non c’è e lo fa essere, anzi fa essere
qualcosa che s’ispira a quel che non c’è, e che forse ne è molto diverso ma
adesso con questa scusa ci è diventato presente. E la magia del linguaggio non
è mai disgiunta dal suo carattere ludico: la seconda volta che ascoltassi lo
stesso racconto, formulato con le stesse parole, non evocherebbe più nulla e io
mi troverei a pensare ad altro. Solo un linguaggio che esplora e sovverte,
inquieta e soddisfa, solo un linguaggio giocoso, può raccontare. Anzi, meglio:
solo un linguaggio in quanto giocoso, in quanto esplora e sovverte, inquieta e
soddisfa, perché come al solito i nostri racconti quotidiani sono compromessi
fra trasgressione e conformismo, scoperta e stereotipo, quindi sono racconti
fino a un certo punto. Al limite, se il linguaggio fosse usato in modo
puramente rituale e prefissato, non lo staremmo nemmeno a sentire. Veniamo ora
alla scrittura. Anche qui c’è uno spettro di possibilità, e anche qui la mia
posizione e quella avversa assumono come paradigmatici i due diversi estremi
dello spettro. Per i miei avversari il modello di comunicazione scritta, cui
ogni altra si deve uniformare, è il dispaccio d’agenzia: «Ieri alle ore 18.05
la Corea del Nord ha lanciato un missile verso Seoul». Io parto dall’estremo
opposto: così come l’archetipo del linguaggio è per me la poesia, l’archetipo
del linguaggio scritto è la prosa letteraria. In un dispaccio d’agenzia – anzi,
per la precisione, secondo il modo ideologico in cui la posizione avversa
interpreta un dispaccio d’agenzia – le parole non contano: basta esprimere il
significato giusto, inteso come entità astratta e mentale. In un testo
letterario, invece, è chiaro che le parole contano, e noi le sentiamo anche se
leggiamo «a mente»; e sono parole scelte con creatività e maestria (con la
maestria di un grande giocatore) a far nascere per noi dalla pagina dei
personaggi, delle avventure, delle passioni, un mondo. Parole diverse, se pure
dicessero «la stessa cosa» (quella che la posizione avversa concepirebbe come
la stessa cosa) non avrebbero lo stesso effetto, o non avrebbero alcun effetto.
E, se un dispaccio d’agenzia mi colpisce, se entra davvero in circolo nella mia
persona, se non si perde fra i rumori di fondo, è perché sa trasmettermi
tutt’altro che un resoconto neutrale e oggettivo di un semplice fatto (come
vorrebbe l’ideologia cui mi oppongo): perché il suo linguaggio economico ed
essenziale conferisce invece maggiore urgenza ai timori e alle ansie che si
sono immediatamente scatenati in me appena ho visto queste parole insieme –
«Corea del Nord», «missile», «Seoul», «ieri». A suo modo, questo dispaccio
(fittizio) è un riuscito aforisma. Riassumiamo. Ho forse dimostrato che non
esistono i significati come entità astratte e accessibili solo a delle menti, e
che non è il rapporto con significati astratti a qualificare il linguaggio come
tale? a fare di un suono o di uno scarabocchio una parola o una frase? No di
certo. Dopo tutto quel che ho detto, anche chi volesse accettarlo potrebbe
credere che, in aggiunta a tutto quel che ho detto, ci sono i significati
astratti ed è la loro presenza a conferire dignità linguistica a suoni e
scarabocchi. Ma non era mia intenzione dimostrare niente del genere. Quel che
ho cercato di fare è stato difendere una tesi più debole ma per me d’importanza
cruciale: dei suddetti significati non abbiamo bisogno, possiamo farne a meno.
Il nostro linguaggio, anzi il nostro comportamento linguistico, è parte del
flusso continuo di tutto il nostro comportamento, che noi siamo in grado di
interpretare nei nostri simili o in noi stessi (perché ho detto quel che ho detto?)
così come interpretiamo l’annuvolarsi del cielo o il latrato di un cane. Come
con ogni altro aspetto del nostro comportamento, anche con il linguaggio
possiamo giocare; ed è qui che esso rivela la sua unicità, perché nessun altro
mezzo a nostra disposizione è tanto duttile, tanto articolato, ricco di tanti
dettagli e aperto a tante variazioni, quindi tanto generoso nell’offrirci
giochi d’insondabile profondità e complessità – microcosmi infinitamente
interessanti e istruttivi. Questa essenziale natura ludica del linguaggio si
combina con le sue altre caratteristiche dando luogo a ogni sorta di
mediazioni. Capiamo un altro che parla come capiamo un altro che cammina; ma,
parlando, quell’altro può esplorare e trasgredire e farci piacere e farci paura
molto meglio che camminando, e possiamo capire anche questo, e lasciarci
coinvolgere in questo gioco, e farcene trasportare in posti dove non siamo mai
stati, in compagnia di persone che non abbiamo mai visto. E possiamo creare lo
stesso miraggio senza nemmeno parlare, scrivendo parole in un libro come
questo; e le parole scritte evocheranno un significato se sono scelte con cura,
la stessa cura con cui uno scacchista prepara la sua prossima mossa – cura di
rassicurare e stupire al tempo stesso, di confermare e destabilizzare. Ho
chiarito come si possa arrivare, partendo da questa visione, a spiegare l’uso
del linguaggio per chiedere che ora sia, ma sono convinto che, se questo fosse
l’uso principale del linguaggio, esso sarebbe da tempo diventato non meno vestigiale
dei denti del giudizio. Temo che possa diventarlo, ho detto, che all’orizzonte
si profili minaccioso un terribile concorrente. Ma so che se non lo è ancora
diventato è perché nel linguaggio, più e meglio che altrove, si gioca.
All’inizio di questo capitolo mi ero assegnato il compito di «traghettare il
gioco verso sublimi creazioni spirituali senza perderne per strada la
fisicità». Che il lettore sia o meno d’accordo con le idee che sono venuto
sviluppando, avrà capito in che senso io intenda riconoscere un importante
elemento di fisicità in sublimi creazioni come sono spesso quelle poetiche o
letterarie. È ancora lecito, però, potrebbe chiedere, che io qualifichi tali
creazioni come spirituali? Non ho lasciato cadere lo spirito, o anima o mente che
dir si voglia, rifiutando la dualità cartesiana? Non sono rimasto, quindi, in
un universo che non ha più nulla di spirituale – un universo fatto solo di
corpi, eventualmente poetici o letterari? Non è, lo stesso obiettivo che mi
sono posto, prova evidente di una mia confusione, come se volessi ammettere
oggetti, o attività, che appartengono contemporaneamente all’ambito fisico e
spirituale? In realtà sono queste domande a provare qualcosa: quanto sia
difficile liberarsi di un pregiudizio. Per loro tramite il cartesianesimo,
scacciato dalla porta, rientra dalla finestra. Detta nel modo più semplice e
chiaro possibile, lo spirito (o la mente, o l’anima) può solo essere un modo di
vivere il corpo: non esiste uno spirito indipendente dal corpo. Un corpo si anima
quando i suoi atteggiamenti e le sue mosse si colorano di spirito ludico: è
spirito (o mente, o anima) in quanto gioca. (Potrei dire «in quanto danza»,
purché per danza s’intenda una pratica creativa, non puramente rituale e aperta
ai movimenti della parola e del pensiero: una danza nello spazio esistenziale.)
La visione cartesiana ci fornisce uno spirito a buon mercato: anche se giaccio
del tutto inerte, o la mia vita è inchiodata senza speranza di salvezza alla
routine più inflessibile, sono comunque una mente, una sostanza pensante;
all’ottusità del mio corpo è comunque offerto questo riscatto. Per me invece lo
spirito compare quando il corpo si accende di vitalità; il suo fiato è quello
che avverto quando qualcosa mi stimola, mi provoca e mi risveglia; e occuparsi
di libri o concetti non dà nessuna garanzia che lo spirito sia presente – basta
guardare al mondo accademico per rendersene conto. Siccome anche gli estremi di
questo spettro sono astrazioni teoriche e ogni nostra vicenda ha luogo come mediazione
fra di essi, tutti noi siamo in ogni momento corpi/spiriti, in parte animati e
in parte inerti. Lo siamo, però, non come convivenza di due entità radicalmente
distinte ma come coesistenza di due distinte modalità di comportamento di una
medesima entità. E, in conclusione, posso approvare Huizinga quando dice che
«il gioco, qualunque sia l’essenza sua, non è materia» (p. 21) ma non perché si
riveli in esso un carattere soprannaturale. Il gioco non è materia perché è
spirito, cioè materia che si reinventa incessantemente, così come il non-gioco
(cioè la materia) è spirito in coma. I Pensieri stupendi dell'Aosta sono
stupendi. L’aspetto fondamentale della tradizione cartesiana è stato denominato
in tempi recenti (posteriori a Cartesio) «accesso privilegiato». Consiste nella
tesi seguente: la mia vita mentale, privata, mi è del tutto trasparente; io ne
colgo con assoluta limpidezza ogni particolare; in proposito non posso
sbagliarmi. Posso sbagliarmi sul fatto che ci sia un elefante in questa stanza,
ma non sul fatto che io lo veda e sia sicuro di vederlo. E sono l’unico
detentore di tale certezza: chiunque voglia sapere che cosa provo, penso o
voglio, non può far altro che chiederlo a me – io sono l’unica autorità al
riguardo.Ci sono voci molto accreditate che si oppongono a questa tesi. La
psicoanalisi stabilisce quali siano le mie intenzioni o i miei desideri in base
a un’osservazione del mio comportamento ed eventualmente in contrasto con le
intenzioni e i desideri che io mi attribuisco. La neurofisiologia ritiene di
poter determinare se ho un’emozione consultando immagini del mio cervello. Ma,
per quanto in difficoltà fra gli specialisti, l’idea cartesiana che io sia
padrone a casa mia (cioè nella mia mente) continua ad aver fortuna nella
cultura popolare, sostenuta da potenti alleati: la responsabilità religiosa che
ognuno deve assumersi per i suoi peccati, la responsabilità legale che deve
assumersi per i suoi crimini, la responsabilità politica che deve assumersi per
il suo voto. In tutti questi casi, il fattore decisivo è quel che l’individuo
ha voluto fare, e solo lui (e magari il suo Dio) sa che cosa sia. Gli altri, al
massimo, potranno fare congetture sulle sue intime motivazioni ed emettere un
verdetto al di là di ogni ragionevole dubbio. Ciò che è comunque al di là di
ogni dubbio, ragionevole o irragionevole, è il cogito: il rapporto che il
soggetto ha con sé stesso come sostanza pensante. A giustificare questa
convinzione c’è il modo in cui viene concepito il rapporto: lo amministrerebbe
la funzione nota come coscienza, un flusso continuo di attenzione rivolto alla
nostra vita interiore, incapace di errore, custode della verità del nostro
essere. Io so che cosa provo, penso e voglio perché la mia coscienza me ne dà
un responso infallibile; nessun altro ha la mia coscienza, dunque nessun altro
ha diretto accesso ai miei dati. Ho affermato altrove che la coscienza così
concepita è un mito: non esiste un flusso continuo di attenzione a sé stessi
che abbia il compito di farci appurare tutto quel che accade in noi, ma una
serie di episodi indipendenti e frammentari in ciascuno dei quali dalla
molteplicità che noi siamo (che ciascuno di noi è) emerge un giudizio negativo,
un’obiezione, verso l’istanza che in quel momento occupa il proscenio e sta
dirigendo i lavori. La coscienza come flusso continuo e coerente è il risultato
di un’azione politica (reazionaria): di uno stravolgimento di tale episodico
esercizio critico che ha come scopo la conservazione dell’ordine sociale –
ritenendoci costantemente osservati, si spera che ci comporteremo bene. Qui non
intendo sviluppare ulteriormente l’argomento, se non per notare un punto in cui
questo discorso interseca i nostri temi attuali. La visione mentalistica del
significato sostiene che siano le mie esperienze mentali, le stesse che
Cartesio giudicava infallibili, a determinare la dignità linguistica delle
parole e frasi che pronuncio o scrivo, dicevo nel capitolo precedente, e io
sostengo l’inverso (e sostengo che quelle esperienze siano tutt’altro che
infallibili). La mia posizione richiede così che si contesti il presunto
carattere originario del mentale, caratterizzandolo invece come dipendente dal
non-mentale, e per raggiungere questo obiettivo comincerò ascoltando ancora una
volta una parola. «Privato», che nella tradizione cui mi oppongo è sinonimo di
«mentale», è un termine negativo, perché ciò che è privato lo è in quanto
privato di qualcosa, come un bimbo è privato d’affetto o un operaio del suo
lavoro. Qual è dunque la privazione che costituisce il dominio privato del
soggetto e della sua mente? Il gioco è rischioso, e abbiamo visto quante
barriere si erigano per evitare che faccia troppo male. Un adulto proteggerà lo
spazio in cui giocano i bambini: chiuderà porte e finestre, toglierà di mezzo
gli oggetti che possano essere ingoiati, nasconderà i fiammiferi. Quando sarà
lui stesso a giocare, troverà più conveniente scagliarsi contro un avversario
su un campo di calcio o tessere trame su una scacchiera piuttosto che nel
quartiere o in fabbrica. E spesso parlerà soltanto di quel che potrebbe fare
invece di farlo: si accontenterà di esplorare microcosmi linguistici in cui
ogni mossa è lecita invece di coinvolgere in analoghi movimenti il (resto del)
suo corpo. Ma non si è mai abbastanza cauti: una parola avventata, detta con
sovversivo spirito ludico, può ferire l’interlocutore, suscitare i sospetti del
principale, essere presa troppo sul serio da una «testa calda». Allora la
nostra specie (e forse non solo, ma è arduo decidere la questione) ha
introdotto un’ulteriore misura cautelare: molte parole sovversive, molte
associazioni inappropriate, molti racconti fantastici che attentano alle norme
del vivere civile li enunciamo solo a noi stessi, li vocalizziamo senza
emettere alcun suono, senza neanche muovere le labbra – li priviamo di ogni
contatto con l’esterno. Ecco in che senso il mentale dipende dal verbale: i
pensieri sono parole non dette – immagini mnestiche di tali parole, secondo
l’espressione freudiana – perché l’interlocutore giusto, che potrebbe capirle e
apprezzarle, non c’è o forse non c’è mai stato, e noi abbiamo imparato, dopo
molti sforzi e qualche delusione, a farle risuonare in un pubblico silenzio,
unici testimoni della loro presenza. Lo spazio abitato dai pensieri è l’esatto
opposto di quello cartesiano. Quello era popolato di infinite idee, acuto e
perspicace nel cogliere quanto sfuggisse ai sensi del corpo, solidamente
risolto in sé stesso e pronto a sollevare dubbi su tutto ciò che non gli
appartenesse. Questo è parassitario, anaclitico, povero di contenuto e di
struttura, in costante pericolo di venire assorbito nel pubblico
chiacchiericcio. Non voglio negare che esistano persone con straordinarie
capacità di concentrazione; la realtà di noi comuni mortali, però, è che ci
risulta estremamente difficile seguire un’idea senza perdere il filo, o
cogliere il rapporto che questa idea ha con quell’altra che abbiamo avuto ieri;
e intanto il mondo incombe e disturba il fragile equilibrio che siamo
penosamente riusciti a costruire, e dopo un attimo tutto crolla e non
ricordiamo più nemmeno che cosa stavamo pensando, o perché ci sembrava così
importante. Se uno di noi comuni mortali vuole far chiaro «dentro sé stesso» e
capire che cosa sta pensando, deve fare un passo indietro in questo percorso e
abbozzare un testo, un diagramma, un disegno su un pezzo di carta. Si chiama
«pensare attraverso la scrittura» ed è un luogo comune per chiunque si occupi
di processi creativi; ma l’ipoteca cartesiana ci impedisce di comprendere la
lezione che ci sta impartendo. Il pensiero è fondato sul linguaggio; i singoli
pensieri non sono che parole o frasi private dell’audio; la mente non è altro
che la capacità di parlare un linguaggio silenzioso (e si noti che sto parlando
della mente, non del cervello, cioè dell’organo di enorme complessità ed
efficienza che presiede, perlopiù inconsciamente, a tutte le nostre funzioni).
Quando questa capacità mostra i suoi limiti, si ritorna alla base: talvolta ci
si racconta ad alta voce quel che si stava cercando di seguire nel pensiero, più
spesso lo si scrive. Con buona pace di Cartesio, non è proprio vero che la
mente ci fornisca idee più chiare e distinte di quanto faccia il corpo: nella
mente regna di solito una grande oscurità e confusione, che si può dissipare
solo eseguendo movimenti fisici – scrivendo, per esempio. Fra le cose che
potremo scrivere ci sono novelle e romanzi, e ho già suggerito come sia da
intendere questo gioco; qui aggiungerò solo qualche dettaglio. Buona parte
dell’esperienza ludica dei bambini consiste nel raccontarsi storie; se sono
fortunati, incontreranno anche degli adulti che ne racconteranno a loro,
trascinandoli fra misteri e sorprese, spaventi e salvataggi, facendo loro
saltare il cuore in gola e tirare sospiri di sollievo. Uno scrittore compie la
stessa benefica azione con i suoi lettori: si sceglie un bambino ideale (i
critici letterari direbbero: un lettore ideale) di cui conosce gusti e
passioni, sogni e desideri, e lo asseconda e lo scoraggia e lo deprime e lo
esalta evocando con parole incisive e frasi seducenti un mondo fittizio che
starà al bambino (al lettore) completare a suo modo, partendo dalle tracce che
le parole e le frasi dello scrittore avranno sparso, come molliche di pane, per
le pagine del libro. L’azione è benefica perché il bambino ne trae godimento:
non sono molti i giochi che offrano tanto piacere quanto una simile altalena di
vicende, scenari e affetti. Ed è benefica anche perché il bambino per suo
tramite impara a conoscere i personaggi e gli eventi del mondo fittizio, come
s’impara qualsiasi cosa – partecipandone attivamente: anticipando la prossima
mossa e verificando le sue ipotesi, piangendo insieme con le vittime e
delirando insieme con gli amanti, immaginandosi a sua volta martire o
raddrizzatorti – e così amplia il repertorio di atteggiamenti e strategie a sua
disposizione correndo rischi minimi: il rischio di una crisi emotiva o di un
estraniamento dalle urgenze quotidiane, il rischio di cercare invano un’Anna
Karenina, il rischio di scambiare per Anna Karenina una persona molto diversa;
certo non il rischio di finire sotto un treno. Anche la filosofia nasce come
racconto, ma con un accento diverso, più insolente. Nel testo che la inaugura,
i dialoghi di Platone, si comincia narrando aneddoti su un discolo che si
rifiuta di crescere, di trovarsi un lavoro, di badare alla sua famiglia,
perfino di cambiarsi d’abito, perché è troppo impegnato a contestare ogni forma
di autorità, a prenderla in giro, a insistere con i suoi infantili «Perché?», a
giocare con le parole degli esperti in modo che, qualunque definizione
propongano, «ci gira sempre dattorno e non c’è verso che voglia star ferma nel
punto dove la mettiamo» (Eutifrone, p. 21). Sembra di leggere Pinocchio, solo
che qui non c’è nessuna fata turchina che salvi il discolo dall’esecuzione. Più
avanti il racconto si complica: il discolo prende ancora la parola, ma non solo
per far esplodere l’arroganza e la presunzione dei grandi. Ora, invece di
distruggere i castelli in aria degli altri, ne costruisce di propri, con acume,
scrupolo e pazienza (gli stessi con cui si costruiscono bei castelli di
sabbia), e li presenta con atteggiamento di sfida a quanti ritengono di vivere
in un castello e invece abitano in una stamberga, convinto che questa sia la
forma più efficace di critica: invece di perder tempo rivelando le stamberghe
per quel che sono, edifichiamo loro accanto una reggia e tutti vorranno
abbandonarle. (Così infatti ho trattato la posizione cartesiana in questo
capitolo e nel precedente; ho avuto buoni compagni di gioco.) Alcuni elementi
della repubblica platonica provocano la nostra indignazione: che si debba
mentire al popolo per il suo bene; che le unioni fra uomini e donne debbano
essere decise dal governo per motivi eugenetici. Altri ci sembrano di grande
ragionevolezza: che i governanti debbano essere educati con cura e il loro
carattere messo alla prova prima di affidar loro lo Stato; che le donne non
meno degli uomini possano governare, perché la loro differenza biologica non
implica una differenza di abilità. Quel che è comune a entrambi è il coraggio,
la sfacciataggine quasi, con cui vengono proposti, la risolutezza con cui
s’insiste sulla loro inevitabilità, sulla loro consequenzialità logica, la
noncuranza con cui vengono trattate le proteste del «senso comune», l’ambizione
e la genialità con cui tutti gli elementi vengono combinati in un colossale
affresco, nell’immagine di un mondo, di esseri umani, di una società totalmente
nuovi. Se un bambino vero (sotto i dieci anni d’età) mai avesse le risorse
intellettuali per compiere un’opera del genere, certo non gli mancherebbero
queste altre doti; certo non avrebbe ancora imparato il conformismo, la
soggezione, la viltà. Platone come Socrate è un bambino che si rifiuta di
crescere, che a risorse intellettuali mature accompagna le qualità innocenti e
sfrontate dell’infanzia: il maestro a settant’anni scherza con i suoi
accusatori e con la giuria; il discepolo a quasi ottanta non smette di
aggiungere dettagli al suo racconto. All’inizio del nostro itinerario ho citato
un passo della Critica del giudizio; ora, vicini al termine del viaggio,
occorre riprenderlo in esame e renderne conto. Che cosa sta facendo Kant? Sta
esponendo uno degli elementi del suo castello, da lui opposto a una tradizione
che considera derelitta. La stamberga da cui vuole che gli altri fuggano è la
concezione realista della conoscenza: Da una parte ci sono io (anzi, la mia
mente) e dall’altra c’è un tavolo. Nella mia mente si forma un’idea del tavolo
che gli corrisponde fedelmente; quindi io conosco bene il tavolo, al punto di
poter prevedere con certezza le sue risposte a varie sollecitazioni. Come sia
possibile che fra due oggetti distinti e tanto diversi fra loro (la mia mente e
il tavolo) si stabilisca una così perfetta corrispondenza, la tradizione non sa
spiegare; Leibniz in proposito invocava il miracolo divino di un’armonia
prestabilita. Kant non si occupa di questa scalcinata tradizione; la liquida
con una battuta pesante (essa dà «il comico spettacolo [...] di uno che munge
il becco [cioè il montone] mentre l’altro tiene lo staccio [cioè il setaccio]»,
Critica della ragion pura, p. 96) e suggerisce invece di fare un nuovo
«tentativo» (p. 10), un «rivolgimento» di prospettiva analogo a quello di
Copernico. Supponiamo, dice, che un oggetto sia proprio ciò di cui possiamo
prevedere il comportamento, per cui se quello che sembra un tavolo avesse un
comportamento imprevedibile non sarebbe un oggetto (ma, diciamo,
un’allucinazione); allora non sembrerà più strano che riusciamo a prevedere il
comportamento degli oggetti. Il principio di cui ci serviamo per siffatte
previsioni, che cioè a ogni causa seguano precisi effetti, non è da noi imposto
dall’esterno alla natura; è ciò che costituisce internamente la natura – non
sarebbe una natura, ma un sogno, se non esibisse tale regolarità. Perseguendo
il suo tentativo Kant, come Platone, costruisce un mondo nel quale non solo la
conoscenza ma anche i valori morali, l’apprezzamento estetico, Dio e
l’immortalità assumono ruoli diversi che nella tradizione. E, nel farlo, come
tanti altri giocatori alle prese con le loro costruzioni originali e bizzarre,
usa parole magiche: termini antiquati, imponenti ed enigmatici che colloca in
contesti e in reti associative devianti rispetto a quelli già noti, talvolta
devianti fra loro, gettando i lettori nello sbalordimento e nello scompiglio –
lo stato d’animo giusto per chi voglia aprirli a un punto di vista radicalmente
nuovo. Qui, per esempio, compaiono due di queste parole formidabili: il
principio in base al quale il tavolo non sarebbe un oggetto se il suo
comportamento non fosse regolare e prevedibile viene detto «trascendentale» e
l’altro principio per cui niente sarebbe un oggetto se non fosse nello spazio
viene detto «metafisico», violando gli usi comuni di entrambi i termini e
quelli cui lo stesso Kant li adatta in altri passi. Mentre gioca con la nostra
visione dell’universo, il filosofo sta giocando anche con il linguaggio.
Giocando s’impara, quindi il gioco della filosofia può essere istruttivo, nello
stesso modo caotico e imponderabile di ogni altro gioco. Per caso, una delle
elaborate, ambiziose costruzioni filosofiche di mondi, esseri umani o Stati
alternativi a quelli esistenti entra in contatto, talvolta, con la realtà
quotidiana (con il gioco che è diventato abitudine) e la cambia in modi che
vengono giudicati vantaggiosi; può anche capitare che in una di queste
costruzioni decidiamo di traslocare e quella diventi, per un po’, la nostra
realtà quotidiana (il nuovo gioco diventi una nuova abitudine). Quando ciò
càpita, riteniamo di aver imparato qualcosa e pensiamo che la costruzione
filosofica abbia dato un contributo alla nostra conoscenza – un contributo che
viene detto scientifico. Giocando abilmente con le lenti, Galileo riuscì a
trasformare il nostro senso di che cosa significhi osservare: ora, se vogliamo
osservare un pianeta, guardiamo uno schermo invece di sollevare la testa e
aguzzare la vista. Ma il mondo fisico di Galileo non esiste più, come non
esiste più quello di Aristotele (noi non ci viviamo più); altre costruzioni
filosofiche ne hanno preso il posto e sono oggi al cutting edge della scienza.
Nel frattempo, i nostri giorni continuano a essere popolati di pratiche e
oggetti che sono il lascito di giochi «scientifici» a lungo accantonati – di
ciò che quei giochi sono stati in grado d’insegnarci. La macchina a vapore fu
inventata in base alla teoria del flogisto, l’esempio più tipico di teoria
screditata; molte persone colpite da tubercolosi sono state curate dallo
pneumotorace, anche se la teoria «meccanica» su cui lo pneumotorace aveva
basato il suo successo, avanzata da Carlo Forlanini, si è volta presto in una
simpatica curiosità. Nel prossimo (e ultimo) capitolo tirerò le fila dei nostri
sforzi. Qui voglio chiudere con una storia: un esempio di come funzioni il
gioco filosofico/scientifico, di come possa cambiare – forse in meglio, forse
orribilmente in peggio – le nostre condizioni di vita. (I fatti che riferisco
sono tratti da un articolo di Michael Specter intitolato The Mosquito Solution
e pubblicato sul «New Yorker» del 9 e 16 luglio 2012.) Le zanzare sono state
responsabili del 50% delle morti umane nella storia. La malaria, la febbre
gialla, varie forme di encefalite e numerose altre piaghe le vedono come
protagoniste. Fra le zanzare più letali c’è Aedes aegypti, che fa strage in
Africa e in Brasile ed è da poco rientrata negli Stati Uniti (vi aveva già
prosperato fino agli anni Sessanta del secolo scorso). Uno dei metodi con cui
si cercava di combattere Aedes era sterilizzando milioni di insetti con dosi
massicce di radiazioni e impedendo così loro di riprodursi. Ma, per quanto
efficaci con altri agenti patogeni, le radiazioni funzionavano male con animali
piccoli come le zanzare. Intorno al 1990, un genetista di nome Luke Alphey
incontrò per caso un collega che gli parlò della tecnica di sterilizzazione e
delle sue difficoltà. Immediatamente, vista la sua formazione professionale,
pensò che, invece di sterilizzare le zanzare, si potesse cambiarne il codice
genetico in modo che si autodistruggessero. C’erano due problemi, però. In
primo luogo, bisognava intervenire solo sui maschi, perché le femmine mordono
gli esseri umani e avrebbero potuto infettarli con chissà quale variazione
genetica. In secondo luogo, bisognava che i maschi rimanessero in vita abbastanza
a lungo, e fossero abbastanza vigorosi, per trasmettere i geni mortiferi ai
loro discendenti. Vuole il caso che, nella specie Aedes aegypti, le femmine
siano molto più grandi dei maschi, quindi facilmente identificabili; il primo
problema poteva essere risolto. E presto anche il secondo lo fu, ugualmente per
caso. Alphey infatti capitò in un seminario in cui si parlava di come la
tetraciclina funga da antidoto contro l’azione di un gene. Il piano era pronto:
si sarebbero creati milioni, miliardi di maschi Aedes con il gene
autodistruttivo proteggendoli in laboratorio con la tetraciclina; una volta
immessi nell’ambiente, avrebbero avuto il tempo e la forza di accoppiarsi prima
di soccombere (ormai privi dell’antidoto) insieme con tutta la loro progenie.
Detto fatto, il piano è già in fase di realizzazione in Brasile e in altri
paesi. Negli Stati Uniti, però, vari gruppi ambientalisti sono insorti
protestando: Possiamo prevedere tutto ciò che accadrà quando avremo scatenato
questo nuovo Frankenstein? Certo allora non potremo più rimettere il genio
nella bottiglia. Per esempio, che cosa succederà se anche solo poche femmine
sopravviveranno dopo il contatto con il gene e morderanno un essere umano?
Oppure, che conseguenze avrà la scomparsa di Aedes aegypti per la nicchia
ecologica che adesso occupa e per l’intera ecologia del sistema? Sullo sfondo,
intanto, si agitano domande filosofiche di grande profondità (cioè domande
globali sul tipo di vita che vogliamo vivere): È meglio sbarazzarsi di un
pericolo o imparare a conviverci? Può essere desiderabile un mondo in cui una
specie sia stata distrutta? È lecito considerare il bene degli esseri umani
come decisivo? È lecito per gli esseri umani giocare il ruolo di Dio? È un
esempio paradigmatico della natura ludica della ricerca più avanzata e
prestigiosa. Si procede (quando si procede e non si corre sul posto) non con un
disciplinato esame della questione e un lavoro certosino teso a scoprire che
cosa sia necessario per dirimerla (come vorrebbe la più comune ideologia) ma
invece ascoltando discorsi che non c’entrano, combinando contributi eterogenei,
mutando radicalmente prospettiva e contando molto sulla fortuna (se volete
giocare bene a briscola, o anche a bridge, fatevi venire delle carte). E, una
volta che, in questo modo macchinoso e fortuito, abbiamo eventualmente trovato
qualcosa che sembra risolvere la questione, dobbiamo confrontarci con il fatto
che ci sono rischi forse tragici nello scegliere una strada così inedita.
Potremmo illuminare la stanza o bruciare la casa, e, per quanto a lungo abbiamo
giocato per procura con una rappresentazione verbale o mentale delle
conseguenze della nostra scelta, girare l’interruttore è un’altra cosa. Prima
che ci si decidesse a esplodere una bomba atomica, c’erano fisici nucleari che,
sulla base della stessa teoria dei loro colleghi «interventisti», prevedevano
che l’atmosfera ne sarebbe stata consumata e la vita sulla Terra si sarebbe
estinta. È facile dire che avessero torto, dopo aver girato l’interruttore. E
dobbiamo confrontarci con il fatto che una questione non è mai davvero risolta:
che ogni risposta suscita nuove domande, che il gioco che ha prodotto quella
soluzione la supererà, come supererà ogni altra soluzione, perché il gioco non
ha mai fine. Sono i Labirinti dell’essere. Abbiamo compiuto il viaggio
promesso. Partendo dal gioco di una bimba di due anni abbiamo raggiunto giochi
fisici come il calcio e il tennis, intellettuali come gli scacchi e il bridge,
giochi in compagnia e solitari; abbiamo catturato nella nostra rete ludica
l’arte, la letteratura e la filosofia. E lo abbiamo fatto, converrà ripetere,
non riducendo il gioco a un’eterea silhouette, non facendo del «gioco»
filosofico o letterario una metafora che mostra presto la corda – perché se è
vero che ci sono analogie fra l’etica e il tressette, si sarebbe pronti a
obiettare, è anche vero che ci sono molte differenze. La bimba che ha
inaugurato la nostra avventura non ci ha mai lasciato; ha acquisito per strada
competenze e capacità che nessuno può avere a due anni, ma il suo universo
ludico è rimasto lo stesso, una versione adulta del medesimo gioco infantile.
Ha incorporato le pareti contro cui andava a sbattere come regole; collabora
con maggiore efficacia con i suoi compagni o li manipola con maggiore destrezza;
le sue vocalizzazioni hanno preso la forma di un linguaggio articolato; ha
imparato, quando è il caso, a parlare senza farsi sentire. Ma l’acqua che
scorre fra questi meandri (creati, è importante notarlo e ci ritornerò fra
breve, dall’acqua stessa) è ancora quella della sorgente: a dispetto delle
complicazioni, per la bimba cresciuta giocare (a calcio, a scacchi, all’arte,
alla filosofia, alla letteratura...) è pur sempre immergersi senza alcun fine
esterno in un’attività trasgressiva ed esplorativa, piacevole e istruttiva,
appassionata e rischiosa. Ogniqualvolta entro le regole che si è imposta o le
hanno imposto, o contro le regole, una persona riesce a ritrovare lo spirito
che l’animava a due anni, la bimba ritorna e riprende il controllo delle
operazioni: seria, intenta, un po’ inquieta, audace, intimamente soddisfatta.
Ancora Huizinga: «Il gioco del bambino possiede la qualità ludica qua talis e
nella sua forma più pura» (p. 40). La peculiarità di questo atteggiamento
risulta più chiara quando se ne considerino le conseguenze sul piano dei
valori. Se la filosofia avesse una sua definizione indipendente, diciamo di
essere tesa alla scoperta della realtà o della verità o della saggezza, e fosse
un gioco solo in senso metaforico, perché praticata con creatività e passione,
ne seguirebbe che una buona filosofia è quella che meglio approssima la
scoperta della realtà o della verità o della saggezza, senza riguardo alla
creatività o passione con cui è condotta. Chi eventualmente potesse pervenire
alle stesse scoperte senza creatività o passione avrebbe, in ambito filosofico,
gli stessi meriti (e dimostrerebbe che la metafora ha fatto il suo corso:
Giulietta non brilla più come il sole). Se invece la filosofia è definita come
un gioco, sia pure il gioco di cercare la realtà, la verità o la saggezza, non
ci può essere buona filosofia senza creatività e passione – e trasgressione, e
apprendimento, e rischio. Quali che siano le sue pretese di verità e saggezza,
una filosofia è degna della nostra attenzione e partecipazione se ci spiazza e
ci avvince, ci irrita e ci lusinga, ci fa vivere ripetute Ah-ha experiences e
ci suscita obiezioni e disaccordo a non finire. Nello stesso modo, se il
linguaggio è innanzitutto uno spazio di gioco, avremo scritto una bella
lettera, un bel racconto o una bella comunicazione d’ufficio se le nostre
parole sapranno riscuotere il lettore e implicarlo in un progetto comune, il
che tanto meglio faranno quanto più porteranno le tracce del respiro e della
saliva in cui sono nate, dell’eco che ci hanno fatto risuonare dentro,
dell’entusiasmo o dello sconforto, delle lacrime di gioia o di dolore che ne
hanno accompagnato l’accesso alla pagina. Ciò corrisponde esattamente,
peraltro, ai nostri giudizi empirici ordinari su testi filosofici e
comunicazioni d’ufficio, salvo che le nostre concezioni di tali oggetti non
fanno giustizia alle nostre intuizioni, e così rimaniamo perplessi davanti a un
testo filosofico o una comunicazione d’ufficio «che non hanno niente di
sbagliato» perché dicono quel che devono dire e contengono solo enunciati veri,
eppure ci sembrano, chissà perché, da buttare. Il discorso sarebbe terminato,
dunque: avremmo percorso il labirinto e saremmo arrivati nella stanza dove si
ritirano i premi. Ma mi piace pensare che la stanza non sia chiusa e che anzi
il premio consista in una porta aperta su un altro sentiero tortuoso da
percorrere, in un bosco stavolta anziché in una claustrofobica caverna. Non mi
lancerò qui nel nuovo viaggio cui il sentiero invita, ma getterò lo sguardo in
quella direzione per stimolare la mia e forse l’altrui curiosità. In questo
libro ho parlato del gioco come di un’attività esclusivamente animale, e
perlopiù umana. L’ambiente inanimato è stato visto come strumento del gioco
(palle, cubi, carta e penna) o come suo ostacolo (pareti, spigoli), non come
suo soggetto. La cosa sembra ragionevole: se il gioco, come ho detto, è vita,
allora è riservato agli organismi viventi; se consiste in una serie di mosse –
devianti, istruttive, pericolose, ma pur sempre mosse – allora per praticarlo
occorre potersi muovere, il che fra gli organismi viventi sembrerebbe escludere
le piante. Ma è poi tanto certo che così stiano le cose? Proviamo a giocare con
le apparenti tautologie che ho enunciato. Se la vita richiede funzioni che noi
siamo in grado di riconoscere come respiratorie, metaboliche e riproduttive,
allora è chiaro che un orso, un pappagallo e una quercia sono vivi ma una
pietra no; se il movimento richiede che un ente con una sua precisa struttura
si stacchi (almeno in parte) dalla sua posizione spaziale e ne assuma un’altra,
allora formiche ed elefanti si muovono ma un geranio o un cipresso no.
Supponiamo però di invertire l’equazione che ho appena citato: se il gioco è
vita, la vita è gioco. E ricordiamo che il movimento che conta per il
gioco/vita si svolge in uno spazio esistenziale, non sempre fisico. Con tali
premesse, non è forse gioco/vita quello di un cielo che non appare mai due
volte nella stessa configurazione, di un corso d’acqua che costruisce i suoi
meandri o della sabbia che costruisce un lido, di cristalli di neve di forme
delicate e idiosincratiche (ciascuno, sembra, un esperimento a sé stante), di
una foresta che alterna grovigli e radure, tronchi giganteschi e canne
flessuose? E non è forse vero allora che al mondo non esiste nulla di
inanimato? Nel nono capitolo ho parlato dei diversi modi in cui possiamo
giocare con un altro: trattandolo da strumento o da compagno. Vorrei aggiungere
ora che trattare un altro da strumento significa trattarlo come un oggetto
inanimato: anche se l’altro è un essere umano, il mio rapporto con lui (o lei)
sarà basato sul controllo che esercito, schiacciando i suoi tasti per ottenere
l’effetto voluto. Il limite di questo controllo sarà percepito come un’oscura
minaccia e sarà causa di disagio o di terrore; sentimenti così penosi hanno
però un ruolo significativo – segnalano la possibilità ancora indistinta di
passare da un’utilizzazione a un incontro, quando si riescano a dominare
l’ansia e la paura. La medesima pluralità di atteggiamenti ci è disponibile nei
confronti di tutto l’essere. Possiamo giocare con la natura come con una
risorsa, e oscillare dalla boria sprezzante di averla ridotta al nostro
servizio all’inquietudine che quando meno ce lo aspettiamo ci si apra la terra
sotto i piedi (dal bruciare allegramente carbone e petrolio al preoccuparci per
il buco d’ozono e il riscaldamento globale), oppure come con un compagno,
raccogliendone i suggerimenti, facendole delle proposte, cercando di costruire
insieme un bel castello. Chi vive il rapporto in questo secondo modo (molti lo
fanno, pur se spesso non hanno parole per dirlo) sente che una montagna lo
sfida ma anche lo assiste premurosa nel trovare una via per scalarla, che il
mare ti avverte quando vuole lottare con te, che la macchina ha piacere a
distendersi veloce fra curve e dislivelli con sapienti cambi di marcia, che il
caffè mattutino parla di energia, di fiducia, di piani ambiziosi per la
giornata. Sarà bene che la smetta, prima che qualcuno pensi che il gioco mi ha
preso la mano – che poi sarebbe il suo, e il nostro, destino. Ma non posso che
congedarmi con una provocazione. Ho percorso un labirinto per dipanare il senso
di un’attività che è a sua volta labirintica, ferocemente intricata. A quello
che sembrava il termine del labirinto ho trovato un’indicazione, ancora in
buona parte misteriosa: che non si tratti di un labirinto qualsiasi, che la sua
natura labirintica sia la natura dell’essere in quanto tale. Perché solo chi
gioca, nelle mille disparate manifestazioni in cui il gioco si realizza, è: è
vivo, esiste. I labirinti ludici dell’essere sono l’essere; il resto è uno
zombie, un fantasma, uno spettro. Basta una risata divertita per farlo
scomparire.Ermanno Bencivenga. Keywords: il
piacere, teoria del linguaggio, logica libre, metodo della logica, calcolo di
predicati di primo ordine, logica di termini singolari, piacere, bello, logica
dialettica, implicatura, Hegel, Kant, gioco. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Bencivenga” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Bene – Tancredi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Maruggio). Filosofo italiano. Grice: “Molto bene”. Figlio
da Lupo e da Perna Longo, entra nell'ordine dei Teatini e fu professore. Lascia
importanti opere come l'Apologia del Tancredi e la Summa Theologica. A
Maruggio, in sua memoria è stato intitolato l'istituto comprensivo e una via
cittadina. Opere: “Apologia del
Tancredi”, “Summa Theologica” “De officio S. inquisitionis circa haeresim” “De
immunitate, et iurisdictione ecclesiastica”, “Theologiae moralis Tractatus”. Tommaso
del Bene. Nacque in Maruggio -- luogo nella diocesì, non già della
diocesì di Taranto, come li è scritto da molti; perchè è nullius come Tuoi
dirli, ed è Commenda della Religione di Malta -- e dopo di aver apprese le
latine lettere, e le greche, la matematica, e l’astronomia, entra fra’ Teatini,
e ne professa l’instituto in SS. Apolidi di Napoli. Sostenne l’ impiego di
lettore di filosofia. Ma avendo poi pubblicato il "De comitiis" per
cui ebbe in Napoli qualche disgusto, gli convenne di trasferii in Roma. Quivi
pensando e scrivendo in modo da piacere a quella corte, incontra miglior sorte,
e fu predo decorato delle cariche di esaminator del clero, di qualificator del
S. Uffìzio, e di confaitore di più congregazioni (a). Fu incaricato inficine
co’Tea- tini Vincenzio Riccardi, ed Aeoftino de Bellis della revifione ed y
emendazione dell’ Eucologio de Greci: e da Papa Alessandro VII. fu messo nella
congregazione indituita per l'esame delle proposizioni di Gianfenio. In premio
de’ fuoi fermisi furongli offerti alcuni Vcfcovadi ch’egli Rimò meglio di
modedamente rifiutare. On-? de terminò di vivere da semplice religioso in Roma.
(b). Le sue opere sono molte. Brieve Apologia del Tancredi, Poema di Ascanio
Grande. Si trova dietro l'Apologia dell’ iftefio poema fatta dall'arcidiacono
Palma, e Rampata in Lecce i Ò35. in 8. Niuno ha fatta menzione di
quell'opuscolo del P. Del Bene, dell’ Ab. de Angelis in fuori, il quale ne ha
parlato con lode nc’ Letterati Salentini Par. z. nella Vita del Grande pag.
i$z. a. De Comitiis yfeu Parlamenti! •, ac inciijfnter (T corollarie de aliis
moralibas marerii!, precipue de ecclefinQica immunitate, Dubitationes morale!.
Lugduni fttmpt. Nemejìi Trichet i6\g in 4. con dedicatoria dell’autore a Papa
Urbano Vili, e poi, da lui deffo ri- veduto ed ampliato, Avemonefumpt. Guill.
Halli inf. cor. dedicatoria al Card. Francesco Albizi. Quedo su il libro, per
cui dovette partir di Napoli il P. Del Bene. Prese in elfo a trattare della
morale, che nfguarda i tribunali regi, e gli delfi sovrani. Materia assai
di!icata,e che vuole altri lumi di quelli, che aver fuole il volgo de’ moralidi
3. De immunitate jurifdittione eccleftajlìca Opus abfolutìjfimum in z. parte!
di/lributttm. Ivi Jumpt. Phil. Borie, Laur. Arnaud, <5* Claud. Rigaud 1650.
in f. (c) 4. Summa theologica. Ivi fumpt. Jo. Ant. Huguetan, O* Mar. Ant.
Ravaud in f. 5. Trattarui morale!: videlicet de Conscientia; de radice re/litu-
rioni1 aliarumque obligationum <2Tpcenarum,ut eucommunicatio- nii &
irregularitatt! eu delitto de Comieiii seu Parlamenti!, ubi etiam da alagiti
(5“ contrattibus; de donativi! tributis (T fubjìdio Caritativo. Avtnione Guill.
Halli ió%8. in f. (d) ó.De (a) Di tatti cotefli titoli fi fregia in virj suoi
libri. (b) Cosi il Vezzoli Senti. Titt. che cita i reijitlri di S.Ao'* ea della
Val- le; e perciò debboao correggerli il SavanaroU Gtrarth. Eccl. Tttt. p. 6j. e
fegg. il Mazzucch. Striti, $ lui. ed altri (c) E poi Avtniont Jo. Fiat. T.z. in
f. Il MazzuecheHi s’è inganna- to r eli attribuire a quell’ Opera le aggiunte
fatte dall’Autore al libro dt Offi. ti Y. Inquisitionit. (d) Il Vezzofi
lot. tit, p.i 15. annoi, z. cenfura il Mazzucchelii d’aver det-. t». Digjtized
by Google BENE BENEDETTI.,99 • 6. De Officio S. Inquisitionis circa
h<trejim cum Bulli* tam voteti- bus quam recentioribus etc. Lugd. Jumpt. ]
A. Huguetan, T. 2. in f. L’ autore poi compose, e vi uni le seguenti:
Additiones de loci theologicis ad tomo de Officio S. Inquisitionrs perneceffa•
ria in f. Opuscolo di pag. sa il quale fi riftampò in 8. fenz’ alcu- na data,
coi titolo di Trattanti in vece di Additiones. 7. De Juramento, in quo de ejus
0" voti rclaxationibus &c. cui Dectftonet S- Rotte Romana accedunt
&C- Lugd. fumpt. guetan, 0" G. Barbier. in f, CXI. da Capoa, ha
rime nel Sello libro delle Rime di diverfi eccell. Autori nuovamente raccolte
ec. da G. Rufcelli. Vene*. G.M- Bottelli 1553. in 8. (a), CXII. e Canonico
Aquilano, diede alla luce: L' Imprefe della Mae/là Cattolica di D. Filippi di
Auflria II. Re di Spttgna rapprefentate nel tumolo ptr la Jua, morte eretto
dalla fedèlifs. citta de.’f Aquila ec. Aquila Lepido Faci 1599. in 4. Toppi
Bibl. Nap. CXIII. BENEDETTI (Giuf. dilettò di Poefia volgare, ed era Paftor
A/cade della Colonia Ater- nino, di cui fu Vicecuftode, e vi fi denominò
Alcidalgo Spai da- te (b) Nell’ Accademia de’ Velati di fua patria egli era
Principe (r). Fu anche accademico Infenfato
di Perugia (d). Di lui fi ha alle {lampe la vita di Biagio Aleffandrò
dall’Aquila nel- le Notiss. Iftor. degli Arcadi morti BENEDETTO, Arciv. di
Milano. V. Crifpo (Benedetto ), BE-. to, edere (lato il libro de Comìtiis unito
dal P. del Bene in un corpo, o to- mo il Trattanti moralts: elfendo quello un
libro didimo, comechè in alcuni efemplari fi trovi a quello unito. Ora in primo
luogo il Mazzucchelli non dice nè punto nè poco di tutto ciò; e foltanto
riferifee 1’ edizione de’ Tra- ttatus moralts, come io pure ho fatto, unendovi
deCom'niis etc. La qual co- fa è ben diverta, come ognun vede. Ma poi non fo,
fé il Vezzofi nella co- fa (Iella abbiali ragione. Io non’ ho il libro, ma lo
trovo riferito nel Cara!. Cafanattenfe alla voce Detiene (sbaglio prefo pure
dal Toppi B'bl. Nap. } infieme eoa quello de Comìtiis; e ciò, eh' è più, il
Nicodemo Addìi. al Toppi p.i]4. chiaramente dice:,, Io oltre l’ultima edizione
del libro de Co-,, mitiis etc. fi regillri nel modo, che fiegue: Tbeologia
moralis trattetus fextut. „ I. de Comìtiis etc. II. de Alagiis etc. Un trattato
fello ne fuppone cin- que, a’ quali dee unirli. (a) Quadrio, Crefcimbeai,
Tafuri. Tommaso Del Bene. Keywords:
Tancredi, Monteverdi, Tasso. Moralia, mos, morale, cavalleria. Il santo
cavaliere, mendacio, mentire, iuramento, morale, moralia, abiuratio,
conscienza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bene” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Benedetto – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crema). Flosofo italiano. Insegna a Padova, di cui divenne
in seguito rettore. È ritratto in un dipinto di Giovanni Busi detto il Cariani,
allievo del Giorgione. Giovanni Benedetto da Caravaggio. Benedetto. Keywords.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benedetto” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Benincasa – il nudo maschile nell statuaria italiana all’aperto – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Eboli).
Filosofo italiano. Grice: “Benincasa is a good one; my fvaourite is his ‘la
svolta dell’interpretatzione,’ for that is what Boezio knew ‘hermeneias’ was! a
turning point!” – Studia a Roma. Dopo aver completato tutti i suoi studi iniziò
a lavorare come traduttore di testi letterari (tra altri, Hans Urs von
Balthasar) per poi organizzare e curare mostre d'arte. Membro della Commissione Consultiva Arti
Visive della Biennale di Venezia e consigliere del Ministro per i Beni
Culturali e Ambientali. Insegna a Macerata,
Firenze e Roma. Scrisse saggi storico-critici su vari artisti. Opere: “Chiesa e
storia di Suhard e il Concilio Vaticano II, Paoline; “L'interpretazione tra
futuro e utopia” (Magma, Roma); “Poetica della negazione e della differenza” Il
Giudizio Universale (Magma, Roma); “Sul manierismo: come dentro uno specchio” (La
Nuova Foglio); “Babilonia in fiamme: saggi sull'arte contemporanea” (Electa,
Milano); “Architettura come dis-identità” (Dedalo, Bari); “L'altra scena: saggi
sul pensiero antico, medioevale e contro-rinascimentale” (Dedalo); “Anabasi Architettura
e arte” (Dedalo, Bari); “Alle soglie del sapere” Ed. del Tornese” Joan Miró 2C,
Roma); Oskar Kokoschka La mia vita” (Marsilio, Venezia); Oriente allo specchio 2C,
Roma); Georges Braque” (Marsilio, Venezia); Jackson Pollock: opere” (mostra,
Bari, Castello Svevo) Marsilio, Venezia); “Verso l'altrove: Fogli eretici
sull'arte contemporanea” Electa, Milano); Alvar Aalto” Leader); Umberto
Mastroianni Monumenti” (Ed. Electa, Milano); Il colore e la luce L'arte
contemporanea” (Ed. Spirali, Milano); “André Masson “L'universo della pittura” Mondatori,
Milano; Spirali/Vel, "Alfio
Mongelli: infinito futuro", Joyce & Company, Il tutto in frammenti:
arte Professore: una nuova interpretazione storica” (Giancarlo Politi, Milano).
La citta disalerno ricerca repubblica repubblica archivio repubblica biennale-il-
psi-fa-incetta-di-poltrone. html1http://ricerca.repubblica. it
repubblica/archivio/ repubblica artisti-rasputin-nel- mondo- dei- telefoni.
html2 lacittadisalerno/ cronaca
/benincasa-fece-amare-l-arte-all-italia-~:text=È%20morto %20ieri%20a%20 Roma, autore
importanti%20opere letterarie Dal Benincasa 20 Beni Culturali%20e%20
Ambientali. La Repubblica_1, su ricerca.repubblica. Errori giudiziari, su
errorigiudiziari.com Carmine Benincasa.
Keywords: il nudo maschile nella statuaria italiana all’aperto, implicatura
plastica, la svoglia dell’interpretazione, umberto mastroianni, nudo maschile,
statuaria, il segno del teatro: rito, mascara, anabasi, arte come dis-identita,
futurismo, arte futurista, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benincasa”– The
Swimming-Pool Library.
Grice
e Benvenuti – filosofia italina – Luigi Speranza (Montodine). Filosofo italiano. Grice: “A good thing about
Benvenuti’s discussion of Agostino’s semiotics is that Benvenuti has a strictly
philosophical background, rather than in grammar or linguistics or belles
lettres, or even ‘theory of communication.’ Therefore, he INTERPRETS Augustine as
*I* do!” -- Grice: “You gotta love
Benvenutti. He dedicated his life to the semiotics of Agostino (who never knew
he was a saint), the first Griceian. Benvenutti divides his discussion of
Agostino’s semiotics in three: the semiotic triangle, the taxonomy of signs,
and inferenza – For Agostino, ‘segno’ contrasts with ‘cosa.’ And a sign can
signify ‘naturaliter’ (fumo, orma, volta). Or non-naturaliter – daglia animali
including homo – prodotto dall’uomo – a ‘gesture’ that has to be perceived by
one of the five senses – or by the senses – auditum (parola detta) – visum (segno
scritto).” --. Cesare Benvenuti Cesare
Donato Benvenuti Don Cesare Donato Benvenuti (Montodine) filosofo. A partire
dal 1708 ricoprì la carica di Abate Generale Lateranense. Fece stampare
un'opera sulla vita di Sant'Agostino e una traduzione in italiano della Città
di Dio Biografia Cesare Benvenuti nacque
dal conte Girolamo Benvenuti e dalla contessa Domitilla Scotti di Piacenza. La
prima istruzione fu nella casa paterna di Crema, successivamente nelle scuole
tenute dai Barnabiti. All'età di 16 anni volle seguire l'esempio dei suoi due
fratelli entrando nella vita ecclesiastica prendendo l'abito della
Congregazione lateranense a San Leonardo di Verona. Dopo sette anni di studi di
filosofia e teologia venne nominato lettore e come tale risiedette in varie
città. Nel 1708 a Roma venne dichiarato abate perpetuo privilegiato con
l'incarico di presiedere alla Congregazione dei casi di coscienza e di emanare
i giudizi relativi. Per questo suo incarico che esercitò per otto anni crebbe
la sua fama di teologo tanto che dal cardinale Barberini lo volle accanto a sé
come teologo ed esaminatore sinodale. Benvenuti fu anche postulatore della
cause dei santi e si adoperò in particolare per la beatificazione del
venerabile Pietro Fererio che fu beatificato da papa Benedetto XIII. Cesare Benvenuti era anche dotato di
particolari capacità diplomatiche tanto da ricevere incarichi in tal senso in
Germania e a Vienna. Assieme a questi ufficii curiali Benvenuti esercitò anche
le pratiche caritative della sua ordinazione sacerdotale visitando e
prendendosi cura dei poveri e degli ammalati. Trasferitosi da Roma a Napoli fu
colpito da apoplessia e quivi morì. Altre
opere: “Vita del gloriosissimo padre santo Agostino, vescovo e dottore di
S.Chiesa” (Stamperia Barberina); “Discorso Storico-Cronologico-Critico della
vita comune dei chierici de' primi sei secoli della Chiesa” (Stamperia di
Antonio de Rossi); “La città di Dio, opera del gran padre s. Agostino vescovo
d'Ippona, tradotta nell'Idioma italiano, Stamperia di Antonio de Rossi). stone
lo Stato di Grazia. I. Sono sua eredità, Vita comune deg'apostoli &the sono
i primi Sacerdoti di Gesù-Cristo.V.S. Lucanonne parla: la rispondechica vedere
la poca forza dell'argomento negativo. Vita comune de primi fedeli. Uti. Vita
comune e votiva de Santi Apostoli e de primi Fedeli Passò succesivamen s e la
Vita comune ne Ministri dell'A l r a r e. De' terapeuti, che se ne dice.
Persecuzione della Chiesa. Comunità di Vergini Sagre nelle decadenze di questo
primo secolo, è fa nell'incominciare del secondo Sentimenti d'Origene. Della
Comunità Apostolica come parli Cipriano. Del i modo di vivere degli
Ecclesiastici Jocto Dionigi. Paolino. SE G10LO 1L Comunità de' beni nello stato
dell'innocenza. Sacerdoti istituiti daGesù-Cria Vita comune votiva del clero di
Gerusalemme secondo la decretale afsritta a Clemente. Della comunità del clero
ďAntiochia. Della Vita, de Fedeli e reSpettivamente degli Eclesiastici cosa
scrissero: Giustino martire, Policarpo, Ireneo, Dionigi di Corinta ed
Apollonia. Della Vita comin g ne del Clero di Mans SECOLO III. Clemente
Alessandrino come parla della Continenza. Della vita comune votiva, triferita
da Urbano Papal. relativamente a quella descritra da Clemente PapaI. III.
praticoinse la Povertà Apostolica. Del celebre Pierio Prete della Chiesa
diAlessandria. Genulfo Uomo Apostolico promove la Vita Comunono Fedelida lui
convertitieconfa. gratialculeo del Signore on la Cornunità
de'Cherici ly Vira Comune nel Clero di Vercelli. Come de Cherici iparla Ilario
Pittavienfe. Esortazione del SantoDiaconoEfrem Siro agli Ecclessastici.
Comunità de'Cherici della Chiesa Rinocorurese. Basilio come parla a'
CanoniciedaleCanonicbese. Basilio che scrise di Ermogene e di Zenon
neilPelusota, ed i molti Vescovie Preri Se Epifanig. Che racconta Severo
Sulpizio della Povertà d'u n Prece, Tofimonio Postumiano. Del Clero vivente in
commune nela Chiesa di Salaming in Cipre. De Clero di Ambrogio di Milano. De
Cherici d'Aquileja. Della Chiesa Cartaginesi. Della Comunità di Agostino nelle
vicinanze di Tagasta. Sentimenti di Girolamo sopra lot Staro di Chorici.
Comunità di Agostino Prete in Ippona. Della Comu nità d'Agostino nel
PalazzoVescovile–Ippona. Ii Concilio Cartaginese ci porta la Comunità di
Vescovi coloro Cherici. SEGOLO V. La Comunità Chericale Sparsa perl'Africa. Di
Mario Arelatenfee del suovina vere Chericale. Del Clero Africano corso à Roma à
cagione de'Vandali forto il Papa LeoIne. Cheg indižio possa
farlidelaperforiadit. Prospero e delsuo vivere Chericale, Della Vita comunend
Clero d'Ibernią foto,S.Rørrizio Vescovo.VI. Della Vita Regolare degli
Ecclesiastici della Chiesa di Calcedonia. Che dice Giuliano Pomerio de
Chericie, de Cherici del suo tempo. Del Pontefice Gelafio Primiera mente
tratasi delMonte Celio. De Laterani e loro Palazzo, che fù convertito nela
Basilica Lateranense, Del vivere comune de ChericiLao "teranefo,
Che's.Gelafio è Africano, Dell' antica puncupazione di Canoni, Dell'invasione
di Longobardi nel Monte Cassino e venutdai que' Monacià Roma, e loro dimora; e
dell'oratorio di Pancrazio, De Priori della Chiesa 1 Lateranense Canonici
Regolari SECOLO VI, m. Della Vita Chericale comune secondo quella d'Ippona
indicata negl'tti di Lorenzo detta! Illuminatore. Che cosa prescrive il
Concilio Ilerdense. Che il Concilio di Toledo, Che i Padri del Concilio
d'Orlans. Che ferive di Baudino Gregorio SICOLO:Ivi. Povertà Evangelica
sandria. Ill.Zin Canone del Concilio Romano, atribuito à Silvestro vien
intejaper Buplio Diacono. Comunità Chericalen e laChiesa d Ales O o. DI 1 1
Turonense. Che fece Leobina Vescovo nella Chiesa Carnotenje. Dalle proibizioni
del Concilio Arelaten fededucesi il metodo del vivere Chericale di que'
tempi.Vita Regolare ne' Cherici espressa nel Concilio di Tours. De vivere in
comune de Chericj in Romaforzo il Pontificato di Gregorio Magno. Note Fonte: Francesco
Sforza Benvenuti, Storia di Crema, p.37Filosofia Filosofo del XVII
secoloTeologi italiani 1669 1746 Montodine NapoliTraduttori dal latino. Don
Cesare Donato Benvenuti. Cesare Donato Benvenuti. Cesare Benvenuti. Keywords:
paganismo, religione romana antica, paganesimo ario in Italia, i romani, i
ostrogoti, i longobardi, religione romana, religione ostrogota, religione
longobarda, mitologia romana, mitologia ostrogota, mitologia longobarda,
cultura romana, cultura ostrogota, cultura longobarda, le fonte pagane della
teoria del segno in Agostino – semeion, signum, segno, segnare, segnante,
segnato. Antecedenti di una teoria unitaria del segno. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benvenuti” –
The Swimming-Pool Library.
Grice
e Benvenuto – il grido – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “Benvenuto is a good
one; my fiavoruite is his ‘stupore e grido,’ the functionalist idea that after
some sensorial input (stupor) you get the manifestation in behaviour alla
Witters – the ‘grido’ – and then there’s one which is J. L. Austin’s favourite:
his “a man of words and not of deeds is like a garden full of weeds,” –
difficult to translate, but Benvenuto offers, ‘dicieria,’ and ‘dicitura,’ which
aptly combines with ‘empiegatura, or in my more Latinate (or learned)
terminology, ‘in-plicatura’!” Già Primo Ricercatore presso l'Istituto di
Scienze e Tecnologie della Cognizione (ISTC) del CNR a Roma. Professor Emeritus
di Psicoanalisi presso l'Istituto Internazionale di Psicologia del Profondo di
Kiev (gemellata all'Nizza). Ha fondato (nel 1995) e diretto l'European Journal
of Psychoanalysis. Ha compiuto gli studi universitari all'Università Paris
VIIDenis-Diderot dal 1967 al 1973, dove ha ottenuto la Maîtrise in Psicologia.
Nel frattempo, ha seguito i seminari di Roland Barthes e di Jacques Lacan. In
seguito ha preparato un dottorato in Psicoanalisi con Jean Laplanche
all'Università Parigi 7. A Milano si è formato in psicoanalisi attraverso gli
psicoanalisti della S.P.I. Elvio Fachinelli e Diego Napolitani, fondatore della
Società Gruppo-Analitica Italiana.
Trasferitosi in seguito a Roma, si divide tra la ricerca in psicologia
sociale al CNR, l'attività privata come psicoanalista, e il lavoro di
pubblicista. È stato cofondatore e caporedattore della rivista Lettera
Internazionale (fondata nel 1984) ed è tuttora assiduo collaboratore del
trimestrale Lettre Internationale di Berlino, e Magyar Lettre di Budapest. Nel
1995 ha fondato a New York il semestrale Journal of European Psychoanalysis,
divenuto poi EJPsy, European Journal of Psychoanalysis, che tuttora dirige.
Dal insegna psicoanalisi all'Istituto
Internazionale di Psicologia del Profondo di Kiev e all'Istituto di
Psicoanalisi Moderna di Mosca. Pensiero
Benché Benvenuto si sia occupato di campi in apparenza alquanto diversi tra
loropsicologia sociale, filosofia del linguaggio e della politica,
psicoanalisi, teoria della politicaa partire dagli anni 90 ha articolato un
progetto predominante che tocca i vari campi: sostituire al primato della
riflessione sulla Verità (tipico della cultura occidentale) una riflessione che
punti al Reale. In questo modo egli cerca una terza via tra le due culture
predominanti e in opposizione in Occidente: l'epistemologia positivista
(interessata alle condizioni di verità degli enunciati) da una parte, la
fenomenologia e l'ermeneutica dall'altra (interessata al disvelamento di una
Verità che si dipana nella storia umana).
Egli mutua il concetto di Reale dal pensiero di Jacques Lacan, ma ne
allarga il senso, includendovi tutto ciò che resta esterno (origine e resto) a
ogni assetto di senso, sia esso scientifico, estetico, o etico-politico. Il
Reale è quel fondo attorno a cui gira ogni teoria scientifica, ogni produzione
artistica, la psicoanalisi di ciascun soggetto, ogni assetto etico, e che resta
sempre in eccesso rispetto a tutti questi “discorsi”. Così, il Reale di ogni
teoria scientifica è il Caos che si pone come limite e sfondo di ogni processo
causale. Il Reale in psicoanalisi è il fondo pulsionale, corporeo,
irriducibilmente individuale, di fronte a cui ogni interpretazione si
arresta. In Dicerie e pettegolezzi (dove
articola una teoria delle leggende metropolitane) mostra come quasi tutto il
nostro sapere di fatto sia costituito da leggende metropolitane, oltre le quali
fa capolino la realtà dell'evento che ogni discorso sociale aggira. In Un
cannibale alla nostra mensa affronta la questione del relativismo moderno, a
cui oppone un “relativismo relativo”, facendo notare come ogni impostazione
relativista rimanda necessariamente a qualcosa di assoluto che resta non
tematizzato, presupposto e schivato. Accidia è una storia della malinconia dal
Medio Evo fino a oggi: il senso e la natura che ogni epoca dà alla
“depressione” rimanda a un vissuto opaco che nella storia viene interpretato
diversamente. In “Sono uno spettro, ma
non lo so” analizza la cultura degli spettri e il nostro rapporto con i morti,
notando come la morte “viva” tra noi proprio come istanza di Reale
inassimilabile a ogni progetto di vita, ma che avvolge la costituzione di
questi progetti. In particolare (ad esempio in La strategia freudiana e in
Perversioni) si è dedicato a una rilettura originale della teoria di Freud, e
della psicoanalisi in generale, come fondata su una metafisica precisa della
“carne significante”. Il tessuto interpretativo ed esplicativo di Freud rimanda
però a sua volta a qualcosa di non interpretabile né spiegabile: la pulsione
come sorgente opaca e non-significante della soggettività. Altre opere: “La strategia freudiana, Napoli,
Liguori); "Traduzione /
Tradizione" in Moderno Postmoderno, Feltrinelli, Milano); La bottega dell'
anima, Milano, Franco Angeli); Capire l'America, Genova, Costa & Nolan);
Dicerie e pettegolezzi, Bologna, Il Mulino); Un cannibale alla nostra mensa.
Gli argomenti del relativismo nell'epoca della globalizzazione, Bari, Dedalo);
Perversioni. Sessualità, etica e psicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri);
“Accidia. La passione dell'indifferenza, Bologna, Il Mulino); “Lo jettatore,
Milano, Mimesis); “La gelosia, Bologna, Il Mulino); “Alle origini del
relativismo moderno”, Dei cannibali, Mimesis, Milano); “Confini
dell'interpretazione. Freud Feyerabend Foucault, Milano, IPOC); “Sono uno
spettro, ma non lo so, Milano, Mimesis); “Wittgenstein. Lo stupore e il grido,
Milano, meditare; Sette conversazioni per capire Lacan, Milano, MIMESIS, La
psicoanalisi e il reale. 'La negazione' di Freud, Orthotes, Napoli-Salerno.
Godere senza limiti. Un italiano nel maggio '68 a Parigi, Milano, Mimesis, Leggere Freud. Dall'isteria alla fine
dell'analisi, Orthotes, Napoli-Salerno. Il significante, tra Saussure e Lacan,
su journal-psychoanalysis.eu. su psychomedia. Il progetto della psichiatria
fenomenologica, su mondodomani.org. Sergio Benvenuto. Keywords: il grido, segnante,
segno, segnato, arbitrario, naturale, convenzionale, established, recognised,
stabile, stabilito, sistema di communicazione, iconico, non-iconico,
convenzionale, assoziativo, artificiale, non-naturale, non-artificiale,
procedimento, repertorio di procedimento, idio-lecto, idio-sincrasia,
popolazione, interprete, interpretante, mittente, recipiente, nozione di
consequenza come nozione comune a segno naturale e segno no naturale, Hobbes
sulla consequenza del segno convenzionale, segno naturale, segnare
naturalmente, segnare non naturalmente, l’adverbio ‘naturaliter’, ‘ad
placitum’, a piacere, natura, convenzione, posizione, natura, phusei, thesei,
positio, positione (ablativo di positio) – thesei – ‘natura’ (ablativo di
natura), imago Acustica, naturalita dell’imago, segno come imago, Benvenuto su
Plato sulla aribtrarieta del segno, Benvenuto su Heidegger sulla arbitrarieta
del segno, l’impiegatura della dicitura, segnante, meaner, one-off
communication, communicatum, segnaturm, one-off segnatum, iconico, non-iconico,
confine dell’interpretazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benvenuto” – The
Swimming-Pool Library.
Grice
e Berardi – telepatica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo italiano. Grice: “You gotta love
Berardi, but I wonder if his background is in the classics – he has written on
‘il futuro della comunicazione,’ and coined some nice neologisms, like
‘psiconautica,’ – which is like my telementationalism, only different – and
dialogued with Guattari -- While Berardi
is into ‘il futuro della comunicazione,’ we at Oxford, them with a lit.hum. are
usually into the PAST of communication!” -- Franco Berardi (n. Bologna),
filosofo. Detto “Bifo” -- Agitatore culturale italiano. All'età di quattordici
anni si iscrive alla FGCI, ma ne viene espulso tre anni più tardi per
"frazionismo". Partecipa al movimento del '68 nella facoltà di
lettere dell'Bologna, ove nel '67 conosce Toni Negri. Si laurea in Estetica con
Luciano Anceschi e aderisce a Potere Operaio, gruppo della sinistra
extraparlamentare di cui diviene figura di spicco a livello nazionale. Nel 1970
pubblica il suo primo libro, Contro il lavoro (edito da Feltrinelli). Nel 1975
fonda la rivista A/traverso, un foglio che era espressione dell'ala
"creativa" del movimento bolognese del 1977; nei suoi scritti mette
al centro della propria analisi il rapporto tra movimenti sociali e tecnologie
comunicative. Nel 1976 partecipa alla
fondazione dell'emittente libera Radio Alice e subisce l'arresto per l'accusa
di partecipazione alle Brigate Rosse, da cui viene assolto un mese dopo. Per
richiederne la scarcerazione, Radio Alice organizza una festa in Piazza
Maggiore, a cui partecipano oltre diecimila persone. Berardi viene scarcerato
poco dopo, e diviene il leader dell'"ala creativa" della protesta
studentesca bolognese del 1977. Dopo la chiusura della radio da parte della
polizia, contro Berardi viene spiccato un mandato per "istigazione di odio
di classe a mezzo radio", per sottrarsi all'arresto fugge da Bologna. Si
rifugia a Parigi dove frequenta Félix Guattari e Michel Foucault e pubblica il
libro Le Ciel est enfin tombé sur la terre (Éditions du Seuil). Negli anni ottanta rientra brevemente in
Italia e poi si trasferisce a New York dove collabora alle riviste
Semiotext(e), Almanacco musica e Musica 80. Viaggia a lungo in Messico, India,
Cina e Nepal. In quel periodo inizia ad occuparsi della crescita delle reti
telematiche e preconizza la futura esplosione della rete quale vasto fenomeno
sociale e culturale[senza fonte]. Alla fine degli anni ottanta si trasferisce
in California dove pubblica alcuni saggi sul cyberpunk. Ritorna a Bologna e, in
veste di protagonista, partecipa al documentario Il trasloco di Renato De
Maria, prodotto dalla RAI nel 1991, incentrato sulla storia del suo
appartamento. Collabora poi con varie riviste culturali fra cui Virus
mutations, Cyberzone, Millepiani e varie case editrici fra cui la Castelvecchi
e DeriveApprodi. Collabora, inoltre, alla stesura di testi per MediaMente, la
trasmissione televisiva prodotta da RAI Educational e condotta da Carlo
Massarini dedicata al mondo di Internet e delle nuove tecnologie di
comunicazione. Collabora alla rivista
DeriveApprodi insieme a Sergio Bianchi e altri. Cura con Pasquinelli l'ambiente
di rete Rekombinant. Nel 2002 fonda Orfeo Tv, la prima televisione di strada
italiana. Nel 2005 un suo pamphlet che si scaglia contro le politiche sociali
del nuovo sindaco di Bologna Sergio Cofferati viene ripreso con enfasi dalle
testate giornalistiche nazionali. Lavora come insegnante presso l'istituto
tecnico industriale Aldini Valeriani di Bologna. Pubblica regolarmente sul
quotidiano Liberazione, sulla rivista alfabeta2 e sul sito Through Europe.
Collabora alla rivista canadese Adbusters. Anima la mailing-list Rekombinant
con Pasquinelli. Altre opere: “Contro il
lavoro”; “Scrittura e movimento” (Marsilio); “Teoria del valore e rimozione del
soggetto: critica dei fondamenti teorici del riformismo” (Verona, Bertani);
“Primavera” (Roma, Stampa Alternativa); “Chi ha ucciso Majakovskij” (Milano,
Squi/libri); “L'ideologia francese: contro i "nouveaux philosophes"”
(Milano, Squi/libri); “Finalmente il cielo è caduto sulla terra. Milano,
Squi/libri); “La barca dell'amore s'è spezzata. Milano, SugarCo); “Dell'innocenza”
(Bologna, Agalev); “Presagi. L'arte e l'immaginazione visionaria” (Bologna,
Agalev); “Terzo dopo guerra” (Bologna, A/traverso); “La pantera e il rizoma” (Bologna,
A/traverso); “Una poetica Ariosa” (Milano, ProgettoArio); “Più cyber che punk.
Bologna, A/traverso); “Politiche della mutazione. Milano-Bologna, Synergon), “Dalla
psichedelia alla telepatica” (Milano-Bologna, Synergon); “Hip Hop rap graph
gangs sullo sfondo di Los Angeles che brucia. Milano-Bologna, Synergon); “Cancel
& Più cyber che punk. Milano-Bologna, Synergon); “Come si cura il nazi.
Castelvecchi); “Mitologie Felici. Milano, Mudima); “Mutazione e cyberpunk.
Immaginario e tecnologia negli scenari di fine millennio. Costa & Nolan); “Lavoro
zero. Castelvecchi); “Neuromagma. Lavoro cognitivo e infoproduzione. Castelvecchi);
“Ciberfilosofia”; “Dell'innocenza”, “Premonizione. Verona, Ombre Corte); “Exit.
il nostro contributo all'estinzione della civiltà. Costa & Nolan); “La
nefasta utopia di Potere operaio. Castelvecchi); “Alice è il diavolo. storia di
una radio sovversiva”; “Shake edizioni. La fabbrica dell'infelicità: new
economy e movimento del cognitariato. Roma, DeriveApprodi); “Felix. Narrazione
del mio incontro con il pensiero di Guattari, cartografia visionaria del tempo
che viene. Luca Sossella Editore), “Quando il futuro incominciò. Fandango Libri);
“Un'estate all'inferno”; “Telestreet. Macchina immaginativa non omologata.
Baldini Castoldi Dalai); “Il sapiente, il mercante, il guerriero. Dal rifiuto
del lavoro all'emergere del cognitariato” (Roma, DeriveApprodi); “Da Bologna
(serie A) a Bologna (serie B). DeriveApprodi); “Skizomedia. mediattivismo.
Roma, DeriveApprodi); “Europa 2.0 Prospettive ed evoluzioni del sogno europeo,
edito da ombre corte, Un'utopia senile per l'Europa. Run. Forma, vita,
ricombinazione, Mimesis); L'eclissi. Dialogo precario sulla crisi della civiltà
capitalistica, Manni Editori); “La Sollevazione. Collasso europeo e prospettive
del movimento. Manni Editori); “L'anima al lavoro, DeriveApprodi); “After the
future AKPress, Oakland); “Dopo il futuro. Dal futurismo al cyberpunk.
L'esaurimento della modernità, DeriveApprodi); “La nonna di Schäuble. Come il
colonialismo finanziario ha distrutto il progetto europeo, Ombre corte, Heroes Suicidio e omicidi di massa, Baldini
& Castoldi, Asma, C&P Adver
Effigi); “Contro il lavoro, DeriveApprodi); “Il secondo avvento. Astrazione
apocalisse comunismo, DeriveApprodi); “Futurabilità, Produzioni Nero); “Respirare.
Caos e poesia, Sossella), “Il trasloco”, “Io non sono un moderato”. Note
Filmato audio Alexandra Weitz, Andreas Pichler, L'eterna rivolta, su
YouTube, 2006, a 0 min 47 s. 6 agosto.
Cronologia di Radio Alice, radiomarconi.com. 6 agosto. E-text s.r.l. (http://e-text/), MediaMente:
Franco Berardi, su mediamente.rai.).
Bifo: "Con la Gelmini non insegno" Sospeso dall'insegnamento |
Bologna la Repubblica Cominciamo a
parlare del collasso europeo, alfabeta2
rekombinant@liste.rekombinant.org, su
rekombinant.liste.rekombinant.narkive.com. 6 aprile. A/traverso | Casa Editrice Etichetta
Discografica | AlterAlter Erebus press & label, su Alter Erebus. Félix
Guattari Gilles Deleuze Movimento del '77 Radio Alice Telestreet Internet Movie
Database, IMDb.com. //th-rough.eu/Pagina personale di Bifo sul Through Europe Interregno[collegamento
interrotto]Hacer lo imprevisible… después del 68: Entrevista con Franco Berardi
Bifo(Español) Rekombinant"Listblog" animato da Franco Berardi e
Matteo Pasquinelli radioalice.orgsito web su Radio Alice Il Trasloco
(scaricabile) su New Global Vision, su ngvision.org.
podcast.fmlatribu.comPodcast en castellanoEntrevista con Bifo en FM La Tribu,
Buenos Aires Articoli su arte e sensibilità, European School of Social
Imagination San Marino; scepsi.eu. 13 agosto
27 novembre ). Interviste a Franco Beradi di Christian Brogi, su ltmd.
Franco Berardi su Bookogs. Biografie
Biografie Letteratura Letteratura
Politica Politica Categorie: Saggisti
italiani del XX secoloFilosofi italiani Professore BolognaMilitanti di Potere
OperaioMovimento del '77Studenti dell'BolognaFondatori di riviste
italianeAttivisti italiani. Franco Berardi. Keywords: telepatica, implicatura
del presagio, poetica ariosa, progetto ario, telepatia, pre-sagio, sagio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berardi” – The
Swimming-Pool Library.
Grice
e Bernardi – il duello – filosofia italiana – Luigi Speranza (Mirandola). Filosofo italiano. Grice: “We discussed
Bernardi with Sir Peter – when we were tutoring on ‘Categoriae’ – “Surely this
is not propedeutic logic! This is pure metaphysics, and even pure physics!”
Bernardi held the same view! On top, I love Bernardi because he does not use ‘logica,’
which he thinks for ‘kids,’ but ‘dialettica,’ which is real philosophy!” Aristotelico,
nominato vescovo di Caserta. Duomo di Mirandola. Compiuto gli studi presso Bologna
avendo come maestri Boccadiferro (l’autore di un trattato sui luoghi comuni
d’Aristotele) e Pomponazzi. Si trasferì poi a Roma presso la corte di Farnese,
dove frequenta Bembo, Casa e Giovio, e si conquista una fama di filosofo
aristotelico e letterato. Consacrato
vescovo di Caserta. Poi a Parma nel
monastero di San Giovanni dei Cassinesi. Fu tumulato nel Duomo di Mirandola. In occasione del 5º centenario della sua
nascita, il Centro Internazionale Giovanni Pico della Mirandola gli dedicò un
convegno. Lo scrittore Antonio Saltini
ha utilizzato la figura di Antonio Bernardi come personaggio del suo romanzo
storico L'assedio della Mirandola. Atre
opere: “La Monomachia” -- dove si sostiene che il duello è legittimo secondo la
ragione e la filosofia morale ma illecito sotto il punto di vista religioso.
Note Vedi Google Libri. Duello cavalleresco. , Antonio Bernardi della
Mirandola (1502-1565). Un aristotelico umanista alla corte dei Farnese. Atti
del convegno "Antonio Bernardi nel V centenario della nascita"
(Mirandola, 30 novembre 2002), M. Forlivesi, Firenze, Olschki, Aristotelismo
Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Antonio Bernardi
Paola Zambelli, «BERNARDI, Antonio», in Dizionario Biografico degli
Italiani, Volume 9, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1967. Filosofia
Categorie: Vescovi cattolici italiani del XVI secoloFilosofi italiani Professore
Mirandola Bologna. EVERSIONIS
SINGVLARIS CERTAMINIS. PROPOSITVM NOBIS EST, SINGVLARE certamen, quantum
quidem poterimus, fundamentis ſanctiſsimæ religionisnoſtræinnitentes, euertere,
ac pe nitus ex animis hominum extirpare, (utpote quod ab homine qui Chriſti
ſeruatoris noftri religionem & pie tatem profitetur, abhorreat.) Sed quia
edituseſtliber quidam, infcriptus Contra uſum duelli,in quo multa e tiam
diſputanturcontra libros noſtrosDehonore,ubi agitur de ſingulari certamine: qui
libri ſub nomine loan nis Baptiſtæ Poſleuinifallò in lucem prodierunt:etlino
lateat nos illud Ariſtotelis, to gasto TutóvG-gvarſíce tas Sofaes espolwaulio
agorti{ eup vxbés oszy: tamen faciendum nobis primùm uidetur,ut ea refellere
conemur, quæ contra libros noſtros De honore fcripta ſunt: ut,qui tantű. modò
uerborum faciem intuentes, interius autem non expendentes reconditam rerum
ueritatem, putauerunt eius libri quem diximus, auctorem, Ariſtotelis ſenten
tiam, ueritatem ipſam omnino affequutum effe, facileintelligant,non folùm no.
ftra quæ is refellit Peripateticorum doctrinæ prorſus conſentire, fed etiam
tantum abeſleut ille (quiquidem magnum ſeadiumentum fuo hoclibro generi humano
at tuliſſe putauit) ex doctrina Ariſtotelis, & ex
philoſophiamoralilingulare certamē euerterit,ut id etiam ex ipfiuſmet uerbis
dari ac permitti in omnibus fere cauſis per, ſpicuè appareat.At ita plane
intelligetur,fierinon poſſe utſingulare certamene, uertatur,niſiex fundamentis
ſanctiſsimæ religionis noftræ. Quæ quidem res potiſ fimùm nos impulit,ut ad
hæcſcribenda aggrederemur. Hocigitur (niſi fallimur) cum ita futurum ſit contra
id quod ſibi iſte propoſuerat,magis probandữmihiqui dem uidetur eius conſilium,
uoluntas, quàm eo ipfe laudandus, quòd quæ uel let præſtiterit. Sed primùm
loquamur generaliter, ponentes id quod ipfe fatetur totius ſuæ cau fæ
fundamétum efle,uidelicet ipſius ſingularis certaminis plura eſſe genera. Verùm
antequam ueniamus adipfius uerba, uideamus quam facilè hoc eius fundamentum
peruertamus:accipientes ex eis quæ ipfe conceſsit &dixit, arma, quibus eius
impe, tus aduerſusnoftrum librum labefactetur atą frangatur. Sed quia nos, qui
deopi nione Ariſtotelis diſſerimus, hujus controuerſiæ iudicem Ariſtotelem
conſtitui mus: afferemus in omnibus uerba ipſius Ariſtotelis, ponentes ea ante
oculos, ucho mines qui non certis quibuſdam, deſtinatis ſententijs addicti
confecratiga funt, fed ueritatem amplecti deſiderant, facile intelligant quam
iniuſtè, quàm etiam con. tra hominum utilitatem, iſte in me quali grauiſsimum
aliquod facinus admiſillem, inuaferit. Sed iam ad rem ueniamus. Omnia
ſingularia certamina, quæ ex fundamentis naturæ, non ex fancta noftra religione
permitti poffunt, ſuntunius generis,uel fpeciei(utiſte loquitur:)ergo fun
damentum eius à ueritate abhorret, quod ſcilicet fint plura genera: & quòd
ob hanc caufam unum genus fuerit permiſſum, &aliud nõ permiſſum. Ex quo
poftmodum emanat, me in libro Dehonore non eſſe lapſum, quia ignorauerim nomen
&no. tionem, uim; & originem fingularis certaminis,cum dixerim eius
nomen apud GræcosfuiffeMonomachiam,apud Romanos Singulare certamen: quia non
fue runt generalia nomina(ut ipſe dicit )fed folùm nomina unius fpeciei uel
generis. Conſequentia perſpicua eft: id uero quod antecedit, probemus in hunc
modum. Illa certamina quorum eft idem finis, effe etiam eiuſdem generis uel
ſpeciei neceſſe eſt.hoc enim loco pro eodem ſumuntur genus & ſpecies.
Propofitio ifta conceſſa eſt ab ipſo, etenim a diltinctione finium ſumpſit
diſtin, a ctioncm EVERS. SING CERTA M. ctionem illorum certaminum:ut ex
fine,qui erat honor,concluſit unum genus cer, 2. Deanima. taminis. Sed probemus
ipfam ex Ariſtotele. etenim ipſe inquit: Quoniam autem à text.49.
fineappellariomnia iuſtum eſt. Item inquit: Determinatur enim & definitur
u. 3.Ethic.o. numquodą fine. Siquidem &ſuperabundantia ut nominetur ad
finem, &excellen " tia uirtutum oporter. Si ergo unumquodq;
determinatur &definitur fine: ſingu laria ergo certamina decerminabuntur
& definientur fine. Ergo ſi finis erit unus, una erit ſpeciesſingularis
certaminis:ſi plures,ergo plures ſpecies. De cælo Item Ariſtoteleshæcſcripta
reliquit:Cuius enim cauſa unumquod eſt, &factű mundo,tex.116 eſt ipſum eſt
illius ſubſtātia. Quæ ergo certamina habent eundē finē, ut fint etiam 1.Oeconom.
eiuſdem ſpeciei neceffe eft: etenim ſunt eiufdé fubftantiæ &
formæ,necefTech eſt ut materia tantùm differant. Sed omnia illa ſingularia
certamina quæ ipſe conceſsit ex fundamentis naturæ, & illud etiam genus
quod nos conceſsimus in libris Deho. nore, ſunt certamina ſingularia, quorum
eſt idem finis:ut igitur ſint eiuſdem gene. ris uel ſpeciei,neceſſe eſt. Minor
probaturſic:llla quorum honeſtum eſt finis, ſunt eiuſdem finis. Propofi tio
iſta perſpicua eſt. Sed omnium illorum quæ ipfe conceſsit (utpugnare pro pa
tria,pro coniuge,pro regnis, honeſtum eſt finis:ergo habent eundem finem. Sed
oftendanus pofterioris huiusſyllogiſmiminorem. Sienim honeſtum non effet eo.
rum finis, non eſſent concedenda a Republica bene inſtituta: quandoquidem Rer
publica bene inſtituta nunquã concedicinhoneſta, alioquin nõ eſec bene
inſtituta. 1. Rhet... Item inquit Ariſtoteles:Ėc fimpliciter bona ſunt honeſta,
& quæcunq pro patria facit,perdens fua. Qui ergo facit pro patria, facit
propter honeltatem. " Item, Viri fortis finis eſt honeſtum. Qui pugnant
pro patria, pro coniugibus, pro filijs, prore. gno,ſuntuirifortes:ergo eorum
quipugnant pro patria, pro coniugibus,pro filijs, pro regnis,eſt finis
honeſtum. Maior etli perſpicua ex ſe eſt, declaraturtamen ab Ariſtotele his
uerbis, quæ ſư 3. Ethic.io. prà etiam citauimus ad aliud probandum: Finis enim,
inquit, omnis actionis eft fe., cundum habitum: &uiro forti fortitudo eft
honeſta, &talis eſt finis: determinatur, ' & definitur unumquodq;
fine.Honeſtienim gratia fortis ſuſtinet &agit ea quę funt, ' ſecundum
fortitudinem Ergo uiri fortis eſt finis honeſtum. Deinde paulo pòſt inquit:
Oportet autem non propter neceſsitatem fortem el so ſe,ſed quia honeſtum eſt.
Item paulo poſt inquit:Fortes enim agunt propter honeſtā ira
aūtadiuuatipſos." 1. Rhet... Item inquit:Quæcunq; funt opera fortitudinis,
funt honeſta & iufta: & opera iu. ftè facta,ſupple ſunt honeſta. Bernardi
(Ant., Mirandulani, Episcopi Casertani ). - ANTONII BERNAR / di Mirandulani,
epiſcopi Caſertani, Eversionis / Singvlaris Certaminis Libri XL. / In quibvs
cvm omnes inivriæ ſpecies declarantur: tum uerò offenſionum, & côtentionum,
quæ ex illis nafcuntur, honeſtė atque ex uirtute tol- / lendarum ratio traditur:
& præter multos, ac propè in- ! finitos locos Ariſtotelis, qui ſunt
difficilimi, obiter explicatos. Animi etiā immor talitas ex ipfius ſententia
oſten- / ditur: Aſtrologiæ quoq; diuinatio omni pene autoritate fpoliatur,
atque libertas humana ſtabilitur. Ad amplißimum uirum Alexandrrm Farnesium
Cardinalem, S. R. E. Vicecancellarium. Acceſsit locuples rerum & uerborum
toto Opere memorabilium, Index. --- Basilea, Per llenricum Petri. [ W - 1 '] In
folio, al princ. Di queste: 3 per la dedica e 13 pel Rerum atqve verborum
locuple tibimus Index. Nel testo alcune iniziali con vignette. La stessa opera
di questo autore, detto da alcuni il Mi randola, dalla patria, e da altri il Caserta
dalla dignità, è stata pure pubblicata sotto l'altro titolo: - Mirandulani,
epiſco- i pi Caſertani, 1 Dispvtatio / nes. I – In qvibvs primvm ex professo /
Monomachia (quam Singulare certamen Latini, recentio- res Duellum uocant) philoſophicis
ra tionibus aſtruitur, & mox. diuina
authoritate labefactata penitùs euertitur: omnes quoq: iniuriarum ſpecies
declarantur, easq'; conciliandi / & è medio tollendi certiſsimæ rationes
traduntur. Deinde uerò omnes utriuſque Phi lofophiæ, tam contemplatiuæ quàm
actiuæ, Loci obfcuriores, & ambiguæ Quæſtiones, / (præſertim de Animæ
immortalitate, & Aſtrologiæ iudi- / ciariae diuinationibus) Ariſtotelica
methodo / luculentiſsimè examinantur & / expli cantur. Ad amplißimum uirum
Alexandrem Farnesirm / Cardinalem, S. R. E. Vicecancellarium. Acceſsit locuples
rerum & uerborum toto Opere / memorabilium, Basileae, Per Henriccm / Petri,
et Nicolarm SCIENZA CAVALLERESCA ANTICA Bryling. | - (In fine:) Finis Qvadragesimi et vltimi i
libri Euerfionis fingularis certaminis. / [ Fer] In folio p. 694 con iniziali
con vignette. Al princ. 18 p. 1. n. pel titolo, pella dedica al Cardinale Far
nese (nella quale accusa di plagio G. B. Possevino, uditore suo, per essersi
appropriata un'opera sull'Onore da esso scritta ) e pell' Index. Il Tiraboschi
nel t. 1.o della Bibliot. Modenese a p. 241 erroneamente sem brasa credere, che
questa seconda edizione losse la stessa cosa della 1.a edizione, della quale
essố aveva trovato il titolo nel Mazzuchelli. – Di quest'opera voluminosa del
Bernardi, divisa in 40 libri e scritta col preteso assunto di abbattere il
duello, stampa il Maffei (op. cit., 1.a ed., a p. 252), che è stata stesa; «
con metodo sco « lastico e coll'argomentazione usata in quegli scrittori, che
si chiamano di Filosofia; ma procedendo sempre con « equiroci, e confusion di
vocaboli e con perpetui sofismi talvolta intrigatissimi e difficili e talvolta
manifesti e palesi » Eppure, narra lo stesso Maffei (a p. 264 ), che dell'opera
del Bernardi quattro doppie si stimava modesto prezzo. In quell'epoca i libri
di scienza cavalleresca erano tanto ricercati, che, scrive lo stesso Maffei,
quattro doppie è pur stata valutata un'edizione dell'Ariosto, quella di Venezia
per il Valvassori, « sol per poche righe, che in alcuni luoghi vi si trovano
con titolo di Pareri in Ducllo ». - In quanto all'accusa di plagio dita
apertamente dal Bernardi a G. B. Possevino, essa è abbastanza giustificata. Il
G. B. Posse vino era scolaro del Bernardi e questi ebbe dal maestro il suo
lavoro sul duello per copiarlo, ma il Pos sevino non si fece alcuno scrupolo di
rafazzonarlo alquanto per poterlo far passare come proprio. È vero peró, che la
pubblicazione dello scritto non avvenne per opera del Possevino, ma di suo
fratello Antonio, che appartenne alla Compagnia di Gesù, ed anzi vuolsi, che G.
B. Possevino morendo raccomandasse al fratello di non pubblicare quell'opera
sul duello da esso lasciata, ma Antonio Possevino non avrebbe però tenuto conto
di questa raccomandazione, tanto più, che al dire del Tiraboschi, a vincer i
suoi scrupoli gli era oppor tanamente giunta all'orecchio la falsa notizia
della morte avvenuta a Ferrara del Bernardi, vero autore del trattato sul
duello, ed egli a tale notizia aveva prestato fede. Il Tiraboschi, che dapprima
aveva difeso G. B. Possevino dall'accusa di plagio doveva finire per
persuadersi, che tale accusa era ben fondata.
Antonio Bernardi. Keywords: il duello, L’assedio della Mirandola. i duellisti,
la legittimita del duello, i duellisti, mono machia, duo machia. Il duello
nell’antichita romana, roma antica, il duello, statua di due duellisti antichi,
armi bianchi, Boccadiferro, Pomponazzi, aristotelismo Bolognese. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Bernardi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Bernardo – la tradizione
iniziatica italica -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Benne). Filosofo
italiano. Grice: “I like Bernardo: he is a philosophical mason – but then most
Italian philosophers are, as a way of NOT being Roman!” Massone. Gran maestro
del Grande Oriente d'Italia dal 1990 al 1993, ha poi fondato la Gran Loggia Regolare
d'Italia. Diplomato in ragioneria e poi impiegato in banca, si laureò in
Sociologia presso l'Università degli Studi di Trento. Nello stesso ateneo seguì
la carriera accademica, divenendo docente ordinario di Filosofia della scienza
e di Logica, nonché pro-rettore. È inoltre autore di nmerosi saggi e
pubblicazioni sul tema della filosofia delle scienze sociali e della logica
delle norme. Fu iniziato alla massoneria
nella loggia bolognese "Risorgimento-VIII agosto" divenendo Maestro
venerabile della loggia "Zamboni-De Rolandis". Nello stesso anno
chiese e ottenne di venire inserito tra i massoni coperti per ragioni di
riservatezza legata alla sua professione di docente. Stessi requisiti di
riservatezza ebbe la sua appartenenza al Capitolo Nazionale del rito scozzese
antico e accettato. Eletto Gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Negli anni
della sua maestranza tenne posizioni di aperto contrasto con la Chiesa
cattolica, dichiarò espressamente il proprio sostegno al Partito Socialista
Italiano, e dovette confrontarsi con la cosiddetta "inchiesta
Cordova" (dal nome del pubblico ministero di Palmi Agostino Cordova). Al
centro di polemiche anche con i vertici del GOI, Di Bernardo decise di
dimettersi dalla carica di Gran maestro al termine della Gran Loggia annuale a
Roma alla quale si era presentato dopo aver redatto atto costitutivo e statuto
di una nuova Obbedienza, la Gran Loggia Regolare d'Italia. Al vertice del GOI
gli succedette il reggente Eraldo Ghinoi.
La neonata Obbedienza si regge su uno sparuto gruppo di Logge
fuoriuscite dal GOI, caratterizzandosi per l'uso esclusivo del rito inglese
Emulation. Otto anni dopo la fondazione, viene espulso dalla GLRI; gli succede
alla guida dell'Obbedienza Venzi. Quindi avvia un nuovo progetto di un ordine
paramassonico, denominato Dignity Order, che tuttavia non è un'Obbedienza
regolare. Pur dichiarando di essere fuoriuscito dalla Massoneria, Di Bernardo
da anni si presta a rilasciare interviste e dichiarazioni sull'argomento sia a
giornalisti che ad organi inquirenti. Nel
ha polemizzato con il GOI dopo aver reso una dichiarazione alla
Commissione Antimafia relativa a presunte rivelazioni di Loizzo (vedi ). Il GOI
ha annunciato l'intenzione di denunciare Di Bernardo per diffamazione e
calunnia. Il lo stesso Di Bernardo annuncia di voler a sua volta querelare il
Gran Maestro del GOI Stefano Bisi per diffamazione. La querela di Di Bernardo a
carico di Bisi viene archiviata per insussistenza. Aldo Alessandro Mola, Gelli e la P2: fra
cronaca e storia, Bastogi Editrice Italiana, Giuliano Di Bernardo, unitn. Il Gran Maestro: chi è Giuliano Di Bernardo.
Aldo A. Mola. Pubblicazioni di Giuliano
Di Bernardo, unitn. Fra tradizione e rinnovamento: la lunga traversata del
deserto, GOI. Aldo A. Mola, 801 e ss.
Aldo A. Mola, Di Bernardo fonda la nuova Grande loggia, in Corriere
della Sera. Sito ufficiale del Dignity Order, dignityorder.com. Aldo Alessandro
Mola, Storia della massoneria italiana, Bompiani, Gran loggia regolare d'Italia
Massoneria in Italia Massoneria Citazionio su Giuliano Di Bernardo Intervista a Giuliano Di Bernardo del, Predecessore
Gran maestro del Grande Oriente d'Italia Successore Square compasses.svg
Armando Corona. Eraldo Ghinoi (reggente) Predecessore Gran maestro della Gran
Loggia Regolare d'Italia SuccessoreSquare compasses.svg Carica inesistente Fabio
VenziB Filosofia Università Università Filosofo
del XX secolo Filosofi italiani Professore Penne Gran maestri del Grande
Oriente d'Italia. Giuliano Di Bernardo. Keywords. la tradizione iniziatica
italica, logica dei sistemi normativi, normativa sociale, l’implicatura del
massone, psicologia filosofica, Homo sapiens sapiens. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Bernardo” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Berneri – filosofia italiana nel ventennio fascista – filosofia italiana (Lodi). Filosofo italiano. Grice: ‘I like Berneri; of course
we need to know more about his philosophical background and education – he
represents the epitome of what Italian philosophers call ‘filosofia militante,’
but then I fought the Hun – so I was militante, too!” – Figlio di padre
originario di Ronco, frazione di Corteno Golgi (nella Val Camonica, in
provincia di Brescia) e da madre emiliana, ben presto, si trasferì con la
famiglia dapprima a Milano, poi a Palermo, e Forlìdove, a Varallo Sesia (in
provincia di Vercelli) e, infine, a Reggio nell'Emilia. Qui, da una testimonianza di Angelo Tasca
risulta che Camillo Berneri militava nella Federazione Giovanile Socialista di
Reggio Emilia già dal 1912 (da "Mussolini-Psicologia di un
dittatore", Camillo Berneri, Pier Carlo Masini, Milano, 1966, pag 109).
Dopo essere stato membro del Comitato Centrale della Federazione Giovanile
Socialista reggiana, e dopo aver collaborato all'Avanguardia (organo nazionale
della FGS), nel 1915 rassegna le dimissioni dalla FGS, attraverso una lettera
ai compagni, avendo maturato convinzioni anarchiche. Sarà colpito dal gesto dei
compagni che, nonostante le dimissioni, vorranno che presieda un'ultima
riunione della FGS a Reggio, e dal gesto del mentore Camillo Prampolini, che lo
convocherà per conoscere le ragioni del suo dissenso. Berneri ricorderà sempre
"i dolci ricordi del mio catecumenato socialista". Nel 1916 si
trasferisce ad Arezzo dove frequenta il liceo. Chiamato alle armi ed escluso dall'Accademia
Militare di Modena per le sue idee, fu inviato al fronte nel 1918; quindi,
ancora in servizio, venne confinato nell'isola di Pianosa in occasione dello
sciopero generale del luglio 1919. Iniziava intanto con lo pseudonimo Camillo
da Lodi la sua copiosa attività pubblicistica collaborando per anni a vari
periodici libertari: da Umanità Nova a Pensiero e Volontà, da L'avvenire
anarchico di Pisa a La Rivolta di Firenze e a Volontà di Ancona. Laureatosi in filosofia, insegnò tale materia
per qualche tempo a Camerino. Pronta e decisa si manifestava la sua avversione
al fascismo e, dall'Umbria in particolare, egli manteneva i contatti con gli
antifascisti fiorentini diffondendo il battagliero giornaletto Non mollare.
Molto intensa fu in quegli anni l'attività nell'Unione anarchica italiana.
Inaspritasi la dittatura fascista, dovette espatriare clandestinamente in
Francia e lo raggiunse poco dopo la moglie con le figlie; sua moglie era
Giovanna Caleffi anche lei militante anarchica così come poi le figlie Marie
Louise Berneri e Giliana Berneri. Scoppiata la guerra civile spagnola, fu tra i
primi ad accorrere in Catalogna, centro dell'attività di massa libertaria
esprimentesi nella Confederación Nacional del Trabajo: qui si trovò a fianco di
Carlo Rosselli con tanta parte dell'antifascismo italiano e internazionale. Al
di là della solidarietà militante, a Carlo Rosselli lo legava anche
l'atteggiamento critico, e l'apertura mentale verso le prospettive del
socialism. Collabora con l'organo clandestino del movimento socialista-liberale
"Giustizia e Libertà", argomentando con Rosselli sull'alternativa
secca tra socialismo libertario e socialismo dispotico ("Gli anarchici e
G.L.", Camillo Berneri e Carlo Rosselli, Giustizia e Libertà). Furono gli
ultimi mesi febbrili della sua vita: inadatto alle fatiche del fronte, si
dedicò con entusiasmo all'opera formativa, al dibattito ideale e alle
incombenze politiche pubblicando un proprio periodico dal titolo “Guerra di
classe” che sintetizza la sua precisa interpretazione del conflitto in corso.
In esso infatti Berneri, preoccupato per il crescente isolamento non tanto del
legittimo governo repubblicano quanto delle più tipiche realizzazioni
rivoluzionarie e libertarie conseguite in Catalogna, Aragona e altre regioni,
si batté vigorosamente per la stretta connessione di guerra e rivoluzione
ponendo agli antifascisti e ai suoi stessi compagni anarchici il dilemma:
vittoria su Franco, grazie alla guerra rivoluzionaria, o disfatta. Tale la sostanza
di numerosi suoi articoli e discorsi come della famosa Lettera aperta alla
ministra anarchica della Sanità Federica Montseny che con altri tre anarchici
era nel governo di Largo Caballero.
Molteplici, seppure inascoltati, furono anche i suoi suggerimenti
politici per colpire le basi operative del fascismo proclamando l'indipendenza
del Marocco, coordinare gli sforzi militari, potenziare gradualmente la
socializzazione. Fu dunque quella di Berneri una funzione singolarmente
impegnata che lo espose ben presto alle feroci repressioni condotte dai
comunisti ormai prevalsi dopo l'avvento del governo di Juan Negrín: scomparvero
così tragicamente, vittime dei massacri di massa, migliaia di combattenti
antifascisti non comunisti, anarchici ma anche comunisti non stalinisti, come i
miliziani del POUM. L'assassinio di Camillo Berneri, sulle cui esatte
circostanze esistono diverse versioni, si colloca precisamente nella sanguinosa
resa dei conti tra stalinisti e loro avversari antifascisti conosciuta come le
giornate di Maggio. Berneri fu prelevato insieme con l'amico anarchico
Francesco Barbieri dall'appartamento che i due condividevano con le rispettive
compagne. I cadaveri dei due anarchici italiani furono ritrovati crivellati di
proiettili. La moglie allevò i figli di Antonio Cieri, anche lui caduto in
Spagna. In morte di Berneri, il leader socialista Pietro Nenni scrisse:
"Se l'anarchico Berneri fosse caduto su una barricata di Barcellona,
combattendo contro il governo popolare, noi non avremmo niente da dire, e nella
severità del suo destino ritroveremmo la severa legge della rivoluzione. Ma
Berneri è stato assassinato, e noi dobbiamo dirlo" (Pietro Nenni, Nuovo
Avanti, Parigi). Altre opere: “Lettera
aperta ai giovani socialisti di un giovane anarchico” (Orvieto); “I problemi
della produzione comunista” (Firenze); “Le tre città” (Firenze); “Un
federalista russo. Pietro Kropotkin, Roma); “Mussolini normalizzatore, Zurigo);
“Lo spionaggio fascista all'estero, Marsiglia);
“Nozioni di chimica antifascista”; “L'operaiolatria, Brest); “ll lavoro
attraente, Ginevra); “Ed ancora:
Mussolini normalizzatore La donna e la garçonne”; “Pensieri e battaglie
Il cristianesimo e il lavoro” – “Il Leonardo di Freud”. da
"Mussolini-Psicologia di un dittatore", Camillo Berneri, Edizioni
Azione Comune, Pier Carlo Masini, Milano, Mirella Serri, I profeti disarmati.
1945-1948, la guerra fra le due sinistre, Milano, Corbaccio, Cfr. Nicola Fedel,
Introduzione e criteri di edizione in Camillo Berneri, Lo spionaggio fascista
all'estero, Nicola Fedel (prefazione di Mimmo Franzinelli), Fondazione
Comandante Libero, Milano,, XVII-XIX ,
Enciclopedia POMBA. Camillo Berneri, Anarchia e società aperta, Pietro Adamo,
M&B Publishing, Milano 2006. Stefano D'Errico, Anarchismo e politica. Nel
problemismo e nella critica all'anarchismo del Ventesimo Secolo, il
"programma minimo" dei libertari del Terzo Millennio. Rilettura
antologica e biografica di Camillo Berneri, Mimesis, Milano 2007. Roberto
Gremmo, Bombe, soldi e anarchia: l'affare Berneri e la tragedia dei libertari
italiani in Spagna, Storia Ribelle, Biella 2008. Mirella Serri, I profeti
disarmati. La guerra tra le due sinistre, Milano, Corbaccio, 2008. Flavio
Guidi, "Nostra patria è il mondo intero". Camillo Berneri e "Guerra
di Classe" a Barcellona (1936-37), pubblicato dall'autore, Milano.
Giampietro Berti, Giorgio Sacchetti, Un libertario in Europa. Camillo Berneri:
fra totalitarismi e democrazia. Atti del convegno di studi storici, Arezzo,
Archivio famiglia Berneri A. Chessa, Reggio Emilia. Camillo Berneri, Lo
spionaggio fascista all'estero, Nicola Fedel (e prefazione di Mimmo
Franzinelli), Fondazione Comandante Libero, Milano,, Antifascismo Archivio Famiglia Berneri Guerra
civile spagnola Giornate di maggio Altri progetti Collabora a Wikisource
Wikisource contiene una pagina dedicata a Camillo Berneri.TreccaniEnciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Camillo Berneri, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Camillo Berneri, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Camillo Berneri, su Liber
Liber. Opere di Camillo Berneri, su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Camillo Berneri,. Camillo Berneri,
su Goodreads. Altri particolari sul sito
dell'ANPI di Roma, su romacivica.net. ). Carlo De MariaUn convegno e una nuova
stagione di studi su Camillo Berneri, su storiaefuturo). Socialismo
LibertarioProfili biobibliografici libertari, su socialismolibertario.
Abolizione ed estinzione dello stato, Anarchismo e federalismo di Camillo
Berneri, su magozine. V D M Antifascismo. Anarchia Anarchia Biografie Biografie Politica Politica Storia Storia Filosofo del XX secoloScrittori
italiani del XX secoloAnarchici italiani
Lodi BarcellonaAntifascisti italianiAssassinati con arma da fuocoVittime
di dittature comuniste. Camillo Berneri. Keywords: normalizazzione, delirio
racista, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berneri” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Berti – la morte di Cicerone – filosofia italiana – Luigi Speranza (Valeggio sul Mincio). Filosofo italiano. Grice: “I like
Berti; of course he has philosophised on the only two philosophers worth
philosophising about Plato and Aristotle – his interest is in the ‘number idea’
in Plato, the unity in Aristotle, and various other things – notably Socratic
dialectic as the basis for both!” -- Grice: “I also love his courtesy: cf. Sir
Peter, “Introduction to logical theory,” versus the gentle “Un invite alla
filosofia,” – for philosophy needs to be invited to, rather than intro- and
extro-ducted to and fro’!” Professore
emerito di storia della filosofia, presidente onorario dell'Istituto
internazionale di filosofia. Laureatosi
in filosofia all'Padova, è stato allievo di Marino Gentile. Assistente presso l'Padova. Nel diventa
professore di storia della filosofia antica all'Perugia e di storia della
filosofia nella stessa Università. Si
trasferisce all'Padova, dove insegna storia della filosofia. È poi docente
anche nelle Ginevra, di Bruxelles, di Santa Fé (Argentina) e alla Facoltà di
Teologia di Lugano. Presiede la Società
Filosofica Italiana. Vince il premio dell'Associazione internazionale
"Federico Nietzsche" per la filosofia, il premio Iannone per la
filosofia antica, nel 2007 il premio Santa Marinella e il premio
Castiglioncello per la filosofia, il premio "Athene Noctua" e
nel il premio giornalistico Lucio
Colletti. Nel è nominato "doctor honoris causa"
dell'Università nazionale capodistriana di Atene e nel Honorary Fellow dell'"Interdisciplinary
Centre for Aristotle Studies" dell'Salonicco. Pensiero Interessato particolarmente alla
filosofia di Aristotele, Enrico Berti ne ha intravisto le tracce nella
metafisica, nell'etica e nella politica contemporanea in particolar modo per il
problema della contraddizione e della dialettica. Berti si è poi inserito nella dibattuta
questione del rapporto tra filosofia e scienza, cercando di definire la
specificità della filosofia, che si fonda su una razionalità non rapportabile a
quella scientifica, ma piuttosto alla dialettica e alla retorica. Su un piano
più propriamente teoretico si è interessato alla possibilità di riproporre oggi
una filosofia di tipo metafisico, formulando una concezione «umile« o «povera»
della metafisica come consapevolezza della problematicità, e quindi
dell'insufficienza, del mondo dell'esperienza, considerato nella sua totalità
(comprendente scienza, storia, individuo e società). Altre opere: “L'interpretazione neo-umanistica
della filosofia presocratica” (scuola di Crotone, la porta di Velia); “La filosofia del primo
Aristotele” (Padova, Milani); Il "De republica" di Cicerone e il pensiero
politico classico”; “L'unità del sapere in Aristotele”; “La contraddizione” (la
porta di Velia, la dialettica della struttura originaria, Bontadini); “Studi
sulla struttura logica del discorso scientifico”; “Studi aristotelici”;
“Aristotele: dalla dialettica alla filosofia prima” (Padova, Milani); “Ragione
scientifica e ragione filosofica” (Roma, La Goliardica); “Profilo di
Aristotele, Roma, Studium); “Il bene” (Brescia, La Scuola); “Le vie della ragione” (Bologna, Il Mulino);
“Contraddizione e dialettica negli antichi” (Palermo, L'Epos);:Le ragioni di
Aristotele, Roma-Bari, Laterza); “Storia della filosofia” (Roma-Bari, Laterza);
“Aristotele nel Novecento, Roma-Bari, Laterza); “Introduzione alla metafisica,
Torino, POMBA); “Il pensiero politico di Aristotele, Roma-Bari, Laterza); “Aristotele
e altri autori, Divisioni, con testo greco a fronte, coll. Il pensiero
occidentale); “In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia
antica, Laterza, Roma-Bari); “Il libro primo della «Metafisica» (Laterza,
Roma-Bari); Sumphilosophein. La vita
nell'Accademia di Platone, Roma-Bari, Laterza); “Nuovi studi aristotelici”
(Morcelliana); “Invito alla filosofia, Brescia, La Scuola); “La ricerca della
verità in filosofia, Roma, Studium. Ha scritto un dialogo satirico, un
"falso d'autore" attribuito ad Aristotele, Eubulo o della ricchezza:
dialogo perduto contro i governanti ricchi.
Traduzioni Aristotele, Metafisica, traduzione, introduzione e note di E.
Berti, Collana Biblioteca Filosofica, Roma-Bari, Laterza. Onorificenze e
riconoscimenti Grande Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica
Italiana È membro delle seguenti
accademie e istituzioni scientifiche:
Accademia nazionale dei Lincei Institut international de philosophie
Istituto veneto di scienze, lettere ed arti Société européenne de culture
Fédération internationale des sociétés de philosophie Pontificia accademia
delle scienze Pontificia accademia di San Tommaso d'Aquino Accademia galileiana
di scienze, lettere ed arti Società filosofica italiana Note festivalfilosofia, su
festivalfilosofia). Enciclopedia
multimediale delle Scienze filosofiche, su emsf.rai.). Biografia Enrico Berti [collegamento interrotto], su
comune.ancona. Aristotele Opere di Enrico Berti, su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. Opere di Enrico Berti,. Registrazioni
di Enrico Berti, su RadioRadicale, Radio Radicale. Intervista a Enrico Berti () Enrico Berti
scheda nel sito dell'Padova (con l'elenco delle pubblicazion. Filosofia Filosofo
del XX secoloFilosofi italiani Professore Valeggio sul MincioProfessori
dell'Università degli Studi di PadovaStudenti dell'Università degli Studi di
PadovaProfessor dell'Università degli Studi di PerugiaAccademici dei
LinceiStorici della filosofia italiani. I pitagorici -- Gli eleati --
Parmenide -- Zenone, Melisso -- Empedocle -- Gorgia --. LA FILOSOFIA
A ROMA Lo stoicismo medio il neo-epicureismo e Lucrezio -- L’Accademia nuova e
Cicerone -- Il neo-stoicismo romano Seneca, Epitteto, Marc'Aurelio, Enrico Berti. Keywords. la morte di Cicerone, Cicerone res
publica – “De republica” – cf. il bene/il buono/il bello, “il bene e il buono”,
Cicerone e la filosofia politica classica, il De Republica. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Berti” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Bertinaria – l’indole e le vicende della filosofia italiana – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Genova).
Filosofo italiano. Grice: “I like Bertinaria; he is, like me a philosophical
cartographer – in his case, of ‘filosofia italiana’ for which he has identified
‘indole’ e this or that ‘vicenda,’ – now J. L. Austin once remarked that ‘sake’
has no denotatum – but ‘vicem’ does!” -- Francesco Bertinaria (n. Genova), filosofo.
Studiò all'Pisa, si trasferì a Torino per collaborare con l'editoria Pomba. Ha
curato la traduzione Abriss der Geschichte der Philosophie di Kennegieszer,
professore dell'Breslavia. Si occupò anche di filosofia orientale e di
filosofia italiana. Nel 1860 Bertinaria ottenne la cattedra di Filosofia della
Storia all'Torino. Nel 1865 fu chiamato all'Genova. Morì a Genova nel
1892. Altre opere: “La filosofia italiana” (Pomba, Torino);
“Compendio di storia della filosofia” (Pomba, Torino); “Discorso sull'indole e
le vicende della filosofia italiana” (Pomba, Torino). “Concetto della filosofia
e delle scienze inchiuse nel dominio di essa, «Antologia italiana»”; “Disegno
di una storia delle scienze filosofiche in Italia dal Risorgimento delle lettere
sin oggi, Antologia italiana», “Concetto scientifico della storia, Stamp.
sociale degli artisti tipografi, Torino); “Saggi filosofici” (Tip. Fory e
Dalmazza, Torino); “Prospetto dell'insegnamento della filosofia della storia” (Stamperia
dell'unione tipografico editrice, Torino); “Della teoria poetica e dell'epopea
latina, Torino); “Dell'importanza della filosofia della storia e sue relazioni
con le altre scienze” (Torino); “L'antica filosofia del diritto” (Tip. Cavour,
Torino); “Principi di biologia e di sociologia, Negro, Torino); “La storia
della filosofia e la filosofia della storia” «Riv. cont.», Estr.: Baglione,
Torino); “Sulla formola esprimente il nuovo principio dell'enciclopedia” «Riv. cont.»,Il
positivismo e la metafisica” «Riv. cont.», Estr.: A. F. Negro, Torino); “Scienza, Arte e
Religione, «Gerdil», Estr.: Tip. Torinese, Torino); “Dell'origine, progresso e
condizione presente della filosofia civile, «Riv. bol.», “Saggio sulla funzione
ontologica della rappresentazione ideale, FSI); “Concetto del mondo civile
universale, FSI); “La dottrina dell'evoluzione e la filosofia trascendentale”
(Tip. Ferrando, Genova); “Ricerca se la separazione della Chiesa dallo Stato
sia dialettica ovvero sofistica, FSI, Estr.: Tip. dell'Opinione, Roma); “Il
problema dell'incivilimento, ossia come possano essere conciliate fra loro le
dottrine della civiltà nativa di Vico e della civiltà nativa di Romagnosi,
FSI); “La psicologia fisica ed iperfisica” (Unione tipografico-editrice,
Torino); “Ricerca se l'odierna società civile progredisca ovvero retroceda,
FSI); “L'odierno antagonismo sociale. Discorso inaugurale nella Genova”
(Tip.Martini, Genova); “Il problema critico esaminato dalla filosofia
trascendente, FSI); “Discorso per l'inaugurazione dei corsi filosofici e
letterari nella R. Genova, Tip.Martini, Genova); “Idee introduttive alla storia
della filosofia, RIF, Estr.: Tip. della R. Accademia dei Lincei, Roma); “Determinazione
dell'assoluto. Saggio di filosofia esoterica, «Giornale della Società di
letture e conversazioni scientifiche di Genova», Estr.: Tip. A. Ciminago, Genova); “Il problema
capitale della scolastica risoluto dalla filosofia trascendente. Nota
storico-critica, RIF, Estr.: Tip. alle Terme Diocleziane di Giovanni Balbi,
Roma); “Scritti Bulgarini, G. B., Recensione dell'articolo del prof. F.
Bertinaria apparso sulla «Rivista Italiana»: Idee introduttive alla storia
della filosofia, «Rosmini», F. Bertinaria. Studio biografico, «Annuario della R.
Genova», Estr.:Martini, Genova, CecchiL., Francesco Bertinaria. Commemorazione,
Martini, Genova); D'Ercole, P., Notizie biografiche del prof. F. Bertinaria,
«Annuario della R. Università degli studi di Torino», Estr.: Torino; Mamiani,
T., Rec. di F. Bertinaria, La dottrina della evoluzione e la filosofia
trascendente.Discorso, Genova FSI); “Mamiani T., Intorno alla sintesi ultima
del sapere e dell'essere. Lettere al professore Bertinaria, FSI, Estr.: Roma
1882. Tolomio, 249-266. Note
Bertinaria, su dif.unige. Piero
Di Giovanni, Un secolo di filosofia italiana attraverso le riviste, FrancoAngeli.
Opere di Francesco Bertinaria, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Biografie Biografie Letteratura Letteratura Filosofo del XIX secoloSaggisti
italiani del XIX secoloInsegnanti italiani Professore Genova. TAVOLA
GENETICA DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA
(Secondo la legge di creazione) I. Facoltà spirituali e fisiche
dell'uomo, le quali ne fanno condi zionalmente un essere razionale, vale a dire
un ente creato, soggetto alle condizioni della sua vita presente ossia all'orga
namento terrestre. = UOMO MORTALE. A ) Teoria o Autotesia; quello che v’ha di
dato nello spirito dell'uomo per istabilirne le facoltà fisiche ossia create. a
) Contenuto, ossia costituzione psicologica. a2) Parte elementare. = FACOLTÀ
ELEMENTARI (in numero di sette ). a3) Elementi primitivi. = FACOLTÀ PRIMITIVE.
a4) Elemento fondamentale ossia neutro; facoltà di sapere, = COGNIZIONE
(Kenntniss]. (I) 64) Elementi primordiali ossia polari. a5 ) Cognizione del Non
- Io. = RAPPRESENTAZIONE (Vorstellung]. (II) (1 ) Per la lettura delle nostre
Tavole genetiche noi.dobbiamo far notare alle persone non peranco abituate a
siffatta esposizione tabellare, che, a seconda della divisione dicotomica, ch'è
la sola rigorosamente logica, le due sottoclassi di ciascuna classe suddivisa
sono notate colle lettere a) e b) a destra accompagnate da un numero superiore
d'un'unità a quello che ha il medesimo indice della classe così suddivisa. In
tal maniera, muo vendo dai due generi primitivi, designati da A) e B), ciascuno
di questi due generi ha due classi designate rispettivamente da a) e b);
ciascuna di queste classi a) e 6) può avere di nuovo due sottoclassi a2) e 62 );
ciascuna di queste ultime classi a2) e 62) può avere di nuovo due sotto classi,
designate rispettivamente da a3) é 73 ); e così di seguito finchè ciascuna di
queste diverse sottoclassi ammette divisioni ulteriori. BERTINARIA -3 34 TAVOLA
GENETICA 65) Cognizione dell'Io. = COSCIENZA (Bewusztsein ).(III) 63) Elementi
derivati. = FACOLTÀ ORGANICHE. a4) Elementi derivati immediati ossia distinti.
a5) Combinazione della Cognizione colla Rappresen tazione. = SENSIBILITÀ. (IV)
Nota. Qui hanno luogo i Sensi esterni ed il Senso interno. 65) Combinazione
della Cognizione colla Coscienza. = INTELLETTO. (V) Nota. Qui hanno luogo
l'Intelligenza, il Giudizio e la Ragione condizionale (quella che si trova
incarnata nel. l'organismo fisico ossia terrestre dell'uomo). 64) Elementi
derivati mediati ossia transitivi. = IM MAGINAZIONE, a5) Transizione dalla
Sensibilità all'Intelletto. = IM MAGINAZIONE RIPRODUTTIVA. (VI) Nota. —Qui
hanno luogo la Memoria e la Previsione. 65) Transizione dall'Intelletto alla
Sensibilità. = IM MAGINAZIONE PRODUTTIVA. (VII) Nota. — Qui hanno luogo la
Costruzione e la Fantasia. 62) Parte sistematica. = FACOLTÀ SISTEMATICHE (in
numero di quattro ). a3) Diversità nella riunione sistematica degli elementi
primordiali. a4) Influenza parziale. a5) Influenza della Rappresentazione nella
Coscienza. = SENTIMENTO. (I) 65) Influenza della Coscienza nella Rappresenta
zione. = COGNIZIONE. (II) b4) Influenza reciproca di questi elementi
primordiali; armonia sistematica tra la Rappresentazione e la Coscienza per
mezzo del loro concorso teleologico alla generazione delle Cognizioni. =
COMPRENSIONE. (III) NOTA. Qui hanno luogo il Giudizio teleologico (per la
cognizione dell'ordine ), ed il Gusto estetico (per la cogni zione del bello e
del sublime). DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 35 63) Identità finale nella
riunione sistematica dei due ele menti distinti, della Sensibilità e
dell'Intelletto, per mezzo dell'elemento fondamentale ossia neutro, for mante
la Cognizione. = POTENZIALITÀ. (IV) NoTA. - Qui hanno luogo, nell'aspetto
speculativo, ch'è quello della cognizione senza causalità, il GENIO, e nel
l'aspetto pratico, che è quello della cognizione colla cau salità, la VOLONTÀ.
b ) Forma, ossia relazione psicologica. a2) Nella parte elementare della
costituzione psicologica. a3) Per le facoltà primitive. a4) Per l'elemento
fondamentale; forma della Cogni zione. = ATTENZIONE) Per gli elementi primordiali:
a5) Forma della Rappresentazione. = OBJETTIVITÀ. b5) Forma della Coscienza. =
SUBJETTIVITÀ. 63 ) Per le facoltà organiche: a4) Immediate o distinte. a5)
Forma della Sensibilità. = INTUIZIONE (An schauung). 65) Forma dell'Intelletto.
= CONCETTO (Begriff) Mediate o transitive. a5) Forma dell'Immaginazione
riproduttiva. = IM MAGINE. 65) Forma dell’Immaginazione produttiva. = SCHEMA.
Nella parte sistematica della costituzione psicologica. a3) Nella diversità
sistematica. a4 ) Per l'influenza parziale degli elementi primordiali. a5)
Forma del Sentimento. = APPRENSIONE. 65) Forma della Cognizione. = APPERCEZIONE.
64) Per la loro influenza reciproca; forma della Com prensione. = RIFLESSIONE.
63) Nell'identità finale degli elementi distinti; forma della Potenzialità. =
AZIONE [Thaetigkeit ).TAVOLA GENETICA B) Tecnia o Autogenia; quello che bisogna
fare pel compimento delle facoltà fisiche ossia create nell'uomo. a ) Nel
contenuto ossia nella costituzione psicologica. a2) Nella parte elementare di
questa costituzione. ' a3) Per gli elementi immediati ossia distinti. al)
Compimento della Sensibilità. = PERFEZIONE ESTE TICA. Compimento
dell'Intelletto. = PERFEZIONE LOGICA. I caratteri di questa doppia perfezione,
estetica e logica, sono: l'estensione, la chiarezza, la varietà, la precisione,
il complesso e la certezza. 63) Per gli elementi mediati o transitivi. a4)
Compimento dell'Immaginazione riproduttiva, per la legge d'associazione delle
immagini. = As SIMILAZIONE (spiritualizzazione delle intuizioni). 64)
Compimento dell'Immaginazione produttiva, per la legge di schematizzazione
delle idee. = MOSTRA (corporificazione dei concetti ). 62) Nella parte
sistematica di questa stessa costituzione. a3) Per il compimento dell'armonia
prestabilita (préfor mation primitive] nei due elementi primordiali, nella
Rappresentazione e nella Coscienza; la quale armonia prestabilita fornisce le
ragioni sufficienti per la desi gnazione reciproca (facultas signatrix ) dei
concetti per mezzo delle intuizioni, e delle intuizioni per mezzo dei concetti.
= LINGUAGGIO (in generale). Per il compimento dell'identità primitiva negli ele
menti distinti, nella Sensibilità e nell'Intelletto; la quale identità fornisce
il compimento della Potenzialità per via d'indefinita ascensione ai principii,
e per mezzo d'indefinita deduzione delle conseguenze, siccome legge suprema
delle umane cognizioni. = RAGIONE INCONDI ZIONALE. 6 ) Nella forma ossia nella
relazione psicologica. DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA Nella parte elementare
di questa stessa relazione; com pimento delle facoltà organiche in ordine
all'uniformità nella generazione delle cognizioni umane, siccome regola ossia
canone psicologico. = METODO. (DESTINO ). 62) Nella parte sistematica di questa
stessa relazione; com pimento delle facoltà sistematiche in ordine all'identità
finale negli oggetti delle cognizioni umane, siccome pro blema universale della
Psicologia. = IDEE (trascendenti) (RAGIONE ASSOLUTA ). II. Facoltà spirituali
ed iperfisiche dell'uomo, le quali ne fanno in condizionatamente un essere
razionale, vale a dire un ente assoluto, indipendente da qualsivoglia
condizione. = UOMO IMMORTALE. Nota. - Questa seconda parte della vera
psicologia, da niuno finora avvertita, appartiene solamente alla filosofia assoluta
del Messianismo. Essa non potrebbe in alcun modo venir raggiunta
dall'esperienza, perchè le facoltà che ne formano l'oggetto sono, non solamente
iperfisiche, ma al tresì creatrici, vale a dire poste fuori del mondo creato,
dove si trovano gli oggetti dell'osservazione e dell'espe rienza. Eccone la
genesi assoluta. A) Teoria o Autotesia; quello che vha di dato nell'ipostasi
dello spirito dell'uomo per poterne ricavare le sue facoltà iper fisiche ossia
creatrici. a) Contenuto ossia costituzione eleuterica. a2) Parte elementare. =
FACOLTÀ CREATRICI ELEMENTARI (in numero di sette ). a3) Elementi primitivi. =
FACOLTÀ PRIMITIVE. a4) Elemento fondamentale o neutro; principio ipo statico
nell'uomo. = COSCIENZA POTENZIALE. Elementi primordiali o polari. a5 )
Coscienza potenziale del Non - 10. = ALTERIETÀ. (II) 65) Coscienza potenziale
dell’Io. = IPSEITÀ. (III) 38 TAVOLA GENETICA. Elementi derivati. = FACOLTÀ
ORGANICHE. Elementi derivati immediati o distinti. a5) Combinazione della
Coscienza potenziale coll’Al terietà. = ETERONOMIA. (IV) 65) Combinazione della
Coscienza potenziale con l'Ipseità. = AUTONOMIA. (V) 64) Elementi derivati
mediati o transitivi. a5) Transizione dall'Eteronomia all'Autonomia. =
RELIGIONE RIVELATA. Transizione dall'Autonomia all'Eteronomia. = RELIGIONE
ASSOLUTA. (VII) 62) Parte sistematica. = FACOLTÀ SISTEMATICHE (in numero di
quattro ). a3) Diversità nella riunione sistematica degli elementi primordiali.
a4) Influenza parziale. a5) Influenza parziale dell'Alterietà nell'Ipseità. =
ETEROTELIA. (Influenza parziale dell'Ipseità nell’Alterietà. = AUTOTELIA.
Influenza reciproca di questi elementi primordiali; armonia sistematica tra
l’Alterietà e l'Ipseità, per mezzo del loro concorso teleologico alla creazione
propria dell'uomo. = SPIRITO (Geist]. (III) Nota. Questo è il principio più
alto della filosofia di Hegel; ma si vede ch'esso non raggiunge il Verbo e nem
meno l'Assoluto, del quale secondo riesce, in certa ma niera, solamente
peristilio. Identità finale nella riunione sistematica degli ele menti distinti
dell'Eteronomia e dell'Autonomia per mezzo dell'elemento fondamentale o neutro,
formante la Coscienza potenziale. = ASSOLUTO nella coscienza ossia COSCIENZA
ASSOLUTA. Forma o relazione eleuterica. Nella parte elementare della
costituzione eleuterica. DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 39 a3) Per le facoltà
primitive. a4) Per l'elemento fondamentale; formadella Coscienza potenziale. =
GENIALITÀ. Per gli elementi primordiali. a5) Forma dell'Alterietà. =
RECETTIVITÀ (nella co scienza ). 65) Forma dell'Ipseità. = PROPRIETIVITÀ (nella
co scienza ). 63) Per le facoltà organiche: a4) Immediate o distinte. a5) Forma
dell'Eteronomia. = MORALITÀ. 65) Forma dell’Autonomia. = MESSIANITÀ. 64 )
Mediate o transitive. a5) Forma della Religione rivelata. = GRAZIA. 65) Forma
della Religione assoluta. = MERITO. Nella parte sistematica della costituzione
eleuterica. a3) Nella diversità sistematica. a4) Per l'influenza parziale degli
elementi primordiali. a5) Forma dell'Eterotelia. = DIPENDENZA PROVVI DENZIALE.
65 ) Forma dell'Autotelia. = INDIPENDENZA UMANA. 64) Per l'influenza reciproca;
forma dello Spirito. = SPONTANEITÀ. Nell'identità finale degli elementi
distinti; forma dell'Assoluto nella coscienza. = RAZIONALITÀ CREATRICE) Tecnia
o Autogenia; ciò che bisogna fare pel compimento delle facoltà iperfisiche o
creatrici nell'uomo. a) Nel contenuto o nella costituzione eleuterica. a2)
Nella parte elementare di questa costituzione. a3) Per gli elementi immediati o
distinti. a4) Compimento dell’Eteronomia; stabilimento proprio, operato
dall'uomo stesso, del suo essere assoluto. = AUTOTESIA. 40 TAVOLA GENETICA
DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 64) Compimento dell'Autonomia; stabilimento
proprio, operato dall'uomo stesso del suo sapere assoluto. = AUTOGENIA. 63) Per
gli elementi mediati o transitivi. a4) Compimento della Religione rivelata. =
Per mezzo della LEGGE DEL PROGRESSO. Compimento della Religione assoluta. = Per
mezzo della LEGGE DI CREAZIONE) Nella parte sistematica di questa stessa
costituzione. Per il compimento dell'armonia prestabilita (préfor mation
primitive] nei due elementi primordiali, nella Alterietà e nell'Ipseità;
armonia che fornisce le ra gioni sufficienti per l'esplicazione della
Virtualità creatrice nell'uomo. = VERBO) Per il compimento dell'identità
primitiva nei due elementi distinti, nell'Eteronomia e nell'Autonomia; identità
che fornisce il compimento dell'Assoluto nella coscienza per mezzo della sua
identificazione col Verbo, come legge suprema della creazione propria dell'ờomo.
= ARCIASSOLUTO ossia ciò che è INDICIBILE (nell'ipostasi della coscienza umana
). Nella forma o nella relazione eleuterica. Nella parte elementare di questa
relazione; compimento delle facoltà organiche in ordine all'uniformità nella
pro pria creazione umana, come regola o canone eleuterico per la liberazione
dell'uomo dalle sue condizioni fisiche. = RIGENERAZIONE SPIRITUALE DELL'UOMO.
62) Nella parte sistematica di questa stessa relazione; com pimento delle
facoltà sistematiche in ordine all'identità finale nel risultamento della
propria creazione umana, cioè in ordine all'individualità assoluta dell'uomo,
come problema universale di questa parte eleuterica della Psi cologia. =
CREAZIONE PROPRIA DELL'UOMO (Immortalità ). COMMENTO ALLA TAVOLA GENETICA DELLA.
PSICOLOGIA FISICA ED IPERFISICA DI HOENATO WRONSKI PARTE PRIMA PSICOLOGIA
FISICA Facoltà spirituali e fisiche dell'uomo, le quali ne fanno condi
zionatamente un ESSERE RAZIONALE, vale a dire un ente creato, soggetto alle
condizioni della sua vita presente, ossia all'organamento terrestre. - UOMO
MORTALE. In questa prima parte della Tavola genetica della Filosofia della
Psicologia l'Autore tratta solamente delle facoltà spirituali da lui dette
fisiche per ciò ch'esse sono date immediatamente dalla natura, e si svolgono
per necessità della costituzione naturale dell'uomo, riserbandosi di trattare
delle facoltà iperfisiche nella seconda parte della Tavola stessa. L'Autore
dice che le facoltà fisiche fanno dell'uomo condizio natamente un essere
razionale, e spiega l'avverbio, chiamando l'uomo, in quanto egli è solamente
fornito di tali facoltà, un ente creato soggetto alle condizioni della sua vita
presente. Chiun que non conosca l'ontologia wronskiana, e si trovi solamente
iniziato alla psicologia ancora comunemente coltivata oggidì, avrà motivo
d'inarcare le ciglia udendo queste espressioni; ma colui il quale sappia che
l'Autore ammette due sorta di creazione, delle quali la prima è opera dell'Ente
supremo, e costituisce, rispetto alla mente umana che la contempla, l'ordine
eterono mico governato dalla necessità, e la seconda è opera dello Spi ſito
creato, e costituisce, rispetto allo spirito stesso, l'ordine autonomico
governato dalla libertà di cui egli è dotato, capirà pure facilmente che
l'uomo, quale creatura di Dio, è essenzial mente eteronomico, e per conseguenza
soggetto alle condizioni dell'organamento terrestre, al quale la sua vita è
vincolata in forza delle leggi necessarie del cosmo; e quale autore del proprio
svolgimento, egli è essenzialmente autonomico, vale a dire crea tore di se
stesso. Posta questa teoria ontologica, si debbono pure ammettere due ordini di
umane facoltà, fra loro così distinti che non vadano mai fra loro confusi,
sebbene siano fra loro collegati come qualità di un medesimo soggetto, ed il
primo si trovi logi camente e cronologicamente anteriore al secondo, che in
dignità gli è superiore. Laonde, chiamando naturale o fisica l'entità
eteronomica, e soprannaturale od iperfisica l'entità autonomica dell'uomo, si
vengono a caratterizzare benissimo i due ordini di facoltà fra loro così
diversi, che quelle del primo fanno dell'uomo bensì un ente razionale, ma
condizionato, laddove quelle altre del secondo rendono l'uomo stesso ente
razionale incondizionato cioè assoluto. A Teoria o Autotesia. Presso le
colonie greche nell'Italia inferiore, le quali erano per lo più composte di
Dori ed Achei, ebbe luogo molto svolgimento di vita esteriore ed interna;
imperocchè vennero a rinomanza per le legislazioni di Saleuco e Caronda, per
l'arte orato ria e la poesia lirica, per un'eccellente scuola me dica stabilita
in Crotone, città salita a prospera for tuna, e per molti vincitori ai giuochi
olimpici, che quivi ebbero i natali. PITAGORA portossi a Crotone e dimora per
lo più nella Magna Grecia. La sua vita è oscura e molto favolosa. Egli fu dotto
particolarmente in matematica, musica teoretica, astronomia e ginnastica. Le
favole lo dicono tau maturgo e rivelatore di sapienza divina. Egli deve essere
figlio d'Apollo e d'Ermete, con una gamba d'oro, e fu veduto in più luoghi
nello stesso tempo. Gli animali seguivano la sua chiamata. Da Ermete ebbe il
dono della ricordanza della sua vita ante riore, come Euforbio, e seppe
ridestare la medesima in altri. Egli sentiva l'armonia delle sfere celesti, e
venne considerato come una divinità. Però è che si parla di un culto sacro e di
orgie pitagoriche. Egli deve aver conosciuto Ferecide e Talete, ed essere stato
educato dai sacerdoti egiziani; ma da se stesso si procacciò la maggior parte
di sue cogni zioni. Fondò a Crotone una società segreta in cui si professavano
i principii politici dell'aristocrazia: Pri ma che un individuo venisse
accettato in quella do veva subire prove. I membrisi distinguevano in eso.
terici ed essoterici, cioè più e meno iniziati. In tale società praticavanşi
esercizii corporali e spirituali, vita e costumi comuni e regole, parole
simboliche, invocazioni al fondatore (aútòs špa ), banchetti (ovo oltia ) e
funerali; ma non già comunione di beni. I fini principali della società erano
prima la mo rale religiosa, poi la scienza, particolarmente la matematica e la
musica. La società pitagorica ebbe influenza diretta sugli interessi politici
nelle città di Crotone, Sibari, Metaponto, Locri e Tarento; ma essendo stata
cagione di una guerra, molti Pitago rici perirono e fors’anche lo stesso
Pitagora mori a Metaponto, e dopo morte fu onoratissimo. I Pita gorici
perseguitati e scacciati, conservarono pure influenza politica. A molti di
essi, come Timeo, Archita ed Ocello da Lucania, sono attribuiti scritti, e le
lettere attribuite a Pitagora ed a sua moglie o figlia Teano, come pure i versi
d'oro, sono d'ori gine posteriore. Fra gli ultimi Pitagorici i migliori sono
Filolao ed Archita, e dei primi scritti riman gono ancora frammenti. Quantunque
la filosofia pitagorica abbia seguito varie direzioni, pure dobbiamo
considerarla nella sua unità. L'esporre la medesima riesce difficile sia pella
diversità delle vedute de'varii scrittori che le appartengono, sia pei segni
simbolici di cui servi vasi quella scuola per significare le idee ed i varii
sensi a cui s'impiegavano. -Come Ferecide, miti camente esprimendosi, diceva
che Erebo aveva dato forma al Caos e ne venne il Tempo, Pitagora volle la
pluralità generata dall'unità, ossia dal numero. Que sto è l'essenza (ovoia) od
il principio (apxn) di tutte le cose. Il numero è pensato come uno, però anche
quale unità di due antitesi, del pari e dispari. Onde la monade e la diade sono
i principii delle cose. La diade è il principio della sostanza informe, ossia
il numero indeterminato; la monade è il principio ordinatore. La sostanza
informe viene alla pluralità ed alla varietà per mezzo dell'unità; però tutte
le cose si fanno ad imitazione del nu mero, possono considerarsiqualinumeri. Il
numero. è il principio generale tanto della natura, quanto della cognizione.
Cosi l'uno è l'essenza del numero, il numero semplicemente, il fondamento di
tutti i numeri, l'unità suprema, la divinità nel mondo. I Pitagorici dissero
triade il numero del tutto consi derato nell'integrità di principio, mezzo e
fine. La tetrattisi è importante, perchè i primi quattro nu meri formano
assieme dieci, ed i primi quattro pari e dispari formano trentasei; parimente
im portante è la deca, e vale come l'unità per sim bolo del principio di tutte
le cose. Nell'essenza del numero, ossia nell'unità suprema, si contengono tutti
i numeri, e per conseguenza gli elementi della natura e dell'universo. Questa
teoria si accorda colla divisione dei toni del monocordo inventato da Pitagora.
Dividendo in due parti una corda tesa, la metà produce l'ottava; cosi il tono
fondamentale della corda intiera sta all'ottava come 2: 1, che è la perfetta
proporzione musicale. La corda divisa in tre parti dà 2/3 della corda divisa,
la quinta che sta al tono fondamentale come 2: 3; così 3/4 della corda dà la
quarta, che sta al tono fondamen tale come 3: 4. Questi tre intervalli
formavano l'ar monia degli antichi, onde l'importanza dei segni 1, 2, 3, 4.
L'unità suprema è pari- dispari. Gli elementi della natura sono compresi nelle
seguenti dieci antitesi: 1. Limitato, illimitato: 2. Dispari, pari: 3. Uno, più:
4. Destro, sinistro: 5. Mascolino, femminino: 6. Quiete, moto: 7. Retto, curvo:
8. Luce, tenebra: 9. Buono, cattivo: 10. Quadrato, rettangolo. Tuttavia non
furono escluse altre antitesi. L'uno è solo nella terza antitesi, perchè ha due
signifi cati, come principio e come sintesi di tutte le an titesi. Nelle
antitesi il primomembro significa sem pre il più perfetto, in quanto che tutto
nel mondo risulta dal perfetto e dall'imperfetto. L'uno essendo il fondamento
di tutti i numeri, perchè è pari e dispari nello stesso tempo, non solamente è
il principio del perfetto, ma anche dell'imperfetto. Il perfetto, ossia il
buono, non è dunque primamente, ma coesiste all'imperfetto nell'uno come diade;
perciò avviene in prima che l'uno forma il mondo, ossia quanto è possibile;
imperocchè l'efficacia di Dio è limitata, ed ogni cosa recà al meglio solamente
secondo sua potenza. Ma perchè i Pitagorici non prendono l'antitesi per
fondamento delle cose, bensi il numero ossia il pari- dispari come dispari e
pari? Nella tavola si presentano il limite, ossia il limitanté, ed il limitato.
Il limitante è secondo loro, rispetto ai corpi, una pluralità di punti che
formano un numero. L'illimitato significa il mezzo tra il limite, ossia lo
spazio di mezzo; la quale espressione aveva grande significato nella musica e
geometria loro. Dagli spazii musicali mezzani, ossia intervalli, essi
derivavano l'accordo de'varii toni. I punti di limite costituendo il principio
e la fine, l'illimitato è nel mezzo e produce l'espansione, e precisamente la
geometria secondo le tre misure. Il cubo è pro dotto da tre intervalli, la
superficie da due, la linea da un solo; il punto non ha intervallo, è l'u nità.
Dal limite e dall'illimitato, ossia dalle unità e dagli intervalli, viene la
grandezza dello spazio. Ma d'onde lo spazio mezzano? Il secondo membro delle
loro antitesi è il negativo; perciò l'illimitato, o lo spazio mezzano, è il
vacuo. La separazione delle unità, ossia numeri, avviene per mezzo del vacuo;
questo è dunque principio e solamente un'altra espressione dell'illimitato o
pari, perchè tutti i membri posteriori delle antitesi possono es sere mutati, e
cosi anche i membri anteriori. Qual fu l'opinione dei Pitagorici intorno
l'origine del mondo? Le cose provengono dalle unità in diversi spazii mezzani,
esse formano un numero di unità, ed in ciò consiste la loro natura e la loro
origine, non 'secondo il tempo, ma secondo la maniera umana di pensare. L'unità
suprema come circon data dall'infinito, ossia dal vacuo, si sforza di di
vidersi in antitesi e di ricongiungersi di nuovo. L’uno si divide in una
pluralità di cose per mezzo dello spazio vacuo, perció l'illimitato si partisce
in più parti affinchè entri nel limitante. Il vero essere ha dunque il suo
fondamento nel limite. L'entrare dell'illimitato nel limitato vien detto
l'alito ossia la vita del mondo. Perciò bisogna prendere il mondo come numero,
come unità, le quali sono congiunte in Dio, che è l'unità primitiva, e separate
dallo spazio mezzano. Dalla composizione delle unità provengono diverse
relazioni, che sono ordinate armonicamente e con simmetria. Il legame di ogni
relazione è l'armonia. Ora l'unione delle antitesi trovandosi nell'unità
suprema, essa è il principio dell'armonia e l'universo numero ed armonia, ed
anche l'armonia è di bel nuovo il principio dell'unità di tutte le cose. Ma
nell'armonia è pur anco compreso il concetto di ordine. Avuto riguardo all'
importanza della deca, adottavano dieci corpi mondani che si trovano in
armoniche distanze. Rispetto ai sette toni, dal tono fondamentale all'ot tava
adottavano sette -vocali. La monade è il punto, la diade la linea, la triade la
superficie, la tetrat tisi il corpo geometrico, la pentattisi i corpi fisici.
In questo modo arbitrario continuavano essi a porre cinque elementi, e dicevano
paragonando: Il cubo significa la terra, la piramide il fuoco, l'ottaedro
l'aria, l'icosaedro l'acqua, ed il dodecaedro l'etere come quinto elemento. Il
migliore di questi ele menti è il fuoco, probabilmente perchè fra le dieci
antitesi la luce e l'inerte significano il perfetto. Il fuoco riposa nel mezzo
del mondo ed è la guardia ο castello di Giove (Διός φυλακή.Ζηνός πύργος), ha la
forma di un cubo, perché questo, essendo consi derato il corpo più perfetto a
cagione dei tre inter valli simili, secondo i Pitagorici era l'altare dell'u
niverso; il qual fuoco si forma prima da sè e guida poi la formazione del
mondo. Dal mezzo il fuoco si spande per tutto l'universoe lo abbraccia. Attorno
al fuoco centrale sono ordinati i dieci corpi mon dani, cioè il cielo delle
stelle fisse, i cinque pianeti, il sole, la luna, la terra e la controterra (artiyJabí),
il quale ultimo corpo è invisibile. Essi si vibrano in direzione circolare, ad
eccezione della terra im mobile nel mezzo (probabilmente con la contro terra ),
e la quale contiene il fuoco; perchè anche il mondo intiero corrispondente alla
deca è una palla: onde l'armonia delle sfere, perchè ogni corpo vibrandosi
rende un tono. Tuttavia noi non sentiamo quell'armonia, giacchè appartiene alla
nostra so stanza, e come ogni tono si può solo sentire pel contrapposto del
silenzio, l'armonia delle sfere è senza pausa. I corpi circolanti sono otto
solamente, e questi sono ordinati in quattro intervalli e sette toni, talchè la
sfera delle stelle fissé ha il tono più basso, quello della luna il più alto.
L'imperfezione è particolarınente sulla terra; però la luna e gli altri mondi
sono più perfetti e più belli. Sulla terra ba luogo il cangiamento disordinato
ed in appa renza molto fortuito; essa stessa è soggetta all'in stabilità. S 67
Si annodano ai numeri anche i concetti di per fezione e d'imperfezione in senso
morale. La diade è principalmente il simbolo dell'immorale. L'anima dell'uomo è
parimenti un numero od armonia, l'intelletto o pensiero è l'uno, la scienza il
due, l'immaginazione il tre, il sentimento il quattro. L'anima è inserita nel
corpo pel número e relazione armonica del corpo, perciò non è corporea, ma solo
apparente in una relazione corporale. Vi sono anche anime prive di corpo che
hanno vita di fan tasma, e le quali non sono mai entrate in alcun corpo o di
nuovo ne sono uscite; queste sono i de moni. A questo si riferisce la dottrina
esoterica della metempsicosi e la fede nella ricompensa dopo morte, a cui
conseguita la personalità e l'immor talità dell'anima. L'unione dell'anima con
un corpo è la pena di qualche empietà; la vita terrena è uno stato d'infelicità,
ma necessario ed ordinato al buo no per mezzo dell'unione col tutto. L'anima
umana possiede l'essenza ragionevole e l'essenza irragio nevole, quella delle
bestie solamente la seconda, però ha qualche germe d'intelligenza. La virtù è
armonia, la giustizia è detta anche numero uguale. Tutta la vita è sotto la
cura divina: il suicidio è da condannarsi. Pare che la morale e la politica dei
Pitagorici si appoggiasse a massime separate di ca rattere ascetico; essi
inculcavano la moderazione nei desiderii e nelle passioni, la fedeltà, l'amore,
l'amicizia, il lavoro, la costanza e l'educazione ri gorosa. – Cosi la dottrina
pitagorica è in parte etica, rappresentata dall'armonia e dalla musica, in
parte fisica per la matematica, pei fenomeni fisici derivanti dalla forma della
sensibilità; la quale si ricava da ciò che l'unità del principio si risolve in
una pluralità di cose. La presupposizione della ori ginale imperfezione deve
unire ambe queste parti. L'unità suprema è semplice, ma considerata nella sua
attività, nello sviluppo mondano della sensibi lità è composta; il
soprasensibile ossia l'unità su prema è indeterminato. In ciò sta riposta senza
dubbio l'idea di Dio come creatore del mondo, ma è offuscata dal modo forzato
con cui si presenta all'uopo di spiegare l'origine del mondo, la natura delle
cose singolari e la loro connessione, e dalla nozione simbolica e particolarmente
matematica della provvidenza divina. Onde l'applicazione di questa
dottrina alla parte spirituale è difficilissima. Pertanto la dottrina
pitagorica è nell'etica tanto difettosa, quanto pare siano stati eccellenti i
parti giani di essa nell'esercizio della virtù. I lonii e Pitagorici
tentarono spiegare l'origine del mondo; essi ammettendo la produzione delle
cose riuscirono realisti. Per l'opposto gli Eleati sono idealisti, tendono alla
cognizione del non -sensibile ed affermano: Nulla viene all'essere, tutto
esiste. Il nome loro proviene dalla città d'Elea nella Magna Grecia, dov'era la
sede principale di questa scuola filosofica. SENOFANE da Colofone, sede della
poesia epica e gnomica, contemporaneo di Pitagora, si portò verso il 536 ad
Elea nella Magna Grecia, e fu prima poeta epico ed elegiaco. Rimangono solo
frammenti delle sue opere. La sua tesi fondamentale è questa: Dio è, e non può
divenire; come pure in generale nissuna cosa può cominciare ad esistere;
imperocchè il generato dovrebbe essere uguale al generante, epperò ambi non
sarebbero fra loro differenti; ma l'ineguaglianza, come per esempio, che il più
pic colo nasca dal più grande e vi ritorni, si deve attri buire all'opinione
insussistente che alcuna cosa non esistente possa venir prodotta da ciò che
esiste. Per ciò vi ha solamente l'uno, e questi è Dio, il quale forma col cielo
e la terra un essere solo, unico (in TÒ öv xai tò Tây). Per conseguenza il
politeismo o la mitologia parvegli un'empietà, particolarmente i miti immorali.
Sostenne contro le scuole jonica e pitagorica che Dio non è mosso e limitato,
nè inerte ed illimitato, perchè le prime limitazioni sono pro prie della
pluralità, le altre appartengono al non esistente. Dio è perfettamente uguale
perchè non ha parti; considerato spiritualmente è pura intelli genza,
considerato corporalmente è da paragonarsi ad un globo. Secondo tali principii
era impossibile una spiegazione della natura. Cosi egli oppose alla verità
l'opinione, ossia l'intuizione sensibile; ep però non seppe trovare il nesso
tra l'unità e la pluralità. Per la qual cosa si duole che l'ignoranza sia
retaggio dell'umana schiatta. Senofane è pan teista; ma importante il suo
pensiero dell'essere assoluto. PARMENIDE da Elea fece con Zeno ne un viaggio ad
Atene, dove forse conobbe Socrate. Egli sviluppò il sistema di Senofane;
tuttavia non prese le mosse dal concetto di Dio, ma da quello dell'essere e del
non -essere, della certezza e dell'o pinione, riconducendosi poi all'idea di
Dio siccome quella che è riposta nell'esistente. Secondo lui v'ha un doppio
sistema di conoscenza, quello della ra gione ossia del vero, e quello dei sensi
ossia del l'apparenza. Il suo poema sulla natura trattava di ambe le maniere,
ma dai frammenti che pervennero a noi conosciamo la prima meglio della seconda.
Es sere, pensare e conoscere è tutt'uno. Il non-essere è impossibile, tutto
l'essere è identico; perciò il reale non lią cominciamento, è invariabile,
indivisibile, riempie tutto lo spazio, da se stesso si limita, sussi ste per
legge di necessità: onde qualunque cangia mento, qualunque movimento è mera
apparenza. Ciò non ostante la stessa apparenza è regolata da una legge, per cui
le rappresentazioni delle cose sono costanti (80% a ). A fine di spiegare la
natura di tali rappresentazioni ricorre a due principii, il caldo, ossia il
fuoco etereo, il freddo ossia la notte della terra; il primo è penetrante,
positivo, reale, pensante (Saucoupyós), epperò più vicino alla verità; il
secondo è denso, pesante (@an), negativo, sola mente una limitazione del primo.
Questa dottrina della natura è meccanica. Da tali due principii de rivò egli
tutti i cangiamenti ed anche i fenomeni del senso interno. L'uomo è un composto
di fuoco etereo e di notte, per conseguenza partecipa alla cognizione della
verità ed all'apparenza. MELISSO da Samo, verso l'anno 444, celebre an che come
politico e capitano di flotta contro Pericle, adottò lo stesso idealismo, e
prese a combattere particolarmente la filosofia naturale della scuola ionica.
Non si deve far parola degli dei, perchè gli uomini non hanno cognizione alcuna
di tali enti. Presso Melisso ritorna il concetto di perfezione. Ciò che esiste
è infinito, non è prodotto, nè può perire. Non v'ha movimento o trasformazione,
perché avvi un essere solo e nissun vacuo; epperò non si danno la porosità e la
densità. L'esistente non può essere diviso, cosi non ha parti, non è corporeo.
La plu ralità è sola apparenza sensibile. Quello che in ve rità esiste è dotato
di vita. ZENONE d'Elea, discepolo ed amico di Parmenide, fece con questo un
viaggio ad Atene e si distinse tanto per acume d'intelletto e sottile
dialettica, quanto per fortezza d'animo, avendo sacrificata in battaglia la
propria vita a difesa della patria. Egli sostene va il sistema di Parmenide in
ciò che nega la plu ralità delle cose, il movimento e lo spazio. Data la
pluralità delle cose, ne dovrebbe conseguitare che nello stesso tempo fossero
infinitamente piccole ed infinitamente grandi; la prima condizione perchè
risultano di ultime unità indivisibili, il cui aggregato non può produrre
grandezza; la seconda con dizione perchè risultano da una quantità infinita di
parti sempre più estese e per conseguenza divisi bili. Qui il sofisma consiste
in ciò, che nel primo caso suppone l'indivisibilità, nel secondo la rigetta. In
seguito diceva: la pluralità è ad un tempo limitata ed illimitata; limitata
perchè più o meno determinata, illimitata perchè ogni distanza da un punto di
una grandezza fino all'altro è infinito, avuto riguardo all'infinita quantità
di parti di mez Egli contestava il movimento per le contrad dizioni inerenti a
questo concetto; imperocchè bi sogna che lo spazio misuratore, il quale consta
di parti infinite, venga percorso in un intervallo limi tato. Onde l'argomento
detto l'Achille, con cui af fermava che se una testuggine avesse il vantaggio
d'un passo avanti, non potrebbe essere raggiunta da Achille, perchè la distanza
non cesserebbe mai appieno, quantunque si facesse sempre più breve. Diceva poi
che non dovevasi accettare la dottrina del movimento, risultando da semplici
momenti di quiete, in quanto ciò che si muove perpetuamente si sviluppa in
qualche parte. Lo spazio vacuo è ines cogitabile, appunto perché la pluralità
ed il mo vimento non sono pensabili. Che se fosse alcun che reale, esso
dovrebbe trovarsi in uno spazio, giac chè ogni realità è compresa in quello,
epperò una continuazione senza fine dovrebbe trovare luogo in uno spazio che la
contenesse. Queste prove apago giche, appoggiate all'assurdità dell'opinione
con traria, sono sofistiche per lo scambio delle forme rappresentative logico
-matematiche di valore su biettivo e delle forme razionali di valore obiettivo.
Nell'Achille si trova una falsa applicazione della ce lerità all'espansione,
ossia del tempo allo spazio. Per mezzo dell'antitesi della ragione e dell'espe
rienza Zenone pose le fondamenta della dialettica e dello scetticismo, che ben
presto venne continuato dalla scuola di Megara e finalmente corruppe tutta la
filosofia greca. $ 75 EMPEDOCLE d'Agrigento in Sicilia, verso l'anno 460,
naturalista, medico, celebre come taumaturgo, perfezionò la fisica degli
Eleati, siccome Zenone la metafisica. L'unità delle cose è il mondo, simile ad
un globo, ragione per cui lo chiama opalpos, opera perfetta dell'amore, da lui
governata, a lui iden tica. La materia e la forza non si decompongono. L'amore
irradiandosi dal centro penetra tutto ed è ad un tempo necessità: dipende da
tutto pel con trasto delle forze. Essendo l'uomo solamente una parte della
divinità, la cognizione umana non può essere che imperfetta,''e quantunque
conosca gli elementi del tutto, non può penetrarne l'unità, che Dio solo può
comprendere. Egli distingue dalla mas sa la forza movente. Le forze solamente
movono, ma non variano le cose; però questa dottrina della natura è meccanica.
Egli è impossibile che il nulla produca alcuna cosa, e che venga a mancare ciò
che esiste. Egli ammette quattro elementi, fra i quali dà preferenza al fuoco,
considerandolo come l'essenza divina delle cose; imperocchè tutto si ri cava
dal fuoco ed in esso tutto si risolve. La sepa razione avviene per odio, ma
senza che riman gano intervalli vacui. L'amore congiunge le cose eterogenee,
l'odio le omogenee, operando la sepa razione del composto. Vi sono periodi
nella for mazione del mondo. Ma il mondo mosso è sola mente una parte del tutto,
il dominio dell'odio solo sottordinato, ed anche solo presente nella rappre
sentazione. Prima si formano le cose elementari, il sole, l'aria, il mare, la
terra, poi da questi pro vengono le organiche per mezzo dell'amore; le piante e
gli animali si formano dal concorso degli elementi, ma in principio le membra
esistendo se paratamente hanno prima luogo i mostri. La na tura organica
essendo formata dall'amore è il pas. saggio alla vita beata nello sfero. Gli
spiriti sono trasmigrati in corpi per delitto, epperò sono neces sarie le
purificazioni. Tutto è ripieno di ragione e partecipa alla conoscenza. Gli
elementi non godono di vita pacifica, essendo svelti dallo sfero, mossi
dall'odio, epperciò ricevono diverse forme senza propria metempsicosi. Tale
migrazione per tutte le forme è la miseria delle cose, conseguenza dell’o dio.
Rimedio contrario è l'intiero abbandono all'a more. Non v'ha guarentigia
d'intelletto se ci diamo alla vita sensuale. La cognizione de' corpi ha per
fondamento l'osservazione sensibile, ed è opera dell'unione meccanica de'corpi
per mezzo dei tras corrimenti á toppolai) e delle correnti che pene trano in
altri corpi per via de'pori (xotha ). L'unione delle impressioni sensibili
nella coscienza, spiegasi col congiungersi del sangae nel cuore. Questa co
gnizione procura l'opinione, ma non il vero sapere. La cognizione divina è
somministrata dalla ragione ed avviene in maniera mistica per mezzo della pu
rificazione. — La filosofia di Empedocle è il primo tenue saggio per
rettificare le nozioni sensibili coi puri concetti della ragione, e disgiungere
dai feno meni fisici la cognizione del vero reale, ossia il fondamento
sensibile delle cose. La sua fisica ha tutti i difetti della spiegazione meccanica
della na tura. Anch'egli si duole della ristrettezza dell'uma no intendimento.
Si racconta che incontrò la morte nel cratere dell'Etna. Empedocle aveva
scritto un poena didattico sulla natura, ma non ne perven nero a noi che
frammenti. GORGIA da Leonzio, discepolo
d’Empedocle, e anche maggior dispregiatore di Protagora di quanto è vero e
buono. Egli si portò in Atene in qualità d'ambasciatore, si attirò gli sguardi
per una nuova maniera oratoria, viaggið all'intorno, raccolse molto danaro
dall'insegna mnento e morì in età avanzata. Le sue orazioni sono meramente
pompose, svolte per mezzo di antitesi, epperciò fredde. Egli si vantava di
parlare all'im provviso di tutto, sia brevemente sia a lungo, e di sapere a
tutto rispondere. Il suo insegnamento nel l'arte oratoria consiste in
artifizii, specialmente in paralogismi. Egli sprezzava la virtù, tenendo l'arte
di persuadere per la suprema. In luogo dell'esistente degli Eleati pose il non
- esistente. Egli sosteneva tre tesi: 1 ° egli v'ha niente, nè l'essere nè il
non essere, nè ambi assieme. L'essere non è perchè o non deve aver principio o
deve averlo, od ambi assieme. Se non ha principio è eterno, perciò un non -
essere, è come eterno anche infinito, ma poi dovrebbe essere od in se stesso od
in -un altros ma in se stesso dovrebbe essere ad un tempo contenente e
contenuto, in un altro vi sarebbe un infinito in un altro infinito; però ambi i
casi sono impossibili. Se ha principio, dev'essere prodotto o dall'esistente o
dal non esistente. Nel primo caso sarebbe contro la presupposizione eterno e
non avrebbe principio, nel secondo dovrebbe il nulla come non esistente,
produrre alcuna cosa. Ma il nulla esistendo, l'es sere dovrebbe essere non
esistente, perchè il nulla e l'essere sono contrapposti. L'essere poi non po
trebbe avere principio e non averlo nello stesso tempo per essere un'antitesi.
Parimenti il non essere non può essere, perchè altrimenti l'essere stesso non
potrebbe essere. 2° Quand'anche qual che cosa fosse, tuttavia non si potrebbe
conoscere, perchè non si può pensare che il pensabile, non il reale che è fuori
del pensiero. Vi ha differenza tra il pensato ed il reale (questa distinzione è
vera, maGorgia ne fece un'applicazione falsa ). 3° Quando anche alcuna cosa
fosse pensabile, essa pero non sarebbe comunicabile, perchè solamente il
concetto ed il discorso si possono comunicare, non già la cosa stessa.- Zenone
aveva già adoperato gli ele menti delle nozioni sensibili per mostrare in esse
stesse la loronullità a frontedella verità puramente razionale; Gorgia si
prevalse degli elementi della dottrina eleatica intorno alla ragione per
annullare l'ultima stessa, essendo contraria alla verità delle nozioni
sensibili, ed il pensiero potendo solamente produrre apparenze. $ 80 In tal
maniera fini il primo periodo della filosofia greca. I lonii partirono dalla
natura, ossia dalmondo, gli Eleati da Dio; i primi rifletterono meno alla Di
vinità, facendone conto solamente come dellaforza prima della natura o della
vita; imperocchè per essa solamente intendevano a spiegare l'origine del mondo
o per via dinamica o meccanica, finchè Anassagora separò Dio dalla materia,
però ad ambi attribuendo pari originalità e concedendo solo al primo la
direzione del mondo. Gli Eleati rigetta rono cotesto dualismo, ritornarono al
monismo, ma non poterono accordare la perfezione di Dio coll'im perfezione del
mondo, cercando un rifugio col dire che il mondo non è alcuna cosa reale, ma
solo ap parente. Fu questo il grave errore, che sempre più ingrandito aboli
finalmente Dio, la religione e la moralità. Già la scuola ionica aveva lasciato
la mo rale in un canto. Pitagora, il quale trattò l'origine ed il governo del
mondo col suo ingegnoso ma farzato e sterile paragone colla matematica, ebbe
riguardo al morale, però meno in teorica che in pratica. –La filosofia ebbe poi
un nuovo eccita mento della parte morale per - mezzo di Socrate, quantunque
egli non abbia seguito la direzione scientifica, ma solo la pratica e
religiosa. A ciò conseguitarono i sublimi saggi di Platone e d'Aristo tele per
investigare la natura, Dio e la moralità; ma anche questi uomini dovettero
soccombere al grande incarico, per quanto inspirato sembrasse il primo e
circospetto il secondo. Finalmente la scuola epicurea prese, come gli Atomisti
e Sofisti sul finire del primo periodo, a proteggere la sensualità e l'ateismo.
Per opera degli Scettici prese a domi nare il dubbio; si cercò invano di
risolvere il pro blema dell'unione della materia e dello spirito,
dell'intuizione e del pensiero, e bisogno gettarsi nelle braccia del
teosofismo: Così terminava la fi losofia greca, avendola dal principio alla
fine ac compagnata il dubbio e la tristezza. Il Cristiane simo salvo poiil
mondo dalla corruzione intellettuale e morale. I Romani non ebbero
mente filosofica. Essi ac colsero la filosofia greca, particolarmente l'epicu
rea, che rispondeva al loro lusso, e Tito LUCREZIO TERZO PERIODO -ECLETTICI E
SINCREBISTI. ne fece soggetto di un poema didattico, cui diede l'antico titolo:
Della natura delle cose; anche più famigliare si resero la dottrina stoica, che
accor dandosi all'antico carattere romano, esercitò in fluenza sulla loro
legislazione ed amministrazione, e trovò ancora rinomati partigiani al tempo
del l'impero, cioè Lucio ANNEO SENECA, maestro di Nerone, autore di molti
scritti filosofici, EPITTETO da Terapoli in Frigia, verso lo stesso tempo,
schia vo, il cui discepolo FLAVIO ARRIANO da Nicomedia compilò in greco un
piccolo manuale (éyxezpidcov) secondo le lezioni del maestro, e MARCO AURELIÓ
ANTONINO, imperatore romano dall'anno 164 fino al 180, autore di meditazioni in
lingua greca sotto il titolo: Eis éautóv. Seneca fu più eclettico, Epit teto si
attenne ai voti della natura e ridusse la dottrina stoica alla formola ανέχον
και απέχου, 81 stine et abstine. Lo scritto di Antonino ha carattere di
dolcezza e pietà; tutti e tre abbracciarono sola mente la parte etica della
filosofia stoica. Che se questi Epicurei e Stoici romani si mantennero fedeli
ad un solo sistema, MARCO TULLIO CICERONE diede esempio di un compiuto
eclettismo, e tanto egli contribui co'suoi numerosi scritti a rendere acces
sibile ai Romani la filosofia greca, quanto gli mancò originalità filosofica.
Nella pratica preferi il sistema stoico, nella teoretica l'accademico,
accettandovi anche l'epicureo e l'aristotelico. In generale poi le dottrine di
Platone ed ancora più quelle di Aristo tele rimasero pei Romani tesori nascosti.
Francesco Bertinaria. Keywords:
l’indole e le vicende della filosofia italiana. Refs.: determinazione
dell’assoluto. Luigi Speranza, “Grice e Bertinaria” – The Swimming-Pool
Library.
Grice
e Berto – reductio ad absurdum – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Grice: “I like Berto, but
then, my first unpublication is on negation and privation! Against my tutee,
Sir Peter, I always took Aristotle’s tertium non datur pretty seriously, but
the consequentia mirabilis I had to re-label implicature; for, as Tertulliano
used to say, ‘Just because it is deaf (ab-surdum), I believe it!” -- Grice: “If Peirce (I lectured on him for
years, and deem him my friend) is right that ‘dictum,’ in Roman, is cognate
with Hellenic ‘deixis,’ Boezio was too hasty to translate ‘anti-phasis’ as
‘contra-dictio,’ for ‘phrasis’ is indeed Hare’s phrastic, while the dictio can
be just a signal – as a spoon casting the shadow of a fork, to use Berto’s genial
example!” – Grice: “Berto likes to pose the thing as an x-rhetorical question:
che cosa e una contradizione, -- implicaturum: ‘if anything AT ALL!” – “He is
friends with Priest, so what can you expect!? J). Francesco Berto (Venezia), filosofo. Laureatosi a Venezia
con una tesi su Emanuele Severino, ha conseguito il dottorato presso la stessa
università con una tesi sulla dialettica hegeliana. Dopo aver conseguito un
post-doc in Filosofia teoretica all'Università degli Studi di Padova è stato
Chaire d'Excellence Fellow al CNRS di Parigi, dove ha insegnato Ontologia
all'École Normale Supérieure ed è stato membro dell'Istituto di Filosofia della
Scienza e della Tecnica della Sorbona. È stato Research Fellow all'Institute
for Advanced Study della University of Notre Dame (Indiana, USA). Ha insegnato
Logica anche all'Università Ca' Foscari di Venezia e all'Università Vita-Salute
San Raffaele. È stato Structural Chair of Metaphysics alla Universiteit van
Amsterdam e membro del Northern Institute of Philosophy di Crispin Wright alla
University of Aberdeen. Attualmente tiene la Chair of Logic and Metaphysics al
dipartimento di Filosofia dell'University of St Andrews ed è Research Chair
all'Institute for Logic, Language and Computation alla Universiteit van Amsterdam. Premio Filosofico Castiglioncello, nella
sezione giovani, con il libro Teorie dell'assurdo. I rivali del Principio di
Non-Contraddizione. Nel l'Università Ca' Foscari di Venezia gli ha
assegnato il Premio Ca'Foscari alla Ricerca di 10.000 euro per giovani
ricercatori. Nel ha ottenuto dall'AHRCResearch Council di Gran
Bretagna un finanziamento di 240.000 sterline per il progetto "The
Metaphysical Basis of Logic".
Nel ha ottenuto dall'European
Research Council un finanziamento di 2.000.000 di euro per il progetto
"The Logic of Conceivability".
Altre opere: “Logica” (Roma, Carocci); “Che cos'è una contraddizione” (Roma,
Carocci); “L'esistenza non è logica: dal quadrato rotondo ai mondi impossibili”
(Roma-Bari, Laterza); “Tutti pazzi per Gödel. La guida completa al Teorema di
Incompletezza” (Roma-Bari, Laterza); “Logica da Zero a Gödel” (Roma-Bari,
Laterza); “Teorie dell'Assurdo. I rivali del Principio di Non-Contraddizione”
(Roma, Carocci); “Che cos'è la dialettica hegeliana? Un'interpretazione
analitica del metodo” (Padova, Il Poligrafo); “La Dialettica della struttura
originaria, Padova, Il Poligrafo). “Il Pensiero”; “Sistemi intelligenti”;
“Iride”, “Rivista di estetica”, “Divus Thomas” “Il Giornale di metafisica. Comune RosignanoLivorno, su comune.rosignano.livorno
). Università Ca'Foscari di Venezia, su
unive. Aberdeen Amsterdam Archiviato il
in. Aberdeen Archiviato il 9
settembre in. PhilPapers.org Stanford Encyclopedia of Philosophy:
Dialetheism, su plato.stanford.edu. Stanford Encyclopedia of Philosophy:
Impossible Worlds, su plato.stanford.edu. Stanford Encyclopedia of Philosophy:
Cellular Automata, su plato.stanford.edu. 23 aprile 23 aprile ).Filosofia Filosofo del XXI
secoloLogici italianiAccademici italiani Professore VeneziaProfessori
dell'Università Ca' FoscariProfessori dell'AmsterdamStudenti dell'Università
Ca' Foscari Venezia. Francesco Berto. Keywords: reductio ad absurdum, pegaso, il
quadrato redondo, incompletezza goedeliana, Grice’s System Q, Myro’s System G,
Speranza’s System GHP, R. J. Jones’s System C., dialettica, contradizzione,
negazione, quadratto di opposizione, Hegel e l’opposizione, Hegel e la
contradizione, che e inompleto secondo Godel? Sistema G incompieto,
incopetiezza, Bellorofonte in sistema G, Parmenide, neo-Parmenide, Severino
come neo-Parmenidiano, circolo quadrato, la quadratura del circolo, calcolo di
predicate di primo ordine con identita, la struttura originaria della
dialettica, dialettica, posizione, contraposizione, composizione – Oxonian
dialectic, dialettica hegeliana, severino, dialettica oxoniense, dialettica
ateniense. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berto” – The Swimming-Pool
Library.
Grice
e Betti – la lupa; ovvero, problemi di storia della costitutzione politica e
sociale nell’antica Roma – filosofia romana – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Camerino). Filosofo italiano. Studia
a Parma e Bologna (con una tesi sulla Crisi della repubblica e la genesi del
principato in Roma). Insegna per un anno Lettere al Liceo classico di
Camerino e vince il concorso per la libera docenza presso l'Università di
Parma. Trascorre lunghi periodi di studio all'estero, grazie a diverse borse di
studio, nelle più prestigiose università europee (Marburgo, Friburgo e
altre). Nel 1917 diviene professore ordinario all'Università degli Studi
di Camerino. In seguito insegna diritto nelle Università degli Studi di
Macerata, Pavia, Messina, dove ha tra i suoi allievi Giorgio La Pira e Tullio
Segrè), Parma, Firenze, Milano, Roma. Come Gastprofessor e visiting professor
svolge corsi nelle Università di Francoforte sul Meno, Bonn, Gießen, Colonia,
Marburgo, Amburgo, Il Cairo, Alessandria d'Egitto, Porto Alegre, Caracas. Betti
è stato uno dei più importanti giuristi italiani di tutti i tempi e fu tra i
principali artefici del codice civile italiano del 1942 tuttora vigente.
Collocato fuori ruolo 1960, emerito dal 1965, è chiamato a insegnare ius
romanum alla Pontificia Università Lateranense. Nel corso della sua
attività accademica ha coperto tutti i rami del diritto, in particolare il
diritto romano, civile, commerciale e processuale[2]. Nel 1955 ha fondato
presso le Università di Roma e di Camerino l'Istituto di Teoria dell'interpretazione.
È stato socio corrispondente dell'Accademia dei Lincei e dottore honoris causa
delle Università di Marburgo, Porto Alegre e Caracas. Per il suo sostegno
intellettuale al fascismo fin dal 1919, alla Liberazione fu messo agli arresti
nel 1944 a Camerino e imprigionato per circa un mese per decisione del CLN[3].
Nell'agosto del 1945 fu sospeso dall'insegnamento e sottoposto a giudizio di
epurazione. Il procedimento lo prosciolse da ogni imputazione. Produzione
scientifica Le sue scelte politiche comunque non hanno compromesso il pregio e
l'importanza delle sue opere. Le sue opere principali sono: Teoria generale del
negozio giuridico, Teoria generale delle obbligazioni, Teoria generale della
interpretazione. Fa parte delle commissioni ministeriali che hanno
redatto il codice civile del 1942. L'influenza di Betti fu determinante nella
soluzione, adottata dal guardasigilli Dino Grandi, dell'abbandono del progetto
italo-francese delle obbligazioni e dei contratti, che negli intenti originari
del piano per la nuova codificazione avrebbe dovuto costituire l'attuale quarto
libro del codice civile. Altre opere: “Sulla opposizione dell'exceptio
sull'actio e sulla concorrenza tra loro”; “La vindicatio romana primitiva e il
suo svolgimento storico nel diritto privato e nel processo”; “L'antitesi
storica tra iudicare (pronuntiatio) e damnare (condemnatio) nello svolgimento
del processo romano”; “Studii sulla litis aestimatio del processo civile
romano”; “Sul valore dogmatico della categoria contahere in giuristi proculiani
e sabiniani”; “La restaurazione sullana e il suo esito: contributo allo studio
della crisi della costituzione repubblicana in Roma”; “La struttura
dell'obbligazione romana e il problema della sua genesi”; “Il concetto dell’obbligazione
costruito dal punto di vista dell'azione”; “Trattato dei limiti soggettivi
della cosa giudicata in diritto romano”; “La tradizione nel diritto romano
classico e giustinianeo”; “Esercitazioni romanistiche su casi pratici”, “Anormalità
del negozio giuridico”; “Diritto romano”; “Diritto processuale civile
italiano”; “Teoria generale del negozio giuridico”; “Interpretazione della
legge e degli atti giuridici: teoria generale e dogmatica”; “Teoria generale delle
obbligazioni”; “Teoria generale della interpretazione”; “Teoria delle obbligazioni
in diritto romano”; “L'ermeneutica come metodica generale delle scienze dello
spirito” (Città Nuova, Roma); “Attualità di una teoria generale
dell'interpretazione”; “La crisi della repubblica e la genesi del principato in
Roma”. Note ^ La sua dottrina ha costituito oggetto di studio approfondito da
parte di Tonino Griffero. ^ Crifò Giuliano, Maestri del Novecento: Emilio Betti:
il ruolo del giurista, Milano: Franco Angeli, Ritorno al diritto: i valori
della convivenza. Fascicolo 7, 2008. ^ Sull'intervento a suo favore di Giuseppe
Ferri, v. S. Truzzi, Stefano Rodotà, l’autobiografia in un’intervista:
formazione, diritti, giornali, impegno civile e politica, Il Fatto quotidiano,
Bibliografia Crifò, Giuliano (1978). Emilio Betti. Note per una ricerca, in
Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico, 7Ciocchetti, Mario, Emilio
Betti, Giureconsulto e umanista. Belforte del Chienti. Brutti, Massimo (2015).
Emilio Betti e l'incontro con il fascismo. Roma Tre-Press. Voci correlate
Filosofia del diritto Ermeneutica giuridica Collegamenti esterni Dizionario
Biografico, su treccani.it. Portale Biografie Diritto Portale Diritto
Categorie: Giuristi italiani del XX secoloStorici italiani del XX
secoloAccademici italiani del XX secoloMorti l'11 agostoNati a
CamerinoAccademici dei LinceiProfessori della Sapienza - Università di
RomaProfessori dell'Università degli Studi di CamerinoProfessori
dell'Università degli Studi di FirenzeProfessori dell'Università degli Studi di
MacerataProfessori dell'Università degli Studi di MessinaProfessori
dell'Università degli Studi di MilanoProfessori dell'Università degli Studi di
ParmaProfessori dell'Università degli Studi di PaviaProfessori dell'Università
di MarburgoProfessori dell'Università di ViennaStudiosi di diritto
romanoStudenti dell'Università degli Studi di ParmaStudenti dell'Università di
BolognaStudenti dell'Università di FriburgoStudenti dell'Università di
MarburgoStudiosi di diritto civile del XX secoloStudiosi di diritto commercialeStudiosi
di diritto processuale civile del XX secolo[altre] Emilio Betti. Keywords: la
lupa; ovvero, problemi di storia della costituzione politica e sociale
nell’antica Roma, auslegung, auslegungslehre, storia della repubblica romana,
diritto romano, exception, action, vindication, dirittop rivato, iudicare,
pronuntiatio, damnare, condemnation, processor omano, litis aestimatio,
processo civile, contaheer, giurista proculiano, giurista sabiniano, restauraziones
ullana, constitutziane rpeubblicana, obbligazioner omana, cosa giudicata,
diritto romanoc lassico, diritto romano guistinaneo, diritto processuale
civile, negozio giuridico, interpretazione, genesi del principato, lingua
romana, lingua latina, base etnica della antica Roma, i latini, l’eta
monarchica, il signficato di ‘rex’ (regere, cf. lex, legare), l’eta
repubblicana, res pubica used during l’eta monarchica, Romolo, il primo re,
Tarquino, l’ultimo re, l’eta repubblicana, la stirpe dei patrizi, patrizio,
cepo aristocratico, Caesar dittatore, assassinio di Caesar, il principato,
Augusto, significante ‘consacrato’, ‘Imperator Augusto Ottaviano’, imperio,
imperatore, pater familias, paternalism, diritto consuetudinario, il fuhrer,
l’hero, autorita carismatica, civilita, ius civile, romanita, diritto romano
ostrogotico, diritto romano longobardi, popolo romano, nazione romana, romano e
sabini, diritto per romani e diritto per pellegrini, vocabulario del diritto
romano, dizionario di diritto romano, lexicon di diritto romano, concetto
autenticamente romano di auctoritas, lex, legare, eddictum, decretum,
suggestion, agere, diritto processuale, contratto, negozio, diritto penale,
diritto civile, crisi della repubblica, Antonio e Ottaviano, stato autoritario,
concetto di stato, Ponzio Pilato e la morte di Gesu, pontificex massimo,
laicitia del diritto romano, senatus, PSQR, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Betti: Vico ed il circolo dell’implicatura” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Bianco – filosofia dello
spirito; ovvero, la morte di Patroclo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cervinara). Filosofo italiano. Grice:
“I like Bianco; he optimistically thinks of ‘morale’ as a ‘scienza’ – but
‘della vita,’ which helps. I have myself explored the topic, and came with a
‘philosophy’ of life, rather!” -- Carlo Bianco (n. Cervinara), filosofo. Ha
vissuto per tutta la vita nella città natale, in provincia di Avellino. La sua
intensa e appassionata vita di uomo di cultura lo ha portato in giro per tutto
il mondo. Laureato in lettere,
filosofia e scienze, docente di filosofia morale all'Trento, fu un seguace del
pensiero di Platone e Marcuse. Fondatore della corrente del concretismo,
dottrina filosofica che propugna il rispetto di ogni fede religiosa, il credo
nell'aldilà e nella vita dopo la morte, ottenne nel 2004 la candidatura al
premio Nobel per la letteratura dalle Accademie italiane. Nel corso della sua carriera ricevette per
tre volte il premio della Presidenza del Consiglio dei ministri. Accademico di
Francia, membro della Columbia Academy, nella sua lunga attività letteraria
conseguì diversi diplomi e riconoscimenti. Premio "Elsa Morante" che
gli venne consegnato da Maurizio Costanzo e Dacia Maraini. Il sindaco di Napoli
Rosa Russo Iervolino gli conferì la medaglia d'oro quale miglior ambasciatore
della Campania nel mondo. Bianco, infatti, era un valente conoscitore di lingue
straniere, compresi alcuni dialetti. Conosceva molti dialetti di paesi
africani, che aveva avuto modo di apprendere nei suoi frequenti viaggi; aveva
conseguito, inoltre, una laurea in scienze coloniali. L'Università Latina di
Parigi gli conferì una laurea honoris causa in lettere. Un saggio biografico del 2001 e una raccolta
di poesie curata da Alfredo Marro, direttore del Caudino (mensile cervinarese
col quale il filosofo ha a lungo collaborato), si occupano del filosofo
cervinarese. Nell'autunno, Franco Martino gli dedicò una poesia dal titolo
"A Carlo Bianco" nel suo libro Paese mio carissimo. Bianco morì il 9 aprile a 99 anni mentre stava lavorando su un testo
di Tommaso d'Aquino. la città di Cervinara gli ha dedicato una piazza nella
natia frazione dei Salomoni. Altre
opere:: “Introduzione a Kant” (Edizione La nuova Italia letteraria, Bergamo); “Saggio
di filosofia dello spirito” (Editrice La Zagara); “L'Uomo sui confini
dell'ignoto” (Edizioni centro ricerche Biopsichiche, Padova); “La morale come
scienza della vita” (Edizioni Studi e ricerche, Catania); “Tempi di Sofistica”
(Edizioni studi e ricerche, Catania); “Pensieri, Vincenzo Ursini Editore,
Catanzaro); “L'uomo, l'inconoscibile” (Edizioni Scientifiche Internazionale,
Napoli); “La vita davanti a voi, Casa Editrice Fausto Fiorentino. Vedi
Cervinara commemora Carlo Bianco articolo de la Repubblica, 3 settembre,
Sezione Napoli, Archivio storico. Vedi È
morto Carlo Bianco avvocato e candidato al Nobel nel articolo de la Repubblica,
Sezione Napoli, Archivio storico.
Alfredo Marro, Un gigante del pensiero, Edizioni Il Caudino, Cervinara
2001. Alfredo Marro, Biografie cervinaresi, Edizioni Il Caudino, Cervinara
2004. Alfredo Marro, Frammenti di un'animapoesie scelte di Carlo Bianco,
Edizioni Il Caudino, Cervinara, Filomena Stanzione, Carlo Bianco nella Cultura
Caudina, Casa Editrice Fausto Fiorentino, Rotondi 2000. Carlo Bianco, poeta della fede e del dolore
biografia e nel sito "carlobianco.blogspot".
Filosofia Categorie: Avvocati italiani del XX secolo Filosofi italiani del XX
secoloLetterati italiani Cervinara Cervinara. Carlo Bianco. Keywords: la
filosofia dell spirito; ovvero, la morte di Patroclo, Centro Ricerche
Biopsichiche Padova, saggio sulla filosofia dello spirito, kantismo, spiritualismo,
morale, vita, liberta, piazza bianco, cervinara. -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Bianco” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Blossio – Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza. (Cumae) Gaio Blossio. Blossio. Alla stoa romana si
collega Blossio di Cuma (il nome ha origine osca), che e scolaro dello stoico
Antipatro di Tarso. Dopo la morte di Tiberio Gracco, Blossio dove
difendersi davanti ai consoli.. Poi, Blossio fugge da Roma, e si reca in Asia
presso Aristonico di Pergamo e, quando questo e sconfitto, si da la morte.
Blossio was a member of the Porch who is thought to have had an influence on
the reformes introduced in Rome by Tiberio Gracco.
Grice e Bobbio – il bisogno del
bisogno del senso del senso – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo italiano. Grice:
“My favourite Bobbio must be his ‘dialettica’ – he knows all about it, since he
is into the Plato/Aristotle models that run most philosophy – some think there
is a third model at play – but …” – “Bobbio is a good one; like me, he is a
philosophical cartographer – into the longitudinal and latitudinal unity of
philosophy – even if he can be picky when it comes to the longitudinal: Italian
only, and uncanonical, like Cattaneo, Gramsci, Croce, … -- Especially
Cattaneo!” Grice: “Bobbio – this is the philosopher, not the infantry general –
is a Griceian in that ‘fiducia reciproca’ becomes an essential meta-goal; he
has been involved with the dispute naturalism/positivism, and has come with
some interesting points about the ‘regole del gioco’ – and whether ‘custom’ can
be a ‘normative fact’!” – “All in all, his philosophy is about trying to look
for an answer to what I deem the fundamental question regarding rational
co-operation – His appeal to philosophical biology or zoology is interesting –
Toby trusts Tibby, the squarrels, as Jack trusts Jill and vice versa – but does
a ‘lupus’ trust a ‘lupus’? Hobbes, who didn’t know the first thing about
zoology, philosophical or other – thought so!” Essential Italian philosopher,
who’s written on Fregeian sense ‘senso,’the need for sensethe search for sense,
meaning meaning. «Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi
quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze.» (Norberto
Bobbio, Invito al colloquio, in Politica e cultura, Einaudi, Torino 195515.). Considerato
«al tempo stesso il massimo teorico del diritto e il massimo filosofo
[italiano] della politica […] nella seconda metà del Novecento», fu
«sicuramente quello che ha lasciato il segno più profondo nella cultura
filosofico-giuridica e filosofico-politica e che più generazioni di studiosi,
anche di formazione assai diversa, hanno considerato come un
maestro». Bobbio nacque a Torino il 18 ottobre 1909 da Luigi (medico) e
Rosa Caviglia. Una condizione familiare agiata gli permise un'infanzia
serena. Il giovane Norberto scrive versi, ama Bach e la Traviata, ma
svilupperà, per causa di una non ben determinata malattia infantile «la
sensazione della fatica di vivere, di una permanente e invincibile stanchezza»
che si aggravò con l'età, traducendosi in un taedium vitae, in un sentimento
malinconico, che si rivelerà essenziale per la sua maturazione
intellettuale. Studiò prima al Ginnasio e poi al Liceo classico Massimo
D'Azeglio dove conoscerà Leone Ginzburg, Vittorio Foa e Cesare Pavese, poi divenute
figure di primo piano della cultura dell'Italia repubblicana. Dal 1928, come
molti giovani dell'epoca, fu infine iscritto al Partito Nazionale
Fascista. La sua giovinezza, come da lui stesso descritto fu:
"vissuta tra un convinto fascismo patriottico in famiglia e un altrettanto
fermo antifascismo appreso nella scuola, con insegnanti noti antifascisti, come
Umberto Cosmo e Zino Zini, e compagni altrettanto intransigenti antifascisti
come Leone Ginzburg e Vittorio Foa". Allievo di Gioele Solari e
Luigi Einaudi, si laureò in Giurisprudenza l'11 luglio 1931 con una tesi
intitolata Filosofia e dogmatica del Diritto, conseguendo una votazione di
110/110 e lode con dignità di stampa. Nel 1932 seguì un corso estivo
all'Marburgo, in Germania, insieme a Renato Treves e Ludovico Geymonat, ove
conoscerà le teorie di Jaspers e i valori dell'esistenzialismo. L'anno
seguente, nel dicembre 1933, conseguì la laurea in Filosofia sotto la guida di
Annibale Pastore con una tesi sulla fenomenologia di Husserl, riportando un voto
di 110/110 e lode con dignità di stampa, e nel 1934 ottenne la libera docenza
in Filosofia del diritto, che gli aprì le porte nel 1935 all'insegnamento,
dapprima all'Camerino, poi all'Siena e a Padova (dal 1940 al 1948). Nel 1934
pubblicò il primo libro, L'indirizzo fenomenologico nella filosofia sociale e
giuridica. Le sue frequentazioni sgradite al regime gli valsero, il 15
maggio 1935, un primo arresto a Torino, insieme agli amici del gruppo
antifascista Giustizia e Libertà; fu quindi costretto, a seguito di una
intimazione a presentarsi davanti alla Commissione provinciale della Prefettura
per discolparsi, a inoltrare esposto a Benito Mussolini. La chiara reputazione
fascista di cui godeva la famiglia gli permise però una piena riabilitazione,
tanto che, pochi mesi dopo, con il richiesto intervento di Mussolini e di
Gentile, ottenne la cattedra di filosofia del diritto a Camerino, che era
occupata da un altro ordinario ebreo, espulso a seguito delle leggi razziali.
Dopo un diniego iniziale a causa dell'arresto di tre anni prima, fu reintegrato
grazie all'intervento di Emilio De Bono, amico di famiglia, mentre era
presidente di commissione il cattolico e dichiarato antifascista Giuseppe
Capograssi. È in questi anni che Norberto Bobbio delineò parte degli
interessi che saranno alla base della sua ricerca e dei suoi studi futuri: la
filosofia del diritto, la filosofia contemporanea e gli studi sociali, uno
sviluppo culturale che Bobbio vive contemporaneamente al contesto politico
temporale. Un anno dopo le leggi razziali, infatti, esattamente il 3 marzo
1939, giurò fedeltà al fascismo per poter ottenere la cattedra all'Siena. E
rinnovò il giuramento nel 1940, a guerra dichiarata, per prendere il posto del
professor Giuseppe Capograssi, a sua volta insediatosi nel 1938 nella cattedra
del professor Adolfo Ravà estromesso dall'Padova perché ebreo. Questo episodio
della sua vitaspesso riportato come se Bobbio avesse preso direttamente il
posto di Ravàfu poi oggetto di svariate polemiche. Nel '42, un giovane
Bobbio affermò davanti alla Società Italiana di Filosofia del Diritto che
Capograssi crebbe in «quel rinascimento idealistico del XX secolo, nel nostro
campo di studi iniziato, stimolato, e, quel ch'è di più, criticamente fondato
da Giorgio Del Vecchio». Nel 1942 partecipò al movimento liberalsocialista
fondato da Guido Calogero e Aldo Capitini e, nell'ottobre dello stesso anno,
aderì al Partito d'Azione clandestino. Nei primi mesi del 1943 respinse
l'"invito" del ministro Biggini (che poco dopo redasse, su impulso di
Mussolini, la costituzione della Repubblica di Salò) a partecipare a una
cerimonia presso l'Padova durante la quale si sarebbe dedicata una lampada
votiva da collocare al sacrario dei caduti della rivoluzione fascista nel
cimitero della città. Nel 1943 sposò Valeria Cova: dalla loro unione
nacquero i figli Luigi, Andrea e Marco. Arrestato a Padova per attività
clandestina e rimase in carcere per tre mesi. Nel 1944 venne pubblicato il
saggio La filosofia del decadentismo, nel quale criticò l'esistenzialismo e le
correnti irrazionalistiche, rivendicando al contempo le esigenze della ragione
illuministica. Dopo la liberazione collaborò regolarmente con Giustizia e
Libertà, quotidiano torinese del Partito d'azione, diretto da Franco Venturi.
Collaborò all'attività del Centro di studi metodologici con lo scopo di
favorire l'incontro tra cultura scientifica e cultura umanistica, e poi con la
Società Europea di Cultura. Nel 1945 pubblicò un'antologia di scritti di
Carlo Cattaneo, col titolo Stati uniti d'Italia, premettendovi uno studio,
scritto tra la primavera del 1944 e quella del 1945 dove sosteneva che il
federalismo come unione di stati diversi era da considerarsi superato dopo
l'avvenuta unificazione nazionale. Il federalismo a cui pensava Bobbio
era quello inteso come "teorica della libertà" con una pluralità di
centri di partecipazione che potessero esprimersi in forme di moderna
democrazia diretta. Nel 1948 lasciò l'incarico a Padova e venne
chiamato alla cattedra di filosofia del diritto dell'Torino, annoverando corsi
di notevole importanza come Teoria della scienza giuridica (1950), Teoria della
norma giuridica (1958), Teoria dell'ordinamento giuridico (1960) e Il
positivismo giuridico (1961). Dal 1962 assunse l'incarico di insegnare scienza
politica, che ricoprirà sino al 1971; fu tra i fondatori della odierna facoltà
di Scienze politiche all'Torino insieme con Alessandro Passerin d'Entrèves, al
quale subentrò nella cattedra di filosofia politica nel 1972 mantenendola fino
al 1979 anche per l'insegnamento di Filosofia del diritto e Scienza politica.
Dal 1973 al 1976 divenne preside della facoltà ritenendo che mentre gli
incarichi accademici fossero «onerosi e senza onori» era l'insegnamento
l'attività principale della sua vita: «un abito e non solo una
professione». La politica, del resto, divenne via via un tema
fondamentale nel suo percorso intellettuale e accademico, e parallelamente alla
pubblicazioni di carattere giuridico, aveva avviato un dibattito con gli
intellettuali del tempo; nel 1955 aveva scritto Politica e cultura, considerato
una delle sue pietre miliari, mentre nel 1969 era uscito il libro Saggi sulla
scienza politica in Italia. Nei venticinque anni accademici all'ombra
della Mole Antonelliana, Bobbio svolse anche diversi tra corsi su Kant, Locke,
lavori su Hobbes e Marx, Hans Kelsen, Carlo Cattaneo, Hegel, Vilfredo Pareto,
Gaetano Mosca, Piero Gobetti, Antonio Gramsci, e contribuì con una pluralità di
saggi, scritti, articoli e interventi di grande rilievo che lo portarono, in
seguito a diventare socio dell'Accademia dei Lincei e della British Academy.
Divenuto condirettore con Nicola Abbagnano della Rivista di filosofia a partire
dal '53, fu come questi socio dell'Accademia delle Scienze di Torino, della
quale entrò a far parte il 9 marzo dello stesso anno per essere confermato
socio nazionale e residente dal 26 aprile 1960. Significativa la
collaborazione, sul tema pacifista, col filosofo e amico antifascista Aldo
Capitini, le cui riflessioni comuni sfoceranno nell'opera I problemi della
guerra e le vie della pace (1979). Nel 1953 partecipò alla lotta condotta
dal movimento di Unità Popolare contro la legge elettorale maggioritaria e nel
1967 alla Costituente del Partito Socialista Unificato. Nel tempo delle
contestazioni giovanili, Torino fu la prima città a farsi carico della
protesta, e Bobbio, fautore del dialogo, non si sottrasse a un difficile
confronto con gli studenti, tra i quali il suo stesso primogenito Luigi che
militava all'epoca in Lotta Continua. Nel contempo, venne anche incaricato dal
Ministero per la Pubblica Istruzione quale membro della Commissione tecnica per
la creazione della facoltà di sociologia di Trento. Guido Calogero
e Norberto Bobbio alla Rencontres internationales de Genève Nel 1971 Bobbio fu tra
i firmatari della lettera aperta pubblicata sul settimanale L'Espresso sul caso
Pinelli. Nel 1998 Norberto Bobbio in una lettera indirizzata ad Adriano Sofri
pubblicata su La Repubblica ripudiò il tono del linguaggio utilizzato
nell'appello ma senza ritrattarne l'adesione al contenuto di critica sui fatti
legati a Piazza Fontana. Il 14 febbraio 1972 scrivendo a Guido Fassò
intorno al problema democratico, Bobbio si sfogava sostenendo che «questa
nostra democrazia è divenuta sempre più un guscio vuoto, o meglio un paravento
dietro cui si nasconde un potere sempre più corrotto, sempre più incontrollato,
sempre più esorbitante [...] Democrazia di fuori, nella facciata. Ma dietro la
tradizionale prepotenza dei potenti che non sono disposti a rinunciare nemmeno
a un'oncia del loro potere, e lo mantengono con tutti i mezzi, prima di tutto
con la corruzione. La democrazia non è soltanto metodo, ma è anche un ideale: è
l'ideale egualitario. Dove questo ideale non ispira i governanti di un regime
che si proclama democratico, la democrazia è un nome vano. Io non posso
separare la democrazia formale da quella sostanziale. Ho il presentimento che
dove c'è soltanto la prima un regime democratico non è destinato a durare. Sono
molto amaro, amico mio. Ma vedo questo nostro sistema politico sfasciarsi a
poco a poco [...] a causa delle sue interne, profonde, forse inarrestabili
degenerazioni».[25] A metà degli anni settanta, nel solco di un sempre
più vivace impegno civile, e alle soglie di uno dei periodi più drammatici in
Italia (culminato col rapimento e l'omicidio di Aldo Moro), provocò un vivace
dibattito sia negando l'esistenza di una cultura fascista sia trattando
estensivamente sui rapporti tra democrazia e socialismo. L'8 maggio 1981,
alla vigilia dei referendum sull'aborto, rilascia un'intervista al Corriere
della Sera nella quale afferma la sua contrarietà all'interruzione della
gravidanza. Successivamente la sua attenzione si concentrò a favore di una
"politica per la pace", con motivati distinguo a sostegno del diritto
internazionale in occasione della Guerra del Golfo del 1991. Delle
venticinque lettere inedite che fanno parte della corrispondenza epistolare che
Bobbio tenne con Danilo Zolo e che ora sono state rese pubbliche nel volume
L'alito della libertà, a cura dello stesso Zolo, interessante quella del 25
febbraio 1991 riguardante la "Guerra del Golfo" che vide protagonisti
nel gennaio del 1991 gli Stati Uniti di George Bush senior, le forze dell'ONU e
vari paesi arabi alleati contro l'Iraq di Saddam Hussein che aveva invaso il
Kuwait. Bobbio definì "giusta" questa guerra non rendendosi conto che
quella parola «... poteva essere interpretata in modo diverso da come l'avevo
intesa io... come guerra "giustificata" in quanto rispondente a
un'aggressione.» Bobbio quindi si lamentò delle polemiche nate al riguardo da
parte di "pacifisti da strapazzo". Il fatto che l'ONU, scrisse
Bobbio, avesse autorizzato l'intervento in guerra contro l'Iraq, la rendeva
"legale", in questo senso, "giusta". Bobbio però
riconobbe che l'ONU fosse stato successivamente, nel corso della guerra, messo
da parte e gli "spietati bombardamenti" su Baghdad hanno fatto sì che
si possa temere che «...se la pace sarà instaurata con la stessa mancanza di
saggezza con cui è stata condotta la guerra, anche questa guerra sarà stata,
come tante altre inutile.» Nel 1979 fu nominato professore emerito
dell'Torino e nel 1984, ai sensi del secondo comma dell'articolo 59 della
Costituzione italiana, avendo «illustrato la Patria per altissimi meriti» in
campo sociale e scientifico, fu nominato senatore a vita dal Presidente della
Repubblica Sandro Pertini. In quanto membro del Senato si iscrisse prima come
indipendente nel gruppo socialista, poi dal 1991 al gruppo misto ed infine dal
1996 al gruppo parlamentare del Partito Democratico della Sinistra, poi
divenuto dei Democratici di Sinistra.[27] Norberto Bobbio e Natalia
Ginzburg a Barolo per festeggiare gli ottant'anni di Vittorio Foa. Dopo la
stagione di mani pulite, e la cosiddetta fine della Prima Repubblica, venne
pubblicato il saggio Destra e sinistra, i cui contenuti provocarono un notevole
dibattito culturale, agitando non poco l'humus della politica italiana. Il
libro toccò le cinquecentomila copie vendute in pochi mesi e venne ripubblicato
l'anno successivo, riveduto e ampliato, con risposte ai critici. A
riconoscimento di un'intera vita lucidamente dedicata alle scienze del diritto,
della politica, della filosofia e della società, tra dubbio e metodo, tra ethos
e laicità, Bobbio ricevette lauree honoris causa da molte università, tra le
quali quelle di Parigi (Nanterre), Buenos Aires, Madrid (tre, in particolare
alla Complutense) e Bologna,[29] e vinse il Premio europeo Charles Veillon per
la saggistica nel 1981, il Premio Balzan ed il Premio Agnelli nel 1995.
Nel 1997 pubblicò la sua autobiografia. Nel 1999 uscì una terza edizione
aggiornata del suo best seller, ormai tradotto in una ventina di lingue. Nel
2001 morì la moglie Valeria, e Bobbio iniziò un graduale ritiro dalla vita
pubblica, pur rimanendo in attività e curando ulteriori pubblicazioni. Fecero
rumore le sue osservazioni critiche sia nei confronti di Silvio Berlusconi sia
della partitopenia (ossia mancanza di partiti)[31], e le riflessioni sulla
crisi della sinistra e della socialdemocrazia europea. Il 18 ottobre 2003,
ricevette il "Sigillo Civico" della sua Torino "per l'impegno
politico e il contributo alla riflessione storica e culturale". Dopo
avervi trascorso la maggior parte della vita, Norberto Bobbio morì a Torino il
9 gennaio 2004. Secondo le sue volontà, alcuni giorni dopo la morte, la salma
venne tumulata, con una cerimonia civile strettamente privata nel cimitero di
Rivalta Bormida, comune piemontese in provincia di Alessandria.Il pensiero di
Norberto Bobbio si forma nei primi decenni del Novecento in una temperie
filosofica dominata dell'idealismo. Tuttavia, come molti studiosi torinesi, non
abbraccia mai questa visione del mondo: dopo un primo accostamento alla
fenomenologia, significativamente attestato dalle sue opere sulla filosofia di
Husserl, si avvicina al filone neorazionalista e neoempirista fiorito in
Europa, specialmente oltralpe in Germania ed attorno al Circolo di
Vienna. Negli anni quaranta e cinquanta Bobbio entra in contatto con la
filosofia analitica di tradizione anglosassone. Compie studi di analisi del
linguaggio, tracciando le prime linee di ricerca della scuola analitica
italiana di filosofia del diritto, di cui è ancora oggi riconosciuto figura
eminente di riferimento. Al riguardo vanno menzionati perlomeno i due saggi:
Scienza del diritto e analisi del linguaggio e Essere e dover essere nella
scienza giuridica. Dedica studi specifici a Hobbes, a Pareto e a molti
filosofi e teorici della politica di cui già s'è detto. Vede nell'Illuminismo
un modello di rigore e di rifiuto del dogmatismo di cui riprende l'ideale
razionalistico, traducendolo anche nell'analisi del sistema democratico e
parlamentare. Sino dagli anni cinquanta si occupa di temi quali la guerra e la
legittimità del potere, dividendo la sua produzione tra la filosofia giuridica,
la storia della filosofia e i temi di attualità politica. Durante gli
ultimi anni del fascismo, Bobbio matura la convinzione della necessità di uno
Stato democratico, che sgombri il campo dal pericolo della politica
ideologizzata e delle ideologie totalitarie sia di destra che di sinistra;
auspica una gestione laica della politica e un approccio filosofico-culturale
ad essa, che aiuti a superare la contrapposizione fra capitalismo e comunismo e
a promuovere la libertà e la giustizia. Nel saggio Quale socialismo?
(1976), Bobbio critica sia la dialettica marxista sia gli obiettivi dei
movimenti rivoluzionari, sostenendo che le conquiste borghesi dovevano
estendersi anche alla classe dei proletari. Bobbio ritiene fallimentare solo
l'esperienza marxista-leninista, mentre prevede che le istanze di giustizia
rivendicate dai marxisti possano, in futuro, riaffiorare nel panorama
politico. Il pensiero di Bobbio diviene così, soprattutto tra gli
intellettuali dell'area socialista, un modello esemplare, grazie al suo 'sapere
impegnato', certamente «più preoccupato di seminare dubbi che di raccogliere
consensi». Egli stesso riprenderà la riflessione su un tema a lui caro, quello
del rapporto tra politica e cultura, proponendo, tra le pagine di Mondoperaio,
una «autonomia relativa della cultura rispetto alla politica» secondo la quale
«la cultura non può né deve essere ridotta integralmente alla sfera del
politico». Nel 1994 esce l'opera Destra e sinistra, nella quale Bobbio
focalizza le differenze fra le due ideologie e i due indirizzi
politico-sociali; la destra, secondo l'autore, è caratterizzata dalle tendenze
alla disuguaglianza, al conservatorismo ed è ispirata da interessi, mentre la
sinistra persegue l'uguaglianza, la trasformazione, ed è sospinta da ideali. In
quest'opera, Bobbio si esprime anche in favore dei diritti animali[36].
Nell'opera L'età dei diritti (1990), Bobbio individua i diritti fondamentali
che consentono lo sviluppo di una democrazia reale e di una pace giusta e
duratura. Una partecipazione collettiva e non coercitiva alle decisioni
comunitarie, una contrattazione delle parti, l'allargamento del modello
democratico a tutto il mondo, la fratellanza fra gli uomini, il rispetto degli
avversari, l'alternanza senza l'ausilio della violenza, una serie di condizioni
liberali, vengono indicati da Bobbio come capisaldi di una democrazia, che
seppur cattiva, è preferibile ad una dittatura. Per tutta la vita
scrittore di numerosissimi articoli, anche tramite interviste, Norberto Bobbio
incarna l'ideale della filosofia critica e militante che lo vede protagonista
anche del Centro di studi metodologici di Torino e tra i fondatori del Centro
studi Piero Gobetti di Torino che conserva la sua biblioteca e il suo archivio, «Mi
ritengo un uomo del dubbio e del dialogo. Del dubbio, perché ogni mio
ragionamento su una delle grandi domande termina quasi sempre, o esponendo la
gamma delle possibili risposte, o ponendo ancora un'altra grande domanda. Del
dialogo, perché non presumo di sapere quello che non so, e quello che so metto
alla prova continuamente con coloro che presumo ne sappiano più di me.»
(Norberto Bobbio, Elogio della mitezza, Linea d'ombra edizioni, Milano 19948.)
Contrario alla figura dell'intellettuale «Profeta»[37], preferendo il ruolo del
«Mediatore» impegnato «nella difficile arte del dialogo» (e ciò è anche
testimoniato dal colloquio intrattenuto con i marxisti per un riesame critico
del loro «dogmatismo e settarismo» che coinvolse anche Togliatti), il suo atteggiamento
teoretico fu segnato da una positiva «ambivalenza» fra una posizione realista e
una idealista che non rifuggiva le complessità del discorso, ricorrendo sovente
al paradosso. Ciò gli valse, in virtù dell'amore per il dibattito che consideri
«il pro e il contro» di ogni questione, la qualifica di filosofo «de la
indecisión» (Rafael de Asís Roig)[41][42], giacché ogni suo «ragionamento su
una delle grandi domande [si concludeva] quasi sempre, o esponendo la gamma
delle possibili risposte, o ponendo ancora un'altra grande domanda». Nell'ultimo
libro che raccoglie saggi, scritti e testimonianze su maestri, amici ed
allievi, Bobbio comincia ricordando i tre maestri Francesco Ruffini, Piero
Martinetti e Tommaso Fiore. L'elenco degli amici è lungo e annovera compagni di
studio come Antonino Repaci[44][45] come Renato Treves e Ludovico Geymonat e
colleghi come Nicola Abbagnano, Bruno Leoni, Alessandro Passerin d'Entrèves e
Giovanni Tarello. Bobbio ricorda poi gli allievi Paolo Farneti, Morris Lorenzo
Ghezzi, Amedeo Giovanni Conte, Uberto Scarpelli che, come Bobbio stesso scrive,
nel 1972 fu naturaliter suo successore a Torino sulla cattedra di Filosofia del
diritto. Traggono ispirazione dal pensiero di Bobbio le "lezioni
Bobbio", svoltesi nel 2004, e la manifestazione "Biennale
Democrazia" di Torino. Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola
della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro ai
benemeriti della scuola della cultura e dell'arte — Roma, 2 giugno 1966.[46]
Gran Croce del Merito Civilenastrino per uniforme ordinariaGran Croce del
Merito Civile — Roma, Laurea honoris causa in Scienze Politichenastrino per
uniforme ordinaria Laurea honoris causa in Scienze Politiche — Università degli
Studi di Sassari, 5 maggio 1994. Onorificenza dell'Ordine Messicano Aquila
Aztecanastrino per uniforme ordinaria Onorificenza dell'Ordine Messicano Aquila
Azteca — Torino, Intitolazioni A
Norberto Bobbio è stata intitolata la biblioteca dell'Torino, sita in Lungo
Dora Siena, 100 A. Gli è stato inoltre intitolato un istituto di
istruzione superiore a Carignano, nella provincia di Torino, denominato appunto
"I.I.S Norberto Bobbio". A lui è intitolata la biblioteca
civica di Rivalta Bormida, paese natale della madre Rosa Caviglia. Altre opere:
“Saggi” (Roma-Bari, Laterza); “L'indirizzo fenomenologico nella filosofia
sociale e giuridica” (Di Lucia, Torino, Giappichelli); “Scienza e tecnica del
diritto” (Torino, Istituto giuridico della Regia Università); “L'analogia nella
logica del diritto” (Di Lucia, Milano, Giuffrè); “La consuetudine come fatto
normative” (Torino, Giappichelli); “La filosofia del decadentismo, Torino,
Chiantore); “Stati Uniti d'Italia. Scritti sul federalismo democratico” (Roma,
Donzelli); “Teoria della scienza giuridica, Torino, Giappichelli); “Politica e
cultura” (Torino, Einaudi); “Studi sulla teoria generale del diritto, Torino,
Giappichelli); “Teoria della norma giuridica” (Torino, Giappichelli); “Teoria
dell'ordinamento giuridico, Torino, Giappichelli); “Teoria generale del diritto,
Torino, Giappichelli); “Il positivismo giuridico, Lezioni di Filosofia del
diritto” (Torino, Giappichelli); “Locke e il diritto naturale” (Torino); “Da
Hobbes a Marx. Saggi di storia della filosofia” (Napoli, Morano); “Italia
civile. Ritratti e testimonianze” (Firenze, Passigli); “Giusnaturalismo e
positivismo giuridico” (Roma-Bari, Laterza); “Profilo ideologico del Novecento
italiano” (Milano, Garzanti); “La scienza politica in Italia” (Roma-Bari, Laterza); “Diritto e Stato in
Kant” (Torino, Giappichelli); “Una filosofia militante” (Torino, Einaudi); “La
teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico” (Torino,
Giappichelli); “Quale socialismo? Discussione di un'alternativa” (Torino, Einaudi);
“Il problema della guerra e le vie della pace” (Bologna, Il Mulino); “Studi
hegeliani. Diritto, società civile, Stato, Torino, Einaudi); “Le ideologie e il
potere in crisi. Pluralismo, democrazia, socialismo, comunismo, terza via e
terza forza, Firenze, Le Monnier); “Il futuro della democrazia. Una difesa
delle regole del gioco, Torino, Einaudi); “Maestri e compagni, 3ª ed., Firenze,
Passigli); “Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e sulla guerra” (Casale
Monferrato, Sonda); “Hobbes, Torino, Einaudi); “L'età dei diritti, Torino,
Einaudi, “Il dubbio e la scelta.
Intellettuali e potere nella società contemporanea, Roma, Carocci); “Elogio
della mitezza e altri scritti morali, Milano, Il Saggiatore); “Destra e
sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica” (Roma, Donzelli);
“Tra due repubbliche. Alle origini della democrazia italiana” (Roma, Donzelli);
“Eguaglianza e libertà” (Torino, Einuadi); “De senectute e altri scritti
autobiograficiPolito, prefazione di G. Zagrebelsky, Torino, Einaudi); “Né con
Marx né contro Marx, C. Violi, Roma, Editori Riuniti); “Autobiografia, A.
Papuzzi, 3ª ed., Roma-Bari, Laterza); “Teoria generale della politica, M.
Bovero, Torino, Einaudi); “Trent'anni di storia della cultura a Torino”
(Torino, Einaudi); “Dialogo intorno alla repubblica, Roma-Bari, Laterza); “Liberalismo
e Democrazia” (Milano, Simonelli); Contro i nuovi dispotismi. Scritti sul berlusconismo”
(Bari, Dedalo); “Etica e politica. Scritti di impegno civile” (Mondadori). Premio
"Artigiano della Pace"giovanipace.sermig.org, su
giovanipace.sermig.org. 3 dicembre
(archiviato dall'url originale l'8 dicembre ). Premi e
riconoscimenti a Norberto Bobbiocentenariobobbio, su centenariobobbio. Fondazione
Internazionale BalzanPremiati: Norberto Bobbiobalzan.org Hegel-Preis der Landeshauptstadt
StuttgartStadt Stuttgart: Bisherige Preisträgerstuttgart.de Luigi Ferrajoli, L'itinerario di Norberto
Bobbio: dalla teoria generale del diritto alla teoria della democrazia, in
Teoria politica, N. Bobbio, seconda tavola fuori testo. Scrive Bobbio:
«[Fui] esonerato, per mia vergogna, dalle ore di ginnastica per una malattia
infantile restata, almeno per me, misteriosa». (Norberto Bobbio, De senectute,
Einaudi, Torino Fondo Norberto BobbioL'Inventario: Stanza studio Bobbio
(SB)centrogobetti, su centrogobetti, N.
Bobbio18. Cesare Maffi, Massimo
Bontempelli: punito da fascisti e antifascisti, in ItaliaOggi, n. 206, 1º
settembre 11. Nello Ajello, Una vita per
la democrazia nel secolo delle dittature, su ricerca.repubblica, Anna Pintore,
RAVÀ, Adolfo Marco, in Dizionario biografico degli italiani, 86, Torino, Treccani,. 28 aprile. A puro titolo d'esempio si veda Diego
Gabutti, Norberto Bobbio non esitò a occupare la cattedra del professore ebreo
Adolfo Ravà, cacciato dall'università per motivi razziali, in ItaliaOggi, Francesco Gentile, Società italiana di
filosofia del diritto (atti del XXV Congresso), La via della guerra e il
problema della pace, Vincenzo Ferrari, Filosofia giuridica della guerra e della
pace, Milano, Courmayeur, Franco Angeli,
"Laicità e immanentismo nel pensiero di Norberto Bobbio", di
Alfonso Di Giovine, in Democrazia e diritto, Nicola Abbagnano, Storia della filosofia,
volume 9. Il pensiero contemporaneo: il dibattito attuale, POMBA, Torino Norberto Bobbio, Tra due repubbliche: alle
origini della democrazia italiana, Donzelli Editore, Fortini si reca in Cina in
visita ufficiale nella Repubblica Popolare Cinese con la prima delegazione
italiana formata, tra gli altri, da Piero Calamandrei, Norberto Bobbio, Enrico
Treccani e Cesare Musatti. Il viaggio durerà un mese e il diario della visita
verrà pubblicato l'anno seguente in Asia Maggiore. Così Fortini chiama scherzosamente Bobbio
assimilandolo a Cartesio (Descartes) e al suo razionalismo Franco Fortini, Asia Maggiore, Einaudi,
Torino Ricordo di Norberto bobio, in Rivista
di Filosofia, Bologna, Società Editrice
Il Mulino, Proiflo biografico di Norberto Bobbio, su accademiadellescienze, N. Bobbio, decima tavola fuori testo. "Non dobbiamo chiedere scusa per Piazza
Fontana" Guido Fassò, La democrazia
in Grecia, Giuffrè Editore, Milano «con
l'aborto si dispone di una vita altrui». Affermava la necessità di evitare il
concepimento non voluto e non gradito; e concludeva, rispondendo a Nascimbeni:
«Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri
come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il "non
uccidere". E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il
privilegio e l'onore di affermare che non si deve uccidere».(in Intervista a
Bobbio) Senato della Repubblica, su
senato. N. Bobbio, ventesima tavola
fuori testo. Centenario Norberto Bobbio,
su centenariobobbio 5 aprile 2009).
Premio Balzan [collegamento interrotto], su balzan.com. I timori di Bobbio Democrazia senza partitiLa
Repubblica Ha lasciato scritto Norberto
Bobbio: «Ho compiuto 90 anni il 18 ottobre. La morte dovrebbe essere vicina a
dire il vero, l'ho sentita vicina tutta la vita. Non ho mai neppure
lontanamente pensato di vivere così a lungo. Mi sento molto stanco, nonostante
le affettuose cure di cui sono circondato, di mia moglie e dei miei figli. Mi
accade spesso nella conversazione e nelle lettere di usare l'espressione
'stanchezza mortale'. L'unico rimedio alla stanchezza 'mortale' è il riposo
della morte. Decido funerali civili in comune accordo con mia moglie e i miei
figli. In un appunto del 10 maggio 1968 (più di trent'anni fa) trovo scritto:
vorrei funerali civili. Credo di non essermi mai allontanato dalla religione
dei padri, ma dalla Chiesa sì. Me ne sono allontanato ormai da troppo tempo per
tornarvi di soppiatto all'ultima ora. Non mi considero né ateo né agnostico.
Come uomo di ragione e non di fede, so di essere immerso nel mistero che la
ragione non riesce a penetrare fino in fondo, e le varie religioni interpretano
in vari modi. Alla morte si addice il raccoglimento, la commozione intima di
coloro che sono più vicini, il silenzio. Breve cerimonia in casa, o, se sarà il
caso, in ospedale. Nessun discorso. Non c'è nulla di più retorico e fastidioso
dei discorsi funebri». (Ne La Repubblica la cronaca del funerale di
Bobbio.) Né ateo né agnostico ma lontano
dalla Chiesa, in «La Repubblica», 10 gennaio 2004. Norberto Bobbio, Scienza del diritto e
analisi del linguaggio, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile,
n. 2, giugno 1950, 342-367. 5 luglio. Norberto Bobbio, Essere e dover essere nella
scienza giuridica, in Rivista di filosofia, n. 3, luglio-settembre 1967, 235-262. 5 luglio. «Mai come nella nostra epoca sono state messe
in discussione le tre fonti principali di disuguaglianza: la classe, la razza
ed il sesso. La graduale parificazione delle donne agli uomini, prima nella
piccola società familiare e poi nella più grande società civile e politica è
uno dei segni più certi dell'inarrestabile cammino del genere umano verso
l'eguaglianza. E che dire del nuovo atteggiamento verso gli animali? Dibattiti
sempre più frequenti ed estesi, riguardanti la liceità della caccia, i limiti
della vivisezione, la protezione di specie animali diventate sempre più rare,
il vegetarianesimo, che cosa rappresentano se non avvisaglie di una possibile
estensione del principio di eguaglianza al di là addirittura dei confini del
genere umano, un'estensione fondata sulla consapevolezza che gli animali sono
eguali a noi uomini, per lo meno nella capacità di soffrire? Si capisce che per
cogliere il senso di questo grandioso movimento storico occorre alzare la testa
dalle schermaglie quotidiane e guardare più in alto e più lontano». (da Destra
e sinistra, Donzelli, Roma 1994) N.
BobbioLIV, nota 11: «È significativo che nella sua ultima lezione accademica
tenuta come titolare della cattedra di Filosofia della politica a Torino ipresente’
come egli stesso ricorderà ‘il collega cui mi sentivo intellettualmente e
politicamente più vicino, Alessandro Passerin d'Entrèves’, Bobbio abbia citato
‘con forza la celebre frase che subito dopo la Prima guerra mondiale, di fronte
agli allievi, che pretendevano dal celebre professore un orientamento politico,
Max Weber pronunciò: «La cattedra non è né per i demagoghi né per i profeti»’.
(N. Bobbio, Il mestiere di vivere, il mestiere di insegnare, il mestiere di
scrivere, colloquio con Pietro Polito, in “Nuova Antologia”, N. Abbagnano, Storia
della filosofia, IX, POMBA per Gruppo
Editoriale L'Espresso S.p.A., Torino ove è detto: «Bobbio, dai primi anni
Cinquanta in poi, ha ricorrentemente tallonato la sinistra marxista,
provocandola con intenti costruttivi e spingendola ad un esame critico del suo
persistente dogmatismo e settarismo. Il documento più importante di tali
provocazioni, nel decennio in esame, è la raccolta di saggi Politica e cultura
del Alcuni di questi saggi appaiono in origine sulla rivista ‘Nuovi argomenti'
che [...] costituisce in quegli anni uno dei più significativi luoghi
d'incontro tra area laica e quella marxista. Lì appare, nel 1954, uno dei saggi
più provocatori, in senso costruttivo, [...] rivolti a quest'area (dalla quale
si risponderà con gli interventi di Della Volpe e di Togliatti): quello dal
titolo molto significativo Democrazia e dittatura». Scrive Bobbio: «Pur non essendo mai stato
comunista [...] [e] avendo dedicato la maggior parte degli scritti di critica
politica a discutere coi comunisti su temi fondamentali come la libertà e la
democrazia [...], [ho] sempre considerato i comunisti, o per lo meno i
comunisti italiani, non come nemici da combattere ma come interlocutori di un
dialogo sulle ragioni della sinistra». (N. Bobbio, Teoria generale della politica,
Einaudi, Torino 2009618) Sul pensiero di
Bobbio circa il comunismo, si veda anche l'intervista Giancarlo Bosetti, «No,
non c'è mai stato il comunismo giusto», in l'Unità, 3 aprile 1998. Segue alla pagina
successiva Archiviato N. Bobbio203. N.
BobbioXVII. N. Bobbio, Elogio della
mitezza, Linea d'ombra edizioni, Milano 19948.
Antonino Repaci, magistrato e uomo della Resistenza, nipote di Leonida
Repaci Istituto storico della Resistenza
e della società contemporanea in provincia di Cuneo, su
beniculturali.ilc.cnr:8080. 19 febbraio
26 aprile ). Sito della
Presidenza della Repubblica, quirinale
Comune di Rivalta Bormida | La Biblioteca, su comune.rivalta.al. 14
luglio. Norberto Bobbio, Giuseppe Tamburrano, Carteggio su
marxismo, liberalismo, socialismo, Roma, Editori Riuniti, Pier Paolo Portinaro, Introduzione a Bobbio,
Roma-Bari, Laterza, Voce "Norberto Bobbio" in, Biografie e
bibliografie degli Accademici Lincei, Accademia dei Lincei, Roma, Enrico
Lanfranchi, Un filosofo militante. Politica e cultura nel pensiero di Norberto
Bobbio, Bollati Boringhieri, Torino, Nunzio Dell'Erba, Norberto Bobbio
l'accento sulla democrazia, in "Storia e problemi contemporanei", Angelo
Mancarella, Norberto Bobbio e la politica della cultura. Le sfide della
ragione, "Ideologia e Scienze sociali", 26, Lacaita Editore,
Bari-Roma 1995 Giuseppe Gangemi, Meridione, Nordest, Federalismo. Da Salvemini
alla Lega Nord, Rubbettino, Soveria Mannelli 1996 Girolamo Cotroneo, Tra
filosofia e politica. Un dialogo con Norberto Bobbio, Soveria Mannelli, Rubbettino,
Merlo, Consuntivo storico e filosofico sul "Centro di Studi
Metodologici" di Torino (1940-1979), Pantograf (CNR), Genova Morris
Lorenzo Ghezzi, La distinción entre hechos y valores en el pensamento de
Norberto Bobbio, Editorial U. Externado de Colombia, Bogotá, Tommaso Greco,
Norberto Bobbio. Un itinerario intellettuale tra filosofia e politica,
Donzelli, Roma 2000 Costanzo Preve, Le contraddizioni di Norberto Bobbio. Per
una critica del bobbianesimo cerimoniale, CRT, Pistoia, Zagrebelsky, Massimo L.
Salvadori, Riccardo Guastini, Norberto Bobbio tra diritto e politica, Laterza,
Roma-Bari 2005 Marco Revelli, Norberto Bobbio maestro di democrazia e di
libertà, Cittadella Editrice, Assisi, Pazé, L'opera di Norberto Bobbio.
Itinerari di lettura, Milano, Franco Angeli, Roberto Giannetti, Tra
liberaldemocrazia e socialismo. Saggi sul pensiero politico di Norberto Bobbio,
Plus, Pisa 2006 Antonio Punzi, Omaggio a Norberto Bobbio, Metodo, linguaggio,
Scienza del diritto, Giuffrè, Milano, Agosti, Marco Revelli, Bobbio e il suo
mondo. Storie di impegno e di amicizia nel '900, Aragno, Torino, Peyretti,
Dialoghi con Norberto Bobbio su politica, fede, nonviolenza, Claudiana, Torino
() Nunzio Dell'Erba, Norberto Bobbio, in Id., Intellettuali laici nel '900
italiano", Vincenzo Grasso editore, Padova, Pier Paolo Portinaro, «Bobbio, Norberto» in
Il contributo italiano alla storia del PensieroDiritto, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana,. Ruiz Miguel Alonso, Politica, historia y derecho
en Norberto Bobbio [Fontamara ed.],. Mario G. Losano, Norberto Bobbio. Una
biografia culturale, Carocci, Roma, Tommaso Greco, Norberto Bobbio e la storia
della filosofia del diritto, in Diacronìa. Rivista di storia della filosofia
del diritto, Norberto Bobbio; Franco Pierandrei, Introduzione alla
costituzione, Roma, Laterza, Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Norberto
Bobbio, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Norberto Bobbio, su Find a
Grave. Opere di Norberto Bobbio, su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Norberto Bobbio / Norberto Bobbio
(altra versione),. Norberto Bobbio, su Goodreads. Norberto Bobbio / Norberto Bobbio (altra
versione) / Norberto Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio (altra versione)
/ Norberto Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio (altra versione), su
senato, Senato della Repubblica.
Registrazioni di Norberto Bobbio, su RadioRadicale, Radio Radicale. Le opere di Norberto Bobbio (Biblioteca e
Archivio "Norberto Bobbio" del Centro Studi "Piero Gobetti"
di Torino), su erasmo. Commemorazione di Norberto Bobbio, su
giornaledifilosofia.net. Epistolario Norberto BobbioDanilo Zolo Norberto
Bobbio, dal sito dell'ANPIAssociazione Nazionale Partigiani d'Italia (ultimo
accesso del 15 ottobre 2009) I presupposti filosofici nell'opera di Norberto
Bobbio di Franco Manni V D M Antifascismo V D M Senatori a vita di nomina
presidenziale Filosofia. Norberto Bobbio.
Keywords: il bisogno del bisogno del senso del senso. Refs.: Luigi Speranza,
"Grice e Bobbio," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Grice
e Boccadiferro – luogo comune – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo italiano. Grice: “Boccadiferro is a good
one; he is what Oxonians call ‘a Renaissance man,’ and all’italiana, he has a
beautiful carved grave – He was into ‘physica,’ or physics, what Lord Russell
would call ‘stone-age metaphysics,’ but the Italians call ‘fisica medievale,’
and he was surely an Aristotelian – Platonic physics is a florentine, rather
than a Bolognese thing – no wonder the first stadium ever in Italy started in
Bologna, not Firenze, whose Accademia platonica was the place to see and be
seen!” -- Ludovico Boccadiferro Bologna: la tomba di Boccadiferro nella
basilica di San Francesco Ludovico Boccadiferro (Bologna) filosofo e umanista
italiano. Il suo nome latino è 'Ludovicus Buccaferrea, Da una illustre famiglia cittadina, dopo aver
seguito le lezioni dei filosofi Alessandro Achillini dal quale derivò il suo
orientamento averroistico, e forse Pietro Pomponazzi, presso lo Studio di
Bologna, Ludovico Boccadiferro insegnò a sua volta filosofia nella medesima
università. Nel 1525 si trasferì alla Sapienza di Roma ove ebbe modo di farsi
apprezzare anche da papa Clemente VII. Alla Sapienza rimase sino al 1527
quando, a seguito del rovinoso sacco di Roma dei lanzichenecchi, tornò a
Bologna per riprendere l'insegnamento che mantenne fino sua alla morte,
avvenuta nella città natale a circa sessantatré anni nel 1545. È sepolto in una
tomba monumentale all'interno della basilica di San Francesco a Bologna. Scrisse diverse opere, in buona parte edite
postume o mai pubblicate, sulla filosofia aristotelica. Altre opere: “Explanatio
libri I physicorum Aristotelis” (Venezia, Academia Veneta); “Nova explanatio
Topicorum Aristotelis” (Venezia, Academia Veneta); “Lectiones in quartum meteororum
Aristotelis librum” (Venezia, Francisci Senensis); “Philosophi praeclarissimi
Lectiones super primum librum meteorologicorum Aristotelis, nunc recens in
lucem editae, additi etiam sunt duo indices, tum rerum, tum quaestionum
copiosissimi” (Venezia, Ioannem Baptistam Somascum Papiensem); “Lectiones super
tres libros de anima Arist. Nunc recens in lucem aeditae, cum copiosissimo
indice tam rerum notabilium quam quaestionum quae in uniuerso opere
continentur” (Venezia, apud Ioan. Baptistam Somascum, & fratres); “Explanatio
libri primi physicorum Aristotelis lectionibus excerpta recenti hac nostra
editione quam potuit diligentissime expolita atque elaborate” (Venezia, Hieronymum
Scotum); “Lectiones in Aristotelis Stagiritae libros, quos vocant Parva
naturalia” (Venezia, Hieronymum Scotum); “Lectiones, in secundum, ac tertium
meteororum Aristotelis libros” (Venezia, Hieronymum Scotum); “In duos libros
Aristotelis de generatione et corruptione doctissima commentaria a Ioanne
Carolo Saraceno nunc primùm castigata atque diligentissimè repurgata necnon
copiosissimo atque locupletissimo indice ab eodem nunc primùm amplificata atque
illustrata” (Venezia, Franciscum de Franciscis Senensem); “Lectiones super
primum librum Meteorologicorum Aristotelis, duo additi etiam sunt indices,
nempe rerum ac quæstiorum copiosissimi” (Venezia, hæredem Hieronymi Scoti). Vedi
Treccani L'Enciclopedia Italiana, riferimenti in. Fonte Dizionario Biografico degli Italiani,
riferimenti in. Antonio Rotondò,
«BOCCADIFERRO, Ludovico», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 11,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1969. Charles H. Lohr, «The
Aristotle commentaries of Ludovicus Buccaferrea», Nouvelles de la république
des lettres, 1984, pp. 107-18.
Alessandro Achillini Averroè Aristotelismo Altri progetti Collabora a
Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Ludovico
Boccadiferro Ludovico Boccadiferro, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ludovico Boccadiferro, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Ludovico Boccadiferro, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Ludovico Boccadiferro,. Ritratto di Ludovico Boccadiferro Quadreria
dell'Bologna, Archivio storico. il 24 marzo. Averroismo, in Dizionario di
filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Filosofia Filosofo Professore
Bologna Bologna Umanisti italiani. E ex decem illis capitibus,
quæ præmittenda esse alias diximus, cetera, ut mi- Quz præmis nus necessaria
huic tra & ationi, prætermittentes, hæc potissimú attingemus, tenda sunt an
te expolitio quodnam fit philosophi propositum in his libris topicorum, quæ ſit
huius nem Topico partis utilitas, quæ inscriptio, qui ordo, & quæ operis
diuiſio: quibus abso- rum lutis, ad textus expofitionem accedemus. Propolitum
igitur in his libris est, quod fit phi diale & icam methodum trader quare, ut,
quid hoc propofitum nobis polli positum in li ceatur, intelligamus,
cognoſcendum est quid fit diale & ica. & quoniam tunc bris Topico rem
unamquanque optime cognoscimus, fi ipsam à ſui fimilibus sciamus rum.
diſtinguere; dialectica autem maxime ſimilis effe uidetur rhetoricæ; ideo ui
debimus, quo modo conueniant, differantg; inter ſe dialectica, & rhetorica.
Dialecticam Stoici definiunt scientiam bene dicendi. bene dicereautem quidfit
diale effe uolunt uera dicere, ac rei conſentanea.cum autem folus philoſophus
corum ſente Čtica ex Stoia hoc efficiat, ipfi ad philosophiam solum diale
&ticæ nomen referunt, ac ſolus cia. philosophus, ex eorum ſententia,
diale&icus est. Plato vero, ut Alexander refert, dialecticam esse existimavit
divisiuam me quid iterum fit thodum: cuius opus est, & ex uno plura facere,
& plura in unum compone- Placonis fena ex re hanc enim in Phædro dialectica
appellat, ubi eam summis laudibus extollit. tentia, vervm alia forte eſt
Platonis ſententia: uult enim ipſe, ut patet in dialogo alia, et uera, de iufto,
dialecticam esse facultatem, qux conatur ordinecerto, circa unum Platonis fen:
quodque, quid ipſum ſit, inuenire. cum autem hæc facultas dupliciter tentia de
dia lectica, quid conſiderari poſsit, primout eius regulæ, ac præcepta ſeorſum
conſiderantur; lit. fecúdo, ut hæ regulæ rebus ipsis applicantur; dialecticam
Plato à rebus non feiunxit, ideo diale & icum metaphysicum appellauit, qui
rationem capit cu iuſlibet essentiæ, & non ſolum regulas, &
præceptiones callet, quibus inter rogandum reſpondendum ue fit fed, &
interrogare fic, & reſpondere, quod eſt diale & ici proprium. cum autem
huius fit uel præcipuum inſtrumentum diuifio, ideo eam in Phædro tantopere
commendauit. Aristoteles autem dialecticam poſuit ſyllogiſticã methodum ex
proba- Aristotelis sé bilibus agentem de quacunque re propofita. methodum
appellat fyllogifti- tentia de dia cam ex probabilibus, quoniammultipliciter
fyllogiſinidifferunt, uel ſcilicet lectica, quid ſecundum propofitionis ſpecies,
uel ſecundum modos, &figuras, uel ſecun dummateriam,in qua ſunt. ſecundum
quidem propofitionum ſpecies alii funt categorici, alii hypothetici.ſecundum
modos, & figuras, alii ſunt per- quomodo fe fe& i, aliiimperfecti, alii
in aliis figura, & modo. fecundum autem materiam cundum mo differunt,
quoniamalii ſuntex ueris, & propriis, qui demonſtratiuidicun- dos &
figu tur; atque ars, quæ huiuſmodi ſyllogiſmos docer conſtruere, appellaturme
ſyllogiſmi,et thodus demonſtratiua. Alexander eam dicit appellari demonstrationem.
quomodo fe alii autem ſyllogiſmi ex probabilibus probant, qui diale &tici
appellantur; at cundum ma que ars, quæ huiuſmodi fyllogiſmos docet conſtruere,
diale & ica methodus teriam. A eſt EXPOSITIO LIB. 1. tedicta declarat. est
peripateticis, de qua philoſopho propoſitum eſt agere in his topicorum libris.
at uero ſyllogiſmi, qui ex apponentibusprobabilibus procedunt, ſo exemplis an
phiſtici ſunt; ac ſophiſtica ars eft, quæ de ipſis agit, horum autem differen
tia hinc perſpici poteſt. ſienim dicamus, nullum bonum eſt imperfe & um,uo
luptas eſtquid imperfe & um, ergo uòluptas non eſt bona, hic eſt demonſt ra
tiuus ſyllogiſmus, quiex uoluptatis diffinitione procedit. at ſi dicamus, om ne
bonum bonos efficit poſsidentes, fed uoluptas bonos non efficit, ergo uoluptas
non eſt bona: hic erit dialecticus ſyllogiſmus. quod enim bonum bonos efficiat,
eſtquidem probabile, non tamen neceſſario uerum. ſcien tia enim bona eſt, quæ
tamen bonos poſsidentes non efficit. at ſi quis dicat, quod eft bonum, eſt
appetibile, ſed uoluptas eſt appetibilis, ergo uoluptas quare diale- elt bona:
ettfyllogiſinus ſophiſticus, quiex apparentibus probabilibus pro ética ex pro-
cedit: fallit autem ex loco à conſequenti.quòd fi quis cauſam quærat, cur
babilibus,& dialectica ex probabilibus tantú procedat,hæcnimirum eſſe
uidetur, quòd, te propolita cum diale&tica interrogare doceat,acreſpondere,(id
quod uerbum Sráneye agat. sou, à quo dialectica di& a eft, nobis indicat )
oportet, utdiale & ica de rebus omnibus differat, cum res omnes
interrogando, & reſpondendo tractari poſsinc. ſi igitur diale & icus de
quacunque re propoſita agit, neceſſe eſt, de rebus etiam fallis quandoque
diſſerat. quod li ita fit, impoſsibile eſt, ut ex rebus ueris ſemper probet:
neque enim ex ueris falſum colligi aliquo mo: do poteſt. ad probabilia igitur
diale&icus conuertitur, quæ élicit à reſpon quare diale- dente, ex illisq;
propofitum concludit: neque enim probabilia omnino ue etica lit à phi ra ſunt.
ita igitur patet, quid peripateticis dialectica fit. lofopho ap- Quæ cum ita
fint, re& e di& um eſt à philosopho, diale &ticã eſſe avtispoçor
rhet pellata avtitoricæ. tribus enim modis potiſsimum conueniunt rhetorica,
& diale &tica: primo quidem, quia definitum genus non habent circa quod
uerſentur, ſicut & modis inter aliæ omnes diſciplinæ. nam & medicina,
& mathematica,& naturalis philofo fe conueniát phia, & ciuilis
ſcientia, & artes omnes ſubie & um quoddam agnoſcunt, in dialectica
& tra cuius ambitum continentur. nihil enim, quod ad humanum corpus non rhetorica.
pertineat,medicina conſiderat: neque arithmetica, quod ad numerum.at diale
&tica de quacunque re propofita poteſtagere.eodem modo & rhetoris ca
proprium ſubieci genus,circa quod uerſetur, non habet. ſecüdo, conue niunt
dialectica, & rhetorica, quia utraque non ex propriisrerum princi piis, ſed
ex rebus communibus probat. aliter enim deremedica agit diale Žicus, quam
medicus. hic ex propriis eius artis principiis diſſerit:diale&ti cus uero
ex communibus: eodé modo & orator. Tertio conueniunt, quia circa oppoſita
æque uerſantur, id eft, utranque partem contradictionis tuen tur. ſimiliter
enim diale & icus tuebitur uoluptatem effe bonam, &non bo,: nam, animam
effe mortalem, & immortalem:& orator, aliquid effe iuſtum, & non
iuſtum, utile & non utile, laudabile, & uituperabile, eodem modo de
fendet. aliæ autem omnes artes, etfi utrunque oppoſitorum cognofcant, non tamen
utrunque eorum efficiunt, fed, quod melius eſt, ſemper ſibi pro ponunt.medicus,
exempli cauſa, quæ ſanitatem efficiunt,fimul& quæ mor bum, perſpecta habet,
non tamen fanitatem, & morbum indifferenter effi cit, ſed ſanitatem ſibi
ſemper proponit.eodem modo & aliiomnes artifices. quare diale- ſola diale
& ica, ac oratoria ars circa utrunque oppofitæ indifferenter uerſan rica à
philo tur.atque hinc eſt, quòd hæ duæ artes à philoſophis poteſtates ſolent
appel fophis lint ap lari. poteftas enim proprie oppofitorumeſt: hæ autem artes
non unum mat pellatę pote- gis oppofitorum, quam alterum tuentur, licet alii
iccirco ipſas appellari po ſtate; idý; teftates dicant, quoniam potentesreddunt
eos, qui ipſis inſtructiſunt.quid spopoo rheto ! tici & rheto enim tur.
enim non poteſt, qui hominibus probare, ac perſuadere, quod libeat; pofsit?
alii uero iccirco eas poteſtates appellari dicunt, quoniã ad bonú æque busci
nfirma tribus rationi ad malú uſum his uti poffumus: atque hinc eft, quòd
neſcias, bonine an mali plus hominibus hæ artes attulerint: ficut enim,fiad
honeſtas rariones dedu cantur, ut ueritatis inuentionem, iuſtitiæ defenfionem,
ac commoda pa trix maxime proſunt, ita fiad oppoſita trahantur, maxime obelle
ſolent his igitur tribus cóueniunt dialectica, & rhetorica, quòd definitum
genus ſub je& um non habent, quod non ex propriis, ſed ex communibus
probant, & quòd utranque oppofitorum æque tuentur. TOTIDEM etiã modisinter
fe differút.primoenim diale & ica circa quam- quot modis cunque materiam
uerſatur. rhetorica autem ciuilem materiam quodammo inter fediffe
dofibiappropriat. ſecundo diale &interrogando ica, & reſpondendo de re-
rat rhetoria busagic, ac prolixitatem uerborum fugiens quambreuiſsime differit:
rhe- lectica: torica uero continuata, ac diffuſa oracione uritur, quod
confiderans Zeno reéte admodum rhetoricam manui expanſæ, dialecticam uero eidem
in pu gnum contractæ comparauit. tertio differunt, quia diale&ica circa
séris: quid ſie 94 sherorica uero circa uzóleous uerſatur. eft autem Siois
quæſtio nullis certiş is; & quid finibus temporum locorum, perſonarum
concluſa. úzóteous uero quæ defini ta eft uelomnibus, uel pluribus horum, ut fi
quæramus, an philoſophiæ ope ra fit danda, siois eſt, fi quæramus, an nobis hoc
temporephiloſophiz ſiç uacandum, utóðeris eft. IT A igitur paret, quod ſie
philoſophi propoſitum in his Topicorum libris agere, ſcilicet de
dialecticamethodo, uidimusý;, quid eſſet diale &tica, & quid cum
rhetorica conueniat, quid ue ad ipfa differat. AlterVM, quod diſcutiendum
propoſuimus, eft, quænam ſit huius operis diale &icz u. utilitas eftautem
eius utilitas ad quatuor præcipue.primo ad diſputationes, tilitas, & ad
fecundo ad oratoriam facultatem,tertio ad ueritatis inuentionem, ultimo quot
res cöfe ad ſcientiarum principia probanda.ſi quis ea demoliri tentet, ad
difputatio- ratpotiſſimú, nes quidem utilis eſt diale&ica, quoniam loca
nobis ſubminiſtrat; unde e. quid.confe Tuantur argumenta ad quodlibet problema
conſtruendum, uel deftruédum. ad diſputa - præterea docer quomodo interrogare,
ac reſpondere debeamus. quare fi ţiones. alios interrogabimus, quodlibet
probare poţerimus: fiautem interroganti reſpondebimus, fententiam noſtram
egregie ſuſtinebimus, atque ad ircon ueniens non deducemur.quàm autem
adrhetoricam conferat,hinc patet', quàm confen quod omnes fere, qui de
rhetorica conſcripſerunt, non aliunde, quam ex riam faculta docis, qui hic
traduntur, probationes fuas, quæ ſunt quaſi orationis cor, de- cem, ſumi
tradunt, neque tamen eo minor eft hæc utilitas, quòd plerique rhe cores ex his
Ariſtotelis libris, quod ad rem ſuam faceret, iamdudum mutua cti ſunt.magni
enim intereſt, fi quis aquam ex riuulis hauriat potius quam ex fonte, id autem
uel hinc patere poteſt, quòd, cum apud Ariſtotelem tradi ti ſint tercentum,
atque eo amplius loci, ita diſtincte ſecundum quæſtionum differentias, ut
nihilmagisrhetores eos omnes ad uiginti fere deduxerunt, quam ampla facultas in
quantascoa&a anguſtias. Ad ueritatis autem inuent quàm confe tionem
dialectica confert, quoniã cum in unaquaquere poſsimus ad utran- rat ad uerita
quepartem diſputare ex probabilibus. probabilia autem non fint exomni tis
inucntio parte falſa, ideo ex ipſis aliquid ueri colligere poterimus, quod
Ariftotelis reſtimonio confirmatur, qui plerunque in rebusdifficillimis diale
& icos fyl logiſmos pro utraque parte præmittit.deinde fententiam ferens
folet often quim confe dere quoquo modo rem ita ſe habere, & quoquomodo non.
Confert de rat ad ſciena mum diale & ica ad ſcientiarum principia
defendenda: nulla enim ſciétia pro A 2 pria nem. Iteriorum. tiarum prima pria
principia poteſtprobare, fed ea pro ueris aſſumens, alia omnia ex illis
pendapaa pro probat: at fi huiuſmodi principia negentur, nullus præter
dialecticum,& metaphyſicum poterit ipſa probare.maxima igitur, utpatet, eſt
diale &ticæ utilitas,atque ideo immerito quidam ipfam damnarunt, &
fuftulerunt.fie quòd quidã nim diale &tici quidam pernicioſas opiniones
intulerunt, ut Protagoras, dialectica im qui cum in dialecticis excelleret,
Deos in dubium reuocauit, unde decreto merito dam- publico Athenienfes eius
libros arſerunt,ipſumą; Athenis ablegarunt, tan narint, idq; Protagoræ e quam
hominem reipublicæ, ac philoſophicæ ueritati perniciofum, id non xemplo.
dialecticæ contigit uitio, ſed eorum potius, qui dialecticam à rerum cogni
tione ſepararunt, quod profecto aliud non eft, quàm fi quis corpus ab ani ma
ſeparet, aut oculum à uiſua facultate: unde mirum non eft, fi poftea dialectica
ad deteriorem partem abufi fuerint. quæ fit hu - SEQUITUR, ut inquiramus,quæ
ſit huius operis inſcriptio, et inſcriptionis ius operis in- caula.
inſcribuntur autem hi libri Torine, græco nomine, à uerbo Tótosi,
infcriptionis. quodlocum nobis ſignificat. eſt autem locus, ut Rodulphus
definit,com munis quædam reinota, cuius admonitu, quid in quaque re probabile
ſit; poteft inueniri, atq; hinc libri, qui de huiufmodi locis agut, Topica
appellati. Iam illuduidendum eſt, qui ſit horum librorum ordo ad alios libros
logicæ qui fit ordo facultatis. primoq; inquirendum eſt, an libri Topici ſequi
debeant libros huius libri. pofteriorum reſolutoriorum: deinde an etiam ſequi
debeant libros priorú, et primo an Primo quidem, quòd pofteriorum libri, qui de
demonſtratione agunt, To cedere debe- pica conſequi debeant; ex eo probatur,
quoniam demonſtratio eft finis to ant libros Po tius logicæ tractationis, ut
Græci atteſtantur, de ea igitur ultimo loco agen dum eſt.præterea cum
probabilia uiam nobis aperiant ad ipſam demonſtra tionem, fintq; inuentu, ac
cognitu faciliora, dehis igitur priori loco agen huius ratio dum eſt. his
itaque rationibus Topica præcedere Poſteriora ſtatuamus. an uero præcedant, an
ſequantur Priora, non minor eſt difficultas. Marcus Ci Topica cero, cuius
fententiam ſequitur Boetius, logicam facultatem, quam dili - Lebeidlibros
gentem rationem diſſerendi appellat, in duas partes dicit efle diductam, u.
Priorum, nam inueniendi,alteram iudicandi:inueniendi artem ordine naturæ
priorem idậ; ex fen- dicit. ſi hæcita ſunt, cum inueniendi ars in Topicis
libris tradatur, iudican tentia Cice- diuero in Prioribus, ergo Topica procedut
Priora.quæ enim priora ſuntin ronis, & Boe doctriva ordinata, prius etiam
tradi debent.uerum quoniam plerique ne çit. fciunt qua ratione pars illa
appelletur iudicatiua,ideo hoc ipſum nunc:0. ſtendamus. Appellatur hæc pars
inuentiua eo quòd locos, utdiximus, con partes logicæ tinet, ex quibus
probabilia eruuntur.pars uero altera iudicatiua dicitur, altera inuen- quoniam
doceſ, quo pacto, probabilia illa, quæ inuenimus, fint conne& en
tiua,altera ne da, qua ſcilicet figura, & quomodo, ut aliquid concludamus,
non ſolum ma appellentur. teria opuseft, qua id efficiamus, ſed etiam recto,
& artificioſo connexu., non aliter, quam qui cercas, autáreasimagines
fundunt, non ſolum materia indlgent, fed etiam typis quibuſdam,per quos fuſa
materia debitam formam fufcipiat.pars igitur illa, quæ de locis agit,
inuentiua, quæ uero de modis,ac figuris ſyllogiſmorum, atque inſuper
decautionibuscaptioſarum argumen opinionis fu- tationum, iudicatiua eſt
appellata. ſed, ut ad rem propoſitam redeamus, perioris effi - concludebat
prior ratio Topica debere præcedere librospriorum, ſed huic cax oppofi -
fententia opponitur efficax ratio.in Prioribus enim agitur de ſyllogiſmo in.
communi, in Topicis autem de ſyllogiſmo dialectico.cum autem commu niora femper
præcedere debeant, ergo priorum libri præcedent Topica, hancq; ſententiam
peripateticiomnes, Græci, Latini, & Arabes concordes cui caméopi
conſequuntur.Si cui tamen prior ſententia magis arrideat, quòd ſcilicet TO nis
confirma tio. an qua ' ratione. I O PICOR VM ARIŞ T. 3 Ctio. $ Topica
præcedane, non concedet; quod oppoſita ratio aſſumit, quòd fcili- nioni magis
cet in Topicis de diale&ico ſyllogiſmo agatur, ſed dicețibi agi de materia
& eiustatio diale & ici fyllogiſmi, quæ ſunt ipſa probabilia.hæc poſtea
quomodo ſyllogif- nis confirma mosautalia argumentationis fpecieconnecti
debeant,in prioribus traditur. tio. quòd Gi philoſophus Topicoru initio dicit
ſe in propoſita tractatione diale &icum fyllogiſmum quærere, hoc propterea
dicit, quoniam hæc omnia gra- niobiectio. huic opinio tia diale & ici
ſyllogiſmitra & antur: quid enim conferent probabilia, nifi ipfi huius
obie– recte componere, ac connectere ſciamus? non tamen ſupponunt do
&trinam ctionis diflo de fyllogiſmo, quæ in prioribus traditur: Id neque ex
eo oſtendi poteſt, hanc lutio. tračiationem eam fupponere, quæ eſt de
fyllogiſmo, quoniam philoſophus alia huius ra obie initio primi Topicorum de
ſyllogiſmo, atque eius ſpeciebus agit:non enim ob aliud de his agit, niſi ut
dialectici fyllogiſmi materiam inueniat, de qua huius obie hoc loco nou
diffiniret, eiusg; ſpecies, cum dehis in reſolutoriis abunde e- ftionis dißio
lutio alia, giffet.ita igitur Topica librum de interpretatione conſequentur,
Priorum conclufio. autem, ac Pofteriorum libros præcedent. Illvd deniū uidendum
ſuperelt, quæ fit huius operis diuiſio.diuiditur au- quæ fic huius tem in tres
partes. in primo enim libro oſtendit partes, ex quibus compo- operis diui –
nuntur orationes dialecticæ, & partium partes, uſque ad fimpliciſſimas. in
fio. fecunda parte oitendit loca, ex quibus fumantur argumenta ad conſtruen dum,
& deftruendum omnegenus quæſiti, quod fit in ſex ſequentibus libris. in
tertia autem parte; uidelicet in o & auo libro interrogantem inftruit, quo-.
modo debeat interrogare, ac reſpondentem, quomodo debeat reſpódere. In hoc
primo capite proponitphiloſophus propoſitum ſuum in his Topicis libris.
&quoniam hæc omnia,quæ in hoc uolumine tractantur, gratia diale quid in hoc
Etici fyllogiſmi tractantur, ideo præmittit, quid ſit fyllogiſmus, & quæ
fint agendum pro eius differentiæ.primo igitur definit fyllogiſmum, deinde
definit ſyllogiſ- ponac philo mum demonſtratiuum: & quoniam demonltratio
conſtat exprimis, & ueris, fophus. oftendit, quænam ſint hæc prima, &
uera, definit etiam diale &ticum ſyllogif mum. & quoniam conſtat ex
probabilibus,oftendit quænam ſint probabilia. definit deinde litigioſum
fyllogiſmum, poftremo definit paralogiſmum, qui in ſcientiis fit, ac concludens
dicit ſe ſummatim dehis egiſſe, admonetą; ſe non effe de rebus his exactam do
& rinam traditurum, ſed qualis pro poſitæ methodo conuenit. Propoſitum )
Duæ ſunt apud philoſophos uoces cognatæ, propofitum, & fub- quid inter se
iectum. ſubiectum eſt circa quod unaquæque diſciplina uerfatur: propoſitum
differantpro uero eſt id, quod artifex ſibiproponit, & quo effe & to
ceſſat ab opere, exem- pofitum; & plicauſa,fubie& um in medicina
efthumanum corpus, propoſitum uero eſt ſubiectum. fanitatem efficere in humano
corpore, & femper propoſitum comprehen dit etiam ſubiectum, quare Græci
interpretes, cum ſemper expofitum quæ rant, de ſubiecto nunquam fere uerba
faciunt notandum autem eſt, quòd in hoc differre uidentur artes factiuæ à
diſciplinis contemplatiuis, quòd in pro- quomodo fa pofito artium faciuarum
tria complectuntur, effectio primum, quæ eſt cu- ctiuz artes à juſlibetartis
finis, deinde forma, quæ ab artifice introducitur, quæ & ipſa differant.
fubie & um artis propinquum appellatur, ſicut eſt in medicina ſanitas:
ptäte rea ipſum ſubiectum, atque hæc tria in propoſito artis explicantur,
nilicon tingat formæ illi, &fubiecto unum eſſe nomen impofitum. in
propofito au tem contemplatiuarum diſciplinarum comprehenditur cognitio, quæ
eſt cuiuſlibet fcientiæ contemplatiuæ finis, & ipſum ſubie & um licet
fiquis in his etiam diligentius inſpiciat, uidebit formam quandam latere
naturalis philoſophi.propofitum eſt res naturales cognoſcere, fed forma latet
modus 1 1 торт сок у м ARIST, di, dus, ſcilicet & character quo illas
cognofcit, nempe phyſice eodem modo, &arithmetici propoſituni eſt numeros
cognoſcere ledlatet illud mathema tice, quod eſt quali forma eius cognitionis.
notandum etiam eft aliud effe proris differ. propofitum eius, qui ſcientiam
aliquam tradit, &ipſius ſcientiæ, exempli se àpropoſ- cauſa,philoſophipropofitum
eſt in hoc uolumine de dialectica agere, ipfius to ſcientiæ, uero diale
&ticæ propofitum eſt probabiliter diſputare de quacunque propofi quä ipfe
fcri- to problemate. utrunque autem propofitum indicant uerba philoſophi. ptor
tradit. quid ſit me Methodum. utcognoſcamus quid methodusſit, quæ res, ſicuti
non facilis eſt; thodus. ita digniſsima eft cognitione, notandum eſt,quòd
methodus, ficut nomen indicat, elt uia quædam, qua unum poft aliud certo quodam
ordine poſitum eft, quare diſciplinæ omnes, quæ certum quendam ordinem
obſeruant, me: quæ fint pro- thodi appellantur: ſed inter ipſas diſciplinas
aliæ ſunt, quæipſis diſciplinis prie mecho- tradendis deſeruiunt, & iccirco
diſciplinarum inſtrumenta dici poflunt, cu juſmodi ſunt definiendiars, &
diuidendi, & aliæ quædam. aliæ uero ſunt di ſciplinæ, quibus illæ
deferuiunt, proprie quidem methodi nomen diſciplinis deſeruientibus conuenit,
quæ omnes ad logicam tractationem pertinent, quæ etiam in cauſa ſunr, cum aliis
diſciplinis applicantur,ut niethodi nomé accipiant: unde & medendimethodus,
& phylica methodus dicitur, cum ſci licethæ diſciplinæ certo quodam ordine
traduntur, quod non aliunde ha bent, quam ex illis logicis mechodis. quod hæc
ars Inuenire. dixit hoc philoſophus, quoniam ante ipſum hæc ars nondum erat
nondum inué conſtituta: etſi multa apud Platonem, & alios ueteres
philoſophos reperi ta erat,ſed ip rentur, illa tamen erant præcepta quædam
ſparſa, & difie & a,neque colle ſe primus ea inuenit, & p &a in
artem. primus omnium Ariftoteles hæc diligenter perſecutus artem fecit, hanc
inſtituit, fimul & perfecit. A quapoterimus etc, cum diale &
icainterrogando, & reſpondendo conſiſtat, quid diale & i- oftendit
philoſophus, quidnam ipſa conferac tum interroganti, tum reſpon ca cöferat in
denti.confert enim interroganti, quoniam docet ipſum diſſerere de qua
reſpondenti cunque re, quæ à reſpondente proponi poſsit: confert reſpondenti,
quonia inftruit ipſum, ne abinterrogante deducatur ad inconueniens:ſed ſenten
tiam ſuam egregie ſuſtinear, De omni, hoc dicens philoſophus quodam modo diale
& icam d rhetorica ſe parauit. etſi neutra earum habeatſubie & um
limitatum,non æque tamen rhe torica de omni quæſtione diſputat, ſicut
dialectica.circa ciuilia enim nego cia magis uerſatur, quod quædā Propoſito
problemate. Quid ſit problemainferius oftendet philoſophus. diſpu non ſunt dia-
tat diale & icus de rebus ciuilibus, de rebus naturalibus, de rebus medicis
lettica pro- aliisg;, in his tamen quædam ſunt, quæ non ſuntdialectica
problemata, ne blemata. que enim diſputabit de his, quæ indigentſenſu, aut
pæna,utquòd ignis fic callidus, neque de his, quæ propinquam habent
demonſtrationem, led de his quæ dubitationem aliquam habent. Ex
probabilibus.quare diale & icus ex probabilibus diſſerat, ſuperius diximus.
quid philofo. Primum igitur. particula igitur coniungit hanc partem cum eo,
quod dixit gat illa parti ſyllogizare.fi enim docet hæc ars fyllogizare ex
probabilibus, ergo oppor Cula,Primum tet, utcognoſcamus, quid fit fyllogiſmus;
præterea debemus uidere, quæ igitur. ſint ſyllogiſmorum differentiæ, ut
manifeſtum fiat, quòd fit hic fyllogiſinus ex probabilibus, quo dialectica
methodus utitur. dubitatio an Hunc enim quærimus. dubitant quidam, cum
diale&icus ſyllogiſmus ſit huius hisusubiectului operis fubie& um,
quomodo dicat philoſophus, hunc enim quærimus, quo fit dialecticus niam fubie
& um debet præcognoſci in qualibet ſcientia, cuiuseſt ſubie & um: 1 1 1
quod TOPIC Q R VM. ARIS 1.: 4 tionem. quod autem eft præcognitum, non poteſt
eſſe quæſitum: ſed dicendum eft, fyllogiſmus, quòd in hoc uolumine fubie &
um eſtnon dialecticus ſyllogiſmus, ſed diale & i- methodus. ca methodus,
cuius tamen præcipuum opus eſt ſyllogiſmus diale&icus. ſed li folutio Tupe
etiam ſupponamus ſubiectum eſſe ſyllogiſmum diale& icum,nó tamen eſt in-
rioris dubita conueniens, quòd quæratur, quoniam ſubie &tum in ſciétia
ſupponitur, quod aliaetiam for fit, & quid ſignificet. ſed poteſt poſtea
quæri, quid fit, quæ ſint eius partes, lutio. paſsiones, &proprietates.non
igitur idem erit ſuppofitum, & quæſitum. Eft itaque ſyllogiſinus.
fyllogiſmum interpretatus eft Cicero ratiocinationem, quid nobis fi in eius
definitione orationem poſuit philoſophus loco generis (cum enim gnificet fyllo
aéros duo fignificet, græci omnesaccipiunthoc loco pro oratione )non folu
gulmus: enim ſyllogiſmum, fed & alia plura oratio comprehendit.quæ omnia à
fyllo Pelindorecas giſmo ſeparauitphilofophus quatuor adiectisdifferentiis: eam
enim oratio fumatphilo nem, in qua poſitis quibuſdam, aliud quid neceſſario
accidit, propter po- fophus ora fita ſyllogiſmum appellat. Quibufdampoſitis,
per hocſyllogiſmum ſeparauitab his orationibus, in quibus quid ſeparec nihil
ponitur, qualis eſt enarratiua oratio. pofitis autem ſignificat fumptis, hac
particula & conceſsis: oportet enim, ut quæ ad ſyllogizandum ſumuntur,
etiam con atis. quibufdá po cedantur, uel ſcilicet ab alio, fi cum alio quis
ratiocinetur, uel faltem à ſe ipſo, ſiſecum ratiocinetur,uelab audiente non
expetit reſponſionem. præ utrú illud, po terea illud, poſitis, comprehendit non
folum affirmatiuas propoſitiones, ſitis,compre uerum & negatiuas.nam &
negatiuæ nihilo fecius ad fyllogizandum ſumun- hendat & af tur, quàm
affirmatiuæ.præterea illud, poſitis, proprie reſpicit categoricas negatiuas p
propoſitiones. hypotheticæ enim non ponuntur, fed fupponuntur, unde ca
politiones: tegorici ſyllogiſmi ſimpliciter, acproprie fyllogiſmi dicuntur.
hypothetici utrú illud po ſitis compre non ſimpliciter dicuntur ſyllogiſmi, fed
hoc totum ſyllogiſini hypothetici. dixit præterea pofitis, & non pofito,
quoniam ex uno pofito nihil poteft fyi ricas, aneuí logiſtice concludi, ſed
utminimum ex duobus.argumenta enim illa, quæ ex hypoteticas. uno polito aliquid
concludunt, uti ſunt enthymemara, & quæ Antipatri ſe- quomodo co
&tatores Moronéquata appellarunt, defectuoſa funt,quod
deprehenditur,quiasnofcai qua fi id, quod prætereunt, ſuppleamus, nihil eft in
argnmentatione ſuperuaca veum, quod profe & o fieret,fi huiuſmodi
argumentationes non eflent defi- etuoſa. cientes, ut in ſyllogiſmis uidere
eft.fiuntautem enthymemata, ubi propofi quando pof lint fieri en tio aliqua
præteriri poteſt, quoniam euidens eſt, & manifefta, ut reſpirat, thymemata
ergo uiuit: at ſi huiuſmodi propoſitio latens ſit, tunc no poſſunt effici
enthy- quando non memata, ut fi dicamus,motus eſt,ergo uacuum non eſt, ſed hæ
appellantur poſsint fieri illationes, & conſequentiæ, non etiam enthymemata.
enthymema Aliud quid à poſitis, oftendit his uerbis philoſophus fyllogiſmi
utilitatem.nul fyllogiſmi uci lum enim eft aptius inſtrumentum ad cognoſcendum,
quàm fyllogiſmus: cú litas. enim nos fimus cognitionis participes, non tamen
fine diſcurſu res cogno- quotuplici - fcamus, ſicuti beatæ métes, quæ intuitiue
cognoſcunt, ideo ab uno ad aliud ter abuno ad procedimus.cum autem hoc
quadrupliciter fieri pofsit, uel à noto ad notū, datur. uel ab ignoto ad
ignotum,uel ab ignoto ad notum, uel à noto ad ignotum; tres primi modi nihil ad
cognitionem conferunt, ſed ſolus quartus, quo pro cedimus à noto ad ignotum,
hoc autem fit per fyllogiſmum:quare cum im poſsibile fit, ut idem fit notum,
& ignotum, ideo oportet, ut in fyllogif mo aliud concludatur ab his, quæ
poſita ſunt: quia fialiquid concludaturno aliud à pofitis, ea oratio non erit
ſyllogiſmus, quia fyllogiſmi uim nó habet, quinam fyllo ſicut oculumnon
dicimus, qui uidendi uſu caret, ut eſt pidus, autlapideus. gifni à toi merito
igitur à fyllogiſmi definitione excluduntur, qui ſyllogiſmi siapapouueror pellari
Siepo iſtoicis appellantur, in quibus aliud à pofitis non concluditur, ut uel
dies pouuevos. eſt, do argu menta defe ta. aliud proce TOPIC OR VM ARI S. T. 1
obie &tio. eſt, uelnox eſt, ſed dies eſt,ergo dies eft.Sed obiiciet quis,
liſyllogiſmi funt, qui hoc modo ex diuifione procedunt, uel dies eſt, uel nox
eít, ſed dies eſt, non ergo nox eſt: quare non etiam priores illi fyllogiſmi
erunt. uidetur e nim quòd idem ſit, nox non eſt, & dies eſt, etſi in uerbis
fit differentia.uer borum enim differentia, fi idem ſit ſignificatum, nihil
omnino facit. dicen ſolutio obie- dum eſt, quòd illatum illud noxnon eſt,
ſignificat quidem diem eſſe, non ta ctionis. men primario, ſed ſecundario.
primo enim ſignificat no &is negationem, ſe cundario autem ſignificat diei
præſentiam, eo quòd non exiſtente no & te ne cellario dies eſt:quemadmodum
& nox eſt, primo ſignificat no &i præſen tiam, ſecundario uero diei
priuationem. cum igitur aliqua fit inter hæc dif · ferentia, quoniam non eandem
rem primario lignificat, ideo hi ſyllogiſmi quòd fyllogif ſunt. illiuero, in
quibus nulla prorſus eſt differentia, inter aſſumptum, et illa mi,quifiunt tum
non merentur dici ſyllogiſmi, eadem ratione & fyllogiſmi illi ſunt, qui ex
contradi- ex contradi& tione fiunt, ut uel dies eſt, uel dies non eſt, ſed
dies eſt, non er merentur di- go non eſt.aſſumptum enim illud primario ponit
diem efle, fecundario au ci ſyllogiſmi. temnegat diem non eſſe. quæna fit ha Ex
neceſſitate accidit. declarat hac uoce philoſophushabitudinem,quæ eſt in bitudo
inter ter concluſionem, & præmiſſas, quas appellauit pofita. oportet enim
quòd præmillas, & concluſio à pofitis neceffario inferatur. notandum autem
eſt,aliud eſſe con quid differat cluſionem neceſſariam, quàm quæ ex neceſsitate
accidit.conclufio enim eſt inter conclu- neceſſaria, quæ eſt in
neceſariamateria, uthomoeft mortalis: concluſio ue fioné necella ro ex
neceſsitate eſt, quæ à poſitis neceſſario dependet, quod non minus riá, &
de ne: uerum eſt in materia neceſſaria, quam in contingenti. ſeparauit autem
hoc dentem,& de dicens philoſophus, ſyllogiſmum ab indu & ione, in qua,
quoniam non om neceffario, nia ſingularia inducuntur, & fi inducantur, non
tamen oportet, quòd eodem ſcilicet é hæc modo fe habeat uniuerfale, ficut
unumquodque ſumptorum, ideo conclu conclufio in lio in ea non accidit ex
neceſsitate. fiigitur conclufio non accidit ex neceſsi Cario, tate, non erit
ſyllogiſmus: atquehinc merito litigioſus ſyllogiſmus in forma peccans
nonmereturdiciſyllogiſmus. quot de cau- Propter poſita. quatuor de cauſis hoc
adiecit Philoſophus, primout deficien lis philoſo - tes fyllogiſmos ſepararet,
in quibus deficit altera propofitio ad ſyllogiſtica il phus poſuerit lationem,
ut lac habet, ergopeperit. ſecüdo, ut ſepararet ſyllogiſmos ſuper in
definitione ſyllogiſmi uacaneos, in quibus aſſumitur propofitio aliqua ad
concluſionem non necef particulă hâc faria, ut fi dicamus, omne iuſtum eſt
honeſtum, omne honeftum eft bonum, ſcilicet Pro- omne bonum eſt eligibile, ergo
omne honeftum eſt eligibile.tertio,ut ſepa pter poſita raret orationes, in
quibus propria conclufio non infertur, fed aliquid alie tuor de cap - num, ut,
quod eſt ſecundum naturam, eſt eligibile, uoluptas eſt ſecundum na Gis. turam,
ergo uoluptasbona eſt. talis elt Epicuri ratio, de morte diſſolutum non ſentit:
quod non ſentit, nihil ad nos pertinet:mors ergo nihil ad nos pertinet. quarto,
ut ſepararet eas orationes, in quibus non ponitur aliqua propoſitio uniuerſalis,utſi
dicamus, linea a eſt æqualis lineæb, &linea c eſt æqualis eidem lineæb,
ergo linea a, & linea c funt æquales inter ſe. hæc enim concluſionon
ſequitur expofitis, fed ex uniuerſali prætermiffa, quæ dicit, quæ ſunt æqualia
uni tertio,funt æqualia inter ſe. quid differae Demonſtratio igitureſt, quando
ex ueris, & primis ſyllogiſinus eft. Aliud eft demon inter demon- ftratio,
& demonſtratiua methodus.eſt enim demonſtratiua inethodus ip deinonitrati
ſa ars, & diſciplina, quæ demonſtrationes efficit. demonftratio uero eſt
uam metho demonſtratiux methodiopus.cum igitur uelit philoſophus fyllogiſmi dif
duin. ferentias definire, à demonſtratione incipit, quæ eft omnibus aliis
nobiliſſi ma. dicit autem ipſam eſſe fyllogiſmum, qui conſtat exprimis, &
ueris, uel. hoc eft qua 1 ex торгсок у м AA 5 R I S T. ex his, quæ pro aliqua
prima,& uera ſuæ cognitionis principium ſumpſe runt.oportet igitur, fi
definitionem aliquam cognofcere debemus, icire quænam ſint prima, & uera,
quod ipſe paulo poſt oftendit, quòd ſcilicet ſunt fcientifica principia
diſciplinarum, quæ nonex aliis, ſed ex ſeiplis fidem ha- quòd ſcienti bent. hxc
enim quoniam funt principia,non poſſunt ex aliis demonſtrari, exte, non au quia
non amplius eflentprincipia, ſi ex aliis poflent demonſtrari. & cum ex tem
ex aliis ipfis alia demonftrentur,opus eſt, quòd ex ſeipſis fidem habeant,
alioqui o- fidem habét. mnia demonſtrata eſſent incerta. ſunt igitur ipſa
principia ſcientiarum cer ta, & euidentia: ex his autem quædam funt
nobiſcum innata, & quæ à præce ptore non diſcuntur, ac proinde appellantur
communes animi conceptio nes, dignitates, & proloquia, ſeu profata. alia
uero ſunt, quæ non poſſunt quidem demonſtrari, nobiſcum tamen non ſunt inſita,
ſed admonitione quadam, & declaratione indigent.leui enim declaratione
ipfis affentimur, & hæc appellantur poſitiones, quæ duplices ſunt, uel enim
dicunt aliquid ef quotuplices lint politio ſe, uel non eſſe, &dicuntur
petitiones, uel poftulata, uel quid fit res indi- nes. cant: ſed
non dicunt aliquid efle, uel non efle, & appellantur definitiones, quæ
omnia apud mathematicos manifefta funt. Quod autem dicit philoſophus, Non enim
oportet in diſciplinalibus principijs inquirere propter quid. Videri poſſetali-
obie &tio, 9 cui dubium, cum Themiftius primo poſteriorum dicat, prima
principia fcilicet prima ſcientiarum habere cauſam, propter quam illis
affentimur lumen, ſcilicet fciétifica prin intellectus agentis: præterea
principia cognoſcimus per terminos, ſed ter- habent,pro mini ſunt
cauſamaterialis principiorum, ergo principia habent cauſam.di- pterquam il
cendum eſt, quòd prima principia habent quidem cauſam, quæ affentimur ip
nöautem ex ſis, non tamen habent caufam,propterquam poffintdemonſtrari. ad
ſecun- fe habentcau dum dicendum eft, quòd ex terminis quidem cognofcuntur
priucipia, non fam. tamen ex illis poſſuntdemonftrari,quoniam termini ſunt
incomplexi: ne que omnis cauſa dicitur propter quid, ſed ea, ex qua poſſit
aliquid demoſtrari. HABEmvs igitur, quæ ſint prima, & uera: addit uel ex
his, quæ per aliqua quare philo prima, & uera, &c. niſi enim hoc eſſet
additum, primæ ſolum illæ effentde- fophus in de monſtrationes, quæ ex
principiis demonſtrantur, cum non minus etiam de- nis definitio monſtrationes
ſint, quæ demonſtrantur ex demonſtratis primis, ſed quamuis ne poſuerit ca, ex
quibus fit demonſtratio, prima non fint ſemper, tamen ſunt priora etiã hæc uer
concluſione. ſemper enim debent eſſe caufæ conclufionis, non folum in in- ba,
uel ex his, ſerendo, ſed etiam in eſſendo. propterea dubitat Alexander, fi quis
ab effe- quæ penalina &u ad cauſam procedat, utrum debeat dici demonſtratio,andiale&
icus ſyl- uera luz co logiſmus, quia enim procedit ex ueris, non uidetur, quòd
fit diale & icus; qui gnitionis prin ex probabilibusprocedir: & quoniam
ex pofteriori procedit, non uidetur, сіруй fumple quòd fit demonitratio, quæ ex
primis procedit. ſoluit Alexander, quòdu trunque tueri poſſumus, & quòd ſit
dialecticus fyllogiſmus, quoniam huiuf modi uera ſumuntur pro probabilibus, ut
lac habet, ergo peperit. luna de ficit, ergo terra inter ipſam, & folem eſt
interpofita. poffumus etiam dice re, quod fit demonſtratio, fed demonſtratio
quo ad nos, quia in ea accipi mus ea.quæ nobis notiora ſunt.eſt igitur
demonſtratio imperfe & a, & im proprie dicta. Dialecticus autem
ſyllogiſmusex probabilibus ſyllogizans.Non poflumus autem hanc quænam fint
definitionem intelligere, niſi cognoſcamus,quæ fint probabilia, ideo fubdit
probabilia. philoſophus,probabilia ſunt, quæ uidentur uel omnibus, uel pluribus,
uel ſapientibus,& his uel omnibus, uel pluribus, uel maxime cognitis, &
pro- omnibus pro batis, omnibus quidem probabilia ſunt, ut fanitatem eſſe
expetendam,ui- babilia. runt. quænam ſint B tam торт сок у м ARIST.. tam eſe
expetendam, fcire pulchrum eſſe, parentes eſſe honorandos: hæc e nini omnibus
probantur, quòd fi quialiter affirmant,id aduerſus intrinſeca rationem dicunt.
plurimis autem probabilia ſunt, prudentiam effe diuitiis plurimis quænam fint
eligibiliorem, & animam corpore præftantiorem. notató; hoc loco Alexan pro
babilia. der, quòd fi diale&icus de his ſoluni diſputaret, quæ in communi
notione uerfantur, ea ipfi ſufficerent, quæ omnibus, uel pluribus probātur: fed
quo niam plerunque etiam de his, quæ à communi notitia remota ſunt, ideo ea
quænam fint etiam probabilia aſſumit, quæ ſapientibus uidentur.omnibusautem
ſapien pbabilia om- tibus uidentur, quæanimi bona ſcientia, ſcilicet &
uirtus fint præftantiora nibusſapien- bonis corporis,quòd ex nihilo nihil fiat.
plurimis autem ſapientibus proba bilia ſunt uirtutem effe per ſe expetibilem:
& fi aliter Epicurus ſentiat felici tatem à uirtute fieri, quòd non detur
aliquod corpus indiuiſibile; & fi aliter ſentiat Democritus, quòd non ſint
mundi infiniti; & ſi contra Anaxagoras quænam fint opinatus ſit;
celeberrimis autem probabilia ſunt,animam humanam eſſe im probabilia ce mortalē,
quæ fuit Platonis opinio, uel effe quoddam quintum corpus,quam leberrimis fa-
dicit Alexander fuifle Ariſtotelis ſententiam, quod & M. Tullius eidem at
pientibus. quòd etiam tribuit, licet alii omnes aliter ſentiant de Ariſtotelis
opinione. ſunt autem,pbabilia ſunt hæc probabilia, & fiuel pauciadmodum,
uelunus tantum forteita ſit opina ea, quæ uel tus, quoniam ſicut illi
probatiſsimi ſunt, ita eorum opiniones maxime pro unus, uel pau babiles eſſe
uidentur. notandum autem eſt differre probabile à uero, non eo fenferint-, quòd
probabile falſum ſit,utplurimum enim probabile, neque omnino eft illi probabi-
uerum, neque omnino falſum, ſed differunt iudicio.dicitur enim uerum ex les
fuerint. ipſa re, quando ſcilicet cum re conſentit. probabile autem dicitur ex
audie tium opinione: fi enim ita audientes opinentur, probabile dicitur.probabi
lia enim quatenus probabilia ſunt, neque uera, neque falſa ſunt: quædam e nim
uera probabilia ſunt, ut Deos eſſe: quædã etiam uera ſunt,quæ non funt
probabilia, ut quòd extra cælum nihil ſit: quædam etiam ſunt falſa, & proba
bilia, ut quòd Deus omnia pofsit, neque enim mala poteſt, ſicut & pleraque
ſunt, &faiſa, & non probabilia: ſed ex his nulla fit argumentatio.
notandum etiam eft, pleraque probabilia eſſe inter ſe oppoſita. fæpe enim quod
proba turuulgo,non probatur à fapientibus, ut quòd bona animi præſtentcorpo
quid fit pro- ris bonis. M. Tulius primode inuétione probabile dicit effe id,
quod fere fie babile ex M. ri ſolet, ut matres diligere filios ſuos, & id,
quod in opinione pofitú eft, ut Tullii opinio, impiis apud inferospenaseffe
paratas:&quòd ad hochabetquandã ſimilitu dinem, ut ſi his, qui imprudenter
ceſſeruntignoſci,conuenit: his, qui ne in quot par- ceſſario profuerunt,
haberigratiam non oportet. hoc autem probabile in tes diuidatur quatuor
partesdiuiditur, in lignum, quod uel negocium præcedit, uel comi probabile.
tatur,uel conſequitur. credibile iudicatum, quod eſt uel religioſum, uel
commune, uel approbatum: & comparabile, cuius partes tres ſunt, imago,
collatio, exemplum, quotuplex ſit Litigioſus autem ſyllogiſmus. duplicem
oftendit philoſophus eſſe ſyllogiſmum fyllogiſmus litigiofum, & qui
procedit ex apparenter probabilibus, ſed re&am ſeruar litigiofus.
connexionem: & quiconnexionem prauam habet, uel fit ex uere probabi libus.
ftatuita; philoſophus eum, quiin connexione fyllogiſtica peccat, non eſſe
dicendum ſyllogiſmum, fed hoc totum fyllogiſmum contentioſum, quemadmodum homo
mortuus non dicitur homo, fed hoc totum homo mortuus. qui uero ſyllogiſticam
connexionem ſeruat, ſed procedit ex ap parentibus probabilibus, dici poteſt
ſyllogiſmus. ratio autem quare hic ſit fyllogiſmus, hic uero non eſt, quoniam
uitiatur fyllogiſtica connexio, pe rit fyllogiſmi natura non aliter, quam homo
deſinit elle, quod eſt, li anima priuetur, ne. priuetur, quoniam non poterat
hæc definitio intelligi, nifi cognoſceremus quid etient apparenter probabilia,
& quid differrenta uere probabilibus, quid fint ap ideo hocipfum declarabit
philofophus. dicit enim, quòd nihil eorum, quæ bilia; & quid funt
probabilia in ſuperficie idem, funtapparenter probabilia, habet omni differant
à ue no fantaſiam idem, funtuero probabilia.id autem eſt apparenter probabi- re
probabili le & in ſuperficie, quòd facile redarguitur,quia ſcilicet
promptam habet bus. inſtantiam, ut ſi dicamus, quod uidet, oculoshabet.ſi quis
enim hoc admit -tat, fateri cogetur oculum habere oculos, ita ſi quis fateatur,
quæ loque ris, ex ore exeunt, audire poterit, currũ loqueris ergo: currus ex
ore exit. eodem modo qui oculos habet, uidet, fed dormiens habet oculos, ergo
uidet.in his fi quis parum infpiciat, mox deprehendet mendacium, quod
nonhabeantea, quæ uere probabilia dicuntur:neque enim hoc facile quis
redarguet, quod maiori bono contrariuin eſt,maius malum eft: in multis eniin
hoc uerum eſt, falſum tamen quandoque deprehenditur.nam morbus, qui eſt maius
malum, quàm mala babitudo, contrariatur ſanitati, quæ eſt minus bonum, quàm
bona habitudo. Principii litigioſarum orationum. per hoc intelligit philoſophus
propoſitiones, ex quibus litigiofi ſyllogiſmi fiunt, non autem horum
argumentorum loca. NOTAND v M autem eft differre litigioſum, ſeu contentioſum
ſyllogiſmũ quid differat à ſophiſtico ex utentis inſtituto.contencioſus enim
eſt,qui ui& oriam aſpi- litigiofus fyl rat:fophifticusautem, qui gloriam.
ſophiſtice enim ex fucata fapientia glo logiſmus à ſo phiftico. riam captat, ut
inde pecunias acquirat,ut dicitur,primo Elenchorum ca pite decimo. Adhuc autem
præter dictos omnes fyllogiſmos. aliam ſyllogiſmidifferentiam affert quidfit
para philoſophus, qui eſt paralogiſmus, quifit in ſcientiis expropriis
quidéprin- logiſmus. cipiis alicuius fcientiæ procedens, ſed male dedu &is,
atque ideo falſis. appel lauit autem philoſophis ſcientiis geometriæ cognatas
ſtereometriam,per- fcientiæ geo fpe &tiuam, aſtrologiam, arithmeticam,muficam,
archite & uram, chofmo- metriä сo graphiam, mechanicen, & alias
quaſdam.quòd autem huiuſmodi ſyllogiſmi gnatæ. à ſuperius di&is differant,
patet: non enim ſuntdemonſtratiui, quia falſum concludunt. nam etſi propria
principia alicuius fcientiæ aſſumant, quxuera funt, eo tamenmodo intellecta,
quo falſus deſcriptor illis utitur, ſunt falla. neque etiam huiuſmodi
ſyllogiſmidicipoffunt diale & ici; quoniam ex proba bilibus non ſunt: neque
enim quæ omnibus probantur, neque quæ pluribus affumunt, neque quæ omnibus
fapientibus, neque quæ plurimis, neque celeberrimis, ſed nequedicipoffunthi
ſyllogiſmi litigiofi,quoniam non af fumunt apparenter probabilia. propria enim
principia non uulgo, ſed his, qui in ſcientia ſunt uerſati,cognoſcuntur quare
probabilia dici non poffunt, & cum ad prauum ſenſum deducuntur, non etiam
dici poterunt apparen ter probabilia. Λημμάτων. λήμματα funt apud Αriftoteleim
propofitionesfyllogifmorti quas λήμματα. nos præmiffas appellamus, &
ſumpta: undelyllogiſinidefe & uofi, qui ex ana qua ſint. tantū propoſitioni
conſtabāt,ab Antipatro coronéiuuati ſunt appellati.notan dum eft paralogiſmum,
qui in ſcientiis fit, qui pſeudographusappellatur;ita quonam mo fe habere ad
demonſtrationem, quemadmodum fe habet contentiofus ad do paralogiſ diale&
icum.notandum præterea eſt paralogiſmi nomine, comprehédi utrun- mus habeat que
modum ſyllogiſmi contentiofi, fyllogiſmum ſophiſticum pſeudogra- ftrationen
phum, & tentatiuum. Species igitur fyllogiſmorum, ut figura quadam
complecti licet. Plures affert ratio. rationes qua nes Alexander, quare dixerit
philoſophus, ut figura quadam comple & i licet, re philofo B 2 uel phus
dixerit, quænam Gnt tiuus. ut figura qua uel quoniam non tradiderit diligentem,
& exquiſitam horum definitionem, dam comple Eti licet. nonenim ad hoc
inſtitutum pertinebat, uel quia non omnes fyllogiſmorum differentias eſt
perſecutus.eas enim prætermiſit, quæ fumuntur pencs dif ferentias propofitionum,
& quæ penes earum connexionem, uel quoniam prætermiſit enthymema, quod
quamuis non fit fimpliciter fyllogiſmus, eſt tamen ſyllogiſmus rhetoricus, uel
quoniam prætermiſit ſyllogiſmum tenta quid fit fyllo tiuum,dequo alibi fa&a
eſt mentio.eft autem fyllogiſmus tentatiuus, qui gıſmus tenta procedit ex
probabilibus, non ſimpliciter, ſed reſpondenti. eft enim ten tatiuus
ſyllogiſinus ad eos refellendos, qui fingunt fe aliquid ſcire, quod ne ſciunt:
fed dubitat Alexander,ac fere affirmat idem effe Tyllogiſmum tenta tiuum, ac
pſeudographum. philoſophus enim in Elenchorum libro tenta tiuum fyllogiſmum
definit, quod fit ex his, quæ reſpondenti probantur: & quæ neceſſario
tenere debetis, qui profiteturſe habere ſcientiam. hoc au qua in re ten tem
idem eſt, ac fi diceret ex peculiaribus fcientiæ principiis. hæc enim tene
tatiuus fyllo- re debet, qui ſcientiam habere profitetur. appellatur autem
tentatiuus à Fat a pſeudo propoſito, & inftituto interrogantis,
pſeudographema autem ab effe& u. grapho. Vtautem uniuerſaliter dicamus.
Admonet philoſophus in his, quæ di &a ſunt, ac quòdnon in in omnibus, quæ
ſunt dicenda, non eile expectandam certam, ac demon omnibus re- ftratiuam
ſcientiam, quia propoſita tra & atio id non fert, cum de probabili renda
demó- bus fit, quorum certa, atque exquiſita fcientia haberi non poteft, ut
dicebat ftratiua fcien in ſecundo metaphyſices, certitudo mathematica non eſt
in omnibus expe tenda, neque omnium poteſt haberi demonſtratio. dubitatio Q- QVAER
VNT quidam, cum philoſophus attulerit duos fyllogiſmos con phus attule-
tentiofos,alterum,qui peccat in materia,alterum, qui peccat in forma, fit du os
fyllo cur unum tantum pſeudographum, qui in materia peccat, foluunt, quòd
giſmos con- peccatum formæ eſt commune omnibus ſyllogiſmis: quoniam igitur
ipſum tentiofos, & expoſuit in fyllogiſmo contentioſo: ideo hoc loco ipſum
prætermiſit, at pſeudogra- peccatum materix eſt fingulis proprium. Sequitur, ut
inquiramus, quæ sit huius operis inscriptio, et inscriptionis ius operis
incausa inscribuntur autem hi libri topice, græco nomine, a verbo topos
inscriptionis munis quædam rei nota, cuius admonitu, quid in quaque reprobabile
sit, potest inueniri, atq hinc libri, quide huiusmodi loci sagut, topica
appellati. Iam illud videndum est, quisit horum librorum ordo ad alios libros
logicæ qui sit ordo facultatis primo q; inquirendum est, an libri topici se qui
debeant libros huius libri ant libros totius logicæ tractationis, ut græci
attestantur de eaigitur ultimo loco agen Iteriorum.dumest. prætere a cum
probabilia viam nobi saperi anta dipsam demonstrationem, ling inventu,
accognitu faciliora, dehi sigitur priori loco agen huius ratio, dumest his
itaque rationibus topica præcedere posteriora statuamus: an uero præcedant,
ansequantur priora, non minor est difficultas. Marcus Cicero, cuius sententiam
sequitur Boetius, logicam facultatem, quam dili-, posteriorum resolutoriorum:
deinde an etiam sequi debeant libros priori et primo an Primo quidem, quod
posteriorum libri, qui de demonstratione agunt, Topica cedere debe-
consequi debeant, ex eo probatur, quoniam demonstratio est finisto præcedere
gentem rationem differendi appellat, in duas partes dicites sedidu &am,
unam inveniendi, alteram iudicandi: ioveniendi artem ordine naturæ priorem ida;
exfen- dicit si hæc ita sunt, cum inveniendi ars in topicis libris tradatur,
iudican tencia Ciceronis diueroin prioribus, ergo topica procedúr priora quæ
enim priora sunt in sciunt qua ratione pars illa appelletur iudicativa, ideo
hoci p sum nunc o qua ratione stendamus. Appellatur hæc pars inventiva eo quod
locos, ut diximus, con partes logicæ tinet, ex quibus probabilia eruuntur. pars
vero altera iudicatiua dicitur, altera inven quoniam docer, quo pa & t
o probabilia illa. Locus sigitur, ut definit Alexander, est principium, &
occasio epicherema- secundumA eo tis, cum inprimo ea omnia tradiderit,
quæ præcognoscenda erant, antequa traderentur loci: merito igitur hic incipit
explicare locos sed hic duo sunt secundo libro et si enim de hacrenon nulla
dixerimus, minandaante examinanda primoq,uidsit locus nunc est diligentius
explicatione libri, hoc ipsum tamen cum agebamus de inscriptione sit de locis,
par est, explicandum cum enim omnis futura tractatio d u o efle exatis est
autem in ixeípnucdiale & icus syllogismus. Theophrastus autem hoc mo
lexandrum. do definivit locum, quod est principium quoddam, u elelementum, a
quo principia, quæ circa unum quodque sunt, accipimus, ratione quidem
circumscriptionis universalium definitum, ratione vero singularium indefinitum
in hac definitione per illud, quæ sunt circa unum quod que principia,
intelligere debemus, quæ de uno quoque problemate afferri possunt argumenta per
illud autem rationem quidem circumscriptionis universalium definitum,
rationeuero singularium indefinitum, intelligeredebemus, quod huius modi
principium & elementum universale ipsum definit & determinat singularia
autem indefinite comprehendit, neque enim de hoc, aut de illo singulari
loquitur, fedde ipso universali, sub quo omnia singularia indefinite
comprehenduntur, exempli causa, hic est locus, fia licui contrario aliquod
inest contrarium, reliquo quoque contrario reliquum contrarium inerit in hac
propositione universale est determinatum, singularia vero indefinite
comprehenduntur atque exea argumenta accipimus ad unum quod que eorum, quæ
subea comprehenduntur sienim quæ raturutrum bonum pro exemplum, sit, ab eo loco
accipiemus propositionem huic proposito problemati convenientem; si enim malum
obest, ergo bonum prod est patet autem, quod hæc propositio ex eo loco &
est, & probabilitatem nacta est, eodem modo si quæratur, ut rum albus color
sit disgregativu suisus ex prædi &o loco conveniens, argumentum proposito
problemati accipiemus hoc modo, si nigrum est congregatiuum uisus, ergo album
est disgregatiuum eodem modo pro babimus voluptatem esse bonam si enim
tristitia mala est, ergo voluptas est bona hæc igitur omnia, & plura alia
in eo loco indefinite, & indeterminate comprehenduntur hic etiam est locus,
si id, quod magis videtur alicui inef senonin est, tamen neque id, quod minus
videtur in esse ipsiinerit, qui sicut & in priori visum est, universale
quidem definite, singularia vero indefinite comprehendit neque enim de hoc, aut
illo quicquam pronunciat ex definitio loci ANTIQVAM contextum philosophi
exponamus, videamus priuseiuspro } H roncm. quando que ingrediuntur
argumentatione, quando queuero extra positæ vim solum ipsi tribuunt. Cicero
autem intelligit locum esse terminum, unde hæ maxime propositiones desumuntur
cum enim hæ maximæ propositiones plurimæ sint termini autem,unde sumuntur, longe
pauciores; ideo universa earum multitudo in paucos illos terminos collecta est,
ut aliæ in definitione consistant, aliæ ingenere, aliæ in roto, at que aliæ in
aliis, at quehiter mini a Boetio appellantur differentiæ, eo quod maxime
proposiciones per ipsos dividantur, sicut igenus per differentias maximæ enim
propositiones aliæ sunt ex toto, aliæ ex partibus, aliæ ex genere, &c &
sicut maximæ illæ propositiones minorum propositionum copiam intra suum ambitum
continent, ita termini ili, in quos maximæ illæ propositiones convenienti
ratione re ducuntur, illas continere quodam modo videntur ideoq loci dicuntur
ita igitur locum intelligit M. Tullius, deilisý; in suis Topicis agit, cum
Aristoteles priori modo locum intelligat, ac de illis agat. Sed incidit hoc
loco non indigna contemplatio quis scilicet melius, atque ad usum accomodatius
rem hanc tractaverit, an Aristoteles, qui universales, & maximas illas
propositiones explicaverit; an M. Tullius, qui maximis propositionibus præter
missis eos tantum terminos, in quos illæ colliguntur, exposuerit hoc autem ita
investigari psse videtur siquis exterminis ilis uelit in proposita quæstione
argumenta sibi consicere, cum ad argumenta conficienda necessariæs
intpropositiones id eo oportet, ut exterminis illis propositiones inveniat, ex
quibus argumenta construat sed hoc dificilli mum est, & multa indiget
prudentia, & longa consideratione quis enim possetstatim inspecto termino
propositionum, quæ probabiles sint & indubita txcopiam inuenire; atque ex
hiseas, quæ propositæ quæstioni conveniat, eligere si hoc ita est, patet longe
consultius, & præstantiu segisse philosophum, qui has propolitiones nobis
invenerit, & explicauerit; easq; secundum unum quodque quæstionis genus
certo ordine ita digesserit, ut quam vis plurimæ sint, nihil tamen confusionis
pariant, sed maximam, accertamin una quaquere argumentorum copiam suppeditant
neque tamen prætermit tit philosophus terminos, exquibus maximæ propositiones
desumuntur: hoc enim facile ad modum est exeiusdi & iselicere sed noluit
ipse terminorum ordinem sequi, quoniam ordo ille problematum ordine
minterturbasset, qui longe præstantior est & ad usum accomodatior qai
igitur terminorum do &rinam sequitur, primo propositiones ignorat; quarum
præcipuus est usus in argumentis & fine quibus nullus est terminorum usus
deinde nullum secundum quæstionum genera ordinem habet, quo sit, utinomni qux
sionis genere per omnia loca temere vagaricoa & us sit atque ita patet lon
dubitatio, TOPICORVM ARIST. cota mende his omnibus possumus argumentari, ut si
velimus probare diuitias non esse bonas, ex eo loco hoc modo argumentabimur si
sanitas, quæ magis videtur esse bona, quam divitiæ, bona tam en non est, ergo
neque divitiæ bonæ sunt si enim deinde probemus sanitatem non esse bonam ex eo
forte, quod aliquibus sit causa mali, ex loco proposito ostensumerit divitias
non esse bonas. probare uule NOTANDVM autem hoc loco est,alio mod. Ludovicus Buccaferreus. Ludovicus Buccaferrea. Ludovico
Boccadiferro. Keywords: luogo comune. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Boccadiferro” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Boccanegra – esperienza – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Grice: “Boccanegra is a good
one; we often laugh at Aquinas because he is a saint – but we have to recall
that Aquinas never knew it – for centuries after his death he ain’t one!
Boccanegra prefers to call him ‘Aquino,’ or ‘Aquinate,’ --.” Grice: “Boccanegra
is like me a systematic philosopher: dalla metafisica alla etica – is that
possible? Yes, what is the ‘paraidm,’ in Kuhn’s use of this tricky word? Esperienza,
alla Locke! And co-experience in my conversational model!” -- Alberto Boccanegra (n. Venezia), filosofo.
Osvaldo Boccanegra nacque a Venezia, figlio primogenito di Antonio e Ida
Camerin. Partecipò alla seconda guerra mondiale come sottotenente del Regio
esercito, richiamato alle armi nel 1941. Nei giorni successivi all'armistizio
di Cassibile riuscì a sottrarsi alle rappresaglie naziste e si ricongiunse
all'esercito italiano a Catanzaro, dove spesso prestò servizio presso la Croce
rossa. Formazione Durante gli anni della
leva trovò il tempo per dedicarsi allo studio dell'intero Organon di
Aristotele. Ottenne il dottorato in filosofia presso l'Università Cattolica di
Milano con una tesi dal titolo I primi principi in Duns Scoto. Presupposti e
corollari. Nell'ateneo milanese, dove Boccanegra frequentava la cerchia dei
neo-tomisti radunatisi attorno a Gustavo Bontadini, gli venne offerta la
cattedra di filosofia teoretica che lui, tuttavia, rifiutò. In quegli anni
scrisse e divulgò le sue idee alternative sulla rivista filosofica Vita e
Pensiero. Entrò a far parte dell'Ordine Domenicano a San Domenico di Fiesole
con il nome religioso di frà Alberto, che lo accompagnò di lì in poi anche in
occasione della pubblicazione delle sue opere.
Entrò al Pontificio Ateneo Angelicum di Roma per lo studio delle materie
filosofiche e teologiche dove discusse la sua tesi dottorale in filosofia (De
dynamismo entis) e ottenne il lettorato in teologia grazie al suo Fundamenta
metaphisica, tractatus de Deo secundum S. Thomam. Ordinato sacerdote a San
Marco di Firenze non abbandonò più il convento di San Domenico di Fiesole. Attività filosofica, teologica e critica
Boccanegra lasciò per sempre incompiuto il suo trattato dottorale in teologia,
ma nel 1969 pubblicò comunque una esauriente sintesi del suo pensiero su vari
numeri della rivista filosofica “Sapienza”. Fu per anni vice direttore della
Commissione per la traduzione della Somma Teologica di Tommaso d'Aquino in
Italiano presieduta da Tito Centi. Gli imponenti schemi riassuntivi sono
consultabili nei 35 volumi editi dalle ESD di Bologna. Degne di nota furono le
sue corpose introduzioni alla Summa di d'Aquino pubblicate in più
edizioni. Neotomista, è considerato da
alcuni filosofo metafisico per altro tra i più rilevanti, mentre altri lo
ricordano tra i teologi cattolici di spicco. La sua attività preferita
tuttavia, fu l'insegnamento e la divulgazione. Negli anni settanta Professoreè
professore di filosofia al Pontificio Ateneo Angelicum di Roma. Di tale corso
ci restano le dispense dal titolo: Frammenti di metafisica iniziale. Per più di
vent'anni ha insegnato filosofia e teologia nello Studio Teologico Accademico
Bolognese e nello Studio Teologico Fiorentino.
Migliaia di pagine manoscritte sono conservate dopo la sua morte
nell'archivio conventuale di San Domenico di Fiesole. Fu autore di
pubblicazioni ed articoli filosofici comparsi o recensiti su riviste italiane
ed internazionali. Fu confessore
ricercato soprattutto dai giovani. Nonostante una malattia che lo ha
accompagnato e provato per quasi tutta la vita costringendolo a cure costanti,
riusciva quotidianamente a fare escursioni per diversi chilometri. Quando negli
ultimi anni le sue forze non gli permisero di continuare la ricerca, si dedicò
alla preghiera costante, sia di giorno che di notte. Saggi e pubblicazioni La beatitudine Gli atti
umani, Edizioni Studio Domenicano, 1985 La prova radicale dell'esistenza di Dio
e i suoi rapporti con l'antropologia, Osservazioni sul fondamento della
moralità, Pluralismo teologico di «tolleranza» o di «diritto»?, Circa la
relazione di G. Bontadini, La persona umana centro della metafisica
tomistica, Nome di battesimo. Angelo Belloni, Biografia di Alberto
Boccanegra, Ordine dei frati predicatori Domenicani, Provincia Romana di S.
Caterina da Siena, luglio Relatore
Amato Masnovo. Alberto Boccanegra,
L'uomo in quanto persona centro della metafisica tomista, su
“Sapienza”,Boccanegra, “La Somma teologica”,
VIII, La Beatitudine; Gli Atti umani, Giuseppe Del Re, The cosmic dance:
science discovers the mysterious harmony of the universe, Templeton, Barzaghi,
Diario di metafisica. Concetti e digressioni sul senso dell'essere, Volume 3,
Studio Domenicano, Giovanni Cavalcoli, Enrico Maria Radaelli, La questione
dell'eresia in Rahner. Archiviato in., articolo uscito su «Divinitas», anno LI,
n. 3, III quadrimestre 2008. Alberto
Boccanegra, L'uomo in quanto persona centro della metafisica tomista, su
"Sapienza", Boccanegra, Il rinnovamento metodologico
nell'insegnamento della filosofia, "Revue internationale de
philosophie", Edizioni L'homme et la moraleOrigine et sources de la morale
thomisteÉlaboration de la théologie comme science dans l'œuvre de saint Thomas,
"Revue thomiste", recensione, Saint-Maximin (France), École de
théologie pour les missions"Revista nacional de cultura", recensione,
Edizioni 173-178, Ministerio de Educación, Instituto Nacional de Cultura y
Bellas Artes, Biografie Biografie
Cattolicesimo Cattolicesimo Filosofo del
XX secoloTeologi italiani Venezia FiesoleDomenicani italiani. Alberto
Boccanegra. Boccanegra. Keywords: esperienza. The Swimming-Pool Library.
Grice
e Bocchi – solidarii – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “Bocchi is a good one;
and Bocchi is a good one – Gianluca Bocchi is a curator who lives in a Roman
palazzo and whose expertise is ‘natura morta.’ Gianluca Bocchi is also a
philosopher of science – as he calls it – My favourite piece by Bocchi is about
collective thinking, -- solidarieta – Surely when I wrote ‘In defense of a
dogma’ with my tutee we were being solidary with each other, and we own each
sentence – collective thinking --.” Grice: “I could have called my desideratum
the principle of conversational solidarity – I am thinking of course Butler in
mind, and the whole bit is to see why (if at all – cf. Stalnaker) an
utilitarian justification is insufficient, and we need recourse to Kant!” -- Gianluca
Bocchi «La nostra età non ha soltanto
vissuto l'esperienza della relatività da ogni punto di vista. Ha fatto
soprattutto l'esperienza dell'incompiutezza di ogni punto di vista. La
contingenza, la singolarità e l'irripetibilità di ogni punto di vista sono
condizioni indispensabili per avere accesso al mondo, per dialogare con gli
altri punti di vista, per creare nuovi mondi»
«Per noi, raccogliere la sfida della complessità significa considerare
la scienza una via importante per riannodare i legami con le altre tradizioni,
per riscoprire con interesse i loro significati profondi, per esplorare la
varietà delle esperienze cognitive, emotive, estetiche, spirituali della specie
umana» «Il nostro continente è sempre
stato sede di migrazioni, di interazioni, di contrasti e di conflitti fra
popoli e stirpi differenti, e questa diversità di radici è un elemento
integrante dei suoi sviluppi passati e presenti.» Niente fonti! Questa voce o sezione
sull'argomento filosofi italiani non cita le fonti necessarie o quelle presenti
sono insufficienti. Puoi migliorare questa voce aggiungendo citazioni da fonti
attendibili secondo le linee guida sull'uso delle fonti. -- Gianluca Bocchi (n.
Milano), filosofo. Gianluca Bocchi È un filosofo della scienza e della storia,
esperto di scienze biologiche ed evolutive, di storia globale, di storia
urbana, di geopolitica, di storia delle idee, delle culture, delle lingue. Ha
fra l'altro introdotto in Italia, con Mauro Ceruti, le tematiche concernenti le
scienze dei sistemi complessi e la connessa epistemologia della complessità,
contribuendo altresì alla loro diffusione a livello internazionale. Pubblicazioni Disordine e costruzione. Un'interpretazione
epistemologica dell'opera di Jean Piaget (con Mauro Ceruti), Milano,
Feltrinelli, Modi di pensare postdarwiniani. Saggio sul pluralismo evolutivo
(con Mauro Ceruti), Bari, Dedalo, La sfida della complessità (con Mauro
Ceruti), Milano, Feltrinelli, 1985, (nuova edizione con nuova introduzione,
Milano, Bruno Mondadori, 2007). Un nouveau commencement (con Edgar Morin e
Mauro Ceruti), Seuil, Paris, L'Europa nell'era planetaria (con Edgar Morin e
Mauro Ceruti), Milano, Sperling and Kupfer, 1991. Origini di storie (con
Ceruti), Milano, Feltrinelli, The Narrative Universe, NJ, Hampton Press; tr.
spagnola El sentido de la historia, Editorial Débate, Madrid; tr. portoghese
Origens e Historias, Instituto Piaget, Lisbona). La formazione come costruzione
di nuovi mondi, Roma, Formez-Censis, Solidarietà o barbarie. L'Europa delle
diversità contro la pulizia etnica (a cura di, con Mauro Ceruti), Milano,
Raffaello Cortina, Le radici prime dell'Europa. Gli intrecci genetici,
linguistici, storici (a cura di, con Mauro Ceruti), Milano, Bruno Mondadori,
Origini della scrittura. Genealogie di un'invenzione (a cura di, con Mauro
Ceruti), Milano, Bruno Mondadori, Educazione e globalizzazione (con Mauro
Ceruti), Milano, Raffaello Cortina, Una e molteplice. Ripensare l'Europa (con
Mauro Ceruti), Milano, Tropea, Le città di Berlino (con Laura Peters), Bologna,
Bononia University Press, Le vie della
formazione. Creatività, innovazione, complessità (con Francesco Varanini),
Milano, Guerini,. L'Europa globale. Epistemologie delle identità, Roma,
Studium,, Borderscaping: Imaginations
and Practices of Border Making (a cura di, con Chiara Brambilla, Jussi Laine,
James W. Scott), Farnham (Surrey, UK), Ashgate,. Note Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti, Origini di
storie, Prefazione, Milano, Feltrinelli, Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti, La
sfida della complessità, Introduzione alla nuova edizione, Milano, Bruno
Mondadori, Gianluca Bocchi, L'Europa globale. Epistemologie delle identità,
Mille anni d'Europa, fra globale e locale, Roma, Studium, gianlucabocchi. 10
aprile (archiviato dall'url originale).
CE.R.CO, su cercounibg. Filosofia Filosofo Professore Milano. Oddly, my
favourite Bocchi philosopher is Francesco Bocchi! Keywords: solidarii, Francesco
Bocchi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bocchi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Bodei – geometria delle passioni
– filosofia sarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cagliari). Filosofo Italiano. Grice: “Bodei is a
good one; of course he is sardo -- my favourite of his tracts is one on
‘condivisione’ and ‘beni communi’ – which is what my conversational pragmatics
is all about --; he has also philosophised on the tricky Grecian concept of
‘harmony’, and the very charming Roman concept of ‘con-cordia’ – and he has
explored the diagogic form of philosophy in his historical analysis of ‘la
dialettica,’ – he has explored ‘ragione,’ vis-à-vis what he calls the
‘geometria delle passioni,’ and he has also shed light on the univocity or lack
thereof of ‘virtu cardinali” – virtue is unitary, but some virtues are more
unitary than others!” Grice: “Bodei has explored ‘coraggio,’ and other
virtues.” – “In his geometry of passions, he sheds light on Plato’s convoluted
idea that in my head I have the reason of a man; in my heart I have the will of
a lion-like warrior, and in my gut I have the love of a multi-headed monster!”
-- Essential Italian philosopher. Remo
Bodei (n. Cagliari) filosofo e accademico italiano. Laureato all'Pisa,
perfezionò la sua preparazione teoretica e storico-filosofica a Tubinga e
Friburgo, frequentando le lezioni di Ernst Bloch ed Eugen Fink; a Heidelberg,
con Karl Löwith e Dieter Henrich; poi all'Bochum. Conseguì inoltre il diploma
di licenza e il diploma di perfezionamento della Scuola Normale
Superiore. Fu visiting professor presso le Cambridge, Ottawa, New York,
Toronto, Girona, Città del Messico, UCLA (Los Angeles) e tenne conferenze in
molte università europee, americane e australiane. Comitato redazionale
della rivista Laboratorio politico. Dal 1995 collaborava con Massimo
Cacciari, Massimo Donà, Giuseppe Barzaghi, Salvatore Natoli e Stefano Zamagni
nell’iniziativa La filosofia nei luoghi del silenzio, un tentativo di coniugare
filosofia e contemplazione nella forma del ritiro comunitario. Docente di
ruolo in Filosofia alla UCLA di Los Angeles, dopo aver a lungo
insegnato Storia della filosofia ed Estetica alla Scuola Normale Superiore
e all'Pisa, dove continuò a tenere, sia pur saltuariamente, qualche
corso. Era anche membro dell'Advisory Board internazionale dello
IEDIstituto Europeo di Design. Dal 13 novembre Remo Bodei fu socio corrispondente
dell'Accademia dei Lincei, per la classe di Scienze Morali, Storiche e
Filosofiche. Era marito della storica Gabriella Giglioni. I suoi
libri sono stati tradotti in molte lingue. Pensiero Si interessò a fondo
della filosofia classica tedesca e dell'Idealismo, esordendo con la
fondamentale monografia Sistema ed epoca in Hegel, dopo aver già tradotto in
italiano l'importante Hegels Leben (Vita di Hegel) di Johann Karl Friedrich
Rosenkranz. Appassionato cultore della poesia hölderliniana, all'autore
dell'Hyperion dedicò saggi di notevole interesse. Con il volume Geometria delle
passioni estese la sua meditazione anche a protagonisti della filosofia moderna
come Cartesio, Hobbes e soprattutto Spinoza. Studioso del pensiero utopistico
del Novecento, in particolare del marxismo eterodosso di Ernst Bloch e di
autori 'francofortesi' come Theodor Adorno e Walter Benjamin, intervenne nella
discussione sulla filosofia politica italiana, confrontandosi e dialogando in
particolare con Norberto Bobbio, Michelangelo Bovero, Salvatore Veca e Nicola
Badaloni. Nei suoi studi sull'estetica curò l'edizione dell'Estetica del brutto
di Johann Karl Friedrich Rosenkranz e analizzò in particolare concetti centrali
come le categorie del bello e del tragico. Costante la sua attenzione per
Sigmund Freud e gli sviluppi della psicoanalisi, per le logiche del delirio e
per fenomeni in apparenza quotidiani ma sconvolgenti come l'esperienza del déjà
vu. Filosofo di una ragione laica, sulla scia di Ernst Bloch, autore di Ateismo
nel cristianesimo, cercò di distillare anche nel teorico del compelle intrare,
Agostino d'Ippona, le possibili linee di un "ordo amoris" capace di
assicurarci quell'identità in cui, come vuole il Padre della Chiesa, saremmo
noi stessi pienamente: dies septimus, nos ipsi erimus ("il settimo giorno
saremo noi stessi"). Premio Nazionale Letterario Pisa Sezione
Saggistica. Bodei inoltre curò la traduzione e l'edizione italiana di
testi di Hegel, Karl Rosenkranz, Franz Rosenzweig, Ernst Bloch, Theodor Adorno,
Siegfried Kracauer, Michel Foucault. Molti suoi lavori hanno per oggetto
lo spessore e la storia delle domande che riguardano la ricerca della felicità
da parte del singolo, le indeterminate attese collettive di una vita migliore,
i limiti che imprigionano l'esistenza e il sapere entro vincoli politici,
domestici e ideali. Già in Scomposizioni, affrontò alcuni temi della genealogia
dell'uomo contemporaneo e propose la metafora della geometria variabile per
indagare le strutture concettuali ed espositive che, contraendosi o
espandendosi sino a noi, orientano la percezione e la formulazione di problemi.
La sua analisi dell'interazione di queste configurazioni mobili proseguì in
Geometria delle passioni (1e in Destini personali che hanno avuto rilevante
successo di pubblico. Alla divulgazione dell'amore per la filosofia
dedicò alcune conferenze e un libro (Una scintilla di fuoco). Negli
ultimi tempi stava lavorando sulla storia e sulle teorie della memoria.
Citazioni «Ciascuno di noi vive nell'immaginazione altre vite, alimentate dai
testi letterari e dai media. Per loro tramite tenta di porre rimedio alla
limitatezza della propria esistenza. (citato in Corriere della sera, )»
«Malgrado i ripetuti annunci è certo che la filosofia, al pari dell'arte, non è
affatto 'morta'. Essa rivive anzi a ogni stagione perché corrisponde a bisogni
di senso che vengono continuamentee spesso inconsapevolmenteriformulati. A tali
domande, mute o esplicite, la filosofia cerca risposte, misurando ed esplorando
la deriva, la conformazione e le faglie di quei continenti simbolici su cui
poggia il nostro comune pensare e sentire» (Remo Bodei, La filosofia nel
Novecento, Roma, Donzelli, Nel passato il progresso delle civiltà umane era
relativo, sottoposto a cicli naturali di distruzioni e di rinascite, che ne
spezzavano periodicamente il consolidamento e la crescita» (Remo Bodei,
Limite, Il Mulino) Opere Sistema ed epoca in Hegel, Bologna, Il Mulino, La
civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel, Bologna, Il Mulino,. Hegel e
Weber. Egemonia e legittimazione, (con Franco Cassano), Bari, De Donato,
Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch, Napoli, Bibliopolis, Scomposizioni.
Forme dell'individuo moderno, Torino, Einaudi, Riedizione ampliata, Bologna, Il
Mulino,. Hölderlin: la filosofia y lo trágico, Madrid, Visor, Ordo amoris.
Conflitti terreni e felicità celeste, Bologna, Il Mulino, Geometria delle
passioni. Paura, speranza e felicità: filosofia e uso politico, Milano,
Feltrinelli, Le prix de la liberté, Paris, Éditions du Cerf, Le forme del
bello, Bologna, Mulino,. La filosofia nel Novecento, Roma, Donzelli, Se la
storia ha un senso, Bergamo, Moretti & Vitali, La politica e la felicità
(con Luigi Franco Pizzolato), Roma, Edizioni Lavoro, Il noi diviso. Ethos e
idee dell'Italia repubblicana, Torino, Einaudi, Le logiche del delirio.
Ragione, affetti, follia, Roma-Bari, Laterza, I senza Dio. Figure e momenti
dell'ateismo, Brescia, Morcelliana, Il dottor Freud e i nervi dell'anima.
Filosofia e società a un secolo dalla nascita della psicoanalisi, Roma,
Donzelli, Destini personali. L'età della colonizzazione delle coscienze, Milano,
Feltrinelli, Delirio e conoscenza, Remo Bodei, in Il Vaso di Pandora, Dialoghi
in psichiatria e scienze umane, Una scintilla di fuoco. Invito alla filosofia,
Bologna, Zanichelli, Piramidi di tempo. Storie e teoria del déjà vu, Bologna,
Il Mulino, 2006. Paesaggi sublimi. Gli uomini davanti alla natura selvaggia,
Milano, Bompiani, Il sapere della follia, Modena, Fondazione Collegio San Carlo
per FestivalFilosofia, 2008. Il dire la verità nella genealogia del soggetto
occidentale in A.A. V.V., Foucault oggi, Milano, Feltrinelli, 2008. La vita
delle cose, Roma-Bari, Laterza, Ira. La passione furente, Bologna, Il Mulino,.
Beati i miti, perché avranno in eredità la terra (con Sergio Givone), Torino,
Lindau,. Immaginare altre vite. Realtà, progetti, desideri, Milano,
Feltrinelli,. Limite, Bologna, Il Mulino,. Le virtù Cardinali (con Giulio
Giorello, Michela Marzano e Salvatore Veca), Roma-Bari, Laterza,. Dominio e
sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale, Bologna,
Il Mulino,. Onorificenze Grand'Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica
Italiana.nastrino per uniforme ordinaria Grand'Ufficiale dell'Ordine al merito
della Repubblica Italiana. Di iniziativa del Presidente della Repubblica.
Cavaliere dell'Ordine delle Palme Accademichenastrino per uniforme ordinaria
Cavaliere dell'Ordine delle Palme Accademiche immagine del nastrino non ancora
presente Cittadino onorario di Siracusa, Modena, Carrara e Roccella Jonica.
Note È morto il filosofo Remo Bodei, su
fanpage, 7 novembre. Repubblica
18/08/ Albo d'oro, su
premionazionaleletterariopisa. onweb. 7 novembre. «Bodei Prof. Remo: Grande Ufficiale Ordine al
Merito della Repubblica Italiana», sito della presidenza della repubblica.
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Remo Bodei, su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. Opere di Remo Bodei,.
Pubblicazioni di Remo Bodei, su Persée, Ministère de l'Enseignement
supérieur, de la Recherche et de l'Innovation.
Registrazioni di Remo Bodei, su RadioRadicale, Radio Radicale. Remo Bodei: Spinoza, un filosofo maledetto,
sul RAI Filosofia, su filosofia.rai.
Scheda del professor Bodei nel sito del Dipartimento di filosofia dell'Pisa, su
fls.unipi. V D M Vincitori del Premio Dessì Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi
italiani del XXI secoloAccademici italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1938 3 agosto 7 novembre Cagliari PisaAccademici
dei LinceiAccademici italiani negli Stati Uniti d'AmericaProfessori della
Scuola Normale SuperioreProfessori dell'Università della California, Los
AngelesProfessori dell'PisaStudenti dell'Pisa. Bodei. Keywords: geometria delle
passioni, filosofia sarda, I concordati, Concordia, armonia, condivisio. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice e Bodei," per
Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria,
Italia.
Grice e Boezio: -- classico -- Grice: “Boezio is possibly my favourite Italian
philosopher, only that he wasn’t really Italian – he found Vittorino’s Latin translation
from the Grecian urn of Aristotle ‘rough,’ and provided a ‘newish’ one – but
actually Vittorino had better intuitions about the lingo than Boezio did – and
that is why Strawson preferred to tutor with the Vittorino translation – we
covered all that Boezio wrote – and we never used the Patrologia edition, since
we are protestant!” -- Possibly the most important Italian philosopher of all
time. Grice loved Boethius“He made
Aristotle intelligible at Clifton!” -- Anicius Manlius Severinus, Roman philosopher
and Aristotelian translator and commentator. He was born into a wealthy
patrician family in Rome and had a distinguished political career under the
Ostrogothic king Theodoric before being arrested and executed on charges of
treason. His logic and philosophical theology contain important contributions
to the philosophy of the late classical and early medieval periods, and his
translations of and commentaries on Aristotle profoundly influenced the history
of philosophy, particularly in the medieval Latin West. His most famous work,
The Consolation of Philosophy, composed during his imprisonment, is a moving
reflection on the nature of human happiness and the problem of evil and
contains classic discussions of providence, fate, chance, and the apparent
incompatibility of divine foreknowledge and human free choice. He was known
during his own lifetime, however, as a brilliant scholar whose knowledge of the
Grecian language and ancient Grecian philosophy set him apart from his Latin
contemporaries. He conceived his scholarly career as devoted to preserving and
making accessible to the Latin West the great philosophical achievement of
ancient Greece. To this end he announced an ambitious plan to translate into
Latin and write commenbodily continuity Boethius, Anicius Manlius Severinus
taries on all of Plato and Aristotle, but it seems that he achieved this goal
only for Aristotle’s Organon. His extant translations include Porphyry’s
Isagoge an introduction to Aristotle’s Categories and Aristotle’s Categories,
On Interpretation, Prior Analytics, Topics, and Sophistical Refutations. He
wrote two commentaries on the Isagoge and On Interpretation and one on the
Categories, and we have what appear to be his notes for a commentary on the
Prior Analytics. His translation of the Posterior Analytics and his commentary
on the Topics are lost. He also commented on Cicero’s Topica and wrote his own
treatises on logic, including De syllogismis hypotheticis, De syllogismis
categoricis, Introductio in categoricos syllogismos, De divisione, and De
topicis differentiis, in which he elaborates and supplements Aristotelian
logic. Boethius shared the common Neoplatonist view that the Platonist and
Aristotelian systems could be harmonized by following Aristotle in logic and
natural philosophy and Plato in metaphysics and theology. This plan for
harmonization rests on a distinction between two kinds of forms: 1 forms that
are conjoined with matter to constitute bodies
these, which he calls “images” imagines, correspond to the forms in
Aristotle’s hylomorphic account of corporeal substances; and 2 forms that are
pure and entirely separate from matter, corresponding to Plato’s ontologically
separate Forms. He calls these “true forms” and “the forms themselves.” He
holds that the former, “enmattered” forms depend for their being on the latter,
pure forms. Boethius takes these three sorts of entities bodies, enmattered forms, and separate
forms to be the respective objects of
three different cognitive activities, which constitute the three branches of
speculative philosophy. Natural philosophy is concerned with enmattered forms
as enmattered, mathematics with enmattered forms considered apart from their
matter though they cannot be separated from matter in actuality, and theology
with the pure and separate forms. He thinks that the mental abstraction
characteristic of mathematics is important for understanding the Peripatetic
account of universals: the enmattered, particular forms found in sensible
things can be considered as universal when they are considered apart from the
matter in which they inhere though they cannot actually exist apart from
matter. But he stops short of endorsing this moderately realist Aristotelian
account of universals. His commitment to an ontology that includes not just
Aristotelian natural forms but also Platonist Forms existing apart from matter
implies a strong realist view of universals. With the exception of De fide
catholica, which is a straightforward credal statement, Boethius’s theological
treatises De Trinitate, Utrum Pater et Filius, Quomodo substantiae, and Contra
Euthychen et Nestorium show his commitment to using logic and metaphysics,
particularly the Aristotelian doctrines of the categories and predicables, to
clarify and resolve issues in Christian theology. De Trinitate, e.g., includes
a historically influential discussion of the Aristotelian categories and the
applicability of various kinds of predicates to God. Running through these
treatises is his view that predicates in the category of relation are unique by
virtue of not always requiring for their applicability an ontological ground in
the subjects to which they apply, a doctrine that gave rise to the common
medieval distinction between so-called real and non-real relations. Regardless
of the intrinsic significance of Boethius’s philosophical ideas, he stands as a
monumental figure in the history of medieval philosophy rivaled in importance
only by Aristotle and Augustine. Until the recovery of the works of Aristotle
in the mid-twelfth century, medieval philosophers depended almost entirely on
Boethius’s translations and commentaries for their knowledge of pagan ancient
philosophy, and his treatises on logic continued to be influential throughout
the Middle Ages. The preoccupation of early medieval philosophers with logic
and with the problem of universals in particular is due largely to their having
been tutored by Boethius and Boethius’s Aristotle. The theological treatises
also received wide attention in the Middle Ages, giving rise to a commentary
tradition extending from the ninth century through the Renaissance and shaping
discussion of central theological doctrines such as the Trinity and
Incarnation. «Nulla è più
fugace della forma esteriore, che appassisce e muta come i fiori di campo
all'apparire dell'autunno.» (Boezio, citato da Umberto Eco ne Il nome
della rosa) Severino Boezio Boetius.png Magister officiorum del Regno Ostrogoto
Durata mandatosettembre 522 – agosto MonarcaTeodorico il Grande Console del
Regno Ostrogoto Durata mandato510 Monarca Teodorico il Grande
PredecessoreFlavio Importuno SuccessoreMagno Felice Flavio Secondino Senatore
romano Durata mandato510 – settembre 524 Dati generali Professionefilosofo San
Severino Boezio Fl Boetio (Flavio Boezio) - Studiolo di Federico da
MontefeltroFl Boetio (Flavio Boezio) - Studiolo di Federico da
Montefeltro Padre della Chiesa Martire NascitaRoma,
MortePavia, Venerato da Tutte le Chiese che ammettono il culto dei santi
Ricorrenza23 ottobre Attributipalma Manuale Anicio Manlio Torquato Severino
Boezio (in latino: Anicius Manlius Torquatus Severinus Boethius; Roma, – Pavia,
è stato un filosofo e senatore romano. Inter latinos aristotelis
interpretes et aetate primi, et doctrina praecipui dialectica, 1547. Da BEIC,
biblioteca digitale Noto come Severino Boezio, o anche solo come Boezio, con le
sue opere ha avuto una profonda influenza sulla filosofia cristiana del
Medioevo, tanto che alcuni lo collocarono tra i fondatori della Scolastica[1].
Fu principale collaboratore del re Teodorico, ricoprendo la carica di magister
officiorum. Boezio, nel clima di rilancio della cultura che la pace rese
possibile durante il regno del re goto, concepì l'ambizioso progetto di
tradurre in latino le opere di Platone e di Aristotele. Teodorico, nei suoi
ultimi anni, divenne sospettoso di tradimenti e congiure, e Severino venne
imprigionato a Pavia e giustiziato. Papa Leone XIII ne approvò il culto
per la Chiesa in Pavia, che ne custodisce i resti nella basilica di San Pietro
in Ciel d'Oro e lo festeggia il 23 ottobre[2].Discendeva da una nobile
famiglia, i cui membri avevano avuto carriere prestigiose. Suo padre fu
probabilmente Manlio Boezio, prefetto del pretorio d'Italia, due volte prefetto
di Roma e console nel 487; probabilmente suo nonno fu il Boezio prefetto del
pretorio sotto Valentiniano III, ed è verosimile che fosse imparentato col
Severino console nel 461 e col Severino Iunior console nel Boezio era anche
imparentato con la nobile e antica gens Anicia (gens a cui apparteneva san Gregorio
Magno e san Benedetto da Norcia), oltre che con lo scrittore Magno Felice
Ennodio.Alla morte del padre fu affidato ad una nobile famiglia romana,
probabilmente quella di Quinto Aurelio Memmio Simmaco, la cui figlia Rusticiana
Boezio sposerà intorno al 495; la coppia ebbe due figli, Boezio e Simmaco, che
proseguirono la tradizione di famiglia di ricoprire ruoli prestigiosi
diventando entrambi consoli nel 522. L'evento fondante della vita
politica di Boezio fu la vittoria (493) del re degli Ostrogoti Teodorico il
Grande su Odoacre, re degli Eruli e sovrano d'Italia; fu l'inizio del regno
degli Ostrogoti sull'Italia (con Ravenna come capitale e Pavia e Verona come
sedi reali) e della difficile convivenza tra questi e la popolazione romana.
Boezio studiò alla scuola di Atene, retta dallo scolarca Isidoro di
Alessandria, dove si insegnavano soprattutto Aristotele e Platone insieme con
le quattro scienze fondamentali per la comprensione della filosofia platonica,
l'aritmetica, la geometria, l'astronomia e la musica; qui conobbe forse il
giovane e futuro grande commentatore di Aristotele, Simplicio. S'iniziava con
lo studio della logica aristotelica, preceduta dall'introduzione, l'Isagoge, di
Porfirio; è il piano che Boezio seguirà nel compito che un giorno vorrà
assumersi di tradurre in latino, commentare e accordare i due pensatori
greci. Al periodo intorno al 502 si fa risalire l'inizio della sua
attività letteraria e filosofica: scrisse i trattati del quadrivio, le quattro
scienze fondamentali del tempo, il De institutione arithmetica, il De
institutione musica e i perduti De institutione geometrica e De institutione
astronomica. Qualche anno dopo tradusse dal greco in latino e commentò
l'Isagoge di Porfirio, un'introduzione alle Categorie di Aristotele, che avrà
un'enorme diffusione nei secoli a venire. La sua erudizione era ben nota
e apprezzata: nel 507 Teodorico lo interpellò riguardo alla richiesta ricevuta
dal re burgundo Gundobado per un orologio ad acqua, e menzionò la sua
conoscenza del greco e la sua opera di traduzione dal greco al latino;[4]
quello stesso anno Teodorico consultò Boezio riguardo a un suonatore di lira,
richiestogli dal sovrano franco Clodoveo I, in quanto era al corrente della
conoscenza della teoria musicale da parte dell'erudito romano. La fama così
ottenuta gli procurò il rango di patricius
e la nomina al consolato sine collega da parte della corte imperiale di
Costantinopoli, carica biennale che gli dà diritto a un seggio permanente nel
Senato romano. Da questi anni fino al 520 tradusse e commentò le
Categorie e il De interpretatione di Aristotele, scrisse il trattato teologico
Contra Eutychen et Nestorium, il perduto commento ai Primi Analitici di
Aristotele, un De syllogismis categoricis, un De divisione, gli Analytica posteriora,
un De hypotheticis syllogismis, la traduzione, perduta, dei Topica di
Aristotele e un commento ai Topica di Cicerone. Partecipò ai dibattiti
teologici del tempo: compose il De Trinitate, dedicato al nonno Simmaco,
l'Utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter
praedicentur, il Quomodo substantiae in eo quod sint bonae sint, cum non sint
substantialia sint. L'interesse di Boezio e di molta parte del patriziato
romano per i problemi teologici che avevano il loro centro soprattutto in
Oriente, con i dibattiti sull'arianesimo, misero in allarme Teodorico, che
sospettava un'intelligenza politica della classe senatoria romana con l'Impero,
la cui ostilità verso i Goti ariani era sempre stata appena malcelata.
Appena terminati i De sophisticis elenchis, perduti, e i De differentiis
topicis, Boezio fu chiamato alla corte di Teodorico, per discutere della non
facile convivenza fra gli elementi gotici e italici della popolazione. Nel 522
i suoi due figli ebbero l'onore del consolato; in tale occasione Boezio
pronunciò un panegirico in onore di Teodorico di fronte al Senato romano.[6]
Nel settembre di quello stesso anno fu nominato magister officiorum, carica che
tenne fino all'agosto successivo, e Boezio stesso elenca tra gli atti che compì
in tale carica, come l'aver impedito ad alcuni militari ostrogoti di vessare i
deboli, l'aver osteggiato la pesante tassazione che gravava sulla Campania in
periodo di carestia, l'aver salvato le proprietà di Paolino, l'aver difeso da
un processo ingiusto l'ex-console Albino;[7] proprio quest'ultima azione causò
la caduta in disgrazia di Boezio, e la composizione della sua opera più
famosa. Era infatti accaduto che a Pavia il referendarius Cipriano aveva
sequestrato alcune lettere dirette alla corte di Bisanzio, in base alle quali
Cipriano accusò il nobile romano Albino di complottare ai danni di Teodorico.
Boezio difese Albino, affermando che le accuse di Cipriano erano false, e che
se Albino era colpevole, allora lo erano anche Boezio stesso e tutto il
Senato.[8] Gli furono avanzate delle nuove accuse fondate su sue lettere, forse
falsificate, nelle quali Boezio avrebbe sostenuto la necessità di «restaurare
la libertà di Roma»; fu allora sostituito nella sua carica da Cassiodoro e, nel
settembre 524, incarcerato a Pavia con l'accusa di praticare arti magiche; qui
ebbe inizio la composizione della sua opera più nota, il De consolatione
philosophiae. La tomba di Severino Boezio nella Basilica di San
Pietro in Ciel d'Oro a Pavia. Boezio fu giudicato a Roma da un collegio di
cinque senatori, estratti a sorte, presieduto dal praefectus urbi Eusebio.
Questi, nell'estate del 525, notificò la sentenza di condanna a morte di
Boezio, che fu ratificata da Teodorico ed eseguita presso Pavia, nell'Ager
Calventianus, una località che non si è potuta identificare con certezza.
Secondo alcuni studiosi, l'Ager Calventianus sarebbe da identificare con la
scomparsa località di Calvenza, presso Villaregio dove, nel XIX secolo, venne
scoperta una grande epigrafe del VI secolo, ora conservata nei Musei Civici di
Pavia, che fu forse la lastra tombale di Boezio[9]. Lo storico bizantino
Procopio racconta che, poco dopo l'esecuzione di Boezio e Simmaco, a Teodorico
fu servito un pesce di sproporzionate dimensioni nella cui testa gli parve di
vedere il teschio del secondo che lo fissava minaccioso. Sconvolto da ciò,
Teodorico si ammalò e morì poco dopo in preda ad allucinazioni e rimorsi.
Un'altra leggenda post mortem di Boezio narra che un cavallo nero si presentò
da Teodorico, che volle a forza montarlo. Il cavallo, insensibile alle redini,
iniziò a correre con il cavaliere incollato alla sella, finché arrivò al
Vesuvio, nel cratere del quale rovesciò Teodorico. Severino Boezio ebbe
due mogli. La prima fu la poetessa siciliana Elpide, morta nel 504. La seconda
fu Rusticiana.[10] Il pensiero di Boezio Le discipline filosofiche
Boezio e l'Aritmetica in un manoscritto tedesco del XV secolo Boezio
insegna agli studenti, miniatura, 1385 Consapevole della crisi della cultura
latina del suo tempo, Boezio avvertì la necessità di tramandare e conservare le
conoscenze elaborate nel mondo greco. Data alla filosofia la definizione di
amore della sapienza, da lui intesa come causa della realtà e perciò
sufficiente a sé stessa, la filosofia, come amore di quella, è anche amore e
ricerca di Dio, che è la sapienza assoluta. La filosofia è conoscenza di tre
tipi di esseri. Gli intellettibili - termine tratto da Mario Vittorino - sono
gli esseri immateriali, concepibili solo dall'intelletto, senza l'ausilio dei
sensi, come Dio, gli angeli, le anime; il ramo della filosofia che di questi si
occupa è propriamente la teologia. Gli intelligibili sono invece gli
esseri presenti nelle realtà materiali, le quali sono percepite dai sensi ma
quelli sono concepibili dall'intelletto: gli intelligibili sono dunque gli
intellettibili in forma materiale. La natura è infine oggetto della fisica,
suddivisa in sette discipline: quelle del quadrivium - aritmetica, geometria,
musica e astronomia - e del trivium - grammatica, logica e retorica. Le scienze
del quadrivio sono per Boezio i quattro gradi che portano alla sapienza: il
quadrivio «deve essere percorso da coloro la cui mente superiore può essere
sollevata dalla sensazione naturale agli oggetti più sicuri dell'intelligenza».
La prima delle discipline del quadrivio, «il principio e la madre» delle altre
è, per Boezio, l'aritmetica; il De institutione arithmetica, scritta intorno al
505 e dedicata al suocero Simmaco, è ripresa dall'Introduzione all'Aritmetica di
Nicomaco di Gerasa. Nel suo De institutione musica, la cui fonte sono gli
Elementi armonici di Tolomeo e un'opera perduta di Nicomaco, distingue tre
generi di musica: una musica cosmica, mundana, che non è percepibile dall'uomo
ma deve derivare dal movimento degli astri, dal momento che l'universo, secondo
Platone, è strutturato sul modello degli accordi musicali, la cui armonia è
fondata sull'equilibrio dei quattro elementi presenti in natura - acqua, aria,
terra e fuoco; una musica humana, espressione della mescolanza, nell'uomo,
dell'anima e del corpo e derivante dal rapporto fra l'elemento fisico e
l'elemento intellettuale e pertanto percepibile con un'attività di
introspezione in noi stessi; la musica ha una profonda influenza sulla vita
umana: è l'armonia dell'uomo con sé stesso e di sé con il mondo. Infine, esiste
naturalmente la musica pratica, strumentale, musica instrumentis constituta,
ottenuta dalle vibrazioni degli strumenti e dalla voce. Le altre due opere di
geometria e di astronomia, tratte dagli Elementi di Euclide e dall'Almagesto di
Tolomeo, sono andate perdute. La logica L'acquisizione delle discipline
del trivium - grammatica, retorica e logica - è utile per esprimere al meglio
la conoscenza che già si possiede. La logica di Boezio è in sostanza un
commento della logica di Aristotele, dal momento che egli segue l'Isagoge, il
commento alla logica aristotelica del neoplatonico Porfirio, che Boezio conobbe
dapprima nella traduzione latina di Vittorino e poi direttamente dal testo
greco di Porfirio, oltre a tradurre le Categorie e il De interpretatione di
Aristotele. Le categorie, secondo Aristotele, sono i diversi significati che i
termini (όροι) usati in una discussione possono assumere; un medesimo vocabolo
- per esempio uomo - può significare un uomo reale, l'uomo in generale, un uomo
rappresentato in una scultura; per evitare confusioni, al termine
"uomo", che è una categoria sostanza, aggiungendo altre nove
categorie, ossia colore, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, situazione,
stato, azione e passione, un discorso, che ha per soggetto la sostanza
"uomo", sarà chiaramente individuato. Al soggetto sostanza si
possono unire dei predicati, distinti da Aristotele in cinque modi diversi: il
genere, la specie, la differenza, la proprietà e l'accidente. Il genere è il
predicato più generale di un soggetto: al soggetto "Socrate"
appartiene allora il genere "animale" e, caratterizzando più in
particolare con l'indicare la specie come sottoclasse del genere, si potrà dire
che Socrate è un animale di specie "uomo". Le sostanze
"prime", quelle che indicano le cose, gli oggetti sensibili, esistono
di per sé, secondo Aristotele, mentre il genere e la specie sono indicate da
Aristotele come sostanze "seconde", e non è chiaro se esse esistano
di per sé. A questo proposito «non dirò», scrive Porfirio, «riguardo ai generi
e alle specie, se siano sostanze esistenti per sé, o se siano semplici
pensieri; se siano realtà corporee o incorporee; se siano separate dai sensibili
ovvero poste in essi. Poiché questa è impresa molto ardua, che ha bisogno di
più vaste indagini». Boezio in un manoscritto medievale. Allo
stesso modo Boezio si pone il problema se i generi e le specie siano realtà
esistenti di per sé, come esistono realmente i singoli individui, e se, in
questo caso, siano realtà spirituali o materiali e, se materiali, esistano in
unione con le realtà sensibili o se siano separate; oppure, non esistendo di
per sé, se siano semplici categorie dello spirito umano che le abbia concepite
per necessità di linguaggio. La risposta di Boezio è che «Platone ritiene
che i generi, le specie e gli altri universali non siano soltanto conosciuti
separatamente dai corpi, ma che esistano e sussistano indipendentemente da
quelli; invece Aristotele pensa che gli incorporei e gli universali sono sì
oggetto di conoscenza, ma che non sussistono che nelle cose sensibili. Quale di
queste opinioni sia la vera, io non ho avuto l'intenzione di decidere, perché è
compito di più alta filosofia. Noi abbiamo deciso di seguire l'opinione di
Aristotele, non perché l'approviamo totalmente ma perché questo libro l'Isagoge
di Porfirio è scritto seguendo le Categorie di Aristotele». Tuttavia
Boezio dà una risposta al problema degli universali, prendendola da Alessandro
d'Afrodisia: il pensiero umano è in grado di separare dagli oggetti sensibili
nozioni astratte, come quelle di "animale" e di "uomo";
anche se il genere e la specie non potessero esistere separati dal corpo, non
per questo ci è impedito di pensarli separatamente da esso. I cinque
predicabili o universali, se non sono delle sostanze, come vuole Aristotele,
sono allora dei concetti (intellectus): «uno stesso soggetto è universale
quando lo si pensa ed è singolare quando lo si coglie con i sensi nelle cose»;
platonicamente, egli riafferma così l'esistenza di oggetti propri della mente
che non possono essere conosciuti sensibilmente. Boezio non riprende la teoria
aristotelica dell'intelletto agente, che spiegherebbe come sia possibile al
pensiero separare ciò che è unito: nel suo commento all'Isagoge questa
operazione di astrazione resta inspiegata ma verrà ripresa, in diversa forma,
nel De consolatione philosophiae. Sono quattro gli scritti boeziani che
trattano di questioni teologiche: il Contra Eutychen et Nestorium, o De persona
et duabus naturis in Christo, dedicato a un diacono Giovanni, che potrebbe
essere il futuro papa Giovanni I, fu composto nel 512 come contributo al
controverso dibattito sulla persona e sulla natura, umana e divina, di Cristo.
Eutiche sosteneva l'esistenza in Cristo di una natura divina in una persona
divina, mentre Nestorio, sostenendo l'identità di persona e natura, sosteneva
che Cristo avesse avuto due nature, una divina e una umana e perciò anche due
persone, una divina e una umana. Boezio si preoccupa innanzi tutto di chiarire
i significati delle parole, affinché non si creino contrasti dovuti a semplici
fraintendimenti. Distingue tre diversi significati del termine «natura»,
natura come «predicato di tutte le cose esistenti», natura come «predicato di
tutte le sostanze corporee e incorporee» e natura come «differenza specifica
che dà forma a qualsiasi realtà»; definisce poi con "persona" una
«sostanza individua di natura razionale» riferibile agli uomini, agli angeli e
a Dio. Scrive infatti (Contra Eutychen, 2, 3): «la persona non si può mai
applicare agli universali, ma soltanto ai particolari e agli individui: non
esiste infatti la persona dell'uomo in genere o dell'uomo in quanto animale.
Pertanto se la persona appartiene soltanto alle sostanze e soltanto a quelle
razionali, se ogni natura è una sostanza, e se la persona sussiste non negli
universali ma soltanto negli individui, essa si può così definire: "la
sostanza individua di natura razionale"». Ma Boezio non pretende di
aver dato una parola definitiva sulla controversia: occorre che sia «il
linguaggio ecclesiastico a scegliere il nome più adatto»; per quello che lo
riguarda, egli dichiara di non essere «tanto vanitoso da anteporre la mia
opinione a un giudizio più sicuro. Non è in noi la sorgente del bene e nelle
nostre opinioni non vi è nulla che dobbiamo preferire a ogni costo; da Colui
che solo è buono derivano tutte le cose veramente buone». Intorno al 518 fu
composto il De hebdomadibus, o Ad eundem quomodo substantiae in eo quod sint,
bonae sint, cum non sint substantialia sint, ossia In che modo le sostanze
siano buone in quel che sono, pur non essendo beni sostanziali, ove Boezio
distingue, nell'ente, l'essere e il «ciò che è» l'id quod est, ciòe il soggetto
individuale che possiede l'essere: per Boezio «l'essere non è ancora, ma ciò
che ha ricevuto la forma dell'essere, quello è e sussiste». Stabilito che
«tutto ciò che è tende al bene», si pone il problema se possano definirsi buoni
gli enti finiti, la cui essenza non è la bontà; distingue allora i beni che
sono tali in sé dai «beni secondi», ossia quelli che lo sono in quanto
partecipano della bontà, per giungere alla conclusione che anche il «bene
secondo» è buono, essendo «scaturito da quello il cui essere stesso è buono»,
ossia dal primo Essere che è anche e necessariamente il primo Bene. Nel De
sancta Trinitate o Quomodo trinitas unus Deus, uno scritto successivo al 520,
si pone il problema se a Dio, come a tutte le persone della Trinità, si
applichino le categorie della logica, e se dunque siano una sostanza e se sia
possibile che abbiano degli attributi; lo stesso tema, in forma sintetica, è
espresso nell'Ad Johannem diaconum utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de
divinitate substantialiter praedicentur. Il De consolatione
philosophiae La consolazione della filosofia, miniatura del 1485.
Boezio in prigione, miniatura, 1385. Scritta durante la carcerazione, i cinque
libri del De consolatione si presentano come un dialogo nel quale la Filosofia,
personificata da «una donna di aspetto oltremodo venerabile nel volto, con gli
occhi sfavillanti e acuti più della normale capacità umana; di colorito vivo e
d'inesausto vigore, benché tanto avanti con gli anni da non credere che potesse
appartenere alla nostra epoca», dimostra che l'afflizione patita da Boezio per
la sventura che lo ha colpito non ha in realtà bisogno di alcuna consolazione,
rientrando nell'ordine naturale delle cose, governate dalla Provvidenza
divina. Si può dividere l'opera in due parti, una costituita dai primi
due libri e l'altra dagli ultimi tre. È una distinzione che corrisponde a
quanto raccomandato dallo stoico Crisippo nella cura delle afflizioni: quando
l'intensità della passione è al culmine, prima di ricorrere ai rimedi più
efficaci, occorre attendere che essa si attenui. Così infatti si esprime la
Filosofia (I, VI, 21): «siccome non è ancora il momento per rimedi più
energici, e la natura della mente è tale che, respingendo le vere opinioni,
subito si riempie di errori, dai quali nasce la caligine delle perturbazioni
che confonde l'intelletto, io cercherò di attenuare a poco a poco questa
oscurità in modo che, rimosse le tenebre delle passioni ingannevoli, tu possa
conoscere lo splendore della luce vera». Una medicina leggera, «qualcosa
di dolce e di piacevole che, penetrato al tuo interno, apra la strada a rimedi
più efficaci», è la comprensione della natura della fortuna, esposta nel II
libro utilizzando temi della filosofia stoica ed epicurea. La fortuna (II, I,
10 e segg.) «era sempre la stessa, quando ti lusingava e t'illudeva con le
attrattive di una felicità menzognera se l'apprezzi, adeguati ai suoi
comportamenti, senza lamentarti. Se aborrisci la sua perfidia, disprezzala
[...] ti ha lasciato colei dalla quale nessuno può essere sicuro di non essere
abbandonato ti sforzi di trattenere la ruota della fortuna, che gira
vorticosamente? Ma, stoltissimo fra tutti i mortali, se si fermasse, non
sarebbe più lei». Del resto, quello che la fortuna ci dà, saremo noi stessi a
doverlo abbandonare in quell'ultimo giorno della nostra vita che (II, III, 12)
«è pur sempre la morte della fortuna, anche della fortuna che dura. Che
importanza credi allora che abbia, se sia tu a lasciarla morendo, o se sia lei
a lasciarti, fuggendo?». Se dunque ci rende infelice tanto il suo
abbandono durante la nostra vita, quanto il fatto che, morendo, dobbiamo
abbandonare i doni che quella ci ha elargito in vita, allora la nostra felicità
non può consistere in quei doni effimeri, in cose mortali, e neppure nella
gloria, nel potere e nella fama, ma deve essere dentro noi stessi. Si tratta
allora di conoscere «l'aspetto della felicità vera», dal momento che ciascuno
(III, II, 1) «per vie diverse, cerca pur sempre di giungere a un unico fine,
che è quello della felicità. Tale fine consiste nel bene: ognuno, una volta che
l'abbia ottenuto, non può più desiderare altro». Dimostrato che (III, IX, 2)
«con le ricchezze non si ottiene l'autosufficienza, non la potenza con i regni,
non con le cariche il rispetto, non con la gloria la fama, né la gioia con i
piaceri», tutti beni imperfetti, occorre determinare la forma del bene
perfetto, «questa perfezione della felicità». Ora, il bene perfetto, il
«Sommo Bene», è Dio, dal momento che, secondo Boezio, sviluppando una
concezione neoplatonica (III, X, 8) «la ragione dimostra che Dio è buono in
modo da poterci convincere che in lui vi è anche il bene perfetto. Se infatti
non fosse tale, non potrebbe essere l'origine di ogni cosa; vi sarebbe altro,
migliore di lui, in possesso del bene perfetto, a lui precedente e più
prezioso; è chiaro che le cose perfette precedono quelle imperfette. Pertanto,
per non procedere all'infinito col ragionamento, dobbiamo ammettere che il
sommo Dio sia del tutto pieno del bene sommo e perfetto; ma s'era stabilito che
il bene perfetto sia la vera felicità: dunque la vera felicità è posta nel
sommo Dio». Nel IV libro (I, 3) Boezio pone il problema di come «pur
esistendo il buon reggitore delle cose, i mali esistano comunque ed siano
impuniti e non solo la virtù non venga premiata ma sia persino calpestata dai
malvagi e punita al posto degli scellerati». La risposta, secondo lo schema
platonico, della Filosofia, è che tutti, buoni e malvagi, tendono al bene; i
buoni lo raggiungono, i malvagi non riescono a raggiungerlo per loro propria
incapacità, mancanza di volonta, debolezza. Perché infatti i malvagi (IV, II,
31 - 32) «abbandonata la virtù, ricercano i vizi? Per ignoranza di ciò che è
bene? Ma cosa c'è di più debole della cecità dell'ignoranza? Oppure sanno cosa
cercare ma il piacere li allontana dalle retta via? Anche in questo caso si
dimostrano deboli, a causa dell'intemperanza che impedisce loro di opporsi al
male? oppure abbandonano il bene consapevolmente e si volgono al vizio? Ma
anche così cessano di essere potenti e cessano persino di essere del tutto».
Infatti il bene è l'essere e chi non raggiunge il bene è privo necessariamente
dell'essere: dell'uomo ha solo la parvenza: «tu potresti chiamare cadavere un
uomo morto, ma non semplicemente uomo; così, i viziosi sono malvagi ma nego che
essi siano in senso assoluto». Nel quinto e ultimo libro Boezio tratta il
problema della prescienza e provvidenza divina e del libero arbitrio. Definito
il caso (I, I, 18) «un evento inaspettato prodotto da cause che convergono in cose
fatte per uno scopo determinato», per Boezio il concorrere e confluire di
quelle cause è «il prodotto di quell'ordine che, procedendo per inevitabile
connessione, discende dalla provvidenza disponendo le cose in luoghi e in tempi
determinati». Il caso, dunque, non esiste in sé stesso, ma è l'evento di cui
gli uomini non riescono a stabilire le cause che lo hanno determinato. È
compatibile allora il libero arbitrio dell'uomo con la presenza della
prescienza divina e a cosa dovrebbe servire pregare che qualcosa avvenga o
meno, se già tutto è stabilito? La risposta della Filosofia è che la previdenza
di Dio non dà necessità agli eventi umani: essi restano la conseguenza della
libera volontà dell'uomo anche se sono previsti da Dio. Ma questo stesso problema,
così posto dall'uomo, non è nemmeno corretto. Dio è infatti eterno, nel senso
che non è soggetto al tempo; per lui non esiste il passato e il futuro, ma un
eterno presente; il mondo, invece, anche se non avesse avuto nascita, sarebbe
perpetuo, ossia soggetto al mutamento e dunque soggetto al tempo; nel mondo
esiste pertanto un passato e un futuro. La conoscenza che Dio ha delle cose non
è a rigore un "vedere prima", una pre-videnza, ma una provvidenza, un
vedere nell'eterno presente tanto gli eventi necessari, come sono quelli
regolati dalle leggi fisiche, che gli eventi determinati dalla libera volontà
dell'uomo. La fortuna della Consolazione fu notevole per tutto il
Medioevo, così da fare del suo autore una delle fonti più autorevoli del
pensiero cristiano, per quanto l'opera si fondi sulle tradizioni stoiche e
soprattutto neoplatoniche; essa tuttavia si manifesta come ultima autorevole
affermazione della libertà del pensiero in complementarità con la fede espressa
in sue altre opere, come dimostra il fatto che Boezio non abbia mai citato
Cristo in un'opera di tale natura e composta a un passo dalla morte - tanto che
già nel X secolo il monaco sassone Bovo di Corvey dirà, a questo riguardo, che
nella Consolazione sembra che la Filosofia abbia scacciato Cristo. Allievo
della scuola neoplatonica di Atene, Boezio trovò negli insegnamenti della
classica tradizione neoplatonica esempi di direttiva morale pienamente
sufficienti rispetto a quanto poteva trovare nel Cristianesimo, del quale, non
a caso, come mostrano i suoi Opuscoli teologici, si occupò soltanto per
problemi relativi unicamente alla dogmatica e mai alla morale e al destino
dell'uomo. Lo stile La De Consolatione philosophiae è un esempio di
prosimetro, una composizione in cui la poesia si alterna alla prosa, secondo un
modello che viene fatto risalire al filosofo cinico Menippo di Gadara nel III
secolo a.C. e introdotto a Roma nel I secolo a.C. da Varrone; molto
probabilmente Boezio tenne presente il De nuptiis Mercurii et Philologiae di
Marziano Capella, opera di struttura analoga, composta circa un secolo prima.
Boezio, nelle opere precedenti, frutto di elaborazioni teologiche, di commenti
e di traduzioni, non si era preoccupato di dare dignità letteraria ai suoi
scritti; nella Consolazione ha voluto affermare la propria appartenenza alla
tradizione latina, con una trasparente imitazione del dialogo platonico
attraverso i modelli di Cicerone e di Seneca, così da porsi, nel versante sia
letterario che filosofico, come l'ultimo classico romano. Le opere
discusse A Boezio furono attribuite altre opere, come la De fide catholica o
Brevis fidei christianae complexio, che sembra appartenere a quel suo allievo
Giovanni nel quale si è voluto riconoscere Papa Giovanni I. Anche se ancora
oggi vi è discussione sull'attribuzione a Boezio, l'impostazione catechistica
dell'opera, che tratta delle verità essenziali del Cristianesimo, quali la
Trinità, il peccato originale, l'Incarnazione, la Redenzione e la Creazione,
porterebbero a escludere una paternità boeziana. Attribuita a Mario Vittorino
la De definitione e a Domenico Gundisalvo la De unitate et uno, resta tuttora
non definito l'autore della De disciplina scholarium, anch'essa attribuita a
suo tempo a Boezio. Culto La figura di Boezio fu molto stimata nel Medioevo.
Le sue vicissitudini avevano molte analogie con la vita di San Paolo,
ingiustamente imprigionato e martire. Il poeta Dante Alighieri nomina
Boezio nella Divina Commedia e nel Convivio, dove afferma (II, 12) di averne
iniziato gli studi quando, dopo la morte di Beatrice, si era dedicato alla
filosofia. Nel Paradiso di Dante, Boezio è uno degli spiriti sapienti del IV
Cielo del Sole (Par., X, 124-126), che formano la prima corona di dodici
spiriti in cui è presente anche san Tommaso d'Aquino. Dal Martirologio
Romano al 23 ottobre: "A Pavia, commemorazione di san Severino Boezio,
martire, che, illustre per la sua cultura e i suoi scritti, mentre era
rinchiuso in carcere scrisse un trattato sulla consolazione della filosofia e
servì con integrità Dio fino alla morte inflittagli dal re
Teodorico". Opere Le date di composizione sono tratte da Philip
Edward Phillips, "Anicius Manlius Severinus Boethius: A Chronology and
Selected Annotated Bibliography", in Noel Harold Kaylor Jr., & Philip
Edward Phillips, (a cura di), A Companion to Boethius in the Middle Ages,
Leiden, Brill, Opere matematiche De institutione arithmetica, adattamento delle
Introductionis Arithmeticae di Nicomaco di Gerasa. De Institutione musica -- si
basa su un'opera perduta di Nicomaco di Gerasa e sulla Harmonica di Tolomeo.
Opere logiche A) Traduzioni dal greco Porphyrii Isagoge (traduzione
dell'Isagoge di Porfirio) In Categorias Aristotelis De Interpretatione vel
Periermenias Interpretatio priorum Analyticorum (due versioni) Interpretatio
Topicorum Aristotelis Interpretatio Elenchorum Sophisticorum Aristotelis B)
Commenti a Porfirio, Aristotele e Cicerone In Isagogen Porphyrii commenta (due
versioni, la prima basata sulla traduzione di Gaio Mario Vittorino, la seconda
sulla sua traduzione. In Aristotelis Categorias, In librum Aristotelis de
interpretatione Commentaria minora, In librum Aristotelis de interpretatione
Commentaria majora, In Aristotelis Analytica Priora, Commentaria in Topica
Ciceronis (incompleta: manca la fine del sesto libro e tutto il settimo) Opere
originali De syllogismo cathegorico, De divisione, De hypotheticis syllogismis,
In Ciceronis Topica, De topicis differentiis, Introductio ad syllogismos
cathegoricos, Opuscola Sacra (trattati teologici), De Trinitate, Utrum Pater et
Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur (Se
"Padre" "Figlio" e "Spirito Santo", siano
predicati sostanzialmente della Divinità) Quomodo substantiae in eo quod sint
bonae sint cum non sint substantialia bona conosciuto anche col titolo De
Hebodmadibus (In che modo le sostanze siano buone in quel che sono, pur non
essendo beni sostanziali) De fide Catholica Contra Eutychen et Nestorium De
consolatione Philosophiae. Frammenti di un trattato sulla geometria sono
pubblicati in: Menso Folkerts (a cura di), Boethius' Geometrie II. Ein
mathematisches Lehrbuch des Mittelalters, Wiesbaden, Franz Steiner, Edizioni
Severino Boezio, Dialectica, Venetiis, apud Iuntas, Manlii Severini Boethii
Opera Omnia, Patrologiae cursus completus, Series latina, Anicii Manlii
Severini Boethii Opera, I-II, Turnholt
Anicius Manlius Severinus Boethius Torquatus, De consolatione
philosophiae. Opuscula theologica, ed. C. Moreschini, editio altera, Monachii –
Lipsiae. Delle consolazione della filosofia, Tradotto dalla Lingua Latina in
Volgar Fiorentino -- Varchi, Con Annotazioni a margine e Tavola delle cose più
segnalate. Si aggiunge la Vita dell'Autore..., in Venezia, presso Leonardo
Bassaglia, Venezia, La consolazione della Filosofia, traduzione di Umberto
Moricca, Firenze, Salani, Philosophiae consolatio, testo con introduzione e
trad. di Emanuele Rapisarda, Catania, Centro di Studi sull'antico
Cristianesimo, La consolazione della filosofia, traduzione di R. Del Re, Roma,
Edizioni dell'Ateneo, Trattato sulla divisione, traduzione di traduzione,
introduzione e commento di Lorenzo Pozzi, Padova, Liviana Editrice, De
hypotheticis syllogismis, testo latino, traduzione, introduzione e commento di
Luca Obertello, Brescia, Paideia, La consolazione della filosofia, introduzione
di Christine Mohrmann, trad. di Ovidio Dallera, Collana BUR, Milano, Rizzoli,
La Consolazione della filosofia. Gli Opuscoli teologici, traduzione di A.
Ribet, a cura di Luca Obertello, Collana Classici del pensiero, Milano,
Rusconi, De Institutione musica, testo e traduzione di Giovanni Marzi, Roma, La
consolazione della filosofia, a cura di Claudio Moreschini, Collezione Classici
Latini, Torino, POMBA, La consolazione di Filosofia, A cura di Maria Bettetini.
Traduzione di Barbara Chitussi, note di Giovanni Catapano. Testo latino a
fronte, Collana NUE, Torino, Einaudi, I valori autentici, a cura di M.
Jovolella, Collana Oscar Saggezze, Milano, Mondadori, La ricerca della felicità (Consolazione della
Filosofia III), A cura di M. Zambon, Collana Letteratura universale.Il
convivio, Venezia, Marsilio, Il De topicis differentiis di Severino Boezio, a
cura di Fiorella Magnano, Palermo, Officina di Studi Medievali, Le differenze
topiche. Testo latino a fronte, A cura di Fiorella Magnano, Collana Il pensiero
occidentale, Milano, Bompiani, Mondin, La prima Scolastica: Boezio, Cassiodoro,
Scoto Eriugena Martirologio romano,
citato in Severino Boezio, in Santi, beati e testimoni - Enciclopedia dei
santi, santiebeati. Ennodio, Epistole,
Cassiodoro, Variae, Cassiodoro, Variae, De consolatione philosophiae, De
consolatione philosophiae, Anonimo Valesiano, Il sepolcro di Boezio, su
academia.edu. Alessio Narbone, Sicola
sistematica o apparato metodico alla storia letteraria della Sicilia, Il libro
contiene una iniziale dedica a ""Cosimo De' Medici Gran Duca di
Toscana"", poi la ""VITA DI ANICIO MANLIO TORQUATO SEVERINO
BOEZIO scritta latinamente da Giulio Marziano Rota ed ora nuovamente
volgarizzata"", ed infine la traduzione in fiorentino ""
volgare fiorentina"" di Benedetto Varchi che traduce in italiano
anche le parti non in prosa con versi in rime alternate: ultima cosa curiosa,
alla fine ci sono due ''''Inni d'ELPIDE, Matrona Siciliana Consorte di
Boezio''''. Bibliografia «Anicius Manlius Severinus Boethius iunior 5», The
Prosopography of the Later Roman Empire, Baixauli, Boezio. La ragione
teologica, Milano, Chadwick, Boezio: la consolazione della musica, della
logica, della teologia e della filosofia, Bologna, Onofrio, Fons scientiae. La
dialettica nell'Occidente tardo antico, Napoli, A. de Libera, Il problema degli
universali da Platone alla fine del Medioevo, Firenze, Frigerio, “Sulla prima
scolastica medievale", Torino, Frigerio, Il pensiero teologico ed etico di
Severino Boezio, Torino Frigerio, Lo sviluppo filosofico della dottrina
cristiana dell'alto medioevo, Torino, M. T. Fumagalli Beonio Brocchieri e M.
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Severino Boezio (altra versione) / Severino Boezio (altra versione) / Severino
Boezio (altra versione) / Severino Boezio (altra versione) / Severino Boezio
(altra versione) / Severino Boezio (altra versione) / Severino Boezio (altra
versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Opere di Severino Boezio, su
Open Library, Internet Archive.Opere di Severino Boezio, su Progetto
Gutenberg.Audiolibri di Severino Boezio, su LibriVox.Severino Boezio, su
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du Moyen Âge.Severino Boezio, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton
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e cenni biografici del filosofo, su taozen. Opera Omnia, su
documentacatholicaomnia.eu. dal Migne, Patrologia Latina, con indici analitici.
De Arte Arithmetica libri duo, su daten.digitale-sammlungen.de. Manoscritto
conservato nella Biblioteca digitale di Monaco di Baviera. De institutione
Musica, su imslp.org. PredecessoreConsole romanoSuccessore Flavio Importuno,
sine college Flavio Arcadio Placido Magno Felice, Flavio Secondino V · D · M
Padri e dottori della Chiesa cattolica Severino Boezio Boetius.png
Magister officiorum del Regno Ostrogoto MonarcaTeodorico il Grande Console del
Regno Ostrogoto Durata mandato510 MonarcaTeodorico il Grande PredecessoreFlavio
Importuno SuccessoreMagno Felice Flavio Secondino Senatore romano. Dati
generali Professionefilosofo San Severino Boezio Fl Boetio (Flavio Boezio) -
Studiolo di Federico da MontefeltroFl Boetio (Flavio Boezio) - Studiolo di
Federico da Montefeltro Padre della Chiesa Martire NascitaRoma,
475/477 MortePavia, Venerato daTutte le Chiese che ammettono il culto dei santi
Ricorrenza23 ottobre Attributipalma ManualeInter latinos aristotelis
interpretes et aetate primi, et doctrina praecipui dialectica, 1547. Da BEIC,
biblioteca digitale. Boezio raffigurato col proprio suocero, Quinto Aurelio
Memmio Simmaco, nobile e letterato romano. Filosofia Portale Filosofia
Letteratura Portale Letteratura Lingua latina Portale Lingua latina Categorie:
Filosofi romaniSenatori romaniNati a RomaMorti a Pavia Anicii Consoli medievali
romani Filosofi Cristiani Filosofi giustiziati Martiri cristianiMagistri
officiorumPersonaggi citati nella Divina Commedia (Paradiso)Santi romani del VI
secoloTeorici della musica italianiTraduttori dal greco al latino[alter. Refs.: Boethiius, in Stanford Encyclopaedia. Luigi Speranza, "Grice e Boezio," per Il
Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Bollettino della Società filosofica
italiana. Cum sit necessarium, Chrisaorie, et ad eam quae
est apud Aristotelem praedicamentorum doctrinam nosse quid genus sit et quid
differentia quidque species et quid proprium et quid accidens, et ad
definitionum assignationem, et omnino ad ea quae in divisione vel
demonstratione sunt utilia, hac istarum rerum speculatione compendiosam tibi
traditionem faciens temptabo breviter velut introductionis modo ea quae ab
antiquis dicta sunt aggredi; altioribus quidem quaestionibus abstinens,
simpliciores vero mediocriter coniectans. Mox de generibus et speciebus
illud quidem sive subsistunt sive in solis nudis purisque intellectibus posita
sunt sive subsistentia corporalia sunt an incorporalia, et utrum separata an in
sensibilibus et circa ea constantia, dicere recusabo. Altissimum enim est
huiusmodi negotium et maioris egens inquisitionis. Illud vero quemadmodum
de his ac de propositis probabiliter antiqui tractaverint, et horum maxime
Peripatetici, tibi nunc temptabo monstrare. Videtur autem neque genus neque
species simpliciter dici. Genus enim dicitur et aliquorum quodammodo se
habentium ad unum aliquid et ad se invicem collectio, secundum quam
significationem Romanorum dicitur genus, ab unius scilicet habitudine -- dico
autem Romuli -- et multitudinis habentium aliquo modo ad invicem eam quae ab
illo est cognationem secundum divisionem ab aliis generibus
dictam. Dicitur autem et aliter rursus genus quod est uniuscuiusque
generationis principium vel ab eo qui genuit vel a loco in quo quis genitus
est. Sic enim Oresten quidem dicimus a Tantalo habere genus, Illum autem ab
Hercule, et rursus Pindarum quidem Thebanum esse genere, Platonem vero
Atheniensem; et enim patria principium est uniuscuiusque generationis
quemadmodum pater. Haec autem videtur promptissima esse significatio; Romani
enim qui ex genere descendunt Romuli, et Cecropidae qui ex genere descendunt
Cecropis et horum proximi. Et prius quidem appellatum est genus uniuscuiusque
generationis principium, dehinc etiam multitudo eorum qui sunt ab uno
principio; ut a Romulo, dividentes et ab aliis separantes, dicebamus omnem
illam collectionem esse Romanorum genus. Aliter autem rursus dicitur
genus, cui supponitur species ad horum fortasse similitudinem dictum. Etenim
principium quoddam est huiusmodi genus earum quae sub ipso sunt specierum,
videturque et omnem eam multitudinem continere quae sub ipso sunt
specierum. Tripliciter igitur cum genus dicatur, de tertio apud
philosophos sermo, quod etiam describentes assignaverunt, dicentes, genus esse
quod de pluribus et differentibus specie, in eo quod quid sit praedicatur, ut
animal. Eorum enim quae praedicantur alia quidem de uno dicuntur solo,
sicut individua sicut Socrates et hic et hoc, alia vero de pluribus,
quemadmodum genera et species et differentiae et propria, et accidentia
communiter sed non proprie alicui. Est autem genus quidem ut animal, species
vero ut homo, differentia autem ut rationale, proprium ut risibile, accidens ut
album, nigrum, sedere. Ab his ergo quae de uno solo praedicantur differunt
genera, eo quod haec de pluribus dicuntur. Ab his autem rursus quae de
pluribus, a speciebus quidem, quoniam species etsi de pluribus praedicentur,
non tamen de differentibus specie, sed numero: homo enim cum sit species, de
Socrate et Platone praedicatur, qui non specie a se invicem differunt, sed
numero. Animal vero cum sit genus, de homine, equo, et boue praedicatur, qui
differunt a se invicem specie, non numero solum. A proprio quoque differt
genus, quoniam proprium de una sola specie, cuius est proprium, praedicatur, et
de iis quae sub una specie sunt individuis, quemadmodum risibile de homine
solo, et de particularibus hominibus: genus autem non de una solum specie
praedicatur, sed de pluribus et differentibus. A differentia vero et ab iis
quae communiter sunt accidentia differt genus, quoniam etsi de pluribus et
differentibus specie praedicentur differentiae, et communiter accidentia, non
tamen in eo quod quid sit praedicantur, sed potius in eo quod quale est, et
quomodo se habet. Interrogantibus enim aliquibus quid est illud de quo
praedicantur haec? genus respondebimus: differentias autem et communiter et
accidentia non respondebimus. Non enim in eo quod quid est praedicantur de
subiecto, sed magis in eo quod quale sit. Interrogantibus enim qualis est homo?
dicimus rationalis, et qualis est corvus, dicimus niger. Est autem rationale,
differentia: nigrum vero, accidens. Quando autem quid est homo interrogamur,
animal respondemus: est autem genus hominis animal. Quare genus de pluribus
praedicari dividit ipsum ab iis quae de uno solo dicuntur, sicut individua; de
differentibus vero specie, separat eumdem ab iis quae sicut species
praedicantur, vel sicut propria: in eo autem quod quid sit praedicari, dividit
ipsum a differentiis et communiter accidentibus, quae singula non in eo quod
quid sit praedicatur, sed in eo quod quale est, vel quomodo se habet. Nihil
igitur neque superfluum, neque minus continet generis dicta descriptio. Species
autem dicitur quidem, et de uniuscuiusque forma, secundum quam dictum est:
primum quidem species digna est imperio: Dicitur autem species, et ea quae
est sub assignato genere, secundum quam solemus dicere, hominem quidem speciem
animalis, cum sit genus animal; album autem coloris speciem, triangulum vero
figurae speciem. Quod si etiam genus assignantes speciei meminimus, dicentes
quod de pluribus et differentibus specie in eo quod quid praedicatur, et
speciem dicimus id quod sub assignato genere ponitur. Nosse oportet quod
quoniam genus alicuius est genus, et species alicuius est species, idcirco
necesse est et in utrorumque rationibus utrisque uti. Assignant ergo et sic
speciem: Species est quae sub assignato genere ponitur, et de qua genus in eo
quod quid sit praedicatur. Amplius autem sic quoque: Species est quae de
pluribus et differentibus numero, in eo quod quid sit praedicatur; sed haec quidem
assignatio specialissimae est, et eius quae solum species est, non etiam genus:
aliae vero et non specialissimarum esse possunt. Planum autem erit quod dicitur
hoc modo: In unoquoque praedicamento sunt quaedam generalissima, et rursus alia
specialissima, et inter generalissima et specialissima sunt alia quae et genera
et species eadem dicuntur. Est autem generalissimum quidem supra quod non est
aliud aliquod superveniens genus. Specialissimum autem post quod non est alia
aliqua inferior species. Inter generalissimum autem et specialissimum, alia
sunt quae et genera et species sunt eadem, ad aliud tamen et aliud
sumpta. Sit autem manifestum in uno praedicamento quod dicitur substantia:
est quidem et ipsa genus, sub hac autem est corpus, et sub corpore animatum
corpus, sub quo animal: sub animali vero, rationale animal, sub quo homo: sub
homine vero, Socrates et Plato, et qui sunt particulares homines. Sed
horum substantia quidem, generalissimum est, et genus solum: homo vero
specialissimum, et solum species; corpus vero, species quidem est substantiae,
genus vero corporis animati, sed et animatum corpus, species quidem est
corporis, genus vero animalis. Rursus animal species quidem est corporis
animati, genus vero animalis rationalis, sed rationale animal, species quidem
est animalis, genus autem hominis: homo vero species est rationalis animalis,
non autem etiam genus particularium hominum, sed solum species. Ac omne quod
est ante individua proximeque de ipsis praedicatur, species erit solum, non
etiam genus. Quemadmodum igitur substantia cum suprema sit, eo quod nihil supra
eam sit, genus est generalissimum, sic et homo, cum sit species, postquam non
est alia species, neque aliquid eorum quae possunt dividi in species, sed solum
individua (individuum enim est Socrates et Plato, et hoc album), species erit
solum, et ultima species (et ut dictum est) specialissima: quae vero in medio
sunt, eorum quidem quae supra se sunt species erunt, eorum vero quae post
genera sunt, quare haec quidem duas habent habitudines, illam quae est ad
superiora, secundum quam species dicuntur esse ipsorum, et eam quae est ad
posteriora, secundum quam genera ipsorum esse dicuntur. Extrema vero habent
unam habitudinem, nam et generalissimum ad ea quae posteriora sunt, habet habitudinem,
cum genus sit omnium supremum: eam vero quae est ad superiora non habet, cum
sit supremum, et primum principium, et (ut diximus) supra quod non est aliud
superveniens genus: et specialissimum etiam unam habet habitudinem, ea quae est
ad superiora, quorum est species: eam vero quae est ad posteriora non diversam
habet sed eandem, nam et individuorum species dicitur. Sed species quidem
individuorum, velut ea continens, species vero superiorum, ut quae ab illis
contineatur. Determinant ergo generalissimum ita, quod cum genus sit non est
species: et rursus, supra quod non est aliud superveniens genus: specialissimum
vero, quod cum sit species, non est genus, et quod cum sit species, non amplius
in species dividere possumus, et hoc modo quod de pluribus et differentibus
numero, in eo quod quid sit, praedicatur. Ea vero quae sunt in medio
extremorum, subalterna vocantur genera et species, et unumquodque eorum species
esse potest et genus, ad aliud quidem, et ad aliud sumpta. Ea vero quae sunt
supra specialissima usque ad generalissimum ascendentia, vicissim genera
dicuntur et species, ut Agamemnon, Atrides, Pelopides, Tantalides, et ultimo
Iovis. Sed in familiis quidem plerumque reducuntur ad unum principium,
verbi gratia ad Iovem. In generibus autem et speciebus non sic se habet; neque
enim unum commune genus omnium est ens, nec omnia eiusdem generis sunt secundum
unum supremum genus, quemadmodum dicit Aristoteles, sed sint posita,
quemadmodum dictum est in praedicamentis, prima decem genera, quasi decem prima
principia. Et si omnia quis entia vocet, aequivoce inquit nuncupabit, non
univoce: si enim ens unum esset commune omnium genus, univoce omnia entia
dicerentur: cum vero sint decem prima, commune est ens secundum nomen solum,
non etiam secundum rationem, quae secundum entis nomen est. Decem quidem igitur
generalissima sunt, specialissima vero in numero quidem quodam sunt, non tamen
infinito. Individua autem quae sunt post specialissima, infinita sunt
quapropter usque ad specialissima a generalissimis descendentes iubebat Plato
quiescere. Descendere autem per media dividendo specificis differentiis,
infinita vero relinquenda suadet, neque enim eorum posse fieri disciplinam.
Descendentibus igitur ad specialissima necesse est, dividendo per multitudinem
ire, ascendentibus vero ad generalissima necesse est colligere multitudinem in
unum: collectivum enim multorum in unam naturam species est, et magis etiam
genus. Particularia vero et singularia e contrario, in multitudinem semper
dividunt id quod unum est, participatione enim speciei, plures homines, sunt
unus homo, in particularibus autem et singularibus, unus et communis, plures,
divisivum enim est semper quod singulare est, collectivum autem et adunativum
quod commune est. Assignato autem genere, specie quid sit utrumque, et
genere quidem uno existente, speciebus vero pluribus: semper enim divisio
generis in species plures est, genus quidem semper de speciebus praedicatur, et
omnia superiora de inferioribus, species autem neque de proximo sibi genere,
neque de superioribus, neque enim convertitur. Oportet enim aut aequa de aequis
praedicari, ut hinnibile de equo, aut maiora de minoribus, ut animal de homine,
minora vero de maioribus minime: nec enim animal dicis esse hominem,
quemadmodum dicis hominem animal. De quibus autem species praedicatur, de his
necessario et speciei genus praedicatur et generis genus, usque ad
generalissimum. Si enim verum est dicere: Socratem hominem, hominem autem
animal, animal vero substantiam, verum est Socratem animal dicere atque substantiam:
semper igitur cum superiora de inferioribus praedicentur, species quidem de
individuo praedicabitur, genus autem et de specie et de individuo;
generalissimum autem et de genere, et de generibus, si plura sunt media et
subalterna, et de specie, et de individuo: Dicitur enim generalissimum
quidem de omnibus sub se positis generibus et speciebus et individuis; genus
autem quod ante specialissimum est, de omnibus specialissimis et de individuis,
solum autem species de omnibus individuis, individuum autem praedicatur de uno
solo particulari. Individuum autem dicitur Socrates, et hoc album, et hic
veniens Sophronisci filius, si solus sit ei Socrates filius). Individua
autem dicuntur huiusmodi, quoniam ex proprietatibus consistit unumquodque
eorum, quarum collectio numquam in alio quolibet eadem erit. Socratis enim
proprietates nunquam in alioquo quolibet erunt particularium eaedem. Hae vero
quae sunt hominis proprietates: dico autem eius qui est communis, erunt eaedem
pluribus, magis autem in omnibus particularibus hominibus in eo quod homines
sunt. Continetur igitur individuum quidem sub specie, species autem sub genere.
Totum enim quidem est genus, individuum autem pars, species vero totum et pars:
sed pars quidem alterius, totum vero non alterius, sed in aliis. In partibus
enim totum est. De genere quidem et specie, et quid sit generalissimum, et
quid specialissimum, et quae genera, et species eadem sunt, et quae individua,
et quot modis genus et species dicatur, sufficienter dictum est. Differentia
vero communiter, proprie, et magis proprie dicitur. Communiter quidem differre
alterum ab altero dicitur, quoniam alteritate quadam differt quocunque modo,
vel a seipso vel ab alio; differt enim Socrates a Platone alteritate quadam, et
ipse a se puero iam vir factus, et a se faciente aliquid cum quiescit, et
semper in aliquo modo habendi se alteritatibus spectatur. Proprie autem
differre alterum ab altero dicitur, quando inseparabili accidente alterum ab
altero differt. Inseparabile vero accidens est, ut nasi curvitas, caesitas
oculorum, et cicatrix cum ex vulnere occalluerit. Magis autem proprie alterum
differre ab altero dicitur, quando specifica differentia differt, quemadmodum
homo ab equo specifica differentia differt rationali qualitate. Universaliter
ergo omnis differentia alteratum facit cuilibet adveniens, sed ea quae est
communiter et proprie, alteratum facit: illa autem quae est magis proprie,
aliud. Differentiarum enim, aliae quidem alteratum faciunt, aliae vero aliud.
Illae igitur quae faciunt aliud, specificae uocantur; illae vero quae
alteratum, simpliciter differentiae: animali enim rationalis differentia
adveniens aliud facit, et speciem animalis facit. Illa vero quae est movendi,
alteratum facit a quiescente. Quare haec quidem aliud, illa vero alteratum
solum facit. Secundum igitur aliud facientes differentias et divisiones
fiunt a generibus in species, et diffinitiones assignantur, quae sunt ex
genere, et huiusmodi differentiis: secundum autem eas quae solum alteratum
faciunt, alterationes solum consistunt, et aliquo modo se habentis
permutationes. A superioribus rursus inchoanti dicendum est,
differentiarum alias quidem esse separabiles, alias vero inseparabiles. Moveri
enim et quiescere, et sanum esse, et aegrum, et quaecunque his proxima sunt,
separabilia sunt. At vero aquilum esse, vel simum, vel rationale, vel
irrationale, inseparabilia sunt. Inseparabilium autem, aliae quidem sunt per
se, aliae vero per accidens; nam rationale per se inest homini, et mortale, et
disciplinae esse susceptibile. At vero aquilum esse vel simum, per accidens et
non per se. Illae igitur quae per se sunt, in ratione substantiae accipiuntur,
et faciunt aliud: illae vero quae secundum accidens, nec in substantiae ratione
accipiuntur, nec faciunt aliud, sed alteratum. Et illae quidem quae per se
sunt, non suscipiunt magis et minus: illae vero quae per accidens, et si
inseparabiles sint, intentionem accipiunt et remissionem: nam neque genus magis
et minus praedicatur de eo cuius est genus, neque generis differentiae, secundum
quas dividitur: ipsae enim sunt quae uniuscuiusque rationem complent: esse
autem unicuique unum et idem, nec intentionem nec remissionem suscipiens est,
aquilum autem vel simum esse, vel coloratum aliquo modo, et intenditur et
remittitur. Cum igitur tres species differentiae considerentur, et cum hae
quidem sint separabiles, illae vero inseparabiles, et rursus inseparabilium,
hae quidem sint per se, illae vero per accidens, et rursus earum quae per se
sint differentiarum, aliae quidem sunt, secundum quas dividimus genera in
species aliae vero secundum quas haec quae divisa sunt specificantur; ut, cum
per se differentiae omnes huiusmodi sint animalis, animati et sensibilis,
rationalis et irrationalis, mortalis et immortalis, ea quidem quae est animati
et sensibilis differentia, constitutiva est animalis substantiae: est enim
animal substantia animata sensibilis, ea vero quae est mortalis et immortalis
differentia, itemque rationalis et irrationalis, divisivae sunt animalis
differentiae, per eas enim genera in species dividimus. Sed hae quidem
quae divisivae sunt differentiae generum, completivae fiunt et constitutivae
specierum: dividitur enim animal rationali et irrationali differentia, et
rursus mortali et immortali differentia, sed ea quae sunt rationalis
differentiae et mortalis, constitutivae sunt hominis, rationalis vero et
immortalis, Dei: illae vero quae sunt irrationalis et mortalis, irrationabilium
animalium. Sic et suprema substantia, cum divisiva sit animati et inanimati
differentia, sensibili et insensibili, animata et sensibilis congregatae ad
substantiam, animal perfecerunt, animata vero et insensibilis perfecerunt
plantam. Quoniam ergo eaedem aliquo modo acceptae fiunt constitutivae,
aliquo modo autem divisivae, omnes specificae dicuntur: et his maxime opus est
ad divisiones generum et diffinitiones specierum, sed non his quae secundum
accidens inseparabiles, nec magis his, quae sunt separabiles. Quas etiam
determinantes dicunt: Differentia est qua abundat species a genere. Homo enim
ab animali plus habet rationale et mortale: animal enim ipsum nihil horum est,
nam unde haberent species differentias? nec enim omnes oppositas habet, namque
idem simul habebit oppositas, sed quemadmodum probant, potestate quidem habet
omnes differentias sub se, actu vero nullam. Et sic nec ex his quae non sunt,
aliquid fit, nec in eodem simul opposita erunt. Definiunt autem eam et hoc
modo: Differentia est quod de pluribus et differentibus specie in eo quod quale
sit praedicatur rationale enim et mortale, de homine praedicatum in eo quod
quale quiddam est homo dicitur sed non in eo quod quid est; "Quid
est" enim "homo?" interrogatis nobis conveniens est dicere
"Animal"; quale autem animal inquisiti, quoniam rationale et mortale
est convenienter assignabimus. Rebus enim ex materia et forma constantibus
vel ad similitudinem materiae specieique constitutionem habentibus (quemadmodum
statua ex materia est aeris, forma autem figura), sic et homo communis et
specialis ex materia quidem similiter consistit genere, ex forma autem
differentia, totum autem hoc animal rationale mortale homo est quemadmodum
illic statua. Describunt autem huiusmodi differentiam et hoc modo:
Differentia est quod aptum natum est dividere quae sub eodem sunt genere
rationale enim et irrationale hominem et equum, quae sub eodem sunt genere quod
est animal, dividunt. Assignant autem etiam hoc modo: Differentia est qua
differunt a se singula nam secundum genus non differunt; sumus enim mortalia
animalia et nos et irrationabilia sed additum rationabile separavit nos ab
illis; rationabiles sumus et nos et dii sed mortale appositum disiunxit nos ab
illis. Interius autem perscrutantes et speculantes differentiam, dicunt
non quodlibet eorum quae sub eodem sunt genere dividentium esse differentiam
sed quod ad esse conducit et quod eius quod est esse rei pars est; neque enim
quod aptum natum est nauigare erit hominis differentia, etsi proprium sit
hominis. Dicimus enim: animalium haec quidem apta nata sunt ad nauigandum, illa
vero minime dividentes ab aliis, sed aptum natum esse ad nauigandum non erat
completiuum substantiae nec eius pars sed aptitudo quaedam eius est (idcirco
quoniam non est talis quales sunt quae specificae dicuntur differentiae). Erunt
igitur specificae differentiae quaecumque alteram faciunt speciem et quaecumque
in eo quod quale est accipiuntur. Et de differentiis quidem ista
sufficiunt. Proprium vero quadrifariam dividunt. Nam et id quod soli
alicui speciei accidit, etsi non omni (ut homini medicum esse vel geometrem),
et quod omni accidit, etsi non soli (quemadmodum homini esse bipedem), et quod
soli et omni et aliquando (ut homini in senectute canescere), quartum vero in
quo concurrit et soli et omni et semper (quemadmodum homini esse risibile; nam,
etsi non ridet, tamen risibile dicitur, non quod iam rideat sed quod aptus
natus sit; hoc autem ei semper est naturale; et equo hinnibile). Haec autem
proprie propria perhibent, quoniam etiam convertuntur; quicquid enim equus, et
hinnibile, et quicquid hinnibile, equus. Accidens vero est quod adest et
abest praeter subiecti corruptionem. Dividitur autem in duo, in separabile et
in inseparabile; namque dormire est separabile accidens, nigrum vero esse
inseparabiliter coruo et Aethiopi accidit (potest autem subintellegi et corvus
albus et Aethiops amittens colorem praeter subiecti
corruptionem). Definitur autem sic quoque: Accidens est quod contingit
eidem esse et non esse uel: Quod neque genus neque differentia neque species
neque proprium, semper autem est in subiecto subsistens. Omnibus igitur determinatis
quae proposita sunt, dico autem genere, specie, differentia, proprio,
accidenti, dicendum est quae eis communia adsunt et quae propria. Commune
quidem omnibus est de pluribus praedicari; sed genus quidem de speciebus et de
individuis, et differentia similiter, species autem de his quae sub ipsa sunt
individuis, at vero proprium et de specie et cuius est proprium et de his quae
sub specie sunt individuis, accidens autem et de speciebus et de
individuis. Namque animal de equis et bubus et canibus praedicatur quae
sunt species, et de hoc equo et de hoc boue quae sunt individua; irrationale
vero et de equis et de bubus praedicatur et de his qui sunt particulares;
species autem, ut homo, solum de his qui sunt particulares praedicatur;
proprium autem, quod est risibile, de homine et de his qui sunt particulares;
nigrum autem et de specie coruorum et de his qui sunt particulares, quod est
accidens inseparabile; et moueri de homine et de equo, quod est accidens
separabile sed principaliter quidem de individuis, secundum posteriorem vero
rationem de his quae continent individua. Commune est autem generi et
differentiae continentia specierum; continet enim et differentia species, etsi
non omnes quot genera; rationale enim, etiam si non continet ea quae sunt
irrationabilia ut genus quemadmodum animal sed continet hominem et deum quae
sunt species. Et quaecumque praedicantur de genere ut genus, et de his quae sub
ipso sunt speciebus praedicantur; quaeque de differentia praedicantur ut
differentiae, et de ea quae ex ipsa est specie praedicabuntur. Nam, cum sit
genus animal, non solum de eo praedicantur ut genus substantia et animatum sed
etiam de his quae sunt sub animali speciebus omnibus praedicantur haec usque ad
individua; cumque sit differentia rationalis, praedicatur de ea ut differentia
id quod est ratione uti, non solum de eo quod est rationale sed etiam de his
quae sunt sub rationali speciebus praedicabitur ratione uti. Commune autem
est et perempto genere vel differentia simul perimi quae sub ipsis sunt; quemadmodum,
si non sit animal, non est equus neque homo, sic, si non sit rationale, nullum
erit animal quod utatur ratione. Proprium autem generis est de pluribus
praedicari quam differentia et species et proprium et accidens; animal enim de
homine et equo et aue et serpente, quadrupes vero de solis quattuor pedes
habentibus, homo vero videtur de solis individuis, et hinnibile de equo et de
his qui sunt particulares; et accidens similiter de paucioribus. Oportet autem
differentias accipere quibus dividitur genus, non eas quae complent substantiam
generis. Amplius genus continet differentiam potestate; animalis enim hoc
quidem rationale est, illud vero irrationale. Amplius genera quidem priora
sunt his quae sunt sub se positis differentiis propter quod simul quidem eas
aufert, non autem simul aufertur (sublato enim animali aufertur rationale et
irrationale), differentiae vero non auferunt genus (nam, si omnes interimantur,
tamen substantia animata sensibilis subintellegi potest quae est animal). Amplius
genus quidem in eo quod quid est, differentia vero in eo quod quale quiddam
est, quemadmodum dictum est, praedicatur. Amplius genus quidem unum est
secundum unamquamque speciem (ut hominis id quod est animal), differentiae vero
plurimae (ut rationale, mortale, mentis et disciplinae perceptibile) quibus ab
aliis differt. Et genus quidem consimile est materiae, formae vero
differentia. Cum autem sint et alia communia et propria generis et
differentiae, nunc ista sufficiant. Genus autem et species commune quidem
habent de pluribus (quemadmodum dictum est) praedicari; sumatur autem species
ut species et non etiam ut genus, si fuerit idem species et genus. Commune
autem his est et priora esse eorum de quibus praedicantur et totum quiddam esse
utrumque. Differt autem eo quod genus quidem continet species sub se,
species vero continentur et non continent genera; in pluribus enim genus quam
species est (genera enim praeiacere oportet et formata specificis differentiis
perficere species, unde et priora sunt naturaliter genera et simul interimentia
sed quae non simul interimantur). Et species quidem cum sit, est et genus,
genus vero cum sit non omnino erit et species. Et genera quidem univoce de
speciebus praedicantur, species vero de generibus minime. Amplius quidem
genera abundant earum quae sub ipsis sunt specierum continentia, species vero
generibus abundant propriis differentiis. Amplius neque species fiet
umquam generalissimum neque genus specialissimum. Generis autem et proprii
commune quidem est sequi species (nam, si homo est, animal est, et, si homo
est, risibile est), et aequaliter praedicari genus de speciebus et proprium de
his quae illo participant (aequaliter enim et homo et bos animal, et Cato et
Cicero risibile). Commune autem et univoce praedicari genus de propriis
speciebus et proprium quorum est proprium. Differt autem quoniam genus quidem
prius est, posterius vero proprium (oportet enim esse animal, dehinc dividi
differentiis et propriis). Et genus quidem de pluribus speciebus
praedicari, proprium vero de una sola specie cuius est proprium. Et proprium
quidem conversim praedicatur cuius est proprium, genus vero de nullo conversim
praedicatur (nam neque si animal est, homo est, neque si animal est, risibile
est; sin vero homo, et risibile est, et e converso). Amplius proprium omni
speciei inest cuius est proprium et uni et semper, genus vero omni quidem
speciei cuius fuerit genus et semper, non autem soli. Amplius species
quidem interemptae non simul interimunt genera, propria vero interempta simul
interimunt quorum sunt propria, et his quorum sunt propria interemptis et ipsa
simul interimuntur. Generis vero et accidentis commune est de pluribus
(quemadmodum dictum est) praedicari sive separabilium sit sive inseparabilium;
et enim moueri de pluribus, et nigrum de coruis et hominibus et Aethiopibus et
aliquibus inanimatis. Differt autem genus accidente quoniam genus ante
species est, accidentia vero speciebus inferiora sunt; nam si etiam
inseparabile sumatur accidens sed tamen prius est illud cui accidit quam
accidens. Et genere quidem quae participant aequaliter participant,
accidente vero non aequaliter; intentionem enim et remissionem suscipit
accidentium participatio, generum vero minime. Et accidentia quidem in
individuis principaliter subsistunt, genera vero et species naturaliter priora
sunt individuis substantiis. Et genera quidem in eo quod quid est praedicantur
de his quae sub ipsis sunt, accidentia vero in eo quod quale aliquid est vel
quomodo se habeat unumquodque; "Qualis est" enim "Aethiops?"
interrogatus dicis "Niger", et quemadmodum se Socrates habeat, dicis
quoniam sedet vel ambulat. Genus vero quo aliis quattuor differat dictum
est. Contingit autem etiam unumquodque aliorum differre ab aliis quattuor, ut,
cum quinque quidem sint, unum autem ab aliis quattuor differat, quater quinque
uiginti fiant omnes differentiae; sed, semper posterioribus enumeratis et
secundis quidem una differentia superatis (propterea quoniam iam sumpta est),
tertiis vero, duabus, quartis vero tribus, quintis vero quattuor, decem omnes
fiunt (quattuor, tres, duae, una). Genus enim differt differentia et specie et
proprio et accidenti; quattuor igitur sunt omnes differentiae. Differentia vero
quo differt genere dictum est quando quo differret genus ab ea dicebatur;
relinquitur igitur quo differat specie et proprio et accidente dicere, et fiunt
tres. Rursus species quo quidem differat a differentia dictum est quando quo
differret specie differentia dicebatur, quo autem differt species genere dictum
est quando quo differret genus specie dicebatur; reliquum est igitur ut quo
differat proprio et accidente dicatur; duae igitur etiam istae sunt
differentiae. Proprium autem quo differat accidente relinquitur, nam quo specie
et differentia et genere differt praedictum est in illorum ad ipsum
differentia. Quattuor igitur sumptis generis ad alia differentiis, tribus vero
differentiae, duabus autem speciei, una autem proprii ad accidens, decem erunt
omnes; quarum quattuor quae erant generis ad reliqua superius
demonstravimus. Commune ergo differentiae et speciei est aequaliter
participari; homine enim aequaliter participant particulares homines et
rationali differentia. Commune vero est et semper adesse his quae participant;
semper enim Socrates rationalis et semper Socrates homo. Proprium autem
differentiae quidem est in eo quod quale sit praedicari, speciei vero in eo
quod quid est; nam, et si homo velut qualitas accipiatur, non simpliciter erit
qualitas sed secundum id quod generi aduenientes differentiae eam
constituerunt. Amplius differentia quidem in pluribus saepe speciebus
consideratur (quemadmodum quadrupes in pluribus animalibus specie
differentibus), species vero in solis his quae sub specie sunt individuis
est. Amplius differentia prima est ab ea specie quae est secundum ipsam;
simul enim ablatum rationale interimit hominem, homo vero interemptus non
aufert rationale, cum sit deus. Amplius differentia quidem componitur cum
alia differentia (rationale enim et mortale compositum est in substantia
hominis), species vero speciei non componitur ut gignat aliquam aliam speciem
(quidam enim equus cuidam asino permiscetur ad muli generationem, equus autem
simpliciter asino numquam conveniens perficiet mulum). Differentia vero et
proprium commune quidem habent aequaliter participari ab his quae eorum
participant; aequaliter enim rationalia rationalia sunt et risibilia risibilia
sunt. Et semper et omni adesse commune utrisque est; sive enim curtetur
qui est bipes, non substantiam perimit sed ad quod natum est semper dicitur;
nam et risibile, eo quod natum est habet id quod est semper sed non eo quod
semper rideat. Proprium autem differentiae est quoniam haec quidem de
pluribus speciebus dicitur saepe ut rationale de homine et deo, proprium vero
in una sola specie cuius est proprium. Et differentia quidem illis est
consequens quorum est differentia sed non convertitur, propria vero conversim
praedicantur quorum sunt propria idcirco quoniam
convertuntur. Differentiae autem et accidenti commune quidem est de
pluribus dici, commune vero ad ea quae sunt inseparabilia accidentia semper et
omnibus adesse; bipes enim semper adest omnibus coruis, et nigrum esse
similiter. Differunt autem quoniam differentia quidem continet et non
continetur (continet enim rationalitas hominem), accidentia vero quodam quidem
modo continent eo quod in pluribus sint, quodam vero modo continentur eo quod
non unius accidentis susceptibilia sunt subiecta sed plurimorum. Et
differentia quidem inintendibilis est et inremissibilis, accidentia vero magis
et minus recipiunt. Et impermixtae quidem sunt contrariae differentiae, mista
vero contraria accidentia. Huiusmodi quidem communiones et proprietates
differentiae et caeterorum sunt. Species vero quo quidem differat a genere
et differentia dictum est in eo quod dicebamus quo genus differt caeteris et
quo differentia differret caeteris. Speciei autem et proprii commune est
de se invicem praedicari; nam, si homo, risibile est, et si risibile, homo est
(risibile vero quoniam secundum id quod natum est dicitur, saepe iam dictum
est); aequaliter enim sunt species his quae eorum participant et propria quorum
sunt propria. Differt autem species proprio quoniam species quidem potest
et aliis genus esse, proprium vero et aliarum specierum esse impossibile
est. Et species quidem ante subsistit quam proprium, proprium vero postea
fit in specie; oportet enim hominem esse ut sit risibile. Amplius species
quidem semper actu adest subiecto, proprium vero aliquando potestate; homo enim
semper actu est Socrates, non vero semper ridet quamuis sit natus semper risibilis.
Amplius quorum termini differentes, et ipsa sunt differentia; est autem speciei
quidem sub genere esse et de pluribus et differentibus numero in eo quod quid
est praedicari et caetera huiusmodi, proprii vero quod est soli et semper et
omni adesse. Speciei vero et accidentis commune quidem est de pluribus
praedicari; rarae vero aliae sunt communitates propterea quoniam plurimum a se
distant accidens et cui accidit. Propria vero utriusque sunt, speciei quidem in
eo quod quid est praedicari de his quorum est species, accidentis autem in eo
quod quale quiddam est vel aliquo modo se habens. Et unamquamque
substantiam una quidem specie participare, pluribus autem accidentibus et
separabilibus et inseparabilibus. Et species quidem ante subintellegi quam
accidentia vel si sint inseparabilia (oportet enim esse subiectum ut illi
aliquid accidat), accidentia vero posterioris generis sunt et aduenticiae
naturae. Et speciei quidem participatio aequaliter est, accidentis vero,
vel si inseparabile sit, non aequaliter; Aethiops enim alio Aethiope habebit
colorem vel intentum amplius vel remissum secundum nigritudinem. Restat
igitur de proprio et accidenti dicere; quo enim proprium specie et differentia
et genere differt, dictum est. Commune autem proprii et inseparabilis
accidentis est quod praeter ea numquam consistant illa in quibus considerantur;
quemadmodum enim praeter risibile non subsistit homo, ita nec praeter
nigredinem subsistit Aethiops. Et quemadmodum semper et omni adest
proprium, sic et inseparabile accidens. Differunt autem quoniam proprium
uni soli speciei adest (quemadmodum risibile homini), inseparabile vero
accidens, ut nigrum, non solum Aethiopi sed etiam coruo adest et carboni et
ebeno et quibusdam aliis. Quare proprium conversim praedicatur de eo cuius
est proprium et est aequaliter, inseparabile vero accidens conversim non
praedicatur. Et propriorum quidem aequalis est participatio, accidentium
vero haec quidem magis, illa vero minus. Sunt quidem etiam aliae
communitates vel proprietates eorum quae dicta sunt sed sufficiunt etiam haec
ad discretionem eorum communitatisque traditionem. Hiemantis anni tempore in
Aureliae montibus concesseramus atque ibi tunc, cum violentior auster eiecisset
noctis placidam atque exturbasset quietem, recensere libitum est ea ƿ quae
doctissimi viri ad illuminandas quodammodo res intellectus densitate
caliginantissimas quibusdam quasi introductoriis commentariis ediderunt. Eius
vero rei Fabius initium fecit, qui cum me lectulo recumbentem et quaedam super
eisdem rebus cogitantem meditantemque vidisset, hortatus est, ut, quod saepe
eram pollicitus, aliquam illi eius rei traderem disciplinatu. Complacitum est
igitur, quoniam tunc et familiarium salutationes et domestica negotia
cessabant. Interrogatus ergo a me super quibus vellet rebus enodare atque
expedire, tunc Fabius: Quoniam, inquit, tempus ad studia uacat et hoc otium in
honestum negotium converti licet, rogo ut mihi explices id quod Victorinus
orator sui temporis ferme doctissimus Porphyrii per Isagogen, id est per
introductionem in Aristotelis Categorias dicitur transtulisse. Et primum
didascalicis quibusdam me imbue, quibus expositores vel etiam commentatores, ut
discipulorum animos docibilitate quadam assuescant, utuntur. Tunc ego: Sex
omnino, inquam, Magistri in omni expositione praelibant. Praedocent enim quae
sit cuiuscumque operis intentio, quod apud illos skopou" vocatur;
secundum, quae utilitas, quod a Graecis crhusimon appellatur; tertium, qui
ordo, quod tauxin vocant; quartum, si eius cuius esse opus dicitur, germanus
propriusque liber est, quod gnhusion interpretari solent; quintum, quae sit
eius operis inscriptio, quod eipigrafhun Graeci nominant. In hoc etiam quod
intentionem cuiusque libri insollerter interpretarentur, de inscriptione quoque
operis apud quosdam minus callentes haesitatum est. Sextum est id dicere, ad
quam partem philosophiae cuiuscumque libri ducatur intentio quod Graeca
oratione dicitur eii" poi~on meuro" filosofiva" ainaugetai. Haec
ergo omnia in quolibet philosophiae libro quaeri convenit atque expediri. Tunc
Fabius quae esset introductionis intentio interrogavit. Et ego inquam:
Aristoteles, cui factus est introductionis pons, non aliter intellegi potest,
nisi ipsas res de quibus disputaturus est ad intellegentiam praeparemus. Videns
enim Porphyrius quod in rebus omnibus essent quaedam prima natura, ex quibus
omnia velut ex aliquo fonte manarent, et illa quae prima essent, et substantia
esse et generis vocabulo nuncupari; porro autem numquam esse genus posse, nisi
ei quaedam aliau subderentur, et quae essent subdita, species appellari; porro
autem numquam genus uni speciei genus esse posse sed pluribus; plures autem
species non posse esse multiplices, nisi eas aliqua discretio separaret -- si
enim nihil sibi dissimiles forent, una species, non multiplices viderentur;
illa igitur divisio et dissimilitudo specierum ƿ differentiae nomine vocitatur,
omnia vero quae aliqua re differunt, fieri aliter non potest, nisi quibusdam
propriis solitariisque naturis insignita sint. Atque haec hactenus -- videns
ergo quod omnis omnium disparilitas in gemina rerum principia secaretur, in
substantiam atque accidens, ita ut neque accidens sine substantia neque sine
accidenti substantia esse posset -- accidens quippe sine aliquo substantiae
fundamento esse non potest, substantia vero ipsa sine superiecto accidenti
videli nullo modo potest. Ut enim color sit, quod est accidens, in corpore
erit, quod est substantia. Porro autem cum corpus, id est substantiam videris,
insignitam eam accidenti, id est aliquo colore respicies. Itaque fit ut
neque substantia praeter accidens sit neque accidens a substantia relinquatur;
ubi enim substantia fait, mox accidens consecutum est -- speculatus igitur
Porphyrius in his duabus rebus, id est accidenti et substantia, genera,
species, propria differentiasque versari et quod ipsa per se sint genera
subiectis et subiacentibus speciebus, quae differentiis et propriis insignitae
sunt, statuit principaliter de genere, specie, differentia propriisque
tractare. Et quoniam tractatus hic in definitionibus, ut post docebimus,
proderit, si quis autem in definitione generali ponat accidens, eum non recte
definire manifestum est, quod suo loco tractabitur, statuit pauca de
accidentibus praelibare. Ita enim nos prudentissimus doctor instituit, ut tunc
in definitionibus quibuslibet plenam scientiam queamus accipere, cum quod
prosit, dictum sit et quod non sit utile, segregetur. Haec igitur huius operis
est intentio, de genere, specie, differentiis, propriis accidentibusque
tractare. Hic Fabius: Expedisti, inquit, de intentione, nunc utilitatem
explica. ÐVaria, inquam, et multiplex in hoc corpore commoditas utilitasque
versatur. Primum enim in Aristotelis Categorias perquam uberrime prodest. Quid
autem prosit, dicemus, cum de eius libri inscriptione tractabimus sed in quibus
aliis prosit, paucis philosophiae ipsius divisione facta perstringam. Et prius
quid sit ipsa philosophia considerandum est. Est enim philosophia amor et
studium et amicitia quodammodo sapientiae, sapientiae vero non huius, quae in
artibus quibusdam et in aliqua fabrili scientia notitiaque versatur sed illius
sapientiae, quae nullius indigens, vivax mens et sola rerum primaeua ratio est.
Est autem hic amor sapientiae intellegentis animi ab illa pura sapientia
illuminatio et quodammodo ad se ipsam retractio atque aduocatio, ut videatur
studium sapientiae studium divinitatis et purae mentis illius amicitia. Haec
igitur sapientia cuncto equidem animarum generi meritum suae divinitatis
imponit et ad propriam naturae vim puritatemque reducit. Hinc nascitur
speculationum cogitationumque veritas et sancta puraque actuum castimonia. Quae
res in ipsius philosophiae divisionem sectionemque convertitur. ƿ Est enim
philosophia genus, species vero duae, una quae theoretica dicitur, altera quae practica,
id est speculativa et activa. Erunt autem et tot speculativae philosophiae
species, quot sunt res in quibus iustae speculatio considerationis habetur,
quotque actuum diversitates, tot species varietatesque virtutum. Est igitur
theoretices, id est contemplativae vel speculativae, triplex diversitas atque
ipsa pars philosophiae in tres species dividitur. Est enim una theoretices pars
de intellectibilibus, alia de intellegibilibus, alia de naturalibus. Tunc
interpellavit Fabius miratusque est, quid hoc novi sermonis esset, quod unam
speculativae partem intellectibilem nominassem. Nohtau, inquam, quoniam Latino
sermone numquam dictum repperi, intellectibilia egomet mea verbi compositione
vocavi. Est enim intellectibile quod unum atque idem per se in propria semper
divinitate consistens nullis umquam sensibus sed sola tantum mente
intellectuque capitur. Quae res ad speculationem dei atque ad animi
incorporalitatem considerationemque verae philosophiae indagatione componitur:
quam partem Graeci qeologivan nominant. Secunda vero est pars intellegibilis,
quae primam intellectibilem cogitatione atque intellegentia comprehendit. Quae
est omnium caelestium supernae divinitatis operum et quicquid sub lunari globo
beatiore animo atque ƿ puriore substantia valet et postremo humanarum animarum
quae omnia cum prioris illius intellectibilis substantiae fuissent corporum
tactu ab intellectibilibus ad intellegibilia degenerarunt ut non magis ipsa
intellegantur quam intellegant et intellegentiae puritate tunc beatiora sint,
quotiens sese intellectibilibus applicarint. Tertia theoretices species est
quae circa corpora atque eorum scientiam cognitionemqtle versatur: quae est
physiologia, quae naturas corporum passionesque declarat secunda vero,
intellegibilium substantia, merito medio collocata est, quod habeat et corporum
animationem et quodammodo vivificationem et intellectibilium considerationem
cognitionemque. Practicae vero philosophiae, quam activam superius dici
demonstratum est, huius quoque triplex est divisio. Est enim prima quae sui
curam gerens cunctis sese erigit, exornat augetque virtutibus, nihil in vita
admittens quo non gaudeat, nihil faciens paenitendum. Secunda vero est quae rei
publicae curam suscipiens cunctorum saluti suae providentiae sollertia et
iustitiae libra et fortitudinis stabilitate et temperantiae patientia medetur;
tertia vero, quae familiaris rei officium mediocri componens dispositione
distribuit. Sunt harum etiam aliae subdivisiones, quas nunc persequi
supersedendum est. Ad haec igitur ut fieri possint et ut superiora intellegi
queant, necessarius maxime uberrimusque fructus est artis eius quam Graeci
logikhun, nos rationalem possumus dicere. Quod ƿ recta orationis ratione quid
verum quidque decens sit, nullo erroris flexu diverticulove fallatur. Quam
quidem artem quidam partem philosophiae, quidam non partem sed ferramentum et
quodammodo supellectilem iudicarunt. Qua autem id utrique impulsi ratione
crediderint, alio erit in opere commemorandum. Haec autem generis, speciei,
differentiae, proprii atque accidentis disputatio in omni nobis philosophiae
cognitione quas quandam viam parat. Nam cum quid genus sit docemur, quid
species, intellegimus genus esse philosophiam, species vero indubitanter
theoreticen et practicen. De logica vero, utrum sit species, eadem hac possumus
ratione perpendere. Prodest nobis differentiae cognitio ad ipsarum philosophiae
specierum differentias cognoscendas. Prodest proprii scientia ad cognoscendum
quid unicuique philosophiae differentiae solitaria natura videatur substantia
innatum. Prodest accidentis cognitio quid principaliter in rebus sit cernere et
quid secundo contingentique loco veniat, discernere. Ita nobis harum quinque
rerum scientia ramosa quadam et multifida vi in omnes sese philosophiae partes
infundit. Ad grammaticam vero non minor huius rei usus est, quando per
orationem genus, octo vero partes orationis per genera, species, differentias
propriaque metimur. Est vero huius rei perquam rhetoricae amica coniunctaque
cognitio. Ita enim rhetoricam in tribus causarum possumus separare generibus et
eas in subiectis constitutionibus dissecare. Definitionum quoque, quod ad
logicam pertinet, magna ƿ atque utilis uberrimaque cognitio est; quas
definitiones nisi per genera, species, differentias proprietatesque tractaveris
mlllus umquam definitionibus terminus imponetur. Nam si quid definies, ex quo
sit genere primum tibi dicendum est, atque in hoc genus speciesque consummata
sit. Nam cuiuscumque rei genus dixeris, ad quam rem illud dixeris, speciem
facis, ut si quid sit homo definias, dicas hominem esse animal igitur quoniam
ad hominem aptasti animal, genus esse animal et hominem speciem a te declaratum
est. Sed non sufficit sola generis in definitione monstratio. Si enim
solum animal hominem esse dixeris, non potius hominem quam bovem aut equum
definitione depinxeris. Prodest igitur etiam differentias adhibere, per quas id
quod definies ab speciebus aliis seiungatur, ut dicas hominem esse animal
rationale. Et quoniam sub eadem differentia plures frequenter species inveniuntur,
ut sub rationali deus atque homo, utilissimus proprietatis usus est, ut id
dicas quod sola quam definis species suum propriumque retineat. Fit ergo
huiuscemodi hominis definitio: homo est animal, id est genus, homo vero
species; rationale, quod differentia est; risus capax, quod proprium est.
Accidentium vero in definitionibus nullus usus est. Prodest ergo in
definitionibus harum quinque rerum cognitio; ut nec ea quae sunt utilia
praetermittas nec ea quae nihil praestant commoditatis adiungas. In divisione
vero tantum prodest, ut nisi per horum scientiam nulla res recte distribui
secarique possit. Nam quae generum vel specierum recta distributio divisiove
erit, ubi ipsarum per quas dividitur rerum nulla scientiae cognitione
dirigimur? ƿ Probationum vero veritas in his maxime constituta est, quod per ea
quae dividis, id quod dividis vel quid aliud probas. Nam Marcus Tullius in
Rhetoricorum primo, quoniam divisionem generum causarum rite atque ordinate
faciebat, eius rei probationem ita esse debere per species generaque disposuit,
cum ait easdem res aliis superponi, aliis supponi posse, eisdem et subiectas et
superpositas esse non posse. Haec fere de utilitate ad tempus dicenda
credidimus. Tunc Fabius: Demiror, inquit, cur inchoanti mihi tam subtilius
inventas exercitatasque res edideris. Sed dic, quaeso, quodnam hoc tuum fuit
consilium? Ego dicam tibi: quod assuescendus animus auditoris et mediocri
subtilitate imbuendus est, ut cum sese hic primum exercuerit palaestra ingenii,
quasi quodammodo prius luctatus ea quae sequentur sine ullo labore conficiat.
Sed 'quid restat?' dicas licebit. Et Fabius: Ordinem, inquit, restare arbitror,
si bene commemini. ÑAtqui, inquam, hic ordo valde cum inscriptione coniunctus
est. Si enim alterutrum noris, ambo noveris. Ordo tamen est quod omnes post
Porphyrium ingredientes ad logicam huius primum libelli traditores fuerunt,
quod primus hic ad simplicitatem tenuitatis usque progressus, quo procedentibus
viandum sit, praeparat. Aristoteles enim quoniam dialecticae ƿ atque apodicticae
disciplinae volebat posteris ordinem scientiamque contradere, vidit apodicticam
dialecticamque vim uno syllogismi ordine contineri. Scribit itaque priores
Resolutorios, quos Graeci iAnalutikouu" vocant, qui legendi essent
antequam aliquid dialecticae vel apodicticae artis attingerent. In primis enim
Resolutoriis de syllogismorum ordine, complexione figurisque tractatur. Et
quoniam syllogismus genus est apodictici et dialectici syllogismi, dialecticam
vero in Topicis suis exercuit, aipoudeixin in secundis Resolutoriis ordinavit,
horum disciplina, quam ille in monstrandis syllogismis ante collegerat, prius
etiam in studiis lectitatur. Itaque prius primi Resolutorii, qui de syllogismi
sunt, quam secundi Resolutorii, qui de apodictico syllogismo, vel Topica, quae
de dialectico syllogismo sunt, accipiuntur. Traxit igitur Aristoteles
dialecticam atque apodicticam scientiam adunavitque in syllogismorum
resolutoria disputatione. Sed quoniam syllogismum ex propositionibus constare
necesse est, librum Peri; eIrmhneiva" qui inscribitur, 'de
propositionibus' adnotavit. Omnes vero propositiones ex sermonibus aliguid
significantibus componuntur. ƿ Itaque liber quem de decem praedicamentis
scripsit, quae apud Graecos kathgorivai dicuntur, de primis rerum nominibus significationibusque
est. Vidit enim Aristoteles infinitam miscellamque esse rerum omnium
verborumque disparilitatem et, ut eorum ordinem reperiret, in decem primis
sermonibus prima rerum genera significantibus omne quicquid illud vel rerum vel
sermonum poterat esse, collegit. Sed Aristoteles hactenus. Speculatus autem
Porphyrius si categoriae genera sunt rerum, rerum vero sermonumque diversitas
speciebus, differentiis propriisque insigniretur, videns etiam quod accidentium
in categoriis magna vis esset -- omnes enim res Aristoteles in duas primum
dividit partes, in accidens atque substantiam, et accidens in novem membra
dispersit dicens aut substantiam esse quamcumque illam rem aut si accidens
esset, quoniam aut qualitas aut quantitas aut ad aliquid aut ubi aut quando aut
iacere aut habere aut facere esset aut pati -- praelibat igitur nobis
Porphyrius ad horum verissimam cognitionem hoc de generibus, speciebus,
differentiis, propriis accidentibusque tractatu. Sic igitur cum ante
apodicticam dialecticamque rem syllogistica praelegatur, ante syllogisticam in
propositionibus primus labor sit, ante propositiones in categoriis pauca
desudent, ante categorias quae generibus, speciebus, differentiis, propriis
accidentibusque censentur, ordo est de his ipsis rebus pauca praelibare. Recte
igitur et filo lineae quodam hic Porphyrii liber primus legentibus studiorum
praegustator et quodammodo initiator occurrit. Quodsi in hac re quod dictum est
sat est, rem etiam de inscriptione confecimus. Quo enim alio melius quam introductionis
nomine nuncuparetur hic liber? Est namque ad Categorias Aristotelis introitus
et quaedam quasi ianua venientes admittet. Tunc Fabius: Perge, quaeso te,
et si eius hoc proprium germanumque opus est collige. ÑHoc, inquam, indubitatum
est, omnibus enim Porphyrii libris stilus hic convenit. Et mos hic Porphyrio
est, ut in his rebus quae sunt obscurissimae, introducenda quaedam et
praegustanda praecurrat, ut alio quodam libro de categoricis syllogismis fecit
et de multis item aliis quae in philosophia gravia illustriaque versantur. Et
hoc apud superiores indubitatum est, quibus nos nolle credere inscitia est.
ÑTunc Fabius: Restat, inquit, ut ad quam partem philosophiae ducatur,
edisseras. Ego dicam tibi. Quoniam categoriae ad propositiones aptantur, syllogismi
de propositionibus componuntur, apodictici vero vel dialectici syllogismi in
logicae artis disciplina vertuntur, constat quoque categorias, quae ad
propositiones syllogismosque pertinent, logicae scientiae esse conexas. Quare
introductio quoque in categorias ad logicam scientiam convenienter aptabitur.
Quoniam ea quae praedicuntur explicui, nunc textus ipsius ratio atque ordo
videatur. Tunc Fahius: Priusquam explanatio sensus procedat, id scire desidero,
cur cum posset dicere 'cum necessarium sit', praeposterato ordine cum sit
necessarium dixit. Et ego: Quoniam, inquam, nullum accidens est, quod non
substantiae fundamento nitatur. Porro autem quicquid ad cuiuslibet superiecti
firmitatem est, id antequam ipsum esset, fuisse necesse est. Ut enim in domibus,
nisi prius fundamenta subicias, nulla umquam fabrica, sic, nisi prius
substantiae fundamenta sint, nulla umquam accidentia superponentur. oportet
enim prius esse aliquid, ut formam qualitatis arripiat, nam 'necessarium'
qualitas est. Non absurde igitur prius 'esse' posuit, post etiam 'necessarium',
id est post substantiam qualitatis nomen aptavit. Hic Fabius:
Subtilissime, inquit, et lucide sed nunc ordo ipse operis testusque videatur. CUM
SIT NECESSARIUM, MENANTI, SIVE AD ARISTOTELIS CATEGORIAS SIVE AD DEFINITIONIS
DISCIPLINAM, NOSSE QUID GENUS SIT QUIDVE SPECIES, QUID DIFFERENTIA, QUID
PROPRIUM, QUID ACCIDENS, OMNINO ENIM AD EA QUAE SUNT DIVISIONIS VEL QUAE
PROBATIONIS, QUORUM UTILITATIS EST MAGNAE COGNITIO, BREVITER TIBI EXPLICARE
TEMPTABO. QUAE APUD ANTIQUOS QUIDEM ALTE ET MAGNIFICE QUAESTIONUM GENERA
PROPOSITA SUNT, EGO SIMPLICI SERMONE CUM QUADAM CONIECTURA IN RES ALIAS ISTA
EXPLICABO MEDIOCRITER. Nunc ego: Praediximus quidem pauca superius sed vel his
quaedam addere vel haec eadem rursus commemorare absurdum esse non arbitror.
Totus autem sensus talis est. Scribens ad Menantium de utilitate libri summatim
pauca praedixit, quo elucubratior animus auditoris exercitatiorque ad haec
capienda perveniat. Prodesse autem ad Aristotelis Categorias dicit, quod, cum
omnem sermonum significantium varietatem diversa rerum summa divideret et in
substantiam atque accidens omnes res secaret atque dispergeret, accidens in
novem secuit partes, quod superius demonstravi, et haec genera generalissima
nominavit, id est genikwutata, quod super ista alia genera inveniri non
possint. Igitur si sunt genera, sine speciebus esse non possunt. Si sub his
species supponuntur, differentiis non uacabunt. Quodsi differentias retinent,
propriis indigebunt. Accidentis vero novem praedicamenta sunt. Quocirca non
absurdum fuit hinc introductionem in Praedicamenta componi, ut de generibus,
speciebus, differentiis propriisque tractaret, quae in ipsis Praedicamentis
inseparabiliter videntur inserta. Amplius, quod Aristotelica subtilitas, priusquam
ad praedicamentorum ordinem veniretur, de aequivocis univocisque tractavit,
definit vero aequivoca sic: AEQUIVOCA SUNT QUORUM NOMEN SOLUM COMMUNE EST,
SECUNDUM NOMEN VERO SUBSTANTIAE RATIO ALIA ut si qua sunt quae nomine tantum
communicent, substantia vero dissimilent, univoca vero, quae sub eodem nomine
et sub eadem substantia continentur. omne igitur genus ad species quae sunt sub
ipso positae, univoce praedicari potest. Porro autem quicquid ad quaslibet res
aequivoce praedicatur, in his sola differentia est, genus vero speciesque non
convertitur. Animal enim et homo univocum est. Animal enim animalis nomine
dicitur, porro autem nomini nomen etiam convenit animalis, ut dicatur animal:
uno ergo nomine animalis homo et animal appellatur. Animalis vero definitio est
'substantia animata sensibilis': quam si ad hominem vertas, nihil absurdum
feceris; potest enim esse homo substantia animata sensibilis sed animal genus,
homo vero species. Univoce igitur genus et species praedicantur. Aequivoca vero
quae fuerint, quoniam definitionibus differunt et eorum quorum definitiones
aliae sunt, alia est etiam et substantia, quorum alia substantia est, alia sunt
etiam omnino genera, in his, id est aequivocis, constat quod neque genus neque
species possit aptari. Ut enim si quis hominem marmoreum et hominem vivum
hominis nomine appellet, idem nomen fecerit substantiae, differentia vero
definitioneque dissimili. Porro autem hominis et statuae non unum genus est sed
statuae inanimatum, hominis animatum. Quare constat quoniam numquam sub eisdem
generibus continentur quaecumque aequivoce praedicantur. Quam vim, nisi prius
de generibus, speciebus, propriis et differentiis notitiam scientiamque
perceperis, nullo umquam tempore discernes. Idem Aristoteles ait quid sint primae
substantiae, quid secundae. Et primas substantias dicit esse individuorum
corporum et singulorum, ut est Cicero aut Plato aut Socrates, secundas vero
substantiis species appellavit, ut est homo, vel genera, in quibus ipsae
species continentur, ut est animal. Haec igitur nisi praelibata generis
specieique cognitione sciri non possunt. Idem ait substantiam ad aliam
substantiam in eo quod substantia sit, nulla differentia disgregari. Idem
substantiae proprietates requirit, ut quasi inpresso aliquo signo, sic
proprietate nota facilius quid substantia sit invenire atque expedire possimus.
Atque hoc idem in accidentibus fecit. Nam et quantitatis et qualitatis et ad
aliquid relationis propria collegit, et idem magna apud Aristotelem cura
diligentiaque conspicitur. Videsne ut sese quinque harum rerum vis in
categorias interserat et praedicamentorum virtutibus inseparabiliter
colligetor? non mendax igitur Porphyrius de hac quinque harum rerum nobis in
Categorias utilitate promisit. Definitionis vero disciplinam superius diximus
praeter genela, species, differentias et propria non posse tractari. Sed
quoniam sunt quaedam genera quae genus habere non possunt, ut est substantia
vel alia quae Aristoteles in praedicamentis constituit. Dicat quis ad haec
horum cognitionem nihil omnino prodesse. Quod non sit in his a genere trahenda
definitio in quibus genus inveniri non possit, quod, si qua res genus non ƿ
haberet, species non esset; hoc ita posito ad generalissimarum generum
definitionem nihil genera et species utilitatis habere. Ridicula mehercule
atque absurda propositio! Praeter scientiam enim generum specierumque magis
genera illa generalissima cognoscere qui potis est, cum, haec sola generum
specierumque cognitio si amissa sit, nihil de generibus speciebusque noscatur?
In illis igitur in quibus genus aliud superius inveniri non potest, nullus
umquam terminus definitionis aptabitur et in ipsius definitione genera
speciesque cessabunt et solae differentiae propriaque illius terminum
definitionis informant. Cum enim id quod dicis, ab aliis rebus omnibus
adiunctis differentiis segregaveris et propriis inpressis formam eius
figuramque monstraveris, genus quod invenire non poteris. Perquirere non
labores. Sed in his species et genera non requiruntur in quibus, quod ipsa generalissima
sint genera, genus inveniri non queat. Porro autem in his quorum genus est
aliquid, nisi a genere definitio ducatur, finis eius definitionis vitiosa
conclusione colligitur. Accidens vero ad definitiones nihil prodesse non
dubium est. Definitio enim substantiam informare desiderat, accidens vero
substantiam non designat. Accidens igitur in definitione nihil prodest. Est
itaque necessaria generis specieique cognitio, ut si generalissima non sint
quae quisque definiturus est, a genere definitionem trahat, si vero
generalissima sint, ut genus quaerere, quod inveniri non potest, non laboret.
Aeque enim vitiosum est vel in generalissimis genera quaerere vel subalternis
generibus a generibus definitionem ducere supersedere. Differentiae vero
et propria, vel si magis genera sunt vel si subalterna, maximam retinent
utilitatem. Et quoniam ad definitiones quae pertinent quaedam dicta sunt, pauca
etiam de his ipsis rationabilius subtiliusque colligemus. Sit genus animal, sit
species homo, sit differentia rationale vel mortale, sit proprium risibile;
accidens vero quoniam ad definitiones in commodum est, praetermittamus.
Quisquis ergo speciem definit, ita genere ab aliis eam generibus separat, ut si
quis dicat 'quid est homo?' 'animal' dicat. Dicens enim animal separavit
hominem ab omnibus generibus quaecumque animalia non sunt. Si quis vero
differentiam dicat et eam ad speciem accommodet, res sub eisdem generibus per
differentias disgregavit. Nam cum dicis hominem esse animal rationale, eum
etiam et bos et equus species animalis sint, additum tamen rationale homini ab
aliis sub eodem genere speciebus hominis speciem segregavit atque distinxit
propria vero cum dederis, res quae sunt sub eisdem differentlis segregabis. Nam
cum dixeris hinnibile vel risibile, illud est equi proprium, illud hominis. Et
cum equus cum bove atque cane sub eadem differentia sit, quod irrationabilia
sunt omnia, adiectum hinnibile a caeteris equum sub eadem differentia speciebus
dividit. Homo vero et deus sub eadem differentia, id est rationali, quod
utrique rationales sunt, quamvis homo et deus adiuncta mortali differentia
separentur, proprio tamen, id est risibili, quod solus habet homo, naturalius ƿ
substantialiusque disiungitur. Quod in aliis rebus in quibus nullas species
talis differentia separat, melius cognosci potest. Nam cum sub eadem
differentia sint irrationabilia, equus, bos, canis, nec sit ulla alia quae eos
separet differentia substalltialis -- possunt enim accidentis differentiae esse
quae eos separent, quales sunt formarum -- additum proprium hinnibile equum ab
aliis sub eadem differentia speciebus proprietatis ipsius separatione
disiunxit. Repetendum est igitur a primordio quod genera in definitionibus
ab aliis generibus separant, differentiae ab ipsis speciebus quae sub eisdem
generibus positae sunt, propria ab speciebus quae sub eisdem differentiis
supponuntur. Sed quoniam plenede definitione tractatum est, probationis
vel divisionis vim subtilitatemque tractemus. Sed omnis divisio duplex est, aut
cum totum corpus in diversa disiungis aut cum genera per species distribuis. Si
quis igitur harum quinque rerum minus sollers divisiones rerum facere voluerit,
non est dubium quin eas per inscientiam saepe ab speciebus in genera solvat,
quod est factu foedissimum. Quod Hermagorae in prima Rhetoricorum disputatione
usu venit. In tales enim erroris nebulas incidit, ut duo genera sub aequalis
generis parte supponeret. Quodsi divisionum vim veritatemque vidisset et
disciplinam generum, specierum, propriorum et ƿ differentiarum suscepisset, numquam
tam insulsae divisionis errore tam vivacissime a Marco Tullio culparetur. In
probationibus vero tantus est huius operis fructus, ut praeter hoc nullius
umquam rei possit provenire probatio. Quid enim digne monstrare queas, cuius si
differentias nescias, id ipsum quale sit scire non possis? Quid autem digne
exequeris, cuius si genus nescias, ex quo id ipsum fonte manet ignores? vel
quid in probationibus ratione possis ostendere, cuius si speciem nescias, id
ipsum de quo aliquid probare vis, quid sit non possis agnoscere? Quodsi propria
praetermittas, nullas umquam res valebis propriae termino probationis
includere. At vero si non vim accidentium naturamque perspicias, cum de
cuiusque substantia tractes, inane accidentis nomen aeque in definitionibus
probationibusque miscebis. Ita his rebus cognitis integra stabilisque divisio
et definitio permanebit, incognitis debilis lababit et trunca
probatio. Haec se igitur Porphyrius, non enim Victorinus, breviter
mediocriterque promittit exponere. Nec enim introductionis vice fungeretur, si
ea nobis a primordio fundaret ad quae nobis haec tam clara introductio
praeparatur. Servat igitur introductionis modum doctissima parcitas disputandi,
ut ingredientium viam ad obscurissimas rerum caligines aliquo quasi doctrinae
lumine temperaret. Dicit enim apud antiquos alta et magnifica quaestione
disserta quae ipse nunc parce breviterque ƿ composuit. Quid autem de his a
priscis philosophiae tractatoribus dissertum sit, breviter ipse tangit et
praeterit. Tunc Fabius: Quid illud, inquit, est? Et ego: Hoc, inquam, quod ait
se omnino praetermittere genera ipsa et species, utrum vere subsistant an
intellectu solo et mente teneantur, an corporalia ista sint an incorporalia, et
utrum separata an ipsis sensibilirbus iuncta. De his sese, quoniam altior esset
disputatio, tacere promisit, nos autem adhibito moderationis freno mediocriter
unumquodque tangamus. Eorum ergo quae se transire et praetermittere pollicetur,
prima est quaestio, utrum genera ipsa et species vere sint an in solis intellectibus
nuda inaniaque fingantur. Quae quaestio huiusmodi est. Quoniam hominum
multiformis est animus, per sensuum qualitatem res sensibus subiectas
intellegit et ex his quadam speculatione concepta viam sibi ad incorporalia
intellegenda praemunit, ut cum singulos homines videam, eos quoque me vidisse
cognoscam et quia homines sint, me intellexisse profitear. Hinc igitur ducta
intellegentia velut iam sensibilium cognitione roborata sublimiori sese
intellectu considerationis extollit et iam speciem ipsam hominis, quae sub
animali est posita, et singulos homines continere suspicatur et illud
incorporeum intellegit cuius aote particulas corporales in singulis hominibus
sentiendis et intellegendis assumpserat. Nam hominem quidem illum specialem,
qui nos ƿ omnes intra sui nominis ambitum cohercet, non est dicere corporalem,
quippe quem sola mente intellegentiaque concipimus. Sic igitur mens rerum nixa
primordiis altiori atque incomparabili intellegentia sublimatur. Hinc ergo
animus non solum per sensibilia res incorporales intellegendi est artifex sed
etiam fingendi sibi atque etiam mentiendi. Inde enim ex forma equi vel hominis
falsam Centaurorum speciem sibi ipsa intellegentia comparavit. Has igitur
mentis considerationes quae a rerum sensu ad intellegentiam profectae vel
illtelleguntur vel certe finguntur, fantasiva" Graeci dicunt, a nobis visa
poterunt nominari. Ita ergo nunc de generibus, speciebus et caeteris quaerunt,
utrum haec vere subsistentia et quodammodo essentia constantiaque intellegantur,
ut a corporalibus singulis vere atque integre ductam hominis speciem
intellegamus, an certe quadam animi imaginatione fingantur, ut ille Horatii
versus est: HUMANO CAPITI CERUICEM PICTOR EQUINAM IUNGERE SI VELIT
quod neque est neque esse poterit sed sola falsa mentis consideratione
pingitur. Nimis acute subtilis inquisitio atque ad rem maxime profutura!
Scienda enim sunt utrum vere sint nec esse de his disputationem
considerationemque, si non sint. Sed si rerum veritatem atque integritatem
perpendas, non est dubium quin vere sint. Nam cum res omnes quae vere
sunt, sine his quinque esse non possint, has ipsas quinque res vere intellectas
esse non dubites. Sunt autem in rebus omnibus conglutinatae et quodammodo
coniunctae atque compactae. Cur enim Aristoteles de primis decem sermonibus
genera rerum significantibus disputaret vel eorum differentias propriaque
colligeret et principaliter de accidentibus dissereret, nisi haec in rebus
intimata et quodammodo adunata vidisset? Quod si ita est, non est dubium quin
vere sint et certa animi consideratione teneantur. Quod ipsius quoque Porphyrii
probatur assensu. Nam quasi iam probato et scito quod ista vere subsistant,
aliam quaestionem inferre non dubitat, cum dicit: an corporalia ista sint an
incorporalia. Quae nimis esset frivola atque absurda quaestio, utrum essent
corporalia, nisi prius esse constaret. Haec quoque non mediocriter utilis
inquisitio ita resolvitur: incorporalia esse quae ipsa quidem nullis sensibus
capiantur, animi tamen qualia sint consideratione clarescunt. Nam quia
incorporeorum prima natura est, potest res incorporea parens esse quodammodo
corporeae. Corporea vero incorporeis praeesse non poterunt, quod, quoniam
substantia genus est, corporale vero et incorporale species substantiae,
corporale non esse genus haec res declarat, quod substantiae, id est generi,
incorporale supponitur. Quodsi corporale esset genus, numquam sub eo species
incorporea poneretur. Animadverte igitur vehementissime, quam numquam ƿ
quicquam a te animadversum fuit. Genus ipsum quoniam species habet, species
vero differentiis disiunguntur et proprietatibus informantur, quoniam quaedam
species reperiuntur quae in contraria sub genere divisione contrarias obtineant
vices, ut sub animali rationale atque irrationale contraria sunt et sub
rationali mortale atque immortale et haec quoque contraria, quaeritur, si
animal solitario intellectu neque rationale neque irrationale sit, unde hae
differentiae in speciebus natae sint, quae in genere ante non fuerant. Quodsi
genus, id est animal, utrasque res in se habet, ut et rationale et irrationale
sit, in uno eodemque duo contraria eveniunt, quod est impossibile. Accingam
igitur breviter quaestionem et dicam quod non genus utrumque sit, id est
rationale vel irrationale, vel quicquid aliud inter se species per
contrarietates dividunt sed vi sua et potestate genus, hoc continet, ipsum vero
nihil horum est. Ita ergo genus tale est, ut ipsum neque corporale neque
incorporale sit, utrumque tamen ex se possit efficere, quod secundo libro
melius liquebit. Species alias corporalis, alias incorporalis est. Nam si
hominem sub substantia ponas, corporalem speciem posuisti, sin deum,
incorporalem. Eodem modo etiam differentiae. Nam si corporales vel incorporales
ƿ species dividunt, erunt alias incorporales, alio tempore corporales, ut si
dicas 'quadrupes' ad bipedem, corporalis differentia est sed 'rationalis' ad
irrationalem, incorporalis differentia est. Et propria nihilominus eodem modo.
Nam aequale speciei proprium fuerit: si corporalis, corporale erit proprium, si
incorporalis, incorporale vindicabitur. Et accidens eodem modo. Nam si
incorporalibus quid accidit, incorporale esse manifestum est, ut in animo
accidens est scientia, incorporalis scilicet, corporalibus vero quae accidunt,
corporalia esse manifestum est, ut si quis dicat accidens me habere capillum
crispum. Si igitur genus neutrum per se ipsum est sed utrasque res es se ipso
efficere potest, species, differentia, propria et accidentia ut accepta in
contrarias species fuerint, proinde vel corporalia vel incorporalia vocabuntur.
Sed sunt quibus hoc ipsum integrum videri possit, et haec solum incorporalia
esse definiunt. Qui sic dicunt, non considerari genus in eo quod quaeque res
suapte natura constat sed in eo quod genus sit. Itaque si substantia genus est,
non consideratur in eo quod substantia est sed in eo quod sub se species habet.
Item si species corporeum et incorporeum est, non in eo quod deus vel homo
dicitur, consideratur sed in eo quod est sub genere. Eodem modo etiam
differentiae non cons'iderantur in eo quod bipes vel quadrupes sit sed in eo
quod est differentia. Nam quadrupes hoc ipsum nulla differentia est, nisi sit
bipes a quo differat. Itaque non quadrupes vel bipes respicitur sed id quod
medium est in bipede et quadrupede, id est differentia: et de proprio idem. Nam
quod cuiusque est proprium, in eo proprium consideratur quod eius cuius dicitur
esse proprium speciei solius est. Nam 'risibilis' non in eo proprium hominis
quod risus est sed in eo quod solus homo potest ridere. Quae manifeste
incorporalia esse indubitatum est. Deinde accidentia proinde sunt, qualia
fuerint ea quibus accidunt, ut superius dictum est. Sed hi probare videntur hoc
ipsius Porphyrii sententia, qui, veluti iam probato quodi ncorporea sint, ita
ait: ET UTRUM SEPARATA AN IPSIS SENSIBILIBUS IUNCTA, quod, si esse haec
aliquando corporalia extitisset, absurdum esset quaerere utrum incorporalia seiuncta
essent a sensibilibus an iuncta, cum sensibilia ipsa sint corpora. Talis autem
est quaestio, ut quoniam quaedam incorporales sunt res, quae omnino corpora non
patiuntur, ut ƿ animus vel deus, quaedam vero quae sine corporibus esse non
possunt, ut prima post terminos incorporalitas, quaedam autem quae in
corporibus sunt et praeter corpora sese esse patiuntur, ut anima -- quaeritur
ergo hae quinque res ex quo incorporalitatis sint genere, utrum eorum quae
omnino separantur a corpore an quae a corporibus separari non possunt an quae
iungantur aliquotiens, aliquotiens segregentur. Videtur autem quod et segregari
et iungi possint. Nam quando corporalium divisio per genera in species fit et
eorum propria et differentiae nominantur, haec circa sensibilia, id est
corporalia esse non dubium est; cum vero de incorporalibus rebus tractatus
habetur et per ea ipsa dividuntur quae corpore carent, circa incorporalia
versantur. Quodsi boc est, non est dubium quod quinque haec ex eodem sunt
genere, quod et praeter corpora separata esse possint et corporibus iungi
patiantur sed ita, ut si corporibus iuncta fuerint, inseparabilia a corporibus
sint, si vero incorporalibus, numquam ab incorporalibus separentur et utrasque
in se contineant potestates. Nam si corporalibus iunguntur, talia sunt, qualis
illa prima post terminos incorporalitas, quae numquam discedit a corpore, si
vero incorporalibus, talia sunt, qualis est animus, qui numquam corpori
copulatur. Haec sese igitur Porphyrius tacere pollicitus breviter ƿ
mediocriterque super his rebus tractare promittit habita in res alias
consideratione aut coniectura, quod simile est ac si diceret: quoniam haec ad
praedicamenta et ad definitiones et ad divisiones et ad probationes pertinent,
ideo haec tractaturus assumo et eatenus de his disseram, quatenus in supra
dictis rebus proficiunt, non quatenus de his ipsis generibus speciebusque et
caeteris tractari possit. SUNT ENIM ILLA, ut ipse ait, GRAVIORIS TRACTATUS;
QUAM DOCTRINAM A PERIPATETICIS ACCEPTAM, id est ab Aristotelicis, SE SEQUI
confessus est. Nam Stoici, qui de his quoque rebus tractare voluerunt, non
omnino a Porphyrio suscipiuntur, atque ideo ait se a Peripateticis rationem
disputationis accipere. Tunc me Fabius ita percunctatus: Quid est, inquit, quod
dudum dixeras, cum a te de incorporalibus tractaretur, esse quasdam
incorporalitates quae circa corpus semper consisterent, ut sunt primae incorporalitates
post terminos? Quae est haec incorporalitas aut quos terminos dicis? Non enim
intellego. ÑEt ego: Longas, inquam, tractatus est et nihil nobis ad hanc rem
quam quaerimus profuturus. Sed dicam breviter terminos me dixisse extremitates
earum quae in geometria sunt figurarum, de incorporalitate vero quae circa
terminos constat, si Macrobii Theodosii doctissimi viri primum librum quem de
Somnio Scipionis composuit in manibus sumpseris, plenius uberiusque cognosces.
Sed nunc ad sequentia transeamus. Tunc Fabius: Ut placet, inquit, simulque
sic incipit: VIDETUR ENIM NEQUE GENUS NEQUE SPECIES SIMPLICITER APPELLARI, ID
EST UNO MODO. GENUS NAMQUE DICITUR QUORUNDAM AD ALIQUID QUODAMMODO HABENTIUM
COLLECTIO, PER QUAM DARDANIDUM DICITUR GENUS. DICITUR RURSUS GENUS
UNIUSCUIUSQUE NATIVITATIS PRINCIPIUM AUT A GENERANTE AUT AB EO IN QUO QUIS
GENITUS EST. Caetera, inquit, fere nota sunt. Tunc ego: Si vim prius
aequivocationis aspicias, divisionem generis diligenter agnosces. Placet enim
per generis nomen cum sibi subectis aequivoca nominare. Aequivoca vero sunt
quae, cum nomine una sint, longe diversa substantiae ratione et definitione
discreta sunt, ut si quis hanc verbi gratia statuam Veneris <Venerem>
appellet. Congruunt igitur Venus ipsa et statua Veneris unius nuncupatione
vocabuli, quod utrisque Veneris nomen est. Si quis vero qui sit utrumque
definiat, longe aliam Veneris, aliam lapidis rationem definitionemque
constituet. Speciebus igitur illa esse aequivoca quae uno vocabulo appellentur,
definitionibus vero diversis ƿ constituantur, clarescet, ut opinor,
participatione generis quam Porphyrius fecit, non Victorinus, visa. Omne enim
quicquid a genere in species ducitur, univocum. non aequivocum est. Univocum
est quod et eodem nomine vocari et eadem definitione constitui potest, ut est
animal genus, homo vero species sed idem homo animal est. Genus igitur et
species, id est animal atque homo, possunt unius animalis nomine nuncupari, ut
utrumque animal vocetur sed eadem definitionibus non discrepent. Nam si definitionem
reddas animalis, dicas id esse animal quod est substantia animata sensibilis;
quam si definitionem ad hominem vertas, non erit absurdum dicere hominem
substantiam esse animatam atque sensibilem sicut animal, sicut iam superius
dictum est. Si enim univoca sunt quae uno nomine atque eadem definitione
constituuntur, aequivoca vero quae uno nomine sunt et non sunt una definitione
substantiae, quicquid univocum est, in his genera speciesque versantur,
quicquid aequivocum est, non est in eis talis participatio, ut speciebus et
generibus censeantur quae enim erit in his generis specieique cognitio, in
quibus substantiae definitio atque integerrima ratio disgregatur? Ita ergo
Porphyrius nomen generis ƿ in tres dividit formas sed ut aequivoca, non ut
univoca, id est ut hae formae uno quidem generis nomine contineantur, sui autem
proprietate disgregata dissentiant. Sed Porphyrius nomen generis hoc modo in
tres dividit partes, ut dicat vocari semel genus de eorunr inter se
plurimorumque collectione qui ab uno quocumque nomen generis trahunt, ut Romani
a Romulo trahentes genus ex eodem genere esse dicuntur. Secundo vero loco dici
genus affirmat, ut cuiuscumque est nationis principium aut a generante aut a
loco in quo quis natus est, ut Aeneam ab Anchisa et genere dicimus esse
Troianum. TERTIUM VERO GENUS DICIT ILLUD CUI SPECIES SUPPONITUR. Victorinus
vero duo superiora genera in unum redigit. Nam et multitudinis congruentiam
inter se per eandem generis nuncupationem et quorumcumque a genere lineam et
locum in quo quis natus est, uno generis vocabulo et designatione esse
declarat. Addit autem ipse quod soli Latinae linguae congruere possit: dicit
enim SECUNDO MODO GENUS DICI. UT EST GENUS CAUSAE HONESTUM. Quae genera
causarum Graeci in rhetorica arte genera esse non putant sed schumata vocant id
est figuras, genera autem sola principalia accipiunt, demonstrativum,
deliberativum scilicet et iudiciale. Quae ipsa ƿ ei[dh rIhtorikh`" vocant,
id est species rhetoricae, genera vero causarum. Tertium vero genus est id quod
Porphyrius ponit, id est sub quo differentiis distributae species supponuntur.
Sed quoniam de tertio genere tractaturus est, Victorini culpam vel, si ita
contingit, emendationem aequi bonique faciamus. Nunc ergo ad priorem apud
Victorinum generis significationem reuertamur et eius ut sunt verba enodanda
atque expedienda sumamus. GENUS NAMQUE inquit DICITUR QUORUNDAM AD ALIQUID
QUODAMMODO HABENTIUM COLLECTIO. Hic ergo utrumque monstravit, et cognationem
inter se multitudinis et lineae ductum. Nam cum dicit genus esse quorundam
collectionem ad se invicem quodammodo habentium, id est aliqua inter se
cognatione, iunctorum, et quod addidit ET AD ALIQUID, generis lineam
significat, quam singuli contingentes et ad unum sese ipsius generationis
applicatione iungentes plures ex eadem linea iuncti atque cognati sunt, ut sit
hic ordo: genus dicitur quorundam collectio quodammodo ad aliquem habentium, id
est alicuius lineam per genus contingentium, ut per collectionem cognationem
demonstret et per habitudinem quodammodo ad aliquem colligatam lineam generis
ductumque designet. Sequitur ergo et id planius lucidiusque significat, cum
dicit: DICITUR RURSUS GENUS CUIUSCUMQUE NATIVITATIS PRINCIPIUM AUT A GENERANTE
ƿ AUT AB EO IN QUO QUIS GENITUS EST. Id ipsum latius expedit quod superius
stricto et sentuoso brevitatis vinculo colligaverat. Dicit enim rursus dici
genus aut a generante aut a loco in quo quis natus est. Sed rursus particula si
ad hoc conectatur quod ait aut ab eo in quo quis genitus est, intellectus non titubat,
ut sit ordo: dicitur genus uniuscuiusque nativitatis principium aut a generante
aut rursus ab eo in quo quis genitus est. Vel certe erit simplicior expositio.
Si priorem generis significationem, id est quorundam ad aliquem quodammodo
habentium collectionem, ad solius cognationem multitudinis accipiamus, lineae
vero ductum et loci generationem in subteriore significatione distribui, ita
tamen, ut una quodammodo generis significatiolle et multitudinis cognationem et
a generante lineam et loci nativitatem significet. Haec enim omnia de sola
cuiuslibet natione tractantur. Quare non absurdum est quae omnia ad ortum
genitalem cuiuslibet pertineant. Una significatione generis contineri. Propriae
tamen et simplicissimae expositionis est quattuor significationes generis
constituisse Victorinum, ut ad tres Porphyrii unam ipse addiderit generis
causae, ut sint hae quattuor significationes, multitudinis cognatio, lineae
ductus, genus causae, genus specierum. Sequitur secunda generis divisio
apud Victorinum UT EST GENUS CAUSAE: quae Graeci, ut dictum est, Non genera sed
schumata vocant. Tertiae vero significationis generis, hic modus est GENUS DICI
CUI SUPPONITUR SPECIES, id est genus illud a quo species derivantur, quod ait
ad superiorum fortasse similitudinem aequitatemque dispositum. Sic enim genus
speciebus suis principium est, ut Romulus his, qui ab eo cognati sunt iunctique
Romani item eodem modo nomen Romuli Romanos omnes continet, quemadmodum nomine
generis species continentur. Nam sicut a Dardano Dardanidae prioris nomen
Dardani in sese ipsos posteriores accipiunt, ita et animal cum verbi gratia
species habeat hominem atque equum, equus scilicet atque homo animalis in se
vocabulum capere, ut dicantur ipsa animalia non recusant. Eodem igitur modo
species sub generibus continentur, quemadmodum cognati homines sub illo a quo
illam cognationem forte traxerunt. Nam et genus speciebus principium est et
plurimarum in se specierum collectivum est. Rursus primum cognationis nomen et
ipsius generationis est principium et in illius solius vocabulo diversitas
hominum vocabuli et generis participatione colligitur, atque hoc est quod ait
his verbis: ALITER DICITUR GENUS CUI SUPPONUNTUR SPECIES, IUXTA
SIMILITUDINEM FORTE SUPERIORUM APPELLATUM ETENIM PRINCIPIUM QUODDAM EST GENUS
HIS QUAE SUB IPSO SUNT ET VIDETUR MULTITUDINEM CONTINERE OMNIUM QUAE SUB SE
SUNT. Sed cautissime additum est videtur. Si enim nihil haec omnia distarent,
una significatio generis esset et ea quae in species funditur et ea quae in
cognatione dividitur. Sed est inter haec ƿ genera talis diversitas, quod genera
earum specierum quae sub se habent alias species, aequaevis speciebus
aequaliter sunt genera. Hominem enim et equum, qui sub animali sunt, neutrum
neutro possumus dicere prius ad tempus inchoationemque nascendi. Nam si qua res
una sit prior, altera posterior et eas sub uniuscuiusque generis nomine quis
velit aptare, non poterit; genus enim speciebus suis aequaliter genus est.
Quodsi genus speciebus suis aequaliter genus est, species ipsae eius ordinis
inter se aequali tempore ortuque censentur. At vero in generibus quae
cognationes efficiunt, non ita est. Quisquis enim fuit Capis pater, qui Capuam
condidit, si solum filium Capin progenuit et ab uno Capuanorum cognatio
iunctioque cuncta manavit, distat a genere cui species supponuntur, quod genus
uni speciei genus numquam esse potest nisi pluribus, quod quoniam est idoneum
genus illud, id est principium cognationum, etiam ab uno filio colligere et
congregare cognationem, quod genus per species ductum facere non potest, nisi
plures species supponantur, constat in hoc distare genus quod cognationem
colligit, ab eo a quo species dividuntur. Potest autem distare in hoc etiam,
quod genus, id est principium cognationis, potest habere sub se duos ex se non
aequali temporis conditione progenitos sed alium posterioris ortus, alium vero
senioris, quod in generibus speciebusque non convenit. Nam, ut ƿ superius
dictum est, species nisi sibi aequales fuerint, non merito sed natura, sub
genere poni non possunt. His igitur expeditis sequitur: TOTIENS IGITUR DE
GENERE DICTO DE POSTREMA SIGNIFICATIONE INTER PHILOSOPHOS DISPUTATIO EST, QUOD
DEFINIENTES ITA DECLARANT -- Quod dicit TOTIENS, tertio demonstrare vult atque
hoc propter lucidam operis seriem admissum est, ut, quoniam genus plurimorum
nomen est, omnis eius primum significatio diceretur, ut de qua disputandum
esset, aliis reiectis eligeret. Quod ait hoc modo: cum totiens, id est tertio,
genus dicatur, apud philosophos, id est unde ipse tractaturus est, de postrema
generis significatione quam dixit, id est de illo genere quod sub se species
habet, disputatio consideratioque vertitur. At vero de superioribus generibus
id est de cognatione et loco in quo quis genitus est, aut historicorum aut
poetarum spectatio est secundi vero generis rhetorum, tertii philosophorum
consideratio est. Etiam hic in disputationibus ordo est, quod, cum inciderent
res quae multis possit nominibus nuncupari et de unoquoque eorum vocabulo
tractari disserique, necesse est dici prius in ordinem omnia, ut id quod
eligitur et reicitur distinguatur. Sed illa quae reicienda atque explodenda
sunt, prius dicantur, illud vero quod disserendum tractandumque, ƿ capitur,
posterius nominetur, ut hic illa posterior generis significatio posita est,
quam disserendam accepturus prius definiendam et termino quodam
circumscribendam demonstrandamque suscepit. Omnis enim res, nisi quid prius sit
constiterit. Eius tractatus uacuo modo speculationis habebitur. Definit igitur
sic: genus esse quod ad plures differentias specie distantes in eo quod quid
sit praedicatur, velut animal. Quod definitionis talis est. Omnia quae distant,
habent inter se quandam differentiam qua distare et differre videantur. Porro
autem si quid sit genus et sub eo species supponantur, duas vel plures necesse
est species poni sub genere, quoniam unius speciei genus esse non potest. Sed
si plurimae species erunt, aliqua necesse est differentia dividantur, aliter
cnim plures esse non possunt. Nam si nihil distent, non erunt plures species et
nomen generis perit. Constat igitur eas sub genere poni species quae
differentiis distributae plures numero ipsarum differentiarum divisionibus
componantur. Ergo, quoniam superius dictum est in omnibus definitionibus a
genere definitionis trahendum esse principium, si quam cuiuslibet speciem
definile volueris, genus primo necesse est nominabis et ad illam speciem quam
definis, generis ipsius nomen prius aptabis. Et hoc illam principaliter dicis
esse, quod est illud genus sub quo ipsa species quam definis est posita. Post
autem differentiis propriisque eam ab aliis circumscriptione quadam
definitionis ƿ excludis. Nam si dicis animal esse hominem, animal genus est,
species vero homo. Nomen igitur animalis, id est generis, de homine, id est
specie, praedicasti, cum dixeris hominem esse animal. Quodsi nomen generis in
definitionibus ad unam speciem dicere posses, de ea nomen generis praedicares.
Species autem aequali modo generibus suis species sunt, nihil uetat, immo etiam
necesse est semper quaecumque sunt genera, de sibi subiectis speciebus in
definitionibus vel in quibuslibet interrogationibus praedicari. Sed quoniam
praedicatur genus de speciebus, quomodo praedicetur agnoscendum est. Nam si
dixeris: quid est homo? Et aliquis responderit animal, bene et integre respondisse
videtur, et certe. Nam cum tu quid sit homo interrogaveris, ille respondit
animal, genus scilicet de specie in eo quod quid sit species praedicavit. Nam
tu quid esset species interrogasti, ille vero in eo quod quid sit species quam
interrogasti, animalis nomen, id est generis accommodavit. Plena igitur et
propria definitio facta est generis, 'hoc esse genus quod ad plurimas
differentias specie distantes in eo quod quid sit appellatur, velut animal';
animal enim ad hominem, equum, bovem, coruum, anguem et alia plura quae
differentiis speciebusque differunt, in eo quod quid sit appellatur. Sed utrum
sic dixisset, genus esse quod ad plurimas species differentia distantes in, eo
quod quid sit praedicetur, an, sicut dixit, 'genus esse quod ad plurimas differentias
specie distantes in ƿ eo quod quid sit praedicatur', nihil interest. Nam sive
differentiae specie distent sive species differentiis distent, utrumque idem
est. Nam sive rationale et irrationale, quae sunt differentiae, specie hominis
verbi gratia atque equi distent, sive species homo atque equus differentia
rationali atque irrationali dividantur et distent, nihil interest. Quare plena
perfectaque facta est generis definitio. Sed definitiones duplicibus modis
fiunt. Una enim definitio est quae, sicut dictum est, a genere trahitur. Sed
quoniam sunt quaedam magis genera, quae super se genus aliud habere non
possunt, ut sunt praedicamentas decem quae Aristoteles constituit, eorum igitur
definitio quae haberi potest quorum genus inveniri non potest, quod omnium
quaecumque sunt, ipsa sunt genera? horum ergo quos Graeci vipografikou;"
lougou" dicunt, Latini subscriptivas rationes dicere possunt, reddemus.
Subscriptivae autem rationes sunt demonstrativae et quodammodo insignitivae
proprietatis illius rei quae cum ipsa generalissima sit et genus eius nullum
reperiri possit, eam tamen definire necesse est. Et Aristoteles, quoniam
substantiam genus generalissimum definire volebat et eius nullum genus poterat
invenire, proprietatem quandam et demonstrationem subscriptionemque ipsius rei
dixit esse subiectum. Substantia enim omnibus subiecta est. Accidens enim, quod
in novem ƿ dividitur partes, praeter substantiam esse non potest. Atque ideo
omnia quaecumque definienda sunt, si genus non habeant, eorum subscriptivam
quandam et demonstrativam rationem reddi necesse est. Sic igitur nunc generis,
quoniam rem ipsam definiendam putabat, non duxit a genere definitionem sed
dedit quandam generis demonstrationem proprietatemque. Dico autem quod
Porphyrius vel subalternorum generum vel illorum quae generalissima sunt, hanc
dederit definitionem et quodammodo subscriptionem demonstrationemque. Nam si
quod genus habeat aliud genus et item hoc ipsum aliud et item aliud si nullum
erit supra genus quod genus non habeat, in infinitum procedit ratio. Sin vero
non habuerit, necesse est quoque istam definitionem apte ordinateque congruere.
Dico autem genus non animal homini atque equo sed illud quo ipsum animal homini
atque equo genus est. Animal enim ipsum per sese nulli genus est neque homo
ipsum per sese ulli species est neque equus ipsum per sese ulli species est sed
sunt genera et species ad alterius participationem. Nam quoniam sub animali est
equus atque homo, non ad se ipsum animal genus est sed ad equum atque hominem.
Et item species quae vocantur, homo scilicet atque equus, non ad equum atque
hominem sed ad animal, species sunt. Dico igitur genus <et species> non
ipsas substantias in quibus genus et species sunt. Sed ipsam participationem
priorum ad subteriores et subterioram ad priores. Haec igitur participatio
quoniam et in magis ƿ generibus et in magis speciebus et in subalternis
generibus et in subalternis speciebus una atque eadem est et huius
participationis inveniri genus non poterat. Haec definitio generis quae facta
est, non a genere tracta est sed subscriptiva ratio et demonstrativa et
designatitla quodammodo generis est reddita. Hic Fabius: Subtiliter
mehercule et quod numquam fere ante haec audivimus. Sed perge, quaeso te. Iam
enim certant sidera quodammodo et nox luce superatur. ÑTunc ego: Sequitur rerum
omnium prima brevisque divisio. Ita enim ait: EORUM QUAE DICUNTUR, ALIA AD
UNITATEM DICUNTUR, SICUT SUNT OMNIA INDIVIDUA, UT EST SOCRATES ET HIC ET ILLUD,
ALIA QUAE AD MULTITUDINEM, UT SUNT GENERA ET SPECIES ET DIFFERENTIAE ET PROPRIA
ET ACCIDENTIA. HAEC ENIM COMMUNITER, NON UNIUS PROPRIE APPELLATIONIS
SUNT. Brevis, ut supra dictum est, et distincta divisio. Omnis enim res
aut unius rei nomen est aut plurimarum, et hoc est quod ait: eorum quae dicuntur,
alia ad unitatem dicuntur, sicut sunt omnia individua. Quid autem sit, breviter
explicandum est. Omne genus quoniam sub se ƿ species habet, species vero
differentiis distinguuntur et proprietatibus explicantur -- accidunt autem in
speciebus accidentia secundo loco, principaliter vero in individuis quae sunt
sub speciebus. Quid autem sit, posterius dicendum est -- genera igitur et de
speciebus dicuntur et de differentiis, quae ipsas species distribuunt, et de
propriis. Quae species componunt. Et de his accidentibus quae, cum principaliter
in individuis fuerint, in speciebus esse dicuntur. Hoc autem monstremus
exemplis. Et sit nobis genus animal, sit species homo, sit differenti
rationale, sit proprium risibile, sit accidens stans vel ambulans vel aliquid
in mensura corporis, ut tripedalis. Animal ergo, quod genus est, dicitur de
specie, id est de homine; dicis enim hominem esse animal. Porro autem de
speciei differentia nihilominus dicis genus: dicis enim rationale esse animal.
Nihil autem prohibet eodem modo et de proprio genus dicere. Nam si dicas: quid
est risibile? non absurdum est animal nominare. Accidentia vero hoc modo
principaliter in individuis, secundo vero loco in speciebus sunt. Nam si quis
dicat ad singulos homines, ut puta Ciceronem sedere vel stare vel quod aliud
libet, in specie hominis eadem quoque convenire necesse est. Nam si Cicero
sedet sedet etiam homo, si Cicero ambulat, ambulat etiam homo. Ergo si qua
accidentia venerint ab individuis et ea tracta in speciebus consederint, ad
ipsa quoque accidentia dici poterit genus. Quid est enim ambulans, si quis
interroget, merito animal dicitur. Nihil enim ambulare nisi animal potest.
Porro autem sub speciebus individua sunt, ut Cicero et Virgilius sub homine,
atque de individuo ƿ genus speciei praedicari potest. Nam si interrogaveris,
quid est Cicero, merito animal dicas. Genus igitur et ad speciem et ad
differentias et ad accidentia et ad propria et ad individua
nominatur. Porro autem species non iam de genere neque de differentiis sed
de solis propriis et subiectis individuis appellatur, in illis, id est
individuis, quia superest. In propriis vero, quia aequalis est. Quid autem sit,
hoc modo videamus. omnia genera speciebus suis supersunt et abundant. Abundare
autem genera dicimus speciebus plus habere genera virtutis quam species. Homo
enim quod est species, solum homo est, animal vero quod est genus, non solum
homo est sed et equus vel bos vel quod aliud libet animali supponere. Ita maior
vis generis recte de minori sibi et subiecta specie praedicatur. Alia vero sunt
quae sibi sunt paria, ut sunt propria et species. Species est homo, proprium
risibile. Quicquid ergo fuerit risibile, hoc est homo, quicquid homo, hoc
risibile. Itaque neque risibile hominis neque homo risibilis potentiam
superuadit sed aequalia sibi ad se invicem praedicari possunt, ut dicas: quid
est homo? risibile; quid est risibile? homo. Ita igitur quaecumque superiora
fuerint, ad illa quae subteriora sunt, praedicantur et quaecumque aequalia
fuerint. Aequaliter sibi ad se invicem praedicantur. Illa vero quae subteriora
sunt et minora, de superioribus et abundantibus, ut sunt genera et species --
genera enim abundantia, species minores -- praedicari non possunt. Numquam enim
recte speciem de genere praedicabis. Ita ergo species de proprio praedicatur ut
pari sed quoniam sub speciebus singillatim individua sunt -- individua autem
vocamus quae in nullas species neque in aliquas iam alias partes dividi
possunt, ut est Cato vel Plato vel Cicero et quicquid hominum singulorum est;
hos enim in nullis partibus dividis, ut animal in species, hominem scilicet
atque equum, hominem ipsum specialem et singulos circumplectentem in Catonem,
Platonem, Virgilium et omnes singillatim homines distributos; hominem vero
ipsum singulum, id est Ciceronem, in nullos alios distribuere possumus atque
ideo a[tomon, id est individuum, vocitatum est -- species ergo, quae ad propria
aequaliter praedicatur, ad individua, quoniam maior est species hominis quam
quodlibet individuum, ita praedicatur, ut superius ad id quod est subterius.
Cicero enim solus Cicero est, homo autem non solum est Cicero quod si ad
individua praedicatur, et ad individuornm accidentia praedicabitur. Ita igitur
species ad genus eo quod superius est, non praedicatur neque ad differentiam,
quia differentia, ut nunc monstraturi sumus, super speciem est, ad proprium
vero, cui par est, vel ad individuum, cui superest, praedicatur. Differentia
vero et ad species et ad propria et ad individua praedicatur. Namque rationale,
quod est differentia, ad hominem praedicatur, quod est species. Item rationale,
id ƿ est differentia, praedicatur ad risibile, id est proprium. Dicitur enim id
esse risibile, quod rationale. Nam si homo rational et homo risibile, constat
id quod est risibile, etiam rationale posse nominari. Quodsi ad species
differentia dicitur, species autem ad individua praedicatur. Necesse est ut
differentia quoque ad individua praedicetur. Dicis enim: qualis est Cicero?
rationalis. Quodsi differentia ad individua praedicatur, accidentia vero in
individuis accidunt. Necesse est differentias et ad accidentia praedicari.
Proprium vero quoniam semper unius speciei proprium est, et ad ullam speciem
praedicatur solam. Cuius est proprium. Risibile namque, quod proprium est ad
solam hominis speciem praedicatur. Quod si ad hominis speciem praedicatur.
Species vero ad individua dicitur. Non est dubium quin proprium quoque de
individuis praedicetur. Nam si homo risibile animal est, Cicero quoque et
Virgilius risibilia animalia recte dicuntur. Quodsi proprium ad individua recte
dicitur, recte etiam et de accidentibus praedicatur quae in ipsis accidunt
individuis. Accidentia vero ipsa et de speciebus et de aliis omnibus
praedicantur et de ipsis maxime individuis. Namque et albus equus et albus homo
dicitur et iterum niger equus et niger Aethiops. Quod si ita est, animal quoque
nigrum dicitur. Dicitur etiam rationale nigrum et irrationale nigrum, quippe si
equus et homo Aethiops nigri sunt. Dicitur etiam risibile nigrum, cum homo quis
niger fuerit. Dicitur etiam individuum nigrum, cum quis unus homo ex Aethiopia
nominatur. Quod cum ita sit, constat genus ad plurima praedicari, id est ƿ
speciem, differentias, accidentia propriaque et individua, nihilominus et
differentiam ad plurima praedicari, id est ad speciem, propria, individua et
accidentia, et proprium ad plurima, id est speciem, individua et accidentia, et
speciem ad plurima, id est proprium, individua et accidentia, accidens vero et
ad genus et ad speciem et ad proprium et ad differentiam at ad individua. Quod
si ita est, has quinque res constat ad plurima praedicari. At vero
individuum quoniam sub se nihil habet, ad singularitatem quandam et unitatem
praedicatur. Cicero enim unus est et ad unum nomen istud aptatur. Ita individua
quae ad unitatem dicuntur, cunctis superioribus supposita sunt, ut genus,
species, differentia, propria vel accidentia, quamvis ad se invicem dici
possunt, ad individua tamen aequaliter praedicantur, ut superius demonstratum
est. Individua vero quoniam sub se nihil habent ubi secari distribuique possint,
ad nihil aliud praedicantur nisi ad se ipsa, quae singula atque una sunt. Atque
hoc est quod ait: EORUM QUAE DICUNTUR, ALIA AD UNITATEM DICUNTUR, SICUT
OMNIA INDIVIDUA, UT EST SOCRATES ET HIC ET ILLUD, ALIA QUAE AD MULTITUDINEM, UT
SUNT GENERA ET SPECIES ET DIFFERENTIAE ET PROPRIA ET ACCIDENTIA. HAEC ENIM
COMMUNITER, NON UNIUS PROPRIE APPELLATIONIS SUNT. Simile est ac si
diceret: haec enim communiter ad plurima praedicantur, non ad unitatem sicut
individua. Et quid sint genera vel species vel differentiae vel propria ƿ vel
accidentia, exemplum supponit dicens: EST ENIM GENUS, UT ANIMAL, SPECIES, UT
HOMO -- quam dudum hominis speciem cum aliis animantibus sub animali posuimus
-- DIFFERENTIA, UT RATIONALE -- qua species scilicet hominis ab irrationali
distat animal -- PROPRIUM, UT RISIBILE, quod nullum aliud animal neque
rationale neque irrationale habet. Nullum enim animal ridet nisi solus homo.
Quare, cum quaedam caelestium potestatum animalia rationabilia sint, eorum
tamen proprium risibile non est, quoniam non rident. Recte igitur risibile
solius hominis proprium praedicatur. ACCIDENS, UT ALBUM, NIGRUM ET SEDERE: quia
ista in substantia hominum non sunt, merito accidentia vocantur. Nam si
substantiae cuiuscumque speciei inesset id quod accidens dicimus, interempto
accidenti periret etiam eius speciei substantia cui accidit. Nam quoniam
rationale in hominis substantia est, si rationalitas interimatur, hominis
quoque substantia necessarlo peritura est idcirco, quod in ipsius speciei
substantia naturaque nersatur. At vero nigrum et album vel quaecumque sunt
accidentia si interimas, species ipsa in qua illa accidebant, manet. Nam neque
omnis homo candidus neque omnis niger est, et cui alterutra defuerint, eius
species non peribit. Atque idcirco haec accidentia, veluti non innata in
substantia sed a foris venientia, recte nominata sunt. Nunc ergo, quoniam
quid sit genus ostendit et ea quae ƿ ad unitatem dicuntur, ab his quae de
plurimis praedicantur distinxit atque distribuit. Ipsius generis differentias
vel ab his quae ad unitatem dicuntur vel ab eis quae ad pluralitatem congruunt,
id est differentis, specie, proprio accidentique, declarat et dicit genus ab
illis quae ad sola individua prae dicantur, id est quae ad unitatem, hoc
differre, quod genus ad plurima praedicetur, individua vero ad singula. Sed
quoniam haec differentia generis ad individua communis erat differentiis
speciebusque, propriis et accidentibus, ab illis ipsis aliis differentiis genus
dividit atque disiungit. Quod ita demonstrat: AB HIS IGITUR QUAE AD UNITATEM
DICUNTUR, DIFFERT GENUS, QUOD GENUS EST HOC QUOD DE PLURIMIS PRAEDICATUR. AB
HIS VERO RELIQUIS GENUS DIFFERT, PRIMO AB SPECIE, QUONIAM SPECIES ETSI DE
PLURIBUS, NON TAMEN SPECIE DIFFERENTIBUS SED NUMERO PRAEDICATUR. Ac primum
generis specieique distantiam monstrat, quae propior est generi. Nam quamvis
differentia super speciem sit, super speciem specialissimam differentia
ponitur. Nam quamvis rationalis differentia super hominem ponatur, quae species
specialissima est, tamen ante speciem specialissimam ƿ ipsa differentia species
est eius generis, cui species snecialissima supponitur; nam sub animali ante
hominem rationale ponitur. Igitur cum genus et species utraque ad plurima
praedicentur, genus vero ad plurimas species in eo quod quid sit praedicetur,
species non iam ad plurimas species sed ad plurima individua praedicatur. Sunt
autem quaedam genera generalissima, ut dictum est, supra quae aliud genus
inveniri non possit. Sunt autem species sub quibus alia species inveniri non
possit, et integra species illa nominatur quae numquam genus est, id est sub
qua species nullae sunt. Nam si sub ea species essent, ipsa etiam genus esse
posset. Species ergo quae vere species est, alias sub se species non habebit,
nt est homo. Namque homo quoniam species est, singuli homines qui sub ipso
sunt, non eius species sed individua nominantur. Nam si homo genus esset
hominum singulorum, genus autem, sicut dictum est, ad plurimas res specie
differentes in eo quod quid sit appellatur, homo, id est species, si sicut genus
praedicaretur ad singulos homines, singuli homines specie ipsa differrent. Sed
quia singuli homines specie non differunt, quod autem specie non differt, si
quid ad hoc praedicatum fuerit, non praedicatur ut genus ad species, id est
homo non praedicatur ad singulos homines ut genus ad res plurimas specie
differentes, quid igitur? Ad res plurimas numero differentes; singuli enim
homines numero a se tantum, non specie distant. Atque ideo, quoniam genus
sic ad subiecta praedicatur, ut ad plurimas res specie differentes praedicetur,
species autem ad subiecta ita praedicatur, ut ad plurimas res numero
differentes praedicetur, genus in hoc ab specie distat, quoniam genus ad
plurimas res specie differentes praedicatur. Species autem ad plurimas res
numero differentes dicitur. Congruunt ergo sibi genus et species, quod genus et
species ad plurima praedicantur et utraque in eo quod quid sit. Nam si
interroges: quid est Cicero? Animal dicitur, id est genus. Et si interroges:
quid est Cicero? Homo dicitur, id est species distant autem, quod quamvis
utraque ad plurima praedicentur et in eo quod quid sit, genus praedicatur ad
res specie differentes, species vero dicitur ad res tantum numero differentes
quod Porphyrius sic demonstrat: AB HIS VERO RELIQUIS QUAE DE PLURIBUS
APPELLANTUR, GENUS DIFFERT, PRIMO AB SPECIE, QUONIAM SPECIES ETSI DE PLURIBUS
PRAEDICATUR, NON TAMEN SPECIE DIFFERENTIBUS SED NUMERO. HOMO ENIM SPECIES CUM
SIT, DE SOCRATE, PLATONE, CICERONE PRAEDICATUR, QUI NON SPECIE SED NUMERO
DIFFERUNT, ANIMAL VERO QUOD GENUS EST, ET BOVIS ET EQUI PRAEDICATIO EST QUAE
ETIAM DIFFERUNT SPECIE A SE INVICEM, NON NUMERO SOLO. Quod simile est ac
si diceret genus ab specie unam differentiam plus habere. Congruunt namque
genera speciebus, quod utraque in eo quod quid sit praedicantur, ut dictum est.
Congruit item et genus et species, quod utraque ad res plulimas praedicantur.
Congruit item genus ad species, quod utraque ad les numero differentes
praedicantur. Nam et singuli homines sta a se divisi sunt, quantum ad numerum,
ut homo ab equo vel a bove vel a coruo vel a quibuslibet aliis animantibus. At
vero distat ab specie genus, quod genus de pluribus rebus specie differentibus
praedicatur, quod species non habet. Nihil autem differre arbitrator, utrum ita
dicatur 'aliam rem ad aliam praedicari' an 'aliam de alia praedicari'. Utrumque
enim idem intellectus est. Nam si animal praedicatur ad hominem, idem etiam
animal de homine praedicatur. Nam cum interrogaveris: quid est homo? Respondeas
de hominis interrogatione hominem esse animal. Sed nunc oportet nos ea
quae secuntur aspicere. Quid ergo sequitur? A PROPRIO AUTEM GENUS DIFFERT,
QUOD PROPRIUM IUXTA UNAMQUAMQUE SPECIEM PROPRIUM APPELLATUR CUIUS EST PROPRIUM,
ET IUXTA EA QUAE SUB SPECIE SUNT, SCILICET INDIVIDUA; NAMQUE RISIBILE HOMINIS
SOLUM EST ET SINGULORUM UTIQUE HOMINUM. GENUS AUTEM NON AD UNAM SPECIEM SED AD
PLURES DIFFERENTES SEMPER APTATUR. Ergo hoc videtur hic dicere, quoniam omne
proprium si fuerit speciei unius, tunc vere est proprium. Nam si unius speciei
non fuerit sed duarum vel plurium, tunc duabus vel pluribus non proprium sed
erit in substantiae ratione commune. Constat ergo proprium ei cuius est
proprium soli speciei singulariter adhaerere. Unde quia hominis species sola
est quae ridet, risibile homini proprie et singulariter aptatur. Ad unam semper
igitur speciem proprietas adhibetur. Distat igitur proprium a genere, quod
genus semper ad plurimas species appellatur, proprium vero de una tantum specie
cuius est proprium. Nam si risibile dicas, ad unam tantum speciem hominis
appellatur. Congruit autem genus cum proprio in hoc, quod genus et proprium de
pluribus appellantur. Namque genus ad plures species appellatur, appellatur
etiam genus de his quae sub specie sunt individuis. Nam si homo et equus animal
est, erit etiam Cicero animal et quilibet equus singulariter animal nominatur.
Similiter et proprium ad plurima dicitur. Dicitur enim ad unamquamque speciem
et ad ea individua quae sunt sub specie praedicatur. Nam si homo risibilis est,
risibilis est etiam Cicero et Virgilius, et quicumque singulariter nominantur,
risibiles sunt. Congruunt etiam, quoniam utraque in eo quod quld sit
praedicantur. Nam genus de specie in eo quod quid sit praedicatur. Nam si
dicis: quid est homo? Animal appellabis. Item proprium in eo quod quid sit
praedicatur. Nam ƿ si dicis: quid est homo? Merito risibile praedicabis.
Congruunt autem, quod genus et proprium ad plurimas res numelo differentes
praedicantur. Nam ita a se differunt singula animalia, id est homo, equus et
coruus et caetera, ut singuli homines, quantum ad numerum. Distat autem a
genere, quod genus ad plurimas species praedicatur, proprium vero ad unam solam
cuius est proprium nominatur. Sed non est inter genus et proprium eadem
differentia, quae est inter speciem et genus. Nam species de nulla omnino
specie praedicatur, proprium vero licet non ad plures, ad unam tamen solam
speciem, cuius est proprium, semper aptabitur. Post hoc igitur de
differentiae accidentisque a genere distantia disserit dicens: A DIFFERENTIA
VERO ET AB ACCIDENTIBUS DIFFERT GENUS, QUONIAM ETSI ETIAM ISTA DE PLURIBUS
SPECIE DIFFERENTIBUS PRAEDICANTUR, DIFFERENTIAE SCILICET ET ACCIDENTIA QUAE
COMMUNITER ACCIDUNT, NON TAMEN IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICANTUR, CUM
INTERROGANTIBUS NOBIS FIT SECUNDUM EA RESPONSIO; MAGIS ENIM QUALE QUID SIT
OSTENDUNT. Differentiam vero et accidens idcirco posterius reservavit,
quod eorum unam differentiam erat distantiamque dicturus. Differentia enim et
accidens qualitatem cuiuscumque speciei demonstrant. Illa substantiae qualitatem,
id est differentia, illud, ƿ id est accidens, non substantiae. Ergo quoniam
genus super speciem est et species supposita generi, genus speciem, species
individuum quid sit ostendit. Porro autem solae possunt species differentiae
segregare quae qualitatibus eas substantialibus, id est substantias
declarantibus, seiungunt atque dispertiunt. Nam cum animal genus sit, homo vero
vel equus species, quales utraeque species sint monstrat differentiae
segregatio, ut dicamus speciem esse hominis rationalem, speciem vero equi
irrationalem. Si enim quis interroget: quid est homo? Animal dicitur. Si autem
quis dicat: qualis est homo? Rationalis respondetur. Ita semper differentia non
in eo quod quid sit sed in eo quod quale sit appellatur. De accidenti vero non
dubium est, cum ipsa qualitas in accidentis partibus componatur. Namque in
praedicamentis inter alias novem partes accidentis etiam qualitas nominatur.
Nam etiam si quis interroget qualis corui species sit, nigra continuo
respondetur. Congruunt ergo genera differentiis et accidentibus, quod de
speciebus pluribus praedicantur. Nam sicut genus plures sub se species habet,
ita differentia. Nam rationale dicimus deum et hominem. rursus etiam accidens
de pluribus speciebus praedicatur. Nam nigrum dicimus et hominem et equum et
coruum et hebenum et plurimas alias species. Rursus congruit genus
differentiae, quod, sicut genus, sic differentia aequaliter ad indiniduum
praedicatur. Nam si Cicero animal est, quod est genus, et rationale avimal est.
Quod est differentia. Congruunt etiam, quod de numero differentibus
praedicantur, quod ƿ superius de aliis monstratum est. Distant autem quod,
sicut dictum est, genus in eo quod quid sit appellatur, differentia vero vel
accidentia in eo quod quale sit praedicantur. Nam si dicas: quid est homo?
Appellabis genus et dicis animal esse hominem, si vero qualis sit ad
differentiam interrogaveris, rationale respondebis, vel <ad> accidens,
nigrum vel album vel qualis quisque sit de quo interrogatur. His igitur
distributis distantias ipsas a primordio rursus orditur dicens: UNDE HOC
QUOD DE PLURIBUS PRAEDICATUR GENUS DISTAT AB HIS QUAE DE SINGULIS PRAEDICANTUR,
HOC EST AB INDIVIDUIS; ILLO QUOD DE SPECIE DIFFERENTIBUS PRAEDICATUR, DISTAT AB
SPECIEBUS ET A PROPRIIS; ILLO ETIAM IN QUO QUID SIT APPELLATUR, SECERNITUR A
DIFFERENTIIS ET A COMMUNITER ACCIDENTIBUS, QUOD HAEC DUO QUALE QUID SIT
DECLARANT. Hoc dicit distare genus ab individuis, quod genus de pluribus,
ut dictum est, praedicatur. Colligit autem et in unum redigit proprii specieique
differentias. Nam quoniam species de pluribus non specie sed numero
differentibus praedicatur, proprium vero de una tantum specie et de his quae
sub eadem specie sunt individuis praedicatur, quamvis de una specie
praedicetur, tamen aequa est illi cum specie a genere differentia de pluribus
specie differentibus non praedicari. Nam neque species omnino de speciebus
aliquibus poterit praedicari ƿ neque proprium, quoniam proprium non de pluribus
speciebus sed de una tantum cuius est specie praedicatur. Quod si ita est, una
differentia a genere species et propria seiunguntur accidens vero et
differentia eadem quoque una a genere differentia separantur, quod genus in eo
quod quid sit dicitur, differentia vero vel accidentia in eo quod quale
appellantur. Has Porphyrius ad constituendam generis rationem differentias
quam parcissime potest colligit et ipsas differentias multis modis posterius
probaturus, nunc vero quantum sat est dicit se <neque deminutam neque>
abundantem generis constituisse rationem hoc dicens: HOC SI ITA EST, NULLO
MINUS AUT PLUS EFFECTA EST GENERIS DEFINITIO. Perfectam plenamque se
generis definitionem fecisse dicit, quoniam neque plus neque minus facta sit
definitio sed aequaliter ad genus pariterque composita. Quod unde sit, hoc modo
monstrandum est. Novimus quod quaedam res quae ad alia praedicantur, his de
quibus praedicantur, abundant, ut genera et species. Namque animal, quod genus
est, de homine, quod est species, hoc abundat, quod nomen generis etiam in
equum atque bovem atque in alia valet aptari. Ergo si quis ad quamlibet rem
abun dantem fecerit maioremque definitionem quam ipsa res fuerit quam definit,
non erit integra propriaque definitio, quoniam non solum illam rem amplectitur
quam definit, ƿ si maior fuerit definitio sed etiam alias quascumque res,
quibus ipsius definitionis terminus abundabit. maiorum igitur praedicamentorum
maior erit definitio, minorum vero minor erit etiam definitio; animal ergo,
quod maius est, ita definiunt: animal est substantia animata sensibilis,
hominem vero, quod ab animali minus est, ita definiunt: animal rationale,
mortale, risus et disciplinae perceptibile quoniam maius est animal ab homine,
maior etiam erit animalis definitio ab hominis definitione. Plus enim erit
dicere 'substantia animata sensibilis' quam 'animal rationale et mortale'. Nam
substantia animata sensibilis, sicut ipsum animal, non solum hominem
complectitur sed etiam equum vel bovem atque alias huiusmodi species. Si quis
ergo ad hominem maiorem definitionem aptaverit, quae est animalis, ut ita definiat
hominem: homo est substantia animata sensibilis, non est plena definitionis
ratio, cum equus atque bos substantia animata atque sensibilis esse possint,
quae species hominis non sunt. Si quis vero maiori rei minorem definitionem
aptaverit, curtam et deminutam quodammodo faciet rationem. Nam si quis animal
definire volens dicat: animal est res rationalis, risus et disciplinae
perceptibilis, non erit integra definitio, quoniam sunt quaedam animalia quae
istius definitionis rationem subterfugere atque euadere possunt. Est enim
animal bos, quod neque rationale sit neque risus perceptibile. Sola igitur
relinquuntur bene definiri quaecumque aequalibus definitionibus constituuntur.
Ubi autem aequalis definitio sit, hoc modo possumus reperire. Praedicamenta quaecumque
fuerint, si maius praedicamentum de minore aliquo praedicatur, converti non
potest, ut minus de maiore praedicetur. Semper enim maiora de minoribus,
numquam minora de maioribus praedicantur. Nam si quis dicat hominem esse
animal, non poterit convertere animal esse hominem. Nam homo nihil aliud,
quantum ad genus, nisi animal est, animal, quantum ad species, potest esse
etiam non homo. Paria vero praedicamenta semper sibi ipsa invicem convertuntur.
Nam quoniam risibile solius est hominis, risibile ad hominem praedicatum etiam
converti potest, ut homo ad risibile praedicetur dicitur enim: quid est homo?
Risibile. Quid est risibile? Homo. Ergo quascumque definitiones convertere
potes, illae verae atque pares sunt, quascumque vero convertere non potes, aut
maiores sunt aut minores, pares inveniri non possunt. Nam si dicas hominem
substantiam esse animatam atque sensibilem, verum est. Item si convertas et
dicas substantiam animatam atque sensibilem esse hominem, non omnino verum
dixeris potest enim et substantia animata esse atque sensibilis et homo non
esse. Item si dixeris rem rationalem, mortalem, risus et disciplinae capacem
esse animal, verum dixeris. Si autem dicas atque convertas animal esse rem
rationalem mortalem, risus et disciplinae perceptibilem, non omnino verum
dixeris. Potest enim esse animal et non esse rationale et risus capax. Ergo
quotiens est maior definitio quam id quod definitur si prius dicitur id quod
definitur et maior definitio adhibetur vera esse poterit definitio. Si enim
prius dixeris hominem, rem minorem, et ad ipsum posterius adbibueris
definitionem maiorem, ut prius dicas 'homo est', et post subiungas 'substantia
ƿ animata sensibilis', verum est. Homo enim necessario est substantia animata
sensibilis. Si vero prius dixeris definitionem et postea dixeris id quod
definies, vera esse non omnino potest. Nam si definitionem maiorem prius
dixeris dicens 'substantia animata sensibilis' et postea rem minorem intuleris,
ut dicas 'homo est', ut sit 'substantia animata sensibilis homo est', non
omnino verum est. Potest enim esse et substantia animata sensibilis, non tamen
homo. At vero si minor fuerit definitio quam illa ipsa res quae definitur,
si prius dicta sit definitio, vera est, posterius, falsa. Nam si dixeris
definitionem quae est minor 'res rationalis, mortalis, risus et disciplinae
capax' et post intuleris 'animal est', ut sit 'res rationalis, mortalis, risus
et disciplinae capax animal est', vera est. Omnis enim res quae rationalis et
mortalis est et risus et disciplinae capax, necessario animal est. At vero si
converteris et rem maiorem prius dixeris, post vero minorem definitionem
adhibueris, vera omnino esse non potest. Nam si dicas prius 'animal est',
postea autem iunxeris 'res rationalis, mortalis, risus et disciplinae perceptibilis',
non omnino verum est. Potest enim esse animal et rationale vel mortale non
esse. Itaque si maior est definitio quam res fuerit, si prius rem dixeris,
postea definitionem intuleris, vera est, si vero prius definitionem dixelis,
post rem intuleris, falsa est. In minoribus vero definitionibus et maioribus
rebus contra ƿ est. Nam si definitionem prius dixeris, postea rem subieceris
vera est, si vero rem prius dixeris, postea definitionem sub ieceris, vera
omnino esse non potest. At vero in aequalibus definitionibus converti
aequaliter potest. Nam quoniam solius hominis haec est definitio 'animal
rationale, mortale, risus et disciplinae perceptibile', aequalis est haec ad
hominem definitio, quoniam non est cui alii possit aptari. Itaque vel si prius
rem dixeris, postea definitionem subieceris, vera erit, ut est 'homo est animal
rationale, mortale, risus et disciplinae perceptibile', sin vero converteris et
prius definitionem, postea rem dixeris ut si dicas 'animal quod fuerit
rationale, mortale, risus et disciplinae perceptibile homo est', haec quoque
vera est. Ita semper ut definitiones verae sint, neque plus neque minus in
defini tionibus oportet aptari sed aequalitter definitiones convenienterque
disponi. Quod Porphyrius scilicet non ignorans ait se neque plus neque minus
effecisse generis definitionem. Et Fabius: Sequitur, inquit, te de specie
disputare. ÑDic, inquam, quid sequitur? ÑEt Fabius: Hic, ut opinor, ordo
est: SPECIES QUOQUE MULTIS DICITUR MODIS. NAM ET UNIUSCUIUSQUE HOMINIS
FORMA SPECIES APPELLATUR. RURSUS IGITUR ET PULCHRITUDO UULTUS, UNDE
PULCHERRIMOS QUOSQUE SPECIOSOS DICIMUS. DICITUR SPECIES ET EA QUAE ƿ SUPPOSITA
EST GENERI, UNDE ANIMALIS SPECIEM APPELLAMUS, CUM ANIMAL IPSUM GENUS SIT, ET
ALBUM COLORIS SPECIEM. Tunc ego: Speciei quoque nomen sicut generis
aequivocum puta. Nam et hoc quoque multifariam appellari designat. Dicitur
enim, inquit, species et figura corporis et fortasse alia plura. De quibus
quoniam nullus tractatus habebatur, iure praetermissa sunt. Hic tamen a
Victorino videtur erratum, quod cum idem sit cuiuscumque hominis species et
uultus, quasi in alia appellatione speciei uultus iterum pulchritudinem dixit,
quasi vero non proinde pulchlitudo uultus sit ac tota species fuerit; nam si
quispiam pulcher fuerit toto corpore, etiam uultu. Sed praemissis his ad illam
speciem quae sub genere ponitur atque genus efficit veniamus. Namque, ut dictum
est, substantiae ipsae nullo speciei nomine generisue censentur, nisi quadam ad
se invicem collatione sint comparationeque compositae. Nam quod animal est, non
idcirco est genus, quoniam animal est sed idcirco, quod hominis sub se atque
equi et caeterorum animantium species habet. Atque idcirco ait: UNDE ANIMALIS
SPECIEM APPELLAMUS, CUM ANIMAL IPSUM GENUS SIT; neque enim homo species diceretur,
si super ipsum animalis appellatio non praedicaretur. Sed ut monstraret non in
unis solis substantiis genera speciesque versari sed etiam in omnium
praedicamentorum nuncupationibus ƿ esse conexa, non solius substantiae dedit
exemplum sed etiam eius quod reliquum remanserat, accidentis. Quid enim ait et
album coloris speciem: quae sunt in accidentis divisione qualitatis. Sed
quoniam inter se quaedam conexio est et talis comparatio atque relatio, ut
praeter ad se invicem latitudinem genera et species esse non possint -- nihil
enim in eorum definitionibus concludi potest, nisi ad alterutrum nominata sint;
nam si substantia generis specie supposita species vero genere superposito et
ad ipsam praedicato perficitur, non est dubium quin cum genus definire necesse
it iure speciem, et cum speciem, iure nobis genus praedicare necesse sit --
haec igitur etiam in generis subscriptione servatur distinctio, cum generis
definitio habita est. Hoc enim dictum est tunc, esse genus quod ad distantes
species diceretur, nunc vero dicendum est id esse speciem quae sub genere
ponitur. Sed multiplex eius definitio haberi potest. Potest enim rursus dici id
esse speciem, ad quam genus in eo quod quid sit praedicatur. Quae res utraeque
id significant, speciem poni sub genere. Nam prima quidem definitia id aperte
designat, secunda vero talis est: quoniam semper ƿ maioribus minora
supponuntur, genus ab eo, ad quod in eo quod quid sit praedicatur, maius esse
non dubium est. Quod si ita est, nullus est obscuritatis error, quin species quae
minor est, maiori sibi generi supponatur. Nihil igitur haec secunda
definitionis significatio a priore differt; si enim species sub genere non
poneretur, genus ad speciem in eo quod quid sit non praedicaretur. Tertia vero
definitio speciei integra ratione collecta est et ipsius speciei vim naturamque
demonstrat. Dicit enim speciem esse quae ad plurima numero differentia in eo
quod quid sit praedicatur. Quae definitio etiam ex superiore genere debuit esse
planissima sed ego nunc quantum castigata permittit brevitas explicabo. Sed
prius de ipsis generibus speciebusque pauca dicenda sunt. Cum sint quaedam
genera quae species habeant atque ipsa aliis generibus species esse possint,
non est dubium ea gemina comparationis habitudine fungi, ut ad alia species, ad
alia genera nominentur. Sed si in uno filo atque ordine speculemur et
quodcumque genus alicuius rei repertum sit, eius rursus genus aliud requiramus
et rursus aliud atque aliud iterum, si nihil sit quod intellectus ratione
consistat, inesplicabilis ratio interminabilisque tractabitur. Sed quoniam
nulla sunt in his scientiae fundamenta quae nulla consideratione animi in
infinitum procedentia concluduntur, dicendum necessario est posse nos
ascendentes usque ad tale aliquid pervenire cuius, cum ipsum caeteris genus
sit, ƿ aliud genus invenire non possumus, quod genus primum et magis genus et
generalissimum nuncupetur. Sed si hoc in genere contingit, ut ascendentes
alicubi consistamus, non est dubium quin descendentes iterum per species ad
aliquem quodammodo calcem offenso termino consistamus. Igitur cum
descendentes per species usque ad illam speciem venerimus quae sub se species
nullas habet, illam speciem ultimam speciem et magis speciem et specialissimam
nuncupemus. Sed quoniam species aliquorum est continens, si aliquorum specie
differentiam continens esset, non magis species sed genus merito vocaretur. Sed
quoniam continet et non specie differentes res continet, similes necesse est
sibi contineat pluralitates. Sed si continet pluralitatem et maius semper est
id quod continet quam id quod continetur, de pluralitate illa species
praedicabitur. Appellabitur igitur species de pluribus rebus numero
differentibus in eo quod quid sit. Species enim cum appellatur de
subterioribus, superiorem speciem substantiamque declarat nam cum dicimus: quid
est Cicero? Homo continuo respondetur. Cum ergo tribus modis speciei facta sit
definitio, superiores duae non tantum sunt speciei sed etiam subalternae
speciei, quae et ipsa genus. generalissimum substantia et sub ea corpus
animatum, sub animato corpore animal et sub animali ƿ homo, sub homine
individua. Sed hanc divisionem plenius posterius exequemur, nunc autem hoc
nobis tantum sufficit. Substantia igitur magis genus est, homo magis species,
ita ut neque substantia species aliquando esse possit nec homo genus. Corpus
vero animatum vel animal ad superiora species, ad subteriora genera
nominantur. Si quis ergo corpus animatum vel animal vel hominem velit
exprimere et dicat: SPECIES EST QUOD PONITUR SUB GENERE ET AD QUAM GENUS IN EO
QUOD QUID SIT PRAEDICATUR, haec definitio et magis speciem, id est hominem, et
subalternam speciem continet, id est corpus animatum vel animal. Nam corpus
animatum et animal et homo sub genere sunt posita, et ad eas omnes in eo quod
quid sit appellatur, ut dictum est. Si quis vero illam speciem definitione
monstrare velit quae vere species est, id est specialissimam speciem, quae
tantum species, numquam et genus sit, hoc modo definiet, speciem esse quae ad
plurimas res numero differentes in eo quod quid sit praedicetur. Sed haec
definitio subalternis speciebus numquam conveniet. Illae enim quae subalternae
sunt species, possunt etiam pro generibus accipi, si ad subiecta praedicentur.
Quodsi possunt pro genelibus accipi, cum pro generibus acceptae fuerint, non
tantum ad plurimas res numero differentes praedicabuntur sed etiam ad plurimas
res specie differentes, quippe cum sint genera. Sed quia hoc in magis speciebus
non evenit, ut aliquando de specie differentibus praedicentur, haec definitio
posterior solius magis speciei definitio est et eam caeterae subalternae
species excludunt atque reiciunt. Quod Porphyrius ita demonstrat: SED HAEC
DEFINITIO EIUS SPECIEI EST QUAE MAGIS SPECIES DICITUR, ALIAE VERO DEFINITIONES
ERUNT ETIAM ILLARUM QUAE NON SUNT MAGIS SPECIES. Horum ergo ipsam
subscriptionem demonstrationemque clarius se ipsum dicere promittit cum dicit: MANIFESTIUS
AUTEM FIET HOC QUOD DICIMUS HOC MODO. IN OMNIBUS PRAEDICAMENTIS SUNT QUAEDAM
MAGIS GENERUM ET MAGIS SPECIERUM, SUNT ALIA MIXTA. MAGIS GENERA SUNT SUPRA QUAE
NULLUM ALIUD GENUS POTERIT INVENIRI, MAGIS SPECIES RURSUS, SUB QUA NULLA
SPECIES REPERITUR. HORUM INTERUALLA QUAE POSSIDENT, ET GENERA ET SPECIES SUNT,
SINGULA SUPERIORIBUS INFERIORIBUSQUE COLLATA, UT ALTERI GENUS, ALTERI SPECIES
APPELLENTUR Huiusmodi sunt, inquit, quaedam quorum genera inveniri non possunt,
haecque ipsa merito magis genera nominantur, quoniam maius ipsorum aliquid
inveniri non potest. Nam si ista sunt genera, genus autem omnibus sub se
positis maius est, quorum genus nullum est, nihil eorum maius poterit reperiri.
At quorum genus nihil poterit inveniri, merito ipsa magis genera vocitantur.
Sunt autem quaedam alia quae magis spe cies appellentur, sub quibus non aliae
species locatae sunt. nam plus videtur esse species ea et integrior vere
species est ƿ quae genus numquam est quam ea quae aliquando genus esse potest.
Quodsi verior species est quae sola species, numquam genus est, merito magis
species appellata est. Igitur inter magis speciem et magis genus quod est
interuallum, subalterna genera et subalternae species impleuerunt. Nam
subalterna vocamus quaecumque ad superiora species, ad inferiora pro generibus
accipiuntur, idcirco quoniam, si omnes res ad inferiora componas, genera, si ad
superiora, species, et si ad superiora et inferiora eadem ducas, genera et
species invenientur. Atque ideo subalterna genera et species nominata
sunt, quod filo quodam atque ordine ad inferiora composita genera et ad
superiora species agnoscuntur. Sed haec ita genera speciesque esse possunt, non
ut cui genus est, eidem iterum velut species supponatur. Nam si, ut prius
ostensum est, specie sua maius est genus, non est dubium quin maior res sub
minore poni non possit. Atque ideo ait ut alteri genus, alteri species
appellentur, quod nequaquam eandem rem et genus esse et speciem conveniret. Dat
igitur huius rei exemplum, quo quod dicit, facilius possit agnosci. Facit
igitur hanc divisionem. Ponit substantiam magis genus, supponitur substantiae
corpus et incorporeum, corpori animatum corpus et inanimatum, animato corpori
animal sensibile et insensibile -- ut sunt ostrea vel conchilia vel echini vel
arbores et alia huiusoemodi, quae vivendi animam habent, non etiam sentiendi --
sub animali animal rationale et irrationale, sub rationali mortale et inmortale,
sub mortali hominem, gub homine singulos homines, hoc est corpora individua,
Ciceronem et Virgilium scilicet et eos ƿ qui iam in partes sunt singuli.
Substantia ergo quae prior est magis generis accipitur loco; genus enim solum,
non etiam species est, quod numquam eius genus superius invenitur. Homo vero
solum species est, nullas enim alias species sub se cohercet; singuli enim
homines non specie, ut dictum est, numero differunt. Corpus vero, quod pridem
sub genere posuimus, id est substantia, ad substantiam quidem species, ad
animatum corpus genus accipitur. Animatum autem corpus ad corpus species est,
ad animal genus, animal autem ad animatum corpus species videtur, ad rationale
animal genus. Rationale item animal mortalis genus est, species animalis.
Mortale autem genus hominis est, species rationalis animalis. Homo autem quod
super individua est, nihil de generis natura sortitus est sed tantum sola
species appellatur. Sed hanc divisionem sicubi in aliis rebus transferri
et aptari placeat, ita considerandum est, ut quicquid fuerit cuius genus
inveniri non potest, magis id genus appelletur et quicquid cuius nulla species
fuerit, id est ut super individua collocetur, illam magis speciem esse. Oportet
enim, si quod genus sit. Super differentes specie res poni, quod autem magis
species non super specie res differentes ponitur, numquam digne genus poterit
appellari. Ergo quemadmodum quod ƿ superius genus super se nullum genus habet,
magis genus dicitur, ita et species quae sub se species non habet sed tantum
individua, merito magis species appellatur. Illa autem quae in medio posita
sunt, non eiusdem sunt habitudinis. Nam quoniam species esse possunt, non sunt
magis genera, et quoniam genera possunt esse, idcirco numquam magis species
praedicantur. Nam illis quae supersunt, species sunt, illis vero quae subsunt,
loco generis praeponuntur. Cum igitur duae formae sint omnium rerum, aut
ut genera praeponantur aut ut species supponantur, summitates, id est
generalissimum genus et specialissima species, singulas tantum continent
habitudines, illud, ut tantum genus, numquam species videatur, illud, ut sola
species, numquam etiam genus appelletur. Subalterna vero, quae media sunt, duas
formas habent, id est utrasque. Namque, ut frequentius inculcatum est, et generis
quodammodo parentelam et speciei derivationem sortita sunt. Nec hoc fortasse
nos turbet, quod species specialissima habet sub se aliquid. Namque homo cum
sit magis species, habet sub se singulos homines. Haec enim quamvis individuis
supersit, numquam formam specialitatis inmutat. Cum enim sub se individua
habeat, quod ea contineat quae sub una specie sint et nulla substantiae
proprietate discrepent, species eorum vocatur quae continet. Ita homo et
animalis species dicitur, quia continetur, et hominum singulorum species est,
quia eos continet qui nulla umquam specie discrepabunt. Definitio ergo magis
generum magisque specierum talis est: magis genus ƿ esse dicitur quod genus
semper sit, numquam species, et quo superius nullum genus sit; rursus magis
species est quae semper species sit, tumquam genus, et iterum, quae numquam
dividitur in species et quae ad plurima numero differentia in eo quod quid sit
praedicatur. Illa vero alia, ut saepe dictum est, et genera et species esse
possunt, superioribus scilicet inferioribusque collata. Hoc autem attentissime
respiciendum est, quod in diversis longe nationibus in eo genere ubi ex
sanguine aliqua cognatio deducitur, diversarum cognationum gens ad unum caput
generis duci potest. Nam quoniam Romani a Romulo sunt, Romulus autem a Marte,
Mars a Iove, poterit gens Romanorum ad Iovem duci. Item quoniam Athenienses a
Minerua, Minerua a Iove, potest Atheniensium gens ad eundem Iovem duci. Item
quoniam Persae a Sole, Sol autem a Iove, possunt Persae quoque ad eundem Iovem
velut ad originem propriam deduci. Ita diversissimae gentes ad unius
cognationem erigi possunt, quod idem speciebus generibusque non fit. Numquam
enim diversa genera sub uno genere poterunt accommodari. Aristoteles enim
primorum generum decem praedicamenta constituit, quae velut aliquis fons, ita
subterioribus omnibus ortum quodammodo nationemque profuderint. Haec igitur
decem genera quoniam generalissima sunt et superius eis nullum inveniri genus
potest, ad unum genus reduci non poterunt. Quodsi decem genera prima ad unum
genus ƿ reduci non poterunt, nec illa quae sunt sub eisdem generibus, id est
species subalternaque genera, ad unum genus aliquando poterunt applicari. Nam
si prima eorum genera ad unum superius duci non possunt, non est dubium quin ea
ipsa quae sub ipsis sunt, ab uno genere coherceri continerique non patiantur.
Nam si substantia, qualitas et quantitas et caetera sub alio communi genere
poni non possunt, quod ipsa magis sunt genera, nec quicquid sub substantia
fuerit, id est sub eodem genere, ut animal vel homo, vel item sub qualitate vel
quantitate, ad aliquod genus commune se poterunt applicare. Numquam enim
inveniri genus poterit quod haec decem genera solitario et proprio intellectu
intra se possit velut species continere. At dicat quis haec omnia decem genera
si vere sunt subsistentia, quodammodo vel entia dici posse. Flexus enim hic
sermo est ab eo quod est esse, et in participii abusionem tractum est propter
angustationem linguae Latinae compressionemque haec igitur, ut dictum est,
entia poterunt appellari, et ens hoc ipsum, id est esse, genus eorum fortasse
dici videbitur. Sed falso. Namque omnia quae inter se aequivoce nominantur,
numquam eiusdem continentiam generis sortiuntur, quippe quorum substantia
discrepat, non est dubium quin generis quoque ipsius definitio discrepabit;
haec autem ut entia nominentur, non univoce sed aequivoce praedicantur. Nam
quoniam substantia ens est et item qualitas ens, sed si quis rationem
definitionemque qualitatis dixerit, ƿ eadem natura utriusque non poterit
convenire, non est dubium quin substantia et qualitas non univoce sed aequivoce
praedicentur. Quodsi aequivoce praedicantur, sub eiusdem generis fonte poni non
poteront. Non est igitur in generibus speciebusque aliquod genus solum quod
possit diversa remm genera cohercere. Tunc Fabius: Abundanter haec,
inquit, omnia, et de his ipsis rebus frequentius inculcatum est. Sed perge ad
sequentia. Faciam, inquam. Haec enim, ut arbitror, secuntur: ERGO DECEM
GENERA CONSTITUIT ARISTOTELES IN PRAEDICAMENTIS QUAE MAGIS GENERA SUNT, AT VERO
ILLAE QUAE MAGIS SPECIES SUNT, SEMPER IN PLURIMO QUIDEM NUMERO SUNT, NON TAMEN
IN INFINITO. AT INDIVIDUA QUAE SUB MAGIS SPECIEBUS SUNT, INFINITA SUNT
SEMPER. Hoc enim dicere vult quod multo plures species sunt quam genera;
habet enim genus sub se plurimas species. Et quoniam decem genera rerum omnium
prima sunt, species specialissimae non solum decem sunt sed plures, non tamen
infinitae individua vero quae sub magis speciebus sunt, infinita sunt et eorum
intellegentia nulla umquam capi potest. Quae enim infinita sunt, nullo
scientiae termino concluduntur. Igitur omnis nobis divisio omnisque scientia a
magis generibus per subalterna genera usque ad magis species deducatur; ibi
enim consistentes integram, superiorum scientiam capere possumus ac retinere.
Si quis autem individua velit scientia disciplinaque comprehendere, frustra
laborat sed ita iubemur a magis generibus ƿ usque ad magis species per media
interualla decurrere, ut specificis differentiis dividentes subalterna genera a
magis generibus usque ad magis species descendamus. Specificae autem
differentiae sunt quae speciem quamcumque declarant. Declaratur autem species
differentiis hoc modo. Si quis enim dicat substantiam, ut ponat sub substantia
corpus, sub corpore animatum corpus, sub animato corpore animal, sub animali
rationale, sub rationali mortale, has omnes species, quae sunt substantiae, cum
pro differentiis posuerit, hominis scilicet species informabitur. Nam corpus
animatum ab inanimato corpore differentia est, porro autem animal ab
insensibilibus et rationale ab irrationalibus et mortale ab immortalibus
differentiae sunt. Haec igitur omnia cum iunxeris, unam speciem declarabis, id
est hominem. Nam cum dicis corpus animatum, animal rationale et mortale, quae
scilicet differentiae in subalterno ordine sibi suppositae sunt, hominem
demonstrasti. Sunt autem quaedam aliae differentiae, quae tales sunt ac si
dicas animal rhetoricum, quod solus homo rhetor esse possit. Sed haec
differentia non specifica differentia est et substantiam hominis naturamque non
perficit sed tantum artem quandam scientiamque esse commendat. Illae igitur in
divisionibus differentiae speciesque prosunt ex quibus illa quae dicitur magis
species informatur, et haec vocatur specifica differentia quae magis speciem
possit efficere. Ergo cum per haec descensum fuerit ad magis species,
relinquenda sunt sub magis speciebus individua nec eorum aliqua scientia
requirenda. Nam illa non ƿ solum infinita sunt sed etiam quaecumque in sese
continverint infinita fiunt. Rhetorica enim species est sed cum venerit in
singulos homines, tunc per singulos et infinitos divisa singula etiam fiet et
infinita. Si enim omnes quicumque sunt vel fuere numerentur rhetores, nullus
umquam huiusce numerationis finis erit, cum praesertim etiam per infinita
tempora in futurum singuli homines rhetores esse possint. Hic Fabius: Hoc
igitur, inquit, erat quod ait: PORRO AUTEM VEL ARTIUM VEL DISCIPLINARUM CUM
INDIVIDUA PER HOMINES SINGULOS ESSE COEPERINT, RATIONEM AD PERCIPIENDUM CAPERE
VEL HABERE OMNINO NON POSSUNT. Et ego: Hoc, inquam, est quod 'cum artes
vel disciplinae quae in sua specie una ante collecta fuerant, in individua
venerint', id est per singulos homines in infinitam multitudinem
innumerabilemque sese dispertiunt; hoc autem idcirco evenit, quod haec eadem
ratio est quam Porphyrius ipse dicere non neglexit. Genus enim cum unum sit,
plurimarum specierum progenitivum est; namque sub uno genere plures species
inveniuntur. Idcirco species genus illud unde profluunt. In plurima segregant
atque dispertiunt. Genus autem plurimas colligit res, sicut ipsum a plurimis
iterum speciebus dividitur. Namque homo, coruus et equus, quae sunt species,
quantum ad animal aequaliter animalia sunt. Ita nomen animalis omnes suas
species intra se continet. Quodsi et in homine animalis ƿ nomen est et in coruo
et in equo, non est dubium quoniam illud genus quod sub se ipsum ea continet,
species divisae inter se dividant multiplicentque. Colligit igitur genus
species in se, species vero genus ipsum suapte natura dispertiunt. Est igitur
genus collectivum specierum suarum et quodammodo adunativum, species vero
divisivae generis et quodammodo multiplicativae. Igitur quicumque ad magis
genera ascendit, omnem specierum multitudinem per genera colligit adunatque. Cum
vero a magis generibus usque ad magis species decurritur, omnis unitas generum
superiorum in multifidas ramosasque species segregabitur. Quod autem ait
multitudo capieuda, proinde est ac si diceret 'multitudo facienda' est; nam cum
dividis genus in species, easdem species multas esse accipis, quas tu idem
fecisti. Species quoque ab hac generis adunatione ac quodammodo collectione non
discrepant. Namque et ipsae infinitatem individuorum ad unam reuocant formam.
Singulorum enim hominum species, quae est homo, collectiva est hoc modo. Ad
hominis enim speciem cuncti singuli homines unus homo sumus, id est prima
species quae nos continet cohercetque. Porro autem ipsa species in nos multos
scissa dividitur. Omne enim quod singulum est atque individuum, illud unde
nascitur dividit, omne quod non est singulum atque individuum sed dividi
potest, non ipsum magis dividit subteriora quam colligit. His igitur expeditis
constat genus plurimarum esse specierum genus et speciem plurima sub se
individua cohercere. Nam si qua sunt subteriora, illa quae sunt superiora
dispertiunt et in multitudinem dissipant dividuntque; quare non est dubium quin
superiora semper inferioribus pauciora sunt. Praedicamenta vero aliud de alio
vel ad se invicem quae torquentur, hoc modo sunt. Omnis enim res alia aut maior
erit aut minor aut aequa. Omne quod est maius, de minore poterit praedicari;
nam cum animal sit maius ab homine, poterit animal de homine praedicari. Minus
vero de maiore non dicitur: nam quoniam animal est et homo et equus, ad animal
hominem si praedicare volueris, tantum haec convenit praedicatio, quantum
convenit animalis partem esse super hominem. Age enim, converte et dic hoc esse
animal quod hominem: quantum igitur pars est animalis, quae hominis speciem
contineat, tantum animal homo est. In illis autem aliis partibus animalis quae
aliud continent quam est species hominis, hominis appellatio non
convenit. Nam si dicas 'animal hoc est quod homo', in illa parte in qua
equus est animal et coruus, ista talis praedicatio non aptatur atque ideo
universaliter non convertuntur. Nam si dicis 'omnis homo animal', verum est, si
dixeris 'omne animal homo', falsum est. Quodsi maiora de minoribus idcirco
praedicantur, quia omne minus in se continent, et minora de maioribus idcirco
non praedicantur, quia maiora minoris definitionem superuadunt et ƿ quodammodo
exsuperant. Non est dubium quin illa quae sunt aequalia, sibi possint ipsa
converti. Aequalia autem illa sunt quae neque minora neque maiora sunt, id est,
ut si in quamlibet speciem apponantur, et omni illi speciei adsint et nulli
alii; nam omnis homo risibile est et nulla alia species risibili potest proprio
nuncupari, atque ideo quoniam aequalia sunt, convertuntur. Dicis enim: quid est
homo? Risibile. Quid est risibile? Homo. Et item: quid est hinnibile? Equus.
Quid est equus? Hinnibile. Quodsi semper maiora de minoribus praedicuntur,
superiora necesse est genera esse et omnia subalterna minora fiunt. Quodsi
subalterna omnia minora sunt, non est dubium quin, si quis per subdivisionem descendat
ad ultimam speciem. Quodcumque genus de vicinis sibi praedicabitur, etiam de
subalternis. Namque substantia habet sibi vicinum ad subteriora genus, ad se
vero speciem, quod est corpus; de hoc igitur substantia praedicatur. Si quis
enim interroget: quid est corpus? Dicitur substantia. Sub corpore vero est
animatum corpus et sub eo animal ergo quoniam substantia idcirco praedicatur de
corpore. Quia illi est superior, necesse est, quibus corpus superius fuerit,
eisdem etiam sit substantia superiol. Nam si corpus praedicatur de animato
corpore et de animali, praedicabitur etiam substantia de animato corpore et de
animali. Sic igitur quaecumque superiora fuerint, de subterioribus non solum
sibi vicinis sed etiam longe subterioribus praedicantur. Nam si maiora sunt his
quae sibi vicinae sunt speciebus, multo maiora erunt etiam illis quibus ƿ illae
vicinae species fuerint ampliores. Ergo de quibuscumque species
praedicatur, de ipsis praedicabitur et illius speciei genus. Nam si species
aliqua alicui maior est, multo genus speciei ipsius illa re qua species maior
est, maius erit. Atque ita ad id praedicabitur, quemadmodum ipsa species antea
praedicata est. Quod si ita est, non est dubium genus quoque generis illius
quod ad illud ad quod species praedicabatur, poterat praedicari, etiam id,
quoque de eo <ad> quod species et genus speciei praedicabatur, praedicari
posse. Nam si quis dicat Ciceronem esse hominem, cum animal hominis genus sit,
non erit absurdum Ciceronem animal praedicari. Et cum animalis ipsius substantia
genus sit, non erit inconveniens Ciceronem substantiam praedicari, quoniam quae
supersunt, de subterioribus praedicantor et ea quae subteriora sunt, si qua
alia sibi subteriora habeant, illud primum genus habebunt etiam ista subteriora
et de his non inconvenienter praedicabitur. Igitur species de individuo
praedicatur ut maius, magis genus vero de omnibus subalternis et de magis
specie praedicatur. Aequo enim modo dicitur et corpus substantia et animatum
corpus substantia et sensibile corpus substantia et rationale animal substantia
et mortale substantia et homo substantia. Et de ipsis etiam magis genus
individuis praedicatur. Potest enim Cicero dici substantia, species vero sola
de nullis aliis nisi de individuis praedicatur, ut dictum est, individua autem
ipsa de nullo alio praedicantur nisi de ipsis, id est singulis. Natura autem
individuorum haec est, quod ƿ proprietates individuorum in solis singulis
individuis constant et in nullis aliis transferuntur atque ideo de nullis aliis
praedicantur. Ciceronis enim proprietas cuiuslibet modi fuerit, neque in
Catonem neque in Brutum neque in Catulum aliquando conveniet. At vero
proprietates hominis quae sunt idem quod est rationale, mortale,
<sensibile>, risibile, in pluribus et in omnibus individuis possunt et
singulis convenire. Omnis enim homo et singulatim individuus et rationalis est
et mortalis et sensibilis et risibilis. Atque ideo illa quorum proprietates
possunt <in> aliis convenire, possunt de aliis praedicari, haec autem
quorum proprietas in aliis non convenit, nisi ipsis tantum singulariter, de
aliquibus aliis praeter se singulariter praedicari non possunt. Repetendum
est igitur quod omne individuum specie continetur. Species vero ipsa cohercetur
a genere et ullum quasi omnium corpus magis genus est et numquam est pars,
individuum vero pars semper est, numquam est totum. Species autem et pars et
totum merito nuncupatur, nam ad genus pars est, ad individua totum: dividit
enim genus, ut dictum est, et individua colligit. Sed species pars est alterius,
id est generis, totum vero non est partis sed partium. Namque genus unum est et
plures species unius rei, id est unius generis species pars est. Et quoniam
individua plura sunt et infinita sub una specie, quae illa individua colligit,
species illa non est unius totum, id est non est partis totum sed plurimorum,
id est partium; plures enim partes ƿ sub ea individuorum sunt, quarum totum
species, id est homo appellatur. Sed de genere et specie sufficienter
dictum. Et quoniam matutinae salutationes vocant, in futuras noctis vigilias
quod est reliquum transferamus. Multa nobis a parente natura excelsius
quam caeteris animantibus gravia illustliaque concessa sunt. Quae nos ita quasi
quaedam benigna artifex hllmanitatis excoluit, ut primum nobis reputandi considerandique
animos rationemque concederet, post vero ratione reperta proloquendi conferret
usus iussissetque nos non corpolis sensibus a beluis sed mentis divinitate
distare. Quae cum se sibi adiunxerit et a suae vivacitate naturae non
discesserit, tunc vero sicut ipsa est aeterni generis, ita quoque famam in
posteros vitamque gloriae infinitissimis temporibus coaequat. Sin vero se
pravis libidinibus corporis obnoxilam perdendam corrumpendamque permiserit,
naturam corporis sequitur. Nam nihil eius vivacitatis post corpora remanet cui
omnis labor et studium de rebus corporis atque in corpus impensum est. Quare
annitendum est, ut nos meliores curatioresque reddamus, non ea re qua pecudibus
nihil distare possumus sed quo caelestium virtutum similitudine aeternitatis
gloriam factis egregiis dictisque mereamur. Sed de his alias, nunc ad
propositum reuertar. Cum igitur alterius noctis consueta lucubratio
vigiliaeque venissent, credo hesternae rationis subtilitate captus vel qua ipse
est cupiditate discendi audiendique studio vigilantius quam umquam surrexerat,
Fabius ad me perrexit. Qui postquam consalutatus sequentis a me operis
plomissam continuationem reposceret, Faciam, inquam, non inuitus, quippe cum
nec mihi sit in vita quicquam melius agere et tu hanc mihi iucunditatem studio
tuo augeas, quod mihi perquam glatissimum est. Placuit igitur ut, quoniam
hesterna dissertio speciem explicuerat, alterius expositionis principium de
sequenti differentia sumeretur. ÐHic Fabius: Uberrime, inquit, a te hesternis
vigiliis de generibus et speciebus expositum est. Sed, ut dici audio, subtilior
de differentiis tenuiorque tractatus est. ÑNon, inquam, immerito. Nam varie
acceptae differentiae varias babebunt etiam potestates. Erunt namque alias
genera, alias species, alias vero differentiae. Sed hoc postea demonstrabitur,
nunc nero ita, ut arbitror, textus est: OMNIS DIFFERENTIA ET COMMUNITER ET
PROPRIE ET MAGIS PROPRIE DICITUR. Differentiam quoque, multis modis
appellari designat. Dicit autem tribus his modis fieri differentiam, cuius aut
communes sunt aut propriae aut magis propriae. Communes sunt quibus omnes aut
ab aliis differimus aut a nobis ipsis. Nam sedere vel ambulare vel stare
differentia est; nam si tu ambules, ego vero sedeam, in situ ipso atque
ambulatione differimus. Et item ego cum nunc sedeo, postea vero si ambulem,
communi a me ipso differentia discrepabo. Propriae vero sunt ƿ quae
uniuscuiusque individui formam aliqua naturali proprietate depingunt, ut si
quis sit caecis oculis vel crispo capillo; etenim propria uniuscuiusque singuli
hominis sunt quoquomodo ista nascuntur. Magis propriae sunt quae in substantia
ipsa permanent et totam speciem differentia descriptioneque permutant, ut est
rationalis vel mortalis hominis differentia. Harum autem communes et propriae differentiae
sub eadem specie singulos a se faciunt discrepare, illa propriis differentiis,
illa communibus, magis propriae vero totam naturam cuiuslibet speciei
substantiamque permutant et ab aliis speciebus segregant atque disiungunt.
Harum ergo communes et propriae differentiae, quoniam speciem non permutant sed
formam quodammodo et habitudinem solam faciunt discrepare, alteratum facere
dicuntur, id est non integrum alterum facere, id est non integre permutare sed
quodammodo discrepantiam distantiamque faciunt, atque ideo non vocantur alterum
facientes, id est permutantes sed magis alteratum, id est non integrum alterum
facientes. Illa vero tertia, id est magis propria, quoniam substantialis est et
ipsius speciei inserta naturae, alterum facit. Nam quoniam homo atque equus
quantum ad quod animalia erant, una illis erat substantia, veniens rationale
disgregavit omnino speciem et funditus alteram fecit. Ergo communes et propriae
differentiae alteratum facientes vocantur, magis propriae alterum facientes.
Constat igitur differentiarum alias facere alterum, alias alteratum. Illae quae
faciunt alterum, substantiales sunt et omnes naturam speciemque ƿ permutant et
specificae praedicantur; valent enim quamlibet speciem constituere et ab aliis
omnibus segregare et eius formam paturamque componere. Nam si dicas mortale et
rationale differentias et eas animali supponas, non est dubium quin hominis
speciem, facias et speciei huius sint perfectrices. Atque ideo specificae
nominantur, quod et permutant naturam et ipsam substantiam cuiuslibet illius
speciei constituunt illae vero aliae nihil aliud efficiunt nisi alteratum,
quippe cum aut proprietate quadam formae alius distet ab alio aut aliqua
habitudine et dispositione aliquid faciendi. Illa igitur magis propria
differentia, quam specificam nominamus, sola poterit in generis divisione
congruere. Etenim caeterae nihil ad substantiam sed ad quandam quodammodo
eiusdem similitudinis discrepantiam distantiamque ponuntur. Nihil enim in illis
praeter alteritatem solam reperire queas, quippe quae non constituunt species
sed constitutas iam et effectas magis propriis suis qualitatibus ipsae
discriminant. Quod autem dicit: REPETENTI NUNC A SUPERIORIBUS
DICENDUM EST DIFFERENTIARUM ALIAS ESSE SEPARABILES, ALIAS INSEPARABILES. hoc
est quod hic nunc divisio alia rursus assumitur. Nam cum prius differentiam in
tribus partibus separaret et postea tres illas in duarum tantum namerum
quantitatemque colligeret, ut alias alterum facientes esse diceret, alias
alterantes, ipsarum rursus trium tertia sumitur facienda divisio. Dicit enim
alias esse separabiles, alias vero inseparabiles, et sicut in priore divisione
alteratum facientes duae fuerant communes et propriae. Sola vero magis propria
remanserat quae alterum faciebat, eodem nunc etiam modo in separabilibus et in
inseparabilibus communis tantum separabilis differentia est, aliae vero
differentiae utraeque, ut caecitas oculorum vel flaua caesaries vel corporis
proceritas, quae sunt propriae differentiae, vel certe rationabilitas vel
mortalitas. Quae sunt magis propriae differentiae, possunt numquam ab hominis
specie segregari. Sedere vero vel currere, quae communes sunt, separantur a
singulis et item rursus adduntur. Earum vero quae sunt inse pal abiles, aliae
per se veniunt, aliae vero per accidens. Et illae quae per se veniunt, a magis
propriis manant, illae quae per accidens, a solis propriis effunduntur. Et
inseparabile accidens est quicquid per inseparabilem propriam differentia unim
cuique speciei contigerit. Sed quamquam propria et magis propria inseparabiles
differentiae sint, numquam tarnen illam superiorem formam naturamque commutant.
Nam magis propria semper alterum, propria vero solum semper efficit alteratum.
Huc accedit quod inseparabiles propriae possunt alicui plus minusue contingere,
inseparabiles magis propriae nec cumulis intentionis augentur nec imminutione
decrescunt. Potest enim alius procerior, alius fuscior, deductioribus alius
capillis, alius ƿ flavioribus nasci, quae sunt inseparabiles propriae
differentiae at vero magis propria, id est rationale, neque plus neque minus
admittit. Omnes enim homines in eo quod homines sunt, aequaliter sunt
rationales atque mortales. Nam si genus alicui plus minusue esse posset genus,
possent etiam differentiae vel intentione crescere vel remissione decrescere.
Nam quoniam animal non est plus homini quam equo neque equo quam caeteris, et
aequaliter subiectis omnibus genus est. Sic specierum differentiae quas
specificas appellamus, maius minusue non capiunt. Nam si animal rationale
mortale hominis definitio est et hominum nihilominus singulorum, non est dubium
quin haec definitio ad omnes homines singulos aequaliter semper aptetur et
nulli neque plus neque minus conveniat quod si ita est, partes quoque totius
definitionis, quae sunt differentiae, tales erunt, ut nulli neque plus neque
minus sed aequaliter semper et convenienter aptentur. Partes autem huius
definitionis sunt rationale et mortale. Rationale igitur et mortale, quae sunt
magis propriae differentiae, plus minusue non capiunt. Ab hac igitur, id
est separabilium inseparabiliumque differentiarum divisione tribus modis
differentias speculamur nam aut separabiles sunt aut inseparabiles,
inseparabilium vero aut per se veniunt aut per accidens. Quae per se veniunt,
aliae sunt quae genus dividunt, aliae quae speciem informant atque constituunt.
Sed de superioribus prius dictum est, nunc autem de his quae genus dividunt et
speciem constituunt. Disseramus. Omnis quaecumque fit generum divisio in
species, si earum specierum alia snbdivisio fiat et a magis generibus ƿ per
subalterna genera usque ad magis species decurratur, gemina in his erit
duplexque divisio. Namque si contrarias specierum differentias respicias.
Generum est divisio, si suba-ltemorum generum, fit specierum constitutio. Si
enim genus dividamus id est sublstantiam, ut iam speciei disputatione e divisa
est, et sit substantia, post substantiam animatum corpus et inanimatum, sub
animato corpore sensibile et insensibile, sub sensihili, id est animali,
rationale vel irrationale, sub rationali mortale vel immortale, hae igitur
differentiae eaedem species sunt, si contra se ipsas in divisione respiciantur.
Et dividunt genus hoc modo. Nam quoniam sub substantia animatum corpus et
inanimatum posuimus, si animatum corpus contra inanimatum respicias,
substantiam divisisti. Si vero subalterna genera in ipsis differentiis
aspicias, speciem constitues. Nam si animatum corpus et quod sub ipso est
sensibile corpus aspeseris, animal respexisti. Item si rationalem
differentiam contra hlrationalem acceperis, genus quod est utrorumque, id est
animal divisisti. Si vero sub eodem ordine rationalem differentiam et mortalem
accipias, hominis sine dubio speciem demonstrasti. Ita hae differentiae alio
modo acceptae fiunt generis divisibiles, id est genera dividentes, alio vero
modo fiunt constitutivae specierum, id est quae species declarent atque
constituant, nam si contrarias differentias respexeris, divides genus, si vero
subalternas, speciem constitues. Differentiarum igitur vis et separabilium et
inseparabilium caeteras tres res, id est genus, speciem aceidensque sic
retinet, ut permutata comparatione per haec eadem ipsa etiam permutentur. Nam
rationale et mortale differentias si contra irrationale et immortale
respexeris. Divisibiles sunt et generis differentiae, sin vero idem ipsum
rationale et mortale ad superiora comparaveris, species erunt eius quod eas
continet animalis. Si vero rationale atque mortale ad subiectum hominem
consideres, genera eius constitutivasque differentias contemplabere. At vero de
illis aliis inseparabilibus. Id est propriis, cadunt differentiae inseparabilis
accidentis. Inseparabile namque est accidens caecitas oculorum et, nasi
curuitas et alia huiusce modi. Et idem de separabilibus accidentibus, id est de
communibus. Separabile namque est accidens vigilare, dormire et currere vel
sedere. Quod autem dicit: SIC IGITUR COMPOSITA SIT SUPER OMNIA SUBSTANTIA ET
SINT EIUS DIFFERENTIAE DIVISIBILES ANIMATUM ET INANIMATUM, contrarias
differentias in species monstrat. Quod autem dicit: HAEC DIFFERENTIA
ANIMATA ATQUE SENSIBILIS SOCIATA SUBSTANTIAE PERFICIET
ANIMAL, constitutivas specierum diffetentias monstrat. Sic igitur variis
modis acceptae varias virtutes formasque sortitae sunt. Sed et divisibiles et
constitutivae utraeque specificae nominantur ƿ et in divisione generum
definitionibusque solae sunt utiles, caeterae vero inseparabiles per accidens
inutiles, et multo magis illae sunt inutiles quae separabili differentia
discretioneque formatae sunt. Has autem specificas differentias qui de differentiarum
definitione tractaverunt, tales esse declarant quibus species a genere
abundant. Quid autem sit, breviter explanandum est. Controversia est utrum
genus differentias specierum suarum in se habeat an minime, ut puta: animal sub
se habet species rationale et irrationale, id est hominem et verbi gratia
equum; rationabilitatem igitur et irrationabilitatem, id est hominis vel equi
differentias, quibus a se species sub animali positae differunt, utrum habeat
utrasque animal an non habeat. Nam si animal, quod genus est, neque rationale
neque immtionale est, species quae sub ipso sunt positae, istas differentias
non habebunt. Nam si genus istas differentias non habebit, unde erunt speciebus
differentiae, quibus a se ipsis differunt? Sed si quis dicat esse in genere
istas differentias, non enim haberent species, nisi prius genus habuisset,
aliud maius continget incommodum. Nam quoniam aeque sunt species quae sub
aliquo genere supponuntur, et aequaliter homo atque equus sub animali genere
ponuntur neque homo prius est neque equus sed uterque aequaliter animati
species nominantur. Igitur si rationale atque irrationale aequaliter sub
eodem genere sunt, ƿ erunt etiam uno tempore. Quodsi uno tempore et genus istas
differentias habet, ut genus suapte natura id est animal rationale sit et
irrationale, noo est dubium quod eadem res uno tempore duas contrarietates in
sese substantialiter retineat. Quod fieri nequit. Quid igitur? Dicendum est
quoniam genus actu quidem ipso, quod Graeci eineurgeian vocant, istas differentias
non habet, at vero potestate ab his ipsis differentiis, quas in suas species
fundit, non uacat. Quid autem sit actus et potestas, castigatius explicandum
est. tantum interest aotus a potestate, quantum homo ridens ab eo qui ridere
possit, non tamen rideat. Ille enim agit ipsam rem, ille tantum potest, non
etiam agit. Sic igitur et animal. Namque homo actu ipso rationalis est, semper
enim homo rationalis et nihil aliud est; et equus semper irrationalis, et eius
irrationabilitas in actu posita est. At vero ipsum animal rationale vel
irrationale non ipsum agit neque est in eorum actu positum sed in potestate.
Potest ellim es se rationale atque irrationale profundere. Quare quoniam
species actu differentias continent, genus vero potestate, species a genere merito
differentiis abundare dicuntur, quoniam quod genus potest, id est differentias
facere, species non solum possunt sed etiam agunt; in ipsis enim speciebus
positae informataeque sunt. Est autem alia differentiae definitio talis,
quae dicat differentiam esse quae ad plurimas species in eo quod quale sit
praedicetur. Differentia ad res plurimas dici potest, ut rationale dicitur ad
hominem -- homo enim rationalis -- dicitur ad deum; deus enim rationalis
dicitur sed non in eo ƿ quod quid sit sed in eo quod quale sit. Nam si qualis
homo sit interrogetur, rationalis continuo respondetur, qualis deus sit si
interroges, rationalem non absurde dixeris. Eodem modo etiam irrationabilitas.
Dicitur enim et ad equum et ad bovem et ad piscem et ad avem, quae omnia si qualia
sint interrogaveris, irrationabilia praedicantur. bona igitur et recta haec est
definitio, id est: DIFFERENTIA EST QUOD AD PLURIMAS RES SPECIE DISTANTES
IN EO QUOD QUALE SIT PRAEDICATUR. Et de mortali vero et de aliis
differentiis eadem est ratio. Sequitur locus perdifficilis sed
transferentis obscuritate Victorini magis quam Porphyrii proponentis, qui
huiusmodi est. Dicit omnem rem quaecumque est corporea, ex materia et forma
constare. Namque si statuam dicas, constat statua ex aere verbi gratia et figura
illa quam ei suus fictor imposuit, et est materia ex quo facta est aeris,
figura vero, id est forma, qua aes ipsum formatum est. Nam si hominem formabis
ex aere, erit hominis forma, aes vero materia. Eodem modo etiam genus. Namque
genus in modo materiae accipitur, differentia vero in modo formae. Etenim
quemadmodum quaecumque illa res ex materia et forma consistit, sic etiam omnis
species ex genere et differentia. Namque genus ita est hominis, ut est statuae
aes, differentia vero sic est hominis, ut est forma illa es qua aes effictum
est. Nam sicut ex aliqua figura quae es aeris materia efficta est, cuiuscumque
illius species statuae ƿ fit, sic etiam cum in genus, id est in animal venerit
differentia, id est rationale, hominis species fingitur. Ista igitur sibi
proportionaliter sunt. Proportio autem est cuiuscumque, illius rei similis ad
aliquam rem cognatam comparatio, ut puta si duo compares ad quattuor, dupla
proportio est, sin vero viginti ad quadraginta, eadem dupla. Sub eadem ergo
proportione sunt quattuor ad duo, sub quali quadraginta ad viginti quod utrique
duplex est numerorum! comparatio. Sic igitur qualis proportio est, id est
comparatio materiae et figurae talis est proportio generis et differentiae, et
ista quattuor sibi proportionaliter sunt. Eodem enim modo ex materia et figura
species cuiuscumque illius fictionis fortnata est, quemadmodum ex genere vel
differentiis species cuiuscumque illius animantis inanimantisue formatur. Quod
Victorinus scilicet intellexisse minus videtur. Nam quod Porphyrius ainaulogon
dixit, id est proportionale, ille sic accepit quasi a[logon diceret, id est
irrationale. Atque ideo in loco ubi habet hoc modo scriptum: OMNES NAMQUE
RES EX FORMA ET MATERIA CONSISTUNT IPSA AUTEM FORMA IRRATIONABILIS
EST, tollendum est irrationabilis est et dicendum proportionabilis est. Et
subterius paululum ubi habet: IAM OMNE GENUS SIMILE MATERIAE EST ET
CONSISTIT IRRATIONALE, tollendum irrationale et ponendum est
proportionale, ut sit et consistit proportionaliter. Nam quae proportio est
figurae ad materiam in efficienda cuiuslibet corporis fictione, eadem est
proportio diffelrentiae ad genus in efficienda cuiuslibet specie animati atque
inanimati. Sequitur item alia definitio, quae est huiusmodi. Dicunt enim esse
differentiam quod possit separare quicquid sub eodem genere est, et recte
dicunt. Nam dum syb eodem genere sit homo atque equus, quia utrumque est
animal, cum venerit rationale vel irrationale, equum atque hominem, quae sub
eodem genere sunt, dividunt atque discerllunt. Sunt igitur illae differentiae
quae possunt res sub eodem genere separare. Est autem alia definitio:
differentiae sunt quibus quidque ab alio distat. Nam homo atque equus rationali
atque irrationali differentia discrepant, cum unum sint quantum ad genus. Et
hoc est quod dicit: DIFFERENTIA EST QUA DIFFERUNT SINGULA, QUIA PER SE
IPSUM GENUS EST ET ILLA QUAE RATIONABILIA SUNT, NOS SCILICET, ET ILLA QUAE
IRRATIONABILIA SUNT. NAMQUE ET HOMO ET EQUUS ET AVIS HAEC OMNIA GENUS UNUM
SUNT, ID EST ANIMAL. NAMQUE ANIMAL HORUM OMNIUM GENUS EST. Sed si de hoc
loco in quo positum est quia per se ipsum ƿ genus est, mutes et facias 'quia
per se ipsa animalia sunt', plenior sensus erit -- generis enim hic nomine pro
animalis abusus est -- et erit huiusmodi ordo: 'differentia est qua differunt
singula, quia per se ipsa animalia sunt et illa quae rationabilia sunt
animalia, nos scilicet, et illa quae irrationabilla sunt'. Quod si sic esset,
nullus esset error omnino. Nunc vero genus quod ait, pro animalis nomine
intellegendum est. Item dii atque homines cum utrique rationales sint,
mortalitatis tamen nomine adiecto differunt discrepantque. Sic igitur
differentia est qua singula differunt sed hoc non simpliciter sed illas tantum
differentias huiusmodi esse putandum est quae ad substantiam prosunt et quae ad
id quod est et quaecumque speciei possint esse aliqua pars. Quod huiusmodi est
si equus atque homo, quorum utrorumque unum genus est animal, a se differunt
rationali atque irrationali qualitate attamen ista rationabilitas et irrationabilitas
in substantia ipsarum specierum est hoc modo. Nam neque equus potest esse sine
irrationabilitate, neque homo sine rationabilitate. Atque ideo istae
differentiae prosunt ad aliquid esse speciei illi cui fuerint accommodatae et
substantiae ipsius partes sunt. Nam cum homo ex his differentiis constet, id
est ex rationali et mortali, rationale et mortale solum positum pars est
substantiae hominis. Nam si utraque simul unum hominem faciunt, non est dubium
quin ad substantiam hominis efficiendam unaquaeque earum res pars esse
videatur. Quare illae ƿ differentiae quaecumque non prosunt ad esse nec partes
substantiae cuiuslibet speciei sunt, specificae differentiae dici non habent,
quamvis sola hoc una species habeat. Nam si homo navigat, potest dici animal navigabile
sed navigare in substantiam hominis non convertitur. Neque enim homo inde
subsistit, quia navigat, quamvis hoc nullum aliud animal habere possit, id est
nullum possit animal navigare. Eodem modo et esse rhetorem vel grammaticum. Has
igitur differentias quae ad esse non prosunt sed tantum artem aliquam
scientiamque commemorant, non ponimus specificas esse, quamvis una quaelibet
animalis id species habeat. Ergo considerandum est, ut quotiens dicimus
definitionem differentiae illam, 'differentiam esse qua differant singula',
illam significari differentiam intellegamus quae ad aliquid esse prodest et
quae est alicuius pars substantiae speciei, illas vero quae ad esse non
prosunt, a in hoc genere differentiarum, quamvis singulae cuiusque sint, non ponamus. Sed
quoniam de differentia dictum est, de proprio explicemus. ÑTunc Fabius: Ut
arbitror, consequens est: PROPRIUM QUATTUOR DICITUR MODIS. DICITUR NAMQUE
PROPRIUM QUOD UNI SPECIEI ACCIDIT, ETIAMSI NON OMNIBUS. Et ego: Quattuor ergo
modis propria dividuntur. Est enim proprium quod uni accidit, etsi non omnibus,
ut est rhetor vel geometer vel grammaticus. Haec vero omnia uni soli speciei,
id est homini accidunt, non tamen omnibus. Neque ƿ enim omnes homines grammatici
vel rhetores vel geometres sunt, atque ideo vocabitur hoc proprium quod uni
sit, etiamsi non omnibus. Est item alia proprietas quae est omnibus etiamsi non
soli. Nam bipes omni homini accidit, omnis enim homo bipes est sed non soli
hominum speciei accidit sed etiam avibus. Est item tertium proprium quod omni
et soli et aliquo tempore accidit, ut est in pubertate pubescere et in senecta
canescere. Namque et umnibus hominibus evenit et nulli alii speciei nisi soli
hominum et aliquo tempore; constitutum enim tempus est vel adolescentibus
pubescendi vel senescentibus canescendi. Neque enim a sexto anno vel septimo
aliquis pubescit aut a vicesimo canescit, nisi forte aliquid accidit novi
quartum proprium est quod uni speciei accidit et omnibus sub eadem specie
individuis et omni tempore. Nam risibilem esse hominem et uni speciei solum, id
est homini, contingit et omnibus sub eadem specie individuis; omnes enim
singuli homines rident et omni tempore. Numquam enim tempus fuit ut quicumque
ridere non posset. Sed risibile dico potestate, non actu. Namque etsi non
rideat homo, tamen quia ridere potest, risibilis appellatur. Et sunt integre et
vere propria ista quae et uni et omnibus et omni tempore insunt, namque haec
speciebus suis converti possunt. Si enim dicas: quid est homo? Risibile. Si:
quid est risibile? interroges, homo praedicabis. Illa vero alia, bipes vel
grammaticus, propria quidem sunt sed converti non possunt. Nam grammaticus
semper homo, homo vero non semper grammatices, et e contrario homo ƿ semper
bipes est, non e contra bipes semper homo est. Et hinnibile similiter magis
proprium equi est. Nam eodem modo haec proprietas ad suam speciem converti
potest. Nam si dicas: quid est equus? hinnibile respondebis, si: quid est hinnibile?
equus praedicabitur. Sed quoniam de propriis dictum est, de accidentibus
sequens tractatus habeatur. Tum Fabius: Definit Porphyrius accidens
sic: ACCIDENS EST QUOD INFERTUR ET AUFERTUR SINE EIUS IN QUO EST
INTERITU. Hoc autem dicere videtur, illud esse accidens sine quo potest
constare illud cui accidit; ut puta si forte casu aliquo cuiquam facies
inrubuerit, abscedente rubore inlaesa facies permanebit, sicut eveniente non
laesa est. Dividit ergo accidens in separabile et in inseparabile. Namque
separabile accidens est, ut puta si quis sedeat vel ambulet, inseparabile est,
ut si dicas coruum nigrum, cygnum album; a quibus haec accidentia separari non
possunt. Nascitur autem huiusmodi dubietas, utrum superior definitio vera sit
et omnium accidentium nomen includat. Nam quoniam sunt quaedam, ut ipse ait,
accidentia inseparabilia, in his talis definitio videtur convenire non posse.
Nam si separari non possunt, non est in illis vera definitio quae dicit
accidens esse quod et inferri et auferri potest sine eius in quo est interitu.
Nam cum inseparabilia sunt, auferri non possunt. Sed haec tam uehemens quaestio
solvitur sic, quod haec ipsa definitio de accidentibus facta est potestate, non
ƿ actu, et intellegentia, non veritate, non quia Aethiops et coruus colorem
amittunt sed sine isto colore ad intellegentiam nostram possunt subsistere. Nam
verum est quoniam Aethiopem aut coruum color niger numquam deserit. Sed si quis
subintellegat colorem istum Aethiopem vel coruum posse amittere plumarum tantum
color in coruo mutabitur et erit avis alba specie et forma corui, si quis hoc intellegat,
at vero hominis, id est Aethiopis, amisso nigro colore, elit eius species
candida sicut etiam aliorum hominum. Ergo hoc non ideo quia fiat dicitur sed
ideo quia, si posset fieri, huius accidentis susceptrix substantia non periret.
Quod ipse hoc modo demonstrat: POTEST AUTEM SUBINTELLEGI ET CORVUS ALBUS ET
AETHIOPS COLOREM SUUM PERDITURUS SINE INTERITU SUO IN QUO COLOR FUIT. Nihil
enim ad speciem impedit, si Aethiops vel coruus amisso colore in propriae
substantiae natura permaneat. Est autem alia definitio, quae est
huiusmodi: ACCIDENS EST QUOD CONTINGIT ALICUI ET ESSE ET NON
ESSE. Nam quod in substantiam non convertitur, id accidens esse dicimus,
id est non in substantia insitum sed extrinsecus veniens. Ergo ea quae
contingunt et esse et non esse, ideo accidentia vocata sunt, quoniam in
substantiae ratione non accipiuntur. Si enim in substantiae ratione ponerentur,
numquam non essent, et si non essent, numquam esse possent. Nam quoniam verbi
gratia ratio in substantia hominis est, numquam homo esse potelit irrationalis,
quoniam irrationabilitas in substantia hominis non est. Ex hoc ergo venit etiam
alia definitio, ƿ accidens esse illud quod neque genus sit ueque species neque
differentia neque proprium. Nam quoniam genus, species, differentia et proprium
in substantia sunt et cuiuscumque illius rei substantiam monstrant, idcirco
quicquid horum aliquid non fuerit, id accidens merito
praedicatur. Explicitis igitur atque expeditis his quae proposuit, id est
genere, specie, propriis, differentiis accidentibusque, tractare a nunc
exequitur illa quae inter haec communia omnia vel quae differentiae sint. Et
primo omnium simul inter se communiones explicat, post etiam singulorum, et
dicit omnium esse commune de pluribus praedicari. Namque genus praedicatur de speciebus
et de individuis, eodem modo praedicatur et differentia de speciebus et de
individuis, etiam proprium et de speciebus et de individuis praedicatur, at
vero species de solis tantum individuis appellatur. Genus enim praedicatur de
equis, hominibus, bobus et canibus, id est speciebus, praedicatur item et de
his quae sub ipsis speciebus individua continentur; nam sicut species ipsae
canis vel equi vel hominis ƿ animalia sunt, sic et unusquisque equus vel homo
animalia praedicantur. Differentiae vero praedicantur de speciebus et de
individuis hoc modo. Namque homo et equus species sunt sed rationalis dicitur
et ad speciem hominis differentia praedicatur eodem modo et ad Ciceronem. Nam
cum sub hominis specie individuum sit, et ipse rationalis appellatur proprium
autem de specie praedicatur. Cum dicitur species; quod est homo, risibilis et
cum dicitur Cicero risibilis, quod est individuum, monstratur proprium de
individuis praedicari. Species vero de suis tantum solis individuis praedicatur
interrogatur enim: quid est Cicero? et homo respondetur. Accidens vero ante
praedicatur de individuis et postea de speciebus. Nam si quis dicat: homo
sedet, quod est accidens separabile, cum quicumque singulum hominem, id
est'individuum sedere viderit, tunc id et de specie praedicat, ut dicat:
quoniam Cicero sedet Cicero autem homo est, homo sedet. Eodem modo inseparabile
de speciebus et de individuis praedicatur. Expeditis ergo omnium
communionibus, generis et differentiae primum communiones differentiasque declarat.
Et primum dicit generi cum differentia esse commune quod ab utrisque species
continentur. Nam genus, quod est animal, continet speciem hominis atque equi.
Porro autem rationale, quod est differentia, continet et hominem et deum, et
irrationale, ƿ quod est differentia, continet equum, bovem atque avem sed ita
continet, ut genus semper plures species contineat quam continet differentia.
Namque genus et ipsas differentias continet. Genus enim, id est animal,
rationale atque irrationale continet illasque species quae sunt sub rationali;
etiam eas <quae sunt sub> irrationali, continet genus, lid est animal. At
vero differentia, id est rationale, in rationale non continet sed tantum
hominem atque deum. Plus igitur genus continet quam differentia. Est autem et
alia communio. Si quid enim ad quodlibet genus ita praedicatur, ut eius genus
sit, et de illis speciebus quae sunt sub illo genere ad quod praedicatur, illud
genus appellatur et de individuis quae sub illis speciebus sunt. Namque animal
genus est hominis, et de animali praedicatur ut genus substantia; genus enim
substantia animalis est. Ergo illa substantia quae ad hominis genus, id est
animal, ita praedicatur ut genus, praedicatur etiam et ad ipsum hominem;
dicitur enim homo substantia. Praedicatur item illud generis genus etiam de bis
quae sunt sub specie individuis; dicitur enim Cicero, quod est sub hominis
specie individuum, substantia. Differentia eodem modo. Nam si qua differentia
dicta fuerit de alia differentia, ut differentia intellegatur, praedicabitur et
ad speciem quae sub illa differentia est ad quam praedicatur, et de illis
individuis quae sub eadem specie sunt. Nam 'ratione uti' differentia ad
rationalem differentiam veluti cognata differentia praedicatur, rationabile
autem praedicatur ad hominem: ƿ ergo et ratione uti praedicatur ad hominem.
Idem etiam ratione uti praedicatur ad Ciceronem, quod est individuum sub illa
specie ad quam speciem illa differentia, id est rationalis, praedicabatur, de
qua praedicabatur ut cognata illa differentia, id est ratione uti. Igitur est
ista generis differentiaeque communitas, quod ea quae de genere speciei
praedicantur ut genus, et de sub eodem genere specie praedicantur et de
indiaiduis, et illa quae de differentia praedicatur ut differentia, et de sub
eadem differentia specie praedicatur et de individuis. Est autem alia communio,
quod quemadmodum interempto genere species interimuntur, sic interempta
differentia species sub eadem differentia interimuntur. Nam si interielit
animal, homo atque equus continuo periturus est, sin vero differentia, id est
rationale, dii atque homines interibunt et nihil eorum erit quod uti ratione possit.
Post demonstrationem igitur communium proprietates eorum differentiasque
designat et dicit differentiam primam eam qua genus non solum <a>
differentiis sed etiam speciebus vel propriis vel accidentibus differat. Namque
dicit genus multo de pluribus praedicari quam praedicetur differentia vel
species vel accidens vel proprium. Namque genus dicitur, id est animal, de
quadrupede, de bipede, <de> reptili, id est ƿ de serpentibus, vel de
natabili, id est de pisce. Quadrupes autem, quod est a bipede differentia, de
solis illis dicitur quae quattuor pedes habent, id est equus vel bos, de
caeteris autem aliis, id est bipede vel reptili vel natabili, unde genus
aequaliter praedicatur, appellari non potest. Plus autem genus ab speciebus
praedicatur, quod, cum hominis species sit et de solis individuis praedicetur,
idem tamen homo de equo vel bove vel cane non praedicatur. At vero animal, quod
est genus, de pluribus speciebus praedicatur, id est de homine et de equo et
cane et bove et de omnibus quae sunt sub ipsis posita individuis. Genus autem a
proprio praedicationibus abundat, quod proprium unius speciei semper est et de
sub eadem individuis, genus vero de multis speciebus et propriis praedicatur et
de sub eisdem individuis. Ab accidentibus vero genus magis de plurimis
praedicatur, quod, cum unius cygni inseparabile fortasse accidens sit album,
animal non solum de cygno praedicatur sed de omnibus animalibus, etiam non
albis, at vero accidens de solis tantum illis quibus inseparabiliter continetur
vel quibus separabiliter; nam principaliter de individuis dicitur. Quare
constat multo de pluribus praedicari genus quam accidentia praedicantur, quod
accidentia principaliter de individuis, genera vero de individuis et de
speciebus et de differentiis praedicantur. SED NUNC ILLAS DIFFERENTIAS
ACCIPIAMUS QUIBUS GENUS DIVIDITUR, NON QUIBUS SPECIES FORMANTUR. Hoc autem
tale est. Quoniam duas diximus differentiarum esse formas, ut aliae sint
divisibiles, aliae constitutivae, constitutivas illas diximus quae sub eodem
filo positae et a subalternis generibus descendentes speciem quandam informant
atque efficiunt, ut est rationale vel mortale; quae hominis speciem constituunt,
alias vero divisibiles, quae genus dividunt, non speciem informant, id est
rationale et irrationale, mortale et immortale. Nunc de illis differentiis iste
tractatus habetur quae genus dividunt, non quae speciem constituunt. Nam illae
quae genus dividunt, 1n differentiarum integro loco accipiuntur, illae vero
quae speciem constituunt, in generum specierumque substantia recipiuntur.
Namque rationale mortalis genus est, porro mortale hominis genus est, et istae
constituunt speciem, at vero rationale irrationalis species non est neque
genus, nec mortale immortalis neque genus neque species est. Atque ideo quoniam
propriam vim differentiarum ista retinent quae neque genera neque species sibi
invicem esse possunt, ipsas nunc differentias accipiamus in quibus nulla
quantum ad genus est speciemque communitas. Est etiam generis differentia.
Namque genus a propriis differentiis prius est. Namque si abstuleris genus,
omnes simul differentias abstulisti. Nam si abstuleris animal, rationale atque
irrationale non remanent. Porro autem si rationale abstuleris, remanet ƿ
animal. Sed si utrasque interemeris differentias, id est rationale vel
irrationale, potest tamen quiddam intellegi, quod sit substantia animata
sensibilis, id est animal. Ita genus sublatum omnes secum auferet differentias,
sublatae differentiae genus secum non interimunt, quod intellegentia genus
remanet, id est quoniam potest animal intellegi praeter differentias, ut eius
tantum definitionem animo capias et esse dicas substantiam animatam atque sensibilem.
Quae autem talia sunt, ut ipsa interempta interimant, non simul aliis
interemptis ipsa interimantur, priora sunt illis quae possunt interimere. Est
etiam alia differentia, quod genus semper in eo quod quid sit praedicatur, ut
dictum est, differentia vero in eo quod quale sit. Sed hoc frequentius
inculcatum est atque ideo a nobis praetermittendum est. Est etiam alia
differentia, quod ad omnem speciem unum semper genus aptatur. Homo enim unum
tantum genus habet, ut animal appelletur, in unam autem speciem plurimae
differentiae poterunt commodari. Namque homo et rationale est, quae differentia
est, et mortale, quae eadem differentia est, et sensibile, quibus scilicet
omnibus ab aliis differt. Differt enim his omnibus, quod sensibilis est ab
insensibilibus, quod rationalis ab irrationabilibus, quod mortalis ab
immortalibus. Est etiam alia differentia, quae superius dicta est. Nam genus
speciei ita est ut materies, differentia vero ut figura. Nam sicut in aeris
materiem veniens figura statuam efficit, ita animali, id est generi, veniens
differentia, id est rationale vel irrationale, facit hominis vel pecudis
speciem. Quae autem communitates ƿ vel proprietates generis <et
differentiae> fuerunt, hactenus dixit. Et fortasse erunt etiam aliae, quae propter
brevitatem supersedendae atque omittendae sunt. Nunc autem de generis vel
speciei communitatibus proprietatibusque tractatur. Et dicit genus et speciem
commune habere de pluribus praedicari, sicut dictum est. Nam genus et de
speciebus pluribus praedicatur et earum individuis et item species de sub se plurimis
individuis appellatur. Et hic quoque illae species accipiuntur quae magis
species sunt. Nam si subalternae accipiuntur, non magis species quam genera
videbuntur. Nam quae subalternae species sunt, etiam genera sunt, et erit
absurdum et huic propositioni inconveniens de generum inter se differentiis
communibusque tractare. Accipiantur illae tantum species quae vere species et
magis species appellantur. Est etiam alia eorum communio, quod sicut gentls ab
specie primum est, sic species ab individuis primae sunt. Nam si genus auferas,
species abstulisti, si species abstuleris, genera non peribunt. Porro si
species abstuleris, individua morientur, si individua interierint, species
manent. Est etiam his alia communio, quod quemadmodum genus quid sit totum
declarat, sic etiam species. Nam totum quod est rationale atque irrationale, a
genere declaratum est; dicitur enim quicquid fuerit rationale vel irrationale,
id esse animal. ƿ Sic igitur totum quid sit, a genere declaratur. Porro autem
quid sit tota hominum diversitas, id est individuorum, a sola specie
declaratur, cum dicitur homo. Nam et Scytha et Indus et totum quisquid in
individuis est, uno solo hominis, id est speciei nomine continetur. Dissertis
igitur generis specieique communibus ad proprietates eorum vel differentias
transitum fecit dicens differre inter se genus et species, quod genera species
continent, numquam rursus genera ab speciebus propriis continentur. Oportet
autem, ut dictum est, in hoc tractatu non subalternas sed magis species
considerari. Genus enim plurimarum specierum est continens et unum omnium et
totum et omnibus et singulis. Quod si ita est et genus a suis speciebus
singulis maius est atque ideo eas dicitur continere, non est dubium quin ea
ipsa genera quae continent species, ab his ipsis contineri non possint. Insuper
omnia genera praeiacent. Hoc videtur dicere quod omnia genera prius sint ab his
speciebus quae sub ipsis positae continentur. Nam sicuti materies prima est ab
illa re quae veniens in materiem formam constituerit atque figuravexit, sic
etiam prius est genus ab illa specie quam veniens differentia formabit atque
constituet. Nisi enim in generibus differentia venerit, species numquam
constituentur. Quare praeiacent, id est praesunt et antiquiora sunt genera
speciebus suis. Atque ideo si genera interimantur, ƿ species quoque peribunt;
nam si animal sustuleris, hominem pecudemque sustulisti. Si vero species
interimantur, non continuo genus interibit; nam si homo perierit, animal
continuo non interemptum est, alia enim remanebit species de qua ipsum animal,
id est genus praedicetur. Atque ideo genera ab speciebus suis priora dicuntur.
Et quod omnia genera univoce de speciebus praedicentur, species ipsae de
generibus numquam. Hoc, ut arbitror, in hesterna lucubratione iam dictum est.
Nam genera semper de speciebus univoce praedicantur. Homo enim et homo est et
animal. Porro autem animal genus est hominis et praedicatur animal de lmmine.
Quoniam ergo animal Ac homine praedicatur et dioitur homo animal, animal et
homo uno animalis nomine nuncupantur. Sed his ipsis definitio una conveniet.
Est enim animal snbstantia animata sensibilis, quod non absurdum est in homine
dici. Nam si homo ipse animal dicatur, non erit absurdum dici de homine
'substantia animata sensibilis'. Igitur genus de speciebus suis univoce
praedicatur, quod eodem nomine et eadem definitione conveniat. At vero species
non modo univoce non praedicantur de generibus suis sed nec omnino
praedicantur; nulla enim res minor de maiore poterit prxedicari. Atque ideo,
quoniam species minores sunt suis generibus, de generibus suis neque univoce
neque aliquo modo poterunt appellari. AMPLIUS OMNIA GENERA ABUNDANT COMPLEXIONE
SUB SE POSITARUM SPECIERUM, IPSAE SPECIES ABUNDANT GENERUM SUORUM PROPRIIS
DIFFERENTIIS. Quod dicit proinde est ac si diceret: Omne quod genus est,
plures sub se species continet, omne quod species, plures in se differentias
habet. Genus enim, id est animal, in hoc homine, id est specie, superabundat et
superest, quod homo solum homo est, animal vero non solum homo sed etiam bos
vel avis vel alia huiusmodi. Species vero in eo superant genera sua, quod eas
differentias quas species in actu habent, eas genera non habents nam, sicut
superius dictum est, genera differentias illas quas habent sub se species
positae, potestate continent, non etiam re. Atque ideo species quae est homo,
vel alia species, sicut est equus, a genere suo, animali, in hoc abundant et
supersunt, quod animal ipsum per se neque rationale neque irrationale est, at
vero homo vel equus hoc rationale. Illud vero rationis expers. ILLUD
ETIAM, QUOD SPECIES NUMQUAM MAGIS GENUS FIET, RURSUS ET GENUS NUMQUAM MAGIS
SPECIES FIT. Et ut sciremus hic non de subalternis speciebus. Sed de illis
magis speciebus specialissimisque tractari, quid ait? Quod ea quae sunt genera,
magis species fieri numquam possunt neque magis species aliquando fieri magis
genus. Nam species numquam genus est. Quicquid enim fuerit species, genus non
erit neque quicquid fuerit genus, species erit. Quare constat in his eum
tractatibus de speciebus solis, non etiam de subalternis disserere. Subalternae
enim possunt esse etiam genera. Magis species vero, ut ipse ait, numquam genera
esse possunt. Sed postquam de generum specierumque communitatibus
differentiisque tractatus est habitus, ad genera propriaque transgressus
est. GENERIS ET PROPRII COMMUNE HOC EST, ADHAERERE SPECIEBUS ET
AMPLECTI. Dicit geners et propria in hoc sibi esse consimilia, quod omne
genus a suis speciebus numquam recedit. Eodem modo et propria. Nam si dixeris
'homo', cum ipso homine continuo animal nominasti, quod ipsius hominis, id ost
speciei genus est. At vero etiam si hominem dixeris, eius etiam proprium
continuo cum bomine nominasti; omnis enim homo risihilis est. Ita semper genus
et propria suis speciebus inselta et quodammodo conglutinata
sunt. SIMILITER ET GENUS PRAEDICATUR DE SPECIEBUS ET PROPRIUM DE HIS QUAE
SUI PARTICIPANTIA SUNT. Et aequaliter, inquit, omnes species eidem generi
supponuntur et ad eas genus illud appellatur, sicut propria ad ea praedicantur
quae sui participare possunt. Namque aequaliter genus animal de homine dicitur
et de equo et de bove et de caeteris animantibus, quemadmodum et risibile, id
est proprium, de Hortensio dicitur et Cicerone et de singulis individuis quae
sub eadem specie continentur, ad quam speciem proprium, id est risibile,
poterit praedicari. Adhuc commune est ipsis univoce praedicari. Nam genus
ƿ de suis speciebus, ut dictum est, univoce praedicatur et risibile de ea
specie cuius est proprium, univoce praedicatur; namque et homo est et risibile.
Porro autem si quis dicat hominem esse animal rationale et mortale et dixerit
risibile esse animal rationale et mortale, non errabit. Aequaliter igitur et
genus de speciebus suis et propria de ea specie cuius sunt propria, univoce
praedicantur. Differt autem utrumque, quod genus primum et secundum est
proprium. Genus enim si ab specie primum est, proprium autem uni tantum speciei
adhaeret et eidem aequale est, non est dubium quoniam genus, quod specie maius
est, proprio etiam speciei maius sit. Nam ut sit risibile, animal prius est.
Namque ut aliqua species informetur, propriis et differentiis primo erit genus,
ubi illa conveniant, sicut *equentius inculcatum est. Accedit etiam quod genus
de plurimis speciebus praedicatur. Namque genus, id est animal, de pluribus, at
vero propriums id est risibile, de sola tantum hominis specie praedicatur. Unde
fit ut semper propria de speciebus suis conversim praedicari possint, species
autem de generibus numquam. Neque enim omne quod animal est, homo est neque
omne quod animal est, risibile est. Potest enim esse et equus et hinnibile id ƿ
quod animal nominatur. Porro autem omne quod est homo, id risibile est et omne
quod risibile est, id homo est. Possunt autem propria et species sibi ipsa
converti et conversim ad se invicem praedicari. Praeterea omni speciei quicquid
fuerit proprium, omni et soli est. Namque risibile et omnibus hominibus est et
solius hominis speciei evenit. At vero animal, qmld genus est, etsi uni speciei
inest, non tamen soli. Namque animal omni homini inest, non soli tamen homini,
quia inest etiam pecudi et caeteris animantibus. Oportet autem hic illa propria
intellegere quae magis propria sunt, id est quae integre propria nominantur; quae
sunt huiusmodi, ut et uni speciei et omnibus insint. Differunt ergo in hoc
quoque genera et propria, quod propria et uni speciei et omnibus individuis in
ea specie sunt, genera vero omnibus quidem individuis in ea specie sunt sub
eodem genere, non tamen uni soli speciei, quoniam genus semper de plurimis
praedicatur. Unde fit ut sublata propria non auferant genus, sublatis vero
generibus ipsa quoque propria auferantur. Nam si sustuleris proprium, id est
risibile, remanet hinnibile remanet natabile. Si vero genus snstuleris, simul
quoque species sustulisti si species sustuleris, propria etiam quae sunt
speciebus, simul interibunt. Itaque sublatis generibus propria sustuleris,
sublatis propriis simul genera non auferuntur Peractis igitur generum
propriorumque differentiis ad generum accidentiumque communitates vel
proprietates transitum ƿ fecit et unam eorum praedicat communitatem, quae est
quod de pluribus praedicantur. Namque sicut genus de plurimis speciebus
praedicatur, ita etiam separabile accidens vel inseparabile de plurimis
speciebus appellatur. Dicitur enim et de coruo et de homine Aethiope nigrum et
de equo et de homine moveri, quod illud est inseparabile accidens, illud vero
separabile. Et quoniam longius a se distant, idcirco unam eorum solam communionem
dixit et alias si quae forte essent quaerere supersedit. Differt autem
genus ab accidenti, quod genus ante species est, accidentia vero speciebus
posteriora sunt. Semper genera super species et his praeiacere et esse maiora
superius demonstratum est. Namque prius est animal ab homine, atque ideo
consumptum animal species quoque consumit, consumptae species non interimunt
genera. At vero accidens postea necesse est ut sit, quam sunt ipsae species.
Erit enim prius aliquid cui possit accidere. Omne enim accidens praeter illud
cui accidit, esse non potest. Atque ideo prius erit aliqua res ubi accidat,
quam est ipsum accidens. Necesse est igitur omne accidens post species
inveniatur et magis post individua, quibus principaliter possit accidere. Huc
accedit quod generis participantia aequaliter participant. Sicut omne genus
speciebus suis aequaliter genus est, ut saepius dictum est, ƿ et species omnes
aequaliter suo generi participant. Namque equus et homo aequaliter animalia
sunt neque equus homine plus neque homo equo. At vero accidentia non aequaliter
participant nam cum separabile accidens sit moveri, possunt aliae inter se
species eodem accidenti participantes tardius velociusque moveri. Et de
inseparabili accidenti eodem modo. Est enim ut aliquis nigrioribus oculis sit
et alius quamvis nigris, tamen purpureis. Atque ideo et intentionem et
remissionem recipit accidens. Nam et candidum quod dicitur, et magis et minus
dicitur et alia huiusmodi. Quare distant haec duo, quod genere quae
participant, aequaliter participant, accidenti fortasse non aequaliter. Huc
accedit quod genera non modo ante individua sed ante species sunt, accidentia
vero non modo post species sed etiam post individua sunt; ipsis enim
principaliter necidunt, ut dictum est. Est etiam differeutia quae iam superius
dicta est. Nam genus in eo quod quid sit praedicatur, accidens vero in eo quod
quale sit aut quomodo se habeat. Nam si quid sit Socrates interroges, 'homo'
atque 'animal' respondetur, si vero qualis sit, fortasse 'caluus' aut 'simus',
quae accidentia sunt inseparabilia. Sin vero quomodo se habeat, aut 'iacet'
respondetur aut 'sedet' aut quod aliud faciens contigerit. Ergo quoniam generis
ad speciem et differentiam, ad proprium et accidens divisa substantia est, nunc
vero posteriora persequitur. Sunt autem omnes differentiae viginti. Nam cum
quinque res sint et unaquaeque ipsarum ad alias quattuor quattuor item
differentias habeat, quinquies quaternis viginti differentiae efficiuntur. Nam
si genus differt ab specie, proprio, differentia, accidenti, quattuor
differentiae fiunt. Sin vero species differt a genere, proprio, differentia,
accidenti, item quattuor; quae iunctae cum superioribus octo fiunt. Et si
differentia distat ab specie, proprio, genere. Accidenti, aliae quattuor
supercresculat; quae iunctae cum octo prioribus duodecim faciunt. At vero si
proprium differt a genere, specie, differentia et accidenti, aliis quattuor
differentiis super duodecim positis omnes sedecim differentiae fiunt. Quodsi
accidentis quoque differentias ad quattuor reliqua duxeris, quattuor super
sedecim crescentibus viginti omnes differentiae perficiuntur. Quarum ita
viginti sunt, ut ad sufficientem doctrinae cumulum decem tantum differentiae
numerentur. Nam quod dictum est genus differre a differentia, specie, proprio
et accidenti, quattuor fuere differentiae. Si autem differentiam dicamus
differre <ab> specie, proprio et accidenti, superuacuum ƿ est
differentiae cum genere differentias commemorare, cum iam prius
commemoraverimus, quando generis ad differentiam differentias dicimus. Eisdem
enim, ut opinor, differt differentia a genere quibus differebat genus a
differentia. Itaque relinquenda est haec differentia qua distat differentia a
genere, quoniam iam superius dicta est, cum diceretur quid genus, distaret a
differentia. Remanent igitur tres differentiae, quibus ipsa differentia ab
specie, proprio et accidenti distat. Et cum superioris generis ad alia quattuor
differentiae fuerint. Nunc vero differentiae ad alia tres distantiae videantur,
septem hae distantiae fiunt. At vero species quid a genere distet, iam tunc
dictum est, cum dicebatur quid genus distet ab specie. Quid autem a differentia
discreparet, tunc demonstratum est, cum diceremus in quo differentia ab specie
discerneretur. Remanent igitur duae speciei, id est cum proprio et accidenti
differentiae, quae iunctae cum superioribus septem novem differentias
efficiunt. Restat igitur una proprii et accidentis differentia quae dicatur.
Nam quid a genere distet dictum est, cum quid genus distaret a proprio diceretur,
porro quid ab specie, dudum dicebatur, cum quid species a proprio differret
enumerabatur, porro autem quid a differentia, etiam id dictum est, cum a
proprio differentia separaretur. Sed nunc quemadmodum differentia ab
specie, proprio accidentique discernatur, videamus. Et est communio
differentiae et speciei quod aequaliter species sub se individuis se permittit
et aequaliter individua specie ipsa participant; namque omnes homines
aequaliter homines sunt et hominis participatione aeque participant. Eodem modo
etiam differentia; namque omnes homines aequaliter rationales sunt et
rationabilitate, quae est differentia, omnes qui ratione participant, aeque
participant. Est etiam alia communitas. Quod quemadmodum species numquam
deserit ea quorum species est et quibus superest, sic et differentia numquam ea
deserit quae distare ab aliis facit. Namque Socrates quoniam sub specie hominis
est, numquam ab hominis specie deseritur; semper enim Socrates homo est. At
vero differentia Socratem, quoniam Socrates rationalis est, numquam deserit;
semper enim Socrates rationale animal est. Differunt autem inter se
species et differentia, quod differentia semper in eo quod quale sit
praedicatur -- nam dicitur quale animal sit <Socrates>, ut rationale respondeatur.
Species vero in eo quod quid sit praedicatur; nam dicitur quid sit Socrates, ut
homo respondeatur. Namque hominis qualitas rationale est. Sed non simpliciter.
Illa enim qualitas pro differentia accipitur, quae veniens in ƿ genere speciem
constituit et de qualitate substantiali facta est substantialis et specifica
differentia. Ista igitur talis qualitas differentia nominatur et ea in eo quod
quale sit ad hominem praedicatur. Hoc etiam est in eorum differentiis. Namque
differentia frequenter in pluribus speciebus consideratur. Differentia enim
quadrupes in bovis et in equi et in canis specie est et differentia rationalis
hominis et dei. Species vero numquam aliis nisi solis sub se individuis
praeest. Numquam enim alia res homo est nisi quod est individuum, ut est
Socrates et Plato et Cicero. Unde fit ut sublata differentia species quoque
tollatur. Nam si sustuleris rationale, hominem sustuleris. Si vero sustuleris
speciem, differentia manet. Nam si sustuleris hominem, rationalis dei
differentia remanebit. Est vero etiam haec differentia, quod differentia cum
alia differentia iungi potest, ut aliqua ex his species informetur. Namque
rationalis differentia et mortalis differentia iunctae hominis unius speciem
reddiderunt, iunctae vero species numquam aliquam ex se speciem constituent. Si
enim iungas hominem bovi, nulla ex his species informabitur. Sed fortasse dicat
quis: asini atque equi coniunctione mulus nascitur. Sed non ita est: namque
individui coniunctione natum est aliquid individuum. Si autem sic simpliciter speciem
ipsam asini atque equi coniungas, nulla ex his umquam species constituitur.
Neque enim si se possunt individua commiscere, ideirco etiam species
individuorum in alterutram substantiam transeunt. ƿ Atque ideo constat iunctas
species unam speciem non posse componere, quod differentiae iunctae unius
speciei constitutivae sint. His itaque transactis ad differentiae et proprii
communia veniamus. Differentia et proprium commune habent quod quibus
differentia est et a quibus ipsa differentia participatur, aequaliter
participatur, sicut etiam et quibus proprium est, proprium ipsum participatur.
Nam rationalis differentia quoniam est hominibus et omnes homines rationali
differentia participant, non est dubium quia omnes homines aequaliter sint
rationales atque aequaliter rationabilitate participent. At vero proprium, quod
risibile est, aequaliter omnibus hominibus est; omnes enim homines aequaliter
risibiles sunt. Est etiam haec eorum communitas, quod sicut potestate risibile
dicitur, etiamsi non rideat, ita etiam potestate bipes dicitur, etiamsi quis
uno pede minuatur. Non enim quod est dicitur sed quod esse possit; nam quoniam
ille ridere potest, risibilis nominatur, quod ille duos pedes habere possit,
bipes. Atque ideo numquam ab illis in quibus sederint, proprium differentiaque
discedunt. Semper enim homo risibilis est, etiamsi non rideat, semper bipes,
etiamsi uno pede minuatur. In his enim differentiis et propriis, ut dictum est,
quod potestate esse possit, non quod vere sit consideratur. Differunt
autem inter se, quod differentia de pluribus speciebus praedicatur, proprium
vero de una. Namque differentia quae est mortalis, praedicatur de homine et de
bove et equo et caeteris animantibus et rationale praedicatur et de deo et de
homine, at vero risibile de sola tantum specie hominis praedicatur. Unde evenit
ut omnis differentia, quoniam plurimarum continens est specierum, a suis
speciebus maior sit, atque ideo ipsa de speciebus praedicari potest. Porro
autem de ipsa species praedicari non possunt, neque conversim dini potest. Nam
quoniam homo dicitur rationalis, non contra dicitur 'quod rationale est, id
homo est'; potest enim esse etiam non homo sed deus. At vero proprium, quoniam
aequaliter et ad unam speciem semper aptatur, aequa vice atque appellatione convertitur.
Dicitur enim: quid est homo? risibile; quid est risibile? homo. Quibus
pertractatis ad differentiam et accidens transgressa disputatio
est. Differentia et accidens commune habent de pluribus praedicari. Namque
differentia dicitur et de homine et de deo, quoniam utrique rationales sunt, et
accidens dicitur de homine et de equo, ut homo Aethiops niger et equus niger.
Est etiam ista communio, quod inseparabile accidens, cuicumque speciei fuerit,
inseparabiliter et omnibus inest ut differentia. ƿ Namque inseparabile accidens
quod est nigrum coruo, inseparabiliter accidit coruo et omnibus coruis. Eodem
modo etiam differentia. Nam quoniam accidit homini ut bipes sit, semper et
omnibus hominibus est esse bipedibus. Differunt autem inter se, quod omnis
differentia species continet, non contra ipsa ab speciebus continetur. Nam si
differentia plures sub se species habet, ut dictum est, maior erit sub se
positis speciebus, si maior etit, numquam eam quaelibet species continet; maior
enim a minori numquam continetur. Namque quod est rationale, continet hominem
et deum homo vero rationale non continet. Accidentia vero aliquotiens
continent, aliquotiens continentur. Namque continent; quoniam frequenter unum
accidens duas sub se species habet. Ut nigrum habet Aethiopem, habet et coruum,
continentur vero. Quoniam species una habet duo vel tria vel quamlibet plurima
accidentia. Si quis enim sit glaucus vel crispus vel candidus vel procerus,
haec omnia accidentia ille unus cui accesserunt complectitur et continet. Atque
ideo species illa quae illud individuum continet quod individuum plura in se
accidentia suscepit, accidentis illius complexiva est. DEHINC DIFFERENTIA
NUMQUAM INTENDITUR NEQUE RELAXATUR. Quod dicit hoc est. Rationale in
unaquaque specie neque plus neque minus est. Nullus enim homo alio homine ad
substantiam ƿ plus rationalis est neque minus. At vero accidens et intenditur
et relaxatur. Dicitur enim quicumque procerior, dicitur quicumque velocior,
dicitur quicumque crispior, quae omnia accidentia esse non dubium
est. PRAETEREA IMMIXTAE SEMPER SUNT CONTRARIAE DIFFERENTIAE. Immixtae ait,
id est immixtibiles, quae misceri non possunt. Neque enim rationale cum
irrationali misceri potest neque in una specie convenire. At vero contraria
accidentia manifestum est in una specie posse congruere. Namque nigrum vel
album potest in una non modo specie sed etiam individuo congruere. Potest enim
quicumque homo, cum ipse sit candidus, nigros tamen capillos habere. Ergo
<quoniam> quemadmodum species differat a genere vel differentia dictum
est, cum de generis ad speciem et differentiae ad speciem distantia diceremus.
Nunc dicemus, id quod reliquum est, de speciei propriique communibus. Et est
una eorum communio, quod de se ipsa invicem praedicantur. Nam quoniam aequa
sibi sunt, neque species hominis alii proprio convenit nisi risibili neque
risibile alii convenit speciei nisi horhini, atque ideo dicitur: ƿ quid homo?
quod risibile; quid risibile? quod homo. Commune est etiam illud, quod omne
proprium aequaliter ad sub se posita praedicatur, namque omnes homines
aequaliter risibiles sunt, et species aequaliter ad sub se posita praedicatur,
namque omnes homines individni aequaliter uno nomine homines nuncupantur. Differunt
autem a se, quoniam species potest etiam genus alteri esse, proprium esse non
potest. Sed hic illam speciem intellegamus quae subalterna est, non illam quae
magis species est et genus esse numquam potest. Atque ideo nos illam modo solam
quae subalterna species est intellegamus, quae scilicet poterit esse et genus:
namque mortale cum rationalis generis species sit, hominis genus est, at vero
risibile de nulla umquam specie alia poterit praedicari neque alii esse
proprium, sicut est hominis. Illa enim semper, ut dictum est, propria sunt quae
nulli alii nisi ad unam speciem semper aptantur. DEINDE SPECIES PRAECEDIT
ET SIC PROPRIUM SEQUITUR. Quod dicit tale est. Omnis species ut habeat
proprium, primo eam esse et constare necesse est. Oportet enim prius esse
hominem, ut sit risibilis, non prius esse risibile, ut sit homo. Nam quoniam
proprium dicitur, per se proprium non constat, nisi alicuius speciei sit. Atque
ideo prius esse necesse est illud cuius est proprium, quam sit
proprium. Huc accedit quod species semper in opere intellegitur
cuiuscumque subiecti. Species enim semper in actu est, non solum potestate.
Homo enim re vera et opere et actu homo est, id est numquam poterit esse non
homo. At vero risibile, quod est proprium, potestate tantum dicitur, etiamsi in
actu non sit. Potest enim quilibet ille non ridere, tamen quia ridere potest,
risibile nominatur. Distant igitur in hoc, quod semper species in actu est et
in opere, proprium vero aliquotiens potestate. Deinde quorum definitiones
diversae sunt, necessario etiam ipsa quoque diversa sunt. Omnis definitio
substantiam definit. Ergo si qua eiusdem substantiae fuerint, eadem etiam
definitione monstrantur, si qua eadem definitione fuerint, eadem substantia
praedicantur. At vero si qua definitionibus differant, differunt etiam
substantiis, quae substantiis difforunt, longe a se ipsis alia sunt. Nunc
igitur quoniam definitiones proprii et speciei differunt, species quoque ipsa
et propriurn a se differunt. Est autem speciei definitio sub genere esse et ad
plurima numero differentia in eo quod quid sit praedicari, at vero proprii uni
tantum inesse speciei et sub ipsa de omnibus individuis praedicari. Sed quoniam
et definitiones differunt, ipsa quoque species a proprio distabit. Post
haec ad communitates speciei et accidentis disputationem transtulit et dicit
eorum raras esse alias communitates ƿ nisi has solas, quod de pluribus
praedicantur. longe enim a se distare videntur in substantia sui et in
potestate patiendi atque faciendi id quod alicui accidit et id cui accidit.
Namque illud cui accidit, quasi quoddam accidentis est fundamentum, illud vero
quod accidit, praeter id cui accidit, esse in sui substatltiÇ non
potest. Propria vero singulorum sunt haec, quod species in eo quod quid
sit praedicatur, accidens vero in eo quod quale sit et quodammodo se habens.
Nam si quis dicat: quid Socrates est? homo dicitur; si quis dicat, qualis sit,
caluus vel simus appellatur, si quis vero, quomodo se habens sedens aut iacens
appellabitur. Item quod unaquaeque substantia unam speciem habet. Namque
hominis substantia unam solam hominis speciem habet, substantia vero equi unam
solius equi speciem habet. At vero una substantia plura frequenter accidentia
continebit. Nam et in eodem equo quaedam pars frequenter nigra, quaedam alba et
est in eo proceritas, est altitudo, est aquilum caput et alia huiusmodi. Habet
etiam non solum inseparabile accidens eadem substantia sed etiam separabile.
Nam fortasse quidam velos est et idem etiam corpore validus eat, idem etiam
sagittator et caetera. Huc accedit quod species praenoscuntur, ƿ id est
praeintelleguntur, hoc est ante esse cognoscuntur quam accidentia. Et prius
erit aliqua res ubi accidat, quam illa quae accidat. Et quoniam species est
subiectum accidentis ubi accidens accidat, ideoque ante species intellegitur
esse quam accidens. Accidentia vero postnativa sunt, id est a foris venientia
et estranea a qualibet illa substantia, etiamsi inseparabilia sunt. Haec quoque
est eorum separatio, quod semper omnia quae participant specie, aequaliter
participant; aequaliter enim et Socrates et Cicero et Plato homines sunt. At
vero illa quae participant accidenti, etiamsi inseparabile accidens sit, tamen
non aequaliter participant. Namque quamvis inseparabile sit accidens
Aethiopibus nigros esse, tamen est aliquis inter ipsos nigrior nec omnes illa
nigredine aequaliter participant. Relinquitur igitur de communibus proprii
accidentisque tractare; nam proprium quid distaret vel ab specie vel a genere
vel a differentia, superius demonstratum est. Proprium autem et
inseparabile accidens commune habent, quod sine his numquam consistunt ea quae
ƿ eorum participant et in quibus ipsa considerantur. Nam neque homo amittit
risibile esse nec Aethiops aut coruus nigrum. Atque ideo sine his ipsis, id est
propriis et accidentibus, quae eorum participant, constare non possunt, ne
forte contra superiorem definitionem accidentis venire videatur ista communio
-- est enim ita definitum: accidens est quod infertur et aufertur sine eius in
quo est interitu -- quod nunc dici videtur sine his constare non posse, cum superius
sine eorum interitu posse dicerentur auferri. Sed hoc modo dicitur, non quod,
si auferatur hoc accidens inseparabile, intereat illud cui accidit sed quoniam
separari non potest, idcirco sine hoc constare non possit. Est etiam in
separabilis accidentis et proprii alia communio, quod sicut et omni et semper
inest proprium cui inest, id est homini -- semper enim et omnis homo risibile
est -- sic etiam quodlibet accidens inseparabile et semper et omni est accidens
inseparabile; namque et omnis coruus et semper niger est. Sola autem
separabilibus accidentibus illa communio est, quod quemadmodum de multis
individuis proprium praedicatur, ita etiam accidens de multis individuis potest
praedicari. Plures etiam currunt, plures ambulant, quae scilicet accidentia separabilia
sunt, quemadmodum plures possunt esse risibiles. Differunt autem ista,
quod proprium semper uni speciei inest, accidens vero et pluribus. Namque
accidens ƿ pluribus speciebus et animatis et inanimatis evenit, ut est hebeno
nigrum, coruo nigrum, homini Aethiopi nigrum, risibile vero nulli nisi soli
homini. Atque ideo conversim proprium praedicatur, quia unius speciei continens
est et illi speciei soli aequalis est, at vero accidens conversim praedicari
non potest, quia plures sub se species habet. Non enim potes dicere id esse
nigrum quod hebenum, cum dicas hoc esse hebenum quod nigrum; potest enim esse
nigrum et non esse hebenum. Deinde omne proprium aequaliter se his rebus quae
sub se fuelint dat et ab his aequaliter participatur -- Socrates enim et Cicero
et Vergilius aequaliter et risibili participant et aequaliter risibiles sunt --
at vero accidens non semper aequaliter; potest enim quicumque esse procerior et
alius esse velocior, quod scilicet illud separabile est accidens, illud
inseparabile. Et fortasse aliae eorum quaedam proprietates vel communiones
esse videantur sed nunc quantum introductioni sat est, ista
sufficiant. Sed iam tibi, mi Fabi, omnia quaecumque ad Introductionem
Porphyrii pertinent, plenius uberiusque tractata sunt. Post vero si quid umquam
mei egueris, studiis praesertim tuis, quae nulla umquam honestate caruerunt,
libens animo hortatorque ad easdem cupiditates parebo. Hic Fabius: Tu, inquit,
paterno haec mihi animo polliceris, verum ego numquam deficiam ab his studiis,
te praesertim docente, ƿ a quo totam fortasse logicae Aristotelis, si vita
suppetet, capiam disciplinam. Et ego: Faciam, inquam, libentissime. Sed quoniam
iam matutinus, ut ait Petronius, sol tectis arrisit, surgamus, et si quid illud
est, diligentiore postea consideratione tractabitur. Secundus hic
arreptae expositionis labor nostrae seriem translationis expediet, in qua
quidem vereor ne subierim fidi interpretis culpam, cum verbum verbo espressum
comparatumque reddiderim. Cuius incepti ratio est quod in his scriptis in
quibus rerum cognitio quaeritur, non luculentae orationis lepos sed incorrupta
veritas exprimenda est. Quocirca multum profecisse videor, si philosophiae
libris Latina oratione compositis per integerrimae translationis sinceritatem
nihil in Graecorum litteris amplius desideretur. Et quoniam humanis animis
excellentissimum bonum philosophiae comparatum est ƿ ut via et filo quodam
procedat oratio, ex animae ipsius efficientiis ordiendum est. Triplex omnino
animae vis in vegetandis corporibus deprehenditur. Quarum una quidem vitam
corpori subministrat ut nascendo crescat alendoque subsistat; alia vero
sentiendi iudicium praebet; tertia vi mentis et ratione subnixa est. Quarum
quidem primae id officium est ut creandis nutriendis alendisque corporibus praesto
sit, nullum vero rationis praestet sensusue iudicium. Haec autem est herbarum
atque arborum et quicquid terrae radicitus affixum tenetur. Secunda vero
composita atque coniuncta est ac primam sibi sumens et in partem constituens
varium de rebus capere potest ac multiforme iudicium. Omne enim animal quod
sensu viget, idem et nascitur et nutritur et alitur. Sensus vero diversi sunt
et usque ad quinarium numerum crescunt. Itaque quicquid tantum alitur non etiam
sentit, quicquid vero sentire potest ei prima quoque animae vis, nascendi
scilicet atque nutriendi, probatur esse subiecta. Quibus vero sensus adest non
tantum eas rerum capiunt formas quibus sensibili corpore feriuntur praesente,
sed abscedente quoque sensu sensibilibusque se positis cognitarum sensu
formarum imagines tenent memoriamque conficiunt, et prout quodque animal valet
longius breviusque custodit. Sed eas imaginationes confusas atque inevidentes
sumunt ut nihil ex earum coniunctione ac compositione ƿ efficere possint. Atque
idcirco meminisse quidem possunt nec aeque omnia, admissa vero oblivione
memoriam recolligere ac reuocare non possunt. Futuri vero his nulla cognitio
est. Sed vis animae tertia, quae secum priores alendi ac sentiendi trahit
hisque velut famulis atque oboedientibus utitur, eadem tota in ratione
constituta est eaque vel in rerum praesentium firmissima conceptione vel in
absentium intellegentia vel in ignotarum inquisitione versatur. Haec tantum
humano generi praesto est, quae non solum sensus imaginationesque perfectas et
non inconditas capit sed etiam pleno actu intellegentiae quod imaginatio
suggessit, explicat atque confirmat. Itaque, ut dictum est, huic divinae
naturae non ea tantum cognitione sufficiunt quae subiecta sensibus
comprehendit, verum etiam et insensibilibus imaginatione concepta et absentibus
rebus nomina indere potest, et quod intellegentiae ratione comprehendit
vocabulorum quoque positionibus aperit. Illud quoque ei naturae proprium est,
ut per ea quae sibi nota sunt ignota uestiget et non solum unumquodque an sit
sed quid sit etiam et quale sit necnon cur sit, optet agnoscere. Quam triplicis
animae vim sola, ut dictum est, hominum natura sortita est. Cuius animae vis
intellegentiae motibus non caret, quia in his quattuor propriae vim rationis
exercet. Aut enim aliquid an sit inquirit aut si esse constiterit, quid sit
addubitat. Quodsi etiam utriusque scientiam ratione possidet, quale sit ƿ
unumquodque uestigat atque in eo caetera accidentium momenta perquirit, quibus
cognitis cur ita sit quaeritur et ratione nihilominus uestigatur. Cum igitur
hic actus sit humani animi ut semper aut in <rerum> praesentium
comprehensione aut in absentium intellegentia aut in ignotarum inquisitione
atque inventione versetur, duo sunt in quibus omnem operam vis animae
ratiocinantis impendit, unum quidem ut rerum naturas certa inquisitionis
ratione cognoscat, alterum vero ut ad scientiam prius veniat quod post gravitas
moralis exerceat. Quibus inquirendis permulta esse necesse est quae uestigantem
animum a recti itinere non minimum progressione deducant, ut in multis evenit
Epicuro qui atomis mundum consistere putat et honestum voluptate metitur. Hoc
autem idcirco huic atque aliis accidisse manifestum est quoniam per imperitiam
disputandi quicquid ratiocinatione comprehenderant, hoc in res quoque ipsas
evenire arbitrabantur. Hic vero magnus est error; neque enim sese ut in numeris
ita etiam in ratiocinationibus habet. In numeris enim quicquid in digitis recte
computantis euenerit, id sine dubio in res quoque ipsas necesse est evenire, ut
si ex calculo centum esse contigerit, centum quoque res illi numero subiectas
esse necesse est. Hoc vero non aeque in disputatione servatur: neque enim
quicquid sermonum decursus invenerit, ƿ id natura quoque fixum tenetur. Quare
necesse erat eos falli qui abiecta scientia disputandi de rerum natura
perquirerent. Nisi enim prius ad scientiam venerit quae ratiocinatio veram
teneat disputandi semitam quae veri similem, et agnoverit[1] quae fida quae
possit esse suspecta, rerum incorrupta veritas ex ratiocinatione non potest
inveniri. Cum igitur ueteres saepe multis lapsi erroribus falsa quaedam et
sibimet contraria in disputatione colligerent -- atque id fieri impossibile
videretur ut de eadem re contraria conclusione facta utraque essent vera quae
sibi dissentiens ratiocinatio conclusisset, cuique ratiocinationi credi
oporteret esset ambiguum -- visum est prius disputationis ipsius veram atque
integram considerare naturam, qua cognita tum illud quoque quod per
disputationem inveniretur, an vere comprehensum esset, posset intellegi. Hinc
igitur profecta est logicae peritia disciplinae, quae disputandi modos atque
ipsas ratiocinationes internoscendi ias parat, ut quae ratiocinatio nunc quidem
falsa nunc autem vera sit, quae vero semper falsa quae numquam falsa, possit
agnosci. Huius autem vis duplex esse perpenditur, una quidem in inveniendo,
altera in iudicando. Quod Marcus etiam Tullius in eo libro cui Topica titulus
est, evidenter espressit dicens Cum omnis ratio diligens disserendi duas habeat
partes, unam inveniendi alteram iudicandi, utriusque princeps, ut mihi quidem
videtur, Aristoteles fuit. Stoici ƿ autem in altera elaboraverunt; iudicandi
enim vias diligenter persecuti sunt ea scientia quam *dialektiken* appellant,
inveniendi artem, quae *topike*; dicitur quae et ad usum potior erat et ordine
naturae certe prior, totam reliquerunt. Nos autem, quoniam in utraque summa
utilitas est et utramque, si erit otium, persequi cogitamus, ab ea quae prima
est ordiemur. Cum igitur tantus huius considerationis fructus sit danda est
huic tam sollertissimae disciplinae tota mentis intentio, ut primis firmati in
disputandi veritate uestigiis facile ad rerum ipsarum certam comprehensionem
venire possimus. Et quoniam qui sit ortus logicae disciplinae praediximus,
reliquum videtur adiungere: an omnino pars quaedam sit philosophiae an (ut
quibusdam placet) supellex atque instrumentum per quod philosophia cognitionem
rerum naturamque deprehendat. Cuius quidem rei has e contrario video esse
sententias. Hi enim qui partem philosophiae putant logicam considerationem his
fere argumentis utuntur. Dicentes philosophiam indubitanter habere partes
speculativam atque activam, de hac tertia rationali quaeritur an sit in parte
ponenda. Sed eam quoque partem esse philosophiae non potest dubitari. Nam sicut
de naturalibus caeterisque sub speculativa positis solius philosophiae
uestigatio est itemque de moralibus ac ƿ reliquis quae sub activam partem
cadunt sola philosophia perpendit, ita quoque de hac parte tractatus, id est de
his quae logicae subiecta sunt, sola philosophia iudicat. Quodsi speculativa
atque activa idcirco philosophiae partes sunt quia de his philosophia sola
pertractat, propter eandem causam erit logica philosophiae pars, quoniam
philosophiae soli haec disputandi materia subiecta est. Iam vero inquiunt:
cum in his tribus philosophia versetur cumque activam et speculativam
considerationem subiecta discernant, quod illa de rerum naturis, haec de
moribus quaerit, non dubium est quin logica disciplina a naturali atque morali
suae materiae proprietate disiuncta sit. Est enim logicae tractatus de
propositionibus atque syllogismis et caeteris huiusmodi, quod neque ea quae non
de oratione sed de rebus speculatur neque activa pars quae de moribus inuigilat
aeque praestare potest. Quodsi in his tribus (id est speculativa, activa, atque
rationali) philosophia consistit quae proprio triplicique a se fino disiuncta
sunt, cum speculativa et activa philosophia partes esse dicuntur, non dubium
est quin rationalis quoque philosophia pars esse conuincatur. Qui vero non
partem sed philosophiae instrumentum putant haec fere afferunt argumenta. Non
esse inquiunt similem logicae finem speculativae atque activae partis extremo.
Utraque enim illarum ad suum proprium terminum spectat ut speculativa ƿ quidem
rerum cognitionem, activa vero mores atque instituta perficiat; neque altera
refertur ad alteram. Logicae vero finis esse non potest absolutus sed
quodammodo cum reliquis duabus partibus colligatus atque constrictus est. Quid
enim est in logica disciplina quod suo merito debeat optari nisi quod propter
investigationem rerum huius effectio artis inventa est? Scire enim quemadmodum
argumentatio concludatur vel quae vera sit quae veri similis, ad hoc scilicet
tendit, ut vel ad rerum cognitionem referatur haec scientia rationum vel ad
invenienda ea quae in exercitium moralitatis adducta beatitudinem pariunt.
Atque ideo quoniam speculativae atque activae suus certusque finis est, logicae
autem ad duas reliquas partes refertur extremum, manifestum est non eam esse
philosophiae partem sed potius instrumentum. Sunt vero plura quae ex alterutra
parte dicantur quorum nos ea quae dicta sunt strictim notasse sufficiat. Hanc
litem vero tali ratione discernimus. Nihil quippe dicimus impedire ut eadem
logica partis vice simul instrumentique fungatur officio. Quoniam enim ipsa
suum retinet finem isque finis a sola philosophia consideratur, pars philosophiae
esse ponenda est. Quoniam vero finis ille logicae quem sola speculatur
philosophia ad alias eius partes suam operam pollicetur, instrumentum esse
philosophiae non negamus. Est autem finis logicae inventio iudiciumque
rationum. Quod scilicet non esse mirum videbitur quod eadem pars, eadem quoddam
ponitur instrumentum, si ad partes corporis animum reducamus quibus et fit
aliquid ut his quasi quibusdam instrumentis utamur, et in toto tamen corpore
partium obtinent locum. Manus enim ad tractandum, oculi ad videndum,
caeteraeque corporis partes proprium quoddam videntur habere officium. Quod
tamen si ad totius utilitatem corporis referatur, instrumenta quaedam corporis
esse deprehenduntur quae etiam partes esse nullus abnuerit. Ita quoque logica
disciplina pars quidem philosophiae est, quoniam eius philosophia sola magistra
est, supellex vero quod per eam inquisita philosophiae veritas uestigatur. Sed
quoniam, quantum mihi quoque brevitas succincta largita est, ortum logicae et
quid ipsa logica esset explicui, nunc de eo nobis libro pauca dicenda sunt quem
in praesens sumpsimus exponendum. Titulo enim proponit Porphyrius
introductionem se in Aristotelis Praedicamenta conscribere. Quid vero valeat
haec introductio vel ad quid lectoris animum praeparet breviter explicabo. Aristoteles
enim librum qui De decem praedicamentis inscribitur hac intentione composuit ut
infinitas rerum diversitates quae sub scientiam cadere non possent paucitate
generum comprehenderet, atque ita quod per incomprehensibilem multitudinem sub
disciplinam venire non poterat per generum, ut dictum est, paucitatem animo fieret
scientiaeque subiectum. Decem igitur genera rerum esse omnium consideravit --
id est unam substantiam et accidentia novem (quae sunt qualitas, quantitas,
relatio, ubi, quando, facere et pati, situs, habere) -- quae quoniam genera
essent suprema et quibus nullum aliud superponi genus posset, omnem necesse est
multitudinem rerum horum decem generum species inveniri. Quae quidem genera a
se omnibus differentiis distributa sunt nec quicquam videntur habere commune
nisi tantum nomen, quoniam omnia esse praedicantur. Quippe substantia est,
qualitas est, quantitas est, et de aliis omnibus 'est' verbum communiter
praedicatur sed non est eorum communis una substantia vel natura sed tantum
nomen. Itaque decem genera ab Aristotele reperta omnibus a se differentiis
distributa sunt. Sed quae aliquibus differentiis disiunguntur necesse est ut
habeant proprium quiddam quod ea in singularem solitariamque vindicet formam.
Non est autem idem proprium quod accidens: accidentia enim et venire et abesse
possunt, propria ita sunt insita ut absque his quorum sunt propria esse non
possint. Quae cum ita sint cumque Aristoteles decem rerum genera repperisset
quae vel intellegendo mens caperet vel loquendo disputator efferret (quicquid
enim intellectu capimus id ad alterum sermone uulgamus), evenit ut ad horum
decem praedicamentorum intellegentiam quinque harum rerum tractatus incurreret,
scilicet generis, speciei, differentiae, proprii, accidentis. Generis quidem
quoniam oportet ante praediscere quid sit genus ut decem illa quae Aristoteles
caeteris anteposuit rebus genera esse possimus agnoscere. Speciei vero cognitio
plurimum valet ut quae cuiusque generis sit species possit agnosci. Si enim
quid sit species intellegimus, nihil impediti errore turbamur. Fieri enim
potest ut per speciei inscientiam saepe quantitatis species in relatione
ponamus et cuiuslibet primi generis species alteri cuilibet ƿ generi subdamus
atque ita fiat permixta rerum atque indiscreta confusio; quod ne accidat quae
sit natura speciei ante noscendum est. Nec vero in hoc tantum prodest speciei
cognoscenda natura ne priorum generum species invicem permutemus, verum etiam
ut in eodem quolibet genere proximas species generi noverimus eligere, ut ne
substantiae mox animal dicamus esse speciem potius quam corpus aut corporis
hominem potius quam animatum corpus. At vero differentiarum scientia in his
maximum retinet locum. Qui enim omnino qualitatem a substantia vel caetera a se
genera distare cognoscimus nisi eorum differentias viderimus? Quomodo autem
discernere eorum differentias possumus si quid ipsa sit differentia nesciamus?
Nec hunc solum nobis inscientia differentiae offundit errorem, verum etiam
specierum quoque tollit omne iudicium. Nam omnes species differentiae
informant; ignorata differentia species quoque necesse est ignorari. Quomodo
vero fieri potest ut quamlibet differentiam possimus agnoscere si omnino quae
sit nominis huius significatio nesciamus? Iam vero proprii tantus usus est ut
Aristoteles quoque singulorum praedicamentorum propria perquisiverit. Quae
propria esse quis deprehenderit antequam quid omnino sit proprium discat? Nec
in his tantum propriis haec cognitio valet quae singulis nominibus efferuntur,
ut hominis risibile, verum etiam in his quae in locum definitionis adhibentur.
Omnia enim propria rem subiectam quodam termino descriptionis includunt, quod
suo quoque loco ƿ oportunius commemorabo. Accidentis quoque cognitio quantum
afferat quis dubitare queat, cum videat inter decem praedicamenta novem
accidentis naturas? Quae quomodo accidentia esse putabimus si omnino quid sit
accidens ignoremus, cum praesertim nec differentiarum nec proprii scientia nota
sit nisi accidentis naturam firmissima consideratione teneamus? Fieri enim
potest ut differentiae loco vel proprii per inscientiam accidens apponatur.
Quod esse vitiosissimum etiam definitiones probant, quae cum ipsae ex
differentiis constent et fiant uniuscuiusque definitiones propriae, accidens
tamen non videntur admittere. Cum igitur Aristoteles rerum genera collegisset
quae nimirum diversas sub se species continerent, quae species numquam diversae
forent nisi differentiis segregarentur, cumque omnia in substantiam atque
accidens, accidens vero in alia novem praedicamenta solvisset, cumque aliquorum
praedicamentorum fere sit propria persecutus -- de his ipsis quidem
praedicamentis docuit. Quid vero esset genus, quid species, quid differentia,
quid illud accidens de quo nunc dicendum est, vel quid proprium, velut nota
praeteriit. Ne igitur ad Praedicamenta Aristotelis venientes quid significaret
unumquodque eorum quae superius dicta sunt ignorarent, hunc librum Porphyrius
de earum quinque rerum cognitione perscripsit, quo perspecto et considerato
quid unumquodque eorum quae supra praeposuit designaret, facilior intellectus
ea quae ab Aristotele proponerentur addisceret. Haec quidem intentio est huius
libri, quem Porphyrius ad introductionem Praedicamentorum se conscripsisse
ipsa, ut ƿ dictum est, tituli inscriptione signavit. Sed licet ad hoc unum
huius libri referatur intentio, non tamen simplex eius utilitas est verum
multiplex et in maxima quaeque diffusa est. Quam idem Porphyrius in principio huius
libri commemorat dicens: CUM SIT NECESSARIUM, CHRYSAORI, ET AD EAM QUAE EST
APUD ARISTOTELEM PRAEDICAMENTORUM DOCTRINAM, NOSSE QUID GENUS SIT ET QUID
DIFFERENTIA QUIDQUE SPECIES ET QUID PROPRIUM ET QUID ACCIDENS, ET AD
DEFINITIONUM ASSIGNATIONEM ET OMNINO AD EA QUAE IN DIVISIONE VEL DEMONSTRATIONE
SUNT UTILIA, HAC ISTARUM RERUM SPECULATIONE COMPENDIOSAM TIBI TRADITIONEM
FACIENS TEMPTABO BREVITER VELUT INTRODUCTIONIS MODO EA QUAE AB ANTIQUIS DICTA
SUNT AGGREDI; ALTIORIBUS QUIDEM QUAESTIONIBUS ABSTINENS, SIMPLICIORES VERO
MEDIOCRITER CONIECTANS. Utilitas huius libri quadrifariam spargitur. Namque ad
illud etiam ad quod eius dirigitur intentio, magno legentibus usui ƿ est et ad
caetera: quae cum extra intentionem sint, non tamen minor ex his legentibus
utilitas comparatur. Est enim per hoc opusculum et praedicamentorum facilis
cognitio et definitionum integra assignatio et divisionum recta perspectio et
demonstrationum veracissima conclusio. Quae res quanto difficiles atque arduae
sunt tanto perspicaciorem studiosioremque animum lectoris expectant. Dicendum
vero est quod in omnibus libris evenit. Nam primum si quae sit intentio
cognoscatur, quanta quoque utilitas inde provenire possit expenditur; et licet
extra multa, ut fit, huiusmodi librum sequantur, tamen illam proxime utilitatem
videtur habere ad quod eius refertur intentio ipso libro quem sumpsimus
exponente. Cum eius intentio sit ad Praedicamenta intellectum facilem
comparandi, non dubium quin haec eius principalis probetur utilitas, licet non
minores sint comites definitio, divisio, ac demonstratio, quorum nobis quaedam
hic principia suggeruntur. Sensus vero totus huiusmodi est Cum sit, inquit,
utilis generis, speciei, differentiae, proprii accidentisque cognitio ad
Praedicamenta Aristotelis eiusque doctrinam, ad definitionum etiam
assignationem, ad divisionem et demonstrationem, quae sit harum rerum utilis
uberrimaque cognitio, compendiosam, inquit, traditionem ƿ faciens ea quae ab
antiquis large ac diffuse dicta sunt, temptabo breviter aperire. Neque enim
esset compendiosa nisi totum opus brevitate constringeret. Et quoniam
introductionem scribebat: Altiores, inquit, quaestiones sponte refugiam,
simpliciores vero mediocriter coniectabo -- id est simpliciorum quaestionum
obscuritates habita in eis quadam coniecturae ratiocinatione tractabo. Tota
quidem sententia huiusce prooemii talis est quae et utilitate uberrima et
facilitate incipientis animo blandiatur; sed dicendum videtur quidnam celet
amplius altitudo sermonum. NECESSARIUM in Latino sermone, sicut in Graeco
*anagkoion*, plura significat. Diversa enim significatione Marcus Tullius dicit
necessarium suum esse aliquem atque nos cum nobis necessarium esse dicimus ad
forum descendere, qua in voce quaedam utilitas significatur. Alia quoque
significatio est qua dicimus solem necessarium esse moveri, id est necesse
esse. Et illa quidem prima significatio praetermittenda est, omnino enim ab eo
necessario quod hic Porphyrius ponit aliena est. Hae vero duae huiusmodi sunt
ut inter se certare videantur quae huius loci obtineat significationem in quo
dicit Porphyrius: CUM SIT NECESSARIUM, CHRYSAORI; namque, ut dictum est,
necessarium ƿ et utilitatem significat et necessitatem. Videntur autem huic
loco utraque congruere. Nam et summe utile est ad ea quae superius dicta sunt
de genere et specie et caeteris disputare, et summa est necessitas quia nisi
sint haec ante praecognita illa ad quae ista praeparantur non possunt cognosci.
Nam neque praeter generis vel speciei cognitionem praedicamenta discuntur, nec
definitio genus relinquit et differentiam, et in caeteris quam sit utilis iste
tractatus, cum de divisione et demonstratione disputabitur, apparebit. Sed
quamquam necesse sit haec quinque de quibus hic disputandum est, prius ad
cognitionem venire quam ea quibus illa praeparantur, non tamen ea
significatione hic a Porphyrio positum est qua necessitatem significari vellet
ac non potius utilitatem. Ipsa enim oratio contextusque sermonum id clarissima
intellegentiae ratione significat. Neque enim quisquam ita utitur ratione ut
aliquam necessitatem referri dicat ad aliud. Necessitas enim per se est,
utilitas vero semper ad id quod utile est refertur, ut hic quoque. Ait enim:
CUM SIT NECESSARIUM, CHRYSAORI, ET AD EAM QUAE EST APUD ARISTOTELEM
PRAEDICAMENTORUM DOCTRINAM. Si igitur hoc necessarium 'utile' intellegamus et
id nomine ipso vertamus dicentes: Cum sit utile, Chrysaori, et ad eam quae est
apud Aristotelem praedicamentorum ƿ doctrinam, nosse quid genus sit... etc. recte
se habebit ordo sermonum; sin vero id ad 'necesse' permPombaur atque dicamus: Cum
sit necesse, Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamentorum
doctrinam, nosse quid genus sit... etc. rectae intellegentiae sermonum ordo non
convenit. Quocirca hic diutius immorandum non est. Quamquam enim sit summa
necessitas his ignoratis non posse ad ea ad quae hic tractatus intenditur
perveniri, non tamen de necessitate hic dictum est NECESSARIUM sed potius de
utilitate. Nunc vero, licet idem superius dictum sit, tamen breviter quid ad
praedicamenta generis, speciei, differentiae, proprii atque accidentis prosit
agnitio, disputemus. Aristoteles enim in praedicamentis decem genera constituit
rerum quae de cunctis aliis praedicarentur, ut quicquid ad significationem
venire posset, id si integram significationem teneret, cuilibet eorum
subiceretur generi de quibus Aristoteles tractat in eo libro qui De decem
praedicamentis inscribitur. Hoc ipsum vero referri ad aliquid velut ad genus
tale est, quale si quis speciem supponat generi. Hoc vero neque praeter
cognitionem speciei ullo modo fieri potest. Nec vero ipsae species quid sint
vel cuius magis sint possunt perspici nisi earum differentiae cognoscantur. Sed
differentiarum natura incognita, quae uniuscuiusque ƿ speciei sint differentiae
modis omnibus ignorabitur. Quare sciendum est quoniam si de generibus
Aristoteles tractat in Praedicamentis, et generum natura cognoscenda est, cuius
cognitionem speciei quoque comitatur agnitio. Sed hoc cognito quid sit
differentia non potest ignorari, quamquam in eodem libro plura sint ad quae
nisi maximam peritiam et generis et speciei et differentiae lector attulerit,
nullus omnino intellectus patebit ut cum ipse Aristoteles dicit: Diversorum
generum et non subalternatim positorum diversae secundum species et
differentiae sunt quod his ignoratis intellegi impossibile est. Sed idem
Aristoteles proprium uniuscuiusque praedicamenti diligentissima inquisitione
uestigat, ut cum substantiae proprium post multa dicit esse quod idem numero
contrariorum susceptibile sit, vel rursus quantitatis, quod in ea sola aequale
atque inaequale dicatur, qualitatis etiam, quod per eam simile et dissimile
aliud alii esse proponimus, et in caeteris eodem modo, ut quae sit proprietas
contrarii, quae secundum relationem oppositionis, quae privationis et habitus,
quae affirmationis et ƿ negationis. In quibus ita tractat tamquam iam peritis
scientibusque quae sit proprietatis natura; quam si quis ignorat, frustra ea
quae de his dispusantur aggreditur. Iam vero illud manifestum est quod accidens
maximum praedicamentorum obtineat locum, quod proprio nomine novem
praedicamenta circumdat. Et ad praedicamenta quidem quanta sit huius libri utilitas
ex his manifestum est. Quod vero ait ET AD DEFINITIONUM ASSIGNATIONEM facile
cognosci potest si prius substantiae rationum divisio fiat. Substantiae ratio
alia quidem in descriptione ponitur, alia vero in definitione. Sed ea quae in
descriptione est, proprietatem quandam colligit eius rei cuius substantiae
rationem prodit -- ac non modo proprietate id quod monstrat informat, verum
etiam ipsa fit proprium, quod in definitionem quoque venire necesse est; si
quis enim quantitatis rationem reddere velit, dicat licebit: Quantitas est
secundum quam aequale atque inaequale dicitur. Sicut igitur proprietatem quidem
quantitatis in ratione posuit quantitatis et ipsa tota ratio ipsius quantitatis
propria est, ita descriptio et proprietatem colligit et propria fit ipsa
descriptio. Definitio vero ipsa quidem propria non colligit sed ipsa quoque fit
propria. Definitio namque substantiam monstrat, genus differentiis iungit et ea
quae per se sunt communia atque multorum in unum redigens uni speciei quam
definit reddit aequalia. Ita igitur ad descriptionem utilis est proprii
cognitio, quoniam sola proprietas in descriptione colligitur et ipsa fit
propria sicut definitio quoque, ad definitionem vero genus (quod primum ƿ
ponitur), et species (ad quam genus illud aptatur), et differentiae (quibus
iunctis cum genere species definitur). Sed si cui haec pressiora quam
expositionis modus postulat videbuntur, eum hoc scire convenit, nos, ut in
prima editione dictum est, hanc expositionem nostro reservasse iudicio ut ad
intellegentiam simplicem huius libri editio prima sufficiat, ad interiorem vero
speculationem confirmatis paene iam scientia nec in singulis vocabulis rerum
haerentibus haec postelior colloquatur. Ad divisionem vero faciendam tam hic
liber est utilis ut praeter earum scientiam rerum de quibus in hac libri serie
disputatur, casu fiat potius quam ratione partitio. Hoc autem manifestum erit
si divisionem ipsam dividamus, id est si nomen ipsum divisionis in ea quae
significat partiamur. Est namque divisio generis in species, ut cum dicimus:
Coloris aliud est album, aliud nigrum, aliud vero medium. Rursus divisio est
quotiens vox plura significans aperitur et quam multa sint quae ab ea
significantur ostenditur, ut si quis dicat: Nomen canis plura significat, et
hunc latrabilem quadrupedemque et caeleste sidus et marinam bestiam quae omnia
a se definitione disiuncta sunt. Dividi autem dicitur et quotiens totum in
partes proprias separatur, ut cum dicimus: Domus aliud sunt fundamenta, aliud
parietes, aliud tectum. Et haec quidem triplex divisio secundum se partitio
nuncupatur. Est autem ƿ alia quae secundum accidens dicitur. Ea quoque fit
tripliciter aut cum accidens in subiecta dividimus, ut cum dico: Bonorum alia
sunt in animo, alia in corpore vel rursus cum subiectum in accidentia, ut
Corporum alia sunt alba, alia nigra, alia medii coloris rursus cum accidens in
accidentia separamus, ut cum dicimus: Liquentium alia sunt alba, alia nigra,
alia medii coloris et rursus: Alborum alia sunt dura, alia liquentia quaedam
mollia. Cum igitur ita omnis sit divisio aut secundum se aut per accidens,
utraque vero partitio tripliciter fiat cumque in superiore secundum se triplici
partitione sit una divisionis forma genus in species separare, id neque praeter
generum scientiam fieri ullo modo potest neque vero praeter differentiarum,
quas necesse est in specierum divisione sumi manifestum est igitur, quanta
utilitas huius libri ad hanc divisionem sit quae primo aditu genus ac species
et differentias tractat. Secunda vero ea divisio quae est secundum se in vocis
significantias, nec haec quidem ab huius libri utilitate discreta est. Uno enim
modo cognosci poterit utrum vox cuius divisionem facere quaerimus, aequivoca
esse videatur an genus si ea quae significat definiantur. Et si ea quae sub
communi nomine sunt definitione clauduntur, species esse necesse est, et illud
commune eorum genus. Quodsi illa quae proposita ƿ vox designat non possunt una
definitione concludi, nemo dubitat quin illa vox sit aequivoca neque ita sit
communis his de quibus praedicatur ut genus, quandoquidem ea quae sub se posita
significat, secundum commune nomen non possunt una definitione comprehendi. Si
igitur ex definitione manifestum fit quid genus sit, quid vero nomen
aequivocum, definitio vero per genera differentiasque discurrit, quisquamne
dubitare potest aeque in hac divisionis forma plurimum huius libri auctoritatem
valere? Illa vero secundum se divisio quae est totius in partes, quemadmodum
discernitur ac non potius generis in species divisio esse putabitur, nisi sint
genus et species et differentiae earumque vis ante disciplinae ratione
tractata? Cur enim non quisquam dicat domus species potius esse quam partes
fundamenta, parietes, et tectum? Sed cum occurrit generis nomen in unaquaque
specie totum posse congruere, totius vero in unaquaque parte sua nomen
convenlre non posse, manifestum fit aliam divisionem esse generis in species,
aliam totius in partes. Convenire autem nomen generis singulis speciebus ostenditur
per id, quod et homo et equus singuli animalia nuncupantur. Neque tectum vero
neque parietes aut fundamenta singillatim domus nomine appellari solent sed ƿ
cum fuerint iunctae partes, tunc recte totius nomen excipiunt. De ea vero
divisione quae secundum accidens fit, nullus ignorat quin incognito accidenti
incognitaque vi generis ac differentiarum facile evenire possit, ut accidens
ita in subiecta solvatur quasi genus in species, et postremo omnem hunc ordinem
partitionis foedissime permiscebit inscientia. Et quoniam quid hic liber ad
divisionem prosit ostendimus, nunc de demonstratione dicemus, ne per ardua
atque difficilia haereat qui in tanta hac disciplina vigilantissimo ingenio et
sollertissimo labore sudaverit. Fit enim demonstratio, id est alicuius quaesitae
rei certa rationis collectio, ex ante cognitis naturaliter, ex convenientibus,
ex primis, ex causa, ex necessaliis, ex per se inhaerentibus. Sed genera
speciebus propriis priora naturaliter sunt; ex generibus enim species fluunt. Item
species sub se positis vel speciebus vel individuis priores naturaliter esse
manifestum est. Quae vero priora sunt, ea et praenoscuntur et notiora sunt
sequentibus naturaliter. Duobus enim modis primum aliquid et notum dicitur,
secundum nos scilicet et secundum naturam. Nobis enim illa magis cognita sunt
quae sunt proxima, ut individua, dehinc species, postremo genera, at vero
natura converso modo ea sunt magis cognita quae nobis minime proxima. Atque
ideo quamlibet se longius ƿ a nobis genera protulerint, tanto magis erunt
lucida et naturaliter nota. Differentiae vero substantiales illae sunt quas per
se inesse his rebus quae demonstrantur agnoscimus. Praecedere autem debet
generum ac differentiarum cognitio ut in unaquaque disciplina quae sint eius
rei quae demonstratur convenientia principia possit intellegi. Necessaria vero
esse ea ipsa quae genera et differentias dicimus, nullus dubitat qui speciem
sine genere et differentia intellegit esse non posse. Genera vero et
differentiae sunt causae specierum. Idcirco enim species sunt quia genera earum
et differentiae sunt quae in syllogismis posita demonstrativis non rei solum,
verum conclusionis etiam causae sunt, quod postremi Resolutorii locupletius
dicent. Cum igitur perutile sit et definitione quodlibet illud circumscribere
et divisio ne dissoluere et demonstrationibus comprobare, haec autem praeter
earum rerum scientiam de quibus in hoc libro disputabitur, neque intellegi
neque exerceri valeant, quis umquam poterit dubitare quin hic liber maximum
totius logicae adiumentum sit, praeter quem caetera quae in ea magnam vim
tenent, nullum doctrinae aditum praebent? Sed meminit Porphyrius introductionem
sese conscribere neque ultra quam institutionis modus est formam tractatus
egreditur. Ait enim se altiorum quaestionum nodis abstinere, simplices vero mediocri
coniectura perstringere. Quae vero sint altiores quaestiones quas se differre
promittit ita proponit: MOX, INQUIT, DE GENERIBUS AC SPECIEBUS ILLUD QUIDEM
SIVE SUBSISTUNT SIVE IN SOLIS NUDISQUE INTELLECTIBUS POSITA SUNT SIVE
SUBSISTENTIA CORPORALIA SUNT AN INCORPORALIA ET UTRUM SEPARATA A SENSIBILIBUS
AN IN SENSIBILIBUS POSITA ET CIRCA EA CONSTANTIA, DICERE RECUSABO. ALTISSIMUM
ENIM EST HUIUSMODI NEGOTIUM ET MAIORIS EGENS INQUISITIONIS. Altiores, inquit,
quaestiones praetereo ne eis intempestive lectoris animo ingestis initia eius
primitiasque perturbem. Sed ne omnino faceret neglegentem ut nihil praeterquam
quod ipse dixisset lector amplius putaret occultum, id ipsum cuius exequi
quaestionem se differre promisit addidit ut de his minime obscure penitusque
tractando nec lectori quicquam obscuritatis offunderet et tamen scientia
roboratus quid quaeri iure posset agnosceret. Sunt autem quaestiones quas sese
reticere ƿ promittit et perutiles et secretae et temptatae quidem a doctis viris
nec a pluribus dissolutae. Quarum prima est huiusmodi. Omne quod intellegit
animus aut id quod est in rerum natura constitutum intellectu concipit et
sibimet ratione describit aut id quod non est uacua sibi imaginatione depingit.
Ergo intellectus generis et caeterorum cuiusmodi sit quaeritur -- utrumne ita
intellegamus species et genera ut ea quae sunt et ex quibus verum capimus
intellectum, an nosmet ipsi nos ludimus cum ea quae non sunt animi nobis cassa
cogitatione formamus. Quodsi esse quidem constiterit et ab his quae sunt
intellectum concipi diserimus, tunc alia maior ac difficilior quaestio
dubitationem parit cum discernendi atque intellegendi generis ipsius naturam
summa difficultas ostenditur. Nam quoniam omne quod est aut corporeum aut
incorporeum esse necesse est, genus et species in aliquo horum esse oportebit.
Quale erit igitur id quod genus dicitur -- utrumne corporeum an vero
incorporeum? Neque enim quid sit diligenter intenditur nisi in quo horum poni
debeat agnoscatur. Sed neque cum haec soluta fuerit quaestio omne excludetur
ambiguum. Subest enim aliquid quod, si incorporalia esse genus ac species
dicantur, obsideat intellegentiam atque detineat exsolvi postulans: utrum circa
corpora ipsa subsistant an et praeter corpora subsistentiae incorporales esse
videantur. Duae quippe incorporeorum formae sunt: ut alia praeter corpora esse
ƿ possint et separata a corporibus in sua incorporalitate perdurent (ut deus,
mens, anima); alia vero cum sint incorporea, tamen praeter corpora esse non
possint (ut linea vel superficies vel numerus vel singulae qualitates), quas
tametsi incorporeas esse pronuntiamus quod tribus spatiis minime distendantur,
tamen ita in corporibus sunt ut ab his divelli nequeant aut separari aut si a
corporibus separata sint, nullo modo permaneant. Quas licet quaestiones arduum
sit ipso interim Porphyrio renuente dissoluere, tamen aggrediar ut nec anxium
lectoris animum relinquam nec ipse in his quae praeter muneris suscepti seriem
sunt tempus operamque consumam. Primum quidem pauca sub quaestionis ambiguitate
proponam, post vero eundem dubitationis nodum absoluere atque explicare
temptabo. Genera et species aut sunt atque subsistunt aut intellectu et sola
cogitatione formantur. Sed genera et species esse non possunt. Hoc autem ex his
intellegitur. Omne enim quod commune est uno tempore pluribus, id unum esse non
poterit. Multorum enim est quod commune est, praesertim cum una eademque res in
multis uno tempore tota sit. Quantaecumque enim sunt species in omnibus genus
unum est, non quod de eo singulae species quasi partes aliquas carpant sed
singulae uno tempore totum genus habent. Quo fit ut totum genus in pluribus
singulis uno tempore positum unum esse non possit; neque enim fieri potest ut
cum in pluribus totum uno sit tempore in semet ipso sit unum ƿ numero. Quod si
ita est, unum quiddam genus esse non poterit. Quo fit ut omnino nihil sit; omne
enim quod est, idcirco est quia unum est. Et de specie idem convenit dici. Quodsi
est quidem genus ac species sed multiplex neque unum numero, non erit ultimum
genus sed habebit aliud superpositum genus quod illam multiplicitatem unius vi
nominis includat. Ut enim plura animalia quoniam habent quiddam simile, eadem
tamen non sunt, idcirco eorum genera perquiruntur, ita quoque quoniam genus
quod in pluribus est atque ideo multiplex habet sui similitudinem quod genus
est; non est vero unum quoniam in pluribus est -- eius generis quoque genus
aliud quaerendum est, cumque fuerit inventum eadem ratione quae superius dicta
est, rursus genus tertium uestigatur. Itaque in infinitum ratio procedat
necesse est cum nullus disciplinae terminus occurrat. Quodsi unum quiddam
numero genus est commune multorum esse non poterit. Una enim res si communis
est aut partibus communis est et non iam tota communis sed partes eius propriae
singulorum; aut in usus habentium etiam per tempora transit ut sit commune ut
seruus communis vel equus; aut uno tempore omnibus commune fit, non tamen ut
eorum quibus commune est substantiam constituat, ut est theatrum vel
spectaculum aliquod, quod spectantibus omnibus commune est. Genus vero secundum
nullum horum modum commune esse speciebus potest, nam ƿ ita commune esse debet
ut et totum sit in singulis et uno tempore et eorum quorum commune est
constituere valeat et formare substantiam. Quocirca si neque unum est quoniam
commune est, neque multa quoniam eius quoque multitudinis genus aliud
inquirendum est, videbitur genus omnino non esse. Idemque de caeteris
intellegendum est. Quodsi tantum intellectibus genera et species caeteraque
capiuntur, cum omnis intellectus aut ex re fiat subiecta ut sese res habet aut
ut sese res non habet (nam ex nullo subiecto fieri intellectus non potest) -- Si
generis et speciei caeterorumque intellectus ex re subiecta veniat ita ut sese
res ipsa habet quae intellegitur, iam non tantum in intellectu posita sunt sed
in rerum etiam veritate consistunt, et rursus quaerendum est quae sit eorum
natura quod superior quaestio uestigabat. Quodsi ex re quidem generis
caeterorumque sumitur intellectus neque ita ut sese res habet quae intellectui
subiecta est, uanum necesse est esse intellectum qui ex re quidem sumitur, non
tamen ita ut sese res habet; id est enim falsum quod aliter atque res est
intellegitur. Sic igitur quoniam genus ac species nec sunt nec cum
intelleguntur verus eorum est intellectus, non est ambiguum quin omnis haec sit
deponenda de his quinque propositis disputandi cura, quandoquidem neque de ea
re quae sit ƿ neque de ea de qua verum aliquid intellegi proferrive possit,
inquiritur. Haec quidem est ad praesens de propositis quaestio, quam nos
Alexandro consentientes hac ratiocinatione soluemus. Non enim necesse esse
dicimus omnem intellectum qui ex subiecto quidem fit, non tamen ut sese ipsum
subiectum habet, falsum et uacuum videri. In his enim solis falsa opinio ac non
potius intellegentia est quae per compositionem fiunt. Si enim quis componat
atque coniungat intellectu id quod natura iungi non patitur, illud falsum esse
nullus ignorat -- ut si quis equum atque hominem iungat imaginatione atque
effigiet centaurum. Quodsi hoc per divisionem et per abstractionem fiat, non
quidem ita res sese habet ut intellectus est, intellectus tamen ille minime
falsus est. Sunt enim plura quae in aliis esse suum habent ex quibus aut omnino
separari non possunt aut, si separata fuerint, nulla ratione subsistunt. Atque
ut hoc nobis in peruagato exemplo manifestum sit, linea in corpore quidem est
aliquid et id quod est corpori debet, hoc est esse suum per corpus retinet.
Quod docetur ita: si enim separata sit a corpore, non subsistit; quis enim
umquam sensu ullo separatam a corpore lineam cepit? Sed animus cum confusas res
permixtasque in se a sensibus cepit, eas propria vi et ƿ cogitatione
distinguit. Omnes enim huiusmodi res incorporeas in corporibus esse suum
habentes sensus cum ipsis nobis corporibus tradit, at vero animus, cui potestas
est et disiuncta componere et composita resoluere, quae a sensibus confusa et
corporibus coniuncta traduntur ita distinguit ut incorpoream naturam per se ac
sine corporibus in quibus est concreta speculetur et videat. Diversae enim
proprietates sunt incorporeorum corporibus permixtorum, etsi separentur a
corpore. Genera ergo et species caeteraque vel in incorporeis rebus vel in his
quae sunt corporea reperiuntur. Et si ea in rebus incorporeis invenit animus,
habet ilico incorporeum generis intellectum. Si vero corporalium rerum genera
speciesque perspexerit, aufert, ut solet, a corporibus incorporeorum naturam et
solam puramque ut in se ipsa forma est contuetur. Ita haec cum accipit animus
permixta corporibus, incorporalia dividens speculatur atque considerat. Nemo
ergo dicat falso nos lineam cogitare, quoniam ita eam mente capimus quasi
praeter corpora sit, cum praeter corpora esse non possit. Non enim omnis qui ex
subiectis rebus capitur intellectus aliter quam sese ipsae res habent, falsus
esse putandus est sed, ut superius dictum ƿ est, ille quidem qui hoc in
compositione facit falsus est, ut cum hominem atque equum iungens putat esse
centaurum, qui vero id in divisionibus et abstractionibus assumptionibusque ab
his rebus in quibus sunt efficit, non modo falsus non est, verum etiam solus id
quod in proprietate verum est invenire potest. Sunt igitur huiusmodi res in
corporalibus atque in sensibilibus, intelleguntur autem praeter sensibilia ut
eorum natura perspici et proprietas valeat comprehendi. Quocirca cum genera et
species cogitantur, tunc ex singulis in quibus sunt eorum similitudo colligitur
-- ut ex singulis hominibus inter se dissimilibus humanitatis similitudo, quae
similitudo cogitata animo veraciterque perspecta fit species; quarum specierum
rursus diversarum similitudo considerata, quae nisi in ipsis speciebus aut in
earum individuis esse non potest, efficit genus. Itaque haec sunt quidem in
singularibus, cogitantur vero universalia. Nihilque aliud species esse putanda
est nisi cogitatio collecta ex individuorum dissimilium numero substantiali
similitudine, genus vero cogitatio collecta ex specierum similitudine. Sed haec
similitudo cum in singularibus est fit sensibilis; cum in universalibus fit
intellegibilis -- eodemque modo cum sensibilis est in singularibus permanet;
cum intellegitur fit universalis. Subsistunt ergo circa sensibilia, intelleguntur
autem praeter corpora. Neque enim interclusum est ut duae res eodem in subiecto
sint ratione diversae, ut linea curua atque caua, quae ƿ res cum diversis
definitionibus terminentur diversusque earum intellectus sit, semper tamen in
eodem subiecto reperiuntur; eadem enim linea caua, eadem curua est. Ita quoque
generibus et speciebus, id est singularitati et universalitati, unum quidem
subiectum est; sed alio modo universale est cum cogitatur, alio singulare cum
sentitur in rebus his in quibus esse suum habet. His igitur terminatis omnis,
ut arbitror, quaestio dissoluta est. Ipsa enim genera et species subsistunt
quidem alio modo, intelleguntur vero alio. Et sunt incorporalia sed
sensibilibus iuncta subsistunt in sensibilibus. Intelleguntur vero ut per semet
ipsa subsistentia ac non in aliis esse suum habentia. Sed Plato genera et
species caeteraque non modo intellegi universalia, verum etiam esse atque
praeter corpora subsistere putat, Aristoteles vero intellegi quidem
incorporalia atque universalia sed subsistere in sensibilibus putat. Quorum
diiudicare sententias aptum esse non duxi, altioris enim est philosophiae.
Idcirco vero studiosius Aristotelis sententiam executi sumus, non quod eam
maxime probaremus sed quod hic liber ad Praedicamenta conscriptus est quorum
Aristoteles est auctor. ILLUD VERO QUEMADMODUM DE HIS AC DE PROPOSITIS
PROBABILITER ANTIQUI TRACTAVERUNT ET HORUM MAXIME PERIPATETICI, TIBI NUNC
TEMPTABO MONSTRARE. Praetermissis his quaestionibus quas altiores esse
praedixit, ƿ exoptat mediocrem introductorii operis tractatum. Sed ne haec ipsa
sibi harum quaestionum omissio vitio daretur, apposuit quemadmodum de
propositis tractaturus est, ex quorumque hoc opus auctoritate subnixus
aggrediatur ante denuntiat. Cum mediocritatem quidem tractatus promittit
detracta obscuritatis difficultate, animum lectoris inuitat, ut vero acquiescat
ac sileat ad id quod dicturus est, Peripateticorum auctoritate confirmat. Atque
ideo ait DE HIS, id est de generibus et speciebus de quibus superiores
intulerat quaestiones, AC DE PROPOSITIS, id est de differentiis, propriis atque
accidentibus, sese PROBABILITER disputaturum. PROBABILITER autem ait veri
similiter, quod Graeci *logikos* vel *endoxos* dicunt. Saepe enim et apud
Aristotelem *logikos* veri similiter ac probabiliter dictum invenimus et apud
Boethum et apud Alexandrum. Porphyrius quoque ipse in multis hac significatione
hoc usus est verbo quod nos scilicet in translatione, quod ait *logikos* ita
interpretari ut rationabiliter diceremus, omisimus. Longe enim melior ac verior
significatio ea visa est ut probabiliter sese dicere promitteret, id est non
praeter opinionem ingredientium atque lectorum, quod introductionis est
proprium. Nam cum ab imperitorum hominum mentibus doctrinae secretum altioris
abhorreat, talis esse introductio debet ut praeter opinionem ingredientium non
sit. Atque ideo melius ƿ probabiliter quam rationabiliter, ut nobis videtur,
interpretati sumus. Antiquos autem ait de eisdem disputasse rebus sed
<se> eorum illum maxime tractatum insequi quem Peripatetici Aristotele
duce reliquerint, ut tota disputatio ad Praedicamenta conveniat. Quaeri in ei
positionum principiis solet, cur unumquodque caeteris in disputationis ordine
praeponatur, velut nunc in genere dubitari potest, cur genus speciei,
differentiae, proprio accidentique praetulerit; de eo enim primitus tractat.
Respondebimus itaque iure factum videri; omne enim quod universale est, intra
semet ipsum caetera concludit, ipsum vero non clauditur. Maioris itaque meriti
est ac principalis naturae quod ita caetera cohercet, ut ipsum naturae magnitudine
nequeat ab aliis contineri. Genus igitur et species intra se positas habet et
earum differentias propriaque, nihilominus etiam accidentia, atque ita de
genere inchoandum fuit, quod caetera naturae suae magnitudine cohercet et
continet. Praeterea illa semper priora putanda sunt quae si auferat quis,
caetera perimuntur, illa posteriora quibus positis ea quae caeterorum
substantiam perficiunt, consequuntur, ut in genere et caeteris. Nam si animal
auferas, quod est hominis genus, homo quoque, quod species est, et rationale,
quod differentia, et risibile, quod proprium, et grammaticum, quod accidens,
non manebit et ƿ interemptum genus cuncta consumit. Si vero hominem esse
constituas vel grammaticum vel rationale vel risibile, animal quoque esse
necesse est. Sive enim homo est, animal est, sive rationale, sive risibile,
sive grammaticum, ab animalis substantia non recedit. Sublato igitur genere et
caetera consumuntur, positis caeteris sequitur genus; prior est igitur natura
generis, posterior caeterorum. Iure est igitur in disputati*one praepositum. Sed
quoniam generis nomen multa significat -- hoc est enim quod ait: VIDETUR AUTEM
NEQUE GENUS NEQUE SPECIES SIMPLICITER DICI. Ubi enim non est simplex dictio,
illic multiplex significatio est -- prius huius nominis significationes
discernit ac separat, ut de qua significatione generis tractaturus est, sub
oculis ponat. Sed cum neque genus neque species neque differentia nec proprium
nec accidens significatione simplici sint, cur de his tantum duobus, genere
inquam ac specie, dixit non simpliciter dici, cum proprium, differentia atque
accidens ipsa quoque sint significatione multiplici? Dicendum est quoniam
longitudinem vitans tantum speciem nominavit eamque idcirco, ne solum genus
significationis esse multiplicis putaretur. Enumerat autem primam quidem generis
significationem hoc modo: GENUS ENIM DICITUR ET ALIQUORUM QUODAMMODO SE
HABENTIUM AD UNUM ALIQUID ET AD SE INVICEM COLLECTIO, SECUNDUM QUAM
SIGNIFICATIONEM ROMANORUM DICITUR GENUS AB UNIUS SCILICET HABITUDINE, DICO
AUTEM ROMULI, ET MULTITUDINIS HABENTIUM ALIQUO MODO AD INVICEM EAM QUAE AB ILLO
EST COGNATIONEM SECUNDUM DIVISIONEM AB ALIIS GENERIBUS DICTAE. Una, inquit,
generis significatio est quae in multitudinem venit a quolibet uno principium
trahens, ad quem scilicet ita illa multitudo coniuncta est, ut ad se invicem
per eiusdem unius principium copulata sit, ut cum Romanorum dicitur genus;
multitudo enim Romanorum ab uno Romulo vocabulum trahans et ipsi Romulo et ad
se invicem quasi quadam nominis hereditate coniuncta est. Eadem enim quae a
Romulo societas descendit, Romanos inter se omnes uno generis nomine devincit
et colligat. Videtur autem secuisse hanc generis significationem in duas
partes, cum copulativam coniunctionem admiscuit dicens: GENUS DICITUR ET
ALIQUORUM QUODAMMODO SE HABENTIUM AD UNUM ALIQUID ET AD SE INVICEM COLLECTIO,
tamquam et illud genus dicatur ad unum se aliquo modo habere et hoc rursus
genus dicatur, quod ad se invicem unius generis significatione coniuncti sint.
Hoc vero minime; eadem enim a quolibet uno propagata societas et ad illum qui
princeps est generis, totam multitudinem refert et ipsam ƿ inter se
multitudinem uno generis nomine conectit et continet. Quocirca non est putandus
divisionem fecisse sed omne quicquid in hac generis significatione
intellegendum fuit, aperuisse. Ordo autem verborum ita sese habet (qui est
hyperbaton intellegendus): 'genus enim dicitur et aliquorum ad unum se aliquo
modo habentium collectio et ad se invicem aliquo modo habentium' -- rursus
'collectio' subaudienda; est enim zeugma -- cuius significationis adiecit
exemplum: SECUNDUM QUAM SIGNIFICATIONEM ROMANORUM DICITUR GENUS AB UNIUS
SCILICET HABITUDINE, DICO AUTEM ROMULI, ET MULTITUDINIS RURSUS HABITUDINE
HABENTIUM ALIQUO MODO AD INVICEM COGNATIONEM, EAM SCILICET QUAE AB ILLO EST, ID
EST ROMULO, SECUNDUM DIVISIONEM AB ALIIS GENERIBUS DICTAE, scilicet
multitudinis. Haec enim multitudo aliquo modo ad unum et ad se invicem habens
genus dicta est, ut ab aliis discerneretur, ut Romanorum genus ab Atheniensium
caeterorumque separatur, ut sit integer verborum ordo: 'genus enim dicitur et
aliquorum collectio ad unum se quodammodo habentium et ad se invicem, secundum
quam significationem Romanorum dicitur genus ab unius scilicet habitudine, dico
autem Romuli, et multitudinis secundum divisionem ab aliis generibus dictae,
habentium scilicet hominum aliquo modo ad invicem eam quae ab illo est, id est
Romulo, cognationem.' ƿ Atque haec hactenus; nunc de secunda generis
significatione dicendum est. DICITUR AUTEM ET ALITER RURSUS GENUS, QUOD EST
UNIUSCUIUSQUE GENERATIONIS PRINCIPIUM VEL AB EO QUI GENUIT VEL A LOCO IN QUO
QUIS GENITUS EST. SIC ENIM ORESTEM QUIDEM DICIMUS A TANTALO HABERE GENUS,
HYLLUM AUTEM AB HERCULE, ET RURSUS PINDARUM QUIDEM THEBANUM ESSE GENERE, PLATONEM
VERO ATHENIENSEM; ETENIM PATRIA PRINCIPIUM EST UNIUSCUIUSQUE GENERATIONIS,
QUEMADMODUM ET PATER. HAEC AUTEM VIDETUR PROMPTISSIMA ESSE SIGNIFICATIO; ROMANI
ENIM SUNT QUI EX GENERE DESCENDUNT ROMULI, ET CECROPIDAE, QUI A CECROPE, ET
HORUM PROXIMI. Quattuor omnino sunt principia quae unumquodque principaliter
efficiunt. Est enim una causa quae effectiva dicitur, velut pater filii, est
alia quae materialis, velut lapides domus, tertia forma, velut hominis
rationabilitas, quarta, quam ob rem, velut pugnae victoria. Duae vero sunt quae
per accidens uniuscuiusque ƿ dicuntur esse principia, locus scilicet ac tempus.
Quoniam enim omne quod nascitur vel fit, in loco ac tempore est, quicquid loco
vel tempore natum factumue fuerit, eum locum vel id tempus accidenter dicitur
habere principium. Horum omnium in hac secunda generis significatione duo
quaedam ex alterutris assumit, quae ad significationem generis videbuntur
accommoda, ex his quidem quae principalia sunt, effectivum,; ex his vero quae
accidentia, locum. Ait enim 'genus dicitur et a quo quis genitus est', quod est
effectiva principalium causa, 'et in quo quis loco est procreatus', quae est
accidens causa principii. Itaque haec secunda significatio duo continet, eum a
quo quis procreatus est, et locum in quo quis editus, ut exempla quoque
demonstrant. Orestem enim dicimus a Tantalo genus ducere; Tantalus quippe
Pelopem, Pelops Atreum, Atreus Agamemnonem, Agamemnon genuit Orestem. Itaque a
procreatione genus hoc dictum est. At vero Pindarum dicimus esse Thebanum,
scilicet quoniam Thebis editus tale generis nomen accepit. Sed quoniam diversum
est illud, a quo quis procreatus est, locusque in quo quis editus, videtur
diversa esse generis significatio procreantis et loci, quam in secunda scilicet
parte enumerans unam fecit. Sed ne videretur duplex, per similitudinem
coniunxit dicens: ETENIM PATRIA PRINCIPIUM EST UNIUSCUIUSQUE GENERATIONIS, ƿ
QUEMADMODUM ET PATER. Sed quoniam in significationibus evenit fere, ut sit
aliquid quod intellectui significatae rei propinquius esse videatur, quoniam
duas generis apposuit significationes, multitudinis scilicet et procreantis,
cui generis nomen convenientius aptetur, iudicat atque discernit dicens hanc
esse promptissimam generis significationem quae a procreante deducta sit; hi
enim maxime Cecropidae sunt qui a Cecrope descendunt, hi Romani, qui a Romulo.
Quae cum ita sint, confundi rursus generis significationes videntur. Si enim hi
sunt maxime Romani qui a Romulo originem trahunt, et haec significatio illa est
quae a procreante deducitur, ubi est reliqua, quam primam quoque enumeravit,
quae est 'multitudinis ad unum et ad se invicem quodammodo se habentium
collectio'? Sed acutius intuentibus plurimae admodum differentiae sunt. Aliud
est enim a quolibet primo procreante genus ducere, aliud unum genus esse
plurimorum. Illud enim et per rectam sanguinis lineam fieri potest et non in
multa diffundi, ut si per unicos familia descendat, huic enim aptabitur secunda
illa generis significatio, quae a procreante deducitur; prima vero illa non
nisi in multitudine consistit. Illud quoque est, quod prima procreationis
principium non requirit sed, ut ipse ait, sufficit aliquo modo se habere ad id
unde huiusmodi generis principium sumitur, secunda vero significatio nullam vim
nisi procreante sortitur. Item in illa primae significationis multitudine huius
secundae particularitas continetur, ut in ƿ Romanorum genere Scipiadarum genus;
nam cum sint Romani, Scipiadae sunt. Quoniam enim ad Romulum et ad caeteros
Romanos secundum Romuli habitudinem iuncti sunt, Romani sunt, Seipiadae vero
dicuntur ad secundam generis significationem, quia eorum familiae Scipio et
sanguinis principium fuit. ET PRIUS QUIDEM APPELLATUM EST GENUS UNIUSCUIUSQUE
GENERATIONIS PRINCIPIUM, DEHINC ETIAM MULTITUDO EORUM QUI SUNT AB UNO
PRINCIPIO, UT A ROMULO; NAMQUE DIVIDENTES ET AB ALIIS SEPARANTES DICEBAMUS
OMNEM ILLAM COLLECTIONEM ESSE ROMANORUM GENUS. Sensus facilis et expeditus, si
tamen ambiguitas una solvatur. Cum enim prius multitudinis significationem
retulerit ad generis nomen, post autem ad procreationis initium, nunc contrario
modo illam prius a se enumeratam significationem dicere videtur quae est
procreationis, illam vero posteriorem quae est multitudinis; quod contrarium
videri potest, si quis ad ordinem superius digestae disputationis aspexerit.
Sed hic non de se loquitur sed de humani consuetudine sermonis, in quo prius
eam significationem generis fuisse dicit quae a procreante sit tracta,
accedente vero aetate loquendi usu nomen generis etiam ad multitudinem habentem
se quodammodo ad aliquem fuisse translatum, hoc vero idcirco, quoniam ƿ
superius dixerat: haec enim videtur promptissima esse significatio, ut ab hac,
id est secunda, quam promptissimam significationem esse dixit, illa quoque
nuncupata videretur, quae est multitudinis. Prius enim genus inter homines
appellatum est quod quis a generante deduceret, post autem factum est, ut per
loquendi usum etiam multitudinis ad aliquem quodammodo se habentis genus
diceretur propter divisionem scilicet gentium, ut esset inter eas nominis
societatisque discretio. His igitur expletis venit ad tertium genus quod inter
philosophos tractatur cuiusque ad dialecticam facultatem multus usus est. Horum
quippe generum historia magis vel poesis tractat exordium, tertium vero genus
apud philosophos consideratur. De quo hoc modo loquitur: ALITER AUTEM RURSUS
GENUS DICITUR CUI SUPPONITUR SPECIES, AD HORUM FORTASSE SIMILITUDINEM DICTUM.
ETENIM PRINCIPIUM QUODDAM EST HUIUSMODI GENUS EARUM QUAE SUB IPSO SUNT
SPECIERUM, VIDETUR ETIAM MULTITUDINEM CONTINERE OMNEM QUAE SUB EO EST. Duplicem
significationem generis supra posuit, nunc tertiam monstrare contendit, hanc
autem ad superiorum similitudinem ƿ dictam esse arbitratur. Superius autem
dictae significationes sunt una quidem, cum nomen generis quadam principii
antiquitate ad se iunctam multitudinem contineret, alia vero, cum genus ab
unoquoque procreante duceretur, quod eorum quae procreantur principium est. Cum
igitur sint superius duae generis propositae significationes, tertium nunc
addit de quo inter philosophos sermo est, illud scilicet cui supponitur
species, quod idcirco genus vocatum esse sub opinionis credit ambiguo, quoniam
habet aliquam similitudinem superiorum. Nam sicut illud genus quod ad
multitudinem dicitur, uno suo nomine multitudinem claudit, ita etiam genus
plurimas species cohercet et continet. Item ut genus illud quod secundum
procreationem dicitur, principium quoddam est eorum quae ab ipso procreantur,
ita genus speciebus suis est principium. Ergo quoniam utrisque est simile,
idcirco nomen quoque generis etiam in hac significatione a superioribus mutuatum
esse veri simile est. TRIPLICITER IGITUR CUM GENUS DICATUR, DE TERTIO APUD
PHILOSOPHOS SERMO EST; QUOD ETIAM DESCRIBENTES ASSIGNAVERUNT ƿ GENUS ESSE
DICENTES QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS SPECIE IN EO QUOD QUID SIT
PRAEDICATUR, UT ANIMAL. Iure tertium genus philosophi ad disputationem sumunt;
hoc enim solum est quod substantiam monstrat, caetera vero aut unde quid
existat aut quemadmodum a caeteris hominibus in unam quasi populi formam
dividatur ostendunt. Nam illud quod multitudinem continet genus, illius
multitudinis quam continet substantiam non demonstrat sed tantum uno nomine
collectionem populi facit, ut ab alterius generis populo segregetur. Item illud
quod secundum procreationem dictum est, non rei procreatae substantiam monstrat
sed tantum quod eius fuerit procreationis initium. At vero genus id cui
supponitur species, ad speciem accommodatum speciei substantiam informat. Et
quia inter philosophos haec maxima est quaestio, quid unumquodque sit -- tunc
enim unumquodque scire videmur, quando quid sit agnoscimus -- idcirco reiectis
caeteris de hoc genere quam maxime apud philosophos sermo est, quod etiam
describentes assignaverunt ea descriptione quam subter annexuit. Diligenter
vero ait describentes, non definientes; definitio enim fit es genere, genus
autem aliud genus habere non poterit. Idque obscurius est quam ut primo aditu
dictum pateat. Fieri autem potest ut res quae ƿ alii genus sit, alii generi
supponatur, non quasi genus sed tamquam species sub alio collocata. Unde non in
eo quod genus est, supponi alicui potest sed cum supponitur, ilico species fit.
Quae cum ita sint, ostenditur genus ipsum in eo quod genus est, genus habere
non posse. Si igitur voluisset genus definitione concludere, nullo modo
potuisset; genus enim aliud quod ei posset praeponere, non haberet, atque
idcirco descriptionem ait esse factam, non definitionem. Descriptio vero est,
ut in priore volumine dictum est ex proprietatibus informatio quaedam rei et
tamquam coloribus quibusdam depictio. Cum enim plura in unum convenerint, ita
ut omnia simul rei cui applicantur aequentur, nisi ex genere vel differentiis haec
collectio fiat, descriptio nuncupatur. Est igitur descriptio generis haec:
genus est quod de pluribus et differentibus specie in eo quod quid sit
praedicatur. Tria haec requiruntur in genere, ut de pluribus praedicetur, ut de
specie differentibus, ut in eo qund quid sit de qua re quoniam ipse posterius
latius disputat, nos breviter huius rei intellegentiam significemus exemplo.
Sit enim nobis in forma generis animal. Id de aliquibus sine dubio praedicatur,
homine scilicet, equo, bove et caeteris. Sed haec plura sunt. Animal igitur de
pluribus praedicatur, homo vero, equus atque bos talia sunt, ut a se
discrepent, nec qualibet mediocri re sed tota specie, id est tota forma suae
substantiae. De quibus dicitur animal; homo enim et equus et bos animalia
nuncupantur. Praedicatur ergo animal de pluribus specie differentibus. Sed
quonam modo fit ƿ haec praedicatio? Non enim quicquid interrogaveris, mox
animal respondetur: non enim si quantus sit homo interrogaveris, 'animal'
respondebitur, ut opinor; hoc enim ad quantitatem pertinet, non ad substantiam.
Item si 'qualis' interrogess ne huic quidem responsio convenit animalis,
caeterisque omnibus interrogationibus hanc animalis responsionem ineptam atque
inutilem semper esse reperies, nisi ei tantum apta est quae quid sit
interroget. Interrogantibus enim nobis quid sit homo, quid sit equus, quid sit
bos, 'animalia' respondebitur. Ita nomen animalis ad interrogationem 'quid sit'
de homine, equo atque bove ac de caeteris praedicatur, unde fit ut animal
praedicetur de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit. Et quoniam
generis haec definitio est, animal hominis, equi, bovis genus esse necesse est.
Omne autem genus aliud est quod in semet ipso atque in re intellegitur, aliud
quod alterius praedicatione. Sua enim proprietas ipsum esse constituit, ad
alterum relatio genus facit, ut ipsum animal, si eius substantiam quaeras,
dicam substantiam esse animatam atque sensibilem. Haec igitur definitio rem
monstrat per se sicut est, non tamquam referatur ad aliud. At vero cum dicimus
animal genus esse, non, ut arbitror, tunc de re ipsa hoc dicimus sed de ea
relatione qua potest animal ad caeterorum quae sibi subiecta ƿ sunt
praedicationem referri. Itaque character est quidam ac forma generis in eo quod
referri praedicatione ad eas res potest, quae cum sint plures et specie
differentes, in earum tamen substantia praedicatur. Huius autem definitionis
rationem per exempla subiecit dicens: EORUM ENIM QUAE PRAEDICANTUR, ALIA QUIDEM
DE UNO DICUNTUR SOLO, SICUT INDIVIDUA UT SOCRATES ET HIC ET HOC, ALIA VERO DE
PLURIBUS, QUEMADMODUM GENERA ET SPECIES ET DIFFERENTIAE ET PROPRIA ET
ACCIDENTIA COMMUNITER SED NON PROPRIE ALICUI. EST AUTEM GENUS QUIDEM UT ANIMAL,
SPECIES VERO UT HOMO, DIFFERENTIA AUTEM UT RATIONALE, PROPRIUM UT RISIBILE, ACCIDENS
UT ALBUM, NIGRUM SEDERE. Omnium quae praedicantur quolibet modo, facit
Porphyrius divisionem idcirco, ut ab reliquis omnibus praedicationem generis
seiungat ac separet, hoc modo. Omnium, inquit, quae praedicantur, alia de
singularitate, alia de pluralitate dicuntur. ƿ De singularitate vero, inquit,
praedicantur quaecumque unum quodlibet habent subiectum de quo dici possint, ut
ea quibus singula subiecta sunt individua, ut Socrates, Plato, ut hoc album
quod in hac proposita nive est, ut hoc scamnum in quo nunc sedemus, non omne
scamnum -- hoc enim universale est -- sed hoc quod nunc suppositum est, nec
album quod in nive est -- universale est enim album et nix -- sed hoc album
quod in hac nive nunc esse conspicitur; hoc enim non potest de quolibet alio
albo praedicari quod in hac nive est, quia ad singularitatem deductum est atque
ad in dividuam formam constrictum est individui participatione. Alia vero sunt
quae de pluribus praedicantur, ut genera, species, differentiae et propria et
accidentia communiter sed non proprie alicui. Genera quidem de pluribus
praedicantur speciebus suis, species vero de pluribus praedicantur individuis;
homo enim, quod est animalis species, plures sub se homines habet de quibus
appellari possit. Item equus, qui sub animali est loco speciei, plurimos habet
individuos equos de quibus praedicetur. Differentia vero ipsa quoque de
pluribus speciebus dici potest, ut rationale de homine ac de deo corpolibusque
caelestibus, quae, sicut Platoni placet, animata sunt et ratione vigentia.
Proprium item etsi de una specie praedicatur, de multis tamen individuis
dicitur, quae sub convenienti specie collocantur, ut risibile de Platone,
Socrate et caeteris individuis quae homini supponuntur. Accidens etiam ƿ de
multis dicitur; album enim et nigrum de multis omnino dici potest quae a se
genere specieque seiuncta sunt. Sedere etiam de multis dicitur; homo enim
sedet, simia sedet, aves quoque, quorum species longe diversae sunt. Accidens
autem quoniam communiter accidens esse potest et proprie alicui, idcirco
determinavit dicens et accidentia communiter sed non proprie alicui. Quae enim
proprie alicui accidunt, individua fiunt et de uno tantum valentia praedicari,
ea quae communiter accipiuntur, de pluribus dici queunt. Ut enim de nive dictum
est, illud album quod in hac subiecta nive est, non est communiter accidens sed
proprie huic nivi quae oculis ostensionique subiecta est. Itaque ex eo quod
communiter praedicari poterat -- de multis enim album dici potest, ut albus
homo, albus equus, alba nix -- factum est, ut de una tantum nive praedicari
illud album: possit cuius participatione ipsum quoque factum est singulare. Omnino
autem omnia genera vel species vel differentiae vel propria vel accidentia, si
per semet ipsa speculemur in eo quod genera vel species vel differentiae vel
propria vel accidentia sunt, manifestum est quoniam de pluribus praedicantur.
At si ea in his speculemur in quibus sunt, ut secundum subiecta eorum formam et
substantiam metiamur, evenit ut ex pluralitate praedicationis ad singularitatem
videantur adduci. Animal enim, ƿ quod genus est, de pluribus praedicatur sed
cum hoc animal in Socrate consideramus -- Socrates enim animal est -- ipsum
animal fit individuum, quoniam Socrates est individuus ac singularis. Item homo
de pluribus quidem hominibus praedicatur sed si illam humanitatem quae in
Socrate est individuo consideremus, fit individua, quoniam Socrates ipse
individuus est ac singularis. Item differentia ut rationale de pluribus dici
potest sed in Socrate individua est. Risibile etiam cum de pluribus hominibus
praedicetur, in Socrate fit unicum. Communiter quoque accidens, ut album, cum
de pluribus dici possit, in unoquoque singulari perspectum individuum est.
Fieri autem potuit commodior divisio hoc modo. Eorum quae dicuntur, alia quidem
ad singularitatem praedicantur, alia ad pluralitatem, eorum vero quae de
pluribus praedicantur, alia secundum substantiam praedicantur, alia secundum
accidens. Eorum quae secundum substantiam praedicantur, alia in eo quod quid
sit dicuntur, alia in eo quod quale sit, in eo quod quid sit quidem, genus ac
species, in eo quod quale sit, differentia. Item eorum quae in eo quod quid sit
praedicantur, alia de speciebus praedicantur pluribus, alia minime; de
speciebus pluribus praedicantur genera, de nullis vero species. Eorum autem
quae secundum accidens praedicantur, alia quidem sunt quae de pluribus
praedicantur, ut accidentia, ƿ alia quae de uno tantum, ut propria. Posset
autem fieri etiam huiusmodi divisio. Eorum quae praedicantur, alia de singulis
praedicantur, alia de pluribus. Eorum quae de pluibus, alia in eo quod quid sit,
alia in eo quod quale sit praedicantur. Eorum quae in eo quod quid sit, alia de
differentibus specie dicuntur, ut genera, alia minime, ut species, eorum autem
quae in eo quod quale sit de pluribus praedicantur, alia quidem de
differentibus specie praedicantur, ut differentiae et accidentia, alia de una
tantum specie, ut propria. Eorum vero quae de differentibus specie in eo quod
quale sit praedicantur, alia quidem in substantia praedicantur, ut
differentiae, alia in communiter evenientibus, ut accidentia. Et per hanc
divisionem quinque barum rerum definitiones colligi possunt hoc modo. Genus est
quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicatur. Species
est quod de pluribus minime specie differentibus in eo quod quid sit praedicatur.
Differentia est quod de pluribus specie differentibus in eo quod quale sit in
substantia praedicatur. Proprium est quod de una tantum specie in eo quod quale
sit non in substantia praedicatur. Accidens est quod de pluribus specie
differentibus in eo quod quale sit non in substantia praedicatur. Et nos quidem
has divisiones fecimus, ut omnia a semet ipsis separaremus, Porphyrio vero alia
fuit intentio. Non enim omnia nunc a semet ipsis disiungere festinabat sed
tantum ut caetera a generis forma et proprietate separaret. Idcirco divisit
quidem omnia quae praedicantur aut in ea quae de singulis praedicantur, aut in
ea quae de pluribus, ea vero quae de pluribus praedicantur, aut genera esse
dilit aut species aut caetera, horumque exempla subiciens adiungit: AB HIS ERGO
QUAE DE UNO SOLO PRAEDICANTUR, DIFFERUNT GENERA EO QUOD DE PLURIBUS ASSIGNATA
PRAEDICENTUR, AB HIS AUTEM QUAE DE PLURIBUS, AB SPECIEBUS QUIDEM, QUONIAM
SPECIES ETSI DE PLURIBUS PRAEDICANTUR SED NON DE DIFFERENTIBUS SPECIE SED
NUMERO; HOMO ENIM CUM SIT SPECIES, DE SOCRATE ET PLATONE PRAEDICATUR, QUI NON
SPECIE DIFFERUNT A SE INVICEM SED NUMERO, ANIMAL VERO CUM GENUS SIT, DE HOMINE
ET BOVE ET EQUO PRAEDICATUR, QUI DIFFERUNT A SE INVICEM ET SPECIE QUOQUE, NON
NUMERO SOLO. A PROPRIO VERO DIFFERT GENUS, QUONIAM PROPRIUM QUIDEM DE UNA SOLA
SPECIE, CUIUS EST PROPRIUM, PRAEDICATUR ET DE HIS QUAE SUB UNA SPECIE SUNT
INDIVIDUIS, QUEMADMODUM ƿ RISIBILE DE HOMINE SOLO ET DE PARTICULARIBUS
HOMINIBUS, GENUS AUTEM NON DE UNA SPECIE PRAEDICATUR SED DE PLURIBUS ET
DIFFERENTIBUS SPECIE. A DIFFERENTIA VERO ET AB HIS QUAE COMMUNITER SUNT
ACCIDENTIBUS DIFFERT GENUS, QUONIAM ETSI DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS SPECIE
PRAEDICANTUR DIFFERENTIAE ET COMMUNITER ACCIDENTIA SED NON IN EO QUOD QUID SIT
PRAEDICANTUR SED IN EO QUOD QUALE QUID SIT INTERROGANTIBUS ENIM NOBIS ILLUD DE
QUO PRAEDICANTUR HAEC, NON IN EO QUOD QUID SIT DICIMUS PRAEDICARI SED MAGIS IN
EO QUOD QUALE SIT. INTERROGANTI ENIM QUALIS EST HOMO, DICIMUS RATIONALIS, ET IN
EO QUOD QUALIS EST CORUUS, DICIMUS QUONIAM NIGER. EST AUTEM RATIONALE QUIDEM
DIFFERENTIA, NIGRUM VERO ACCIDENS. QUANDO AUTEM QUID EST HOMO INTERROGAMUR,
ANIMAL RESPONDEMUS; ERAT AUTEM HOMINIS GENUS ANIMAL. Nunc genus a caeteris
omnibus quae quolibet modo praedicantur ƿ separare contendit hoc modo. Quoniam
enim genus de pluribus praedicatur, statim differt ab his quidem quae de uno
tantum praedicantur quaeque unum quodlibet habent individuum ac singulare
subiectum; sed haec differentia generis ab his quae de uno praedicantur,
communis ei est cum caeteris, id est specie, differentia, proprio atque
accidenti idcirco, quoniam ipsa quoque de pluribus praedicantur. Horum igitur
singulorum differentias a genere colligit, ut solum intellegendum genus quale
sit sub animi deducat aspectum, dicens: AB HIS AUTEM QUAE DE PLURIBUS
PRAEDICANTUR, DIFFERT GENUS, AB SPECIEBUS QUIDEM PRIMUM, QUONIAM SPECIES ETSI
DE PLURIBUS PRAEDICANTUR, NON TAMEN DE DIFFERENTIBUS SPECIE SED NUMERO. Species
enim sub se plurimas species habere non poterit, alioquin genus, non species
appellaretur. Si enim genus est quod de pluribus specie differentibus in eo
quod quid sit praedicatur, cum species de pluribus dicatur et in eo quod quid
sit, huic si adiciatur ut de specie differentibus praedicetur, speciei forma
transit in generis; id quoque exemplo intellegi fas est. Homo enim praedicatur
de Socrate, Platone et caeteris quae a se non specie disiuncta sunt, sicut homo
atque equus sed numero: quod quidem habet dubitationem quid sit boc quod
dicitur numero differre. Numero enim differre aliquid videbitur quotiens
numerus a numero differt, ut grex boum qui fortasse continet triginta boves,
differt numero ab alio boum grege, si centum in se contineat boves; in eo enim
quod grex est, non differunt, in eo quod boves, ne eo quidem: numero igitur differunt,
quod illi plures, illi vero sunt pauciores. Quomodo igitur Socrates et Plato
specie non differunt sed numero, cum et Socrates unus sit et Plato unus, unitas
vero numero ab unitate non differat? Sed ita intellegendum quod dictum est
numero differentibus, id est in numerando differentibus, hoc est dum numerantur
differentibus. Cum enim dicimus 'hic Socrates est, hic Plato', duas fecimus
unitates, ac si digito tangamus dicentes 'hic unus est' de Socrate, rursus de
Platone 'hic unus est', non eadem unitas in Socrate numerata est quae in
Platone. Alioquin posset fieri ut secundo tacto Socrate Plato etiam
monstraretur. Quod non fit. Nisi enim tetigeris Socratem vel mente vel digito
itemque tetigeris Platonem, non facies duos, dum numerantur ergo differunt qute
sunt numero differentia. Cum igitur species de numero differentibus, non de
specie praedicetur, genus de pluribus et differentibus specie dicitur, ut de
bove, de equo et de caeteris quae a se specie invicem differunt, non numero
solo. Tribus enim modis unumquodque vel differre ab aliquo dicitur vel alicui
idem esse, genere, specie, numero. Quaecumque igitur genere eadem sunt, non
necesse est eadem esse specie, ut si eadem sint genere, differant specie. Si
vero eadem sint specie, genere quoque eadem esse necesse est, ut cum homo atque
equus idem sint genere -- uterque enim animal nuncupatur -- differunt specie,
quoniam alia est hominis species, alia equi. Socrates vero atque Plato cum idem
sint specie, idem quoque sunt genere; utrique enim et sub hominis et sub
animalis praedicatione ponuntur. Si quid vero vel genere vel specie idem sit,
non necesse est idem esse numero, quod si idem sit numero, idem et specie et
genere esse necesse est; ut Socrates et Plato, cum et genere animalis et specie
hominis idem sint, num ero tam en reperiuntur esse disiuncti. Gladius vero
atque ensis idem sunt numero, nihil enim omnino aliud est ensis quam gladius.
Sed nec specie diversi sunt, utrumque enim gladius est, nec genere, utrumque
enim instrumentum est, quod est gladii genus. Quoniam igitur homo, bos atque
equus, de quibus animal praedicatur, specie differunt, numero ergo etiam eos
differre necesse est. Idcirco hoc plus habet genus ab specie, quod de specie
differentibus praedicatur. Nam si integram generis definitionem demus, dabimus
hoc modo: genus est quod de pluribus ƿ specie et numero differentibus in eo
quod quid sit praedicatur, at vero speciei sic: species est quod de pluribus
numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur. A PROPRIO VERO DIFFERT
GENUS, QUONIAM PROPRIUM QUIDEM DE UNA SOLA SPECIE, CUIUS EST PROPRIUM,
PRAEDICATUR ET DE HIS QUAE SUB UNA SPECIE SUNT INDIVIDUIS. Proprium semper uni
speciei adesse potest neque eam relinquit nec transit ad aliam, atque idcirco
proprium nuncupatum est, ut risibile hominis; itaque et de ea specie cuius est
proprium praedicatur et de his individuis quae sub illa sunt specie, ut risibile
de homine dicitur et de Socrate et Platone et caeteris quae sub hominis nomine
continentur. Genus vero non de una tantum specie, ut dictum est sed de
pluribus. Differt igitur genus a proprio eo quod de pluribus speciebus
praedicatur, cum proprium de una tantum de qua dicitur appelletur et de his quae
sub illa sunt individuis. A DIFFERENTIA VERO ET AB HIS QUAE COMMUNITER SUNT
ACCIDENTIBUS DIFFERT GENUS. Differentiae atque accidentis discrepantiam a
genere una separatione concludit. Omnino enim quia haec in eo quod quid sit
minime praedicantur, eo ipso segregantur a genere; nam in caeteris quidem
propinqua sunt generi, nam et ƿ de pluribus praedicantur et de specie
differentibus sed non in eo quod quid sit. Si quis enim interroget: qualis est
homo? respondetur rationalis, quod est differentia; si quis: qualis est coruus?
dicitur niger, quod est accidens. Si autem interroges: quid est homo? animal
respondebitur, quod est genus. Quod vero ait: HAEC NON IN EO QUOD QUID SIT
DICIMUS PRAEDICARI SED MAGIS IN EO QUOD QUALE SIT, hoc magis quaestioni
occurrit huiusmodi. Aristoteles enim differentias in substantis putat oportere
praedicari. Quod autem in substantia praedicatur, hoc rem de qua praedicatur,
non quale sit sed quid sit ostendit. Unde non videtur differentia in eo quod
quale sit praedicari sed potius in eo quod quid sit. Sed solvitur hoc modo.
Differentia enim ita substantiam demonstrat, ut circa substantiam qualitatem
determinet, id est substantialem proferat qualitatem. Quod ergo dictum est
magis, tale est tamquam si diceret: videtur quidem substantiam significare
atque idcirco in eo quod quid sit praedicari sed magis illud est verius, quia tametsi
substantiam monstret, tamen in eo quod quale sit praedicatur. QUARE DE PLURIBUS
PRAEDICARI DIVIDIT GENUS AB HIS QUAE DE UNO SOLO EORUM QUAE SUNT INDIVIDUA
PRAEDICANTUR, DIFFERENTIBUS VERO SPECIE SEPARAT AB HIS QUAE ƿ SICUT SPECIES
PRAEDICANTUR VEL SICUT PROPRIA; IN EO AUTEM QUOD QUID SIT PRAEDICARI DIVIDIT A
DIFFERENTIIS ET COMMUNITER ACCIDENTIBUS, QUAE NON IN EO QUOD QUID SIT SED IN EO
QUOD QUALE SIT VEL QUODAMMODO SE HABENS PRAEDICANTUR DE QUIBUS PRAEDICANTUR. Tria
esse diximus quae significationem hanc tertiam generis informarent, id est de
pluribus praedicari, de specie differentibus et in eo quod quid sit. Quae
singulae partes genus a caeteris quae quomodolibet praedicantur distribuant ac
secernunt, quod ipse breviter colligens dicit; id, enim quod' de pluribus
praedicatur, genus ab his dividit quae de uno tantum praedicantur individuo.
Individuum autem pluribus dicitur modis. Dicitur individuum quod omnino secari
non potest, ut unitas vel mens; dicitur individuum quod ob soliditatem dividi
nequit, ut adamans; dicitur individuum cuius praedicatio in reliqua similia non
convenit, ut Socrates: nam cum illi sint caeteri homines similes, non convenit
proprietas et praedicatio Socratis in caeteris. Ergo, ab his quae de uno tantum
praedicantur, genus differt eo quod de pluribus praedicatur restant igitur
quattuor, species et proprium, differentia et accidens, ƿ quorum a genere
differentias colligamus. Singulis igitur differentiis ab his rebus segregabitur
genus. Ea quidem differentia qua de specie differentibus genus dicitur, separat
ab his quae sicut species praedicantur vel sicut propria. Species enim omnino
de nulla specie dicitur, proprium vero de una tantum specie praedicatur atque
ideo non de specie differentibus. Item genus a differentia et accidenti differt,
quod in eo quod quid sit praedicatur; illa enim in eo quod quale sit
appellantur, ut dictum est. Itaque genus quidem ab his quae de uno praedicantur
differt in quantitate praedicationis, ab speciebus vero et proprio in
subiectorum natura, quoniam genus de specie differentibus dicitur, proprium
vero et species minime. Item genus in qualitate praedicationis a differentia
accidentique dividitur. Qualitas enim praedicationis quaedam est vel in eo quod
quid sit vel in eo quod quale sit praedicari. NIHIL IGITUR NEQUE SUPERFLUUM
NEQUE MINUS CONTINET GENERIS DICTA DESCRIPTIO. Omnis descriptio vel definitio
debet ei quod definitur aequari. Si enim definitio definito non sit aequalis et
si quidem maior sit, etiam quaedam alia continebit et non necesse est ut semper
definiti substantiam monstret; si minor, ad omnem definitionem ƿ substantiae
non pervenit. Omnia enim quae maiora sunt, de minoribus praedicantur, ut animal
de homine, minora vero de maioribus minime; nemo enim vere dicere potest 'omne
animal homo est'. Atque idcirco si sibi praedicatio convertenda est, aequalis
oportebit sit. Id autem fieri potest, si neque superfluum quicquam habet neque
diminutum, ut in ea ipsa generis descriptione. Dictum est enim esse genus quod
de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicetur, quae
descriptio cum genere converti potest, ut dicamus quicquid de pluribus specie
differentibus in eo quod quid sit praedicetur, id esse genus. Quodsi converti
potest, ut ait, nec plus neque minus continet generis facta descriptio. Superior
de genere disputatio videatur forsitan omnem etiam speciei consumpsisse
tractatum. Nam cum genus ad aliquid praedicetur, id est ad speciem, cognosci
natura generis non potest, si speciei quae sit intellegentia nesciatur. Sed
quoniam diversa est in suis naturis eorum consideratio atque discretio, diversa
in permixtis, idcirco sicut singula in prooemio proposuit, ita dividere cuncta
persequitur. Ac primum post generis disputationem de specie tractat. De qua
quidem dubitari potest. Si enim haec fuit ratio praeponendi generis reliquis
omnibus, quod naturae suae magnitudine caetera contineret, non aequum erat
speciem differentiae in ordine tractatus anteponere, quod differentia speciem
contineret, cum praesertim differentiae ipsas species informent. Prius autem
est quod informat quam id quod eius informatione perficitur. Posterior igitur
est species a differentia, prius igitur de differentia tractandum fuit. Etenim
prooemio etiam consentiret, in quo eum ordinem collocavit quem naturalis ordo
suggessit, dicens utile esse nosse quid genus sit et quid differentia. Huic
respondendum est quaestioni, quoniam omnia quaecumque ƿ ad aliquid
praedicantur, substantiam semper ex oppositis sumunt. Ut igitur non potest esse
pater, nisi sit filius, nec filius, nisi praecedat pater, alteriusque nomen
pendet ex altero, ita etiam in genere ac specie videre licet. Species quippe
nisi generis non est rursusque genus esse non potest, nisi referatur ad
speciem; nec vero substantiae quaedam aut res absolutae esse putandae sunt
genus ac species, ut superius quoque dictum est sed quicquid illud est quod in
naturae proprietate consistat, id tunc fit genus ac species, cum vel ad
inferiora vel ad superiora referatur. Quorum ergo relatio alterutrum
constituit, eorum continens factus est iure tractatus. De specie igitur
inchoans ait hoc modo: SPECIES AUTEM DICITUR QUIDEM ET DE UNIUSCUIUSQUE FORMA,
SECUNDUM QUAM DICTUM EST: 'PRIMUM QUIDEM SPECIES DIGNA IMPERIO'. DICITUR AUTEM
SPECIES ET EA QUAE EST SUB ASSIGNATO GENERE, SECUNDUM QUAM SOLEMUS DICERE
HOMINEM QUIDEM SPECIEM ANIMALIS, CUM SIT GENUS ANIMAL, ALBUM AUTEM COLORIS
SPECIEM, TRIANGULUM VERO FIGURAE SPECIEM. Sicut generis supra significationes
distinxit aequivocas, ita idem in specie facit dicens non esse speciei
simplicem significationem. Et ponit quidem duas, longe autem plures esse ƿ
manifestum est, quas idcirco praeteriit, ne lectoris animum prolixitate
confunderet. Dicit autem primum quidem speciem vocali uniuscuiusque formam,
quae ex accidentium congregatione perficitur. Cautissime autem dictum est
uniuscuiusque, hoc enim secundum accidens dicitur. Quae enim unicuique
individuo forma est, ea non ex substantiali quadam forma species sed ex
accidentibus venit. Alia est enim substantialis formae species quae humanitas
nuncupatur, eaque non est quasi supposita animali sed tamquam ipsa qualitas
substantiam monstrans; haec enim et ab bac diversa est quae uniuscuiusque
corpori accidenter insita est, et ab ea quae genus deducit in partes.
Postremumque plura sunt quae cum eadem sint, diversis tamen modis ad aliud
atque aliud relata intelleguntur, ut hanc ipsam humanitatem in eo quod ipsa est
si perspexeris, species est eaque substantialem determinat qualitatem; si sub
animali eam intellegendo locaveris, deducit animalis in sese participationem
separaturque a caeteris animalibus ac fit generis species. Quodsi uniuscuiusque
proprietatem consideres, id est quam virilis uultus, quam firmus incessus
caeteraque quibus individua conformantur et quodammodo depinguntur, haec est
accidens species secundum quam dicimus quemlibet illum imperio esse aptum
propter formae ƿ eximiam dignitatem. Huic aliam adiungit speciei
significationem, id est eam quam supponimus generi. Nos vero triplicem speciei
significationem esse subicimus, unam quidem substantiae qualitatem, aliam
cuiuslibet individui propriam formam, tertiam s de qua nunc loquitur, quae sub
genere collocatur. Credendum vero est propter obscuritatem eius quam nos
adiecimus, quia nimirum altiorem atque eruditiorem quaereret intellectum, ea,
tacita praetermissaque caeteras edidisse. Cuius quidem speciei haec exempla
subiecit, ut hominem quidem animalis speciem, album, autem coloris, triangulum
vero figurae; haec enim omnia species nuncupantur eorum quae sunt genera animal
quidem hominis, albi autem color, trianguli figura. QUODSI ETIAM GENUS
ASSIGNANTES SPECIEI MEMINIMUS DICENTES QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS SPECIE
IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICATUR, ET SPECIEM DICIMUS ID QUOD SUB GENERE EST. Dudum
cum generis description em assignaret, in generis definitione speciei nomen
iniecit dicens id esse genus quod de pluribus specie differentibus in eo quod
quid sit praedicaretur, ut scilicet per speciei nomen definiret genus. Nunc
vero cam speciem definire contendat, generis utitur nuncupatione dicens speciem
esse quae sub genere ponatur. Cui quidem dicto illa quaestio iure videtur
opponi. Omnis enim definitio rem declarare debet quam definitio concludit,
eamque apertiorem reddere quam suo nomine monstrabatur. Ex notioribus igitur
fieri oportet definitionem quam res illa sit quae definitur. Cum igitur per
speciei nomen describeret vel definiret genus, abusus est vocabulo speciei
velut notiore quam generis atque ita ex notioribus descripsit genus. Nunc vero
cum speciem vellet termino descriptionis includere, generis utitur nomine
rerumque convertit notionem, ut in generis quidem sit notius speciei vocabulum,
in speciei autem descriptione sit notius generis, quod fieri nequit. Si enim
generis vocabulum notius est quam speciei, in definitione generis speciei nomine
uti non debuit. Quodsi speciei nomen facilius intellegitur quam generis, in
definitione speciei nomen generis non fuit apponendum. Cui quaestioni occurrit
dicens: NOSSE ASTEM OPORTET <QUOD>, QUONIAM ET GENUS ALICUIUS EST GENUS
ET SPECIES ALICUIUS EST SPECIES, IDCIRCO NECESSE EST ET IN UTRORUMQUE
RATIONIBUS UTRISQUE UTI. Omnia quaecumque ad aliquid praedicantur, ex his de
quibus praedicantur, substantiam sortiuntur; quodsi definitio uniuscuiusque
substantiae proprietatem debet ostendere, iure ex alterutro fit descriptio in
his quae invicem referuntur. Ergo quoniam genus speciei genus est et
substantiam suam et ƿ vocabulum genus ab specie sumit, in definitione generis
speciei nomen est aduocandum, quoniam vero species id quod est sumit el genere,
nomen generis in speciei descriptione non fuit relinquendum. Quoniam vero
diversae sunt specierum qualitates -- aliae enim sunt species, quae et genera
esse possunt, aliae, quae in sola speciei permanent proprietate neque in
naturam generis transeunt -- idcirco multiplicem speciei definitionem dedit
dicens: ASSIGNANT ERGO ET SIC SPECIEM: SPECIES EST QUOD PONITUR SUB GENERE ET
DE QUO GENUS IN EO QUOD QUID SIT PRAEDIAATUR. AMPLIUS AUTEM SIC QUOQUE: SPECIES
EST QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS NUMERO IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICATUR.
SED HAEC QUIDEM ASSIGNATIO SPECIALISSIMAE EST ET QUAE SOLUM SPECIES EST, ALIAE
VERO ERUNT ETIAM NON SPECIALISSIMARUM. Tribus speciem definitionibus
informavit, quarum quidem duae omni speciei conveniunt omnesque quae quolibet
modo species appellantur, sua conclusione determinant, tertia vero non ita. Cum
enim duae sint specierum formae, una quidem, cum species alicuius aliquando
etiam alterius genus esse potest, altera, cum tantum species est neque in
formam generis ƿ transit, priores quidem duae, illa scilicet in qua dictum est
id esse speciem quod sub genere ponitur, et rursus in qua dictum est id esse
speciem de quo genus in eo quod quid sit praedicatur, omni speciei conveniunt.
Id enim tantum hae definitiones monstrant quod sub genere ponitur. Nam et ea
quae dicit id esse speciem quod sub genere ponitur, eam vim significat speciei
qua refertur ad genus, et ea quae dicit id esse speciem de quo genus in eo quod
quid sit praedicatur, eam rursus significat speciei formam quam retinet ex generis
praedicatione. Idem est autem et poni sub genere et de eo praedicari genus,
sicut idem est supponi generi et ei genus praeponi. Quodsi omnis species sub
genere collocatur, manifestum est omnem speciem hoc ambitu descriptionis
includi. Sed tertia definitio de ea tantum specie loquitur quae numquam genus
est et quae solum species restat. Haec autem species ea est quae de
differentibus specie minime praedicatur. Nam si id habet genus plus ab specie,
quod de differentibus specie praedicatur, si qua species praedicetur quidem de
subiectis sed non de specie differentibus, ea solum erit superioris generis
species, subiectorum vero non erit genus. Igitur praedicatio ea quam species
habet ad subiecta, si talis sit, ut de differentibus specie non praedicetur,
distinguit eam ab his speciebus ƿ quae genera esse possunt et monstrat eam
solum speciem esse nec generis praedicationem tenere. Illa igitur tertia
descriptio speciei quae magis species ac specialissima dicitur, definitur hoc
modo: SPECIES EST QUOD DE PLURIBUS NUMERO DIFFERENTIBUS IN EO QUOD QUID SIT
PRAEDICATUR, UT HOMO; praedicatur enim de Cicerone ac Demosthene et caeteris
qui a se, ut dictum est, non specie sed numero discrepant. Ex tribus igitur
definitionibus duae quidem et specialissimis et non specialissimis aptae sunt,
haec vero tertia solam ultimam speciem claudit. Ut autem id apertius liqueat,
rem paulo altius orditur eamque congruis inlustrat exemplis: PLANUM AUTEM ERIT
QUOD DICITUR HOC MODO. IN UNOQUOQUE PRAEDICAMEUTO SUNT QUAEDAM GENERALISSIMA ET
RURSUS ALIA SPECIALISSIMA ET INTER GENERALISSIMA ET SPECIALISSIMA SUNT ALIA.
EST AUTEM GENERALISSIMUM QUIDEM SUPER QUOD NULLUM ULTRA ALIUD SIT SUPERVENIENS
GENUS, SPECIALISSIMUM AUTEM, POST QUOD NON ERIT ALIN INFERIOR SPECIES, INTER
GENERALISSIMUM AUTEM ET SPECIALISSIMUM ET GENERA ET SPECIES SUNT EADEM, AD
ALIUD ƿ QUIDEM ET AD ALIUD SUMPTA. SIT AUTEM IN UNO PRAEDICAMENTO MANIFESTUM
QUOD DICITUR. SUBSTANTIA EST QUIDEM ET IPSA GENUS, SUB HAC AUTEM EST CORPUS,
SUB CORPORE VERO ANIMATUM CORPUS, SUB QUO ANIMAL, SUB ANIMALI VERO RATIONALE
ANIMAL, SUB QUO HOMO, SUB HOMINE VERO SOCRATES ET PLATO ET QUI SUNT
PARTICULARES HOMINES. SED HORUM SUBSTANTIA QUIDEM GENERALISSIMUM EST ET QUOD
GENUS SIT SOLUM, HOMO VERO SPECIALISSIMUM ET QUOD SPECIES SOLUM SIT, CORPUS
VERO SPECIES QUIDEM EST SUBSTANTIAE, GENUS VERO CORPORIS ANIMATI; ET ANIMATUM
CORPUS SPECIES QUIDEM EST CORPORIS, GENUS VERO ANIMALIS. ANIMAL AUTEM SPECIES
QUIDEM EST CORPORIS ANIMATI, GENUS VERO ANIMALIS RATIONALIS SED RATIONALE
ANIMAL SPECIES QUIDEM EST ANIMALIS, GENUS AUTEM HOMINIS, HOMO VERO SPECIES
QUIDEM EST RATIONALIS ANIMALIS, NON AUTEM ETIAM GENUS PARTICULARIUM HOMINUM SED
SOLUM SPECIES. ET OMNE QUOD ANTE INDIVIDUA PROXIMUM EST, SPECIES ERIT SOLUM,
NON ETIAM GENUS. Praediximus ab Aristotele decem praedicamenta esse disposita,
ƿ quae idcirco praedicamenta vocaverit, quoniam de caeteris omnibus
praedicantur. Quicquid vero de alio praedicatur, si non potuerit praedicatio
converti, maior est res illa quae praedicatur ab ea de qua praedicatur. Itaque
haec praedicamenta maxima rerum omnium, quoniam de omnibus praedicantur,
ostensa sunt. In unoquoque igitur horum praedicamentorum quaedam generalissima
sunt genera et est longa series specierum atque a maximo decursus ad minima. Et
illa quidem quae de caeteris praedicantur ut genera neque ullis aliis
supponuntur ut species, generalissima genera nuncupantur, idcirco quia his
nullum aliud superponitur genus, infima vero quae de nullis speciebus dicuntur,
specialissimae species appellantur, idcirco quoniam integrum cuiuslibet rei
vocabulum illa suscipiunt quae pura inmixtaque in ea de qua quaeritur
proprietate sunt constituta. At quoniam species id quod species est ex eo habet
nomen, quia supponitur generi, ipsa erit simplex species, si ita generi
supponatur, ut nullis aliis differentiis praeponatur ut genus. Species enim
quae sic supponitur alii, ut alii praeponatur, non est simplex species sed
habet quandam generis admixtionem, illa vero species quae ita supponitur
generi, ut minime speciebus aliis praeponatur, illa solum species simplexque
est species atque idcirco et maxime species et specialissima nuncupatur. Inter
genera igitur quae sunt generalissima et species, quae specialissimae sunt, in
medio ƿ sunt quaedam quae superioribus quidem collata species sunt. Inferioribus
vero genera. Haec subalterna genera nuncupantur. Quod ita sunt genera, ut
alterum sub altero collocetur. Quod igitur genus solum est, id dicitur
generalissimum genus, quae vero ita sunt genera, ut esse species possint, vel
ita species, ut sint genera nonnumquam, subalterna genera vel species
appellantur. Quod vero ita est species, ut alii genus esse non possit, specialissima
species dicitur. His igitur cognitis sumamus praedicamenti unius exemplum. Ut
ab eo in caeteris quoque praedicamentis atque in a caeteris speciebus in uno
filo atque ordine quid eveniat possit agnosci. Substantia igitur generalissimum
genus est; haec enim de cunctis aliis praedicatur. Ac primum huius species
duae, corporeum, incorporeum; nam et quod corporeum est, substantia dicitur et
item quod incorporeum est, substantia praedicatur. Sub corporeo vero animatum
atque inanimatum corpus ponitur, sub animato corpore animal ponitur; nam si
sensibile adicias animato corpori, animal facis, reliqua vero pars, id est
species, continet animatum insensibile corpus. Sub animali autem rationale
atque irrationale, sub rationali homo atque deus; nam si rationali mortale
subieceris, hominem feceris, si immortale, deum, deum vero corporeum; hunc enim
mundum ueteres deum vocabant et Iovis eum appellatione ƿ dignati sunt deumque
solem caeteraque caelestia corpora, quae animata esse cum Plato, tum plurimus
doctorum chorus arbitratus est. Sub homine vero individui singularesque homines
ut Plato, Cato, Cicero et caeteri, quorum numerum pluralitas infinita non
recipit. Cuius rei subiecta descriptio sub oculos ponat exemplum: incorporea
corpus animatum | inanimatum animatum corpus sensibile | insensibile animal
rationale | irrationale rationale animal mortale | immortale homo | Plato Cato
Cicero Superius posita descriptio omnem ordinem a generalissimo usque ad
individua praedicationis ostendit. In qua quidem substantia generalissimum
dicitur genus, quoniam praeposita est omnibus, nulli vero ipsa supponitur, et
solum genus propter eandem scilicet causam, homo autem species solum, quoniam
Plato, ƿ Cato et Cicero, quibus est ipsa praeposita, non differunt specie sed
numero tantum. Corporeum vero, quod secundum a substantia collocatur, et
species esse probatur et genus, substantiae species, genus animati. At vero animatum
genus est animalis, corporei species. Est enim animatum genus sensibilis,
animatum vero sensibile animal est; ipsum igitur animatum propter propriam
differentiam, quod est sensibile, recte genus esse dicitur animalis. Animal
vero rationalis genus est et rationale mortalis. Cumque rationale mortale nihil
sit aliud nisi homo, rationale fit animalis species. Hominis genus. Homo vero
ipse Platonis, Catonis, Ciceronis non erit, ut dictum est, genus sed est solum
species. Nec solum differentiae rationalis species est homo, verum etiam
Platonis et Catonis caeterorumque species appellatur, propter diversam scilicet
causam. Nam rationalis idcirco est species, quoniam rationale per mortale atque
immortale dividitur, cum sit homo mortale. Idem vero homo species est Platonis
atque caeterorum; forma enim eorum omnium homo erit substantialis atque ultima
similitudo. Est autem communis omnium regula eas esse species specialissimas
quae supra sola individua collocantur, ut homo, equus, coruus -- sed non avis;
avium enim multae sunt species sed hae tantum species esse dicuntur -- quorum
subiecta ita sibi sunt consimilia, ut substantialem differentiam habere non
possint. In omni autem hac dispositione priora genera cum inferioribus
coniunguntur, ut posteriores efficiant species; nam ƿ ut sit corpus substantia,
cum corporalitate coniungitur et est substantia corporea corpus. Item ut sit
animatum, corporeum atque substantia animato copulatur et est animatum
substantia corporea habens animam. Item ut sit sensibile, eidem tria illa
superiora iunguntur. Nam quod est sensibile, tantum est, quantum substantia
corporea animata retinens sensum, quod totum animal est. Item superiora omnia
rationi iuncta efficiunt rationale postremumque hominem superiora omnia
nihilominus terminant; est enim homo substantia corporea, animata. Sensibilis,
rationalis, mortalis. Nos vero definitionem hominis reddimus dicentes animal
rationale, mortale, in animali scilicet includentes et substantiam et corporeum
et animatum atque sensibile. Et in caeteris quidem speciebus atque generibus ad
hunc modum vel genera dividuntur vel species describuntur. QUEMADMODUM IGITUR
SUBSTANTIA, CUM SUPREMA SIT, EO QUOD NIHIL SIT SUPRA EAM, GENUS ERAT
GENERALISSIMUM, SIC ET HOMO, CUM SIT SPECIES POST QUAM NON SIT ALIA SPECIES
NEQUE ALIQUID EORUM QUAE POSSUNT DIVIDI SED SOLUM INDIVIDUORUM -- INDIVIDUUM
ENIM EST SOCRATES ET PLATO -- SPECIES ERIT SOLA ET ULTIMA SPECIES ƿ ET, UT
DICTUM EST, SPECIALISSIMA. QUAE VERO SUNT IN MEDIO, EORUM QUIDEM QUAE SUPRA
IPSA SUNT, ERUNT SPECIES, EORUM VERO QUAE POST IPSA SUNT, GENERA. QUARE HAEC
QUIDEM HABENT DUAS HABITUDINES, EAM QUAE EST AD SUPERIORA, SECUNDUM QUAM
SPECIES IPSORUM ESSE DICUNTUR, ET EAM QUAE EST AD POSTERIORA, SECUNDUM QUAM
GENERA IPSORUM ESSE DICUNTUR. EXTREMA VERO UNAM HABENT HABITUDINEM. NAM ET
GENERALISSIMUM AD EA QUIDEM QUAE POSTERIORA SUNT, HABET HABITUDINEM, CUM GENUS
SIT OMNIUM ID QUOD EST SUPREMUM, EAM VERO QUAE EST AD SUPERIORA, NON HABET, CUM
SIT SUPREMUM ET PRIMUM PRINCIPIUM, SPECIALISSIMUM AUTEM UNAM HABET HABITUDINEM,
EAM QUAE EST AD SUPERIORA, QUORUM EST SPECIES, EAM VERO QUAE EST AD POSTERIORA,
NON DIVERSAM HABET SED ETIAM INDIVIDUORUM SPECIES DICITUR SED SPECIES QUIDEM
INDIVIDUORUM VELUT EA CONTINENS, SPECIES AUTEM SUPERIORUM, VELUT QUAE AB EIS
CONTINEATUR. Ex proportione speciei nomen et generis ostendit. Nam ut genus,
quoniam non habet genus supra se, generalissimum genus dicitur, ut substantia,
ita species, quoniam non habet sub se speciem sed individua, specialissima
species dicitur, ut homo. Quid est autem species non habere? His praeesse quae
neque in dissimilia dividi possunt, ut genera dividuntur, neque in similia
secantur, ut species. Quae vero inter genera generalissima speciesque
specialissimas constituta sunt, ea et species et genera nuncupantur, quoniam et
ipsa aliis supponuntur et his alia subiciuntur, quorum vel in dissimilia vel in
similia possit esse partitio. Cumque duae sint habitudines et quasi
comparationes oppositae, quae in omnibus generibus speciebusque versentur, una
quidem quae ad superiora respiciat, ut specierum, quae suis generibus
supponuntur, alia vero quae ad inferiora, ut generum, cum speciebus propriis
praeponuntur, generalissima quidem genera unam tantum retinent habitudinem, eam
scilicet quae inferiora complectitur, illam vero quae ad praeposita comparatur,
non habent. Generalissimum enim genus nulli supponitur. Item species
specialissima unam possidet habitudinem, per quam scilicet ad sola gellera
comparatur, illam vero quae ad inferiora committitur, non habet; nullis enim
speciebus ipsa praeponitur. At vero quae subalterna sunt genera, utraque
habitudine funguntur. ƿ Nam et illam possident quae ad superiora respicit,
quoniam quae subalterna sunt, habent superpositum genus, et illam quae de
inferioribus praedicatur; habent enim subalterna genera suppositas species, ut
corporeum ad substantiam quidem eam retinet habitudinem qua potest poni sub
genere, ad animatum vero eam qua potest de specie praedicari. Specialissimae
vero species licet ipsae individuis praeponantur, tamen praepositi habitudinem
non habebunt, idcirco quoniam illa quae speciei ultimae supponuntur, talia
sunt, ut quantum ad substantiam unum quiddam sint non habentia substantialem
differentiam sed accidentibus efficitur, ut numero saltem distare videantur, ut
paene dici possit et pluribus praeesse speciem et quodammodo nulli omnino esse
praepositam. Nam cum species substantiam monstret unam, quae omnium
individuorum sub specie positorum substantia sit, quodammodo nulli praeposita
est, si ad substantiam quis velit aspicere. At si accidentia quis consideret,
plures de quibus praedicetur species fiunt, non substantiae diversitate sed
accidentium multitudine itaque fit ut genus quidem semper plurimas sub ƿ se
habeat species; de differentibus enim specie praedicatur, differentia vero nisi
pluralitati non convenit. At vero species etiam uni aliquando individuo
praeesse potest. Si enim unus, ut perhibetur, est phoenix, phoenicis species de
uno tantum individuo praedicatur; solis etiam species unum solem intellegitur
habere subiectum. Ita nullam multitudinem species per se continet, cum etiam si
unum sit tantum individuum, speciei tamen non pereat intellectus; quibusdam
enim suis quasi similibus partibus praeest, ut si aeris virgulam dividas,
secundum id quod aes dicitur, idem et partes esse intellegitur et totum.
Idcirco dictum est speciem, licet sit individuis praeposita, unam tamen
habitudinem possidere, unam scilicet qua species est. Quoniam enim praepositis
subditur, species nuncupatur, et est superiorum species tamquam subiecta inferiorum
quoque species, idcirco quoniam eorum substantiam monstrat. Speciem vero
substantiam nuncupamus, nec ita est species substantia individuorum,
quemadmodum speciei genus; illud enim pars substantiae est, ut animalis homo.
Reliquae enim partes rationale sunt atque mortale, homo vero Socratis atque
Ciceronis tota substantia est; nulla enim additur differentia substantialis ad
hominem, ut Socrates fiat aut Cicero, ƿ sicut additur animali rationale atque
mortale, ut homo integra definitione claudatur. Idcirco igitur species
specialissima tantum species est atque hanc solam possidet habitudinem ad
superiora quidem, quoniam ab his continetur, ad inferiora vero, quoniam eorum
substantiam format et continet. DETERMINANT ERGO GENERALISSIMUM ITA, QUOD CUM
GENUS SIT, NON EST SPECIES, ET RURSUS, SUPRA QUOD NON ERIT ALIUD SUPERVENIENS
GENUS, SPECIALISSIMUM VERO, QUOD CUM SIT SPECIES, NON EST GENUS ET QUOD CUM SIT
SPECIES, NUMQUAM DIVIDITUR IN SPECIES ET QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS
NUMERO IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICATUR. EA VERO QUAE IN MEDIO SUNT EXTREMORUM,
SUBALTERNA VOCANT GENERA ET SPECIES, ET UNUMQUODQUE IPSORUM SPECIEM ESSE ET
GENUS PONUNT, AD ALIUD QUIDEM ET AD ALIUD SUMPTA. EA VERO QUAE SUNT ANTE
SPECIALISSIMA USQUE AD GENERALISSIMUM ASCENDENTIA, ET GENERA DICUNTUR ET
SPECIES ET SUBALTERNA GENERA, UT AGAMEMNON ATRIDES ET PELOPIDES ET TANTALIDES
ET ULTIMUM IOVIS. Posteaquam naturam generum ac specierum diversitatemque
monstravit, eorum ordinem definitionis descriptionisque commemorat. Ac primum
quidem generalissimi generis terminum ƿ inducit, id esse generalissimum genus
quod cum ipsum genus sit, non habet superpositum genus, hoc est speciem non
esse, et rursus, supra quod non erit aliud superveniens genus. Si enim haberet
aliud genus, minime ipsum generalissimum vocaretur. Specialissima vero species
hoc modo: quod cum sit species, non est genus, ex opposito, quoniam opposita ex
oppositis describuntur interdum. Nam quoniam praepositio opposita est
suppositioni, genus autem praeponitur, species vero supponitur, si idcirco erit
primum genus, quia ita superponitur, ut minime supponatur, idcirco erit ultima
species, quia ita supponitur, ut praeponi non possit, oppositorum igitur recte
ex oppositis facta est definitio. Est alia rursus descriptio: quod cum sit
species, numquam dividatur in species, id est genus esse non possit. Si enim
omne genus specierum genus est, si quid non dividitur in species, genus esse
non poterit. Est rursus alia definitio: quod de pluribus et differentibus
numero in eo quod quid sit praedicatur. De qua definitione saepe est superius
demonstratum. Nunc illud attendendum est. Si, ut paulo superius dictum est,
speciei unum individuum potest esse subiectum, ut phoenici atomum suum, ut soli
corpus hoc lucidum, ut mundo vel lunae, quorum species singulis suis individuis
superponuntur, qui convenit dicere speciem esse quae de pluribus numero
differentibus in eo quod quid sit praedicatur? Sunt enim quaedam quae de numero
differentibus minime dicuntur, ut phoenix, sol, luna, mundus. Sed de his illa
ratio est de qua etiam superius pauca reddidimus, quae paululum inflexa
commodissime nodum quaestionis absolvit. Omnia enim quae sub speciebus
specialissimis sunt, sive infinita sint sive finito numero constituta sive ad
singularitatem deducantur, dum est aliquod individuum, semper species
permanebit neque individuorum deminutione, dum quodlibet unum maneat, species
consumitur. ut enim dictum est, tametsi plura sint individua, substantiales
differentias non habebunt. Id vero in genere dici non convenit, quod his
praeest quae substantiali a se differentia disgregata sunti praeest enim
speciebus quae diversis differentiis informantur. ƿ Si igitur earum una
perierit et ad unitatem speciei reducta sit ratio, genus esse non poterit, quia
de differentibus specie praedicatur. Non ita in speciebus. Si enim omnium
individuorum natura consumpta sit et ad unius singularitatem individul
superpositae speciei praedicatio peruenerit, est tamen species ac permanet.
Talia enim sunt illa quae pereunt ac desunt, quale est id quod permansit et
subiacet quod vero dicimus de pluribus numero differentibus speciem praedicari,
duobus id recte explicabitur modis, uno quidem, quia multo plures sunt species
quae de numerosis individuis praedicantur, quam hae quibus unum tantum
individuum videtur esse suppositum, dehinc hoc, quia multa secundum potestatem
dicuntur, cum actu non semper ita sint, ut risibilis homo dicitur; etiamsi
minime rideat, quoniam ridere potest. Ita igitur species de numero
differentibus praedicatur; nihilo enim minus phoenix de pluribus phoenicibus
praedicaretur, si plures essent, quam nunc, quando unus esse perhibetur. Item
solis species de hoc uno sole quem novimus, nunc dicitur, at si animo plures
soles et cogitatione fingantur, nihilominus de pluribus solibus in dividuis
nomen solis quam de hoc uno praedicabitur. Idcirco igitur species de pluribus
numero differentibus dicitur praedicari cum sint aliquae quae de singulis
individuis appellentur. Illa vero quae subalterna vocantur ita definiri queunt:
subalternum ƿ genus est quod et genus esse poterit et species, ad eumque modum
est ut in familiis, quae procreant et procreantur, ut etiam subiectum monstrat
exemplum: UT AGAMEMNON ATRIDES ET PELOPIDES ET TANTALIDES ET ULTIMUM IOVIS.
Atreus enim Pelopis filius tamquam eiusdem species quasi Agamemnonis genus est.
Item Agamemnon Pelopides et Tantalides, cum Pelops ad Tantalum comparatus
Tantalusque ad Iovem quasi species itemque Tantalus ad Pelopem, Pelops ad
Atreum tamquam genera esse videantur, cum Iuppiter veluti sit horum
generalissimum genus. SED IN FAMILIIS QUIDEM PLERUMQUE AD UNUM REDUCUNTUR
PRINCIPIUM, VERBI GRATIA AD IOVEM, IN GENERIBUS AUTEM ET SPECIEBUS NON SE SIC
HABET. NEQUE ENIM EST COMMUNE UNUM GENUS OMNIUM ENS NEC OMNIA EIUSDEM GENERIS
SUNT SECUNDUM UNUM SUPREMUM GENUS, QUEMADMODUM DICIT ARISTOTELES. SED SINT
POSITA, QUEMADMODUM ƿ IN PRAEDICAMENTIS, PRIMA DECEM GENERA QUASI PRIMA DECEM
PRINCIPIA; VEL SI OMNIA QUIS ENTIA VOCET, AEQUIVOCE, INQUIT, NUNCUPABIT, NON
UNIVOCE. SI ENIM UNUM ESSET COMMUNE OMNIUM GENUS ENS, UNIVOCE ENTIA DICERENTUR;
CUM VERO DECEM SINT PRIMA, COMMUNIO SECUNDUM NOMEN EST SOLUM, NON ETIAM
SECUNDUM RATIONEM, QUAE SECUNDUM NOMEN EST. Cum de subalternis generibus
diceret, familiae cuiusdam posuit exemplum, quae ab Agamemnone pervenit ad
Iovem, quem quidem pro numinis reuerentia ultimum posuit. Quantum enim ad
ueteres theologos, refertur Iuppiter ad Saturnum, Saturnus ad Caelum, Caelus
vero ad antiquissimum Ophionem ducitur, cuius Ophionis nullum principium est.
Ne igitur quod in familiis est, id in rebus quoque esse credatur, ut res omnes
possint ad unum sui nominis redire principium, idcirco determinat hoc in
generibus ac speciebus esse non posse; neque enim sicut familiae cuiuslibet,
ita etiam omnium rerum unum esse principium potest. Fuere enim qui hac opinione
tenerentur, ut rerum omnium quae sunt umlm putarent esse genus quod ens
nuncupant, tractum ab eo quod dicimus 'est'; omnia enim ƿ sunt et de omnibus
esse praedicatur. Itaque et substantia est et qualitas est itemque quantitas
caeteraque esse dicuntur; nec de his aliquid tractaretur, nisi haec quae
praedicamenta dicuit tur, esse constaret. Quae cum ita sint, ultimum omnium
genus ens esse posuerunt, scilicet quod de omnibus praedicaretur. Ab eo autem
quod dicimus 'est' participium inflectentes Graeco quidem sermone *on* Latine
ens appellaverunt. Sed Aristoteles sapientissimus rerum cognitor reclamat huic
sententiae nec ad unum res omnes putat duci posse primordium, sed decem esse
genera in rebus, quae cum a semet ipsis diversa sint, tum ad nullum commune
principium reducantur. Haec autem decem genera statuit substantiam, qualitatem,
quantitatem, ad aliquid, ubi, quando, situm, facere, pati, habere. Quod vero
occurrebat quoniam de his omnibus esse praedicaretur -- omnia enim quae
superius enumerata sunt genera, esse dicuntur -- ita discussit ac reppulit
dicens non omne commune nomen communem etiam formare substantiam nec ex eo
debere genus esse commune arbitrari, quod de aliquibus nomen commune
praedicaretur. Quibus enim definitio communis nominis convenit, illa communis
nominis iure species iudicabuntur et communi illo vocabulo univoce
praedicantur, quibus vero non convenit, vox his communis tantum est, nulla vero
substantia. Id autem manifestius declaratur exemplis hoc modo. Animal hominis
atque equi genus esse praedicamus; demus igitur ƿ animalis definitionem, quae
est substantia animata sensibilis; hanc si ad hominem reducamus, erit homo
substantia animata sensibilis, nec ulla falsitate definitio maculatur. Rursus
si ad equum, erit equus substantia animata sensibilis; id quoque verum est.
Convenit igitur haec definitio et animali, quod commune est homini atque equo,
et eidem equo atque homini, quae species ponuntur animalis. Ex quo fit ut homo
atque equus utraque animalia univoce nuncupentur. At si quis hominem pictum
hominemque vivum communi animalis nomine nuncupaverit, definiat si libet animal
hoc modo, substantiam animatam esse atque sensibilem. Sed haec definitio ei
quidem homini qui vivus est convenit, ei vero qui pictus est, minime; neque
enim est animata substantia. Igitur homini vivo atque picto, quibus communis
nominis definitio, id est animalis, non potest convenire, non est animal
commune genus sed tantum commune vocabulum diciturque hoc nomen animalis in
vivo homine atque picto non genus sed vox plura significans; vox autem plura
significans aequivoca nuncupatur, sicut vox ea quae genus ostendit, univoca
dicitur. Itaque id quod dicitur ens, etsi de omnibus dicitur praedicamentis,
quoniam tam en nulla eius definitio inveniri potest quae omnibus praedicamentis
possit aptari, idcirco non dicitur univoce de praedicamentis, id est ut genus
sed aequivoce, id est ut vox plura significans. Conuincitur etiam hac quoque
ratione id quod dicimus, ens praedicamentorum genus esse non posse. ƿ Unius
enim rei duo genera esse non possunt, nisi alterum alteri subiciatur, ut
hominis genus est animal atque animatum, cum animal animato velut species
supponatur. At si duo sint sibimet ita aequalia, ut numquam alterum alteri
supponatur. Haec utraque eiusdem speciei genera esse non possunt. Ens igitur
atque unum neutrum neutri supponitur; neque enim unius dicere possumus genus
ens nec eius quod dicimus ens, unum. Nam quod dicimus ens, unum est et quod
unum dicitur, ens est; genus autem et species sibi minime convertuntur. Si
igitur praedicatur ens de omnibus praedicamentis, praedicatur etiam unum. Nam
substantia unum est, qualitas unum est. Quantitas unum est caeteraque ad hunc
modum. Si igitur, quoniam esse de omnibus praedicatur, omnium genus erit, et
unum, quoniam de omnibus praedicatur, erit omnium genus. Sed unum atque ens, ut
demonstratum est, minime alterum alteri praeponitur; duo igitur aequalia
singulorum praedicamentorum genera sunt, quod fieri non potest. Cum haec igitur
ita sint, id Porphyrius determinavit dicens non ita in rebus, ut in familiis
omnia ad unum principium posse reduci nec omnium rerum commune esse genus
posse, ut Aristoteli placet; SED SINT POSITA, inquit, QUEMADMODUM IN
PRAEDICAMENTIS dictum est, PRIMA DECEM GENERA QUASI DECEM PRIMA PRINCIPIA,
scilicet ut nulla interim ratio perquiratur sed auctoritati Aristotelis
concedentes haec decem genera nulli ƿ alii generi esse credamus subiecta, quae
si quis entia nuncupat, aequivoce nuncupabit, non univoce; neque enim una eorum
omnium secundum commune nomen definitio poterit adhiberi. Quae res facit, ut
non univoce de his aliquid praedicetur. Si enim univoce praedicaretur, genus
esset eorum commune nomen quod de omnibus praedicaretur; at si genus esset.
Definitio generis conveniret in species. Quod quia non fit, commune his id quod
dicimus ens, vocabulum est vocis significatione, non ratione substantiae. DECEM
QUIDEM GENERALISSIMA SUNT, SPECIALISSIMA VERO IN NUMERO QUIDEM QUODAM SUNT, NON
TAMEN INFINITO, INDIVIDUA AUTEM QUAE SUNT POST SPECIALISSIMA, INFINITA SUNT.
QUAPROPTER USQUE AD SPECIALISSIMA A GENERALISSIMIS DESCENDENTEM IUBET PLATO
QUIESCERE, DESCENDERE AUTEM PER MEDIA DIVIDENTEM SPECIFICIS DIFFERENTIIS;
INFINITA, INQUIT, RELINQUENDA SUNT; NEQUE ENIM HORUM POSSE FIERI DISCIPLINAM. Quoniam
specierum nosse naturam ad sectionem generum pertinet quoniamque scientia
infinita esse non potest -- nullus enim intellectus infinita circumdat --
idcirco de multitudine generum, specierum atque individuorum rectissima
raitione persequitur dicens supremorum generum numerum notum -- decem enim
praedicamenta ab Aristotele esse reperta quae rebus omnibus generis loco
praeferenda sint -- species vero multo plures esse quam genera. Nam cum decem
suprema sint genera cumque uni generi non una sed multae species supponantur
proximaeque species supremis generibus subalterna sint genera usque dum ad
ultimas species descendatur, nimirum unius generis multas species esse necesse
est utrobique diffusas, specialissimas vero multo plures esse quam subalterna,
quoniam per multitudinem generum subalternorum ad specialissimas descenditur
species. Quas multo plures esse quam genera subalterna hoc maxime ostenditur,
quod inferiores sunt; semper enim genera in plura subiecta dividuntur. Decem
vero generum species multo plures quam unius existere manifestum est, verum
tamen etsi plures sunt, certo tamen numero continentur; quem facile si quis
discutiat omniumque generum species persequatur, possit agnoscere. Individua
vero quae sub unaquaque sunt specie, infinita sunt vel quod tam multa ƿ sunt
diversisque locis posita, ut scientia numeroque includi comprehendique non
possint, vel quod in generatione et corruptione posita nunc quidem incipiunt
esse, nunc vero desinunt. Atque idcirco suprema quidem genera et subalterna et
species eas quae specialissimae nuncupantur, quoniam finitae sunt numero,
potest scientiae terminus includere, individua vero nullo modo idcirco igitur
Plato a magis generibus usque ad magis species id est specialissimas
praecipiebat facere sectionem; per ea enim quae finita essent numero, iubebat
descendere dividentem, ubi autem ad individua veniretur, standum esse suadebat,
ne, quod natura non ferret, infinita colligeret. Ita vero genera in species
dividi comprobabat, ut specificis differentiis soluerentur. De specificis autem
differentiis melius in eo tituro ubi de differentia disputatur, ac largius
disseremus. Hic enim hoc tantum dixisse sufficiat, eas esse specificas
differentias quibus species informantur, ut rationale vel mortale hominis. Cum
igitur dividimus animal, rationali atque irrationali, mortali immortalique
separamus. <Hoc ergo> caeteraque genera talibus differentiis quae
subiectas species informent, Plato censuit esse dividenda usque dum ad
specialissima ƿ veniretur, dehinc consistere nec infinita sequi, quoniam
individuorum numquam esset nec disciplina nec numerus. DESCENDENTIBUS IGITUR AD
SPECIALISSIMA NECESSE EST DIVIDENTEM PER MULTITUDINEM IRE, ASCENDENTIBUS VERO
AD GENERALISSIMA NECESSE EST COLLIGERE MULTITURDINEM. COLLECTIVUM ENIM MULTORUM
IN UNAM NATURAM SPECIES EST ET MAGIS ID QUOD GENUS EST, PARTICULARIA VERO ET
SINGULARIA E CONTRARIO IN MULTITUDINEM SEMPER DIVIDUNT QUOD UNUM EST;
PARTICIPATIONE ENIM SPECIEI PLURES HOMINES UNUS, PARTICULARIBUS AUTEM UNUS ET
COMMUNIS PLURES; DIVISIVUM EST ENIM SEMPER QUOD SINGULARE EST, COLLECTIVUM
AUTEM ET ADUNATIVUM QUOD COMMUNE EST. Dividere est in multitudinem quod unum
fuerat ante dis soluere, omoisque divisio e contrario compositionem
coniunctionemque meditatur. Quod enim, cum sit unum, dispertiendo dividitur, id
ipsum ex pluribus rursus partibus adunando componitur. ut igitur superius
dictum est, individuorum quidem similitudinem species colligunt, specierum vero
genera; similitudo vero nihil est aliud nisi quaedam unitas qualitatis. Ergo
substantialem similitudinem individuorum species colligere manifestum est,
substantialem vero similitudinem specierum genera contrahunt et ad se ipsa
reducunt. Rursus ƿ generis adunationem differentiae in species distribuunt,
specieique adunationem in singulares individuasque personas accidentia
partiuntur. Cum igitur haec ita sint, necesse est semper cum a genere descendis
ad speciem, dividendo semper facere multitudinem, cum vero ab speciebus
ascendis ad genera, componendo colligere et plura quae in specierum differentiis
fuerant similitudine qualitatis adunare. In speciebus etiam idem considerari
potest. ut enim ipsae individua, quae sunt infinita, una similitudine
substantiali colligunt, ita individua speciem propria infinitate distribuunt Omnia
enim individua disgregativa sunt et divisiva, species vero et genera
collectiva, species quidem individuorum collectiva atque adunativa, specierum
vero genera, ut ita dicendum sit: genus quidem species distribuunt et species
ab individuis in multitudinem deducuntur, rursus autem genus quidem multas
species colligit, species autem particularem singularemque multitudinem ad
singularitatis deducit unitatem. Igitur plus genus adunativum est quam species.
Species namque sola individua colligit, genus vero tam species quam ipsarum
quoque specierum individuas contrahit singularesque personas. Sed in hoc
convenienti utitur exemplo dicens quoniam PARTICIPATIONE SPECIEI, id est
hominis, Cato, Plato et Cicero PLURESQUE RELIQUI HOMINES UNUS, id est milia
hominum ƿ in eo quod sunt homines, unus homo est; at vero unus homo, qui
specialis est, si ad homivum multitudinem qui sub ipso sunt consideretur,
plures fiunt. Ita et plures homines in speciali homine unus est et specialis
unus in pluribus infinitus sic igitur quod singulare quidem est, divisivum est,
quod vero commune, quoniam multorum unum est, ut genus ac species, collectivum
atque adunativum. ASSIGNATO AUTEM GENERE ET SPECIE, QUID EST UTRUMQUE, ET
GENERE QUIDEM UNO, SPECIEBUS VERO PLURIBUS -- SEMPER ENIM IN PLURES SPECIES
DIVISIO GENERIS EST -- GENUS QUIDEM SEMPER DE SPECIE PRAEDICATUR ET OMNIA
SUPERIORA DE INFERIORIBUS, SPECIES AUTEM NEQUE DE PROXIMO SIBI GENERE NEQUE DE
SUPERIORIBUS; NEQUE ENIM CONVERTITUR. OPORTET AUTEM AUT AEQUA DE AEQUIS
PRAEDICARI, UT HINNIBILE DE EQUO, AUT MAIORA DE MINORIBUS, UT ANIMAL DE HOMINE,
MINORA VERO DE MAIORIBUS MINIME; NEQUE ENIM ANIMAL DICES ESSE HOMINEM,
QUEMADMODUM HOMINEM DICES ESSE ANIMAL. DE QUIBUS AUTEM SPECIES PRAEDICATUR, ƿ
DE HIS NECESSARIO ET SPECIEI GENUS PRAEDICABITUR ET GENERIS GENUS USQUE AD
GENERALISSIMUM; SI ENIM verUM EST SOCRATEM HOMINEM DICERE, HOMINEM AUTEM
ANIMAL, ANIMAL VERO SUBSTANTIAM, VERUM EST ET SOCRATEM ANIMAL DICERE ATQUE
SUBSTANTIAM. SEMPER IGITUR SUPERIORIBUS DE INFERIORIBUS PRAEDICATIS SPECIES
QUIDEM DE INDIVIDUO PRAEDICABITUR, GENUS AUTEM ET DE SPECIE ET DE INDIVIDUO,
GENERALISSIMUM AUTEM ET DE GENERE ET DE GENERIBUS, SI PLURA SINT MEDIA ET
SUBALTERNA, ET DE SPECIE ET DE INDIVIDUO. DICITUR ENIM GENERALISSIMUM QUIDEM DE
OMNIBUS SUB SE GENERIBUS SPECIEBUSQUE ET DE INDIVIDUIS, GENUS AUTEM QUOD ANTE
SPECIALISSIMUM EST, DE OMNIBUS SPECIALISSIMIS ET DE INDIVIDUIS, SOLUM AUTEM
SPECIES DE OMNIBUS INDIVIDUIS, INDIVIDUUM AUTEM DE UNO SOLO PARTICULARI.
INDIVIDUUM AUTEM DICITUR SOCRATES ET HOC ALBUM ET HIC VENIENS, UT SOPHRONISCI FILIUS,
SI SOLUS EI SIT SOCRATES FILIUS. Breviter quaecumque superius dicta sunt
commemorat hoc modo. Cum, inquit, assignaverimus quid sit genus et quid
species, cumque suis ea definitionibus comprehenderimus docuerimusque unum
genus semper in plurimas species solvi, illud, inquit, adiungimus quoniam omnia
superiora de inferioribus praedicantur, inferiora vero de superioribus minime.
Et ea quae sunt utilia de praedicationis modo rite pertractat. Ostendit autem
genus in plurimas species semper solvi assignata generis definitione. Quod enim
de pluribus rebus specie differentibus in eo quod quid sit praedicaretur, esse
definivit genus. Nihil autem sunt plurimae res specie differentes nisi plurimae
species; de quibus autem praedicatur genus, in ea ipsa dissolvitur. Ostensum
est igitur es definitionis assignatione unius generis esse species plures. Quae
cum ita sint, genus quidem de specie praedicatur, species vero de individuis
omniaque superiora de inferioribus, inferiora de superioribus nullo modo. Id
quare eveniat paucis absolvam. Quae superiora sunt, substantialiter ea genera
esse praediximus, qua vero sunt genera, ampliora sunt quam unaquaeque species.
Neque enim in plurima divideretur genus, nisi ab unaquaque specie maius
existeret. Id cum ita sit, nomen generis toti convenit speciei; non enim
coaequatur solum speciei generis magnitudo, verum etiam speciem superuadit.
Idcirco igitur omnis homo animal est, quoniam intra animalis vocabulum et homo
et caetera continentur. At vero nullus dixerit: omne animal homo est; non enim
pervenit ad totum animal hominis nomen, quia, cum sit minus, nullo modo generis
vocabulo coaequatur. Itaque quae maiora sunt, de minoribus praedicantur, quae
minora, non convertuntur, ut de maioribus praedicentur. At vero si qua sint
aequalia, ea secundum naturae parilitatem converti necesse est, ut hinnibile
atque equus, quoniam ita sibimet ƿ coaequantur, ut neque equus non sit
hinnibilis neque quod sit hinnibile, non sit equus. Fit ergo ut omne hinnibile
equus sit et omnis equus hinnibilis. Quae cum ita sint, ea quae superiora sunt,
non modo de sibi proximis inferioribus praedicantur, verum etiam de inferiorum
inferioribus. Nam si illud recipitur, ut ea quae superiora sunt, de
inferioribus praedicentur, inferiorum inferiora superioribus multo magis
inferiora sunt, velut substantia praedicatur de animali, quod est inferius; sed
animali inferius est homo, praedicabitur igitur etiam substantia de homine.
Rursus Socrates inferius est homine, praedicabitur igitur substantia de
Socrate. Itaque species quidem de individuis praedieantur, genera vero et de
speciebus et de individuis. Quod converti non potest; nam neque individua de
speciebus aut generibus praedicantur nec species de generibus. Ita fit ut genus
quod est generalissimum, de omnibus subalternis generibus praedicari et de
speciebus et de individuis possit, de ipso nihil. Ultimum vero genus id est
quod ante specialissimas species collocatur et de solis speciebus
specialissimis dici potest, species vero de individuis, ut dictun est, individua
autem de singulis praedicantur, ut Socrates et Plato, eaque maxime sunt ƿ
individua quae sub ostensionem indicationemque digiti cadunt, ut hoc scamnum,
hic veniens atque quae ex aliqua proprie accidentium designantur nota, ut, si
quis Socratem significatione velit ostendere, non dicat 'Socrates', ne sit
alius qui forte hoc nomine nuncupetur sed dicat 'Sophronisci filius', si unicus
Sophronisco fuit. Individua enim maxime ostendi queunt, si vel tacito nomine
sensui ipsi oculorum digito tactuue monstrentur, vel el aliquo accidenti
significentur vel nomine proprio, si solus illud adeptus est nomen, vel ex
parentibus, si illorum est unicus filius, vel ex quolibet alio accidenti
singularitas demonstratur. Eo quod ad esse unam praedicationem habeat eiusque
dictio non transeat ad alterum, sicut generis quidem ad species, specierum vero
ad individua. INDIVIDUA ERGO DICUNTUR HUIUSMODI, QUONIAM EX PROPRIETATIBUS
CONSISTIT UNUMQUODQUE EORUM, QUARUM COLLECTIO NUMQUAM IN ALIO EADEM ERIT.
SOCRATIS ENIM PROPRIETATES NUMQUAM IN ALIO QUOLIBET ERUNT ƿ PARTICULARIUM, HAE
VERO QUAE SUNT HOMINIS, DICO AUTEM EIUS QUI EST COMMUNIS, PROPRIETATES ERUNT
EAEDEM IN PLURIBUS, MAGIS AUTEM IN OMNIBUS PARTICULARIBUS HOMINIBUS IN EO QUOD
HOMINES SUNT. Quoniam superius individuum appellavit, huius nominis rationem
conatur ostendere. Ea enim sola dividuntur quae pluribus communia sunt; his
enim unumquodque dividitur quorum est commune quorumque naturam ac
similitudinem continet. Illa vero in quae commune dividitur, communi natura
participant proprietasque communis rei his quibus communis est convenit. At
vero individuorum proprietas nulli communis est. Socratis enim proprietas, si
fuit caluus, simus, propenso aluo caeterisque corporis lineamentis aut morum
institutione aut forma vocis, non conveniebat in alterum; hae enim proprietates
quae ex accidentibus ei obuenerant eiusque formam figuramque coniunxerant, in
nullum alium conveniebant. Cuius autem proprietates in nullum alium conveniunt,
eius proprietates nulli poterunt esse commones, cuius autem proprietas nulli
communis est, nihil est quod eius proprietate participet. Quod vero tale est,
ut proprietate eius nihil participet, ƿ dividi in ea quae non participant, non
potest; recte igitur haec quorum proprietas in alium non convenit, individua nuncupantur.
At vero hominis proprietas, id est specialis, convenit et in Socratem et in
Platonem et in caeteros, quorum proprietates ex accidentibus venientes in
quemlibet alium singularem nulla ratione conveniunt. CONTINETUR IGITUR
INDIVIDUUM QUIDEM SUB SPECIE, SPECIES AUTEM SUB GENERE. TOTUM ENIM QUIDDAM EST
GENUS, INDIVIDUUM AUTEM PARS, SPECIES vero ET TOTUM ET PARS SED PARS QUIDEM
ALTERIUS, TOTUM AUTEM A NON ALTERIUS SED ALIIS; PARTIBUS ENIM TOTUM EST. DE
GENERE QUIDEM ET SPECIE ET QUID GENERALISSIMUM ET QUID SPECIALISSIMUM ET QUAE
GENERA EADEM ET SPECIES SUNT, QUAE ETIAM INDIVIDUA, ET QUOT MODIS GENUS ET
SPECIES DICITUR, SUFFICIENTER DICTUM EST. Hic retractat omnia breviter quae
supra latius absolvit dicens individuum ab specie contineri, species vero ipsas
a genere, huiusque causam reddens ait: OMNE ENIM GENUS TOTUM EST, INDIVIDUUM
PARS. Totum enim genus in eo quod genus est. Continet, tametsi species esse
potest; totum enim non ut genus species est sed ut ea quae supponitur generi.
Genus igitur in eo quod genus est, totum est speciebus, semper enim continet
eas. At vero individuum pars semper est, numquam ƿ enim ipsum aliquid sua
proprietate concludit. Species vero et totum est et pars, pars quidem generis,
totum vero individuis. Et cum pars est, ad singularitatem refertur, cum totum,
ad pluralitatem. Quoniam enim unum genus pluribus speciebus superest, una
quaelibet species pars est generis, id est unius, quoniam autem species
pluribus individuis praeest, non est uni individuo totum sed plurimis. Idcirco
enim totum dicitur, quia plura continet et cohercet. Nam ut pars sit aliquid,
una ipsa unius pars esse poterit, ut vero totum sit, unum ipsum unius totum
esse non poterit. Idcirco alterius quidem pars est species, aliis vero totum. Et
de genere quidem et specie dictum est et quid sit generalissimum genus, quoniam
id cui nullum aliud superponitur genus, et quid specialissima species, quoniam
ea cui species nulla supponitur, et quae genela eadem sunt, eadem et speries
scilicet subalterna quibus aliquid superponitur, aliquid vero supponitur, quae
etiam individua, ea scilicet quorum proprietates alteri nequeunt convenire, et
quot modis genus vel species dicitur, genus quidem aut in multitudine aut in
procreatione aut in participatione substantiae. Species vero aut ex figura aut
ex generis suppositione, sufficienter dictum est. Quibus absolutis modum
voluminis terminabo, ut quarti area libri differentiae reseruetur. De
differentia disputanti non aeque illud debet occurrere quod in generis
specieique tractatu de collocationis ordine quaerebatur. Illic enim meminimus
inquisitum, cur esset omnibus praepositum genus, ut id primum ad disputationem
veniret, cur post genus species esset iniecta, nunc vero superuacuum est
dicere, cur post speciem differentia sumpta sit, cum illud iam fuerit
inquisitum, cur non ante speciem collocata sit. Quodsi mirum videbatur speciem
differentiae in disputationis loco fuisse praepositam, quod differentia
continentior et magis amplior esset specie, quid est quod possit quisque
mirari, si eandem differentiam ante proprium atque accidens collocaverit, cum
proprium unius semper sit speciei, ut posterius demonstrabitur, accidens vero
exteriorem quandam ostendat naturam nec omnino in substantia praedicetur,
differentia vero utrumque contineat, et de pluribus speciebus et in substantia
praedicari? sed haec hactenus, nunc ad ipsa Porphyrii verba veniamus. DIFFERENTIA
VERO COMMUNITER ET PROPRIE ET MAGIS ƿ PROPRIE DICITUR. COMMUNITER QUIDEM
DIFFERRE ALTERUM AB ALTERO DICITUR, QUOD ALTERITATE QUADAM DIFFERT QUOCUMQUE
MODO VEL A SE IPSO VEL AB ALIO. DIFFERT ENIM SOCRATES A PLATONE ALTERITATE ET
IPSE A SE VEL PUERO VEL IAM viRO ET FACIENTE ALIQUID VEL QUIESCENTE ET SEMPER
IN ALIQUO MODO HABENDI ALTERITATIBUS. PROPRIE AUTEM DIFFERRE ALTERUM AB ALTERO
DICITUR, QUANDO INSEPARABILI ACCIDENTI AB ALTERO DIFFERT. INSEPARABILE VERO
ACCIDENS EST UT NASI CURUITAS, CAECITAS OCULORUM, CICATRIX, CUM ES UULNERE
OBCALLUERIT. MAGIS PROPRIE DIFFERRE ALTERUM AB ALTERO DICITUR, QUANDO SPECIFICA
DIFFERENTIA DISTITERIT, QUEMADMODUM HOMO AB EQUO SPECIFICA DIFFERENTIA DIFFERT
RATIONALI QUALITATE. Tribus modis aliud ab alio distare praediximus, genere,
specie, numero, in quibus omnibus aut secundum substantiales quasdam
differentias alia res distat ab alia aut secundum accidentes. Nam quae genere
vel specie distant, substantialibus quibusdam differentiis disgregata sunt,
idcirco quoniam genera et species quibusdam differentiis informantur. Nam quod
homo ab arbore genere distat, animalis sensibilis qualitas in eo differentiam
facit. Addita enim sensibilis qualitas ƿ animato animal facit, eidem detracta
facit animatum atque insensibile, quod virgulta sunt. Igitur homo atque arbor
genere differunt -- utraque enim sub animalis genere poni non possunt --
differentia sensibili secundum genus discrepant, quae unius ex propositis
tantum genus, id est hominis informat, ut dictum est. Illa vero quae specie
distant manifestum est quod ipsa quoque differentiis substantialibus
discrepant, ut homo atque equus differentiis substantialibus discrepant,
rationabilitate atque irrationabilitate. Ea vero quae individua sunt et solo
numero discrepant, solis accidentibus distant. Haec autem sunt vel separabilia
vel inseparabilia, separabilia quidem, ut moveri, dormire; distat enim alius ab
alio, quod ille somno prematur, hic vigilet. Distat item inseparabilibus
accidentibus, quod hic staturae sit longioris, hic minimae. Quae cum ita sint,
in ternarium numerum has differentiarum diversitates Porphyrius colligit hisque
ipse nomina quibus post utatur, apponit dicens: OMNIS DIFFERENTIA VEL
COMMUNITER VEL PROPRIE VEL MAGIS PROPRIE NUNCUPATUR, communiter quidem eam
differentiam sumens quae quodlibet accidens monstret, quae in quadam alteritate
consistit, ut si Plato a Socrate differat, quod ille sedeat, hic ambulet, vel
quod ille sit senex, hic ƿ ivvenis. A se ipso etiam saepe aliquis differre
potest, ut si nunc quidem faciat aliquid, cum ante quieuerit, vel si nunc
adulescens iam factus sit, cum prius tenera vixisset infantia. Communes autem
differentiae nuncupatae sunt, quoniam nullius propriae esse possunt
differentiae sed separabilia accidentia sola significant. Nam et stare et
sedere et facere aliquid ac non facere multorum atque adeo omnium et
separabilia esse accidentia manifestum est. Quibus si qui differunt, communibus
differentiis distare dicuntur. Praeterea puerum esse atque adulescentem vel
senem, ea quoque separabilia sunt accidentia. Nam ex pueritia ad adulescentiam
atque hinc ad senectutem, ab hac denique ad decrepitam usque aetatem naturae
ipsius necessitate progredimur. Illud forsitan sit dubitabile de uniuscuiusque
forma corporis, an ullo modo separari queat. Sed ea quoque est separabilis,
nullius enim diuturna ac stabilis forma perdurat. Idcirco nec peregrinus pater
relictum domi puerum, si adulescentem redux viderit, possit agnoscere; forma
enim semper quae ante fuerat, permutatur atque ipsa alteritas qua distamus ab
altero, semper diversa est. Constat igitur hanc communem differentiam
separabilibus maxime accidentibus applicari, propria vero est quae
inseparabilia significat accidentia. Ea huiusmodi sunt, ut si quis caecis
nascatur oculis, si quis incuruo naso; dum enim adest nasus atque oculi, ille
caecus, ille erit semper incuruus. Atque haec per naturam. Sunt vero alia quae
per accidens corporibus fiunt, ut si cui uulnus ƿ inflictum cicatrice fuerit
obductum, haec si obcalluerit. Propriam differentiam facit; distabit enim alter
ab altero, quod hic cicatricem habeat, ille vero minime. Postremoque in his
omnibus vel separabilibus accidentibus vel inseparabilibus alia sunt
naturaliter accidentia, alia extrinsecus, naturaliter quidem ut pueritia vel
ivuentus et totius conformatio corporis, sic caeci oculi et curuitas nasi. Et
superiora quidem exempla separabilis accidentis per naturam sunt, posteriora vero
inseparabilis. Item extrinsecus vel ambulare vel currere; id enim nou natura
sed sola affert voluntas, natura vero posse tantum dedit, non etiam facere. Atque
haec sunt separabilis accidentis extrinsecus venientis exempla, illa vero
inseparabilis, ut si qua cicatrix obducta uulneri obcalluerit. Magis propriae
autem differentiae praedicantur, quae non accidens sed substantiam formant, ut
hominis rationabilitas; differt enim homo a caeteris, quod rationalis est vel
quod mortalis. Hae sunt igitur magis propriae, quae monstrant uniuscuiusque
substantiam. Nam si illae quidem idcirco communes dicuntur, quia separabiles
atque omnium sunt, aliae autem propriae. Quoniam separari non possunt, quamvis
sint in accidentium numero, illae iure magis propriae praedicantur, quae non
modo a subiecto separari non possunt, verum subiecti ipsius speciem
substantiamque perficiunt. Ex his igitur tribus differentiarum diversitatibus,
id est communibus, propriis ac magis propriis, fiunt secundum genus vel speciem
vel numerum discrepantiae. Nam ex communibus et propriis secundum numerum
distantiae nascuntur, ex magis propriis vero secundum genus ac speciem. UNIVERSALITER
ERGO OMNIS DIFFERENTIA ALTERATUM FACIT CUILIBET ADVENIENS SED EA QUAE EST
COMMUNITER ET PROPRIE, ALTERATUM FACIT, ILLA AUTEM QUAE EST MAGIS PROPRIE,
ALIUD. DIFFERENTIARUM ENIM ALIAE QUIDEM ALTERATUM FACIUNT, ALIAE VERO ALIUD.
ILLAE QUIDEM QUAE FACIUNT ALIUD, SPECIFICAE VOCANTUR, ILLAE VERO QUAE
ALTERATUM, SIMPLICITER DIFFERENTIAE. ANIMALI ENIM DIFFERENTIA ADVENIENS RATIONALIS
ALIUD FECIT ET SPECIEM ANIMALIS FECIT, ILLA VERO QUAE EST MOVENDI, ALTERATUM
SOLUM A QUIESCENTE FECIT; QUARE HAEC QUIDEM ALIUD, ILLA VERO ALTERATUM SOLUM
FECIT. Omnis differentia alterius ab altero distantiam facit. Sed haec vel est
communis et continens vel cum quodam proprio et magis proprio differentiarum
modo. Quare quicquid qualibet ratione ab alio diversum est, alteratum esse
dicitur. Si vero accesserit illi diversitati ut etiam specifica quadam
differentia sit diversum, non alteratum solum, verum etiam aliud esse
praedicatur. Alteratio igitur continens est, aliud vero intra alterationis
spatium continetur; nam et quod aliud est, alteratum est sed nou omne quod
alteratum est, aliud dici potest. Itaque si accidentibus aliquibus fuerit facta
diversitas, alteratum ƿ quidem effectum est, quoniam quidem quolibet modo vel
ex quibuslibet differentiis considerata diversitas alterationem facit
intellegi, aliud vero non fit, nisi substantiali differentia alterum ab altero
fuerit dissociatum. Itaque communes et propriae differentiae, quoniam
accidentium, ut dictum est, sunt, solum efficiunt alteratum. Aliud vero minime,
magis propriae autem, quoniam substantiam tenent et in subiecti forma
prnedicantur, non modo alteratum, quod est commune vel substantiali vel
accidenti differentiae sed etiam aliud faciunt, quod ea sola retinet
differentia quae substantiam continet formamque suhiecti. Atque ilae quidem
differentiao quae faciunt aliud, specificab nuncupantur idcirco, quod ipsae
efficiunt speciem; quam cum substantialibus differentiis informaverint, faciunt
ab aliis ita esse diversam, ut non aiterata solum sit, verum etiam tota alia
praedicetur. Itaque fit huiusmodi divisio, differentiarum ut aliae alteratum
faciant, aliae vero aliud. Et illae quidem quae faciunt alteratum, simpliciter
pro nomine differentiae nuncupantur, illae vero quae aliud, specificae differentiae
praedicantur. Atque, ut planius liqueat quid sit alteratum, quid aliud, tali
describuntur termino vel declarantur exemplo: aliud est quod tota speciei
ratione diversum est, ut equus ab homine, quoniatll rationalis differentia
animali advenieus hominem fecit aliudque eum quam equum esse constituit. Item
si unus homo sedeat, alter assistat, non efficietur homo diversus ab homine sed
eos alteratio sola disiungit, ut eum qui assistit ab eo qui ƿ sedet faciat
alteratum. Item si ille sit nigris oculis, ille caesiis, nihil, quantum ad
formam humanitatis attinet, permutatum est. Ita secundum has differentias
alteratio sola consistit. At si equus quidem iaceat, homo vero ambulet, et
aliud est equus ab homine et alteratum, dupliciter quidem alteratum, semel vero
aliud. Alteratum est enim, vel quod omnino specie diversum est -- et est aliud;
omne enim aliud, ut dictum est, etiam alteratum est -- vel quod accidentibus
distat, quod ille iaceat, hic ambulet, semel vero est aliud, quod rationabili
atque irrationabili differentiis disgregatur, quae specificae sunt et
substantiales dicuntur. Est igitur alteratum quod ab alio qualibet ratione
diversum est. SECUNDUM IGITUR ALIUD FACIENTES DIVISIONES FIUNT A GENERIBUS IN
SPECIES ET DEFINITIONES ASSIGNANTUR, QUAE SUNT EX GENERE ET HUIUSMODI
DIFFERENTIIS, SECUNDUM AUTEM EAS QUAE SOLUM ALTERATUM FACIUNT, ALTERATIO SOLA
CONSISTIT ET ALIQUO MODO SE HABENDI PERMUTATIONES. Quoniam in principio operis
huius generis, speciei, differentiae, ƿ proprii accidentisque notitiam ad
divisionem atque ad definitionem utilem esse praedixit, idcirco nunc
differentiarum ipsarum facta divisione easdem partitur et segregat, quaenam
differentiae divisionibus ac definitionibus accommodentur, quae vero minime.
Quoniam igitur divisio generis ita in species facienda est, ut illae a se
species omni substantiae ratione diversae sint, idcirco non probat assumendas
esse eas ad divisionem differentias quae vel separabilis vel inseparabilis
accidentis significationem tenent, idcirco quoniam, ut dictum est, solum
faciunt alteratum, aliud vero perficere et informare non possunt. Inutiles
igitur sunt ad divisionem hae differentiae quae faciunt alteratum. Segregandae
igitur sunt communes et propriae a generis divisione, illae assumendae tantum
quae sunt magis propriae. Illae enim faciunt aliud, quod generis divisio
videtur exposcere. Ad definitionem quoque eaedem magis propriae plurimum
valent, communes et propriae velut inutiles segregantur; communes enim et
propriae, quoniam accidens diversi generis ferunt, nihil substantiae ratione
conformant, definitio vero omnis substantiam conatur ostendere. Specificae vero
differentiae illae sunt quae, ut superius dictum est, speciem informant
substantiamque perficiunt; hae sunt magis propriae. Eaedem igitur sicut in
divisionem, ita etiam in definitionem assumuntur. ut enim dictum est, eaedem
differentiae ƿ nunc quidem constitutivae ad definitionem specierum sunluntur,
nunc divisivae ad partitionem generis accommodantur. Ita igitur cum divisivae
sunt generis, aliud constituunt. In substantiae vero definitione speciei
informationem faciunt, cumque magis propriae et aliud faciant et specificae
sint, eo quidem quo aliud faciunt. Divisionibus aptae sunt. Eo vero quo speciem
informant. Definitionibus accommodatae sunt. Communes autem et propriae quoniam
neque aliud faciunt sed alteratum, neque omnino substantiam monstrant, aeque a
divisione ut a definitione disiunctae sunt. A SUPERIORIBUS ERGO RURSUS
INCHOANTI DICENDUM EST DIFFERENTIARUM ALIAS QUIDEM ESSE SEPARABILES, ALIAS VERO
INSEPARABILES. MOVERI ENIM ET QUIESCERE ET SANUM ESSE ET AEGRUM ET QUAECUMQUE
HIS PROXIMA SUNT, SEPARABILIA SUNT, AT VERO AQUILUM ESSE VEL SIMUM VEL RATIONALE
VEL IRRATIONALE INSEPARABILIA. IN SEPARABILIUM AUTEM ALIAE QUIDEM SUNT PER SE,
ALIAE ƿ VERO PER ACCIDENS; NAM RATIONALE PER SE INEST HOMINI ET MORTALE ET
DISCIPLINAE ESSE PERCEPTIBILE, AT VERO AQUILUM ESSE VEL SIMUM SECUNDUM ACCIDENS
ET NON PER SE. Superius differentias triplici divisione partitus est dicens aut
communes esse aut proprias aut magis proprias, dehinc easdem alia divisione in
duas secuit partes dicens has quidem aliud facere, illas vero alteratum. Nunc
tertiam earum quidem facit divisionem dicens alias esse separabiles, alias
inseparabiles, posse autem de unoquoque cuius multae sunt differentiae,
plurimas fieri divisiones ex ipsa differentiarum natura manifestum est. Nam si
omnis divisio differentiis distribuitur quorum multae sunt differentiae, multas
etiam divisiones esse necesse est. Fit autem ut animal dividatur quidem hoc
modo: animalis alia quidem sunt rationabilia, alia irrationabilia, item alia
mortalia, alia immortalia; item alia pedes habentia, alia minime; rursus alia
herbis uescentia, alia carnibus, alia seminibus. Ita nihil mirum videri debet,
si multiplex differentiae est facta partitio. Ac primum quidem cum in ternarium
numerum differentiae membra secuisset, communes et proprias et magis proprias
nuncupavit. Secunda vero divisio communes et proprias intra nomen alteratum
facientis inclusit, magis proprias vero intra aliud facientis. Haec vero tertia
divisio, quae ait DIFFERENTIARUM ALIAS ESSE SEPARABILES, ALIAS INSEPARABILES, unam
quidem ex alteratum facientibus separabilibus differentiis adiungit, caeteras
vero intra inseparabilis differentiae vocabulum claudit. Una quidem ex
alteratum facientibus, id est propria differentia, et reliqua quae aliud facere
demonstrata est, id est magis propria, inseparabiles differentiae esse dicuntur.
F quarum subdivisio fit. Inseparabilium differentiarum aliae sunt per se, aliae
secundum accidens, per se quidem magis propriae, secundum accidens vero
propriae. Per se autem aliquid inesse dicitur quod alicuius substantiam
informat. Si enim idcirco quaelibet species est, quoniam substantiali
differentia constituitur, illa differentia per se subiecto adest neque per
accidens aut per quodlibet aliud medium sed sui praesentia speciem quam tuetur
informat, ut hominem rationabilitas, homini enim huiusmodi differentia per se
inest, idcirco enim homo est, quia ei rationabilitas adest; quae si
discesserit, species hominis non manebit. Et has quidem quae substantiales
sunt, inseparabiles esse nullus ignorat; separari enim a subiecto non poterunt,
nisi interempta sit natura subiecti. Secundum accidens vero inseparabiles
differentiae sunt hae quae propriae nuncupantur, ut aquilum esse vel simum;
quae idcirco per accidens nuncupantur, quoniam iam constitutae speciei
extrinsecus accidunt nihil subiecti substantiae commodantes. ILLAE IGITUR QUAE
PER SE SUNT, IN SUBSTANTIAE ƿ RATIONE ACCIPIUNTUR ET FACIUNT ALIUD, ILLAE VERO
QUAE SECUNDUM ACCIDENS, NEC IN SUBSTANTIAE RATIONE DICUNTUR NEC FACIUNT ALIUD
SED ALTERATUM. ET ILLAE QUIDEM QUAE PER SE SUNT, NON SUSCIPIUNT MAGIS ET MINUS,
ILLAE vero QUAE PER ACCIDENS, VEL SI INSEPARABILES SINT, INTENTIONEM RECIPIUNT
ET REMISSIONEM; NAM NEQUE GENUS MAGIS AUT MINUS PRAEDICATUR DE EO CUIUS FUERIT
GENUS, NEQUE GENERIS DIFFERENTIAE, SECUNDUM QUAS DIVIDITUR; IPSAE ENIM SUNT
QUAE UNIUSCUIUSQUE RATIONEM COMPLENT, ESSE AUTEM UNI CUIQUE UNUM ET IDEM NEQUE
INTENTIONEM NEQUE REMISSIONEM SUSCIPIENS EST, AQUILUM AUTEM ESSE VEL SIMUM VEL
COLORATUM ALIQUO MODO ET INTENDITUR ET REMITTITUR. Differentiis rite partitis
earum inter se distantiam monstrat atque unam quidem repetit quam superius
dixit. Cum enim tres esse dixisset differentias, communes, proprias, magis
proprias, alteratum facere dixit proprias, sicut etiam communes, aliud mimme
sed hoc solis magis propriis reservavit. Nunc igitur idem repetit dicens
quoniam inseparabiles differentiae quae substantiam monstrant, id est quae per
se subiectis speciebus insunt easque perficiunt, aliud faciunt, illae vero ƿ
quae sunt propriae, id est secundum accidens inseparabiles differentiae, neque
in substantia insunt nec aliud faciunt sed tantum, ut superius dictum est,
alteratum. Item alia distantia est earum differentiarum quae secundum
substantiam sunt, ab his quae secundum accidens, quoniam quae substantiam
monstrant, intendi aut remitti non possunt, quae vero sunt secundum accidens,
et intentione crescunt et remissione decrescunt. Id autem probatur hoc modo.
Unicuique rei esse suum neque crescere neque deminui potest; nam qui homo est,
humanitatis suae nec crementa potest nec detrimenta suscipere. Nam neque ipse a
se plus aut minus hodie vel quolibet alio tempore homo esse potest nec homo
rursus ab alio homine plus homo potest esse vel animal. Utrique enim aequaliter
animalia, aequaliter homines esse dicuntur. Quodsi uni cuique esse suum nec
cremento ampliari potest nec inminutione decrescere, quod per id facile
monstrari potest, quoniam quae genera sunt vel species. Nulla intentione vel
remissione variantur, non est dubium quin differentiae quoque, quae
uniuscuiusque speciei substantiam formant, nec remissionis detrimenta
suscipiant nec intentionis augmenta. Itaque substantiales differentiae neque
intentionem neque remissionem suscipiunt. Huius causa haec est. Quoniam esse
unicuique unum et idem est, et intentionem remissionemue non suscipit huius
exemplum. Genus ƿ enim dici non potest plus minusue cuilibet genus; omnibus
enim genus aequaliter superponitur. Differentiae quoque quae dividunt genus et
informant speciem, quoniam speciei essentiam complent, nec intentionem
recipiunt nec remissionem. Quae vero secundum accidens differentiae sunt
inseparabiles, ut aquilum esse vel simum vel coloratum aliquo modo, et
intentionem suscipiunt et remissionem. Fieri enim potest ut hic paulo sit
nigrior, hic vero amplius simus, ille minus aquilus, at vero quod non omnes
homines aequaliter rationales mortalesque sint nec specierum nec differentiarum
natura videtur admittere. CUM IGITUR TRES SPECIES DIFFERENTIAE CONSIDERENTUR ET
CUM HAE QUIDEM SINT SEPARABILES, ILLAE VERO INSEPARABILES, ET RURSUS INSEPARABILIUM
CUM HAE QUIDEM SINT PER SE, ILLAE VERO PER ACCIDENS, RURSLLS EARUM QUAE SUNT
PER SE DIFFERENTIARUM ALIAC QUIDEM SUNT SECUNDUM QUAS DIVIDIMUS GENERA IN
SPECIES, ALIAE VERO SECUNDUM QUAS EA QUAE DIVISA SUNT SPECIFICANTUR, UT CUM PER
SE DIFFERENTIAE OMNES HUINSMODI SINT, ANIMATI ET INANIMATI, ƿ SENSIBILIS ET
INSENSIBILIS, RATIONALIS ET IRRATIONALIS, MORTALIS ET IMMORTALIS, EA QUIDEM
QUAE EST ANIMATI ET SENSIBILIS DIFFERENTIA. CONSTITUTIVA EST SUBSTANTIAE
ANIMALIS -- EST ENIM ANIMAL SUBSTANTIA ANIMATA SENSIBILIS -- EA VERO QUAE EST
MORTALIS ET IMMORTALIS DIFFERENTIA ET RATIONALIS ET IRRATIONALIS, DIVISIVAE
SUNT ANIMALIS DIFFERENTIAE; PER EAS ENIM GENERA IN SPECIES DIVIDIMUS. Fit nunc
differentiarum plena et suprema divisio, quae est huiusmodi. Differentiarum
aliae sunt separabiles, aliae inseparabiles, inseparabilium aliae sunt secundum
accidens, aliae substantiales. Substantialium aliae sunt divisibiles generis,
aliae constitutivae specierum. Quod vero ait: CUM IGITUR TRES SPECIES
DIFFERENTIAE CONSIDERENTUR, ad hoc retulit, quod in prima differentiarum
divisione partim eas communes esse, partim proprias, partim magis proprias
disit, quas rursus tres differentias alias separabiles esse monstravit, alias
inseparabiles, separabiles quidem commlmes, inseparabiles vero proprias ac
magis proprias. Inseparabilium vero fecit divisionem dicens alias esse secundum
accidens, quae propriae nuncupantur, magis proprias vero secundum substantiam
considerari. Earum vero quae secundum substantiam sunt, subdivisionem facit, quod
ƿ aliae earum genus dividant, aliae speciem informent. Ad cuius rei facilem
cognitionem illa tertii libri specierum generumque dispositio transcribatur.
Sitque primum substantia, sub hac corporeum atque incorporeum, sub corporeo
animatum atque inanimatum, sub animato sensibile atque insensibile, sub quo
animal, sub animali rationale atque irrationale, sub rationali mortale atque
immortale et sub mortali species hominis, quae solis deinceps individuis
praeponatur. In hac igitur divisione omnes hae differentiae specificae
nuncupantur, generum enim specierumque differentiae sunt sed generum quidem
divisivae, specierum autem constitutivae. Id autem probatur hoc modo.
Substantiam quippe corporei atque incorporei differentiae partiuntur, corporeum
vero animati atque inanimati, animatum sensibilis atque insensibilis. Ita
igitur genera substantiales differentiae partiuntur et dicuntur generum divisivae.
At velo si eaedem differentiae quae a genere descendentes genus dividunt,
colligantur et in unum quae possunt iungi copulentur, species informatur. Nam
cum animal species sit substantiae -- omnia enim superiora de inferioribus
praedicantur et quicquid inferius fuerit, species erit etiam superioris --
animatum tamen atque ƿ sensibile quae sunt differentiae, si referantur ad
genera, divisivae sunt, constitutivae vero fiunt animalis eiusque substantiam
formant atque constituunt definitionemque conformant, ut sit animal substantia
animata sensibilis. Substantia quidem genus, animatum vero atque sensibile
eiusdem differentiae constitutivae. Item animal rationabilitas atque
irrationabilitas dividit, mortali etiam atque immortali dividitur sed iuncta
rationabilitas atque mortalitas, quae animalis divisivae fuerant, fiunt hominis
constitutivae eiusque perficiunt speciem atque omnem eius rationem definitionis
informant atque perficiunt. At si irrationabilitas cum mortalitate iungatur,
fiet equus aut quodlibet animal, quod ratione non utitur, rationabilitas vero
atque immortalitas copulatae dei substantiam informant. Ita eaedem differentiae
cum referuntur ad genera, divisivae generum fiunt, si vero ad inferiores
species considerentur, informant species earumque substantiam convenienti
copulatione constituunt. In hoc quaesitum est, quemadmodum dicerentur esse hae
differentiae ƿ specierum constitutivae, cum irrationabilis differentia atque
immortalis nullam speciem videantur efficere. Respondemus primum quidem placere
Aristoteli caelestia corpora animata non esse: quod velo animatum non sit,
animal esse non posse; quod vero non sit animal, nec rationale esse concedi.
Sed eadem corpora propter simplicitatem et perpetuitatem motus aeterna esse
confirmat. Est igitur aliquid quod ex duabus his differentiis conficiatur,
irrationabili scilicet atque immortali. Quodsi magis cedendum Platoni est et
caelestia corpora animata esse credendum, nullum quidem his differentiis potest
esse subiectum -- quicquid enim irrationabile est corruptioni subiacens et
generationi, immortale esse non poterit -- sed tamen hae differentiae, quoniam
substantialium differentiarum in numero sunt, si iungi ullo modo potuissent,
earum naturam et speciem quoque possent efficere. Atque ut intellegatur, quae
sit haec potentia effieiendae substantiae specieique formandae respiciamus ad
proprias atque communes, quae tametsi iungantur, speciem substantiamque nulla
ratione constituunt. Si quis enim loquatur ambulans, quae sunt duae communes
differentiae, vel si albus ac longus, num idcirco isdem eius substantia
constituitur? Minime. Cur? Quia non eiusdem sunt generis, quae alicuius possint
constituere et conformare substantiam. ƿ Ita igitur hae, id est irrationale
atque immortale, etiamsi subiectum aliquod habere non possunt, possent tamen
substantiam efficere, si ullo modo iungi copularique potuissent. Praeterea
irrationale iunctum cum mortali substantiam pecudis facit: est igitur
constitutiva irrationalis differentia. Item immortale ac rationale coniuncta
efficiunt deum: est igitur immorlale quod speciem formet. Quodsi inter se iungi
nequeunt, non idcirco quod in natura earum est, abrogatur. SED HAE QUIDEM QUAE
DIVISIVAE SUNT DIFFERENTIAE GENERUM, COMPLETIVAE FIUNT ET CONSTITUTIVAE
SPECIERUM; DIVIDITUR ENIM ANIMAL RATIONALI ET IRRATIONALI DIFFERENTIA ET RURSUS
MORTALI ET IMMORTALI DIFFERENTIA. SED EA QUAE EST RATIONALIS DIFFERENTIA ET
MORTALIS, CONSTITUTIVAE FIUNT HOMINIS, RATIONALIS VERO ET IMMORTALIS. DEI,
ILLAE vero QUAE SUNT IRRATIONALIS ET MORTALIS, IRRATIONABILIUM ANIMALIUM. SIC
ETIAM ET SUPREMAE SUBSTANTIAE CUM DIVISIVA SIT ANIMATI ET INANIMATI DIFFERENTIA
ET SENSIBILIS ET INSENSIBILIS, ANIMATA ET SENSIBILIS CONGREGATAE AD SUBSTANTIAM
ANIMAL PERFECERUNT. Geminum differentiarum usum esse demonstrat, unum quidem
quo genera dividuntur, alium vero quo species informantur; neque enim hoc solum
differentiae faciunt, ut genera partiantur, verum etiam dum genera dividunt,
species in quas genera deducuntur efficiunt. Itaque quae divisivae sunt
generum, fiunt constitutivae specierum, huiusque rei illud exemplum est quod
ipse subiecit: animalis quippe differentiae sunt divisivae rationale atque
irrationale, mortale atque immortale, his enim praedicatio diniditur animalis.
Omne enim quod animal est, aut rationale aut irrationale aut mortale aut
immortale est. Sed istae differentiae quae dividunt genus quod est animal
speciei substantiam formam quae constituunt. Nam cum sit homo animal, efficitur
rationali mortalique differentiis, quae dudum animal partiebantur. Item cum sit
equus animal, irrationali mortalique differentiis constituitur, quae dudum
animal dividebant. Deus autem cum sit animal, ut de sole dicamus. Rationali
immortalique efficitur differentiis, quas dividere genus habita partitio paulo
ante monstravit. Sed hic, ut diximus deum corpoleum intellegi oportet, ut solem
et caelum caeteraque huiusmodi, quae cum animata et rationabilia Plato esse
confirmat, tum in deorum vocabulum antiquitatis veneratione probantur assumpta,
de primo quoque genere, id est substantia demonstrantur venire. Nam cum eius
divisivae sint differentiae ƿ animatum atque inanimatum, sensibile atque
insensibile, iunctae differentiae sensibilis atque animati efficiunt
substantiam animatam atque sensibilem, quod est animal. Iure igitur dictum est,
quae divisivae sunt differentiae generum, easdem esse constitutivas specierum. QUONIAM
ERGO EAEDEM ALIQUO MODO QUIDEM ACCEPTAE FIUNT CONSTITUTIVAE, ALIQUO MODO AUTEM
DIVISIVAE, SPECIFICAE OMNES VOCANTUR. ET HIS MAXIME OPUS EST AD DIVISIONES
GENERUM ET DEFINITIONES SED NON HIS QUAE SECUNDUM ACCIDENS INSEPARABILES SUNT,
NEC MAGIS HIS QUAE SUNT SEPARABILES. Omnes a genere differentias procedentes
genus ipsum a quo procedunt, dividere nullus ignorat. Ipsae autem quae dividunt
genus, si ad posteriores species applicentur, informant substantias easque
perficiunt. Eaedem igitur sunt constitutivae specierum, eaedem divisibiles generum,
alio tamen modo atque alio consideratae, ut si ad genus relatae quidem in
contrariam divisionem spectentur, divisibiles generis inveniuntur, si vero
iunctae aliquid efficere possint, specierum constitutivae sunt. Quae cum ita
sint, hae differentiae quae genus dividunt, rectissime divisivae
nominanturÑquae enim constitumlt speciem, specificae sunt sed constituunt
speciem hae differentiae quae ƿ sunt generis divisivae Ñ eaedemque sunt
specierum constitutivae. Quare iure quae generum divisivae sunt et quae
specierum constitutivae, specificae nuncupantur. Has igitur in divisione
generis et in definitione specierum accipi oportere manifestum est. Quoniam
enim divisivae sunt, per eas dividi oportet genus, quoniam autem constitutivae,
per eas species definiri; quibus enim unumquodque constituitur, isdem etiam
definitur. Constituitur autem species per differentias generis divisivas, quae
sunt specificae. Iure igitur specificae solae et in generis divisione et in
specierum definitione ponuntur. Et de specificis quidem haec ratio est, de his
autem quae vel separabilia vel inseparabilia continent accidentia, nihil in
generum divisione vel definitione specierum poterit assumi, idcirco quoniam
quae divisibiles sunt, substantiam generis dividunt, et quae constitutivae
sunt. Substantiam speciei constituunt. Quae vero sunt inseparabilia accidentia,
nullius substantiam informant. Unde fit ut multo minus separabilia accidentia
ad divisiones generum vel specierum definitiones accommodentur; omnino enim
dissimiles sunt substantialibus differentiis. Nam inseparabilia accidentia hoc
fortasse habent commune cum specificis, hoc est substantialibus differentiis,
quod aeque subiectum non relinquunt, sicut nec specificae differentiae.
Separabilia autem accidentia ne hoc quidem; separari ƿ enim possunt, nec tantum
potestate et mentis ratiocinatione sed actus etiam praesentia, et omnino
veniendi vel discedendi varietatibus permutantur. QUAS ETIAM DETERMINANTES
DICUNT: DIFFERENTIA EST QUA ABUNDAT SPECIES A GENERE. HOMO ENIM AB ANIMALI PLUS
HABET RATIONALE ET MORTALE: ANIMAL ENIM NEQUE IPSUM NIHIL HORUM EST -- NAM UNDE
HABEBUNT SPECIES DIFFERENTIAS? -- NEQUE ENIM OMNES OPPOSITAS HABET -- NAM IN
EODEM SIMUL HABEBUNT OPPOSITA -- SED, QUEMADMODUM PROBANT, POTESTATE QUIDEM
OMNES HABET SUB SE DIFFERENTIAS, ACTU VERO NULLAM. AC SIC NEQUE EX HIS QUAE NON
SUNT, ALIQUID FIT NEQUE OPPOSITA CIRCA IDEM SUNT. Specificas differentias
definitione concludit dicens substantiales differentias a quibusdam tali
descriptionis ratione finiri: DIFFERENTIA SPECIFICA EST QUA ABUNDAT SPECIES A
GENERE. Sit enim genus animal, species homo: habet igitur homo differentias in se,
quae eum constituunt, rationale atque mortale; omnis enim species constitutivas
formae suae differentias in se retinet nec praeter illas esse potest, quarum
congregatione perfecta est. Si igitur animal quidem solum genus est, homo vero
est animal rationale mortale, plus habet homo ab animali id quod rationale est
atque mortale. Quo igitur abundat species ƿ a genere, id est quo superat genus
et quo plus habet a genere, hoc est specifica differentia. Sed huic definitioni
quaedam quaestio videtur occurrere habens principium ex duabus per se
propositionibus votis, una quidem, quoniam duo contraria in eodem esse non
possunt, alia vero, quoniam ex nihilo nihil fit. Nam neque contraria pati sese
possunt, ut in eodem simul sint, nec aliquid ex nihilo fieri potest; omne enim
quod fit, habet aliquid unde effici possit atque formari. Quae propositiones
talem faciunt quaestionem. Dictum est differentiam esse id qua plus haberet
species a genere. Quid igitur? Dicendum est genus eas differentias quas habent
species, non habere? Et unde habebit species differentias quas genus non habet?
Nisi enim sit unde veniant, differentiae in speciem venire non possunt. Quodsi
genus quidem has differentias non habet, species autem habet, videntur ex
nihilo differentiae in speciem comlenisse et factum esse aliquid ex nihilo,
quod fieri non posse superius dicta propositio monstravit. Quod si differentias
omnes genus continet, differentiae autem in contraria dissoluuntur, fiet ut
rationabilitatem atque irrationabilitatem, mortalitatem atque immortalitatem
simul habeat animal, quod est genus, et erunt in eodem bina contraria, quod
fieri non potest. Neque enim sicut in corpore solet esse alia pars alba, alia
nigra, ita fieri in genere potest; genus enim per se consideratum partes non
habet, nisi ad species referatur. Quicquid igitur habet, non partibus sed tota
sui magnitudine retinebit. Nec illud dubium est, quin in partibus suis genus
habeat ƿ contrarietates, ut animal in homine rationabilitatem, in bove
contrarium. Sed nunc non de speciebus quaerimus, de quibus constat sed an ipsum
per se genus eas differentias quas habent species, habere possit atque intra
suae substantiae ambitum continere. Hanc igitur quaestionem tali ratione
dissolvimus. Potest quaelibet illa res id quod est non esse sed alio modo esse,
alio vero non esse, ut Socrates cum stat, et sedet et non sedet sedet quidem
potestate, actu vero non sedet. Cum enim stat, manifestum est eum pon agere
sessionem sed potius standi immobilitatem. Sed rursus cum stat sedet, non quia
iam sedet sed quia sedere potest; ita actu quidem non sedet, potestate vero
sedet. Et ouum animal est et non est animal. Non est quidem animal actu, adhuc
namque ouum est nec ad animalis processit vivificationem sed idem tamen est
animal potestate, quia potest effici animal, cum formam ac spiritum
vivificationis acceperit. Ita igitur genus et habet has differentias et non
habet, non habet quidem actu sed habet potestate. Si enim ipsum per se animal
consideretur, differentias non habebit; si autem ad species reducatur, habere
potest sed distributim atque ut eius speciebus separatim nihil possit evenire
contrarium. Ita ipsum genus si per se consideretur, ƿ differentiis caret; quod
si ad species referatur, per distributas species vel in partibus suis contraria
retinebit, atque ita nec ex nihilo venerunt differentiae quas genus retinet
potestate nec utraque contraria in eodem sunt, cum contrarias differentias in
eo quod dicitur genus, actu non habet: impossibilitas enim eius propositionis
quae dicit contraria in eodem esse non posse, in eo consistit quod contraria
actu in eodem esse non possunt. Nam potestate et non actu duo contraria in
eodem esse nihil impedit. Quae vero nos contraria diximus, Porphyrius opposita
nuncupavit. Est enim genus contrarii oppositum; omnia enim contralia, si
sibimet ipsis considerantur, opposita sunt. DEFINIUNT AUTEM EAM ET HOC MODO:
DIFFERENTIA EST QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS SPECIE IN EO QUOD QUALE SIT
PRAEDICATUR; RATIONALE ENIM ET MORTALE DE HOMINE PRAEDICATUM IN EO QUOD QUALE
QUIDDAM EST HOMO DICITUR SED NOLL IN EO QUOD QUID EST. QUID EST ENIM HOMO
INTERROGATIS NOBIS CONVENIENS EST DICERE ANIMAL, QUALE AUTEM ANIMAL INQUISITI,
QUONIAM RATIONALE ET MORTALE EST, CONVENIENTER ASSIGNABIMUS. Tres sunt
interrogationes ad quas genus, species, differentia, proprium atque accidens
respondetur, haec autem sunt: quid sit, quale sit, quomodo se habeat. Nam si
quis interroget: quid est Socrates? Responderi per genus ac speciem convenit
aut animal aut homo. Si quis quomodo se habeat Socrates interroget, iure
accidens respondebitur, id est aut sedet aut legit aut caetera. Si quis vero
qualis sit Socrates interroget, aut differentia aut proprium aut accidens
respondebitur, id est vel rationalis vel risibilis vel caluus. Sed in proprio
quidem illa est observatio, quod illud proprium dici potest quod de una specie
praedicatur, accidens vero tale est quod qualitatem designet quae non
substantiam significet, differentia vero talis est quae substantiam demonstret.
Interrogati igitur qualis unaquaeque res sit, si volumus reddere substantiae
qualitatem, differentiam praedicamus. Quae differentia numquam de una tantum
specie praedicatur, ut mortale vel rationale sed de pluribus. Quod igitur de
pluribus speciebus inter se differentibus praedicatur ad eam interrogationem,
quae quale sit id de quo quaeritur interrogat, ea est differentia cuius talem
posuit definitionem: DIFFERENTIA EST QUOD DE PLURIBUS ƿ SPECIE DIFFERENTIBUS IN
EO QUOD QUALE SIT PRAEDICATUR. Cuius definitionis causam rationemque
pertractans ait: REBUS ENIM EX MATERIA ET FORMA CONSTANTIBUS VEL AD
SIMILITUDINEM MATERIAE ET FORMAE CONSTITUTIONEM HABENTIBUS, QUEMADMODUM STATUA
EX MATERIA EST AERIS, FORMA AUTEM FIGURA. SIC ET HOMO COMMUNIS ET SPECIALIS EX
MATERIA QUIDEM SIMILITER CONSISTIT GENERE, EX FORMA AUTEM DIFFERENTIA, TOTUM
AUTEM HOC ANLMAL RATIONALE MORTALE HOMO EST, QUEMADMODUM ILLIC STATUA. Dixit
superius differentias esse quae in qualitate speciei praedicarentur, nunc autem
causas exequitur, cur speciei qualitas differentia sit. Omnes, inquit, res vel
ex materia formaque consistunt vel ad similitudinem materiae atque formae
substantiam sortiuntur. Ex materia quidem formaque subsistunt ƿ omnia
quaecumque sunt corporalia; nisi enim sit subiectum corpus quod suscipiat
formam, nihil omnino esse potest. Si enim lapides non fuissent. Muri
parietesque non essent, si lignum non fuisset, omnino nec mensa quidem, quae ex
ligni materia est, esse potuisset. Igitur supposita materia ac praeiacente cum
in ipsam figura superuenerit, fit quaelibet illa res corporea ex materia
formaque subsistens, ut Achillis statua ex aeris materia et ipsius Achillis
figura perficitur. Atque ea quidem quae corporea sunt, manifestum est ex
materia formaque subsistere, ea vero quae sunt incorporalia, ad similitudinem
materiae atque formae habent suppositas priores antiquioresque naturas, super
quas differentiae venientes efficiunt aliquid quod eodem modo sicut corpus
tamquam ex materia ac figura consistere videatur, ut in genere ac specie
additis generi differentiis species effecta est. Ut igitur est in Achillis
statua aes quidem materia, forma vero Achillis qualitas et quaedarn figura, ex
quibus efficitur Achillis statua, quae subiecta sensibus capitur, ita etiam in
specie, quod est homo, materia quidem eius genus est, quod est animal, cui
superveniens qualitas rationalis animal rationale, id est speciem fecit. Igitur
speciei materia quaedam est genus, forma vero et quasi qualitas differentia.
Quod est igitur in statua aes, hoc est in specie genus, quod in statua figura
conformans, id in specie differentia, quod in statua ipsa statua, quae ex aere
ƿ figuraque conformatur, id in specie ipsa species, quae ex genere differentiaque
coniungitur. Quodsi materia quidem speciei genus est, forma autem differentia,
omnis vero forma qualitas est, iure omnis differentia qualitas appellatur. Quae
cum ita sint, iure in eo quod quale sit interrogantibus respondetur. DESCRIBUNT
AUTEM HUIUSMODI DIFFERENTIAS ET HOC MODO: DIFFERENTIA EST QUOD APTUM NATURA EST
DIVIDERE QUAE SUB EODEM SUNT GENERE; RATIONALE ENIM ET IRRATIONALE HOMINEM ET
EQUUM, QUAE SUB EODEM SUNT GENERE, QUOD EST ANIMAL, DIVIDUNT. Haec quidem
definitio cum sit usitata atque ante oculos exposita, eam tamen plenius
dilucideque declaravit. Omnes enim differentiae idcirco differentiae
nuncupantur, quia species a se differre faciunt, quas unum genus includit, ut
homo atque equus propriis discrepant differentiis; nam sicut homo animal est,
ita etiam equus, ergo secundum genus nullo modo distant. Quae igitur secundum
genus minime discrepant, ea differentiis distribuuntur. Additum enim rationale
quidem homini, irrationale vero equo equus atque homo, quae sub eodem fuerant
genere; distribuuntur et discrepant, additis scilicet differentiis. ASSIGNANT
AUTEM ETIAM HOC MODO: DIFFERENTIA EST QUA DIFFERUNT A SE SINGULA; NAM SECUNDUM
GENUS NON DIFFERUNT. SUMUS ENIM MORTALIA ANIMALIA ET NOS ET IRRATIONABILIA SED
ADDITUM RATIONABILE SEPARAVIT NOS AB ILLIS, ET RATIONABILES SUMUS ET NOS ET DII
SED MORTALE APPOSITUM DISIUNXIT NOS AB ILLIS. Vitiosa ratione et non sana quod
uult explicat definitio quorundam. Id enim esse dicunt differentiam qua
unaquaeque res ab alia distet. In qua definitione nihil interest quod ita dixit
an ita concluserit: differentia est id quod est differentia. Etenim
differentiae nomine in eiusdem differentiae usus est ƿ definitione dicens:
DIFFERENTIA EST QUA DIFFERUNT A SE SINGULA. Quodsi adhuc differentia nescitur,
nisi definitione clarescat, differre quoque quid sit qui poterimus agnoscere?
Ita nihil amplius attulit ad agnitionem qui differentiae nomine id eiusdem usus
est definitione. Est autem communis et uaga nec includens substantiales
differentias sed quaslibet etiam accidentes hoc modo: DIFFERENTIA EST QUA A SE
DIFFERUNT SINGULA; quae enim genere eadem sunt, differentia discrepant, ut cum
homo atque equus idem sint in animalis genere, quoninm utraque sunt animalia,
differunt tamen differentia rationali, et cum dii atque homines sub
rationalitate sint positi, differunt mortalitate. Rationale igitur hominis ad
equum differentia est, mortale hominis ad deum, atque hoc quidem modo
substantiales differentiae colliguntur. Quodsi Socrates sedeat, Plato vero
ambulet, erit differentia ambulatio vel sessio, quae substantialis non est.
Namque istam quoque differentiam definitio videtur incllldere, cum dicit:
DIFFERENTIA EST QUA DIFFERUNT SINGULA; quocumque enim Socrates a Platone
distiterit -- nullo autem alio distare nisi accidentibus potest -- id erit
differentia secundum superioris terminum definitionis. Quam rem scilicet
viderunt etiam hi qui definitionis huius uagum communemque finem reprehendentes
certae conclusionis terminum subiecerunt. INTERIUS AUTEM PERSCRUTANTES DE
DIFFERENTIA DICUNT, NON QUODLIBET EORUM QUAE SUB EODEM SUNT GENERE DIVIDENTIUM
ESSE DIFFERENTIAM SED QUOD AD ESSE CONDUCIT ET QUOD EIUS QUOD EST ESSE REI PARS
EST; NEQUE ENIM QUOD APTUM NATUM EST NAVIGARE ERIT HOMINIS DIFFERENTIA, ETSI
PROPRIUM SIT HOMINIS. DICIMUS ENIM 'ANIMALIUM HAEC QUIDEM APTA NATA SUNT AD
NAVIGANDUM, ILLA VERO MINIME', DINIDENTES AB ALIIS SED APTUM NATUM ESSE AD
NAVIGANDUM NON ERAT COMPLETIVUM SUBSTANTIAE NEC EIUS PARS SED APTITUDO QUAEDAM
EIUS EST, IDCIRCO, QUONIAM NON EST TALIS QUALES SUNT QUAE SPECIFICAE DICUNTUR
DIFFERENTIAE. ERUNT IGITUR SPECIFICAE DIFFERENTIAE QUAECUMQUE ALTERAM FACIUNT
SPECIEM ET QUAECUMQUE IN EO QUOD QUALE EST ACCIPIUNTUR. -- ET DE DIFFERENTIIS
QUIDEM ISTA SUFFICIUNT. Sensus propositionis huiusmodi est. Quoniam superius
disit determinasse quosdam differentiam esse qua a se singllla discreparent,
ait alios diligentius de differential perscrutantes non ƿ fuisse arbitratos
recte esse superius propositam definitionem. Neque enim omnia quaecumque sub
eodem posita genere differre faciunt, differentiae hae de quibus nunc
tractatur, id est specificae, numerari queunt. Plura enim sunt quae ita
dividunt species sub uno genere positas, ut tamen eorum substantiam minime
conforment, quia non videntur esse differentiae specificae nisi illae tantum
quae ad id quod est esse proficiunt et quae in definitionis alicuius parte
ponuntur. Hae autem sunt nt rationale hominis. Nam et substantiam hominis
conformat et ad esse hominis proficit et definitionis eius pars est. Ergo nisi
ad id quod est esse conducit et eius quod est esse rei pars sit, specifica
differentia nullo modo poterit nuncupari quid est autem esse rei? Nihil est
aliud nisi definitio. Unicuique enim rei interrogatae 'quid est?' si quis quod
est esse monstrare voluerit, definitionem dicit. Ergo si qua definitionis pars
fuerit, eius erit pars quae uniuscuiusque rei quid esse sit designet. Definitio
est quidem quae quid unaquaeque res ƿ sit, ostendit ac profert, demonstraturque
quid uni cuique rei sit esse per definitionis assignationem. Illae vero
differentiae quae non ad substantiam conducunt sed quoddam quasi extrinsecus
accidens afferunt, specificae non dicuntur, licet sub eodem genere positas
species faciant discrepare, ut si quis hominis atque equi hanc differentiam
dicat, aptum esse ad navigandum. Homo enim aptus est ad navigandum, equus vero
minime, et cum sit equus atque homo sub eodem genere animalis, addita
differentia 'aptum esse ad navigandum' equum distinxit ab homine. Sed aptum
esse ad navigandum non est huiusmodi, quale quod possit hominis formare
substantiam sed tantum quandam quodammodo aptitudinem monstrat et ad faciendum
aliquid vel non faciendum oportunitatem. Idcirco ergo specifica differentia
esse non dicitur. Quo fit ut non omnis differentia quae sub eodem genere
positas species distribuit, specifica esse possit sed ea tantum quae ad
substantiam speciei proficit et quae in parte definitionis accipitur. Concludit
igitur esse specificas differentias quae alteras a se species faciunt per
differentias substantiales. Nam si uni cuique id est esse quodoumque
substantialiter fuerit, quaecumque differentiae substantialiter diversae sunt,
illas species quibus assunt, omni substantia faciunt alteras ac discrepantes,
atque hae in definitionis parte sumuntur. Nam si definitio substantiam monstrat
ƿ et substantiales differentiae species efficiunt, substantiales differentiae
erunt partes definitionum. PROPRIUM VERO QUADRIFARIAM DIVIDUNT. NAM ET ID QUOD
SOLI ALICUI SPECIEI ACCIDIT, ETSI NON OMNI, UT HOMINI MEDICUM ESSE VEL
GEOMETREM, ET QUOD OMNI ACCIDIT, ETSI NON SOLI, QUEMADMODUM HOMINI ESSE BIPEDEM
ET QUOD SOLI ET OMNI ET ALIQUANDO, UT HOMINI IN SENECTUTE CANESCERE, QUARTUM
VERO, IN QUO CONCURRIT ET SOLI ET OMNI ET SEMPER, QUEMADMODUM HOMINI ESSE
RISIBILE. NAM ETSI NON SEMPER RIDEAT, TAMEN RISIBILE DICITUR, NON QUOD IAM
RIDEAT SED QUOD APTUS NATUS SIT; HOC AUTEM EI SEMPER EST NATURALE ET EQUO
HINNIBILE. HAEC AUTEM PROPRIE PROPRIA PERHIBENT ESSE, QUONIAM ETIAM
CONVERTUNTUR. QUICQUID ENIM EQUUS, HINNIBILE, ET QUICQUID HINNIBILE, EQUUS. Superius
dictum est omnia propria ex accidentium genere descendere. Quicquid enim de
aliquo praedicatur, aut substftntiam informat aut secundum accidens inest.
Nihil vero est quod cuiuslibet rei substantiam monstret nisi genus, species et
differentia, genus quidem et differentia speciei, species vero individuorum.
Quicquid ergo reliquum est, in accidentium numero ponitur. Sed quoniam ipsa
accidentia habent inter se aliquam differentiam, idcirco alia quidem propria,
alia priore atque antiquiore nomine accidentia nunlcupantur. Et de accidentibus
paulo post, nunc de propriis. Quae quadrifariam dividuntur, non tamquam genus
aliquod proprium in quattuor species dividi secarique possit sed hoc quod ait
dividunt, ita intellegendum est, tamquam si diceret 'nuncupant', id est propria
quadrifariam dicunt. Cuius quadrifariae appellationis significationes enumerat,
ut quae sit conveniens et congrua nuncupatio proprietatis ostendat. Dicit ergo
proprium accidens quod ita uni speciei adest, ut tamen nullo modo coaequetur ei
sed infra subsistat ac maneat, ut hominis dicitur proprium medicum esse,
idcirco quoniam nulli alii inesse animalium ƿ potest. Nec illud attendimus, an
hoc de omni homine praedicari possit sed illud tantum, quod de nullo alio nigi
de homine dici potest medicum esse. Et haec quidem significatio proprii dicitur
inesse SOLI, ETSI NON OMNI; soli enim speciei, etsi non omni coaequatur, ut
medicina soli quidem inest homini sed non omnibus hominibus ad scientiam adest.
Aliud proprium est quod huic e contrario dicitur omni, etsi non soli; quod
huiusmodi est, ut omnem quidem speciem contineat eamque transcendat. Et quoniam
quidem nihil est subiectae speciei quod illo proprio non utatur, dicimus omni,
quoniam vero transcendit in alias, dicimus non soli: hoc huiusmodi est quale
homini esse bipedem, proprium est enim bomini esse bipedem. Omnis enim homo
bipes est etiamsi non solus, aves enim bipedes sunt. Geminae igitur
significationes proprii quae superius dictae sunt, habent aliquid minus, prima
quidem quia non omni, secunda vero quia non soli. Quas si iungimus, facimus
omni et soli. Sed demimus aliquid secundum tempus, si ei adiciatur aliquando,
ut sit haec tertia proprii nuncupatio 'omni et soli sed aliquando', ut est in
senectute canescere vel in ivuentute pubescere; omni enim homini adest in
ivuentute pubescere, in senectute canescere, et soli. Pubescere enim solius
hominis est sed aliquando, ƿ neque enim omni tempore sed in sola tantum
ivuentute. Haec igitur determinatio proprii in eo quidem modo quod omni et soli
inest, absoluta est sed ex eo minuit aliquid vel contrahit, cum dicimus
ALIQUANDO. Quod si auferamus, fit proprii integra simplexque significatio hoc
modo: proprium est quod omni et soli et semper adest. Omni autem et soli
speciei et semper intellegendum est ut hornini risibile, equo hinnibile; omnis
enim et solus homo risibilis est et semper. Neque illud nos ulla dubitatione
perturbet, quod semper homo non rideat; non enim ridere est proprium hominis
sed esse risibile, quod non in actu sed in potestate consistit. Ergo etiamsi
non rideat, quia ridere tamen posse soli et omni homini semper adesse dicitur,
convenienter proprium nuncupatur. Nam si actus separatur ab specie, potestas
nulla ratione disiungitur. Quattuor igitur significationes proprii dixit. Nam
prima quidem, quando accidens ita subiectae speciei adest, ut soli ei adsit,
etiamsi non omni, ut homini medicina; secunda vero, ƿ cum soli quidem non
adest, omni vero semper adiungitur, ut homini esse bipedem; tertia vero, cum
omni et soli sed aliquando, ut omni homini in ivuentute pubescere; quarta, cum
omni et soli et semper adest, ut esse risibile. Atque ideo caetera quidem
converti non possunt: neque enim coaequatur quod soli sed non omni speciei
adest. Species quidem de ipso dici potest, ipsum vero de specie minime. Qui
enim medicus est, potest dici homo, homo vero qui est, medicus esse non
dicitur. Rursus quod ita est alii proprium, ut omni adsit etiamsi non soli,
ipsum quidem de specie praedicari potest, species vero de eo minime. Nam bipes
praedicari de homine potest, homo vero de bipede nullo modo. Rursus quod ita
adest, ut omni et soli sed aliquando assit, quoniam de tempore, habet aliquid
deminutum nec simpliciter semper adest, reciprocari non poterit. Possumus enim
dicere 'omnis qui pubescit homo est', non 'omnis homo pubescit': potest enim
minime ad inllentutem nenire atque ideo nec pubescere; nisi forte non sit
pubescere hominis proprium sed in ivuentute pubescere, aut, etiam cum nondum
est in ivuentute aut etiam praeteriit, tamen sit ei proprium non tale quale
tunc fieri possit, cum praeter ivuentutem est sed quale cum in ivuentnte
consistit. Atque ideo hoc ƿ quod non in omne tempus tenditur, etiamsi tale est,
ut omni speciei assit, quod tamen in tempus aliquod differatur, integrum atque
absolutum proprium esse von dicitur. Quartum est quod ita alicui adest, ut et
solam teneat speciem et omni assit et absolutum sit a temporis conditione, ut
risibile quod a superiore plurimum distat; nam qui risibilis est, semper ridere
potest. Rursus qui potest in ivuentute pubescere, cum ipsa ivuentus non sit
semper, non ei adest semper ut in ivuentute pubescat. Haec autem quarta proprii
significatio quoniam nulla temporis definitione constringitur, absoluta est
atque ideo etiam convertitur et de se invicem proprium atque species
praedicantur; homo enim risibilis est et risibile homo. ACCIDENS VERO EST QUOD
ADEST ET ABEST PRAETER SUBIECTI CORRUPTIONEM. DIVIDITUR AUTEM IN DUO, IN
SEPARABILE ET IN INSEPARABILE. NAMQUE DORMIRE EST SEPARABILE ACCIDENS, NIGRUM
VERO ESSE INSEPARABILITER CORUO ET AETHIOPI ACCIDIT, POTEST AUTEM SUBINTELLEGI
ET CORUUS ALBUS ET AETHIOPS AMITTENS COLOREM PRAETER SUBIECTI CORRUPTIONEM.
DEFINITUR AUTEM SIC QUOQUE: ACCIDENS EST ƿ QUOD CONTINGIT EIDEM ESSE ET NON
ESSE, VEL QUOD NEQUE GENUS NEQUE DIFFERENTIA NEQUE SPECIES NEQUE PROPRIUM,
SEMPER AUTEM EST IN SUBIECTO SUBSISTENS. OMNIBUS IGITUR DETERMINATIS QUAE
PROPOSITA SUNT, DICO AUTEM GENERE, SPECIE, DIFFERENTIA, PROPRIO, ACCIDENTI,
DICENDUM EST QUAE EIS COMMUNIA ADSINT ET QUAE PROPRIA. Quoniam, ut superius
dictum est, quae de aliquo praedicantur, vel substantialiter vel accidentaliter
dicuntur cumque ea quae substantialiter praedicantur, eius de quo dicuntur
substantiam definitionemque contineant et sint eo antiquiora atque maiora, quod
ex substantialibus praedicatis efficiuntur, cum ea quae substantialiter
dicuntur pereunt, necesse est ut simul etiam ea interimantur quorum naturam
substantiamque formabant. Quae cum ita sint, necesse est ut quae accidenter
dicuntur, quoniam substantiam minime informant, et adesse et abesse possint
praeter subiecti corruptionem. Ea enim tantum cum absunt subiectum corrumpere
poterunt, quae efficiunt atque conformant quae sunt substantialia, quae vero ƿ
non efficiunt substantiam, ut accidentia, ea cum adsunt vel absunt, nec
informant substantiam nec corrumpunt. Est igitur accidens quod adest et abest
praeter subiecti corruptionem. Id autem dividitur in duas partes. Accidentis
enim aliud est separabile, aliud inseparabile, separabile quidem dormire
sedere. Inseparabile vero ut Aethiopi atque coruo color niger. In qua re talis
oritur dubitatio. Ita enim est definitum: accidens est quod adesse et abesse
possit praeter subiecti corruptionem. Idem tamen accidens aliquando
inseparabile dicitur; quod si inseparabile est, abesse non poterit. Frustra
igitur positum est accidens esse quod adesse et abesse possit, cum sint quaedam
accidentia quae a subiecto non valeant separari. Sed fit saepe ut quae actu
disiungi non valeant, mente et cogitatione separentur. Sed si animi ratione disiunctae
qualitates a subiectis non ea perimunt sed in sua substantia permanent atque
perdurant, accidentes esse intelleguntur. Age igitur, quoniam Aethiopi color
niger auferri non potest. Animo emn atque cogitatione separemus. Erit igitur
color albus Aethiopi. uum idcirco species consumpta sit? minime. Item etiam
coruus, si ab eo colorem nigrum imaginatione separemus, permanet tamen avis nec
interit species. Ergo quod dictum est et adesse et abesse, non re sed animo
intellegendum est. Alioquin et substantialia, quae omnino separari non possunt,
si animo et cogitatione disiungimus, ut si ab homine rationabilitatem auferamus
-- ƿ quam licet actu separare non possumus, tamen animi imaginatione
disiungimus -- statim perit hominis species quod idem in accidentibus non fit:
sublato enim accidenti cogitatione species manet. Est alia quoque accidentis
definitio caeterorum omnium privatione, ut id dicatur esse accidens quod neque
genus sit neque species nec differentia nec proprium; quae definitio plurimum
uaga est valdeque communis sic enim etiam genus definiri potest, quod neque
species neque differentia nec proprium sit nec accidens, eodemque modo species
ac differentia et proprium. Cum autem eadem similitudine definitionis plura
definiri queant, non est terminans et circumclusa descriptio, praesertim cum
longe sit a definitionis integritate seiunctum quod cuiuslibet rei formam aliarum
rerum negatione demonstrat. Quibus omnibus expeditis, id est genere, specie,
differentia, proprio atque accidenti, descriptisque eorum terminis quantum
postulabat institutionis brevitas, ea ipsa communiter pertractanda persequitur,
ut quas inter se habeant differentias haec quinque, de quibus superius
disputatum est, quas vero communiones, mediocri consideratione demonstret, ut
non solum ƿ quid ipsa sint, verum etiam quemadmodum inter se comparentur,
appareat. Expeditis per se omnibus quae proposuit et quantum in uniuscuiusque
consideratione poterat, ad scientiae terminum breviter adductis nunc iam non de
singulorum natura, id est vel generis vel differentiae vel speciei vel proprii
vel accidentis sed de ad se invicem relatione pertractat. Nam qui communiones
ac differentias rerum colligit, non ut sunt per se res illae considerat sed ut
ad alias comparentur. Id autem duplici modo, vel similitudine, dum communitates
sectatur, vel dissimilitudine, dum differentias. Quae cum ita sint, nos quoque,
ut adhuc fecimus, propter planiorem intellectum philosophi uestigia
persequentes ordiemur de his communionibus quae assunt generi et speciei et
differentiae vel proprio et accidenti. COMMUNE QUIDEM OMNIBUS EST DE PLURIBUS
PRAEDICARI, ƿ SED GENUS QUIDEM DE SPECIEBUS ET DE INDIVIDUIS, ET DIFFERENTIA
SIMILITER, SPECIES AUTEM DE HIS QUAE SUB IPSA SUNT INDIVIDUIS, AT VERO PROPRIUM
ET DE SPECIE CUIUS EST PROPRIUM ET DE HIS QUAE SUB SPECIE SUNT INDIVIDUIS,
ACCIDENS AUTEM ET DE SPECIEBUS ET DE INDIVIDUIS. NAMQUE ANIMAL DE EQUIS ET
BOBUS [ET CANIBUS] PRAEDICATUR, QUAE SUNT SPECIES, ET DE HOC EQUO ET DE HOC
BOVE, QUAE SUNT INDIVIDUA, IRRATIONALE VERO ET DE EQUIS ET DE BOBUS PRAEDICATUR
ET DE HIS QUI SUNT PARTICULARES, SPECIES AUTEM, UT HOMO, SOLUM DE HIS QUI SUNT
PARTICULARES PRAEDICATUR, PROPRIUM AUTEM, QUOD EST RISIBILE, ET DE HOMINE ET DE
HIS QUI SUNT PARTICULARES, NIGRUM AUTEM ET DE SPECIE CORUORUM ET DE HIS QUI
SUNT PARTICULARES, QUOD EST ACCIDENS INSEPARABILE, ET MOVERI DE HOMINE ET DE
EQUO, QUOD EST ACCIDENS SEPARABILE SED PRINCIPALITER QUIDEM DE INDIVIDUIS,
SECUNDUM POSTERIOREM VERO RATIONEM DE HIS QUAE CONTINENT INDIVIDUA. Antequam
singulorum ad unumquodque habitudinem tractet, illam prius respicit quam omnes
ad se invicem habere videantur. Haec est autem una communio quae propositarum
quinque rerum numerum pluralitate praedicationis includit omnia enim de
pluribus praedicantur. In hoc ergo sibi cuncta communicant. Nam et genus de
pluribus praedicatur, itemque species ac differentia et proprium et accidens.
Quae cum ita sint, est eorum una atque indiscreta communio de pluribus
plaedicari. Disgregat autem ipsam de pluribus praedicationem, quemadmodum in
singulis fiat, quod unumquodque propositorum de quibus pluribus praedicetur
ostendit. Ait enim genus quidem de pluribus praedicari, id est speciebus ac
specierum individuis, ut animal praedicatur de homine atque equo ac de his
individuis quae sub homine sunt atque sub equo. Item genus praedicatur de
differentiis specierum atque id iure. Quoniam enim species differentiae
informant, cum genus de speciebus praedicetur, consequens est ut etiam de his
dicatur quae specierum substantiam formamque efficiunt. Quo fit ut genus etiam
de differentiis praedicetur ac non de una sed de pluribus; dicitur enim quod
rationabile est, esse animal et rursus quod irrationabile est, esse animal. Ita
genus de speciebus ac differentiis praedicatur ac de his quae sub ipsis sunt
individuis. Differentia vero de speciebus dicitur pluribus ac de earum
individuis, ut irrationabile et de equo praedicatur ac bove, quae sunt plures
species, et de his quae sub ipsis sunt individuis eodem modo dicitur; nam quod
de universali praedicatur, praedicatur et de individuo. Quodsi differentia de
speciebus dicitur, praedicabitur etiam de eiusdem speciei subiectis. Species
vero de suis tantum individuis praedicatur; neque enim fieri potest, ut quae
species est ultima quaeque vere species ac magis species nuncupatur, haec alias
deducatur in species. Quod si ita est, sola post speciem individua restant.
Iure igitur species de suis tantum individuis praedicantur, ut homo de Socrate,
Platone, Cicerone et caeteris. Proprium item de specie praedicatur cuius est
proprium, neque enim esset proprium alicuius, si de alio diceretur; de quo enim
unaquaeque res 'et soli et omni et semper' dicitur, eiusdem proprium esse
monstratur. Quae cum ita sint proprium de specie dicitur, ut risibile de
homine; omnis enim homo risibilis est. Dicitur etiam de individuis speciei de
qua praedicatur; est enim Socrates, Plato et Cicero risibilis. Accidens vero et
de speciebus pluribus dicitur et de diversarum specierum individuis. Dicuntur
enim coruus atque Aethiops nigri et hic coruus et hic Aethiops, qui sunt
individui, nigri secundum nigredinis qualitatem vocantur. Atque hoc quidem est
accidens inseparabile. Sed multo magis separabilia accidentia pluribus
inhaerescunt, ut moveri homini et bovi -- uterque enim movetur -- et rursus ea
quae sub homine sunt atque bove individua, moveri saepe praedicantur. Sed
advertendum est auctore Porphyrio quod ea quae accidentia sunt, principaliter
quidem de his dicuntur in quibus sunt individuis, secundo vero loco ad
universalia individuorum referuntur. Atque ita praedicatio ƿ superiorum
redditur, ut quoniam nigredo singulis coruis adest accidentis nigredinis
inficit, idcirco eam de specie quoque praedicamus dicentes coruum, ipsam
speciem, nigrum esse. In quibus omnibus mirum videri potest, cur genus de
proprio praedicari non dixerit nec vero speciem de eodem proprio nec
differentiam de proprio sed tantum genus quidem de speciebus ac differentiis,
differentiam vero de speciebus atque individuis, speciem de individuis,
proprium de specie atque individuis, accidens de speciebus atque individuis.
Fieri enim potest ut quae maioris praedicationis sint, ea de cunctis minoribus
praedicentur, et quae aequalia sunt, sibimet convertuntur, eoque fit ut genus
de differentiis, de speciebus, de propriis, de accidentibus praedicetur, ut cum
dicimus 'quod rationale est, animal est', genus de differentia, 'quod homo est,
animal est', genus de specie, 'quod risibile est, animal est,' genus de
proprio, 'quod nigrum est', si forte coruum vel Aethiopem demonstremus, 'animal
est,' genus de accidenti praedicamus. Rursus 'quod homo est, rationale est',
differentia de specie, 'quod risibile est, rationale est,' differentia de
proprio, 'quod nigrum est, rationale est', si Aethiopem demonstremus,
differentia de accidenti; item 'quod risibile est, homo est', species de
proprio, 'quod nigrum est, homo est,' si Aethiopem designemus, species de
accidenti. Qua in re etiam 'quod nigrum est, risibile est' in Aethiopis
demonstratione ut proprium de accidenti praedicatur. Converti autem ad totum
accidens potest, ut quoniam in individuis singulorum esse proponitur, idcirco
de superioribus etiam praedicetur, ut quoniam Socrates animal est, rationalis
est, risibilis est et homo est, cumque in Socrate sit caluitium, quod est
accidens, praedicetur idem accidens de animali, de rationali, de risibili, de
homine, ut accidens de quattuor reliquis praedicetur. Sed horum profundior
quaestio est nec ad soluendum satis est temporis, hoc tantum ingredientium
intellegeutia expectet, quod alia quidem recto ordine praedicantur, alia vero
obliquo, quoniam moveri hominem rectum est, id quod movetur hominem esse
conversa locutione proponitur. Quocirca rectam Porphyrius in omnibus
propositionem sumpsit. Quodsi quis vim praedicationis et solutionis attenderit
in singulis praedicationibus comparans, eas quidem ƿ prolationes quae rectae
sunt, inveniet a Porphyrio esse enumeratas, eas vero quae converso ordine
praedicantur, fuisse sepositas. COMMUNE EST AUTEM GENERI ET DIFFERENTIAE
CONTINENTIA SPECIERUM. CONTINET ENIM ET DIFFERENTIA SPECIES, ETSI NON OMNES
QUOT GENERA. RATIONALE ENIM ETIAMSI NON CONTINET EA QUAE SUNT IRRATIONABILIA
QUEMADMODUM ANIMAL SED CONTINET HOMINEM ET DEUM, QUAE SUNT SPECIES. ET
QUAECUMQUE PRAEDICANTUR DE GENERE UT GENERA, ET DE HIS QUAE SUB IPSO SUNT
SPECIEBUS PRAEDICANTUR, ET QUAECUMQUE DE DIFFERENTIA PRAEDICANTUR UT
DIFFERENTIAE, ET DE EA QUAE EX IPSA EST SPECIE PRAEDICABUNTUR. NAM CUM SIT
GENUS ANIMAL, NON SOLUM DE EO PRAEDICANTUR UT GENERA SUBSTANTIA ET ANIMATUM SED
ETIAM DE HIS QUAE SUNT SUB ANIMALI SPECIEBUS OMNIBUS PRAEDICANTUR HAEC USQUE AD
INDIVIDUA. CUMQUE SIT DIFFERENTIA RATIONALIS, PRAEDICATUR DE EA UT DIFFERENTIA
ID QUOD EST RATIONE UTI. NON SOLUM AUTEM DE EO QUOD EST RATIONALE SED ETIAM DE
HIS QUAE SUNT SUB RATIONALI SPECIEBUS PRAEDICABITUR RATIONE UTI. COMMUNE AUTEM
EST ET PEREMPTO GENERE VEL DIFFERENTIA SIMUL PERIMI QUAE SUB IPSIS SUNT;
QUEMADMODUM ELLIM SI NON SIT ANIMAL, NON EST EQUUS NEQUE HOMO, ITA SI NON SIT
RATIONALE. NULLUM ERIT ANIMAL QUOD UTATUR RATIONE. Post eam quae cunctis adesse
visa est communitatem, singulorum ad se similitudines ac dissimilitudines
quaerit. Et quoniam inter quinque proposita genus ac differentia universalioris
praedicationis sunt, siquidem genus species continet ac differentias,
differentiae vero species continent neque ab his ullo modo continentur, primum
generis ac differentiarum similitudines colligit. Ac primam quidem ponit hanc.
Dicit enim commune esse generi ac differentiae, ut species claudant; ƿ nam
sicut genus sub se habet species, ita etiam differentia tametsi non tantas quot
habet genus. Etenim genus quoniam differentiam etiam claudit et non unam tantum
sub se differentialn cohercet ac retinet, plures necesse est habeat sub se
species, quam quaelibet una earum differentiarum quas claudit. ut animal
praedicatur de rationabili et irrationabili. Quodsi ita est, praedicabitur et
de his quae sub rationali sunt positae speciebus et de his quae sub
irrationali. Est ergo commune animali et rationali, id est generi et
differentiae, quod sicut genus de homine et de deo praedicatur, ita etiam
rationale. Quod est differentia, de deo ac de homine dicitur. Sed non in tantum
haec praedicatio funditur quantum animalis, id est generis. Animal enim non de
deo solum atque homine sed de equo et bove praedicatur, ad quae rationalis
differentia non pervenit. Sed quandocumque deum supponimus animali, secundum
eam opinionem facimus quae solem stellasque atque hunc totum millium animatum
esse confirmat, quos etiam deorum nomine, ut saepe dictum est, appellaverunt.
Secunda item communio est generis ac differentiae, quoniam quaecumque
praedicantur de genere ut genera, eadem de his quae sub ipso sunt speciebus
praedicantur; ad hanc similitudinem ƿ quaecumque de differentia praedicantur ut
differentiae, et de his quae sub differentia sunt ut differentiae praedicantur.
Cuius sententiae talis est expositio. Sunt plura quae de generibus praedicantur
ut genera, ut de animali dicitur animatum, dicitur substantia, atque haec ut
genera. Haec igitur praedicantur et de his quae sub animali sunt, ut genera
rursus; nam hominis et animatum et substantia genus est, sicut ante fuerat
animalis. Item in ipsis differentiis quaedam differentiae inveniuntur quae de
ipsis differentiis praedicantur, ut de rationali duae differentiae dicuntur.
Quod enim rationale est, utitur ratione vel habet rationem. Aliud est autem uti
ratione, aliud habere rationem, ut aliud est habere sensum, aliud uti sensu.
Habet quippe sensum et dormiens sed minime utitur, ita quoque dormiens habet
rationem sed minime utitur. Ergo ipsius rationabilitatis quaedam differentia
est ratione uti sed sub ratioaabilitate homo positus est: praedicatur igitur de
homine ratione uti ut quaedam differentia. Differt enim a caeteris animalibus
homo, quia ratione utitur. Demonstratum igitur est quia sicut ea quae de genere
praedicantur, dicuntur de generi subiectis, ita etiam ea quae de differentia
praedicantur, dicuntur de his quae differentiae supponuntur. Tertium commune
est quod ƿ sicut absumptis generibus species interimuntur, ita absumptis
differentiis species de quibus differentiae praedicantur, intereunt. Commune
enim est hoc, universalium in substantia pereuntium perire subiecta. Sed prima
communio demonstravit genera de speciebus praedicari, sicut etiam differentias.
Propter hanc igitur similitudinem si auferantur genera, species pereunt, sicut
etiam species perire necesse est quae sub differentiis sunt, si universales
earum differentiae consumantur. Cuius exemplum est: si enim auferas animal,
hominem atque equum sustuleris, quae sunt species positae sub animali, si
auferas rationale, hominem deumque sustuleris, qui sunt sub rationali
differentia collecti. Et de communitatibus quidem hactenus, nunc de generis et
differentiae dissimilitudine perpendit. PROPRIUM AUTEM GENERIS EST DE PLURIBUS
PRAEDICARI QUAM DIFFERENTIA ET SPECIES ET PROPRIUM ET ACCIDENS; ANIMAL ENIM DE
HOMINE ET EQUO ET AVE ET SERPENTE, QUADRUPES VERO DE SOLIS QUATTUORPEDES
HABENTIBUS, HOMO vero DE SOLIS INDIVIDUIS ET HINNIBILE DE EQUO ET DE HIS QUI
SUNT PARTICULARES, ET ACCIDENS SIMILITER DE PAUCIORIBUS. OPORTET AUTEM
DIFFERENTIAS ACCIPERE QUIBUS DIVIDITUR GENUS, NON EAS QUAE COMPLENT SUBSTANTIAM
GENERIS. AMPLIUS GENUS CONTINET DIFFERENTIAM POTESTATE; ANIMALIS ENIM HOC
QUIDEM RATIONALE EST, ILLUD VERO IRRATIONALE. AMPLIUS GENERA QUIDEM PRIORA SUNT
HIS QUAE SUNT SUB SE POSITAE DIFFERENTIIS, PROPTER QUOD SIMUL QUIDEM EAS
AUFERUNT, NON AUTEM SIMUL AUFERUNTUR; SUBLATO ENIM ANIMALI AUFERTUR RATIONALE
ET IRRATIONALE. DIFFERENTIAE VERO NON AUFERUNT GENUS; NAM SI OMNES INTERIMANTUR,
TAMEN SUBSTANTIA ANIMATA SENSIBILIS SUBINTELLEGITUR, QUAE EST ANIMAL. AMPLIUS
GENUS QUIDEM IN EO QUOD QUID EST, DIFFERENTIA vero IN EO QUOD QUALE QUIDDAM
EST, QUEMADMODUM DICTUM EST, PRAEDICATUR. AMPLIUS GENUS QUIDEM UNUM EST
SECUNDUM UNAMQUAMQUE SPECIEM, UT HOMINIS ID QUOD EST ANIMAL, DIFFERENTIAE VERO
PLURIMAE, UT RATIONALE, MORTALE. MENTIS ET DISCIPLINAE PERCEPTIBILE, QUIBUS AB
ALIIS DIFFERT. ET GENUS QUIDEM CONSIMILE EST MATERIAE, FORMAE VERO DIFFERENTIA.
CUM AUTEM SINT ET ALIA COMMUNIA ƿ ET PROPRIA GENERIS ET DIFFERENTIAE, NUNC ISTA
SUFFICIANT. Proprium quidem quid sit, convenienti atque integro vocabulo
definitum est. Sed per abusionem illa etiam propria quorumlibet dicuntur quae
in unaquaque re ab aliis continent differentiam, licet cum aliis sint ea ipsa
communia. Per se quippe proprium est homini quod ei omni et soli et semper
adest, ut risibilitas, per usurpatam vero locutionem etiam proprium hominis
rationabilitas dicitur non per se proprium quippe quod ei cum deorum est natura
commune sed homini rationabilitas proprium dicitur ad discretionem pecudis,
quod rationale non est; id vero propter hanc causam, quoniam id proprium
uniuscuiusque dicitur quod habet suum. Quo igitur quis ab alio differt,
proprium eius non absurda usurpatione praedicatur. Sed nunc quod dicit proprium
generis esse de pluribus praedicari quam caetera quattuor, id ipsum generis
tale proprium est, quale per se proprium dici solet, id est quod semper
<et> omni et soli adsit generi. Generi enim soli adest, ut differentia,
specie, proprio, accidenti uberius atque affluentius praedicetur. Sed de his
differentiis, speciebus, propriis, atque accidentibus id dici potest quae sub
quolibet ƿ genere sunt, id est differentiae quidem quae quodlibet dividunt
genus, species vero quae divisibilibus generis differentiis informatur,
proprium autem illius speciei quae sub illo genere est quod differentiis est
divisum, accidentiaque quae his haereant individuis quae sub ea specie sunt
quam designatum genus includit. Hoc facilius exempla declarant. Sit enim genus
animal, quadrupes ac bipes differentiae sub animalis positae continentia, homo
atque equus species sub eodem genere constitutae, risibile atque hinnibile
propria earundem specierum, velox vero vel bellator accidentia quae his individuis
accidunt quae sub speciebus equi atque hominis continentur: animal igitur, quod
est genus, praedicatur et de quadrupede et bipede, quae sunt differentiae,
quadrupes vero de bipede non dicitur sed tantum de his animalibus quae quattuor
pedes habent; plus igitur praedicatur genus quam differentia. Rursus homo de
Platone ac Socrate praedicatur, animal vero non modo de hominibus individuis,
verum etiam de caeteris irrationabilibus individuis dicitur; plus igitur genus
quam species praedicatur. Sed cum sit proprium hinnibile equi speciei cumque ƿ
genus quam species uberius praedicetur, praedicatio quoque generis proprii
supergreditur praedicationem. Accidens quoquo etsi pluribus inesse potest,
tamen saepe genere contractius invenitur, ut bellator non proprie nisi homo
dicitur, ut velocitas in paucis animalibus invenitur. Quo fit, ut genus
differentia, specie, proprio et accidentibus amplius praedicetur. Atque haec
est una proprietas generis quae genus ab aliis omnibus disiungat ac separet.
Oportet autem, inquit, nunc eas differentias intellegere quibus dividitur
genus, non quibus informatur. Illae enim quibus informatur genus plus quam
ipsum genus sine dubio praedicantur, ut animatum et corporeum ultra animal
tenditur, cum sint differentiae animalis sed non divisivae sed potius
constitutivae; omnia enim superiora de inferioribus praedicantur. Quae vero de
inferioribus praedicantur neque converti possunt, haec ab eis quae inferiora
sunt amplius praedicantur. Post hoc aliud proprium generis ostendit quo ab his
differentiis quae sub eodem sunt positae, segregatur. Omne enim genus continet
differentias potestate, differentia vero genus non potest continere. Animal
enim rationale atque irrationale continet potestate; neque enim
irrationabilitas neque rationabilitas animal poterit continere. Potestate autem
ait continere animal differentias quia, ut superius dictum est, ƿ genus quidem
omnes sub se habet differentias potestate, actu vero minime. Ex quo fit ut alia
proprietas oriatur. Sublato enim genere perit differentia, veluti sublato
animali interimitur rationabilitas, quod est differentia. At si rationale
interimas, irrationale animal manet. Sed obici potest: quid? Si utrasque
differentias simul abstulero, num poterit remanere genus? Dicimus: potest.
Unumquodque enim non ex his de quibus praedicatur sed ex his ex quibus
efficitur, substantiam sumit. Itaque fit ut genus sublatis divisivis
differentiis permanere possit, dum tamen maneant illae quae ipsius generis
formam substantiamque constituunt. Quoniam enim animal animata atque sensibilis
differentiae constituunt, hae si maneant atque iungantur, perire animal non
potest, licet ea pereant de quibus animal praedicatur, rationale scilicet atque
irrationale. unumquodque enim, ut dictum est, ex his substantiae proprietatem
sumit ex quibus efficitur non ab his de quibus praedicatur. Amplius si utrasque
differentias genus potestate continet, ipsum per se neutram earum intra se
positam collocatamque concludit. Quodsi actu quidem eas non continet sed
potestate, actu etiam ab his poterit separari; hoc ipsum enim, potestate eas
continere, id erat actu non continere. Genus vero, quod quaslibet differentias
actu non continet, actu ab eisdem etiam separatur. Rursus aliud est proprium
generis, quod ex proprietate ƿ praedicationis agnoscitur. Omne enim genus ad
interrogationem 'quid est unumquodque?' responderi convenit, ut animal in eo
quod quid est de homine praedicatur, differentia vero minime sed in eo quod
quale sit; omnis enim differentia in qualitate consistit. Sed hoc proprium tale
est quale superius diximus, non per se sed secundum alicuius differentiam
dictum. Alioquin commune est hoc generi cum specie, ut in eo quod quid sit
praedicetur. Sed quia hoc genus a differentia discrepat, quoniam differentia
quidem in eo quod quale est, genus vero in eo quod quid est praedicatur,
generis proprium dicltur non per se sed ad differentiae comparationem. Et in
omnibus reliquis eandem rationem conveniet speculari; quodcumque enim ita
generi proprium dicitur, ut nulli sit alii commune sed tantum hoc habeat genus
ut omne genus et semper, id secundum se proprium nuncupatur, quicquid vero cum
quolibet alio commune est, id non per se sed ad alterius differentiam proprium
dicitur. Alia rursus generis et differentiae separatio est, quod genus quidem
speciei unum semper adest, scilicet proximum -- plura enim possunt esse
superiora, velut hominis animal atque substantia sed proximum eiusdem hominis
animal tantum -- differentiae vero plures uni speciei ƿ adesse poterunt, ut
rationale atque mortale homini. Itaque fit definitio ex uno quidem genere sed
pluribus differentiis, ut hominis animal rationale mortale. Rursus alia
discretio est, quod genus quidem quasi subiecti locum tenet, differentia vero
formae, ita ut illud sit materia quaedam quae figuram suscipiat, haec vero sit
forma quao superveniens speciei substantiam rationemque perficiat. Idcirco vero
pluribus differentiis a genere differentiam segregavit, quia haec maxime
generis quandam similitudinem contineat, quia est universalis et praeter genus inter
caeteras maxima. Sed cum alia plura: communia pluraque propria generis inter se
ac differentiae valeant inveniri, nunc, inquit, ista sufficiant. Satis est enim
ad discretionem quaslibet differentias assumere, etiamsi non quae dici possunt
omnia colligantur.DE COMMUNIBUS GENERIS ET SPECIEI GENUS AUTEM ET SPECIES
COMMUNE QUIDEM HABENT DE PLURIBUS, QUEMADMODUM DICTUM EST, PRAEDICARI. SUMATUR
AUTEM SPECIES UT SPECIES ET NON ETIAM UT GENUS, SI FUERIT IDEM ET SPECIES ET
GENUS. ƿ COMMUNE AUTEM HIS EST ET PRIORA ESSE EORUM DE QUIBUS PRAEDICANTUR, ET
TOTUM QUIDDAM ESSE UTRUMQUE. Generis et speciei enumerat tria communia, unum
quidem, de pluribus praedicari; genus enim et species de pluribus praedicantur
sed genus de speciebus, ut dictum est, species vero de individuis. Sed nunc de
illa specie loquitur quae tantum species est, id est quae non etiam genus est
sed ultima species. Quodsi talem speciem ponamus quae etiam genus esse potest,
ac de ea dicamus quoniam commune habet cum genere de pluribus praedicari, nihil
interest an ita dicamus, ipsum genus id secum habere commune de pluribus
plaedicari. Talis enim species quae non est solum species, ea etiam genus est.
Est autem commune his quoque quod utraque priora sunt his de quibus
praedicantul. Omne enim quod de aliquibus praedicatur, si recto, ut dictum est
superius, ordine dicatur, prius est his de quibus praedicatur. Praeterea est
illis hoc etiam commune, quod genus ac species totum sunt eorum quae intra suum
ambitum continent et cohercent; omnium enim specierum totum est genus et omnium
in dividuorum totum species. Aeque enim genus et species adunativa sunt
plurimorum, quod vero multorum adunativum est, id eorum quae ad unitatis formam
reducit, recte dicitur totum. Ƿ DIFFERT AUTEM EO QUOD GENUS QUIDEM CONTINET
SPECIES SUB SE, SPECIES vero CONTINENTUR ET NON CONTINENT GENERA; IN PLURIBUS
ENIM GENUS QUAM SPECIES EST. GENERA ENIM PRAEIACERE OPORTET ET FORMATA
SPECIFICIS DIFFERENTIIS PERFICERE SPECIES; UNDE ET PRIORA SUNT NATURALITER
GENERA ET SIMUL INTERIMENTIA SED QUAE NON SIMUL INTERIMANTUR. ET SPECIES QUIDEM
CUM SIT, EST ET GENUS, GENUS VERO CUM SIT, NON OMNINO ERIT ET SPECIES. ET
GENERA QUIDEM UNIVOCE DE SPECIEBUS PRAEDICANTUR, SPECIES vero DE GENERIBUS
MINIME. AMPLIUS GENERA QUIDEM ABUNDANT EARUM QUAE SUB IPSIS SUNT SPECIERUM
CONTINENTIA, SPECIES VERO A GENERIBUS ABUNDANT PROPRIIS DIFFERENTIIS. AMPLIUS
NEQUE SPECIES FIET UMQUAM GENERALISSIMUM NEQUE GENUS SPECIALISSIMUM. Expeditis
communibus generis ac speciei nunc de eorum discretione pertractat. Differre
enim dicit genus ab specio, quoniam genus continet species, ut animal hominem,
species ƿ vero non continet genera; neque enim homo de animali praedicatur.
Itaque fit ut species quidem contineantur a generibus numquam vero contineant
genera. Omne enim quod amplius praedicatur, illius est continens quod minus
dicitur. Quodsi genus amplius praedicatur quam species, necesse est ut species
quidem contineatur a genere, genus vero speciei nullo ambitu praedicationis
includatur. Huius autem ratio est quoniam genus semper suscipiens differentiam
speciem facit, hoc est. Genus quod habebat latissimam praedicationem, coartatum
differentia et contractum speciem facit; omnino enim generi iuncta differentia
speciem reddit et ex universalitate atque latissima praedicatione in angustum
speciei terminum contrahit. Animal enim, cuins praedicatio per se longe lateque
diffusa est, si arripiat rationalis differentiam, si etiam mortalis deminuit
atque contrahit in unum hominis speciem. Unde fit ut minor sit semper species
quam genus atque ideo contineatur sed non contineat, sublatoque genere
auferatur et species; si enim totum auferas, pars non erit. Quodsi species
auferatur, genus manet, veluti cum animal sustuleris, interimitur etiam homo,
si hominem auferas, animal restat. Haec etiam causa est, ut genus de specie
univoce praedicetur, id est ut species suscipiat definitionem generis et nomen
sed ƿ non e converso. Definitionem quippe speciei genus suscipere non videtur;
substantiam enim priorum inferiora suscipiunt. Si enim definias animal et dicas
sub stanti am esse animatam atque sensibilem aut si praedices de homine
'animal', verum dixeris. Si etiam animalis definitionem de homine praedicaveris
dicasque hominem esse substantiam animatam atque sensibilem, nihil fuerit in
propositione falsi. Sed si hominis definitionem reddas 'animal rationale
mortale', ea animali non conveniunt; neque enim quod animal est, id dici
poterit animal rationale mortale. Fit igitur, ut sicut species generis nomen
suscipit, ita etiam capiat definitionem, et sicut genus nomen speciei non
suscipit, ita nec eiusdem definitione monstretur sed cuius nomen et definitio
de aliquo praedicatur, id univoce dicitur. Cum igitur generis et nomen et
definitio de specie praedicetur; genus de specie univoce dicitur. Quoniam vero speciei
de genere neque nomen neque definitio praedicatur, non comlertitur univoca
praedicatio. Differunt genera <ab> speciebus hoc quoque modo, quod genera
superuadunt species suas aliarum continentia specierum, species vero genera
differentiarum pluralitate. Animal enim, quod est genus, superuadit hominem,
quod est species, quia non hominem solum continet, verum etiam bovem, equum
aliasque species, quas suae spatio praedicationis includit. Species vero, ut
homo, superuadit genus, ut animal, multitudine differentiarum. Nam quod actu
genus ƿ non habet rationale vel mortale -- nullas quippe actu genus retinet
differentias -- easdem species suae substantiae inhaerentes atque insitas
tenet. Homo enim rationalis est atque mortalis, quod genus minime est; animal
enim neque mortale est per se neque rationale. Quodsi genus quidem plus unam
continet speciem, at vero species multis differentiis infor mantur, superat
quidem genus speciem continentia specierum species vero vincit genus
differentiarum pluralitate. Illa quoque est differentia, quod genus quoniam
omnium primum est, numquam in tantum descendere poterit, ut fiat ultimum,
species vero, quae cunctis est inferior, in tantum ascendere non poterit, ut
suprerna omnium fiat; numquam igitur nec species generalissimum fiet nec genus
specialissimum. Sed ex his quae dictae sunt differentiae aliae sunt quae genus
ab specie propriae coniunctaeque disterminant, aliae vero quae non solum genus
ab specie, verum etiam a caeteris diducunt ac disterminant. Neque in his tantum
differentiae quae sunt dictae, verum etiam in caeteris considerentur oportet,
si proprie normam quaerimus discretionis agnoscere. GENERIS AUTEM ET PROPRII
COMMUNE QUIDEM EST SEQUI SPECIES -- NAM SI HOMO EST, ANIMAL EST, ET SI HOMO
EST, RISIBILE EST -- ET AEQUALITER PRAEDICARI GENUS DE SPECIEBUS ET PROPRIUM DE
HIS QUAE ILLO PARTICIPANT; AEQUALITER ENIM ET HOMO ET BOS ANIMAL ET CATO ET
CICERO RISIBILE. COMMUNE AUTEM ET UNIVOCE PRAEDICARI GENUS DE PROPRIIS
SPECIEBUS ET PROPRIUM QUORUM EST PROPRIUM. Tria intelim generis ac proprii
dicit esse communia. Quorum primum illud est, quoniam ita genus sequitur
species ut proprium. Posita enim specie necesse est intellegi genus ac
proprium; neutrum enim species proprias derelinquit. Nam si homo est, animal
est, si homo est, risibile est; ita quemadmodum genus, sic proprium ab ea
specie cuius est proprium, non recedit. Illud quoque, quod aequalis est generis
participatio, sicut etiam proprii. Omne enim genus aequaliter speciebus
participatur, proprium vero individuis omnibus aequaliter adhaerescit.
Manifestum vero est participationem esse generis aequalem; neque enim plus homo
animal est quam equus ƿ atque bos sed in eo quod sunt animalia, aequaliter
animalis, id est generis ad se vocabulum trahunt. Cato etiam et Cicero aequaliter
risibiles sunt, etiamsi aequaliter non rideant; in eo enim quod apti ad
ridendum sunt, dici risibiles possunt, non quod iam rideant. Aequaliter ergo ea
quae sub genere sunt, suscipiunt genus, sicut ea quae sub propriis, propria.
Tertium illud, quod sicut genus de speciebus propriis univoce praedicatur, itn
etiam proprium de sua specie univoce dicitur. Genus enim quoniam substantiam
speciei continet, non modo eius nomen de specie, verum etiam definitio
praedicatur. Proprium vero quia speciem non relinquit eamque semper sequitur
nec in aliam speciem transgreditur nec infra subsistit, definitionem quoque
propriam speciebus tradit; cuius enim nomen uni tantum convenit speciei cui
coaequatur, dubitari non potest quin eius quoque definitio speciei conveniat.
Quo fit ut sicut genus de speciebus, ita proprium de sua specie univoce
praedicetur. DIFFERT AUTEM, QUONIAM GENUS QUIDEM PRIUS EST, POSTERIUS VERO
PROPRIUM; OPORTET ENIM ESSE ANIMAL, DEHINC DIVIDI DIFFERENTIIS ET PROPRIIS. ET
GENUS QUIDEM ƿ DE PLURIBUS SPECIEBUS PRAEDICATUR, PROPRIUM VERO DE UNA SOLA
SPECIE CUIUS EST PROPRIUM. ET PROPRIUM QUIDEM CONVERSIM PRAEDICATUR DE EO CUIUS
EST PROPRIUM, GENUS VERO DE NULLO CONVERSIM PRAEDICATUR. NAM NEQUE SI ANIMAL
EST, HOMO EST, NEQUE SI ANIMAL EST, RISIBILE EST; SIN VERO HOMO EST, RISIBILE
EST, ET E CONVERSO. AMPLIUS PROPRIUM OMNI SPECIEI INEST CUIUS EST PROPRIUM, ET
SOLI ET SEMPER, GENUS VERO OMNI QUIDEM SPECIEI CUIUS FUERIT GENUS, ET SEMPER,
NON AUTEM SOLI. AMPLIUS SPECIES QUIDEM INTEREMPTAE NON SIMUL INTERLIMUNT GENERA,
PROPRIA VERO INTEREMPTA SIMUL INTERIMUNT EA QUORUM SUNT PROPRIA. ET HIS QUORUM
SUNT PROPRIA INTEREMPTIS ET IPSA SIMUL INTERIMUNTUR. Rursus tale proprium
sumit, quod ad alterius comparationem proprium nuncupetur. Dicit enim proprium
esse generis prius esse quam propria. Oportet enim prius esse genus, quod
veluti materia differentiis supponatur, venientibusque differentiis fieri
speciem, cum quibus propria nascuntur. Si igitur prius est ƿ genus quam
differentiae, prius etiam differentiae quam species et speciebus propria
coaequantur, non est dubium quin propria generibus posteriora sint, ac per hoc
quod dictum est, proprium esse generis prius esse quam propria, commune est hoc
generi cum differentia. Differentiae enim species conformantes priores considerantur
esse quam propria, siquidem speciebus ipsis priores sunt, quas propria ratione
determinant. Sed ut dictum est, hoc proprium ad differentiam proprii
intellegendum est, non quale superius per se proprium constitutum est. Rursus
differt genus a proprio, quod genus quidem de pluribus praedicatur speciebus,
proprium vero minime; nam neque genus est, nisi plures ex se species proferat,
nec proprium, si alteri cuilibet speciei possit esse commune. Fit igitur ut
genus quidem plurimas sub se species habeat, ut animal hominem atque equum,
proprium vero unam tantum, sieut risibile hominem. Quo fit ut illa quoque
differentia nascatur: genus enim praedicatur quidem de speciebus, ipsum vero in
nulla praedicatione supponitur, proprium vero et species alterna praedicatione
mutantur. Fit enim praedicatio aut a maioribus ad minora aut ab aequalibus ad
aqqualia. Genus igitur, quod maius est, de speciebus omnibus praedicahlr,
species vero, quoniam minores sunt, de generibus non dicuntur, ut animal de
homine dicitur, homo vero de animali nullo modo praedicatur. At vero proprium,
quoniam speciei aequale est, aeque ƿ praedicatur atque supponitur, ut risibile
de homine dicitur -- omnis enim homo risibilis est -- eodemque convertitur
modo; omne enim risibile homo est. Differt etiam proprium a genere, quod
proprium uni et omni et semper speciei adest, genus vero ex his duo quidem
retinet, in uno vero diversum est. Nam speciebus suis et semper adest et
omnibus, non vero solis; hoc enim haeret propriis, quod singulas tantum species
continent, hoc generibus, quod plures. Igitur propria quidem singulas optinent
species, genera vero non singulas. Adest igitur proprium uni soli speciei et
semper et omni, genus vero omni quidem et semper sed non soli, ut risibile
homini soli, animal vero eidem homini sed non soli; praeest enim caeteriss quae
irrationabilia nuncupamus. Praeterea si auferatul genus, species interimuntur
-- nam si non sit animal, non erit homo -- si auferas species, non interimitur
genus; nam si non sit homo, animal non peribit. Species vero et propria quoniam
sunt aequalia, alterna sese vice consumunt; nam si non sit risibile, homo non
erit, si homo non sit, risibile non manebit. Consumunt igitur genera sub se
positas species, non vero ab his invicem consumuntur, species vero et proprium
invicem perimuutur et perimunt. GENERIS VERO ET ACCIDENTIS COMMUNE EST DE
PLURIBUS, QUEMADMODUM DICTUM EST, PRAEDICARI, SIVE SEPARABILIUM SIT SIVE
INSEPARABILIUM; ETENIM MOVERI DE PLURIBUS ET NIGRUM DE CORUIS ET DE HOMINIBUS
AETHIOPIBUS ET ALIQUIBUS INANIMATIS. Nihil est quod inter caetera ita sit a
generis ratione disiunctum. Sicut est accidens. Nam cum genus cuiuslibet
substantiam monstret, accidens vero a substantia longe disiunctum sit et
extrinsecus veniens, nihil fere notius commune potest habere cum genere quam de
pluribus praedicari. Genus enim de plaribus praedicatur speciebus, accidens
vero de pluribus non modo speciebus, verum etiam generibus animatis atque
inanimatis, ut nigrum dicitur de rationabili homine, de irrationabili coruo et de
inanimato hebeno, album etiam de cygno et marmore, moveri de homine, de equo et
de stellis ac de sagitta, quae sunt separabilis accidentis exempla. DIFFERT
AUTEM GENUS AB ACCIDENTI, QUONIAM GENUS ANTE SPECIES EST, ACCIDENTIA VERO
SPECIEBUS POSTERIORA SUNT; NAM SI ETIAM INSEPARABILE SUMATUR ACCIDENS SED TAMEN
PRIUS EST ILLUD CUI ACCIDIT QUAM ACCIDENS. ET GENERE QUIDEM QUAE PARTICIPANT,
AEQUALITER PARTICIPANT, ACCIDENTI VERO NON AEQUALITER; INTENTIONEM ENIM ET
REMISSIONEM SUSCIPIT ACCIDENTIUM PARTICIPATIO, GENERUM VERO MINIME. ET
ACCIDENTIA QUIDEM IN INDIVIDUIS PRINCIPALITER SUBSISTUNT, GENERA NERO ET
SPECIES NATURALITER PRIORA SUNT INDIVIDUIS SUBSTANTIIS. ET GENERA QUIDEM IN EO
QUOD QUID SIT PRAEDICANTUR DE HIS QUAE SUB IPSIS SUNT, ACCIDENTIA VERO IN EO QUOD
QUALE ALIQUID SIT VEL QUOMODO SE HABEAT UNUMQUODQUE; QUALIS EST ENIM AETHIOPS
INTERROGATUS DICES 'NIGER', ET QUEMADMODUM SE SOCRATES HABEAT, DICES QUONIAM
SEDET VEL AMBULAT. Differentiam generis et accidentis hanc primam proponit,
quod genus quidem ante species sit, quippe quod mateliae loco est et
differentiis informatum species gignit, at vero accidens post species
invenitur. Oportet enim prius esse cui aliquid accidat, post vero ipsum
accidens supervenire; nam si subiectum non sit quod suscipiat, accidens esse
non poterit. Quodsi genus quidem speciebus subiectum est nec possunt esse
species, nisi eis genus veluti materia supponatur, accidentia vero esse non
possunt, nisi eis species supponantur, manifestum est genus quidem esse ante
species, accidentia vero post species. Rursus alia differentia, quoniam genus
neque intentionem neque remissionem suscipere potest. Quo fit ut quae
participant genere, aequaliter eius nomen definitionemque suscipiant; omnes
enim homines aequaliter animalia sunt eodernque modo equi, necnon inter se homo
atque equus et caetera animalia comparata aeque animalia praedicantur.
Accidentis vero participatio et intenditur et remittitur. Invenies enim
quemlibet paulo diutius ambulantem, paulo amplius nigrum et in ipsis
Aethiopibus considerabis omnes non aeque nigro colore obductos. Alia quoque
differentia est, quoniam omne accidens in individuis principaliter subsistit,
genera vero et species individuis priora sunt; nisi enim singuli corui ƿ
nigredine infecti essent, corui species nigra esse minime diceretur. Ita fit ut
accidentia post individua esse videantur. Nam si prius est id cui aliquid
accidit quam illud quod accidit, non est dubium prius esse individua, posterius
vero accidens. Genera vero et species supra individua considerantur; hoc
idcirco, quoniam de his omnibus praedicantur eorumque substantiam propria
praedicatione constituunt. Sed dici potest genera quoque ipsa et species
posteriora individuis inveniri; nam nisi sint singuli homines singulique equi,
hominis atque equi species esse non possunt, et nisi singulae species sint,
eorum genus animal esse non poterit. Sed meminisse debemus superius dictum
esse genus non ex his sumere substantiam de quibus praedicatur sed de eo
potius, quod differentiis constitutivis eorum substantia formaque perficitur.
Itaque si genus quidem divisivis differentiis interemptis non perimitur sed
manet in his quae eius constitutivae sunt eiusque formam definitionemque
perficiunt, cumque differentiae divisivae generis speciebus sint priores --
ipsas enim species conformant atque constituunt -- non est dubium quin genus
etiam pereuntibus speciebus possit in propria manere substantia. Idem de
speciebus dictum sit; species enim superioribus differentiis, non posterioribus
individuis informantur. Quae cum ita sint, species quoque ante individua
subsistunt. Accidentia vero nisi sint ƿ quibus accidant, esse non possunt,
nullis vero prius accidunt quam individuis; haec enim generationi et
corruptioni supposita variis semper accidentibus permutantur. Illam quoque
adnumerat differentiam quae est superius dicta, quod genus quidem, quia rem
demonstrat et de substantia praedicatur, in eo quod quid est dicitur, accidens
vero in eo quod quale est aut in eo quod quomodo sese habet res. Nam si
qualitatem interroges, accidens respondebitur, ut si qualis est coruus,
'niger', si quomodo sese habeat, aliud rursus accidens, aut 'sedet' aut 'uolat'
aut 'crocitat'. Nam cum accidens in novem praedicamenta dividatur, qualitatem,
quantitatem, ad aiiquid, ubi, quando, situm, habitum, facere, pati, caetera
quidem omnia in {quomo do se habeat' in terrogatione pomlntur, qualitas vero in
qualitatis sciscitatione responderi solet. Nam si interrogemur qualis est
Aethiops, respondebimus accidens, id est 'niger', si quomodo se habeat Socrates,
tunc dicemus aut 'sedet' aut 'ambulat' aut superiorum aliquid accidentium.GENUS
VERO QUO AB ALIIS QUATTUOR DIFFERAT, DICTUM EST. CONTINGIT AUTEM ETIAM
UNUMQUODQUE ALIORUM DIFFERRE AB ALIIS QUATTUOR, UT CUM QUINQUE QUIDEM SINT,
UNUMQUODQUE AUTEM AB ALIIS QUATTUOR DIFFERAT. QUATER QUINQUE, viGINTI FIANT
OMNES DIFFERENTIAE SED SEMPER POSTERIORIBUS ENUMERATIS ET SECUNDIS QUIDEM UNA
DIFFERENTIA SUPERATIS, PROPTEREA QUIA IAM SUMPTA EST, TERTIIS VERO DUABUS,
QUARTIS VERO TRIBUS, QUINTIS VERO QUATTUOR, DECEM OMNES FIUNT, QUATTUOR, TRES,
DUAE, UNA. GENUS ENIM DIFFERT A DIFFERENTIA ET SPECIE ET PROPRIO ET ACCIDENTI;
QUATTUOR IGITUR SUNT OMNES DIFFERENTIAE. DIFFERENTIA VERO QUO DIFFERAT A GENERE
DICTUM EST, QUANDO QUO DIFFERRET GENUS AB EA DICEBATUR; RELINQUITUR IGITUR QUO
DIFFERAT AB SPECIE ET PROPRIO ET ACCIDENTI DICERE, ET FIUNT TRES. RURSUS
SPECIES QUO ƿ QUIDEM DIFFERAT A DIFFERENTIA DICTUM EST, QUANDO QUO DIFFERRET
DIFFERENTIA AB SPECIE, DICEBATUR; QUO AUTEM DIFFERAT SPECIES A GENERE, DICTUM
EST, QUANDO QUO DIFFERRET GENUS AB SPECIE DICEBATUR; RELIQUUM EST IGITUR, UT
QUO DIFFERAT A PROPRIO ET ACCIDENTI DICATUR DUAE IGITUR ETIAM ISTAE SUNT
DIFFERENTIAE. PROPRIUM AUTEM QUO DIFFERAT AB ACCIDENTI RELINQUITUR; NAM QUO AB
SPECIE ET DIFFERENTIA ET GENERE DIFFERAT, PRAEDICTUM EST IN ILLORUM AD IPSUM
DIFFERENTIA. QUATTUOR IGITUR SUMPTIS GENERIS AD ALIA DIFFERENTIIS, TRIBUS VERO
DIFFERENTIAE, DUABUS AUTEM SPECIEI, UNA AUTEM PROPRII AD ACCIDENS, DECEM ELUNT
OMNES, QUARUM QUATTUOR, QUAE ERANT GENERIS AD RELIQUA, SUPERIUS DEMONSTRAVIMUS.Quoniam
differentias atque communitates generis ad differentiam, ad speciem, ad
proprium atque accidens persecutus est, idem quoque ad caeteras facere
contendens praedicit, quot omnes differentiae possint esse quae inter se
comparatis commixtisque ƿ rebus his quae supra propositae sunt efficiantur.
Sunt autem viginti. Nam cum quinque sint res, unaquaeque res earum si a
quattuor aliis differat, quinquies quater, viginti differentiae fiunt, quod
appositarum litterarum manifestatur exemplo. Sint quinque res veluti quinque
litterae A B C D E. Differat igitur A quidem ab aliis quattuor, id est B C D E,
fient quattuor differentiae. Rursus B differat ab aliis quattuor, id est A C D
E, erunt rursus quattuor; quae superioribus iunctae octo coniungunt. C vero
tertia ab reliquis differt quattuor, scilicet A B D E; quae quattuor
differentiae superioribus octo copulatae duodecim reddunt. Quarta D reliquis
quattuor comparetur differatque ab eisdem, id est A B C E, fient igitur rursus
quattuor; quae superioribus duodecim appositae sedecim copulant. Quodsi ultima
B ab aliis quattuor differat, scilicet A B C D, fient aliae quattuor
differentiae; quae compositae prioribus viginti perficiunt. Et sit quidem
huiusmodi descriptio: A --> B C D E B --> A C D E C --> A B D E D
--> A B C E E --> A B C D. Quae cum ita sint, in generibus quoque et
speciebus et caeteris idem considerabitur. Erunt ergo quattuor differentiae,
quibus genus a differentia, specie, proprio accidentique disiungitur; aliae
rursus quattuor, quibus differentia a genere, specie, proprio atque accidenti
discrepat; rursus quattuor speciei ad genus ac differentiam, proprium atque
accidens; quattuor etiam proprii ad genus, differentiam, speciem atque
accidens; quattuor in super accidentis ad genus, differentiam, speciem atque
proprium. Quae coniunctae omnes viginti explicant differentias. Sed hoc, si ad
numeri refelatur naturam comparationisque alternationem; nam si ad ipsas
differentiarum naturas vigilans lector aspiciat, easdem saepe differentias inveniet
sumptas. Quo enim genus differt a differentia, eodem differentia distat a
genere, et quo differentia distat ab specie, eodem species a differentia
disgregatur, et in caeteris eodem modo. In hac igitur dispositione
differentianlm, quam supla disposui, easdem saepius adnumeravi. Atque si
differentiarum similitudines detrahamus, decem fiunt omnino differentiae, quas
ad praesentem tractatum velut diversas atque dissimiles oportet assumere. Age
enim differat genus a differentia, specie, proprio ƿ atque accidenti, quattuor
differentiis, quas supra iam diximus. Item sumamus differentiam, distabit haec
a genere primum, dehinc ab specie, proprio atque accidenti. Sed quo discrepet a
genere, iam superius explicatum est, cum diceremus quo genus a differentia
discreparet. Detracta igitur hac comparatione, quoniam supra commemorata est,
relinquuntur tres distantiae quibus differentia ab specie, proprio accidentique
disiungitur; quae iunctae cum superioribus quattuor septem differentias
reddunt. Post hanc species si sumatur, quattuor quidem eius essent differentiae
secundum numeri diversitatem, cum ad genus, a differentiam, proprium atque
accidens comparatur sed priores duae comparationes iam dictae sunt. Nam quo
species differat a genere tunc dictum est, cum quid genus differret ab specie
dicebamus, quid vero species a differentia distet commemoratum est, cum
differentiae ab specie dissimilitudines redderemus. Quibus detractis duae
supersunt integrae atque intactae speciei ad proprium atque accidens
discrepantiae; quae iunctae cum septem novem differentias copulant. Proprii
vero si ad numerum differentiae considerentur, quattuor erunt, scilicet ad
genus, differentiam, speciem atque accidens comparati, quarum quidem tres
superiores differentiae iam dictae sunt. Nam quid proprium distet a genere,
tunc dictum est, cum quid genus a proprio distaret ostendimus, rursus quid
proprium a differentia discrepet, in colligenda distantia differentiae
propriique superius ƿ demonstratum est, quid vero proprium distet ab specie,
tunc expositum est, cum quid species distaret a proprio dicebatur. Restat
igitur una differentia proprii ad accidens, quae superioribus iuncta decem
differentias claudit. Accidentis vero ad caetera possent quidem esse quattuor,
nisi iam omnes probarentur esse consumptae. Nam quid differat vel genus vel
differentia vel species vel proprium ab accidenti, supra monstratum est, nec
sunt diversae differentiae accidentis ad caetera quam caeterorum ad accidens.
Itaque fit, ut cum sit quinque rerum numerus, si prima assumatur, quattuor
fiant differentiae, si secunda, tres, vincanturque secundae rei ad caeteras
differentiae a prima ad caeteras una tantum distantia; nam cum prima habuerit
quattuor, secunda retinet tres. Tertia vero si sumatur, duas habebit
differentias, quae vincantur a primis quattuor differentiis duabus; quarta si
sumatur, unam habebit differentiam, quae vincitur a primis quattuor
differentiis tribus, quinta vero quoniam nullam omnino habebit differentiam
nouam, totis quattuor a prima differentiis superatur. Atque hoc numerorum gradu
quidem usque ad denarium numerum tenditur: quattuor, tres, duae, una, ut
generis quidem quattuor, differentiae vero tres, speciei duae, proprii una,
accidentis nulla sit. Et primae quidem generis comparationes quattuor nouas
tenent differentias, secundae vero differentiae comparationes tres nouas
tenent; una enim superius adnumerata est, vincitur autem a primis quattuor
novis differentiis una tantum. Speciei vero tertia comparatio dnas tantum habet
differentias nouas, duas quippe superius adnumeratas agnoscimus, et vincitur a
quattuor primis duabus tantum differentiis novis. Proprium vero unam retineat
nouam, quoniam tres habet superius adnumeratas, vincaturque a prima novis
tribus differentiis, quinti vero accidentis comparationes quoniam nullam
retinent nouam differentiam, totis quattuor a primis generis transcendantur.
Atque ad hunc modum ex viginti differentiis secundum numerum decem secundum
dissimilitudinem contrahuntur. ut tamen has secundum dissimilitudinem
differentias non in quinario tantum numero, verum in caeteris notas habere
possimus, talis dabitur regula quae plenam differentiarum dissimilitudinem in
qualibet numeri pluralitate repeliat. Propositarum enim rerum numero si unum
dempseris atque id quod dempto uno relinquitur, in totam summam numeri
multiplicaveris, eius quod ex multiplicatione factum est dimidium coaequabitur
ei pluralitati quam propositarum rerum differentiae continebunt. Sint igitur
res quattuor A B C D; his aufero unum, fiunt tres; has igitur quater multiplico,
fient duodecim; horum dimidium ƿ teneo, sex erunt. Tot igitur erunt
differentiae inter se rebus quattuor comparatis: A quippe ad B et C et D tres
retinet differentias, rursus B ad C et D duas, C vero ad D unam; quae iulletae
senarium numerum complent. Atque hanc quidem regulam simpliciter ac sine
demonstratione nunc dedisse sufficiat, in Praedicamcntorum vero expositione
ratio quoque cur ita sit explicabitur. COMMUNE ERGO DIFFERENTIAE ET SPECIEI EST
AEQUALITER PARTICIPARI; HOMINE ENIM AEQUALITER PARTICIPRNT PARTICULARES HOMINES
ET RATIONALI DIFFERENTIA. COMMUNE VERO EST ET SEMPER ADESSE HIS QUAE
PARTICIPANT; SEMPER ENIM SOCRATES RATIONALIS ET SEMPER SOCRATES HOMO. Dictum
est saepius ea quae substantiam formant, nec remissione contrahi nec intentione
produci; uni cuique enim id quod est, unum atque idem est. Quodsi differentia
specierum substantiam monstret, species vero individuorum, aequaliter utraque
ab intentione et remissione seiuncta sunt; quo fit ut aequaliter participentur.
Omnes enim individui mortales aeque sunt atque rationales sicut homines. Nam si
idem est 'esse' homini quod est 'esse rationale', cum omnes homines aeque sint
homines, necesse est ut sint aequaliter rationales. Aliud quoque commune habent
quoniam ita differentiae sui participantia non relinquut ut species. Semper
enim Socrates rationalis est -- Socrates enim rationabilitate participat --
semper homo est, quia scilicet humanitate participat. Ut igitur differentiae
sui participantia non relinqbunt, ita species his quae ea participant, semper
adiuncta est. PROPRIUM AUTEM DIFFERENTIAE QUIDEM EST IN EO QUOD QUALE SIT
PRAEDICARI, SPECIEI VERO IN EO QUOD QUID EST; NAM ET SI HOMO VELUT QUALITAS
ACCIPIATUR, NON SIMPLICITER ƿ ERIT QUALITAS SED SECUNDUM ID QUOD GENERI
ADVENIENTES DIFFERENTIAE EAM CONSTITUERUNT. AMPLIUS DIFFERENTIA QUIDEM IN
PLURIBUS SAEPE SPECIEBUS CONSIDERATUR, QUEMADMODUM QUADRUPES IN PLURIBUS
ANIMALIBUS SPECIE DIFFERENTIBUS, SPECIES VERO IN SOLIS HIS QUAE SUB SPECIE SUNT
INDIVIDUIS EST. AMPLIUS DIFFERENTIA PRIMA EST AB EA SPECIE QUAE EST SECUNDUM
IPSAM; SIMUL ENIM ABLATUM RATIONALE INTERIMIT HOMINEM, HOMO VERO INTEREMPTUS
NON AUFERT RATIONALE, CUM SIT DEUS. AMPLIUS DIFFERENTIA QUIDEM COMPONITUR CUM
ALIA DIFFERENTIA -- RATIONALE ENIM ET MORTALE COMPOSITUM EST IN SUBSTANTIA
HOMINIS -- SPECIES VERO SPECIEI NON COMPONITUR, UT GIGNAT ALIAM ALIQUAM
SPECIEM; QUIDAM ENIM EQUUS CUIDAM ASINO PERMISCETUR AD MULI GENERATIONEM, EQUUS
AUTEM SIMPLICITER ASINO NUMQUAM CONVENIENS PERFICIET MULUM. Expositis
communitatibus quantum ad institutionem pertinebat differentiae et speciei,
eorundem nunc dissimilitudines colligit dicens quoniam differunt, quod species
in eo quod quid sit praedicatur, differentia vero in eo quod quale sit. Huic
differentiae poterat occurri. Nam si humanitas ipsa, quae species est, qualitas
quaedam est, cur dicatur species in eo quod quid sit praedicari, cum propter
quandam suae naturae ƿ proprietatem quaedam qualitas esse videatur? Huic
respondemus, quia differentia solum qualitas est, humanitas vero non est solum
qualitas sed tantum qualitate perficitur. Differentia enim superveniens generi
speciem fecit; ergo genus quadam differentiae qualitate formatum est, ut
procederet in speciem, species vero ipsa, qualis quidem est, secundum
differentiam illius quae est pura ac simplex qualitas, qua scilicet perficitur
et conformatur, qualitas vero ipsa pura simplexque nullo modo est sed ex
qualitatibus effecta substantia. Itaque iure differentia, quae pure ac
simpliciter qualitas est, in eo quod quale est sciscitantibus respondetur,
species vero in eo quod quid sit, licet ipsa quoque quaedam qualitas sit non
simplex sed aliis qualitatibus informata. Rursus illa quoque differentia est,
quia plures sub se species differentia continet, species vero tantum individuis
praesunt. Rationabilitas enim et hominem claudit et deum, quadrupes equum,
bovem, canem et caetera, homo vero solos individuos. Atque in aliis speciebus
eadem ratio est. Idcirco enim definitiones quoque secutae sunt, ut differentia
vocaretur quod in pluribus specie differentibus in eo quod quale sit
praedicatur, species vero quod de pluribus numero differentibus in eo quod quid
sit praedicatur. Ideo etiam superioris naturae sunt differentiae, quoniam
continentes sunt specierum. Nam si quis auferat differentiam, speciem ƿ quoque
sustulerit, ut si quis auferat rationabilitatem, hominem deumque consumpserit,
si vero hominem tollat, rationabiiitas nuanet in speciebus reliquis constituta.
Est igitur differentiae specieique distantia quod una differentia plures
species contmerc potest, species vero nullo modo. Alia rursus est dlfferentia,
quoniam ex pluribus differentiis una saepe species iungitut, ex pluribus
speciebus nulla speciei substantia copulatur. Iunctis enim differentiis mortali
ac rationali factus est homo, iunctis vero speciebus nulla umquam species
informatur. Quodsi quis occurrat dicens quoniam permixtus asino equus efficit
mulum, non recte dixerit. Individua enim individuis iuncta individua rursus
alia fortasse perficiunt, ipseuero equus simpliciter, id est universaliter, et
asinus universaliter neque permisceri possunt neque aliquid, si cogitatione
misceantur, efficiunt. Constat igitur differentias quidem plurimas ad unius
speciei substantiam convenire, species vero in alterius speciei naturam nililo
modo posse congruere. DIFFERENTIA VERO ET PROPRIUM COMMUNE QUIDEM HABENT
AEQUALITER PARTICIPARI AB HIS QUAE EORUM PARTICIPANT; AEQUALITER ENIM
RATIONALIA RATIONALIA SUNT ET RISIBILIA RISIBILIA. ET SEMPER ET OMNI ADESSE
COMMUNE ƿ UTRIUSQUE EST. SI ENIM CURTETUR QUI EST BIPES SED AD ID QUOD NATUM
EST SEMPER DICITUR; NAM ET RISIBILE IN EO QUOD NATUM EST HABET ID QUOD EST
SEMPER SED NON IN EO QUOD SEMPER RIDEAT. Nunc differentiae propriique communia
continua ratione persequitur. Commune enim dicit esse proprio ac differentiae
quod aequaliter participantur -- aeque enim omnes homines rationabiles sunt,
aeque risibiles -- illud, quia substantiam monstrat, istud, quia est aequum
proprium speciei et subiectam speciem non relinquit. Aliud etiam his commune
subiungit: aequaliter enim semper differentia subiectis adest ut proprium;
semper enim homines rationabiles sunt, ut semper quoque risibiles. Sed obici
poterat non semper esse bipedem hominem, cum sit bipes differentia, si unius
pedis perfectione curtetur. Quam tali modo solvimus quaestionem. Propria et
differentiae non in eo quod semper habeantur sed in eo quod semper natutaliter
haberi possunt, semper dicuntur adesse subiectis. ƿ Si enim quis curtetur pede,
nihil attinet ad naturam, sicut nihil ad detrahendum proprium valet, si homo
non rideat. Haec enim non in eo quod assint sed in eo quod per naturam adesse
possint, semper adesse dicuntur. Ipsum enim semper non actu esse dicimus sed
natura. Numquam enim fieri potest, ut per naturae ipsius proprietatem non
semper homo bipes sit, etiamsi potest fieri, ut pede curtetur, etiam si
deminuto pede sit natus; in his enim non speciei atque substantiae sed nascenti
individuo derogatur. PROPRIUM AUTEM DIFFERENTIAE EST QUONIAM HAEC QUIDEM DE
PLURIBUS SPECIEBUS DICITUT SAEPE, UT RATIONALE DE HOMINE ET DE DEO, PROPRIUM
vero DE UNA SOLA SPECIE, CUIUS EST PROPRIUM. ET DIFFERENTIA QUIDEM ILLIS EST
CONSEQUENS QUORUM EST DIFFERENTIA SED NON CONVERTITUR, PROPRIA VERO CONVERSIM
PRAEDICANTUR QUORUN SUNT PROPRIA, IDCIRCO QUONIAM CONVERTUNTUR. Distat a
proprio differentia, quia differentia plurimas species ƿ claudit ac de his
omnibus praedicatur, proprium vero uni tantum speciei cui iungitur adaequatur.
Rationale enim de homine atque de deo, quadrupes de equo et caeteris
animalibus, risibile vero unam tantum tenet speciem, id est hominem. Unde fit
ut differentia semper speciem consequatur, species vero differentiam minime.
Proprium vero ac species alterius sese vicibus aequa praedicatione comitantur.
Sequi vero dicitur, quotiens quolibet prius nominato posterius reliquum
convenit nuncupari, ut si dicam 'omnis homo rationabilis est', prius hominem,
posterius apposui differentiam; sequitur ergo differentia speciem. At si
convertam nomina dicamque 'omnis rationabile homo est', propositio non tenet
veritatem; igitur species differentiam nulla ratione comitatur. Proprium vero
et species quia converti possunt, mutuo se secuntur: omnis homo risibilis est
et omne risibile homo est. DIFFERENTIAE AUTEM ET ACCIDENTI COMMUNE QUIDEM EST
DE PLURIBUS DICI, COMMUNE VERO AD EA QUAE SUNT INSEPARABILIA ACCIDENTIA, SEMPER
ET OMNIBUS ADESSE; BIPES ENIM SEMPER ADEST OMNIBUS CORUIS ET NIGRUM ESSE
SIMILITER. Duo quidem differentiae et aecidentis communia proponit, quorum unum
separabilibus et inseparabilibus accidentibus cum differentia commune est, ab
altero vero separabile accidens segregatur. Tantum vero inseparabile secundo
communi concluditur. Est enim commune differentiae cum omnibus accidentibus de
pluribus praedicari; nam et separabilia et inseparabilia accidentia sicut
differentia de pluribus speciebus et individuis praedicantur, ut bipes de coruo
atque cygno et de his individuis quae sub coruo et cygno sunt, nuncupatur. Item
de eodem coruo atque cygno album et nigrum, quae sunt inseparabilia accidentia,
praedicantur. Ambulare enim vel stare, dormire ac vigilare de eisdem dicimus,
quae sunt accidentia separabilia, reliqua vero communitas ea tantum accidentia
videtur includere quae sunt inseparabilia. Nam sicut differentia semper
subiectis speciebus adhaerescit, ita etiam inseparabilia accidentia numquam
videntur deserere subiectum. ut enim bipes, quod est differentiat numquam
coruorum speciem derelinquit, ita nec nigrum, quod accidens inseparabile est.
Differentia enim idcirco non relinquit subiectum, quoniam cius substantiam complet
ac perficit, accidens vero huiusmodi, quia noo potest separari; neque enim
possit esse accidens inseparabile, si subiectum aliquando relinquit. DIFFERUNT
AUTEM QUONIAM DIFFERENTIA QUIDEM CONTINET ET NON CONTINETUR -- CONTINET ENIM
RATIONABILITAS HOMINEM -- ACCIDENTIA VERO QUODAM QUIDEM MODO CONTINENT EO QUOD
IN PLURIBUS SUNT, QUODAM VERO MODO CONTINENTUR EO QUOD NON UNIUS ACCIDENTIS
SUSCEPTIBILIA SUNT SUBIECTA SED PLURIMORUM. ET DIFFERENTIA QUIDEM
ININTENTIBILIS EST ET IRREMISSIBILIS, ACCIDENTIA VERO MAGIS ET MINUS RECIPIUNT.
ET IMPERMIXTAE QUIDEM SUNT CONTRARIAE DIFFERENTIAE, MIXTA VERO CONTRARIA
ACCIDENTIA. HUIUSMODI QUIDEM COMMUNIONES ET PROPRIETATES DIFFERENTIAE ET
CAETERORUM SUNT, SPECIES VERO QUO QUIDEM DIFFERAT A GENERE ET DIFFERENTIA,
DICTUM EST IN EO QUOD DICEBAMUS, QUO GENUS DIFFERRET A CAETERIS ET QUO DIFFERENTIA
DIFFERRET A CAETERIS. Post differentiae et accidentis redditas communitates
nunc de eorum differentiis tractat. Ac primum quidem talem proponit. Differentia,
inquit, omnis speciem continet rationabilitas enim continet hominem, quoniam
plus rationabilitas quam species, id est homo, praedicatur: supergressa enim
substantiam hominis in deum usque diffunditur. Accidentia vero aliquando quidem
continent, aliquando continentur. Continent quidem, quia quodlibet unum
accidens speciebus adesse pluribus consuevit, ut album cygno et lapidi? Nigrum
coruo, Aethiopi atque hebeno, continentur vero, quoniam plura accidentia uni
accidunt speciei, ut videatur illa species plurima accidentia continere. Cum enim
Aethiopi accidit ut sit niger, accidit ut sit simus, ut crispus, quae cuncta
sunt accidentia Aethiopis, species, quod est homo, omnia quae habet intra se
plurima accidentia videtur includere. Huic occurri potest: quoniam differentiae
quoque aliquo modo continentur, aliquo modo continent, ut rationabilitas
continet hominem -- plus enim quam de homine praedicatur -- continetur quoque
ab homine, quia non solum hanc differentiam homo continet, verum etiam mortalem.
Respondebimus: omnia quaecumque substantialiter de pluribus praedicantur, ab
his de quibus dicuntur non poterunt contineri; quo fit ut differentiae quidem
non contineantur ab specie, etsi sint differentiae plures quae speciem forment.
Accidentia vero continentur, quoniam accidentia speciei substantiam nulla
praedicatione constituunt; nam nec pioprie universalia dicuntur ƿ accidentia,
cum de speciebus pluribus dicuntur, differentiae vero maxime. Quae enim
quorumlibet universalia sunt, ea necesse est eorum quorum sunt universalia,
etiam substantiam continere. Quo fit ut quia differentiae substantiam
monstrant, intentione ac remissione careant -- una enim quaeque substantia
neque contrahi neque remitti potest -- at vero accidentia quoniam nullam
constitutionem substantiae profitentur, intentione crescunt et remissione
decrescunt. Illa quoque eorum est differentia, quod differentiae contrariae
permisceri, ut ex his fiat aliquid, non queunt, accidentia vero contraria
miscentur et quaedam medietas ex alterutra contrarietate coniungitur. Ex
rationabili enim et irrationabili nihil in unum iungi potest, ex albo vero et
nigro coniunctis fit aliquis medius color. Expositis igitur distantiis
differentiae ad caetera restat de specie dicere, cuius quidem differentias ad
genus ante collegimus, cum generis ad speciem differentias dicetamus, eiuselem
etiam speciei distantias ad differentiam diximus, cum differentiae ad species
dissimilitudines monstrabamus. Restat igitur speciem proprii et accidentium
communioni coniungere, tum differentia segregare. SPECIEI AUTEM ET PROPRII
COMMUNE EST DE SE INVICEM PRAEDICARI; NAM SI HOMO, RISIBILE EST, ET SI
RISIBILE, HOMO EST -- RISIBILE VERO QUONIAM SECUNDUM ID QUOD NATUM EST SUMI
OPORTET, SAEPE IAM DICTUM EST -- AEQUALITER ENIM SUNT SPECIES HIS QUAE EORUM
PARTICIPANT ET PROPRIA QUORUM SUNT PROPRIA. Commune, inquit, habent propria
atque species ad se ipsa praedicationes habere conversas. Nam sicut species de
proprio, ita proprium de specie praedicatur; namque ut est homo risihilis, ita
risibile homo est; idque iam saepius dictum esse commemorat. Cuius communitatis
rationem subdidit, eam scilicet, quia aequaliter species individuis
participantur, sicut eadem propria his quorum sunt propria. Quae ratio non
videtur ad conversionem praedicationis accommoda sed potius ad illam aliam similitudinem,
quia sicut species aequaliter individuis participantur, ita etiam propria;
aeque enim Socrates et Plato homines sunt, sicut etiam risibiles. Itaque
tamquam aliam communionem debemus accipere quod est additum: AEQUALITER ENIM
SUNT SPECIES HIS QUAE EORUM PARTICIPANT ET PROPRIA QUORUM SUNT PROPRIA. An
magis intellegendum est hoc modo dictum, tamquam si diceret 'aequalia enim sunt
species et propria'? Nam quia species eorum sunt species quae speciebus ipsis
participant. Et propria eorum propria quael propriis participant, proprium
atque species aequaliter utrisque sunt, id est neque species superuadit ea quae
specie participant, ƿ neque propria superuadunt ea quae propriis participant.
Cumque haec propria specierum sint propria, species ac propria aequalia esse
necesse est atque invicem praedicari. DIFFERT AUTEM SPECIES A PROPRIO, QUONIAM
SPECIES QUIDEM POTEST ET ALIIS GENUS ESSE, PROPRIUM VERO ET ALIARUM SPECIERUM
ESSE IMPOSSIBILE EST. ET SPECIES QUIDEM ANTE SUBSISTIT QUAM PROPRIUM, PROPRIUM
VERO POSTEA FIT IN SPECIE; OPORTET ENIM HOMINEM ESSE, UT SIT RISIBILE. AMPLIUS
SPECIES QUIDEM SEMPER ACTU ADEST SUBIECTO, PROPRIUM vero ALIQUANDO POTESTATE;
HOMO ENIM SEMPER ACTU EST SOCRATES, NON VERO SEMPER RIDET, QUAMVIS SIT NATUS
SEMPER RISIBILIS. AMPLIUS QUORUM TERMINI DIFFERENTES, ET IPSA SUNT DIFFERENTIA;
EST AUTEM SPECIEI QUIDEM SUB GENERE ESSE ET DE PLURIBUS ƿ ET DIFFERENTIBUS
NUMERO IN EO QUOD QUID EST PRAEDICARI ET CAETERA HUIUSMODI, PROPRII VERO QUOD
EST SOLI ET SEMPER ET OMNI ADESSE. Primam proprii et speciei differentiam dicit
quoniam species potest aliquando in alias species derivari, id est potest esse
genus, ut animal, cum sit species animati, potest esse hominis genus. Sed nunc
non de his speciebus loquitur quae sunt specialissimae, atque hunc confundele
videtur errorem, quod cum de his speciebus dicere proposuerit quae essent
ultimae, nunc de his quae sunt subalternae et saepe locum generis optineant
disserit. Propria vero nullo modo esse genera possunt, quoniam specialissimis
adaequantur; quae quoniam genera esse non queunt, nec propria quae sibi sunt
aequalia, genera es se permittuntur. Rursus species semper ante subsistit quam
proprium -- nisi enim sit homo, risibile esse non poterit -- et cum ista simul
sint, tamen substantiae cogitatio praecedit proprii rationem. Omne enim
proprium in accidentis genere collocatur, eo vero differt ab accidenti, quia
circa omnem solam quamlibet unam speciem vim propriae praedicationis continet.
Quodsi priores sunt substantiae quam accidentia, species vero substantia est,
proprium vero accidens, non est dubium quin prior sit species. Proprium vero
posterius. Discernuntur ƿ etiam species a propriis actus potestatisque natura;
species enim actu semper individuis adest, propria vero aliquotiens actu,
potestate autem semper. Socrates enim et Plato actu sunt homines, non vero
semper actu rident sed risibiles esse dicuntur, quia tametsi non rideant,
ridere tamen potenlnt. Natura itaque species et proprium semper subiectis adest
sed actu species. Proprium vero non semper actu, velut dictum est. At rursus
quoniam definitio substantiam monstrat, quorum diversae sunt definitiones,
diversas necesse est esse substantias; speciei vero et proprii diversae sunt
definitiones, diversae sunt igitur substantiae. Est autem speciei definitio
esse sub genere et de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit
praedicari; quam superius frequenter expositam nunc iterare non opus est.
Proprium vero non ita: definitur: proprium est quod uni et omni et semper
speciei adest. Quodsi definitiones diversae sunt, non est dubium speciem ac
proprium secundum naturae suae terminos discrepare. SPECIEI VERO ET ACCIDENTIS
COMMUNE QUIDEM EST DE PLURIBUS PRAEDICARI; RARAE VERO ALIAE SUNT COMMUNITATES ƿ
PROPTEREA, QUONIAM QUAM PLURIMUM A SE DISTANT ACCIDENS ET ID CUI ACCIDIT. Speciei
atque accidentis similitudinem communem dicit de pluribus praedicari; de
pluribus enim dicitur species, sicut et accidens. Raras vero dicit esse alias
eorum communiones idcirco, quoniam longe diversum est id quod accidit et cui
accidit. Cui enim accidit, subiectum est atque suppositum, quod vero accidit,
superpositum est atque advenientis naturae. Item quod supponitur substantia
est, quod vero velut accidens praedicatur, extrinsecus venit. Quae omnia multam
eius quod est subiectum et eius quad est accidens differentiam faciunt. Tamen
inveniri etiam aliae possunt speciei et accidentis inseparabilis communitates,
ut semper adesse subiectis -- aeque enim homo singulis hominibus semper adest
et inseparabilia accidentia singulis individuis praesto sunt -- et quod sicut
species de his quae individua continet, aeque de pluribus accidentia individuis
praedicantur; nam homo de Socrate et Platone, nigrum vero atque album de
pluribus coruis et cygnis quibus accidit nuncupatur. PROPRIA VERO UTRIUSQUE
SUNT, SPECIEI QUIDEM IN EO QUOD QUID EST PRAEDICARI DE HIS QUORUM EST SPECIES,
ƿ ACCIDENTIS AUTEM IN EO QUOD QUALE QUIDDAM EST VEL ALIQUO MODO SE HABENS; ET
UNAMQUAMQUE SUBSTANTIAM UNA QUIDEM SPECIE PARTICIPARE, PLURIBUS AUTEM
ACCIDENTIBUS ET SEPARABILIBUS ET INSEPARABILIBUS; ET SPECIES QUIDEM ANTE
SUBINTELLEGI QUAM ACCIDENTIA, VEL SI SINT INSEPARABILIA -- OPORTET ENIM ESSE
SUBIECTUM, UT ILLI ALIQUID ACCIDAT -- ACCIDENTIA VERO POSTERIORIS GENERIS SUNT
ET ADVENTICIAE NATURAE. ET SPECIEI QUIDEM PARTICIPATIO AEQUALITER EST,
ACCIDENTIS VERO, VEL SI INSEPARABILE SIT, NON AEQUALITER; AETHIOPS ENIM ALIO
AETHIOPE HABEBIT COLOREM VEL INTENTUM AMPLIUS VEL REMISSUM SECUNDUM NIGREDINEM.
RESTAT IGITUR DE PROPRIO ET ACCIDENTI DICERE; QUO ENIM PROPRIUM AB SPECIE ET
DIFFERENTIA ET GENERE DIFFERT, DICTUM EST. Quod nunc proprium speciei et
accidentis se exequi pollicetur, tale proprium intellegendum est quod, ut
superius dictum est, ad comparationem dicitur differentium rerum. Species enim
in eo quod quid est praedicatur, accidens vero in eo quod quale est. Qua
differentia non ab accidentibus solis species ƿ discernitur, verum etiam a
differentiis ac propriis, nec solum species ab eisdem, verum etiam genus.
Praeterea quod species in eo quod quid est praedicatur, accidens vero in eo
quod quomodo sese habeat, id quoque commune est cum genere; genus quippe ab
accidenti in eo quod quid est et quomodo se habeat praedicatione dividitur.
Item ullam quamque substantiam una videtur species continere, ut Socrntem homo,
atque ideo Socrati una tantum propinquitas est species hominis. Rursus
individuo equo una species equi est proxima, itemque in caeteris; uni cuique
enim substantiae una species praeest. At vero uni cuique substantiae non unum
accidens iungitur; uni cuique enim substantiae plura semper accidentia
superveniunt, ut Socrati quod caluus, quod simus, quod glaucus, quod propenso
ventre, et in aliis quidem substantiis de numero accidentium idem convenit.
Dehinc semper ante accidentia species intelleguntur. Nisi enim sit homo cui
accidat aliquid, accidens esse non poterit, et nisi sit quaelibet substantia
cui accidens possit adiungi, accidens non erit. Omnis autem substantia propria
specie continetur. Recte igitur prins species, accidentia vero posterius
intelleguntur; posterioris enim sunt, ut ait, generis et adventiciae naturae.
Nam quae substantiam non informant, recte adventiciae naturae esse dicuntur et
posterioris generis; his enim substantiis assunt quae ante differentiis
informatae sunt. Rursus quoniam species substantiam ƿ monstrat, substantia
vero, ut dictum est, intentione ac remissione caret, speciei participatio
intentionem remissionemque non suscipit. Accidens vero vel si inseparabile sit,
potest intentionis remissionisque cremento et detrimento variari, ut ipsum inseparabile
accidens quod Aethiopibus inest, nigredo. Potest enim quibusdam talis adesse,
ut sit fuscis proxima, aliis vero talis, ut sit nigerrima. Restat nunc proprii
communiones ac differentias persequi. Sed quo proprium differat a genere vel
specie vel differentia superius demon stratum est, cum quid genus vel species
vel differentia a proprio distaret ostendimus. Nunc reliqua ad communitatem vel
differentiam consideratio est, quid proprium accidentibus aut iungat aut
segreget. COMMUNE AUTEM PROPRII ET INSEPARABILIS ACCIDENTIS EST QUOD PRAETER EA
NUMQUAM CONSTANT ILLA IN QUIBUS CONSIDERANTUR; QUEMADMODUM ENIM PRAETER
RISIBILE NON SUBSISTIT HOMO, ITA NEC PRAETER NIGREDINEM SUBSISTIT ƿ AETHIOPS,
ET QUEMADMODUM SEMPER ET OMNI ADEST PROPRIUM, SIC ET INSEPARABILE ACCIDENS. Quoniam
proprium semper adest speciebus nec eas ullo modo relinquit quoniamque
inseparabile accidens a subiecto non potest segregari, hoc illis inter se
videtur esse commune. Quod ea in quibus insunt, praeter propria vel
inseparabilia accidentia esse non possint. Inseparabilia vero accidentia
comparat, quoniam, ut in specie dictum est, rarissimae sunt speciei atque
accidentis similitudines. Quocirca multo magis proprii atque accidentis
communitates difficile reperiuntur. Accidens enim in contrarium dividi solet,
in separabile accidens atque in inseparabile, quae vero sub genere in
contrarium dividuntur, ea nullo alio nisi tantum generis praedicatione
participant. Quodsi proprium inseparabile quoddam accidens est, a separabili
accidenti plurimum differt, atque ideo nullas proprii et separabilis accidentis
similitudines quaerit. Sed quia ipsum proprium certis quibusdam causis ab
inseparabilibus accidentibus differt, horum et communitates inveniri possunt et
inter se differentiae. Quarum una quidem ea est quam superius exposuimus,
secunda nero quoniam sicut proprium semper et omni speciei adest. Ita etiam
inseparabile accidens; nam sicut risibile omni homini et semper adest, ita
etiam nigredo omni coruo et semper adiuncta est. DIFFERT AUTEM QUONIAM PROPRIUM
UNI SOLI SPECIEI ADEST, QUEMADMODUM RISIBILE HOMINI, IN SEPARABILE VERO
ACCIDENS, UT NIGRUM, NON SOLUM AETHIOPI SED ET IAM CORNO ADEST ET CARBONI ET
HEBENO ET QUIBUSDAM ALIIS. QUARE PROPRIUM CONVERSIM PRAEDICATUR DE EO CUIUS EST
PROPRIUM ET EST AEQUALITER, INSEPARABILE AUTEM ACCIDENS CONVERSIM NON
PRAEDICATUR. ET PROPRIORUM QUIDEM AEQUALITER EST PARTICIPATIO, ACCIDENTIUM VERO
HAEC QUIDEM MAGIS, ILLA VERO MINUS. SUNT QUIDEM ETIAM ALIAE COMMUNITATES VEL
PROPRIETATES EORUM QUAE DICTA SUNT SED SUFFICIUNT ETIAM HAEC AD DISCRETIOLLEM
EORUM COMMUNITATISQUE TRADITIONEM. Proprii atque accidentis prima quidem
differentia est quia proprium semper de una tantum specie dicitur, accidens
vero minime sed eius praedicatio in plurimas diversi generis substantias speciesque
diffunditur. Risibile enim de nullo alio nisi de homine praedicatur, nigrum
vero, quod est inseparabile quibusdam accidens, tam coruo quam Aethiopi, quae
diversa sunt specie, tam coruo atque hebeno, quae differunt generibus, non
tantum specie, praesto est. Quo fit ut propriis quidem ƿ conversio aequa
seruetur, in accidentibus vero minime. Quoniam enim propria in singulis esse
possunt atque omnes continent, species converso ordine praedicantur; nam quod
risibile est homo est, et quod homo, risibile. Nigrum vero non ita sed ipsum
quidem de his praedicari potest quibus inest, illa vero ad huius praedicationem
converti retrahique non possunt; nigrum enim de carbone, hebeno, homine atque
coruo praedicatur, haec vero de nigro minime. Nam quae plurima continent, de
his quae continent praedicari possunt, ea vero quae continentur, de sese
continentibus nullo modo nuncupantur. Rursus proprium quidem aequaliter
participatur, accidens remissionibus atque intentionibus permutatur. Omnis enim
homo aeque risibilis est, Aethiops vero non aequaliter niger est sed, ut dictum
est. Alius quidem panlo minus niger, alius vero tacterrimus invenitur. Et de
proprii quidem atque accidentis differentiis satis dictum est. Restabat vero
accidentis ad caetera communiones proprietatesque explicare sed iam superius
adnumeratae sunt, cum generis, differentiae, speciei et proprii ad accidens
similitudines ac differentias assignavimus. Fortasse autem his institutus
animus et sollertior factus alias praeter eas quas nunc diximus communitates
vel differentias quinque rerum quae superius sunt positae reperiet sed ad
discretionem atque eorum similitudines comparandas ea fere quae sunt dicta
sufficiunt. Nos etiam, quoniam promissi operis portum tenemus atque huius libri
seriem primo quidem ab rhetore Victorino, post vero a nobis ƿ Latina oratione
conversam gemina expositione patefecimus, hic terminum longo statuimus operi
continenti quinque rerum disputationem et ad Praedicamenta servanti. Expeditis
his quae ad praedicamenta Aristotelis Porphyrii institutione digesta sunt, hos
quoque commentarios in praedicamenta perscribens mediocris styli seriem
persecutus, nihil de aliorum quaestionum tractatione permiscui sed dilucidandi
moderatione servata, nec angere lectorem brevitate volui nec dilatatione
confundere. Quare prius breviter huius operis aperienda videtur intentio, quae
est huiusmodi: Rebus praeiacentibus, et in propria principaliter naturae
constitutione manentibus, humanum solum genus exstitit, quod rebus nomina
posset imponere. Unde factum est ut sigillatim omnia prosecutus hominis animis
singulis vocabula rebus aptaret. Et hoc quidem (verbi gratia) corpus hominem
vocavit, illud vero lapidem, aliud lignum, aliud vero colorem. Et rursus
quicumque ex se alium genuisset, patris vocabulo nuncupavit. Mensuram quoque
magnitudinis proprii forma nominis terminavit, ut diceret bipedale esse, aut
tripedale, et in aliis eodem modo. Omnibus ergo nominibus ordinatis, ad ipsorum
rursus vocabulorum proprietates figurasque reuersus est, et huiusmodi vocabuli
formam, quae inflecti casibus possit, 'nomen' vocavit; quae vero temporibus
distribui, 'uerbum'. Prima igitur illa fuit nominum positio, per quam vel
intellectui subiecta vel sensibus designaret. Secunda consideratio, qua
singulas proprietates nominum figurasque perspicerent, ita ut primum nomen sit
ipsum rei vocabulum: ut, verbi gratia, cum quaelibet res homo dicatur. Quod
autem ipsum vocabulum, id est homo, nomen vocatur, non ad significationem
nominis ipsius refertur sed ad figuram, idcirco quod possit casibus inflecti.
Ergo prima positio nominis secundum significationem vocabuli facta est, secunda
vero secundum figuram: et est prima positio, ut nomina rebus imponerentur, secunda
vero ut aliis nominibus ipsa nomina designarentur. Nam cum homo vocabulum sit
subiectae substantiae, id quod dicitur homo, nomen est hominis, quod ipsius
nominis appellatio est. Dicimus enim, Quale vocabulum est homo? et proprie
respondetur: nomen. In hoc igitur opere haec intentio est de primis rerum
nominibus et de vocibus res significantibus disputare, non in eo quod secundum
aliquam proprietatem figuramque formantur sed in eo quod significantes sunt.
Nam quodcumque de substantia vel facere vel pati dicitur, non ita tractatur
quasi unum eorum casibus inflecti possit, aliud vero temporibus permutari sed
quasi aut hominem, aut equum, aut individuum aliquod, aut speciem genusue
significet. Est igitur huius operis intentione vocibus res significantibus in
eo quod significantes sunt pertractare. Haec quidem est tempori introductionis,
et simplicis expositionis apta sententia, quam nos nunc Porphyrium sequentes,
quod videbatur expeditior esse planiorque digessimus. Est vero in mente de
intentione, utilitate et ordine, tribus quaestionibus disputare, videlicet in
alio commentario quem componere proposui de eisdem categoriis ad doctiores,
quarum una est quid praedicamentorum velit intentio, ibique numeratis
diversorum sententiis, docebimus cui vostrum quoque accedat arbitrium, quod
nemo huic in praesentia sententiae repugnare miretur, cum videat quanto illa
sit altior cuius non nimium ingredientium mentes capaces esse potuissent, ad
quos mediocriter imbuendos ista
conscripsimus. Afficiendi ergo, et quodammodo disponendi mediocri expositione
sunt in ipsi quasi disciplinae huius foribus, quos ad hanc paramus scientiam
admittere. Hanc igitur causam mutatae sententiae utriusque operis lector
agnoscat, quod illic ad scientiam Pythagoricam perfectamque doctrinam, hic ad
simplices introducendorum motus expositionis sit accommodata sententia. Sed
nunc ad propositum reuertamur, sitque in praesens praedicamentorum intentio,
quae superius est comprehensa, id est, de primis vocibus significantibus prima
rerum genera in eo quod significantes sunt disputare: et quoniam res infinitae
sunt, infinitas quoque voces quae significant eas esse necesse est: sed
infinitorum nulla cognitio est, infinita namque animo comprehendi nequeunt.
Quod autem ratione mentis circumdari non potest, nullius scientiae fine
concluditur, quare infinitorum scientia nulla est: sed hic Aristoteles non de
infinitis rerum significationibus tractat sed decem praedicamenta constituens,
ad quae ipsa infinita multitudo significantium vocum referri debeat,
terminavit: ut, verbi gratia, cum dico homo, lignum, lapis, equus, animal,
plumbum, stannum, argentum, aurum, et alia huiusmodi quae nimirum infinitum
sunt, haec omnia ad unum substantiae vocabulum deducantur. Haec namque, etsi
qua sunt alia quae certae sunt infinita vocabula unum substantiae nomen
includit. Rursus cum dico bipedale, tripedale, sex, quattuor, decem, lineam
superficiem, soliditatem, et quaecumque alia ex eodem genere qua infinita sunt,
uno quantitas nomine continentur, ut haec omnia sub quantitate ponantur. Rursus
cum dico album, vel scientiam, vel bonum, vel malum, vel alia huiusmodi, quaeque
in hoc quoquo genere infinita sunt, unum tamen nomen concludens omnia
qualitatis occurrit, et de aliis quoque similiter. Rerum ergo diversarum
indeterminatam infinitamque multitudinem, decem praedicamentorum paucissima
numerositate concludit, ut ea quae infinita sub scientiam cadere non poterant,
decem propriis generibus definita scientiae comprehensione claudantur. Ergo
decem praedicamenta quae dicimus, infinitarum in vocibus significationum genera
sunt sed quoniam omnis vocum significatio de rebus est, quae voce significantur
in eo quod significantes sunt, genera rerum necessario significabunt. Ut igitur
concludenda sit intentio, dicendum est in hoc libro de primis vocibus, prima
rerum genera significantibus in eo quod significantes sunt, dispositum esse
tractatum. Sed quoniam de intentione dictum est, breviter huius operis utilitas
explicanda est. Nam cum res infinitae infinitis quoque vocibus significarentur,
et (ut dictum est) sub scientiam venire non possent, hac definitione, qua decem
praedicamentorum divisio facta est, cunctarum rerum et vocum significantium
acquirimus disciplinam. Hinc est quod ad logicum tendentibus primus hic liber
legendus occurrit, idcirco quod cum omnis logica syllogismorum ratione sit
constituta syllogismi vero propositionibus iungantur, propositiones vero
sermonibus constent, prima est utilitas quid quisque sermo significet, propriae
scientiae definitione cognoscere. Haec quoque nobis de decem praedicamentis
inspectio, et in physica Aristotelis doctrina, et in moralis philosophiae 161C
cognitione perutilis est, quod per singula currentibus magis liquebit. Quocirca
de ordine quoque libri huius eadem ratio est. Nam quoniam res simplices
compositis natura priores sunt, quae enim composita sunt, ex simplicibus
componuntur. Hic quoniam de simplicibus vocibus res significentibus disputatur,
secundum ipsius simplicitatis principalem naturam, primus hic Aristotelis liber
inchoantibus addiscitur. Nec illud fere dubium est ad quam partem philosophiae
huius libri ducatur intentio, idcirco quoniam qui de significativis vocibus
tractat, de rebus quoque est aliquatenus tractaturus. Res etenim et rerum
significatio iuncta est sed principalior erit illa disputatio quae de
sermonibus est: secundo vero loco illa quae de rerum ratione formatur. Quare
quoniam omnis ars logica de oratione est, et in hoc opere de vocibus
principaliter tractatur (quamquam enim sit huius libri relatio ad caeteras
quoque philosophiae partes) principaliter tamen refertur ad logicam, de cuius
quodammodo simplicibus elementis, id est, de sermonibus in eo principaliter
disputavi. Aristotelis vero neque ullius alterius liber est, idcirco quod in
omni philosophia sibi ipse de huius operis disputatione consentit, et brevitas
ipsa atque subtilitas ab Aristolele non discrepat, alioqui interruptum
imperfectumque opus edidisse videretur qui de syllogismis scriberet, si aut de
propositionibus praetermisisset, aut de primis vocibus tractatum, quibus ipsae
propositiones continentur, omitteret. Quanquam exstet 162A alter Aristotelis
liber de eisdem disputans, eadem fere continens, cum sit oratione diversus; sed
hic proprietatis liber calculum coepit. Archytes etiam duos composuit libros
quos *Kathulous logous* inscripsit, quorum in primo haec decem praedicamenta
disposuit. Unde posteriores quidam non esse Aristotelem huius divisionis
inventorem suspicati sunt, quod Pythagoricus vir eadem conscripsisset, in qua
sententia Iamblicus philosophus est non ignobilis, cui non consentit
Themistius, neque concedit eum fuisse Archytem, qui Pythagoricus Tarentinusque
esset, quique cum Platone aliquantulum vixisset sed peripateticum aliquem
Architem, qui nouo operi auctoritatem uetustate nominis conderet. Sed de his
alias. Restat inscriptio quae varia fuit. Inscripsere namque 162B alii de
rebus, alii de generibus rerum, quos eadem similisque culpa confudit. Namque
(ut docuimus) non de rerum generibus, neque de rebus sed de sermonibus rerum
genera significantibus in hoc opere tractatus habetur, hoc vero Aristoteles
ipse declarat cum dicit: Eorum quae secundum nullam complexionem dicuntur,
singulum aut substantiam significat, aut quantitatem. Quod si de rebus
divisionem faceret, non dixisset "significat"; res enim significatur,
non ipsa significat. Illud quoque maximo argumento est Aristotelem non de rebus
sed de sermonibus res significantibus speculari, quod ait: Singulum igitur
eorum quae dicta sunt, ipsum quidem secundum se in nulla affirmatione dicitur,
horum autem ad se invicem complexione affirmatio fit. Res enim si iungantur,
affirmationem nullo modo perficiunt, affirmatio namque in oratione est.
Quocirca si praedicamenta iuncta faciunt affirmationem (affirmatio vero nonnisi
in oratione est, quae autem iunguntur ut affirmatio fiat, hae sunt rerum
significantes voces) praedicamentorum tractatus non de rebus sed de vocibus
est; male igitur vel de rebus vel rerum generibus inscripserunt. Annotant alii
hunc librum legendum ante Topica, quod nimis absurdum est. Cur enim non magis
ante Physica? Quasi vero minor huius sit libri usus in Physicis, cum primi
Resolutorii ante Topica legantur, et ante primos Resolutorios Perihermenias
liber ad cognitionem veniat inchoantis, cur non magis hunc librum vel ante
Perihermenias, vel ante Resolutorios inscripserunt? Quare repudianda est
inscriptionis istius quoque ipsa sententia, dicendumque est: Quoniam rerum
prima decem genera sunt, necesse fuit decem quoque esse simplices voces, quae
de subiectis rebus dicerentur: omne enim quod significat de illa re dicitur
quam significat, ergo inscribendus liber est de decem Praedicamentis. Sed forte
quis dicat, si de significantibus rerum vocibus ipsa disputatio est, cur de
ipsis disputat rebus? Dicendum est, quoniam res semper cum propria
significatione coniunctae sunt, et quidquid in res venit, hoc quidem in rerum
vocabulis invenitur: quare recte de vocabulis disputans, proprietatem
significantium vocum de his quae significabantur, id est de rebus assumpsit. Erit
alia quoque fortasse quaestio: Cur enim hic orationem in decem praedicamenta
sit partitus, in Perihermenias libro in duas tantum partes divisionem fecit, in
verbum videlicet et nomen? Sed hoc interest quod illic figuras vocabulorum
dividit, in hoc de significationibus tractat, quare non est sibi ipse
contrarius. In Perihermenias enim libro de nomine et verbo considerat quae
secundum figuram quamdam vocabuli sunt, quod illud inflecti casibus potest,
illud variari per tempora: hic vero non secundum has figuras sed in eo quod
voces significantes sunt disputatur: quare diversam in diversis rebus atque
tractatibus faciendo divisionem, nulla contrarietate notabitur, neque nunc
orationem dividit sed ad multitudinem generum nomina ipsa dispertit: nam
quoniam decem rerum genera sunt non secundum orationem sed secundum rerum
significationem in decem praedicamenta voces dividit, deque his tractat. Atque
ideo necesse fuit quodammodo disputationem de rebus quoque misceri, ita (ut
dictum est) ut non aliter nisi ex rebus proprietates in sermonibus apparerent,
atque ita non de rebus proprie sed de praedicamentis, id est de ipsis rerum
significativis vocibus in eo quod significantes sunt, seriem disputationis
orditur. Cur autem, si de praedicamentis disputat, de aequivocis, vel univocis,
vel denominativis primus illi tractatus est? Idcirco nimirum quod quaedam semper
a disputantibus praemittuntur, quibus positis facilior de sequentibus possit
esse doctrina: ut in geometria, prius termini praeponuntur, post theorematum
ordo conteritur. Ita quoque hic quidquid ad praedicamentorum disputationem
possit esse utile, priusquam ad ipsa predicamenta veniret, exposuit: quare
quoniam quae praedicenda erant explicavi, nunc ad ipsius disputationis seriem
textumque veniamus. Quid autem aequivoca vel univoca vel denominativa
utilitatis habeant, secundum ipsas singulorum rationes definitionesque
tractabitur. DE AEQUIVOCIS AEQUIVOCA DICUNTUR QUORUM NOMEN SOLUM COMMUNE EST,
SECUNDUM NOMEN VERO SUBSTANTIAE RATIO DIVERSA, UT ANIMAL HOMO ET QUOD PINGITUR.
HORUM ENIM SOLUM NOMEN COMMUNE EST, SECUNDUM NOMEN VERO SUBSTANTIAE RATIO
DIVERSA; SI ENIM QUIS ASSIGNET QUID EST UTRIQUE EORUM QUO SINT ANIMALIA,
PROPRIAM ASSIGNABIT UTRIUSQUE RATIONEM. Omnis res aut nomine aut definitione
monstratur: namque subiectam rem aut proprio nomine vocamus aut definitione
quid sit ostendimus. Ut verbi gratia quamdam substantiam vocamus hominis
nomine, et eiusdem definitionem damus dicentes esse hominem animal rationale
mortale; ergo quoniam res omnis aut definitione aut nomine declaratur, ex his
duobus, nomine scilicet et definitione, diversitates quattuor procreantur.
Omnes namque res aut eodem nomine et eadem definitione iunguntur, ut homo et
animal, utraque enim animalia dici possunt, et utraque una definitione
iunguntur. Est namque animal substantia animata sensibilis, et homo rursus
substantia animata sensibilis, et haec vocantur univoca. Alia vero 164A quae
neque nominibus neque definitionibus coniunguntur: ut ignis, lapis, color, et
quae propriae substantiae natura discreta sunt, haec autem vocantur
diversivoca. Alia vero quae diversis nominibus nuncupantur, et uni definitioni
designationique subduatur, ut gladius, ensis; haec enim multa sunt nomina sed
id quod significant una definitione declaratur, et hoc vocatur multivocum. Alia
vero quae nomine quidem congruunt, definitionibus discrepant: ut est homo vivens
et homo pictus, nam utrumque vel animalia vel homines nuncupantur. Si vero quis
velit picturam hominemque definire, diversas utrisque definitiones aptabit, et
haec vocantur aequivoca. Quare quoniam quid sint aequivoca dictum est, singulis
Aristotelicae definitionis sententias persequamur. AEQUIVOCA, inquit, dicitur
res scilicet, quae per se ipsas aequivocae non sunt, nisi uno nomine
praedicentur: quare quoniam ut aequivoca sint, ex communi vocabulo trahunt,
recte ait, aequivoca dicuntur. Non enim sunt aequivoca sed dicuntur. Fit autem
non solum in nominibus sed etiam in verbis aequivocatio: ut cum dico complector
te, et complector a te. In quibus significationibus cum unum nomen sit
complector, alia tamen faciendi ratio est, alia patiendi: atque ideo hic quoque
aequivocatio est: unum enim nomen quod est complector, diversis faciendi et
patiendi definitionibus terminatur. In praepositionibus quoque et in
coniunctionibus frequenter aequivocatio reperitur, atque ideo quod ait: QUORUM
NOMEN SOLUM COMMUNE EST, 'nomen' accipiendum 164C est omnis rerum per vocem
significatio, id est omne vocabulum non proprium solum, aut appellativum, quod
ab illud tantum nomen pertinet quod casibus inflecti potest sed ad nomen rerum
significationem, qua rebus imposita vocabula praedicamus. SOLUM autem duobus
modis dicitur: semel cum aliquid unum esse dicimus, ut si dicamus solus est
mundus, id est unus; alio vero modo cum dicimus ad quamdam ab altero
divisionem, ut si quis dicat solam me habere tunicam, id est, non etiam togam,
ad divisionem videlicet togae. Hic ergo Aristoteles posuit dicens, SOLUM NOMEN
COMMUNE EST, quasi hoc voluisset intelligi non etiam definitio, aequivoca enim
iunguntur nomine sed definitione dissentiunt. COMMUNE quoque multis dicitur
modis. Dicitur commune quod in partes dividitur, et non iam totum commune est
sed partes eius propriae singularum, ut domus. Dicitur commune quod id partes
non dividitur sed vicissim in usus habentium transit, ut seruus communis vel
equus. Dicitur etiam commune quod utendo cuiusque fit proprium, post usum vero
in commune remittitur, ut est theatrum, nam cum eo utor, meum est, cum inde
discedo, in commune remisi. Dicitur quoque commune quod ipsum quidem nullis
divisum partibus, totum uno tempore in singulos venit, ut vox vel sermo ad
multorum aures uno eodemque tempore totus atque integer pervenit. Secundum hanc
igitur ultimam communis significationem Aristoteles putat aequivocis rebus
commune esse vocabulum. Namque in homine picto et in homine vivo, totum in
utrisque vocabulum dicitur animalis. SECUNDUM NOMEN VERO SUBSTANTIAE RATIO
DIVERSA, hoc hac significatione praemittit, ut si aliter reddantur definitiones
quam secundum nomen, statim tota definitio labet ac titubet. Ac primum de
definitionis proprietate dicendum est. Illae enim certae definitiones sunt quae
convertuntur, ut si dicas, Quid est homo? animal rationale mortale -- verum
est. Quid est animal rationale mortale? homo -- hoc quoque verum est. At vero
si ita quis dicat, Quid est homo? substantia animata sensibilis -- verum est;
quid substantia animata sensibilis? homo -- hoc non modis omnibus verum est,
idcirco quod equus quoque est substantia animata sensibilis sed homo non est.
Ergo illas constat esse definitiones integras quae converti possunt. Sed hoc
fit in iis quae non de communi sed uno tantum, ut cum de hominis nomine
redduntur, verbi gratia: Animal est commune nomen, si dixerit quis, Homo est
substantia animata sensibilis, procedit: si non convertatur, quia de communi
nomine reddita est definitio; sin vero de uno nomine redditur, tunc de ipso
nomine facienda est definitio; sic tamen est recta facienda, ut hominis
definitio sit animal rationale mortale, non substantia animata sensibilis, illa
enim secundum hominis nomen, ista secundum animalis est reddita. Idem etiam in
his nominibus quae de duabus rebus communiter praedicantur, si secundum nomen
substantiae ratio non reddatur, potest aliquoties fieri, ut ex univocis
aequivoca sint, et ex aequivocis univoca; namque homo 165C atque equus cum
secundum nomen animalis univoca sint, possunt esse aequivoca, si secundum nomen
minime definita sunt. Homo namque et equus communi nomine animalia nuncupatur,
si quis ergo hominis reddat definitionem dicens, animal rationale mortale, et
equi, animal irrationale hinnibile, diversas reddidit definitiones, et erunt
res univocae in aequivocas permutatae. Hoc autem idcirco evenit, quod
definitiones non secundum animalis nomen redditae sunt, quod eorum commune
vocabulum est sed secundum hominis atque equi. Nam si secundum commune nomen
quod est animal definitio redderetur, ita fieret, homo est substantia animata
sensibilis, secundum nomen scilicet animalis; et rursus, equus est substantia
animata sensibilis, secundum nomen rursus animalis, secundum idem namque
animalis vocabulum equus atque homo univoce praedicantur. Rursus ex aequivocis
univoca fiunt hoc modo si quis Pyrrhum Achillis filium et Pyrrhum Epiroten
dicat esse univocos, idcirco quod uno nomine et Pyrrhi dicantur, et sint
animalia rationabilia atque mortalia. Hic secundum nomen hominis reddita
definitio, ex aequivocis fecit univoca. Quod si secundum nomen Pyrrhi
definitionis ratio iungeretur vel a parentibus vel a patria, diversis eos
oporteret definitionibus terminari. Recte igitur additum est, secundum nomen,
idcirco quod si aliter facta sit definitio, stabilis esse nou poterit, et
frequenter diversos secum ducit errores. RATIO quoque multimodo dicitur. Est
enim ratio animae, et est ratio computandi, est ratio natura, ipsa nimirum
similitudo nascentium, est ratio qua in definitionibus vel descriptionibus
redditur. Et quoniam generalissima genera genere carent, individua vero nulla
substantiali differentia discrepant, definitio vero ex genere et differentia
trahitur, neque generalissimorum generum, neque individuorum ulla potest definitio
reperiri. Subalternorum vero generum, quoniam et differentias habent et genera,
definitiones esse possunt. At vero quorum definitiones reddi nequeunt, illa
tantum descriptionibus terminantur. Descriptio autem est quae quamlibet rem
propria quadam proprietate designat. Sive ergo definitio sit sive descriptio,
utraque 166B rationem substantiae designat. Quare cum substantiae rationem
dixit, et definitionis et descriptionis nomen inclusit. Aequivocorum alia sunt
casu, alia consilio. Casu, ut Alexander Priami filius et Alexander Magnus.
Casus enim id egit, ut idem utrique nomen poneretur. Consilio vero, ea
quaecumque hominum voluntate sunt posita. Horum autem alia sunt secundum
similitudinem, ut homo pictus et homo verus quo nunc utitur Aristoteles exemplo:
alia secundum proportionem, ut principium est in numero unitas, in lineis
punctus. Et haec aequivocatio secundum proportionem esse dicitur. Alia vero
sunt quae ab uno descendunt, ut medicinale ferramentum; medicinale pigmentum,
ab una enim medicina aequivocatio ista descendit. Alia quae ad unum referuntur,
ut si quis dicat salutaris uectatio est, salutaris esca est, haec scilicet
idcirco sunt aequivoca, quod ad salutis unum vocabulum referuntur. Cur autem
prius de aequivocis post de univocis tractat? Idcirco quod ipsa decem
praedicamenta cum definitionibus diversa sint, uno praedicationis vocabulo
nuncupantur; cuncta enim praedicamenta dicimus, ipsa vero praedicamenta quoniam
rerum genera sunt, de subiectis rebus univoce praedicantur. Omne enim genus de
speciebus propriis univoce dicitur, quare rectius primo de omnibus
praedicamentorum communi vocabulo tractat, quasi dehinc quemadmodum singula de
speciebus propriis praedicarentur, exprimeret. At si (ut dictum est) non de
rebus sed de nominibus libri huius intentio est, cur de aequivocis et non de
aequivocatione tractavit? Aequivocae namque res sunt, aequivocatio vero
vocabulum. Idcirco, quoniam ipsum nomen nihil in se retinet aequivocationis,
nisi diversae sint res de quibus illud vocabulum praedicetur. Quare inde
substantiam ipsa aequivocatio trahit, de ipsis dignius inchoatum est. Videtur
autem alius esse modus aequivocationis quem Aristoteles omnino non recipit. Nam
sicut dicitur pes hominis, ita quoque dicitur pes navis, et pes montis, quae
huiusmodi omnia secundum translationem dicuntur. Translatio vero nullius
proprietatis est. Quare secundum translationem aequivoca nunquam sunt, nisi
propriis et immutabilibus subiectae res vocabulis appellentur. Est autem talis
eorum universalis inspectio. Neque enim omnis translatio ab aequivocatione
seiungitur sed ea tantum cum ad res habentes positum vocabulum, ab alia iam
nominata re nomen ornatus causa transfertur, ut quia iam dicitur quidam auriga,
dicitur etiam gubernator, si quis ornatus gratia cum qui gubernator est dicat
aurigam, non erit auriga nomen aequivocum, licet diversa, id est, moderatorem
currus navisque significet. Sed quoties res quidem vocabulo eget, ab alia vero
re quae vocabulum sumit, tunc ista translatio aequivocationis retinet
proprietatem, ut ex homine vivo ad picturam nomen hominis dictum est. Et de
aequivocis hactenus; nunc de univocis pertractemus. DE UNIVOCIS UNIVOCA VERO
DICUNTUR QUORUM ET NOMEN COMMUNE EST ET SECUNDUM NOMEN EADEM SUBSTANTIAE RATIO,
UT ANIMAL HOMO ATQUE BOS. COMMUNI ENIM NOMINE UTRIQUE ANIMALIA NUNCUPANTUR, ET
EST RATIO SUBSTANTIAE EADEM; SI QUIS ENIM ASSIGNET UTRIUSQUE RATIONEM, QUID
UTRIQUE SIT QUO SINT ANIMALIA, EANDEM ASSIGNABIT RATIONEM. Post aequivocorum
definitionem ad univocorum terminum transitum fecit, in quibus nihil aliud
discrepat, nisi quod aequivoca definitione disiuncta sunt, univoca ipso quoque
termino coniunguntur sed caetera omnia quaecumque in aequivocorum definitione
dicta sunt, in hac quoque univocorum designatione conveniant. Nam quemadmodum
in aequivocis secundum nomen aequivocarum rerum definitio fiebat, ita quoque in
univocis secundum nomen substantiae ratio assignabitur. Sunt autem univoca aut
genera speciebus, aut species speciebus, genera speciebus, ut animal atque
homo. Nam cum hominis genus sit animal, dicitur homo animal, ergo et animal et
homo animalia nuncupantur. Secundum igitur commune nomen si utrosque definias,
dicis animal esse substantiam animatam atque sensibilem, hominem quoque
secundum id quod animal est, si substantiam animatam sensibilem dixeris, nihil
in eo falsitatis invenies. Species vero speciebus univocae sunt, quae uno atque
eodem genere continentur, ut homo, equus atque bos, his commune genus est
animal, et communi nomine animalia nominantur. Ergo secundum nomen unum quod illis
commune est animalis, una illius ratio definitionis aptabitur, omnia enim sunt
substantiae animatae atque sensibiles. Secundum igitur posteriorem
univocationis designationem Aristoteles qua speciebus species univocae sunt, ut
homo et bos, quae sub eodem sunt genere, sumpsit exemplum. DENOMINATIVA VERO
DICUNTUR QUAECUMQUE AB ALIQUO, SOLO DIFFERENTIA CASU, SECUNDUM NOMEN HABENT
APPELLATIONEM, UT A GRAMMATICA GRAMMATICUS ET A FORTITUDINE FORTIS. Haec quoque
definitio nihil habet obscurum. Casus enim antiqui nominabant aliquas nominum
transfigurationes, ut a iustitia iustus, a fortitudine fortis, etc. Haec igitur
nominis transfiguratio, casus ab antiquioribus vocabatur. Atque ideo
quotiescumque aliqua res alia participat, ipsa participatione sicut rem, ita
quoque nomen adipiscitur, ut quidam homo, quia iustitia participat et rem
quoque inde trahit et nomen, dicitur enim iustus. Ergo denominativa vocantur
quaecumque a principali nomine solo casu, id est sola transfiguratione
discrepant. Nam cum sit nomen principale iustitia, ab hoc transfiguratum nomen
iustus efficitur. Ergo illa sunt denominativa quaecumque a principali nomine
solo casus id est sola nominis discrepantia, secundum principale nomen habent
appellationem. Tria sunt autem necessaria ut denominativa vocabula
constituantur: prius ut re participet, post ut nomine, postremo ut sit quaedam
nominis transfiguratio, ut cum aliquis dicitur a fortitudine fortis, est enim
quaedam fortitudo qua fortis ille participet, habet quoque nominis
participationem, fortis enim dicitur. At vero est quaedam transfiguratio,
fortis enim et fortitudo non eisdem syllabis terminantur. Si quid vero sit quod
re non participet, neque nomine participare potest. Quare quaecumque re non
participant, denominativa esse non possunt. Rursus quoque quae re quidem
participant, nomine vero minime, ipsa quoque a denominativorum natura discreta
sunt, ut si quis, cum sit virtus, virtute ipsa participet, nullo cum alio
nomine nisi sapientem vocamus. Sed virtus et sapientia nomine ipso disiuncta
sunt, hic ergo re quidem participat, nomine vero minime. Quare sapiens a
virtute denominatus esse non dicitur sed a sapientia, qua scilicet et
participat, et nomine iungitur, et transfiguratione diversus est; rursus si
transfiguratio non sit, ut quaedam mulier musica, participat quidem ipsa
musicae disciplina, et dicitur musica. Hae igitur appellatio non est
denominativa sed aequivoca, uno enim nomine et disciplina et ipsa mulier musica
dicitur. Quoniam ergo similis terminus syllabarum est, et nomen simile, et
nulla transfiguratio, denominativa esse non poterunt, quare quidquid
denominativa esse non poterunt, quare quidquid denominativum esse dicitur,
illud et re participabit et nomine, et aliqua transfiguratione vocabuli
discrepabit. Haec igitur quae ad praedicamenta necessaria credidit, praemisit.
Multivoca vero et diversivoca respuit, quod ad praesentem tractatum utilia non
putavit. Breviter tamen utraque definienda sunt. Multivoca sunt quorum plura
nomina una definitio est, ut est scutum, clypeus: his enim plura nomina sed una
definitio est; et Marcus Porcius Cato, his enim tot nominibus res una subiecta
est. Diversifica sunt quorum neque nomen idem est, neque eadem definitio, ut
homo, color, et quid. quid omnino a se et nominis nuncupatione et definitionis
ratione discretum est. EORUM QUAE DICUNTUR ALIA QUIDEM SECUNDUM COMPLEXIONEM
DICUNTUR, ALIA VERO SINE COMPLEXIONE. ET EA QUAE SECUNDUM COMPLEXIONEM DICUNTUR
SUNT UT HOMO CURRIT, HOMO VINCIT; EA VERO QUAE SINE COMPLEXIONE, UT HOMO, BOS,
CURRIT, VINCIT. Postquam de coniunctione definitionum atque nominum quantum ad
praesens attinebat opus, sufficienter exposuit quoniam de primis nominibus
prima rerum genera significantibus divisio facienda est, non nomine sed genere discrepantibus,
nunc ostendit quid sit sine complexione cuiuslibet vocabuli facta prolatio.
Sine complexione enim dicuntur quaecumque secundum simplicem sonum nominis
proferuntur, ut homo, equus: his enim extra nihil adiunctum est. Secundum
complexionem dicuntur quaecumque aliqua coniunctione copulantur, ut aut
Socrates aut Plato, vel quaecumque secundum aliquod accidens coniunguntur. Nam
quia, verbi gratia, in Socratem venit ambulatio, dicimus: Socrates ambulat, et
est prolatio ista secundum complexionem, idcirco quia cum dico: Socrates
ambulat. Socratem sum cum ambulatione complexus. Quod autem ait: EORUM QUAE
DICUNTUR, nihil aliud demonstrare vult nisi de primis rerum vocabulis huius
libelli disposuisse tractatum. Rerum enim vocabula sunt quae dicuntur, ipsa enim
proprie nominamus. EORUM QUAE SUNT ALIA DE SUBIECTO QUODAM DICUNTUR, IN
SUBIECTO VERO NULLO SUNT, UT HOMO DE SUBIECTO QUIDEM DICITUR ALIQUO HOMINE, IN
SUBIECTO VERO NULLO EST. Hic Aristoteles sermonum omnium multitudinem in
paruissimam colligit divisionem. Nam quod rerum vocabulam decem praedicamenta
distribuit, maior hac divisione non potest inveniri, nihil enim esse poterit
quod huic divisioni undecimum adiici queat. Omnis enim res aut substantia est,
aut quantitas, aut qualitas, aut ad aliquid, aut facere, aut pati, aut quando, aut
ubi, aut habere, aut situs; quocirca tot erunt etiam sermones qui ista
significent, et haec est maxima divisio, cui ultra nihil possit adiungi:
paruissima vero est quae fit in quattuor, in substantiam et accidens, et universale
et particulare. Omnis enim res aut substantia est, aut accidens, aut
universalis, aut particularis. Sicut ergo decem superioribus nihil addi
poterat, ita ex his quattuor nihil demi. Nam neque minor ulla divisio his
quattuor fieri potest, nec maior quam si denario limite praedicamenta
claudantur. Cum autem in his quattuor divisio facta est, paucis exponam. Prima
quidem rerum est omnium divisio in substantiam atque accidens. Sed quoniam
substantia proferri non potest nisi aut universaliter aut particulariter
intelligatur: nam cum dico homo, rem dixi universalem, idcirco quod nomen hoc
de multis individuis praedicatur: cum vero dico Socrates vel Plato, rem dixi
particularem; quoniam Socrates de nudo subiecto dicitur: et accidens quoque
eodem modo; nam cum dixero scientiam, rem protuli universalem, idcirco quod
scientia et de grammatica et de rhetorica, et de aliis omnibus sub se positis
praedicatur; si vero dixero Platonis scientiam, quoniam omne accidens quod
individua venit individuum fit, particularem scientiam dico, namque Platonis
scientia, sicut ipse Plato, particularis est: igitur quoniam neque substantia
neque accidens ullo modo proferri potest, nisi in suo nomine aut
universalitatis vim, aut particularitatis induat, recte in quattuor divisio facta
est, ut si omnis res aut substantia aut accidens, et horum aut universali, aut
particularis. Ex his igitur quattuor fiunt complexiones. Nam cum venerit
universalitas in substantiam, fit universalis substantia, ut est homo vel
animal. Universale autem est quod aptum est de pluribus praedicari, particulare
vero quod de nullo subiecto praedicatur. Ergo est una complexio universalitatis
et substantiae, ut sit substantia universalis. Si vero particularis substantiae
copulatur, fit substantia particularis, ut est Socrates vel Plato, et quidquid
in substantia individuum reperitur. At cum miscetur universalitas accidenti,
fit accidens universale, ut scientia, quae cum sit accidens, et praeter animam
cui accidit esse non possit, tamen universalis est, quod de subiecta grammatica
vel aliis speciebus praedicari potest. Cum vero particularitas accidenti
coniungitur, fit accidens particulare, ut Platonis vel Aristotelis scientia.
Fiunt enim quattuor complexiones, substantia universalis, substantia
particularis, accidens universale, accidens particulare. Ut autem accidens in
substantiae naturam transeat, vel substantia in accidens, fieri nullo modo
potest, et accidens quidem venit in substantiam sed non ut substantia fiat:
neque enim quoniam color, quod est accidens venit in substantiam, idcirco color
iam substantia est. Nec quoniam substantia suscipit colorem idcirco color iam
substantia fit. Quare neque substantia in accidentis, neque accidens in
substantiis naturam transit. At vero nec particularitas, nec universalitas in
se transeunt. Namque universalitas potest de particularitate praedicari, ut
animal de Socrate vel Platone, et particularitas suscipiet universalitatis
praedicationem sed non ut universalitas sit particularitas, nec rursus ut quod
particulare est universalitas fiat. Ergo quattuor complexiones, universalem
substantiam, universale accidens, particularem substantiam, particulare
accidens Aristoteles disponere cupiens, non eorum nomina sed descriptiones
apposuit. Et quoniam generalissimorum generum definitiones non poterat
invenire, descriptionibus usus est his, id substantiam esse dicens quod in
subiecto non esset, accidens vero quod in subiecto esset. Omne namque accidens
in subiecto est, ut colore in corpore, scientia in anima, et subiectam habet substantiam
omne accidens. Si quis enim substantiam tollat, accidens non erit. Quare
substantia locus quidam est ubi accidentis valeat natura consistere. Ipsa vero
substantia per se constat, atque ideo dicitur substantia, nec ullo subiecto
alio nititur sed cunctis ipsa substantia est. Alioqui si substantia in ullo
subiecto esse posset, esset accidens. Omne enim accidens in subiecto est, et
quidquid in subiecto est, illud est accidens. Quod si substantia esset in
aliquo subiecto, continuo fieret accidens sed substantia accidens esse non
potest, sicut supra docuimus. Quare quoniam accidens in subiecto est,
substantia vero accidens non est, substantia in subiecto non est. Universalitatis
vero descriptio est: de subiecto praedicari. Omnis namque universalitas de
subiectis particularibus praedicatur, nam quoniam universale est animal, vel
homo, de Socrates praedicatur et Platone. Dicitur enim Socrates animal atque
homo. Et quoniam universale est accidens scientia, dicitur de subiecta
grammatica, grammatica enim scientia est. Particularitas vero quoniam ipsa est
rerum ultima et nihil est illi subiectum, de nullo subiecto praedicatur; nam
quoniam universalitas de subiecto praedicatur, particularitas vero
universalitas non est. Particularitas de subiecto non praedicabitur. Ubi enim
res discrepant, et definitio discrepabit; ita quoque in his, nam quoniam
discrepat substantia et accidens, definitiones quoque eorum discrepabunt. Ut
quoniam est accidens in subiecto, erit substantia non in subiecto. Et quoniam
universalitas de subiecto predicatur, particularitas autem ab universalitate
discrepat, de subiecto non praedicatur. Has igitur huiusmodi descriptiones
Aristoteles ita permiscuit dicens: EORUM QUAE SUNT ALIA DE SUBIECTO QUODAM
DICUNTUR, IN SUBIECTO VERO NULLO SUNT, volens scilicet universalem substantiam
demonstrare. Nam quod dixit DE SUBIECTO DICUNTUR, universale est, quod vero ait
IN SUBIECTO NULLO SUNT, substantia: ergo quod ait quaedam DE SUBIECTO dici, IN
SUBIECTO VERO NULLO esse, universalem substantiam demonstrare contendit: ut
enim saepius dictum est, quod de subiecto dicitur, universale est; quod in
nullo subiecto est, substantia. Haec iuncta, id est de subiecto quodam dici, et
in subiecto nullo esse, universalem substantiam demonstrant. Post universalem substantiam
particulare accidens posuit dicens:ALIA AUTEM IN SUBIECTO QUIDEM SUNT, DE
SUBIECTO VERO NULLO DICUNTUR (IN SUBIECTO AUTEM ESSE DICO QUOD, CUM IN ALIQUO
SIT NON SICUT QUAEDAM PARS, IMPOSSIBILE EST ESSE SINE EO IN QUO EST), UT
QUAEDAM GRAMMATICA IN SUBIECTO QUIDEM EST IN ANIMA, DE SUBIECTO VERO NULLO
DICITUR, ET QUODDAM ALBUM IN SUBIECTO EST IN CORPORE (OMNIS ENIM COLOR IN
CORPORE EST). Nam quod ait IN SUBIECTO SUNT accidens monstrat, quod vero
addidit DE SUBIECTO AUTEM NULLO DICUNTUR particulare. Accidens enim in subiecto
est, particularitas de nullo subiecto praedicatur. Ergo quaecumque res ipsa
quidem in subiecto est sed si de nullo subiecto praedicatur, accidens est
particulare, UT est QUAEDAM GRAMMATICA, id est Aristarchi, vel alicuius hominis
individua grammatica: illa enim quoniam individui hominis, ipsa quoque facta
est individua et particularis; ergo quoniam QUAEDAM GRAMMATICA IN ANIMA EST
accidens est, et quoniam DE NULLO SUBIECTO praedicatur, particularis est;
quemadmodum enim ipse Aristarchus de nullo subiecto dicitur, ita quoque eius
grammatica de nullo subiecto praedicatur. Non autem dicit quod ipsa grammatica
particularis est sed quod quaedam grammatica, id est alicuius hominis individui
grammatica, quam scilicet homo particularis propria retinet cognitione. Et
quoniam incorporale accidens posuit quod animae accideret, id est grammaticam,
quae esset in anima; ponit quoque aliud exemplum corporale; ait enim ET QUODDAM
ALBUM IN SUBIECTO EST <IN> CORPORE (OMNIS ENIM COLOR EST IN CORPORE): hic
quoque non omne album dicit esse particulare sed quod ad individuum corpus
album venit. Probatur quoque particulare album in subiecto esse hoc modo, nam
color quod genus est albi vel cuiusdam albi in corpore est, et est in subiecto.
Quare cuius genus in subiecto est, ipsum quoque in subiecto est. Omnes enim
species vel individua propria genere continentur, et eiusdem habent naturam. Quoniam
vero "esse in aliquo" multis dicitur modis, qui velit Aristoteles
ostendere esse in subiecto, paucis absolvam. Dicitur enim esse aliquid in
aliquo novem modis, dicimus enim esse aliquid in loco, ut in foro vel in
theatro. Dicimus quoque esse in aliquo, ut in aliquo uase, ut triticum in
modio. Dicitur etiam esse in aliquo velut pars in toto, ut manus in corpore.
Dicitur esse in aliquo velut totum in partibus, ut corpus in omnibus suis
partibus. Rursus velut in genere species, ut in animali homo, vel genus in
speciebus suis. Dicimus quoque esse in aliquo, velut aliquid in fine esse, ut
quoniam bonae vitae finis beatitudo est, si quis sit beatus; in fine est,
scilicet bonae vitae. Dicimus quoque esse in aliquo ut in quolibet potente, ut
in imperatore esse regimen civitatis. Dicimus quoque velut formam in materia,
ut similitudinem Achillis in aere vel in marmore. Novem igitur modis aliquid in
aliquo esse dicitur, ut in loco, ut in uase, ut pars in toto, ut totum in
partibus, ut in genere species, ut in speciebus genus, ut in fine, ut in
imperatores, ut in materia forma. Horum igitur Aristoteles tria sola commemorat
sed duo in unum coniuncta, aliud separatum. Ait enim: IN SUBIECTO AUTEM ESSE
DICO QUOD, CUM IN ALIQUO SIT NON SICUT QUAEDAM PARS, IMPOSSIBILE EST ESSE SINE
EO IN QUO EST. Sensus autem talis est: Hoc, inquit, dico esse accidens quod sit
in subiecto, id est quod ita sit in altero, ut pars eius 172D non sit et sine
aliquo subiecto esse non possit, ut, verbi gratia, color cum in corpore nulla
pars corporis est, et si color a corpore separatur, color nusquam est. Omnis
enim color in solo corpore est. Ergo illud est accidens quod semper ita in
subiecto est altero ut eius pars non sit, ut cum ab eo in quo est separatur ad
nihilum redigatur, ut per se sine alterius subiecto esse non possit. Quod autem
ait ut NON SIT SICUT ALIQUA PARS, ab ea scilicet significationem aliquo
consistendi dividere voluit, secundum quam partes in toto esse dicimus, non
enim tale est subiectum, ut eius accidens pars sit. Quod vero dicit IMPOSSIBILE
EST ESSE SINE EO IN QUO EST, ab ea scilicet significatione divisit, quae est
esse aliquid in uase vel in loco; quod enim in uase vel in loco est a uase vel
loco poterit separari, ut triticum quod in modio est potest a modio segregari,
et homo a theatro discedere: accidens vero ab eo in quo est segregari non
potest. Quare solas tres posuit significationes, id est secundum quam in uase,
vel in loco dicitur esse, et secundum quam pars in toto est. Sed ut in uase et
ut in loco una sententia distribuit dicens IMPOSSIBILE EST ESSE SINE EO IN QUO
EST. Sed fortasse quis dicat non esse definitionem veram, illa esse in subiecto
quae sic sint in alio non ut sint partes, et sine eo in quo sint esse non
possint, Socrates enim vel homo quilibet cum accidens non sit, tamen semper in
loco est et sine loco esse non potest. Quibus respondendum est quod Socrates
loca poterit permutare, et esse praeter locum in quo fuit: et postremo si
intelligentia capiamus, per se subsistit, accidentia vero per se ipsa non
constant. Sed si quis quoque obiiciat posse locum accidentia permutare, malum
namque si in manu teneatur, manus mali odore completur, adeo odor quod est
accidens, in aliud subiectum transire potest. Sed non hoc ait Aristoteles,
quoniam mutare accidens locum non potest, nec ita dixit impossibile esse sine
eo in quo erat sed sine eo in quo est, hoc enim significat mutare quidem posse
locum sed sine aliquo subiecto non posse subsistere. Quare recta est atque
integra definitio eius quod in subiecto est, quod ita sint in altero non sicut
quaedam pars, et impossibile sit esse sine eo in quo est, secundum autem illam
significationem dictum est secundum quam formam in materia esse dicimus. Namque
forma, si in materia sit, per seipsam nulla ratione consistit. Postquam igitur
particulare accidens quid esset ostendit dicens, quod in subiecto est et de
subiecto non praedicatur, et in subiecto consistentis rei definitionem reddit
dicens: QUOD CUM IN ALIQUO SIT NON SICUT QUAEDAM PARS, IMPOSSIBILE EST ESSE
SINE EO IN QUO EST. Ad universale accidens continenti disputatione reuertitur
quod definit hoc modo: ALIA VERO ET DE SUBIECTO DICUNTUR ET IN SUBIECTO SUNT,
UT SCIENTIA IN SUBIECTO QUIDEM EST IN ANIMA, DE SUBIECTO VERO DICITUR DE
GRAMMATICA; ALIA VERO NEQUE IN SUBIECTO SUNT NEQUE DE SUBIECTO DICUNTUR, UT
ALIQUIS HOMO VEL ALIQUIS EQUUS; NIHIL ENIM HORUM NEQUE IN SUBIECTO EST NEQUE DE
SUBIECTO DICITUR. Namque post eius rei quae in subiecto est definitionem, et
post particularis accidentis exempla, ad universale accidens transitum fecit,
inquiens alia esse quae in subiecto sint, et de subiecto praedicentur, quod
scilicet accidens universale significet: nam quoniam de subiecto dicitur,
universale est, quoniam in subiecto est, accidens; in subiecto ergo esse, et de
subiecto praedicari, universale accidens monstrat. Huius quoque complexionis
convenientia proponit exempla: ait enim SCIENTIAM IN SUBIECTO ESSE IN ANIMA,
nam nisi anima sit in qua scit, scientia nulla est, idcirco quod scientia actus
est animae, nam ea quae sunt inanimata nihil sciunt. Hinc sequitur substantiae
particularis propositio, quam scilicet ita declarat, quod NEQUE IN SUBIECTO
sit, NEQUE DE SUBIECTO praedicetur, nam quod in subiecto non est, substantia
est, et quod de subiecto non praedicatur, particularitas. Utraque igitur res de
subiecto non praedicari, et in subiecto non esse, particularis est substantia. Res
igitur quattuor cum propria complexione non secundum propria nomina sed
secundum 174A proprias rationes definitionesque contexuit. Nam pro substantia
universali posuit quod in subiecto non est et de subiecto praedicatur; pro
accidenti particulari dixit quod in subiecto est et de subiecto non
praedicatur. Accidens vero universale per hoc designavit quod ait quod et in
subiecto est et de subiecto dicitur; pro particulari substantia interposuit
quod nec in subiecto est nec de subiecto praedicatur. Simpliciter autem quae
sunt individua et numero singularia de subiecto nullo dicuntur; in subiecto
autem nihil ea prohibet esse, quaedam enim grammatica in subiecto est. Omnis
particularitas aut substantia erit aut accidens; nam cum dico Socratem,
individuam et particulare in significavi substantiam; cum dico quamdam
grammaticam, individuum et particulare accidens dixi. Individua autem sunt quae
neque in alias species dividi possunt, neque in alia individua. Nam quemadmodum
animal dividitur in species, hominem atque equum, homo autem in singulos homines,
id est in Socratem et Platonem et caeteros, sic Plato et Socrates non
dividuntur in alios. Atque hoc idem de accidentibus dici convenit: nam
quemadmodum scientia dividitur in species, grammaticam et rhetoricam;
grammatica vero ipsa in particulares grammaticas, quas scilicet particulares
homines norunt, sic ipsa particularis grammatica in particulares grammaticas
non secatur. Ergo individua sunt quaecumque sunt numero singularia, et in
nullas alias multitudines secundum species vel secundum individua dividuntur.
Omne individuum, quoniam particulare est, de subiecto non praedicatur; omne
autem quod de subiecto non praedicatur, aut substantia erit, ut Plato, aut accidens,
ut quaedam grammatica. Ex his ergo particularibus substantia scilicet atque
accidenti quae de subiecto non praedicantur, substantia quidem nec in subiecto
est, accidens vero in subiecto est. Ita illa individua quae substantiae sunt in
subiecto esse non poterunt, alia vero individua quae secundum accidentis
naturam dicuntur, illa in subiecto esse nihil prohibet. Atque hoc est quod ait:
SIMPLICITER AUTEM QUAE SUNT INDIVIDUA ET NUMERO SINGULARIA NULLO DE SUBIECTO
DICUNTUR, IN SUBIECTO AUTEM NIHIL EA PROHIBET ESSE; QUAEDAM ENIM GRAMMATICA IN
SUBIECTO EST. Hoc enim maluit demonstrare, et accidentibus substantiis particularibus
hoc esse commune, quod de subiecto non praedicantur. Hoc enim dixit:
SIMPLICITER AUTEM QUAE SUNT INDIVIDUA ET NUMERO SINGULARIA, DE NULLO SUBIECTO
DICUNTUR -- subaudiendo scilicet sive substantiae sint sive accidentia sed non
omnia individua non sunt in subiecto. Individua enim accidentia IN SUBIECTO
ESSE NIHIL PROHIBET. QUAEDAM ENIM GRAMMATICA, cum sit individua et de subiecto
non praedicetur, tamen IN SUBIECTO EST, id est in anima. Sed ut congregatim
dicatur, sensus huiusmodi est, omnia quidem quaecumque sunt individua, de
subiecto quidem nullo dicuntur sed non omnia non sunt in subiecto. Nam cum
particularis substantia in subiecto non sit, ut Plato, particulare tamen
accidens in subiecto est, ut quaedam grammatica in anima. Illud quoque magna
attentione notandum est, quis sit huius ordo propositi. Nam cum sint quattuor
complexiones, factae ex quattuor rebus, quarum duae natura discrepant, ut
substantia et accidens, duae quantitate, ut particularitas et universalitas
coniunctis compositisque his quattuor omnibus, dissentientem lateribus
dispositionem fecit. Posuit enim prius substantiam universalem dicens, quod in
subiecto non est et de subiecto dicitur. Post hanc primam positionem totis
discrepantem rebus, rem subdit, id est accidens particulare, quod in subiecto
esset, et de subiecto non praedicatur. Nam cum accidens dixit, a substantia
disgregavit, quod particulare addidit ab universali disiunxit. Rursus ex alio
latere disposuit in divisione accidens universale, dicens quod in subiecto est,
et de subiecto praedicatur; et ultimo substantiam particularem contrariam
superiori accidenti dixit, quod neque in subiecto est, neque de subiecto
praedicatur substantia, particularitem universalitati accidentis opponens. Sed
ut planius quod dicimus sit, figuram descriptionemque subiecimus in qua
superius latus substantia accidentique notavimus, reliquum particularitatis et
universalitatis titulo inscripsimus, Arisiotelicam complexionem angulariter et
per latera designantes. QUANDO ALTERUM DE ALTERO PRAEDICATUR UT DE SUBIECTO,
QUAECUMQUE DE EO QUOD PRAEDICATUR DICUNTUR, OMNIA ETIAM DE SUBIECTO DICENTUR,
UT HOMO DE QUODAM HOMINE PRAEDICATUR, ANIMAL VERO DE HOMINE, ERGO ET DE QUODAM
HOMINE ANIMAL PRAEDICABITUR; QUIDAM ENIM HOMO ET HOMO EST ET ANIMAL. Cum
superius de his quae in subiecto sunt (id est de accidentibus) loqueretur,
definitionem constitutae in subiecto rei, et praeter subiectum nullo modo
permanentis, in media tractatione disposuit, dicens illud esse quod neque pars
esset alicuius nec sine subiecto posset ullo modo permanere. Patefacto igitur
quid sit esse in subiecto, nunc quid sit praedicari de subiecto declarat.
Duobus enim modis praedicationes fiunt, uno secundum accidens, alio de
subiecto: de homine namque praedicatur album, dicitur enim homo albus, rursus
de eodem homine praedicatur animal, dicitur enim homo animal. Sed illa prior
praedicatio, quae est. Homo albus est secundum accidens est: namque accidens
quod est album de subiecto homine praedicatur sed non in eo quod quid sit, nam
cum album sit accidens, homo substantia, accidens de substantia in eo quod quid
sit praedicari non potest; ergo ista praedicatio secundum accidens dicitur. De
subiecto vero praedicari est, quoties altera res de altera in ipsa substantia praedicatur,
ut animal de homine; nam quoniam animal et substantia est et genus hominis,
idcirco in eo quod quid sit de homine praedicatur. Quare illa sola de subiecto
praedicari dicuntur quaecumque in cuiuslibet rei substantia et in definitione
ponuntur; ergo quotiescumque huiusmodi fuerit praedicatio, ut ALTERUM DE ALTERO
UT DE SUBIECTO PRAEDICETUR, id est ut de eius substantia dicatur, ut animal de
homine, hanc proprietatem evenire necesse est, ut si DE EO QUOD PRAEDICATUR,
quidpiam UT DE SUBIECTO, id est eius substantia, praedicetur necessario idem
hoc quod de praedicato dicitur, dicatur etiam de praedicati subiecto, ut homo
praedicatur quidem de Socrate in eo quod quid sit. Interrogantibus enim quid
sit Socrates "hominem" respondemus. At vero de ipso homine in eo quod
quid sit animal dicitur, in substantia enim hominis animal praedicatur, atque
ita fit ut animal quidem de homine, homo vero de Socrate in eo quod quid sit ut
de subiecto praedicentur. Ergo quoniam ista consequentia, et animal de Socrate
in eo quod quid sit praedicabitur. Potest enim dici interrogantibus quid est
Socrates "animal". Ergo manifestum est quod si qua res de alia ut de
subiecto praedicetur, ut homo de Socrate, de eadem vero re quae praedicatur, de
homine scilicet, alia rursus superior ut de subiecto praedicetur, ut animal
necesse erit et hanc eamdem de subiecto eius de quo ipsum dicitur praedicari,
ut animal de Socrate, Socrates namque subiectus est homini, de quo animal
praedicatur. Ergo constat huiusmodi definitio quae dicit: quoties ALTERUM DE
ALTERO PRAEDICATUR UT DE SUBIECTO, si quid sit quod DE EO QUOD PRAEDICATUR in
eo quod quid sit dici possit, hoc idem ipsum de eo quod prius subiectum erat
possit praedicari. Sed fortasse quisquam dicat minime verum esse quod dictum
est, nam cum homo de Socrate praedicetur (Socrates enim homo est), de homine
vero species (homo enim species est), Socrates species esse non dicitur. Et
rursus cum animal de homine praedicetur, de animali vero genus (animal enim
genus est), homo generis vocabulo caret: non enim dicitur homo esse genus, homo
enim genus non est sed tantum species. His dicendum est quod minus adverterint
illam esse definitionem de subiecto praedicationis, quae in eo quod quid sit
unumquodque et in eius substantia praedicaretur, nunc autem species de homine
non in eo quod quid sit praedicatur. Neque enim si quis hominis definitionem
reddat speciem nominavit sed designativam nomen est tantum, utrum de pluribus
speciei differentibus praedicatur hoc nomen quod est homo, an certe tantum de solis
individuis. Nam quoniam de individuis solis homo praedicetur, idcirco species
dicitur, et quoniam de specie differentibus animal dicitur, idcirco animal
genus vocamus. Et sunt quodammodo nominum nomina. Quare neque genus de animali,
neque species de homine, in eo quod quid sit praedicatur sed tantum designant,
quomodo homo et animal de subiectis (ut dictum est) propriis praedicentur. Ergo
non est mirandum si ad eorum subiectum quae de subiecto dicuntur eius predicati
quod de subiecto non dicitur praedicatio perveniri non potest. DIVERSORUM
GENERUM ET NON SUBALTERNATIM POSITORUM DIVERSAE SECUNDUM SPECIEM ET
DIFFERENTIAE SUNT, UT ANIMALIS ET SCIENTIAE; ANIMALIS QUIDEM DIFFERENTIAE SUNT
UT GRESSIBILE ET VOLATILE ET BIPES, SCIENTIAE VERO NULLA HARUM EST; NEQUE ENIM
SCIENTIA AB SCIENTIA DIFFERT IN EO QUOD BIPES EST. Cum multis modis genus
dicatur, solum quod nunc tractari convenit assumamus. Dicitur enim genus quod
de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicatur, ut animal
praedicatur de homine, et de equo, et de cane, et de bove, et de caeteris, quae
omnia specie ipsa a se discrete sunt. Species vero est quod de pluribus numero
differentibus in eo quod quid sit praedicatur, ut homo praedicatur de Catone,
Socrate, Platone, Virgilio, Cicerone, et de singulis hominibus, qui specie ipsa
non differunt sed tantum a se numero distant. Differentia vero est quae sub
eodem genere positas species propria qualitate disterminat, nam cum equus et
homo quantum ad genus unum sint (uterque enim animal est), differentia
rationalis et irrationalis utrosque disiungit ac discernit. Qualitate enim
quadam rationabilitatis et irrationabilitatis uterque a propriae substantiae
definitione dissentiunt. Ergo differentia est quae de pluribus specie
differentibus in eo quod quale sit praedicatur. Namque haec ipsa differentia
quae est irrationabilitas de multis specie differentibus praedicatur, ut de
cygno, et equo, et pisce, quae omnia a se cum specie ipsa dissentient,
irrationabilitatis tamen qualitate coniuncta sunt. Sed non in omnibus
differentia de pluribus specie differentibus praedicatur. Sunt enim quaedam
quae non nisi de una specie praedicantur, ut gravitas de sola terra, levitas de
solo igne, proprie dicitur. At vero nec species semper de pluribus numero
differentibus praedicatur; mundi enim species de uno solo mundo dicitur, et
phoenicis species de una tantum phoenice sed idcirco ita definita est quod
frequentius differentia de pluribus specie differentibus praedicatur quam de
uno. Eodemque modo et species frequentius invenitur de pluribus numero
differentibus praedicari, quam de una tantum re ac singulari. His ita positis,
sunt quaedam genera, quae generalissima nuncupantur, quibus genus inveniri non
possit, sunt species quibus alias subiectas species nullus inveniet. Inter
utraque autem sunt alia quae subalterna genera nominantur, quae superiorum
quidem species sunt, posteriorum vero genera ut substantia genus quidem est
generalissimum, ut eius genus inveniri non possit, homo vero species est, ut
eius species alia reperiri non valeat. Animal vero ad substantiam quidem
species est, ad hominem vero genus. Decem igitur praedicamentorum significatio
nihil aliud demonstrat nisi rerum decem genera quae generalissima nominamus.
Ergo quoties genera generalissima discrepant, eorum quoque species
discrepabunt; et quoties species discrepant, quoniam differentiis disiunguntur
atque informantur, differentiae quoque diversarum specierum discrepabunt.
Animal namque et scientia, quoniam est animal substantia, scientia vero ad
aliquid, quoniamque genus animalis est substantia, et genus scientiae est ad
aliquid, omni substantiae a se ratione discreta sunt, et differentiae quoque
scientiae atque animalis omnibus qualitatibus disiunguntur. Est namque
differentia animalis, bipes et quadrupes, animal enim ab alio animali differt, quod
hoc quidem bipes sit, ut homo vel avis, illud vero quadrupes, ut equus atque
bos; illud vero multipes, ut formica vel apis. Sed scientia differentiis
huiusmodi non habet, neque enim scientia a scientia differt in eo quod bipes
est. Quare constat quoties diversa sunt genera, specierum quoque differentiis
esse discretas. At hoc est quod ait: DIVERSORUM GENERUM ET NON SUBALTERNATIM
POSITORUM DIVERSAE SECUNDUM SPECIEM ET DIFFERENTIAE SUNT. Et hoc exempli
adiectione firmavit dicens: ANIMALIS ET SCIENTIAE diversas esse differentias,
nam cum sit bipes animalis differentia, scientiae non est. Et hoc quidem de
diversis generibus dictum est, id est quae subalterna non sunt. Quod si
subalterna sunt genera, nihil prohibet alias easdem esse differentias, alias
diversas, ut avis est species animalis, et rursus est genus corui, et est
subalternum genus, avis. Sed animalis differentiae sunt rationalis atque
irrationalis, avis vero differentia rationalis non est. Nulla enim avis ab alia
avi differt, quod sit rationalis; ergo hoc loco non sunt eaedem subalternorum
generum differentiae. Si quis vero has generis, id est animalis differentias
dicat, ut animalium alia sunt quae pascantur herbis, alia quae seminibus, alia
quae carnibus, hae differentiae conveniunt in subalterno genere, videlicet in
avi; namque avium sunt aliae quae seminibus uescuntur, aliae quae herbis, aliae
quae carnibus, ut uultur et miluus; ergo in subalternis generibus nihil
prohibet easdem esse differentias, et iterum discrepare; hoc autem idcirco
evenit, quia quae de praedicato dicuntur possunt de subiecto praedicari. Quare
quod dicitur de genere potest etiam dici de specie, atque hoc est quod ait: SUBALTERNORUM
VERO GENERUM NIHIL PROHIBET EASDEM ESSE DIFFERENTIAS; SUPERIORA ENIM DE
INFERIORIBUS GENERIBUS PRAEDICANTUR. Sed cum diceret nihil prohibet easdem esse
differentias, hoc quodam modo voluit de monstrare esse quasdam easdem
differentias, alias vero posse esse diversas, cui rem contrariam intulisse
videtur, cum dicit: QUARE QUAECUMQUE PRAEDICATI DIFFERENTIAE FVERINT, EAEDEM
ERUNT ETIAM SUBIECTI. Nam cum illic dixisset, nihil prohibet esse easdem
differentias generum subalternorum, hic omnes easdem esse declarat, dicit enim:
QUAECUMQUE FUERINT DIFFERENTIAE PRAEDICATI, EASDEM ETIAM SUBIECTI esse; atque
haec res plures maximis illigavit 179A erroribus, ut emendandum crederent locum
non ut esset ita. QUARE QUAECUMQUE PRAEDICATI DIFFERENTIAE FVERINT, EAEDEM
ERUNT ETIAM SUBIECTI sed ut hoc modo. Quare quaecumque subiecti differentiae
fuerint, eaedem erunt etiam praedicati. Sed hoc adiiciendum est, neque enim
fieri potest ut in rem superiorem praedicatio posterioris redundet. Nam cum
dicitur "quaecumque subiecti fuerint differentiae eaedem erunt
praedicati", hoc scilicet significatur, ut praedicatio subiecti redeat in
praedicatum -- quod fieri non potest. Sed dicendum est quod sunt aliae
differentiae quae dicuntur completivae praedicati et cuiuslibet illius speciem
informantes, quae communi nomine 'specificae' nominantur. Nam cum dico animatum
et sensibile, si substantiae coniungantur, definitionem et speciem mox animalis
efficiunt. Animal enim est substantia animata sensibilis, atque hae
differentiae dicuntur specificae et completivae. Sunt autem aliae quae ipsae
quidem nihil complent nec ullam speciem reddunt sed genus tantum dividunt, ut
rationale et irrationale: haec enim dividunt genus, id est animal; animal enim
rationali differentia irrationalique dividitur. Ergo illae quae sunt generis
divisivae differentiae possunt aliquoties eaedem esse, possunt aliquoties non
eaedem, ut animalis, quoniam divisibilis est differentia quae est rationale,
potest eam non habere avis, quae est subalternum genus. Et rursus easdem
divisibiles habere potest, ut easdem quas superius diximus. Nam cum dividant
animal differentiae, quae carnibus, herbis, et seminibus uescuntur, eaedem
possunt esse subalterni generis, id est avis; ergo hae divisibiles 179C possunt
etiam esse diversae. Illae vero quae completivae et specificae sunt, aliquando
non praedicari de subiecto non possunt. Ut quoniam animal habet differentias
completivas et suae speciei effectivas, sensibile scilicet et animatum, hae
differentiae de homine quod est subiectum animalis non praedicari non possunt.
Omnes enim specificae differentiae de his praedicantur quorum speciem complent,
ut de animali praedicatur sensibile et animatum, et hoc ut de subiecto. In
substantia enim animalis utraque praedicantur sed animal praedicatur de homine
ut de subiecto; necesse est ergo animatum atque sensibile de homine praedicari
ut de subiecto. Hoc est enim quod superius praemisit cum diceret: QUANDO
ALTERUM DE ALTERO 179D PRAEDICATUR UT DE SUBIECTO, QUAECUMQUE DE EO QUOD
PRAEDICATUR DICUNTUR, OMNIA ETIAM DE SUBIECTO DICENTUR. Atque hoc in omnibus
generibus recte constat intelligi. Ergo divisibiles differentiae possunt
aliquando cum subiectis esse communes, aliquando diversae specificae vero et
completivae cum subiectis communes non esse non possunt. Quod ergo Aristoteles
ait: SUBALTERNORUM VERO GENERUM NIHIL PROHIBET EASDEM ESSE DIFFERENTIAS divisibiles
differentias easdem esse nihil prohibere putandum est, quae possunt esse etiam
diversae. Quod ait vero: QUAECUMQUE PRAEDICATI DIFFERENTIAE FUERINT, EAEDEM
ERUNT ETIAM SUBIECTI de specificis intelligendum est: quae cum speciem
cuiuslibet informent, et de eo quod informant, ut de subiecto, praedicentur, ad
quodcumque ut subiecto praedicatur illud quod ipsae differentiae informant, de
eo ut de subiecto praedicabuntur, et de eo non praedicari non possunt. Quare
nihil est in huiusmodi theoremate quod ullo modo debeat emendari. EORUM QUAE
SECUNDUM NULLAM COMPLEXIONEM DICUNTUR SINGULUM AUT SUBSTANTIAM SIGNIFICAT AUT
QUANTITATEM AUT QUALITATEM AUT AD ALIQUID AUT UBI AUT QUANDO AUT SITUM AUT
HABITUM AUT FACERE AUT PATI. EST AUTEM SUBSTANTIA QUIDEM UT FIGURATIM DICATUR
UT HOMO, EQUUS; QUANTITAS UT BICUBITUM, TRICUBITUM; QUALITAS UT ALBUM; AD
ALIQUID UT DUPLUM, MAIUS; UBI VERO UT IN LYCIO; QUANDO AUTEM UT HERI; SITUS
VERO UT SEDET, IACET; HABERE AUTEM UT CALCIATUS, ARMATUS; FACERE VERO UT
SECARE, URERE; PATI VERO UT SECARI, URI. Post paruissimam in quattuor
enumerationem, id est in substantiam, accidens, universalitatem,
particularitatem, nunc est de partitione maxima tractaturus, quae fit in decem;
hac enim enumeratione maior non potest inveniri, neque enim undecim
praedicamenta poterunt inveniri nec ultra decem ullo modo aliquod genus recte
excogitari potest; quare 180C facit huiusmodi enumerationem sed non divisionem.
Divisio namque fere est generis in species; praedicamentorum vero, quoniam
genus unum non habent, divisio esse non potest sed potius enumeratio est. Sunt
vero quidam qui contendunt recte enumerationem non esse dispositam, alii namque
ut superuacua quaedam demunt, alii ut curto operi addunt, alii vero permutant,
quos nimirum non recte sentire alio nobis opere dicendum est; ait autem: EORUM
QUAE SECUNDUM NULLAM COMPLEXIONEM DICUNTUR. Adeo non de rebus sed de vocibus
tractaturus est, ut diceret DICUNTUR. Res enim proprie non dicuntur sed voces:
et quod addidit, SINGULUM AUT SUBSTANTIAM SIGNIFICAT, late patet eum de vocibus
disputare; non enim res sed voces significant, significantur autem res. Sine
complexione vero dicuntur (ut dictum est) quaecumque 1singulari intellectu et
voce proferuntur: secundum complexionem vero quaecumque aliqua coniunctione vel
accidentis copulatione miscentur. Sed quid ex iis quae secundum nullam
complexionem dicuntur efficitur, ipse demonstrat cum dicit: SINGULA IGITUR
EORUM QUAE DICTA SUNT IPSA QUIDEM SECUNDUM SE IN NULLA AFFIRMATIONE DICUNTUR,
HORUM AUTEM AD SE INVICEM COMPLEXIONE AFFIRMATIO FIT. VIDETUR ENIM OMNIS
AFFIRMATIO VEL FALSA ESSE VEL VERA; EORUM AUTEM QUAE SECUNDUM NULLAM
COMPLEXIONEM DICUNTUR NEQUE VERUM QUICQUAM NEQUE FALSUM EST, UT HOMO, ALBUM,
CURRIT. Significat ergo et hic ea quae sine ulla complexione dicuntur
affirmationis vim non obtinere. Si quis enim dicat homo, vel album, vel decem,
vel quidlibet simplici modo, in eo neque verum aliquid inveniet neque falsum
sed omnis affirmatio vel vera vel falsa est. Igitur universaliter pronuntiat
praedicamenta affirmationis ratione penitus non teneri: sed haec eadem si cum
quadam complexione coniuncta sint fieri propositiones necesse est, quae in se
verum falsumue contineant, Sed non omnis complexio propositionem facit, nec si
dixero: Socrates in foro idcirco iam propositio est; sed si quis dicat:
Socrates in foro ambulat tunc fit propositio, quae aut affirmatio est aut
negatio. Affirmationes autem et negationes, vel verae videntur esse vel falsae:
atque ideo quodcumque neque verum neque falsum est, illud propositio non est.
Ergo quadam complexione ex iis quae secundum nullam complexionem dicuntur
veritas falsitasque conficitur. Affirmationem autem solam nunc Aristoteles
interposuit, idcirco quod omnis affirmatio prior est; hoc enim negatio tollit
quod affirmatio ante constituit: prius quidem secundum significationem sed non
secundum genus, quod alio liquebit loco. Maxime autem monstrat Aristoteles se
non de rebus sed de vocibus tractaturum, quod ait: HORUM AUTEM AD SE INVICEM
COMPLEXIONE AFFIRMATIO FIT; non enim rerum complexione fit affirmatio vel
negatio sed sermonum, nec in rebus est veritas et falsitas sed in intellectibus
atque opinionibus, et post haec in vocibus atque sermonibus. Atque haec
hactenus. Secundum complexionem ergo sunt quaecumque ex integris compositis
fiunt, ut: Socrates ambulat nam et Socrates et ambulat uterque integer sermo
est, et coniunctus affirmationem facit. At vero si quis dicat flammiger, vel
multisonus, vel fluctivagus, secundum complexionem non erit ista prolatio,
idcirco quod ex neutris integris factum est. Horum autem decem praedicamentorum
definitiones inveneri non possunt, idcirco quod ea quae significant
generalissima sunt. Substantia enim et quantitas, et qualitas nulli unquam generi
videntur esse subiecta. Quare quoniam definitio omnis a genere ducitur, genus
quod alii generi subiectum non est a definitione relinquitur. Sed nunc quidem
omnium praedicamentorum convenientia dixit exempla, post vero latius de
unoquoque tractabitur: et quoniam definitio inveniri nulla potest, quibusdam
proprietatibus informantur, quare quoniam de his dictum est plene, ad tractatum
substantiae transeamus.SUBSTANTIA AUTEM EST, QUAE PROPRIE ET PRINCIPALITER ET
MAXIME DICITUR, QUAE NEQUE DE SUBIECTO PRAEDICATUR NEQUE IN SUBIECTO EST, UT
ALIQUI HOMO VEL ALIQUI EQUUS. SECUNDAE AUTEM SUBSTANTIAE DICUNTUR, IN QUIBUS
SPECIEBUS ILLAE QUAE PRINCIPALITER SUBSTANTIAE DICUNTUR INSUNT, HAE ET HARUM
SPECIERUM GENERA; UT ALIQUIS HOMO IN SPECIE QUIDEM EST IN HOMINE, GENUS VERO
SPECIEI ANIMAL EST; SECUNDAE ERGO SUBSTANTIAE DICUNTUR, UT EST HOMO ATQUE
ANIMAL. Quaeritur cur praedicamentorum tractatum a substantiis inchoaverit, nam
quoniam omnis res aut in subiecto est aut in subiecto non est, quidquid in
subiecto est eget subiecto, quoniam in propriis natura non potest consistere:
et quoniam rebus omnibus substantia subiecta est, nihil eorum quae sunt in
subiecto praeter substantiam poterit permanere. Sed prior illa natura est sine
qua alia esse non possunt, quocirca prior naturaliter videtur esse substantia;
non absurde igitur in disputatione quod prius per naturam fuit, prius etiam
sumpsit, et definitionem quidem substantiae proferre non potuit sed post
exemplum superius datum descriptionem quamdam profert qua quid sit ipsa substantia
queamus agnoscere: hoc est autem non esse in subiecto, substantia enim in
subiecto non est. Facit autem quamdam substantiarum divisionem cum dicit alias
primas esse substantias alias secundas: primas vocans individuas, secundas vero
individuarum species et genera: Ergo cum primis secundisque subtantiis commune
sit 'non esse in subiecto', additum primis substantiis 'de subiectis non
praedicari' primas substantias a secundis substantiis separat; substantia enim
individua, in eo quod est substantia, in subiecto non est: quod autem individua
est, de subiecto non praedicatur. Sunt ergo primae substantiae quae neque in
subiecto sunt neque de subiecto dicuntur, ut est Socrates vel Plato. Hi enim
quoniam substantiae sunt, in subiecto nullo sunt. Quoniam vero particulares
individuique sunt, de nullo subiecto praedicantur. SECUNDAE VERO SUBSTANTIAE
sunt quibus commune est cum primis substantiis quod in subiecto non sunt,
proprium vero quod de subiecto praedicantur, quae secundae substantiae sunt
universales, ut est homo atque animal; homo namque et animal in nullo sunt
subiecto sed de subiecto aliquo praedicantur. Sunt igitur primae substantiae
particulares, secundae universales. PROPRIE autem substantias individuas dicit
quod hominem quidem idem ipsam speciem, et animal, quod est genus, non nisi ex
individuorum cognitione colligimus. Quare quoniam ex singulorum sensibus
generalitas intellecta est, merito "propriae substantiae" individua
et singula nominantur. PRINCIPALITER vero individuae substantiae dictae sunt
quod omne accidens prius in individua, post vero in secundas substantias venit.
Nam quoniam Aristarchus grammaticus est, homo vero est Aristarchus, est homo
grammaticus: ita prius omne accidens in individuum venit, secundo vero loco
etiam in species generaque substantiarum accidens illud venire putabitur. Recte
igitur quod prius subiectum est, hoc substantia PRINCIPALITER appellatur. MAXIME
autem substantia prima dicitur, idcirco quod quae maxime subiecta est rebus
aliis, ea maxime substantia dici potest: maxime autem subiecta est prima
substantia; omnia enim de primis substantiis dicuntur, aut primis substantiis
insunt, ut genera et species: namque et genera et species praedicantur de
propriis individuis, ut animal atque homo praedicantur de Socrate, id est
secundae substantiae de primis: sin vero sint accidentia, in primis substantiis
principaliter sunt. Quare quoniam et accidentia in primis substantiis
principaliter sunt, et secundae substantiae de primis substantiis praedicantur,
primae substantiae secundis substantiis accidentibusque subiectae sunt. Quare
quoniam istae maxime subiectae sunt et accidentium subsistentiae et secundarum
substantiarum praedicationi, idcirco maxime substantiae nuncupantur. Dicit
autem non omnis species neque omnia genera secundas esse substantias sed eas
tantum quae primas substantias continerent, UT EST HOMO ATQUE ANIMAL; homo
namque continet Socratem, id est aliquam individuam substantiam. Animal vero
continet individuum speciemque, id est hominem et aliquem hominem. Quare genera
et species quae de primis substantiis praedicantur, ipsas secundas putat esse
substantias; hoc autem hoc modo ait: SECUNDAE AUTEM SUBSTANTIAE DICUNTUR, IN
QUIBUS SPECIEBUS ILLAE QUAE PRINCIPALITER SUBSTANTIAE DICUNTUR INSUNT, HAE ET
HARUM SPECIERUM GENERA et inde convenientia ponit exempla, ac si diceret: Non
omnia genera neque omnes substantias dico sed eas tantum species IN QUIBUS
individua illa, id est primae substantiae sunt, ET HARUM SPECIERUM, id est quae
continent primas substantias, GENERA. Hoc autem idcirco dictum videtur, ne quis
colorem quod genus est, vel album quod est species, secundas pPomba esse
substantias, ista enim primas sub se non continent. Sed dicat aliquis
quemadmodum primae poterunt esse substantiae individuae, cum omne quod prius
est sublatum auferat id quod est posterius, posterioribus vero sublatis priora
non pereant? Homo namque si pereat, Socrates quoque sit continuo periturus; si
vero Socrates interierit, homo continuo non peribit. Si igitur, sublatis
generibus et speciebus, individua perimuntur, sublatis individuis, generas,
speciesque permanent, magis primas substantias species et genera nominari
dignum fuit. Sed hoc modo individuorum natura non recte accipitur. Neque enim
cuncta individuorum substantia in uno Socrate est, vel quolibet uno homine sed
in omnibus singulis. Genera namque et species non ex uno singulo intellecta
sunt sed ex omnibus singulis individuis, mentis ratione concepta. Semper etiam
quae sensibus propinquiora sunt; ea etiam proxime nuncupanda vocabulis
arbitramur. Qui enim primus hominem dixit, non illum qui ex singulis hominibus
conficitur, concepit sed animo quemdam singularem atque individuum cui hominis
nomen imponeret. Ergo sublatis singulis hominibus homo non remanet, et sublatis
singulis animalibus animal interibit. Quocirca quoniam in hoc libro de
vocabulorum significatione tractatus habetur, ea quibus vocabula prius posita
sunt, merito primas substantias nuncupavit: prius autem illis vocabula sunt
indita quae prius sub sensibus cadere potuerunt. Sensibus vero obiiciuntur
prima individua, merito igitur ea prima in divisione posuit. Eodem quoque modo
illa quaestio solvitur quae dicit: Cum naturaliter primae intellectibiles sint
substantiae, ut Deus et animus, cur non has primas substantias nuncupaverit?
Quoniam hic de nominibus tractatus habetur, nomina autem primo illis indita
sunt quae principaliter sensibus fuere subiecta, posteriora vero in nominibus
ponendis putantur quaecumque ad intelligibilem pertinent incorporalitatem;
quare quoniam in hoc opera principaliter de nominibus tractatus est, de
individuis vero substantiis quae primae sensibus subiacent prima sunt dicta
vocabula in opere quo de vocabulis tractabatur, merito individuae sensibilesque
substantiae primae substantiae sunt positae. Cum autem tres substantia sint,
materia, species, et quae ex utriusque conficitur undique composita et compacta
substantia, hic neque de sola specie, neque de sola materia sed de utrisque
mistis compositisque proposuit. Partes autem substantiae incompositae et
simplices sunt ex quibus ipsa substantia conficitur, species et materia, quas
post per transitum nominat, dicens substantiarum partes et ipsa esse substantias.
Atque haec hactenus. Nunc expositionis cursum ad sequentia convertamus. MANIFESTUM
EST AUTEM EX HIS QUAE DICTA SUNT QUONIAM EORUM QUAE DE SUBIECTO DICUNTUR
NECESSE EST ET NOMEN ET RATIONEM DE SUBIECTO PRAEDICARI, UT HOMO DE SUBIECTO
DICITUR ALIQUO HOMINE, ET PRAEDICATUR NOMEN; NAMQUE HOMINEM DE ALIQUO HOMINE
PRAEDICABIS. RATIO QUOQUE HOMINIS DE ALIQUO HOMINE PRAEDICABITUR; QUIDAM ENIM
HOMO ET HOMO EST. QUARE ET NOMEN ET RATIO PRAEDICABITUR DE SUBIECTO. EORUM VERO
QUAE SUNT IN SUBIECTO, IN PLURIBUS QUIDEM NEQUE NOMEN DE SUBIECTO NEQUE RATIO
PRAEDICATUR. IN QUIBUSDAM VERO NOMEN QUIDEM NIHIL PROHIBET PRAEDICARI, RATIONEM
VERO IMPOSSIBILE EST; UT ALBUM, CUM IN SUBIECTO SIT CORPORE, PRAEDICATUR DE
SUBIECTO (DICITUR ENIM CORPUS ALBUM), RATIO VERO ALBI NUMQUAM DE CORPORE
PRAEDICABITUR. CAETERA VERO OMNIA AUT DE SUBIECTIS DICUNTUR PRIMIS SUBSTANTIIS
AUT IN EISDEM SUBIECTIS SUNT. HOC AUTEM MANIFESTUM EST EX HIS QUAE SINGULATIM
PROFERUNTUR; UT ANIMAL DE HOMINE PRAEDICATUR, QUARE ET DE ALIQUO HOMINE
PRAEDICABITUR; NAM SI DE NULLO ALIQUORUM HOMINUM DICERETUR, NEC DE IPSO HOMINE
PRAEDICARETUR OMNINO. RURSUS COLOR IN CORPORE EST; ERGO ET IN ALIQUO CORPORE;
NAM SI IN NULLO ESSET CORPORUM SINGULORUM, NEC IN CORPORE ESSET OMNINO.
QVOCIRCA CAETERA OMNIA AUT DE SUBIECTIS PRIMIS SUBSTANTIIS DICUNTUR AUT IN
SUBIECTIS IPSIS SUNT. SI ERGO PRIMAE SUBSTANTIAE NON SUNT, IMPOSSIBILE EST
ALIQUID ESSE CAETERORUM. Omnia quaecumque dicta sunt vel in subiecto sunt vel
de subiecto praedicantur sed non omnia quaecumque in subiecto sunt de subiectis
propriis dicuntur, namque quod in subiecto aliquo est de proprio subiecto
praedicatur: ut album de corpore praedicatur, dicitur enim corpus album. Sed
quoniam secundae substantiae primarum substantiarum vel species vel genera sunt
(Socratis enim species homo est et animal genus), genus autem de subiectis
speciebus et individuis univoce praedicatur, secundae substantiae de subiectis
speciebus univoca praedicatione dicuntur. Convenit namque primarum et
secundarum substantiarum si sit una facta definitio. Namque anima et homo et
Socrates una definitione iunguntur, quod substantiae animatae atque sensibiles
sunt. Igitur secundae substantiae ita de subiectis praedicantur propriis, id
est de primis substantiis, ut univoce praedicentur. Illorum vero quae sunt in
subiecto aliquoties quidem neque nomen ipsum de subiecto dicitur. Nam virtus in
anima est sed virtus de animo minime praedicatur; aliquoties autem denominative
dicitur, ut grammatica, quoniam est in homine, denominative grammaticus a
grammatica dicitur. Saepe autem ipsum nomen de subiecto praedicatur, ut quoniam
album est in corpore, corpus album dicitur. Sed sive nomen non praedicetur,
sive denominative dicatur sive proprio nomine praedicatio sit, definitio eius quod
est in subiecto de proprio subiecto nunquam praedicabitur -- ut album, quoniam
est in subiecto corpore, praedicatur quidem albi nomen de corpore, definitio
vero albi ad corpus nullo modo dicitur, album namque vel corpus una ratione
utraque definiri non possunt. Amplius si omne accidens in subiecto est, et
substantia subiectum est, differt ab accidente substantia, differt etiam definitio
substantiae atque accidentis, quod eadem definitio subiecti et eius quod est in
subiecto esse non potest. Atque hoc est quod ait: EORUM VERO QUAE SUNT IN
SUBIECTO, IN PLURIBUS QUIDEM NEQUE NOMEN DE SUBIECTO NEQUE RATIO PRAEDICATUR,
ut virtus in anima. Addidit quoque: IN QUIBUSDAM VERO NOMEN QUIDEM NIHIL
PROHIBET PRAEDICARI, et in aliis quidem denominative, in aliis vero recto
nomine fit praedicatio. De secundis vero substantiis semper ad primas
substantias praedicatio pervenit. Nam si quidam homo et homo est et animal et
caetera, una definitio animalis et ad hominem et ad quemdam hominem
convenienter aptabitur. Magis tamen esse substantias individuas et particulares
ipse significantius monstrat. Nam cum omnis res aut substantia sit aut
accidens, et substantiarum aliae sint primae aliae secundae, fit trina
partitio, ita ut omnis res aut accidens sit aut secunda substantia aut prima. Horum
autem ut sub descriptione divisio fiat, hoc modo dicimus: Omnis res aut in
subiecto est aut in subiecto non est; eorum quae in subiecto sunt alia
praedicantur de subiecto alia minime; eorum quae in subiecto non sunt alia de
nullo subiecto praedicantur alia vero praedicantur. Ergo omnis res aut in
subiecto est aut in subiecto non est. Aut in subiecto est et de subiecto
praedicatur, aut in subiecto est et de nullo subiecto praedicatur, aut in
subiecto non est et de subiecto praedicatur, aut in subiecto non est et de
nullo subiecto praedicatur. His igitur sumptis, si primas substantias
separemus, remanent secundae substantiae atque accidentia. Sed secundae
substantiae sunt quae in subiecto non sunt et de subiecto praedicantur. Ergo
esse suum, nisi in hoc quod de aliquo praedicantur, non retinent. Praedicantur
autem secundae substantiae de primis, ergo ut secundae substantia sint,
praedicatio de primis substantiis causa est. Non enim essent secundae
substantiae, nisi de primis substantiis, praedicarentur, illa vero quae in
subiecto sunt penitus consistere non valerent, nisi fundamenti quodammodo loco
primis substantiis niterentur. Ergo omnia quaecumque sunt praeter primas
substantias, aut secundo substantiae erunt aut accidentia. Sed secundae
substantiae de primis substantiis praedicantur, accidentia in primis
substantiis sunt. Quocirca omnia aut de primis substantiis praedicantur, ut
secundae substantiae, aut in primis substantiis sunt, ut accidentia, quod
Aristoteles proposuit hoc modo: Alia autem omnis aut de subiectis dicuntur
principalibus substantiis, aut in subiectis eisdem sunt, hic quoque verissima
sumit exempla. Ait enim: Si accidens in nullo subiecto corpore esset, nec in
corpore esset omnino. Nam si in nullo singulorum, in nullo generaliter esse
diceretur. Et item animal nisi de singularibus atque individuis hominibus
praedicaretur, nec de homine praedicaretur omnino. Quare quoniam idcirco
praedicantur secundae substantiae, quoniam sunt primae, et idcirco sunt aliquid
accidentia, quoniam eisdem primae substantiae subiectae sunt, si primo
substantia, non sint, neque quae de his praedicantur mansura sunt, neque quae
in his subiectis permanebunt. SECUNDARUM VERO SUBSTANTIARUM MAGIS EST
SPECIES SUBSTANTIA QUAM GENUS; PROPINQUIOR ENIM EST PRIMAE SUBSTANTIAE. SI ENIM
QUIS PRIMAM SUBSTANTIAM QUID SIT ASSIGNET, EVIDENTIUS ET CONVENIENTIUS
ASSIGNABIT SPECIEM PROFERENS QUAM GENUS, UT DE ALIQUO HOMINE EVIDENTIUS
ASSIGNABIT HOMINEM PROFERENS QUAM ANIMAL;
ILLUD ENIM MAGIS EST PROPRIUM ALICUIUS HOMINIS, HOC VERO COMMUNIUS. ET
ALIQUAM ARBOREM ASSIGNANS, EVIDENTIUS ASSIGNABIT ARBOREM NOMINANS QUAM PLANTAM.
Constat individuas substantias primas et maxime et proprie esse substantias.
Secundae vero substantiae, id est genera et species, sicut non aequaliter a
prima substantia distant, ita non aequaliter substantiae sunt; nam quoniam
propinquior est species primae substantiae quam genus, idcirco magis est
substantia species quam proprium genus, ut homo propinquior est Socrati quam
animal, atque ideo magis est homo substantia. Animal vero quamquam et ipsum
substantia sit, minus tamen homine; hoc autem idcirco evenit, quod in omni
definitione convenientis species ad primam substantiam dicitur, quam genus. Nam
si quid sit Socrates aliquis velit ostendere, propinquius substantiam Socratis
proprietatemque monstrabit, si dixerit eum esse hominem, quam si animal. Quod
enim animal est Socrates, commune est cum caeteris qui homines non sunt, id est
cum equo atque bove. Quod vero homo est, cum nullo alio est commune, nisi cum
his qui sub eadem specie hominis continentur. Quocirca propinquior erit ad
significationem designatio, cum individuo species redditur, quam ei generis
vocabulum praedicetur. Rursus si quamlibet individnam arborem designare aliquis
volens, arborem dicat, propinquius designabit quid sit id quod definivit, quam
si plantam nominet: planta autem genus est arboris; praedicatur enim planta et
de iis quae arbores non sunt, ut de caulibus atque lactucis: quare constat
species magis esse substantias, eo quod sint primis et maxime substantiis
propinquiores. Et quod in eo quod quid sit, assignata species convenientibus et
evidentius assignet, genus vero longinquius atque communius. AMPLIUS PRIMAE
SUBSTANTIAE, PROPTEREA QUOD ALIIS OMNIBUS SUBIACENT ET OMNIA CAETERA VEL DE
IPSIS PRAEDICANTUR VEL IN IPSIS SUNT, IDCIRCO MAXIME SUBSTANTIAE DICUNTUR.
QUEMADMODUM AUTEM PRIMAE SUBSTANTIAE AD OMNIA CAETERA SE HABENT, ITA SESE
SPECIES HABET AD GENUS; SUBIACET ENIM SPECIES GENERI; ETENIM GENERA DE
SPECIEBUS PRAEDICANTUR, SPECIES VERO DE GENERIBUS NON CONVERTUNTUR. QVOCIRCA
ETIAM EX HIS SPECIES GENERE MAGIS EST SUBSTANTIA. Magis esse substantias
species validiori rursus argumentatione confirmat, per similitudinem namque hoc
ita esse declarat. Nam cum omnes substantiae aut primae sint aut secundae,
secundarum autem aut genera aut species, specierum atque generum quidquid
similius primis substantiis invenitur, hoc magis substantia merito putabitur.
Sed primae substantiae IDCIRCO MAXIMAE SUBSTANTIAE DICUNTUR, quod omnibus ita
subiectae sunt, ut aut in ipsis sint caetera ut accidentia, aut de ipsis alia
praedicentur ut substantiae secundae. Quod ergo in primas substantias, hoc idem
in species venit. Namque species et cunctis subiacent accidentibus, et de
speciebus genera praedicantur, de generibus vero species non praedicantur.
Quare non similiter genera subiacent, quemadmodum species. Non enim de
generibus species praedicantur. Ergo sicut primae substantiae subiectae sunt
secundis substantiis et accidentibus, ita species subiectae sunt et
accidentibus et generibus. Genera vero quamquam subiecta sint accidentibus,
speciebus tamen ipsa non subiacent. Quocirca maior est similitudo speciei ad
primas substantias, quam generis, quod si maior est similitudo specierum ad
maximas substantias, ipsae erunt magis substantiae. Sed ne quis non arbitretur
dicere quod ea quae sunt genera species esse non possunt sed in eo quod sunt
genera, species esse non possunt. Nam in eo quod species est, de superioribus
non praedicatur sed in eo quod genus, de eo praedicabitur cuius est genus.
Quocirca genera ipsa 187D quorum sunt genera his subiacere non possunt, species
vero quorum sunt species, de his praedicari non possunt. IPSARUM VERO SPECIERUM
QUAE GENERA NON SUNT, NIHILO PLUS ALIA AB ALIA SUBSTANTIA EST; NIHIL ENIM
CONVENIENTIUS PROFERETUR SI QUIS DE ALIQUO HOMINE HOMINEM REDDAT QUAM SI DE
ALIQUO EQUO PROFERAT EQUUM. SIMILITER AUTEM ET IN PRIMIS SUBSTANTIIS NIHILO
PLUS ALIA AB ALIA SUBSTANTIA EST; NIHIL ENIM MAGIS ALIQUIS HOMO QUAM ALIQUIS
BOS SUBSTANTIA EST. Praedictum est quoque, ut Porphyrius in libro de generibus,
speciebus, differentiis, propriis, atque accidentibus planissime docuit, alia
esse solum genera, quorum genus inveniri non posset, alia solum 188A species,
quae in alias species dividi non valerent. Hae autem sunt quae de pluribus
numero differentibus in eo quod quid sit praedicantur, ut homo de singulis
hominibus dicitur, et equus de singulis equis, et bos de singulis bobus, qui
sub propria specie positi a seipsis propriae naturae figura non discrepant.
Ergo huiusmodi species, ut est homo atque equus, quae solis individuis
praesunt, quoniam genera esse non possunt, aequaliter semper substantiae sunt.
Nam tam propinque redditur de quolibet individuo equo, nomen equi, quam de
quolibet individuo homine, hominis nomen, Quocirca ei aequaliter species hae,
quae genera non sunt, ad primas substantias sunt, aequaliter esse substantiae
merito putabuntur; hoc autem dicit non quod omnes species aequaliter substantia
sint sed quae aequaliter a primis substantiis distant. Potest enim fieri ut
cuiuslibet superioris generis una quaelibet species sit, quae comparata ad
propriam speciem minus illa superior videatur esse substantia: ut animalis si
quis dicat speciem esse avem, eiusdem quoquo speciem horninem, avis et homo non
aequaliter substantiae sunt, idcirco quod avis homine superior est. Homo namque
in alias species non dividitur, est enim magis species. Avis autem potest in
alias dividi species, ut in accipitrem et uulturem, quae quamquam aves sunt
specie, tamen ipsa dissentiunt. Proprie autem species accipere ac uultur est,
hi enim solis individuis praesunt. Quare homo atque accipiter aequaliter a
primis substantiis distant, et sunt aequaliter substantiae. Homo vero atque
avis, quoniam superior est avis homine, non aequaliter substantiae sunt, magis
enim substantia homo est. Ergo quaecumque species aequaliter a suis individuis
distant, aequaliter substantiae sunt. Quod quoniam species hae quae genera non
sunt aequaliter a primis substantiis absunt, aequaliter substantiae dicuntur.
Primum autem est, ut expositione non egeat, primas quoque substantias
aequaliter esse substantias, aliquis homo enim atque aliquis equus, quoniam
sunt individua, principaliter substantiae sunt, et propriae et maximae.
Quocirca in maximis substantiis, neque minus, neque magis substantia poterit
inveniri. Individua igitur aequaliter substantiae sunt. RECTE AUTEM POST PRIMAS
SUBSTANTIAS SOLAE OMNIUM CAETERORUM SPECIES ET GENERA DICUNTUR SECUNDAE ESSE
SUBSTANTIAE; EORUM ENIM QUAE PRAEDICANTUR PRIMAS SUBSTANTIAS SOLAE SIGNIFICANT.
ALIQUEM ENIM HOMINEM SI QUIS ASSIGNET QUID SIT, SI SPECIEM QUAM GENUS PROTULERIT,
CONVENIENTER PROFERET, ET MANIFESTUM FACIET HOMINEM QUAM ANIMAL PROFERENS;
CAETERORUM VERO QUICQUID PROTULERIT, ALIENA ERIT ILLA PROLATIO, UT ALBUM VEL
CURRIT VEL QUODLIBET HUIUSMODI SI REDDAT. QUARE RECTE HAE SOLAE PRAETER CAETERA
SUBSTANTIAE DICUNTUR. Ordine et convenienter post primas substantias, id est
individua, genera et species secundas esse substantias constitutas monstrat
Aristoteles, quae est firma atque expedita probatio; ait enim: POST PRIMAS
SUBSTANTIAS RECTE GENERA ET SPECIES SECUNDAS SUBSTANTIAS ESSE NOMINATAS. In
definitionibus enim ubi substantia cuiuslibet ostenditur, nihil aliud primas
substantias monstrat, nisi genus et species. Socrates namque, si quis quid sit
interroget, dicitur homo, vel animal, et in eo quod quid sit Socrates
interrogatus, recte hominem vel animal esse respondet. Quare quid sint primae
substantiae secundae monstrant, quod si quis praeter secundas substantias in
interrogatione quid sit prima substantia dicat, id alienissime profert, ut si
quid sit Socrates interroganti aliquis respondeat album, vel currit, vel
aliquid huiusmodi, quod secunda substantia non sit, nihil convenienter unquam
profert, si quid de prima substantia praeter secundas substantias dicat. Quare
quoniam nihil eorum quae non sunt secundae substantiae, quid sit prima
substantia declarat, secundae autem substantiae 189B genera et species sunt,
recte post primas substantias species et genera secundae dicuntur esse
substantiae. AMPLIUS PRIMAE SUBSTANTIAE, PROPTEREA QUOD ALIIS OMNIBUS
SUBIACENT, IDCIRCO PROPRIAE SUBSTANTIAE DICUNTUR; QUEMADMODUM AUTEM PRIMAE
SUBSTANTIAE AD OMNIA CAETERA SESE HABENT, ITA PRIMARUM SUBSTANTIARUM GENERA ET
SPECIES AD OMNIA RELIQUA SESE HABENT; DE ISTIS ENIM OMNIBUS CAETERA
PRAEDICANTUR: ALIQUEM ENIM HOMINEM DICES GRAMMATICUM, ERGO ET HOMINEM ET ANIMAL
GRAMMATICUM PRAEDICABIS; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS. Haec quoque est de eadem
re probatio, qua recte post primas substantias genera et species esse positas
verissima ratione confirmat. Namque individua idcirco primae dicuntur esse substantiae,
et quod aliis cunctis subiaceant. Nam quoniam secundis substantiis ad
praedicationem suppositae sunt, et de his secundae substantiae dicuntur, et
quoniam accidentibus ut possint esse accideutia subduntur, idcirco primae
substantiae sunt. Et sicut primae substantiae cunctis subiacent accidentibus,
sic etiam secundae. Nam quoniam aliquis homo accidentibus subiacet, et homo et
animal accidenti supponitur, et quoniam est quidam homo grammaticus, id est
Aristarchus, est homo grammaticus, est etiam animal grammaticum. Quocirca
accidentibus primae substantiae principaliter subdurtur, secundae vero secundo
loco, et quemadmodum primae substantiae et accidentibus et secundis substantiis
subiacent, sic secundae substantiae accidentibus 189D supponuntur sed secundae
substantiae species et genera sunt. Recte igitur post primas substantias
species et genera secundas substantias esse proposuit. COMMUNE EST AUTEM OMNI
SUBSTANTIAE IN SUBIECTO NON ESSE. PRIMA ENIM SUBSTANTIA NEC DE SUBIECTO DICITUR
NEC IN SUBIECTO EST; SECUNDAE VERO SUBSTANTIAE SIC QUOQUE MANIFESTUM EST
QUONIAM NON SUNT IN SUBIECTO. ETENIM HOMO DE SUBIECTO QUIDEM ALIQUO HOMINE
DICITUR, IN SUBIECTO VERO NULLO EST; NEQUE ENIM IN ALIQUO HOMINE HOMO EST.
SIMILITER AUTEM ET ANIMAL DE SUBIECTO QUIDEM DICITUR DE ALIQUO HOMINE, NON EST
AUTEM ANIMAL IN ALIQUO HOMINE. Post enumerationem substantiarum et divisionem
in qua alias primas, alias secundas esse proposuit, 190A quoniam substantiae
definitio nulla est reddita, idcirco, quia generalissimum genus definitionibus
non tenetur, proprietatem quamdam cupit exquirere, quasi signum aliquod quo
substantiam queamos agnoscere, priusque quid ipsis substantiis communiter
possit evenire proponit; post vero quid illis proprium sit quaerit sed idcirco
ista praemittit, ut ad illud verum proprium sine ullo errore perveniat, et quod
vere est substantiarum proprium ultimum dicat. Tribus autem modis proprium
significatur. Est enim proprium quod alicui speciei omni evenit et non soli, ut
homini bipedem esse. Omnis enim homo bipes est sed non solus, aves namque et
ipsae sunt bipedes. Aut soli et non omni, ut eidem homini evenit ut sit
grammaticus sed non omni homini, neque enim omnis homo grammaticus est. Aut
vero tertia proprii significatio est, quae omni et soli et semper, ut risibile.
Omnis enim homo risibilis est, et solum est animal homo quod rideat. Ex his
igitur illa duo superiora quae diximus, ubi omni et non soli, aut soli et non
omni, esse quaedam propria dicebamus, quae a propriorum veritate esse videntur
aliena. Hoc vero tertium quod omni inest et soli, hoc vere est proprium, illa
autem superiora consequentia quidem dicuntur, non tamen vere propria, hoc autem
ultimum vere est proprium. Quaecumque ergo talia propria Aristoteles invenerit,
quae aut solis et non omnibus substantiis, aut omnibus et non solis eveniant,
velut non vere in natura cuiuslibet constituta repudiat. Illud vero ultimum
ponit quod et omni substantiae et soli valeat evenire. Illa enim sunt propria
quae convertuntur, ut si quid fuerit homo, risibile est, si quid est risibile,
homo est: haec autem solum converti possunt, quae omni solique contingunt, nam
neque ulli alii magis, neque ulli minus evenient; quare his praedictis ad loci
ipsius orationem expositionemque veniamus. Quod ergo dicit hoc est, omnibus
substantiis commune est, ut in subiecto non sint, namque primae substantiae, id
est individua in subiecto non sunt, quod planissime his demonstratur. Nunquam
enim particularis substantia alicui accidens esse potest, secundae vero
substantiae habent quamdam imaginem quod sint in subiecto, videntur enim
secundae substantiae in subiectis, id est primis substantiis esse sed falso,
nam secundae substantiae de primis substantiis solum praedicantur, non in ipsis
sunt. Animal enim de quodam homine tantum dicitur, non etiam in aliquo homine
consistit, ut in subiecto. Hoc autem illa res probat, quod omnia quaecumque in
subiecto sunt, eorum quoque individua in subiecto sunt, color quoniam in
subiecto corpore est, et quidam color subiecto corpore nititur, in hoc vero quoniam
primae substantiae, id est individua in subiecto non sunt, nec eorum
universalia, id est secundae substantiae, quae genera speciesque sunt, possunt
aliquo niti subiecto. Quare secundae substantiae primas substantias ad
praedicationem tantum subiectas habent, non etiam ut ipsae primis substantiis
accidant. Illud quoque maximum argumentum est secundas substantias non esse in
subiecto, quoniam omne quod in subiecto est potest mutari, illa quae subiecta
est non mutatur, ut color qui est in corpore, eodem corpore manente potest
mutari, ut niger fiat ex albo. Manentibus autem substantiis primis, secundae
substantiae non mutantur. Quam vero ipse Aristoteles posuit probationem,
secundas substantias uan esse in subiecto, huiusmodi est, praedocuit enim quorumdam
quae sunt in subiecto nomen de subiectis posse praedicari, rationem vero
nunquam. Album enim cum sit in corpore, dicitur corpus album, et praedicatur
albedo de corpore sed alia est definitio albedinis, alia corporis. Secundae
vero substantiae de primis substantiis et nomine praedicantur, et definitione
iunguntur. Nam quidam homo animal est et homo sed quidam homo, et hominis, et
animalis ratione definitur. Et ut veracissime sententia concludatur, omne quod
est in subiecto, aequivoce de subiecto dicitur. Secundae vero substantia de
primis non aequivoce sed univoce nuncupantur, idcirco quod (ut dictum est) et
nomine et definitione consentiunt. Quare quemadmodum primae substantiae in
sabiecto non sunt, sic secundae subiecto carebunt. Commune est igitur omnibus
substantiis, et secundis et primis in subiecto non esse, et quodcumque
substantia fuerit, consequens est ut in nullo subiecto sit. Sed quaeritur utrum
hoc soli substantiae insit an etiam aliis, nam si soli substantiae inest,
quoniam omni substantiae hoc inesse monstravimus, quod in subiecto non sit, verum
proprium dicitur esse substantiae, non esse in subiecto. Hoc enim dictum est
esse maxime proprium, quod omnibus inesset et solis sed hoc non esse
substantiae proprium verissima Aristoteles probatione confirmat dicens: AMPLIUS
EORUM QUAE SUNT IN SUBIECTO NOMEN QUIDEM DE SUBIECTO ALIQUOTIENS NIHIL PROHIBET
PRAEDICARI, RATIONEM VERO IMPOSSIBILE EST. SECUNDARUM VERO SUBSTANTIARUM DE
SUBIECTIS RATIO PRAEDICATUR ET NOMEN; RATIONEM ENIM HOMINIS ET ANIMALIS DE
ALIQUO HOMINE PRAEDICABIS. QUARE NON ERIT EORUM SUBSTANTIA QUAE SUNT IN
SUBIECTO. NON EST AUTEM PROPRIUM SUBSTANTIAE HOC; SED DIFFERENTIA EORUM EST
QUAE IN SUBIECTO NON SUNT; BIPES ENIM ET GRESSIBILE DE SUBIECTO QUIDEM DE
HOMINE PRAEDICATUR, IN SUBIECTO VERO NULLO EST; NON ENIM IN HOMINE EST BIPES
NEQUE GRESSIBILE. ET RATIO QUOQUE DIFFERENTIAE DE ILLO DICITUR DE QUO IPSA
DIFFERENTIA PRAEDICATUR, UT SI GRESSIBILE DE HOMINE DICATUR, ET RATIO
GRESSIBILIS DE HOMINE PRAEDICABITUR; EST ENIM HOMO GRESSIBILE. Non esse
proprium hoc substantiae dicit, idcirco quod in differentiis idem sit, in nullo
enim differentia subiecto est, ad illud namque recurritur, Si differentia in
subiecto esset, nomine tantum de subiecto praedicaretur, non etiam ratione.
Differentia vero de eo de quo dicitur univoce praedicatur, ut si quis dicat
gressibilem differentiam de homine, ipsius differentiae definitio quoque homini
convenienter aptabitur. Gressibile namque est quod per terram pedibus ambulat,
et homo est quod per terram pedibus ambulat, ita differentiae et eius de quo
ipsa differentia dicitur una poterit esse ratio substantiae, id est unius
possunt et nominis nuncupatione, et definitionis determinatione coniungi. Quod
si in subiecto esset differentia, nequaquam de subiecto sibi univoce
praedicaretur. Quare non proprium est substantia, quod retinet etiam
differentia, differentia namque substantia non est. Esset enim proprium
substantiae in subiecto non esse. Non est autem diiferentia accidens, esset
enim in subiecto. Omnis autem res aut accidens est, aut substantia, id est aut
in subiecto est, aut in subiecto non est, et sunt ascidentia quaecumque in
substantiam subiecti non veniunt, quaeque permutata naturam substantiae non
perimunt. Si quibus vero peremptis subiecta interimantur, illa proprie
accidentia non vocamus, differentia vero est quae de pluribus specie differentibus
in eo quod quale sit praedicatur. Sed differentia substantia non est, idcirco
quod si esset substantia non in eo quod quale sit de subiecto sed in eo quod
quid sit praedicaretur. Qualitas vero solum non est, esset enim accidens et in
subiecto. An magis ex substantia et qualitate differentia ipsa conficitur, ita
ut illud de quo praedicatur, perempta differentia simul interimatur, ut calor,
cum est in aqua, perempto calore, potest aqua in sua substantia permanere, et
est calor in subiecta aqua, quo interempto, aqua non peribit. Idem tamen calor
est in igne sed perempto calore, ignem interire necesse est. Quare haec
qualitas caloris substantialiter inest igni, et est propria differentia, id est
substantialis. Concludendum est igitur differentiam, nequs solum substantiam
esse, neque solum qualitatem, sed quod ex utrisque conficitur substantialem
qualitatem, quae permanet in natura subiecti, atque ideo quoniam substantia participat,
accidens non est, quoniam qualitas est, a substantia relinquitur. Sed quoddam
medium est inter substantiam et qualitatem, quae quoniam in subiecto non est et
substantia non est, proprium substantiae non est non esse in subiecto. Post hoc
illuc quoque dicit non debere nos conturbari, ne forte substantiarum partes,
quae ita sunt in toto quasi in aliquo subiecto, aliquando cogamur non
substantias confiteri. Substantiarum partes in subiecto sunt sed non ut
accidentia, videmus enim quasdam partes substantiarum ita esse in toto quasi
sint in subiecto, ut caput in toto corpore est, et manus in toto corpore est,
forma quoque et materia quae sunt partes compositae substantiae in ipsa
composita substantia sunt. Ne forte ergo cogamur aliquando partes
substantiarum, quoniam sunt in subiecto, suspicari non esse substantias sed
accidentia, praemonet dicens: NON NOS VERO CONTURBENT SUBSTANTIARUM PARTES QUAE
ITA SUNT IN TOTO QUASI IN SUBIECTO SINT, NE FORTE COGAMUR DICERE NON EAS ESSE
SUBSTANTIAS; NON ENIM SIC DICEBANTUR ESSE EA QUAE SUNT IN SUBIECTO UT QUASI
PARTES ESSENT. Hoc enim rationis affert cur ista accidentia esse aliquis
suspicari non debeat. Illa enim accidentia esse definita sunt in obiecto, quae
non essent ut quaedam pars, hoc enim superius ait. In subiecto avem esse dico,
quod cum in aliquo sit, non sicut quaedam pars et impossible est esse sine eo
in quo est. Quocirca quoniam accidentia ita sunt in subiecto, ut subiecti
partes non sint, substantiarum vero partes in toto ita sunt, ut in subiecto non
sint, partes substantiarum, partes accidentium esse nullus recte suspicari
potest. INEST AUTEM SUBSTANTIIS ET DIFFERENTIIS AB HIS OMNIA UNIVOCE
PRAEDICARI. OMNIA ENIM QUAE AB HIS PRAEDICAMENTA SUNT AUT DE INDIVIDUIS
PRAEDICANTUR AUT DE SPECIEBUS. ET A PRIMA QUIDEM SUBSTANTIA NULLA EST
PRAEDICATIO (DE NULLO ENIM SUBIECTO DICITUR), SECUNDARUM VERO SUBSTANTIARUM
SPECIES QUIDEM DE IN DIVIDUO PRAEDICATUR, GENUS AUTEM ET DE SPECIE ET DE
INDIVIDUO; SIMILITER AUTEM ET DIFFERENTIAE ET DE SPECIEBUS ET DE INDIVIDUIS
PRAEDICANTUR. RATIONEM QUOQUE SUSCIPIUNT PRIMAE SUBSTANTIAE SPECIERUM ET
GENERUM, 193B ET SPECIES GENERIS (QUAECUMQUE ENIM DE PRAEDICATO DICUNTUR, EADEM
ET DE SUBIECTO DICENTUR); SIMILITER AUTEM ET DIFFERENTIARUM RATIONEM SUSCIPIUNT
SPECIES ET INDIVIDUA; UNIVOCA AUTEM ERANT QUORUM ET NOMEN COMMUNE EST ET RATIO.
QUARE OMNIA A SUBSTANTIIS ET DIFFERENTIIS UNIVOCE PRAEDICANTUR. Quoniam in
subiecto non esse differentiis et substantiis commune monstravit, aliam rursus
communitatem substantiarum differentiarumque proposuit. Nam cum substantiarum
aliae sint primae, aliae secundae, et primae substantiae sint individuae,
quoniam nihil individua possunt habere subiectum, ab individuis nulla
praedicatio est. Secundae vero substantiae de individuis, id est de primis
substantiis, praedicantur, et de his univoce dicuntur. Secundarum enim
substantiarum nomen de individuis praedicatur et ratio. Ac de individuo quidem
et species praedicatur et genus, ut de Platone, id est de aliquo homine, et
homo dicitur, et animal, aliquis enim homo est, et animal, et utriusque de
individuo praedicatur ratio. Dicimus enim aliquem hominem animal esse rationale
mortale, quae est speciei definitio, id est hominis. Et rursus aliquem hominem
dicimus esse substantiam animatam atque sensibilem, quae generis est definitio,
id est animalis. Species vero generis sui et definitionem suscipit et
vocabulum, de homine enim animal praedicatur, dicitur enim homo animal est, et
idem ipse rursus homo rationem suscipit animalis. Dicimus enim esse hominem
substantiam animatam atque sensibilem. Constat ergo quoniam et genera et
species de individuis, et genera de speciebus univoce praedicantur, id est in
omni praedicatione secundae substantire univoca appellatione de subiectis
dicuntur, quod his cum differentia commune est. Differentia namque de specie de
qua dicitur, et de eius individuo ipsa quoque univoce praedicatur. Nam cum sit
gressibilis differentia de aliquo homine praedicatur, dicitur enim quidam homo
gressibilis ut Plato et Cicero sed et definitionem differentiae suscipiunt
individua, de quibus illa differentia praedicatur. Gressibile namque est quod
per terram pedibus ambulare potest. Et quemdam hominem possis ita secundum
nomen differentiae definire, ut dices Platonem esse quod per terram pedibus
ambulare possit. Et hoc idem evenit de specie cuiusdam hominis, id est de
homine: homo namque, id est ipsa species, cum sit gressiblis, potest definiri.
Homo est quod per terram pedibus ambulare possit. Ergo et differentia: de his
de quibus pradicantur, univoce dicuntur. Quocirca quoniam et secundae
substantiae de bis de quibus praedicantur uuivoce dicuntur, et differentiae
eodem modo, quaecumque a substantiis vel differentiis praedicationes fuerint,
haec et de subiectis univoce praedicabuntur. Quae autem causa sit ut secundae
substantiae de primis substantiis univoce praedicentur, illa quam supra docuit
Aristoteles nos admonens dixit, omnia enim quaecumque de praedicato dicuntur,
eadem etiam dicentur de subiecto. Omnes enim differentiae quae sunt specificae
generis praedicantur et de specie et de individuo, ut quoniam animal efficiunt
differentiae animatum atque sensibile, eadem et de specie, id est homine, et de
individuo, id est aliquo homine, praedicabuntur; quod cum superius dictum est,
nunc quantum expositionis brevitas postulat, dixisse sufficiat. OMNIS AUTEM
SUBSTANTIA VIDETUR HOC ALIQUID SIGNIFICARE. ET IN PRIMIS QUIDEM SUBSTANTIIS
INDUBITABILE ET VERUM EST QUONIAM HOC ALIQUID SIGNIFICAT; INDIVIDUUM ENIM ET
UNUM NUMERO EST QUOD SIGNIFICATUR. IN SECUNDIS VERO SUBSTANTIIS VIDETUR QUIDEM
SIMILITER AD APPELLATIONIS FIGURAM HOC ALIQUID SIGNIFICARE, QUANDO QUIS DIXERIT
HOMINEM VEL ANIMAL; NON TAMEN VERUM EST SED QUALE ALIQUID SIGNIFICAT (NEQUE
ENIM UNUM EST QUOD SUBIECTUM EST QUEMADMODUM PRIMA SUBSTANTIA, SED DE PLURIBUS
HOMO DICITUR ET ANIMAL); NON AUTEM SIMPLICITER QUALITATEM SIGNIFICAT,
QUEMADMODUM ALBUM (NIHIL ENIM ALIUD SIGNIFICAT ALBUM QUAM QUALITATEM), GENUS
AUTEM ET SPECIES CIRCA SUBSTANTIAM QUALITATEM DETERMINANT (QUALEM ENIM QUANDAM
SUBSTANTIAM SIGNIFICANT). PLUS AUTEM GENERE QUAM SPECIE DETERMINATIO FIT:
DICENS ENIM ANIMAL PLUS COMPLECTITUR QUAM HOMINEM. Postquam superius geminas
dixit substantiae consequentias, id est in subiecto non esse, et cuncta ab his
univoce praedicari, et eas a maximae proprio substantiae separavit, idcirco
quod differentiis etiam videntur esse communes, aliud adiicit quod idcirco
substantiae proprium non sit, quod non sit in omni substantia. Nam quemadmodum
quantitas, quantum significat, et qualitas quale, sic etiam substantia
videtur hoc aliquid significare. Nam cum
dico Socrates vel Plato vel aliquam individuam substantiam nomino, hoc aliquid
significo sed omnibus hoc substantiis non inest. Individuis namque quoniam
particularia sunt et numero singularia, verum est hoc aliquid a substantiis
significari. In secundis vero substantiis non idem est. Namque secundae
substantiae non sunt unae, nec numero singulares sed species intra se plurima
individua continent, et multas intra se species genus includit, quocirca cum
dico homo, non hoc aliquid significavi, neque enim singulare est hominis nomen,
idcirco quod de pluribus individais praedicatur sed potius quale quiddam;
qualis enim substantia sit demonstratur, cum dicitur homo. Qualitas autem haec
circa substantiam terminatur, nam sicut individua qualitas species et genera
qualitatis habet, et sicut singulas quantitates quantitas speciebus et
generibus claudit, ita quoque individuarum substantiarum species et genera
secundae substantiae sunt. Ergo cum dico homo, talem substantiam significo, quae
de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur, qualem ergo
quamdam substantiam significo, cum hominem dixi, talem scilicet quae individuis
nominetur, idem quoque de genere est. Nam cum dico animal, talem substantiam
significo quae de pluribus speciebus dicatur. Est igitur qualitas, ut album,
quae semper sit in substantia sed non ut ipsam substantiam interimat, idcirco
quod proprietatem substantiae albedo non habet. Qualitas vero hac quae de
substantiis dicitur, circa substantiam qualitatem determinat, qualis sit enim
illa substantia demonstrat. Nam si homo est rationalis, et substantia erit
rationalis sed rationalis qualitas est. Qualem ergo substantiam monstrant
secundae substantiae. Quocirca non est hoc proprium substantiae, hoc aliquid
significare. Secundae enim substantiae non hoc aliquid sed quale aliquid (ut
dictum est) monstrant, ita tamen quale aliquid monstrant, ut ipsam qualitatem
circa substantias determinent. Qualitas enim secundarum substantiarum in
individuis est, de ipsis enim naturaliter praedicatur qua, ipsa individuae
substantiae sunt. Qualitas igitur secundarum substantiarum circa individua, id
est quae prima sunt terminatur. Determinatio vero quoties ipse terminus multa
concludit, maior est, et minor quoties pauciora, quocirca genus plurima
colligit, species vero non tam plurima. Nam cum dico animal, etiam hominem
bovemque, et alia cuncta animalia hoc uno nomine clausi. Cum vero dico homo,
solos homines individuos hac nominis significatione conclusi, quocirca maior
fit determinatio per genus quam per speciem, et fit determinatio circa
substantiam qualitatis, vel quod substantialis qualitas in genere et specie
est, vel quod secundum quamdam communionem subiectorum dicitur. Sed per se
qualitas, ut album, neque ullius substantiam significat, neque ullam
communionem, sicut genus specierum suarum, et individuorum species, ostendit.
Quocirca aliud substantiae proprium requirendum est. INEST AUTEM SUBSTANTIIS ET
NIHIL ILLIS ESSE CONTRARIUM. PRIMAE ENIM SUBSTANTIAE QUID ERIT CONTRARIUM? UT
ALICUI HOMINI; NIHIL ENIM EST CONTRARIUM; AT VERO NEC HOMINI NEC ANIMALI NIHIL
EST CONTRARIUM. NON EST AUTEM HOC SUBSTANTIAE PROPRIUM SED ETIAM MULTORUM
ALIORUM, UT QUANTITATIS; BICUBITO ENIM NIHIL EST CONTRARIUM, AT VERO NEC DECEM
NEC ALICUI TALIUM, NISI QUIS MULTA PAUCIS DICAT ESSE CONTRARIA VEL MAGNUM
PARUO; DETERMINATORUM VERO NULLUM NULLI EST CONTRARIUM. Adiecit quoque aliud
substantiae proprium dicens substantiae nihil esse contrarium, hoc autem ex ea
quae sigillatim fit inductione confirmat. Homo enim homini vel equo, vel alicui
alii animalium non est contrarius. Sed si quis forsitan dicat, cum ignis atqua
aqua substantiae sint, ignem aquae esse contrarium, mentietur. Non enim ignis
aquae contrarius est sed qualitates ignis qualitatibus aquae opponuntur. Calor
enim et frigus contraria sunt, et humor et siccitas, quae qualitates cum aliae
sint in igne, aliae in aqua, ipsas substantias contrarias facere videntur sed
non sunt; hoc autem ex omnibus aliis substantiis potest probari, in quibus nihil
quisquam poterit invenire contrarium. Sed hoc solius substantiae proprium non
est, namque et quantitas definita contrariis caret. Nam neque duo tribus
contraria sunt, nec duobus quattuor, nec aliquid huiusmodi: nam si dicamus tres
duobus esse contrarios, cur non his duobus etiam quattuor vel quinque contrarios
esse ponamus? Nulla enim afferri ratio potest, cum tres duobus contrarii sint,
cur quattuor vel quinque duobus contrarii non sint. Quod si hoc est, vel
quattuor, vel tres, vel quinque, vel quicumque a duobus distant numeri,
contrarii fiant duobus, et erunt uni rei multa contraria, quod fieri non
potest. Non est igitur contrarium aliquid quantitati. Sed si quis dicat magnum
paruo vel multae paucis esse contraria, haec quidem etiamsi quis quantitates
esse confirmat, tamen definitae quantitates non sunt, quantum enim sit magnum
vel quantum paruum, non definit qui loquitur, eodem modo, etiam de multis atque
paucis. Quare si quis haec quantitates esse dicat, indeterminatas indefinitas
quo esse confitebitur. Dicit autem Aristoteles terminata, quantitati nihil esse
contrarium, ut duobus vel tribus, vel lineae vel superficiei. Quod si etiam
aliae quantitates habent contraria, aliae vero non habent, nihil omnino impedit
ad hoc quod dicitur, proprium non esse substantiae, idcirco quod constat
quasdam quantitates non habere contraria. Quod si hoc et in quantitatibus
evenit; non esse contrarium, substantiarum proprium non est. Atque haec quidem
si quis magnum vel paruum in quantitatibus ponat, manifestum ect (ut ipse est
posterius monstraturus) haec non esse quantitates sed ad aliquid, magnum enim
ad paruum dicitur; sed cum ad ea loca venerimus, propositi ordinem loci
diligentius exsequemur. Nunc quoniam declaratum est et substantiae nihil esse
contrarium, et hoc ei proprium non esse, quoniam idem etiam in quantitatibus
consideratur, ad sequens proprium expositionis semitam convertamus.VIDETUR
AUTEM SUBSTANTIA NON SUSCIPERE MAGIS ET MINUS; DICO AUTEM NON QUONIAM
SUBSTANTIA NON EST A SUBSTANTIA MAGIS SUBSTANTIA (HOC ENIM DICTUM EST QUONIAM
EST) SED QUONIAM UNAQUAEQUE SUBSTANTIA HOC IPSUM QUOD EST NON DICITUR MAGIS ET
MINUS; UT, SI EST IPSA SUBSTANTIA HOMO, NON ERIT MAGIS ET MINUS HOMO, NEC IPSE
A SE IPSO NEC AB ALTERO. NEQUE ENIM EST ALTER ALTERO MAGIS HOMO, QUEMADMODUM
ALBUM EST ALTERUM ALTERO MAGIS ALBUM, ET BONUM ALTERUM ALTERO MAGIS BONUM; ET
IPSUM SE IPSO MAGIS ET MINUS DICITUR, UT CORPUS, ALBUM CUM SIT, MAGIS DICITUR
NUNC QUAM PRIMO, ET CALIDUM MAGIS ET MINUS DICITUR; SUBSTANTIA VERO NON DICITUR
(NEQUE HOMO MAGIS DICITUR NUNC HOMO QUAM ANTEA DICITUR, NEC CAETERORUM ALIQUID
QUAE SUNT SUBSTANTIA); QUARE NON SUSCIPIET SUBSTANTIA MAGIS ET MINUS. Hoc
proprium non simpliciter dicitur sed cum aliqua distinctione: ait enim
substantium neque magis recipere, neque minus, non hoc dicens, quoniam
substantia non est magis ab alia substantia. Namque quidam homo cum sit
substantia, magis est substantia ab homine, id est ab specie, et homo ab
animali, id est a genere. Ergo non hoc dicit, quoniam non inveniuntur
substantiae quae a substantiis magis substantiae sint: hoc enim dictum est,
quoniam est, id est quoniam inveniuntur. Ait enim superius primas substantias,
id est individuas, maxime esse substantias, in secundis vere substantiis, magis
esse substantias species quam genera. Ergo non dicit, quoniam nulla substantia
ab alia substantia magis substantia est sed hoc ipsam quod est, quaelibet illa
substantia non dicitur magis et minus substantia, ut si est substantia homo,
non dicit quoniam homo non est magis et minus substantia, individuas enim homo
magis est substantia, species vero minus si ad primam, id est individuam,
substantiam referatur. Sed hoc dicit, hoc ipsum quod est, id est, homo non erit
magis homo vel minus homo; quocirca non dicit quoniam homo non est magis
substantia vel minus sed quoniam homo, hoc ipsum quod est, non est magis vel
minus homo, non est enim aliquis homo magis et minus homo; et hoc idem in
eiusdem comparatione convenit speculari. Nam ipse homo a seipso 197C non est
plus homo, at vero nec si ad alterum conferatur, ad alterum vero ita, ut sub
eadem coniunctione sint, ut quidam homo individuus ad aliquem individuum
hominem comparatus, non erit magis et minus homo, et ipsa species seipsa non
erit magis et minus homo; sed hoc palam est in substantiis, in qualitatibus
vero potest essc magis et minus, album enim potest fieri magis album seipso, et
suscipere magis et minus, ut sit magis album et minus album; potest et alio
albo plus esse album, ut lilium lana; et alio albo minus esse album, ut lana
lilio, et cygnus nive, atque idem in aliis qualitatibus, ut bono et calido.
Namque haec possunt temporibus permutari, et in plus minusue transduci, fit
enim aliquoties bono melius et deterius, et calido feruentius et tepidius: homo
vero quod est substantia, neque nunc plus erit homo quam fuit antea, neque post
magis aut minus erit hormo quam nunc est. Quocirca cum substantia non suscipiat
magis et minus, tamen proprium eius hoc non erit. Sed cur non sit proprium ipse
Aristoteles velut notum conticuit; nos autem addimus, quoniam non solum
substantiae non suscipiunt magis et minus sed et alia multa; circulus enim alio
circulc non erit magis circulus aut minus, nec duplum magis duplum vel minus;
aequaliter enim duplus est quaternarius: ad binarium, et denarius ad quinarium
comparatus, quocirca quoniam etiam in aliis idem est, hoc substantiae proprium
non esse putandum est. Sed haec quidem omnia quaecumque sunt 198A in
substantiis omnibus, propria tamen substantiae non sunt, eo quod etiam in aliis
sint, consequentia substantiae appelluntur. Hanc enim omnia substantias
consequuntur, ut ubicumque fuerit substantia, ea quae dicta sunt inveniantur,
id est in subiecto non esse, et praedicationes ab his univoce fieri, et quod
hoc aliquid significet, et quod nihil sit illis contrarium, et quod non
suscipiant magis et minus: illa vero quae non omnibus substantiis insunt
accidentia sunt substantiis, quocirca propria non sunt. Quod si propria non
sunt, nondum quale sit substantia demonstrant. Cuare ut substantiae qualitatem
proprio cognoscamus, talis est huic requirenda proprietas, quae et solis
substantiis insit et omnibus, haec autem huiusmodi est, quam ipse proposuit. MAXIME
AUTEM PROPRIUM SUBSTANTIAE VIDETUR ESSE QUOD, CUM SIT IDEM ET UNUM NUMERO,
CONTRARIORUM SUSCEPTIBILE EST. ET IN ALIIS QUIDEM NULLIS HOC QUISQUAM HABEAT
PROFERRE QUAE NON SUNT SUBSTANTIAE, QUOD UNUM NUMERO CONTRARIORUM ERIT
SUSCEPTIBILE; UT COLOR, QUOD EST UNUM ET IDEM NUMERO, NON ERIT ALBUM ET NIGRUM,
NEC EADEM ACTIO ET UNA NUMERO ERIT MALA ET BONA; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS
QUAECUMQUE SUBSTANTIAE NON SUNT. IPSA VERO SUBSTANTIA, CUM SIT UNA ET EADEM
NUMERO, CONTRARIORUM SUSCEPTIBILIS EST; UT QUIDAM HOMO, UNUS ET IDEM CUM SIT,
ALIQUANDO ALBUS ALIQUANDO NIGER FIT, ET CALIDUS ET FRIGIDUS, ET IMPROBUS ET
PROBUS. IN ALIIS VERO NULLIS TALE ALIQUID VIDETUR, NISI QUIS OPPONAT ORATIONEM
ET OPINIONEM DICENS HUIUSMODI ESSE; EADEM ENIM ORATIO ET VERA ET FALSA ESSE
VIDETUR, UT, SI VERA ORATIO EST ALIQUEM SEDERE, CUM IPSE SURREXERIT EADEM IPSA
ERIT FALSA; SIMILITER AUTEM ET IN OPINIONE; SI QUIS ENIM VERE OPINABITUR SEDERE
ALIQUEM, CUM IPSE SURREXERIT FALSE OPINABITUR, EANDEM DE EO RETINENS OPINIONEM.
QUOD SI QUIS ETIAM HOC RECIPIAT, AT MODO IPSO DIFFERT; EADEM ENIM QUAE SUNT IN
SUBSTANTIIS IPSA PERMUTATA CONTRARIORUM SUNT SUSCEPTIBILIA (FRIGIDUM ENIM EX
CALIDO FACTUM PERMUTATUM EST, ET NIGRUM EX ALBO ET PROBUM EX IMPROBO, SIMILITER
AUTEM ET IN ALIIS SINGULA IPSA PERMUTATIONEM SUSCIPIENTIA CONTRARIORUM
SUSCEPTIBILIA SUNT), ORATIO VERO ET OPINIO IPSA QUIDEM IMMOBILIA OMNINO SEMPERQUE
PERMANENT, RE VERO MOTA CONTRARIETAS CIRCA EA FIT; ORATIO ENIM PERMANET EADEM
SEDERE ALIQUEM, RE VERO MOTA ALIQUOTIENS QUIDEM VERA FIT ALIQUOTIENS FALSA;
SIMILITER AUTEM ET IN OPINIONE. QUAPROPTER HOC MODO PROPRIUM ERIT SUBSTANTIAE
UT SECUNDUM PROPRIAM PERMUTATIONEM SUSCEPTIBILIS CONTRARIORUM SIT -- SI QUIS
ETIAM HOC SUSCIPIAT, OPINIONEM ET ORATIONEM CONTRARIORUM ESSE SUSCEPTIBILES. Ait
maxime proprium esse substantiae, quod eadem et una numero contrariorum
susceptiva sit, nihil contrarium superioribus dicens. Illic enim dixerat
substantias substantiis non essecontrarias, hic vero dicit non substantias
substantiis esse contrarias sed res in se contrarias posse suscipere, ut unus
atque idem homo, nunc quidem sit sanus, alio vero tempore sit aeger, aegritudo autem
et sanitas contraria sunt. Ergo quoniam declaratum est substantiam posse contraria
suscipere, demonstrandum est quemadmodum hoc solis substantiis insit; hoc enim
in nullis aliis invenitur, namque in qualitate qualitas non erit eadem, neque
una numero contrariorum susceptiva, idem enim et unum numero non erit album
atque nigrum, cum album fuerit et post in nigrum vertitur, tota qualitatis
species permutatur, et non erit unum atque idem numero quod contrarium est sed
diversum. At vero et actio eadem et una numero non erit bona atque mala sed
fortasse una bona, alia mala, ita ut diversae sint, non eaedem numero, hoc
etiam in aliis reperitur. Ipsa vero substantia cum una sit et numero
singularis, contraria suscipit, ut idem atque unus homo cum fuerit candidus
atque albus a sole tactus nigrescit, et album in nigrum convertitur, et in
contrarium permutatur, utrasque res in se contrarias suscipiens. Nulli igitur
alii inesse hoc nisi solis substantiis, satis superiora demonstrant. Si quis
autem opponat orationem et opinionem unam atque eamdem contrariorum esse
susceptibilem, ideo quod cum dico Cicero sedet, vel eum sedere opinor, cum vere
sedet, vera est et oratio de eodem et opinio quod sedet; cum vero surrexit
ille, eadem permanet opinio vel oratio quae dicit vel arbitratur Cicero sedet
sed falsa est, quod non sedet, videtur opinio atque oratio eadem et una numero
nunc quidem esse vera, nunc autem falsa, et contraria ipsa suscipere sed hoc
falsum est, quod oratio et opinio contraria non recipiunt: nam si quis hoc
recipiat quod etiam oratio atque opinio contrariorum suscepliva sint, non tamen
eodem modo quo substantia. Nam substantia ipsa contraria suscipiens permutatur,
Cicero namque ipse in se aegritudinem suscipiens ex sano factus est aeger, et
mutatus ipse contraria suscipit; sermo vero vel opinio ipsa quidem immutata
permanent sed cum rebus de quibus dicuntur permutatis ipsa, inveniuntur falsae
esse vel verae. Et substantia quidem ipsa cum iis quae suscipit contrariis
permutatur; oratio vero et opinio, eo quod res de quibus dicuntur vel
arbitrantur permntentur, ipsae videntur falsis esse vel verae. Nam cum dico
Cicero sedet, si ille surrexit, oratio quidem ipsa nihil passa est sed res de
qua fuit ipsa oratio mota est. Qui enim sedebat surrexit, idcirco ex vera
oratione facta est falsa. Quocirca substantia ipsa suscipiens (ut dictum est)
contraria permatatur, oratio vero vel opinio non mutatur sed re circa eas mota
ipsae verae vel falsae sunt. Quare proprium substantiae ita esse putabitur
contrariorum susceptibile, ut ipsa permutata contraria suscipiat, non ut, re
mutata, ipsa impermutata immutabilisque permaneat. Atque hoc dictum est, si
quis orationem atque opinionem contrariorum susceptibiles pPomba, non autem
esse orationem atque opinionem contrariorum susceptibiles. Ipso rursus adiecit.
NON EST AUTEM HOC VERUM; ETENIM ORATIO ET OPINIO NON QUOD EA SUSCIPIANT ALIQUID
CONTRARIORUM ESSE SUSCEPTIBILIA DICUNTUR SED QUOD CIRCA ALTERAM QUANDAM
PASSIONEM SINT. EO ENIM QUO RES EST VEL NON EST, EO ORATIO VEL VERA VEL FALSA
DICITUR, NON EO QUOD IPSA SUSCEPTIBILIS EST CONTRARII. SIMPLICITER ENIM NIHIL
NEQUE ORATIO MOVETUR NEQUE OPINIO, QUARE NON ERUNT SUSCEPTIVAE CONTRARIORUM
NULLO IN EIS FACTO. SUBSTANTIA VERO, QUOD IPSA SUSCIPIAT CONTRARIA, EO DICITUR
CONTRARIORUM SUSCEPTIBILIS. AEGRITUDINEM ENIM ET SANITATEM SUSCIPIT, ET
ALBEDINEM ET NIGREDINEM; ET UNUMQUODQUE TALIUM IPSA SUSCIPIENS CONTRARIORUM
ESSE DICITUR SUSCEPTIBILIS. QUARE PROPRIUM ERIT SUBSTANTIAE, CUM SIT IDEM ET
UNUM NUMERO, SUSCEPTIBILEM CONTRARIORUM ESSE. ET DE SUBSTANTIA QUIDEM HAEC
DICTA SINT. Ait enim orationem atque opinionem ipso quidem contrarii nullius
esse susceptibila, neque enim falsitas veritasque in oratione vel opinione
insita est sed idcirco videntur contrariorum esse susceptibilia, quod (ut ipse
ait) circa alteram quamdam passionem sint, hoc est circa hoc esse opinionem vel
orationem. Nam circa sedere et non sedere. quae sunt contraria, est sedendi
aliquem et non sedendi opinio vel oratio, atque ideo quoniam circa alias res
sunt quae sibi sunt contrariae, illis permutatis, ista videntur esse contraria,
non quod ipsa suscipiant contraria sed quod circa contrarias passiones rerum
sint. Nam neque oratio neque opinio permutatur sed sola tantum de quibus est
oratio atque opinio, id est sedere et non sedere. Quocirca quoniam nullam ipsa
oratio vel opinio suscipiunt passionem, nec quidquam in eis fit, atque evenit
contrarium, contrariorum esse susceptibilia non videntur. At substantia eo quod
ipsa suscipiat contrarium, contrariorum dicitur esse susceptibilis. Cicero enim
suscipiens sanitatem sanus fit, et suscipiens aegritudinem fit aeger. Oratio
vero atque opinio (ut dictum est) contraria non suscipiunt. Quare erit hoc
proprium substantiae contrariorum esse susceptibilem. Sed si quis forsitan
dicat cur cum ignis calidus sit nunquam frigus suscipiat, et cur cum aqua sit
humida nunquam suscipiat siccitatem. His enim oppositis, videtur non omnis
substantia contrariorum esse susceptibilis, et substantiae hoc proprium
infirmabitur, cum non sit in omnibus substantiis. Sed dicendum est quoniam ea
contraria suscipere vidantur substantiae quae sunt in eius natura non insita,
alioqui non suscipit quidquid illi substantialiter adest. Suscipere enim
dicimus aliquid de rebus extrinsecus positis et praeter substantiam constitutis:
quoniam igitur in substantia ignis inest calidum esse, ignis calorem non
suscipit; quocirca neque est ignis caloris susceptibilis, neque frigoris.
Calorem quidem non suscipit, idcirco quod eius naturae substantiaeque
immutabiliter adhaesit. Frigus enim non suscipit, quoniam caloris natura ipsius
ignis contrarium sponte repudiat. Quocirca si quid est quod suscipiat ignis, id
est extrinsecus positum, accipiat necesse est eius quoque contrarium, ipse unus
permanens ac singularis. Idem quoque de aqua dicendum est: illa enim sicut
ignis calorem, sic non suscipit humiditatem sed est quodammodo et ipsi
humiditas naturaliter insita; arque ideo calor ignis, vel humiditas aquae non
solum qualitates dicuntur sed etiam substantiales igni et aquae qualitates; namque
aqua quoniam in se neque frigidus neque calorem substantialiter habet,
susceptibilis et frigoris et caloris esse dicitur. Quocirca non de his
contrariis loquitur quae substantialiter insunt sed his qua potest suscipere
unaquaque substantia, id est quod potest extrinsecus adhiberi: hoc autem in
omnibus esse substantiis manifestum est: nam quoniam Cicero sanus et aeger est,
homo sanus et aeger est; et si homo sanus et aeger est, animal sanum atque
aegrotum est. Sed cum duobus modis animal atque homo spectentur, uno quod de
pluribus praedicentur, altero quod substantiae sint, in eo quod de pluribus
praedicautur contrariorum susceptiva non sunt: ut animal in eo quod de
speciebus dicitur, neque sapiens est, neque insipiens, et homo in eo quod de
individuis dicitur, neque sanus est, neque aeger; in eo vero quod substantiae
sunt, et quod individuis substantiis praesunt, contrariorum susceptibiles sunt.
Quocirca erit hoc solius proprium substantiae, contrarium esse susceptibilem. Haec
de substantia dicta sufficiant. Secundi vero voluminis series ab expositione
inchoabitur quantitates. Et si nos curae officii consularis impediunt quominus
in his studiis omne otium plenamque operam consumimus pertinere tamen videtur
hoc ad aliquam reipublicae, curam, elucubratae rei doctrina cives instruere.
Nec male de civibus meis merear, si cum prisca hominum virtus urbium caeterarum
ad hanc unam rempublicam, dominationem, imperiumque transtulerit, ego id saltem
quod reliquum est, Graecae sapientiae artibus mores nostrae civitatis
instruxero. Quare ne hoc quidem ipsum consulis uacat officio, cum Romani semper
fuerit moris quod ubicumque gentium pulchrum esset atquelaudabile, id magis ac
magis imitatione honestare. Aggrediar igitur et propositi sententiam operis
ordinemque contexam. QUANTITATIS ALIUD EST CONTINUUM, ALIUD DISGREGATUM ATQUE
DISCRETUM; ET ALIUD QUIDEM EX HABENTIBUS POSITIONEM AD SE INVICEM SUIS PARTIBUS
CONSTAT, ALIUD VERO EX NON HABENTIBUS POSITIONEM. EST AUTEM DISCRETA QUANTITAS
UT NUMERUS ET ORATIO, CONTINUA VERO UT LINEA, SUPERFICIES, CORPUS, PRAETER HAEC
VERO TEMPUS ET LOCUS. PARTIUM ENIM NUMERI NULLUS EST COMMUNIS TERMINUS AD QUEM
PARTES IPSIUS CONIUNGANTUR; UT QUINARIUS, SI EST PARS DENARII, AD NULLUM
COMMUNEM TERMINUM CONIUNGUNTUR QUINQUE ET QUINQUE SED DISIUNCTI SUNT; ET TRES
ET SEPTEM AD NULLUM COMMUNEM TERMINUM CONIUNGUNTUR; NEQUE OMNINO ALIQUIS
HABEBIT IN NUMERO SUMERE COMMUNEM TERMINUM PARTIUM SED SEMPER DISCRETAE SUNT;
QUARE NUMERUS DISCRETORUM EST. SIMILITER 201D EST AUTEM ET ORATIO DISCRETORUM;
(QUONIAM ENIM QUANTITAS EST ET ORATIO MANIFESTUM EST; MENSURATUR ENIM SYLLABA
LONGA ET BREVIS; DICO VERO ILLAM QUAE FIT CUM VOCE ORATIONEM); AD NULLUM ENIM
COMMUNEM TERMINUM PARTES EIUS CONIUNGUNTUR; NEQUE ENIM EST COMMUNIS TERMINUS AD
QUEM SYLLABAE CONIUNGUNTUR SED UNAQUAEQUE DISCRETA EST SECUNDUM SEIPSAM. Post
substantiae tractatum cur de quantitate potius ac non de qualitate proposuerit
haec causa est, quod omnia quaecumque sunt, simul atque sunt in numerum cadunt.
Omnis enim res aut est una aut plures: unum vero vel plures quantitatis
scientia colliguntur. Sed non omnis res simul atque est aliquam accipit qualitatem,
ipsa enim materia sub quantitatis quidem principium cadit, quod una est sub
qualitatem vero minime; ipsa enim cunctis est iuterim qualitatibus absoluta,
superaddita vero forma quadam afffcitur qualitate: per se autem numero quidem
una est, qualitate vero nulla; quocirca si res omnis simul atque est cadit in
numerum, non autem omnis res mox ut est statim suscipit qualitatem, recte prius
de quantitate proposuit. Est quoque alia causa cur prius de quantitatis ratione
pertractet. Omne enim corpus ut sit, tribus dimensionibus constat, longitudine,
latitudine, altitudine: ut vero sit corpus cum qualitate, tunc erit aut album,
aut nigrum, aut quodlibet aliud; et quoniam prius est esse corpus, post vero
esse corpus album, prius erit corpori tribus constare dimensionibus 202C quam
esse album. Sed tres dimensiones et numero et continuatione spatii quantitates
sunt. Longitudo enim et latitudo et altitudo in quantitatibus numerantur, album
vero qualitatis est: quocirca si prius est ex tribus constare dimensionibus
quam esse album, prior erit quantitas qualitate, quocirca recte est tractatus
de quantitate propositus. Item alia causa, quod quantitas plura habet substantiae
consimilia: nam quemadmodum substantiae nihil est contrarium, et substantia non
recipit magis et minus, sic etiam quantitas: quantitati enim nihil est
contrarium, nec quantitas recipit magis et minus, ut paulo post docebimus;
qualitas vero et contraria suscipit, ut album et nigrum, et magis et minus, ut
candidius et nigrius, et candidissimum et nigerrimum; id enim sumit intentionem
quod potest sumere diminutionem. Quod si substantiae similior quantitas est
recte post substantiam de quantitate proposuit. Quantitatis autem dicit esse
differentias duas: quantitatis namque alia discreta est disgregata, alia vero
continua. Post hanc rursus divisionem alio modo partitus est quantitatem: dicit
enim quantitatis aliam quae constat ex habentibus positionem ad se invicem suis
partibus; aliam vero ex non habentibus positionem. Unam vero rem diverse posse
dividi manifestum est, hoc modo, ut si quis dividat animal dicens: Animalium
alia sunt rationabilia, alia irrationabilia; et rursus eamdem ipsam rem alia
modo partiamur, ut est, Animalium alia sunt gressibilia, alia non gressibilia,
eorumque animalium rursus, alia sunt carnibus uescentia, alia herbis, alia
seminibus. Hic ergo una eademque res diverso ordine modoque divisa est. Ita
igitur Aristoteles unum idemque quantitatis nomen diverse partitus est in ea
scilicet quae discreta essent, et quae continua, et in ea quae haberent
positionem partium, et quae non haberent. Sed de secunda divisione posterius
dicendum est, nunc prima tractetur. Ait enim de prima divisione hoc modo:
Quantitatis aliud est continuum, aliud disgregatum. Disgregatum est cuius
partes nullo communi terrrino coniunguntur. Continuum vero cuius partes habent
aliquem communem terminum, ad quem videantur esse coniunctae. Discretarum
namque quantitatum ipse exempla ponit et species. Oratio enim discreta est
quantitas, eodemque modo et numerus, et numerum esse quantitatem nemo dubitat.
Discreta vero est, quoniam denarius numerus cum constet ex quinque et quinque,
quae res quinarium ad quinarium. iungat ut faciat denarii corpus, non potest
inveniri. Nam si tres et septem quis dixerit, quo communi termino tres et
septem coniungantur, ut denarii reddatur unum integrum corpus, nullus inveniet,
atque hoc quidem in omni numero speculari licet. Nullus enim numerus ita partes
habet, ut eas aliquis communis terminus iungat sed semper partes ipsae
disiunctae atque discretae sunt, et huiusmodi vocatur quantitas discreta.
Numerus ergo discreta quantitas est, orationem vero quantitatem esse dicit,
idcirco quod omnis oratio ex nomine constet et verbo sed haec syllabis
constant. Omnis autem syllaba vel longa vel brevis est. Longum vero vel breue
sine ulla dubitatione quantitas est, quocirca quod ex quantitatibus constat, id
quantitatem esse quis dubitet? At vero oratio ipsa cum sit quantitas, illa
quoque discreta est. Cum enim dico Cicero, quod orationis est pars, partes
huius nominis ci et ce et ro nullo communi termino coniunguntur. Non enim
reperiemus quo communi termino iungatur ci syllaba ad ce syllabam, vel rursus
ce syllaba ad ro syllabam. Quocirca etiam oratio quantitas videtur esse
discreta. Sed si quis fortasse dicat hunc eorum esse communem terminum, quo ita
iunguntur, ut aliquid significent, ut in hoc ipso nomine Cicero communis
syllabarum terminus ipsa significatio sit. Si enim ce syllaba, quae media est,
prima ponatur, et ro, quae ultima est, media, et ci, quae plima est, ultima,
nomen quod erat antea, id est Cicero, transuersis per loca syllabis nihil
significabit. Illi dicendum est quoniam quaecumque in quadam oratione proferuntur,
sive significent, sive nihil significent, syllabarum communis terminus nullus
est. Nam si quis dicat, permutatis syllabis, quod est Cicero, ceroci
significationem quidem amisit sed aequaliter syllabae ad nullum communem
terminum coniunguntur. Quod si quis hunc quidem ipsum sermonem aliquid
significare posuerit, ut hoc ipsum Cicero aliquid significat, significatio
quidem addita est, nullus tamen syllabis terminus appositus. Quare sive
significet, sive nihil significet nomen, partes eius discretae atque disiuncta,
sunt, et nullo communi termino con iunguntur; quoniam vero Graeca oratione
*logos* dicitur etiam animi cogitatio, et intra se ratiocinatio, *logos* quoque
et oratio dicitur, nequis Aristotelem cum diceret *logon*, id est orationem,
quantitatem esse discretam, de eo putaret dicere quem quisque *logon*, id est
rationem, in propria cogitatione disponeret, hoc addidi. Dico autem illam quae
fit cum voce orationem. Apud Romanam namque linguam discreta sunt vocabula
orationis atque rationis. Graeca vero oratio utriusque vocabulum et rationis et
orationis *logon* appellat. Quare ne quid mendax translatio culparetur, idcirco
hoc quoque addidi: Dico vero illam quae fit cum voce orationem, apud Latinos
enim nulla alia oratio est praeter hanc solam quae fit cum voce orationem. Apud
Graecos vero est alius *logos* qui fit in animi cogitatione. Quocirca nequid
deesset, etiam hoc quod Latinam orationem minus esset conveniens, transtuli.
Quod quare ita fecerim, hac expositione patefeci, atque haec quidem de discreta
quantitate sufficiant. Continua vero quantitas est (ut dictum est) cuius
quantitatis partium communis terminus invenitur, ut est linea, superficies,
corpus, et praeter haec tempus, et locus, quod ipse Aristoteles designat his
verbis: LINEA VERO CONTINUA EST; NAMQUE EST SUMERE COMMUNEM TERMINUM AD QUEM
PARTES IPSIUS CONIUNGUNTUR, HOC EST AUTEM PUNCTUM, ET SUPERFICIEI LINEA
(SUPERFICIEI ENIM PARTES AD QUENDAM COMMUNEM TERMINUM CONIUNGUNTUR). SIMILITER
AUTEM ET IN CORPORE HABEBIT QUIS SUMERE COMMUNEM TERMINUM, 204C VEL LINEAM VEL
SUPERFICIEM, AD QUEM PARTES CORPORIS CONIUNGUNTUR Postquam de discretis
explicuit, transiit ad species continuae quantitatis. Continuae autem
quantitates sunt (ut dictum est) in quarum partibus quidam communis est
terminus, ut linea. Si quis enim dividat lineam, quae est longitudo sine
latitudine, duas in utraque divisione lineas facit, et utriusque ex divisione
lineae singula in extremitatibus puncta redduntur. Lineae enim termini puncta
sunt. Quocirca cum illa linea divisa non esset, utraque puncta quae in utrisque
linearum capitibus post divisionem apparent, simul antea fuisse intelliguntur,
quae sunt in divisione separata. Intelligitur ergo partium lineae communis
terminus, punctum, id est quoddam paruissimum quod in partes dividi secarique
non possit: Superficies quoque, quae est latitudo sine altitudine, communem
terminum habet in partibus, lineam, corpus vero solidum, superficiem. Eodem
enim modo divisa superficies duas per singulas partes lineas efficiet,
quemadmodum et in linea divisa duo puncta altrinsecus reddebantur. Corpus
quoque solidam cum diviseris, duas in utrisque divisionis partibus superficies
facies, quae cum coniuncta sint atque indivisa, punctum quidem partium lineae
intelligitar communis terminus. Linea vero superficiei, superficies autem
solidi corporis. Est autem signum continui corporis, si una pars mota sit,
totum corpus moveri; et si totum corpus movetur, certe simul aliae partes
vicinae movebuntur, ut si iaceat virgula vel ex aere, vel ex ligno, vel ex
quolibet alio metallo, si quis unum eius caput vel quamlibet eius partem
moveat, tota mox virgula commovetur. Hoc autem idcirco evenit quod eius partes
quodam communi termino coniunguntur, et ille communis terminus una parte mota
caeteras movet. Hoc vero in discretis non est. In numero namque cum sint decem,
si unum movero, caeteri non moventur, immoti enim permanent novem; etsi plenus
tritico sit modius, si unum tritici granum movero, non omnia continuo grana
commovebuntur, idcirco quod discreta est multitudo, nec granum grano ullo
communi termino videtur implicitum. At vero si ipsius grani pars una sit mota,
totum corpus grani moveatur necesse est. Non autem nunc hoc dicitur, quod linea
constet ex punctis, aut superficies ex lineis, aut solidum corpus ex
superficiebus sed quod et lineae termini puncta sunt, et superficiei lineae, et
solidi corporis superficies, nullaque res suis terminis constat. Quocirca
punctum lineae non erit pars sed communis terminus partium. Superficiei linea,
et superficies solidi corporis non erunt partes sed partium termini communes.
Constat igitur, et lineam et superficiem, et solidi corporis crassitudinem esse
continuam quantitatem. His alia rursus apponit. SUNT AUTEM TALIUM ET TEMPUS ET
LOCUS; PRAESENS ENIM COMMUNIS EST TERMINUS AD QUEM CONIUNGUNTUR PRAETERITA VEL
FUTURA. RURSUS LOCUS CONTINUORUM EST; LOCUM ENIM QUENDAM PARTES CORPORIS
RETINENT, QUAE AD QUENDAM COMMUNEM TERMINUM CONIUNGUNTUR; 205C ERGO ET LOCI
PARTES, QUAS TENENT SINGULAE PARTES CORPORIS, AD EUNDEM TERMINUM CONIUNGUNTUR
AD QUEM ET PARTES CORPORIS IUNGEBANTUR; QUARE CONTINUUM EST ET LOCUS; AD UNUM
ENIM COMMUNEM TERMINUM EIUS PARTES CONIUNGUNTUR. Tempus quoque et locum
continuae quantitatis esse pronuntiat. Tempus namque esse quantitatem res illa
demonstrat, quod in spatio, id est in longitudine et in brevitate,
consideratur. Continuum vero esse res illa demonstrat quod partes temporis
habeant aliquem communem terminum ac medium, ad quem coniungantur extrema. Nam
cum sint partes temporis praeteritum et futurum, horum praesens tempus communis
est terminus, huius namque finis est, illius initium. Locus quoque continuorum
est. Locum vero dicimus quodcumque illud sit quod partes corporis tenet, sive
supra, sive a latere, seu subter sit. Quod si cunctae partes corporis locum
aliquem tenent, et qui circa corpus est locus, per omne corporis spatium
partesque diffunditur, omnes corporis partes a loci partibus occupabuntur. Quod
si ita est, qui communis terminus coniungebat corporis partes, eius termini locus
illa quoque loca quae sunt corporis partium iungit, et est eodem modo locus de
continua quantitate, quemadmodum et corpus. Ita enim communis terminus
invenitur in loco partium quemadmodum et corporis, idcirco quod corporis locus,
per corpus omne diffunditur. Quod autem dixit: SUNT AUTEM TALIUM ET TEMPUS ET
LOCUS, quoniam superius de continuis loquebatur, tempus quoque et locum
continuis addidit dicens: SUNT AUTEM TALIUM ET TEMPUS ET LOCUS, id est
continuorum sed post continuae discretaeque quantitatis divisionem aliam a
principio rursus orditur. AMPLIUS ALIA SUNT QUAE EX HABENTIBUS AD SE INVICEM
POSITIONEM SUIS PARTIBUS CONSTANT; UT LINEAE QUIDEM PARTES HABENT AD SE INVICEM
POSITIONEM (SINGULAE ENIM IACENT ALICUBI, ET POSSIS COGNOSCERE ET DESIGNARE UBI
SINGULAE IN SUPERFICIE IACEANT ET AD QUAM CAETERARUM PARTIUM CONIUNGANTUR);
SIMILITER AUTEM ET SUPERFICIEI PARTES HABENT ALIQUAM POSITIONEM (SIMILITER ENIM
DESIGNABUNTUR SINGULAE UBI IACENT, ET QUAE AD SE INVICEM CONIUNGUNTUR). ET
SOLIDITATIS QUOQUE ET LOCI SIMILITER. Rursus digerit quantitatis differentias.
Sunt enim quantitatis aliae quidem quae ex habentibus positionem ad seinvicem
suis partibus constant, aliae vero quae nullam partium habent positionem.
Positionem vero partium retinere dicuntur, quarum triplex ista natura est:
primum ut eius partes alicubi sint, deinde ne pereant, tertio vero ut sese
partes ipsae coniungant et propria se ordinatione continvent, ut est linea.
Posita enim linea in superficie possis agnoscere ubi partes ipsius sint, caput
quidem lineae esse ac dexteram, medium medio loco, extremitatem vero ad
sinistram, et haec manentibus ipsis partibus dicuntur, partes enim lineae non
pereunt sed in loco in quo sunt permanent. Possis quoque monstrare quae pars
lineae cui parti continventur, id est ad quam partem caput alterius partis
extremitasque coniungitur, ut dices haec pars, verbi gratia medietas, lineae
hic finitur, locum ubi desinat monstrans, alia rursus pars lineae totius hic
incipit. Ergo linea posita in superficie qualibet et locum aliquem partes eius
retinent, et partes ipsae non pereunt, et posset quilibet agnoscere ubi
extremitas partium coniungatur, et quo ad se invicem loco continventur. Hoc
quoque idem in superficie evenit, partes enim superficiei in aliquo loco sunt,
et ipsae quoque non pereunt, et ubi pars parti coniungatur ostenditur, idem
quoque soliditas habet, et loci quoque partes continuantur ad eas scilicet
partes ad quas corporis partes sibimet continuantur, sicut iam supra dictum
est. Quocirca eiusdem naturae erit et locus, cuius tota soliditas erit. Ergo et
locus ex eodem genere quantitatis est, quo est et soliditas, id est ex
habentibus ad se invicem positionem suis partibus constans. Locus igitur et
ipse ex habentibus suis partibus positionem ad se invicem constat. Ergo tria
haec (sicut supra dictum est) consideranda sum, ut ad se invicem positionem
partes habere videantur, id est locum in quo partes ipsae sint positae, ut
partes illae non pereant, ut sit partium continentia atque continuatio. Quod si
quis dicat hanc rem loco deesse, eo quod in loco non sit, in loco enim cuncta
sunt, locus autem in loco esse ipse non poterit. Dicendum est quoniam idcirco
superficies et soliditas et linea habere positionem partium dicuntur, quod in
loco siut, et partes permaneant, et sint continuae. Quare multo magis ipse
locus, cuius neque partes pereunt, et sibi perpetue continuatimque coniunctae
sunt, habere positionem partium dicitur. Et de his quidem quae ex habentibus
positionem ad se invicem suis partibus constant haec dicta sint; quae vero non
habent positionem ipse rursus adiecit. IN NUMERO VERO NULLUS HABET PERSPICERE
QUEMADMODUM PARTES HABEANT AD SE INVICEM ALIQUAM POSITIONEM VEL UBI IACEANT VEL
QUAE AD QUAM CONIUNGANTUR; AT VERO NEC TEMPORIS; NIHIL ENIM PERMANET EX
PARTIBUS TEMPORIS, QUOD AUTEM NON EST PERMANENS, QUOMODO HOC HABEBIT ALIQUEM
POSITIONEM? SED MAGIS ORDINEM QUENDAM DICES RETINERE IDCIRCO QUOD TEMPORIS HOC
QUIDEM PRIUS EST, ILLUD VERO POSTERIUS. ET IN NUMERO QUOQUE EO QUOD PRIUS
NUMERETUR UNUS QUAM DUO ET DUO QUAM TRES; ET SIC HABEBUNT ALIQUEM ORDINEM,
POSITIONEM VERO NON MULTUM ACCIPIES. ET ORATIO SIMILITER; NIHIL ENIM EIUS
PARTIUM PERMANET SED DICTUM EST ET NON EST ULTRA HOC SUMERE, QUARE NON ERIT
ULLA POSITIO EIUS PARTIUM CUIUS PERMANET NIHIL. IGITUR ALIA EX HABENTIBUS AD SE
INVICEM PARTIBUS POSITIONEM CONSTANT, ALIA VERO EX NON HABENTIBUS POSITIONEM. Haec
scilicet idcirco nullam positionem ad se invicem partium retinent, quod his
aliquid de supradictis rebus deesse manifestum est. Numerus enim ipse discretus
est, nec partes eius ad se invicem coniunguntur sed omnino discretae sunt.
Atque idcirco non est ex iis quae habent ad se invicem aliquam partium
positionem, nec vero possis ostendere qui numerus quo loco iaceat: habere autem
positionem dicitur, quod (ut dictum est) et in loco aliquo positum est, et ipsa
positio manentibus partibus constat, et ad se invicem coniunuatisque, ut
ubiquaeque iaceat, et quae ad quam continvetur possit ostendi; in numero vero
nihil horum est. Nam neque in aliquo loco esse positus demonstratur, nec eius
partes coniunctae sunt. Quocirca numero ex tribus his quae diximus duae res
desunt, loci positio et partium continuatio, tempus etiam quamquam sint eius
partes continuae, tamen quoniam non permanent sed semper moventur, semperque
praetereunt, habere positionem partium non dicitur. Semper enim veloci
agitatione torquetur, et currentis aquae more in nulla unquam statione
consistit, quod quia partes eius non permanent, ex habentibus ad se invicem
positionem suis partibus constare non dicitur. Sed haec quamquam positione in
partium habere non possunt, tamen habent ordinem quemdam, quem praeter
positionem partium tantum retinent. Dicimus enim priorem esse binarium
quamternarium, atque hunc quam quaternarium, et intempore nimirum idem ordo reuertitur.
Posterius enim futurum praesente, praesensque praeterito. Quocirca etsi haec
non habent aliquam partium positionem, retinent tamen ordinem. Quod vero dicit,
positionem vero non multo accipies, tales est ac si diceret, penitus non
accipias. Multum enim pro omnino videtur adiunctum, ac si diceret positionem
vero non omnino accipies, idcirco quod ipsa quidem continuatio dat aliquam
imaginem, quod possit habere aliquam partium positionem sed hoc minime est,
idcirco quod quamvis sint continuae quantitates, si tamen uno careant ex his
quae superius dicta sunt, positionem partium habere non possunt. Nam aqua quam
fistula euomit, dum cadit quidem retinet positionem; cum vero iam effusae undae
se miscuerit, pcsitionem partium perdit: et fluuius quoque quando in pelagus
fluit, et positionem videtur habere partium et esse continuus, cum nondum
marinae aquae fluuii superficies ipsa permista est; cum vero extremitas amnis
marina alluuione contingitur, totam sine dubio positionem videtur amittere. Oratio
quoque similiter sese habet; nam nec ipsa ullo loco posita est, nec eius partes
ad aliquam coniunguntur sed a seinvicem illae discretae sunt, nec cum eius
partes dictae sunt, permanent, atque hoc est quod ait. Sed dictum est, et non
est ultra hoc sumi. Mox enim dicitur sermo, mox praeterit, nec ullaratione
poterit permanere, quare mox ut aliquid dictum sit, eius partes ostendi et
demonstratione sumi non possunt. Constat igitur orationem quoque ex his esse
quae positionem partium non habent, de ordine vero dubium est. Nam si quis
sermo aliquid significet, ut est Cicero, est in eo quidam ordo quod ci syllaba
primum dicitur, secunda vero ce, tertia ro, et potius ex significatione ordinem
sumit; si vero nihil significet, nec ordinem dicitur habere, ut scindapsus
nihil quidem significat; sed sive secundam syllabam primam ponas, sive ultimam
primam, sive quomodolibet syllabarum ordinem seriemque permisceas, idem erit:
in significativis enim vocibus idcirco esse dicitur, quod illo ordine permutato
vis significationis euertitur, hic vero, ubi nulla est significatio, nihil
interest quomodolibet iaceant partes. Quare oratio in aliquibus quidem habet
ordinem partium, in aliis vero nec ordo ipse poterit inveniri. An fortasse
oratio dici non potest quae nihil significat, et nulla est oratio, quae ordinem
non habeat? Ergo secundum priorem quantitatis divisionem, ubi dicebatur
quantitatis alia esse continua, alia vero discreta, quinque sunt continua, duo vero
discreta. Continua quidem linea, superficies, soliditas, locus, tempus.
Discreta vero numerur, et oratio. In hac vero secunda divisione qua dicit alias
quantitates ex habentibus ad se invicem positionem constare partibus, quattuor
quidem sunt qua, retinent positionem, id est linea, superficies, corpus, locus;
tria vero quae positionem non habent sed ex his duo semper ordinem retinent,
tempus scilicet et numerus. Oratio vero si quid significet, habet ordinem; si
vero nihil significet, inordinata est; si tamen oratio nihil significans dici
possit, his dictis ipse concludit dicens: Igitur alia ex habentibus ad se
invicem partibus positionem constant, alia vero ex non habentibus positionem.
Hac igitur divisione finita 209A transit ad caetera monstrans quae proprie
quantitates nuncupatur, quae secundum accidens. PROPRIE AUTEM QUANTITATES HAE
SOLAE SUNT QUAS DIXIMUS, ALIA VERO OMNIA SECUNDUM ACCIDENS SUNT; AD HAEC ENIM
ASPICIENTES ET ALIAS DICIMUS QUANTITATES, UT MULTUM DICITUR ALBUM EO QUOD
SUPERFICIES MULTA SIT, ET ACTIO LONGA EO QUOD TEMPUS MULTUM ET LONGUM SIT, ET
MOTUS MULTUS; NEQUE ENIM HORUM SINGULUM PER SE QUANTITAS DICITUR; UT, SI QUIS
ASSIGNET QUANTA SIT ACTIO, TEMPORE DEFINIET, ANNUAM VEL SIC ALIQUO MODO
ASSIGNANS, ET ALBUM QUANTUM SIT ASSIGNANS SUPERFICIE DEFINIET (QUANTA ENIM
FVERIT SUPERFICIES, TANTUM ESSE ALBUM DICET); QUARE SOLAE PROPRIE ET SECUNDUM
SE IPSAE QUANTITATES DICUNTUR QUAE DICTAE SUNT, ALIORUM VERO NIHIL PER SE SED,
SI FORTE, PER ACCIDENS. Principaliter aliquid esse dicitur, quod per se tale
est quale esse demonstratur. Secundum accidens vero illud quod non per se sed
per aliud tale est quale esse dicitur, ut albedini per se inest color: secundum
naturam enim albi, color esse dicitur albedo; cum vero homo dicitur coloratus,
non per se dicitur, idcirco quod homo in eo quod homo est, color non est sed
quoniam habet colorem, idcirco dicitur coloratus. Ergo quemadmodum album
idcirco color est per se quoniam color naturale quoddam est genus, homo vero
idcirco coloratus dicitur quoniam habet colorem; et dicitur album quidem per se
et principaliter color, homo vero secundum accidens coloratus. Ita quoque et
quantitates; haec enim omnia quae dicta sunt, id est linea, superficies, corpus,
numerus, oratio, tempus, per se et secundum et propriam naturam quantitates
dicuntur. Si qua vero alia dicuntur secundum aliquam quantitatem, non per se
sed secundum accidens nominantur: ut album dicitur multum, non idcirco quod
albedo sit quantitas sed quoniam multa sit superfieies, in quo illud album sit.
Si enim multum spatium fuerit in quo album sit, multum erit album; quocirca non
quoniam ipsa albedo per se aliquam quantitatem habet sed quoniam in aliqua
quantitate est constituta, id est in superficie, idcirco secundum superficiem
quod est quantitas quas scilicet per se multa est, album multum dicitur, non
secundum se, atque ideo album non per se, nec principaliter sed secundum
accidens multum dicitur. Actio quoque ideo dicitur longa, quod multo tempore
acta sit; multam vero aegritudinem idcirco dicimus, si eadem multo sit tempore;
et motum multum idcirco, quod multo tempore factus sit, ut si quis multo
tempore eurrat. Si quis vero multum cursum illum dicat esse qui sit
velocissimus, ille convenienler sermone non utitur. Velocitas enim non
quantitas sed potius qualitas est, quales enim secundum eam dicimur, id est
veloces, non quanti. Secundum quantitatem vero multum dicitur, hoc autem
monstrat ipsa rerum definitio; si quis enim album multum monstrare desideret,
et proprio termino rationis includere, illi dicendum est multum esse album quod
in multa iaceat superficie, et motum atque actionem multam quae longo tempore
perficiatur; quare quoniam ad proprias quantitates aspicientes, atque ad eas
res caeteras referentes, quantitates vocamus, ut album ad superficiem quae vera
est quantitas, et cursum, et aliquem motum atque actionem ad tempus, quod ipsum
vere quantitas est reducimus, haec non per se quantitates sed per eas quae
proprie quantitates dictae sunt nominantur. Quocirca quoniam quod per se non
est, secundum accidens est, recte caetera omnia praeter ea quae superius in
quantitate numerata sunt per accidens esse, non per se quantitates dicuntur.
Solae igitur proprie et secundum se ipsae quantitates dicuntur, hae quae
superius comprehensae sunt. Aliae vero per se quantitas non sunt sed (ut ipse
ait) forte per accidens. Post divisionem igitur continui atque discreti et
habentis positionem partium et non habentis, et quae sunt per se principaliter,
et rursus per accidens quantitates, solito more viam inveniendi quantitatum
proprietas ingreditur. QUANTITATIBUS VERO NIHIL EST CONTRARIUM (IN HIS ENIM
QUAE DEFINITA SUNT MANIFESTUM EST QUONIAM NIHIL EST CONTRARIUM, UT BICUBITO VEL
TRICUBITO VEL SUPERFICIEI VEL ALICUI TALIUM -- NIHIL ENIM EST CONTRARIUM), NISI
MULTA PAUCIS DICAT QUIS ESSE CONTRARIA VEL MAGNUM MINORI. HORUM AUTEM NIHIL EST
QUANTITAS SED AD ALIQUID; NIHIL ENIM PER SE IPSUM MAGNUM DICITUR VEL PARUUM SED
AD ALIUD REFERTUR; NAM MONS QUIDEM PARUUS DICITUR, MILIUM VERO MAGNUM EO QUOD
HOC QUIDEM SUI GENERIS MAIUS SIT, ILLUD VERO SUI GENERIS MINUS; ERGO AD ALIUD
EST EORUM RELATIO; NAM, SI PER SE IPSUM PARURUM VEL MAGNUM DICERETUR, NUMQUAM
MONS QUIDEM ALIQUANDO PARUUS, MILIUM VERO MAGNUM DICERETUR. RURSUS IN VICO
QUIDEM PLURES HOMINES ESSE DICIMUS, IN CIVITATE VERO PAUCOS CUM SINT EORUM
MULTIPLICES, ET IN DOMO QUIDEM MULTOS, IN THEATRO VERO PAUCOS CUM SINT PLURES.
AMPLIUS BICUBITUM VEL TRICUBITUM ET UNUMQUODQUE TALIUM QUANTITATEM SIGNIFICAT,
MAGNUM VERO VEL PARUUM NON SIGNIFICAT QUANTITATEM SED MAGIS AD ALIQUID; QUONIAM
AD ALIUD SPECTATUR MAGNUM ET PARUUM; QUARE MANIFESTUM EST QUONIAM HAEC AD
ALIQUID SUNT. AMPLIUS, SIVE ALIQUIS PONAT EA ESSE QUANTITATES SIVE NON PONAT,
NIHIL ILLIS ERIT CONTRARIUM; QUOD ENIM NON EST SUMERE PER SE IPSUM SED AD SOLAM
ALTERIUS RELATIONEM, QUOMODO HUIC ALIQUID ERIT CONTRARIUM? AMPLIUS, SI SUNT
MAGNUM ET PARUUM CONTRARIA, CONTINGIT IDEM SIMUL CONTRARIA SUSCIPERE ET EA IPSA
SIBI ESSE CONTRARIA. CONTINGIT ENIM SIMUL IDEM PARUUM ESSE ET MAGNUM (EST ENIM
AD HOC QUIDEM PARUUM, AD ALIUD VERO HOC IDEM IPSUM MAGNUM); QUARE IDEM PARUUM
ET MAGNUM ET EODEM TEMPORE ESSE CONTINGIT, QUARE SIMUL CONTRARIA SUSCIPIET; SED
NIHIL EST QUOD VIDEATUR SIMUL CONTRARIA POSSE SUSCIPERE; UT SUBSTANTIA,
SUSCEPTIBILIS QUIDEM CONTRARIORUM ESSE vidETUR SED NULLUS SIMUL SANUS EST ET
AEGER, NEC ALBUS ET NIGER SIMUL; NIHILQUE ALIUD SIMUL CONTRARIA SUSCIPIT. ET
EADEM SIBI IPSIS CONTINGIT ESSE CONTRARIA; NAM SI EST MAGNUM ET PARUUM
CONTRARIUM, IPSUM AUTEM IDEM SIMUL EST PARUUM ET MAGNUM, IPSUM SIBI ERIT
CONTRARIUM; SED IMPOSSIBILE EST IPSUM SIBI ESSE CONTRARIUM. NON EST IGITUR
MAGNUM PARUO CONTRARIUM NEC MULTA PAUCIS; QUARE SI QUIS HAEC NON RELATIVA ESSE
DICAT, QUANTITAS TAMEN NIHIL CONTRARIUM HABEBIT. Definita quantitas est quae
alicuius termino numeri coercetur, ut sunt duo, vel tres, et quae ad hunc modum
dicuntur, ac si dicas bicubitum, tricubitum, et caetera. Et quae aliquid
propria significatione definita sunt, ut est superficies et soliditas, quid
enim et quae quantitates dicantur, agnoscitur: quocirca harum, quoniam sunt
definitae, nulla ulli contraria est; neque enim bicubito tricubitum contrarium
est, sicut neque numerus ulli numero, at vero nec superficies soliditati, nec
aliquid horum. Sed quoniam quaedam indefinita imaginem quamdam quantitatis
ostendunt ut magnum et paruam, quae videntur esse contraria, haec sibi
Aristoteles opponit dicens non esse quantitates sed magis ad aliquid, quod
ipsius sermonibus astruamus. Sed non est hoc proprium quantitatis non habere
contraria, non enim omnis quantitas contrariis caret sed nobis per singula
quaeque currentibus quae quantitatis species contraria non habeant, quaeue
habeant, considerandum est linea quidem contrario caret, linea enim lineae
contraria non est; sed si quis dicat rectam lineam curuae lineae esse
contrariam, fallitur. Non enim in eo quod linea est, curua linea recta? Lineae
contraria est sed in eo quod curua est, et in his non lineae videntur esse
contrariae sed ipsa rectitudo et curuitas. Quare non in eo quod quantitas est,
linea curua rectae lineae contraria est sed in eo quod qualis. Nam quoniam
curuitas et rectitudo contraria sunt, secundum id quod curua et recta est
linea, non secundum quod lineae sunt, suscipiunt contrarietatem; quocirca linea
in eo quod linea est contrario caret. At vero nec superficies superficiei
contraria est. Sed forte dicat aliquis albam superficiem nigrae superficici
esse contrariam; cui similiter occurrendum est, in co quod superficies sunt non
esse contraria sed in eo quod est in his albedo utque nigredo, quae contraria
esse quis dubitat? Eadem quoquemodo et lenem et asperam superficiem si quis
contrarias dixerit, refellitur, quod non secundum quantitatem superficici sed
secundum qualitatem asperitatis lenitatisque ipsae superficies contrarium
tenent. At vero nec corpori quidquam ullo modo contrarietatis opponitur, cui si
qui dicat incorporale esse contrarium, refutabitur, quod omnis contrarietas
propriis nominibus dicitur, ut bonum malum, album nigrum; corporale vero et
incorporale non secundum contrarietatem sed secundum privationem habitumque
proferuntur. Incorporale enim corporis est privatio. Nec tempori quoque quidquam
contrarium est sed si nox diei videtur opposita, non in eo quod tempus est sed
in eo quod dies est aer lucidus, nox aer obscurus. Aer vero neque tempus neque
quantitas est, lumen quoque et obscuritas qualitates sunt et non quantitates. Oratio
etiam quamquam videatur habere contrarium, tamen contrariam non habet
oppositionem, videtur etiam vera oratio esse et falsa, quae sunt contraria sed
oratio vera et falsa in significatione est. Cum enim quod est oratio
significat, vera est; cum vero quod non est designat, tunc falsa est. Oratio vero
non secundum id quod significat in quantitate numeratur sed secundum id quod
profertur. Secundum enim id quod proferimus orationem, longa syllaba brevique
componitur, quae omnem orationem non secundum id quod ipsa significat sed
secundum id quod ad prolationem est, metiantur. Illud quoque manifestum est in
numero non esse contraria, duo enim tribus, vel tres quaternario contrarli non
sunt, nec ullus alter numerus cuilibet alii numero contrarius est. Locus vero
habet aliquam contrarietatem, ursum enim et deorsum contrarium est. Sed quidam
volunt non esse quantitatis quod sursum dicitur et deorsum sed potius
habitudines, quas Graeci *skeseis* vocant: quae enim pars ad caput nostrum est,
hunc sursum vocamus; quae pars pedibus subiacet, illa deorsum dicitur; quocirca
secundum habitudinem quamdam quodammodo ad nos ipsos relata sursum deorsumque
praedicamus. Herminius quoque ait sursum et deorsum non esse loca sed quamdam
quodammodo positionem loci. Est enim res sursum atque deorsum, non est autem
idem esse aliquid loci, quod locum, loci enim est positio in loco, locus vero
ipse positio non est. Sed si quis omnem mundi respiciat figuram, quomodo rerum
omnium formam sphaerae ambitus amplectitur, et terra media est, in sphaera vero
nihil est ultimum, nisi quod eiusdem terminum medietatis obtinuit, quidquid in
extremo caeli convexitatis est, illud sursum esse dicet, quod vero est medium,
illud deorsum. Quocirca sunt secundum locum sursum deorsumque contraria, sursum
in caelo, deorsum in terra, idcirco quod a se longe disiuncta sunt, unde post
quoque contraria hoc modo sunt definita. Contraria sunt quaecumque a se
longissime distant: hinc est videlicet tracta definitio, quod quoniam caelum
terraque distant, longissime distare videbantur, et illud esse sursum, haec
vero deorsum, quoniam deorsum aeque sursum non ob aliam causam contraria
dicuntur, nisi quod a se longe disiuncta sunt, quod esse contrarium longissime
diatare definiunt, quod Aristoteles hoc modo pronuntiat. MAXIME AUTEM CIRCA
LOCUM ESSE VIDETUR CONTRARIETAS QUANTITATIS; SURSUM ENIM EI QUOD EST DEORSUM
CONTRARIUM PONUNT, REGIONEM MEDIAM DEORSUM DICENTES PROPTEREA QUOD MULTA
DISTANTIA EST MEDIETATIS AD MUNDI TERMINOS. VIDENTUR AUTEM ET ALIORUM
CONTRARIORUM DEFINITIONEM AB HIS PROFERRE; QUAE ENIM MULTUM A SE INVICEM
DISTANT IN EODEM GENERE CONTRARIA ESSE DEFINIUNT. In omni enim sphaera media
terra est, quod ipsa astrorum demonstrat ordinata vertigo, adiecit quoque
causam cur huiusmodi loca contraria dicantur, quod multa distantia est
medietatis ad mundi terminus. TERMINOS vero MUNDI caeli ultimam convexitatem
dicit; ex hac igitur loci contrarietate et caetera definita esse contraria sic
demonstrat. Videntur autem et aliorum contrariorum definitionem ab his
proferre, quae enim multum a se distant in eodem genere contraria esse
definiunt. Sed quoniam ne ordo contrarietate quantitatis impediretur, idcirco
superioribus, in quibus singulis quantitatibus nihil esse contrarium dicebamus,
has loci contrarietates adiecimus, et quaedam in medio praetermissa sunt,
rursus ad superiora redeamus, ut expositionis ordo sese ipse continvet. Ait
enim superius, cum quantitati nihil esse contrarium proponeret, bicubito,
veltricubito, vel superficiei, vel aliqui talium nihil posse esse contrarium.
Definitis enim his quantitatibus, contrarium nihil esse videtur, ut duobus vel
tribus sed quadam cum sint indefinita, nec quantitates et contraria videantur,
haec rursus adiecit. Nisi multa paucis dicat quis esse contraria, vel magnum
paruo. Horum autem nihil est quantitas sed ad aliquid, nihil enim per seipsum
magnum dicitur vel paruum sed ad aliquid refertur. Nam mons quidem paruus
dicitur, milium vero magnum, eo quod hoc quidem sui generis maius sit, illud
vero sui generis minus. Ergo ad aliud est eorum relatio, nam si per seipsum
paruum vel magnum diceretur, nunquam mons quidem aliquando paruus, milium vero
nunquam magnum diceretur. Rursus in vico quidem plures homines esse dicimus, in
civitate vero paucos, cum tamen sint eis multo plures, et in domo quidem
multos, in theatro vero paucos, cum sint plures. Amplius bicubitum et
tricubitum et unumquodque talium quantitatem significat, magnum vero vel paruum
non significat quantitatem sed magis ad aliquid, quoniam ad aliquid spectatur
magnum et paruum; quare manifestum est quod haec ad aliquid sunt. Quemadmodum
definitae quantitates contrariis non tenentur, ipse superius comprobavit dicens
bicubito vel superficiei nihil esse contrarium, indefinitae vero, ut est magnum
et paruum, multa et pauca, dant imaginem contrarietatis. Sed illud occurrit,
has non esse quantitates. Omnis enim quantitas per se dicitur, bicubitum enim
et tricubitum, et duo, et tres, et superficies ad nihil aliud refertur, magnum
vero vel paruum sine aliis dici non possunt. Cum enim dicis magnum, ad alicuius
alterius comparationem atque aequationem refertur. Eodem quoque modo et paruum,
quod ipsa Aristotelica probat inductio. Si enim magnum et paruum per se
dicerentur ad alterius relationem, nunquam diceremus montem paruum et milium
magnum. Si enim magnum paruumque non ad relationem alterius diceretur, mons
semper magnus, semperque paruum milium diceretur. Sed aliquem collem ad
Atlantis altitudinem conferentes, dicimus paruum montem, et rursus milium ad
minora alia grana milii conferentes, magnum milium nominanus, et simpliciter
quidquid magnum vel paruum dicitur ad eiusdem generis speciem referentes,
magnum paruumque nominamus, ut monti montem comparamus, milium vero milio, et
alia huiusmodi. Multa et pauca eodem modo dicuntur; dicimus enim, si fuerint homines
centum in vico, plures esse homines. At vero si in civitate sint, paucos
dicimus, nunc ad paruitatem vicorum, nunc ad magnitudinem civitatum
conferentes. Rursus si sint in domo quinquaginta multi sunt si in theatro
pauci, ideo quod tunc in theatro esse paucos dicimus cum ad eos quanti in
theatro esse debebant comparamus. Amplius: quoniam consistit magnum paruumque
referri semper ad alterum, singulas vero quantitates nihil ad aliud
comparantes, suas ac proprias nominamus, ut tres, duo, quator, lineam,
superficiem, magnum paruumque, multa et pauca, a quantitatis divisione
disiunota sunt. Sunt enim ista non quantitates sed potius relativa. Amplius:
sive aliquis ponat eas esse quantitates, sive non ponat, nihil illis erit contrarium,
quod enim non est sumere per seipsum sed ad solam alterius relationem, quomodo
huic aliquid erit contrarium. Hoc quoque validissimo argumento probatur
quantitatibus his quae praedictae sunt nihil esse contrarium, nisi soli
forsitan loco. Nam si quis magnum et paruum, vel multa et pauca in
quantitatibus ponat, etiam hoc si concedatur, tamen quoniam semper referuntur
ad aliud, contrariis non tenentur. Omne enim contrarium per se consistit, ne
illud ad alterius comparationem relationemque profertur, ut bonum non dicitur mali
bonuum, nec rursus malum boni malum sed ipsum in propria natura et prolatione
consistit. Quaecumque sunt contraria, eodem modo sunt. Magnum vero et paruum
quoniam non per se constant sed ad alterius relationem referuntur, contraria
esse non possunt. Amplius: si sunt magnum et paruum coniraria, contingit idem
simul contraria suscipere et ea ipsa sibi esse contraria. Contingit enim simul
idem paruum esse et magnum. Est enim aliquid ad hoc quidem paruum, ad aliud
vero hoc idem ipsum magnum. Quare idem paruum et magnum et eodem tempore esse
contingit, quare simul contraria suscipiet sed nihil est quod videatur simul
contraria posse suscipere, ut substantia, susceptibilis quidem contrariorum
videtur esse sed non suscipit in uno eodem tempore, nam nullus simul est sanus
et aeger, nec albus et niger simul, nihilque aliud simul contraria suscipiet.
Et eadem sibi ipsi contingit esse contraria. Nam si est magnum paruo
contrarium, ipsum autem idem simul est paruam et magnum, ipsum sibi erit
contrarium, sed impossibile est ipsum sibi esse contrarium. Non est igitur
magnum paruo contrarium. Constat hoc et immutabile in propria ratione
consistit, unam eamdemque rem uno eodemque tempore contraria non posse
suscipere, ut substantia susceptibilis quidem contrariorum est. Homo namque cum
substantia sit, et aegritudinem suscipiet et salutem sed non eodem tempore, et
albedinem et nigredinem capit sed alio atque alio tempore, ut vero uno eodemque
tempore contraria utraque suscipiat, fieri nequit, quodsi magnum paruo aliquis
contrarium ponat, eveniet quoddam impossibile, ut una atque eadem res eodem
tempore utrasque suscipiat contrarietates, et eadem ipsa sibi possint esse
contraria. Ponamus enim magnum paruo esse contrarium sed una atque eadem res,
uno eodemque tempore potest magna esse et parua, ut si sit decem pedum mensura
collata ad duorum pedum magnitudinem, magna est ad centum vero cubitorum
magnitudinem mansuramque collata, eadem parua est. Potest ergo eadem res eodem
tempore et magnitudinis esse susceptibilis et paruitatis. Eadem enim res uno
eodemque tempore ad maiorem minoremque collata eadem magna et parua est. Quod
si magnum paruo contrarium est, eadem vero res eodem tempore et magnitudinem
suscipit et paruitatem, eodem tempore contingit ut eadem res contraria utraque
suscipiat sed hoc impossibile est. Quocirca quoniam res eadem eodem tempore
contrariorum susceptibilis non est, potest vero una atque eadem res
magnitudinem paruitatemque suscipere, magnitudo et paruitas contraria non sunt.
At vero si quis magnum paruo contrarium ponat, eadem ratione unam eamdemque rem
sibi ipsi dicit esse contrariam. Nam si paruum magno est contrarium, eadem vero
res (ut docui) parua et magna potest esse ad aliud et ad aliud scilicet
comparata. Res quae parua et magna est, eadem sibi potest esse contraria,
paruum enim et magnum contrarium dictum est sed est impossibile. Quocirca
paruum et magnum contraria non sunt. Post huiusmodi vero rationem et
argumentationis firmissimae propositionem de contrarietate disserit loci, de
qua superius iam diximus, quocirca praetereunda est, ne repetitae expositionis
iteratio, fastidio sit potius quam doctrinae. NON VIDETUR AUTEM QUANTITAS
SUSCIPERE MAGIS ET MINUS, UT BICUBITUM (NEQUE ENIM EST ALIUD ALIO MAGIS
BICUBITUM); NEQUE IN NUMERO, UT TERNARIUS QUINARIO (NIHIL ENIM MAGIS TRIA
DICENTUR, NEC TRIA POTIUS QUAM TRIA); NEC TEMPUS ALIUD ALIO MAGIS TEMPUS
DICITUR; NEC IN HIS QUAE DICTA SUNT OMNINO ALIQUID MAGIS ET MINUS DICITUR.
QUARE QUANTITAS NON SUSCIPIT MAGIS ET MINUS. Aliud proprium rursus apposuit
quod quamvis quantitatis proprium non sit, cur tamen non sit ipse reticuit,
nobis tamen est demonstrandum; quod autem dicit tale est: quantitas magis et
minus non suscipit, nullus enim numerus alio numero nec magis nec minus est
numerus. Nam ternarius si quinario comparetur, nec magis nec minus est numerus,
et rursus ipsi tres sibi ipsis comparati, nec magis nec minus sunt tres, nec
tempus quoque habet aliquid magis et minus, ut magis aliud tempus sit alio
tempore, longius quidem tempus tempore esse potest, ut vero dicatur magis
tempus alio tempore vel minus fieri nequit. Hoc quoque etiam in substantia
demonstratum est, homo namque alio homine non est magis homo, nec minus. Idem
quoque evenit etiam in quantitate. Quod quia etiam in substantia est, proprium
quantitatis hoc non est, habet hoc quoque quantitas ut in sequenti ordine ipse
monstravit. Quocirca quoniam prius hoc de substantia dixerat, nunc vero idem de
quantitate proposuit, idcirco non esse hoc proprium quantitatis, commemorare
neglexit. Cuius enim esset alterius non suscipere magis et minus, tunc dixit cum
de substantia disputaret. Ait enim quod substantia nunquam magis minusue
suscipient, quocira ad maxima propria solita constituendi ratione regressus
est. PROPRIUM AUTEM MAXIME QUANTITATIS EST QUOD AEQUALE ET INAEQUALE DICITUR.
SINGULUM ENIM EARUM QUAE DICTAE SUNT QUANTITATUM ET AEQUALE DICITUR ET
INAEQUALE, UT CORPUS AEQUALE ET INAEQUALE, ET NUMERUS AEQUALIS ET INAEQUALIS
DICITUR, ET TEMPUS AEQUALE ET INAEQUALE; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS QUAE DICTA
SUNT E SINGULIS AEQUALE ET INAEQUALE DICITUR. IN CAETERIS VERO QUAE QUANTITATIS
NON SUNT, NON MULTUM VIDEBITUR AEQUALE ET INAEQUALE DICI, NAMQUE DISPOSITIO
AEQUALIS ET INAEQUALIS NON MULTUM DICITUR SED MAGIS SIMILIS, ET ALBUM AEQUALE ET
INAEQUALE NON MULTUM SED SIMILE. QUARE QUANTITATIS PROPRIUM EST AEQUALE ET
INAEQUALE NOMINARI. Quantitatis proprium apertissime designat esse, quod
secundum quantitatem aequalitas et inaequalitas nuncupatur. Singulae enim
quantitates aequales atque ivaequales dicuntur, ut aequalis linea lineae, et
rursus inaequalis, et superficiei superficies aequalis atque inaequalis
dicitur, et corpus aequale et inaequale dicitur. Numerus quoque et tempus et
locus aequalis atque inaequalis dicitur. In aliis autem quae quantitates non
sunt, non est facile ut aequalitas vel inaequalitas nominetur dispositiones
ergo quae affectiones appellantur, non dicuntur aequales vel inaequales sed
magis similes et dissimiles. Dispositio autem vel affectio est ad aliquam rem
accommodatio et applicatio, ut si quis grammaticam legens, qui nondum
perdidicit, habet ad eam aliquam dispositionem, id est, ea affectus est, et
habet aliquid accommodatum, et quasi propinquum. Possunt autem similiter esse
duo dispositi et affecti, aequaliter vero minime, ut duo similiter esse albi,
aequaliter vero non. Nam si quis de duobus similiter albis aequaliter esse
albos dicat, recta nominis nunc usurpatione non utitur. Omne enim aequale et
inaequale, in mensura et in quantitate perficitur. Simile vero et dissimile
quemadmodum de quantitate non dicitur, ita nec de alia qualibet re nisi de
quantitate, recte aequalitas et inaequalitas nuncupantur. Quare proprium est
quantitatis aequale et inaequale nominari. Sed quoniam de quantitate dictum
est, ad relativorum ordinem transeamus. Post quantitatis tractatum tertium
praedicamentum de relativis ingreditor, quare relativa hoc modo definit. AD
ALIQUID VERO TALIA DICUNTUR QUAECUMQUE HOC IPSUM QUOD SUNT ALIORUM DICUNTUR,
VEL QUOMODOLIBET ALITER AD ALIUD, UT MAIUS HOC IPSUM QUOD EST AD ALIUD DICITUR
(ALIQUO ENIM MAIUS DICITUR), ET DUPLEX AD ALIUD DICITUR HOC IPSUM QUOD EST
(ALICUIUS ENIM DUPLEX DICITUR); SIMILITER AUTEM ET QUAECUMQUE ALIA TALIA SUNT. Cur
autem de his quae sunt ad aliquid disserat, omisso interim de qualitate
tractato, haec causa est, quod posita quantitate magis minusue esse necesse
est. Quare cum quantitatem continuo ad aliquid consequatur, recte post quantitatem
relativorum series ordinata est. Illud quoque est in causa, quod superius com
de quantitate tractaret, relativorum mentio facta est, cum de magno paruoque
diceretur, ut ergo continens et non esset operis interrupta distinctio, ideo
quantitate finita de relatione, proposuit. Quod autem ait, ad aliquid vero
talia dicuntur, hoc monstrat, quod non sicut quantitas per se et singulariter
intelligi potest, eodem quoque modo substantia et qualitas, et unumquodque
aliorum praedicamentorum, sicut per se constat, ita etiam per se et
singulariter intelligitur: sic ad aliquid per se et singulariter capi
intellectu non potest, ut dicamus esse ad aliquid singulariter. Quidquid enim
in natura relationis agnoscitur, id cum alio necesse est consideretur; cum enim
dico dominus, per seipsum nihil est, si seruus dicit. Quocirca cum unius
relativi nuncupatio mox secum etiam aliud trahat ad aliquid, unum esse per se
non potest, atque ideo non dixit Aristoteles: Ad aliquid vero tale dicitur sed,
plurali numero, talia dicuntur, inquit, demonstrans relativorum intelligentiam
non in simplicitate sed in pluralitate consistere; non esse autem quamdam per
se relativorum naturam sine coniunctione aliqua alterius subsistente, ipse
Aristoteles monstrat, qui dicit ea esse relativa, quaecumque hoc ipsum quod
sunt aliorum dicuntur. Docet enim aliqua coniunctione alterius relativa
formari, hoc ipsum enim quod sunt aliorum dicuntur. Quod enim est dominus, hoc
alterius dicitur, id est serui. Sive autem relativa dicamus, sive ad aliquid,
nihil interest. Ad aliquid enim dicitur quod ipsum quidem cum per se nihil sit,
relatum tamen ad aliud constat, ut dominus, sit desit id ad quod dicitur, id
est, seruus, non est, dicitur enim ad seruum; munifestum ergo est si seruus
desit, dominum dici non posse, quare dominus ad aliquid dicitur, id est ad
seruum. Relativa quoque dicuntur idcirco, quod eorum nuncupatio semper ad aliquid
referatur, ut domini ad seruum, quare nihil interest quolibet modo dicatur. Huiusmodi
autem definitio Platonis esse creditur, quae ab Aristotele paulo posterius
emendatur. Relativorum autem alia eisdem casibus referuntur, alia diversis,
alia vero omni sunt casu carentia. Qued scilicet monstrans addidit, vel
quomodolibet aliter ad aliud. Quid autem est, ipsius pene textus sermone
moustratur. Cum enim dico dominus serui dominus, ad genitivum casum reddidi
nominativum, et rursus ad eumdem si convertero. Dico enim seruus domini seruos,
et hic quoque nominativus ad genitivum relatos est. Eodem quoque modo sese
habet pater filii pater, et filios patris filius, et magister discipoli
magister, et discipulus magistri discipulos, haec ergo id quod sunt, similiter
aliorum dicuntur. Nam quod aliorum dicuntur secundum gentiivum redditur casum,
alia vero non secundum eumdem casum consequentiam reddunt. Sensus enim ad
aliquid est, sensibilis enim rei est sensus. Quod enim sensibile est sentiri
potest, quod senliri potest, sensibile est, et nunc quidem sensus sensibilis
rei sensus genitivo accommodatus est. Huius enim rei sensibilis dictum est, at
si convertas, 218A fiet. Sensibilis res sensu sensibilis est. Sed cum sic casui
septimo redditur nominativus in hac relatione, quae dicit sensibile sensu
sensibile est, non eodem casu quo superius dictum est convertitur. Dicimus enim
sensus sensibilis rei sensus est, et hic nominativus redditur ad genitivum.
Haec enim relatio ad septimum casum se aptari non patitur. Scientia quoque
scibilis rei scientia est, siquidem hoc scitur quod sciri potest et quod
sciripotest, scibile est sed non eadem ratione, nec ad eumdem casum relatio
ista convertitur. Dicimus enim scibilis res scientia scibilis est. Est enim
prima relatio ad genitivum, secunda conversio ad septimum. Haec quoque relatio
secundum eosdem convertitur casus, cum dicimus maius minore esse maius, et
minus maiore esse minus. Duplum quoque
et medium relativa sunt sed et eisdem casibus convertuntur. Duplum namque
dimidii duplum est, dimidium vero dupli dimidium est. Sunt autem alia quoque relativa
quae ipse sic addidit. AT VERO SUNT ETIAM ET HAEC AD ALIQUID, UT HABITUS,
AFFECTIO, SCIENTIA, SENSUS, POSITIO; HAEC ENIM OMNIA QUAE DICTA SUNT HOC IPSUM
QUOD SUNT ALIORUM DICUNTUR ET NON ALITER; HABITUS ENIM ALICUIUS HABITUS EST, ET
SCIENTIA ALICUIUS SCIENTIA, ET POSITIO ALICUIUS POSITIO, ET ALIA QUIDEM
SIMILITER. De sensu quidem et scientia dictum est superius, nunc vero de
habitu, dispositione, et positione dicendum est. Dispositio est ad aliquam rem
mobilis applicatio, ut si quisquam flammae propinquus calcat, ille dispositus
dicitur ad calorem, id est, habens aliquam applicationem coniunctionemque ad
calorem. Idem vero est affectio quod dispositio, ne nouo nomine error oriatur:
et ideo dispositio cum eit quaedam ad aliam rem coniunctio, vel ab alia
affectio, facile mobilis est, celerius etenim permutatur. Habitus autem est
dispositionis vel affectionis firma et non facile permutabilis accessio, ut si
quisquam in sole ambulans fuscior fiat, dispositus ad nigredinem dicitur et
nigredine affectus. Sin autem illa nigredo fortius et immutabiliter corpus
infecerit, habitus nominatur: quocirca habitus est inveterata affectio. Unde
omnis habitus dispositio vel affectio est, non autem omnis dispositio vel
affectio habitus. Et ne multa dicenda sint, hoc quoque constat in habitu et
dispositione, quod habitus immutabilis passio est, dispositio vero non
similiter sed affectio quaedam est, et ad aliquam rem coniunctio, quae potest
facile permutari. Positio vero est alicuius rei collocatio, ut est statio,
sessio, inclinatio, accubatio, et alia huiusmodi. Nam et qui stat quodammodo
positus esse dicitur et collocatus. et qui sedet, et qui accumbit, et qui
secundum caeteras positiones est positus appellatur. Quocirca et statio et
sessio et accubatio positiones erunt. Sed quoniam quid essent dictum est, nunc
si sunt ad aliquid videamus, habitum relative dici ea res probat, quae aliis
quoque rebus documento fuit esse relativis, ut est in sensu atque in scientia.
Idcirco enim dictum est sensum sensibilis rei esse sensum, quod res sensibilis
est quae sentiri potest; est ergo habitus habilis rei habitus. Habilis enim res
est quae haberi potest, illius enim rei habitus est quae haberi potest.
Quocirca erit habitus habilis rei habitus sed res quoque habilis habitu erit
habilis, ipso enim habita res quae haberi possunt habemus. Dispositio quoque
eodem modo. Dispositio namque dispositae rei dispositio est, et disposita res
dispositione disposita est. Caloris enim dispositio calentis, id est, ad
calorem dispositi, dispositio est. Eodem modo dispositus ad calorem caloris
dispositione dispositus est: velut si hoc modo sit dictum, omnis affectio
affecti affectio est, et omne affectum affectione affectum est. Et calor calentis
fit calor, et calens calore fit calidum. Positio quoque relativa est, nam
positio positae rei positio est, et posita res positione posita est, et hoc
intelligi convenit secundum priorem habitus et dispositionis modum. Illa quoque
res probat positionem esse ad aliquid, quod eius species relativae sunt; statio
enim stantis rei statio est, et qui stat statione stat; et de sessione quidem
et de accubitu idem dici potest. Quocirca et habitus et dispositio vel
affectio, et positio relativa sunt, et haec omnia vel similibus vel
dissimilibus convenientibus tamen praedicationi casibus convertuntur. Eorum
autem quae secundum casus convertuntur, alia sunt quae eodem nomine praedicantur,
alia vero quae dispari: cum enim dico simile simili simile est, et aequale
aequali aequale est, et dissimile dissimili dissimile est, eisdem vocabulis
219C eisdemque nominibus tota fit praedicatio. Cum autem dico duplum medii
duplum, vel maius minore maius, disparibus vocabulis facta est praedicatio.
Quoniam vero relativorum definitionem ita proposuit, ut diceret: ad aliquid
vero talia dicuntur quaecumque hoc ipsum quad sunt aliorum dicuntur, vel
quomodolibet, aliter ad aliud; quid esset hoc ipsum quod sunt aliorum dicuntur,
iam diximus nunc quid sit; quod ait, vel quomodolibet aliter ad aliud,
requirendum est. Quod ipse Aristoleles couvenientibus in ordine probat
exemplis; ait enim: AD ALIQUID ERGO SUNT QUAECUMQUE ID QUOD SUNT ALIORUM
DICUNTUR VEL QUOMODOLIBET ALITER AD ALIUD; UT MONS MAGNUS DICITUR AD MONTEM
ALIUM (MAGNUM ENIM AD ALIQUID DICITUR), ET SIMILE ALICUI SIMILE DICITUR, ET
OMNIA 219D TALIA SIMILITER AD ALIQUID DICUNTUR. EST AUTEM ET ACCUBITUS ET
STATIO ET SESSIO POSITIONES QUAEDAM, POSITIO VERO AD ALIQUID EST; IACERE AUTEM
VEL STARE VEL SEDERE IPSA QUIDEM NON SUNT POSITIONES, DENOMINATIVE VERO EX HIS
QUAE DICTAE SUNT POSITIONIBUS NOMINANTUR. Quoniam accubitus et statio et sessio
positiones dicuntur, et quonism omnis positio ad uliquid est, sufficienter
superius comprehensum est. Nunc vero quid sit quod ait, vel quomodolibet aliter
ad aliud, expediemus, in relatione per quam dicimus filius patris filius, nulla
coniunctio mista est, nisi tantum sola casuum vis praedicationis huius membra
coniungit. Cum autem dico montem magnum, ad alium referens paruam, ita propono,
mons magnus, ad montem paruum, et mons paruus ad magnum, hic nullorum casuum
vis: quamquam enim accusativus videtur esse permistus, tamen ille huius
relationis vim non tenet sed praepositio quae ad accusativum datur; cum enim
dico, mons magnus ad paruum montem, praepositio sola est quae vim huius
continet relationis, ut si quis dicat magnus mons paruum montem, nihil
significet definitum. Quocirca quamvis accusativus casus in hac propositione
sit, non tamen hic vim casus tenet sed praepositio; atque hoc est quod ait, vel
quomodolibet aliter ad aliud, ut quoniam superius secundum casus relationes
fieri dixerat, erant autem quaedam relationes quae nullis casibus tenerentur,
adiecit hoc, vel quomodolibet aliter ad aliud, ac si diceret: Omnis relatio aut
casibus fit, quod per hoc demonstravit quod ait, quaecumque id quod sunt
aliorum dicuntur, aut praeter casus sunt, quod haec sententia docet, vel
quomodolibet aliter ad aliud, atque haec hactenus. Sed cum positio sit ad
aliquid, et sint species eius relativae (sessio enim et statio relativa sunt)
sedere et stare nulla relatio est. Stare namque et sedere de statione et
sessione denominative dicuntur. Omnis autem denominatio non est id quod est ea
res de qua nominatur, ut grammaticus, non enim idem est quod grammatica de qua
nominatus est. Quocirca si sedere de sessione, et stare de statione
denominativum est, sessio vero et stati relativa sunt sedere et stare, quae a
relativis denominativa sunt, relativorum genere non tenentur. Et universaliter,
quidquid ex quibuslibet positionibus 220C denominatur, illud non ad relativa
sed ad praedicationem quae situs dicitur reduci potest. INEST AUTEM ET
CONTRARIETAS IN RELATIONE, UT VIRTUS MALITIAE CONTRARIUM EST, CUM SIT UTRUMQUE
AD ALIQUID, ET SCIENTIA INSCIENTIAE. NON AUTEM OMNIBUS RELATIVIS INEST
CONTRARIETAS; DUPLICI ENIM NIHIL EST CONTRARIUM, NEQUE VERO TRIPLICI NEQUE ULLI
TALIUM. Quemadmodum in substantia vel quantitate si eorum esset proprium
contraria suscipere rimatus est, ita quoque nunc in relativis de contrarietate
considerat, utrum relativorum sit proprium contraria posse suscipere, et
quoniam virtus et vitia utraque sunt habitus, virtus enim est mentis affectio
in bonam partem, et difficile commutabilis, vitium affectio in malam partem,
ipsa quoque difficile mobilis et diuturnitate perdurans: quoniam igitur et
vitium et virtus habitus sunt, omnis autem habitus ad aliquid esse monstratus
est (habilis enim rei habitus est) erunt virtus atque vitium relativa sed haec
contraria sunt, igitur relativa contraria suscipere non recusant. Sed si dicat
quis: quid causae est ut virtutem atque vitium ipsumque habitum paulo post
inter qualitates numeret? Atqui ut alia significatione una res diversis
generibus supponatur, nihil prohibet, Socrates namque in eo quod est Socrates substantia
est, in eo quod pater vel filius ad aliquid; ita ad aliud atque ad aliud ducta
praedicatione eamdem rem sub diverso genere nihil poni prohibet. Habitus quoque
et virtus et vitium eodem modo est. Potest enim in 221A qualitate poni habitus
quod ex eo quales homines nuncupentur, habentes enim dicimus aliquos rei
habitus retinentes. Virtus quoque qualitas est idcirco quod ex eo boni homines
dicuntur et secundum illam qualitatem, id est bonitatem, quales homines, id est
bonos homines nuncupamus; similiter autem et vitium. Ipse quoque habitus ad
aliam praedicationem dictus fit iterum relativus: quod enim habitus habilis rei
habitus est, ad aliquid est; et quod alicuius virtus est, ad aliquid virtus
est, et quod alicuius vitium est, ad aliquid quoque ipsum est. Ergo nihil
impedit easdem res ad aliud atque aliud versas diversae praedicationi
substitui. Ipsum vero ad aliquid praeter ullum aliud praedicamentum intelligere
non possumus, ut patrem et filium, dominum et servam secundum 221B substantiam
consideramus. Nam et qui dominus et qui seruus est, substantia est. Duplum et
triplum secundum quantitatem, haece nim in quantitate consistunt, scientia vero
et inscientia secundum qualitatem. Secundum enim has quales dicimur, scientes
scilicet atque inscii. Quocirca quoniam praeter aliud praedicamentum per se
relativa nullus intelliget, secundum ea praedicamenta de quibus intelligitur
relatio, secundum ea dicitur contraria posse suscipere: ut Socrates ipse quidem
substantia est sed substantia contrarium non recipit. Pater vero alque filius
secundum substantiam praedicatur, non est enim pater atque filius nisi in
substantia sit. Quocirca quoniam secundum substantiam dicitur, contrarietate
caret. Rursus duplum vel dimidium secundum quantitatem dicitur, quantitas vero
contraria non habere monstrata est; igitur nec duplum atque dimidium contrariis
pugnat. Qualitas vero recipit contrarietatem; bonum enim et malum secundum
qualitatem opponuntur, bonum igitur et malum contrariis non carent. Igitur
secundum quae praedicamenta relativa dicuntur, si illa suscipiunt contraria, et
relatio suscipit. Sin vero illa prius repudiant contrarietatem, nec illud ad
aliquid quod secundum ea dicitur ulla unquam contrarietate dividitur. Quare
habere contraria relationis proprium non est, nam neque in sola relatione est
(habet enim hoc quoque qualitas), nec in omnibus ad aliquid considerari potest.
Quae enim secundum talia praedicamenta dicuntur ad aliquid quae non recipiunt
contrarietatem, ut secundum substantiam pater et filius, vel secundum quantitatem
duplum et medium, in talibus relativis contraria nullo modo reperiuntur. Quod
vero neque soli neque omnibus inest, hoc proprium non est; non est igitur
proprium relationis habere contraria. VIDENTUR AUTEM ET MAGIS ET MINUS RELATIVA
SUSCIPERE; SIMILE ENIM MAGIS ET MINUS DICITUR, ET INAEQUALE MAGIS ET MINUS
DICITUR, CUM UTRUMQUE SIT RELATIVUM (SIMILE ENIM ALICUI SIMILE DICITUR ET
INAEQUALE ALICUI INTEQUALE). NON AUTEM OMNIA SUSCIPIUNT MAGIS ET MINUS; DUPLEX
ENIM NON DICITUR MAGIS ET MINUS DUPLEX, NEC ALIQUID TALIUM. Quaeritur nunc an
relationis sit proprium suscipere magis et minus; sed in hoc illa ratio
servatur, quemadmodum in contrariis dictum est. Quoniam quaecumque secundum ea
dicuntur quae contraria non recipiunt, ipsa quoque contrariis carent. In hoc
vero cum secundum quantitatem dicatur aequale et inaequale, suscipit et magis
et minus. Dicitur enim magis aequale et minus aequale. Eodem modo et simile,
magis simile et minus simile dicitur. Sed si forte quis dicat: cur cum
quantitatis sit dici aequale et inaequale, et quantitas magis atque minus non
suscipiat, aequale et inaequale et intensione crescat et remissione minuatur?
Dicendum est quoniam quemadmodum substantia ipsa per se in eo quod substantia
est non est proprium, ipsi tamen proprium est contraria posse suscipere, ita et
in quantitate consideratur, proprium enim est, non hoc ipsum cuius est proprium
sed quaedam alia extrinsecus qualitas passioque. Passio enim qualitatis est, et
quaedam qualitas aequale et inaequale dici potest: quod quoniam non est idem
proprium quod est illud cuius est proprium, et aequale vel inaequale dici, non
est quantitas cuius est proprium sed quaedam qualitas et passio quantitatis. Haec
autem dicitur ad aliquid, ipsum enim quod est alterius dicitur, aequale enim
aequali aequale dicimus, et similiter simile similis simile. Sed non capiunt
omnia relativa magis et minus. Nullus enim potest dicere magis et minus duplum
esse aliquid: nam sive denarius ad quinarium comparetur, sive quaternarius ad
binarium, aeque uterque duplus est, aeque uterque medietas. Qualitas quoque
recipit magis et minus, dicimus enim magis album et minus album. Quare quoniam
neque omni relationi neque soli inest suscipere magis et minus, et per
qualitatem relatio suscipit et magis et minus, relationis proprium non est
suscipere magis et minus. OMNIA AUTEM RELATIVA AD CONVERTENTIA DICUNTUR, UT
SERUUS DOMINI SERUUS DICITUR ET DOMINUS SERUI DOMINUS, ET DUPLUM DIMIDII DUPLUM
ET DIMIDIUM DUPLI DIMIDIUM, ET MAIUS MINORE MAIUS ET MINUS MAIORE MINUS; SIMILITER
AUTEM ET IN ALIIS. SED CASU ALIQUOTIENS DIFFERT SECUNDUM LOCUTIONEM, UT
SCIENTIA SCIBILIS REI DICITUR SCIENTIA ET SCIBILE SCIENTIA SCIBILE, ET SENSUS
SENSIBILIS SENSUS ET SENSIBILE SENSU SENSIBILE. Clara haec est proponentis et
non inuoluta sententia. Dicit enim omnia relativa ad convertentia dici, quod
ipse propriis patefecit exemplis. Omne enim ad aliquid ita ad aliud
praedicatur, ut illud ad quod praedicatur videatur posse converti, et hoc est
quod ait: OMNIA RELATIVA AD CONVERTENTIA DICUNTUR. Converti autem est, ut si
prima res dicitur ad secundam, secunda rursus dicatur ad primam. Ponatur enim
primus pater, secundus filius, et dicatur hoc modo, pater filii pater est; id
rursus converti potest, ut prius ponamus filium, et talis sit praedicatio, filius
patris filius. Ergo pater ad talem dicitur, id est ad filium qui convertitur:
et filius qui dicitur ad patrem, ad talem rem dicitur, quae ipsa quoque
convertitur, ut de filio praedicetur. Omniaque relativa hoc modo sunt, omne
enim relativum ad tale aliquid praedicatur quod ipsum in praedicatione converti
possit. Sed nec omnia dicuntur secundum eamdem vocis prolationem. Alia enim
sunt quae eisdem casibus convertuntur, ut dictum est, pater enim filii pater
est, et filius patris filius est. Alia vero quae non eisdem, ut scientia
scibilis rei scientia est: hic genitivus est medius. Scibile autem scientia
scibile est: hic septimus praedicationem tenet. Alia vero nullo (ut supra
dictum est) casu coniuncta sibimet convertuntur, ut mons magnus ad paruum
dicitur, et paruus ad magnum. Ergo OMNIA RELATIVA AD CONVERTENTIA DICUNTUR,
quamvis non eisdem casibus convertantur, quod ipse ait dicens: SED CASU
ALIQUOTIENS DIFFERT SECUNDUM LOCUTIONEM. Quod vero addidit nimis diligenter
adiectum est. AT VERO ALIQUOTIENS NON VIDEBITUR CONVERTERE NISI CONVENIENTER AD
QUOD DICITUR ASSIGNETUR SED PECCET IS QUI ASSIGNAT; UT ALA SI ASSIGNETUR AVIS,
NON CONVERTITUR UT SIT AVIS ALAE; NEQUE ENIM CONVENIENTER PRIUS ASSIGNATUM EST
ALA AVIS; NEQUE ENIM IN EO QUOD AVIS, IN EO EIUS ALA DICITUR SED IN EO QUOD
ALATA EST (MULTORUM ENIM ET ALIORUM ALAE SUNT, QUAE NON SUNT AVES); QUARE SI
ASSIGNETUR CONVENIENTER, ET CONVERTITUR; UT ALA ALATI ALA, ET ALATUM ALA
ALATUM. ALIQUOTIENS AUTEM FORTE ET NOMINA FINGERE NECESSE ERIT, SI NON FVERIT
POSITUM NOMEN AD QUOD CONVENIENTER ASSIGNETUR; UT REMUS NAVIS SI ASSIGNETUR,
NON ERIT CONVENIENS ASSIGNATIO (NEQUE ENIM IN EO QUOD EST NAVIS, IN EO EIUS
REMUS DICITUR; SUNT ENIM NAVES QUARUM REMI NON SUNT); QUARE NON CONVERTITUR;
NAVIS ENIM NON DICITUR REMI. SED FORTE CONVENIENTIOR ASSIGNATIO ERIT SI SIC
QUODAM MODO ASSIGNETUR, REMUS REMITAE REMUS, VEL ALIQUO MODO ALITER DICTUM SIT
(NOMEN ENIM NON EST POSITUM); CONVERTITUR AUTEM SI CONVENIENTER ASSIGNETUR
(REMITUM ENIM REMO REMITUM EST). SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS, UT CAPUT
CONVENIENTIUS ASSIGNABITUR CAPITATI QUAM SI ANIMALIS ASSIGNETUR; NEQUE ENIM IN
EO QUOD ANIMAL EST CAPUT HABET (MULTA ENIM SUNT ANIMALIUM CAPITA NON HABENTIA).
Supra iam de relativorum conversione proposuit, dixitque quidquid est ad
aliquid, vel eisdem casibus vel dissimilibus, tamen ad convertentia dici: hoc
vero idcirco evenit quod omne ad aliquid esse suum ex alterius habitudine et
comparatione trahit; quodsi utraque secundum ad aliquid sint opposita, ad
aliquid nuncupantur aequam vim vocabuli nuncupationemque sortita. Nam si pater
et filius utrique ad aliquid sunt, si pater ad filium praedicatur, quoniam ad
aliquid est, fllius quoque, quia ad aliquid est, ad quoddam aliud praedicabitur
sed nullius est filius nisi patris. Ergo haec vocabula ex alterutra
nuncupatione principium sumunt. Quocirca quae sibi invicem substantiam donant,
recte ad se invicem praedicantur, et hoc quidem in omnibus relativis constat
intelligi. Sed huiusmodi conversio non uno modo, nec quomodolibet fieri potest;
nisi enim convenienter quaelibet illa res ad id quod dicitur praedicetur,
huiusmodi conversio nulla ratione convertitur. Cum enim dicatur caput animalis
caput dici non potest, animal capitis animal. Ergo ita redditum nulla ratione
convertitur. Atque hoc est quod ait, non videri in omnibus relativis posse
converti, nisi convenienter ad quod dicitur assignetur. Si enim peccet is qui
assignat, ut non convenientem praedicationem faciat, conversio non procedit;
quae tamen est ipsa convenientia qua possint semper relativa converti,
huiusmodi est. Cum enim dico alam avis esse alam, non convertitur, ut avis ala
sit avis, idcirco quod non est convenienter facta praedicatio: non enim in eo
quod avis est, in eo habet alam; multa enim sunt quae habent alam, aves tamen
nullo modo nominantur, ut apes sunt et uespertitiones, et quidquid est aliud
tale, habere quidem dicimus alas, eas tamen aves non dicimus. Quare non in eo
quod avis est, in eo est eius ala sed in eo quod alata est; idcirco enim alam
habet, quoniam alata est: et quidquid fuerit alatum, alas habebit. Quare ita
facta praedicatio illam conversionem retinet atque custodit, ala enim alati ala
est, et alatum ala alatum est. Eodem quoque modo de capite: si quis dicat caput
animalis est caput, non convenienter vim praedicationis aptabit; non enim in eo
quod animal est, in eo habet caput, multa enim sunt animalia quae capite
carent, ut ostrea, et conchylia, et caetera huiusmodi. Igitur dicendum est
caput capitatae rei esse caput, et capita tam rem capite esse capitatam.
Videsne quemadmodum conveniens praedicatio aiternam in se vocabuli conversionem
reuersionemque reddiderit? Ita quoque speculandum est et de alio exemplo quod
ipse proposuit. Remus enim si navis remus dicatur, nullo modo convertitur, ut
navis remi navis esse nominetur. Sunt enim quaedam naves quae remis penitus non
utuntur, ut lintres quas solo subigunt conto, et idcirco non convertitur.
Dicendum est igitur remum remitae rei esse remum, et remitam rem remo esse remitam.
Necesse quoque erit nomen fingere, ei positum non sit: nam quemadmodum filius
patris filius, et pater filii pater, reciproca conversione praedicantur, et
utrumque nomen in usu est, sic, si defuerit nomen, ipse tibi aliquid debebis
effingere, ut in eo quod est, ala alati ala; alatum enim noviter factum est, et
nunquam antedictum. Quo autem modo possimus nomina ipsa confingere, quoniam
necessarium esse posuimus, artem quoque componendi sequenti ordine
demonstremus. Sed hoc faciendum est, si prius illud purgavero, quod quidam
contra Aristotelem culpandi studio ponunt. Aiunt enim non esse solius
relationis ad convertentiam dici. Si quis enim sic dicat: cum sol super terram
est, dies est, et cum dies est super terram, sol est, recipiunt haec quoque conversionem,
quae confessa, a relativorum definitione segregata sunt. Non igitur in solis
relativis, inquiunt, cadit ista conversion Sed Iamblicus duas huius rei
protulit solutiones, unam peruacuam, aliam vero perforem. Ait enim nihil
officere ad Aristotelis sententiam, si et alia convertantur; non enim inquit
Aristoteles solis hoc relativis esse sed, omnibus namque hoc relativis inest,
nec ulla ratione negari potest: quocirca quoniam non dixit Aristoteles solis
hoc inesse relativis, illorum quaestio huius praeclari philosophi sententiam
non moratur. Sed hoc potius accidentis est quam naturae, et ad aliud quodammodo
refugium concurrentis potius quam ex ipsa Aristotelis auctoritate dictorum eius
aliquod propugnaculum comparantis. Aliam vero attulit causam prorsus gravem:
ait enim proprium esse hoc relativorum, non secundum suam nuncupationem sed
secundum aliquam habitudinem, eodem modo converti. Qui enim dicit cum sol est
super terram, dies est, et cum dies est, sol est super terram: nullam
habitudinem monstrat sed tantummodo consequentiam ostendit. Consequitur enim
super terram solem esse cum dies est, et cum sol super terram cursus agat, diem
esse; cum vero aliquis dicit filius patris filius, et pater filii pater,
habitudinem et comparationem et quodammodo continentiam utrorumque declarat.
Atque hoc quoque in alia quavis relatione spectare licet. Quocirca quoniam
omnia ad aliquid secundum quamdam ad se invicem habitudinem continentiamque
dicuntur, secundum continentiam quoque et habitudinem eorum conversio facienda
est, qua in re nos quoque graviter dicentis Iamblici auctoritati concedimus.
Nunc vero quae sit ars fingendi nomina sicubi desunt, dicendum videtur, quam
ipse Aristoteles his verbis tradit. SIC AUTEM FACILIUS FORTASSE SUMETUR QUIBUS
NOMEN NON EST POSITUM, SI AB HIS QUAE PRIMA SUNT ET AB HIS AD QUAE CONVERTUNTUR
NOMINA PONUNTUR, UT IN HIS QUAE PRAEDICTA SUNT AB ALA ALATUM, A REMO REMITUM.
OMNIA ERGO QUAE AD ALIQUID DICUNTUR, SI CONVENIENTER ASSIGNENTUR, AD
CONVERTENTIA DICUNTUR. Quoniam sunt quae ita dicuntur ad aliquid, ut nisi
convenienter aptentur conversio nulla sit, in omnibus autem ad aliquid
conversionem exspectari necesse est, quae sit haec convenientia, et quemadmodum
assignari relationes oporteat, ipse demonstrat. Si quid enim dicitur ad aliquid
quod converti non possit, ab ipso quod dicitur si denominatio fit, mox
convertitur: ut ala dicitur avis, et recta quidem est haec praedicatio sed ad
naturam relationis incongrua. Nunc igitur quoniam dici non potest avis alae,
dicitur autem ala avis, ab ipsa praedicatione, quae ad aliud praedicatur, si
denominatio fit, mox redit consueta conversio relativis. Nam cum dicitur ala
avis, ut dicatur avis alae, inconveniens est; si vero ex ala fiat denominatio,
ut dicatur ala alati, sic conversio manet. Alatum enim ala alatum esse dicimus,
sicut alam alati esse alam. Et hoc idem in remo evenit. Nam quoniam remus navis
dicitur, et remi navis ut sit ulla ratione convertitur, si ex remo sit denominatio,
statim reddit ex more conversio. Dicimus enim esse remum remitae rei esse
remum, et hoc illi convertitur. Remita enim res remo remita est. Ergo ex eo
quod prius dicitur, nomen fingendum est, sicut ex eo quod est ala, quoniam
prius ad avem non dicitur, quia avis ad alam non convertitur, denominatio facta
est, ut diceretur alatum. Atque hoc est quod ait, si ab his quae prima sunt his
ad quae convertuntur nomina ponantur. Prima namque praedicatio est ab ala.
Dicimus enim alam avis, et hoc quaerimus ut ad alam praedicatio convertatur.
Ergo ab eo quod prius dicitur, illi ad quod convertitur nomen fingendum est, ut
ea quae prius dicitur ala, rei ad quam convertitur sic ut convenienter aptetur,
fingendum est nomen alatum, quod ipsum ex ala denominatum est, atque hoc idem
et in caeteris relativis licet intelligi. NAM SI AD QUODLIBET ALIUD ASSIGNENTUR
ET NON AD ILLUD DICANTUR, NON CONVERTUNTUR. DICO AUTEM QUONIAM NEQUE IN HIS
QUAE CONFESSE CONVERSIM DICUNTUR ET IN QUIBUS NOMEN EST POSITUM, NIHIL
CONVERTITUR, SI AD ALIQUID EORUM QUAE SUNT ACCIDENTIA ASSIGNETUR ET NON AD
ILLUD DICATUR; UT SERUUS SI NON DOMINI ASSIGNETUR SED HOMINIS VEL BIPEDIS VEL
ALICUIUS TALIUM, NON CONVERTITUR (NON ENIM ERIT CONVENIENS ASSIGNATIO). Aliud
quoque argumentum dedit, si relatione convenieiiter non reddantur, non posse
converti. Fortasse enim quis dicat alam et caput non esse ad aliquid: quod si
quis hoc quoque concedat, illud tamen nullus negare poterit, quin seruus aut
filius semper ad aliud praedicentur. Ergo in hac quoque re, quas confessae
relativa est, perit relationis propria conversio, si non convenienter et ad
illud ad quod proprie dicitur assignetur. Nam cum sit ad aliquid seruus, nisi
domini reddatur, id est, ad id ad quod convenienter dicitur, nulla hac ratione
conversio est. Dicatur ergo seruus hominis, vel seruus bipedis, non
convertitur, ut dicat quis bipedem esse serui, aut hominem esse serui. Eodem
quoque modo de filio. Ergo quaecumque sunt extrinsecus, si ad ea id quod est ad
aliquid praedicetur, nulla conversio est. Quod autem ait accidentia, non quod
homo sit accidens, aut bipes, differentia hominis accidenter insit sed interdum
consuetudinis Aristotelicae est, quae secundo loco et extrinsecus praedicantur,
dicere secundum accidens praedicari. Seruus autem prius ad hominem est, secundo
vero loco ad hominem. Idcirco enim quod dominus homo est, ideo seruus ad
hominem dicitur. Et idcirco quia dominus bipes est, ideo seruus bipedis
dicitur. Ergo secundum accidens dixit secundo loco, volens ostendere extraneam
et non convenientem fieri praedicationem, si quis ad hominem vel bipedem servam
et non ad dominum referat. Manifestum igitur est quoniam in bis quoque quae
confessa, sunt ad aliquid, et in quibus nomina sunt. Nomen enim et serui et
domini in usu est, non quemadmodum in remo aut in ala, ubi neque alatum neque
remitum nomen fuit, nisi ipse fingeret Aristoteles. Cum ergo haec ita sint,
manifestum est quoniam si non convenienter aptarentur, conversionem praedicatio
non teneret. AMPLIUS, SI CONVENIENTER ASSIGNETUR AD ID QUOD DICITUR, OMNIBUS
ALIIS CIRCUMSCRIPTIS QUAECUMQUE ACCIDENTIA SUNT, RELICTO VERO SOLO ILLO AD QUOD
ASSIGNATUM EST, SEMPER AD IPSUM DICETUR; UT SI SERUUS AD DOMINUM DICITUR,
CIRCUMSCRIPTIS OMNIBUS QUAE SUNT ACCIDENTIA DOMINO, UT ESSE BIPEDEM VEL
SCIENTIAE SUSCEPTIBILEM VEL HOMINEM, RELICTO VERO SOLO DOMINUM ESSE, SEMPER
SERUUS AD ILLUD DICETUR; SERUUS ENIM DOMINI SERUUS DICITUR. SI AUTEM NON
CONVENIENTER REDDATUR AD ID QUOD DICITUR CIRCUMSCRIPTIS OMNIBUS ALIIS, RELICTO
VERO SOLO AD QUOD REDDITUM EST, NON DICETUR AD ILLUD; ASSIGNETUR ENIM SERUUS
HOMINIS 227A ET ALA AVIS, ET CIRCUMSCRIBATUR AB HOMINE ESSE DOMINUM; NON ENIM
IAM SERUUS AD HOMINEM DICITUR (CUM ENIM DOMINUS NON SIT, SERUUS NON EST);
SIMILITER AUTEM ET DE AVI, CIRCUMSCRIBATUR ALATAM ESSE; NON ENIM IAM ERIT ALA
AD ALIQUID (CUM ENIM NON SIT ALATUM, NEC ALA ERIT ALICUIUS). QUARE OPORTET
ASSIGNARE AD ID QUOD CONVENIENTER DICITUR; ET SI SIT NOMEN POSITUM, FACILIS
ERIT ASSIGNATIO; SI AUTEM NON SIT, FORTASSE ERIT NECESSARIUM NOMEN FINGERE.
QUOD SI ITA REDDANTUR, MANIFESTUM EST QUONIAM OMNIA RELATIVA CONVERSIM
DICUNTUR. Aliud quoque validum addidit argumentum in omni secundum ad aliquid,
praedicatione solam esse assignationis convenientiam requirendam. Quo enim
permanente cunctis aliis pereuntibus relativorum praedicatio constat, et quo
pereunte cunctis aliis permanentibus, ad aliquid praedicatio non manet, illud
est ad quod convenienter nominis relatio referatur. Qui enim dominus est, idem
ei homo est, idemque bipes, idem quoque scientiae perceptibilis. Ad quodlibet
igitur horum seruus non praedicabitur, si dominus non sit; quod si dominus sit,
etiamsi quodlibet horum pereat, nihil impedit praedicationem. Praedicetur enim
seruus ad dominum, et ab eo caetera perimantur. Pereant enim ab eo quod est
homo, ac bipes, quod scientiae perceptibilis, his omnibus pereuntibus, dominus
solus permaneat; caeteris igitur pereuntibus, seruus tamen nihilominus dicitur
ad dominum, ad hominem vero non dicitur, pereunte enim domini nomine, serui ad
hominem nulla praedicatio est, quod si ad dominum seruus non referatur,
pereatque domini nomen, omnibus aliis manentibus, non erit praedicatio.
Auferatur enim dominus maneat homo, et bipes, et scientiae perceptibilis, non
potest dici seruus hominis, vel seruus bipedio. Domino enim non manente seruus
interit: quare manente domino ad quod seruus convenienter aptatur, cunctis
aliis pereuntibus, praedicatio manet; sublato vero domino, ad quem est
conveniens praedicatio, cunctis aliis manentibus praedicatio non est. Eodem
modo etiam de ala; nisi enim ad alatum referatur, cunctis aliis manentibus
integra praedicatio non est. Adeo non solum non convertitur sed nec praedicatio
ulla erit, nisi relatio ei ad quod convenienter dicitur assignetur. Simul etiam
haec quoque ars est et via noscendi, cum in naturamulta sunt, ad quod
potissimum relatio praedicetur. Nam cum in domino sit, et homo, et animal, et
disciplinae perceptibile, et bipes, in seruo quoque idem, ad quod horum aut
domini nomen aut serui referre possimus, sic ostenditur. Qua enim re manente
sublatis caeteris praedicatio valet, et qua re sublata creteris manentibus,
intercipitur praedicatio ad illud relatio rectissime praedicatur. His igitur
positis totius argumenti vim sententiumque concludit, ait enim: omnia
quaecumque ad aliquid sunt aequa praedicatione converti: hoc autem huiusmodi
est. Quaecumque enim ad se invicem aequaliter praedicantur, et conversione facta
retorquentur, illa aequali natura et dimensione fundata sunt, ut sunt propria
et species. Relativa quoque ut convertantur, aequalia esse oportet. Nam si una
res amplior, alia fuerit minor, conversionem non habent, nam in eo quod est ala
avis, minus est avis ala, multa enim sunt quae alas habent, et aves non sunt,
atque ideo conversio non fit. Et in eo quod est remus navis, maior est navis
remo, multae enim naves sunt quarum remi non sunt; quare in his nulla potest
esse conversio. Si vero sint aequalia ut filius alque pater, conversio non
fugit. Nunquam enim est filius nisi patris, et rursus nunquam pater est nisi
filii. Quocirca aequalia esse oportet quaecumque ad aliquid praedicantur. Horum
vero si nomen sit pusitum, positis nominibus uti oportet. Si vero nomen positum
non sit, ex his quae in prima praedicatione sunt (ut superius dictum est) nomen
oportet effigere. Quod si ita reddantur ut omne ad aliquid convenienter ad quod
dicitur praedicetur, et aequalis erit praedicatio, et mox conversionis
reciproca natura subsequitur. Constat igitur omnia relativa ad convertentia dici.
His aliud proprium iungit. VIDETUR AUTEM AD ALIQUID SIMUL ESSE NATURA. ET IN
ALIIS QUIDEM PLURIBUS VERUM EST; SIMUL ENIM EST DUPLUM ET DIMIDIUM, ET CUM SIT
DIMIDIUM DUPLUM EST, ET CUM SIT SERUUS DOMINUS EST; SIMILITER AUTEM HIS ET
ALIA. SIMUL AUTEM HAEC AUFERUNT SESE INVICEM; SI ENIM NON SIT DUPLUM NON EST
DIMIDIUM, ET SI NON SIT DIMIDIUM DUPLUM NON EST; SIMILITER ET IN ALIIS
QUAECUMQUE TALIA SUNT. Illa simul esse dicuntur quaecumque talia sunt, ut uno
posito quolibet aliud necessario subsequatur, st uno quolibet perempto aliud
modis omnibus interimatur, ut pater et filius. Nam cum pater est, filium quoque
esse necesse est; cum sit filius, pater est. Rursus si pereat filius, patrem
quoque perire manifestum est, non quod pareat ipsa substantia, ut pereunte
Hectore Priamus pereat sed perit ipsa relatio. Ergo quoniam vel interempto
patris nomine, filii nomen perit, sublato quoque filli nomine nomen patris
perit. Posito etiam patre in substantiaque constituto, filii quoque nomen
infertur, et posito filii nomine sequitur patris et a patris nomine nunquam
separatur, idcirco pater et filius simul esse dicuntur. Ergo simul ea sunt quae
se invicem vel interimunt vel inferunt, et de his quidem ipse posterius
tractat. Nunc autem hoc quoque inesse relativis exposuit, dicens relativis
quoque esse ut simul sint; nam cum duplum sit, dimidium est, et cum dimidium,
duplum. Huius autem argumentum est, quod interempto duplo dimidium perit.
Rursus quoque duplo constituto, dimidium constituitur. Igitur quoniam duplum
atque dimidium relativa sunt, et haec simul sunt natura, id est ipsa essentia,
et hoc manifestum est quoque relativis accidere, ut simul natura ease
videantur. Idem quoque est in eo quod est seruus et dominus. Nam quoniam
alterutris interemptis uterque deperit, et alterutro constituto uterque
subsistit, constat seruum atque dominum cum sint ad aliquid simul esse natura.
Sed haac ita sunt, ut sint quidem in relativis sed omnibus his quae sunt ad
aliquid non aequentur. Sunt enim quaedam relativa quorum unum prius natura sit,
quod ipse rursus adiecit. NON AUTEM IN OMNIBUS RELATIVIS VERUM VIDETUR ESSE
SIMUL NATURALITER; SCIBILE ENIM SCIENTIA PRIUS ESSE VIDEBITUR; NAMQUE IN
PLURIBUS SUBSISTENTIBUS IAM REBUS SCIENTIAS ACCIPIMUS; IN PAUCIS ENIM VEL IN
NULLIS HOC QUISQUE PERSPICIET, SIMUL CUM SCIBILI SCIENTIAM FACTAM. Proposuit
non in omnibus relativis esse hoc, ut videantur simul esse natura; hoc autem
probat ex his, quod quoniam scientia ad aliquid est (scibilis enim rei scientia
dicitur), non poterit esse scientia, nisi sit res aliqua quae sciri possit.
Hanc autem primam esse necesse est, ut in matheseos disciplina. 229B Scimus
enim triangulum tres interiores angulos duobus rectis angulis aequos habere. Unde
necesse est prius fuisse quod sciri posset, postea vero ad hanc rem aptam
fuisse notitiam. Atque hoc est quod ait: NAMQUE IN PLURIBUS SUBSISTENTIBUS
REBUS SCIENTIAS ACCIPIMUS. Prius enim rebus constitutis et quasi praepositis
scientiae ratio sequitur. Quare non est in omnibus relativis simul esse natura.
Nam cum scientia et scibile relativa sint, antiquius est scibile quam scientia.
Quod vero interposuit, in pauois enim vel nullis hoc quis perspiciet simul cum
scibili scientiam factam, tale est. Quasdam namque res animus sibi ipse
confingit, ut chimeram, vel centaurum, vel alia huiusmodi, quae tunc sciuntur,
cum ea sibi animus finxerit. Tunc autem esse incipiunt, quando primum in 229C
opinione versantur. Tunc igitur sciuntur, cum in opinione versata sint, et haec
simul habent esse et sciri. Nam quoniam in opinione nascuntur, mox esse
incipiunt sed cum in ratione sunt, tunc eorum scientia capitur. Igitur mox ut
fuerint, mox sciuntur, et est eorum scientia cum eorumdem essentia coniuncta.
Namque antequam chimera fingeretur, sicut ipsa in nulla opinione fuerat, ita
quoque eius scientia non erat. Postquam vero ipsa animarum imaginatione
constituta est, eius quoque cum ipsa imaginatione scientia consecuta est: atque
ideo ait in paucis hoc posse perspici, ut simul cum scientia scibile sit, ut in
hac eadem chimera, quae cum sit scibilis, cum scientia nata est. Sed quoniam
nihil quod in substantia non permanet, neque in veritate consistit, sciri
potest (scientia enim est rerum quae sunt comprehensio veritatis), et quidquid
sibi animus flngit, vel imaginatione reperit, cum in substantia atque veritate
constitutum non sit, illud posse sciri non dicitur, atque ideo non est eorum
scientia ulla quae sola imaginatione subsistunt. Idcirco itaque dubitans dixit,
in paucis enim vel nullis. Haec enim ipsa pauca ita quisque reperiet, ut si ad
veram rationem examinationemque contenderit, nulla esse perpendat. Quod si
quisquam chimerae aliqua esse scientiam dicat, quae non est, quamquam hoc
falsum sit, tamen hoc quoque concesso pauca erunt in quibus scientia cum
scibili simul natura sit. Multis enim antepositis et constitutis scientia
nascitur. Quocirca non in omnibus relativis verum est, ut simul esse natura
dicantur: et sicut falsum illud est, in nullis hoc esse relativis, ita falsum
est rursus in omnibus. Sed hunc tractatum longius lexit. AMPLIUS SCIBILE
SUBLATUM SIMUL AUFERT SCIENTIAM, SCIENTIA VERO NON SIMUL AUFERT SCIBILE; NAM,
SI SCIBILE NON SIT, NON EST SCIENTIA, SI SCIENTIA VERO NON SIT, NIHIL PROHIBET
ESSE SCIBILE; UT CIRCULI QUADRATURA SI EST SCIBILE, SCIENTIA QUIDEM EIUS NONDUM
EST, ILLUD VERO SCIBILE EST. Diximus illa esse simul, quaecumque alterutro
constituto, vel alterutro interempto, simul utraque constituerentur, vel etiam
perimerentur. Constituto enim ut sit pater, constituetur esse filius, et pater
simul infert substantiam filii. Eodem quoque modo filius simul infert vocabulum
patris, non est enim filius nisi patris. Eodem quoque modo altero interempto
utrumque perire necesse est, alterum autem altero prius multis dicitur modis;
sed quod nunc quaerimus tale est. Nam priora illa esse dicuntur, quae ipsa quidem
peremptares alias tollunt, ipsa vero illata atque constituta simul res alias
non inferunt, ut est unus atque duo. Interempto enim uno, duo quoque pereunt.
Unde enim est unius in duobus geminatio, si unus intereat? Constituto vero
atque posito ut sit unus, nondum duo sunt. Nondum est enim facta unius
geminatio. Ergo dicuntur illa priora esse quaecumque alia simul quidem illata
non inferunt sed perimunt interempta. Scibile ergo et scientiam non esse simul
illa res probat, quod si quis rem scibilem tollat, scientiam quoque sustulerit.
Nulla potest enim scientia permanere, si res quae sciri possit intereat. At si
scibile esse constituas, non omnino scientia consequitur. Infantibus enim ea
nobis quae nunc novimus erant, et in suae naturae substantia permanebant sed
eorum apud nos scientia non erat. Multae quoque sunt artes quas esse quidem in
suae naturae ratione perspicimus, quarum neglectus scientiam sustulit. Multumque
ego ipse iam metuo ne hoc verissime de omnibus studiis liberalibus dicatur.
Quocirca si et scientiam sublatum scibile perimit, et illatum scibile scientiam
non infert, neque constituit, prius est id quod sciri potest quam illud quod
comprehendere videlicet atque complecti notitia. Ipse autem ad hanc rem
obscurissimum commodavit exemplum. Solet enim in geometria huiusmodi esse
propositio. Iubemur enim proposito quattuor laterum spatio, aequale triangulum
constituere, et facimus hoc modo. Sit quattuor laterum spatium a b, oportet
ergo a b spatio aequale triangulum constituere, et ut sit duplum a b spatio c d
e f spalium. Ducatur angularis c t, dico quoniam c d f triangulum aequale est a
b spatio, quoniam c d e f spatium duplum est a b spatio: ab igitur c d e f
spatii medietas est, angularis enim f c totum c d e f spatium medium dividit.
Quae autem eiusdem sunt media, sibi aequalia sunt, c d t igitur et c e f
triangulum a b spatio aequale est. Proposito igitur spatio a b, aequum
triangulum constitutum est c d f, quod oportebat facere. Eodem quoque modo
quaesitum est si sit propositum circulo aequum fieri quadratum. Quadratum ergo
est quod aequalibus lateribus omnes quattuor angulos aequos habet, id est
rectos, et Aristotelis quidem temporibus non fuicse inventum videtur. Post vero
repertum est, cuius quoniam longa demonstratio est, praetermittenda est. Atque
hoc est quod ait: VELUT CIRCULI QUADRATURA: nam sicut manente quadrato, linea
per obliquum ducta triangula figura producitur; ita circulo non mutato circumpositis
angulis, qui et ipsius circuli laleribus; aequaliter diriguntur, quadrati forma
consurgit, quod (ut potuimus) coniectura depinximus. Cum enim alicui circulo
aequum quadratum constituitur, in quadraturam circuli illius mensura redigitur.
Nunc ergo hoc est quod dicit: UT CIRCULI QUADRATURA, id est aequi quadrati ad
circulum constitutio si fieri potest, et si res est quae sciri possit, scientia
quidem eius nondum inventa est. Nondum enim quisquam sub Aristotele equum
quadratum circulo constituerat. Quod si est aliqua eius scientia quae nondum
reperta est, certe prius est quod sciri possit, post vero scientia. Nam cum
posset Aristotele vivo sciri circuli quadratura, nulla tamen adhuc eius
scientia reperta est, atque ideo prius erat quod sciri posset, quam ipsius rei
ulla notitia. AMPLIUS ANIMALI QUIDEM SUBLATO NON EST SCIENTIA, SCIBILIUM VERO
PLURIMA ESSE CONTINGIT. Addit aliud validius argumentum, prius esse scibile
scientia. Illud enim notum est si per desidiam disciplina depereat, interire quidem
scientiam sed scibile permanere. Scibile autem dico quod sciri possit. Quod si
omnino animal non sit, cum quis scire possit omnino non fuerit, scientia quidem
ipsa funditus interibit: nihil tamen probibet esse ea quae permanente animali
possit inquirentis animus scientim ratione complecti. SIMILITER AUTEM HIS SESE
HABENT ET QUAE IN SENSU SUNT; SENSIBILE ENIM PRIUS SENSU ESSE VIDETUR; SUBLATUM
ENIM SENSIBILE SIMUL AUFERT SENSUM, SENSUS VERO SENSIBILE NON SIMUL AUFERT.
SENSUS ENIM CIRCA CORPUS ET IN CORPORE SUNT; SENSIBILI ERGO SUBLATO AUFERTUR
CORPUS (SENSIBILIUM ENIM ET CORPUS EST), CUM AUTEM CORPUS NON SIT SUBLATUS EST
SENSUS; QUARE SIMUL AUFERT SENSIBILE SENSUM. SENSUS VERO SENSIBILE NON; SUBLATO
ENIM ANIMALI SUBLATUS EST SENSUS, SENSIBILE AUTEM PERMANET, UT CORPUS, CALIDUM,
DULCE, AMARUM, ET ALIA OMNIA QUAECUMQUE SUNT SENSIBILIA. Id namque proponit
sensibus inveniri. Dicit enim sensu prius esse sensibile, quod communi priorum
definitione probabile esse constituit. Dictum est namque illa esse priora quae
simul quidem interempta perimerent, non autem simul aliis inferemptis ipsa deperire,
ut orbem solis prius dicimus proprio lumine, Sublato enim orbe, lumen illud
quod ab eo est penitus non manebit; subluto lumine solis, orbis manebit. Ita
quoque nunc in sensibilibus, atque in ipso sensu esse proposuit, sublato quod
sentiri possit, sensus omnino sublatus est. Neque enim esse poterit sensus, cum
quod possit sentire non invenit. Quod si sensus omnino depereat, sensibile
permanebit; et hoc evidentibus firmat exemplis. Nam cum ea quae sunt in rebus,
vel incorporea sint, vel certe corporea, et quidquid ad corporis materiam
referri potest, hoc sensuum varietati subiaceat, quidquid ad incorporalia intellectus
ratione et speculatione teneatur. Cum sit sensus omnis in corpore, si corpus
intereat, cum omnino corpus non sit, quoniam quae sunt incorporea sentiri non
possunt, et quae sentiri poterant interempta sunt, omnino sensus euertitur. Sed
si sensus auferatur, sensibilia permanebunt: et quoniam sensus animalium
effectivus est, aequa est utrorumque perditio; sive enim sustuleris animal,
sensus peribit, sive sensus euertantur, animalia quoque sublata sunt. Sed
euersis atque interemptis animalibus cum propriis sensibus, permanent corpora
quae anima non utuntur, quod si sublatis animalibus sensibusque deperditis,
corpora inanimata subsistunt, cum corpora sint quae sentiri possunt, animalia
quae sentire valeant si interempta sint, manente sensibili sensus euersus est.
Non igitur sicut sensibilis interemptio sensus interimit, sic sensuum
perditionem exstinctio sensibilium comitatur. Id vero etiam hoc probabitur
argumento, ante enim quam actu ipso aliquid sentiamus, sensus non est. Nam
priusquam dulce aliquid degustemus, gustatio ipsa dulcedinis non est; quod
autem gustari possit, id est, mel, vel quodlibet aliud propriae naturae ratione
consistit. Quocirca prius esse quod sentiri possit, post vero sensus Aristotele
auctore firmatur. AMPLIUS SENSUS QUIDEM SIMUL CUM SENSATO FIT (SIMUL ENIM
ANIMAL FIT ET SENSUS), SENSIBILE VERO ANTE EST QUAM ESSET SENSUS (IGNIS ENIM ET
AQUA ET ALIA HUIUSMODI, EX QUIBUS IPSUM ANIMAL CONSTAT, ANTE SUNT QUAM ANIMAL
SIT OMNINO VEL SENSUS); QUARE PRIUS QUAM SENSUS SENSIBILE ESSE VIDEBITUR. In
compositis rebus atque ex aliis iunctis priores sunt hae res quae componunt
aliquid ipsa substantia quam componunt. Namque cum corpus animalis sit ex igne,
aere, aqua et terra, priora haec esse necesse est quam ipsum sit animal quod
illa elementa coniungunt. Hoc quoque etiam in aliis patet, nam cum sit liber ex
versibus, prior est versuum natura quam libri. Cumque versus constet verbis
atque nominibus, et caeteris quas grammatici partes orationis vocant, haec ex
quibus ipse versus constat versu ipso priora esse necesse est. Quocirca sensus
quoque ipsis, iam compositis animalibus supervenit. Nam cum animal constet ex
quattuor elementis, et cum sensus semper naturam animalium comitetur, cum ipsis
animalibus sensus fieri et nasci necesse est. Quodsi cum animalibus, id est
compositis rebus, sensus nascitur, sicut animali propria sunt ea ex quibus
ipsum animal constat, sic quoque sensu qui cum animali nascitur, illa priora
sunt, ex quibus animalis natura coniungitur. Coniungitur autem animal atque
componitur ex quattuor elementis. Quattuor igitur elementa sensu priora sunt
sed quattuor elementa corpora sunt, corpus vero omne sensibile est. Prius
igitur sensibile quam sensus est. Sensus enim cum re composita nascitur, illa
vero quae componunt et sensibilia sunt, et priora ipso composito. Universaliter
enim si quae duae res sint simul, cum quaelibet res una earum prior sit, et
altera prior erit, ut animal atque sensus, cum utraque simul sunt, simulque
nascuntur, cum quattuor elementa quae sunt sensibilia priora sint quam animal,
sensu quoque esse priora necesse est, quocirca conclusit dicens: QUARE PRIUS
QUAM SENSUS SENSIBILE ESSE VIDETUR. Sed quidam, quorum Porphyrius quoque unus
est, astruunt in omnibus verum esse relativis, ut simul natura sint, veluti
ipsum quoque sensum et scientiam non praecedere scibile atque sensibile sed
simul esse, quam quoniam brevis est oratio, non grauabor opponere. Ait enim: Si
cuiuslibet scientia non sit, ipsum quod per se poterit permanere scibile esse
non poterit, ut si formarum scientia pereat, ipsae fortasse formae permaneant,
atque in priore natura consistant, scibiles vero non sint. Cum enim scientia
quae illud comprehendere possit, non sit, ipsa quoque sciri non potest res.
Namque omnis res scientia scitur, quae si non sit sciri non possit. Porro autem
res quae sciri non potest scibilis non est. Hoc idem de sensu gustantis si
gustus enim pereat, mel forsitan permanebit, gustabile autem non erit. Ita
quoque omnino si sensus pereat, res quidem quae sentiri poterant sint,
sensibiles vero non sint sensu pereunte. Et fortasse neque scientia neque sensus
secundum sentientes speculandus est sed secundum ipsam naturam quae sensu
valeat comprehendi. Namque res quaecumque per naturam sensibilis est, eam
quoque in natura sua, proprium sensum quo sentiri possit, habere necesse est.
Et quodcumque sciri potest per naturam, nunquam possit addisci, nisi quaedam
eius in natura scientia versaretur. Haec Porphyrius. Sed nos ad Aristotelis
ordinem textumque veniamus. Namque ille adiecit quoque alias quaestiones. HABET
AUTEM DUBITATIONEM AN ULLA SUBSTANTIA AD ALIQUID DICATUR, QUEMADMODUM VIDETUR,
AN HOC QUIDEM CONTINGIT SECUNDUM QUASDAM SECUNDARUM SUBSTANTIARUM. NAM IN
PRIMIS QUIDEM SUBSTANTIIS VERUM EST; NAM NEQUE TOTAE NEQUE PARTES AD ALIQUID
DICUNTUR; NAM ALIQUIS HOMO NON DICITUR ALICUIUS ALIQUIS HOMO, NEQUE ALIQUIS BOS
ALICUIUS ALIQUIS BOS. SIMILITER AUTEM ET PARTES; QUAEDAM ENIM MANUS NON DICITUR
ALICUIUS QUAEDAM MANUS SED ALICUIUS 234A MANUS, ET QUODDAM CAPUT NON DICITUR
ALICUIUS QUODDAM CAPUT SED ALICUIUS CAPUT. SIMILITER AUTEM ET IN SECUNDIS
SUBSTANTIIS, ATQUE HOC QUIDEM IN PLURIBUS; UT HOMO NON DICITUR ALICUIUS HOMO,
NEC BOS ALICUIUS BOS, NEC LIGNUM ALICUIUS LIGNUM SED ALICUIUS POSSESSIO
DICITUR. ATQUE IN HUIUSMODI QUIDEM MANIFESTUM EST QUONIAM NON EST AD ALIQUID;
IN ALIQUIBUS VERO SECUNDIS SUBSTANTIIS HABET ALIQUAM DUBITATIONEM; UT CAPUT
ALICUIUS CAPUT DICITUR ET MANUS ALICUIUS MANUS DICITUR ET SINGULA HUIUSMODI;
QUARE HAEC ESSE FORTASSE AD ALIQUID VIDEBUNTUR. Contra ea quae superius
disputata sunt huiusmodi nodum quaestionis opposuit, quoniam enim prima
definitio relativorum fuerat, illa esse relativa quaecumque hoc ipsum quod
essent aliorum dicerentur, secundum hanc definitionem possunt quaedam
substantiae videri esse relativae: quod si sit, substantiae in definitionem
accidentium transeunt. Nam cum sint accidentia relativa, si quas substantias
relativas esse concedimus, in accidentium numero ponendas esse censebimus sed
hoc contrarium est. Si enim substantia in subiecto non est, accidens autem in
subiecto est, qui fieri potest ut idem et in subiecto sit et in subiecto non
sit? Utrum autem possit quaedam substantia accidentium suscipere rationem, hoc
modo quaerendum est. Primae namque substantiae ipsae quidem ad aliquid non
dicuntur, neque partes primarum substantiarum quas ipsas quoque in primis
substantiis numeramus. Socrates enim non dicitur alicuius aliquis Socrates, nec
homo alicuius aliquis homo, nec bos alicuius aliquis bos, neque partes primarum
substantiarum quae ipsae quoque sunt primae substantiae. Caput enim non dicitur
alicuius aliquod caput sed tantum alicuius caput, et manus non dicitur alicuius
aliqua manus sed tantum alicuius manus. Quare neque primae substantiae, neque
primarum substantiarum partes ad relationem dici poterunt. Quod si secundas
quoque substantias speculemur, nec ipsae quoque ad aliquid dicentur. Neque enim
dicitur animal alicuius esse animal, aut homo alicuius esse homo. Quod si quis
dicat posse esse animal alicuius, ut equum meum, vel quodlibet aliud, non in eo
quod animal est sed in eo quod est possessio dicitur alicuius, et sic non
dicitur animal alicuius animal sed animalis possessio, alicuius possessio. Ergo
neque primae substantiae, neque partes primarum substantiarum, neque secundae
substantiae ad aliquid dicuntur. Partes autem secundarum substantiarum ad
aliquid hoc ipsum quod sunt dicuntur. Caput enim alicuius caput dicitur, si
quidem capitati caput dicemus, et manus alicuius manus. Si quidem ex manu nomen
fingere volumus, ad quod manus referri possit, sicut caput ad capitatum, et in
aliis quidem rebus eodem modo. Sed si partes secundarum substantiarum
accidentes sint, et ipsae secundae substantiae accidentes erunt, aut si hoc non
placet, constabunt secundae substantiae ex partibus accidentibus, quod fieri
nequit. Quid igitur dicendum est? aut enim definitio relativorum reprehendenda
est, aut aliter soluenda dubietas. Sed posita atque constituta
priori'definitione, quae dicit illa esse relativa quae id quod sunt aliorum
dicuntur, hic quaestionis nodus solvi non poterit, quod ipse Aristoteles hac
adiunctione testatur. SI IGITUR SUFFICIENTER EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID
DEFINITIO ASSIGNATA EST, AUT NIMIS DIFFICILE AUT IMPOSSIBILE EST SOLVERE
QUONIAM NULLA SUBSTANTIA EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID DICITUR; SI AUTEM NON
SUFFICIENTER SED SUNT AD ALIQUID QUIBUS HOC IPSUM ESSE EST AD ALIQUID QUODAM
MODO HABERE, FORTASSE ALIQUID CONTRA ISTA DICETUR. PRIOR VERO DEFINITIO
SEQUITUR QUIDEM OMNIA RELATIVA, NON TAMEN HOC EIS EST QUOD SINT AD ALIQUID QUOD
EA IPSA QUAE SUNT ALIORUM DICUNTUR. Proposita ergo atque firmata priore
relativorum definitione difficile defendi poterit, aut fortasse nunquam, quasdam
substantias non esse relativas. Nam si ad aliquid illa sunt, quaecumque id quod
sunt aliorum dicuntur, ut id quod est caput capitati dicitur caput, habebit
igitur substantia quae est caput ad aliquid relationem, et ita erit substantia
relativa atque accidens, quod est impossibile. Quare quoniam proposita atque
constituta priore definitione haec incommoditas in dispositione consequitur, ut
constet ratio non integrae definitionis, assignatio permPombaur. Ait enim non
esse integram definitionem quae supra sit reddita, nec magis illa esse ad
aliquid, quae id quod sunt aliorum dicuntur, potiusquam ea quibus ipsum esse
est ad aliquid quodammodo se habere. Sed fortasse videatur quibusdam inconsulte
legentibus et minime considerantibus, id quod definiri oportuerat, hoc in
definitione esse sumptum, quod est vitiosissimum. Si enim idcirco definitio
sumitur, ut res de qua quaeritur assignetur, quae magis est apertior definitio,
si re ipsa quam definit in assignatione definitionis utatur? Definitio namque
idcirco redditur, ut res de cuius quidem esse dubitatur, definitione patefiat.
Quod si rem ipsamquam definit, in definitione protulerit, nihilo planior
definitio sit, ut si quis hominem definire volens dicat, hoc ipsum esse hominem
quod hominem. Ita quoque non considerantibus, Aristoteles relativorum
definitionem reddidisse videbitur. Ait enim esse ad aliquid, quibus hoc ipsum
esse est ad aliquid quodammodo se habere, ac si diceret: Ea sunt ad aliquid,
quae se ad aliquid quodammodo habent. Sed minutius atque scutius
considerantibus, vis integra definitionis prompte atque veraciter apparebit;
non enim in eo quod est dici, ad aliquid consideramus sed in eo quod est esse;
ea namque sunt relativa, quae in quadam comparatione et relationis habitudine
consideramus, ut quaternarius numerus, et hoc ipsum quod est esse dicitur, id
est quattuor, et aliud quoddam, id est duplum, ut si ad binarium conferatur.
Sed quod de quaternario numero dicimus, quaternarium hoc ad ipsius quaternarii
numeri naturam refertur. Quod vero duplum, non est hoc quaternarii sed duorum
ad quod duplum dicitur, et ad quod propria relatione duplum est. Binarius
quoque numerus et binarius est, et medietas, binarius quidem secundum suam naturam,
medietas vero secundum quaternarius relationem. Quocirca in comparatione quadam
atque in habitudine ea quae sunt ad aliquid speculamur; quaternarius enim in eo
quod quaternarius est ad aliquid non dicitur, in eo vero quod est duplus,
duorum relativus est, scilicet ad binarium comparatus. Binarius quoque in eo
quod sunt duo, ad aliquid non refertur sed in eo quod est medietas, scilicet ad
quaternarium comparatus. Ergo, ut sit duplus quaternarius, non duobus sed
medietate eget, ut si medietas biniarius, non quaternario sed duplo opus est.
Videsne ut habitudine quadam et comparatione res aliud in natura retinentes,
aliud tamen ad se invicem sint? et hoc non ex propria sed ex invicem natura
mutuentur, nam quod est duplus numerus ex medio trahit, quod est medietas ex duplo,
atque hoc iis quae sunt ad aliquid extra evenit, et ideo nihil patientibus
neque permutatis ipsis quae ad aliquid referuntur, ipsa ad aliquid fiunt, nihil
enim permutato de quaternario duplus ipse est, sit ad binarium referatur, et
nihil de binario permutato, medietas est binarius, si ad quaternarium dicitur.
Ergo relativorum hoc est esse, id est haec eorum natura atque substantia est,
ut id quod sunt ad aliquid referantur, id est non solum referri dicantur sed
etiam referuntur. Atque hoc est quod ait sed sunt ad aliquid quibus hoc ipsum
esse est ad aliquid quodammodo se babere, ac si diceret quorum substantia est
ad aliquid aliud referri, et qua ita sunt ut ipsa id quod sunt ad aliud
referantur, et esse eorum sit ad aliquid aliud referri, sed non omnia quae
dicuntur ad aliud, et esse de alio mutuantur. Illa namque definitio prior,
maius est, definitionem namque relativorum supergressa est, includit enim ea
quoque quae relativa non sunt, et quemadmodum hominem cum dico, mortalem eum
esse necesse est, cum dico mortalem, non necesse est esse hominem, ita quoque
ea quae hoc ipsum quod sunt ex altero trahunt, et esse habent ad alterius
relationem, et esse suum ad alterius referunt nuncupationem. Quae vero ad aliud
tantum dicuntur, non necesse est, ut esse suum ad aliquid habeant relatum, quo
posteriorem definitionem suscipiant, et ista sententia breviter includatur, ut
quaecumque hanc definitionem susceperint, ut hoc ipsum esse sit ad aliquid
quodammodo se habere, habeant eam quoque definitionem, quae est relativa esse
quaecumque id quod sunt aliorum dicuntur, quae vero hanc habuerint definitionem
illam non necessario habeant, ut ea quae sunt ad aliquid, etiam ad aliquid
dicantur. Sed ea quae dicuntur ad aliquid, non omnino ad aliquid sint, quod si
ista definitio posterior recipiatur, quae dicit ea esse ad aliquid, quibus hoc
ipsum esse est ad aliquid quodammodo se habere, poterit superior solvi
dubitatio, quod dicamus id quod ipse posteriore disputatione secutus est. Quod
autem ait: Prior vero definitio sequitur quidem omnia relativa, non tamen hoc
eis est esse, quod sint ad aliquid, quod ea ipsa quae sunt aliorum dicuntur,
hoc est quod non idcirco aliquid relativum esse dicitur, quoniam alterius esse
237A dicitur. Sed tunc merito res aliqua relationis nomine continebitur,
quoties non solum ad aliquid dicitur sed hoc ipsum esse eius ad aliquid est
quodammodo se habere. Quare quid hanc definitionem proprium consequatur, ipse
addidit. EX HIS ERGO MANIFESTUM EST QUOD, SI QUIS ALIQUID EORUM QUAE SUNT AD
ALIQUID DEFINITE SCIET, ET ILLUD AD QUOD DICITUR DEFINITE SCITURUS EST. SI
MANIFESTUM QUIDEM ETIAM EX IPSO EST; NAM SI QUIS NOVIT QUONIAM HOC EORUM QUAE
SUNT AD ALIQUID EST, RELATIVIS AUTEM HOC EST ESSE, AD ALIQUID QUODAMMODO
HABERE, ET ILLUD NOVIT AD QUOD HOC ALIQUO MODO HABET. Proprium relativis
secundum eam quae superius dicta est definitionem hoc esse confirmat, quod si
quis id quod est ad aliquid definite scit, quoniam 237B relativam est, et illud
ad quod referri potest, definite sciturus est quid sit, nam relativa easunt
quibus hoc est esse ad aliquid quodammodo se habere, quoniam ut sit
quaternarius duplum a binario trahit. Si quis novit esse quaternarium numerum
duplum, et binarium necessario sciturus est esse dimidium, ad quem quaternarius
duplus est fieri; enim nullo modo potest, ut cum quis noverit aliquam rem esse
relativam definite, non illud quoque sciat ad quod illa res dicitur definite;
huius autem rei una probatio est quae ex definitione venit. Definita enim sunt
illa esse ad aliquid, quorum ea esset substantia, ut quodammodo se ad aliquid
haberent, quod si scio quaternarium numerum esse duplum, eo quod ad binarium
quodammodo coniungatur, nullus quaternarium duplum 237C esse poterit scire,
nisi qui sciet medietatem esse binarium, et hoc quidem in omnibus consideretur.
Nam si nesciat quis ad quid aliquid referatur eorum quae relativa sunt, illud
quoque ignorabit, utrum ommino ad aliquid referatur, quod his verbis
Aristoteles dicit: NAM SI OMNINO NESCIT AD QUOD ALIQUO MODO HABET, NEC SI AD
ALIQUID QUODAMMODO HABET SCITURUS EST. ET IN PARTICULARIBUS HOC MANIFESTUM EST;
UT, SI HOC AD ALIQUID SCIT DEFINITE QUONIAM DUPLUM EST, ET CUIUS DUPLUM EST
DEFINITE NOVIT (NAM SI NULLIUS DEFINITE NOVIT ILLUD ESSE DUPLUM, NEC SI OMNINO
DUPLUM EST NOVIT); SIMILITER AUTEM ET HOC AD ALIQUID SI NOVIT QUONIAM MELIUS
EST, ET QUO MELIUS ERIT DEFINITE EUM SCIRE NECESSE EST PROPTER HAEC IPSA QUAE
DICTA SUNT (NON AUTEM INFINITE QUONIAM HOC EST PEIORE MELIUS, OPINIO ENIM IAM
FIT HUIUSMODI, NON SCIENTIA; NEQUE ENIM SCIET INTEGRE QUONIAM EST PEIORE
MELIUS; NAM FORTASSE CONTINGIT NIHIL EO ESSE PEIUS); QUARE MANIFESTUM EST
QUONIAM NECESSE EST QUOD QUIS NOVERIT EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID DEFINITE,
ETIAM ILLUD AD QUOD DICITUR SCITURUM ESSE DEFINITE.Huius quoque rei exempla
persequitur dicens: Si duplum ad aliquid esse novimus, scimus quoque id cuius
duplum est; quod si nescimus id cuius est duplum, duplum autem esse cuiuslibet
rei ex hoc est, quod ei sit medietas, ipsam quoque rem quae dupla sit, utrum
dupla sit scire non possumus. Si igitur definite novimus quamlibet illam rem
esse duplam, etiam cuius dupla est definite nos scire necesse est. Ut si novit
quis Anchisem patrem definite esse Aeneae, et Aeneam definite filium esse
agnoscet, vel si indefinite novit quoniam pater est, indefinite etiam sciturus
est quoniam filii pater est. Et rursus si Aeneam quis indefinite novit quoniam
filius est, sciturus quoque est indefinite quoniam patris est filius.
Manifestum est ergo quoniam ea quae sunt ad aliquid, si definite ad aliquid
esse sciantur, etiam illud definite sciendum est ad quod illa referuntur. Quod
in substantiis non eodem modo esse Aristotele probamus auctore, qui huius quaestionis
serierm ita concludit. CAPUT VERO ET MANUM ET EORUM SINGULA QUAE SUBSTANTIAE
SUNT, HOC IPSUM QUIDEM QUOD SUNT POTEST SCIRI DEFINITE, AD QUOD AUTEM DICANTUR
NON NECESSE EST; CUIUS ENIM HOC CAPUT VEL CUIUS HAEC MANUS NON EST 238B DICERE
DEFINITE; QUARE HAEC NON ERUNT EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID; QUOD SI NON SUNT
EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID, VERUM ERIT NULLAM ESSE SUBSTANTIAM RELATIVAM In
capite, inquit, et in manu, et in aliis substantiis non est verum, quoniam si
quis aliquid horum alicuius esse novit, et ad aliquid aliud referri, idcirco et
ad quam referatur definite scituras est. Si quis enim operto capite atque
omnibus membris manum foras exerat, manifestum est quoniam manus illa alicuius
manus est, cuius autem manus sit, dici definite non potest. Similiter quoque
opertis oculis, facieque velata si cuiuslibet caput aspicias, illud quidem
caput alicuius esse non dubitas, cuius autem sit definite non proferes. Quare
quoniam haec huiusmodi sunt, ut si quis ea definite sciat esse alicuius, cuius
sint, definite scire non poterit, a relativorum definitione, quorum si una res
quaelibet definite sciatur esse ad aliquid, illa quoque res ad quam dicitur,
definite scitur, substantiae segregantur. Subiiciendum tamen est illud quoque,
quod omnino verum est, in definitionibus rem ipsam quae diflinitur sumi non
oportere. Multa enim sunt quae aliter proferuntur et definiuntur, et aliter
accipiuntur, ut si quis dicat album esse colorem nigro contrarium, potest hoc
et in corpore accipi, namque et color album dicitur, et corpus quod albo
participat, album nominatur. Quocirca ne quis pPomba tale album esse definitum,
quod ad participationem albi et corporis referatur, ita dicendum est: Album est
quod cum in aliquibus est, tum color nigro contrarium. Atque ita rem ipsam in
sua definitione sumimus, quod scilicet Aristoteles, id est rem ipsam qua
definitur in definitione sumi non oportere, inter verisimilia topicorum posuit
argumenta. Nunc autem post relativorum disputationem, ad maiorem nos de his
rebus tractatum studiosus doctor hortatur, dicene: FORTASSE AUTEM DIFFICILE SIT
DE HUIUSMODI REBUS CONFIDENTER DECLARARE NISI SAEPIUS PERTRACTATA SINT;
DUBITARE AUTEM DE SINGULIS NON ERIT INUTILE. Quod scilicet nunquam diceret,
nisi nos ad maiorem acuminis exercitationem considerationemque reuocaret. Quod
quoniam eius est adhortatio, nos quoque in aliis de his rebus dubitationes
solutionesque ponere minime grauabimur. Consueta in principio quaestio est cur
post relationis predicamentum disputationem qualitatis aggressus est, quod
nimis curiosum est. Mirabile enim fuerat cur post quantitatis ordinem non
statim de qualilate coepisset sed quoniam quantitati quaedam relationis
admiscuit, et disputationem de relatione continuavit, idcirco non est mirabile
post expeditam relationis interpositionem ad qualitatis eum ordi nem
reuertisse, quamquam etiam ex hoc quoque recta sit series. Nam post magnum
paruumque statim proportio et quaedam ad aliud comparatio consequitur, ut sit
aut maius aut minus, aut aequale vel inaequale, quae sunt ad aliquid. Post haec
autem innasci quasque necesse est passiones, quae a qualitatis natura non
discrepant, ut album, vel nigrum, vel calidum vel frigidum, vel quaecumque his
sunt consimilia, quae praedicatio qualitatis includit. Est vero titulus huius
propositi de quali et de qualitate. Quaeritur enim cur ei non aut de quali
dixisse, aut de qualitate suffecerit, quod hoc modo solvitur. Dicimus enim
quale non uno modo, qualitatem vero simpliciter. Quale enim dicimus et ipsam
qualitatem, et illam rem quae qualitate illa participat, ut albedo quidem
qualitas est, qui vero participat albedinem albus dicitur. Sed et albedinem
ipsam communiter quale dicimus, id est ipsam proprie qualitatem, et album
dicimus quale, illud scilicet quod superius comprehensa qualitate participat.
Ita ergo et ipsam qualitatem et rem quae qualitate participat, qualia
communiter appellamus, qualitas vero simpliciter dicitur. Res enim ipsa quae
participari potest, sola qualitas nominatur. Res vero quae participat,
qualitatis vocabulo non tenetur, ut, albedo qualitas quidem est, albus vero
qualitas non est. Differunt ergo hoc quod dicimus quale et qualitas, quod illud
dupliciter, illa simpliciter appellatur. Quocirca quamquam quidam negent hunc
titulum Aristotelis esse, idemque confirment posteriores adiectione signatum,
nos tamen dicimus proprer quamdam nominum similitudinem demonstrandam utrumque
posuisse, ut nihil distare videatur utrum quale an qualitas, id quod appositum
est praedicamentum dicatur; quale enim ipsam aliquoties rem (ut diximus)
qualitatemque significat. Sit ergo ex rebus sumpta definitio qualitatis. Quod
vero inquam definitionem, quodque superius in aliis quoque praedicamentis,
eodem sumus usi vocabulo, nullus arbitretur generalem me definitionem voluisse
signare sed definitionis nomen in rem descriptionis accipiat. In his enim qua
generalissima genera sunt, definitio quaeri non debet sed descriptio quaedam
naturae, non enim potest inveniri definitio eius rei quae genus ipsa sit, et
quae genus nullum habeat. Quocirca his propositis, atque antea constitutis,
incipiendum est de qualitate. QUALITATEM VERO DICO SECUNDUM QUAM QUALES QUIDAM
DICIMUR. Hic quaeritur cur omnium in disceptatione doctissimus tam culpabili
qualitatem termino definitionis incluserit. Volentibus enim nobis quid sit
qualitas scire, illa respondet: qualitas est secundum quam quales quidam
dicuntur. Nihil enim minus erit obscurius atque ignorabilius quod ait: SECUNDUM
QUAM QUALES DICUNTUR, quam si de ipsa sola qualitate dixisset. Nam si illi sunt
quales, qui qualitatem habent, ut sciantur quales, prius qualitas cognoscenda
est. Amplius quoque nihil differt dixisse eam qualitatem secundum quam quales
quidem dicuntur, tanquam si diceret eam esse qualitatem quae qualitas sit. Nam
sic qualitatem definire volens ait: secundum quam quales quidam sunt. Rursus si
quis quales aliquos definire voluerit, eodem modo dicere poterit, qui in se
retinent aliquam qualitatem. Quod si qualitas quidem quid sit per quale, quid
autem sit quale, superiore qualitate monstratur, nihil intererit dicere
qualitatem esse, qualitatem, quam qualitatem esse, secundum quam quales
dicuntur. Sed si ordinata definitio generalis et in hoc generalissimo genere
poni potuisset, recte culpabilis determinatio videretur. Nunc autem frustra
contenditur, cum iam (ut saepe dictum est) descriptionis potius loco hunc
terminum quam alicuius definitionis addiderit. Quocirca si designatio tantum
quaedam, et quodammodo adumbratio rei eius de qua quaeritur, et non definitio est,
absurda calumnia est, rebus notioribus res ignotiores probantem non ante
perspecta descriptionis ratione culpare. Illud autem quis dubitet notiores esse
eos qui quales sunt, illa ipsa ex qua quales dicuntur qualitate, ut quilibet
albus notior est ipsa albedine? Nam si albedo qualitas est, albus vero ab
albedine, id est a qualitate, denominatus est, albus erit qualis nominatus ab
albedine qualitate. Quod si, ut dictum est, notior albus est albedine, qualis
notior erit qualitate, sicut grammaticus quoque notior est grammatica.
Grammaticus quoque qualis est denominatus, scilicet a grammatica qualitate.
Omnia enim quae sensibus subiecta sunt notiora sunt nobis quam ea quae sensibus
non tenentur. Quare nihil impedit describentem et quodammodo naturam rei eius
de qua quaeritur designantem, res ignotiores notioribus approbare. EST AUTEM
QUALITAS EORUM QUAE MULTIPLICITER DICUNTUR. ET UNA QUIDEM SPECIES QUALITATIS
HABITUS AFFECTIOQUE DICANTUR. DIFFERT AUTEM HABITUS AFFECTIONE QUOD
PERMANENTIOR ET DIUTURNIOR EST; TALES VERO SUNT SCIENTIAE VEL VIRTUTES;
SCIENTIA ENIM VIDETUR ESSE PERMANENTIUM ET EORUM QUAE DIFFICILE MOVEANTUR, SI
QUIS VEL MEDIOCRITER SCIENTIAM SUMAT, NISI FORTE GRANDIS PERMUTATIO FACTA SIT
VEL AB AEGRITUDINE VEL AB ALIQUO HUIUSMODI; SIMILITER AUTEM ET VIRTUS, ET
IUSTITIA VEL CASTITAS ET SINGULA TALIUM NON VIDENTUR FACILE POSSE MOVERI NEQUE
FACILE PERMUTARI. AFFECTIONES VERO DICUNTUR QUAE SUNT FACILE MOBILES ET CITO
PERMUTABILES, UT CALOR ET INFRICTIO ET AEGRITUDO ET SANITAS ET ALIA HUIUSMODI;
AFFECTUS EST ENIM QUODAMMODO CIRCA EAS HOMO, CITO AUTEM PERMUTATUR UT EX CALIDO
FRIGIDUS FIAT ET EX SANITATE IN AEGRITUDINEM; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS, NISI
FORTE IN HIS QUOQUE CONTINGIT PER TEMPORIS LONGITUDINEM IN NATURAM CUIUSQUE
TRANSLATA ET INSANABILIS VEL DIFFICILE MOBILIS, QUAM IAM QUILIBET HABITUDINEM
VOCET. Proponit qualitatem multipliciter dici, quae res traxit aliquos in
errorem, ut eis suspicio nasceretur Aristotelem credere qualitatem aequivoce
nominari. Nam si omnis aequivocatio multipliciter dicitur, qualitas autem
secundum Aristotelem ipsa quoque multipliciter appellatur, secundum Aristotelem
nomen qualitatis aequivocum est. Nos vero defendimus multipliciter dici, esse
non una tantum significatione nominari. Dicitur enim aliquid multipliciter
dici, cum et aequivoce dicitur, et diverso modo de suis speciebus multipliciter
praedicatur. Et communis est multiplex appellatio, etiam in his nominibus quae
veluti genera de speciebus dicuntur, velut aequivoca de subiectis. Namque et
animal multipliciter dicitur. Nam si multae sint species quae animali subiectae
sunt, ipsum quoque multipliciter quodammo denominatur. Istam autem
multiplicationem, non ad aequivocationem retulisse Aristotelem sed potius ut
qualitatem genus esse proponeret, illa res monstrat, quod ait, et una quidem
species qualitatis habitus affectioque dicitur. Nam qui speciem dicit esse
qualitatis habitum et affectionem, quis eum dubitet ipsam qualitatem vim
obtinere generis arbitrari? Cur vero dicit unam speciem esse qualitatis, cum
geminas proposuerit, habitudinem scilicet et affectionem, quaeritur. Nam si
unum idemque sit habitus et aflectio, superflua est eiusdem rei repetita
propositio, sin vero differact, quare differant investigandum est. Genere enim
ne distent, illa res praevenit, quod utraque sub qualitate constituit. Restat
ergo ut aut specie discrepent, aut numero; sed si specie discreparent, non ab
Aristotele pro una specie ponerentur. Reliquum est igitur ea neque genere neque
specie differre sed numero. Habitus namque dispositio idem est secundum speciem
sed numero tantum et propria quadam qualitate dissentiunt. Dispositionem vero
indiscrete idem quod affectionem voco. Nam sicut Socrates a Platone nihil
quidem secundum ipsam humanitatis speciem discrepat, sola tamen propriae personae
qualitate disiuncti sunt, ita quoque dispositio atque habitus, nec potius hoc
modo distant; sed quemadmodum ipse Socrates dum esset paruulus, post vero
pubescens a seipso distabat, eodem quoque modo habitus et dispositio: namque
habitus firma est dispositio, affectio infirmus est habitus, ut quemadmodum
distat albus color ab albo colore, si in pictura hic quidem permaneat, ille
vero statim periturus sit, nisi quod is qui permanentior est, in habitu est,
ille vero qui facile periturus est, in affectione, ita nihil aliud interest
inter habitum atque dispositionem. Nam quamvis permanentior sit habitus, facile
vero mobilis dispositio, non nisi tantum dinturnitate differunt permanendi.
Unde fit ut genere et specie habitus a dispositione non discrepet. Quocirca
recte quae numero solo distabant, non specie sub unius speciei nuncupatione
utraque sunt ab Aristotele proposita sed est horum propria differentia, quod
habitus diutissime permanentes dispositiones sunt. Dispositio autem facile
mobilis habitus sed si borum exempla quaeramus, haec poterunt inveniri.
Habitudines sunt ut artes, disciplinae, virtutes. Nam ars non facile mobilis
videtur et diutissime permanet. Hoc enim ars ipsa meditatur ut usu atque
exercitatione non pereat. Quis enim est qui sciens recte grammaticam nulla vi
interveniente validioris passionis amisit? Fertur enim quidam summus orator
aegritudine febribusque decoctus, omnem litterarum amisisse doctrinam, in aliis
vero rebus sanus ac sibi constans et in omni re uegetus permansisse. Disciplina
quoque etiam ipsa est in permutatione difficilis. Quis enim sciens triangulum,
duobus directis angulis, tres interiores similes habere angulos, hanc scientiam
praeter vim (ut dictum est) fortioris passionis amisit? Virtutes quoque in
eodem genere ponendae sunt. Virtus enim nisi difficile mutabilis non est, neque
enim quod semel iuste iudical iustus est, neque qui semel adulterium facit, est
adulter sed cum ista voluntas cogitatioque permanserit. Aristoteles enim
virtutes non putat scientias, ut Socrates sed habitus in Ethicis suis esse
declarat. Quocirca constat esse habitus stabiliter permanentes, difficileque
mutabiles, hoc tantum excepto, ut non eas vis aliqua maior alicuius
permutationis impellat et destruat. Affectionis vero species sunt, ut
calefactio atque perfrictio, et aegritudo atque sanitas, cum ad eas quodammodo
sit homo dispositus atque affectus, non tamen immutabiliteraut caloris
qualitatem habeat aut frigoris, sicut nec perpetuo sanitatis aut perpetuo
aegritudinis. Quin etiam si qua sunt quae per longi temporis aegritudinem
corporibus immutabiliter indurantur, ut ea iam in naturam quodammodo corporis
cuiusque transierint, ut si quis percussus cicatricem faciat insanabilem, illi
ex dispositione et 242D affectione quidam factus est habitus. Quocirca recte
dictum est dispositiones inveteratas habitus facere. Nam cum quaelibet
dispositio permanens et difficilc mobilis facta sit, illa iam non dispositio
aut affectio sed habitus vocandus est. MANIFESTUM EST AUTEM QUONIAM HAEC VOLUNT
HABITUS NOMINARI, QUAE SUNT DIUTURNIORA ET DIFFICILE MOBILIA; NAMQUE IN
DISCIPLINIS NON MULTUM RETINENTES SED FACILE MOBILES DICUNT HABITUM NON HABERE,
QUAMVIS SINT AD DISCIPLINAM PEIUS MELIUSUE DISPOSITI. QUARE DIFFERT HABITUS
AFFECTIONE, QUOD HOC QUIDEM FACILE MOBILE EST, ILLUD VERO DIUTURNIUS ET
DIFFICILE MOBILE. Habitus esse qualitates difficile mobiles et diuturnissime
permanentes hoc argumento confirmat, quod eos quibus quaelibet scientia
traditur, si ab eis non fortiter addiscatur, eius rei quam discunt habitum
retinere non dicimus. Qui enim litteras discens nondum soluto cursu sermonis
sed syllabatim quodammodo atque intercise per imperitiam legerit, eum quidem
dispositum esse atque affectum dicimus ad scientiam litterarum, non tamen adhuc
illum habitum retinere. Quare idem quoque est in aliis rebus. Omnes enim
quicumque ad aliquam rem dispositi, eius rei qua sunt aliquo modo affecti, non
diuturnam in se receptionem habent, eos ad illam rem dispositos quidem esse
arbitramur, habitum vero habere non dicimus. Recte igitur habitus diuturnior,
et permanentior, dispositio vero facile mobilis deque perdurabilis ab
Aristotele proponitur. SUNT AUTEM HABITUS ETIAM AFFECTIONES, AFFECTIONES VERO
NON NECESSARIO HABITUS; QUI ENIM RETINENT HABITUM ET QUODAMMODO AFFECTI SUNT AD
EA VEL PEIUS VEL MELIUS; QUI AUTEM AFFECTI SUNT, NON OMNINO RETINENT HABITUM. Sensus
quidem talis est, quod omnis quicumque habeat habitum, habet quoque in eodem
habitu dispositionem. Si quis vero habeat dispositionem, non necesse sit eum
etiam habitum retinere. Habitus ab habendo dictus est. Idcirco quod ab aliquo
immutabiliter vel difficile immutabilitur habeatur, ut glauci oculi, vel
aduncae nares, vel alicuius artis scientia atque doctrina, quae si quis habeat,
etiam dispositus ad ea esse dicitur. Si quis autem dispositus ad aliquam rem
sit, non eum necesse est etiam habitum habere, ut si quis negligentius opertus
algore quatiatur, dispositus quidem tunc ad frigus est, non tamen eius retinet
habitum. Videtur autem eamdem similitudinem servare genus. Nam genus amplius
praedicatur, et ubicumque species sit, mox quoque nomen generis praesto est.
Ubi autem sit genus, non necessario speciei vocabulum consequitur, ut si quis
est homo, eum animal esse necesse est. Si quis est animal, non statim homo
dicitur. Quocirca cum quidquid est habitus, dispositio sit, quidquid dispositio
non omnino sit habitus, videtur genus esse quoddam habitus dispositio sed illud
verius, ubi intentio est atque remissio, genus intentionis, remissione esse non
posse. Num sicut in eo quod est album et magis album, magis albi genus album
esse non potest, idem namque est album et magis album, nisi forte quod sola
discrepant intentione, quod magis album quadam quasi intentione augmentoque
crescit atque porrigitur, sic etiam habitus atque dispositio cum idem sint,
utraque sola differunt intentione, quod auctior quodammodo, et incremento
quodam permanentior firmiorque est habitus dispositione; quocirca dispositio
habitus genus non est, eodem quoque modo nec dispositionis species, habitus.
Sed nunc quidam ita est habitus, ut non per dispositionem creuerit, neque per
aliquam nondum durabilem qualitatem ad perfectum venerit statum, ut est nasi
curuitas, vel caecitas oculorum, si subita facta sit. Haec enim ab ipso habitu
nulla praecedente dispositione coeperunt; forte enim nunquam ad ea dispositiis
fuit aliquis, qui adhuc non haberet. Alii vero habitus intentione fiunt atque
inveteratione dispositionis, ut ea quae in artibus doctrinisque versantur.
Prius enim quis ad ea dispositus est, post vero habitum capit, alia vero non
intentione sed quadam permutatione ad habitum veniunt, ut lac quod ex liquido
defigitur et constipatur in caseum, et vinum quod ex dulci atque suavi in
acidum gustum saporemque convertitur; neque enim plus tunc vinum est quam fuit
ante cum esset suave sed cum quadam permutatione in aliam qualitatem
habitudinemque transgressum est. Ac de prima quidem qualitatis specie
sufficienter est dictum. ALIUD VERO GENUS QUALITATIS EST SECUNDUM QUOD
PUGILLATORES U EL CURSORES VEL SALUBRES VEL INSALUBRES DICIMUS, 244B ET
SIMPLICITER QUAECUMQUE SECUNDUM POTENTIAM NATURALEM VEL IMPOTENTIAM DICUNTUR.
NON ENIM QUONIAM SUNT AFFECTI ALIQUO MODO, UNUMQUODQUE HUIUSMODI DICITUR SED
QUOD HABEANT POTENTIAM NATURALEM VEL FACERE QUID FACILE VEL NIHIL PATI; UT
PUGILLATORES VEL CURSORES DICUNTUR NON QUOD SINT AFFECTI SED QUOD HABEANT
POTENTIAM HOC FACILE FACIENDI, SALUBRES AUTEM DICUNTUR EO QUOD HABEANT
POTENTIAM NATURALEM UT NIHIL A QUIBUSLIBET ACCIDENTIBUS PATIANTUR, INSALUBRES
VERO QUOD HABEANT IMPOTENTIAM NIHIL PATIENDI. SIMILITER AUTEM ET DURUM ET MOLLE
SESE HABENT; DURUM ENIM DICITUR QUOD HABEAT POTENTIAM NON CITIUS SECARI, MOLLE
VERO QUOD EIUSDEM IPSIUS HABEAT IMPOTENTIAM. Secundam vero speciem qualitatis
esse commemorat, quae ex quadam naturali potentia impotentiaque proveniat; hoc
autem huiusmodi est, ut cum aliquos validi corporis intuemur nondum pugiles,
neque huius peritia artis imbutos sed sic eos pugillatores dicimus, non in eo
quod iam sint pugiles sed eo quod esse possint, et si quorum leue corpus
aspicimus, surasque non magnas, eos facile moveri cursuque veloces existimamus,
quamquam nondum ad cursus certamen aspirent, nec sint cursores, eos tamen
cursores secundum potentiam nominamus, non quod iam currant sed quod possint
currere, non absurde vocabimus. Eodem quoque modo eos vocamus salubres vel
insalubres, quos valenti corpore vel fragiliore, vel ad sanitatem aptos, vel ad
aegritudinem credimus. 244D Unde fit ut quosdam aegrotos possimus salubres
vocare, quosdam vero sanos insalubres dicere: non enim, quod iam actu vel sani
vel aegroti sint, salubres vel insalubres dicuntur sed quod vel sani diutius
esse possint vel aegroti. Sed quaestio est cur cum de qualitatis speciebus
propositum sit, secundum genus dixerit qualitatis et non speciem; ita enim ait:
Aliud vero genus qualitatis est secundum quod pugillalores vel cursores, vel
salubres et insalubres dicimus. Sed qui hoc quaerunt ignorare videntur illud
esse solum genus, quod super se aliud genus non habeat. Illud veros solum
speciem, quod sub se nullas species claudat, illa vero quae inter genera
generalissima speciesque specialissimas sunt, communi posse generis et speciei
nomine nuncupari. Quocirca quoniam de ea specie qualitatis Aristoteles tractat,
quae nondum sit species specialissima sed magis generis prima species, et
huiusmodi species quaa possit esse et genus, nihil absurdum est eamdem et speciei
et generis loco ponere. Sed ut sunt quaedam qualitates, a quibus denominatione
quadam facta quaelibet illa res dicitur, ut ab albedine album, vel a luxuria
luxuriosum, vel quidquid huiusmodi est, in his quae sunt secundum potentiam
naturalem non ita est. Ars enim ipsa pugillatoria non est proposita, a qua
pugillatores dicamus. Pugillatores enim non dicuntur ab eo quod usum
pugillatoriae artis exerceant sed ab eo quod ad eam secundum potentiam
naturalem affecti sunt; quocirca quos dicimus pugillatores a pugillatoria dicti
non sunt, neque ab ea denominari possunt sed magis a pugillatoria arte pugiles
appellantur. Pugilis enim est qui pugillatoria arte utitur, atque hoc idem in
caeteris licet videre. In his ergo nulla certa qualitas est a qua caetera
nominentur. Sed si qua tamen invenienda atque exprimenda sit, talis est quam
ipse Aristoteles hoc modo denuntiat, quae sit secundum potentiam aliquid
faciendi, vel impotentiam aliquid patiendi. Pugillatores enim et cursores
idcirco dicimus, quod habeant potentiam faciendi, id est currere atque esse
pugiles. Salubres vero denominamus, quod et ipsi habeant aliquam quodammodo im
potentiam aliquid patiendi; qui enim minus ab extrinsecus accidentibus patitur,
hic de sanitate securus est, et qui de sanitate securus est, illum salubrem
esse re vera possumus praedicare. Alia vero est qualitas quae secundum nihil
patiendi impotentiam dicitur, ut eos quos insalubres vocamus; hi enim
impotentiam habent nihil patiendi, idcirco quod habeant potentia mali quid cito
patiendi: quod si quis est qui ab extrinsecus accidentibus aliquid facile
patiatur, ille potens est facillime aegritudini subiacere, secundum quam
potentiam insalubres dicimus, etiamsi sint sani. Eodem quoque modo durum
dicitur et molle. Durum enim est quod habet potentiam non citius secari, quod
enim durum est, difficillime aliqua sectione dividitur. Molle autem quod
habeatimpotentiam difficilius secari, quod quoniam molle secatur facile,
secundum impotentiam difficilius secari molle dicimus. Et haec est secunda
species qualitatis. Nunc transeamus ad tertiam. TERTIUM VERO GENUS QUALITATIS
EST PASSIBILES QUALITATES ET PASSIONES. SUNT AUTEM HUIUSMODI UT DULCEDO VEL
AMARITUDO ET OMNIA HIS COGNATA, AMPLIUS CALOR ET FRIGUS ET ALBEDO ET NIGREDO.
ET QUONIAM HAE QUALITATES SUNT, MANIFESTUM EST; QUAECUMQUE ENIM ISTA
SUSCEPERINT QUALIA DICUNTUR SECUNDUM EA; UT MEL, QUONIAM DULCEDINEM SUSCEPIT,
DICITUR DULCE, ET CORPUS ALBUM QUOD ALBEDINEM SUSCEPERIT; SIMILITER AUTEM SESE
HABET ETIAM IN CAETERIS. Tertium genus qualitatis proponit, quod nos in partem
qualitatis speciemque convertimus passibiles qualitates et passiones. Haec
autem a se plurimum distant, tamen cum utraque qualitates sint, utraque prius
docet, post vero quae eorum distantia esse videatur edisserit, et prius eorum
convenientia proponit exempla. Nam quid sint passibiles qualitates docens ait.
ut dulcedo vel amaritudo, calor et frigus, nigredo et albedo, et alia his
cognata, haec quae superius comprehensa sunt qualitates esse illa ratione
confirmat, quam in primordio de qualitatis disputatione ipsius qualitatis esse
reddiderat. Definitionem enim qualitatis esse praedixerat, secundum quam quales
vocamur. Quod si secundum qualitatis quales vocamur, ab amaritudine vero vel a
dulcedine amarum vel dulce dicitur. A nigredine atque albedine nigrum atque
album, quis dubitet has esse qualitates in quibus qualitatis convenit
definitio? Illa enim semper eiusdem naturae esse creduntur, quaecumque eiusdem descriptionis
finibus terminantur, ut si qua res definitionem hanc, quae est animal rationale
mortale susceperit, eam hominem esse manifestum est. Quocirca si hae quas
passibiles qualitates vel passiones dixerat, suscipiunt qualitatis defnitionem,
eo quod qualia dicuntur quae illa susceperint, has etiam constat esse
qualitates. PASSIBILES VERO QUALITATES DICUNTUR NON QUO EA QUAE ILLAS
SUSCEPERINT QUALITATES ALIQUID PATIANTUR; NEQUE ENIM MEL, QUONIAM ALIQUID
PASSUM SIT, IDCIRCO DICITUR DULCE, NEC ALIUD ALIQUID HUIUSMODI; SIMILITER AUTEM
HIS ET CALOR ET FRIGUS PASSIBILES DICUNTUR NON QUO EA QUAE EAS SUSCIPIUNT
QUALITATES ALIQUID PATIANTUR SED QUONIAM SINGULUM EORUM QUAE DICTA SUNT
SECUNDUM SENSUS QUALITATUM PASSIONIS PERFECTIVA SUNT, PASSIBILES QUALITATES
DICUNTUR; DULCEDO ENIM PASSIONEM QUANDAM SECUNDUM GUSTUM EFFICIT, ET CALOR
SECUNDUM TACTUM; SIMILITER AUTEM ET ALIA. Passibilium qualitatum exempla
constituerat dulcedinem vel amaritudinem, frigus atque calorem, albedinem atque
nigredinem, quae cum passibiles qualitates sint, non tamen uno eodemque modo
passibiles qualitates dicuntur; sed longe distant rationes quibus haec omnia
qualitates passibiles appellantur, ut prius dulcedo vel amaritudo, calor et
frigus passibiles qualitates dicuntur, non quod ea quae sunt dulcia aliquid
extrinseous patiantur, vers quod ea quae sunt amara, ex aliqua passione saporem
asperum amaritudinemque susceperint. Neque enim mel aliquid passum est, ut ei
dulcedo esset in natura, nec vero absinthium ab ulla aliqua extrinsecus
passione amaritudinis horror infecit; quocirca haec atque his similia non
idcirco dicuntur esse passibiles qualitates, quod ipsae aliquid passae sint sed
quod ex his passiones quaedam in sensibus dimittantur. Namque ex melle quod
dulce est, dulcedo quaedam in gustu relinquitur, simulque etiam calor et frigus
passionem quamdam sensibus facinat. Patimur dulcedinem, cum aliquid dulce
gustamus, simulque secumlum caloris et frigoris qualitatem, talium sensuum
passionem subimus. Quocirca calor et frigus, amaritudo atque dulcedo, idcirco
passibiles qualitates dicuntur, quod secundum sensuum qualitatem, aliquam in nobis
efficiunt passionem, non quod ipsa extrinsecus aliquid patiantur. ALBEDO AUTEM
ET NIGREDO ET ALII COLORES NON SIMILITER HIS QUAE DICTA SUNT PASSIBILES
QUALITATES DICUNTUR SED HOC QUOD HAE IPSAE AB ALIQUIBUS PASSIONIBUS
INNASCUNTUR. Quoniam vero passibiles qualitates etiam colores esse dicuntur, id
est albedo et nigredo. Non autem eodem modo passibiles qualitates dicuntur,
quemadmodum amaritudo atque dulcedo, calor et frigus, nunc quae eorum
distantiae esse possint, exponit. Amaritudo enim atque dulcedo non quod ipsa
aliquid extrinsecus paterentur sed quod ipsa efficerent passiones, passibiles
qualitates vocabantur, albedo vero et nigredo contrarie. Non enim quod ipsae
aliquas 247B sensibus passiones importent sed quod ex aliis quibusdam
passionibus innascantur. Hoc autem videtur Aristoteles eo quodammodo
considerasse, quod post proposuit hoc modo: QUONIAM ERGO FIUNT PROPTER ALIQUAM
PASSIONEM MULTAE COLORUM MUTATIONES, MANIFESTUM EST; ERUBESCENS ENIM ALIQUIS
RUBICUNDUS FACTUS EST ET TIMENS PALLIDUS ET UNUMQUODQUE TALIUM. Hoc autem ex
non longi temporis passionibus ad passibiles qualitates et diutissime
permanentes, acutissima consideratione transfertur, fit enim rationis
probabilitas hoc modo. Monstrantur enim colorum qualitates ex passionibus
nasci, quod cum verecundia passio quaedam sit, ex ea rubor ex oritur, et cum
timor loco passionis habeatur, ab ea pallor metuentis 247C uultum atque ora
defigit. Quare quoniam hi colores ex quadam passione videntur innasci, etiam in
naturali colore eamdem verisimile est evenisse rationem. Nam quoniam cum
verecundia fit, in os omnis sanguis egreditur, et velut delictum tecturus
effunditur, ita quoque fit rubor ex sanguinis progressione, atque in apertum
effusione. Quocirca si hoc ex innaturali passione contigerit, naturali facies
rubore perfunditur. Pallor vero fit, quoties a facie sanguis ad praecordiorum
interiora ingreditur. Quod si haec quoque naturalis passio det, verisimile est
eodem infectum calore procreari. Quocirca sive per aegritudinem pallor fit,
quod naturale non est, sive per aliquem naturalem euentum passionis accidat,
caeteraque ad eumdem modum, passibiles qualitates dicuntur, eo quod ex
aliquibus passionibus sint, quod ipse Aristoteles hao voce testatur: QUARE VEL
SI QUIS NATURALITER ALIQUID TALIUM PASSIONUM PASSUS EST, SIMILEM COLOREM EUM
HABERE OPORTET; QUAE- ENIM AFFECTIO NUNC AD VERECUNDIAM CIRCA CORPUS FACTA EST,
ET SECUNDUM NATURALEM CONSTITUTIONEM EADEM AFFECTIO FIT, QUARE NATURALITER
COLOR SIMILIS FIT. Nam sive aliquis vel nondum natus aliquid patiatur, quo
faciem sanguis reiinquat, sive quolibet alio modo sanguis ex infantis uultu ad
interiora migravit, faciem naturalis infecit pallor, et quae nunc non naturales
passiones dispositionesque sunt, ut cum hi colores faciem vel totum corpus
inficiunt, hi si naturaliter contigerint eisdem, similibus signatus coloribus
uultus aspicietur. Nunc enim cum aestus in superficie uultus sanguinem
impositum decoxerit, nigredinis perusti sanguinis rubor reddit colorem. Quodsi
idem aliqua passione in faciem nondum geniti infantis acciderit, eamdem
verisimile est affectionem coloris corpus suscipientis inficere. Quare quae in
coloribus sunt idcirco passibiles qualitates dicuntur, non quod ipsae aliquid
paliantur sed quod ex aliquibus passionibus in cuiuslibet corpus atque ora
proveniunt. QUAECUMQUE IGITUR TALIUM CASUUM AB ALIQUIBUS PASSIONIBUS DIFFICILE
MOBILIBUS ET PERMANENTIBUS PRINCIPIUM CEPERUNT, QUALITATES DICUNTUR; SIVE ENIM
VEL SECUNDUM NATURALEM SUBSTANTIAM PALLOR AUT NIGREDO FACTA EST, QUALITAS
DICITUR (QUALES ENIM 248B SECUNDUM EAS DICIMUR), SIVE PROPTER AEGRITUDINEM
LONGAM VEL PROPTER AESTUM CONTINGIT VEL NIGREDO VEL PALLOR, ET NON FACILE
PRAETERIT ET IN VITA PERMANET, QUALITATES ET IPSAE DICUNTUR (SIMILITER ENIM
QUALES SECUNDUM EAS DICIMUR). Dat quoddam signum quo perspecto valeamus
agnoscere, quas harum omnium quae supradictae sunt, qualitates oporteat
appellari. Si enim ita vel casu aliquo, vel natura hae qualitates euenerint, ut
eorum sit tardus exitus permutatioque difficilis, qualitates vocantur. Si quis
enim vel per aegritudinem, vel per naturam pallidus fiat, sitque in eius
corpore permanens pallor, tunc qualitas appellatur, et hoc non in corporalibus solum
vitiis sed etiam in animi quoque affectionibus invenitur. Si quis enim vel per
naturam, vel quolibet alio postea casu assiduis comessationibus delectetur, et
hoc illi quodammodo in ipsa mentis dissolutione per maneat, ab eoque difficile
moveatur, passibilis qualitas effecta est, idcirco quod secundum eam quales
dicuntur quibus illa provenerit. Niger enim dicitur in quo nigredo permanserit;
comessator, cui voluptas perpetuo comessandi est. Est ergo signum in
passibilibus qualitatibus hoc eas esse immobiles et permanentes. Quae autem
huiusmodi sunt quae facillime permutantur, et temporali statu sunt, de his
talis Aristotelis videtur esse sententia. QUAECUMQUE VERO EX HIS QUAE FACILE
SOLUUNTUR ET CITO TRANSEUNT FIUNT, PASSIONES DICUNTUR; NON ENIM DICIMUR SECUNDUM
EAS QUALES; NEQUE ENIM QUI PROPTER VERECUNDIAM RUBICUNDUS FACTUS EST RUBICUNDUS
DICITUR, NEC CUI PALLOR PROPTER TIMOREM venIT PALLIDUS SED MAGIS QUOD ALIQUID
PASSUS SIT; QUARE PASSIONES HUIUSMODI DICUNTUR, QUALITATES VERO MINIME.
SIMILITER AUTEM HIS ET SECUNDUM ANIMAM PASSIBILES QUALITATES ET PASSIONES
DICUNTUR. QUAECUMQUE ENIM MOX IN NASCENDO AB ALIQUIBUS PASSIONIBUS FIUNT,
QUALITATES DICUNTUR, UT DEMENTIA VEL IRA VEL ALIA HUIUSMODI; QUALES ENIM
SECUNDUM EAS DICIMUR, ID EST IRACUNDI ET DEMENTES. SIMILITER AUTEM ET
QUAECUMQUE ALIENATIONES NON NATURALITER SED AB ALIQUIBUS ALIIS CASIBUS FACTAE
SUNT DIFFICILE PRAETEREUNTES ET OMNINO IMMOBILES, ETIAM HUIUSMODI QUALITATES
SUNT; QUALES ENIM SECUNDUM EAS DICIMUR. QUAECUMQUE ENIM EX HIS QUAE 249A CITIUS
PRAETEREUNT FIUNT, PASSIONES DICUNTUR, UT SI QUIS CONTRISTATUS IRACUNDIOR EST;
NON ENIM DICITUR IRACUNDUS QUI IN HUIUSMODI PASSIONE IRACUNDIOR EST SED MAGIS
ALIQUID PASSUS; QUARE PASSIONES QUIDEM HUIUSMODI DICUNTUR, QUALITATES VERO
MINIME. Quid de his affectionibus iudicaret, quae ad prasens tempus atque ad
momentum animis vel corporibus inhaererent, ipse non obscura oratione uulgavit.
Nam cum prius eas esse passibiles qualitates pronuntiaret, quae ex aliquibus
passionibus gignerentur, et tamen in subiectis immutabiliter permanerent, nunc
illas affectiones quae ita sunt in subiectis ut cito praetereant, non
qualitates sed passiones vocat. Si quis enim propter verecundiam rubore
infectus est, quoniam rubor ille non permanet, rubeus von vocatur; 249B qui si
rubeus discerelur, esset quoque ipse rubor passibilis qualitas, quoniam in
subiecto corpore diutissime permaneret. Nunc autem quoniam nullo modo rubeus
dicitur, cui a verecundia rubor venit, qualitates autem sunt secundum quas
quales vocamur, verecundiae rubor non qualitas sed quaedam passio est; nam si
esset qualitas, ab eo rubore rubei dicerentur, id est quales sed hoc non ita
est. Non igitur huiusmodi affectiones quae haud multo durant tempore qualitates
vocantur sed potius passiones. Passus enim aliquid dicitur, qui propter
verecundiam rubeus fit. Eadem ratio est etiam in animi passionibus. Nam si ad
momentum quis iratus est, non idcirco eum iure aliquis iracundum vocet sed si
huiusmodi vilium in cuiuslibet animo constanter inhaeserit. Nam si quis vel per
naturam vel per aegritudinem sit laesus corpore, ut vel perpetuam dementiam,
vel immobilem incurrat iracundiam, ille vel demens vel iracundus dicitur. Et
quaecumque alienationes (ut ipse ait) vel secundum naturam, vel per casum
permanentes fuerint, illae in passibili qualitate numerantur, idcirco quod
secundum eas quales dicimur. Quae autem (ut dictum est) non permanent sed
facile transeunt, eas non qualitates sed solum vocamus passiones. Sed quoniam
tres species qualitatis enumeravit, unam secundum quam habitus dispositionesque
dicerentur, alteram secundum quam naturalis potentia vel impotentia ad aliquid
faciendum vel patiendum subiectarum rerum naturas paruret, tertiam secundum
quam passibiles qualitates dicerentur, et hanc tali duplicitate partitus est,
ut alias idcirco diceret passibiles esse qualitates, quod ipsae aliquas
gignerent passiones, alias vero quod ab aliquibus ipsae passionibus
nascerentur. Quaeri potest quomodo hae quoque passibiles qualitates distenta
prima illa specie qualitatis, quae secundum habitum dispositionemque posita
est. Nam si quis calorem frigusque persenserit, habet quidem qualitatem
passibilem sed tamen in eiusdem ipsius dispositione atque affectione versatur;
dispositus namque est ad eumdem calorem atque frigus, quem sumpsit atque
habuit, quod scilicet ipse Aristoteles videns calorem frigusque in utraque
specie numeravit; namque et dispositionem dixit calorem atque frigus, et
passibilem qualitatem. Huius quaestionis talis solutio est. Nihil impedit,
secundum aliam scilicet atque aliam causam, unam eamdemque rem gemino generi
speciei suae supponere, ut Socrates in eo quod pater est ad aliquid dicitur, in
eo quod homo, substantia est, sic in calore atque frigore, in eo quod quis
secundum ea videtur esse dispositus, in dispositione numerata sunt; secundum
vero quod ex aliquibus passionibus innascuntur, passibiles qualitates dictae
sunt. Ipsae vero ab habitu distant, id est passibiles qualitates, quod in
plurimis ad habitus rebus per artes atque scientias pervenitur, ita ut ipse habitus
ordine et filo quodam perficiatur. Passibiles vero qualitates eo modo minime.
Quo vero distent hae passibiles qualitates a secunda specie, qua secundum
naturalem potentiam vel impotentiam dicitur, quaeritur, cuius perplana
distantia est. Dicimus enim secundum potentiam naturalis speciem aliquid dici,
non secundum praesentem actum sed secundum id quod ad hoc esse potest; frigus
vero calorque, et dulcedo vel amaritudo non secundum quod possit esse sed
secundum id quod iam sit consideratur; quocirca distat haec tertia species a
secunda, quod hic secundum possibilitatem dicitur, tertia vero secundum actum.
Sed quod dudum promiscue passiones affectionum nomine vocabamus, haec quoque
non longa quaestio alia est. Sic enim inveniemus quod passio ab affectionibus
discrepare videatur. Si qua enim corpora ita calefacta sint, ut ex se quoque
ipsa aliquem calorem emittere valeant, illa ad calorem affecta nuncupantur. Si
qua vero tantum calorem momento susceperint, passiones dicimus, et ab
affectionibus segregamus, ut hic sit integrum passionum affectionum quae
habitus augmentum, ut amplificata passio in affectionem transeat, augmentata
affectio in habitum permatetur. Et haec quidem de tertia specie qualitatis
pronuntiasse sufficiat; nunc quarte speciei vim naturamque veracissima
disputatione confirmat usque quo progressa qualitatis distributio conquiescit.
Nobis quoque disputationum prolixitas moderanda est. Providendum quoque est ut
sufficiens brevitas ordini expositionis adhibeatur, ne aut brevitatem comitetur
obscuritas, aut planitiem minus moderata oratio, odioso fastidio et
longinquitate deformet. QUARTUM VERO GENUS QUALITATIS EST FORMA ET CIRCA
ALIQUID CONSTANS FIGURA; AD HAEC QUOQUE RECTITUDO VEL CURUITAS, ET SI QUID HIS
SIMILE EST; SECUNDUM ENIM UNUMQUODQUE EORUM QUALE QUID DICITUR; QUOD ENIM EST
TRIANGULUM VEL QUADRATUM QUALE QUID DICITUR, ET QUOD EST RECTUM VEL CURUUM. ET
SECUNDUM FIGURAM VERO UNUMQUODQUE QUALE DICITUR. Quarta est species qualitatis
quae secundum unamquamque formam figuramque perspicitur. Est autem figura, ut
triangulum vel quadratum, forma autem ipsius figurae quaedam qualitas est, ut
figura quidem est triangulum vel quadratum, forma autem ipsius trianguli vel
quadrati quaedam qualitas, unde etiam formosos homines dicimus. Figura enim
quaedam vel 251A pulchrior, vel mediocris, vel alio quodammodo constituta,
qualitas formaque nominatur. Has autem esse qualitates nullus dubitat. Siquidem
et a figura dicitur figuratus, et a forma formosus. Amplius quoque triangulum
etiam a triangulatione denominatum est, et quadratum a quadratura. Quod si
illae sunt qualitates, secundum quas quale aliquid appelletur, non est qui
dubitet formam figuramque esse qualitates, quoniam omnia quae his participant
ex ipsis qualia nominantur sed quoniam in continuae quantitatis speciebus et
triangulum et superficies enumerata est, ipsa quidem superficies quantitas est,
ipsius vero superficiei compositio qualitas, est enim figura (ut geometrici
definiunt) quae sub aliquo vel aliquibus terminis continetur. Sub aliquo
quidem, ut circulus, sub aliquibus vero, ut triangulus vel quadratus. Quare
spatium quidem ipsum, quod a supra dictis lineis continetur, superficies
dicitur, quae est quantitas. Superficies namque quoniam in dilatione quadam et
spatio constat, quantitas est sed compositio ipsius superficiei, qualitas. Nam
quoniam tres lineae convenienter in se iunctis terminis unum spatium
conclusere, quod tribus angulis a tribus lineis continetur, hoc ipsum spatium
quod concludunt ad quantitatem referri potest, quod vero tribus lineis, hoc est
qualitas, figura enim est triangula. Hoc idem quoque dici potest etiam in
linea: nam quoniam longitudo sive latitudine est, quantitas dicitur, quod recta
sive curua est, redditur rursus ad qualitatem. RARUM VERO ET SPISSUM VEL
ASPERUM VEL LENE PUTABITUR 251C QUIDEM QUALITATEM SIGNIFICARE, VIDENTUR AUTEM
ALIENA ESSE HUIUSMODI A QUALITATIS DIVISIONE; QUANDAM ENIM QUODAMMODO
POSITIONEM VIDETUR PARTIUM UTRUMQUE MONSTRARE; SPISSUM QUIDEM EO QUOD PARTES
SIBI IPSAE PROPINQUAE SINT, RARUM VERO QUOD DISTENT A SE INVICEM; ET LENE
QUIDEM QUOD IN RECTUM SIBI PARTES IACEANT, ASPERUM VERO CUM HAEC QUIDEM PARS
SUPERET, ILLA VERO SIT INFERIOR. ET FORTASSE ALII QUOQUE APPAREANT QUALITATIS
MODI SED QUI MAXIME DICUNTUR HI SUNT. QUALITATES ERGO SUNT HAEC QUAE DICTA
SUNT, QUALIA VERO QUAE SECUNDUM HAEC DENOMINATIVE DICUNTUR, VEL QUOMODOLIBET AB
HIS. Quaedam sunt quae videntur esse qualitates, quoniam ex his aliqua
denominative dicuntur, ut lene quoniam dicitur alenilate, et asparum quoniam
dicitur 251D ab asperitate, spissum quoque et rarum a raritate et spissitate
nominantur; videntur ergo haec quoque in qualitatibus posse numerari. Sed
rectam rationem perspicientibus nec solum auribus quae dicuntur sed etiam mente
atque animo iudicantibus, in qualitatibus haec poni non oportere manifestum
est. Nam quod dicimus rarum, positio quaedam partium est, non qualitas. Nam
quia ita partes a se separatae distant, ut inter eas alieni generis corpus
possit admitti, ideo rarum vocatur, ut spongiae pumicesque, quoniam in eorum cavernis
surculus vel aliud aliquid immitti potest, ita ut inter rimas partium sit,
idcirco rarum dicitur. Porro autem spissum, quoniam ita sibi partes vicinae
sunt atque ad se invicem strictae, ut intereas nullum corpus possit incidere,
atque ideo spissum vocatur, ut est ferrum vel adamas. Positio ergo quaedam
partium his inest, non qualitas, nec vero illud quoque distat, quod dicitur
lene. Nam quoniam partes ita sunt positae, et neutra superet, neutra sit minor
sed aequalibus extremitatibus iunctae sunt, idcirco quaedam lenitas est, ut
adducta manus illam quae ex aequalitate iunctis partibus nata est, sentiat
lenitatem, ut est argentum. Asperitas vero est partium non aequalis positio sed
aliarum eminentium, aliarum vero depressarum, ut lima cuius aliae partes eminent,
aliae vero depressae sunt. Ergo secundum unamquamque partium positionem, vel
raritas, vel spissitudo, vel asperitus, vel lenitas, corporibus est. Non igitur
haec secundum qualitatem dicuntur sed potius secundum positionem. Positio autem
in relationis genere nominata est. Non igitur hae qualitates sed potius
relativa sunt, et enumerationes quidem specierum qualitatis Aristoteles hic
terminat Non sunt tamen putandae solum esse qualitates quas supra posuit. Ipse
enim testatur esse quoque alias qualitates, quas modo omnes enumerare neglexit
sed cur neglexerit multae sunt causae. Prima quod elementi vicem hic obtinet
liber, nec perfectam scientiam tradit sed tantummodo aditus atque pons quidam
in altiora philosophiae introitum pandit. Quocirca si hoc ita est, tantum
dicere oportuit, quantum ingredientibus salis esset, ne eorum animos nondum ad
scientiam firmos multiplici doctrina, subtilitate confunderet. Quae vero hic
desunt in libris qui *Meta ta physika* inscribuntur apposuit. Perfectis namque
opus illud non ingredientibus praeparabitur. Est quoque alia causa ut nos ad
exquirendas alias qualitates, non solum propriorum doctorum sed etiam nostrorum
aliquid inveniendi incitator, admitteret. Quocirca concludit eas quae maxime
dicerentur, quas supra proposuit, esse qualitates; illa vero dici qualia, quae
secundum praedictas qualitates dicerentur: sed quoniam addidit, vel
quomodolibet ab his quae sit huiusce propositionis sententia, prius appositis
Aristotelis verbis sequens expositionis ordo contexit. IN PLURIBUS QUIDEM ET
PAENE IN OMNIBUS DENOMINATIVE DICUNTUR, UT AB ALBEDINE ALBUS ET A GRAMMATICA
GRAMMATICUS ET A IUSTITIA IUSTUS, SIMILITER AUTEM ET IN CAETERIS. IN ALIQUIBUS
VERO PROPTEREA QUOD QUALITATIBUS NOMINA NON SUNT POSITA IMPOSSIBILE EST AB HIS
DENOMINATIVE DICI, UT CURSOR VEL PUGILLATOR, SI SECUNDUM POTENTIAM NATURALEM
DICITUR, A NULLA QUALITATE DENOMINATIVE DICITUR; NEQUE ENIM POSITUM EST NOMEN
ILLIS POTESTATIBUS: SECUNDUM QUAS ISTI QUALES DICUNTUR, QUEMADMODUM ETIAM IN
DISCIPLINIS SECUNDUM QUAS VEL PUGILLATORES VEL PALAESTRICI SECUNDUM AFFECTIONEM
DICUNTUR (PUGILLATORIA ENIM DISCIPLINA DICITUR ET PALAESTRICA, QUALES VERO AB
HIS DENOMINATIVE QUI AD EAS SUNT AFFECTI DICUNTUR). ALIQUANDO AUTEM ET POSITO
NOMINE DENOMINATIVE NON DICITUR ID QUOD SECUNDUM IPSAM QUALE QUID DICITUR, UT A
VIRTUTE PROBUS DICITUR; HOC ENIM QUOD HABET viRTUTEM PROBUS DICITUR SED NON
DENOMINATIVE A VIRTUTE; NON EST AUTEM HOC IN MULTIS. QUALIA ERGO DICUNTUR
QUAECUMQUE EX HIS QUAE DICTAE SUNT QUALITATIBUS DENOMINATIVE DICUNTUR VEL
QVOLIBET ALIO AB IPSIS MODO. Multae, inquit, sunt qualitates, quibus positis et
proprio nomine nuncupatis, ab his alia denominative dicuntur, ut ea quae ipse
planissime adiecit exempla. Nam cum albedo cuiusdam nomen sit qualitatis, ab eo
dicitur albus. Eodem quoque modo et grammatica, cum rei sit nomen, ab ipso
quales dicuntur. Grammatici enim a grammatica nominantur, atque hoc est in
pluribus, ut posito nomine si quid secundum ipsas qualitates quale dicitur,
exhis ipsis qualitatibus appellatio derivetur. Aliae vero qualitates sunt, in
quibuscum nomen positum non sit, tamen quales dicuntur, quales quidem quia alia
qualitate participant, sed non secundum eam qualitatem quales dicuntur, ex qua
si his esset qualitatibus nomen impositum poterant appellari, ut in ea
qualitate quae secundum potentiam naturalem dicitur. Illi enim quamquam quales
dicantur, hi qui secundum ipsam potentiam nominantur, ipsi tamen (ut dictum
est) nullo proprio nomine nuncupantur. Nam qui pugiles appellantur ab arte
pugillatoria, idcirco ab ea pugiles dicuntur, quod ad eamdem ipsam artem
pugillatoriam quodammodo affecti eunt. Hi enim pugiles ab arte pugillatoria
praedicantur. Qui vero nondum pugiles sunt sed esse possunt, non secundum ipsam
artem, id est pugillatoriam sed secundum potentiam pugillatoriae artis,
pugillatores vocantur. Ipsi autem potentiae nomen proprium positum non est. Nam
quemadmodum a cursu cursores, a palaestra palaestrici, a pugillatoria pugiles,
distinctis qualitatum vocabulis, appellantur, non eodem modo est etiam in uniuscuiusque
rei potentia naturali, cursus enim potentia naturalis secundum quam cursores
vocamus, et rursus potentia pugillandi, vel potentia palaestrizandi, suo nomine
distincta non est. Cur enim dicitur cursor, si interrogemur de eo qui nondum
est cursor? Dicimus secundum potentiam naturalem. Cur palaestricus? Eodem
quoque modo naturalem potentiam respondemus. Quare pugillator qui nondum est
pugillis, ab eadem quoque potentia naturali nominatur. Si igitur haberet haec
naturalis potentia proprium nomen, ita, distinctis vocabulis, appellaretur, ut
in his qualitatibus in quibus proprienomen est positum, ut in cursu, palaestra
et arte pugillatoria, et hoc est quod ait. In aliquibus vero propterea quod
qualitatibus nomina non sunt posita, impossibile est ab his aliquid
denominative dici. Ut hoc scilicet demonstraret cursorem quidem qui iam
curreret a cursu esse dictum, cursorem vero qui secundum potentiam currendi
diceretur non vocari a cursu sed tantum a potentia, cuius potentiae nomen
proprium non esset positum. Quare haec omnia quae secundum potentiam naturalem
dicuntur, a nulla qualitate denominativa sunt. Idcirco quod hae qualitates a
quibus denominari possunt, propriis nominibus carent, quae vero ita sint, ut
non ex potentia sed ex affectione dicantur, ab his qualitatibus ad quas sese
aliquo modo habent, denominative dicuntur, quod Aristoteles hoc protulit modo
dicens: Non ita esse secundum potentiam naturalem, quemadmodum et iam in
disciplinis secundum quas, vel pugillatores, vel palaestrici secundum
affectionem dicuntur. Pugillatoria enim disciplina dicitur et palaestrica,
quales vero ab his denominative, qui ad eas sunt continentes, dicuntur. Docuit
igitur omniaquae a quibusdam qualitatibus dici putarentur, vero quoque a
qualitatibus non praedicari, ut in his qualitatibus quibus nomen proprium non
est. Illud quoque monstravit hoc in pluribus evenire, ut de propositis
qualitatibus qualia denominative dicerentur. Restat ergo quod reliquum est, ut
dicat esse quasdam qualitates, quarum cum nomen sit positum, ab his ipsis tamen
quae illarun rerum participant denominative non dici, ut virtus; nam cum virtus
qualitas sit (est enim habitus quidam, omnis vero habitus qualitas), ergo
quicumque virtute participat, non secundum eam denominative dicitur. In
denominatione enim quaerendum est ut semper idem permaneat nomen. In eo autem
qui virtute participat, nulla virtutis denominatio est, ut qui bonitate
participat bonus dicitur, qui iustitia, iustus, et alia huiusmodi. Qui vero
virtute participat, aut probus nominatur, aut sapiens; sed neque probus, neque
sapiens a virtute denominativa sunt, idcirco quod utrumque nomen a virtute
longe dissimile est, quod ipse sic ait: Aliquando autem posito nomine
denominative non dicitur id quod secundum ipsum quale dicitur. Et eius rei proponere
non omisit exemplum sed hoc in multis non potest inveniri, pauca enim sunt (ut
ipse ait) in quibus posito qualitatis nomine quae his participant, a superiori
qualitate qualia non dicantur. Dat autem his qualitatibus pluralitatis
calculum, ex quibus qualia nominantur ea quae his participant. Nam (ut ipse ait
superius) in pluribus et pene in omnibus denominative dicuntur. Quocirca recta
definitio est et proprio ordine constituta. Namque in principio hoc solum
dictum est, esse qualitatem secundum quam qualia dicerentur. Sed quoniam sunt
quaedam quorum qualitates ipsae propriis nominibus carent, quae vero his
participant suis vocabulis appellantur, ut in naturali potentia. Et rursus sunt
quaedam quae in qualitatibus quidem habeant propria nomina, in his vero quae ad
eas ipsas qualitates essent affecta, nulla ex propositis qualitatibus
denominatio fieret, hoc addidit, ab omnibus qualitatibus aut denominative dici
qualia, quae illis qualitatibus participaret, aut quomodolibet, aliter, id est
sive posito nomine qualitatis de eo non dicerentur, quae illa partieiparent, ut
in eo quod est virtus, sive ipsi qualitati positum nomen non esset, ut in eo
quod est potentia naturalis. Quare quoniam in his duabus qualitatis, in quibus
vel posito nomine non secundum nomen quae sunt, qualia denominative dicuntur,
vel eum ipsis qualitatibus nomen positum non sit, neutra ipsorum praedicatio
denominative fit. Ad concludendum omnem terminum qualitatis ait, aut
denominative qualia a qualitatibus appellari, aut quomodolibetaliter ab ipsis,
ut non denominative sed aliquoties quidem secundum potentiam, aliquoties vero
secundum eamdem qualitatem virtutis; eamdem enim qualitas est virtutis et
sapientiae. Quocirca concludit, ita qualia dici quaerumque ex his qualitatibus
denominative dicerentur, vel quomodolibet alio ab ipsis modo. Digestis in
ordine prius omnibus qualitatibus et eorum conclusione reperta, consueto ordine
unaquaeque proprietas uestigatur. INEST AUTEM ET CONTRARIETAS SECUNDUM
QUALITATEM, UT IUSTITIA INIUSTITIAE CONTRARIUM EST ET ALBEDO NIGREDINI ET ALIA
SIMILITER; ET SECUNDUM EAS QUALIA QUAE DICUNTUR, UT IUSTUM INIUSTO ET ALBUM
NIGRO. NON AUTEM HOC IN OMNIBUS EST; RUBEO ENIM ET PALLIDO ET HUIUSMODI
COLORIBUS NIHIL EST CONTRARIUM CUM QUALITATES SINT. Dicit in qualitatibus
quaedam esse contraria, atque hoc probat exemplis, albedo namque et nigredo
contraria sunt, et quaecumque albedine nigredineque participant; hoc est enim
quod ait, et secundum eas qualia quae dicuntur; nam sicut albedo nigredini contraria
est, ita quoque albus nigro; sed hoc qualitatis proprium non est, nam cum
rubrum et pallidum qualitates sint, aliique etiam colores huiusmodi, in his
contrarium non est; nullus enim dicit aliquid rubro vel pallido esse
contrarium: nam quoniam album et nigrum extremitates quaedam colorum sunt, et
longissime a se distant, contraria sunt, medietates vero contraria non habent:
Namsi quis ponat rubrum nigro esse contrarium, longissimeque distant quae sunt
contraria, longissime igitur nigredo a rubore distabit, et rursus albedo a
nigredine plurimum distat; igitur nigredini rubor est atque albedo contraria,
uniusque rei duo contraria inveniuntur, quod fieri non potest. Non est igitur
nigredi contrarius rubor. Similiter autem monstrabimus et in aliis mediis
coloribus contrarium non esse. Quocirca si huiusmodi coloribus contrarium nihil
est, non in omni qualitate contrarietas reperietur; quod si ita est, suscipere
contraria qualitatis proprium non est. At vero nec in ipsis quoque formis quae
manifeste qualitates sunt, contrarietas invenitur; nam neque ciroulus quadrato,
neque quadratus triangulo, nec ulla figura ulli figurae potest esse contraria.
Quocirca manifestum est, suscipere contrarium non esse proprium qualitatis. Sed
quoniam sunt quaedam in qualitate quae sibimet videantur esse contraria, ut
iustitia et iniustitia, hinc quaedam quaestio solet oriri. Dicunt enim quidam
iustitiae iniustitiam non esse contrariam, putant enim quod dicitur iniustitia
privationem esse iustitiae, non tamen contrarietatem. Contraria enim propriis
nominibus, non contrarii privatione nominari, ut album nigro, habere tamen
iustitiam aliquam contrarietatem, cuius adhuc proprium nomen non sit inventum,
quod omnino falsum est. Multae enim habitudines privationis vocabulo
proferuntur, ut illiberalitas et imprudentia, quae nunquam virtutibus
opponerentur, quae sunt habitus, nisi ipsae quoque habitus essent, et in animis
habentium immutabiliter permanerent. At vero neque illud verum est, omnes
privationes negatione proferri. Surditas enim, cum sit auditus privatio, sine
negatione profertur; eodem quoquemodo caecitas. Nullus enim dicit inauditio,
neque inuisio, nec aliquid huiusmodi sed tantum surditas caecitasque nominantur
propriis nominibus, cum sint illa in habitu, visus, auditus, illa in privatione
ponenda. Igitur iustitia iniustitiae contraria est. Tradit ergo regulam, ea
quae contraria sunt, sub quo genere convenienter aptentur, quam regulam his
verbis ipse praescribit: AMPLIUS: SI EX CONTRARIIS UNUM FVERIT QUALE, ET
RELIQUUM ERIT QUALE. HOC AUTEM MANIFESTUM EST OMNIA ALIA PRAEDICAMENTA
PROFERENTI, UT SI EST IUSTITIA INIUSTITIAE CONTRARIUM, QUALITAS EST AUTEM
IUSTITIA, NIHILOMINUS QUALITAS ERIT INIUSTITIA; NULLUM ENIM ALIUD
PRAEDICAMENTUM CONVENIT INIUSTITIAE, NEC QUANTITAS NEC RELATIO NEC UBI NEC
OMNINO ALIQUID HUIUSMODI, NISI SOLA QUALITAS; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS SECUNDUM
QUALITATEM CONTRARIIS. Si ex duobus, inquit, contrariis manifestum fuerit unum
eorum contrariorum sub qualitate poni, simul manifestum erit quod etiam eius
contrarium convenienter qualitati supponatur, simulque demonstrat iniustitiam
esse qualitatem. Nam si iustitia apertissime qualitas est idcirco quod neque
qualitas, neque ad aliquid, neque ubi, nec quando, nec aliud ullum
praedicamentum est, nec sub ullo alio genere poni potest, nisi sub sola
qualitate, cum ei contraria sit inustitia, non est dubium iniustitiam quoque
qualitati subnecti, quod ipse quoniam 256C planius dixit, ut ipsa exemplorum
luce uulgavit, ad aliud nobis est transeundum. SUSCIPIT AUTEM QUALITAS MAGIS ET
MINUS; ALBUM ET ENIM MAGIS ET MINUS ALTERUM ALTERO DICITUR, ET IUSTUM ALTERUM
ALTERO MAGIS. ET IDEM IPSUM SUMIT INTENTIONEM (ALBUM ENIM CUM SIT, CONTINGIT
ILLUD FIERI ALBIUS); HOC AUTEM IN OMNIBUS NON EST SED IN PLURIBUS; DUBITABIT
ENIM QUIS AN IUSTITIA MAGIS ESSE IUSTITIA DICATUR; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS
AFFECTIONIBUS. QUIDAM VERO IN HOC DUBITANT; DICUNT ENIM IUSTITIAM IUSTITIA NON
NIMIS MAGIS VEL MINUS DICI, NEC SANITATEM SANITATE; MINUS AUTEM HABERE ALTERUM
ALTERO SANITATEM DICUNT, ET IUSTITIAM MINUS ALTERUM ALTERO HABERE, SIMILITER ET
GRAMMATICAM ET ALIAS DISCIPLINAS. SED SECUNDUM EAS QUALIA QUAE DICUNTUR
INDUBITATE SUSCIPIUNT MAGIS ET MINUS; MAGIS ENIM GRAMMATICUS ALTER ALTERO
DICITUR ET IUSTIOR ET SANIOR, ET IN ALIIS SIMILITER. Aliud quoque proprium
protulit, quod tractata ratione ab integra proprietate qualitatis exclusit. Ait
enim qualitates posse vel intendi vel minui. Posse enim dicit alterum altero
plus album appellari, ut nix argento, et quae candidiora sunt marmora, et iustum
alterum altero magis et minus dicimus. Namque iustius aliquid factum, necnon
etiam iustissimum est. In quibus autem comparationes sunt, in his magis
minusque dici manifestum est; hoc quoque modo ipsum album, vel alia qualitas
non solum contra alterum eiusdem speciei comparata intentione crescit, et
relaxatione minuitur sed etiam a seipsa recipit comparationem: Dicitur enim
nunc quidem argentum candidius esse quam antea, cum fuerit detersum. Sed cum
haec ita sint, non est magis minusque suscipere proprium qualitatis; neque enim
sola qualitas magis minusque suscipit, haec enim intentio et relaxatio in his
quoque quae sunt ad aliquid invenitur, ut in eo quod est aequale et inaequale
possumus dicere plus aequale vel minus, et in caeteris huiusmodi; nec vero
omnes qualitates suscipiunt magis et minus, quod ipse sic ponit: Non autem in
omnibus hoc est sed in pluribus. Dubitabit enim quis an iustitia magis esse
iustitia dicatur, similiter autem et in aliis affectionibus. Quidam vero in hoc
dubitant: dicunt enim iustitiam iustitia non magis vel minus dici, nec
sanitatem sanitate; minus autem habere alterum altero sanitatem dicunt, et
iustitiam minus alterum altero habere. In hoc tres fuere sententiae. Quidam
namque dicebant, in omnibus secundum materiae habitudinem reperiri posse magis
et minus. Proprium namque esse materiae corporumque intentione crescere et
minui relaxatione, quae quorumdam Platonicorum sententia fuit. Alia vero quae
secundum certissimas verissimasque artes atque virtutes non diceret esse magis
et minus, secundum autem medias dici posse, ut haec ipsa grammatica atque
iustitia non dicitur magis grammatica neque magis iustitia. Esse autem quasdam
alias mediocres artes, in quibusidipsum posset evenire. Tertia est de qua
Aristoteles loquitur, quod ipsas quidem habitudines nulla intentione crescere,
nec diminutione decrescere putat sed eorum participantes posse sub examine
compositionis venire, ut de his magis minusue dicatur. Sanitatem namque ipsam
et iustitiam, alteram altera magis minusue non esse. Neque enim quispiam dicit
magis esse sanitatem alia sanitate. Sed hoc solum dicere possumus magis habere
sanitatem aliquem, id est esse saniorem, et magis sanum, et minus sanum.
Dicimus ergo quod ipsae quidem qualitates non suscipiunt magis et minus. Qui
vero secundum eas quales dicuntur, ipsi sub comparatione cadunt, ut iustior, et
sanior, et grammat. cior. Namque ipsa grammatica, id est litteratura, non
suscipit magis et minus, nullus enim dicit alteram altera magis esse
grammaticam sed eum qui grammatica ipsa participat. Dicimus litteratum, quem a
litteratura scilicet denominamus, litteratus autem suscipit magis et minus, ut
Donatus grammaticus plus erat aetate iam provecta grammaticus, id est
litteratus, quam cum primum ad huiusmodi studia devenisset. Sed quamquam se
haec ita habeant, tamen invenimus aliquas qualitates quibus indubitate comparatio
inveniri non possit, ut sunt quas ipse supposuit. TRIANGULUM VERO ET QUADRATUM
NON VIDETUR MAGIS SUSCIPERE, NEC ALIQUID ALIARUM FORMARUM. Haec enim quae ex
quarta specie qualitatis dicta sunt, magis minusue nullaratione suscipiunt,
nullus enim dicit plus esse alium circulum quam alium, nec magis esse illud
triangulum quam illud, dicitque fortasse maiorem, magis autem non dicit. Huius autem
rei haec ratio est, ut cum sit trianguli definitio, figura quae sub tribus
rectis lineis continetur, si qua sunt quae hanc definitionem in se suscipiant,
ut et ipsa tribus rectis lineis contineantur, proprie triangulae formae sunt,
eodem quoque modo et circulus ita definitur: Circulus est figura plana, quae sub
una linea continetur, ad quam ex uno puncto qui intra ipsam est, omnes quae
excunt lineae aequae sibi sunt. Rursus quadrati defnitio talis est: Quadratum
est quod quattuor aequalibus lineis et quattuor rectis angulis continetur.
Quaecumque igitur vel circuli definitionem suscipiunt, vel quadrati, aequaliter
vel circuli vel quadratae formae sunt; si qua vero non suscipiunt, nullo modo
sunt. Si qua vero sunt quae neque quadrati suscipiunt definitionem, neque
circuli, neque quadrati sunt, neque circuli ut est figura quae parte altera
longior dicitur. Illa enim ita definitur, parte altera longior figura est quae
sub quattuor lineis continetur, rectisque angulis, quam quattuor lineae aequae
sibi quidem non sunt, contra se vero positae binae sibi aequae sunt. Ergo quia
huiusmodi figura neque circuli definitionem capit, neque quadrati aequaliter,
neque circulus, neque quadratus est. Si qua enim cuiuslibet forma definitionem
suscipiunt, omnino eadem sunt. Ut qui circuli circulus, qui quadrati quadratus,
qui trianguli triangulus, qui parte altera longioris, parte altera longior, et
in caeteris eodem modo. Si qua vero non suscipiunt, ut triangulum, circuli
definitionem non capit neque omnino circulus est, nec potest dici inter
quadratum et triangulum, 258C quoniam utraque circuli definitionem non capiunt,
quadratum quidem plus esse circulum, triangulum vero minus, omnino enim utraque
a circuli ratione disiuncta sunt, quod his verbis ab Aristotele tractatur: QUAECUMQUE
ENIM DEFINITIONEM TRIANGULI SUSCIPIUNT ET CIRCULI, OMNIA SIMILITER TRIANGULA
VEL CIRCULI SUNT, DE HIS AUTEM QUAE NON SUSCIPIUNT NIHIL MAGIS ALTERUM ALTERO
DICITUR; NIHIL ENIM QUADRATUM MAGIS QUAM PARTE ALTERA LONGIOR FORMA CIRCULUS
EST; NULLUM ENIM IPSORUM SUSCIPIT CIRCULI RATIONEM. SIMPLICITER AUTEM, SI
UTRAQUE NON SUSCIPIUNT PROPOSITI RATIONEM, NON DICITUR ALTERUM ALTERO MAGIS.
NON IGITUR OMNIA QUALIA SUSCIPIUNT MAGIS ET MINUS. EX HIS ERGO QUAE DICTA SUNT
NIHIL EST PROPRIUM QUALITATIS. Nam si hoc definitio facit, ut demonstret
rationem cuiusque substantiae, quaecumque definitione discrepant, illa etiam
ipsa natura substantiae discrepabunt. Recte igitur si quae cuiuslibet rei
propositae sive trianguli, sive quadrati definitionem non capiunt, ab eiusdem
natura disiuncta sunt. Quocirca neque triangulum, neque quadratum, neque
circulus, neque quidquid horum est, suscipiant magis et minus. Sed cum haec
qualitates sint, non omnes qualitates aeque magis minusue suscipiunt. Quod si
neque in omni qualitate intentio diminutioque provenit, neque in sola, quod
haec eadem in relatione reperias, non est magis minusue suscipere proprium
qualitatis. Quodnam igitur qualitatis proprium esse dicendum est, id ipse
planissime subterposuit. SIMILE AUTEM ET DISSIMILE SECUNDUM SOLAS DICUNTUR
QUALITATES; SIMILE ENIM ALTERUM ALTERI NON EST SECUNDUM ALIUD NISI SECUNDUM HOC
QUOD QUALE EST. QUARE PROPRIUM ERIT QUALITATIS SECUNDUM EAM SIMILE ET DISSIMILE
DICI. Simile inquit et dissimile solae retinent qualitates. Nam quamvis simile
ad aliquid sit, tamen hoc ipsum quod dicimus, simile non dicimus, nisi quod
quale est. Nam si eadem qualitas sit in duobus, illa in quibus est similia
sunt, nec est aliud praedicamentum quod secundum simile et dissimile dici
possit, et de aiiis quidem omnibus notum est, quoniam de nullo dicitur. Quod si
quis de quautitate affirmet, dici posse secundum eam simile atque dissimile,
monstratum est secundum quantitatem non simile et dissimile sed aequale et
inaequale praedicari. Quocirca quoniam per singula quaeque pergentibus, et in
omnibus idem qualitatibus invenitur, et in nullo alio predicamento esse
perspicitur, recte hoc proprium qualitatis esse firmavit. Sed quoniam cum de
his quae referuntur ad aliquid tractaretur, affectus atque habitus in his quae
sunt ad aliquid numeravit, nunc vero eosdem quoque qualitati supposuit, ipse
sibi quamdam obiecit quaestionem, cur si prius sub iis quae ad aliquid
referuntur, ista subiecerit, nunc sub qualitatibus ea ipsa posuerit. Superius
namque monstravit ea quae essent a se diversa, easdem species habere non posse,
cum dicit diversorum generum et non subalternatim positorum diversae species et
differentiae sunt. Quocirca cum relatio atque qualitas diversa sint genera,
easdem utrique supponi species non oportet, hoc est enim quod dicit: AT VERO
NON DECET CONTURBARI NE QUIS NOS DICAT DE QUALITATE PROPOSITIONEM FACIENTES
MULTA DE RELATIVIS INTERPOSUISSE; HABITUDINES ENIM ET AFFECTIONES EORUM QUAE
SUNT AD ALIQUID ESSE DIXIMUS. PAENE ENIM EA QUAE SUNT IN OMNIBUS HIS GENERIBUS
AD ALIQUID DICUNTUR, EORUM VERO QUAE SUNT SINGULATIM NIHIL; SCIENTIA ENIM, QUAE
GENUS EST, HOC IPSUM QUOD EST ALTERIUS DICITUR (ALICUIUS ENIM SCIENTIA
DICITUR), SINGULORUM VERO NIHIL HOC IPSUM QUOD EST ALTERIUS DICITUR, UT
GRAMMATICA NON DICITUR ALICUIUS GRAMMATICA NEC MUSICA ALICUIUS MUSICA SED SI FORTE
SECUNDUM GENUS PROPRIUM ET ISTAE DICUNTUR ALICUIUS; UT GRAMMATICA ALICUIUS
DICITUR SCIENTIA, NON 259D ALICUIUS GRAMMATICA, ET MUSICA ALICUIUS SCIENTIA,
NON ALICUIUS MUSICA; QUARE SINGULA NON SUNT RELATIVA. Quam quaestionem
validissima argumentatione dissolvit, his scilicet verbis: Pene enim ea quae
sunt in omnibus his generibus ad aliquid dicuntur. Eorum vero quae sunt
singulatim, id est epecies, nihil huiusmodi sunt. Haec enim est argumentatio
quam Graeci *epikeirema* vocant. In huiusmodi affectionibus atque
habitudinibus, quae inter ea sunt genera, eas solas ad aliquid posse reduci,
quae vero species essent illorum generum posse in relativis sed in qualitatibus
numerari, ut scientia cum sit habitudo 260A habet sub se alias habitudines,
grammaticam et geometriam. In hoc igitur scientia ipsa quod genus est, ad
aliquid semper refertur, dicimus enim scientiam alicuius scientiam. Grammaticam
vero quae eius species est, nullus dicit alicuius esse grammaticam; dicatur
enim si fieri potest grammaticam, Aristarchi esse grammaticam. Sed omnia
quaecumque dicuntur ad aliquid, convertuntur. Dicitur ergo et Aristarchus,
grammaticae Aristarchus, quod fieri non potest. Non igitur grammatica
Aristarchi, ut ad aliquid dicitur. Est etiam argumentum, non species sed huiusmodi
genera, ad aliquid appellari, ut cum ipsae quidem species ad aliquid non
dicantur, ut grammatica non dicitur alicuius grammatica, si quando tamen est ut
species ad aliquid referatur, id non secundum se sed 260B secundum genus, ut
grammaticae quoniam genus est scientiae quae relativa est, si quis grammaticam
ad aliquid referre contendat, non potest secundum ipsam grammaticam, eam ad
aliquid praedicare sed secundum scientiam, id est secundum genus suum. Non enim
dicitur grammatica alicuius grammatica sed fortasse grammatica alicuius
scientia. Non ergo grammatica secundum grammaticam ad aliquid dicitur sed
secundum scientiam. Et hoc est quod ait, ut grammatica non dicitur aliovius
grammatica, nec musica sed fortasse secundum genus proprium istae dicuntur alicuius,
ut grammatica alicuius dicitur scientia, non alicuius grammatica. Ergo
singularum specierum nihil est quod aliqua relatione praedicetur. Genera vero
harum specierum relativa sunt, quae paulo superius dixi; quod enim ait: Pene
enim in 260C omnibus qualitatibus genera ad aliquid dicuntur, non autem aliquid
eorum quae sunt singula, hoc demonstrare voluit, genera ipsa habitudinem
dispositionumque esse relativa, species vero generum quas singulatim esse
dixit, ad aliquid nullo modo praedicari. Quas idcirco esse singulatim vocavit,
quia grammatica una est, et rursus musica una; scientia vero non una. Recte
igitur species scientiae singulatim esse nominavit. Constat igitur quod genera
huiusmodi habitudinem dicantur ad aliquid, species vero ad nihil aliud propria
praedicatione referanlur. Quocirca quoniam huiusmodi species relativas non esse
demonstravit, nunc quod reliquum est qualitates esse confirmat. DICIMUR AUTEM
QUALES SECUNDUM SINGULA; HAEC ENIM ET HABEMUS (SCIENTES ENIM DICIMUR QUOD
HABEMUS SINGULAS SCIENTIAS); QUARE HAEC ERUNT ETIAM QUALITATES, QUAE SINGULATIM
SUNT, SECUNDUM QUAS ET QUALES DICIMUR; HAEC AUTEM NON SUNT EORUM QUAE SUNT AD
ALIQUID. Illas esse qualilates superius confirmatum est ex quibus aliqui quales
vocarentur, nos autem idcirco grammatici dicimur, non quod universalem
scientiam sed quod ipsam grammaticam habeamus, et hoc vere dicitur, idcirco nos
dici scientes, quia grammatici sumus, potius quam idcirco grammaticos quod
aliquam scientiam retinemus. Nullus enim a generali scientia grammaticus, aut
sciens, nisi a singulatim scientia sciens, grammaticusque perhibetur. Igitur
quoniam ex his habitudinem speciebus quales vocamur, ipsae species in qualitate
numerandae sunt. Sed cum quis grammatica participat, de ea etiam genus dicitur,
et secundum eam non solum ad grammaticam sed ad scientiam quoque coniungitur.
Dicitur enim idcirco sciens. Ergo quoniam habens grammaticam, et sciens, et
grammaticus dicitur, non potest ulla scientia participare, qui singulas non
habuerit. Qui enim cunctis speciebus caret, illi quoque genere ipso carendum
est. Quare quoniam has species hahemus et secundum eas quales dicimur, a
grammatica scientes et grammatici nuncupamur, has autem ipsas species
monstratum est ad aliquid non referri. Recte igitur huiusmodi habitudines quae
in alterius relativis species sunt, in qualitate numeratae sunt. Quod si quis
hoc quoque inuitus accipiat, aliud addit quo totum quaestionis vinculum
soluetur; ait enim: AMPLIUS SI CONTINGAT IDEM ET QUALE ESSE ET RELATIVUM, NIHIL
EST INCONVENIENS IN UTRISQUE HOC GENERIBUS ANNUMERARE. Nam cum sit verum unam
eademque rem duobus diversis generibus suppositam esse non posse, illud tamen
convenit secundum aliud atque aliod unam eamdemque speciem duobus generibus
posse subnecti, ut in eo quod supra iam dictum est, cum Socrates substantia
sit, pater vero ad aliquid, cumque substantia discrepet atque relatio, nihil
tamen est inconveniens eumdem ipsum Socratem in eo quod homo est, substantiae
supponi, in eo quod habet filium, relationi. Quocirca si secundum aliam atque
aliam rem duobus generibus eadem res quaelibet diversissimis supponatur, nihil
inconveniens cadit. Ita quoque et habitudines in eo quod alicuius rei habitudines
sunt, in relatione ponuntur, in eo quod secundum eas quales aliquid dicuntur,
in qualitate numerantur. Quare nihil est inconveniens unam atque eamdem rem,
secundum diversas natura, suae potentias, geminis et si contingat pluribus,
annumerare generibus Qnocirca quoniam de qualitate tractatum est, nos quoque
orationis cursum ad reliqua praedicamenta vertamus. DE FACERE ET PATI SUSCIPIT
AUTEM ET FACERE ET PATI CONTRARIETATEM ET MAGIS 261D ET MINUS; CALEFACERE ENIM
ET FRIGIDUM FACERE CONTRARIA SUNT, ET CALEFIERI ET FRIGIDUM FIERI, ET DELECTARI
ET CONTRISTARI; QUARE SUSCIPIT CONTRARIETATEM FACERE ET PATI. ET MAGIS AUTEM ET
MINUS; EST ENIM CALEFACERE ET MAGIS ET MINUS, ET CALEFIERI MAGIS ET MINUS, ET
CONTRISTARI. SUSCIPIUNT ERGO ET MAGIS ET MINUS FACERE ET PATI. AC DE HIS QUIDEM
HAEC DICTA SUNT. Decursis quattuor praedicamentis quae aliqua quaestione et
consideratione ergo videbantur, tenuiter caetera breviterque perstringit. Et de
facere quidem et pati nihil in hoc libro, nisi quod contraria suscipiant, et
intentionem imminutionemque ab Aristotele est disputatum, in aliis vero eius
operibus plene ab eo perfecteque tractata sunt, ut hoc ipsum de facere et pati
in his libris quos *Peri geneseos kai phthopas* inscripsit, de aliis quoque
praedicamentis non illi minor in aliis operibus disputatio fuit, ut de eo quod
est ubi et quando in physicis, et de omnibus quidem altius subtiliusque in
libris quos *Meta ta physika* vocavit, exquiritur. Ac de fecere quidem et pati
ipse planissime posuit posse ea suscipere contrarietates. Dicimus enim ignem
calefacere et frigefacere, quod scilicet ad faciendum refertur. Dicimus aquam
calefieri et frigefieri, quod nihilominus ad patiendi ducitur praedicamentum.
Magis quoque et minus suscipere, apertissimis demonstrat exemplis. Sic enim
magis calefacere et minus, et magis calefieri et minus dicitur. Atque haec
hactenus, ipse enim haec apertissime posuit. Est autem horum descriptio talis,
quod in faciendo quidem, actus quidam a quolibet in aliam rem veniens,
consideratur a quo veniat. In patiendo autem in eo ille actus consideratur, in
quem venit. Actus enim et passio simul in physicis esse monstrata sunt. Ac de
facere quidem ac pati, ad praesens tempus haec dicta sufficiant. DICTUM EST
AUTEM ET DE SITU IN RELATIVIS, QUONIAM DENOMINATIVE A POSITIONIBUS DICITUR. DE
RELIQUIS VERO, ID EST QUANDO ET UBI ET HABERE, PROPTEREA QUOD MANIFESTA SUNT,
NIHIL DE HIS ULTRA DICITUR QUAM QUOD IN PRINCIPIO DICTUM EST, QUOD HABERE
SIGNIFICAT CALCIATUM ESSE VEL ARMATUM, UBI VERO IN LYCIO, VEL ALIA QUAECUMQUE
DE HIS DICTA SUNT. IGITUR DE HIS GENERIBUS QUAE PROPOSUIMUS SUFFICIENTER DICTUM
EST. Positio quidem quoniam ipsa est alicuius, in iis quae sunt ad aliquid,
numerata est sed quoniam omnis res quae ab alio denominatur, aliud est quam id
ipsum a quo denominata est, ut aliud est, qui est grammaticus, atque
grammatica, quamvis grammaticus a grammatica denominelur. Ita cum sit positio
relativa, quidquid denominative a positionibus dicitur, hoc relativorum genere
non tenetur. Positio autem ipsa relativa est, positum vero est a positione
denmninatum. Statio enim cuiusdam statio est. Stare vero quoniam a statione
denominatum est, non ponitur in eo genere in quo statio fuit. Quare sub
relatione hoc praedica nentum non invenitur. Sed quoniam nihil est ad quod hoc
reducere genus atque aptare possimus, dicendum est suum esse genus. Ut
accumbere ab accubitu, stare a statione, et caetera quidem quae idcirco se
Aristoteles exsequi denegat, quoniam planissima sunt; ait enim: De reliquis
vero id est, quando, et ubi, et habere; propterea quia manifesta sunt, nihil de
his ultra dicitur, quam quod in principio dictum est, et eorum praedicta ponit
exempla. Dicendum autem est breviter de praedicatione quae est ubi et quando.
Sicut ipsum ad aliquid per se esse non potest nisi ex alio aliquo naturam
trahat, ita et quando et ubi, esse non potest, nisi locus ac lempus fuerit.
Locum enim ubi, tempus vero quando, comitatur. Non est autem idem tempus, et
quando, nec ubi et locus sed proposito prius loco si qua res in eo sit posita,
ubi esse dicitur. Rursus si certa res in tempore est, quando esse perhibetur,
ut Apollinares ludi, oum sint in tempore, quando eos esse dioimus. Habent autem
haec quoque proprias diversitates, ubi quidem, quod aliquoties infinite
dicitur. Alicubi enim esse dicimus aliquem, ut Socratem, aliquoties autem
definite, ut in Lyceo vel in Academia. Habet quoque ubi, secundum ipsum locum
in quo est, aliquas contrarietates. Sursum enim esse, et deorsum ubi esse
dicitur. Temporum quoque varietates in eo praedicamento, quod est quando, esse
manifestum est. Futura enim et praesentia praeteritaque in quando praedicamento
veniunt. Dicimus enim fuisse aliquando Scipionem consulem Romanum, nunc esse
Orientis imperatorem, qui nunc Anastasius appellatur. Futurum autem esse
aliquem, quae scilicet secundum quando praedicamentum dicuntur. Habere autem
est quoddam extrinsecus veniens, neque innatum ei a quo habetur, aliudque quam
est illud ipsum a quo habetur, in se retinere, ut armatum esse vel uestitum
esse. Habere enim est uestes atque arma tenere, quae cum eo nata non sunt,
neque aliqua cum eo qui habet, communi natura proprietateque iunguntur; sed
quoniam de his Aristoteles tacuit, nobis quoque nunc eorum longior tractatus
omittendus est. Expeditis omnibus praedicamentis, cur praeter propositum operis
in hanc oppositorum disputationem sit ingressus, a multis ante quaesitum est
sed Andronicus hanc esse adiectionem Aristotelis non putat, simulque illud
arbitratur, idcirco ab eo fortasse hanc adiectionem de oppositis, et de his
quae simul sunt, et de priore, et de motu et de aequivocatione, habendi non
esse factam, quod hunc libellum ante Topica scripserit, quodque haec ad illud
opus non necessaria esse putaverit, sicut ipse Categoria possunt ad sensum
Topicorum, non ignorans scilicet quod sufficienter in Topicis, quantum ad
argumenta pertinebat, et de his omnibus quae adiecta eunt, et de praedicamentis
fuisse propositum. Sed haec Andronicus. Porphyrius vero hanc adiectionem uacare
et carere ratione non putat. Cuius hanc prodidit causam. Ut enim multa sunt
quae quod communibus animi conceptionibus esse suggererent, in huius libri
principiis ab Aristotele praedicta sunt, ut de aequivocis, et univocis, et
denominativis, et de his omnibus, quaecumque usque ad substantiae disputationem
ad ipsorum praedicamentorum utilitatem cognitionemque praedicta sunt, ita
quaedam fuisse quae essent quidem in communibus sensibus, egerent tamen
subtilioris divisionis modo, haec diligenter supposita sunt, ut quid essent
proprie teneretur, ne falsis opinionibus traductus non firmus animus luderetur.
Docet autem hoc, inquit, etiam ipse ordo congruus rationique conveniens
titulorum, hanc adiectionem fuisse perutilem atque necessariam. Prius enim de
oppositis, post vero de his quae simul sunt, et de his quae posteriora sunt.
Post autem de motu, ad postremum de habendi aequivocatione sermonem faciens,
libri seriem terminavit. Idcirco quod in omnibus quidem praedicamentis ante
quaesivit, utrum possint habere contraria. In his vero quae sunt ad aliquid,
dixit magnum paruo non posse esse contrarium sed oppositum. Quid vero esse
oppositum dicere praetermisit, ne ordo disputandi continuus rumperetur. Hic
igitur recte quod illic praetermiserat, prius edocuit. In relativis quoque de
his quae sunt prius, quaeque simul natura gignuntur, strictim tetigit, quod
nunc diligenter explicat. Faciendi vero patiendique praedicamenta sunt, in
quibus quidam quasi motus agitatioque consideratur; necesse igitur fuit motu
dicere, qui naturam faciendi atque patiendi vellet ostendere. Quis autem
dubitet cuiuslibet sermonis aequivocationem monstrare, esse perutile? Quare
quoniam habere quoque praedicamentum est, non fuit inconveniens neque perfluum
de habendi aequivocatione tractasse. DE OPPOSITIS QUOTIENS SOLENT OPPONI,
DICENDUM EST. DICITUR AUTEM ALTERUM ALTERI OPPONI QUADRUPLICITER, AUT UT AD
ALIQUID, AUT UT CONTRARIA, AUT UT HABITUS ET PRIVATIO, AUT UT AFFIRMATIO ET
NEGATIO. OPPONITUR AUTEM UNUMQUODQUE ISTORUM, UT SIT FIGURATIM DICERE, UT
RELATIVA UT DUPLUM MEDIO, UT CONTRARIA UT BONUM MALO, UT SECUNDUM PRIVATIONEM
ET HABITUM UT CAECITAS ET VISUS, UT AFFIRMATIO ET NEGATIO UT SEDET Ñ NON SEDET.
Illud quoque quaeritur utrum oppositionis nomen aequivoce praedicetur. Dicimus
enim quattuor modis opponi, aut ut contraria, aut ut aliquid, aut ut habitum et
privationem, aut ut affirmationem et negationem. Hic ergo contenditur utrum aequivocatio
quaedam circa has quattuor diversitates sit, an id ipsum quod dicimus oppositum
generis vice praedicetur, ut sit univocum. Sed in hoc Stoicorum
Peripateticorumque diversa sententia fuit, et ut ipsi inter se Peripatetici,
diverse sectati sunt. Stoicorum quoniam longa sententia est, praetermittatur,
aliis autem Peripateticis placet nomen hoc oppositi de subiectis aequivoce
praedicari, ita affirmantibus, quoniam Aristoteles ita dixit: De oppositis
quoties solent opponi dicendum est hoc, id est quoties ad multiplicitatem
pertinet aequivocationis. Sed qui melius iudicavere, si oppositionis nomen
generis loco dicunt debere praedicari, idcirco quod cum nomen opposilionis de
subiectis quattuor oppositionibus praedicetur, ab his quoque definitio non oberret.
Sunt enim opposita quae in eodem, secundum idem, in eodem tempore, circa unam
eamdemque rem, simul esse non posunt, quod per singula quaeque pergentibus in
singulis oppositis invenitur. Namque album et nigrum, quae sunt contraria, unu
eodemque tempore circa unum idemque corpus partemque corporis simul esse non
possunt, nec seruus atque dominus eiusdem, eodem tempore idem seruus idem
dominus est, nec habitus et privatio; quis enim dicat in eodem oculo uno
eodemque tempore et visum posse esse et caecitatem? Iam vero affirmatio et
negatio quam repugnantes sint, quamque in eodem simul esse non possint, nulli
dubium est. Quare si ea quae sub oppositione ponuntur oppositionis nomen
definitionemque suscipiunt, quid est dubium oppositionem non aequivoce praedicari?
His igitur positis, ad eorum distantias differentiasque veniamus. QUAECUMQUE
IGITUR UT RELATIVA OPPONUNTUR, EA IPSA QUAE SUNT OPPOSITORUM DICUNTUR, AUT
QUOMODOLIBET ALITER AD EA; UT DUPLUM MEDII, HOC IPSUM QUOD EST, DICITUR DUPLUM;
ET SCIENTIA SCIBILIS REI SCIENTIA UT AD ALIQUID OPPONITUR, ET DICITUR SCIENTIA,
HOC IPSUM QUOD EST, SCIBILIS; ET SCIBILE, HOC IPSUM QUOD EST, AD OPPOSITUM
DICITUR, SCILICET SCIENTIAM (SCIBILE ENIM ALIQUA SCIENTIA SCIBILE DICITUR). QUAECUMQUE
ERGO OPPONUNTUR UT AD ALIQUID, EA IPSA QUAE SUNT OPPOSITORUM VEL ALIO QVOLIBET
MODO AD SE INVICEM DICUNTUR. Ea quidem huius oppositionis quae secundum
relationem dicuntur, et per seipsa plana atque uulgata sunt et superiori
relationis disputatione iam cognita. Illa enim sunt ad aliquid quaecumque id
quod sunt aliorum dicuntur, vel quomodolibet aliter ad ea, ut seruus domini
seruus, et dominus serui dominus, et magnum ad paruum dicitur, et rursus paruum
refertur ad magnum. Quod si hoc in relativis omnibus invenitur, nulla est
dubitatio quin etiam in his hoc deprehendi possit, quae secundum ad aliquid
opponuntur, ut ea ipsa id quod sunt oppositorum dicantur vel quomodolibet
aliter ad opposita, ut si est seruus domino oppositus, dominus serui dicatur,
id est oppositi sui, et rursus si dominus seruo oppositus est, domini seruus
dicatur. Paruum vero ad magnum, et magnum ad paruum, id est ad oppositum sibi.
Atque hoc quidem in omnibus secundum ad aliquid oppositionibus inveniri necesse
est. Quocirca sit haec proprietas eorum quae secundum ad aliquid opponuntur,
quod ea ipsa quae sunt ad opposita referuntur, et ipsorum esse dicuntur. His
ergo ante constitutis docet differentiam qua inter se ea quae secundum
contrarietatem dicuntur, vel ea quae secundum ad aliquid, discrepant atque
dissentiunt; ait enim. ILLA VERO QUAE UT CONTRARIA, IPSA QUIDEM QUAE SUNT NULLO
MODO AD INVICEM DICUNTUR, CONTRARIA VERO SIBI INVICEM DICUNTUR; NEQUE ENIM
BONUM MALI DICITUR BONUM SED CONTRARIUM; NEC ALBUM NIGRI ALBUM SED CONTRARIUM.
QUARE DIFFERUNT ISTAE OPPOSITIONES INVICEM. Dictum est in his quae secundum ad
aliquid opponuntur, quod ea ipsa id quod sunt ad id quod sibi est oppositum
dicerentur. Contraria vero et ipsa quidem opponuntur sibi sed id quod sunt ad
opposita non dicuntur, contraria autem dicuntur. Hoc autem huiusmodi est. Bonum
malo contrarium dicimus esse, et rursus malum bono. Nigrum quoque albo
contrarium putamus, nihilominus quoque album nigro. Sed cum hoc arbitramur, non
tamen dicimus ea id quod sunt esse oppositorum. Si enim diceremus ea id quod
est bonum esse oppositi sui, non diceretur bonum malo esse contrarium sed bonum
esse mali bonum. Nec ila praedicationem quis faceret nigrum albo esse
contrarium sed nigrum albi esse nigrnm. Hoc est enim id quod est nigrum dici ad
oppositum suum, si quis dicat nigrum albi esse nigrum; quod quoniam non
dicitur, ea ipsa quae sunt non dicuntur oppositorum, ea scilicet quae sibi ut
contraria videntur opponi. Sed quoniam dicimus bonum malo contrari uni, et
nigrum albo contrarium, quamquam id quod sunt oppositorum non dicantur, tamen
ad opposita ut contraria nominantur. Atque hoc est quod ait: Ipsa quidem quae
sunt nullo modo ad seinvicem dicuntur. Contraria vero sibi invicem dicuntur.
Non enim dicitur bonum mali bonum, hoc est enim id quod est opposili praedicare
sed dicimus bonum malo cootrarium. Quocirca differunt ea quae similiter ad
aliquid opponuntur his quae secundum contrarietatem sibi sunt opposita, quod ea
quidem quae secundum relationem opposita sunt id quod sunt oppositorum dicuntur.
Illa vero quae ut contraria, ipsa quidem quod sunt oppositorum nomine minime
sed tantum contraria praedicantur, ut bonum contrarium esse dicatur oppositi
sui non boni. Dicimus enim bonum malo contrarium, eum non dicamus bonum mali
bonum. Sed quoniam differentiam secundum ad aliquid oppositionis
contrariorumque monstravit, ipsorum inter se contrariorum differentiam discrepantiamque
persequitur. QUAECUMQUE VERO CONTRARIORUM TALIA SUNT UT IN QUIBUS NATA SUNT
FIERI ET DE QUIBUS PRAEDICANTUR, NECESSARIUM SIT ALTERUM IPSORUM INESSE, NIHIL
EORUM MEDIUM EST (QUORUM AUTEM NON EST NECESSARIUM ALTERUM INESSE, HORUM OMNIUM
EST ALIQUID MEDIUM); UT AEGRITUDO ET SANITAS IN CORPORE ANIMALIS NATA EST
FIERI, ET NECESSE EST ALTERUM IPSORUM INESSE ANIMALIS CORPORI, AUT AEGRITUDINEM
AUT SANITATEM; ET PAR QUIDEM ET IMPAR DE NUMERO PRAEDICATUR, ET NECESSE EST
HORUM ALTERUM NUMERO INESSE, VEL PAR VEL IMPAR; ET NON EST HORUM ALIQUID
MEDIUM, NEQUE AEGRITUDINIS NEQUE SANITATIS, NEQUE IMPARIS NEQUE PARIS. QUORUM
AUTEM NOR EST NECESSARIUM ALTERUM INESSE, HORUM EST ALIQUID MEDIUM; UT ALBUM ET
NIGRUM IN CORPORE NATUM EST FIERI, ET NON EST NECESSE ALTERUM EORUM INESSE
CORPORI (NON ENIM OMNE CORPUS VEL ALBUM VEL NIGRUM EST); ET PROBUM ET IMPROBUM
DICITUR QUIDEM DE HOMINE ET DE ALIIS PLURIBUS, NON EST AUTEM NECESSE ALTERUM
INESSE HIS DE QUIBUS PRAEDICATUR; NON ENIM OMNIA AUT PROBA SUNT AUT IMPROBA. ET
EST ALIQUID HORUM MEDIUM, UT ALBI ET NIGRI venETUM VEL PALLIDUM VEL QUICUMQUE
ALII COLORES SUNT, FOEDI VERO ET PULCHRI QUOD NEQUE PULCHRUM EST NEQUE FOEDUM.
IN ALIQUIBUS QUIDEM MEDIETATIBUS POSITA SUNT NOMINA, UT ALBI ET NIGRI venETUM
ET PALLIDUM; IN ALIQUIBUS VERO NON EST NOMINE ASSIGNARE MEDIETATEM, UTRIUSQUE
VERO NEGATIONE DEFINITUR, UT NEC BONUM NEC MALUM, NEC IUSTUM NEC INIUSTUM. Brevis
contrariorum partitio hoc modo facienda est. Contrariorum alia sunt habentia
medietatem, alia vero non habentia, et eorum quorum est aliquid medium, in
aliis plures medietates, in aliis vero una tantum medietas invenitur. Atque
horum aliquae medietates propriis nominibus appellantur in aliquibus 267B vero
ipsae quidem medietates propriis appellationibus carent, contrariorum vero
negatione signantur. Sed haec quae dicta sunt a primordio repetentes propriis
probemus exemplis. Illa vero contraria quae medio carent talia sunt, ut necesse
sit alterum eorum proprio inesse subiecto, ut est aegritudo et sanitas. Omne
enim corpus in quo aegritudo sanitasque versatur, aut aegrum aut sanum est.
Atque ideo quoniam aegritudo et sanitas medietate carent, alterutrum eorum
inerit ei subiecto, in quo utraque nata sunt fieri, et de quo praedicantur. Nam
quoniam in corpore animalis sanitas et aegritudo fieri nata est, id est ita
fieri solet, et ita omne natum est aninial, ut aut sanum esse possit aut
aegrum. Et quoniam de animalis corpore aut sanum, aut aegrum praedicatur,
necesse est quoniam haec medio carent in omni corpore animalis aut
aegritudinem, aut sanitatem esse. Quocirca eorum quae medio carent, necesse
alterum interesse subiecto, et quaecumque talia sunt, ut alterum ipsorum
subiecto inesse necesse sit, nulla inter ea medietas clauditur. Illa vero
contraria in quibus aliqua medietas est non sunt talia, ut eorum necesse sit
alterum inesse subiecto. Nam in illis quae medio carent idcirco alterutrum
subiecto inesse necesse est, quod eorum medietas nulla est quae possit interea
subiectae inesse substantiae, ut in numero quoniam paritas et imparitas medium
nihil habenti (omnis enim numerus aut par aut impar est nec est quod propterea
numero inesse possit), ideo omnis numerus aut par aut impar est. In his vero quae
inter se medietatem aliquam complectuntur, non est necesse semper alterum
contrariorum inesse. Potest namque inesse medietas, ut in colore, quoniam album
atque nigrum contrarietatis vice diversa sunt, habent autem medium quod est
rubrum vel pallidum, idcirco non omne corpus vel album vel nigrum est, quoniam
potest aliquando in subiectis corporibus albi atque nigri medietas inveniri.
Videmus namque rubrum corpus, ut rosam multosque praeterea flores, quos verni
temporis clementia parturit. Recte igitur dictum est, eorum quorum non sunt
aliquae medietates, alterum semper inesse subiectis, et in quibus necesse est
alterum inesse, fieri non posse quin illic medietas ulla sit. Eodem quoque modo
et quae medietates habent, non necessario alterutra subiectis inesse, et quae
non est necesse alterutra subiectis inesse, non est dubium quin illic quaedam
possit esse medietas sed in aliquibus quidam plures, in aliquibus autem una est
medietas, ut in colore inter album alque nigrum plures medietates sunt. Est
enim (ut dictum est) rubrum, et quoque pallidum, eodem quoque modo venetum, et
multa praeterea huiusmodi. In calido vero atque frigido una medietas est, quae
dicitur tepor. Horum autem quibus una medietas est, in aliis nornen est
positum, in aliis non. Et positum quidem nomen est, ut inter calidum
frigidumque, hanc enim medietatem tepidum esse praedicamus. Non est vero
positum in eo quod Aristoteles ipse sic dixit: Improbi vero et probi, quod
neque probum est, neque improbum. Nam quoniam bonum atque in ulum sibi sunt contraria,
non autem necesse est omne quod boni malive susceptibile est, vel bonum esse
vel malum, idcirco dixit bonum malumque, cum sint contraria, habere quamdam
medietatem, cui nomen positum quidem non sit sed nihilominus eam quis inter has
contrariorum naturas inveniet. Nam quod dictum est a posterioribus inter bonum
malam qua esse ea quae dicantur indifferentia, ut interest virtutem atque
turpitudinem, quae utraque sibi sunt contraria, divitiae et pulchritudo, quae
(ut Stoici putant) neque mala neque bona sunt, atque idcirco indifferentia
nominavere sed hoc ipsum quod dicimus indifferens apud priores nomen non erat,
et a posterioribus inventum est. Aristoteles autem qui hoc nomine usus nunquam est,
ait probum atque improbum habere quidem aliquam medietatem, verumtamen eam
nullo nomine nuncupari sed eam utriusque contrarii negotiatione definivit. Ait
enim medietatem probi atque improbi esse, quod neque probum esset neque
improbum, ut iusti atque iniusti medietas est, quod neque iustum, neque
iviustum est. Sed ne videatur inconveniens aliquid negationibus definiri, ipse
ait: In aliquibus vero non est nomine assignare medietatem, utriusque vero
negatione definitur. Namque ubi est una medietas, si utraque contraria sint
remota, sola tantum medietas permanebit, ut in eo quod est bonum et malum,
quoniam his una medietas est, sublato bono atque malo, solum quod neque bonum,
neque malum est relinquitur. Quocirca tota rursus divisio breviter assumenda
est. Eorum quae sunt contraria quorum necesse est semper alterum inesse in his,
in quibus ea secundum propriam naturam inesse contingunt, ea nullam inter se
retinent medietatem, ut in corpore sanitas et aegritudo, in numero paritas
atque im paritas. Quaecumque vero in his in quibus esse possunt, non ita sunt,
ut eorum necesse si alterum inesse, haec aliquam inter se qualitatem medietatis
amplectuntur, ut albedo atque nigredo, rubrum, frigidum atque calidum teporem.
Horum autem alia sunt quae unam solam continent medietatem, alia vero quae
multas, et multas, ut inter album atque nigrum, pallidum, venetum, quae
medietates sunt. Inter calidum atque frigidum una sola est medietas, tepor.
Horum autem quae unam retinent medietatem, in aliis nomina sunt posita, ut in
eo ipso calore ac frigore. Est enim tepor medietas caloris atque frigoris. In
aliquibus vero nomen positum non est, ut in eo quod est bonum atque malum,
iustum atque in iustum. In his enim medietas nomen positum non habet sed
utrorumque contrariorum negationibus definitur, ut dicamus eam esse boni atque
mali medietatem, quod neque bonum est malum, eamque esse iusti et iniusti
medietatem, quae utraque contrarietate summota, utrorumque negatione
relinquitur, ut est neque iustum, neque iniustum. PRIVATIO VERO ET HABITUS
DICUNTUR QUIDEM CIRCA IDEM ALIQUID, UT VISIO ET CAECITAS CIRCA OCULUM;
UNIVERSALITER AUTEM DICERE EST IN QUO NASCITUR HABITUS FIERI, CIRCA HOC DICITUR
UTRUMQUE EORUM. Ordine tertiam speciem propositae oppositionis exsequitur eam
quae secundum habitum privationemque dicitur, atque in ea unam similitudinem posuit
quae illi est cum contrarietate coniuncta. Nam sicut ea quae sunt contraria
circa idem sunt, ut album, quoniam semper in corpore est, nigrum quoque semper
est in corpore, et iustitia, quoniam semper animo inserta est, iniustitia
quoque mentis est vitium, ita quoque ea quae secundum privationem habitumque
dicuntur, circa idem semper necesse est inveniri, ut quoniam visus habitus est
(habemus enim visum) et visus est in oculos circa oculum, caecitas quoque, quae
privatio visus est, praeter oculum non est. Auditus etiam, qui habitus est,
quoniam circa aures est, eius quoque privatio quae surditas dicitur, ab auribus
non recedit; ita quoque et circa quod fuerit habitus, circa idem ipsum illius
habitus privatio consideratur. Atque hinc regulam dat. Universaliter enim dicit
in quo sit in eo fieri privationem. Quid vero sit privari, continuata
dispositione subiunxit: PRIVARI VERO TUNC DICIMUS UNUMQUODQUE HABITUS
SUSCEPTIBILIUM, QUANDO IN QUO NATUM EST INESSE VEL QUANDO NATUM EST HABERE
NULLO MODO HABET. Quid sit privatio hac Aristoteles definitione conclusit.
Neque enim quaecumque non habent visum, caeca dicuntur, nec vero surdum est
omne quod non sentit auditum, nemo enim neque parietem caecum dixerit, nec
surdum lapidem, neo quidquid huiusmodi est. Sed ea sola privari dicimus habitu,
quaecumque aut habuere habitum eoque caruere, aut habere potuere et non habent.
Parietem autem idcirco non dicimus caecum, quod in eo visus naturaliter venire
non potuit. Paruos vero catulos quibus visus non est, non satis digne aliquis
caecos esse pronuntiet. Eo enim tempore nondum naturaliter visum habere
possunt. Si vero exhaustis diebus quibus his oculi patefieri et lucem haurire
naturaliter possunt, non habeant visum, eos caecos esse manifestum est. At vero
neque ostrea dicuntur edentula, quoniam naturaliter non habeant dentes sed nec
infantulos quibus adhuc nondum huiusmodi aetas est, ut habeant dentes, vocamus
edentulos sed si aut is qui ante habuit, dentes amiserit, aut quo iam tempore habere
naturaliter debet, dentes non habet, ut si quis puerorum septimo anno omnino
nullum creaverit, illos iure edentulos appellamus, atque hoc est, quod ait: EDENTULUM
ENIM DICIMUS NON QUI NON HABET DENTES, NEC CAECUM QUI NON HABET VISIONEM SED
QUI, QUANDO CONTIGIT HABERE, NON HABET (MULTA ENIM EX NATIVITATE NEQUE DENTES
HABENT NEQUE VISIONEM SED NON DICUNTUR EDENTULA NEQUE CAECA). Hoc est, non omne
quod non videt caecum, nec quod dentes non habet edentulum appellamus. Plura
enim sunt quae aut omnino aut certo tempore naturaliter haec habere non possunt
sed est illa privatio quoties si habitum non habet, qui habere naturaliter
potest, et eo tempore cum iam per naturam illius 270B esse compos habitus
possit, vel si habens quis retinensque habitum, illum cuiuslibet incursione
casus amiserit, ut in pueris iam adultis si non habeant dentes. Nam quoniam
homines sunt, possunt habere; quod si habentes amiserint, edentuli dicuntur; si
vero omnino non creuerint dentes, quoniam iam pueris aeque adultis ut dentes
haberent, naturaliter poterat evenire, id quo casu aliquo vel aegritudine
officiente factum est, eos edentulos et habitudentium privatos esse nominamus. PRIVARI
VERO ET HABERE HABITUM NON EST HABITUS ET PRIVATIO; HABITUS ENIM EST VISUS,
PRIVATIO VERO CAECITAS, HABERE AUTEM VISUM NON EST viSUS, NEC CAECUM ESSE
CAECITAS (PRIVATIO ENIM QUAEDAM EST CAECITAS, CAECUM VERO ESSE PRIVARI, NON
PRIVATIO EST). Hic verissima ratione monstratur utrum ea que sub privatione
atque habitu cadant privationes sint atque habitus an minime: nam quoniam
habitus est visus, privatio vero caecitas, sub habitu vero est habere visum, et
sub privatione esse caecum, utrum habere visum idem sit quod ipse qui habetur
visus, et utrum idem sit caacum esse quod caecitas, perspicaciter intuentibus
aliud quoddam est habere aliquid quod habetur. Tres namque res sunt in eo in
quo est habitus, is qui habet ea res quae habetur, et habere, ut est is qui
videt, et ipse visus, et hoc ipsum quod ex utrisque, fit ex eo scilicet qui
videt et visu, quod est videre. Distat autem et videre ab eo qui videt, et hoc
ipsum videre rursus a visu. Aliud est enim id quod fit quam is qui facit.
Videre autem videns operatur, aliud est igitur videre quam videns. Distat autem
videre etiam a visu, aliud namque est id quod fit quam id per quod aliquid
geritur, videre autem per visum fit. Distat ergo videre ab eo ipso (qui ipsum
videre efficit) visu sed videre visum habere est, visum autem habere habitum
retinere est, et visus habitus est. Non est igitur idem habitus et quid est sub
habitu, id est quemlibet habitum retinere. Eodem quoque modo etiam in
privatione, et illic quoque tres sunt res, is qui privatur, hoc ipsum quod fit,
id est privari, et ipsum quo quis privatur, id est ipsa privatio. Quod si
distat is qui habet eo ipso quod est habitum habere, distat et is qui privatur
eo quod est privari. Quod si etiam distat quod est habere habitum illo ipso habitu qui habetur. Distat
necessario id quod est privati illa ipsa scilicet privatione qua quisque
privatur. Quare neque id quod sub habitu est habitus appellari potest neque id
quod sub privatiove privatio. Recte igitur dictum est habitum habere non esse
habitum privarique non esse privationem: cui rei aliqua quaedam validior vis
argumentationis adiungitur, quam Aristoteles ita pronuntiat. NAM SI IDEM ESSET
CAECITAS ET CAECUM ESSE, UTRAQUE DE EODEM PRAEDICARENTUR; NUNC VERO MINIME SED
CAECUS QUIDEM DICITUR HOMO, CAECITAS VERO NULLO MODO DICITUR. Si idem inquit
esset caecitas quod est esse caecum, de quocumque caecum esse diceretur, de eo
quoque caecitas praedicaretur sed caecum dicimus esse hominem, caecitatem vero
ipsum hominem nullus dicit: quare quoniam in utrisque diversa est praedicatio,
et de quo caecitas dicitur, non de eo dicitur caecum, rursumque de quo caecum
esse praedicatur, is caecitas dici non potest, non est dubium quin aliud sit
caecum esse quam caecitas, id est privationem esse aliud quam privari: sed
quamvis distent, aequali tamen oppositionis vice funguntur, quod ipse loquitur
sic: OPPONI QUIDEM ET ISTA VIDENTUR, PRIVARI SCILICET ET HABERE HABITUM, QUEMADMODUM
PRIVATIO ET HABITUS; IDEM ENIM MODUS EST OPPOSITIONIS; Aequa namque proportione
sibi privatio atque habitus opponuntur, et ea quae sub privatione habituque
clauduntur. Cur enim si privatio atque habitus, id est visus et caecitas sibi
sunt opposita, non etiam videre atque esse caecum eodem modo invicem sibimet
opponantur. Quare quamquam haec distent, tamen modus in his oppositionis
aequalis est. NON EST AUTEM NEC QUOD SUB AFFIRMATIONE VEL NEGATIONE EST NEGATIO
VEL AFFIRMATIO; AFFIRMATIO ENIM ORATIO EST AFFIRMATIVA ET NEGATIO ORATIO
NEGATIVA, EORUM VERO QUAE SUNT SUB AFFIRMATIONE YEL NEGATIONE NIHIL EST ORATIO.
DICUNTUR AUTEM ET ISTA SIBI OPPONI UT AFFIRMATRO ET NEGATIO; NAM ETIAM IN HIS
MODUS OPPOSITIONIS IDEM EST; QUEMADMODUM ENIM AFFIRMATIO AD NEGATIONEM
OPPONITUR, UT SEDET - NON SEDET, SIC RES QUAE SUB UTRISQUE EST SIBI OPPONITUR
SEDERE ET NON SEDERE. Ad quartam oppositionis speciem transitum fecit, quae
secundum affirmationem negationemque dicitur. Affirmatio autem est quae aliquam
rem alicui quadam participatione coniungit, negatio vero quae aliquam rem ab
aliqua re quadam separatione disiungit, ut est: Omnis homo est animal animal
enim ad hominem haec oratio iungit. Participat enim homo proprio genere, scilicet
animal, negatio vero: Homo lapis non est. Disiungit enim naturam lapidis ab
humanitate qui negat sed multa de his in libro de interpretatione dicenda sunt.
Quare plenior horum disputatio in tempus aliud differatur. Aristoteles vero
simplicissime et pene incuriose propter eos qui instituuntur definitiones
affirmationis negationisque signavit, dicens negationem affrmationemque,
affirmativas esse negativasque orationes. Quod si examinatius ac subtilius
definisset, affirmationem per affirmativam orationem non definiret. Nam si
dubium est quid sit affirmatio, nihilo magis clarum atque perspicuum est quid
sit affirmativa oratio. Idcirco quod si quis nescit quid sit affirmatio, idem
sine dubio nesciturus est quid oratio sit affirmativa. Sed idcirco hic indulgentius
terminavit, quod in libro Perihermeneias utriusque veram plenamque vim
definitionis aptavit. Eadem quoque in his ratio est qua sunt sub affirmatione
et negatione, quae in his quae sub privatione atque habitu ponebantur, nam
sicut non est idem habitus atque privatio quod habere habitum atque privari,
ita non idem est affirmationem et negationem esse quod est sub affirmatione et
negatione. Affirmatio est, verbi gratia sedet Socrates, negatio vero, non sedet
Socrates. Sub affirmatione autem hoc ipsum sedere Socratem, id est hoc quod sub
affirmatione dicit facere. Sub negatione vero non sedere Socratem, id est non
facere id quod negatio submovet. Hoc autem ita probatur, quod omnis affirmatio
omnisque negatio orationes sunt, sicut eorum supradicta definitio
determinatioque monstravit. Sedere autem et non sedere, id est facere et non
facere, orationes non sunt, quod si affirmatio et negatio orationes sunt,
dicitur id quod sub affirmatione et negatione est, ea ipsa affirmatione et
negatione distare. Sed in hoc servant illam quoque similitudinem quod ea ipsa
sibi sunt opposita, quae secundum affirmationem negationemque dicuntur. Sicut
enim ipsa affirmatio quae dicit sedet Socrates, et quae dicit, non sedet
Socrates, ita quoque id ipsum quod est sedere Socratem, et non sedere, certa
ratione similitudinis opponuntur. Sed quoniam quattuor species oppositionis
dictae sunt, nunc Aristotelis uestigia persequentes, earum differentias
colligamus, quae sunt numero sex: nam si quae res sint quattuor, easque
differre a se ac distare volumus, sex solas differentias invenimus. Cum enim
primam differre a secunda ac tertia atque quarta ponimus, tres sunt
differentiae. Item secundam rem a prima re differre ostendere atque demonstrare
superfluum est. Cum enim primae rei ad secundam distantiam colligeremus, quid
secunda distaret a prima docuimus. Relicta igitur primae ad secundam rem
differentia, secundae et tertiae, item secundae quartaeque differentiae
monstrabuntur, quae sunt duae, quae tribus superioribus iunctae quinque solas
efficiunt. Restat tertiae rei quartaeque distantia. Nam primae ad secundam
atque tertiam demonstrata est discrepantia, cum prima a secunda distaret, atque
eodem modo a tertia monstrabamus. Id his probatur exemplis. Nam cum oppositio
ea quae est secundum ad aliquid, ab his oppositionibus quae sunt secundum
contrarietatem, privationem atque habitum, atque affirmationem et negationem,
distare proponitur, tres sunt differentiae. Cum vero ea quae secundum
privationem atque habitum oppositio est, a contrariis et ab affirmatione
negationeque discrepat, duae sunt differentiae quae iunctae superioribus
quinque perficiunt. Idcirco enim quid distaret habitus atque privatio, ea
oppositione quae relativa est praetermisimus, quoniam prius monstravimus quid
relativa oppositio ab habitu privationeque differret; non est enim dubium
aequam esse in utrisque differentiam, cum una ab alia discrepaverit. Restat una
sola differentia, quae est contrariorum ad affirmationem scilicet et
negationem; praetermissa namque est contrariorum differentia, de relativa
scilicet et secundum habitum privationemque oppositione, quid haec superius a
contrarietate distaret, monstratum est. Quare quoniam quot sunt horum
differentiae cognitum est, ad sequentis operis ordinem veniamus. QUONIAM AUTEM
PRIVATIO ET HABITUS NON SIC OPPONUNTUR UT AD ALIQUID, MANIFESTUM EST; NEQUE
ENIM DICITUR HOC IPSUM QUOD EST OPPOSITI; VISUS ENIM NON EST CAECITATIS VISUS,
NEC ALIO ULLO MODO AD IPSUM DICITUR; SIMILITER AUTEM NEC CAECITAS DICITUR
CAECITAS VISUS SED PRIVATIO VISUS CAECITAS DICITUR. AMPLIUS OMNIA QUAECUMQUE AD
ALIQUID DICUNTUR CONVERSIM DICUNTUR, QUARE ETIAM CAECITAS, SI ESSET EORUM QUAE
SUNT AD ALIQUID, CONVERTERETUR ILLUD AD QUOD DICITUR; SED NON CONVERTUNTUR;
NEQUE ENIM DICITUR VISUS CAECITATIS. Et caetera quidem quae sunt differentia
perspicue superius in contrariorum differentia relativa oppositione ante
praemissa sunt. Unam namque differentiam contrariorum relativorumque dixit
esse, quod contraria non ita ut ea quae sunt ad aliquid converterentur. Neque
enim quis pronuntiat malitiam bonitatis esse malitiam, neque bonitatem malitiae
esse bonitatem, velut filium patris esse filium, rursusque patrem filii patrem.
Eadem quoque et in his quae secundum privationem habitumque redduntur, dicitur
differentia. Nam sicut ea qua sunt ad aliquid opposita, adversum semetipsa
redduntur, et omnia ad opposita praedicantur, non eodem modo in habitu atque
privatione est. Nullus enim dicit caecitatis esse visum, nec rursus visus esse
caecitatem. Quocirca si ea quae sunt relativa ad opposita praedicantur,
conversimque dicuntur -- cum enim sit oppositus filio pater, pater filii
dicitur, scilicet ad oppositum, rursusque convertitur ut patris filius
appelletur -- quoniam hoc in his quae sunt secundum privationem et habitum non
dicitur. Neque enim cum sit visus oppositus caecitati, secundum privationem
atque habitum dicitur visus caecitatis, id est nunquam secundum hanc
oppositionem aliquid oppositi praedicatur neque convertitur, neque enim dicitur
caecitas visus, recte privatio atque habitus non in eadem qua relativa sed in alia
specie numerata sunt. QUONIAM AUTEM NEQUE UT CONTRARIA OPPONUNTUR EA QUAE
SECUNDUM PRIVATIONEM ET HABITUM DICUNTUR, EX HIS MANIFESTUM EST. QUORUM ENIM
CONTRARIORUM NIHIL EST MEDIUM, NECESSE EST, IN QUIBUS NATA SUNT FIERI AUT DE
QUIBUS PRAEDICARI, ALTERUM IPSORUM INESSE SEMPER; HORUM ENIM NIHIL ERAT MEDIUM,
QUORUM NECESSE ERAT ALTERUM INESSE EORUM SUSCEPTIBILI, UT IN AEGRITUDINE ET
SANITATE ET IMPARI ATQUE PARI. QUORUM AUTEM EST ALIQUID MEDIUM NUNQUAM NECESSE
EST OMNI INESSE ALTERUM; NAM NEQUE ALBUM AUT NIGRUM NECESSE EST OMNE ESSE EORUM
SUSCEPTIBILI, NEC FRIGIDUM NEC CALIDUM (NIHIL ENIM PROHIBET ALIQUAM IPSORUM
INESSE MEDIETATEM); ERAT ETIAM ISTORUM MEDIETAS, QUORUM NON NECESSE ESSET
ALTERUM INESSE EORUM SUSCEPTIBILI, NISI FORTE ALIQUIBUS NATURALITER CONTIGERIT
UNUM IPSORUM INESSE, UT IGNI CALIDUM ESSE ET NIVI ALBUM (IN HIS AUTEM NECESSE
EST DEFINITE UNUM IPSORUM INESSE, ET NON HOC AUT ILLUD; NEQUE ENIM POTEST IGNIS
ESSE FRIGIDUS NEC NIX ESSE NIGRA); QUARE NON NECESSE EST OMNIBUS EORUM
SUSCEPTIBILIBUS ALTERUM HORUM INESSE SED SOLIS HIS QUIBUS NATURALITER UNUM
INEST, ET HIS DEFINITE UNUM, NON AUTEM HOC AUT ILLUD. Prolixitatem textus
idcirco contraxi quod et ea ipsa quae dicuntur supra iam dicta sunt, nec
longior ordo possit aliquod creare fastidium, quod nos hac textus divisione
seiunximus. Et prius quidem proponit ante oculos omnes inter se contrariorum
differentias, quas ipse quantum potero brevissime commemorabo; ait enim
contrariorum quae mediis carent semper alterum inesse ei quod illas
contrarietates 274C suscipere potest, ut aegritudo et sanitas, quoniam semper
in animalis corpore reperitur, et ea sine ullo est adversus suum contrarium
medio. Idcirco omne corpus animalis semper aut aegrotat aut sanum est, et semper
alterum aut sanitatis aut aegritudinis inest ei quod has suscipit
contrarietates. Eorum vero contrariorum quae habent aliquam medietatem, non
necesse est semper alterum inesse ei cui accidunt, ut album atque nigrum, cum
sint utraque contraria, quoniam habent aliquam medietatem, ut rubrum, veniunt
autem semper in corpora, non necesse est omne corpus fieri, aut album aut
nigrum, quoniam potest aliquando contingere ut illa eorum medietas corpori
cuilibet eveniat. Atque hoc ita est in iis quae medio non carent, quae ipsa
mediata vocamus, exceptis his quibus una contrarietas est insita per naturam,
ut nix alba est, ignis calidus. In his enim unam semper necesse est evenire non
aliam, nec utrumlibet sed definite unam. Id enim non venit in ignem, ut
aliquando sit calidum, aliquando frigidum, aliquando vero quod horum medietas
est tepidum sed semper naturali calore succenditur; nec nix aliquando fit
nigra, nec rursus rubea, nec ullis aliis coloribus permutatur sed solum semper
alba est. Cum haec ita sint, ea quae secundum habitum privationemque
opponuntur, si et ab his contrariis distare monstrata sint quae mediis carent,
et ab his quae intra se quamdam medietatem qualitatis includunt, et ab his
quoque quae, cum mediate sint, tamen definite alicui insunt, perfecte
monstratum est ea quae secundum habitum et privationem sunt a contrariis
discrepare. Quare quid distent Aristotele teneamus auctore. IN PRIVATIONE VERO
ET HABITU NEUTRUM VERUM EST EORUM QUAE DICTA SUNT, NEQUE ENIM SEMPER EORUM
SUSCEPTIBILI NECESSE EST ALTERUM IPSORUM INESSE; QUOD ENIM NONDUM NATUM EST
HABERE VISUM NEQUE CAECUM NEQUE viSUM HABERE DICITUR, HABENS VISUM DICITUR; ET
HORUM NON DEFINITE ALTERUM SED AUT HOC AUT ILLUD (NEQUE ENIM NECESSE EST AUT
CAECUM AUT HABENTEM VISUM ESSE SED AUT HOC AUT ILLUD); IN CONTRARIIS VERO,
QUORUM EST MEDIETAS, NUMQUAM NECESSE EST OMNI ALTERUM INESSE SED ALIQUIBUS, ET
HIS DEFINITE UNUM. QUARE MANIFESTUM EST QUONIAM SECUNDUM NEUTRUM MODUM QUEMADMODUM
CONTRARIA OPPONUNTUR ITA SIBI SUNT EA QUAE SUNT SECUNDUM PRIVATIONEM ET HABITUM
OPPOSITA. Dat primo differentias quibus ea quae sunt secundum habitum et
privationem opposita, ab iis quae sunt immediata contrariis distent. In his
enim contrariis quae medium non habent, semper necesse est ipsorum alterum
inesse ei quod his ipsis subiectum est. In habitu vero et privatione non ita
est. Non enim semper quaelibet res aut habitum habet aut privationem sed est tempus
quando utrumque non habeat, ut catuli quibus nondum per naturam oculi patent.
Illos enim nec habere habitum dicimus, quoniam non vident, nec privatos visu,
quoniam paruuli adhuc visum per naturam habere non possunt Igitur horum quae
sibi secundum privationem habitumque sunt opposita, non semper alterum subiecto
inest eorum. Sed eorum quae sunt contraria immediata, id est medio carentia,
semper alterum susceptibili inest. Distat igitur ea quae secundum habitum et
privationem est oppositio, iis quae secundum contraria putantur opponi. Sed
quoniam sunt quaedam contraria quae insunt alicui per naturam, ut nivi album,
igni calidum, coruo nigrum, etiam ab his discrepat oppositio privationis et
habitus. Ea enim quae per naturam insunt definita sunt et nullo modo permutantur,
ut est album nivi. Non enim nix aut alba aut nigra est sed tantum alba, et
coruus non aut albus aut niger sed solum niger. In privatione vero et habitu
una res esse non potest definita sed semper aut privatio contingit, aut
habitus, et hoc est quod ait, et horum non definite alterum sed aut hoc aut
illud. Neque enim necesse est aut caecum esse aut habentem visum definite
subaudiendum est, catulus enim qui per naturam non dum videt, aut habitum
habiturus est, id est visum, aut eo privandus est, ut sit caecus sed non
definite unum sed aut hoc aut illud indefinite contingit. Distat igitur haec
oppositio his contrariis quae aliquibus per naturam immutabiliter accidunt.
Restat igitur ut his contrariis quae mediata sunt hanc oppositionem differre
doceamus. In illis enim non semper necesse erit contraria inesse subiecto,
idcirco quod eorum medietates possint subiectis evenire substantiis, ut album
vel nigrum quod non est alicui per naturam sed tantum secundum accidens.
Possunt enim utraque non esse in corporibus, quoniam his vel rubrum vel
pallidum, quae sunt eorum medietates eveniunt. In privatione vero id et habitu
non est. Quando enim poterit per naturam habere habitum, utrisque quae ea
suscipiunt, carere non possunt. Catulus enim cum per naturam videre potuerit,
aut habitum habere dicitur, et est videns, aut privationem, si fuerit caecus.
Ita semper ab eo tempore 276B quo illi per naturam utrumlibet habere concessum
est, alterutrum retinebit, id est aut privationem retinebit, aut habitum.
Quocirca si in his contrariis quae medio non carent, potest fieri ut utraque
contraria in subiecto non sint, in privatione vero et habitu ab eo tempore quo
per naturam potest utrumque retinere, fieri non potest nisi eorum habeat
alterum, distant haec quoque mediata ab his quae secundum vim privationis atque
habitus opponuntur. Sed ante monstratum est et his contrariis quae per naturam
essent, et iis quae medio carerent, hanc oppositionem esse dissimilem. Recte
igitur positum est privationis atque habitus oppositionem ab his quae opponuntur
ut contraria, discrepare. AMPLIUS IN CONTRARIIS, CUM SIT EORUM SUSCEPTIBILE,
POTEST FIERI IN ALTERNA MUTATIO, NISI 276C CUI NATURALITER UNUM INSIT, UT IGNI
CALIDO ESSE; QUOD ENIM SANUM EST POTEST AEGRESCERE, ET ALBUM NIGRUM FIERI, ET
FRIGIDUM CALIDUM, ET EX PROBO IMPROBUM ET EX IMPROBO PROBUM FIERI POTEST
(IMPROBUS ENIM IN MELIOREM CONSUETUDINEM SERMONEMQUE PERDUCTUS VEL PARUM SESE
DABIT IN MELIUS; SIN VERO VEL SEMEL PARUAM INTENTIONEM SUMAT, MANIFESTUM EST
QUONIAM AUT PERFECTISSIME PERMPOMBAUR AUT MAGNAM SUMAT INTENTIONEM; SEMPER ENIM
MOBILIOR AD VIRTUTEM FIT, SI QUAMLIBET A PRINCIPIO SUMPSERIT INTENTIONEM, QUARE
ERIT POSSIBILE MAIOREM ILLUM INTENTIONEM SUMERE; ET HOC SAEPIUS FACTUM PERFECTE
IN CONTRARIAM HABITUDINEM CONSISTERE, NISI TEMPORE PROHIBEATUR). IN PRIVATIONE
VERO ET HABITU IMPOSSIBILE EST AD INVICEM FIERI MUTATIONEM; AB HABITU ENIM AD PRIVATIONEM
FIT PERMUTATIO, 276D A PRIVATIONE VERO AD HABITUM IMPOSSIBILE EST; NEQUE ENIM
FACTUS ALIQUIS CAECUS RURSUS vidIT, NEC CALUUS RURSUS CRINITUS FACTUS EST, NEC
EDENTULUS DENTES CREAVIT. Aliam rursos contrariorum et huius oppositionis quae
secundum habitum privationemque dicitur, discrepantiam ponit. Ea enim quae
contraria sunt, possunt in alterna variatis vicibus permutari. Quod enim
calidum est potest effici frigidum, rursusque quod frigidum est potest in
caloris verti qualitatem. His tamen (ut dictum est) solis exceptis, quibus una
quaelibet res contrariorum naturaliter insita est, in his enim solis fieri non
potest alterna mutatio: in his vero quae accidenter et non per naturam
subiectis eveniunt, fit semper in contraria permutatio, ut ex sano aegrum, ex
aegro rursus sanum corpus efficitur animalis. Iam vero illud verum est, ex bono
proclivior semper semita videtur ad malum, et facillima esse ex probitate ad
malitiam permutatio, quod Terentiano docetur exemplo: A labore proclivem ad
libidinem. Sed quamquam difficilis sit transitus ad virtutes a turpitudine
vitiorum, Aristoteles tamen fieri posse hunc transitum confirmat. Huius enim
philosophi sententia est, virtutes non esse scientias, ut Socrates ait, neque
ut Stoici naturaliter eas esse sed discibiles, et per quamdam boni
consuetudinem hominum mentibus inseriri. Atque ideo si quis sit quibuslibet
prioribus vitiis obnoxius, si eum melior sermo susceperit, et sapientium
consuetudine confabulationeque comatur, aliquid ex ante actis vitiorum
illecebris emendabitur, et sese aliquantulum exuet, et paululum liberior ad
meliora procedet. Ita ut sit primo quidem minus malus, post vero non malus,
deinde iam iamque aliquantulum bonus. Cui si huiusmodi intensio frequentissime
fiat, nec paruitate temporis praeveniatur, aut ei terminus mortis offecerit,
non est dublum illum ex pessimo per probas consuetudines confabulationesque
sapientum, in perfectam virtutis habitudinem permutari. Est igitur ex bono in
malum, et ex malo in bonum rursus permutatio, atque hoc quidem fit in
contrariis. In habitu vero et privatione non fit, est namque permutatio sed
haec una tantum, nulla ratione sese convertens; ait enim: Ab habitu ad
privationem 277C permutatio, a privatione vero ad habitum impossibile est. Et
hoc planissime docet exemplis. Quis enim unquam ex caeco factus est videns?
quis aliquando caluus crinitus efficitur? cui amissis aetate dentibus rursus
alii procreantur? Quare si in contrariis fit alterna mutatio, in privatione
vero atque habitu non fit, distat haec oppositio ab ea scilicet oppositione
quae fit secundum contrarias qualitates. QUAECUMQUE VERO UT AFFIRMATIO ET
NEGATIO OPPONUNTUR, MANIFESTUM EST QUONIAM SECUNDUM NULLUM MODUM EORUM QUI DICT
SUNT OPPONUNTUR; IN HIS ENIM SOLIS NECESSE EST HOC QUIDEM ESSE VERUM ILLUD VERO
FALSUM. NAM NEQUE IN CONTRARIIS NECESSE EST SEMPER ALTERUM ESSE VERUM, ALTERUM
VERO FALSUM, NEC IN RELATIVIS, NEQUE IN HABITU ET PRIVATIONE; UT SANITAS ET
AEGRITUDO CONTRARIA SUNT SED NEUTRUM IPSORUM NEQUE VERUM NEQUE FALSUM EST;
SIMILITER AUTEM ET DUPLUM ET MEDIUM QUAE UT AD ALIQUID OPPONUNTUR, NON EST
EORUM ALTERUM FALSUM ALTERUM VERUM; NEC VERO EA QUAE SECUNDUM HABITUM ET
PRIVATIONEM SUNT, UT VISUS ET CAECITAS. OMNINO AUTEM NIHIL EORUM QUAE SECUNDUM
NULLAM COMPLEXIONEM DICUNTUR AUT VERUM AUT FALSUM EST; OMNIA AUTEM QUAE DIXIMUS
SINE COMPLEXIONE DICUNTUR. Expositis his differentiis quibus vel contrariis
relativa, vel privatio et habitus relativis, vel rursus privatio et habitus
contrariis discreparent, nunc sequitur quid his omnibus secundum affirmationem
negationemque opposita distent, et dat signum proprium affirmationis et
negationis, ut eas semper quaeramus agnoscere, ut si qua sint quae hoc signo
minime teneantur, illa ab affirmationis negationisque oppositione deferre
dicamus. In affirmatione enim et negatione fieri non potest, ut si affirmatio
vera sit, statim falsa negatio non sit; si negatio vera, aftirmatio mendacii
nota carere possit, ut si qu is dicat. Socrates ambulat, Socrates non ambulat.
Si verum est Socratem ambulare, falsum est non ambulare, et rursus si verum est
non ambulare, falsum est ambulare. Hanc autem veri falsique divisionem nullus
unquam in aliis oppositionibus poterit invenire. Nam in his quae sunt ad
aliquid non solum non est necesse oppositionem ipsam sibi verum falsumque dividere
sed in his nulia omnino neque veritas, neque falsitas invenitur. Si quis enim
dicat hoc tantum, pater, vel rursus, filius, neque verum aliquid neque falsum
pronuntiat. Et in contrariis quoque idem est, nam cum bono malum sit
contrarium, si quis nominet bonum, et si quis rursus simpliciter pronuntiet
malum, nulla in hac praedicatione neque falsitas, neque veritas est. Eodem
quoque se modo habet etiam in his quae secundum habitum privationemque
dicuntur. Similiter evim nihil neque verum, neque falsum est, si quis visum
nominet vel caecitatem, hoc autem idcirco evenit, quia omnia, quaecumque sunt,
in quibus aut falsitas, aut veritas invenitur, secundum aliquam complexionem
dicuntur. Ea vero quae simpliciter proferuntur, veri atque falsi prolatione carent,
ut ipse ait, cum in principio omnia praedicamenta numeraret, dicens singula
eorum quae essent dicta in nulla affirmatione dici, quadam vero complexione
inter se horum praedicamentorum veritatem falsitatemque gigni, de quibus
Aristoteles edocuit praeter complexionem aliquam in sermonibus veritatem
falsitatemque inveniri non posse. Si quidem exemplo quoque hoc manifestum est.
Si enim dixero, Socrates homo est, aut verum aut falsum est. Quod si hoc tantum
dicam Socrates, aut rursus, homo, nihil in eo neque veritatis neque falsitatis
est. Quocirca quoniam omnis affirmatio cum complexione profertur, potest in ea,
aut veritas, aut falsitas inveniri. Ea vero quae sunt ad aliquid simpliciter et
sine ulla complexione dicuntur. Similiter autem et contraria, et ea quae sunt
secundum habitum privationemque sibimet opposita, ut est pater filius, bouum
malum, visus caecitas, qua, quoniam sine complexione dicuntur (ubi autem
complesio non est, illic nec falsitas neque veritas est. In affirmationibus
vero solis et negationibus quae secundum complexionem dicuntur, aut veritas aut
falsitas reperitur, secundum affirmationem et negationem oppositio a cunctis
aliis superioribus distat. AT VERO MAGIS HOC VIDETUR CONTINGERE IN HIS QUAE
SECUNDUM COMPLEXIONEM DICUNTUR (SANUM ENIM ESSE SOCRATEM ET AEGROTARE SOCRATEM
CONTRARIA SUNT) SED NEC IN HIS QUOQUE NECESSE EST SEMPER ALTERUM VERUM ESSE,
ALTERUM AUTEM FALSUM; CUM ENIM 279A SIT SOCRATES, EST HOC QUIDEM VERUM ILLUD
VERO FALSUM, CUM AUTEM NON SIT, UTRAQUE FALSA SUNT; NAM NEQUE AEGROTARE NEQUE
SANUM ESSE VERUM EST CUM IPSE SOCRATES NON SIT OMNINO. IN PRIVATIONE VERO, CUM
NON SIT, NEUTRUM VERUM EST, ET CUM SIT, NON SEMPER ALTERUM VERUM EST; VISUM
ENIM HABERE SOCRATEM ET CAECUM ESSE SOCRATEM OPPONUNTUR UT HABITUS ET PRIVATIO,
ET CUM SIT, NON EST NECESSE ALTERUM VERUM ESSE VEL FALSUM (QUANDO ENIM NON EST
NATUS UT HABEAT, UTRAQUE FALSA SUNT), CUM AUTEM NON SIT OMNINO SOCRATES, SIC
QUOQUE UTRAQUE FALSA SUNT, ET HABERE EUM VISUM ET EUM ESSE CAECUM. Quoniam
videntur quaedam contraria secundum complexionem dici, in quibus aut falsitas
reperitur aut veritas sed neque ut affirmatio sit neque ut negatio, de his
quoque dicit, quid distent his complexionibus, quae secundum affirmationem
negationemque dicuntur. Nam sicut aegritudo est contraria sanitati, ita quoque
aegrotum esse Socratem, ei quod est sanum esse contrarium est. Oratio quoque
quae dicit Socrates sanus est, contraria est ei quae pronuntiat Socrates
aegrotat. In his ergo et veritas invenitur et falsitas. Quod igitur haec
distant ea oppositione quae secundum vim affirmationis aut negationis
opponitur, hoc scilicet quod subsistente re, de qua utraque dicuntur,
utrumlibet eorum verum est, si tamen ea contraria praedicantur, quae mediis
carent, nam vivente et subsistente Socrate, quoniam aegritudo et sanitas
immediata contraria sunt, si quis de Socrate dicat: Socrates sanus est,
rursusque alius pronuntiet: Socrates aegrotat, unam veram, unam falsam esse
necesse est. Socrates enim vivens aut aegrotat aut sanus est, et si verum est
eum aegrotare, sanum esse falsum est, et si falsum est aegrotare, sanum esse
verum est; si vero Socrates ipse non subsistat neque omnino sit, utrumque de eo
falsum est dicere, quoniam aegrotat et sanus est. Qui enim omnino non est,
neque omnino poterit aegrotus esse nec sanus. Ergo in contrariis subsistente re
de qua praedicantur, semper una praedicatio vera est, alia falsa, in his
scilicet contrariis quae secundum complexionem dicuntur et carent medio. Non
subsistente autem re, contrarietates utraeque sunt falsae. Illa vero quae
secundum privationem habitumque dicuntur, si cum complexione praedicentur, et
subsistat res, non necesse est aliam veram esse, aliam falsam, et eum res
omnino non sit, utraeque sunt falsae. Socrates enim cum sit iam in suae matris
aluo, et nondum sit genitus in lucem quidem editus non est, ipse tamen est
atque vivit sed tunc neque videns est neque caecus, et videns quidem non est;
quoniam nondum in lucem est editus. Caecus vero idcirco non dicitur, quoniam
adhuc videre non poterat. Ergo cum sit atque subsistat res de qua habitus et
privatio praedicantur, potest fieri ut de ea falsa utraque praedicentur; si
vero res de qua dicitur non sit, omnino utrasque falsas esse necesse est, ut
cum Socrates omnino non est, falsum est eum dicere vel videntem 280A esse vel
caecum. Ille enim videt atque caecus est qui vivit atque subsistit, cum vero de
quo dicitur non sit omnino, utraque de eo falso dicuntur. In catulis quoque
idem est, nam cum iam sunt editi, subsistunt quidem; sed neque caeci sunt neque
videntes, quia nondum per naturam visum habere potuerunt. Sin vero omnino non
sint, rursus falsum est de his utrumque praedicari. In affirmatione vero et
negatione non ita est, ut ipse pronuntiat. IN AFFIRMATIONE VERO VEL NEGATIONE
SEMPER, VEL SI SIT VEL SI NON SIT, ALTERUM IPSORUM VERUM, ALTERUM FALSUM ERIT;
AEGROTARE ENIM SOCRATEM ET NON AEGROTARE SOCRATEM, CUM SIT IDEM IPSE,
MANIFESTUM EST QUONIAM ALTERUM EORUM VERUM VEL FALSUM EST, CUM NON SIT, SIMILITER
(NAMQUE AEGROTUM ESSE, CUM NON SIT, FALSUM EST, NON AEGROTARE VERO VERUM EST).
QUARE IN SOLIS HIS ERIT SEMPER ALTERUM IPSORUM VERUM ESSE VEL FALSUM,
QUAECUMQUE UT AFFIRMATIO ET NEGATIO OPPONUNTUR. In affirmatione, inquit, et
negatione sive res subiecta subsistat, sive non sit omnino, semper in una
veritas, in alia falsitas inveniuntur. Non esse enim idem dicere aegrotare
aliquem quod non esse sanum, neo idem caecum esse quod non videre
perspicacissime docet. Nam qui aegrotat nisi subsistat non potest aegrotare.
Non esse autem sanum, non ita est, nam etiamsi non sit omnino aliquis, potest
de eo qui non est haec negatio praedicari. Quod enim omnino non est, sanum esse
non potest, quod sanum esse non potest non est utique sanum. Eodem quoque modo
est et de caecitate et de visu, neque enim idem est dicere caecum esse aliquem
quod non videre; qui enim caecus est, subsistit vivitque, ut sit caecus, non
videre vero etiam de omnino non subsistente dici potest. Qui enim non subsistit
omnino videre non potest, et qui videre non potest non videt. Quocirca in
affirmatione et negatione sive sit de quo dicitur sive non sit, una semper vera
est, altera falsa. Nam cum sit Socrates et vivat, si de eo verum est dicere,
quoniam videt, falsum est dicere, quoniam non videt, et si de eo verum est
dicere, quoniam sanus est, falsum est dicere de eo quoniam non est sanus. Si
negationes verae sunt, falsae sunt affirmationes. Si vero res subiecta non
subsistat omnino, de ea quidem affirmatio falsa est, negatio semper vera. Nostro
enim tempore cum Socrates non est neque subsistit, si quis dicat Socrates
videt, et alius dicat Socrates non videt, falsum quidem est de eo dicere,
quoniam videt, verum autem quoniam non videt. Qui enim omnino non est, videre
non potest, qui videre non potest, non videt. Ita firmum immutabileque semper
manet in affirmationibus et negationibus alteram semper veram, alteram falsam
in praedicatione constitui. Quocirca quoniam in contrariis et in iis quae
secundum privationem habitumque sunt, si cum complexione utraque dicantur de re
non subsistente, falsa sunt utraque quae praedicantur. Cum hoc idem in
affirmationibus et negationibus non sit, omnes caeterae oppositiones ab
affirmatione et negatione dissentiunt. Monstratae sunt igitur oppositiones quattuor
et sex differentiae: una quidem contrariorum et eius quae est ad aliquid;
secunda contrariorum et eorum quae sunt secundum habitum et privationem; tertia
contrariorum et eius oppositionis quae est secundum affirmationem et
negationem; quarta relativorum et eius quae est secundum habitum et
privationem; quinta relativorum et eius quae est affirmationis et negationis;
sexta privationis et habitus ad negationem et affirmationem. Sed post has
oppositionum differentias quaedam de contrariis ad multas proficientia
quaestiones ab Aristoteles traduntur. CONTRARIUM AUTEM EST BONO QUIDEM EX
NECESSITATE MALUM (HOC AUTEM MANIFESTUM EST EX UNAQUAQUE INDUCTIONE, UT
SANITATI AEGRITUDO ET IUSTITIAE INIUSTITIA ET FORTITUDINI 281B TIMIDITAS,
SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS), MALO VERO ALIQUOTIENS BONUM CONTRARIUM EST,
ALIQUOTIENS MALUM (DIMINUTIONI ENIM, QUAE MALA EST, SUPERFLUITAS QUAE ET IPSA
MALA EST CONTRARIUM EST). IN PAUCIS AUTEM HOC ALIQUIS VIDEBIT, IN PLURIBUS
AUTEM SEMPER MALO BONUM CONTRARIUM EST. Hoc loco monstratur quod omne bonum
semper malo contrarium est, non autem omni malo semper bonum, nam quodcumque
fuerit bonum, solum illi malum contrarium est, malo autem et bonum potest esse
contrarium et malum. Sanitati enim quae bona est, aegritudo quae est mala,
contraria est. Rursus felicitati quae est bona, infelicitas quae ipsa quoque est
mala, contraria est. Est autem invenire malum quod duas habet contrarietates,
boni scilicet et alterius mali. Nam cum ea sunt contraria quae a se plurimum
distent, cum sit timiditas habitus animi pessimus, duas habet contrarietates,
temeritatem scilicet et fortitudinem, nam qui omnia timet et est timidus et qui
nihil timet omnino in quo est temeritas, longe a sese distant et discrepant,
quocirca sibi contraria sunt, cum utraque sint mala. Rursus quoniam bonum malo
contrarium, et fortitudo bona est, timiditas mala erit, et erit fortitudini
contraria oppositaque timiditas. Duae igitur contrarietates opponuntur
timiditati, temeritas et fortitudo; sed temeritas contraria est secundum
longissimam distantiam quantitatemque discrepantis habitus atque contrarii.
Timiditas vero fortitudini videtur opposita, secundum qualitatem bonitatis
atque malitiae. Quare sufficienter est demonstratum bona semper malis esse
contraria, mala vero etiam malis. Inductio autem est singulorum exemplorum
collectio, et ad universalem per ea cognitionem collectionemque reductio, ut si
quis dicat qui musicam novit musicus est, et ab ea denominatur, et medicus qui
medicinam, rursus qui grammaticam grammaticus, et ex his singulis rebus
colligat universaliter, et quicumque aliquam artem novit eiusdem denominatione
signatur, ut a grammatica grammaticus, a medicina medicus, et caetera
huiusmodi. Quocirca hoc quod supra diximus de contrariis, Aristoteles
exemplorum planissima inductione 282A firmavit Illud quoque addidit mala posse
malis esse contraria, in paucissimis inveniri, semper autem mala bonis esse
contraria. Nam et in his ipsis in quibus mala malis contraria sunt, inest tamen
ut etiam simul bonis contraria esse videantur, ut timiditas, quoniam temeritati
contraria est, simul est etiam fortitudini contraria. Sed non necesse est, ut
quodcumque malum bono est contrarium, mox etiam mali esse contrarium, ut
aegritudo sanitati quidem, quod est bonum contraria est, alii vero malo
contraria non est. Recte igitur dictum est, malum malo contrarium in
paucioribus inveniri. AMPLIUS IN CONTRARIIS NON EST NECESSE, SI ALTERUM FVERIT,
ET RELIQUUM ESSE; SANIS ENIM OMNIBUS, SANITAS QUIDEM ERIT, AEGRITUDO VERO
MINIME; SIMILITER ET ALBIS OMNIBUS ALBEDO QUIDEM ERIT, NIGREDO VERO NON ERIT. AMPLIUS
SI SOCRATEM SANUM ESSE ET SOCRATEM AEGROTARE CONTRARIUM EST, ET NON CONTINGIT
SIMUL EIDEM UTRAQUE INESSE, NUMQUAM CONTINGET, CUM ALTERUM CONTRARIORUM SIT,
RELIQUUM ESSE; NAM CUM SIT SANUM ESSE SOCRATEM, NON ERIT AEGROTARE SOCRATEM. Dictum
est in relatione, quaedam relativa simul esse naturaliter, ut cum sit filius,
pater est, cum vero sit pater, sine filio esse non posse. Quocirca simul semper
sunt pater et filius, hoc vero in contrariis non est. Ait enim non necesse est
simul semper esse contraria. Si enim nullus aegrotet et sint omnes sani, cum
sit sanitas, non erit aegritudo, et una contrarietate manente, alia omnino non
erit, ut si quis hoc idem dicat de cygnis, etenim omnes cygni sunt albi, in
cygnis nigredo non erit. Atque hoc idem ad universalia referendum est. Nam si
omnia quae sunt alba sunt, omnino nigredo non erit. Tractum autem hoc videtur
esse sigillatim a partibus. Nam quod duo contraria in eodem uno eodemque
tempore esse non possunt, ut Socrates cum sanus est, aegrotus non est, et cum
sanus est, manente sanitate, non esse poterit aegritudo. Et non erit
necessarium uno contrario posito, mox subsequi alterum. Nam si necesse esset
uno contrario constituto, mox aliquid sequi, posset idem Socrates uno eodemque
tempore, et sanus esse et aeger, quod fieri non potest. Non est igitur necesse
cum sit una contrarietas mox aliam sequi. Quocirca fieri potest ut cum unum
contrarium sit, 282D aliud non sit. Idque in singularibus etiam necesse est, ut
in eo quod est Socratem esse sanum, non est Socratem aegrotare, quod Socratis
sanitati est contrarium Socrates enim quamquam contrariorum susceptibilis sit,
quoniam substantia est, tamen uno eodemque tempore contraria utraque non
suscipit. MANIFESTUM EST AUTEM QUONIAM CIRCA IDEM VEL SPECIE VEL GENERE NATA
SUNT FIERI CONTRARIA; AEGRITUDO NAMQUE ET SANITAS CIRCA CORPUS ANIMALIS, ALBEDO
VERO ET NIGREDO SIMPLICITER CIRCA CORPUS, ET IUSTITIA ET INIUSTITIA IN ANIMA. Docet
circa quae semper possint esse contraria. Ait enim circa eas res quae aut
genere eadem sint aut specie, ut est corpus quidem animalis unum secundum
genus, omnium enim animalium unum genus est, et circa hoc aegritudo vel sanitas
invenitur. Similiter et circa corpus omne indiscrete, vel animalia vel
inanimati, albedo et nigredo est, quod scilicet omne corpus et ipsum secundum
genus est, unum, namque his genus est substantia. Iustitia quoque et iniustitia
in anima est. Omnis autem anima quae iustitiam iniustitiamque suscipit,
rationalis est, id est hominis; sed omnes homines idem sunt secundum speciem,
omnes igitur animae eaedem secundum speciem sunt; iustitia ergo et iniustitia
circa easdem res secundum speciem reperiuntur. Quocirca recto iam conclusum
est, omnia contraria circa easdem res vel secundum genus, vel secundum speciem
iveniri. NECESSE EST AUTEM OMNIA CONTRARIA AUT IN EODEM GENERE ESSE AUT IN
CONTRARIIS GENERIBUS, VEL IPSA ESSE GENERA; ALBUM QUIDEM ET NIGRUM IN EODEM
GENERE (COLOR ENIM IPSORUM GENUS EST), IUSTITIA VERO ET INIUSTITIA IN
CONTRARIIS GENERIBUS (HUIUS ENIM VIRTUS, HUIUS VITIUM GENUS EST); BONUM VERO ET
MALUM NON SUNT IN ALIQUO GENERE SED IPSA SUNT GENERA. Monstrat id quod reliquum
est, id est ubi possunt remper contraria uestigari, omnia enim quae sunt
contraria, aut sub eodem genere sunt, aut sub contrariis generibus, aut ipsa
sunt genera. Sub eodem genere sunt contraria, ut album et nigrum sub uno genere,
id est colore, color enim albedinis et nigredinis est genus. Haec igitur sub
uno sunt genere. Alia vero contraria in contrariis generibus inveniuntur, ut
iustitia et iniustitia. Iustitiae enim genus est bonum, iniustitia a vero
malum, malum vero bono contrarium est, iustitiae ergo et iniustitia sub
contrariis generibus sunt. Rursus alia ipsa sunt genera, ut bonum et malum,
utraque sunt genera sub se malorum bonorumque positorum, et non hoc nunc
dicitur quod bonitas et malitia nulli alii generi subduntur, ponuntur enim sub
qualitate. Sed particularium bonorum et malorum non esse alia genera, nisi
ipsum bonum et malum generaliter. Recte igitur bonum et malum aliorum
particularium bonorum, malorumque genera sunt numerata. Quare rectissime dictum
est omnia contraria, aut sub eodem esse genere, ut album et nigrum sub colore,
aut in contrariis generibus, ut iustitia atque iniustitia sub bono et malo, aut
ipsa esse genera, ut est ipsum bonum et malum, qua genera iustitiae atque
iniustitiae numerata sunt. DE MODIS PRIORIS. PRIUS ALTERUM ALTERO DICITUR
QUADRUPLICITER. PRIMO QUIDEM ET PROPRIE SECUNDUM TEMPUS, SECUNDUM QUOD SCILICET
ANTIQUIUS ALTERUM ALTERO ET SENIUS DICIMUS (EO ENIM QUOD PLUS EST TEMPORIS
LONGAEVIUS ET ANTIQUIUS DICITUR). Postquam vero de oppositis disputationem
quantum ad praesens tempus attinebat explicavit, nunc quae priora dici possint,
quae posteriora disserit. Et ait, primo quidem et proprie, et quod in usu prius
284A dicimus, hoc est quando aliquam rem alia res tempore praecedit, et
superat, et dum proprie loquimur secundum temporis praecessionem, aliud
antiquius dicimus, aliud senius. Antiquius quidem in iis quae inanimata sunt,
ut Porphyrio placet, senius vero in iis quae anima non carent: ut si quis dicat
antiquius fuisse bellum Thebanorum atque Graecorum Troiae excidio, idcirco quod
tempore praecedat, filii namque ducum qui Thebano perire praelio, Troiae
praeliis interfuerunt, ut Diomedes Tydaei filius, et Stenelus filius Capanei.
Atque hoc quidem ita, quoniam est et in rebus inanimatis quod antiquius
dicitur, ut eum dicimus antiquiorem esse dominationem regum in civitate Romana,
quam consulum et magistratuum. In rebus vero animatis senius vocamus. Seniorem
namque dicimus Pythagoram Socrate, Socratem Aristotele, idcirco quod se
temporibus antecedant. Ergo prius alterum altero dicitur proprie secundum
tempus, prioris autem quattuor fuere distantiae, ut ipse Aristoteles dicit, cum
ait: Prius alterum altero dicitur quadrupliciter. Easque sigillatim breviter
enumerat, ad quae ipse addidit quintam, quae priscis philosophis esset
incognita. Et quoniam de primo prioris modo dictum est, de secundo dicemus. SECUNDO
QUOD NON CONVERTITUR SECUNDUM SUBSISTENDI CONSEQUENTIAM, UT UNUS DUOBUS PRIUS
EST (CUM ENIM DUO SINT, CONSEQUITUR MOX UNUM ESSE, CUM VERO SIT UNUM NON EST
NECESSE DUO ESSE; QUARE NON CONVERTITUR AB UNO CONSEQUENTIA ALTERIUS
SUBSISTENTIAE); PRIUS AUTEM VIDETUR ESSE ILLUD A QUO NON CONVERTITUR
SUBSISTENTIAE CONSEQUENTIA. Secunda, inquit, significatio prioris est quae non
tempore intelligitur sed natura, et hoc ait a quo non convertitur subsistendi
consequentia. Nam si duae res ita sint oppositae, ut si una sit necesse sit
esse aliam, et si alia sit non necesse sit esse aliam, illa prior est qua
posita ut sit, non est aliam esse necesse, et hoc quidem universaliter dictum
est. Planius vero his fiet exemplis. Binarius enim numerus et unitas eam
retinet naturam, ut si quis duo esse proponat, unum quoque esse monstraverit,
unum enim in ipsis duobus concluditur, nec praeter duas unitates poterit esse
binarius. Quocirca si quis binarium numerum esse posuerit, unum quoque esse consequitur,
idcirco binarius ut sit indiget unitate. At vero si quis ponat esse unitatem,
nondum necesse est esse binarium. Ergo ab unitate subsistendi consequentia non
convertitur. Posita enim unitate necesse non fuit binarii numeri subsequi
quantitatem, idcirco quod binario non indiget unitas, sicut indigens erat
unitate binarius. Quare prior est unitas binario: quod si ita est, et quidquid
ita fuerit, ut ab eo subsistendi consequentia non convertatur, prius Aristotele
auctore probabitur, ut in eo quod est homo et animal. Cum dico hominem, mox
dixi animal; cum animal dixero, nihil adhuc de homine dictum est. Omnis enim
homo animal est, non omne animal homo. TERTIO VERO SECUNDUM QUENDAM ORDINEM
PRIUS DICITUR, QUEMADMODUM ET IN DISCIPLINIS ET IN ORATIONIBUS; IN
DEMONSTRATIVIS ENIM DISCIPLINIS INEST PRIUS ET POSTERIUS SECUNDUM ORDINEM
(ELEMENTA ENIM PRIORA SUNT DESCRIPTIONIBUS SECUNDUM ORDINEM, ET IN GRAMMATICA
ELEMENTA PRIORA SUNT SYLLABIS), ET IN ORATIONIBUS SIMILITER (EXORDIUM ENIM
NARRATIONE PRIUS EST ORDINE). Ponit tertiam prioris significationem, ut in
geometria priora sunt, inquit, elementa descriptionibus. Elementa vero ait quos
terminos appellamus, id est ubi quid punctum sit, quid linea, quid figura
praedicitur. His enim cognitis et fideliter animo apprehensis, postea omnes
geometriae descriptiones fiunt, quae problemata et tbeoremata nuncupantur. Ergo
quoniam prius discuntur elementa, post ad descriptiones est transitum, priora
sunt elementa descriptionibus, ordine scilicet, quoniam ut descriptio possit
intelligi, prius elementa traduntur, et in grammatica quoque prius singulae
traduntur litterae quam quae ex his syllabae coniungitur, quocirca ipso quoque
ordine prior ea sunt syllabis. Rhetores vero non saepe a narratione sed ab
exordio agere causas incipiunt, ideo quod exordia narrationibus priora sunt
ordine, quare tertius modus prioris iste est qui secundum nexum cuiusdam
ordinis in qualibet arte est constitutus. AMPLIUS PRAETER HAEC OMNIA, QUOD
MELIUS ET HONORABILIUS EST, PRIUS NATURA ESSE VIDETUR; SOLENT AUTEM PLURES
HONORATIORES MAGIS ET QUOS IPSI MAXIME venERANTUR PRIORES ESSE DICERE; EST
AUTEM HIC MODUS PAENE ALIENISSIMUS. ATQUE HI QUIDEM QUI DICUNTUR MODI PRIORIS
ISTI SUNT. Dicit prius videri, quod neque secundum tempus aliquoties neque
secundum subsistendi consequentiam nec secundum ordinem sit sed quodcumque
pretiosius fuerit, prius esse videatur, ut sol, luna prior est, et anima
corpore, et animus anima. Hoc vero tali argumento probat, quod hi qui aliquos
venerantur, et honorabiliores existimant, dicant eos apud se esse priores, et
hi qui in rebus publicis plurimum possunt, priores dicuntur ab his qui eos
maxime venerantur. Sed ut ipse ait, alienissimus est a significatione prioris
hic quartus in nunc est dictus modus, etenim de his melius dici potest, ut
dicantur venerabiliores et honorabiles, ut vero priores dicantur, abusio potius
quam ulla proprietas est. Quintus modus quem ipse addidit huiusmodi est: VIDETUR
AUTEM PRAETER EOS QUI DICTI SUNT ALTER ESSE PRIORIS MODUS; EORUM ENIM QUAE
CONVERTUNTUR SECUNDUM ESSENTIAE CONSEQUENTIAM, QUOD ALTERIUS QUOMODOLIBET CAUSA
EST DIGNE PRIUS NATURA DICITUR. QUONIAM AUTEM SUNT QUAEDAM TALIA, MANIFESTUM
EST; NAM ESSE HOMINEM CONVERTITUR SECUNDUM SUBSISTENTIAE CONSEQUENTIAM AD VERUM
DE EO SERMONEM; NAM, SI EST HOMO, VERUS SERMO EST QUO DICIMUS QUONIAM EST HOMO,
ET CONVERTITUR (NAM, SI VERUS EST: SERMO QUO DICIMUS QUONIAM EST HOMO, HOMINEM
ESSE NECESSE EST); EST AUTEM VERUS SERMO NULLO MODO CAUSA SUBSISTENDI REM, RES
AUTEM VIDETUR QUODAMMODO CAUSA ESSE UT SERMO VERUS SIT; NAM, QUONIAM EST RES
VEL NON EST, VERUS SERMO VEL FALSUS DICITUR. QUARE SECUNDUM QUINQUE MODOS PRIUS
ALTERUM ALTERO DICITUR. Novimus quasdam res in praedicatione posse converti.
Quod si una earum quae convertuntur alteri causa est, et veluti naturalem
subsistentiam subministrat, illa naturaliter prius esse perhibetur. Ipse autem
aptissimo quod proposuit affirmavit exemplo. Nam si est aliqua res, verum est
de ea dicere, quoniam est. Rursus si de ea verum est dicere quoniam est, illam
ipsam rem esse necesse est: ut quoniam est homo, verum est dicere quoniam est
homo. Quod si verum est dicere quoniam est homo, nulla est dubitatio quin homo
sit. Ergo quoniam duo haeo sibimet convertuntur, respiciamus nunc quae sit
harum causa alteri, ut subsistere valeat, atque ut essa possit. Video autem rem
dicto vero subsistentiae dare principium, nam quia homo est, idcirco verum est
dicere de eo quoniam est sed non idcirco homo est, quoniam de eo vere dici
potest, quoniam est. Res enim ut veritas adsit, dicto principium est sed non ut
res subsistat, vero efficitur dicto. Quocirca prius est, esse hominem,
posterius, verum de eo esse dictum. Idcirco quoniam quamvis convertantur, tamen
una harum rerum alteri subsistendi causa est. Ait enim id esse prius inter ea
quae convertuntur secundum essentiae consequentiam, quod alterius quomodolibet
causa est. Ut in hoc ipso sermone de homine, convertuntur utraque quidem sed
homo ut sit sermo verus, causa est atque principium. Quod Aristoteles ita ait:
Est autem verus sermo nullo modo causa subsistendi rem. Res autem videtur
quodammodo causa esse ut sermo verus sit. Neque enim idcirco res est, quoniam
sermo est sed idcirco verus est sermo, quoniam res ipsa subsistit. Quocirca
quinque hi prioris modi sunt, quorum superius quattuor dixit, secundum tempus,
scilicet secundum id quod non convertitur ad subsistendi consequentiam,
secundum ordinem, secundum reuerentiam, et secundum conversionem, cum altera res
alii subsistendi causa est. Sed quoniam de priori dictum est, nunc de his quae
simul sunt incipit. DE MODIS SIMUL SIMUL AUTEM DICUNTUR SIMPLICITER ET PROPRIE
286D QUORUM GENERATIO IN EODEM TEMPORE EST; NEUTRUM ENIM NEUTRO PRIUS EST AUT
POSTERIUS; SIMUL AUTEM SECUNDUM TEMPUS ISTA DICUNTUR. Cum de prioribus
disputaret, illa propria priora esse contenderat, quae secundum vim
praecedentis temporis dicerentur, quare cum de his quae simul sun. disputat,
idem reuocat, et recte. Nam si maximum modum prioris solum efficiet tempus, cur
quoque non simul editam naturam tempus efficiet? Ait ergo, et simpliciter et
proprie dici simul esse ea, quae unius temporis ortu prolata sint, ut si illa
sint antiquiora atque priora, quaecumque non aequali sed praecedenti tempore
proferuntur, quae se temporibus non praecedunt, rectissime simul esse ponuntur.
Quae enim uno tempore edita atque prolata sunt, illa secundum tempus simul esse
dicuntur, id est simul naturale principium substantiamque sortitu, atque haec
quidem secundum tempus simul esse dicuntur. Secundum naturam vero simul esse
perhibentur, quaecumque invicem ad se convertuntur, cum altera res alteri
subsistendi, neque causa sit, neque principium, ut sunt huiusmodi, duplum et
medium: nam cum sit duplum, medium est; cum rursus sit medium, duplum est.
Seruus quoque et dominus eodem modo sunt, filius quoque et pater. Haec enim
quaecumque illata quidem inferunt alia, sublata vero aut erunt simul, sibimet
semper invicem convertuntur: nam si dicam patrem, filium quoque intelligi
necesse est; si dixero filium, pater mox sub intelligentiam cadit. Quod si
alterum sustulero, utraque perimo: nam si tollam filium, pater non est; si patrem
abstulero, filium quoque perire necesse est. Atque haec ita sibimet ipsa
convertuntur, ut tamen altera res alteri causa penitus non sit: nam quoniam
pater filio in praedicatione convertitur manifestum est sed neque pater fiiio
causa est ut sit, nec filius patri, hoc autem huiusmodi est. Si Aeneas habuit
Ascanium filium, non dicimus, quoniam non fuit Aeneas causa ut esset Ascanius
sed non fuit pater causa ut esset filius. Nam quod dico Ascanius, quaedam
propria substantia est, quod dico filius, esse non potest, nisi ad aliquid
referatur, et cum Aeneam nomino, substantiam dixi, si patrem appello, nulla
ratione constat, nisi ad filium referatur. Igitur causa fuit Aeneas ut esset Ascanius sed
non est causa pater ut esset filius. Pater namque tunc fit cum filius fuerit.
Quod si haec tempore ipso priora non sunt, causa autem cuiuslibet rei prior est
quam illa cuius causa est, ut oriatur, nulla dubitatio est, quin pater atque
filius, quae utraeque praedicationes aequales sunt tempore, neutra neutri causa
sit, cum tamen substantiae ipsae sibi ut sint, causa sint praedicationis. Nec
ullo modo simile debet videri ei quod paulo ante dictum est de homine, esse
verum de eo sermonem, scilicet quoniam est. Illic enim cum res esset, tunc
poterat esse verus de ea sermo. Prius enim est ut sit aliquid, post vero ut de
eo verum aliquid esse dicatur. Nunc vero non ita est ut prius aliquis sit
pater, post vero filius. Mox enim ut pater est, filium esse necesse est, mox ut
est filius, patris sine dubio praedicatio consequitur, quemadmodum ergo iste
modus fit, qui scilicet simul secundum naturam est, Aristoteles ita pronuntiat.
NATURALITER AUTEM SIMUL SUNT QUAECUMQUE CONVERTUNTUR QUIDEM SECUNDUM
SUBSISTENDI CONSEQUENTIAM, SI NULLO MODO ALTERUM ALTERI SUBSISTENDI CAUSA SIT,
UT DUPLUM ET MEDIUM; CONVERTUNTUR ENIM ISTA (NAM CUM SIT DUPLUM EST MEDIUM, ET
CUM SIT MEDIUM EST DUPLUM), NEUTRUM VERO NEUTRI SUBSISTENDI CAUSA EST. In his
quae ita priora esse dicebatur, ut couuerterenlur, quamvis secundum essentiam
eorum consequentia esset, tamen quia in his alia res alii causa atque
principium est, hoc erat quod una prior esse 288A videretur, ea quidem cuius
causa erat. Quod distat ab iis quae convertuntur, et se invicem auferunt, quae
cum neutra neutri causa sit, et tamen convertuntur, digne simul naturaliter
esse perhibentur.ET EA QUAE EX EODEM GENERE IN CONTRARIUM DIVIDUNTUR SIMUL
NATURA ESSE DICUNTUR. IN CONTRARIUM VERO DIVIDI DICUNTUR SECUNDUM EANDEM
DIVISIONEM, UT VOLATILE, GRESSIBILE ET AQUATILE; HAEC ENIM IN CONTRARIUM
DIVIDUNTUR, CUM EX EODEM GENERE SINT; ANIMAL ENIM DIVIDITUR IN VOLATILE,
GRESSIBILE ET AQUATILE, ET NULLUM HORUM PRIUS EST VEL POSTERIUS SED SIMUL HAEC
VIDENTUR ESSE NATURA. Tertium modum eorum quae simul sunt hunc addidit, illa
quoque simul esse, quae aequali divisione sub genere ponantur, ut si ponat quis
animal genus hominis et equi, hominem vero et equum a genere, id est ab animali
dividat, homo vero et equus quoniam sub eodem genere sunt, simul esse natura
dicuntur. Et conveniens regula est in omnibus quibuscumque generibus, cum enim
specierum divisiones fiunt, illic species natura simul sunt, et si sub his
ipsis speciebus quaedam alia ponantur, inter se etiam ipsa simul esse natura
dicuntur. Dividatur enim genus, id est animali in volatile atque in gressibile,
et quoniam sunt sub eodem genere, simul natura sunt. Et si quid horum in
subiectas partes speciesque solvatur, ut volutile quidem in his avibus quae
seminibus uescuntur, et in iis quae carnibus, et in his quae herbis, hae tres
species rursus, quae sub volatili sunt, simul esse naturaliter appellantur, quod
Aristoteles ita dicit. DIVIDITUR AUTEM ET UNUMQUODQUE EORUM IN SPECIES ITERUM
SECUNDUM EANDEM DIVISIONEM, UT GRESSIBILE ANIMAL ET VOLATILE ET AQUATILE. ERUNT
IGITUR ET ILLA SIMUL NATURA, QUAECUMQUE EX EODEM IPSO GENERE SECUNDUM EANDEM
SUBDIVISIONEM SUNT, GENERA AUTEM SEMPER PRIORA SUNT; NON ENIM CONVERTUNTUR
SECUNDUM SUBSTANTIAE CONSEQUENTIAM, UT AQUATILE QUIDEM CUM SIT EST ANIMAL,
ANIMAL VERO CUM SIT, NON NECESSE EST ESSE AQUATILE. SIMUL ERGO NATURA ESSE
DICUNTUR QUAECUMQUE CONVERTUNTUR QUIDEM SECUNDUM ESSENTIAE CONSEQUENTIAM, NULLO
AUTEM MODO ALTERUM ALTERI SUBSISTENDI CAUSA EST, ET EX EODEM GENERE QUAE IN
CONTRARIUM SIBI DIVIDUNTUR; SIMPLICITER AUTEM SIMUL SUNT QUORUM GENERATIO IN
EODEM TEMPORE EST. Atque idcirco fieri non potest ut genus habeat unam speciem.
Nam si quaecumque sub genere sunt, simul sunt. Simul autem nisi plura esse non
possunt, genus igitur sub se unam speciem habere non potest Si enim una fuerit,
fieri non potest ut simul esse dicatur, quia illud est, quod eub eodem genere
quaedam res solent quae simul sint naturaliter inveniri. Sed haec de speciebus.
Genera autem semper priora sunt, non enim convertuntur secundam subsistentiae
consequentiam. Prioris unus modus est secundum quem illa priora esse dicerentur
quaecumque ad subsistendum nullo modo converterentur, quod hoc idem in
generibus cadit. Genera enim non convertuntur ad eubsistentiae consequentiam
hoc modo. Sit enim animal genus, homo vero species. Cum vero dico hominem esse,
animal quoque esse consequitur. Si animal dixero, ad hominem subsistentiae
consequentia non convertitur. Potest enim esse animal, non tamen homo. Quocirca
ab animali ad hominem non convertitur subsistentiae consequentia. Quod si
posito homine animal constat, animali vero nominato non est necesse hominem
esse, animal est prive homine. Illa quoque priorum descriptio est, quod ea quae
sunt priora sublata quidem auferunt, illata non inferunt Animal enim sublatum
secum quoque hominem tollet, illatum vero ut dicatur esse animal, non secum
statim hominem infert. Posteriora vero et diverso sunt. Illata enim simul
inferunt, sublata non auferunt. Dictus quidem homo, simul secum animal infert,
omnis namque homo animal est. Quod si homo substantialiter auferatur, non est
necesse animal quoque autem, quod hoc nomen animalis in pluribus speciebus
valet aptari. Quod si ita contingit, sublato homine permanebit animal. Quocirca
concludit tres esse species eorum quae simul sunt secundum tempus, secundum
naturam cum ulraque ita convertuntur, ut neutra neutri causa sit. Tertium genus
est secundum eamdem sub eodem genere divisionem. Quoniam in faciendo atque
patiendo inerat quidam motus, facere autem et pati praedicamentis ad iunxerat,
idcirco nunc de motibus tractat, et sex numero esse pronuntiat. DE SPECIEBUS
MOTUS MOTUS VERO SUNT SPECIES SEX: GENERATIO, CORRUPTIO, CREMENTUM, DIMINUTIO,
COMMUTATIO, SECUNDUM LOCUM TRANSLATIO. ALII QUIDEM MOTUS MANIFESTUM EST QUONIAM
A SE INVICEM DIVERSI SUNT; NEQUE ENIM EST GENERATIO CORRUPTIO, NEC CREMENTUM DIMINUTIO
NEC SECUNDUM LOCUM TRANSLATIO; SIMILITER AUTEM ET CAETERAE. In physicis
Aristoteles motus species alia ratione partitus est. Ait enim aliud esse
permutationem, aliud motum, et permutationis quidem duas esse species ait
generationem et corruptionem. Motus verotres secundum quantitatem, secundum
qualitatem, secundum locum. Igitur, quoniam hic liber ad introductionem
quodammodo factus est, noluit nimis divisionis attenuare rationem, ne
ingredientium animos subtiliori divisione confunderet: facit igitur divisionem
motus hoc modo. Est enim una species motus secundum substantiam, alia secundum
quantitatem, alia secundum qualitatem, alia secundum locum. Et secundum
substantiam quidem est generatio et corruptio, haec enim utraque in substantia
fiunt. Nam et secundum substantiam generatur aliquid, et secundum substantiam
corrumpitur. Secundum quantitatem vero, ut crementum et diminutio. Etenim secundum
quantitatem vel aucta crevisse, vel detracta diminuta esse dicuntur. Secundum
qualitatem vero quae dicitur commutatio, secundum aliquas scilicet passiones,
quas qualitates esse manifestum est. Secundum locum vero, ut intus in
longitudinem, vel in curuaturam flexus; et intus quidem in longitudinem est ut
a sursum in deorsum, a prioribus retrorsum, a dextra in sinistram; et rursus si
haec convertas et in directum pergas, idem motus 290A erunt. Illud quoque verum
est has esse omnes species motus, nullo namque sibi participant, nisi solo
generis nomine, quod motus dicuntur nam neque generatio idem est quod corruptio,
namque generatio est in substantia ingressus, corruptio vero ex substantia
egressus. Nec diminutio idem quod crementum, nec secundum locum translatio
alicui superiorum consimilis est. Commutatio autem habet forte aliquam
dubitationem, quod non videatur a superioribus discrepare, quam quaestionem ita
proposuit. IN COMMUTATIONE VERO EST ALIQUA DUBITATIO, NE FORTE NECESSE SIT QUOD
COMMUTATUR SECUNDUM ALIQUEM RELIQUORUM MOTUUM COMMUTARI. HOC AUTEM NON EST
VERUM; PAENE ENIM SECUNDUM OMNES PASSIONES VEL 290B MULTAS COMMUTARI NOBIS
CONTINGIT NULLO ALIORUM MOTUUM COMMUNICANTE; NAM NEQUE CRESCERE NECESSE EST
QUOD SECUNDUM PASSIONEM MOVETUR NEC DIMINUI, SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS: QUARE
DIVERSUS ERIT MOTUS AB ALIIS COMMUTATIONIBUS (NAM SI IDEM ESSET, OPORTERET OMNE
QUOD COMMUTATUR MOX AUT CRESCERE AUT MINUI AUT ALIQUEM ALIORUM MOTUUM CONSEQUI;
SED NON EST NECESSE). SIMILITER AUTEM ET QUOD CRESCIT VEL SECUNDUM QUEMLIBET
ALTERUM MOTUM MUTATUR. In commutatione vero est aliqua dubitatio, ne forte
necesse sit quod commutatur secundum aliquem reliquorum motaum commutari. Nam
si omne quod commutatur, aut generatur, aut corrumpitur, aut minuitur aut
crescit, aut id secundum locum transferri 290C necesse est, dubium non est
nihil a superioribus caeteris hanc differe speciem, qua secundum commutationem
dicitur; quod Aristoteles respuit, dicens: HOC AUTEM NON EST VERUM. Sed quoniam
quod oommutatur non omnino neque generatur, neque corrumpitur: ut qui in sole
diutius stetit, si ex candido niger est factus, commutatus quidem secundum
colorem dicitur, non tamen generatus est aut corruptus, nec vero illi aliquod
vel crementum factum est vel diminutio sed nec loci translatio nulla est,
potest enim aliquis uno eodemque loco consistens, aliquibus extrinsecus
venientibus passionibus permutari, potest quoque et crescere et decrescere,
praeter qualitatis commutationem: quod ipse Aristoteles ita pronuntiat. SED
SUNT QUAEDAM QUAE CRESCUNT ET NON COMMUTANTUR, UT QUADRATUM CIRCUMPOSITO
GNOMONE CREVIT QUIDEM SED COMMUTATUM NON EST; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS
HUIUSMODI. QUARE A SE INVICEM MOTUS ISTI DIVERSI SUNT. Quod dicit tale est: Si
quadrato, inquit, addatur gnomo, crescit quidem quadratus, non tamen
commutatur. Ideoque sublato gnomone quadratus diminuitur sed non commutatur. Si
enim quadratus a b c d, et ducatur ei angularis b c, et dividantur quattuor
latera a c, a b, b d, a c, in aequalia g e h f punctis, et ducantur g h f e
lineae. Divisus igitur quadratus a d in quattuor quadratos qui sunt e g, f g, e
h, h f, quorumlibet tres qui circa eamdem angularem sunt si demantur, figura
ipsa gnomo vocatur. ut si quis tollat hos tres, e g, g f, f h, invenitur m n
291A gnomo, qui m n gnomo separatur a b e h quadrato. Totus quidem a d
quadratus imminutus est, qui ex tam magno factus est paruus, non tamen formam
tetragoni commutavit. Quod si e h tetragonus solus sit, et ei circumponatur
gnomo, qui est m n, crevit quidem tetragonus, et maior factus est sed non
commutatus est. Omnes enim tetragoni sibi sunt propria qualitate consimiles.
Quod si commutatio huiusmodi motus esset, ut non omnino a superioribus
separaretur, nulla esset dubitatio quin semper oporteret quidquid commutatur
secundum aliquem priorum motuum modum commutari. Ita ut aut nasceretur, aut
corrumperetur, aut minveretur, aut cresceret, aut secundum locum fieret aliqua
permutatio. Quod quoniam non est, ab omnibus superioribus 291B motibus haec
motus species distat. Sed monstratum superius est quinque superiores motus
species a se omni ratione substantia, discrepare. Quocirca distant a se similiter
hi sex motus, atque diversi sunt. SIMPLICITER AUTEM MOTUS QUIETI CONTRARIUS
EST; SINGULIS VERO MOTIBUS, GENERATIONI QUIDEM CORRUPTIO, DIMINUTIO VERO
CREMENTO, SECUNDUM LOCUM TRANSLATIONI SECUNDUM LOCUM QUIES. MAXIME AUTEM
VIDETUR OPPONI IN CONTRARIUM LOCUM PERMUTATIO, UT DE EO QUOD EST DEORSUM AD ID
QUOD EST SURSUM ET DE EO QUOD EST SURSUM AD ID QUOD EST DEORSUM. Nunc iam
motuum contrarietates exsequitur, et ipsi 291D quidem generi, id est motui,
dicit quietem esse contrariam, habet enim motus quietem contrariam. Singulis
vero speciebus motuum motus ipsi contrarii sunt, ut generationi corruptio, et
cum generatio sit motus atque corruptio, utraque tamen sibimet contraria sunt,
cremento quoque diminutio contraria est. Quare diverso modo hae species motus
contrarietstem habent, quam genus dudum babere monstravimus: motus enim ipse
habet quietem contrariam. Specierum vero motibus non quies tantum sed alii
motus contrarii sunt, ut generationi corruptio et cremento diminutio, secundum
vero locum translationis contrarietas similis est generi. Nam et ipsa habet
contrariam secundum locum quietem, contrarium namque est moveri de loco in
locum, et 292A non moveri, et est non moveri quidem secundum locum quies,
moveri vero secundum locum translation. Maxime autem, inquit, secundum locum
mutationi, contraria est in contrarium locum permutatio. Ut si qua res sursum
sit atque ibi maneat, et sit quieta, postea sit ei motus talis, ut deorsum
moveatur, quamquam ipsi superiori motui quies contraria sit, multo magis quidem
huiusmodi motus, qui in contrarium fit locum, illi superiori motui contrarius
est. Atque hoc quidem et in aliis motibus accidit: ut si quis sit ad dexteram,
si ei in sinistram motus sit, in contrarium locum factus dicitur motus. Atque
hoc idem id aliis motibus licet videre; sed Aristoteles dubitat si reliquo
motui, id est commutationi, aliquid possit esse contrarium, quam quaestionem
ita proponit: RELIQUO VERO DE HIS QUI ASSIGNATI SUNT MOTUI NON EST FACILE
ASSIGNARE QUID SIT CONTRARIUM, VIDETUR AUTEM NEQUE ESSE ALIQUID EI CONTRARIUM,
NISI QUIS OPPONAT SECUNDUM QUALITATEM QUIETEM SECUNDUM QUALITATEM TRANSLATIONI
QUAE IN CONTRARIUM, QUEMADMODUM ETIAM IN EA QUAE EST SECUNDUM LOCUM
TRANSLATIONE SECUNDUM LOCUM QUIETEM VEL IN CONTRARIUM LOCUM TRANSLATIONEM (EST
ENIM COMMUTATIO TRANSLATIO SECUNDUM QUALITATEM). Ex similitudine motuum
contrarietates quoque colligimus. Nam quoniam superius motui secundum locum
contrariam reperit secundum locum quietem, et quoniam omnis commutatio quae
secundum aliquam passionem fit secundum qualitatem commutatur, 292C motus eius
contrarietatem posuit secundum qualitatem quietem: ut si lapis cum frigidus
est, si ita permaneat, qualitas illa mansit et quievit, quod si tepeat,
qualitas illa commutat est, et est ipsa commutatio contraria, et factus est
quidem motus, et in tepore lapidis secundum qualitatem facta est permutatio,
fuit autem in frigore quies secundum eamdem qualitatem. Quocirca licet videatur
hic motus quidem omnino contrarium non habere, tamen, sicut superius dictum est
secundum locum translationi contrariam esse secundum locum quietem, cur non
quoque secundum qualitatem commutationi dicatur quies secundum qualitatem esse
contraria? Definitio namque commutationis est translatio secundum qualitatem,
cum enim qualitas cuiuslibet rei movetur, fit translatio, scilicet secundum
qualitatem. Quod si maxime videatur secundum locum translationi esse contraria,
non solum secundum locum quies sed etiam in contrarium locum translatio,
secundum qualitatem quoque mutationi non solum erit contraria secundum
qualitatem quies sed maxime in contrariam qualitatem commutatio: ut ei quid cum
est album, si rubrum fiat, quieti quidem ei quae in albo colore poterat
permanere contraria fuit qualitatis ipsa mutatio, ut ex albo in rubrum
mutaretur; si quid enim ex albo vertatur in nigrum, illud maxime permutatur, et
illud superiori mutationi contrarium est, quoniam permutatum est in contrariam
qualitatem. Atque hoc est quod ait: QUARE OPPONITUR EI SECUNDUM QUALITATEM
QUIES VEL IN CONTRARIUM QUALITATIS TRANSLATIO, UT ALBUM FIERI QUOD EST NIGRUM;
COMMUTATUR ENIM, IN CONTRARIUM QUALITATIS FACTA TRANSLATIONE. Id quoque
apertissimo uulgatur exemplo. Quare quoniam de motibus expeditum est, habendi
aequivocationem quae sequitur explicemus. DE MODIS HABERE HABERE SECUNDUM
PLURES MODOS DICITUR AUT ENIM UT HABITUM VEL AFFECTIONEM VEL ALIAM ALIQUAM
QUALITATEM (DICIMUR ENIM SCIENTIAM HABERE ET VIRTUTEM); AUT UT QUANTITATEM, UT
QUAM QUISQUE HABET MAGNITUDINEM (DICITUR ENIM BICUBITAM VEL TRICUBITAM HABERE
MAGNITUDINEM); AUT CIRCA CORPUS UESTITUM AUT TUNICAM; AUT IN PARTE (UT IN MANU
ANULUM); AUT PARTEM (UT MANUM VEL PEDEM); AUT IN UASE (UT MODIUS TRITICUM VEL
DOLIUM VINUM; VINUM ENIM DOLIUM HABERE DICITUR, ET MODIUS TRITICUM; HAEC IGITUR
HABERE DICUNTUR UT IN VASE); VEL UT POSSESSIONEM (HABERE ENIM DOMUM VEL AGRUM
DICIMUR). DICIMUR VERO ET HABERE UXOREM ET UXOR VIRUM; VIDETUR AUTEM
ALIENISSIMUS ESSE HABENDI MODUS QUI NUNC DICTUS EST; NIHIL ENIM ALIUD HABERE
UXOREM SIGNIFICAT QUAM COHABITARE. FORTASSE AUTEM ET ALII HABENDI MODI vidEBUNTUR;
QUI AUTEM SOLENT DICI PAENE OMNES SUNT ANNUMERATI. Aequivocum esse habendi
modum manifestum est, 293C habere enim ita multis dicitur modis, ut tamen
aequivoce praedicetur. Dicimur enim habere aliquam qualitatem, ut habitum vel
dispositionem. Dicimur quoque habere scientiam vel virtutem; quantitatem quoque
habere perhibemur, dicimur enim in mensura habere quinque vel quattuor pedes.
Necnon etiam in ipsis partibus corporis aliquid, et ipsas partes habere
praedicamur, dicimur enim et habere digitos, et in digito annulos. Circa corpus
quoque aliquid habere dicimur, ut tunicam, vel quodlibet aliud uestimentum.
Necnon etiam in uase haberi aliquid dicitur, ut triticum in modio, et vinum in
dolio; haec, scilicet, ita haberi dicuntur, ut in uase. Dicitur etiam quis
habere uxorem, quae, scilicet significatio nulli supradictae communis est sed
(ut ipsi Aristoteli videtur) longe diversa est haec significatio ab habendi
praedicamento; non enim proprie habemus uxores sed quod habere quis dicatur
uxorem, hoc significat habitare cum eo uxorem, habere enim habitare dicimus, ut
est Socratem habent, id est cum Socrate habitant atque eum colunt. Quare ipse
quoque Aristoteles inquit esse aliquos fortasse praeter eos qui dicantur
habendi modos, hortaturque nos ad ulteriorem aliquam inquisitionem, ut nos
quoque quaeramus per quos, praeter priores dictos modos, alios possit habere
praedicari. Et de hac aequivocatione quidem habendi sufficienter dictum est. Sed
forte quis dubitet cur cum habere superius in genere nominaverit, nunc id ipsum
aequivocum ponat sed haec quaestio ita solvitur. Non absurdum est idem
praedicamentum nunc univoce, nunc aequivoce praedicari. Univoce quidem ut
superius cum eiusdem specierum exempla proposuit, ut est calceatum esse vel
armatum, horum enim talium genus est. Aequivoce vero ut in his modis quos
superius exposuimus. Quod si et habet aliquas proprias species habendi
praedicatio, dicitur autem et ipsum nomen multipliciter, nihil est incongruum
in genere numerari, sufficit enim ad demonstrandum genus esse et habendi
praedicationem quod sub se aliquas partes speciesque contineat. EXPLICIT
FELICITER. Alexander in commentariis suis hac se impulsum causa
pronuntiat sumpsisse longissimum expositionis laborem, quod in multis ille a
priorum scriptorum sententiis dissideret: mihi maior persequendi operis causa
est quod non facile quisquam vel transferendi vel etiam commentandi continuam
sumpserit seriem – nisi quod Vetius Praetextatus priores ƿ postremosque
analyticos non vertendo Aristotelem Latino sermoni tradidit sed transferendo
Themistium, quod qui utrosque legit facile intellegit; Albinus quoque de isdem
rebus scripsisse perhibetur, cuius ego geometricos quidem libros editos scio,
de dialectica vero diu multumque quaesitos reperire non valui, sive igitur ille
omnino tacuit, nos praetermissa dicemus, sive aliquid scripsit, nos quoque
docti viri imitati studium in eadem laude versabimur. Sed quamquam multa sint
Aristotelis quae subtilissima philosophiae arte celata sint, hic tamen ante omnia
liber nimis et acumine sententiarum et verborum brevitate constrictus est.
Quocirca plus hic quam in decem praedicamentis expositione sudabitur. Prius
igitur quid vox sit definiendum est. Hoc enim perspicuo et manifesto omnis
libri patefiet intentio. Vox est aeris per linguam percussio quae per quasdam
gutturis partes, quae arteriae vocantur, ab animali profertur. Sunt enim quidam
alii soni, qui eodem perficiuntur flatu, quos lingua non percutit, ut est
tussis. Haec enim flatu fit quodam per arterias egrediente sed nulla linguae
impressione formatur atque ideo nec ullis subiacet elementis, scribi enim nullo
modo potest. Quocirca vox haec non dicitur sed tantum sonus. Illa quoque potest
esse definitio vocis, ut eam dicamus sonum esse cum quadam imaginatione significandi.
Vox namque cum emittitur, significationis alicuius causa profertur. Tussis vero
cum sonus sit, nullius significationis causa subrepit ƿ potius quam profertur. Quare
quoniam noster flatus ita sese habet ut si ita percutitur atque formatur ut eum
lingua percutiat, vox sit: si ita percutiat ut terminato quodam et
circumscripto sono vox exeat, locutio fit quae Graece dicitur *lexis*. Locutio
enim est articulata vox – neque enim hunc sermonem (id est *lexin*) dictionem
dicemus, idcirco quod *phasin* dictionem interpretamur, *lexin* vero locutionem
– cuius locutionis partes sunt litterae, quae cum iunctae fuerint unam
efficiunt vocem coniunctam compositamque, quae locutio praedicatur. Sive autem
aliquid quaecumque vox significet, ut est hic sermo 'homo'; sive omnino nihil;
sive positum alicui nomen significare possit, ut est 'blityri' (haec enim vox
per se cum nihil significet, posita tamen ut alicui nomen sit significabit);
sive per se quidem nihil significet, cum aliis vero iuncta designet, ut sunt coniunctiones
– haec omnia locutiones vocantur, ut sit propria locutionis forma vox composita
quae litteris describatur. Ut igitur sit locutio, voce opus est – id est eo
sono quem percutit lingua, ut et vox ipsa sit per linguam determinata in eum
sonum qui inscribi litteris possit. Sed ut haec locutio significativa sit,
illud quoque addi oportet, ut sit aliqua significandi imaginatio, per quam id
quod in voce vel in locutione est proferatur: ut certe ita dicendum sit: si in
hoc flatu, quem per arterias emittimus, sit linguae sola percussio, vox est;
sin vero talis percussio sit ut in litteras redigat sonum, locutio; quod si vis
quoque quaedam imaginationis addatur, ƿ illa significativa vox redditur. Concurrentibus
igitur his tribus: linguae percussione, articulato vocis sonitu, imaginatione
aliqua proferendi fit interpretatio. Interpretatio namque est vox articulata
per se ipsam significans. Quocirca non omnis vox interpretatio est. Sunt enim
caeterorum animalium voces, quae interpretationis vocabulo non tenentur. Nec
omnis locutio interpretatio est, idcirco quod (ut dictum est) sunt locutiones
quaedam quae significatione careant et cum per se quaedam non significent,
iunctae tamen cum aliis significant, ut coniunctiones. Interpretatio autem in
solis per se significativis et articulatis vocibus permanet. Quare convertitur,
ut quidquid sit interpretatio, illud significet, quidquid significat, interpretationis
vocabulo nuncupetur. Unde etiam ipse quoque Aristoteles in libris quos de
poetica scripsit locutionis partes esse syllabas vel etiam coniunctiones
tradidit, quarum syllabae in eo quod sunt syllabae nihil omnino significant,
coniunctiones vero consignificare quidem possunt, per se vero nihil designant.
Interpretationis vero partes hoc libro constituit nomen et verbum, quae
scilicet per se ipsa significant, nihilominus quoque orationem, quae et ipsa
cum vox sit ex significativis partibus iuncta significatione non caret. Quare
quoniam non de oratione sola sed etiam de verbo et nomine, nec vero de sola
locutione sed etiam de significativa locutione quae est interpretatio hoc libro
ab Aristotele tractatur, idcirco quoniam in ƿ verbis atque nominibus et in
significativis locutionibus nomen interpretationis aptatur, a communi nomine
eorum, de quibus hoc libro tractabitur, id est ab interpretatione, ipse quoque
"De interpretatione" liber inscriptus est. (Cuius expositionem nos
scilicet quam maxime a Porphyrio quamquam etiam a caeteris transferentes Latina
oratione digessimus; hic enim nobis expositor et intellectus acumine et
sententiarum dispositione videtur excellere.) Erunt ergo interpretationis duae
primae partes nomen et verbum. His enim quidquid est in animi intellectibus
designatur; his namque totus ordo orationis efficitur. Et in quantum vox ipsa
quidem intellectus significat, in duas (ut dictum est) secatur partes, nomen et
verbum, in quantum vero vox per intellectuum medietatem subiectas intellectui
res demonstrat, significantium vocum Aristoteles numerum in decem praedicamenta
partitus est. Atque hoc distat libri huius intentio a praedicamentorum in
denariam multitudinem numerositate collecta, ut hic quidem tantum de numero
significantium vocum quaeratur, quantum ad ipsas attinet voces, quibus
significativis vocibus intellectus animi designentur, quae sunt scilicet
simplicia quidem nomina et verba, ex his vero compositae orationes:
praedicamentorum vero haec intentio est: de significativis rerum vocibus in
tantum, quantum eas medius animi significet intellectus. Vocis enim quaedam
qualitas est nomen et verbum, quae nimirum ipsa illa decem praedicamenta
significant. Decem namque praedicamenta numquam sine aliqua verbi qualitate vel
nominis proferentur. Quare erit libri huius intentio de significativis vocibus
in tantum, quantum conceptiones ƿ animi intellectusque significent. De decem
praedicamentis autem libri intentio in eius commentario dicta est, quoniam sit
de significativis rerum vocibus, quot partibus distribui possit earum
significatio in tantum, quantum per sensuum atque intellectuum medietatem res
subiectas intellectibus voces ipsae valeant designare. In opere vero de poetica
non eodem modo dividit locutionem sed omnes omnino locutionis partes apposuit
confirmans esse locutionis partes elementa, syllabas, coniunctiones, articulos,
nomina, casus, verba, orationes. Locutio namque non in solis significativis
vocibus constat sed supergrediens significationes vocum ad articulatos sonos
usque consistit. Quaelibet enim syllaba vel quodlibet nomen vel quaelibet alia
vox, quae scribi litteris potest, locutionis nomine continetur, quae Graece
dicitur *lexis*. Sed non eodem modo interpretatio. Huic namque non est satis,
ut sit huiusmodi vox quae litteris valeat annotari sed ad hoc ut aliquid quoque
significet. Praedicamentorum vero in hoc ratio constituta est, in quo hae duae
partes interpretationis res intellectibus subiectas designent. Nam quoniam
decem res omnino in omni natura reperiuntur, decem quoque intellectus erunt,
quos intellectus quoniam verba nominaque significant, decem omnino erunt
praedicamenta, quae verbis atque nominibus designentur, duo vero quaedam id est
nomen et verbum, quae ipsos significent intellectus. Sunt igitur elementa
interpretationis verba et nomina, propriae vero partes quibus ipsa constat
interpretatio sunt orationes. Orationum vero aliae sunt perfectae, aliae
imperfectae. Perfectae sunt ex quibus plene id quod dicitur valet intellegi;
imperfectae in quibus aliquid adhuc plenius animus exspectat audire, ut est:
Socrates cum Platone nullo enim addito orationis intellectus pendet ac
titubat et auditor aliquid ultra exspectat audire. Perfectarum vero orationum
partes quinque sunt: deprecativa ut: Iuppiter omnipotens, precibus si flecteris
ullis, Da deinde auxilium, pater atque haec omina firma imperativa ut:
Vade age, nate, voca Zephyros et labere pennis interrogativa ut: Dic
mihi, Damoeta, cuium pecus? An Meliboei? vocativa: O pater, o hominum
rerumque aeterna potestas enuntiativa, in qua veritas vel falsitas
invenitur, ut: Principio arboribus varia est natura serendis. Huius autem
duae partes sunt. Est namque et simplex oratio enuntiativa et composita.
Simplex ut: ‘Dies est’, ‘Lucet’, conposita ut: ‘Si dies est, lux est.’ In hoc
igitur libro Aristoteles de enuntiativa simplici oratione disputat et de eius
elementis, nomine scilicet atque verbo. Quae quoniam et significativa sunt et
significativa vox articulata interpretationis nomine continetur, de communi (ut
dictum est) vocabulo librum de interpretatione appellavit. Et Theophrastus
quidem in eo libro, quem de affirmatione et negatione composuit, de enuntiativa
oratione tractavit. Et Stoici quoque in his libris, quos *Peri axiomaton*
appellant, de isdem ƿ nihilominus disputant. Sed illi quidem et de simplici et
de non simplici oratione enuntiativa speculantur, Aristoteles vero hoc libro
nihil nisi de sola simplici enuntiativa oratione considerat. Aspasius quoque et
Alexander sicut in aliis Aristotelis libris in hoc quoque commentarios
ediderunt sed uterque Aristotelem de oratione tractasse pronuntiat. Nam si
oratione aliquid proferre (ut aiunt ipsi) interpretari est, de interpretatione
liber nimirum veluti de oratione perscriptus est, quasi vero sola oratio ac non
verba quoque et nomina interpretationis vocabulo concludantur. Aeque namque et
oratio et verba ac nomina, quae sunt interpretationis elementa, nomine
interpretationis vocantur. Sed Alexander addidit imperfecte sese habere libri
titulum: neque enim designare, de qua oratione perscripserit. Multae namque (ut
dictum est) sunt orationes; sed adiciendum vel subintellegendum putat de oratione
illum scribere philosophica vel dialectica, id est qua verum falsumque valeat
expediri. Sed qui semel solam orationem interpretationis nomine vocari recipit,
in intellectu quoque ipsius inscriptionis erravit. Cur enim putaret imperfectum
esse titulum, quoniam nihil de qua oratione disputaret adiecerit? Ut si quis
interrogans "Quid est homo?" alio respondente "Animal"
culpet ac dicat imperfecte illum dixisse, quid sit, quoniam non sit omnes
differentias persecutus. Quod si huic, id est homini, sunt quaedam alia
communia ad nomen animalis, nihil tamen impedit perfecte demonstrasse, quid
homo esset, eum qui animal dixit: sive enim differentias addat quis sive non,
hominem animal esse necesse est. Eodem quoque modo et de oratione, si quis hoc
concedat primum, nihil aliud interpretationem dici nisi orationem, ƿ cur qui de
interpretatione inscripserit et de qua interpretatione dicat non addiderit
culpetur, non est. Satis est enim libri titulum etiam de aliqua continenti
communione fecisse, ut nos eum et de nominibus et verbis et de orationibus, cum
haec omnia uno interpretationis nomine continerentur, supra fecisse docuimus,
cum hic liber ab eo de interpretatione notatus est. Sed quod addidit illam
interpretationem solam dici, qua in oratione possit veritas et falsitas
inveniri, ut est enuntiativa oratio, fingentis est (ut ait Porphyrius)
significationem nominis potius quam docentis. Atque ille quidem et in
intentione libri et in titulo falsus est sed non eodem modo de iudicio quoque
libri huius erravit. Andronicus enim librum hunc Aristotelis esse non putat,
quem Alexander vere fortiterque redarguit. Quem cum exactum diligentemque
Aristotelis librorum et iudicem et repertorem iudicarit antiquitas, cur in
huius libri iudicio sit falsus, prorsus est magna admiratione dignissimum. Non
esse namque proprium Aristotelis hinc conatur ostendere, quoniam quaedam
Aristoteles in principio libri huius de intellectibus animi tractat, quos
intellectus animae passiones vocavit, et de his se plenius in libris de anima
disputasse commemorat. Et quoniam passiones animae vocabant vel tristitiam vel
gaudium vel cupiditatem vel alias huiusmodi affectiones, dicit Andronicus ex
hoc probari hunc librum Aristotelis non esse, quod de huiusmodi affectionibus
nihil in libris de anima tractavisset – non intellegens in hoc libro
Aristotelem passiones animae non pro affectibus sed pro intellectibus posuisse.
His Alexander multa alia addit argumenta, cur hoc opus Aristotelis maxime esse
videatur. Ea namque dicuntur hic, quae sententiis Aristotelis quae sunt de
enuntiatione ƿ consentiant; illud quoque, quod stilus ipse propter brevitatem
pressior ab Aristotelis obscuritate non discrepat; et quod Theophrastus, ut in
aliis solet, cum de similibus rebus tractat, quae scilicet ab Aristotele ante
tractata sunt, in libro quoque de affirmatione et negatione, isdem aliquibus
verbis utitur, quibus hoc libro Aristoteles usus est. Idem quoque Theophrastus
dat signum hunc esse Aristotelis librum: in omnibus enim, de quibus ipse
disputat post magistrum, leviter ea tangit quae ab Aristotele dicta ante
cognovit, alias vero diligentius res non ab Aristotele tractatas exsequitur.
Hic quoque idem fecit. Nam quae Aristoteles hoc libro de enuntiatione
tractavit, leviter ab illo transcursa sunt, quae vero magister eius tacuit,
ipse subtiliore modo considerationis adiecit. Addit quoque hanc causam, quoniam
Aristoteles quidem de syllogismis scribere animatus numquam id recte facere
potuisset, nisi quaedam de propositionibus annotaret. Mihi quoque videtur hoc
subtiliter perpendentibus liquere hunc librum ad Analyticos esse praeparatum.
Nam sicut hic de simplici propositione disputat, ita quoque in Analyticis de
simplicibus tantum considerat syllogismis, ut ipsa syllogismorum
propositionumque simplicitas non ad aliud, nisi ad continens opus Aristotelis
pertinere videatur. Quare non est audiendus Andronicus, qui propter passionum
nomen hunc librum ab Aristotelis operibus separat. Aristoteles autem idcirco
passiones animae 'intellectus' vocabat, quod intellectus, quos sermone dicere
et oratione proferre consuevimus, ex aliqua causa atque utilitate profecti
sunt: ut enim dispersi homines colligerentur et legibus vellent esse subiecti
civitatesque condere, utilitas quaedam fuit et causa. Quocirca ƿ quae ex aliqua
utilitate veniunt, ex passione quoque provenire necesse est. Nam ut divina sine
ulla sunt passione, ita nulla illis extrinsecus utilitas valet adiungi. Quae
vero sunt passibilia semper aliquam causam atque utilitatem quibus sustententur
inveniunt. Quocirca huiusmodi intellectus, qui ad alterum oratione proferendi
sunt, quoniam ex aliqua causa atque utilitate videntur esse collecti, recte passiones
animi nominati sunt. Et de intentione quidem et de libri inscriptione et de eo,
quod hic maxime Aristotelis liber esse putandus est, haec dicta sufficiunt. Quid
vero utilitatis habeat, non ignorabit qui sciet qua in oratione veritas constet
et falsitas. In sola enim haec enuntiativa oratione consistunt. Iam vero quae
dividant verum falsumque quaeue definite vel quae varie et mutabiliter
veritatem falsitatemque partiantur, quae iuncta dici possint, cum separata
valeant praedicari, quae separata dicantur, cum iuncta sint praedicata, quae
sint negationes cum modo propositionum, quae earum consequentiae aliaque plura
in ipso opere considerator poterit diligenter agnoscere, quorum magnam
experietur utilitatem qui animum curae alicuius investigationis adverterit. Sed
nunc ad ipsius Aristotelis verba veniamus. [BEGINNING OF SECTION THAT MIGNE
SUBTITLES ‘SIGNUM’ -- Primum oportet CONSTITUERE, QUID NOMEN ET QUID VERBUM,
POSTEA QUID EST NEGATIO ET AFFIRMATIO ET ENUNTIATIO ET ORATIO. Librum inchoans
de quibus in omni serie tractaturus sit ante proposuit. Ait enim prius oportere
de quibus disputaturus est definire. Hic enim CONSTITUERE "definire"
intellegendum est. Determinandum namque est quid haec omnia sint – id est QUID
NOMEN sit, QUID VERBUM et caetera, quae elementa interpretationis esse
praediximus. Sed AFFIRMATIO atque NEGATIO sub interpretatione sunt. Quare nomen
et verbum affirmationis et negationis elementa esse manifestum est. His enim
compositis affirmatio et negatio coniunguntur. Exsistit hic quaedam quaestio
cur duo tantum nomen et verbum se determinare promittat, cum plures partes
orationis esse videantur. Quibus hoc dicendum est tantum Aristotelem hoc libro
definisse, quantum illi ad id quod instituerat tractare suffecit. Tractat
namque de simplici enuntiativa oratione, quae scilicet huiusmodi est ut iunctis
tantum verbis et nominibus componatur. Si quis enim nomen iungat et verbum ut
dicat: Socrates ambulat simplicem fecit enuntiativam orationem.
Enuntiativa namque oratio est (ut supra memoravi) quae habet in se falsi
verique designationem. Sed in hoc quod dicimus "Socrates ambulat" aut
veritas necesse est contineatur aut falsitas. Hoc enim si ambulante Socrate
dicitur, verum est, si non ambulante, falsum. Perficitur ergo enuntiativa
oratio simplex ex solis verbis atque nominibus. Quare superfluum est quaerere
cur alias quoque quae videntur orationis partes non proposuerit, qui non totius
simpliciter orationis sed tantum simplicis enuntiationis instituit elementa
partiri. Quamquam duae propriae partes orationis esse dicendae sint, nomen
scilicet atque verbum. Haec enim per sese utraque significant, coniunctiones
autem vel praepositiones nihil omnino nisi cum aliis iunctae designant;
participia verbo cognata sunt, vel quod a gerundivo modo ƿ veniant vel quod
tempus propria significatione contineant; interiectiones vero atque pronomina
necnon adverbia in nominis loco ponenda sunt, idcirco quod aliquid significant
definitum, ubi nulla est vel passionis significatio vel actionis. Quod si
casibus horum quaedam flecti non possunt, nihil impedit. Sunt enim quaedam
nomina quae "monoptota" nominantur. Quod si quis ista longius et non
proxime petita esse arbitretur, illud tamen concedit, quod supra iam diximus,
non esse aequum calumniari ei, qui non de omni oratione sed de tantum simplici
enuntiatione proponat, quod tantum sibi ad definitionem sumpserit, quantum
arbitratus sit operi instituto sufficere. Quare dicendum est Aristotelem non
omnis orationis partes hoc opere velle definire sed tantum solius simplicis
enuntiativae orationis, quae sunt scilicet nomen et verbum. Argumentum autem
huius rei hoc est. Postquam enim proposuit dicens: PRIMUM OPORTET CONSTITUERE,
QUID SIT NOMEN ET QUID VERBUM, non statim inquit QUID SIT ORATIO sed mox
addidit ET QUID SIT NEGATIO, QUID AFFIRMATIO, QUID ENUNTIATIO, postremo vero
QUID ORATIO. Quod si de omni oratione loqueretur, post nomen et verbum non de
affirmatione et negatione et post hanc de enuntiatione sed mox de oratione
dixisset. Nunc vero quoniam post nominis et verbi propositionem affirmationem,
negationem et enuntiationem et post orationem proposuit, confitendum est, id
quod ante diximus, non orationis universalis sed simplicis enuntiativae
orationis, quae dividitur in affirmationem atque negationem, divisionem partium
facere voluisse, quae sunt nomina et verba. Haec enim per se ipsa intellectum
simplicem servant, ƿ quae eadem dictiones vocantur sed non sola dicuntur. Sunt
namque dictiones et aliae quoque: orationes vel imperfectae vel perfectae,
cuius plures esse partes supra iam docui, inter quas perfectae orationis
species est enuntiatio. Et haec quoque alia simplex, alia composita est. De
simplicis vero enuntiationis speciebus inter philosophos commentatoresque
certatur. Aiunt enim quidam affirmationem atque negationem enuntiationi ut
species supponi oportere, in quibus et Porphyrius est; quidam vero nulla
ratione consentiunt sed contendunt affirmationem et negationem aequivoca esse
et uno quidem enuntiationis vocabulo nuncupari, praedicari autem enuntiationem
ad utrasque ut nomen aequivocum, non ut genus univocum; quorum princeps
Alexander est. Quorum contentiones apponere non videtur inutile. Ac prius
quibus modis affirmationem atque negationem non esse species enuntiationis
Alexander pPomba dicendum est, post vero addam qua Porphyrius haec
argumentatione dissoluerit. Alexander namque idcirco dicit non esse species
enuntiationis affirmationem et negationem, quoniam affirmatio prior sit.
Priorem vero affirmationem idcirco conatur ostendere, quod omnis negatio
affirmationem tollat ac destruat. Quod si ita est, prior est affirmatio quae
subruatur quam negatio quae subruat. In quibus autem prius aliquid et posterius
est, illa sub eodem genere poni non possum, ut in eo titulo praedicamentorum
dictum est qui de his quae sunt simul inscribitur. Amplius: negatio omnis,
inquit, divisio est, affirmatio compositio atque coniunctio. Cum enim dico: Socrates
vivit vitam cum Socrate coniunxi; cum dico: Socrates non vivit
vitam a Socrate disiunxi. Divisio igitur quaedam negatio est, coniunctio
affirmatio. Compositi autem est coniunctique ƿ divisio. Prior est igitur
coniunctio, quod est affirmatio; posterior vero divisio, quod est negatio.
Illud quoque adicit, quod omnis per affirmationem facta enuntiatio simplicior
sit per negationem facta enuntiatione. Ex negatione enim particula negative si
sublata sit, affirmatio sola relinquitur. De eo enim quod est: Socrates non
vivit si non particula quae est adverbium auferatur, remanet Socrates
vivit. Simplicior igitur affirmatio est quam negatio. Prius vero sit necesse
est quod simplicius est. In quantitate etiam quod ad quantitatem minus est
prius est eo quod ad quantitatem plus est. Omnis vero oratio quantitas est. Sed
cum dico: Socrates ambulat minor oratio est quam cum dico: Socrates non
ambulat. Quare si secundum quantitatem affirmatio minor est, eam priorem quoque
esse necesse est. Illud quoque adiunxit affirmationem quendam esse habitum,
negationem vero privationem. Sed prior habitus privatione: affirmatio igitur
negatione prior est. Et ne singula persequi laborem, cum aliis quoque modis
demonstraret affirmationem negatione esse priorem, a communi eas genere separavit.
Nullas enim species arbitratur sub eodem genere esse posse, in quibus prius vel
posterius consideretur. Sed Porphyrius ait sese docuisse species enuntiationis
esse affirmationem et negationem in his commentariis quos in Theophrastum
edidit; hic vero Alexandri argumentationem tali ratione dissolvit. Ait enim non
oportere arbitrari, quaecumque quolibet modo priora essent aliis, ea sub eodem
genere poni non posse sed quaecumque secundum esse unum atque substantiam
priora vel posteriora sunt, ea sola sub eodem genere non ponuntur. Et recte
dicitur. Si enim omne quidquid ƿ prius est cum eo quod posterius est sub uno
genere esse non potest, nec primis substantiis et secundis commune genus
poterit esse substantia; quod qui dicit a recto ordine rationis exorbitat. Sed
quemadmodum quamquam sint primae et secundae substantiae, tamen utraque
aequaliter in subiecto non sunt et idcirco esse ipsorum ex eo pendet, quod in
subiecto non sunt, atque ideo sub uno substantiae genere collocantur: ita
quoque quamquam affirmationes negationibus in orationis prolatione priores
sint, tamen ad esse atque ad naturam propriam aequaliter enuntiatione
participant. Enuntiatio vero est in qua veritas et falsitas inveniri potest.
Qua in re et affirmatio et negatio aequales sunt. Aequaliter enim et affirmatio
et negatio veritate et falsitate participant. Quocirca quoniam id quod sunt
affirmatio et negatio aequaliter ab enuntiatione participant, a communi eas
enuntiationis genere dividi non oportet. Mihi quoque videtur quod Porphyrii sit
sequenda sententia, ut affirmatio et negatio communi enuntiationis generi
supponantur. Longa namque illa et multiplicia Alexandri argumenta soluta sunt,
cum demonstravit non modis omnibus ea quae priora sunt sub communi genere poni
non posse sed quae ad esse proprium atque substantiam priora sunt illa sola sub
communi genere constitui atque poni non posse. Syrianus vero, cui Philoxenus
cognomen est, hoc loco quaerit cur proponens prius de negatione, post de
affirmatione pronuntiaverit dicens: PRIMUM OPORTET CONSTITUERE, QUID NOMEN ET
QUID VERBUM, POSTEA QUID EST NEGATIO ET AFFIRMATIO. Et primum quidem nihil
proprium dixit quoniam in quibus et affirmatio ƿ potest et negatio provenire,
prius esse negatio, postea vero affirmatio potest, ut de Socrate sanus est.
Potest ei aptari talis affirmatio, ut de eo dicatur: Socrates sanus est
etiam huiusmodi potest aptari negatio, ut de eo dicatur: Socrates sanus non
est. Quoniam ergo in eum affirmatio et negatio poterit evenire prius evenit ut
sit negatio quam ut affirmatio. Ante enim quam natus esset: qui enim natus non
erat, nec esse poterat sanus. Huic illud adiecit: servare Aristotelem conversam
propositionis et exsecutionis distributionem. Hic enim prius post nomen et
verbum de negatione proposuit, post de affirmatione, dehinc de enuntiatione,
postremo vero de oratione sed proposita definiens prius orationem, post
enuntiationem, tertio affirmationem, ultimo vero loco negationem determinavit,
quam hic post propositionem verbi et nominis primam locaverat. Ut igitur ordo
servaretur conversus, idcirco negationem prius ait esse propositam. Qua in
expositione Alexandri quoque sententia non discedit. Illud quoque est additum,
quod non esset inutile, enuntiationem genus affirmationis et negationis accipi
oportere, quod quamquam (ut dictum est) ad prolationem prior esset affirmatio,
tamen ad ipsam enuntiationem id est veri falsique vim utrasque aequaliter sub
enuntiatione ab Aristotele constitui. Id etiam Aristotelem probare. Praemisit
enim primam negationem, secundam posuit affirmationem, quae res nihil habet
vitii, si ad ipsam enuntiationem affirmatio et negatio ponantur aequales. Quae
enim natura aequales sunt, nihil retinent contrarii indifferenter acceptae. Est
igitur ordo quo proposuit: primum totius orationis ƿ elementum, nomen scilicet
et verbum, post haec negationem et affirmationem, quae species enuntiationis
sunt. Quorum genus (id est enuntiationem) tertiam nominavit, quartam vero
orationem posuit, quae ipsius enuntiationis genus est. Et horum se omnium
definitiones daturum esse promisit, quas interim relinquens atque praeteriens
et in posteriorem tractatum differens illud nunc addit quae sint verba et nomina
aut quid ipsa significent. Quare antequam ad verba Aristotelis ipsa veniamus,
pauca communiter de nominibus atque verbis et de his quae significantur a
verbis ac nominibus disputemus. Sive enim quaelibet interrogatio sit atque
responsio, sive perpetua cuiuslibet orationis continuatio atque alterius
auditus et intellegentia, sive hic quidem doceat ille vero discat, tribus his
totus orandi ordo perficitur: rebus, intellectibus, vocibus. Res enim ab
intellectu concipitur, vox vero conceptiones animi intellectusque significat,
ipsi vero intellectus et concipiunt subiectas res et significantur a vocibus.
Cum igitur tria sint haec per quae omnis oratio collocutioque perficitur, res
quae subiectae sunt, intellectus qui res concipiant et rursus a vocibus
significentur, voces vero quae intellectus designent, quartum quoque quiddam
est, quo voces ipsae valeant designari, id autem sunt litterae. Scriptae namque
litterae ipsas significant voces. Quare quatuor ista sunt, ut litterae quidem
significent voces, voces vero intellectus, intellectus autem concipiant res,
quae scilicet habent quandam non confusam neque fortuitam consequentiam sed
terminata naturae suae ordinatione constant. Res enim semper comitantur eum qui
ab ipsis concipitur intellectum, ipsum vero intellectum vox sequitur sed voces
elementa id est ƿ litterae. Rebus enim ante propositis et in propria substantia
constitutis intellectus oriuntur. Rerum enim semper intellectus sunt, quibus
iterum constitutis mox significatio vocis exoritur. Praeter intellectum namque
vox penitus nihil designat. Sed quoniam voces sunt, idcirco litterae, quas
vocamus elementa, repertae sunt quibus vocum qualitas designetur. Ad
cognitionem vero conversim sese res habet. Namque apud quos eaedem sunt
litterae et qui eisdem elementis utuntur, eisdem quoque nominibus eos ac verbis
(id est vocibus) uti necesse est; et qui vocibus eisdem utuntur idem quoque
apud eos intellectus in animi conceptione versantur. Sed apud quos idem
intellectus sunt, easdem res eorum intellectibus subiectas esse manifestum est.
Sed hoc nulla ratione convertitur. Namque apud quos eaedem res sunt idemque
intellectus, non statim eaedem voces eaedemque sunt litterae. Nam cum Romanus,
Graecus ac barbarus simul videant equum, habent quoque de eo eundem intellectum
quod equus sit et apud eos eadem res subiecta est, idem a re ipsa concipitur
intellectus sed Graecus aliter equum vocat, alia quoque vox in equi
significatione Romana est et barbarus ab utroque in equi designatione
dissentit. Quocirca diversis quoque voces proprias elementis inscribunt. Recte
igitur dictum est apud quos eaedem res idemque intellectus sunt, non statim apud
eos vel easdem voces vel eadem elementa consistere. Praecedit autem res
intellectum, intellectus vero vocem, vox litteras – sed hoc converti non
potest. Neque enim si litterae sint, mox aliqua ex his significatio vocis
exsistit. Hominibus namque qui litteras ignorant nullum nomen quaelibet
elementa significant, quippe quae nesciunt. Nec si voces ƿ sint, mox
intellectus esse necesse est. Plures enim voces invenies quae nihil omnino
significent. Nec intellectui quoque subiecta res semper est. Sunt enim intellectus
sine re ulla subiecta, ut quos centauros vel chimaeras poetae finxerunt. Horum
enim sunt intellectus quibus subiecta nulla substantia est. Sed si quis ad
naturam redeat eamque consideret diligenter, agnoscet cum res est, eius quoque
esse intellectum quod si non apud homines, certe apud eum, qui propriae
divinitate substantiae in propria natura ipsius rei nihil ignorat. Et si est
intellectus, et vox est quod si vox fuerit, eius quoque sunt litterae, quae si
ignorantur, nihil ad ipsam vocis naturam. Neque enim, quasi causa quaedam vocum
est intellectus aut vox causa litterarum, ut cum eaedem sint apud aliquos
litterae, necesse sit eadem quoque esse nomina: ita quoque cum eaedem sint vel
res vel intellectus apud aliquos, mox necesse est intellectuum ipsorum vel
rerum eadem esse vocabula. Nam cum eadem sit et res et intellectus hominis,
apud diversos tamen homines huiusmodi substantia aliter et diverso nomine
nuncupatur. Quare voces quoque cum eaedem sint, possunt litterae esse diversae,
ut in hoc nomine quod est 'homo': cum unum sit nomen diversis litteris scribi
potest. Namque Latinis litteris scribi potest, potest etiam Graecis, potest
aliis nunc primum inventis litterarum figuris. Quare quoniam apud quos eaedem
res sunt, eosdem intellectus esse necesse est, apud quos idem intellectus sunt,
voces eaedem non sunt; et apud quos eaedem voces sunt, non necesse ƿ est eadem
elementa constitui – dicendum est res et intellectus, quoniam apud omnes idem
sunt, esse naturaliter constitutos, voces vero atque litteras, quoniam diversis
hominum positionibus permutantur non esse naturaliter sed positione. Concludendum
est igitur quoniam apud quos eadem sunt elementa, apud eos eaedem quoque voces
sunt et apud quos eaedem voces sunt, idem sunt intellectus; apud quos autem
idem sunt intellectus, apud eosdem res quoque eaedem subiectae sunt: rursus
apud quos eaedem res sunt, idem quoque sunt intellectus; apud quos idem
intellectus, non eaedem voces; nec apud quos eaedem voces sunt, eisdem semper
litteris verba ipsa vel nomina designantur. Sed nos in supra dictis sententiis
elemento atque littera promiscue usi sumus, quae autem sit horum distantia
paucis absolvam. Littera est inscriptio atque figura partis minimae vocis
articulatae, elementum vero sonus ipsius inscriptionis: ut cum scribo litteram
quae est 'a', formula ipsa quae atramento vel graphio scribitur littera
nominatur, ipse vero sonus quo ipsam litteram voce proferimus dicitur
elementum. Quocirca hoc cognito illud dicendum est, quod is qui docet vel qui
continua oratione loquitur vel qui interrogat, contrarie se habet his qui vel
discunt vel audiunt vel respondent in his tribus, voce scilicet, intellectu et
re (praetermittantur enim litterae propter eos qui earum sunt expertes). Nam
qui docet et qui dicit et qui interrogat a rebus ad intellectum profecti per
nomina et verba vim propriae actionis exercent atque officium (rebus enim
subiectis ab his capiunt intellectus et per nomina verbaque ƿ pronuntiant), qui
vero discit vel qui audit vel etiam qui respondet a nominibus ad intellectus
progressi ad res usque perveniunt. Accipiens enim is qui discit vel qui audit
vel qui respondet docentis vel dicentis vel interrogantis sermonem, quid
unusquisque illorum dicat intellegit et intellegens rerum quoque scientiam
capit et in ea consistit. Recte igitur dictum est in voce, intellectu atque re
contrarie sese habere eos qui docent, dicunt, interrogant atque eos qui discunt,
audiunt et respondent. Cum igitur haec sint quatuor – litterae, voces,
intellectus, res – proxime quidem et principaliter litterae verba nominaque
significant. Haec vero principaliter quidem intellectus, secundo vero loco res
quoque designant. Intellectus vero ipsi nihil aliud nisi rerum significativi
sunt. Antiquiores vero quorum est Plato, Aristoteles, Speusippus, Xenocrates hi
inter res et significationes intellectuum medios sensus ponunt in sensibilibus
rebus vel imaginationes quasdam, in quibus intellectus ipsius origo consistat.
Et nunc quidem quid de hac re Stoici dicant praetermittendum est. Hoc autem ex
his omnibus solum cognosci oportet, quod ea quae sunt in litteris eam
significent orationem quae in voce consistit et ea quae est vocis oratio quod
animi atque intellectus orationem designet quae tacita cogitatione conficitur,
et quod haec intellectus oratio subiectas principaliter res sibi concipiat ac
designet. Ex quibus quatuor duas quidem Aristoteles esse naturaliter dicit, res
et animi conceptiones, id est eam quae fit in intellectibus orationem, idcirco
quod apud omnes eaedem atque immutabiles sint; ƿ duas vero non naturaliter sed
positione constitui, quae sunt scilicet verba nomina et litterae, quas idcirco
naturaliter fixas esse non dicit, quod (ut supra demonstratum est) non eisdem
vocibus omnes aut isdem utantur elementis. Atque hoc est quod ait: SUNT ERGO EA
QUAE SUNT IN VOCE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE ET EA QUAE
SCRIBUNTUR EORUM QUAE SUNT IN VOCE. ET QUEMADMODUM NEC LITTERAE OMNIBUS EAEDEM,
SIC NEC VOCES EAEDEM. QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, EAEDEM OMNIBUS
PASSIONES ANIMAE ET QUORUM HAE SIMILITUDINES, RES ETIAM EAEDEM. DE HIS QUIDEM
DICTUM EST IN HIS QUAE SUNT DICTA DE ANIMA, ALTERIUS EST ENIM NEGOTII. Cum
igitur prius posuisset nomen et verbum et quaecumque secutus est postea se
definire promisisset, haec interim praetermittens de passionibus animae deque
earum notis, quae sunt scilicet voces, pauca praemittit. Sed cur hoc ita
interposuerit, plurimi commentatores causas reddere neglexerunt sed a tribus
quantum adhuc sciam ratio huius interpositionis explicita est. Quorum Hermini
quidem a rerum veritate longe disiuncta est. Ait enim idcirco Aristotelen de
notis animae passionum interposuisse sermonem, ut utilitatem propositi operis
inculcaret. Disputaturus enim de vocibus, quae sunt notae animae passionum,
recte de his quaedam ante praemisit. Nam cum suae nullus animae passiones
ignoret, notas quoque cum animae passionibus non nescire utilissimum est. Neque
enim illae cognosci possunt nisi per voces quae sunt ƿ earum scilicet notae. Alexander
vero aliam huiusmodi interpositionis reddidit causam. Quoniam, inquit, verba et
nomina interpretatione simplici continentur, oratio vero ex verbis nominibusque
coniuncta est et in ea iam veritas aut falsitas invenitur, sive autem quilibet
sermo sit simplex sive iam oratio coniuncta atque composita ex his quae
significant momentum sumunt (in illis enim prius est eorum ordo et continentia,
post redundat in voces): quocirca quoniam significantium momentum ex his quae
significantur oritur, idcirco prius nos de his quae voces ipsae significant
docere proponit. Sed Herminus hoc loco repudiandus est. Nihil enim tale quod ad
causam propositae sententiae pertineret explicuit. Alexander vero strictim
proxima intellegentia praeteruectus tetigit quidem causam, non tamen
principalem rationem Aristotelicae propositionis exsolvit. Sed Porphyrius ipsam
plenius causam originemque sermonis huius ante oculos collocavit, qui omnem
apud priscos philosophos de significationis vi contentionem litemque retexuit.
Ait namque dubie apud antiquorum philosophorum sententias constitisse quid
esset proprie quod vocibus significaretur. Putabant namque alii res vocibus
designari earumque vocabula esse ea quae sonarent in vocibus arbitrabantur.
Alii vero incorporeas quasdam naturas meditabantur, quarum essent significationes
quaecumque vocibus designarentur: Platonis aliquo modo species incorporeas
aemulati dicentis hoc ipsum homo et hoc ipsum equus non hanc cuiuslibet
subiectam substantiam sed illum ipsum hominem specialem et illum ipsum equum,
universaliter et incorporaliter cogitantes ƿ incorporales quasdam naturas
constituebant, quas ad significandum primas venire putabant et cum aliis item
rebus in significationibus posse coniungi, ut ex his aliqua enuntiatio vel
oratio conficeretur. Alii vero sensus, alii imaginationes significari vocibus
arbitrabantur. Cum igitur ista esset contentio apud superiores et haec usque ad
Aristotelis pervenisset aetatem, necesse fuit qui nomen et verbum significativa
esset definiturus praediceret quorum ista designativa sint. Aristoteles enim
nominibus et verbis res subiectas significari non putat, nec vero sensus vel
etiam imaginationes. Sensuum quidem non esse significativas voces nomina et
verba in opere de iustitia sic declarat dicens: *phusei gar euthus dieretai ta
te noemata kai ta aisthemata* quod interpretari Latine potest hoc modo:
Natura enim divisa sunt intellectus et sensus. Differre igitur aliquid
arbitratur sensum atque intellectum. Sed qui passiones animae a vocibus
significari dicit, is non de sensibus loquitur. Sensus enim corporis passiones
sunt. Si igitur ita dixisset passiones corporis a vocibus significari, tunc
merito sensus intellegeremus. Sed quoniam passiones animae nomina et verba
significare proposuit, non sensus sed intellectus eum dicere putandum est. Sed
quoniam imaginatio quoque res animae est, dubitaverit aliquis ne forte
passiones animae imaginationes, ƿ quas Graeci *phantasias* nominant, dicat. Sed
haec in libris De anima verissime diligentissimeque separavit, dicens:*estin de
phantasia heteron phaseos kai apophaseos; symploke gar noematon estin to
alethes kai to pseudos. ta de prota noemata ti dioisei tou me phantasmata
einai; e houde tauta phantasmata, all' ouk aneu phantasmaton.* quod sic
interpretamur: Est autem imaginatio diversa affirmatione et negatione;
complexio namque intellectuum est veritas et falsitas. Primi vero intellectus
quid discrepabunt, ut non sint imaginationes? An certe neque haec sunt
imaginationes sed sine imaginationibus non sunt. Quae sententia demonstrat
aliud quidem esse imaginationes, aliud intellectus; ex intellectuum quidem
complexione affirmationes fieri et negationes: quocirca illud quoque dubitavit,
utrum primi intellectus imaginationes quaedam essent. Primos autem intellectus
dicimus qui simplicem rem concipiunt, ut si qui dicat "Socrates"
solum dubitatque utrum huiusmodi intellectus, qui in se nihil neque veri
continet neque falsi, intellectus sit an ipsius Socratis imaginatio. Sed de hoc
quoque aperte quid videretur ostendit. Ait enim an certe neque haec sunt
imaginationes sed non sine imaginationibus sunt – id est quod hic sermo
significat qui est "Socrates" vel alius simplex non est quidem
imaginatio sed intellectus, qui intellectus praeter imaginationem fieri non
potest. Sensus enim atque imaginatio ƿ quaedam primae figurae sunt, supra quas
velut fundamento quodam superveniens intellegentia nitatur. Nam sicut pictores
solent designare lineatim corpus atque substernere ubi coloribus cuiuslibet
exprimant uultum, sic sensus atque imaginatio naturaliter in animae perceptione
substernitur. Nam cum res aliqua sub sensum vel sub cogitationem cadit, prius
eius quaedam necesse est imaginatio nascatur, post vero plenior superveniat
intellectus cunctas eius explicans partes quae confuse fuerant imaginatione
praesumptae. Quocirca imperfectum quiddam est imaginatio, nomina vero et verba
non curta quaedam sed perfecta significant. Quare recta Aristotelis sententia
est: quaecumque in verbis nominibusque versantur, ea neque sensus neque
imaginationes sed solam significare intellectuum qualitatem. Unde illud quoque
ab Aristotele fluentes Peripatetici rectissime posuerunt tres esse orationes,
unam quae scribi possit elementis, alteram quae voce proferri, tertiam quae
cogitatione conecti unamque intellectibus, alteram voce, tertiam litteris
contineri. Quocirca quoniam id quod significaretur a vocibus intellectus esse
Aristoteles putabat, nomina vero et verba significativa esse in eorum erat
definitionibus positurus, recte quorum essent significativa praedixit
erroremque lectoris ex multiplici ueterum lite venientem sententiae suae
manifestatione compescuit. Atque hoc modo nihil in eo deprehenditur esse
superfluum, nihil ab ordinis continuatione seiunctum. Quaerit vero Porphyrius,
cur ita dixerit: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE, et non sic: sunt ƿ igitur
voces; et rursus cur ita et ea quae scribuntur et non dixerit: et litterae. Quod
resolvit hoc modo. Dictum est tres esse apud Peripateticos orationes, unam quae
litteris scriberetur, aliam quae proferretur in voce, tertiam quae
coninugeretur in animo. Quod si tres orationes sunt, partes quoque orationis
esse triplices nulla dubitatio est. Quare quoniam verbum et nomen principaliter
orationis partes sunt, erunt alia verba et nomina quae scribantur, alia quae
dicantur, alia quae tacita mente tractentur. Ergo quoniam proposuit dicens:
PRIMUM OPORTET CONSTITUERE QUID NOMEN ET QUID VERBUM, triplex autem nominum
natura est atque verborum, de quibus potissimum proposuerit et quae definire
velit ostendit. Et quoniam de his nominibus loquitur ac verbis, quae voce
proferuntur, idem ipsum planius explicans ait: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE
EARUM QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE ET EA QUAE SCRIBUNTUR EORUM QUAE SUNT
IN VOCE, velut si diceret: ea verba et nomina quae in vocali oratione
proferuntur animae passiones denuntiant, illa autem rursus verba et nomina quae
scribuntur eorum verborum nominumque significantiae praesunt quae voce
proferuntur. Nam sicut vocalis orationis verba et nomina conceptiones animi
intellectusque significant, ita quoque verba et nomina illa quae in solis
litterarum formulis iacent illorum verborum et nominum significativa sunt quae
loquimur, id est quae per vocem sonamus nam quod ait: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN
VOCE; subaudiendum est verba et nomina. Et rursus cum dicit: ET EA QUAE
SCRIBUNTUR, idem subuectendum rursus est verba scilicet vel nomina. Et quod
rursus ƿ adiecit: eorum quae sunt in voce, addendum eorum nomimum atque
verborum quae profert atque explicat vocalis oratio. Quod si nihil deesset
omnino, ita foret totius plenitudo sententiae: sunt ergo ea verba et nomina
quae sunt in voce earum quae sunt in anima passionum notae et ea verba et
nomina quae scribuntur eorum verborum et nominum quae sunt in voce. Quod
communiter intellegendum est, licet ea quae subiunximus deesse videantur. Quare
non est disiuncta sententia sed primae propositioni continua. Nam cum quid sit
verbum, quid nomen definire constituit, cum nominis et verbi natura sit
multiplex, de quo verbo et nomine tractare vellet clara significatione
distinxit. Incipiens igitur ab his nominibus ac verbis quae in voce sunt,
quorum essent significativa disseruit. Ait enim haec passiones animae
designare. Illud quoque adiecit quibus ipsa verba et nomina quae in voce sunt
designentur, his scilicet quae litterarum formulis exprimuntur. Sed quoniam non
omnis vox significativa est, verba vero vel nomina numquam significationibus
uacant quoniamque non omnis vox quae significat quaedam positione designat sed
quaedam naturaliter, ut lacrimae, gemitus atque maeror (animalium quoque caeterorum
quaedam voces naturaliter aliquid ostentant, ut ex canum latratibus iracundia
eorumque alia quadam voce blandimenta monstrantur), verba autem et nomina
positione significant neque solum sunt verba et nomina voces sed voces
significativae nec solum significativae sed etiam quae positione designent
aliquid, non natura: non dixit: sunt igitur voces earum quae sunt in anima
passionum notae. Namque neque omnis vox significativa ƿ est et sunt quaedam
significativae quae naturaliter non positione significent. Quod si ita
dixisset, nihil ad proprietatem verborum et nominum pertineret. Quocirca noluit
communiter dicere voces sed dixit tantum ea quae sunt in voce. Vox enim
universale quiddam est, nomina vero et verba partes. Pars autem omnis in toto
est. Verba ergo et nomina quoniam sunt intra vocem, recte dictum est ea quae
sunt in voce, velut si diceret: quae intra vocem continentur intellectuum
designativa sunt. Sed hoc simile est ac si ita dixisset: vox certo modo sese
habens significat intellectus. Non enim (ut dictum est) nomen et verbum voces
tantum sunt. Sicut nummus quoque non solum aes impressum quadam figura est, ut
nummus vocetur sed etiam ut alicuius rei sit pretium: eodem quoque modo verba
et nomina non solum voces sunt sed positae ad quandam intellectuum
significationem. Vox enim quae nihil designat, ut est garalus, licet eam
grammatici figuram vocis intuentes nomen esse contendant, tamen eam nomen
philosophia non putabit, nisi sit posita ut designare animi aliquam
conceptionem eoque modo rerum aliquid possit. Etenim nomen alicuius nomen esse
necesse erit; sed si vox aliqua nihil designat, nullius nomen est; quare si
nullius est, ne nomen quidem esse dicetur. Atque ideo huiusmodi vox id est
significativa non vox tantum sed verbum vocatur aut nomen, quemadmodum nummus
non aes sed proprio nomine nummus, quo ab alio aere discrepet, nuncupatur. Ergo
haec Aristotelis sententia qua ait ea quae sunt in voce nihil aliud designat
nisi eam vocem, quae non solum vox sit sed quae cum vox sit habeat tamen aliquam
proprietatem et ƿ aliquam quodammodo figuram positae signicationis impressam.
Horum vero id est verborum et nominum quae sunt in voce aliquo modo se habente
ea sunt scilicet significativa quae scribuntur, ut hoc quod dictum est quae
scribuntur de verbis ac nominibus dictum quae sunt in litteris intellegatur.
Potest vero haec quoque esse ratio cur dixerit et quae scribuntur: quoniam
litteras et inscriptas figuras et voces, quae isdem significantur formulis,
nuncupamus (ut a et ipse sonus litterae nomen capit et illa quae in subiecto
cerae vocem significans forma describitur), designare volens, quibus verbis
atque nominibus ea quae in voce sunt apparerent, non dixit litteras, quod ad
sonos etiam referri potuit litterarum sed ait quae scribuntur, ut ostenderet de
his litteris dicere quae in scriptione consisterent id est quarum figura vel in
cera stilo vel in membrana calamo posset effingi. Alioquin illa iam quae in
sonis sunt ad ea nomina referuntur quae in voce sunt, quoniam sonis illis
nomina et verba iunguntur. Sed Porphyrius de utraque expositione iudicavit
dicens: id quod ait ET QUAE SCRIBUNTUR non potius ad litteras sed ad verba et
nomina quae posita sunt in litterarum inscriptione referendum. Restat igitur ut
illud quoque addamus, cur non ita dixerit: sunt ergo ea quae sunt in voces
intellectuum notae sed ita earum quae sunt in anima passionum notae. Nam cum ea
quae sunt in voce res intellectusque significent, principaliter quidem
intellectus, res vero quas ipsa intellegentia comprehendit secundaria significatione
per intellectuum medietatem, intellectus ipsi non sine quibusdam passionibus
sunt, quae in animam ex subiectis veniunt rebus. Passus enim quilibet eius rei
proprietatem, ƿ quam intellectu complectitur, ad eius enuntiationem
designationemque contendit. Cum enim quis aliquam rem intellegit, prius
imaginatione formam necesse est intellectae rei proprietatemque suscipiat et
fiat vel passio vel cum passione quadam intellectus perceptio. Hac vero posita
atque in mentis sedibus collocata fit indicandae ad alterum passionis voluntas,
cui actus quidam continuandae intellegentiae protinus ex intimae rationis
potestate supervenit, quem scilicet explicat et effundit oratio nitens ea quae
primitus in mente fundata est passione, sive, quod est verius, significatione
progressa oratione progrediente simul et significantis se orationis motibus
adaequante. Fit vero haec passio velut figurae alicuius impressio sed ita ut in
animo fieri consuevit. Aliter namque naturaliter inest in re qualibet propria
figura, aliter vero eius ad animum forma transfertur, velut non eodem modo
cerae vel marmori vel chartis litterae id est vocum signa mandantur. Et
imaginationem Stoici a rebus in animam translatam loquuntur sed cum adiectione
semper dicentes ut in anima. Quocirca cum omnis animae passio rei quaedam
videatur esse proprietas, porro autem designativae voces intellectuum
principaliter, rerum dehinc a quibus intellectus profecti sunt significatione
nitantur, quidquid est in vocibus significativum, id animae passiones designat.
Sed hae passiones animarum ex rerum similitudine procreantur. Videns ƿ namque
aliquis sphaeram vel quadratum vel quamlibet aliam rerum figuram eam in animi
intellegentia quadam vi ac similitudine capit. Nam qui sphaeram viderit, eius
similitudinem in animo perpendit et cogitat atque eius in animo quandam passus
imaginem id cuius imaginem patitur agnoscit. Omnis vero imago rei cuius imago
est similitudinem tenet: mens igitur cum intellegit, rerum similitudinem
comprehendit. Unde fit ut, cum duorum corporum maius unum, minus alterum
contuemur, a sensu postea remotis corporibus illa ipsa corpora cogitantes illud
quoque memoria servante noverimus sciamusque quod minus, quod vero maius corpus
fuisse conspeximus, quod nullatenus eveniret, nisi quas semel mens passa est
rerum similitudines optineret. Quare quoniam passiones animae quas intellectus
vocavit rerum quaedam similitudines sunt, idcirco Aristoteles, cum paulo post
de passionibus animae loqueretur, continenti ordine ad similitudines transitum
fecit, quoniam nihil differt utrum passiones diceret an similitudines. Eadem
namque res in anima quidem passio est, rei vero similitudo. Et Alexander hunc
locum: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE
ET EA QUAE SCRIBUNTUR EORUM QUAE SUNT IN VOCE. ET QUEMADMODUM NEC LITTERAE
OMNIBUS EAEDEM, SIC NEC VOCES EAEDEM hoc modo conatur exponere: proposuit,
inquit, ea quae sunt in voce intellectus animi designare et hoc alio probat
exemplo. Eodem modo enim ea quae sunt in voce passiones animae significant,
quemadmodum ea quae scribuntur voces designant, ut id quod ait et ea quae ƿ
scribuntur ita intellegamus, tamquam si diceret: quemadmodum etiam ea quae
scribuntur eorum quae sunt in voce. Ea vero quae scribuntur, inquit Alexander,
notas esse vocum id est nominum ac verborum ex hoc monstravit quod diceret et
quemadmodum nec litterae omnibus eaedem, sic nec voces eaedem. Signum namque
est vocum ipsarum significationem litteris contineri, quod ubi variae sunt
litterae et non eadem quae scribuntur varias quoque voces esse necesse est. Haec
Alexander. Porphyrius vero quoniam tres proposuit orationes, unam quae litteris
contineretur, secundam quae verbis ac nominibus personaret, tertiam quam mentis
euolueret intellectus, id Aristotelem significare pronuntiat, cum dicit: SUNT
ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE, quod
ostenderet si ita dixisset: sunt ergo ea quae sunt in voce et verba et nomina
animae passionum notae. Et quoniam monstravit quorum essent voces
significativae, illud quoque docuisse quibus signis verba vel nomina
panderentur ideoque addidisse et ea quae scribuntur eorum quae sunt in voce,
tamquam si diceret: ea quae scribuntur verba et nomina eorum quae sunt in voce
verborum et nominum notae sunt. Nec disiunctam esse sententiam nec (ut
Alexander putat) id quod ait: ET EA QUAE SCRIBUNTUR ita intellegendum, tamquam
si diceret: sicut ea quae scribuntur id est litterae illa quae sunt in voce
significant, ita ea quae sunt in voce notas esse animae passionum. Primo quod ad
simplicem sensum nihil addi oportet, deinde tam brevis ordo tamque necessaria
orationis non est intercidenda partitio, tertium vero quoniam, si similis
significatio est litterarum vocumque, ƿ quae est vocum et animae passionum,
oportet sicut voces diversis litteris permutantur, ita quoque passiones animae
diversis vocibus permutari, quod non fit. Idem namque intellectus variatis
potest vocibus significari. Sed Alexander id quod eum superius sensisse
memoravi hoc probare nititur argumento. Ait enim etiam in hoc quoque similem
esse significationem litterarum ac vocum, quoniam sicut litterae non
naturaliter voces sed positione significant, ita quoque voces non naturaliter
intellectus animi sed aliqua positione designant. Sed qui prius recepit, ut id
quod Aristoteles ait: ET EA QUAE SCRIBUNTUR ita dictum esset, tamquam si
diceret: sicut ea quae scribuntur, quidquid ad hanc sententiam videtur
adiungere, aequaliter non dubitatur errare. Quocirca nostro indicio qui rectius
tenere volent Porphyrii se sententiis applicabunt. Aspasius quoque secundae
sententiae Alexandri, quam supra posuimus, valde consentit, qui a nobis in
eodem quo Alexander errore culpabitur. Aristoteles vero duobus modis esse has
notas putat litterarum, vocum passionumque animae constitutas: uno quidem
positione, alio vero naturaliter. Atque hoc est quod ait: et quemadmodum nec
litterae omnibus eaedem, sic nec voces eaedem. Nam si litterae voces, ipsae
vero voces intellectus animi naturaliter designarent, omnes homines isdem
litteris, isdem etiam vocibus uterentur. Quod quoniam apud omnes neque eaedem
litterae neque eacdem voces sunt, constat eas non esse naturales.Sed hic duplex
lectio est. Alexander enim hoc modo legi putat oportere: QUORUM AUTEM HAEC
PRIMORUM NOTAE, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES ANIMAE ET QUORUM EAEDEM SIMILITUDINES,
RES ETIAM EAEDEM. Volens enim Aristoteles ea quae positione significant ab his
quae aliquid designant naturaliter segregare hoc interposuit: ea quae positione
significant varia esse, ea vero quae naturaliter apud omnes eadem. Et inchoans
quidem a vocibus ad litteras venit easque primo non esse naturaliter
significativas demonstrat dicens: ET QUEMADMODUM NEC LITTERAE OMNIBUS EAEDEM,
SIC NEC VOCES EAEDEM. Nam si idcirco probantur litterae non esse naturaliter
significantes, quod apud alios aliae sint ac diversae, eodem quoque modo
probabile erit voces quoque non naturaliter significare, quoniam singulae
hominum gentes non eisdem inter se vocibus colloquantur. Volens vero
similitudinem intellectuum rerumque subiectarum docere naturaliter constitutam
ait: QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES ANIMAE. Quorum,
inquit, voces quae apud diversas gentes ipsae quoque diversae sunt
significationem retinent, quae scilicet sunt animae passiones, illae apud omnes
eaedem sunt. Neque enim fieri potest, ut quod apud Romanos homo intellegitur
lapis apud barbaros intellegatur. Eodem quoque modo de caeteris rebus. Ergo
huiusmodi sententia est, qua dicit ea quae voces significent apud omnes hominum
gentes non mutari, ut ipsae quidem voces, sicut supra monstravit cum dixit
QUEMADMODUM NEC LITTERAE OMNIBUS EAEDEM, SIC NEC VOCES EAEDEM, apud plures
diversae sint, illud vero quod voses ipsae significant apud omnes homines idem
sit nec ulla ratione ƿ valeat permutari, qui sunt scilicet intellectus rerum,
qui quoniam naturaliter sunt permutari non possunt. Atque hoc est quod ait:
QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, id est voces, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES
ANIMAE, ut demonstraret voces quidem esse diversas, QUORUM autem ipsae voces
significativae essent, quae sunt scilicet animae passiones, EASDEM APUD OMNES
esse nec ulla ratione, quoniam sunt constitutae naturaliter, permutari. Nec
vero in hoc constitit, ut de solis vocibus atque intellectibus loqueretur sed
quoniam voces atque litteras non esse naturaliter constitutas per id
significavit, quod eas non apud omnes easdem esse proposuit, rursus intellectus
quos animae passiones vocat per hoc esse naturales ostendit, quod apud omnes
idem sint, a quibus id est intellectibus ad res transitum fecit. Ait enim
QUORUM HAE SIMILITUDINES, res etiam eaedem hoc scilicet sentiens, quod res
quoque naturaliter apud omnes homines essent eaedem: sicut ipsae animae
passiones quae ex rebus sumuntur APUD OMNES homines EAEDEM sunt, ita quoque
etiam ipsae res quarum similitudines sunt animae passiones eaedem apud omnes
sunt. Quocirca quoque naturales sunt, sicut sunt etiam rerum similitudines,
quae sunt animae passiones. Herminus vero huic est expositioni contrarius.
Dicit enim non esse verum eosdem apud omnes homines esse intellectus, quorum
voces significativae sint. Quid enim, inquit, in aequivocatione dicetur, ubi
unus idemque vocis modus plura significat? Sed magis hanc lectionem veram
putat, ut ita sit: QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, HAE OMNIBUS PASSIONES
ANIMAE ET QUORUM HAE SIMILITUDINES, RES ETIAM HAE: ut demonstratio videatur ƿ
quorum voces significativae sint vel quorum passiones animae similitudines. Et
hoc simpliciter accipiendum est secundum Herminum, ut ita dicamus quorum voces
significativae sunt, illae sunt animae passmnes, tamquam diceret: animae
passiones sunt, quas significant voces, et rursus quorum sunt similitudines ea
quae intellectibus continentur, illae sunt res, tamquam si dixisset: res sunt
quas significant intellectus. Sed Porphyrius de utrisque acute subtiliterque
iudicat et Alexandri magis sententiam probat, hoc quod dicat non debere
dissimulari de multiplici aequivocationis significatione. Nam et qui dicit ad
unam quamlibet rem commodat animum, scilicet quam intellegens voce declarat, et
unum rursus intellectum quemlibet is qui audit exspectat. Quod si, cum uterque
ex uno nomine res diversas intellegunt, ille qui nomen aequivocum dixit
designet clarius, quid illo nomine significare voluerit, accipit mox qui audit
et ad uuum intellectum utrique conveniunt, qui rursus fit unus apud eosdem
illos apud quos primo diversae fuerant animae passiones propter aequivocationem
nominis. Neque enim fieri potest, ut qui voces positione significantes a natura
eo distinxerit quod easdem apud omnes esse non diceret, eas res quas esse
naturaliter proponebat non eo tales esse monstraret, quod apud omnes easdem
esse contenderet. Quocirca Alexander vel propria sententia vel Porphyrii
auctoritate probandus est. Sed quoniam ita dixit Aristoteles QUORUM AUTEM HAEC
PRIMORUM NOTAE, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES ANIMAE sunt, quaerit Alexander: ƿ si
rerum nomina sunt, quid causae est ut primorum intellectuum notas esse voces
diceret Aristoteles? Rei enim ponitur nomen, ut cum dicimus homo significamus
quidem intellectum, rei tamen nomen est id est animalis rationalis mortalis.
Cur ergo non primarum magis rerum notae sint voces quibus ponuntur potius quam
intellectuum? Sed fortasse quidem ob hoc dictum est, inquit, quod licet voces
rerum nomina sint, tamen non idcirco utimur vocibus, ut res significemus sed ut
eas quae ex rebus nobis innatae sunt animae passiones. Quocirca propter quorum
significantiam voces ipsae proferuntur, recte eorum primorum esse dixit notas. In
hoc vero Aspasius permolestus est. Ait enim: qui fieri potest, ut eaedem apud
omnes passiones animae sint, cum tam diversa sententia de iusto ac bono sit?
Arbitratur Aristotelem passiones animae non de rebus incorporalibus sed de his
tantum quae sensibus capi possunt passiones animae dixisse. Quod perfalsum est.
Neque enim intellexisse dicetur, qui fallitur, et fortasse quidem passionem
animi habuisse dicetur, quicumque id quod est bonum non eodem modo quo est sed
aliter arbitratur, intellexisse vero non dicitur. Aristoteles autem cum de
similitudine loquitur, de intellectu pronuntiat. Neque enim fieri potest, ut
qui quod bonum est malum esse arbitratur boni similitudinem mente conceperit.
Neque enim intellexit rem subiectam. Sed quae sunt iusta ac bona ad positionem
omnia nuturamue referuntur. Et si de iusto ac bono ita loquitur, ut de eo quod
civile ius aut civilis iniuria ƿ dicitur, recte non eaedem sunt passiones
animae quoniam civile ius et civile bonum positione est, non natura. Naturale
vero bonum atque iustum apud omnes gentes idem est. Et de deo quoque idem:
cuius quamuis diversa cultura sit, idem tamen cuiusdam eminentissimae naturae
est intellectus. Quare repetendum breviter a principio est. partibus enim ad
orationem usque pervenit: nam quod se prius quid esset verbum, quid nomen
constituere dixit, hae minimae orationis partes sunt; quod vero affirmationem
et negationem, iam de composita ex verbis et nominibus oratione loquitur, quae
eaedem rursus partes sunt enuntiationis. Et post enuntiationis propositionem de
oratione loqui proposuit, cuius ipsa quoque enuntiatio pars est. Et quoniam (ut
dictum est) triplex est oratio, quae in litteris, quae in voce, quae in
intellectibus est, qui verbum et nomen definiturus esset eaque significativa
positurus, dicit prius quorum significativa sint ipsa verba et nomina et
inchoat quidem ab his nominibus et verbis quae sunt in voce dicens: SUNT ERGO
EA QUAE SUNT IN VOCE et demonstrat quorum sint significativa adiciens EARUM
QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE. Rursus nominum ipsorum verborumque quae in
voce sunt ea verba et nomina quae essent in litteris constituta significativa
esse declarat dicens ET EA QUAE SCRIBUNTUR EORUM QUAE SUNT IN VOCE. Et quoniam
quatuor ista quaedam sunt: litterae, voces, intellectus, res, quorum litterae
et voces positione sunt, natura vero res atque intellectus, demonstravit voces
non esse naturaliter sed positione per hoc quod ait non easdem esse apud omnes
sed varias, ut est ET QUEMADMODUM NEC ƿ LITTERAE OMNIBUS EAEDEM, SIC NEC VOCES
EAEDEM. Ut vero demonstraret intellectus et res esse naturaliter, ait apud
omnes eosdem esse intellectus, quorum essent voces significativae, et rursus
apud omnes easdem esse res, quarum similitudines essent animae passiones, ut
est QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, SCILICET QUAE SUNT IN VOCE, EAEDEM
OMNIBUS PASSIONES ANIMAE ET QUORUM HAE SIMILITUDINES, RES ETIAM EAEDEM.
Passiones autem animae dixit, quoniam alias diligenter ostensum est omnem vocem
animalis aut ex passione animae aut propter passionem proferri. Similitudinem
vero passionem animae vocavit, quod secundum Aristotelem nihil aliud
intellegere nisi cuiuslibet subiectae rei proprietatem atque imaginationem in
animae ipsms reputatione suscipere, de quibus animae passionibus in libris se
de anima commemorat diligentius disputasse. Sed quoniam demonstratum est,
quoniam et verba et nomina et oratio intellectuum principaliter significativa
sunt, quidquid est in voce significationis ab intellectibus venit. Quare prius
paululum de intellectibus perspiciendum ei qui recte aliquid de vocibus
disputabit. Ergo quod supra passiones animae et similitudines vocavit, idem
nunc apertius intellectum vocat dicens: EST AUTEM, QUEMADMODUM IN ANIMA
ALIQUOTIENS QUIDEM INTELLECTUS SINE VERO VEL FALSO, ALIQUOTIENS AUTEM CUI IAM
NECESSE EST HORUM ALTERUM INESSE, SIC ETIAM IN VOCE; CIRCA COMPOSITIONEM ENIM
ET DIVISIONEM EST FALSITAS VERITASQUE NOMINA IGITUR IPSA ET VERBA CONSIMILIA
SUNT SINE COMPOSITIONE VEL DIVISIONE INTELLECTUI, UT HOMO VEL ALBUM, QUANDO NON
ADDITUR ALIQUID, NEQUE ENIM ADHUC VERUM AUT FALSUM S EST. HUIUS AUTEM SIGNUM
HOC EST: HIRCOCERVUS ENIM SIGNIFICAT ALIQUID SED NONDUM VERUM VEL FALSUM, SI
NON VEL ESSE VEL NON ESSE ADDATUR, VEL SIMPLICITER VEL SECUNDUM TEMPUS. Quoniam
nomen et verbum atque omnis oratio significativa sunt animae passionum, ex
ipsis sine dubio quae designant in eisdem vocibus proprietas significationis
innascitur hic vero est totus atque continuus Aristotelicae ordo sententiae:
quoniam, inquit, ea primum vocibus significantur quae animo et cogitatione
versamus, intellectuum vero alios quidem simplices et sine veri vel falsi
enuntiatione perpendimus, ut cum nobis hominis proprietas tacita imaginatione
suggeritur (nulla namque ex hac intellegentiae simplicitate vel veritatis
nascitur vel falsitatis agnitio), sunt vero intellectus quidam compositi atque
conioncti in quibus inest iam quaedam veritatis vel falsitatis inspectio, ut
cum ad quamlibet simplicem perceptionem mentis adinugitur aliud quod esse
aliquid vel non esse constituat, ut si ad hominis intellectum esse vel non esse
vel album esse vel album non esse copuletur (fient enim cogitabiles orationes
veritatis vel falsitatis participes hoc modo: homo est, homo non est, homo
albus est, homo albus non est, quarum quidem homo est vel homo albus est
compositione dicitur. Nam prior esse atque hominem, posterior hominem albo
composita intellectus praedicatione conectit): sin vero ad hominis intellectum
adiciam quiddam, ut ita sit homo ƿ est vel non est vel albus est aut aliquid
tale, tunc in ipsa cogitatione veritas aut falsitas nascitur: ergo, inquit, quemadmodum
aliquotiens quidam simplices intellectus sunt, qui vero falsoque careant,
quidam vero in quibus horum alterum reperiatur, sic etiam et in voce. Nam quae
voces denuntiant simplices intellectus, ipsae quoque a falsitate et veritate
seiunctae sunt, quae vero huiusmodi significant intellectus in quibus iam vel
veritas vel falsitas constituta est, in ipsis quoque horum alterum inveniri
necesse est. Nam si quis hoc solum dicat HOMO vel ALBUM vel etiam HIRCOCERVUS,
quamquam ista quiddam significent, quoniam tamen significant simplicem
intellectum, manifestum est omni veritatis vel falsitatis proprietate carere.
Et tota quidem sententia se hoc modo habet. Diligentius tamen est attendendum
quid est quod ait: CIRCA COMPOSITIONEM ENIM ET DIVISIONEM EST FALSITAS
VERITASQUE; quid etiam quod dictum est: NOMINA IGITUR IPSA ET VERBA CONSIMILIA
SUNT SINE COMPOSITIONE VEL DIVISIONE INTELLECTUI; illud quoque; cur composito
nomine vel cur etiam usus est non rei subsistentis exemplo, ut diceret
HIRCOCERVUS ENIM SIGNIFICAT ALIQUID. Nec illud praetereundum est quid est quod
dictum sit VEL SIMPLICITER VEL SECUNDUM TEMPUS. Et primum quidem de eo dicendum
est quod ait: CIRCA COMPOSITIONEM ENIM ET DIVISIONEM EST FALSITAS VERITASQUE.
Quaeritur namque, utrumne omnis veritas circa compositionem divisionemque sit,
an quaedam est, quaedam vero minime. Illud quoque, an in omni compositione vel
divisione veritas falsitasque constituta sit, an hoc non generaliter sed in
quadam compositionis vel divisionis parte veritas falsitasque versetur. In
opinionibus namque veritas est, quotiens ex subiecta ƿ re capitur imaginatio
vel etiam quotiens ita, ut sese res habet, imaginationem accipit intellectus;
falsitas vero est quotiens aut non ex subiecto aut non ut sese habet res imaginatio
subicitur intellectui. Sed adhuc in veritate atque falsitate nihil equidem
aliud reperitur nisi quaedam opinionis habitudo ad subiectam rem. Qua enim
habitudine et quomodo sese habeat imaginatio ad rem subiectam, hoc solum in hac
veritate vel falsitate perspicitur. Quam quidem habitudinem nullus dixerit
compositionem. In hoc vero divisionis nullus ne fictus quidem modus intellegi
potest. Illud quoque considerandum est, numne aliqua sit in his compositio vel
divisio, quae secundum substantiam suam vera dicuntur, ut est vera voluptas
bene vivendi, ut est falsa voluptas bellandi. Etiam illud quoque respiciendum
est, quod in omnium maximo deo quidquid intellegitur non in eo accidenter sed
substantialiter intellegitur. Etenim quae bona sunt substantialiter de eo non
accidenter credimus. Quod si substantialiter credimus deum, deum vero nullus
dixerit falsum nihilque in eo accidenter poterit evenire, ipsa veritas deus
dicendus est. Ubi igitur compositio vel divisio in his quae simplicia
naturaliter sunt nec ulla cuiuslibet rei collatione iunguntur? Quare non omnis
veritas neque falsitas circa compositionem divisionemque constat sed sola
tantum quae in multitudine intellectoum fit et in prolatione dicendi. Nam in
ipsa quidem habitudine imaginationis et rei nulla compositio est, in
coniunctione vero intellectuum compositio fit. Nam cum dico: Socrates
ambulat hoc ipsum quidem, ƿ quod eum ambulare concepi, nulla compositio
est; quod vero in intellectus progressione ambulationem cum Socrate coniungo,
quaedam iam facta est compositio. quod si hoc oratione protulero, rursus eadem
compositio est et circa eam vis veritatis et falsitatis apparet. Quocirca in
his solis compositionibus invenitur veritas atque mendacium, de quibus tota
nunc quaestio est, in nomine scilicet et verbo, in negatione et affirmatione et
enunti atione et oratione. Quae scilicet compositiones veritatis et falsitatis
naturam ab intellectibus accipientes in significationis prolatione conservant.
De divisione autem quae ad negationem pertinet deque compositione quae ad
affirmationem paulo post enucleatius dicam. Nunc illud videndum est, utrum
verum sit circa omnem compositionem circaque omnem divisionem veritatem vel
mendacium provenire, quod omnino falsum est. Quis enim dixerit huiusmodi
nominum coniunctionem: et Socrates et Plato vel si a se haec nomina
dividantur nec Socrates nec Plato veri aliquam falsive tenere
significantiam? Quare confitendum est non circa omnem divisionem neque circa
omnem compositionem, eam scilicet quae in oratione versatur, mendacium
veritatemque subsistere. Sed illud verissimum est, quod omnis quae est in
oratione veritas falsitasque in compositione et divisione nascitur, non tamen
omnis orationis compositio vel divisio verum retinet aut falsum. Ergo si sic
dixisset: circa omnem compositionem vel divisionem veritas falsitasque est,
mentiretur. Sed quoniam dixit simpliciter: veritas falsitasque circa
compositionem divisionemque est, verissime subtilissimeque dixisse putandus
est. Illa enim ƿ nomina quae ita dicuntur simplicia, ut veritatem aut
falsitatem quodammodo valeant designare, huiusmodi sunt, ut intra se atque
intra significationem suam quandam retineant compositionem, ut si qui dicat:
Lego hoc est enim dicere "lego" tamquam si dicat "Ego lego".
Hoc autem compositio est. Vel quotiens interrogante alio respondet alius uno
tantum sermone, videtur quoque tunc simplex sermo veritatem mendaciumque
perficere. Quod perfalsum est. Audientis namque responsio ad totum ordinem
superioris enuntiationis adiungitur: ut si quis interroganti mundusne animal
sit, est responderit, videtur haec una particula veritatem vel mendacium
continere sed falso. Non enim una est sed ad vim ipsius responsionis intuenti
tale est ac si diceret "Mundus animal est". Quod vero ait NOMINA IPSA
ET VERBA CONSIMILIA ESSE SINE COMPOSITIONE VEL DIVISIONE INTELLECTUI, illud
designat, quod supra iam dixit, ea quae sunt in voce notas esse animae
passionum. Quod si notae sunt, sicut litterae vocum in se similitudinem gerunt,
ita voces intellectuum. Et quoniam dictum est, cur de similitudine verborum
nominumque atque animae passionum dixerit, cur etiam circa compositionem et
divisionem falsum verumque esse proposuerit, dicendum est quid sit ipsa
compositio vel divisio, in qua veritas et falsitas invenitur. Nam quoniam de
simplici enuntiativa oratione perpendit, ut posterius ipse in divisione
declarat dicens: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE
NEGATIO, illam nunc compositionem designare uult, quae alicuius vel substantiam
constituit vel aliquid secundum esse coniungit. Nam cum dico: Socrates
est hoc ipsum esse Socrati applico et substantiam eius esse constituo.
Sin vero ƿ dixero: Socrates philosophus est philosophiam et Socratem
secundum esse composui, vel si dicam Socrates ambulat, huiusmodi est tamquam si
dicam Socrates ambulans est. Igitur quotiens huiusmodi fuerit compositio, quae
secundum esse verbum vel substantiam constituat vel res coniungat, affirmatio
dicitur et in ea veri falsique natura perspicitur. Et quoniam omnis negatio ad
praedicationem constituitur (huius enim affirmationis quae est "Socrates
est" negatio est non ea quae dicit "Non Socrates est" sed ea
quae pronuntiat "Socrates non est" et ad id quod esse Socrates dictus
est negatio apponitur, ut eum id dicamus non esse, quod ante dictus est esse):
igitur quoniam id quod in affirmatione secundum esse vel constitutum vel
coniunctum fuerit ad id addita negatio separat, vel ipsam substantiae
constitutionem vel etiam factam per id quod dictum est esse aliquid
coniunctionem, divisio vocatur. Quando enim dico: Socrates non est esse a
Socrate seiunxi, et cum dico: Socrates philosophus non est Socratem ab eo
quod est philosophum esse separavi, quam separationem, quae ad negationem
pertinet, divisionem vocavit. Ergo manifestum est, quoniam si simplex in animae
passionibus intellectus fuerit, cum ipse intellectus nullam adhuc veri falsique
retineat naturam, eius quoque prolationem ab utrisque esse separatam. Sed cum
compositio secundum esse facta vel etiam divisio in intellectibus, in quibus
principaliter veritas et falsitas procreatur, euenerit, quoniam ex
intellectibus voces capiunt significationem, eas quoque secundum intellectuum
qualitatem veras vel falsas esse necesse est. Maximam vero vim habet exempli
novitas ƿ et exquisita subtilitas. Ad demonstrandum enim quod unum solum nomen
neque verum sit neque falsum, posuit huiusmodi nomen, quod compositum quidem
esset, nulla tamen eius substantia reperiretur. Si quod ergo unum nomen
veritatem posset falsitatemue retinere posset huiusmodi nomen, quod est
hircocervus, quoniam omnino in rebus nulla illi substantia est, falsum aliquid
designare sed non designat aliquam falsitatem. Nisi enim dicatur hircocervus
vel esse vel non esse quamquam ipsum per se non sit, solum tamen dictum nihil
falsi in eo sermone verive perpenditur. Igitur ad demonstrandam vim simplicis
nominis, quod omni veritate careat atque mendacio, tale in exemplo posuit
nomen, cui res nulla subiecta sit. Quod si quid verum vel falsum unum nomen
significare posset, nomen quod eam rem designat, quae in rebus non sit, omnino
falsum esset. Sed non est: non igitur ulla veritas falsitasque in simplici
umquam nomine reperietur. Nec illud paruae curae fuit non ponere nomen quod
omnino nihil significaret sed quod cum significaret quiddam, tamen verum aut
falsum esse non posset, ut non videretur veritatis falsitatisque cassum esse,
eo quoniam nihil significaret sed quoniam esset simpliciter dictum. Quamquam in
eodem illud quoque conficit, ut ostenderet non solum simplex nomen veritate atque
mendacio esse alienissimum sed etiam composita quoque nomina, si non habeant
aliquam secundum es se vel non esse (sicut superius dictum est) compositionem,
verum vel falsum significare non posse: tamquam si diceret: non solum simplex
nomen praeter aliquam compositionem nihil verum falsumue significat sed etiam
composita ƿ utroque carent (sicut ipse iam dixit) nisi illis aut esse aut non
esse addatur, VEL SIMPLICITER VEL SECUNDUM TEMPUS. Hoc vero idcirco addidit,
quod in quibusdam ita enuntiationes fiunt, ut quod de ipsis dicitur secundum
substantiam proponatur, in quibusdam vero hoc ipsum esse quod additur non
substantiam sed praesentiam quandam significet. Cum enim dicimus deus est, non
eum dicimus nunc esse sed tantum in substantia esse, ut hoc ad immutabilitatem
potius substantiae quam ad tempus aliquod referatur. Si autem dicamus: Dies
est ad nullam diei substantiam pertinet nisi tantum ad temporis
constitutionem. Hoc est enim quod significat est, tamquam si dicamus: Nunc
est Quare cum ita dicimus esse ut substantiam designemus, simpliciter est
addimus, cum vero ita ut aliquid praesens significetur, secundum tempus. Haec
una quam diximus expositio. Alia vero huiusmodi est: esse aliquid duobus modis
dicitur: aut simpliciter aut secundum tempus. Simpliciter quidem secundum
praesens tempus, ut si quis sic dicat hircocervus est. Praesens autem quod
dicitur tempus non est sed confinium temporum: finis namque est praeteriti
futurique principinm. Quocirca quisquis secundum praesens hoc sermone quod est
esse utitur, simpliciter utitur, qui vero aut praeteritum inugit aut futurum,
ille non simpliciter sed iam in ipsum tempus incurrit. Tempora namque (ut
dictum est) duo ponuntur: praeteritum atque futurum. Quod si quis cum praesens
nominat, simpliciter dicit, cum utrumlibet praeteritum vel futurum dixerit,
secundum tempus utitur enuntiatione. Est quoque tertia huiusmodi expositio,
quod aliquotiens ita ƿ tempore utimur, ut indefinite dicamus: ut si qui dicat:
Est hircocervus Fuit hircocervus Erit hircocervus hoc indefinite et
simpliciter dictum est. Sin vero aliquis addat: Nunc est vel: Heri
fuit vel: Cras erit ad hoc ipsum esse quod simpliciter dicitur
addit tempus. Quare secundum unam trium harum expositionum intellegendum est
quod ait: SI NON VEL ESSE VEL NON ESSE ADDATUR, VEL SIMPLICITER VEL SECUNDUM
TEMPUS. Sed ei quod ante proposuit, QUEMADMODUM esset ALIQUOTIENS QUIDEM IN
ANIMA INTELLECTUS SINE VERO VEL FALSO, post quasi consequens reddidit nomina
ipsa per se verbaque esse simplicibus intellectibus consimilia, ut homo vel
album; ei vero quod ait CUI IAM NECESSE EST HORUM ALTERUM INESSE nihil interim
reddidit sed hoc eo supplevisse putabitur, quod ait: SED NONDUM VERUM VEL
FALSUM EST, SI NON VEL ESSE VEL NON ESSE ADDATUR. Haec est enim intellectuum
quaedam compositio, cui iam necesse est horum alterum inesse qua in oratione vel
esse vel non esse additur. Quocirca quoniam de nomine verboque proposuit et
quam potuit breviter vocum, litterarum, intellectuum rerumque consequentias
altissima ratione monstravit, ad id quod primo proposuit dicens: PRIMUM OPORTET
CONSTITUERE QUID NOMEN ET QUID VERBUM, ad haec inquam, quae promiserat definire
revertitur. Nomen enim definiens ita subiecit: [THIS IS THE END OF THE SECTION
‘SIGN’ – from now it’s specifically on NOMEN] NOMEN ERGO EST VOX SIGNIFICATIVA
SECUNDUM PLACITUM SINE TEMPORE, CUIUS NULLA PARS EST SIGNIFICATIVA SEPARATA. Omnis
definitio generis constitutione formatur, differentiarum vero compositione
perficitur. Nam si ad propositum genus differentias colligamus easque ad unam
quam definire volumus speciem aptemus, usque dum uni tantum speciei collectio
illa conveniat, nihil est quod ultra ad faciendam definitionem desideretur: ut
ipsum hominem si quis definiat, generi eius quod est animal duas necesse est
differentias iungat rationale scilicet atque mortale facietque huiusmodi
ordinem: animal rationale mortale; quae definitio si ad hominem referatur,
plena est rationis substantiaeque descriptio. Volens ergo Aristoteles definire
quid esset nomen prius eius genus sumpsit dicens nomen esse vocem, idcirco
scilicet ut hoc quod dicimus nomen ab aliis, quae non voces sed tantum soni
sunt, separaret. Distat enim sonus voce: sonus enim est percussio aeris
sensibilis, vox vero flatus per quasdam gutturis partes egrediens, quae arteriae
vocantur, qui aliqua linguae impressione formetur. Et vox quidem nisi
animantium non est, sonus vero aliquotiens inanimorum quoque corpori
conflictatione perficitur. Quare quia nomen vocem monstravit, ab aliis quae
voces non sunt sed tantum soni, hanc orationis partem separavit atque
distribuit. Et vocem quidem nominis velut genus sumpsit. Habet namque aliud
quiddam speciei loco differens a nomine quod est verbum, habet quoque quasdam
locutiones quae nihil ulla ratione significent, ut sunt articulatae voces,
quarum per se significatio non potest inveniri, ut "scindapsos". Huic
ergo generi alias differentias rursus apponit, quae nomen sicut vox a sonis
aliis segregavit, ita quoque hae differentiae nomen ab aliis speciebus sub voce
positis dividant atque discernant. ƿ Quod enim addidit nomen vocem esse
significativam, ab his, inquam, vocibus disgregavit nomen quae nihil omnino
siguificent, ut sunt syllabae. Syllabae enim, cum ex his totum nomen constet,
adhuc ipsae nihil omnino significant. Sunt quoque quaedam voces litteris
syllabisque compositae, quae nullam habeant significationem, ut est
"Blityri". Ergo quoniam videbantur esse quaedam voces quae
significatione carerent, nomen quod vox est et alicuius designationis semper
causa profertur non aliter definiendum erat nisi illud a non significantibus
vocibus segregaret. Itaque ait nomen esse vocem significativam ut voce quidem
ab aliis sonis, significatione vero addita ab his quae sub voce sunt nihil
designantia segregaretur. Sed hoc nondum ad totam definitionem valet neque
solum nomen vox significativa est sed sunt quaedam voces quae significent
quidem sed nomina non sint, ut ea quae a nobis in aliquibus affectibus
proferuntur, ut cum quis gemitum edit vel dolore concitus emittit clamorem.
Illud enim doloris animi, illud corporis signum est. Et cum sint voces et
significent quandam vel animi vel corporis passionem, nullus tamen gemitum
clamoremque dixerit nomen. Mutorum quoque animalium sunt quaedam voces quae
significent: ut canum latratus iras significat canum, alia vero mollior quaedam
blandimenta designat. Quare adiecta differentia separandum erat nomen ab his
omnibus quae voces quidem essent et significarent sed nominis vocabulo non
tenerentur. Quid igitur adiecit? Nomen vocem esse significativam non
simpliciter sed secundum placitum. Secundum placitum vero est, quod secundum
quandam positionem ƿ placitumque ponentis aptatur. Nullum enim nomen
naturaliter constitutum est neque umquam sicut subiecta res natura est, ita
quoque a natura venienti vocabulo nuncupatur sed hominum genus, quod et ratione
et oratione vigeret, nomina posuit eaque quibus libuit litteris syllabisque
coniungens singulis subiectarum rerum substantiis dedit. Hoc autem illo
probatur, quod, si natura essent nomina, eadem apud omnes essent gentes: ut
sensus, quoniam naturaliter sunt, idem apud omnes sunt. Omnes enim gentes non
aliis nisi solis oculis intuentur, audiunt auribus, naribus odorantur, ore
accipiunt gustatus, tactu calidum vel frigidum, lene vel asperum indicant.
Atque haec huiusmodi sunt, ut apud omnes (ut dictum est) gentes eadem
videantur. Ipsa vero quae sentiuntur, quoniam naturaliter constituta sunt, non
mutantur. Dulcedo enim et amaritudo, album et nigrum et quaequae alia sensibus
quinque sentimus, eadem apud omnes sunt. Neque enim quod Italis dulce est in
sensu, idem Persis videtur amarum nec quod album apud nos oculis apperet, apud
Indos nigrum est, nisi forte aliqua sensus aegritudine permPombaur sed hoc
nihil attinet ad naturam. Igitur quoniam ista sunt naturaliter, apud omnes
gentes eadem manent. Si ergo et nomina naturalia esse viderentur, eadem essent
apud omnes gentes nec ullam susciperent mutationem: nunc autem ipsum hominem
alio vocabulo Latini, alio Graeci diversis quoque vocabulis barbarae gentes
appellant. Quae in ponendis nominibus dissensio signum est non naturaliter sed
ad ponentium placitum voluntatemque rebus nomina fuisse composita. Idem quoque
monstrat, quod saepe ƿ singulorum hominum sunt permutata vocabula. Quem enim
nunc vocamus Platonem, Aristocles ante vocabatur et qui Theophrastus nunc
dicitur, ante Aristotelen a suis parentibus Tyrtamus appellabatur. In eadem
quoque lingua quando plura vocabula uni adduntur rei, monstratur rem illam non
naturalibus sed appositis nominibus nuncupari. Si enim naturalibus nominibus
res quaeque vocaretur, unam rem uno tantum nomine signaremus. Quid enim
attinet, si naturalia sunt vocabula, unius rei plures esse nominum voces, quae
ad unam designationem demonstrationemque concurrerent? Dicimus enim gladius,
ensis, mucro et haec tria ad unam subiectam substantiam currunt. Ergo
monstratum est nomina esse secundum placitum id est secundum ponentium
placitum, ac si diceret nomen esse vocem quidem et significativam sed non
naturaliter significativam sed secundum placitum voluntatemque ponentis, hoc
scilicet dividens ab his vocibus quae naturaliter designarent, ut sunt hae vel
quas nos in passionibus affectibusque proloquimur vel edere animalia muta
conantur. Sed nondum supra dicta differentia plenam nominis formam
definitionemque constituit. Est namque verbo commune eum nomine, quod vox
designativa et secundum placitum est sed addita differentia quae est SINE
TEMPORE nomen a verbo distinxit. Neque enim nomen ullum consignificat tempus.
Verbi namque est, cum aut passio significatur aut actio, aliquam quoque secum
trahere vim temporis, qua illud cum vel facere vel pati dicitur proferatur. Cum
enim dico: Socrates nullius est temporis; cum vero: Lego vel:
Legi vel: Legam tempore non caret. Addito ergo nomini quod sine
tempore esse dicatur ƿ nomen a verbo disiungitur. Sane nemo nos arbitretur
opinari, quod nullum nomen significet tempus. Sunt enim nomina, quae tempus
significatione demonstrent: velut cum dico hodie vel cras, temporis nomina
sunt. Sed illud dicimus, quod cum eodem nomine tempus non significatur. Aliud est
enim significare tempus, aliud consignifiaare. Verbum enim cum aliquo proprio
modo tempus quoque significat: ut cum vel agentis vel patientis modum
demonstrat, sine tempore ipsa passio vel actio non profertur. Unde non dicimus,
quod nomen non significet tempus sed quod nomen significatio temporis non
sequatur. Restat autem sola una differentia, quae si superioribus
adiungatur, plenissima fere nomen definitione formabitur. Haec autem est qua
nomen ab oratione separetur. Inveniuntur enim quaedam sine dubio orationes,
quae cum voces sint et significativae et secundum placitum, quippe quae sunt
nominibus colligatae, tamen sint sine tempore, ut cum dico: Socrates et
Plato haec namque oratio, cum ex nominibus iuncta sit, nomen quidem non
est, vox vero est significativa secundum placitum et tempore uacat. Ut igitur
nomen ab huiusmodi oratione divideret, addidit hanc differentiam, quae est
CUIUS NULLA PARS EST SIGNIFICATIVA SEPARATA. Oratio enim quoniam verbis
nominibusque coniungitur, verba vero vel nomina significativa esse palam est,
partes quoque orationis significare aliquid dubium non est. Nominis vero pars,
quoniam simplex est, nihil omnino significat. Sed cum omnis oratio omneque
nomen et verbum ex subiectis intellectibus vim significandi sumat, est
aliquotiens, ut unum nomen multos significet intellectus. Quocirca erit quoque,
ut non simplex nomen ƿ unam tantum animi passionem intellectumque designet. Nam
cum dico suburbanum, imaginationem significandi sed ita ut a toto nomine
separatum, cum ad ipsum refertur nomen, significet nihil: ut in eo quod dicimus
equiferus ferus uult quidem aliquid significare sed si a tota compositione
separatur, nihil omnino designat in eo scilicet nomine in quo cum equi
particula iunctum equiferum consignificabat. Omnis namque haec compositio unius
intellectus designativa est. Quare in oratione quidem ferus significat (etenim
equus ferus oratio duos retinet intellectus), in nomine vero nihil, quoniam hoc
quod dicimus equiferus unius intellectus designativum est. Sed fortasse ferus
cum ea parte qua iunctum est simul quidem consignificet, separatum vero nihil.
Hoc est ergo quod ait: AT VERO NON QUEMADMODUM IN SIMPLICIBUS NOMINIBUS, SIC SE
HABET ETIAM IN COMPOSITIS IN ILLIS ENIM NULLO MODO PARS SIGNIFICATIVA EST; IN
HIS AUTEM VULT QUIDEM SED NULLIUS SEPARATI, UT IN EQUIFERUS FERUS. Simplex enim
nomen nec imaginationem aliquam partium significationis habet, compositum vero
tales habet partes, ut quasi conentur quidem aliquid significare sed
consignificeut potius quam quidquam extra significent. Addito igitur nomini,
quod eius partes nihil separatae significent, nomen ab oratione disiunctum est.
Postquam adiectionem quae est CUIUS ƿ NULLA PARS EST SIGNIFICATIVA SEPARATA
quid in nominis definitione valeret explicuit (hoc scilicet quo nomen ab
oratione seiungeret), illud quoque disserit, cur sit additum quod dictum est
secundum placitum. Nam quoniam nulla nominum significatio naturaliter est sed
omne nomen positione designat, idcirco dictum est secundum placitum. Quod enim
placuit ei qui primus nomina indidit rebus, hoc illis vocabulis designatur. Age
enim quis naturaliter nomina esse confirmet, quorum apud omnes gentes est tam
diversa varietas? Nec vero dicitur quod nulla vox naturaliter aliquid designet sed
quod nomina non naturaliter sed positione significent. Aliqui habent hoc
ferarum mutorumque animalium soni, quorum vox quidem significat aliquid (ut
hinnitus equi consueti equi inquisitionem, latratus canum latrantium iracundiam
monstrat et alia huiusmodi) sed cum voces mutorum animalium propria natura
significent, nullis tamen elementorum formulis conscribuntur. Nomen vero
quamquam subiaceat elementis, prius tamen quam ad aliquam subiectae rei
significationem ponatur per se nihil designat, ut cum dicimus scindapsos vel
hereceddy. Haec per se nihil quidem significant sed si ad subiectae alicuius
rei significationem ponantur, ut dicatur vel homo scindapsos vel lapis
hereceddy, tunc hoc quod per se nihil significat positione et secundum ponentis
quoddam placitum designabit. Ergo tum nomen significativum est, quando (ut ipse
ait) fit nota. Tunc autem fit nota, cum secundum ponentis placitum vocabulum
quod naturaliter nihil designabat ad subiectae rei significationem datur. Hoc ƿ
est enim quod ait fit. Si enim naturaliter nomina significarent, numquam de his
Aristoteles diceret fit nota. Tunc enim non fieret nota sed esset. Ergo quoniam
nomina secundum placitum significativa sunt, ferarum vero inlitterati soni
secundum naturam, idcirco harum voces esse nomina non dicuntur. Universaliter
autem dicimus: omnium vocum aliae sunt quae inscribi litteris possunt, aliae
vero quae non possunt. Et rursus earum quae vel inscribuntur vel minime, aliae
significant, aliae vero nihil. Amplius quoque omnium aliae secundum placitum
designant, aliae vero naturaliter. Nomen ergo secundum placitum est: positione
enim factum est subiectae rei nota. Nihil enim nominum est quod naturaliter
significet. Non enim nomen informat significatio sed secundum placitum
significatio. Nam et inlitterati soni significant, ut sunt ferarum, quos ideo
sonos vocavit, quoniam sunt quaedam muta animalia quae vocem omnino non habent
sed tantum sonitu quodam concrepant. Quidam enim pisces non voce sed branchis
sonant et (ut Porphyrius autumat) cicada per pectus sonitum mittit, QUORUM
omnium NIHIL EST NOMEN. Hoc autem dictum est, non quod nullum nomen sit harum
vocum quas animalia proferunt sed quod his non velut nominibus utantur. Nam
quamuis vox inlitterata sit et natura significet latratus canum, dicitur tamen
latratus et leonis fremitus et tauri mugitus. Haec sunt. Nomina ipsarum vocum
quae a mutis animalibus proferuntur. Sed non hoc dicimus quoniam earum nihil
est nomen sed quoniam horum sonorum nihil tale est, ut nomen esse possit id est
ut secundum ea velut ƿ nominibus utentes ferae sibi inuicem colloquantur.
Habent enim significationem sed (ut dictum est) naturalem, nomen autem secundum
placitum est. NON HOMO VERO NON EST NOMEN. AT VERO NEC POSITUM EST voMEN, QUO
ILLUD OPORTEAT APPELLARI. NEQUE ENIM ORATIO AUT NEGATIO EST SED SIT NOMEN
INFINITUM. Superius omnia quaecumque extra nomen essent praedictis
adiectionibus a nomine separavit. Nunc vero quoniam sunt quaedam quae sub
definitionem quidem nominis cadant, videantur tamen a nomine discrepare, de his
disserit, ut quid esse nomen integre videatur expediat. Quod enim dicimus non
homo vel non equus oratio quidem non est. Omnis enim oratio aut nominibus
constat et verbis aut solis duobus vel pluribus verbis vel solis nominibus. In
eo autem quod est non homo unum tantum nomen est, quod dicitur homo, id autem
quod est non neque nomen est neque verbum. Quare neque ex duobus verbis aut ex
verbo et nomine. Verbum enim in eo nullum est. Quare id quod dicimus non homo
oratio non est. Iam vero nec verbum esse monstrare superfluum est, cum in
verbis semper tempora reperiantur, in hoc vero nullum omnino quisquam tempus
inveniat. Sed nec negatio est. Omnis enim negatio oratio est, non homo vero cum
oratio non sit nec negatio esse potest. Illud quoque, quod omnis negatio aut
vera est aut falsa, non homo vero neque verum est neque falsum. Sensus enim
plenus non est: quare negatio esse propter hoc quoque non dicitur. Nomen vero
esse quis dicat, cum omne nomen sive proprium sive sit appellativum definite
significet? Cum enim dico: ƿ Cicero unam personam unamque substantiam
nominavi, et cum dico: Homo quod est nomen appellativum, definitam
significavi substantiam. Cum vero dico: Non homo significo quidem
quiddam, id quod homo non est sed hoc infinitum. Potest enim et canis
significari et equus et lapis et quicumque homo non fuerit. Et aequaliter
dicitur vel in eo quod est vel in eo quod non est. Si quis enim de Scylla quod
non est dicat non homo, significat quiddam quod in substantia atque in rerum
natura non permanet. Si quis autem vel de lapide vel de ligno vel de aliis quae
sunt rebus dicat non homo, idem tamen aliquid significabit et semper praeter id
quod nominal huiusmodi vocabuli significatio est. Sublato enim homine quidquid
praeter hominem est hoc significat non homo, quod a nomine plurimum differt.
Omne enim nomen (ut dictum est) definite id significat quod nominatur nec
similiter et de eo quod est et quod non est dicitur. Sed haec huiusmodi vox et
designativa est et ad placitum et sine tempore et (ut dictum est) partes eius
extra nihil designant. Quare dubia apud antiquos sententia fuit, utrum nomen
hoc non dicerent, an hoc aliqua adiectione nominis definitioni subicerent. Et
qui hoc a nomine separabant, ita nomen definitione claudebant dicentes: nomen
esse vocem designativam secundum placitum sine tempore circumscriptae
significationis, cuius partes extra nihil designarent, ut quoniam non homo rem
circumscriptam non significaret a nomine separaretur. Alii vero non eodem modo
sed dicebant quidem esse nomen sed non simpliciter. Quadam namque adiectione
sub nomine poni posse putabant hoc modo, ut sicut homo mortuus non ƿ dicitur
simpliciter homo sed homo mortuus, ita quoque et nomen hoc, quod nihil
definitum designaret, non diceretur simpliciter nomen sed nomen infinitum. Cuius
sententiae Aristoteles auctor est, qui se hoc ei vocabulum autumat invenisse.
Ait enim: AT VERO NEC POSITUM EST NOMEN, QUO ILLUD OPORTEAT APPELLARI, dicens:
id quod dicimus non homo quo vocabulo debeat appellari non vocavit antiquitas.
Et usque ad Aristotelem nullus noverat quid esset id quod non homo diceretur
sed hic huic sermoni vocabulum posuit dicens: SED SIT NOMEN INFINITUM, non
simpliciter nomen, quoniam nulla circumscriptione designat sed infinitum nomen,
quoniam plura et ea infinita significat. Sed hoc non solis huiusmodi vocibus
contingit, ut simpliciter sub nomine poni non possint sed sunt quaedam aliae
quae omnia quidem nominis habeant et definite significent sed quadam alia
discrepantia nomina simpliciter dici non possint, ut sunt obliqui casus cum
dicimus: Catonis Catoni Catonem et caeteros. Horum enim discrepantia est
a nomine, quod nomen rectum iunctum cum est vel non est affirmationem facit: ut
si quis dicat: Socrates est hoc verum est vel falsum. Si enim vivente Socrate
diceretur, verum esset, mortuo vero falsum est: quare affirmatio est. Si quis
autem dicat: Socrates non est rursus faciet negationem et in ea quoque
veritas et falsitas invenitur. Ergo omne rectum nomen iunctum cum est vel non
est enuntiationem conficit. Hi vero obliqui easus iuncti cum est vel non est
enuntiationem nulla ratione perficiunt. Enuntiatio namque est perfectus
orationis intellectus in quem veritas ƿ aut falsitas cadit. Si quis ergo dicat:
Catonis est nondum plena sententia est. Quid enim sit Catonis non
dicitur. Atque eodem modo Catoni est vel Catonem est. In his ergo, quoniam cum
est vel non est iuncta enuntiationem non perficiunt, est quaedam a nomine
discrepantia, quamquam sint nomini omni definitione coniuncta. Magna est enim
discrepantia quod rectum nomen cum est iunctum perfectam orationem facit,
obliqui casus imperfectam. Quod autem dictum est obliquos casus cum est verbo
iunctos orationem perfectam non facere, non dicimus quoniam cum nullo verbo
obliqui casus iunguntur ita, ut nihil indigentem perficiant orationem. Cum enim
dico: Socratem paenitet enuntiatio est. Sed non cum omni verbo sed tantum
cum est vel non est hi casus iuncti perfectam orationem nulla ratione
constituunt. Atque hoc est quod ait: CATONIS AUTEM VEL CATONI ET QUAECUMQUE TALIA
SUNT NON SUNT NOMINA SED CASUS NOMINIS. Unde etiam discrepare videntur. Haec
enim nomina non vocantur. Illa enim rectius dicuntur nomina quae prima posita
sunt id est quae aliquid monstrant. Genetivus enim casus non aliquid sed
alicuius et dativus alicui et caeteri eodem modo. Rectus vero qui est primus
rem monstrat, ut si qui dicat Socrates, atque ideo hic nominativus dicitur,
quod nominis quodammodo solus teneat vim nomenque sit. Et verisimile est eum
qui primus nomina rebus imposuit ita dixisse: vocetur hic homo et rursus
vocetur hic lapis. Posteriore vero usu factum est, ut in alios casus primitus
positum nomen derivaretur. Illud quoque maius est, quod omnis casus nominis
alicuius casus est. Ergo nisi sit nomen, cuius casus sit, casus ƿ nominis dici
recte non potest. casus autem omnis inflexio est. Sed genetivus et dativus et
caeteri nominativi inflexiones sunt: quare nominativi casus erunt. Sed omnis
casus qui secundum nomen est nominis casus est. Nomen igitur nominativus est.
Aliud vero est casus alicuius quam est id ipsum cuius casus est. Casus igitur
nominis nomen non est. Quod vero adiecit: RATIO AUTEM EIUS EST IN ALLIS QUIDEM
EADEM, hoc inquit: ratio et definitio obliqui casus et nominis eadem est in
omnibus aliis (nam et voces sunt et significativae et secundum placitum et sine
tempore et circumscripte designant) sed (ut ipse ait) DIFFERT QUONIAM CUM EST
VEL FUIT VEL ERIT IUNCTUM NEQUE VERUM NEQUE FALSUM EST, quod a recto nomine
sine ulla dubitatione perficitur, ut cum est vel fuit vel erit iunctum verum
falsumue conficiat. Quod designavit per hoc quod ait: NOMEN VERO SEMPER,
subaudiendum est scilicet: facit verum falsumque CUM EST VEL FUIT VEL ERIT
IUNCTUM. Eorumque ponit exemplum: CATONIS EST VEL NON EST. In his enim (ut ipse
ait) neque verum aliquid dicitur neque falsum. Quare integra nominis definitio
est huiusmodi: nomen est vox designativa secundum placitum sine tempore
circumscripte significans, cuius partes nihil extra designant, et cum est vel
fuit vel erit iunctum nullius indigentem orationis perficiens intellectum
enuntiationemque constituens. Quoniam igitur de nomine expeditum, ad definitionem
verbi veniamus. VERBUM AUTEM EST QUOD CONSIGNIFICAT TEMPUS, CUIUS PARS NIHIL
EXTRA SIGNIFICAT, ET EST SEMPER EORUM QUAE DE ALTERO DICUNTUR NOTA. Verbi
quidem integra definitio huiusmodi est: verbum est vox significativa secundum
placitum, quae consignificat tempus, cuius nulla pars extra designativa est.
Sed quoniam commune est illi cum nomine esse voci et significativae et secundum
placitum, idcirco illa reticuit. Ab his autem quae propria verbi sunt inchoavit
verbi autem est proprium, quo a definitione nominis segregetur, quod
consignificat tempus. Omne enim verbum consignificationem temporis retinet, non
significationem. Nomina enim significant tempus, verbum autem cum principaliter
actus passionesque significet, cum ipsis actibus et passionibus temporis quoque
vim trahit, ut in eo quod dico lego. Actionem quidem quandam principaliter
monstrat hoc verbum sed cum ea ipsa agendi significatione praesens quoque
tempus adducit. Atque ideo non ait verbum significare tempus sed
consignificare. Neque enim principaliter verbum tempus designat (hoc enim
nominis est) sed cum aliis quae prineipaliter significat vim quoque temporis
inducit et inserit. Ergo cum nomen et verbum voces significativae sint et
secundum placitum, addito verbo, quod consignificat tempus, a nomine
segregatur. Ut enim saepe dictum est, nomen significare tempus poterit, verbum
vero consignificare. Et sicut in definitione nominis addidit nihil nominis
partes separatas a tota compositione nominis designare propter orationes quae
nominibus essent compositae, ut est: Et Plato et Socrates ita quoque in
verbo addidit nihil extra verbi ƿ partes significare propter eas orationes quas
verba componunt, ut est et ambulare et currere. Haec enim oratio ex verbis est
composita et singula verba et in ipsa oratione et praeter eam per se ipsa
significant. In verbo vero nullo modo. Et sicut in nomine pars nominis nihil
significat separata, ita in verbo pars verbi nihil separata designat. Dicit
autem esse verbum semper eorum quae de altero praedicantur notam, quod
huiusmodi est ac si diceret nihil aliud nisi accidentia verba significare. Omne
enim verbum aliquod accidens designat. Cum enim dico: Cursus ipsum quidem
est accidens sed non ita dicitur ut id alicui inesse vel non inesse dicatur. Si
autem dixero: Currit tunc ipsum accidens in alicuius actione proponens
alicui inesse significo. Et quoniam quod dicimus "Currit" praeter
aliquid subiectum esse non potest (neque enim dici potest praeter eum qui
currit), idcirco dictum est omne verbum eorum esse significativum quae de
altero praedicantur, ut verbum quod est currit tale significet quiddam quod de
altero, id est de currente, praedicetur. His igitur expeditis quod ait verbum
consignificare tempus exemplis aperuit. Ait enim: DICO AUTEM QUONIAM
CONSIGNIFICAT TEMPUS, UT CURSUS QUIDEM NOMEN EST, CURRIT VERO VERBUM,
CONSIGNIFICAT ENIM NUNC ESSE. Expeditissime quid verbum distaret a nomine verbi
et nominis interpositione monstravit. Etenim quoniam cursus accidens est et
nominatum est ita ut sit nomen, non significat tempus, currit vero idem
accidens in verbo positum praesens tempus designat. Et hoc verbum distare
videtur a nomine, quod illud consignificat tempus, illud praeter omnem
consignificationem ƿ temporis praedicatur. Sed postquam verbum consignificare
tempus ostendit, id quod supra iam dixerat verbum semper de altero praedicari,
id nunc memoriter quemadmodum praedicatur ostendit. Ait enim: ET SEMPER EORUM
QUAE DE ALTERO DICUNTUR NOTA EST, UT EORUM QUAE DE SUBIECTO VEL IN SUBIECTO,
hoc scilicet dicens: ita verbum significat aliquid, ut id quod significat de
altero praedicetur sed ita ut accidens. Omne namque accidens et in subiecto est
et de subiecta sibi substantia praedicatur. Nam cum dico "Currit", id
de homine si ita contigit praedico scilicet de subiecto et ipse cursus in
homine est, unde verbum currit inflexum est. Ergo quod dicit semper eorum esse
notam verbum quae de altero praedicentur hoc monstrat: verbum accidentia semper
significare, quoniam ait eas res verbi significatione monstrari quae vel in
subiecto essent vel de subiecto dicerentur. Vel certe ut sit alius intellectus,
quoniam solet indifferenter uti de subiecto praedicari, tamquam si dicat in subiecto
esse, et saepe cum dicit de subiecto aliquid praedicari in subiecto esse
significat, cum vellet ostendere accidentium significationem contineri verbis,
ait ea semper designari verbis QUAE DE SUBIECTO essent. Sed quoniam hoc
videbatur obscurius, patefecit addito VEL IN SUBIECTO, ut quid esset de quo
supra dixerat DE SUBIECTO exponeret cum addidit VEL IN SUBIECTO: tamquam [enim]
si ita dixisset: verbum quidem semper eorum nota est, quae de altero
praedicantur subiecto sed ne hoc fortasse cuipiam videatur obscurius, hoc dico
esse de subiecto, quod est esse in subiecto. Vel melior haec expositio est, si
similiter eum dixisse arbitremur, tamquam si diceret: ƿ omne verbum significat
quidem accidens sed ita ut id quod significat aut particulare sit aut universale,
ut id quod ait de subiecto ad universalitatem referamus, quod in subiecto ad
solam particularitatem. Cum enim dico movetur, verbum quidem est et accidens
sed universale. Motus enim plures species sunt, ut cursus sub motu ponitur.
Ergo cursus si definiendus est, motum de cursu praedicamus. Quocirca motus
genus quoddam est cursus atque ideo motus de cursu ut de subiecto
praedicabitur, cursus vero ipse, quoniam species alias non habet, in subiecto
tantum est id est in currente. Motus autem quamquam et ipse sit in subiecto, tamen
de subiecto praedicatur. Ideo dicit eorum esse notam verbum quae de altero
praedicentur atque addidit, ut EORUM QUAE DE SUBIECTO VEL IN SUBIECTO. Hoc
dicit: accidentium quidem vim verba significant sed talium quae aut universalia
sint aut particularia, ut cum dico moveor universale quiddam est et de subiecto
dicitur, ut de cursu, cum vero dico curro, particulare est et quoniam de
subiecto non dicitur, in subiecto solum est. NON CURRIT VERO ET NON LABORAT NON
VERBUM DICO. CONSIGNIFICAT QUIDEM TEMPUS ET SEMPER DE ALIQUO EST, DIFFERENTIAE
AUTEM HUIC NOMEN NON EST POSITUM; SED SIT INFINITUM VERBUM, QUONIAM SIMILITER
IN QUOLIBET EST, VEL QUOD EST VEL QUOD NON EST. Quemadmodum dixit in nomine non
homo nomen non esse, idcirco quod multis aliis conveniret, quae homines non
essent, quoniamque id quod diceret auferret nihilque definitum in eadem
praedicatione relinqueret (quod enim non homo est potest ƿ esse et centaurus,
potest esse et equus et alia quae vel sunt vel non sunt atque ideo infinitum
nomen vocatum est): ita quoque etiam in verbo quod est "non currit"
vel "non laborat" infinitum quoque ipsum est, quoniam non solum de eo
quod est verum est sed etiam de eo quod non est praedicari potest. Possum
namque dicere: Homo non currit et id quod aio, "non currit", de
ea re quae est praedico id est de homine, possum rursus dicere: Scylla non
currit sed Scylla non est: igitur hoc quod dico "non currit" et
de ea re quae est valet et de ea quae nihil est praedicari. Sed forte aliquis
hoc quoque in verbis finitis esse contendat. Possum namque dicere: Equus currit
Hippocentaurus currit et de ea re scilicet quae est et de ea quae non est
et praeterito, quod futurum quidem ante praesens tempus est, praeteritum vero
retro relinquitur. Et nouo admirabilique sermone usus est: quod complectitur.
Et nos id quantum Latinitas passe est transferre diu multumque laborantes hoc
solo potuimus, Graeca vero oratione luculentius dictum est. Ita ƿ enim habet
*ta de ton perix*. Quod qui Graecae linguae peritus est quantum melius Graeca
oratione sonet agnoscit. IPSA QUIDEM SECUNDUM SE DICTA VERBA NOMINA SUNT ET
SIGNIFICANT ALIQUID. CONSTITUIT ENIM QUI DICIT INTELLECTUM ET QUI AUDIT
QUIESCIT. SED SI EST VEL NON EST, NONDUM SIGNIFICAT; NEQUE ENIM ESSE SIGNUM EST
REI VEL NON ESSE, NEC SI HOC IPSUM EST PURUM DIXERIS. IPSUM QUIDEM NIHIL EST,
CONSIGNIFICAT AUTEM QUANDAM COMPOSITIONEM, QUAM SINE COMPOSITIS NON EST
INTELLEGERE. Hoc loco Porphyrius de Stoicorum dialectica aliarumque scholarum
multa permiscet et in aliis quoque huius libri partibus idem in expositionibus
fecit, quod interdum nobis est neglegendum. Saepe enim superflua explanatione
magis obscuritas comparatur. Nunc autem Aristotelis huiusmodi sententia est:
VERBA, inquit, IPSA SECUNDUM SE DICTA NOMINA SUNT, non secundum id quod omnis
pars orationis commune nomen vocatur, ut dicimus nomina rerum sed quod omne
verbum per se dictum neque addito de quo illud praedicatur tale est, ut nomini
sit affine. Nam si dicam: Socrates ambulat id quod dixi ambulat totum pertinet
ad Socratem, nulla ipsius intellegentia propria est. At vero cum dico solum:
Ambulat ita quidem dixi, tamquam si alicui insit, id est tamquam si
quilibet ambulet sed tamen per se est propriamque retinens sententiam huius
verbi significatio est. Unde fit ut apud Graecos ƿ quoque articularibus
praepositivis sola verba dicta proferantur, ut est: to perimatein tou
perimatein toi perimatein Quod si verba cum nominibus coniungantur, in
oratione Graeca articularia praepositiva addi non possunt, nisi sola dicta
sint. Quoniam significant rem et ita ut, quamuis eam significent quae alicui
insit, tamen secundum se et per suam sententiam dicantur, idcirco sunt nomina.
Et quod Aristoteles ait IPSA QUIDEM SECUNDUM SE DICTA VERBA NOMINA SUNT, tale
est ac si diceret: ipsa quidem sola neque cum aliis iuncta verba nomina sunt.
Cuius rei hoc argumentum reddit: CONSTITUIT ENIM, inquit, QUI DICIT INTELLECTUM
ET QUI AUDIT QUIESCIT. Hoc autem tale est: omni nomine audito quoniam per
syllabas progrediens vox aliquantulum temporis spatium decerpit, in ipsa
progressione temporis qua dicitur nomen audientis quoque animus progreditur: ut
cum dico "imperterritus", sicut per syllabas "in" et
"per" et "ter" et caeteras progreditur nomen, ita quoque
animus audientis per easdem syllabas uadit. Sed ubi quis expleuerit nomen et
dixerit "imperterritus", sicut nomen finitum a syllabarum
progressione consistit, ita quoque audientis animus conquiescit. Nam cum totum
nomen audit, totam significationem capit et animus audientis, qui dicentis
syllabas sequebatur volens quid ille diceret intellegere, cum significationem
ceperit, consistit et ems animus perfecto demum nomine constituitur. Hoc est
enim quod ait: CONSTITUIT ENIM QUI DICIT INTELLECTUM ET QUI AUDIT QUIESCIT.
Etenim is qui loquitur postquam totum sermonem dixerit, ƿ audientis animum
constituit. Non est enim quo progrediatur intellegentia ipsoque nomine
terminato animus auditoris qui progrediebatur explicatione nominis constituitur
et quiescit et ultra ad intellegentiam, quippe expedita significatione nominis,
non procedit. Sed hoc verbo nominique commune est sed si verbum solum dicatur.
Namque si cum nomine coniungatur, nondum audientis constituitur intellectus.
Est enim quo ultra progredi animus audientis possit, quod cum dico: Socrates
ambulat hoc ambulat non per se intellegitur sed ad Socratem refertur et
in tota oratione consistit intellectus, non in solo sermone. At vero si solum
dictum sit, ita in significatione consistit, quemadmodum in nomine. Recte
igitur dictum est IPSA SECUNDUM SE DICTA VERBA NOMINA esse, quoniam CONSTITUIT
IS QUI DICIT INTELLECTUM ET QUI AUDIT QUIESCIT. Vel certe erit melior
expositio, si ita dicamus: verba ipsa secundum se dicta nomina esse, idcirco
quoniam cuiusdam rei habeant significationem. Neque enim si talis rei
significationem retinet verbum, quae semper aut in altero sit aut de altero
praedicetur, idcirco iam nihil omnino significat. Nec si significat aliquid
quod praeter subiectum esse non possit, idcirco iam etiam illud significat quod
subiectum est. Ut cum dico sapit, non idcirco nihil significat, quoniam hoc
ipsum sapit sine eo qui sapere possit esse non potest. Nec rursus cum dico:
Sapit illum ipsum qui sapit significo sed id quod dico
("sapit") nomen est cuiusdam rei, quae semper si in altero et de altero
praedicetur. Unde fit ut intellectus quoque sit. Nam qui audit
"Sapit", licet per se constantem rem non audiat (in altero namque ƿ
semper est et in quo sit dictum non est), tamen intellegit quiddam et ipsius
verbi significatione nititur et in ea constituit intellectum et quiescit, ut ad
intellegentiam ultra nihil quaerat omnino, sicut fuit in nomine. Quemadmodum
enim nomen cuiusdam rei significatio propria est per se constantis, ita quoque
verbum significatio rei est non per se subsistentis sed alterius subiecto et quodammodo
fundamento nitentis. Est hic quaestio. Non enim verum videri potest quod ait:
CONSTITUIT ENIM QUI DICIT INTELLECTUM ET QUI AUDIT QUIESCIT. Nam neque qui
dicit constituit intellectum neque qui audit quieseit. Deest enim quiddam
sermoni vel nomini: ut si qui dicat: Socrates mox audientis animus
requirit quid Socrates? Facitne aliquid an patitur? Et nondum audientis
intellectus quietus est, cum horum aliquid requirit. Et in verbo idem est: cum
dico: Legit quis legat, animus audientis inquirit. Nondum ergo qui dicit
constituit intellectum nec qui audit quiescit. Sed ad hoc Aristotelem
rettulisse putandum est, quoniam quilibet audiens cum significativam vocem
ceperit animo, eius intellegentia nitetur: ut cum quis audit homo, quid sit hoc
ipsum quod accipit mente comprehendit constituitque animo audisse se animal rationale
mortale. Si quis vero huiusmodi vocem ceperit, quae nihil omnino designet,
animus eius nulla significatione neque intellegentia roboratus errat ac
vertitur nec ullis designationis finibus conquiescit. Quare Aristotelis recta
sententia est: et verba secundum se dicta esse nomina et dicentem constituere
intellectum audientemque quiescere. Sed huiusmodi quaestio ab Aspasio proposita
est ab eodemque resoluta. Postquam igitur Aristoteles secundum se ƿ dicta verba
nomina esse constituit, quid inquit? SED SI EST VEL NON EST, NONDUM SIGNIFICAT.
Quod huiusmodi est ac si diceret: significatur quidem quiddam a verbis velut a
nominibus sed nulla inde tamen negatio affirmatiove perficitur. Cum enim dico
"Sapit", est quidem quaedam significatio sed nihil aut esse aut non
esse demonstrat, id est neque affirmativum aliquid nec negativum est. Nam si
affirmatio et negatio in intellectuum compositionibus invenitur, ut supra iam docuit,
neque nomina sola dicta nec verba aut affirmationem aut ullam facient
negationem. Pluribus enim modis docuit alias Aristoteles non in rebus sed in
intellectibus veritatem falsitatemque esse constitutam. Quod si in rebus esset
veritas falsitasue, una res sola dicta aut affirmatio esset aut quae ei
contraria est negatio. Nunc vero quoniam in intellectibus iunctis veritas et
falsitas ponitur, oratio vero opinionis atque intellectus passionumque animae
interpres est: [quare] sine compositione intellectuum verborumque veritas et
falsitas non videtur exsistere. Quocirca praeter aliquam compositionem nulla
affirmatio vel negatio est. Verba igitur per se dicta significant quidem
quiddam et sunt rei nomina sed nondum ita significant ut vel esse aliquid vel
non esse constituant, id est aut affirmationem faciant aut negationem. Nam
sicut in nominis partibus aut verbi partes ipsae nihil significant, omnes vero
simul designant, ita quoque in affirmationibus aut negationibus partes quidem
significant, totae vero coniunctae verum falsumue designant: ut cum dico:
Socrates philosophus est Socrates philosophus non est Singillatim positae
partes propria significatione nituntur sed nihil verum falsumue significant,
omnes vero simul iunctae, ut est: ƿ Socrates philosophus est veritatem
faciunt vel quod est huic contrarium falsitatem. Quare cum verba secundum se
dicta nomina sint et significent aliquid et partes quaedam eius compositionis
sint, quae verum falsumque faciat, non tamen ipsa in propria significatione vel
esse, quod affirmationis est, vel non esse quod est negationis, designant. Nisi
enim cui insit verbum illud fuerit additum, non fit enuntiatio: ut cum dico:
Sapit nisi quid sapiat dicam, propositio non est. Quod autem addidit:
NEQUE ENIM SIGNUM EST REI ESSE VEL NON ESSE, tale quiddam est. ESSE quod verbum
est, vel NON ESSE, quod infinitum verbum est, NON EST SIGNUM REI, id est nihil
per se significat. Esse enim nisi in aliqua compositione non ponitur. Vel certe
omne verbum dictum per se significat quidem aliquid sed SI EST VEL NON EST,
nondum significat. Non enim cum aliquid dictum fuerit, idcirco aut esse aut non
esse significat. Atque hoc est quod ait: NEQUE ENIM SIGNUM EST REI ESSE VEL NON
ESSE. Etenim quam rem verbum designat esse eius vel non esse non est signum
ipsum verbum quod de illa re dicitur, ac si sic diceret: neque enim signum est
verbum quod dicitur rei esse vel non esse hoc est de qua dicitur re, ut id quod
dico rei esse vel non esse tale sit, tamquam si dicam rem ipsam significare
esse vel non esse. Atque hic est melior intellectus, ut non sit signum verbum
eius rei de qua dicitur esse vel non esse, subsistendi scilicet vel non
subsistendi, quod illud quidem affirmationis est, illud vero negationis, et ut
sit talis sensus: neque enim verbum quod dicitur signum est subsistendi rem vel
ƿ non subsistendi. Sed quod addidit: NEC SI HOC IPSUM EST PURUM DIXERIS vel si
ita dicamus NEC SI HOC IPSUM ENS PURUM DIXERIS, Alexander quidem dicit est vel
ens aequivocum esse. Omnia enim praedicamenta, quae nullo communi generi
subduntur, aequivoca sunt et de omnibus esse praedicatur. Substantia est enim
et qualitas est et quantitas et caetera. Ergo nunc hoc dicere videtur: ipsum
ENS vel EST, unde esse traductum est, per se nihil significat. Omne enim
aequivocum per se positum nihil designat. Nisi enim ad res quasque pro
voluntate significantis aptetur, ipsum per se eo nullorum significativum est,
quod multa significat. Porphyrius vero aliam protulit expositionem, quae est
huiusmodi: sermo hic, quem dicimus est, nullam per se substantiam monstrat sed
semper aliqua coniunctio est: vel earum rerum quae sunt, si simpliciter
apponatur, vel alterius secundum participationem. Nam cum dico: Socrates
est hoc dico: Socrates aliquid eorum est quae sunt et in rebus his
quae sunt Socratem iungo; sin vero dicam: Socrates philosophus est hoc
inquam: Socrates philosophia participat. Rursus hic quoque Socratem
philosophiamque coniungo. Ergo hoc est quod dico vim coniunctionis cuiusdam
obtinet, non rei. Quod si compositionem aliquam copulationemque promittit,
solum dictum nihil omnino significat. Atque hoc est quod ait: NEC SI IPSUM EST
PURUM DIXERIS, id est solum: non modo neque veritatem neque falsitatem designat
sed omnino NIHIL est. Et quod secutus est planum fecit: CONSIGNIFICAT, inquit,
AUTEM QUANDAM ƿ COMPOSITIONEM, QUAM SINE COMPOSITIS NON EST INTELLEGERE. Nam si
est verbum compositionis. Coniunctionisque cuiusdam vim et proprium optinet
locum, purum et sine coniunctione praedicatum nihil significat sed eam ipsam
compositionem quam designat, cum fuerint coniuncta ea quae componuntur,
significare potest, sine compositis vero quid significet non est intellegere. Vel
certe ita intellegendum est quod ait IPSUM QUIDEM NIHIL EST, non quoniam nihil
significet sed quoniam nihil verum falsumue demonstret, si purum dictum sit.
Cum enim coniungitur tunc fit enuntiatio, simpliciter vero dicto verbo nulla veri
vel falsi significatio fit. Et sensus quidem totus huiusmodi est: ipsa quidem
verba per se dicta nomina sunt (nam et qui dicit intellectum constituit et qui
audit quiescit) sed quamquam significent aliquid verba, nondum affirmationem
negationemue significant. Nam quamuis rem designent, nondum tamen subsistendi
eius rei signum est, nec si hoc ipsum est vel ens dixerimus, aliquid ex eo
verum vel falsum poterit inveniri. Ipsum enim quamquam significet aliquid,
nondum tamen verum vel falsum est sed in compositione fit enuntiatio et in ea
veritas et falsitas nascitur, quam veritatem falsitatemque sine his quae
componuntur coniungunturque intellegere impossibile est. Et de verbo quidem et
de nomine sufficienter dictum est, secundo vero volumine de oratione est
considerandum. In quantum labor humanum genus excolit et
beatissimis ingenii fructibus complet, si tantum cura exercendae mentis
insisteret, non tam raris hominum virtutibus uteremur: sed ubi desidia demittit
animos, continuo feralibus seminariis animi uber horrescit. Nec hoc cognitione
laboris evenire concesserim sed potius ignorantia. Quis enim laborandi peritus
umquam labore discessit? Quare intendenda vis mentis est verumque est amitti
animum, si remittitur. Mihi autem si potentior divinitatis annuerit favor, haec
fixa sententia est, ut quamquam fuerint praeclara ingenia, quorum labor ac
studium multa de his quae nunc quoque tractamus Latinae linguae contulerit, non
tamen quendam quodammodo ordinem filumque et dispositione disciplinarum gradus
ediderunt, ego omne Aristotelis opus, quodcumque in manus venerit in Romanum
stilum vertens eorum omnium commenta Latina oratione perscribam, ut si quid ex
logicae artis subtilitate, ex moralis gravitate peritiae, ex naturalis acumine
veritatis ab Aristotele conscriptum sit, id omne ordinatum transferam atque
etiam quodam lumine commentationis illustrem omnesque Platonis dialogos
vertendo vel etiam commentando ƿ in Latinam redigam formam. His peractis non
equidem contempserim Aristotelis Platonisque sententias in unam quodammodo
revocare concordiam eosque non ut plerique dissentire in omnibus sed in
plerisque et his in philosophia maximis consentire demonstrem. Haec, si vita
otiumque suppetit cum multa operis huius utilitate necnon etiam labore
contenderim, qua in re faveant oportet, quos nulla coquit invidia. Sed nunc ad
proposita reuertamur. Aristoteles namque inchoans librum prius nomen
definiendum esse proposuit, post verbum, hinc negationem, post hanc
affirmationem, consequenter enuntiationem, orationem vero postremam. Sed nunc
cum de nomine et verbo dixit, converso ordine, quod ultimum proposuit, nunc
exsequitur primum. De oratione namque disputat quam postremam in operis dispositione
proposuit. Ait enim: ORATIO AUTEM EST VOX SIGNIFICATIVA, CUIUS PARTIUM ALIQUID
SIGNIFICATIVUM EST SEPARATUM, UT DICTIO, NON UT AFFIRMATIO. DICO AUTEM, UT HOMO
SIGNIFICAT ALIQUID SED NON QUONIAM EST AUT NON EST SED ERIT AFFIRMATIO VEL
NEGATIO, SI QUID ADDATUR. SED NON UNA HOMINIS SYLLABA. NEC IN EO QUOD EST SOREX
REX SIGNIFICAT SED VOX EST NUNC SOLA. IN DUPLICIBUS VERO SIGNIFICAT QUIDEM SED
NON SECUNDUM SE, QUEMADMODUM DICTUM EST. Videtur Aristoteles illas quoque voces
orationes putare, quaecumque vel ex nominibus vel ex verbis constent, non tamen
integrum colligant intellectum, ƿ ut sunt: Et Socrates et Plato Et ambulare et
dicere Haec enim quamquam pleni intellectus non sint, verbis tamen et
nominibus componuntur. Ait enim orationem esse vocem significativam, cuius
partes significarent aliquid separatim, significarent, inquit, non
consignificarent, ut in nomine atque verbo. Docet autem illa quoque res eum
etiam imperfectas, compositas tamen ex nominibus ac verbis voces orationes
dicere, quod ait, cum de nomine loqueretur, in eo quod est equiferus nihil
significare ferus, QUEMADMODUM IN ORATIONE QUAE EST EQUUS FERUS. Namque equus
ferus vox composita ex nominibtls est sed sententiam non habet plenam et ille
ait quemadmodum in oratione quae est equus ferus. Nam si secundum Aristotelem
equus ferus oratio est, cur non aliae quoque quae nominibus verbisque constent,
quamquam sint imperfectae sententiae, tamen orationes esse videantur? Cum
praesertim orationem ipse ita definiat: ORATIO EST VOX SIGNIFICATIVA CUIUS
PARTIUM ALIQUID SIGNIFICATIVUM EST SEPARATUM. In his ergo vocibus, quae verbis
et nominibus componuntur, partes extra significant, non consignificant. Nam si
nomen et verbum significativum est separatum, in his vero vocibus quae verbis
et nominibus componuntur partes extra significant, non consignificant, etiam
voces imperfectae nominibus verbisque compositae orationes sunt. Nam si nomen
omne et verbum significativum est, hae autem voces id est orationes nominibus
componuntur et verbis, dubium non est in his vocibus, quae ex nominibus et
verbis coniunctae sunt, partes per se significare. Quod si hoc est, et vox
cuius partium aliquid separatum et ƿ per se significat, licet sit imperfectae
sententiae, orationem tamen esse manifestum est. Sed quod addit orationis
partes significare, UT DICTIONEM, NON UT AFFIRMATIONEM, Alexander ita dictum
esse arbitratur: sunt, inquit, aliae quidem simplices orationes, quae solis
verbis et nominibus coniungantur, aliae vero compositae, quarum corpus iunctae
iam faciunt orationes. Et simplices quidem orationes partes habent eas ex
quibus componuntur, verba et nomina, ut est: Socrates ambulat Compositae
autem aliquotiens quidem tantum orationes, aliquotiens vero etiam
affirmationes, ut cum dico: Socrates ambulat et Plato loquitur utraeque
sunt affirmationes, vel: Aio te, Aeacida, Romanos vincere posse ex
orationibus non ex affirmationibus componitur talis oratio. Prior autem
simplicitas est, posterior compositio. In quibus autem prius est aliquid et
posterius, illud sine dubio definiendum est priore loco, quod natura quoque
praecedit. Ita ergo quoniam prior simplex oratio est, posterior vero composita,
prius simplicem orationem definitione constituit dicens: cuius partes
significant UT DICTIO, NON UT AFFIRMATIO, dictionem simplicis nominis aut verbi
nuncupationem ponens. In simplicibus enim orationibus huiusmodi partes sunt. In
compositis vero aliquotiens quidem orationes tantum, aliquotiens vero affirmationes,
ut supra monstravimus. Addit quoque illud: omnem, inquit, definitionem vel
contractiorem esse definita specie vel excedere non oportet. Quod si
Aristoteles ita constituisset ƿ definitionem, ut significare partes orationis
diceret ut orationes ac non ut dictiones, simplices orationes ab hac definitione
secluderet. Orationum namque simplicium partes, non ut orationes sed ut
simplicia verba nominaque significant. Nam si omnis oratio orationes habebit in
partibus, rursus ipsae partes quae sunt orationes aliis orationibus
coniungentur. Et rursus partium partes, quae eaedem quoque orationes sunt,
alias orationes in partibus habebunt. Ac si hoc intellegentia sumpserit, ad
infinitum procedit nec ulla erit prima oratio quae simplices habeat partes.
Neque enim fieri potest, ut prima dicatur oratio quae alias orationes habet in
partibus. Partes enim priores sunt propria compositione. Quod si in infinitum
ducta intellegentia nulla prima oratio reperitur, cum nulla sit oratio prima,
nec ulla postrema est. Quocirca interempta prima atque postrema omnes quoque
interimuntur et nulla omnino erit oratio. Quare non recta fuisset definitio, si
ita dixisset: oratio est vox significativa, cuius partes aliquid extra
significant ut orationes. At vero, inquit Alexander, nec si quaedam orationes
in partibus continent, idcirco iam necesse est ipsarum orationum partes
affirmationes esse, ut cum dico: Desine meque tuis incendere teque
querellis Sunt ergo huius orationis partes: una "Desine meque tuis
incendere", alia "teque querellis". Neutra harum est affirmatio,
quamquam esse videatur oratio. Quocirca nec illa fuisset recta definitio, si
ita dixisset: oratio est vox significativa, ƿ cuius partes aliquid extra
significent, ut affirmatio. Huiusmodi enim orationis cum sint partes ex
orationibus iunctae, non tamen affirmationibus totum ipsius orationis corpus
efficitur. Sed quoniam in omni oratione verba sunt et nomina, quae simplices
sunt dictiones, non autem in omnibus orationibus aut affirmationes aut
orationes partes sunt, quod commune erat id in definitione constituit, tamquam si
ita diceret: oratio est vox significativa secundum placitum, cuius partes
aliquid extra significent, ex necessitate quidem ut dictio, non tamen semper ut
affirmatio aut oratio. Neque enim fieri potest, ut inveniatur oratio, cuius
partes non ita aliquid extra significent ex necessitate, ut nomen aut verbum,
cum inveniri possit, ut ita significent orationis partes, ut tamen orationes
aut affirmationes non sint. Quare si ita dixisset: oratio est vox
significativa, cuius partes aliquid extra significant ut affirmatio, illas
orationes hac definitione non circumscripsisset, quarum partes orationes quidem
sunt sed non affirmationes, ut ille versus est quem supra iam posui. Sin vero
sic dixisset: oratio est vox significativa cuius partes aliquid extra significant
ut oratio, illas orationes in definitione reliquisset, quarum partes sunt
simplices, ut est: Socrates ambulat Sed cum dicit orationis partes ita
significare, ut dictiones, non omnino ut affirmationes, et simplices et
compositas hac definitione conclusit. Simplices quidem idcirco, quod quaelibet
simplex paruissimaque oratio nomine et verbo coniungitur, quae sunt simplices
dictiones, compositas vero, quia, cum habeant orationes in partibus, partes
ipsae habent simplices dictiones, quae ipsae simplices dictiones totius
corporis partes sunt. Ut cum dico: Si dies est, lux est "dies
est" et "lux est" partes sunt totius orationis sed harum rursus
partium partes sunt "dies" et "est", et rursus
"lux" et "est", quae rursus totius orationis, per quam dico
"Si dies est, lux est", partes sunt; sed "dies" et
"est" et rursus "lux" et "est" sunt simplices
dictiones. Quocirca etiam compositarum orationum partes indubitanter semper ita
significant, ut dictiones, non ut affirmationes aut quaedam orationes. Quare
hanc definitionem Aristoteles recte constituit. Ad hanc ergo sententiam locum
hunc Alexander expedit, illud quoque addens saepe Aristotelem de
affirmationibus dicere dictiones, quod distinguere volens, cum diceret ita
significare partes orationis tamquam dictionem, ne forte dictionem hanc aliquis
et in affirmatione susciperet, addidit ut dictio non ut affirmatio, tamquam si
diceret: duplex quidem est dictio: una simplex, alia vero affirmatio sed ita
partes orationis aliquid extra significant, ut ea dictio, quae est simplex, non
ut ea dictio, quae est affirmatio. Et huiuscemodi quodammodo intellectum tota
Alexandri sententia tenet. Porphyrius vero in eadem quoque sententia est sed in
uno discrepat. Cuius expositio talis est: dictio, inquit, est simplex nomen,
simplex etiam verbum vel ex duobus compositum, ut cum dico "Socrates"
vel rursus "ambulat" vel "equiferus". Procedit etiam nomen
hoc dictionis ad orationes quidem sed simplicibus verbis nominibusque
coniunctas, ut cum dico: Et Socrates et Plato et si sit ex composito nomine,
ut est equiferus et homo. Hae orationes quamquam ƿ coniunctae sint atque
imperfectae, tamen dictionis nomine nuneupantur. Necnon etiam transit nomen hoc
dictionis usque ad perfectas orationes, quas enuntiationes nuncupari posterius
est dicendum. Est autem enuntiatio simplex, ut si quis dicat: Socrates
ambulat et haec dicitur affirmatio. Huius negatio est: Socrates non
ambulat Simplices ergo enuntiationes sunt affirmationes vel negationes,
quae singulis verbis ac nominibus componuntur. Itaque eum dico: Si dies est,
lux est tota quidem huiusmodi oratio dictio esse non dicitur. Composita
namque est coniunctaque ex orationibus, quae sunt "dies est" et
"lux est". Hae autem sunt affirmationes et dicuntur dictiones. Ipsae
vero affirmationes quae dictiones sunt habent rursus alias dictiones simplices,
ut est dies et est et rursus lux et est. Ergo cum dico: Socrates ambulat
haec oratio partes habet dictiones, nomen scilicet et verbum, quae dictiones
quidem sint, non tamen affirmationes. Sin vero dicam: Socrates in lycio cum
Platone et caeteris discipulis disputavit haec pars orationis quae est
"Socrates in lycio cum Platone" ipsa quoque est dictio sed non ut
simplex nomen vel verbum neque ut affirmatio sed tantum ut imperfecta oratio
verbis tamen nominibusque composita. Quod si sic dicam: Si homo est, animal
est haec rursus oratio habet dictiones in partibus sed neque ut simplices
dictiones neque ut imperfectas orationes sed ut perfectas simplicesque
affirmationes. Et est una affirmatio "animal est", alia vero est
"homo est", tota vero ipsa oratio dictio non est. Quod si dicam: Si
animal non est, homo non est rursus haec oratio ex duabus simplicibus
dictionibus negativis videtur esse composita, quae nihilominus ƿ tota dictio
non est. Ita ergo dictio inchoans a simplicibus nominibus atque verbis usque a
orationes, quamuis imperfectas, provehitur nec in his tantummodo consistit sed
ultra etiam ad simplices affirmationes negationesque transit et in eo
progressionis terminum facit. Ergo quoniam non omnis oratio artes habet
affirmationes et negationes, quae sunt perfectae enuntiationes simplicium
dictionum, quoniamue non omnis oratio imperfectas orationes habet in partibus,
omnis tamen oratio simplices dictiones retinet, quippe cum omnis ex verbis
nominibusque iungatur, hoc ait orationis partes significare semper quidem ut
dictiones, non tamen semper ut affirmationes, consentiente Alexandro, cuius
expositionem supra iam docui. Atque ita diligentior lector differentias eorum
recte perspiciet et consentientes communicat intellectus. Hoc loco Aspasius
inconvenienter interstrepit. Ait enim non in omnes orationes Aristotelem
definitionem constituere voluisse sed tantum simplices, quae ex duobus
constant, verbo scilicet et nomine. Sed ille perfalsus est. Neque enim si sim
otatio simplicibus verbis nominibusque consistit, idirco non composita quoque
oratio verba et nomina bimiliter in partibus habet. Quod si hoc commune est
simplicibus orationibus atque compositis, ut habeant artes dictiones quidem
simplices, non etiam affirmationes, ut etiam quae affirmationes orationes
habent, hae tamen habeant in partibus simplices dictiones, cur hanc quaestionem
in Aristotelem iaciat, ratione relinquitur. Syrianus vero, qui Philoxenus
cognominatur, non putat orationes esse quarum intellectus ƿ sit imperfectus
atque ideo nec eas aliquas habere partes. Nam cum dicit: Plato in Academia
disputans haec quoniam perfecta non est, partes, inquit, non habet,
arbitrans omne quod imperfectum est nullis partibus contineri. Atque ideo, cum
dicit Aristoteles: oratio est vox significativa cuius partes aliquid extra
significent, illam orationem constitui putat, quae perfectum retinet sensum.
Ipsarum enim partes esse verba et nomina. Sed hoc ridiculum est. Neque enim
compositum aliquid fieri potest nisi propriis partibus. Quod si quaelibet res
ut componatur habeat decem partes, eas tamen singillatim apponi necesse sit,
antequam ad decimam veniamus partem: nihilo tamen minus partes erunt quas
sibimet ad componendam totius corporis summam singillatim superponimus etiam si
ad illud quod componendum fuit minime peruentum est. Quocirca si antequam
perveniatur ad ultimam partem priores partes effecti compositique partes sunt,
nulla ratio est imperfectae rei partes dici non posse. Neque enim dicitur
totius compositi partes esse, quae sint imperfecti. Ut si sit integrum nomen
habeatque partes quatuor, id est syllabas, ut Mezentius, si unam syllabam demam
dicamque mezenti, vel si unam rursus duasque ponam, ut sunt mezen, huius tamen
utraque syllaba me scilicet et zen partes sunt, et cum sit compositio ipsa
sensu uacua ac sit imperfecta, tamen partibus continetur Syrianus igitur minime
audiendus est sed potius Porphyrius, qui ita Aristotelis mentem sententiamque
persequitur, ut eius definitionem, sicut vera est, labare et in aliquibus aliis
discrepare non faciat. ƿDe his quidem hactenus. Porphyrius autem ita dicit:
voleus, inquit, Aristoteles ostendere omnem orationem aut simplices tantum
habere partes aut compositas, a simplicibus sumpsit exemplum, ut diceret
significare orationis partes, UT DICTIONEM NON UT AFFIRMATIONEM, ut cum est
oratio: Plato disputat dictiones quidem sunt sed non ut affirmationes. Si
vero sic esset oratio: Si Plato disputat, verum dicit "Plato
disputat" et "verum dicit", cum sint dictiones, non sunt tamen
ut simplices sed ut iam affirmationes. Neque enim simplex dictio affirmatio est
aut negatio sed tunc fit, cum additur aliquid, quod aut affirmationis vim
teneat aut negationis. Atque hoc est quod ait: DICO AUTEM, UT HOMO SIGNIFICAT
ALIQUID SED NON QUONIAM EST AUT NON EST SED ERIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO, SI
QUID ADDATUR. Hoc huiusmodi est, tamquam si diceret: nomen quidem simplex
affirmationem aut negationem non facit, nisi aut "est" verbum
addatur, quae est affirmatio, aut "non est", quae est negatio. Quod
autem addit: SED NON UNA HOMINIS SYLLABA. NEC IN EO QUOD EST SOREX REX
SIGNIFICAT' SED VOX EST NUNC SOLA. IN DUPLICIBUS VERO SIGNIFICAT QUIDEM SED
NIHIL SECUNDUM SE, QUEMADMODUM DICTUM EST, huius loci duplex est expositio.
Quod enim dixerat prius: SED ERIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO SI QUID ADDATUR EI
DICTIONI, quam supra simplicem esse proposuit, cum de significativa orationis
parte loqueretur, nunc id implet et explicat dicens non si quodlibet addatur
simplici dictioni, statim fieri affirmationem vel negationem, nec vero
orationem neque enim si quid non per se significativum dictioni ƿ simplici
copuletur, idcirco iam vel oratio vel affirmatio vel etiam negatio
procreabitur. Neque enim si una hominis syllaba quae significativa per se non
est dictioni eidem ipsi addatur, iam ulla inde procreatur oratio. Quod si
oratio non fit, nec affirmatio nec negatio. Hae enim orationes quaedam sunt. Ut
si quis ex eo quod est homo tollat unam syllabam eamque totae dictioni simplici
aptet dicatque homo mo vel alio quolibet modo deeidens partem toti corpori
dictionis adiciat, non faciet orationem. Quod si hoc est, nec affirmationem nec
negationem, quae quaedam sunt orationes. Ergo ita accipiendum est, tamquam si
hoc modo dixisset: DICO AUTEM, UT HOMO SIGNIFICAT ALIQUID SED NON QUONIAM EST
AUT NON EST SED ERIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO, SI QUID ADDATUR SED NON UT UNA
HOMINIS SYLLABA ADDATUR nec cuiuslibet alterius dictionis, si quid per se non
significat, ut in eo quod est sorex rex non significat sed vox est nunc sola. Atque
ideo si quis velut partem tollat, id quod est rex, apponatque ei quod est sorex
et dicat sorex rex, ut rex tamquam pars sit eius quod est sorex, oratio nulla
est atque ideo neque affirmatio nec negatio. Hae enim ex vocibus per se
significativis constant. Rex vero in eo quod est sorex quoniam pars est nominis,
nihil ipsa significat. Vel certe erit melior intellectus, si hoc quod ait SED
NON UNA HOMINIS SYLLABA non aptemus ad orationis perfectionem sed potius ad
dictionis significationem, ut quoniam superius dixit orationis partes ita
significare ut dictionem non ut affirmationem, ƿ quae esset dictio, manifeste
monstraret. Dictionem namque constituit vocem per se significantem. Ergo cum
dicit SED NON UNA HOMINIS SYLLABA, tale est ac si diceret: significat quidem
pars orationis ut dictio sed hae ipsae dictiones perfecta nomina sunt et verba,
non partes nominum verborumque. In eo enim quod est: Equiferus currit
equiferus quidem dictio est totius orationis significans ut pars orationis sed
'ferus' consignificat ut pars nominis atque ideo 'ferus' dictio non est.
Quocirca nec si qua alia syllaba in parte orationis sit, id est in nomine vel
verbo, nihil per se significans. Quamquam sit in parte nominis, quod nomen pars
orationis est, nihil tamen ipsa significabit in tota oratione: quare nec dictio
erit. Audiendum ergo ita est tamquam si sic diceret: ORATIO AUTEM EST VOX
SIGNIFICATIVA, CUIUS PARTIUM ALIQUID SIGNIFICATIVUM EST SEPARATUM, UT DICTIO,
NON UT AFFIRMATIO. DICO AUTEM, UT HOMO SIGNIFICAT ALIQUID et est quaedam dictio
et simplex. Nam neque oratio est, quoniam simplex est, nec affirmatio neque
negatio, quoniam non significat esse aut non esse sed erit tunc affirmatio,
quando aliquid additur, quod affirmationem negationemue constituit. Sed quod
aio dictionem esse id quod dicimus homo, idcirco dictio est, quoniam per se
significat. Syllaba vero eius nominis quod est ƿ homo, quoniam nihil designat,
non est dictio (hoc est enim SED NON UNA HOMINIS SYLLABA) vel si videatur
quidem significare, pars tamen sit nominis et consignificet in nomine, in tota
oratione nihil significat. Neque enim pars orationis est. Quod per hoc dixit
quod ait: NEC IN EO QUOD EST SOREX REX SIGNIFICAT SED VOX EST NUNC SOLA nihil
significans. Unde probatur huiusmodi particulas non esse dictiones. Vox enim
sola non est dictio sed vox per se significans. Si qua autem sunt, inquit,
nomina, quae sint composita ex aliis, ut est equiferus, emittunt quidem quandam
imaginem significandi sed per se nihil significant, consignificant autem. In
simplicibus vero nominibus nec imaginatio ulla significandi est, ut in eo quod
est Cicero: partes eius cum simplices sono, tum etiam intellectu praeter
cuiuslibet imaginationis similitudinem sunt. In duplicibus vero uult quidem
pars significare sed nullius separati significatio est, idcirco quoniam solum
consignificat id quod totum compositi nominis corpus designat, ipsum vero
separatum (ut saepius dictum est) nihil extra significat. EST AUTEM ORATIO
OMNIS QUIDEM SIGNIFICATIVA NON SICUT INSTRUMENTUM SED (QUEMADMODUM DICTUM EST)
SECUNDUM PLACITUM. Secundum placitum esse orationes illa res approbat, quod
earum partes secundum placitum sunt, id est verba et nomina. Quod si omne
compositum ab his, ex quibus est compositum, sumit naturam, vox quae positione
constitutis vocibus iungitur ipsa quoque secundum placitum positionemque
formatur. Quare manifestum est orationem secundum placitum esse. Plato autem in
eo libro, qui inscribitur "Cratylus", aliter esse constituit eamque
dicit supellectilem quandam atque instrumentum esse significandi res eas, quae
naturaliter intellectibus concipiuntur, eorumque intellectuum vocabulis
dispertiendorum. Quod omne instrumentum, quoniam naturalium rerum, secundum
naturam est, ut videndi oculus, nomina quoque secundum naturam esse arbitratur.
Sed hoc Aristoteles negat et Alexander multis in eo nititur argumentis
monstrans orationem non esse instrumentum naturale. Aristoteles vero ita utitur
dicens: EST AUTEM ORATIO OMNIS QUIDEM SIGNIFICATIVA NON SICUT INSTRUMENTUM,
tamquam si diceret: est quidem omnis oratio significativa, non tamen
naturaliter. Instrumentum enim hoc demonstrat, tamquam si diceret naturaliter,
quod qui instrumentum orationem esse negat, negat eam naturaliter significare
sed ad placitum. Naturalium enim rerum naturalia sunt instrumenta. Idcirco
autem instrumentum pro natura posuit, quod (ut dictum est) Plato omnium artium
instrumenta secundum naturam ipsarum artium consistere proponebat. Et Alexander
quidem non esse instrumentum orationem sic ingreditur approbare: omnis, inquit,
naturalium actuum supellex ipsa quoque naturalis est, ut visus quoniam natura
datur, eius quoque supellex ƿ est naturalis, ut oculi. Eodem quoque modo
auditus cum naturalis sit, aures nobis, quae sunt audiendi instrumenta,
naturaliter datas esse cognoscimus. Quare quoniam oratio ad placitum, non
naturaliter est (partes enim manifestum est orationis ad placitum positas, quae
sunt scilicet verba et nomina, sicut monstrat apud omnes gentes diversitas
vocabulorum): quoniam ergo per haec secundum placitum omnis oratio esse
monstratur, quod autem secundum placitum est, non est secundum naturam: non est
ergo oratio supellex. Significandi enim ratio atque potestas naturaliter est.
Quod si oratio naturaliter non est, non est supellex. His aliisque similibus
monstrat non esse supellectilem orationem. Quocirca dicendum nobis est
naturaliter quidem nos esse vocales potentesque naturaliter vocabula rebus
imprimendi, non tamen naturaliter significativos sed positione: sicut artium
singularum naturaliter sumus susceptibiles sed eas non naturaliter habemus sed
doctrina concipimus: ita ergo vox quidem naturaliter est sed per vocem
significatio non naturaliter. Neque enim vox sola est nomen aut verbum sed vox
quadam addita significatione. Et sicut naturaliter est moveri, saltare vero
cuiusdam iam artificii et positionis, et quemadmodum aes quidem naturaliter
est, statua vero positione aut arte: ita quoque possibilitas quidem ipsa
significandi et vox naturalis est, significatio vero per vocem positionis est,
non naturae. Hactenus quidem de communi oratione locutus est, nunc autem transit
ad species eius. Ait enim: ENUNTIATIVA VERO NON OMNIS SED IN QUA VERUM VEL
FALSUM INEST. NON AUTEM IN OMNIBUS, UT DEPRECATIO ORATIO QUIDEM EST SED NEQUE
VERA NEQUE FALSA. ET CAETERAE QUIDEM RELINQUANTUR; RHETORICAE ENIM VEL POETICAE
CONVENIENTIOR CONSIDERATIO EST; ENUNTIATIVA VERO PRAESENTIS EST SPECULATIONIS.
Species quidem orationis multae sunt sed eas varie partiuntur. At vero
Peripatetici quinque partibus omnes species orationis ac membra distribuunt.
Orationis autem species dicimus perfectae, non eius quae imperfecta est.
Perfectas autem voco eas quae complent expediuntque sententiam. Et sit nobis
hoc modo divisio: sit oratio genus: orationis aliud est imperfectum, quod
sententiam non expedit, ut si dicam: Plato in lycio aliud vero perfectum.
Perfectae autem orationis alia est deprecativa, ut: Adsit laetitiae Bacchus
dator alia imperativa, ut: Accipe daque fidem alia interrogativa,
ut: Quo te, Moeri, pedes? An quo via ducit? Alia vocativa, ut: O qui res
hominumque deumque Aeternis regis imperiis alia enuntiativa, ut: Dies
est et: Dies non est In hac sola, quae est enuntiativa, veri
falsive natura perspicitur. In caeteris enim neque veritas neque falsitas
invenitur. Et multi quidem plures species esse dicunt perfectae orationis, alii
autem innumeras earum differentias produnt sed nihil ad nos. Cunctae enim
species orationis aut oratoribus accommodatae sunt aut poetis, sola enuntiativa
philosophis. Ergo hoc dicit: non omnis oratio enuntiativa est. Sunt enim
plurimae quae enuntiativae non sunt, ut hae quas supra proposui. Haec autem
sola est, in qua verum falsumque inveniri queat. Quocirca quoniam de ista, in
qua veritas et falsitas invenitur, dialecticis philosophisque est quaerendum,
caeterae autem aut poetis aut oratoribus accommodatae sunt, iure de hac sola
tractabitur, id est de enuntiativa oratione. Hucusque ergo de partibus
interpretationis et de communi oratione locutus est. Nunc autem adstringit
modum disputationis in speciem et de una specie orationis tractat deque una
interpretatione, quae est enuntiativa. Species namque est enuntiatio
interpretationis, negatio vero et affirmatio enuntiationis. Quare de
enuntiativa oratione considerandi hinc cum ipso Aristotele commodissimum
sumamus initium. EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE
NEGATIO; ALIAE VERO CONIUNCTIONE UNAE. NECESSE EST AUTEM OMNEM ORATIONEM
ENUNTIATIVAM EX VERBO ESSE VEL CASU. ETENIM HOMINIS RATIO, SI NON AUT EST AUT
ERIT AUT FUIT AUT ALIQUID HUIUSMODI ADDATUR, NONDUM EST ORATIO ENUNTIATIVA.
QUARE AUTEM UNUM QUIDDAM EST ET NON MULTA ANIMAL GRESSIBILE BIPES, NEQUE ENIM
EO QUOD PROPINQUE DICUNTUR UNUM ERIT, EST ALTERIUS HOC TRACTARE NEGOTII. Una
oratio duplici tractatur modo: vel cum per se una est vel cum per aliquam
coniunctionem coniungitur. Vel certe ita dicendum est: aliae orationes
naturaliter unae sunt, aliae positione. Et naturaliter quidem unae sunt
orationes, quae non dissoluuntur in alias orationes, ut est: Sol oritur
Quae autem positione sunt unae in alias orationes dissoluuntur, ut est: Si homo
est, animal est haec enim in orationes alias separatur. Et quemadmodum
lignum vel lapis singillatim in propria natura consistunt et una sunt, ex his
autem facta navis vel domus cum pluribus quidem constent, unae tamen arte sunt,
non natura: ita quoque in orationibus simplices et per se naturaliter unas
orationes dicimus, quae verbo tantum et nomine iunguntur, compositas autem,
quae in alias (ut dictum est) orationes dividuntur. Multas enim orationes in
huiusmodi orationibus coniunctio iungit, ut si dicam: Et Plato est et
Socrates haec coniunctio et utrasque coniunxit atque ideo una videtur
positione, quae naturaliter et per se una non fuerat. Naturaliter autem unius
orationis duae partes sunt: affirmatio et negatio. Sed quoniam non ita dixit:
EST AUTEM UNA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO VEL NEGATIO, DEINDE UNA
CONIUNCTIONE sed ait: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE
NEGATIO, huiusmodi oritur quaestio, utrum id quod ait prima ad affirmationem
referatur, ut sit posterior negatio, an id quod ait prima ad simplicem
rettulerit orationem, ut secunda sit, quae ex orationibus iungitur. Quam
dubietatem ipse dissolvit. Sic enim inquit: EST AUTEM PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA
AFFIRMATIO, et ut quam secundam diceret demonstraret ait DEINDE NEGATIO, ut
primam affirmationem poneret, secundam negationem. Quod si ita dixisset: EST
AUTEM UNA PRIMA ENUNTIATIVA ORATIO AFFIRMATIO VEL NEGATIO, DEINDE CONIUNCTIONE
UNAE, ita oporteret intellegi tamquam si diceret illam esse primam unam
orationem, quae simplex esset, cuius partes affirmatio essent atque negatio,
secundam vero illam, quae coniunctione quadam una fieret, cum ex orationibus
iungeretur. Sed quoniam id quod ait prima ad affirmationem iunxit dicens EST
AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, ad negationem vero 'deinde'
subiunxit dicens DEINDE NEGATIO, dicendum est primam eum orationem esse
arbitrari affirmationem, secundam vero negationem, cui 'deinde' continenter
apposuit. Sed rursus incurrimus Alexandri quaestionem. Per hoc enim negationem
affirmationemque negat sub uno genere poni oportere, sub enuntiatione, quod in
his, quae priora vel posteriora sunt, commune genus non potest inveniri. Sed
huic supra iam dictum est, non oportere omnia quaecumque quolibet modo priora
vel posteriora sunt a genere communi secernere (alioquin sic primae et secundae
substantiae sub uno genere substantiae non ponentur, sic etiam simplices et
compositae orationes, quarum simplices propositiones primae sunt, posteriores
compositae, uno genere non continebuntur) sed illa sola putanda sunt sub eodem
genere poni non posse, quae ad substantiam priora vel posteriora esse
cognoscimus, quae vero ad suum esse aequalia sunt nihil prohibet sub eodem
genere utraque constitui. Ergo quoniam affirmationi et negationi hoc est esse,
quod ƿ in his veritas et falsitas reperitur, hoc autem est enuntiatio, in qua
scilicet veritatis et falsitatis constituta sit ratio: quoniam ad id quod falsi
verique significativae sunt neque affirmatio prior neque negatio posterior est,
nullus dubitat a quo aequaliter participant affirmatio et negatio eidem generi
posse supponi. Sed affirmatio atque negatio aequaliter enuntiatione
participant, siquidem enuntiatio veri falsique utitur significatione et
affirmatio et negatio veritatem atque mendacium aequaliter monstrat: enuntiatio
igitur affirmationis et negationis genus esse ponenda est. Quod ergo ait: EST
AUTEM PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO; ALIAE VERO
CONIUNCTIONE UNAE, ita intellegendum est, quod affirmationem primam, secundam
vero negationem, cui addidit deinde, in prolatione posuerit. Prior enim est
affirmatio, posterior negatio, in prolatione dumtaxat, non secundum veri
falsique designationem. Quocirca nihil prohibet et priorem putari affirmationem
negatione et tamen utrasque sub uno genere id est enuntiatione constitui. Sed
quod secutus est: NECESSE EST AUTEM OMNEM ORATIONEM ENUNTIATIVAM EX VERBO ESSE
VEL CASU, huiusmodi est: volens Aristoteles distribuere dictionem,
affirmationem, negationem, enuntiationem, contradictionem sensum confusa
brevitate permiscuit et nebulis obscuritatis implicuit. Oportuit namque prius
quid esset dictio, post autem quid affirmatio et negatio et rursus enuntiatio
et contradictio constituere. Sed haec interim praetermittit, nunc vero
quemadmodum constituatur enuntiatio docet dicens, quod omnis enuntiatio constet
in verbo. Quoniam simplex dictio est nomen ƿ aut verbum, omnis enuntiatio
simplex huiusmodi est, ut semper quidem vel vertum vel aliquid quod idem valeat,
tamquam si diceretur verbum vel casum verbi, in praedicatione retineat sed non
semper subiectus terminus fit ex nomine, semper tamen praedicatus ex verbo. Sit
enim huiusmodi propositio, quae est: Sol oritur in hac ergo propositione
quod dico "sol" subiectum est, quod vero dico "oritur"
praedicatur. Et utrasque has dictiones terminos voco sed quodcumque prius
dicitur in simplici enuntiatione, illud subiectum est, ut in hac
"sol", quod vero posterius, illud praedicatur, ut in eadem
"oritur". Ergo necesse est omnem enuntiativam orationem, si simplex
sit, verbum in praedicatione retinere, ut in eadem ipsa cum dico "Sol
oritur", "oritur" verbum est -- vel quod idem valeat, ut est:
Socrates non ambulat "Non ambulat" enim infinitum verbum est et
verbum quidem non est sed eandem vim retinet quam verbum. Casus etiam verbi
ponitur saepe, ut Socrates fuit Subiectus vero terminus non semper
consistit in nomine. Potest enim et infinitum nomen habere, ut cum dico: Non
homo ambulat potest etiam verbum, ut cum dico: Ambulare movere est
Ergo (ut arbitror) plene monstratum est non semper subiectum nomen esse, semper
autem praedicatum in solo verbo consistere. Approbans ergo verba semper in
praedicationibus poni hoc addidit: nisi enim aut est aut fuit aut aliquid huiusmodi
sit additum aut quod idem valeat apponatur, enuntiatio non fit. Cum enim dico:
Homo est 'est' verbum in praedicatione proposui, sin vero dixero: Homo
vivit idem valet tamquam si dicam homo vivus est. Ergo non posse sine
verbo affirmationem negationemue constitui ƿ docuit per id quod ait ETENIM
HOMINIS RATIO, SI NON AUT EST AUT ERIT AUT FUIT AUT ALIQUID HUIUSMODI ADDATUR,
NONDUM EST ORATIO ENUNTIATIVA. Hoc enim dicere videtur: definitio hominis est
verbi gratia animal gressibile bipes et haec est ratio humanae substantiae.
Ergo haec ratio, nisi ei aut est aut erit aut fuit aut quodlibet verbum (sicut
supra dictum est) apponatur, enuntiatio non fit; neque enim verum neque falsum
est. Si enim dicam tantum animal gressibile bipes, nulla me veritas mendaciumue
consequitur. Sin autem dixero animal gressibile bipes est vel non est,
affirmatio mox negatioque conficitur, quas enuntiationes esse quis dubitet? Sed
cum de simplicibus enuntiationibus loqueretur, ait hominis rationem id est
definitionem non esse enuntiationem, nisi ei aut est aut erit aut huiusmodi
aliquid apponatur, approbans scilicet unam esse et non multiplicem orationem
definitionis humanae, cui si est aut erit aut fuit adderetur, enuntiationem
simplicem faceret. Cur vero una sit talis oratio causa quaeritur. Neque enim ex
solis duobus terminis constat id quod dicimus animal gressibile bipes, ut quae
nomina plura sunt. Quare ipse sibi institit et de sua propositione rationem
quaesivit, quam nunc dicere supersedit. Ait enim: QUARE AUTEM UNUM QUIDDAM EST
ET NON MULTA ANIMAL GRESSIBILE BIPES, NEQUE ENIM EO QUOD PROPINQUE DICUNTUR
UNUM ERIT, EST ALTERIUS HOC TRACTARE NEGOTII, hoc scilicet quaerens, tamquam si
ita ipse ex persona sua diceret: de simplicibus enuntiationibus omnibus
loquebar deque his proposui eas praeter verbum esse ƿ non posse et ad hanc rem
probandam exemplum sumpsi definitionem hominis, cui nisi aut est aut erit aut
fuit apponeretur, enuntiationem non fieri dixi, quasi una et non multiplex
esset oratio ea per quam dicitur animal gressibile bipes, de qua fieri posset
simplex enuntiatio. Cur autem una erit oratio animal gressibile bipes,
ALTERIUS, inquit, EST HOC TRACTARE NEGOTII, cum de rebus non de propositionibus
perspiciendum est. Nam non idcirco una est oratio, quia continve dicitur et
coniuncte sibimet animal gressibile bipes. Hoc enim si ita esset, possemus et
hanc orationem, quae tam multa significat, unam dicere, si continve proferatur,
ut est: Socrates philosophus simus caluus senex Ergo quemadmodum
huiusmodi oratio sit multiplex et non una, posterius dicemus. Nunc ergo
manifestum sit hanc orationem quae dicit Socrates philosophus simus caluus
senex non esse unam sed multiplicem. Si ergo propinquitas proferendi ipsa
continuatione unam faceret orationem, posses haec quoque una esse oratio, quae
manifesto non una esse docebitur. Quare non idcirco erit una oratio ea quae
dicit animal gressibile bipes, quod propinque et continve profertur. Quae autem
causa sit ut una sit, ipse dicere distulit sed in libris eius operis, quod
*Meta ta physika* inscribitur, expediet. Theophrastus autem in libro de
affirmatione et negatione sic docuit: definitionem unam semper esse orationem
eamque oportere continuatim proferre. Illa enim una oratio esse dicitur, quae
unius substantiae designativa est. Definitio autem, ut verbi gratia hominis
animal gressibile ƿ bipes, una est oratio per hoc, quoniam unum subiectum id
est hominem monstrat. Si ergo continve proferatur et non divise, una est
oratio, et quia continve dicitur et quia unius rei substantiam monstrat; sin
vero quis dividat et orationem unam rem significantem proferendi intermissione
distriboat, multiplex fit oratio. Ut si dicam animal gressibile bipes, unam rem
mihi tota monstrat oratio et continve dicta est; sin vero dicam animal et
rursus gressibile et sub intermissione repetam bipes, multiplex fit distribute
intermissione oratio. Et rursus adversum id quaestio. Et quis hoc non iure
culpet posse eam quae una est orationem intermissione proferendi fieri
multiplicem, cum continuatio proferendi non faceret unam, quae esset multiplex
per naturam? Sicut enim in his, quae multiplices sunt naturaliter, non potest
continuatio proferendi unam facere orationem, sic quoque non debet quae est una
naturaliter oratio idcirco quod de uno subiecto dicatur fieri multiplex per
intermissionem. Sed hoc ita solvitur: nam cum dicimus animal et sub
intermissione rursus gressibile eodemque modo iterum bipes, non hoc ita
dicimus, tamquam si in unum cuncta coniuncta sins. Quocirca quoniam est quidem
animal, est rursus gressibile, est rursus bipes, quoniam plura sunt et
pluraliter dicta id est distributa, non videntur ad unum subiectum distributa
posse praedicari, sicut cum dico "Socrates philosophus caluus senex",
haec omnia non est simplex oratio, nec si continve proferatur, quod ad unam
substantiam non tendunt: accidentia enim sunt et extrinsecus veniunt. Probatur
autem neque eas orationes, quae per divisionem dicuntur, ƿ neque eas, quae non
ad unam substantiam tendunt, unas esse, hoc modo: si dicat quis animal et
rursus gressibile et iterum bipes, non unum est animal nec unum gressibile nec
unum bipes. Sin vero dixero "animal gressibile bipes" continve et
propinque, unum est, quod tria ista iuncta significant, id est homo. Convertamus
nunc animum ad eas quae plura quidem significant sed continve proferuntur, ut
cum dico "Socrates philosophus caluus senex": videtur quasi quaedam
Socratis esse definitio philosophus caluus senex sed non necesse est, si
huiusmodi Socrates fuit, omnem quicumque philosophus senex caluus est esse
etiam Socratem. In multis ergo continuatio ista valet accidere. Quocirca non
unum significat, quamquam continve proferatur. Ergo si ex omnibus unum quiddam
significetur et continve proferatur, una est oratio, ut partes quaedam rei
definitae sint ea quae in definitione ponuntur, non accidentia. Et proficit
quidem aliquid continua prolatio ad perficiendam unam orationem sed ipsa sola
non sufficit, nisi unum quoque subiectum sit. Atque ideo dixit Aristoteles
animal gressibile bipes non idcirco esse unam orationem, quod propinque
dicatur. Nam neque sufficit ad constituendam unam orationem propinquitas
proferendi nihilque prohiberet, quae naturaliter essent multiplices, eas
continve et propinque prolatas unas videri. Sed huius rei rationem Aristoteles
ponere distulit. Sensus ergo huiusmodi est: NECESSE EST, inquit, OMNEM
ENUNTIATIVAM ORATIONEM EX VERBO ESSE VEL CASU. ETENIM HOMINIS RATIO, quae et
ipsa quoque oratio est, SI NON AUT EST AUT ERIT AUT FUIT AUT ALIQUID HUIUSMODI
ILLI ADDATUR, NONDUM EST enuntiatio. Hoc vero in solis simplicibus
enuntiationibus evenit, in his autem quae coniunctione unae sunt (ut supra ait)
non omnino est. Cum enim dico dies est, vis tota in verbo est; si autem cum
coniunctione proferam: Si dies est, lux est tota vis in coniunctione
consistit, id est 'si'. Veritatis enim aut falsitatis rationem sola coniunctio
tenet, quae conditionem proponit, cum dicit "Si dies est, lux est":
si enim illud est, illud evenit. Igitur in coniunctione omnis vis huiusmodi
propositionis est, omnis autem simplex propositio totam vim in verbo habet
positam. Et quemadmodum in his, quae hypotheticae vel conditionales dicuntur,
coniunctiones propositionis vim tenent, sic in simplicibus propositionibus
praedicatio vim optinet, unde et Graece quoque tales propositiones praedicativae
dicuntur, scilicet quae simplices sunt, quod in his totam propositionem
optineat praedicatio. Atque ideo Aristoteles ait ex verbo vel casu fieri
simplicem enuntiationem. Nam praeter id quod totam continet propositionem
praedicativam scilicet, id est praeter praedicationem, enuntiatio non fit. Unde
est ut negatio quoque non ad subiectum sed ad praedicatum semper aptetur. Nam
cum dico: Sol oritur non est huius negatio: Non sol oritur sed illa
quae est: Sol non oritur Atque ideo negatio ad subiectum posita non facit
contrariam propositionem, ad praedicatum vero contrariam reddit. Recte igitur
Aristoteles de subiecto quidem nihil locutus est. Non enim praedicativam
propositionem subiectus terminus tenet sed tantum praedicatio, quae totam
enuntiationem propria virtute confirmat. EST AUTEM UNA ORATIO ENUNTIATIVA QUAE
UNUM SIGNIFICAT VEL CONIUNCTIONE UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA ET NON UNUM VEL
INCONIUNCTAE. Hinc monstratur quoniam tum cum dixit: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO
ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO, primam non eum de ea oratione dixisse,
quae naturaliter una est sed de affirmatione. Alioquin hic quoque repetens ita
dixisset: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT. Sed
quoniam non ita dixit, manifestum est quod dudum ait primam non ad orationem,
quae praeter coniunctionem una est, rettulisse sed ad affirmationem, quam
negatione priorem esse constaret. Sed hoc iam superius dictum est. Quid autem
sibi velit haec enumeratio, paucis expromam multas enim confusiones multosque
in orationibus errores hic locus optime intellectus veraciterque perceptus
sustulit. Et est haec expositio quam nullus ante Porphyrium expositorum vidit.
Non est idem namque unam esse orationem et multiplicem, quod simplicem et
compositam, et distat una a simplici, distat etiam multiplex a composita. Est
ergo una oratio quae unum significat, multiplex autem quae non unum sed plura.
Fit autem hoc in huiusmodi orationibus, ut cum dico: Cato philosophus est
Haec oratio non est una: non enim unum significat potest enim monstrare et
Catonem Uticensem esse ƿ philosophum, potest etiam ostendere et Catonem
Censorium oratorem esse philosophum. Qua in re non una est oratio atque idcirco
in Uticensi quidem Catone vera est, in oratore vero falsa. Huiusmodi ergo orationes
multas vocamus. Sin vero unum significet, ut cum dicimus: In charta
scribitur illam dicimus unam. Ergo una quae sit vel multiplex oratio, ex
his intellegitur quae significant. Si enim unam significat rem, una est, si
multas, multiplex. Simplices autem et compositae orationes non ad
significationem sed ad terminos ipsos dictionesque, quae in propositionibus
sumuntur, referendae sunt. Et est quidem simplex oratio enuntiativa, quae ex
solis duobus terminis constat, ut est: Homo vivit Sive autem his
propositionibus omnis addatur, ut est: Omnis homo vivit sive nullus, ut:
Nullus lapis vivit sive aliquis, ut: Aliquis homo vivit quoniam
termini ipsi duo sunt, simplex vocatur propositio. Composita vero, si ultra
duos terminos enuntiat, ut est: Plato philosophus in lycio ambulat hic
enim quatuor sunt termini, vel si tres sint, ut: Plato philosophus
ambulat Hae quoque, si eis omnis aut nullus aut aliquis addatur, eodem
modo compositae sunt. Ergo una vel multiplex oratio intellegitur, si unum vel
multa significent, et de propria semper significatione iudicantur. Simplex
autem et composita non ex significatione sed ex verborum vel nominum
pluralitate cognoscitur. Si enim ultra duos terminos habet propositio,
composita est, sin duos tantum, simplex. Si ergo semper quae ƿ simplex oratio
est, id est quae duobus terminis constat, unam tantum significantiam retineret,
indifferenter dici posset una oratio et simplex (eadem enim una esset, quae
etiam simplex) sed quoniam non omnis simplex unum significat, non omnis simplex
una est. Potest ergo fieri ut simplex quidem sit propositio, multae tamen
orationes: simplex quidem ad compositionem dictionum, multae vero ad
significationem sententiarum. Quare erit in hoc gemina differentia, ut unam
dicamus simplicem unamque orationem, alteram simplicem et plures orationes. Rursus
si omnes compositae orationes plures etiam res significarent, indifferenter
diceremus multiplicem et compositam; sed quoniam fieri potest ut propositio
aliquotiens quidem constet ex numerosis pluribusque terminis quam sunt duo,
unam tamen sententiam monstret, potest fieri ut composita quidem sit, una tamen
oratio sit significatione, composita dictione, ut est animal rationale mortale
mentis et disciplinae capax: haec quidem plura sunt sed his una subiecta substantia
est id est homo, quare una quoque sententia. Sin vero quis dicat: Socrates et
ambulat et loquitur et cogitat multa sunt. Diversa enim sunt quod ambulat
et quod loquitur et quod cogitat. Quare erit aliquando composita quidem oratio,
una tamen. Sed quoniam composita oratio aliquotiens quidem continve sine
coniunctione dicitur, aliquotiens coniunctione copulatur, fiunt hinc quatuor
differentiae. Est enim una oratio composita ex terminis continuatim dictis et
sine coniunctione unam sententiam monstrans, ut est: ƿAnimal rationale mortale
mentis et disciplinae perceptibile. Haec enim oratio composita quidem est ex
multis terminis sed coniunctionem non habet (nam quod dictum est mentis et
disciplinae perceptibile, haec coniunctio quae est et nullam in tota
propositione vim optinet: neque enim coniungit propositionem sed artem addit,
cuius susceptibilis homo esse videatur) et habet unam sententiam subiectam,
quod est homo. Alia vero est composita ex terminis nulla coniunctione copulatis
multiplex et non unam significans propositionem, ut est: Plato Atheniensis
philosophus disputat Aliud enim est esse Platonem, aliud esse
philosophum, aliud Atheniensem, aliud disputantem, et haec coniuncta unum
aliquid non faciunt quasi substantiam. Quare haec multiplex est sed eam
manifestum est nulla coniunctione copulari.Alia vero est composita ex
propositionibus inconiunctis multiplex, ut est: Iuppiter optimus maximus est,
Iuno regina est, Minerua dea sapientiae est Quas si quis sub unum
continveque proferat, plures quidem propositiones sunt, et oratio multiplex sed
coniunctione carent. Alia vero est composita vel ex terminis vel ex
propositionibus coniunctione copulatis multiplex et multa significans. Et ex
terminis quidem composita, ut si quis dicat: Et Iuppiter et Apollo dii
sunt ex propositionibus autem coniuncta multa significans est, ut si quis
dicat: Et Apollo uates est et Iuppiter tonat Est autem praeter has alia
composita propositio ex propositionibus coniunctione coniuncta ƿ unam significans
orationem, ut cum dico: Si dies est, lux est Duae enim propositiones,
quae sunt istae "dies est", "lux est", si coniunctione
copulantur. Sed haec oratio non significat multa. Neque enim diem esse et lucem
proponit sed si dies est, lucem esse. Quocirca consequentiam quandam
significat, non exstantiam propositionis. Non enim dicit utrasque esse sed si
una est, aliam consequi, quod utrumque in unam quodammodo intellegentiam
congruit. Sed hanc Porphyrius propositionem extrinsecus ponit, idcirco quod
plura significare videbatur (ipsa enim propositionum pluralitas multitudinem
simulat significationum) sed (ut dictum est) non plures significat res sed unam
consequentiam. Compositarum igitur et unam rem significantium propositionum
duplex modus est. Aut enim est ex terminis inconiunctis unam rem significans
composita oratio, ut: Animal rationale mortale est aut ex propositionibus
composita et coniunctione copulata imaginem quidem emittens plura significandi,
unam vero rem significans oratio, ut si dicamus: Si dies est, lux est Cum
ergo haec sit distributio compositarum et simplicium orationum, duplici modo
unae orationes sunt et duplici multae, simplici autem inconpositae et simplici
compositae. Et uno quidem modo una oratio dicitur cum aliqua coniunctione copulatur,
alio vero cum unam rem significat; rursus uno modo dicitur multiplex ƿ oratio
cum sine coniunctione est, alio vero cum plura significat. Atque hoc est quod
ait: EST AUTEM UNA ORATIO ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL CONIUNCTIONE
UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE. Est enim (ut dictum
est) dupliciter una oratio: vel quando cum coniunctione est, vel cum unam rem
significat. Multiplex autem oratio est vel quae multa significat, vel quae
coniunctione non iungitur. Multas enim orationes vocavit eas quae sint
multiplices et vel significationis pluralitatem teneant vel praeter
coniunctiones sint. Quod autem ait vel inconiunctae, totum complexus est.
Multiplex enim est propositio vel si fuerit incomposita, quemadmodum est: Cato
philosophatur multiplex etiam vel si fuerit composita ex terminis praeter
coniunctionem, ut est: Plato Atheniensis in lycio disputat vel si
composita sit ex propositionibus praeter coniunctionem, quemadmodum est: Homo
est, animal est Cur autem cum dixit PLURES AUTEM QUAE PLURA addit ET NON
UNUM? Hoc est quod sunt quaedam quae plura significent in sermonibus, unum
tamen in tota compositione demonstrent, ut est animal rationale mortale. Haec
enim omnia multa significant (aliud enim est animal, aliud rationale, aliud mortale)
sed totum simul unum est, quod ƿ est homo. Cum autem dico: Socrates Atheniensis
philosophus et singula plura sunt et omnia simul plura nihilominus sunt.
Haec enim accidentia sunt et nullam substantiam informant. Atque haec quidem
dixit de orationibus quae vel coniunctione unae essent vel significatione, et
rursus de multis quae vel praeter coniunctionem multae essent vel
significatione multiplici. Quae vero de simplicibus atque compositis posterius
dixerit, cum ad illum locum expositio venerit, explicabitur. Nunc autem
revertamur ad ordinem. Igitur quoniam supra dixerat simplicem propositionem,
quam categoricam Graeci dicunt, nos praedicativam interpretari possumus, semper
verbi praedicatione constitui, non autem semper nomine subiecto, quod
aliquotiens quidem vel infinitum nomen vel casus nominis vel verba subiecta
sunt: cum ergo dictionibus simplicibus constitui diceret simplicem orationem et
affirmationem negationemque orationes esse constaret, manifestum fecit
affirmationem et negationem dictione constitui et formari, ita quidem ut
affirmationem et negationem semper sola verbi dictio praedicata, non autem
semper nominis dictio subiecta perficeret. Cum igitur haec ita proposuisset,
nunc quid sit dictio, quae praedicativas id est simplices propositiones format,
exponit dicens: NOMEN ERGO ET VERBUM DICTIO SIT SOLA. Quod ideo ait DICTIO SIT
SOLA, quod sunt quaedam dictiones simul etiam affirmationes vel imperfectae
orationes, quod supra iam dictum est. Cur autem verbum et nomen solae sint
dictiones monstrat: QUONIAM NON EST DICERE SIC ALIQUID SIGNIFICANTEM ƿ VOCE
ENUNTIARE, VEL ALIQUO INTERROGANTE VEL NON SED IPSUM PROFERENTEM. Sensus
huiusmodi est: enuntiativa propositio his maxime duobus formatur: per propriam
naturam atque substantiam et per eius usum atque tractatum. Et natura quidem
ipsius est, ut in ea veritas inveniatur aut falsitas, usus autem cum aliquid
aut interrogando proponitur et respondetur, ut utrum anima immortalis est, aut
certe cum aliquis per suam sententiam enuntiat atque profert, ut si qui dicat
hoc ipsum ex propria voluntate: anima immortalis est. Unde definitio quoque
enuntiationis una quidem naturae atque substantiae talis redditur: enuntiatio
est oratio, in qua verum falsumue est. Ex usu vero eius atque actu enuntiativa
oratio est, quam interrogantes proponimus, ut verum vel falsum aliquid
audiamus, ex nostra vero prolatione, quam proponentes verum aliquid falsumue
monstramus. Ergo cum omnis enuntiativa oratio aut in interrogatione posita sit
aut in spontanea prolatione et in utrisque enuntiationis natura et substantia
illa versetur, ut sive in interrogatione sit posita cum responsione coniuncta
verum habeat vel falsum, sive per se prolata utrumlibet retineat: dictiones,
inquit, vel alio interrogante vel quolibet proferente et sponte dicente verum
falsumue non continent. Si enim quis dicat interrogans "Socratesne
disputat?" alius respondeat "Disputat", hoc quod respondit
"Disputat" si cum tota interrogatione iungatur, potest habere
intellectum verum falsumue significantis orationis, sin vero per se
intellegatur disputat, quamquam alio ƿ interrogante responderit, vero tamen
falsoque relinquitur. Similiter etiam si quis dicat "Socrates" vel
"Ambulat" nullo interrogante sed ipse proferens, nec verum aliquid
nec falsum designat. Ergo verba et nomina dictiones solum sunt, quoniam et
simplices sunt (erant enim aliae quaedam dictiones in orationibus verbisque
compositis sed nondum perfectae sententiae) quoniamque neque verum neque falsum
vel alio interrogante vel quolibet sponte proferente significant. Erant enim
aliae quaedam dictiones quae et alio interrogante et quolibet sponte proferente
verum falsumue retinerent, in his scilicet quae erant affirmationes aut
negationes. Quocirca sensus huiusmodi est, ordo autem verborum sese sic habet:
NOMEN ERGO ET VERBUM DICTIO SIT SOLA, quoniam non possumus dicere significantem
aliquid id est verbo vel nomine enuntiare. Non enim possumus dicere quoniam,
quisquis verbo vel nomine significat aliquid, ille enuntiat, VEL ALIQUO
INTERROGANTE VEL NON SED IPSUM PROFERENTEM, tamquam si sic diceret: verba ipsa
et nomina dictiones solae sunt, quoniam verbis et nominibus significantem
hominem aliquid non possumus dicere, quoniam enuntiat quidquam, sive eum
aliquis interroget, sive ipse sponte proferat simplicem dictionem. Enuntiare
autem est orationem dicere quae verum falsumque designat. HARUM AUTEM HAEC
QUIDEM SIMPLEX EST ENUNTIATIO, UT ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB ƿ ALIQUO,
HAEC AUTEM EX HIS CONIUNCTA VELUT ORATIO QUAEDAM IAM COMPOSITA. Quoniam
superius de unis orationibus atque pluribus dixit et unam quidem posuit, quae
aut coniunctione una esset secundum prolationem aut significatione secundum
propriam naturam, plures vero quae aut coniunctione carerent aut multa
significatione sua complecterentur, quoniam quidem aliud erat una oratio, aliud
simplex, aliud composita, aliud plures, post illa ad simplicem compositamque
reuertitur dicens simplicem esse orationem enuntiativam quae duobus terminis
continetur, quorum unum subiectum est, alterum praedicatur. Quod vero ait HARUM
AUTEM, enuntiativarum scilicet orationum dixit, quarum HAEC QUIDEM SIMPLEX EST
ENUNTIATIO, et quae simplex est enuntiatio, ipse proposuit dicens UT ALIQUID DE
ALIQUO, subaudiendum est praedicemus, ut sit hic sensus: harum autem enuntiativarum
orationum est simplex enuntiatio, si aliquid unum de uno aliquo praedicemus, ut
si dicam: Plato disputat de aliquo Platone aliquid id est disputat
praedicavi. Et haec simplex est enuntiatio, idcirco quoniam duobus terminis
partibusque coninugitur. Si qua vero plures habuerit terminos et eius partes
duorum terminorum multitudinem egrediantur, illae compositae orationes dicuntur
et est enuntiatio composita huiusmodi: Si dies est, lux est Dies est enim
et lux est duae sunt simplices enuntiationes, quae coniunctae unam compositam
perfecerunt. Atque hoc est quod ait: HAEC ƿ AUTEM ID EST ALIA ORATIO EX HIS
CONIUNCTA id est ex simplicibus enuntiationibus VELUT ORATIO QUAEDAM IAM
COMPOSITA est. Haec enim non simplex est oratio. Simplex enim oratio solas
dictiones duas habet in partibus, composita vero etiam orationes, sicut haec
quam supra proposui. Est ergo hic ordo quem ipse confudit: prius enim de
affirmatione et negatione, quae prima esset, quae posterior, expedivit; dehinc
de unis orationibus et pluribus dixit, postremo de simplicibus atque
compositis. Sed quoniam quaedam in medio permiscuit, ea paululum differentes
directam sententiae seriem continuavimus longum Aristotelis hyperbaton partium
coniunctione recidentes. Neque enim simile videatur quod ait: EST AUTEM UNA
PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO; ALIAE VERO CONIUNCTIONE
UNAE et rursus cum dicit: EST UNA ORATIO ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL
CONIUNCTIONE UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE VEL CUM
RURSUS ADDIT: HARUM AUTEM HAEC QUIDEM SIMPLEX EST ENUNTIATIO, UT ALIQUID DE
ALIQUO VEL ALIQUID AB ALIQUO, HAEC AUTEM EX HIS CONIUNCTA VELUT ORATIO IAM
COMPOSITA sed illud quidem prius quod dixit EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO
ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO ad hoc rettulit, ut priorem
affirmationem esse monstraret, posteriorem vero negationem (ait enim DEINDE
NEGATIO, unde quod ait PRIMA ad affirmationem ponendum est), quod vero secutus
est paulo post: EST AUTEM UNA ORATIO ENUNTIATIVA ƿ QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL
CONIUNCTIONE UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE ad hoc
rettulit, ut doceret quas unas esse orationes putari oporteret (expediens aut
quae unum significarent aut quas coniunctio unas faceret) quas plures (aut quae
multa in significatione retinerent aut quarum corpus nulla esset coniunctione
compositum); quod vero postremo addit: HARUM AUTEM HAEC QUIDEM SIMPLEX EST
ENUNTIATIO, UT ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB ALIQUO, HAEC AUTEM EX HIS
CONIUNCTA VELUT ORATIO QUAEDAM IAM COMPOSITA ad simplices rettulit orationes
atque compositas, simplices dicens duobus solis terminis iunctas, compositas,
quae ex simplicibus orationibus enuntiativis coniungerentur: ut sit totus ordo
hoc modo: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO et
rursus intermissis quae sequuntur hoc subiciatur: EST AUTEM UNA ORATIO
ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL CONIUNCTIONE UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA
ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE et post hoc intermissis quoque sequentibus hoc
sequatur: HARUM AUTEM HAEC QUIDEM SIMPLEX EST ENUNTIATIO, UT ALIQUID DE ALIQUO
VEL ALIQUID AB ALIQUO, HAEC AUTEM EX HIS CONIUNCTA VELUT ORATIO QUAEDAM IAM
COMPOSITA, tamquam si sic diceret: prima quidem inter enuntiationes oratio
affirmativa est, secunda vero negatio. Affirmationum autem et negationum una
oratio est, quae unum significat vel quae coniunctione una est, multiplex
autem, quae multa significat ƿ vel quae coniunctione non iungitur. Harum quoque
simplex est, quae duobus terminis constat, UT ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB
ALIQUO; alia vero composita, quae ex simplicibus affirmationibus iungitur. Quod
autem dicit ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB ALIQUO tale est: aliquid enim de
aliquo affirmationem sign!ficat, ut cum dico: Socrates disputat de aliquo
Socrate aliquid id est disputat praedicavi et fit affirmatio. Si autem dicam:
Socrates non disputat a Socrate disputationem seiunxi et ab eo abstuli et
hoc est negatio. Affirmatio enim de alia re aliam rem praedicat eique
coniungit, negatio vero a qualibet re quamlibet rem praedicando tollit. Ergo
hoc quod ait ALIQUID DE ALIQUO, affirmationem simplicem significavit; quod
dixit ALIQUID AB ALIQUO, simplicem negationem. EST AUTEM SIMPLEX ENUNTIATIO VOX
SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST, QUEMADMODUM TEMPORA DIVISA
SUNT. AFFIRMATIO VERO EST ENUNTIATIO ALICUIUS DE ALIQUO, NEGATIO VERO ENUNTIATIO
ALICUIUS AB ALIQUO. Postquam de multis atque unis necnon simplicibus
compositisque enuntiationibus expedivit, enuntiationem simplicem tractat et eam
definitione concludit dicens vocem eam esse significantem aliquid esse vel non
esse. Quod ergo ait vocem eam esse, ad genus rettulit, quod significativam ad
ipsius differentiam vocis, quod DE EO QUOD ESSET AUT NON ESSET ALIQUID, ad
significatarum rerum rursus differentiam ƿ rettulit. Habet enim secundum ipsam
vocem qua profertur, ut significet quiddam, quid autem significet aut circa
quid designationem enuntiatio teneat, ad differentiam significativarum pertinet
vocum. Ita enim dictum est, tamquam si diceret: non omnia enuntiatio significat
sed esse aliquid aut non esse. Est ergo enuntiatio simplex vox significativa de
eo quod est esse aliquid vel non esse, id est omnis enuntiatio aut affirmatio
est aut negatio. Esse enim ponit affirmatio non esse negatio. Sed quanta
definitionem brevitate constrinxit, quidam non videntes in errorem stolidum
falsitatis abducti sunt. Contendunt igitur affirmationis et negationis non esse
enuntiationem genus. Nam si haec, inquiunt, definitio est enuntiationis, omnis
autem generis definitio propriis speciebus accommodari potest (omne enim genus
univoce de speciebus propriis praedicatur), dubium non est quin haec quoque
definitio enuntiationis, si enuntiatio genus est, affirmationi negationique
conveniat, si tamen eius species hae sunt. Sed quis umquam dixerit affirmationi
convenire hanc definitionem, quae dicit vox significativa de eo quod est
aliquid esse vel non esse? Neque enim fieri potest, ut affirmatio vox
significativa sit de eo quod est esse et non esse sed tantum de eo quod est
esse. Negatio rursus non de eo quod est esse et de eo quod est non esse sed
tantum de non esse, numquam etiam de esse. Interimit enim semper negatio,
iungit affirmatio atque constituit. Quare si haec definitio enuntiationis ad
affirmationem negationemque non potest praedicari, affirmatio et negatio
enuntiationis species non sunt. Qui mihi nimium videntur errare: quasi vero
quidquam uetet utrasque ƿ affirmationem et negationem simul eadem definitione
concludere. Possum enim dicere: affirmatio et negatio est vox significativa de
eo quod est esse aliquid vel non esse, ut vox significativa utrisque communis
sit, de eo quod eat esse affirmationis solius, de eo quod est non esse solius
sit negationis. Sed nihil potuit fieri brevius, nisi ut in eadem definitione et
enuntiationis naturam constitueret et ipsius faceret divisionem. Tamquam enim
si ita dixisset: enuntiatio est vox significativa in qua verum falsumque
signatur, huius autem una species affirmativa est, alia negativa, ita ait:
ENUNTIATIO EST VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST. Nam quod
dixit: DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST tale est ac si diceret: quae verum
falsumque demonstrat. Omne enim quod esse ponit aliquid, ut si dicam: Dies
est vel non esse, ut si dicam: Dies non est verum falsumque demonstrat.
Si ergo aliquid ponatur esse aut non esse, in eo veritas et falsitas invenitur.
Est igitur ita hoc quod ait vocem esse significativam DE EO QUOD EST ALIQUID
VEL NON EST, tamquam si diceret: est enuntiatio vox significativa verum
falsumque significans. Significatio namque de eo quod est esse vel non esse
aliquid veri falsique demonstratio est. Sed in eadem definitione species
admirabili brevitate partitus est. Tamquam enim si diceret: vox significativa
est enuntiatio, in qua verum falsumue demonstratur sed una eius pars
affirmativa est, alia negativa, ita ait DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST.
Significatio enim de eo quod est aliquid affirmatio est, de eo vero quod non
est negatio. Ita id quod ait designativam ƿ esse vocem enuntiationem DE EO QUOD
EST ALIQUID AUT NON EST utrumque una colligit intellegentia. Hoc enim quod
dixit DE EO QUOD EST ALIQUID AUT NON EST utrumque significat et veri falsique
demonstrationem et affirmationis negationisque divisionem. Sed Alexander a
propria sententia non desistit nec alio quam caeteri tenetur errore. Ait enim
hic quoque apparere non esse genus enuntiationem affirmationis et negationis,
quoniam ita in definitione enuntiationis affirmatione et negatione ut partibus
usus est. Omne autem compositum atque omne aequivocum vel suis partibus vel
suis significatis definiri potest, ut si quis ternarium numerum definire volens
dicat: ternarius numerus est qui ex uno duobusque coniunctus est, vel si quis
hominem definire volens dicat: homo est aut animal rationale mortale aut huius
coloribus vel metallo facta simulatio: ita nomen aequivocum ex his, quae ipsum
nomen aequivocum designabat, ostensum est. Hic ergo eodem modo: ENUNTIATIO,
inquit, EST VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST, tamquam si
diceret: enuntiatio est vox aut affirmativa aut negativa: in eundem scilicet
errorem labens nec videns quemadmodum una definitione et divisionem fecerit et
naturam enuntiationis ostenderit. Sed hanc expositionem (quod adhuc sciam)
neque Porphyrius nec ullus alius commentatorum vidit. Aspasius etiam consentit
Alexandro. Dicit enim Alexander eodem modo hic definisse Aristotelem
enuntiationem, sicut alibi quoque id est in resolutoriis. Illic enim ita
propositionem, quod est enuntiatio, definitione ƿ conclusit dicens: PROPOSITIO
ERGO EST ORATIO AFFIRMATIVA VEL NEGATIVA ALICUIUS DE ALIQUO. Idem quoque
Aspasius sequitur. Porphyrius autem sic dicit: admirabilem esse subtilitatem
definitionis. Ex sua enim vi affirmationis et negationis enuntiatio definita
est, ex terminis vero ipsa affirmatio atque negatio. Affirmatio namque in
duobus terminis constans aliquid alicui inesse significat, totam autem vim
ipsius esse aliquid adnuere. Negatio quoque aliquid alicui non inesse
significat sed tota vis ipsius est abnuere atque disiungere. Vel rursus affirmatio
aliquid alicui inesse designat sed vis ipsius tota ponere aliquid est (cum enim
aliquid alicui inesse demonstrat ponit aliquid), rursus negatio quidem aliquid
alicui non inesse declarat sed tota vis eius auferre est ergo nunc, inquit,
enuntiationem ex tota vi affirma tionis negationisque definivit dicens:
ENUNTIATIO EST VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST. Hoc autem
ad negationis pertinet affirmationisque vim, tamquam si diceret: enuntiatio est
vox significativa quae ponit aliquid aut tollit, quae propriae virtutes sunt
affirmationis et negationis. Si enim ita dixisset: enuntiatio est de eo quod
est aliquid alicui vel non est; tunc ex terminis affirmationis et negationis
enuntiationem definisse videretur; cum autem dicit DE EO QUOD EST ALIQUID VEL
NON EST, de tota utrarumque vi determinat. In hac enim affirmatione quae est:
Dies est aliquid alicui secundum ƿ terminos adesse monstravi (est enim
diei applicui) sed tota huius propositionis vis est aliquid esse declarare;
rursus cum dico: Dies non est aliquid alicui non esse pronuntio sed tota
eius vis est non esse dicere. Quare manifestum est secundum Porphyrium ex tota
vi affirmationis et negationis enuntiationem esse descriptam, ex suis vero
terminis ipsam affirmationem et negationem. Ait enim AFFIRMATIO VERO EST
ENUNTIATIO ALICUIUS DE ALIQUO in affirmationis definitione genus sumens.
Enuntiatio enim (ut dictum est) genus et affirmationis et negationis, quod ipse
Aristoteles clarius demonstrat, qui in utrarumque definitionem enuntiationis nomen
adscripsit dicens: AFFIRMATIO VERO EST ENUNTIATIO. Hoc enim rettulit ad genus,
quod vero addidit alicuius de aliquo reduxit ad terminos. In simplici enim
affirmatione aliquid de aliquo enuntiando praedicatur, ut in eo quod est: Dies
est esse diem. Negatio quoque ita definita est: ENUNTIATIO ALICUIUS AB
ALIQUO, quantum ad enuntiationem rursus a genere, quantum alicuius ab aliquo
rursus ad terminos. In hac enim negatione quae est: Dies non est esse a
die enuntiando tollimus. Sed ut non solum praesentis temporis enuntiationem
definisse videretur, addidit enuntiationis definitionem de aliis quoque
temporibus intellegi. Ait enim: ENUNTIATIO EST VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST
ALIQUID VEL NON EST adiecitque QUEMADMODUM TEMPORA DIVISA SUNT. Divisa enim sunt
tempora in tribus. Omne enim tempus aut futurum est aut praesens aut
praeteritum aut ex his mixtum. Enuntiatio ergo est vox significativa
significans aut esse aliquid ƿ aut non esse sed quoniam hoc praesens tempus
designat, non solum de praesenti, inquit, loquimur sed etiam de his temporibus
quae dividuntur, ut hoc esse et non esse et in futurum veniat et in
praeteritum, ut aliquotiens sio esse et non esse significet id est sic ponat
atque auferat enuntiatio, ut et praesens tempus ponat et auferat, ut est:
Socrates est Non est Socrates et praeteritum ponat et auferat, ut est:
Socrates fuit Socrates non fuit eodem modo futurum: Socrates erit
Socrates non erit Ergo in his omnibus temporibus secundum esse aliquid
vel non esse id est secundum ponere et auterre tota enuntiationis vis est. Hoc
ergo est quod ait DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST, QUEMADMODUM TEMPORA
DIVISA SUNT, tamquam si diceret: de eo quod est aliquid vel non est vox
enuntiativa significat vel in praesens vel in futurum vel in praeteritum
quemadmodum ipsa tempora dividuntur. Cur autem talis ordo fuerit definitionis,
paucis absolvam. Prius enim de nomine, post de verbo, hinc de oratione, rursus
de enuntiatione, dehinc de affirmatione, postremo de negatione disseruit. Omne
compositum suis partibus posterius est, omne genus suis partibus prius: ergo in
compositis partes toto priores sunt, in generibus et speciebus partes toto
posteriores. Rursus in compositis totum partibus posterius, in speciebus et
generibus totum partibus prius est. Ergo quoniam verba et nomina neque
affirmationis neque negationis neque enuntiationis neque orationis species
erant sed quaedam horum omnium partes, quibus haec omnia iungerentur, oratio
autem genus enuntiationis, enuntiatio ƿ affirmationis et negationis, affirmatio
prior negatione, scilicet secundum prolationem, sicut ipse testatus est: ergo
quoniam haec omnia et oratio et enuntiatio et affirmatio et negatio verbis et
nominibus coniunguntur, his omnibus nomina et verba priora sunt. Nomine autem
res aut per se subsistens aut tamquam per se subsistens significatur, verbo
vero accidens designatur et velut alii accidens, quod ex supra dictis plenum
est. Quod autem per se consistit prius est: ergo id quod nomen significat: quam
id quod verbum: quare verbo prius est nomen. Ergo quoniam nomen et verbum
oratione, enuntiatione, affirmatione et negatione priora sunt (partes enim
priores sunt his quae componuntur), iure haec ante omnia definita sunt. Quoniam
vero nomen prius est verbo, prius nomen, postea vero definitum est verbum. Sed
quia omne genus speciebus suis prius est, post haec id est nomen et verbum
orationem definitione descripsit, quae et proximum enuntiationis genus esset et
superius affirmationis et negationis; post orationem vero enuntiationem, quae
cum sit species orationis, affirmationis tamen et negationis esset genus; post
enuntiationem vero affirmationem, quae quamquam negation) aequaeua species
esset secundum genus proprium id est enuntiationem, in prolatione tamen prior
esset, ut ipse supra iam docuit dicens: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA
AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO. Sed quoniam superius nobis dictum ƿ est has eum
quinque res definire velle: quid sit dictio, quid enuntiatio, quid affirmatio,
quid negatio, quid contradictio, dictionem quid sit ostendit per id quod ait:
NOMEN ERGO ET VERBUM DICTIO SIT SOLA, enuntiationem vero per id quod ait: EST
AUTEM SIMPLEX ENUNTIATIO VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST,
QUEMADMODUM TEMPORA DIVISA SUNT, affirmationem vero EST ENUNTIATIO ALICUIUS DE ALIQUO;
negationem quoque definivit dicens: NEGATIO VERO ENUNTIATIO ALICUIUS AB ALIQUO.
Restat ergo de contradictione disserere. Quid sit ergo contradictio ipse
persequitur dicens: QUONIAM AUTEM EST ENUNTIARE ET QUOD EST NON ESSE ET QUOD
NON EST ESSE ET QUOD EST ESSE ET QUOD NON EST NON ESSE, ET CIRCA EA QUAE SUNT
EXTRA PRAESENS TEMPORA SIMILITER OMNE CONTINGIT QUOD QUIS AFFIRMAVERIT NEGARE
ET QUOD QUIS NEGAVERIT AFFIRMARE: QUARE MANIFESTUM EST QUONIAM OMNI
AFFIRMATIONI EST NEGATIO OPPOSITA ET OMNI NEGATIONI AFFIRMATIO. ET SIT HOC
CONTRADICTIO, AFFIRMATIO ET NEGATIO OPPOSITAE. Expeditis omnibus, quae sese
explicaturum esse promiserat, nunc ad reliquam contradictionem ordine venit
eamque ab affirmationibus negationibusque repetit dicens omnibus
affirmationibus posse proprias negationes opponi et omnibus negationibus
proprias ƿ rursus ex adverso affirmationes posse constitui. Hoc autem hinc
sumitur: quoniam novimus alias res esse, alias non esse et quoniam nos ipsi
dicere possumus et sentire alias res esse, alias non esse, ex his quatuor
enuntiationes fiunt, geminae contradictiones. Si quis enim id quod est dicat
non esse, ut si vivente Socrate dicat: Socrates non vivit quod est negat
et erit negatio false; rursus si quis id quod non est esse confirmet, ut si non
vivente Socrate dicat: Socrates vivit haec rursus affirmatio falsa est;
si quis etiam id quod est esse enuntiatione constituat, ut si vivente Socrate
dicat: Socrates vivit uera erit affirmatio; sin vero quod non est esse
negaverit, est negatio vera, ut si quis non vivente Socrate dicat: Socrates non
vivit Ex his igitur id est ex affirmatione vera et negatione falsa et
rursus ex negatione vera et affirmatione falsa quatuor quidem sunt
enuntiationes sed in duabus affirmatio, in duabus negatio continetur, contradictiones
vero duae. Hoc est enim quod ait: QUONIAM AUTEM EST ENUNTIARE ET QUOD EST NON
ESSE, falsam enuntiationem negationis ostendit; quodque addidit ET QUOD NON EST
ESSE, falsam affirmationem in enuntiatione proposuit. Illud quoque quod dixit
ET QUOD EST ESSE, enuntiationem designat, qua id quod est esse vera
affirmatione profertur; amplius quod ait ET QUOD NON EST NON ESSE, verae
negationis specimen dedit. Quare si et quod est vere potest dici esse et idem
quod est falso potest praedicari non esse et id quod non est vere potest
enuntiari non esse et id quod non est falso esse poterit ƿ affirmari,
manifestum est omnem affirmationem habere aliquam contradictionem negationis
oppositam et omnem rursus negation em affirmationis oppositionem facere contradictionem.
Etenim si omne quod quis affirmat negari poterit et quod quis negat poterit
affirmari, quis dubitet nec affirmationem posse constitui cui non negatio
contradicat nec negationem cuius nulla affirmatio valeat inveniri? Omnis igitur
affirmatio negationem et negatio habet oppositam affirmationem: est igitur
CONTRADICTIO AFFIRMATIO ET NEGATIO OPPOSITAE. Quid autem sit oppositio
posterius dicendum est aut quid sit contradictio post diligentissima ratione
monstrabo. Quod autem ait ET CIRCA EA QUAE SUNT EXTRA PRAESENS TEMPORA tale est
tamquam si diceret: sicut affirmatio et negatio in praesenti tempore fieri
potest, ita etiam vel in praeterito vel in futuro. Nam sicut potest id quod est
esse constitui, ita potest id quod fuit fuisse proponi et id quod futurum est
in spem futuri temporis affirmari, ut cum dicimus: Socrates fuit Sol aestate in
cancro futurus est Eodem ergo modo et de futuro et praeterito affirmatio
et negatio constituitur, quemadmodum de praesenti. Futurum autem et praeteritum
extrinsecus est et praeter praesens tempus: illud enim veniet, illud recessit.
Recte igitur etiam CIRCA EA QUAE SUNT EXTRA PRAESENS TEMPORA dixit huiusmodi
posse affirmationes negationesque evenire. Circa enim praeteritum et futurum,
quod est extrinsecus a praesenti tempore, SIMILITER OMNE CONTINGIT (ut ipse
ait) QUOD QUIS AFFIRMAVERIT NEGARE ET QUOD ƿ QUIS NEGAVERIT AFFIRMARE. Unde fit
ut in omnibus temporibus illud constet omni affirmationi posse opponi
negationem omnique negation) oppositam affirmationem posse constitui. Nunc
autem qualis debeat sumi oppositio in affirmatione et negatione demonstrat. Hoc
enim est contradictio affirmatio et negatio oppositae. Quod si hae oppositae
constitnunt contradictionem, qualis in his debet esse oppositio quae
contradictionem constituit recte persequitur. DICO AUTEM OPPONI EIUSDEM DE
EODEM, NON AUTEM AEQUIVOCE ET QUAECUMQUE CAETERA TALIUM DETERMINAMUS CONTRA
SOPHISTICAL IMPORTUNITATES. Cum duobus terminis simplex propositio constet et
unus subiectus sit, alius praedicetur, subiectus autem: sit qui primus dicitur,
praedicatus vero qui posterius, dicit illam oppositione affirmationem et
negationem integram constituere contradictionem, quae idem subiectum habeant,
idem etiam praedicatum, ut neque subiectum neque praedicatum plura significet.
Alioquin non erit contradictio nec aliqua oppositio. Ut cum dico: Socrates
albus est et alius dicit: Aethiops albus non est haec affirmatio
atque negatio non sunt oppositae, idcirco quia est aliud subiectum et idem
praedicatum. In affirmatione enim "Socrates" subiectus fuit, in
negatione Aethiops. Rursus cum dico: Socrates albus est et alius dicit:
Socrates philosophus non est nec haec rursus negatio contra affirmationem
retinet oppositionem, ideo quia aliud praedicatum in utrisque proponitur. ƿ In
affirmatione enim 'album' praedicatum est ad Socraten, in negatione
philosophus. Quod si utraque sint diversa, multo magis nulla. Fit oppositio: ut
cum dico: Socrates philosophus est si respondeat alius: Plato Romanus non
est hic neque idem subiectum est neque idem praedicatum et plus istae
diversae sunt et nulla contra se oppositione oppositae atque ideo possunt
utraeque esse verae et si ita contingit utraeque falsae necnon etiam una vera,
una falsa. Quae enim se non perimunt, nihil eas impedit aut utrasque falsas aut
utrasque veras aut unam veram, falsam aliam reperiri. Quare quorum vel aliud
subiectum est vel aliud praedicatum, illa opposita esse non dicimus. Unde fit
ut nec illa quoque quae plura significant, si subiecta aut praedicata sint,
contradictoriam negationem valeant custodire. Si quis enim nomen aequivocum subiciat
et aliud praedicet et si quis contra huiusmodi affirmationem constituat
negationem, non faciet oppositionem. Ut cum dico: Cato se Uticae occidit
nomen hoc quod dicitur 'Cato' aequivocum est. Potest enim et orator intellegi
et hic qui exercitum duxit in Africam. Si quis igitur dicat: Cato se Uticae
occidit potest fortasse intellegi de Catone Marciae, si quis respondeat
Cato se Uticae non occidit, potest de Catone Censorio constituisse negationem.
Sed quoniam diversus est Cato Censorius Catone Marciae et nomen ipsum Catonis
diversa significat, diversae a se erunt affirmatio et negatio et non id omnino
perimit negatio, quod affirmatio constituit. Affirmatio enim constituit Marciae
Catonem se Uticae peremisse, negatio ƿ vero dicit Catonem, si ita contigit, oratorem
non se Uticae peremisse. Quare non constituunt verum inter se falsumque,
idcirco quod a se diversae sunt. Nam utrumque verum est: et quod se Cato Uticae
occidit scilicet Marciae et quod se Cato Uticae non occidit scilicet orator.
Atque hic aequivocum subiectum fecit, ut haec affirmatio et negatio
oppositionem nullo modo constituerent. Quod si praedicatum fuerit aequivocum,
eodem modo contradictio non fit. Dicat enim quis quoniam Cato fortis est
et de Catone praedicet fortitudinem mentis dicens aliusque respondeat: Cato
fortis non est ad inbecillitatem corporis spectans: ita igitur
aequivocatio fortitudinis ambiguitatem fecit, quae oppositionem nulla ratione
componeret. Et si uterque terminus et subiectus et praedicatus aequivoci
fuerint, multo magis diversae a se erunt propositiones et non oppositae nec
inter se verum falsumque dividentes sed utrasque veras, interdum utrasque
falsas esse contingat. Quare unum oportet esse subiectum unumque praedicatum,
ut id quod affirmatio praedicavit et iunxit, idem negatio dividat et abiungat
et id de quo subiecto affirmatio praedicavit de eodem negatio neget. Nam si sit
uterque aequivocus terminus aut quilibet unus eorum, fieri potest ut aliud
tollat negatio quam affirmatio posuit itaque nulla fit oppositio. Quare non ita
faciendum est sed idem subiectum et praedicatum in affirmatione esse debet,
idem in negatione. Atque hoc est quod ait: DICO AUTEM OPPONI EIUSDEM DE EODEM.
ƿ Quod enim ait EIUSDEM ad praedicatum rettulit, quod DE EODEM ad subiectum et
subaudiendum est DICO AUTEM OPPONI negationem EIUSDEM praedicati DE EODEM
subiecto sed ut non sint aequivoca neque subiectum neque praedicatum et multo
magis utraque sed unum aliquid significent. Quod per hoc dixit NON AUTEM
AEQUIVOCE. Nec sola, si non sit, aequivocatio firma est ad constituendam
oppositionem. Multa enim sunt quae in Sophisticis Elenchis contra eos qui
argumentis fallacibus verae rationis viam conantur euertere determinavit, quemadmodum
faciendae essent propositiones et quemadmodum invenienda argumentatorum
fallacia. Quod hic ait: ET QUAECUMQUE CAETERA TALIUM DETERMINAMUS CONTRA
SOPHISTICAS IMPORTUNITATES, tamquam si diceret: dico quidem opponi affirmationi
negationem eiusdem praedicati de eodemque subiecto, non autem aequivoce: hoc et
quaecumque alia sunt, quae in sophisticis elenchis determinata sunt contra argumentatorum
importunitates. Et hic quidem, quoniam aliud negotium erat, commodissime
breviterque perstrinxit. Nos autem quid in sophisticis elenchis determinaverit
ad constituendam oppositionis contradictionem, quantum brevitas patitur, non
grauamur apponere. Non enim solum si aequivocatio in propositionibus collocetur
nulla fit contradictio, verum etiam si univocatio in negatione ponitur, illa
oppositio contradictionem penitus non habebit. Est enim oppositio habens
contradictionem, ƿ in qua affirmatio si vera est negatio falsa sit, si negatio
vera est fallax affirmatio videatur. Positis ergo secundum univocationem
terminis utrasque simul et affirmationem et negationem veras esse contingit, ut
si quis dicat: Homo ambulat Homo non ambulat affirmatio de quodam homine
vera est, negatio de speciali vera. Sed specialis homo et particularis univoca
sunt: quocirca sumptis univocis contradictio non fit. At vero nec si ad aliam
et aliam partem affirmatio negatioque ponatur, fit in ipsis ulla veri falsique
divisio sed utrasque veras esse contingit: cum dico: Oculus albus est Oculus
albus non est In alia enim parte albus est, in alia parte albus non est:
atque ita et negatio vera est et affirmatio. Nec si ad aliud atque aliud
referens dicat, ulla inde contradictio procreatur, ut cum dico: Decem dupli
sunt Decem dupli non sunt Nam si ad quinarium referam, vera est
affirmatio, si ad senarium, vera negatio. Nec si diversum tempus in
affirmatione ac negatione sumatur, ut cum dico: Socrates sedet Socrates non
sedet Alio enim tempore sumpto sedere veram facit affirmationem, alio
tempore non sedere veram negationem. Amplius quoque si diverso modo quis dicat
in negatione quod aliter in affirmatione proposuit, vim contradictionis
intercipit. Si quis enim dicat affirmationem potestate, negationem vero actu,
possunt et affirmatio et negatio uno tempore congruente veritate constitui: ut
si quis dicat: Catulus videt Catulus non videt Potestate enim videt, actu
non videt. Quocirca oportet fieri si facienda est ƿ contradictio EIUSDEM (ut
ipse ait) praedicati DE EODEM subiecto, non aequivoce, neque univoce, ad eandem
partem, ad idem relatum, ad idem tempus, eodem modo constitui. Quae omnia in
Sophisticis Elenchis diligentissime persecutus est. Nunc pauca commemorans
distulit in illius libri integram disputationem. Est autem enuntiatio de eo
quod est aliquid esse vel non esse: affirmatio quidem de eo quod est esse ut:
Plato philosophus est negatio vero de eo quod est non esse, ut: Plato
philosophus non est Haec utraque enuntiatio: Plato philosophus est Plato
philosophus non est sese perimentia et in contrarium quasi quodam locata
litigio faciunt contradictionem. Contradictio vero est oppositio affirmationis
et negationis, in qua neque ambas falsas neque ambas veras esse contingit sed
unam semper veram, alteram vero falsam. Si qua autem sunt huiusmodi, in quibus
verum falsumque affirmatio negatioque non dividat, in illis aliquid diversum et
non ad oppositionem integrum reperitur. Dicit autem Porphyrius argumentum esse
ad id quod dicimus affirmationem negationi ita oportere opponi, ut una vera
opposita in alteram mox falsitas veniat, communem inter nos consuetudinem
colloquendi. Quando enim quis aliquid esse dixerit, idem alius negarit, unum
ipsorum verum dicere, mentiri alium suspicamur. Amplius quoque si aliquid aut
est aut non est mediumque inter esse et non esse nihil poterit ƿ inveniri,
affirmatio autem ponit esse aliquid idemque aufert negatio et est contradictio
affirmatio et negatio oppositae, talis oppositio integram facit
contradictionem, in qua affirmatio et negatio utraeque verae esse non possint.
Affirmationis autem negationisque natura ad qualitatem quandam refertur.
Qualitas enim quaedam est affirmatio atque negatio. Praeter hanc vero
qualitatem est etiam quantitas propositionum, de qua posterius paulo dicendum
est. Sed volens Aristoteles quid esset contradictio nos docere, prius ubi esset
ostendit. In oppositione enim contradictionem omnem esse necesse est. Quare quoniam
contradictio in oppositione est, qualis autem oppositio hanc contradictionem
faciat, adhuc ignota est estque haec oppositio aut in qualitate propositionum
aut in quantitate aut in utroque et de qualitate propositionum, quae in
affirmatione et negatione consistit, dictum est: nunc de quantitate dicetur, ut
ea quoque cognita perspiciatur, in qualitate an in quantitate an in utroque
propositionum contradictio sit. QUONIAM AUTEM SUNT HAEC QUIDEM RERUM
UNIVERSALIA, ILLA VERO SINGILLATIM; DICO AUTEM UNIVERSALE QUOD IN PLURIBUS
NATUM EST PRAEDICARI, SINGULARE VERO QUOD NON, UT HOMO QUIDEM UNIVERSALE, PLATO
VERO EORUM QUAE SUNT SINGULARIA: NECESSE EST AUTEM ENUNTIARE QUONIAM INEST
ALIQUID AUT NON ALIQUOTIENS QUIDEM EORUM ALICUI QUAE SUNT UNIVERSALIA, ALIQUOTIENS
AUTEM EORUM QUAE SUNT SINGULARIA. Omnis propositio significationis suae
proprietates ex subiectis intellectibus capit. Sed quoniam necesse est
intellectus rerum esse similitudines, vis propositionum ad res quoque
continuatur. Atque ideo cum aliquid vel affirmare cupimus vel negare, hoc ad
intellectus et conceptionis animi qualitatem refertur. Quod enim imaginatione
intellectuque concipimus, id in affirmatione aut in negatione ponentes
affirmamus scilicet vel negamus. Et principaliter quidem ab intellegentia
propositiones vim capiunt et proprietatem, secundo vero loco ex rebus sumunt ex
quibus ipsos intellectus constare necesse est. Unde fit ut et quantitate
propositio et qualitate participet. Qualitate quidem in ipsa affirmationis et
negationis prolatione quam ex proprio quis iudicio emittit ac profert;
quantitate vero ex subiectis rebus quas capiunt intellectus. Videmus namque
alias esse in rebus huiusmodi qualitates, quae in alium convenire non possint
nisi in unam quamcumque singularem particularemque substantiam. Alia est enim
qualitas singularis, ut Platonis vel Socratis, alia est quae communicata cum
pluribus totam se singulis et omnibus praebet, ut est ipsa humanitas. Est enim
quaedam huiusmodi qualitas, quae et in singulis tota sit et in omnibus tota
quotienscumque enim aliquid tale animo speculamur; non in unam quamcumque
personam per nomen hoc mentis cogitatione deducimur sed in omnes eos quicumque
humanitatis definitione participant. Unde fit ƿ ut haec quidem sit communis
omnibus, illa vero prior incommunicabilis quidem cunctis, uni tamen propria.
Nam si nomen fingere liceret, illam singularem quandam qualitatem et
incommunicabilem alicui alii subsistentiae suo ficto nomine nuncuparem, ut
clarior fieret forma propositi. Age enim incommunicabilis Platonis illa
proprietas Platonitas appelletur. Eo enim modo qualitatem hanc Platonitatem
ficto vocabulo nuncupare possimus, quomodo hominis qualitatem dicimus
humanitatem. Haec ergo Platonitas solius unius est hominis et hoc non
cuiuslibet sed solius Platonis, humanitas vero et Platonis et caeterorum
quicumque hoc vocabulo continentur. Unde fit ut, quoniam Platonitas in unum
convenit Platonem, audientis animus Platonis vocabulum ad unam personam unamque
particularem substantiam referat; cum autem audit hominem, ad plures quosque
intellectum referat quoscumque humanitate contineri novit. Atque ideo quoniam
humanitas et omnibus hominibus communis est et in singulis tota est (aequaliter
enim cuncti homines retinent humanitatem sicut unus homo: si enim id ita non
esset, numquam specialis hominis definitio parti cularis hominis substantiae
conveniret): quoniam igitur haec ita sunt, idcirco homo quidem dicitur
universale quiddam, ipsa vero Platonitas et Plato particulare. His ergo ita
positis quoniam universalis illa qualitas et in omnibus potest et in singulis
praedicari, cum dicimus homo ambiguum est et dubitari potest utrum de speciali
dictum sit an de aliquo particulari, ƿ idcirco quod nomen hominis et de omnibus
dici potest et de singulis quibusque qui sub una humanitatis specie
continentur. Quare indefinitum est, utrum de omnibus dictum sit id quod diximus
homo an de una quaeumque individua hominis et particulari substantia hanc
igitur qualitatem humanitatis si ambiguitate in tellectus separare nitamur,
determinanda est et aut in pluralitatem distendenda aut in unitatem numeri
colligenda. Nam cum dicimus "Homo" indefinitum est utrum omnes
dicamus an unum, sin vero additum fuerit 'omnis', ut sit praedicatio
"Omnis homo" vel "Quidam", tunc fit distributio et
determinatio universalitatis et nomen quod universale est (id est 'homo')
universaliter proferimus dicentes "Omnis homo" aut particulariter
dicentes "Quidam homo". Omnis enim nomen universalitatis significativum
est. Quocirca si 'omnis' quod universale significat ad hominem quod idem ipsum
universale est adiungatur, res universalis quae est homo universaliter
praedicatur secundum id quod definitio ei adicitur quantitatis. Sin vero dictum
fuerit "Quidam homo" tunc universale quod est homo addita particularitate
per id quod ei adiectum est 'quidam' particulariter profertur et dicitur res
universalis prolata particulariter. Sed quoniam particularis est praedicatio
"Quidam homo", particularis rursus praedicatio Platonis (de uno enim
dicitur "Quidam homo" et de uno dicitur Plato), non eodem modo
utraeque particulares esse dicuntur. Plato enim unam ac definitam substantiam
proprietatemque demonstrat, quae convenire in alium non potest, quidam homo
vero quod dicitur particularitate quidem ipsum nomen universale ƿ determinat
sed si deesset 'quidam', id quod dicimus homo universale ac per hoc ambiguum
permaneret, quod vero dicimus Plato numquam esse poterit universale. Nam etsi
quando nomen hoc 'Plato' pluribus imponatur, non tamen idcirco erit hoc nomen
universale. Namque humanitas ex singulorum hominum collecta naturis in unam
quodammodo redigitur intellegentiam atque naturam, nomen vero hoc quod dicimus
Plato multis secundum vocabulum fortasse commune esse videretur, nulli tamen
illa Platonis proprietas conveniret, quae erat proprietatis aut naturae eius
Platonis qui fuit Socratis auditor, licet eodem vocabulo nuncuparetur. Hoc vero
ideo quoniam humanitas naturalis est, nomen vero proprium positionis. Nec hoc
nunc dicitur quod nomen de pluribus non potest praedicari sed proprietas
Platonis. Illa enim proprietas naturaliter de pluribus non dicitur, sicut
hominis, et ideo incommunicabilis (ut dictum est) qualitas est ipsa Platonitas,
communicabilis vero qualitas universalis quae et in pluribus et in singulis
est. Unde fit ut cum dico "Omnis homo" in numerum propositionem
tendam, cum vero dico Socrates aut Plato non in numerum emittam sed qualitatem
proprietatemque unius in suae individuae singularisque substantiae unitatem
constringam et praedicem. Quare in hoc quoque maxime hae duae particularitates
quidam homo et Plato distant, quod cum dico Plato quem hominem dixerim vocabulo
designavi proprietatemque uniuscuiusque quem nomino, cum vero dico ƿ quidam
homo, numerum tantum reieci et ad unitatem propositionem redegi, de quo autem
dicam haec particularitas mihi non subdidit. Quidam enim homo potest esse et
Socrates et Plato et Cicero et unusquisque singulorum quorum proprietates a se
in singularitatis ratione et natura diversae sunt. Unde commodissime
Theophrastus huiusmodi particulares propositiones, quales sunt: Quidam homo
iustus est particulares indefinitas vocavit. Partem namque tollit ex
homine quod est universale vel vocabulo vel natura, quae tamen ipsa sit pars et
qua proprietate descripta, non determinat nec definit. Unde universale vocavit
quod de pluribus naturaliter praedicatur, non quemadmodum nomen Alexandri de
Troiano et de Macedone Philippi filio et de pluribus dicitur. Hoc enim
positione de pluribus dicitur, illud natura. Et persubtiliter ait quod in
pluribus natum est praedicari. Est enim haec universalitas naturalis. Illam
vero nominis reique proprietatem quae particularis est singularem vocavit
dicens: PLATO VERO EORUM QUAE SUNT SINGULARIA. Quod autem secutus est dicens:
NECESSE EST AUTEM ENUNTIARE QUONIAM INEST ALIQUID AUT NON ALIQUOTIENS QUIDEM
EORUM ALICUI QUAE SUNT UNIVERSALIA, ALIQUOTIENS AUTEM EORUM QUAE SUNT
SINGULARIA, huiusmodi est tamquam si diceret: omnis quidem affirmatio et
negatio inesse aut non inesse demonstrat. Et quidquid enuntiatur aut de eo quod
est esse proponitur, ut: Plato philosophus est (haec enim propositio
Platoni philosophiam inesse constituit), aut de eo quod est ƿ non inesse, ut:
Plato philosophus non est (a Platone enim philosophiam dividens eidem
philosophiam non inesse proponit). Ergo quoniam necesse est aut aliquid alicui
inesse dicere aut aliquid alicui non inesse, illud quoque necesse est id cui
inesse aliquid dicimus aut universale esse (ut cum dicimus: Homo albus
est albedinem universali rei inesse monstramus id est homini) aut certe
particulare ac singulare, ut si quis dicat: Socrates albus est albedinem
enim Socrati singulari substantiae et proprietati incommunicabili inesse
signavit. Sed in singularibus sive affirmetur aliquid sive negetur unus
oppositionis modus est, qui vim contradictionis optineat. Nam quoniam singulare
atque individuum nulla sectione dividitur, secundum ipsum quoque facta
contradictio simplex erit. In his autem quae in universalibus fiunt non est
unus modus contradictionis. Nam cum dico Socrates homo est Socrates homo non
est sola huiusmodi oppositio, si omnia illa conveniant quae contra
argumentatorum importunitates supra iam dicta sunt, ad faciendam
contradictionem idonea reperitur. Sin vero tale aliquid subiectum sit de quo
aliquid praedicetur quod sit universale et in pluribus (ut ipse ait) natum sit
praedicari, non est simplex oppositio contradictionis. Sunt enim earum
propositionum quae de universalibus rebus fiunt tres differentiae: una quae
omnis complectitur, ut cum dico: Omnis homo animal est alia quae ex
indefinita multitudine et innumera pluralitate ad unum propositionis vim
colligit atque constringit. Haec huiusmodi est tamquam si quis dicat: Quidam
homo animal est Alia vero est quae neque in pluralitatem propositionem
tendit neque in particularitatem redigit, ut ea quae sine ulla determinatione
proponitur, ut est: Homo animal est Homo animal non est hic enim nec
'quidam', quod particularitatis, nec 'omnis', quod est universalitatis,
adiunximus. Unde fit ut singularitas simpliciter praedicetur, universalitas
vero aliquotiens universaliter, ut: Omnis homo animal est homo res
universalis universaliter praedicata est. Nam cum sit homo universalis, quod ei
adiectum est omnis universalitatem universaliter appellari fecit. Rursus est ut
universalitas particulariter praedicetur, ut cum dico Quidam homo animal
est 'quidam' particulare determinat sed iunctum ad hominem universalem
substantiam particulariter praedicari fecit. Est quoque universale non
universaliter praedicare, quotiens sine adiectione universalitatis vel
particularitatis simpliciter nomen universale ponitur, ut est: Homo animal
est Determinationes autem dicuntur quae rem universalem vel in totum
fundunt, ut 'omnis', vel in partem contrahunt, ut 'quidam'. 'Omnis' vero vel
'quidam' quantitatem propositionis determinant, quae quantitas iuncta cum
qualitate propositionum variatur quatuor modis (qualitas autem propositionum in
affirmatione et negatione est): aut enim universalem rem universaliter
praedicat affirmative, ut: Omnis homo animal est aut universalem rem
particulariter affirmative, ut: Quidam homo animal est aut universalem
rem universaliter negative, ut: Nullus homo lapis est aut universalem rem
particulariter negative, ut Quidam homo lapis non ƿ est Oportet autem in
his quae universali determinatione proponuntur in ipsis determinationibus fieri
negationem, ut quoniam determinatio universalis rei est universaliter, cum
dicimus: Omnis homo iustus est si universaliter negabimus, dicamus:
Nullus homo iustus est Et quod aio 'nullus' eam universalitatem quae est
omnis intercipit, non eam quae est homo. Rursus si idem ipsum: Omnis homo
iustus est negare particulariter velim, dicam: Non omnis homo iustus
est per particularem negationem universalitatis vim interimens. In
particularibus vero non item. Si enim eam quae est particularis determinatio
universalis rei, ut est: Quidam homo iustus est negare velim,
particulariter dicam: Quidam homo iustus non est Hoc autem idcirco fit,
quod habet quandam similitudinem atque ambiguitatem, utrum universaliter an sit
particulariter dictum, si in universalibus propositionibus negativae particulae
ad praedicationes potius quam ad terminationes ponantur. Si enim contra hanc
affirmationem quae est Omnis homo iustus est ponam hanc quae dicit: Omnis
homo iustus non est haec duas res significare videbitur: et quod nullus
homo iustus sit, omnem enim hominem iustum non esse proposuit, et quod sint
quidam homines non iusti, omnem enim hominem negavit iustum esse. Hoc autem
nihil impedit ut aliquis sit iniustus, aliquis iustus. Nam si est aliquis
iustus, non repugnat ne vera sit propositio quae dicit: Omnis homo iustus non
est Non est enim iustus omnis homo, si alii iusti sint, alii vero
iniusti. Quare quoniam duplicis significationis est, idcirco universalis
negationis definitio, quae est nullus, universalis affirmationis tollit determinationem,
quae est omnis. Atque ideo in particularibus negationibus ad ipsam
universalitatem affirmationum negatio necesse est apponatur, ut in eo quod est:
Omnis homo iustus est illa est ei opposita negatio quae est: Non omnis
homo iustus est non illa quae est: Omnis homo iustus non est ne sit
ambiguum utrum universaliter an particulariter neget. Dictum est enim hanc
negationem quae est: Omnis homo iustus non est et universalitatis
interemptionem designare et particularitatis propositionem. Quotiens vero
particulare aliquid tollitur, in his non iam ad determinationem sed ad
praedicatum particula negationis apponitur, ut in eo quod est: Quidam homo
iustus est nullus dicit: Non quidam homo iustus est Neque enim hic
ad determinationem particularem, quod est 'quidam', negatio ponitur sed
dicimus: Quidam homo iustus non est scilicet ad praedicatum quod est
iustus. Unde etiam ad indeterminatas propositiones, quae sunt sine 'omnis' aut
'nullius' aut 'alicuius' determinatione, ad praedicatum semper apponitur
particula negativa, ut est: Homo iustus est Nemo enim dicit: Non homo
iustus est sed: Homo iustus non est In singularibus quoque non
dico: Non Socrates iustus est sed: Socrates iustus non est Et nisi
aliquotiens ambiguitas impediret, ad praedicatum semper negatio poneretur. Sed
omnia quaecumque in determinatione ponuntur talia sunt, quae aut totum
colligant in affirmativo, ut est 'omnis', aut totum perimant in negativo, ut
est 'nullus', aut colligant in affirmativo partem, ut est 'quidam', aut
interimant in negativo partem, ut 'quidam non', aut in negativo perimant totum
particulariter, ut est 'non omnis'. Sed 'quidam non' et 'non omnis'
particulares negationes sunt. Sive ƿ enim quis partem ex toto subripiat,
particulare est quod relinquit, quia a totius perfectione discessit, sive quis
totum esse neget, partem relinquat, rursus particulare est quod fit reliquum.
Nam cum dico: Quidam homo iustus non est abstuli partem, et rursus cum
dico: Non omnis homo iustus est cum negavi omnem, aliquem qui iustus non
esset ostendi. Haec igitur, 'omnis' et 'quidam', determinationes planissimae
sunt et communi intellegentiae subiectae. Has duae particulares respiciunt
negationes, ut ea quae est quidam non determinationem particularem negat, ea
vero quae est non omnis universalem negat determinationem sed utraque
negationem (ut dictum est) in particularitatem constringunt. Quod autem dicimus
'nullus' proprium quoddam videtur esse vocabulum. 'Non omnis' enim quod dicitur
omnem per adverbium negativum quod est 'non' adimit. Rursus cum dicimus 'quidam
non', ei quod est 'quidam' adverbium quod est 'non' additum a subiecto termino
particulare separat. 'Nullus' vero quid separet in vocabulo ipso non
monstrat et videtur quodammodo non potius esse negatio quam affirmatio. Neque
enim adverbium est nec coniunctio. Adverbium namque atque coniunctio
declinationibus carent, nullus vero quod dicimus et generibus subiacet et
inflectitur casibus. Quid igitur est? An erit nomen? Sed nulla negatio nomen
esse monstratur. Quid sit ergo tali investigatione quaerendum est. Videtur enim
quod dicitur 'nullus' tale esse tamquam si dicamus nec ƿ unus. Nam qui dicit:
Nullus homo animal est tantundem valet quantum nec unus homo animal est.
Quod vero dicimus 'ullus' hoc ab eo derivatum est quod est unus. Diminutio
namque unius ullus est tamquam si diceremus unulus. Ergo plus negat quisquis
etiam diminutionem negat, ut si quis dicat non modo non habet gemmam, quod maius
est, verum etiam nec gemmulam, quod est minus. Sic ergo qui negare uult etiam
unum plus negat si dicat nec ipsum unius diminutivum illud esse quod dicitur:
ut si quis velit dicere nec unum esse hominem in theatro, ita dicat: non modo
illic unus homo non est, verum nec ullus. Cum ergo dicimus 'nullus' ita
proponimus tamquam si dicamus 'nec ullus'. Tenet igitur haec in se
determinatio, quae est 'nullus', vicem negationis et nominis. Negationis quidem
in eo quod est nec, nominis vero in eo quod est ullus, quod est diminutivum
unius. Ita igitur maxima fit negatio rei paruissimae quod est unus, si ipsius
diminutivum quoque subtrahat, quod est ullus. Quare et omnem et quendam statim
tollit negatio, quae unius quoque ipsius diminutivum praedicatione subducit, ut
ea quae est: Nullus homo iustus est Hoc enim tantum est, tamquam si dicat
"Non ullus homo iustus est", hoc idem valet tamquam si dicatur
"Nec unus homo iustus est". Quare quoniam de his sufficienter est
dictum, ad Aristotelis verba consequenti ordine veniamus. SI ERGO UNIVERSALITER
ENUNTIET IN UNIVERSALI QUONIAM EST AUT NON, ERUNT CONTRARIAE ENUNTIATIONES.
DICO AUTEM IN UNIVERSALI ENUNTIATIONEM ƿ UNIVERSALEM, UT OMNIS HOMO ALBUS EST,
NULLUS HOMO ALBUS EST. Demonstrare oppositionem contradictionis intendit. Sed
quoniam viam reperiendae ordinemque permiscuit, idcirco nos pauca quaedam prius
ordinata expositione praedicimus, ne lector confusionis caligine atque
obscuritate turbetur. Omnium propositionum quae sunt simplices, quas
categoricas Graeci vocant, nos praedicativas dicere possumus, quatuor sunt
diversitates: aut enim est affirmatio et negatio universalis, ut est: Omnis
homo iustus est Nullus homo iustus est aut affirmatio et negatio
particularis, ut est: Quidam homo iustus est Quidam homo iustus non est
aut affirmatio et negatio indefinita, ut: Homo iustus est Homo iustus non
est aut de singulari subiecto affirmatio et negatio, ut: Cato iustus est
Cato iustus non est Harum vero inter se veritas falsitasque non se habet
similiter sed diverse. Et prius de universalibus atque particularibus id est de
his quae determinatae sunt dicendum est, post de reliquis disputabitur. Disponantur
igitur affirmatio universalis quae est: Omnis homo iustus est et contra
hanc negatio universalis quae est: Nullus homo iustus est sub his autem,
sub affirmatione quidem universali particularis affirmatio quae est: Quidam
homo iustus est sub universali negatione particularis negatio quae est:
Quidam homo iustus non est Hoc autem monstrat subiecta descriptio: Omnis
homo iustus est Nullus homo iustus est Quidam homo iustus est Quidam homo
iustus non est. Hae igitur duae universalis affirmatio et particularis
affirmatio dicuntur subalternae, rursus universalis negatio ƿ et particularis
negatio dicuntur subalternae, idcirco quoniam particularitas semper sub
universalitate concluditur. In quibus illud est considerandum, quod ubi est
affirmatio universalis vera affirmatio quoque particularis vera est et ubi
negatio universalis vera est particularis quoque vera est. Nam si vera est:
Omnis homo animal est vera est: Quidam homo animal est Et si vera
est quoniam Nullus homo lapis est vera quoniam Quidam homo lapis non
est At si falsa sit particularis affirmatio, ut ea quae est: Quidam homo
lapis est falsa est universalis affirmatio: Omnis homo lapis est
Idem in negatione. Si enim negatio particularis falsa est, ut: Quidam homo
animal non est falsa est universalis: Nullus homo animal est Ita ut
praecedunt universales in vero, eodem modo praecedunt particulares in falso.
Dicuntur vero affirmatio universalis et negatio universalis contrariae. Hoc
autem idcirco quoniam contrariorum huiusmodi natura est, ut longissime a se
distent, et si aliquam inter se habeant medietatem, non semper alterum ipsorum
subiecto insit, ut album et nigrum: non possumus dicere quoniam omne corpus aut
album aut nigrum est. Potest enim nec album esse nec nigrum et utrumque falsum
esse quod dicitur, idcirco quoniam est medius color. Quod si non habent
medietatem, alterum ipsorum necesse est inhaerere subiecto, ut cum dicimus omne
corpus aut quietum est aut movetur, horum nihil est medium et necesse est omne,
corpus vel consistere vel moveri. Ut autem simul in eodem possint esse
contraria fieri non potest. Neque enim possibile est ut idem album nigrumque
sit. Quod in affirmationibus et negationibus universalibus apparet. ƿ Negativa
enim et affirmativa universalis plurimum quidem a se distant. Nam quod illa
ponit omnibus, illa omnibus tollit et totum negat. Namque dicit: Omnis homo
iustus est omnem hominem ponit, quae dicit: Nullus homo iustus est
nihil eorum quae in humanitatis definitione sunt iustum esse concedit. Ita ergo
a se longissime discrepant. Ad hoc si ea quae significant habent inter se
aliquam medietatem, unam veram, unam falsam esse non est necesse, ut in eo quod
est: Omnis homo iustus est Nullus homo iustus est quoniam potest quaedam
esse medietas, ut: Nec nullus homo iustus sit (cum sit quidam); Nec omnis
homo iustus sit (cum non sit quidam), et possunt utraeque falsae et
affirmatio et negatio reperiri. Neque enim verum est aut omnem hominem esse
iustum aut nullum hominem esse iustum. Quocirca potest fieri ut in his in
quibus aliqua medietas invenitur universalis affirmatio et universalis negatio
veritatem falsitatemque non dividant sed utraeque sint falsae, ad exemplum
scilicet contrariorum quae aliquam inter se continent medietatem. Potest enim
in illis fieri ut utraque contraria possint non inesse subiecto, sicut supra
monstravimus. In his vero quae medietate carent necesse est una vera sit semper,
altera semper falsa, ut in eo quod est: Omnis homo animal est Nullus homo
animal est Hae propositiones huiusmodi sunt, ut una vera sit, una falsa,
idcirco quoniam inter animal esse et non esse nihil interest, ad eorum scilicet
contrariorum similitudinem quae medietate carent. In illis ƿ enim necesse erat
alterum inesse subiecto. Sic ergo universalis affirmatio et universalis negatio
utraeque falsae esse possunt, ut vero una vera sit, altera falsa, id quoque
conceditur: ut utraeque sint verae fieri non potest, sicut illud quoque verum
est contraria simul esse non posse. Rectissime igitur universalis affirmatio
universalisque negatio contrariae nominantur.Particularis autem affirmatio quae
est: Quidam homo iustus est et particularis negatio quae est: Quidam homo
iustus non est universalibus et contrariis contrarias proprietates
habent. Illae enim simul verae esse non poterant, ut vero essent simul falsae
saepe nulla ratione uetabatur. Particulares vero ut utraeque verae sint evenire
potest, ut utraeque falsae sint fieri non potest: ut in eo quod est: Quidam
homo iustus est verum est, Quidam homo iustus non est id quoque
verum est; ut utraeque falsae sint inveniri non potest. Et hoc quidem sunt
contrariis dissimiles. Similes autem eisdem videntur quod sicut contrariae
aliquotiens verum falsumque dividunt, ut una vera sit, altera falsa, ita quoque
et particulares una vera potest esse, altera falsa, ut: Quidam homo animal est
Quidam homo animal non est Servant autem stabilem incommutabilemque ordinem
et similitudinis et contrarietatis. Contrariae enim quoniam possunt esse
utraeque falsae, in quibuscumque utraeque falsae contrariae reperiuntur, in his
subcontrariae utraeque verae sunt. Sed quoniam utraeque contrariae verae
inveniri non possunt, ideo utraeque subcontrariae falsse nequeunt reperiri, ut
in eo quod est: Omnis homo iustus est ƿNullus homo iustus est Quoniam hae
falsae sunt, hae quas sub se continent particulares verae sunt, ut est: Quidam
homo iustus estQuidam homo iustus non est Sed si universales inter se
verum falsumque dividunt et una vera est, altera falsa, particulares quoque
idem facient, ut in eo quod est: Omnis homo animal est Nullus homo animal
est universalis affirmatio vera est, falsa negatio. Sed cum dico: Quidam
homo animal est Quidam homo animal non est particularis affirmatio vera
est, falsa negatio particularis. Hae igitur dicuntur subcontrariae, vel quod
sunt sub contrariis positae vel quod ipsae superioribus sub quibus sunt
contrarias (ut dictum est) proprietates habent. In hac igitur recta oppositione
contrariarum et subcontrariarum in superioribus utrisque falsitas esse potest,
numquam veritas; in inferioribus vero utrisque quidem veritas inesse potest,
numquam falsitas. Sin vero quis respiciat angulares et universalem affirmationem
particulari opponat negationi universalemque negationem particulari comparet
affirmationi, una vera semper, falsa altera reperietur nec umquam fieri potest,
ut affirmatione universali vera particularis negatio non falsa sit vel hac vera
non illam falsitas continuo subsequatur. Rursus si negatio universalis vera
est, falsa particularis affirmatio; si particularis affirmatio vera, falsa
universalis negatio. Licet autem hoc et in subiecta descriptione metiri et in
aliis quoque terminis quoscumque sibi mens considerantis affinxerit idem
videbit. Nam in eo quod est: Omnis homo iustus est quoniam haec falsa
est, vera est: Quidam homo iustus non est et rursus in eo quod est:
Nullus homo iustus ƿ est falsa negatione vera est affirmatio: Quidam homo
iustus est Hae autem universalis affirmatio et particularis negatio quae
sunt angulares et universalis negatio et particularis affirmatio quae ipsae
quoque sunt angulares contradictoriae nominantur. Et haec illa est quam quaerit
contradictio, in qua una semper vera sit, altera semper falsa. Superioris autem
disputationis integrum descriptionis subdidimus exemplar quatenus quod animo
cogitationeque conceptum est oculis expositum memoriae tenacius infigatur. His
ergo ita sese habentibus indefinitas propositiones singularesque videamus. Et
primum de indefinitis disputandum est. Indefinitae igitur per se veritatem ƿ
falsitatemque non dividunt. Etenim cum dico: Homo iustus est Homo iustus non
est utrasque veras esse contingit indefinitas. Quocirca eas a
contradictione separamus: contradictio enim constituitur (ut saepe dictum est)
eo quod numquam utraeque verae aut utraeque falsae reperiri queant sed una
semper veritatis, altera falsitatis capax est. Sed quae universalitatem
proferunt indefinitam, illae definitarum particularium vim tenent. Tale est
enim quod dico homo iustus est, tamquam si dicam Quidam homo iustus est
et rursus tale est quod dico: Homo iustus non est tamquam si dicam:
Quidam homo iustus non est Hoc illa res approbat, quod quemadmodum
definitae et particulares in aliquibus verae esse possunt, in aliquibus falsum
verumque dividunt, numquam vero utrasque falsas esse contingit, ita quoque in
indefinitis universale significantibus utrasque simul veras esse contingit, ut
in eo quod dicimus: Homo iustus estHomo iustus non est utrasque falsas
proferre impossibile est sed unam veram, alteram falsam in his facillime
reperimus, in his scilicet terminis qui naturaliter et necessario subiectis
substantiis inhaerescunt vel his inesse non possunt: ut quoniam animal homini
ex necessitate inest, si quis dicat: Homo animal est idque negetur: Homo
animal non est vel: Homo lapis est Homo lapis non est una vera
statim falsa altera reperitur. Atque ideo hae contra universales universaliter
praedicatas faciunt contradictionem. Nam si contra illam quae est: Omnis homo
iustus est ea quae est: Homo iustus non est in oppositione
constituatur, una semper vera est, altera falsa; et si contra eam quae est:
Nullus homo iustus est indefinita propositio ƿ quae est homo iustus est
opponatur, verum inter se propositiones falsumque distribuunt, sicut definitae
quoque universalium propositiones secundum particulares atque universales
oppositae quantitates contradictorias faciunt oppositiones. Quare constat eas
quae universale non universaliter proferunt et sunt indefinitae neque
particulare neque universale proferentes ipsas quidem non semper inter se verum
falsumque dividere, particularibus tamen definitis esse consimiles. Singulares
vero quae sunt unum oppositionis inter se modum tenent: has si ad idem
subiectum, ad idem praedicatum, ad eandem partem, ad idem tempus, ad eandem
relationem, eodem modo proposueris, inter se verum falsumque distribuunt, ut
est: Socrates iustus est Socrates iustus non est Sunt igitur duae contradictiones:
una quae fit in universalibus angulariter particularibus contra positis, altera
quae fit in singularibus cum omnibus his quas in Sophisticis Elenchis exposuit
determinationibus opposita. Quare quoniam quemadmodum se habeant propositiones
quoque modo faciant contradictorias oppositiones ostendimus, ad ipsa
Aristotelis verba veniamus, in quibus per haec ante praecognita facilis poterit
evenire cognitio. SI ERGO UNIVERSALITER ENUNTIET IN UNIVERSALI QUONIAM EST AUT
NON, ERUNT CONTRARIAE ENUNTIATIONES. DICO AUTEM IN UNIVERSALI ENUNTIATIONEM
UNIVERSALEM, UT OMNIS HOMO ALBUS EST, NULLUS HOMO ALBUS EST. Superioris
descriptionis intellegentiam plenius notat. Ait enim: quando res universalis
universaliter designatur ƿ et eam quis universaliter affirmat, si eandem alter
universaliter neget, ita sibimet comparatas propositiones esse contrarias.
Atque in hoc suam sententiam manifestius ostendit. Ait enim DICO AUTEM
UNIVERSALEM ENUNTIATIONEM IN UNIVERSALI, UT OMNIS HOMO ALBUS EST. Nam cum
universalis sit homo, in universali homine universalis est enuntiatio, per quam
dicitur omnis homo. Res ergo universalis (id est homo) per 'omnis' quae est
determinatio universaliter praedicata est et hoc affirmative. Negative vero
universaliter ita dicetur: Nullus homo albus est 'nullus' enim
universalitas universalitati quae est homo adiecta est. Hoc modo igitur in
universali universaliter enuntiantes affirmatio et negatio contrariae sunt,
sicut et ipse testatur et nos in superiore expositione digessimus. QUANDO AUTEM
IN UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER, NON SUNT CONTRARIAE, QUAE AUTEM
SIGNIFICANTUR EST ESSE CONTRARIA. DICO AUTEM NON UNIVERSALITER ENUNTIARE IN HIS
QUAE SUNT UNIVERSALIA, UT EST ALBUS HOMO, NON EST ALBUS HOMO. CUM ENIM
UNIVERSALE SIT HOMO, NON UNIVERSALITER UTITUR ENUNTIATIONE. OMNIS NAMQUE NON
UNIVERSALE SED QUONIAM UNIVERSALITER CONSIGNIFICAT. Volenti indefinitam
propositionem qualis esset ostendere non modo auferenda fuit ab universali
termino universalis determinatio, verum etiam particularis et oportuit dici hoc
modo: quando autem in universalibus non universaliter neque particulariter, non
sunt contrariae. Nunc autem quoniam ƿ non addidit particulariter, videtur non
de indefinitis, in quibus neque universalitas neque particularitas adest sed
tantum de particularibus loqui, a quibus solum universale non etiam particulare
subtraxit. Sed quid velit ostendere ipse convenientibus exemplis edocuit. Non
enim posuit exempla particularis propositionis sed indefinitae. Ait enim DICO
AUTEM NON UNIVERSALITER ENUNTIARE IN HIS QUAE SUNT UNIVERSALIA, UT EST ALBUS
HOMO, NON EST ALBUS HOMO. Quod si particularem monstrare voluisset, ita
diceret: ut est: Quidam homo albusNon est quidam homo albus Sed quoniam
per exemplum quid vellet ostendit, nos quoque superiori propositioni quae est:
quando autem in universalibus non universaliter, deesse putemus aut
particulariter, ut et particularitatem et universalitatem ex tota auferat
dictione ut post exempla docuerunt non eum loqui de particulari sed de
indefinita. Quare hoc dicit: at si neque universales sint propositiones neque
particulares, quod subaudiendum est, illae non sunt contrariae. Sunt enim
contrariae quae universaliter universalem terminum proponunt, indefinitae vero
ad universalem terminum universalem terminationem non habent. Idcirco autem ab
indefinitis universalitatem solam et non particularitatem quoque seiunxit, quod
indefinitas propositiones a contrariis solum, non etiam a particularibus
segregabat. Quod autem dico tale est: si vellet ostendere indefinitas
propositiones proprie, neque particulares esse neque universales diceret. Quae
ƿ autem in universali neque universaliter neque particulariter proponuntur, id
est quae neque universales sunt neque particulares, indefinitae sunt. Nam quae
neque universales sunt neque particulares, hae neque contrariae sunt neque
subcontrariae. Subcontrariae quidem idcirco non sunt, quia non habent additam
particularem determinationem; idcirco vero contrariae non sunt, quia
determinatio universalis in his non est. Nunc autem cum tantum vellet ostendere
eas contrarias non esse, de subcontrariis vero in praesenti vellet omittere,
has esse indefinitas quae universale determinatum universaliter non haberent
dixit, ut scilicet has non esse contrarias intellegeremus. Idcirco vero non
adiecit particularitatem eas non habere, quoniam a solis contrariis separare
indefinitas volebat, non etiam a subcontrariis. Ergo si indefinitas a
contrariis et subcontrariis separare voluisset, ita diceret: QUANDO AUTEM IN
UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER nec particulariter, NON SUNT CONTRARIAE neque
subcontrariae. Sed quoniam non eas volebat nunc non esse subcontrarias demonstrare
sed tantum non esse contrarias, idcirco ei dicto quod est QUANDO AUTEM IN
UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER non addidit vel particulariter. Hoc enim si
addidisset, ad subcontrarias tenderet, de quibus nihil est additum. Quare hoc
dicit: hae quae indefinitae sunt, quoniam non habent universalitatem,
contrariae non sunt. Sed cum per se quidem contrariae non sint, possunt tamen
quaedam significare contraria. Hoc quid sit multipliciter expositorum
sententiis expeditur. Herminus namque dicit idcirco indefinitas posse aliquando
significare ƿ contraria, cum ipsae careant contrarietate, quippe quae
universalium rerum sunt, additum tamen universale non habent, in solis his
quibus ea quae affirmantur aut negantur subiecto naturaliter insunt: ut cum
dicimus: Homo rationalis est Homo rationalis non est quoniam rationalitas
huiusmodi est quae in natura sit hominis, affirmatio et negatio inter se verum
falsumque dividunt et quaedam quodammodo ab his contraria designantur. Sed
nihil hoc attinet ad contraria significanda in his quae sunt indefinitae. Nam
etiam particulares ipsae quoque in talibus verum falsumque dividunt, ut est:
Quidam homo rationalis est Quidam homo rationalis non est Has ergo
secundum Herminum videmus posse significare contraria. Cur ergo in his quoque
dixit quoniam contrariae quidem non sunt, QUAE AUTEM SIGNIFICANTUR EST ESSE
CONTRARIA? Alexander autem hoc dicit: quoniam indefinitae sunt hae, nihil eas,
inquit, prohibet sicut ad particulares ita quoque ad universales reducere, quae
videntur esse contrariae, ut in eo quod est homo animal est, homo animal non
est, quoniam hae propositiones indefinitae sunt, possunt accipi et quasi
contrariae. Nam si dicimus homo animal est, potest ita accipi tamquam si
dicamus omnis homo animal est, et rursus homo animal non est ita audiri potest
tamquam si dicatur nullus homo animal est. Cum autem dicitur: Homo ambulat Homo
non ambulat non ad contrarias sed ad subcontrarias mens ducitur
auditoris. ƿ Quocirca possunt indefinitae aliquando significare contraria,
quoniam eo ipso quod sunt indefinitae nihil eas prohibet ad contrariorum
significationem universaliumque reduci. Et haec quidem sententia habet aliquid
rationis, non tamen integre id quod ab Aristotele dicitur ostendit. Et meliorem
sententiam sponte reiecit, quam post Porphyrius approbavit. Sunt enim quaedam
negationes quae intra se affirmationis eius quam negant retineant
contrarietatem, ut in eo quod est: Sanus est Non est sanus id quod
dicitur -- "Non est sanus" -- significat "Aeger est", quod
est contrarium sano esse. Rursus cum dicimus: Homo albus est si contra
hanc negemus per eam quae dicit: Homo albus non est significare poterit
quoniam homo niger est (nam qui niger est albus non est) sed nigrum esse et
album esse contrarium est. Quare significant quaedam negationes
affirmationesque contraria sed hoc non semper. Nam in eo quod est: Homo ambulat
Homo non ambulat nullum contrarium continetur. Ambulationi enim nihil est
contrarium. Atque ideo dicit has quidem contrarias non esse, idcirco quod cum
sint universales non universaliter enuntientur, posse autem aliquotiens
contraria significare, cum intra negationem contrarium affirmationis
includitur. Aspasius vero et Alexandri et hanc posteriorem probavit. Nos vero
dicimus non quidem Alexandri sententiam abhorrere ratione sed hanc esse
meliorem. ƿ Nam quod ait QUANDO AUTEM IN UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER, NON
SUNT CONTRARIAE, QUAE AUTEM SIGNIFICANTUR EST ESSE CONTRARIA, ab Alexandro non
est expositum sed tantum dictum quando possint esse propositiones ipsae
contrariae. A Porphyrio vero expositum diligenter est quando ea quae
significantur possint esse contraria, quod ipse Aristotelis textus expressit.
Quamquam Alexander quoque eandem quam Porphyrius posuit viderit expositionem,
eam tamen ut dictum est sponte reiecit et sibi huius expositionis confirmavit
sententiam displicere. Mihi vero aut utraeque recipiendae expositiones videntur
aut melior iudicanda posterior. Hoc enim ipse quoque Aristoteles quodammodo
subter ostendit cum dicit: SIMUL ENIM VERUM EST DICERE QUONIAM EST HOMO ALBUS
ET NON EST HOMO ALBUS, ET EST HOMO PROBUS ET NON EST HOMO PROBUS. SI ENIM
TURPIS, ET NON PROBUS; ET SI FIT ALIQUID, ET NON EST. Cuius quidem loci quae
sit expositio, cum ad id venerimus, demonstrabimus. Cognoscendum autem est et
memoria retinendum, quod quaecumque propositiones universales universaliter
fuerint praedicatae, si hae affirmativae, illae vero sint negativae, semper
utrasque esse contrarias, si nihil aequivocationis aut temporis aut aliorum quae
supra determinata sunt ad faciendam oppositionem contrarietatis impediat. Non
tamen omnes quaecumque contrariae sunt, hae aut in universalibus universaliter
ponunt enuntiationem aut una affirmativa est, altera negativa, ut in eo quod
est: Socrates sanus est Socrates aeger est Hic enim neque in universali
universalitas posita est neque ƿ rursus una est affirmatio, altera vero negatio
sed sunt contrariae propositiones. Contraria enim sunt quae significant
quocirca rectissime dictum est, quod quaecumque in universalibus rebus
universaliter enuntiarent, si una earum esset affirmativa, altera negativa,
statim naturaliter essent contrariae: quae autem contrariae essent, non necesse
esse eas vel universale universaliter enuntiare vel unam esse affirmativam,
alteram negativam sed aliquotiens quidem posse has esse contrarias, quae
universale in universalibus non significarent sed hoc in his tantum quae essent
in subiecto de quo fit affirmatio naturaliter, ut in eo quod est animal et
homo. Cum dicimus: Homo animal est quoniam inest in natura hominis
animal, idcirco haec affirmans illa negans videntur esse contraria, quamquam
illic nulla determinatio neque particularitatis neque universalitatis addatur. IN
EO VERO, QUOD PRAEDICATUR UNIVERSALE, UNIVERSALE PRAEDICARE UNIVERSALITER NON
EST VERUM; NULLA ENIM AFFIRMATIO ERIT, IN QUA DE UNIVERSALI PRAEDICATO
UNIVERSALE PRAEDICETUR, UT OMNIS HOMO OMNE ANIMAL EST. Quod dicit huiusmodi
est: omnis propositio simplex duobus terminis constat. His saepe additur aut
universalitatis aut particularitatis determinatio. Sed ad ƿ quam partem hae
determinationes addantur exponit videtur enim Aristoteli praedicato termino
terminationem non oportere coniungi. In hac enim propositione quae est: Homo
animal est quaeritur, subiectumne debeat cum determinatione dici, ut sit:
Omnis homo animal est an praedicatum, ut sit: Homo omne animal est
an utrumque, ut sit: Omnis homo omne animal est Sed neutrum eorum quae
posterius dicta sunt fieri oportet. Namque ad praedicatum numquam determinatio
iungitur sed tantum ad subiectum. Neque enim verum est dicere: Omne animal
omnis homo est idcirco quoniam omnis praedicatio aut maior est subiecto
aut aequalis ut in eo quod dicimus omnis homo animal est plus est animal quam
homo, et rursus in eo quod dicimus homo risibilis est risibile aequatur homini,
ut autem minus sit praedicatum atque angustius subiecto fieri non potest. Ergo
in his praedicatis quae subiecto maiora sunt, ut in eo quod est animal,
perspicue falsa propositio est, si determinatio universalitatis ad praedicatum
terminum ponitur. Nam si dicamus: Homo omne animal est animal quod maius
est homine per hanc determinationem ad subiectum hominem usque contrahimus, cum
non solum ad hominem sed ad alia quoque nomen animalis possit aptari. Rursus in
his quae aequalia sunt idem evenit. Nam si dico: Omnis homo omne risibile
est primum si ad humanitatem ipsam referam superfluum est adicere
determinationem; quod si ad singulos quosque homines, falsa est propositio. Nam
cum dico: Omnis homo omne risibile est hoc videor significare: ƿ singuli
homines omne risibile sunt, quod fieri non potest. Non igitur ad praedicatum
sed ad subiectum ponenda determinatio est. Verba autem Aristotelis hoc modo
sunt et ad hanc sententiam dicuntur: in his praedicatis quae sunt universalia
his adicere universale aliquid, ut universale praedicatum universaliter
praedicetur, non est verum. Hoc enim est quod ait: IN EO VERO QUOD PRAEDICATUR
UNIVERSALE, id est quod habet praedicatum universale, ipsum UNIVERSALE
PRAEDICARE UNIVERSALITER NON EST VERUM. In praedicato enim universali, id est
quod universale est et praedicatur, id ipsum praedicatum, quod universale est,
universaliter praedicare, id est adiecta determinatione universalitatis, non
est verum. Neque enim potest fieri ut ulla sit affirmatio in qua de universali
praedicato universalis determinatio praedicetur. Eiusque rei notionem exemplo
aperit dicens, ut: Omnis homo omne animal Hoc autem quam sit inconveniens
supra iam diximus. OPPONI AUTEM AFFIRMATIONEM NEGATIONI DICO CONTRADICTORIE,
QUAE UNIVERSALE SIGNIFICAT EIDEM, QUONIAM NON UNIVERSALITER, UT: OMNIS HOMO
ALBUS EST, NON OMNIS HOMO ALBUS EST, NULLUS HOMO ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO
ALBUS; CONTRARIE VERO UNIVERSALEM AFFIRMATIONEM ET UNIVERSALEM NEGATIONEM, UT:
OMNIS HOMO IUSTUS EST, NULLUS HOMO IUSTUS EST. QUOCIRCA HAS QUIDEM IMPOSSIBILE
EST SIMUL VERAS ESSE, HIS VERO OPPOSITAS CONTINGIT IN EODEM, UT: NON OMNIS HOMO
ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS. Quae sit integra contradictio his verbis
ostendit. Ait enim illam esse oppositionem contradictoriam, quaecumque dicit
non esse universaliter rem universalem anutra eam quae rem universalem
universaliter proponit. Atque hoc est quod ait: OPPONI AUTEM AFFIRMATIONEM
NEGATIONI DICO CONTRADICTORIE QUAE UNIVERSALE SIGNIFICAT EIDEM, QUONIAM NON
UNIVERSALITER, ut ei quae est: Omnis homo iustus est opponitur ea quae
universale significat non tamen universaliter, ut ea quae est: Quidam homo
iustus non est Hominem enim universalem significat non universaliter, ut
cum dicit: Non omnis homo iustus est Haec est contradictoria oppositio,
ut si sit universalis affirmatio, sit particularis negatio, si sit universalis
negatio, sit particularis affirmatio. Angulares enim (ut dictum est) solae
faciunt contradictionem. Verba igitur se obscure habent sed sententia manifesta
est. Dicit enim eam opponi contradictorie affirmationem negationi vel
negationem affirmationi, quaecumque id, quod res altera universale
universaliter significaret idem significaret non universaliter quod esset
universale, ut in his quas supra diximus: ut haec quae est: Omnis homo iustus
est rem universalem universaliter significavit; illa quae est: Non omnis
homo iustus est eidem affirmationi opposita de homine universali non
universaliter negavit dicens: Non omnis homo iustus est Rursus ea quae
dicit: Nullus homo iustus est ƿrem universalem universaliter negavit
dicens 'nullus'; ea vero quae dicit: Quidam homo iustus est rem
universalem particulariter affirmavit et non universaliter. Hominem enim
quendam iustum esse proposuit sed non hominem universaliter enuntiavit rem
universalem. Persequitur ergo proprietates omnes propositionum. Ait enim:
CONTRARIE VERO UNIVERSALEM AFFIRMATIONEM ET UNIVERSALEM NEGATIONEM. Sicut enim
supra dixit eas quae universaliter universale significarent vel in affirmatione
vel in negatione esse contrarias, ita nunc quoque idem repetit contrarias esse
dicens universalem affirmationem universalemque negationem. Earumque ponit exempla,
quae utrasque universales monstrarent, UT: OMNIS HOMO IUSTUS EST NULLUS HOMO
IUSTUS EST Harum autem quae proprietas esset proposuit dicens: huiusmodi
propositiones impossibile esse utrasque sibi in veritate inuicem consentire,
quae autem his essent oppositae contingere utrasque veras esse. Sunt autem
oppositae his utraeque particulares: universali enim affirmationi particularis
negatio opponitur et universali negationi particularis affirmatio opposita est.
Quocirca hae duae particularis affirmatio et particularis negatio, quae
oppositae sunt affirmationi et negationi universalibus angulariter, hae possunt
aliquando esse verae. Et in eodem, ut in eo quod est: Quidam homo iustus est
Quidam homo iustus non est Sed: Quidam homo iustus est opposita est
ei quae est: Nullus homo iustus est illa vero quae est: Quidam homo
iustus non est opposita est ei quae est: Omnis homo iustus est Sed
utraeque inter se, id est: Quidam homo iustus est et: ƿ Quidam homo
iustus non est in veritate consentiunt. Hoc est ergo quod ait: HIS VERO
OPPOSITAS CONTINGIT IN EODEM easque designat exemplis, UT NON OMNIS HOMO ALBUS
EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS. Positis ergo duabus propositionibus, affirmatione
universali et universali negatione, ars danda est, quatenus earum inveniantur
opposita. Opposita autem dico contradictorie, non contrarie neque ullo alio
modo. Sit enim haec affirmatio: Omnis homo iustus est et haec negatio:
Nullus homo iustus est Contra affirmationem quae est: Omnis homo iustus
est videntur ergo esse negationes hae -- una: Nullus homo iustus
est altera: Quidam homo iustus non est altera: Non omnis homo
iustus est et postrema indefinita: Homo iustus non est Quae harum
igitur contra eam quae est: Omnis homo iustus est contradictorie
constituitur? Contradictorie autem voco oppositionem, in qua affirmatio et
negatio neque verae utraeque sint neque falsae utraeque sed una semper vera,
alia falsa. Si ergo opponatur contra eam quae est: Omnis homo iustus est
ea quae est: Nullus homo iustus est universalis scilicet negatio, non est
oppositio; utraeque enim falsae sunt. Si vero opponatur ea quae est: Homo
iustus non est indefinita, nec ipsa quoque facit oppositionem. Quoniam
enim indefinita est, potest aliquotiens pro universali negatione pro exspectatione
auditoris intellegi. Quocirca nec ipsa facit oppositionem. Si enim hoc modo
audita sit, cum ita accipitur ut contraria, simul eas falsas inveniri
contingit. Restat ergo, ut aut ea sit quae est:ƿ Non omnis homo iustus
est aut ea quae est: Quidam homo iustus non est Sed hae sibi
consentiunt. Idem enim dicit qui proponit Quidam homo iustus non est et
idem qui dicit Non omnis homo iustus est Nam si quidam homo iustus non
est, non omnis homo iustus est; et si non omnis homo iustus est, quidam homo
iustus non est. Quare utraeque particulares negationes contradictorie
opponuntur contra universalem affirmationem. In his enim neque verae utraeque
sunt neque utraeque falsae sed una vera, altera falsa rursus sit negatio
universalis ea quae est: Nullus homo iustus est Contra hanc videntur
oppositae affirmationes hae: Omnis homo iustus est Homo iustus est Quidam homo
iustus est Sed contra eam quae est: Nullus homo iustus est si
opponitur ea quae est: Omnis homo iustus est possunt esse utraeque falsae;
quare non opponuntur contradictorie. At vero etiam ea quae dicit: Homo iustus
est quoniam indefinita est, potest ita in aliquibus intellegi tamquam si
dicat: Omnis homo iustus est Quod si sic est, poterit aliquando cum ea
negatione quae est: Nullus homo iustus est simul esse falsa; quare non
est opposita relinquitur ergo, ut ea quae est: Quidam homo iustus est
contra eam quae est: Nullus homo iustus est contradictorie videatur
opposita. Angulariter igitur requirendae sunt, ut contra universalem
affirmationem illa ponatur quae sub universali negatione est, contra
universalem negationem illa contradictorie constituatur quae est sub universali
affirmatione. Quod scilicet volens Aristoteles ostendere sic ait: QUAECUMQUE
IGITUR CONTRADICTIONES UNIVERSALIUM SUNT UNIVERSALITER, NECESSE EST ALTERAM
VERAM ESSE VEL FALSAM ET QUAECUMQUE IN SINGULARIBUS SUNT, UT EST SOCRATES ALBUS,
NON EST SOCRATES ALBUS. In illis enim quae contradictoriae sunt universalibus
universaliter praedicatis, in his verum semper falsumque dividitur. Contradictoriae
autem sunt universalis affirmationis particularis negatio et universalis
negationis particularis affirmatio. In his igitur una semper vera est, altera
semper falsa. Atque hoc est quod ait: QUAECUMQUE IGITUR CONTRADICTIONES
UNIVERSALIUM SUNT UNIVERSALITER, et hic distinguendum est ut intellegatur sic:
quaecumque igitur contradictiones sunt universalium propositionum universaliter
propositarum, necesse est alteram veram, alteram falsam esse. Et in his primum
dividitur veritas falsitasque, quae sibi et qualitate et quantitate oppositae
sunt: qualitate quod illa negatio est, illa affirmatio, quantitate quod illa
universalis, illa particularis est. Secundo autem modo in his quae sunt
singularia, si nullae argumentatorum nebulae sint, veritas falsitasque dividitur,
ut in eo quod est: Socrates albus est Socrates albus non est Una enim
vera est altera falsa, si (ut dictum est) nulla ambiguitas aequivocationis
impediat. QUAECUMQUE AUTEM IN UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER, NON SEMPER HAEC
VERA EST, ILLA VERO FALSA. SIMUL ENIM VERUM EST DICERE QUONIAM ƿ EST HOMO ALBUS
ET NON EST HOMO ALBUS, ET EST HOMO PROBUS ET NON EST HOMO PROBUS. SI ENIM
TURPIS, ET NON PROBUS; ET SI FIT ALIQUID, ET NON EST. VIDEBITUR AUTEM SUBITO
INCONVENIENS ESSE, IDCIRCO QUONIAM VIDETUR SIGNIFICARE NON EST HOMO ALBUS SIMUL
ETIAM QUONIAM NEMO HOMO ALBUS. HOC AUTEM NEQUE IDEM SIGNIFICAT NEQUE SIMUL
NECESSARIO. Propositiones eas, quae in universalibus non universaliter
proferuntur, non semper veras esse vel falsas conatur ostendere. Hoc autem per
contraria monstrat. Ea enim propositio quae est: Homo albus est et huius
negatio quae est: Homo albus non est hoc modo ostenduntur verum et falsum
inter se interdum non posse dividere: nam si verum est, ut hae duae
affirmationes: Est homo albus et Est homo niger utraeque uno
tempore verae sint, verum est quoque affirmationem indefinitam et indefinitam
negationem utrasque veras aliquotiens inveniri. Nam si verum est quoniam est
homo albus, verum itidem quoniam est homo niger (nam cum Gallus sit candidus,
Aethiops nigerrimus invenitur): simul ergo verum est dicere quoniam est homo
albus et est homo niger. Sed qui niger est albus non est: simul ergo verum est
dicere quoniam est homo albus et non est homo albus. Idem quoque et de probo et
turpi. Nam si verum est dicere quoniam est homo probus, si quis hoc de
philosopho dicat, et rursus verum est quoniam ƿ est homo turpis, si quis hoc de
Sulla diceret, verum est utrumque, et quoniam est homo probus et quoniam est
homo turpis. Sed qui turpis est, probus non est: simul igitur verum est dicere
quoniam EST HOMO PROBUS ET NON EST HOMO PROBUS. Sed videbitur fortasse aliquid
sibi dixisse contrarium et difficilior procedit ostensio, quae per huiusmodi
exempla proponitur, quae contraria esse videantur. Albus enim et niger et
probus et turpis contraria sunt et fortasse dubitet quidam, utrum uno tempore
contraria haec in aliquibus valeant reperiri. Sed adiecit exemplum aliud, quod
cum contrarium non sit, tamen ex eo sicut in contrariis quoque negatio
procreatur: ut si quis dicat: Est homo probus et alius dicat: Fit homo
probus si quis vel alio docente vel se ipso corrigente aliqua disciplina
rationis eniteat. Nihil ergo contrarium habet esse probum et fieri probum;
neque enim ita contrarium est, ut esse hominem probum et esse hominem turpem.
Quare si nihil habet contrarium, dubium non est quin simul esse possint. Sed
quod fit nondum est adhuc cum fit: quare nondum est probus qui fit probus. Sed
verum erat dicere cum eo quod est: Est probus homo quoniam fit probus
homo. Sed qui fit probus homo, non est probus homo: verum est igitur dicere
simul, quoniam est probus homo et non est probus homo, licet non invalida
exempla sint posita de contrariis. Nihil enim prohibet uno tempore contraria
aliis atque aliis inesse subiectis. Quocirca constat indefinitas per id quod in
exemplis supra proposuit simul aliquotiens veras videri et non semper inter se
verum falsumque partiri. Quod vero ait: VIDEBITUR AUTEM SUBITO INCONVENIENS
ESSE, IDCIRCO ƿ QUONIAM VIDETUR SIGNIFICARE NON EST HOMO ALBUS, SIMUL ETIAM
QUONIAM NEMO HOMO ALBUS EST, huiusmodi est: dixit enim propositionem
affirmationis eam quae dicit: Est homo albus veram posse esse cum ea quae
dicit: Non est homo albus Nunc hoc notat: videtur, inquit, aliquotiens
inconveniens esse et incongruum dicere eam quae dicit: Est homo albus et
eam quae est: Non est homo albus simul veras esse posse, idcirco quod ea
quae est: Non est homo albus emittit imaginationem quandam quod
significet quoniam nullus homo albus est. Videtur enim negatio huiusmodi, quae
est: Non est homo albus illud quoque significare simul quoniam nullus
homo albus est, ut si quis dixerit: Non est homo albus hoc eum dixisse
putandum sit, quoniam nullus homo albus est. HOC AUTEM, inquit, id est
"Non est homo albus" et rursus "Nullus homo albus est",
NEQUE IDEM SIGNIFICAT neque semper simul sunt. Nam qui dicit: Nullus homo albus
est universalitatem determinans negationem de universalitate proponit,
qui vero dicit: Non est homo albus non omnino de tota universalitate
negat sed ei tantum sufficit de particularitate negasse. Atque ea quae est:
Nullus homo albus est si unus homo albus fuerit, falsa est, ea vero quae
dicit: Non est homo albus etiam si unus homo albus non fuerit, vera est.
Quare non significant idem. Dico autem, quoniam nec omnino, quotienscumque
dictum fuerit: Non est homo albus mox significat quoniam nullus homo
albus est. Nam cum dico: Nullus homo albus est haec eadem significat
quoniam non est homo albus (universalis enim intra se continet indefinitam): ƿ
cum autem dicimus: Non est homo albus non omnino significat nullus homo
albus est, indefinita enim non intra se continet universalem. Superius namque
monstravimus, quod indefinitae vim particularium optinerent. Quare si, cum est
universalis negatio, est indefinita negatio, cum vero est indefinita negatio,
non omnino est universalis negatio, non convertitur secundum subsistendi
consequentiam. Quare non sunt simul. Quae enim non convertuntur, simul non
sunt, ut nos Praedicamentorum liber edocuit. Quare neque idem significant
negationes: Non est homo albus Nullus homo albus est neque simul sunt,
quoniam non convertuntur ad consequentiam subsistendi. Syrianus tamen nititur
indefinitam negationem vim definitae optinere negationis ostendere. Hoc multis
probare nititur argumentis Aristotele maxime reclamante. Nec hoc tantum suis
sed Platonicis quoque Aristotelicisque rationibus probare contendit: eam quae
dicit: Non est homo iustus huiusmodi esse qualis est ea quae dicit:
Nullus homo iustus est Sed nos auctoritati Aristotelicae seruientes id
quod ab illo veraciter dicitur approbamus. Nam quod Syrianus dicit indefinitam
quidem affirmationem particularis optinere vim, indefinitam vero negationem
universalis, quam mendaciter diceretur quamque utraeque in particularibus
rectissime proponerentur, et supra monstravimus et in his libris quos de
categoricis syllogismis composuimus in primo libro diligenter expressimus. Nunc
nobis ipse quoque Aristoteles testis est et Syrianus facillima ratione
conuincitur, quod in Analyticis quoque ex duabus indefinitis dicit non posse
colligi syllogismum ƿ cum ex affirmativa particulari et negativa universali
particularis negativa possit esse collectio. Quod si indefinitae affirmatio et
negatio et negationis universalis et particularis affirmationis vim optinerent,
numquam diceret Aristoteles has propositiones non colligere syllogismum. Sed
illud verius est, quoniam ex duabus particularibus nihil in qualibet
propositionum complexione colligitur, quod in his propositionibus quae indefinitae
sunt nihil colligi dixit, quia particularium vim propositiones indefinitas
arbitratus est optinere. Quare multis modis Syriani argumenta franguntur. Sed
nos expositionis cursum ad sequentia convertamus. MANIFESTUM EST AUTEM QUONIAM
UNA NEGATIO UNIUS AFFIRMATIONIS EST; HOC ENIM IDEM OPORTET NEGARE NEGATIONEM,
QUOD AFFIRMAVIT AFFIRMATIO, ET DE EODEM, VEL DE ALIQUO SINGULARIUM VEL DE
ALIQUO UNIVERSALIUM, VEL UNIVERSALITER VEL NON UNIVERSALITER. DICO AUTEM UT EST
SOCRATES ALBUS, NON EST SOCRATES ALBUS. SI AUTEM ALIUD ALIQUID VEL DE ALIO
IDEM, NON OPPOSITA SED ERIT AB EA DIVERSA. HUIC VERO QUAE EST OMNIS HOMO ALBUS
EST ILLA QUAE EST NON OMNIS HOMO ALBUS EST, ILLI VERO QUAE EST ALIQUI HOMO
ALBUS EST ILLA QUAE EST NULLUS HOMO ALBUS EST, ILLI AUTEM QUAE EST EST HOMO
ALBUS ILLA QUAE EST NON EST HOMO ALBUS. Hinc quoque apparet affirmationem
indefinitam et ƿ indefinitam negationem non semper unam in veritate aliam in
falsitate consistere. Atque hinc docetur indefinitam negationem non idem
valere, quod universalis negatio potest, et est alia universalis, alia
indefinita negatio. Nam si unicuique affirmationi una negatio videtur opponi
cumque diversae sint affirmatio quae dicit: Est homo albus et ea quae
dicit: Est quidam homo albus diversas quoque habebunt in negationibus
enuntiationes. Et illa quidem quae indefinita est affirmatio habebit
indefinitam negationem, ut ea quae dicit: Est homo albus huic opponitur:
Non est homo albus ea vero quae dicit: Est quidam homo albus
negationem habebit oppositam eam quae dicit: Nullus homo albus est Quare
si particularis affirmatio definita et rursus affirmatio indefinita a se ipsae
diversae sunt, illud verum est oppositas quoque contradictorie negationes
habere dissimiles. Quare ea quae est: Nullus homo iustus est diversa est
ab ea quae dicit: Homo iustus non est Atque hoc nunc Aristoteles
exsequitur: ait enim unam semper negationem contra unam affirmationem posse
constitui. Et eius causam conatur ostendere, quod omnis negatio eosdem terminos
habet in enuntiatione sed enuntiandi modo diversa est. Nam quod ponit
affirmatio idem aufert negatio et quod illa praedicatum subiecto iungit hoc
illa dividit atque disiungit. Quare si idem praedicatum idem subiectum in
negatione est, quod affirmatio ante posuerat, non est dubium quin unius
affirmationis una negatio videatur. Nam si duae sint, aut subiectum altera
mutatura est aut praedicatum. Sed quaecumque sunt huiusmodi, non sunt
oppositae. Hoc enim est quod ait: SI AUTEM ALIUD ALIQUID VEL ƿ DE ALIO IDEM,
NON OPPOSITA SED ERIT AB EA DIVERSA. Sensus enim huiusmodi est: si negatio
aliud aliquid praedicando neget quam in affirmatione fuit (ut si sit affirmatio
"Est homo albus", negatio dicat "Non est homo iustus",
aliud praedicavit in negatione quam in affirmatione fuerat constitlltum) vel si
de alio subiecto quam in affirmatione fuerat idem quod in affirmatione fuit
dixerit praedicatum (ut si affirmatio sit "Est homo iustus", negatio
respondeat "Non est leo iustus", idem praedicatum est, subiecta diversa
sunt): si ergo vel aliud quiddam praedicet in enuntiatione propositio vel de
alio subiecto idem praedicet quod affirmatio ante posuerat, non erunt illa
affirmatio negatioque oppositae sed tantum a se diversae; neque enim se
perimunt. Et hanc rem demonstrativam addidit et quae esset argumentum unius
affirmationis praeter unam negationem esse non posse, sive in singularibus, ut
in eo quod ipse dicit exemplo: EST SOCRATES ALBUS, NON EST SOCRATES ALBUS, sive
in universalibus universaliter praedicatis. Cum his particulares in oppositione
contradictorie constituuntur, ut in universali universaliter affirmativa: Omnis
homo albus est in universali particulariter negativa praedicetur: Non
omnis homo albus est illi vero quae est in universali particulariter
affirmativa: Quidam homo albus est opponatur in universali universaliter
propositio negativa: Nullus homo albus est illi vero quae in universali
non universaliter affirmativa est: Est homo albus illa quae in universali
non universaliter negativa est: Non est homo albus ut quod ait vel de
aliquo singularium ad haec exempla pertineat: EST SOCRATES ALBUS, NON EST
SOCRATES ƿ ALBUS; quod autem secutus est VEL DE ALIQUO UNIVERSALIUM, VEL
UNIVERSALITER ad illa exempla dictum esse videatur quae sunt: OMNIS HOMO ALBUS
EST, NON OMNIS HOMO ALBUS EST, ALIQUI HOMO ALBUS EST, NULLUS HOMO ALBUS EST;
quod vero addidit VEL NON UNIVERSALITER scilicet in universalibus ad illa
exempla rettulerit quae sunt: HOMO ALBUS EST, NON EST HOMO ALBUS. Hinc igitur
omnia rursus brevissime repetit dicens: iam sese dixisse, quoniam uni negationi
una affirmatio esset opposita et hoc non quolibet modo sed contradictorie, in
quibus scilicet verum falsumque divideretur. Dixisse etiam commemorat, quae
essent hae quas contradictorias nominaret. Dixit autem esse angulares, affirmativam
universalem et negativam particularem, rursus affirmativam particularem et
negativam universalem. Disserui quoque, inquit, ET QUONIAM ALIAE SUNT
CONTRARIAE. Non enim eaedem sunt contrariae quae sunt contradictoriae.
Contrariae enim sunt sibimet universalis affirmatio universalisque negatio.
Exposui illud quoque, inquit, QUONIAM NON OMNIS VERA VEL FALSA CONTRADICTIO.
Nunc contradictionem non illam proprie sed communiter de his dixit quae sibi
sunt oppositae sive contrario modo sive subcontrario. Hae namque non semper
verum inter se falsumque dividebant, ƿ ut una semper esset vera, alia falsa.
Poterat enim fieri ut contrariae simul invenirentur falsae, subcontrariae simul
verae. De his autem, quae proprie contradictoriae sunt, de his sequitur et se
iam exposuisse commemorat, et quare una vera vel falsa est et quando. Idcirco
enim affirmatio universalis particulari negationi vi contradictionis opponitur,
quod in omnibus a se ipsae diversae sunt et qualitate et quantitate. Illa enim
est affirmatio, illa negatio, universalis illa, illa particularis. Ideo ergo
aut utraeque falsae aut utraeque verae inveniri non possunt. Quando autem ita
fuerit, constat unam veram esse, aliam falsam. Atque hoc est quod ait: ET QUARE
ET QUANDO VERA VEL FALSA, dictum esse scilicet memorans, quare oppositio et
quando una semper vera sit, altera falsa: tunc utique quando angulariter
constituuntur, idcirco quoniam et quantitate a se propositiones et qualitate
diversae sunt. Nobis autem dicendum est, quando oppositiones contrariae vel
subcontrariae aut utraeque illae simul falsae sint aut utraeque illae simul
verae aut una falsa, alia rursus inveniatur vera. In contrariis enim si ea quae
non sunt naturaliter praedicentur, [utraeque] ut albedo, quoniam naturaliter
homini non est, utraeque falsae sunt quae albedinem praedicant. Falsum est
enim: Omnis homo albus est falsum est: Nullus homo albus est Sed
quando ambae falsae sunt, verae sunt subcontrariae, ut est: Quidam homo albus
est Quidam homo albus non est Quod si quid naturale praedicetur in
contrariis, affirmatio vera est, falsa negatio, ut quoniam naturale est homini
esse animal, vera est ea quae dicit: Omnis homo animal est falsa quae
dicit: Nullus ƿ homo animal est Eodem quoque modo in subcontrariis vera
est affirmatio, falsa negatio. Sin vero aliquid impossibile praedicetur, falsa
affirmatio est, vera negatio, ut quoniam impossibile est hominem esse lapidem,
si dicamus: Omnis homo lapis est falsum est, Nullus homo lapis est
verum est. Eandem quoque retinet vim subcontrarii natura: affirmatio enim hic
falsa est, vera negatio. UNA AUTEM EST AFFIRMATIO ET NEGATIO QUAE UNUM DE UNO
SIGNIFICAT, VEL CUM SIT UNIVERSALE UNIVERSALITER VEL NON SIMILITER, UT OMNIS
HOMO ALBUS EST, NON EST OMNIS HOMO ALBUS; EST HOMO ALBUS, NON EST HOMO ALBUS;
NULLUS HOMO ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS, SI ALBUM UNUM SIGNIFICAT. Ea quae
a nobis superius sunt diligenter exposita, illa nunc ipse clarius monstrat.
Diximus namque unam propositionem esse quae unam quamlibet rem significaret et
non plurimas, ita ut nec aequivocum subiectum haberet nec aequivocum
praedicatum; una enim propositio sic fit. Nunc hoc dicit: una propositio est
quae unam rem significat id est quae neque subiectum aequivocum habet nec
praedicatum. Sive autem sit universalis affirmatio sive universalis negatio
sive particularis affirmatio sive particularis negatio sive indefinitae
utraeque sive contra se angulariter ponantur: una illa propositio est, quae
unam rem in affirmatione vel negatione significat. Sed hic quaestio est,
quemadmodum universalis affirmatio unam rem significare ƿ possit, cum ipsa
universalitas non de uno sed de pluribus praedicetur. Nam cum dico: Omnis homo
albus est singulos homines qui plures sunt significans multa in ipsa
affirmationis praedicatione designo. Quocirca nulla erit affirmatio vel negatio
universalis, quae unam rem significare possit, idcirco quod ipsa universalitas
de pluribus (ut dictum est) individuis praedicatur. Sed ad hoc respondemus: cum
universale quiddam dicitur, ad unam quodammodo collectionem totius
propositionis ordo perducitur et eius non ad particularitatem sed ad
universalitatem quae est una qualitas applicatur: ut cum dicimus omnis homo
iustus est, non tunc singulos intellegimus sed ad unam humanitatem quidquid de
homine dictum est ducitur. Quare sive sit universalis affirmatio sive
universalis negatio vel in singularibus, potest fieri ut hae unae sint, si una
significatione teneantur. Atque hoc est quod ait eas propositiones quas supra
proposuit, quae sunt OMNIS HOMO ALBUS EST, NON EST OMNIS HOMO ALBUS; HOMO ALBUS
EST, NON EST HOMO ALBUS; NULLUS HOMO ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS, unas
videri, SI ALBUM, inquit, UNUM SIGNIFICAT. Si enim album quod praedicatur multa
significet vel si homo quod subiectum est non unum, non est una affirmatio nec
una negatio. Hoc autem in sequentibus clarius monstrat dicens: SIN VERO DUOBUS
UNUM NOMEN EST POSITUM, EX QUIBUS NON EST UNUM, NON EST UNA AFFIRMATIO, UT SI.
QUIS PONAT NOMEN TUNICA HOMINI ET EQUO, EST TUNICA ALBA HAEC NON EST UNA
AFFIRMATIO NEC NEGATIO UNA. Sensus huiusmodi est: si una res plura significet,
ex quibus multis unum effici possit, illa affirmatio, in qua illud nomen vel
praedicatur vel subicitur, multa non significat, ut in eo quod est homo. Quod
dicimus homo significat animal, significat rationale, significat mortale; sed
ex his quae multa significat unum potest effici, quod est animal rationale
mortale. Quare hoc nomen homo licet plura sint quae significet, tamen quoniam
iuncta in unum quodammodo veniunt corpus et unum quiddam ex se iuncta
perficiunt, cum ita dictum fuerit, quasi ut ex his quae significat unum aliquid
fiat, unum quod tota illa iuncta perficiunt nomen illud significare manifestum
est. Atque hoc est quod ait: SIN VERO DUOBUS UNUM NOMEN EST POSITUM, EX QUIBUS
NON EST UNUM, non esse unam affirmationem. Si enim talia quilibet sermo plura
significet, ex quibus iunctis unum effici nequeat corpus, nec possint ea quae
significantur uno illo nomine in unam speciem substantiae convenire, non est
illa una affirmatio. Quale autem nomen sit quod positum unam affirmationem non
facit, idcirco quod plura significet ex quibus unum fieri non possit, exempli
sollertissima virtute monstravit dicens: UT SI QUIS PONAT NOMEN TUNICA HOMINI
ET EQUO, EST TUNICA ALBA HAEC NON EST UNA AFFIRMATIO NEC NEGATIO UNA. NIHIL
ENIM HOC DIFFERT DICERE QUAM EST EQUUS ET HOMO ALBUS. HOC AUTEM NIHIL DIFFERT
QUAM DICERE EST EQUUS ALBUS ET EST HOMO ALBUS. Si quis ponat homini et equo
nomen tunica, inquit, et in propositione nomen hoc ponitur, illa propositio non
est una sed multiplex. Nam si verbi gratia tunica homo atque equus dicatur, ut,
cum dicit aliquis tunicam, aut equum designet aut hominem: si quis dicat in
propositione sic: Tunica alba est non est una affirmatio. Quod enim
dicit: Tunica alba est huiusmodi est quasi si dicam "Homo et equus
albus est". Tunica enim equum atque hominem significatione monstravit.
Quod vero dicit: Homo atque equus albus est nihil differt tamquam si
dicat: Equus albus est Homo albus est Sed hae duae sunt propositiones et
non similes, in his enim subiecta diversa sunt. Quocirca si hae affirmationes
duae sunt, duplex quoque illa est affirmatio, quae dicit homo atque equus albus
est. Quod si haec rursus duplex est, quoniam equum atque hominem tunicam
significare propositum est, cum dicimus "Tunica alba est" non unum
sed plura significat. Quocirca si ea affirmatio quae multa designat non est
una, haec quoque affirmatio una non erit, cuius aut praedicatio aequivoca
fuerit aut subiectum. Atque hoc est quod ait: SI ERGO HAE MULTA SIGNIFICANT ET
SUNT PLURES, MANIFESTUM EST QUONIAM ET PRIMA MULTA ƿ VEL NIHIL SIGNIFICAT; NEQUE
ENIM EST ALIQUIS HOMO EQUUS. Quod si, inquit, est equus albus et est homo albus
multa significant, illa quoque prima propositio, quae est est tunica alba, unde
hae fluxerunt, multa designat: aut si quis dicat non eam multa significare,
concedit profecto nihil omnino propositionis ipsius significatione monstrari.
Tunc enim nomen unum multa significans in unam significationem poterat
convenire, quotiens ex his quae significat una posset coniungi constituique
substantia, ut in eo quod supra proposui, cum homo animal rationale et mortale
significat, quae in unum possunt iuncta congruere. Nunc autem si tunica hominem
equumque significat, multa designat sed ea ipsa in unum corpus non veniunt.
Neque enim fieri potest ut aliqui homo equus sit. Quare aut multa significat,
quod verum est, aut si quis contendat non eam multa significare sed quiddam ex
his quae significat iunctum, quoniam nihil est quod ex equo et homine
coniungatur, nihil omnino significat. Hoc est enim quod dixit NEQUE ENIM EST
ALIQUIS HOMO EQUUS, et hoc sub uno legendum est, non discrete pronuntiandum
homo et rursus equus sed homo equus, ut ex his iunctis appareat nihil omnino
posse constitui. Cur autem hoc dixerit, sequens monstrat oratio. Si enim ita
facienda est oppositio, ut contra affirmationem huiusmodi opponatur ƿ negatio,
quae in oppositione verum falsumque dividat, ut una vera, alia falsa sit, unam
oportet esse affirmationem et uuam negationem, quod contingit, si neque
subiectum neque praedicatum multa significet. Quod si plura designet et sit
aequivocum, non erit in huiusmodi propositionibus una semper vera, altera
falsa. Herminus vero sic sentit quod ait Aristoteles: SIN VERO DUOBUS UNUM
NOMEN EST POSITUM, EX QUIBUS NON EST UNUM, NON EST UNA AFFIRMATIO: ut in eo,
inquit, quod est homo gressibilis est, quoniam quod dicimus gressibile potest
et bipes esse et quadrupes et multipes animal demonstrari: ex his, inquit,
omnibus unum fit, quod est pedes habens: ista, inquit, huiusmodi affirmatio non
multa significat. Sed sententiam Aristotelis omnino non sequitur. Neque enim ex
his omnibus unum fit nec quadrupes et bipes et multipes pedem habere faciunt.
Hic enim numerus pedum, non pedum constitutio est. Quare Herminus praetermittendus
est. Huic autem expositioni quam supra disserui et Aspasius et Porphyrius et
Alexander in his quos in hunc librum ediderunt commentariis consenserunt. Sed
ne diutius nobis Aristotelis exemplum caliginis obscuritatem ferat, hoc in
aliquo noto exemplo vocabuloque videndum est. Cum enim dicimus: Aiax se
peremit, et Telamonis Aiacem filium et Oileum demonstrat, ex quibus duobus unum
fieri aliquid non potest. Ex duobus enim individuis nihil omnimodis iungitur. ƿ
Quare huiusmodi propositio multa significat. Sed haec hactenus. Nunc autem
determinat haec, quae de propositionibus supra iam dixerat, non de omni tempore
sed de solis tantum praeterito et praesenti, quemadmodum se in veritate et in
falsitate habeant, disseruisse. In futuris vero non idem est quale in
praeterito praesentique in propositione iudicium, idcirco quod iam vel cum
contigit vel cum est definita veritas et falsitas in propositionibus invenitur.
Ut cum dico: Brutus consulatum primus instituit sub rege Tarquinio dicat
alius: Brutus consulatum non primus instituit sub rege Tarquinio hic una
vera est, una falsa, et iam affirmatio definite vera est, definite falsa
negatio rursus in praesenti cum dicimus: Vernum tempus est Vernum tempus non
est si hoc verno tempore dictum sit, affirmatio vera est et definite
vera, negatio falsa est et definite falsa. Quod si hoc autumno dictum sit,
definite falsa affirmatio et definite vera negatio, idcirco quod sive in
praeterito sive in praesenti veritas affirmationis negationisue iam contigit. In
futuro vero non eodem modo sese habet. Ut cum dicimus: Gothos Franci
superabunt si quis negat: Gothos Franci non superabunt una quidem
vera est, una falsa sed quae vera quae falsa ante exitum nullus agnoscit. Atque
hoc est quod ait: IN HIS ERGO QUAE SUNT ET FACTA SUNT NECESSE EST AFFIRMATIONEM
VEL NEGATIONEM VERAM ƿ VEL FALSAM ESSE, IN UNIVERSALIBUS QUIDEM UNIVERSALITER
SEMPER HANC QUIDEM VERAM, ILLAM VERO FALSAM, ET IN HIS QUAE SUNT SINGULARIA,
QUEMADMODUM DICTUM EST ut non modo una semper vera sit, altera falsa in tota
contradictione sed illud quoque habeat, ut in una qualibet definite veritas aut
falsitas reperiatur: ita ut in his singularibus veritas et falsitas in
propositionibus dividatur, in universalibus autem, si his particularitates
opponantur (quemadmodum dictum est) unam necesse est veram esse, alteram falsam
sed definita propositionum veritate vel falsitate, sicut supra disserui. Quare
in sequentibus quaedam de futuris tractanda sunt et quoniam maius opus est
(quam hoc breviter dici possit viderimus) et nos secundi voluminis seriem
longius extraximus, hoc loco fastidiosam longitudinem terminemus. Ea quae
huius libri series continebit altioris paene tractatus sunt quam ut in logica
disciplina conveniat disputari sed quoniam (ut saepe dictum est) orationibus
sensa proferuntur, quibus subiectas res esse ƿ manifestum est, non est dubium
quin quod in rebus sit idem saepe transferatur ad voces. Quare recte mihi
consilium fuit subtilissimas Aristotelis sententias gemino ordine
commentationis aperire. Nam quod prior tenet editio, ingredientibus ad haec
altiora et subtiliora quandam quodammodo faciliorem semitam parat; quod autem
secunda editio in patefaciendis subtilibus sententiis elaborat, hoc studio
doctrinaque provectis legendum discendumque proponitur. Quare prius quaedam
pauca dicenda sunt, quatenus ea de quibus postea tractaturi sumus haec ipsa legentibus
non videantur ignota. Categoricas propositiones Graeci vocant, quae sine aliqua
conditione positionis promuntur, ut est dies est, sol est, homo est, homo
iustus est, sol calet et caetera quae sine alicuius conditionis nodo atque
ligamine proponuntur. Sunt autem conditionales propositiones huiusmodi: Si dies
est, lux est quas Graeci hypotheticas vocant. Conditionales autem
dicuntur, quod talis quaedam conditio proponitur ut dicatur, si hoc est, illud
est. Et illas quidem quas categoricas Graeci nominant, Latini praedicativas
dicere possumus. Nam si categoria praedicamentum est, cur non quoque
categoricae propositiones praedicativae dicuntur? Harum autem quaedam sunt quae
cum sempiterna significent, sicut hae res quas significant semper sunt et
numquam a propria natura discedunt, ita quoque ipsae propositiones immutabili
significatione sunt: ut si quis dicat: Deus est Deus immortalis est hae
namque propositiones sicut de immortalibus dicuntur, ita ƿ quoque sempiternam
habent et necessariam significationem. Nec hoc in unius temporis natura
perspicitur sed in omnium. Nam cum dicimus: Deus immortalis est vel:
Immortalis fuit vel: Immortalis erit a propria significationis
necessitate nil discrepat. Necessarias autem propositiones vocamus, in quibus
id quod dicitur aut fuisse aut esse aut certe futurum esse necesse est evenire.
Et hae quidem quae sempiterna significant sempiternae necessitatis sunt. Nam
etiam si in his non sit manifesta veritatis natura, nil tamen prohibet fixam
esse necessitatis in natura constantiam, ut si nobis ignotum est, utrum paria
sint astra an imparia, non tamen idcirco poterit evenire ut nec paria nec
imparia videantur sed sine ulla dubitatione aut paria sunt aut imparia. Omnis
enim multitudo horum alterum retinet in natura. Quocirca etiam in his, si quis
dicat: Astra paria sunt aliusque respondeat: Astra paria non sunt
vel si quis dicat: Astra imparia sunt aliusque respondeat: Astra imparia
non sunt unus horum verum ex necessitate proponit, quod, inquam, si id
quod quilibet horum verum dixerit nobis ignotum est, necesse est tamen
immutabiliter esse quod dicitur. Atque hae quidem sunt immutabiliter necessariae
propositiones. Aliae vero sunt, quae non sempiterna significantes tamen et
ipsae sunt necessariae, quousque illa subiecta sunt de quibus propositio
aliquid affirmat aut negat. Ut cum dico: Homo mortalis est quamdiu homo
est tamdiu hominem mortalem esse necesse est. Nam si quis dicat: Ignis calidus
est ƿquamdiu est ignis tamdiu ex necessitate vera est propositio. Aliae
vero sunt, quae a natura necessitatis recedunt et quaedam tantum contingentia
significant sed haec aut aequaliter se ad affirmationem negationemque habentia
aut ad unum frequentius vergentia. Et aequaliter quidem se habent, ut si quis
dicat hodie me esse lauandum, hodie me non esse lauandum. Nihil enim magis vel
affirmatio fiet aut negatio, utraeque enim aequaliter necessariae non sunt.
Illae vero quae plus ad alteram partem vergunt huiusmodi sunt, ut si quis dicat
hominem in senecta canescere, hominem in senecta non canescere: fit quidem
frequentius ut canescat, non tamen interclusum est, ut non canescat. Praedicativarum
autem propositionum natura ex rerum veritate et falsitate colligitur.
Quemadmodum enim sese res habent, ita sese propositiones habebunt, quae res
significant. Nam si in se res ullam retinent necessitatem, propositiones quoque
necessariae sunt; sin vero tantum inesse significent -- ut si quis dicat: Homo
ambulat homini ambulationem inesse monstravit -- praeter aliquam
necessitatem sunt tantum inesse significantes omni uacuae necessitate. Quod si
res impossibiles sunt, propositiones quae illas res demonstrant impossibiles
nominantur; sin vero res contingenter venientes atque abeuntes, quae illas
prodit contingens propositio nuncupatur. Quoniam autem temporum alia sunt
futura, alia praesentia, alia vero praeterita, res quoque subiectae temporibus
his quoque temporum diversitatibus variae sunt. Aliae enim praesentis temporis
sunt, aliae ƿ futuri, aliae praeteriti. Eodem quoque modo propositiones alias
praeteriti temporis significatio tenet, ut cum dico Graeci Troiam euertere;
aliae praesentis, ut Francorum Gothorumque pugna committitur; aliae futuri, ut
Persae et Graeci bella moturi sunt. Et de praeteritis quidem et de
praesentibus, ut res ipsae, stabiles sunt et definitae. Nam quod factum est,
non est non factum, et quod non est factum, nondum factum est. Idcirco de eo
quod factum est verum est dicere definite, quoniam factum est, falsum est
dicere, quoniam factum non est. Rursus de eo quod factum non est verum est
dicere, quoniam factum non est, falsum est, quoniam factum est. Et de praesenti
quoque. Quod fit definitam habet naturam in eo quod fit, definitam quoque in
propositionibus veritatem falsitatemque habere necesse est. Nam quod fit
definite verum est dicere quoniam fit, falsum quoniam non fit. Quod non fit
verum est dicere non fieri, falsum fieri. De definitione ergo propositionum
praeteriti vel praesentis supra iam dictum est. Nunc vero ad illarum
propositionum veritatem falsitatemque disputationis ordinem vertit, quae in
futuro dicuntur quaeque sunt contingentia. Solet autem futura vocare, ƿ quae
eadem contingentia dicere consuevit. Contingens autem secundum Aristotelicam
sententiam est, quodcumque aut casus fert aut ex libero cuiuslibet arbitrio et
propria voluntate venit aut facilitate naturae in utramque partem redire
possibile est, ut fiat scilicet et non fiat. Haec ergo in praeteritum et praesens
quidem definitum et constitutum habent eventum. Quae enim evenerunt non
evenisse non possum et quae nunc fiunt ut nunc non fiant, cum fiunt, fieri non
potest. In his autem, quae in futuro sunt et contingentia sunt, et fieri potest
aliquid et non fieri. Sed quoniam tres supra modos proposuimus contingentis, de
quibus melius in physicis tractavimus, singulorum subdamus exempla. Si hesterno
domo egressus inveni amicum, quem in animo habebam quaerere, non tamen tunc
quaerebam, ut non invenirem quem inveni antequam invenirem fieri poterat, cum
autem inveni vel postquam invent, ut non invenissem fieri non potest. Rursus si
ipse sponte praeterita nocte in agrum profectus sum, antequam hoc fieret, ut
non proficiscerer fieri poterat, postquam profectus sum vel cum profectus sum,
ut id non fieret quod fiebat aut non factum esset quod erat factum, fieri non
valebat. Amplius possibile est scindi hanc qua uestior tunicam: si hesterno die
scissa est, cum scindebatur aut posiquam scissa est, ut non scinderetur ƿ aut
non esset scissa, fieri nequibat, ante vero quam scinderetur, fieri poterat ut
non scinderetur. Perspicuum ergo in praesentibus atque praeteritis vel earundem
rerum quae sunt contingentes definitum constitutumque esse eventum. In futuris
autem unum quidem quodlibet duorum fieri posse, unum vero definitum non esse
sed in utramque partem vergere et aut hoc quidem aut illud ex necessitate
evenire, ut autem hoc quodlibet definite vel quodlibet aliud definite, fieri
non posse. Quae enim contingentia sunt, in utraque parte contingunt. Quod autem
dico tale est: egredientem me hodie domo amicum invenire aut non invenire
necesse est (in omnibus enim aut affirmatio est aut negatio) sed invenire sine
dubio definite aut certe si hoc non est rursus definite non invenire,
quemadmodum hesterno die, quo amicum egrediens inveni (definitum est autem,
quod non est verum me non invenisse), non eodem modo in his quae sunt
contingentia et future sed tantum aut hoc quidem aut illud est et hoc ex
necessitate, ut autem una res vel quilibet unus eventus definitus et iam quasi
certus sit, fieri non potest. Et in hac re dissimiles sunt propositiones
contingentium et futurorum his quae sunt praeteritorum vel praesentium. Nam cum
similes sint in eo, quod in his aut affirmatio est aut negatio, ƿ sicut etiam
in his quae sunt praeterita vel praesentia, in illo diversae sunt, quod in his
quidem id est praeteritis et praesentibus rerum definitus eventus est, in
futuris vero et contingentibus in definitus est et incertus, nec solum nobis
ignorantibus sed naturae. Nam licet ignoremus nos, utrum astra paria sint an
imparia, unum tamen quodlibet definite in natura stellarum esse manifestum est.
Et hoc nobis quidem est ignoratum, naturae vero notissimum. Sed non ita hodie
me visurum esse amicum aut non visurum nobis quidem quid eveniat ignoratum est,
notum vero naturae. Non enim hoc naturaliter sed casu evenit. Quare huiusmodi
propositiones non ad nostram sed ad naturae ipsius notitiam secundum incertum
eventum et inconstantem veritatem atque mendacium derivabuntur. Talis enim est
contingentis natura, ut in utraque parte vel aequaliter sese habeat, ut hodie
me esse lauandum vel hodie me non esse lauandum, vel in una plus, minus in
altera, ut hominem canescere senescentem vel hominem non canescere senescentem.
Illud enim plus fit, illud minus. Sed nihil prohibet id quod rarius fit tamen
fieri.De his ergo Aristotelica subtilitas disputatura primum a singularibus
inchoans ad universalia tractatui viam pandit. Duobus enim modis
contradictiones fiebant: aut in singularibus aut in universalibus universaliter
praedicatis et his oppositis. Ingreditur autem ex his tribus quae supra iam
dicta sunt: ex casu, ex libero ƿ arbitrio, ex possibilitate, quae omnia uno
nomine utrumlibet vocavit, fingens scilicet nomen ad hoc, quod non unius et
certi eventus ista sunt sed utriuslibet et quomodo contingit. Hoc autem
monstrativum est naturae instabilis et ad utramque partem sine ullius rei
obluctatione vergentis. Non autem oportet arbitrari illa esse utrumlibet et
contingentium naturae, quaecumque nobis ignota sunt. Neque enim si nobis
ignotum est a Persis ad Graecos missos legatos, idcirco missos esse incerti
eventus est; nec si letale signum in aegrotantis facie medicina deprehendit, ut
aliud esse non possit nisi ille moriatur, nobis autem ignotum sit propter artis
imperitiam, idcirco illum aegrum esse moriturum utrumlibet et contingentis
naturae esse iudicandum est sed illa sola talia sine dubio esse putanda sunt,
quaecumque idcirco nobis ignota sunt, quod per propriam naturam qualem habeant
eventum sciri non possunt, idcirco quoniam propria instabilitate naturae ad
utraque verguntur, id est ad affirmationis et negationis eventum propria
instabilitate atque inconstantia permutantur. Est autem inter philosophos
disputatio de rerum quae fiunt causis, necessitatene omnia fiant an quaedam
casu. Et in hoc Epicureis et Stoicis et Peripateticis nostris magna contentio
est, quorum paulisper sententias explicemus. Peripatetici enim, quorum
Aristoteles princeps est, et casum et liberi arbitrium indicii et necessitatem
in rebus quae fiunt quaeque aguntur cum ƿ gravissima auctoritate tum
apertissima ratione confirmant. Et casum quidem esse in physicis probaut:
quotiens aliquid agitur et non id evenit, propter quod res illa coepta est quae
agebatur, id quod evenit ex casu evenisse putandum est, ut casus quidem non
sine aliqua actione sit, quotiens autem aliud quiddam evenit per actionem quae
geritur quam speratur, illud evenisse casu Peripatetica probat auctoritas. Si
quis enim terram fodiens vel scrobem demittens agri cultus causa thesaurum
reperiat, casu ille thesaurus inventus est, non sine aliqua quidem actione
(terra enim fossa est, cum thesaurus inventus est) sed non illa erat agentis
intentio, ut thesaurus inveniretur. Ergo agenti aliquid homini, aliud tamen
agenti res diversa successit. Hoc igitur ex casu evenire dicitur, quodcumque
per quamlibet actionem evenit non propter eam rem coeptam, quae aliquid agenti
successerit. Et hoc quidem in ipsa rerum natura est, ut non hoc nostra constaret
ignorantia, ut idcirco quaedam casu esse viderentur, quod nobis ignota essent
sed potius idcirco a nobis ignorarentur, quod haec in natura quaecumque casu
fiunt nullam necessitatis constantiam aut providentiae modum tenerent. Stoici
autem omnia quidem ex necessitate et providentia fieri putantes id quod ex casu
fit non secundum ipsius fortunae naturam sed secundum nostram ignorantiam
metiuntur. ƿ Id enim casu fieri putant, quod cum necessitate sit, tamen ab
hominibus ignoretur. Et de libero quoque arbitrio eadem nobis paene illisque
contentio est. Nos enim liberum arbitrium ponimus nullo extrinsecus cogente in
id quod nobis faciendum vel non faciendum indicantibus perpendentibusque
videatur, ad quam rem praesumpta prius cogitatione perficiendam et agendam
venimus, ut id quod fit ex nobis et ex nostro iudicio principium sumat nullo
extrinsecus aut violenter cogente aut impediente violenter. Stoici autem omnia
necessitatibus dantes converso quodam ordine liberum voluntatis arbitrium
custodire conantur. Dicunt enim naturaliter quidem animam habere quandam
voluntatem, ad quam propria natura ipsius voluntatis impellitur, et sicut in
corporibus inanimatis quaedam naturaliter gravia feruntur ad terram, levia
sursum meant, et haec natura fieri nullus dubitet, ita quoque in hominibus et
in caeteris animalibus voluntatem quidem naturalem esse cunctis, et quidquid
fit a nobis secundum voluntatem quae in nobis naturalis est autumant, illud
tamen addunt, quod ea velimus quae providentiae illius necessitas imperavit, ut
sit quidem nobis voluntas concessa naturaliter et id quod facimus voluntate
faciamus, quae scilicet in nobis est, ipsam tamen voluntatem illius
providentiae necessitate constringi. Ita fieri quidem omnia ex necessitate, ƿ
quod voluntas ipsa naturalis necessitatem sequatur fieri etiam quae facimus ex
nobis, quod ipsa voluntas ex nobis est et secundum animalis naturam. Nos autem
liberum voluntatis arbitrium non id dicimus quod quisque voluerit sed quod
quisque iudicio et examinatione collegerit. Alioquin muta quoque animalia
habebunt liberum voluntatis arbitrium. Illa enim videmus quaedam sponte
refugere, quibusdam sponte concurrere. Quod si velle aliquid vel nolle hoc
recte liberi arbitrii vocabulo teneretur, non solum hoc esset hominum sed
caeterorum quoque animalium, quibus hanc liberi arbitrii potestatem abesse quis
nesciat? Sed est liberum arbitrium, quod ipsa quoque vocabula produnt, liberum
nobis de voluntate iudicium quotienscumque enim imaginationes quaedam
concurrunt animo et voluntatem irritant, eas ratio perpendit et de his indicat,
et quod ei melius videtur, cum arbitrio perpenderit et iudicatione collegerit,
facit. Atque ideo quaedam dulcia et speciem utilitatis monstrantia spernimus,
quaedam amara licet nolentes tamen fortiter sustinemus: adeo non in voluntate
sed in iudicatione voluntatis liberum constat arbitrium et non in imaginatione
sed in ipsius imaginationis perpensione consistit. Atque ideo quarundam
actionum nos ipsi principia, non sequaces sumus. Hoc est enim uti ratione uti
iudicatione. Omne enim commune nobis est cum caeteris animantibus, sola ratione
disiungimur. Quod si sola etiam indicatione inter nos et ƿ caetera animalia
distantia, cur dubitemus ratione uti hoc esse quod est uti iudicatione? Quam si
quis ex rebus tollat, rationem hominis sustulerit, hominis ratione sublata nec
ipsa quoque humanitas permanebit. Melius igitur nostri Peripatetici et casum in
rebus ipsis fortuitum dantes et praeter ullam necesaitatem et liberum quoque
arbitrium neque in necessitate neque in eo quod ex necessitate quidem non est,
non tamen in nobis est ut casus sed in electione iudicationis et in voluntatis
examinatione posuerunt. Et in eo autem quod possibile esse dicitur est quaedam
inter Peripateticos et Stoicos dissensio, quam hoc modo paucis absolvimus. Illi
enim definiunt possibile esse quod possit fieri, et quod fieri prohibetur non
sit, hoc ad nostram possibilitatem scilicet referentes, ut quod nos possumus,
id possibile dicerent, quod vero nobis impossibile esset, id possibile
negarent. Peripatetici autem non in nobis hoc sed in ipsa natura posuerunt, ut
quaedam ita essent possibilia fieri, ut essent possibilia non fieri, ut hunc
calamum frangi quidem possibile est, etiam non frangi, et hoc non ad nostram
possibilitatem referunt sed ad ipsius rei naturam. Cui sententiae contraria est
illa quae dicit fato omnia fieri, cuius Stoici auctores sunt. Quod enim fato
fit ex principalibus causis evenit sed si ita est, hoc quod non fiat non potest
permutari. Nos ƿ autem dicimus ita quaedam esse possibilia fieri, ut eadem sint
etiam non fieri possibilia, hoc nec ex necessitate nec ex possibilitate nostra
metientes. His igitur expeditis illud addere sufficiat, haec Aristoteli fixa in
sententia et disciplina retinenti facile fuisse contingentium propositionum
modum de futuris ostendere: in utraque parte facere atque ideo determinatam
eventus constantiam non habere. Quod ni ita esset, omma ex necessitate fieri
crederentur, quod melius liquebit, cum ad ipsa Aristotelis verba venerimus. Non
autem incommode neque incongrue Aristoteles de rebus altioribus et fortasse non
pertinentibus ad artem logicam disputationem transtulit, cum de propositionibus
loqueretur. Neque enim esset rectitudinem et significantiam propositionum
constituere, nisi hanc ex rebus ita esse probavisset. Praedicativae enim
propositiones (ut dictum est) non in sermonibus neque in complexione
praedicationum sed in rerum significatione consistuut. Quare omnibus quae
praedicenda erant explicitis ad ipsius Aristotelis sententias aperiendas
enodandasque perveniamus. IN HIS ERGO QUAE SUNT ET FACTA SUNT NECESSE EST
AFFIRMATIONEM VEL NEGATIONEM VERAM VEL FALSAM ESSE, IN UNIVERSALIBUS QUIDEM
UNIVERSALITER SEMPER HANC QUIDEM VERAM, NAM VERO FALSAM, ET IN HIS QUAE SUNT
SINGULARIA, QUEMADMODUM DICTUM EST. IN HIS VERO QUAE IN UNIVERSALIBUS NON
UNIVERSALITER DICUNTUR, NON EST NECESSE; DICTUM AUTEM EST ET DE HIS. Categoricas
propositiones quae praedicativae Latine possint nominari (ut supra iam diximus)
ex rebus quas ipsae propositiones significant integra ratiocinandi norma
diiudicat. Illae namque quas hypotheticas vel conditionales vocamus ex ipsa
conditione vim propriam trahunt, non ex his quae significant. Cum enim dico: Si
homo est, animal est et: Si lapis est, animal non est illud est
consequens, illud repugnans. Quare ex consequentia et repugnantia propositionum
tota in propositione vis vertitur. Unde fit ut non significatio sed conditio
proposita hypotheticarum enuntiationum vim naturamque constituat: praedicativae
propositiones (ut dictum est) ex rebus principaliter substantiam sumunt. Atque
ideo quoniam quaedam res sunt praesentis temporis, quaedam praeteriti, sicut
eventus ipse rerum praesentis temporis vel praeteriti certus est, ita quoque
praedicativarum propositionum de praeteritis et praesentibus certa veritas
falsitasque est erat autem contradictionis modus duplex: aut enim universalis
particularibus angulariter opponebatur aut singularis significatio affirmativa
singularem negationem contradictoria oppositione peremerat. Et in his una vera
semper, falsa altera reperiebatur. In his autem quae essent indefinitae non
necesse erat unam veram esse, alteram falsam. Sed in his, in quibus veritas et
falsitas dividebatur, in his non solum una vera est semper, altera semper
falsa, in praeterito scilicet et praesenti sed etiam una certam et definitam
veritatem retinet, certam et definitam altera ƿ falsitatem. In his autem quae
sunt in futuro, si necessariae quidem propositiones sunt, licet et secundum
futurum tempus dicantur, necesse est tamen non modo unam veram esse, alteram
falsam sed etiam unam definite veram, definite alteram falsam, ut cum dico: Sol
hoc anno verno tempore in arietem venturus est si hoc alius neget, non
solum una vera est, altera falsa sed etiam vera est in hoc affirmatio definite
falsa negatio. Sed Aristoteles non solet illa futura dicere quae sunt
necessaria sed potius quae sunt contingentia. Contingentia autem sunt (ut supra
iam diximus) quaecumque vel ad esse vel ad non esse aequaliter sese habent, et
sicut ipsa indefinitum habent esse et non esse, ita quoque de his affirmationes
indefinitam habent veritatem vel falsitatem, cum una semper vera sit, semper
altera falsa sed quae vera quaeue falsa sit, nondum in contingentibus notum
est. Nam sicut quae sunt necessaria esse, in his esse definitum est, quae autem
sunt impossibilia esse, in his non esse definitum est, ita quae et possunt esse
et possunt non esse, in his neque esse neque non esse est definitum sed veritas
et falsitas ex eo quod est esse rei et ex eo quod est non esse rei sumitur. Nam
si sit quod dicitur, verum est, si non sit quod dicitur, falsum est. Igitur in
contingentibus et futuris sicut ipsum esse et non esse instabile est, esse
tamen aut non esse necesse est, ita quoque in affirmationibus contingentia ipsa
prodentibus veritas quidem vel falsitas in incerto est (quae enim vera sit,
quae falsa secundum ƿ ipsarum propositionum naturam ignoratur), necesse est
tamen unam veram esse, alteram falsam. Porphyrius tamen quaedam de Stoica
dialectica permiscet: quae cum Latinis auribus nota non sit, nec hoc ipsum quod
in quaestionem venit agnoscitur atque ideo illa studio praetermittemus. IN
SINGULARIBUS VERO ET FUTURIS NON SIMILITER. NAM SI OMNIS AFFIRMATIO VEL NEGATIO
VERA VEL FALSA EST, ET OMNE NECESSE EST VEL ESSE VEL NON ESSE. SI HIC QUIDEM
DICAT FUTURUM ALIQUID, ILLE VERO NON DICAT HOC IDEM IPSUM, MANIFESTUM EST,
QUONIAM NECESSE EST VERUM DICERE ALTERUM IPSORUM, SI OMNIS AFFIRMATIO VERA VEL
FALSA. UTRAQUE ENIM NON ERUNT SIMUL IN TALIBUS. NAM SI VERUM EST DICERE, QUONIAM
ALBUM VEL NON ALBUM EST, NECESSE EST ESSE ALBUM VEL NON ALBUM, ET SI EST ALBUM
VEL NON ALBUM, VERUM EST VEL AFFIRMARE VEL NEGARE; ET SI NON EST, MENTITUR, ET
SI MENTITUR, NON EST. QUARE NECESSE EST AUT AFFIRMATIONEM AUT NEGATIONEM VERAM
ESSE. NIHIL IGITUR NEQUE EST NEQUE FIT NEC A CASU NEC UTRUMLIBET NEC ERIT
NECNON ERIT SED EX NECESSITATE OMNIA ET NON UTRUMLIBET. AUT ENIM QUI DICIT
verUS EST AUT QUI NEGAT. SIMILITER ENIM VEL FIERET VEL NON FIERET; UTRUMLIBET
ENIM NIHIL MAGIS SIC VEL NON SIC SE HABET AUT HABEBIT. AMPLIUS SI EST ALBUM
NUNC, VERUM ERAT DICERE PRIMO QUONIAM LERIT ALBUM, QUARE SEMPER VERUM ƿ FUIT
DICERE QUODLIBET EORUM QUAE FACTA SUNT, QUONIAM ERIT. QUOD SI SEMPER VERUM EST
DICERE QUONIAM EST VEL ERIT;, NON POTEST HOC NON ESSE NECNON FUTURUM ESSE. QUOD
AUTEM NON POTEST NON FIERI, IMPOSSIBILE EST NON FIERI; QUOD AUTEM IMPOSSIBILE
EST NON FIERI, NECESSE EST FIERI. OMNIA ERGO QUAE FUTURE SUNT NECESSE EST
FIERI. NIHIL IGITUR UTRUMLIBET NEQUE A CASU ERIT; NAM SI A CASU, NON EX
NECESSITATE. Geminas esse contradictiones in propositionibus supra iam dictum
est et nunc quoque commemoratum in quibus necesse est unam veram esse, alteram
falsam. Sed ea quae dicentur de futuris et contingentibus melius intellegentur,
si de his contingentibus loquamur, quae in singular) contradictione proveniunt.
Est enim universalium angularis contradictio in contmgentibus huiusmodi: Cras
omnes Athenienses bello navali pugnaturi sunt Cras non omnes Athenienses bello
navali pugnaturi sunt In singularibus autem talis est: Cras Socrates in
palaestra disputaturus est Cras Socrates in pallaestra disputaturus non
est Non autem oportet ignorare non esse similiter contingentes has quae
dicunt: Socrates morietur et: Socrates non morietur et illas quae
dicunt: Socrates cras morietur Socrates cras non morietur Illae enim
superiores omnino contingentes non sunt sed sunt necessariae (morietur enim
Socrates ex necessitate), hae vero quae tempus definiunt nec ipsae in numerum
contingentium recipiuntur, idcirco quod nobis quidem cras moriturum esse
Socratem incertum est, naturae autem incertum ƿ non est atque ideo nec deo
quoque incertum est, qui ipsam naturam optime novit sed illae sunt proprie
contingentes, quae neque in natura sunt neque in necessitate sed aut in casu
aut in libero arbitrio aut in possibilitate naturae: ex casu quidem, ut cum
egredior domo amicum videam non ad hoc egrediens, ex libero arbitrio, ut quod
possum et velle et non velle, an velim hoc antequam fiat incertum est, ex
possibilitate, quod cum fieri possit et non fieri possit et antequam fiat, quod
utroque modo potest, incertum sit. Ideoque Cras Socrates disputaturus est in
palaestra contingens est, quod hoc ex libero venit arbitrio. Ergo in
huiusmodi contingentibus si in futurum una semper vera est, altera semper falsa
et una definite vera, falsa altera definite et res verbis congruent, omnia
necesse est esse vel non esse et quidquid fit ex necessitate fit et nihil neque
possibile est esse, quod possibile sit non esse, neque liberum erit arbitrium
neque in rebus ullis casus erit in omnibus necessitate dominante. In his namque
id est in singularibus contradictionibus verum dicere uterque non potest.
Contradictoriae enim erant quae simul esse non possint. Sed nec utraeque,
negationes atque affirmationes, falsae esse in contradictoriis possum. Illae
enim erant contradictoriae quae simul non esse non poterant. Quare unus verum
dicturus est, unus falsum. Quod si nihil datur in huiusmodi rebus id est
contingentibus instabili eventus ordine et incerta veritatis ƿ et falsitatis
enuntiatione provenire, quidquid verum dicitur in affirmatione definite, hoc
definite necesse est, quidquid falsum dicitur in negatione, hoc non esse
necesse est. Omnia igitur ex necessitate aut erunt aut ex necessitate non
erunt. Nihil ergo nec casus nec liberum arbitrium nec possibilitas ulla in
rebus est, siquidem tenet cuncta necessitas. Aristoteles vero sumens istam
hypotheticam propositionem, si omne quod in futuro dicitur aut verum definite
aut falsum est definite, omnia ex necessitate fieri et nihil casu nihil iudicio
nihil possibilitate, ea convenienti ordine monstrat. Et posito unam veram,
alteram falsam definite esse omnia ex necessitate contingere ex consensu rerum
propositionumque demonstrat hoc modo: proponit enim hanc conditionem et hanc
veram esse ex rerum ipsarum necessitate confirmat. Est autem conditio: si omnis
affirmatio vel negatio in futurum ducta vera vel falsa est definite, et omne
quidquid fit ex necessitate fieri et nihil neque casu neque propria et libera
voluntate atque iudicio nec vero aliqua possibilitate, quae hic omnia
utrumlibet vocabulo nuncupavit. Ponit enim hanc conditionem dicens: NAM SI
OMNIS AFFIRMATIO VEL NEGATIO VERA VEL FALSA EST (subaudiendum est
"definite"), et OMNE NECESSE EST ESSE VEL NON ESSE. SI HIC QUIDEM
DICAT FUTURUM ALIQUID, ILLE VERO NON DICAT HOC IDEM IPSUM, MANIFESTUM ƿ EST,
VERUM DICERE ALTERUM IPSORUM, SI OMNIS AFFIRMATIO [uel negatio] VERA VEL FALSA
EST. UTRAQUE ENIM NON ERUNT SIMUL IN TALIBUS. Ergo sensus huiusmodi est: si
omnis, inquit, affirmatio vel negatio vera vel falsa est definite, et omne
necesse est aut esse aut non esse, quod vel affirmatio ponit vel negatio
perimit. Nam si quilibet dixerit esse aliquid et alius dixerit idem ipsum non
esse, unus quidem affirmat, alter negat sed in affirmatione et negatione, quae
in contradictione ponuntur, una semper vera est, altera falsa. Neque enim fieri
potest ut utraeque sint verae. Non enim nunc sermo est aut de subcontrarus aut
de indefinitis. Namque subcontrariae, id est particularis negatio et affirmatio
particularis, et indefinitae utraeque verae in eodem esse poterant,
contradictoriae autem minime. Neque enim fieri potest, ut hae quae vel in
singularibus contradictiones sunt vel in universalibus angulariter opponuntur
simul umquam verae sint. Hoc est enim quod ait UTRAQUE ENIM NON ERUNT SIMUL IN
TALIBUS, id est utraeque enuntiationes non erunt verae in enuntiationibus
contradictoriis. Posita ergo hac conditione: si omnis affirmatio definite vera
vel falsa sit, omnia ex necessitate evenire, hanc ipsam rerum ipsarum et
propositionum consequentiam et similitudinem monstrare contendit dicens: NAM SI
VERUM EST DICERE, QUONIAM ALBUM VEL NON ALBUM EST, NECESSE EST ESSE ALBUM VEL
NON ALBUM, ET SI EST ALBUM VEL NON ALBUM, VERUM EST VEL AFFIRMARE VEL NEGARE;
ET ƿ SI NON EST, MENTITUR, ET SI MENTITUR, NON EST. QUARE NECESSE EST
AFFIRMATIONEM AUT NEGATIONEM VERAM ESSE. Omnis, inquit, affirmatio omnisque
negatio cum rebus ipsis vel vera vel falsa est, huius autem rei exempla ex
praesentibus sumit. Nam sicut se habent secundum necessitatem in praesenti
tempore enuntiationes, ita se habebunt etiam in futuro. Speculemur igitur in
praesenti quae sit rerum propositionumque necessitas. Si qua enim propositio de
qualibet re dicta vera est, illam rem quam dixit esse necesse est. Si enim
dixerit, quoniam nix alba est, et hoc verum est, veritatem propositionis sequitur
necessitas rei. Necesse est enim esse nivem albam, si propositio quae de ea re
praedicata est vera est. Quod si dixerit quis non esse albam picem et haec vera
est, manifestum est rem quoque propositionis consequi veritatem. Amplius quoque
et propositiones rerum necessitates sequuntur. Si enim est aliqua res, verum
est de ea dicere quoniam est, et si non est aliqua res, verum est de ea dicere
quoniam non est. Ita secundum veritatem affirmationis et negationis necessitas
rei substantiam sequitur et rerum necessitas propositionum comitatur
necessitatem.Atque hoc quidem in veris. In falsis quoque idem est e contrario.
Nam si falsa est affirmatio, rem de qua loquitur non esse necesse est, ut si
falsa est affirmatio quae dicit picem esse albam, non esse albam picem necesse
est. Rursus si falsa est negatio quae dicit nivem non esse albam, esse albam
nivem necesse est. Rursus si res non est, affirmatio quoque de ea re necessarie
falsa est. Quod si rursus res non ƿ sit id quod potest dicere falsa negatio,
sine ulla dubitatione illa negatio falsa est et hoc esse necesse est, ut
quoniam de nive potest dicere falsa negatio, quoniam alba non est, hoc ipsum
quod falsa negatio dicit, id est albam non esse, non est. Nix enim non alba non
est.Quare rerum necessitati falsitas veritasque convertitur. Nam si est
aliquid, vere de eodem dicitur, quoniam est, et si vere dicitur, illam rem de
qua vere aliquid praedicatur esse necesse est; quod si non est id quod dicitur,
falsa enuntiatio est, et si enuntiationes falsae sunt, res non esse necesse
est. Quod si haec ita sunt, positum est autem omnem affirmationem et negationem
veram esse definite, quoniam propositionum veritatem vel falsitatem rerum
necessitas secundum esse vel non esse consequitur (esse quidem secundum
veritatem, ut dictum est, non esse secundum falsitatem): nihil fit casu neque
libera voluntate nec aliqua possibilitate. Haec enim quae utrumlibet vocamus
talia sunt, quae cum nondum sunt facta et fieri possunt et non fieri, si autem
facta sint, non fieri potuerunt, ut hodie me Vergilii librum legere, quod
nondum feci, potest quidem non fieri, potest etiam fieri, quod si fecero, potui
non facere. Haec igitur huiusmodi sunt quaecumque utrumlibet dicuntur.
Utrumlibet autem quid sit ipse planius monstrat dicens: utrumlibet enim nihil
magis sic vel non sic se habet aut habebit. Est enim utrumlibet quod vel ad
esse vel ad non esse aequaliter sese habeat, id est neque illud esse necesse
sit ƿ neque non esse necesse sit. Putaverunt autem quidam, quorum Stoici quoque
sunt, Aristotelem dicere in futuro contingentes nec veras esse nec falsas. Quod
enim dixit nihil se magis ad esse habere quam ad non esse, hoc putaverunt
tamquam nihil eas interesset falsas an veras putari. Neque veras enim neque
falsas esse arbitrati sunt. Sed falso. Non enim hoc Aristoteles dicit, quod
utraeque nec verae nec falsae sunt sed quod una quidem ipsarum quaelibet aut
vera aut falsa est, non tamen quemadmodum in praeteritis definite nec
quemadmodum in praesentibus sed enuntiativarum vocum duplicem quodammodo esse
naturam, quarum quaedam essent non modo in quibus verum et falsum inveniretur
sed in quibus una etiam esset definite vera, falsa altera definite, in aliis
vero una quidem vera, altera falsa sed indefinite et commutabiliter et hoc per
suam naturam, non ad nostram ignorantiam atque notitiam. Quocirca recte dictum
est, si omnis affirmatio vel negatio vera definite esset, nihil fieri neque
esse vel a casu vel a communi nomine utrumlibet nec esse aut non esse
contingenter sed aut esse definite aut non esse definite sed magis ex
necessitate omnia. Hoc enim consequitur eum qui dicit aut eum qui affirmat
verum esse aut eum qui negat. Quod si hoc verum esset, itidem cum veritate vel
fieret vel cum falsitate non fieret quod a vere falseue enuntiantibus
dicebatur. Quod si hoc impossibile ƿ est et sunt quaedam res quae necessitate
non sint (videmus autem quasdam esse casu, quasdam ex voluntate, quasdam ex
propriae possibilitate naturae), frustra putatur sicut in praeteritis, ita
quoque in futuris enuntiationibus unam esse veram, alteram falsam definite. Quare
haec una fuit eius argumentatio. Aliam vero quasi ipse sibi opponens aliquam
quaestionem ingreditur validiore tractatu: AMPLIUS SI EST ALBUM NUNC, VERUM
ERAT DICERE PRIMO QUONIAM ERIT ALBUM, QUARE SEMPER VERUM FUIT DICERE QUODLIBET
EORUM QUAE FACTA SUNT, QUONIAM ERIT. QUOD SI SEMPER VERUM EST DICERE QUONIAM
EST VEL ERIT, NON POTEST HOC NON ESSE NECNON FUTURUM ESSE. QUOD AUTEM NON
POTEST NON FIERI, IMPOSSIBILE EST NON FIERI; QUOD AUTEM IMPOSSIBILE EST NON
FIERI, NECESSE EST FIERI. OMNIA ERGO QUAE FUTURA SUNT NECESSE EST FIERI. NIHIL
IGITUR UTRUMLIBET NEQUE A CASU ERIT; NAM SI A CASU, NON EX NECESSITATE. Ad
adstruendum non esse omnes enuntiationes veras definite in futuro vel falsas ex
eadem quidem argumentationis virtute et ex eodem possibilitatis eventu,
diversam tamen ingreditur actionis viam. Dudum enim ex his quae nondum erant
facta, si vere futura esse praedicerentur, in rebus necessitatem solam esse
posse collegit. Nunc autem ex his rebus quae facta sunt argumentationem capit,
si vere antequam fierent praedicerentur, necessitatis nexu eventus rerum omnium
contineri. Arbitrantur enim hi qui dicunt contingentium quoque propositionum
stabilem esse enuntiationis modum secundum veritatem scilicet atque ƿ
mendacium, quod omnia quaecumque facta sunt, inquiunt, potuerunt praedici,
quoniam fient. Hoc enim in natura quidem fuit antea sed nobis hoc rei ipsius
patefecit eventus. Quare si omnia quaecumque evenerunt sunt et ea quae sunt
futura esse praedici potuerunt, necesse est omnia quae dicuntur aut definite
vera esse aut definite falsa, quoniam definitus eorum eventus secundum praesens
tempus est. Quare in omnibus in quibus aliquid evenit verum est dicere, quoniam
eventurum est, et si nondum adhuc factum est. Hoc autem illa res probat verum
fuisse tunc dici, quoniam evenit id quod praedici potuerat; quod si praedictum
esset, res eventura definita veritate praediceretur. Hoc Aristoteles sumens ad
idem impossibile validissima ratione perducit et praesentis temporis naturam
cum futuri enuntiatione coniungit. Ait enim simile esse de praesentibus
enuntiare secundum veritatis necessitatem et de futuris: nam si verum est dicere,
quoniam est aliquid, esse necesse est, et si verum est dicere, quoniam erit,
futurum sine dubio esse necesse est: omnia igitur ex necessitate futura sunt:
ad idem scilicet impossibile argumentationem trahens. Sumit autem huius
impossibilitatis ordinem ex his propositionibus quae faciliores quidem ad
intellectum sunt, idem tamen valent hoc modo: SI SEMPER, inquit, VERUM EST
DICERE, QUONIAM EST VEL ERIT, quidquid tunc verum fuit praedicere, illud NON
POTEST NON ESSE NECNON FUTURUM ESSE. Quemadmodum enim id quod in praesenti vere
dicitur esse, hoc non potest non esse, si vera de eo propositio ƿ fuit, quae
dicebat esse, ita quoque in futuro quae dicit aliquid futurum esse, illa si
vera est, non potest non futurum esse quod praedicit. Quod si non potest non
fieri quod a vera propositione praedicitur, impossibile est non fieri. Idem est
enim dicere non potest non fieri, quod dicere impossibile est non fieri. Quod
autem impossibile est non fieri, necesse est fieri. Impossibile enim idem
necessitati valet contrarie praedicatum, ut ipse post docuit. Nam quod
impossibile est esse necesse est non esse. Quod enim ut sit possibile non est,
illud non esse necesse est. Quod si hoc est, et contraria se eodem modo
habebunt. Quod est impossibile non esse, hoc esse necesse est. Sed dictum est
ea quae vera praedicuntur impossibile esse non esse, hoc autem est ex
necessitate esse. Ea igitur quae praedicuntur ex necessitate futura sunt. Nihil
igitur utrumlibet neque casu nec omnino secundum liberum arbitrium, quod
utrumlibet significatio totum clausit. Nam quod dicit utrumlibet et
possibilitatem et casum et liberum in significatione tenet arbitrium. Ergo
nihil fit a casu. Nam si quaedam casu fieri dicat, ille rursus in ea re perimit
necessitatem. Quod enim casu est non ex necessitate est. Nihil autem fit a
casu, quoniam omnia ex necessitate proveniunt, quaecumque enuntiatio vera
praedixerit. Evenit autem huiusmodi impossibilitas ex eo quod concessum est
prius, omnia quaecumque facta sunt definite vere potuisse praedici. Nam si ex
necessitate contingit id quod evenit, verum ƿ fuit dicere quoniam erit. Quod si
ex necessitate non contingit sed contingenter, non potius verum fuit dicere
quoniam erit sed magis quoniam contingit esse. Nam qui dicit erit, ille quandam
necessitatem in ipsa praedicatione ponit. Hoc inde intellegitur, quod si vere
dicat futurum esse id quod praedicitur non possibile sit non fieri, hoc autem
ex necessitate sit fieri. Ergo qui dicit, quoniam erit aliquid eorum quae
contingenter eveniunt, in eo quod futurum esse dicit id quod contingenter
evenit fortasse mentitur; vel si contigerit res illa quam praedicit, ille tamen
mentitus est: non enim eventus falsus est sed modus praedictionis. Namque ita
oportuit dicere: Cras bellum navale contingenter eveniet hoc est dicere:
ita evenit, si evenerit, ut potuerit non evenire. Qui ita dicit verum dicit,
eventum enim contingenter praedixit. Qui autem ita infit: Cras bellum erit
navale quasi necesse sit, ita pronuntiat. Quod si evenerit, non iam
idcirco quia praedixit verum dixerit, quoniam id quod contingenter eventurum
erat necessarie futurum praedixit. Non ergo in eventu est falsitas sed in
praedictionis modo. Quemadmodum enim si quis ambulante Socrate dicat: Socrates
ex necessitate ambulat ille mentitus est non in eo quod Socrates ambulat
sed in eo quod non ex necessitate ambulat, quod ille eum ex necessitate
ambulare praedicavit, ita quoque in hoc qui dicit quoniam erit aliquid, etiam
hoc si fiat, ille tamen ƿ falsus est, non in eo quod factum est sed in eo quod
non ita factum est, ut ille praedixit esse futurum. Quod si verum esset
definite, ex necessitate esset futurum. Igitur ex necessitate futurum esse
praedixit, quodcumque sine ullo alio modo eventurum pronuntiavit. Quare non in
eventu rei sed in praedicationis enuntiatione falsitas invenitur. Oportet enim
in contingentibus ita aliquid praedicere, si vera erit enuntiatio, ut dicat
quidem futurum esse aliquid sed ita, ut rursus relinquat esse possibile, ut
futurum non sit. Haec autem est contingentis natura contingenter in enuntiatione
praedicare. Quod si quis simpliciter id quod fortasse contingenter eveniet
futurum esse praedixerit, ille rem contingentem necessarie futuram praedicit.
Atque ideo etiam si evenerit id quod dicitur, tamen ille mentitus est in eo
quod hoc quidem contingenter evenit, ille autem ex necessitate futurum esse
praedixerit. Cum ergo sint quatuor enuntiationum veritatis et falsitatis modi,
de his scilicet propositionibus quae in futuro praedicuntur (aut quoniam et
erit et non erit id quod dicitur, id est ut et affirmatio et negatio vera sit,
aut quoniam nec erit necnon erit, id est ut et affirmatio et negatio falsae
sint, aut quoniam erit aut non erit, una tamen definite vera, altera falsa, aut
rursus quoniam erit aut non erit utrisque secundum veritatem et falsitatem
indefinitis et aequaliter ad veritatem mendaciumque vergentibus) docuit quidem
supra et esse et non esse fieri nou posse, cum dicit: UTRAQUE ENIM NON ERUNT
SIMUL IN TALIBUS. Docuit etiam aliquantisper aut ƿ esse aut non esse definite
in contingentibus et futuris propositionibus esse non posse. Nunc illud addit,
quod neque esse neque non esse, id est quod nec illud dici vere possit, posse
utrasque inveniri falsas, quae dicuntur in futuro propositiones. Quod si neque
utraeque verae sunt neque utraeque falsae neque una definite vera, falsa altera
definite, restat ut una quidem vera sit, altera falsa, non tamen definite sed
utrumlibet et instabili modo, ut hoc quidem aut hoc evenire necesse sit, ut
tamen una res quaelibet quasi necessarie et definite proveniat aut non
proveniat fieri non possit. Quemadmodum autem utrasque falsas non esse
demonstraret, hic inchoat: AT VERO NEC QUONIAM NEUTRUM VERUM EST CONTINGIT
DICERE, UT QUONIAM NEQUE ERIT NEQUE NON ERIT. PRIMUM ENIM CUM SIT AFFIRMATIO
FALSA, ERIT NEGATIO NON VERA ET HAEC CUM SIT FALSA, CONTINGIT AFFIRMATIONEM
ESSE NON VERAM. AD HAEC SI VERUM EST DICERE, QUONIAM ALBUM EST ET MAGNUM,
OPORTET UTRAQUE ESSE; SIN VERO ERIT CRAS, ESSE CRAS; SI AUTEM NEQUE ERIT NEQUE
NON ERIT CRAS, NON ERIT UTRUMLIBET, UT NAVALE BELLUM; OPORTEBIT ENIM NEQUE
FIERI NAVALE BELLUM NEQUE NON FIERI NAVALE BELLUM. Sensus argumentationis
huiusmodi est: nec illud, inquit, dici poterit, quod contingentium
propositionum neutra vera sit in futuro. Hoc autem nihil differt dicere quam si
quis dicat utrasque esse falsas. Hoc enim impossibile est. In contradictionibus
namque utraeque falsae inveniri non possunt. Hoc enim proprium ƿ
contradictoriarum est: ut proprietatem subcontrariarum refugiunt in eo quod
simul verae esse non possunt, ita quoque et contrariarum proprietatem vitant in
eo quod simul falsae non reperiuntur. Habent ergo propriam naturam, ut neque
falsae simul sint neque verae. Quare una ipsarum semper erit vera, semper
altera falsa. Impossibile est igitur, cum sit falsa negatio, non veram esse
affirmationem, et rursus cum sit falsa affirmatio, negationem esse non veram.
Igitur nec hoc est dicere, quod utraeque non verae sint. Quod per hoc dixit
quod ait: AT VERO NEC QUONIAM NEUTRUM VERUM EST CONTINGIT DICERE, id est non
nobis contingit dicere, hoc est impossibile est dicere, quoniam neutrum verum
est, scilicet quod affirmationibus negationibusue prop onit ur contingentibus
scilicet et futuris. Qui autem Aristotelen arbitrati sunt utrasque
propositiones in futuro falsas arbitrari, si haec quae nunc dicit
diligentissime perlegissent, numquam tantis raptarentur erroribus. Neque enim
idem est dicere neutra vera est quod dicere neutra vera est definite. Futurum
esse enim cras bellum navale et non futurum non dicitur quoniam utraeque omnino
falsae sunt sed quoniam neutra est vera aut quaelibet ipsarum definite falsa
sed haec quidem vera, illa falsa, non tamen una ipsarum definite sed quaelibet
illa contingenter. His autem ƿ adicit aliud quiddam dicens: si propositionum
veritas ex rerum substantia pendet, ut quidquid verum est in propositionibus
dicere hoc esse necesse sit, si verum est dicere, quoniam erit aliquid album,
veritatem sequitur rei necessarius eventus. Quod si dicat quis quamlibet illam
rem cras albam futuram, si hoc vere dixerit, cras ex necessitate alba futura
est. Sic igitur, si quis verum dicit neutram esse veram propositionum earum
quae in futuro dicuntur, necesse est id quod dicitur et significatur ab illis
propositionibus nec esse necnon esse. Fal sa enim et affirmatione et negatione
nec quod affirmatio dicit fieri potest nec quod negatio. Ergo ex necessitate
neutrum fit, quod vel affirmatio dicit vel negatio. Ergo si dicat affirmatio
cras bellum navale futurum, quoniam falsa affirmatio est, non erit cras bellum
navale. Rursus si idem neget negatio dicens non erit cras bellum navale,
quoniam haec quoque falsa est, erit cras bellum navale. Quare nec erit bellum
navale, quia affirmatio falsa est, necnon erit bellum navale, quia negatio. Sed
hanc ineptiam nec animus sibi ipse fingere potest. Quis enim umquam dixerit rem
aliquam ex necessitate nec esse nec non esse? Quod ille scilicet dicit, qui
dicit utrasque propositiones in futuro falsas exsistere. QUAE ERGO CONTINGUNT
INCONVENIENTIA HAEC SUNT ET HUIUSMODI ALIA, SI OMNIS AFFIRMATIONIS ET
NEGATIONIS VEL IN HIS QUAE IN UNIVERSALIBUS ƿ DICUNTUR UNIVERSALITER VEL IN HIS
QUAE SUNT SINGULARIA NECESSE EST OPPOSITARUM HANC ESSE VERAM, ILLAM VERO
FALSAM, NIHIL AUTEM UTRUMLIBET ESSE IN HIS QUAE FIUNT SED OMNIA ESSE VEL FIERI
EX NECESSITATE. QUARE NON OPORTEBIT NEQUE CONSILIARI NEQUE NEGOTIARI, QUONIAM
SI HOC FACIMUS, ERIT HOC, SI VERO HOC, NON ERIT. NIHIL ENIM PROHIBET IN
MILLENSIMUM ANNUM HUNC QUIDEM DICERE HOC FUTURUM ESSE, HUNC VERO NON DICERE.
QUARE EX NECESSITATE ERIT QUODLIBET EORUM VERUM ERAT DICERE TUNC. Omnia in
futuro vel vera vel falsa esse definite in propositionibus arbitrantes
impossibilitas ista consequitur: nihil enim neque ex libero voluntatis arbitrio
neque ex aliqua possibilitate, neque ex casu quidquam fieri potest, si omnia
necessitati subiecta sunt. Quamquam quidam non dubitaverint dicere omnia ex
necessitate et quibusdam artibus conati sunt id quod in nobis est cum rerum
necessitate coniungere. Dicunt enim quidam, quorum sunt Stoici, ut omnia
quaecumque fiunt fati necessitate proveniant, et omnia quao fatalis agit ratio
sine dubio necessitate contingere. Sed illa esse sola in nobis et ex voluntate
nostra, quaecumque per voluntatem nostram et per nos ipsos vis fati complet ac
perficit. Neque enim, inquiunt, voluntas nostra in nobis est sed idem volumus
idemque nolumus, quidquid fati necessitas imperavit, ut voluntas quoque nostra
ex fato pendere ƿ videatur. Ita, quoniam per voluntatem nostram, quaedam ex
nobis fiunt et ea quae fiunt in nobis fiunt quoniamque voluntas ipsa ex
necessitate fati est, etiam quae nos voluntate nostra facimus, quod necessitas
imperavit ea, ipsa impulsi facimus necessitate. Quare hoc modo significationem
liberi arbitrii permutantes necessitatem et id quod in nobis est coninugere
impossibiliter et copulare contendunt. Illud enim in nobis est liberum
arbitrium, quod sit omni necessitate uacuum et ingenuum et suae potestatis,
quorumdamque nos domini quodammodo sumus vel faciendi vel non faciendi. Quod si
voluntatem quoque nostram fati nobis necessitas imperet, in nobis voluntas ipsa
non erit sed in fato, nec erit liberum arbitrium sed potius seruiens
necessitati. Unde fit ut, qui omnes actus eventnum necessitate constringunt,
dicant per hoc poplitem quoque nos non flectere, nisi fatalis necessitas iusserit,
caput quoque non scalpere, quare nec lauare, quare nec agere aliquid. His etiam
adiciam vel aliquid feliciter vel aliquid infeliciter facere vel pati. Unde fit
ut neque casum neque liberum arbitrium nec possibile in rebus ullum esse
contendant, quamuis liberum destruere metuentes arbitrium aliam ei fingant
significationem, per quam nihilominus libera hominis voluntas euertitur. Aristotelica
vero auctoritas ita haec in rebus posita et constituta esse confirmat, ut non
exponat nunc, quid sit casus quidue possibile quidue in nobis, nec ea esse in
rebus ƿ probet atque demonstret sed in tantum apud illum haec in rebus esse
manifestum est, ut opinionem, qua quis arbitratur enuntiationes in futuro omnes
esse veras, per hoc impossibilem esse dicat, quod casum et possibilitatem
liberumque euertat arbitrium. Haec enim ita constituta in rebus putat, ut non
de his ulla opus sit demonstratione sed impossibilis ratio iudicetur,
quaecumque vel possibile vel casum vel id quod in nobis est conatur euertere.
Et casum quidem quemadmodum definita in propositionibus futuris veritas
destruat supra monstravit. Nunc autem quemadmodum eadem ipsa veritas definita
futurarum et contingentium propositionum tollat liberi arbitrii facultatem
maxima vi argumentationis exsequitur dicens: huiusmodi cuncta contingere
impossibilia, si quis unam enuntiationis partem definite veram vel falsam esse
confingat. Sed nos secuti Porphyrium, cum huius disputationis expositionem
coepimus, id quod prius dixit IN SINGULARIBUS ET FUTURIS ob hoc dixisse
praediximus, quod facilior sit intellectus disputationis, si haec prius in
singularibus perspicerentur. De quibus singularibus diligentissime praelocutus
nunc de universalibus universaliter praedicatis et quae in his fiunt
contradictiones loquitur. Ita enim dicit: SI OMNIS AFFIRMATIONIS ET NEGATIONIS
VEL IN HIS QUAE IN UNIVERSALIBUS DICUNTUR UNIVERSALITER VEL IN HIS QUAE SUNT
SINGULARIA NECESSE EST OPPOSITARUM HANC ESSE VERAM, ILLAM VERO FALSAM. Alexander
autem in singularibus et futuris dixisse eum arbitratur, tamquam si diceret in
his futuris ƿ quae in generatione et corruptione sunt. Sunt enim quaedam futura
quae in generatione et corruptione non sunt, ut quod de sole vel de luna vel de
caeteris caelestibus pronuntiatur. Haec vero, quae sunt in rebus his quarum est
et nasci et corrumpi natura, unam semper non necesse est veram esse, alteram
falsam. Sed neutram ego improbo expositionem, utraeque enim veracissima ratione
firmantur. Omnis autem sensus talis est, quo necessitatem solam in rebus
imperare destruit Aristoteles: omne quod natura est non frustra est; consiliari
autem homines naturaliter habent; quod si necessitas in rebus sola dominabitur,
sine causa est consiliatio; sed consiliatio non frustra est, natura enim est:
non igitur potest in rebus cuncta necessitas. Ordo autem se sit habet: QUAE
ERGO, inquit, CONTINGUNT INCONVENIENTIA HAEC SUNT ET HUIUSMODI ALIA, scilicet
quoniam qui est in rebus casus euertitur, alia vero quoniam possibilitas et
liberi arbitrii voluntas amittitur. Et haec quomodo contingunt ipse secutus est
dicens: SI OMNIS AFFIRMATIONIS ET NEGATIONIS VEL IN HIS QUAE IN UNIVERSALIBUS
DICUNTUR UNIVERSALITER VEL IN HIS QUAE SUNT SINGULARIA NECESSE EST OPPOSITARUM
HANC ESSE VERAM, ILLAM VERO FALSAM, NIHIL AUTEM UTRUMLIBET ESSE IN HIS QUAE
FIUNT SED OMNIA ESSE VEL FIERI EX NECESSITATE. Tunc enim inconvenientia illa
contingunt, si omnis affirmatio et negatio definite vera vel falsa est sive in
his contradictionibus quae in universalibus angulariter fiunt sive in
singularibus. Tunc enim nihil est utrumlibet sed ex necessitate omnia, quoniam
veritatem et falsitatem propositionum rerum eventus ex necessitate consequitur.
Quare ut ipse ait non oportebit neque consiliari neque negotiari, quoniam si
hoc facimus, erit hoc, si vero hoc, non erit. Euertitur enim consiliatio, si
frustra est, frustra autem eam esse dicit, quisquis in rebus solam ponit fati
necessitatem. Cur enim quisque consilium habeat, si nihil ex eo quod
consiliatur efficiet, cum administret cuncta necessitas? Quare non oportebit consiliari
vel, si quis consiliatur, negotiari non debet. Negotiari autem est actu aliquid
et negotio agere, non lucrum sed aliquam causam vel actum. Nihil enim ipse per
actum suum consiliumque expediet, nisi fati necessitas inbet. Docuit autem quid
esset consiliatio per hoc quod ait: QUONIAM SI HOC FACIMUS, ERIT HOC, SI HOC,
NON ERIT. Ita enim semper fit consiliatio, ut si sit Scipio, ita consiliabitur:
si in Africam exercitum ducam, cladem Hannibalis ab Italia removebo: sin vero non
ducam, non eripietur Italia. Hoc est enim dicere: si hoc facio, ut si in
Africam exercitum ducam, erit hoc, id est eripietur Italia: sin vero hoc, id
est si hic mansero, non erit hoc, non eripietur Italia. Et in aliis omnibus
rebus eodem modo. Simul autem monstravit in consiliis non esse necessitatem. Si
enim hoc, inquit, faciam, erit hoc, et si hoc, non erit. Quod si necessitas in
rebus esset, sive hoc quis faceret sive non faceret, quod necesse esset
eveniret. Quare quod consilii ratione fit non fit violentia necessitatis. Adiunxit
ƿ autem ei quod est consiliari NEQUE NEGOTIARI et est ordo hoc modo: QUARE NON
OPORTEBIT NEQUE CONSILIARI, QUONIAM SI HOC FACIMUS, ERIT HOC, SI VERO HOC, NON
ERIT (NIHIL ENIM PROHIBET IN MILLEN SI MUM ANNUM HUNC QUIDEM DICERE HOC FUTURUM
ESSE, HUNC VERO NON DICERE. QUARE EX NECESSITATE ERIT QUODLIBET EORUM VERUM ERAT
DICERE TUNC) NEQUE NEGOTIARI id est actum incipere atque negotium gerere. Prior
enim est consiliatio, posterius negotium sed negotium post consiliationem
posuit et cuncta quae ad consiliationis naturam addi oportebat post
negotiationis interpositionem subdidit. Est autem hoc modo: si omnia, inquit,
necessitas agit, non oportet consiliari, quoniam si hoc facimus proveniet nobis
hoc, si vero hoc facimus, non proveniet. Nihil enim prohibet frustra unum
dicere, alterum negare dicentem: si hoc facimus, erit hoc aut non erit. Quod
enim eventurum est fiet, sive ille per consilium coniectet hoc posse fieri, si
quid aliud fecerit, sive ille neget hoc posse fieri, si hoc quod dixit faciat.
Ex necessitate enim futurum est quidquid unus ipsorum verum dixerit. Quod si
consiliari omnino non oportet, nec negotiari oportebit id est nullum incipere
negotium. Sive enim quis incipiat sive non incipiat, quod ex necessitate est
sine ulla dubitatione proveniet. Quare nihil alter homo altero distabit homine.
Eo enim meliores homines ƿ iudicamus, quod potiores sunt in consilio. Sed ubi
consiliatio frustra est cuncta necessitate faciente, homines quoque inter se
nihil differunt. Ipsa enim consiliatio nil differt utrum bona an mala sit, cum
proventus necessitas in fati administratione consistat. Quare si boni consilii
homines laude digni sunt, mali consilii vituperatione, non aliter hoc erit
iuste, nisi malus actus malumque consilium et e contra bonum in nostra sit
potestate et non in fato. Cum enim nulla ex necessitate constringitur eventus
rei, tunc et liberum voluntatis arbitrium, ut non sit fatali seruiens
necessitati. Ergo neque qui in hoc mundo simplices rerum ordines posuerunt
recipiendi sunt et hi qui in permixta hac mundana mole non permixtas quoque
actuum causas accipiunt repudiandi. Nam neque qui casu omnia evenire dicunt
recte arbitrantur neque qui omnia necessitatis violentia fingunt sana opinione
tenentur neque omnia ex libero arbitrio esse manifestum est sed horum omnium et
causae mixtae et eventus. Sunt enim quaedam ex casu, sunt aliqua ex
necessitate, quaedam etiam videmus libero teneri iudicio. Et actuum quidem
nostrorum voluntas in nobis est. Nostra enim voluntas domina quodammodo est
nostrorum actuum et totius vitae rationis sed non ƿ eodem modo eventus quoque
in nostra est potestate. Pro alia namque re aliquid ex libero arbitrio
facientibus ex isdem veniens causis casus interstrepit. Ut cum scrobem deponens
quis, ut infodiat vitem, si thesaurum inveniat, scrobem quidem deponere ex
libero venit arbitrio, invenire thesaurum solus attulit casus, eam tamen causam
habens casus, quam voluntas attulit. Nisi enim foderet scrobem, thesaurus non
esset inventus. Quidam autem eventus nostris voluntatibus suppetit, quosdam
impedit quaedam violenta necessitas. Prandere enim vel legere et alia huiusmodi
sicut ex nostra voluntate sunt, ita quoque eorum saepe ex nostra voluntate
pendet eventus. Quod si nunc imperare Persis velit Romanus, arbitrium quidem
voluntatis in ipso est sed hunc eventum durior necessitas retinet et ad
perfectionem uetat adduci. Itaque omnium rerum et casus et voluntas et
necessitas dominatur nec una harum res in omnibus ponenda est sed trium mixta
potentia. Unde fit ut peccantium consideretur magis animus potius quam eventus
et puniatur animus non perfectio, idcirco quod voluntas quidem nobis libera est
sed aliquotiens perfectionis ordo retinetur. Quod si omnia vel casu vel
necessitate fierent, nec laus digna bene facientibus nec ultio delinquentibus
nec leges ullae essent iustae, quae aut bonis praemia aut malis restituerent
poenas. Venio nunc ad illud, quod multis quaeritur modis, an divinatio maneat,
si non omnia in rebus ex necessitate contingunt. Nam quod in vera praedictione
est, ƿ idem est in scientia, et sicut cum quis verum praedicit quod vere
praedicitur esse necesse est, ita quod quis futurum novit illud futurum esse
necesse est. Sed divinatio non omnia ut ex necessitate futura pronuntiat atque
idcirco frequenter ita divinatur, quod facillime in ueterum libris agnoscitur:
hoc quidem eventurum est sed si hoc fit non eveniet, quasi intercidi possit et
alio modo evenire. Quod si ita est, necessitate non evenit. Utrum autem, si
omnia futura sciat deus, omnia esse necesse est, ita quaeramus. Si quis dicat
dei scientiam de futuris eventuum subsequi necessitatem, is profecto
conversurus est, si omnia necessitate non contingunt, omnia deum scire non
posse. Nam si scientiam dei sequitur eventuum necessitas, si eueutuum
necessitas non sit, divina scientia perimitur. Et quis tam impia ratione animo
torqueatur, ut haec de deo dicere audeat? Sed fortasse quis dicat, quoniam
evenire non potest, ut deus omnia futura non noverit, hinc evenire ut omnia ex
necessitate sint, quoniam deo notitiam rerum futurarum tollere nefas est. Sed
si quis hoc dicat, illi videndum est, quod deum dum omnia scire conatur
efficere omnia nescire contendit. Binarium enim numerum esse imparem si quis se
scire proponat, non ille noverit sed potius nescit. Ita quod non est potentiae
nosse se id ƿ arbitrari nosse potius impotentiae est. Quisquis ergo dicit deum
cuncta nosse et ob hoc cuncta ex necessitate esse futura, is dicit deum ex
necessitate eventura credere, quaecumque ex necessitate non eveniunt. Nam si
omnia ex necessitate eventura novit deus, in notione sua fallitur. Non enim
omnia ex necessitate eveniunt sed aliqua contingenter. Ergo si quae
contingenter eventura sunt ex necessitate eventura noverit, in propria
providentia falsus est. Novit enim futura deus non ut ex necessitate evenientia
sed ut contingenter, ita ut etiam aliud posse fieri non ignoret, quid tamen
fiat ex ipsorum hominum et actuum ratione persciscat. Quare si quis omnia ex
necessitate fieri dicat, deo quoque benivolentiam subripiat necesse est. Nihil
enim illius benignitas parit, quandoquidem cuncta necessitas administrat, ut
ipsum dei benefacere ex necessitate quodammodo sit et non ex ipsius voluntate.
Nam si ex ipsius voluntate quaedam fiunt, ut ipse nulla necessitate ciaudatur,
non omnia ex necessitate contingunt. Quis igitur tam impie sapiens deum quoque
necessitate constringat? Quis omnia ex necessitate fieri dicat, ista quoque vis
impossibilitatis eveniet? Quare ponendum in rebus est casu quaedam posse et
voluntate effici et necessitate constringi et ratio, quae utrumuis horum subruit,
impossibilis iudicanda est. Non igitur immerito Aristoteles ad impossibilem
rationem perducit dicens et possibilitatem et casum et liberum arbitrium
deperire, quod fieri nequit, si omnium futurarum ƿ enuntiationum una semper
vera est definite, falsa semper altera definite. Harum enim veritatem et
falsitatem necessitas consequitur, quae et casum de rebus et liberum subiudicat
arbitrium. Unde nunc quoque idem repetens dicit: nihil impedire, utrum aliquis
ante mille annos dicat aliquid futurum esse an alius neget. Non enim secundum
dicere vel negare cuncta facienda sunt vel non facienda sed si necesse est
dicentem vel negantem res quoque affirmatas vel negatas subsequi, [etiam si
illi non dicant] quae illis dicentibus evenire necesse erat, etiam non
dicentibus evenire necesse est. Dicit autem hoc modo: AT VERO NEC HOC DIFFERT,
SI ALIQUI DIXERUNT CONTRADICTIONEM VEL NON DIXERUNT; MANIFESTUM EST ENIM, QUOD
SIC SE HABENT RES, ET SI HIC QUIDEM AFFIRMAVERIT, ILLE VERO NEGAVERIT; NON ENIM
PROPTER NEGARE VEL AFFIRMARE ERIT VEL NON ERIT NEC IN MILLENSIMUM ANNUM MAGIS
QUAM IN QUANTOLIBET TEMPORE. QUARE SI IN OMNI TEMPORE SIC SE HABEBAT, UT UNUM
verE DICERETUR, NECESSE ESSET HOC FIERI ET UNUMQUODQUE EORUM QUAE FIUNT SIC SE
HABERET, UT EX NECESSITATE FIERET. QUANDO ENIM VERE DICIT QUIS, QUONIAM ERIT,
NON POTEST NON FIERI ET QUOD FACTUM EST VERUM ERAT DICERE SEMPER, QUONIAM ERIT.
Eventus necessariarum rerum Aristoteles non ex praedicentium veritate sed ex
ipsarum rerum natura considerans inquit: licet necesse sit, quisquis de re
aliqua vera praedixerit, rem quam ante praenuntiaverit evenire, non tamen
idcirco rerum necessitas ex praedictionis veritate pendet sed divinandi veritas
ex rerum potius necessitate perpenditur. Non enim idcirco esse necesse est,
quoniam verum aliquid praedictum est sed quoniam necessario erat futurum,
idcirco de ea re potuit aliquid vere praedici. Quod si ita est, eveniendi rei
vel non eveniendi non est causa is qui praedicit futuram esse vel negat. Non
enim affirmationem et negationem esse necesse est sed idcirco ea esse necesse
est quae futura sunt, quoniam in natura propria quandam habent necessitatem, in
quam si quis incurrerit, verum est quod praedicit. Ergo si quaecumque nunc
facta sunt verum de his fuisset dicere quoniam erunt, sive ille dixisset sive
non dixisset, haec quae nunc facta sunt erant ex necessitate futura. Non enim
propter dicentem vel negantem in rebus necessitas est sed propter rerum
necessitatem veritas in praenuntiatione vel falsitas invenitur. Quare si etiam
ea quae nunc facta sunt vere potuissent praedici quoniam erunt et his ita
positis rem necesse esset evenire, sive illi praedicerent sive non
praedicerent, necesse est omne quod fit ex necessitate es se futurum et nihil
omnino utrumlibet ƿ in rebus est. Namque si nihil necessitatem rerum adivuat
divinatio et nihil interest, utrum quis praedicat futurum esse aliquid an neget
an nullus omnino aliquid nec in affirmatione nec in negatione praedicat,
manifestum est quoniam nec de eo ulla distantia est, sive quis ante quamlibet
multum tempus aliquid eventurum vere esse praedixerit sive ante quamlibet
paucos dies vel horas vel momenta. Nihil enim interest: sive enim quis ante
mille annos praediceret, quod ex necessitate esset futurum, sive ante annum vel
mensem vel diem vel horam vel momentum, de necessitate rei eventurae nihil
moveret. Quod enim nihil interesset utrum praediceretur an non praediceretur,
nihil quoque interest an iuxta praedicatur an longius. Quod si haec ita sunt et
omnia quaecumque evenerunt futura fuisse necesse est, totum liberum arbitrium
perit, totus casus absumitur, rerum possibilitas praeter necessitatem omnis
excluditur. Simul autem Aristoteles praenuntiationem eventumque coniungens
rerum necessitatem ex ipsa propositionum veritate confirmat dicens: si haec ita
sunt, ut in omni tempore sic se haberet unumquodque quod factum est, ut hoc
ipsum vere praediceretur, NECESSE ESSET HOC FIERI, id est necesse esset quod
praedictum vere est evenire. Unumquodque enim eorum quae fiunt et
verepraedicuntur sic se habet, ut ex necessitate fiat. Hoc autem cur fiat haec
ratio est: quod enim vere quis dicit, fieri necesse est. Illa enim veritas ex
rerum ƿ necessitate procreatur. Quod si etiam id quod factum est veraciter
praenuntiaretur futurum, nulla esset dubitatio omnia ex necessitate provenire.
Quod si hoc, inquit, est impossibile (videmus enim quasdam res ex principio
liberi arbitrii et ex nostrorum actuum fonte descendere), quid dubitamus
frivolam rationem omnium necessitatis excludere nec dilectum humanae vitae
interpositione necessitatis absumere? Quae enim erit ulla discretio inter
homines, si liberi arbitrii iudicium perit? Cur postremum leges conditae, cur
publice iura responsa sunt? Cur instituta moresque, publici et privati actus
constitutionibus principum et iudiciorum nexibus continentur, si certum est
nihil humanis licere propositis? Frustra enim cuncta sunt, si liberum arbitrium
non est. Leges enim et caetera ad continendos animos hominum conditas scimus.
Quod si se ipsi animi non regunt et eos aliqua quaedam violentia necessitatis
impellit, dublum non est quin uacuae istae leges sint, quae nihil sponte
facientibus proponuntur. Sed haec quam sint impossibilia ipse Aristoteles
probat, cuius recta sententia neque casum neque necessitatem neque possibilitatem
in utraque parte naturae neque liberum tollit arbitrium sed cuncta permiscens
rebus pluribus mundum compositum non arbitratur simplici vel casu vel
necessitate vel liberae voluntatis iudicio contineri. QUOD SI HAEC NON SUNT
POSSIBILIA: VIDEMUS ENIM ESSE PRINCIPIUM FUTURORUM ET AB EO QUOD CONSILIAMUR
ATQUE AGIMUS ALIQUID. Impossibilia, inquit, ista sunt ut omnia ex necessitate
proveniant. Sumus enim quorundam nos ipsi quoque principia et animus noster
ratione formatus actionesque nostrae ea ratione directae quarundam rerum
principium tenent. Sic enim id quod in nobis est habere videmur: nullo extra
impediente vel cogente ad quod nobis videtur ratione iudicante prosilimus. Nec
omnia necessitatibus subripienda sunt. Omnium namque animalium genus in eo quod
animalia sunt subiectum est aliud naturae, aliud caelestibus siderum cursibus,
aliud rationi quoque mentis et animi cogitationi. Arbores namque et animalia
irrationabilia illae quidem tantum naturae subiectae sunt, pecudes vero etiam
caelestium decretis. Homines autem et naturae et sideribus et propriae
voluntati subiecti sunt. Multa enim natura dominante vel facimus vel patimur,
ut mortem vel huiusmodi habitudinem corporis. Multa secum rerum ipsarum
necessitas trahit, ut ea quae cum facere velimus, non tamen facere valeamus.
Multa autem dat liberum voluntatis arbitrium, quae nobis volentibus fiunt ut
fierent si velimus. Unde fit ut natura quae motus ƿ est principium et liberi
arbitrii facultate animi ratione participet. Anima vero velut inligata corporibus,
quibus natura dominatur, imaginationibus et cupiditatibus et iracundiae
ardoribus caeterisque, quae afferunt corpora, ex ipsa cui inligata est natura
participat. Cuncti autem divinae providentiae subiecti ex illa quoque divinorum
voluntate pendemus. Itaque nec caelestium necessitas tota subruitur nec casum
disputatio haec de rebus eliminat et liberum firmat arbitrium. Sed haec maiora
sunt quam ut nunc digne pertractari queant. Sumus igitur nos quoque rerum
principia et ex nostris consiliis atque actibus in rebus plura consistunt. Quod
si ea quae per hanc rationem auferuntur perspicua sunt, quod vero ponitur id
est affirmationem et negationem omnem in futuro veram esse non aeque perspicuum
est, cur dubitamus mendacem subterfugere rationis viam et tenere ea quae cum
vera sunt tum manifesta sunt repudiatis his, quae nec veritate ulla firma sunt
nec perspicuitate clarescunt? ET QUONIAM SUPRA IAM DIXERAT: QUARE NON OPORTEBIT
NEQUE CONSILIARI NEQUE NEGOTIARI, nunc hoc reddidit ad id quod ait CONSILIARI
DICENS ESSE PRINCIPIUM FUTURORUM ET AB EO QUOD CONSILIAMUR; ad id quod ait
NEQUE NEGOTIARI reddidit id quod subiecit ATQUE AGIMUS. Quare tanta brevitate
oratio constricta est, ut in ea teneatur rationis ordinisque necessitas. ET
QUONIAM EST OMNINO IN HIS QUAE NON SEMPER ACTU SUNT ESSE POSSIBILE ET NON, IN ƿ
QUIBUS UTRUMQUE CONTINGIT ET ESSE ET NON ESSE, QUARE ET FIERI ET NON FIERI. ET
MULTA NOBIS MANIFESTA SUNT SIC SE HABENTIA, UT QUONIAM HANC UESTEM POSSIBILE
EST INCIDI ET NON INCIDETUR SED PRIUS EXTERETUR. SIMILITER AUTEM ET NON INCIDI
POSSIBILE EST. NON ENIM ESSET EAM PRIUS EXTERI, NISI ESSET POSSIBILE NON
INCIDI. QUARE ET IN ALIIS FACTURIS, QUAECUMQUE SECUNDUM POTENTIAM DICUNTUR
HUIUSMODI: MANIFESTUM EST, QUONIAM NON OMNIA EX NECESSITATE VEL SUNT VEL FIUNT SED
ALIA QUIDEM UTRUMLIBET ET NON MAGIS VEL AFFIRMATIO VEL NEGATIO, ALIA VERO MAGIS
QUIDEM IN PLURIBUS ALTERUM SED CONTINGIT FIERI ET ALTERUM, ALTERUM VERO MINIME.
Continuus quidem sensus est ex superioribus hoc modo: supra enim ait quod si
haec non sunt possibilia id est ut omnia necessitas administret: videmus enim a
nobis quoddam esse principium futurorum et a nostris actibus atque consiliis:
his illud addidit: quoniamque sunt aliqua quae possibilia quidem sunt esse cum
non sint et non esse cum sint. Haec etiam simul auferuntur, si necessitas in
omnibus dominetur. Et sensus quidem cum superioribus ita coniunctus est, quid
autem habeat argumentationis tota sententia, hoc modo perspiciendum est:
possibile esse dicitur quod in utramque partem facile naturae suae ratione
vertatur, ut et cum non sit possibile sit esse nec cum sit ut non sit res ulla
prohibeat. Ita ergo et quod possibile dicimus a necessitate seiungimus. Aliter
enim dicitur possibile me esse ambulare cum sedeam, aliter solem nunc esse in
sagittario et post paucos dies in aquarium transgredi. Ita enim possibile est
ut etiam necesse sit. Possibile autem dicere solemus, quod et cum non sit esse
possit et cum sit non esse iterum possit. Si quis ergo omnia necessitati
subiecerit, ille naturam possibilitatis intercipit. Tres sunt ergo sententiae
de possibilitate. Philo enim dicit possibile esse, quod natura propria
enuntiationis suscipiat veritatem, ut cum dico me hodie esse Theocriti Bucolica
relecturum. Hoc si nil extra prohibeat, quantum in se est, potest veraciter
praedicari. Eodem autem modo idem ipse Philo necessarium esse definit, quod cum
verum sit, quantum in se est, numquam possit susceptivum esse mendacii. Non
necessarium autem idem ipse determinat, quod quantum in se est possit suscipere
falsitatem. Impossibile vero, quod secundum propriam naturam numquam possit
suscipere veritatem. Idem tamen ipse contingens et possibile unum esse
confirmat. Diodorus possibile esse determinat, quod aut est aut erit;
impossibile, quod cum falsum sit non erit verum; necessarium, quod cum verum
sit non erit falsum; non necessarium, quod aut iam est aut erit falsum. Stoici
vero possibile quidem posuerunt, quod susceptibile esset verae praedicationis
nihil his prohibentibus, quae cum extra sint cum ipso tamen fieri contingunt.
Impossibile autem, quod nullam umquam suscipiat veritatem aliis extra eventum
ipsius prohibentibus. Necessarium autem, quod cum verum sit falsam praedicationem
nulla ratione suscipiat. Sed si omnia ex necessitate fiunt, in Diodori
sententiam non rectam sine ulla dubitatione veniendum est. Ille enim arbitratus
est, si quis in mari moreretur, eum in terra mortem non potuisse suscipere.
Quod neque Philo neque Stoici dicunt. Sed quamquam ista non dicant, tamen si
unam partem contradictionis eventu metiuntur idem Diodoro sentire coguntur. Nam
si, quisquis in mari mortuus est, illum necesse fuit in mari necari,
impossibile eum fuit mortem in terra suscipere. Quod est perfalsum. Atque haec
omnia impossibilia subire coguntur, quicumque cum definite alteram contradictionis
partem in futuro veram esse contendunt, solam necessitatem in rebus esse
dicunt. Neque enim, si quis naufragio periit in pelago, idcirco si numquam
navigasset immortalis in terra futurus fuisset. At ergo non ex eventu rerum sed
ex natura eventus ipsos suscipientium propositionum contradictiones indicandae
sunt. Si enim mihi omnia nunc suppeditent ut Athenas eam, etiamsi non uadam,
posse me tamen ire manifestum est; et cum vero potuisse non ire, id quoque apud
eos qui eventus ex rerum natura recta ratione diiudicant indubitatum est. ƿ Non
ergo id est possibile ut sit necessarium sed quamquam quod necessarium est
possibile sit; est tamen alia quaedam extrinsecus possibilitatis natura, quae
et ab impossibili et a necessitate seiuncta sit. Aristoteles enim hanc habet
opinionem de his quae semper esse necesse est. Ea enim putat nullam habere ad
contraria cognationem: ut nix quoniam semper est frigida numquam calori
coniuncta est. Ignis quoque numquam frigori cognatus est, idcirco quod semper
in frigoris contrarietate versatur id est in calore. Omnia ergo quaecumque sunt
necessaria nullam ad contraria earum qualitatum, quas ipsa retinent, habent
cognationem. Quod si quam cognationem haberet ignis ad frigus, frustra esset
illa cognatio numquam igne in frigus qualitatem vertente. Sed novimus nihil
proprium natum frustra naturam solere perficere. Ergo illa sint posita
necessaria quaecumque ad contraria nullam habent cognationem. Quaecumque autem
habent illa sunt non necessaria sed quoniam ad utramque partem contrarietatis
naturali quadam cognatione videntur esse coniuncta, idcirco in utraque parte
eorum eventus possibilis est: ut lignum hoc potest quidem secari sed nihilo
tamen minus habet ad contraria cognationem, potest enim non secari, et aqua
potest quidem calescere sed nihil eam prohibet frigori quoque esse coniunctam.
Et universaliter dicere ƿ est: quaecumque neque semper sunt neque semper non
sunt sed aliquotiens sunt, aliquotiens non sunt, ea per hoc ipsum quod sunt et
non sunt habent aliquam ad contraria cognationem. Haec autem impossibilium et
necessariorum media sunt. Impossibile enim numquam esse potest, necessarium
numquam non esse: inter haec propria quorundam natura est, quae horum
utrorumque sit media, quae et esse scilicet possit et non esse. Ergo hoc nunc
dicit: videmus, inquit, IN HIS QUAE NON SEMPER ACTU SUNT (illa autem non semper
actu sunt, quae ad utraque contraria habent cognationem: ignis semper actu
calidus est, aqua vero non semper) quocirca videmus IN HIS QUAE NON SEMPER ACTU
SUNT esse quaedam possibilia et non, id est ut et sint et non sint. Quod in his
evenit IN QUIBUS UTRUMQUE CONTINGIT ID EST ET ESSE ET NON ESSE, ut aquam et
esse calidam et non esse calidam, fieri quoque calidam et non fieri. Multaque
nobis perspicua sunt ita sese habentia, ut in utraque parte eventus sine ullo
alicuius rei impedimento vertatur, ut uestem quam possibile est quidem secari
sed fortasse ita contingit, ut non ante ferro dividatur, quam eam exterat
uetustas. Et hoc fieri potest, ut quaelibet uestis non ferro potius minutatim
eat quam usu ipso exteratur. Similiter autem non solum eam secari possibile
est. Non enim esset eam prius exteri quam secari, nisi prius possibile esset
non secari. Cum enim ƿ exteritur, non secatur. Hoc autem in quibus eveniat universaliter
monstrat. Evenit hoc enim, inquit, in facturis. Facturae autem sunt, in
quibuscumque generatio est atque corruptio. Sive enim quid natura fiat sive
arte, in his a faciendo facturam dixit. In his ergo facturis alia quidem
potestate sunt, alia actu: ut aqua calida quidem est possibilitate, potest enim
fieri calida, frigida vero actu est, est enim frigida. Hoc autem actu et
potestate ex materia venit. Nam cum sit materia contrarietatis susceptrix et
ipsa in se utriusque contrarietatis habeat cognationem, si ipsa per se
cogitetur, nihil eorum habet quae in se suscipit et ipsa quidem nihil actu est,
omnia tamen potestate. Suscipiens autem contraria quamquam unam habeat
contrarietatem, habet tamen et alteram simul sed non actu, ut in eadem aqua. Huius
enim materia et caloris susceptrix est et frigoris sed cum utrumlibet horum
susceperit vel calorem vel frigus, est quidem si ita contigit, calida, est
etiam simul frigida sed non eodem modo. Nam fortasse actu calida est, frigida
potestate. Ergo quod potestate est in rebus ex materia venit. Alioquin divinis
corporibus nihil omnino est potestate sed omne actu: ut soli numquam est lumen
potestate, cui quidem nulla obscuritas, vel toto caelo nulla quies. Ita sese
ergo habent ex materia ut omnia ipsa essent potestate, nihil autem actu,
arbitratu ƿ naturae, quae in ipsa materia singulos pro ratione distribuit motus
et singulas qualitatum proprietates singulis materiae partibus ponit, ut alias
quidem natura ipsa necessarias ordinarit, ita ut quam diu res illa esset eius
in ipsa proprietas permaneret, ut igni calorem. Nam quamdiu ignis est, tamdiu
ignem calidum esse necesse est. Aliis vero tales qualitates apposuit, quibus
carere possint. Et illa quidem necessaria qualitas informat uniuscuiusque
substantiam. Illa enim eius qualitas cum ipsa materia ex natura coniuncta est.
Istae vero aliae qualitates extra sunt, quae et admitti possunt et non admitti.
Atque hinc est generatio et corruptio. Ex natura igitur et ex materia ista in
rebus possibilitas venit. Qua in re casus quoque aliquando subrepit, quae est
indeterminata causa et sine ulla ratione cadens. Neque enim natura est quae
frustra nil efficit nec arbitrium liberum quod in iudicio et ratione consistit
sed extra est casus, qui propter aliam rem quibusdam factis ipse subitus et
improvisus exoritur. Ex hac autem possibilitate etiam illa liberi arbitrii
ratio venit. Si enim non esset fieri aliquid possibile sed omnia aut ex
necessitate essent aut ex necessitate non essent, liberum arbitrium non
maneret. Recte igitur nec omnia casu ut Epicurus nec necessitate omnia ut ƿ
Stoicus nec rursus omnia libero arbitrio fieri proposuit sed cuncta permiscens
in permixto mundo permixtas quoque rerum causae esse proposuit, ut aliae quidem
ex necessitate, aliae vero casu vel libero arbitrio vel postremo possibilitate
contingerent. Quorum omnium unum nomen est utrumlibet, vel in casu vel in
voluntate vel in possibilitate. Sed horum divisionem facit. Nam eorum quae sunt
utrumlibet alia sunt quae aequaliter se ad affirmationem et negatio. Nem
habent, ut est lecturum me esse hodie Vergilium et non lecturum: utroque enim
modo utrumque est. Hoc est enim quod ait ET NON MAGIS VEL AFFIRMATIO VEL
NEGATIO. Aequaliter enim et possum legere Vergilium nunc et possum non legere. Alia
vero sunt quae non se aequaliter habeant sed quamquam in una re frequentius
eveniat, non tamen prohibitum est in altera provenire, ut in eo quod est
hominem in senecta canescere. In pluribus quidem hoc contingit sed CONTINGIT
FIERI ET ALTERUM, id est ut non canescat, alterum vero minime, id est ut
canescat. Ita igitur et ex possibilitate et ex casu et ex libero arbitrio
contradictionem in una parte de futuro definite non esse veram vel falsam
firmissima et validissima argumentatione constituit. His autem adicit hoc: IGITUR
ESSE QUOD EST, QUANDO EST, ET NON ESSE QUOD NON EST, QUANDO NON EST, NECESSE
EST; SED NON QUOD EST OMNE NECESSE EST ESSE NEC QUOD NON EST NECESSE EST NON
ESSE. NON ENIM IDEM EST OMNE QUOD EST ESSE NECESSARIO, QUANDO EST, ET SIMPLICITER
ESSE EX NECESSITATE. Duplex modus necessitatis ostenditur: unus qui cum
alicuius accidentis necessitate proponitur, alter qui simplici praedicatione
profertur. Et simplici quidem praedicatione profertur, cum dicimus solem moveri
necesse est. Non enim solum quia nunc movetur sed quia numquam non movebitur,
idcirco in solis motu necessitas venit. Altera vero quae cum conditione dicitur
talis est: ut cum dicimus Socratem sedere necesse est cum sedet, et non sedere
necesse est cum non sedet. Nam cum idem eodem tempore sedere et non sedere non
possit, quicumque sedet non potest non sedere, tunc cum sedet: igitur sedere
necesse est. Ergo quando quis sedet tunc cum sedet eum sedere necesse est.
Fieri enim non potest ut cum sedet non sedeat. Rursus quando quis non sedet,
tunc cum non sedet, eum non sedere necesse est. Non enim potest idem non sedere
et sedere. Et potest ista esse cum conditione necessitas, ut cum sedet aliquis,
tunc cum sedet, ex necessitate sedeat, et cum non sedet, tunc cum non sedet, ex
necessitate non sedeat. Sed ista cum conditione quae proponitur necessitas non
illam simplicem secum trahit (non enim quicumque sedet simpliciter eum sedere
necesse est sed cum adiectione ea quae est tunc cum sedet), sicut solem dicimus
non necesse esse tunc moveri, cum movetur, nec hoc addimus, ut solem moveri
necesse sit cum movetur sed tantum simpliciter dicimus solem moveri necesse
est. Et haec necessitas simplex de sole dicta veritatem in oratione perficiet.
At vero illa quae cum conditione dicitur, ut cum dicimus Socratem sedere
necesse est, tunc cum sedet, id ƿ quod proponimus tunc cum sedet et hanc
conditionem temporis si a propositione dividamus, de tota propositione veritas
perit. Non enim possumus dicere quoniam Socrates ex necessitate sedet. Potest
enim et non sedere. Habet enim quandam convenientiam et cognationem potestas
Socratis sicut ad sedendum sic etiam ad non sedendum. Ergo id quod dicimus ex
necessitate Socraten sedere, tunc cum sedet, ad accidens respicientes
proponimus. Nam quoniam accidit Socrati sedere et eo tempore quo accidit ei non
accidisse non potest (sic enim fiet ut eidem eadem res et accidat et non
accidat uno eodemque tempore, quod impossibile est), idcirco accidens eius
inspicientes dicimus necesse esse Socraten sedere sed non simpliciter sed tunc
cum sedet. Et sicut Aethiopem dicere simpliciter esse candidum falsum est,
verum tamen in aliquo esse candidum (in oculis enim illi vel in dentibus candor
est), ita quoque falsum dicere Socraten ex necessitate sedere simpliciter,
verum autem est hanc necessitatem in aliquo quodam tempore, non simpliciter
praedicare, ut dicamus tunc cum sedet. Quemadmodum enim in sole dicimus,
quoniam solem moveri necesse est, simpliciter, si ita dicamus Socraten sedere
necesse est, falsum est. Sin vero marmoreum Socraten dicamus, quoniam Socraten
marmoreum sedere necesse est, si fortasse sedens formatus sit, verum est et
simpliciter de tali Socrate necessitas poterit praedicari. De ipso autem
Socrate simpliciter ƿ talis necessitas non dicitur. Neque enim fieri potest, ut
Socrates ex necessitate sedeat, nisi forte cum sedet. Tunc enim cum sedet,
quoniam sedet et non potest non sedere, ex necessitate sedet. Alioquin non
simpliciter ex necessitate sedet sed contingenter, potest enim surgere. Quod
autem ex necessitate simpliciter est, illam permutare non potest necessitatem:
ut quoniam simpliciter solem moveri necesse est, sol stare nulla ratione
potest. Hoc igitur dicit Aristoteles: omne quod est, quando est, et omne quod
non est, quando non est, esse cum conditione et non esse necesse est sed non
sine conditione aut esse aut non esse simpliciter. Haec enim illis solis
necessitatibus attributa sunt quaecumque nullius potentiae aut cognationis ad
opposita sunt, ut sol ad quietem vel ignis ad frigus. Neque enim idem est,
inquit Aristoteles, ex necessitate esse aliquid, quando est, in conditione vel
non esse, quando non est, et simpliciter dicere omne ex necessitate esse vel
non esse. Illud enim conditio verum fecit, in hoc simplicitatis natura effecit
veritatem. SIMILITER AUTEM, inquit, ET IN EO QUOD NON EST. Etiam in eo quod non
est idem est: non omne quod non est non esse necesse est sed tunc cum non est
tunc non esse necesse est, et hoc in conditione rursus, non simpliciter. Duabus
igitur his necessitatibus demonstratis, una conditionali, altera simplici, nunc
ad contradictionem rursus de futuro contingentemque reuertitur. ET IN
CONTRADICTIONE EADEM RATIO. ESSE QUIDEM VEL NON ESSE OMNE NECESSE EST ET
FUTURUM ESSE VEL NON; NON TAMEN DIVIDENTEM DICERE ALTERUM NECESSARIO. DICO
AUTEM NECESSE EST QUIDEM FUTURUM ESSE BELLUM NAVALE CRAS VEL NON ESSE FUTURUM
SED NON FUTURUM ESSE CRAS BELLUM NAVALE NECESSE EST VEL NON FUTURUM ESSE,
FUTURUM AUTEM ESSE VEL NON ESSE NECESSE EST. QUARE QUONIAM SIMILITER ORATIONES
VERAE SUNT QUEMADMODUM ET RES, MANIFESTUM EST QUONIAM QUAECUMQUE SIC SE HABENT,
UT UTRUMLIBET SINT ET CONTRARIA IPSORUM CONTINGANT NECESSE EST SIMILITER SE
HABERE ET CONTRADICTIONEM. QUOD CONTINGIT IN HIS, QUAE NON SEMPER SUNT ET NON
SEMPER NON SUNT. Planissime quam sententiam haberet de contingentibus
propositionibus et futuris exposuit dicens: in his totam quidem contradictionem
dictam unam quamlibet partem habere veram alteram falsam sed non ut aliquis
dividat atque respondeat hanc quidem ex necessitate veram esse, illam vero ex
necessitate alteram falsam: ut in eo quod dicimus: Sol occidit Sol hodie
non occidit facillime in his aliquis dividens dicit, quoniam solem hodie
occidere ex necessitate verum est, non occidere ex necessitate falsum. Ita sese
enim habet divinorum corporum ratio et natura, ut in his ƿ nulla cognatio sit
ad opposita, atque ideo vel quod sunt ex necessitate sunt vel quod non sunt ex
necessitate non sunt. Ea vero quae in generatione et corruptione sunt non ita
sunt. Habent enim hoc ipso, quod et gignuntur et corrumpuntur, ad opposita
cognationem atque ideo in his non est unam partem contradictionis assumere et
eam necessario esse praedicare et rursus aliam necessario non esse proponere
quamuis totius contradictionis una quaelibet pars vera sit, altera falsa sed incognite
et indefinite, et non nobis, verum natura ipsa harum rerum quae proponuntur
dubitabilis, ut in ea propositione quae est: Socrates hodie lecturus est
Socrates hodie lecturus non est Totius quidem contradictionis una vera
est, una falsa (aut enim lecturus est aut non lecturus) et hoc confuse in tota
oratione perspectum sed nullus potest dividere et respondere, quoniam vera est
lecturum eum esse vel certe quoniam vera est non eum esse lecturum. Hoc autem
non quod audientes de futuro nesciamus sed quod eadem res et esse possit et non
esse. Alioquin si ex nostra inscientia hoc eveniret et non ex ipsarum rerum
variabili et indefinito proventu, illa rursus impossibilitas contingeret, ut
omnia necessitas administraret. Non enim propter scientiam nostram quod ex
necessitate est eventurum est sed etiam si nos nesciamus, erit tamen alicuius
rei eventus constitutus et indubitatus: illam rem futuram esse necesse est.
Ergo quoniam hoc fieri non potest et ƿ sunt quaedam quae non ex necessitate
proveniant sed contingenter, in his quamquam totius contradictionis in qualibet
eius parte veritas inveniatur aut falsitas, non tamen ut aliquis dividat et
dicat hanc quidem veram esse, illam vero falsam. Quod huiusmodi monstravit
exemplo: cras enim bellum navale fieri aut non fieri necesse est, non tamen ex
necessitate fiet cras aut ex necessitate cras non fiet, ut possit aliquis
dividere et praedicare dicens cras fiet, ut hoc vere dicat et ita ex definito
contingat, vel rursus cras non fiet, et hoc eodem modo proveniat: hoc fieri non
potest sed tantum indefinite quaecumque una pars contradictionis vera est, altera
falsa sed quae evenerit. Eventus autem ipsorum indiscretus est: et illud enim
et illud poterit evenire. Hoc autem idcirco est quoniam non est ex
antiquioribus quibusdam causis pendens rerum eventus, ut quaedam quodammodo
necessitatis catena sit sed potius haec ex nostro arbitrio et libera voluntate
sunt, in quibus est nulla necessitas. Quod si, inquit, itidem ORATIONES VERAE
SUNT QUEMADMODUM ET RES: hoc sumpsit a Platone, qui dixit similiter se habere
orationes rebus et cognatas quodammodo esse in ipsa significatione, si sint res
impermutabiles et ratione stabili permanentes oratio quoque de his vera esset
et necessaria, sin vero esset res quae varietate naturae numquam perpetuo
permaneret in orationibus quoque fixa veritas non esset et nulla per huiusmodi
orationes demonstratio proveniret. Hoc igitur sumens Aristoteles ut optime
dictum sic ait: quoniam, inquit, orationes similiter sese habent quemadmodum
res, manifestum est quoniam quaecumque res ita sunt, ut utrumlibet sint et
contraria ipsorum contingere possint, necesse est ita contradictionem se
habere, quae de illis natura instabilibus atque indefinitis rebus est, ut si
res sint dubitabiles et indefinito variabilique proventu contradictio quoque
quae de his rebus fit variabili indefinitoque proventu sit. Quae autem essent
huiusmodi res, quarum eventus varius indefinitusque constaret, planissime
demonstravit dicens: QUOD CONTINGIT IN HIS, QUAE NON SEMPER SUNT ET NON SEMPER
NON SUNT. Ea enim sunt, in quibus contingit utrumlibet, quae neque semper sunt
(possunt enim corrumpi) neque semper non sunt (possunt enim generari et fieri).
Haec enim sunt quae habent ad opposita cognationem, sicut in ipsa propria
substantia rerum ipsarum eventus docet. Nam esse et non esse oppositum est.
Quod autem non fuit et generatur et fit ex eo quod non fuit est. Habuit igitur
in hoc ad esse et non esse id est ad opposita cognationem. Sin vero idem ipsum
quod est corrumpatur, ex eo quod fuit non erit. Habebit igitur rursus ad
opposita cognationem. Quare et sicut harum quae sunt in generatione et
corruptione rerum proventus indefinitus est, ita quoque et contradictionum
partes, quamquam in tota contradictione una vera sit, altera falsa. Indefinitum
ƿ enim et indiscretum est, quae una harum vera sit, quae altera falsa. HORUM
ENIM NECESSE EST QUIDEM ALTERAM PARTEM CONTRADICTIONIS VERAM ESSE VEL FALSAM,
NON TAMEN HOC AUT ILLUD SED UTRUMLIBET ET MAGIS QUIDEM VERAM ALTERAM, NON TAMEN
IAM VERAM VEL FALSAM. QUARE MANIFESTUM EST, QUONIAM NON EST NECESSE OMNIS
AFFIRMATIONIS VEL NEGATIONIS OPPOSITARUM HANC QUIDEM VERAM, ILLAM VERO FALSAM
ESSE. Docuit supra nos in his quae utrumlibet sunt rebus contradictionis unam
partem non esse definite veram, falsam vero alteram definite: nunc a
frequentiori et a rariori argumentum trahit. Supra namque monstravit esse
quasdam res quae frequentius quidem contingent, non tamen interclusum sit, ut
et opposita aliquando contingent. Contingit enim ut rarius infrequentiusque contingat.
Ergo si in his quaecumque in pluribus eveniunt non necesse est unam veram esse,
alteram falsam (idcirco quod quicumque dixerit hominem in senecta canescere et
hoc ex necessitate esse protulerit mentietur, potest enim et non canescere): si
in his ergo non est definite una vera, altera falsa, in quibus una res
frequentius evenit, rarius altera, multo minus in his in quibus oppositorum
eventus aequalis est. Et verum est quidem dicere, quoniam hoc contingit
frequentius, non tamen omnino quoniam ƿ contingit, idcirco quod, licet rarius,
tamen contingit oppositum. Quod si neque in his quae in pluribus praedicantur
una definite vera est, altera falsa et multo minus in his quorum aequaliter
indiscretus eventus est, manifestum est in futuris et contingentibus
propositionibus non esse unam veram, alteram falsam. Hoc enim in principio ut
monstraret validissima argumentatione contendit. NEQUE ENIM QUEMADMODUM IN HIS
QUAE SUNT, SIC SE HABET ETIAM IN HIS QUAE NON SUNT, POSSIBILIBUS TAMEN ESSE AUT
NON ESSE SED QUEMADMODUM DICTUM EST. Ad divisionem temporum in principio factam
totam reuocat quaestionem. Ait enim prius propositiones eas quae fierent aut in
praesenti aut in praeterito aut in futuro praedicari. Et eas quidem quae de
praeterito vel praesenti dicerentur definitam veritatem vel falsitatem habere,
sive in sempiternis et divinis dicerentur rebus sive in nascentibus atque
morientibus, in quibus utrumlibet contingeret, ut haberent ad opposita
cognationem. In futuris vero, si de divinis quidem rebus aliquis et in
mutabilibus loqueretur, eodem modo unam veram definite, alteram falsam esse
definite. Non enim habere huiusmodi naturas ad opposita cognationem. In his
autem quae in generatione et corruptione essent de futuro praedicatis vel
affirmative vel negative non eundem esse modum veritatis definitae sed totius
quidem contradictionis unam partem veram esse, alteram falsam, definite autem
unam veram, definite alteram falsam minime. ƿ Nunc autem non utraque tempora
posuit, praesens scilicet et praeteritum sed tantum praesens. Dixit enim: NEQUE
ENIM QUEMADMODUM IN HIS QUAE SUNT, id est in his quae praesentia sunt. Quod
vero ait IN HIS QUAE NON SUNT, POSSIBILIBUS TAMEN ESSE, de futuris loquitur,
quae cum non sint tamen esse possunt. Non enim sic se habet in praesenti prasdicata
propositio, quemadmodum in futuro, in his scilicet quae utrumlibet sunt et in
generatione et in corruptione consistunt. In illis enim id est praeteritis et
praesentibus definite una vera est, altera falsa: in his id est futuris et
contingentibus veritas et falsitas propositionum nulla definitione
constringitur. Sed quoniam de futuris propositionibus Aristotelicam sententiam
quantum facultas fuit diligenter expressimus, prolixitatem voluminis
terminemus. Est quidem libri huius -- "De interpretatione" apud
Latinos, apud Graecos vero *Peri hermeneias* inscribitur -- obscura orationis
series obscurissimis adiecta sententiis atque ideo non hunc magnis expedissem ƿ
voluminibus, nisi etiam nihil labori concedens quam pote planissime quod in
prima editione altitudinis et subtilitatis omiseram secunda commentatione
complorem. Sed danda est prolixitati venia et operis longitudo libri
obscuritate pensanda est. Sunt tamen gradus apud nos satisfacientes lectorum et
diligentiae et fastidio cupientium facillime magna cognoscere. Huius enim libri
post has geminas commentationes quoddam breuarium facimus, ita ut in quibusdam
et fere in omnibus Aristotelis ipsius verbis utamur, tantum quod ille brevitate
dixit obscure nos aliquibas additis dilucidiorem seriem adiectione faciamus, ut
quasi inter textus brevitatem commentationisque diffusionem medius ingrediatur
stilus diffuse dicta colligens et angustissime scripta diffundens. Atque haec
posterius. Nunc autem quoniam ab Aristotele supra monstratum est in futuro
contingentium propositionum veritatem et falsitatem non stabili neque definita
ratione esse divisam et quidquid supra latissima disputatio complexa est, nunc
haec eius intentio est, ut categoricarum propositionum numerum tradat,
quaecumque cum finito vel infinito nomine simpliciter fiunt. Primo enim
volumine dictum est nomen esse ut 'homo', infinitum vero nomen ut 'non homo'.
Praedicativae autem et categoricae propositiones sunt quae duobus tantum
simplicibus terminis constant: hae ƿ sive cum finito nomine, ut est: Homo
ambulat sive cum nomine infinito, ut est: Non homo ambulat Harum
igitur propositionum categoricarum atque simplicium tradere numerum contendit,
quaecumque fiunt adiectione nominis infiniti. Sed quoniam propositiones omnes
aut secundum qualitatem differunt aut secundum quantitatem (secundum
qualitatem, quod haec quidem affirmativa est, illa vero negativa, secundum
quantitatem vero, quod haec quidem plura complectitur, illa vero pauca): secundum
quam differentiam hae propositiones quae dicunt homo ambulat et rursus non homo
ambulat a se differunt? Secundum qualitatem an secundum quantitatem? Nam quod
dico: Homo ambulat qualitatem quandam substantiae id est hominem ambulare
designat et rem definitam atque substantiam unamque speciem ambulabilem esse
pronuntiat, quod autem dico: Non homo ambulat nominem quidem rem
definitam tollo, innumerabilia vero significo. Quare illa quidem quae dicit:
Homo ambulat secundum qualitatem, quae vero: Non homo ambulat
videbitur secundum quantitatem potius discrepare. An certe illud magis est
verius: [ut et] quod dico: Homo ambulat 'homo' simplex nomen quasi
affirmationi est proximum, quod vero dico: Non homo ambulat 'non homo'
infinitum nomen negationis videtur esse consimile? Sed affirmatio et negatio
secundum qualitatem differunt, haec autem affirmationi sunt negationique
similia: qualitate igitur potius quam ulla discrepant quantitate. An magis
illud est verius, quod quemadmodum ƿ se habet propositio quae dicit Socrates
ambulat ad eam quae dicit guidam homo ambulat, ita sese habet homo ambulat ad
eam quae dicit non homo ambulat? Propositio namque quae est: Quidam homo
ambulat si plures ambulent, necesse est ut vera sit, si autem plures
ambulent, ut: Socrates ambulet non est necesse. Possunt enim plures ambulare
et Socrates non ambulare sed cum plures ambulant, quidam homo ambulat. Hoc
autem ideo evenit, quia quod dicimus: Quidam homo ambulat
particularitatem iungimus universalitati id est homini et, si qui sub illa
universalitate sunt id est sub homine ambulante, eam quae dicit: Quidam homo ambulat
veram esse necesse est. At vero cum dicitur: Socrates ambulat quoniam
Socrates circa unius cuiusdam proprietatem est, nisi ipse Socrates ambulaverit,
quamquam omnes homines ambulent, non est verum dicere Socrates ambulat. Sicut
ergo: Quidam homo ambulat indefinita Socrates ambulat propria ac
definita: sic etiam in eo quod est homo et non homo. Qui dicit: Homo
ambulat dicit quoniam quoddam animal ambulat et hoc nomine et qualitate
determinat dicens "Homo ambulat". Qui vero dicit: Non homo
ambulat non quidem omnia subruit sed hominem tantum, caetera vero
animalia ambulabilia esse pronuntiat. Ergo sive equus sive bos sive leo
ambulat, verum est "Non homo ambulat" sed non est verum "Homo
ambulat", si non ipse homo ambulat. Quare ƿ quemadmodum se habet
"Quidam homo ambulat" ad "Socrates ambulat", quod illic, si
plures homines ambularent, verum erat "Quidam homo ambulat", non
etiam "Socrates ambulat", nisi ipse Socrates ambularet: ita quoque in
eo quod est "Homo ambulat" et "Non homo ambulat" dici
potest. Nam si plura quae sunt non homines ambulent, verum est dicere quoniam
non homo ambulat, non autem verum est dicere quoniam homo ambulat, nisi ipse
homo ambulet. Secundum definitionem potius et proprietstem videntur discrepare
quam aliquam totam quantitatem vel partem vel rursus aliquam qualitatem. Nam,
sicut posterius demonstrabitur, ea quae dicit non homo ambulat affirmatio
potius quam negatio est. Atque haec hactenus praedixisse sufficiat. QUONIAM
AUTEM EST DE ALIQUO AFFIRMATIO SIGNIFICANS ALIQUID, HOC AUTEM EST VEL NOMEN VEL
INNOMINE, UNUM AUTEM OPORTET ESSE ET DE UNO HOC QUOD EST IN AFFIRMATIONE (NOMEN
AUTEM DICTUM EST ET INNOMINE PRIUS; NON HOMO ENIM NOMEN QUIDEM NON DICO SED
INFINITUM NOMEN; UNUM ENIM QUODAMMODO SIGNIFICAT INFINITUM, QUEMADMODUM ET NON
CURRIT NON VERBUM SED INFINITUM VERBUM), ERIT OMNIS AFFIRMATIO VEL EX NOMINE ET
VERBO VEL EX INFINITO NOMINE ET VERBO. PRAETER VERBUM AUTEM NULLA AFFIRMATIO
VEL NEGATIO. EST ENIM VEL ERIT VEL FUIT VEL FIT, VEL QUAECUMQUE ALIA ƿ
HUIUSMODI, VERBA EX HIS SUNT QUAE SUNT POSITA; CONSIGNIFICANT ENIM TEMPUS.
QUARE PRIMA AFFIRMATIO ET NEGATIO EST HOMO, NON EST HOMO, DEINDE EST NON HOMO,
NON EST NON HOMO; RURSUS EST OMNIS HOMO, NON EST OMNIS HOMO, EST OMNIS NON
HOMO, NON EST OMNIS NON HOMO. In secundo (ut arbitror) libro praediximus omnem
enuntiationem simplicem id est praedicativam ex subiecto et praedicato
consistere, quorum semper praedicatio aut verbum esset aut quod idem posset,
tamquam si verbi dictio poneretur: ut cum dicimus: Homo ambulat verbum
ponitur; cum vero dicimus: Homo rationalis subaudiatur hic verbum 'est',
ut totus intellectus sit "Homo rationabilis est". Quocirca necesse
est aut verbum semper esse praedicatum aut quod sit verbo consimile idemque in
enuntiationibus possit. Quod vero subiectum esset, aut omnino nomen esse aut
quod vice nominis fungeretur. Quocirca illud maxime colligendum est omne in
categorica propositione subiectum nomen esse, omne vero praedicatum verbum. Sed
quoniam, cum de nomine loqueretur, aliud quoddam nomen introduxit, quod
simpliciter quidem et per se nomen non esset, infinitum tamen nomen vocaretur,
id quod cum negativa particula profertur, omnis autem propositio ex nominis
subiectione consistit, est autem categorica propositio, quae aliquid de aliquo
praedicat vel negat, et de quo praedicat quidem nomen est quoniamque in nomine
infinitum etiam ƿ nomen dicitur, necesse est semper categoricam propositionem
aut nomen habere subiectum aut illud quod dicitur infinitum. Infinitum vero
nomen est quod ipse nunc INNOMINE vocat. Omnis ergo propositio praedicativa in
duas dividitur species: aut ex infinito nomine subiectum est aut ex simplici
nomine. Ex infinito quidem, cum dico: Non homo ambulat ex finito autem et
simplici, ut: Homo ambulat Huius autem quae ex finito et simplici est
species sunt duae: quae aut universale nomen subicit, ut "Homo
ambulat", aut singulare, ut "Socrates ambulat". Quare ita fit
divisio: omnium enuntiationum simplicium, quae ex duobus terminis constant,
aliae sunt ex infinito nomine subiecto, aliae vero ex finito et simplici. Earum
quae simplex habent subiectum aliae sunt quae universale simplex subiciunt,
aliae quae singulare. Supra vero perdocuit quod sint differentiae propositionum
simplex nomen in subiecto ponentium: quod aliae sint universales, aliae
particulares, aliae indefinitae. Et secundum quantitatem quidem hoc modo
differunt, secundum qualitatem vero, quod aliae affirmativae sint, aliae
negativae. Idem quoque in his propositionibus quae ex infinito nomine subiecto
enuntiantur. Aliae namque harum indefinitae sunt, aliae definitae. Definitarum
aliae sunt universales, aliae particulares. Hic quoque secundum quantitatem nec
minus secundum qualitatem eaedem infinitorum quoque nominum propositionibus
differentiae sunt. Dicimus enim alias esse affirmativas, alias negativas.
Subiecta vero descriptio docet, quae sint affirmativae simplices, ƿ quae sint
negativae, et rursus quae sint affirmativae ex infinito nomine et quae
negativae easque omnes in propriis determinationibus adiunximus nec minus etiam
indefinitas in utraque specie propositionum posuimus singulare habentibus
subiectum simplicibus propositionibus reiectis. Sint enim indefinitae simplices
hae: Homo ambulat Homo non ambulatcontra has vero divisae secundum
infinitum nomen hae: Non homo ambulat Non homo non ambulat Universales ex
simplici subiecto nomine sint hae: Omnis homo ambulat Nullus homo ambulat
contra has divisse ex infinito nomine universales: Omnis non homo ambulat
Nullus non homo ambulat Rursus particulares ex finito nomine subiecto
sint: Quidam homo ambulat Quidam homo non ambulat rursus contra has
divisae ex infinito nomine subiecto hae: Quidam non homo ambulat Quidam non
homo non ambulat Hoc autem subiecta descriptione declaratur: Indefinitae
ex simplici nomine subiecto: Homo ambulat Homo non ambulat Indefinitae ex
infinito nomine subiecto: Non homo ambulat Non homo non ambulat Universales ex
simplici nomine subiecto: Omnis homo ambulat Nullus homo ambulat Universales ex
infinito nomine subiecto: Omnis non homo ambulat Nullus non homo ambulat
Particulares ex simplici nomine subiecto: Quidam homo ambulat Quidam homo non
ambulat ƿParticulares ex infinito nomine subiecto: Quidam non homo ambulat
Quidam non homo non ambulat Haec ergo partiens et de propositionibus ex duobus
terminis constitutis faciens propositionem colligit omnis ex subiecto nomine
propositiones et eas tantum ad divisionem sumit, quae ex infinito nomine fiunt,
faciens huiusmodi divisionem principalem, ut sit: propositionum aliae sunt ex finito
nomine, aliae ex infinito. Oportuerat quidem volentem cuncta partiri ad
differentias propositionum non solum infinita sumere nomina sed etiam verba.
Sed quoniam noverat nomen quidem infinitum conservare propositionem quam
invenisset, ut si in affirmativa diceretur affirmativam servaret enuntiationem,
ut est: Non homo ambulat si in negativa negativam, ut est: Non homo non
ambulat verba vero quae sunt infinita iuncta in propositione non
affirmationem sed perficere negationem, idcirco de his reticuit, quod hae magis
quae ex verbo infinito sunt ad unam qualitatem pertinent propositionis id est
ad negativam. Semper enim fit ex infinito verbo negatio. Haec igitur colligens
ait: QUONIAM AUTEM EST DE ALIQUO SUBIECTO AFFIRMATIO SIGNIFICANS ALIQUID id est
praedicans, hoc est quoniam omnis propositio ex subiecto et praedicato. Quod
autem subiectum EST VEL NOMEN VEL INNOMINATUM. ƿInnominatum autem est quod
propositum subruit nomen, ut est 'non homo'. Nomen enim quod est 'homo' differt
nominis infiniti privatione quod est 'non homo' atque ideo et innominatum
vocavit. Qualis autem debeat esse propositio de qua tractat ostendit dicens:
UNUM AUTEM OPORTET ESSE ET DE UNO HOC QUOD EST IN AFFIRMATIONE, id est ex
duobus terminis propositionem oportere consistere. Commemorat quoque quid sit
innominatum se supra dixisse, quoniam quod diceremus 'non homo' nomen quidem
Aristoteles non diceret sed quod nomen simpliciter non vocaret hoc addito
infinito nomen diceret infinitum, idcirco quoniam unum quidem significat sed
infinitum. 'Non homo' enim quod significationem eius quod dicimus homo tollit
unum est et unam per se significationem subripiens, multa sunt quae
intellegentium sensibus relinquantur. Commemorat etiam quoniam 'non currit'
verbum superius infinitum vocavit et non simpliciter verbum. QUONIAM ergo
aliquid de aliquo affirmatio est, hoc autem quod subiectum est aut nomen esse
oportet aut innominatum id est infinitum nomen, duplex propositionis species
invenitur. Omnis enim affirmatio vel ex nomine est et verbo vel ex infinito
nomine et verbo. Eodem quoque modo et negatio. Neque enim reperietur ulla
umquam affirmatio, cui negatio inveniri non possit. Quod si duplex species
affirmationum, duplex quoque species est negationum. Illud ƿ quoque commemorat
quod supra iam dixit. Nam licet ex nomine et verbo et rursus ex eo, quod non
est nomen sed infinitum, nomine et verbo sit affirmatio et negatio praedicativa
id est categorica: ut autem praeter verbum sit ulla affirmatio aut negatio aut
praeter id quod idem significet verbo vel in subauditione vel aliquo alio modo
fieri non potest. Ponit quoque verba quae paene in omnibus propositionibus aut
sub ipsa cadunt aut quae idem valeant. EST ENIM, inquit, VEL ERIT VEL FUIT, VEL
QUAECUMQUE ALIA consignificant tempus, verba sunt, sicut ex his doceri possumus
quae ante posita sunt atque concessa, cum definitio verborum daretur: verba
esse quae consignificarent tempus. Quare si haec consignificant tempus, non est
dubium quin verba sins. Sed praeter haec aut praeter idem valentia propositio
nulla est. Recte igitur dictum est praeter verba praedicativam propositionem
non posse constitui. Iuste tamen aliquis quaestionem videatur opponere, cur cum
iam dixerit praeter verbum enuntiationes nulla ratione posse constitui nunc
idem repetit, quasi nil de his antea praedixisset. Sed superfivum videri non
debet. QUONIAM enim finitum nomen cum negativa particula nomen est infinitum,
idcirco putaretur fortasse negatio esse quod diceremus non homo. Quod si haec
negatio, homo affirmatio. Ne in hunc ergo quisquam laberetur errorem, hoc dixit
et congrue repetivit, quoniam praeter verbum esse enuntiatio non potest,
tamquam si diceret: ƿ nemo arbitretur infinitum nomen esse negationem nec nomen
affirmationem, praeter enim verbum affirmatio et negatio nulla umquam potest
ratione constitui. In hoc illud quoque noverat quod verbum infinitum et
negationem significaret et infinitum verbum. Id enim quod dicimus 'non ambulat'
et infinitum est verbum et negatio sed per se quidem si dicatur simplex sine
aliquibus aliis adiectionibus infinitum verbum est; sin vero cum nomine aut cum
infinito nomine proferatur, non iam verbum infinitum sed negatio accipitur: ut
'non' negativa particula cum 'ambulat' iuncta infinitum verbum efficiat non
ambulat sed in propositione quae est "Homo non ambulat" hominem non
ambulare designet. Atque ideo ait subiecta quidem in propositionibus posse esse
vel nomina vel infinita nomina, praedicata vero praeter verba esse non posse.
Nam sive in affirmationibus quis coniungat quid, verbum sine dubio praedicavit,
sive in negationibus, non infinitum verbum sed tantum verbum, cui addita non
particula totem qualitatem propositionis ex affirmativa in negativam commPomba.
Quare recte nullam differentiam propositionum de infinitis verbis fecit.
Infinita enim verba tunc sunt infinita, cum sola sunt. Si vero cum infinito
nomine iungantur aut nomine, non infinita verba iam sunt sed finita, cum
negatione tamen in tota propositione intelleguntur. Si ergo, quemadmodum Stoici
volunt, ad nomina negationes ponerentur, ut esset "Non homo ambulat"
negatio, ambiguum ƿ esse posset, cum dicimus 'non homo' an infinitum nomen
esset, an vero finitum cum negatione coniunctum. Sed quoniam Aristoteli placet
verbis negationes oportere coniungi, infinita magis verba ambigui intellectus
sunt, an infinita videantur, an cum negatione finita. Atque ideo ita
discernitur: sumptum cum nomine infinitum verbum negatio fit et negativa
propositio, ut est "Homo non ambulat", per se vero dictum infinitum
verbum est, ut 'non ambulat'. Atque ideo hic solam differentiam nominum et
infinitorum nominum in propositionibus dedit, non etiam verborum infinitorum,
idcirco quod de coniunctis loquebatur, id est de nominibus vel infinitis
nominibus atque verbis. In qua coniunctione id quod per se infinitum verbum
dicitur negatio est. Neque enim oportet sicut omnis propositio aut ex finito
nomine aut ex infinito constat, ita quoque aut ex verbo constare aut ex
infinito verbo. Infinitum enim verbum in propositionibus non est sed quotiens
aliquid (ut dictum est) tale ponitur, finitum quidem verbum est sed illi iuncta
negatio totam propositionem privat ac destruit. Et verbum quidem infinitum
iunctum nominibus negationem ut faciat necesse est, nomen vero infinitum
iunctum verbis non necesse est ut faciat negationem. Quod enim dicimus
"Non homo ambulat" affirmatio est, non negatio. Ergo quoniam
affirmationem oportet aliquid de aliquo significare, nomen autem infinitum est
aliquid, quotiens dicimus: Non homo ambulat ambulationem (id est ALIQUID)
de 'non homine' (id est DE ALIQUO) praedicamus. Sed si dicamus 'non ambulat'
non potius de aliquo praedicavimus aliquid sed ab aliquo. Qui enim dicit homo
non ambulat, ambulationem ƿ ab homine tollit, non de homine praedicat. Quare
negatio potius quam affirmatio est. Si enim affirmatio esset, id est si verbum
esset infinitum, aliquid de aliquo praedicaret. Nunc autem aliquid ab aliquo
tollit: non est igitur verbum infinitum sed potius negatio, quotiens in tota
sumitur propositione. Numerum vero propositionum, quarum nos supra quoque
descripsimus, ipse subiecit: indefinitas quidem prius, post vero contra
iacentes. Quod si quis vel ad illa reuertitur vel hic intendit animum, in quo
vel nostra vel Aristotelica dispositio discrepet diligenter agnoscit. Nos enim
et contrarias proposuimus et subcontrarias, Aristoteles vero solum
contradictorie sibimet contra iacentes oppositasque proposuit. Sed Aristoteles
non solum in praesenti tempore easdem propositionum dicit esse differentias
quas proposuit sed etiam in aliis quoque temporibus quae sunt extrinsecus.
Extrinsecus autem tempora vocat quae praeter praesens sunt praeteritum scilicet
et futurum. QUANDO AUTEM EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, DUPLICITER DICUNTUR
OPPOSITIONES. DICO AUTEM UT EST IUSTUS HOMO; EST TERTIUM DICO ADIACERE NOMEN
VEL VERBUM IN AFFIRMATIONE. QUARE IDCIRCO QUATUOR ISTAE ERUNT, QUARUM DUAE QUID
EM AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM SESE HABEBUNT SECUNDUM CONSEQUENTIAM UT
PRIVATIONES, DUAE VERO MINIME. DICO AUTEM QUONIAM EST AUT IUSTO ADIACEBIT AUT
NON IUSTO, QUARE ETIAM NEGATIO. QUATUOR ERGO ERUNT. INTELLEGIMUS ƿ VERO QUOD
DICITUR EX HIS QUAE SUBSCRIPTA SUNT. EST IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST
IUSTUS HOMO; EST NON IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST NON IUSTUS HOMO. EST
ENIM HOC LOCO ET NON EST IUSTO ET NON IUSTO ADIACET. HAEC IGITUR, QUEMADMODUM
IN RESOLUTORIIS DICTUM EST, SIC SUNT DISPOSITA. Fertur autem etiam alia
inscriptio quae est hoc modo: DICO AUTEM QUONIAM EST AUT HOMINI ADIACEBIT AUT
NON HOMINI, QUARE ET NEGATIO. Et rursus paulo post: EST ENIM HOC LOCO ET NON
EST HOMINI ADIACET. HAEC IGITUR, QUEMADMODUM IN RESOLUTORIIS DICTUM EST, SIC
SUNT DISPOSITA. Quod autem dicitur perobscurum est et exponitur a pluribus
incurate, quorum cum iudicio competenti enumerabo sententias. Postquam de his
propositionibus expedivit, quae duobus constiterint terminis et subiectum
habuerint aut nomen aut (ut ipse ait) innominatum id est infinitum nomen, nunc
ad eas transit, in quibus est tertium adiacens praedicatur, uno subiecto duobus
praedicatis: ut in eo quod dicimus homo iustus est homo subiectum est et iustus
et est utraque praedicantur. Ergo in hoc duo sunt praedicata, unum vero
subiectum. Et fortasse aliqui inquirat cur ita dixerit: quando autem est
tertium adiacens praedicatur. Non enim tertium praedicatur sed secundum. Duo
enim sunt quae praedicantur, unum vero subiectum est. Sed non ita dictum est,
quasi est in ƿ propositione quae dicit homo iustus est tertium praedicaretur
sed quoniam adiacet tertium et praedicatur. Ergo quod dicitur tertium ad
adiacere refertur. Etenim in ea propositione quae dicit homo iustus est est
tertium adiacet, praedicatur autem iam non tertium sed secundum. Ergo tertium
numeratum adiacet, secundum vero numeratum praedicatur. Hoc est igitur quod
ait: QUANDO EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, non quoniam tertium praedicatur
sed praedicatur tertium adiacens, id est tertio loco. Facit igitur nunc in his
propositionibus considerationem, in quibus est tertium adiacens secundum
praedicatur. Et sicut in his in quibus tantum praedicatur 'est', non etiam
adiacens praedicabatur, ut homo est, de subiecto considerationem fecit, quot
modis sumptum subiectum differentias faceret propositionum (aut enim nomen esse
subiectum aut infinitum nomen), sic nunc de praedicato loquitur et de
praedicati differentiis tractat. In his enim propositionibus, IN QUIBUS EST
TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, sumptum praedicatum alias nomen, alias infinitum
nomen facit differentias propositionum. Praedicatum autem dico in ea propositione
quae ponit: Homo iustus est 'iustus'. Hoc enim praedicatum de homine est,
'est' autem non praedicatur sed tertium adiacens praedicatur -- id est secundo
loco et adiacens iusto, tertium vero in tota propositione praedicatur, non
quasi quaedam pars totius propositionis sed potius demonstratio qualitatis. Non
enim ƿ hoc quod dicimus est constituit propositionem totam sed qualis sit id
est quoniam est affirmativa demonstrat. Atque ideo non dixit TERTIUM
PRAEDICATUR tantum sed TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR. Non enim positum tertium
praedicatur solum sed adiacens tertium secundo loco et quodammodo accidenter
praedicatur. Potest etiam sic intelligi: idcirco dixisse Aristotelem 'est' in
his tertium adiacens praedicari, quoniam possit aliquotiens et per se praedicari,
ut si quis dicat: Socrates philosophus est ut propositio haec hoc
sentiat: Socrates philosophus vivit 'Est' enim pro 'vivit' positum est.
Si quis ergo sic dicat duo inveniuntur subiecta est vero solum praedicatur, non
etiam adiacens. Quod enim dicimus 'Socrates philosophus' utraque subiecta sunt
'est' autem praedicatur solum. Si quis autem dicat sic "Socrates
philosophus est" ut non iam Socratem philosophum esse atque vivere sed
Socratem philosophari et philosophum esse enuntiatione significet, tunc invenitur
unum subiectum, duo praedicata. Socrates enim subiectum est, philosophus autem
et est praedicata quorum philosophus quidem principaliter praedicatur, est
autem adiacens philosopho et ipsum praedicatur sed non simpliciter praedicatur
sed adiacens. Sunt autem etiam aliae propositiones hoc modo: Socrates in lycio
leget Et sunt hae ex tribus terminis. Sed de hac interim propositionum
natura nil tractat sed de his solis in quibus est tertium adiacens praedicatur,
ut est: Homo iustus est Sed de his duas quidem oppositiones. Quocirca
recte duae oppositiones quatuor propositionum sunt. Hoc autem huiusmodi est:
QUANDO EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, quod principaliter praedicatur aut
nomen erit aut infinitum nomen. Et hae aut affirmative praedicandae sunt aut
negative. Quocirca simplicis nominis affirmatio et simplicis nominis negatio
una est oppositio et duae propositiones. Finitum autem et infivitum hic non
subiectum sed sumitur praedicatum, ut in eo quod est homo iustus est iustus
praedicatur. Hoc autem nomen erit aut infinitum nomen. Fiunt ergo ex his duae
affirmationes: homo iustus est, homo non iustus est. Atque hoc quidem in
indefinitis. Posterius autem monstrabitur hoc etiam in his es se, quae
determinationem habent universalitatis vel particularitatis. Nunc autem horum
ordo subiectus numerum oppositionemque declaret. Oppositio una: Affirmatio
simplex: Negatio simplex: Homo iustus est Homo iustus non est Oppositio una:
Affirmatio ex infinito Negatio ex infinito. Homo non iustus est Homo non iustus
non est Simplices in superposita descriptione propositiones vocavi, in
quibus nomen praedicatur, ut: Homo iustus ƿ est Homo iustus non est Ex
infinitis autem, in quibus nomen infinitum principaliter praedicatur, ut est:
Homo non iustus est Homo non iustus non est Sive autem est primo dicatur
sive postea idem est nec hoc turbet quod Aristoteles 'est' primum dixit, nos
vero postremum sed idem est. Fiunt igitur oppositiones duae, quatuor
propositiones sunt. Hae quatuor propositiones ex senario propositionum numero
ad pauciora reductae sunt. Si enim simplices et ex duobus terminis fuissent,
hoc modo essent: Homo est Homo non est Iustus est Iustus non est Non iustus est
Non iustus non est et essent hae sex propositiones. Posset quidem adici
hoc quidem etiam, ut de infinito nomine subiecto fierent propositiones, ut est:
Non homo est Non homo non est Sed de his posterius dicit. Nunc autem sex
illae simplices in quatuor raptae sunt, idcirco quoniam res simplices iunctae
naturaliter redeunt pauciores. Coniunctio enim ipsa numerum minuit, ut si sint
decem res et singulae singulis iungantur, ut binae fiant, quinarius numerus
coniunctionis redit. Ita etiam hic modo sex erant propositiones (ut supra
docui) quae [et] simpliciter dicerentur sed hae adstrictae sunt et coniunctione
deminutae. Nam quod posuerunt istae quatuor: Homo est Homo non est Iustus est
Iustus non est hae coniunctione in duas redactae sunt. Iunctus enim homo
cum iusto duas propositiones fecerunt: Homo iustus est Homo iustus non
est Rursus ƿ ad eundem ipsum hominem infinitum cum praedicatur, aliae
duae propositiones ex infinito praedicato rationabiliter oriuntur: Homo non
iustus est Homo non iustus non est Quorum duae sunt oppositiones, quatuor
vero propositiones. Ita igitur ex sex propositionibus, id est: Est homo Non est
homo Est iustus Non est iustus Est non iustus Non est non iustus(quae cum sex
sint propositiones, tres tamen habent oppositiones) homo iusto et homo non
iusto subiectus quatuor solas propositiones fecit, duplicem vero oppositionem.
Qui vero dixerunt numerosiores fieri propositiones ex his, in quibus 'est'
adiacens praedicaretur, quam ex his, quae duobus terminis constarent, illos non
intellexisse rerum naturam manifestum est, quae ita fert, ut semper ex pluribus
simplicibus rariores redeant res paucioresque coniunctae. Ait igitur: in his IN
QUIBUS EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR: ut hoc quod ait TERTIUM non ad
praedicationem referatur potius quam ad ordinem, ipse distinxit dicens: DICO
AUTEM UT EST IUSTUS HOMO; EST TERTIUM DICO ADIACERE NOMEN VEL VERBUM IN
AFFIRMATIONE. Non inquit tertium praedicari sed tertium adiacere, ad ordinem
scilicet, non ad praedicationem, ut tertium quidem adiaceret, adiacens autem
praedicaretur id est non simpliciter praedicaretur. Neque enim superius terminus
in propositione est. Atque ideo si quis resoluere propositionem velit in suos
terminos, ille non resolvit in 'est' sed in id quod est homo et iustus. Et
erunt duo termini: subiectus quidem homo, praedicatus vero ƿ iustus, 'est'
autem quod adiacens praedicatur et tertium adiacens non in termino sed in
qualitate potius propositionis (ut dictum est) iustius accipietur. NOMEN autem
VEL VERBUM ait 'est' propter hanc causam. Tertium enim nomen adiacere est
dixit, ut doceret prima duo esse hominem scilicet et iustum, idcirco autem ait
NOMEN VEL VERBUM, quoniam verba quoque nomina sunt. Hoc autem prius dixit
dicens: IPSA QUIDEM PER SE DICTA VERBA NOMINA SUNT. Postquam igitur dixit, quid
vellet ostendere per id quod ait EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, quoniam ad ordinem
non ad praedicationem, subter exposuit quot fierent propositiones dicens: QUARE
IDCIRCO QUATUOR ISTAE ERUNT. Dixit autem communem istis quatuor accidentiam,
quam paulo post diligenter exponam. Quod autem accidit hoc est: cum sint hae
quatuor propopositiones, quas subter positurus est, duae ipsarum se AD
AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM ITA HABEBUNT SECUNDUM CONSEQUENTIAM UT PRIVATIONES,
DUAE VERO MINIME. Sed hanc his propositionibus accidentiam paulo post
demonstrabo. Nunc autem illud respiciamus, quemadmodum ipse quatuor fieri
propositiones dicat. Ait enim: DICO AUTEM QUONIAM EST AUT IUSTO ADIACEBIT AUT
NON IUSTO. Fiet enim duplex propositio, si 'est' aut iusto adiaceat aut non
iusto, hoc modo: Est homo iustus Est homo non iustus Quare, inquit, si
est affirmativo modo positum nunc quidem cum iusto, nunc autem cum non iusto
geminas fecit propositiones scilicet affirmativas, idem quoque est cum
negatione coniunctum id est non geminas ƿ quoque faciet negationes eas scilicet
quae sunt: non est homo iustus, non est homo non iustus. Hoc est autem quod
ait: DICO AUTEM QUONIAM EST AUT IUSTO ADIACEBIT AUT NON IUSTO. Si enim adiacet
iusto, facit hanc affirmationem: Est iustus homo si adiacet non iusto,
facit hanc affirmationem: Est non iustus homo Quare etiam negatio, quae
iuncta cum est non est facit. Haec igitur negatio copulata iusto et non iusto
duas efficiet negationes contra eas quas supra diximus propositiones. Si enim
addatur iusto, talem facit negationem: Non est iustus homo si non iusto:
Non est non iustus homo Hoc autem cur evenit? Quoniam est et non est
iusto et non iusto adiacet, est cum iusto et non iusto duas faciente
propositiones; non est iterum cum iusto et non iusto alias duas. Ex quibus
quatuor duae oppositiones sunt, ut ait supra: QUANDO EST TERTIUM ADIACENS
PRAEDICATUR, DUPLICITER DICUNTUR OPPOSITIONES. Quare sensus sese totus hoc modo
habet. Sed quoniam est alia quoque scriptio loci, sic dicat: DICO AUTEM QUONIAM
EST AUT HOMINI ADIACEBIT AUT NON HOMINI, QUARE ETIAM NEGATIO. QUATUOR ERGO ERUNT.
INTELLEGIMUS VERO QUOD DICIMUS EX HIS QUAE SUBSCRIPTA SUNT. EST IUSTUS HOMO,
HUIUS NEGATIO NON EST IUSTUS HOMO; EST NON IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST
NON IUSTUS HOMO, est hoc loco et non est homini adiacente. Turbabat expositores
ƿ et dubitabant quid hoc esset, quod cum supra dixisset: DICO AUTEM QUONIAM EST
AUT HOMINI ADIACEBIT AUT NON HOMINI, in eorum exemplo et dispositione 'est' non
apposuit homini aut non homini sed iusto et non iusto dicens: INTELLEGIMUS VERO
QUOD DICITUR EX HIS QUAE SUBSCRIPTA SUNT. EST IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON
EST IUSTUS HOMO; EST NON IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST NON IUSTUS HOMO, et
postquam iusto et non iusto est et non est apposuit quod ante non dixit sed ad
hominem et ad non hominem est adiacere proposuit, postea infert: EST ENIM HOC
LOCO HOMINI ADIACET, qui posuerat iusto et non iusto est et non est adiacere. Unde
Alexander quoque dicit scripturae esse culpam, non philosophi recte dicentis et
emendandam esse scripturam. Sed non eum oportuit confundi, si pro homine et non
homine iustum et non iustum intulit. Haec enim exempla potius sunt quam
propositionum necessitas. Quod enim dixit est homini et non homini adiacere ita
sumpsit, tamquam si homo praedicaretur, ut in eo quod est: Socrates homo
est vel rursus: Socrates non homo est Ergo volens sumere quodcumque
praedicatum, nunc quidem simplex, nunc autem infinitum, intulit iustum et non
iustum indifferenter habens, an homo et non homo praedicaretur, an iustus et
non iustus, modo in praedicato alias sumeretur nomen, alias infinitum nomen.
Non ergo oportuit conturbari Alexandrum aliosque in hac inscriptione, in qua
nos philosophus exercere voluerit, sicut Porphyrium et Herminum non turbabat,
qui dicunt exempla haec esse finiti praedicati et infiniti, in quibus quodlibet
praedicatum [sit] aeque accipi oportere. Velut si, cum dixisset homini et non
homini adiacere est et non est, album et non album postea intulisset,
sufficeret. Hoc enim illud praedicatum alias finitum, alias infinitum sumere
quibuscumque nominibus. Et quod ait homini et non homini adiacere est et postea
intulit iusto et non iusto et subiecit hominem, non ita putandum est, tamquam
de subiectis id est homine et non homine loqui voluerit et postea per errorem
intulerit in praedicato iusto et non iusto sed potius ipsum homini et non
homini ita sumpsit, tamquam in aliquo praedicaretur, ut (sicut dictum est):
Socrates homo est Socrates non homo est Hic ergo homo et non homo
praedicatur. Rursus si quis dicat: Homo iustus est Homo non iustus est
nihil differt. Eodem enim modo praedicatum in una propositione simplex sumptum
est, in altera infinitum, velut si dicam: Nix alba est Nix non alba est
eodem modo. Non ergo culpanda scriptura est quae, cum prius proposuisset homini
et non homini adiacere est, iustum et non iustum intulit. Nil enim interest,
sive iustum aut non iustum praedicetur sive homo aut non homo, dummodo
praedicationem alias infinitam, alias vero sumat finitam, tunc cum est tertium
adiacens praedicatur. Exercere igitur intellegentiam nostram acumenque
philosophus voluit rerum omnium sollertissimus, non falsa scripture confundere.
Quando autem ea quae supra dixit colligens ait: EST ENIM HOC LOCO ET NON EST
HOMINI ADIACET, hoc sentit, quoniam in hac propositione quae dicit "Homo
iustus est", quam supra proposuerit, iustus de homine praedicatur, 'est'
autem adiacens iusto adiacebit; et in ea quae dicit "Homo iustus non
est", quoniam iustus praedicatur de homine, 'non est' autem adiacet, 'non
est' igitur homini quoque adiacebit. Hoc est enim quod ait: EST ENIM HOC LOCO
ET NON EST HOMINI ADIACET. Nam si iustus praedicatur de homine, est autem et
non est adiacet iusto, homini quoque adiacebit, ut dictum est. Hanc quoque
scripturam emendandam esse Alexander opinatur faciendumque esse hoc modo, sicut
prius quoque exposuimus: EST ENIM HOC LOCO ET NON EST IUSTO ET NON IUSTO
ADIACET. Sed ordo quidem totius sententiae diligenter expositus est, sive illa
scriptio sit sive illa. Neutra enim mutanda est. Et una quidem plus habet
exercitii, altera vero facilitatis sed ad unam intellegentiam utraque
perveniunt. Restat igitur ut id quod ait: QUARE IDCIRCO QUATUOR ISTAE ERUNT,
QUARUM DUAE QUIDEM AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM SESE HABEBUNT SECUNDUM
CONSEQUENTIAM UT PRIVATIONES, DUAE VERO MINIME diligentius exponamus. Locus
enim magna brevitate constrictus est et nimia obscuritate ac subtilitate
difficilis. Et hunc quidem in prima editione huius operis transcurrentes
exposuimus atque in brevissimam ut in aliis quoque dedimus expositionem. Nunc
autem quid in se sensus habeat veri, quid hac brevitate latitet, quantum
facultas suppetit, nos ipsi patefaciemus, et quantum valet animum lector
intendat. Cui si forte paulo obscuriora videantur, rerum impPomba difficultati;
si vero planiora quam putaverit, suo gratiam debebit acumini. Sed prius quid de
hoc loco Herminus arbitretur quam possibiliter expediam. Ait Herminus tribus
modis propositiones cum infinito nomine posse proferri: aut enim infinitum
subiectum habent, ut est Non homo iustus est aut infinitum praedicatum,
ut: Homo non iustus est aut infinitum praedicatum et infinitum subiectum,
ut: Non homo non iustus est Harum igitur, inquit, quaecumque ad
praedicatum terminum habent nomen infinitum, similes sunt his quae aliquam
denuntiant privationem. Denuntiant autem privationem hae quae dicunt homo
iniustus. Ergo istis huiusmodi quae proponunt: Homo iniustus est illae,
inquit, consentiunt quae sunt ex infinito praedicato, ut ea quae est: Homo non
iustus est Idem enim est, inquit, esse hominem iustum quod hominem non
iustum. Illae vero quae habent aut subiectum infinitum, ut est: Non homo iustus
est aut utraque infinita, ut est: Non homo non iustus est non
consentiunt ad privatoriam propositionem, quae est: Homo iniustus est
Nulla similitudo est enim eius propositionis quae dicit: Non homo iustus
est et eius quae dicit: Homo inustus est Nec vero eius quae
proponit: Non homo non iustus est et eius quae enuntiat: Homo iniustus
est Namque illae quae infinitum nomen habent in praedicatione hae
privatoriis consentiunt, illae vero propositiones quae aut subiectum habent
infinitum aut utraque infinita privatoriis longe diversae sunt. Sed haec
Herminus. Longe a toto intellectu ƿ et ratione sententiae discrepans has
interposuit, quae aut ex utrisque infinitis aut ex subiecto fierent infinito.
Quid autem esset quod ait SECUNDUM CONSEQUENTIAM vel quae duae haberent se
secundum consequentiam ut privationes, quae vero non, exponens nihil planum
fecit et sensus nihilo magis ante expositionem Hermini quam post expositionem
obscurus est. Nos autem Porphyrium sequentes eique doctissimo viro
consentientes haec dicimus: quatuor esse propositiones, quarum duae quidem ex
finitis nominibus sunt, duae vero ex infinitis nommibus praedicatis. Sunt autem
ex finitis nominibus hoc modo: affirmatio est iustus homo, negatio non est
iustus homo. Ex infinitis vero nominibus praedicatis affirmatio est quae dicit:
Est non iustus homo negatio quae proponit: Non est non iustus homo
Sed has ex infinitis nominibus praedicatis propositiones in reliquo sermone
infinitas vocabimus, ut affirmatio infinita sit extra expositionem ea quae
dicit: Est non iustus homo negatio infinita ea quae dicit: Non est non
iustus homo ut quod dicturi eramus propositionem ex nomine infinito praedicato
hanc infinitam nominemus, illas autem duas quae nullum nomen habent infinitum
nec subiectum nec praedicatum simplices vocamus. Sunt ergo simplices
propositiones hae: Est homo iustus Non est homo iustus Privatorias autem
propositiones voco quaecumque habent privationem. Privatoriae autem sunt hoc
modo: Est iniustus homo haec enim iustitia subiectum privabit, et rursus:
Non est iniustus homo haec rursus iniustitia subiectum privabit. Ergo cum
sint duae propositiones simplices, una affirmativa, altera negativa, et sint
duae privatoriae, eae quoque una affirmativa, una negativa, necnon etiam sint
aliae infinitae, affirmativa rursus et negativa, dico quoniam, quemadmodum se
privatoriae propositiones affirmatio scilicet et negatio ad affirmationes et
negationes simplices habuerint, sic se habebunt etiam quae sunt infinitae ad
easdem ipsas simplices scilicet secundum consequentiam. Quod autem dico tale
est. Disponantur prius duae simplices id est affirmatio quae dicit: Est iustus
homo et rursus negatio quae dicit: Non est iustus homo Sub his
autem disponantur privatoriae: sub affirmatione quidem simplici privatoria
negativa, sub negativa simplici affirmativa privatoria, ut sub ea quae dicit:
Est homo iustus ponatur ea quae dicit: Non est homo iniustus et sub
ea quae dicit: Non est homo iustus ponatur ea quae proponit: Est homo
iniustus Rursus sub privatoriis disponantur infinitae: sub affirmatione
affirmatio, sub negatione negatio. Sub affirmatione quidem privatoria quae
dicit: Est iniustus homo disponatur affirmativa infinita: Est non iustus
homo sub negativa vero privatoria quae dicit: Non est iniustus homo
ponatur negativa infinita quae dicit: Non est non iustus homo Hoc autem
subiecta descriptio docet: SIMPLICES Affirmatio: Negatio: Est iustus homo Non
est iustus homo PRIVATORIAE Negatio: Affirmatio: Non est iniustus homo Est
iniustus homo INFINITAE Negatio: Affirmatio: Non est non iustus homo Est non
iustus homo His ergo dispositis dico quoniam, quemadmodum se habent
privatoriae, id est affirmatio et negatio quae dicunt: Est iniustus homo Non
est iniustus homo ad simplices quae proponunt: Est iustus homo Non est
iustus homo secundum consequentiam, sic se habebunt etiam infinitae
propositiones affirmatio et negatio hae scilicet quae sunt: Est non iustus homo
Non est non iustus homo ad easdem simplices quae sunt: Est iustus homo
Non est iustus homo Videamus quae sit simplicium et privatoriarum
consequentia, ut utrum se sic habeant infinitae ad simplices, quemadmodum se
habent privatoriae ad easdem simplices, cognoscamus. Dispositae igitur sunt in
primo quidem ordine simplices propositiones, affirmatio simplex quae dicit: Est
iustus homo et negatio simplex quae dicit: Non est iustus homo Sub
his id est sub affirmatione simplici duae negationes, una privatoria quae est:
Non est iniustus homo et altera infinita quae est: Non est non iustus
homo Sub negatione vero simplici quae dicit: Non est iustus homo
duae affirmationes, una privatoria quae dicit: Est iniustus homo altera
infinita quae dicit: Est non iustus homo Illud quoque in descriptione
videndum est, quod angulariter se affirmationes negationesque respiciunt. Nam
affirmatio quae est simplex: Est iustus homo angulariter se contra
utrasque respicit affirmationes infinitam scilicet et privatoriam quae sunt:
Est non iustus homo Est iniustus homo Rursus negatio simplex quae est:
Non est iustus homo angulariter ƿ respicit duas negationes infinitam
scilicet et privatoriam. Et in veritate simplicem affirmationem privatoria
negatio sequitur. Nam si verum est dicere quoniam est iustus homo, verum est
dicere quoniam non est iniustus homo. Nam qui iustus est non est iniustus. Et
possumus istam continuam propositionem coniunctamque proponere: si iustus est
homo, non est iniustus homo. Sequitur ergo affirmationem simplicem privatoria
negatio, ut si vera fuerit affirmatio simplex vera quoque sit negatio
privatoria et affirmationis simplicis veritatem negationis privatoriae veritas
consequatur. At vero non e converso est. Neque enim affirmatio simplex
negationem sequitur privatoriam. Nam si verum est dicere quoniam non est
iniustus homo, non est omnino verum dicere quoniam est homo iustus. Potest enim
vere de equo dici quoniam equus non est iniustus homo (neque enim omnino homo
est et ideo nec iniustus homo est) sed non potest dici de equo quoniam equus
est homo iustus. Ita ergo, quoniam verum non est de equo quoniam est iustus
homo equus, veritatem negationis privatoriae non sequitur veritas simplicis
affirmationis. Atque ideo nec continua propositio hinc et coniuncta proferri proponique
potest. Non est enim vera propositio, si quis dicat: "si non est iniustus
homo, est iustus homo". De equo enim (ut dictum est) verum est quia non
est iniustus homo, non tamen verum est iustum esse hominem equum. Quare
negationem privatoriam simplex affirmatio non sequitur. Monstratum est igitur
quoniam ƿ affirmationem simplicem negatio privatoria sequeretur, negationem
vero privatoriam simplex affirmatio non sequeretur. Rursus videamus et in
opposita parte qualis sit consequentia. In diversa enim parte affirmationem
quidem privatoriam sequitur negatio simplex, negationem vero simplicem
affirmatio privatoria non sequitur. Nam si verum est dicere quoniam est
iniustus homo, verum est dicere quoniam non est iustus homo. Qui enim iniustus
est, iustus non est. Et affirmativae privatoriae eius scilicet quae dicit: Est
iniustus homo veritatem sequitur negativa simplex quae est: Non est
iustus homo Hoc autem non convertitur. Neque enim simplicem negativam
sequitur privatoria affirmativa. Nam si verum est dicere quoniam non est iustus
homo, non est omnino verum quoniam est iniustus homo. De equo enim verum est
dicere quoniam equus non est iustus homo (nam qui omnino homo non est nec
iustus homo est) sed non de eodem equo dici potest vere quoniam equus est iniustus
homo. Nam qui homo non est nec iniustus esse potest. Quare veritatem negativae
simplicis non sequitur veritas privativae affirmationis, veritatem autem
affirmationis privatoriae sequitur ex necessitate veritas simplicis negativae. Quocirca
monstratum est hoc in utrisque, quoniam affirmationem quidem simplicem
sequeretur negatio privatoria, negationem vero privatoriam non sequitur
affirmatio simplex; rursus affirmationem privatoriam sequitur negatio simplex,
negationem simplicem non sequitur affirmatio privatoria. His ergo ita positis
de infinitis privatoriisque tractemus. Privatoriae namque et infinitae
affirmationes affirmationibus, negationes consentiant negationibus ƿ hoc modo.
Affirmatio enim privatoria quae dicit: Est iniustus homo consentit infinitae
affirmationi quae dicit: Est non iustus homo Idem enim significant
utraeque et privatoria affirmatio et infinita affirmatio et quamquam in aliquo
sermone prolatione discrepant, tamen significatione nil discrepant, nisi tantum
quod quem illa iniustum ponit id est privatoria, haec ponit esse non iustum. Et
rursus negatio privatoria quae est: Non est iniustus homo consentit atque
concordat ei negationi quae est infinita: Non est non iustus homo Hae
quoque idem, quod sibi istae consentiunt. Sequitur autem simplicem
affirmationem eam quae dicit: Est iustus homo privatoria negatio quae
dicit: Non est iniustus homo sequitur igitur eandem ipsam simplicem
affirmationem infinita negatio, id est eam quae dicit: Est iustus homo ea
quae proponit: Non est non iustus homo Nam si sibi privatoria negatio et
infinita consentiunt, quam consequitur privatoria negatio, eandem quoque
infinita negatio consequitur. Sed affirmationem simplicem quae proponit: Est
iustus homo privatoria negatio sequitur quae dicit: Non est iniustus
homo quare sequitur etiam eandem simplicem affirmationem quae enuntiat:
Est iustus homo infinita negatio: Non est non iustus homo Rursus e
diversa parte idem evenit: quoniam affirmationem privatoriam quae dicit: Est
iniustus homo sequebatur negativa simplex quae proponit: Non est iustus
homo sequitur quoque infinitam affirmationem quae dicit: Est ƿ non iustus
homo simplex negatio quae dicit: Non est iustus homo Nam si
privatoria affirmatio et infinita consentiunt, quae sequitur privatoriam, eadem
sequitur infinitam. Sed privatoriam affirmationem quae dicit: Est iniustus
homo sequitur simplex negatio quae proponit: Non est iustus homo
sed privatoria affirmatio et infinita affirmatio idem significant sibique
consentiunt: sequitur igitur simplex negatio quae est: Non est iustus
homo infinitam affirmationem quae dicit: Est non iustus homo Sed
hoc e converso non evenit.Nunc enim demonstratum est quod simplicem
affirmationem sequeretur infinita negatio et simplex negatio veritatem
infinitae affirmationis sequeretur sed non est e converso, ut rursus infinitam
negationem sequatur finita affirmatio et simplicem negationem infinita rursus
affirmatio consequatur. Nam si idem privatoria negatio quae est non est
iniustus homo et infinita negatio significat quae est: Non est non iustus
homo quoniam affirmatio simplex quae dicit: Est iustus homo non
sequitur privatoriam negationem quae est: Non est iniustus homo ut supra
monstravimus, eadem ipsa simplex affirmatio quae proponit est iustus homo non
seqmiur infinitam negationem quae enuntiat: Non est non iustus homo
Rursus in parte altera si affirmatio privatoria quae proponit: Est iniustus
homo idem significat cum infinita affirmatione quae dicit: Est ƿ non
iustus homo privatoria autem affirmatio quae proponit: Est iniustus
homo non sequebatur simplicem negationem quae dicit: Non est iustus
homo nec eandem quoque simplicem negationem quae proponit: Non est iustus
homo sequitur infinita affirmatio quae dicit: Est non iustus homo
Sed quamquam hoc ratio consequentiae et necessitas monstret, nos tamen id quod
demonstravimus ratione exemplis quoque doceamus. Dico enim affirmationem
simplicem quae dicit: Est iustus homo sequi infinitam negationem quae
dicit: Non est non iustus homo sicut eandem quoque simplicem
affirmationem sequebatur privatoria negatio quae proponit: Non est iniustus
homo Nam si verum est dicere quoniam est iustus homo, verum quoque de eo
dicere quoniam non est non iustus homo (nam qui iustus est non est non iustus)
sicut verum erat dicere, quoniam idem qui iustus est non est iniustus. Quare
simplicem affirmationem sequitur infinita negatio, sicut eandem quoque
simplicem privatoria negatio sequebatur. Sed hoc non convertitur. Neque enim
statim verum est, qui non est non iustus homo eundem esse iustum. Equus enim
non est non iustus homo (neque enim omnino homo est: qui autem omnino homo non
est, non poterit esse homo non iustus) sed de equo, de quo verum est dicere
quoniam non est non iustus homo, non est de eo verum dicere quoniam est iustus
homo, sicut de eodem equo verum esset dicere privatoriam negationem ƿ quae
proponit: Non est iniustus homo (haec enim poterat etiam de equo dici)
nec erat verum quoniam sequeretur hanc id est privatoriam negationem simplex
affirmatio quae diceret: Est iustus homo Quare non sequitur infinitam
negationem quae est: Non est non iustus homo simplex affirmatio quae
proponit: Est iustus homo sicut ne illam quidem quae consentit infinitae
negationi id est privatoriam negationem quae proponit: Non est iniustus
homo ea quae dicit: Est iustus homo simplex affirmatio sequebatur.
Concludenti igitur dicendum est quoniam affirmationem quidem simplicem sequitur
infinita negatio, Sicut eam privatoria sequebatur, infinitam vero negationem
non sequitur simplex affirmatio, sicut nec negationem privatoriam sequebatur. Rursus
in parte altera idem e converso evenit. Affirmationem enim infinitam sequitur
negativa simplex, sicut privatoriam quoque affirmationem eadem simplex negatio
sequebatur. Nam qui est von iustus homo ille ex necessitate non est iustus,
sicut etiam qui est iniustus homo ille ex necessitate non est iustus. At vero
si verum est dicere quoniam non est iustus homo, non est omnino necesse ilium
esse non iustum hominem. Equus enim non est iustus homo (nam qui omnino homo
non est nec iustus homo esse potest) sed nullus de eodem dicere potest quoniam
equus est non iustus homo (qui enim homo non est nec non iustus homo esse
potest), sicut etiam cum diceremus: Non est iustus homo non sequebatur
privatoria affirmatio quae dicit: Est iniustus homo Equus namque non est
iustus homo sed de eodem equo nemo dicit quoniam est iniustus homo. Iterum
igitur concludenti dicendum est affirmationem infinitam sequi simplicem
negationem, sicut affirmationem quoque privatotiam sequebatur sed non
convertere. Neque enim sequitur simplicem negationem infinita affirmatio, sicut
eam nec privatoria affirmatio sequebatur. Sic ergo cum sint quatuor
propositiones, duae simplices, duae infinitae, quarum duae simplices sunt: Est
iustus homo Non est iustus homo duae vero infinitae: Est non iustus homo
Non est non iustus homo (et harum quatuor duae quidem id est negatio
infinita et negatio simplex sequuntur duas id est negatio infinita simplicem
affirmationem, ea quae dicit: Non est non iustus homo eam quae dicit: Est
iustus homo infinitam autem affirmationem simplex negatio, eam quae
dicit: Est non iustus homo ea quae proponit: Non est iustus homo
duae vero aliae id est affirmatio simplex et affirmatio infinita non sequuntur
negationem infinitam et simplicem negationem. Hoc autem etiam in privatoriis
evenit, ut affirmatio privatoria non sequatur simplicem negationem, cum illam
simplex negatio sequatur, et rursus negatio privatoria sequatur affirmationem
simplicem, cum simplex affirmatio non sequatur privatoriam negationem): recte
dictum est harum quatuor id est duarum simplicium propositionum et duarum
infinitarum duas duabus esse consequentes et habere quandam consequentiam ad
alias, sicut infinita negatio et simplex negatio sequuntur simplicem
affirmationem et infinitam affirmationem, sicut privationes ƿ quoque. Nam et
privatoria negatio sequebatur simplicem affirmationem et simplex negatio
sequebatur privatoriam affirmationem. Ergo duae habent consequentiam id est
infinita negatio et simplex negatio consequentiam ad simplicem et infinitam
affirmationem, sicut privationes quoque (namque et privationes similiter sunt,
ut saepe supra monstravi), duae vero minime habent consequentiam. Neque enim
negativam infinitam simplex sequitur affirmativa aut infinita affirmativa
simplicem negativam sequitur, sicut in privationibus quoque fuit. In
privationibus namque nec affirmatio simplex privatoriam negationem sequebatur
nec simplicem negationem privatoria affirmatio consecuta est. Sensus ergo huiusmodi
est: QUATUOR ISTAE ERUNT, id est quatuor propositiones, ex quibus duplicem
fieri oppositionem dixerat. Quatuor autem istae sunt duae simplices:
affirmativa est iustus homo, negativa non est iustus homo, et duae infinitae:
affirmativa est non iustus homo, negativa non est non iustus homo. Quarum,
inquit, duae, scilicet negative infinita et negativa simplex, sic se habebunt
ad affirmationem et negationem secundum consequentiam, id est ita alias duas
affirmationes simplicem et infinitam ipsae duae negationes sequnutur, ut eas
privationes sequebantur; DUAE VERO MINIME id est simplex affirmatio et infimita
affirmatio: non se habebunt secundum consequentiam ipsae duae affirmationes ad
duas negationes, infinitam scilicet et simplicem, quas non sequebantur, sicut
nec dudum has negationes privatoriae quoque affirmationes secutae sunt. Quod
vero ait secundum affirmationem et negationem non ita ƿ intellegendum est,
quasi una sit affirmatio aut una negatio sed quoniam in quatuor
propositionibus, in quibus duae quidem affirmationes erunt, duae vero
negationes (affirmationes: simplex quidem "Est iustus homo", infinita
autem "Est non iustus homo", negationes autem: simplex quidem
"Non est iustus homo", infinita autem "Non est non iustus
homo"), quoniam affirmationes duas, simplicem quidem: Est iustus
homo infinitam: Est non instus homo duae negationes sequebantur
(simplex negatio quae est "Non est iustus homo" infinitam
affirmationem quae dicit "Est non iustus homo", et rursus infinita negatio
simplicem affirmationem sequebatur), quoniam ergo (ut dictum est) duas
affirmationes simplicem et infinitam duae negationes simplex et infinita
sequebantur, hoc autem et in privationibus erat, idcirco dictum est ad
affirmationem et negationem secundum consequentiam sic se habere harum quatuor
propositionum duas, sicut etiam se privationes haberent. Ad affirmationem autem
et negationem dixit, quod duas affirmationes duae negationes sequerentur, duae
vero minime, id est duas negationes duae affirmationes non sequerentur. Neque
enim sequebatur negationem infinitam simplex affirmatio aut simplicem
negationem infinita affirmatio, sicut nec in privationibus erat, quod saepe
supra monstratum est. Ne quis autem nos arbitretur de eodem genere
propositionem dicere negationis affirmationisque. Neque enim dicimus negationem
simplicem sequi affirmationem simplicem. Hoc enim impossibile est. Numquam ƿ
enim sibi consentiunt simplex affirmatio simplexque negatio, nec rursus
infinita negatio et infinita affirmatio. Neque enim fieri potest, ut aut negatio
quae dicit: Non est iustus homo affirmationi quae proponit: Est iustus
homo consentiat aut affirmatio quae dicit: Est non iustus homo
negationi quae dicit: Non est non iustus homo eam enim quae dicit: Est
iustus homo simplicem affirmationem sequitur privatoria negatio quae
dicit: Non est iniustus homo sed negativam, inquiunt, infinitam quae est:
Non est non iustus homo haec non sequitur affirmativa simplex quae dicit:
Est iustus homo Ergo quemadmodum negativa privatoria quae est: Non est
iniustus homo sequitur affirmativam simplicem quae dicit: Est iustus
homo non eodem modo eadem simplex affirmatio quae dicit: Est iustus
homo sequitur infinitam negationem quae dicit: Non est non iustus
homo Quibus dicendum est non eos hanc consequentiam recte intellegere nec
quicquam in hac huiusmodi propositionum consequentia discrepare. Cur enim hoc
notaverint, quod non sequatur negationem infinitam quae est non est non iustus
homo finita affirmatio quae dicit: Est iustus homo Nam hoc nil mirabile
debet videri. Idcirco enim simplex affirmatio quae dicit: Est iustus homo
non sequitur infinii tam negationem quae dicit: Non est non iustus homo
quoniam nec antea privatoriam sequebatur. Neque enim sequebatur eadem simplex
affirmatio quae dicit: Est iustus homo privatoriam negationem quae dicit:
Non est iniustus homo et ea causa est cur infinitam quoque ƿ non
sequitur. Infinita enim et privatoria (ut supra saepe iam dictum est) sibi
consentiunt. Quare nulla est discrepantia. Nam si simplex affirmatio privatoriam
negationem sequeretur, eandem quoque infinitam sequeretur. Nunc autem quoniam
simplex affirmatio privatoriam negativam non sequitur, nec infinitam quoque
sequitur negativam. Illi autem qui sumpserunt quoniam sequeretur privatoria
negatio simplicem affirmationem et in eadem consequentia discrepare dixerunt,
quod simplex affirmatio non sequeretur infinitam negationem, non ita oportuit
discrepantiam sumere sed magis si, quemadmodum privatoria negatio affirmationem
simplicem, sic infinita negatio non sequeretur simplicem affirmationem, tunc in
consequentia discreparet, nunc autem nulla est omnino discrepantia. Atque in
hac quidem parte nihil omnino discrepant atque discordant. Videamus nunc in
altera parte, quam illi esse discrepantiam dicunt infinitarum consequentiae et
privatoriarum ad simplices, ut in ea quoque si quid vere discrepant videamus.
Dicunt enim affirmationi quidem privatoriae quae dicit: Est iniustus homo
consentientem esse et concordantem simplicem negativam quae dicit: Non est
iustus homo et sicut negatio simplex sequitur privatoriam affirmationem,
aiunt, quoniam non ita sequitur simplicem negationem quae dicit: Non est iustus
homo infinita affirmatio quae dicit: Est non iustus homo Haec enim
illam non sequitur. Quibus dicendum est rursus, quoniam idcirco infinita
affirmatio quae dicit: Est non iustus homo non sequitur ƿ simplicem
negationem quae proponit: Non est iustus homo quoniam privatoria
affirmatio quae dicit: Est iniustus homo non sequitur simplicem
negationem quae proponit: Non est iustus homo Quod si privatoria
affirmatio sequeretur simplicem negationem, sequeretur sine dubio infinita
quoque affirmatio eandem simplicem negationem. Nunc autem quoniam privatoria
affirmatio simplicem negationem non sequitur, nec infinita affirmatio simplicem
sequitur negationem. Affirmatio enim privatoria et affirmatio infinita sibimet
consentiunt. Illi vero qui discrepantiam ostendere voluerunt infinitarum et
privatoriarum consequentiae ad simplicem, quod cum negatio simplex sequeretur
affirmationem privatoriam non eodem modo infinita affirmatio sequeretur
simplicem negationem, non ita oportuit colligi discrepantiam sed potius si,
quemadmodum affirmativa privatoria quae dicit: Est iniustus homo Est non est
iustus homo ita infinita affirmatio quae enuntiat: Est non iustus
homo sequeretur simplicem negationem quae est: Non est iustus homo
tunc oportuerat dicere aliquid discrepare consequentiam privatoriarum et
infinitarum ad simplices. Nunc autem cum eodem modo privatoria affirmatio non
sequatur, simplicem negationem, eodem quoque modo infinita affirmatio non
sequatur simplicem negationem, manifestum est nullam esse in his discrepantiam,
immo in omnibus simillimum, et illos nihil per hanc rationem ƿ quam volunt
addere recte disserere, immo potius maioribus obscuram sententiam
obscuritatibus implicare. Sed potius ita intellegendum est, ut id quod ait:
QUARUM DUAE QUIDEM AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM SESE HABEBUNT SECUNDUM
CONSEQUENTIANU UT PRIVATIONES, DUAE VERO MINIME ita accipiamus tamquam si ita dixisset:
quatuor propositionum, duarum simplicmm, duarum vero infinitarum, duas id est
affirmationes simplicem et infinitam sequuntur duae negationes, simplex et
infinita scilicet, sicut privationes quoque (in privationibus enim affirmativam
simplicem sequebatur negatio privatoria et simplex negatio privatoriam
affirmationem), reliquae vero duae, id est simplex affirmatio et infinita
affirmatio nullam habent consequentiam ad negationes, id est simplicem et
infinitam, sicut nec privationes quoque (nam affirmatio privatoria non
sequebatur negationem simplicem nec simplex affirmatio privatoriam negationem),
ut dicamus hoc modo: QUARE QUATUOR ISTAE ERUNT, duae simplices, duae infinitae,
QUARUM id est duarum simplicium et duarum infinitarum DUAE QUIDEM id est negationes
simplex et infinita habent se ad affirmationes simplicem et infinitam SECUNDUM
CONSEQUENTIAM UT PRIVATIONES, DUAE VERO MINIME id est affirmationes simplex et
infinita ad duas negationes, id est simplicem et infinitam. Hoc est enim quod
ait: AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM SIC SE HABEBUNT SECUNDUM CONSEQUENTIAM id
est consequentur negationes eas quae sunt affirmationes, UT PRIVATIONES ƿ sicut
in privationibus quoque dicebatur, DUAE VERO id est affirmationes simplex et
infinita non habebunt se secundum consequentiam ad duas negationes, id est
simplicem et infinitam, sicut privationes quoque se secundum sequentiam non
habebant. Nam privatoria affirmatio non sequebatur negationem simplicem nec
simplex affirmatio privatoriam negationem. Est alia quoque simplicior
expositio, quam Alexander post multas alias expositiones in quibus animum
vertit edidit hoc modo: cum sint, inquit, quatuor propositiones, quarum duae
sunt infinitae, duae vero simplices, duae, inquit, infinitae aequaliter se
habent secundum affirmationem et negationem ad privatorias, duae vero simplices
ad easdem privatorias se similiter non habent hoc modo: affirmativa enim
infinita consentit affirmativae privatoriae. Ea enim quae dicit infinita
affirmatio est non iustus homo ei consentit privatoriae affirmationi quae
dicit: Est iniustus homo Ea vero infinita negatio quae dicit non est non
iustus homo privatoriae negationi consentit quae dicit non est iniustus homo.
Atque hae quidem duae, id est infinita affirmatio et infinita negatio, ita sese
habent AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM, UT PRIVATIONES, id est eadem affirmant
vel negant, quae etiam privationes affirmant vel negant, duae vero minime, id
est duae simplices minime se ita habent ad affirmationem ƿ et negationem, sicut
privationes. Nam omnino non contingit simplex affirmatio privatoriam
affirmationem. Ea enim quae dicit: Est iustus homo non consentit ei quae
dicit: Est iniustus homo Nec rursus negatio simplex privatoriae negationi
consentit. Ea enim quae dicit: Non est iustus homo quae simplex negatio
est plurimum dissidet ab ea quae dicit: Non est iniustus homo quae est
privatoria negatio. Ergo cum sint quatuor, affirmatio simplex et negatio
simplex, affirmatio infinita et negatio infinita, harum duae, id est affirmatio
infinita et negatio infinita, ita aliquid affirmant vel negant ut privationes
(hoc est enim quod ait: ITA SESE HABENT AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM, UT
PRIVATIONES), DUAE VERO MINIME. Neque enim ita affirmant et negant duae
simplices, sicut duae privatoriae. Affirmatio namque simplex ab affirmatione
privatoria discrepat, et rursus negatio simplex a negatione privatoria longe
dissidet atque discordat. Sed haec (ut diximus) Alexandri expositio est post
multas alias simplicior, non tamen repudianda sed illa superior verior esse
videtur, quod Aristoteles ipse testatur. Ait enim paulo post: HAEC IGITUR,
QUEMADMODUM IN RESOLUTORIIS DICTUM EST, SIC SUNT DISPOSITA. Hanc enim
consequentiam quam insuperiori expositione memoravi privatoriarum et
infinitarum ad simplices in primi libri Priorum Resolutoriorum quae *analytika*
Graeci vocant fine disposuit. Dicit autem Porphyrius fuisse quosdam sui
temporis, qui hunc exponerent librum, et quoniam ab Hermino vel Aspasio vel
Alexandro expositiones singulas proferentes multa contraria et expositionibus
male ab illis editis dissidentia ƿ reperirent, arbitratos fuisse librum hunc
Aristotelis, ut dignum esset, exponi non posse multosque illius temporis viros
totam huius libri praeterisse doctrinam, quod inexplicabilem putarent esse
caliginem. Nos autem brevissime hunc locum in prima editione praeteriimus sed
quod illic pro intellectus simplicitate breviter posuimus, hic omni latitudine
totam sententiae vim et prolixitatem digessimus. Quare quoniam superiora digne
(ut mihi videtur) expressimus, sequentis textus ordinem sententiamque videamus.
SIMILITER AUTEM SE HABET ET SI UNIVERSALIS NOMINIS SIT AFFIRMATIO, UT OMNIS EST
HOMO IUSTUS, NON OMNIS EST HOMO IUSTUS; OMNIS EST HOMO NON IUSTUS, NON OMNIS
EST HOMO NON IUSTUS. SED NON SIMILITER ANGULARES CONTINGIT VERAS ESSE.
CONTINGIT AUTEM ALIQUANDO. De indefinitis quaedam propositionibus praelocutus
nunc de his quae terminatae sunt secundum universalitatis et particularitatis
adiectionem dicit, quod etiam ipsae similiter se habeant, sicut illae quoque quae
sine ulla determinatione dicebantur, simplex scilicet oppositio atque infinita.
Quod vero ait: SIMILITER AUTEM SE HABET ET SI UNIVERSALIS NOMINIS SIT
AFFIRMATIO, alii ita intellexerunt, ut quod ait similiter referant ad numerum
oppositionum et propositionum. Nam sicut in his quae indefinitae sunt et ƿ
indeterminatae duae sunt oppositiones, una simplicis negationis et simplicis
affirmationis, altera infinitae affirmationis et infinitae negationis, quatuor
autem propositiones, quod supra iam dictum est, ita quoque in his quae
terminationem secundum universalitatem particularitatemque habent quatuor fiunt
propositiones et oppositio duplex. Oppositio enim una est universalis
affirmationis simplicis et particularis negationis simplicis, ut est: Omnis
homo iustus est Non omnis homo iustus est Et haec quidem una est
oppositio. Alia vero infinitae universalis affirmationis et infinitae particularis
negationis, ut: Omnis homo non iustus est Non omnis homo non iustus est
Quare hic quoque, cum duae sint oppositiones, erunt sine dubio quatuor
propositiones, sicut in his de quibus supra dixerat, quae scilicet
determinatione carebant. Alii vero qui Aristotelis animum penitus inspexerunt
non aiunt similiter solum se habere determinatas propositiones ad numerum
oppositionum et propositionum sed etiam ad consequentiam. Nam quae est
consequentia negationum ad affirmationes in his propositionibus simplicibus et
infinitis, quae praeter determinationem dicuntur, eadem se similitudo habet in
his quae terminatione proferuntur. Sed quoniam non in omnibus omnia similia
habent, idcirco addidit notans: SED NON SIMILITER ANGULARES CONTINGIT VERAS
ESSE. CONTINGIT AUTEM ALIQUANDO. Sensus autem totus huiusmodi est: similiter,
inquit, se habent hae propositiones quae ƿ secundum determinationem dicuntur
infinitae ad simplices et simplices ad infinitas, quemadmodum illae quoque sese
habebant quae sine determinatione indefinitae dicebantur. Sed habent quandam
dissimilitudinem, quod angulares propositiones in his quae cum determinatione
dicuntur non eodem modo verae sunt, quomodo illae quae sine determinatione
proferebantur vel infinitae vel simplices. Videamus ergo prius an eadem in his
quae determinatae sunt sit consequentia quae in his est quae indefinitae
proferuntur, post videamus quae sit in angularibus dissimilitudo. Disponantur
ergo non solum eae quae simplices vel infinitae sunt sed etiam quae sunt
privatoriae. Et prius quidem disponantur hoc modo: simplex affirmatio et
simplex negatio et hae quidem indefinitae, id est praeter universalitatis aut
particularitatis adiectionem. Sub his sub affirmatione quidem simplici ponatur
negatio privatoria, sub negatione vero simplici affirmatio privatoria: hae
quoque rursus indefinitae. Sub his autem ponantur sub affirmatione privatoria
et sub simplici negatione affirmatio infinita, sub privatoria autem negatione
et sub simplici affirmatione ponatur negative infinita, et hae quoque
indefinitae et indeterminatae sine ulla vel universalitate vel particularitate.
Sub his autem disponantur hae quas determinatas vel universalitatis quantitate
vel particularitatis vocamus. Et primo quidem affirmatio universalis simplex,
contra hanc negatio particularis simplex. Sub affirmatione autem universali
simplici ponatur negatio particularis privatoria, sub negatione autem
particulari simplici universalis affirmatio privatoria. Rursus sub negatione
particulari privatoria et sub affirmatione universali simplici ponatur ƿ
negatio particularis infinita, sub affirmatione vero universali privatoria et
sub negatione simplici particulari ponatur universalis affirmatio infinita.
Erit autem huiusmodi descriptio: INDEFINITAE Affirmatio simplex: Negatio
simplex: Homo iustus est Homo iustus non est Negatio privatoria: Affirmatio
privatoria: Homo iniustus non est Homo iniustus est Negatio infinita:
Affirmatio infinita: Homo non iustus non est Homo non iustus est DEFINITAE
Affirmatio universalis simplex: Negatio particularis simplex: Omnis homo iustus
est Non omnis homo iustus est Negatio particularis privatoria: Affirmatio
universalis privatoria: Non omnis homo iniustus est Omnis homo iniustus est
Negatio particularis infinita: Affirmatio universalis infinita: Non omnis homo
non iustus est Omnis homo non iustus est In hoc ordine propositionum quem
supra descripsimus quae sint angulares manifestum est. Sunt namque
affirmationes quidem affirmationibus, negationes vero negationibus. Et in his
quidem quae in definitae sunt eodem modo angulares sunt affirmationes. Simplex
quidem affirmatio quae dicit: Est homo iustus privatoriae affirmationi
quae dicit: Est homo iniustus et infinitae affirmationi quae proponit:
Est homo non iustus angularis est. Negatio vero simplex quae est: Non est
homo iustus negationi privatoriae quae dicit: Non est homo iniustus
et negationi infinitae quae est: Non est homo non iustus angularis est. Item
si quis ad definitas propositiones aspiciat, idem sine aliqua dubitatione
reperiet. Affirmatio enim universalis simplex quae est: Omnis est homo
iustus affirmationi universali privatoriae quae enuntiat: Omnis est homo
iniustus et affirmationi universali infinitae quae proponit: Omnis est
homo non iustus angularis est, item negatio particularis simplex quae
est: Non omnis est homo iustus negationi particulari privatoriae quae
dicit: Non omnis est homo iniustus et negationi particulari infinitae
quae proponit: Non omnis est homo non iustus angularis. Sunt igitur
affirmationes affirmationibus et negationes negationibus angulares et in ordine
indefinitarum propositionum et in ordine definitarum. Quocirca de earum sequentia
speculandum est. Dictum est enim prius quod affirmationem indefinitam simplicem
sequeretur privatoria et infinita negatio, eas vero simplex affirmatio non
sequeretur. Rursus infinitam affirmationem privatoriamque affirmationem
sequitur simplex negatio, hae vero negationem simplicem non sequuntur. Rursus
si quis ad ordinem definitarum respiciat, idem inveniet. Affirmationem namque
universalem simplicem sequitur particularis privatoria negatio et particularis
infinita negatio. Nam si vera est universalis affirmatio simplex quae dicit:
Omnis est homo iustus, vera est etiam particularis privatoria negatio
quae dicit: Non omnis est homo iniustus Hoc autem idcirco evenit, quod ea
quae dicit: Non omnis homo iniustus est idem potest quod simplex et
similis est ei quae proponit: Quidam homo iustus est particulari simplici
affirmationi. Nam si non omnis homo iniustus est, quidam homo iustus est. Sed
particularis affirmatio simplex sequitur universalem affirmationem simplicem.
Quando enim vera est universalis affirmatio quae dicit: Omnis est homo
iustus vera est et particularis affirmatio quae proponit: Quidam homo
iustus est Sed est quae dicit: Quidam homo iustus est consentit
particularis negatio privatoria quae proponit: Non omnis est homo
iniustus Quocirca etiam particularis negatio privatoria universali
simplici affirmationi consentiet. Sequitur igitur eam quae dicit: Omnis est
homo iustus universalem scilicet simplicem affirmationem ea quae
proponit: Non omnis est homo iniustus particularis negatio privatoria.
Sed huic particulari negationi privatoriae quae dicit: Non omnis est homo
iniustus consentit infinita particularis negatio quae dicit: Non omnis
est homo non iustus Nam si verum est quoniam non omnis est homo iniustus,
et verum est quoniam non omnis est homo non iustus. Idem est enim esse iniustum
quod non iustum. Sed privatoria particularis negatio sequitur simplicem
universalem affirmationem: infinita igitur negatio particularis sequitur
simplicem universalem affirmationem eique consentit, si prius affirmatio
universalis vera sit. Quocirca eam quae dicit: Omnis est homo iustus
universalem simplicem ƿ affirmationem sequuntur sine dubio particularis negatio
privatoria: Non omnis est homo iniustus et particularis negatio infinita:
Non omnis est homo non iustus Quare hic quoque affirmationem negationes
sequuntur. Sed hoc non convertitur. Quoniam enim (ut dictum est) negatio
particularis privatoria quae dicit: Non omnis est homo iniustus consentit
particulari affirmationi simplici, ei scilicet quae dicit: Quidam homo iustus
est hanc autem particularem affirmationem non sequitur universalis
affirmatio (neque enim, si verum est quendam esse hominem iustum, idcirco iam
et omnem esse hominem iustum necesse est): quare non sequitur affirmatio
universalis simplex: Omnis est homo iustus affirmationem particularem
simplicem: Quidam est homo iustus (potest enim hac vera id est
particulari universalis esse falsa) sed particularis affirmatio simplex
particulari negationi privatoriae consentit: quare nec privatoriam particularem
negationem simplex affirmatio sequitur universalis. Eam igitur quae dicit: Non
omnis est homo iniustus non sequitur affirmatio universalis simplex quae
proponit: Omnis homo iustus est Sed particularis privatoria negatio
consentit particulari negationi infinitae: universalis igitur affirmatio
simplex non sequitur particularem negationem infinitam. Ea igitur quae dicit:
Omnis est homo iustus affirmatio universalis simplex non sequitur eam
quae dicit: Non omnis est homo non iustus particularem infinitam
negationem. Duae igitur negationes infinita et privatoria particulares
sequuntur universalem affirmationem simplicem, sicut in his quoque erat quae
sunt ƿ indefinitae. Duae enim negationes infinita et privatoria indefinitae
simplicem affirmationem sequebantur indefinitam. Sed non e converso. Affirmatio
enim universalis simplex non sequitur negationes particularem infinitam et
privatoriam, sicut nec indefinita qunque affirmatio simplex indefinitas
sequebatur negationes privatoriam atque infinitam. Quare in hoc uno ordine
similiter sese habent definitae his quae sunt indefinitae. Aequaliter enim
affirmationibus veris verae sunt negationes, veras negationes affirmationum
veritas non sequitur nec his consentit. Rursus in altera parte perspiciamus,
quemadmodum affirmationes universales privatoriam scilicet et infinitam
particularis negatio simplex sequatur. Namque affirmationem universalem
privatoriam: Omnis est homo iniustus sequitur particularis negatio simplex:
Non omnis est homo iustus Ea enim quae dicit: Omnis est homo
iniustus consentit simplici universali negationi quae dicit: Nullus homo
iustus est Nam si omnis est homo iniustus, nullus est homo iustus. Sed
hanc, id est universalem simplicem negationem, sequitur particularis simplex
negatio. Nam si vera est quoniam nullus homo iustus est, vera est quoniam non
omnis homo iustus est. Sed universalis negatio simplex universali affirmationi
privatoriae consentit: sequitur ergo particularis simplex negatio quae est: Non
omnis est homo iustus universalem affirmationem privatoriam quae
proponit: Omnis est homo iniustus Sed haec universali affirmationi
infinitae consentit. Idem enim significant: Omnis est homo iniustus ƿet:
Omnis est homo non iustus Quare sequitur quoque particularis negatio
simplex quae est: Non omnis est homo iustus universalem affirmationem
infinitam quae dicit: Omnis est homo non iustus Hic quoque affirmationes
universales privatoriam atque infinitam sequitur simplex negatio particularis
sed non convertitur. Etenim quoniam simplicem particularem negationem quae
dicit: Non omnis est homo iustus non sequitur universalis negatio quae
proponit: Nullus homo iustus est (neque enim si vera est non omnem
hominem esse iustum, vera est nullum hominem esse iustum), haec autem, id est
universalis simplex negatio, consentit unumque significat cum affirmatione
universali privatoria: non sequitur igitur universalis privatoria affirmativa
quae dicit: Omnis est homo iniustus simplicem particularem negationem quae
proponit: Non omnis est homo iustus sicut nec eandem particularem
negationem universalis negatio sequebatur. Sed privatoria universalis
affirmatio consentit cum infinita affirmatione universali: igitur particularem
negationem quae dicit: Non omnis est homo iustus universalis affirmatio
infinita non sequitur quae proponit: Omnis est homo non iustus Quare hic
quoque affirmationes duas universales, id est privatoriam atque infinitam,
particularis simplex negatio sequitur, sicut affirmationes quoque duas
indefinitas privatoriam atque infinitam negativa indefinita sequebatur. Sed
duae affirmationes universales privatoria et infinita non sequuntur
particularem simplicem negationem, sicut quae quoque indefinitae ƿ
affirmationes privatoria et infinita indefinitam simplicem negationem non
sequebantur. Similiter se igitur habent definitae indefinitis secundum
consequentiam. Angulares autem non eodem modo sese habent. Nam indefinitarum
propositionum angulares simul veras esse contingit. Nam si verum est quoniam
est homo iustus, quae est indefinita affirmatio simplex, nihil prohibet veram
esse etiam quae dicit: Est homo iniustus et rursus eam quae dicit: Est
homo non iustus quae sunt indefinitae affirmationes privatoria et
infinita. Rursus negationes negationibus quae sunt angulares veras esse
contingit, ut ea quae est: Non est homo iustus si vera est, nihil
prohibet veram esse etiam quae dicit: Non est homo iniustus et eam quae
proponit: Non est homo non iustus Angulares ergo sibi in indefinitis in veritate
consentire nihil prohibet sed in his tantum terminis, ut in secundo huius
operis volumine docuimus, quae neque naturalia sunt inesse neque impossibilia.
Si quis enim dicat: Est homo rationabilis huic angulares verae esse non
possunt, hae scilicet quae dicunt: Est homo irrationabilis et rursus: Est
homo non rationabilis Rationabilitas enim homini per naturam inest.
Similiter autem et de impossibilibus dicendum est. Quod si sint talia quae
neque impossibilia sint inesse nec naturalia sint inesse (ut in ea propositione
quae dicit: Est homo iustus iustitiam neque naturalem esse necesse ƿ est
homini nec impossibile esse), manifestum est quoniam angulares sibimet semper
in veritate consentiunt. Atque hoc idem de negativis quoque angularibus recte
dicitur. In his igitur terminis qui nec naturales sunt nec impossibiles semper
angulares et negationes negationibus et affirmationes affirmationibus simul
veras esse contingit. Et hoc quidem in his quae indefinitae sunt. In his autem
quae definitae sunt et universalitatis particularitatisque participes non eodem
modo sunt. In quibusuis enim terminis sive possibilibus sive naturalibus sive
impossibilibus affirmationes affirmationibus sibimet angularibus in veritate
consentire non possunt, negationes autem negationibus angulares angularibus in
his tantum terminis qui neque naturales neque impossibiles sunt in veritate
poterunt convenire. Et primum quemadmodum affirmationes affirmationibus sibimet
angularibus in veritate consentire non possunt in quibuslibet terminis
demonstrandum est. Ea enim quae dicit: Omnis est homo iustus et ea quae
dicit: Omnis est homo iniustus quae est scilicet angularis, verae simul
esse non possunt. Ea namque quae dicit: Omnis est homo iniustus nil
differt ab ea quae proponit: Nullus homo iustus est Sed "Omnis est
homo iustus" et "Nullus homo iustus est", quoniam contrariae
sunt, simul verae esse non possunt. Sed ea quae dicit: Nullus est homo
iustus convenit atque consentit ei quae proponit: Omnis est homo iniustus
quare: Omnis est homo iustus et: Omnis est homo iniustus simul
verae esse non possunt. Sed eadem quae proponit: Omnis est homo iniustus
consentit (ut saepe dictum est) ei quae dicit: Omnis est ƿ homo non
iustus Quare in his nec haec in veritate consentire potest ei quae dicit
quoniam omnis est homo iustus. Affirmatio igitur universalis simplex: Omnis est
homo iustus affirmationibus universalibus privatoriae et infinitae quae
sunt: Omnis est homo iniustus et: Omnis est homo non iustus sibimet
angularibus in veritate simul nulla ratione consentit, sicut ipsis quae
indefinitae erant et affirmationes affirmationibus et negationes negationibus
in veritate poterant consentire. In his autem quae sunt definitae affirmationes
angulares simul verae esse non possunt. Recte igitur dictum est quoniam in
aliis omnibus similis est consequentia definitarum et indefinitarum.
Affirmationibus enim consentiunt in veritate negationes, negationibus autem
affirmationes non omnino consentiont, quae similitudo consequentiae in utrisque
est id est et in his quae definitae sunt et in his quae indefinitae. Sed est
distantia, quod NON SIMILITER ANGULARES CONTINGIT VERAS ESSE. Et affirmationes
affirmationibus et negationes negationibus in indefinitis veras esse contingit
eas scilicet quae sunt angulares. In his autem quae sunt definitae
affirmationes affirmationibus angulares veras esse aliquando nulla ratione
contingit. Hoc autem manifestum erit, si quis et ea sibi proponat exempla in
quibus sunt termini naturales atque impossibiles et ea in quibus sunt
possibiles et non naturales neque impossibiles. In omnibus enim inveniet
affirmationes affirmationibus definitas ƿ definitis angulares simul veras esse
non posse. Quod autem addidit CONTINGIT AUTEM ALIQUANDO huiusmodi est: quamquam
enim affirmationes affirmationibus angulares definitae simul verae esse non
possint in quibuscumque propositis terminis, potest tamen fieri ut negationes
negationibus verae inveniantur et sit haec similitudo ad indefinitas angulares.
Nam sicut illic negationes negationibus indefinitae angulares verae esse simul
poterant in his quae neque naturalia neque impossibilia essent, ita hic quoque
id est in ordine definitarum negationes definitas negationibus definitis
angulares angularibus simul veras esse contingit in his quae neque impossibiles
sunt nec naturales. Negatio enim simplex particularis quae dicit: Non omnis est
homo iustus potest simul vera esse cum ea quae dicit: Non omnis est homo
iniustus Potest enim fieri ut quidam sint iusti, quidam autem non sint
iusti et in eo utraeque verae sunt, et ea quae dicit: Non omnis est homo
iustus quia sunt quidam iniusti, et ea quae dicit: Non omnis est homo
iniustus quia poterunt esse aliqui iusti. Sed haec consentit infinitae
negationi particulari quae dicit: Non omnis est homo non iustus Idem est
enim dicere "Non omnis est homo iniustus" quod "Non omnis est
homo non iustus". Quocirca et hae sibimet angulares simul verae esse
possunt. Nam si quidam sunt iusti, quidam iniusti, verum est dicere quoniam non
omnis est homo iustus, quia sunt quidam iniusti, rursus verum est dicere non
omnis est homo non iustus, quia sunt quidam iusti. Negationes igitur ƿ
negationibus angulares definitae simul verae esse possunt et hoc est simile
indefinitis, in quibus sicut affirmationes affirmationibus, ita quoque in
veritate angulares negationes negationibus consentiunt. Sensus ergo totus
huiusmodi est: SIMILITER AUTEM, inquit, SE HABET, id est similis erit
consequentia propositionum, quemadmodum fuit in indefinitis, ETIAM SI
UNIVERSALIS NOMINIS SIT AFFIRMATIO, id est etiam si definitae affirmationes
negationesque ponantur, ut per subiecta exempla monstravit dicens affirmationi
simplici universali OMNIS EST HOMO IUSTUS opponi NON OMNIS EST HOMO IUSTUS
particularem scilicet simplicem negationem. Et rursus universalem affirmationem
infinitam proponens eam scilicet quae est OMNIS EST HOMO NON IUSTUS huic illam
opposuit quae dicit NON OMNIS EST HOMO NON IUSTUS. Hae, inquit, similiter se
habent ad consequentiam quemadmodum ind efinitae. Quomo do autem se illae
haberent ad c onsequentiam supra monstratum est. SED NON, inquit, SIMILITER
ANGULARES CONTINGIT VERAS ESSE. In his enim quae erant indefinitae
affirmationes affirmationibus angulares simul verae esse poterant. In his autem
quae definitae sunt simul verae esse non possunt. CONTINGIT AUTEM ALIQUANDO, ut
similiter angulares verae sint in his quae definitae sunt, quemadmodum et in
indefinitis. Negationes enim negationibus angulares definitae simul in veritate
consentiunt, ut in his quoque inveniebatur quas indefinitas supra descripsimus.
Plenus est igitur huiusmodi intellectus. Herminus autem hoc aliter sic exponit:
similiter, inquit, ƿ duas facient oppositiones quatuor propositiones, si
fuerint duae simplices, duae infinitae, determinatione tamen adiecta. Hoc autem
sic monstrat: proponit prius simplicem affirmationem universalem quae dicit:
Omnis est iustus homo contra hanc particularem simplicem negationem: Non
omnis est iustus homo sub affirmatione universali simplici affirmationem
universalem infinitam quae dicit: Omnis est non iustus homo contra hanc
sub negatione particulari simplici particularem negationem infinitam quae
proponit: "Non omnis est non iustus homo". Omnis est iustus homo
Omnis est non iustus homo Non omnis est iustus homo Non omnis est non iustus
homo. His ergo ita dispositis duae, inquit, fiunt oppositiones. Contra enim eam
quae est omnis est iustus homo opponitur illa quae proponit: Non omnis est
iustus homo Hoc autem idcirco quoniam sibi contradictorie oppositae sunt
universalis affirmatio simplex et particularis negatio simplex. Et est haec
quidem una propositio. Rursus contra eandem affirmationem simplicem quae dicit:
Omnis est iustus homo opponitur universalis affirmatio infinita quae
dicit: Omnis est non iustus homo et hoc contrario modo. Ea namque quae
dicit: Omnis est non iustus homo idem significat eique consentit quae
dicit: Nullus homo iustus est Sed haec quae proponit nullus homo iustus
est contrario modo opposita est ei quae dicit: Omnis est iustus homo
Quocirca etiam ea quae proponit: Omnis est non iustus ƿ homo contrarie
erit opposita ei quae dicit: Omnis est iustus homo Est igitur haec quoque
altera oppositio. Duae ergo sunt oppositiones, quemadmodum etiam in his quae
sunt indefinitae: licet alio modo essent oppositae, tamen duae erant oppositiones.
Secundum diametrum autem non similiter veras contingit esse, ut ipse ait. Illae
enim quoniam indefinitae erant, et secundum diametrum quae erant simul veras
esse contingebat et omnes omnibus. Quod si quis ad indefinitarum descriptiones
redeat diligenter agnoscit. Hic autem, inquit, hoc est in his quae definitae
sunt, non idem est. Hoc sic monstrat: ea enim propositio quae dicit: Omnis est
iustus homo non consentit contradictioni suae quae dicit: Non omnis est
iustus homo Rursus ea quae dicit: Omnis est non iustus homo non
consentit rursus ei quae dicit: Non omnis est non iustus homo Haec enim
contrariae ipsius consentiebat. Quare cum vera est universalis affirmatio
simplex quae dicit: Omnis est iustus homo sine dubio falsa est ea quae
dicit: Omnis est non iustus homo Sed hac falsa contradictio eius vera
erit: vera igitur est ea quae negat dicens: Non omnis est non iustus homo
Quocirca hae duae propositiones angulares verae aliquotiens inveniuntur: Omnis
est iustus homo Non omnis est non iustus homo Contingit ergo aliquando
veras esse sed non, inquit, omnino. Nam si a particulari negatione infinita
coeperis, non idem est id est non eadem veritas venit. Hoc autem tali probatur
modo: si enim vera est quoniam non omnis est non iustus ƿ homo, falsa est ea
quae dicit: Omnis est non iustus homo Est enim ei contradictorie
opposita. Hac autem falsa quae dicit: Omnis est non iustus homo non
omnino veram necesse est esse eam quae proponit: Omnis est iustus homo
idcirco quoniam hae duae sibi contrariorum loco oppositae sunt. Contrarias
autem propositiones simul falsas esse posse supra docuimus. Ergo non necesse
est, si falsa est omnis est non iustus homo, veram esse eam quae dicit: Omnis
est iustus homo Quod si non necesse est, hoc potest fieri ut utraeque sint
falsse. Quare evenit aliquando, ut vera hac propositione quae dicit: Non omnis
est non iustus homo falsa sit illa quae proponit: Omnis est iustus
homo Quare non similiter secundum diametrum in veritate propositiones
sibi consentiunt. Atque hoc quidem Herminus non recte expositione dicens
ordinem turbat. Si quis autem vel hoc quod Herminus ait diligenter agnoscit vel
id quod supra nos diximus, cognoscit multam esse differentiam expositionis et
meliorem superiorem iudicans ei, si quid nobis credit, recte consentiet. HAE
IGITUR DUAE OPPOSITAE SUNT, ALIAE AUTEM AD NON HOMO UT SUBIECTUM ALIQUID
ADDITO, UT EST IUSTUS NON HOMO, NON EST IUSTUS NON HOMO; EST NON IUSTUS NON
HOMO, NON EST NON IUSTUS NON HOMO. MAGIS PLURES AUTEM HIS NON ERUNT
OPPOSITIONES. HAE AUTEM EXTRA ILLAS IPSAE SECUNDUM SE ERUNT UT NOMINE UTENTES
NON HOMO. Supra iam dixerat omne subiectum aut ex nomine simplici et finito aut
ex nomine rursus infinito consistere et eorum oppositiones ostendit quod essent
duae et quatuor propositiones, duae quidem simplex subiectum nomen habentes,
duae vero infinitum. Post has quando est tertium adiacens praedicaretur, illic
quoque dupliciter oppositiones fieri dixit, cum scilicet finitum nomen esset
subiectum, vel infinitum praedicatum, earumque inter se eam consequentiam
demonstravit, qualem haberent privatoriae ad easdem ipsas simplices, quibus ex
infinito nomine propositiones compararentur. Et quoniam omnis harum varietas
propositionum ita fit, cum est tertium praedicatur, ut aut et subiectum et
praedicatum finita sint aut subiectum quidem finitum, praedicatum vero
infinitum (de quibus supra locutus est, cum earum consequentiam demonstravit)
aut infinitum habent subiectum, finitum vero praedicatum aut infinitum et
subiectum et praedicatum. Et habent quidem propositiones utrumque finitum, ut
est: Homo iustus est Homo iustus non est finitum vero subiectum,
infinitum praedicatum, ut est: Homo non iustus est Homo non iustus non
est Et harum quidem consequentia supra monstrata est. Aliae vero sunt,
quae infinitum habent subiectum et quasi nomine utuntur nomine infinito, ut:
Non homo iustus est Non homo iustus non est Utuntur enim hae
propositiones subiecto, id est ƿ 'non homo' ut nomine, praedicato vero eo quod
est iustus. Hoc est enim quod ait: ALIAE AUTEM AD NON HOMO UT SUBIECTUM ALIQUID
ADDITO. Si quis enim ponat non homo quidem subiectum et de hoc aut finitum
nomen praedicet, ut est 'iustus', aut infinitum, ut est 'non iustus', utroque
modo duplicem rursus faciet oppositionem. Quatuor sunt autem propositiones hae:
Est non homo iustus Non est non homo iustus Est non homo non iustus Non est non
homo non iustusIn his igitur quatuor propositionibus, oppositionibus vero
duplicibus non homo quidem subiectus est sed in superiore oppositione finitum
quidem praedicatur nomen quod est iustus,. Sed illae, inquit, quae praedicatum
quidem infinitum habent, subiectum vero finitum vel quibus et praedicatum
finitum est et subiectum, habent aliquam ad se consequentiam, hae vero quas
postea memoravimus, id est quae infinitum haberent subiectum, praedicatum autem
vel infinitum vel finitum, nullam habent consequentiam ad eas propositiones,
quae sive finito praedicato sive infinito, ex finito tamen subiecto
consisterent. Hoc est enim quod ait: HAE AUTEM EXTRA ILLAS IPSAE SECUNDUM SE ERUNT,
id est nullam consequentiam ad superiores quae ex finito subiecto constarent
habere eas quae infinitum subiectum in propositionis ordine retinerent. Postquam
igitur enumeravit et quae ex utrisque finitis consisterent, id est et subiecto
et praedicato, et has ƿ quae ex subiecto quidem finito, praedicato vero
infinito essent, has etiam quae ex subiecto infinito essent et ex finito
praedicato necnon illas addidit quae ex utrisque infinitis constare viderentur:
postquam igitur has enumeravit, ait: MAGIS PLURES AUTEM HIS NON ERUNT
OPPOSITIONES. Omnis enim oppositio (quod supra iam dictum est) aut ex utrisque
finitis est, ut: Est homo iustus Non est homo iustus aut ex finito
subiecto, infinito praedicato, ut: Est homo non iustus Non est homo non iustus
aut ex infinito quidem subiecto, finito vero praedicato, ut: Est non homo
iustus Non est non homo iustus aut ex infinitis utrisque, ut: Est non
homo non iustus Non est non homo non iustus ut autem quinta oppositio
reperiri possit, nulla rerum ratione possibile est. De his ergo haec dicta
sint, in quibus est tertium adiacens praedicatur. IN HIS VERO IN QUIBUS EST NON
CONVENIT, UT IN EO QUOD EST CURRERE VEL AMBULARE, IDEM FACIUNT SIC POSITA AC SI
EST ADDERETUR, UT EST CURRIT OMNIS HOMO, NON CURRIT OMNIS HOMO; CURRIT OMNIS
NON HOMO, NON CURRIT OMNIS NON HOMO. NON ENIM DICENDUM EST NON OMNIS HOMO SED
NON NEGATIONEM AD HOMO ADDENDUM EST. OMNIS ENIM NON UNIVERSALE SIGNIFICAT SED
QUONIAM UNIVERSALITER. MANIFESTUM EST AUTEM EX EO QUOD EST CURRIT HOMO, NON
CURRIT HOMO; CURRIT NON ƿ HOMO, NON CURRIT NON HOMO. HAEC ENIM AB ILLIS
DIFFERUNT EO QUOD NON UNIVERSALITER SUNT. QUARE OMNIS VEL NULLUS NIHIL ALIUD
CONSIGNIFICAT NISI QUONIAM UNIVERSALITER DE NOMINE VEL AFFIRMAT VEL NEGAT. ERGO
CAETERA EADEM OPORTET APPONI. Sunt quaedam propositiones in quibus est quidem
tertium adiacens praedicatur et hoc sono ipso et prolatione cognoscitur, aliae
vero sunt in quibus tale verbum praedicatur, quod tertium quidem adiacens non
praedicetur, habeat tamen contineatque intra se verbum est. Quae praedicatio si
solvatur in participium atque verbum, quod ante solo verbo dictum praedicatum
secundum praedicabatur, tertio loco praedicabitur est et fit similis
propositio, tamquam si prolatione quoque haberet est verbum. Si quis enim
dicat:"Omnis homo currit"in hac propositione unum subiectum est,
alterum praedicatur. Homo enim subiectus est, praedicatur autem currit. Neque
enim possumus in hac propositione tres esse terminos arbitrari, idcirco quod
omnis quidem terminus non est sed subiecti termini determinatio. Significat
enim quoniam res universalis, id est homo, universaliter subicitur cursui, cum
dicit:"Omnis homo currit" Nulla est enim hominis exceptio, ubi omnem
currere determinatio est. Ergo non ponitur loco termini id quod dicimus omnis
sed potius ƿ subiecti termini determinatio est. Quo circa in hac propositione
quae dicit:"Omnis homo currit"duo sunt termini: homo et currit. Ergo
in eadem quamquam verbum est non praedicetur in prolatione, in verbi tamen quod
est currit significatione concluditur. Si quis enim hanc propositionem quae
dicit:"Omnis homo currit"solvat in participium atque verbum, faciet
omnis homo currens est et idem significat participium verbo coniunctum quod
significat verbum, quod utraque complectitur. Nam cum dico "Omnis homo currit",
omni homini actionem praesto esse pronuntio; quod si idem rursus dicam
"Omnis homo currens est", eandem actionem homini rursus adesse
proponit. Idem igitur significat verbum currit quod currens est. Et in ea
propositione quae dicit:"Omnis homo currit"licet in prolatione est
non dicatur, tamen tertium potestate praedicatur, quod hinc cognoscitur, si
tota propositio dissolvatur in participium scilicet atque verbum. Quamobrem
sicut ex nomine infinito subiecto fit affirmatio, non eodem modo ex infinito
verbo affirmatio fieri potest sed mox vis in ea negationis agnoscitur. Quomodo
enim facimus affirmationem dicentes: Omnis non homo currit 'non homo'
scilicet subiectum infinitum ponentes, non ita possumus dicere fieri
affirmationem cum proponimus: Omnis homo non currit Haec enim iam negatio
est. Quare ubicumque fuerit 'non currit' vel 'non laborat' vel 'non ambulat'
vel 'non legit', in omnibus negatio fit, in quibuscumque infinitum verbum
praedicatur. Dubitabit autem aliquis an sicut ex infinito verbo fieri
affirmatio non potest sed semper negatio ƿ ex hoc praedicamento fit, ita quoque
si eadem propositio solvatur in participium atque verbum, an ex infinito
participio possit affirmatio fieri. Quaeritur enim an sicut in hac propositione
quae dicit: Omnis homo currit qui ita proponit dicens: Omnis homo non
currit facere affirmationem non potest sed sine dubio negationem facit,
ita quoque si eadem solvatur in participium et verbum, ut dicat quis: Omnis
homo currens est si fiat infinitum non currens et dicatur: Omnis homo non
currens est an haec affirmatio sit an certe negatio tantundem valens
tamquam si aliquis dicat: Omnis homo non est currens Sed fuerunt qui hoc
cum ex multis aliis tum ex aliquo Platonis syllogismo colligerent et quid ex ea
re definirent doctissimorum virorum auctoritate cognoscerent. Ex duabus enim
negativis syllogismus fieri non potest. In quodam enim dialogo Plato huiusmodi
interrogat syllogismum: sensus, inquit, non contingunt substantiae rationem;
quod non contingit, nec ipsius veritatis contingit notionem: sensus igitur
veritatis notionem non contingit. Videtur enim ex omnibus negativis fecisse
syllogismum, quod fieri non potest, atque ideo aiunt infinitum verbum quod est
non contingit pro participio infinito posuisse id est non contingens est. Est
enim in pluribus aliis inveniendi facultas frequenter verbum infinitum positum
pro nomine infinito. ƿ Quare verbum quidem dixere quidam semper facere
negationem' si infinitum proponatur, participia autem vel nomina si sint
infinita posse facere affirmationem. Et ideo quotienscumque a magnis viris
infinitum verbum et duae negationes in syllogismo proponuntur, hac ratione
defenditur, quod dicatur verbum infinitum pro participio esse propositum, quod
participium nominis loco in propositione praedicatur. Et hoc quidem Alexander
Aphrodisius arbitratur caeterique complures. Idcirco enim aiunt non posse fieri
ex infinito verbo affirmationem, quoniam sicut verbum est infinitum verbum mox
totem perficiet negationem, sic etiam verba quae in sese complectuntur verbum
est non facient infinitam affirmationem sed potius negationem. Si quis enim sic
dicat: Homo currens non est nullus hanc dixerit affirmationem. Si quis
vero sic: Homo non currit idcirco nec haec propositio affirmatio est
quoniam currit est verbum intra se continet et sicut ad est verbum iuncta
particula negativa non facit affirmationem sed potius negationem, ita quoque ad
illud verbum iuncta negatio quod intra se continet est verbum plenam perficit
negationem. Aristoteles autem non videtur ista discernere sed similiter
arbitrari, sive cum participio ponatur est verbum ƿ sive sine participio verbum
illud quod verbum est intra se claudit atque complectitur. Dicit enim hoc modo:
IN HIS VERO IN QUIBUS EST NON CONVENIT UT IN EO QUOD EST CURRERE VEL AMBULARE,
IDEM FACIUNT SIC POSITA AC SI EST ADDERETUR. Et huius subiecit exemplum, UT EST
CURRIT OMNIS HOMO. In hac enim propositione quae dicit: Currit omnis homo
non quidem convenit poni est verbum; eodem modo vel si quis dicat: Omnis homo ambulat
hic quoque est verbum poni non convenit sed haec talia sunt, tamquam si est
adderetur. Quod exemplo docuit. Nam sicut "Est currens omnis homo"
affirmatio est cursus praesentiam monstrans, ita quoque "Currit omnis
homo" affirmatio idem valens idemque significans. Has ex simplicibus
subiectis affirmationes in quibus est dici non convenit consequenter enumerat
dicens: Currit omnis homo mediam ponens determinationem, quod est omnis,
inter currit quod est praedicatio et subiectum quod est homo: contra hanc opponit
simplicem negationem dicens: Non currit omnis homo Rursus facit
affirmationem ex infinito nomine: Currit omnis non homo huic opponit
negationem infiniti nominis subiecti: Non currit omnis non homo Et has
idcirco proposuit, ut monstraret idem in his evenire in quibus est non convenit
praedicari, quod in illis quoque in quibus est tertium adiacens praedicabatur.
Sed quoniam in negatione infiniti nominis subiecti ƿ ait: Non currit omnis non
homo poterat quis dicere non recte fecisse negationem eius affirmationis
quae est: Currit omnis non homo hanc quae dicit: Non currit omnis non
homo sed potius ita debuisse oppositionem constitui: Currit omnis non
homo Non currit non omnis homo Ex hoc autem demonstrat ita faciendam esse
negationem, ut eam ipse disposuit. Dicit enim: NON ENIM DICENDUM EST NON OMNIS
HOMO SED NON NEGATIONEM AD HOMO ADDENDUM EST. Qui est sensus huiusmodi:
quotiens facimus, inquit, negationem contra hanc affirmationem quae dicit
currit omnis non homo, non est negativa particula non adiungenda ei quod est
omnis sed potius subiecto id est nomini quod est homo. Cum enim ita dicimus:
Currit omnis non homo facienda est negatio: Non currit omnis non
homo Non enim dicendum est: Non currit non omnis homo et non
negativa particula non est adicienda ad omnis sed potius ad homo. Huius autem
haec causa est quod omnis determinatio in terminorum numero non adscribitur sed
potius ad vim suam id est ad determinationem. Non enim aliquid universale
significat ipsum omnis sed significat quidem universale homo, omnis autem
determinatio est, quoniam quis id quod universale est id est homo universaliter
praedicat. Non ergo universale aliquid significat omnis determinatio sed potius
quoniam universale ƿ nomen universaliter praedicatur. Atque ideo quotiens in his
negatio fit, ad subiectum potius nomen trahi oportet negationem non ad
determinationem. Sed ne forte quis dubitet, ut etiam in aliis quoque ita fieri
oportere oppositiones dicat. In his enim quae subiectum habent finitum, cum
dicimus: Omnis homo currit si contra hanc contradictorie opposita negatio
ponitur, ad determinationem particula negative constituenda est, ut contra eam
quae dicit: Omnis homo currit ea sit quae dicit: Non omnis homo
currit In his autem quae ex infinito nomine subiecto fiunt, sive in
affirmatione sive in negatione, a subiecto nomine non est separanda negatio.
Hoc autem ita esse facillima ratione cognoscitur, si determinationes paulisper
auferantur et in his propositionibus ex infinito nomine subiecto quae sunt
indefinitae speculatio fiat. Sit enim affirmatio indefinita: Non homo
currit Contra hanc erit negatio: Non homo non currit Si igitur hae
propositiones factae sunt in universalibus terminis (universalis enim terminus
est homo) sed non habent additam determinationem, quoniam universaliter
praedicantur, id est omnis, et servata est et in affirmatione et negatione ad
subiectum negativa particula (semper enim fiebat necessarie infinitum), etiam
tunc quando additur aliquid quod determinet, non ad determinationem addenda est
negatio sed potius ad subiectum nomen. Quod cum in affirmatione fuerit
infinitum, hoc idem infinitum ut in negatione reuertatur providendum est. Sicut
enim finitum terminum et simplicem in his indefinitis ƿ propositionibus ad
affirmationem et negationem custodiri oportet, ut dicamus: Currit homo Non
currit homo ita quoque in ea oppositione quae est ex infinito nomine
subiecto idem servandum est, ut quod in affirmatione subiectum est idem
seruetur etiam in negatione. Quod si hoc in his quae indefinitae sunt evenit,
cur non etiam in illis idem fieri oportere videatur quae definitae sunt? Hoc
solum enim definitae ab indefinitis differunt, quod cum indefinitae universalia
praedicant praeter universalitatis determinationem, determinatae et definitae
idem illud prasdicant universale cum adiectione et significatione quoniam
universaliter praedicatur. Nihil igitur aliud omnis vel nullus significat, nisi
quoniam id quod universale dicitur universaliter praedicatur. Ergo omnia eadem
quae in affirmatione et negatione indefinitis ponebantur eadem quoque et in
eisdem determinatis servanda sunt. Omnis enim et nullus non sunt termini sed
universalis termini determinationes. His igitur ab Aristotele decursis nos
quoque a Syriano, cui Philoxeno esse cognomen supra rettulimus, propositionum
omnium numerum, de quibus in hac libri disputatione perpendit, nimis ad rem
pertinentem atque utilem transferamus. Et prius perspiciendum est in
categoricis propositionibus quot indefinitae sunt. Quantae enim fuerint
indefinitae, tot ƿ erunt universales, tot particulares, tot singularium atque
individuorum propositiones. Et prius quidem affirmationes perspiciamus hoc
modo: quatuor modi sunt propositionum: aut enim indefinitae sunt aut
universales aut particulares aut singularium atque individuorum. Si ergo
perspiciantur quantae sint indefinitae affirmationes, has si per quaternarium
numerum multiplicavero, colligitur mihi numerus affirmationum. Quem si duplico,
colligitur etiam negationum hoc modo. Praedicatur enim est aut ipsum solum aut
certe tertium adiacens cum alio. Et si solum praedicatur, aut ad nom en simplex
atque finitum praedicandum est aut ad infinitum. Ex his duae sunt
affirmationes: Est homo Est non homo Quotiens autem est tertium adiacens
praedicatur, hae quatuor erunt affirmationes: aut cum subiectum infinitum est
solum, ut: Est iustus non homo aut cum praedicatum infinitum est solum,
ut: Est non iustus homo aut cum utraque finita sunt, ut: Est iustus
homo aut cum utraque infinita sunt, ut: Est non iustus non homo
MAGIS PLURES AUTEM HIS, ut ipse ait, propositiones inveniri non possunt. Cum
igitur sex sint affirmationes, duae quibus est praedicatur, quatuor vero
adiacente, has si per quaternarium ducam, viginti et quatuor fient. Quas rursus
si binario multiplicem, quadraginta octo mihi summa subcrescunt. Tot igitur
erunt affirmationes et negationes quaecumque vel praedicato est verbo vel
tertio adiacenti et praedicato fiunt. Qua in re quoniam tres ƿ sunt aliae
qualitates propositionum, quae sunt necessariae, contingentes et inesse tantum
significantes, secundum quas qualitates istae omnes propositiones proferuntur,
has quadraginta octo propositiones si in ternarium numerum duxerimus, scilicet
propositionum qualitates, centum quadraginta quatuor omnis propositionum
praedicativarum, de quibus hoc libro tractat, numerositas crescet. Sed nunc
praeter has tris qualitates quae sint quadraginta octo propositiones cum
negationibus suis (quas si per qualitates propositionum, necessariam scilicet
et contingentem et inesse significantem, multiplicavero, centum quadraginta
quatuor fient) subter adscripsimus. EST SOLUM Est homo Non est homo Est non
homo Non est non homo Est omnis homo Non est omnis homo Est omnis non homo Non
est omnis non homo Est quidam homo Non est quidam homo Est quidam non homo Non
est quidam non homo Est Socrates Non est Socrates Est non Socrates Non est non
Socrates ITEM EST TERTIUM Est iustus homo Non est iustus homo Est iustus omnis
homo Non est iustus omnis homo Est iustus quidam homo Non est iustus quidam
homo Est iustus Socrates Non est iustus Socrates Est iustus non homo Non est
iustus non homo Est iustus omnis non homo Non est iustus omnis non homo Est
iustus quidam non homo Non est iustus quidam non homo Est iustus non Socrates
Non est iustus non Socrates Est non iustus omnis homo Non est non iustus omnis
homo Est non iustus quidam homo Non est non iustus quidam homo Est non iustus
Socrates Non est non iustus Socrates Est non iustus non homo Non est non iustus
non homo Est non iustus omnis non homoNon est non iustus omnis non homo Est non
iustus quidam non homo Non est non iustus quidam non homo Est non iustus non
Socrates Non est non iustus non Socrates Has igitur propositiones Syriano
calculis colligente nos quoque nominatim disposuimus, idcirco quoniam facilior fides
habobitur numero, si per exempla prodantur, simul etiam quoniam male doctus de
his propositionibus peruersissime contendebat et affirmationes quidem
negationum loco ponens, negationes vero affirmationum totum ordinem
confundebat. Quare ne quem illius oratio a rectae rationis veritate traduceret,
idcirco hanc ad tenacioris memoriae subsidium fecimus dispositionem. QUONIAM
VERO CONTRARIA EST NEGATIO EI QUAE ƿ EST OMNE EST ANIMAL IUSTUM ILLA QUAE
SIGNIFICAT QUONIAM NULLUM EST ANIMAL IUSTUM, HAE QUIDEM MANIFESTUM EST QUONIAM
NUMQUAM ERUNT NEQUE VERAE SIMUL NEQUE IN EODEM IPSO, HIS VERO OPPOSITAE ERUNT
ALIQUANDO, NON OMNE ANIMAL IUSTUM EST EST ALIQUOD ANIMAL IUSTUM. Hoc quoque est
diligentissime superius demonstratum, quod contrariae aliquotiens verum
falsumque dividerent, si aut in rebus naturalibus aut in impossibilibus
proponerentur: aliquotiens vero simul inveniri posse falsas, si res neque
naturales neque impossibiles praedicarent. Contrarias autemesse dictum est,
quaecumque vel affirmative vel negative universalem facerent enuntiationem.
Ergo nunc hoc dicit: quae sunt, inquit, contrariae simul verae esse non possunt.
Et hoc non sine quadam rerum determinatione locutus est. Ait enim: QUONIAM VERO
CONTRARIA EST NEGATIO EI QUAE EST OMNE EST ANIMAL IUSTUM scilicet affirmationi
ILLA QUAE SIGNIFICAT QUONIAM NULLUM EST ANIMAL IUSTUM SCILICET NEGATIO, HAE
QUIDEM, inquit, quoniam sunt contrariae, quae simul verae esse non possunt,
MANIFESTUM EST QUONIAM NUMQUAM ERUNT NEQUE VERAE SIMUL NEQUE IN EODEM. Sed quod
dixit neque verae simul huiusmodi est: nihil enim prohibet alio et alio tempore
et affirmationem universalem et negationem veraciter ƿ posse proponi. Ut si
quis dicat: Omnis homo iustus est hoc si aureo saeculo diceretur,
verissime proponeretur. Quod si quis rursus dicat: Nullus homo iustus est
hoc si ferreo saeculo enuntiet, erit vera propositio. Quare contingit et affirmationem
universalem et negationem veras esse, quas manifestum est esse contrarias sed
non simul: illa enim in aureo saeculo si ita contingit, illa in ferreo. Sed
haec tempora diversa sunt et non sunt simul. Quare recte hoc quoque addidit ut
diceret MANIFESTUM EST QUONIAM NUMQUAM ERUNT NEQUE VERAE SIMUL. Quod autem
addidit NEQUE IN EODEM ad aliam eiusdem rei determinationem valet. Possunt enim
rursus eodem tempore et simul universalis affirmatio et universalis negatio
verae esse sed si non de eodem praedicentur. Ut si quis dicat: Omne animal
rationale est hoc si de hominibus praedicetur, vera est affirmatio. Quod
si quis dicat: Nullum animal rationale est hoc si de equis enuntiet, vera
erit uno eodemque tempore contra universalem affirmationem universalis facta
negatio sed non in eodem. Illa enim affirmatio de hominibus facta est, haec
vero de equis negatio. Quamobrem recte dictum est numquam esse simul contrarias
veras posse neque in eodsm id est nec uno eodemque tempore nec de uno subiecto.
Sed quoniam his oppositae erant universali quidem affirmationi particularis
negatio, universali vero negationi affirmatio particularis et has diximus
idcirco subcontrarias dici, quod diversa quodammodo contrariis patiantur,
manifestum est quoniam sicut contrariae verae simul esse non possunt, dividunt
tamen aliquotiens inter se veritatem ƿ et falsitatem, ita quoque et
subcontrariae dividunt quidem verum inter se falaumque aliquotiens, quando
contrariae quoque diviserint, simul autem verae inveniri possunt, quando universales
et contrariae simul falsae sunt, ut autem simul falsae sint, nulla rerum
ratione contingit. Ergo contrarias quidem simul veras esse atque in eodem
numquam quisquam poterit invenire, subcontrarias autem quae universalibus et
contrariis oppositae sunt sibi inuicem comparatas veras inveniri possibile est:
ut in eo ipso exemplo quod ipse proposuit: Non omne animal iustum est
vera est, rursus: Est aliquod animal iustum haec quoque vera est. Quare
contrariae simul verae esse non possunt, subcontrarias simul veras nihil
prohibet inveniri. SEQUUNTUR VERO HAE: HANC QUIDEM QUAE EST NULLUS EST HOMO
IUSTUS ILLA QUAE EST OMNIS EST HOMO NON IUSTUS, ILLAM VERO QUAE EST EST ALIQUI
IUSTUS HOMO OPPOSITA QUONIAM NON OMNIS EST HOMO voN IUSTUS. NECESSE EST ENIM
ESSE ALIQUEM. De consequentia propositionum simplicium atque infinitarum
sufficienter quidem supra disseruit sed nunc haec est huic intentio non quae
particularis affirmatio vel negatio quam universalem affirmationem vel
negationem sequatur, quod iam supra monstravit, ƿ sed quae universalis negatio
universalem sequatur affirmationem vel quae particularis negatio particulari
scilicet affirmationi consentiat. Proponitque has quatuor dicens negationem
quidem simplicem universalem et affirmationem infinitam universalem sese sequi
et sibimet consentire nec minus his oppositas id est particularem affirmationem
simplicem et particularem infinitam negationem et in veritate et in falsitate
se sequi et a se nullo modo discrepare. Disponantur enim hae quatuor: prior
affirmatio infinita universalis quae dicit: Omnis est homo non iustus sub
hac ei consentiens simplex universalis negatio quae proponit: Nullus est homo
iustus rursus in altera parte contra affirmationem infinitam particularis
simplex affirmatio quae dicit: Est aliqui homo iustus et sub hac
particularis infinita negatio quae proponit:"Non omnis est homo non
iustus" Omnis est homo non iustus Est quidam homo iustus Nulla est homo
iustus Non omnis est homo non iustus. His ergo ita dispositis si
affirmatio universalis infinita vera sit ea quae dicit: Omnis est homo non
iustus vera est etiam ea quae proponit: Nullus est homo iustus quae
est universalis simplex negatio. Hoc autem melius in verioribus cognoscitur
exemplis. Dicatur enim: Omnis est homo non quadrupes vera, rursus: Nullus
est homo quadrupes haec quoque vera est. Quod si una harum falsa sit,
falsa quoque erit et altera. Nam si falsa est quoniam omnis est homo non
iustus, sicut vere quoque falsa est, illa quoque negatio simplex mendacissime
praedicavit quae dicit: Nullus est homo ƿ iustus quocirca affirmatio
universalis infinita et negatio uniusrsalis simplex sibimet consentiunt, ut una
vera alteram veram esse necesse sit, alterius falsitate reliquam quoque
falsitas consequatur. Idem quoque evenit in parte altera. Nam si vera est
quoniam quidam homo iustus est, vera quoque est quoniam non omnis est homo non
iustus, est enim aliqui. Nam id quod dicitur non omnis tantundem est, tamquam
si qui dicat quidam non est, quod in alio quoque exemplo manifestius apparebit.
Si quis dicat: Non omnis homo iustus est hoc est dicere "Quidam homo
iustus non est". Ergo 'non omnis' 'quidam' non significat. Si quis ergo
ita proponat: Quidam homo non iustus non est quem dicit non esse non
iustum iustum esse confirmat. Quare ille de quo dicitur quoniam non iustus non
est erit iustus. Unde fit ut ea quae dicit: Non omnis est homo non iustus
consentiat ei quae dicit: Quidam homo non iustus non est Sed haec
consentit ei quae dicit: Quidam homo iustus est haec igitur quoque
consentit et ei quae proponit: Non omnis est homo non iustus Sed quoniam
hoc fortasse aliquatenus videtur obscurius, consequentiae ipsarum hoc modo
sumendae sunt. Sitque nobis hoc positum affirmationem universalem infinitam et
negationem universalem simplicem sibimet consentire, ut unius veritatem et
falsitatem alterius veritas aut falsitas consequatur. Si falsa est affirmatio
infinita universalis quae dicit: Omnis est homo non iustus vera erit huic
opposita particularis ƿ infinita negatio quae proponit: Non omnis est homo non
iustus Sed cum falsa est affirmatio universalis infinita, falsa quoque
est universalis simplex negatio quae dicit: Nullus est homo iustus Sed
hac falsa particularem affirmationem quae huic contradictorie opposita est
veram esse necesse est, quae est: Est quidam homo iustus Quocirca quando
affirmatio universalis infinita falsa est, vera est particularis infinita
negatio et quando universalis negatio simplex falsa est, vera est simplex
affirmatio particularis. Sed affirmatio universalis infinita et negatio
universalis simplex simul falsae sunt et sibimet in falsitate consentiunt:
simul igitur erunt verae simplex particularis affirmatio et infinita negatio
particularis. Rursus si vera est affirmatio universalis infinita, falsa erit
negatio particularis infinita: ei enim contradictorie opposita est. Si rursus
vera est universalis simplex negatio, falsa est particularis simplex
affirmatio. Sed universalis affirmatio infinita et universalis negatio simplex
simul verae sunt: simul igitur erunt falsae particularis affirmatio simplex et
particularis infinita negatio. Quare hae quoque, id est particularis affirmatio
simplex et particularis infinita negatio, sibimet in veritate et falsitate
consentiunt et veritatem suam et mendacium inuicem consequuntur. Quare
affirmatio quidem et negatio utraque universalis, haec simplex, illa infinita,
sequuntur sese sibique consentiunt. Particulares autem id est universalibus
oppositae simplex affirmativa et negative infinita, ipsae quoque sibimet
consentiunt. Quare rectus est ordo, ut sicut affirmationi universali infinitae
consentit simplex universalis negatio, ita particulari ƿ affirmationi simplici
particularis negatio infinita consantiat. MANIFESTUM EST AUTEM, QUONIAM ETIAM
IN SINGULARIBUS, SI EST VERUM INTERROGATEM NEGARE, QUONIAM ET AFFIRMARE VERUM
EST, UT PUTASNE SOCRATES SAPIENS EST? NON; QUONIAM SOCRATES IGITUR NON SAPIENS
EST. IN UNIVERSALIBUS VERO NON EST VERA QUAE SIMILITER DICITUR, VERA AUTEM
NEGATIO, UT PUTASNE OMNIS HOMO SAPIENS? NON. OMNIS IGITUR HOMO NON SAPIENS. HOC
ENIM FALSUM EST. SED NON OMNIS IGITUR HOMO SAPIENS VERA EST; HAEC AUTEM EST OPPOSITA,
ILLA VERO CONTRARIA. De consequentia propositionum disputans et sibi
quemadmodum consentirent ilium tractatum parumper egressus docere proposuit,
quae veniant in responsionem de singularibus, si ad praedicationem ipsorum sit
particula negationis apposita, quae rursus in his quae de universalibus sunt
propositionibus ad praedicationem addita particula negative concurrent. Neque
enim oportet similiter facere enuntiationes. Non enim simile est quod ex
utraque praedicatione contingit. Hoc autem ita manifestum est: si quis de
singulari aliquo interrogatus neget, ille qui interrogaverit potest facere ex
infinito nomine praedicato illam scilicet negationem iungens quam respondens
ante negaverit, et hoc veraciter praedicabit. De universalibus autem apparebit
non eandem ƿ veritatem posse contingere, si ex his affirmatio componatur. Si
quis enim interroget alium PUTASNE SOCRATES SAPIENS EST? Si ille responderit NON,
vere ille concludit dicens: SOCRATES IGITUR NON SAPIENS EST. Sit autem hoc in
alio quoque clariori exemplo manifestum atque interrogemus aliquem hoc modo:
Socratesne Romanus est? Ille respondeat: non, nos vere concludere possumus:
Socrates igitur non Romanus est, facientes ex negatione quam ille respondebat
et ex nomine quod nos in propositione praedicavimus affirmationem ex nomine
infinito quae dicit: Socrates non sapiens est vel Socrates non Romanus est. Has
enim affirmationes esse ex infinito nomine supra monstratum est. Si igitur
eodem modo aliquis in universalibus subiectis interroget dicens: OMNISNE HOMO
SAPIENS EST? Nos utique respondebimus: NON. Tum ille eadem similitudine
concludit. Dicit enim: OMNIS IGITUR HOMO NON SAPIENS EST. Quocirca nullus homo
sapiens est. Ea enim quae dicit: Omnis homo non sapiens est consentire
monstrata est ei quae dicit: Nullus homo sapiens est Videbitur ergo
quodammodo ex vera responsione falsa inlata esse conclusio. Cui nos dicimus
negationem quidem nos respondisse, non ut ea negatio ad praedicatum iungeretur
sed ad determinationem. Neque enim nos voluisse ab omni homine sapientiam
tollere, cum interrogante an omnis homo sapiens esset ƿ nos negaremus sed ab
omni potius id est determinatione voluisse nos abstrahere sapientiam, illud
scilicet significantes, quod alicui esset et alicui non esset sapientia, ut
quod diximus non tantum valeret tamquam si diceremus non omnis. Ergo si illa
negatio ad nomen, id est ad sapientem iongatur, universalis fit affirmatio quae
dicit: Omnis homo non sapiens est consentiens universali negationi quae
proponit: Nullus homo sapiens est Sed haec contraria est interrogationi.
Fuit enim interrogatio: Omnisne homo sapiens est? Haec habet universalem
affirmationem, cui contraria est universalis negatio, cui rursus negationi
consentit affirmatio universalis infinita. Quocirca affirmationi quoque
universali simplici, quae in interrogatione posita est, id est omnisne homo
sapiens est? Contraria est ea quae dicit conclusio quoniam omnis homo non
sapiens est. Quod si dicat: Non omnis homo sapiens est et verum est et ei
est opposita. Contra enim eam quae dicit interrogationem: Omnisne homo sapiens
est? Cum responsum fuerit non et iuncta negatio fuerit ad omnis,
particularis negatio fit dicens: Non omnis homo sapiens est quae est
opposita universali affirmationi ei quae in interrogatione proposita est
[universali]. Hoc est enim quod ait: HAEC AUTEM EST OPPOSITA, ILLA VERO
CONTRARIA. Per verba autem sensus iste sic constat: ƿ MANIFESTUM EST AUTEM,
inquit, QUONIAM IN SINGULARIBUS, ut est Socrates et quidquid individuum est, SI
EST VERUM INTERROGATUM NEGARE, id est si quando quis aliquid interrogatus vere
negaverit, cum aliquis interrogatur, an Romanus sit Socrates, ille neget,
QUONIAM ET AFFIRMARE VERUM EST? ut ille qui interrogat ex negatione et nomine
praedicato faciat infinitam affirmationem. Et huius exemplum: PUTASNE SOCRATES
SAPIENS EST? Responsio NON. Conclusio quoniam SOCRATES IGITUR NON SAPIENS EST. Sed
hoc non similiter in universalibus se habet, quod per hoc monstrat quod ait: IN
UNIVERSALIBUS VERO NON EST VERA QUAE SIMILITER DICITUR, id est non est vera
affirmatio infinita facta ex praedicato nomine et respondentis negatione sed
potius vera est negatio, non affirmatio. Huius exemplum: nam interrogatio est
UT PUTASNE OMNIS HOMO SAPIENS? Responsio NON. Falsa conclusio OMNIS IGITUR HOMO
NON SAPIENS. Hoc enim falsum est et simile ei quod supra de singulari subiecto
praediximus sed potius illa quae dicit: Non omnis igitur homo sapiens est
ut respondentis negatio ad omnis iungatur et fiat negatio particularis. Est
enim haec vera haec autem est opposita. Nam cum affirmatio universalis
interrogata esset ea quae dicit: Omnis homo sapiens est ex negativa
particula factum est: Non omnis homo sapiens est in conclusione et sunt
oppositae. ƿ Illa est enim affirmatio universalis, haec autem particularis
negatio. ILLA VERO CONTRARIA. Nam si non negatio ad praedicatum iungatur, fit
universalis affirmatio infinita, quae consentit universali negationi finitae.
Sed haec contra affirmationem universalem finitam quae in interrogatione est
posita contraria est. Contraria igitur erit etiam illa quae universalis est
affirmatio infinita. Quae autem causa est cur in singularibus vel affirmatio ex
infinito nomine vel negatio finita sibimet consentiant, in universalibus autem
universalis affirmatio ex infinito nomine non consentiat particulari negationi
finitae, quaerendum est. Etenim si quis dicat Socrates non sapiens est et
Socrates sapiens non est, idem est et hae duae sibimet consentiunt? Si quis
autem dicat: Omnis homo non sapiens est et rursus: Non omnis homo sapiens
est hae duae sibi non consentiunt. Sed haec ratio est, quod in
singularibus subiectis non sunt duplices oppositiones sed una tantum, id est
quae negationem facit, in universalibus autem universaliter praedicatis duplex
oppositio est, una contraria, una vero contradictoria. Si ergo sit huiusmodi
affirmatio quae dicat: Socrates sapiens est contra hanc una est oppositio
quae proponit: Socrates sapiens non est Si ergo dicat aliquis: Socrates
non sapiens est haec nullum alium habebit intellectum quam ea quae dicit:
Socrates sapiens non est Unam enim tautum solam diximus in singularibus
oppositionem. Quare quaecumque aliae fuerint, eadem significatione ƿ
concurrent. In universalibus vero universaliter praedicatis non eodem modo est.
Nam si sit affirmatio universalis quae dicit: Omnis homo sapiens est
contra hanc etiam illa est quae dicit: Nullus homo sapiens est etiam illa
quae dicit: Non omnis homo sapiens est Et illa est contraria, haec
contradictoria. Duplex ergo haec oppositio sibi non potest consentire. Illa
enim totum tollit quae est universalis negatio, illa partem finita quae est
particularis negatio. Sed univerealis negatio universali affirmationi ex
infinito nomine consentit: diversa igitur erit haec quoque a particulari finita
negatione. Quoniam ergo duplex est oppositio in universalibus, simplex in
singularibus, recte in eadem similitudine praedicationis non eadem veritas
falsitasque contingit. ILLAE VERO SECUNDUM INFINITA OPPOSITAE NOMINA VEL VERBA,
UT IN EO QUOD EST NON HOMO VEL NON IUSTUS, QUASI NEGATIONES SINE NOMINE VEL
VERBO ESSE VIDEBUNTUR SED NON SUNT; SEMPER ENIM VEL VERAM ESSE VEL FALSAM
NECESSE EST NEGATIONEM, QUI VERO DIXIT NON HOMO, NIHIL MAGIS DE HOMINE SED
ETIAM MINUS verUS FUIT VEL FALSUS, SI NON ALIQUID ADDATUR. SIGNIFICAT AUTEM EST
OMNIS NON HOMO IUSTUS NULLI ILLARUM IDEM NEC HUIC OPPOSITA EA QUAE EST NON EST
OMNIS NON HOMO IUSTUS. ILLA VERO QUAE EST ƿ OMNIS NON IUSTUS NON HOMO ILLI QUAE
EST NULLUS IUSTUS NON HOMO IDEM SIGNIFICAT. Novimus propositiones ex infinitis
fieri posse nominibus: has ergo dissoluens Aristoteles sumit proxime dictionem
nominis infiniti et de ea disputat si contra finitum nomen comparetur haec
quaedam enuntiativa oppositio videatur. Si quis enim sumat id quod dicimus non
homo et opponat contra id quod dicimus homo, videbitur fortasse aliquatenus
facere oppositionem. Quoniam enim omnis negativa particula adiecta verbo, quod
continet propositionem, negationem facit, si modus aliquis propositionis non
praedicetur, quod posterius demonstrandum est, [et] videtur cum adiecta fuerit
negativa particula quandam facere negationem, ut si non particula inugatur ei
quod est homo faciet non homo. Hoc est enim quod ait: ILLAE VERO QUAE SUNT
SECUNDUM INFINITA OPPOSITAE NOMINA VEL VERBA, UT IN EO QUOD EST NON HOMO VEL
NON IUSTUS, QUASI NEGATIONES SINE NOMINE VEL VERBO ESSE VIDENTUR. Si quis enim
dicat non currit, haec fit sine nomine negatio; quod si quis dicat non homo,
haec quoque est sine verbo negatio. Quae dictiones secundum infirutum nomen et
verbum opponuntur fimto verbo vel nomini quod est currit et homo: videbuntur
ergo hae negationes secundum infinitum nomen vel ƿ verbum quae praedicantur SED
NON SUNT. Maxima enim probatio has negationes non esse conuincit, quod omnis
negatio vel vera vel falsa est, quod autem dicimus non homo vel non currit,
licet simplicia quoque et finita homo scilicet atque currit nihil verum
falsumue significent, tamen haec infinita multo minus aliquid verum aut falsum
demonstrant. Non quod simplicia verum aliquid falsumue significent, idcirco
dicimus infinitas dictiones simplicibus minus verum falsumue monstrare sed quod
quamquam nihil verum vel falsum designet simplex nomen aut verbum, tamen
definitum quiddam proponit, ut in eo quod est homo finitum quiddam est et una
species. Is vero qui dicit non homo, praesentem quidem speciem interimit,
infinitas tamen alias dat intellegere ipse nihil ponens. Quocirca quamquam
finita verba vel nomiha per se vera vel falsa esse non possint nisi cum aliis
iuncta sint, tamen longe minus veritatis aut falsitatis capacia sunt nomina
infinita vel verba, quae nec hoc ipsum quidem quod significant ponunt sed illud
quidem perimunt, nihil autem per se aliud in significatione constituunt:
postremo propinquius ad veritatis vel falsitatis finita intellectus. Minus
igitur vera vel falsa est dictio nominis infiniti quam alicuius simplicis et
finiti vocabuli. SIGNIFICAT AUTEM EST OMNIS NON HOMO IUSTUS ƿ NULLI ILLARUM
IDEM NEC HUIC OPPOSITA EA QUAE EST NON EST OMNIS NON HOMO IUSTUS. ILLA VERO
QUAE EST OMNIS NON IUSTUS NON HOMO ILLI QUAE EST NULLUS IUSTUS NON HOMO IDEM
SIGNIFICAT. Postquam de propositionibus infinitum habentibus praedicatum
sufficienti disputatione locutus est earumque oppositiones ostendit
consequentiasque demonstravit, in medio de infinitis nominibus quod non essent
negationes breviter pernotavit, nunc redit ad eas propositiones quae subiectum
habent infinitum, praedicatum vero vel finitum vel infinitum. Et primum quidem
an eaedem sint idemque significent habeantque ordine aliquam consequentiam hae
propositiones quae ex infinito subiecto sunt cum his quae ex infinito
praedicato sunt vel ex utrisque finitis docet. Ait enim has duas propositiones
quae sunt EST OMNIS NON HOMO IUSTUS, NON EST OMNIS NON HOMO IUSTUS nulli
illarum idem significare quae aut ex utrisque finitis esset aut ex praedicato
infinito. Et disponantur quidem illae quae aut ex utrisque finitis sunt aut ex
praedicato infinito. Et primum quidem ponatur simplex affirmatio universalis,
sub hac negatio universalis ex praedicato infinito superiori simplici
affirmationi consentiens. Contra vero ponatur universalis simplex negatio et
sub hac universalis ex infinito praedicato affirmatio, quas constat sibimet
consentire praesidente affirmatione universali quae est ex infinito scilicet
praedicato. Est omnis homo iustus Nullus est homo iustus Nullus est homo non
iustus Est omnis homo non iustus. Cum ergo ita sint affirmationes positae et
negationes quae simplex quidem subiectum habeant, infinitum vero vel simplex
praedicatum, nunc Aristoteles dicit quoniam hae propositiones quae subiectum
habent infinitum nulli illarum superiorum quas disposuimus idem significant.
Haec enim quae dicit: Est omnis non homo iustus non consentit ei quae
dicit: Est omnis homo iustus nec rursus ei quae dicit: Est omnis homo non
iustus nec his rursus quae sunt: Nullus est homo iustus vel: Nullus
est homo non iustus Hae enim omnes hominem subiectum habent, illa vero
non hominem. Quocirca nec huius negatio, id est universalis affirmationis ex
infinito subiecto particularis scilicet negatio, cum ulla earum quae finitum
subiectum habent poterit consentire. Ea enim quae dicit: Non est omnis non homo
iustus neque cum ea quae proponit: Est omnis homo iustus neque cum
ea quae dicit: Est omnis homo non iustus neque cum his quae enuntiant:
Nullus est homo iustus vel: Nullus est homo non iustus Sed non hoc
dicit, quoniam ex infinito subiecto propositiones diversae sunt his quae sunt
vel ex finito praedicato vel ex infinito, subiecto tamen finito. Possunt enim
diversae quidem esse praedicationes, idem tamen aliquotiens significare, ut ea
quae dicit: Omnis est homo iniustus cum sit diversa ab ea quae dicit:
Nullus est homo iustus idem tamen aliquando significant, si affirmatio
privatoria praecesserit. Dictum est enim quod affirmationibus praecedentibus
negationes sine dubio ƿ sequerentur ergo non hoc dicit, quoniam diversae sunt
ex infinito nomine subiecto, praedicato vel finito vel infinito, subiecto tamen
finito sed quod omnino sibi non consentiant nec idem significent id est tota
sint propositionis virtute dissimiles. Atque haec quidem dixit de his quae
finitum subiectum haberent, infinitum vero praedicatum. Venit autem nunc ad
ipsarum consequentias quae ex infinito nomine subiecto constant et sicut supra
consequentiam earum quae ex utrisque finitis erant vel ex infinito praedicato
docuit, ita quoque nunc e converso quae ex utrisque infinitis nominibus
constant vel infinito nomine subiecto qualem ad se habeant consequentiam
monstrat dicens: illa vero quae est: Omnis non iustus non homo illi quae
est: Nullus iustus non homo idem significat. Has duas tantum
propositiones monstrat, affirmativam scilicet universalem ex utrisque infinitis
quae dicit: Omnis non iustus non homo ei consentire quae est universalis
negatio ex solo infinito subiecto quae dicit: Nullus iustus non homo In his
autem subauditur particula est, ut sit tota propositio: Omnis non iustus non
homo est et rursus: Nullus iustus non homo est Nam sicut in his,
quae finitum habebant subiectum, infinitum vero vel finitum praedicatum,
affirmationem ex finito subiecto et infinito ƿ praedicato eam scilicet quae
dicit: Est omnis homo non iustus sequebatur simplex universalis negatio
quae ex utrisque finitis constat id est: Nullus homo iustus est ita
quoque in his permutatis tantum subiectis idem evenit. Nam sicut illic negatio
ex utrisque finitis universalis sequebatur affirmationem ex finito subiecto et
infinito praedicato universalem, ita hic quoque affirmationem ex utrisque
infinitis universalem sequitur negatio ex infinito subiecto ipsa quoque
universalis. Et has quidem duas propositiones adscripsit solam in his
consequentiam, caeteras autem, quod putabat intellectu esse faciles, persequi
neglexit. Nos autem eas ne quid relictum videatur apponimus. Est enim sequentia
hoc modo: Omnis non homo non iustus est Quidam non homo iustus est Nullus non
homo iustus est Non omnis non homo non iustus est Omnis non homo iustus est
Quidam non homo non iustus est Nullus non homo non iustus est Non omnis non
homo iustus est ƿ Has igitur si quis diligenter inspexerit duas
comparationes duabus convenientissimam consequentiam consensumque monstrabunt.
Maximam operis emensi partem ea quae sequuntur licet magnis quaestionibus
impedita, tamen audacius atque animosius exsequimur nec defatigari in singulis
partibus oportet totius dialecticae prodere adgressos atque expedire doctrinam.
Itaque rectam commentationis seriem conteximus. TRANSPOSITA VERO NOMINA VEL VERBA
IDEM SIGNIFICANT, UT EST ALBUS HOMO, EST HOMO ALBUS. NAM SI HOC NON EST,
EIUSDEM MULTAE ERUNT NEGATIONES. SED OSTENSUM EST, QUONIAM UNA UNIUS EST. EIUS
ENIM QUAE EST EST ALBUS HOMO NEGATIO EST NON EST ALBUS HOMO; EIUS VERO QUAE EST
EST HOMO ALBUS, SI NON EADEM EST EI QUAE EST EST ALBUS HOMO, ERIT NEGATIO VEL
EA QUAE EST NON EST NON HOMO ALBUS VEL EA QUAE EST NON EST HOMO ALBUS. SED
ALTERA QUIDEM EST NEGATIO EIUS QUAE EST EST NON HOMO ALBUS, ALTERA ƿ VERO EIUS
QUAE EST EST ALBUS HOMO. QUARE ERUNT DUAE UNIUS. QUONIAM IGITUR TRANSPOSITO
NOMINE VEL VERBO EADEM FIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO MANIFESTUM EST. Docet nunc
quoniam si verba vel nomina transferantur et aliud prius, aliud vero posterius
praedicetur, unam sine dubio significantiam retinere. Sive enim quis dicat: Est
homo albus sive: Est albus homo sive: Homo albus est sive:
Albus homo est sive quomodolibet aliter ordinem praedicationis permPomba,
eadem sine dubio significatio permanebit. Et hoc quidem fortasse oratoribus vel
poetis non eodem modo perspiciendum est quo dialecticis. Etenim qui ad
compositionem orationis spectant, maximum differt quo verba et nomina
praedicationis suse ordine proferantur. Multum enim interest in eo quod ait
Cicero: Ad hanc te amentiam natura peptrit, voluntas exercuit, fortuna
servavit ita dixisse ut dictum est an ita: ad hanc te amentiam peperit
natura, exercuit voluntas, servavit fortuna. Sic enim minor est sententiae
magnitudo minusque in ea lucet id quod si componatur eminet et sese vel
nolentibus hominum auribus animisque patefacit. Rursus cum dicit Vergilius:
Pacique imponere morem, potuisset servare metrum si ita dixisset:
moremque imponere paci sed esset debilior sonus nec eo ictu versus tam praeclare
nunc compositus diceretur. Ergo non idem valet oratoribus vel poetis verborum
nominumque ordo mutatus. ƿ Qui enim ad compositionem spectant, multum in ordine
sermonum ornamenti reperient. Dialecticis vero, quibus nulla ad orationis
leporem cura dicendi congruit quibusque sola veritas perscrutatur, nihil
differt quolibet ordine verba et nomina si permutentur, cum tamen eandem vim
quam prius in significatione retineant. Sed nec apud ipsos modis omnibus
permutato ordine dictionis eadem semper vis significatioque servatur. Haec enim
particula quae negativa est, id est 'non', multum valet multamque differentiam
perficit variis adiecta locis. Si quis enim dicat: Homo albus non est
faciet indefinitam simplicem negationem. Si quis vero dicat: Homo non albus
est faciet indefinitam ex infinito praedicato affirmationem. Si quis
autem praedicet: Non homo albus est idem quoque constituit ex infinito
subiecto indefinitam affirmationem. Rursus si quis dicat hoc modo: Omnis homo
non iustus est haec consentit ei quae dicit: Nullus homo iustus est
Quod si idem non ad universalitatis determinationem ponatur, ut dicatur: Non
omnis homo iustus est non iam universalis affirmatio infinitae
praedicationis consentiens universali simplici negationi fit sed potius
particularis negatio simplex. Videsne igitur quam multas faciat differentias negativa
particula diversae nominum praedicationi coniuncta? Sed quamquam haec ita sint,
potest tamen eadem alio modo diversis in locis posita eandem vim significationemque
servare. Si enim posita non particula cum universalitate sua cum eadem ipsa
saepius permPombaur, idem sine dubio in significatione consistit. Si quis enim
dicat: Non omnis homo albus est particularis est negatio simplex. Si quis
vero sic dicat: Homo non omnis albus est eadem significatio est, vel si
hoc modo: Homo albus non omnis est nec haec a superiori significatione
discedit, vel si quis amplius quoque permPomba dicens: Homo albus est non
omnis a priori significatione nil discrepat. Eodem modo vel si
quomodolibet aliter permPombaur cum propria tamen universalitatis
determinatione, diverso permutata modo idem semper necesse est in
significatione seruetur. Eodem modo si eadem non particula cum alio nomine vel
verbo iuncta saepius transferatur, ut cum dicimus homo iustus non est, rursus
homo non est iustus, rursus non est homo iustus, eadem significatio retinetur.
Quocirca si sola negativa parcula permutata sit et non eodem semper ordine
praedicetur, multas differentias faciet propositionum. Sin vero iuncta cum alio
nomine saepius (ut dictum est) transferatur, eadem in translationibus omnibus
significatio permanebit. His igitur ita dispositis videndum est quae sit
Aristotelis demonstratio verba et nomina transposita eandem semper vim significationemque
subicere. Ait enim: TRANSPOSITA VERO VERBA VEL NOMINA IDEM SIGNIFICANT, UT EST
ALBUS HOMO, EST HOMO ALBUS. Haec enim transpositis nominibus atque verbis
eandem retinet significationem. In illa enim prius albus est, posterior homo,
in hac autem prior homo, posterior albus. Quod si hoc falsum est et non sunt
eaedem ƿ sed a se diversae sunt, impossibile aliquid inconveniensque contingit.
Erunt enim duae negationes unius affirmationis, quod est impossibile. Ostensum
enim est quoniam una negatio unius affirmationis est. Nunc igitur videamus si
hae affirmationes quae dicunt: Est albus homo et: Est homo albus
non sunt eaedem sed diversae, quemadmodum unius affirmationis duae sint
negationes. Et primo quidem disponantur hoc modo: Est albus homo Est homo
albus huius ergo propositionis quae dicit: Est albus homo erit
negatio ea scilicet quae proponit: Non est albus homo Alia namque quae
esse possit rationabiliter non potest inveniri. Disponantur igitur rursus
eaedem et superior cum propria negatione: Est albus homo Non est albus homo Est
homo albus Cum igitur eius quae dicit: Est albus homo negatio sit
ea quae proponit: Non est albus homo si ea quae dicit: Est homo
albus diversa erit ab ea propositiones quae enuntiat: Est albus
homo alia eius erit negatio. Sit ergo aut ea quae dicit: Non est non homo
albus aut ea quae dicit: Non est homo albus Rursus igitur
disponantur duae quidem affirmationes primae alternatim positae et e contrario
confessa prioris negatio. Contra secundam vero utraeque hae negationes quas
dicimus adscribantur. Est albus homo Non est albus homo Est homo albus Non est
non homo albus Non est homo albus ƿ His ergo ita descriptis eius
propositionis quae dicit: Est homo albus non potest illa esse negatio
quae dicit: Non est non homo albus Illius est enim negatio quae habet
subiectum infinitum quae dicit: Est non homo albus similiter autem et si
quamlibet aliam quis posuerit negationem, eius sine dubio alia affirmatio
reperietur. Unde fit ut relinquatur ea eius esse negatio quae proponit: Non est
homo albus Est ergo negatio eius quae dicit: Est homo albus ea quae
dicit: Non est homo albus Sed eius affirmationis quae proponit: Est albus
homo negatio est et ista quae dicit: Non est homo albus Quod probat
ea res quod inter se verum falsumque dividunt. Nam si verum est esse album
hominem, falsum est non esse hominem album. Quod si in aliquibus verum
invenitur, hoc secundum definitionem propositionis agnoscitur, non secundum
negationis formam, ut magis secundum quantitatem non sint sibi oppositae potius
quam secundum qualitatem. Quod illa res nuonstrat si quis sic dicat: Est albus
omnis homo Si contra hanc ponatur non est omnis homo albus, perspicuum
est quoniam inter se et veritatem dividunt et falsitatem. Unam enim veram esse
necesse est, unam falsam. Quare etiam si determinationes auferantur, eadem
oppositio redit, licet sit indefinita. Nam sicut in ea quae dicit: Omnis homo
iustus est Non omnis homo iustus est sublatis omnis et: Non omnis homo
iustus est et: Homo iustus non est affirmatio et negatio sunt
oppositae, ita quoque et in ƿ his sublato omnis et non omnis ea quae dicit: Est
albus homo ei quae dicit: Non est homo albus opposita est. Additis
enim determinationibus una semper vera est, altera falsa. Sed diximus quoniam
eius affirmationis quae dicit: Est albus homo negatio esset: Non est
albus homo Duae igitur negationes: Non est albus homo et: Non est
homo albus unius affirmationis sunt quae enuntiat: Est albus homo
Quod evenit si negationes hae quae dicunt: Non est homo albus et: Non est
albus homo a se diversae sunt. Quod ex eo contingit quod prius propositum
est eam quae dicit: Est albus homo diversam esse ab ea quae dicit: Est
homo albus Quod si hoc impossibile est ut una affirmatio duas habeat
negationes et perspicuum est contra eam affirmationem quae dicit: Est albus
homo utrasque has negationes quae dicunt: Non est albus homo et:
Non est homo albus opponi, hae a se diversae non sunt sibique consentiunt
et tantum permutatione nominis distant, caeteris autem omnibus eaedem sunt.
Quod si hae negationes eaedem sunt, eaedem quoque sunt affirmationes. Recte igitur
dictum est quoniam transposita verba et nomina eandem vim significationemque
servarent. Sensus ergo totus sese ita habet. Hoc modo autem ordo verborum:
TRANSPOSITA VERO, inquit, NOMINA VEL VERBA IDEM SIGNIFICANT. Et horum exemplum:
UT EST ALBUS HOMO, EST HOMO ALBUS. In his enim nomina transposita sunt. NAM SI
HOC NON EST, id est si non idem significant verba nominaque transposita,
quiddam impossibile et inconveniens. Ait enim EIUSDEM ƿ MULTAE ERUNT
NEGATIONES, id est eiusdem affirmationis multae erunt negationes. Sed hoc
impossibile est. Ostensum est enim quoniam una negatio unius affirmatio his
est. Duas ergo negationes uni opponi affirmationi, si verba et nomina
transposita non idem significant, sic demonstrat: EIUS ENIM QUAE EST EST ALBUS
HOMO scilicet affirmationis NEGATIO EST NON EST ALBUS HOMO (contra illam enim
affirmationem haec negatio iuste ponitur), EIUS VERO QUAE EST EST HOMO ALBUS,
id est alterius affirmationis, SI NON EADEM EST EI QUAE EST EST ALBUS HOMO, id
est si diversa est a priore propositione quae dicit: Est albus homo et
non est ei eadem, ac si diceret: si ei non consentit, ERIT NEGATIO VEL EA QUAE
EST NON EST NON HOMO ALBUS VEL EA QUAE EST NON EST HOMO ALBUS vel quaecumque
alia, quam si quis ponat, non esse negationem una ratione refellitur, qua haec
quam posuit. Refellitur autem haec hoc modo: ait enim: SED ALTERA QUIDEM EST
NEGATIO EIUS QUAE EST EST NON HOMO ALBUS, ALTERA VERO EIUS QUAE EST EST ALBUS
HOMO. Inter duas enim negationes quas posuit, illam scilicet quae dicit: Non
est non homo albus et eam quae proponit: Non est homo albus illa
quae dicit: Non est non homo albus negatio est affirmationis infinitum
habentis subiectum quae dicit: Est non homo albus alia vero scilicet quae
proponit: Non est homo albus eius est ƿ negatio quae est: Est albus
homo Cum ea enim verum dividit atque falsum. Quare erunt duae negationes
unius affirmationis. Sed hoc impossibile est. QUONIAM IGITUR TRANSPOSITO NOMINE
VEL VERBO EADEM FIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO MANIFESTUM EST: superiorem argumentationem
hac huius sententiae conclusione confirmans. Fecit autem hunc syllogismum in
secundo modo hypothetico quem indemonstrabilem vocat hoc modo: si primum est,
secundum est; sed secundum non est, primum igitur non est, id est si
transpositis verbis et nominibus non sunt eaedem propositiones, unius
affirmationis duae sunt negationes; sed hoc impossibile est: non igitur
diversae sunt propositiones transpositis verbis atque nominibus. AT VERO UNUM
DE PLURIBUS VEL PLURA DE UNO AFFIRMARE VEL NEGARE, SI NON EST UNUM EX PLURIBUS,
NON EST AFFIRMATIO UNA NEQUE NEGATIO. DICO AUTEM UNUM NON SI UNUM NOMEN SIT
POSITUM, NON SIT AUTEM UNUM EX ILLIS, UT HOMO EST FORTASSE ET ANIMAL ET BIPES
ET MANSUETUM SED EX HIS UNUM FIT; EX ALBO AUTEM ET HOMINE ET AMBULARE NON UNUM.
QUARE NEC SI UNUM ALIQUID DE HIS AFFIRMET ALIQUIS ERIT UNA AFFIRMATIO SED VOX
QUIDEM UNA, AFFIRMATIONES VERO MULTAE, NEC SI DE UNO ISTA SED SIMILITER PLURES.
Multos talis loci huius caligo confudit, ut digne exsequi et quod ab Aristotele
dicebatur expedire non ƿ possent. Nos autem supra iam diximus magnae fuisse
curae apud Peripateticae sectae principes diiudicare, quae esset una affirmatio
vel negatio, quae plures. Neque enim vocis sonitu cognoscuntur aut numero
terminorum. Est enim ut una quidem res de una re praedicetur et non sit una
enuntiatio. Potest item fieri ut vel plures de una re praedicentur vel una de
pluribus, una tamen ex his omnibus enuntiatio fiat. Quae res magnae apud eos
cautelae fuit, ut ubi incidisset perspecta regula non lateret. Nam si quis
dicat: Canis animal est non est una enuntiatio. Canis enim multa
significat. Si quis vero dicat: Homo animal rationale mortale est vel
animal rationale mortale homo, singulae enuntiationes sunt, idcirco quoniam
unum ex omnibus quiddam fieri potest. Nam de animali, mortali et rationali
simul iunctis unus homo perficitur. Item alia sunt quae plurima praedicantur,
de quibus unum aliquid effici constituique non possit. Neque si illa de altero
praedicentur neque si de illis aliud, una affirmatio vel una negatio est sed
tot dicendae sunt esse affirmationes quot sunt hae res quae vel de una
praedicantur vel de quibus una dicitur, ut cum dicimus: Socrates calvus
philosophus ambulat Ex calvitia et philosophia et ambulatione nihil unum
coniungitur, ut haec quasi alicuius speciem forment. Quocirca sive haec de uno
praedicentur sive unus de istis, non poterit esse una enuntiatio. Et communiter
quidem totius propositi sensus huiusmodi est. Nunc autem ad ipsa Aristotelis
verba veniamus. Dicit enim: AT VERO UNUM DE PLURIBUS VEL PLURA DE UNO AFFIRMARE
VEL NEGARE, SI NON EST UNUM ES PLURIBUS, NON EST AFFIRMATIO UNA NEQUE NEGATIO. Si,
inquit, plura de uno praedices, ut cum dicis: Philosophus simus calvus Socrates
est vel rursus cum unum de pluribus praedicas, cum dicis: Socrates
philosophus simus calvus est si ex his pluribus quae vel praedicas vel
subicis unum aliquid non fit, quemadmodum fieri unum potest de his quae
praedicamus substantia animata sensibilis id quod est animal, non fit una
negatio nec una affirmatio, quandoquidem plura vel praedicantur vel
subiciuntur, ex quibus congregatis una species non exsistat. Quod si unum de
uno aliquis praedicaverit, quorum unum nomen plura significet, ex quibus
pluribus unum aliquid non fiat, rursus non est una affirmatio nec una negatio. Si
quis enim dicat: Canis animal est nomen canis significat et latrabilem et
caelestem et marinum, ex quibus iunctis nihil unum efficitur. Quare quoniam ex
his pluribus unum aliquid effici non potest, ex illo quoque nomine non fit una
affirmatio et una negatio, quod praedicatur aut subicitur, cum multa significet
ex quibus unum fieri non possit. Quod per hoc ostendit quod ait: DICO AUTEM
UNUM NON SI UNUM NOMEN SIT POSITUM NON SIT AUTEM UNUM EX ILLIS. Potest enim
fieri ut unum nomen de uno praedicetur sed si unum ipsorum plura significet, ex
quibus unum non sit, non est una affirmatio nec una negatio. Neque enim vox una
perficit enuntiationem sed eius quod significatur simplicitas, vel si plura
sins, in unum collectorum ƿ aliquid unum faciendi potentia. Huius autem rei
subiecit exemplum quo plurimos fefellit dicens: UT HOMO EST FORTASSE ET ANIMAL
ET BIPES ET MANSUETUM SED EX HIS UNUM FIT, EX ALBO AUTEM ET HOMINE ET AMBULARE
NON UNUM. Putaverunt enim alii ita hunc dixisse, ut ostenderet exempli gratia
se hanc quasi definitionem dedisse, ne forte aliquis arbitraretur hanc quasi
veram hominis definitionem posuisse, quae est animal bipes mansuetum. Idcirco
enim, inquiunt, dixit FORTASSE ET ANIMAL ET BIPES ET MANSUETUM EST, ne quis
omnino putaret huiusmodi esse hominis definitionem Aristotelem arbitrari. Alii
vero hoc non ita dictum acceperunt sed potius in hanc sententiam scripturamque
Aristotelis dictum interpretati sunt: UT HOMO EST AEQUE ET ANIMAL ET BIPES ET
MANSUETUM SED EX HIS UNUM FIT, ut ita intellegeretur: homo quidem aequaliter se
habet ad id quod homo est et ad id quod animal bipes mansuetum est. Quocirca si
idem et aequum est dicere hominem, quod animal bipes mansuetum, necesse est
quotiens de uno haec plura praedicantur, id est animal bipes mansuetum de
homine, quoniam aequale est homini, quod unum est, unum quiddam praedices,
quamuis tres voces praedicare videaris. Sed omnes hi nihil omnino intellegunt
sed est melior expositio quam Porphyrius dedit. Volens, inquit, Aristoteles
monstrare, quae una esset affirmatio, quae non una, dixit primo, quoniam plura
de uno praedicare vel plura uni subicere non est ad unam enuntiationem, nisi ex
illis pluribus unum aliquid fieret. Videns item quod adhuc possint plures esse
affirmationes etiam his praedicatis, quae cum plura sint, unum tamen ex his
fieri possit, hoc dixit FORTASSE ET ANIMAL ET BIPES EST ET MANSUETUM quod autem
dico tale est: manifestum quidem sit, quoniam si plura de uno praedicentur, ex
quibus unum fieri non possit, vel si plura uni subiciantur, ex quibus unum non
sit, quoniam non est una affirmatio rel negatio.Nunc autem tractemus de his
pluribus ex quibus unum aliquid fieri potest. Inveniemus enim et in his in modo
ipso enuntiandi plures aliquotiens enuntiationes et non unam reperiri, quamquam
ex pluribus unum fieri aliquid possit. Si quis enim sic dicat: animal rationale
mortale homo est, simul iungens animal rationale mortale, quoniam continve
dictum est et ex his unum aliquid fit, una est affirmatio. Sin vero sit aliquid
interualli, ut ita quis dicat: homo animal et rursus rationale et aliquantulum
requiescens dicat mortale est, non est una affirmatio nec una negatio. Haec
enim intercapedo plurimas efficit enuntiationes. Rursus si cum coniunctione
dicantur homo animal et rationale et mortale est, sic quoque multae
propositiones sunt. Nec differt aliquid vel requiescendo vel interponendo
coniunctiones dicere quam si quis sic dicat: Homo animal est Homo rationalis
est Homo mortalis est quae perspicue propositiones multae sunt. Videns
ergo hoc Aristoteles ita dixit: HOMO EST FORTASSE ET ANIMAL ET BIPES ET
MANSUETUM. Ad hoc inquit fortasse tamquam si ita diceret: de homine quidem et
bipede et mansueto fit unum sed est aliquotiens forte ut plures propositiones
sins, cum ea coniunctio quaedam separat atque discernit. Erit enim fortasse
homo et animal, ut haec una sit propositio, et bipes ut altera et mansuetum ut
rursus altera. Sed ex his unum aliquid fit, quae cum continve prolata sunt,
quoniam ex his unum aliquid conficitur, una est propositio. Non autem idem
evenit in omnibus. EX ALBO enim ET HOMINE ET AMBULARE NON UNUM FIT. Si quis
enim dicat: Socrates homo albus ambulat non est una affirmatio, quoniam
ex homine albedine et ambulatione nulla omnino species fit. Quare conclusio
est, quoniam nec si de his pluribus, ex quibus unum non fit, unum aliquid
praedicetur, ut ex terreno latrabili et caelesti et merino quoniam unum non fit
et de his unum aliquid praedicatur, quod dicimus canis, huiusmodi nomen quod
plura significat, ex quibus unum non fit, si de altero praedicetur vel si
subiciatur alteri, non fit una affirmatio nec una negatio sed erit quidem vox
una, affirmationes vero plurimae. Sive enim unum de pluribus praedicetur, ex
quibus non fit unum, vel plura huiusmodi de uno, vel si unum de uno
praedicetur, quod praedicatum plura significet, ex quibus unum non fit, sive
illud praedicatum alteri subiciatur, omnino non fit una affirmatio nec una
negatio. Est autem regula huiusmodi: una affirmatio est, si aut duo termini
singulas res significent aut si plura ita de uno praedicentur vel uni
subiciantur, ut ex his aliquid unum fieri possit, aut unum nomen quod vel
praedicatur vel subicitur talia significet plura, quae omnia unam quodammodo
speciem valeant congregare. SI ERGO DIALECTICA INTERROGATIO RESPONSIONIS EST
PETITIO, VEL PROPOSITIONIS VEL ALTERIUS PARTIS CONTRADICTIONIS, PROPOSITIO VERO
UNIUS CONTRADICTIONIS EST, NON ERIT UNA RESPONSIO AD HAEC; NEC UNA
INTERROGATIO, NEC SI SIT VERA. DICTUM AUTEM IN TOPICIS DE HIS EST. SIMILITER
AUTEM MANIFESTUM EST, QUONIAM NEC HOC IPSUM QUID EST DIALECTICA EST
INTERROGATIO. OPORTET ENIM DATUM ESSE EX INTERROGATIONE ELIGERE UTRAM VELUT
CONTRADICTIONIS PARTEM ENUNTIARE QUIA OPORTET INTERROGANTEM DETERMINARE, UTRUM
HOC SIT HOMO AN NON HOC. Quisquis dialectica utitur interrogatione, hic aut
simpliciter interrogat atque unam propositionem in interrogatione ponit, ut
contra eam sit una responsio, aut utrasque interrogans dicit, ad quas non fit
simplex responsio sed una tota propositio respondetur. Si quis enim dicat
interrogans: Socrates animal est? Contra hanc talis est responsio: Aut
ita aut non Si quis vero hoc modo interroget: Socrates animal est an
non? Contra hanc non est una responsio. Si enim respondetur ita, de qua
adnueris ignoratur, de affirmatione an de negatione; rursus si non responderis,
nescitur quam negare volueris, affirmationem an negationem. Quare contra
huiusmodi interrogationes tota propositio respondenda est, id est altera pars
contradictionis, ƿ aut tota affirmatio aut tota negatio, ut dices aut est
animal Socrates aut, si hoc non videtur, respondeas non est animal Socrates. In
his igitur quae multa sunt, ex quibus unum fieri nequit, si fiat interrogatio,
et ipsa reprehensibilis est et contra eam una responsio. Quisquis enim ea plura
interrogat, ex quibus unum esse non possit, multas facit interrogationes.
Contra quam si simpliciter respondeatur, etiam si vera sit ipsa responsio,
tamen iure reprehenditur. Contra enim multiplicem interrogationem multiplex
debet esse responsio. Si quis enim dicat interrogans: Socrates philosophus est
et legit et ambulat? Quia potest fieri ut sit quidem philosophus et
legat, non autem ambulet vel ambulet sed non legat, potest item fieri ut et
legat et ambulet, contra huiusmodi propositionem non est una responsio. Nam qui
ita interrogavit: Socrates philosophus est et legit et ambulat? Aut
imperite aut captiose interrogavit. Contra quam interrogationem, si contigerit
Socratem philosophum esse et ambulare et legere, si respondeatur: ita est, haec
quoque responsio reprehenditur. Contra plures enim interrogationes una
responsio non debet adhiberi, etiam si vere per illam unam respondeatur sicut
in hac quoque, si et philosophus est et legit et ambulat. Quocirca si
interrogatio dialectica responsionis petitio est, per quam responsionem fiat
propositio, ut cum quis dixerit interrogans: Dies est? Alius respondeat
non, fiat inde negatio: Dies non est vel certe altera pars propositionis,
cum ita interrogatur: Dies est an dies non est? Ut congrue scilicet
respondeatur diem esse aut diem non esse, id est tota propositio: hae quae ex
his pluribus fiunt atque interrogantur, ut unum ex his fieri non possit, non
sunt simplices interrogationes. Quocirca nec ad eas simplex est reddenda
responsio. De his autem se in Topicis dixisse commemorat. Rursus QUIA
DIALECTICA INTERROGATIO RESPONSIONIS EST PETITIO (ut supra dictum est) VEL
PROPOSITIONIS VEL ALTERIUS PARTIS CONTRADICTIONIS, quod paulo post
demonstrabitur, imperite illi interrogant qui ita dicunt: Quid est
animal? vel: Quid est homo? Oportet enim qui dialectice interrogat
dare interrogatione optionem, an sibi respondens affirmationem eligere velit an
negationem. Qui vero sic interrogat, ut quid est aliqua res volit dicere
respondentem, non est illa interrogatio dialectica. Interrogant autem quidam
hoc modo: Putasne anima ignis est? Cum respondens negaverit, addet: Nonne
tibi aliquid videtur esse inter ignem atque aerem, medium corpus, ut sit
anima? Cum respondens hoc quoque abnuerit, ille persequitur: An fortasse
magis tibi videtur aquam esse animam vel terram? Cum ille neque terram
neque aquam animam esse consenserit, tunc defessi interrogationibus ita
interrogant: Quid est ergo anima? Haec autem non est interrogatio
dialectica sed potius discipuli ad magistrum aliquid addiscere cupientis. Qui
enim aliquid cupit addiscere interrogat eum qui docere potest quid sit de quo
ambigit. Dialecticus ƿ autem (ut dictum est) ita interrogare debet, ut
respondenti sit optio an affirmationem an negationem velit eligere. Oportet
autem scire, quoniam omnis INTERROGATIO RESPONSIONIS EST PETITIO, dialectica
vero non cuiusdam responsionis sed eius quae in utraque parte habeat optionem.
Ergo hoc ipsum quid est non est dialectica interrogatio. Oportet enim ita
interrogare, ut ex interrogatione responsor possit eligere alteram
contradictionis partem. Debet enim terminare et definire is qui interrogat, an
hoc sit quod dicitur an non, ut: Homo animal est an non? Ut ille aut
affirmationem respondeat aut negationem. Quod autem dixit dialecticam
interrogationem petitionem esse responsionis, vel propositionis vel alterius
partis contradictionis, huiusmodi est: quisquis interrogat affirmationem; aut
eandem exspectat ut auditor sibi respondeat aut contradictionem, ut si quis sic
interroget: Homo animal est? Si ille adnuerit, propositionem reddidit,
eam scilicet quam proposuit interrogans; si vero interrogante aliquo, an homo
animal sit, respondens dixerit: Non est contradictionem respondisse
videbitur. Ille enim affirmationem interrogavit, ille negationem respondet,
quod est contradictio. Rursus si negationem interroget et ille respondeat
negationem, eandem propositionem reddidit, quam is qui interrogabat ante
proposuerat; sin vero interrogante alio negationem ille affirmationem
responderit, contradictio responsa est. Hoc est igitur quod ait interrogationem
responsionis petitionem esse et cuius responsionis addidit VEL PROPOSITIONIS,
si idem respondeat, quod ille interrogat, VEL ALTERIUS PARTIS CONTRADICTIONIS,
si cum ille affirmationem interrogat, ille responderit negationem, vel si cum
ille negationem in interrogatione posuerit, ille affirmationem in responsione
reddiderit. Interrogationis autem secundum Peripateticos duplex species est:
aut cum dialectica interrogatio est aut cum non dialectica. Non dialecticae
autem interrogationis duae sunt species, sicut Eudemus docet: una quidem quando
sumentes accidens interrogamus, cui illud accidat, ut quando videmus domum
Ciceronis, si interrogemus: Quis illic maneat? vel quando subiectum quidem
ipsum et rem sumimus, quid autem illi accidat interrogamus, ut si ipsum
Ciceronem quis videat et interroget: Quo divertat Et haec una species est
eorum, quae secundum accidens non dialectice interrogamus. Altera vero quando
proponentes nomen quid sit quaerimus aut genus aut differentiam aut
definitionem requirentes, ut si quis interroget: Quid sit animal vel
quando definitionem aut aliquid superius dictorum sumimus et quaerimus, cuius
illa sint, ut si quis quaerat, animal rationale mortale cuius sit definitio. QUONIAM
VERO HAEC QUIDEM PRAEDICANTUR COMPOSITA, UT UNUM SIT OMNE PRAEDICAMENTUM EORUM
QUAE EXTRA PRAEDICANTUR, ALIA VERO NON, QUAE DIFFERENTIA EST? DE HOMINE ENIM
VERUM EST DICERE ET EXTRA ANIMAL ET EXTRA BIPES ET UT UNUM ET HOMINEM ET ALBUM
ET HAEC UT UNUM. ƿ SED NON, SI CITHAROEDUS ET BONUS, ETIAM CITHAROEDUS BONUS.
SI ENIM, QUONIAM ALTERUTRUM DICITUR, ET UTRUMQUE DICITUR, MULTA ET INCONVENIEN
IA ERUNT. DE HOMINE ENIM ET HOMINEM VERUM EST DICERE ET ALBUM, QUARE ET OMNE.
RURSUS SI A BUM, ET OMNE. QUARE ERIT HOMO ALBUS ALBUS ET HOC IN INFINITUM. ET
RURSUS MUSICUS ALUS AMBULANS; ET HAEC EADEM FREQUENTER IMPLICITA. AMPLIUS SI
SOCRATES SOCRATES ET HOMO, ET SOCRATES SOCRATES HOMO. ET BIPES, ET HOMO BIPES. Multa
sunt quae cum singillatim vere praedicentur, si quis ea coniungat et praedicet,
veram praedicationem tenent. Sunt autem alia quae, si per se et disiuncta
praedicentur, vera sunt; sin vero coniuncte dicantur, veritatem in
praedicatione non retinent. Quae ergo horum sit differentia oportet agnosci. Si
quis enim dicat Socratem animal esse, verum dixerit, si quis rursus praedicet,
quoniam Socrates bipes est, hoc ƿ quoque verum est. Quae si coniuncta dicantur,
ut est: Socrates animal bipes est a propria veritate non discrepat. Atque
haec quidem in genere et ea differentia quae substantialis est Socrati. Quod si
de accidenti quoque dicatur, potest idem nihilominus evenire. Si quis enim sic
dicat: Socrates homo est verum est, rursus: Socrates calvus est hoc
quoque verum est. Quod si iungat dicens: Socrates homo calvus est veram
rursus ex coniunctis faciet praedicationem. Atque in his quidem ea quae
singillatim vere dicebantur, iuncta veraciter praedicata sunt. Sunt autem alia
in quibus singillatim quidem praedicata vera sunt, iuncta vero qualitatem
veritatis amittunt. Ut si quis dicat quoniam Socrates bonus est, verum est,
rursus Socrates quoque citharoedus est, sit hoc quoque verum. Haec coniungere
non necesse est, ut sit verum Socrates bonus citharoedus est. Potest enim bonus
quidem esse homo et cum sit citharoedus, non tamen esse bonus sed in alia re
quidem bonus, in alia tantum artis illius cognitor, non tamen in ipsa
perfectus. Hoc autem facilius tall liquebit exemplo: si quis enim dicat quoniam
Tiberius Gracchus malus est, verum est, rursus Tiberius Gracchus orator est,
hoc quoque verum est. Si coniungens dicat: Tiberius igitur malus orator est,
falso dixerit, optimus enim orator fuit. Sed ne quis nos ita dicentes ignorare
pPomba oratoris esse definitionem utrum bonum dicendi peritum, aliter ista
dicta sunt, ad exemplum potius quam ad veritatem. Atque ƿ haec quidem proposita
ab Aristotele sunt, cuius in textu verba sic constant: QUONIAM VERO, inquit,
ALIA QUIDEM PRAEDICANTUR coniuncta et COMPOSITA, ut ex his unum praedicamentum
fiat eorum quae extra vere dicta sunt, alia vero cum extra singillatimque vere
praedicarentur iuncta veram non faciunt praedicationem, inquirendum est quae
eorum sit differentia. Exempla autem horum talia sunt. Eorum quidem, quae extra
praedicantur vere nec si coniuncta sunt naturam veritatis amittunt, tale
exemplum est: DE HOMINE VERUM EST DICERE, quoniam et animal est et bipes rursus
quoniam animal bipes verum est de eodem homine dicere, ut de Socrate. De eodem
quoque Socrate et hominem extra et album, si ita contingit, verum est dicere et
de eo praedicare animal bipes a veritate non discrepat. Atque haec quid em
extra singillatimque praedicantur vere et iuncta vera sunt. Quod si de aliquo
praedicetur, quoniam citharoedus est, et verum sit et rursus quoniam bonus est,
et verum sit non necesse est dici quoniam bonus citharoedus est potest enim esse
solum quidem citharoedus, bonus autem homo. Hucusque quidem ista disposuit.
Quoniam autem videbantur quidam arbitrari, quod omnia quae singillatim vere
praedicarentur eadem quoque composita recte dicerentur, contra hos dicit,
quoniam multa erunt inconvenientia multaque impossibilia sunt si quis dicat
omne quod singillatim praedicatur veraciter id iunctum vere praedicari. De
homine enim verum est dicere quoniam homo est. Nam de Socrate ƿ qui homo est vere
dicitur quoniam homo est. Rursus de eodem vere potest dici quoniam albus est.
Quare et si haec iungas et ut unum praedices, verum est dicere de aliquo homine
quoniam homo albue est. Sed homo qui albus est verum est de eo dicere quoniam
albus est: quare etiam haec si iungas: erit igitur praedicatio "Socrates
homo albus albus est"! Nam de Socrate verum erat dicere quoniam homo albus
est. Sed de homine albo verum est dicere quoniam albus est. Haec iuncta homo
albus albus faciunt. Quod si de eodem homine albo album rursus praedicari
velis, verum est: quocirca et si iungas: erit igitur praedicatio homo albus
albus albus est. Atque hoc idem in infinitum. Rursus si quis de aliquo homine
dicat quoniam ille homo musicus est, si verum dicat adiciatque quoniam idem
homo ambulans est, verum dicit, si iungat quoniam ille homo ambulans musicus
est. Sed si verum est de aliquo homine praedicare quod sit ambulans musicus, de
ambulante autem musico verum est dicere quoniam musicus est, erit ille homo
homo ambulans musicus musicus. Sed de eodem verum est dicere quoniam ambulans
est, verum igitur erit de eo rursus dicere quoniam homo ambulans ambulans
musicus musicus est. Amplius quoque Socrates Socrates est et rursus homo: erit
igitur Socrates Socrates homo. Sed et bipes: erit igitur Socrates Socrates homo
bipes. Sed de Socrate verum est dicere quoniam Socrates homo bipes est. Sed cum
dixi hominem de eo, iam et bipedem ƿ dixi (omnis enim homo bipes est): verum
est ergo de eo dicere quoniam bipes est. Sed verum erat dicere quoniam Socrates
Socrates homo bipes est: vera erit igitur praedicatio Socrates homo bipes bipes
est. Sed rursus hominem dixi atque in eo aliud bipes nominavi (omnis enim homo
bipes est): Socrates igitur homo bipes bipes bipes est. Et hoc in infinitum
protractum superfiva loquacitas invenitur. Non igitur fieri potest ut modis
omnibus quicquid extra dicitur id iunctum vere praedicetur. QUONIAM ERGO SI
QUIS SIMPLICITER PONAT COMPLEXIONES FIERI PLURIMA INCONVENIENTIA CONTINGIT
DICERE MAVIFESTUM EST; QUEMADMODUM AUTEM PONENDUM, NUNC DICIMUS. EORUM IGITUR
QUAE PRAEDICANTUR ET DE QUIBUS PRAEDICANTUR QUAECUMQUE SECUNDUM ACCIDENS
DICUNTUR VEL DE EODEM VEL ALTERUM DE ALTERO, HAEC NON ERUNT UNUM, UT HOMO ALBUS
EST ET MUSICUS SED NON EST IDEM ALBUM ET MUSICUM; ACCIDENTIA ENIM SUNT UTRAQUE
EIDEM. NEC SI ALBUM MUSICUM VERUM EST DICERE, TAMEN NON ERIT ALBUM MUSICUM UNUM
ALIQUID; SECUNDUM ACCIDENS ENIM MUSICUM ALBUM. QUARE NON ERIT ALBUM MUSICUM.
QUOCIRCA NEC CITHAROEDUS BONUS SIMPLICITER SED ANIMAL BIPES; NON ENIM SECUNDUM
ACCIDENS. AMPLIUS NEC QUAECUMQUE INSUNT IN ALTERO. QUARE NEQUE ALBUM FREQUENTER
NEQUE ƿ HOMO HOMO ANIMAL VEL BIPES; INSUNT ENIM IN HOMINE BIPES ET ANIMAL. Quae
superius comprehendit ea nunc apertissima ratione determinat dicens de his
solis extra praedicatis veraciter non posse unam praedicationem fieri veram, si
coniuncta sins, quaecumque aut accidentia sunt eidem, aut cum unum alii
accidit, accidens aliud de illo accidenti praedicatur. Si quis enim de Socrate
dicat quoniam Socrates citharoedus est, rursus Socrates bonus est, si utraque
veraciter praedicet, duo accidentia de uno subiecto praedicavit, id est de
Socrate. Quocirca non potest ex his una fieri praedicatio, ut dicatur Socrates
citharoedus bonus est. Rursus si de Socrate praedicetur musicus (sit enim
Socrates musicus), de musico autem si praedicetur albus, et hoc fortasse sit
verum, non tamen iam necesse est musicum album esse. Si enim sit musicus
Socrates, si de eodem musico albus praedicetur, praedicatur quidem de Socrate
subiecto musicus, de musico autem quod est accidens praedicatur album, rursus
aliud accidens: ergo non potest hic una fieri vera propositio ut dicatur:
Socrates musicus albus est. Neque enim semper musicus albus esse potest sed
hanc naturam habent accidentia, ut veniant et recedant. Ergo si eius, qui
musicus albus est, in sole stantis cutem calor fuscaverit, non erit quidem
albus cum sit musicus. Quocirca neque tunc cum vere praedicabatur, quoniam
Socrates musicus albus est, neque tunc fuit recta veraque praedicatio. Non enim
habet permanendi naturam accidens, ut semper vere praedicetur. Ratio autem
verborum sic constat: quoniam ergo, inquit, si quis ƿ dicat omnino quomodolibet
complexiones fieri, id est ut quod singillatim praedicaveras hoc complexum
conexumque proponas, plurima inconvenientia dicere contingit (multa enim
concurrunt impossibilia, sicut supra ipse monstravit, tunc quando ad nimiam
loquacitatem perduxit eos eadem frequenter nomina repetentes), quemadmodum
ponendum est nunc dicimus, id est quemadmodum autem debent quae singillatim
vere dicuntur iuncta praedicari, nunc, inquit, dicimus. Omnia, inquit, quae
praedicantur de alio et rursus de quibus alia praedicantur duplici modo sunt:
aut enim accidentia sunt aut substantialia. Et aliae quidem praedicationes sunt
secundum accidens, quotiens aut duo accidentia de substantia aut accidens de
accidenti alicui substantiae praedicatur, alia vero non secundum accidens,
quotiens aliquid de atliquo substantialiter dicetur. Eorum igitur quaecumque
secundum accidens dicuntur, eorum si vel duo sint accidentia et de eodem
praedicentur vel si alterum accidens de altero accidenti dicatur, ex his non
potest una fieri propositio neque erit unum si iuncta sint. Homo enim et albus
est et musicus sed album musicum, quoniam in unam formam non concurrunt, non
facient unam propositionem. Non enim idem album et musicum. Utraque enim eidem
sunt accidentia, non tamen idem sunt. Nec si album de musico praedicemus, id
est accidens de accidenti, et hoc verum sit, non tamen necesse est id quod
musicum est esse album. Neque enim unum est aliquid. Accidenter enim id quod
musicum est ƿ album est. Quoniam enim id ipsum cui musicum accidit album est,
idcirco musicum album dicitur. Non est autem idem musicum album. Quocirca eadem
ratione tenetur, ut non possit idem esse citharoedus bonus nec in unum corpus
coniuncta faciant aliquid unum, quamquam singillatim vere praedicentur. Quod si
quis aliquid substantialiter praedicet duasque res singillatim dicat, possunt
in unam propositionem redire, quae substantialiter vere seiuncte separatimque
praedicantur. Homo enim, cum et animal sit et bipes, est animal bipes et fit ex
his una praedicatio. Nam neque animal secundum accidens inest homini nec bipes.
Quod per hoc ostendit quod ait: SED ANIMAL BIPES; NON ENIM SECUNDUM ACCIDENS.
Addit quoque illud quoniam nec ea iuncta recte praedicantur, quaecumque vel
latenter vel in prolatione in aliquo terminorum continentur, qui in
propositione positi sunt. Idcirco enim de homine albo non debet dici albus, ut
veniat praedicatio homo albus albus, quoniam iam in homine albo continetur
album. Rursus de homine idcirco non debet praedicari bipes, quoniam licet non
sit prolatum, tamen qui homo est bipes est. Sed de homine si quis bipes
praedicet, de re duos habente pedes deque hac differentia quod est bipes
praedicat bipes. Quocirca erit hic quoque homo bipes bipes. Homo enim continet
intra se bipes et qui dicit hominem cum sua differentia dicit. Si quis ergo ad
hunc praedicet bipes, de re duos habente pedes bipedem praedicavit. Erit igitur
homo bipes bipes. Sed ita praedicari non debet. Continetur enim in homine
bipes, ƿ ad quod si rursus bipes praedices, molestissimam facies repetitionem.
Hoc enim est quod ait: AMPLIUS NEC QUAECUMQUE INSUNT IN ALIO: continentur vel
prolatione, ut in eo quod est homo albus (continetur in eo albus, quoniam per
prolationem iam dictum est) aut potestate et vi, ut in eo quod est homo
continetur bipes, quamquam dictum penitus non sit. VERUM AUTEM DICERE DE ALIQUO
ET SIMPLICITER, UT QUENDAM HOMINEM HOMINEM AUT QUENDAM ALBUM HOMINEM ALBUM; NON
SEMPER AUTEM SED QUANDO IN ADIECTO QUIDEM ALIQUID OPPOSITORUM INEST QUAE
CONSEQUITUR CONTRADICTIO, NON VERUM SED FALSUM EST, UT MORTUUM HOMINEM HOMINEM
DICERE, QUANDO AUTEM NON INEST, VERUM. Haec quaestio contraria superiori est.
Illic enim quaerebatur, si quae singillatim praedicabantur, an semper eadem
vere coniuncta compositaque dicerentur; hic autem converso ordine idem quaerit,
an ea quae composita vere praedicantur singillatim dicta vere dicantur. Post
obitum enim Socratis possumus dicere hoc cadaver homo mortuus est et hominem
mortnumque inugentes unam inde veram facere praedicationem. Solum autem hominem
dicere cadaver illud non est verum. Rursus eundem Socratem vivum verum est
dicere quoniam animal bipes est et singillatim verum ƿ est dicere quoniam
animal est. Quare quaeritur quae sit huius quoque differentia praedicationis,
ut cum coniuncta dicuntur et vere de subiectis praedicantur alias quidem et
extra dici vere possint, alias vero praeter illam coniunctionem simplicia si
dicantur falsa sint. Hoc autem quasi dubitans dixit. Ita enim legendum est,
quasi si dubitans diceret sic: verum est autem dicere de aliquo compositum
coniunctumque aliquid, ut de aliquo homine hominem aut de aliquo albo album,
ita ut et horum aliquid simpliciter praedicetur, an certe non semper? Et dat
regulam qua pernoscamus, an quae composita dicuntur eadem singillatim dici
possint an minime. Quotiens enim talia sunt quae praedicantur cum alio, ut in
se non habeant contradictionem praedicata, possunt dici et separata veraciter.
Quodsi habeant in se aliquam contradictionem quae praedicantur et composita
dicuntur vere, separata vere praedicari non possunt. Qui dicit cadaver hominem
mortuum vere dicit, solum autem hominem dicere vere non potest, idcirco quoniam
prius cum coniunctione praedicavit dicens hominem mortuum, mortuusque quod
adiacet hominis praedicamento (cum homine enim praedicatum est mortuus)
contradictionem tenet contra hominem. Est enim homo animal, mortuus vero non
animal: ergo mortuus et homo contradictionem quandam inter se habent. Illud est
enim animal, illud vero non animal. Quocirca quoniam inter se haec habent
quandam contrarietatem, ƿ separatus homo de mortuo homine solus non dicitur. Eodem
quoque modo est et si quis dicat manum esse marmoream statuae: verum dicit,
solum autem manum dicere esse eam quae statuae est falsum est. Habet enim manus
potestatem dandi accipiendique sed illa marmorea non habet. Ergo est quaedam
contradictio inter manum et manum marmoream, quod illa dare atque accipere
potest, illa non potest. Haec enim sibi contradictionis opponuntur modo. Ergo
quotienscumque tale aliquid praedicatur, ut homo de cadavere, cui tale aliquid
coniunctum sit atque adiaceat, quod faciat contradictionem contra praedicatum
(ut hic adiacet mortnus homo simulque praedicatur de cadavere, ut faciat contra
ipsum hominem contradictionem eamque in se contineat), non potest separari una
praedicatio, ut singillatim dicatur, sin vero non sit ista contradictio,
potest: ut in eo quod est: Socrates animal bipes est Animal et bipes
nulla contradictione opponuntur: quocirca potest de eo et animal singillatim
atque simpliciter et bipes dici. Sensus quidem huiusmodi est, ordo autem se sic
habet. Dubitans enim dixit: VERUM AUTEM DICERE DE ALIQUO composite et connexe
et rursus simpliciter, ut quendam hominem hominem aut quendam album album, an
certe non semper sed tunc quando in adiecto, id est in eo quod adiectum cum
aliquo praedicatur, inest aliquid oppositorum talium quaecumque consequitur contradictio,
id est quam oppositionem mox contradictio consequatur, ut oppositionem hominis
et mortui sequitur contradictio, animal scilicet et non animal: si igitur sic
sint, non est ƿ verum simpliciter praedicari sed falsum, ut mortuum hominem,
quem coniuncte vere dicere possis, eundem hominem solum non vere praedicabis.
Quando autem haec oppositio in his quae praedicantur non inest, verum est quod
coniuncte praedicaveris et simpliciter praedicare. Adiectum est autem in quo
venit aliquotiens oppositio huiusmodi, ut in eo quod est homo mortuus mortuus
adicitur homini. Aliter enim vere homo de cadavere non potest praedicari. VEL
ETIAM QUANDO INEST QUIDEM SEMPER NON VERUM, QUANDO VERO NON INEST, NON SEMPER
VERUM, UT EOMERUS EST ALIQUID, UT POETA. ERGO ETIAM EST AN NON? SECUNDUM
ACCIDENS ENIM PRAEDICATUR ESSE DE HOMERO; QUONIAM POETA EST SED NON SECUNDUM
SE, PRAEDICATUR DE HOMERO QUONIAM EST. QUARE IN QUANTISCUMQUE PRAEDICAMENTIS
NEQUE CONTRARIETAS INEST, SI DEFINITIONES PRO NOMINIBUS DICANTUR, ET SECUNDUM
SE PRAEDICANTUR ET NON SECUNDUM ACCIDENS, IN HIS ET SIMPLICITER VERUM ERIT
DICERE. QUOD AUTEM NON EST, QUONIAM OPINABILE EST, NON VERUM DICERE ESSE
ALIQUID. OPINATIO ENIM EIUS NON EST, QUONIAM EST SED QUONIAM NON EST. Quoniam
supra dixerat, quando esset in adiecto contradictio, non esse verum simpliciter
praedicare, quando vero non esset, verum esse quod coniuncte ƿ diceretur
simpliciter dicere, hoc ipsum quoniam videbatur in aliquibus non esse verum,
consequenter emendat. Ait enim verum esse illud quod supra dictum est,
quandocumque in adiecto esset aliqua contradictio, non esse verum simpliciter
praedicare, quod coniuncte diceretur, quando autem non inest contradictio, non
semper verum esse praedicare simpliciter, quod coniuncte vere diceretur sed
aliquotiens verum, aliquotiens vero falsum. Huius rei tale exemplum est: cum
dico: Homerus poeta est est et poeta coniuncte de Homero vere praedicavi.
Sin vero dixero: Homerus est falsum est, quamquam non sit aliqua
contradictio inter est et poetam, neque in adiecto est ulla talis est oppositio
quam consequatur contradictio. Cur autem hoc eveniat, talis ratio est: de
Homero enim poetam quidem principaliter praedicamus, cum dicimus Homerus poeta
est, est autem verbum de poeta quidem praedicamus principaliter, de Homero autem
secundo loco. Non enim idcirco praedicamus esse, quia Homerus est sed quia
poeta est. Sublato igitur eo quod principaliter praedicatur, id est poeta,
licet nullam contradictionem habeat est, quod adiacet poetae, contra poetam,
non fit vera praedicatio dicendo Homerus est. Secundum accidens enim est
praedicatur, non principaliter. Sublata autem principali praedicatione, quod
secundum accidens praedicabatur, falsum continuo reperitur. Quod autem addit: QUARE
IN QUANTISCUMQUE PRAEDICAMENTIS NEQUE CONTRARIETAS INEST, SI DEFINITIONES PRO
NOMINIBUS DICANTUR, ET SECUNDUM SE PRAEDICANTUR ET NON SECUNDUM ACCIDENS, ƿ IN
HIS ET SIMPLICITER VERUM ERIT DICERE huiusmodi est. Ea quae superius dixit una
ratione collegit dicens: quaecumque eo modo praedicantur, ut neque in nominibus
neque in definitionibus propriis aliquam teneant contrarietatem, haec et extra
simpliciterque praedicata vera sunt, ut in eo quod est homo mortuus mortuus
atque homo: haec quidem nominibus nullius contrarietatis contradictionisue sunt
sed si horum pro no minibus definitiones sumantur, mox contrarietas
oppositionis agnoscitur. Si quis enim dederit hominis definitionem, dicit
animal esse rationale, si quis mortui, dicit esse corpus, verum vita privatum
atque inanimum atque ex hoc tota vis contradictionis apparet. Quocirca si
sumantur definitiones pro nominibus et in his aliqua contrarietas inesse
videbitur vel si secundum accidens aliquid praedicetur, ut est de Homero, cum
de poeta principaliter praedicetur, non praedicabuntur simpliciter vere quaecumque
composita praedicabantur. Quod si neque contrarietas ulla sit et per se
praedicentur et non per accidens, quicquid composite vere dicitur, hoc
simpliciter vere praedicatur. Quoniam autem fuerunt quidam qui hoc ipsum quod
non est esse dicerent totum syllogismum his propositionibus coniungentes: Quod
non est opinabile est Quod autem opinabile est est Igitur est quod non est hoc
igitur dicit: si verum est praedicare, inquit, de eo quod non est quoniam
opinabile est, est quidem verbum de opinabili praedicamus, de eo autem quod non
est secundum accidens. Quoniam enim quod non est opinabile est, idcirco secundo
loco de eo quod non est verbum est praedicamus. Quare non possumus simpliciter
dicere esse quod non est. Idcirco enim opinabile est, quia non est. Scibile
enim esset, si per se esset, non opinabile, sicut Homerus idcirco esse dicitur,
quia poeta est, non quia per se est. Vel certe idcirco dicitur Homerus esse
poeta, quia poesis ipsius exstat et permanet, sicut aliquos in filiis suis saepe
vivere dicimus. Quocirca id quod non est idcirco esse dicitur opinabile,
quoniam ipsius est opinatio, non autem quoniam id quod non est per se aliquid
esse potest. His igitur ante perstructis atque ordine terminatis ad
propositionum modos, rem in dialectica utilissimam, de propositionibus
tractatum disputationemque convertit. Restat nunc de propositionum modis
oppositionumque disserere. Multis enim dubitatum est rationibus, an idem modus
esset propositionum sine modo positarum, qui illarum quoque quae propriis modis
et qualitatibus terminantur. Inchoat autem de his rebus dubitationem sic. HIS
VERO DETERMINATIS PERSPICIENDUM QUEMADMODUM SE HABENT NEGATIONES ET
AFFIRMATIONES AD SE INVICEM HAE SCILICET QUAE SUNT ƿ DE POSSIBILE ESSE ET NON
POSSIBILE ET CONTINGERE ET NON CONTINGERE ET DE IMPOSSIBILI ET DE NECESSARIO;
HABET ENIM ALIQUAS DUBITATIONES. Omnis propositio aut sine ullo modo
simpliciter pronuntiatur, ut Socrates ambulat vel dies est vel quicquid
simpliciter et sine ulla qualitate praedicatur. Sunt autem aliae quae cum
propriis dicuntur modis, ut est Socrates velociter ambulat. Ambulationi enim
Socratis modus est additus, cum dicimus eum velociter ambulare. Quomodo enim
ambulet, significat id quod de ambulatione eius velociter praedicamus.
Similiter autem si quis dicat Socrates bene doctus est, quemadmodum sit doctus
ostendit nec solum doctus dixit sed modum quoque doctrinae Socratis adiungit.
Sed quoniam sunt modi alii per quos aliquid posse fieri dicimus, aliquid esse,
aliquid necesse esse, aliquid contingere, quaeritur in his quoque quemadmodum
fieri contradictionis debeat oppositio. In his enim propositionibus, quae
simpliciter et sine ullo modo praedicantur, facile locus contradictionis
agnoscitur. Huius enim affirmationis quae est: Socrates ambulat negatio
si ad verbum ponatur, ut est: Socrates non ambulat rectissime oppositione
facta ambulare a Socrate disiunxit. Rursus huius propositionis quae est:
Socrates philosophus est si quis ad est verbum negationem ponat, integram
faciet negationem dicens: Socrates philosophus non est Neque enim fieri
potest ut ad aliud in simplicibus affirmationibus negatio ƿ ponatur nisi ad id
verbum quod totius vim continet propositionis. Si quis enim in hac propositione
quae est homo albus est non dicat fieri negationem eam quae est homo albus non
est sed potius homo non albus est, hoc modo falsum ostenditur: proposito lapide
interrogetur de eo: An lapis ille homo albus sit? ut si ille negaverit
ponens negationem eius quae est: Homo albus est eam quae dicit: Homo non
albus est dicatur ei: si non est de hoc lapide vera affirmatio quae
dicit: Homo albus est vera erit de eo negatio ea scilicet quae dicit:
Homo non albus est Sed haec quoque falsa est. Omnino enim lapis homo non
est atque ideo de eo non poterit praedicari quoniam homo non albus est. Quod si
neque affirmatio neque negatio de eo vera est, hoc autem impossibile est, ut
contradictoriae affirmationes et negationes de eodem praedicatae utraeque
falsae sins, constat non esse eius affirmationis quae dicit: Homo albus
est illam negationem quae dicit: Homo non albus est sed potius eam
per quam proponitur quoniam albus non est. Nusquam igitur alibi ponenda negatio
est in his quae simpliciter et sine modo aliquo praedicantur nisi ad verbum
quod totem continet propositionem. De his autem sufficienter supra iam diximus.
In his autem in quibus aliqui modus apponitur dubitatio est, an ad modum ilium
ponatur negativa particula an locum suum serues ad verbum, sicut in his quoque
propositionibus fiebat, ƿ quae simplices et sine modo ullo proponebantur. Nam
si serues locum suum negativa particula, ut ponatur ad verbum, proprietas
contradictionis excidit et verum inter se falsumque non dividit. Modus enim
quidam est faciendi aliquid, quotiens dicimus possibile esse vel necesse esse
vel quicquid huiusmodi est. Ergo si quis me dicat nunc posse ambulare, idem
neget negationem ponens ad verbum quod est ambulare dicatque me posse non
ambulare, affirmatio et negatio contradictoriae de eodem dictae verae simul
invenientur. Me namque et ambulare posse et non ambulare posse manifestum est.
Quod si in hoc modo possibilitatis non recte verbo particula negatira
coniangitur, etiam in his quoque quae nullam habent differentiam, an ad modum
an ad verbum negatio ponatur, custodienda est talis oppositio quae huic speciei
propositionum quae cum modo proferuntur conveniat. In hac propositione quae
dicit: Socrates velociter ambulat sive quis ita neget: Socrates velociter
non ambulat ad verbum ponens negationem sive sic: Socrates non velociter
ambulat modo negativam particulam iungens, prope simile esse ridebitur.
Dividit enim cum affirmatione veritatem falsitatemque utroque modo apta
negatio. Sed quoniam sunt plurimi modi, in quibus si ad verbum inugatur
particula negativa, non est negatio superius enuntiatae affirmationis, idcirco
servanda est in omnibus secundum modum propositionibus ista oppositio, ut uno
eodemque modo cunctarum ƿ fieri oppositiones dicantur, ut in illis quidem
negatio quae simplices sunt rem neget, in his autem quae cum modo sunt modum
neget, ut in eo quod est: Socrates ambulat rem ipsam id est ambulat neget
adimatque propositio dicens: Socrates non ambulat in illis autem quae cum
modo sunt rem quidem esse consentiat, modum neget, ut in ea propositione quae
dicit: Socrates velociter ambulat negatio dicat: Socrates non velociter
ambulat ut sive ambulet sive non ambulet nulla sit differentia, modum
autem id est velociter ambulandi perimat ex adverso constitute negatio. Quamquam
in quibusdam hoc non sit: simul enim cum modo ipso etiam rem perimi necesse
est, ut in eo quod est: Socrates potest ambulare Socrates non potest
ambulare et modum et rem modo ipsi iuncta particula negationis
intercipit. Sed hoc in his fere evenit, in quibus non fieri quidem aliquid
dicitur et actus ipsius additur modus sed potius faciendi in futuro modus, ut
si quis dicat Socratem ambulare posse, non quod iam ambulet sed quod eum sit
ambulare possibile. Hic si possibili negatio coniungatur, etiam rem illam
tulisse videbitur de qua illa possibilitas praedicatur. Si quis autem dicat
quoniam Socrates velociter ambulat, facere eum aliquid dicit modumque illi
actui iungit, ut quemadmodum illud faciat quod facere dicitur quilibet
agnoscat. In his res quidem permanet, modus autem subruitur, ut superius dictum.
An certe illud magis verius est dicendum, quod semper huiusmodi ƿ propositiones
modum quidem auferant, rem vero de qua modus ille praedicatur non perimant? Et
in quibus ponitur res, ut in eo quod est: Socrates velociter ambulat et
in quibus praedicatur actus ipse et praesens, quia fiat atque agatur,
manifestum est modum quidem subrui, rem vero quae fieri dicitur permanere, ut
cum dicimus: Socrates non velociter ambulat ambulare eum quidem non
subtractum est sed tantum haec negatio velocitatem ab ambulatione disiunxit. In
his autem quae possibilitatem aliquid in futuro faciendi per modum ponunt
nullus omnino actus ponitur sed tantum modus. Ad quem modum iuncta negatio
modum quidem perimit sed res illa de qua modus praedicabatur non permanet,
idcirco quoniam nec tunc cum praedicabatur cum modo aliquid fieri agive
propositum est, ut si quis dicat: Socratem possibile est ambulare positus
quidem modus est, res vero actu constitute non est. Non enim dictum est quoniam
ambulat sed quoniam eum possibile est ambulare. Hanc ergo possibilitatem tollit
negatio in propositione quae dicit: Socratem non possibile est ambulare
sed in eadem propositione res de qua dicebatur modus ille non permanet. Hoc
autem idcirco evenit, quia ne in affirmatione quidem posita est res de qua
praedicatus est modus. Atque ideo non a negatione perempta res, quippe quam
negatio positam non invenit sed tantum modus, qui etiam ab affirmatione
constitutus est. Magna autem distantia est, an ad modum negatio ponatur an ad
verbum. Nam si ad verbum ponam, praedicaho a subiecto disiungitur, ut est:
Socrates non ambulat Nam ambulat quod praedicatio ƿ est a subiecto quod
est Socrates divisum est. Sin vero ad modum ponatur, non praedicatio a subiecto
dividitur sed a praedicatione potius disiungitur modus, ut in eo quod est:
Socrates non velociter ambulat non ambulationem a Socrate propositio ista
disiunxit sed velocitatem ab ambulatione id est modum a praedicato. Et hoc in
his facilius evidentiusque apparet, quaecumque ita praedicantur ac fieri. Oportet
autem quid possibile, quid necessarium, quid inesse definire eorumque
significationes ostendere, quod nobis et ad huius loci subtilitatem proderit,
quem tractamus, et superiora quaecumque de contingentibus dicta sunt magis
liquebunt et Analyticorum nobis mentem apertissima luce vulgabit. Quatuor modi
sunt quos Aristoteles in hoc libro de interpretatione disponit: aut enim esse
aliquid dicitur aut contingere esse aut possibile esse aut necesse esse. Quorum
contingere esse et possibile esse idem significat nec quicquam discrepat dicere
cras posse esse circenses et rursus cras contingere esse circenses, nisi hoc
tantum quod possibile quidem potest privatione subduci, contingens vero minime.
Contra enim id quod dicitur possibile esse et negatio possibilitatis infertur
aliquotiens, ut est non possibile esse, et privatio, ut est impossibile esse.
Namque quod dicimus impossibile esse privatio possibilitatis est. In
contingenti autem quamquam idem significet sola tantum opponitur negatio, nulla
vero privatio ƿ reperitur: ut in eo quod est contingens, si hoc perimere
volumus, dicimus non contingens et hoc negatio est, incontingens autem nullus
dixerit quod est privatio. Cum igitur contingens esse et possibile esse idem
significent, multa in his diversitas est secundum Porphyrium quae sunt
necessaria et inesse tantum significantia et contingentia vel possibilia. Quod
enim esse aliquid dicitur, de praesenti tempore iudicatur. Si quid enim nunc
alicui inest, hoc esse praedicatur, quod vero ita inest, ut semper sit et
numquam mPombaur, illud necesse esse dicitur, ut soli motus lunaeque cum terra
obstitit defectus. Quae autem contingere dicuntur vel possibilia esse, illorum
neque secundum praesens neque secundum aliquam immutabilitatem speculamur
euentum sed tantum respicimus quantum contingentis propositio pollicetur. Quod
enim posse esse vel contingere dicitur, nondum quidem est sed esse poterit.
Sive autem eveniat sive non eveniat, quia tamen esse potest, contingens vel
possibilis dicitur propositio. Non enim ex euentu diiudicantur huiusmodi
propositiones sed potius ex significatione hoc modo: si quis enim dicat posse
cras esse circenses, possibilis est contingensque affirmatio. Quod si cras sint
circenses, non tamen aliquid est actu propositionis contingentis vel possibilis
permutatum, ut necesse fuisse videatur, quod illa possibiliter promittebat.
Quod si rursus non sint circenses, omnino nec sic aliquid permutatum est, ut
necesse fuisse non esse circenses ƿ videatur. Non enim (ut dictum est) secundum
euentum ista iudicantur sed potius secundum ipsius propositionis promissum.
Quid enim dicit quisquis dixerit cras posse esse circenses? Hoc, ut opinor,
sive sint sive non sint nulla tamen interclusum esse necessitate ne non sint. Quare
quatuor modorum duo quidem idem sunt, contingens atque possibile, hi autem duo
cum duobus reliquis atque ipsi reliqui a se dissentiunt. Possibile enim et
contingens distat ab ea propositione quae esse aliquid dicit. Haec enim
secundum possibilitatem futuri temporis affirmationem proponit, illa vero
secundum praesentis actum. Utraeque vero, et ea quae esse et ea quae possibile
esse vel contingere significat, a necessaria propositione disiunctae sunt.
Necessitas enim non modo inesse uult aliquid sed etiam immutabiliter inesse, ut
illud quod esse dicitur numquam esse non possit. Quocirca consequentiae quoque
ordinis evidenter apparent. Quod enim est necessarium sine eo quod est esse vel
contingere esse vel possibile esse dici non potest. Quidquid enim necessarium
est et est et esse potest vel si esse non posset, nec esset omnino. Quod si non
esset, nec necesse esse diceretur. Quare omne necessarium et est et possibile
est. Sed neque omne est necessarium est (possunt enim esse quaedam, quae ut
sint non est necesse, ut Socratem ambulare vel caetera quae de separabilibus
accidentibus sumuntur) vel rursus quod contingit esse vel esse possibile est
mox esse necesse ƿ est. Quare necesse est quidem sequuntur esse et
possibilitas, Sed neque esse neque possibile esse necessitas ulla consequitur. Rursus
omne esse sequitur posse esse. Quod enim est et potest esse. Nam si esse non
posset, sine ulla dubitatione nec esset. Possibile autem esse non consequitur
esse. Quod enim possibile est potest et non esse, ut me possibile est quidem
nunc procedere sed hoc mihi non est esse. Non enim nunc procedo. Quare gradatim
haec omnis est consequentia. Necesse est namque et esse sequitur et
possibilitas. Rursus esse eadem sequitur possibilitas, possibilitatem autem nec
esse sequitur nec necessitas. Liquet ergo, quoniam duo modi sunt possibilium:
unum quod iam sequitur necessitatem, alterum quod non sequitur ipsa necessitas.
Nam cum dico: Necesse est ut nunc sol moveatur hoc etiam possibile est,
cum vero dico: Possibile est me nunc sumere codicem non est necesse.
Recte igitur ab Aristotele paulo post dubitabitur, utrum sit illud possibile
quod necessitati conveniat. Sed cum ad eadem loca venerimus, quid sibi ista
possibilium similitudo velit vel quemadmodum discerni possit agnoscemus. Nunc
autem quoniam affirmativarum propositionum consequentias explicuimus,
negativarum rursus consequentias exploremus. Harum namque quatuor
propositionum, quae fiunt ex esse, ex necesse esse, ex possibile esse vel
contingit esse, quatuor negationes sunt id est non esse, non necesse esse, non
possibile esse vel non contingere esse. Sed quemadmodum affirmationes
contingere esse et possibile esse eaedem ƿ erant secundum significationum
similitudinem, ita quoque negationes eaedem sunt. Neque enim discrepat quicquam
dicere non possibile est quam si enuntiet non contingit. Consequentiae autem se
in affirmativis habebant hoc modo, ut necessaries propositiones sequerentur
esse aliquid significantes atque possibiles, eas autem quae esse aliquid
dicerent eaedem possibiles sequerentur sed neque possibilibus esse aliquid
significantes nec necessariae consentiebant. In negativis vero e contra est.
Negationem enim possibilitatis sequitur et eius quae est esse aliquid
significantis negatio et necessariae. Negationem vero necessarii neque eius
quod est esse neque eius quod est possibile esse negatio sequitur. Disponantur
enim in ordinem omnes hoc modo: Possibile esse Non possibile esse Contingens
esse Non contingens esse Esse Non esse Necesse esse Non necesse esse
Repetendum igitur breviter est affirmativarum consequentias, ut quemadmodum e
converso sint in negativis evidentius patefiat. Esse sequitur possibilitas et
contingentia, possibilitatem vero et contingentiam esse non sequitur, necesse
esse vero sequitur et esse et possibilitas et contingentia, possibilitatem autem
et contingenham nec esse sequitur nec necessitas. In negationibus vero e contra
est. Non posse esse et non contingere sequitur non esse. Quicquid enim non
potest esse non est. Non esse autem non posse esse ƿ non sequitur. Quod enim
non est non omnino interclusum est ut esse non possit. Nunc ego enim Traiani
forum non video sed non est necesse ut non videam. Fieri enim potest ut propius
acceders videam. Rursus non posse esse et non contingens esse nec non esse
sequitur nec non necesse esse. Quod enim esse non potest non videbitur vere
dici, quoniam illud non necesse est esse sed potius quoniam illud necesse est
non esse. Negationem autem necessitatis, id est non necesse esse, neque non
esse sequitur neque non possibile esse. Me enim cum ambulo non necesse est
ambulare. Neque enim ex necessitate quisquam ambulat. Nec rursus quod non est
necesse id non potest fieri. Quisquis enim ambulat non quidem illi ambulare
necesse est sed tamen potest. Atque ideo quod non est necesse esse non omnino
interclusum est ut esse non possit. Et de non contingenti eadem ratio est. Diverso
igitur modo quam in affirmationibus negativa conversio est. Illic enim
necessitatem et essentia et possibilitas sequebatur, essentiam autem
possibilitas sed neque possibilitatem essentia vel necessitas nec rursus
essentiam necessitas sequebatur. Hic autem non possibile esse et non esse et
non necesse esse consequitur. Sed neque non necesse esse non esse sequitur
neque utrasque possibilitatis negatio, quae non posse aliquid esse proponit. An
magis illud dicendum est, quod sicut se in affirmationibus habet, ita quoque in
negationibus, ut Theophrastus ƿ acutissime perspexit? Fuit enim consequentia in
affirmativis, ut necessitatem et esse consequeretur et possibilitas,
possibilitatem vero nec esse nec necessitas sequeretur. Idem quoque penitus
perspicientibus in negationibus apparebit. Veniens namque negatio in necessario
faciensque huiusmodi negationem quae dicit "non necesse est" vim
necessitatis infringit et totam propositionem ad possibile duxit. Quod enim non
necesse est esse fracto rigore necessitatis ad possibilitatem perductum est.
Sed possibilitatem nec esse sequebatur nec necessitas. Recte igitur fractam
necessitatem et ad possibile perductam, cum negatio dicit non necesse esse, nec
non esse nec non contingere esse consequitur. Rursus qui dicit possibile esse,
si ei disiunctio negationis addatur, tollit possibile et ad necessitatis
perpetuitatem negativa forma totam propositionem reuocat, ut est non possibile.
Quod enim non possibile est fieri non potest ut sit, quod autem fieri non
potest ut sit necesse est ut non sit. Ergo necessariam quandam vim habet haec
propositio in qua dicimus non posse esse aliquid. Sed necessitatem sequebatur
et essentia et possibilitas. Non necesse autem esse ad possibilitatem respicit.
Recte igitur non necesse esse, quod est iam possibilitatis, sequetur
propositionem quae dicit non posse esse, quod est necessitatis. Alii ergo
ordines propositionum sunt, vis tamen eadem, ut necessitatem cuncta sequantur,
possibilitatem vero necessitas non sequatur. Hic oritur quaestio subdifficilis.
Nam si necessitatem sequitur possibilitas, non necesse autem possibilitati
confine est, cur non necesse esse sequatur id quod dicimus non necesse esse?
Nam si possibilitas sequitur necessitatem, non necesse autem esse
possibilitatem, sequi debet necessitatem id quod non necesse praedicamus. Quae
hoc modo dissolvitur: non possibile esse quamquam vim habeat necessitatis,
differt tamen a necessitate, quod illud affirmativam habet speciem, illud vero
negativam. Sic etiam possibile esse et non necesse esse differunt eo tantum,
quod illud est affirmativum, illud vero negativum, cum vis significationis
eadem sit. Sed necessitatem affirmatio possibilitatis et contingentis
sequebatur. Quamquam tamen possibilitatem imitetur eique consentiat id quod
dicimus non necesse esse, tamen negatio quaedam est. Recte igitur affirmationem
quod est necesse esse non sequitur negatio per quam aliquid non necesse esse
proponimus. Et hanc quidem huius solutionem quaestionis Theophrastus vir
doctissimus repperit. Nos autem his determinatis ad sequentia proMilanius. Sunt
enim, ut ipse ait Aristoteles, in his multae dubitationes. Sed totius textus
plenissimum sensum primo ponimus. Quod etsi longum est, tamen ne intercisa videatur
esse sententia non grauabor apponere. NAM SI EORUM QUAE COMPLECTUNTUR
ILLAE SIBI INVICEM OPPOSITAE SUNT CONTRADICTIONES, QUAECUMQUE SECUNDUM ESSE ET
NON ESSE DISPONUNTUR, ƿ UT EIUS QUAE EST ESSE HOMINEM NEGATIO EST NON ESSE
HOMINEM, NON, ESSE NON HOMINEM ET EIUS QUAE EST ESSE ALBUM HOMINEM, NON ESSE
NON ALBUM HOMINEM SED NON ESSE ALBUM HOMINEM. SI ENIM DE OMNIBUS AUT DICTIO AUT
NEGATIO, LIGNUM ERIT VERUM DICERE ESSE NON ALBUM HOMINEM. QUOD SI HOC MODO, ET
QUANTISCUMQUE ESSE NON ADDITUR, IDEM FACIET QUOD PRO ESSE DICITUR, UT EIUS,
QUAE EST AMBULAT HOMO NON, AMBULAT NON HOMO NEGATIO EST SED NON AMBULAT HOMO;
NIHIL ENIM DIFFERS DICERE HOMINEM AMBULARE VEL HOMINEM AMBULANTEM ESSE. QUARE
SI HOC MODO IN OMNIBUS, ET EIUS QUAE EST POSSIBILE ESSE NEGATIO EST POSSIBILE
NON ESSE, NON, NON POSSIBILE ESSE. VIDETUR AUTEM IDEM POSSE ET ESSE ET NON
ESSE; OMNE ENIM QUOD EST POSSIBILE DIVIDI VEL AMBULARE ET NON ƿ AMBULARE ET NON
DIVIDI POSSIBILE EST. RATIO AUTEM, QUONIAM OMNE QUOD SIC POSSIBILE EST NON
SEMPER ACTU EST, QUARE INERIT EI ETIAM NEGATIO; POTEST IGITUR ET NON AMBULARE
QUOD EST AMBULABILE ET NON VIDERI QUOD EST VISIBILE. AT VERO IMPOSSIBILE DE
EODEM VERAS OPPOSITES ESSE DICTIONES; NON IGITUR EST ISTA NEGATIO. CONTINGIT
ENIM EX HIS AUT IDEM IPSUM DICERE ET NEGARE SIMUL DE EODEM AUT NON SECUNDUM
ESSE ET NON ESSE QUAE APPONUNTUR FIERI AFFIRMATIONES VEL NEGATIONEA SI ERGO
ILLUD IMPOSSIBILIUS, HOC ERIT MAGIS ELIGENDUM. EST IGITUR NEGATIO EIUS QUAE EST
POSSIBILE ESSE NON POSSIBILE ESSE. EADEM QUOQUE RATIO EST ET IN EO QUOD EST
CONTINGENS ESSE; ETENIM EIUS NEGATIO NON CONTINGENS ESSE. ET IN ALIIS QUOQUE
SIMILI MODO, UT NECESSARIO ET IMPOSSIBILI FIUNT ENIM QUEMADMODUM IN ILLIS ESSE
ET NON ESSE APPOSITIONES, SUBIECTAE VERO RES HOC QUIDEM ALBUM, ILLUD VERO HOMO,
EODEM QUOQUE MODO HOC LOCO ESSE QUIDEM SUBIECTUM FIT, POSSE VERO ET CONTINGERE
APPOSITIONES DETERMINANTES QUEMADMODUM IN ILLIS ESSE ET NON ESSE VERITATEM,
SIMILITER ƿ AUTEM HAE ETIAM IN ESSE POSSIBILE ET ESSE NON POSSIBILE. Haec
Aristotele subtiliter discutiente illud oportet agnoscere, quod multum differt
ipsius possibilitatis vim naturamque definire vel propriae scientiae qualitate
concludere et possibilem enuntiationem qualis esse debeat iudicare. Namque in
possibilis cognitione illud solum perspicitur, an id quod dicitur fieri possit
nuilo extrinsecus impediente casu. Quod etiamsi accidat, nihil de statu prioris
possibilitatis. Ipsius possibilis enuntiationis diiudicatio plurimum differt,
quod mox poterit ex ipsa de possibilibus enuntiationibus disputatione cognosci.
Nam sicut non est idem hominis definitionem respondere quaerentibus et ipsam
definitionem alio termino definitionis includere, ita non idem est de possibili
enuntiatione et quid ipsum possibile est tractare. Unde fit ut, cum possibile
atque contingens idem in significationibus sit, diversum esse in enuntiatiombus
videatur. Supra namque docuimus possibilitatem et contingentiam eiusdem
significationis esse, ut quod contingeret fieri idem esset possibile, quod possibile
esset idem quoque contingeret. Sed possibilis enuntiatio non est eadem quae
contingens. Neque enim si quis possibilem affirmationem proponat eique opponat
contingentem negationem, rectam faciet contradictionem. Si quis enim dicat
quodlibet illud esse possibile, alius respondeat negans rem illam contingere,
licet quantum in significatione est priorem possibilitatem abstulerit, non
tamen est dicenda contradictio, ƿ in qua alii termini in negatione, alii in
affirmatione enuntiati sunt. Possibilis enim affirmatio de possibilitate
negationem, non de contingentia habere debebit. Idem quoque in contingentibus.
Neque enim si quis aliquid contingere dixerit, opponenda illi est
possibilitatis negatio, licet idem sit possibile quod contingens. Constat
igitur diversissimam esse rationem modi per se diiudicandi et enuntiationis,
quae cum modo et cum qualitate praedicatur. Unde fit ut quamquam idem in
significationibus possibilitas et contingentia sint, quasi diversae ab
Aristotele in modorum ordine proponantur. Illud autem ignorandum non est quod
Stoicis universalius videatur esse quo distet possibile a necessario. Dividunt
enim enuntiationes hoc modo: enuntiationum, inquiunt, aliae sunt possibiles,
aliae impossibiles, possibilium aliae sunt necessariae, aliae non necessariae,
rursus non necessariarum aliae sunt possibiles, aliae vero impossibiles: stulte
atque improvide idem possibile et genus non necessarii et speciem
constituentes. Novit autem Aristoteles et id possibile quod non necessarium est
et id possibile rursus quod esse necessarium potest. Eodem namque modo non
dicitur possibile esse, quod vel ex falsitate in verum transit aliquando vel
rursus ex veritate in falsum. Ut si quis dicat nunc, quoniam dies est, verum
dixerit, idem si hoc nocte praedicet, falsum est et haec veritas propositionis
in falsum est permutata sic ergo quaedam sunt possibilitates, ut eas et esse et
non esse contingat, quae non eodem modo dicuntur quemadmodum illae quae
mutabilem naturam non habent, ut hae scilicet quas necessarias dicimus. Ut ƿ si
quis dicat solem moveri vel solem possibile esse moveri, haec numquam ex
veritate in falsitatem mutabitur. Sed nunc de Aristotelis Stoicorumque
dissensione tacendum est. Illud tamen solum studiosius perquirendum est, quo
loco sit ponenda negatio in his propositionibus, in quibus modus aliqui
praedicatur, ut quae dicentur esse possibiles enuntiationes. Possibiles,
contingentes et necessariae et quaecumque cum modo sunt propositiones illae
veraciter esse dicentur, in quarum significationibus rei de qua prasdicantur
subsistendi qualitas invenitur, ut cum dico: Socrates bene loquitur modus
quidam est loquendi Socratem. Ergo sicut in his propositionibus, quaecumque
cuiuslibet illius rei subsistentiam promittunt, ad ipsam subsistentiam negatio
ponitur (ut cum dicimus "Socrates est", ad esse aptatur negatio, cum
negamue "Socrates non est"), ita quoque in his quae modum
subsistentiae dicunt ad eum modum ponenda negatio est, qui ad illam
subsistentiam videtur adiectus, ut cum dicimus: Socrates bene loquitur
modus ipsius rei est id quod praedicatum est bene: ad hunc igitur modum et
qualitatem ponenda negatio est. Possibiles autem propositiones vel contingentes
eas esse dicimus, in quibus modus ipse monstratur et potius non esse de modo
dicitur sed modus de eo quod est esse. Cum enim dicimus possibile esse, esse
quidem quiddam dicimus, quemadmodum autem sit additum est, id est possibile, ut
non necessarium neque aliquo alio modo nisi tantum secundum potestatem dicatur.
Fit ergo esse ƿ subiectum, praedicatio vero modus vel contingans vel possibilis
vel necessarius vel quilibet alius. Atque hae quidem propositiones secundum
modum dicuntur, in quibus de substantia nihil ambigitur, de modo autem et
qualitate sola tractatur. Sin vero subiciatur quidem modus, praedicetur vero
esse, tunc de substantia rei quaeritur non de modo, ut si quis dicat possibile
est, ut ipsum possibile in rebus esse pronuntiet, huic propositioni nullus
modus adiectus est. Cum enim dicimus possibile esse modum habere, hoc per se
ita non dicimus sed particulam propositionis ablatam. Ita enim perspicimus
quasi si cum propositione esset iuncta. Quam si cum propria propositione
iunxerimus, et quali modo praedicetur apparet. Cum enim dicimus possibile est,
ut modum significet, particula propositionis est. Quam si suo corpori
adgregemus facientes aliquam propositionem, quid modus ille profiteatur
agnoscimus. Age enim id quod dixi possibile est coniungamus aliis
praedicamentis atque inde una enuntiatio conficiatur dicamusque Socratem
ambulare possibile est. Videsne modum in propositione possibile, ut etiam sive
Socrates ambulet sive non ambulet, posse eum tamen ambulare ex ipso
propositionis modo quilibet agnoscat? Ita igitur auferentes de toto partem
possibilem enuntiationem quasi si tota sit propositio speculamur, ut in his
dictionibus fieri solet, quae pluralitatem determinant, ut si dubitemus contra
omnis an nullus ponatur an non omnis, ita eas speculemur, quasi si integras
propositiones, quas determinationes propositionum ƿ esse manifestum est. Concludenti
igitur dicendum est: in his quae modum praedicant omnes aliae res subiectae
sunt vel esse vel ambulare vel legere vel dicere vel quicquid aliud cum aliquo
modo fieri dicetur, in his autem ubi modus ipse praedicatur, ut integra sit
propositio, non enim propositionis, non est cum modo propositio sed ibi tantum
de subsistentia modi proponitur. Ut si qui dicat possibile est, quiddam in
rebus dicit esse possibile, et rursus contingens est, quiddam in rebus dicit
esse quod contingat, et rursus necesse est, esse quiddam dicit in rebus quod
sit necesse: hic non de modo sed de solo esse tractatur. Quare quotiens esse
quidem subicitur, modus autem praedicatur, ut cum dicimus: Socratem ambulare
possibile est ad modum iungenda negatio est, quotiens vero modus
subicitur, esse autem praedicatur, ad esse ponenda negatio est. Ut cum dicimus
possibile est, quia ita dicimus tamquam si diceremus possibilitas est, et cum
dicimus contingere est, ita dicimus tamquam si diceremus contingentia est, ad
esse ponenda negatio est dicendumque possibile non est, quod idem valet tamquam
si diceretur possibilitas non est. Eodem quoque modo et de contingentia. Non
autem perfecte speculantibus idem semper videri debet subiectum, quod primo
loco reperiri dicitur, idem praedicatum semper, quod secundo loco praedicatur.
In quibusdam enim verum est, in ƿ aliis vero ex significatione potius
propositionum colligimus, qui terminus subiectus sit, qui vero praedicatus. Nam
cum dico: Homo animal est prius mihi necesse est dicere hominem, post
praedicare animal atque ideo subiectum dicitur homo, animal vero praedicatur.
In his autem in quibus modus additur sic est: cum dicimus: Socrates bene
loquitur idem valet tamquam si dicamus: Socrates bene loquens est
et hic quidem bene prius dictum est, postea vero loquens est et videtur
subiectum quidem esse id quod dictum est bene, praedicatum autem id quod dictum
loquens est. Sed hoc falsum est. Et hinc facillime poterit inveniri, quod
loquentem quidem esse eum nullus ignorat, quisquis audit Socratem bene
loquentem esse, vim autem totius propositionis modus continet. In id enim
intendendus est animus, non si loquatur. Hoc enim indubitatum est. Nam qui eum
bene dicit loqui, loqui quoque consentit. Quare ad modum intendendus est
animus, ad id quod dictum est bene. Socrates enim bene loquitur quod dixit,
loqui quidem non sufficit dicere, nisi etiam dicat bene. Continet igitur totam
propositionem modus. Sed rursus propositionem continet praedicatio: modus
igitur in his propositionibus potius praedicatur. Concludendum igitur
universaliter est omnem modorum contradictionem non secundum esse verbum fieri
nec secundum id rursus verbum quod in se esse contineat sed potius secundum
modum. Continere autem in se verba id quod est esse dicuntur, ut cum dicimus
loquitur. Tantundem enim valet tamquam si dicamus loquens est. Quare quaecumque
propositiones quemlibet illum in se retineant modum, ƿ dubitandum non est quin
non ad id quod ponit esse negatio iuste applicetur sed potius ad eum modum quo
aliquid esse fierive pronuntietur. Omnis namque cum modo affirmatio talis est,
ut non intendere debeat animum auditor ad id quod esse dicitur sed ad id potius
quomodo illud esse dicatur. Ut cum dicimus: Socrates bene loquitur non
perspiciendum est an loquatur sed illuc potius animi dirigenda intentio est
quemadmodum loquatur. Hoc enim videtur totam continere propositionem. Ergo
contra possibile esse non est ea negatio quae dicit possibile non esse sed non
possibile esse. Eodem modo et contra eam quae dicit contingere esse non ea quae
enuntiat contingere non esse sed potius ea negatio est quae dicit non
contingere esse. Idem quoque et in necessariis impossibilibusque modis
caeterisque, quae nunc Aristoteles pro solita brevitate transgressus est,
faciendum videtur. Sed quoniam commentationis virtus est non solum
universaliter vim sensus expromere, verum etiam textus ipsius sermonibus
ordinique conectere, ea quae superius confuse dicta sunt nunc per sermonum
ipsorum ab Aristotele dictorum ordinem dividamus. HIS VERO DETERMINATIS
PERSPICIENDUM QUEMADMODUM SE HABENT NEGATIONES ET AFFIRMATIONES AD INVICEM HAE
SCILICET QUAE SUNT DE POSSIBILE ESSE ET NON POSSIBILE ET CONTINGERE ET NON
CONTINGERE ET IMPOSSIBILI ET DE NECESSARIO; HABET ENIM ALIQUAS DUBITATIONES. PERSPICIENDUM,
inquit, est de affirmationibus negationibusque, qua ƿ ratione videantur opponi
in his propositionibus, quas quidam modus continet, ut in his quae sunt
possibiles vel contingentes vel necessariae vel impossibiles vel verae vel
falsae vel bene vel male vel quicquid aliqua qualitate praedicatur. HABET ENIM,
inquit, ALIQUAS DUBITATIONES et quas dubitationes habeat continuo eas subicit. NAM
SI EORUM QUAE COMPLECTUNTUR ILLAE SIBI INVICEM OPPOSITAE SUNT CONTRADICTIONES,
QUAECUMQUE SECUNDUM ESSE ET NON ESSE DISPONUNTUR. Sensus totus huiusmodi est:
in omnibus complexionibus propositionum illa in his oppositio valet, quaecumque
secundum esse et non esse fit. Ut cum dicimus: Homo est huius negatio:
Homo non est sed non ea quae dicit: Non homo est Et rursus eius
quae proponit: Est albus homo illa negatio est quae dicit: Non est albus
homo non ea quae proponit: Est non albus homo Hoc ipsum autem,
quoniam eius quae dicit: Est albus homo non est negatio ea quae dicit:
Est non albus homo sed potius ea quae dicit: Non est albus homo sic
demonstrat: SI ENIM DE OMNIBUS AUT DICTIO AUT NEGATIO, LIGNUM ERIT VERUM DICERE
ESSE NON ALBUM HOMINEM. Breviter dictum est sed ita posse videtur exponi:
propositum, inquit, sit lignum, de quo duae enuntiationes dicantur. Illud tamen
nobis manifestum sit de omnibus, si affirmatio vera est, falsam esse
negationem, eam scilicet quae contradictorie opponitur, et si vera negatio,
falsam affirmationem. Pronuntietur igitur de proposito ligno, quoniam lignum
hoc est albus homo. Hoc falsum est. ƿ Si igitur haec affirmatio falsa est, vera
debet eius esse negatio. Si igitur ea est negatio affirmationis quae dicit: Est
albus homo ea quae negat dicens: Est non albus homo haec negatio
vere praedicabitur de ligno dicente quolibet quod lignum hoc est non albus
homo. Sed hoc fieri non potest. Perspicue enim falsum est lignum esse non album
hominem. Quod enim omnino homo non est nec non albus homo esse potest. Falsae
igitur utraeque, et affirmatio quae dicit de ligno quoniam est albus homo et
negatio de eo quae dicit quoniam est non albus homo. Quod si sunt falsae
utraeque, haec negatio illius affirmationis non est. Quaerenda igitur est alia
quae cum ea verum dividat atque falsum. Qua in re nulla alia reperietur contra
eam quae dicit: Est albus homo praeter eam quae dicit: Non est albus homo
Nam si ea dicitur esse affirmationis huius quae dicit: Est albus homo
negatio quae enuntiat: Est non albus homo erit ut de ligno de quo
affirmatio dicta falsa est vera sit enuntiata negatio eritque de ligno verum
dicere, quoniam lignum hoc est non albus homo sed hoc impossibile est. Constat
igitur neque eam propositionem quae dicit: Est non albus homo illius
affirmationis esse negationem quae proponit: Est albus homo et eam quae
dicit: Non est albus homo negationem esse eiusdem affirmationis quae
dicit: Est albus homo Videsne igitur ut prope in omnibus affirmationes et
negationes secundum esse vel non esse fiant? Illa enim album quod esse dixit,
illa negat album non esse dicens rursus illa dicit hominem esse, illa vero
negat dicens hominem non esse et in caeteris eodem modo est. QUOD SI HOC MODO,
ET IN QUANTISCUMQUE ESSE NON ADDITUR, IDEM FACIET QUOD PRO ESSE DICITUR, UT
EIUS, QUAE EST AMBULAT HOMO, NON EA QUAE EST AMBULAT NON HOMO NEGATIO EST SED
EA QUAE EST NON AMBULAT HOMO; NIHIL ENIM DIFFERT HOMINEM AMBULARE VEL HOMINEM
AMBULANTEM ESSE. Nec hoc solum, inquit, in his evenire potest propositionibus,
quae secundum esse vel non esse disponuntur sed etiam in his quaecumque verbis
talibus continentur, ut verba illa vim eius quod est esse concludant, ut est:
Homo ambulat ambulat continet in se esse. Idem enim est ambulat quod est
ambulans. Ad haec igitur verba quae in propositionibus esse continent aptanda
negatio est. Si enim omnis contradictio secundum esse vel non esse fit, haec
autem verba esse propria significatione concludunt quoniamque verba haec ita
ponuntur tamquam si hoc ipsum esse poneretur, manifestum est ad ea verba quae
esse continent negationem poni oportere ad earum similitudinem propositionum,
quae secundum esse et non esse supra dicta ratione sibimet opponuntur. His
igitur ante praedictis quid inconveniens ex his possit esse persequitur. QUARE
SI HOC MODO IN OMNIBUS, ET EIUS QUAE EST POSSIBILE ESSE NEGATIO EST POSSIBILE
NON ESSE, NON, NON POSSIBILE ESSE. VIDETUR AUTEM IDEM POSSE ET ESSE ET NON
ESSE; OMNE ENIM QUOD EST POSSIBILE DIVIDI VEL AMBULARE ET NON AMBULARE ET NON
DIVIDI POSSIBILE EST. Superius demonstratum est quemadmodum in his quae
complectuntur enuntiationibus secundum esse potius et non esse fierent
oppositiones, nunc hoc dicit: si hoc, inquit, in omnibus propositionibus
faciendum est, ut earum contradictiones secundum esse et non esse ponantur, et
in his quae aliquid possibile esse pronuntiant non ita ponenda negatio est, ut
dicat non possibile esse sed potius secundum non esse constituenda est, ut
dicatur possibile non esse negationem eius esse quae dicit possibile esse. Sed
si hoc dicimus, inquit, affirmatio et negatio contradictoriae verum inter se
falsumque non dividunt. Omne enim quod potest esse idem etiam potest non esse.
Quod enim potest dividi idem potest non dividi et quod potest ambulare idem
potest et non ambulare. Quae autem sit huiusmodi possibilitas, per quam cum
dicitur aliquid fieri posse, illud tamen relinquatur posse non fieri,
consequenter explanat dicens: RATIO AUTEM EST, QUONIAM OMNE QUOD SIC POSSIBILE
EST NON SEMPER IN ACTU EST, QUARE INERIT EI ETIAM NEGATIO; POTEST IGITUR ET NON
AMBULARE QUOD EST AMBULABILE ET NON VIDERI QUOD EST viSIBILE. AT VERO
IMPOSSIBILE EST DE EODEM VERAS OPPOSITES ESSE DICTIONES; NON IGITUR EST ISTA
NEGATIO. Causa est igitur, inquit, cur id quod posse esse dicitur idem possit
non esse, quod omne quod possibile dicimus ita pronuntiamus, ut non semper in
actu sit, id est non sit necessarium. Omne namque quod semper in actu est
necessarium est, ut sol semper movetur: itaque illi semper agitur motus. Si
quis autem me dicat ambulare posse, quoniam ƿ mihi ambulationis motus non
semper agitur et inest mihi aliquotiens non ambulare, inest quoque illud ut
vere de me dicatur posse me non ambulare, cum vere pronuntietur posse ambulare.
Ergo quaecumque non semper in actu sunt et posse esse et posse non esse
recipiunt. Potest igitur et quod est ambulabile, id est quod ambulare potest,
non ambulare et quod est visibile non videri. Quocirca docetur non esse
negationem eius quae dicit posse esse eam quae proponit posse non esse, idcirco
quod utraeque sunt verae in his quae (ut ipse ait) NON SEMPER ACTU sunt.
CONTINGIT ENIM unum ex utrisque quae Aristoteles dicit: AUT IDEM IPSUM DICERE
ET NEGARE SIMUL DE EODEM AUT NON SECUNDUM ESSE ET NON ESSE QUAE APPONUNTUR
FIERI AFFIRMATIONES VEL NEGATIONES, ut aut idem sint affirmatio et negatio
sibique consentiant, si secundum esse et non esse in omnibus contradictio fit,
ut est in eo quod est posse esse et posse non esse (idem enim utraeque sunt
sibique consentiunt et si quis eam dicit contradictionem esse contradictionem
sibi consentire dicit), aut certe non in omnibus negationibus secundum esse et
non esse ea quae apponuntur fieri affirmationes vel negationes, id est non in
omnibus negationibus secundum appositionem esse vel non esse vel eorum verborum
quae esse continent fieri contradictionem. SI ERGO ILLUD, INQUIT, IMPOSSIBILIUS
EST, HOC ERIT MAGIS ELIGENDUM. Duo supra posuerat quae ex supra dictis
rationibus evenirent: aut unum et idem ipsum esse ƿ dicere et negare simul de
eodem, id est ut dictio et negatio idem essent simul de eodem praedicatae
sibique consentirent, aut non secundum esse vel non esse fieri contradictionem.
Sed videntur utraque quasi quodammodo inconvenientia esse, quippe cum illud
unum etiam impossibile sit, ut affirmatio negatioque consentiant, illud alterum
id est non secundum esse et non esse fieri oppositiones inconsentiens sit aliis
propositionibus, in quibus hoc modo contradictionem fieri manifestum est. Nunc
ergo hoc dicit: quoniam utrumque, inquit, inconveniens est, unum autem ex his
erit eligendum, quod minus est impossibile, hoc sumendum est. Minus autem est
impossibile, ut secundum esse et non esse non fiant oppositiones. Hoc enim
nihil prohibet, illud autem impossibilius, ut affirmatio negatioque
consentiant. Hoc igitur erit eligendum potms: has quae cum modo sunt
propositiones non eas habere oppositiones, quae secundum esse et non esse fiunt
sed potius eas quae ad modum ponuntur. Non autem ita dixit impossibilius est,
tamquam si altera impossibilis sit sed ad hoc potius rettulit quod utraeque
quasi inconvenientes videntur, quarum unam etiam impossibilem esse non dubium
est. Hinc quoque disponit secundum modum aliquem pronuntiatarum propositionum
quae esse negationes ponuntur. Dicit enim: EST IGITUR NEGATIO EIUS QUAE EST
POSSIBILE ESSE EA QUAE EST NON POSSIBILE ESSE, negationem scilicet ƿ addens non
ad esse verbum sed ad modum quod est possibile. Eandem quoque rationem dicit
esse et in contingentibus. Eius enim quae est contingere esse negatio est non
contingere esse. Docet etiam de necessario et impossibili sibi idem videri.
Quae autem natura huius oppositionis sit, licet breviter, veracissime tamen
expressa est, de qua nos superius diutius locuti sumus. Quod si quis
perspicacius intendit, illius intellegentiam loci cum hac gradatim proficiscente
expositione communicat. FIUNT ENIM QUEMADMODUM IN ILLIS ESSE ET NON ESSE
APPOSITIONES, SUBIECTAE VERO RES HOC QUIDEM ALBUM, ILLUD VERO HOMO, EODEM
QUOQUE MODO HOC LOCO ESSE QUIDEM SUBIECTUM FIT, POSSE VERO ET CONTINGERE
APPOSITIONES DETERMINANTES QUEMADMODUM IN ILLIS ESSE ET NON ESSE VERITATEM,
SIMILITER AUTEM HAE ETIAM IN ESSE POSSIBILE ET ESSE NON POSSIBILE. Appositiones
vocat praedicationes. Dicit ergo in his propositionibus, quae praeter aliquem
modum dicuntur, praedicantur quidem semper ess e et non es se vel ea verba quae
esse continent, subiciuntur vero res de quibus illa praedicantur, ut album, cum
dicimus album est, vel homo, cum dicimus homo est. Atque ideo quoniam in his
praedicatio totam continet propositionem veritatemque et falsitatem praedicatio
illa determinat, praedicatur autem esse vel quicquid esse continet, iure
secundum esse et non esse contradictiones ponuntur. In his autem, id est in quibus
modus aliqui praedicatur, esse quidem subiectum est vel ea verba quae esse
continent, modus autem solus quodammodo praedicatur. ƿ Nam quod dicitur esse
solum sine modo aliquo ipsius rei substantia pronuntiatur et quaeritur in eo
quodammodo an sit: idcirco esse ponente affirmatione dicit negatio non esse. In
his autem in quibus modus aliquis est non dicitur aliquid esse sed cum
qualitate quadam esse, ut esse quidem nec affirmatio ambigat nec negatio, de
qualitate autem, id est quomodo sit tunc inter aliquos dubitatur. Atque ideo
ponente aliquo, quoniam Socrates bene loquitur, non ponitur negatio, quoniam
bene non loquitur sed quoniam non bene loquitur, idcirco quoniam (ut dictum
est) non ad esse vel ad ea verba quae es se continent propositio nem totam
conficiunt sed potius ad modum intenditur animus audientis, cum affirmatio
aliquid esse pronuntiat. Si igitur haec continent totius propositionis vim quod
autem propositionis vim continet praedicatur et secundum id quod praedicatur
semper oppositiones fiunt, recte solis modis vis negationis apponitur. His
autem rationabiliter constitutis illud rursus exsequitur quod non modo
contradictio non est posse esse et posse non esse, verum etiam huiusmodi
propositiones, quae cum modis positae, negationem tamen habent ad esse
coniunctam, omnino negationes non sunt sed affirmationes. Possunt enim earum
negationes aliae reperiri. Ait enim: EIUS VERO QUAE EST POSSIBILE NON ESSE
NEGATIO EST NON POSSIBILE NON ESSE. In tantum inquit, non est ulla contradictio
eius quae est posse esse et eius quae est posse non esse, ut ea quae dicit ƿ
posse non esse non esse negatio sed potius affirmatio conuincatur. Affirmatio
autem affirmationi numquam contradictorie opponitur. Docetur autem esse
affirmatio ea quae dicit posse non esse, quod eius alia quaedam negatio
reperitur, ea scilicet quae dicit non posse non esse. Simulque illud adiungit:
cum sint, inquit, huius propositionis quae dicit aliquid posse esse duae quae
videantur esse negationes, ea scilicet quae dicit posse non esse et ea quae
proponit non posse esse, hinc agnoscitur quae harum sit contradictoria contra
eam quae dicit posse esse affirmationem: quae enim verum falsumque cum ea
dividit, ipsa eius potius potest esse quam ea quae illi consentit. Ei autem
quae est posse esse consentit ea quae dicit posse non esse, ut supra iam docui:
ea quae dicit non posse esse si falsa est, vera est ea quae dicit posse esse,
haec rursus si falsa est, vera est illa quae enuntiat non posse esse. Dividunt
igitur hae veritatem falsitatemque, quod in singulis exemplis facillime poterit
inveniri. Age enim dicat quis posse me ambulare, ille verum dixerit, si quis
vero dicat non posse me ambulare, mentitus est. Rursus si quis dicat posse
solem consistere, mentitur, si quis vero dicat non posse solem consistere, de ipsius
nullus ambigit veritate. Dividunt igitur veritatem falsitatemque hae scilicet
quae dicunt posse esse et non posse esse, illae vero se sequuntur quae dicunt
posse esse et posse non esse. Quae igitur consentiunt, contradictiones non
sunt, quae autem veritatem inter se falsitatemque dividunt, ipsas
contradictiones magis esse ƿ putandum est. Quod per hoc ait: QUARE ET SEQUI
SESE INVICEM VIDEBUNTUR Quae autem propositiones sese sequantur
dicit: IDEM ENIM POSSIBILE EST ESSE ET NON ESSE Cur autem sese
sequantur monstrat adiciens: NON ENIM CONTRADICTIONES SIBI INVICEM
SUNT Si enim contradictiones essent, numquam sese sequerentur. Sed quae
sint contradictiones declarat dicens: SED POSSIBILE ESSE ET NON POSSIBILE ESSE
NUMQUAM SIMUL SUNT Cur autem numquam simul sint, non tacuit. Ait namque:
OPPONUNTUR ENIM. Nam idcirco numquam simul sunt et veritatem falsitatemque
dividunt, quoniam opponuntur. Docet quoque eius propositionis quae dicit posse
non esse illam esse negationem quae proponit non posse non esse. Ex eadem vi ad
propositionem transit. Dicit enim: AT VERO POSSIBILE NON ESSE ET NON POSSIBILE
NON ESSE NUMQUAM SIMUL SUNT, per quod ostenditur illam esse
affirmationem, illam vero negationem. Universaliter enim quaecumque idem de
eodem haec ponit, haec aufert, si illa sit affirmatio, illa negatio et nihil
aequivocationis aut universalium determinationis impediat, contradictorie
sibimet opponuntur. Caetera iam ita ut ait per se expedita sunt, ut longa
expositione non egeant, nisi quaedam in eorum ordine permiscenda sunt, quae id
quod per se est lucidum clarius monstrent. Persequitur enim similiter caeteros
modos dicens quae propositiones quarum affirmationum non sint negationes et
quae sint ƿ et eas, quas negationes non esse dicit, ut affirmationes esse
demonstret, alias negationes opponit. SIMILITER AUTEM, inquit, ET EIUS
propositionis QUAE EST NECESSARIUM ESSE NON est ea negatio quae dicit
NECESSARIUM NON ESSE (haec enim affirmatio est, sicut mox negatione opposita
comprobavit) SED POTIUS ea negatio est eius quae est necessarium esse quae
dicit NON NECESSARIUM ESSE. Eodem quoque modo cuncta persequitur dicens: EIUS
VERO QUAE EST NECESSARIUM NON ESSE, quam supra dixerat non esse oppositam ei
quae dicit necessarium esse, illa negatio est quae proponit NON NECESSARIUM NON
ESSE. Quaecumque enim negationem ad esse positam habent, illas si cum modo sint
affirmationes esse putandas. EIUS VERO QUAE EST IMPOSSIBILE ESSE, NON est ea
negatio quae dicit IMPOSSIBILE NON ESSE (non enim ad modum habet negativam
particulam iunctam) SED potius ea quae dicit NON IMPOSSIBILE ESSE. Hae namque
inter se verum falsumque dividunt. Illius vero quae ad esse habet negativam
particulam, quam affirmationem esse manifestum est, id est eius quae dicit
IMPOSSIBILE NON ESSE, ea negatio est quae dicit NON IMPOSSIBILE NON ESSE.
Concludit etiam breviter id quod superius demonstravit dicens: ET UNIVERSALITER
VERO (QUEMADMODUM DICTUM, EST) ESSE ƿ QUIDEM ET NON ESSE OPORTET PONERE
QUEMADMODUM SUBIECTA, NEGATIONEM VERO ET AFFIRMATIONEM HAEC FACIENTEM AD UNUM
APPONERE ET HAS PUTARE OPORTET ESSE OPPOSITAS DICTIONES. Universaliter, inquit,
dicimus, sicut supra iam dictum est, in his propositionibus quae modos additos
habent esse et non esse subiecta potius fieri, modos vero praedicari atque ideo
ad unum quemlibet modum, id est secundum unum, fieri debere affirmationem
semper et negationem, ut sicut affirmationem praedicatus modus continet, ita
negativa particula ad modum iuncta totam contineat negationem. Proponit autem
eas quas putat esse oppositas dictiones hoc modo: Possibile Non possibile
Contingens Non contingens Impossibile Non impossibile Necessarium Non
necessarium Quod autem addidit VERUM NON VERUM, ad hoc pertinet ut omnes
modos includeret. Vere enim modus quidam est, sicut et bene, sicut velociter,
sicut laete, sicut graviter, et quicumque modi sunt, hoc modo facienda est
contradictio: verum est, non verum est non autem non est verum, velociter
ambulare, non velociter ambulare sed non illa quae dicit velociter non
ambulare. Concludenti igitur semper ad modum inugenda negatio est. Illae enim
semper sibimet opponuntur, ut supra iam dictum est, quae secundum
praedicationes habent negativas particulas iunctas. Praedicantur autem in his
modi, ut supra iam monstravimus. ƿ Secundum modos igitur in his negatio posita
integram vim contradictionis efficiet. Expeditis modorum oppositionibus de
consequentia propositionum atque consensu habebitur subtilis utilisque
tractatus. Si igitur possibile esse simpliciter diceretur, simplex et facilis
propositionum videretur esse consensus nec quicquam in earum consequentia
posset errari: nunc autem quoniam dupliciter dicitur, secundum diversos modos
non eaedem propositionum sunt consequentiae. Quod autem dico tale est.
Possibilis duae sunt partes: unum quod cum non sit esse potest, alterum quod
ideo praedicatur esse possibile, quia iam est quidem. Prior pars
corruptibilibus et permutabilibus propria est. In mortalibus enim Socrates
potest esse cum non fuit, sicut ipsi quoque mortales, qui sunt id quod antea
non fuerant. Potest enim homo cum non loquitur loqui et cum non ambulat
ambulare. Ergo haec pars secundum id dicitur quod non quidem iam est, esse
tamen potest. Illa vero alia pars possibilis quae secundum id dicitur, quod iam
est aliquid actu, non potestate, utrisque se naturis accommodat, et sempiternis
scilicet et mortalibus. Nam quod in sempiternis est esse possibile est, rursus
quod est in mortalibus nec hoc a subsistendi possibilitate discedit sed tantum
differt, quia id quod in aeternis est nullo modo permutatur et semper esse
necesse est, illud vero quod in rebus mortalibus invenitur poterit et non esse
et ut sit non est necesse. Ego namque cum scribo inest mihi scribere, quocirca
et scribere ƿ mihi possibile est sed quoniam sum ipse mortalis, non est haec
potestas scribendi necessaria: neque enim ex necessitate scribo. At vero cum
caelo dicimus inesse motum, nulla dubitatio est quin necesse sit caelum moveri.
In mortalibus igitur rebus cum est aliquid et esse potest et ut sit non est
necesse, in sempiternis autem quod est necesse est esse et quia est esse
possibile est. Cum igitur principaliter possibilis duae sint partes: una quae
secundum id dicitur quod cum non sit esse tamen potest, altera quae secundum id
praedicatur quod iam est aliquid actu non solum potestate, huiusmodi possibile
quod iam sit actu duas ex se species profert: unam quae cum sit non est
necessaria, alteram quae cum sit illud quoque habet ut eam esse necesse sit. Nec
hoc solius Aristotelis subtilitas deprehendit, verum Diodorus quoque possibile
ita definit: quod est aut erit. Unde Aristoteles id quod Diodorus ait erit
illud possibile putat quod cum non sit fieri tamen potest, quod autem dixit
Diodorus est id possibile Aristoteles interpretatur quod idcirco dicitur esse
possibile, quia iam actu est. Cuius possibilitatis modi duas partes esse
docuimus: unam quam necessariam dicimus, alteram quam non necessariam
praedicamus. Huius autem non necessariae duae rursus partes sunt: una quae a
potestate pervenit ad actum, altera quae semper actu fuit, a quando res illa
quae susceptibilis ipsius est fuit. Et illa quidem quae a possibilitate ad
actum venit utriusque partis contradictionis susceptibilis est, ut nunc ego qui
scribo ex potestate ad actum veni et agens possum scribere. ƿ Ante enim quam
scriberem erat mihi scribendi potentia sed ex potestate scribendi veni ad actum
scribendi. Quare utraque mihi conveniunt et non scribere et scribere. Possum
enim et non scribere, possum et scribere, quae est quodammodo contradictio. Atque
ideo quaecumque ex potestate ad actum renerunt, ea et facere possum et non
facere et esse et non esse, ut qui loquitur, quia antea potuit loqui quam
loqueretur et nunc ideo potest loqui quia loquitur, et potest loqui et potest
non loqui. Alia vero quae numquam ante potestate fuit sed semper actu, a quando
res ipsa fuit quae aliquid potestate esse diceretur, ad unam rem tantum apta
est, ut ignis numquam fuit potestate calidus, ut postea actu calidus
sentiretur, nec nix ante frigida potestate, post actu sed a quando fuit ignis
actu calidus fuit, a quando nix actu frigida. Quocirca hae potentiae non sunt
aptae ad utraque. Neque enim ignis frigus incutere nec nix calidum quicquam
possit efficere. Quare facienda a principio huiusmodi divisio: possibilis alia
pars est quae cum non sit esse tamen potest, alia vero quae actu est et ideo
possibilis dicitur. Si enim non posset, nec esset omnino. Huius autem
possibilitatis quae secundum illum dicitur modum, quod iam est actu, duae
partes sunt: una secundum id quod ex necessitate esse dicimus, altera secundum
id quod cum sit non tamen esse ex necessitate ƿ aliquid arbitramur. Huius autem
non necessariae possibilitatis duae sunt aliae partes: una quae quoniam ex
potestate ad actum venit et esse et non esse recipiet facultatem, altera quae
quia numquam actum habere destitit, a quando fuit id quod dicitur ei esse
possibile, ad unam tantum partem apta est atque possibilis, eam scilicet quam
actus semper exercuit, ut igni calor vel nivi frigus vel adamanti durities vel
aquae liquor. Sed nullus arbitretur ex necessariae possibilitatis specie esse
id quod dicimus numquam potestate fuisse actus quosdam in quibusdam rebus, ut
igni calorem. Ipse enim ignis exstingui potest. In illis autem quae necessaria
sunt non modo qualitas a subiecta re discedere numquam debet, quod videtur
etiam in igni, a quo sua caloris qualitas non recedit sed etiam illud quod
subiecta illa substantia immortalis esse videatur, quod igni non accidit. Solem
enim et caetera mundi huius corpora quae superna sunt et caelestia immortalia
Peripatetica disciplina putat atque ideo consentienter sibi dicit solem
necessario moveri, quod non modo a sole motus ille numquam recedit sed ne sol
ipse esse quidem desinet. His igitur praedictis id ad quod haec praemissa sunt
id est consequentia propositionum diligentius exsequenda est. ET CONSEQUENTIAE
VERO SECUNDUM ORDINEM FIUNT ITA PONENTIBUS: ILLI ENIM QUAE EST POSSIBILE ESSE
ILLA QUAE EST CONTINGERE ESSE, ET HOC ILLI CONVERTITUR, ET NON IMPOSSIBILE ESSE
ET NON NECESSARIUM ESSE; ILLI VERO QUAE EST POSSIBILE NON ESSE ET CONTINGERE
NON ESSE EA QUAE EST NON NECESSARIUM NON ESSE ET NON IMPOSSIBILE NON ESSE; ILLI
VERO QUAE EST NON POSSIBILE ESSE ET NON CONTINGENS ESSE ILLA QUAE EST
NECESSARIUM NON ESSE ET IMPOSSIBILE ESSE; ILLI VERO QUAE EST NON POSSIBILE NON
ESSE ET NON CONTINGENS NON ESSE ILLA QUAE EST NECESSE ESSE ET IMPOSSIBILE NON
ESSE. CONSIDERETUR AUTEM EX SUBSCRIPTIONE QUEMADMODUM DICIMUS. Haec Aristoteles
consentienter his quae nos supra praemisimus addidit de consequentia
propositionum. Quae etsi manifesta sunt acute perspicientibus, tamen ne nos
nihil huic quoque loco addidisse videamur brevissima ea expositione
percurrimus. Primum voluit demonstrare, quoniam quaecumque de possibili
dicerentur eadem etiam de contingenti dici veracissime possint atque ideo ait:
ILLI QUAE EST POSSIBILE ESSE consequentem esse illam quae dicit aliquid
contingere. Et ne in his aliquid discrepans videretur, adiecit dicens: ET HOC
ILLI CONVERTITUR, ut intellegeremus quod esset possibile hoc contingere et quod
contingeret illud esse possibile. Quare quae sibi convertuntur, ea aequalia
sunt atque eadem. Quicquid igitur in possibili dici potest, idem in contingenti
praedicatur. Haec ergo, id est possibile atque contingens, sequi dixit illas
propositiones quae dicerent non impossibile esse et eas quae necessarium negant
id est non necesse esse aliquid ƿ praedicant. Ait enim: ILLI ENIM QUAE EST
POSSIBILE ESSE ILLA QUAE EST CONTINGERE ESSE, ET HOC ILLI CONVERTITUR, ET EA
QUAE EST NON IMPOSSIBILE ESSE ET NON NECESSARIUM ESSE, tamquam si hoc diceret:
et possibile est sequitur contingentia et haec utraque sibi convertuntur sed
has sequitur non impossibile esse et non necessarium esse. Hoc quam recte
dictum sit neminem latet. Nam quod est possibile esse atque esse contingit, ut
sit impossibile non est. Nam si esset impossibile, non diceretur posse esse,
quod ut non esset ratio impossibilitatis adstringeret. Ergo id quod potest esse
non est impossibile esse. Similiter non est necesse esse id quod posse esse
dicitur. Hoc autem idcirco evenit, quia id quod possibile praedicamus ad
utramque partem facile vertitur. Nam et ut sit fieri potest et ut non sit. At
vero necessitas et impossibilitas in alterutra parte constringitur. Nam quod
impossibile est esse numquam potest. Porro autem quod necesse est non esse
numquam potest. Ergo id quod negamus impossibile esse consentire facimus
possibilitati. Id autem quod negamus necessarium rursus eidem naturae vim
possibilitatis adinugimus [ut sit hoc modo dicendum] et ut verius loquamur, ita
dicendum est: quod possibile est et esse poterit et non esse, rursus quod
impossibile est esse non potest, quod necesse est non esse non potest. Ergo si
impossibilem enuntiationem negationis adiectione frangamus dicentes non
impossibile esse, illi partem possibilitatis ƿ adiungimus in qua esse posse
aliquid dicitur, sin vero necessariae propositionis rigorem negatione minuamus
dicentes non necesse esse, illud evenit ut ad eam partem necessariam
propositionem applicemus, quae in possibilitate est, ut possit non esse. Quare
possibilitatem sequitur non esse impossibile, idcirco quia quod possibile est
fieri potest. Eandem rursus possibilitatem sequitur propositio quae dicit non
necesse esse, idcirco quia quod possibile est poterit et non esse. Aliter idem
dicimus: quod possibile est non est verum dicere, quoniam impossibile est, quia
fieri potest rursus quod possibile est non est verum dicere, quoniam necesse
est esse. Potest enim quod possibile est esse idem non esse. Quare si de
possibilitate impossibilitas et necessitas recte dici non potest, eorum
negationes possibilitati consentient, quae sunt non impossibile esse et non
necessarium esse. Sed meminisse debemus eandem semper in omnibus de contingenti
et de possibili esse rationem, de eo scilicet possibili quod cum adhuc non sit
poterit tamen esse aut non esse. Aliam rursus consequentiam dicit hoc modo: ILLI
VERO QUAE EST POSSIBILE NON ESSE ET CONTINGERE NON ESSE EA QUAE EST NON
NECESSARIUM NON ESSE ET NON IMPOSSIBILE NON ESSE. Propter eandem causam has quoque
esse consequential dixit. Illi enim quae est possibile non esse et ei quae est
contingere non esse illam consentire ait quae dicat non necesse esse non esse
et non impossibile esse non esse. Hoc autem ideo quia quod potest non esse
potest et esse et rursus quod contingit non esse contingit et esse. At vero
quod necesse est non esse illud non potest esse, quod autem impossibile est non
esse illud non esse nou poterit. Quare a possibili utraeque discrepant. Nam
quia possibilitas posse esse aliquid promittit, contrarium sentit ea quae dicit
necesse esse non esse. Rursus quia possibilitas habet in se vim, ut id quod
potest esse possit et non esse, dissentit ab ea multumque discrepat quae dicit
impossibile esse non esse. Quod si propositio quae praedicat necesse esse non
esse et rursus quae dicit impossibile es se non esse a possibilitate
dissentiunt, recte nimirum harum negationes possibilitati consentire creduntur.
Possibiles autem propositiones voco huiusmodi quae vel in affirmatione vel in
negatione possibilitatem aliquam monstrant altera parte non interclusa, ut quae
dicit possibile esse aliquid esse ab hac non intercluditur ea per quam dici
poterit possibile esse non esse vel si quis dicat possibile aliquid non esse,
ab hac rursus non interclusum est, ut esse possit atque ideo affirmationem quae
praedicat posse esse possibilem voco nec minus eam quae dicit aliquid posse non
esse. Et in istis propositionibus quas Aristoteles ponit, in quibus dicit
possibile non esse, non videatur ita dicere tamquam si hoc modo pronuntiet, ut
velit intendere aliquid impossibile esse cum dicit possibile non esse. Ita enim
hanc propositionem dicit non quo possibilitatem illam auferat sed quo dicat
possibile esse aliquid ut non sit. Subaudiendum enim est adiungendumque ad possibile
verbum quod est esse, ut cum ƿ ille dicit possibile non esse nos intellegamus
possibile esse non esse, id est possibile esse ut non sit. Tertiam
consequentiam ponit hanc in qua consentire dicit ILLI QUAE EST NON POSSIBILE
ESSE ET NON CONTINGENS ESSE illam quae dicit NECESSARIUM NON ESSE ET
IMPOSSIBILE ESSE. Hoc ita plenum est ut expositione non egeat. Quod enim non
possibile est hoc fieri non potest, quod fieri non potest necesse est ut non
sit, quod autem necesse est ut non sit ut sit impossibile est. Recte igitur
dicitur eam propositionem quae dicit aliquid non posse esse et eam quae dicit
non contingere esse consequi illas quae esse cum necesse est negant et quae
impossibilitatem affirmant [non est contingens scilicet esse et non necessarium
esse]. Reliquam consequentiam, in qua eas propositiones quae dicerent NON
POSSIBILE ESSE aliquid NON ESSE ET NON CONTINGERE NON ESSE illas quae
proponerent NECESSE ESSE ET IMPOSSIBILE NON ESSE, neque ullam habet
obscuritatem. Nam quod non est possibile ut non sit hoc impossibile est ut non
sit. Id quod enim dicimus impossibile esse idem valet tamquam si dicamus non
possibile esse. Quod enim facit negatio in ea interpretatione in qua dicimus
non possibile, idem facit privatio in ea in qua dicimus impossibile. Quod autem
impossibile est non esse late patet, quia necesse est esse. Ergo et quod non
est possibile ut non sit manifestum est quoniam esse necesse est. Idem quoque ƿ
et de contingenti dicendum est. Describit autem eas hoc modo, ut non solum
mente et ratione capiantur verum etiam subiectae oculis faciliores intellectu
sint. Nos autem, ut sit lucidior explanatio, de his duos facimus ordines. Et in
primo quidem eas proposuimus quae praecedunt, in secundo vero eas quae
sequuntur, ut sit multa facultas vel per se earum rationes non intellegentibus,
ad descriptionem tamen respicientibus, quae quam sequatur agnoscere. PRAECEDENTES:
SEQUENTES: Possibile esse Non impossibile esse Contingens esse Non necesse esse
Possibile non esse Non necessarium non esse Contingens non esse Non impossibile
non esse Non possibile esse Necessarium non esse Non contingens esse
Impossibile esse Non possibile non esse Necesse esse Non contingens non esse
Impossibile non esse Hac igitur descriptione facta, quid Aristoteles
communiter de propositionibus universaliterque tractaverit, nulli sollertius
intuenti videtur ambiguum. Caetera vero quae singillatim de eorum consequentiis
disputavit, quoniam defetigari lectores nolumus, sextum volumen expediet.
Sextus hic liber longae commentationi terminum ponit, quae quodam magno
labore constiterit ac temporis mora. Nam et plurimorum sunt in unum coaceruatae
sententiae et duorum ferme annorum spatium continuo commentandi sudore
consumpsimus. Neque ego arbitror quibusdam sinistre interpretantibus gloriose
factum videri, ut quod dici breviter posset id nos ostentatione doctrinae non
ad lectorum scientiam potius quam prolixitate ad fastidium tenderemus. Quibus
responsum velim non haec tam mendaciter esse sensuros, si prioris commenti
perlegerent brevitatem. Nam neque brevius explicari potuit angustissimorum
obscuritas impedita sermonum et quam multa ad plenam libri huius intellegentiam
desint agnoscitur. Quid autem utrumque opus legentibus utilitatis exhibeat,
hinc facillime mihi videtur posse perpendi, quod cum hanc secundam editioneni
in manus quisquam primum sumpserit rerum ipsarum spatiosa varietate
confunditur, ut qui in maioribus intendere mentem nequit editionis primae
brevitatem simplicitatemque desideret. Quod si quis ad prioris editionis duos
libros rector accesserit, sumpsisse sibi ad scientiam quiddam fortasse
videbitur sed cum postremo hanc secundam cognoverit editionem, quam multa in
prima ignorarit agnoscit. Nec homines a legendo longum opus labore deterreat,
cum nos non impedierit ad scribendum. Sed ne ipsum quoque prooemium tendi
longius videatur, ad Aristotelis seriem et ad ea quae de consequentia
propositionum diligenter exsequitur reuertamur. Ea quae communiter
universaliterque de propositionibus omnibus et de earum ad se inuicem
consequentiis speculanda fuerant in superiori propositionum ipsarum
descriptione disposuit nunc vero quae singillatim singulis accidunt
diligentissimo tractatu persequitur. Ait enim ita: ERGO IMPOSSIBILE ET NON
IMPOSSIBILE ILLUD QUOD EST CONTINGENS ET POSSIBILE ET NON CONTINGENS ET NON
POSSIBILE SEQUITUR QUIDEM CONTRADICTORIE SED CONVERSIM; ILLUD ENIM QUOD EST
POSSIBILE ESSE NEGATIO IMPOSSIBILIS, NEGATIONEM VERO AFFIRMATIO; ILLUD ENIM
QUOD EST NON POSSIBILE ESSE ILLUD QUOD EST IMPOSSIBILE ESSE; AFFIRMATIO ENIM
EST IMPOSSIBILE ESSE, NON IMPOSSIBILE VERO NEGATIO. Consequentia propositionum
(ut superior descriptio docet) secundum possibile et necessarium facta est.
Quam rem illa quoque secuta est, ut et de contingentibus ƿ et impossibilibus
propositionibus consequentiisque diceretur. Nam cum contingens recto modo
possibili consentiat, impossibile converso ordine necessarium est, ut paulo
post docebimus. Speculatur ergo de possibili contingenti et impossibili,
quemadmodum ad se inuicem vel quas habeant consequentias idque constituit hoc
modo dicens: impossibile et non impossi bile sequuntur quidem possibile et non
possibile contradictorie quidem sed conversim. Hoc autem huiusmodi est: scimus
affirmationem privatoriam esse eam quae dicit impossibile esse, huius vero negationem
non impossibile esse, rursus affirmationem possibilem eam quae dicit possibile
esse, huius negationem quae proponit non possibile esse. Sequitur ergo
affirmationem possibilem negatio impossibilitatis. Nam quod possibile est idem
est non impossibile. Alioquin si ea quae dicit non impossibile est non sequitur
possibilitatem, sequitur eius affirmatio, id est impossibile esse. Erit ergo
quod possibile est impossibile, quod fieri non potest. Quod si impossibilitas
possibilitatem non sequitur, non impossibile esse sequitur possibilitatem. At
vero negationem possibilitatis sequitur affirmatio impossibilitatis. Nam quod
non possibile est impossibile est. Eandem enim vim optinet negatio in
propositionibus quam etiam privatio. Et de contingenti eodem modo. Nam quod
contingens est illud est non impossibile. Nam si contingens et possibile se
sequuntur, possibile vero et non impossibile consentiunt, contingens et non
impossibile idem designant. Rursus non contingens ƿ et impossibile idem videri
poterit perspicienti, quod non contingens quidem et non possibile idem
sentiunt. Sed non possibile impossibilitati consentit. Quocirca et non
contingens quoque impossibile aliquid esse denuntiat. Fit ergo ut affirmatio
impossibilitatis contradictionem possibilitatis sequatur sed non ut affirmatio
affirmationem, nec ut negatio negationem sed conversim, id est ut affirmatio
negationi, negatio vero affirmationi consentiat. Affirmationem namque quae est
possibile es se sequitur negatio impossibilis quae dicit non impossibile esse,
negationem vero possibilitatis quae est non possibile esse sequitur
impossibilitatis affirmatio quae proponit impossibile esse. Idem quoque et de
contingenti dicendum est. Affirmationem namque contingentis sequitur negatio
impossibilitatis, negationem vero contingentis sequitur affirmatio
impossibilitatis. Omnino enim quicquid de possibilitate proponitur idem de
contingentibus iudicatur. Disponantur ergo hoc modo: primum quidem affirmatio
impossibilis, contra eam negatio impossibilis, et sub affirmatione impossibili
ponantur ex contingentibus et possibilibus, quas ipsa sequitur impossibilitas,
sub negatione vero impossibilitatis illae possibilis et contingentis
propositiones, quibus ipsa impossibilitatis negatio consentit, hoc modo: ƿ
AFFIRMATIO CONTRADICTIO NEGATIO Impossibile esse Non impossibile esse NEGATIO
CONTRADICTIO AFFIRMATIO Non possibile esse Possibile esse Non contingens esse
Contingens esse Patet ergo ut contradictiones quidem aliis
contradictionibus consentiant. Qua in re illud quoque manifestum est, quod
affirmationes negationibus, negationes vero affirmationibus consentiunt. Seusus
ergo totus talis est, sermonum vero ratio haec est: IMPOSSIBILE, inquit, ET NON
IMPOSSIBILE scilicet quod est contradictio duas contradictiones id est ILLUD
QUOD EST CONTINGENS ET POSSIBILE ET NON CONTINGENS ET NON POSSIBILE SEQUITUR
QUIDEM CONTRADICTORIE (nam una contradictio impossibilis duas sequitur
contradictiones, id est contingens et non contingens, possibile et non
possibile) sed quamquam contradictionem sequatur alia contradictio, CONVERSIM
tamen sibi consentiunt. Nam QUOD EST POSSIBILE ESSE SEQUITUR NEGATIO
IMPOSSIBILIA, ut superior descriptio docet, NEGATIONEM VERO possibilis
AFFIRMATIO scilicet impossibilis. Nam quod est non possibile consentit ei quod
est impossibile. Est autem affirmatio impossibilis ea quae dicit impossibile
esse. Et quamquam inuoluta sit sermonum ratio, tamen si quis secundum
superiorem expositionem ad ipsius Aristotelis sermones superiores ƿ redeat et
quod illis deest ex nostra expositione compenset, sensus planissimus a ratione
non denat. NECESSARIUM VERO QUEMADMODUM, CONSIDERANDUM EST. MANIFESTUM QUONIAM
NON EODEM MODO SED CONTRARIAE SEQUUNTUR, CONTRADICTORIAE AUTEM EXTRA. NON ENIM
EST NEGATIO EIUS, QUOD EST NECESSE NON ESSE, NON NECESSE ESSE, CONTINGIT ENIM
VERAS ESSE IN EODEM UTRASQUE; QUOD ENIM EST NECESSARIUM NON ESSE, NON EST
NECESSARIUM ESSE. Impossibilis atque possibilis dudum comparatione didicimus,
quod affirmationem possibilem impossibilis negatio sequeretur, rursus negationi
possibilis impossibilis affirmatio consentiret. Quaerens ergo nunc, quemadmodum
possibilium et necessariarum propositionum fiat consequentia, dicit non eodem
modo in his evenire quemadmodum in illis evenit quae ex possibilis et
impossibilis comparationibus nascebantur. In illis enim contradictiones oppositae
contradictiones rursus oppositas sequebantur, ut affirmationem negatio,
negationem affirmatio sequeretur. In his autem hoc est in necessariis et
possibilibus non eodem modo est sed contrariae quidem sequuntur,
contradictoriae vero et oppositae extra sunt et non sequuntur. Et prius quidem
quae sint contrariae, quae contradictoriae disponamus. Propositionis enim quae
dicit necesse esse ea quae proponit non necesse esse contradictoria est, ea ƿ
vero quae dicit necesse esse non esse contraria: ut si quis dicat solem necesse
esse moveri, huic est opposita contradictorie solem non necesse esse moveri,
contraria vero solem necesse esse non moveri. Possibilem igitur propositionem
sequitur contradictio necessarii, contradictionem vero possibilis non sequitur
necessitas (quod eveniret si in his sese oppositae sequerentur) sed potius ea
quae est contraria necessitati. Age enim propositioni quae dicit possibile esse
videamus quae ex necessariis consentiat. Illa quidem quae dicit necesse esse
non ei poterit consentire. Quod enim possibile est esse potest et non esse,
quod autem esse necesse est non esse non poterit. Ergo si possibilitatem
necessitas non sequitur, sequitur eam necessitatis contradictio. Non sequitur ergo
propositionem eam quae dicit possibile esse ea scilicet quae proponit necesse
esse: sequitur ergo propositionem possibilem contradictio necessitatis quae
proponit non necesse esse. Sed contradictioni possibilis necessitas non
consentit. Neque enim dicere possumus, quoniam eam propositionem quae dicit non
possibile esse sequatur ea quae proponit necesse esse sed potius contraria
necessariae illa quae dicit necesse esse non esse. Nam cum non possibile est,
necesse est non esse. Disponantur enim hae scilicet quae se sequuntur et sub
his necessaria et quae sit contradictio, quae contrarietas adscribatur. ƿ
Possibile Non possibile Non necesse esse Necesse esse non esse CONTRADICTIO
CONTRARIETAS Necesse esse Nulli ergo dubium est quin affirmationem
possibilis sequatur necessarii negatio, negationem vero possibilis necessarium
non sequatur sed potius contrarietas necessarii. Nam cum possibile esse
sequatur contradictio necessitatis, quod est non necesse est, contradictionem
possibilis quae dicit non possibile esse non sequitur necessitas ipsa sed
potius contraria ea scilicet quae proponit necesse esse non esse. Sensus ergo
huiusmodi est, talis vero est ordo sermonum: NECESSARIUM VERO, inquit,
QUEMADMODUM id est quas habeat consequentias, CONSIDERANDUM EST. Primo quidem
definit dicens: MANIFESTUM EST QUONIAM NON EODEM MODO, quo loco subaudiendum
est: quemadmodum in his quae sunt possibiles et impossibiles SED CONTRARIAE
SEQUUNTUR, CONTRADICTORIAE VERO EXTRA sunt et non sequuntur. Namque
contradictionem possibilis necessarii non contradictio sed (ut supra docuimus)
contrarietas sequebatur. Non enim contradictio contradictioni in hac necessarii
consequentia consentiebat. Sequebatur namque possibilitatem illud quod est non
necessarium, non possibile autem sequebatur ea propositio quae diceret necesse
esse non esse, non autem necesse esse. Sed rursus necesse esse non esse et non
necesse esse non sunt contradictiones sed non necesse esse quidem negatio
necessarii est, illa vero quae dicit necesse esse non esse contraria necessarii.
Contra se autem non sunt contradictoriae. Possunt enim in uno eodemque simul
inveniri. Quod per hoc ait quod dixit:CONTINGIT ENIM VERAS ESSE IN EODEM
UTRASQUE. NAM QUOD EST NECESSARIUM NON ESSE, NON EST NECESSARIUM ESSE ut
quoniam necesse est hominem quadrupedem non esse, non necesse est esse hominem
quadrupedem. Nam si hoc falsum est, necesse erit hominem esse quadrupedem, cum
necesse sit non esse. Quocirca manifestum est, quoniam simul aliquando inveniri
possunt non necesse esse et rursus necesse esse non esse propositiones. Quae
cum ita sint, contradictiones non sunt. Causam vero reddens cur, cum secundum
possibilis comparationem ad contradictiones sit reddita consequentia, non eodem
modo in necessariis potuerit evenire, sic dicit: CAUSA AUTEM CUR NON
CONSEQUATUR SIMILITER CAETERIS, QUONIAM CONTRARIE IMPOSSIBILE NECESSARIO
REDDITUR IDEM VALENS. NAM SI IMPOSSIBILE EST ESSE, NECESSE EST HOC, NON ESSE
SED NON ESSE; SI VERO IMPOSSIBILE NON ESSE, HOC NECESSARIUM EST ESSE. QUARE SI
ILLA SIMILITER ƿ POSSIBILE ET NON, HAEC E CONTRARIO: NAM IDEM SIGNIFICAT
NECESSARIUM ET IMPOSSIBILE SED (QUEMADMODUM DICTUM EST) CONTRARIE. Causa est,
inquit, cur consequentia in necessariis ita reddatur, quod necessarium semper
impossibili contraria ratione consentit. Nam quod impossibile est esse hoc
necesse est non esse, et rursus quod necesse est esse hoc impossibile est non
esse. Fit igitur contrarietas quaedam. Nam cum impossibilitas esse habet,
necessitas non esse, et cum necessitas esse, impossibilitas non esse. Ergo idem
valet impossibilitas et necessitas non eodem modo reddita sed si necessitas
secundum esse, impossibilitas secundum non esse, et si impossibilitas secundum
esse, secundum non esse necessitas. Quare idcirco evenit ista contrario modo
consensio. Nam ubi est impossibile esse, ibi est necesse non esse sed
impossibile esse et non possibile esse consentiunt: igitur non possibile esse
et necesse non esse consentiunt. Nulli ergo dubium est idcirco necesse esse non
esse sequi possibilis negationem, quoniam impossibilitas quae sequitur
possibilis negationem consentit ei quae dicit necesse non esse. Hoc autem ideo
quia impossibilitas et necessitas idem valent (ut dixi) si contrarie
proponantur. Quare quod dicitur hoc modo est: CAUSA AUTEM est, inquit, CUR NON
CONSEQUATUR SIMILITER CAETERIS, id est quae secundum possibile et impossibile
factae sunt, QUONIAM CONTRARIE IMPOSSIBILE NECESSARIO REDDITUR IDEM valENS, id
est contrario ƿ modo reddita et pronuntiata impossibilitas necessitati idem
valet. NAM SI IMPOSSIBILE EST ESSE, NECESSE EST HOC, NON ESSE SED necesse NON
ESSE hoc est quod impossibile est esse. Nullus ergo dixerit quoniam esse
necesse est sed potius quoniam necesse est non esse, tamquam si ita dixisset:
nam si impossibile est esse, necesse est hoc non esse sed non putandum est
quoniam impossibile est esse hoc est quod necesse est esse. Quod si rursus
impossibile est non esse, hoc necesse est esse. Conversim igitur et contrarie
impossibilitas necessitati redditur idem valens [id est contrario modo reddita
et pronuntiata impossibilitatis necessitati]. Quod si impossibilitas ad
possibile simili contradictione et contradictionum conversione consequentiam
reddit, idem autem valet impossibilitas et nesessitas contrarie praedicata,
nulli dubium est quin recte hic contraria et non opposita fuerit consequentia. An
certe ita exponendum est: quoniam in consequentia impossibilis et non
impossibilis ad eas quae proponebant possibile et non possibile eam quae est
non possibile ea quae dicit aliquid esse impossibile sequebatur, contrarie vero
impossibile idem valet quod necessarium, manifestum est quoniam, si similiter
se habet, id est eo modo quo dictum est, impossibile ad consequentiam
possibilis et non possibilis, impossibile vero ei quod est non possibile
consentaneum sit, id quod e contrario idem valet, id est necessarium non esse,
id sequi eam propositionem quam etiam impossibilitas ƿ sequebatur. Est autem
contrarie idem valens impossibilitati ea quae est necessarium non esse
sequiturque impossibilitas eam propositionem quae est non possibile esse: et
necessarium non esse igitur sequitur eam quae est non possibile esse, ut sit
sensus hic: quoniam impossibile necessario idem potest e contrario, similiter
vero sese habet, id est eo modo quo dictum est, impossibilis consequentia ad
eas quae sunt possibile et non possibile. AN CERTE IMPOSSIBILE SIC PONI
NECESSARII CONTRADICTIONES? NAM QUOD EST NECESSARIUM ESSE, POSSIBILE EST ESSE,
NAM SI NON, NEGATIO CONSEQUETUR; NECESSE ENIM AUT DICERE AUT NEGARE. QUARE SI
NON POSSIBILE EST ESSE, IMPOSSIBILE EST ESSE: IMPOSSIBILE IGITUR EST ESSE QUOD
NECESSE EST ESSE, QUOD EST INCONVENIENS. AT VERO ILLUD QUOD EST POSSIBILE ESSE
NON IMPOSSIBILE ESSE SEQUITUR, HOC VERO ILLUD QUOD EST NON NECESSARIUM ESSE.
QUARE CONTINGIT QUOD EST NECESSARIUM ESSE NON NECESSARIUM ESSE, QUOD EST
INCONVENIENS. AT VERO NEQUE NECESSARIUM ESSE SEQUITUR POSSIBILE ESSE NEQUE
NECESSARIUM NON ESSE; ILLI ENIM UTRAQUE CONTINGIT ACCIDERE, HORUM AUTEM
UTRUMLIBET VERUM FUERIT, NON ERUNT ILLA VERA. SIMUL ENIM POSSIBILE ESSE ET NON
ESSE; SIN VERO NECESSE ESSE VEL NON ESSE, NON ƿ ERIT POSSIBILE UTRUMQUE.
RELINQUITUR ERGO NON NECESSARLUM NON ESSE SEQUI POSSIBILE ESSE. HOC ENIM VERUM
EST ET DE NECESSE ESSE. HAEC ENIM FIT CONTRADICTIO EIUS QUAE SEQUITUR NON
POSSIBILE ESSE; ILLUD ENIM SEQUITUR IMPOSSIBILE ESSE ET NECESSE NON ESSE, CUIUS
NEGATIO NON NECESSE NON ESSE. SEQUUNTUR IGITUR ET HAE CONTRADICTIONES SECUNDUM
PRAEDICTUM MODUM ET NIHIL IMPOSSIBILE CONTINGIT SIC POSITIS. Superius quidem
propositionum facta conversio est ita, ut possibilem propositionem necessarii
negatio sequeretur. Atque his ita positis non evenit, ut contradictio
contradictionem sequeretur nec ut converso modo sequeretur, quod in illis
scilicet eveniebat in quibus possibilium et impossibilium sequentia
considerabatur, quoniam contradictio necessarii, quod est scilicet non
necessarium esse, sequebatur possibilem propositionem, possibilis vero
contradictionem non consecuta est necessitas sed contrarium necessitatis. Hoc
permutare volens intendit ita constituere consequentias, ut simili modo
contradictio quidem contradictioni consentiat sed conversim. Hoc autem hac
ratione disponit. Dicit enim: erravi fortasse quod necessarii et possibilis
consequentiam ex possibili inchoavi et non ex necessario, ut eius hoc
consensionem metiretur. Posuit enim praecedens ƿ possibile esse eique sicut
consentiens non necessarium esse. Et haec quidem superius. Nunc autem convertit
et dicit: an fortasse, inquit, errore lapsi ita has consequentias constituimus,
ut primo poneremus possibile esse, huic autem adiungeremus velut consequens
necessarii negationem quae diceret non necesse esse? Ac potius illud verum est,
ut posito prius necessario necessitati possibilitas consentiens subsequatur?
Videtur enim omnem necessariam propositionem possibilitas subsequi. Quod si
quis neget, illi confitendum est, quoniam negatio possibilis sequitur
necessitatem. In omnibus enim aut affirmatio aut negatio est. Ergo si
necessariam propositionem non sequitur possibilitas, possibilitatis negatio
consequitur. [Ut ita dicatur] ergo recta consequentia ita dicit: quod necesse
est esse non possibile est esse. Sed dudum dictum est, quod ei propositioni
quae proponeret non possibile esse impossibilitas consentiret. Sed non
possibile esse consequitur necessitatem, et impossibilitas igitur consequitur
necessitatem. Erit itaque recta propositionum consequentia: si necesse est
esse, impossibile est esse. Sed hoc fieri non potest. Si igitur impossibilitas
non sequitur necessitatem, sequitur autem propositio quae aliquid non posse esse
denuntiat impossibilem propositionem, necessariae propositioni possibilitatis
negatio quae est non possibile esse non consentit. Quod si haec necessariae
enuntiationi non consentit, consentiet affirmatio. Necessitatem igitur
possibilitas consequitur. ƿ Erit ergo recta propositionum consequentia hoc
modo: si necesse est esse, possibile est esse. Sed rursus alia nobis ex his
impedimenta nascuntur. Nam si quis dicat necessitati propositionem possibilem
consentire quoniam possibilitati ea propositio quae dicit non impossibile esse
et rursus ea quae enuntiat non necesse esse consentit, quod superior ordo
praedocuit, erit ut necessariae propositioni consentiat ea quae dicit non
necesse esse. Erit igitur recta consequentia: si necesse est esse, non necesse
est esse. Sed hoc rursus est impossibile. Quod si ita est, aliquid in
possibilis consequentiis propositionum permutandum est, ut possit ipsa sibi
ratio consentire. Aut igitur illud primo inconvenienter dictum est, quod
necessarii negatio affirmationem possibilem sequeretur, ut ea quae est non
necesse esse sequatur eam quae dicit possibile esse vel certe illud non recte
sensimus ad possibilem propositionem necessarium consentire. Quod quia
perabsurdum est (nullus enim dixerit necessitati possibilitatem esse contrariam:
evenit enim quod necesse est' hoc fieri non posse) rectaque est haec
consequentia: si necesse est, possibile est, fit ut potius necessarii negatio
propositionem possibilem non sequatur. Sed cum haec dicuntur, illud intellegi
placet, quod necessitatem possibilitas sequatur, ut id quod necesse est, hoc
dicatur esse possibile, illud autem quod per se possibile est non modis omnibus
sit necesse. Nam si necesse est, fieri non potest ut non sit, quod vero
possibile est, et non esse potest. Igitur quod possibile ƿ est non est necesse.
Dico autem quia neque ea propositio sequitur possibilitatem, quae necessitati
omnino contraria est. Est namque necessariae propositioni contraria ea quae
dicit necesse est non esse. Hanc possibilitati consentire nullus impellet. Nam
quod necesse est non esse, illud non potest esse, quod autem possibile est, et
esse et non esse potest. Necessitas ergo propositionis quae secundum esse
praedicatur idcirco non sequitur possibilitatem, quoniam possibilitas quidem et
non esse potest, necessitas vero quae secundum esse est non esse non potest.
Rursus necessitas quae secundum non esse praedicatur a possibilitate differt
eamque non sequitur, quod necessitas ea quae secundum non esse dicitur non
potest esse, possibile vero et esse et non esse potest. Quid igitur ut neque
opposita negatio necessarii possibilitatem sequatur, quae non necesse esse
proponit, neque ipsa necessitas affirmandi quae dicit necesse esse neque huic
contraria quae dicit necesse esse non esse? Sed in his quatuor videbuntur. Est
enim necessaria affirmatio quae dicit necesse esse, huic opposita est ea quae
praedicatur non necesse esse, rursus contraria necessitati affirmatio est quae
dicit necesse est non esse, huic opponitur ea quae proponit non necesse est non
esse, quod subiecta docet subscriptio: Necesse est esse Non necesse est esse
Necesse est non esse Non necesse est non esse Si igitur neque ea quae
dicit necesse est esse neque huic opposita quae proponit non necesse est esse
nec necessitati contraria, cuius sententia est quoniam ƿ necesse est non esse,
possibilitati consentit, restat ut ei consentiat quarta quae dicit non necesse
est non esse, quae scilicet quarta aliquatenus etiam ipsi necessitati
consentit, necessitas vero possibilitati minime. Omne enim quod necesse est
esse et possibile est esse et ut non sit non est necesse. Idcirco autem haec
propositio quae dicit non necesse est non esse necessitati consentit, quia
necessitati quidem contraria est ea quae dicit necesse est non esse, haec vero
opposita est huic propositioni quae dicit necesse est non esse, ea scilicet
quae proponit non necesse est non esse: quare consentiet ei propositio quae
contraria est sibimet oppositae affirmationi. Quod si quis attentius inspicit
et ad supra scriptum omnino reuertitur, facile cognoscit. Si igitur possibile
est (ut dictum est) sequitur ea propositio quae dicit non necesse est non esse,
negationem possibilis sequitur huic opposita quae dicit necesse est non esse
eritque huiusmodi consequentia: si possibile est, non necesse est non esse,
rursus si non possibile est, necesse est non esse. Reuersa est igitur illa
consequentia quae contradictorie quidem fiebat sed conversim, sicut supra de
possibilibus dictum est. Hic namque affirmationem possibilem negatio sequitur
quae necessarium quidem destruit sed id quod ad non esse ponitur, ea scilicet
quae dicit non necesse est non esse, rursus negationem possibilis affirmatio
sequitur necessaria quae secundum non esse ponitur. Est igitur hic quoque eadem
conversio, ut contradictio quidem contradictionem sequatur sed conversim, ut
affirmatio negationi, negatio vero affirmationi conveniat. Melius vero hoc si
sub ƿ oculos caderet liquere credidimus atque ideo apertissime sententiam rei
subiectae dispositionis nos ordo commoneat. Affirmatio possibilis Negatio
possibilis oppositae secundum esse: secundum esse: Possibile esse Non possibile
esse Negatio necessaria Affirmatio necessaria secundum non esse: secundum non
esse: Non necesse est non esse Necesse est non esse Omnis quidem sententia
est talis, ordo autem sermonum huiusmodi est: postquam dixit de possibilium et
impossibilium consequentia, quod contradictiones quidem contradictionibus
convenirent sed conversim, id est quod affirmatio negationi, negatio vero
consentiret affirmationi, haec eadem, inquit, consequentia quemadmodum in
necessariis evenit, videndum est. Speculatus igitur et de necessariis idem non
repperit. Nam cum dixisset necessarii negationem consentire possibilitati,
affirmatio necessaria negationi possibilitatis non consensit. Eiusdem rei
reddens causas illud arguit quod impossibilitas necessitati idem valeret
contrarie reddita. Quam rem emendare volens ita dixit: AN CERTE, inquit,
IMPOSSIBILE EST SIC PONI NECESSARII CONTRADICTIONES? Ut negationem scilicet
necessarii possibilitati consentire diceremus. Addit autem dubitationem
quandam, quae ita sese habet. NAM QUOD EST, inquit, NECESSARIUM ESSE, illud
sine dubio POSSIBILE EST ESSE. NAM SI NON, id est si quod necessarium est
possibile non est, NEGATIO possibilitatis CONSEQUITUR. NECESSE EST ENIM in omnibus
rebus AUT DICERE id est affirmare AUT CERTE NEGARE. In omnibus namque rebus aut
affirmatio vera est aut negatio. QUARE SI NON POSSIBILE EST ESSE, id est si hoc
est non possibile esse [quod impossibile est, fiet id] quod necessarium est
esse, sequitur autem propositionem quae dicit non possibile est esse illa quae
proponit IMPOSSIBILE EST ESSE, fit aliquid impossibile ut dicatur: IMPOSSIBILE
IGITUR EST ESSE ID QUOD NECESSE EST ESSE. Sed hoc inconveniens est. Ergo hic
docuit, quod necessitatem possibilitas sequeretur. Nunc autem aliud addit:
quoniam supra dixit possibili propositioni necessariae affirmationis negationem
consentire, nunc de eadem re dubitationem dicens: AT VERO ILLUD QUOD EST
POSSIBILE ESSE NON IMPOSSIBILE ESSE SEQUITUR. Nam quod possibile est, hoc non
est impossibile sed quod non est impossibile esse non necesse est esse. Ergo si
non impossibile esse sequitur possibilitatem, non impossibilitatem autem
sequitur id quod dicitur non necessarium esse sequiturque possibilem propositionem
id quod dicimus non necessarium ƿ esse, nulli dubium est quin, si necessitatem
possibilitas sequitur, sequatur affirmationem necessariam negatio necessariae.
QUARE CONTINGIT QUOD EST NECESSARIUM ESSE id ipsum NON NECESSARIUM ESSE. QUOD
EST INCONVENIENS. Constat ergo quoniam affirmationem possibilem non sequitur
opposita negatio necessariae affirmationi, idcirco quod illud removendum est:
aut, quod supra diximus, ne sequatur possibilem affirmationem negatio
necessariae, aut ne necessitatem possibilitas sequatur. Quod quia fieri nullo
modo potest, illud est removendum, ne possibilitatem necessitati opposita negatio
subsequatur. Igitur ea quae dicit non necesse est esse non sequitur
possibilitatem. Et quia haec omnia in medio tacuerat, supra dictis addit: AT
VERO NEQUE NECESSARIUM ESSE SEQUITUR POSSIBILE ESSE, hoc scilicet sententiae
includens possibilitati non consentire necessarium, nec hoc solum sed NEQUE
illud quod dicimus NECESSARIUM NON ESSE. Hoc ut tractatum sit ipse planius monstrat.
ILLI ENIM id est possibili UTRAQUE CONTINGIT ACCIDERE et esse scilicet et non
esse, HORUM AUTEM, id est necessarii secundum esse et necessarii secundum non
esse, UTRUMLIBET VERUM FUERIT, NON ERUNT ILLA VERA. Hoc ipse exponit. De
possibili enim utroque ita dicit: SIMUL ENIM POSSIBILE EST ET ESSE ET NON ESSE
(hoc est ergo quod ait: ILLI ENIM UTRAQUE CONTINGIT ACCIDERE); SIN VERO,
INQUIT, NECESSE EST ESSE ƿ VEL NON ESSE, id est si non potest non esse et non
poterit esse, NON ERIT POSSIBILE UTRUMQUE, ut si esse necesse est, non poterit
non esse vel si non esse necesse est, non poterit esse. Tres igitur
propositiones non necesse esse, necesse esse, necesse esse non esse
possibilitatem non sequuntur. RELINQUITUR ERGO id est ut quarta propositio,
quae opponitur necessario secundum non esse affirmatur, possibilitatem
sequatur, id est NON NECESSARIUM NON ESSE SEQUI POSSIBILE ESSE. Sed quia
possibile consentit necessario, haec quoque necessario consentit. Namque hoc
est quod dixit: HOC ENIM VERUM EST ET DE NECESSE ESSE. Nam quod necesse est,
non necesse est ut non sit. Haec igitur propositio quae dicit non necesse est
non esse contradictio est eius affirmationis quae sequitur negationem
possibilitatis eam scilicet quae dicit non possibile esse. Nam cum affirmationem
eam quae est scilicet possibile esse sequatur necessarii secundum non esse
negatio ea quae proponit non necesse est non esse, negationem possibilis eam
scilicet quae proponit non possibile est esse sequitur affirmatio necessaria
secundum non esse quae dicit necesse est non esse, quam eandem quae proponit
non possibile esse, quae est scilicet negatio possibilitatis, impossibilis
affirmatio sequitur quae proponit impossibile esse. Hoc est ergo quod ait: HAEC
ENIM FIT CONTRADICTIO EIUS QUAE SEQUITUR ID QUOD EST NON POSSIBILE ESSE. Nam
cum possibilem affirmationem sequatur necessariae secundum ƿ non esse negatio
quae dicit non necesse est non esse, haec necessaria secundum non esse negatio
contradictio est eius quae sequitur negationem possibilitatis. ILLUD ENIM, id
est negationem possibilitatis, SEQUITUR ID QUOD EST IMPOSSIBILE. Nam cum
negatio possibilitatis sit quae dicit non possibile esse, hanc sequitur ea quae
dicit impossibile est esse, cui consentit ea quae dicit necesse esse non esse.
Sequitur igitur possibilis propositionis negationem ea quae dicit necesse esse
non esse, cuius est contradictio ea quae dicit non necesse esse non esse. Fit
ergo hic quo que ut contradictio contradictionem sequatur sed conversim. Quod
ait per hoc cum dixit: SEQUUNTUR IGITUR ET HAE CONTRADICTIONES SECUNDUM
PRAEDICTUM MODUM eum scilicet, ut affirmatio negationem, negatio vero sequatur
affirmationem, et nihil quidem erit vel inconveniens vel impossibile ita
positis consequentiis, ut affirmationem quidem possibilem negatio necessarii
secundum non esse sequatur, negationi vero possibilis affirmatio necessaria
secundum non esse consentiat. Quibus explicitis alias rursus adicit
dubitationes. Sopra namque consequentias ita disposuit, ut praecedens
necessarium possibilitas sequeretur, nunc de eodem ipso ambigit. Sive enim quis
ponat consentire necessario possibile, sive quis neget, utrumque videtur
incongrnum, quoniam si quis neget possibilitatem ƿ necessitati congruere, is
dicit quoniam possibilitatis negatio necessariae propositioni conveniet. Si
quis enim abnuat propositioni quae dicit aliquid necesse esse consentire eam
quae proponit possibile esse, is illud abnuere non potest, quia negatio
possibilitatis necessitati consentiat, eritque integra consequentia: si necesse
est esse, non possibile est esse, quandoquidem illa falsa est consequentia quae
dicit: si necesse est esse, possibile est esse. Quod si hoc fieri non potest,
ut possibilitatis negatio necessariae consentiat affirmationi, illud verum est
affirmationem possibilem necessariae convenire. Sed in hoc quoque maior inerit
difficultas. Omne namque quod possibile est esse, possibile est et non esse.
Sed si possibilitas necessitatem sequitur, erit id quod necesse est ut possit
esse et possit non esse secundum naturam scilicet possibilitatis, quae ipsi
convenit necessitati. Sed hoc impossibile est: non igitur possibilitas sequitur
necessitatem. Quod si possibilitas necessitatem non sequitur, negatio
possibilitatis sequitur, ea scilicet quae est non possibile esse, evenientque
ea rursus incommoda, quae dudum cum eum locum tractaremus expressimus. Quod si
quis possibilitatis non velit esse negationem eam quae dicit non possibile esse
sed potius eam quae dicit possibile esse non esse, quamquam ille non recto
ordine affirmationem negationi accommodet dictumque supra sit, quotiens cum
modo propositiones dicuntur ad modos ipsos potius negationem poni oportere quam
ad verba, dandae tamen manus sunt, ut cum eo quoque concesso, quod ad
defensionem ƿ utile aliquibus videri possit, argumentationis falsam sententiam
fregerimus, penitus atque altius sit veritas constituta. Sit ergo haec negatio
possibilitatis quam ipsi volunt, id est ea quae dicit possibile esse non esse
sed haec quoque necessitati non convenit. Si quis enim dicat quoniam possibile
esse necessarium non sequitur, sequitur mox possibilis contradictio necessitatem.
Quod si quis contradictionem possibilis ponat eam quae dicit possibile esse non
esse eaque necessitati consentire putatur, erit secundum eum recta
consequentia: si necesse est esse, possibile est non esse sed hoc fieri non
potest. Quod enim necesse est esse non potest non esse. Si igitur possibilitas
non sequitur necessitatem (erit enim quod necesse est contingens, possibile
namque et contingens idem valet), negationes possibilitatis, sive ea quae dicit
non possibile esse, sive ea cuius sententia est possibile esse non esse,
necessitati convenient. Sed utrumque impossibile est. Quod si haec non
sequuntur, sequitur ea quae est earum affirmatio, id est possibilitas. Sed hoc quoque
fieri non potest, ut saepius supra monstravi. Haec ergo huiusmodi quaestio in
sequenti ordine ab ipso resolvitur. Nunc quoniam quaestionis supra dictae talis
sensus est, verba ipsa sermonumque ordo videatur. Ait namque ita: DUBITABIT
AUTEM, inquit, ALIQUIS, SI ILLUD QUOD EST NECESSARIUM ESSE POSSIBILE ESSE
SEQUITUR, ƿ id est si necessitati possibilitas consentit. NAM SI NON SEQUITUR,
id est si neget aliquis ut possibilitas necessitatem sequatur, CONTRADICTIO
CONSEQUITUR, possibilitatis scilicet contradictio. Nam quod possibilitas non
sequitur, contradictio possibilitatis sequitur, ea scilicet quae dicit non
possibile esse. Et praetermisit quod ex his esset impossibile. Hoc autem est
ut, si necessitatem possibilitas non sequatur et contradictio possibilitatis
consentiat, sit recta consequentia: si necessarium est esse, non possibile est
esse, quod est inconveniens. ET SI QUIS NON HANC DICAT ESSE CONTRADICTIONEM, id
est si quis neget possibilitatis contradictionem esse quae dicit non possibile
esse, illud certe ei NECESSE EST DICERE quod possibilitatis contradictio ea sit
quae dicit POSSIBILE esse NON ESSE. SED UTRAEQUE FALSAE SUNT DE NECESSE ESSE.
Nam quod necesse est, fieri non potest ut non possibile sit, et rursus quod
necesse est, fieri non potest ut possibile sit non esse. RURSUS IDEM VIDETUR
ESSE POSSIBILE INCIDI ET NON INCIDI. Possibilitas enim affirmationi
negationique communis est. Namque ET ESSE ET NON ESSE potest quod possibile
esse dicitur. HOC AUTEM FALSUM est, id est de necessario praedicari. Necessarium
namque si est, non esse non poterit; si non est, nulla ratione contingit. Quod
si quis dicat quoniam possibilitas necessitatem sequitur, eadem possibilitas
consentit contingenti et ERIT NECESSE ESSE CONTINGERE NON ESSE, id est erit
contingens id quod necesse ƿ esse praedicatur. Nam si quod possibile est potest
non esse, quod autem potest non esse contingit ut non sit, non dubium est quin,
si necessitatem possibilitas sequitur, sequatur eam quoque et contingentia.
Sed, contingens possumus dicere in negatione, ut dicatur contingit non esse:
est igitur quod necesse est esse contingens non esse. HOC AUTEM FALSUM EST.
Atque hic quidem ordo sermonum est, ut in aliis fere omnibus perplexus atque
constrictus: alias enim similitudo enuntiationum, alias id quod deest
implicitam reddit obscuramque sententiam. Quod si quis Aristotelis verbis
seriem nostrae expositionis adnectat et quod illic propter similitudinem
confusum est per expositionis nostrae distinctionem ac separationem disgreget,
quod vero in Aristotelis sermonibus minus est hinc compenset, sententiae ratio
totius elucebit.Nunc ergo quoniam proposuit quaestionem, eam continenter
exsequitur his verbis: MANIFESTUM AUTEM QUONIAM NON OMNE POSSIBILE VEL ESSE VEL
AMBULARE ET OPPOSITA valET SED EST IN QUIBUS NON SIT VERUM, ET PRIMUM QUIDEM IN
HIS QUAE NON SECUNDUM RATIONEM POSSUNT, UT IGNIS CALFACTIBILIS ET HABET viM
IRRATIONABILEM. ERGO SECUNDUM RATIONEM POTE, STATES IPSAE EAEDEM PLURIMORUM
ETIAM CONTRARIORUM. IRRATIONABILES VERO NON OMNES SED QUEMADMODUM DICTUM EST,
IGNEM NON EST POSSIBILE ƿ CALEFACERE ET NON, NEC QUAECUMQUE ALIA SEMPER AGUNT.
ALIQUA VERO POSSUNT ET SECUNDUM IRRATIONABILES POTESTATES SIMUL QUAEDAM
OPPOSITA. SED HOC QUIDEM IDCIRCO DICTUM EST QUONIAM NON OMNIS POTESTAS
OPPOSITORUM EST NEC QUAECUMQUE SECUNDUM EANDEM SPECIEM DICUNTUR. Cum de
possibilis et necessarii consequentia dubitasset cumque si possibilitas
necessitati consentiret, quod erat incommodum, vel si possibilitas rursus
necessitatem sequeretur necessitas ipsa cui possibilitas consentiret in se et
esse et non esse susciperet, nunc incongruentem ambiguitatem rationabili
argumentatione dissolvit dicens. Non vere illud metui, ne possibilitas
necessitatem sequens ipsam naturam necessitatis atque rigorem frangeret, ut id
quod necesse esset in contingentiam permPombaur neque enim, inquit, omne quod
possibile est esse et possibile est non esse. Sunt enim plura quae unam tantum
vim continent et ad negationem nullo modo sint apta, ut in his possibilitatibus
quas irrationabilis actus efficit. Nam cum sit possibile ignem calefacere, non
est possibile ut non calefaciat. Quare haec potestas non potest opposita. Si
qua enim potestas opposita potest, illa et esse potest et non esse et facere et
non facere, quae vero non potest opposita, unam ƿ rem tantum potest, quae
affirmationem tantum dat, negationem vero repudiet. Si quis ergo ponat
possibilitatem necessitati consentire, non idcirco iam necesse est ipsam
necessitatem in contingentiam verti, cui contingenti scilicet possibilitas
consentit. Non enim, inquit, omne possibile utrumque potest, id est et posse
esse et posse non esse, atque ideo non omne possibile contingentiae consentit.
Docet autem hoc his modis: IN HIS, inquit, QUAE NON SECUNDUM RATIONEM POSSUNT,
possibilitas quae esse dicitur non valet opposita, ut ignem calefacere
irrationale est. Nulla onim ratio est cur ignis calefaciat: omnium namque quae
naturaliter fiunt nulla ratio est. Ergo haec quorum potestas irrationabilis est
non possum opposita, ut ignis non potest calefacere et non calefacere. Si enim
utrumque possint, opposita possum. Calefacere enim et non cale. Facere opposita
sunt. Cum ergo irrationabiles potestates et opposita agendi non habeant
facultatem, illa quae secundum rationem fiunt ad oppositorum aecum actuary
poterunt retineri, ut quicquid ex voluntate et ratione conceptum est ad
utrumque valeat, medicinam mihi exercere et possibile est et possibile non est
vel rursus ambulare. Quod enim quisquis animi ratione vel appetentia uult, hoc
ex ratione venire dicitur. Et in his omnibus illa potestas est quae ad utrumque
valeat, id est et ad affirmationem et ad negationem, ut sit scilicet et non
sit. In his autem quae sunt ƿ irrationabilia, licet in solis evenire possit, ut
ea potestas quae dicitur non etiam possit opposita, tamen non omnis
irrationabilis potestas opposita non potest, ut aqua et friget et humida est:
ergo et frigescere potest facile et humectari sed eadem permutata in calidam
potest frigescendi non habere vim, cum non possit humectandi amittere
potestaten, dum aqua sit. Quocirca non omnis potestas opposita valet sed valet
quidem opposita potestas ea quae secundum rationabiles motus valuit, illa vero
potestas quae opposita non valet in solis irrationabilibus invenitur, licet non
in omnibus. Sunt enim irrationabiles potestates quae utrumque possint, ut id
quod dictum est de aquae frigore. Et tota quidem sententiae vis talis est, nunc
quis sermonum ordo sit explicetur. MANIFESTUM, inquit, est QUONIAM NON OMNE
POSSIBILE VEL ESSE VEL AMBULARE ET OPPOSITA valET. Quod ita dictum esse
manifestum est, non ut putaremus quoniam omne quod ambulare potest vel quod
esse potest non possit opposita, id est non possit non esse: hoc enim videtur
textus ostendere sed nemo ita intellegat potiusque sic dictum videatur:
manifestum est quoniam non omne possibile, ut possibile frequenter solemus
usurpare, cum dicimus possibile esse ambulare, opposita valet. Neque enim quod
omnis potestas affirmationi negationique conveniat sed sunt quaedam quae unum
tantum possint, ut supra iam diximus. Atque hoc apertius intellegitur si ita
dicamus: manifestum est autem quoniam non ƿ omne possibile et opposita valet,
quoniam scilicet possibile frequenter et de esse et de ambulare praedicamus. Hoc
ita cogitans facilius quis agnoscit, quid ipsius textus verba denuntient, cum
etiam adminiculari quis debeat obscuris sensibus patientia atque consensu, quod
ad sententiam potius dicentis exspectet, etsi se sermonum ratio ita non habeat.
Hoc ergo ita constituto manifestum esse scilicet non omnes potestates opposita
valere sed esse quasdam IN QUIBUS NON SIT VERUM dicere quoniam opposita valent,
[et] datur exemplum: in his quidem primum quae irrationabiliter possunt, id est
non secundum aliquam rationem, quarum scilicet potestatum reddi ratio non
potest, quod ipsarum natura sit, ut quoniam ignis calfactibilis est, idcirco de
eo ratio reddi non potest: hoc namque illi naturaliter adest. Et haec quidem
ignis potestas non valet opposita, scilicet sit irrationalis, quae vero
rationabiles sunt et secundum rationabilem potestatem EAEDEM PLURIMORUM ETIAM
CONTRARIORUM SUNT. Nam quibus ratio dominatur, ad utraque opposita natura
ipsorum apta est, ut eaedem potestates sint plurimorum quae sunt contraria, ut
si est mihi possibile ambulare, quoniam hoc ex ratione et ex voluntate fit, sit
possibile non ambulare et est haec potestas non unius sed plurimorum eorumque
contrariorum. Licet enim affirmatio et negatio sit quodammodo ambulare et non ƿ
ambulare, tamen nunc ab Aristotele in contrarii vice disponitur. Et hoc quidem
in omnibus rationabilibus potestatibus planum est eas plurimorum esse
contrariorum et opposita valere, quae vero secundum rationem non sunt, licet
sint quaedam quae opposita valeant, non tamen omnia. Nam cum aqua frigendi
habeat potestatem, quod est irrationabile, est ei rursus alia potestas
calefaciendi, cum ipsa sit calefacta sed non in omnibus potestatibus
irrationabilibus hoc inveniri potest. Ignis enim (ut dictum est) unam
calefaciendi tantum videtur habere potestatem. Hoc est enim quod ait:
IRRATIONABILES VERO NON OMNES, id est opposita valent sed QUEMADMODUM DICTUM
EST, IGNEM NON EST POSSIBILE CALEFACERE ET NON, daturque in omnibus regula quae
non sint possibilia contrariorum, ea scilicet quae semper unam rem actu
continent, ut ignis semper calet, sol semper movetur et caetera huiusmodi, quod
per hoc ait quod dixit: NEC QUAECUMQUE ALIA SEMPER AGUNT. Aliqua vero possunt
quaedam opposita etiam secundum irrationabiles potestates, ut dictum est de
aqua. Sed hoc idcirco dictum esse testatur, ut cognosceremus nihil evenire contrariorum,
si quis diceret possibilitatem necessario consentire. Cum enim non omnis
possibilitas contraria valeret, ea scilicet necessitati consentit, quae
contraria non valet sed unam rem semper agit. Hoc est enim quod ait: SED HOC
QUIDEM IDCIRCO DICTUM EST, QUONIAM NON OMNIS POTESTAS OPPOSITORUM EST, NEC
QUAECUMQUE SECUNDUM EANDEM SPECIEM DICUNTUR. Quod ait: NEC QUAECUMQUE SECUNDUM
EANDEM SPECIEM DICUNTUR tale est: non modo, inquit, omne quod dicitur possibile
contrariorum esse potest sed etiam quae sub eadem specie sunt quaedam contraria
non possunt, ut ea quae sunt irrationabilium. Nam cum omnium irrationabilium in
eo quod irrationabilia sunt una sit species, tamen ne in his quidem inveniri
potest, ut in omnibus eadem sit contrariorum potestas, ut de igne quod supra
iam dictum est. Nam cum eius irrationabilis sit potestas, non tamen talis est
ut ad contraria transferatur. Recte igitur dictum est, quoniam nec quae sub
eadem specie sunt poterunt omnia contrariorum esse potentia. Nam cum ignis
potestas cum aliis omnibus potestatibus irrationabilibus sub eadem sit specie,
quod irrationabilis est potestas, tamen non valet opposita. Atque hoc quidem
quod attemptare possit totam quaestionem, non tamen validissime dissoluere
praedixit: quo vero maxime dirigat dubitationem ambiguitatemque constituat,
ipse continuata oratione adicit dicens: QUAEDAM VERO POTESTATES AEQUIVOCAE
SUNT. POSSIBILE ENIM NON SIMPLICITER DICITUR SED HOC QUIDEM QUONIAM VERUM EST
UT IN ACTU, UT POSSIBILE EST AMBULARE QUONIAM AMBULAT, ET OMNINO POSSIBILE EST
ESSE QUONIAM IAM EST ACTU QUOD DICITUR POSSIBILE, ILLUD VERO QUOD FORSITAN
AGET, UT POSSIBILE EST AMBULARE QUONIAM AMBULABIT. ET HAEC QUIDEM IN MOBILIBUS
SOLIS EST POTESTAS, ILLA VERO ET IN IMMOBILIBUS. IN ƿ UTRISQUE VERO VERUM EST
DICERE NON IMPOSSIBILE ESSE AMBULARE VEL ESSE, ET QUOD AMBULAT IAM ET AGIT ET
AMBULABILE. SIC IGITUR POSSIBILE NON EST VERUM DE NECESSARIO SIMPLICITER
DICERE, ALTERUM AUTEM VERUM EST. QUARE QUONIAM PARTEM UNIVERSALE SEQUITUR,
ILLUD QUOD EX NECESSITATE EST SEQUITUR POSSE ESSE SED NON OMNINO. Quid haec
sententia contineret, quam nunc Aristoteles proposuit, quinto quidem libro
diligenter expressimus et nunc eam breviter exsequimur. Expositionis enim causa
doetrinaeque hunc nobis secundum expositionis sumpsimus laborem, non augendi
prolixitate fastidii. Talis ergo est tota sententia: possibile quod frequenter
in rebus dicimus non simpliciter dicitur atque ideo quoniam possibile a
potestate traductum est, ipsa quoque potestas aequivoca est. Hoc hinc
manifestum est, quod quaedam possibilitates ad hoc dicuntur non quoniam aguntur
sed quoniam ut agantur nihil impedit, ut si de aliquo sano corpore omnibusque
aliis quae impedire poterant remotis sedente dicatur possibile esse eum
ambulare, non quoniam ambularet sed quoniam ut ambularet nihil omnino prohibet.
Quaedam vero potestates ita dicuntur quoniam iam actu sunt atque aguntur, ut si
quis de ambulante homine dicat possibile eum esse ambulare. Atque ideo illa
possibilitas quae non secundum actum aliquem dicitur sed secundum id quod
posset agere dicitur, eo quod agere non prohibetur, a potestate possibilitas ƿ
nominatur. Haec vero quae iam agit atque in actu est, actus ipse, possibilitas
appellatur. Duae ergo significationes sunt possibilitatis: una quae eam
possibilitatem designat quae est potestate, quae scilicet actu non sit, altera
quae eam possibilitatem significet quae iam actu sit. Haec autem possibilitas
quae iam actu est aut ex potestate ad actum transit aut semper in actu
naturaliter fuit, ut cum homo ex eo quod sedet ambulat, potest ambulare atque
ideo ex potestate in actum vertit, sol vero cum movetur, numquam ex potestate
in actum vertit (neque enim aliquando hunc motum non egit) neque ignis ut nunc
caleret, aliquando non caluit. Ergo ea rursus possibilitas quae secundum actum
aliquem dicitur duas intra se species continet: unam quae talem actum
possibilitatis designet, quem non esse non liceat, et haec dicitur necessaria
et numquam ex potestate in actum vertit sed in actu naturaliter mansit; alterum
vero quod liceat et non esse, quod scilicet ex potestate in actum migravit, et
hoc non necessarium, cum sit actu. Et haec talis potestas, quae ex potestate in
actum vertit, in solis mobilibus est, hoc est quae moveri possunt, haec autem
sunt corporalia. Incorporalia enim non moveri quibus rationibus adstruatur
paulo post dicemus. Illae vero quae semper in actu propria naturae qualitate
manserunt, et in mobilibus inveniuntur, ut igni calor qui semper actu et
numquam fuerit potestate, ƿ et in his quae sunt immobilia, haec autem sunt
incorporalia et divina. Quare potestas ea quae ex potestate in actum migravit
solorum est corruptibilium et corporalium, ea vero quae semper actu fuit
divinis corporalibusque communis est. Ut igitur tota ratio breviter accingatur,
ita dicendum est: possibilitas aequivoca est et multa significans. Est enim una
possibilitas quae ipsa quidem non sit in actu, esse tamen possit atque ideo de
ea possibilitas praedicetur, est autem alia quae iam est actu. Haec autem
potestas quae iam actu est non est aequivoca sed genus. Habet enim sub se
species eam potestatem quae actu quidem est sed ex potestate migraverit, aliam
vero quae actu est sed ex potestate non migravit. Et illa quidem quae ex
potestate non migraverit, ipsa dicitur necessaria, quae numquam relinquet
subiectum, illa vero quae ex potestate ad actum transiit sine ulla dubitatione
dicitur non necessaria, idcirco quod poterit relinquere aliquando subiectum.
Sed de his utrisque, scilicet quae vel in potestate vel in actu possibilitates
dicuntur, communis poterit esse praedicatio, si dicamus utrasque esse non
impossibiles. Nam et qui potest ambulare, cum non ambulet, et qui iam ambulat,
verum est de his dicere quoniam non est impossibile eos id agere quod possunt
agere vel agunt. Cum vero sub significatione possibilitatis duo sint: una
possibilitas quae actu non est, alia vero quae actu est, illa possibilitas quae
secundum potestatem dicitur necessario non accommodatur neque aliquando
necessitati poterit consentire. Restat igitur, ut sub ea possibilitate necessitas
ponatur quae actu est. Sed ea ƿ quoque habet unam speciem per quam ex potestate
in actum migrat, quae est non necessaria: quare ne in hac quidenu potest poni
necessitas. Restat igitur ut, quoniam id quod necesse est esse nullus negat
esse possibile, sub possibili est autem et ea quae potestate esse dicitur sed
necessitas non ponitur neque sub ea potestate quae actu est et poterit
subiectum relinquere, ponatur sub eo actu qui subiectum relinquere non potest,
ut sit necessitas possibilitas quae sit actu et subiectum numquam relinquat, eo
quod ad actum ex potestate non venerit. Species igitur quaedam erit necessitas
possibilitatis, siquidem illic ponitur, ubi est ea possibilitas quae actu
semper est. Quod quoniam speciem sequitur genus et ubi est species genus deesse
non potest, sequitur speciem suam, id est necessitatem, genus proprium, id est
possibilitas sed non omne. Ea vero possibilitas necessitatem non sequitur, quae
potestate tantum est, non etiam actu, neque ea quae cum sit actu relinquere
subiectum potest sed ea tantum quae cum actu sit numquam poterit a subiecto
discedere. Sequitur ergo possibilitas necessitatem nihilque evenit impossibile
sed ea, ut dictum est, quae in actu sit et numquam in subiecto natura esse
desistat. Totus quidem sensus huiusmodi est, ratio vero verborum ita constabit:
QUAEDAM VERO, inquit, POTESTATES AEQUIVOCAE SUNT. Hoc idcirco dictum est,
quoniam non omnis potestas aequivoca est. Est enim potestas quae ut genus sit,
ea scilicet quae secundum actum praedicatur. Quemadmodum autem quaedam
potestates aequivocae sint exsequitur dicens: POSSIBILE ENIM NON SIMPLICITER ƿ
DICITUR, ET HOC PARTITUR: SED HOC QUIDEM QUONIAM VERUM EST UT IN ACTU, UT
POSSIBILE EST AMBULARE, QUONIAM AMBULAT, ET OMNINO POSSIBILE EST ESSE, QUONIAM
IAM EST ACTU QUOD DICITUR POSSIBILE. Hoc planius nihil poterit demonstrari quin
illud possibile dicat, quod iam agitur. Quod si quis possibile esse neget, hoc
agi et fieri atque esse dicit quod impossibile est sed hoc omnem modum
irrationabilitatis excedit. Aliam vero partem significationis possibilitatis
hanc dicit: ILLUD VERO QUOD FORSITAN AGET, et dat huius exemplum, UT POSSIBILE
EST AMBULARE, QUONIAM AMBULABIT. Non ergo quod iam agit sed QUOD FORSITAN AGET,
id est quod ut agat fortasse nihil prohibet. ET HAEC QUIDEM, inquit, IN
MOBILIBUS SOLIS EST POTESTAS, haec scilicet possibilitas quae potestate dicitur
non secundum actum. Mobilia vero, ut dictum est, sola corpora dicit. ILLA VERO,
id est quae actu sunt, ET IN IMMOBILIBUS, id est divinis. Atque ideo addidit
haec cum dicit et IN IMMOBILIBUS, ut non suspicemur in solis esse divinis actus
possibilitatem sed etiam in mortalibus atque corporeis. IN UTRISQUE VERO VERUM
EST DICERE NON IMPOSSIBILE ESSE AMBULARE VEL ESSE, ET QUOD AMBULAT IAM ET QUOD
AGIT ET AMBULABILE. In utrisque, inquit, significationibus una praedicatio
poterit convenire, ut dicamus non esse impossibile ƿ vel ambulare quod iam
ambulat vel ambulare quod potest ambulare et non ambulat, quod per hoc ait quod
dixit AMBULABILE. Ambulabile enim est quod non quidem ambulet, possit tamen
ambulare. His addit: SIC IGITUR POSSIBILE NON EST VERUM DE NECESSARIO
SIMPLICITER DICERE, id est sic possibile, quemadmodum aequivoce possibilitas
praedicatur, non est verum de necessario simpliciter et universaliter atque
omnino praedicare, hoc est non omne possibile necessario consentit. ALTERUM
AUTEM id est possibile VERUM EST, hoc est de necessario praedicare, illud
scilicet quod secundum actum dicitur immutabilem. QUARE QUONIAM PARTEM suam, id
est speciem, id quod est UNIVERSALE, id est genus, SEQUITUR, ILLUD QUOD EX
NECESSITATE EST, quod scilicet species est possibilitatis, SEQUITUR POSSE ESSE,
id est possibilitas SED NON, inquit, OMNINO. Nam illa possibilitas, quae in
actu praedicatur et relinquere subiectum potest, non sequitur necessitatem sed
ea tantum, quae cum in actu sit neque ex potestate in actum vertit neque poterit
subiectum relinquere. Atque haec quidem quae Aristoteles dixit huiusmodi sunt,
quae vero nos distulimus, ut doceremus immobilia esse divina, mobilia vero sola
corpora vocari brevissime demonstrandum est. Sex motus species esse manifestum
est, sicut in praedicamentorum libro Aristoteles digessit, quamquam hoc in
physicis permutaverit. Sed nunc ita ponamus tamquam si omnino sex sint. Si
secundum nullam motus speciem moveri divina atque incorporalia ratio
declaravit, ordine conuincitur non moveri divina. Ergo neque generantur neque
corrumpuntur neque crescunt neque minuuntur neque de loco in locum transeunt,
quippe quae plenitudine naturae suae ubique tota sunt nec de deo aliquid
intellegi fas est, nec rursus aliqrubus passionibus permutantur. Quod si
secundum nullum horum motuum divinarum rerum permutabilis est natura,
manifestum est ea omnino non esse mobilia atque sex motus hos solis corporibus
evenire. Atque hoc quidem de plurimis quae de ea re possunt dici rationibus
atque argumentis limasse sufficiat. Nunc quoniam Aristoteles consentire
necessario possibilitatem non omnem docuit et quae ei conveniret expressit,
rursus de ipsorum consequentia et quid primo, quid posterius poni debeat,
memoriter subicit dicens: ET EST QUIDEM FORTASSE PRINCIPIUM QUOD NECESSARIUM
EST ET QUOD NON NECESSARIUM OMNIUM VEL ESSE VEL NON ESSE, ET ALIA UT HORUM
CONSEQUENTIA CONSIDERARE OPORTET. MANIFESTUM EST AUTEM EX HIS QUAE DICTA SUNT,
QUONIAM QUOD EX NECESSITATE EST SECUNDUM ACTUM EST, QUARE SI PRIORA SEMPITERNA,
ET QUAE ACTU SUNT POTESTATE PRIORA SUNT. ET HAEC QUIDEM SINE POTESTATE ACTU
SUNT, UT PRIMAE SUBSTANTIAE, ƿ ALIA VERO CUM POTESTATE, QUAE NATURA PRIORA
SUNT, TEMPORE VERO POSTERIORA, ALIA VERO NUMQUAM SUNT ACTU SED POTESTATE SOLUM Postquam
de possibilis et necessarii consequentia quid videretur exposuit, haec ad
emendationem quodammodo superioris ordinis apponit, ut quoniam superius a
possibili inchoans caeteras omnes propositiones ad possibile et contingens et
ad eorum consensum reduxit, nunc hoc rationabiliter mPomba, ut non potius a
possibilitate inchoandum sit sed a necessitate. Nam si quis animadvertat
diligentius superiorem descriptionem, primo positum est possibile et contingens
et ad eadem cunctorum consensus relatus est. Nunc autem hoc permutatum videtur.
Dicit enim fortasse hoc esse rectius, ut magis propositionum consequentia a
necessariis inchoetur. Est autem totus sensus huiusmodi: quoniam, inquit,
necessaria sempiterna sunt, quae autem sempiterna sunt omnium aliorum quae
sempiterna non sunt principium sunt, necesse est ut id quod necessarium est
caeteris omnibus prius esse videatur. Ergo consequentiae quoque eodem modo
faciendae sunt, ut primo quidem necessitas, post vero possibilitas et caetera
proponantur, sintque consequentiae hoc modo: Necesse esse Non necesse esse Non
possibile esse non esse Possibile esse non esse Necesse esse non esse Non
necesse esse non esse Non possibile esse Possibile esse ƿ Videsne igitur
ut primo quidem necesse esse et non necesse esse propositum sit, secundo vero
loco ad necessitatis caetera consensum consequentiamque relata sint? Hoc est
ergo quod dixit fortasse principium quoddam esse omnium vel esse vel non esse
id quod esset necessarium, ut a necessario speculandarum propositionum
principium sumeretur, quod esse aliarum propositionum vel non esse secundum
consequentiam consensum constitueret. Et quoniam prius positum est necesse
esse, huic consentit ea quae dicit non possibile esse non esse. Istius ergo
propositionis quae dicit non esse possibile ut non sit, quae scilicet non esse
denuntiat (tollit enim possibile quod modus est), principium est necessitas,
cui sine ulla dubitatione consentit. Et rursus quoniam ei quae dicit non
necesse esse consentit ea quae dicit possibile est non esse, huius
propositionis, quae aliquid esse constituit, id est possibile, principium est
ea propositio quae dicit non necesse est. Ergo sive affirmative necessitas
proponatur sive negative, vide principium quoddam esse caeterorum et caetera
velut his, id est necessarlis, consentientia iudicari oportere. Et hoc est quod
ait: ET ALIA QUEMADMODUM ISTA CONSEQUENTIA CONSIDERARE OPORTET. Cur autem istud
eveniat, consequenter ostendit dicens: quoniam ea quae necessaria sunt actu ƿ
sunt, ut frequenter supra monstratum est, ea vero quae necessaria sunt
sempiterna sunt, quae vero sempiterna sunt priora sunt his quorum sunt
huiusmodi potestates quae in actu nondum sint, manifestum est quoniam et quae
actu sunt et potestate ad actum non veniunt priora sunt. Sed de eo actu
loquimur, qui ex potestate ad actum non venit sed semper actu propriae naturae
constitutione permansit, ut cum ignis calet vel sol movetur et caetera
huiusmodi ita sunt, ut actum numquam reliquerint neque ab his actus afuerit
aliquando neque ex potestate ad hunc venerint actum. Quoniam ergo huiusmodi
fuerunt ut semper essent, quae autem semper sunt, ea omnibus sunt priora, erunt
etiam potestate secundum propriam naturam priora. Sed quae priora semper
sempiterna sunt et rursus eadem necessaria, actu sunt et necesse est, ut ea
quae actu sunt his quae sunt potestate priora sint. Post haec fit ab Aristotele
divisio rerum hoc modo: rerum aliae sunt actu semper, qui ex potestate non
venerit, et istae sunt quarum nullae sunt potestates sed semper in actu sunt.
Aliae vero quae in actum ex potestate migraverint, quarum quidem substantia et
actus secundum tempus posterior est potestate, natura vero prior. In omnibus
enim illud quod est actu prius est et nobilius quam id quod potestate est.
Illud enim quod potestate est adhuc ad actum festinat atque ideo perfectio
quidem est actus, ƿ potestas vero adhuc quiddam est imperfectum, quod tunc
perficitur cum ad actum aliquando peruenerit. Quod autem perfectum est eo quod
est imperfectum generosius et prius esse manifestum est. Nam si res quae ad
actum suum ex potestate venerunt, prius fuerunt potestate, post vero actu, ergo
actus earum rerum posterior est potestate, si ad tempus referamus, prior vero eadem
potestate, si ad naturam. Et hoc est quod ait: alias res esse, quae cum
possibilitate sunt et actu sunt sed actum potestate tempore quidem posteriorem
habeant, natura vero priorem, quasdam autem res esse in quibus sola potestas
sit, numquam actus, ut numerus infinitus. Crescere enim potest in infinita
numerus, quicumque vero numerus dictus sit vel centum vel mille vel decem milia
et caeteri finitos; esse necesse est. Ergo actu numerus numquam est infinitus,
quoniam vero potest in infinita concrescere, idcirco solum potestate est
infinitus. Eodem quoque modo et tempus. Quantumcumque enim tempus dixeris
finitum est sed quoniam tempus potest in infinita concrescere, idcirco dicimus
tempus esse infinitum, quod potestate sit infinitum, non actu. Nihil enim actu
esse poterit infinitum. Quod autem supra dixit quae semper actu essent primas
esse substantias, non ita putandum est primas eum substantias dicere
quemadmodum in categoriis, ubi primas substantias indinduas dicit. Hic autem
primas substantias quae semper ƿ actu sunt idcirco nominat quia, ut dictum est,
quae semper actu sunt principalia caeterarum rerum sunt atque ideo primas eas
substantias esse necesse est. UTRUM AUTEM CONTRARIA EST AFFIRMATIO NEGATIONI ET
ORATIO ORATIONI QUAE DICIT QUONIAM OMNIS HOMO IUSTUS EST EI QUAE EST NULLUS
HOMO IUSTUS EST AN OMNIS HOMO IUSTUS EST EI QUAE EST OMNIS HOMO INIUSTUS EST?
CALLIAS IUSTUS EST, CALLIAS IUSTUS NON EST, CALLIAS INIUSTUS EST: QUAE HARUM
CONTRARIA EST? Post propositionum consequentias pertractatas easque subtili
inquisitione dispositas illud exoritur inquirendum, quod magnam in se
utilitatem ita praefert, ut quanta in eo vis utilitatis sit, prima quoque
fronte legentium mentibus ingeratur. Nam cum sit manifestum, quoniam
affirmationem opposita negatio semper oppugnat maximeque perimet universalem
affirmationem universalis negatio quoniamque non ignoratur, quod affirmatio
quae contrarium affirmat ipsa quoque contrarii perimat propositionem, quaeritur
quae magis perimat magisque oppugnet affirmativam, utrumne ea quae universalis
negatio est an ea quae contrarii vel privationis affirmatio. Sit enim positum
hanc esse affirmationem quae proponit OMNIS HOMO IUSTUS EST, hanc ergo duae
perimunt propositiones, et universalis scilicet negatio quae dicit quoniam
NULLUS HOMO IUSTUS EST et ea quae privationem ƿ iustitiae praedicat affirmando,
ea scilicet quae dicit OMNIS HOMO INIUSTUS EST. Affirmatio igitur quae
proponit: Omnis homo iustus est perimitur et a negatione propria
universali quae dicit: Nullus homo iustus est et ab affirmatione
privatoria quae proponit: Omnis homo iniustus est Cum igitur ab utrisque
perimatur, quod autem perimitur ei quod [eam] perimit videtur esse contrarium
quoniamque a duobus, ut dictum est, perimitur et duae unius contrariae esse non
possunt, quae duarum propositionum quas supra memoravimus, id est negationis
universalis et privatoriae affirmativae, contraria sit universali affirmationi
superius comprehensae? In qua re quam sit utilis quaestio nullus ignorat, qui
cogitat, quia nisi hoc ab Aristotele quaesitum enodatumque esset, magnam fore
dubitationem, an illud reciperetur, ut duo unius possent esse contraria, quod
manifesto fieri non potest. Nam cum duo unam rem perimant, quis esset qui
dubitaret aut unam rem duabus opponi aut duabus unam rem perimentibus quaeri
oportere, quae magis earum videretur contraria? Contrarias autem nunc dicimus
non secundum eum modum, quem Aristoteles in praedicamentis explicuit sed tantum
ad id quod res rem vel propositio perimit propositionem, ut quasi hoc modo ƿ
quaeratur: affirmatio universalis secundum quam magis perimitur, utrumne
secundum eam quae universalis est negatio an secundum eam quae vel prirationem
praedicat vel quodlibet aliud quod ex ipsa oppositione vim contrarii
repraesentet? Unde etiam illud latere non oportet, nulli esse dubium inter
universalem affirmationem privatoriam et universalem negationem quae esset
opposita contrarie. Supra enim iam dictum est affirmationi universali
negationem universalem esse contrariam sed hic, ut dictum est, non hoc dicitur
sed illud potius quae magis perimat rem. Nam quae magis perimit ea propemodum
magis videbitur esse contraria. Atque ideo non solum de universalibus proposuit
sed ne suspicaretur quis quod illam contrarietatem diceret quam vel in
praedicamentis locutus est vel rursus supra cum de universali affirmatione et
negatione loqueretur, de particularibus adiecit, quibus non erat contrariae
oppositionis affirmatio atque negatio. Nam si recte superius comprehensa
meminimus, affirmatio universalis et negatio universalis contrariae esse
dicebantur. Nec solum hoc sed etiam secundum iustum et iniustum constituit
quaestionem, quod habitus et privatio potius est quam ulla contrarietas. Quare,
ut diximus, intellegendum est esse nunc in quaestione, quae propositio quam
propositionem proxime efficaciusque destruat ac perimat. Huius inquirendae rei
via exsistet hoc modo: NAM SI EA QUAE SUNT IN VOCE SEQUUNTUR EA ƿ QUAE SUNT IN
ANIMA, ILLIC AUTEM CONTRARIA EST OPINIO CONTRARII, UT OMNIS HOMO IUSTUS EI QUAE
EST OMNIS HOMO INIUSTUS, ETIAM IN HIS QUAE SUNT IN VOCE AFFIRMATIONIBUS NECESSE
EST SIMILITER SESE HABERE. QUOD SI NEQUE ILLIC CONTRARII OPINATIO CONTRARIA
EST, NEC AFFIRMATIO AFFIRMATIONI ERIT CONTRARIA SED EA QUAE DICTA EST NEGATIO.
QUARE CONSIDERANDUM EST, QUAE OPINATIO VERA FALSAE OPINIONI CONTRARIA EST,
UTRUM NEGATIONIS AN CERTE EA QUAE CONTRARIUM ESSE OPINATUR. DICO AUTEM HOC
MODO. EST QUAEDAM OPINATIO VERA BONI QUONIAM BONUM EST, ALIA VERO QUONIAM NON
BONUM FALSA, ALIA VERO QUONIAM MALUM. QUAENAM ERGO HARUM CONTRARIA EST VERAE?
ET SI EST UNA, SECUNDUM QUAM CONTRARIA? Haec investigatio, quae magis sit
universali affirmationi contraria, utrumne privatoria universalis affirmatio an
universalis negatio, hinc sumitur quod omnis fere proprietas, quam in vocibus
venire necesse est, ex opinionibus venit quas voces ipsae significant. Quod
igitur quaerendum in vocibus est, hoc prius est in opinionibus perspiciendum.
Neque enim fieri potest ut, cum vocum significatio ex opinionibus veniat, quas
scilicet voces ipsae significant, non prius proprietates vocum in opinionibus
reperiantur. Requirendum igitur ƿ est quemadmodum se ista in opinionibus posita
habeant, ut quod in his fuerit repertum ad voces rationabiliter transferatur. Quaeratur
igitur prius in opinionibus hoc modo: si opinio privatoriae universalis
affirmationis magis est contraria opinioni simplicis universalis affirmationis
quam opinio universalis negationis, manifestum quoniam privatoria universalis
affirmatio magis perimit universalem simplicem affirmationem quam universalis
negatio. Quod si illud magis ratio reppererit, quod opinio negationis
universalis opinionem affirmationis universalis magis perimat potius quam
opinio privatoriae affirmationis opinionem universalis affirmationis, constat
quod universalis negatio magis contraria est universali affirmationi potius
quam privatoria affirmatio. Hoc autem ut inveniatur, ita faciendum est: ponatur
opinio quaedam vera, contra eam duae falsae, quarum una affirmatio sit
privatoria, altera universalis negatio. De duabus igitur falsis quam mendaciorem
ratio invenerit, eam dicimus verae opinioni magis esse contrariam. Sint igitur
tres opiniones, una vera, duae falsae, et sit quidem vera haec quae id quod
bonum est bonum esse arbitratur, ea scilicet quam dicit Aristoteles opinionem
esse BONI QUONIAM BONUM EST; sit autem ex falsis una quae id quod bonum est non
bonum esse arbitratur, quam Aristoteles dicit falsam opinionem ƿ boni quoniam
NON BONUM EST; reliqua quae id quod bonum est malum esse arbitratur ea est quae
ab Aristotele dicta est opinio boni quoniam malum est. Ex his igitur tribus,
una vera, duabus falsis, quaerendum est quae magis sit contraria verae. Sed
quia contingit saepe et negationem et privationem unum significare, in his
praesertim contrariis in quibus nulla medietas invenitur, addit: ET SI EST UNA,
SECUNDUM QUAM CONTRARIA? Hoc autem huiusmodi est: in his contrariis in quibus
nulla medietas est idem negatio valet quod etiam privatio, in his vero in
quibus est quaedam medietas affirmatio privatoria et negatio non eiusdem
significationis sunt. Age enim sint huiusmodi contraria quae sint immediata
genitum esse et ingenitum esse. In contrariis igitur immediatis idem privatoria
affirmatio quod negatio valet, in his autem quae medietatem habent non idem.
Neque enim aequum est dicere quemlibet illum esse malum et rursus non esse
bonum. nam cum bonum negatur, potest aliquid medium audientis animus suspicari;
cum vero malum ponitur, tota audientis suspicio in contrarium reiecta est,
atque ideo non idem significant. Sed quia saepe (ut dictum est) privatio vel
contrarietas negationi consentit, quotiens tales quaedam propositiones
reperiuntur, in quibus nihil negatione diserepet privatoria affirmatio,
quaerendum est, ut Aristoteli videtur, secundum quam potius prolationem ƿ vel
opinionem verae affirmationi vel opinioni contraria propositio vel opinio fiat.
Quamquam enim interdum idem eignificent, alio tamen modo ipsis propositionibus
utuntur. Nam qui negationem ponit id quod est dicit non esse, qui vero
privationem id quod non est dicit esse. Cum igitur diversum initium et diversa
intentio quodammodo sit propositionum sub eadem significatione, et quae earum
magis verae propositioni contraria sit et secundum quem motum animi magis vera
propositio perimatur quaerendum est. Hoc est enim quod ait: ET SI EST UNA,
SECUNDUM QUAM CONTRARIA? Non enim dicit quoniam omnino negatio et privatio idem
sunt sed in his in quibus idem sunt, hoc est in immediatis contrariis, et
quando idem significant, quoniam non secundum unum motum animi unam
significationem dicunt, qui contrarium vel privationem ponunt et qui
negationem, secundum quam contraria magis est propositio, utrumne secundum eam
quae privationem ponit an secundum eam quae negationem? Post hoc quemadmodum
sit contrarietatis natura designat. NAM ARBITRARI CONTRARIAS OPINIONES DEFINIRI
IN EO, QUOD CONTRARIORUM SUNT, FALAUM EST. BONI ENIM QUONIAM BONUM EST ET MALI
QUONIAM MALUM EADEM FORTASSE ET VERA, SIVE PLURES SIVE UNA SIT. SUNT AUTEM ISTA
CONTRARIA SED NON EO QUOD CONTRARIORUM SINT CONTRARIAE SUNT SED MAGIS EO QUOD
CONTRARIE. Sensus quidem breviter expeditus sed summa rationis veritate
contextus est. Cum enim de contrariis disputat, quemadmodum contrariae
opiniones esse pos sint prima fronte disponit. Arbitratur enim quidam
contrarias esso opiniones, quae de contrariis aliquid arbitrarentur sed hoc
falsum esse conuincitur. Neque enim si bonum et malum contrarium est et aliqui
de bono et malo opinetur, mox necesae est ut contrarietas subsequatur. Age enim
quilibet de bono opinetur quoniam bonum est et rursus de malo opinetur quoniam
malum est. Cum igitur idem de bono et de malo opinetur, illud quoniam bonum,
illud quoniam malum, tamen contrariae opiniones non sunt. Neque enim contrarium
est opinari id quod bonum est bonum esse et id quod malum est malum esse. Utraeque
enim verae sunt, opinionum autem contrarietas in falsitate cognascitur. Quo
autem modo huiusmodi opiniones contrariae esse possunt, quae de eadem
quodammodo affectione animi proficiscuntur, id est opiniones cognoscentes quod
verum est? Non igitur si quis contrariorum aliquam opinionem habeat et quicquam
de contrariis arbitretur, statim necesse est subsequi in opinionibus
contrarietatem. Ergo non est contrarietas opinionum in ea arbitratione, quae
contrariorum est vel quae de contrariis habetur sed potius contrarietas in
opinionibus tunc fit, quotiens de una eademque re contrarie quisquam opinatur.
Ut ƿ quaelibet res sit proposita bona: de ea si quis contrario modo opinetur,
quoniam bonum est, de eadem rursus quoniam malum est, opinio quae id quod est bonum
bonum esse putat vera est, altera vero quae id quod est bonum malum esse
arbitratur falsa est, vera autem et falsa contrariae sunt. Recte igitur has
opiniones quas veritas falsitasque disiungit contrarias esse dicimus et sunt
non contrariorum sed de una eademque re per contrarietatem ductae. Recte igitur
dictum est non oportere definire contrarias opiniones in eo quod contrariorum
sint sed potius in eo quod de eadem re contrarie suspicentur. Ordo vero
sermonum talis est: NAM ARBITRARI, inquit, CONTRARIAS OPINIONES DEFINIRI IN EO,
QUOD CONTRARIORUM SINT, id est in eo quod quaedam de contrariis opinentur,
FALSUM EST. Quomodo autem falsum sit ipse declarat. BONI ENIM QUONIAM BONUM EST
ET MALI QUONIAM MALUM est EADEM FORTASSE est, id est non sibi sunt contrariae
opiniones sed utraeque idem sunt. Quemadmodum autem idem sint ipse subiunxit
dicens ET VERA. Idcirco enim idem sunt, quia verae sunt, contrarietas autem in
veritate, ut dictum est, et falsitate est posita. Qua in re si consentiunt,
idem in veritate et falsitate esse videbuntur. Nec hoc numerositas impediet.
SIVE ENIM PLURES SIVE UNA SIT, in eo quod verae sunt idem sunt. SUNT AUTEM,
inquit, ISTA CONTRARIA, id est quae in opinionibus versantur. SED NON EO QUOD
VEL CONTRARIORUM SUNT vel do contrariis arbitrantur, contrariae opiniones
inveniuntur sed ipsarum contrarietas inde nascitur, quod de una re contrario
modo opinantur. Hoc est qund ait: sed magis eo quod contrarie. Hic enim
contrarie adverbii loco positum est, tamquam si diceret: sed magis ea re contrariae
sunt, quod contrarie opinantur, et subintellegimus de una scilicet re. Si enim
non de una re contrarie opinentur sed de pluribus, poterunt non esse
contrariae. Quod facile cauteque perspiciens unusquisque reperiet. SI ERGO EST
BONI QUONIAM EST BONUM OPINATIO, EST AUTEM QUONIAM NON BONUM, EST VERO QUONIAM
ALIQUID ALIUD QUOD NON EST NEQUE POTEST ESSE, ALIARUM QUIDEM NULLA PONENDA EST,
NEQUE QUAECUMQUE ESSE QUOD NON EST OPINANTUR NEQUE QUAECUMQUE NON ESSE QUOD EST
(INFINITAE ENIM UTRAEQUE SUNT, ET QUAECUMQUE ESSE OPINANTUR QUOD NON EST ET
QUAECUMQUE NON ESSE QUOD EST) SED IN QUIBUS EST FALLACIA. HAE AUTEM EX QUIBUS
SUNT GENERATIONES. EX OPPOSITIS VERO GENERATIONES, QUARE ETIAM FALLACIA. Validam
quidem sententiam brevissimis sermonibus clausit, cuius, ut breviter dicendum
sit, haec vis est: qui de contrarietate propositionum nosse quaerebat, debebat
primo quae propositionum non esset infinita constituere atque ad eam vim
contrarietatis aptare. In omnibus enim contrariis unum uni contrarium est. Si
autem sit quaedam in propositionibus infinitas, illa. Tota infinitas
propositionum uni propositioni contraria esse non poterit. Hoc sumendo totum
textum argumentationis ingreditur aitque non solum exspectari oportere in
propositionibus quod falsa verae sit contraria sed quod inter omnes falsas illa
falsa sit verae contraria, quae una est et non infinita. Possum esse infinitae
propositiones et falsse, potest una finita eadem quoque falsa, quae verae
contraria esse rationabiliter ponenda est. Volens ergo constare, quoniam
negatio potius contraria sit affirmationi quam ea affirmatio quae contrarium
ponit, hoc dicit: potest, inquit, esse opinatio quaedam quae id quod est de
unaquaque re esse opinetur. Est etiam alia quae id quod non est rem ullam esse
arbitretur. Est alia quae id quod secum habet res ulla proposita non eam habere
pPomba. Est rursus alia quae id quod est res ipsa non eam id esse arbitretur.
Ut autem hoc per uagatum luceat exemplum, sumpsit propositum de quo opinaretur
aliquis id quod est bonum. Si quis igitur hoc bonum bonum esse opinetur, vere
opinabitur. Rursus si quis hoc esse bonum quod non est bonum pPomba, falsa
opinabitur: ut si quis arbitretur quoniam bonum laedit, quoniam inutile est,
quoniam bonum iniustum est, is ea de bono opinabitur quae non sunt et hoc
falsum est Rursus qui id quod in se habet bonum non habere arbitratur, is
opinabitur hoc modo: bonum non esse utile, bonum non esse iustum, bonum non
esse expetendum, et is quoque fallitur. Quod si quis sit qui hoc ipsum quod est
bonum, non esse bonum arbitretur, ut non pPomba bonum neque malum esse, id est
quod non est, neque expetendum esse, id est quod in sese habet sed id quod est
ipsum bonum non esse, ita arbitratur bonum non esse bonum. Caeterae igitur
omnes opiniones infinitae sunt. Possumus enim permulta colligere falsa quae cum
non sint de unaquaque re ea tamen esse dicamus, ut in eo ipso bono possum
dicere, quia malum est, possum quia turpe, quia iniustum, quia vitabile, quia
periculosum, et caetera quaecumque in bono nullus inveniet et haeo sunt
infinita. Rursus possum dicere ea quae habet bonum non esse in bono, ut si
dicam bonum non esse utile, bonum non esse expetendum, bonum non esse quod
auget atque haec quidem rursus infinita sunt. Sed quando id quod est aliqua res
aufert opinio, hoc facere nisi semel non potest. Neque enim aliqua per id
effici possum, si quod bonum est non esse bonum arbitratur. Ergo caeterae
quaecumque aut id ƿ quod non est bonum esse arbitrantur aut id quod habet in
sese bonum non esse arbitrantur falsae sunt sed in infinitum. Bonum autem ita nunc
usurpat, tamquam si dicat bonitas. Si quis autem ipsam bonitatem non esse bonum
arbitretur, is et falsus est et definito modo falsus est. Sed in falsis quae
definita sunt et una numero, ea magis et proxime veris videntur esse contraria.
Una enim res semper uni rei est contraria. Quocirca recte haec magis contraria
est quae negat id quod est potius quam ea quae negat vel id quod in sese habet
vel affirmat quod in se non habet. Hoc autem ut ostenderet non recto sermone
usus est sed ad quiddam aliud orationem detorsit, quae res confusionem non
minimam fecit. Nam cum dixisset non debere nos illas potius ponere contrarias
verae opinioni quae infinitae sunt, subiunxit illud quod ait: SED IN QUIBUS EST
FALLACIA. Haec autem est ex his ex quibus sunt et generationes. Hoc autem talem
sententiam claudit: inquit opiniones veris opinionibus opponendum esse
contrarias in quibus principium est fallaciae. Fallaciae autem ex his nascuntur
ex quibus etiam et generationes, generationes autem in oppositis inveniuntur.
Hoc autem tale est: omnis generatio ex permutatione eius quod fuit surgit. Nisi
enim id quod fuit prius esse desierit, non potest esse generatio. Omne enim
quod gignitur in aliam quodammodo formam substantiae permutatur. Ergo cum non
fuerit id quod fuit tunc gignitur et est quiddam aliud quam fuit et qui
fallitur id quod est quaelibet ƿ res non esse arbitratur. Nam qui quod bonum
est malum esse putat fallitur sed fieri aliter non potest ut sit malum, nisi
non sit bonum et in caeteris eodem modo. Fallacia igitur est et principium
fallaciae est, quod quis id quod est aliqua res non eam esse arbitratur. Haec
autem fallacia ex his est ex quibus sunt generationes. Omnis enim, ut dixi,
generatio ex detrimento surget, ut quod fit dulce non fit ex albo sed ex non
dulci, et rursus quod fit album non fit ex duro sed ex non albo, et caeterae
generationes es negationibus potius proficiscuntur et est prima inde fallacia.
Quod si ubi prima fallacia [ex quibus sunt generationes], ibi integerrima
falsitas est et proxima verae opinioni, haec autem in oppositis reperiuntur,
hoc est in affirmationibus et negationibus, dubium non est quin negationis
opinatio magis contraria sit ea opinione quae contrarium aliquid in
arbitratione confirmat. Et sensus quidem huiusmodi est, verba autem sese sic
habent: SI ERGO EST, inquit, BONI QUONIAM EST BONUM OPINATIO, quae scilicet
vera est, EST AUTEM QUONIAM NON BONUM EST, quae falsa est ac definita, EST VERO
QUONIAM ALIQUID ALIUD EST QUOD NON EST NEQUE POTEST ESSE, id est ea quae id
esse adscribit quod non est, ALIARUM ƿ QUIDEM omnium NULLA PONENDA EST, dicit,
NEQUE QUAECUMQUE ESSE QUOD NON EST OPINATUR, id est quae id quod non est res
proposita esse eam putat, NEQUE QUAECUMQUE NON ESSE QUOD EST, id est neque ea
quae id quod habet res proposita in opinionibus negat. Cur autem istae non
ponantur contrariae docet hoc modo: INFINITAE ENIM, inquit, UTRAEQUE SUNT, ET
QUAE ESSE OPINANTUR QUOD NON EST, ET QUAE NON ESSE QUOD EST. Sed quae magis
ponenda est? IN QUIBUS EST, inquit, FALLACIA, id est in quibus principium
fallaciae. Principium autem fallaciae unde ducitur? Ex his ducitur, EX QUIBUS
SUNT ET GENERATIONES. Unde autem sunt generationes? EX OPPOSITIS. Omnis enim,
ut dictum est, generatio ex eo quoniam non est id quod fuit, quod scilicet ad
negationem vergit. Quare, inquit, etiam fallacia et principium fallaciae in
oppositis invenitur, ubi etiam generahones, ex quibus est ipsa fallacia. SI
ERGO QUOD BONUM EST ET BONUM ET NON MALUM EST, ET HOC QUIDEM SECUNDUM SE, ILLUD
VERO SECUNDUM ACCIDENS (ACCIDIT ENIM EI MALO NON ESSE), MAGIS AUTEM IN
UNOQUOQUE EST VERA QUAE SECUNDUM SE EST, ETIAM FALSA, SIQUIDEM ET VERA. ERGO EA
QUAE EST QUONIAM NON EST ƿ BONUM QUOD BONUM EST EIUS QUOD SECUNDUM SE EST FALSA
EST, ILLA VERO QUAE EST QUONIAM MALUM EIUS QUOD EST SECUNDUM ACCIDENS. QUARE
MAGIS ERIT FALSA DE BONO EA QUAE EST NEGATIONIS OPINIO QUAM EA QUAE EST
CONTRARII. Licet haec omnia in primae editionis secundo commentario
diligentissime explicuerimus, ne tamen curta expositio huius libri esse
videatur, hic quoque eadem repetentes explicabimus. Est namque ingressus huius
argumentationis huiusmodi: si, inquit, posita vera propositione plures sint
quae eam perimunt falsae, illa inter eas verae propositioni magis erit contraria,
quaecumque magis est falsa. Quaerendum igitur est quae inter plures falsas
propositiones magis falsa sit, ut ea verae propositioni magis videatur esse
contraria. Hoc autem per veritatem dicendum est. Nam cum vere et per ipsam rem
aliquid dici possit et per accidens, illud tamen maxime veritatis naturam tenet,
quod secundum rem ipsam dicitur potius quam quod secundum aecidens venit. Ut si
quis de bono opinetur, quoniam bonum est, hic secundum ipsam rem veram
opinionom habet, sin vero aliquis arbitretur, quoniam bonum utile est, verum
quidem opinabitur sed ista veritas de bono per accidens fit boni. Accidit ƿ
enim bono ut utile quoque sit. Quare illa quae bonum bonum esse arbitratur per
se vera est, id est secundum ipsam rem vera est, illa vero quae id quod bonum
est utile esse opinatur per accidens boni vera est. Quare propinquior naturae
bonitatis est ea quae id quod bonum est bonum esse arbitratur quam ea quae id
quod bonum est utile. Quod si ita est, verior illa est quae secundum ipsam rem
vera est potius quam ea quae secundum accidens videtur. His igitur ita
constitutis et de falsitate idem dicendum. Falsa enim propositio quae illi
verae contraria est, quae secundum se est, magis falsa est quam ea quae illam
veram perimit, quae secundum accidens vera est. Nam si verior ea quae de ipsa
natura rei verum aliquid opinatur, illa erit magis falsa quae perimit veriorem.
Quod si illa, quamquam sit vera, minus tamen, quae de rei accidente pronuntiat,
minus quoque illa erit falsa quae minus veriorem perimit. His igitur ita
constitutis videamus nunc quemadmodum se in his habeant opinionibus vel
propositionibus de quibus nunc tractatur. Idem igitur sit exemplum: ut supra
dictum, id quod est bonum et bonum est et non malum sed quod bonum est secundum
ipsam rem est, quod vero malum non est accidit ei. Nam id quod bonum est per
naturam bonum est, quod vero malum non est secundo loco et quasi accidenter
est. Ergo opinio de bono quoniam bonum est verior erit propinquiorque naturae
ea opinione quae est de bono ƿ quoniam malum non est. Si igitur ita est et ea
quae veriorem opinionem perimit magis falsa est quam ea quae illam quae
quamquam vera sit minus tamen est vera, manifestum est quoniam negatio magis
est falsior quam ea affirmatio quae contrarium ponit. Nam negatio dicit non
esse bonum quod bonum est, affirmatio vero malum esse quod bonum est: negatio
ea quae est non esse bonum quod bonum illam secundum se opinionem veram perimit
quae dicit bonum esse quod bonum est, illa vero affirmatio contrarii quae est
malum esse quod bonum est illam opinionem perimit veram quae de bono secundum
accidens est, id est non malum esse quod bonum est. Constat igitur magis falsam
esse opinionem quae dicit non esse bonum quod bonum est potius quam eam quae
opinatur malum esse quod bonum est. Quod si haec falsior, magis contraria:
magis igitur contraria est negationis opinio quam contrariae affirmationis. Expedito
igitur sensu verba ipsa discutienda sunt. SI ERGO, inquit, QUOD BONUM EST sit
bonum et non sit malum, ET HOC QUIDEM SECUNDUM SE, id est ut quod bonum est
bonum sit, ILLUD VERO SECUNDUM ACCIDENS, hoc est quod bonum est ut malum non
sit, (ACCIDIT ENIM EI MALUM NON ESSE), MAGIS AUTEM IN UNOQUOQUE EST VERA, QUAE
SECUNDUM SE EST, nam quod secundum uniuscuiusque naturam est propinquius ƿ est
ei rei cui secundum naturam: quocirca et veritas secundum rem, quia rei proxima
est, verior est quam est ea quae secundum accidens est (hoc est enim quod ait:
MAGIS AUTEM IN UNOQUOQUE EST VERA QUAE SECUNDUM SE EST): quod si hoc ita est,
ETIAM FALSA, id est etiam illa est falsitas magis falsior quae illam perimit
opinionem vel propositionem quae secundum se vera est, siquidem illa secundum
naturam rei vera verior est quam quae secundum accidens vera est, hoc est enim
quod dixit: SIQUIDEM ET VERA. Hoc igitur disponens exemplo confirmat: ERGO EA
QUAE EST QUONIAM NON EST BONUM QUOD BONUM EST EIUS QUOD SECUNDUM SE EST FALSA
EST, hoc est illa quae opinatur illi opinioni quae secundum se vera fuit. Hoc
enim haec verba demonstrant, quod dixit: ERGO EA QUAE EST QUONIAM NON EST BONUM
QUOD BONUM EST EIUS QUOD SECUNDUM SE EST FALSA EST, id est quae ipsum bonum
negat bonum esse per se verae propositionis falsa est, id est opposita.
Falsitas enim veritati opponitur. ILLA VERO QUAE EST QUONIAM MALUM EIUS QUOD
EST SECUNDUM ACCIDENS, hoc est illa opinio quae id quod bonum est malum
arbitratur esse falsa est et apta ei propositioni quae est secundum accidens
vera, id est quae ƿ opinabatur bonum non esse malum. QUARE MAGIS ERIT FALSA DE
BONO EA QUAE EST NEGATIONIS OPINIO QUAM EA QUAE EST CONTRARII, id est magis
contraria est negatio quam affirmatio contrarii, siquidem cum sint de bono
utraeque praedicatae, falsior tamen negatio reperitur. Sed quod dixit bono
accidere, ut malum non sit, non ita intellegendum est, quemadmodum solemus
dicere substantiae aliquid acoidere. Neque enim fieri potest sed accidere hic
intellegendum est secundo loco dici. Principaliter enim quod est bonum dicitur
bonum, secundo vero loco dicitur non est malum. Hoc autem tractum est a
similitudine substantiae et accidentis. Unaquaeque enim substantia principaliter
quidem substantia est, secundo vero vel alba vel bipeda vel iacens vel quicquid
substantiis accidere potest. FALSUS EST AUTEM MAGIS CIRCA SINGULA QUI HABET
CONTRARIAM OPINIONEM; CONTRARIA ENIM EORUM QUAE PLURIMUM CIRCA IDEM DIFFERUNT.
QUODSI HARUM CONTRARIA EST ALTERA, MAGIS VERO CONTRARIA CONTRADICTIONIS,
MANIFESTUM EST QUONIAM HAEC ERIT CONTRARIA. Vis omnis argumentationis, ut
brevissime expediatur, huiusmodi est: omne verum aut secundum se verum est aut
secundum accidens, quare necesse est etiam falsum aut secundum se falsum esse
aut per accidens. Verum autem illud esse verius constat quod secundum se est
potius quam illud quod per accidens. Qui vero contrariam de re aliqua habet
opinionem quam res ipsa est, necesse est ut plurimum falsus sit. Etenim
contrarietas opinionum, quotiens de una eademque re longissime a se absistentes
opiniones sunt. Quod igitur magis falsum est, hoc erit etiam falsum contrarium.
Illud enim quod magis a veritate abest, hoc magis falsum est. In opinionibus
vero quae a se plurimum differunt, ea sunt contraria illa igitur in opinionibus
contraria est quae plurimum falsa est. Est autem, ut dictum est, plurimum
falsa, quae secundum se falsa est, id est quae illam perimit propositionem quae
secundum se vera est. Quocirca (haec enim est negatio) negatio contraria est
affirmationi potius quam ea affirmatio quae contrarium ponit. Talis igitur
sensus his verbis includitur: FALSUS EST AUTEM MAGIS, inquit, CIRCA SINGULA QUI
HABET CONTRARIAM OPINIONEM. Quamquam enim possit esse quilibet falsus, etiamsi
de eadem re contrariam non habeat opinionem, ille tamen magis fallitur qui
contrarium aliquid opinatur. Hoc autem cur eveniat dicit: CONTRARIA ENIM EORUM
SUNT QUAE PLURIMUM CIRCA IDEM DIFFERUNT. Idcirco enim maxime falsa contraria
opinantur, quia contrarietas non nisi in plurimum discrepantibus invenitur.
QUOD SI HARUM CONTRARIA EST ALTERA, id est quod si harum propositionum, quae
per se falsa est vel quae per accidens, unam contrariam esse necesse est, MAGIS
VERO CONTRARIA CONTRADICTIONIS, hoc est magis autem falsa negatio ƿ (hoc enim
quod ait: MAGIS VERO CONTRARIA hoc sensit tamquam si dixisset: magis vero falsa
contradictionis est, id est magis vero falsa negatio est), concludit: si illa,
ut dictum est superius, ita sunt, MANIFESTUM esse, QUONIAM HAEC, id est contradictionis,
ERIT CONTRARIA. ILLA VERO QUAE EST QUONIAM MALUM EST QUOD BONUM IMPLICITA EST;
ETENIM QUONIAM NON BONUM EST NECESSE EST FERE IDEM IPSUM OPINARI.Postquam
idcirco contrariam potius negationem esse monstravit, quod haec magis esset
falsa quam ea quae contrarium affirmaret, et distinctione falsitatis contrariam
esse propositionem opinionemque quae rem propositam negaret edocuit, nunc ex
simplicibus implicitisque propositionibus opinionibusque idem nititur
approbare. Dicit enim quod ea affirmatio quae contrarium ponit implicita et non
simplex sit. Idcirco autem implicita est, quod quae arbitratur id quod bonum
est malum esse mox illi quoque opinari necesse est id quod bonum est bonum non
esse. Neque enim aliter esse malum potest, nisi bonum non sit. Quare qui quod
bonum est malum esse arbitratur, et rem bonam malum putat et eandem ipsam non
esse bonum. Non igitur simplex est haec opinio de bono, quoniam malum est.
Continet enim intra se illam, quoniam non est bonum. Qui vero opinatur non esse
bonum quod bonum est, non illi quoque necesse est opinari quoniam ƿ malum est.
Potest enim et non esse aliquid bonum et malum non esse. Atque hoc quidem in
his innititur rebus in quibus aliqua medietas poterit inveniri. Hoc quoque cautissime
addidit. His igitur ita positis quoniam contrarii opinio non est simplex,
simplex vero est negationis, necesse est ut contra simplicem opinionem simplex
potius videatur esse contrarium. Est autem simplex opinio boni quoniam bonum
est vera, simplex vero boni quoniam non bonum est falsa. Simplici igitur
opinioni de bono quoniam bonum est simplex erit contraria, negationis scilicet,
quae est boni quoniam non est bonum. Tota vero vis huius argumentationis hinc
tracta est: quotiens vera est quaedam propositio et duae quae eam perimere
possint, si una earum nihil indigens alterius veram propositionem perimat,
reliqua vero praeter alteram eandem veram propositionem perimere non possit,
illa magis dicenda contraria est, quae sibi sufficiens nec reliquae indigens propositam
propositionem perimere valet. Veram autem propositionem de bono quoniam bonum
est sola perimere potest et ad illius verae interitum est sibi ipsa sufficiens
illa quae opinatur non esse bonum quod bonum est. Illa vero quae opinatur malum
esse sibi sola non sufficiet, nisi illa quoque ei auxilietur, quae est id quod
bonum est bonum non esse. Idcirco enim contraria illa aufert, quia secum
negationem trahit. Manifestum est hanc quae ad verae ƿ propositionis interitum
sibi ipsa sufficit recte magis videri contrariam quam eam quae sibi ipsa non
sufficit, nisi ei vis negativae propositionis addatur. AMPLIUS, SI ETIAM IN
ALIIS SIMILITER OPORTET SE HABERE, ET HIC VIDEBITUR BENE ESSE DICTUM; AUT ENIM
UBIQUE EA QUAE EST CONTRADICTIONIS AUT NUSQUAM. QUIBUS VERO NON EST CONTRARIA,
DE HIS EST QUIDEM FALSA EA QUAE EST VERAE OPPOSITA, UT QUI HOMINEM NON PUTAT
HOMINEM FALSUS EST. SI ERGO HAE CONTRARIAE SUNT, ET ALIAE CONTRADICTIONIS.Quod
de his, inquit, propositionibus dicimus si hoc in omnibus invenitur, firmum debet
esse quod dicimus. Neque enim verisimile est in aliis quidem propositionibus
negationes esse contrarias, in aliis vero affirmationes quae contrarium ponunt
sed si hoc in omnibus propositionibus invenitur et contradictionibus, ut
contradictio potius contraria sit, id est negatio, quam quae contrarium habet,
nihil est dubium quin haec ratio consistat in omnibus: sin vero in aliis ea
quae contrarium ponit magis contraria est quam negatio, hic quoque ita sese
manifestum est non habere. Ubi enim inveniri potest contrarietas, in his
dubitatio est, quaenam sit contraria, utrumne ea quae contrarium affirmat an ea
quae id quod propositum est negat. Ergo in his in quibus dubium non est
quemadmodum ƿ sit hoc speculandum est. Dubium autem non est in his in quibus
nulla est contrarietas, ut in substantiis. Hic enim solae sunt contrariae
negationes. Si ergo huic opinioni quae est de homine quoniam homo est illa
opponitur quae est de homine quoniam homo non est, manifestum est in aliis
quoque in quibus contrarietas invenitur locum contrarietatis negationem potius
optinere. [Nam si in his in quibus contrarietas est, ut in bono vel malo,
manifestum est potius illam esse contrariam quae bonum negaret quam eam quae
malum opponeret ei quae id quod bonum est bonum esse arbitretur, nec in his eam
contrariam esse oporteret in quibus contrarietas nulla est.] Quid enim attinet
cum de homine dicimus, quod contrarium non habet, ibi esse negationem
contrariam, cum vero de bono, quod contrarium habet, ibi non esse sed potius
eam quae contrarium poneret? Quodcumque enim convertitur a negatione suam vim
in omnibus servare debet.Quod ergo dicitur ab Aristotele, ut breviter explicem,
tale est: si in aliis negatio est contraria, hie quoque negationem esse
contrariam manifestum est quod si in aliis minime, in his quoque quae supra
posuit. Sed in omnibus aliis in quibus contrarietas non invenitur contradictio
contrarietatis locum tenet, et in his igitur in quibus est aliqua contrarietas
eundem locum neque alium tenebit. Quod in his verbis ƿ explicuit: AMPLIUS, SI
ETIAM IN ALIIS SIMILITER OPORTET SE HABERE, ET HIC VIDEBITUR BENE ESSE DICTUM. Nam
si in caeteris omnibus ita se habere necesse est, et in his quae supra sunt
dicta ita sese habet et id quod dictum est optime dictum esse videbitur. AUT
ENIM UBIQUE EA QUAE EST CONTRADICTIONIS alicubi quidem contrariam reperiri,
alicubi vero minime. QUIBUS VERO NON EST CONTRARIUM, ut in substantiis in
quibus nulla est contraria (hoc enim nos, si bene meminimus, praedicamenta
docuerunt), DE HIS EST QUIDEM FALSA EA QUAE EST VERAE OPPOSITA, id est in his
invenitur quidem opposita falsa opinio verae opinion) sed quae sit ista
manifestum est. Nam ubi nulla contrarietas, liquet contradictionis esse
contrarietatem. UT QUI HOMINEM NON PUTAT HOMINEM FALSUS EST. Haec enim
sola contrarietas verae propositionis invenitur. SI ERGO HAE CONTRARIAE SUNT,
et illae aliae quae sunt CONTRADICTIONIS, id est si in his quae contrarietatem
non habent negationes sunt contrariae (necesse est enim aliquas esse
contraries), in aliis omnibus etiam in quibus est aliqua contrarietas, ut bono
et malo, negatio locum optinet contrarietatis. AMPLIUS SIMILITER SE HABET BOND
QUONIAM BONUM EST ET NON BOND QUONIAM NON BONUM ƿ EST, ET SUPER HAS BONI
QUONIAM NON BONUM EST ET NON BONI QUONIAM BONUM EST. ILLI ERGO QUAE EST NON
BONI QUONIAM NON BONUM VERAE OPINIONI QUAE EST CONTRARIA? NON ENIM EA QUAE
DICIT QUONIAM MALUM; SIMUL ENIM ALIQUANDO ERIT VERA, NUMQUAM AUTEM VERA VERAE
CONTRARIA EST; EST ENIM QUIDDAM NON BONUM MALUM, QUARE CONTINGIT SIMUL VERAS
ESSE. AT VERO NEC ILLA QUAE EST NON MALUM; SIMUL ENIM ET HAEC ERUNT.
RELINQUITUR ERGO EI QUAE EST NON BONI QUONIAM NON BONUM CONTRARIA EA QUAE EST
NON BONI QUONIAM BONUM, QUARE ET EA QUAE EST BONI QUONIAM NON BONUM EI QUAE EST
BONI QUONIAM BONUM. Quaecumque superius dicta sunt, ea rursus validiore per
proportionem argumentatione confirmat. Proportio autem est rerum inter se
inuicem similitudo. Si igitur positae sint res quatuor, quarum duae sint
praecedentes, reliquae sequentes, et sic se habeat prima ad secundam
quemadmodum tertia ad quartam, necesse est ita sese habere primam ad tertiam
quemadmodum fuerit secunda ad quartam. Hoc enim ipsum ƿ breviter facillimeque
numeris agnoscamus. Sit enim primus numerus II, secundus VI, rursus
inchoantibus tertius IIII, quartus XII. II VI IIII XII In his igitur
praecedentes quidem unt duo et quattuor, sequentes vero sex et duodecim. Sunt
autem ut duo ad sex, ita quatuor ad duodecim. Nam sicut duo senarii tertia pars
est, ita quaternarius duodenarii tertia pars est. Quocirca sicuti quaternarius
praecedens ad sequentem, ita alius praecedens ad alium sequentem erit; ut
praecedens ad praecedentem, ita sequens ad sequentem. Sed duo ad quatuor qui
sunt praecedentes medietas est, et sex igitur ad duodecim medietas est. Igitur in
omni proportione hoc respiciendum, quod si de quatuor propositis rebus sicut
prima est ad secundam, ita tertia ad quartam, erit ut prima ad tertiam, ita
secunda ad quartam. Ista igitur numerorum proportio ad propositionum vim
naturamque transferatur sintque duae propositiones primae, quarum una
praecedens, altera sequens, et aliae rursus duae, quarum una praecedens, altera
similiter sequens, et in his sit aliqua similitudo. Sit enim prima boni quoniam
bonum est, hanc sequatur boni quoniam ƿ bonum non est. Rursus sit praecedens
tertia non boni quoniam non bonum est, hanc autem sequens quarta non boni
quoniam bonum est. I II Boni quoniam bonum est Boni quoniam boni non est III
IIII Non boni quoniam non bonum est Non boni quoniam bonum est
Praesciatur igitur in his quae sit proportionis similitudo. Est enim ut prima
boni quoniam bonum est ad secundam boni quoniam bonum non est, ita tertia non
boni quoniam bonum non est ad quartam non boni quoniam bonum est. Nam sicut
boni quoniam bonum est vera propositio est, falsa autem boni quomam non est
bonum, ita quoque non boni quoniam non est bonum vera propositio est, falsa
autem non boni quoniam bonum est. Quod si ita est et eodem modo sese habet
opinio boni quoniam bonum est ad opinionem quae est boni quoniam bonum non est,
quemadmodum etiam opinio non boni quoniam non bonum est ad opinionem non boni
quoniam bonum est, et quemadmodum se habet prima ad tertiam, ita sese habebit
secunda ad quartam. Quemadmodum sese habet igitur boni quoniam bonum est ad eam
quae est non boni quoniam non bonum est, cum utraeque sint verae, ita sese
habet opinio boni quoniam bonum non est ad opinionem non boni quoniam bonum
est, quod ipsae quoque utraeque sunt falsae. Nam ut istae ƿ simul verae, ita
illae simul falsae. Quocirca ut est prima ad tertiam, ita secunda ad quartam. Ostensa
igitur hac proportione immutato ordine eaedem disponantur. Sed sit prior opinio
ea quae est non boni quoniam bonum non est eamque sequatur boni quoniam bonum
est et sub his praecedens tertia non boni quoniam bonum est, quarta sequens
boni quoniam bonum non est. I VERA II VERA Non boni quoniam bonum est Boni
quoniam bonum est III FALSA IIII FALSA Non boni quoniam bonum est Boni quoniam
bonum non est Ut igitur superius demonstratum est, ita se habet opinio
non boni quoniam non bonum est ad eam opinionem quae est boni quoniam bonum
est, quemadmodum non boni quoniam bonum est ad eam quae est boni quoniam non
est bonum. Ut enim illae simul verae, ita hae simul falsae eademque proportio
est. Quocirca erit sicut prima quae est non boni quoniam non bonum est ad
tertiam eam quae est non boni quoniam bonum est, ita erit secunda boni quoniam
bonum est ad quartam boni quoniam non est bonum. Requirendum igitur est
quemadmodum hic nunc sit prima ad tertiam, ut ex eo speculemur, quemadmodum sit
secunda ad quartam. Dico enim, quoniam huic opinioni quae arbitratur non esse
bonum quod bonum non est contraria illa est quae arbitratur id quod ƿ bonum non
est bonum esse. Age enim, si potis est, contra eam opinionem quae id quod bonum
non est non bonum putat sit ea quae id quod bonum non est malum putat. Sed hoc
fieri non potest. Contrariae enim opiniones simul numquam verae sunt, possunt
autem simul hae esse verae. Si quis enim parricidium quod non est bonum pPomba
non esse bonum, idem quoque parricidium quod per naturam non est bonum malum pPomba,
vere in utraque opinione arbitratur. Igitur non est contraria opinio ei quae id
quod bonum non est non bonum putat ea quae id quod bonum non est malum
arbitrator. Rursus ponatur eidem opinioni de non bono quoniam non est bonum
contraria ea quae arbitratur id quod non est bonum non esse malum. Id quoque
interdum est. Fieri enim potest ut id quod bonum non est nec malum sit. Neque
enim omnia quaecumque bona non sunt statim mala sunt sed est ut bona quidem non
sint, nec tamen mala sint. Si quis enim lapidem nequiquam iacentem, quod per se
bonum non est, non bonum esse pPomba, vere arbitrabitur, idem ipsum lapidem,
quod per se bonum non est, si non malum pPomba, nihil eius opinioni falsitatis
incurrit. Quare quoniam ea quae est non boni quoniam non bonum est et cum ea
quae est non boni quoniam malum est et cum ea quae est non boni quoniam non est
malum vera aliquotiens ƿ invenitur, neutri contraria est. Restat igitur ut ei
sit contraria opinio non boni quoniam non bonum est quae opinatur id quod non
est bonum bonum esse, haec autem est non boni quoniam bonum est. Contraria
igitur est non boni quoniam non bonum est ei quae est non boni quoniam bonum
est. Sed hic ita sese habebat opinio non boni quoniam bonum est ad opinionem
non boni quoniam non bonum est, quemadmodum opinio boni quoniam bonum est ad
eandem opinionem quae est boni quoniam non est bonum. Sed prima tertisque
contrariae, secunda igitur quartaque secundum similitudinem proportionis sunt
sine ulla dubitatione contrariae. Potest vero et simplicius intellegi hoc modo:
si boni quoniam bonum est opinio et non boni quoniam non est bonum opinio
similes secundum veritatem sunt, boni autem quoniam non est bonum et rursus non
boni quoniam bonum est ipsae quoque similes secundum falsitatem sunt, si una
falsarum uni verarum opinionum inventa fuerit contraria, erit reliqua falsa
reliquae verae contraria, quod sola efficit similitudo. Ostenditur autem una
falsa uni verae, quemadmodum supra exposuimus, contraria, hoc est ea quae dicit
id quod non est bonum bonum esse ei quae arbitratur id quod non est bonum non
esse bonum. Relinquitur igitur ea quae arbitratur id quod bonum est non esse
bonum contraria esse ei quae opinatur id quod bonum est esse bonum. Qua in re
colligitur negationem potius quam contrarium ƿ ponentem affirmationem verae
affirmationi esse contrariam. Perplexa igitur sententia his modis quibus
diximus expedita est sed se sic habet ordo sermonum: AMPLIUS, inquit, SIMILITER
SE HABET BONI QUONIAM BONUM EST ET NON BONI QUONIAM NON BONUM EST, quae
utraeque verae sunt, ET SUPER HAS BONI QUONIAM NON BONUM EST ET NON BONI
QUONIAM BONUM EST, quae sunt utraeque mendaces. ILLI ERGO QUAE EST NON BONI
QUONIAM NON BONUM est VERAE OPINIONI QUAENAM EST CONTRARIA? Hoc quasi
interrogativo modo dictum est. NON ENIM EA QUAE DICIT QUONIAM MALUM est,
quoniam simul aliquando esse poterit vera. Hoc autem in contrariis non potest
inveniri. NUMQUAM enim VERA VERAE CONTRARIA EST. Quemadmodum autem fieri
potest, ut simul sint verae? Quoniam est QUIDDAM NON BONUM MALUM, QUARE
CONTINGIT SIMUL VERAS ESSE. AT VERO NEC ILLA QUAE EST NON MALUM; SIMUL ENIM ET
HAE ERUNT, id est possunt aliquando simul esse verae, in his praesertim rebus
quae inter bonum malumque sunt. RELINQUITUR ERGO EI QUAE EST NON BONI QUONIAM
NON BONUM, quae scilicet vera est, CONTRARIA EA QUAE EST NON BONI QUONIAM BONUM
est, quae falsa est et simul vera non potest inveniri. QUARE, ad similitudinem
superius positam proportionis reuertitur, ut dicat ET EAM QUAE EST BONI QUONIAM
NON BONUM EST EI QUAE EST BONI QUONIAM ƿ BONUM est contrariam. Quod si quis ea
quae superius dicta sunt diligentius intuetur, nec in totius sententiae statu
nec quicquam in ordine fallitur. MANIFESTUM VERO QUONIAM NIHIL INTEREST, NEC SI
UNIVERSALITER PONAMUS AFFIRMATIONEM; HUIC ENIM UNIVERSALIS NEGATIO CONTRARIA
ERIT, UT OPINIONI QUAE OPINATUR QUONIAM OMNE QUOD EST BONUM BONUM EST EA QUAE
EST QUONIAM NIHIL EORUM QUAE BONA SUNT BONUM EST. In superiori
argumentatione omnia de indefinitis explicuit sed quoniam fortasse aliquis
poterat suspicari non eandem rationem esse posse in his propositionibus quae
sunt definitae atque in his aliquid interesse, utrum eadem demonstratio in his
quae indefinitae sunt eveniret, hoc addit nihil interesse, utrum eandem
demonstrationem, quam ipse superius in propositionibus indefinitis fecit,
quisquam faciat in universalibus, quae iam sine dubio definitae sunt. Si quis
enim secundum indefinitarum propositionum superiorem dispositionem definitas
disponat easque secundum praedictum modum speculetur, non aliam universatis
affirmationis opinioni contrariam reperiet quam eam quae est universalis
negationis opinio. Nihil enim interest inter indefinitas definitasque
propositiones, nisi quod indefinitae quidem sine determinatione, definitae ƿ
vero cum augmento determinationis sunt, vel universalitatis vel
particularitatis. Hoc est enim quod ait: NIHIL INTEREST, NEC SI UNIVERSALITER
ponatur affirmatio. Universali namque affirmationi universalis contraria erit
negatio, UT OPINIONI QUAE OPINATUR QUONIAM OMNE QUOD EST BONUM BONUM EST, quae
scilicet est universalis affirmationis, EA SIT CONTRARIA QUAE EST QUONIAM NIHIL
EORUM QUAE BONA SUNT BONUM EST, hoc est opinio universalis negationis. Hoc
autem cur fiat ostendit. NAM EA QUAE EST BOVI QUONIAM BONUM, SI UNIVERSALITER
SIT BONUM, EADEM EST EI QUAE OPINATUR QUICQUID EST BONUM QUONIAM BONUM EST.
NIHIL DIFFERT AB EO QUOD EST OMNE QUOD EST BONUM BONUM EST. SIMILITER AUTEM ET
IN NON BONO. Gradatim indefinitam propositionem ad similitudinem universalis
adduxit. Dicit autem: quaecumque fuerit indefinita propositio, ei si quod in
sermone solemus dicere quicquid addatur, universalis fit, ut nihil omnino
distet ea quae ad rem in affirmatione omne praedicat. Ut ea opinio vel
propositio quae est de bono quoniam bonum est hoc scilicet opinatur, quoniam
bonum bonum est, huic si addatur quicquid, ut ita dicamus: quicquid bonum est
bonum est, nihil differt ab ea quae opinatur omne bonum bonum esse. Quare eadem
vis est superioris demonstrationis in ƿ propositionibus indefinitis, quae etiam
in universalibus, quae paruulum quiddam distant, quod non ad qualitatem nec ad
vim propositionis sed ad quantitatem refertur. Universalitas enim quantitatis
ponitur. Et sensus quidem huiusmodi est, verba vero sic sunt. Superius
proposuerat nihil interesse, an indefinita esset propositio an universalis. Cur
autem nihil intersit hoc modo dicit: NAM EA QUAE EST BONI QUONIAM BONUM est, id
est indefinita affirmatio, SI UNIVERSALITER SIT BONUM, id est si bonum
universaliter proferatur, EADEM EST EI QUAE OPINATUR QUICQUID BONUM EST QUONIAM
BONUM EST, id est nihil discrepat ab ea opinione quae opinatur quicquid bonum
est bonum esse. Huiusmodi autem opinio NIHIL DIFFERT AB ea, quae aperte
universaliter proponitur, quae est OMNE QUOD EST BONUM BONUM EST. SIMILITER
AUTEM ET IN NON BONO, id est non bonum quoque eadem ratione dicimus. Ea namque
propositio vel opinio quae opinatur non bonum esse quod non bonum est, si ei
adicitur universalitas, nihil differt ab ea quae dicit quicquid non bonum est
non est bonum. Haec autem nullo distat ab ea, quae universaliter aperte
proponitur, quae est omne quod bonum non est non est bonum. QUARE SI IN
OPINIONE SIC SE HABET, SUNT AUTEM HAE QUAE SUNT IN VOCE AFFIRMATIONES ET ƿ
NEGATIONES NOTAE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA, MANIFESTUM EST, QUONIAM ETIAM AFFIRM
ATIONI CONTRARIA QUIDEM NEGATIO CIRCA IDEM UNIVERSALIS, UT EI QUAE EST QUONIAM
OMNE BONUM BONUM EST VEL QUONIAM OMNIS HOMO BONUS EA QUAE EST VEL QUONIAM
NULLUM VEL NULLUS, CONTRADICTORIE AUTEM AUT NON OMNIS AUT NON OMNE. Superiores
omnes argumentationes ad unum colligit redigitque ad conclusionem omnem
quaestionis vim. Supra enim negationes et affirmationes earumque contrarietates
de opinionibus pensari oportere praedixerat, nunc vero quoniam in opinionibus
repperit illam contrariam esse, quae esset universalis negatio, idem refert ad
propositiones, quas manifestum est, quoniam voces sunt et significativae,
passiones animi designare. In principio enim libri significativas voces
passiones animae monstrare veraciter docuit, nunc ea velut probaturus est:
quoniam in opinionibus illa potius contraria universali affirmationi reperta
est, quae esset universalis negatio potius quam ea quae contrarium universali
affirmationi affirmaret, idem quoque arbitratur in vocibus provenire, hoc est
affirmationi universali non affirmationem contrariam rem ponentem sed
universalem negationem esse contrariam, ƿ contradictorias vero eas quae, cum
affirmatio universalis esset, particularis negatio inveniretur. Atque hoc
quidem planissime dictum est nec aliquis in verbis error est sed nos, ut
caetera nihil ambiguum relinquentes ipsorum quoque verborum, eorum ordinem
persequemur. Ait enim: QUARE SI IN OPINIONE SE SIC HABET, id est quod opinio
negationis contraria invenitur opinioni affirmationis potius quam contrarium
ponens affirmatio, SUNT AUTEM HAE QUAE SUNT IN VOCE AFFIRMATIONES ET NEGATIONES
NOTAE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA (nam sicut in voce affirmatio et negatio est,
ita quoque etiam in opinione, cum ipse animus in cogitatione sua aliquid
affirmat aut quid negat, quod nos alio loco diligentius expediemus): ergo
quoniam affirmationes et negationes quae sunt in voce notae earum sunt
affirmationum vel negationum quae sunt in anima, MANIFESTUM EST, QUONIAM ETIAM
AFFIRMATIONI CONTRARI. QUIDEM EST NEGATIO CIRCA IDEM UNIVERSALIS. CIRCA IDEM
autem addidit, ne disiunctas affirmationes et negationes contrarias diceremus
sed ut affirmatio et negatio de una eademque re illa quidem universaliter
affirmaret, illa vero universaliter negaret. Earum autem exempla haec sunt: UT
EI QUAE EST QUONIAM ƿ OMNE BONUM BONUM EST VEL QUONIAM OMNIS HOMO BONUS EST EA
QUAE EST QUONIAM NULLUM, id est nullum bonum bonum est, quae contraria est, VEL
NULLUS, hoc est quoniam nullus homo bonus est. CONTRADICTORIA AUTEM AUT NON
OMNIS, id est non omnis homo bonus est contra eam quae dicit: Omnis homo bonus
est AUT NON OMNE, hoc est non omne bonum bonum est contra eam quae dicit
quoniam omne bonum bonum est. Constat igitur in his propositionibus quas supra
proposuit illam magis esse contrariam, affirmationi quae dicit: Omnis homo
iustus est eam quae dicit: Nullus homo iustus est potius quam eam
quae dicit: Omnis homo iniustus est MANIFESTUM AUTEM QUONIAM ET VERAM
VERAE NON CONTINGIT ESSE CONTRARIAM NEC OPINIOVEM NEC CONTRADICTIONEM.
CONTRARIAE ENIM SUNT QUAE CIRCA OPPOSITA SUNT, CIRCA EADEM AUTEM CONTINGIT
VERUM DICERE EUNDEM; SIMUL AUTEM EIDEM NON CONTINGIT INESSE CONTRARIA. Post
haec libri terminum expedit in ea speculatione et demonstratione, per quam,
licet verum sit manifestumque omnibus duas propositiones veras non esse
contrarias, tamen id ipsum demonstrare conatur. Est autem huius argumentationis
ingressus huiusmodi: ea quae sunt contraria opposita sunt, opposita vero non
possunt eidem simul inesse: contraria igitur eidem simul inesse non possunt. De
quibus autem aliquid simul verum dici potest, illa simul eidem inesse possunt,
quae vero simul eidem inesse ƿ non possunt, de his simul verae propositiones,
affirmatio et negatio, esse non possunt. Sed contraria simul eidem inesse non
possunt: quae igitur simul verum dicunt contrariae non sunt, idcirco quoniam de
quibus et affirmatio et negatio simul verae esse possunt, illa simul eidem
insunt. Quocirca quae simul verae sunt contrariae non sunt. Sensus hic est,
verba autem sic constant: MANIFESTUM AUTEM EST, inquit, QUONIAM ET VERAM VERAE
NON CONTINGIT ESSE CONTRARIAM, id est duas veras propositiones non posse esse
contrarias? NEC OPINIONEM NEC CONTRADICTIONEM: si opinio non est vera verae
contraria, multo magis nec contradictio quae ex opinionibus venit. Contradictio
autem hic pro contrarietate posuit: de ea enim non agebatur. CONTRARIAE ENIM
SUNT QUAE CIRCA OPPOSITA SUNT, id est omne contrarium oppositum. CIRCA EADEM
AUTEM CONTINGIT VERUM DICERE, idcirco quod de his solis et negatio et
affirmatio verae simul esse possunt, quae eidem simul esse contingit, SIMUL
AUTEM EIDEM NON CONTINGIT INESSE CONTRARIA, ut concludatur: quoniam de quibus
affirmatio et negatio simul verae sunt, ea simul eidem inesse possunt,
contraria vero simul eidem inesse non possunt, quae simul verae sunt non
possunt esse contrarialNoster quoque labor iam tranquillo constitit portu.
Nihil enim, ut arbitror, relictum est quod ad plenam ƿ huius libri notitiam
pertineret. Quare si rem propositam studio diligentiaque perfecimus, erit
perutile his qui harum rerum scientia complectendarum cupiditate tenebuntur:
sin vero minus id eiecimus, quod nobis propositum fuit, ut obscurissimas libri
sententias enodaremus, labori nostro nihil ut aliis nocituro, et si non
proderit, obloquitur. Multa ueteres philosophiae duces posteriorum
studiis contulerunt, in quibus priusquam ad res profunda mersas caligine
peiuenirent qandam quasi intelligentiae luctatione praeluderent: hinc
institutionum breuior compendii facilitate doctrina, hinc per ea quae illi
*prolegomena* uocant, ad intelligentiam promptior uiam unitur. Huius igitur
aemulus prouidentiae statui obscura rum aditus doctrinarum praemissae
institutionis luce reserare, et praesentem operam syllogismis quorum
connexionibus omnis ratio continetur, addicere, modumque eum custodire dicendi,
ut facilitati atque intelligentiae seruientes, astringamus a ueteribus dicta
latius, enuntiata breuius porrigamus, obscurata improprii nouitate sermonis
consueti uocabuli proprietate pandamus. Sed qui ad hoc opus lector accedit, ab
eo primitus petitum uelimus ne in hic quae nunquam alias attigerit statim
audeat iudicare, neue si quid in ludo puerilium disciplinarum rudis adhuc et
nondum firmus acceperit, id amplexandum atque etiam colendum pPomba; alia enim
teneris atque imbuendis adhuc auribus accomotata, alia firmis ac robustioribus
doctrina mentibus, reseruatur. Quare si quid est quod discrepet, ne statim
obstrepat sed ratione consulta, quid ipse sentiat quid nos afferamus, ueriore
mentis acumine et subtiliore consideratione diiudicet. Idem namque eueniet, ut
quae in primo statim studendi aditu didicerunt, perspecta penitus ac potius
deprehensa contemnant. At si iam quisque duae scientiae defensor esse cupidus
malit (habent hoc quoque uitii homines quos comprehendit discendi uetus ac
longa, segnities, ut si arreptis semel opinionibus non recedant, ne in
senectute discendo, nihil usque in senectutem didicisse uideantur), si, inquam,
malunt uindicare quam uertere quae uulgatis semel etudiis imbiberunt, nemo
expetit ut priora condemnent sed ut maiora quaedam construant atque altiora
coniungant. Non enim una atque eadem diuersarum ratio disciplinarum, cum sit
diuersissimis disciplinis una atque eadem substantia materies. Aliter enim de
qualibet orationis parte grammatico, aliter dialectico disserendum est, nec
eodem modo lineam uel superficiem mathematicus ac physicus tractant. Quo fit ut
altera alteram non impediat disciplina, sed multorum consideratione coniuncta
fiat uera naturae atque ex omnibus explicata cognitio. Sed de his hactenus;
nunc de propositis ordinamur. Quoniam igitur nobis hoc opus est in categoricos
syllogismos, syllogismorum uero compago propositionibus texitur, propositionum
uero partes sunt nomen et uerbum, pars autem ab eo cuius pars est, prior est;
de nomine et uerbo, quae prima sunt, disputatio prima ponatur, dehinc de
propositione ad ultimum de syllogismorum connexione tractabitur. Nomen
est uox significatiua secundum placitum sine tempore, cuius nulla pars
significatiua eit separata; quae definitio paulo enodatius explicanda
est. Nomen enim uocem esse dicimus, quoniam uox nominum genus est; omne
autem genus de sua specie praedicatur, omnisque definitio a genere sumitur, ut
si definias hominem prius animal dicas, quod est genus, Post uero differentias
iungas quae sunt rationale et mortale. Ita igitur nos quoque in nominis
difinitione uocem quidem ut genus sumimus, caetera autem uoci quasi
differentiae aggregamus, uelut quod nomen designatiua uox dicitur. Sunt enim
uoces quae nihil designant, ut syllabae, nomen uero designatiua uox est, quon
iam nomen designat id semper cuius nomen est. Secundum placitum uero
adiunctum est, quoniam nullum nomen natura significat sed secundum placitum
ponentis constituentisque uoluntatem. Illud enim unaquaeque res dicitur quodei
placuit qui primus rei nomen impressit. Aliae enim sunt uoces naturaliter
significantes, ut canum latratus, iras canum significat, et aliae eius quaedam
uox blandimenta; gemitus etiam designant dolorem, sed non sunt nomina, quia non
designant secundum placitum sed secundum naturam. Sine tempore uero, quod
et uerba uoces sunt significatiuae et secundum placitum sed distant a
nominibus, quia nomina quidem sine tempore sunt, uerba uero cum tempore.
Cuius nulla pars significatiua est separata, nomina ab oratione disiungit.
Oratio namque uox est significatiua secundum placitum et aliquoties sine
tempore, ut hic uersus: Nerine Galathea thymo mihi dulcior Hyblae. Sed
orationis partes, separatae a tota oratione, designant: nominum uero nihil
extra designat, atque in illis quidem nominibus quae figurae sunt simplicis
nihil pars omnino significare manifestum est, ut in eo quod est Cicero, nulla
pars separata [763C] designat neque ci, neque ce, neque ro. At si nomen
compositum fiat, significare aliquid separata, partes uidentur; sed in eodem
nomine quod ex utrisque compositum est, separate nihil designant, ut si dicam
magister, partes eius nominis sunt magis atque ter, quae sumpta extrinsecus et
a nominis parte separatae significatione non carent, utraque enim ad uerbi
aliter significat quantitatem; sed cum magister quod est compositum nomen
alicuius artis peritum doctoremque significet, magis neque partem doctoris,
neque totum doctorem poterit designare. Eodem quoque modo ter, neque in toto
significat, neque in parte doctorem, id est, rem illam quae magistri uocabulo
subiecta est nulla ratione designat. Compositorum ergo nominum partes
nihil eius rei quam in unum conuenientes uocabulum designabant disiunctae
distractaeque significant; alia uero significare possunt sed tunc non partes
nominis sed ipsa sunt nomina. Quod enim coniuncta significant, id diuisa atque
se posita non designant. iuncta autem magis et ter doctoris significationem
tenebant, separata igitur omnem significationem doctoris amitunt. Sed ne
quis superius posito calumnietur exemplo, nec magister compositum nomen esse
concedat, uir fortis esse compositum nomen, si uno praeferatur accentu nullus
negabit, cuius partes uir atque fortis quod in eo quod est uir fortis
significare dicantur, non iam nominis partes sed ipsa sunt nomina, nec uir
fortis unius erit nomen sed potius oratio, quae duorum nominum collata
significatione conuincitur, quod uir fortis cum unius accentus intentione
prolatum non est oratio sed nomen, cuius partes nomina esse non poterunt, ac si
nomina non sunt, cum neque naturales affectus neque actus, ut uerba
significent, omnino non nihil designant. Quare concludendum est, cum quaelibet
uoces propriam significationem tenent, non partes nominum, sed ipsa esse
nomina, cum uero unius formam nominis copulauerint, eo considerantur ut partes
uim propriae significationis amittere. Sed de his in commentario libri
*Peri hermeneias* Aristotelis satis dictum est, et maior eius rei tractatus est
quam ut nunc totus ualeat expediri. Sed quoniam sunt quaedam uoces quae
et designatiuae sunt et secundum placitum, et sine tempore, quarumque partes
nihil extra significant, neque tamen proprietates nominis naturamque obseruent,
discernendae prius sunt, additisque differentiis a nomine segregandae, ut quae
sit uis nominis euidenter appareat. Adiecta enim semper negatio nomini, uocem
dubiam facit, quae neque uerbo neque orationi, etsi interius consideratum sit,
neque nomini possit annecti, ut si quis dicat, non homo, uox est significatiua.
Designat enim quidquid homo non fuerit, secundum placitum. Eas enim omnino
partes habet quis ad significationem uel negationis uel hominis placitum
uocabula ponentis assumpsit. Sine tempore, quae res eam uocem quae dicit non homo
separat ac seiungit a uerbo, cuius partes nihil extra significant, ne oratio
esse uideatur. Non homo enim uox seiuncta est ex negatiua particula et homine, quae
in eodem nomine separata nihil designant, significat enim non homo, uel equum,
uel canem, uel quidquid (ut dictum est) non homo non fuerit. Sed quae est
negatiua, neque hominis, neque equi, neque ullius substantiae significationem
tenet. Item homo neque canem, neque quidquid homo non fuerit, significare
potest; quocirca in ea uoce quae est non homo partes nihil separatae
significant eius rei quam tota uocis compositio designabat. Atque ideo nec in
oratione quidem poni potest. Si quis enim eam uocem quae est non homo orationem
concedat, nihil aliud eam esse fatebitur quam negationem. Negatio autem omnis
uera uel falsa est. Qui autem dicit non homo, neque ueritatem nuntiat, neque
mendacium. Praeterea ab omni negatione si quis negatiuum seiungat aduerbium,
affirmatio relinquetur; ab ea autem uoce quae est non homo, si quis aufert id
quod est negatiuum aduerbium, homo relinquetur, quod nondum est affirmatio.
Quocirca si non homo haec uox negatio esse non potest, nihil autem aliud esse
uideretur si esset oratio, concludendum est negationem iunctam eum nomine
orationem esse non posse. Nomen enim omne certum aliquid definitumque
significat, ut homo, equus, canis et caetera; non homo autem uox aufert quidem
quod significatur a nomine, nec praescribit quid ipse significet. Quocirca
quoniam significat quidem aliquid sed non finitum negatio iuncta cum homine, infinitum
nomen uocetur. Addenda est ergo definitioni nominis differentia, scilicet
ut nomen sit quod cum caeteris quae dicta sunt sit definitae significationis.
Iam uero casus nominum non altius intuentibus nomina uideantur. Quid enim
Catonis, et Catoni, atque huiusmodi uoces quae rectis nominibus inflectuntur,
nomina esse non existimet? Sed hae quoque uoces a nomine quadam differentia
discrepabunt. Omne enim nomen iunctum cum est uerbo, enuntiationem reddit ac
suscipit mendacii ueritatisque naturam, ut Cato est, uel dies est, at si est
uerbum casibus adiungatur, neque enuntiatio sit, neque plena sententia
orationis absoluitur, ut Catonis est, nec sententiam habet absolutam, nec ueri
aliquid potest notare nec falsi, atque idcirco non nomina, sed casus nominum
nuncupantur. Nam cum id a quo quidquam flectitur primum sit, illud uero quod ab
inflexione primi nascitur sit secundum, neque idem primum ac secundum esse
possit, manifestum est casus nominum non idem esse quod nomina: idcirco
caeteros quidem genitiuum, datiuum, accusatiuum, casus appellant grammatici,
primum uero rectum ac nominatiuum quod hic locum principem in significatione
possederit. Facienda est igitur nominis plena neque ullo diminuta
definitio sic: Nomen est uox significatiua secundum placitum sine tempore,
cuius nulla pars significatiua est separata, aliquid finitum designans, cum est
uerbo coniuncta faciens enuntiationem. Separat igitur nomen uox quidem ab
articulis atque inanimatis sonis; designatiua uero a uocibus quae nihil
significant, secundum placitum a uocibus aliquid natura significantibus; sine
tempore a uerbo quod a temporis significatione non recedit, cuius nulla pars
separata significat, ab oratione, cuius quemadmodum partes extra significent,
paulo posterius disseram; aliquid definitum designans, ab his uocibus quae
nomen negationemque coniungunt et nomina faciunt infinita, cum est uerbo
faciens enuntiationem, a casibus qui cum est copulati non possunt plenam
perficere atque explicare sententiam. In uerbo quoque eadem fere cuncta
conueniunt, nisi quod in significatione temporis a nomine separatur. Omne enim
uerbum actionem passionemue designat, quae fieri sine temporis notatione non
potest. Est itaque uerbi definitio haec: uerbum est uox significatiua secundum
placitum cum tempore, cuius nulla pars significatiua est separata, ut currit,
uincit; sed si uerbis negatiua copulentur aduerbia, fiunt infinita uerba, sicut
fieri nomina diximus infinita, ut cum currit, nut uincit, certum aliquid
finitumue designet, addita negatione, id quidem quod a uerbo designatur
intercipit, quid uero aliud fieri dicat tali significatione non terminat;
praeterea negatio iuncta cum uerbo siue in eo quod est, siue in eo quod non
est, recte dici potest, ut homo non currit. Non esse autem orationem aut enuntiationem
negatiuam illa prorsus argumenta monstrabunt, quae infinitum nomen ab oratione
aut negatione diuidebant. Sed quoniam principaliter praesentia quaeque
sentimus, his autem rebus quas praesenti sensu concipimus indita esse a
mortalibus uocabula manifestum est, recte dicis uerbum semper significationis
temporis habere praesentis, ut currit aut uincit. Curret autem aut uincet, et
cucurrerit aut uicerit, non sunt uerba sed uerborum casus, scilicet quia a
praesentis temporis significatione flectuntur; est ergo uerbi plena definitio
sic: Verbum est uox significatiua secundum placitum cum significatione
temporis, cuius nulla pars significatiua est separata, aliquid finitum
designans et praesens. Restat igitur ut de oratione dicamus sed prius
uidetur esse monstrandum utrumne nomen et uerbum sola in partibus orationis
ponantur, an ut grammatici uolunt et reliquae orationis partibus debeant
aggregari. Grammatici enim considerantes uocum figuras, octo orationis partes
annumerant. Philosophi uero, quorum omnis de nomine uerboque tractatus in
significatione est constituta, duas tantum orationis partes esse docuerunt,
quidquid plenam significationem tenet, siquidem sine tempore significat, nomen
uocantes, uerbum uero si cum tempore: atque ideo aduerbia quidem atque pronomina
nominibus iungunt, sine tempore enim quiddam constitutum definitumque
significant, nec interest quod flecti casibus nequeunt, non est hoc nominum
proprium ut casibus inflectantur. Sunt enim nomina quae a grammaticis
*monoptota* nominantur, participium uero quia temporis significationem trahit,
etsi casibus effertur, uerbo tamen recte coniungitur. Interiectiones autem
siquidem, naturaliter significent, nec uerbo, nec nomini copulandae sunt; uerbi
enim ac nominis definitiones non habent esse naturalia sed ad ponentis placitum
constituta, atque ideo nec in orationis partibus numerabuntur. Oratio enim
positione significat, nam si naturaliter significaret oratio, non diuersa
gentes orationes loquerentur. Si quae uero interiectionem positione significant,
quoniam finitam sine tempore affectionem designant, recte nominibus
annumerantur. Quae uero ipsa, quidem nulla propria significatione nituntur, cum
aliis uero iunctae designant, ut coniunctiones atque praepositiones, illae ne
partes quidem orationis esse dicendae sunt; oratio enim ex significatiuis
partibus iuncta est. Quocirca recte nomen ac uerbum solae orationis partes esse
dicuntur. Oratio est uox significatiua secundum placitam, cuius
partes aliquid extra significant ut dictio, non ut affirmatio.
Oratio igitur habet simul cum uerbo et nomine commune, quod uox est, quod
significatiua est, quod secundum placitum est. Separatim uero cum nomine illi
commune, est quod aliquando sine tempore est, ut Virgilianus quem supradiximus
uersus: Nerine Galathea thymo mihi dulcior Hyblae et qui
sequitur: Candidior cygnis, bedera formosior alba. Cum uerbo autem
quod interdum cum temporis significatione profertur, ut: Si qua tui
Coridonis habet te cura, uenito. Differt autem ab utroque quod partes
orationis a tota separatae oratione significant. Sunt enim partes orationis
nomen et uerbum quae significatiua esse dum ea definiremus ostendimus.
Significant igitur partes orationis ut dictio, non ut affirmatio, quanquam
aliquoties quidem ut affirmatio sed non semper tamen, semper autem ut dictio.
Est enim dictio simplex uerbi ac nominis nuncupatio. Nam cum dicimus: Si
dies est, lux est hanc totam orationem si diuidere in partes uelimus,
scilicet dies est, lux est, utraque pars ut affirmatio significabit, dies est,
lux est, aftirmationes esse manifestum est. At si minutatim tota orationis
membra carpamus, usque in nomina ac uerba postrema fiet resolutio. Dicemus enim
partes esse superius positae orationis, dies et lux et est, quae per se prolata
non sunt affirmationes sed tantum dictiones. Omnis uero oratio, quoniam ex
uerbis nominibusque consistit, in nomina et uerba solui potest. Non enim omnem
orationem in affirmationem cedi possibile est, ueluti si quis dicat lux est,
huius partes sunt, lux atque est, quas non esse affirmationes sed simplices
dictiones nullus ignorat. Cum igitur oratio quidem non semper in affirmationem
solui queat semper autem in simplices dictiones, iure dictum est orationis
partes extra aliquid designare non ut affirmationes sed potius ut
dictiones. Orationis autem species (ut arctissime diuidamus) sunt
quinque, interrogatiua, ut Quo te, Meri, pedes? an quo uia ducit in
urbem? Imperatiua, ut: Suggere tela mihi. Inuocatiua,
ut: Dii maris et terrae, tempestatumque potentes. Deprecatiua: Ferte
uiam, uenti, facilem, et spirate secundi. Enuntiatiua: Est mihi
disparibus septem compacta cicutis Fistula. Quarum quidem praeter
enuntiationem nulla uel esse aliquid, uel non esse designat. Caeterae namque
uel interrogant, uel inuocant, uel imperant, uel precantur. Enuntiatio uero
semper esse aliquid aut non esse significat. Atque ideo sola enuntiatio est, in
qua ueritas uel falsitas inueniri queant. Unde etiam enuntiationis nascitur
definitio, est enim enuntiatio quae uerum falsumue denuntiat. Hanc etiam
proloquium uel propositionem Tullius uocat, quae quidem partim simplex, partim
composita. Simplex est quae conditione seposita esse aliquid uel non esse
proponit, ut: Plato philosophus est. Composita uero quae ex duabus
simplicibus copulante conditione consistit, ut: Plato si doctus est,
philosophus est. Simplicium uero enuntiationum alias in qualitate sitas,
alias in quantitate differentias inuenimus. In qualitate quidem quod alia
affirmatiua, alia negatiua est. Enuntiatio affirmatiua est enuntiatio aliquid de
aliquo significans, ut: Plato philosophus est philosophum de Platone
praedicamus. Negatiua uero est enuntiatio aliquid ab aliquo praedicatione
seiungens, ut: Plato philosophus non est philosophum enim a Platone
tali praedicatione seiunximus. Secundum quantitatem uero differentiae
enuntiationum sunt, quod aliae quidem uniuersales aliae particulares aliae
indefinitae, alio singulares. Uniuersales sunt quae siue affirment, siue
negent, uniuersaliter tamen enuntiant uniuersale subiectum, ut: Omnis homo
sapiens est. Nullus homo sapiens est homo uniuersale quiddam est. Multos
enim sub se indiuiduos coercet et continet, qui uniuersaliter enuntiantur, dum
ei omnis uel nullus adiungitur. Particulares uero quae uel affirmando uel
negando ambitum subiecti uniuersalis in partem redigunt, ut: Quidam homo
sapiens est. Quidam homo sapiens non est hic enim uniuersalitas hominis,
adiecta particulari determinatione minuta est, atque in partem redacta.
Indefinitae uero sunt quae absque uniuersalitatis et particularitatis determinatione
dicuntur, ut: Est homo sapiens. Non est homo sapiens Singulares uero
sunt quae de singulari aliquid et de indiuiduo affirmando negandoue proponunt,
ut: Socrates sapiens est. Socrates sapiens non est Differt autem
particularis propositio a singulari, quod particularis quidem unum aliquem
subiicit, nec quis sit iste designat, ut: Quidam homo sapiens est
quis iste homo sit propositio non declarat. Singularis uero unum aliquem sumit,
et quis iste sit significat, ut: Socrates sapiens est unum enim et
hunc Socratem sapientem esse proposuit. Amplius particularis omnis uniuersalem
quidem terminum ponit sed ei detrahit uniuersalitatem, dum qualitatem
particularitas adiungit, ut in propositione: Quidam homo sapiens est
Homo uniuersalis est terminus, multos enim propria praedicatione concludit. Sed
quia dicitur quidam, ad unum homo redigitur, qui uniuersale persisteret, nisi
particularitas fuisset adiuncta; in singularibus uero propositionibus
praedicato termino semper indiuiduum supponitur, ut: Socrates sapiens
est Socrates enim singularis est, atque indiuiduus; idcirco igitur illa
particularis propositio quae partem ex uniuersalitatem detrahit, haec singularis
quae in singularis atque indiuidui praedicatione consistit. Simplicium
uero enuntiationum partes sunt subiectum atque praedicatum. Subiectum st quod
praedicati suscipit dictionem, ut in ea propositione quae est: Plato
philosophus est. Plato subiectum est, de ipso enim philosophos praedicatur, et
in eo philosophi suscipit dictionem. Praedicatum uero est quod dicitur de
subiecto, ut in eadem propositione, philosophos dicitur de Platone subiecto,
semper enim quod subiectum est uel minus est, uel aequale praedicato: minus
quidem ut in ea propositione de qua paulo ante tractauimus. Plato enim
philosophi nomen non potest aequare neque solus Plato philosophus est; aequalis
uero est subiectus terminus praedicato, ut si quis dicat: Homo risibilis
est homo enim qui subiectus est terminos praedicato risibili coaequatur.
Unde fit ut possit reddi reciproca praedicatio, scilicet, ut uices subiectum
praedicatumque permutent, subiectumque fiat quo erat antea praedicatum,
uersoque ordine praedicetur quod fuerat ante subiectum, ut si dicatur quod
risibile est homo est; omnia enim quae sunt aequalia de se inuicem
praedicantur. Ut uero id quod subiectum est maius possit esse praedicato, nulla
prorsus enuntiatione contingit, ipsa enim praedicata natura minora esse non
patitur. Sed quod aequale uel maius est, id semper de aequali uel minore
praedicatur. Has uero enuntiationum partes, id est praedicatum atque subiectum
terminos appellamus. Termini uero dicuntur quod in eos postrema sit resolutio:
itaque in singularibus uel indefinitis propositionibus duos terminos semper
inuenimus, et uerbum quod propositionis determinet qualitatem, ut in propositione
qua dicimus: Socrates sapiens est Socrates quidem ac sapiens
terminos esse manifestom est. Est uero uerbum non est terminus sed designatio
qualitatis, et qualis propositio sit negatiuam affirmatio significat, et nunc
quidem solo est uerbo propositioni accommodato facta est affirmatio. At si non,
quod est abuerbium negatiuam esset ad iunctum ita diceretur: Socrates
sapiens non est atque hoc modo mutata qualitate fieret de affirmatione
negatio. "Est" igitur et "non est" non sunt termini
sed, ut dictum est, significatio qualitatis. Eadem omnia etiam in indefinita
propositione conueniunt; quod si sint tales orationes: Socrates est, dies
est "est" ui gemina fungitur, scilicet praedicati, est enim
uerbum de Socrate et die praedicatum, et signi qualitatis, idem namque est
solum positum affirmationem efficit, cum negatiuo aduerbio negationem. At si
sint propositiones quae differentias secum habeant quantitatum, ut sunt
uniuersales ac particulares, eadem uis permanet terminorum; "omnis"
enim ac "nullus" et "quidam" terminis non annumerantur sed
enuntiationem significant qualitatem. Atque ideo recte quod subiicitur ac
praedicatur termini nuncupati sunt, quoniam in eos tantum resoluitur propositio.
Caetera enim quae simplicibus enuntationibus adiunguntur, aut qualitatem
propositionum retinent, aut quantitatem significant. Propositionum uero
simplicium aliae sunt quae in nulla parte conueniunt, ut: Plato
philosophus est et: Virtus bona est utraque enim aliud quiddam
de alio praedicatur, nec babent aliquid in proponendi ratione commune. Illa
enim Platonem philosophum dicit, illa uirtutem bonam esse pronuntiat. Aliae
uero sunt quae aliqua terminorum participatione iunguntur. Id autem duobus
fieri modis potest, aut enim ordine eodem, aut per ordinis commutationem. Eodem
uero ordine duplici modo, si uel simplices terminos in utriusque constituas uel
si per oppositionem fiat participatio terminorum: quod tribus neque amplius
continget modis, nam uel praedicato, uel subiecto, uel utriusque terminis
negatio copulatur. Ordinis etiam commutatione conueniunt duobus modis, aut enim
per simplicem terminorum praedicationem, aut per eorumdem terminorum
oppositionem. Haec quoque oppositio terminorum triplicem recipit modum, cum
negatio uel praedicato, uel subiecto, uel utrisque coniungitur; illae uero quae
altero termino participant et tribus modis, uel cum in una propositione quod
praedicatur in altera subiectum est, uel cum idem in utriusque praedicatur, uel
cum idem in utrisque subiectus est. Et quoniam omnium sibimet conuenientium
propositionum ordinatissimam fecimus diuisionem, nunc de singulis quibusque
tractemus, ac primum de ea propositionum conuenientia, quae cum utrisque
participet terminis, participandi tamen ordinem seruent, ea est
huiusmodi: Omnis homo sapiens est. Nullus homo sapiens est. Utraque enim
propositio hominem subiicit, et praedicat sapientiam, et cum utroque termino
congruant, sunt tamen diuersae, quoniam haec affirmatio est, illa negatio. Et
hoc quidem exempli gratia dictum sit, plenius uero fiet de tali participatione
tractatus hoc modo. Cunctarum simplicium propositionum differentias, uel
in qualitate, uel in quantitate sitas esse ostendimus; in quantitate cum
uniuersaliter pronuntiat [F. pronuntiantur] uel particulariter uel indefinite,
uel singulariter proferuntur, in qualitate uero cum hae quidem affirmatiuae
sunt, illae uero negatiuae. Si igitur duas affirmatiuas aggregamus fiunt mixtae
cum utrisque octo differentiae, quae simul qualitatem quantitatemque
contineant. Sunt autem mixtae hae, affirmatio uniuersalis, negatio uniuersalis,
affimatio particularis, negatio particularis, affirmatio indefinita, negatio
indefinita, affirmatio singularis, negatio singularis. Quarum quidem
indefinitas singularesque segregemus, et de uniuersalibus ac particularibus
disseramus. Describatur ergo uniuersalis primum affirmatio: Omnis homo
iustus est cuius aduersum tenet locum negatiua propositio
uniuersalis: Nullus homo iustus est item sub uniuersali affirmatione
ponatur particalaris affirmatio, quidam homo iustus est, hanc aduersa fronte
respiciat, sitque uniuersali negatiuae supposita particularis negatio: Quidam
homo iustus non est. Uniuersalis affirmatio: Omnis homo
iustus est. Uniuersalis negatio: Nullus homo iustus est. Particularis
affirmatio: Quidam homo iustus est Particularis negatio: Quidam
homo iustus non est Harum igitur affirmatio atque negatio uniuersalis
qualitate quidem discrepant sed quantitate concordant; nam quod haec quidem
affirmatio est, illa uero negatiua est, sunt in qualitate diuersae, quia uero
utraque unuersalis est quantitate conueniunt. Harum igitur uel utrasque falsas,
uel alteram ueram alteram falsam recipere possibile est, utraeque autem simul
uerae nequeunt inueniri, nam in proposita descriptione affirmatio quae
est: Omnis homo iustus est et negatio quae est: Nullus homo
iustus est cum utraeque sint uniuersales, neutra tamen est uera. At si
sit affirmatio: Omnis homo animal est atque uniuersaliter denegetur
ita: Nullus homo animal est uel ita: Omnis homo lapis est.
Nullus homo lapis est unam ueram, alteram falsam esse necesse est. Atque
ideo quoties ea praedicantur quae et conuenire subiecto et ab eo ualeant
segregari et uniuersaliter illa confirmat haec denegat, utrasque falsas
contingit, et superius positis declaratur exemplis. Iustitia enim cum esse in
hominibus possit, non tamen ita hominibus inhaesit, ut ab eis separari nullo
modo queat, atque ideo neque omnis homo iustus est, neque omnis homo iustus non
est, contingit utrasque mentiri; at si tale sit quod a subiecto abstrahi
separarique non possit, uel quod nunquam possit euenire subiecto, et quae
uniuersaliter affirmatiua est uniuersaliter abnuatur, euenit uni ueritatem,
alteri semper adesse mendacium sed ita ut si a subiecto quod praedicatur non potest
segregari, uera sit semper affirmatio, falsa negatio; at si quod euenire non
potest praedicatur, affirmatio quidem falsa sit sed uera sit negatio. Nam
quoniam anima non ab homine potest segregari, quae hominem animal esse
confirmat uera est, falsa uero illae quae denegat; item si quod non potest
fieri praedicetur, fiatque affirmatio, omnem hominem esse lapidem, idque
aduersa propositio neget, nullumque hominem lapidem esse concedat, negatio
quidem ueritati, affirmatio autem iuncta est mendacio: simul autem ueras esse
affirmationem uniuersalem uniuersalemque negationem nulla poterunt exempla
monstrare. Atque ideo uniuersalis quidem affirmatio, uniuersalisque negatio
contraria dicuntur, nam ut in contrariis aliquid medium cortinentibus potest
neutrum inesse subiecto, ut corpus neque nigrum sit neque album, quoniam est
quod praeter ea esse possit, ut rubrum, itemque in contrariis medietate
carentibus necesse est alterum semper inesse subiecto ut omne animal aut
dormita ut uigilat, quoniam inter dormire ac uigilare nihil medium est; autem
simul atque in eodem utraque contraria reperiantur fieri nequit. Ita etiam in
uniuersalibus affirmatione ac negatione: ut utraeque falsae sint, exemplo
contrariorum aliquid medium claudiunt; uel altera uera, falsa uero altera,
sicut in contrariis quae medio carent fieri posse manifestum est sed
impossibile est ut utriusque sententia in ueritate conueniat, sicut nulla
contraria simul esse patiuntur. Atque ideo uniuersalis aftirmalio uniuersalisque
negatio contrariae nominantur. Hae igitur non eam uim ipsa semper aduersitate
conseruant, ut eis sit perpetua atque inconciliata discordia, nec se semper
inuicem perimunt, quae cum sententia dissideant communi tamen falsitate
concordant. Si igitur earum una sub mota sit, non necesse est ut esse
altera consequatur: fieri enim potest ut neutra sit, uelut si omnem iustum esse
hominem destruat, non est consequens ut nullus homo sit iustus. Quae autem sub
his propositionibus collocantur, id est particularis affirmatiua atque negatio,
subcontrariae nomen habent, idcirco quod uniuersalitati particulare commune
subiectum est; cum igitur uniuersales intelliguntur esse contrariae,
subcontrarias esse necesse et quae sub uniuersalibus contrariis collocantur.
Horum quoque quantitas est eadem, quoniam utraeque sunt particulares; diuersa
qualitas intelligitur, quoniam affirmatio haec est, illa uero negatio; sed
quanquam contrariis uideantur esse subiectae, conuerso tamen modo particulares
in ueritate sibimet, noii in falsitate consentiunt. Nam ut haec uerum, falsum
illa pronuntiet, atque utraeque sint uerae tacile propositis declaratur
exemplis; ut uero utraeque falsae sint, non potest inueniri. Nam si quod neque
separari, neque possit adesse subiecto, alterutra enuntiet propositio, una est
ueritati, altera cognata mendacio. Et siquidem quod a subiecto separari non
potest praedicetur, affirmatio sola ueritatis calculum tenet; at si quod
subiecto impossibile adesse dicatur, sola obtinet negatio ueritatem, ut si quis
enuntiet: Quidam homo animal est et alius neget: Quidam homo
animal non est uel ita: Quidam homo lapis est. Quidam homo lapis non
erat utraque affirmationum negationumque oppositio uerum inter falsumque
partitur. Sed in prioribus quidem affirmatio, in posterioribus autem uera
negatio est. At si quod euenire quadem possit sed a subiecto tamen aliquando ualeat
segregari, affirmatio particularis, negatioque pronuntietur, utrasque ueras
esse necesse est, ut: Quidam homo iustus est Quidam homo iustus non
est ut uero utraeque falsae sint, nulla potuerunt exempla congruere.
Quocirca ne ista quidem quas subcontrarias appellamus semper sese inuicenm
perimunt, quandoquidem aliquoties in ueritate concordant. At si omnibus differentiis
dissidentes ac inuicem destruentes inuenire conemur, respiciendae sunt
angulares; hae uero sunt uniuersalis affirmatio et negatio particularis, uel
uniuersalis negatio et affirmatio particularis; his enim tanta inter se
discordia manifesta est, ut neque in falsitate unquam, neque in ueritate conueniant,
semperque necesse est cum affirmatio sit uera, negationem esse mendacem, cum
negationi adsit ueritas, affirmationi esse propriam falsitatem. At primum cum
geminas esse propositionum differentias dixerimus in qualitate scilicet et
quantitate, harum et qualitas diuisa esse probator et quantitas: nam quod haec
affirmatio est, illa negatio, in qualitate dissentiunt; quod uero haec
uniuersalis, in particularis quantitate discordant. Item neque in
falsitate, neque in ueritate unquam poterunt conuenire. Siue enim de his
quae a subiecto abesse non possunt unam semper ueram esse necesse est, alteram
falsam, nam si talis terminus praedicatur, ut cum uel adesse subiecto uel non
adesse contingat, uniuersales semper falsae sunt, particulares uerae sunt, si
quis enim ita proponat: Omnis homo iustus est atque alius
neget: Quidam homo iustus non est uniuersalis affirmatio falsa est,
particularis est uero negatio, similiter autem si quis ita pronuntiet: Nullus
homo iustus est uniuersalis negationis falsa, particularis affirmationis
uera sententia est; ita in his quae uel adesse subiecto, uel abesse contingant,
uniuersales falsitati coniunctae sunt, particulares obtinent ueritatem.
At si tales termini sint, qui separari atque a subiecto diuidi nequeant, siue illa
sit uniuersalis, siue particularis, haerebit semper affirmationi ueritas,
negationi mendacium, ut si quis uniuersaliter enuntiet omnem hominem esse
animal, aliusque particulariter neget, quemdam hominem non esse animal
affirmatio uniuersalis uerum loquitur, particularis negatiuae falsa sententia
est. Item si quis uniuersaliter negando proponat nullum hominem esse animal,
particularem affirmationem ueritas sequitur, haeret uniuersalis negatio
falsitati; quod si sint quae predicantur ut nunquam possint adesse subiecto,
seu illae uniuersaliter seu particulariter proponantur, negationes ornat
ueritas, affirmationes falsitas decolorat. Si quis enim confirmat dicens omnem
hominem lapidem esse, aliusque quemdam hominem non esse lapidem respondeat,
uniuersalem affirmationem falsitas, particularem negationem ueritas tenet; quod
si ita quis uniuersaliter neget: Nullus homo lapis est et
particulariter affirmet: Quidam homo lapis est uniuersali constat
negatione ueritas, particularis affirmatio non caret falsitate. Quoquo
igitur modo praedicata uel subiecta mutaueris, si tamen uniuersalem
affirmatiuam particulari negatiuae, uel uniuersalem negatiuam particulari
affirmatiuae consertam a singulari consideratione committas, si haec falsa
illam reram esse contingit, et si haec uera est illam falsam necesse est
inueniri, atque idcirco has inter se oppositas et contradictorias
nuncupamus. Et hactenus quidem affirmationes et negationes auersis
intentionibus conferentes, quid in eis discordiae ac diuersitatis esset
ostendimus; nunc uniuersalem affirmationem particulari affirmatiuae, et
uniuersale in negationem particulari negatiuae ad ueritatis falsitatisque
conuenientiam comparemus. Harum namque inter se nulla discordia est, atque ideo
non de earum dissensu sed de consensu potius uidetur esse quaerendum.
Primum igitur uniuersalis affirmatio et particularis affirmatio subalternae
dicuntur, quoniam altera subiacet alteri, id est particularis affirmatio
uniuersali affirmationi supposita est atque subiecta, ueluti pars intra totius
semper ambitum latet; idemque de uniuersali et particulari negatiua dicendum
est, subalternae enim uocantur, quod superior atque amplior uniuersalis negatio
intra se particularem negationem claudit et continet. Haec igitur tali
ratione consentiant, si enim uniuersales in ueritate praecedant, particulares
ueras esse necesse est, ut si quis uniuersaliter affirmando proponat, omnem
hominem animal, ea cum sit uera, particularis sibi affirmationis ueritatem comitem
trahit, ea uero est: Quidam homo animal est. Nam si uerum est omnem
hominem esse animal, uerum est esse aliquem; item si quis uniuersaliter
enuntiet nullum hominem esse lapidem, et uerum dixerit, subiecta ei
particularis negatio idem retinet, nec mentitur qui dixerit quemdam hominem
lapidem non esse; ita igitur uniuersalibus affirmatione ac negatione uera
dicentibus, particularis affirmatio et negatio ueram uniuersalium sententiam consequuntur.
At si uniuersales falsae sint, non necesse est particulares uniuersalium
consensu praebere mendacinm, uelut in his uniuersalibus qua proponunt omnem
hominem esse iustum, uel nullum hominem esse iustum, quae cum una sit
affirmatio, altera negatio, utraeque sunt falsae; sed eas particularium
falsitas non ex necessitate consequitur, nam et quemdam hominem esse iustum,
quae particularis est affimatio, uere quis dixerit, atque ideo falsis
uniuersalibus, particulares ueras esse non necesse est. Quod enim uniuersalis
affirmatio falsa dicatur omnem hominem esse lapidem, errat particularis
affirmatio quae proponit quemdam hominem esse lapidem. At si uniuersalis
negatio falsa proponatur nullum hominem esse animal non idcirco partirularis
erit uera negatio, si pronuntiet quendam hominem non esse animal, atque ideo
uniuersalibus quidem in ueritate manentibus, particulares necesse est
uniuersalium consentire ueritati, at si uniuersalibus falsitas inhaerebit,
particulares tum ueras, tum etiam falsas esse possibile est, ueras quidem si
quidtale praedicetur quod adesse subiecto possit, et a subiecto ualeat
separari, falsas esse utrasque, affirmationem quidem particularem, si in eo sit
uniuersalis falsa affirmatio quod subiecto non potest conuenire, negationem
particularem, si in eo uniuersalis negatio mentiatur quod a subiecto non potest
segregari, ut posita superius exempla declarant. Quod si ad ueritatis et
falsitatis consequentiam particulares propositiones locum principem sortiantur,
contraria eis uniuersalis propositionis ratione conueniunt. Nam si sint falsae,
particulares falsas esse necesse est; sin uero particulares uerae sint, tum uniuersales
uerae sunt, tum etiam falsae. Nam si particularis affirmatio est falsa, quae
dicit aliquem hominem esse lapidem, uniuersalis quoque affirmatio falsa est
quae proponit omnem hominen esse lapidem. Item si particularis est falsa negatio
quae decernit quemdam hominem non esse animal, falsa erit uniuersalis negatio
quae nullum hominem animal esse contendit. At si particularis affirmatio uel
negatio uerae sunt, idque praedicatur quod a subiecto diuidi ac segregari
queat, affirmationem negationemque uniuersales non est dubium posse mentiri, ut
quod iam uerae sint particulares quae proponunt quemdam hominem esse iustum, et
quemdam hominem non esse iustum, his suppositas uniuersales falsas esse
manifestum est, ut ea quae dicit: Omnis homo iustus est et: Nullus
homo iustus est. At si quid tale affirmatio particularis pronuntiet quo
subiectum carere non possit, uera erit superposita affirmatio uniuersalis, ut
cum aliquis enuntiat quemdam hominem esse animal, huic uniuersalis affirmatio
in ueritate consentit, quae est omnis homo animal est. At si quid particularis
negatio tale proponat, quod subiecto nequeat inhaerere, ueritatem particularis
negationis uniuersalis negatiuae ueritas necesso est consequatur, ut cum
aliquis dicit quemdam hominem lapidem non esse, consonat uniuersalis ueritas
propositionis quae nullum hominem lapidem esse pronuntiat: quo fit ut
praecedentibus quidem uniuersalibus ueris, particulares ueras esse necesse sit;
praecedentibus uero in falsitate particularibus, uniuersalium ueritas non
subsequatur; manentibus uero uniuersalibus falsis, particulares mendacium
dicere non sit necesse, sicut ne uera quidem particularibus proponentibus,
ueram uniuersalium necesse est esse sententiam. Et hoc quidem exempla docuerunt:
ut autem firma demonstratione clarescat, utilis ad euidentiam rerum descriptio
proponatur. Ex his ergo quae superius dicta sunt intelligi potest contrarias
quidem uel uerum inter se falsumque diuidere, uel simul posse mentiri, ueras
simul esse non posse; subcontrarias uero uel utrasque ueras esse, uel alteram
ueram, alteram falsam, nunquam tamen simul proferre mendacium; angulares autem
neque in ueritate unquam, neque in mendacio consonare sed uni semper ueram,
alteri semper falsam esse sententiam. Nunc demonstrandum est
uniuersalibus ueris particulares non posse mentiri, falsis autem uniuersalibus
posse particulares non falsa proferre. Dico enim si uniuersalis affirmatio sit
uera, particularem quoque affirmationem ueram futuram; nam si falsa est, erit
uera quae particulari affirmationi opponitur uniuersalis negatio sed posita est
uera affirmatio uniuersalis; hoc igitur modo utrasque simul ueras esse
contingit, affirmationem scilicet uniuersalem uniuersalemque negationem, quod
euenire non posse monstratum est; non igitur fieri potest ut affirmatiua
uniuersali uera proposita, particularis affirmatio mentiatur. Rursus si
uera est uniuersalis negatio, particularem quoque negationem ueram esse
concedo, nam si falsam quis dixerit uniuersalem affirmationem, quae est ei
opposita ueram necessario esse fatebitur. At si uniuersalis negatio uera esse
proposita est, simul igitur uniuersales negationem et affirmationem ueras esse
contingit; quod fieri non posse superius posita exempla docuerunt. At si
falsa est uniuersalis affirmatio, particularis uel falsum poterit enuntiare uel
uerum: quo posito nihil impossibile comitatur, siue enim falsa sit, erit uera
negatio uniuersalis, seu uera illa sit, uniuersalem negationem falsitas
obtinebit. Quod fit ut falsa uniuersali affimatione, uniuersalis negatio, tum
si falsitate consonet, tum ab ea ueritate discordet, quod non esse impossibile
superioribus docetur exemplis. Eodem quoquo modo et si uniuersalis
negatio falsa sit, particularem negationem, uel ueram uel falsam esse possibile
est, neque idcirco aliquid sequitur incongruum. Particulari namque negatione
uera, uniuersalis affirmatio mentietur; eadem falsa, uerum uniuersalis
affirmatio pronuntiat: quo fit ut falsa uniuersali negatione proposita,
affirmationem uniuersalem tum ueram, tum falsam rationis demonstret euentus,
quod impossibile non est. Rursus si particulares false sunt, uniuersalis
quoque falsitas sequitur. Nam si particularis affirmatiua pronuntiet mendacium,
uniuersali quoque affirmationi falsitas inhaerebit, nam si haec uera est, falsa
erit ei apposita negatio particularis; sed affirmationem particularem
constituimus esse mendacem, simul igitur particularis affirmatio et negatio
falsa sunt, quod esse inconueniens praecedens tractatus declarauit. Item,
si particularis negatio falsa dicatur, uniuersalis quoque negationis falsitas
consonabit: nam si negatio uniuersalis uera est, falsa est opposita, quae est
affirmatio particularis, quomodo utrasque particulares, affirmationem scilicet
ac negationem, simul falsas esse contingit, quod fieri non posse
praediximus. At si uera sit affirmatio particularis, falsa uel uera
uniuersalis affirmatio esse potest: sed si falsa sit particularis, negationem
ueram esse necesse est; si uera sit, habebit particularis negatiua mendacium.
Sed cum uera sit affirmatio particularis, negationem particularem uel falsam
esse uel ueram nihil est impossibile. Rursus si negatio particularis
teneat ueritatem, uniuersalis negatio uel ueritatem tenere potest uel proferre
mendacium. Nam si uera est, oppositam affirmationem particularem falsam esse
manifestum est; si falsa est, ueritatem particularis affirmatiua custodiet: quo
fit ut si particularis negatio teneat ueritatem, affirmatio particularis uera
uel falsa sit, quorum neutrum impossibile. non esse praemissa docuerunt.
Atque haec quidem de uniuersalibus dicta sufficiant. Nunc de infinitis ac
singularibus disseramus, quarum quidem indefinitae sunt, quibus nulla
significatio determinationis adiungitur sed praeter uniuersalis et particularis
intelligentiam quantitatis proferuntur, ut: Homo iustus est. Homo iustus
non est quibus tametsi ut, dictum est, nulla significatio determinationis
adiungitur, uim tamen obtinent particularium propositionum. Namque ut illae
quas subcontrarias in priore descriptione signauimus, alias quidem inter se
uerum falsumque distribaunt, alias quidem inuicem ueritate conspirant, nunquam
tamen simul uidentur posse mentiri, ita etiam indefinitae, siquidem tale est
quod enuntiat quod subiecto semper inesse necesse sit, affirmatio est uera,
falsa negatio, ut in his propositionibus: Homo animal est. Homo animal non
est. At si id in indefinitis propositionibus efferatur quod subiecti
natura non suscipit, negatio quidem uera est sed affimatio iuncta est falsitati,
ut si quis dicat: Homo lapis est. Homo lapis non est ut uero
utraeque in pronuntianda falsitate consentiant, non potest inueniri. Eadem
tamen ab uniuersalibus affirmatiuis atque negatiuis, ita dissentiunt, ut quoquo
modo subiecta permutes, una semper ueritatis, altera sit semper plena mendacii.
Exemplum uero huiusmodi praedicati, quod subiecto semper inhaereat, hoc
est: Omnis homo animal est. Homo animal non est. Nullus homo animal est. Homo
animal est. Hic indefinitae ui eadem funguntur qua et particularis, huius
uero quod nunquam inhaeret, hoc est: Omnis homo lapis est. Homo lapis non
est. Nullus homo lapis estt. Homo lapis est in his quoque
indefinita, uniuersalibus oppositae per unamquamque oppositionem unam ueram,
falsam alteram reddiderunt, item quod suscipere subiecti naturam ualeat et
possit amittere. Omnis homo iustus est. Homo iustus non est. Nullus homo
iustus est. Homo iustus est in his etiam indefinitae particularibus
immutatae sunt, quae uniuersalibus obiecta per unamquamque propositionum
aduersitatem, uni semper uerum, alteri diuisere mendacium. Praeterea quoque
modo terminorum exempla ponantur, si affirmationes affirmationibus, negationes
negationibus comparemus, uniuersalibus ueris indefinitarum ueritas prouenit, ut
cum uerae sunt, omnem hominem esse animal, et nullum hominem esse lapidem,
constat ueritas indefinitis quae proponunt, et hominem animal esse, et hominem
lapidem non esse. At si uniuersalium falsitas antecedat, indefinitarum uel
ueritas, uel mendacium uariabit, hoc modo. Falsa enim est uniuersalis
enuntiatio quae proponit omnem hominem esse iustum; sed ea quae dicit hominem
esse iustum, tenet in humanae naturae parte ueritatem. Nam si non habet omnis
homo iustitiam, cum tamen aliquis habeat, uere dici potest hominem esse
iustum. Item, cum proponitur uniuersaliter: Nullus homo iustus est
falsum est, at si id indefinitae denegetur, a ueritate non discrepat. Nam cum
sit aliquis homo non iustus, non mentietur qui pronuntiauerit hominem esse non
iustum. Item cum sit falsa quae uniuersaliter affirmat dicens omnem hominem
esse lapidem, falsa est quae idem indefinita enuntiatione confirmat dicens
hominem esse lapidem. Rursus cum sit falsa negatio per quam proponitur
nullum hominem esse animal, falsa est indefinita negatio quae pronuntiat
hominem non esse animal. Hic quoque particularium similitudo seruata est. Nam
in subalternis uera uniuersalitas ueritatem particularitatis trahebat. Falsa
uero uniuersalitas nec ueritatis, nec mendacii necessitatem particularibus
afferebat. Eadem omnia uniuersalium atque indefinitarum collatione
proueniunt. Rursus indefinitas primum falsas constet, uniuersales quoque
necesse est esse mendaces, ut si falsum sit esse hominem iustum, falsum erit
omnem hominem esse iustum, quandoquidem non capit ueritatem, si iustus uel unus
homo non fuerit. Item, si indefinita negatio mentiatur, uerum uniuersalis
negatio non habebit, ueluti si falsa sit ea qeae dicit hominem non esse iustum,
quandoquidem non potest uniuersaliter ab homine denegari, si uel uni hominum
probabitur adesse iustitia. At si indefinitae sententiam ueritatis obtineant,
uniuersales tum ueras, tum eueniet esse mendaces: uelut cum dicimus hominem
esse iustum uerum est, est enim homo qui iustitia non careat. Huius uniuersalis
negatio mentietur, cum quis dixerit nullum hominem esse iustum. At si id
affirmabitur indefinite quod a subiecto diuelli secernique non possit, uera
nihilominus erit affirmatiua que proponit omnem hominem esse animal. At si id
quod subiecti naturam non recipit proponit indefinita negatio, ueluti si dicat
hominem lapidem non esso nihil ab eius ueritate uniuersalis negatiua dissentiet
ut ea quae nullum animal esse proponit. Nihil igitur dubium est indefinitas
particularibus esse consimiles, eamdemque uim ueritatis ac falsatis
significationibus obtinere: de quibus sufficienter dictum est. Nunc de
singularibus explicemus, quae nihil superioribus similes exstant. Illae
namque quoniam constituebant uniuersale subiectum, de quo praedicatum terminum
dicerent, idcirco suscipiebant etiam differentias quantitatis. Nam quod
uniuersale est et uniuersaliter et particulariter et indefinite poterit
pronuntiari. At hae quae unum aliquid ponunt, singuiariter atque indiuidue
differentias quantitatis habere non possunt, atque ideo sola in eis relinquitur
discrepantia qualitatis, quod haec quidem affirmatio, illa uero negatio. Semper
igitur inter se affirmatio et negatio singularis uerum falsumque distribuent,
si non caetera impediant quae sensum in alias atque in alias significationes
solent deflectere ac detorquere. Cum uero unum atque idem praedicatum
atque subiectum in affirmatione et negatione constiterit, uno eodemque sumptum
tempore, uno eodemque prolatum modo, ad unum atque idem relatum, de una atque
eadem parte propositum, necesse est ex his unam semper esse ueram, alteram
semper esse falsam. Nam siue aequiuocos terminos sumant siue non ad idem tempus
procedant, siue alius utrisque insit modus, siue ad alias partes uel ad aliquid
aliud referantur, ueras utrasque esse contingit. Age enim aequiuocum terminum
sumat affirmatio, dicatque: Cato Uticae se peremit negetque
negatio: Cato se Uticae non peremit. Hic igitur utraeque sunt uerae,
quoniam Cato aequiuocum est. Namque Cato praetorius Uticae sibi manus intulit,
Cato uero censorius minime. Item proponatur affirmatiua hoc modo: Nocte lucet
negatio respondeat: Nocte non lucet. Hic igitur lucere aequiuocum est.
Atque ideo nihil impedit quominus utraeque in ueritate permaneant. Affirmatio
namque cum dicit lucere nocte, lunae loquitur locem. Illa uero cum negat, de
solis luce significat. Hic igitur aequiuocum praedicatum utrasque uerum
conseruare permisit. Item si quis de Socrate proponat dicens: Socrates
sedet atque alius neget: Socrates non sedet utraeque uerae
esse queunt, si ad diuersa tempora referantur. Potest enim nunc quidem Socrates
sedere, alio uero tempore non sedere. Rursus si quis humani oculi colorem
nigrum esse confirmet, aliusque nigrum non esse contendat, utrique uerum
loquentur, si ad singulas oculi partes affirmatio negatioque referantur. Nam
quod circa orbem est qui medius pupulam tenet, album est. Ipse uero orbis niger
uisitur. Rursus si de Socrate inter duos locato quis dixerit: Socrates
dexter est aliusque respondeat: Socrates dexter non est
utrisque constare ueritas potest. Ad eum qui cum sinistra Socratis est, dexter
est. Ad eum uero cuius laeuo lateris pars Socratis dextra coniungitur, dexter
non est. Item, si quis ouum animal esse constituat, aliusque ouum animal
esse neget, utraeque a ueritate non dissonant: namque ouum potestate animal
est, actu animal non est. Ita igitur inter se singulariam subiectorum
propositiones uerum faleumque distribuent, ut unam ueritatem necesse sit
habere, alteram mendacium, si neque quod subiectum est, neque quod predicatum,
aliqua sit aequiuocatione confusum ad idem tempus, ad easdem partes, ad eumdem
modum, eademque rem ad quam affirmatio retulit ea quae proponuntur in negatione
afferatur, ut si quis de Socrate pronuntiet: Socrates caluus est Socrates
caluus non est si igitur de Socrate eodem affirmatio negatioque
proponant, si eamdem caluitii significationem affirmatio sumpserit et negatio,
si eamdem utraeque capitis partem loquantur, si uel actum utraeque potestatemue
significant, si nulla diuersitate temporis erretur, si non ad alium affirmatio,
ad alium negatio referatur, una semper ueritati coniuncta est, retinet semper
altera falsitatem. Quoniam de ea conuenientia propositionum quae utrisque
simplicibus terminis eodemque ordine captaretur explicui, nunc de ea partici
patione dicendum est quae et utrosque terminos et eumdem ordinem seruat; hoc
autem (ut dictum est) tribus contingere modis potest -- aut enim predicatus
tantum, aut subiectus terminus, aut uterque cum negatione proponitur. At tum
enuntiatio uel ab infinito subiecto, uel ab infinito praedicato, uel ab
infinitis utrisque consistit. Quoties enim nomini negatio subiungitur, nomen
redditur infinitum. Atque ideo per oppositionem participatio fieri
dicitur. Nomini enim simplici semper infinitum nomen opponitur, ut
"homo" "non homo", "animal" "non
animal", et caetera: quae cum ita sint, disponantur simplices, atque ex
earum natura caeteras colligamus. Primo igitur propositionum series
describatur, ea scilicet quae utrisque iungitur finitis, propositisque
simplicibus ita ex infinitis omnibus copulatarum propositionum ordo iungatur,
ut affirmationes affirmationibus, negationes negationibus, aduersis frontibus
collocentur. Omnis homo rationalis est. Omnis non homo non rationalis
est. Nullus homo rationalis est. Nullus non homo non rationalis est. Quidam
homo rationalis est. Quidam non homo non rationalis est. Quidam homo
rationalis non est. Quidam non homo non rationalis non est.
Omnis homo grammaticus est. Omnis non homo non grammaticus est. Nullus
homo grammaticus est. Nullus non homo non grammaticus est. Quidam homo
grammaticus est. Quidam non homo non grammaticus est. Quidam homo grammaticus
non est. Quidam non homo non grammaticus non est. Omnis homo lapis
est. Omnis non homo non lapis est Nullus homo lapis est. Nullus non
homo non lapis est. Quidam homo lapis est. Quidam non homo non lapis est.
Quidam homo lapis non est. Quidam non homo non lapis non est. Omnis homo
iustus est. Omnis non homo non iustus est. Nullus homo iustus est. Nullus
non homo non iustus est. Quidam homo iustus est. Quidam non homo non
iustus est. Quidam homo iustus non est. Quidam non homo non iustus non
est. Omnis homo risibilis est. Omnis non homo non risibilis est. Nullus
homo risibilis est. Nullus non homo non risibilis est. Quidam homo risibilis
est. Quidam non homo non risibilis est. Quidam homo risibilis non est. Quidam
non homo non risibilis non est. Harum igitur talis est consocianda
falsitate uel ueritate proprietas, ut affirmationes quidem inter se uniuersales
particularesque negationes uel in ueritate uel in mendacio consentire queant,
uel uerum inter se falsumque diuidere. Si quid enim de subiecto tale
praedicetur quod uel de subiecto nequeat segregari, ut ab homine
rationabilitas, uel a subiecto quidem recedere queat sed subiecti naturam non
possit aequare, ut hominis grammaticus, unam ueram, alteram falsam esse proueniet.
Nam qui dicit: Omnis homo rationalis est uerum loquitur, et qui
dixerit: Omnis non homo non rationalis est mentietur. Diuinae namque
substantiae rationis quidem compotes sunt sed homines non sunt. Item si
quis pronuntiet, omnis homo grammaticus, est falsum dixerit. At qui
proponit: Omnis non homo non grammaticus est uerum dixerit. Nam qui
homo non est, grammaticus esse non potest. At si id de subiecto praedicetur quod
uel nunquam subiecto ualeat conuenire, ut lapis homini, uel conueniens ab eo
possit abscedere, cum sit maius atque uniuersalius subiecto, ut iustitia
homini, simul utrisque falsitas prouenit. Nam si quis dicit: Omnis homo
lapis est falsam fecerit propositionem. Eodem quoque modo qui dixerit,
omnis non homo non lapis est, cum silex homo non sit sed lapis. Item
propositio: Omnis homo iustus est falsa est, cuius sequitur
falsitatem: Omnis non homo non iustus est. Nam diuinis substantiis adest
semper iustitia, cum non sit humanitas. At si quid tale de subiecto
praedicetur quod et semper ei copuletur, neque tamen subiectum possit excedere,
ut risibile homini, utrinque sententia in significandi ueritate
concurrit: Omnis homo risibilis est uera est: Omnis non homo
non risibilis est haec retinet ueritatem. Nam quia risibile hominis
proprium est, recte dicitur non esse risibile quidquid homo non fuerit. Eadem
omnia in particulari negatione redduntur. Nam siue quae sunt maiora subiecto
atque ab eo discedere nequeunt, at rationabilitas ab homine, uel quae discedunt
quidem sed sunt maiora subiecto, ut grammaticus homine, de subiecto
praedicentur, unam ueram, alteram falsam faciunt. Nam qui dicit: Quidam homo
rationalis non est falsum proposuit; qui uero respondet: Quidam non
homo non rationalis non est uerum loquitur. Diuina quippe
substantia non est quidam homo sed carere non potest humanae ratione naturae.
Item: Quidam homo grammaticus non est uera est sed falsa est si
dicam: Quidam non homo non grammaticus non est. Cum illud sit uerius,
quoniam qui homo non fuerit, non potest esse grammaticus. At si quae uel
nunquam de subiecto possunt uere praedicari, ut lapis de homine, uel
praedicantur quidem et sunt maiora subiecto sed ab eo discedere separarique
patiuntur, ut iustitia ab homine, ueras protinus utrasque conseruant. Nam qui
dicit: Quidam homo lapis non est uerum dixerit. At si quis
respondeat: Quidam non homo non lapis non est is quoque uerum
dixerit: si quidem de silice uel de huiusmodi caeteris uelit intelligi, quae
cum non sint homines, non lapides non sunt. Item: Quidam homo iustus
non est propositio ueritatem tenet. Sed ne illa quidem falsa est quae
proponit: Quemdam non hominem non iustum non esse hoc enim, ut
dictum est, diuinis substantiis inuenitur, ut iustitiam teneant, quamuis ab
hominis definitione seiunctae sunt. Item, si id quod abesse non potest,
et sit aequale subiecto, de eodem subiecto praedicetur, ut risibile homini,
incurrit utrisque mendacium. Nam: Quidem homo risibilis non est
falsa est, cuius falsitati sese aemulam praestat quae proponit: Quidam non
homo non risibile non est quasi qui homo non sit possit esse risibilis.
Ita igitur quidem in affirmationibus uniuersalibus et particularibus negatiuis
ueritas falsitasque et simul aliquoties inuenitur, et inter utrasque diuiditur.
Negationes uero uniuersales et particulares affirmationes non simili respondent
modo. Sed negationes quidem uniuersales, unam uerum dicere, alteram falsam,
simul utrasque falsas esse possibile est. Simul autem ueras nunquam esse
contingit. Nam si id quod adesse subiecto non potest, praedicetur, ut lapis
homini, unam ueram faciunt, alteram falsam, ut est: Nullus homo lapis est
uera est; falsa est quae proponit: Nullus non homo non lapis est
omnia quippe animalia praeter hominem ita non sunt lapides, sicut ab hominum
natura seiuncta sunt. Quidquid uero aliud de subiecto praedicetur, neutri
constare ueritas potest, ut si quis proponat: Nullus homo rationalis
est falsum dixerit; aliusque respondeat: Nullus non homo non
rationalis est hanc quoque conuincit ratio mentiri, equus quippe non homo
est, nec eum quis dixerit rationis esse participem; ut autem simul uerae sint,
nullus poterit terminus approbare. Particulares autem affirmatiuae in differentiam
ueritatis falsitatisque discedunt, quoties aliquid tale de subiecto dicitur,
quod nunquam possit adesse subiecto, ut lapis: nam si quis enuntiet: Quidam
homo lapis est falsa propositio est; at si quis respondeat: Quidam
non homo non lapis est tenet contrariam ueritatem, equus quippe non homo
est, nec lapis esse dicetur. Quidquid uero aliud de subiecto praedicabitur, est
eas in ueritatis significationem conuenire, ut: Quidam homo rationalis
est uera est, Quidam non homo non rationalis est huic quoque
ueritas constat, equus quippe non homo est, nec ratione subsistit; ut uero
simul falsae sint, nullis reperietur exemplis. Ad hunc igitur modum ei de
caeteris quae uel subiectum uel praedicatum retinent infinitum, ad ueritatis
falsitatisque consensum enuntiationum proprietas consideranda est, de quibus
modo breuiter quid eueniat tetigisse sufficiat, singula uero lectoris
exploranda diligentiae, et per conuenientes terminos rimanda permittimus.
Disponantur igitur propositiones quae ex utrisque simplicibus terminis
constant, easque quarum subiectum tantum abnuatur ex aduerse parte
respiciant. SIMPLICES EX SUBIECTIS FINITIS Omnis homo
rationalis est. Omnis non homo rationalis est. Nullus homo rationalis
est. Nullus non homo rationalis est. Quidam homo rationalis est. Quidam
non homo rationalis est. Quidam homo rationalis non est. Quidam non homo
rationalis non est. Omnis homo risibilis est. Omnis non homo
risibilis est. Nullus homo risibilis est. Nullus non homo risibilis est.
Quidam homo risibilis est.Quidam non homo risibilis est. Quidam homo risibilis
non est. Quidam non homo risibilis non est. Omnis homo iustus
est. Omnis non homo iustus est. Nullus homo iustus est. Nullus non
homo iustus est. Quidam homo iustus est. Quidam non homo iustus est. Quidam
homo iustus non est. Quidam non homo iustus non est. Omnis homo
grammaticus est. Omnis non homo grammaticus est. Nullus homo grammaticus
est. Nullus non homo grammaticus est. Quidam homo grammaticus est. Quidam
non homo grammaticus est. Quidam homo grammaticus non est. Quidam non
homo grammaticus non est. Omnis homo lapis est. Omnis non homo
lapis est Nullus homo lapis est. Nullus non homo lapis est. Quidam homo
lapis est. Quidam non homo lapis est. Quidam homo lapis non est. Quidam
non homo lapis non est. In harum igitur affirmationibus quidem
uniuersalibus ueritas et falsitas distribuitur, si quis tale de subiecto
praedicetur quod abesse non possit, siue illud maius sit, ut animal homine,
siue aequale, ut risibile homini. In his enim unam ueram, alteram falsam esae
neoesse est, quidquid uero praeter ea fuerit praedicatum, unam semper ueritas,
alteram semper falsitas non sequetur: ut autem simul uerae sint nequit
ostendi. Particularium uero in affirmationibus quidem, siquidem ea
praedicentur quae ualeant transire subiectum, siue ab eo separari nequeunt, ut
animal ab homine, seu possint, ut iustitia ab homine, loquitur utraque uera
sententia. Quidquid uero praeter ea fuerit praedicatum, unam ueritas, alteram
falsitas tenet; falsae uero simul nequeunt inueniri. Negationes uero
particulares siquidem id praedicent quod a subiecto non possit abscedere, siue
illud maius sit, ut rationale homine, seu aequale, ul risibile homini, uni
constabit ueritas, aItera mentietur. Si quid uero praeter ei fuerit
praedicatum, ueras semper utrasque constat, ut ineas communis falsitasnunquam
possit incidere. Item disponantur in ordinem primum quidem simplices, has e
regione respiciant quae subiecto simplici denegantur praedicato. SIMPLICES EX
INFINITO PRAEDICATO Omnis homo lapis est. Omnis homo non lapis est
Nullus homo lapis est. Nullus homo non lapis est. Quidam homo lapis
est. Quidam homo non lapis est. Quidam homo lapis non est. Quidam
homo non lapis non est. Omnis homo animal est. Omnis homo non
animal est Nullus homo animal est. Nullus homo non animal est. Quidam homo
animal est. Quidam homo non animal est. Quidam homo animal non est. Quidam
homo non animal non est. Omnis homo risibilis est. Omnis non homo
non risibilis est. Nullus homo risibilis est. Nullus non homo non
risibilis est. Quidam homo risibilis est. Quidam non homo non risibilis
est. Quidam homo risibilis non est. Quidam non homo non risibilis non
est. Omnis homo iustus est. Omnis non homo non iustus est. Nullus
homo iustus est. Nullus non homo non iustus est. Quidam homo iustus
est. Quidam non homo non iustus est. Quidam homo iustus non est. Quidam
non homo non iustus non est. Omnis homo grammaticus est. Omnis non
homo non grammaticus est. Nullus homo grammaticus est. Nullus non homo non
grammaticus est. Quidam homo grammaticus est. Quidam non homo non
grammaticus est. Quidam homo grammaticus non est. Quidam non homo non
grammaticus non est. Harum igitur affirmationes uniuersales, siquidem
praedicent quod subiecto nequeat conuenire, ut lapis homini, uel a subiecto,
cum sit aequale uel sit maius, non possit abscedere, ut animal uel risibile ab
homine, unam semper necesse est ueritatem. alteram proferre mendacium:
quidquiduero praeterea fuerit praedicatum, utrisque falsitas inuenitur, ut ad
ueritatem conuenire non possint. Negationes uero uniuersales siquidem id de
subiecto praedicent quod subiecto adesse possit et abesse, ita ut excedat, ut
uirtus hominem, uel id quod adesse quidem queat sed non possit adaequare
subiectum, ut grammaticus hominem, utraeque in falsitate communicant. Quidquid
uero aliud fuerit praedicatum, unam ueritas, alteram falsitas consequetur; ut
autem simul uerae sint, nequit ostendi. Particularium uero affirmationes
quidem simul uerae sunt, si id quod uel adesse possit uel abesse praedicetur,
siue illud maius sit ut iustitia homine, seu minus ut grammaticus ab homine. Si
quid uero aliud fuerit praedioatum, ueritas in eas ac falsitas distribuitur,
ita ut nunquam communem consonent falsitatem. Particulares quoque negatiuae in
similibus terminis ueritate concordant. Nam si quod adesse uel abesse potest,
siue illud maius sit ut iustus ab homine, siue minus, ut grammaticus ab homine,
de subiecto praedicetur, ueritas utrisque constabit. In aliis uero cunctis
praedicationibus uni ueritas, alteri falsitas cedit. Nunquam tamen utraeque in
prodenda falsitate consentient. Praeter hanc autem inter se conuenientiam
propositionum, habent aliquid hae proprium quae praedicatum adiecia negatione
pronuntiant, quod caeteris inesse non possit.Affirmationes namque negationibus,
negationesque affirmationibus, quarum uniuersalis est propositio, itemque
particulares affirmationes negationibus, negationes affirmationibus ita
conueniunt, ut nunquam neque in falsitate, neque in ueritate discordent.
Conuenientium autem ordinem seriemque describimus quas si quis in superius
posita respexerit; uidebit angulariter conuersas. Omnis homo rationalis
est. Nullus homo non rationalis est. Omnis homo non rationalis est. Nullus homo
rationalis est Quidam homo non rationalis est. Quidam homo rationalis non est.
Quidam homo rationalis est. Quidam homo non rationalis non est. Quod idcirco in
his tantum uidetur euenire, quod de eodem subiecto uterque intelligitur ordo
oppositionis. Nam quae dicit: Omnis homo rationalis est de homine
rationale praedicauit; item quae proponit: Omnis homo non rationalis
est de eodem homine rationale seiunxit, ut merito simplices affirmationes
negationi consentiant. At non in aliis intelligitur idem esse subiectum. Nam et
illa quae proponit omnem non hominem esse rationalem, et illa quae enuntiat
omnem non hominem esse non risibilem, de homine non loquantur sed quolibet alio
quod hominis negatione relinquitur. Atque ideo uelut extraneae atque a semet
alienae, nec in ueritate possidet aliquam nec in falsitate concordiam.
Indefinitas autem propositiones, quoniam particularibus similes esse
monstrauimus, adiungendas superioribus non putaui. Id enim indefinitis necesse
est euenire, quod particularibus solet incurrere. Expeditis igitur his
propositionibus quae ex utrisque communicant terminia atque eodem ordine
collocatis, nunc eam propositionum conuenientiam uel participationem loquimur,
quae in utrisque quidem terminis conuenientia sed ordinis commutatione
consistunt, cuius disceptationis hic finis est, de propositionum conuersione
docuisse, quid enim est aliud propositiones mutato ordine conuenire utrisque
terminis, nisi propositiones conuerti? Conuerti autem uel sibi uel aliis propositiones
dicuntur, quoties, mutato ordine terminorum, id est quod subiectum fuerat
praedicato et quod praedicabatur ante subiecto, ueritatem simul obtinent uel
falsitatem. De quibus plenissime hic disputandi sumemus exordium. Quatuor
propositiones esse praediximus, quae habeant differentias quantitatum et
utrisque terminis absque ordinis permutatione participant. Hae uero sunt
affirmatio uniuersalis, negatio uniuersalis, affirmatio particularis, negatio
particularis. Harum igitur particularis affirmatio particulariter quidem
sibi ipsa conuertitur, uniuersali autem affirmationi per accidens, et rursus
uniuersalis negatio, loco principe sui recipit conuersionem, ad particularem
uero negationem per accidens conuerti potest. Affirmationis uero
uniuersalis ad se ipsam perpetua non potest esse conuersio, ad particularem
uero affirmationem per accidens potest. Nec uero negationis particularis ad se
ipsam principaliter stabilis ac firma conuersio est sed negationi uniuersali
secundo loco atque accidentaliter. Quae omnia facilius declarantur
exemplis. Affirmatio enim particularis, ut ea quae proponit: Quidam
homo albus est facile sibi ipsa conuertitur, si dicamus, quoddam album
homo est, atque in utrisque simul ueritas constat. At si quis proponat quendam
hominem esse lapidem, eamque conuertat dicens quemdam lapidem esse hominem,
mansit in utrisque mendacium. Hoc igitur modo affirmatio particularis sui
recipit conuersionem. Item negatio uniuersalis conuerti potest, ut si
quis enuntiet nullum hominem esse lapidem, eamdemque conuersis terminis dicat
nullum lapidem esse hominem, simul ueritatem tuentur. At si quis dicat nullum
hominem esse animal, atque eamdem sub terminorum conuersione proponat dicens
nullum animal esse hominem; neutra suam perdidit falsitatem. Hoc igitur modo
uniuersalis quoque negatio sibi ipsa conuertitur, uniuersalis uero affirmatio
non tenet perpetuam conuersionem: quamuis enim quoties de speciebus propria
praedicentur conuerti uniuersales affirmationes queant, ut si quis dicat: Omnis
homo risibilis est poterit terminorum ordinem permutare, omne risibile
esse hominem, tamen non est haec aequalis atque in omnibus terminis fida
conuersio. Quid enim cum quis ita proponit: Omnis homo animal est
nunquid conuertere uere potest, ut omne animal hominem esse pronuntiet? Quare
cum aliquoties uniuersalis affirmatio conuersa propriam non teneat ueritatem,
dicitur conuersionis naturam non posse suscipere. Negatio quoque
particularis interdum uidetur posse conuerti, ueluti si quis enuntiet quemdam
hominem lapidem non esse, uerum loquetur, cum dixerit quemdam lapidem hominem
non esse; sed est instabilis et incerta conuersio: nam cum quidam homo
grammaticus non sit, falsum est dicere quemdam grammaticum hominem non esse.
Ita igitur haec quoque conuersio protinus a sua ueritate deficit.
Superius igitur propositarum quatuor enuntiationem duae quidem oppositae, id
est particularis affirmatio et uniuersalis negatio, conuersionem sui firmam
perpetuamque suscipiunt; duae uero oppositae, id est affirmatio uniuersalis et
negatio particularis, conuersionis non tenent firmitatem sed quia uniuersalis
affirmatio, quae in sui conuersione uidetur instabilis, si uera est,
particularem quoque affirmationem ueram esse necesse est. Si autem particularis
affirmatio conuersa non amittit propriam ueritatem, uniuersalis quoque
affirmatio conuersa particulari affirmationi eamdem ueritatem sonabit, uelut
his exemplis probabitur. Si quis enim proponat omnem hominem esse animal, uerum
dixerit, huius subalterna particularis affirmatio quemdam hominem esse animal,
ea quoque uera est, quoniam uniuersalis affirmationis ueritas antecessit. Sed
eamdem conuerti sibi uerissime potest, dicitur enim quoddam animal esse
hominem. Quocirca affirmatio uniuersalis quae proponit omnem hominem esse
animal, et conuersa particularis affirmatio quae pronuntiat quoddam animal esse
hominem, utraeque simul a ueritatis significatione non deficiunt. Ita igitur
uniuersalis affirmatio, quae sui conuersionem perpetuam ferre non poterat, per
accidens particulari affirmationi conuersa est. Per accidens autem idem quoniam
particularis affirmatio principe sibi ipsa loco conuertitur, conuersae autem
particulari affirmationi uniuersalis affirmatio eamdem retinet in ueritate
sententiam. Eadem ideo est etiam uniuersalis negationis, quae quoniam ipsa
principaliter conuerti potest, conuersaeque negationi uniuersali illa quae
subalterna est eamdem. ueritatis refert sententiam. Particularis negatio
conuersa ad ueritatis signiticationem poterit conuenire, ut si quis nullum
hominem esse lapidem confiirmet, et huius conuersio est, nullum lapidem esse
bominem, quae cum uera praecedat, subalternae particularis negatiuae perficit
ueritatem: ea uero est, quidam lapis homo non est, quae comparata uniuersali
negationi quae dicit nullum hominem esse lapidem, quamuis terminis discrepans,
tamen similis ueritate proponitur. Igitur particularis negatio, quae sibi ipsi
conuerti non poterit, uniuersali negationi per accidens conuerti potest. Per
accidens autem idcirco quoniam uniuersalis negatio in se ipsam priore loco
conuerti potest. Per conuersionem autem sui cum particulari negatione similem
ueritatis uidetur obtinere sententiam. Itaque concludendum est particularem
quoque affirmationem uniuersalemque negationem conuersionem sui firmam ac
stabilem custodire. Affirmationem autem uniuersalem particularemque negationem
in conuertendo firmas esse non posse sed hanc affirmationi particulari, illam
uniuersali negationi per accidens, posse conuerti. Restat nunc de ea
propositionum conuenientia uel participatione disserere, in qua utrinque
terminorum ordine permutato, uni uel utrique eorum negatiuum copulatur
aduerbium. Sed quanquam huiusmodi participationis plures esse
differentias nouerimus, ad instructionem tamen Categoricorum Syllogismorum de
hac tantum proposuisse sufficiat, quarum quidem propositionum pars ex
simplicibus nominibus constat, pars uero ex infinitis. Nam propositio
uniuersalis, quae est: Omnis homo animal est ex utrisque nominibus
finitis constat. Namque et homo et animal finita nomina esse manifestum est. Ea
uero affirmatio quae proponit omne non animal non hominem esse infinitorum
terminorum positione coniuncta est. Non animal enim et non homo nomina esse
infinita, in nominis definitione praediximus, quae quidem sese ad ueritatis
falsitatisue rationem sic habent, ut enim negationibus adiunctis infinita
nomina simplicibus opponuntur, ita etiam conuersio propositionum econtrario
contingit quam paulo ante in simplicibus hababatur. Atque in his
enuntiationibus conuerti termini per appositionem dicuntur, unusque enim
terminorum negatione praeposita terminis simpliciter pronuntiatis uidetur
oppositus. Huius uero participationis est triplex modus: aut enim
praedicato tantum termino, negatio iungitur, aut subiecto, aut utrique termini
denegantur. Primum igitur supposita descriptione pandantur exempla. Post autem
quemadmodum se habent ad ueritatis falsitatisue consensum consequentis ordine
dispPombaur. Ac primum quidem de hac disserimus cuius subiectum
praedicatumque negatur. Post uero cuius subiectum solum, postremo cuius qui
praedicatur terminus cum negatione profertur. Atque earum quidem naturam atque
ordinem ex simplicibus informabimus. Simplices autem, in quantitatum differentiis
constitutas, quatuor esse monstrauimus. Sit igitur prima quidem affirmatio
uniuersalis, quae proponat omnem hominem esse animal; aduersum hanc collocetur
affirmatio uniuersalis, quae non solum conuersis terminis enuntietur uerum in
uno quoque termino negatiuum aduerbium habeat adiunctum hoc modo: Omne non
animal non homo est. Rursus proponatur uniuersalis negatio, ea quae
est: Nullus homo animal est huic aduersam teneat locum uniuersalis
negatio terminis cum negatione conuersis, id: Nullum non animal non homo
est. Item sit particularis affirmatio simplex: Quidam homo animal
est huic terminus atque ex aduerso referatur particularis affirmatio,
quae, commutatis in ordinem terminis, negationes utrisque gestet oppositas, ut
est: Quoddam non animal non homo est. Item sit particularis simplex
negatio quae proponat quemdam hominem animal non esse; hanc ex aduerso
respiciat particularis negatio, quae, permutatis ad ordinem terminis, aduerbium
negationis adiecerit, ut est: Quoddam non animal non homo non est.
SIMPLICES CONVERSAE UTRISQUE INFINITIS Omnis homo animal est. Omne
non animal non homo est Nullus homo animal est. Nullum non animal non homo
est. Quidam homo animal est. Quoddam non animal non homo est. Quidam homo
animal non est. Quoddam animal non homo non est. In illis enim
affirmatio uniuersalis particularisque negatio conuersionem stabilem non
tenebant. Affirmatio autem particularis atque uniuersalis negatio conuersae
certissime tuebantur uel in ueritate, uel in falsitate consensum. Hic omne
diuersum est. Uniuersalis namque affirmatio et particularis negatio per
oppositionem sibi ipsa conuertitur, uniuersalis autem negationis et
particularis affirmationis non est ad ueritatis falsitatisue consensum fide
conuersio. Ac primum de uniuersali affirmatio tractemus, quae cum in
simplicibus uera sit, ueritatem quoque per oppositionem conuerse custodit, ut
ea qua dicit omnem hominem esse animal, uera est, atque illi per oppositionem
conuertitur, id est: Omne non animal non homo est eam quoque ueram
esse necesse est. Propositionis autem huius ista sententia est, quoniam non est
homo, quidquid animal non est, quod uerum esse nullus ignorat. Item si sit
falsa uniuersalis affirmatio in simplicibus terminis constituta, falsa quoque
eius per oppositionem probabitur esse conuersio: nam cum dicimus: Omnis
lapis animal est falsa est, atque illi per oppositionem conuertitur, id
est: Ommne non animal non lapis est eam quoque fals&m esse
necesse est. Id enim ex tali enuntiatione sentitur, quoniam quidquid animal non
fuerit, id lapis non est, quod apertissime falsum est, cum lapis ipse animal
non sit: quod si uniuersalis affirmatio terminorum oppositionem conuersa
sibimet in ueritate conuenit et in falsitate, non est dubium quin uniuersalis
simplex affirmatio stabili per oppositionem conuersione monstretur. Idem
de simplici etiam particulari negatione dicemus. Nam cum haec falsa est, ut ea
quae dicit: Quidam homo animal non est illa quoque falsitatem
tenebit, quae huic terminorum oppositione conuertitur, ut ea quae
proponit: Quoddam non animal non homo non est. Id enim ex bac
enuntiatione colligitur, quod res quae non sit animal, sit homo. Etenim hoc
esse hominem, quod non esse non hominem. At si uera sit negatio particularis ex
simplicibus terminis iuncta, ut est: Quidam lapis animal non est non
deerit ueritas cum terminorum oppositione conuersae quae proponit quoddam non
animal non lapidem non esse. Id enim conuersio ita significat, quod res quaedam
quae animal non sit lapis sit, hoc est enim esse lapidem quod non esse non
lapidem; quod si particularis simplex negatio per oppositiones propriae conuersioni
et in ueritatis et in falsitatis significatione concordat, non est dubium
particularem simplicem negationem certo sibi ac stabili modo per oppositionem
terminorum posse conuerti. In negatione uero uniuersali non est perpetua
neque fida conuersio. Quod quidem fallere poterit, si quis ad solam respiciat
conuenienliam falsitatis. Nam cum sit falsa simplex uniuersalis negatio quae
proponit nullum hominem esse animal, falsa est quae ei per oppositionem
conuertitur, ut est: Nullum non animal non homo est. Id enim ex haec
propositione monstratur, quoniam omne quod animal non est, id homo est, hominem
esse significat, quidquid animal non sit, quae proponit, nullum esse non
hominem, qui animal non sit. Sed hic in falsitate consensus ad ueritatem usque
non peruenit. Age enim sit uera simplex uniuersalis negatio: Nullus homo
lapis est non uera potest esse: Nullus non lapis non homo est.
Id namque designat ista conuersio, quoniam quidquid lapis non fuerit, id homo
est; hominem namque esse designat quod lapis non sit, qui pronuntiat nullum
esse non hominem quod lapis non est, quod apertissime falsum est; quamuis enim
multa proferam quaecum lapides non sint, tamen ab hominum natura seiuncta sunt,
ut equus, arbor atque alia plurima. Si igitur negatio uniuersalis per
oppositionem propriae conuersioni in falsitate quidem conuenit, nec tamen in
ueritate consentit, recte pronuntiatur conuersionem perpetuam atque aequabilem
non habere. Eadem quoque ratio est in affirmatione simplici particulari.
Nam in hoc quoque saepe error deprehenditur, ut certae propositionum
conuersiones putentur, si quis non ad falsitatis quoque sed ad solam
conuenientiam ueritatis aspiciat. Nam cum affirmatio simplex particularis uera
sit, ut est: Quidam homo animal est si huius termini cum oppositione
conuertantur, fiatque propositio: Quoddam non animal non homo est a
ueritate non discrepat. Quid enim aliud enuntiatio ista designet quam esse rem
aliquam quae cum animal non sit, ne homo quidem sit, ut lapis simul et animalis
et hominis natura deficiat. Sed hic in ueritate consensus ad falsitatem usque
non tendit. Quid enim si sit falsa simplex affirmatio particularis, ut
est: Quidam homo lapis est non erit eius per oppositionem falsa
conuersio: Quidam non lapis non homo est? Atqui haec firma ueritate
consistit, id enim ex hac propositione datur intelligi quod sit quidam quod cum
lapis non sit, ne homo quidem sit, ut equus atque arbor, quae neque hominis,
neque lapidis definitione clauduntur. Quod si particularis affirmatio, dum per
oppositionem conuertitur, in ueritate quidem tenet secum ipsam concordiam, in
falsitate autem sibimet ipsa dissentit, rectum est pronuntiare quod termini
negatione coniuncta conuersionem firmam stabilemque non teneant. Quare cum
in simplicibus, ac praeter oppositionem conuersionibus, uniuersalis quidem negatio
particulurisque affirmatio pernetua fidaque terminorum permutatione uertantur,
affirmamatio uero uniuersalis particularisque negatio minime, dum per
terminorum oppositionem simplex propositio sibi ipsa conuertitur, omnia, ut
dictum est, aduersa ratione contingunt, uniuersalia namque affirmatio et
particularis negatio firmam negatarum partium retinent conuersionem.
Uniuersalis autem negatio in falsitate quidem recte sibi ipsa conuertitur. In
ueritate autem sibi ipsa discordat. Particularis autem affirmatio in ueritate
quidem sibi conuenit sed in falsitate dissentit. Similis autem
contemplatio est in his quae, conuerso ordine terminorum, praedicato tantum uel
subiecto sibi copulant negationem: in quibus, ut in superioribus quoque
fecimus, propositionum tantum ordinem describemus, et quid eueniat sub
breuilate monstrabimus, perquirenda atque examinanda singula lectoris
diligentiae derelinquentes. Descriptis ergo simplicibus ex aduersa parte, quae,
conuerso ordine praedicatum cum negatione pronuntiant, conferantur. SIMPLICES CONVERSAE
DE PRAEDICATO INFINITO: Omnis homo animal est. Omne animal non homo est.
Nullus homo animal est. Nullum animal non homo est. Quidam homo animal
est. Quoddam animal non homo est. Quidam homo animal non est. Quoddam
animal non homo non est. Omnis homo iustus est. Omnis iustus non homo
est. Nullus homo iustus est. Nullus iustus non homo est. Quidam homo
iustus est. Quidam iustus non homo est. Quidam homo iustus non est. Quidam
iustus non homo non est. Omnis homo grammaticus est. Omnis grammaticus
non homo est. Nullus homo grammaticus est. Nullus grammaticus non homo
est. Quidam homo grammaticus est. Quidam grammaticus non homo est. Quidam
homo grammaticus non est. Quidam grammaticus non homo non est. Omnis
homo lapis est. Omnis lapis non homo est Nullus homo lapis est. Nullus
lapis non homo est. Quidam homo lapis est. Quidam lapis non homo est. Quidam
homo lapis non est. Quidam lapis non homo non est. Omnis homo
risibilis est. Omne risibile non homo est. Nullus homo risibilis est. Nullum
risibile non homo est. Quidam homo risibilis est. Quoddam risibile non
homo est. Quidam homo risibilis non est. Quoddam risibile non homo
non est. Harum igitur in affirmationibus quidem uniuersalibus si ea de
subiecto praedicentur quae et adesse et abesse contingent, siue illud subiecto
maius sit ut iustitia homine, siue minus ut grammaticus homine, uel si ea quae
omnino adesse non possum ut lapis homini, simul semper falsas esse necesse est.
Si quid uero praeter haec fuerit praedicatum, unam ueram, falsam alteram esse
proueniet, nunquam uero utrique ueritas consonabit. In negationibus uero
uniuersalibus siquidem ea de subiecto praedicentur quae a subiecto ualeant
segregari, siue illa maiora sint ut iustitia homine, siue minora ut eodem homine
grammaticus, utrisque aderit falsa sententia. Quidquid uero reliquorum
fuerit praedicatum uni uerum, alteri faciet adesse mendacium. Nunquam uero in
his concors ueritas inuenitur. In particularibus uero affirmationibus
siquidem ea praedicentur, quae [792A] cum separari possint, tum uel maiora sunt
ut iustus homine, uel minora ut grammaticus homine, communis affirmationes
ueritates obtinebit. Alia uero quaelibet praedicatio unam ueram, alteram semper
faciet esse mendacem sed nunquam communiter mentientur. In negationibus
uero particularibus hic modus est, ut siue ea quae adesse non rossunt, ut lapis
homini, siue quae possum ac poterunt segregari, cum tamen eorum aliud maius
sit, ut iustitia homine, aiitld minus, ut grammaticus homine, praedicentur,
ueritas utrisque constabit. Quidquid uero absque hic praedicabitur,
ueritatem uni, alteri diuides falsitatem, simul tamen falsas esse non euenit.
Item descriptio supponatur quae priore parte simplicibus collocatis, eas quae
conuerso ordine subiectum cum negatione proponunt contraria fronte
constituat. SIMPLICES CONVERSAE DE SUBIECTO INFINITO: Omnis homo
animal est. Omne non animal homo est. Nullus homo animal est. Nullum
non animal homo est. Quidam homo animal est. Quoddam non animal homo est.
Quidam homo animal non est. Quoddam non animal homo non est. Omnis
homo risibilis est. Omne non risibile homo est. Nullus homo risibilis
est. Nullum non risibile homo est. Quidam homo risibilis est. Quoddam
non risibile homo est. Quidam homo risibilis non est. Quoddam non risibile homo
non est. Omnis homo lapis est. Omnis non lapis homo est. Nullus homo
lapis est. Nullus non lapis homo est. Quidam homo lapis est. Quidam
non lapis homo est. Quidam homo lapis non est. Quidam non lapis homo non
est. Omnis homo iustus est. Omnis non iustus homo est. Nullus homo
iustus est. Nullus non iustus homo est. Quidam homo iustus est.
Quidam non iustus homo est. Quidam homo iustus non est. Quidam non iustus
homo non est. Omnis homo grammaticus est. Omnis non grammaticus homo
est. Nullus homo grammaticus est. Nullus non grammaticus homo est. Quidam
homo grammaticus est. Quidam non grammaticus homo est. Quidam homo
grammaticus non est. Quidam non grammaticus homo non est. Superius igitur
descriptarum enuntiationum affirmationes quidem uniuersales, siue de subiecto
praedicentur quae ab eo nunquam ualeant amoueri, siue illud maius sit, ut
animal homine, seu aequale ut risibile homini, seu tale quod subiecto nullo
modo possit obtingere ut lapis homini, uni ueritatem dispartient, alteri
falsitatem. At si quod absque his praedicabitur, utrasque falsitas obtinebit,
communi autem propositionum ueritati locus esse non poterit. At in
negationibus quidem uniuersalia et maiora praedicentur, seu ea quae relinquere
subiectum nequeant ut animal hominem, seu quae possint ut iustitia hominem,
utrisque falsitas inhaeredit. Aliae quaelibet praedicamenta unam ueram faciunt,
alteram falsam, ita ut communis utraeque ueritatis non possint esse participes.At
in particularibus affirmationibus quidem, siquidem maiora de subiecto
praedicentur, quae uel nunquam subiecti coniunctione diicedant ut animal
homine, uel etiam segregentur ut iustitia ab homine, respondebit utraque ueritatem;
caeterae uero praedicationes ueritatem propositionibus falsitatemue distribuunt
in commune participantibus falsitatem. Particulares uero negationes, siquidem
ea praedicent quae possint a subiecto separari, siue illud maius sit ut
iustitia homine, seu minus ut grammaticus homine, ueras utrasque esse recesse
est. Si quid uero extra praedicabitur, uni oportet uerum, alteri adesse
mendacium, ut simul falsae nequeant inueniri. Atque haec quidem de his
propositionibus quae cum determinatione proferuntur dicta sunt. Quae uero
indefinitae sunt, quoniam particularium proprietatibus adaequantur, eadem omnia
comparatae uniuersalibus obtinebunt quae in superiore descriptione
particularium propositionum ordo seruauit. Restarent subiectorum
singularium propositiones, de quibus, quoniam et longum est dicere, et nihil ad
operis propositi affert utilitatem, et sibi ipse exemplo earum quas superius
proposuimus easdem lector inueniet, praetereundum uidetur. Multa Graeci ueteres
posteris suis in consultissimis reliquere tractatibus, in quibus priusquam ad
res densa caligantes obscuritate uenirent, quasi quadam intelligentia
luctatione praeludunt: hinc per introductionem est facilior discibiliorque
doctrina, hinc per ea quae illi *prolegomena* uocant, nos praedicta uel
praedicenda possumus dicere, ad intelligentiam promptior uia munitur. Hanc
igitur prouidentiam non exosus, statui ego quoque in res obscurissimas aliquem
quodammodo pontem ponere, mediocriter quidque delibans ita ut si quid breuius
dictum sit, id nos dilatione ad intelligentiam porrigamus; si quid suo more
Aristoteles nominum uerborumque mutatione turbauit, nos intelligentiae
seruientes ad consuetum uocabulum reducamus; si quid uero ut ad doctos scribens
summa tantum tangens designatione monstrauit, nos id introductionis modo aliqua
in eas res tractatione disposita perquiramus. Sed si qui ad hoc opus
legendum accenserint, ab his petitum sit ne in his quae nunquam attigerint
statim audeant iudicare; neue si quid in puerilibus disciplinis acceperint, id
sacrosanctum iudicent, quandoquidem res teneris auribus accommodatas saepe
philosophiae seuerior tractatus eliminat. Si quid uero in his non uidebitur, ne
statim obstrepant sed, ratione consulta, quid ipsi opinentur, quidue, nos
ponimus, ueriore mentis acumine et subtiliore pertractata ratione diiudicent.
Et hi quidem sic. Nos enim, ut arbitror, suffecimus eos commentarios, de quibus
haec nos protulimus, degustent blando fortasse sapore subtilitatis eliciti,
quamuis infrenis et indomiti creatores sint, tamen ueterum uirorum
inexpugnabilibus auctoritatibus acquiescent; si quis uero Graecae orationis
expers est, in his, uel si qua aliorum sunt similia, desudabit. Itaque haec
huius prooemii lex erit, ut forum nostrum nemo non intellecturus, et ob id
culpaturus inspiciat. Sed ne prooemiis nihil afferentibus tempus teratur,
inchoandum nobis est illo prius depulso periculo, ne a quoquam sterilis
culpetur oratio. Non enim eloquentiae compositiones sed planitiem consectamur:
qua in re si hoc efficimus, quamlibet incompte loquentes, intentio quoque
nostra nobis perfecta est. Sed quoniam syllogismorum structura nobis est
hoc opere explicanda, syllogismis autem prior est propositio, de
propositionibus hoc libello tractatus habebitur. Et quoniam propositionis
partes sunt nomen et uerbum, pars autem ab eo cuius pars est prior est, de
nomine, et uerbo, quae prima sunt, disputatio prima ponatur. Nomen est uox
designatiua ad placitum sine tempore, cuius nulla pars extra designatiua
est. VOX autem dictum est, quia uox nominum genus est. Omnis autem
definitio a genere trahitur, ut si definias hominem, animal dicis, id est
genus; post uero rationale, id est differentia. DESIGNATIVA uero dicta
est, quia sunt uoces quaedam quae nihil significant, ut sunt syllabis. NOMEN
uero, designat id cuius est nomen. AD PLACITUM uero, quia nullum nomen
aliquid per se significat sed ad ponentis placitum. Illud enim unaquaeque res
dicitur quod ei placuit qui primus rei nomen illud impressit. Sunt enim uoces
naturaliter significantes, ut canum latratus iras canum significat, et alia
eius quaedam uox blandimenta; sed non sunt nomina non sunt ad placitum significantes
sed natura. SINE TEMPORE uero, quod uerba quidem uoces sunt designatiuae
et secundum placitum sed distant, quod nomina sine tempore sunt, uerba cum
tempore. CUIUS NULLA PARS EXTRA DESIGNATIVA EST: nomen ab oratione
disiungit, quod oratio et ipsa uox est, et desiguatiua, et secundum placitum,
aliquoties sine tempore est sed orationis partes significant, nominum uero
minime. In Ciceronis enim nomine nulla extra pars designatiua est, neque 'ci' neque
'ce' neque 'ro'. Neque si ex duobus integris nomina sint. Quod enim in uno
consignificat, id extra non significat. In nomine enim 'magister',
'magis' et 'ter' consignificauit, quia est magister. Sublatum uero 'ter'
et 'magis' non erit alicuius significatio, nisi tibi hoc alii nomen dare
placuerit. Omnia enim nomina non naturaliter sunt, sed ad placitum ponuntur.
Sed de hoc in commentario libri *Peri hermeneias* Aristotelis dictum est et
maior eius rei tractatus est, quam ut nunc queat expediri. Reuertamur
igitur ad nomen. Sed quoniam sunt quaedam uoces quae et designatiuae sunt, et
secundum placitum et sine tempore, quarum dubia sit natura, ut est 'non-homo',
hoc enim significat quiddam et secundum placitum, impositum est enim sed dubium
est cui subdi possit, nomini enim non potest, omne enim nomen significat
aliquid definitum, 'non-homo' autem quod definitum est perimit, oratio uero
dici non potest, omnis enim oratio ex nominibus et uerbis constat, 'non-homo'
autem, neque ex nominibus constat neque ex uerbis sed multo magis esse non
potest uerbum, omne enim uerbum cum tempore est, 'non-homo' uero sine tempore
est: quid sit ergo ita uidendum est: et quoniam 'non-homo' uox significat
quiddam, quid autem significet in homine ipso non continetur (potest enim
'non-homo' et equus esse et lapis et domus, et quidquid homo non fuerit,
quoniam ea qui re significare potest infinita sunt, infinitum nomen uocatur);
et quoniam sunt quaedam uoces et designatiuae et ad placitum, et definitae, et
quarum partes extra nihil significant, ut sunt casus nominum, ut 'Ciceronis' et
'Cicerone' et caetera, haec nomina non erunt. Omne enim nomen iunctum cum est
uerbo, aut uerum aut falsum demonstrat. Ut si dicas: Dies est hoc
uero aut uerum aut falsum est. Si uero casum iungas, neque uerum neque falsum
efficis. Si enim dicas: Diei est nihil quod sit aut non sit
demonstrasti. Itaque nihil ex hoc neque uerum neque falsum efficies. Et merito
dictum uidetur. Quod enim primo uocabulum nomina rebus imponentes dixerunt, id
solum numen uocabitur merito. Qui enim primus circo circum nomen imposuit, ita
dixisse uidetur: Dicutur hoc circus! Atque ideo primus hic casus
nominatiuus uocatur, quod nomen sit. Aliis uero nominibus non nominis caeteros
casus appellauere. Ergo a capite reuoluendum est, uocem dictum quod uox
nominum genus sit; designatiuam uero, quod sunt quaedam uoces quae nihil
designant, ut ad his uocibus separetur quae nihil significant; ad placitum, ut
ab his uocibus separetur quae naturaliter significant, ut sunt pecudum. Sine
tempore uero dictum est, ad diuisionem uerbi quod cum tempore est; cuius nullapars
extra significat, ut diuideretur ab oratione, cuius partes nomina sunt et
uerba, quae significant; finita uero, ut ab infinitis separetur; recta, ut a
casibus distingueretur. Et in uerbo eadem omnia fere conueniunt. Est
enim uerbum uox significatiua ad placitum cum tempore, cuius nulla pars
extra significatiua est. Et quia est quaedam uox significatiua et ad
placitum cum tempore, cuius pars nihil significat, ut 'non albet' (Albet enim,
quod cum non iunctum consignificat, solum non significat), et quia nihil
definitum monstrat (quod enim non albet, potest et rubere, potest et
nigrescere, potest et pallere, et quidquid non albet), ideo "infinitum
uerbum" uocatum est. 'Faciebat' autem et 'facturus', ut superius in
nomine, non uerba sed casus uerborum sunt. Repetendum est igitur ab
initio uerbum esse uocem dictum, a genere; significatiuam, ut a non
significatiuis uocibus diuidatur; ad placitum, ut ab illis quae natura sunt
significatiuae uocibus separetur: cum tempore, ut a nomine diuideretur;
praesens aliquid significare, ut a uerbi casibus disiungeretur; finita, ut ab
infinitis disterminaretur. Restat ergo nunc quid sit oratio dicere. Haec
enim ex nomine et uerbo componi uidetur: sed prius utrum nomen et uerbum solae
partes orationis sint consideremus, an etiam aliae sex, ut grammaticorum opinio
fert, an aliquae ex his in uerbi et nominis iura uertantur; quod nisi prius
constitutum sit, tota propositionum ac deinceps ea ipsa quae ex propositionibus
componitur syllogismorum ratio titubabit. Nam si ex quo sint genere termini
nesciatur, totum ignorabitur. Nomen et uerbum, duae solae partes sunt putandae,
caeterae enim non partes sed orationis supplementa sunt: ut enim quadrigarum
frena uel lora non partes sed quaedam quodammodo ligaturae sunt et, ut dictum
est, supplementa non etiam partes, sic coniunctiones et praepositiones et alia
huiusmodi non partes orationis sunt sed quaedam colligamenta. Participium uero
quod uocatur, uerbi loco ponetur, quoniam temporis demonstratiuum est.
Aduerbium uero nomen est, cuiusdam enim definitae significationis est sine
tempore, quod si per casus non flectitur, nihil impedit. Non enim est proprium
nominis flecti per casus. Sunt enim quaedam nomina quae flecti non possunt,
quae a grammaticis *monoptata* nominantur -- sed hoc grammaticae magis quam huius
considerationis est. Oratio est uox designatiua ad placitum, cuius partes
aliquid extra significant, ut dictio, non ut affirmatio. Et est
orationi commune cum nomine et uerbo quod VOX est, et DESIGNATIVA, et AD
PLACITUM. Cuius enim partes ad placitum sunt, ea quoque ipsa ad placitum est;
orationis autem partes sunt nomen et uerbum; sed haec ad placitum; oratio
igitur ad placitum est. Termini uero orationis a dialecticis nominantur nomina
et uerba. Termini uero dicti sunt, quod usque ad uerbum et nomen resolutio
partium orationis fiat, ne quis orationem usque ad syllabas nominum uel
uerborum tentet resoluere, quae iam designatiuae non sunt. Distat autem a
nomine uel uerbo oratio quod illis partes extra significant, uerbi et nominis
partes nihil extra designant. Est autem dictio unius simplex uocabuli
nuncupatio, uel simplex affirmatio. Atque ideo dictum est orationis partes
significare ut dictionem id est ut simplicis uocabuli nuncupationem. In
oratione enim: Socrates ambulat utraque extra significat tantum
quantum simplex uocabuli nuncupatio designare queat. Quomodo autem ut
affirmatio simplex non significet in commentario Perihermeneias explicui. (Quid
autem sit affirmatio et negatio paulo post explicabimus.) Sunt uero
species orationis in angustissima diuisione quinque. Interrogatiua, ut: Putasne
anima immortalis est? Imperatiua, ut: Accipe codicem! Optatiua
uel deprecatiua, ut: Faciat Deus. Vocatiua, ut: Adesto
Deus. Enuntiatiua, ut: Socrates ambulat sed in illis quatuor
nulla neque ueritas est, neque falsistas Enuntiatiua uero sola aut uerum aut
falsum continet. Atque hinc propositiones oriuntur. Enuntiatio autem in
duas partes secabitur, in affirmationem et negationem. Affirmatio est
enuntiatio alicuius ad aliquid. Negatio est enuntiatio alicuius ab aliquo. Et
est affirmatio, ut puta: Plato philosophus est. Negatio: Plato
philosophus non est. Affirmatio enim ad Platonem philosophiam enuntiat
aliquam, id est Platonem esse philosopbum. Negatio uero ab aliquo Platone
aliquam pbilosophiam enuntiando tollit, id est enuntiat Platonem non esse
philosophum. Enuntiatiuarum igitur orationum aliae sunt simplices, aliae
non simplices. Simplices sunt ut si dicas: Dies est. Lux est.
Non simplices ut: Si dies est lux est. Affirmationes uero simplices
et negationes, aliae sunt uniuersales, aliae sunt particulares, aliae
indefinitae. Uniuersales sunt quae aut omne affirmant ut: Omnis homo
animal est aut omne negant, ut: Nullus homo animal est
Particulares uero quae aliquem affirmant uel aliquem negant, ut: Aliquis
homo animal est. Aliquis homo animal non est indefinitae uero quae neque
uniuersaliter affirmant aut negant, neque particulariter, ut: Homo animal
est. Homo animal non est Diuiditur autem simplex propositio in duas
partes: in subiectum et praedicatum, ut: Homo animal est 'homo' subiectum
est, 'animal' uero de homine praedicatur. Hae autem partes termini nominantur. Quos
definimus sic: Termini sunt partes simplicis propositionis in quibus diuiditur
principaliter propositio. Est enim simplicis propositionis uniuersalis secunda
diuisio, ut sit in propositione: Omnis homo animal est 'omnis homo'
unus terminus, alius uero 'animal est'. Sed hoc secundo loco, illud uero
principaliter. Nam primi termini sunt subiectum et praedicatum. 'Est' enim et
'non est', non magis termini sunt quam affirmationis uel negationis designatiua
sunt, et 'omnis' uel 'nullus' uel 'aliquis' non magis sunt termini quam
definitionum, utrum particulariter an uniuersaliter dictum sit, designatiua
sunt. Diuiditur ergo, ut dictum est, propositio in id quod subiectum est,
et in id quod praedicatur. Dico autem subiectum, ut in: Omnis homo animal
est propositione hominem, id uero quod pradicatur dico animal, et semper
quod praedicatur, aut abundat et superest sub#ecto, aut aequatur. Minus autem
praedicatum a subiecto nunquam reperietur. Sed id quod diximus diuersis
demonstremus exemplis. Subiecto praedicatum abundat quoties genus aliquod de
aliquo praedicatur, ut si dicas: Omnis homo animal est Non enim potes
conuertere, ut dicas: Omne animal homo est quia animal ab homine
plus est et abundat. Aequatur autem praedicatum subiecto quoties proprium
quoddam cuipiam praedicatur, ut: Omnis homo risibile est potes
conuertere: Omne risibile homo est ut autem minus sit id quod
praedicatur, fieri nequit. Dicitur etiam praecedere pracdicatum, sequi quod subiectum
est. Idonior est enim praedicatio constituere propositionem, quam id quod
subiectum est. Simplicium autem propositionum aliae sunt in nullo sibi
participantes ut sunt: Omnis homo animal est et: Virtus bona
est et aliae huiusmodi propositiones, aliae uero quae participant.
Participantium aliae sunt quae in utroque termino participant, aliae quae in
altero, et quae altero termino participant tribus modis, utroque uero
duobus. Ostendamus ergo exemplis quomodo altero tribus modis participant.
Communis enim terminus est, cum in una subiectus sit, in altera praedicatus, ut
est: Omnis homo animal est et: Omne animal animatum. In
priore enim propositione animal praedicatur ad hominem, in posteriore
praedicatur ad animal animatum, et fit animal subiectum. Et est hic primus
modus de eis qua altero termino participant. Secundus uero modus est in
quo in utrisque communis terminus praedicatur, ut si quis dicat: Omnis nix
est candida et: Omnis margarita est candida. Etenim in prima
et secunda propositione candida praedicatur, in prima ad niuem, in secunda ad margaritam.
Et est hic secundus modus altero termino participantium. Tertius uero
modus est, quoties in utrisque propositionibus cornmunis terminus subiectus
est, ut si dices: Virtus bonum est Virtus iustum est In
utrisque enim ad iustum et ad bonum uirtus subiectum est. Sunt igitur
participantes alterum terminum his tribus modis, aut cum in una communis
terminus praedicatur, in illa subiectus est; aut cum in utrisque praedicatur;
aut cum in utrisque subiectus est. Earum uero quae ad utrosque participant
terminos duo sunt modi. Aliae enim ad eumdem ordinem, aliae ad ordinis
commutationem. Ad eumdem sunt quae de eodem idem demonstrant, uel affirmatiue
uel negatiue, uel uniuersaliter aliter uel particulariter: Omnis uoluptas bonum
est. Nulla uoluptas bonum est et rursus particulariter: Quaedam
uoluptas bonum est. Quaedam uoluptas bonum non est. Ad ordinis uero
commutationem sunt quoties qui in altera subiectus est terminus, in alia
praedicatur ut: Omne bonum iustum est et: Omne iustum bonum.
Nam in priore bonum subiectum est, iustum praedicatum, in secunda iustum subiectum
est, bonum praedicatum. Nunc ergo quoniam aliae ad eumdem ordinem, aliae
ad ordinis commutationem sunt, prius dicemus de his quae ad eumdem ordinem
utroque termino participant. Et quoniam sunt propositiones, aliae affirmatiuae
aliae negatiuae; aliae uniuersales aliae particulares aliae indefinitae: --
duae sunt ex his quae qualitate differunt, tres quae quantitate. Et sunt quae
qualitate differunt affirmatiua et negatiua; ad quantitatem quae uero
differunt, sunt uniuersalis, particularis, et indefinita. In affirmatiuis
enim et negatiuis quale quid sit aut non sit ostenditur. In uniuersali
particulari et indefinita de omnium uel nullorum uel nonnullorum quantitate
monstratur. Ex his ergo quinque differentiis, id est uniuersali, particulari,
indefinita, affirmatiua, negatiua, sex coniunctiones fiunt, ita ut tribus quae
ad quantitatem dicuntur duae quae ad qualitatem dicuntur aptentur, et fit uniuersalis
affirmatiua, et uniuersalis negatiua, ut: Omnis homo iustus est. Nullus
homo iustus est et particularis affirmatiua, et particularis negatiua,
ut: Quidam homo iustus est. Quidam homo iustus non est et indefinita
affirmatiua et negatiua, ut: Homo iustus est. Homo iustus non est
fiunt ergo ex duabus quae sunt ad qualitatem, tribus quae sunt ad quantitatem
iunctis, sex coniunctiones, de quibus indefinitas, affirmatiuas et negatiuas
separemus, et de solis uniuersalibus et particularibus tractatus habeatur.
Subscribantur etiam earum participantium quae ad eumdem ordinem utroque termino
participant, duae uniuersales propositiones, una affirmatiua, et altera
negatiua, et sit affirmatiua uniuersalis: Omnis homo iustus est et
contra ipsam uniuersalis negatiua: Nullus homo iustus est. Item sub
his ponantur particularis affirmatio et particularis negatio, ita ut sub
uniuersali affirmatiua ponatur particularis affirmatiua, et sub uniuersali
negatiua ponatur particularis negatiua, et sit particuiaris affirmatiua: Quidam
homo iustus est et contra ipsam particularis negatiua: Quidam homo iustus
non est quod demonstrat sequens descriptio. In superiori igitur
descriptione uniuersalis affirmatiua et uniuersalis negutiua contrariae sunt,
subcontrariae uero particularis affirmatiua et particularis negatiua,
subalternae uero dicuntur uniuersalis affirmatiua et particularis affirmatiua,
et item uniuersalis negatiua et particularis negatiua. Contraiacentes sunt
angulares, id est uniuersalis affirmatiua et particularis negatiua. Et item
uniuersalis negatiua et particularis affirmatiua, ut: Omnis homo iustus est. Quidam
homo iustus non est. Nullus homo iustus est. Quidam homo iustus est et
sunt ut hoc modo definiri possint. Contrariae sunt quae uniuersaliter eidem
idem haec affirmat, haec negat. Subcontrariae sunt quae particulariter eidem
idem haec affirmat, haec negat. Subalternae sunt quae eidem idem affirmant uel
negant, haec particulariter, illa uniuersaliter. Contraiacentes sunt quando
eidem eamdem rem haec affirmat, haec negat, uel haec negat, haec affirmat, illa
generaliter, haec particulariter, et uocantur contrariae, quis quod affirmatio
uniuersaliter ponit negatio uniuersaliter tollit. Subalternae uero, quoniam
quod illa uniuersaliter ponit, etiam haec particulariter ponit. Subcontrariae
uero dictae sunt, uel quod naturaliter sub ipsis contrariis positae sunt, ut
descriptio docet, uel quod a contrariis diuersae sunt, et ipsis contrariis
quodammodo contrariae. Nam contraria, ut utraeque simul sint fieri non potest,
ut utraeque omnino non sint fieri potest, contrariam uim obtinebunt
subcontrariae. Nam ut utraeque omnino non sint fieri non potest, ut utraeque
simul sint fieri potest, quod in sequentibus melius explicabitur.
Contraiacentes dicuntur, quoniam uniuersalis affirmatio uel negatio,
particularem affirmationem uel negationem angulariter respiciunt. Cum
autem singulae propositiones habeant duas differentias, unam ad qualitatem,
alteram ad quantitatem, ut quae uniuersalis, affirmatiua est, habeat
differentiam ad quantitatem quod uniuersalis est, et aliam ad qualitatem quod
affirmatiua est; eodem modo caeterae propositiones binas habeant differentias,
unam secundum qualitatem, alteram secundum quantitatem. Subalternae quae
sunt, una tantum differentia distant quantitatis, quod haec particularis, illa
uniuersalia est. Nam qualitatis differentiam nullam retinent. Utraeque enim
affirmatiuae sunt. Hae uero aliae, id est contrariae et subcontrariae ad
qualitatem, quod illa affirmatiua, illa negatiua est, nam ad quantitatem nihil
differunt. Utraeque enim contrariae uniuersales, utraeque subcontrariae
particulares sunt, illae autem quae contraiacentes dicuntur utrisque
differentiis differunt. Nam et illa uniuersalis affirmatio est, haec
particularis negatio, et illa uniuersalis negatio, est, haec particularis affirmatio.
Nunc quoniam quae secundum qualitatem uel secundum quantitatem et quomodo
differant dictum est, earum proprietates, qus secundum uerum falsumque sunt,
explicemus. Igitur earum quae subalternae sunt, si fuerit uera
uniuersalis affirmatio uera erit particularis affirmatio. Si enim: Omnis
homo iustus est uera est, uera erit etiam quae dicit: Aliquis homo
iustus est. Nam si omnis homo iustus est, et quidam. Eodem modo negatiuae
subalternae nam si uniuersalis negatiua uera fuerit, erit etiam uera negatiua
particularis, ut si: Nullus homo iustus est uera fuerit, etiam erit
uera: Quidam homo iustus non est. Nam si nullus homo iustus est, nec
quidam. Conuerti autem non potest, nam si particularis uera fuerit, non necesse
erit ueram esse etiam uniuersalem. Ut si: Quidam homo iustus est
uera fuerit, non necesse erit ueram esse: Omnis homo iustus est.
Possunt enim esse non omnes. Et eodem modo de negatiua. Nam si particularis
negatiua uera fuerit, ut est: Quidam homo non est iustus non necesse
erit uniuersalem: Nullus homo iustus est ueram esse. Potest enim
fieri ut quidam iusti sint. Ergo dicamus in subalternis propositionibes
si uniuersales uerae sint, ueras esse necesse est particulares sed non
conuertitur. Nam si particulares uerae fuerint non necesse est ueras etiam
uniuersales esse. Particulares uero ad uniuersales contrariam
conuersionem habent. Nam ut superius si uniuersales uerae essent, etiam
particulares uerae essent; et si particulares uerae essent, non omnino uere
essent etiam uniuersales in particularibas; si particulares falsae fuerint,
falsae erunt etiam uniuersales. Nam si particularis: Quidam homo iustus
est falsa fuerit, uniuersalis etiam: Omnis homo iustus est
falsa erit. Nam si quidam homo iustus est falsa est, uera est nullus homo
iustus est. Si uera est: Nullus homo iustus est falsa est: Omnis
homo iustus est. Falsa igitur particulari, falsa erit uniuersalis.
Item si negatiua particularis falsa fuerit, quae est: Quidam homo iustus non
est falsa erit etiam: Nullus homo iustus est. Nam si falsum
est quia quidam homo iustus non est, uera est quia omnis homo iustus est. Si uera
est haec, falsa est: Nullus homo iustus est falsa igitur particulari,
falsa erit etiam uniuersalis. Sed non conuertitur, ut si uniuersales falsae
sint, falsas necesse sit esse particulares: nam si uniuersalis: Omnis homo
iustus est falsa fuerit, non necesse est particularem: Quidam homo
iustus est falsam esse. Potest enim fieri ut si omnis homo iustus non
fuerit, sit quidam iustus. Et item si uniuersalis negatiua: Nullus homo
iustus est falsa fuerit, non necesse erit: Quidam homo non est
iustus falsam esse. Nam si falsa est nullus homo iustus est, uerum est esse
aliquos iustos, uera est etiam quae dicit: Quidam homo iustus non
est quod sint quidam etiam non iusti. Repetens igitur a capite
dicat quod in subalternis. Si uniuersales uerae fuerint, uerae erunt etiam
particulares. Sed non conuertitur. Item si particularea falsae fuerint, falsae
erunt etiam uniuersales; sed non conuertitur, contrariae uero simul eese uerae
nunquam possunt. Potest autem fieri ut alias utraeque falsae sint, alias una
uera, altera falsa. Utraeque falsae sunt, ut si quis dicat: Omnis homo
grammaticus est falsa est, nam non omnis; et: Nullus homo
grammaticus est falsa est, nam non nullus; est autem una uera, altera
alsa, ut si quis dicat: Omnis homo bipes est haec affirmatiua uera
est; Nullus homo bipes est haec negatiua falsa est. Et item: Omnis
homo quadrupes est haec affirmatiua falsa est; Nullus homo quadrupes
est haec negatiua uera est. Sunt ergo contrariae aliquoties utraeque
falsae, aliquoties inter se uerum falsumque diuidentes; ut utraeque autem uerae
sint fieri nunquam potest, subcontrariae uero contraria patiuntur. Nam falsae
nunquam reperiri queunt. Sed alias uerae utraeque sunt, ut est: Quidam
homo grammaticus est uera est, et: Quidam homo grammaticus non
est etiam haec uera est. Potest enim alius esse grammaticus et alius non
esse. Alias una uera est, altera falsa. Vera est enim affirmatio: Quidam
homo bipes est falsa est autem negatio: Quidam homo bipes non est.
Item falsa est affirmatio: Quidam homo quadrupes est uera est
negatio: Quidam homo quadrupes non est ut uero utraeque falsae sint
fieri nunquam potest. Restat igitur ut de contreiacentibus dicamus, quae
neque falsae simul aliquando esse possunt neque uerae sed semper una uera est,
altera falsa, quod facilius liquet, si quis sibi quaecumque fingat exempla.
Res admonet ut quaedam de indefinitis propositionibus consideremus. Indefinitae
etenim propositiones aequam uim retinent particularibus propositionibus. Dictum
est enim quod si uniuersales uel affirmatiuae uel negatiuae in subalternis
propositionibus essent uerae, essent quoque uerae particulares. Nunc uero
dicimus quod si uniuersalis propositiones uerae fuerint, uerae erunt etiam
indefinitas. Nam si uera est: Omnis homo bipes est uera est
etiam: Quidam homo bipes est uera erit etiam indefinita quae
dicit: Homo bipes est. Item dictum est quod si particulares falsae
essent, falsae essent etiam uniuersales, nunc uero dicendum est quod si
indefinita falsa fuerit, falsa erit etiam uniuersalis. Nam si falsa est quae
dicit: Homo quadrupes est falsa erit etiam quae dicit: Quidam
homo quadrupes est et: Omnis homo quadrupes est. Atque idem
hoc etiam in negatiuis conuenire uidetur. Unde constat quod omnes indefinitae
particularibus propositionibus aequam uim continent. Rursus dictum est
quod subcontrariae, quae particulares affirmatiuae et negatiuae sunt, simul
uerae esse possunt, diuidere etiam uerum falsumque ualent, simul uero falsae
esse non posse. Hoc idem in indefinitis propositionibus exspectandum est. Nam
diuidunt inter se uerum falsumque, ut si quis dicat: Homo bipes est
uera est; Homo bipes non est falsa est, et item: Homo quadrupes
est falsa est; Homo quadrupes non est uera est; uerae autem
simul inueniri possunt, ut si quis dicat: Homo grammaticus est si
quis hoc dicat de Donato, uerum est. Item: Homo grammaticus non est
si quis hoc dicat de Catone, uerum est, ut simul falsae sint nunquam
reperiemus. Hinc quoque ostenditur indefinitas cum particularibus aequali esse
potentia. Amplius quod dictum est, contraiacentes, id est uniuersalem
affirmatiuam et particularem negatiuam, et item uniuersalem negatiuam et
particularem affirmatiuam neque ueras simul esse neque falsas sed inter se
diuidere uerum falsumque, hoc idem euenit in indefinitis. Nam uniuersalis
affirmatiua et indefinita negatiua, uel uniuersalis negatiua et indefinita
affirmatiua, neque uerae simul esse possunt, neque simul falsae. Diuiduntur
autem inter se uerum falsumque: nam si dixeris: Omnis homo bipes est
uera est; et si dicas: Homo bipes non est falsa est. Item si
dixeris: Homo quadrupes est falsa est, si dixeris, Nullus homo
quadrupes est uera est: unde hinc quoque colligere licet omnes
indefinitas potestate et ui aequales esse particularibus. Sunt etiam
quaedam propositiones quae diuidunt quidem et ipsae uerum et falsum,
ut: Deus fulminat. Deus non fulminat. Sed istae tunc diuidunt inter
se uerum et falsum, cum idem tempus, idem subiectum, idem praedicatum sit. Quod
autem dico tale est, si aequiuocum subiectum fuerit, non diuidunt uerum et
falsum. Si quis enim dicat:Cato se Uticae occidit et
respondeatur: Cato se Uticae non occidit utraeque uerae sunt. Nam et
Cato Minor se peremit, et Cato Censorius se Uticae non occidit. Sed hoc idcirco
euenit, quod Catonis nomen aequiuoce dicitur, dicitur enim et Maior Cato Censorius,
et Minor Uticensis. Item si aequiuoca fuerit in propositione praedicatio, uerum
inter se affirmatio negatioque non diuidunt. Si quis enim sic dicat: In
nocte lucet et respondeatur: In nocte non lucet fieri potest
ut utraeque uerae sint. Nam in nocte lucerna lucere potest, et sol lucere non
potest: hoc ideo euenit quia lucere aequiuoce et ad lucernae lumen et ad solis
dicitur. Amplius si aliud est aliud in subiectis et praedicatis tempus
fuerit, uerum falsumque inter se affirmatio negatioque non diuidunt. Nam si
quis dicat: Socrates ambulat et respondeatur: Socrates non
ambulat possunt utraeque uerae esse, potest enim fieri ut Socrates alio
tempore ambulet, alio tempore non ambulet; sed aut stet aut sedeat, aut
quodlibet aliud: in talibus ergo propositionibus quales sunt: Socrate
ambulat. Socrates non ambulat illae inter se uerum falsumque diuidunt
quae ad idem subiectum, ad idem praedicatum, ad idem tempus dicuntur.
Sunt etiam aliae quae contradictoriae uocantur, quae sunt huiusmodi, quoties
affirmationem uniuersalem tollit negatio particularis: Omnis homo iustus est. Non
omnis homo iustus est et rursus: Nullus homo iustus est
et: Quidam homo iustus est in his enim uniuersalis determinatio
tollitur. Sed de his alias. Et quoniam dictum est de his quae eodem
ordine participant, dicamus nunc de his quae ordinis commutatione participant.
Harum quoque propositionum quae ad comnmutationem ordinis participant duplex
modus est. Est enim per contrapositionem conuersio, ut si dicas: Omnis
homo animal est Omne non animal non homo est simplex conuersio est,
ut si dicas: Omnis homo <est> risibile et conuertas: Omne
risibile est homo sed in illis terminorum tantum commutatio conuersionem
facit, in quibus neque praedictum subiecto, neque subiectum praedicato abundat.
In hac enim propositione quae dicit: Omnis homo est risibile homo
subiectum, risibile praedicatum, aequam uim habet, et ideo conuerti potest ut
si risibile subiectum et homo praedicatum, et dicatur omne risibile homo. In
quibus uero unus terminus alio abundauerit, conuerti propositio non potest. Nam
si dicas: Omnis homo animal est uera est; non tamen potest ueri ut
conuersa haec propositio terminis commutatis uera sit: falsum est enim
dicere: Omne animal homo est. Sed hoc cur euenit? Quia homine animal
abundat. Illa uero conuersio, quae per contrapositionem fit hoc modo fit
quoties in affirmatiua subiectum fuerit, idem mutatum et factum praedicatum ad
negatiuam particulam ponitur, ut est: Omnis homo animal est. Hic
homo subiectum est et ad hoc animal praedicatur. Si uero quis per
contrapositionem conuertat, et faciat animal subiectum hominem praedicatum, et
ad hominem particulam negatiuam ponat, hoc modo faciet: Omne non animal
non homo est et erit ista conuersio: Omnis homo animal est. Omne non
animal non homo est. Sed de his posterius tractabimus. Nunc ad
simplices reuertamur. Cum sint igitur quatuor propositiones quarum quae
uniuersales sunt, id est affirmatiua et negatiua, duae uero particulares, id
est affirmatiua et negatiua, particularis affirmatiua, et uniuersalis negatiua
commutatis terminis sibi ipsa conuertitur. Conuertuntur autem illae ut dictum
est quoties, commutatis terminis, uel simul uerae sunt, uel simul falsae. Nam
si quis dicat: Quidam homo animal est uera est. Conuersio uero
eius: Quoddam animal homo est uera est. Item: Quidam homo lapis
est falsa est, quemadmodum et eius conuersio: Quidam lapis homo
est nam et ista falsa est. Est igitur particularis affirmatiua quae
commutatis terminis sibi ipsa conuertitur. Idem uere patitur uniuersalis negatio.
Si quis enim dicat: Nullus homo lapis est uera est, et potest
conuerti: Nullus lapis homo est nam et ista uera est. Item: Nullus
homo rhetor est falsa est, et eius conuersio: Nullus rhetor homo
est falsa est. In quatuor igitur his propositionibus quae tantum
contraiacentes sibi ipsae conuertuntur, id est particularis affirmatio et
uniuersalis negatio. Aliae uero duae sibi ipsis non conuertuntur. Nam neque
uniuersalis affirmatio, neque particul&ris negatio sibi ipsa conuertitur.
Si quis enim dicat: Omnis homo animal est uera est. Si quis uero
conuertat: Omne animal homo est falsum est. Non igitur sibi ipsi
conuerti potest, quoniam conuersa prioris ueritatem non recipit. Neque uero
particularis negatio sibi conuertitur. Nam si quis dicat: Quidam homo
grammaticus non est uera est; si uero conuertat: Quidam grammaticus
homo non est falsa est: omnis enim grammaticus homo est. Repetendum
est igitur a capite quod cum quatuor propositiones sint, affirmatio
uniuersalis, negatio uniuersalis, affirmatio particularis, negatio
particularis, particularis affirmatio et uniuersalis, negatio quae contraiacentes
sunt, sibi ipsis conuerti possunt. Uniuersalis uero affirmatio et particularis
negatio, quae ipsae contraiacentes sunt, nunquam possunt sibi ipsis conuerti.
Nec hoc nos turbet quod quaedam affirmationes uniuersales et quaedam
particulares negationes conuerti possunt. Potest enim dici: Omnis homo
risibilis est Omne risibile homo est et utraeque uerae sunt. Et
item: Omnis homo hinnibilis est falsa est; et: Omne hinnibile
homo est et haec quoque falsa est. Item in particulari negatione: Quidam
homo non est lapis uera est; et: Quidam lapis non est homo
uera est. Item: Quidam homo non est risibile falsa est; Quoddam
risibile homo non est et haec quoque falsa est. Ergo uidentur posse
uniuersales affirmationes et particulares negationes conuerti, et conuertuntur
quidem sed non uniuersaliter. Generaliter autem dico propositiones posse
conuerti, quoties uniuersaliter, id est in omnibus conuertuntur. Istae autem in
duabus solis materiebus conuerti possunt. Si quis enim proprium cuiuslibet
speciei ad ipsam speciem cuius est proprium uelut ad subiectum praedicet,
potest conuertere. Nam quia risibile proprium est homini, si praedices
risibile, et subiicias hominem, ut est: Omnis homo risibile est
potes iterum subiicere risibile et hominem praedicare, ut si dicas: Omne
risibile est homo. In illis uero simul falsae sunt generalium
affirmationum conuersiones, in quibus id quod praedicatur ad subiectum nullo
tempore uere dici potest, ut si quis dicat: Omnis homo lapis est
falsa est. Et iterum: Omnis lapis homo est falsa est haec, quoniam
nullo tempore neque homo lapis est, neque lapis homo uere praedicabitur. In
particularibus negatiuis contrarium est; nam aut falsae sunt, cum proprium
subiectum est aut praedicatum, ut si quis dicat: Quidam homo risibile non
est falsum est. Item: Quoddam risibile homo non est et haec
quoque falsa est. In illis uerae sunt, quando id quod affirmando nullo tempore
uere praedicari potest ad subiectum praedicant, ut si dicas: Quidam homo
lapis non est uera est. Iterum: Quidam lapis homo non est uera est.
Ergo uniuersales affirmationes tum sibi conuertuntur ut uerae sint cum proprium
praedicant, tum sibi conuertunturut falsae sint cum id quod nullo tempore
adsubiectum uere dici poterit praedicatur. Item in particularibus negatiuis,
tum falsae sunt, cum proprium praedicant, tum uerae, cum id quod nullo tempore
uere dici poterit praedicant. In his ergo solae conuerti possunt. In aliis uero
conuerti non possunt. Atque ideo uniuersaliter non conuertuntur; remanet ergo
ut in aliis rebus omnibus, ut superius dictum est, non conuertantur. Hoc
uero perpiciendum est, quod particularis affirmatioque sibi ipsi conuertitur,
uniuersali affirmationi, quae sibi non conuertitur, per accidens conuerti
potest. Et item contraiacens uniuersali affirmationi particularis negatio, quae
sibi ipsi non conuertitur, conuerti potest per accidens negationi uniuersali,
quae sibi ipsi conuertitur. Sed quomodo particularis affirmatio et uniuersalis
negatio sibi ipsis conuertantur ostendimus. Nunc uero quomodo
particularis affirmatio uniuersali affirmationi per accidens, uel quomodo
particularis negatio uniuersali negationi per accidens couertantur,
demonstrandum est. Dictum est superius quod si uera est uniuersalis affirmatio,
uera est etiam particularis, et sequeretur particularis uniuersalem. Nam si
uera est: Omnis homo animal est uera est etiam: Quidam homo
animal est. Si enim omnis, et quidam; sed particularis affirmatio sibi
ipsi conuertitur, conuertitur etiam uniuersali affirmationi. Nam si omnis homo
animal est, et quidam homo animal est. Sed ista sibi conuertitur hoc modo, si
dicas: Quidam homo animal est potest igitur conuerti ad: Omnis
homo animal est uniuersalem affirmationem particularis affirmatio, quae
est: Quidam homo animal est et conuertitur, ut si dicas: Quoddam
animal homo est utraeque enim uerae sunt -- et quae dicit: Omnis
homo animal est et quae dicit: Quoddam animal homo est per
accidens autem conuerti dicitur particularis affirmatio uniuersali
affirmationi, qui particularis affirmatio sibi ipsi principaliter conuertitur,
secundo uero loco uniuersali affirmationi conuertitur. Restat igitur ut
hoc monstremus: quomodo particularis negatio quae sibi non conuertitur
uniuersali negationi quae sibi conuertitur per accidens conuertatur, et hic
eadem ratio est. Nam quoniam uniuersalis negatio si uera est, uera est etiam particularis,
uniuersalis uero negatio sibi ipsa conuertitur potest uniuersali negationi
conuersae particularis conuerti negatio. Age enim uniuersalem negationem, id
est:. Nullus homo hinnibilis est conuertamus, ut sit: Nullum
hinnibile homo est. Sed istam propositionem, id est uniuersalem negatiuam
quae est: Nullus homo hinnibilis est sequitur particularis negatio
quae est: Quidam homo non est hinnibilis. Conuerte igitur
uniuersalem quae est: Nullus homo hinnibilis est et fac: Nullum
hinnibile homo est conuerte huic particularem negationem quae est: Quidam
homo non est hinnibilis et fac: Quoddam hinnibile non est homo
utraeque uerae sunt. Nam et: Nullum hinnibile homo est quae est
uniuersalis conuersio negationis, uera est, et: Quoddam hinnibile non est
homo quae conuersio particularis negationis est. Cur autem per accidens
conuerti dicatur, superius dictum est. Liquet ergo talis per accidens
conuersio: quod igitur habet uniuersalis affirmatio, hoc habet etiam
contraiacens particularis negatio, utraeque enim sibi conuerti non possunt;
quod autem habet uniuersalis negatio, hoo habet et ei contraiacens affirmatio
particularis, utraeque enim sibi conuerti possunt. Iunctae ergo quae sibi
conuerti possunt, et quae sibi conuerti non possunt, ut quae sibi conuerti potest
iungatur ei quae sibi conuerti non potest, et quae sibi conuerti non potest
iungatur ei quae sibi conuerti potest, faciunt per accidens conuersiones quae
superius demonstratae sunt. Restat ut de his conuersionibus dicamus quae
per contrapositionem fiunt, et primum earum sit dispositio in descriptione
subiecta, generalis enim affirmationis quae dicit: Omnis homo animal
est conuersio per contrapositionem est quae dicit: Omne non animal
non homo est. Item generalis negationis quae dicit: Nullus homo
animal est conuersio per contrapositionem est: Nullum non animal non
homo est. Item particularis affirmationis quae dicit: Quidam homo
animal est conuersio per contrapositionem est quae dicit: Quoddam
non animal non homo est. Item particularis negationis quae dicit: Quidam
homo animal non est conuersio per contrapositionem est quae dicit: Quoddam
non animal non homo est quod demonstrat subiecta descriptio: Omnis
homo animal est Omne non animal non homo est Nullus homo
animal est. Nullum non animal non homo est. Quidam homo animal est Quoddam
non animal non homo est Quidam homo animal non est Quoddam
non animal non homo non est. His ergo ita positis, quomodo dictum est superius
in simplici terminorum conuersione, quod particularis affirmatio et generalis
negatio sibi ipsis conuerterentur, generalis uero affirmatio et particularis
negatio sibi ipsis non conuerterentur, hic in per contrapositionem
conuersionibus contra est. Nam generalis affirmatio per contrapositionem sibi
ipsa conuertitur, et particularis negatio sibi ipsi conuertitur. Generalis uero
negatio et particularis affirmatio per contrapositionem sibi non
conuertuntur. Quod ita esse his exemplis probabimus. Si enim uera sit
affirmatio generalis quae dicit: Omnis homo animal est uera erit
eius per contrapositionem conuersio quae dicit: Omne non animal non homo
est. Quod enim animal non fuerit, id homo non erit. Et si falsa fuerit generalis
affirmatio quae dicit: Omne animal homo est falsa erit etiam eius
per contrapositionem conuersio quae dicit: Omnis non homo non animal
est potest enim fieri ut quod homo non est, animal sit. Illa enim negat
esse animal quod homo non fuerit. Quod si cum uera est generalis affirmatiua,
uera est eius per contrapositionem conuersio, et si cum falsa est generalis
affirmatio, falsa est eius per contrapositionem conuersio, non est dubium quin
generalis affirmatio possit sibi ipsa conuerti. Item nunc ostendendum est
quomodo particularis negatio sibi ipsi per contrapositionem conuertitur. Nam si
falsa est quae dicit: Quidam homo animal non est falsa eius erit
etiam per contrapositionem conuersio quae dicit: Quoddam non animal non
homo est. Hoc enim uidetur haec propositio dicere, ac si diceret: Quaedam
res quae animal non est homo est, qui enim dicit: Non homo non est
hominem esse significat quod animal non sit. Hoc uero aperte falsum est, omnis
enim homo animal est, et si uera fuerit particularis negatio quae
dicit: Quoddam animal homo non est uera erit et eius per
contrapositionem conuersio quae dicit: Quidam non homo non animal non
est. Aequale est enim ac si diceret: Res quae homo non est non est non
animal sed est animal, ut equus et bos homo non est, et non est non
animal. Ergo si cum particularis negatio falsa est, falsa est etiam eius
per compositionem conuersio, et si cum particularis negatio uera est, uera est
eius per contrapositionem conuersio, non est dubium quin particularis negatio
possit per contrapositionem sibi ipsa conuerti. Nunc quoniam ostensum
generalem affirmatiuam et particularem negatiuam, per contrapositionem sibi
posse conuerti, ostendamus generalem negatiuam et particularem affirmatiuam per
contrapositionem sibi non posse conuerti. Et prius de generali negatione
dicendum est. Nam si generalis negatio uera est, non necesse erit per
contrapositionem sibi conuersam ueram esse. Sed si falsa fuerit et per
contrapositionem sibi conuersam falsam esse necesse est. Nam si falsa est quae
dicit: Nullus homo animal est falsa erit fortasse eius per
contrapositionem conuersio, quae dicit: Nullum non animal non homo
est. Aequale est enim ac si dicat: Nulla res est quae non sit animal et
sit non homo, quod est omnis res quae animam non habet homo est, quod aperte
falsum est. Item si uera fuerit generalis negatio, falsa erit eius per
contrapositionem conuersio. Nam si uera est quae dicit: Nullus homo est
lapis falsa erit eius per contrapositionem conuersio quae dicit: Nullus
non lapis non homo est. Aequale est enim ac si dicat: Nulla res est quae
cum non sit lapis non homo sit, quod est omnis res quaecumque lapis non fuerit
homo est, quod falsum est. Innumerabilia enim inuenies quae non sunt lapides,
et non homines non sunt; ergo quoniam si generalis negatio falsa fuerit, Falsa
est eius per contrapositionem conuersio, uel si eadem uera fuerit, falsa erit
eius per contrapositionem conuersio, non est dubium generalem negationem sibi
non posse conuerti, quod enim in aliquo fallit, generaliter colligi non
potest. Restat igitur ut id quod reliquum est monstremus, particularem
affirmationem per contrapositionem sibi non posse conuerti. Cum enim fuerit
particularis affirmatio uera, uera erit eius etiam per contrapositionem
conuersio. Nam si uera est quae dicit: Quidam homo animal est uera
est eius per contrapositionem conuersio: Quoddam non animal non homo
est. Aequale est enim ac si dicat: Quaedam res quae animam non habet homo
non est, quod uerum est. Lapis enim animam non habet, et tamen homo non est.
Item si particularis affirmatio quae dicit: Quidam lapis homo est
falsa est, uera erit eius per contrapositionem conuersio quae
dicit: Quidam non homo non lapis est. Aequale est enim ac si
diceret: Quaedam res quae homo non fuerit lapis non est, quod uerum est. Equus
enim homo non est, et tamen lapis non est. Ergo si cum in quibusdam
particularis affirmatio uera fuerit, uera erit eius per contrapositionem
conuersio, et si cum in quibusdam falsa fuerit particularis affirmatio, uera
erit eius per contrapositionem conuersio, non est dubium particulares
affirmationes per contrapositionem sibi non posse conuerti. Generalis enim
negatio et particularis affirmatio, quae contraiacentes sunt, in per
contrapositionem conuersionibus contraria patiuntur. Nam in generalibus
negatiuis siue generales negatiuae uerae fuerint siue falsae per contrapositionem
conuersiones semper falsae sunt; in particularibus autem affirmatiuis, siue
particularis affirmatio uera fuerit siue falsa, siue per contrapositionem
conuersio uera est. Repetendum est igitur a superioribus et confirmandum quod
in simplicibus terminorum conuersionibus particularis affirmatio et generalis
negatio sibi conuerti possunt. Generales uero affirmatio et particularis
negatio sibi conuerti uon possunt. In his uero conuersionibus quae per
contrapositionem fiunt, contra est; nam generalis affirmatio et particularis
negatio per contrapositionem sibi ipsis conuerti possunt, generalis uero
negatio, et particularis affirmatio per contrapositionem sibi ipsis conuerti
non possunt, et generalis negatio et particularis affirmatio quae sunt
contraiacentes in ueri falsique distantia (ut demonstratum est), sibi ipsis
inuicem contraria patiuntur. Haec de categoricorum syllogismorum
categoricis propositionibus dicta sufficiant. Si qua uero in his praetermissa
sunt, in Perihermenias Aristotelis commentario diligentius subtiliusque
tractata sunt. Superioris series uoluminis quod ad categoricorum
syllogismorum propositiones attinebat explicuit. Nunc autem, quantum
introductionis patitur temperamentum, de ipsa categoricorum syllogismorum
ratione tractabitur; et quoniam omnium compositorum firmitudo uel uitium, aut
in his maxime reperitur ex quibus est compositum, aut penes bonam malamue
compositionem eius laus uituperatioque tenetur: namque domus si fortibus
lapidibus debilibusue constructa, ipsa quoque est fortis aut debilis; porro
autem si artificis compositionem aequabilem solertemque fuerit nacta, ipsa
quoque constructio, merito stabilitatis erit laudabile fundamentum; si uero insolertior
compositio fiat, tota quoque quamuis ex bonis ordinata lapidibus, nulla sese gerens
fabrica stabilitate nutabit; nos quoque hanc eamdem imaginem secuti, prius de
his quibus ipse syllogismus constat, id est propositionibus explicuimus.
Nunc uero de ipsa inter se syllogismorum coniunctione compositioneque
tractubimus. Illud uero meminisse debebis, introducendis hic me praestitisse
docendis, non introductis. Et prius quid sit esse in omni uel non esse,
paucis ostendam. Si qua enim res alterius generis fuerit, omnem intra se
speciem continebit, et in toto species genere illa esse dicetur. Sit enim genus
animal, homo uero species. Homo ergo quoniam minus est quam animal, in toto
animali esse dicetur. Omnis enim homo animal est. Si quis ergo sic dicat
aliquam rem de omni alia re praedicari, conuersa uice nihil interest. Nam sicut
in toto animali homo est, sic etiam animal de omni homine praedicatur. In toto
uero non esse est, quoties alia res ab alia re omni disiuncta est: ut si
dicas: Animal in nullo lapide est nullum enim animal lapis est; et
si dicas: Animal de nullo lapide praedicatur de nulloenim lapide
animal dicitur. Definimus ergo in toto esse, uel in toto non esse sic: in toto
esse, uel de omni praedicari dicitur, quoties non potest inueniri aliquid
subiecti ad quod illud quod praedicatur dici non possit. Namque nihil hominis
inuenitur ad quod animal dici non possit. In toto uero non esse, uel de nullo
praedicari dicitur, quoties nihil subiecti poterit inueniri ad quod illud quod
praedicatur dici possit. Nihil enim lapidis inueniri potest de quo possit
animal praedicari. Illud sane notandum est, quod esse in toto uersa uice
dicitur. Nam si aliquid de omni aliquo praedicatur, illud de quo illud
praedicatur in toto illo esse dicitur quod praedicatur, ut animal de omni
homine dicitur. Homo uero in toto est, id est uelut quaedam pars intra totum
animal latet. Et si quid in alio omni fuerit, in eo toto res illa de quo
superius dicebatur esse dicitur, ut idem animal cum in omni sit homine, et de
eo omni praedicetur, homo in toto est animali. His igitur ita positis,
quotiescumque ita dicimus, ut litteras pro terminis disponamus, pro breuitate
hoc et compendio facimus, id quod per litteras demonstrare uolumus
uniuersaliter demonstrarnus. Nam fortasse in terminis aliquibus falsum
ingerendum necesse sit. In litteris uero nunquam fallimur, quoniam ad hoo
utimur litteris quasi terminos poneremus. In litteris uero ipsis, nisi
terminorum coniunctio per se firma ualensque fuerit, ulla neque ueritas, neque
falsitas reperietur. Quoties igitur aliud de alio omni predicari uolumus
ostendere, sic ponimus. Sit primus terminus a, secundus b, et praedicetur a de
omni b. Hoc autem ita accipito tanquam si posuerimus a animal, b hominem. Eodem
modo et de negatiuis. Nam si dicamus, a de nullo b praedicatur, tale est ac si
dicamus, a, quod est animal, de nullo lapido praedicatur, quod est b, et alia
quaecumque eis fuerint consimilia. Omnis autem syllogismus simplex tribus
terminis demonstratur atque concluditur. Sed prius ipsorum syllogismorum
figurae aspiciumus, post uero do modis ordinibusque eorum tractabimus.
Tribus igitur terminis ita positis, ut prope se et sibi connexi sint, tres non
ultra fieri complexiones necesse est hoc modo: sit enim a, sit b, sit c; aut
enim a de b praedicabitur, et b de c, aut certe a et de b praedicabitur et de
c, uel iisdem ipsis a et b c terminus uidebitur esse subiectus. Sit enim a bonum,
sit b iustum, sit c uirtus, aut enim a, id est bonum erit in omni b, id est
iusto, et dicetur: Omne iustum bonum est et item b iustum in omni c,
id est uirtute, et dicetur: Omnis uirtus iusta est. Et erunt
huiusmodi propositiones: Omne iustum bonum est et: Omnis uirtus
iusta est aut a, id est bonum, de b, quod iustum est, et de c, quod
uirtus est, predicabitur, ut sit: Omne iustum bonum est. Omnis uirtus bona
est aut certe a bonum, b iusto, et c uiriuti subiacebit, ut
dicatur: Omne bonum iustum est et:Omne bonum uirtus est. In
hac enim complexione b et c de solo a termino praedicantur. Ubi uero a de omni
b termino, et b item predicatur de omni c. Hanc figuram uoco primam quae definitur
sic: Prima figura est in qua is qui subiectus est de alio
praedicatur. Namque b, quod a termino subiectum est, ad c item terminum
praedicatur. Extremitates uero dico huius figurae quod praedicatur et quod
subiectum est, id est a c. Namque a pradicatur de b termino, c uero terminus b
termino subiacet. Medium autem illud uoco quod alii subiacet, et de alio
praedicatur, id est b. Nam b terminus a termino subiacet, de c uero termino
praedicatur. Maior uero extremitas est, quae prima praedicatur, id est a.
Namque idem a de b termino praedicatur. Minor uero quae medio termino subiicitur,
id est c, namque c terminus medio termino, id est b, subiecius est; de eo enim
b medius terminus dicitur. Maior uero terminus a uocatus est, id est qui
praedicatur, quoniam omne praedicatum ab e. de quo praedicatur maius est. Et in
conclusionie, sicut in prima propositione, semper a terminus praedicatur, a
enim bonum praedicatur de b iusto, et dicitur: Omne iustum bonum est
b uero medius terminus predicatur de c, et dicitur: Omnis uirtus iusta
est. Ex his igitur concluditur in syllogismo: Omnis uirtus bonum
est et a bonum nominabitur de c uirtute, atque ideo maior a nobis
extremitas appeliatur. Id uero meminisse debemus, quod ea quae paria sunt
retorqueri possunt, et ad se inuicem praedicari, et sicut id quod predicatur in
eo quod subiectum est, omni est, ita rursus conuersum quod fuerit subiectum, in
eo quod antea praedicabatur omne erit. Nam si f et g duo termini ita sibi sint
aequales, ut neuter neutro maior sit, cum praedicaueris f de omni g, erit f
terminus in omni g termino. Si uero conuertas et praedices g terminum de f
termino, erit iterum g terminus in omni f termino. Sit enim f risibile, g homo.
Ergo si praedices f risibile, et g hominem subiicias, f risibile in omni g
inuenitur. Omnis enim homo risibile est. Si uero praedicas g hominem ad f
risibile, g homo in omni f risibile reperitur. Omne enim risibile homo
est. Quid autem termini sint, uel quid praedicatio, aut subiecto, priori
de propositionibus libro satis dictum est. Sed ne forte erremus quod uidetur
uniuersalis affirmatio conuersa. Nam de hoc quoque superius dictum est.
Modo uero hoc solum monstrare uolumus, quod quae sunt in toto paria sola
conuertantur. Hoc tamen prodest ad ostensionem syllogismorum quae fit in
circulo, quam in Analyticis diximus. Ac de prima syllogismorum
categoricorum figura expeditum est. Secunda uero figura est quoties a terminus
de utrisque b et c terminis praedicatur hoc modo: Si enim dicas a bonum de omni
b iusto, ut sit hoc modo propositio: Omne iustum bonum est et inde a
bonum de omni c uirtute, ut dicas: Omnis uirtus bonum est solum a de
utrisque b et c terminis praedicasti, et erit haec secunda figura. Medius autem
terminus in hac figura erit qui de utrisque praedicatur, id est a. Extremitates
uero ea quae subiecta sunt, id est b et c. Maior uero extremitas est de qua
primo a terminus appellatur, id est b iustum; uel si ad c primo praedicabitur c
terminus maior extremitas inuenitur. Idcirco quod ea extremitas de qua medius
terminus primo praedicatur, in conclusione ipsa quoque praedicabitur, ut
posterius demonstrandum est. Minor uero extremitas erit ad quod medius terminus
posterius praedicabitur. Tertia uero figura est, quoties a et b termini
de ullo c praedicantur. Si quis enim praedicet a, id est bonum de c, id est
uirtute, ut sit huiusmodi propositio: Omnis uirtus bonum est item b praedicetur
de c, ut sit: Omnis uirtus iustum est tertiam figuram facit. In hac
uero figura medius terminus erit qui utrisque subiectus est, id est c. Namque de
c termino a et b termini praedicantur. Maior uero extremitas est quae primo
praedicatur, id est a; minor uero quae postea, id est b; uel si quem libuerit b
prius, a posterius praedicare secundum priorem posterioremque praedicationem,
maior minorue extremitas inuenietur, et hic quoque maior extremitas in
conclusionibus, sicut in superioribus aliis figuris, de minore
praedicatur. Expeditis igitur tribus syllogismorum figuris, dicendum est
quia perfectus syllogismus est cui ad integram probatamque conclusionem ex
superius sumptis et propositis nihil deest. Sed modo atque ordine facta
conclusio nihil dehabens, per ea quae antea proposuit terminatur.
Imperfectus uero syllogismus est cui nihil aeque ad perfectionem deest,
uerumtamen in his quae in propositionibus sumpta sunt aliqua desunt cur ita
esse uidetur. Sed et hae definitiones omnes posterius liquebunt. Nunc
autem unde hae figurae nascantur breuiter expliicandum est. Quoniam unde
nascuntur, in eadem iterum resoluuntur. Sed secunda et tertia figura de prima
figura nasci et procreari uidentur. Sit enim a terminus in omni b termino, et
de omni eo praedicetur, b uero terminus de omni c termino praedicatur. Haec, ut
dictum est, prima syllogismorum figura est. Si quis igitur maiorem extremitatem
propositionemque conuertat, et quod fuerat antea praedicatum faciat esse
subiectum, secundam faciet figuram. Nam quemadmodum a terminus praedicatur de b
termino, ita b de c. Si ergo conuertatur, et fiat b terminus de a termino
praedicetur, inuenitur b terminus qui antea medius fuerat, et a termino
subiectus, de c uero termino praedicatur ad utrosque terminos
praedicatiuus. Age enim quoniam a bonum de b iusto praedicabatur, b
uero iustum de c uirtute praedicabatur, erat propositio: Omne iustum bonum
est Omnis uirtus iusta est manente propositione quae
est: Omnis uirtus iusta est prima propositio (id est "Omne
iustum bonum est") contrauertatur et fiat: Omne bonum iustum
est. Inueniuntur igitur propositiones sic: Omne bonum iustum est. Omnis
uirtus iusta est et iustum, id est b de a et c terminis praedicabitur.
Conuersa igitur maiore prioris figurae extremitate, secunda syllogismorum
figura procreatur. Tertia uero figura nascitur, minori propositione
conuersa. Nam si a bonum predicatur de b iusto, ut dicatur: Omne iustum
bonum est b uero iustum praedicatur de c uirtute, ut dicatur: Omnis
uirtus iusta est si, priore propositione manente, id est: Omne
iustum bonum est secunda quae est: Omnis uirtus iusta est
conuertatur et fiat: Omne iustum uirtus est inuenietur omnes
propositiones sic: Omne iustum bonum est. Omne iustum uirtus est et
de b iusto a et c termini praedicantur, et fit tertiae figurae connexio.
Conuersis igitur primis posterisque extremitatibus primae figure, tertia uel
secunda figura nascuntur. At uero unaquaeque harum trium figurarum habet sub se
plures syllogismorum modos, ut modi sub figuris ita sint ut sunt species sub
suis generibus. Habet enim prima figura sub se, Aristotele auctore, modos
quatuor; sed Theophrastus uel Eudemus super hos quatuor quinque alios modos
addunt, Aristolele dante principium in secundo Priorum Analylicorum uolumine,
quod melius postmodum explicabitur. Secunda uero figura habet sub se quatuor
modos; tertia uero, auctore Aristotele, sex; addunt etiam alii unum, sicut ipse
Porphyrius, superiores scilicet sequens. Et quoniam (ut superiore libro
dictum est) aliae propositiones affirmatiuae sunt, aliae negatiuae, et earum
aliae uniuersales, aliae uero particulares, secundum eas ipsas, propositiones syllogismorum
conclusionesque iunguntur. BARBARA Namque primae figurae primus modus est
qui fit ex duabus uniuersalibus affirmatiuis, uniuersalem colligens affirmatiuam.
Si enim a termimis fuerit in omni b termino, et si b terminus de omni c termino
fuerit praedicatus, a terminus de omni c termino praedicabitur. Namque a bonum
si praedicetur de omni b iusto, ut sit: Omne iustum bonum est
b uero iustum, si de c praedicetur uirtute, ut sit: Omnis uirtus iustum
est necessario concluditur extremitatibus ad se inuicem praedicatis, id
est a et c, ut sit: Omnis uirtus bonum est Sunt igitur huiusmodi
propositiones atque conclusio? Si a in omni b fuerit, et b in omni c fuerit, a
terminus de omni c praedicabitur, id est: Omne iustum bonum
est, Omnis uirtus iusta est; et conclusio: Omnis igitur uirtus
bonum est et hic primae figurae primus modus est. CELARENT Secundus
uero modus primae figurae est, quoties ex prima uniuersali negatiua et secunda
uniuersali affirmatiua conclusio uniuersali negatione colligitur. Si enim sit a
malum, b bonum, c iustum, a terminus de nullo b termino praedicabitur. Nullum
enim bonum malum est, b uero terminus de omni c termino praedicabitur, omne
enim iustum bonum est. Quare colligitur, nullum iustum malum est, ut est hoc
modo: Si a terminus de nullo b termino praedicatur, b uero terminus de omni c
fuerit praedicatus, a terminus de nullo c praedicabitur, ut est: Nullum bonum
malum est, Omne iustum bonum est; Nullum igitur iustum malum
est. DARII Tertius uero modus primae figurae est, quoties ex uniuersali
affirmatiua, et particulari affirmatiua, particularis affirmatiua colligitur.
Nam si a uirtus de omni b, id est bono, praedicetur, et b bonum de quodam c, id
est iusto, fuerit praedicatum particulariter, erit quoque conclusio
particularis, hoc modo, ut a uirtus de quodam c iusto particulariter
praedicetur. Si igitur fuerit a terminus in omni b, et b terminus in aliquo c
particulariter, erit a terminus in aliquo c particulariter, ut sit: Omne
bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est; Quoddam igitur iustum
uirtus est. FERIO Quartus modus primae figurae est talis, quoties ex
uniuersali negatione et particulari affirmatione paricularis negatiua
colligitur. Nam si a terminus de nullo b termino praedicetur, b uero termimis
de quodam c termino praedicetur, a terminus de quodam c termino non praedicabitur,
quod monstrat subiecta descriptio. Nam sunt huiusmodi propositiones: Nullum
bonum malum est, Quoddam iustum bonum est; Quoddam igitur iustum
malum non est. Hos ergo quatuor in prima figura modos in Analyticis suis
Aristoteles posuit. Caeteros uero quinque modos Theophrastus et Eudemus
addiderunt, quibus Porphyrius, grauissimae uir auctoritatis, uisus est
consensisse, qui sunt huiusmodi. Nam quoniam particularis affirmatiua sibi ipsi
conuertitur, quisquis ostenderit in conclusione a terminum de quodam c termino
particulariter praedicari, in eadem ipsa conclusione monstrauit quod c terminus
de a termino rursus particulariter praedicetur. Nam si sibi particularis
propositio in coliclusione conuertitur, si a terminus in quodam c termino
fuerit, c terminus de quodam a termino praedicabitur. Item quisquis uniuersalem
negatiuam in conclusione probauerit, necesse est eum ipsius quoque conuersionem
in eadem conclusione probasse. Uniuersalis enim negatio semper sibi
couuertitur. Nam si quis probauit quod a terminus de nullo c termino
praedicatur, non est dubium quin in hac conclusione illud quoque probatum sit,
quod c terminus de nullo a termino praedicetur. Semper enim, ut dictum est,
uniuersalis negatiua sibi ipsi conuertitur. Uniuersalis quoque affirmatiua
duplici conclusione continetur: nam quisquis ostendit a terminum de omni c termino
praedicari, illud quoque ostendit quod c terminus de quodam a termino
particulariter praedicetur. Si quis enim probauerit animal de omni homine
praedicari, ita dicens, omnis homo animal est, illud quoque necessario
monstrauit particulariter, quoniam quoddam animal homo est. Ita semper
uniuersalis negatio, et uniuersalis affirmatio, uel particularis affirmatiua
dupliciter concluduntur. Aliae enim sibi ipsis conuertuntur, quae particularis
est particulariter, quae uniuersalis uniuersaliter. Alia uero, cum ipsa
uniuersalis affirmatiua sit, particulariter sibi ipsi conuertitur. Particularis
autem negatio nunquam sibi ipsi conuertitur, atque ideo simplicem in se retinet
conclusionem. Hoc autem quod nuper diximus, in secundo priorum
Analyticorum libro ab Aristotele monstratur, quod scilicet Theophrastus et
Eudemus principium capientes ad alios in prima figura syllogismos adiiciendos
animum adiecere, qui sunt huiusmodi qui *kata anaklasin* uocantur, id est, per
refractionem quamdam conuersionemque propositionis. BARALIPTON Et est
quintus modus ex duabus uniuersalibus affirmationibus, particularem colligens
affirmatiuam hoc modo: Si a fuerit in omni b, et b fuerit in omni c, posset
equidem concludi quod a terminus esset in omni c termino. Sed quoniam ista
uniuersalis propositio, ut dictum est, particulariter conuertitur, praetermisso
eo quod a terminus de omni c termino praedicatur, conclusio esse dicitur quod c
terminus de quodam a termino praedicatur, quod hoc exemplo monstrandum est. Si
enim sint propositiones sic:Omne iustum bonum est, Omnis uirtus iusta
est; posset concludi equidem quoniam: Omnis uirtus bonum est.
Sed quoniam illa propositio sibi conuertitur, ut sit: Quoddam bonum uirtus
est particulariter, particularis syllogismus conclusioque colligitur ex
duabus uniuersalibus affirmatiuis. Eius uero forma talis est, a terminus in
omni b, b terminus in omni c; igitur c terminus in quodam a, ut est: Omne
iustum bonum est, Omnis uirtus iusta est; Quoddam bonum iustus
est. Per conuersionem refractionemque dicitur, quoniam quod uniuersaliter
colligebatur conuersum, particulariter collectum est. CELANTES Sextus modus
est primae figurae qui fit ex uniuersali negatiua et uniuersali affirmatiua
uniuersalem conclusionem per conuersionem colligens. Nam si a terminus in nullo
b fuerit, b uero terminus in omni c termino fuerit, posset equidem colligi
quoniam a terminus in nullo c termino est: se quoniam uniuersalis negatiua
conuertitur, dicimus quoniam c terminus in nullo a termino est, ut sit hoc
modo: Nullum bonum malum est, Omne iustum bonum est; posset
colligi: Nullum iustum malum est sed ex his per conuersionem
colligimus: Nullum malum iustum est. DABITIS Septimus modus primae
figurae est, qui ex uniuersali affirmatiua et particulari affirmatiua per
conuersionem particularem colligit affirmatiuam. Si enim fuerit a terminus in
omni b, et b terminus de quodam c termino praedicetur, potest a terminus de
quodam c termino praedicari. Sed quoniam particularis affirmatio sibi ipsi
conuertitur, per conuersionem fit conclusio, et dicitur c terminus de quodam a
termino praedicari, ut sit sic: Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum
bonum est; posset equidem concludi, quoniam: Quoddam iustum uirtus
est sed quia particularis affirmatio conuertitur, dicimus quoniam:
Quaedam uirtus iusta est. FAPESMO Octauus modus primae figurae est,
quoties ex uniuersali affirmatione et uniuersali negatione particulariter
colligitur. Si enim a terminus de omni b termino praedicatus fuerit, b uero
terminus de nullo c termino praedicetur, non posset colligi quoniam a terminus
de nullo c termino praedicatur. Cur autem non possit, in resolutoriis dictum
est. Sed quoniam uniuersalis negatiua sibi ipsa conuertitur, potest dici et
conuerti, quoniam c terminus de nullo b termino praedicatur, b uero terminus de
quodam a termino dicitur, quoniam uniuersalis affirmatiua purtioulariter sibi
ipsa conuertitur: quare c terminus de quodam a termino non praedicabitur, ut
sit sic: Omne bonum iustum est, Nullum malum bonum est; non
posset colligi, quoniam: Nullum malum iustum est, sed conuertitur
sic: Nullum bonum malum est, Quoddam iustum bonum est; Quoddam
igitur iustum malum non est. FRISESOMORUM Nonus modus primae figurae est,
qui ex particulari affirmatiua et uniuersali negatiua particularem colligit
negatiuam per conuersionem. Si enim a terminus de quodam b termino, b uero
terminus de nullo c termino praedicetur, non potest quidem dici quoniam a
terminus de quodam c termino non praedicabitur. Cur autem non possit, hoc
quoque in resolutoriis diximus; sed quoniam uniuersalis negatio conuerti
potest, dicitur quoniam c terminns de nullo termino praedicatur, et b terminus
de quodam a praedicatur; c igitur terminus de quodam a non praedicabitur, ut
sit sic: Quoddam bonum iustum est, Nullum malum bonum est; Quoddam
igitur iustum malum non est. Expeditis igitur nouem primae figurae modis,
ad secundae figurae quatuor modos ueniamus. lllud tantum constet, quod
quemadmodum in prima figura per nouem supradictos modos et affirmatio
uniuersalis, et negatio uniuersalis, et affirmatio particularis, et negatio
particularis, in conclusione colligitur, in secunda figura affirmatiuam neque
generalem neque particularem posse colligi sed tantum uel particulariter, uel
uniuersaliter solas colligi negatiuas. CESARR Est autem secundae figurae
primus modus hic, quoties ex uniuersali negatione, et uniuersali affirmatione,
uniuersalis negatiue colligitur. Si enim a terminus de nullo b termino et de
omni c termino praedicetur, terminus de nullo c termino praedicabitur. Sit enim
a bonum, sit b malam, c iustum. Si quis igitur sic dicat: Nullum malum
bonum est, Omne iustum bonum est; concludit: Nullum iustum
malum est. Liquet igitur maiorem extremitatem de minore in conclusione
praedicari. Sed omnes secundae fgurae syllogismis quam uis ueri sint, uerum
tamen ex seipsis non probatur sed ex primae figurae modis implentur. Namque si
a terminos de nullo b termino praedicetur, et in omni c termino sit, nondum
probatum est quoniam omnino b terminus de nullo c termino praedicetur. Sed si
quis ex isto secundae figurae primo modo primae figurae secundum modum faciat,
per conuersionem totus syllogismus conclusioque probata est. Si quis enim in
hoc syllogismo qui est a terminus in nullo b, et idem a terminus de omni c
praedicetur, et a b propositionem conuertat, ut faciat esse b a, nam omnis
uniuersalis negatiua conuertitur; si quis igitur dicat quoniam a terminus de
nullo b termino praedicatur, et b igitur de nullo a termino praedicabitur sed a
terminus de omni c termino praedicabitur. Fit igitur primae figurae
secundus modus ex uniuersali negatiua et uniuersali affirmatiua uniuersalem
colligens negatiuam, ut sit conclusio. De nullo igitur c termino b
praedicabitur. His igitur conuersionibus omnis secundae et tertiae figurae
syllogismus conclusioque colligitur et probatur. Atque ideo quoniam ex seipsis
non sunt probati nisi ex superioribus comprobentur, id est, primae figurae
modis, quicumque in secunda uel tertia figura inuentus fuerit, imperfectus
uocatur syllogismus. CAMESTRES Secundus uero modus secundae figurae est
quoties ex uniuersali affirmatiua et uniuersali negatiua commutatis ordinibus
uniuersalibus rursus negatiua concluditur, Si enim a terminus in omni b termino
fuerit, et de nullo c termino praedicetur, b term in us de nullo c termino
praedicabitur. Sit enim a bonum, b iustum, c malum. Si quis igitur sic
dicat: Omne iustum bonum est, Nullum malum bonum est;
concludit: Nullum igitur malum iustum est. Sed haec complexio
coniunctioque propositionum duplicem conuersionem habet. Ostenditur enim de
secundo primae figurae modo sic. Nam si a terminus in omni b termino est, et de
nullo c termino praedicatur, hic uniuersalis negatiua conuertitur. Erit igitur
ut c terminus de nullo a termino praedicetur. Quod si ita est, erit huiusmodi
syllogismus: c terminus de nullo a termino praedicatur, a terminus in omni b
termino est, c igitur terminus de nullo b termino praedicabitur. Ecce una
conuersio facta est propositionis negatiuae. Sed quoniam diximus concludi non c
in nullo b sed b in nullo c termino, hic uniuersalis conclusio negatiua
conuertitur: et sicut conclusum est c terminum de nullo b termino praedicari,
ita concluditur de nullo c termino b terminum praedicari. FESTINO Tertius
modus secundae figurae est, quoties ex uniuersali negatiua et particulari
affirmatiua particularis negatiua colligitur. Si enim a terminus de nullo
b termino praedicetur, et in quodam c termino fuerit, b terminus de quodam c
termino non praedicabitur. Sit enim a bonum, b malum, c iustum. Si quis igitur
sic dicat: Nullum malum bonum est, Quoddam iustum bonum est;
concludat necesse est: Quoddam iustum malum est. Hic quoque
syllogismus per conuersionem hoc modo probatur. Nam si a terminus de nullo b
termino praedicatur, et b terminus de nullo a termino praedicabitur. Sed a
terminus de quodam c termino praedicatur. Redit igitur primae figurae modus
quartus, qui est ex uniuersali negatione est particulari affirmatione,
particularem scilicet colligens negatiuam, ut in hoc quoque syllogismo. Nam hic
quoque particularem nagatiuam colligit, id est b terminum de quodam c termino non
praedicari. BAROCO Quartus modus secundae figurae est, qui ex uniuersali
affimatione et particulari negatione particularem colligit negatiuam, Nam si a
terminus in omni b termino sit, et de quodam c termino non praedicetur, b
terminus de quodam c termino non praedicabitur. Sit enim a bonum, b iustum, c
malum. Si quis igitur dicat: Omne iustum bonum est, Quoddam malum
bonum non est; concludit: Quoddam igitur malum iustum non est.
Haec uero complexio atque ordo propositionum per conuersionem non potest
approbari. Generalis enim affirmatiua sibi ipsa conuerti non potest. Monstratur
igitur iste syllogismus ex prima figura non per conuersionem sed per impossibilitatem,
quoniam si particularis conclusio negatiua in hoc syllogismo non concluditur,
aliquod inconueniens impossibileque contingit. Sed haec impossibilitas per
primam figuram demonstrabitur. Dico enim quoniam si a terminus de omni b
termino praedicetur, et in aliquo c termino non sit, talem colligi
conclusionem, ut b terminus de aliquo c termino non praedicetur. Nam si hoc
falsum est, huic contraiacens propositio uera erit. Particularibus autem
negatiuis uniuersales affirmatiuae contraiacentes sunt, ut in superiore libro
docuimus. Si igitur hic particularis negatio non est conclusio, erit generalis
affirmatio. Sit enim affirmatio generalis, et b terminus de omni c termino
praedicetur; sed a terminus de omni b termino predicatur, b uero terminus de
omni c termino praedicari dicitur; a igitur terminus de omni c termino
praedicatur, quod fieri non potest. lta enim a c propositionem posuimus prius,
ut diceremus a terminum de quodam c termino non praedicari. Hoc igitur ostensum
est per primum modum primae figurae. Quare in secunda figura omnis
syllogismus imperfectus est, et eius probatio aut per conuersionem in primam
figuram reducitur, aut ex hypothetica dispositione per impossibilitatem, et
primam figuram aliter fieri non posse monstratar, et alii quidem omnes per
impossibile probantur, quod paulo post dernonstrabitur. Restat ut tertiae
figurae modos atque ordines explicemus. Sed antea quam id faciamus, illud prius
uidendum est, quod in tertiae figurae modis quam conclusio colligitur
uniuersalis. Sed si uel negatiuae uel affirmatiuae fuerint collectiones,
particulares semper erunt, nunquam etiam generales. DARAPTI Est autem
tertiae figurae primus modus hic, qui ex duabus uniuersalibus affirmationibus
particularem colligit affirmationem. Nam si a et b termini de omni c termino
praedicentur, a terminus de quodam b termino praedicabitur per conuersionem.
Nam si b terminus de omni c termino praedicatur, et uniuersalis affirmatio
particulariter sibi conuertitur, c terminus de quodam b termino praedicatur.
Quod si ita est, fit tertius primae figurae modus, qui est ex uniuersali et
particulari affirmatiua, et colligit a terminuni de quodam b termino
praedicari. Sit enim a iustum, b uirtus, c bonum. Si quis enim sic dicat: Omne
bonum iustum est, Omne bonum uirtus est; fit conclusio:
Quaedam uirtus iusta est. Mutant alii terminos, et uolunt facere secundum
modum, ut sit a uirtus, b iustum, c bonum, ut si talis syllogismus: Omne bonum
uirtus est, Omne bonum iustum est; et concludatur: Quoddam
iustum uirtus est. Sed hunc Aristoteles a superiore non diuidit, et hos
duos unum modum putat, et idcirco nos septem tertiae figurae esse diximus modos
dubitantes; sed magis Aristoteles sequendus est, atque ideo alium modum dicamus
esse qui possit integre uideri secundus. <III-2: FELAPTON> Secundus
uero modus tertiae figurae est, quoties ex uniuersali negatione et uniuersali
affirmatione negatio colligitur particularis. Si enim a terminus de nullo
c termino, b terminus uero de omni c termino praedicetur, a terminus de quodam
b termino non praedicabitur. Nam si a terminus de nullo c termino
praedicatur, b uero de omni c, et c terminus de quodam termino
praedicabitur. Particulariter enim sibi uniuersalis affirmatiua
conuertitur. Concluditur igitur in quarto primae figurae modo, a terminum
de quodam b termino non praedicari. Sit enim a malum iustum, c bonum. Si quis
sic dicat: Nullum bonum malum est, Omne bonum iustum est;
concludat necesse est: Quoddam igitur iustum malum non est. Ex quo
considerandum est maiorem extremitatem in conclusione praedicari. DISAMISTertius
modus tertiae figurae est, quoties ex particulari et uniuersali affirmatiua
particularis affirmatio concluditur. Si enim a terminus de quodam c, et b
terminus de omni c termino praedicetur, concluditur a terminum de quodam b
termino praedicari per duplicem conuersionem. Quoniam enim b terminus de omni c
termino praedicatur, et a terminus de quodam c termino praedicatur, et
particularis affirmatiua semper sibi ipsi conuertitur, c terminus de quodam a
termino praedicabitur. Sunt igitur propositiones sic: b terminus de omni c
termino, c uero terminus de quodam a termino praedicatur: quod si ita est,
colligitur in primae figurae modo tertio b terminum de quodam a termino
praedicari. Atque ita particularis affirmatiua conuertitur, et a terminus de
quodam b termino praedicabitur, eruntque duplices couuersiones, una
propositionis, alia conclusionis. Sit enim a iustum, b uirtus, c bonum. Si quis
igitur sic dicat: Quoddam bonum iustum est, Omne bonum uirtus
est; concludat necesse est: Quaedam uirtus iusta est. DATISI Quartus
modus tertiae figurae est quoties ex uniuersali affirmatione et particulari
affirmatione affirmatio particularis colligitur. Nam si a terminus de omni c
termino praedicetur, b uero terminus in quodam c termino sit, concluditur a
terminum de quodam b termino praedicari per conuersionem. Si enim b terniinus
de quodam c termino praedicetur, et c terminus de quodam b termino praedicatur,
quonium particularis affirmatiua sibi ipsi conuertitur, et fit syllogismus in
primae figurae tertio modo, qui at ex uniuersali affirmatiue et particulari
affirmatiue, particularem colligens affirmatiuam, ut sit syllogismus hoc modo:
a terminus in omni c, et c terminus in quodam b. Igitur b terminus in quodam b.
Sit n uirtus, h iustum, c bonum. Si quis igitur sic dicat: Omne bonum
uirtus est, Quoddam bonum iustum est; concludet quoniam: Quoddam
iustum uirtus est. BOCARDO Quintus modus tertiae figurae est quoties ex
particulari negatione et uniuersali affirmatione particularis colligitur
negatiua. Sed hic modus per conuersionem probari non potest sed per
impossibilitatem, sicut quartus secundae figurae probatus est modus. Si enim a
terminus de quodam c termino non praedicetur, b uero terminus de omni c termino
praedicetur, a terminus de quodam b termino non praedicabitur; nam si non ita
est, erit illud uerum, a terminum de omni b termino praedicari; sed b terminus
de omni c termino praedicatur, a igitur terminus de omni c termino
praedicabitur, quod fieri non potest. Prius enim ita positus est a terminus, ut
de quodam c termino non praedicaretur. Quod si generalis affirmatio in
conclusione syllogismi non est, ut sit a terminus in omni b termino, erit huic
contraiacans particularis negatio, ut a terminos de quodam b termino non
praedicetur. Sit enim a malum, b iustum, c bonum. Si quis igitur sic dicat: Quoddam
bonum malum non est, Omne bonum iustum est; concludat necesse
est: Quoddam igitur malum non est. FERISON Sextus modus tertiae
figurae est quoties ex uniuersali negatiua et particulari affirmatiua
particularis negatio colligitur per conuersionem. Nam si a terminus in nullo c
termino sit, b uero terminus de quodam c termino praedicetur, fit conclusio a
terminus de quodam b termino non praedicari. Nam si a terminus de nullo c
termino praedicatur, b uero termimis de quodam c termino praedicabitur, et c
terminus de quodam b termino praedicabitur, quoniam particularis affirmatiua
potest conuerti. Fit igitur talis syllogismus, ut a terminus de nullo c termino
praedicetur, c terminus de quodam b termino praedicetur, et a terminus de
quodam b termino non praedicetur. Sit a malum, b iustum, c bonum. Si quis
igitur dicat: Nullum bonum malum est, Quoddam bonum iustum est;
concludit: Quoddam iustum malum non est. His igitur
expeditis, quid ipse syllogismus sit definiendum est. Definitur autem
sic: Syllogismus est oratio in qua positis quibusdam atque
concessis, aliud quiddam quam sint ea quae posita et concessa
sunt, necessaria contingit per ipsa quae concessa sunt. Orationem
diximus esse syllogismum idcirco quoniam omnis definitio a generali trahitur,
genus autem syllogismi EST ORATIO. Quod autem dictum IN QUA POSITIS QUIBUSDAM
ET CONCESSIS, ita intelligendum est, quasi sic dictum esset, secundum quam
positis et concessis; ut enim syllogismus fiat, ante aliquid a proponente
dicitur, quod audiens concedat, quod si ille concesserit, concludit et perficit
syllogismum, idoirco, quia dubiae res per quaedam CONCESSA et probata
monstrantur, conceditur autem aequaliter et negatio uera. Caetera uero in
syllogismi definitione talia sunt quae non integre dispositos syllogismos a
syllogismorum definitione uerorum discernant. Nam quod dictum est IN QUA
POSITIS QUIBUSDAM, sumptorum scilicet et propositionum multitudo monstratur.
Sunt enim qui putantur esse huiusmodi syllogismi, in quibus tantum una
propositio est et una conclusio. Qualis est hic: Vides; Viuis
igitur. Homo es; Animal igitur es. et alia huiusmodi, quos
scilicet ueteres in syllogismis non acceperunt, syllogismos enim est aliquorum
collectio. At uero collectio non nisi plurimorum est, et quicumque unam posuit
propositionem, ille non colligit. Nullum igitur faciet syllogismum. Debet enim
syllogismus, ut angustissimus sit, duabus propositionibus comprobari. Quod
autem dictum est, aliud quiddam necessario euenire quam sint ipsa quae concessa
sunt, quoniam freqaenter tales ab aliquibus flunt syllogismi, ut ea quae
proposuerunt, ipsa etiam in conclusione concludant, ut est hic: Si homo
es, homo es; Homo autem es; Homo igitur es. Idem enim conclusit
quod ante proposuit. Atque ideo, ad istorum discretionem, aliud quiddam
contingere debere dictum est QUAM SINT EA QUAE CONCESSA SUNT, ut in
superioribus omnibus syllogismis quos in trium figurarum modis et
demonstratione posuimus. Tales uero syllogismi quales nunc dicti sunt per
ridiculi sunt, quod id quod ante concessum est quasi dubium quiddam in
conclusione colligitur. Nam quod positum est, necessario contingere, ad hoc
pertinet, quoniam frequenter ad inductionem uerae quaedam propositiones sunt
quarum conclusio nullo modo uera est, ut si quis sic dicat: Qui musicam
nouit musicus est et concedatur; et: Qui arithmeticam arithmeticus
est et: Qui medicinam medicus est et: Qui bonum bonus
est. Cum igitur haec omnia concessa sunt, dicat: Et qui malum, malus
est quod quasi superioribus simile uidetur sed omni modo falsum est: boni
enim homines non aliter cauent, nisi mala nouerint. Atque ideo propter eas
conclusiones quae sunt per eas propositiones quae per inductionem dicuntur,
additum est conclusiones in syllogismis necessarias contingere, id est ex
necessitate contingere. Est etiam alia exposilio sed in Analyticis
nostris iam dicta est. Illud uero quod dictum est, PER IPSA QUAE POSITA SUNT,
hoc propter eos dictum est qui tales faciunt syllogismis, in quibus aut minus
aliquid, aut plus, aut aliud propositum est quam proponi debuerat. Fiunt enim
huiusmodi syllogismi. Si quis enim ita dicat: Socrates homo
est, Omnis homo animal est; et concludat: Socrates igitur
animatus est minus proposuit, quod non dixit omne animal esse animatum.
Nunc si sic proposuisset, recte Socrates animatum esse concluderet, ita
dicendo: Socrates homo est, Omnis homo animal est, et: Omne
animal animatum est; Socrates igitur animatus est. Plus autem
proponere hoc est, ut si quis sic dicat: Omnis homo animal est, Omne
animal animatum est, sed et: Sol in Ariete est; Omnis igitur homo animatus
est hic uero superfluum est quod solem in Ariete esse interposuit. Aliud
autem quam necesss est quidam proponunt hoc modo, ut si quis sic dicat:
Omne homo animal est, Virtus autem bonum est; Omnis igitur homo
animatum est. Nulla igitur harum propositionum ad rem pertinet quod concludere
cupiebat. Expedita igitur syllogismi definitione, ad priorum modorum
naturam resolutionemque ueniamus, et prius omnes in ordinem disponatur. PRIMAE
FIGURAE MODI PRIMUS Omne iustum bonum est, Omnis uirtus iusta
est; Omnis igitur uirtus bona est. SECUNDUS Nullum bonum malum
est, Omne iustum bonum est; Nullum igitur iustum malum
est. TERTIUS. Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est; Quoddam
igitur iustum uirtus est. QUARTUS Nullum bonum malum est, Quoddam
iustum bonum est; Quoddam igitur iustum malum non est. QUINTUS Omne
iustum bonum est, Omnis uirtus iusta est; Quoddam igitur bonum uirtus
est. SEXTUS Nullum bonum malum est, Omne iustum bonum est; Nullum
igitur malum iustum est. SEPTIMUS Omne bonum uirtus est, Quoddam
iustum bonum est; Quaedam igitur uirtus iusta est. OCTAVUS Omne bonum
iustum est, Nullum malum honum est; Quoddam igitur iustum malum non
est. NONUS Quoddam bonum iustum est, Nullum malum bonum est; Quoddam
igitur iustum malum non est. SECUNDAE FIGURAE MODI PRIMUS
Nullum malum bonum est, Omne iustum bonum est; Nullum igitur iustum
malum est. SECUNDUS Omna iustum bonum est, Nullum malum bonum
est; Nullum igitur malum iustum est. TERTIUS Nullum malum bonum est, Quoddam
iustum bonum est; Quoddam igitur iustum malum non est.QUARTUS Omne iustum
bonum est, Quoddam malum bonum non est; Quoddam igitur malum iustum
non est. TERTIAE FIGURAE MODI PRIMUS Omne bonum iustum
est, Omne bonum uirtus est; Quaedam igitur uirtus iusta est. SECUNDUS
Omne bonum uirtus est, Omne bonum iustum est; Quoddam igitur iustum
uirtus est. TERTIUS Nullum bonum malum est, Omne bonum iustum
est; Quoddam igitur iustum malum non est QUARTUS Quoddam bonum
iustum est, Omne bonum uirtus est; Quaedam igitur uirtus iusta
est. QUINTUS Omne bonum uirtus est, Quoddam bonum iustum est; Quoddam
igitur iustum uirtus est. SEXTUS Quoddam bonum malum non est, Omne
bonum iustum est; Quoddam igitur iustum malum non est. SEPTIMUM Nullum
bonum malum est, Quoddam bonum iustum est; Quoddam igitur iustum
malum non est. Hi sunt igitur omnes trium figurarum modi quorum primae figurae
quatuor primae indemonstrabiles nominantur et directi, id est sine aliqua
conuersione monstrati; indemonstrabiles autem quoniam non per alios
demoiistrantur, et perfecti dicuntur, quoniam per seipsos comprobantur. Et
primi quoniam positione et natura primi sunt, et in eos omnes caeteri
resoluuntur. Illi quoque quinque primae figurae modi imperfecti et per
conuersionem sunt. Secundae uero figurae, uel tertiae, omnes imperfecti sunt,
quoniam per primos primae figurae modos quatuor comprobantur, namque in ipsos
resoluuntur: ut eos per conuersionem resoluamus, et per impossibilitatem, ut
duo illi superius demonstrati sunt, consideremus igitur eorum principia,
quoniam unde nascuntur in idipsum resoluuntur. Quintus igitur primae figurae
modus de prima, primo figurae modo procreatur. Binis enim propositionibus
prioribus manentibus, conclusio primi modi particulariter conuersa quintum
efficit syllogismum, quod in subiecta declaratur descriptione: Omne iustum
bonum est,- eadem - Omne iustum bonum est, Omnis uirtus iusta est;- eadem
- Omnis uirtus iusta est; Omnis uirtus bona est.- uersa - Quoddam
bonum uirtus est. Sextus uero primae figurae modus de secundo primae figurae
modo capit principium. Manentibus enim duabus prioribus propositionibus secundi
modi, uniuersali conclusione uniuersaliter conuersa, sextus nascitur
syllogismus, ut subiecta docet descriptio: Nullum bonum malum est,- eadem
- Nullum bonum malum est, Omne iustum bonum est;- eadem - Omne iustum
bonum est; Nullum iustum malum est.- uersa - Nullum malum iustum est. Septimus
modus primae figurae de tertio primae figura, nascitur modo. Manentibus
enim binis propositionibus prioribus, particulari affirmatiua in conclusione
conuersa, septimi modi collocatio procreatur: Omne bonum uirtus est,-
eadem - Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est;- eadem
- Quoddam iustum bonum est; Quoddam iustum uirtus est.- uertitur - Quaedam
uirtus iusta est. Octauus uero et nonus primae figurae modus in quartum
primae figurae modum resoluuntur, non etiam initium sumunt. Octauus resoluitur
in quartum hoc modo: prima enim quarti in secundam octaui uniuersaliter conuersa,
et prima propositione octaui modi particulariter in secundam quarti modi
conuersa, eadem conclusio colligitur, id est negatio particularis. Nullum
bonum malum est, negatio uniuersalis. Quoddam iustum bonum est,
particularis affirmatio. Uniuersaliter conuersa, Omne bonum iustum
est. Uniuersaliter conuersa, Nullum malum bonum est. Quoddam iustum
malum non est, eadem conclusio, Quoddam iustum malum non est. Nonus
uero modus in quartum modum resoluitur sic, prima quarti in secundam noni
propositionem uniuersaliter conuertatur, et secunda quarti particulariter in
primam noni, et eadem conclusio maneat negatio particularis. Nullum bonum
malum est, uniuersalis negatiua. Quoddam iustum bonum est, particularis
affirmatiua. Particulariter conuersa. Quoddam bonum iustum
est. Uniuersaliter conuersa, Nullum malum bonum est. Quoddam iustum
malum non est, eadem conclusio: Quoddam iustum malum non est. Resolutis
igitur quinque primae figurae modis in quatuor superioribus, secundae figurae
quatuor modos in prioris figurae modos quatuor resoluamus, quorum tres per
conuersionem probantur. Quartus uero per solam impossibilitatem. At uero primus
et secundae figurae secundus modus in secundum prioris figure modum
resoluuntur, et resoluitur primus sic. Conuersa enim prima uniuersali oegatione
uniuersaliter, et manente secunda uniuersali affirmatione, eadem conclusio utrorumque
nascitur: Nullum bonum malum est,- conuersa - Nullum malum bonum
est, Omne iustum bonum est;- eadem - Omne iustum bonum est; Nullum iustum
malum est- eadem - Nullum iustum malum est. Secundae figurae secundus
modus in primae figurae secundum modum resoluitur sic: conuersa secunda propositione,
et secunda prima manente, uniuersaliter fit conuersa conclusio: Nulllum
bonum malum est, Omne iustum bonum est, Omne iustum bonum est;- conuersa
- Nullum malum bonum est; Nullum iustum malum est.- conuersa -
Nullum malum iustum est. Tertius uero secundae figurae modus, de quarto primae figurae
procreatur. Ut enim uniuersaliter negatio in primam propositionem uniuersaliter
conuertatur, et secundae propositiones maneant, idem syllogismi terminus
propositioque colligitur hoc modo: Nullum bonum malum est,- conuersa
- Nullum malum bonum est, Quoddam iustum bonum est;- similis -
Quoddam iustum bonum est; Quoddam iustum malum non est.- eadem -
Quoddam iustum malum non est. Quartus modus seoundae figurae quoniam iam
primo, cum factus est per conuersionem, in superioris primae figurae modum
retorqueri non poterat sed per impossibile demonstratum est, hic quoque per
impossibile ad superiores reducitur modos, et quoniam omnes secundae figurae
modi per impossibile monstrantur, idcirco nos quoque inchoantes a quarto omnes
per impossibile resoluamus. Nam quartus secundae figurae modus in primum primae
figurae resoluitur per impossibilitatem, tertius in secundum, secundus in
tertium, primus in quartum, quod hoc modo liquebit. Si quis ergo duas istas
concesserit propositiones, id est: Omne bonum uirtus est. et: Quoddam
iustum uirtus non est necesse est quoque conclusionem concedat quae
est: Quoddam igitur iustum bonum non est. Nam si haec falsa est,
erit ei contraiacens uera quae est, omne iustum bonum est sed illam concessit
quae est prima quarti modi, id est: Omne bonum uirtus est. Ex his igitur
concludat: Omne igitur iustum uirtus est. Sed prius concessit quarti
modi secundum propositionem, quae est: Quoddam iustum uirtus non
est. Nunc uero concedit: Omne iustum uirtus est duas sibi
contraiacentes simul conclusurus est, quod fieri non potest. Hoc autem idcirco
euenit, quia conclusio quarti modi in primi modi secundam propositionem
conuersa est: quod si secunda propositio primi modi in quarti conclusione non
colligitur, quarti oonclusio, id est particularis negatio, permanebit. Sed ne
forte nos conturbet quod alios terminos in resoluendo modo posuimus, quam
superius in disponendo; non enim modo in terminis laboramus sed in figuris et
modis et complexionibus construendis atque resoluendis operam consumimus. Eodem
modo et caeteri secundae figurae in primos quatuor resoluuntur: Omne
bonum uirtus est- eadem - Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum
uirtus non est; Omne iustum bonum est; Quoddam igitur iustum bonum non est. Omne
igitur iustum uirtus est. Tertus secundae figurae modus secundo primae figurae
modo sic resoluitur: si quis duas primas tertii modi concesserit, particuiarem
quoque negatione concludet, quae est: Quoddam igitur iustum bonum non
est. Nam si haec falsa est uera erit contraiacens, quae est: Omne
iustum bonum est. Sed etiam illa concessa est, quae est: Nullum
bonum malum est. Ex his ergo colligitur: Nullum igitur iustum malum
est. Sed prius concessa erat: Quoddam iustum malum est nunc
uero: Nullum iustum malum est duas sibi contraiacentes, uno tempore
concedit, quod fieri non potest. Sublata igitur uniuersali conclusione, quae
est: Omne iustum bonum est remanebit particularis negatio, quae
est: Quoddam iustum bonum non est. Nullum bonum malum est,-
conc. - Nullum bonum malum est. Quoddam iustum malum est; -
contr. - Omne iustum bonum est. Quoddam igitur iustum bonum non
est. - perm. contr. - Nullum ergo iustum malum est. Secundus secundae
figurae in tertio primae figura, modo sic resoluitur: si quis duas secundae
figura, propositiones concesserit, conclusionem quoque concedit, quae
est: Igitur iustum bonum est. Nam si haec falsa est, erit uera
contraiacens ei particularis affirmatio: Quoddam iustum bonum est.
Sed idem concessit illam quae est: Omne bonum uirtus est concludat
necesse est: Quoddam iustum uirtus est qui iam ante concesserat
secundam secundi modi quae est: Nullum iustum uirtus est duas
contraiacentes uno tempore concedit, quod fieri non potest. Omne bonum
uirtus est,- concessae - Omne bonum uirtus est, Nullum iustum uirtus
est; - contraiac.- Quoddam iustum bonum est;
Nullum iustum bonum est. - permut. - Quoddam iustum uirtus
est. Primae item secundae figurae in quartum primae figurae sic
resoluitur: qui concedit duas primi modi propositiones, concedat necesse est et
conclusionem. Nam si illa falsa est, erit uera contraiacens ei particularis
affirmatiua quae est: Quiddam iustum bonum est. Sed idem concessit
illam quae est: Nullum bonum malum est concludat necesse est: Quoddam
igitur iustum malum non est qui ante concesserat illam quae
est: Omne iustum malum est. Uno tempore duas contraiacentes
concedit, quod fieri non potest. Sublata igitur particulari affirmatione quae
est: Quoddam iustum bonum est remanet illa quae est: Nullam
iustum bonum est. Nullum bonum malum est, - similes
- Nullum bonum malum est. Omne iustum malum est; - contraiac.
- Quoddam iustum bonum est. Nullum iustum bonum est. - perm. iacen.
- Quoddam igitur iustum malum non est. Sequitur ut tertiae figurae
modos ad primos quatuor reducamus, quorum quinque per conuersionem et per
impossibilitatem ad primos quatuor resoluuntur unus uero solus, id est quintus,
per solam impossibilitate in priora resoluitur. Primus tertiae modus figurae in
tertium primae figurae hoc modo resoluitur: Si enim prima propositio tertii
modi primae figurae maneat, et secunda propositio particularis tertii modi
prime figurae uniuersaliter conuertatur, et sit secunda propositio primi modi
tertiae figurae, eadem conclusio, colligitur, id est affirmatio particularis.
Omne bonum iustum est,- manet - Omne bonum iustum est, Quaedam
uirtus bona est;- conu. - Omne bonum uirtus est; Quaedam uirtus iusta
est.- manet - Quaedam uirtus iusta est. Vel certe sic, quia superius
talem syllogismum diximus terminis commutatis, quem Aristoteles dissimilem non
putat. Omne bonum uirtus est,- similes - Omne bonum uirtus est,
Quoddam iustum bonum est;- conu. - Omne honum iustum est; Quoddam iustum
uirtus est.- manet - Quoddam iustum uirtus est. Secundus modus
tertiae figurae in quartum modum primae figura, hoc modo resoluitur. Si enim
primae propositiones secundi tertiae figurae modi, et quarti modi primae
figurae maneant, quarti uero modi primae figurae secunda propositio
uniuersaliter conuertatur, et secunda sit proposilio secundi modi tertiae
figurae, eadem conclusio procreatur. Nullum bonum malum est,- manet
- Nullum bonum malum est, Quoddam iustum bonum est;- uersa - Omne
bonum iustum est; Quoddam iustum malum non est.- manet - Quidam iustum
malum non est. Tertius modus tertiae figurae in tertium modum primae figurae
resoluitur. Si enim propositio prima tertii primae figurae modi, et secunda
propositio tertii modi tertiae figurae maneat, et secunda propositio tertli
modi primae figurae particularis particulariter conuertatur, ut sit prima
tertii modi tertiae figurae, conuersa particulariter conclusio nascitur.
Omne bonum uirtus est, Quoddam bonum iustum est, Quoddam iustum bonum est; Omne
bonum uirtus est; Quoddam iustum uirtus est.- uersa - Quaedam
uirtus iusta est. Quartus modus tertiae figurae in tertium modum primae
figure resoluitur: si enim utrorumque prima, maneant propositiones, et secundae
particulares particulariter conuertantur, eaedem conclusiones nascuntur. Omne
bonum uirtus est,- manet - Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum
est;- uertitur - Quoddam bonum iustum est; Quoddam iustum uirtus est - manet
- Quoddam iustum uirtus est. Reliquus sextus syllogismus tertiae
figurae de primae figurae quarto modo procreatur; manentibus enim primis eorum
propositionibus atque secundis particulariter immutatis particulis in utroque
manebit concluso. Nullum bonum malum est,- eadem - Nullum bonum
malum est, Quoddam iustum bonum est;- mutata - Quoddam bonum iustum est;
Quoddam iustum malum non est. - manet - Quoddam bonum iustum est. Quintus
autem qui restat, sicut ante per impossibile probatur, ita etiam nunc per
impossibilitatem resoluitur. Sed quemadmodum unus fuerit resolutus, eodem
ordine omnes resoluendi sunt. Resoluitur autem sextus tertiae figurae modus in
tertium prima, flgurae modum. Quintus autem tertiae figurae modus resoluitur in
primum primae figurae. Quartus tertiae figurae modus resoluitur in quartum
primae figurae modum. Tertius tertiae figurae modus resoluitur in
secundum primae figurae modum. Secundus tertiae figurae modus resoluitur in
primum primae figurae modum. Primae tertiae figurae modi resoluuntur in secundos
primae figurae modos. Resoluitur autem per impossibilitatem sextus tertiae figurae
modus in primae figurae modum tertium hoc modo: si quis igitur duas
proportiones sexti modi tertiae figurae concesserit, concedat etiam necesse est
conclusionem quae est: Quoddam iustum malum non est. Nam si haec
falsa est, erit uera contraiacens ei primae figurae tertii modi prima
propositio quae est: Omne iustum malum est. Sed etiam concessit
propositionem secundam, quae est: Quoddam bonum iustum est. Ex his
igitur concedat necesse est, quoddam bonum malum est qui ante concesserat
primam propositionem sexti modi tertiae figurae quae est: Nullum bonum
malum est. Uno tempore duas sibi contraiacentes concedit, quod fieri non
posse descriptio declarat. Nullum bonum malum est,- contraiac. - Omne
iustum malum est Quoddam bonum iustum est;- concessae - Quoddam bonum
iustum est Quoddam iustum malum est.- permut. iac. - Quoddam bonum malum est. Hoc
modo omnes caeteri modi tertiae figurae in primos modos primae figurae
referuntur, quod subiecta descriptio declarat, in qua prior quintus, qui per conuersionem
resolui non potuit, per impossibilitatem resolutus est. Quoddam bonum
malum non est,- contraiac. - Omne iustum malum est Omne bonum iustum est-
concessae - Omne bonum iustum est. Quoddam iustum malum non est- permut.
- Omne bonum malum est. Omne bonum uirtus est- contraiac. - Nullum iustum
uirtus est. Quoddam bonum iustum est- concessae - Quoddam bonum iustum
est. Quoddam iustum uirtus est- permut. - Nullum bonum uirtus est.
Quoddam bonum iustum est- contraiac. - Nulla uirtus iusta est. Omne bonum
uirtus est- concessae - Omne bonum uirtus est. Quaedam uirtus iust. est-
permut. - Nullum bonum iustum est. In resolutione modi secundi
tertiae figurae in primum modum primae figurae, haec impossibilitas euenit,
quod duas contrarias uno tempore concedit, quod fieri nequit. Numquam enim duae
contrariae uno tempore simul uerae inueniuntur. Nullum bonum malum est,-
contraiac. - Omne iustum malum est., Omne bonum iustum est;- concessae - Omne
bonum iustum est; Quoddam iustum malum non est.- permut. - Nullum bonum
iustum est. Et in sequenti quoque syllogismo duas concedit, quod
impossibile est. Omne bonum iustum est,- contraiac. - Nulla uirtus iustus
est, Omne bonum uirtus est;- concessae - Omne bonum uirtus est; Quaedam
uirtus iusta est.- permut. - Nullum bonum iustum est. Nec nos illud
turbet, quod in quibusdam contraria propositio et conclusio inuenitur, in
quibusdam uero contraiacens. Namque aequaliter peccauit tam qui utrasque
contrarias concesserit, quam si utrasque contraiacentes. Nam quo modo
contraiacentes uno tempore uerae esse non possunt unquam, sic etiam
contrariae. Omne bonum uirtus est,- contraiac. - Nullum iustum uirtus
est, Omne bonum iustum est;- concessae - Omne bonum iustum est; Quoddam
iustum uirtus est.- permut. - Nullum bonum uirtus est. Haec de
categoricorum syllogismorum introductione Aristotelem plurimum sequens, et
aliqua de Theophrasto et Porphyrio mutuatus quantum parcitas introducendi
permisit, expressi. Si qua uero desint in Analyticis nostris calcatius
exprimemus. Nunc uero quantum ad solam categoricorum syllogismorum formam
spectabat, perfectum hic nobis est, et ad cumulum introductionis elaboratum.
Nec hoc nos perturbet, si que hic propositiones et conclusiones falsae sunt,
quandoquidem non ueritates rerum sed connexiones syllogismorum figuras et modos
suscepimus disserendos. Nam his cognitis, si quos ad perfectum studium logicae
disciplinee disputationis subtibilitas traxerit, prius de ambiguis
disputationibus discant, post ab his ueritas in rebus mendaciumque meditabitur.
Cum in omnibus philosophiae disciplinis ediscendis atque tractandis
summum in uita positum solamen existimem, tum iocundius, et ueluti cum quodam
fructu etiam laboris arripio quae tecum communicanda compono. Nam et si ipsa
speculatio ueritatis sua quodam specie sectanda est, fit tamen amabilior cum in
commune deducitur. Nullum enim bonum est quod non pulchrius elucescat, si
plurimorum notitia comprobetur; namque alias taciturnitate compressum et iam
iamque silentio periturum, latius efflorescit et ab obliuionis interitu
scientium participatione defenditur. Fit quoque iocundior disciplina, cum
inter eiusdem sapientiae conscios iubet esse sapientem: quod si accedat, ut
tecum mihi nunc res est, ea quae sponte iocunda sunt in amicitiae
participationem deduci, necesse est studii suauitatem quodam ueluti dulcissimo
caritatis sapore condiri. Nam cum id in se obtineat amicitia proprium munus, ut
nolit habere solitarias cogitationes, tunc quod honeste quisque cogitat, nulli
promptius, nisi quem diligit, confitetur. Quo factum est ut, etiam si immensus
labor coepto operi uiam negabat, animus tamen ad efficiendum quod aggressus
fuerat tui contemplatione sufficeret. Quid enim magnum studiosus tui amor
efficeret, si intra facilitatis terminos constitisset? Quod igitur apud
scriptores quidem Graecos per quam rarissimos strictim atque confuse, apud
Latinos uero nullos repperi, id tuae scientiae dedicatum noster etsi diuturnus,
coepti tamen efficax labor excoluit. Nam cum categoricorum syllogismorum
plenissime notitiam percepisses, de hypotheticis syllogismis saepe quaerebas,
in quibus nihil est ab Aristotele conscriptum. Theophrastus uero, uir omnis
doctrinae capax, rerum tantum summas exsequitur; Eudemus latiorem docendi
graditur uiam sed ita ut ueluti quaedam seminaria sparsisse, nullum tamen
frugis uideatur extulisse prouentum. Nos igitur, quantum ingenii uiribus
et amicitiae tuae studio sufficimus, quae ab illis uel dicta breuiter uel
funditus omissa sunt, elucidanda diligenter et subtiliter persequenda
suscepimus; in qua re superatae difficultatis praemium fero, si tibi munus
implesse uidear amicitiae, etsi non uidear satisfecisse doctrinae.
Vale. Omnis syllogismus certis et conuenienter positis propositionibus
continetur. Propositio uero omnis aut categorica est, quae praedicatiua
dicitur, aut hypothetica, quae conditionalis uocatur. Praedicatiua est in
qua aliquid de alio praedicatur hoc modo: Homo animal est hic enim animal
de homine praedicatum est; hypothetica est quae cum quodam conditione denuntiat
esse aliquid si fuerit aliud, ueluti cum ita dicimus: Si dies est, lux
est Hypotheticae autem propositiones ex categoricis constant, ut paulo
posterius apparebit, quo fit ut syllogismus quidem, qui ex categoricis
propositionibus iunctus est, categoricus appelletur, id est praedicatiuus, qui
uero ex hypotheticis propositionibus constat, dicatur hypotheticus, id est
conditionalis. Ut igitur horum syllogismorum differentia peruideatur,
spectanda prius est eorum in propositionum natura discretio. Videtur enim
in aliquibus propositionibus nihil differre praedicatiua propositio a
conditionali, nisi tantum quidem orationis modo; uelut si quis ita
proponat: Homo animal est id si ita rursus enuntiet: Si homo
est, animal est hae propositiones orationis quidem modo diuersae sunt,
rem uero non uidentur significasse diuersam. Primum igitur dicendum est quod
praedicatiua propositio uim suam non in conditione sed in sola praedicatione
constituit, in conditionali uero consequentiae ratio ex conditione suscipitur.
Rursus praedicatiua simplex est propositio, conditionalis uero esse non
poterit, nisi ex praedicatiuis propositionibus coniungatur, ut cum
dicimus: Si dies est, lux est; Dies est; atque: Lux est
duae sunt praedicatiuae, id est simplices propositiones. Ad hoc illud est,
quo maxime declaratur utrarumque proprietas, quod praedicatiua quidem
propositio habet unum terminum subiectum, alterum praedicatum; et id quod in
praedicatiua propositione subicitur, illius suscipere nomen uidetur quod in
eadem propositione praedicatur hoc modo, ut cum dicimus: Homo animal
est homo subiectum est, animal praedicatum, et homo animalis suscipit
nomen, cum ipse homo animal esse proponitur. At in his propositionibus quae
conditionales dicuntur non est idem praedicationis modus; neque enim omnino
alterum de altero praedicatur sed id tantum dicitur esse alterum, si alterum
fuerit, ueluti cum dicimus: Si peperit, cum uiro concubuit Non enim tunc
dicitur ipsum peperisse id esse quod est cum uiro concumbere sed id tantum
proponitur quod partus numquam esse potuisset nisi fuisset cum uiro concubitus.
Quod si quando in una eademque propositionum proprietas incurrerit, tunc
secundum modum enuntiatae propositionis intelligendi ratio uariabitur hoc modo.
Nam cum dicimus: Homo animal est propositionem facimus praedicatiuam;
at si ita proponamus: Si homo est, animal est in conditionalem uertitur
enuntiationem. In praedicatiua igitur id spectabimus quod ipse homo animal
sit, id est nomen in se suscipiat animalis, in conditionali uero illud
intellegimus, quod si fuerit aliqua res quae homo esse dicatur, necesse sit
aliquam rem esse quae animal nuncupetur. Itaque praedicatiua propositio rem
quam subicit praedicatae rei suscipere nomen declarat; conditionalis uero
propositionis haec sententia est, ut ita demum sit aliquid, si fuerit alterum,
etiamsi neutrum alterius nomen excipiat. Ita igitur propositionibus disgregatis
ex enuntiationum proprietate syllogismi quoque uocabulum perceperunt, ut alii
dicantur praedicatiui alii conditionales. Nam in quibus propositiones
praedicatiuae sunt, eos praedicatiuos syllogismos uocamus, in quibus uero
hypothetica propositio prima est (potest namque et assumptio et conclusio esse
praedicatiua), hi tantum per unius hypotheticae propositionis naturam
hypothetici et conditionales dicuntur. At de simplicibus quidem, id est
praedicatiuis syllogismis, duobus libellis explicuimus, quos de eorum
institutione confecimus. Post simplicium uero syllogismorum disputationem, ordo
est ut de non simplicibus disseramus. Non simplices autem syllogismi sunt qui
hypothetici dicuntur, quos latino nomine conditionales uocamus. Non
simplices uero dicuntur quoniam ex simplicibus constant, atque in eosdem
ultimos resoluuntur, cum praesertim primae eorum propositiones uim propriae
consequentiae ex categoricis, id est simplicibus, capiant syllogismis. Namque
prima propositio hypothetici syllogismi, si dubitetur an uera sit, praedicatiua
conclusione demonstrabitur. Assumptio uero in pluribus modis talium
syllogismorum praedicatiua esse perspicitur, itemque conclusio, uelut cum
dicimus: Si dies est, lucet; Atqui dies est; Haec assumptio
praedicatiua est, et, si quaeratur, praedicatiuo probabitur syllogismo: Lucet.
igitur consecuta rursus est praedicatiua conclusio. Super haec omnis
conditionalis propositio ex praedicatiuis (ut dictum est) iungitur; quod si ex
his et fidem capiunt, et ordinem partium sortiuntur, necesse est categoricos
syllogismos hypotheticis uim conclusionis ministrare. Sed quoniam de
hypotheticis loquimur, quid significet hypothesis praedicendum est. Hypothesis
namque, unde hypothetici syllogismi accepere uocabulum, duobus (ut Eudemo
placet) dicitur modis: aut enim tale adquiescitur aliquid per quamdam inter se
consentientium conditionem, quod fieri nullo modo possit, ut ad suum terminum
ratio perducatur; aut in conditione posita consequentia ui coniunctionis uel
disiunctionis ostenditur. Ac prioris quidem propositionis exemplum est,
ueluti cum res omnes corporales materiae formaeque concursu subsistere
demonstramus. Tunc enim quod per rerum naturam fieri non potest, ponimus, id
est omnem formae naturam a subiecta materia, si non re, saltem cogitatione
separamus; et quoniam nihil ex rebus corporeis reliquum fit, demonstratum atque
ostensum putamus eisdem conuenientibus corporalium rerum substantiam confici,
quibus a se disiunctis ac discedentibus interimatur. In hoc igitur exemplo
posita consentiendi conditione, ut id paulisper fieri intelligatur quod fieri
non potest, id est ut formae a materia separentur, quid consequatur intendimus,
perire scilicet corpora, ut eadem ex iisdem consistere comprobemus. Nam quoniam
interitus corporalium rerum consequitur, iure dicimus res omnes corporeas forma
materiaque constare. Sed hae quidem huiusmodi propositiones quae ex
consentientium conditione proueniunt, nihil his differunt quas simplices
categoricae institutionis primi libri tractatus ostendit; quae uero a
simplicibus differunt illae sunt, quando aliquid dicitur esse uel non esse, si
quid uel fuerit uel non fuerit. Hae semper cum coniunctionibus proponuntur, ut
cum dicimus: Si homo est, animal est. Si ternarius est, impar est
uel caetera huiusmodi. Haec enim ita proponuntur, ut si quodlibet illud fuerit,
aliud consequatur. Vel cum dicimus: Si homo est, equus non est
rursus haec eodem modo proponitur in negatione, quo superior in affirmatione
proponebatur; hic enim dicitur: Si hoc est, illud non est et ad hunc
modum caeterae. Possunt autem aliquando etiam hoc enuntiari modo: Cum hoc
sit, illud est ueluti cum dicimus: Cum homo est, animal est
uel: Cum homo est, equus non est quae enuntiatio propositionis
eiusdem potestatis est cuius ea quae hoc /216/ modo proponitur: Si homo
est, animal est. Si homo est, equus non est. Fiunt uero propositiones
hypotheticae etiam per disiunctionem ita: Aut hoc aut illud est. Nec
eadem uideri debet haec propositio quae superior, quae sic enuntiatur: Si
hoc est, illud non est haec enim non est per disiunctionem sed per
negationem. Negatio uero omnis infinita est, atque ideo et in contrariis, et in
contrariorum medietatibus, et in disparatis fieri potest (disparata autem uoco,
quae tantum a se diuersa sunt, nulla contrarietate pugnantia, ueluti terra,
ignis, uestis, et caetera). Nam: Si album est, nigrum non est Si
album est, rubrum non est Si disciplina est, homo non est at in ea
quae disiunctione fit, alteram semper poni necesse est hoc modo: Aut dies est
aut nox est quod si cuncta ea quae per negationem dici conuenit ad
disiunctionem transferamus, ratio non procedit. Quid enim si quis
dicat: Aut album est aut nigrum Aut album est aut rubrum Aut
disciplina est aut homo...? fieri enim potest ut nihil horum sit. Igitur
quoniam per disiunctionem propositio in certis tantum rebus in quibus alterum
eorum euenire necesse est ponitur, haec autem per negationem separatio in
omnibus etiam his quae suam inuicem naturam non perimunt poni potest, aperta
ratione discreta est. Omnis igitur hypothetica propositio uel per
connexionem fit (per connexionem uero illum quoque modum qui per negationem fit
esse pronuntio), uel per disiunctionem; uterque enim modus ex simplicibus
propositionibus comparatur. Simplices autem propositiones sunt quas
praedicatiuas primo Institutionis Categoricae libro diximus. Haec uero sunt cum
aliquid de aliquo praedicatur, uel affirmando, uel negando, ut: Dies est,
lux est. At si his media conditio interueniat, fiet: Si dies est,
lux est fitque una hypothetica propositio ex duabus categoricis
iuncta. Sed quoniam omnis simplex propositio uel affirmatiua est uel
negatiua, quatuor modis per connexionem fieri hypotheticae propositiones
possunt, aut enim ex duabus affirmatiuis, aut ex duabus negatiuis, aut ex
affirmatiua et negatiua, aut ex negatiua et affirmatiua. Harum omnium exempla
subdenda sunt, quo id quod dicimus clarius innotescat. Ex duabus
affirmatiuis: Si dies est, lux est ex duabus negatiuis: Si non
est animal, non est homo ex affirmatiua et negatiua: Si dies est,
nox non est ex negatiua et affirmatiua: Si dies non est, nox
est. Sed quoniam dictum est idem significare "si" coniunctionem
et "cum" quando in hypotheticis propositionibus ponitur, duobus modis
conditionales fieri possunt: uno secundum accidens, altero ut habeant aliquam
naturae consequentiam. Secundum accidens hoc modo, ut cum dicimus: Cum
ignis calidus sit, caelum rotundum est. Non enim quia ignis calidus est,
caelum rotundum est sed id haec propositio designat, quia quo tempore ignis
calidus est, eodem tempore caelum quoque rotundum est. Sunt autem aliae quae
habent ad se consequentiam naturae; harum quoque duplex modus est, unus cum
necesse est consequi, ea tamen ipsa consequentia non per terminorum positionem fit;
alius uero cum fit consequentia per terminorum positionem. Ac prioris
quidem modi exemplum est, ut ita dicamus: Cum homo sit, animal est
non enim idcirco animal est quia homo est, sed fortasse a genere principium
ducitur, magisque essentiae causa ex uniuersalibus trahi potest, ut idcirco sit
homo quia animal est. Causa enim speciei genus est. At qui dicit: Cum homo
sit, animal est rectam ac necessariam consequentiam facit, per terminorum
uero positionem talis consequentia non procedit. Sunt autem aliae hypotheticae
propositiones in quibus et consequentia necessaria reperitur, et ipsius consequentiae
causam terminorum positio facit, hoc modo: Si terrae fuerit obiectus,
defectio lunae consequitur. Hic enim consequentia rata est, et idcirco
defectio lunae consequitur, quia terrae interuenit obiectus. Istae igitur sunt
propositiones certae atque utiles ad demonstrationem. Partimur autem
propositiones hypotheticas in suas ac simplices propositiones, et primam
quidem, cui coniunctio praeponitur, praecedentem dicimus, secundam uero
consequentem, ut in hac: Si dies est, lux est praecedentem dicimus eam
quae dicit: "si dies est"; consequentem uero partem: "lux
est". In disiunctiuis uero propositionibus ordo enuntiandi praecedentem
uel consequentem facit, ut: Aut dies est aut nox est nam quae prima
proponitur praecedens, quae posterior consequens appellatur. Ac de partibus
quidem hypotheticarum propositionum ista suffficiunt. Illud nunc expediendum
uidetur, quod etiam ab Aristotele dicitur. Idem cum sit et non sit, non
necesse est idem esse, ueluti cum sit a, si idcirco necesse est esse b, idem a
si non sit, non necesse est esse b, idcirca quoniam non est a. Ad huiusmodi
uero rei demonstrationem impossibilitatis definitio praemittenda est, quae est
huiusmodi. Impossibile est quo posito aliquid falsum atque impossibile
comitatur, eo nomine quod impossibile primitus propositum fuit. Sit igitur
positum, cum sit a, esse b, id est hanc inter a atque b esse consequentiam, ut
si concessum fuerit esse a, necesse sit concedere esse b. Itaque
proponatur: Si a est, b est dico quia si a non fuerit, non necesse
est esse b. Ac primum quae sit propositionum consequentia consideremus.
Si enim fuerit tale coniunctum, ut si sit a, etiam b esse necesse sit, si b non
fuerit, a non esse necesse est; quod tali demonstratione cognoscitur. Si sit a,
necesse sit esse b; dico quia si b non sit, a non erit. Ponatur enim non esse
b, et sit si fieri potest a. Sed dictum est, si sit a, necessario concedi esse
b. Cum igitur sit b, non erit b: nam quia ponimus non esse b, non erit b, quia
uero ponimus esse a, erit b; erit igitur b ac non erit, quod fieri non potest.
Impossibile est igitur non esse b et esse; et demonstratione quidem firma sic
utimur. Exemplo uero id clarius innotescet. Nam si homo est, animal est;
si non est animal, non est homo; non uero si homo non fuerit, animal non est,
multa enim sunt animalia quae homines non sunt. Itaque in consequentia
propositionis coniunctae, si est primum, secundum esse necesse est, si secundum
non fuerit, non erit primum; at uero si primum non fuerit, non necesse est ut
non sit secundum, nec uero necesse est ut sit. Id enim demonstrandum esse dudum
nobis propositum fuit. Sit enim a, idque cum sit, necesse sit esse b: dico quia
si non fuerit a, non necesse est esse b; nec id dico quoniam si non fuerit a,
necesse est non esse b sed tantum non necesse est esse b. Nam quia paulo
ante demonstratum est, si b non fuerit, necessario non esse a, si eundem b
terminum non esse contingerit, non erit a. Sed si cum non sit a, necesse est
esse b, idem b ex necessitate erit, ac non erit: nam quia b terminum non esse
contingit, non erit; quia uero, si a non fuerit, b esse necesse est, erit. Idem
igitur b terminus erit ac non erit, quod est impossibile. Ex his igitur
demonstratum esse arbitror, in coniuncta hypothetica propositione, si sit
primum consequi ut sit secundum; si non sit secundum, consequi ut non sit
primum; si uero non sit primum, non consequi ut sit uel non sit secundum. Nam
et illud apparet, si sit secundum non consequi ut sit uel non sit primum, ut in
ea propositione quae est: Si homo est, animal est si animal sit non
consequitur ut sit homo uel non sit; quod si primum non sit, non consequitur ut
necessario sit uel non sit secundum, uelut in eadem propositione, si homo non
fuerit, non necesse est ut aut sit animal, aut non sit. Ex omnibus igitur solae
duae consequentiae stabiles sunt et immutabiliter constant: si sit primum, ut
consequatur ut sit secundum; si secundum non fuerit, necessario consequi ut non
sit primum. His ita determinatis, illud adiungam, quoniam, cum omnis
hypothetica propositio simplex non sit, atque ex aliis propositionibus
coniungatur, sunt tamen quaedam hypotheticae quae, si reliquis conditionalibus
comparentur, simplices existimentur. Omnis enim conditionalis propositio aut
connexa est aut disiuncta; haec uero quoniam ex praedicatiuis copulantur, in
connexis propositionibus quatuor fieri necesse est huius copulationis modos. Namque
hypothetica propositio aut ex duabus simplicibus coniuncta est, et uocatur
simplex hypothetica, ut haec: Si a est, b est ueluti cum
dicimus: Si est homo, animal est; Homo est enim; et Animal
est. duae sunt simplices propositiones; aut ex duabus hypotheticis
copulatur, et dicitur composita, ueluti cum dicimus: Si cum a est, b
est; Cum sit c, est d ueluti cum tali propositione enuntiamus:
Si cum homo est, animal est, cum sit corpus erit substantia.
Etenim: Si cum homo est, animal est una est hypothetica; alia
uero: Cum sit corpus substantia est ex quibus coniungitur una
propositio quae composita nuncupatur. Aut ex una simplici et ex una hypothetica
copulatur, uelut haec: Si a est, cum sit b, est c ueluti cum
dicimus: Si homo est, cum sit animal, est substantia
namque: Homo est simplex est propositio; Cum sit animal esse
substantiam hypothetica ex ipsa consequentia conditionis ostenditur; aut
ex priore hypothetica et simplici posteriore committitur, ut cum
dicimus: Si cum sit a, est b, erit et c ueluti hoc modo: Si cum
sit homo, animal est, est et corpus. Hypothetica namque est prior ea quae
proponit: Si cum sit homo, animal est simplex posterior quae hanc
hypotheticam propositionem sequitur, id est, corpus esse. Haec quoque quoniam
non ex simplicibus copulatae sunt, compositae dicuntur. Sed priores quidem
quae ex simplicibus propositionibus constant, et simplices hypotheticae
nuncupantur, in duobus terminis constitutae sunt. Terminos autem nunc partes
propositionis simplices, quibus iunguntur, appello. Quae uero compositae
hypotheticae sunt, illae quidem quae ex duabus hypotheticis constant, quatuor
terminis copulatae sunt; illae uero quae ex hypothetica et simplici, uel
simplici atque hypothetica coniunctae sunt, ex tribus terminis coniunctae sunt.
Harum igitur quae sunt hypotheticae simplices uel compositae differentiae
similitudinesque dicendae sunt. Nam quae ex simplicibus copulantur, si ad
eas quae ex hypotheticis duabus iunctae sunt comparentur, consequentia quidem
eadem est et proportio manet, tantum termini duplicantur. Nam quem locum in his
propositionibus hypotheticis quae ex simplicibus constant ipsae simplices
propositiones tenent, eundem in his propositionibus quae sunt hypotheticae ex
hypotheticis constantes, illae conditiones tenent quibus illae propositiones
inter se iunctae et copulatae esse dicuntur. Nam in hac propositione quae
dicit: Si est a, est b et in ea quae dicit: Si cum sit a, est
b, cum sit c, est d quem locum in ea propositione quae ex duabus
simplicibus continetur tenet ea quae prior est: Si est a eundem locum
tenet, in ea propositione quae ex duabus hypotheticis propositionibus
copulatur, ea quae prior est: Si cum est a, est b. Hic namque
duarum inter se propositionum coniunctionis conditione facta est consequentia.
Itemque quam uim obtinet ex utrisque propositionibus copulatae hypotheticae
portio quae infertur, id est esse b eandem uim obtinet in
propositione ex hypotheticis iuncta ea quae sequitur, id est Cum sit c,
esse d atque id tantum differt, quia cum in prima propositione ex
simplicibus iuncta propositio propositionem sequatur, in secunda propositione
ex hypotheticis iuncta conditio consequentiae conditionis consequentiam
comitatur. Nihil est enim aliud dicere: Si est a, est b quam
ei propositioni per quam dicimus esse a, illam esse comitem per quam b esse
praedicamus; at in ea propositione quae ex hypotheticis iuncta est cum
dicimus: Si cum sit a, est b, cum sit c esse d illud dicitur, ei
consequentiae quae inter a et b est, eam esse consequentiam comitem quae est
inter c et d, ita ut si consequitur posito a esse b, consequatur sine dubio c
posito esse d. At in his propositionibus quae ex simplici et hypothetica
consistunt, illa ratio est ut uel propositionem conditio consequentiae
consequatur, uel conditionem consequentiae propositio comitetur. Nam cum
dicimus: Si a est, cum sit b, esse c id intellegi uolumus, ei
propositioni per quam dicimus: Est a consequi eam conditionem per
quam dicimus: Cum sit b, esse c id est ut, si est a, necesse sit b
termino comitem esse c terminum; cum uero dicimus: Si cum a est, b est,
esse c nihil aliud intellegi uolumus, nisi duarum inter se consequentium
propositionum alterius propositionis consequi ueritatem, ut si habeant inter se
consequentiam a atque b, necesse sit hanc conditionem consequentiae
propositionis eius per quam dicimus esse c consequi ueritatem, id est, si
necesse est a posito esse b, necesse est etiam c esse. Similes igitur
syllogismi fient earum propositionum quae ex simplicibus et earum quae ex non
simplicibus utrisque iunguntur: earum uero quae ex una simplici et ex altera
hypothtica copulantur, diuersi quidem a superioribus, ipsi tamen inter se
similes fiunt. Nec interest utrum prima hypothetica, secunda sit simplex, an e
conuerso, ad syllogismorum modos, nisi forsitan ad ipsius tantum ordinis
permutationem. Cum igitur demonstrata fuerit earum propositionum quae ex
simplicibus constant, syllogismorum ratio demonstrata quoque uidetur earum
propositionum esse, quae ex hypotheticis committuntur; et cum quarumlibet earum
propositionum quae ex simplici et hypothetica constant syllogismorum natura
perspecta sit, etiam conuersi ordinis propositionum natura quales faciat syllogismos
ostenditur. Est etiam species alia propositionum in connexio. ne
positarum, quae media quodammodo sit earum propositionum quae ex hypotheticis
simplicibusque iunguntur, et earum quae duabus hypotheticis copulantur. Nam si
ad numerum respicias propositionum quasi ex tribus terminis constant; quod si
ad conditionales animum referas, quasi ex duabus conditionalibus uidentur esse
compositae: quae medietas idcirco euenit quoniam unus in his terminus communis
utrisque conditionalibus inuenitur. Proponuntur uero hae uel per primam
figuram, uel per secundam, uel per tertiam. Per primam hoc modo: Si
est a, est b; et si est b, est c igitur b in utrisque numeratur, et sunt
tres quidem termini hi: Est a. Est b. Est c. Duae uero conditionales hoc
modo: Si est a, est b Si est b, est c namque b utrisque
communis est: atque ideo inter eas propositiones quae ex tribus terminis, et
eas quae ex quatuor componuntur, mediae sunt huiusmodi propositiones. Per
secundam uero figuram proponitur hoc modo: Si est a, est b; si non est a,
est c. Per tertiam uero figuram sic: Si est b, est a; si est c, non
est a. Ac de connexis quidem ista sufficiunt. Disiunctiuae uero
propositiones semper ex contrariis constant, ut haec: Aut a est aut b
est. Altero enim posito alterum tollitur, et interempto altero ponitur
alterum: nam si est a, non est b, si non est a, est b, eodem modo etiam, si sit
b, non erit a, si non sit b, erit a. His igitur expeditis, ad connexas
reuertamur. In illis enim uel propositio propositionem, uel conditio
conditionem, uel propositio conditionem, uel conditio sequitur propositionem.
Dicendum igitur est quae propositiones quarum propositionum consequentes esse
uideantur, et quae contrarietatis modo quam longissime a se differant, quae
uero oppositionis contradictione dissentiant. Simplicium namque, id est
praedicatiuarum propositionum, aliae praeter modum proponuntur, aliae cum modo:
praeter modum sunt quaecumque purum esse significant hoc modo: Dies
est Socrates philosophus est et quae similiter proponuntur; quae
uero cum modo sunt, ita proponuntur: Socrates uere philosophus est.
Hoc enim 'uere' modus est propositionis. Sed maximas syllogismorum faciunt
differentias haec propositiones cum modo enuntiatae, quibus necessitatis aut
possibilitatis nomen adiungitur. Necessitatis hoc modo, cum dicimus: Ignem
necesse est calere possibilitatis, ut cum ita proponimus: Possibile est a
Graecis superari Troianos. Quo fit ut omnis propositio aut inesse
significet, aut necessario inesse, aut, cum non sit aliquid, tamen enuntiet
posse contingere; quarum quidem ea quae inesse significat simplex est, neque in
nullas partes alias diduci potest, ea uero quae ex necessitate aliquid inesse
designat, tribus dicitur modis. Uno quidem quo ei consimilis est propositioni
quae inesse significat, ut cum dicimus, Necesse esse Socratem sedere, dum
sedet. Haec enim eandem uim obtinet ei quae dicit: Socrates
sedet. Alia uero necessitatis significatio est, cum hoc modo
proponimus: Hominem necesse est habere cor dum est atque uiuit hoc
enim significare uidetur haec dictio, non quoniam tamdiu eum necesse sit habere
quamdiu habet sed tamdiu eum necesse est habere quamdiu fuerit ille qui
habeat. Alia uero necessitatis significatio est uniuersalis et propria,
quae absolute praedicat necessitatem, ut cum dicimus: Necesse est Deum
esse immortalem nulla conditione determinationis apposita. Possibile
autem idem quoque tribus dicitur modis: aut enim quod inest possibile esse
dicitur, ut: Possibile est Socratem sedere, dum sedet aut quod omni
tempore contingere potest, dum ea res permanet cui aliquid contingere posse
proponitur, ut: Possibile est Socratem legere quamdiu enim Socrates
est, legere potest; item possibile est quod absolute omni tempore contingere potest,
ut auem uolare. Ex his igitur apparuit alias propositiones esse inesse
significantes, alias necessarias, alias contingentes atque possibiles, quarum
necessariarum et contingentium cum sit trina partitio, singulae ex iisdem
partitionibus ad eas quae inesse significant referuntur. Restant igitur duae
necessariae et duae contingentes, quae cum ea quae inesse significat numeratae,
quinque omnes propositionum faciunt differentias. Omnium uero harum
propositionum aliae sunt affirmatiuae, aliae negatiuae. Affirmatiua inesse
significans est quae dicit: Est Socrates negatiua quae proponit: Non
est Socrates. Necessariarum uero propositionum affirmatiuarum duae
uidentur esse negationes, una contraria, altera uero opposita. Eius namque,
quae dicit: Necesse est esse a quolibet modo ex utrisque qui dicti
sunt, aut ea est negatio quae dicit: Necesse est non esse a aut ea
quae dicit: Non necesse est esse a quarum quidem ea quae
dicit: Necesse est non esse a contraria est ei quae
dicit: Necesse est esse a. Utraeque enim falsae poterunt inueniri,
ueluti si dicimus: Necesse est Socratem legere Necesse est Socratem
non legere utraque mentitur. Nam et cum legit, non ex necessitate legit,
et cum non legit, nulla ne legat necessitate constringitur sed est utrumque
possibile. At uero ea quae dicit: Non necesse est esse
opposita est ei quae proponit: Necesse est esse una enim semper uera
est, semper falsa altera reperitur. In contingentibus uero atque possibilibus
eadem ratio est. Huic enim quae dicit: Contingit esse a tum ea
uidetur obiecta quae dicit: Contingit non esse a tum ea quae
proponit: Non contingit esse a. Atque ea quidem quae
dicit: Contingit non esse a contingens negatio nuncupatur, ueraque
esse potest cum ea affirmatione quae dicit: Contingit esse a ueluti
cum dicimus: Contingit sedere Socratem Contingit non sedere
Socratem. Et haec quidem non dicuntur esse contrariae, quoniam simul uerae
esse possunt; at uero opposita sunt quotiens ipsum contingens negatur, ut si
aduersus eam quae dicit: Contingit esse a ea proponatur quae
dicit: Non contingit esse a id enim ista significat omnino non posse
contingere. Quae cum ita sint, cumque inesse significantes propositiones
praeter ullum dicuntur modum, his ad esse iuncto aduerbio negatiuo, negatio
plena perficitur; quae uero cum modo proponuntur, si necessariae sint et ad esse
negatio coniungatur, ut ea quae dicit: Necesse est non esse fit
necessaria negatio. Si uero ipsi necessario negatio praeponatur, fit
negatio necessarii uehementer affirmationi opposita, ut ea quae dicit: Non
necesse est esse. Item in contingentibus si ad esse negatio ponatur, fit
contingens negatio, ut ea quae dicit: Contingit non esse. Si uero
ipsi contingenti negatio iungatur, fit contingentis negatio contingenti
affirmationi uehementer opposita, ut ea quae dicit: Non contingit
esse. Sed quoniam omnis propositio aut uniuersalis aut particularis aut
indefinita aut singularis proponitur -- uniuersalis hoc modo: Omnis homo
legit particularis sic: Quidam homo legit indefinita
sic: Homo legit singularis sic: Socrates legit -- necesse
est ut sicut in Categoricorum Syllogismorum Institutione monstratum est, illae
sibi maxime uideantur oppositae quaecumque uel uniuersale affirmant, si
particulariter denegetur, uel uniuersale denegant, si particulariter
affirmetur, et quae singulares sunt, si illa quidem in affirmatione sit posita,
illa uero in negatione. Quae cum ita sint, si haec eadem ratio ad contingentes
et necessarias referatur, idem in necessariis et contingentibus inuenitur, ut
si quis dicat: Omnem a terminum esse necesse est aliusque neget
dicens: Non necesse est omnem a terminum esse fecit oppositam
negationem. Et si dicat aliquis: Contingit omnem a terminum
esse itaque aliquis neget: Non contingit omnem a terminum esse
fecerit oppositam negationem; in utrisque enim negatio et modum remouet, et
significationem uniuersalitatis exstinguit. Atque hoc quidem in simplicibus et
categoricis propositionibus euenire necesse est, de quarum natura diligentius
persecuti sumus in his uoluminibus, quae secundae editionis expositionum in
Aristotelis *Perihermeneias* inscripsimus. Si quis igitur propositionum omnium
conditionalium numerum quaerat, ex categoricis poterit inuenire; ac primum in
connexis ex duabus simplicibus inquirendus est hoc modo. Nam quoniam
propositio simplex hypothetica ex categoricis duabus iungitur, una earum uel
inesse significabit, uel contingere esse dupliciter, uel necesse esse
dupliciter; quod si sint affirmatiuae, quinquies affirmatiua enuntiatione
proponentur; sed quoniam omnis affirmatio habet oppositam negationem, rursus
quinquies negatiua enuntiatione poterunt pronuntiari. Erunt igitur in
prima propositione, quae una pars est hypotheticae propositionis in negatione
et affirmatione constitutae modorum, propositiones decem. Secunda etiam
propositio, quae pars est hypotheticae, totidem affirmationibus et negationibus
proponi potest; erunt igitur eius quoque enuntiationes decem. Sed cum prima
propositio secundae propositioni quodam consequentia copuletur, ut una
hypothetica fiat, omnes decem affrmatiuae ac negatiuae propositiones omnibus
decem affirmatiuis negatiuisque propositionibus applicabuntur. Itaque
complexae centum omnes efficiunt propositiones, haec quae connexae ex
simplicibus coniunguntur. Secundum hunc uero modum potest propositionum numerus
inueniri etiam in his propositionibus /246/ quae ex categorica et hypothetica
copulantur, uel quae ex duabus conditionalibus fiunt. Nam quae ex categorica et
conditionali constant, uel e diuerso, haec tribus categoricis iunctae
sunt. Quod si duarum inter se praedicatiuarum in afffirmatione uel
negatione complexio secundum esse, uel necessario, uel contingenter esse,
quinque modos, centum efficit complexiones, quoniam tertia propositio uel
affirmatiua erit uel negatiua, et si affirmatiua quinque modis uel inesse
significans, uel necessario inesse dupliciter, uel contingenter inesse
dupliciter, itemque totidem negabitur modis, simul non amplius quam decies
proponetur. Quo fit ut tertia propositio cum duabus superioribus, centum inter
se modis copulatis atque complexis, iuncta atque commissa, mille omnes faciat
complexiones. Centum namque duarum propositionum modi, cum decem modis tertiae
propositionis complicati, mille perficiunt; decies enim centum mille sunt.
Rursus quoniam ex duabus hypotheticis iuncta conditionalis quatuor categoricis
copulatur, et duae inter se primae categoricae centum complexionibus
iungebantur, necesse est ut posteriores quoque duae centum complexionibus
connectantur; quod si centum superiorum propositionum categoricarum modi centum
posteriorum categoricarum modis complicentur, fient decem milia
complexiones. In illis autem propositionibus quae tribus uariantur
figuris, siquidem medius terminus similiter et in prima et in secunda
hypothetica proponatur, mille erunt complexiones, ad earum similitudinem quae
ex tribus categoricis connectuntur; tunc enim unus atque idem terminus in
utrisque tres neque amplius faciet enuntiationes. Similiter uero in utrisque
proponitur hoc modo: Si est a, est b; si est b, est c hic enim b terminus,
et ad a terminum, et ad c positus est, esse significans. Idem in
necessariis et contingentibus intelligendum est. At si ita proponatur: Si
est a, est b, et, si necesse est esse b, est uel non est c duae
propositiones conditionales, id est quatuor praedicatiuae fiunt. Quo fit ut
secundum eas quae ex quatuor praedicatiuis connectuntur, decem millia faciunt
complexiones. Atque hi numeri tam in prima quam in secunda uel tertia figura
sunt inspiciendi. Et nos quidem quantus esse propositionum numerus posset,
ascripsimus. Numquam tamen dissimiliter medius terminus enuntiatur:
namque ut fiat extremorum conclusio, medius terminus intercedit, cuius
communitas extrema coniungit. Quod si medius diuersis modis in utraque
propositione dicatur, nec connectuntur extrema, atque ideo ne syllogismus
quidem ullus fieri potest, cum praesertim ne una quidem propositio dici possit,
in qua medius terminus dissimiliter enuntiatur. Longe autem multiplex
propositionum numerus existeret, si inesse significantes et necessarias et
contingentes affirmatiuas negatiuasque propositiones per uniuersales ac
particulares, uel oppositas ac subalternas uariaremus; sed id non conuenit,
quia conditionalium termini propositionum indefinito maxime enuntiantur modo. Atque
ideo superuacuum iudicaui determinatarum secundum quantitatem propositionum
quaerere multitudinem, cum determinatae conditionales proponi non soleant; fere
autem hypotheticae propositiones ne per necessitatem quidem uel per contingens
enuntiantur sed illae maximae in usum collocutionis deducuntur, quae inesse
significant. Omnes uero necessariam tenere consequentiam uolunt, et quae inesse
significant, et quibus necessitas additur, et quibus praedicatio possibilitatis
aptatur; haec enim terminis applicatur. Necessitas uero hypotheticae
propositionis, et ratio earum propositionum ex quibus iunguntur inter se
connexiones, consequentiam quaerit, ut cum dico: Si Socrates sedet, et
uiuit neque sedere eum, neque uiuere necesse est sed, si sedet, uiuere
necesse est. Item cum dicimus: Si sol mouetur, necessario ueniet ad
occasum tantumdem significat quantum, si sol mouetur, ueniet ad occasum.
Necessitas enim propositionis in consequentiae immutabilitate consistit. Item
cum dicimus: Si possibile est legi librum, possibile est ad uersum
tertium perueniri rursus necessitas consequentiae conseruata est;
nam si possibile est legi librum, necesse est etiam id esse possibile, ut ad
uersum tertium perueniatur. Opponuntur autem hypotheticis propositionibus illne
solse quae earum substantiam perimunt. Substantia uero propositionum
hypotheticarum in eo est, ut earum consequentiae necessitas ualeat
permanere. Si quis igitur recte conditionali propositioni repugnabit, id efficiet
ut earum destruat consequentiam, ueluti cum ita dicimus: Si a est, b
est non in eo pugnabit si monstret, aut non esse a, aut non esse b sed si
posito quidem a, ostendit non statim consequi esse b sed posse esse a, etiamsi
b terminus non sit. Uel si negatiua sit conditionalis, eodem destruetur modo:
ut cum dicimus: Si a est, b non est non ostendendum est, aut non
esse a, aut b esse; sed cum a sit, posse esse b terminum. Sunt autem
hypotheticae propositiones, aliae quidem affirmatiuae, aliae negatiuae; sed de
his nunc loquor quae in consequentia positae in connexione esse dicuntur:
affirmatiuae quidem, ut cum dicimus: Si est a, est b. Si a non est, b
est negatiuae uero: Si a est, b non est. Si non est a, non est
b. Ad sequentem enim propositionem respiciendum est, ut an affirmatiua
uel negatiua sit propositio iudicetur; idem de compositis syllogismis
conditionalibus intellegi oportebit. De his autem propositionibus quae in
disiunctione sunt positae, cum de earum syllogismis tractauero, commodius atque
uberius dicam. Hypotheticos syllogismos, quos latine conditionales uocamus,
alii quinque, tribus alii constare partibus arbitrantur, quorum mox
controuersiam diiudicabo, si prius quibus nominibus talium syllogismorum partes
appellentur ostendero. Quoniam enim omnis syllogismus ex propositionibus texitur,
prima uel propositio, uel sumptum uocatur; secunda uero dicitur assumptio, his
quae infertur, conclusio nuncupatur. Cum enim ita dicimus: Si homo est,
animal est; Homo autem est; Animal igitur est ea quidem
enuntiatio per quam diximus: Si homo est, esse animal propositio uel
sumptum uocatur, ea uero quam huic adiunximus: Est autem homo
assumptio dicitur, tertia conclusio nominatur, per quam ostendimus animal esse
qui fuerit homo. Sed quoniam saepe euenit ut propositionis enuntiatae
consequentia non sit uerisimilis, propositioni saepe adiungitur approbatio, per
quam id quod est propositum uerum esse monstretur. Assumptio saepe ad fidem per
se non uidetur idonea: huic quoque iuuamen probationis adiungitur, ut uera esse
uideatur; quo fit ut saepe quinque partes, saepe quatuor, interdum tres
hypotheticos syllogismos habere contingat. Nam quinque constabit partibus si et
propositio et assumptio probationibus indigebunt; quod siue propositio, siue
assumptio probatione indigent, quadripartitus est syllogismus, quod si neutra
est approbanda, tripartitus esse relinquitur. In hac uero sententia etiam
Marcus Tullius esse deprehenditur: in Rhetoricis enim syllogismos quosdam
quinquepartitos, quadripartitos alios esse confirmat. Quibus uero non placet
talium syllogismorum partes ultra ternarium numerum propagari, hi probationes
propositionum atque assumptionum non putant in syllogismi partibus esse
ponendas, neque enim propositionem esse, de qua syllogismus possit existere,
cui non consentit auditor; quod si per se dubia est ea probatio quae
propositioni dubiae iungitur, fidem faciens eidem cui coniungitur propositioni,
faciat ut sit idonea syllogismo. Ac per hoc tunc incipit esse propositio
syllogismi, cum talis per probationem redditur, ut ex ea colligi aliquid possit;
tunc uero colligi ex se aliquid potest, cum probationis auxilio poterit ab
auditore concedi. Quocirca membrum quoddam, et quasi fulcimentum dubiae
propositionis uel assumptionis, probatio esse uidetur, non pars etiam
syllogismi; sed nostra sententia his potius accedit qui tribus eum partibus
constare pronuntiant. Etenim quaelibet probatio quae uel propositioni uel
assumptioni copulatur, propositionis esse uel assumptionis probatio
dicitur. Cum igitur non ad syllogismum sed ad propositionem uel assumptionem
cuius est probatio referatur, non oportet eam syllogismi proprie partem uideri.
Nam illud quod obici potest, nullus ignorat, quin partium partes etiam totius
partes esse dicantur; sed plurimum refert utrum ipsae sint primitus partes
totius, an in secundarum partium postremitate ponantur. Amplius, si sit per se
nota ac probabilis propositio, totus syllogismus probatione non indiget; quod
si per se propositionis nulla fides est, necesse est ut ea propositio quodam
ueluti testimonio probationis indigeat. Non igitur syllogismus
probatione, in eo quod syllogismus est, indigebit, sed propositio, si fide
propria fuerit destituta. Idem etiam de assumptione dici potest. Quare
manifestum est eorum esse sententiam praeponendam, qui sullogismum putant
tribus partibus constare. Praeterea si qua propositio probationis indigeat, ut
eam ueri fides sequatur, aliquo demonstrabitur syllogismo. Quocirca qui fieri
potest ut recte syllogismus pars syllogismi simplicis esse dicatur? ipsam enim
probationem propositionis syllogismum, uel ex syllogismo esse necesse est. His
itaque determinatis, de his protinus syllogismis quorum propositiones in
connexione positae duobus terminis constant, explicandum uidetur. Horum autem
duplex forma est: quatuor enim fiunt per praecedentis positionem qui sunt primi
hypothetici atque perfecti, quatuor uero per sequentis negationem, qui cum
demonstratione egeant, non uidentur esse perfecti. Prioris uero negatione, uel
sequentis positione, nullus omnino syllogismus efficitur. Omnium igitur talium
propositionum primum numerus explicetur, ut qui fiant ex his syllogismi facilis
acquiratur agnitio. Sunt autem quatuor: Si est a, est b Si est a, non
est b Si non est a, est b Si non est a, non est b Ac de
prioribus quidem syllogismis atque perfectis primo loco dicendum est. Horum
enim primus modus est hic ueniens a prima propositione: Si a est, b est; Atqui
est a; Est igitur b. Cum enim prima propositio eam conditionem
proponat, ut si sit a necesse sit consequi essentiam b termini, idem assumptio
quod praecedit assumit ac ponit, dicitque: At est a consequitur
igitur ut sit b. Si enim ex consequentia primae propositionis id quod secundum
est assumendo ponamus, nullus efficitur syllogismus. Age enim sit
huiusmodi consequentia, ut si sit a, sit b assumaturque quod sequitur hoc
modo: At est b non consequitur ut sit uel non sit a. Id uero clarius
fiet exemplo: sit enim propositio: Si homo est, animal est
assumaturque esse animal, scilicet quod consequitur, non necesse erit esse
hominem uel non esse; potest enim, cum sit animal, homo uel esse uel non esse.
Secundus uero modus est eorum in quibus prior propositionis pars in assumptione
repetitur, uenit autem ex secunda propositione superius digesta, hoc
modo: Si est a, non est b; Atqui est a; Non est igitur b. Id
enim propositum fuerat, si esset a, non esset b. Sumpto igitur praecedente,
consequentis est facta conclusio; quod si consequens sumas, nullus uidetur
fieri syllogismus, quia nec consequitur ulla necessitas, hoc modo: Si est
a, non est b; Atqui non est b; non necesse est esse a uel non
esse. Age enim ita sit propositio: Si est nigrum, album non est
et id quod sequitur assumatur: Atqui non est album non necesse erit
esse nigrum uel non esse, quia cum non sit album potest aliquid esse medium.
Tertius uero modus est talium syllogismorum qui uenit ex tertia propositione,
quorum in assumptione id ponitur quod praecedit hoc modo: Si non est a,
est b; Atqui non est a; Est igitur b. Haec igitur conclusio
rursus ex conditione propositionis euenit: id enim fuerat propositum, ut si non
esset a esset b; quod si conuertas et sumas esse b, id est quod sequitur, non
necesse erit uel esse uel non esse id quod praecedit. Sed huius exemplum
non potest inueniri, eo quod si ita proponitur, ut: Cum non sit a sit
b nihil esse medium uideatur inter a atque b; sed in his si alterum non
fuerit, statim necesse est esse alterum, et si alterum fuerit, statim alterum
non esse necesse est. Videtur ergo quodammodo et sequenti posito in his fieri
syllogismus; sed quantum ad rerum naturam ita est, quantum uero ad
propositionis ipsius pertinet conditionem, minime consequitur. Quod quidem ex
his patet quae superius dicta sunt. In utrisque enim superioribus modis
sequenti posito nihil ex necessitate collectum est, hic uero tertius modus,
quantum ad complexionem propositionum pertinet, in quo ponendo si id quod
consequebatur assumitur, nullum efficit syllogismum. Quantum uero ad rerum
naturam, in quibus solis hae propositiones enuntiari possunt, uidetur esse
necessaria consequentia hoc modo, ut: Si dies non est, nox sit Si
nox sit, dies non sit ex necessitate consequitur; similesque sunt hi
syllogismi his qui in disiunctione sunt constituti, de quibus paulo posterius
commemorabo, quorumque ad illos et differentias et similitudines dabo. Quartus
uero modus est ex quarta propositione, cum ita proponitur: Si a non est, b
non est; Atqui non est a; Non est igitur b rursus enim id
quoque consequi ex propositione monstratur, quae proposuit non fore b, si a prior
terminus non fuisset. At si id quod consequitur assumamus, nulla uidetur
fieri posse necessitas, ueluti si ita dicamus: Non est autem b non
necesse erit uel esse uel non esse a. Age enim proponatur si animal non est,
non esse hominem, assumaturque: At non est homo non necesse est ut
uel sit animal uel non sit. Demonstratum igitur est in huiusmodi syllogismis,
si id quidem quod praecedit ponendo assumatur, perfectos atque ex ipsis
propositionibus probabiles et necessarios fieri syllogismos. Si uero id
quod sequitur ponendo assumatur, nullam fieri necessitatem, praeter in tertio
modo, qui cum sit similis his syllogismis qui secundum disiunctionem propositis
enuntiationibus fiunt, uidetur in rebus de quibus proponi possit seruare
necessitatem, cum in complexione non seruet, quod ex caeteris tribus modis
arguitur primo, secundo atque quarto, in quibus assumpta ponendo sequente
propositionis parte, nihil ex necessitate conficitur. Ac de his quidem
syllogismis, qui duobus terminis coniunguntur, quorum prima pars propositionis
ponendo assumitur, quantum ad institutionis pertinet modum, sufficienter
expressimus. Nunc uero de his dicendum est, quorum consequens propositionis
pars ita assumitur, ut perimatur. Ex his quoque quatuor fiunt modi, cum prior
propositionis pars in assumptione non possit interimi, ut ulla syllogismi
necessitas consequatur. Est igitur primus modus talium syllogismorum a prima
ueniens propositione sic: Si est a, est b; Atqui non est b; Non
est igitur a. Hic igitur b terminus, qui in prima propositione consequens
fuerat, in assumptione est interemptus, ut a terminus, qui propositionis prima
pars fuerat, interimeretur, eaque necessitas tali ratione probabitur. Positum
namque est si a sit, b esse; et assumptio facta est ut consequens pars
propositionis interimeretur, id est, non esse b. Dico quia consequitur non esse
a: nam si potest esse a, ut non sit b, frustra erit prior propositio quae ait,
si a sit, b esse. Atqui ea propositio ualet; cum igitur a sit est b. Quod si
cum non sit b, sit a, quod scilicet ex assumptione proponitur, idem b erit
/268/ et non erit: non erit quidem, quia b non esse proponit assumptio; erit
autem, quia si est a, erit b, quod fieri non potest; non igitur, si b non
fuerit, erit a. Hic est igitur primus modus talium syllogismorum, qui ex
interempta parte consequenti propositionis fiunt, qui non sunt perfecti neque
ex se cogniti sed indigent uel eius quam superius proposui, uel cuiuslibet
alterius probationis, ut ueri esse monstrentur. Quod si prima pars interimatur,
non erit syllogismus; age enim ita dicamus: Si est a, est b; Atqui
non est a non consequitur ut sit uel non sit b, ut exemplo etiam
demonstratur. Sit enim propositio: Si est homo, animal est; Sed homo
non est; non necesse erit uel esse animal, uel non esse. Secundus modus
per contradictionem assumptionis, qui a secunda propositione descendit, ille
est cum ita proponimus: Si a est, b non est; Atqui est b; Igitur
a non est. Hic enim rursus secunda pars propositionis est interempta: nam
cum secunda pars propositionis b non esse diceret, si a fuisset, assumptio b
esse pronuntiat. Affirmatio autem perimit negationem, quam assumptionem
consequitur, ut a non sit, hoc modo. Sit enim propositio: Si a est, b non
est et sit b. Dico quia a non erit: nam si erit a, cum sit b, idem b erit
et non erit: non erit quidem ex prima propositione quae dicit: Si a est, b
non est erit autem per assumptionem, qua dicimus esse b. At si praecedens
propositionis pars auferatur, non fiet ulla necessitas. Age enim in
huiusmodi propositione: Si a est, b non est ita dicamus: Atqui
non est a non consequitur ut b sit aut non sit. Id uero tali arguitur
exemplo. Dicamus enim: Si nigrum est, album non est assumamusque non
esse nigrum, non statim consequitur ut uel album sit, uel non sit: potest enim
aliquid esse mediorum. Tertius modus ille est ex tertia propositione deductus,
cum ita proponimus: Si a non est, b est; b autem non est; a
igitur est. Hic quoque consequens pars propositionis assumpta est, et cum
in propositione affirmaretur, in assumptione negata est, et est rata consequentia,
et perficiens syllogismum hoc modo. Nam si uerum est, cum non sit a, esse b,
dico quia si b non sit, esse a: nam si poterit, cum b non sit, non esse a,
frustra est prima propositio, quae dicit cum non sit a esse b eritque b ac non
erit; non erit quidem ex ea assumptione quae proponit non esse b; erit autem,
quia, si a terminus esse negabitur, posito non esse b termino, cum non sit a,
erit b, quod est impossibile. Non igitur potest fieri ut cum non sit b,
non sit a; consequitur igitur ut, cum non sit b, sit a. Quod si prior pars
propositionis quae praecedens est auferatur, nullus est syllogismus, hoc modo:
cum enim dicimus si a non est, esse b, si assumamus: Atqui est a
nihil euenit necessarium, ut uel sit b uel non sit, secundum ipsius
complexionis naturam. Nam hic quoque, ut in his in quibus in assumptione
secundus terminus ponebatur, dicendum est secundum quidem ipsius complexionis
figuram nullum fieri syllogismum; secundum terminos uero in quibus solis dici
potest, necesse esse, si a fuerit, b non esse. In contrariis enim tantum, et in
his immediatis, id est medium non habentibus, haec sola propositio uere poterit
praedicari, ueluti cum dicimus: Si dies non est, nox est siue non
fuerit dies, nox erit, siue nox non fuerit, dies erit, siue dies fuerit, nox
non erit, siue nox fuerit, dies non erit. Quartus modus est horum
syllogismorum ex quarta propositione descendens, cuius haec prima est
propositio: Si a non est, non est b; Est autem b; Erit igitur
a. Hic quoque secunda pars propositionis assumpta est, et quaniam eadem
in negatione fuerat posita, affirmatione est interempta; affirmatio enim uim
negationis interimit. Hic quoque eodem modo syllogismi necessitas continetur,
nam, si posito cum non sit a, non esse b, sumatur esse b, dico quia consequens
est etiam a esse. Nam si potest, cum sit b, non esse a, frustra est prima
propositio, quae, cum a non sit, b non esse pronuntiat; fiet igitur rursus ut
idem b sit ac non sit. Ex assumptione namque erit b; ita enim
dicitur: Atqui est b si uero hoc posito possit non esse a, rursus b
non erit, quia prima propositio ait: Si non sit a, non est b quod
est impossibile. Quod si ea portio propositionis quae praecedens est auferatur,
nihil euenit necessarium. Age enim ita dicamus: Si non est a, non est
b assumamusque: Atqui est a non consequitur ut b uel esse uel
non esse necessario concludatur, ut in hoc syllogismo: Si non est animal,
non est homo; Atqui est animal; non necesse est uel esse hominem uel
non esse. Hi igitur quatuor syllogismi imperfecti /274/ dicuntur, idcirco
quoniam per se non habent apertam atque perspicuam consequentiae necessitatem,
eaque illis ex probatione conficitur. Ut igitur breuiter concludendum sit,
in hypotheticis simplicibus syllogismis connexas habentibus propositiones,
quoquo modo factis, si quidem prima pars propositionis assumitur, si ea
ponatur, fient quatuor syllogismi per se cogniti atque perfecti; si uero id
quod consequitur assumatur, nulla est syllogismo necessitas, nisi in tertio
tantum modo, qui non propter complexionis naturam sed propter terminorum
contrarietatem, in quibus solis dici potest, uidetur conclusionis necessitatem
tenere. Itaque si quid in assumptione ex his quae in propositione sunt
prolata ponatur, quatuor uel quinque fieri necesse est syllogismos perfectos:
quatuor, ubi prima pars propositionis, quintum uero, ubi secunda pars
propositionis ponendo assumitur, si non ad complexionis naturam sed ad terminos
aspiciamus. Si quid uero ex his quae in assumptione prima propositio enuntiat,
auferatur, si quidem consequens pars propositionis auferatur, fient imperfecti
et probatione indigentes quatuor syllogismi; si uero prior propositionis pars
auferatur, nulla erit necessitas syllogismi, nisi in tertio tantum modo, ubi
non facit necessitatem complexionis sed terminorum natura. Quocirca hi quoque
quatuor uel quinque sunt syllogismi: quatuor quidem, si secunda propositionis
pars fuerit interempta; quintus /276/ uero, si eum non complexionis natura sed
terminorum proprietate metiamur. Quocirca si ex duobus terminis propositio prima
consistat, octo sunt uel decem, nec amplius syllogismi. Ac de his quidem
conditionalibus syllogismis, quorum propositiones connexae sunt, et ex duabus
praedicatiuis simplicibus constant, sufficienter expeditum est. Nunc de his
syllogismis dicendum est, qui uel ex praedicatiua et hypothetica, uel ex
hypothetica praedicatiuaque nectuntur. Horum autem facile complexiones omnium
syllogismorum apparebunt, si prius earum numerus exponatur. Sunt igitur
priores quidem quae ex praedicatiua atque hypothetica connectuntur hae: Si
sit a, cum sit b, est c. Si est a, cum sit b, non est c. Si est a,
cum non sit b, est c. Si est a, cum non sit b, non est c. Si non est
a, cum sit b, est c. Si non est a, cum sit b, non est c. Si non est
a, cum non sit b, est c. Si non est a, cum non sit b, non est c. Ac
primum quae sit earum natura, uidetur esse tractandum. Neque enim quoquo modo
conditio ponatur, conditionalis propositio fiet sed si illa consequentia
propter positam euenit conditionem. Nam si quis ita dicat: Si homo est, cum sit
animal, animatum est non uidetur facere apposita conditio consequentiae
necessitatem; nam etiam si non sit homo, nihilominus tamen, cum sit animal,
animatum est. At si ita ponatur: Si homo /278/ est, cum sit animatum,
animal est uidetur consequentiae ratio in conditione consistere. Neque
enim necesse est, cum animatum sit, esse animal, nisi homo uel tale aliquid
fuerit, quod animatum esse proponitur; tunc enim quod animatum est, animal esse
necesse est, homo namque uel quodlibet aliud tale animal est. Per singulas
igitur propositiones eundum est, et spectanda est earum singularis natura hoc
modo. Prima propositio per quam enuntiatur si est a, cum sit b, esse c,
talis esse debet ut b quidem possit esse etiam praeter a, si tamen a fuerit, b
non esse non possit; rursus idem b terminus possit esse etiam cum non est c,
nec sit necesse ut b posito sit etiam c sed tunc tantum necesse sit esse c,
quando b terminus a terminum sequitur, ut si sit a homo, b animatum, c animal.
Animatum enim et praeter hominem et praeter animal esse potest; si uero sit
homo, animatum esse necesse est, et cum animatum hominis essentiam consequatur,
consequitur ut idipsum animatum sit animal. Item secundam propositionem,
quae ait si est a, cum sit b, non esse c, huiusmodi esse oportebit ut b quidem
praeter a esse possit sed cum fuerit a, necesse sit esse etiam b; at uero c
tale sit ut simul quidem cum a esse non possit, cum b uero esse possit sed tunc
tantum cum b esse non possit, quando b terminus a terminum sequitur, ut si sit
a homo, b animatum, c insensibile. Namque animatum praeter hominem esse potest;
at si homo sit, ut sit animatum necesse est; insensibile uero potest esse
animatum sed tunc /280/ insensibile et animatum non conueniunt, cum idcirco est
animatum quia homo esse praedictus est. Tertia uero propositio a quidem
terminum debet habere, qui numquam simul esse possit cum b termino; c uero
terminum talem esse oportebit, ut possit quidem non esse, si non fuerit b sed
tunc tantum necesse sit, si b terminus non sit, esse c terminum, si idcirco non
est b quaniam terminus a esse praedictus est, ut si sit a homo, b inanimatum, c
sensibile. Nam si est homo, non est inanimatum, sensibile uero potest simul non
esse cum inanimato; possunt enim esse quaedam quae nec inanimata sint, nec
sensibilia, ut arbores. Idem tamen sensibile necesse est esse, cum non sit
inanimatum, si idcirco inanimatum non est quia homo esse praedictus est. Rursus
quarta propositio huius debet esse proprietatis, ut b quidem terminus nullo
modo esse possit, si fuerit a, at uero c possit esse, si non fuerit b; sed tunc
tantum c, cum non fuerit b, non esse necesse sit, si b terminus non sit quia
prius a terminus esse positus est, ut si sit a homo, b inanimatum, c
insensibile. Inanimatum enim non erit si fuerit homo; insensibile uero potest
esse et non esse, si non sit inanimatum; tunc tamen insensibile non esse ne cesse
est, cum inanimatum non sit, cum idcirco inanimatum non est quia homo esse
praedictus est. Quinta quoque propositio tales habere terminos debet, ut a
quidem si non sit, necesse sit esse b, si b terminus sit, c et esse possit et
possit non esse: tunc tantum c esse necesse sit, cum fuerit b, cum idcirco est
b quia a terminus esse negatus est, ut si sit a quidem animatum, b uero
insensibile, c inuitale. Igitur si non sit animatum, statim consequitur ut sit
insensibile; inuitale autem potest esse, si sit insensibile, ut lapis, potest
uero non esse inuitale, si sit insensibile, ut sunt arbores; sed tunc tantum,
posito insensibili, consequitur ut inuitale esse necesse sit, cum idcirco est
insensibile quia non est animatum. Sexta uero propositio tales terminos
habere desiderat, ut b quidem esse necesse sit, si non fuerit a, at uero c
terminus, si sit b, uel esse uel non esse possit; tunc tamen c non esse necesse
sit, cum sit b, quando idcirco est b quia a terminus non esse propositus est,
ueluti si sit a animatum, b insensibile, c uitale. Nam necesse est esse
insensibile, si non fuerit animatum; cum uero sit insensibile, fieri quidem
potest ut non uiuat, ueluti lapis, fieri autem potest ut uiuat, ueluti arbor;
tunc tamen necesse est non uiuere, cum sit insensibile, quando idcirco est insensibile
quia animatum non esse propositum est. Septimus modus talibus terminis
debet esse contextus, ut b quidem sine a esse non possit, c autem si non sit, b
et esse et non esse possit; tunc tamen necesse sit c terminum esse, si non sit
b, cum idcirco b non esse propositum est quoniam a fuerit ante denegatum. Sit
enim a quidem animatum, b uero sensibile, c inuitale; sensibile igitur esse non
potest nisi fuerit animatum; si igitur non sit animatum, non erit sensibile, si
uero non sit sensibile, potest esse inuitale, uelut in lapidibus, idem potest
non esse, uelut in arboribus; tunc tamen sensibili denegato inuitale necesse
est esse, cum idcirco non est sensibile quia prius animatum non esse propositum
est. Octaua propositio his terminis connectenda est, ut b terminus esse
non possit si non fuerit a, cum uero non sit b, terminus c et esse et non esse
possit sed tunc necesse sit c terminum non esse, cum non fuerit b, cum idcirco
non est b quia a terminus prius esse negatus est, ut si sit a quidem animatum,
b uero sensibile, c uitale. Sensibile igitur esse non potest nisi fuerit
animatum; idem tamen sensibile si non sit, et non esse uitale potest, ut
lapides, et esse uitale, ut arbores; tunc tamen necesse est uitale non esse, si
non sit sensibile, cum idcirco sensibile non est quia prius animatum esse
negatum est. Ex his igitur constat c terminum, quoquo modo fuerit b, in
conditionalibus propositionibus, quae in tota enuntiatione post praedicatiuas
locantur, posse tam loco afFirmationis quam negationis assumi, ex quibus
assumptionibus fiunt complexiones uariae syllogismorum. His igitur ita
expeditis, de omnibus in commune praecipiendum uidetur. Nam cum sint octo
propositiones quae ex praedicatiua hypotheticaque nectuntur, quae superius
ascriptae sunt, earum quatuor ita faciunt consequentiam, si a terminus sit;
quatuor uero ita conditionem proponunt, si a terminus non sit. Fiunt uero
ex his syllogismi hoc modo. Ex prima propositione: Si est a, cum sit b, est
c; Atqui est a; Cum igitur sit b, est c uel sic: Atqui cum
sit b, non est c; Non est igitur a (posse autem huiusmodi esse
assumptionem ex superius descripta propositionum natura cognoscitur). Ex
secunda propositione: Si est a, cum sit b, non est c; Atqui est
a; Cum igitur sit b, non est c uel ita: Atqui cum si b, est
c; Non est igitur a. Ex tertia: Si est a, cum non sit b, est
c; Atqui est a; Cum igitur non sit b, est c uel
ita: Atqui cum non sit b, non est c; Non est igitur a. Ex
quarta: Si est a, cum non sit b, non est c; Atqui est a; Cum
igitur non sit b, non est c uel ita: Atqui cum non sit b, est
c; Non est igitur a. In his igitur quatuor propositionibus, in
quibus a terminus esse proponitur, si assumptum fuerit eundem a terminum esse,
c terminus uel esse uel non esse monstratur; idem uero si c terminus assumatur,
siquidem cum est non esse, uel cum non est esse assumatur, a terminus non esse
monstrabitur. Ex quinta etiam propositione ita syllogismi fiunt: Si
non est a, cum sit b, est c; Atqui non est a; Cum igitur sit b, est
c uel ita: Atqui est a; Cum igitur sit b, non est c uel
ita: Atqui cum sit b, non est c; Est igitur a uel sic: Atqui
cum sit b, est c; Non est igitur a. Quod idcirco euenit ut huiusmodi
propositio quatuor colligat syllogismos, quia in his tantum si non sit aliquid
esse aliud proponi potest, in quibus contraria medietatibus carent; in his enim
uel interempto altero alterum ponitur, uel posito altero alterum necesse est
perimatur. Ex sexta: Si non est a, cum sit b, non est c; Atqui
non est a; Cum igitur sit b, non est c uel ita: Atqui cum sit b, est
c; Est igitur a. Ex septima: Si non est a, cum non sit b, est
c; Atqui non est a; Cum igitur non sit b, est c uel
ita: Atqui est a; Cum igitur non sit b, non est c uel
ita: Atqui cum non sit b, non est c; Est igitur a uel
ita: Atqui cum non sit b, est c; Non est igitur a. In hac
quoque complexione propter eandem causam quatuor collectiones hunt. Ex
octaua: Si non est a, cum non sit b, non est c; Atqui non est
a; Cum igitur non sit b, non est c uel ita: Atqui cum non sit
b, est c; Est igitur a. In his quoque quatuor propositionibus, si
quidem a non esse assumatur, c uel esse uel non esse concluditur; si uero c cum
est non esse, uel cum non est esse assumatur, a terminus semper esse
concluditur, nisi in quinto et septimo tantum modis, ubi cum c esse assumatur,
a non esse monstratur. Omnium uero communis est ratio, praeter quintum ac
septimum modum, ut si a terminus ita assumatur, quomodo in prima enuntiatione
propositus est, conditio quae sequitur in conclusione firmetur. Si uero
conditio quae sequitur contrario modo atque in enuntiatione proposita est
assumatur, categorica propositio, quae prima est, interimetur. In septimo autem
uel quinto modo, quaque ratione sumptum sit alterum, in utrisque partibus
faciet conclusionem. Itaque fiunt sedecim uel uiginti potius syllogismi: octo
quidem, si a terminus, ut est propositus, assumatur, octo uero, si c terminus
conuerso modo atque in propositione est positus assumatur, quatuor uero ex
quinto et septimo modis utrobique facientibus conclusionem. Reliquis uero
complexionibus nulla est consequentia necessitatis. Ut autem plenior fieret
intellectus ipsas propositiones cum suis terminis positas annotaui, ut secundum
praedictos assumptionum modos non ratione solum demonstratio fieret, uerum
etiam per exempla currentibus doctrina clarior elucesceret. Si est a homo,
cum sit b animatum, est c animal. Si est a homo, cum sit b animatum, non
est c insensibile. Si est a homo, cum non sit b inanimatum, est c
sensibile. Si est a homo, cum non sit b inanimatum, non est c
insensibile. Si non est a animatum, cum sit b insensibile, est c inuitale. Si
non est a animatum, cum sit b insensibile, non est c uitale. Si non est a
animatum, cum non sit b sensibile, est c inuitale. Si non est a animatum,
cum non sit b sensibile, non est c uitale. Expeditis igitur his
syllogismis qui ex talibus propositionibus fiunt, quae ex prima praedicatiua
secunda hypothetica copulantur, nunc ad eos transitum faciamus qui ex prima
conditionali secunda uero praedicatiua nectuntur, quamm omnium numerus
proponendus est, ut de quibus loquimur lector agnoscat. Si cum sit a, est b,
est c. Si cum sit a, est b, non est c. Si cum sit a, non est b, est
c. Si cum sit a, non est b, non est c. Si cum non sit a, est b, est
c. Si cum non sit a, est b, non est c. Si cum non sit a, non est b,
est c. Si cum non sit a, non est b, non est c.Prima igitur propositio
tales habere terminos debet, ut a quidem possit esse praeter c ac b; sed tunc,
si a fuerit, c esse necesse sit, cum a terminum b terminus subsequatur, ut si
sit a quidem animatum, b homo, c animal. Animatum namque praeter animal et
praeter hominem esse potest; tunc uero id quod animatum est etiam animal esse
necesse est, si id quod est animatum, homo est. Secunda propositio talibus
terminis contexenda est, ut a quidem praeter b atque c, et cum eisdem esse
possit; tunc tamen necesse sit non esse c, si a posito b sequatur, ut si a sit
animatum, b homo, c equus. Animatum quippe et ut homo uel equus sit aut
non sit fieri potest; tunc uero necesse est id quod animatum est non esse
equum, si id ipsum quod animatum est, homo fuerit. Tertia propositio his
terminis copulatur, ut a quidem cum b et c uel esse uel non esse possit, tunc
tamen necesse sit simul esse cum c, si, posito a termino, b terminus abnuatur,
ut si sit a animatum, b animal, c insensibile. Nam quod animatum est, uel
animal uel non animal, uel insensibile uel non insensibile esse potest sed tunc
necesse est id quod animatum est esse insensibile si, animato posito, animal
abnuatur. Quartae propositionis hi termini sunt, ut a quidem cum b atque
c esse et non esse possit, tunc uero ab eo modis omnibus separetur, si, posito
a termino, b terminus abnuatur, ut si sit a quidem animatum, b animal, c homo.
Nam quod animatum est uel animal esse uel non esse, itemque homo esse uel non
esse potest; tunc tamen necesse est ut, cum sit animatum, non sit homo, cum
posito esse animato animal denegatur. Quinta uero propositio his terminis
conectatur, ut si non sit a, possit et esse et non esse b atque c; tunc tamen
cum non sit a, terminum c esse necesse sit si, posito non esse a, esse b terminum
consequatur, ut si sit a quidem inuitale, b homo, c animal. Nam si non sit
inuitale, tunc possunt homo atque animal esse uel non esse; at necesse est esse
animal, negato inuitali, si, cum inuitale negabitur, esse hominem subsequatur.
Sextam uero propositionem talia debent membra coniungere, ut, si non sit a
terminus, b atque c uel esse uel non esse possint; tunc uero, denegato a
termino, c non esse necesse sit, cum negationem a termini b termini affirmatio
comitabitur, ut si sit a inuitale, b homo, c equus. Nam quod non est inuitale,
potest esse homo uel equus uel non esse sed necesse est non esse equum,
inuitali denegato, si negationem inuitalis hominis positio subsequatur. Septimae
propositionis hos esse terminos oportebit, ut, si non sit a terminus, b atque c
et esse et non esse possint; /296/ sed tunc necesse sit esse c terminum, si
negationem a termini b termini negatio subsequatur, ut si sit a animal, b
animatum, c inuitale. Animal quidem si non sit, animatum et inuitale esse uel
non esse potest; tunc uero necesse est, si animal non sit, esse inuitale,
quando, si animal non sit, non erit animatum. Octaua propositio est cum,
negato a termino, possunt et esse et non esse b atque c termini; sed tunc
necesse est, si a terminus abnuatur, non esse c terminum, cum negationem a
termini negatio b termini subsequetur, ut si sit a inuitale, b animal, c
homo. Si igitur non sit inuitale, potest esse uel non esse animal uel
homo, tunc uero si non sit inuitale necesse est hominem non esse, cum animal
non fuerit. His igitur ita expeditis, illud in commune dicendum est, quod
superiores quatuor propositiones ita faciunt conditionem, si fuerit a,
posteriores uero si non fuerit, ex quibus omnibus syllogismi tali ratione
nascuntur. Ex prima propositione: Si cum sit a, est b, est c; Atqui
cum sit a, est b; Est igitur c uel ita: Atqui non est
c; Cum igitur sit a, non est b. Posse uero tales fieri conclusiones,
ex superius descriptarum propositionum natura cognoscimus: poterat enim a
terminus esse uel non esse cum b. Item ex secunda: Si cum sit a, est b,
non est c; Atqui cum sit a, est b; Non est igitur c uel
ita: Atqui est c; Cum igitur sit a, non est b. Ex tertia uero
utrobique assumptis terminis collectiones fiunt, ut: Si cum est a, non est
b, est c; Atqui cum est a, non est b; Est igitur c uel
ita: Atqui cum sit a, est b; Non est igitur c uel ita: Atqui non
est c; Cum igitur sit a, est b uel sic: Atqui est c; Cum
igitur sit a, non est b. Quae idcirco facta est utrobique collectio,
quoniam in his terminis hae propositiones poterant poni, in quibus immediata
contraria reperiebantur; in illis enim alterius positio alterum perimebat, et
alterius interemptio ponebat alterum. Ex quarta: Si cum sit a, non
est b, non est c; Atqui cum sit a, non est b; Non est igitur c
uel ita: Atqui est c; Cum igitur sit a, est b. Ex quinta:Si cum
non sit a, est b, est c; Atqui cum non sit a, est b; Est igitur
c uel ita: Atqui non est c; Cum igitur non sit a, non est
b. Ex sexta: Si cum non sit a, est b, non est c; Atqui cum non
sit a, est b; Non est igitur c uel ita: Atqui est c; Cum
igitur non sit a, non est b. Ex septima utrobique colligitur hoc
modo: Si cum non sit a, non est b, est c; Atqui cum non sit a, non
est b; Est igitur c uel ita: Atqui cum non sit a, est b;
Non est igitur c uel sic: Atqui non est c; Cum igitur non sit
a, est b uel ita: Atqui est c; Cum igitur non sit a, non est
b. Hic quoque propter eandem causam in alterutra assumptione syllogismus
fiet; non esse aliquid cum alind non sit in immediatis tantum contrariis dicebatur. Ex
octaua: Si cum non sit a, non est b, non est c; Atqui cum non sit a,
non est b; Non est igitur c uel ita: Atqui est c; Cum
igitur non sit a, est b. In omnibus igitur superius descriptis
syllogismis, haec ratio est, ut, si b terminus assumatur, ita ut in
propositione est positus, ita c terminum concludat, ut in eadem propositione
fuerit collocatus. At si c terminus contrario modo assumatur quam in
propositione fuerit positus, contrario modo b terminus in conclusione
monstrabitur, praeter tertium et septimum modum, in quibus etiamsi b terminus
contrario modo atque in propositione est positus assumatur, c terminum
contrario modo atque positus est colligit, uel si c terminus ita ut in
propositione est positus assumatur, simili modo b terminum concludit, ut in
eadem propositione fuerat collocatus. Quare sedecim quidem uel uiginti fiunt
syllogismi: assumptis namque primis hypotheticis propositionibus, octo; octo
uero si secundae praedicatiuae assumantur; quatuor autem his adinuguntur ex
tertio et septimo modo utrobique colligentibus, ut omnes etiam in his
propositionum complexionibus fiant sedecim uel uiginti syllogismi. Quoquo
autem modo aliter assumptiones uerteris, nihil euenit necessarium. Ut autem
omnis propositionum ac syllogismorum ratio colliquescat, exempla subiecimus,
quibus facilius id quod superius docuimus declaretur. o Si cum sit a
animatum, est b homo, est c animal. o Si cum est a animatum, est b
homo, non est c equus. o Si cum sit a animatum, non est b animal,
est c insensibile. o Si cum sit a animatum, non est b animal, non est c
homo. o Si cum non sit tale, est b homo, est c animal. o
Si cum non sit a inuitale, est b homo, non est c equus. o Si cum non sit
a animal, non est b animatum, est c inuitale. o Si cum non sit a
inuitale, non est b animal, non est c homo. Ac de his quidem syllogismis
qui talibus propositionibus conectuntur, quae ex hypothetica praedicatiuaque
consistunt, sufficienter est dictum. Nunc de his dicendum est syllogismis,
quorum propositiones ita tribus terminis continentur, ut mediae sint earum quae
ex hypothetica categoricaque texuntur, et earum quae ex duabus hypotheticis
connectuntur, quas idcirco hoc loco proponimus, quia, ut superiores, ita haec
quoque tribus terminis continentur, et a similibus ad similia facilior
transitus fiet. Harum uero fiunt multiplices syllogismi, quorum nullus
poterit esse perfectus, cum nec per se perspicui sint, et ut his fides debeat
accomodari adiumento extrinsecus positae probationis indigeant; est autem
probatio talium syllogismorum alio constitutus ordine syllogismus. Fiunt uero,
ut dictum est, tum per primam, tum per secundam, tum uero per tertiam figuram.
Sunt autem primae figurae propositiones hae: Si est a, est b; et si est b,
est c. Si est a, est b; et si est b, non est c. Si est a, non est b;
et si non est b, est c. Si est a, non est b; et si non est b, non est
c. Si non est a, est b; et si est b, est c. Si non est a, est b; et
si est b, non est c. Si non est a, non est b; et si non est b, est c. Si
non est a, non est b; et si non est b, non est c. Ergo ratio colligentiae
talis est, ut si constituat et confirmet assumptio quod enuntiatio prima
pronuntiat, sexdecim necesse est fieri complexiones, ex quibus octo tantum
seruant consequentiae necessitatem, reliquae uero octo nihil habere idoneum
uidentur ad fidem. Rursus id quod propositio prima constituit euertat
assumptio: sic quoque sexdecim necesse est fieri complexiones, quarum octo
firma necessitas tenet, octo uero reliquas infida saepius uarietas mutat. Fiunt
uero hi syllogismi, tum in prima figura, tum in secunda, tum uero in tertia.
Omnes igitur trium figurarum modos, a prima ordientes, ut nihil subterfugiat
explicemus. Est enim primae figurae primus modus a prima ueniens
propositione, cum ita proponimus: Si est a, est b; Si est b, necesse
est esse c. Tunc enim si est a, etiam c esse necesse est, cuius haec
demonstratio est: nam si est a, consequitur ut sit b (id est enim quod proponit
prima conditio, si sit a, esse b); at si b fuerit est c, id est enim quod
propositionis pars secunda pronuntiat, si sit b, consequi necessario ut sit
c. Quibus ita concessis, euenit ut, cum sit a, etiam c esse necesse sit;
imperfectum uero hunc dicimus syllogismum, quia testimonio probationis
indiguit; probatio uero ea fuit per syllogismum demonstratio. Ita namque
firmauimus talis consequentiae necessitatem: cum enim ita proponeretur: Si
est a, est b; Et si est b, necesse est ut sit c; poneretque assumptio id
quod affirmatio constituerat, esse a, eamque assumptionem talis sequi conclusio
diceretur, quod necessario esset c, neque id esset ipsius syllogismi natura et
proprietate perspicuum, addita est probatio per syllogismum hoc modo: Si
est a, est b; At si est b, est c; Si igitur est a, necesse est ut sit
c. Et in reliquis quidem eandem rationem exspectari oportere manifestum
est. Et haec quidem complexio ea est, quae id quod primo in propositione
positum fuerat assumit atque constituit; quod si id ponendo quis quod
sequebatur assumat, nulla est necessitas syllogismi, ueluti cum dicimus: Si est
a, est b; Et si est b, necesse est esse c; Atqui est c; non necesse
est esse b uel non esse; sed cum non sit necesse esse b uel non esse, non erit
necesse a esse uel non esse. Idem quoque tale firmabit exemplum: Si est
homo, animal est; Et si est animal, erit corpus animatum; Atqui est corpus
animatum; non necesse erit esse animal, quocirca ne hominem quidem. Secundus
uero modus est hic primae figurae, cum ita proponimus: Si est a, est
b; Et si est b, necesse est non esse c; At uero est a; Non est
igitur c. Huius demonstratio talis est. Nam Si est a, est b id
enim prima conditio monstrabat, quae est, si sit a esse b; cum uero sit b,
necesse est non esse c: id enim consequentia praeferebat in qua pronuntiabatur,
si esset b consequi ex necessitate ut non esset etiam c; si igitur sit a, non
erit c. Quod si id quod ultimum propositio constituit ponat assumpio, id
est non esse c nullus est syllogismus. Nam si de aliqua re ita
proponatur: Si homo sit, est animal; Et si est animal, non est
lapis; At non est lapis; non necesse erit aut esse aut non esse
animal, eodem modo nec hominem. Potest enim, si lapis non sit, esse lignum uel
caetera quae neque animalia sunt, nec inter homines numerantur. Tertius
uero modus est primae figurae, cum id assumptio constituit quod propositio
prima ponebat, cuius ex tertia propositione principium est cum ita
proponimus: Si est a, non est b; Et si non est b, necesse est esse
c; hic enim rursus, si a terminus assumatur ita ut in prima est
enuntiatione propositus, ita dicetur: Atqui est a; Est igitur
c. Probatio uero superioribus similis. Nam quia est a, non est b, et quia
non est b, est c; quia igitur est a, est c. Quod si c terminus assumatur, nihil
necessarium fiet, ut si ita proponamus: Si homo est, non est
insensibile; Si non est insensibile, animal est; Est autem
animal; non est necesse esse hominem. Quartus uero modus est qui ex
quarta propositione principium capit, qui tali propositione formatur: Si
sit a, non est b; Si non est b, non est etiam c; hic enim si est a,
necesse est c non esse. Demonstratio uero eadem quae in prioribus modis. Quod
si c assumatur, nulla erit necessitas complexionis, hoc modo. Age enim
proponatur: Si est homo, lapis non est; Si lapis non est, non est
inanimatum; Atqui non est inanimatum; non necesse est esse
hominem. Quintus modus est ex quinta enuntiatione descendens, cuius prima
talis est propositio: Si non est a, est b; Si est b, etiam c esse
necesse est; Atqui non est a; c igitur necesse est esse. Hic
quoque prius dicta conditio facit consequentiam necessitatis; at si id quod est
c assumatur, nulla necessitas euenit. Sit enim propositio: Si non est
irrationabile rationabile est; Et si rationabile est, animal est;
et assumamus: Sed est animal; non necesse erit uel esse uel non esse
irrationabile. Sextus modus est ita propositus, quem sexta propositio
facit: Si non sit a, est b; Et si est b, non est c; Atqui non
est a; Non est igitur c. Similis uero superioribus demonstratio. At
si c assumatur, eodem modo nullus est syllogismus; nam si sit
propositio: Si animatum non est, inanimatum est; Et si inanimatum
est, sensibile non est; si assumatur: Atqui non est sensibile;
non necesse erit uel esse uel non esse animatum. Septimus modus est, qui
ex septima propositione est: Si a non est, b non est; Et si b non
est, necesse est esse c; Atqui non est a; Necesse est igitur esse
c. Quod si c assumatur, nihil fit necessarium: nam si proponamus: Si
animatum non est, animal non esse; Et si animal non sit, insensibile
esse; assumamusque: At est insensibile; non necesse est uel
esse uel non esse animatum. Octauus uero modus est qui ita proponitur: Si
non est a, non est b; Et si non est b, necesse est non esse c; Atqui
non est a; Non est igitur c. Quod si c assumatur, nec in complexione nec
in terminis erit ulla necessitas. Age enim ita proponamus: Si non est
animatum, non est animal; Et si non est animal, necesse est non esse
sensibile; Atqui non est sensibile; non necesse erit non esse
animatum, ut arbores, herbas, et quidquid uitali tantum anima, non etiam
sensibili, uegetatur. In prima igitur figura ex tribus terminis fiunt
hypotheticae sexdecim complexiones, ita ut id quod positum est in propositione,
idem in assumptione quoque ponatur: octo quidem, si a terminus in propositione
ponatur; octo uero, si c. Quod si a terminus ponendo assumatur, erunt octo
necessarii syllogismi; si uero c terminus ponendo assumatur, quinque equidem
complexiones, id est quae primo secundo tertio quarto atque octauo respondent
modo, nullius necessitatis esse deprehenduntur; tres uero complexiones, quae
quinto sexto septimoque modo accomodantur, per complexionis quidem naturam
nullam necessitatis constantiam seruant; per terminorum uero proprietatem
necessarium colligunt syllogismum, ut sint omnes octo uel undecim
syllogismi. Eodem quoque modo syllogismorum complexionumque ordo
constabit, si id in assumptione quod in propositione positum fuerat,
auferatur. Fient quippe sexdecim complexiones, quarum octo quidem, ubi id
quod sequitur aufertur, integra necessitate perdurant, octo uero, in quibus id
quod praecedit aufertur, necessitatem non eadem ratione conseruant. Sed
hae quidem complexiones quae primo secundo ac tertio, quarto atque octauo modo
accomodantur, nihil colligunt nec per terminorum nec per complexionis
proprietatem; tres uero, id est quintus, sextus et septimus, nihil quidem
colligunt secundum complexionis naturam, uidentur uero colligere secundum
terminorum proprietatem, ut hinc quoque octo uel undecim sint syllogismi. Horum
uero omnium subdantur exempla. Primus igitur modus hic est: Si est a, est
b; Et si est b, etiam c esse necesse est; At non est c; Igitur a
non est. Quod si assumamus: At non est a; nihil euenit
necessarium. Sit enim propositio haec: Si est homo, animal est; Et si
animal est, animatum esse necesse est; Atqui non est homo; necesse
non erit ut non sit animatum. Secundus modus est: Si est a, est
b; Et si est b, non esse c necesse est; Atqui est c; Igitur a
non erit. Quod si assumamus ita: Atqui non est a; non necesse
erit esse c uel non esse. Nam si sit propositio talis: Si est homo, animal
est; Et si animal est, lapis non est; si assumamus: Atqui non
est homo; non necesse erit lapidem uel esse uel non esse. Tertius
modus: Si est a, non est b; Et si non est b, necesse est esse c; Atqui
non est c; Necesse est igitur non esse a. Quod si a terminum tollat
assumptio, nihil euenit necessarium: age enim sit propositio: Si homo est,
non est inanimatus; Et si inanimatus non est, animatum esse necesse
est; Atqui non est homo; non necesse est uel esse uel non esse
animatum. Quartus: Si est a, non est b; Et si non est b, necesse est
non esse c; At est c; Igitur a non erit. Quod si assumamus non
esse a, nulla complexionis necessitas inuenitur: nam si sit propositio: Si
homo est, non est irrationabile; Si irrationabile non est, inanimatum eum non
esse necesse est; Atqui non est homo; non necesse est eum uel esse
inanimatum uel non esse. Quintus: Si a non est, b est; Et si b
est, c esse necesse est; Atqui non est c; Igitur a esse necesse
est. Quod si a terminus assumatur, non fiet syllogismus: sit enim
propositio: Si irrationabile non est, rationabile est; Et si
rationabile est, animal est; Atqui irrationabile est; non necesse
erit esse uel non esse animal. Sextus: Si non est a, est b; Et si est
b, necesse est non esse c; Atqui est c; Igitur a esse necesse
est. Quod si a terminum sumam, nulla necessitas inuenitur: sit enim
propositio talis: Si animatum non sit, inanimatum est; Et si
inanimatum est, sensibile non est; Atqui animatum est; non erit
necesse uel esse uel non esse sensibile. Septimus: Si a non sit, b non
est; Et si b non est, c esse necesse est; Atqui c non
est; Igitur a esse necesse est. Quod si a terminum sumpserimus,
complexio nullam faciet necessitatem: sit enim proposititio talis: Si non
est animal, non est rationabile; Si rationabile non est, irrationabile
est; et si assumamus: Atqui animal est; non necesse est uel
esse irrationabile uel non esse. Octauus modus est qui hac propositione
formatur: Si a non est, nec b est; Et si b non est, c non esse
necesse est; Atqui est c; Igitur a esse necesse est. Quod si a
terminum sumpserimus, non fiet ulla necessitas: sit enim propositio: Si
non est animal, non est homo; Et si non est homo, necesse est non esse
risibile; Atqui est animal; non necesse erit uel esse uel non esse
risibile. Ac de prima quidem figura satis dictum est, sequenti uero uolumine de
secunda tractabitur. Conditionalium propositionum, quae tribus terminis
constant, secunda figura est, quotiens cum aliquid dicitur uel esse uel non
esse, consequitur ut duo quaedam uel esse uel non esse dicantur. Variantur
autem in ipsis propositionibus uel etiam in conclusionibus secundum
assumptionis ordinem multis modis; quod ut facilius innotescat, prius cunctae
propositiones ordine digerantur. In quibus illud est praedicendum, quod saepe
aequimodae propositiones ponuntur, saepe uero non; aequimodis quidem nullus est
syllogismus. Aequimoda enim propositio est si ita dicamus: Si a est, b
est; Et si a est, c non est; inaequimoda uero secundae figurae
propositio est in his syllogismis hypotheticis quorum enuntiationes tribus
terminis componuntur, ueluti cum ita proponimus: Si est a, est b; Si
autem non est a, est c. Huius propositionis tale intellegatur
exemplum: Si animal est, animatum est; Si animal non est, insensibile
est; hic igitur animal, quod est a, non est uno modo utrisque propositum
sed ad b quidem afiirmatiue, ad c autem negatiue coniungitur, et id uocatur non
aequimode praedicari. Quod si in utrisque a esse uel non esse poneretur,
aequimoda praedicatio diceretur. Disponantur igitur (ut dictum est) omnes non
aequimodae propositiones hoc modo: o Si est a, est b; si non est a, est
c. o Si est a, est b; si non est a, non est c. o Si est a, non est b;
si non est a, est c. o Si est a, non est b; si non est a, non est c.
Nunc igitur a quidem esse propositum est cum b, non esse uero cum c; rursus a
non esse ponamus cum b, esse uero cum c: o Si non est a, est b; si est a,
est c. o Si non est a, est b; si est a, non est c. o Si non est a,
non est b; si est a, est c. o Si non est a, non est b; si est a, non est
c. Si igitur non sit aequimoda praedicatio, assumpto quidem b fiunt
sexdecim complexiones, quarum tantum octo sunt syllogismi; rursus, si assumatur
c, sic quoque sexdecim complexiones fiunt sed in octo tantum syllogismorum
deprehenditur firma necessitas. Sit igitur secundae figurae primus modus hic,
ex prima ueniens propositione: Si est a, est b; Si autem non est a,
est c. Dico quoniam: Si non est b, est c quoniam enim si est a
est b, secundum ordinem consequentiae si non est b, non erit a; atqui si non
esset a, esset c, si igitur non sit b, erit c. Quod si idem b esse ponatur,
nihil euenit necessarium: age enim sit b, non necesse est esse uel non esse a.
Nihil igitur necessarium sequitur, ut sit uel non sit c; ut si sit a animal, b
animatum, c insensibile: nam si est animal, est animatum; si uero non est
animal, insensibile est; atqui si sit animatum, non necesse est esse animal,
uel non esse, non igitur necesse est esse insensibile uel non esse. Quod
si c terminus assumatur, siquidem non esse ponatur, erit necessario b; si uero
esse, nullus est syllogismus. Nam si non est c, est a, at si est a, est b, si
igitur non est c, est b; quod si est c, non necesse est esse a, aut fortasse
necesse sit non esse. Haec enim propositio, id est: Si non est a, est
c in talibus tantum euenit, in quibus alterum eorum esse necesse sit;
quod si est c, non erit a, si non est a, nihil ad b, ueluti si est insensibile,
non erit animal, at si non sit animal, nihil animatum uel esse uel non esse necesse
erit. Ex secunda rursus propositione fit syllogismus cum ita
proponimus: Si est a, est b; Si non est a, non est c; dico
quia: Si non est b, non est c propositum quippe est: Si est a,
est b. Ordo uero consequentiae est, si non est b, non esse a, quod si non
est a, non est c, si igitur non est b, non est c. Quod si fuerit b, non necesse
est esse c; sit enim a animal, b animatum, c rationabile, et
proponatur: Si animal est, animatum est; Si animal non est,
rationabile non est; Atqui est animatum; non necesse est esse
animal, quo fit ut ne rationabile quidem. Quod si c terminum dicat
assumptio, si quidem c terminus affirmatus fuerit, erit b; quod si idem c
terminus abnuatur, nullus est syllogismus. Nam quoniam si est a, erit b, si non
est a, non erit c, si est c, erit a; at cum est a, est b, si est igitur c, erit
b; quod si non sit c, nihil sit necessarium, nam in hac propositione quae
dicit: Si animal est, animatum est; Si animal non est, /326/
rationabile non est; assumamus: Atqui non est rationabile; non
necesse erit esse uel non esse animal, quocirca ne animatum quidem. Item
ex tertia propositione talis est syllogismus: Si est a, non est b; Si
non est a, est c; dico quia: Si est b, est c; nam quoniam ita
propositum est: Si est a, non esse b necesse est consequi ut, si sit
b, non sit a; at si non sit a, erit c; si igitur sit b, erit c; quod si non sit
b, nihil est necessarium. Si enim sit a animal, b inanimatum, c insensibile, in
hac propositione quae dicit: Si est animal, non est inanimatum; Si non est
animal, est insensibile; si assumamus non esse inanimatum, non necesse
erit esse animal uel non esse, quare ne insensibile quidem. Si uero a c termino
fiat assumptio, si quidem non sit c, non erit b; si uero sit, nulla erit necessitas
conclusionis. Nam quoniam ita propositum est, ut si sit a, non sit b, si
uero non sit a, sit c, ea est consequentia, ut si non sit c, sit a (in his enim
tantum terminis dici potest, qui medietate priuati sunt); at si sit a, non est
b, si igitur non sit c, non erit b. Quod si sit c, nullus est syllogismus; nam
in hac propositione quae dicit: Si est animal, non est inanimatum; Si
uero non est animal, insensibile est; assumat aliquis esse insensibile,
sequitur quidem ut non sit animal, sed non consequitur ut uel sit uel non sit
inanimatum. Ex quarta propositione est syllogismus ita: Si est a non est
b; Si non est a, non est c; dico quoniam: Si est b, non est
c; nam quoniam ita propositum est: Si est a, non est b ea
rerum consequentia est, ut si sit b, non sit a. Atqui cum non sit a, positum
fuerat non esse c; si igitur sit b, non est c. Quod si b non esse assumatur,
nullus est syllogismus; age enim sit a quidem animal, b inanimatum, c
rationabile, et sit haec propositio: Si est animal, non est
inanimatum; Si non est animal, non est rationabile; assumamus igitur
non esse inanimatum, non necesse erit esse animal, quocirca nec rationabile. Rursus
si c terminus assumatur, si quidem esse ponatur, necesse erit non esse b; at si
non est c, nullus est syllogismus. Nam quoniam propositum est: Si a sit,
non esse b; Si a non sit, non esse c; necesse est ut, cum sit c, sit
etiam a, at si sit a, non sit b; si igitur sit c, non erit b. Quod si c non
esse ponatur, nullus est syllogismus, ueluti in hac propositione: Si est animal
non est inanimatum; Si non est animal, non est rationabile. Si quis
igitur assumat non esse rationabile, non necesse erit esse animal, quocirca ne
inanimatum quidem uel esse uel non esse. Atque in his quidem quatuor
propositionibus ita a terminus positus est, ut ad b quidem esse diceretur, ad c
uero non esse; quod si ordo mPombaur, rursus quatuor erunt alii syllogismi, si
b terminus assumatur, quatuor etiam alii, si c; ex utraque autem parte
quaternae complexiones erunt, quae nullos faciant syllogismos. Sit enim quinta
propositio: Si non est a, est b; Si est a, est c; dico quia: Si
non est b, erit c. Assumatur enim: Atqui non est b erit igitur
a (hic enim consequentiae ratus ordo constabat); sed cum est a, est c, si igitur
non est b, erit c. Quod si b esse ponatur, nihil sit necessarium; si enim
est b, non erit a, quod si a non est, nihil ad c, quocirca nullus est
syllogismus. Non esse autem a, si b sit, ea propositio monstrat per quam
dicimus: Si a non est, est b haec enim immediatis tantum contrariis
conuenit. Age enim sit a quidem animal, b uero insensibile, c animatum, et
proponatur: Si animal non est, insensibile est; Si animal est,
animatum est; et ponatur esse insensibile, non necesse est esse uel non
esse animal, quocirca ne animatum quidem esse uel non esse necesse est. Quod si
c terminus assumatur, si quidem negatiue, faciet syllogismum, affirmatiue uero,
nullo modo. Nam si non est c, non est a; quod si non est a, est b, si igitur c
non est b est; quod si sit c, non necesse est esse uel non esse a, quo fit ut
ne b quidem esse aut non esse necesse sit. Nam si est animatum, non necesse est
esse uel non esse animal, cum uero animal non sit, non necesse est esse uel non
esse insensibile. Propositio uero eadem quae superius. Rursus ex sexta
propositione fit syllogismus hoc modo: Si non est a, est b; Si est a,
non est c; dico quia: Si non est b, non erit c; si enim non est b,
est a, at si est a, non est c; si igitur non est b, non erit c. Quod si b
terminum ponat assumptio, nulla est necessitas conclusionis; si enim est b, non
est a. Id enim ex superioribus manifestum est. At si non est a, nihil ad c;
tunc enim c non erat, si esset a. Exemplum uero hoc est, ut si sit a animal, b
insensibile, c inanimatum. Si igitur sit propositio talis: Si non est
animal, est insensibile; Si est animal, non est inanimatum; Atqui est
insensibile; non est igitur animal sed non consequitur ut sit uel non sit
inanimatum. Quod si c terminum sumpseris, si quidem affirmes, facies
syllogismum; nam si est c, non erit a, quod si a non sit, erit b, si igitur c
fuerit, erit b. At si negaueris, nihil est necessarium. Si enim assumas: Atqui
non est c non necesse erit esse uel non esse a, quocirca ne b quidem; nam
si inanimatum negaueris, non necesse est esse uel non esse animal, quocirca ne
insensibile quidem esse uel non esse. Ex septima propositione conclusio est cum
ita proponimus: Si non est a, non est b; Si est a, est c dico
quia: Si est b, erit c nam quoniam ita propositum est, si non esset
a, non esse b, si sit b erit a. Atqui si sit a, erit c; si igitur sit b, erit
c.Quod si b terminum neget assumptio, nulla est in conclusione necessitas. Nam
si non sit b, nihil erit necessarium esse uel non esse a, quocirca ne c quidem,
uelut in his terminis. Si enim sit a animatum, b animal, c uiuere, si sic
enuntiemus: Si non est animatum, non est animal; Si est animatum uiuit;
si igitur assumamus: Atqui non est animal; non necesse est esse uel
non esse animatum, quocirca nec uiuere. Quod si assumamus c terminum, si quidem
negemus, erit syllogismi perfecta necessitas; si uero affirmemus, nulla
conclusio est. Nam si non est c, non erit a, si non est a, non erit b, si
igitur non sit c, non est b. Quod si affirmetur, nihil est necessarium;
siue enim necesse est esse, siue non necesse est esse a, nihil ad b, ut in
superioribus terminis poterit ostendi: si enim uiuit, et si necesse est esse
animatum, non necesse est tantum esse animal; quod si non est necesse esse
animatum, non necesse est esse uel non esse animal; ut uero necesse sit non
esse animatum, fieri non potest. Ex octaua enuntiatione conclusio est, cum ita
proponitur: Si non est a, non est b; Si est a, non est c; dico
quoniam: Si est b, non est c nam si est b, est a, quod si est a, non
est c, si igitur est b, non erit c. Quod si b terminum neget assumptio,
nihil est necessarium: Si enim non sit b, non necesse erit a uel esse uel non
esse, quo fit ut ne c quidem, uelut in his terminis, si sit a animatum, b
animal, c inanimatum. Si igitur proponamus: Si non est animatum, non est
animal; Si est animatum, non est inanimatum; et assumamus: Sed
non est animal non necesse est uel esse uel non esse animatum, quocirca
ne inanimatum quidem. At si c terminus assumatur, si quidem cum affirmatione ponatur,
erit necessitas syllogismi: nam si est c, non est a, quod si non est a, non est
b, si igitur est c, non est b; at si c terminum neget assumptio, nihil est
necessarium: nam si non est c, non necesse erit esse uel non esse a, quo fit ut
ne b quidem. Nam si non est inanimatum, fortasse quidem necesse sit esse
animatum sed non necesse est esse animal. Inuenientur autem termini ut non sit
necesse esse a, ueluti si c ponamus nigrum, a album; negato enim nigro non
consequitur ut affirmetur album. Et secundae quidem figurae inaequimodas
complexiones omnes (ut arbitror) explicuimus; si uero aequimodae sint, nullus
omnino fit syllogismus. Aequimodae uero fiunt hoc modo: quotiescumque enim a
terminus ad b et ad c simul uel esse uel non esse ponitur, quoquomodo b atque c
termini uarientur, harum igitur quae aequimodae complexiones esse dicuntur,
nulla est collectibilis. Sunt autem omnes aequimodae complexiones
hae: o Si est a est b, si est a est c. o Si est a est b, si est a non
est c. o Si est a non est b, si est a est c. o Si est a non est b, si est
a non est c. o Si non est a est b, si non est a est c. o Si non est a
est b, si non est a non est c. o Si non est a non est b, si non est a est
c. Si non est a non est b, si non est a non est c. Quarum imbecillam
conclusionem atque omni carentem necessitate ex assumptionibus quoquo modo
factis inueniemus, nec non secundum superius descriptos modos etiam terminos
facillime reperire poterimus, per quos demonstratur nullam in talibus
complexionibus inueniri posse constantiam. Ac de secunda quidem figura, quanti
sint quotque modis fiant syllogismi diligenter ostendimus. Fiunt autem, si
inaequimodae quidem complexiones fuerint, b termino assumpto, syllogismi octo, totidemque
si c terminus assumatur. Sunt igitur secundae figurae sedecim syllogismi,
totidem uero, b atque c termino non ita ut oportet assumptis, complexiones
fiunt, quibus nihil admodum colligatur. Nunc igitur de tertia figura
dicendum est, in qua quidem totidem complexiones fiunt et totidem syllogismi
sed ita ut non aequimodae propositiones ponantur; quod si aequimodae fuerint,
nullus omnino (ut in secunda figura dictum est) fiet syllogismus. Exponamus
igitur omnes figurae tertiae inaequimodas propositiones: o Si est b est a,
si est c non est a. o Si es b est a, si non est c non est a. o Si non
est b est a, si est c non est a. o Si non est b est a, si non est c non
est a. Et nunc quidem a cum b esse, cum c uero non esse propositum est;
rursus uero a quidem cum b non esse, cum c uero esse proponatur: o Si est
b non est a, si est c est a. o Si est b non est a, si non est c est
a. o Si non est b non est a, si est c est a. o Si non est b non est a,
si non est c est a. Tertiae igitur figurae primus modus huiusmodi est: Si
est b, est a; Si est c, non est a; qui quidem diuersus est a secundae
figurae primo modo. Illic enim si a esset uel non esset, b et c esse
dicebantur. Nunc uero si b uel c fuerint, a esse uel non esse proponitur.
Aequimodae autem propositiones non sunt, quae in alia parte esse, in alia non esse
constituunt, uelut in superius comprehensa: nam si b est, a est, si autem c
est, a non est. Quibus ita positis, dico quoniam Si est b, c non esse
necesse est; si enim est b, est a, quod si est a, non est c, si igitur
est b, non est c. Quod si b terminus abnuatur, nullus est syllogismus: si enim
b non sit, non necesse erit esse uel non esse a, nec c igitur necesse erit esse
uel non esse, uelut in hoc exemplo. Si sit b animal, a animatum, c
mortuum, et proponatur: Si animal est, animatum est; Si mortuum est,
animatum non est; Atqui non est animal; non necesse est esse uel non
esse animatum. Quae enim non sunt animalia, possunt esse animata, ut arbores;
possunt esse non animata ut lapides. Quocirca, si animal non fuerit, ne mortuum
quidem esse uel non esse necesse est. Plura enim non sunt animalia, quae mortua
non sint, ut lapides; ea enim mortua dicuntur quae aliquando uixerunt. Ab
assumptione uero c termini affirmatio faciet syllogismum. Nam si c est, b non
erit, si enim c est, non est a: at si non sit a, non erit b, si igitur c est, b
non erit. Negatio uero nihil explicat necessitatis; nam si non est c, non
necesse est esse uel non esse a, quo fit ut ne b quidem. Nam si non sit
mortuum, non necesse est esse animatum uel non esse: quaedam enim quae non sunt
mortua, animata sunt, ut arbores, quaedam uero, cum mortua non sint, non sunt
animata, ut lapides, quo fit ut ne animal quidem esse uel non esse necesse sit,
si mortuum destruatur. Ex secunda uero propositione hic modus est
colligendus: Si est b, est a; Si non est c, non est a; dico
quia: Si est b, erit c. Nam si est b, est a, quod si est a, est c -- ita
enim conuertitur talis propositio --; si igitur est b, est c. Quod si b
terminus negetur, nulla est necessitas syllogismi: nam si non est b, non
necesse est esse uel non esse a, quocirca ne ad c quidem ulla necessitas
perueniet, ut in terminis patet. Nam si sit b animal, a animatum, c corporeum,
et proponatur: Si est animal, est animatum; Si non est corporeum, non
est animatum; et assumatur: Atqui non est animal; non necesse
est esse uel non esse corporeum -- c uero terminus si negetur, erit necessitas
syllogismi: nam si non est c, non est a, quod si non est a, non est b (ita enim
conuerti potest), si igitur non est c, non erit b; si affirmetur c, nulla est
necessitas, nam si est corporeum, non necesse est animatum esse uel non esse,
quocirca nec animal quidem esse uel non esse necesse est. Tertia
propositio talem recipit conclusionem: Si non est b, est a; Si est c,
non est a; dico quia: Si non est b, non erit c. Si enim non
sit b, est a; quod si sit a, non erit c (ita enim poterat conuerti ea pars
propositionis, quae, si esset c terminus, a terminum non esse dicebat); fit
igitur ut si non sit b, non sit c. Quod si affirmetur esse b terminum, nulla
est necessitas conclusionis; nam si sit b, necesse est quidem non esse a, sed
non necesse est esse c, ut in his terminis, si sit b animatum, a inanimatum, c
animal. Si quis igitur sic proponat: Si non est animatum, inanimatum
est; Si est animal, non est inanimatum; si igitur ponamus esse
animatum, sequitur quidem ut non sit inanimatum sed non necesse est ut sit animal. C
uero terminus si affirmetur, fiet necessaria conclusio hoc modo. Nam si est c,
non est a, si non est a, est b (id enim sequebatur eam propositionem quae, si
non esset b terminus, a terminum esse dicebat); si igitur sit c, est b. Quod si
idem c terminus abnuatur, nullus est syllogismus: nam si non sit c, non necesse
est esse uel non esse a, quo fit ut ne b quidem. Nam si non est animal, non
necesse est esse uel non esse inanimatum, quocirca ne animatum quidem. Ex
quarta propositione talis est syllogismus: Si non est b, est a; Si
non est c, non est a; dico quia: Si non est b, est c. Nam si
non est b, est a, si uero a fuerit, necesse est esse c -- id enim consequitur
eam propositionis partem quae ait: Si non est c, non est a -- si
igitur non sit b, est c. At si b terminus affirmetur, nullus est syllogismus.
Sequitur namque ut non sit a sed non sequitur ut sit uel non sit c, uelut in
his terminis: nam si sit b quidem insensibile, a animal, c animatum, et proponatur:
Si sit insensibile, non est animal; sed non necesse est esse uel non esse
animatum. C uero terminus si negetur, fiet protinus syllogismus. Nam si
non est c, non est a, si non est a, erit b -- id enim consequitur eam
propositionis partem quae dicit: Si non est b est a -- si igitur non
sit c, erit b. Quod si sit c, non est necesse esse uel non esse a, quo fit ut
ne b quidem. Nam si est animatum, non necesse est esse animal uel non esse, quo
fit ut ne insensibile quidem esse uel non esse necesse sit. Et hactenus quidem
quatuor modos ita disposuimus, ut ad b terminum, quoquo se modo haberet, a
terminus esse poneretur, ad c uero non esse. Nunc ita statuamus ut a terminus
ad b terminum non esse dicatur, ad c uero esse, ordine scilicet immutato.
Omnes uero non esse aequimodas propositiones illud ostendit quod a quidem si
affirmatiue est ad b, ad c negatiue proponitur, aut si negatiue ad b,
affirmatiuam ad c retinet enuntiationem. Quinta igitur propositio talem facit
syllogismum, cum talis est propositio: Si est b, non est a; Si est c,
est a; dico quia: Si est b, non est c. Nam si est b, non est
a, si uero non sit a, non est c (id enim talem propositionem consequebatur,
quae, si esset c terminus, a quoque esse dicebat); si est igitur b, non est c.
At si negetur b, nullus est syllogismus: si enim /348/ non sit b, non necesse
est esse a, quo fit ut ne ad c quidem necessitas ulla perueniat. Et in
terminis idem patet: nam si sit b quidem mortuum, a animatum, c animal, et sit
ita propositio: Si est mortuum, non est animatum; Si animal est,
animatum est; et assumamus non esse mortuum, non necesse est esse uel non
esse animatum. Nam et quae adhuc animata sunt, et quae numquam fuerunt, non
sunt mortua, quocirca non sequitur ut sit uel non sit animal; quod enim mortuum
non est, potest et esse animal, ut canis uiuens, et non esse, ut lapis. At si c
terminus affirmetur, erit perfecta conclusio non esse b; nam si sit c, est a,
si uero sit a, non erit b (id enim consequitur superius positum propositionis
modum); si igitur sit c, non erit b. At si negetur c, neque ad a neque ad
b necessitas ulla perducitur, uelut in his terminis: nam si non est animal,
neque animatum, neque mortuum uel esse uel non esse necesse est. Sextae
propositionis haec conclusio est: Si est b, non est a; Si non est c,
est a; dico quia: Si est b, erit c. Nam si est b, non est a,
si non sit a, erit c (talis enim in hac parte propositionis est consequentia);
si igitur sit b, erit c. Quod si b terminus abnuatur, nihil necessarium fiet:
nam si non sit b, nec a nec c terminos uel ad esse uel ad non esse sequitur
ulla necessitas, ut in terminis patet. Nam si sit b mortuum, a animatum, c
inanimatum, si non sit mortuum, non necesse est esse uel non esse animatum,
quocirca ne inanimatum quidem. At si c terminus assumatur, si quidem in
negatione sit positus, fiet rata conclusio non esse b terminum: nam quoniam non
est c, est a, at si sit a, non est b, si igitur non sit c, non erit b. Quod si
affirmetur c terminus, nihil est necessarium; neque enim si sit c, quamuis a
non esse necesse sit, ad b terminum necessitas ulla perueniet, ut etiam in
terminis patet: nam si sit inanimatum, necesse est non esse animatum sed non
necesse est esse mortuum. Septimae propositionis talis est syllogismus:
enuntietur enim: Si non est b, non est a; Si est c, est a;
dico quia: Si non est b, non est c si enim non sit b, non erit a,
quod si a non fuerit, non erit c (id enim sequebatur eam propositionem qua
dicebatur, si esset c terminus, a quoque consequi ut esset); si igitur non sit
b non erit c. Quod si affirmetur b, nihil est necessarium; neque enim si
sit b, uel a uel c aut esse aut non esse necesse est, ut in terminis patet: nam
si sit b animatum, a animal, c sensibile, et sit propositio: Si animatum
non est, non est animal; Si sensibile est, animal est; si assumatur
esse animatum, neque animal necesse est esse, neque sensibile. At si per c
terminum fiat assumptio, si quidem affirmabitur, erit firma conclusio; si
negetur, nullus est syllogismus: nam si est c, est a, si sit a, erit b (id enim
consequebatur eam propositionem quae ait: si non sit b, non esse a); si igitur
sit c, erit b. At si idem c terminus abnuatur, nihil est necessarium; nam si
non sit c, neque a neque b terminum necessitas ulla constringit, uelut si non
sit sensibile, non sit forsitan animal sed non necesse est esse animatum;
reperientur uero termini quibus ne a quidem non esse necesse sit. Octauus
modus est in quo ita proponitur: Si non est b, non est a; Si non est
c, est a; dico quia: Si non est b, est c. Si enim non sit b,
non erit a, quod si non sit a, erit c -- id enim consequebatur eam partem propositionis
quae dicebat: Si non est c, est a -- si igitur non sit b, erit c.
Quod si b terminus affirmetur, nihil est necessarium; nam si sit b, neque esse
neque non esse necesse est a terminum, quo fit ne c quidem. Id uero tali liquet
exemplo, si sit b animatum, a animal, c insensibile, et proponatur: Si non
sit animatum, non est animal; Si non sit insensibile, est animal. Si
igitur in assumptione affirmemus b terminum, ac dicamus: Atqui est
animatum; non necesse est esse uel non esse animal uel insensibile,
quocirca nullus est syllogismus. At si c terminus abnuatur, fiet protinus
syllogismus: nam si non est c, est a, si uero est a, erit b, si igitur non sit
c, erit b. Quod si c terminus affirmetur, nihil est necessarium; nam et si a
terminum non esse necesse est, quantum ad b terminum nihil necessarium cadit.
Id uero tali demonstratur exemplo: Si sit insensibile, non est
animal; quod si animal non est, non necesse est esse uel non esse
animatum. In non aequimodis igitur propositionibus, siue b siue c terminus
assumatur, octo necesse est ex utraque parte fieri syllogismos; reliquae uero ex
utraque parte octonae complexiones necessitate priuatae sunt. At si sint
aequimodae, nullus omnino est syllogismus. Aequimodae uero dicuntur quotiens a
terminus ad utrosque uel esse uel non esse proponitur; omnes autem aequimodae
propositiones sunt huiusmodi: o Si est b, est a, si est c, est a. o Si est
b, est a, si non est c, est a. o Si non est b, est a, si est c, est
a. o Si non est b, est a, si non est c, est a. o Si est b, non est a, si
est c, non est a.o Si est b, non est a, si non est c, non est a. o Si non
est b, non est a, si est c, non est a. o Si non est b, non est a, si non
est c, non est a. In quibus et per consequentiam propositionum superius
designatam, et per exempla currentes, possumus lucide et constanter agnoscere
nullam omnino in syllogismis fieri necessitatem. Quocirca, cum tribus terminis
texitur propositio, ex prima quidem figura fiunt syllogismi sedecim, ex secunda
syllogismi sedecim, ex tertia etiam totidem colliguntur, omnes ex tribus terminis
syllogismi quodraginta octo. Restat nunc ut de his syllogismis dicamus qui
duabus hypotheticis continentur, quorum quidem similis consequentiae modus est,
ut in his propositionibus quae ex duabus categoricis ac simplicibus
efficiebantur. In omnibus enim si quidem uelimus astruere, primam totius
propositionis assumemus partem, si uero in conclusione aliquid destruendum est,
secunda negabitur. Siue autem prima denegetur, siue posterior affirmetur, nulla
fit omnino necessitas, nisi in quinta, septima, tertia decima et quinta decima
propositione, in quibus non complexionis natura sed terminorum proprietas
consequentiam facit, sicut in his syllogismis fieri docuimus qui in his
propositionibus constant, quae duabus simplicibus continentur. Horum autem omnium
qui ex duabus hypotheticis constant propositiones apposui, quarum differentias
cum lector agnouerit, ad earum exempla necesse est reuertatur, quae ex
simplicibus et categoricis iunctae sunt. Sunt autem omnes propositionum
differentiae, quae ex duabus hypotheticis copulantur, huius modi: o Si cum
est a, est b, cum sit c, est d. o Si cum est a, est b, cum sit c, non est
d. o Si cum est a, est b, cum non sit c, est d. o Si cum est a, est b,
cum non sit c, non est d. o Si cum sit a, non est b, cum sit c, est
d. o Si cum sit a, non est b, cum sit c, non est d. o Si cum sit a,
non est b, cum non sit c, est d. o Si cum sit a, non est b, cum non sit c,
non est d. o Si cum non sit a, est b, cum sit c, est d. o Si cum non
sit a, est b, cum sit c, non est d. o Si cum non sit a, est b, cum non
sit c, est d. o Si cum non sit a, est b, cum non sit c, non est d. o
Si cum non sit a, non est b, cum sit c, est d. o Si cum non sit a, non est
b, cum sit c, non est d. o Si cum non sit a, non est b, cum non sit c, est
d. o Si cum non sit a, non est b, cum non sit c, non est d. In his
quoque propositionibus illud inspiciendum est quod, cum sedecim sint, octo
quidem ita uariantur, ut tamen in omnibus a terminus esse ponatur, octo uero
ita, ut idem a terminus non esse dicatur. Non uero quoquo modo positae fuerint
habebunt uim conditionalium propositionum ex duabus hypotheticis constantium;
nam si quis sic dicat: Si cum homo est, animal est; Cum sit animatum,
corpus est; non fecerit eam propositionem quae ex duabus conditionalibus
constet. Neque enim idcirco quod animatum est corpus est, quia qui homo est
animal est, nec conditio sequitur conditionem; sed si eas separes, per seque
pronunties, utraque habet in terminorum consequentia necessitatem: nam et qui
homo est animal est, et quod animatum est corpus est, et per se istae
propositiones uerae sunt nec conditione iunguntur. Ut igitur singularum
natura clarescat, de unaquaque est disserendum. Prima igitur propositio talis
esse debet, ut si sit a positum, b terminus non continuo subsequatur, itemque,
si c ponatur, non necesse sit d terminum consequi sed, posito quidem a termino,
c terminum, posito uero b, terminum d esse necesse sit. Tunc enim eueniet ut
si, posito a, fuerit b, necesse sit c posito subsequi d, ut si sint termini a homo,
b medicus, c animatum, d artifex. Posito enim homine non necesse est ut medicus
sit, et cum sit animatum, non necesse est ut sit artifex; at si homo sit,
necesse est ut sit animatum, et si medicus sit, necesse est ut artifex sit. Hoc
itaque posito, eueniet ut si, cum homo sit, medicus est, cum sit animatum, sit
artifex. Secunda propositio ita esse debet, ut a atque b, itemque c atque
d praeter se esse possint sed a praeter c esse non possit, b autem atque d
simul esse non possint. Tunc enim eueniet ut si, posito a termino, b fuerit
consecutum, posito c non esse d necesse sit, ut si sit a homo, b niger, c
animatum, d albus: homo namque praeter nigrum, et animatum praeter album uel
esse uel non esse potest; homo uero praeter animatum, nigrum autem cum albo
esse non potest, euenitque ut si cum sit homo, niger sit, cum sit animatus non
sit albus. Item tertiae propositionis tales terminos esse oportebit, ut a
praeter b esse possit, c uero uel cum a uel cum d simul esse non possit. Quocirca
euenit ut, si a posito fuerit b, negato c termino d esse necesse sit, ut si sit
a quidem animatum, b medicus, c inanimatum, d artifex: animatum enim praeter
medicum esse potest, inanimatum uero neque cum animato neque cum artifice iungi
potest; itaque si cum animatum est, medicus est, cum inanimatum non sit artifex
est. Quarta propositio his terminis contexenda est, ut a quidem cum b termino,
c autem cum d uel esse uel non esse possit, neque uero a cum c, neque b cum d
ullo modo esse possibile sit. Tunc enim euenit ut, si a posito, b subsequatur,
c negato negetur etiam d, ut si sit a homo, b niger, c inanimatum, d album:
homo quidem praeter nigrum, inanimatum uero praeter album esse et non esse
potest; neque tamen homo cum inanimato, neque nigrum cum albo esse possibile
est. Si tamen, cum homo sit, niger est, sequitur ut, cum non sit
inanimatum, non sit album. Quintae propositionis haec membra sunt, ut a praeter
b, et c praeter d esse uel non esse possit sed a praeter c esse non possit, b
atque d numquam simul esse possint, ita ut si alterum non sit, alterum esse
necesse sit. Tunc enim eueniet ut si a posito b negetur, c posito d sequatur,
ut si sit a quidem homo, b aeger, c animatum, d sanus. Homo quidem praeter
aegritudinem, animatum uero praeter sanitatem et esse et non esse potest; sed
si homo sit, animatum esse necesse est; itaque fiet ut si, cum homo sit, non
sit aeger, cum sit animatus sanus sit. Sexta propositio hos terminos habere
desiderat, ut a praeter b, et c praeter d, et esse et non esse possit; idem
uero a praeter c, et d praeter b esse non possit. Tunc enim eueniet ut si a
posito non est b, posito c non sit d, ut si sit a homo, b artifex, c animatum,
d medicus. Homo quidem praeter artificium, animatum uero praeter medicinam et
esse et non esse potest; neque uero homo praeter animatum, neque medicus
praeter artificium esse potest. Quo fit ut si cum homo est, artifex non est,
cum sit animatum, non sit medicus. Septimae propositionis hi termini
sunt, ut a quidem praeter b esse et non esse possit, c autem neque cum d neque
cum a esse possit, b etiam cum c simul esse et non esse non possit; ita namque
eueniet ut si, posito a esse, b denegetur, negato c termino d sequatur, ut si a
quidem sit animatum, b sanum, c inanimatum, d aegrum. Animatum quidem praeter
sanitatem et esse et non esse potest, inanimatum uero neque cum animato neque
cum aegro conuenire potest; quo fit ut, si cum animatum est, sanum est, cum non
sit inanimatum aegrum sit. Item octaua propositio his terminis copulanda
est, ut a quidem praeter b terminum et esse et non esse possit, c autem cum d
non esse possit, /364/ sed a cum c et d praeter b esse non possit. Hoc enim
pacto eueniet ut, si a posito b denegetur, denegato c termino d terminus non
sit, ut si sit a animatum, b artifex, c inanimatum, d medicus. Animatum enim
praeter artificium et esse et non esse potest, inanimatum uero neque cum
animato neque cum medico conuenit, medicus uero praeter artificium esse non
potest; unde euenit ut, si cum animatum est, non sit artifex, cum non sit inanimatum
non sit medicus. Nona propositio fiet si a quidem atque b simul esse non
possint, c uero possit esse praeter d, cum a uero esse non possit. Tunc enim
eueniet ut, si a denegato, b esse consequitur, c posito d sequatur, ut si sit a
quidem inanimatum, b medicus, c animatum, d artifex. Inanimatum quippe medicus
esse non potest, animatum uero potest non esse artifex; inanimatum uero atque
animatum simul esse non possunt, quo fit ut si quod non est inanimatum, medicus
sit, cum sit animatum sit artifex. Decimam propositionem tales termini
copulabunt, ut a quidem praeter b, at uero c praeter d esse possit sed a cum c,
et b cum d esse non possit. Ita enim proueniet ut, si negato a esse, b
consequatur, posito c termino d non esse necesse sit, ut si sit a inanimatum, b
nigrum,c animatum, d album.Inanimatum quippe praeter nigrum, et animatum
praeter album esse et non esse possunt; sed inanimatum cum animato, et nigrum
cum albo simul esse non possunt. Sed si negatum fuerit inanimatum et consecutum
fuerit nigrum, posito animato album esse negabitur. Item undecima propositio ea
sit, ut neque a cum b, neque c cum d simul esse pcssit, a uero sine c et b sine
d esse non possit. Ita enim si cum a sit negatum, b sequitur, cum c negabitur,
d esse necesse est, ut si sit a inanimatum, b medicus, c inuitale, d artifex.
Inanimatum quidem medicus esse non potest, quocirca ne inuitale quidem artifex;
sed quod inanimatum est non potest non esse inuitale, itemque qui medicus est
non potest non esse artifex. Si igitur inanimatum negetur et medicum esse
consequatur, cum negabitur inuitale artifex esse consequitur. Duodecima
propositio est quam talibus terminis constare oportebit, ut a quidem praeter b,
at uero c praeter d uel esse uel non esse possit, a uero sine c, et b cum d,
esse non possint. Ita enim cadet ut si, a negato, b sequitur, c negato d etiam
denegetur, ut si fuerit a inanimatum, b album, c inuitale, d nigrum. Inanimatum
quidem praeter album, inuitale autem praeter nigrum uel esse uel non esse
potest; si tamen inanimatum non sit, et sit album, cum inuitale non sit non
erit nigrum. Tertia decima propositio his terminis connectenda est, ut a
quidem prneter b, at uero c praeter d esse possit, a uero atque c, et b atque d
ita simul esse non possint, ut si alterum eorum non fuerit, alterum esse
necesse sit. Ita namque fiet si cum a negatum sit, b negetur, cum c affirmatum
sit d affirmetur, ut si sit a irrationabile, b aegrum, c rationabile, d sanum.
Irrationabile /368/ namque praeter aegrum, et rationabile praeter sanitatem
esse potest, irrationabile uero atque rationabile, et aegrum atque sanum simul
esse non possunt; si tamen alterum eorum non fuerit, alterum esse necesse est.
Itaque fit ut si irrationabili denegato aegrum denegetur, rationabili posito
sanum ponatur. Quarta decima propositio his texenda membris est, ut a
quidem praeter b, et c praeter d esse possint sed a atque c simul esse non
possint, ita ut cum alterum non fuerit alterum esse necesse sit, d uero praeter
b esse non possit. Fit igitur ut, si cum sit a denegatum, b denegetur, cum sit
c non sit d, ut si sit a inanimatum, b artifex, c animatum, d medicus.
Inanimatum quidem praeter artificem, animatum uero praeter medicum esse potest;
inanimatum uero cum animato non conuenit, et medicus ab artifice nullo modo
separatur; fit igitur ut si, cum non est inanimatum, non sit artifex, cum sit
animatum non sit medicus. Quinta decima propositio hos terminos habere
debet, ut a quidem cum c, at uero b cum d esse non possit, b uero atque d talia
sint, ut altero eorum negato, alterum eorum esse necesse sit. Ita namque fiet
ut si, cum sit a denegatum, b negetur, cum negabitur c aflirmetur d, ut si sit
a quidem irrationabile, b sanum, c inanimatum, d aegrum. Irrationabile quidem
si non sit, non est inanimatum; sanum etiam atque aegrum simul esse non
possunt, et qui sanum negauerit aegrum necesse est affirmet, itemque e diuerso;
est igitur ut, si negato irrationabili negetur sanum, negato inanimato aegrum
ponatur. Sexta decima propositio est quae his terminis constat, ut a
quidem praeter c, at uero d praeter b esse non possit, a uero cum b et c cum d
esse nullo modo queant. Euenit igitur ut si, a quidem negato, negetur b,
denegato c terminus d abnuatur, ut si sit a inanimatum, b artifex, c inuitale,
d medicus. Inanimatum igitur praeter inuitale et medicus praeter artificem esse
non potest, inanimatum uero cum artifice et inuitale cum medico esse non
poterit: si igitur negato inanimato negetur artifex, negato inuitali negatur
medicus. Atque haec quidem ratio propositionum, quarum superius exempla
descripsimus, idcirco intellegatur assumpta ut earum natura claresceret, non
quo aliter inter se termini esse non possint. Nam, ut superius dictum est, non
sufficit quolibet modo iungere terminos, ut fiant hypotheticae propositiones ex
duabus conditionalibus coniugatae; neque enim si quis dicat: Si cum homo
est, animal est, cum dies est, lucet talem fecerit propositionem quae ex
duabus conditionalibus constet, idcirco quia prior conditio non est secundae
causa conditionis. Hoc igitur superius positarum propositionum ratio
demonstrat, quemadmodum fit ut conditionem conditio consequatur. Quae cum ita sint
de earum dicendum est syllogismis. Fit igitur ex prima propositione syllogismus
hoc modo: Si cum est a, est b, cum sit c, est d; Atqui cum sit a, est
b; Cum igitur sit c, erit d. Vel ita: Atqui cum sit c, non est
d; Cum igitur sit a, non est b. Posse uero hanc esse assumptionem superius
descripta propositionum natura demonstrat. Item ex secunda propositione: Si
cum est a, est b, cum sit c, non est d; Atqui cum sit a, est b; Cum
igitur sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum sit c, est d; Cum
igitur sit a, non est b. Ex tertia: Si cum sit a, est b, cum non sit
c, est d; Atqui cum sit a est b; Cum igitur non sit c, est d.
Vel ita: Atqui cum non sit c, non est d; Cum igitur sit a, non est b.
Item ex quarta: Si cum sit a, est b, cum non sit c, non est d; Sed
cum sit a, est b;Cum igitur non sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum
non sit c, est d; Cum igitur sit a, non est b. Ex quinta
propositione hunt quatuor collectiones: ita namque termini proponuntur, ut
utrobique fiat rata conclusio hoc modo: Si cum est a, non est b, cum sit
c, est d; Atqui cum sit a, non est b; Cum igitur sit c, est d.
Vel ita: Atqui cum sit a, est b; Cum igitur sit c, non est d
Vel ita: Atqui cum sit c, non est d; Cum igitur sit a, est
b. Vel ita: Atqui cum sit c, est d; Cum igitur sit a, non est
b. Ex sexta: Si cum est a, non est b, cum sit c non est d. Atqui
cum sit a, non est b; Cum igitur sit c, non est d. Vel
ita: Atqui cum sit c, est d; Cum igitur sit a, est b. Ex septima
item fiunt quatuor syllogismi hoc modo: Si cum est a, non est b, cum non
sit c, est d; Atqui cum est a, non est b; Cum igitur non sit c, est
d. Vel ita: Atqui cum sit a, est b; Cum igitur non sit c, non est
d. Vel ita: Atqui cum non sit c, non est d; Cum igitur sit a,
est b. Vel ita: Atqui cum non sit c, est d; Cum igitur sit a,
non est b. Ex octaua propositione: Si cum est a, non est b, cum non
sit c, non est d. Atqui cum sit a,
non est b; Cum igitur non sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum
non sit c, est d; Cum igitur sit a, est b. Hactenus quidem ex his
propositionibus quae a esse proponebant, atque ita caeteros terminos affirmando
negandoque uariabant, ostendimus qui fierent syllogismi. Nunc ex his
propositionibus quinam syllogismi fiant dicendum est, quae ita caeteros
terminos uariant, ut a non esse proponant. Ex nona enim propositione ita fit
syllogismus: Si cum non est a, est b, cum sit c, est d; Atqui cum
non sit a, est b; Cum igitur sit c, est d. Vel ita: Atqui cum
sit c, non est d; Cum igitur non sit a, non est b. Item ex
decima: Si cum non est a, est b, cum sit c, non est d; Atqui cum non
est a, est b; Cum igitur sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum
sit c, est d; Cum igitur non sit a, non est b. Ex undecima: Si
cum non est a, est b, cum non sit c, est d. Atqui cum non est a, est
b; Cum igitur non sit c, est d. Vel ita: Atqui cum non sit c,
non est d; Cum igitur non sit a, non est b. Ex duodecima: Si
cum non est a, est b, cum non sit c, non est d; Atqui cum non sit a, est
b; Cum igitur non sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum non sit
c, est d; Cum igitur non sit a, non est b. Item ex tertia decima,
quae quatuor colligit syllogismos hoc modo: Si cum non est a, non est b,
cum sit c, est d; Atqui cum non sit a, non est b; Cum igitur sit c,
est d. Vel ita: Atqui cum non sit a, est b; Cum igitur sit c,
non est d. Vel ita: Atqui cum sit c, non est d; Cum igitur non
sit a, est b. Vel ita: Atqui cum sit c, est d; Cum igitur non
sit a, non est b. Item ex quarta decima: Si cum non est a, non est b,
cum sit c, non est d; Atqui cum non est a, non est b; Cum igitur sit
c, non est d. Vel ita: Atqui cum sit c, est d; Cum igitur non
sit a, est b. Quinta decima rursus quatuor colligit syllogismos, hoc
modo: Si cum non est a, non est b, cum non sit c, est d; Atqui cum
non sit a, non est b; Cum igitur non sit c, est d. Vel ita: Atqui
cum non est a, est b; Cum igitur non sit c, non est d. Vel
ita: Atqui cum non sit c, non est d; Cum igitur non sit a, est
b. Vel ita: Atqui cum non sit c, est d; Cum igitur non sit a,
non est b. Ex sexta decima propositione: Si cum non est a, non est b,
cum non sit c, non est d; Atqui cum non sit a, non est b; Cum igitur
non sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum non sit c, est d; Cum
igitur non sit a, est b. Ex quibus omnibus quodraginta conclusiones fiunt:
sedecim quidem assumpta prima conditione, ita ut in prima propositione est
posita; sedecim uero assumpta secunda conditione, contrario modo atque in
propositione est collocata; octo uero ex quinta, septima, tertia decima et
quinta decima propositionibus fiunt, assumptis primis quidem conditionibus contrario
modo atque in propositione proferebantur, secundis uero conditionibus eodem
modo assumptis, ut in propositione fuerant collocatae. Ut igitur omnium
propositionum conclusionumque ratio clarescat, omnes huiusmodi enuntiationes
cum propositis apposuimus exemplis. o Si cum est a homo, est b medicus,
cum sit c animatum, est d artifex. o Si cum est a homo, est b niger, cum
sit c animatum, non est d albus. o Si cum est a animatum, est b
medicus, cum non sit c inanimatum, est d artifex. o Si cum est a homo,
est b niger, cum non sit c inanimatum, non est d albus. o Si cum est
a homo, non est b aeger, cum sit c animatum, est d sanus. o Si cum
est a homo, non est b artifex, cum sit c animatum, non est d
medicus. o Si cum est a animatum, non est b sanum, cum non sit c inanimatum, est
d aegrum. o Si cum est a animatum, non est b artifex, cum non sit c inanimatum,
non est d medicus. o Si cum non est a inanimatum, est b medicus, cum sit c
animatum, est d artifex. o Si cum non est a inanimatum, est b niger, cum
sit c animatum, non est d albus. o Si cum non est a inanimatum, est b
medicus, cum non sit c inuitale, est d artifex. o Si cum non est a
inanimatum, est b albus, cum non sit c inuitale, non est d nigrum. o
Si cum non est a irrationale, non est b aegrum, cum sit c rationale, est d sanum. o Si cum non est
a inanimatum, non est b artifex, cum sit c animatum, non est d medicus. o
Si cum non est a irrationale, non est b sanum, cum non sit inanimatum,
est d aegrum. o Si cum non est a inanimatum, non est b artifex, cum non
sit c inuitale, non est d medicus. Ac de his quidem qui per
connexionem fiunt haec dicta sunt. Hi uero qui in disiunctione sunt positi
illis uidentur adiuncti, eorumque modos formasque suscipiunt, quos superius in
connexione positos ex his propositionibus fieri diximus quae duabus simplicibus
iungerentur. Si igitur in disiunctione propositarum propositionum ad eas
similitudinem demonstrauerim quae in connexione positae ex simplicibus
copulatae sunt, quot modi qualesque conclusiones sunt in unaquaque illarum quae
per connexionem fiunt propositionum, tot etiam in his esse necesse est quae per
disionctionem pronuntiatae eamdem uim connexioni habere monstrantur. Quatuor
ergo superius differentias per connexionem enuntiatarum propositionum esse
diximus, si ex simplicibus propositionibus copularentur, hoc modo: Si est
a, est b. Si non est a, non est b. Si est a, non est b. Si non est a, est
b. Per disiunctionem quoque propositiones quatuor diderentias tenent hoc
modo: Aut a est aut b est Aut a non est aut b non est Aut a est
aut b non est. Aut a non est aut b est. Quarum quidem ea quae prima est
et proponit aut a esse aut b, in his tantum dici potest in quibus alterum eorum
esse necesse est, uelut in contrariis medietate carentibus, similisque est ei
propositioni quae dicit: Si a non est, b est. Quae enim
proponit: Aut a est aut b est id intellegit, neque simul utraque
esse posse, et, si unum non fuerit, consequi ut sit alterum. Itaque si non sit
a, erit b; sed haec una est earum propositionum quas in his quae per
connexionem fiunt superius numerauimus. Quicumque igitur syllogismi in ea
propositione fiunt, quae est: Si a non est, b est hi etiam in ea
faciendi sunt quae per disiunctionem proponitur, cum dicimus: Aut a est aut b
est. Fiunt autem in superiore quatuor modis: quamlibet enim partem
propositionis assumpseris, siue praecedentem, siue etiam consequentem, siue
negatiuo modo, siue affirmatiuo, faciet sullogismum. Nam si haec propositio
sit: Si non est a, est b siue non sit a, erit b; siue sit a, non
erit b; siue non sit b, erit a; siue sit b, non erit a. In propositione
quoque disiunctiua idem est. Nam cum dicitur: Aut a est aut b est
siquidem a fuerit, b non erit; quod si a non fuerit, erit b, et si b non sit,
erit a: si b fuerit, non erit a. Id quoque tali declaratur exemplo. Nam si sit
propositio: Aut aeger est aut sanus quidquid horum in assumptione
assumptum fuerit, uel negatum, altera pars uel affirmabitur, uel negabitur hoc
modo: nam si sanus est, non est aeger; si non est sanus, aeger est; si aeger
est, non est sanus; si non est aeger, sanus est. Item ea propositio
disiunctiua quae proponit: Aut non est a aut non est b fit quidem de
his quae quolibet modo simul esse non possunt, etiamsi non alterum eorum
necesse sit esse, similisque est ei propositioni connexae per quam ita
proponatur: Si est a, non est b. Quae enim sic enuntiat: Aut
non est a aut non est b id nimirum sentit, quod si a sit, b esse non
possit. Id ita probabitur. Cum enim proponitur hoc modo: Aut non est a aut
non est b tum si assumatur esse a, non erit b. Quocirca ei propositioni
connexae similis est quae ita enuntiat: Si sit a non esse b. In hac
uero propositione duae tantum complexiones syllogismos creabant: nam si esset
a, non erat b, et si esset b non erat a. Siue autem non esset a, non necesse
erat esse uel non esse b; siue non esset b, non necesse erat esse uel non esse
a. Quocirca et in disiunctiua propositione totidem syllogismos esse
necesse est, totidem uero incollectibiles complexiones; nam cum ita
proponitur: Aut non est a aut non est b ita dicitur: Si sit a,
non erit b et si sit b, non erit a. Siue autem non sit a, non necesse
erit esse uel non esse b; siue non sit b, non necesse erit esse uel non esse a,
ueluti in his apparet exemplis. Si enim quis dicat: Aut non est album
aut non est nigrum si igitur assumat: Atqui est album non erit
nigrum; uel rursus: Atqui est nigrum non erit album. Siue autem
album non esse assumpserit, non necesse erit esse uel non esse nigrum; siue
nigrum non esse assumpserit, ut sit uel non sit album nullam faciet
necessitatem. Item ea propositio per quam ita proponitur: Aut est a aut
non est b dicitur quidem de sibimet adhaerentibus, proponiturque in his
propositionibus quae ad minora de maioribus tendunt, similisque est ei
propositioni connexae quae enuntiat: Si non est a, non est b. Nam qui
dicit: Aut est a aut non est b si assumat: Atqui non est
a modis omnibus non erit b; si igitur non sit a, non erit b. Id enim haec
disiunctio praemittebat. In hac uero siquidem a negaretur, uel confirmaretur b,
habet aliquis syllogismus; siue autem a affirmaretur, siue b negaretur, nulla
erat in conclusione necessitas. Idem prouenit in disiunctis: nam cum
proponitur: Aut est a aut non est b siquidem non sit a, non erit b;
si uero sit b, erit a: quod si sit a, uel non sit b, nihil est
necessarium. Id uero in his terminis approbatur, si quis ita
proponat: Aut animal est aut non est homo si igitur animal non sit,
non est homo; si homo sit, animal est; siue autem animal sit, non necesse est
esse hominem, siue homo non sit, animal non necesse est interire. Ea uero
propositio quae dicit: Aut non est a aut est b in his quae
sibi adhaerent proponi potest, et a minoribus ad maiora contendit sed est
similis ei propositioni connexae quae dicit: si est a, est b. Nam
cum ita quis enuntiat, siquidem assumat esse a, statim consequitur ut sit b;
sed in hac propositione, siquidem affirmaretur esse a, sequebatur ut esset
b. Quod si negaretur b, sequebatur ut non esset a; siue autem negaretur a,
siue affirmaretur b, nihil necessarium uidebatur accidere. Et in ea igitur
propositione disiuncta quae dicit: Aut non est a aut est b siquidem
fuerit a, erit b; si non fuerit b, non erit a: siue autem non sit a, siue sit
b, nulla est necessitas syllogismi, ut in hoc declaratur exemplo: Aut non
est homo aut animal est. Si igitur assumamus: Atqui est homo
erit animal; si negemus esse animal, non erit homo; si autem hominem negemus,
uel animal affirmemus, nihil necessarium cadit. Quocirca ex his quae superius
dicta sunt declaratur quot disiunctarum propositionum syllogismi sint, uel
quibus ab his quae connexae sunt differentiis segregentur. Quae enim connexae
sunt quandam in eo quod est esse uel non esse consequentiam monstrant; quae
uero secundum disiunctionem proponuntur ita sunt, ut sibimet consentire non
possint. Inuenias quoque per connexionem propositiones, quae id intellegi
uelint, ut a se nequeant separari, ut cum ita proponimus: Si est a, est
b. Id nimirum haec propositio intellegit, quod si esse in disiunctione
sunt ita proponitur, ut simul esse uideantur. Cum enim dicimus: Aut a est
aut b est aut easdem propositiones quolibet modo alio uariamus, id et
coniunctio quae disiunctiua ponitur sentit simul eas esse non posse. Et cum
late earum pateat differentia, idcirco nunc de eisdem pauca subiunximus,
quoniam totidem syllogismos fieri dicebamus in his propositionibus quae per
disiunctionem fierent, quot etiam fuerant /390/ in connexis; et quoniam de
omnibus qui quoquo modo fieri possunt hypotheticis syllogismis sufficienter
dictum est, hic operis longitudinem terminemus. Quam magnos studiosis
afferat fructus scientia dividendi quamque apud peripateticam disciplinam
semper haec fuerit in honore notitia, docet et Andronici, diligentissimi senis
de divisione liber editus[;]et hic idem a Plotino gravissimo philosopho comprobatus
et in libri Platonis, qui Sophistes inscribitur commentariis a Porphyrio
repetitus, et ab eodem per hanc introductionis laudata in Categorias utilitas.
Dicit enim necessarium fore generis, speciei, differentiae, proprii,
accidentisque peritiam, tum propter alia multa tum propter utilitatem quae est
maxima partiendi. Quare, quoniam maximus usus est facillimaque doctrina, ego id
quoque sicut pleraque omnia Romanis auribus tradens, introductionis modo
habitaque in eandem rem et competenti subtilique tractatione et moderata
brevitate perscripsi, ut nec anxietas decisae orationis et non perfectae
sententiae legentium ƿ mentibus ingeratur; nec pPomba supervacuam loquacitatem
harum rerum inexperiens, rudis, insolensque novi audientium mentes habere
aequum, nec ullus livor id quod et arduum natura est et ignotum nostris, nobis
autem magno et labore et legentium utilitate digestum, obliquis morsibus
obtrectationis obfuscet, denique potius viam studiis, nunc ignoscendo nunc
etiam comprobando, quam frena bonis artibus stringant, dum quicquid novum est
imprudenti obstinatione repudiant. Quis enim non videat plurimum ad bonarum
artium valere defectum si apud mentes hominum numquam sit desperatio
displicendi? Sed haec hactenus. Nunc divisionis ipsius nomen dividendum est et
secundum unumquodque divisionis vocabulum uniuscuiusque propositi proprietas
partesque tractandae sunt, divisio namque multis modis dicitur. Est enim
divisio generis in species, est rursus divisio cum totum in proprias
distribuitur partes, est alia cum vox multa significans in significationes
proprias recipit sectionem. Praeter has autem tres est alia divisio quae
secundum accidens fieri dicitur. Huius triplex modus est: unus cum subiectum in
accidentia separamus, alius cum accidens in subiecta dividimus, tertius cum
accidens in accidentia secamus (hoc ita fit si utraque eidem subiecto inesse
videantur). Sed harum omnium exempla subdenda sunt quatenus totius huius ratio divisionis
eluceat. Genus dividimus in species cum dicimus "animalium alia sunt
rationabilia, alia irrationabilia; rationabilium alia mortalia, alia
immortalia" vel cum dicimus "coloris alia quidem sunt alba, alia
nigra, alia media". Oportet autem omnem generis in species divisionem aut
in duas fieri partes aut in plures, sed neque infinitae species esse possunt
generis nec minus duabus. Hoc autem cur eveniat posterius demonstrandum est. Totum
in partes divididur quotiens in ea ex quibus est compositum unumquodque
resolvimus, ut cum dico domus aliud esse tectum, aliud parietes, aliud
fundamenta, et hominem anima coniungi et corpore, cumque hominis dicimus partes
esse Catonem, Virgilium, Ciceronem et singulos qui, cum particulares sint, vim
tamen totius hominis iungunt atque componunt; neque enim homo genus, nec
singuli homines species, sed partes quibus totus homo coniungitur. Vocis autem
in significationes proprias divisio fit quotiens una vox multa significans
aperitur et eius pluralitas significationis ostenditur, ut cum dico
"canis" quod est nomen et hunc quadrupedem latrantemque designat et
caelestum qui ad Orionis pedem morbidum micat; est quoque alius, marinus canis,
qui in immoderatam corporis magnitudinem crescens caeruleus appellatur. Sed
huius divisionis duplex modus est, aut enim unum nomen multa significat aut
oratio iam verbis nominibusque composita. Et nomen quidem multa significat ut
id quod supra proposui, oratio vero multa designat ut est: Aio te, Aeacida,
Romanos vincere posse. Et nominis quidem per significationes proprias divisio
aequivocationis partitio nuncupatur, orationis vero in significationes proprias
distributio ambiguitatis discretio est, quam Graeci amphiboliam dicunt, ita ut
nomen multa significans aequivocum, oratio vero multa designans amphibola atque
ambigua praedicetur. Eorum autem quae secundum accidens dividuntur subiecti in
accidentia divisio est ut cum dicimus "omnium hominum alii sunt nigri,
alii candidi, alii medii coloris", haec enim accidentia sunt hominibus,
non hominum species, et homo his subiectum, non horum genus est. Accidentis
vero in subiecta sectio evenit ut est "omnium quae expetuntur alia in
anima, alia in corporibus sita sunt", animae namque atque corpori id quod
expetitur accidens, non genus, est, et boni quod in anima et corpore situm est
non sunt haec species sed subiecta. Accidentis vero in accidentia divisio est
ut "omnium candidorum alia sunt dura", ut margarita, "alia
liquentia", ut lac, liquor namque et albedo atque durities haec sunt
accidentia, sed album in dura et liquida separatum est. Cum ergo sic dicimus,
accidens in alia accidentia separamus. Sed huiusmodi divisio vicissim semper in
alterutra permutatur, possumus enim dicere "eorum quae dura sunt alia sunt
nigra, alia alba" et rursus "eorum quae liquida alia sunt alba, alia
nigra"; sed haec rursus conversa dividimus: "eorum quae sunt nigra
alia sunt dura, alia liquentia". Differt autem huiusmodi divisio omnibus
quae supra sunt dictae, nam neque significationem partiri possumus in voces,
cum vox in significationes proprias discernatur, nec partes in totum
dividuntur, quamvis totum separetur in partes, nec species secatur in genera,
licet genus in species dividatur. Quod vero superius dictum est, hanc
divisionem ita fieri si utraque eidem contingerent inesse subiecto, si
attentius perspicitur liquet, nam cum dicimus eorum quae dura sunt alia esse
alba, alia nigra, ut est lapis atque hebenum, manifestum est hebeno utraque
inesse, et duritiem scilicet et nigredinem. In caeteris quoque id diligens
lector inveniet. Quibus autem summa operatio veritatis inquiritur, his prius
intelligendum est quae sit horum omnium simul proprietas quibusque inter se
singillatim differentiis segregentur. Omnis enim vocis et generis totiusque
divisio secundum se divisio nuncupatur, reliquae vero tres in accidentis
distributione ponuntur. Secundum se autem divisionis huiusmodi differentia est.
Differt enim divisio generis a vocis divisione quod vox quidem in proprias
semper significationes separatur, ƿ genus non in significationes sed in quadam
a se quodammodo creatione disiungitur, et genus semper speciei propriae totum
est et universalius in natura, aequivocatio vero universalior quidem
significata re dicitur, tantum voce non etiam totum est in natura. Illo quoque
a vocis distributione dividitur, quod nihil habent commune praeter solum nomen
quae sub ea voce sunt, quae vero sub genere collocantur et nomen generis et
definitionem suscipiunt. Amplius quoque non eadem apud omnes vocis est
distributio: quod apud nos dicitur canis cum eius multae significationes in
lingua Romana sint simpliciter fortasse praedicatur in barbara, cum ea quae
apud nos uno nomine nuncupantur illi pluribus fortasse significent. Generis
vero apud omnes eadem divisio distributioque permanet, unde fit ut vocis quidem
divisio ad positionem consuetudinemque pertineat, generis ad naturam, nam quod
apud omnes idem est natura est, consuetudinis vero est quod apud aliquos
permutatur. Et hae quidem sunt differentiae generis distributionis et vocis. Generis
quoque sectio totius distributione seiungitur quod totius divisio secundum
quantitatem fit, partes enim totam substantiam coniungentes actu aut ratione
animi et cogitatione separantur, generis vero distributio qualitate perficitur.
Nam cum hominem sub animali locavero tunc qualitate divisio facta est, quale
namque animal est homo idcirco quoniam quadam qualitate formatur, unde quale
sit animal homo interrogatus aut "rationale" respondebit aut certe
"mortale". Amplius {quoque} genus omne naturaliter prius est propriis
speciebus, totum autem partibus propriis posterius; partes sunt quae totum
iungunt, compositi sui perfectionem alias natura tantum, alias ratione quoque
temporis antecedunt, unde fit ut genus in posteriora, totum vero in priora
solvamus. Hinc quoque illud vere dicitur: si genus interimatur statim species
deperire, si species ƿ interempta sit non peremptum genus in natura consistere.
Contra evenit in toto, nam si pars totius perit totum non erit, cuius pars una
sit interempta; sin totum pereat partes permanent distributae, ut si de integra
domo quis abstulerit tectum, totum quod ante fuit intercipit, sed pereunte toto
parietes et fundamenta constabunt. Amplius quoque genus speciebus materia est,
nam sicut aes accepta forma transit in statuam ita genus accepta differentia
transit in speciem; totius vero partium multitudo materia est, forma vero
earundem partium compositio. Nam sicut species ex genere constat et
differentia, ita totum constat ex partibus, unde fit ut totum ab unaquaque
parte sua partium ipsarum compositione differat, species vero a genere
differentiae coniunctione. Amplius quoque species idem semper quod genus est,
ut homo idem est quod animal et virtus idem est quod habitus, partes vero non
semper idem quod totum, neque enim manus idem est quod homo nec idem paries
quod domus. Et in his quidem quae dissimiles partes habent hoc clarum est, sed
non eodem modo in his quae similes, ut in aeris virgula cuius partes, quia sunt
continuae quia eiusdem sunt aeris, videntur idem esse quod totum est, sed falso;
fortasse enim idem sint partes huiusmodi substantia, non etiam quantitate. Restat
autem vocis et totius distributionis differentias dare. Differunt autem quod
totum quidem constat partibus, vox vero non constat ex his quae significat; et
fit totius quidem divisio in partes, vocis autem fit non in partes sed in eas
res quas vox ipsa significat, unde fit ut sublata parte una totum pereat,
sublata una re quam vox significat multa designans vox illa permaneat. Nunc
ergo quoniam secundum se divisionis differentiae dictae sunt generis
distributio pertractetur. Primum quid genus sit definiendum est: genus est quod
de pluribus specie differentibus in eo quod ƿ quid sit praedicatur, species
vero est quam sub genere collocamus, differentia qua aliud ab alio distare
proponimus. Et est quidem genus quod interroganti quid quaeque res sit convenit
responderi, differentia quae ad qualis percontationem rectissime respondetur;
nam cum quis interrogatur "Quid est homo?" recte "Animal",
"Qualis est homo?" convenienter "Rationabilis",
respondetur. Dividitur autem genus alias in species, alias in differentias si
species quibus genus oportet dividi nominibus carent, ut cum dico
"animalium alia rationabilia sunt, alia irrationabilia" rationabile
et irrationabile differentiae sunt. Sed quoniam speciei huius quae est animal
rationabile nomen unum non est, idcirco pro specie differentiam ponimus eamque
superiori generi copulamus, omnis enim differentia in genus proprium veniens
speciem facit, unde fit ut materia quaedam genus sit, forma differentia, cum
autem propriis nominibus species appellantur, non in differentias generis fit
recta divisio. Unde est ut ex pluribus terminis definitio colligatur. Si enim
omnes species suis nominibus appellarentur ex duobus solis terminis omnis
fieret definitio; ut cum dico "Quid est homo?" quid mihi necesse
esset dicere "Animal rationale mortale" si animal rationale esset
nomine proprio nuncupatum, quod cum reliqua differentia, id est mortali,
iunctum definitionem hominis verissima ratione et integra conclusione
perficeret? Nunc autem ad definitiones integras specierum divisio necessaria
est et forte in eodem divisionis definitionisque ratio versetur, nam
divisionibus iunctis una componitur definitio. Sed quoniam alia sunt aequivoca,
alia univoca, et quae sunt univoca ipsa in generum suscipimus sectiones, quae
vero sunt aequivoca in his divisio sola significationis est, videndum prius est
quid sit univocum quid aequivocum ne, cum ista fefellerint, aequivocum nomen
quasi in species ita in significativas ƿ resolvamus. Unde fit ut rursus ad
divisionem necessaria sit definitio, quid enim sit aequivocum quid univocum
definitione colligimus. Sunt autem differentiae aliae per se, aliae vero per
accidens, et harum aliae sunt consequentes, aliae statim relinquentes. Statim
relinquentes sunt huiusmodi, dormire vel sedere vel stare vel vigilare,
consequentes vero ut capilli crispi (si non amissi sint) et glauci oculi (si
non sint quadam extrinsecus debilitate turbati). Sed haec ad generis divisionem
sumenda non sunt, neque enim ad definitionem sunt commoda; omne enim quicquid
ad divisionem generis aptum est idem ad definitiones rectissime congregamus,
illa vero quae per se sunt sola ad divisionem generis apta sunt, haec autem
informant perficiuntque uniuscuiusque substantiam, ut hominis rationabilitas et
mortalitas. Sed has quemadmodum probare possimus utrum ex eo sint genere statim
relinquentium an consequentium an in substantia permanentium hoc modo mihi
videndum est, neque enim sufficit scire quas in divisione sumamus nisi illud
quoque sit cognitum, quemadmodum easdem ipsas quae sumendae et quae reiciendae
sunt rectissime cognoscamus. Videndum ergo primum est utrum proposita
differentia omni possit et semper inesse subiecto; quod si ipsa vel actu vel ratione
seiungitur, haec a divisione generis separanda est. Si enim saepe et actu et
ratione seiungitur, ex eorum est genere quae statim relinquunt, ut sedere
quidem frequentius separatur et actu ipso a subiecto dividitur. Quae vero
ratione sola a subiecto dividuntur ea sunt consequentium differentiarum, ut
glaucis oculis esse a subiecto ratione seiungimus, ut cum dico "Est animal
luminibus glaucis, ut quilibet homo", quod si hic non esset huiusmodi non
eum ƿ res aliqua esse hominem prohiberet. Aliud rursus est quod ratione
separari non possit, quod si separatum sit species interimatur, ut cum dicimus
inesse homini ut solus numerare possit vel geometriam discere. Quod si haec
possibilitas ab homine seiungatur, homo ipse non permanet; sed haec non statim
earum sunt quae in substantia insunt, nam non idcirco homo est quoniam haec
facere potest, sed quoniam rationalis est atque mortalis. Hae igitur
differentiae propter quas species consistit ipsae et in definitione speciei et
in generis eius divisione quod continet speciem collocantur. Et universaliter
dicendum est, quaecumque differentiae huiusmodi sunt ut non modo praeter eas
species esse non possit sed propter eas solas sit, hae vel in divisione generis
vel in speciei definitione sumendae sunt. Quoniam vero quaedam sunt quae
differunt quae contra se in divisionibus poni non debent, ut in animali
rationale et bipes (nullus enim dicit "Animalium alia sunt rationabilia,
alia duos pedes habentia" idcirco quod rationale et bipes, licet differant,
nulla a se oppositione disiunguntur), constat quaecumque a se aliqua
oppositione differunt eas solas differentias sub genere positas genus ipsum
posse disiungere. Sunt autem oppositiones quatuor: aut ut contraria, ut bonum
malo, aut ut habitus et privatio, ut visus et caecitas, quamquam sint et
quaedam res in quibus discernere difficultas sit utrum in contrariis an in
privatione vel habitu ea oporteat collocari, ut sunt motus quies, sanitas
aegritudo, vigilatio somnus, lux tenebrae -- sed haec alias, nunc autem de
reliquis oppositionibus dicendum est. Tertia oppositio est quae est secundum
affirmationem et negationem, ut: “Socrates vivit”, “Socrates non vivit.” Quarta
secundum relationem, ut pater filius, dominus servus. Secundum quas igitur
harum quattuor oppositionum ƿ divisio generis sit rectissima ratione
monstrandum est, manifestum est enim et oppositiones esse quattuor et species
et genera per opposita separari. Nunc ergo dicendum est secundum quam
oppositionem harum quattuor vel quemadmodum species a genere disiungi conveniat.
Et prima quidem sit contradictionis oppositio, voco autem contradictionis
oppositionem quae affirmatione et negatione proponitur. In hac igitur negatio
per se nullam speciem facit, nam cum dico "homo" vel
"equus", et aliquid huiusmodi, species sunt, quicquid autem quis in
negatione protulerit speciem non declarat, non esse enim hominem non est
species. Omnis enim species esse constituit, negatio vero quicquid proponit ab
eo quod est esse disiungit, ut cum dico "homo" quasi si sit quiddam
locutus sum, cum vero "non homo" substantiam hominis negatione
destruxi. Sic igitur per se caret divisio generis in species negatione. Necesse
est autem saepe speciem negatione componere cum ea quam simplici nomine speciem
volumus assignare nullo vocabulo nuncupatur, ut cum dico "Imparium
numerorum alii primi", ut tres, quinque, vel septem, "alii non
primi", ut novem, et rursus "Figurarum aliae sunt rectilineae, aliae
non rectilineae" et "Colorum alii sunt albi, alii nigri, alii nec
albi nec nigri". Ergo quando nomen unum speciebus positum non est, eas
negatione proferre necesse est. Hoc igitur cogit interdum necessitas, non
natura. In eodem quoque quotiens negatione facimus sectionem prius aut
affirmatio aut simplex dicendum est nomen, ut est "Numerorum alii sunt
primi, alii non primi", nam si prius negatio dicta sit, tardior fit rei
quam proponimus intellectus. Nam cum primum dicis esse aliquos numeros primos,
cum quales sint primi exemplo vel definitione docueris, quales non sint primi
mox auditor intelliget. Sin vero e contrario feceris, aut neutra subito aut
tardius utraque cognoscet, divisio vero quae propter apertissimam generis
naturam reperta est debet potius ad intelligibiliora deducere. Amplius quoque
prior affirmatio est, posterior negatio, quod autem primum ƿ est in divisione
quoque oportet primitus ordinari. Necesse est quoque semper finita infinitis
esse priora, ut aequale inaequali, virtutem vitiis, certum incerto, stabile
fixumque mutabili. Sed omnia quae aut definita parte orationis aut affirmatione
proferuntur plus finita sunt quam aut nomen cum particula negativa aut tota
negatio, quare finito potius quam infinito est facienda divisio. Sed si cui per
haec quaedam paratur anxietas aut obscuriora sunt fortasse quam ipse desiderat,
nihil ad me cognitionem facilem pollicentem, neque enim rudibus haec totius
artis sed imbutis et ulteriore paene loco progressis legenda et discenda
proponimus. Qui vero huius operis ordo sit cum De ordine Peripateticae
disciplinae mihi dicendum esset diligenter exposui. Haec quidem dicta sunt de
oppositione quam affirmatio negatioque constituit, illa vero quae secundum
habitum privationemque fit ipsa quoque superiori videtur esse consimilis. Negat
enim quodammodo privatio habitum, sed differt quod semper quidem potest esse
negatio, privatio vero non semper, sed tunc quando habitum habere possibile est
(hoc vero nos iam Praedicamenta docuerunt). Quare forma quaedam intelligitur
esse privatio, non enim tantum privat sed etiam circa se ipsam privatum quemque
disponit. Neque enim solum oculum caecitas privat lumine sed ipsa quoque
secundum se privatum luce disponit, caecus enim dicitur ad privationem
quodammodo quasi dispositus et affectus (hoc quoque Aristoteles testatur, in
Physicis). Unde fit ut privationis differentia ad generum divisionem frequenter
utamur. Sed hic quoque eodem modo sicut in contradictione faciendum est, prius
enim ponendus est habitus, qui est affirmationi consimilis, post privatio, quae
negationi. Aliquotiens tamen privationes quaedam habitus vocabulo proferuntur,
ut "orbus", "caecus", "uiduus", aliquotiens cum
particula privationis, ut cum dicimus "finitum" et
"infinitum", "aequum" et "inaequale", sed in his
"aequum" et "finitum" in divisione prima ponenda sunt,
privationes secundae. Ac de oppositione quidem privationis et habitus haec
dicta sufficiant. Contrariorum vero oppositio dubitatur fortasse an secundum ƿ
privationem et habitum esse videatur, ut album et nigrum, an album quidem
privatio nigri sit, nigrum vero albi -- sed haec alias, nunc autem ita
tractandum est tamquam si sit aliud oppositionis genus, sicut est in
Praedicamentis ab ipso quoque Aristotele dispositum. In contrariis autem
generum multa divisio est, fere enim cunctas differentias in contraria ducimus,
sed quoniam contraria sunt alia medio carentia, alia mediata, ita quoque
divisio facienda est, ut "Colorum alia sunt alba, alia nigra, alia
neutra". Fieret autem omnis definitio omnisque divisio duobus terminis
praedicatis nisi, ut supra iam dictum est, indigentia (quae saepe existit) in
nomine prohiberet. Quo autem modo utraeque duobus terminis fierent erit
manifestum hoc modo. Cum enim dico "Animalium alia sunt rationabilia, alia
irrationabilia" animal rationale ad hominis definitionem contendit, sed
quoniam animalis rationalis unum nomen non est ponamus ei nomen a litteram:
"rursus a litterae", quod est animal rationale, "alia sunt
mortalia, alia immortalia". Volentes igitur definitionem hominis reddere
dicemus: “Homo est a littera mortalis” nam si hominis definitio est animal
rationale mortale, animal vero rationale per a litteram significatur, idem
sentit "a mortale" tanquam si diceretur "animal rationale
mortale", a enim, ut dictum est, animal rationale significat. Sic ergo a
littera et mortali, duobus terminis, facta definitio est; quod si reperirentur
in omnibus quoque nomina, duobus semper terminis tota definitio constitueretur.
Divisio vero nominibus positis quoniam semper in duos terminos secatur
manifestum est si quis generi et differentiae cum deest nomen imponat, ut cum
dicimus: "Figurarum quae sunt trilaterae aliae sunt aequilaterae, aliae
duo latera habentes aequa, aliae totae inaequales". Trina igitur ista
divisio si sic proferretur fieret duplex: "Figurarum quae trilaterae ƿ
sunt aliae sunt aequales, aliae inaequales; inaequalium aliae sunt duo latera
tantum aequa habentes, aliae tria inaequalia", id est omnia; et cum
dicimus "Rerum omnium alia sunt bona, alia mala, alia indifferentia",
quae nec bona scilicet nec mala, si ita diceretur gemina divisio proveniret:
"Rerum omnium alia sunt differentia, alia indifferentia; differentium alia
sunt bona, alia mala". Ita ergo divisio omnis in gemina secaretur si
speciebus et differentiis vocabula non deessent. Quartam vero oppositionem
diximus quae est secundum ad aliquid, ut pater filius, dominus servus, duplex
medium, sensibile sensus. Haec igitur nullam habent substantialem differentiam
qua a se discrepent, immo potius habent huiusmodi cognationem qua ad se inuicem
referantur ac sine se esse non possint. Non est ergo generis in relativas
partes facienda divisio, sed tota huiusmodi sectio a genere separanda est,
neque enim hominis species est servus aut dominus nec numeri medium aut duplum.
Cum igitur quattuor sint differentiae, affirmationis et negationis si non
necesse est semper tamen relationis reicienda divisio est, privationis et
habitus et contrariorum sumendae. Maxime autem contrarietas in differentiis
ponenda est nec non etiam privatio, idcirco quoniam contra habitum quiddam
contrarium videtur apponere, ut est finitum et intinitum; quanquam enim sit
privatio, infinitum tamen contrarii imaginatione formatur, est quaedam namque,
ut dictum est, forma. Dignum vero inquisitu est utrum in species an in
differentias recte genera dividantur, definitio namque divisionis est generis
in species proximas distributio. Oportet igitur secundum naturam divisionis et
secundum definitionem in proprias species semper fieri generis disgregationem
(sed hoc interdum fieri nequit propter eam quam supra reddidimus causam, multis
enim speciebus non sunt nomina) atque ideo, quoniam quaedam sunt prima genera,
quaedam ultima, quaedam media: primum quidem ut substantia, ultimum ut animal,
medium ƿ ut corpus, corpus namque animalis genus est, substantia corporis, sed
neque super substantiam quicquam inveniri potest quod generis loco valeat
collocari neque sub animali, homo namque species, non genus, est. Quare
antiquior videbitur speciei divisio si non sit indigentia nominum, quod si his
omnibus non abundamus, prima genera usque ad ultima convenit in differentias
separare. Hoc autem fit hoc modo, ut primum genus in suas differentias
disgregemus non in posteriores, et posterius rursus in suas sed non in
posteriores. Neque enim eaedem sunt differentiae corporis quae animalis, si
quis enim dicat "Substantiae aliud est corporale, aliud incorporale"
recte divisionem fecerit, hae namque differentiae propriae substantiae sunt; si
quis vero sic, "Substantiarum alia sunt animata, alia inanimata", hic
non recte substantiae differentias disgregavit, corporis namque differentiae
sunt, non substantiae, id est secundi generis non primi. Quare manifestum est
secundum proprias differentias, non secundum posterioris generis, priorum generum
divisionem esse faciendam. Quotiens autem genus aut in differentias aut in
species solvitur, post divisionem factam mox definitiones aut exempla subdenda
sunt, sed si quis definitionibus non abundet satis est exempla subicere, ut cum
dicimus "Corporum alia sunt animata" subiciamus "ut homines vel
ferae; alia inanimata, ut lapides". Oportet autem divisionem quoque, sicut
terminum neque diminutam esse, neque superfluam, nam neque plures species quam
sub genere sunt oportet apponi nec pauciores, ut in se ipsa divisio sicut
terminus convertatur. Convertitur enim terminus sic: "Virtus est mentis
habitus optimus", rursus "Habitus mentis optimus virtus est".
Sic etiam divisio: "Omne genus aliquid eorum erit quae sunt species",
rursus "quaelibet species proprium genus est". Fit autem generis
eiusdem multipliciter divisio, ut omnium corporum et quaecumque alicuius sunt
magnitudinis. Sicut enim circulum in semicirculos et in eos quos Graeci
*tomeas* vocant (nos divisiones possumus dicere) distribuimus, et tetragonum
alias ducto per angulum ƿ diametro in triangula, alias in parallelogrammata,
alias in tetragona separamus, ita quoque genus, ut cum dicimus "Numerorum
alii sunt pares, alii impares" et rursus "alii primi, alii non
primi", et "Triangulorum alia sunt aequilatera, alia duo sola latera
aequa habentia, alia totis inaequalia lateribus" et rursus
"Triangulorum alia sunt rectiangula, alia acutos habentia tres angulos,
alia obtusum". Sic igitur generis unius fit divisio multiplex. Illud autem
scire perutile est, quoniam genus una quodammodo multarum specierum similitudo
est quae earum omnium substantialem convenientiam monstret, atque ideo
collectivum plurimarum specierum genus est, disiunctivae vero unius generis
species. Quae quoniam differentiis informantur, ut dictum est, idcirco sub uno
genere minus duabus speciebus esse non possunt, omnis enim differentia in
discrepantium pluralitate constat. Sed de divisione generis et speciei perplura
dicta sunt. Hanc igitur insistentibus viam promptior per divisionem generis ad
speciei definitionem facultas aperitur, oportet autem non solum quas ad
definitionem sumamus differentias addiscere, sed ipsius quoque definitionis
artem diligentissima cognitione complecti. Et illud quidem, an ulla possit
definitio demonstrari et quemadmodum per demonstrationem valeat inveniri, et
quaecumque de ea subtilius in postremis Analyticis ab Aristotele tractata sunt,
praetermittam, solam tantum exsequar regulam definiendi. Rerum enim aliae sunt
superiores, aliae inferiores, aliae mediae. Superiores quidem definitio nulla
complectitur idcirco quod earum superiora genera inveniri non possunt; porro
autem inferiores, quae sunt individua, specificis differentiis carent, quocirca
ipsae quoque a definitione seclusae sunt; mediae igitur quae et habent genera
et de aliis vel ƿ de generibus vel de speciebus vel individuis praedicantur sub
definitionem cadere possunt. Data igitur huiusmodi specie quae et genus habeat
et de posteriori praedicetur, primo eius sumo genus et illius generis
diffferentias divido; et adiungo differentiam generi, et video num illa
differentia iuncta cum genere aequalis possit esse cum ea specie quam
circumscribendam definitione suscepi. Quod si minor fuerit species, illam
differentiam rursus quam dudum cum genere posueramus quasi genus ponimus eamque
in alias suas differentias separamus, et rursus has duas differentias superiori
generi coniungimus, et, si aequavit speciem, definitio speciei esse dicetur,
sin minus, secundam differentiam rursus in alia separamus. Quas omnes
coniungimus cum genere et rursus speculamur si omnes differentiae cum genere
illi aequales sunt speciei quae definitur. Et postremo totiens differentias
differentiis distribuimus usque dum omnes iunctae generi speciem aequali
definitione describant. Huius autem rei clariorem facient exempla notitiam hoc
modo. Sit nobis propositum quod definire velimus "nomen". Vocabulum
ergo nominis de pluribus nominibus praedicatur et est quodammodo species sub se
continens individua. Definio ergo nomen sic. Sumo eius genus quod est vox et
divido: "Vocum aliae sunt significativae, aliae vero minime". Vox
autem non significativa nihil ad nomen, etenim nomen significat; sumo ergo
differentiam quae est significativa et iungo cum genere, id est cum voce, et
facio "uox significativa" et tunc respicio utrum genus hoc et differentia
nomini sint aequalia. Sed nondum aequalia sunt, potest enim et vox
significativa esse et nomen non esse, sunt enim quaedam voces quae dolorem
designant, aliae quae animi passiones naturaliter quae nomina non sunt, ut
interiectiones. Rursus ipsam vocum significantiam in alias differentias divido:
"Vocum significativarum aliae sunt secundum positionem, aliae ƿ sunt
naturaliter", et vox quidem significans naturaliter nihil ad nomen, vox
vero significans positione hominum nomini congruit. Quocirca duas has
differentias significativam et secundum positionem, iungo cum voce, id est cum
genere, et dico: "Nomen est vox significativa secundum placitum". Sed
rursus mihi non aequatur ad nomen, sunt namque et verba voces significativae et
secundum positionem; non igitur solius nominis definitio est. Distribuo iterum
differentiam quae est secundum positionem et dico "Secundum positionem
vocum significativarum aliae sunt cum tempore, aliae sine tempore", et
differentia quidem cum tempore nomini non iungitur idcirco quod verborum est
consignificare tempora, nominum vero minime; restat ergo ut congruat illa
differentia quae est sine tempore. Iungo igitur has tres differentias generi et
dico: "Nomen est vox significativa ad placitum sine tempore". Sed
rursus mihi non plena conclusio definitionis occurrit, potest enim vox et
significativa et secundum positionem et sine tempore esse et nomen non esse
unum sed nomina iuncta, quae est oratio, ut: “Socrates cum Platone et
discipulis”, sed quamquam imperfecta quidem haec sit oratio, tamen est oratio.
Quocirca ultima differentia quae est sine tempore aliis item differentiis
dividenda est, et dicemus: "Vocum significativarum secundum positionem
sine tempore aliae sunt quarum pars extra aliquid significat", hoc
pertinet ad orationem, "aliae quarum pars extra nihil significat",
hoc pertinet ad nomen, nominis enim pars nihil extra designat. Fit ergo
definitio sic: "Nomen est vox significativa secundum placitum sine
tempore, cuius nulla pars extra significativa est separata". Videsne
igitur quam recta definitio constituta sit? Nam quod dixi "uocem" a
caeteris sonis nomen disiunxi, quod "significativam" apposui nomen a
non significativis vocibus separavi, quod "secundum placitum" et
"sine tempore" a naturaliter significantibus vocibus et a verbis
proprietas nominis distributa est, quod eius partes extra nihil significare
proposui ab oratione distinxi, cuius partes aliquid separatae extra
significant. Unde fit ut quodcumque nomen fuerit illa definitione claudatur et
ubicumque haec ratio definitionis aptabitur illud nomen esse non dubitem. Illud
quoque dicendum est, quod genus in divisione totum est, in definitione pars, et
sic est definitio quasi quaedam partes totum coniungant, sic est divisio quasi
totum solvatur in partes, et est similis divisio generis totius divisioni,
definitio totius compositioni. Namque in divisione generis animal totum est
hominis, intra se enim complectitur hominem, in definitione vero pars est,
specie namque genus cum aliis differentiis iunctum componit, ut cum dico
"Animalium alia sunt rationabilia, alia irrationabilia" et rursus
"Rationabilium alia sunt mortalia, alia immortalia", animal
rationalis totum est et rursus rationale mortalis, et haec tria hominis. Si
vero in definitione dicam: “Homo est animal rationale mortale”tria haec unum
hominem iungunt, quocirca pars ipsius et genus et differentia reperitur. Sic
igitur in divisione genus totum est, species pars, eodem quoque modo
differentiae totum, partes in quas illae dividuntur. In definitione vero et
genus et differentiae partes sunt, definita vero species totum. Sed haec
hactenus. Nunc de ea divisione dicemus quae est totius in partes, haec enim
erat secunda divisio post generis divisionem. Quod enim dicimus totum
multipliciter significamus: totum namque est quod continuum est, ut corpus vel
linea vel aliquid huiusmodi; dicimus quoque totum quod continuum non est, ut
totum gregem vel totum populum vel totum exercitum; dicimus quoque totum quod
universale est, ut hominem vel equum, hi enim toti sunt suarum partium, id est
hominum vel equorum, unde et particularem unumquemque hominem dicimus; dicitur
quoque totum quod ex quibusdam virtutibus constat, ut animae alia potentia est
sapiendi, alia sentiendi, alia uegetandi. Tot igitur modis cum totum dicatur,
facienda totius divisio est - primo quidem, si continuum fuerit, in eas partes
ex quibus ipsum ƿ totum constare perspicitur, aliter enim divisio non fit.
Hominis enim corpus in partes suas divideres, in caput, manus, thoracem, pedes,
et si quo alio modo secundum proprias partes fit recta divisio. Quorum autem
multiplex est compositio multiplex etiam divisio, ut animal separatur quidem in
partes eas quae sibi similes habent partes, in carnes, et ossa, rursus in eas
quae sibi similes non habent partes, in manus, in pedes, eodem quoque modo et
navis et domus. Librum quoque in versus atque hos in sermones, hos autem in
syllabas, syllabas in litteras solvimus, ita fit ut litterae et syllabae et
nomina et versus partes quaedam totius libri esse videantur, alio tamen modo
acceptae non partes totius sed partes partium sint. Oportet autem non omnia
speculari quasi actu dividantur sed quasi animo et ratione, ut vinum aquae
mixtum dividimus in vina aquae mixta, hoc actu, dividimus etiam in vinum et
aquam ex quibus mixtum est, hoc ratione, haec enim iam mixta separari non
possunt. Fit autem totius divisio et in materiam atque formam, aliter enim
constat statua ex partibus suis, aliter ex materia atque forma, id est ex aere
et specie. Similiter etiam illa tota dividenda sunt quae continua non sunt
eodem quoque modo et ea quae sunt universalia, ut "Hominum alii sunt in
Europa, alii in Asia, alii in Africa". Eius quoque totius quod ex
virtutibus constat hoc modo facienda est divisio: "Animae alia pars est in
virgultis, alia in animalibus" et rursus "eius quae est in animalibus
alia rationalis, alia sensibilis est" et rursus haec aliis sub
divisionibus dissipantur. Sed non est anima horum genus sed totum, partes enim
hae animae sunt, sed non ut in quantitate, sed ut in aliqua potestate atque
virtute, ex his enim potentiis substantia animae iungitur. Unde fit ut quiddam
simile habeat huiusmodi divisio et generis et totius divisioni, nam quod
quaelibet eius pars fuerit animae praedicatio eam sequitur, ad generis
divisionem refertur, cuius ubicumque fuerit species ipsum mox consequitur
genus; quod autem non omnis anima omnibus partibus iungitur sed alia aliis, hoc
ad totius naturam referri necesse est. Restat igitur ut de vocis in
significantias divisione tractemus. Fit autem vocis divisio tribus modis.
Dividitur enim in significationes ut aequivoca vel ambigua, plures enim res
significat unum nomen, ut "canis", plures rursus una oratio, ut cum
dico Graecos vicisse Troianos. Alio autem modo secundum modum, haec enim non
plura significant sed multis modis, ut cum dicimus "infinitum" unam
rem quidem significat cuius terminus inveniri non possit, sed hoc dicimus aut
secundum mensuram aut secundum multitudinem aut secundum speciem: secundum
mensuram, ut est infinitum esse mundum, magnitudine enim dicimus infinitum;
secundum multitudinem, ut est infinitam esse corporum divisionem, infinitam
namque divisionum multitudinem significamus; rursus secundum speciem, ut
infinitas dicimus figuras, infinitae enim sunt species figurarum. Dicimus etiam
infinitum aliquid secundum tempus, ut infinitum dicimus mundum, cuius terminus
secundum tempus inveniri non possit, eodem quoque modo infinitum dicimus Deum,
cuius supernae vitae terminus inveniri secundum tempus non possit. Sic igitur
haec vox non plura significat secundum se sed multimode de singulis praedicatur,
unum tamen ipsa significans. Alius vero modus secundum determinationem.
Quotiens enim sine determinatione dicitur vox ulla, facit intellectu
dubitationem, ut est "homo", haec enim vox multa significat, nulla
enim definitione conclusa audientis intelligentiam multis raptat fluctibus
erroribusque traducit. Quid enim quisque auditor intelligat ubi id quod dicens
loquitur nulla determinatione concluditur? Nisi enim quis ita definiat dicens:
“Omnis homo ambulat” aut certe: “Quidam homo ambulat” et hunc nomine, si ita
contingit, designet, intellectus audientis quod rationabiliter intelligat non
habet. Sunt etiam aliae determinationes, ut si quis dicat: “Det mihi!” quando
vel quid dare debeat nullus intelligit nisi intellectus et certa ƿ ratio
determinationis addatur, vel si quis dicat: “Ad me venite!”quo veniant vel
quando nisi determinatione non cognoscitur. Est autem omne quidem ambiguum
dubitabile, non tamen omne dubitabile ambiguum, haec enim quae dicta sunt
dubitabilia quidem sunt, non tamen ambigua. In ambiguis enim uterque auditor
rationabiliter se ipsum intellexisse arbitratur, ut cum quis dicit: “Audio
Graecos vicisse Troianos” unus potest intelligere quod Graeci Troianos
vicerint, alius quod Troiani Graecos, et uterque hoc dicentis ipsius sermonibus
rationabiliter intellegunt. Cum autem dico: “Da mihi!” quid dare debeat nullus
ex ipsis sermonibus rationabiliter auditor intelligit, quod enim ego non dixi
ille potius suspicabitur quam aliqua ratione id quod a me prolatum non est
perspicaciter videat. Tot igitur modis cum vocis divisio fiat, aut per
significantias aut per modum significationum aut per determinationem, in his
quae secundum significantiam dividuntur non solum dividendae sunt
significationes sed etiam diversas res esse quae significantur definitione
monstrandum est. Aristoteles enim hoc in Topicis diligenter praecepit, ut in
his quae dicuntur bona alia sunt bona, ut ea quae boni retinent qualitatem,
alia quae ipsa quidem nulla qualitale dicuntur sed quod bonam rem faciunt
idcirco bona dicuntur. Oportet autem maxime exercere hanc artem, ut ipse
Aristoteles ait, contra sophisticas importunitates, si enim nulla subiecta sit
res quam significat vox, designativa esse non dicitur, sin vero una res sit
quam significat vox, dicitur simplex, quod si plures, multiplex et multa
significans. Dividenda igitur haec sunt ne in aliquo syllogismo capiamur. Sin
vero amphibola oratio est, evenit ut aliquotiens utroque modo possibilia sint
quae significantur, ut id quod superius dixi; potuit ƿ enim fieri ut Graeci
vincerent Troianos et Troiani Gracos superarent. Sunt vero alia quae
impossibilia sunt, ut cum dico hominem comedere panem, significat quidem quod
homo panem comedat, rursus quod panis hominem, sed hoc impossibile est. Ergo
quotiens ad contentionem venitur dividenda et possibilia et impossibilia,
quotiens ad veritatem sola possibilia dicenda, impossibilia relinquenda sunt. Quoniam
ergo plures sunt species plura significantium vocum, dicendum est quod aliae in
particula multiplicitatem significationis habent, aliae in tota oratione, et
eorum quae in particula habent pars ipsa aequivoca dicitur, tota vero ipsa
oratio secundum aequivocationem multiplex, illa vero quae in oratione tota
significationis multiplicitatem retinet (ut supra iam dictum est) ambigua
nuncupatur. Dividitur autem significationes aequivocarum secundum
aequivocationem unius particulae orationum definitione, ut cum dico: “Homo
vivit”intelligitur et verus et pictus; dividitur autem hoc modo: “Animal
rationale mortale vivit” (quod verum est), “Animalis rationalis mortalis
simulatio vivit” (quod falsum est). Dividitur qualibet adiectione quae
terminet, vel generis vel casus vel alicuius articuli; ut cum dico: “Canna
Romanorum sanguine sorduit” et calamum demonstrat et fluuium, sed dividimus
sic: articulo quidem, ut dicamus: “Hic Canna Romanorum sanguine sorduit” vel
genere, ut: “Canna Romanorum sanguine plenus fuit”uel casu vel numero, in illo
enim singularis tantum est, in illo pluralis, et de aliis quidem eodem modo. Sunt
autem alia secundum accentum, alia secundum orthographiam, et secundum accentum
quidem ut "pone" et "pone", secundum orthographiam ut
"quaeror" et "queror" ab inquisitione et ƿ querela; et haec
rursus vel secundum ipsam orthographiam dividuntur vel secundum actionem et
passionem, quod "quaeror" ab inquisitione passivum est, "queror"
autem a querela agentis est. Ambiguarum vero orationum facienda est divisio,
aut per adiectionem aut per diminutionem aut per divisionem aut per aliquam
transmutationem, ut cum dicitur: “Audio Troianos vicisse Graecos”ita dicamus:
“Audio quod Graeci vicerint Troianos” haec enim ambiguitas quolibet eorum modo
solvitur. Non tamen ita dividenda est omnis vocum significatio tamquam generis:
in genere omnes species enumerantur, in ambiguitate vero tantae sufficiunt
quantae ad eum sermonem possint esse utiles quem alterutra nectit oratio. Ac de
vocis quidem significatione sufficienter dictum est, est autem et de generis
totiusque divisione propositum atque expeditum. Quare de omnibus secundum se
partitionibus diligentissime pertractatum est. Nunc de his divisionibus dicemus
quae per accidens fiunt. Harum autem commune praeceptum est, quicquid ipsorum
dividitur in opposita disgregari, ut si subiectum in accidentia dividimus non
dicamus "Corporum alia sunt alba, alia dulcia", quae opposita non
sunt, sed "Corporum alia sunt alba, alia nigra, alia neutra", eodem
quoque modo in aliis secundum accidens divisionibus dividendum est. Atque illud
maxime perspiciendum, ne quid ultra dicatur aut minus, sicut fit in generis
divisione. Non enim oportet relinqui aliquod accidens ex eadem oppositione quod
subiecto illi inest quod non in divisione dicatur, neque vero addi aliquid quod
subiecto inesse non possit. Posterior quidem Peripateticae secta prudentiae
differentias divisionum diligentissima ratione perspexit et per se divisionem
ab ea quae est secundum accidens ipsasque inter se disiunxit atque distribuit,
ƿ antiquiores autem indifferenter et accidente pro genere et accidentibus pro
speciebus aut differentiis utebantur, unde nobis peropportuna utilitas visa est
et communiones harum divisionum prodere et eas propriis differentiis
disgregare. Et de divisione quidem omni quantum introductionis brevitas
patiebatur diligenter expressimus. Exhortatione tua, Patrici rhetorum
peritissime, quae honestati praesentis propositi et futurae aetatis utilitati
coniuncta est, nihil antiquius existimaui. Cui muneri libentius acquieui, non
quod ad instruendum te, commentarios in M. Tullii Topica laborare me credidi
(ridiculus quippe forem si Mineruam, ut aiunt, litterae docere uellem) sed ut
ex disciplinarum liberalium sumptum penu, nostrae apud te semper pignus
amicitias permaneret. Quod enim munus ex animo diligentibus iocundius inueniri
potest, quam quod ipsius animi partes format et instruit? Nam caetera fere
caduca, imbecilla, labantia, et si ad fortunae uicem spectes, pene semper
aliena sunt. At uero opulentiam litterarum, nec praesens imminuit aetas,
earumque auctoritatem ipsa etiam cunctae conficiens, auget potius et confirmat
uetustas. Accipe igitur opus, non efficientiae securitate sed amicitiae
praesumptione susceptum, apud quam nescio quonam pacto garrire non dedecet,
simul quia praelato a nobis munere cum tuorum aliquid operum postulauero,
iniurius fueris, si negabis. Sed cum in M. Tullii Topica Marius
Victorinus rhetor plurimae in disserendi arte notitiae commenta conscripserit,
non me oportuisset melioribus forsitan attemptata contingere nisi esset aliquid
quo se noster quoque labor exercere atque parere potuisset. Quatuor enim uoluminibus
Victorinus in Topica conscriptis, eorum primo declarandis tantum libri
principiis occupatur. Addit etiam et si qua in eodem uolumine praedicenda
fuissent perpendit, ut ab exordio uoluminis Topicorum quod est: MAIORES
NOS RES SCRIBERE INGRESSOS, C. TREBATI... usque ad eum locum qui
est: SED IAM TEMPUS EST AD ID QUOD INSTITUIMUS ACCEDERE. primi
uoluminis Victorini expositio terminetur. Secundo uolumine de iudicandi,
atque inueniendi dialecticae partibus, et de loco atque argumenti definitione pertractat,
ut ab eo loco Topicorum qui est: CUM OMNIS RATIO DILIGENS DISSERENDI DUAS
HABEAT PARTIS, UNAM INVENIENDI ALTERAM IUDICANDI... usque ad eum locum
qui est: ITAQUE LICET DEFINIRE LOCUM ESSE ARGUMENTI SEDEM. ARGUMENTUM
AUTEM RATIONEM, QUAE REI DUBIAE FACIAT FIDEM. secundi libri explanatio
subsistat. Tertius uero atque quartus discretionem locorum inter se
eorumque exempla multiformiter persequuntur. Ita ut tertius quidem Tulliana
sibi de iure proponat exempla. Quartus uero eosdem locos per alias rursus
similitudines monstret ex Virgilio et Terentio poetis, oratoribus Cicerone et
Catone, ut quod praeceptis ostenditur, exemplis multipliciter collucescat,
neque ab eo loco qui est in Topicis sed ex his locis in quibus argumenta
inclusa sunt, expositio progressa eum transcendit locum qui est: VALEAT
AEQUITAS, QUAE PARIBUS IN CAUSIS PARIA IURA DESIDERAT. Quanta uero pars
reliqua si Topicorum ipsius uoluminis magnitudo demonstrat, quam Victorinus,
neque attigit, neque attingere potuisset, ita est rebus minimis immoratus, nisi
opus multa librorum pluralitate distenderet. Nos uero et hanc ipsam
particulam, quam Victorinus attigit diligenter (ut possumus) aggrediamur, et
longius expositione progressi, cum Topicorum debemus fine consistere. Quare hinc
de tota operis propositione conueniens sumamus exordium. Sed antequam de
topicae facultatis ratione pertractem, proemium, quoad Trebatium M. Tullius
utitur, paucis absoluam. Ait enim: MAIORES NOS RES SCRIBERE
INGRESSOS, C. TREBATI, ET HIS LIBRIS, QUOS BREVI TEMPORE SATIS MULTOS EDIDIMUS,
DIGNIORES E CURSU IPSO REVOCAVIT VOLUNTAS TUA. CUM ENIM MECUM IN TUSCULANO
ESSES ET IN BIBLIOTHECA SEPARATIM UTERQUE NOSTRUM AD SUUM STUDIUM LIBELLOS QUOS
VELLET EVOLVERET, INCIDISTI IN ARISTOTELIS TOPICA QUAEDAM, QUAE SUNT AB ILLO
PLURIBUS LIBRIS EXPLICATA. QUA INSCRIPTIONE COMMOTUS CONTINUO A ME
LIBRORUM EORUM SENTENTIAM REQUISISTI. QUAM CUM TIBI EXPOSUISSEM,
DISCIPLINAM INUENIENDORUM ARGUMENTORUM, UT SINE ULLO ERRORE AD EA RATIONE ET
VIA PERVENIREMUS, AB ARISTOTELE INVENTAM ILLIS LIBRIS CONTINERI, VERECUNDE TU
QUIDEM UT OMNIA, SED TAMEN FACILE UT CERNEREM TE ARDERE STUDIO, MECUM UT TIBI
ILLA TRADEREM EGISTI. CUM AUTEM EGO TE NON TAM VITANDI LABORIS MEI CAUSA QUAM
QUIA TUA ID INTERESSE ARBITRARER, VEL UT EOS PER TE IPSE LEGERES VEL UT TOTAM
RATIONEM A DOCTISSIMO QUODAM RHETORE ACCIPERES, HORTATUS ESSEM, UTRUMQUE, UT EX
TE AUDIEBAM, ES EXPERTUS. [1.03] SED A LIBRIS TE OBSCURITAS REIECIT;
RHETOR AUTEM ILLE MAGNUS HAEC, UT OPINOR, ARISTOTELIA SE IGNORARE RESPONDIT.
QUOD QUIDEM MINIME SUM ADMIRATUS EUM PHILOSOPHUM RHETORI NON ESSE COGNITUM, QUI
AB IPSIS PHILOSOPHIS PRAETER ADMODUM PAUCOS IGNORETUR; QUIBUS EO MINUS
IGNOSCENDUM EST, QUOD NON MODO REBUS EIS QUAE AB ILLO DICTAE ET INVENTAE SUNT
ADLICI DEBUERUNT, SED DICENDI QUOQUE INCREDIBILI QUADAM CUM COPIA TUM ETIAM
SUAVITATE. NON POTUI IGITUR TIBI SAEPIUS HOC ROGANTI ET TAMEN VERENTI NE
MIHI GRAVIS ESSES -- FACILE ENIM ID CERNEBAM -- DEBERE DIUTIUS, NE IPSI IURIS
INTERPRETI FIERI [1042C] VIDERETUR INIURIA. ETENIM CUM TU MIHI MEISQUE MULTA
SAEPE SCRIPSISSES, VERITUS SUM NE, SI EGO GRAVARER, AUT INGRATUM ID AUT
SUPERBUM VIDERETUR. SED DUM FUIMUS UNA, TU OPTIMUS ES TESTIS QUAM FUERIM
OCCUPATUS. UT AUTEM A TE DISCESSI IN GRAECIAM PROFICISCENS, CUM OPERA MEA
NEC RES PUBLICA NEC AMICI UTERENTUR NEC HONESTE INTER ARMA VERSARI POSSEM, NE
SI TUTO QUIDEM MIHI ID LICERET, UT VENI VELIAM TUAQUE ET TUOS VIDI, ADMONITUS
HUIUS AERIS ALIENI NOLUI DEESSE NE TACITAE QUIDEM FLAGITATIONI TUAE. ITAQUE
HAEC, CUM MECUM LIBROS NON HABEREM, MEMORIA REPETITA IN IPSA NAVIGATIONE
CONSCRIPSI TIBIQUE EX ITINERE MISI, UT MEA DILIGENTIA MANDATORUM TUORUM TE
QUOQUE, ETSI ADMONITORE NON EGES, AD MEMORIAM NOSTRARUM RERUM EXCITAREM. SED
IAM TEMPUS EST AD ID QUOD INSTITUIMUS ACCEDERE. Omne proemium, quod ad
componendum intendit auditorem, ut in rhetoricis discitur, aut beneuolentiam
captat aut attentionem praeparat aut efficit docilitatem: his tribus partibus
sibi Cicero Trebatium format. Nam quod se a magnarum rerum inchoatione reuocatum
ad amici contulit uoluntatem, fauorem Trebatii uelut iudicis, beneuolentiae
partibus meretur. MAIORES autem RES sunt a quarum scriptione ad amici studium
uersus est, moralis philosophiae tractatus. Maior est enim morum ratio quam
peritia disserendi. Id autem tempus fuisse coniicimus, quo propter turbulenta
reipublicae tempora in otium se contulit, atque ad philosophiae
disciplinas. Sed quia nobis audientium mentes ueritatis quoque opinio
praesumpta conciliat, in eo etiam praeparandae beneuolentiae partibus utitur.
Quod in commemorandis ueraciter iis quae Trebatius nouerat, facit illis fidem
quae posterius euenire et Trebatio potuerunt esse ignota. Haec autem sunt, quod
in Tusculano ad suum studium uterque libros euoluerit. Quodque Trebatius casu
in Aristotelis Topica inciderit, et quod titulum operis admiratus, a M. Tullio
inscriptionis sententiam perquisierit. Illud etiam quod ei Cicero se exposuisse
commemorat, inueniendorum argumentorum illis libris scientiam contineri, ut
sine ullo errore ad argumentorum inuentionem uia quadam et recto filo atque
artificio ueniretur, quae res breuiter enuntiata, uelut intentionem operis
monstrat, et docilem perficit auditorem. In hoc namque uidetur esse
comprehensum quae sit intentio Topicorum, quoniam Cicero ait disciplinam esse
inueniendorum argumentorum, non ut inueniantur (id enim natura
suppeditat). Sed ut sine ullo labore; ac sine ulla confusione non
casu ad ea mens sed quadam uia et ratione perueniat, post hanc beneuolentiam
captationem, Trebatii laudem subiungit, cum eius uerecundiam in his commemorat
expetendis, quae si postulanti amico Cicero praestilisset et gloriae praemium
ferret et gratiae sed quod petenti Trebatio, ut ei Topica traderet minime
concessit. Id non proprii laboris fuga sed Trebatii potius causa factum esse
contendit, ut in eo quoque Trebatii ueluti tunc repulsi subiratus forsitan
animus, nunc non sit alienus. Intererat uero Trebatio ut uel per se ipse illa
legens exercitatior fieret, uel ei perfectius si qua dubitaret rhetor doctior
expediret. Utrumque uero a Trebatio se narrat audisse. Nam et expertum cum, ut
per se ipse legeret sed obscuritate reiectum, et illum rhetorem a quo Topicorum
explanationem petiisset, illa sese Aristotelica ignorare confessum. Quae
res, propter operis difficultatem, nec esse est auditorem reddat attentum. Ea
quippe non negligentes inspicimus, quae non facilis esse intelligentiae
suspicamur, in quo etiam Cicero minime se miratum esse commemorat, quod is
philosophus a rhetore nesciretur, qui multis etiam philosophis uideretur
incognitus. Quorum etiam iure culpat ignauiam, quod ad Aristotelicae
philosophiae disciplinam non inuentorum utilitas, non orationis nitor
illexerit. In quo etiam maioris perspicaciae crescit attentio, quia facile ad
studium mentes, aliorum segnities culpata conuerterit, quocumque uero attentio
fuerit, non poterit ab esse docilitas. In his etiam laus quaedam Trebatii
latenter inducitur. Magnum est enim philosophis in suo quasi munere cessantibus
hunc ne proprio quidem studio praepeditum, alienae scientiae secreta
rimari. Iam uero sequentia multo etiam clarius beneuolentiam petunt,
uelut hoc quod elegantissime dictum est, ueritum se esse ne, si modeste
postulantis uerecundiae pernegasset, ipsi quodammodo iuris interpreti fieri
uideretur iniuria, et quod praecedens Trebatii meritum percepti beneficii memor
exsequitur, id uero est quod uel ipsi uel iis quos ipse defenderit, plura
cauisset. Fuit igitur, ut ait, uerendum, ne, si restituere gratiam noluisset,
aut ingratum id aut superbum esse uideretur. Ingratum quidem, si magna Trebatii
merita quibus ipse usus fuerat, paruo aestimare uideretur, cum nullam ei
gratiam restituendam putaret, superbum uero, si sperneret. Ad idem
caetera reuertuntur, id est ad beneuolentiam. Quod eiusdem testimonio nititur
dum fuerit in urbe, se ne debitam redderet gratiam occupationum necessitate
constrictum. Quod ut uenerit Veliam, amicorum Trebatii conuentione commonitus,
ne tacitae quidem eius flagilationi deesse uoluisset, et quod licet librorum
copia nulla suppeteret, de memoriae tamen repetitae promptuariis in ipsa nauigatione
conscripserit, eique ex itinere miserit, ut beneficii cumulo parendi etiam
celeritas adderetur. Quae cum omnia benignum captare Trebatii uideantur
assensum, quaedam tamen breuitas Topicorum memoria repetita, attentionis nec
esse est animaduersione fungatur, ipsa namque memoriae repetitio breue monstrat
esse quod colligit. Quodque diligentiae sibi fuerint mandata Trebatii, et quod
ad excitandam sui memoriam quasi pignus amico aliquod atque monimentum
uoluisset exstare. Cui adiicit illud, et si admonitione non eges, ne offendat
animum amici sedulitate si quem commonendum credit, obliuionis uideatur
arguere. Haec omnia, ut dixi, beneuolentiae partibus plena sunt. Sed de
prooemio satis dictum est. Nunc ad sequentia transeamus, nec si quis haec apud
Victorinum latius tractata repererit, nos neglecti integritatis stringat
inuidia. Nam nec in singulis (ut ille facit) uerbis haerere uolumus, et ad
ampliora huius operis festinamus. CUM OMNIS RATIO DILIGENS DISSERENDI
DUAS HABEAT PARTIS, UNAM INVENIENDI ALTERAM IUDICANDI, UTRIUSQUE PRINCEPS, UT
MIHI QUIDEM VIDETUR, ARISTOTELES FUIT. STOICI AUTEM IN ALTERA ELABORAVERUNT;
IUDICANDI ENIM VIAS DILIGENTER PERSECUTI SUNT EA SCIENTIA QUAM *DIALEKTIKEN*
APPELLANT, INVENIENDI ARTEM QUAE *TOPIKE* DICITUR, QUAE ET AD USUM POTIOR ERAT
ET ORDINE NATURAE CERTE PRIOR, TOTAM RELIQUERUNT. NOS AUTEM, QUONIAM IN
UTRAQUE SUMMA UTILITAS EST ET UTRAMQUE, SI ERIT OTIUM, PERSEQUI COGITAMUS, AB
EA QUAE PRIOR EST ORDIEMUR. Cum philosophia maximis in rebus operam suam studiumque
consumat, cumque et in naturalibus inspectionem, speculationemque adhibeat, et
in moralibus actionem, et sic formare gestiat mores ut uera uitae ratio
persuaserit, euenire nec esse est, ut secundum id quod ratio tenendum,
omittendumue, faciendum quid, aut non faciendum esse decreuerit, uel iudicium
constituatur, ascensus uel exercendae uitae dirigatur intentio. Erit igitur
necessarium, uel in naturali speculatione, uel in moralium actionum
cogitatione, ut certa ratio, uel quod in rebus speculandum est, inueniat, uel
quod in actum uiuendi duci oporteat, ante perpendat. Haec autem ratio nisi uia
quadam processerit, saepe in multos nec esse est labatur errores. Quod ne
passim fieret, atque ut certis egulis tractatus insisteret, uisum est antiquae
philosophiae ducibus, ut ipsarum ratiocinationum, quibus aliquid inquirendum
esset, naturam penitus ante discuterent, ut his purgatis atque compositis, uel
in speculatione ueritatis, uel in exercendis uirtutibus uteremur. Haec
est igitur disciplina, quasi disserendi quaedam magistra, quam *logicen*
Peripatetici ueteres appellauerunt, hanc Cicero definiens, disserendi
diligentem rationem uocauit. Haec uario modo a plerisque tractata est, uarioque
etiam uocabulo nuncupata. Ut enim dictum est, a Peripateticis haec ratio
diligens disserendi logice uocatur, continens in se inueniendi iudicandique
peritiam. Stoici uero hanc eamdem rationem disserendi paulo angustius
tractauere, nihil enim de inuentione laborantes, in sola tantum iudicatione
consistunt, deque ea praecepta multipliciter dantes, dialecticam nuncupauerunt.
Plato etiam dialecticam uocat facultatem quae id quod unum est possit in plura
partiri, ueluti solet genus per proprias differentias usque ad ultimas species
separari, atque ea quae multa sunt, in unum generum ratione colligere. Hanc
igitur Plato dialecticam dicit; Aristoteles uero logicam uocat, quam (ut dictum
est) Cicero definiuit diligentem disserendi rationem. Et huius uno quidem
modo trina partitio est: omnis namque uis logicae disciplinae aut definit
aliquid, aut partitur, aut colligit. Colligendi autem facultas triplici
diuersitate tractatur: aut enim ueris ac necessariis argumentationibus
disputatio decurrit, et disciplina uel demonstratio nuncupatur; aut tantum
probabilibus, et dialectica dicitur; aut apertissime falsis, et sophistica, id
est, cauillatoria perhibetur. Logica igitur, quae est peritia disserendi, uel
de definitione, uel de partitione, uel de collectione, id est, uel de ueris ac
necessariis, uel de probabilibus, id est uerisimilibus, uel de sophisticis, id
est, cauillatoriis argumentationibus tractat, has enim collectionis partes esse
praediximus. Atque haec est una logicae partitio, in qua dialecticam
Aristoteles uocat facultatem per probabilia colligendi. Rursus eiusdem
logicae altera diuisio est, per quam diducitur tota diligens ratio disserendi
in duas partes, unam inueniendi, et alteram iudicandi. Id autem uidetur etiam
ipsa logices definitio monstrare, nam quia logica ratio disserendi est, non
potest ab inuentione esse separata. Cum enim nemo praeter inuentionem disserere
possiti disserendi ratio inuentionis est ratio. Rursus quoniam logice diligens
est ratio disserendi, ab ea iudicium non potest ab esse, ipsa enim diligentia
rationis in disserendo posita iudicium est. Neque enim potest quisquam
diligenter disserere, nisi quale sit iudicauerit id quod in disputationem
sumitur. Quod si ad disserendi ordinem diligentia rationis adhibetur, non est
dubium quin hoc iudicium ad inuentionum uarietatem sit accommodatum. His
igitur ita expeditis, uidendum est, hae diuisiones, quanam se cognatione
contingant. Inuentio quippe caeteris omnibus, ueluti materiae loco, supponitur,
hoc modo. Nisi enim inuentio fuerit, non potest esse uel definitio, uel
partitio, quoniam unumquodque generum uel differentiarum inuentione, uel
specierum collectione, aut diuidimus, aut etiam definimus. Iam uero si absit
inuentio, nequit esse collectio. Non erit igitur necessaria, nec uerisimilis,
nec sophistica argumentatio: haec enim tria inuentioni superueniunt, ut uel
necessarium, uel probabile, uel cauillatorium sit argumentum. Necessitas enim
uero, et probabilitas, et cauillatio formae quaedam sunt, quaedum inuentionibus
assistunt, necessaria uel probabilia uel cauillatoria faciunt argumenta. Eadem
quoque ratio partitiones definitionesque complectitur. Indiscreta namque
inuentionis potestas, cum definitiua, tum diuisibilis appellari potest, cum
definiendis partiendisue rebus adhibetur. Quae hoc modo ex inuentionis materia
et differentiarum supra positarum forma composita rursus iudicationi materiae
fiunt nam prior illa partitio, logice tribus partibus segregata, ita partes
explicat, ut habeat inuentionem materiam singularum, ipsa uero iudicationi
materiam praestat. Et enim cum definit aliquis, uel rei propositae diuisionem
facit, inuenit quidem diuisioni definitionique differentias accommodatas sed an
recte uel definiat, uel diuidat, iudicatione perpendit. Ita priores logicae
partes secundae diuisionis membra coniungunt, ut materiam quidem sui habeant
inuentionem, iudicationi uero fiant ipsae materia. Quod in reliqua etiam
colligendi parte contingit, nam et ea quae de probabilibus tractat, habet et
inueniendi suppositam materiam, quae uerisimilia reperit argumenta, et de
huiusmodi argumenta iudicatio perpendit. Est enim iudicium hoc ipsum
internoscendi, quod non necessaria inuentio est sed uerisimilitudinem tenet.
Illa quoque pars quae de necessariis argumentationibus aptatur, habet subiectam
materiam necessariae inuentionis, eiusque est iudicium, ut cum necessaria sunt
quae inuenit, necessaria quoque esse perpendat. Nec non cauillandi pars utraque
in se continet, quandoquidem et inueniri falsa possunt, et falsa esse
iudicatione discerni. Quo fit ut prior logices diuisio secundum etiam
continere uideatur: nam definitio, partitio atque collectio inuentionem
continent et iudicium, quia neque existere praeter inuentionem, neque agnosci
praeter iudicium possunt. Sed cum omnis inuentio iudicationi subiecta sit,
cumque prioris diuisionis partes sine utroque esse non possint, euenit ut prima
partitio inuentionem iudiciumque coniungat. Secunda uero haec diuisio, qua
Cicero etiam partitur logicam, segregat huiusmodi facultates, et inueniendi
materiam a iudicationis parte secernit. Iudicium uero, in colligendi
ratione proprias partes habet, nam omnis argumentatio, omnisque syllogismus
propositionibus struitur, omnemque compositum duo in se quaedam retinet, quae
speculanda esse uideantur. Et quidem continet unum quae illa sint, ex quibus id
quod compositum est intelligatur esse connexum, aliud uero quanam sit suarum
partium coniunctione compositum: ut in pariete siquidem lapides ipsos quibus
paries structus est inspicias, quasi materiam species: si uero ordinem
compositionemque iuncturae consideres, tanquam de formae ratione perpendas. Ita
in argumentationibus quas propositionibus compaginari atque coniungi supra
retulimus, gemina erit speculationis et iudicandi uia. Una quae propositionum
ipsarum naturam discernit ac iudicat utrum uerae ac necessariae sint, an
uerisimiles, an sophisticis applicentur, et haec quasi materiae speculatio est.
Altera uero iudicii pars est quae inter se propositionum iuncturas
compositionesque perpendit; haec quasi formam iudicat argumentorum. Quae
cum ita sint, hoc modo fit in continuum ducta partitio, ut ratio diligens
disserendi, unam habeat inueniendi partem, alteram uero iudicandi. Tum de
ipsa inuentione, tum de inuentionis collocatione, quae forma est
argumentationis. Atque ea quidem pars quae de inuentione docet, quaedam
inuentionibus instrumenta suppeditat, et uocatur topice: cur autem hoc nomine
nuncupata sit posterius dicam. Illa uero pars quae in indicando posita est,
quasdam discernendi regulas subministrat, et uocatur analytice; et si de
propositionum iunctura consideret, analytice prior; sin uero de ipsis
inuentionibus tractet, ea quidem pars ubi de discernendis necessariis
argumentis dicitur, analytice posterior nuncupatur; ea uero quae de falsis
atque cauillatoriis, id est de sophisticis, elenchi. De uerisimilium uero
argumentationum iudicio nihil uidetur esse tractatum, idcirco quoniam plana est
atque expedita ratio iudicandi de medietate, cum quis extrema cognouerit. Si
enim quis diiudicare necessaria sciat, idemque falsorum argumentorum possit
habere iudicium, uerisimilia, quae in medio collocata sunt, discernere non
laborat. Expeditum igitur est, ut arbitror, quid sit quod ait Cicero,
rationem diligentem disserendi duas habere partes, inueniendi unam, alteram
iudicandi. Illud etiam diligentius expositum est, quae sit ratio quam Stoici
dialecticen uocant. Ea est enim quae iudicandi peritiam tenet, et quam eodem
nomine Plato partiendi per differentias, atque ad genus reuocandi facultatem
uocat. Quamque eodem nomine Aristoteles, non totam disserendi artem, ut Stoici
sed eam tantum nuncupet quae de proposita quaestione uerisimilibus colligat
argumentis, atque ideo perfectius Aristoteles de logica tractauit, quoniam de
duobus, ultra quae nihil est, tertium disseruit, de inueniendo scilicet et
iudicando, cum Stoici, inuentione neglecta, iudicationis tantum instrumenta
tradiderint. Atque ideo iure eos increpat Tullius, quoniam id maxime
relinquere quod et natura prios et usu potius erat: natura quidem, quia fieri
non potest ut de inuentione iudicetur, nisi ipsa inuentio prius exstiterit. Ad
usum uero, quia longe utilius est nuda, et praeter artem prolata naturali
inuentione susceptum saepe negotium tueri, quam inueniente alio mutum ipsum
inermemque et tacitum uersare iudicium. Dat uero Tullius de utroque sententiam,
etait summam pariter utilitatem in utroque consistere, et se de utraque, si
otium fuerit, uelle disserere. Ab ea autem quae prior est, id est inuentione, quam
*topicen* appellari diximus, ordiendum putat. UT IGITUR EARUM RERUM QUAE
ABSCONDITAE SUNT DEMONSTRATO ET NOTATO LOCO FACILIS INUENTIO EST, SIC, CUM
PERUESTIGARE ARGUMENTUM ALIQUOD VOLUMUS, LOCOS NOSSE DEBEMUS; SIC ENIM
APPELLATAE AB ARISTOTELE SUNT EAE QUASI SEDES, E QUIBUS ARGUMENTA PROMUNTUR.
ITAQUE LICET DEFINIRE LOCUM ESSE ARGUMENTI SEDEM. ARGUMENTUM AUTEM RATIONEM,
QUAE REI DUBIAE FACIAT FIDEM. Post diuisionem logicae disciplinae, quam
diligentem disserendi rationem esse definiuit, de topice, quae inueniendi ars
esse praedicta est, expedire contendit. Ac primum quid sint loci, termino
definitionis includit, eiusque artis quae topice dicitur exempli quadam
claritate designat intentionem. Est enim topices intentio, argumentorum facilis
inuentio. Non igitur inuenire docet topice quod est naturalis ingenii sed
facilius inuenire: omnis quippe ars imitatur naturam, atque ab hac materia
suscepta, rationes ipsa uiamque conformat, ut cum facilius id quod ars quaeque
promittit, tum elegantius fiat, uelut parietem struere naturalis ingenii est
sed arte fit melius. Argumentum autem ratio est quae rei dubiae faciat
fidem. Multa enim sunt quae faciant idem sed quia rationes non sunt, ne
argumenta quidem esse possunt, ut uisus facit fidem his quae uidentur sed quia
ratio non est uisus, ne argumentum quidem esse potest. Differentiam uero unam
sumpsit, eam quae faciat fidem, omne enim argumentum facit fidem. Si igitur
iunxerimus genus ac differentiam, et id esse argumentum dicamus, quod rationem
quae faciat fidem, num tota argumenti natura monstrata sit? Minime. Quid si
eius rei, de qua nemo dubitat, aliqua ratione facere quis fidem uelit, num
idcirco illa, quod fidem faciat, uocabitur argumentum? Nullo modo:
argumentum namque est quod rem arguit, id est probat, nihil uero probari, nisi
dubium, potest. Nisi ergo sit res ambigua, et ad eam ratio fidem faciens
afferatur, argumentum esse non poterit. Addita igitur alia differentia quae est
rei dubiae, facta est integra definitio argumenti, ex genere et duabus
differentiis constans, genere quidem, ratione: una uero differentia, quod
faciat fidem; altera uero, quod rei dubiae est, ut sit tota definitio, id esse
argumentum quod sit ratio, rei dublae faciens fidem. Quae cum ita sint,
nec esse est ut ubi dubitatur aliquid, ibi sit quaestio. Quod si argumentum
praeter rem dubiam esse non poterit, nullo modo esse praeter quaestionem
potest. Quaestio uero est dubitabilis propositio. Propositio uero est ratio
uerum falsumue designans. Omnis igitur propositio siue constanter atque
pronuntiatiue proferatur, ut si quis dicat: Omnis homo animal est; siue ad
interrogationem dirigatur, ut si quis interroget: Putasne omnis homo animal
est? retinet proprium nomen, et propositio nuncupatur. At si eadem, uelut
dubitabilis proferatur, fit quaestio, ut si quisque erat an omnis homo animal
sit. Quot autem modis quaestio diuidatur, nunc explicandi locus non uidetur
accommodus sed in iis libris dicemus quos de topicis differentiis formare
molimur. Ad quaestionem igitur, id est ad dubitabilem propositionem, omnis
intentio dirigitur argumenti, non uero ut totam comprobet quaestionem sed ut
partem eius ratione confirmet; neque enim tota quaestio defenditur sed una eius
quaelibet pars argumentatione firmatur: nemo enim defendit caelum rotundum esse
et non esse; si enim ita quis defenderet, totam quaestionem uideretur probare.
Sed cum ita consideratur: Utrum rotundum sit caelum an non sit in
una tantum consistit quaestionis parte defensio, siue quae affirmat siue quae
negat. Omnis enim quaestio contradictionibus constat. Nam si qua res ab altero
affirmetur, negetar ab altero, totum hoc contradictio nuncupatur, ut si quis
dicat: Caelum rotundum est alter neget dicens: Caelum rotundum non
est. Caelum rotundum esse et non esse contradictio prohibetur.
Dubitabilis uero propositio, quam quaestionem esse praediximus, et
affirmationem in se continet et negationem, hoc enim ipso quo dubitabilis est,
contradictionem uidetur includere. Cum enim dubitat quis utrumque caelum
rotundum sit, siue adiungat an non sit, siue reticeat, ipsa dubitatio partem
secum alteram trahit. Si enim unam partem propositio tueatur, dubitabilis non
est, atque idcirco nec quaestio. Cum igitur omnis quaestio duas habeat
partes, affirmationis unam, alteram negationis, nec esse est ut sit semper ex
alterutra parte defensio, ut unus quidem affirmationis partem, negationis alter
defendat, et hic quidem ad astruendam affirmationem, ille uero ad destruendam,
quae potuerit argumenta perquirat. Nihil uero interest utrum quis affirmationem
ponat, an destruat negationem, aut negationem defendat, an oppugnet
affirmationem. Age enim, sit quaestio, utrum caelum rotundum sit. Si quis eam
sibi quaestionis partem assumpserit, quam esse defendit, ad eam constituendam
cuncta nec esse est sibi comparet argumenta, atque in hoc affirmationem quidem
ponit sed destruit negationem. Si quis uero neget id, ac dicat non esse caelum
rotundum, suscipit sibi partem alteram quaestionis quae fuerat reliqua, id est
negationem, in eaque consistit, et ad hanc approbandam, perquisitis nititur
argumentis; itaque qui negationem ponit, labefactat affirmationem. Quae
cum ita sint, demonstratum arbitror, non totam quaestionem sed eius aliquam
partem ad defensionem uenire. Sed quod quisque defendet, ad hoc quoque
argumenta perquirit. Ad partem igitur quaestionis astruendam destruendamue
argumenta sumuntur, atque haec quidem si quis minus intelligit, ne a nobis
obscure dicta esse causetur. Si enim quae in dialectica, uel a nobis dicta
Latina oratione, uel a Graecis scripta sunt, ignorabit, mirum est si quam
partem eorum quae dicimus aduertere ualeat, ne dum stupeamus quod non omnia
comprehendat. Sed quoniam dubitabilem propositionem quaestionem esse
praediximus, euenit ut quas partes habeat propositio, easdem etiam quaestio
retinere uideatur. Omnis autem simplex propositio duas habet partes in terminis
constitutas. Simplex uero propositio est huiusmodi: Omnis homo animal est
Terminos uero uoco simplices orationis partes quae continent propositionem, ut
animal et homo. Hi uero sunt praedicatus atque subiectus. Praedicatus est in
propositione maior terminus collocatus; subiectus uero minor. Maior uero
terminus de subiecto dicitur, minor autem de maiore nullo modo praedicatur, ut
animal quoniam maius est quam homo, de homine praedicatur: dicitur enim: Omnis
homo animal est Homo uero de animali non dicitur, nemo enim uere
dicit: Omne animal homo est Hac igitur ratione internoscere possumus
qui terminus in propositione maior, qui uero sit minor. Omnis autem quaestio,
ut dictum est, quoniam dubitabiles partes habet, et ad easdem comprobandas
argumenta sumuntur, necesse est ut quidquid in quaestionibus comprobatur, id
argumentorum ratione firmetur. Argumentum uero nisi sit oratione prolatum, et
propositionum contexione dispositum, fidem facere dubitationi non poterit. Ergo
illa per propositiones prolatio ac dispositio argumenti, argumentatio
nuncupatur, quae dicitur enthymema uel syllogismus, cuius definitionem in
Topicis differentiis apertius explanabimus. Omnis uero syllogismus uel
enthymema propositionibus constat; omne igitur argumentum syllogismo uel
enthymemate profertur. Enthymema uero est imperfectus syllogismus, cuius
aliquae partes, uel propter breuitatem, uel propter notitiam, praetermissae
sunt. Itaque haec quoque argumentatio a syllogismi genere non recedit.
Quoniam igitur syllogismus omnis propositionibus constat, propositiones uero
terminis, terminique inter se differunt, eo quod unus maior est, alter minor,
fieri non potest ut ex propositionibus conclusio nascatur, nisi per terminos
progressae propositiones extremos terminos alicuius tertii medietate
coniunxerint: id facillimo demonstratur exemplo. Sit enim quaestio: Utrum homo
substantia sit an minime. Sumo mihi quaestionis partem alteram comprobandam, ea
est, hominem esse substantiam; in hac igitur duo sunt termini, substantia atque
homo, quorum maior substantia, minor homo, quod ex eo quoque poterit ostendi,
quoniam posterius substantia in prolatione profertur, uel ut in hoc ipso quod
dicimus homo substantia est, prius hominem, posterius substantiam nominamus. Ut
igitur substantiam atque hominem iungam, nec esse est medium terminum reperiri,
qui utrosque copulet terminos, hic sit animal, fiatque una
propositio: Omnis homo animal est in hac igitur propositione animal
praedicatur, homo subiicitur. Rursus adiungo: Omne autem animal substantia
est in hac rursus animal supponitur, substantia praedicatur. Itaque
concludo, omnis igitur homo substantia est; ac per hoc homo quidem semper
subiectus est. Animal uero ad hominem quidem praedicatum est, ad substantiam
uero subiectum. Substantia uero ipsa semper praedicata persistit, unde fit ut
minor quidem sit homo, maior uero homine substantia, medius autem terminus
animal. Quoniam igitur extremi termini medii interpositione copulantur, eoque
modo quaestionis inter se membra conueniunt, adhibitaque probatione soluitur
dubitatio, nihil est aliad argumentum quam medietatis inuentio, haec enim uel
coniungere, si affirmatio defendatur, uel disiungere, si negatio uindicetur,
poterit extremos. Quae cum ita sint, duarum propositionum et tertiae
conclusionis, maior quidem propositio dicitur ea quae maiorem terminum
continet, id est in qua maior quidem praedicatur; medius uero supponitur, ut
"Omne animal substantia est"; minor uero propositio est quae medium
quidem terminum praedicat, subiicit autem minorem, ut "Omnis homo animal
est". Sed quoniam a maioribus nec esse est minora descendere, eius
conclusionis, quae ex duabus propositionibus nascitur, illa quasi effectrix et
propria propositio uidetur esse, quae prima est; haec [autem est, "Omnis
homo substantia est". Quod qui priores posterioresque nostros Analyticos,
quos ab Aristotele transtulimus, legit, minime dubitat. Sed etsi quis quae
illic scripta sunt nesciens, ad haec legenda proruperit, etiamsi rationem rerum
quas non intelligit minime comprehendit, ita tamen ut dictum est esse confidat,
seque in Aristotelis Analyticis uberius inuenturum esse, si legerit,
arbitretur. Natura igitur rerum fert ut ubi quid maius ac minus est, ibi
maximum quoque aliquid inesse necesse sit. Quo fit ut sint quaedam maximae
propositiones, quoniam minores maioresque esse monstrauimus, quarum natura ex
simplicium propositionum partitione sumenda est. Omnis enim simplex propositio
uel affirmatiua est, uel negatiua. Earumque aliae sunt uniuersales,
ut: Omnis homo iustus est. Nullus homo iustus est aliae
particulares, ut: Quidam homo iustus est aliae indefinitae, ut: Homo
iustus est. Homo iustus non est aliae singulares aliquid atque indiuiduum
continentes, ut: Cato iustus est Cato iustus non est
Harumque omnium aliae sunt dubitabiles, aliae indubitatae. Supremas igitur ac
maximas propositiones uocamus, quae et uniuersales sunt, et ita notae atque
manifestae, ut probatione non egeant, eaque potius quae in dubitatione sunt
probent. Nam quae indubitata sunt, ambiguorum demonstrationi solent esse
principia, qualis est, omnem numerum uel parem esse uel imparem, et aequalia
relinqui, si aequalibus aequalia detrahuntur; caeteraeque de quarum nota
ueritate non quaeritur. Maximas igitur, id est uniuersales ac notissimas
propositiones, ex quibus syllogismorum conclusio descendit, in Topicis ab
Aristotele conscriptis locos appellatos esse perspeximus; quod enim maximae
sunt, id est uniuersales propositiones, reliquas in se uelut loci corpora
complectuntur, quod uero notissimae atque manifestae sunt, fidem quaestionibus
praestant, eoque modo ambiguarum rerum continent probationes. Has autem
aliquoties quidem in ipsis syllogismis atque argumentationibus inhaerere
conspicimus, aliae uero in ipsis quidem argumentationibus minime continentur,
uim tamen argumentationibus subministrant:ut si uelimus ostendere regnum melius
esse quam consulatum, dicemus: Regnum cum sit bonum, diuturnius est quam
consulutus; omne uero quod est diuturnius bonum, melius est eo quod parui
est temporis: regnum igitur melius est consulatu. Hic igitur maxima
propositio atque uniuersalis et per se cognita, neque indigens probatione,
argumentationi inserta est. Ea uero est: Omnia quae diuturniora sunt bona,
meliora esse his quae sunt temporis breuitate constricta. At si
uelimus ostendere non esse inuidum qui sapiens sit, dicamus: Inuidus est
qui moeret aliena felicitate; non autem sapiens est quem felicitas aliena
contristat: non est igitur inuidus sapiens. Hic maxima propositio
argumentationi non uidetur inclusa sed extrinsecus posita, syllogismo tamen
uires ministrat. Haec uero est: Quorum diuersae sunt definitiones, diuersas
esse substantias necesse est. Quisquis igitur uel Aristotelis Graeca
uel nostra ab Aristotele translata prospexerit, has illic propositiones locos
inueniet nuncupari, quae sunt maximae atque uniuersales et uel per se
necessariae, uel per se probabiles ac notae. Sed quoniam has propositiones
plures ac pene innumerabiles esse nec esse est, restat adhuc quo amplius ratio
speculationis ascendat. Possumus enim, diligenti tractatu considerationis
adhibito, omnium maximarum atque uniuersalium propositionum differentias
perpendere, atque innumerabilem maximarum propositionum ac per se notarum
multitudinem in paucasatque uniuersales colligere differentias, ut et alias
dicamus in definitione consistere, alias in genere, atque alias alio modo quod
paulo post apertius demonstrabo. Omnes igitur maximae propositiones, quaecumque
sub definitionis uerbi gratia rationem cadunt, uno definitionis nomine
continebuntur. Et sicut illae reliquarum propositionum loci esse dicebantur,
quod eas intra suum ambitum continerent, ita ipsarum maximarum atque
uniuersalium propositionum, quas minorum propositionum locos esse praediximus,
illa differentiae, et si non uere, tamen quadam ueluti imagine loci esse
uidebuntur, in quas fuerint conuenienti ratione reductae. Sed istae
locorum, id est propositionum maximarum, differentiae, quas etiam ipsos locos
nominamus, possunt subiectarum propositionum etiam genera nuncupari. Nam
differentiae continentes etiam genera communiter possunt uideri, ut irrationale
cum a rationali uelut diuisibili differentia dissideat; tamen equi uel canis,
differentia specifica est, et ad eos locum generis tenet. Namque animal
irrationabile equi genus est. Ita etiam in maximis propositionibus. Nam quod
aliae sunt ex toto, aliae ex partibus, hae inter se comparatae differentiae
diuisibiles sunt, ad ipsas uero maximas propositiones differentiarum
continentiae uelut generis loco sunt. Nam propositionis ex tolo uenientis genus
est idipsum quod uocatur ex toto. Item propositiones a partibus ductae, quamuis
notae sint atque manifestae genus est, quod a partibus, et caeterae
differentiae earum propositionum quae cum sint maximae, tamen eisdem uidentur
includi, uelut quaedam genera sint. Quae uero sint hae differentiae paulo
posterius disseram. De his igitur nunc locis tractare Tullius instituit
qui maximas propositiones quas superius diximus, id est per se notas atque
uniuersales, continent atque includunt. Hae uero sunt maximarum differentiae
propositionum. De uniuersalium igitur enuntiationum per seque notarum
differentiis disserit, ut fit integer locus argumenti sedes. Nam si argumentum
omne per propositiones ad conclusionem usque perducitur, omnes uero reliquae
propositiones in prima maximaque propositione continentur, ipsaque prima ac
maxima propositio, tum pars est argumentationis, id est syllogismi, tum
extraposita argumentationi uires ministrat, ut utroque modo quoniam perficit
argumentum, pars argumentationis quaedam esse uideatur, non est dubium quin hae
differentiae, quae propositiones maximas continent, eaedem omnes etiam
contineant argumentationes, ut maximarum propositionum differentiae iure loci
argumentorum et quasi quaedam ultimae sedes esse uideantur. Nam ex his
quatuor significationibus appellationum duarum, argumentationis scilicet atque
argumenti, unam quamlibet esse nec esse est. Aut enim elocutio et contextio
ipsa propositionem cum maximis propositionibus, uel extra syllogismum positis,
uel in eodem inclusis, argumentatio uocatur. Argumentum uero mens et
sententia syllogismi, aut elocutio ratiocinationis cum maximis propositionibus
et sententia syllogismi argumentum esse dicetur, ut idem sit argumentum quod
argumentatio. Aut argumentatio quidem uocabitur tota contextio syllogismi cum
sententia sed argumentum maxime propositio, aut integer ratiocinationis ordo
praeter maximas propositiones argumentatio, sententia uero argumentationis
argumentum. Reliqua uero maxima propositio, locus. Sed cum haec ita sint,
siue quis ipsarum propositionum contextionem, et usque ad conclusionem
continuum ductum cum maxima propositione, uel extra posita, uel propositionibus
ratiocinationis inclusa, argumentationem uocare uelit, argumentum uero
sententiam mentemque ratiocinationis, nihilominus locos intelligimus maximarum
propositionum differentias; siue quis ratiocinationis totius uim atque
sententiam totam cum maxima propositione, uel intra, uel extra posita,
argumentum uocet, non est dubium quin totius ratiocinationis locus ille sit qui
est maximae propositionis differentia, continet enim maximam propositionem, in
qua propositiones caeterae continentur: siue argumentationem quidem totam
ratiocinationis contextionem uocari placeat, argumentum uero maximam
propositionem, recte rursus locus putabitur maxime propositionis differentia,
quae argumentum claudit et continet. Quod si argumentum quidem sensus ipse
totius ratiocinationis intelligatur, argumentatio uero integra ratiocinationis
prolatio, extra uero et ab utrisque diuersum ualens, uelut locus quidam maxima
propositio consideretur, sic quoque maximarum differentiae propositionum loci
esse uidebuntur. Nam cum differentia ipsa maximam propositionem contineat,
eiusque sit locus, maxima uero propositio argumentationi uel argumento uires
ministret, non est dubium quin ea toti argumento locus esse uideatur, quod
totum intra maximae propositionis ambitum claudit. Demonstratum igitur
est quae sint argumentorum sedes, id est, ubi argumenta clauduntur (hae sunt
autem maximarum propositionum differentiae), quae uocantur loci, quid etiam
argumentum, quoniam est rei dubiae faciens fidem, quae sit uero res dubia, id
est pars altera quaestionis, quid sit quaestio, id est dubitabilis propositio,
quid sit simplex propositio, id est enuntiatio, quae praedicato et subiecto
termino contineatur, uerum falsumue designans, quae omnia meminisse oportet.
Maximarum enim propositionum differentiae quas locos esse praediximus, ab his
dicuntur terminis qui prius in propositione sunt, posterius in quaestione
considerantur, praedicato scilicet atque subiecto. Ex his etiam quae
superius dicta sunt quid distent Topica Ciceronis atque Aristotelis apparuit.
Aristoteles namque de maximis propositionibus disserit, has enim locos
argumentorum esse posuit, ut nos quoque supra retulimus. Tullius uero locos non
maximas propositiones, sed earum continentes differentias uocat, ac de his
dicere contendit. SED EX HIS LOCIS IN QUIBUS ARGUMENTA INCLUSA SUNT, ALII
IN EO IPSO DE QUO AGITUR HAERENT, ALII ASSUMUNTUR EXTRINSECUS. IN IPSO TUM EX
TOTO, TUM EX PARTIBUS EIUS, TUM EX NOTA, TUM EX EIS REBUS QUAE QUODAMMODO
AFFECTAE SUNT AD ID DE QUO QUAERITUR. EXTRINSECUS AUTEM EA DUCUNTUR QUAE ABSUNT
LONGEQUE DISIUNCTA SUNT. Post definitionem loci atque argumenti facit
plenissimam diuisionem locorum. Ac primum quoniam omnis diuisio cuncta debet
amplecti, neque superfluum quidquam interponere, nec omittere quid sit
necessarium, id M. Tullius proposita diuisione patefacit dicens: EX HIS LOCIS
IN QUIBUS ARGUMENTA INCLUSA SUNT, ALIOS IN EO IPSO DE QUO AGITUR HAERERE, ALIOS
EXTRINSECUS ASSUMI. Nihil enim huic diuisioni posse uidetur addi uel minui,
quandoquidem breuiter cuncta complectitur. Argumentorum enim loci quicumque
sumuntur, aut in ipso de quo agitur haerent, aut minime. Id autem minime
extrinsecus positos esse designat, quod si inter id quod dicimus in ipso de quo
agitur haerere argumentorum locos, et non haerere nihil est medium. Inter
affirmationem enim atque negationem nulla est medietas. Cumque in ipso de quo
agitur non inhaerere locum argumenti, id sit extrinsecus assumi, dubium non est
quin nihil intersit medium inter ea argumenta quorum in hoc ipso haerent loci
de quo agitur, et ea quorum extrinsecus assumuntur, EXTRINSECUS AUTEM EA
DUCUNTUR QUAE ABSUNT LONGEQUE DISIUNCTA SUNT. Sed quid ipsum sit de quo
agitur facilior explanatio est, si eorum quae prius dicta sunt meminerimus. Nam
cum de quaestione loqueremur, eamdem diximus esse quaestionem quae esset
dubitabilis propositio. Sed quoniam propositio subiecto praedicatoque
constaret, quaestionem quoque diximus subiecta praedicatoque coniungi.
Praedicatum igitur uel subiectum est hoc ipsum de quo agitur. Nam cum de
alterutra quaestionis parte dubitetur, in hac ambiguitate quaeritur utrum
praedicatus terminus inesse subiecto uideatur, an minime. Nam cum omnis
quaestio in affirmationem negationemque diuidatur, si praedicatus subiecto
inest, fit ex eo uera affirmatio; si non inest, fit uera negatio. Sed in
quaestionibus disceptandis, alter affirmationem, alter negationem tuetur, id
est, alter praedicatum inesse subiecto, alter non inesse defendit. Quod uero ex
alterutra parte defenditur, hoc est ipsum de quo agitur. Ipsum igitur est
praedicatus terminus uel subiectus, de quibus agitur. Atque ut id exemplo
clarius fiat, sit quaestio, an Verres furtum fecerit. Hic Verres subiectum est,
furtum facere praedicatum; quod si furtum Verri coniungitur, idque
argumentationibus comprobatur, quaestionis affirmatio demonstrata est. Si
furtum a Verre seiungitur, quaestionis rursus negatio comprobatur. Ipsum itaque
de quo agitur nihil est, nisi uterlibet eorum terminus qui in quaestione
proponitur, siue praedicatus, siue etiam subiectus. Qui quidem termini
per se argumenta esse non possunt, neque uero per se argumenta praestare. Si
enim ipsi simplices ut sunt argumenta esse possunt, uel argumentorum praestare
materiam, nullam in quaestione relinquerent dubitationem; sed quoniam de ipsis
adhuc in quaestione dubitatur an eorum possit esse rata coniunctio, ipsi quidem
neque per se argumenta esse, neque per se argumenta praestare poterunt, ea uero
quae in ipsis insunt, uel extrinsecus posita sunt, argumentorum copiam
subministrant. Nam quod Victorinus quaerit, et explicat latius, ne
commemoratione quidem mihi dignum uidetur. Quaerit enim quaestio ipsa de quo
agitur an habeat locum, quod minime oportuit, ut dictum est. Locus de quo nunc
agimus non cuiuslibet rei locus est sed argumenti, argumentum uero rei dubire
faciens fidem, res uero dubia pars quaestionis. Quod si argumentum quaestio uel
pars quaestionis esse non potest, locus uero de quo agimus argumenti est locus,
non est dubium quin locus quaestionis esse non possit. Amplius, omnis
quaestio dubitabilis est, argumentum uero omne quaestionis purgat ambiguum. Non
est igitur idem argumentum quod quaestio sed loci, argumentorum sunt loci, non sunt
igitur quaestionis. Hoc igitur praemisso intelligamus ipsum de quo agitur quemlibet
terminum in quaestione propositum, siue praedicatum, siue subiectum, qui cum
per se res sint, ipsi quidem argumentum esse non possunt, habere autem in se
quaedam possunt, in quibus argumenta sint collocata, et quae sedes argumentorum
esse intelligantur. Quae quidem cum terminis his de quibus agitur inhaerere
uideantur, nondum tamen sunt argumenta sed quasi iam argumenta complectentes
loci, et uelut naturali sede condentes. Idem de his locis qui extrinsecus
assumuntur dicendum est, ipsi namque positi sunt exterius et quodammodo a
propositionum terminis ablegati, et res quaedam sunt sed intra se argumentorum
copiam claudunt. Atque, ut breui sententia colligam, ipsum de quo agitur
nihil est aliud nisi quilibet in quaestione terminus collocatus. Hi argumenta
esse non possunt, neque ab his trahi aliquod argumentum. Quo fit ut termini
ipsi qui in quaestione sunt positi, nec argumenta, nec loci sint sed tantum
res. Rursus ea quae in his haerent de quibus agitur, ipsa quidem res esse
manifestum est sed claudunt in se argumentorum copiam, ut cum ex his sumi
aliquod oporteat argumentum, locorum uice fungantur. Itaque si quis per se ea
speculetur, res sunt; si quis ab his aliquod argumentum quaerat educere, loci
fiunt. Et haec communiter quidem de principalibus ac maximis locis dicta sint.
Hi uero sunt qui in ipsis de quibus agitur haerent, uel qui assumuntur
extrinsecus. Ut igitur faciat plenam locorum diuisionem, quos simpliciter
ac maximos posuit locos, eosdem uelut in quasdam species resecat, dicens: IN
IPSO TUM EX TOTO, TUM EX PARTIBUS EIUS, TUM EX NOTA, TUM EX HIS REBUS QUAE
QUODAMMODO AFFECTA SUNT AD ID DE QUO QUAERITUR. Et locorum quin in ipso sunt de
quae agitur constituti quatuor partium facta diuisiones. Hi quippe qui in ipso
de quo agitur haerent, uel ex toto eo de quo agitur termino, uel ex partium
eius enumeratione, uel ex nota, uel ex affectis intelliguntur existere. Id ita
esse breui ratione firmabitur. Nec esse est enim quemlibet eorum terminorum qui
in quaestione sunt collocati, et definitiones habere proprias, et partes, et
nomina, et ad res alias quadam relatione coniungi ac referri. Ergo locus qui
dicitur ex toto, id est, quoties argumentum ex alicuius definitione termini qui
est in quaestione tractatur, siue subiecti, siue praedicati. Ex partium
enumeratione, quoties ab eius termini partibus, qui in quaestione positus est,
ducitur argumentum. A nota, quoties ab eiusdem termini uocabulo nascitur
argumentum. Ab affectis uero, quoties ab his quae ad propositum terminum
relatione aliqua reducuntur argumentatio proficiscitur Quorum similitudines
omnium posterius explicabo, quando ea quae snper his rebus declarandis Cicero
posuit exempla tractauero. Nunc illud est considerandum, ait enim Tullius
ex his locis, in quibus argumenta inclusa sunt, alios in eo ipso de quo agitur
haerere, alios extrinsecus assumi, quod ita dictum uidetur, tanquam diuersi
sint loci qui in his de quibus agitur haerent, et ipsum illud de quo agitur.
Nihil enim in se ipso haerere potest, ac per hoc quod in aliquo haeret ab eo in
quo haeret diuersum est. Quod si loci sunt aliqui qui in his haereant de quibus
agitur, non est dubium quis hi loci ab his de quibus agitur sint diuersi.
Rursus cum dicit IN IPSO TUM EX TOTO, TUM EX PARTIBUS EIUS, tanquam non de
diuersis loquatur, ita ait, in ipso locos esse tum ex toto, tum ex partibus,
tum ex nota, quasi uero aliud sit ipsum quam totum, aut aliud ipsum quam omnes
undique eius partes. Unaquaeque enim res idem est quod totum. Idem namque est
Roma quod tota ciuitas. Rursus idem est unaquaeque res quod eius singulae
parles in unum reductae; uelut idem est homo quod caput, thorax, uenter, ac
pedes, caeteraeque in unum partes coniunctae atque copulatae. Quomodo igitur
tanquam de diuersis primum locutus est, cum locos haerere in his terminis de
quibus agitur dixit, post autem uelut de eisdem loquitur, cum in ipso locos,
tum ex toto, tum ex partibus esse proponat? Nihil enim differt dicere IN IPSO
TUM EX TOTO, TUM EX PARTIBUS quam si ita dixisset "in ipso tum ex
ipso". Nam si idem est ipsum quod totum ac partes, idem est dicere in ipso
haerere locum, ex toto, aut ex partibus, quod in ipso haerere locum, qui est ex
ipso, quod ne intelligi quidem pctegt, quemadmodum in ipso haerere possit, quod
ipsum est, cum nihil sibi haereat, ut superius expediui. Sed, quemadmodum
paulo ante exposui, unaquaeque res cum et definitionem habeat et partes, si pernoscamus
quae sit definitionis uis et quae partium, cunctus ambiguitatis nodus
absoluitur. Est enim definitio coactae in se atque complicatae rei explicatio,
uelut cum dicimus hominem esse animal rationale, mortale. Nam id quod breuiter
nomen, atque anguste designabat, id explicauit ac prolulit, et per
substantiales quodammodo partes definitio patefecit. Alium igitur nec esse est
esse intellectum rei, quae complicata est, in eo quod sibimet coacta atque in
unum redacta est, alium eiusdem rei explicatae atque dissertae, in eo quod
expedita atque diffusa est: nam et si idem rei definitio quod nomen significat,
illud tamen ipsum quod nomen anguste confuseque designat, apertius definitio
disserit ac patefacit. Recte igitur aliud quiddam est ipsum, aliud eius
definitio, etiam si unum idemque est utrisque subiectum. Ut enim dictum est,
ipsum singulum est, definitio ipsius singuli per partes distributio atque
enumeratio. (Partes autem nunc substantiales dico, non quae magnitudinem
iungunt sed quae proprietatem rationemque substantiae.) Sed quod in
definitione dictum est secundum eas partes quae substantiam iungunt, id in
partibus intelligendum est quae magnitudinem copulant, uelut domus quae
fundamento, parietibus tectoque coniungitur. Nam eum ea nihil sit aliud nisi
quod partibus copulatur, ipsa tamen una quaedam est, atque coniuncta, partitio
uero eius per quaedam membra distributio est, atque ideo licet unum sit, quod
ipsum est totum, et quot sunt partes undique confluentes, non tamen eumdem nec
esse est habere intellectum, cum ipsum integrum consideratur, ut cum in partes
ipsas quibus iunctum est distribuitur. Ex nota uero locus apertissime ab
eo termino diuersus est, qui in quaestione constitutus est. Quis enim dicat id
esse cuiuslibet rei uocabulum quod ipsa res est, quam designat? Ea uero
quae ad id de quo agitur affecta sunt, et si extra posita uidentur, terminum
tamen in quaestione propositum uelut e regione respiciunt, quae in multas
secari nec esse est partes. Omnis enim res, id quod est, unum est, multa uero
sibimet retinet adiuncta, quae hoc ab his quae omnino extrinsecus sunt differre
intelliguntur, quod ea quae affecta sunt, in relatione sunt posita, ut post et
ipsarum propositio, et exemplorum ratio monstrabit. Ea uero quae sunt
extrinsecus, in nulla relatione sunt constituta, atque ideo hac extrinsecus
solum. Illa uero affecta sunt nuncupata, habet enim aliquam quodammodo
cognationem ad id ad quod reducitur, id quod refertur ad aliquid. Sed
omnes fere bos locos quos nunc simplices atque indiuisos ponit, posteriore
tractatu diuidit, ut nunc quoque eos locos qui in ipso sunt, distribuit, cum
alios ex toto fieri proponit, alios ex partibus, alios ex nota, alios ex
affectis, affectaque ipsa suis partibus secat. Extrinsecus uero locum in
testimonio positum esse confirmat, testimonii uero uim in auctoritate
constituit, auctoritatem uero deducit in proprias partes sed hoc posteriore
tractatu liquebit. Nunc uero eos simplices atque indiuisos locos proponit, et
ueluti simplicibus subdit exempla. Restat autem nunc unum quod uidetur
esse quaerendum, an hi loci qui in locos alios diuiduntur, eorum quos intra se
continent locorum loci esse possint, ut eorum qui sunt ex toto, ex partibus, ex
nota, ex affectis, is unus quidam quasi locus sit, qui est in ipso. Nihil
quidem prorsus officeret locorum locos putare, fieri enim potest ut locus
amplior intra semet angustiores contineat locos, uelut id prouincia ciuitates,
sed nunc haec similitudo non conuenit. Locus enim est ex quo ducitur id in quo
argumentum est positum. Quod si loci locus esse posset, et is qui est in ipso
de quo agitur, eos qui sunt ex toto, uel ex partibus, uel ex nota, uel ex
affectis, uelut quidam locus includeret, non essent, ex toto, ex partibus, ex
nota, uel ex affectis loci sed argumenta quoniam in eo haererent loco, qui in
eo ipso de quo agitur termino esse praedictus est; non igitur locus esse
poterit loci sed uel ut genera in species. Ita nunc sit diuisio locorum,
nec hoc superius dictis uideatur esse contrarium, cum et maximas propositiones,
et earum differentias continentes communi nomine appelauimus locos. Nam maxime
propositiones, licet eo ipso quo maximae sint includant caeteras et uocentur
loci, tamen quia sunt notissimae possunt rebus dubiis argumenta. Iure igitur
earum differentiae loci nominantur, quod in locorum speciebus, aliter sese
habet, quae prorsus argumenta esse non possunt: nam in ipso locus uelut in
species quasdam diuiditur in eos qui sunt ex toto, ex partibus, ex nota, ex
affectis. Unusquisque [enim horum locorum primi loci integrum uidetur ferre
uocabulum, nam ut hominem animal dicimus, itemque equum atque bouuem animalia
nuncupamus, sic is locus qui ex toto est in ipso esse dicitur, itemque qui ex
partibus ac nota, atque ex affectis in ipso sunt. Sed ex his locis argumenta
quidem duci possibile est, ipsa uero argumenta ut sint, fieri nequit. SED
AD ID TOTUM DE QUO DISSERITUR TUM DEFINITIO ADHIBETUR, QUAE QUASI INVOLUTUM
EVOLVIT ID DE QUO QUAERITUR; EIUS ARGUMENTI TALIS EST FORMULA: IUS CIVILE EST
AEQUITAS CONSTITUTA EIS QUI EIUSDEM CIVITATIS SUNT AD RES SUAS OBTINENDAS; EIUS
AUTEM AEQUITATIS UTILIS COGNITIO EST; UTILIS ERGO EST IURIS CIVILIS
SCIENTIA. Post locorum bifariam diuisionem, in ipso scilicet de quo
agitur, et extrinsecus positorum, partitus est eum locum qui est in ipso in
quatuor membra, id est a toto, a partium enumeratione, a nota, ab affectis. Nunc
igitur anteaquam diuidat eum locum quem ab affectis esse proposuit, superiorum
trium quos in primo interim tractatu minime diuisurus est sed indiuiduos
relicturus, exempla supponit. Hi uero sunt a toto a partibus, a nota. Ac
de eo quidem loco qui est a toto ita disseruit ac disputauit. Tum inquit,
dicimus a toto locum argumenti quando totum illud quod in quaestione positum
est definitione complectimur, quae definitio rei dubiae de qua agitur facit
fidem. Sed definitio omnis, ut superius quoque dictum est, id quod nomine
inuolute designatur euoluit et explicat, atque ideo non terminus qui in definitione
ponitur sed quae in ipso sunt, possunt argumentis praestare materiam. Sunt
autem in unoquoque propriae definitiones. Definitio enim est oratio substantiam
uniuscuiusque significans; quod si ab unaquaque re propria substantiam non
recedit, ne definitio quidem recedit, est ergo definitio in ipso termino de quo
agitur, quae definitio totum terminum nec esse est comprehendat, neque enim
partem substantiae sed totius termini substantiam monstrat. Sed quoniam ex ea
definitione fides fit rei dubiae, trahitur ex definitione argumentum, quae
definitio in ipso termino est de quo agitur, et eius termini totum est. Itaque
argumentum quod a definitione ducitur, ab eo ducitur loco qui in ipso termino
est, qui in quaestione est collocatus. Sed quoniam multi loci sunt in ipso, hic
totus a toto est. Definitio enim totum terminum comprehendit, atque id quod
inuolute nomine significabitur, euoluit atque aperit. Eius argumenti talis
est formula. Ius ciuile est aequitas constituta his qui eiusdem ciuitatis sunt
ad res suas obtinendas, eius autem aequitatis utilis est cognitio, utilis est
ergo iuris ciuilis scientia. Est enim quaestio, an iuris ciuilis scientia sit
utilis, hic igitur ius ciuile supponitur, utilis scientia praedicatur.
Quaeritur ergo an id quod praedicatur, uere possit adhaerere subiecto.
Ipsum igitur ius ciuile non potero ad argumentum uocare, de eo enim quaestio
constituta est; respicio igitur quid ei sit insitum, uideo quoniam omnis
definitio ab eo non seiungitur, cuius est diifinitio, ne a iure ciuili quidem
propriam definitionem posse abiungi. Definitio igitur ius ciuile, ac dico:
"Ius ciuile est aequitas constituta his qui eiusdem ciuitatis sunt, ad res
suas obtinendas"; post hoc considero num haec definitio reliquo termino,
utili scientiae, possit esse coniuncta, id est an aequitas constituta his qui
eiusdem ciuitatis sunt, ad res suas obtinendas, utilis scientia sit, uideo esse
utilem scientiam dictae superius aequitatis. Concludo itaque, iuris igitur
ciuilis scientia utilis est. Hoc igitur argumentum est ex eo loco qui est
in ipso, hoc est in iure ciuili, qui terminus in quaestione est constitutus,
hic uocatur a definitione, quae definitio quaestionum totum est, argumentum est
a toto. Omnis autem locus a toto in ipso est. Nec nos ulla dubitatio perturbet,
quod ius ciuile et rursus scientia utilis quaedam sunt orationes quas inter
terminos collocamus. Non enim omnis termiuus simplici orationis parte profertur
sed aliquoties orationes integrae in terminis constituuntur. In hac igitur
argumentatione maxima ac per se nota propositio est ea per quam intelligimus
omnia quae definitioni alicuius coniunguntur, ipsa quoque illis quorum
definitio est, necessitate copulari. Sequitur enim cum definitio iuris ciuilis
utili scientiae possit adiungi, iuri quoque ciuili utilem scientiam posse
copulari; est igitur hoc argumentum tractum ab eo loco qui est in ipso. Omnis
enim definitio in eo termino est quem definit, eodem autem loco qui in ipso
est, et a toto. Omnis enim definitio totum monstrat atque aperit. Maxima propositio
haec. Quibus aliquorum definitio iungitur, eisdem necessario ea quae
definiuntur aptantur. TUM PARTIUM ENUMERATIO, QUAE TRACTATUR HOC MODO: SI
NEQUE CENSU NEC VINDICTA NEC TESTAMENTO LIBER FACTUS EST, NON EST LIBER;
NEQUE ULLA EST EARUM RERUM; NON EST IGITUR LIBER. Sit quaestio utrum
aliquis quem seruum esse constiterit, sit liber. Quoniam faciendi liberi tres
sunt partes. Una quidem ut censu liber fiat, censebantur enim antiquitus soli
ciues Romani. Si quis ergo consentiente uel iubente domino, nomen detulisset in
censum, ciuis Romanus fiebat et seruitutis uinculo soluebatur, atque hoc erat
censu fieri liberum, per consensum domini nomen in censum deferre, et effici
ciuem Romanum. Erat etiam pars altera adipiscendae libertatis, quae uindicta
uocabatur: uindicta uero est uirgula quaedam quam lictor manumittendi serui
capiti imponens, eumdem seruam in libertatem uindicabat, dicens quaedam uerba
solemnia, utque ideo illa uirgula uindicta uocabatur. Illa etiam pars faciendi
liberi est, si quis suprema uoluntate in testamenti serie seruum suum liberum
scripserit. Quae quoniam partes sunt liberi faciendi, siquis aliquem,
quem seruum fuisse constiterit, monstrare uelit non esse liberum factum, dicet,
si neque censu, neque uindicta, noque testamento, liber factus est, non est
liber. At nulla earum parte liber factus est, non est igitur liber. Si enim
omnes partes a qualibet illa re abiunxeris, totum necessario separasti. Nam cum
totum in suis partibus constet, si quid nulla cuiuslibet parte coniungatur, a
toto etiam segregatur. Partes autem duobus dicimus modis, uel species,
uel membra. Species est quae nomen totius integrum capit, uelut homo atque
equus animalis, utraque enim per se integro nomine animalia nuncupantur. Est
enim homo animal, et rursus equus animal. Item membra sunt quae cum totum
efficiant, coniuncta totius capiunt nomen, singula uero nullo modo, ut cum
fundamentum, parietes et tecta domus membra sint, simul omnia domus dicuntur,
fundamenta uero sola domus uocabulo minime nuncupantur, neque parietes, neque
tecta. In his igitur quae species sunt, quoniam nomen totius integrum
capiunt, uisi sigillatim omnes partes ab eo de quo dubitatur abiunxeris, non possis
totum ab esse monstrare. Dictum est enim unamquamque partem totius uocabulum
integrum capere. Ut quoniam faciendi liberi tres sunt species, census,
uindicta, testamentum, si quaslibet duas remoueris, una tamen permanserit,
liberum necessario confitebere. Siue enim censu tantum, siue uindicta, siue
testamento sit liber factus, liberum esse constat. Ergo in his nisi omnes
species remoueris, non potes destruere quod in quaestione propositum est. At si
affirmare uelis atque astruere, sufficit tantum unam quamlibet speciem
demonstrare, ut si uelis ostendere liberum, sat est, ut monstres, aut uindicta,
aut censu, testamentoue liberum factum; quod si destruere uelis, non sufficit
ostendere, aut censu, aut uindicta, aut testamento liberum non esse factum sed
nullo eorum modo ad libertatem uenisse. Itaque his partibus quae species sunt,
si destruere uelis, cunctis utendum est; si astruere, una sufficiet. At
uero hae partes quae sunt membra, contrario modo sunt: si destruere uelis, sat
erit unam seiungas; si astruere, cuncta ad esse necessario comprobabis. Nam si
uelis ostendere non esse domum, sufficit ut aut fundamenta non esse dicas, aut
parietes, aut tecta; nam si quid horum defuerit, domus non potest appellari. At
si uelis ostendere domum esse, nisi cuncta in unum coniunxeris, id quod
proponis astruere non ualebis. Omnes hi loci a partium enumeratione
ducuntur, quia in his partibus quae species sunt, cunctae partes enumerantur,
ut destruas; in his uero quae membra sunt cunctae partes enumerantur, ut astruas.
Quaestio est igitur in proposito Ciceronis exemplo argumentia partium
enumeratione deducti: An is quem seruum fuisse constitit, liber sit; is quem
seruum fuisse, subiectus est terminus, liber uero praedicatus; neutrum igitur
eorum terminum ad argumentum ducere poterimus. De quibus enim dubitatur, ipsi
fidem dubitationi facere non possunt. Video igitur qui in altero eorum sit.
Quoniam uero partes omnes in eo sunt cuius partes sunt, quoniamque libertas
data, habet proprias partes, sumo eas atque dinumero, et requiro an ulla earum
partium uideatur inesse subiecto sed nulla inest. Concludam igitur non esse
liberum. Unde manifestius demonstratur, non solum ab eo termino qui
subiectus est, argumenta sumi posse, uerum etiam ab eo qui est praedicatus. Nam
prius exemplum quo demonstrabat iuris ciuilis scientiam esse utilem, ius ciuile
quod subiectum erat definiuit, ductumque inde argumentum rei dubiae fecit
fidem. Hic uero libertatis partes enumerantur, qui est terminus
praedicatus. Est igitur, ut dictum est, quaestio an quem seruum esse
constiterit, liber sit. Terminus is quidem quem seruum esse constiterit,
subiectus est, praedicatus uero liber, in ipso, id est in praedicato, partes
sunt, quae enumerantur, a qua enumeratione dum trahitur argumentum, fit argumentum
in ipso, ex partium, enumeratione. Maxima propositio, cuius partium nihil rei
propositae copulatum est, ei ne totum quidem esse potest coniunctum. Hic
uidetur esse dubitandum num locus a toto atque a partibus idem sit, cum omnes partes totum faciant, si
coniungantur. Sed respondebitur, cum sit argumentum ab enumeratione
partium, totum diuiditur, non coniungitur, diuidendo enim argumentatio
procedit. Nam quisquis partem cuiuslibet sumpserit, eo ipso, quo partem sumpserit,
rem uidetur esse partitus. Qui uero rem diuidit, dissipat potius quam conficit
totum sed restare adhuc ambiguitas potest, nam definitio quoque inuolutam
nominis significationem explicat, per quamdam substantialium partium
enumerationem. Enumeratio uero partium quaedam ipsarum a se partium dissipatio
est. Sed aliud est eiusdem rei partes enumerare, aliud definitionis. Nam
rei partes ea re cuius partes sunt semper minores sunt, ut caput, uel thorax,
uel caetera membra toto homine; partes uero definitionis tota re qua definitur,
si substantiales sunt, probantur esse maiores, ut animal homine maius est.
Itemque rationale, mortale, eumdem hominem, uelut maiora continent, et sunt
singulae partes definitionis eiusdem quae est animal, rationale, mortale.
Partitio igitur sumit partes rei quam partitur minores semper. Quae uero sumit
definitio, uniuersalia sunt per se totaque et continentia definiri, quamuis
posita in definitione partes fiant, ut in his quae superius exempla proposui
facile intelligi potest. Unde manifestum est locum a toto, qui definitionis
est, et locum a partium enumeratione, esse diuersos. TUM NOTATIO, CUM EX
VERBI VI ARGUMENTUM ALIQUOD ELICITUR HOC MODO: CUM LEX ASSIDUO VINDICEM
ASSIDUUM ESSE IUBEAT, LOCUPLETEM IUBET LOCUPLETI; IS EST ENIM ASSIDUUS, UT AIT
L. AELIUS, APPELLATUS AB AERE DANDO. Tertius eorum qui in ipso sunt locus
a notatione est constitutus. Notatio uero est quaedam nominis interpretatio.
Nomen uero semper in ipso est. Ut enim definitio id quod in nomine inuolutum
est declarat, expedit atque diffundit, ita etiam nomen id quod a definitione
dicitur euolute, inuolute confuseque designat. Quad si definitio in ipso est,
nomen quoque in ipso esse de quo agitur, non potest dubitari. Ex notatione
autem locus uocatus est, quia nomen omnem rem notat atque significat.
Vindex est igitur qui alterius causam suscipit uindicandam, ueluti quos nunc
procuratores uocamus. LEX igitur Aeliasanctia ASSIDUO, VINDICEM ASSIDUUM ESSE
iubet. Quaeritur utrum cum LEX Aeliasanctia VINDICEM uelit ESSE ASSIDUO
ASSIDUUM, LOCUPLETEM uelit LOCUPLETI. Hic igitur subiectus quidem terminus est,
lex Aeliasanctia uindicem uolens assiduo assiduum, praedicatus uero locupletem
locupleti, ipsos igitur terminos non potero ad fidem quaestionis adducere. De
ipsis enim de quibus ambigitur, nulla effici fides potest. Quaero igitur quid
in ipsorum altero sit, ac uideo unum eorum terminum esse, legem Aeliamsanctiam,
quae assiduum assiduo uindicem esse decernat, id est subiectum, huius orationis
interpretor partem, quae est assiduus. Quid enim est assiduus aliud nisi assem
dans? assem uero dare nisi locuples non potest, assiduus igitur locuples est.
Cum igitur lex Aeliasanctia assiduo uindicem assiduum esse constituat,
locupletem iubet locupleti, assiduus quippe est locuples, a dando aere
nominatus. Argumentum igitur hoc tractum est ex eo loco qui est in ipso,
id est a nominis interpretatione, nomen enim in ipso illo est cuius nomen est,
cuius interpretatio notatio nuncupatur. Sed ab huius interpretatione factum est
argumentum. Igitur hoc argumentum ex eo loco est, qui est in ipso, id est a
nomine, et eorum qui in ipso sunt, a notatione, id est a nominis
interpretatione. Maxima propositio est, interpretationem nomina idem ualere
quod nomen. Sed paulo confusius a Cicerone dicta argumentatio maximum
praestat errorem. Ita enim dici oportuit, assiduus est qui assemdat, qui uero
assem dat, locuples est, assiduus igitur locuples est. Lex autem Aeliasanctia
assiduum assiduo esse uindicem iubet, locupletem igitur locupleti uindicem esse
praescripsit. Quod si ita dictum esset, apertior argumentatio fuisset. Nunc
uero ita dixit: CUM LEX Aeliasanctia ASSIDUO VINDICEM ASSIDUUM ESSE IUBEAT,
LOCUPLETEM IUBET LOCUPLETI et caetera. Subiunxit, ut ostenderetur locuples esse
assiduum; hoc autem tantumdem ualet, quod ait, legem Aeliamsanctiam assiduo
assiduum uindicem cum iuberet esse, locupletem locupleti esse praecepisse,
tanquam si diceret, qui assiduus est, locuples est. Nisi enim is qui assiduus
est locuples sit, non consequitur ut cum lex Aeliasanctia assiduum assiduo
uindicem esse iusserit, locupletem iusserit locupleti, et argumenti
conclusionem priorem posuit subiecit uero probationem. Conclusio namque est,
cum lex Aeliasanctia assiduum assiduo uindicem uelit esse, locupletem iubet
locupleti, atque hanc praemisit; probatio uero est rationis assiduum esse
locupletem ab aere dando nominatum, et hanc intulit conclusionem. Restat
is locus eorum qui in ipso sunt, qui ducitur ab affectis. Cuius expositionem,
quoniam uaria est multiplex quod diuisio, differamus, ac primi uoluminis
terminum, hucusque sistamus. In tam difficillimi operis cursu non sum
nescius, mi Patrici, quin labor hic noster quem te adhortante suscepimus, dum
iudicio multitudinis imperitae aut eleuatur, aut premitur, facile uariis
reprehensionibus mordeatur. Nam et illi quibus hoc totum disserendi displicet
genus, uelut superuacaneum studium, familiari prauis mentibus cauillatione
despiciunt, et qui maximum huius scientiae fructum putant, sua caeteros
segnitie mentientes, tanto nos operam pares esse non existimant, quorum quidem
priores si non inuidia laboris alieni aestimationem premunt, sed reprehensioni
iudicioque consentiunt, nullo modo ferendos esse puto. Multo quoque in me
libentius detorserim prauae opinionis inuidiam, ac nostris eos diffidere
uiribus facillime patiar, potius quam tantae disciplinae calcare rationem. Sed
proh diuinam atque humanam fidem, quae est haec hominum prauitas, quae tantae
est imprudentia caecitatis, ut pene sua sese ipsi confessione condemnent!
Nullus est enim qui sese uideri nolit peritissimum disserendi, quin etiam
obiectare ipsi aliquid, et resoluere obiecta conantur, etsi facile id factu esset,
cuncti ad scientiam logicae disciplinae uelut ad communia quaedam sapientiae
lucra concurrerent. Iam uero quid absurdius fingi potest, quam quod
probabilibus, ut ipsi existimant, argumentis inutile studium dialecticae
nituntur astruere? Quid enim conuenit disserendi artem disserendo peruertere,
ut cuius opinionem affectes, eiusdem despicias ueritatem? Sed ut cantor ille
discipulum sibi ac Musis canere iubebat, ita et ego quoque mihi ac tibi, non
Musae sed tanquam Musarum praesidi cecinerim, atque id quod multo labore
studioque collegi, non rhetorica tantum facultate, uerum etiam dialectica
subtilitate deponam. Quae uero sequuntur huiusmodi sunt: DUCUNTUR
ETIAM ARGUMENTA EX EIS REBUS QUAE QUODAM MODO AFFECTAE SUNT AD ID DE QUO
QUAERITUR. SED HOC GENUS IN PLURIS PARTIS DISTRIBUTUM EST. NAM ALIA CONIUGATA
APPELLAMUS, ALIA EX GENERE, ALIA EX FORMA, ALIA EX SIMILITUDINE, ALIA EX
DIFFERENTIA, ALIA EX CONTRARIO, ALIA EX ADIUNCTIS, ALIA EX ANTECEDENTIBUS, ALIA
EX CONSEQUENTIBUS, ALIA EX REPUGNANTIBUS, ALIA EX CAUSIS, ALIA EX EFFECTIS,
ALIA EX COMPARATIONE MAIORUM AUT PARIUM AUT MINORUM. Postquam locos eos
exquibus argumenta ducuntur gemina partitione distribuit, alios in ipso de quo
agitur haerere dicendo, alios extrinsecus assumi, cumque locum qui in ipso de
quo agitur haeret in quatuor species secuit, id est a toto, a partibus, a nota,
ab affectis, superioribus quidem tribus exempla subiecit, quae nos primo uolumine
quantum diligenter fieri potuit explicauimus. Restat is locus quem posuit
quartum, id est ab affectis, huius cum multae sunt species, integri atque
indiuisi proponere non potuit exemplum. Nam quorum facienda partitio est,
melius per singula membra dispositis aperiuntur exemplis. Hunc igitur locum
diuidit hoc modo: Locus qui ex affectis est, partim ex coniugatis, partim ex
genere, partim ex forma descendit, ex similitudine etiam, uel ex difterentia,
uel ex contrario, necnon etiam ex coniunctis, ex antecedentibus, et
consequentibus, et repugnantibus, ex causis etiam atque ex effectis causarum,
et comparatione maiorum, aut parium, uel minorum, quae omnia Tullius paulo post
conuenientibus rerum similitudinibus illustrat. Nunc illud nobis dicendum
est quae sit affectorum natura, et quid habeant proprietatis. Sunt enim affecta
quae quodammodo aliquid referri possunt, ad id ad quod referuntur. Omnia uero
quae se aliqua relatione respiciunt, aut amica inter se, aut dissidentia
conferuntur. Si amica, uel substantialiter, ut genus, forma, antecedentia,
consequentia, causa, effectus; uel in qualitate, ut coniugatum, simile,
coniunctum; uel in quantitate, ut paria. Quae uero sibi dissidentia
conferuntur, partim a se differentia sunt tantum, partim aduersa; sed aduersa,
partim in qualitate, ut contraria uel repugnantia, partim in quantitate, ut
maius ac minus. Quae cum ita sint, manifestum est, et amica sibi cognationis
relatione coniungi, et dissidentia hoc ipso quo sibi aduersa sint, ad se
inuicem comparari. Nam quae amica sunt, amicis amica sunt, et dissidentia a
dissidentibus dissident. Ita igitur et genus formae genus est, et forma generis
forma, et antecedentia consequentium, et consequentia, antecedentium, et causa
effectuum causa, et effectus causarum effectus, et coniugata coniugatis
coniugata sunt, et simile simili simile, et coniunctum coniuncto coniunctum, et
paria paribus paria, et differentia differentibus differentia, et maiora
minoribus maiora, et minora maioribus minora sunt, et contraria contrariis contraria,
et repugnantia repugnantibus repugnuntia sunt. Affecta igitur sunt quae cum a
se inuicem diuersa sint, ad se inuicem tamen referuntur. Sed quo ordine
Tullius superius descripsit locos, nos definitiones omnibus apponemus.
Eorum igitur quae ad se inuicem affecta dicuntur, in M. Tullii disputatione
prima sunt coniugata: coniugata uoco quaecumque ab uno nomine uaria prolatione
flectuntur, ut a iustitia iustus, iustum, iuste. Haec inter se cum ipsa
iustitia, unde eorum uocabulum fluxit, coniugata dicuntur. Genus uero est quod
de multis specie differentibus in eo quod quid est praedicatur, uelut animal
dicitur de homine atque equo, quae specie differunt, et in eo quod quid sit
praedicatur. Interrogantibus enim nobis quid sit homo uel equus, respondetur
animal. Quod genus licet nec esse sit ab eo esse diuersum cuius genus est,
cognatum tamen est ei, quia ad id substantiae relatione coniungitur.
Species etiam est, de qua genus superius praedicatur, quam Cicero formam
uocauit, uelut homo animalis. Similitudo est unitas qualitatis. Nam duo
quae sibi similia sunt, eamdem nec esse est habere qualitatem, et quoniam ipsum
sibi simile esse non potest, aliud nec esse est simile consideretur. Sed aliud
esse non poterit, nisi fuerit in aliqua parte diuersum. Ergo similia, a se in
alia quidem re diuersa sunt, in alia uero congruunt. In ea uero re quae
secundum qualitatem congruunt, in ea esse similia intelliguntur, quae ad se similitudinis
illius copulatione referuntur. Differentia est quae unumquodque differt
ab alio, ut homo ab equo rationabililatis differentia discrepat. Haec igitur
praedicatione quidem propriae naturae ad ea refertur quorum est differentia, ut
rationabilitas ad hominem; dissimilitudinis uero ratione ad ea a quibus
discrepat id cuius est differentia, ut rationabilitas ad bouem. Contraria
uero sunt quae in eodem posita genere longissime a se discrepant, ut album
atque nigrum, quae licet in uno qualitatis genere ponantur, a se tamen quam
longissime recedunt, ea quoque ad se referri nullus ignorat. Aliud est enim
quod sunt, aliud quod contraria sunt. Quod enim nigrum est, quale est. Quod
uero contrarium est, ab albo plurimum discrepans est. Coniuncta uero sunt
quae unicuique rei finitimam naturam tenent, uelut timori pallor adiunctus est.
Haec talia sunt ut saepius quidem adiunctis sibi cohaerescant, neque tamen ex
necessitate his quibus uicina sunt, ad esse cogantur. Nam saepe timori pallor
assistit, non tamen semper, ueluti cum dissimulatione premitur metus, atque
ideo ueri similia ex adiunctis argumenta nascuntur. Nam quaecumque coniuncta
sunt ex his quibus adhaerent, indicio esse solent. Sed de his in posteriore
disputatione diligentius disseram. Antecedentia uero sunt quibus positis
aliud nec esse est consequatur, ut quia bellum est, esse inimicitias necesse
est. Haec ordinis necessitatem tenent. Consequentia enim ab antecedentibus
separari nequeunt, consequens uero est quidquid id quod antecedit insequitur, ut
inimicitiae bellum consequuntur. Nam si bellum est, inimicitias esse nec esse
est, habetque locus hic illud notabile et spectandum, quod saepe quae
naturaliter priora sunt, tamen ipsa sunt consequentia. Saepe quae naturaliter
antecedunt, et in propositione priora sunt; namque inimicitiae prius existere
quam bella solent. Sed non possumus proponere inimicitias, ut bellum sequatur.
Non enim possumus uere dicere, si inimicitiae sunt, bellum est sed praeponimus
bellum, et inimicitiae quae natura priores sunt, subsequuntur, ita, si bellum
est, inimicitiae sunt. Nunc igitur inimicitiae quae naturaliter bellum
praecedunt, hae eadem bella in propositione comitantur; at si dicam: Si
superbus est, odiosus est superbia et naturaliter et in propositione
odium praecedit; prius enim superbia consueuit existere, post uero atque ex
eadem superbia ueniens odium sequi. Nec interest utrum naturaliter quaelibet
antecedat res aliquando, an uero consequetur, dum id in propositione adnotemus,
eam esse rem antecedentem, quae siue naturaliter prior sit, siue posterior,
alteram tamen rem secum necessario trahat. Repugnantia uero intelliguntur
quoties id quod alicui contrariorum naturaliter iunctum est, reliquo contrario
comparatur, ut quoniam amicitia ealque inimicitiae contraria sunt. Inimicitias
uero consequitur nocendi uoluntas, amicitia et nocendi uolentas, repugnantia
sunt, haec quoque ad se contrarietatis similitudine referuntur. Causa est
qua praecedente aliquid efficitur, ut causa diei est solis ortus.
Effectum est quod praecedens causa perficit, ut dies quem solis ortus
emittit. Maiorum uero comparatio est quoties ei quod minus est, id quod
maius est comparatur, ut si nemo innocens pelli in exsilium debet, multo magis
ne Tullius quidem, qui non innocens solum, uerum etiam patriae fait liberator;
plus est enim patriae esse liberatorem quam innocentem. Parium uero quoties
inter se paria comparantur, ut si hic ciuis innocens pelli in exsilium non
debet, quia innocens est, nec ille quidem qui est innocens carere patria iuste
potest. Minorum uero quoties minora maioribus conferuntur, ut si Ciceronem
liberatorem patriae praemio nemo dignum putauit, nemo eum pPomba praemio dignum
qui cum tantum innocens fuerit, nulla in rempublicam contulit merita.
Haec itaque omnia cognata sibi esse, et ad se referri inuicem, et se uelut e
regione conspicere nullus ignorat. Nam ut de coniugatis primum loquamur, et
iustitia ad id quod iustum est, uel id quod iuste fieri potest, spectat, et cum
qui iustus est perficit. Caetera quoque habent ad se non modo uocabuli
cognationem, uerum etiam cuiusdam naturae congruentiam, ita tamen ut a se
diuersa sint. Neque idem est iustitia, quod iustus. Omne enim quidquid ab
aliquo inflectitur, ab eo a quo inflectitur est diuersum, eidemque cognatum, a
quo etiam probatur inflexum. Genus etiam cognatum esse rei cuius genus est, id
est speciei, quam Cicero formam uocauit, dubium non est. Genus enim speciei
genus est, et species generis species: itaque ad se inuicem referuntur, licet
idem genus ac species non sint. Illud sane uidendum est, quoniam quas nos
species nuncupamus, eas Cicero formas uocat. Cui quidem, dum quod dicit
intelligam, conMilani libenter quibus uoluerit uti nominibus, mihi uero non
idem concedi potest. Nam qui explanationis lucem professus est, in his uerbis
debet quae sunt in usu posita uersari. Id autem quod supponitur generi ut
species, quam forma potius nuncupetur, usus obtinuit. Iam uero simile nisi
simili simile esse non potest, et quod differt nisi a dissimili differre non
potest. Contraria etiam contrariis intelliguntur esse contraria, coniuncta
etiam coniunctis adhaerescunt. Et quae sunt antecedentia, aliquid quod potest
consequi antecedunt. Id etiam quod est consequens illud quod antecessit
insequitur. Omne etiam repugnans repugnanti sibimet intelligitur inimicum.
Causa etiam effectus sui causa est. Quod enim quaeuis causa efficit, eius rei
quam efficit causa est; effectus quoque causae alicuius effectus est.
Comparatio uero maiorum minora respicit, minorum uero maiora, parium
paria. Atque in omnibus ea natura esse deprehenditur, ut cum per se res
quaedam sint diuersae ab his adquae referuntur, affecta tamen esse dum
comparantur, appareant; diuersa uero esse ab his quae referantur, illa res
approbat, quoniam nihil ad se ipsum referri potest. Quae cum ita sint, iure
affecta sunt nuncupata. Quae omnia eius loci qui ex affectis ducitur,
species uel formae sunt, ipso etiam testante Cicerone, qui ait: SED HOC GENUS
IN PLURES PARTES DISTRIBUTUM EST. Cum enim genus dixit, quas scindit a genere
species esse signauit. Praeterea omnia haec et nomen generis suscipiunt et
definitionem. Affecta enim sunt ad aliquid, quae ad id ad quod affecta sunt,
referri queunt; coniugata uero et genus, et forma, et caetera, ad ea semper ad
quae sunt affecta, referuntur. Sed, ut in superioribus locis dictum est, qui in
ipso de quo agitur haerebant, id est ex toto, ex partibus, ex nota, ut ex toto
eo intelligatur termino qui fuisset in quaestione propositus, itemque ex eius
partibus atque ex eius nota. Eodem modo etiam in iis qua affecta sunt dicemus
ad eum terminum affecta considerari, qui subiecti uel praedicati loco positus
continet quaestionem. Superest nunc illud dicere, cur quae affecta sunt
in ipso, de quo agitur esse dicantur. Etenim in ipso de quo agitur termino,
quatuor locos esse significauit Cicero, id est ex toto, ex partibus, ex nota,
ex affectis. Quorum tria quidem superiora manifestum est in eo haerere de quo
agitur termino. Definitio enim cuiuslibet rei quod totum est, in illo ipso est
quod definit. Parte, etiam in ipso illo sunt, quod collectione coniungunt. Nota
etiam in illo est quod appellatione significat; affecta uero extrinsecus posita
uidentur, quippe quae referuntur ad id ad quod affecta sunt, ad id de quo
agitur quae non referuntur, nisi extrinsecus posita intelligerentur. Cur igitur
ea etiam quae affecta sunt, ad id de quo agitur, inter nos numerauit locos, qui
ipsi de quo quaeritur termino cohaerent, dicendum est. Quoniam id quod
adhaerere dicitur, non idem est ei cui adhaerere praedicatur. Quae cum
diuersa sint, cognatione tamen quaedam intelliguntur esse coniuncta, ueluti non
idem est definitio quod ipsa res qum definitione describitur. Si enim definitio
clarius efficit id quod definit, nihil uero ipsum e esse clarius quam est
efficere potest, manifestum est id quod definitur a definitione esse diuersum.
Sed idcirco haerere definitionem in eo quod definitur dicimus, quia est ei
cognata atque coniuncta, quippe quae dum eius proprietatem significet, ab eius
substantia non recedit. Partes etiam ac notae diuersa sunt ab eo quod uel
copulant, uel designant. Sed quia illae propositum terminum iungunt, illae
significant, habentes aliquam cum proposito termino cognationem, in ipso de quo
agitur haerere perhibentur. Ita etiam in affectis, licet extrinsecus sint,
neque enim idem sunt quod ea sunt ad quae intelliguntur affecta, necessario
tamen, quia aliquam cognationem cum his habere considerantur, in ipsis haerere
dicuntur ad quae ad effecta sunt. Qui uero eorum naturalis ordo sit, uel
quae differentia, uel sit alia, locorum partitio, licet in Topicis Differentiis
opportunius expediendum sit, tamen cum exempla Ciceronis quae in his
explicandis attulit exposuero, subiungam. CONIUGATA DICUNTUR QUAE SUNT EX
VERBIS GENERIS EIUSDEM. EIUSDEM AUTEM GENERIS VERBA SUNT QUAE ORTA AB UNO VARIE
COMMUTANTUR, UT SAPIENS SAPIENTER SAPIENTIA. HAEC VERBORUM CONIUGATIO *SYZUGIA*
DICITUR, EX QUA HUIUSMODI EST ARGUMENTUM: SI COMPASCUUS AGER EST, IUS EST
COMPASCERE. Definitio coniugutorum a Cicerone prolata talis est.
Coniugata dicuntur quae sunt ex uerbis generis eiusdem, id est quae ab uno
uerbo uariis inflectuntur modis. Ex eodem quippe genere uerba sunt, iustitia,
iustus, iuste, iustum, et quaecumque alia in diuersas possunt uocabulorum
species inflecti. Quaecumque enim ab uno quolibet orta uarie commutantur, haec
a Graecis quidem *syzygia* dicuntur, apud Latinos uero coniugata: nam quod
Graeci *syzygia* dicunt, nos coniugationem appellamus. Haec autem sunt, ut
sapiens, sapienter, sapientia, et quaecumque in uarias partes orationis,
uariasque inflexiones, ab uno quodam ducta cernuntur. Ex coniugatis
igitur argumenti nascentis hoc exemplum est: sit enim dubitabile an in aliquo
agro mihi atque uicino simul pascere liceat pecus, id est an ius sit
compascere: subiectum igitur est ager, compascere uero praedicatum. Faciemus
itaque argumentum hoc modo: Hic de quo quaeritur ager compascuus est, in
compascuo autem licet compascere, in hoc igitur agro licet compascere. Hic
igitur compascendi iuris argumentum ex compascuo sumptum est, ex coniugato
uidelicet. Compascere enim et compascuum coniugata sunt. Sumptum uero est
argumentum, ius esse compascere, quoniam sit ager compascuus sed coniugatum est
compascuum ei quod compascere. A coniugatis igitur sumptum est argumentum, quod
coniugatum in ipso est de quo agitur, id est in compascendo; omnia enim ex
eodem fluunt, et sui sunt continentia atque se respicientia. Factum est igitur
argumentum ex eo quod est in ipso, ab affectis, id est a coniugatis. Maxima
uero propositio est: Coniugatorum in eo quod coniugata sunt, unam atque
eamdem essu naturam uel sic: Cui conuenit aliquid, huic etiam
coniugatum eius posse sociari. A GENERE SIC DUCITUR: QUONIAM ARGENTUM OMNE
MULIERI LEGATUM EST, NON POTEST EA PECUNIA QUAE NUMERATA DOMI RELICTA EST NON
ESSE LEGATA; FORMA ENIM A GENERE, QUOAD SUUM NOMEN RETINET, NUMQUAM SEIUNGITUR,
NUMERATA AUTEM PECUNIA NOMEN ARGENTI RETINET; LEGATA IGITUR VIDETUR. Genus est
quod de qualibet specie in eo quod quid est praedicatur. In eo quod quid est
praedicari dicitur, quod de qualibet specie interrogantibus quid sit,
rcsponderi conuenit, et eius de qua respondetur speciei substantiam monstrat.
Semper uero genus propria specie maius est, eamque intra ambitum suae
praedicationis includit. Quo fit ut, quamuis in alia quoque dispartiri genus
possit, speciem tamen suam nullo modo derelinquat, uelut animal quidem
praedicatur de homine, et hominis substantiam monstrat; interrogantibus enim
modis quid est homo, animal respondetur. Idem tamen deduci in alia potest,
uelut in equum atque bouem, quae animalia nuncupantur. Sed ita deducitur in
diuersa, ut unamquamque earum specierum quas continet, non relinquat. Ubicumque
enim fuerit homo, necesse est ut sit animal, homo enim animal est. Idemque de
boue ac de caeteris. Ergo liquido demonstratum est nomen generis a specie nullo
modo separari. Quod si aliquando generis uocabulum uniuersaliter enuntietur,
nec esse est omnes species designari, ut si quis dicat omne animal, et hominem
designabit et houem, et caeteras omnes species sub animalis nomine
collocatas. Quae cum ita sint, quidam testamento mulieri argentum omne
legauerat. Quaeritur an ei etiam numerata pecunia sit legata: numerata igitur
pecunia in hac quaestione subiectum est, legata uero praedicatum. Considero
igitur in alterutro eorum quidnam insit, ut ex eo quod in ipso est aliquod argumentum
requiram. Video subiectum terminum, qui est numerata pecunia, habere argentum
genus, quod affectum est, scilicet ad speciem suam ad quam refertur. Quae enim
ad se inuicem referuntur, affecta sunt; ergo quoniam argentum omne legatum est,
et genus speciem propriam non relinquit, nec esse est ut numerata quoque
pecunia sit legata. Nam cum omne nomen generis legatum sit, nihil de speciebus
uidetur exceptum, uelut si quis dicat, omne animal uiuere, non ut arbitror
tantum hominem uel bouem, uel equum, uel sigillatim caetera, uel unum, uel
plura uiuere dicit, ut tamen aliqua cum sint animalia, uitae munere carere
contendat sed omne prorsus quidquid fuerit animal, uiuere proponit. Cum igitur
omne genus, id est omne argentum legatum sit, nulla species excipitar. At
numerata pecunia argentum est, fit igitur ut numerata quoque pecunia legati
uocabulo possit includi. Est igitur quaestio quidem, ut dictum est, an
numerata pecunia legata sit; argumentum ab eo quod in ipso est, id est a genere
quod inest propriae speciei, id est ab affectis, quod est ita ut ad id
referatur; hoc autem est argentum, ab affectis, id est a genere. Praedicatur
enim ut genus argentum de numerata pecunia. Interrogantibus enim nobis quid sit
numerata pecunia iure respondemus, argentum. Maxima propositio est: Cui
conuenit omne genus, eidem unamquamque speciem conuenire. Quam Marcus
quoque Tullius diuersis quidem uerbis sed eadem significatione proposuit
dicens: FORMA ENIM A GENERE QUOAD SUUM [1070C] NOMEN RETINET, NUNQUAM
SEIUNGITUR. NUMERATA AUTEM PECUNIA NOMEN ARGENTI RETINET; LEGATA IGITUR
VIDETUR. A FORMA GENERIS, QUAM INTERDUM, QUO PLANIUS ACCIPIATUR, PARTEM
LICET NOMINARE HOC MODO: SI ITA FABIAE PECUNIA LEGATA EST A VIRO, SI EI VIRO
MATERFAMILIAS ESSET; SI EA IN MANUM NON CONVENERAT, NIHIL DEBETUR. GENUS ENIM
EST UXOR; EIUS DUAE FORMAE: UNA MATRUMFAMILIAS, EAE SUNT, QUAE IN MANUM
CONUENERUNT; ALTERA EARUM, QUAE TANTUM MODO UXORES HABENTUR. QUA IN PARTE CUM
FUERIT FABIA, LEGATUM EI NON VIDETUR. Species est, quae propriis
differentiis intormata sub praedicatione generis collocatur. Differentiae uero
propriae a caeteris eam speciebus separant atque seiungunt, uelut homo cum sit animalis
species, differentiis informatur rationabililatis atque mortalitatis, et
seiungitur ab his animalibus quae aeterna sunt, uelut sol a Platonicis
creditur, et ab iis animalibus quae sunt rationis expertia. Cum igitur omnes
species inter se propriis differentiis distent, nec esse est quod de altera
specie dicitur, id in alium non posse transferri, uelut quod de homine dicitur
specialiter, idem de equo alque boue non possit intelligi. Ducitur autem a
specie quoties genus ipsum ueluti in quamdam contrahitur portionem. Velut si
quis dicat illud animal sibi adduci debere, quod sit rationale et mortale, non
utique de equo, uel boue, aut de caeteris, nisi tantum de homine dictum esse
intelligitur. Ut igitur generaliter dictum genus omnes species claudit, cum
quis dicit omne animal, sic quodlibet animal designatum speciem facit.
Quae cum ita sint, a forma generis, id est a specie generis tale fit,
argumentum, quam formam generis Cicero partem saepe nominat, quo id quod
dicitur planius fiat. Notius enim nomen partis est quam formae; quo autem
distet forma a partibus, et nos strictim superius diximus, et paulo post a
Ciceroue ipso latius explicabitur. Nunc de proposito uideamus exemplo. Uxoris
species sunt duae, una matrumfamilias, altera usu; sed communi generis nomine
uxores uocantur. Fit uero id saepe, ut species iisdem nominibus
nuncupentur, quibus et genera; mater uero familias esse non poterat, nisi quae
conuenisset in manum; haec autem certa erat species nuptiarum. Tribus enim
modis uxor habebatur, usu, farreatione, coemptione; sed confarreatio solis
pontificibus conueniebat. Quae autem in manum per coemptionem conuenerant, hae
matresfamilias uocabantur. Quae uero usu uel farreatione, minime. Coemptio uero
certis solemnitatibus peragebatur, et sese in coemendo inuicem interrogabant,
uir ita, an mulier sibi materfamilias esse uellet. Illa respondebat uelle. Item
mulier interrogabat an uir sibi paterfamilias esse uellet, ille respondebat
uelle. Itaque mulier, uiri conueniebat in manum, et uocabantur hae nuptiae per
coemptionem, et erat mulier materfamilias uiro, loco filiae. Quam solemnitatem
in suis Institutis Ulpianus exponit. Quidam igitur extremo iudicio omne
Fabiae uxori legauit argentum, si quidem Fabia ei non tantum uxor, uerum etiam
certa species uxoris, id est materfamilias esset, quaeritur an uxori Fabiae
legatum sit argentum. Uxor Fabia, subiectum est; legatum argentum, praedicatum.
Quaero igitur quodnam ex his argumentum sumere possim, quae in quaestione sunt
posita, ac uideo uxori duas inesse formas, quarum una tantum uxor est, altera
materfamilias, quae in manum conuentione perficitur. Quod si Fabia in manum non
conuenit, nec materfamilias fuit, id est, non fuit ea species uxoris, cui
argentum omne legatum est. Quocirca quoniam id quod de alia specie dicitur, in
aliam dici non conuenit, cumque Fabia praeter eam speciem sit, quae in manum
conuenerit, id est quae materfamilias sit, et uir matrifamilias legauerit
argentum, non uidetur Fabiae esse legatum. Quaestio igitur, ut dictum
est, an uxori Fabiae omne argumentum legatum sit: subiectum, uxor Fabia;
praedicatum uero, legatum argentum. Argumentum ab eo quod est in ipso de quo
quaeritur, id est ab eo quod est in uxore de qua quaeritur. Est autem in uxore
de qua quaeritur species uxoris, ea scilicet quae in manum non conuenit quae ad
eam affecta est. Omnis enim species ad suum genus refertur, id est forma;
factum est igitur argumentum ab eo quod est in ipso, ab affectis, a forma
generis. Maxima propositio est: Quod de una specie dicitur, id in alteram non
conuenire. A SIMILITUDINE HOC MODO: SI AEDES EAE CORRUERUNT VITIUMUE
FACIUNT QUARUM USUS FRUCTUS LEGATUS EST, HAERES RESTITUERE NON DEBET NEC
REFICERE, NON MAGIS QUAM SERVUM RESTITUERE, SI IS CUIUS USUS FRUCTUS LEGATUS
ESSET DEPERISSET. Similia dicuntur, quae eiusdem sunt qualitatis ex quibus
hoc modo sumitur argumentum: Quidam testamento aedium usumfructum legauit, id
est concessit aedes, ut his alius dum uiueret uteretur; hae coeperunt uel
uitium facere, id est ruinam minari, uel etiam corruerunt. Petit igitur ab
haerede is cui aedium ususfructus legatus est, ut earum sibi aedium quae a
testatore legata sunt damna compenset, et aedes quae uitium fecerunt uel
corruerunt restituat. Quaeritur an earum aedium quarum ususfructus legatus sit,
uitium uel ruinam haeres restituere cogatur. Hic igitur subiecta quidem oratio
est, ueluti quidam terminus, aedium quarum ususfructus legatus sit, ruinam uel
uitium. Praedicata uero oratio, loco termini constituta, ab haerede
restitutio. Sumo igitur a simili argumentum, hoc modo: Quoniam si quis
serui usumfructum legauerit, isque seruus aliquo modo deperierit, non cogitur
restituere haeres seruum, ne nunc quidem cogetur haeres restituere aedes, quae
in usumfructum legatae, ruinam uitiumue iecerunt. Similes est enim serui
ususfructus legatio aedium ususfructus legationi. Simile est etiam seruum in
usumfructum legatum si deperierit, ab haerede non restitui, et aedium in
usumfructum legatarum uitium ruinamue ab haerede non refici. Est igitur
quaestio quidem an aedium in usum fructum legatarum uitium uel ruinam haeres
restituere cogatur. Terminus uero subiectus quidem, aedium in usumfructum
legatarum. uitium uel ruinam, praedicatus autem ab haerede restitutio. Argumentum
uero ab eo quod in ipso est, id est ab eo quod inest, uel ruinae, uel uitio
aedium in usumfructum legatarum. Id autem est affectum, id est similitudo.
Omnis enim similitudo ei inesse perpenditur quod est simile, simililudo uero
est serui ususfructus legati pereuntis, quem restituere haeres non cogitur.
Maxima uero propositio: Similibus rebus eadem conuenire. A
DIFFERENTIA: NON, SI UXORI VIR LEGAVIT ARGENTUM OMNE QUOD SUUM ESSET, IDCIRCO
QUAE IN NOMINIBUS FUERUNT LEGATA SUNT. MULTUM ENIM DIFFERT IN ARCANE POSITUM
SIT ARGENTUM AN IN TABULIS DEBEATUR. In rebus plurimum differentibus quod de
altera earum dicitur non uidetur in alteram conuenire. Id cum ita sit,
quidam argentum suum omne legauit uxori. Illa pecuniam quoque quae in nominibus
debebatur, suam esse dicebat, quod omnis pecunia nomine uocaretur argenti.
Quaeritur an id quoque argentum quod in nominibus debebatur, legatum sit. Hic
igitur subiectus est terminus, argentum quod in nominibus debebatur, legatum
uero praedicatur. A differentia igitur faciemus argumentationem hoc modo: Idem
de plurimum differentibus rebus intelligi non potest. Plurimum uero
differt argentum in arca ne sit positum, an in nominibus debeatur. Nam quae
posita in arca pecunia est iuris est nostri, in nominibus uero debita non est
nostra; nam quod mutuum datur, ex meo fit accipientis, atque ideo non cogitur
eamdem ipsam pecuniam debitor restituere creditori sed aliam tantam. In arca
uero posita pecunia, et in nominibus debita, non sunt argenti uel pecuniae
species sed differentiae; nam argenti species signatum acnon signatum esse
dictae sunt. Qualitas uero pecuniae in possessione positae uel non positae sed
non modis omnibus alienae, in his differentlis constat, ut alia sit in arca
posita, reliqua in nominibus debeatur; atque hoc idcirco dictum est ne quis non
a differentiis sed a specie argumentationem ductam putaret. Qualitas enim
substantialis non speciebus sed differentiis annumeratur. Cum igitur suum
omne quod fuerit argentum uir uxori legauerit, cumque manifestum sit id ad eam
pertinere quod fuerit suum legantis, id est quod in arca fuerit conditum, non
potest idem intelligi de eo quod in nominibus debebatur, quoniam, sicut dictum
est, id quod in nominibus debetur ab eo quod in arca positum est plurimum
differet. Facta est igitur argumentatio ab eo quod inerat, de quo quaerebatur.
Quaerebatur uero de argento in nominibus debito. In hoc uero inerat propria
differentia, qua ab alio differebat argento, eo scilicet quod in arca positum
fuerit. Id uero est affectum, id est differentia. Maxima uero propositio, de
rebus plurimum differentibus, idem intelligi non posse. EX CONTRARIO AUTEM
SIC: NON DEBET EA MULIER CUI VIR BONORUM SUORUM USUM FRUCTUM LEGAVIT CELLIS
VINARIIS ET OLEARIIS PLENIS RELICTIS, PUTARE ID AD SE PERTINERE. USUS ENIM, NON
ABUSUS, LEGATUS EST. EA SUNT INTER SE CONTRARIA. Quod de aliqua re dicitur, id
in eius contrarium non potest conuenire. Idem enim de duobus contrariis
intelligi nullo modo potest. Quidam igitur supremae uoluntatis arbitrio uxori
bonorum suorum usumfructum legauit, mulier cellas uinarias oleasque plenas ad
usumfructum proprium deuocabat. Quaeritur an penus quoque ususfructus legatus
sit; penus igitur ususfructus est subiectum, legatus praedicatum. A contrario
igitur sumitur argumentum hoc modo: Utimur his quae nobis utentibus permanent,
his uero abutimur quae nobis utentibus pereunt; ergo, cum permanere ac perire
contraria sint, usus quoque et abusus contraria nec esse est iudicentur. Quod
si caetera quidem utendo permanent, cellae autem uinariae atque oleariae utendo
consumuntur, aliarum quidem rerum ususfructus esse potest; penus uero non
potest usus esse sed potius abusus. Ergo cum uir uxori usumfructum bonorum
suorum legauerit, non potuit legare contrarium, quod est abusus; est uero
abusus uini atque olei, uinum igitur atque oleum ad usumfructum mulieris non
potest pertinere. Argumentum ab eo quod in ipso est de quo agitur, id est
ab ususfructus legatione, atque ab affecto, id est contrario; contraria uero in
contrariis non ita sant, tanquam definitio in eo quo definitur sed tanquam
relatio. Omnis enim relatio in relatiuis, omniaque contraria non id quod sunt,
id est qualitates sed hoc ipsum quod contraria sunt, in contrariis esse dicuntur,
quia non secundum qualitatem propriam sed secundum distantiam plurimam sibi
inuicem conferuntur. Maxima propositio est, quod alicui conuenit, id eius
contrario non conuenire. [4.18] AB ADIUNCTIS: SI EA MULIER TESTAMENTUM
FECIT QUAE SE CAPITE NUMQUAM DEMINUIT, NON VIDETUR EX EDICTO PRAETORIS SECUNDUM
EAS TABULAS POSSESSIO DARI. ADIUNGITUR ENIM, UT SECUNDUM SERVORUM, SECUNDUM
EXSULUM, SECUNDUM PUERORUM TABULAS POSSESSIO VIDEATUR EX EDICTO DARI.
Adiuncta sunt, quae proximum ac finitimum locum tenent, ut si unum eorum
quolibet exstiterit modo, [1074B] alterum quoque uel exstitisse, uel exstare,
uel exstaturum esse uideatur: haec enim sibi quasi uicina sunt. Quae uero in
existendo sibi sunt proxima, haec uel antecedere rem uolunt, ut amor saepe concubitum,
uel simul esse, ut pallor et timor, uel euenire posterius, ut post iracundiam
caedes. Eaque est adiunctorum natura, ut separari quidem possint, tamen sese
inuicem monstrent. Nam neque qui amauit, necessario potitus est, et saepe qui
potitus est, non amauit. Nec qui pallet, necessario timet, et saepe non timens
pallet. Nec ex necessitate iratus occidit, et occidit saepe aliquis non iratus.
Sed tamen si de singulis inquiratur, eum concubuisse qui amauit, et pallere qui
timet, et occidisse qui fuerit iratus, uerisimile est, non quod ita neo esse
sit sed quia ex uicinis uicina colligimus. Nam quod ad exemplum attinet huius
argumenti, haec similitudo est. Capitis diminutio est prioris status
permutatio. Id multis fieri modis solet, uel maxima, uel media, uel minima.
Maxima est, cum et libertas et ciuitas amittitur, ut deportatio. Media uero, in
quo ciuitas amittitur, retinetur libertas, ut in Latinas colonias
transmigratio. Minima, cum nec ciuitas nec libertas amittitur sed status
prioris qualitatis imminuitur, uel adoptatio, aut quibuslibet aliis modis prior
status, relenta ciuitate, potuerit immutari. Mulieres uero antiquo iure
tutela perpetua continebat. Recedebant uero a tutoris potest ate quae in manum
uiri conuenissent, itaque febateis prioris, status permutatio, et erat capite
diminuta, quae uiri conuenisset in manum. Quaedam igitur quae se nunquam capite
diminuisset, id est quae in manum uiri minime conuenisset, sine tutoris
auctoritate testamentum fecit. Quaeritur an secundum eius tabulas ex edicto
praetoris debeat dari possessio. Hic subiectus quidem terminus, mulieris
nunquam capite diminutae tabulae, praedicatus uero possessionis
concessio. Sumitur ergo ab adiunctis argumentum, hoc modo. Nam si
secundum mulieris; tabulas nunquam capite diminutae possessio detur, nihil
causae est cur non secundum puerulorum quoque et seruorum tabulas ex edicto
praetoris possessio permittatur. Quid enim officere potest, ne secundum
mulieris nunquam capite diminutae tabulas possessio deferatur? Id scilicet quod
ea quae testamentum confecerat, sui non fuit iuris, quod idem et de pueris et
de seruis dici potest. Illorum enim aetas, illorum conditio, in alterius sita
est potestate. Adiungitur ergo: Si secundum mulieris, quae in suo iure
non esset, tabulas, possessio detur, secundum puerulorum quoque et seruorum
tabulas possessionem dari, qui sui iuris minime sint, quoniam quidem illi sub
tutoris, illi sunt sub domini potestate. Proxima namque est rei de qua
quaeritur, quod eius est consequens, et postea existens, ut secundum seruorum
puerorumque tabulas honorum possessio detur, si illud quod est in quaestione
conceditur. Quaeritur enim an secundum mulieris tabulas nunquam capite
diminutae possessio detur. Quam rem consequitur ut, si id fiat, secundum
seruorum quoque puerorumque tabulas deferatur, quod quia fieri non oportet, ne
rei quidem praecedentis existere debebit exemplum. Nec tamen necessaria
est consecutio sed uicina. Nam fieri potest ut id recipiatur solum secundum
mulieris tabulas possessionem dari, non uero id ut secundum tabulas seruorum
uel puerorum possessio concedatur. Sed proximum est ut qui nunc hoc recepit,
posterius illud admittat. Est igitur argumentum ab adiunctis, id est ab eo quod
in ipso haeret de quo quaeritur. Est autem quaestio de mulieris nunquam
diminutae tabulis, ab affectis scilicet ab abiunctis. Maxima propositio: Ex
adiunctis adiuncta perpendi. AB ANTECEDENTIBUS AUTEM ET CONSEQUENTIBUS ET
REPUGNANTIBUS HOC MODO; AB ANTECEDENTIBUS: SI VIRI CULPA FACTUM EST DIVORTIUM,
ETSI MULIER NUNTIUM REMISIT, TAMEN PRO LIBERIS MANERE NIHIL OPORTET.
Antecedentia sunt, quibus positis, aliud necessario consequatur, licet illud
quod antecedit, minus sit atque posterius. Minus quidem, ut si homo est, animal
est; homo enim minus est animali, et tamen posito homine, consequitur ut animal
sit. Posterius uero, ut si peperit, cum uiro concubuit; posterius enim est
peperisse quam cum uiro concubuisse. Aliquoties uero et quod aequale, et quod
simul, et quod prius est ponitur ul antecedens. Aequale quidem, ut: Si
homo est, risibilis est. Simul uero, ut: Si terra obiecta
est, luna deficit. Et haec sibi conuertuntur, ut consequentia fiant
antecedentia, ut si risibilis est, homo est, et si iura defecerit, terrae adsit
obiectio. Antecedens uero prius est, ut si arrogans est, odiosus est. Prius
enim est arrogans, posterius odiosus. Illud tamen in omnibus manet, positis
antecedentibus necessario consequentia trahi. Exempli uero talis est
explanatio: Ciuitatis Romanae, iure, liberi retinentur in patrum arbitrio, usque
dum tertia emancipatione soluantur; ergo si quando diuortium intercessisset
culpa mulieris, parte quadam dotis pro liberorum numero multabatur. De qua re
Paulus, Institutionum libri secundi titulo de Dotibus, ita disseruit: Si
diuortium est matrimonii, et hoc sine culpa mulieris factum est, dos integra
repetetur; quod si culpa mulieris factum est diuortium, in singulos liberos
sexta pars dotis a marito retinetur, usque ad mediam partem dumtaxat dotis.
Quare quoniam quod ex dote conquiritur liberorum est, qui liberi in patris
potestate sunt, id apud uirum nec esse est permanere. Facto igitur
diuortio, contenditur an dotis pars pro liberis apud uirum debeat permanere.
Hic subiectum quidem est, factum diuortium a muliere nuntiatum; praedicatum
uero, apud uirum sextae partis dotis post diuortium permansio. Quaestio an post
diuortium factum, muliere nuntium remittente, sextam dotis partem apud uirum
manere oporteat. Quaero igitur, si ab antecedentibus argumentum faciendum est,
quid antecedat, quid consequatur. At si uiri culpa factum est diuortium, uideo,
mulierem dotis parte non posse multari, etiam si prima repudii nuntium misit.
Quod enim antecessit, ut uiri culpa fieret diuortium, id non permittit ut dotis
pars mulieri pereat, quamuis prima repudii nuntium mittat. Non enim quia prius
libellum repudii nuntiauit dotis parte multanda est sed absoluendi potius
damno, quod non sua factum est, sed uiri culpa diuortium. Igitur antecedens est
uiri culpa factum diuortium, consequeus uero dotis partem non retineri. Nam si
hoc est, illud est. Argumentationem uero faciam hoc modo: Si uiri culpa
factum est diuortium, etiamsi mulier repudii nuntium misit, nullo modo tamen
dotis parte multabitur. Sed uiri culpa diuortium factum est. Non igitur iure
mulier dotis parte multabitur. Quod si non multabitur dotis parte, nihil
in uiri domo liberorum causa, dotis nomine relinquetur sed non multabitur dotis
parte; nihil igitur apud uirum dotis relinquetur pro liberis. Utriusque uero
conclusio syllogismi haec est: Si igitur uiri culpa factum est diuortium, pro
liberis manere nihil oportet. Argumentum, ab eo quod in ipso est de quo agitur:
uersatur quippe intentio de dotis parte, eiusque apud uirum, post diuortium
quod prima nuntiauerit, retentione; hoc uero antecessit, uiri culpa, quod quia praecedens
est, affectum est, omne enim quid praecedit, ad id quod sequitur uec esse est
ut referatur. Maxima propositio est: Ubi est antecedens, ibi erit et
consequens at in hac quaestione est antecedens, id est uiri culpa factum
diuortium; ibi igitur consequeus erit, sextas non retineri. Cur autem ita
superius argumeutum conclusionibus intexuerim, cum de his M. Tullio latius
exsequente, tractauero, euidentius apparebit. A CONSEQUENTIBUS: SI MULIER,
CUM FUISSET NUPTA CUM EO QUICUM CONUBIUM NON ESSET, NUNTIUM REMISIT; QUONIAM
QUI NATI SUNT PATREM NON SEQUUNTUR, PRO LIBERIS MANERE NIHIL OPORTET.
Consequentia sunt quae cum fuerint antecedentia posita, consequuntur,
ueluti si dicamus: Si homo est, animal est animal est consequens.
Sed in proposito exemplo non satis apparet a consequentibus argumentum sed ab
antecedentibus potius, quod paulo post liquebit. Filii non iure suscepti
in patrum non erant potestate sed matres potius sequebantur. Non autem omnibus
erat connubium cum Romanis, nec erant nuptiae iure contractas, quas aut non
inter ciuem romanum ciuem que romanam inibantur, aut cui princeps populusue
ciuitatem uel connubium non permisisset, eo scilicet modo ut in potest atem
parentum liberi redigereutur. Illud quoque uidendum, quod ex impari matrimonio
suscepti, non patrem sed matrem sequuntur. Ergo quasdam Romana uel cum
Latino, uel cum peregrino, uel cum seruo, cum quo connubii ius non erat,
nuptias fecit, dotem contulit, factoque inter eos diuortio, contenditur an
nuptae mulieris cum eo cum quo connubii ius non erat, apud uirum dotis pars
post diuortium debeat permanere. Hic subiectum quidem est, nupta mulier cum quo
connubium non erat, praedicatum uero dotis partis apud uirum post diuortium
retentionis iure permansio. Sumitur ergo a consequentibus argumentum hoc modo.
Nam quia nuptias fecit cum eo cum quo connubii ius nullum est, id consequitur
ut liberi patrem non sequantur. Si autem liberi patrem non sequuntur, ne in
patris quidem sunt potestate, at si in patris potestate non sunt, matrique
applicantur, apud uirum dotis pars non poterit permanere. Hic igitur antecedens
est, cum quo connubii ius non erat, nuptiae; consequens uero, nihil pro liberis
dotis nomine manere oportere. Concludatur argumentatio: Quoniam, non permisso
connubio, liberi qui procreantur patrem non sequuntur, ne dotis quidem pars
apud patrem pro liberis manere debet, quandoquidem non patrem filii sed matrem
sequuntur. Probatum est igitur pro liberis manere nihil oportere, ex hoc
quod cum eo mulier nuptias fecit cum quo connubii ius non erat; hoc uero erat
antecedens. Non ergo a consequenti sed ab antecedenti potius factum
deprehenditur argumentum. Quod si per quod nihil dotis nomine manere oporteret,
probaretur eam nuptias cum eo fecisse qui cum connubii ius non esset, recte a
consequentibus argumentum factum esse diceretur. Fieret uero a consequentibus
argumentum, si ita poneretur: si quid ex dote pro liberis manere oporteret,
probatur, quia patrem liberis equuntur, cum eo nupta esse mulier, cum quo
connuhii ius erat. Assumo quod est consequens: Sed mulier cum eo nupta non est
cum quo connubii ius erat. Concludo antecedens: Nihil igitur dotis pro liberis
manere oportebit quia patrem liberi non sequuntur. Argumentum, ab eo quod in
ipso est de quo quaeritur. Quaeritur enim de his nuptiis, quarum nullum fuerit
iure connubium. Ex affectis: omne enim consequens ad id quod praecedit refertur.
Maxima propositio est: Ubi consequens non est, ibi ne antecedens quidem
esse potest. Ac de his erit alius uberius disserendi locus. A
REPUGNANTIBUS: SI PATERFAMILIAS UXORI ANCILLARUM USUM FRUCTUM LEGAVIT A FILIO
NEQUE A SECUNDO HAEREDE LEGAVIT, MORTUO FILIO MULIER USUM FRUCTUM NON AMITTET.
QUOD ENIM SEMEL TESTAMENTO ALICUI DATUM EST, ID AB EO INUITO CUI DATUM EST
AUFERRI NON POTEST. REPUGNAT ENIM RECTE ACCIPERE ET INVITUM REDDERE.
Secundus haeres dicitur qui haeredi instituto substituitar, ueluti si quis filium
instituat haeredem, scribatque, si is filius intra pubertatem decesserit,
nepotem uel quemlibet alium haeredem esse oportere; nepos igitur uel quilibet
alius, secundus haeres dicitur. Repugnantia sunt quae (ut dictum est)
contraria sequuntur, si ipsis contrariis comparentur. Quidam igitur
haeredem testamento scripsit filium, ei quo secundum substituit haeredem,
uxorique suae ancillarum usum fructum legauit a filio, dixitque ut uxori filius
eius usumfructum ancillarum permitteret, neque illud adiecit, ut etiam secundus
haeres eumdem usumfructum mulieri concederet. Successit filius, ac mulieri
ancillarum contulit usumfructum. Illo mortuo intra pubertatem, agit secundus
haeres, et usumfructum ancillarum mulieri extorquere conatur, dicens
usumfructum ei a filio legatum, a seuero minime. Quaeritur utrum ea mulier
legatum quod testamento acceperat inuita possit amittere. Hic igitur subiectum
est legatum quod testamenti iure recte accepit. Praedicatum uero, inuitam posse
amittere. Sumo igitur argumentum a repugnantibus. Repugnans uero est, si id
quod contrario cousequens est alteri contrario comparetur, uelut in hoc ipso
quod tractamus exemplo, recte accipere, et non recte accipere, contraria sunt
sed non recte accipere comitatur inuitum reddere. Iure enim inuitus reddit,
quod non recte accepit. Repugnat igitur inuitum reddere ei quod est reate
accipere. Faciemus igitur argumentum sic: Qui testamento accepit, recte
accepit; quod autem recte accipitur, inuito eo qui semel recte accepit, auferri
non potest; at mulier testamento usumfructum ancillarum accepit; id igitur ei
inuitae non poterit auferri. Argumentum, ab eo quod in ipso est de quo agitur,
id est de eo quod rectae acceptum est. In ipso uero est uelut affectum
contrarietatis modo, ut superius dictum est. Est autem argumentum a repugnanti.
Maxima propositio: Repugnantia conuenire non posse. AB EFFICIENTIBUS REBUS
HOC MODO: OMNIBUS EST IUS PARIETEM DIRECTUM AD PARIETEM COMMUNEM ADIUNGERE VEL
SOLIDUM VEL FORNICATUM. SED QUI IN PARIETE COMMUNI DEMOLIENDO DAMNI INFECTI
PROMISERIT, NON DEBEBIT PRAESTARE, QUOD FORNIX VITI FECERIT. NON ENIM EIUS VITIO
QUI DEMOLITUS EST DAMNUM FACTUM EST, SED EIUS OPERIS VITIO QUOD ITA AEDIFICATUM
EST, UT SUSPENDI NON POSSET. Causarum quidem multa sunt genera qua Cicero paulo
posterius diuidit. Sed nunc de efficientium causarum disserit argumento.
Efficiens uero causa est qua praecedente aliquod effectum est, non tempore sed
proprietate naturae, uelut in hoc quod nunc declaramus exemplo. Damni
infecti promissio est quoties quis promittit, si quod damnum eius opera
contigerit, sua restitutione esse pensandum. Ius autem est parieti
communi parietem alium uel fornicatum, id est arcum habentem, uel directum
continuumque coniungere. Quidam igitur ad parietem communem alium extrinsecus
parietem iunxit, deditque satis damni infecti. Communis autem paries fornicatus
fuit, id est, arcum habens uel signinam fabricam sustinens; adiungente igitur
eo qui satis dederat, et ut adiungeret de moliente partem parietis, quo
iunctura cohaeresceret, uitium communis paries fecit; quaeritur an damni
infecti promissio cogat eum qui promiserit damnum restituere. Subiectus
terminus damni infecti, promissio; praedicatus uero uitii, restitutio.
Sumimus igitur argumentum a causis hoc modo. Si enim is qui damni
promisitinfecti restitutionem eius uitii causa fuit, restituere debet uitium
quod eius accidit culpa; quod si ea natura parietis fuit ut suspendi
sustinerique non posset (fornicati enim parietis non ea natura est ut suspendi
queat), parietis potius forma quam demolientis culpa uitium fecisse uidebitur,
atque ita non cogitur restaurare uitium qui se damni infecti promissione
obstrinxerit. Fiet igitur argumentatio hoc modo: Si penes parietis formam
constituit ut eo adungente [1079B] parietem qui damni infecti promiserat,
uitium fieret, id uitium, qui promisit, praestare non cogitur. Fuit autem causa
paries ut uitium fieret, qui ea fuit natura ut suspendi sustinerique non
posset. Non igitur quod fornix uitium fecerit, praestare debet quidamni
promisit infecti. Argumentum ab eo quod in ipso est de quo agitur, id est in
uitii restitutione, ex effecto, id est ex causa. Causa enim uitii form. a est
parietis, non culpa coniungentis parietem. Itaque factum est ut fornix uitium
faceret, quae causa uitii, cum absit ab eo qui parietem iunxit, abest etiam
eiusdem uitii restitutio. Maxima propositio: Unamquamque rem ex causis spectari
oportere. AB EFFECTIS REBUS HOC MODO: CUM MULIER VIRO IN MANUM
CONVENIT, OMNIA QUAE MULIERIS FUERUNT VIRI FIUNT DOTIS NOMINE. Effecta
sunt quae aliquibus efficiuntur causis, non tempore praecedentibus sed natura,
uelut si quaerat, uxore defuncta quae in manum uiri conuenit, an eius bona ad
uirum pertineant. In qua quaestione, bona uxoris defunctae quae in manum uiri
conuenerit, subiectum est, ad uirum autem pertinere, praedicatum. Quaero igitur
argumentum ab effecto, dispicioque quid perfecerit ipsa in manum conuentio,
atque ex eo argumentum trabo; id autem est, omnis uiri dotis nomine fieri,
quaecumque mulieris fuere. Ipsa igitur in manus uiri conuentio, omnia quae
mulieris fuere, uiri fecit dotis nomine, non praecedens tempore sed statim
propria ui naturae. Nam ut in manum quaecumque conuenerit, mox eius bona dotis nominee
uirum sequuntur. Facio igitur argumentum sic: Si mulier quae
defuncta est in manum conuenit, in manum uero conuenientis mulieris bona
uiri fiunt dotis nomine, haec quoque bona de quibus agitur, uiri
sunt. Argumentum ex eo quod in ipso est, de quo agitur, continetur.
Agitur enim de bonis eius quae in manum conuenerit, scilicet ab effectis, id
est a causae effectis. Effectum namque est, in manum conuentione omniaquae mulieris
sunt uiri fieri sed a causa quanquam hic quoque non ab effectis dotis nomine,
tactum argumentum esse monstretur. Ostensum est enim fieri uiri dotis
nomine, quidquid mulieris fuerit, ex eo quod mulier in manum conuenerit. Sed
haec causa est ut quae mulieris erant, uiri fiant dotis nomine. Sed dicat quis,
ex eo quod ea quae mulieris fuerant, uiri fiunt dotis nomine, id est approbare
quod defunctae bona ad uirum debeant pertinere. Sed quae mulieris sunt, ea uiri
fieri dotis nomine, et bona ad uirum pertinere, uel idem est, uel neutrum
alteri causa est; uel si quis dicat eam esse causam, ut bona mulieris uiro
debeant cedere, quod per in manus conuentionem uiri facta sunt, dotis nomine, a
causa rursus, ac non ab effectis factum esse argumentum putabit, id est a dote;
ab effectis uero non oportet aliud nisi causam probari. Esset uero ex
effectis argumentum, ut ex eo causa probaretur hoc modo: Si quaestio esset an
mulier in manum uiri conuenisset, et indubitatum haberetur, omnia quae fuissent
mulieris, uiri facta dotis nomine, diceretur [1080B] ita: Si omnia quae fuere
mulieris, uiri facta sunt dotis nomine, mulier in manum uiri conuenit; sed
omnia quae fuere mulieris, uiri facta sunt dotis nomine, mulier igitur in manum
uiri conuenit. Maxima propositio: Causas ab effectis suis non
separari. EX COMPARATIONE AUTEM OMNIA VALENT QUAE SUNT HUIUSMODI: QUOD
IN RE MAIORE VALET VALEAT IN RE MINORE, UT SI IN URBE FINES NON
REGUNTUR, NEC AQUA IN URBE ARCEATUR. ITEM CONTRA: QUOD IN MINORE VALET,
VALEAT IN MAIORE. LICET IDEM EXEMPLUM CONUERTERE. ITEM: QUOD IN RE PARI
VALET, VALEAT IN HAC QUAE PAR EST; UT: QUONIAM USUS AUCTORITAS FUNDI
BIENNIUM EST, SIT ETIAM AEDIUM. AT IN LEGE AEDES NON APPELLANTUR ET SUNT
CAETERARUM RERUM OMNIUM QUARUM ANNUUS EST USUS. VALEAT AEQUITAS, QUAE
PARIBUS IN CAUSIS PARIA IURA DESIDERAT. A comparatione locus qui dicitur,
tripartito scinditur; aut enim a comparatione maiorum, aut a comparatione
minorum, aut a comparatione parium nascitur. A comparatione igitur maiorum est,
quoties maiore minoribus comparantur, hoc modo, ut quod in re maiore ualet,
ualeat in minore. Sit enim quaestio an in urbe aquam liceat arceri. In
hac igitur subiectus est terminus, in urbe aqua, praedicatus uero, ius arcendi.
Regi fines dicuntur quoties unusquisque ager propriis finibus terminatur. Arcet
uero aquam qui eam per sua spatia meare non patitur. Faciamus igitur argumentum
sic. Quoniam plus est regi fines, minus uero arceri aquam, si in ciuitate fines
non reguntur, quod maius est, ne id quidem quod minus est, fiet, ut aqua in
ciuitate arceatur. Hic igitur sumptum est argumentum ab eo quod in ipso haeret
de quo quaeritur. Quaeritur uero de arcendae aquae iure, ab atlecto scilicet,
id est a maiori, quod refertur ad id quod minus est. Notandum uero quod Tullius
maximam propositionem argumentationi inclusit hoc modo: Quod in re maiori
ualet, ualeat in minori et deinceps ea nixus, argumentationem expediuit,
ut mani testius appareat id quod in primo uolumine commemoratum est, has
maximas propositiones; aliquoties quidem argumentationibus includi, ut in
praesenti monstratur exemplo, alias uero uires argumentationibus dare, ut in
superioribus exemplis locorum. Quod si idem conuertamus exemplum,
dicemus: Quod in re minori ualet, ualeat etiam in maiori. At in urbe aqua
arcetur, regantur igitur fines. Hic tamen quaestio permutatur hoc modo:
Quaeritur enim an in urbe fines oporteat regi. Sed a minore sumitur argumentum,
id est ab arcenda aqua, ut sit hic quoque argumentum ab eo quod in ipso est, id
est ab eo quod est in regendis finibus, ab affecto scilicet, id est a minori.
Id enim quod minus est affectum est, illud namque respicit ad id quod
comparatur. Hic quoque maxima propositio a Tullio posita est, eaque est: Quod
enim in re minori ualet, ualet etiam in maiori. A paribus uero fit
similiter comparatio. Nec esse est enim ut ualeat aequitas, quae paribus in
rebus paria iura desiderat. Plurimarum igitur rerum usucapio annua est,
ut si quis eis anno continuo fuerit usus, eas firma iuris auctoritate
possideat, uelut rem mobilem. Fundi uero usucapio, biennii temporis spatio
continetur, de aedibus in lege nihil ascriptum est. Quaeritur ergo, usus aedium
unone anno, an biennio capiatur. Faciemus a paribus argumentationem, et quoniam
immobilium aequa possessio est, aedes uero immobiles sunt, ut biennio fundus
usucapiatur, ita etiam oportet aedes usucapere biennio possidentem. Aequitas
enim paribus in rebus paria iura desiderat. Quae etiam maxima propositio
a Tullio clarissime posita est sed exemplum restrictius positum est, nec
promptissime ad intelligendum. Ita namque ait: UT QUONIAM USUS AUCTORITAS FUNDI
PER BIENNIUM EST, SIT ETIAM AEDIUM. Hic igitur aedium usus auctoritatem biennio
fieri sentit sed adiungit: AT IN LEGE AEDES NON APPELLANTUR, ET SUNT CAETERARUM
OMNIUM QUARUM ANNUUS EST USUS. Hic rursus aedes in his uidetur ponere quae
annuo usucapiuntur, et concludit nihil definiens, nisi VALEAT AEQUITAS, QUAE
PARIBUS IN CAUSIS PARIA IURA DESIDERAT. Sed uidetur ita dictum, quoniam
immobiles sunt aedes ut fundus, biennio uero fundus usucapitur, aedes quoque
biennio usucapiantur, et sibi ipse rursus opponit sed in lege duodecim
tabularum, de aedibus nihil ascriptum est, et inter eas relictae sunt res,
taciturnitate legis, quarum est usus annuus. Nam cum de fundo praescriberet lex
biennii usucapionem, tacuit aedes, et iis potius hac taciturnitate eas iunxit
quarum annuus est usus. Sed soluit obiectionem ita: sed AEQUITAS PARIBUS IN
rebus PARIA IURA DESIDERAT. Itaque quoniam aeque fundus atque aedes immobiles
sunt, aeque biennio usucapientur. Factum est igitur hic quoque argumentum
ab eo quod in ipso est de quo quaeritur, id est ab affecto, id est pari. Nam
cum agatur de aedium possessione, argumentum sumptum est ab usucapione fundorum.
Expeditis igitur his locis qui in ipso de quo agitur inhaerebant, nunc iam loci
eius quem dixit esse extrinsecus, ponit exemplum. Hic uero est qui sumitur ab
auctoritate iudicii locus ualde probabilis, etiamsi non maximae necessitatis.
Quae enim necessaria sunt, haec ex propria considerautur natura. Quae uero
probabilia sunt, plurimorum iudicium exspectant. Ea namque sunt probabilia,
quae uidentur uel omnibus, uel pluribus, uel maxime famosis atque praecipuis,
uel secundum unamquamque artem scientiamque eruditis, ut quod medico in
medicina, geometrae in geometria, caeterisque in propria studiorum facultate
ueritatis. De quo extrinsecus loco sic loquitur: QUAE AUTEM ASSUMUNTUR
EXTRINSECUS, EA MAXIME EX AUCTORITATE DUCUNTUR. ITAQUE GRAECI TALIS
ARGUMENTATIONES *ATECHNOUS* UOCANT, ID EST ARTIS EXPERTIS. Alia quippe
argumenta sunt, quae ipse elicit orator, atque ipse quodam modo ex designatis
locis sibi comparat, et propria facultate conquirit. Alia qua extrinsecus
posita non ipse inuenit sed praesentibus utitur et paratis, ueluti testimonia,
tabulae, fama, caeteraque de quibus M. Tullius latius tractaturus est. Non enim
sibi ipse testimonia parat orator sed paratis utitur, nec ipse, iudicium facit
sed iam posito ac spontaneo rumore ueniente utitur ad causam. Atque
idcirco hos locos Graeci *atechnous* uocant, id est inartificiales, atque, ut
Tullius dixit, artis expertes. Quae enim non proprio oratoris artificio
comparantur sed se extrinsecus uenientia subministrant, haec iure artis
expertia sunt appellata. Huius exemplum est: UT SI ITA RESPONDEAS: QUONIAM
P. SCAEVOLA ID SOLUM ESSE AMBITUS AEDIUM DIXERIT, QUOD PARIETIS COMMUNIS
TEGENDI CAUSA TECTUM PROICERETUR, EX QUO TECTO IN EIUS AEDIS QUI PROTEXISSET
AQUA DEFLUERET, ID TIBI IUS VIDERI. Solum ambitus aedium est, quantum
soli AEDIUM AMBITUS claudii. SCAEVOLA igitur dixit id esse AMBITUS AEDIUM
SOLUM, quod tecti diffusione tegeretur. Manifestum est enim tecta latius fundi,
nec parietibus adaequari, ut stillicidium longus cadat. Quae cum ita
sint, quidam parietem communem tegere nitebatur, quaeritur an sit aliquod ius
tegendi. Respondeas tu, inquit, Trebati, id ius esse angendi parietis communis,
ut in eius qui tegit non aliud quodlibet tectum stillicidii aqua fundatur,
alias non esse iuris ut tegat quis parietem, stillicidio in uicini tecta
defluente. Haec enim stillicidii seruitus noua, nisi consentiente uicino, nihil
iuris habet. Sed si huic responso opponatur, ne sic quidem ut tegat esse
iuris, quandoquidem aedium solum tantum est, quantum cuiusque parietes
claudunt, qui uero legit, tectum longius mittit, tu inquit, responsum tuum
Scaeuolae auctoritate firmabis, dicens Scaeuolam respondisse hoc ESSE SOLUM
AMBITUS AEDIUM, quantum tectum proiiceretur, non quantum parietes ambirent. Ius
est igitur proiicere tectum, qui intra ambitum adhuc suarum aedium tegit sed
ita ut in suum tectum aqua defluat, nec uicino noua noceat seruitute. In
qua quaestione neque a subiectoneque a praedicato termino ductum est
argumentum, quod in his locis considerari moris est, qui in ipsis haerent de
quibus agitur terminis, ut in omnibus exemplis est diligentissime declaratum.
Sed quia sumitur argumentum extrinsecus, dubitationi iudicium cuiuslibet
opponitur, ut nunc Scaeuolae, cuius auctoritate responsum est, atque ideo ex
loco qui uocatur extrinsecus sumptum dicitur argumentum. HIS IGITUR LOCIS
QUI SUNT EXPOSITI AD OMNE ARGUMENTUM REPERIENDUM TAMQUAM ELEMENTIS QUIBUSDAM
SIGNIFICATIO ET DEMONSTRATIO [AD REPERIENDUM] DATUR. UTRUM IGITUR HACTENUS
SATIS EST? TIBI QUIDEM TAM ACUTO ET TAM OCCUPATO PUTO. SED QUONIAM AVIDUM
HOMINEM AD HAS DISCENDI EPULAS RECEPI, SIC ACCIPIAM, UT RELIQUIARUM SIT POTIUS
ALIQUID QUAM TE HINC PATIAR NON SATIATUM DISCEDERE. Omne elementum
principium est eius rei cuius elementum esse perpenditur. Nam eius quod
ex elementis fit, ipsa elementa nec esse est loco esse principii; ergo quoniam
hi loci superius designati argumentorum quasi quaedam principia sunt (ipsi enim
sunt qui continent argumenta; omne autem quod continet, eius quod continetur
principium est), idcirco ait Cicero ueluti quaedam elementa argumentorum uideri
locos hos quos superius posuit Cautissimeque adiecit, quasi quaedam elementa;
non enim integre elementa sed quasi in similitudine elementorum sunt hi loci
qui in argumentis eificiendis sumuntur. Idcirco quoniam argumentorum quaedam
uidentur esse principia, alioqui elementum omne, minima pars eius est cuius
elementum est, et id quod ex elementis efficitur, partes inuicem coniungit, ut
litterae orationem. At uero locus, non pars argumenti sed totum est. Est enim
significatio quaedam, et demonstratio ad reperiendum argumentum data, ut si
locum respexeris, noueris ubi conditur, unde duci debeat argumentum. Sed
reliqua ad Trebatium expeditissime dicta sunt, blanditurque ei etiam breuia
posse sufficere acuminis praerogatiua, praesertim cum sit iuris occupatione
districtus, et tempus legendi plura non habeat. Sed quoniam, ut inquit,
auidissimum studii AD HAS doctrinarum EPULAS recepit, non uult degustatum sed
satiatum relinquere, ut non desit aliquid sed de pleno etiam relinquatur,
factaque esta conuiuando translatio iucundissima. Declaratis igitur locis
omnibus, eorumque exemplis diligenter expositis, pauca quaedam de locorum ui
atque ordine disputabo, quibus plenissima disputatione expeditis, ad ea quae
restant explananda transgrediar. Sed id tertio iam uolumine faciendum est,
quoniam secundus liber habet proprium modum. Antequam latiorem M. Tullii
diuisionem de enumeratis superius locis aggrediar, pauca, ut sum pollicitus, de
ui atque ordine locorum mihi uidentur esse tractanda, ut eorum natura
diligentius cognita, facilior se argumentorum copia subministret. Primum igitur
quoniam loci omnes diuisi sunt in eos qui in ipso haerent de quo quaeritur, et
in eos qui extrinsecus assumerentur, uidendum est qui nam sint hi loci qui in
ipso haerent de quo quaeritur, et quid ab ipsis rebus differunt in quibus
haerere dicuntur, atque illud quidem planissime expeditum est, ipsos dici
terminos illos qui in quaestione uersantur, horum esse alterum praedicatum,
alterum uero subiectum, superior expeditio patefecit. Ab eo igitur
termino de quo agitur, quid differt locus a toto? Quandoquidem idem est ipsum
esse quod totum, neque enim est aliud esse quemlibet terminum in quaestione
propositum, quam totum esse terminum eumdem qui in quaestione est constitutus;
de paribus quoque idem dicimus. Nam si omnes partes efficiunt id cuius partes
sunt, terminumque in quaestione propositum suae partes efficiunt, non est
dubium quin partes quoque omnes conuenientes idem esse quod ipsum est, in
quaestione propositum rectissime intelligantur. Notatio uero, eodem modo illud
ipsum est quod in quaestione proponitur. Rem enim unamquamque omne uocabulum
designat in quaestione ac denotat. Fit igitur ut totum, partes ac nota, idem
quod est ipsum de quo quaeritur esse uideantur. In tanta igitur similitudine
rerum danda est differentia. Neque enim, ut dictum est, si locus haeret in eo
ipso de quo quaeritur, atque ab ipso de quo quaeritur capi non potest,
argumentum fieri potest, tu locus idem esse possit quod ipsum est de quo
quaeritur. Sed haec differentia ipsum est quod confuse ac singulariter intelligitur,
ut homo, in eo inest totum suum, quod est definitio ipsius; igitur totum, ab eo
quod ipsum est, intelligentia separatur, quod illud quidem singulariter
intelligitur, hoc uero sub generis ac differentiarum enumeratione monstratur.
Diuidit enim definitio atque dispertit, totumque patefacit quod in re ipsa
singulariter intelligebatur; de partibus quoque eadem ratio est. Si enim ad
membrorum multitudinem, uel specierum omnium enumerationem, singularis termini
referas intellectum, statim ipsius ac partium differentias comprehendas. Nota
etiam ab eo cuius nota est facile distat, quia illud uox et significatio est,
illud res significationi supposita, eorum uero quae affecta sunt non sunt
dubiae differentiae ab his quorum affecta esse monstrantur. Quis enim idem
dicat esse coniugatum, quod est id cui coniugatum est? Quis idem dicat esse
iuste, quod iustitia? Quis genus idem quod forma? quis contraria? quis similia?
Quandoquidem neque contrarium, sibi ipsi contrarium esse potest, nec simile,
sibi ipsi simile; nec genus, sibimetipsi genus; et de cateris eadem ratio
est. Nunc illud dicendum est, propter quod ista praemisimus; quandocumque
enim ab illis tribus locis qui primi propositi sunt, argumenta sumuntur, id est
a toto, a paribus, a nota, fit ut ipse quidem terminus ad cuius fidem quaeritur
argumentum, intra quamlibet earum rerum contineatur, quae cum ad argumentum
ductae fuerint, loci esse monstrantur. Velut cum fit argumentum a toto, ipse
quidem terminus cui fides affertur, intra totum comprehenditur; totum uero
ipsum quod est definitio, res est siquidem orationem, rem uocari placet. At si
ex ea sumitur argumentum, fit locus itaque ipsum quidem de quo agitur, intra
totum clauditur, a quo toto cum fit argumentum, fit ipsum totum, locus; quod
totum, quoniam claudit terminum qui in quaestione uersatur eidem termino
uidetur inhaerere. Quo fit, ut locus quoque qui a toto est, eidem inhaereat
termino, de quo in quaestione dubitatur. Partium quoque enumeratio eumdem terminum
claudit, quem partium collectione coniungit. Ipsaque partium enumeratio res
quaedam est, ei oratio rebus annumeranda est. Sed si ab ea ducitur argumentum,
fit locus. Sed quoniam partium multitudo in eodem termino est, quem conuentus
partium iungit, nec esse est eum quoque locum qui est a coniunctione partium
ipsi illi termino de quo quaeritur inhaerere. Nota etiam rem designat, et
significatione aliquo modo comprehendit, a qua si ducitur argumentum, fit
locus, et quoniam nomen omne si uidetur ad esse, cuius intelligentiam signat,
locus quoque qui est a notatione, in ipso haeret de quo uersatur
intentio. At in affectis quae in tredecim partes diuisa sunt, non idem
est. Nam quoniam respicientia quodammodo terminum sunt, et quasi extrinsecus constituta,
non uidentur eodem modo coniuncta esse cum termino quo coniuncti sunt hi loci,
qui a toto, a partium enumeratione, a nota esse praedicti sunt; sed tamen id
quod affectum est, ad aliquid dicitur. Id uero aliquid iunctum est illi semper
quod ad eius ducitur relationem, ac sine eo esse nunquam potest, quia cum ipso
nascitur, et quodammodo altero dicto intelligitur alterum. Nam si id de quo
quaeritur, eiusque affecta perpendas, ea quae perhibentur affecta, extra id de
quo ambigitur, posita esse consideres, nihil enim eorum quae sunt ad aliquid,
ex se ipso esse potest sed est semper ex altero: ut enim in praedicamentis
ostenditur, omnia quae ad aliquid dicuntur, opposita sunt, non tamen ita
disiuncta sunt ut omnino sint distributa sed quoniam relatiua praedicatione
iunguntur, nec esse est aliquo modo in ipso sint ad quod uidentur affecta. Omne
quippe affectum, ex eo ad quod affectum est suscipit formam, et sine eo esse
non potest, et dicto altero, alterius se statim subiicit intellectus, ut cum
dixero dimidium, duplum intelligitur, et cum patrem nominauero, filius ad
intelligentiam uenit. Et omnia quaecumque ad aliquid sunt, ex sese pendent, nec
a se inuicem deseruntur. Igitur omne affectum, et ad ipsum respicit ad quod
refertur, et in ipso est. Ad ipsum quidem respicit, quoniam ad affectum suum
uelut ad aliquid relatiue more praedicationis refertur; in ipso uero est, quod
ea est affectorum natura ut alterum existat ab altero, seque ipsa possideant,
quandoquidem et id quod uffectum uocatur, eius est termini ad quem consideratur
affectum, et terminus in quaestione propositus affe. cto suo intelligitur esse
connexus. Quae cum ita sint, cum argumentum sumitur a coniugatis, quoniam
id quod coniugatum est, affectum est ad id quod ei ex altera parte est
coniugatum, id quidem de qua quaeritur in altrinsecus posito coniugato haeret.
Is uero locus unde argumentum trahitur, ab altero ducitur coniugato, ueluti si
compascuus ager est, ius est compascere. Igitur compascere atque compascuum
coniugata sunt; sed quaerebatur an ius esset compascere, tractum uero est
argumentum a compascuo; itaque terminus quidem de quo fuit quaestio, in altero
coniugato positus deprehenditur, id est in compascendo; locus uero unde
argumentum tractum est, in altero est, id est in compascuo. Item quoties
a genere ducitur argumentum, id de quo quaeritur in forma, haerere nec esse
est, ut cum ostenditur legata esse numerata pecunia, quoniam fuerit argentum
omne legatum. Quaeritur enim de numerata pecunia, quae est species argenti, et
argumentum tractum est ab argento, id est a genere. Itaque ipsum de quo
quaerebatur, in forma fuit, id est in specie. Argumentum uero tractum est ab
affecto, id est a genere. Quod si a forma generis argumentum fiat, conuerso
modo est, id quidem quod quaeritur in genere esse monstratur, ipsum uero unde
sumptum est argumentum, in forma esse perpenditur. Nam cum quaeratur an legatum
sit uxori argentum, ostenditur non esse legatum, quia non fuerit uxori tantum:
legatum sed matrifamilias uxori. Uxor uero genus est matrifamilias uxoris.
Quaeritur igitur de uxore, id est de genere. Argumentum factum est a
matrefamilias, in est a forma. Quoties uero a similitudine trahitur
argumentum, quoniam id quod simile est, non sibi sed alteri simile esse
perpenditur, res siquidem de quo quaeritur, in uno eorum quae sunt similia,
posita est; at uero locus, in altero est, uelut cum quaeritur an haeres
restituere uitium ruinamue cogatur aedium in usumfructam relictarum. In hoc
igitur quaestio est, locus uero a simililudine, quia non oportet haeredem aedes
restituere, sicut nec mancipium, si id aliqua ratione depereat. Cum igitur
similis sit aedium ususfructus atque mancipii, quod quaeritur, in aedium
usufructu positum est, locus uero, in usufructu mancipii. In differentia
quoque idem est: eorum namque quae differunt in altero positum est id quod
quaeritur, in altero uero illud a quo id quod est ambiguum comprobatur, ut cum
quaeritur an id quoque argentum quod in nominibus debeatur legatum sit. Hic
igitur illud est quod dubitatur. In eo uero quod ab hoc differt, locus est a
quo ostenditur minime legatum esse argentum quod in nominibus debeatur, quia
multum differt in arca ne sit positum, an in nominibus scriptam. A
contrario quoque idem est, ut in eo quod quaeritur an ususfructus penus legatus
sit. In usufructu igitur quaestio est sed probatur minime esse legatus, quia
non potest esse usus earum rerum quae utendo pereunt sed potius abusus; in
abusu igitur locus est, scilicet in altero contrariorum, cum fuerit in usu
quaestio. Ab adiunctis etiam locus in eodem modo ab eo quod quaeritur
segregatus est, ut in uno adiuncto quaestio, in altero uero sit locus. Nam cum
quaeratur an secundum mulieris tabulas nunquam capite diminutae possessio
detur, in hoc quaestio est an detur, at in eius adiuncto, locus. Ostenditur
enim minime dari debere possessionem, quia sit proximum ut secundum puerorum
quoque atque seruorum tabulas bonorum possessio concedatur. Ab
antecedentibus uero ita est locus, ut quaestio sit in consequentibus. Nam cum
quaeritur an aliquid dotis nomine pro liberis manere oporteat sumitur
argumentum nullomodo manere oportere ex antecedentibus, quod uiri culpa factum
est diuortium; locus itaque in antecedenti, quaestio uero in consequenti.
Consecutum est uiri culpa factum esse diuortium, nihil apud patrem pro liberis
permanere, cum uiri culpa praecesserit. A consequentibus uero si sit
argumentum, res quae dubia est in antecedentibus esse deprehenditur, uelut cum
quaeritur an diuortio tacto, cum eo nupta esset mulier qui cum connubii ius non
esset, dotis nomine aliquid pro liberis manere oporteat. Fit argumentum sic: Si
quid ex dote pro liberis manere oporteret, quia patrem liberi sequerentur, cum
eo nupta esset mulier, qui cum connubii ius esset, hic antecedens est, si quid
de dote pro liberis manere oporteret, et in eo quaestio an aliquid manere
oporteat. Consequens uero, cum eo mulier nupta, qui cum connubii ius esset, a
quo sumitur argumentum, id est a consequenti. Nam cum manifestum sit, non cum
eo nupta esse cum quo connubii ius erat, ostenditur quod miuime patrem liberi
sequantur, atque idcirco nihil pro liberis manere oportere. Hic igitur res
quidem quae dubitatur in antecedenti est, in eo scilicet an ex dote pro liberis
manere aliquid oporteat, argumentum uero in eo loco qui est in consequentibus,
id est in muliere quae nupta est cum eo cum quo nulla erant iura
connubii. A repugnantibus etiam quoties argumenta sumuntur, res quidem
dubia in altero repugnanti, in aduerso uero locus est argumenti, ut cum
quaeritur an possit inuita mulier reddere legatum, quod recte testamento semel
accepit. Locus a repugnanti, minime posse inuitam reddere quod recte accepit.
Quaestio igitur est in eo quod intelligitur inuitam reddere, argumentum uero in
altero repugnanti, id est in eo quod intelligitur recte accipere. Pugnat enim
inuitam reddere et recte accipere, sed quaestio in uno eorum est, locus in
altero. Quoties uero a causis efficientibus ducitur argumentum,
quaestionem in effectis esse nec esse est, ut exemplo quo quaeritur an qui
satis dederit damni infecti, uitium parietis praestare cogatur. In hoc igitur,
id est uitio parietis, quaestio est sed de causa trahitur argumentum. Dicitur
enim non oportere praestare, quoniam natura parietis causa fuerit uitii, non is
qui de praestando uitio satis dedisset. Effectum ergo causae, uitium parietis
fuit. Itaque quaestio quidem in effecto, locus uero esse consideratur ex causa.
At si ab effectis aliquid approbetur, locus in effecto, quaestio in causa est
constituta, ueluti cum quaeritur an mulier quaedam cuius bona uiri facta sint,
dotis nomine in uiri manum conuenerit. Quoniam ergo in manum ex conuentione
perficitur, ut bona mulieris post eius mortem uir adipiscatur, argumentum
ducitur ab effectis. Efficitur enim per in manum conuentionem, ut quaecumque
sunt mulieris, uiri fiant dotis nomine; ergo cum ea quae mulieris fuere, uir
nomine dotis adipiscatur, mulierem in manum uiri nec esse est conuenire.
Quaestio itaque est de muliere, an in manum uiri conuenerit. Argumentum uero ab
effectu causae, id est in manum conuentionis. Hoc uero est quod ea quae fuere
mulieris, uir nomine dotis acquirit, quo fit ut quod quaeritur, in causa, locus
uero sit in effectis. A comparatione uero maiorum si fuerit argumentum,
quaestio erit in minoribus, ut si quaeratur an in urbe aqua debeat arceri,
defendaturque minime debere, neque enim fines reguntur; ita in aqua arcenda,
quod minus est, quaestio est, locus uero in finibus regendis, quod maius est.
Contrariae uero, si a minore argumentum ducatur, erit id quod dubilatur in re
maiori, ut si dubitetur an fines in ciuitate regantur, respondeamus minime,
quoniam ne aqua quidem arcetur. Ita id quod dubitatur, in re maiore consistit,
illud uero unde argumentum sumitur, in minori. Et in comparatione parium
similis ratio est: in uno enim eorum quae sunt paria, quaestio consistit, in
altero locus intelligitur argumenti, ueluti cum quaeritur an aedium usus
biennio capiatur, id approbamus, quoniam fundorunm quoque. Cum ergo paria sint
fundus atque aedes, quaestio quidem de aedibus est, argumentum uero ducitura
fundo. Ac de ui quidem locorum, quoque a se non quaestiones et loci
argumentorum separentur, haec dicta sint. Nunc eorum ordinem breuissime
commemorabo. Ex hoc itaque oritur omne iudicium, qui locus prior, qui sit
posterior, existimandus, si eos terminos consideremus qui proposita quaestione
uersantur. Quaecumque enim his terminis propinquiora sunt, haec rectissime
priora numerantur. Posteriora uero quantum a propositis longissime quaeque rec
esserint. Id autem tali ratione clarescet. Primum namque, locorum est
diuisa pluralitas in eos qui in ipso sunt de quo agitur, et in eos qui
assumuntur extrinsecus, in quo praepositos esse intelligimus eos locos qui in
ipso sunt, his locis qui trahuntur extrinsecus. Hic uero locus qui in ipso est,
in primas quatuor distribuitur partes, quarum prima est definitio, qui locus a
toto est nuncupatus. Idcirco autem primus a toto locus ponitur, quoniam nihil
est alicui tam proximum, quam propria definitio. Consequitur enumeratio
partium, quia post definitionem proximum locum partes tenere debent, quae totum
id cuius partes dicuntur esse, coniungunt. His apponitur nota, quae quasi
conuerso modo definitio est. Nam sicut definition explicat quod implicite nota
designat, ita nota inuoluit et confuse indicat quod patefacit atque expedit
definitio. Nota uero tertia ideo est, quia definitio substantiam tenet; partium
enumeratio ea dinumerat quae totum compositum iungunt, nota uero nihil efficit
sed tantum designat. Post haec quae in ipsis terminis principaliter
haerent, illa quae sunt affecta numerantur, quae iam non ipsis insunt terminis
sed eosdem uelut exterius posita consequuntur, atque idcirco solum in ipsis
esse dicuntur, quoniam sine his esse non possunt. Quorum prima sunt
coniugata. Nihil enim inter affecta sic proximum est, quam id quod et re et
nomine participat, nisi quod parua nominis inflexione seiungitur. Nam id quod
iustum est, et iustitia participat, et inflexo iustitiae nomine nuncupatur, et
in caeteris quidem coniugatis idem est. Post haec annumeratum est genus.
Genus uero est quod cuiuslibet uniuersaliter substantiam monstrat, et quod
multorum specie diuersorum, substantialis est similitudo. Quod a propositis
terminis longius quam coniugata seiungitur, quia tametsi substantiam monstrat,
tamen ne inflexo quidem uocabulo cum termini nomine copulatur sed longe lateque
diuerso. Huic adiuncta est species (quam formam Tullius appellauit), quia nihil
est tam proximum generi quam species. Species uero est substantialis
indiuiduorum similitudo, et quod sub genere ponitur. Post hanc,
similitudo est constituta. Etenim post illud idem quod in substantiis
intelligitur illud idem recte ponitur quod in qualitate esse perpenditur. Paulatim
uero res incipit a similitudine recedere, nec statim ad contrarium uenit sed
prius a differentia locum statuit. Nam remota similitudine nihil aliud occurrit
prius, nisi differentia. Post hanc, a contrario locum ducit, id est a
maxima differentia. Rursus ad amica sibi affecta conuertitur. Sed non eo
modo amica quo sunt similia, adiuncta enim proponit, quae non sunt integrae
similitudinis sed inter se iudicii, et ueluti cuius iam rerum sibi cohaerentium
propinquitatis. Post adiuncta uero antecedentia Tullius posuit. Post id enim
quod aliquo modo iunctum est, aliquid nec esse est aut antecedens aut
consequens intelligatur. Prius itaque antecedens, post consequens collocatum
est. Post haec repugantia dixit, ut quodammodo duplex ordo contrarietatum
ac similitudinum nasceretur. Prius enim proposuit a simili, a differentia, a contrario,
atque hic uniuersus ordo est similium et contrariorum. Rursus ab adiunctis, ab
antecedentibus, a consequentibus, a repugnantibus. Hic rursus secundus ordo
similium et contrariorum esse deprehenditur. Sed primus ualde euidentior quam
secundus; plus est enim simile esse quam adiunctum, plus est differre quam
antecedere uel consequi, plus etiam est contrarium quam repugnans. Et in suo
quaeque ordine plenam retinent formam, uelut quia similitudo propinquitatem
quamdam tenere debet: propinquius est enim id quod est simile ei cui simile
esse consideratur, quam id quod ad. iunctum est ei cui naturali
uicinitate coniungitur. Rursus quoniam differentia similitudinis auctor est, dissimilius
est id quod ab aliquo differt, quam id quod consequitur uel antecedit. Rursus
quoniam contrarium longissime ab eo qui contrarium est oportet abscedere,
longius abscedit contrarium quam repugnans. Post haec quid aliud restare
poterat quam effectorum causas quaerere? aut post effectorum causas quid aliud
quam ipsarum causarum perquirere effectus? Praeterea a comparatione loci,
postremum ordinem tenent, quia siue similitudinem, siue dissimilitudinem in
sola obtinent quantitate. Ac de locorum ordine satis dictum est. Illud
praeterea considerandum puto, num hi quoque argumentorum loci qui in ipso
haerent de quo quaeritur, inter affecta iure numerentur. Quandoquidem quae
affecta sunt, idcirco esse dicuntur affecta, quia sunt ad aliquid, et propositi
termini relatione nectuntur. Nam et definitio alicuius est definitio, et totum
partium totum est, et nota significati nota est. Sed inspicienda natura est
singulorum, et uidendum num similiter haec ad aliquid referantur ut caetera.
Nam definitio rem quam definit quodammodo explicat atque conformat. Item partes
rem cuius partes sunt propria coniunctione perticiunt. Nota uero, eius
intellectum conmmuniter tenet, et cum haec caetera quae uocantur affecta non
faciant, iure haec non inter affecta ponuntur sed in eo ipso quod ueluti
conficiunt atque conformant, inesse dicuntur. Sed quoniam de ui atque ordine
locorum sufficienter dictum est, nunc ad sequentia transeamus. Praeter
omnia enim quae superius dicta sunt, [1090B] illud animaduertendum maxime est,
quia non si quid in argumentis fuerit sumptum, illud eurum argumentorum locus
dicendus est, nisi non solum insit argumentis, uerum etiam ab eo argumenta
nascantur. Id quod dico, planiore liquebit exemplo. Si quod enim fuerit
argumentum in quo sumatur genus uel species, non statim illud argumentum ex
genere uel specie tractum esse dicitur, nisi ei argumento uires generis uel
speciei qualitas subministret. Age enim, sit quaestio an idem sit animali esse
quod uiuere, et fiat argumentatio sic: non idem est animali esse quod uiuere,
quia ne inanimato quidem idem est esse quod mori, piurima quippe sunt
inanimata, neque moriuntur. Nam quae nunquam uixere, ne mori quidem posse
manifestum est. Hoc igitur inanimatum genus est lapidum, ac fusilium
metallorum, et sumptum est in argumentum sed non ex genere factum est
argumentum, licet in eodem genus uideatur inclusum sed potius a contrario. Nam
contrarium est uitae quidem mors, animalium inanimatum; sed mori non sequitur
inanimatum, igitur ne animal quidem uiuere. Non ergo ex genere locus iste
ducendus est sed potius ex contrario, quamuis genus huiusmodi contineat
argumcntum; tunc enim locus esset a genere, si ab animalis uel a uiuendi genere
argumenti ratio traheretur, uelut si ita fieret argumentum: animali esse,
substantiae est esse; ipsum uero uiuere substantia non est sed in substantiam
uenit. Non est igitur idem uiuere quod animali esse. A substantia igitur
tractum est argumentum, a genere uidelicet animalis. Hoc igitur argumentum, et
genus continet, et ex genere ductum est; in priore uero, etsi genus continet, a
contrario tamen ductum esse perpenditur. Illud enim semper speculandum est, non
quid in argumento sit sed ex quo ducitur argumentum. Et in caeteris
quidem eadem ratio tenenda est, neque est enim in singulis immorandum. Siquis
enim diligentiam decursae superius expositionis exercuit, facile in reliquis
colliget, quod uno declaratur exemplo: QUANDO ERGO UNUSQUISQUE EORUM
LOCORUM QUOS EXPOSUI SUA QUAEDAM HABET MEMBRA, EA QUAM SUBTILISSIME
PERSEQUAMUR, ET PRIMUM DE IPSA DEFINITIONE DICATUR. DEFINITIO EST ORATIO, QUAE
ID QUOD DEFINITUR EXPLICAT QUID SIT. Propositis igitur breuiter argumentorum
locis eosdem subtilius atque enodatius statuit per suas partes et conuenientia
membra partiri. Ita enim locorum omnium diligentius natura
considerabitur, si non confuse solum, uerum etiam distributim, et in suarum
partium proprietate noscantur. Dat uero hoc multam inueniendorum copiam
argumentorum: ut enim de definitione dicamus, si cunctas aliquis definitionum
partes agnouerit, ex omnibus sibi poterit argumenta conquirere, eritque in
inueniendis copiosior argumentis eo qui quot sint definitionis species ignorat.
Ex tot enim definitionum partibus argumenta producet, quantas quis definitionum
partes esse cognouerit. Is uero habebit plurimam talium locorum facultatem,
quem definitionum diuersitas non latebit. Ob hoc igitur M. Tullius, quos
confuse atque indigeste posuit locos, nunc eosdem diligentiore ratione
partitur. Ac primum illud propensiore consideratione tractandum est,
quod, ut dictum est, etiam loci ipsi res quaedam sunt sed tunc esse
intelliguntur loci, cum ab his trahitur argumentum. Ergo nunc Cicero non
principaliter locos sed res ipsas diuidit, quae ad argumentum ductae, speciem
sumunt locorum. Definitio namque, et pars, et nota, res quaedam sunt sed cum ab
his argumentum ducitur, loci fiunt. Cum igitur M. Tullius res ipsas ita ut sunt
naturaliter partiatur, simul cum rebus diuidit locos. Si enim res una est a qua
duci poterit argumentum, unus est etiam locus; at si illa diuiditur, quot
partes eius rei fuerint, tot erunt etiam loci generis eiusdem de quo argumenta
nascuntur. Quae cum ita sint, cumque prius omnium locus a toto sit, id
est a definitione; prius quid sit definitio definitione declarat, ut patefacta
rei natura, species eius uel membra conuenienti ordine partiatur. Detinitio,
inquit, est oratio quae id quod definitur explicat quid sit, sicut definitio
est hominis, animal rationale mortale. Dictum uero cautissime explicat. Nam
quod nomen confuse denuntiat, id definitio per quaedam substantialia membra
diffundit. Quod enim confuse nomine hominis declaratur, id aperit atque
explicat definitio, dicens hominem esse animal rationale et mortale. Nam nisi
ita dixisset, potuerat esse oommunis definitio generi quoque, uelut hoc modo:
definitio est quae designat quid est id quod definit. Sed genus quoque designat
quid est id de quo praedicatur sed non explicat quid sit. Sola enim definitio
explicat quid sit quod oratione perficitur; genus uero et caetera quae singulis
plerumque nominibus proferuntur, minime. Explicat autem definitio id quod
definitur, non quoquo modo, id est non in eo quod quale uel quantum est, non in
quolibet aliorum praedicamenlorum sed quid sit, id est eius quod definit,
substantiam monstrat. Ea uero definitio substantiam digerit, qua ex genere
differentiisque consistit; haec namque uniuscuiuslibet substantiam significant,
sicut in his dictum est, ubi de genere, specie, differentia, proprio,
accidentique tractatum est. Ergo omnis definitio explicat quid sit id quod
definitur. Aristoteles uero eodem pene modo definitionem determinat, dicens:
Definitio est oratio quidem esse significans. Hanc M. Tullius partitur
hoc modo: DEFINITIONUM AUTEM DUO GENERA PRIMA: UNUM EARUM RERUM QUAE SUNT,
ALTERUM EARUM QUAE INTELLEGUNTUR. ESSE EA DICO QUAE CERNI TANGIQUE
POSSUNT, UT FUNDUM AEDES, PARIETEM STILLICIDIUM, MANCIPIUM PECUDEM,
SUPELLECTILEM PENUS ET CAETERA; QUO EX GENERE QUAEDAM INTERDUM VOBIS DEFINIENDA
SUNT. NON ESSE RURSUS EA DICO QUAE TANGI DEMONSTRATIVE NON POSSUNT, CERNI TAMEN
ANIMO ATQUE INTELLEGI POSSUNT, UT SI USUS CAPIONEM, SI TUTELAM, SI GENTEM, SI
AGNATIONEM DEFINIAS, QUARUM RERUM NULLUM SUBEST [QUASI] CORPUS, EST TAMEN
QUAEDAM CONFORMATIO INSIGNITA ET IMPRESSA INTELLEGENTIA, QUAM NOTIONEM
VOCO. EA SAEPE IN ARGUMENTANDO DEFINITIONE EXPLICANDA EST. Omnem
definitionem manifestum est ad aliquid dici, ulicuius est enim semper
definitio. Quae uero ad aliquid dicuntur, quamdam proprietatem ex his sumant
nec esse est, ad quae referuntur. Quo fit ut ex his rebus quas determinat
definitio, in ipsas definitiones quaedam proprietas transferatur; sed quia quod
ad aliquid refertur, id non potest esse idem ei ad quod dicitur, propriam
quoque ipsum quod refertur ad aliud formam nec esse est possidere. Eoque fit,
ut in definitionibus, et sua insit forma, et ea quam ab his accipiunt, quae
definiunt consideretur. Quod M. Tullius uidens, primum diuidit definitiones
secundum ea quae definiuntur. Quarum genera duo esse proponit, unum earum
rerum quae sunt, alterum earum quae intelliguntur. Has igitur definitionum
differentias ex his uidetur sumpsisse quae in definitione monstrantur. Omnia
enim qua definiuntur aut corporalia sunt, aut incorporalia. Res enim omnes in
haec primitus diuiduntur. Ea uero quae corporalia sunt, esse dicit; ea quae
sunt incorporalia, non esse, non quod omnino ea quae incorporalia sunt non
sint, alioqui nec definitionem susciperent. Nam si definitio est qua explicatur
id quod definitur quid sit, eius rei, qua omnino non est, nec quid sit,
explicatio ulla esse potest. Sed quia humanum genus sensibus degit, id maxime
esse arbitratur, quod sensuum conprehensioni subiicitur. Quis enim sibi non
magis lapidem scire uideatur, aut hominem quam iustitiam, uel haereditatem, uel
quidquid aliud non sensibus [sed intelligentia comprehendit? Unde fit ut
propter euidentiam cognitionis ea magis esse uideantur quae subiecta sunt
sensibus, ea minime quae intelligentiae ratione capiuntur. Sed id
sciendum est, M. Tullium ad hominum protulisse opinionem, non ad ueritatem. Nam
ut inter optime philosophantes constitit, illa maxime sunt quae longe a sensibus
segregata sunt, illa minus, quae opiniones sensibus subministrant. Unde etiam
idem Cicero in Timeo Platonis ait: Quid est quod semper sit, nec ullum habeat
ortum, et quod gignatur, nec unquam sit? Quorum alterum, intelligentiae ratione
comprehenditur, alterum affert opinionem sensui rationis expers. Hic igitur id
quod semper sit, rationi adiecit, id uero quod nunquam sit, sensibus
coniunxit. Sed, ut dictum est, corporea esse, et incorporea non esse, non
ad ueritatem sed a communem quorumlibet hominum opinionem locutio est. Ponit
igitur exempla earum quidem rerum quae sunt, formas quasdam corporalium rerum,
ut fundum, aedes, parietes, stillicidium, atque id genus, quae corporalia esse
hac ratione ostendit, quoniam cerni tangique possunt; earum uero rerum qua non
sunt, exempla posuit, usucapionem, tutelam, gentem, caeteraque quae sunt
incorporea; quae ex hoc incorporea esse monstrauit, quod ait, EA TANGI
DEMONSTRATIVE non posse sed intelligentia atque ANIMO comprehendi. Cur uero ea
non esse dixerit, supposuit rationem dicens, nullum quasi corpus earum rerum
esse, nec molem aliquam quae feriat sensum. Quod enim corpus esse potest usucapionis?
Nam ipsa quae usucapiuntur, corporea sunt, ipsa uero usucapio corporea non
est. Ipsa enim per utendi consuetudinem possidendi firmitudo, quodnam
corpus habere potest? Item, quod quis tutela regit, corporale est, homo namque
est. Ipsa uero cura tutela, atque ipsum ius alium tuendi, nihil omnino corporis
habere potest. Homines quoque qui in eadem gentilitate sunt, corporei sunt.
Ipsa uero gentilitas, id est communis nominis liberorum societas, ut Scipionum,
Valeriorum et Brutorum, certe incorporea est; sed quaedam eorum rerum
incorporalis animi conceptio est, atque intelligentia, quam notionem uocauit.
Ipsa enim imaginatio usucapionis uel tutelae atque intellectus incorporalis rei
notio dicitur, quam Graeci *ennoia* uocant. Diuisit igitur definitionem in
has duas partes, scilicet secundum subiecti diilerentias, ut alias quidem esse
diceret definitiones earum rerum quae sunt, id est corporalium, alias ueroearum
quae non sunt, id est incorporalium. Hinc quaeri potest, quod etiam
superius breuiter commemoraui, quonam modo definito non inter affecta
numeretur, cuni ornnis definitio ad aliquid esse uideatur? Idcirco enim affecta
esse dicta sunt similitudo, contrarium, et caetera, quoniam semper ad aliquid
referuntur. Quod si etiam definitio refertur ad aliquid, nec est absolutae ac
propriae considerationis, ea quoque inter affecta ponenda est. Sed
occurritur, quoniam ea quae affecta sunt tanquam umbrae quaedam corpus, ita
extra posita non possunt id relinquere ad quod probantur affecta, et aut omnino
substantiam eorum ad quae affecta sunt, non significant ut contrarium, simile
et caetera. Aut si quando designant, una quaedam pars intelligitur esse
substantiae, uelut genus, species, differentia. Non enim genus tota substantia
est speciei, quando, quidem non solum genus speciem format sed differentiae
quoque; nec differentiae totam substantiae continent formam, quandoquidem non
sola differentia speciem perficit sed etiam genus. Ipsa uero species quaedam
generis pars est, at uero definitio, etsi ad aliquid est, tamen totam
substantiam monstrat, atque exsequatur ei rei quam definit, et substantiam
perficit, ut neque extraposita sit, sicut similitudo et contraria, neque pars
eius substantiae sit quam definitione determinat sed potius ipsa substantia. Ac
de hac quidem re satis dictum est. Idem uero de partibus dici potest. Nam
coniunctae partes totum id efficiunt cuius partes sunt. Nota quoque tutum
significat id quod designat, utque omnia coaequantur, et definitum definitioni,
et partes toti, et nota rei quam significatione declarat si non sit aequiuoca,
uel si res quae designatur non sit multiuoca. Sane illud dubitari recte
potest, cur cum dixisset duo genera esse definitionum, non ipsas definitiones
partitus est sed quae definiuntur, id est corporale atque incorporale. Quod
idcirco dictum uidetur, quia definitio cum sit ad aliquid, ut dictum est,
quamdam capit ex his, quorum; substantiam determinat, qualitatem. ATQUE
ETIAM DEFINITIONES ALIAE SUNT PARTITIONUM ALIAE DIUISIONUM; PARTITIONUM, CUM
RES EA QUAE PROPOSITA EST QUASI IN MEMBRA DISCERPITUR, UT SI QUIS IUS CIVILE
DICAT ID ESSE QUOD IN LEGIBUS, SENATUS CONSULTIS, REBUS IUDICATIS, IURIS
PERITORUM AUCTORITATE, EDICTIS MAGISTRATUUM, MORE, AEQUITATE CONSISTAT.
DIVISIONUM AUTEM DEFINITIO FORMAS OMNIS COMPLECTITUR QUAE SUB EO GENERE SUNT
QUOD DEFINITUR HOC MODO: AB ALIENATIO EST EIUS REI QUAE MANCIPI EST AUT
TRADITIO ALTERI NEXU AUT IN IURE CESSIO INTER QUOS EA IURE CIVILI FIERI
POSSUNT. Quoniam definitio ita exsubiecta re quam definit, proprietatem
capit, ut tamen formam propriam non relinquat, idcirco post eas differentias
definitionum, quae ab his rebus tractae sunt quae definiebantur, nunc a propria
forma definitionum differentias tradit. Propria uero forma uniuscuiusque
compositi in suis partibus constat itaque ex partibus definitionum tales differentias
docet, quod aliae definitiones per diuisionem, aliae per partitionem fiunt.
Definitur enim res quamlibet dum aut eius species omnes enumerantur aut partes.
Partes uero a specie quo differant, paulo posterius dicam. Hinc exponenda
arbitror Ciceronis exempla; dat enim partitionis exemplum hoc: Sit enim
propositum definire quid sit ius ciuile, dicemus ita: ius ciuile est quod in
legibus, senatus consultis, rebus iudicatis, iuris peritorum auctoritate,
edictis magistratuum, more, aequitate consistit. Lex igitur est quam populus
centuriatis comitiis ciuerit. Senatus consulta sunt quae fuerint senatus
auctoritate decreta. Res iudicatae sunt quae inter eos qui super aliqua re
ambigunt, sententia iudicum fuerint constitutae, quarum exemplo caeterae quoque
iudicantur. Iurisperitorum auctoritas est eorum qui ex duodecim tabulis, uel ex
edictis magistratuum, ius ciuile interpretati sunt, probatae ciuium iudiciis,
creditaeque sententiae. Edicta nmagistratuum sunt quae praetores urbani uel
peregrini, uel aediles curules iura dixere. Mos est quod in ciuitatem solium
est fieri. Aequitas est quod naturalis ratio persuasit. Haec igitur omnia unam
formam iuris efficiunt, tanquam partes, uelut hominem, caput, brachia, thorax,
uenter, crura atque pedes. Partitio est enim ut ipse ait, quae unamquamque rem
propositam, quasi in membra discerpit. Alteram uero partem definitionis,
quae per diuisionem sit specierum, tali monstrat exemplo. Definit enim quid sit
abalienatio eius rei quae mancipi est, dicens: ABALIENATIO EST EIUS REI QUAE
MANCIPI EST, AUT TRADITIO ALTERA NEXU, AUT CESSIO IN IURE, INTER QUOS EA IURE
CIVILI FIERI POSSUNT. Nam iure ciuili fieri aliquid non inter alios, nisi inter
ciues Romanos fieri potest, quorum est etiam ius ciuile, quod duodecim tabulis
continetur. Omnes uero res quae abalienari possunt, id est quae a nostro ad
alterius transire dominium possunt, aut mancipi sunt, aut non mancipi. Mancipi
res ueteres appellabant, quae ita abalienabantur, ut ea ab alienatio per
quamdam nexus fieret solemnitatem. Nexus uero est quadam iuris solemnitas, quae
fiebat eo modo quo in Institutionibus Caius exponit. Eiusdem autem Caii libro
primo institutionem de nexu faciendo, haec uerba sunt: Est autem
mancipatio, ut supra quoque indicauimus, imaginaria quaedam uenditio, quod
ipsum ius proprium Romanorum est ciuium, eaque res ita agitur, adhibitis
non minus quam quinque testibus Romanis ciuibus puberibus, et praeterea
alio eiusdem conditionis qui libram aeneam teneat, qui appellatur
libripens. Is qui mancipium accipit, aes tenens, ita dicit: Hunc ergo
hominem ex iure Quiritium meum esse aio, isque mihi emptus est hoc aere
aeneaque libra. Deinde aere percutit libram, indeque aes dat ei a quo
mancipium accipit, quasi pretii loco. Quaecumque igitur res, lege
duodecim tabularum, aliter nisi per hanc solemnitatem abalienari non poterat.
Sui iuris autem caeterae res nec mancipi uocabantur, eaedem uero etiam in iure
cedebantur. Cessio uero tali fiebat modo ut secundo commentario idem Caius
exposuit. In iure autem cessio fit hoc modo: apud magistratum
populi Romani, uel apud praetorem, uel apud praesidem prouinciae, is cui
res in iure ceditur rem tenens ita uindicat: Hunc ego hominem ex iure
Quiritium meum esse aio. Deinde postquam hic uindicauerit, praetor
interrogat eum qui cedit an contrauindicet; quo negante, aut tacente, tunc
ei qui uindicauerit, eam rem addicit, idque legis actio uocabatur.
Res igitur quae mancipi sunt, aut nexu, ut dictum est, abalienabantur, aut in
iure cessione. Has autem solemnitates quasdam esse iuris, ex superioribus
Caii uerbis ostenditur. At si res ea quae mancipi est nulla solemnitate
interposita tradatur, abalienari non poterit, nisi ab eo cui traditur,
usucapiatur. Quae cum ita sint, recte definita est secundum diuisionem
abalienatio rei mancipi, scilicet quae aut nexus traditione, aut in iure
cessione perficitur. Nam pura traditione, abalienatio rei mancipi non
explicatur. Species uero has esse, non partes, hinc intelligitur, quia si quis
nexu abalienet rem mancipi, id quod suum fuit, in alterius potestatem pleno
iure transtulit. Quid si etiam in iure cedat, plenum abalienationis ius erat.
Ubi autem plenum nomen eius, quod diuidunt, partes suscipiunt, illud genus, et
has species esse paululum quoquo dialectica cognitione imbutus
intelligit. Quae cum ita sint, diuisit Cicero definitionem in duas
partes, unam quae partium enumeratione fieret, alteram quae per partium
diuisionem, utraque uero definitio partes enumerat. Sed hoc interest, quia haec
quidem species, illa uero membra partitur. Hic suboritur quaestio ualde
difficilis. Nam si definitio est etiam partitio, mirum uideri potest quemadmodum
alter sit a definitione locus, alter a partium enumeratione. Quae res maximam
confusionem praestat. Nam cum superius in locorum enumeratione alter a
definitione locus, alter sit a partium enumeratione propositus, cumque nunc
enumerationem partium, uel diuisionem, definitionis species esse confirmet, non
est dubium quin cum idem sit partium enumeratio quod definitio (idem namque est
species quod genus), idem sit locus a definitione, qui est a partium
enumeratione. Cuius quaestionis ualde difficilis, facilior absolutio est,
si definitionum ipsarum formas ac distantias colligamus. Multis namque modis
fieri definitio potest. Inter quos unus est uerus atque integer definitionis
modus qui etiam substantialis dicitur; reliqui per abusionem definitiones uocantur.
De quibus omnibus paulo posterius integram faciam diuisionem. Nunc in commune
sic disseram: nam quia omnis definitio explicat quid sit id quod definitur.
Explicatio autem fit duobus modis: uno quidem cum pro re minime cognita planius
aliquid affertur; alio uero cum fit quaedam partium enumeratio. Ac de priore
quidem modo, posterius. Nunc uero de enumeratione partium ita dicendum est,
quod omnis definitio, quae per partium enumerationem fit, quasi quaedam partitio
recte intelligitur. Dictum est, id quod in nomine confuse significaretur, in
definitione quae fit enumeratione paritum, aperiri atque explicari. Quod fieri
non potest nisi per quarumdam partium nuncupationem; nihil enim dum explicatur
oratione, totum simul dici potest. Quae cum ita sint, cumque omnis huiusmodi
definitio quaedam sit partium distributio, quatuor his modis fieri potest. Aut
enim substantiales partes explicantur, aut proprietatis partes dicuntur, aut
quasi totius membra enumerantur, aut tanquam species diuiduntur. Substantiales
partes explicantur, cum ex genere ac differentiis definitio constituitur. Genus
enim quod singulariter praedicatur, speciei totum est. Id genus sumptum in definitione,
pars quaedam fit. Non enim solum speciem complet, nisi adiiciantur etiam
differentiae, in quibus eadem ratio quae in genere est. Nam cum ipsae
singulariter dictae totam speciem claudant, in definitione sumptae, partes
speciei sunt, quia non solum speciem quidem esse designant sed etiam genus.
Huius exemplum est: Homo est animal rationale mortale. Cum ergo tota
definitio homini coaequetur, totiusque definitionis partes sint, tum anima, tum
rationale, tum mortale, ipsius hominis partes esse uidentur singula, quae
eiusdem definitionis partes sunt. Haec igitur proprio nomine definitio nuncupatur.
Item est illa definitio, quando in unum accidentia colliguntur, atque unum
aliquid ex his efficitur, et est ueluti quaedam partium enumeratio, non in
substantia sed in quadam accidentium collectione posita; huius
exemplum: Animal est quod moueri propria uoluntate possit. Animali
namque et motus est accidens, et uoluntas, et possibilitas sed haec iuncta
perficiunt animal, non substantialiter constituentia sed per quaedam accidentia
designantia quod animalis quasi quaedam partes sunt, et haec descriptio
nuncupatur. At si non accidentia rei sed quasi membra quaedam dicamus, ex
quibus componitur atque coniungitur, atque inde definitionem facere tentemus,
hoc modo dicimus: Domus est quae fundamento parietibus tectoque
consistit hic membra quaedam sumpta sunt ad definitionem, quibus res tota
coniungitur, et haec uocatur per enumerationem partium definitio. At si
quis ita definiat ut non in definitione ponat membra sed species, a diuisione
specierum definitio nuncupatur: uelut si quis hoc modo pronuntiet: Animal
est substantia quae uel sensu tantum uel sensu et ratione nitatur.
Haec igitur quatuor a se differre manifestum est. In ea namque definitione quae
per substantiales partes efficitur, singulae partes maiores esse uidentur, et
substantialiter uniuersaliores ab ea requam definiunt, ut animal maius est ab
homine. Mortale etiam atque rationale, singula hominis transgrediuntur naturam,
quae in unum conuenientia, eidem quo sigillalatim maiora sunt coaequantur.
Accidentia uero quae in definitione ponuntur, omnino a substantia ratione
disiuncta sunt. In ea uero definitione quae ex partium enumeratione perficitur,
talia sunt quae enumerantur, ut singula totius deflniti nomen capere non
possint, atque idcirco eodem minora sunt, ut fundamenta non possint domus uocabulo
nuncupari: fundamenta enim domo minora sunt, itemque caeterae partes. At uero
in ea definitione quae per diuisionem fit, singulae quidem partes tota ea re
quae definitur minores sunt, totum tamen definitae rei nomen suscipiunt. Ut
rationale nomen capit animalis, eodem modo irrationale. Quibus ita
discretis, quotiescumque ab ea definitione quae per substantiales partes
efficitur, uel ab ea quae per accidentium enumerationem colligitur,
argumentatio fit, a definitione, id est a toto tractum dicitur argumentum. Quoties
uero ab ea definitione quae uel per membrorum enumerationem, uel per specierum
diuisionem perficitur, argumentatio fit, ab enumeratione partium argumentum
ductum esse perhibetur. Sed Tullius quia iam partitionem definitionis ingressus
est, etiam hanc interposuit, quae non ad definitionem sed ad enumerationis
partium locum pertinebat. Huius uero rei argumentum est, quia cum post, de
eisdem locis latius tractans, de enumeratione partium loqueretur, nullam aliam
enumerationem partium posuit, nisi eam quam nunc definitionis speciem
dixit. Nec tamen est arbitrandum omnem partitionem definitionis locum
posse obtinere, ut si quis sic dicat, fundamenta, parietes et tectum domus est,
id non est nec esse. Potest namque esse porticus publicis usibus destinata,
potest item aliud quodlibet, ut theatrum quod propter ampliores sonitus
exhibendos tegi solet. Sed id nunc intelligere nos oportet, posse per
partitionem aliquid saepe definiri, cum partium illa collectio unam rem tantum
possit efficere, ut si nihil esset aliud quod fundamenta, parietes atque tectum
posset habere, nisi domus, iure definitio facta esse uideretur, domum esse quam
fun damenta, parietes tectumque perficiunt. SUNT ETIAM ALIA GENERA
DEFINITIONUM, SED AD HUIUS LIBRI INSTITUTUM ILLA NIHIL PERTINENT; TANTUM EST
DICENDUM QUI SIT DEFINITIONIS MODUS. Hunc locum Victorinus unius
uoluminis serie aggressus exponere et omnes definitionum differentias enumerare,
multas interserit, quae definitiones esse pene ab omnibus reclamantur. Inter
definitiones enim penitet nomina, quod specialiter Aristoteli in omni
doctrinarum genere peritissimo non uidetur; pernegatque in Topicis nomine fieri
definitionem, ueluti si quis dicat: Quid est conticescere? et
respondeatur: Tacere! hae nullo modo definitiones habendae sunt.
Quod etiam ex ipsius M. Tullii definitione approbari potest, per quam definitio
quid esset ostendit; dixit enim esse definitionem orationem quae id quod
definitur explicat quid sit. Sed cum nomen non sit oratio, manifestum est
nomine definitionem non posse constitui, cum praesertim ne omnia quidem qua
oratione promuntur atque aliquid ostendunt, proprio definitionis nomine
designentur, ueluti descriptiones, omnisque alia oratio quae non ex
substantialibus partibus sed ex quolibet alio modo coniunctis efficitur.
Quod ne ipse quidem Victorinus ignorat. Sed uidetur id definitionis loco ipse
sibi Victorinus ad disserendi sumpsisse propositum, quod quoquo modo rem
subiectam posset ostendere. Idcirco enim nomen quoque in definitionum numerum
recepit, quoniam saepe notiore uocabulo fit clarius quod ignotiore antea
prolatum latebat. Idcirco etiam nos superius diximus explicationem fieri duobus
modis: uno quidem cum pro re minime cognita planius aliquid afferatur; alio
uero cum fit per quamdam partium enumerationem: ut ea quidem explicatio in qua
notius aliquid affertur, nominis sit; ea uero quae fit per partium
enumerationem orationis, quanquam etiam in ipsis orationibus semper planius
aliquid atleratur quo notius fiat illud de quo disseritur. Ut igitur nihil
expositio nostra praetermittat, et definitionis proprietas appareat, itaque
omnia in notitiam deducantur, ut nec uera definitio nesciatur, et quae non sit
proprie uere quo definitio sub scientiam cadat, talis definitionum differentia
facienda est. Definitionum enim aliae proprie definitiones sunt, aliae abusiuo
nuncupantur modo. Ac propriae quidem definitiones sunt quae ex genere
differentiisque consistunt, uelut haec: Homo est animal rationale
mortale hic enim animal genus est; rationale uero et mortale
differentiae. Earum uero definitionum quae non proprie sed abutendo
definitiones uocantur, aliae sunt quae singulis nominibus denotantur, aliae
uero quas explicat ac depromit oratio. Atque illarum quidem definitionum
quae tantum nomine designantur, aliae sunt quae *kata lexin*, id est ad uerbum
fiunt, cum pro nomine redditur nomen, uelut si dicat aliquis: Quid est
conticere? et respondeatur: Tacere! uel: Quid est
haurit? Percutit! Aliae uero, quae exempli gratia ponuntur, ut cum
uolumus designare quid est substantia, exempli gratia dicimus: Ut
homo haec uocatur Graece *typos* quae idcirco, ut dictum est, inter
definitiones ponitur, quoniam id quolibet modo aliquid designat eius quod
designatur, et si non proprie, tamen aliquo modo uidetur esse definitio.
Earum uero definitionum quae in oratione consistunt, neque tamen sunt propriae,
multae sunt diuersitates. Quarum est omnium nomen communis descriptio. Harum aliae
fiunt partitione, aliae diuisione, de quibus superius, ut dictum est. Aliae
uero substantiales quidem differentias sumunt sed genus non adiiciunt, atque
haec quidem a Victorino *ennoematike* dicitur, quasi quamdam communem continens
notionem, ueluti si quis dicat: Homo est quod rationali conceptione uiget
mortalitatique subiectum est. Hic igitur genus positum non est sed
differentiae substantiales. Aliae uero sunt quae pluribus quidem
qualitatibus designantur accidentibus tamen ita ut singulae qualitates, etiamsi
non coniungantur, possint tamen quod demonstratur efficere, ut: Homo est
ubi pietas est, ubi aequitas, et rursus ubi malitia et uersutia esse
possunt nam et si caetera nullus adiungat, sufficit ad ostendendum hominem dicere: ubi
pietas inesse potest, uel ubi iustitia, uel caetera haec uocatur
*poiotes*. Aliae uero sunt quae pluribus in unum accidentibus coniunctis
efficiuntur, ut siquis luxuriosum definire uelit, dicens: Luxuriosus est
qui pluribus et non necessariis sumptibus in delicias affluit, et in
libidinem fertur effusior omnia enim coniuncta luxuriosum uidentur
efficere, singula uero minime: haec uocatur *hypographike*. Aliae quoque
fiunt eo modo, ut ad signandam, differentiam proponantur in his rebus quae in
discreto fine coniunctae sunt, ut si dubitet quis, Nero imperatorne an tyrannus
fuerit, dicit eum tyrannum fuisse, quoniam crudelis fueritatque intemperans.
Haec enim adiuncta differentia tyrannum ab imperatore seiungit. Aut etiam si de
eodem tyranno atque rege dubitetur quid uterque sit, iuncta differentia
utrosque designat, ut si temperantia quidem regi uel pietas, tyranno uero et
intemperantia et crudelitas conuenire dicatur: haec uocatur *kata
diaphoran*. Alia quae per translationem dicitur, ut: Adolescentia
est flos aetatis. Illa quoque definitio esse diciturquae fit ex
priuatione contrarii, ut: Bonum est quod malum non est. Illa
quoque Victorinus definitionem ponit, quae tantum propriis nominibus aptari
potest, quae etiam *hypotyposis* appellatur, ut: Aenas est Veneris et
Anchisae filius. Praeter has etiam illa est quae fit per indigentiam
pleni, ut quadrans est cui dodrans deest ut sit as. Ponit etiam
Victorinus inter differentias definitionum illam quoque quae per quamdam laudem
fieri potest, ut: Lex est mens, et animus, et consilium, et sententia
ciuitatis. Quod maxime ratione caret. Non enim laudis modus illi
faciet differentiam. Illa enim consideranda sunt quae in definitione ponuntur,
non quo animo constituta sunt. Quod si recipienda fuit laudandi uoluntas inter
differentias definitionum, cur non uituperandi quoque uoluntas aliam
differentiam definitionis efficiat? Sed hoc apertissime inconueniens et
ueritati uidetur esse contrarium. Fiunt etiam definitiones per
proportionum, ut si quis dicat: Homo est minor mundus. Sicut etiam
mundus ratione regitur, ita quoque quoniam homo multis partibus iunctus, habet
tamen in omnibus rationem ducem, minor mundus dici potest. Fiunt etiam
definitiones a relationibus, cum dicitur: Quid est pater?
respondetur: Cui est filius. Causa quoque solet efficere
definitionem, ut cum dicimus: Quid est dies? respondetur: Sol
super terram causam enim, id est solem, pro re ipsa cuius causa est
interposuimus, atqueita diem definitionem monstrauimus. Hae sunt
definitionum differentiae quas in eo libro quem de definitionibus Victorinus
edidit, annumerauit, quas M. Tullius praetermittit eo nomine, quod eas minime
necessarias existimauerit. Nos uero ne quid perfectio deesset operi, etiam quae
sunt a Cicerone praetermissa subiecimus. SIC IGITUR VETERES PRAECIPIUNT: CUM
SUMPSERIS EA QUAE SINT EI REI QUAM DEFINIRE VELIS CUM ALIIS COMMUNIA, USQUE EO
PERSEQUI, DUM PROPRIUM EFFICIATUR, QUOD NULLAM IN ALIAM REM TRANSFERRI POSSIT.
UT HAEC: HEREDITAS EST PECUNIA. COMMUNE ADHUC; MULTA ENIM GENERA PECUNIAE. ADDE
QUOD SEQUITUR: QUAE MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM PERVENIT. NONDUM EST DEFINITIO;
MULTIS ENIM MODIS SINE HEREDITATE TENERI PECUNIAE MORTUORUM POSSUNT. UNUM ADDE
VERBUM: IURE; IAM A COMMUNITATE RES DISIUNCTA VIDEBITUR, UT SIT EXPLICATA
DEFINITIO SIC: HEREDITAS EST PECUNIA QUAE MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM PERUENIT
IURE. NONDUM EST SATIS; ADDE: NEC EA AUT LEGATA TESTAMENTO AUT POSSESSIONE
RETENTA; CONFECTUM EST. ITEMQUE [UT ILLUD]: GENTILES SUNT INTER SE QUI EODEM
NOMINE SUNT. NON EST SATIS: QUI AB INGENUIS ORIUNDI SUNT, NE ID QUIDEM SATIS
EST, QUORUM MAIORUM NEMO SERVITUTEM SERVIVIT. ABEST ETIAM NUNC: QUI CAPITE NON
SUNT DEMINUTI. HOC FORTASSE SATIS EST. NIHIL [1100D] ENIM VIDEO SCAEVOLAM
PONTIFICEM AD HANC DEFINITIONEM ADDIDISSE. ATQUE HAEC RATIO VALET IN UTROQUE
GENERE DEFINITIONUM, SIVE ID QUOD EST, SIVE ID QUOD INTELLEGITUR DEFINIENDUM
EST. Definitionis ratione proposita diuisaque per singulas partes tum
materiae, tum etiam formae; materiae quidem, cum definitionum esse dixit, uel
earum rerum quae corporeae essent, uel earum quae incorporeae; formae uero cum
aut partitionibus aut diuisionibus definitiones fieri docuit; praetermissisque
caeteris quaecumque ad propositum opus minime pertinerent, nunc quod
utilissimum est, maximeque totam definitionem intelligentiam significare
potest, exsequitur. Id autem est: Qui sit in omnibus, quaecumque
quomodolibet fiunt, definitionis modus. Est autem una atque omnibus communis
definiendi ratio, ut ex communitatibus inter semet iunctis atque compositis in
unam proprietatem rei definitio colligatur. Omnia enim quae communia atque
uniuersalia sunt, si quid eis fuerit adiectum, determinatione minuuntur, et ad
particularitatem redeunt, atque eo ambitu quo concludebant cuncta, cohibentur,
ueluti cum generi adiicitur differentia, et fit species. Nam cum genus per se
proprio ambitu multas species contineat, ei si propriam adiicias differentiam,
minuitur, et in quamdam quodammodo particularitatem redit, ueluti cum dicimus
animal, hoc nomen multa concludit. At si ei rationale adiiciae, faciasque
animal rationale, minus erit a simplici. Minus namque est animal rationale a
simpliciter animali.Ita additio differentiae quod maius fuit in
particularitatem quamdam redegit atque cohibuit. Quoties igitur aliqua
res definienda est, sumitur id quod ei cum pluribus aliis commune est, huic
adiiciuntur differentiae, statimque nec esse est minuatur id quod pluribus
fuerat antecommune, et si hac differentiae additione in tantum modum
decreuerit, ut rei quae definitur fiat aequalis, aiias differentiaa colligere
atque aptare non nec esse erit sed id ipsum quod ita decreuit, ut aequale sit
ei quod definitur, definitionem esse nec esse est. At si adhuc amplius sit ab
ea re quae definitur, quaeramus nec esse est aliam differentiam, qua adiuncta
numerus quidem crescat, uis autem communitatum differentiarum additione
decrescat, atque id hactenus faciendum, quatenus, ut dictum est, ea quae ad
definitionem sumuntur ei quod definiendum est adaequentur. Ut igitur id
non ratione solum, uerum conuenienti quoque clarius fiat exemplo, sumatur res
notissima ad definitionem, id sit homo. Huius igitur ita quaerimus
definitionem: sumimus quod ei cum pluribus aliis commune est, id est animal.
Dicimus igitur hominem esse animal, nondum est definitio, primum quia, ut
dictum est, solo nomine definitio reddi non potest; dehinc quia animal maius
est homine. Ut igitur minuatur animal et homini coaequetur, addimus
differentiam, qua adiuncta, rerum quidem numerus crescit, uis autem rei atque
amplitudo minuitur. Addo igitur rationale, efficioque animal rationale. Minus
est igitur animal rationale quam proprie animal. Dico autem hominem esse animal
rationale. Sed id nondum coaequatur ad hominem, possunt enim esse animalia
rationabilia, sicut Platoni quoque de astris placet, quae homines non sunt.
Addo igitur rursus alium differentiam, si quoquo modo iterum definitio
contrahatur, ut fiat homini quod definitur aequale; adiungo igitur mortale, ac
dico hominem esse animal rationale mortale, id aequatur ad hominem. Nam et qui
homo est, animal rationale mortale est. Dico igitur hominis hanc esse
definitionem quae ex pluribus communibus iunctis unum tamen quiddam homini
proprium atque aequale conficit. Atque in caeteris definitionibus eadem ratio
est. Ut definitiones fiant collectis communitatibus, in unumque
copulatis, cum necesse sit illa copulatione quae communia sunt contrahi atque
in minorem cohiberi modum, eique quod definitur ex communitatibus iunctis
aliquid proprium atque aequale componitur. Hoc est igitur quod ait Cicero, hunc
esse definitionis modum, cum sumpseris ea quae sint ei rei quam definire uelis
cum aliis communia, usque eo persequi, ut proprium efficiatur, quod in nullam
aliam rem transferri possit, ut his uerbis et hac sententia breuiter
significare uideatur hanc esse definitionem quae, ex substantialibus
communitatibus iuncta atque in minorem modum redacta, fit ei rei quae definitur
aequalis. Exempla uero quae ponit huiusmodi suut, unum definiendae
haereditatis, alterum gentilitatis. Haereditatis quidem hoc modo: HAEREDITAS
EST PECUNIA. Commune hoc et multis aliis conueniens quae haereditates non sunt,
ut donationibus, ut furtis, uel quibuslibet aliis pecuniariis rebus quae minime
sunt haereditates. Huic igitur pecuniae addendum aliquid fuit, id est: QUAE
MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM PERVENIT. Haereditas enim pecunia est ad quempiam
alicuius morte perueniens. Sed ne id quidem plenum haereditatis explicat
intellectum. Commune namque est. Et pecuniae mortuorum pluribus teneri modis
possunt, uelut si bello quis uictus est ac spoliatus. Addendum igitur est
aliquid: IURE, ut sit, HAEREDITAS EST PECUNIA QUAE MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM
IURE PERVENIT. Haereditates enim iure capiuntur. Videatur forsitan hoc loco
definitionem posse consistere sed minime; quid enim? si legata pecunia est,
haereditas quidem dici non potest, capta tamen morte alicuius iure pecunia est.
Nam si testamenta iure fiunt, pecunia etiam iure legatur, adiiciendum est
aliquid, id scilicet quo ab haereditatibus legata separentur, ut dicamus,
haereditatem esse pecuniam morte alicuius ad quempiam peruenientem iure, quae
legata non sit. Num satis est definitioni? Minime. Quid enim si meum quidem
dominium sit fundi, uel alicuius pecuniariae rei, alterius uero ususfructus.
Nam morte eius cui ususfructus competit, ad me res illa reuertitur, quae in meo
dominio proprietatis possessione iure tenebatur? neque tamen haereditas esse
potest, adiiciendum igitur est, minime possessione esse relentam, id est, ut
proprietatis possessione id quod ex morte alicuius iure non legatam peruenit
non retineatur. Hoc autem modo possessione retineri potest, si sit nostra
proprietas, et eius qui decesserit ususfructus. Coniuncta igitur omnia in
unum facient haereditatis definitionem hoc modo: Haereditas est pecunia
quae morte alicuius ad quempiam peruenit iure, non legata, neque
possessione retenta. Haec definitio est aequalis haereditati. Nam ut
haereditas pecunia est morte alicuius ad quempiam perueniens iure, neque
legata, neque possessione retenta, ita quaecumque pecunia alicuius morte ad
aliquem iure peruenerit, neque legata sit, neque retenta, hanc haereditatem esse
nec esse est. Sed cum M. Tullius ad eum usque locum definiendo uenisset, ut
diceret haereditatem esse pecuniam quae morte alicuius ad quempiam peruenisset,
iure ait: iam a communitate res disiuncta uidebitur, ut sit explicata definitio
sic: Haereditas est pecunia quae morte alicuius ad quempiam iure peruenit.
Idque ita dictum est, quasi iam plena facta sit definitio. Quid enim est aliud
explicatam esse definitionem, et a communitate disiunctam, nisi perfectam, et
cui desit nihil? Sed rursus quasi non sit explicata definitio, nec a
communitate disiunctam, adiicit: NONDUM EST SATIS: ADDE: NEC EA AUT LEGATA
TESTAMENTO AUT POSSESSIONE RETENTA. Cuius adiectionis haec ratio est, fecit
enim definitionem aliis adiunctis, aliis separatis. Itaque id quod definiebat,
uel his quae adiunxit, uel his quae separauit, a caeterorum omnium communitate
segregauit. Haereditatem enim dixit esse pecuniam, huic addidit, morte alicuius
ad aliquem peruenientem. Separauitque eam ab iis pecuniis, quae non morte
alicuius ad aliquem sed contractu uiuentium peruenirent, addidit IURE, ut ab
his pecuniis separaret quae per uim morte alterius ad quempiam peruenirent. His
igitur duobus, MORTE atque IURE, ea pecunia effecta est, quae a caeteris ita
separetur, ut tamen per legitimum acquireadi modum, non inter utrosque uiuos
sed inter unum uiuum atque alterum mortuum fieret. Haec igitur una separatio ac
caeteris facta est, atque ideo ait explicatam esse definitionem et a
communitate disiunctam. Sed quoniam in ea ipsa pecunia quae morte et iure
ad aliquem peruenit inerant quaedam quae haeredites non essent, harum
separatione plena effecta est haereditatis definitio. Nam cum diceret
haereditatem pecuniam esse, itemque quae morte alicuius ad aliquem peruenisset,
itemque et quae iure, haec omnia efficientia substantiam haereditatis apposita
sunt. Sed quoniam erant in hac collectione quaedam ad quae huius collectionis
intellectus transferri posset, nec tamen essent haereditates, ueluti legatum
aut possessionis retentio, his substractis reliqua fuit haereditas, de qua
intelligi possit pecunia alicuius morte ad quempiam iure perueniens. Non
igitur legatum, aut possessionis retentio substantiam haereditatis efficiunt,
quippe quae impedirent ad eius substantiam demonstrandam, nisi remouerentur. At
uero nec negatio quidem cuiusquam substantiam perficit sed tantum quid non sit
ostendit. Quod si legatum et possessionis retentio haereditatis substantiam non
modo non complent, uerum etiam impediunt atque corrumpunt, nisi fuerint
disiuncta atque seposita; cumque harum negatio nihil ex haereditatis substantia
monstret sed tantum quid non sit ostendat; relinquitur pars superior, id est
pecunia morte alicuius ad quempiam iure perueniens, quae substantiam
haereditaiis ostendat, ea quae sit explicata definitio a caeterisque disiuncta.
Sed quoniam rursus, ut dictum est, quaedam sunt ad quae deriuari huius
definitionis intelligentia possit, idcirco ad discretionem integram designandam
reliqua pars additur. Itaque quoniam ista demonstrant haereditatem, efficiuntque
substantiam iure dictum est, IAM A COMMUNITATE RES DISIUNCTA VIDETUR, UT SIT
EXPLICATA DEFINITIO: HAEREDITAS EST PECUNIA QUAE MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM
PERVENIT IURE. Sed quoniam rursus hic intellectus ad plura intra se posita
poterat conuenire, non immerito additum est: NON EST SATIS et caetera, quae
legatum et possessionis retentionem ab haereditatis definitione seiungunt: ac
de priore quidem haereditatis exemplo haec dicta sint. Ad huius uero
similitudinem etiam secundum tractat exemplum, quod de definitione gentilitatis
est positum. Gentiles enim sunt qui eodem nomine inter se sunt, ut Scipiones,
Bruti et caeteri. Quid si serui sunt? num ulla gentilitas serorum esse potest?
Minime. Adiiciendum igitur: Qui ab ingenuis oriundi sunt. Quid si libertinorum
nepotes ciuium, Romanorum eodem nomine nuncupentur? num gentilitas ulla est? Ne
id quidem, quoniam ab antiquitate ingenuorum gentilitas ducitur; addatur
igitur: Quorum maiorum nemo seruitutem seruiuit. Quid si per adoptionem in
alterius familiam transeat? tunc etiamsi eius gentis ad quam migrauit nomine
nuncupetur, licet ab ingenuis et ab iis ortus parentibus sit qui nunquam
seruitutem seruierint, tamen quoniam in familia gentis suae non manet, ne in
gentilitate quidem manere potest; addendum igitur est: Neque capite sunt
diminuti. Hoc fortasse, inquit, satis est secundum Scaeuola, pontificis
definitionem, nihil enim ulterius adiecit, ut sit definitio gentilium haec:
Gentiles sunt, qui inter se eadem sunt nomine, ab ingenuis oriundi, quorum
maiorum nemo seruitutem seruiuit, et ubi gentilitatem nulla capitis diminutio
destruxit. Haec quoque definitio facta est ex pluribus communitatibus in unum
confluentibus atque unam proprietatem eius rei quae definiebatur, id est
gentilitatis, facientibus. Hic igitur definitionis modus in utroque
genere rerum ualet, siue quae sunt, siue quae non sunt, id est siue
corporalium, siue incorporalium; nam, ut superius ostensum est, id esse Cicero
dicit quod corporale sit, id non esse quod est incorporale. Ac postremo omnium definitionum
modus hic est, ut ex pluribus communitatibus aliqua proprietas fiat. Sed
distant a se definitiones, quod hae que proprie definitiones uocantur ex his
communitalibus coniunguntur quae substantiales sunt. Hae uero quae non uerae
sed abutendo definitions dicuntur, ex accidentibus communitatibus
congregantur. PARTITIONUM [AUTEM] ET DIVISIONUM GENUS QUALE ESSET
OSTENDIMUS, SED QUID INTER SE DIFFERANT PLANIUS DICENDUM EST. IN PARTITIONE
QUASI MEMBRA SUNT, UT CORPORIS CAPUT UMERI MANUS LATERA CRURA PEDES ET CAETERA. IN
DIVISIONE FORMAE, QUAS GRAECI *EIDE* VOCANT, NOSTRI, SI QUI HAEC FORTE
TRACTANT, SPECIES APPELLANT, NON PESSIME ID QUIDEM SED INUTILITER AD MUTANDOS
CASUS IN DICENDO. NOLIM ENIM, NE SI LATINE QUIDEM DICI POSSIT, SPECIERUM ET
SPECIEBUS DICERE; ET SAEPE HIS CASIBUS UTENDUM EST; AT FORMIS ET FORMARUM
VELIM. CUM AUTEM UTROQUE VERBO IDEM SIGNIFICETUR, COMMODITATEM IN DICENDO NON
ARBITROR NEGLEGENDAM. GENUS ET FORMAM DEFINIUNT HOC MODO: GENUS EST NOTIO
AD PLURIS DIFFERENTIAS PERTINENS; FORMA EST NOTIO CUIUS DIFFERENTIA AD CAPUT
GENERIS ET QUASI FONTEM REFERRI POTEST. NOTIONEM APPELLO QUOD GRAECI TUM
*ENNOION* TUM *PROLEPSIN*. EA EST INSITA ET ANIMO PRAECEPTA CUIUSQUE COGNITIO
ENODATIONIS INDIGENS. FORMAE SUNT IGITU] EAE IN QUAS GENUS SINE ULLIUS
PRAETERMISSIONE DIUIDITUR; UT SI QUIS IUS IN LEGEM MOREM AEQUITATEM DIVIDAT.
FORMAS QUI PUTAT IDEM ESSE QUOD PARTIS, CONFUNDIT ARTEM ET SIMILITUDINE QUADAM
CONTURBATUS NON SATIS ACUTE QUAE SUNT SECERNENDA DISTINGUIT. SAEPE ETIAM
DEFINIUNT ET ORATORES ET POETAE PER TRANSLATIONEM VERBI EX SIMILITUDINE CUM
ALIQUA SUAUITATE. SED EGO A VESTRIS EXEMPLIS NISI NECESSARIO NON REMILANI.
SOLEBAT IGITUR AQUILIUS COLLEGA ET FAMILIARIS MEUS, CUM DE LITORIBUS AGERETUR,
QUAE OMNIA PUBLICA ESSE VULTIS, QUAERENTIBUS EIS QUOS AD ID PERTINEBAT, QUID
ESSET LITUS, ITA DEFINIRE, QUA FLUCTUS ELUDERET; HOC EST, QUASI QUI
ADULESCENTIAM FLOREM AETATIS, SENECTUTEM OCCASUM VITAE VELDT DEFINIRE;
TRANSLATIONE ENIM UTENS DISCEDEBAT A UERBIS PROPRIIS RERUM AC SUIS. QUOD
AD DEFINITIONES ATTINET, HACTENUS; RELIQUA VIDEAMUS. Quoniam definitionum
formas in partitiouem diuisionemque, distribuit nequaquam rerum auditor
similitudine turbaretur, diuisionis ao partitionis differentias prodit, ac
primum aliud partes, aliud species esse demonstrat. Species enim saepe partes,
partes uero nunquam species appellantur. Differant uero haec a se, quoniam
partes totius membra coniungunt, species uero genus diuidit atque dispertit. Nam,
ut superius quoque dictum est, partes eius quod copulant non suscipiunt nomen
totius. Neque enim fundamenta uel tectum domus esse dici possunt, nam nisi
omnia quae quid efficiunt iuncta sint, totius uocabulum singula non habebunt;
at uero species etiam singulae generis suscipiunt nomen, ut homo animalis. Quo
fit, ut in his illa quoque differentia possit agnosci, quod partes quidem,
totius partes, species uero non totius, scilicet uniuersalis rei, id est
generis, species esse dicuntur. Differt uero totum a genere, quod genus quidem
uniuersale est totum uero minime, quod probatur hoc modo. Si enim id quod totum
dicitur, ut domus, uniuersale esset, partes quoque eius totius susciperent
nomen; at non suscipiunt, ut saepe monstratum est; quod igitur totum est, uniuersale
non est. Genus uero uniuersale esse manifestum est, quoniam eius nomen deductae
ab eo formae suscipiunt. Item alia differentia. Genus semper speciebus
suis prius est, totum uero suis partibus posterius inuenitur. Nisi enim partes
fuerint, totum non potest coniungi. Quo fit ut si genus pereat, species quoque
perimantur; si species intereat, maneat genus quod in partibus totoque
contrarium est. Nam si pars quaelibet una pereat, totum nec esse est interire;
si uero totum, quod partes iunxerant, dissipetur, partes maneant distributae:
ueluti si domus tecta et parietes, et fundamenta a semetipsis extrinsecus
posita intelligantur, domus quidem non erit quia coniunctio destructa est,
partes tamen manebunt. Propriis igitur nominibus M. Tullius partes quidem
ueluti totius membra appellat, species uero formas. Idcirco, quoniam non satis
ei apta uidetur inflexio casum ab eo nomine quod est species. Et licet plures,
inquit, usurpauerint hoc nomen, tamen quoniam dura est huius nominis per casus
inflexio, cum dicitur speciei, specierum, speciebus, idcirco commoditatem in
dicendo, ut ipse ait, non arbitratus est negligendum, ut formas uocaret in
cuius nominis casibus nulla sentitur asperitas. Et quoniam forma praeter
genus esse non potest (nihil enim praeter suum potest esse principium),
utrorumque apposuit definitiones, dicens genus esse notioncm ad plures
differentias pertinentem. Notio uero intellectus est quidam et simplex mentis
conceptio, quae ad res plures pertineat a se inuicem differentes. Id uero genus
esse manifestum est, quod apertissimo liquet exemplo. Animalis quippe
intellectus ad plures differentias pertinet, ad rationale scilicet atque
irrationale, ad mortale etiam atque immortale, ad ambulabile, reptibile,
uolatile, natabile, et est eorum omnium quae sub his differentiis sita sunt,
genus. Idem uero significat haec definitio quod etiam uetus, haec est
huiusmodi: Genus est quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid est
praedicatur, uelut animal, genus ad plures res specie differentes, id est ad
hominem atque equum, in eo quod quid est praedicatur. Nam interrogantibus quid
est homo uel equus, animal dicitur. Item formae definitionem talem dedit.
Forma est notio cuius differentia ad caput generis, quasi fontem, referri
potest, et recte. Nam si formae a genere deducuntur, species necesse est
referantur ad genus. Si igitur principium quoddam et fons formae genus est, nec
esse est ut intellectus formae ad primordium suum, id est notionem generis,
reuertatur. Intellectus enim hominis refertur ad animal, itemque equi et caeterorum.
Notionem uero appellat quod Graeci *ennoian* dicunt, huius haec est definitio:
Notio est insita et ante percepta cuiusque formae cognitio enodationis
indigens. Haec uero definitio hinc tracta est quod Plato ideas quasdam esse
ponebat, id est species incorporeas substantiasque constantes, et per se ab
aliis naturae ratione separatas, ut hoc ipsum homo quibus participantes
caeterae res homines uel animalia fierent. At uero Aristoteles nullas putat
extra esse substantias sed intellectam similitudinen. plurimorum inter se
differentium substantialem genus putat esse, uel speciem. Nam cum homo atque
equus differant rationabilitate atque irrationabilitate, horum intellecta
similitudo efficit genus. Nam similitudo equi et hominis substantialis in ea
est, quod uterque substant; a est, uterque animatus, uterque sensibilis, quae
iuncta efficiunt animal, est animal namque substantia animata sensibilis.
Igitur hominis atque equi similitudo est animal, quod est genus. Rursus cum
Plato atque Cicero numero accidentibusque distarent, horum similitudo, quae est
humanitas intellecta atque animo formata, species est. Ergo communitas quaedam
et plurimorum inter se differentium similitudo notio est, cuius notionis aliud
genus est, aliud forma. Sed quoniam similium intelligentia est omnis
notio, in rebus uero similibus necessaria est differentiarum discretio, idcirco
indiget adhuc notio quadam enodatione ac diuisione, uelut ipse intellectus
animalis sibi ipse non sufficit. Nam mox animus ad aliquod animal, id est uel
hominem uel equum, deducitur inquirendum, et hominis notio uel ad Tullium, uel
ad Platonem, uel ad quemlibet singularium personarum refertur. Quae cum ita
sint, quoties genus diuiditur in formas, nullam praetermitti oportebit. Est
enim uitium uel maximum, si qua diuidentem forma praeterrat, ueluti si quis ius
diuidere uelit, in legem, morem atque aequitatem nec esse est partiatur. Nam et
lex, et mos, et aequitas, et singula, et in commune, iuris uocabulo subiecta
sunt. Culpat uero illorum inscitiam qui idem species uel formas putant esse
quod partes, conturbarique eos inscitia dicit, quod res a se plurimum
differentes imperite atque improuide distinguere ac segregare non curant.
Sed quoniam de definitione loquebatur, addit aliam speciem definitionis, quam
nos superius enumerauimus, quae per translationem non proprietatis ueritatisque
sed splendoris atque ornatus ratione perficitur, quod poetarum atque oratorum
esse autumat, quibus luculenta oratio curae est. Huius definitionis exemplum a
iure ciuili Tullius petit, atque se non aliter ab exemplis notioribus Trebatio
recessurum quam si necessitae cogat. Per translationem uero definitio est,
ueluti cum Aquilius, littus definire uolens, dicebat littus esse quo fluctus
eluderet. Hoc eludere ab iis translatum est qui agitatione aliqua, causa lusus,
mouentur. Itemque adolescentia est flos aetatis, id ab arboribus ductum est,
quarum fructus flores praecedunt. Et senectus, uitae occasus, id a die ductum
est, qui desinit esse cum sol occiderit: quae translationes a proprietate
discedunt, et quadum similitudine subiecta signant. Est enim translatio quoties
habentis rei nomen, propter alterius rei similitudinem, a re simili nomen
imponitur, ut motus habet proprium nomen, item lusus suo uocabulo nuncupatur.
Sed qui dicit, qua fluctus eluderet, a similitudine agitationis ad fluctuum
motum uocabulum transfert. Ac de definitionibus quidem disputationem
terminans, ad partitiones transitum facit. Sed nunc tertio uolumini satis est
reliqua in posterum differamus. Explicare non possum, mi Patrici, quantas
saepe in difficillimi operis cursu uires afferat amicitiae contemplatio, cum et
iis studiosius componamus, quos reposito penitus amore diligimus, et placare
cupientibus multa sese rerum copia subministret. Huc accedit quod ut quaeque in
mentem uenerint iniudicata atque etiam incastigata promuntur, quandoquidem apud
cari pectoris secretum nihil est periculi proferre quod sentias. Est igitur
mihi, cum tuam beneuolentiam specto, pronum omne atque, ut ita dicam,
uoluptarium, quod in tuae praescriptum iucunditatis impenditur. Sed cum memet
ipse perpendo, uereor ne imparato muneri par esse non possim, et deficientis
culpa in adhortantis cedat iniuriam. Quo fit ut tibi etiam atque etiam
prouidendum sit, ne, tuis ipse moribus emendatus, nostri alicuius erroris
sarcinam feras. Nosti oblatrantis morsus inuidiae, nosti quam facillime in
difficillimis causis liuor iudicium ferat. Quaeso igitur extremam nostro operi
manum communis negotii studiosus imponas, abundantia reseces, hiantia suppleas,
errata reprehendas, sis postremo nostri laboris tuaeque adhortationis assertor,
cum praesertim me securum peractum reddat officium, te amici pudor dignus
possit conuenire, si displicet. Sed haec alias, nunc operis suscepti tramitem
persequamur. Quoniam locorum in ipsis de quibus quaeritur terminis
inhaerentium, alii sunt a toto, alii a partibus, alii a nota, alii ex affectis,
de eo quidem loco qui a toto est, et in definitione est constitutus,
sufficienter disseruit superiore tractatu. Nunc uero de partium enumeratione
dicere instituit, rectam ordinis uiam scilicet insistens, ut non solum exemplo
qualis esset partium enumeratio perdoceret, uerum ratione quoque ostenderet
quomodo partium enumeratione in argumentationibus esset
utendum. PARTITIONE TUM SIC UTENDUM EST, NULLAM UT PARTEM RELINQUAS; UT,
SI PARTIRI VELIS TUTELAS, INSCIENTER FACIAS, SI ULLAM PRAETERMITTAS. AT SI
STIPULATIONUM AUT IUDICIORUM FORMULAS PARTIARE, NON EST VITIOSUM IN RE INFINITA
PRAETERMITTERE ALIQUID. QUOD IDEM IN DIUISIONE VITIOSUM EST. FORMARUM ENIM
CERTUS EST NUMERUS QUAE CUIQUE GENERI SUBICIANTUR; PARTIUM DISTRIBUTIO SAEPE
EST INFINITIOR, TAMQUAM RIUORUM A FONTE DIDUCTIO. [8.34] ITAQUE IN
ORATORIIS ARTIBUS QUAESTIONIS GENERE PROPOSITO, [1108D] QUOT EIUS FORMAE SINT,
SUBIUNGITUR ABSOLUTE. AT CUM DE ORNAMENTIS UERBORUM SENTENTIARUMUE PRAECIPITUR,
QUAE VOCANT *SCHEMATA*, NON FIT IDEM. RES EST ENIM INFINITIOR; UT EX HOC QUOQUE
INTELLEGATUR QUID VELIMUS INTER PARTITIONEM ET DIUISIONEM INTERESSE. QUAMQUAM
ENIM UOCABULA PROPE IDEM VALERE VIDEBANTUR, TAMEN QUIA RES DIFFEREBANT, NOMINA
RERUM DISTARE VOLUERUNT. Sensus huiusmodi est. Rerum quae partibus
coniunguntur, aliae quidem paucas sed facile intelligibiles comprehensibilesque
partes habent, aliae uero plures intellectuque difficiles. In his igitur
partibus quae sunt paucae ac facile sub intelligentiam cadunt, uel maximum
uitium est, si partiendo aliquid relinquatur. In his uero quarum, ut ipse ait,
infinitior numerus est et confusior perspectio, minus uitio sum est, si qua
diuidentem pars in enumeratione praetereat. Fit autem hoc non solum per
eas res quae aliquibus partibus constant, uerum etiam saepe per partes ipsas
quas in distributione partimur, ut si hominis corpus uelimus intellectu ac
ratione per propria membra disiungere, faciemus ita, caput, humeros, manus,
thoracem, uentrem, suras atque pedes. Et quoniam maiores partes sumpsimus ad
diuidendum, idcirco nihil pretermissum esse uidetur; at si minutissimas
particulas persequamur, tum oculi quoque, et labia, et nares, atque aures,
earumque partes persequendae sunt, idque in toto corpore faciendum est,
eodemque modo difficilior erit partitio, cum sit partium numerus infinitior.
Saepe etiam, ut dictum est, res ipsae his partibus iunctae sunt, quarum non sit
facilis inspectio, ut si quis stipulationem et iudiciorum formulas partiatur,
uel etiam si figuras loquendi, quae *schemata* Graeci uocant, diuidi nec esse
sit. Hic igitur si quid praetermissum sit, non erit uitium partientis, quia
partium natura multiplex sa pius obtendit errorem. At si quis genus
diuidat, perniciosum est aliquam praeterire formam, quoniam formarum finita
quantitas est. Nam quia semper in contrarium diuiduntur, aut duae sunt semper
species generis, aut tres, et tunc tres, cum ea tertia, quae sumitur, ex
contrariorum permistione perficitur, utsi colorem diuidamus, dicendum est ita.
Coloris aliud est album, aliud nigrum, aliud medium. Idque medium ex albi
coloris ac nigri commistione coniunctum est, quamuis in quamlibet aliam coloris
speciem transferatur, seu purpurei, seu rubri, seu uiridis. Itaque si tale est
quod diuidis, talesque sunt partes quas ad diuisionem sumis, quas non
difficulter intelligentia comprehendas, uitium erit, si quid omiseris, uelut si
tutelas partiaris. Tutela quippe quatuor fere modis est, aut enim per
consanguinitatis gradum est, aut patronatus iure defertur, aut testamento
patris tutor eligitur, aut urbani praetoris iurisdictione formatur, et sunt
forsitan plures sed nunc istae sufficiunt. Hic igitur et paucae partes, et
facile comprehensibiles. At si stipulationum formulas et iudiciorum
comprehendere uelis, quoniam multae in his partes sunt, non erit uitiosum si
quid omiseris. In promptu uero est exemplum partium, quod de tutelis est
dictum, magis enim ut genus in formas, quam ut totum in partes, tutela diuisa
est. Nam siue per consanguinitatem sittutor, siue patronatus iure, siue
caeteris modis, integrum tutelae ius habet, quod in singulis partibus non solet
euenire, ut totius integrum capiant nomen. Sed ut conueniens uideatur exemplum,
requirendae sunt tales tutelarum partes quae iunctae tutelas efficere possint,
non quae singulae tutelae nomine designentur, quod nescio an quisquam
iurisperitiae professor tales tutelae partes ediderit. Merobaudes uero rhetor
ita intelligendum putauit, ut id quod ait, PARTITIONE SIC UTENDUM EST, ut
nullam partem praetermittas, de diuisione dixerit, id est de una parte
propositae partitionis. Nam et diuisio et per membra distributio, partitio
nuncupatur; in diuisione enim uitiosum est aliquid praetermittere, in partitione
membrorum minime. Ita exemplum de tutelis, ei partitioni accommodatum dedit,
quae est diuisionis. At si diuisionem facias, id est formarum a genere
partitionem, summum est uitium aliquid praetermittere, quoniam cum sit finitus
formarum numerus, si quid omissum sit, inscitia praeteritur: ut si oratorias
quaestiones in formas diuidere uelimus, dicemus omnem rhetoricam quaestionem,
aut de facto esse, aut de qualitate facti, aut de nomine. At si locutionum
figuras sententiarumque distribuam, non erit, ut dictum est, uitium, transire
aliquid, quandoquidem sententiarum inter se atque locutionum figuree et
multiplices, et uaria ratione diuersa. Hic quoque figurarum partes non ita
uidentur accipi posse, quemadmodum totius sed ut species generis; unaquaeque
enim figurarum quae infinitae sunt, uelut figura, generalis species est, quod
possumus intelligere ex his uerbis rhetorum, ubi de elocutione tractatur.
Nullae namque sunt figurarum partes quae figuras iungant, ita ut singulae
figurae nomen uniuersalis figurae non possint admittere. Sed obiici nobis
potest: Et quomodo infinite sunt figurae, si species sunt? Sed respondebo
leuiter: Elocutione mutata, figuram quoque mutari, atque idcirco in potestate
esse dicentis figuras facere, quas is qui tractat difficile, antequam fiant,
potest agnoscere; hae uero non substantialibus quibusdam differentiis
constituuntur sed potius accidentibus explicantur. Unde fit ut tum communis
nominis in significationes partitio fieri uideatur, cum figura diuiditur,
potius quam generis in species; omnia uero significata cuiusque nominis
diuisione includere, difficile est, quia noua plerumque finguntur sed ne id
quidem rerum ratio permittit. Nam unaquaeque figura generalis figurae nomine et
definitione comprehenditur. Quocumque enim modo figura definitur, eadem erit
definitio etiam uniuscuiusque figurae. Quae res unamquamque figuram uniuersalis
figure speciem esse declarat. Uniuoca enim sunt species et genus. Sed est
illud uerius, partitionem figurarum ad elocutionem ipsam Tullium retulisse,
cuius pars quaedam est figura, non species. Variis enim multiplicibusque
figuris elocutio luculenta contexitur. Si quis igitur elocutionem partiri uelit
in figuras, non genus in species sed totum secabit in partes. Quae cum ita
sint, ex hoc quoque apparet quid intersit inter diuisionem partitionemque, cum
partitio interdum talis sit, ut si quid in ea praetermissum sit, nihil afferat
uitii. Diuisio uero formarum talis est, ut in ea non queat aliquid sine culpa
praeteriri. Quod factum est, ut quia res differebant, diuersa etiam uocabula
rebus inter se distantibus uiderentur. MULTA ETIAM EX NOTATIONE SUMUNTUR.
EA EST AUTEM CUM EX VI NOMINIS ARGUMENTUM ELICITUR; QUAM GRAECI *ETYMOLOGIAN*
APPELLANT, ID EST VERBUM EX VERBO VERILOQUIUM; NOS AUTEM NOVITATEM VERBI NON
SATIS APTI FUGIENTES GENUS HOC NOTATIONEM APPELLAMUS, QUIA SUNT VERBA RERUM
NOTAE. ITAQUE HOC QUIDEM ARISTOTELES *OUMBOLON* APPELLAT, QUOD LATINE EST NOTA.
SED CUM INTELLEGITUR QUID SIGNIFICETUR, MINUS LABORANDUM EST DE NOMINE.
[8.36] MULTA IGITUR IN DISPUTANDO: NOTATIONE ELICIUNTUR EX VERBO, UT CUM
QUAERITUR POSTLIMINIUM QUID SIT -- NON DICO QUAE SINT POSTLIMINI; NAM ID
CADERET IN DIVISIONEM, QUAE TALIS EST: POSTLIMINIO REDEUNT HAEC: HOMO NAVIS
MULUS CLITELLARIUS EQUUS EQUA QUAE FRENOS RECIPERE SOLET -- SED CUM IPSIUS
POSTLIMINI QUAERITUR ET VERBUM IPSUM NOTATUR; IN QUO SERVIUS NOSTER, UT OPINOR,
NIHIL PUTAT ESSE NOTANDUM NISI POST, ET LIMINIUM ILLUD PRODUCTIONEM ESSE VERBI
VULT, UT IN FINITIMO LEGITIMO AEDITIMO NON PLUS INESSE TIMUM QUAM IN MEDITULLIO
TULLIUM. SCAEVOLA AUTEM P. F. IUNCTUM PUTAT ESSE [1111B] VERBUM, UT SIT
IN EO ET POST ET LIMEN; UT, QUAE A NOBIS ALIENATE, CUM AD HOSTEM PERVENERINT,
EX SUO TAMQUAM LIMINE EXIERINT, HINC EA CUM REDIERINT POST AD IDEM LIMEN,
POSTLIMINIO REDISSE VIDEANTUR. QUO GENERE ETIAM MANCINI CAUSA DEFENDI POTEST,
POSTLIMINIO REDISSE; DEDITUM NON ESSE, QUONIAM NON SIT RECEPTUS; NAM NEQUE
DEDITIONEM NEQUE DONATIONEM SINE ACCEPTIONE INTELLEGI POSSE. Post
enumerationem partium recto ordinede notatione perpendit. Notatio igitur est
quoties ex nota aliqua rei, quae dubia est, capitur argumentum. Nota uero est
quae rem quamque designat. Quo fit ut omne nomen nota sit, idcirco quod notam
facit rem de qua praedicatur, id Aristoteles *symbolon* nominauit. Ex notatione
autem sumitur argumentum quoties aliquid ex notatione, id est nominis
interpretatione, colligitur. Interpretatio uero nominis *etymologia* Graece.
Latine ueriloquium nuncupatur; *etymon* enim uerum significat, *logos*
orationem. Sed quia id ueriloquium minus in uso Latini sermonis habebatur,
interpretatione nominis notationem Tullius appellat. Ea est huiusmodi, ut
si quaeras quid est postliminium. In qua quaestione non illud uidetur inquiri
quae res postliminio reuertantur, hoc enim in diuisionem caderet, id est earum
omnium rerum enumerationem quae postliminio redeunt postularet. Velut si ita
dicamus: Post liminio redeunt homo, nauis, mulus clitellarius, equus, equa quae
frenos recipere solet, id est domita, nunc enumeratae sunt res quae postliminio
reuertantur. At cum quod sit ipsum postliminii ius quaeritur, potest ex
ipsius nominis interpretatione cognosci. Postliminio enim redit quisquis captus
ab hostibus ad patriam remeauerit; namque dum captiuitatem hostium putitur, ius
ciuis amittit; ornnia uero iura recipit, si postliminio reuertatur. Ergo ex
notatione nominis ita ius postliminii clarescere potest, ut quia semper post id
significatur quod retro relinquitur, postliminii uocabulo quaedam reuersio
significatur, ut Seruius probat, qui ex aduerbio post uim nominis
interpretatur, reliquem uocabuli partem protractionem esse confirmans; nam in
eo quod est postliminium, ex eo quod post dictum est interpretationem nominis
sumit, liminium uero superuacuo putat esse productum. Ad horum nominum formam, meditullium;
prima enim pars medium significat, Tullium uero nihil. Et legitimum et
aeditimum similiter. In utrisque enim, lex ibi, aedes ibi, aliquid, timum uero
nihil omnino designat. Id uero nomen quod est postliminium, Scaeuola P. filius
ex aduerbio post et limine putat esse compositum, nam quia ad idem limen quod
prius reliquit reuertitur is qui postliminio redit, idcirco ex utrisque
significationibus arbitratur nomen esse compositum. Quaecumque enim a nobis
abalienata ad hostem perueniunt, cum a nostro limine exierint, si post ad id em
limen reuertantur, postliminio redeunt. Quomodo etiam Mancini causa
defendi potest, quem cum populus Romanus ob foedus male dictum dedisset, hostes
eum suscipere noluere? qui cum reuersus esset, postliminio rediisse uidebatur.
Idcirco quia si cum hostes recepissent deditum a ciuibus, etiamsi quo modo ab
hostibus effugisset, non uideretur postliminio regressus qui iudicio ciuium
omni libertatis iure fuisset exutus; sed quoniam neo deditio, neo datio, neo
donatio, praeter acceptionem uidetur posse consistere, idcirco qui non sit
susceptus, ne deditus quidem intelligi possit. Recte ergo Mancinus qui non
deditus in hostium, si ea uti uellent, peruenerat potestatem, is cum in patriam
remeauit, iure postliminio rediisse defensus est. SEQUITUR IS LOCUS, QUI
CONSTAT EX EIS REBUS QUAE QUODAM MODO AFFECTAE SUNT AD ID DE QUO AMBIGITUR;
QUEM MODO DIXI IN PLURES PARTES DISTRIBUTUM. CUIUS EST PRIMUS [1112C] LOCUS EX
CONIUGATIONE, QUAM [GRAECI] *SYZYGIAN* UOCANT, FINITIMUS NOTATIONI, DE QUA MODO
DICTUM EST; UT, SI AQUAM PLUVIAM EAM MODO INTELLEGEREMUS QUAM IMBRI COLLECTAM
VIDEREMUS, VENIRET MUCIUS, QUI, QUIA CONIUGATA VERBA ESSENT PLUVIA ET PLUENDO,
DICERET OMNEM AQUAM OPORTERE ARCERI QUAE PLUENDO CREVISSET. Cum locum qui
ipsis de quibus quaeritur inhaereret in quatuor differentius supra distribuit,
a toto, ab enumeratione partium, a nota, ab affectis, quoniam diligenter de
superioribus tribus paulo ante tractauit, nunc quartum locum, id est affecta,
persequitur. Et quoniam locus ab affectis in plurimas differentias soluebatur,
quarum prima a coniugatis proposita est, primum loquitur de coniugatis.
Quae multum a notatione non differunt. Nam qui notatio ex ui nominis trahitur,
itemque coniugatio similitudine uocabuli continetur, aliquod inter se ueluti confinium
tenent. Sed hoc interest, quia notatio expositione nominis, coniugatio
similitudine uocabuli ac deriuatione perficitur. Et quoniam facilis et
intellectu et tractatu locus est, tantum ponere sufficit exemplum, quod est
huiusmodi: Aqua pluuia est quae pluendo colligitur et crescit. Pluendo uero
atque pluuia coniugata sunt. In uno enim eodemque uocabulo diuersus nominum
terminus differentiam facit. Item: ius est aquam pluuiam arceri, id est, ut si
in alicuius agro pluuia aqua colligatur, et in alterius agrum defluat, eaque
uicini frugibus nocitura concrescat, arceat eam suis finibus ille qulid sua
putat inter esse ne defluat. Si fluuius igitur pluuia creuerit, quaeritur an
debeat arceri, respondet, inquit, Mutius, quoniam aqua pluuia a pluendodicta
sit, fluuium quoque, qui pluendo creuerit, aquam esse pluuiam, atque arceri
deberi. CUM AUTEM A GENERE DUCETUR ARGUMENTUM, NON ERIT NECESSE ID USQUE
A CAPITE ARCESSERE. SAEPE ETIAM CITRA LICET, DUM MODO SUPRA SIT QUOD SUMITUR,
QUAM ID AD QUOD SUMITUR; UT AQUA PLUVIA ULTIMO GENERE EA EST QUAE DE CAELO
VENIENS CRESCIT IMBRI, SED PROPIORE, IN QUO QUASI IUS ARCENDI CONTINETUR, GENUS
EST AQUA PLUVIA NOCENS: EIUS GENERIS FORMAE LOCI VITIO ET MANU NOCENS, QUARUM
ALTERA IUBETUR AB ARBITRO COERCERI ALTERA NON IUBETUR. Talis generum
specierumque intelligitur esse natura, ut cum colliguntur uel etiam diuiduntur,
ab indiuiduis per species et genera usque ad maxima generapossitascendi,
itemque a maximis generibus per infra posita genera usque ad indiuidua ualeat
esse descensus. Id uero uno clarum fiet exemplo. Cicero quippe indiuiduum est,
huius species homo, huius genus animal, huius superius genus est corpus
animatum, et si longius ascendas, corpus alterius genus inuenies, si prolixius
egrediare, substantia ultimi loco generis occurrit. Cum igitur multa sint
genera, si cuiuslibet speciei genus assignandum sit, non nec esse erit, inquit,
maxima et principalia genera semper exquirere, uerum eorum quoque aliquid quae
in medio locata sunt oportebit adhibere, illa tamen ratione seruata, ut semper
genus superius sit eo ad quod praedicatur ut genus. Extrema quippe inscitia
est, si dum genus semper natura speciebus propriis superponatur, loco generis
id quod est inferius collocetur. Quocirca uitiosum est, si quis corporis genus
dicat esse corpus animatum. Quo fit ut si ad speciem aptandum est genus, eorum
quae superiora sunt aliquid aptemus, et non erit nec esse ultimum semper genus
adhibere, ut si homini genus proprium praeponere uolimus, non necesse est ut
substantiam praeponamus sed uel corpus, uel corpus animatum, uel quod maxime
fieri oportet animal. Illa enim semper genera sumenda sunt, quaecumque proxima
formis adhaerent, eaque in definitione maxime requiruntur. Sed in
argumentationibus nihil differt utrum proximum eligas, an superius genus. Nam
quoniam ex continenti fit argumentatio, plus continet id quod est superius
genus. Quocirca si de homine aliquid ambigitur, et a genere argumentanrii
sumitur locus, quidquid de animali dicetur, id etiam de homine praedicabitur.
Quo fit ut si quid etiam de animato corpore praedicetur, idem etiam de homine
dici possit. Ut igitur argumentationes ex proximis generibus fiunt, ita etiam
ex alterius constitutis. Sed in his omnibus illud est quod maxime
considerandum uidetur, ne id quod est inferius superiori praeponatur ut genus.
Et sententia quidem talis est. Quod uero ad exemplum attinet, declarabitur hoc
modo: Sit aqua pluuia ea quae deiecta de caelo imbri colligitur, huius species
duplex est; alia enim aqua plouia nocens est, alia non nocens. Nocentis quoque
duplex species est, alia manu, alia uitio. Sed aqua pluuia manu nocens est,
quae ita loco aliquo excipitur, inde profluens uicino noceat, si locus is non
sit naturaliter talis sed manu hominis excipiendae aquae fuerit apparatus;
uitio uero, quoties naturaliter ita sese locus habet, ut excipere aquam possit
et nocere uicino. Si igitur eius aquae quam quis arceri uelit, ne sibi noceat,
a uicino genus uelit exquirere, non nec esse est ab ultimo usque genere
deducere, ut nicat aquae eius quam quis uelit arceri genus esse aquam pluuiam
sed potest id quod inquirit genus paulo inferius inuenire, ut huius aquae quam
arceri desiderat id genus esse dicat, quod est aqua pluuia nocens. Quod si genus
proximum quaerat, illud poterit adhibere quod est aqua pluuia manu nocens, hoc
enim arceri quis cogitur quod manu fit noxium. Quod uero loci forma uel uitio
incommoditatis aliquid apportat, arcere non cogitur. Quod autem diximus,
eius aquae quam arceri oporteat genus esse quam pluuiam manu nocentem, ita
intelligendum est, si aqua quae arceri debet plurima sub se habet indiuidua et
similia, tunc enim demum eius aquae quae arceri debet, aqua pluuia manu nocens
genus esse poterit. Quod si aqua quae arceri dehet in nulla indiuidua
diducatur, ipsa est indiuidua, nec est eius genus aqua pluuia nocens manu sed
species. Quod si cui paululum uidetur obscurius hic si eos commentarios quos de
genere, specie, differentia, proprio, atque accidenti, composuimus, libris quinque
digestos inspexerit, nihil horum poterit incurrere quo caliget. COMMODE
ETIAM TRACTATUR HAEC ARGUMENTATIO QUAE EX GENERE SUMITUR, CUM EX TOTO PARTIS
PERSEQUARE HOC MODO: SI DOLUS MALUS EST, CUM ALIUD AGITUR ALIUD SIMULATUR,
ENUMERARE LICET QUIBUS ID MODIS FIAT, DEINDE IN EORUM ALIQUEM ID QUOD ARGUAS
DOLO MALO FACTUM INCLUDERE; QUOD GENUS ARGUMENTI IN PRIMIS FIRMUM VIDERI
SOLET. Dictum est quemadmodum genus ad speciem debeat aptari, atque in eo
praescriptum est ut nisi id quod est superius adhiberi non debeat. Nunc illud
adiungitur, quemadmodum eius loci, qui a genere ducitur, in argumentatione
commodior usus esse possit. Quotiescumque enim de re aliqua dubitatur, si,
facta generis alicuius diuisione, sub aliqua eius generis parte id de quo
ambigitur potuerimus includere, tunc a genere tractum esse argumentum uidetur
hoc modo: Sit dolus malus, quando aliud agitur, aliud simulatur. Huius ergo si
species diuidantur, et id quod factum esse arguimus alicui earum specierum quae
a dolo malo deductae sunt potuerimus adiungere, quidquid de dolo malo
existimabitur, idem etiam de ea re quani arguimus nec esse est iudicari, et
factum est argumentum a genere. Nam de quo quaeritur species est, et id a quo
sumitur argumentum genus est, scilicet ut si ita contingit dolus malus.
Locus uero hic ab eo qui est a partium enumeratione diuersus est. Nec si
enumeramus partes, id est formas aut species, idcirco non a genere sed ab
enumeratione partium ducitur argumentum. Quoties enim ipsa partium enumeratione
utimur ad argumentationem, tunc ab eadem partitione argumentum tractum esse
dicimus, ut hoc modo: Si fundamenta, et parietes, et tectum habet, et
habitationi est destinatus locus, domus est. Ipsa igitur partitione utentes,
domum esse probauimus. Quoties uero sub genere aliquid collocandum est,
diuisisque partibus alicui eorum quae a genere deducuntur id de quo quaeritur
aggregamus, ut hoc modo: Si Ciceronem animal esse monstremus, dicemus ita: Omne
animal aut rationale est, aut irrationale; sed Cicero rationalis est, animal
igitur est: non partitione utimur principaliter ad argumentum constituendum sed
idcirco genus diuisimus, ut in unaqualibet diuisione id quod nitebamur ostendere
posset includi, id est ut id de quo dubitatur in assumpti continentia generis
redigeretur, itaque de eo per generis naturam fides fieret. Sic ergo a genere
facta argumentatio iure dicetur. Amplius ita partium enumeratio totius
efficere substantiam solet, siue illud uniuersale sit ut genus, siue partium
coniunctione completur ut totum. At uero haec diuisio generis in cuius partes
quaelibet illa res de qua contenditur includenda est, non id efficit, ut totius
substantia constituatur sed ut illud quod approbare quaerimus intra genus
collocetur. Quem argumentationis modum imprimis M. Tullius ualidum esse
confirmat. Illa enim regula satis uera est atque necessaria: Quae de
genere praedicantur, eadem de specie modis omnibus praedicari.
Illud uero quaeri perutile est, cum aliquid de particularibus rebus probetur ex
superposita proxima specie, ut si Socratem rationalem esse approbemus, quoniam
sit homo, cum sit homo rationalis, utrum ex genere an ex forma argumentum
ductum esse arbitremur. Nam si dicamus ex genere, ultima species genus esee non
potest; si ex specie, superpositum genus semper species probare desiderat.
Socrates uero cui fidem praestat homo, quoniam rationalis est, genus hominis
non est sed dicendum est quoniam uelut a genere tractum uidebitur argumentum.
Nam exgenere quasi ex continenti atque ampliori, et de substantia fides
praedicati ducitur: quam sortem ad sua indiuidua speciem nemo dubitat obtinere,
nam et continet ea, et de eorum substantia praedicatur. SIMILITUDO SEQUITUR,
QUAE LATE PATET, SED ORATORIBUS ET PHILOSOPHIS MAGIS QUAM VOBIS. ETSI ENIM
OMNES LOCI SUNT OMNIUM DISPUTATIONUM AD ARGUMENTA SUPPEDITANDA, TAMEN ALIIS
DISPUTATIONIBUS ABUNDANTIUS OCCURRUNT ALIIS ANGUSTIUS. ITAQUE GENERA TIBI NOTA
SINT; UBI AUTEM EIS UTARE, QUAESTIONES IPSAE TE ADMONEBUNT. SUNT ENIM
SIMILITUDINES QUAE EX PLURIBUS COLLATIONIBUS PERVENIUNT QUO VOLUNT HOC MODO: SI
TUTOR FIDEM PRAESTARE DEBET, SI SOCIUS, SI CUI MANDARIS, SI QUI FIDUCIAM
ACCEPERIT, DEBET ETIAM PROCURATOR. HAEC EX PLURIBUS PERUENIENS QUO UULT
APPELLATUR INDUCTIO, QUAE GRAECE *EPAGOGE* NOMINATUR, QUA PLURIMUM EST USUS IN
SERMONIBUS SOCRATES. [10.43] ALTERUM SIMILITUDINIS GENUS COLLATIONE
SUMITUR, CUM UNA RES UNI, PAR PARI COMPARATUR HOC MODO: QUEM AD MODUM, SI IN
URBE DE FINIBUS CONTROVERSIA EST, QUIA FINES MAGIS AGRORUM VIDENTUR ESSE QUAM
URBIS, FINIBUS REGENDIS ADIGERE ARBITRUM NON POSSIS, SIC, SI AQUA PLUVIA IN
URBE NOCET, QUONIAM RES TOTA MAGIS AGRORUM EST, AQUAE PLUVIAE ARCENDAE ADIGERE
ARBITRUM NON POSSIS. EX EODEM SIMILITUDINIS LOCO ETIAM EXEMPLA SUMUNTUR,
UT CRASSUS IN CAUSA CURIANA EXEMPLIS PLURIMIS USUS EST, QUI TESTAMENTO SIC
HEREDES INSTITUISSET, UT SI FILIUS NATUS ESSET IN DECEM MENSIBUS ISQUE MORTUUS
PRIUS QUAM IN SUAM TUTELAM VENISSET, HEREDITATEM OBTINUISSENT. QUAE
COMMEMORATIO EXEMPLORUM VALUIT, EAQUE VOS IN RESPONDENDO UTI MULTUM
SOLETIS. FICTA ENIM EXEMPLA SIMILITUDINIS HABENT VIM; SED EA ORATORIA
MAGIS SUNT QUAM VESTRA; QUAMQUAM UTI ETIAM UOS SOLETIS, SED HOC MODO: FINGE
MANCIPIO ALIQUEM DEDISSE ID QUOD MANCIPIO DARI NON POTEST. NUM IDCIRCO ID EIUS
FACTUM EST QUI ACCEPIT? AUT NUM IS QUI MANCIPIO DEDIT OB EAM REM SE ULLA RE
OBLIGAVIT? IN HOC GENERE ORATORIBUS ET PHILOSOPHIS CONCESSUM EST, UT MUTA ETIAM
LOQUANTUR, UT MORTUI AB INFERIS EXCITENTUR, UT ALIQUID QUOD FIERI NULLO MODO
POSSIT AUGENDAE REI GRATIA DICATUR AUT MINUENDAE, QUAE *HYPERBOLE* DICITUR,
MULTA ALIA MIRABILIA. SED LATIOR EST CAMPUS ILLORUM. EISDEM TAMEN EX
LOCIS, UT ANTE DIXI, ET [IN] MAXIMIS ET MINIMIS QUAESTIONIBUS ARGUMENTA
DUCUNTUR. De similitudinis loco plene aeque expedite disseruit, omnemque
aperuit intellectum, similitudinum diuidens formas, praescripsitque apertissime
quibus magis ex similitudine argumenta contingerent, id est philosophis atque
oratoribus; et enim similitudo persuasionibus uidetur aptissima. Nam quod in
unam uel plures extra eam de qua quaeritur causam cadere solet, facile credi
potest in eam quoque de qua ambigitur conuenire. Idcirco ex similitudine
tractae argumentationes magnum oratoribus usum praestant, philosophis quoque,
quoniam non in omnibus quaestionibus demonstratione utuntur sed aliquoties
uerisimilia colligunt, quo id facilius persuadeant quod nituntur ostendere,
similitudo rerum saepe est inquirenda atque idcirco locus a similitudine
oratoribus maxime philosophisque conducit, non tamen solis. Omnes enim loci
communes sunt cuiusque materiae sed in aliis uberius incidunt, in aliis
angustius inueniuntur. Quocirca cognitis atque ante perceptis locis quaestiones
ipsae quae tractabuntur quibus locis uti debeat solertem animum poterunt
admonere. Omnis uero similitudo duplex est: aut enim ex pluribus
similitudo colligitur, et inductio nuncupatur, quod Graeci *epagoge* nominant,
aut singulae res per similitudinem comparantur. Ac prior quidem huiusmodi
est: Si tutor fidem praestare debet, si socius, si cui mandaueris, si qui
fiduciam acceperit, debet etiam procarator. Nam cum in pluribus rebus fides
praestari debeat, unaque similitudo sit in fide praestanda tam in tutore quam
socio, atque eo cui mandatum sit, eoque qui fiduciam acceperit, debet eadem
similitudo procuratori etiam conuenire. Fiduciam uero accepit cuicumque res
aliqua mancipatur, ut eam mancipanti remancipet, uelut si quis tempus dubium
timens amico potentiori fundum mancipet, ut ei cum tempus quod suspectum est
praeterierit reddat; haec mancipatio fiduciaria nominatur, idcirco quod
restituendi fides interponitur. Hac similitudinis collectione plurimum Socrates
esse usus dicitur, ut in Platonis aliorumque eius sectatorum uoluminibus
inuenitur. Quoties uero una res uni rei per similitudinem comparatur, hoc
modo colligitur argumentum. Regendorum finium arbitri esse dicuntur, qui
finalia litigia discernunt, ut si fuerit de finibus orta contentio, eorum
dirimatur arbitrio. Sed fines in agrorum tantum limitibus esse dicuntur,
arbitri autem finiam regendorum in ciuitate esse non poseunt. Item arceri aquam
in agris tantum dici solet, ubi si ex aliquo loco aqua pluuia colligatur, et
defluens in campos uicini pascua frugesue corrumpat, arbitri arcendae aquae a
magistratibus statuebantur. Quaeritur ergo an in urbe arcendae quae arbitrium
possimus adigere. Et argumentum capitur ex similitudine. Si regendorum finium,
quia solius agri sunt, in urbe arbitrum adigere non possis, ne aquae quidem
arcendae, quia solorum esse uidetur agrorum, in urbe arbitrum possis adigere.
Hic igitur una res uni rei similitudine coniuncta est. Ex eodem etiam
similitudinis loco illa sumi Cicero proponit quae uocantur exempla, ueluti
Crassus in causa Curiana, quae fuit huiusmodi: Quidam praegunutem uxorem
relinquens scripsit haeredem posthumum, eique alium substituit secundum, qui
Curius uocabatur, ea conditione, ut si posthumus, qui intra menses decem proximos
nasceretur, ante moreretur quam in suam tutelam peruenisset, idem ante obiret
diem, quam testamentum iure facere posset, secundus haeres succederet; quod si
ad id tempus peruenisset quo, iam firmo iudicio in suam tutelam receptus, iure
ciuili instituto posset haerede defungi, secundus haeres, id est Curius, non
succederet quae uocatur substituto pupillaris: quaesitum est an ualeret ita
instituta ratio. Crassus, igitur multa protulit exempla, quibus ita institutis
haeres obtinuisse haereditatem, quae exemplorum commemoratio iudices
mouit. Dicit etiam ipsos quoque iurisconsultos uti saepius exemplis,
ueluti cum fingitur, id est imaginatur, propositio, ut casus de quo agitur per
similitudinem intelligatur, hoc modo: Si quis enim iurisperitus adiiciat id quod
non iure contractum est nullius esse momenti, adhibeatque exemplum tale, uelut
si quis rem non mancipi mancipauerit, num idcirco aut rem alienauit, aut se reo
facto potuit obligasse? minime, quod enim non iure contractum est nil retinet
firmitatis. Et alia huiusmodi apud iurisperitos inueniuntur, in quibus oratores
maxime ualent, quibus etiam in tantum fingere licet, ut eorum ratione etiam
mortui saepe ab inferis excitentur, quod Tullius in ea facit oratione qua
Caelium defendit. Sed latior, inquit, est illorum campus, id est oratorum,
quibuss patiari ac deuagari licet: nec idcirco minus caeteris quoque
facultatibus similitudines prosunt, quoniam eadem argumenta maximis minimisque
causis conueniunt; quo fit ut loci quoque argumentorum diuersarum artium quaestionibus
accomodentur. SEQUITUR SIMILITUDINEM DIFFERENTIA REI MAXIME CONTRARIA
SUPERIORI; SED EST EIUSDEM DISSIMILE ET SIMILE INVENIRE. EIUS GENERIS
HAEC SUNT: NON, QUEMADMODUM QUOD MULIERI DEBEAS, RECTE IPSI MULIERI SINE
TUTORE AUCTORE SOLVAS, ITEM, QUOD PUPILLO AUT PUPILLAE DEBEAS, RECTE
POSSIS EODEM MODO SOLVERE. Eiusdem facultatis est similitudines
differentiasque cognoscere; qui enim scit quid sit idem, nosse poterit quid sit
diuersum. Omnis uero similitudoidem aliquid esse constituit, quod enim idem est
secundum qualitatem, id simile esse necesse est. Omnis quippe res aut
substantia eaedem sunt, aut qualitate, aut caeteris praedicamentis. Quod si ita
est, et animus intelligere hoc idem in pluribus praedicamentis potest. Sed eam
hoc ipsum idem in praedicamentis notat, eodem modo in eisdem praedicamentis
quod diuersum est intuetur; sed simile idem est, differentia uero diuersum.
Idem igitur animus eademque intelligentia similitudinem differentiamque
cognoscit. Differentiarum uero multae sunt species, aliae quippe sunt
substantiales, ut homini rationale, aliae non substantiales sed inseparabiles,
ut nigrum Aethiopi atque coruo; aliae uero mobiles neque constantes, ut sedere,
stare, et huiuscemodi caeterae quibus et ab aliis hominibus et a nobis ipsis
saepe distamus. Item differentiae aliae aliquo modo sunt generum diuisibiles,
aliae aliquo modo specierum constitutiuae; sed si a constitutiuis argumentum ducatur,
uelut a genere ducitur. Nam sicut genus continet speciem, ita differentiae
continent species. Sane si differentiae constitutiuae ut genera intelligentur,
fides ab his ad ea aptabitur quae constituunt. Haec enim talium differentiarum
ueluti formae quaedam sunt. Sin uero sint diuisibilis, siquidem ad ea probanda,
id est genera, quae diuidunt, earum ducitur fides, a forma argumentum fieri
uidetur, nam tales differentiae eorum quae diuiduntur formae quaedam
sunt. Quod ei ad ea probanda referuntur quae in contrariam partem genus
diuidunt, tunc proprie a differentia fieri argumentum uidetur, quia contrariae
ueluti differentiae comparantur. Quod uero ad exemplum attinet Tullii
huiusmodi est: Mulieres antiquitus perpetua tutela tenebantur, pupilli item sub
tutoribus agunt; sed mulieribus si quid debitum fuisset, sine tutoris
auctoritate poterat solui, pupillis uero minime. Ergo si quaeratur an id quod
debeatur pupillo cuilibet, renuente tutore, possit exsolui, a differentia
sumitur argumentum, sic: Non sicut mulieri sine tutoris auctoritate debitum
possis exsoluere, eodem modo, nisi auctoritas tutoris accesserit, pupillo
soluere quod debeas possis; illas enim perpetua tutela, etiam prouecta iam
aetate, continentur, illorum tutelae certus annorum numerus terminum facit;
atque idcirco solui pupillo sine auctoritate non poterit. Differt enim persona mulierum
a persona pupillorum, uel in eo quod pupilli non perpetua reguntur tutela,
mulieres uero perpetua; uel quod pupillus nullum suae rei administrandae
utilitatis iudicium habere potest cum sit aliquis mulieribus etsi non firmus,
in explicanda familiaris rei utilitate delectus. DEINCEPS LOCUS EST QUI E
CONTRARIO DICITUR. CONTRARIORUM AUTEM GENERA PLURA; UNUM EORUM QUAE IN EODEM
GENERE PLURIMUM DIFFERUNT, UT SAPIENTIA STULTITIA. EODEM AUTEM GENERE DICUNTUR
QUIBUS PROPOSITIS OCCURRUNT TAMQUAM E REGIONE QUAEDAM CONTRARIA, UT CELERITATI
TARDITAS, NON DEBILITAS. EX QUIBUS CONTRARIIS ARGUMENTA TALIA EXISTUNT: SI
STULTITIAM FUGIMUS, SAPIENTIAM SEQUAMUR ET BONITATEM SI MALITIAM. HAEC QUAE EX
EODEM GENERE CONTRARIA SUNT APPELLANTUR ADVERSA. SUNT ENIM ALIA CONTRARIA,
QUAE PRIVANTIA LICET APPELLEMUS LATINE, GRAECI APPELLANT *STERETIKA*.
PRAEPOSITO ENIM 'IN' PRIVATUR VERBUM EA VI, QUAM HABERET SI 'IN' PRAEPOSITUM
NON FUISSET, DIGNITAS INDIGNITAS, HUMANITAS INHUMANITAS, ET CAETERA GENERIS
EIUSDEM, QUORUM TRACTACTIO EST EADEM QUAE SUPERIORUM QUAE ADVERSA DIXI. NAM
ALIA QUOQUE SUNT CONTRARIORUM GENERA, VELUT EA QUAE CUM ALIQUO CONFERUNTUR, UT
DUPLUM SIMPLUM, MULTA PAUCA, LONGUM BREVE, MAIUS MINUS. SUNT ETIAM ILLA
VALDE CONTRARIA QUAE APPELLANTUR NEGANTIA; EA *APOPHATIKA*; GRAECE, CONTRARIA
AIENTIBUS: SI HOC EST, ILLUD NON EST. QUID ENIM OPUS EXEMPLO EST? TANTUM
INTELLEGATUR, IN ARGUMENTO QUAERENDO CONTRARIIS OMNIBUS CONTRARIA NON
CONVENIRE. Diuisio, differentiae loco, nunc de contrariis tractat. Quare
uti rerum ordo clarius colliquescat, pauca mihi ex Aristotele sumenda sunt quae
ille uir omnium longe doctissimus de hac diuisione tractauit, quanquam M.
Tullius re quidem Aristoteli fere consentit sed ab eo nominum interpretatione diuersus
est. Nam quae Aristoteles opposita, id est *antikeimena* uocat, ea Tullius
contraria nominat; sed haec paulo posterius. Nunc Aristotelis diuisio
consideretur. Oppositorum igitur secundum Aristotelem alia sunt contraria, alia
priuatio et habitus, alia relatiua, alia contradictoria. Contraria quidem, ut
album atque nigrum; habitus uero et priuatio, ut uisus et caecitas, dignitas et
indignitas; relatiua uero, ut pater, filius, dominus, seruus; contradictioria,
ut est dies, non est dies: horum omnium tales inter se differentiae
considerantur. Nam quae contraria sunt, partim mediata sunt, partim uero
medio carent. Mediata sunt, ut album, nigrum, est enim horum medius quilibet
alius color, ut rubeas uel pallidus, et horum contrariorum non nec esse est
alterum semper inesse corporibus. Neque enim omne corpus aut album aut nigrum
est; sed aliquoties in horum medietate est constitutum, ut sit rubrum uel
pallidum. Immediata uero contraria sunt quorum nihil medium poterit inueniri,
ut grauitas et leuitas: horum enim nihil est medium. Nam quae leuia sunt,
sursum feruntur, quae grauia, deorsum. Quod autem sit corpus quod neque sursum
neque deorsum feratur, nihil poterit inueniri. Sed immediata contraria talia
sunt, ut allerum eorum accidere semper inhaereat, ut in propositio superius exemplo.
Necesse est enim omne corpus uel leue esse uel graue, quia leuitas et grauitas
medium non habent, quod praeterea inesse corporibus possit. At ea quae in
priuatione et habitu sunt, ut caecitas et uisus, distant quidem ab his
contrariis quae claudunt aliquam medietatem, quod ipsa medietatem non habent;
ab his uero contrariis differunt quae sunt immediata, quoniam horum
contrariorum alterum semper subiecto inesse est, ut corpori grauitatem uel
leuitatem; priuationem uero et habitum non semper, ut cum sit habitus quidem
uisus, priuatio autem caecitas, non omne quod uideri potest, aut uidet, aut
caecum est: infans quippe nondum editus neque uidet, quia nondum processit in
luce, neque caecus est, quia nondum habuit uisum, quem potuisset amittere. Idem
de catulis dici potest, qui statim nati nequeunt intueri, nam tunc eos nec
caecos dicere possumus, nec uidentes. Et postremo contraria semper in suis
qualitatibus considerantur; priuationes autem, non quod ipsae sint aliquid sed
ex habitus absentia colliguntur neque enim caecitas est aliquid sed a uisus
intelligitur abscessu. Tam uero priuatio quam contrarietas differt a
relationis oppositione, eo quod neque contraria, neque priuatoria simul esse
possunt; idem enim in uno eodemque tempore, uno eodemque in loco album et
nigrum, uidens et caecum esse non poterit; sed relatiua a se nequeunt separari,
neque enim potest esse filius sine patre, nec seruus, si dominus non sit.
Amplius, contraria ad se et priuatoria non referuntur. Nemo enim dicit album
nigri, uel nigrum albi, uel caecitatem uisus, uel uisum caecitatis. Quae uero
in relatione sunt posita in ipsa relationis praedicatione consistunt, ut duplum
dimidii, dominus serui, et caetera ad hunc modum. Tam uero contraria quam
etiam relationes differunt a contradictionibus, quoniam contradictiones quidem
semper in oratione consistunt, et in altera earum parte ueritas, in altera
falsitas inuenitur, contraria uero priuatoria et relationes in simplicibus
partibus orationis inuenitur et in his neque ueritas neque falsitas
inest. Nam cum dico album, nigrum, caecitas, uisus, dominus, seruus,
simplices orationis partes sunt, neque uerum, neque mendacium continentes; in
simplicibus enim partibus orationis ueritas uel falsitas nulla est: cum autem
dico dies est, dies non est, utraeque propositiones, una in affirmatione,
altera in negatione posita, orationes sunt. Sed M. Tullius non tam
propriis nominibus quam notioribus utitur; ait enim contrariorum alia esse quae
aduersa uocantur, alia quae priuantia, alia quae in comparatione sunt, alia
quae aientia et negantia nuncupantur. Sed quae contraria nominat, opposita
uerius dicerentur; quae aduersa dicit, contrariorum melius susciperent nomen;
quae in collatione nominat, ea relatiua uel ad aliquid certius uocarentur: sed
utatur nominibus ut uolet, dum res ipeae certa proprietatis suae ratione
signentur; nos uero in caeteris quos edidimus libris eo nuncupauimus modo, quo
superius in Aristotelis dictum est diuisione. Secundum M. Tullium igitur
contrariorum alia sunt aduersa, ut sapientia, stultitia; alia priuantia, ut
dignitas et indignitas; alia quae cum aliquo conferuntur, ut duplum, simplum;
alia quae appellantur negantia, e contrario aientibus constituta, ut si hoc
est, illud non est. Aduersa igitur sunt quae, sub uno genere posita,
plurimum differunt, ut album, nigrum, quae a se plurimum distant sub uno genere
posito, id est sub colore. Item celeritati tarditas aduersa est, positis
utrisque sub motu, neque enim celeritati debilitus opponenda est, quia
debilitati firma ualetudo contraria est, quod in diuisione omisit Cicero sed
docuit exemplo; illa quoque dicuntur aduersa, quae, in diuersis generibus sita,
plurimum a se discrepare intelliguntur, ut sapientiae stultitia. Illa enim sub
genere boni est, haec uero sub mali, quamquam huiusmodi exemplum priuationem
potius spectare uideatur; nam stultitia priuatio est sapientiae, nec quidquam
est aliud stultitia nisi sapientiae et rationis absentia; sed quae sint quae
priuantia Cicero appellat, posterius demonstrabo. Ex his aduersis hoc modo
sumitur argumentum. Si stultitiam fugimus, sapientiam sequamur; si bonitatem
appetimus, malitiam fugiamus, quanquam malitia quoque, secundum eumdem modum
qui superius dictus est, priuationibus possit adiungi. Priuantia uero
secundum Ciceronem sunt, quae Graece *steretika* appellantur, quae habent eam
partem orationis praepositam, quae cum fuerit adiecta, semper fere aliquid
demit ut ea in praepositio; haec enim syllaba cui fuerit apposita, demit fere
aliquid ex ea ui quam esset res quaelibet habitura, si in syllabam praepositam
non haberet, ut humanitati inhumanitas: in namque praeposita id de quo dicitur
humanitate priuauit, ut dignitas, indignitas; et Tullius quidem ea tantum
priuantia esse confirmat, in quibuscumque syllaba ista praeponitur: priuantium
quippe natura secundum Tullium huius syllabae commemoratione finitur; a
Peripateticis uero accepimus priuationes cum simplicibus nominibus, tum
priuatoriis syllabis efferri, cum simplicibus norninibus, ut caecitas, cum
priuantibus uero syllabis, ut indignitas, inhumanitas. Quocirca, secundum M.
Tullium, caecitas non erit priuatio uisus sed ei aduersum, atque idcirco
forsitan stultitiam inter aduersa numerauit, quoniam non habet in syllabam ex
qua priuationes arbitrantur existere. Ex quibus eodem modo, ut in
superius positis aduersis, argumenta ducuntur: Inhumanitalem auersemur, si
humanitas consectanda est. Illa uero contraria, ut ait Tullius, quae cum
aliquo conferuntur, talia sunt, ut duplum simpli. Id tantumdem est tanquam si
diceret duplum dimidii simplum enim dupli dimidium est, et pater filii; eaque
sunt semper reciprocantia, aliquoties quidem septimo casu, aliquoties uero
genitiuo, nam filius patris est filius et pater filii, haec secundum genitiuum
conuersio est, et duplum simplo duplum est, haec secundum septimum casum; sunt
etiam quae accusatiuo, ut pauca ad multa, et magnum ad paruum. Item
negantia sunt quae in affirmationibus et negationibus posita sunt, ut si hoc
est, illud non est, ueluti si dies est, nox non est, atque hanc oppositionem
Cicero ualde dicit esse contrariam. Ex quibus omnibus secundum superius
dictum modum argumentorum facultas est, nam ex relatiuis contrariis ita sumimus
argumentum si pater est, fieri non potest quin ei filius sit. Ex negantibus
autem quae *apophatika* (ut ait) Graeci uocant, ita: Si sol supra terram
fuit, nox esse non potuit haec enim affirmatio illam perimit negationem;
cur uero haec negantia esse constituerit mirandum est. Nam quae negantia sunt
aientibus opponuntur, et simul esse non possunt, ut diem esse ac diem non esse,
hoc uero consequens est cum ita dicatur, si hoc est, illud non est, ut si dies
est, nox non est. Atque affirmationem negationemque Tullius ualde dicit esse
contrariam sed in hac consequentia nequeunt csse contraria: nam quod est
consequens, contrarium non est. AB ADIUNCTIS AUTEM POSUI EQUIDEM EXEMPLUM
PAULO ANTE, MULTA ADIUNGI, QUAE SUSCIPIENDA ESSENT SI STATUISSEMUS EX EDICTO
SECUNDUM EAS TABULAS POSSESSIONEM DARI, QUAS IS INSTITUISSET CUI TESTAMENTI
FACTIO NULLA ESSET. SED LOCUS HIC MAGIS AD CONIECTURALES CAUSAS, QUAE VERSANTUR
IN IUDICIIS, VALET, CUM QUAERITUR QUID AUT SIT AUT EUENERIT AUT FUTURUM SIT AUT
QUID OMNINO FIERI POSSIT. AC LOCI QUIDEM IPSIUS FORMA TALIS EST. ADMONET
AUTEM HIC LOCUS, UT QUAERATUR QUID ANTE REM, QUID CUM RE, QUID POST REM
EVENERIT. "NIHIL HOC AD IUS; AD CICERONEM" INQUIEBAT GALLUS NOSTER,
SI QUIS AD EUM QUID TALE [1122C] RETTULERAT, UT DE FACTO QUAERERETUR. TU TAMEN
PATIERE NULLUM A ME ARTIS INSTITUTAE LOCUM PRAETERIRI; NE, SI NIHIL NISI QUOD
AD TE PERTINEAT SCRIBENDUM PUTABIS, NIMIUM TE AMARE VIDEARE. EST IGITUR MAGNA
EX PARTE LOCUS HIC ORATORIUS NON MODO NON IURIS CONSULTORUM, SED NE
PHILOSOPHORUM QUIDEM. [12.52] ANTE REM ENIM QUAERUNTUR QUAE TALIA SUNT:
APPARATUS COLLOQUIA LOCUS CONSTITUTUM CONVIVIUM; CUM RE AUTEM: PEDUM CREPITUS,
STREPITUS HOMINUM, CORPORUM UMBRAE ET SI QUID EIUS MODI; AT POST REM: PALLOR
RUBOR TITUBATIO, SI QUA ALIA SIGNA CONTURBATIONIS ET CONSCIENTIAE, PRAETEREA
RESTINCTUS IGNIS, GLADIUS CRUENTUS CAETERAQUE QUAE SUSPICIONEM FACTI POSSUNT MOVERE.
Qui sit ab adiunctis locus breui superius monstrauit exemplo, eo scilicet
quo dixit: Si secundum mulieris nunquam capite diminutae tabulas possessio
bonorum daretur, consequens esss ut secundum quoque puerorum et seruorum
tabulas possessio permitteretur. Sed nunc formam ipsam et quasi subiectum loci
monstrare proponit, quae est huiusmodi: Ab adiunctis enim locus est, cum ex eo
quod proponitur aliquid aliud uel esse, uel fuisse, uel futurum esse
argumentatione colligitur, ut in eo ipse quod dudum posuit exemplo. Approbatur
enim non debere secundum mulieris nunquam capite diminutae tabulas bonorum
possessionem dari, quia si id fuerit positum, id futurum est, ut secundum
puerorum quoque ac seruorum tabulas honorum possessio permittatur. Talia uero
sunt quae dicuntur adiuncta, ut circa rem fere quae quaeritur inueniantur,
neque tamen nec esse sit ei semper adhaerere; et forma quidem huius loci talis
est, ut hanc quoque definitionem possit admittere. Ab ad iunctis locus est cum
ex aliquibus, quae sunt proxima eis de quibus quaeritur rebus, id quod
quaeritur uel inesse, uel esse, uel futurum esse monstratur. Qui locus
est coniecturalibus causae, maxima necessarius. Cum enim de facto quaeritur,
tum si id factum est quod dubitatur, qui uel fuerit, uel sit, uel futurum sit,
considerari solet: multa enim sunt quae unicuique adiuncta rei uariorum euentu
temporum colliguntur. Idcirco enim quid ante rem, quid cum re, quid post rem
euenerit, in coniecturalibus causis inquiritur, quae ab oratoribus tractantur
solis, neque iurisconsultis in huiusmodi negotiis cum rhetorica facultate ulla
communio est, iuris enim peritus de facti qualitate, non etiam de ipsius facti
ueritate respondet. Idcirco quoties ad Gallum peritum iuris facti quaestio
deferebatur, NIHIL AD NOS inquiebat, et ad Ciceronem potius consulentes, id est
ad rhetorem remittebat. In quo Tullius facere ad Trebatium locum miscuit
dicens: Quanquam locus hic ab adiunctis coniecturalibus causis maxime utilis,
nihil consultorum iuris prudentiam iuuet, patiere me tamen, inquit, nullam
suscepti operis partem praeterire, ne si in hoc libro nihil praeter tuae artis
exempla conscripsero, tuae tantum gratiae uideatur addictus. Ab adiunctis
uero locus qui non modo iurisconsultis sed ne philosophis quidem praeter
oratores non patet, trium saepe temporum ratione tractandus est. Nam de facto
si quaeritur, quid uel ante id, uel cum eo, uel post id fuerit nec esse est
uestigari. Ante rem quidem hoc modo, apparatus; uerisimile est enim effecisse
aliquem quod ante efficiendum parauit, colloquia fieri enim potuit ut amauerit,
qui saepe fuerit collocutus. LOCUS, uelut cum ad aliquid faciendum
opportunus locus eligitur. CONSTITUTUM CONVIVIUM, uelut si quis
constituto ante conuiuio in eo fecisse aliquid arguatur capiaturque coniectura
facti, ex eo ipse quod sit conuiuium constitutum, atque horum omnium ante rem
de qua quaeritur exempla sunt. Cum re uero hoc modo: Pedum crapitus, uelut si
isse in quempiam locum aliquis accusetur, pedum crepitu deprehensus esse
probabitur; uel si fuisse adulter in cubiculo ex umbra corporis designetur,
haec cum ipsis de quibus quaeritur inspecta, eisdem tamen intelliguntur
adiuncta. Post rem uero, si quas conscientiae maculas pallor, rubor,
titubatioque prodiderit: restinctus ignis, uelut si clam factum aliquid
exstincto igni uelimus ostendere, ut tutius notitiam submouentibus tenebris
committeretur. Item gladius cruentus peractum facinus monstrat. Haec omnia post
rem facto intelliguntur adiuncta. Et semper ante rem cum re, et post rem,
secundum rationem temporum intelligendum est, neque ita ut in antecedentibus et
consequentibus. Illic enim naturae ratio consideratur. Omnia quippe simul sunt:
nam quod antecedit, si positum sit, statim est id quod consequitur, ut si ponas
hominem statim animal esse nec esse est, nec ante secundum tempus homo dici
potest, post uero subsequi animal, ut ante aliquis apparatus est secundum
tempus, posterior effectus. Itaque illic antecedentia et consequentia nominantur,
hic ante rem, cum re, et post rem. Idcirco quod illud quidem, non secundum
tempus, sed secundum principalitatem naturae secum simul aliquid trahentis
antecedens dicitur, consequens id quod antecedens comitatur. Ea uero quae
secundum temporis priorem posterioremue rationem considerantur, adiuncta,
idcirco ante rem, cum re et post rem coepere uocabulum. DEINCEPS EST
LOCUS DIALECTICORUM PROPRIUS EX CONSEQUENTIBUS ET ANTECEDENTIBUS ET REPUGNANTIBUS.
NAM CONIUNCTA, DE QUIBUS PAULO ANTE DICTUM EST, NON SEMPER EVENIUNT;
CONSEQUENTIA AUTEM SEMPER. EA ENIM DICO CONSEQUENTIA QUAE REM NECESSARIO
CONSEQUUNTUR; ITEMQUE ET ANTECEDENTIA ET REPUGNANTIA. QUIDQUID ENIM SEQUITUR
QUAMQUE REM, ID COHAERET CUM RE NECESSARIO; ET QUIDQUID REPUGNAT, ID EIUS MODI
EST UT COHAERERE NUMQUAM POSSIT. Expedito adiunctorum loco, nunc de
antecedentibus et consequentibus et repugnantibus disserit. Qui locus sit unus
in tria uelut membra diuisus est. M. quidem Tullius loci huius uocabulum
tacuit, mihi autem totus conditionalis appellandus uidetur. Cuius cum
promptissime natura claruerit, nomen quoque ei, quod nos posuimus, recte
inditum manifestius apparebit. Primum igitur singularum partium definitio
prodenda est. Itaque antecedens est, quo posito aliud nec esse est consequatur:
itemque consequens alicuius est, quod esse nec esse est, si illud cuius est
consequens praecessisse constiterit. Repugnans est quod simul cum eo cui
repugnare dicitur esse non possit. Antecedentium igitur, atque
consequentium, et repugnantium, unum esse locum praediximus, qui quomodo sit
unus, paucis ostendam. Primum igitur dum quaereretur quonam modo unus esset
locus a consequentibus, antecedentibus et repugnantibus, dicebatur quoniam
eiusdem mentis esset atque intelligentiae tam consentanea sibimet quam
dissidentia praeuidere, idcirco hunc quoque locum unum uideri. Consentaneorum
namque duae sunt partes, antecedens una, altera consequens. Nam cum altero
praecedente comitatur alterum, illa sibi in ipsa naturae consequentia
consentire necesse est. Repugnantium uero tametsi duae partes sint, unum tamen
est utriusque uocabulum, utraque enim repugnantia nominantur. Duae uero esse,
quae sibimet repugnent, atque a se dissentiant nullus ignorat; sed eo distant,
quod antecedentium et consequentium duo sunt nomina, licet unus sit utriusque
consensus; repugnantibus uero unum nomen est, cum sit unus in utrisque
dissensus, ergo eadem mens, eademque intelligentiae ratio id quod praecedit et
id quod comitatur, intelligit. Neque enim fieri potest ut antecedens
aliquid intelligatur, nisi in eodem quid sit consequens consideretur: eodem quoque
modo nec consequens, nisi appareat quid praecedat; item repugnans aliquod
intelligere nemo potest, nisi intelligat cui repugnet: sed quoniam eadem ratio
potest similia dissimiliaque perspicere, antecedentium uero et consequentium
consensus quidam et per naturae similitudinem concordia est, dissensus uero in
repugnantibus dissimilitudo, nec esse est ut una atque eadem ratio
antecedentium consequentiumque naturam et repugnantium spectet; quo fit ut unus
quoque locus sit eorum quae una intelligentia comprehendit. Sed huic
opponebatur: Cur igitur alium ex similitudine, alium ex contrario locum Marcus
Tullius superius enumerauit? Nam secundum propositam rationem, quoniam
similitudinem et contrarietatem intelligentia una perpendit, unus locus similium
contrariorumque esse debuisset. Sed respondebatur quoniam non eodem modo sibi
antecedentia et consequentia consentire dicuntur, sicut ea qum similia
nuncupantur. In his namque una tantum qualitas inuenitur, et secundum eamdem
qualitatem similia esse dicuntur; at in antecedentibus et consequentibus non
qualitatis similitudo sed quidam naturae consensus est. Et quae similia sunt
sine se esse possunt, antecedentia uero et consequentia sine se esse non
possunt, atque idcirco non uidetur esse consequentium et antecedentium cum
similitudine ulla communio naturae. Quae ratio non ualde uidentur idonea, nec
explicat quod demonstrare conabatur. Illud certe firmissimum esse
constat, quod huius loci tractatus conditionalibus semper propositionibus
accomonodaretur. Conditionalis uero propositio est quae cum conditione
pronuntiat esse aliquid, si aliud fuerit, ueluti cum dicimus: Si dies est,
lucet. Haec igitur rerum consequentia facile in repugnantiam uertitur.
Nam si rebus consequentibus negatio interponatur, ex consequentibus repugnantia
redduntur, hoc modo: Si dies est, lux est. Repugantia sunt
ita: Si dies est, lux non est repugnant enim diem esse et lucem non
esse. Quae repugnantia in conditione consistit. Dicimus enim: Si dies est,
lux non est nam diei contrarium est nox. Consequens uero noctis, lucem
non esse, quare esse diem et non esse lucem repugnat. Argumentum uero
est, hanc repugnantiam in conditione consistere, quia si conditio deficiat,
nulla est repugnantia, hoc modo: Dies est Lux non est utraeque
enim disiunctae propositiones suas sententias gerunt, nec quidquam
intelliguntur habere commune, atque ideo diuersis acceptae temporibus uerae
sunt, nec repugnant. Nam sicut in his propositionibus, dies est, lux est, nulla
est consequentia, quoniam conditio deest, quae propositionem facit connexam sed
utraeque a se disiunctae suam sententiam claudunt, ita in his quibus
proponitur, dies est, lux non est nulla est repugnantia, quoniam seruat suam
utraque separata sententiam. At si his conditio interueniat superiorum quidem,
ita sententia copulatur, ut consequentes fiant, posteriorum uero ita ut
repugnantes, hoc modo: Si dies est, lux est. Haec consequens
propositio ex duabus per conditionem mediam effecta est una. At si sit ita, si
dies est, lux non est, repugnat. Negatum enim quod sequitur repugnare necesse
est. Amplius, argumentum quod ex antecedentibus et consequentibus fit ex
unius propositionis connexae partibus nascitur, nam conditionalis propositionis
connexae una pars est antecedens, alia consequens. Quod si a repugnantibus
argumentum fiat, rursus ab unius propositionis membris tale argumentum nasci
oportebit. Igitur ex his propositionibus, dies est, lux est, una esse non
potest nisi a conditione copulentur, ut unum sit antecedens, aliud consequens,
et ideo in his ex antecedenti et consequenti argumentum esse non potest,
quoniam duae sunt ex illis quoque propositionibus quae sunt, dies est, lux non
est: una esse non poterit, nisi conditionis adiunctione in unius quodammodo
propositionis sententiam reducantur cuius propositionis partes sunt
repugnantes. Nam, ut in connexa propositione una pars antecedens, alia est
consequens, ita in repugnanti utraque pars propositionis a semet inuicem
repugnat ac dissidet. Amplius: repugnans propositio connexae partem
contrariarm tenet, nam ut in illa quod antecedit secum id quod sequitur trahit,
ita in hac propositione partes simul esse non possunt. Contrariae uero
differentiae sub eodem genere poni solent. Si igitur connexa propositio in
conditione est constituta, repugnans quoque in conditione subsistit; quod si et
consequentiam propositionum et repugnantiam conditio facit, non est dubium quin
locus hic iure conditionalis uocetur, ac sit unus positus in conditione diuisis
partibus, id est in antecedentem consequentemque et repugnantem. Connexaeque
namque propositionis una pars antecedens est, alia consequens. Repugnantis uero
propositionis utraque repugnatae dissidet. Itaque connexae propositionis partes
antecedens et consequens sunt, repugnantis uero repugnantes. Nec illud intelligentiam
turbet quod dies est et lux est quadam sibi ratione consentiunt. Item dies est
et lux non est, quasi a se dissentiunt atque discordant, nam connexa est
propositio si cum aliud antecesserit, aliud consequatur. Item repugnans, si uno
posito aliud inferatur, quod esse non potest nisi id ius conditionis efficiat.
Quocirca aperte demonstratum esse arbitror conditionalem hunc locum uocari et recte
unum esse a M. Tullio constitutum. Quomodo uero fiat ab antecedentibus et
consequentibus et repugnantibus argumentum, posterius dicam. Sed quoniam
nullius facultatis alterius est, quid uel quamque rem consequitur, uel quid
cuique repugnet inspicere, nisi dialecticae tantam, quae huius quam maxime rei
perititiam profitetur, idcirco ait hunc esse locum totum dialecticorum.
Qui etiam ab adiunctis longe lateque diuersus est. Primum quod adiuncta prodere
sese atque ostendere inuicem poesunt, non uero perficere atque adimplere
naturam, ueluti ambulationem pedum strepitus significare quidem ac denuntiare
potest, efficere uero non potest. Neque etiam ambulationem efficit pedum
strepitus, nec uero ex neccssitate ambulatio ut sit pedum strepitus auctor est
sed saepe ita ambulatur, ut nullus pedum strepitus exaudiatur; saepe non mulato
loco moueri pedes ac strepere praeter ambulationem queunt; idcirco non semper
inueniunt ad iuncta: propositoque termino quem probare contendimus, saepe ex
adiunctis argumenta deficiant, quia ipsa quoque aliquoties deficere uidentur
adiuncta. Praecedentia uero et consequentia et repugnantia numquam desunt omne
enim quidquid in rebus est, habet quod se aut sequatur naturaliter, aut
praecedat. Est etiam a quo per naturae diuersitatem dissideat, uelut animal
sequitur quidem hominem, praecedit uero substantiam; dicimus enim: Si homo
est, animal est substantiam uero praecedit, cum proponimus, si animal est,
substantia est. Repugnat uero mortuo cum enuntiamus, si animal est,
mortuum non est. Praeterea quae sunt adiuncta temporibus distributae
sunt, ut ante rem, cum re, post rem. Quae uero sunt antecedentia, consequentia,
et repugnantia, quomodolibet modo in temporibus sint, nihil refert. Nam priora
saepe temporibus comitantur, et temporibus posteriora praecedunt, et quae simul
temporibus sunt, alias praecedunt, alias uero consequuntur, ut superius quoque
saepe diximus. Amplius, quae antecedentia sunt et consequentia relinquere
sese non possunt, nec sibi repugnantia cobaerere, et sunt repugnantia
necessario sibimet inconnexa; quae uero sunt adiuncta nihil obtinent
necessitatis, quia et iungi sibimet, et a se separari queunt. Quae cum
ita sint, quaestio difficilis uehementer oboritur, uidetur enim minus
intuentibus nihil hic locus differre his locis qui dicti sunt uel a genere, uel
a specie, uel a contrariis. Nam genus semper speciem sequitur, speciem genus
praecedit, contraria simul esse non possunt. Quae soluenda est hoc modo:
Primum quia non omne consequens genus est, nec omnis species antecedens.
Repugnantia uero ipsa contraria sed contrariorum sunt consequentia, ut in
locorum qui a M. Tullio propositi sunt expositione monstrauimus. De hinc quia
cum a genere fit argumentum, ipsum genus assumitur, eodem quoque modo et
species, cum ab ea aliquid uolumus approbare, cum uero ab antecedentibus
aliquid monstrare contendimus, eo quod in conditionali propositione praecessit
utimur in assumptione, etiamsi non fuerit genus. Item si a consequenti
argumentum fiat, etiamsi species non sil, a consequenti parte conditionalis
propositionis ducitur argumentum, ueluti cum ita dicimus: Si ignis est, leuis
est, ignis anteoedit, leuitas sequitur; sed neutrum neutri est genus aut
species, assumitur itaque, atqui ignis est. Nunc igitur id quod antecedebat
assumpsi, ex quo monstratur conclusio, leuis igitur est. At si ita assumamus
sed non est leuis, id quod consequebatur assumpsi. Concluditur ergo atque
monstratur, non est igitur ignis. Vides igitur ut de his praecedentibus
etconsequentibus nunc biquamur quae in conditionali propositione posita, uel
praecedere uel consequi intelliguntur. Cum uero fit ex genere argumentum,
species quidem est de qua aliquid probare contendimus; genus uero assumimus non
quasi praecedens sed quasi continens, ut quidquid esse consideratur in genere,
id formae quoquo debeat aptari. Genus enim quoad permanet, a sua specie non
recedit: cum uero de specie sumimus argumentum, genus quidem est de quo aliud
quaeritur; sed id laboramus, ut quod de genere conamur ostendere, id ex specie
possit facilius agnosci. Ut cum uxori Fabiae relictum fuisset legatum, si
materfanilias esset, quoniam non conuenit in manum, scilicet, ab in manus
conuentione, quae est species uxoris, uxorem quod est matris familiae genus a
legati iure seiungimus, et legatum ad speciem, id est matremfamilias
deriuamus. Sed illud interius dispiciendum uidetur, num locus ab
antecedentibus et consequentibus totus superuacaneus esse uideatur, cum
quolibet modo fuerint ex eo argumenta composita, a caeteris locis quos superius
deseripsimus non recedant. Nam quodcumque ab antecedentibus et consequentibus
ducitur argumentum, id uel a toto, uel a partibus, uel a coniugatis, uel ab
aliquo reliquorum tractum esse perpenditur hoc modo: Si utilis est acquitas
constituta ad res suas obtinendas, utile est ius ciuile, ad id quod praecedit,
quod sequitur igitur, hoc est a definitione argumentum, scilicet ab assumptione
praecedentis. At si ita dicam: Sed non est utile ius ciuile, non est igitur
utilis aequitas constituta ad res suas obtinendas, hic per consequentis
assumptionem a definitionis loco sumptum est argumentum. Item a partium
enumeratione, si neque censu, neque caeteris non est liber, at censu uel
caeteris, est igitur liber: at non est liber; neque censu igitur, neque
caeteris manumissus est. Sed notandum est quae sit uis uniuscuiusque
argumenti, et quonam modo proferatur. Sunt enim argumenta quae predicatiuis
apta sint syllogismis ut a definitione fiat sic: ius ciuile est aequitas
constituta his qui eiusdem sunt ciuitatis ad res suas obtinendas. Id uero utile
est, utile est igitur ius ciuile. Item a partibus: Qui neque censu neque uindicta,
neque testamento est manumissus, hic ex seruitute liber factus non est; Stichus
uero neque testamento, neque censu, neque uindicta manumissus est; Stichus
igitur liber non est: et in caeteris, eodem modo. Omnia uero quaecumque
per categoricum syllogismum proferri possunt, eadem per conditionalem
syllogismum dici queunt. Omnis namque praedicatiua propositio in conditionalem
uerti potest, hoc modo: omnis homo animal est, praedicatiua est; haec facile
uertitur in conditionalem ita, si homo est, animal est. Non uero omnis
conditionalis in praedicatiuam uerti potest, uelut haec: si peperit, cum uiro
concubuit. Nemo enim dicere potest ipsum peperisse, id esse quod cum uiro
concumbere, quo modo dicimus hominem, id esse quod animal sit. Alia enim
ratio est in his propositionibus quae ita dicuntur, quae peperit, cum uiro
concubuit. Haec enim similis est ei quae dicit, si peperit, cum uiro concubuit
sed praedicatiua propositio id esse subiectum dicit, quod fuerit praedicatum.
Conditionalis uero id ponit, ut si id quod antecedens fuerit necessario
comitetur quod subsequitur. Cum uero praedicatiua est propositio, si ea
uertetur in conditionalem, alia nimirum redditur propositio. Nam cum dicitur,
omnis homo animal est, ipse homo animal esse proponitur; cum uero, si homo est,
aninial est, non id sentitur, ut ille qui homo est, animal sit sed proposito
esse hominem, consequi ut sil animal. Ergo conditionalis syllogismus in
antecessione et consecutione positus, licet per definitionem, et per partium
enumerationem, et per coniugationem, et quolibet alio fiat modo, tamen in
propria forma se continet, et est conditionalis, id est utens propria potestate,
ut quodammodo caetera argumenta suae ueluti naturae uideatur habere subiecta.
Ut cum sit a definitione argumentum, si quidem per praedicatiuam formam factus
fuerit syllogismus, a definitione ductum esse dicatur. Sin uero per hypothesin
facta fuerit argumentatio, conditionalis fit syllogismus, quem discernat
assumptio, utrum ab antecedentis, an a consequentis parte promatur. Quo fit ut
etiamsi per caeteros locos conditionale argumentum proferatur, tamen suam
quamdam habeat formam, quandoquidem in antecessione et consecutione est
constitutus. Tunc enim definitio, partes, coniugatio, et caetera ueluti res
ipsa, fiunt ac non locus, cum uenerint in conditionem; at si conditio cesset,
ex ipsis profectum uidebitur argumentum. Quod si propositionem conditio
copulauerit, ipsa quidem ea sunt quae in propositionibus continentur ueluti
quaedam argumenti partes, locus uero in conditione est constitutus. Atque
haec ita dicta sunt, quasi aliter conditionalis hic locus tractari non ualeat, nisi
eorum aliquem quos praediximus includat: nam potest praeter eos etiam saepe
reperiri, ut cum dicimus: si homo est, risibilis est; si coruus est, niger est.
Hic enim nec definitionem, nec partes, nec ullum alium locum superius
enumeratum continet argumentum. Amplius, facile est in singulis eorum
differentias praeuidere: locus quippe a toto a substantia trahitur, a partibus
uero a rei compositione. Nam in simplicibus terminis tale argumentum non potest
inueniri, a nota, ab interpretatione; a coniugatis; ab eo quod ex eodem
utrumque deducitur; a genere; a continenti; a forma, ab eo quod continetur; a
differentia, ab eo quod discrepat; a similibus, ab eadem qualitate; a
contrariis, ab eo quod a se longe diuersa sunt; a causis, ab his qui efficiendi
uim habent; ab effectis, ab his quae uim alterius efficientiae susceperunt; ab
adiunctis, a uicinitate naturae; a comparatione maiorum, parium uel minorum; a
relatione, ad aequalem uel inaequalem quantitatem. Ab antecedentibus uero longe
alius modus est: constat enim in eo quod si propositum quid fuerit, aliud
quiddam modis omnibus existet, quod consequens appellatur; huius uero
intelligentia consistit in eo quod praecedente quolibet, aliud subsecutum;
repugnantium uero intelligentia consistit, non modo quod neque sequi, neque
antecedere possunt, uerum etiam quod simul esse non possunt, quae in conditione
consistere dubium non est. His igitur ita expeditis, quoniam M. Tullius
proprietatem loci succincte, ut in transcursu potuit, euidenter expressit, nunc
quibus modis eodem loco uti conueniat, adiungit. Quae Topicorum pars, quoniam
diligentius explananda est, finem quarto uolumini faciam, quinto caetera
redditurus. De omnibus quidem hypotheticis syllogismis, Patrici rhetorum
peritissime, plene abundanterque digessimus his libris, quos de eorum
principaliter institutione conscripsimus, a quibus integram perfectamque
doctrinam, cui resoluendi illa uacuum tempus esi, lector accipiet. Sed quia nunc
Ciceronis Topica sumpsimus exponenda, atque in his aliquorum M. Tullius modorum
meminit, dicendum mihi breuiter existimo de his septem conditionalibus
syllogismis, que eorum natura sit, propositionumque contextio, ut cum haec ad
scientiam rite praelibata peruenerint, Tulliana facilius noscantur
exempla. Omne igitur quod in quaestione dubitatur, aut uerisimilibus aut
necessariis probabitur argumentis. Argumentum uero omne aut in syllogismi
ordinem cadit, aut ex syllogismo uires accipit. Syllogismus uero omnis
propositionibus constat. Propositiones autem uel simplices sunt, uel
compositae. Simplices sunt quae simplicibus orationis partibus coniunguntur.
Copulant autem incompositam propositionem simplices orationis partes, nomen et
uerbum, ueluti cum dicimus, dies est, uel dies uernus est, uel dies serenus
est; hic enim omnem uim propositionis nomen connectit et uerbum. Omnis
autem simplex propositio ex subiecto praedicatoque consistit. Subiectum est de
quo dicitur id quod praedicatur. Praedicatum est quod de eo dicitur quod
subiectum est. Verbum autem aliquoties praedicato nomini adiungitur, aliquoties
ipsum praedicatur. Praedicato nomini adiungitur, ut in hac propositione quae
dicit, dies serenus est: dies enim subiectus est, serenus praedicatus; est uero
uerbum sereno adiunctum est, quod diximus esse praedicatum. At si talis sit
propositio, quae solo nomine constet et uerbo, ueluti cum dicimus, dies est,
tunc dies subiicitur, est uerbum sine dubio praedicatur; sine uerbo autem nulla
est propositio: omnis enim propositio uel uera uel falsa est; nisi autem uerbum
sit quodlibet adiunctum, quo esse aliquid aut non esse dicatur, nulla ueritas
aut falsitas in propositionibus deprehenditur. Saepe autem propositiones
etiam ex totis orationibus constant; ut si dicamus: Transire in Africam utile
est Romanis; hic enim subiectum quidem est transire in Africam, utile autem
Romanis praedicatum, est uero praedicato coniungitur. Huiusmodi igitur
omnes propositiones praedicatiuae dicuntur. Praedicatiuae uero appellantur,
quia aliud de alio praedicant. Omnesque qui ex his propositionibus fiunt
syllogismi, secundum enuntiationum suarum formas praedicatiui
appellantur. Ex his autem praedicatiuis propositionibus existunt
compositae propositiones, quarum alia quidem copulatiua coniunctione nectuntur,
ut et dies est, et lux est; alia uero per conditionem fiunt, quae etiam
conditionales enuntiationes uocantur. Hae uero sunt quae coniunctione quadam
partibus interposita ad consequentiam conditionemque ducuntur. Age enim sint
duae propositiones praedicatiuae: una quidem, quae dicit, animal est; alia uero
quae proponit, homo est. His si coniunctis interueniat, faciet, si homo est,
animal est. Vides igitur ut duas praedicatiuas propositiones in unam
conditionem coniunctio copulauerit. Quae cum ita sint, omnes hae propositiones
hypotheticae, id est conditionales, uocantur, atque ex his syllogismi tales
existunt, quibus hypotheticis uel conditionalibus nomen est. Omnis autem
hypothetica propositio, uel per connexionem fit, uel per disiunctionem. Per
connexionem hoc modo, si dies est, lux est. Per disiunctionem ita, aut dies
est, aut nox est. Earum uero quae per connexionem fiunt, aliae ex duabus
affirmatiuis copulatae sunt, ut si dies est, lux est, namque dies est, et lux
est, utraeque aliquid affirmant; aliae ex duabus negatiuis, ut si lux non est,
dies non est, nam lucem non esse, et diem non esse, utraque negatio est; aliae
uero ex affirmatiua negatiuaque coniunctae sunt, ut si dies est, nox non est;
aliae uero ex negatiua affirmatiuaque copulantur, ut si dies non est, nox est:
omnes tamen in connexione positae sunt. Aut enim affirmatio affirmationem
sequitur, aut negatio negationem, eique connexa est, aut affirmationem negatio,
aut negationem affirmatio. Sed ex connexis repugnantes manifestum esi
nasci, namque ubi affirmatio sequitur affirmationem, his si media negatio
interposita sit, repugnantiam facit hoc modo:si dies est, lax est. Hic
affirmatio sequitur affirmationem; at cum dico, si dies est, lux non est, repugnant
inter se partes propostionis connexae, interposita negatione. Item quoties
negatio sequitur negationem, si posteriori propositionis parti negatiuum
dematur aduerbium, repugnantes fiunt hoc modo, si animal non est, homo non est;
haec connexio est ex duabus proposita negatiuis. At si posteriori parti, id est
homo non est, negatiuum detrahatur aduerbium, fiet, si animal non est, homo
est, quod repugnat; at si affirmatio negationem sequatur, siue posteriori parti
negatio iungatur, siue priori auferatur, repugnantes fiunt, hoc modo, si dies
non est, nox est. Hic igitur affirmatio sequitur negationem. Siue igitur
posteriori parti, id est, nox est, negatio copuletur, ut sit ita, si dies non
est, nox non est, siue priori auferatur, ut sit ita, si dies est, nox non est,
repugnantem fieri propositionem nec esse est. Quod si negatio affirmationem
sequatur, et posteriori parti negatiuum aduerbium subtrahatur, propositionis
connexae partes in repugnuntiam cadunt, hoc modo, si uigilat, non stertit. Hic
affirmationem sequitur negatio sed si posteriori parti, id est, non stertit,
negatio dematur, fiet, si uigilat stertit, et erit repugnans. Sed in
connexis atque disiunctis propositionibus illud intelligendum est, quod in
earum partibus et uis quaestionis includitur et argumenti. Age enim dubitetur
an lux sit, idque approbandum sit ex eo quod dies est. Si igitur ita fiat
propositio, si dies est, lux est, ea quidem pars totius propositionis quae
sequitur, id est, lux est, quaestionis est. De ea namque quaeritur an lux sit.
Ea uero quae prior est, id est, dies est, uim continet argumenti. Ex eo enim
quod dies est, lux esse probabitur, et in caeteris quidem uel connexis, uel
disiunctis eadem ratio est. In omnibus uero his quoniam syllogismus atque
argumentatio ad demonstrandam partem alteram quaestionis accommodatur, quaestio
uero omnis dubitabilis est, oportet syllogismos qui acommodantur ambiguae
quaestioni indubitabiles esse atque perspicuos, qui ut tales sint, ex claris
atque apertis et in ueritate patentibus propositionibus necesse est constent;
propositiones uero partim per se notae sunt, partim aliquibus probationibus
indigebunt. Omnis uero syllogismus enuntiatione proposita habet alicuius partis
assumptionem ut quod est in quaestione concludat, hoc modo: Si dies est, lux
est. Ut igitur lucem esse demonstrem, assumam unam partem propositionis
superius constitutae, dicamque sed dies est, ac tunc demum id quod est in
quaestione concludam, lux est igitur, Ergo cum ad syllogismi conclusionem, et
tota enuntiatione in proponendo, et in assumendo parte enuntiationis utamur,
nec esse est ut ea quibus utimur nil habeant dubitabile, siquidem ex his ea
quae sunt ambigua capient fidem. Quod si propositio aliquoties quidem per
se nota est atque perspicua, uliquoties uero probationis indigens inuenitur,
assumptio quoque aliquoties per se uera esse notabitur aliquoties approbationis
indiget adiumentis. Quo fit ut si et propositio et assumptio demonstrandae
sint, quinquepartitus (ut Cicero etiam in Rhetoricis auctor est) syllogismus
fiat, constans ex propositione eiusque probatione, assumptione, eiusdemque
probatione, et conclusione. Quod si neutra sit approbanda. tripartitus sit, ex
propositione scilicet, assumptione et conclusione. Quod si altera earum
demonstranda sit, fit quadripartitus, ex propositione scilicet, et assumptione,
atque unius earum approbatione et conclusione. Conclusionis uero ipsius
probatio praecedente propositione atque assumptione perfcitur. Quae cum
ita sint, cumque omnis propositio hypotheticam connexionem disiunctionemque
diuidatur, in connexis propositionibus aliud dicimus praecedens, aliud
consequens. Idem autem consequens et connexum uocamus, uelut in hac
propositione, si dies est, lux est. Dies est praecedit, annectitur lux est. In
disiunctis autem non est eadem ratio, quia cum ea quae proponuntur simul esse
non possint, nullo modo dicuntur esse connexa. Praecedens autem et subsequens
inde iudicatur, quia quod primum ponitur, iure antecedens uocatur, quod
posterius, iure subsequens dicitur. Ex his igitur propositionibus, quae
connexae sunt, fit primus et secundus hypotheticorum syllogismorum modus.
Addita uero negatione propositioni connexae et ex duabus affirmationibus
copulatae, atque insuper denegata, tertius accedit modus. Ex disiunctis autem
propositionibus diuerso modo assumptionibus tactis, quartus et quintus.
Utrisque uero per negationem compositis, sextus et septimus. Atque hae septem
sunt hypotheticae conclusiones, quarum M. Tullius in Topicis meminit, quarum
omnium deinceps ordo atque exempla subdenda sunt. Primus igitur modus
est, cum in connexa propositione assumpto eo quod praecedit, uolumus monstrare
quod sequitur, itaque esse oportere, ut est in connexione prolatum. In quo si
id quod connexum est ac sequitur, assumpserimus, nullus omnino fit syllogismus.
Huius exemplum tale est: Si dies est, lucet; si igitur lucere
monstremus, assumamus, nec esse est diem esse, hoc modo, atqui dies est;
consequitur ergo ex necessitate, lucere. Quod si lucere assumamus, itaque
dicamus, atqui lucet, non nec esse est diem esse, atque ideo nulla necessitas
euenit conclusionis; ubi uero nulla necessitas est, ne syllogismus quidem
intelligi potest. Est igitur primus modus in hanc formam: Si dies est
lucet; Dies autem est, Lucet igitur. Inueniuntur tamen in
quibus aequo modo ualet assumptio, siue praecedens, siue subsequens assumatur,
ut in homine atque risibili. Si enim homo est, risibile est; Atqui
homo est, Risibile igitur est. Atqui risibile est, Homo igitur
est. Sed in his haec causa est, quia homo atque risibile aequi sunt
termini, atque idcirco uno posito alterum comitari nec esse est. Sed quia hoc
in omnibus non est, idcirco dicimus non esse uniuersale, ut assumpto
posteriore, quod praecedebat probetur. Secundus uero modus est quoties
assumpto posteriore atque consequenti quod antecesserat aufertur, hoc modo, si
dies est, lucet; hic si assumamus non lucere, contrario modo atque in
propositione prolatum est; assumamus dicentes, atqui non lucet, in eo igitur
sequitur non esse diem; quod si diem negemus, id est quod antecedit in
assumptione contrario modo atque positum est in propositione proferamus, non
tollitur quod est connexum, ut si dicamus, atqui non est dies, non mox
sequitur, non lucere, potest enim non esse dies; et tamen lucere. Est igitur
secundi modi forma huiusmodi: Si dies est, lucet; Atqui non
lucet, Non est igitur dies. Primus igitur modus assumit quod
praecessit, ut approbet quod connexam est; non potest uero assumere quod
connexum est, ut approbet quod praecessit. Secundus autem assumit econtrario
quod sequitur, ut quod praecessite uertat; non potest autem econtrario assumere
quod praecessit, ut id quod connexum est auferatur. Tertius modus est,
cum inter partes connexae atque ex duabus affirmationibus copulatae propositionis
negatio interponitur, eaque ipsa negatio denegatur, quae propositio*hyperapophatike*
Graeco sermone appellatur, ut in hac ipsa quam superius proposuimus, si dies
est, lux est; si inter huius propositionis partes negatio interueniat, fiet hoc
modo, si dies est, lux non est; hanc si ulterius denegemus, erit ita, non si dies
est, lux non est: cuius propositionis ista sententia est, quia si dies est,
fieri non potest ut lux non sit. Quae propositio superabnegatiua appellatur,
talesque sunt omnes in quibus negatio proponitur negationi, ut non est dies, et
rursus, Necuon Ausonit Troia gens missa coloni. In hac igitur si priorem
partem, id est diem esse, in assumptione ponamus, consequitur etiam lucem esse
hoc modo: Non si dies est, lux non est; Atqui dies est, Lux
igitur est. Qui modus a superioribus plurimum distat, quod in eo modo qui
sit ab antecedentibus, ponitur antecedens, ut id quod sequitur astruatur. In
modo uero qui sit a consequentibus, perimitur consequens, ut id quod
praecesserat, auferatur. In hoc uero neutrum est, nam neque antecedens ponitur,
ut quod sequitur, confirmetur, nec interimitur subsequens, ut id quod
praecesserat, euertatur; sed ponitur antecedens, ut id quod sequitur,
interimatur. Hic autem propositionis modus partes inter se suas continet
repugnantes, aduersum quippe est ac repugnat, si dies est, non esse lucem. Sed
idcirco rata positio est, quia consequentium repugnantia facta per mediam
negationem alia negatione destruitur, et ad uim affirmationis omnino reuocatur.
Nam quia consequens esse intelligitur, ac uerum, si dies est esse lucem, repugnat
ac falsum est, si dies est, non esse lucem, quae denegata rursus uera est ita,
non si dies est, lux non est, et si consimilis affirmationi, si dies est, lux
est, quia facit affirmationem geminata negatio. Similiter uero fiunt ex
repugnantibus propositionis partibus argumenta, uel si duabus negationibus, uel
si negatione et affirmatione, uel si affirmatione et negatione iungatur.
Quomodo uero fiant ex talibus connexis repugnantes, superius dictum est. Fit
uero ex ea propositione quae duabus iungitur negatiuis ex repugnantibus
argumentum hoc modo: sit propositio, si non est lux, dies non est; fiat
repugnans ita, si non est lux, est dies; huic iungamus negationem ut fiat uera
ita: Non si lux non est, dies est; Atqui lux non est, Dies
igitur non est. Item fit ex negatione atque affirmatione propositio haec:
si dies non est, nox est; huic additur ex posteriore parte negatio, et fit ita:
si dies non est, nox non est; fit repugnans, haec nihilominus abnuatur ut sit
uera, non si dies non est, nox non est, assumimusque, atqui dies non est
concludimus, nox igitur est. Item ex eadem propositione, quae ex negatiua
affirmatiuaque coniungitur et dicit: si dies non est, nox est, si a priori
parte negatio subtrahatur, fiet repugnans, hoc modo: si dies est, nox est; huic
apponatur negatio, ut uera esse possit, hoc modo: non si dies est, nox est,
assumamque, atqui dies est, concluditur, nox igitur non est. At si sit ex
affirmatione et negatione propositio coniuncta, uelut haec: si uigilat non
stertit, demitur posteriori parti negatio, ut fiat ita: si uiglat stertit; sed
haec repugnat. Tota rursus propositio denegatur, ut fiat uera hoc modo: non si
uigilat stertit; assumimus, at qui uigilat; concludamus necesse est, non
stertit igitur. Sed hae quatuor ex repugnantibus conclusiones in tertio
modo consistere intelliguntur, quarum quidem Tullius tres commemorauit, unamque
praecepto docuit, eam quam propositio talis efficit, quae duabus iungitur
affirmatiuis; duas uero exemplo, scilicet eam quae ex tali propositione
nascitur, quae duae copulant negationes, et eam quae ex propositione tali
connexa procreatur, quae ex affirmatione negationeque consistit. Reliquam uero
praeteriit, quod illarum similitudine etiam haec in tertium conclusionis modum
uidebatur incidere. Quartus modus in disiunctione consistit, hoc
modo: Aut dies est, aut nox est; Sed dies est, Nox igitur non
est. Huius haec ratio est, quia disiunctiua enuntiatione proposita, prior
pars eius assumitur affirmando, ut subsequens auferatur; ex ea enim
propositione quae dicit, aut dies est, aut nox est, assumimus, atqui dies est,
scilicet affirmantes esse diem, quam assumptionis affirmationem consequitur non
esse noctem. Quintus modus est, cum in eadem disiunctiua propositione, id
quod primum est, negando assumitur, ut id quod est posterius inferatur, hoc
modo aut dies est, aut nox est, atqui dies non est, per negationem scilicet
facta est assumptio, consequitur esse noctem. Sextus uero modus ac
septimus ex quarti et quinti modi disiunctiua propositione deducuntur, una
negatione uidelicet adiuncta, et disiunctiua propositione detracta, additaque
coniunctiua his propositionibus quae superius in disiunctione sunt positae, hoc
modo: non et dies est et nox est. Dudum igitur in disiunctiua ita fuit, ut aut
dies est, aut nox est. Ex hac igitur propositione sublata, aut coniunctione,
quae erat disiunctiua adlecimus, et quae copulatiua est, praeposuimusque
negationem. Itaque fecimus ex partibus disiunctiuae propositionis copulatis, addita
negatione, propositionem sexti atque septimi modi, quae est, non et dies est et
nox est, in qua is assumatur esse diem, noctem non esse consequitur ita, atqui
dies est, non est igitur nox. Septimus uero modus est, cum prima pars
prorositionis negando assumitur, ut posterior subsequatur, hoc modo: Non
et dies est et nox est; Atqui dies non est, Nox igitur est.
Atque hic modus propositionum in solis his inueniri potest, quorum alterum esse
nec esse est, ut diem uel noctem, aegritudinem uel salutem, et quidquid medium
non habet. Quo autem modo omnium syllogismorum conditionalium ueritas
sese habeat, his diligentissime expliculmus libris quos de hypotheticis
conscripsimus syllogismis. Nunc uero, non quod de his perfectior consideratio
inueniri potest apposuimus sed id quod ad explanandum M. Tullii sententiam
poterat accommodari. Ut igitur cuncta quae diximus breuiter colligantur,
primus modus est quoties in connexa propositione primum ut in propositione
locatur, assumitur, ut consequatur secundum, hoc modo: Si dies est, lux
est, Atqui dies est, Lux igitur est. Secundus modus est quoties
in connexa propositione secundum econtrario assumitur quam in propositione
collocatum est, ut id quod primum est auferatur, hoc modo: Si dies est,
lux est; Atqui non est lux, Non est igitur dies. Tertius
modus estcum connexa propositionis partes ex affirmationibus iunctae, negatione
diuiduntur, totique propositioni negatio rursus adiungitur, assumiturque, quod
prius est, sicut in propositione est enuntiatum, ut econtrario concludatur
secundum quod in propositione prolatum est, hoc modo: Non si dies est, lux
non est; Atqui dies est, Lux igitur est. Hic ergo posito quod
praecedebat, id est esse diem, euersum est quod sequebatur, id est, non esse
lucem; negatione quippe affirmatio omnis euertit, uel cum connexae
propositionis ex negationibus iunctae, secundae parti negatio detrahitur,
totaque propositio denegatur, positaque priore propositionis parte, interimitur
quod subsequebatur, hoc modo: non si lux non est, dies est, atqui lux non est,
dies igitur non est; uel si connexae propositionis ex negatione atque
affirmatione compositae, secundae parti negatio iungatur, eaque insuper
denegetur, ponaturque quod prius est, ut id quod sequitur auferatur, hoc modo:
non si dies non est, nox non est atqui dies non est, nox igitur est; uel si in
eadem propositione, quae ex negatione atque affirmatione copulata est, priori
parti negatio subtrabatur, eaque insuper denegetur, ponaturque quod primum est,
ut id quod sequitur auferatur, hoc modo: non si dies est, nox est, atqui dies
est, nox igitur non est; uel si connexae propositionis ex affirmatione et
negatione copulatae, posteriori parti denegatio dematur, totaque insuper
denegetur, positoque priore, id quod sequitur interimatur, hoc modo: non si
uigilat sterlit, atqui uigilat, non stertit igitur. Atque haec omnia in
tertio modo esse intelliguntur, atque ex repugnantibus fiunt, et semper id quod
antecedit, ponitur, ut id quod sequitur, auferatur. Nam non sicut non
propositione conditionali quia negata repugnantia partium fit uera, prior pars
ponitur, siue affirmatiue, siue negatiue, ita eam reddit assumptio. Sed ut
prior pars fuerit assumpta, reliqua contraria enuntiatione concluditur. Nam si
assumptio fuerit affi rinatiua, erit negatiua conclusio. Si assumptio negatiua,
erit conclusio affirmatiua. Quartus modus est cum in disiunctiua
propositione primum ponitur, ut auferatur secundum hoc modo: Aut dies
est, aut nox est; Atqui dies est, Nox igitur non est. Quintus
modus est quoties in disiunctiua propositione auferatur quod prius est, ut
ponatur secundum, hoc modo: Aut dies est, aut nox est; Non est autem
dies, Nox igitur est. Sextus modus cum his rebus quae in
disiunctionem uenire possunt, id est contrariis uel repugnantibus medictate
carentibus, negatio praeponitur, et copulatiuae coniunctiones adiunguntur,
poniturque quod primum est, ut id quod est subsequens auferatur, hoc modo: Non
et dies est et nox est; Dies autem est, Nox igitur non
est. Septimus modus est cum in eadem propositione aufertur id quod
praecedit, ut ponatur id quod consequitur, hoc modo: Non et dies est et
nox est; Atqui dies non est, Nox igitur est. His igitur ita
praedictis ad Ciceronis uerba ueniamus. CUM TRIPERTITO IGITUR
DISTRIBUATUR LOCUS HIC, IN CONSECUTIONEM ANTECESSIONEM REPUGNANTIAM, REPERIENDI
ARGUMENTI LOCUS SIMPLEX EST, TRACTANDI TRIPLEX. NAM QUID INTEREST, CUM HOC
SUMPSERIS, PECUNIAM NUMERATAM MULIERI DEBERI CUI SIT ARGENTUM OMNE LEGATUM, UTRUM
HOC MODO CONCLUDAS ARGUMENTUM: SI PECUNIA SIGNATA ARGENTUM EST, LEGATA EST
MULIERI. EST AUTEM PECUNIA SIGNATA ARGENTUM. LEGATA IGITUR EST; AN ILLO MODO:
SI NUMERATA PECUNIA NON EST LEGATA, NON EST NUMERATA PECUNIA ARGENTUM. EST
AUTEM NUMERATA PECUNIA ARGENTUM; LEGATA IGITUR EST. AN ILLO MODO: NON ET
LEGATUM ARGENTUM EST ET NON EST LEGATA NUMERATA PECUNIA. LEGATUM AUTEM ARGENTUM
EST; LEGATA IGITUR NUMERATA PECUNIA EST? Eum locum qui ex antecedentibus,
consequentibus et repugnantibus esset, unum recte uideri, eumque in conditione
esse positum, sed trina partiione distribui, superius explicatum est; idque M.
Tullius euidentius notat dicens, intellectum quidem eius considerationemque in
conditione positam unam esse sed per argumentationis tractationem tripartito
diuidi. Cuius rei per primum ac secundum et tertium hypotheticorum
syllogismorum modum, sicut paulo superius diximus, exempla subiecit. Quae
quoniam implicatiora uidentur quam ut primo statim auditu comprehendantur,
uisum paulisper est apertioribus exemplis animum lectoris imbuere, ut in
facilioribus primum exercitata intelligentia, sine magno negotio, qua sunt
difficiliora perpendat. Ab antecedentibus igitur argumentatio fit,
quoties enuntiata propositionis conditione sumitur id quod antecedit, ut id
quod sequitur inferatur, hoc modo: sit enim dubium an Tullius animal sit,
concedaturque eumdem Ciceronem esse hominem, et sit rata propositio haec:
Tullius si homo est, animal est; homo antecedit, animal sequitur; si igitur ex
antecedenti uelim facere argumentationem, assumam id quod praecedit, hoc modo: sed
homo est Cicero, consequitur animal esse Ciceronem; et est hic primus quem
supra diximus modus. Rursus a consequenti argumentatio fit quoties in
conditione proposita id quod consequitur tollit assumptio, ut id quod
praecesserat interimatur, hoc modo: si homo est Cicero, animal est. Antecedit
homo, sequitur animal. Si igitur ex consequenli facere argumentum uelim, dicam,
atqui non est animal, sequitur ne esse hominem quidem, sed id perspicue falsum
est, esse enim hominem constat falsum est igitur animal non esse. Tullius
igitur animal est; et hic dictorum superius secundus est modus. Quod si a
repugnantibus fiat, in tertio scilicet modo digestarum superius conclusionum,
faciemus ita: non si homo est Tullius, animal non est, repugnat enim esse
hominem et animal non esse; hic si assumamus esse hominem, animal quoque esse, recta
ratione concludimus, hoc modo: atqui homo est, animal igitur est, atque hic
quidem modus ex ea propositione connexa conuersus est, quae ex duabus coniuncta
est affirmatiuis. His igitur tribus modis Tullius qui homo esset, animal
quoque monstratus est esse: nunc quidem dum id quod antecedit assumimus, id est
esse hominem; nunc uero dum id quod consequitur, in assumptione denegamus, id
est non esse animal; nunc autem repugnantiam denegantes eorum quae sibi sunt
consequentia, posito quod praecedebat, id quod sequebatur intulimus.
Quibus ita precognitis, nunc M. Tullii tractemus exempla. Cum enim dixisset
loci in consecutione, antecessione et repuguantia positi, reperiendi quidem
argumenti simplicem esse intellectum, tractandi autem triplicem, adiecit: Nam
quid interest, cum tibi sumpseris ad demortstrandum, pecuniam numeratam mulieri
deberi, cui sit argentum omne legatum, utrum id ab antecedentibus, an a
consequentibus, an a repugnantibus probes? Namque eadem sententia in conclusione
colligitur, et argumentationum diuersitas non in re sed in antecedenium et
consequentium et repugnantium tractatu est constituta. Primum igitur
ponatur quod testamento aliquis omne suum argentum mulieri legauerit, quaeraturque
an numerata quoque pecunia mulieri legata sit, concedaturque numeratam etiam
pecuniam argentum appellari, argumentum igitur in primo modo ex antecedentibus
tali ratione contexitur: proponimus enim sic, si pecunia signata numerataque
argentum est, eadem pecunia signata numerataque legata mulieri est; hic igitur
praecedit numeratam atque signatam pecuniam argentum esse, sequitur legatam
esse mulieri; id igitur quod praecessit assumimus dicentes: at est signata ac
numerata pecunia argentum; concludimus numeratam signatamque pecuniam mulieri
esse legatam, eritque totius argumentationis hic textus: Si pecunia signata
numerataque argentum est, legata mulieri est; At est pecunia signata
numerataque argentum, Igitur legata est mulieri. In quo si ad
saepius praemissa plurimisque exemplis superius enodata lectoris animus
reuertatur, hanc argumentationem in primo modo ab antecedentibus esse
compositam non ignorabit. A consequentibus uero hoc modo: Si numerata
pecunia non est egata mulieri cui sit argentum omne legatum, numerata peculia
non est argentum. Hic igitur praecedit numeratam pecuniam non esse legatam, cum
sit argentum omne legatum; sequitur numeratam pecuniam argentum non esse. Si
igitur id quod est posterius auferamus, id est numeratam pecuniam non esse
argentum, dicemus: Atqui est numerata pecunia argentum, affirmatio namque
tollit negationem. Sequitur igitur ut pars praecedens auferatur, ea quae erat
non esse legatam mulieri pecuniam numeratam, cum argentum ei fuisset omne
legatum. Sed cum sit, omnis negatio affirmatione consumitur, dicimusque in
conclusione: Est igitur numerata pecunia mulieri legata, cum ei sit argentum
omne legatum; eritque huiusmodi argumentatio: Si non est mulieri legata pecunia
numerata, cum ei sit argentum omne legatum, non est argentum numerata
pecunia; Atqui est argentum numerata pecunia, Legata est igitur
mulieri numerata pecunia, cum ei fuerit argentum omne legatum. Sed
quod Tullius breuitatis causa praeteriit, id est, illam partem propositionis
quae ait: Cum sit mulieri argentum omne legatum, nos apertioris intelligentiae
causa subiunximus. Nec perturbare lectorem debet, quod cum in
superioribus exemplis in secundo modo per negationem facta fuerit semper
assumptio, et per negationem rursus illata conclusio, nunc per affirmationem et
assumptio et conclusio facta est. Cuius rei euidentissima ratio est. Nam cum in
superioribus exemplis prima propositio ex affirmationibus fuerit constituta,
atque in secundo modo assumptio id quod sequebatur auferret, atque interimeret
id quod praecedebat, necessarium erat duplicem affrmationem geminata negatione
consumi, hoc modo: Si dies est, lux est, utraeque ex affirmatione sunt
constitutae. Ut igitur posterior pars, id est lux est, quae affirmatio est,
interimatur, deneganda est. Dicam igitur: Atqui non est lux, quo fit ut
praecedentem quoque partem, id est, dies est, quam affirmationem esse
manifestum est, negatione tollamus, concludentes, dies igitur non est. At in
hoc Ciceronis exemplo utraque pars primae atque hypotheticae propositionis
negationibus enuntiata est, quae in assumptione uel confusione non ab allis
nisi ab affirmationibus auferuntur, hoc modo. Est enim tale Ciceronis exemplum:
si legata non est mulieri numerata pecunia, non est numerata pecunia argentum,
uides ut sit utraque negatio? Nam et non esse legatam mulieri pecuniam
numeratam, et non esse numeratam pecuniam argentum, utraeque in negatione sunt
positae; quod si auferenda est per assumptionem propositionis consequens pars,
quoniam negatio est, non esse numeratam pecuniam argentum, dicendum est
argentum esse pecuniam numeratam; quod si in conclusione auferenda est pars
praecedens, ea quae negatio est, id est, non esse legatam mulieri pecuniam
numeratam, dicendum est: Legata igitur mulieri numerata pecunia est. Et secundus
quidem modus rite a consequentibus factus huiusmodi est. Illud tamen est
diligentius adnotandum. quod superius M. Tullius, cum locorum omnium breuiter
exempla disponeret, loci huius, qui a consequentibus ducitur, inconueniens
secundo conditionalium syllogismorum modo subiecit exemplum, potiusque primo
conuenit modo quia non a consequentibus conclusionem sed ab antecedentibus
facit. Ita quippe posuit a consequentibus, si mulier cum fuisset nupta cum eo
quicum connubii ius concessum non esset, nuntium remisit, quoniam qui nati sunt
patrem non sequuntur, pro liberis manere nihil oportet. Hic igitur cum
quaeratur an dotis pars apud uirum debeat permanere, id quod praecedit
assumitur, ut fiat rata conclusio hoc modo: Sed mulier cum eo nupta est qui cum
connubii ius non fuit, concluditur: Quoniam igitur qui nati sunt patrem non
sequuntur, pro liberis manere nihil oportet, et ita non est a consequentibus
argumentum, quia non id quod consequebatur assumptum est sed id quod
praecedebat. Erat quippe antecedens, nupta mulier praeter connubii ius;
sequebatur, cum filii patrem non sequebantur, pro eis nihil ex dote retineri.
Sic igitur Tullius pro eo quod est a consequentibus argumentum, ab
antecedentibus potius dedit exemplum. Potest uero ita fieri a
consequentibus argumentum, si id de quo quaeritur prius ponatur, et id quod
assumendum; est posterius, hoc modo: Si quid ex dote pro liberis manere
oportebit, quia patrem liberi sequuntur, cum eo nupta est mulier qui cum
connubii ius esset. Sumo igitur id quod consequitur per negationem, ita: Sed
non est nupta mulier cum eo quicum connubii ius erat, atque ideo qui nati sunt,
patrem non sequuntur. Perimitur ergo in conclusione id quod in propositione
praecesserat. Ita pro liberis igitur manere nihil oportet. Sed de secundo
modo ista sufficiant, nihil namque, ut arbitror, praetermissum est.
Tertius modus a repugnantibus longe perspicuus hoc modo est: Non et legatum
omne argentum est, et non est legata mulieri pecunia enumerata. Hic namque
consequens erat: Si argentum esset omne legatum, pecuniam quoque numeratam
fuisse legatam; ut igitur fieret repugnans, huic consequentiae interposita
negatio est, dictumque est, si argentum omne legatum esset, numeratam pecuniam
non esse legatam; quod quia pugnat et falsum est, ad ueritatem alia negatione
sic reducitur: Non si legatum argentum est, non est legata numerata pecunia, ut
scilicet ei affirmationi conueniat, quae dicit, si legatum argentum est,
legatam esse pecuniam numeratam. Assumimus igitur huic propositioni argentum
omne esse legatum, et consequitur omne in numeratam pecuniam mulieri esse
legatam, ut sit forma argumentationis huiusmodi: Non si legatum argentum
est, non est legata numerata pecunia; Atqui legatum argentum
est, Legata est igitur numerata pecunia. M. uero Tullius
propositionem ita formauit: Non et legatum argentum est, et non est legata
numerata pecunia. Sed nos idcirco casualem coniunctionem apposuimus eam quae
est "si", ut ex quo esset genere talis propositio monstraremus.
Namque id ex consequenti connexo negatione addita fit repugnans. Connexum uero
nulla aeque ut sit coniunctio posset ostendere, quanquam idem efficiat et
copulatiua coniunctio. Nam quae connexa sunt, etiam coniuncta esse
intelliguntur, ex hoc quod paulo ante diximus, quod argumentum ex ea propositione
profectum est, quae duabus affirmationibus copulabatur, et iuncta negatione
insuper denegata est. In omnibus igitur illud est approbatum, pecuniam
numeratam mulieri deberi, cum sit argentum omne legatum. Sed nunc quidem ex
supradictis propositionibus, id quod antecedebat, assumpsimus; nunc uero, id
quod consequebatur; nunc autem, id quod repugnabat. Ac de explanandis Ciceronis
exemplis, ut arbitror, satis est. Illud autem dubitationem mouere potest: nam
si quis minus callidus ad Ciceronis exempla respiciat, eumdem locum
arbitrabitur esse a genere, quem ab antecedentibus, et consequentibus, et
repugnantibus esse diximus; illo falsus errore, quod in utrisque locis eodem
Cicero utitur exemplo, argenti uidelicet et numeratae pecuniae. Sed diligentius
intuenti, in eisdem rebus diuersus argumentationum uidebitar esse tractatus.
Aliud quippe est dicere, cum argenti species sit numerata; pecunia, si genus
legatum sit, et speciem esse legatam, quoniam nunquam species a genere
separatur, aliud est in conditione enumerationem proponere, et eisdem partibus
assumptis argumentationem uaria ratiocinatione formare, ut superius
demonstratum est, cum praesertim huiusmodi ex consequentibus, antecedentibus et
repugnantibus, argumentationes etiam praeter genera ac species fieri possint,
uelut nos superuns indicauimus in die atque luce. Nam neque dies lucis, neque
lux dici species, aut genus est. Sed id tantum in his considerari debet, quia
posito altero, alterum necessaria ratione subsequitur. Differunt igitur loci a
genere uel a specie ab eo loco qui in conditione est constitutus, quoniam illi
ex uniuersalitatis speciei ac partis ratione ducuntur, hic autem in
consequentiae ac repugnantiae ordine tractatur. Post haec igitur Tullius
hypotheticorum syllogismorum modos conclusionesque dinumerat hoc modo: [APPELLANT
AUTEM DIALECTICI EAM CONCLUSIONEM ARGUMENTI, [1141C] IN QUA, CUM PRIMUM
ASSUMPSERIS, CONSEQUITUR ID QUOD ANNEXUM EST PRIMUM CONCLUSIONIS MODUM; CUM ID
QUOD ANNEXUM EST NEGARIS, UT ID QUOQUE CUI FUERIT ANNEXUM NEGANDUM SIT,
SECUNDUS IS APPELLATUR CONCLUDENDI MODUS; CUM AUTEM ALIQUA CONIUNCTA NEGARIS ET
EX EIS UNUM AUT PLURA SUMPSERIS, UT QUOD RELINQUITUR TOLLENDUM SIT, IS TERTIUS
APPELLATUR CONCLUSIONIS MODUS. EX HOC ILLA RHETORUM EX CONTRARIIS
CONCLUSA, QUAE IPSI *ENTHYMEMATA* APPELLANT; NON QUOD OMNIS SENTENTIA PROPRIO
NOMINE *ENTHYMEMA* NON DICATUR, SED, UT HOMERUS PROPTER EXCELLENTIAM COMMUNE
POETARUM NOMEN EFFICIT APUD GRAECOS SUUM, SIC, CUM OMNIS SENTENTIA *ENTHYMEMA*
DICATUR, QUIA VIDETUR EA QUAE EX CONTRARIIS CONFICITUR ACUTISSIMA, SOLA PROPRIE
NOMEN COMMUNE POSSEDIT. EIUS GENERIS [1141D] HAEC SUNT:HOC METUERE, ALTERUM IN
METU NON PONERE! EAM QUAM NIHIL ACCUSAS DAMNAS, BENE QUAM MERITAM ESSE
AUTUMAS MALE MERERE? ID QUOD SCIS PRODEST NIHIL; ID QUOD NESCIS
OBEST? HOC DISSERENDI GENUS ATTINGIT OMNINO VESTRAS QUOQUE IN RESPONDENDO
DISPUTATIONES, SED PHILOSOPHORUM MAGIS, QUIBUS EST CUM ORATORIBUS ILLA EX
REPUGNANTIBUS SENTENTIIS; COMMUNIS CONCLUSIO QUAE A DIALECTICIS TERTIUS MODUS,
A RHETORIBUS *ENTHYMEMA* DICITUR. RELIQUI DIALECTICORUM MODI PLURES SUNT, QUI
EX DISIUNCTIONIBUS CONSTANT: AUT HOC AUT ILLUD; HOC AUTEM; NON IGITUR ILLUD.
ITEMQUE: AUT HOC AUT ILLUD; NON AUTEM HOC; ILLUD IGITUR. QUAE CONCLUSIONES
IDCIRCO RATAE SUNT QUOD IN DISIUNCTIONE PLUS UNO VERUM ESSE NON POTEST. ATQUE
EX EIS CONCLUSIONIBUS [1142A] QUAS SUPRA SCRIPSI PRIOR QUARTUS POSTERIOR
QUINTUS A DIALECTICIS MODUS APPELLATUR. DEINDE ADDUNT CONIUNCTIONUM NEGANTIAM
SIC: NON ET HOC ET ILLUD; HOC AUTEM; NON IGITUR ILLUD. HIC MODUS EST SEXTUS.
SEPTIMUS AUTEM: NON ET HOC ET ILLUD; NON AUTEM HOC; ILLUD IGITUR. EX EIS MODIS
CONCLUSIONES INNUMERABILES NASCUNTUR, IN QUO EST TOTA FERE *DIALEKTIKE*. SED NE
HAE QUIDEM QUAS EXPOSUI AD HANC INSTITUTIONEM NECESSARIAE. Etsi
multipliciter superius cuncta digessimus, nec expositionis indiget repetita
toties disputatio, erit tamen operae pretium, si quam breuissime potero M.
Tullii uerbis mediocris lucem commentationis interseram. Septem igitur modos
hypotheticos enumerans ait, cum in connexis propositionibus id quod est primum
assumitur, ut ostendatur secundum, primum a dialecticis modum uocari, hoc modo:
Si hoc est, illud est; quod dicit hoc, primum est, quod uero ait illud,
secundum. Assumatur ergo quod primum est, atqui hoc est; concluditur igitur id
quod secundum est, illud igitur est, uelut in his rursus exemplis: si homo est,
animal est, assumitur, atqui homo est, concluditur, animal igitur est.
Secundum uero modum ait esse Tullius connexis propositionibus textum, in quo si
secundum negatur, sequitur ut id etiam quod primum est abnuatur hoc modo;
Si hoc est, illud est; Illud autem non est, Igitur ne hoc quidem
est. In exemplis ita: si homo est, animal est; animal autem non est, homo
igitur non est. Sed Tullius ita dixit, cum id quod annexum est negaris, ut id
quoque cui fuerit annexum negandum sit, secundum esse modum, quasi connexa
propositione affirmatiuis partibus iuncta; uniuersaliter autem rectius
diceretur, cum id quod annexum est, id est secundum, perimitur, perimi iliud
quoque cui annexum est, id est primum, ut si affirmatiuum est id quod annexum
est, negatione perimatur; sin uero negatiuum affirmatione; et de eo quoque cui
annexum est, id est primum, idem est ut si in connexa propositione affirmetur,
in conclusione denegetur, secundum nunc propositum Ciceronis exemplum; si uero
negatiua sit propositionis prior pars, in conclusione contraria affirmatione
tollatur. Tertium uero modum ait esse Cicero cum ea quae coniuncta sunt, denegantur, et his alia negatio rursus ad
iungitur, ut quia animal homini coniunctum est, ita dicamus: Non et homo et non
animal est, atque ex his unum ponitur, ut quod relinquitur auferatur, hoc modo:
Ponimus hominem esse, dicentes: Atqui homo est; quod ergo relinquitur, non est
animal, aufertur, atque concluditur, animal igitur est. Fit argumentatio hoc
modo: Non et homo est et non animal; Atqui homo est, Animal
igitur est. Ex his nasci dicit enthymemata ex contrariis conclusa, quibus
plurimum rhetores uti solent; atque haec enthymemata nuncupantur, non quod
eodem nomine omnis inuentio nuncupari non possit (enthymema namque est mentis
conceptio, quod potest omnibus inuentionibus conuenire) sed quia haec inuenta,
quae breuiter ex contrariis colliguntur, maxime acuta sunt, propter
excellentiam speciemque inuentionis commune enthymematis nomen proprium factum
est, ut haec a rhetoribus quasi proprio nomine enthymemata uocentur. Sicut apud
Graecos quoque poeta Homerus tantum dicitur, et quisquis ex Homero aliquid
profert, ita dicere consueuit: Hunc uersum poeta locutus est, et tunc non alius
intelligitur praeter Homerum, non quod caeteri non sint poetae sed quod
excellentia huius commune nomen uertit in proprium. Fiunt uero haec enthymemata
hoc modo, ex contrariis uidelicet texta: Hunc metuere, alterum in metu non
ponere (uelut si de Lentulo et Cethego, caeterisque diceretur) Paucos
ciues interficere metuis, ne respublica intereat nihil laboras.
Connexum quippe est ut quicumque noluit interire paucos ciues, rempublicam
multo magis nolit exstingui. Quibus cum interponitur negatio, fit ex
repugnantibus argumentum. Sed hoc breuiter Tullius enuntiauit, nos uero
argumentum in syllogismum redigamus, a repugnantibus scilicet, ex quo
enthymemata nasci solent, hoc modo: Sit connexum, si quis metuit ciues paucos
interfici, is metuit interire rempublicam, hic interponitur negatio sic: Si
quis metuit ciues paucos interfici, is non metuit interire rempublicam,
iungitur alia negatio: Non si quis metuit paucos ciues interfici, non metuit
interire rempublicam. Quae duae negationes uni affirmationi partes sunt, quae
dicit: Si quis metuit hoc, metuit et illud, cuius quidem assumptio est, at
metuit hoc, conclusio sequitur, metuit igitur et illud, quae tantumdem ualet,
si negando interrogetur ita, hoc metuis, illud non metuis. Sed quia non totus
(ut supra posuimus) in his argumentationibus ponitur syllogismus sed
propositio, cuius assumptio et conclusio notae sunt, idcirco enthymema dicitur,
quasi breuis animi conceptio. Et in caeteris exemplis idem modus est. Sed
haec quidem Ciceronis similitudo non tam ex repuguantibus quam ex contrariis
argumentum intelligitur continere. Metuere quippe et non metuere contraria
sunt, nisi hoc ipsa uerborum prolatio a contrariis argumentum ad repugnantiam
retrahat. Nam quod dicit hunc metuere, alterum in metu non ponere, tale est ut
repugnantia uideantur. Etenim metuere et non metuere contraria sunt. In metu
autem non ponere, et metuere, prolatione ipsa tam contraria quam repugnantia
intelliguntur, licet eadem probetur esse sententia. His adiecit alia
rursus in exempla. "Eam quam nihil accusas, damnas." Huius
enthymematis talis est integer syllogismus: Non si nihil accusas
damnas; Sed nihil accusas, Non damnas igitur. Venit ergo hoc
argumentum ex ea propositione connexa, quae ex duabus componitur negatiuis,
ita: si nihil accusas, non damnas; posteriori uero parti detracta negatio est,
et insuper tota est propositio denegata hoc modo, non si nihil accusas, damnas,
et ex ea factum est argumentum, quod positum in interrogatione efficit
enthymema, hoc modo: quam nihil accusas, damnas, bene quam meritam esse
autumas, male mereri. Huius quoque enthymematis talis est ratio
</collectio>: Non et bene meritam esse autumas, et male
mereri; Atqui bene meritam esse autumas, Non male igitur
mereri. Quod enthymema ex ea propositione connexa perticitur, quae
constat ex affirmatione et negatione, ita: si bene meritam esse autumas, non
male mereri. Cuius ex posteriore parte dempta negatione, totaque propositione
denegata, fiet propositio: non si bene meritam esse autumas, male mereri; quod
in interrogationem deductum tacit enthymema: bene quam meritam esse autumas,
male mereri. Item: "Id quod scis prodest, nihil id quod nescis,
obest?" Hoc quoque enthymema tali nectitur syllogismo: Non id quod
scis prodest, et id quod nescis non obest; At id quod scis
prodest, Obest igitur id quod nescis. Hoc argumentum ex ea
propositione compositum est, quae duabus affirmationibus iuncta acceperit
mediam negationem et insuper denegata est. Quod interrogatum fit enthymema hoc
modo: "Id quod scis prodest, nihil id quod nescis obest?"
Omnium uero superius exemplorum ista sententia est. Nam quam quisquam nihil
accusat, eam damnare recte non potest; et eam quam bene meritam esse autumat,
male mereri de ea turpe est; et si id quod scit quisque in causa proderit,
oberit, si est contrarium id quod nescit. Hunc uero locum communem esse
oratoribus ac philosophis dicit sed apud illos tertium modum, apud rhetores
uero enthymema nuncupari. Reliqui, inquit, modi plures sunt, nam cum tres
superius enumerasset modo adiungens quatuor, plures dixit. Hi sunt in
disiunctionibus constituti hoc modo: Aut hoc aut illud; Hoc
autem, Non igitur illud qui est quartus modus a nobis quoque
suprapositus ita: Aut dies est aut nox est; Dies autem est, Non igitur nox
est et semper quod ait Cicero 'hoc' ad praecedens spectat; quod uero ait
'illud' ad consequens, siue inconnexis propositionibus siue disiunctis.
Item: Aut hoc aut illud Non autem hoc, Illud igitur. Hic
quoque quintus modus est, uelut in his exemplis: Aut dies est aut nox
est; Non autem dies, Nox igitur est. Quarum conclusionum,
necessitatem ex eo dicit euenire, quia quae in disiunctione posita, medium non
uidentur admittere, ut esse aliud praeter eorum alterum possit, atque ideo uno
sublato alterum esse, unoque posito alterum non esse concluditur. Quod si sit
medium, quod preter alterutrum esse possit, nec uera propositio, nec rata est
conclusio, uelut in his, aut album est, aut nigrum, id falsum est. Esse enim
praeter ea rubrum potest. Sed si ponamus esse album uel auferamus, non nec esse
erit non esse uel esse nigrum, quia quod rubrum est, medium esse potest.
Deinde, inquit Tullius, addunt coniunctionum negantiam, in disiunctiuis
scilicet propositionibus, hoc modo: Non et hoc et illud; Hoc
autem, Non igitur illud. Idem est: Non et nox et dies
est; Nox autem est, Non igitur dies est. Hic igitur sextus
modus esse praedictus est. Septimus autem est ex eadem ueniens
propositione, hoc modo: Non et hoc et illud; Non autem
hoc, Illud igitur uelut si ita dicamus: Non et nox et dies
est; Nox non autem est, Dies igitur est. Quae propositiones
nisi in disiunctis medioque carentibus rebus ratam conclusionem habere non
poterunt. Age enim ita dicamas, non et album, et nigrum, ponamusque non esse
album, non consequitur ut sit nigrum, potest enim esse quod medium est.
Huiusmodi igitur per negationem coniunctionum (ut Tullius ait) propositio si
ratas factura est conclusiones in disiunctis rebus, medioque carentibus
accommodetur, alias non erit rata conclusio. Distat uero propositio
tertii modi a propositione sexti et septimi, quod tertii modi propositio ex
coniunctis nascitur. Haec uero sexti et septimi ex disiunctis terminis existit,
ut in superioribus patet exemplis. Ex his igitur, inquit, modis
conclusiones innumerabiles nascuntur, unus enim quilibet eorum modus infinitis
conclusionibus aptari potest, ueluti primus ac secundus in omnibus quae sibi
connexa sunt, quorum nullus est numerus, si quis per. sequi uelit; itemque
repugnantium infinitaest multitudo, in quibus tertius modus est utilis; item
plura disiuncta sunt in quibus quartus, et quintus, et sextus, et septimus
pluriumum ualent. Atque in his, inquit, omnis fere est dialectica sed ad
topicos locos tres primi modi sunt necessarii, qui antecessionem, consecutionem
et repugnantiam tenent. Reliqui uero complendae disputationis magis gratia quam
quod ad hanc institutionem necessarii fuerint uidentur adiecti. PROXIMUS EST
LOCUS RERUM EFFICIENTIUM; QUAE CAUSAE APPELLANTUR; DEINDE RERUM EFFECTARUM AB
EFFICIENTIBUS CAUSIS. HARUM EXEMPLA, UT RELIQUORUM LOCORUM, PAULO ANTE POSUI
EQUIDEM EX IURE CIVILI; SED HAEC PATENT LATIUS. CAUSARUM [ENIM] GENERA
DUO SUNT; UNUM, QUOD VI SUA ID QUOD SUB EAM VIM SUBIECTUM EST CERTE EFFICIT, UT
IGNIS ACCENDIT; ALTERUM, QUOD NATURAM EFFICIENDI NON HABET SED SINE QUO EFFICI
NON POSSIT, UT SI QUIS AES STATUAE CAUSAM VELIT DICERE, QUOD SINE EO NON POSSIT
EFFICI. [15.59] HUIUS GENERIS CAUSARUM, SINE QUO NON EFFICITUR, ALIA SUNT
QUIETA, NIHIL AGENTIA, STOLIDA QUODAM MODO, UT LOCUS TEMPUS MATERIA FERRAMENTA
ET CAETERA GENERIS EIUSDEM; ALIA AUTEM PRAECURSIONEM QUANDAM ADHIBENT AD
EFFICIENDUM ET QUAEDAM AFFERUNT PER SE ADIUVANTIA, ETSI NON NECESSARIA, UT:
AMORI CONGRESSIO CAUSAM ATTULERAT, AMOR FLAGITIO. EX HOC GENERE CAUSARUM EX
AETERNITATE PENDENTIUM FATUM A STOICIS NECTITUR. ATQUE UT EARUM CAUSARUM SINE
QUIBUS EFFICI NON POTEST GENERA DIVISI, SIC ETIAM EFFICIENTIUM DIVIDI POSSUNT.
SUNT ENIM ALIAE CAUSAE QUAE PLANE EFFICIANT NULLA RE ADIUVANTE, ALIAE QUAE
ADIUUARI VELINT, UT: SAPIENTIA EFFICIT SAPIENTIS SOLA PER SE; BEATOS EFFICIAT
NECNE SOLA PER SESE QUAESTIO EST. Post eum locum qui in conditione est
constitutus, consequens erat is qui considerabatur ex causis; post hunc is
enumeratus locus est qui, in effectis causarum positus, argumenta praestabat.
Quorum quidem superius M. Tullius exempla proposuit, nunc rationem latius
tractat. Cum igitur Aristoteles quatuor posuerit causas, quibus unumquodque
conficitur: primam, quae mouendi principium est; secundam, ex qua fit aliquid,
quam materiam uocat; tertiam rationem ac speciem, qua unumquodque formatur;
quartam, finem propter quem quodlibet efficitur, at uero M. Tullius principalem
causarum diuisionem facit in ea quae efficiant aliquid et in ea sine quibus
effici nequeant, ut id quod efficit, ad eam causam referatur in qua motus
principium constitutum est, id uero sine quo non fit aliquid, tum ad
intellectum materiae transferatur, uel eorum quae coniuncta materiae
efficientis adiuuant facultatem, tum ad reliquas causas ducatur, ut paulo
posterius apparebit. Eius igitur causae, quae ui sua id quod subiectum
est efficit, tale proponit exemplum, ut ignis accendit: nam accensionis ipsius
causa ignis est, et id efficere potest, atque illud quod accenditur, mouet
atque permutat. Eam uero causam, sine qua id quod faciendum est fieri nequit,
ab una eius parte designat, ueluti cum dicit aes causam esse statuae, quod sine
eo status noc possit existere: hoc enim, ut per faciendam diuisionem clarescet,
non ea ipsa est causa sine qua non efficitur sed pars eius esse monstrabitur.
Eam uero causam sine qua id quod faciendum est, effici non potest, diuidit hoc
modo: alia enim sunt quieta, nihil agentia sed stolida quodammodo, ac per se,
nisi agendi extra motus accesserit, immobilia: horum exempla, ut locus, tempus,
materia, instrumentum. Omne enim quod fit, locum nec esse est habere subiectum,
in quo nisi aliquid fiat, locus ipse immobilis est, ad aliquid explicandum.
Itemque materia et instrumenta, nisi manu moueantur artificis, ipsa naturaliter
nihil egerint. Tempus quoquo operationi subiectum est, quae si desit, nihil
ipsum propriae naturae ratione perfecerit. Atque haec quidem sunt quae nihil
agentia, tamen causae sunt, si his efficiens operatio superueniet. Alia
uero quae in motu posita praecursionem quamdam ad efficientiam ac
praeparationem uidentur afferre, uelut amoris causa est congressio, quae
praecessit, et amor flagitii. Ex his, inquit, causis Stoica disputatio fatum
connectit. Fatum enim dicunt esse praecedentium causarum subsequentiumque
perplexionem quamdam et catenae more continentiam, hoc modo: Ideo profectus est
peregre, quoniam parentum iracundiam ferre non puterat; idcirco parentum
iracundiam successione non ferebat, quia amicae amore detinebatur, idcirco
amabat, quod saepe fuerat ante congressus; ideo congressus est, quia aliquid ut
congrederetur praecessit. Itaque ordine praecedentium consequentiumque rerum
fatum (ut dicit) a Stoicis nectitur. Item diuidit eam causam quae ui sua
efficit aliquid in eam quae ad etficiendum sibi sufficit, eamque qua extrinsecus
adminiculationis indigeat. Sufficit igitur sibi ad efficiendum causa, ut
sapientia efficere sapientes per se nullo penitus adiuta solet. Sed haec an
sola beatos efficere possit, quaeritur an ei sint extrinsecus addenda quae
iuuent, uel fortunae bona, uel corporis, itaque ea causa quae ui sua efficit
aliquid, aut talis est, ut ei nulla sint extrinsecus adiuncta quaerenda, ueluti
artifici instrumenta quaedam, quibus id quod efficiendum est explicet atque
conformet. Earum uero omnium quae Tullius statuit in alterutra diuisione
causarum, illa quidem quae ui sua explicant ea quorum causae sunt, omnia tam
per se ad efficiendum ualentia, quam quaesiti extrinsecus iuuaminis indigentia,
in ea Aristotelicae diuisionis causa locabuntur, quae est principium motus.
Quanquam de sapientia tali causae non conuenit exemplum sed potius ad rationem
formamque contendit Namque sapientia ratione quadam atque forma efficit
sapientes. Eius uero causae quam Tullius refert, sine qua non fit aliquid,
materia quidem, tempus et locus, id est, ex quo fit, uel in quo fit, quae sunt
efficienti substantia naturae: ut uno intellectu comprehendantur, uel materia
sunt, uel materiae uice supposita; instrumenta uero ei causae sunt quae ad
finem spectant sed non ipsa finis, quia non finis instrumenta respicit sed haec
tinem. Instrumenta namque propter aliquem finem parantur. Sed mirum
uideri potest cur congressionem amoris causam non interea enumerauit, quae
habent efficiendi uim sed inter eas posuerit causas, sine quibus effici non
potest, cum tamen agat aliquid atque moueat. Nam ipsa congressio aliquid
uidetur efficere, similisque est ei caasae quae ipsa quidem habet efficiendi
uim sed sine adminiculo non potest, ueluti cum quaeritur de sapientia an sola
beatum possit efficere. Sed Merobaudes rhetor ita disseruit, earum causarum,
quae efficiendi uim haberent, eam esse facultatem, ut etiamsi adiumentis
extrinsecus indigeant, effectus tamen earum ad id spectet quod efficiendum est.
At in his causis quae sunt praecursoriae, etiamsi eis antecedentibus aliquid
existit, non tamen id quod existere intelligitur praecursio principaliter operatur.
Sed ista quidem ueluti sub quadam occasione praecurrit, illa uero res quae
existeret dicitur, aliis operantibus nascitur, uelut in congressione solum est
fieri. Fortasse enim non propter amorem quisque congreditur sed praecedente
congressione amor existit, quem non congressio principaliter appetebat. Itaque
quoniam praeter congressionem amor existere non potuit, recte intereas causas
congressio locata uidetur sine quibus non efficitur; quoniam uero non efficit
ui sua, quandoquidem nec principaliter ut efficiat, spectat sed tantum ea ante
aliquid existit, recte inter praecursorias, ac non inter efficientes causas est
collocata. QUA RE CUM IN DISPUTATIONEM INCIDERIT CAUSA EFFICIENS ALIQUID
NECESSARIO, SINE DUBITATIONE LICEBIT QUOD EFFICITUR AB EA CAUSA
CONCLUDERE. CUM AUTEM ERIT TALIS CAUSA, UT IN EA NON SIT EFFICIENDI
NECESSITAS, NECESSARIA CONCLUSIO NON SEQUITUR. ATQUE ILLUD QUIDEM GENUS
CAUSARUM QUOD HABET VIM EFFICIENDI NECESSARIAM ERROREM AFFERRE NON FERE SOLET;
HOC AUTEM SINE QUO NON EFFICITUR SAEPE CONTURBAT. NON ENIM, SI SINE PARENTIBUS
FILII ESSE NON POSSUNT, PROPTEREA IN PARENTIBUS CAUSA FUIT GIGNENDI
NECESSARIA. HOC IGITUR SINE QUO NON FIT, AB EO IN QUO CERTE FIT
DILIGENTER EST SEPARANDUM. ILLUD ENIM EST TAMQUAM: UTINAM NE IN
NEMORE PELIO -- NISI ENIM 'ACCIDISSENT ABIEGNAE AD TERRAM TRABES,' ARGO
ILLA FACTA NON ESSET, NEC TAMEN FUIT IN HIS TRABIBUS EFFICIENDI VIS NECESSARIA.
AT CUM IN AIACIS NAVEM CRISPISULCANS IGNEUM FULMEN INIECTUM EST, INFLAMMATUR
NAVIS NECESSARIO. Prima quidem causarum diuisio, secundum Tullium, fuit
in ea quae efficerent aliquid, et ea sine quibus effici non posset, atque illud
quidem quod efficeret, in gemina item partitus est, scilicet in id quod ad
efficiendum aliquid necessariam uim possideret, neque ullius indigeret
extrinsecus adiumenti, etinid quod nisi illis adiuuantibus operari atque
efficere non posset. Ac primum de ea loquitur causa quae efficiendi uim tenet,
eius enim ea pars cui efficiendi necessitas adest, statim secum conclusionem
comitem trahit; dicta enim causa, quae necessario ac quid efficit, effectus
etiam nec esse est consequatur, ueluti si solem adfuisse quis dixerit, lucem
quoque adfuisse monstrabit, aut cum alicui ad esse sapientiam dixerimus,
sapientem nec esse est fateamur. At in his causis efficientibus quae
extrapositis indigent adiumentis, non eadem ratio est; neque enim ut quaeque
huiusmodi causa dicitur, ita nec esse est affectum sequi. Non enim huiusmodi
causa necessario efficit quod uult, nisi extrapositis auxiliis adiuuetur; idem
est etiam in ea causa quae ipsa quidem efficiendi uim non habet sed sine ea non
prouenit effectus. Nam, ut Tullius quoque commemorat, nullam in efficiendis
rebus adhibet necessitatem, atque ideo dicta causa non statim sequitur
effectus. Neque enim si congressus est, mox amauit, nec si fuit aes, statuam
quoque fuisse nec esse est. Ex quo aliarum causarum partitio nascitur.
Aliae namque causae sunt necessariae, aliae minime. Non necessariarum aliae
sunt efficientes, aliae sine quibus non efficitur. Necessariarum uero causarum
conclusio non solet conturbare: ut enim haec causa fuerit dicta, statim in
conclusione sequustur effectus. Non necessariarum uero, quae sunt partim efficientes,
quod nunc tacuit sed paulo ante praedixit, non habent subsequentem effectae rei
conclusionem. Neque enim si liberi sine parentibus non sunt, idcirco in
parentibus efficiendi causa necessaria fuit, cum uideamus in hominum esse
potest ate ne gignant. Ea uero causa quae ipsa quidem non efficit sed sine ipsa
effici non potest, huiusmodi est quemadmodum Enniano uersu declaratur: NISI
ENIM CECIDISSENT ABIEGNAE TRABES AD TERRAM, ARGO ILLA FACTA NON ESSET. Ex
trabibus namque Argo facta est sed nulla inerat trabibus necessitas, ut ex eis
fieret nauis; at uero ea causa quae est efficiens, et quae in se suam continet
necessitatem, talis est. Quale CUM IN AIACIS NAVEM IGNEUM CRISPISULCANS FULMEN
INIECTUM EST, statim enim accendi nec esse est nauim, quia ignis accendend
necessaria causa est. Et sensus quidem est huiusmodi, ordo autem paulo
confusior est, ait enim hoc modo: ATQUE ILLUD QUIDEM GENUS CAUSARUM, QUOD HABET
VIM EFFICIENDI NECESSARIAM, ERROREM AFFERRE NON FERE SOLET; HOC AUTEM SINE QUO
NON EFFICITUR, SAEPE CONTURBAT. Quod cum dixisset, cumque uel utriusque uel
alterius exemplum ponere debuisset, neutro conueniens exemplum similitudine
dedit. Namque cum uel necessariam causam efficientem, uel eam sine qua non
efficitur, proposuisset, eius causae posuit exemplum, quae efficiat quidem
aliquid sed non sine extrapositis adiumentis, hoc modo: NON ENIM SI SINE
PARENTIBUS FILII ESSE NON POSSUNT, PROPTEREA CAUSA FUIT IN PARENTIBUS GIGNENDI
NECESSARIA. Parentes enim et maxime masculini sexus efficiens causa est sed non
sine femina, id est non sine materia quadam, et ea causa sine qua fieri non
possit, cum ipsa uim efficiendi non habeat. Itaque nec causa necessariae
et efficientis posuit exemplum, nec eius sine qua fieri nihil possit sed
efficientis quidem, non tamen necessariae sed uidetur tacuisse in propositione
id cuius posuit exemplum; ita enim apertius dici potuisset: ATQUE ILLUD QUIDEM
GENUS CAUSARUM, QUOD HABET VIM EFFICIENDI NECESSARIAM, ERROREM AFFERRE NON FERE
SOLET; HOC AUTEM quod non habet efficiendi uim necessariam; uel HOC SINE QUO
NON EFFICITUR, SAEPE CONTURBAT. Itaque sic intelligendum est quasi ita sit
dictum; nam de necessaria causa nullum posuit exemplum. Quod uero subiecit,
utrisque causis conuenit posterius enumeratis, tam efficienti non necessariae,
quam eius sine qua nihil efficitur. Parentes namque tam masculini sexus quam
feminini esse dicuntur, quorum quidem masculini sexus ea causa est quae
efficiat sed non necessaria. Feminini uero ea quae non efficiat sed sine qua
effici [non possit. Quae cum ita sint, discernendae sunt causae et
peruidenda necessitas, nec omnis causa praemittenda ut subsequatur effectus sed
ea tantum in qua est efficiendi necessitas, etiamsi extrinsecus adiumenta
defuerint. ATQUE ETIAM EST CAUSARUM DISSIMILITUDO, QUOD ALIAE SUNT, UT
SINE ULLA APPETITIONE ANIMI, SINE VOLUNTATE, SINE OPINIONE SUUM QUASI OPUS
EFFICIANT, VEL UT OMNE INTEREAT QUOD ORTUM SIT; ALIAE AUTEM AUT VOLUNTATE
EFFICIUNT AUT PERTURBATIONE ANIMI AUT HABITU AUT NATURA AUT ARTE AUT CASU:
VOLUNTATE, UT TU, CUM HUNC LIBELLUM LEGIS; PERTURBATIONE, UT SI QUIS EVENTUM
HORUM TEMPORUM TIMEAT; HABITU, UT QUI FACILE ET CITO IRASCITUR; NATURA, UT
VITIUM IN DIES CRESCAT; ARTE, UT BENE PINGAT; CASU, UT PROSPERE NAVIGET. NIHIL
HORUM SINE CAUSA NEC QUIDQUAM OMNINO; SED HUIUSMODI CAUSAE NON NECESSARIAE. Facit
aliam rursus causarum diuisionem ita: CAUSARUM enim ALIAE SUNT quae sua quadam
ui, SINE APPETITIONE, SINE VOLUNTATE, SINE OPINIONE unum atque eumdem in
efficiendis rebus ordinem tenent, ut est interire omnia quae orta sunt. Nam
quia ortum est, idcirco etiam nec esse interire, nec tamen ipse ortus, ut
caetera intereant, uel appetitu aliquo, uel uolutate uel opinione efficit; sed
ita est ab aeterno rerum statu, ut quidquid ortum est, quia accepit esse,
aliquando etiam esse desistat. Item ALIAE sunt causae quae AUT in VOLUNTATE AUT
in PERTURBATIONE ANIMI AUT in HABITU AUT in NATURA AUT in ARTE CASU ue
consistunt. VOLUNTATE, ut si quaerat aliquis cur Trebatius librum legat,
respondebitur, quia legendi uoluntas est. PERTURBATIONE animi, ut si quis
timore pallescat, aut urbem fugiat, bellis ciuilibus conturbatas. HABITU, UT si
idcirco Trebatius FACILE. de iuris ratione responderit, quoniam multo usu
constantem ciuilis scientiae habitum tenet, uel si quis idcirco irascatur facile,
quia eius animus per iracundiae habitum efferatus est. NATURA, ut si quis
idcirco dicatur irasci, quia naturaliter iracundus est, id quod in dies uitium
crescat. ARTE, ut si idcirco bene quisque pingat, quia eius artis peritus esse
proponatur. CASU, ut quae in nostra potestate nullo modo sunt, fiunt tamen,
uelut in certo praesertim tempore, prosperitas nauigandi. Atque horum omnium
nihil a causa uacuum est, nec quidquam est in rebus quod non aliqua causa
perficiat. Omnia enim quae fiunt habent aliquam rationem cur facta sint, quam
si quis reddere possit, causam quoque reddiderit. Id est enim causa propter
quam unumquodque fit. Omnes uero causae quae uel ex uoluntate, uel
perturbatione animi intelliguntur, ad eam causam pertinent quae est mouendi
principium, ut in Aristotelica diximus diuisione. Haec enim ut aliquid
efficiatur, mouendi principium sunt, at in arte, uel habitu, uel natura, illa
causa est, quae in ratione consistit. Species enim ac ratio uniuscuiusque
efficiendae rei in arte et habituet natura posita est. Casus uero exterior
causa, nec inter principales annumeratur secundum Aristotelem. Secundum uero M.
Tullium casus est latens effectae rei causa; quod quale sit paulo posterius
designabitur. OMNIUM AUTEM CAUSARUM IN ALIIS INEST CONSTANTIA, IN ALIIS NON
INEST. IN NATURA ET [IN] ARTE CONSTANTIA EST, IN CAETERIS NULLA. SED TAMEN
EARUM CAUSARUM QUAE NON SUNT CONSTANTES ALIAE SUNT PERSPICUAE, ALIAE LATENT.
PERSPICUAE SUNT QUAE APPETITIONEM ANIMI IUDICIUMQUE TANGUNT; LATENT QUAE
SUBIECTAE SUNT FORTUNAE. CUM ENIM NIHIL SINE CAUSA FIAT, HOC IPSUM EST FORTUNAE
EVENTUS; OBSCURA CAUSA ET LATENTER EFFICITUR. ETIAM EA QUAE FIUNT PARTIM SUNT
IGNORATA PARTIM VOLUNTARIA; IGNORATA, QUAE NECESSITATE EFFECTA SUNT; VOLUNTARIA,
QUAE CONSILIO. QUAE AUTEM FORTUNA, VEL IGNORATA VEL VOLUNTARIA.] NAM
IACERE TELUM VOLUNTATIS EST, FERIRE QUEM NOLUERIS FORTUNAE. EX QUO ARIES
SUBICITUR ILLE IN VESTRIS ACTIONIBUS: SI TELUM MANU FUGIT MAGIS QUAM IECIT.
CADUNT ETIAM IN IGNORATIONEM ATQUE IMPRUDENTIAM PERTURBATIONES ANIMI; QUAE
QUAMQUAM SUNT VOLUNTARIAE -- OBIURGATIONE ENIM ET ADMONITIONE DEICIUNTUR --
TAMEN HABENT TANTUS MOTUS, UT EA QUAE VOLUNTARIA SUNT AUT NECESSARIA INTERDUM
AUT CERTE IGNORATA VIDEANTUR. Rursus causarum diuisionem aliam claram ac
perspicuam prodit. Causarum namque aliae sunt constantes, alia uero
inconstantes. Constantes sunt, quarum non fereuariatur effectus; inconstantes
uero, quae huc atque illuc facilioribus mutationibus transferuntur. Omnia
igitur quae ex natura atque arte descendunt, constantia sunt. Natura quippe
atque ars suum semper opus efficiunt, nisi subiectae materiae obstet incertum.
Nam quod unus idemque artifex ex eadem saepe materia non admodum similes
statuas format, non est haec in arte uarietas sed tum in artificis manu, quae
integritatem artis assequi non potest, tum in ipsa materia, quae efficientiae
atque formae non aequaliter cedit. Idem est in natura, seruat namque
constantiam suam, cum hominem format ex homine. Itaque similia in caeteris ex
similibus gignit: at cum monstrosum aliquid effertur, non naturae uitio sed
materiae potius applicatur, ex qua id quod efficere contendebat, non ita potuit
natura explicare. Sed inter constantes causas habitus quoque debuit
adiungi; nam quod habitu cuiusque lit, id constans, nec mutabile esse solet;
quandoquidem idcirco habitus dicitur, quia diuturnitate habendi in naturae
similitudinem uertitur. Sed forsan Tullius uidit quod natura atque ars, non tam
in effectibus constantes quam in propria ratione esse intelliguntur, in tantum
ut quod ars ac natura delinquit, materiae saepius impPombaur, habitus uero ipse
consuetudine quadam collectus est, qui non ratione aliquid et propria
constantia sed usu facit, atque idcirco forsitan habitum, qui inter caetera
praeter artem et naturam uidebatur esse constantior, a causis constantibus
segregauit. Ea uero quae non sunt constantia, in ea diuidit quae sunt
perspicua, et in ea quae latent. Perspicua sunt quae ab animi quolibet motu uel
appetitione, uel iudicii ratione profecta sunt; latent uero quae fortunae
subiacent. Nam quia non ignorat animus in quam partem declinet, qui tametsi
boni aliquanio habet iudicium, nunquam tamen eius rei quam efficit notionem
relinquit, praetereos qui funditus mente capiuntur, et in quibus iam nulla
uoluntas est, nec esse est nota esse, quae ex uoluntate uel animi iudicio
fiunt. Fortuna uero atque casus semper ignotus est. Cuius quidem natura aeque
incerta est, atque ea quae casibus ipsis fiunt. Sed M. Tullius definit
esse casum, euentum causis latentibus effectum; quae non uidetur integra
definitio: quid enim, si adhuc lateret quibus causis solis defectus lunaeue
contingeret, num idcirco casu atque fortuna fierent, quae constantibus caeli
motibus administratur? An casus quidem putaretur ab his qui defectus
rationem reperire non possent, per se autem consideratus, nullo quidsm modo
esset casus. Sed M. Tullius non quod uideretur esse casus, his qui eius naturam
minime perspexissent sed qui omnino fortunae euentus esset definitionis
rationem monstrabat. Euentum uero latentibus causis Cicero casum esse ita
concludit: Cum omnia certis de causis fiant, quorum ratio cognoscitur, eorum
euentus casu fieri non posse monstrantur sed putantur aliqua fieri casu eorum
quorum causa nulla ratione cognoscitur. Ex quo euenit ut fortunae sit euentus,
qui latentibus causis efficitur. Hic igitur in rebus quidem ipsis constantiam
ponit, casum uero non re sed opinione metitur. Quo fit ut si aliter effectae
remouerit causam, id quod accidit fortunae non sit euentus, idem tamen sit
alteri fortunae euentus, si rationem alter ignoret. Quod uero omnium rerum
causas esse dicit, non determinat quales, atque ideo nec de fortuna ipsa, quorum
euentum causa sit, monstrat. Nec me saeuae hominum mentes arrogantiae
notent, quod uelut affectata auctoritate Tullianis sententiis pugnem, cum
aduersus eas si quid uidebitur non nostra sed ab antiquissimis tractata
compensem. Quod si nostra quoquo diceremus, oporteret tamen eos non personarum
uetustatem sed eorum quae opponuntur considerare rationem, nec odisse potius quae
aduersus magni nominis uiros dicuntur, quam contraria, si possent,
argumentatione reuincere. Nam si eis M. Tullius in definitione rerum nimium
placet, quaenam est inuidia nos quoque Aristotelicam rationem probare?
Quod si intemperanter molestissimi esse pergunt, audiant M. Tullium secundo
Tusculanarum disputationum libro adhortantem potius, atque ad certamen
uocantem, hoc modo: Sed tamen tantum abest ut scribi contra nos nolimus,
ut id etiam maxime optemus. Ipsa enim Graeciae philosophia nunquam in honore tantum
fuisset, nisi doctissimorum contentionibus, dissensionibusque creuisset;
quamobrem hortor omnes, qui facere id possunt, ut eius quoque generis
laudem iam languenti Graeciae eripiant, et transferant in hanc urbem,
sicut reliquas omnes, quae quidem erant expetendae studio atque industria
sua maiores nostri transtulere. Et rursus, nos qui sequimur
probabilia nec, ullraquam quod uerisimile occurrit, progredi possumus, et
refelli sine pertinacia et refellere sine iracundia parati sumus. Quocirca quae
malum ratio est ipsius M. Tullii uoluntatem iudiciumque conuellere, cum eiusdem
contra nos sententiis atque auctoritate nitantur? Sed si cui commentarios
nostros inspicere uacuum fuerit, sciat haec nos ex Aristotelis secundo
Physicorum uolumine aduertisse, quae tametsi altioris philosophiae
disputationes tangunt, non est tamen studiis inuidendum, si rhetoricis quoque
ac dialecticis disputationibus admisceamus, qua sunt profundiora naturae, neque
pigrescere ac dilassari animos dignum est, quos intentiores ac uegetos ipsa
rerum ambiguitas et uariarum cognitio speculationum deberet efficere, eum
praesertim ea librorum natura sit, ut ad legendum studiosos teneat, nullum
cogat ignauum. Dicamus igitur quid euentus sit fortunae, uel quarum sors causa
esse dicatur. Omnia igitur sunt uel immutabiliter ac semper, ut quod sol
oritur; uel saepius, ut quod equus quadrupes nascitur; uel raro, ut si equus
cum quinque uel tribus pedibus procreetur; uel aeque, ut in quibus faciendarum
rerum nihil interest, quo potius uoluntatem uergamus. Atque illud quidem quod
semper fit, nihil habet oppositum, quod ullo modo aliter fiat; id uero quod
saepe contingit habet; aduersum, id quod rarius euenit, neque enim saepius
fieret, ac non semper, nisi diuersum raro quidem sed aliquando contingeret.
Quod igitur ex fortuna tit, in sempiternis non est; quis enim casu solem dicat
oriri? Ne in his quidem quae frequentius fiunt; nullus enim casu equum dixerit
esse quadrupedem. Nee uero in his quae fieri aequaliter solent; nam quae
uoluntaria sunt non uidentur esse fortuita. Restat igitur ut in his
fortunae euentus sit, quae rarius fiunt. Eorum uero quae fiunt, partim finem
aliquem spectant, partim minime. Quis enim finis esse potest, si manum
extendam, si genua complicem, atque aliquid iacens humi tollam, quod nullis
usibus applicem? At uero ea quae aliquem finem spectant partim uoluntatis sunt,
partim naturae. Voluntatis, ut siquis idcirco domo egrediatur, ut uideat
amicum. Naturae, ut quod est in animalibus. Omnia quae ab ea fiunt certam animalis
respiciunt utilitatem, atque ad eius salutem conseruationemque omnium membrorum
momenta sunt constituta. Casum igitur ac fortuitos euentus in his esse ponimus,
quae cum rarius fiant, in his tamen per accidens eueniunt, quae propter aliquid
fiunt. Veluti si quis egressus domo ut amicum uideret, praeteriens
cadente. desuper lapide ictus est: id igitur quod euenit, in rariore
causa ponendum est, accessit uero ei uoluntati, quae certum respiciebat finem.
Ea uero fuit domo egrediendi causa, ut amicum uideret. Rursus, quoniam lapsis
naturaliter grauis est, grauitas uero terram petit, casus quidem lapidis
propter aliquid naturaliter factus est; ad id enim lapidis natura tendebat, ut
in suum locum pondus ueniens conquiesceret. Sed huic naturali intentioni accidit
id quod rarius euenit scilicet ut percuteret caput; quo fit ut sit secundum
Aristotelem fortuna uel casus, causa per accidens rarius eueuientum in his
rebus quae propter aliquid fiunt. Quae cum ita sint, cumque definitio
Aristotelica a Tulliana plurimum discrepet, illud tamen in utrisque constat, id
quod fortunae subiectum est, incertis casibus semper esse suppositum. Nam licet
in his rebus saepe fortuna suos experiatur actus, quae uoluntate sunt, et ad
aliquem finem referuntur, extra tamen accidit quod fortunae est, nec ab eo tine
uenit, quem sibi animus ante perspexerat. Sed cum Cicero diuisisset
causas in eas quae perspicuae sunt, et in eas quae laterent, cumque eas quae
perspicuae sint diceret esse quae appetitionem animi iudiciumque tangerent,
manifestum est eum uel artem, uel uoluntatem, uel perturbationem, uel habitum
in his causis ponere quae perspicu ac sunt; uoluntas quippe atque animi
perturbatioin appetitione ponitur, saepe enim ex perturbatione aliquid
appetimus, artem uero uel habitum in iudicio; arte namque iudicamus, habitus
uero ad utrumque pertinet: nam et uoluntates consuetudo ministrat, et multo usu
peritiaque fit quaedan constantia iudicandi. Casum in non perspicuis
posuit. De natura incertum est utrum inter perspicuas an inter latentes
ipsam coliocet: nam si inter latentes causas, ipsam naturam casum uideretur
putare: cuius opinionis nulla ratio est Quod si inter perspicuas, quaenam
appetitio animi uel iudicium in natura est? Neque enim appetendo aliquid uel
iudicando facit natura, nisi forte quoniam ex ipsa saepe habilitas quaedam
mentis et corpori existit, quae habi lit as ad unamquamque rem adiuuat
uoluntatem; id enim maxime uolumus ad quod habiles sumus. Sed natura inter
perspicuas causas ponitur, quae iudicio quoque coniuncta est, ut si naturaliter
sano quisque iudicio compositus est: appetitioni etiam, ut si naturaliter
aliquid animus petat. His adiungit aliam causarum diuisionem; ait enim
alias causas esse uoluntarias, alias ignoratas: uoluntarias, eas quaecumque ex
iudicio ueniunt animi; ignoratas in quibus necessitas domina est, id est in
quibus aut omnino non uolumus, aut ne si uelimus quidem aliter facere possumus,
ut in natura atque casu. Necessitate enim quadam naturae grauia deorsum
feruntur, necessitate item factum dicimus, ut aliquis ignorans iacto trans
parietem lapide praetereuntem hominem peremerit. Eaque necessitas talis est,
non quod aliter fieri non potuisset, nisi ut lapide iacto percuteret sed quia
uoluntas defuit, et non idcirco, quia uoluit, fecit. Prior uero necessitas iam
talis est, in qua nulla uoluntas est, uel ea quae est, ne id quod cupit
efficiat, ualidiore necessitate constringitur. Nam cum lapsis deorsum propria
grauitate deponitur, nulla uoluntas est sed tantum naturae necessitas; at si
homo deorsum cadat, est quidem non cadendi uoluntas sed ferri quo non uult,
ualidior naturae causa compellit. Voluntatem uero a fortuitis euentihus
uno eodemque aptissimo secreuit exemplo, ueluti si telum manu iaciat, nolensque
feriat praetereuntem. Nam iecisse ex uoluntatis principio nascitur. Idcirco
enim iecit, quia uoluit. Ignorauit uero quod perculeret; neque enim iecisset,
si se percussurum praeuidere potuisset. Neque iecit, quia uoluit percutere. Si
autem non ignorasset, non percutere potuisset. Unde etiam machinamentum quoddam
atque defensio in iuris peritoram responsionibus inuenitur, hoc modo: Si telum
manu fugit magis quam iecit; nam si quis caedis accusetur, optima solet esse
defensio, si alia non suppetit, fugisse manu telum, magis quam uoluerit
iecisse, ut non uoluntati, quae condemnatur in culpis sed ignorantiae factum
tribuatur. De perturbationibus autem animorum paulo confusius iudicium
est. Dubitari enim potest utrum ex uoluntate, an necessitate, an ex ignoratione
uenerit, quod perturbatione peccatur: uidentur enim uoluntaria esse peccata,
quoniam qui perturbatus est appetit aliquid, aut fugit. Sed in hoc perturbatio
eius apparet, quod non fugienda uitat, et non appetenda nimis exoptat. Porro
autem quoniam in perturbationibus sunt confusa iudicia (neque enim aliter id
quod fugiendum est saepe appetunt perturbati, nisi obcaecato obscuratoque
iudicio), quod uero fit animi confusione, saepe tale est ut nollet admisisse
qui fecit, et euenit ut non inter uoluntarias sed inter ignoratas uel
necessarias causas animorum perturbatio sit; in tantum uero qui perturbatus
est, a uera discretione discedit, ut in eam possit recta bene consulentium
admonitione reduci. Quo fit ut animorum perturbatio iure a causis uoluntariis
segregetur, et aut in ignoratione, aut in necessitate ponatur. Nam quod
ait: TAMEN HABENT TANTOS MOTUS, UT EA QUAE VOLUNTARIA SUNT, AUT NECESSARIA
INTERDUM, AUT CERTE IGNORATA VIDEANTUR, ita intelligendum est: quoniam omnis
animi passio iudicium conturbat, confundit uero rectam discretionem, si acrior fuerit
quam ut rationis retinaculis temperetur, et fit quaedam ex perturbationibus
ueluti uiolenta necessitas, ut dubium sit utrum is qui aliquid perturbatus
animo facit, ignorans faciat; ueluti cum casu ignorans delinquit, cum futurum
non prouidet casum, an sciens faciat, uel necessitate ducatur. Quod igitur
dixit: Aut necessaria esse, aut ignorata, et diuisit a neeessariis ignorata,
non pugnat contra id quod superius dixit, ea quae ignorata sunt esse
necessaria. Nam id quod est ignoratum ita quodammodo diuidit: ignoratorum alia
quadam necessitate fiunt, dum aut nulla uoluntas est, aut ea quae est,
necessitati nequit obsistere; alia casu, cum in his faciendis, quae ignorantur,
nulla uoluntas est. Quod igitur dixit, perturbationes animi, aut in
necessariis causis poni, aut in ignoratis, id sine dubio sensisse intelligitur,
perturbationes animi, aut in his esse ignoratis in quibus ea necessitas est, ut
uoluntas obsistere non possit, aut in his in quibus nalla uoluntas est sed sit
delictum caecitate iudicii, uelut in his qui immoderatius amoris cupiditati
deseruiunt: aut enim confuso iudicio ab honestate discedunt, et dum quasi bonum
appetunt, in malum decidunt ignorantes, atque ita in casu quodam atque errore
ponitur amor immodicus; aut nouit quidem quod appetit esse uitandum sed maioris
actu cupiditatis impellitur, atque ita inter ea necessaria ponitur, quae aut
non habent uolunt. Item, aut eam ita infirmam ac debilem, ut nullo modo
ualidioribus passionibus obnitatur. Fore quosdam, Patrici rhetorum
peritissime, non dubitauerim, qui hunc in Topicis altiorem ex philosophia
tractatum uaria obtrectatione reprehendant, quia inter logicam disputationem
physicam interposuit. Hi uero sunt, uel quibus hoc totum philosophari
displiceat, uel qui in argumentorum locis naturales admisceri causas oportuisse
non existiment. Sed contra priores quidem, et a M. Tullio, et ab ipsa
quodammodo humana ratione, quae in motu posita aliquid semper inquirit, atque
amore scientiae neque decipi patitur, neque ullo modo a ueritatis ratione
traduci, saepe multumque responsum est. His uero qui sequestrandas ab
oratorio facultate philosophiae disciplinas putant, respondendum breuiter
existimo. Ratione quidem reperiri quiddam potest sed melius atque facilius
artifex faciet, si in opere construendo artis facultatem atque elegantiam
comparet. In argumentis quoque idem esse manifestum esti ui namque
naturalis ingenii argumenta promuntur. Sed ars facultatem imitata naturae uiam
quamdam rationemque reperit, qua id effici facilius ac melius possit. In
qua re illorum nec esse est reprehendatur error, qui rhetoricam facultatem
naturalem esse dixerunt, quoniam quilibet totius artis alienus et intendere in
alterum crimen, et sese purgare solet, et argumento aliquid prohare contendit.
Reprehendendi etiam sunt qui eamdem facultatem in sola arte positam esse
dixerunt: oportuit enim eos animaduertere, omnem quidem artem sui materiam
effectus ex natura suscipere sed in ea tamen ratione propriam facultatem
elegantiamque experiri. Haec itaque quae artium ratio perficit, ab imperitis
etiam fieri, utcumque contigerit, possunt. Bene autem ac facile nemo efficit
nisi artis ratione fuerit instructus. Cum igitur totius operis haec sit
intentio, ut argumenta quae confusa et ueluti clausa natura suppeditat,
artificialiter uestigentur, quid sit per quod efficere id quod promittit ars
ualeat, sub exempli notatione demonstrat: ut enim facilius argumenta reperiantur,
illa res efficiet, si demonstrentur loci in quibus argumenta sunt collocata. Et
enim ut si quis aliquid quaerat, facilius id inuestigare possit atque inuenire,
si locus ei monstretur ubi sit positum id quod inquirit; ita etiam cum quis
argumentum inuenire conatur, si ei locus ubi argumentum sit positum,
declaretur, facilius argumentum quod quaerit ualebit inuenire. Ita enim
Aristoteles, et ita Tullius appellat eas sedes in quibus argumenta sunt collocata,
id est locos, qui ab Aristotele topica uocati sunt. Sed quoniam de
sedibus argumentorum loquimur, hi cuiusmodi sint paulo altius expediamus; locos
enim non uno modo intelligitur. Ac relinquamus quidem eos locos quos Victorinus
frustra atque inconuenienter interserit, uelut cos qui corpora concludunt, ac
simpliciter intelligamus eos locos argumentorum esse qui intra se continent
argumenta in quibus exponendis posterius quid sit quod dicimus clarius
apparebit. Nunc communiter de tota locorum ratione, deque argumentatione, ac de
quaestionibus et propositionibus earumque terminis uidetur esse
tractandum. Ac primum quoniam locus qui tractatur in Topicis, non
cuiuslibet rei sed tantum locus est argumenti, exposito prius argumenti
intellectu, deinceps de loci ratione tractabimus. Definit igitur Tullius
argumentum hoc modo: Argumentum est ratio quae rei dubiae faciat fidem. Sumpsit
igitur rationem ut genus. Omnes enim iniuriosi sunt qui orationis uirtutem a
sapientiae ratione seiungunt, aliamque esse dicendi artem uelint, aliam intelligendi.
Nam si nihil orationes aliud agimus, nisi interius cogitata uulgamus, quae
malum ratio est, orationis elegantiam a sententiarum grauitate se ponere? Quae
porro sententiarum grauitas esse potest, sine earum rerum de quibus dicendum
est comprehensione? Quae uero alia disciplina naturam proprietatemque rerum
omnium docet, uel quae omnino eorum quae intelligi possunt, scientiam profitetur,
nisi haec tantum ex qua nos pauca praesumpsimus philosophia? quae longe aliter
de his ipsis in proprio sapientium tractatu disputare solet. Neque ita cursim
ut nos, quae sint in illorum libris solet, prolixius disserenda sumpsissem,
quis ferret insolentium hominum temeritatem prouectus suos culpare uolentium
quibus prouectibus proficerent, si studiosi potius quam queruli esse mallent?
Sed his contentionibus neque antiqua caruit aetas, nec nos ita delicati sumus,
ut quibus patientia doctissimorum hominum saepius obstitit, fere nolimus, dum
et pluribus prod esse possumus, et sapientium iudicia consequamur. Ad quem
finem hic noster labor et totius operis summa contendit. Sed haec
hactenus. Nunc susceptae expositionis ordinem persequamur. TOTO
IGITUR LOCO CAUSARUM EXPLICATO, EX EARUM DIFFERENTIA IN MAGNIS QUIDEM CAUSIS
VEL ORATORUM VEL PHILOSOPHORUM MAGNA ARGUMENTORUM SUPPETIT COPIA; IN VESTRIS
AUTEM SI NON UBERIOR, AT FORTASSE SUBTILIOR. PRIVATA ENIM IUDICIA MAXIMARUM
QUIDEM RERUM IN IURIS CONSULTORUM MIHI VIDENTUR ESSE PRUDENTIA. NAM ET ADSUNT
MULTUM ET ADHIBENTUR IN CONSILIA ET PATRONIS DILIGENTIBUS AD EORUM PRUDENTIAM
CONFUGIENTIBUS HASTAS MINISTRANT. IN OMNIBUS IGITUR EIS IUDICIIS, IN
QUIBUS EX FIDE BONA EST ADDITUM, UBI VERO ETIAM UT INTER BONOS BENE AGIER
OPORTET IN PRIMISQUE IN ARBITRIO REI UXORIAE, IN QUO EST QUOD EIUS AEQUIUS
MELIUS, PARATI EIS ESSE DEBENT. ILLI DOLUM MALUM, ILLI FIDEM BONAM, ILLI AEQUUM
BONUM, ILLI QUID SOCIUM SOCIO, QUID EUM QUI NEGOTIA ALIENA CURASSET EI CUIUS EA
NEGOTIA FUISSENT, QUID EUM QUI MANDASSET, EUMVE CUI MANDATUM ESSET, ALTERUM
ALTERI PRAESTARE OPORTERET, QUID VIRUM UXORI, QUID UXOREM VIRO TRADIDERUNT.
LICEBIT IGITUR DILIGENTER ARGUMENTORUM COGNITIS LOCIS NON MODO ORATORIBUS ET
PHILOSOPHIS, SED IURIS ETIAM PERITIS COPIOSE DE CONSULTATIONIBUS SUIS
DISPUTARE. Diuiso causarum loco atque ordine suis partibus distributo, de
locis eiusdem facultate, quibusque uberius, quibusque angustius accomodetur,
uti saepe Ciceroni mos est, disserit. Primum enim inquit, oratoribus ac
philosophis, quorum in disputationibus larga materia est, multa ex causarum
loco argumentorum suppetit copia. Communis quippe oratoribus ac philosophis hic
locus esse prospicitur qui est a causis, his naturas rerum quod est
philosophiae proprium, illis quod oratoriae facultatis est, facta probantibus.
Nam et cum res quaelibet quaeritur, [eius causae a philosophis uestigari
solent. Quibus praemissis, ut superius dictum est, comitatur statim quod
concludendum est, et oratores ad suspicionem mouendam detergendamue factorum
causas requirunt. Hoc quippe stabile in hominum mentibus manet, quod neque
factum, neque res ulla praeter illam omnium principem naturam, sine propriis
causis possit existere. Quo fit ut uberrimus causarum usus sit in rhetorum orationibus,
philosophorumque tractatu. Sed ut hunc libellum M. Tullius scribens,
pleraque omnia Trebatio dedisse uideatur, hunc locum iuris quoque consultis
attributum esse demonstrat, dicens: Etsi non tam uberes opportunitates habeat
hic locus in iurisperitorum responsionibus subtilius certe atque acutius pro
ipsius artis natura tractari potest, scilicet ubertatem quae deerat,
subtilitate quae poterat inesse compensans. Habent enim etiam ipsi proprium
campum in quo eorum uirtus possit enitere. Est enim iurisconsultorum prudentiae
priuatarum quaestio causarum, maximeque in illis negotiis; hic causarum locus
examinabitur, in quibus bonae fidei iudicia nectuntur. In his enim qui fuerit
animus contrahentium quaeri solet, qui deprehendi uix poterit, nisi praecedentibus
causis intelligatur. In his igitur iudiciis in quibus additur ut ex bona fide
iudicent, id est ubi ita iudices dantur, ut non strictas inter litigantes
stipulationes sed bonam fidem quaerant, pluribus causarum usus est: additur ut
inter bonos bene agi oportet, considerantur mores, inquiruntur consilia;
statuitur quibus, quidque de causis, administratum sit. In primisque in iudicio
uxoriae rei uberrimus causarum tractatus est. Est autem iudicium uxoriae
rei, quoties post diuortium de dote contentio est. Dos enim licet matrimonio
constante in bonis uiri sit, est tamen in uxoris iure, ut post diuortium uelut
res uxoria poti potest. Quae quidem dos interdum his conditionibus dari
solebat, ut si inter uirum uxoremque diuortium contigisset, quod melius a quius
esset, apud uirum remaneret, reliquum dotis restitueretur uxori, id est ut quod
ex dote iudicatum fuisset melius aequius esse ut apud uirum maneret, id uir
sibi retineret; quod uero non esset melius aequius apud uirum manere, id uxor
post diuortium reciperet. In quo iudicio non tantum boni natura spectari solet,
uerum etiam comparatio bonorum fit, ut non tam quod aequum sed melius
aequiusque est id sequendum sit. Quae omnia ex precedentibus causis inuestigari
solent. Nam si uiri culpa diuortium factum est, aequiusmelius est nihil apud
uirum manere. Si mulieris est culpa, aequius melius est sextans retineri.
In hisque omnibus peritissimi iurisconsulti esse debent; quo fit ut Trebatium
quoque hortetur ad studium. Multa enim esse dicit, quae eorum operam exspectant.
Illi enim, inquit, dolum malum, illi bonam fidem, illi aequum et bonum, illi
etiam quid socius socio praestare debeat, quid is qui alienum in se gerendum
sponte negotium suscepisset, ei cuius id negotium fuerat, quid is qui
mandauerit ei cui mandauerit suorum negotiorum actiones, quid uir uxori, quid
uxor uiro tradiderit; quae omnia ad posteriora causae sunt, aique exinde
iudicia sumuntur idcirco enim, uerbi gratia, quodlibet illud iudex pronuntiare
debet in uxoris ac uiri causa, quia uirum hoc praestare oportet uxori; idcirco
etiam mandato rei cui mandauerit, obligatus esse iudicandus est, quia inter
mandatorem susceptoremque negotii illud est obseruandum, omnia quoque quae
quisque alteri prmslare debet, ea in tractandis iudicandisque negotiis causae
sunt. Quocirca recte conclusit, diligenter cognitis argumentorum locis, et
oratoribus, et philosophis, et iurisconsultis argumentorum copiam non
defuturam. CONIUNCTUS HUIC CAUSARUM LOCO ILLE LOCUS EST QUI EFFICITUR EX
CAUSIS. UT ENIM CAUSA QUID SIT EFFECTUM INDICAT, SIC QUOD EFFECTUM EST QUAE
FUERIT CAUSA DEMONSTRAT. HIC LOCUS SUPPEDITARE SOLET ORATORIBUS ET POETIS,
SAEPE ETIAM PHILOSOPHIS, SED EIS QUI ORNATE ET COPIOSE LOQUI POSSUNT, MIRABILEM
COPIAM DICENDI, CUM DENUNTIANT QUID EX QUAQUE RE SIT FUTURUM. CAUSARUM ENIM
COGNITIO COGNITIONEM EVENTORUM FACIT. Omnia quae ad se referuntur recte
dicuntur esse cnniuncta; ipsa enim relatio rerum efficit coniunctionem; quod si
causa alicuius causa est, non alterius, nisi sui effectus est causa, itemque si
est aliquis effectus, ex causarum principiis uenit; iure igitur ab effectis
locus, causarum loco debet esse coniunctus. Quoniam uero semper quae ad se
referuntur aequantur, nec esse est, quae ubertas sit causarum, eadem quoque sit
effectorum. Quoniam enim causa praeter effectum esse non potest, cum sit causa
super effectum, nec esse est ut ex euentibus quoque atque effectibus, plurima
suppetant argumenta, siquidem ex causis etiam plurima contrahuntur. Nam sicut
cuiuslibet effectus potest causa tractari, si ex qualibet causa potest, qui sit
euentus ostendi, recteque, ait, causarum cognitio euentuum cognitionem facit;
ut enim in praedicamentis ostenditur, sciri relatiuum aliquod non potest,
praeter reliqui scientiam relatiui. RELIQUUS EST COMPARATIONIS LOCUS,
CUIUS GENUS ET EXEMPLUM SUPRA POSITUM EST UT CAETERORUM; NUNC EXPLICANDA
TRACTATIO EST. COMPARANTUR IGITUR EA QUAE AUT MAIORA AUT MINORA AUT PARIA
DICUNTUR; IN QUIBUS SPECTANTUR HAEC: NUMERUS SPECIES VIS, QUAEDAM ETIAM AD RES
ALIQUAS AFFECTIO. NUMERO SIC COMPARABUNTUR, PLURA BONA UT PAUCIORIBUS
BONIS ANTEPONANTUR, PAUCIORA MALA MALIS PLURIBUS, DIUTURNIORA BONA BREVIORIBUS,
LONGE ET LATE PERVAGATA ANGUSTIS, EX QUIBUS PLURA BONA PROPAGENTUR QUAEQUE
PLURES IMITENTUR ET FACIANT. SPECIE AUTEM COMPARANTUR, UT ANTEPONANTUR QUAE
PROPTER SE EXPETENDA SUNT EIS QUAE PROPTER ALIUD ET UT INNATA ATQUE INSITA
ASSUMPTIS ATQUE ADVENTICIIS, INTEGRA CONTAMINATIS, IUCUNDA MINUS IUCUNDIS,
HONESTA IPSIS ETIAM UTILIBUS, PROCLIVIA LABORIOSIS, NECESSARIA NON NECESSARIIS,
SUA ALIENIS, RARA VULGARIBUS, DESIDERABILIA EIS QUIBUS FACILE CARERE POSSIS,
PERFECTA INCOHATIS, TOTA PARTIBUS, RATIONE UTENTIA RATIONIS EXPERTIBUS,
VOLUNTARIA NECESSARIIS, ANIMATA INANIMIS, NATURALIA NON NATURALIBUS, ARTIFICIOSA
NON ARTIFICIOSIS. [18.70] VIS AUTEM IN COMPARATIONE SIC CERNITUR:
EFFICIENS CAUSA GRAVIOR QUAM NON EFFICIENS; QUAE SE IPSIS CONTENTA SUNT MELIORA
QUAM QUAE EGENT ALIIS; QUAE IN NOSTRA QUAM QUAE IN ALIORUM POTESTATE SUNT;
STABILIA INCERTIS; QUAE ERIPI NON POSSUNT EIS QUAE POSSUNT. AFFECTIO AUTEM AD
RES ALIQUAS EST HUIUS MODI: PRINCIPUM COMMODA MAIORA QUAM RELIQUORUM; ITEMQUE
QUAE IUCUNDIORA, QUAE PLURIBUS PROBATA, QUAE AB OPTIMO QUOQUE LAUDATA. ATQUE UT
HAEC IN COMPARATIONE MELIORA, SIC DETERIORA QUAE EIS SUNT CONTRARIA. PARIUM
AUTEM COMPARATIO NEC ELATIONEM HABET NEC SUMMISSIONEM; EST ENIM AEQUALIS. MULTA
AUTEM SUNT QUAE AEQUALITATE IPSA COMPARANTUR; QUAE ITA FERE CONCLUDUNTUR: SI
CONSILIO IUVARE CIVES ET AUXILIO AEQUA IN LAUDE PONENDUM EST, PARI GLORIA
DEBENT ESSE EI QUI CONSULUNT ET EI QUI DEFENDUNT; AT QUOD PRIMUM, EST; QUOD
SEQUITUR IGITUR... Omnis comparatio duplex est: aut enim aequalia sibimet
comparantur, aut inaequalia; sed in his quae sunt aequalia, semper eadem esse
notatur aequalitas. Inaequalia autem ingemina ueluti membra diuiduntur, minoris
scilicet atque maioris. Nam quod minus est, non per se minus est sed com
paratione maioris. Itemque quod maius est, minoris comparatione dicitur maius.
Quae cum ita sint, diuidit atque ante oculos ponit omnium comparationem modos,
et quod raro in superioribus locis fecit, ipsas maximas propositiones ponit in
comparationibus constitutas, ut si quando loco sit nobis comparationis utendum,
habeamus quoddam, uelut inuentionis exemplar, ad quod quaerentem animum
possimus aduertere. Omnis igitur comparatio, aut in numero constat, aut
in specie aut in ui aut aliqua locata extrinsecus affectione. Nam quodcumque
conferre contendimus, aut numero comparamus, et secundum id aliud maius, aliud
minus esse decernimus; aut speciem ipsam intuentes, eamque alii comparantes de
excellentia iudicium damus; aut aliud consideramus, quid res quaeque possit
efficere, et in quantum eius progredi possit natura, aut ex aliorum quodammodo
continentia, et ex circumstantium affectione rem quam alii conferimus intuemur.
Numero igitur quae comparantur, si ex eodem sint genere, plura paucioribus ante
ponuntur, uelut ei bona omnia sit aequalia, iure quis quamplura bona
paucioribus anteponit. Et est haec maxima propositio: Plura bona
paucioribus anteponuntur et in caeteris quoque eadem ratio perspicitur
maximarum propositionum. At si omnia in contrario sint genere, pluralitati
paucitas praeferenda est, ut pauca mala pluribus malis, mala uero ipsa bonis
nullo modo conferuntur. Quae enim ullo modo compensantur, in eodem esse genere
debent, non in contrario. Nam cum aduersum se contraria e regione locata sunt,
conferri compararique non possunt, quod sibi intelligitur esse inimica. Est
etiam secundum numerum comparatio in temporis quoque ratione. Nam cum
tempuscertis quibusdam spatiis, diuidatur, uelut horae, diei, mensis atque
anni, ex aequalibus bonis ea magis eligenda sunt, quae diuturnius perseuerant,
quod in numero positum esse nullus ignorat. Ipsa enim diuturnitas plurimos esse
uel dies, uel menses, uel annos fatetur, quibus duret id quod eligitur. Longe
etiam peruagala bona, angustis et in unum minimum locum coarctatis numeri
comparatione praecedunt. Nam quae longe lateque peruagata sunt, ea in plurimas
gentes regionesque diffusa sunt; pluralitas uero cuiuslibet rei numerum spectat.
Iam uero ex quo plura propagantur bona, qui non iudicet esse meliora his quorum
est inops bonorum contractiorque fecunditas? Quis etiam bonum quod plures
imitentur ut faciant, caeteris quae ita non sint, excellere non arbitretur,
quae in numero constare quis nesciat, quando in numero pluralibus
constat? Specie uero comparantur, quae per seipsa considerata suae
quodammodo pulchritudinis merito caeteris anteferuntur. Meliora enim sunt quae
propter se, quam quae propter aliud expetuntur, ueluti salus quae propter se
excetitur, medicina propter salutem; quocirca melior est salus quam medicina:
atque haec non ad aliquem numerum, nec postremo ad aliquam quantitatem sed ad
ipsam speciem salutis ac medicinae considerationem referentes, iudicium
promimus. Illa quoque quae innata atque insita sunt, assumptis et aduentitiis
meliora iudicantur, unde innata moribus grauitas longe amplius excellit eam
quae per imitationem affectatur. Integra etiam potius quam contaminata melioris
rei iudicium ferunt. Nam quae integra sunt, suam speciem seruant, quae
contanimata sunt atque ex aliqua parte uitiata, si qua etiam inerat, speciei
pulchritudinem perdiderunt. iocunda minus iocundis meliora, communis omnium
animalium natura diiudicat. Honesta utilibus sapientes anteponunt; procliuia
laboriosis anteferri illa res monstrat, quod nemo ad eumdem finem per
laboriosam atque asperam uiam tendere cupiat, ad quem possit procliui facilique
itinere peruenire. Labor quippe omnis iniocundus est, iocunda est facilitas.
Necessaria etiam non necessariis partim praeferri, partim etiam postponi
debent, quod M. Tullius tacuit: necessaria quippe praeferuntur his non
necessariis, quae non boni ratione sed uoluptatis appetitione sunt constituta,
ueluti luxu regio parata conuiuia nullus sapiens iudicet esse meliora his quae
naturae expleant indigentiam. Quaedam uero sunt quae ipsa specie boni, cum non
necessaria sint, meliora sunt necessariis. Nam uiuere necessarium est, et sine
eo subsistere animal nequit. Philosophari uero non est necessarium, melius tamen
longeque excellentius est philosophum uiuere quam tantum uiuere: illud enim
raro paucisque etiam utentibus ratione concessum; illud pecudibus commune
nobiscum. Sua quoque alienis iure meliora esse dicuntur, ueluti hominibus ratio
potius quam uoluptatis appetitio: illud enim proprium est hominis, illud
alienum; rara quoque uulgaribus meliora sunt. (Atque hic locus approbat id quod
superius dictum est, philosophantem uitam ipsa uita esse meliorem: nam quae
rara sunt, facile id quod uulgare est antecedunt.) Desiderabilia etiam
his quibus facile carere possis, illa res approbat esse meliora, quod maxime
desiderantur, et sine his anxia uita est, ueluti ei quis capillis uisum
conierat. Aegrius enim toleramus carere uisu quam capillis; ita ex hoc meliorem
esse uisum capillis iudicamus, quod his facile, illo aequo animo carere non
possumus. Perfecta etiam imperfectis naturaliter excellunt, illa enim suam
formam adepta sunt, illa minime. Tota etiam partibus eodem modo excellentiora
esse arbitramur: nam quod totum est, habet naturae propriam formam. Quod uero
pars est et ad totius nititur perfectionem, nondum suae pulchritudinis speciem
cepit, nisi ad totius integritatem referatur. Iam uero ratione utentia rationis
expertibus nullus dubitat esse meliora. Voluntaria quoque necessariis iure
anteponuntur, namque uoluntaria libera sunt, quae necessaria quodam nos ueluti
dominio necessitatis astringunt, atque ideo meliora esse uoluntaria necessariis
existimamus; quanquam in hoc etiam illud intelligi possit, quod a nobis
superius dictum est, non necessaria saepe necessariis anteponi, quandoquidem ea
quae uoluntaria sunt non fuerint necessaria; uoluntaria uero meliora sunt
necessariis. Non necessaria igitur saepe necessariis excellunt; animata quoque
inanimatis. ipsius animae negatione considerata, anteponenda esse ratio
persuadet. Naturalia etiam non naturalibus, et artificiosa inartificiosis.
Optimusque hic gradus est, ut naturam arti, artem praeferas inertiae, ars
quippe imitatur naturam. Quo fit ut id quod in se retinet pulchri, ex natura
ueniat, cuius inmitari speciem cupit. Longe uero postrema sunt quae cum
artificio carent, non a specie solum naturae, uerum etiam ab imitatione
discedunt, atque haec quidem de specie in comparationibus considerantur. Vis
autem in eo consistit in quo consideratur quid unaquaeque res possit efficere,
nam quod quaeque res potest, ea uis eius rectissime dicitur. Efficiens igitur
causa grauiorem uim habet quam ea quae nihil efficit: uelut artifex melior quam
materia, illa quippe stolida est atque immota. Nec aliquid efficiens, nisi
formam ab artifice, id est ab efficiente causa, susceperit. Item quae se ipsis
contenta sunt, meliora esse his uidentur quae egent aliis: ueluti omnium Deus
optimus est, quia nullo indiget, et ipso cuncta sunt indiga. Item quae in
nostra sunt potestate magis eligenda sunt quam qua in aliena manu posita facile
labuntur. Quo fit ut sit uirtus meliorquam diuitiae; nam uirtus est in nostra
potestate, diuitiarum fortuna domina est. Iam uero stabilia incertis, quae
eripi non possunt, his quae possunt, si tamen bona sunt, quis non intelligat
esse meliora? Quorum tamen locorum pars contraria contrarium teneet:
inspectis quippe his quae meliora sunt, si horum aduersa uideamus, deteriora
sunt. Restat in affectione posita comparatio quae ita tractatur, ut non
per semetipsam res quae alii confertur sed ex alterius cuiuslibet
consideratione pensetur, uelut in tribus quibusdam rebus si duae ad seinuicem
comparentur, eo quod ad tertiam plus minueue iungantur. Sint enim duo quaedam
humanis rebus accommodata, quarum una principibus atque etiam ipsi reipublicae
accommodatior: hic igitur iudicabimus eam rem esse meliorem quae melioribus
prodest, id est ut reipublicae uel principibus non considerantes ut sese res
habeat sed quantum reipublicae uel principibus adiuncta sit. Haec igitur res ex
affectione est comparata, meliusque iudicatur id quod principibus commodum est,
quam id quod aliquibus priuatis, quoniam principes reliquorum etiam continent
statum. Eodem modo sunt quae sequuntur, ut quae iucundiora sunt pluribus, quae
clariora inter multos, quae pluribus comprobata sunt, meliora ducantur. Nam
etiamsi minus ipsa huius naturae sint, affectione tamen, ut dictum est, eorum
quibus uel iucundiora, uel inter quos clariora sunt, aut a quibus probantur,
meliora existimanda sunt. Sed quanquam id quod a pluribus bonum ducitur, superius
in ea comparationis parte posuerit in qua fiebat secundum numerum comparatio,
nihil tamen impedit eumdem locum secundum aliam atque aliam considerationem
diuersis generibus subdi: uelut ala auis cum substantia sit, eadem tamen ad
aliquid esse intelligitur, si ad alatum consideretur. Illa quoque ex affectione
uidentur esse meliora quae ab eo laudata sunt, contra quem dialectica oratione
uel rhetorica facultate disseritur. Nam ut reuincere ad uersarium possis, sat
est si eum tibi consensisse monstraueris, atque id aliquando uelut optimum
praedicasse, quod tu melius re proposita monstrare contendas. Dictis
igitur omnibus meliorum locis, his oppositi quae deteriora sunt
continebunt. Parium uero nulla discretio est. Neque enim quod par est,
aut intentionem sumere, aut remissionem potest. Quibus autem modis inter se
maiora minoraque penduntur, iisdem inter se paria conferuntur. Nam quae uel
numero, uel specie, uel ui, uel affectione fuerint, aeque paria esse dicuntur.
Commune autem cunctorum exemplum est, quod Cicero in qualitate constituit, quae
qualitas in cunctis paribus aequa est sed uel numero, uel specie, uel ui, uel
affectione paria sunt. Nam in eorum comparatione quae maiora uel minora sunt, una
quaedam qualitas est sed horum accessione uariantur. Nam quibus in eadem
qualitate maior numerus, pulchrior species, efficacior uis, ad pretiosiora
coniunctior affectio, ea meliora esse existimabuntur. Quae si aequa fuerint, in
eadem qualitate paria sunt. Exemplum uero quod proposuit, ad blandiendum
Trebatii animum ualet, cum propriam, id est oratoriam, facultatem cum
iurisperitorum laude coniungit hoc modo: Si consilio iuuare ciues, quod
iurisperitorum, est, et auxilio, quod oratorum est, aequa in laude ponendum
est, pari gloria debent esse que consulunt, id est periti iuris, et hi qui
defendunt, id est oratores. Atqui primum est, id est consilio iuuare ciues, et
auxilio, aequa in laude ponendum est. Quod sequitur igitur, id est -- supple:
pari gloria debent, esse qui consulunt, id est periti iuris, et hi qui
defendunt, id est oratores -- infertur. Ea uero conclusio est per quam dicimus:
hi igitur qui consulunt, et hi qui defendunt, pari gloria esse debent. Hoc
autem breuiter dialecticorum more protulit, qui sit enuntiaut: si dies est,
lucet. At quod primum est, id autem tantumdem est ac si dicatur, atqui dies
est. In propositione enim quae est, si dies est, lux est, prior est propositio,
dies est. Concludunt quod sequitur, igitur, id est, esse lucem. Id enim in
prima parte propositionis, quae erat, si dies est, sequebatur. Igitur hic
quoque Cicero sic protulit: Atqui primum est, id est, consilio et auxilio
iuuare ciues aequa in laude esse ponendum, id enim erat primum in ea propositione
quae dicebat si consilio et auxilio ciues iuuare aequa in laude poneretur, pari
gloria esse oratores iurisque consultos. Quod sequitur igitur, id est, pari
gloria debent esse qui consulunt ac defendunt; id enim erat consequens in ea
propositione quae statuebat: Si consilio et auxilio ciues iuuare par esset,
pares esse qui consulunt ac deltendunt. PERFECTA EST OMNIS ARGUMENTORUM
INUENIENDORUM PRAECEPTIO, UT, CUM PROFECTUS SIS A DEFINITIONE, A PARTITIONE, A
NOTATIONE, A CONIUGATIS, A GENERE, A FORMIS, A SIMILITUDINE, A DIFFERENTIA, A
CONTRARIIS, AB ADIUNCTIS, A CONSEQUENTIBUS, AB ANTECEDENTIBUS, A REPUGNANTIBUS,
A CAUSIS, AB EFFECTIS, A COMPARATIONE MAIORUM MINORUM PARIUM, NULLA PRAETEREA
SEDES ARGUMENTI QUAERENDA SIT. Tametsi ex his quae dicta sunt intelligatur
nullum argumenti locum esse praeteritum, breuiter tamen Ciceronis conclusionem,
qua se nihil omisisse commemorat, ad ampliorem doctrinae fidem approbandam
reor, in his enim nihil omnino praetermittitur quae certa ratione tractantur.
Nulla uero certior ratio diuisione; quod enim quisque partitur a communibus in
particularia deducens, cum rectum iter insistat, labi atque in errorem duci noo
potest. Locorum igitur omnium prima diuisio fuit in ea quae in ipsis haererent,
et ea quae assumerentur extrinsecus. Cuius diuisionis nihil medium reperiri
potest: aut enim in ipso est aliquid de quo quaeritur, aut extrinsecus nec esse
est assumatur. Videamus igitur nunc quemadmodum disputatio per nihil omittentem
diuisionem feratur. Eorum igitur locorum, qui in ipsis sunt de quibus
agitur, nunc ex toto, nunc ex partibus, nunc ex uocabulo, nunc ex adectis
sumitur argumentum. In his igitur quoniam nihil relictum sit perspicue apparet;
in eo enim quod coniunctum est, duplex discretio est: una ex eo ipso quod
formatum est atque compositum, quod totum est, in quo etiam definitiones
adhibentur: alia in eius partibus inspiciendis, ex quibus compositi forma
coniuncta est. Sed quoniam natura hominum id quod intelligit, uoce saepius
prodit, nec esse est ut nomen quoque quod ad intellectus declarationem
adhibetur, ostendat aliquam rei quam significat proprietatem, intellectus
quippe, qualitatem rei quam intelligit, significat. Quocirca nomen quoque
intellectus qualitatem designat. Iure igitur dictum est proprietatem quamdam
rei uocabulo significari, atque ita ex eo trahi argumentum potest, quod uocatur
a nota. (Horum uero locorum alias partitiones dedit, quas paulo post breuius
colligemus.) Affecta uero, quae, ut superius dictum est, in relatione
consistunt, ipsa etiam rite diuisa sunt. Nam quae referuntur ad aliquid, aut
substantialia sunt, aut accidentia. Substantialia, ut coniugata, nam iusto, in
eo quod iustus est, iustitia substantiam facit. Nec id dico, quod homini esse
ex iustitia conslituatur sed iusto, qui iustitia discedente corrumpitur.
Similis et de eo quod est iuste aduerbio, ratio est. Est etiam substantiale,
genus, species, differentia, causa, effectus. Accidentia, ut contrarium,
simile, adiunctum, paria, maiora, minora. Consequentia uero atque repugnantia,
quoniam, ut superius dictum est, in conditione posita sunt, nunc substantialia
reperiuntur, nunc uero in accidentibus considerantur. Substantialia, ut cum
genus antecedit speciem; accidentia, ut cum nigredo praecedentem sequitur
coruum, quanquam etiam in causis aliquae accidentes esse possint. De quarum
omnium proprietatibus Tullius supra disseruit. Atque ut breuissima
descriptione tota locorum diuisio colligatur, erit hoc modo: Omne argumentum
aut ex his locis ducitur qui in ipso de quo quaeritur inhaerent, aut ex his
quae extrinsecus assumuntur. Is uero locus qui in ipsis de quibus ambigitus
positus est, diuiditur in eum locum qui est ex toto, et in eum qui est ex
partibus, et in eum qui est ex nota, et in eum qui est ab affectis. Is autem
qui a toto est, a definitione locus uocatur. Definitionum uero aliae sunt
propriae, aliae non propriae. Non propriarum uero aliae sunt quae singulis
nominibus denotantur, aliae quae oratione panduntur. Earum uero quae singulis
nominibus fiunt, aliae sunt in quibus pro nomine redditur nomen, quae
dicununtur *kat' antilexin*, aliae quae exempli gratia nomen subiiciunt, quae
dicuntur *hos typos*. Earum uero quae oratione declarantur, aliae fiunt a
partitione, aliae a diuisione, aliae a differentiis praeter genus, quae
*ennoematike* dicitur; aliae quae ex pluribus qualitatibus fiunt, etiam
singulis totum id significantibus, quod omnis qualitatum collectio declarat,
quae uocantur *poiotes*; aliae quae ex accidentibus, non singulis sed cunctis
unum aliquid efficientibus constant; aliae quae ad differentiani dantur; aliae
per translationem, aliae quae ex priuatione contrarii, aliae quae propriis
nominibus aptantur quae etiam *hypotyposeis* dicuntur; aliae per indigentiam
pleni, aliae per proportionem, aliae per relationem, aliae per causam. Item
alia definitionis diuisio secundum Tullium principalis, quod aliae corporalium
rerum sint, aliae incorporalium, et definitionis quidem locus ita diuisus
est. A partibus autem locus diuiditur in partitionem et diuisionem. A
nota uero locus simplex est. Ab affectis autem, alii sunt a coniugatis, aliia
genere, alii a forma, alii a simili, alii a differentia, alii a contrariis,
alii ab adiunctis, alii a consequentibus, antecedentibus et repugnantibus, alii
a causa, alii ab effectis, alii a comparatione parium, maiorum uel
minorum. Genus uero diuiditur in suprema genera, et in ea quae etiam
species esse possunt. Species quoque diuiditur in ultimas species et in ea quae
etiam genera esse possunt. Similium quoque alia in singulis considerantur, et
uocantur exempla, alia in pluribus, et appellatur inductio; alia in coniunctis,
et uocatur proportio. Item differentiarum aliae sunt substantiales, aliae, etsi
non substantiales, inseparabiles tamen, aliae neque substantiales neque
inseparabiles. Contrariorum alia dicuntur aduersa, alia priuantia, alia
negantia, alia relatiua. Adiunctorum uero alia sunt quae ante rem existunt,
alia quae cum re, alia uero post rem.
Locus uero conditionalis diuiditur in antecedens, consequens et
repugnans. Causarum quoque multiplex locus est: aliae namque sunt quae ui
sua efficiunt, aliae sine quibus effici non potest. Earum uero quae ui sua
efficiunt, aliae sunt necessariae nihilo indigentes ut efficiant, aliae uero
indigentes ut efficiant, alis? uero indigentes et non necessariae. Earum
uero sine quibus non efficitur, aliae sunt mobiles, aliae immobiles. Item
causarum aliae sunt non spontaneae, aliae ex uoluntate, alia, ex perturbatione,
aliae ex habitu, alia ex natura, aliae ex arte, aliae ex casu. Rursus causarum
aliae sunt constantes, aliae inconstantes. Amplius, causarum aliae sunt
uoluntariae, aliae ignoratae. Ignoratarum pars in casu, pars in necessitate est
constituta. Necessariarum pars in ui, pars in scientia posita est.
Effecta uero in tantum diuidi possunt, in quantum ad superius dictas causas
referuntur. Locus uero a comparatione minorum, parium atque maiorum,
diuiditur innumerum, speciem, uim, ad res alias affectionem. Quae cum ita
sint, cumque nihil sit in diuisione praetermissum, recte M. Tullius
partitione in conclusit, dicens nullam argumenti sedem esse praeteritam. Restat
igitur locus qui extrinsecus sumitur, quem, quoniam nihil iurisconsultis est
utilis, non Trebatii causa sed ne quid perfecto operi deesse uideatur,
adiungit. SED QUONIAM ITA A PRINCIPIO DIVISIMUS, UT ALIOS LOCOS DICEREMUS
IN EO IPSO DE QUO AMBIGITUR HAERERE, DE QUIBUS SATIS EST DICTUM, ALIOS ASSUMI
EXTRINSECUS, DE EIS PAUCA DICAMUS, ETSI EA NIHIL OMNINO AD VESTRAS
DISPUTATIONES PERTINENT; SED TAMEN TOTAM REM EFFICIAMUS, QUANDOQUIDEM COEPIMUS.
NEQUE ENIM TU IS ES QUEM NIHIL NISI IUS CIVILE DELECTET, ET QUONIAM HAEC ITA AD
TE SCRIBUNTUR, UT ETIAM IN ALIORUM MANUS SINT VENTURA, DETUR OPERA, UT QUAM
PLURIMUM EIS QUOS RECTA STUDIA DELECTANT PRODESSE POSSIMUS. Ne locus
nihil iuris perito profuturus negligentiam sui faceret, Trebatium ut in
prooemio magnus orator reddit attentum; ait enim ita sese diuisisse in
principio, ut; alios locos in ipsis haerere diceret, de quibus ageretur, alios
extrinsecus assumi, et eum de superioribus locis idonee disputatum sit,
intractatam reliquam partem non oportere praeteriri. Neque enim hunc esse
Trebatium, qui sua arte contentus, caeterorum studia negligat, uerum diligentia
atque ingenio plurimum ualens, cuncta ad se pertinere ducat, quae liberalibus
studiis annumerentur: simul dandam esse operam dicit, queniam beneuolo animo
Ciceronis opus Trebatius esset editurus, ut cum in multorum manus uenisset,
prodesse iis integrum posset, qui rectis studiis tenerentur, hoc quoque
Trebatio beneficii nomine concedens, quod ad eum scripta, et per eum edita
plurimis profutura conscriberet. HAEC ERGO ARGUMENTATIO, QUAE DICITUR ARTIS
EXPERS, IN TESTIMONIO POSITA EST. TESTIMONIUM AUTEM NUNC DICIMUS OMNE QUOD AB
ALIQUA RE EXTERNA SUMITUR AD FACIENDAM FIDEM... Extrinsecus positum argumenti
locum, quem M. Tullius uocat artis expertem, in testimonio positum esse
pronuntiat. Dubitari autem potest quid hic locus a superioribus differat,
quos in affectis locauit. Nam uti affecta semper in relatione sunt constituta,
ita etiam testimonia ad ea quorum sunt testimonia referuntur. Omne enim
testimonium testatae rei testimonium est. Quocirca, cur aut ea quae affecta
dudum uocata sunt, non extrinsecus collocentur, aut ea quae nunc uocantur
extrinsecus non inter affecta ponantur, quaeri potest, cum praesertim ea quae
adiuncta esse negotio superius diximus, ueluti quoddam testimonium saepe rebus
afferant, cum ex eorum quae praecesserunt, uel consecuta sunt signis, quod
gestum si considerari solet. Quorum omnium communis illa solutio est,
quod ex affectis argumenta quae fiunt, ab oratore inueniuntur, eiusque opera
atque industria nascuntur. Ea uero quae extrinsecus posita sunt, rei tantum
testimonium prrebent, non enim inueniantur ab oratore sed his orator utitur
positis atque ante constitutis. Namque a genere, uel a specie, uel a caeteris
affectis argumenta sunt, ab ipso quodammodo oratore reperiuntur. Testimonia
uero sibi ipse non efficit sed ad causam utitur ante praeparatis. Quo fit ut
argumenta ex affectis in eausa statim atque ex tempore nascantur; ea uero quae
in testimoniis posita sunt, ante rem praecurrentia confirmando usum negotio
posterius praestent, et in adiunctis ab oratore coniectura colligitur, et
auditorum mentibus intimatur. Testimonia uero non in coniecturio, aut in
suspicionibus sed in rei gestae narratione consistunt. Ostendit autem
uehementius quid esset testimonium, cum dicit, id a se testimonium uocari quod
ab aliqua externa re sumitur. Omnia quippe affecta, ab eis ad quae affecta
sunt, non uidentur externa. Testis uero cum re testificata nulla cognatione
coniungitur, nisi sola notitia, quae nihil ad rem quae gesta est attinet, cum
si gestum negotium nullus agnosceret, nihilominus tamen gesta res esset; sed id
poterit etiam ad similitudinem duci, quid enim minus esset aliquid, si ei
simile nihil reperiretur? Sed quod simile est, ei cui simile est eadem
qualitate coniungitur, quae qualitas utrumque conformat. Scientia uero quamuis
efficiat testem, nulla tamen qualitate coniungitur cum re cuius illa notitia
est. Neque enim scientis notitia, rei gestae qualitas dici potest, cum si
notitia, qualitas rei posset intelligi, pereuntibus his qui rem norunt, res uel
interiret, uel mutaretur, quod neutrum euenire rec esse est, quandoquidem,
absumptis scientibus, res ignorata poterit permanere. PERSONA AUTEM NON
QUALISCUMQUE EST TESTIMONI PONDUS HABET; AD FIDEM ENIM FACIENDAM AUCTORITAS
QUAERITUR; SED AUCTORITATEM AUT NATURA AUT TEMPUS AFFERT. NATURAE AUCTORITAS IN
VIRTUTE INEST MAXIMA; IN TEMPORE AUTEM MULTA SUNT QUAE AFFERANT AUCTORITATEM:
INGENIUM OPES AETAS [FORTUNA] ARS USUS NECESSITAS, CONCURSIO ETIAM NON NUMQUAM
RERUM FORTUITARUM. NAM ET INGENIOSOS ET OPULENTOS ET AETATIS SPATIO PROBATOS
DIGNOS QUIBUS CREDATUR PUTANT; NON RECTE FORTASSE, SED VULGI [1168A] OPINIO
MUTARI VIX POTEST AD EAMQUE OMNIA DIRIGUNT ET QUI IUDICANT ET QUI EXISTIMANT.
QUI ENIM REBUS HIS QUAS DIXI EXCELLUNT, IPSA VIRTUTE VIDENTUR EXCELLERE. SED
RELIQUIS QUOQUE REBUS QUAS MODO ENUMERAVI QUAMQUAM IN HIS NULLA SPECIES
VIRTUTIS EST, TAMEN INTERDUM CONFIRMATUR FIDES, SI AUT ARS QUAEDAM ADHIBETUR --
MAGNA EST ENIM VIS AD PERSUADENDUM SCIENTIAE -- AUT USUS; PLERUMQUE ENIM
CREDITUR EIS QUI EXPERTI SUNT. FACIT ETIAM NECESSITAS FIDEM, QUAE TUM A
CORPORIBUS TUM AB ANIMIS NASCITUR. NAM ET VERBERIBUS TORMENTIS IGNI FATIGATI
QUAE DICUNT EA VIDETUR VERITAS IPSA DICERE, ET QUAE PERTURBATIONIBUS ANIMI,
DOLORE CUPIDITATE IRACUNDIA METU, QUIA NECESSITATIS VIM HABENT, AFFERUNT AUCTORITATEM
ET FIDEM. CUIUS GENERIS ETIAM ILLA SUNT EX QUIBUS VERUM NON NUMQUAM INVENITUR,
PUERITIA SOMNUS IMPRUDENTIA VINOLENTIA INSANIA. NAM ET PARVI SAEPE INDICAVERUNT
ALIQUID, QUO ID PERTINERET IGNARI, ET PER SOMNUM VINUM INSANIAM MULTA SAEPE
PATEFACTA SUNT. MULTI ETIAM IN RES ODIOSAS IMPRUDENTER INCIDERUNT, UT STAIENO
NUPER ACCIDIT, QUI EA LOCUTUS EST BONIS UIRIS SUBAUSCULTANTIBUS PARIETE
INTERPOSITO, QUIBUS PATEFACTIS IN IUDICIUMQUE PROLATIS ILLE REI CAPITALIS IURE
DAMNATUS EST. [HUIC SIMILE QUIDDAM DE LACEDAEMONIO PAUSANIA ACCEPIMUS.]
[20.76] CONCURSIO AUTEM FORTUITORUM TALIS EST, UT SI INTERVENTUM EST CASU, CUM
AUT AGERETUR ALIQUID QUOD PROFERENDUM NON ESSET, AUT DICERETUR. IN HOC GENERE
ETIAM ILLA EST IN PALAMEDEM CONIECTA SUSPICIPNUM PRODITIONIS MULTITUDO; QUOD
GENUS REFUTARE INTERDUM VERITAS VIX POTEST. Quoniam locum artis expertem in
testimonio positum esse dixit, in testimoniis uero personarum fidem suam
interponentium auctoritas quaeritur, necessarium fuit, quibus rebus fieri
soleat auctoritas, expedire. Ac caetera quidem clarissime atque apertissime
dicta sunt. Sed quonium auctoritatem in naturam tempusque diuisit, cumque in
tempore, ingenium, opes, aetatem, fortunam, artem, usum, necessitatem,
concursionem etiam nonnunquam rerum fortuitarum locauit, quaeri potest: Quid
enim attinet ad tempus ingenium? quid ars? quid usus? Nam aetus atque opes,
fortuna et fortuitarum rerum concursio subiecta sunt tempori, quoniam
unumquodque eorum uariis temporum uicibus permutatur. Ingenium uero naturae potius
oportuit attribui artem atque usum tertium quiddam, quoniam neque tempori neque
naturae subiiciuntur. Quanquam uirtus quoque ipsa, quam M. Tullius in naturae
ratione constituit quibusdam non naturalis sed tum doctrina, tum recta
exercitatione uiuendi uideatur ascita. Sed haec ita intelligenda diuisio
est, quod omnis auctoritas aut ex magnis atque excellentibus rebus et per
naturam optimis uenit, aut ab his quae inferiore loco sunt constituta, fidem
non ex naturae qualitate sed ex uulgo insitis opinionibus capit. Et maximas
quidem excellentesque res in natura constituit, quae semper, ut ipse Tullius
multis in locis defendit, boni est appetens. At uero quae posteriora sunt, in
tempore posuit, idcirco quod omnia tempori subiecta, principalis boni non retinent
statim. Virtus quidem in deterius flecti non potest. Ingenium uero atque opes,
fortuna et ars atque usus saepe non recta exercitatione deprauantur. Nam
quidquid horum fuerit a uirtute seiunctum, dignitatem uerae laudis
anmittit. Et de uirtute quidem distulit dicere. Posteriorem uero partem,
id est in tempore positae auctoritatis diuisit et euidentissimis patefecit
exemplis. Nam et ingeniis fides adest, atque ex ea praesto est auctoritas
plurima. Eos quippe sapientius loqui homines credunt, quorum ingenium ad
expedienda quts proposuerint, sufficit. Opibus quoque praepollentes, dignos
fide iudicant, fortuna quoque et dignitate praeclaris, maiestatem auctoritatis
impertiunt, non recte fortasse; sed et iudicium in negotiis, et existimatio
uitae, opinione hominum maxime continetur, quae quia mutari uix potest, ad eam
cuncta diriget, eaque sibi tractanda regendaque proponet orator. Ars etiam
atque usus plurimum ualent. In utrisque enim fidem notitia facit.
Necessitas quoque, quasi id quod latebat, extorquens, auctoritate subnixa est,
quae tum ab animo, tum a corporibus uenit: a corporibus, cum igni, ferro ac
uerberibus uerum quod latet aperitur; ab animo, cum mens quadam perturbationis
uel ignoranti; e necessitate confunditur. Tunc enim quid dici, quid taceri debeat,
minime distinguens, uerum quod occultum erat, prodit atque effundit in lucem.
Nam iracundia saepe, et quaelibet animi perturbatio, quod occultandum foret,
haud continet, quae idcirco habet auctoritatem ad fidem, quia simpliciter
prodita sunt, nec ulla calliditatis arte prolata. Quin etiam ignorantia
puerorum, uinolentia, somnus quaedam saepe produxit in medium, in quibus si
iudicium fuisset ullum, prolata non essent. Saepe etiam homines praeter ullam
animi perturbationem imprudentes propria confessione obligati sunt, dum cuncta
simpliciter effundunt, quae sibi nocitura non existimant, ut Staterio euenisse
proposuit, qui interposito pariete testibus audientibus ea confessus est,
ignorane se ab insidiantibus audiri, quibus uulgatis in iudiciumque prolatis,
capitali sententia condemnatus est. Atque haec quidem ignorantia in necessitate
constituta est; nam qui nescit id quod ignorat, ne si uelit quidem poterit
euitare; quae autem necessitas extorquet, ipso quodammodo uidetur ueritas
dicere, atque ideo eis ueluti auctoritate subuixis fides adhibetur.
Concursio etiam rerum fortuitarum facit fidem, quae cum aliquoties falsa
designet, tamen ita est uehemens, ut se ab ea ueritas explicare uix possit.
Quale est quod de Palamede narratur. Phryx exstinctus, qui quasi a Priamo
missus uideretur, repertae Priami litterae Phrygia manus imitata, quae
concurrentia fidem lucerent proditionis. Hinc dicit Cicero: TALIS ETIAM FORTUITARUM
RERUM CONCURSIO EST. CAETERA DESUNT. Primum dicendum circa quid et de quo est
intentio, quoniam circa demonstrationem et de disciplina demonstrativa est.
Deinde determinandum quid propositio, et quid terminus, quid syllogismus, quis
perfectus, et quis imperfectus. Postea vero quid est in toto esse, vel non esse
hoc in illo, et quid dicimus de omni, aut de nullo praedicari. Propositio ergo
est oratio affirmativa, vel negativa alicuius de aliquo. Haec autem aut
universalis, aut particularis, aut indefinita. Dico autem universalem quidem,
cum aliquid omni, aut nulli inesse; particularem vero, cum alicui, aut non
alicui, aut non omni inesse. Indefinitam autem, cum quid inesse, vel non inesse
significat, sive universali, vel particulari, ut contrariorum eamdem esse
disciplinam, aut voluptatem non esse bonum. Differt autem demonstrativa
propositio A dialectica, quoniam demonstrativa quidem sumptio alterius partis
contradictionis est. Non enim interrogat, sed sumit, qui demonstrat. Dialectica
vero interrogatio contradictionis est. Nihil autem refert ut fiat ex utraque
syllogismus; nam et qui demonstrat, et qui interrogat, syllogizat, sumens
aliquid de aliquo esse, vel non esse. Quare erit syllogistica quidem
propositio, simpliciter affirmatio vel negatio alicuius de aliquo secundum
dictum modum. Demonstrativa vero si vera sit, et per primas propositiones
sumpta. Dialectica autem percontanti quidem interrogatio contradictionis est,
syllogizanti vero sumptio apparentis et probabilis, quemadmodum in Topicis
dictum est. Quid est ergo propositio, et quid differt syllogistica A
demonstrativa et dialectica, diligentius quidem in sequentibus dicetur. Ad
praesentem vero utilitatem, sufficienter nobis determinata sint, quae nunc
dicta sunt. Terminum autem voco, in quem resolvitur propositio, ut praedicatum,
et de quo praedicatur, vel apposito, vel separato esse, vel non esse. Syllogismus
est oratio in qua, quibusdam positis, aliud quiddam ab his quae posita sunt ex
necessitate accidit, eo quod haec sunt. Dico autem eo quod haec sunt, propter
haec accidere. Propter haec vero accidere, est nullius extrinsecus termini indigere,
ut fiat necessarium. Perfectum vero voco syllogismum, qui nullius alius
indiget, praeter ea quae sumpta sunt, ut appareat necessarium. Imperfectum
vero, qui indiget aut unius aut plurium, quae sunt quidem necessaria per
subiectos terminos, non autem sumpta sunt per propositiones. In toto autem esse
alterum in altero, et de omni praedicari alterum de altero idem est. Dicimus
autem de omni praedicari, quando nihil est sumere subiecti, de quo non dicatur
alterum, et de nullo similiter. Quoniam autem omnis propositio est, aut de
inesse, aut ex necessitate inesse, aut contingere inesse; harum autem, hae
quidem affirmativae, illae autem negativae secundum unamquamque appellationem;
rursus autem affirmativarum et negativarum, aliae sunt universales, aliae
particulares, aliae indefinitae: universalem quidem privativam de eo quod est
inesse, necesse est in terminis converti. Ut si nulla voluptas est bonum, neque
bonum nullum, erit voluptas. Praedicativam autem converti quidem necessarium
est, non tamen universaliter, sed in parte, ut, si omnis voluptas est bonum, et
bonum aliquod voluptas. Particularem autem affirmativam quidem converti necesse
est particulariter. Nam si voluptas aliqua, bonum, et bonum aliquod erit
voluptas. Privativam vero non est necessarium. Non enim si homo non inest
alicui animali, et animal non inest alicui homini. Primum ergo sit privativa
universalis A B propositio, si ergo nulli B inest A, neque A nulli inerit B.
Nam si alicui inest ut C, non verum erit nullum B esse A. Nam C eorum quae sunt
B aliquod est. Si vero omni B inest A, et B alicui A inest, nam si nulli, neque
A nulli B inerit, sed positum erat omni inesse. Similiter autem et si
particularis est propositio, nam si inest A alicui B, et B alicui eorum quae
sunt A necesse est inesse; si enim nulli, nec A nulli inerit B. Si autem A
alicui eorum quae sunt B non inest, non necesse est et B alicui A non inesse,
ut si B quidem sit animal, A vero homo, homo enim non omni animali, animal vero
omni homini inest. Eodem autem modo se habebit in necessariis propositionibus,
nam universalis quidem privativa universaliter convertitur. Affirmativarum
autem utraque particulariter. Nam si necesse est A nulli B inesse, necesse est
et B nulli A inesse; si enim alicui contingit, et A alicui B continget. Si
autem ex necessitate A omni vel alicui B inest, et B alicui A necesse est
inesse, nam si non ex necessitate inest, neque A alicui B ex necessitate
inerit. Particularis vero privativa non convertitur, propter eamdem causam, propter
quam et supra diximus. In contingentibus vero, quoniam multipliciter dicitur
contingere, nam et necessarium, et non necessarium, et possibile contingere
dicimus; in affirmativis quidem, similiter se habebit secundum conversionem in
omnibus. Nam si A omni aut alicui B contingit, et B alicui A contingit, si enim
nulli, nec A nulli B, ostensum est enim hoc prius. In negativis vero non
similiter, sed quaecunque quidem contingere dicuntur, ex eo quod ex necessitate
non insunt, vel in eo quod non ex necessitate insunt similiter. Ut si quis
dicat hominem contingere non esse equum, aut album nulli tunicae inesse. Horum
enim hoc quidem ex necessitate inest, illud vero non ex necessitate inest, et
similiter convertitur propositio. Nam si contingit nulli homini equum inesse,
et hominem contingit nulli equo inesse, et si album contingit nulli tunicae, et
tunica contingit nulli albo, si enim alicui necessario, et album tunicae alicui
inerit ex necessitate, hoc enim ostensum est prius. Similiter autem et in
particulari negativa. Quaecunque vero ut in pluribus, et in eo quod nata sunt
dicuntur contingere secundum quem modum determinamus contingens, non similiter
se habebit in privativis conversionibus. Sed et universalis quidem privativa
propositio non convertitur, particularis vero convertitur. Hoc autem erit
manifestum quando de contingenti dicemus. Nunc autem nobis tantum sit cum iis
quae dicta sunt, manifestum, quoniam contingere nulli aut alicui non inesse
affirmativam habet figuram, nam et contingit ipsi est similiter ordinatur. Est
autem, quibuscunque adiacens praedicatur, affirmationem semper facit, et
omnino, ut: est non bonum, vel est non album, vel simpliciter, est non hoc.
Ostendetur autem et hoc per sequentia, secundum conversiones autem similiter se
habebunt in aliis. His vero determinatis dicemus iam per quae et quando et
quomodo fit omnis syllogismus, postea vero dicendum de demonstratione. Prius
enim de syllogismo dicendum quam de demonstratione, eo quod universalior est
syllogismus, nam demonstratio quidem syllogismus quidam est; syllogismus vero
non omnis demonstratio. Quando igitur tres termini sic se habent ad invicem, ut
et postremus sit in toto medio, et medius in toto primo vel sit, vel non sit,
necesse est extremitatum perfectum esse syllogismum. Voco autem medium quod et
ipsum in alio, et aliud in ipso est, quod et positione medium est; extrema vero
quod et ipsum in alio, et in quo aliud est. Si enim A de omni B, et B de omni
C, necesse est A de omni C praedicari. Prius enim dictum est quomodo de omni
dicimus. Similiter autem et si A de nullo B, B autem de omni C, quoniam A nulli
C inerit. Si autem primum quidem omni medio consequens est, medium vero nulli
postremo, non erit syllogismus extremitatum. Nihil enim necessarium accidit, eo
quod haec sunt, nam et omni et nulli contingit primum postremo inesse, quare
neque particulare, neque universale fit necessarium. Cum autem nihil est
necessarium, per haec non erit syllogismus. Termini vero eius quod est omni
inesse, animal, homo, equus; eius vero quod est nulli, animal, homo, lapis.
Quando vero nec primum medio, nec medium postremo ulli inest, nec sic erit
syllogismus. Termini vero ut inesse, scientia, linea, medicina; ut non inesse,
scientia, linea, unitas. Universalibus igitur existentibus terminis, manifestum
est in hac figura quando erit, et quando non erit syllogismus, et quoniam cum
est syllogismus, necessarium est terminos sic se habere, ut diximus, et sic se
habens manifestum quoniam erit syllogismus. Si autem hic quidem terminorum
universaliter, alius vero particulariter ad alium, quando universale quidem
ponitur ad maiorem extremitatem vel praedicativum, vel privativum, particulare
vero ad minorem praedicativum, necesse est syllogismum esse perfectum. Quando
vero ad minorem vel quolibet modo aliter se habeant termini, impossibile est.
Dico autem maiorem extremitatem quidem in qua medium est, minorem vero, quae
sub medio est. Insit enim A quidem omni B, B autem alicui C, ergo si est
de omni praedicari, quod in principio dictum est, necesse est A alicui C
inesse. Et si A quidem nulli B inest, B vero alicui C, necesse est A alicui C
non inesse, determinatum est enim et de nullo, quomodo dicimus, quare erit
syllogismus perfectus. Similiter autem et si indefinitum sit B C praedicativum,
nam idem erit syllogismus indefinito et particulari sumpto. Si autem ad minorem
extremitatem universale ponatur vel praedicativum, vel privativum, non erit
syllogismus neque cum affirmativa, neque negativa, neque indefinita, neque
particularis sit, ut si A quidem alicui B inest, vel non inest, B autem omni C
inest. Termini ut inesse, bonum, habitus, prudentia; ubi non inesse, bonum,
habitus, indisciplina. Rursum si B quidem nulli C, A vero alicui B inest, vel
non inest, vel non omni inest, nec sic erit syllogismus. Termini omni inesse, album,
equus, cygnus; nulli inesse, album, equus, corvus. Idem autem et si A B
indefinitum sit. Nec quando ad maiorem extremitatem quidem universale ponatur
vel praedicativum, vel privativum, ad minorem vero particulare privativum, non
erit syllogismus vel indefinito, vel particulari sumpto. Velut si A quidem omni
B inest, B autem alicui C non inest, vel non omni inest. Cui enim alicui non
inest medium, hoc omne et nullum sequatur primum.Ponantur enim termini, animal,
homo, album, deinde et de quibus albis non praedicatur homo, sumantur cygnus et
nix; ergo animal de uno quidem omni praedicatur, de altero vero nullo, quare
non erit syllogismus. Rursum A quidem nulli B insit, B autem alicui C non
insit, et sint termini, inanimatum, homo, album, deinde sumantur alba, de
quibus non praedicatur homo, cygnus et nix; nam inanimatum de hoc quidem omni
praedicatur, de illo vero nullo. Amplius: quoniam indefinitum est alicui eorum
quae sunt C non inesse B, verum est autem et nulli inest, et si non omni,
quoniam alicui non inest, sumptis autem his terminis velut nulli inesse, non
fit syllogismus (hoc enim dictum est prius) manifestum; ergo est quoniam in eo
quod sic se habent termini non erit syllogismus, esset enim et in his.
Similiter autem ostendetur, et si universale ponatur privativum. Neque enim si
ambo intervalla particularia praedicative, vel privative dicantur, aut hoc
quidem praedicativum, illud vero privativum, vel hoc quidem indefinitum, illud
vero definitum, vel ambo indefinita, non erit syllogismus nullo modo. Termini
vero communes omnium, animal, album, equus, animal, album, lapis. Manifestum
est igitur ex iis quae dicta sunt quoniam si sit syllogismus in hac figura
particularis, quoniam necesse est terminos sic se habere, ut diximus. Aliter
enim se habentibus, nullo [modo] fit. Palam autem quoniam omnes qui in hac sunt
syllogismi perfecti sunt, omnes enim perficiuntur per ea quae ex principio
sumuntur, et quoniam omnia problemata ostenduntur per hanc figuram: etenim omni
et nulli, alicui et non alicui inesse. Voco autem huiusmodi figuram, primam. Quando
vero idem huic omni quidem, illi vero nulli inest, vel utique omni, vel nulli,
figuram quidem huiusmodi voco secundam. Medium autem in hac dico quod de
utraque praedicatur; extremitates vero de quibus dicitur hoc, maiorem quidem
extremitatem, quae iuxta medium posita est, minorem vero, quae longius sita est
A medio. Ponitur autem medium foras quidem extremitatum, primum vero positione.
Perfectus igitur non erit syllogismus nullo modo in hac figura, possibile vero
erit et universalibus, et non universalibus existentibus terminis. Universalibus
igitur terminis erit syllogismus, quando medium huic quidem omni, illi vero
nulli inerit, etsi ad utrumvis sit privativum, aliter vero nullo modo.
Praedicetur enim M de N quidem nullo, de O vero omni, quoniam igitur
convertitur privativa, nulli M inerit N, at M omni O supponebatur, quare N
nulli O inerit: hoc enim ostensum est prius. Rursum si M N quidem omni inest, O
vero nulli, neque N O nulli inerit. Nam si M nulli O, neque O nulli N inerit,
at vero M omni N inerat, quare O nulli inerit. Facta est enim rursum prima
figura. Quoniam autem convertitur privativum, neque N nulli O inerit, quare
erit idem syllogismus, est autem ostendere haec et ad impossibile ducentes. Quoniam
ergo fit syllogismus sic se habentibus terminis manifestum, sed non perfectus,
non enim solum ex iis quae ab initio sumpta sunt, sed ex aliis perficitur
necessarium. Si autem M de omni N et O praedicetur, non erit syllogismus.
Termini inesse, substantia, animal, ratio; non inesse, substantia, animal,
lapis, medium, substantia.Nec quando de N nec de O nullo praedicatur M. Termini
inesse, linea, animal, homo; non inesse, linea, animal, lapis. Manifestum ergo
quoniam si fit syllogismus ex universalibus terminis, necesse est terminos sic
se habere, ut in principio diximus. Aliter enim se habentibus terminis non fit
conclusio necessaria.Si autem ad alterum sit universaliter medium, quando ad
maius quidem fuerit universaliter vel praedicative, vel privative, ad minus
autem et particulariter, et oppositae universali (dico autem oppositae, si
universale quidem privativum particulare praedicativum, vel si universale
praedicativum, particulare privativum), necesse est syllogismum fieri
privativum particulariter. Nam si M nulli quidem N, O autem alicui inest,
necesse est N alicui O non inesse. Quoniam enim convertitur privativum, nulli M
inerit, N M vero supponebatur alicui O inesse, quare N alicui eorum quae sunt O
non inerit. Fit enim syllogismus per primam figuram. Rursus si N quidem omni M,
O vero alicui non inest, necesse est N alicui O non inesse. Nam si O omni inest
N, praedicatur autem et M de omni N, necesse est M omni O inesse, supponebatur
autem alicui non inesse. Et si M N omni quidem inest, O autem non omni, erit
syllogismus, quoniam non omni O inest N. Demonstratio autem eadem. Si autem de
O quidem omni, de N vero non omni praedicatur M, non erit syllogismus. Termini
inesse, animal, substantia, corvus. Non inesse, animal, album, corvus. Nec
quando de O quidem nullo, de N vero aliquo. Termini inesse, animal, substantia,
lapis. Non inesse, animal, substantia, scientia. Quando igitur oppositum est
universale particulari, dictum est quando erit, et quando non erit syllogismus.
Quando autem similis figurae fuerint propositiones, ut ambae privativae vel
affirmativae, nullo modo erit syllogismus. Sint enim primum privativae, et
universale ponatur ad maiorem extremitatem, ut M N quidem nulli, O autem alicui
non insit: contingit ergo et omni, et nulli O inesse N. Termini quidem nulli
inesse, nigrum, nix, animal. Omni vero inesse, non est sumere, si M alicui
quidem O inest, alicui autem non. Nam si omni O inest N, et M nulli, N etiam M
nulli O inerit; sed positum erat alicui inesse, non igitur sic sumere contingit
terminos. Ex indefinito autem ostendendum est. Quoniam enim verum est M non
inesse alicui O, et si nulli inest, nulli vero cum insit non erit syllogismus,
manifestum quoniam neque nunc erit. Rursum si praedicativae, et universale
ponatur similiter, ut M omni quidem N, O autem alicui insit, contingit ergo et
omni, et nulli O inesse. Termini nulli inesse, album, cygnus, lapis. Omni vero
non erit sumere terminos, propter eamdem causam quam et prius, sed ex
indefinito monstrandum est. Si autem universale ad minorem extremitatem est, et
M O quidem nulli, N vero alicui non inest, contingit N, et omni et nulli O
inesse. Termini inesse, album, animal, corvus; non inesse, album, lapis,
corvus. Similiter autem et si praedicativae fuerint propositiones. Termini non
inesse, album, animal, nix; inesse, album, animal, cygnus. Manifestum est
igitur quoniam si similis figurae sint propositiones, et haec quidem
universalis, illa vero particularis, quoniam nullo modo fit syllogismus. Sed
nec si alicui, utrique inest, vel non inest, vel huic quidem inest, illi vero
non, vel neutri omni, vel indefinitae. Termini autem communes omnium, album,
animal, homo, album, animal, inanimatum. Manifestum est igitur ex praedictis
quoniam si sic se habent termini ad invicem, ut dictum est, fit syllogismus ex
necessitate, et si fit syllogismus, necesse est terminos sic se habere. Palam
autem et quoniam omnes imperfecti sunt, qui in hac figura sunt syllogismi;
omnes enim perficiuntur assumptis quibusdam, quae vel insunt terminis ex
necessitate, vel ponuntur velut hypotheses, ut quando per impossibile
ostendimus. Et quoniam non fit affirmativus syllogismus per hanc figuram, sed
omnes privativi, et universales, et particulares. Si autem eidem hoc quidem
omni, illud vero nulli inest, vel ambo omni vel nulli, figuram quidem huiusmodi
voco tertiam. Medium autem in hac dico, quo ambo praedicamus; extremitates
vero, quae praedicantur; maiorem autem extremitatem, quae longius est medio;
minorem vero, quae propius. Ponitur autem medium foras quidem extremitatum, ultimum
vero positione est. Perfectus igitur non fit syllogismus, nec in hac figura,
possibilis vero erit et universaliter, et non universaliter terminis
existentibus ad medium. Universaliter quidem quando et p et r inerunt omni s,
quoniam alicui r inerit p ex necessitate, nam quoniam convertitur praedicativa,
inerit s alicui r. Quare quoniam p inest omni s, et s alicui r, necesse est p
alicui r inesse. Fit enim syllogismus per primam figuram. Est autem et per
impossibile, et expositione facere demonstrationem: si enim ambo omni s insunt,
si sumatur aliquod eorum quae sunt s, ut N huic et p et r inerunt ex necessitate,
quare alicui r inerit p. Et si r omni quidem s, p autem nulli s inest, erit
syllogismus, quoniam p alicui r non inerit ex necessitate. Nam idem modus erit
demonstrationis, conversa r s propositione. Ostendetur autem et per
impossibile, quemadmodum in prioribus. Si autem insit r, s quidem nulli, p vero
omni s, non erit syllogismus. Termini inesse, animal, equus, homo; non inesse,
animal, inanimatum, homo, neque quando ambo de nullo s dicuntur, non erit
syllogismus. Termini inesse, animal, equus, inanimatum; non inesse, homo, equus
inanimatum, medium, inanimatum. Manifestum est igitur et in hac figura et
quando erit, et quando non erit syllogismus ex universalibus terminis. Quando
enim ambo termini sunt praedicativi, erit syllogismus, quoniam inest alicui
extremitas extremitati; quando vero privativi, non erit syllogismus; quando
autem hic quidem privativus, ille vero affirmativus; si maior quidem fuerit
privativus, alter vero affirmativus, erit syllogismus, quoniam alicui non inest
extremitas extremitati. Si autem e converso, non erit. Si autem hic quidem sit
universaliter ad medium, alter vero particulariter, si uterque sit praedicativus,
necesse est fieri syllogismum, et si alteruter sit universalis terminorum; nam
si r omni s insit, p vero alicui s, necesse est et p alicui r inesse, nam
quoniam convertitur affirmativa, inerit s alicui p, quare quoniam r omni s
inest, s autem alicui p, et r alicui p inerit, quare et p alicui r. Rursum si r
alicui s, p vero omni s insit, necesse est et p alicui r inesse, nam idem modus
demonstrationis. Est autem demonstrare et per impossibile, et expositione, quemadmodum
in prioribus. Si autem unus quidem sit praedicativus, alius vero privativus,
universaliter autem praedicativus, quando minor quidem fuerit praedicativus,
erit syllogismus; nam si r omni s, p vero alicui s non inest, necesse est p
alicui r non inesse, si enim p omni r, et r omni s, et p omni s inerit, sed non
inerat. Monstratur autem et sine deductione, si sumatur aliquid eorum quae sunt
s, cui p non inest. Quando vero maior fuerit praedicativus, non erit
syllogismus, ut si p insit omni s, r autem alicui s non insit. Termini vero omni
inesse, animatum, homo, animal. Nulli vero, non est sumere terminos si r inest
alicui quidem s, alicui autem non. Si enim omni s inest p, r autem alicui s, et
p inerit alicui r, sed positum erat nulli r inesse. Sed quemadmodum in
prioribus dicendum est; nam cum indefinitum est alicui non inesse, et quod
nulli inest, verum est dicere alicui non inesse, nulli vero cum inesset, non
erat syllogismus; manifestum ergo est, quoniam non erit syllogismus. Si autem
privativus sit universalis terminus, quando maior quidem privativus fuerit,
minor autem praedicativus, erit syllogismus. Si enim p nulli s, r autem alicui
inest s, et p alicui r non inerit. Rursum enim prima erit figura, r s propositione
conversa. Quando autem minor fuerit privativus, non erit syllogismus. Termini
inesse, animal, homo, ferum. Non inesse, animal, scientia, ferum, medium in
utrisque ferum. Nec quando ambo privativi ponuntur, est autem unus quidem
universalis, alter vero particularis. Termini inesse, quando minor est
universalis ad medium, animal, homo, ferum, non inesse, animal, scientia,
ferum. Quando autem maior, non inesse quidem, corvus, nix, album; inesse vero
non est sumere si r alicui quidem inest s, alicui autem non inest. Si enim p
omni r insit, r autem alicui s, et p inerit alicui s. Positum est autem nulli,
sed ex indefinito monstrandum est. Neque si uterque alicui medio inest, vel non
inest, vel unus quidem inest, alter vero non inest, vel hic quidem alicui, ille
vero non omni, vel indefinite, nullo modo erit syllogismus. Termini autem
communes omnium, animal, homo, album, animal, inani matum, album. Manifestum
est igitur, et in hac figura, quando erit, et quando non erit syllogismus, et
quoniam habentibus se terminis, ut dictum est, fit syllogismus ex necessitate,
et si sit syllogismus, necesse est terminos sic se habere. Manifestum est
etiam, quia omnes imperfecti sunt in hac figura syllogismi, omnes enim
perficiuntur quibusdam assumptis. Et quoniam syllogizare universale per hanc
figuram non erit, neque privativum, neque affirmativum. Palam autem et quoniam
in omnibus figuris, aliquando non fit syllogismus. Cum praedicativi quidem, vel
privativi sunt utrique termini, et particulares, nihil omnino fit necessarium. Cum
autem praedicativus, et privativus, et universaliter sumptus privativus, semper
fit syllogismus minoris extremitatis ad maiorem, ut si A quidem omni B vel
alicui, B autem nulli C; conversis enim propositionibus, necesse est C alicui A
non inesse. Similiter autem et in aliis figuris, semper enim fit per
conversionem syllogismus. Palam etiam quoniam indefinitum pro praedicativo
particulari positum, eumdem faciet syllogismum in omnibus figuris. Manifestum
autem et quoniam omnes imperfecti syllogismi perficiuntur per primam figuram.
Aut enim ostensive, aut per impossibile clauduntur omnes. Utrinque autem fit
prima figura. Et ostensive quidem perfectis, quoniam per conversionem
claudebantur omnes, conversio autem primam faciebat figuram, per impossibile
vero demonstratis, quoniam posito falso syllogismus fit per primam figuram. Ut
in postrema figura, si A et B omni C insunt, quoniam A alicui B inest, nam si
nulli et B omni C, nulli C inerit A, sed inerat omni. Similiter autem in aliis.
Est etiam reducere omnes syllogismos ad universales syllogismos primae figurae.
Nam qui sunt in secunda figura, manifestum quoniam per illos perficiuntur,
verum non similiter omnes, sed universales quidem privativa conversa;
particularium autem utraque per ad impossibile reductionem. Qui vero in prima
sunt particulares, perficiuntur quidem per se. Est autem et per secundam
figuram ostendere ad impossibile ducentes, ut si A omni B, et B alicui C,
quoniam A alicui C inerit. Si enim nulli, B autem omni, nulli C inerit B. Hoc
enim scimus per secundam figuram. Similiter autem et in privativo erit
demonstratio; si enim A nulli B, et B alicui C inest, A alicui C non erit, nam
si A omni C, B autem nulli inest, nulli C inerit B. Haec autem fuit media
figura; quare quoniam qui in media sunt syllogismi, omnes reducuntur in primae
figurae universales syllogismos, qui vero particulares sunt in prima, ad eos
qui sunt in media, manifestum est quoniam et particulares reducentur ad eos qui
in prima figura sunt universales syllogismos; qui vero sunt in tertia, cum
universales sint quidem termini, statim perficiuntur per illos syllogismos. Si
autem particulares, sumuntur per particulares syllogismos primae figurae, sed
hi reducti sunt ad illos, quare et tertiae figurae particulares. Manifestum
ergo quoniam omnes reducentur in primae figurae universales syllogismos. Igitur
syllogismi inesse vel non inesse ostendentes, dictum est quomodo se habent, et
ad eos qui ex eadem sunt figura, et ad invicem, et ad eos qui ex aliis sunt
figuris. Quoniam autem diversum est inesse, et ex necessitate inesse, et
contingere inesse (nam multa insunt quidem, non tamen ex necessitate, alia vero
neque ex necessitate, neque insunt omnino, contingit autem inesse), manifestum
quoniam et syllogismus in unoquoque horum diversus est, et non similiter
habentibus se terminis, sed hic quidem ex necessariis, ille vero ex iis quae
simpliciter insunt, ille autem ex contingentibus. Ergo in necessariis quidem
fere similiter se habet, et in iis qui insunt. Similiter enim positis terminis,
et in iis quae insunt, et in iis quae ex necessitate insunt vel non insunt, et
erit, et non erit syllogismus. Verum distabit in eo quod adiacet terminis ex
necessitate inesse, vel non inesse, nam et privativum similiter convertitur, et
in toto esse, et de omni similiter assignabimus. Ergo in aliis quidem eodem
modo ostendetur per conversionem, quoniam conclusio necessaria, quomodo in eo
quod est inesse. In media autem figura quando fuerit universalis affirmativa,
particularis vero privativa, et rursum in tertia quando universalis quidem
praedicativa, particularis vero privativa, non similiter erit demonstratio, sed
necesse est exponentes, cui alicui utrumque non inest, de hoc facere
syllogismum. Erit enim necessarius in hoc. Si autem de exposito est
necessarius, erit et de illo aliquo. (0648C) Nam hoc quod est expositum, ipsum quidem
illud aliquid est. Fit autem uterque syllogismus in propria figura. Accidit
autem quandoque et altera propositione necessaria, necessarium fieri
syllogismum, verum non utralibet, sed quae ad maiorem extremitatem est, ut si A
quidem, B ex necessitate sumptum est inesse, vel non inesse, B autem C inesse
tantum; sic enim sumptis propositionibus ex necessitate A inerit C, vel non
erit. Nam quoniam omni B ex necessitate inest, vel non inest A, C autem aliquid
eorum quae sunt B, est manifestum quoniam et C ex necessitate erit alterum
horum. Si autem A B quidem non necessaria, B C autem necessaria, non erit
conclusio necessaria. Nam si est, accidit A alicui B inesse ex necessitate, per
primam et tertiam figuram, hoc autem falsum, contingit enim tale esse B cui
possibile est A nulli inesse. Amplius autem et ex terminis manifestum quoniam
non erit conclusio necessaria; ut si A quidem sit motus, B autem sit animal, in
que autem C homo, namque homo animal est ex necessitate, movetur autem animal
non ex necessitate, quare nec homo. Similiter autem et si privativa sit A B;
nam eadem demonstratio. In particularibus autem syllogismis, si universalis
quidem est necessaria, et conclusio erit necessaria; si autem particularis, non
necessaria, sive privativa, sive praedicativa fuerit universalis propositio. Sit
autem primo universalis necessaria, et A quidem omni B insit ex necessitate, B
autem alicui C insit solum, necesse est ergo A alicui C inesse ex necessitate,
nam C sub B est, B autem omni A inerat ex necessitate. Similiter autem et si
privativus syllogismus sit, nam eadem erit demonstratio. Si autem particularis
est necessaria, non erit conclusio necessaria, nihil enim impossibile evenit,
quemadmodum nec in universalibus syllogismis, similiter autem et in privativis.
Termini, motus, animal, album. In secunda autem figura si privativa quidem
propositio universalis sit et necessaria, conclusio erit necessaria. Si autem
praedicativa, non necessaria. Sit enim primum privativa necessaria, et A B
quidem nulli contingat, C autem insit tantum; quoniam ergo convertitur
privativa, et B nulli A contingit, A autem omni C inest, quare nulli C
contingit B, nam C sub A est. Similiter autem et si ad C ponatur privativum,
nam si A C nulli contingit, et C nulli A poterit inesse, A autem omni B inest.
Quare nulli eorum quae sunt B contingit C, fit enim prima figura. Rursum non
ergo neque B ipsi C, convertitur enim similiter. Si autem praedicativa
propositio est necessaria, non erit conclusio necessaria, insit enim A omni B
ex necessitate, C autem nulli insit tantum, conversa ergo privativa, fit prima
figura. Ostensum est autem in prima quoniam cum non est necessaria quae ad
maiorem est privativa, nec conclusio erit necessaria, quare nec in his erit ex
necessitate. Amplius autem si conclusio est necessaria, accidit C alicui A non
inesse ex necessitate, si enim B nulli C inest ex necessitate, neque C nulli B
inerit ex necessitate, B autem alicui A necesse est inesse, siquidem et A omni
B ex necessitate inerat, quare C necesse est alicui A non inesse, sed nihil
prohibet A huiusmodi accipere, cui omni C contingat inesse. Amplius et si
terminos ponentes sit ostendere, quoniam conclusio non est necessaria
simpliciter. Et his existentibus, necessarium ut sit A animal, B vero homo, C
autem album, et similiter propositiones sumptae sint, contingit enim animal
nulli albo inesse, non inerit ergo nec homo nulli albo, sed non ex necessitate.
Contingit enim hominem fieri album, non tamen donec animal nulli albo insit,
quare cum haec sint, necessaria erit conclusio, simpliciter autem non
necessaria. Similiter autem se habebit et in particularibus syllogismis, quando
privativa quidem propositio, et universalis fuerit, et necessaria, et conclusio
erit necessaria. Quando autem praedicativa universalis fuerit necessaria,
privativa vero particularis non necessaria, non erit conclusio necessaria. Sit
enim primum privativa, et universalis necessaria, et A B quidem nulli contingat
inesse, C autem alicui insit, quoniam ergo convertitur privativa, et B nulli A
continget inesse, A autem alicui C inest, quare ex necessitate alicui eorum
quae sunt, C non inerit B. Rursum sit praedicativa, et universalis, et
necessaria, et ponatur ad B quidem praedicativum, si ergo A omni B ex
necessitate inest, C autem alicui non inest, quoniam non inerit B alicui C
manifestum, sed non ex necessitate. Nam iidem termini erunt ad demonstrationem,
qui in universalibus syllogismis: sed nec si privativa necessaria est
particulariter sumpta, erit conclusio necessaria. Nam per eosdem terminos
demonstratio. In postrema autem figura terminis quidem universalibus ad medium,
et praedicativis utrisque propositionibus, si utralibet sit necessaria, et
conclusio erit necessaria. Si autem haec quidem sit privativa, illa vero
praedicativa, quando privativa quidem fuerit necessaria, et conclusio erit
necessaria, quando autem praedicativa, non erit necessaria. Sint enim primum
utraeque praedicativae propositiones, et A et B omni C insint, necessaria autem
sit A C, quoniam ergo B omni C inest, et C alicui B inerit, eo quod convertitur
universalis particulariter. Quare si A inest omni C ex necessitate, et C alicui
B, et A alicui B necessarium inesse, nam B sub C est. Fit igitur prima figura.
Similiter autem ostendetur, et si B C est necessaria, convertitur enim C alicui
A, quare si omni C inest B ex necessitate, et A alicui B inerit ex necessitate.
Rursum sit A C quidem privativa, B C vero affirmativa, necessaria autem
privativa, quoniam ergo convertitur affirmativa, erit C alicui B, A autem nulli
C ex necessitate, neque A alicui B inerit ex necessitate, nam B sub C est. Si
autem praedicativa sit necessaria, non erit conclusio necessaria. Sit enim B C
praedicativa et necessaria, A C autem privativa et non necessaria, quoniam ergo
convertitur affirmativa, inerit et C alicui B ex necessitate. Quare si A quidem
nulli eorum quae sunt C inest, C autem alicui eorum quae sunt B et A alicui
eorum quae sunt B non inerit, sed non ex necessitate. Ostensum est enim in
prima figura quoniam privativa propositione necessaria, nec conclusio erit
necessaria. Amplius autem et per terminos sit manifestum, sit enim A quidem
bonum in quo B animal, C autem equus, ergo bonum quidem contingit nulli equo
inesse, animal vero necesse est omni equo inesse, sed non necesse est aliquod
animal non esse bonum, siquidem contingit omne esse bonum. Aut si non hoc
possibile, sed vigilare, vel dormire terminum ponendum. Omne enim animal
susceptibile est horum. Si igitur termini universaliter ad medium sint, dictum
est quando erit conclusio necessaria. Si autem hic quidem universalis, ille
vero particularis, praedicativus uterque, quando universalis fuerit
necessarius, et conclusio erit necessaria. Demonstratio autem eadem quae prius,
convertitur enim et particularis affirmativa. Si ergo necesse est B omni C
inesse, A autem sub C est, necesse est B alicui A inesse. Si autem B alicui A,
et A alicui B inesse necessarium, convertitur enim. Similiter autem et si A C
sit necessaria universalis, nam B sub C est. Si autem particularis est
necessaria, non erit conclusio necessaria. Sit enim B C particularis et
necessaria, A autem insit omni C, non tamen ex necessitate, conversa ergo B C
prima fit figura, et universalis quidem propositio non necessaria, particularis
autem necessaria, quando autem sic se habebant propositiones, non erat
conclusio necessaria, quare nec in his. Amplius autem et ex terminis
manifestum. Sit enim A quidem vigilatio, B autem bipes, in quo autem C animal,
ergo B alicui C necesse est inesse, A autem omni C contingit, et A non
necessario B, non enim necesse est aliquem bipedem dormire vel vigilare. Similiter
autem per eosdem terminos ostendetur etiam si A C sit particularis et
necessaria. Si autem hic quidem terminorum sit praedicativus, ille privativus
et necessarius, quando universalis fuerit privativus et necessarius, et
conclusio erit necessaria. Si enim A nulli C ex necessitate contingit, B autem
alicui C inest, necesse est A alicui B non inesse, quando autem affirmativa
necessaria ponetur vel universalis, vel particularis, vel privativa
particularis, non erit conclusio necessaria. Nam alia quidem eadem quae et in
prioribus dicemus. Termini autem cum universalis quidem affirmativa est
necessaria, vigilatio, animal, homo, medium homo: cum autem particularis
praedicativa necessaria, vigilatio, animal, album. Animal enim necesse est
alicui albo inesse, vigilatio autem contingit nulli, et non necesse est alicui
animali non inesse vigilationem. Quando autem privativa particularis est
necessaria, bipes, motus, animal, medium animal. Manifestum igitur quoniam
inesse quidem non est syllogismus, si utraeque propositiones non sunt in eo
quod est inesse, necessaria vero est, et altera solum existente necessaria. In
utrisque autem affirmativis et privativis existentibus syllogismis necesse est
alteram propositionem similem esse conclusioni. Dico autem similem, si inesse
quidem, inexistentem, si autem necessaria, necessariam. Quare et hoc palam,
quoniam non erit conclusio neque necessaria, neque inesse, non sumpta vel
necessaria, vel quae inesse significet propositione. Igitur de necessario
quomodo fit, et quam differentiam habeat ad inesse, sufficienter pene dictum
est. De contingente autem post haec dicemus, quando, et quomodo, et per quae
erit syllogismus. Dico autem contingere, et contingens, quo non existente
necessario, posito autem inesse, nihil erit propter hoc impossibile. Nam
necessarium aequivoce contingere dicitur. Quoniam autem hoc est contingens,
manifestum ex affirmationibus et negationibus oppositis. Nam non contingit
esse, non possibile esse, et impossibile esse, et necesse est non esse, vel
eadem sunt, vel sequuntur se invicem, quare et opposito his contingit esse, et
non impossibile esse, et non necesse non esse, eadem erunt, vel sequentia se
invicem. De omni enim affirmatio, vel negatio vera. Erit ergo contingens
necessarium, et non necessarium contingens. Accidit autem omnes quae secundum
contingere sunt propositiones converti sibi invicem, dico autem non
affirmativas negativis sed quaecunque affirmativam habent figuram secundum
oppositionem, ut ea quae est contingit esse ei quae est contingit non esse, et
ea quae est contingit omni ei quae est contingit nulli, vel non omni, et quae
alicui, et quae non alicui, eodem autem modo et in aliis. Quoniam enim
quod est contingens non est necessarium, et quod non est necessarium possibile
est non esse, manifestum quoniam si contingit A inesse B, contingit et non
inesse, et si omni contingit inesse, et omni contingit non inesse. Similiter
autem et in particularibus affirmationibus, nam eadem demonstratio. Sunt autem
huiusmodi propositiones praedicativae, nam contingere ei quod est esse
similiter ponitur, quemadmodum dictum est prius. Determinatis autem his, rursum
dicimus quoniam contingere duobus modis dicitur: uno quidem, quod plerumque fit
et deficit, necessarium, ut canescere hominem, vel augeri, vel minui, vel
omnino quod natum est esse. Hoc enim non continuum habet necessarium, eo quod
non semper est homo, cum tamen homo est, aut ex necessitate, aut ut in pluribus
est. Alio autem modo infinitum, quod et sic, et non sic possibile, ut animal
ambulare, vel ambulante fieri motum terrae, vel omnino quod casu fit, nihil
enim magis sic natum est, vel econtrario. Convertitur ergo et secundum
oppositas propositiones utrumque contingens, non tamen eodem modo, sed quod
natum quidem est esse ei quod non ex necessitate esse. Sic enim contingit non
canescere hominem. Infinitum autem ei quod nihil magis sic, vel illo modo.
Disciplina autem, et syllogismus demonstrativus, ex infinitis quidem non est,
eo quod inordinatum est medium, ex iis vero quae nata sunt esse, pene orationes
et considerationes fiunt de sic contingentibus, ex illis autem possibile quidem
est fieri syllogismum, non tamen solet quaeri. Haec ergo definientur magis in
sequentibus, nunc autem dicemus quando et quomodo, et quis erit syllogismus ex
contingentibus propositionibus. Quoniam autem contingere hoc huic inesse
dupliciter est accipere, aut enim cui inest hoc, aut cui contingit ipsum
inesse, nam de quo B, A contingere, horum alterum significat, aut de quo
dicitur B, aut de quo contingit dici, de quo autem B, A contingere, aut omni B
possibile inesse A, nihil differt. Manifestum igitur quoniam dupliciter dicetur
A omni B inesse contingere. Primum ergo dicemus si de quo C contingit B, et de
quo B contingit A, quis erit, et qualis syllogismus, sic enim utraeque
propositiones sumuntur secundum contingere, quando autem de quo B est contingit
A, haec quidem inesse, illa vero contingens, quare A similibus figuris incipiendum,
quemadmodum et in aliis.Quando ergo A contingit omni B, et B omni C,
syllogismus erit perfectus, quoniam A contingit omni C inesse. Hoc autem
manifestum est ex definitione, nam contingere omni inesse sic dicebamus.
Similiter autem et si A quidem contingit nulli B, B autem omni C, quoniam A
contingit nulli C. Nam de quo B contingit, A non contingere, hoc erat nullum
dimittere sub B contingentium. Quando autem A contingit omni B, B autem nulli
C, per sumptas quidem propositiones nullus fit syllogismus, conversa autem B C
secundum contingere, fit idem quemadmodum et prius, quoniam enim contingit B
nulli C inesse, contingit et omni inesse. Hoc autem dictum prius. Quare si B
quidem omni C, A autem omni B, rursum idem fit syllogismus. Similiter autem
etsi ad utrasque propositiones negatio ponatur cum contingere (dico autem ut si
A contingit nulli B, et B nulli C ), igitur per sumptas quidem propositiones
nullus fit syllogismus, conversis autem rursus idem erit qui et prius.
Manifestum est igitur quoniam negatione posita ad minorem extremitatem, vel ad
utrasque propositiones, aut non fit syllogismus, aut fit quidem, sed non
perfectus, ex conversione enim fit necessarium. Si autem haec quidem
propositionum universalis, illa vero particularis sumatur, ad maiorem quidem
extremitatem posita universali, syllogismus erit perfectus. Nam si A omni B
contingit, B autem alicui C, A alicui C contingit, hoc autem manifestum ex
definitione contingentis. Rursum si A contingit nulli B, B autem contingit
alicui C inesse, necesse est A contingere alicui C non inesse. Demonstratio
autem eadem quae in his. Si autem privativa sumatur particularis propositio,
universalis autem affirmativa, positione autem similiter se habeant (ut A
quidem omni B contingat, B autem alicui C contingat non inesse), per sumptas
quidem propositiones non fit manifestus syllogismus, conversa autem
particulari, et posito B alicui C contingere inesse, eadem erit conclusio quae
et prius, quemadmodum in iis quae ex principio. Si autem quae ad maiorem
extremitatem particularis sumatur, quae ad minorem universalis, sive utraeque
sumantur affirmativae, sive privativae, sive non similis figurae, sive utraeque
indefinitae, vel particulares, nullo modo erit syllogismus. Nihil enim prohibet
B transcendere A, et non praedicari de aequis, in quo enim B transcendit A
sumat C, huic neque omni, neque nulli, neque alicui, neque non alicui contingit
A inesse, siquidem convertuntur secundum contingere propositiones, et B
pluribus contingit quam A inesse. Amplius autem ex terminis manifestum est, nam
sic se habentibus propositionibus primum postremo et nulli contingit, et omni
ex necessitate inesse. Termini autem communes omnium, inesse quidem ex
necessitate, animal, album, homo, non contingere vero, animal, album, vestis. Manifestum
igitur quoniam hoc modo habentibus se terminis, nullus fit syllogismus, nam
omnis syllogismus vel eius quod est inesse est, vel ex necessitate vel
contingere, non est autem eius quod est inesse, neque necessarii, manifestum
quoniam non est, nam affirmativus interimitur privativo, et privativus
affirmativo, relinquitur ergo eius quod contingere esse, hoc autem impossibile.
Ostensum est enim quoniam sic se habentibus terminis, et omni postremo primum
necesse inesse, et nulli contingere inesse, quare non erit eius quod est
contingere syllogismus, nam necessarium uno [sic] erat contingens. Manifestum
autem et quoniam cum universales sunt termini in contingentibus
propositionibus, semper fit syllogismus in prima figura, sive sunt praedicativi,
sive privativi. Verum ex praedicativis quidem perfectus, ex privativis autem
imperfectus. Oportet autem contingere sumere non in necessariis, sed secundum
dictam definitionem, aliquoties autem latet huiusmodi. Si autem haec quidem
inesse, illa vero contingere sumatur propositionum, quando quae ad maiorem
quidem extremitatem contingere significaverit perfecti erunt omnes syllogismi,
et contingentis secundum dictam determinationem, quando autem quae ad minorem,
et imperfecti omnes, et privativi syllogismi, non contingentis secundum dictam
determinationem, sed eius quod est nulli, aut non omni ex necessitate inesse.
Si enim nulli, aut non omni ex necessitate contingere dicimus, et nulli, et non
omni inesse. Contingat enim A omni B, B autem omni C ponatur inesse, quoniam
igitur sub B est C, A autem contingit omni B, manifestum quoniam et C omni
contingit A, fit ergo perfectus syllogismus. Similiter autem et cum privativa
est A B propositio, B C autem affirmativa, et haec quidem contingere, illa vero
inesse sumetur, perfectus erit syllogismus, quoniam A contingit nulli C inesse.
Quoniam ergo inesse posito ad minorem extremitatem, perfecti syllogismi fiunt,
manifestum. Quod autem contrariae se habentes erunt syllogismi, per impossibile
monstrandum est, simul autem erit manifestum et quoniam imperfecti, nam ostensio
non ex sumptis propositionibus.Primum autem dicendum quoniam si cum est A,
necesse est esse B, et cum possibile est esse A, possibile erit B ex
necessitate. Sit enim sic se habentibus rebus ut in quo quidem A possibile, in
quo autem B impossibile, si ergo aliud possibile quidem est, cum possibile
esse, ipsum fiet, hoc vero impossibile, quoniam impossibile, non utique fiet,
simul autem si A possibile, et B impossibile, continget fieri praeter B, si
autem fieri et esse. Nam quod fit, quando factum est, est. Oportet autem
accipere non solum in generatione possibile et impossibile, sed et in verum
esse, et in quod actu est, et quocunque modo simpliciter aliter dicitur
possibile, in omnibus enim similiter se habebit. Amplius cum est A, B esse, non
tanquam uno aliquo existente A, erit B, oportet opinari, nihil enim est ex
necessitate uno aliquo existente, sed duobus ad minus, ut quando propositiones
sic se habent (ut dictum est) secundum syllogismum, nam sic dicitur de D, D
autem de E, et C de E ex necessitate, et si utrumque possibile, et conclusio
erit possibilis. Quemadmodum ergo si quis ponat A quidem propositiones, B autem
conclusionem, accidet non solum A existente necessario, et B simul esse
necessarium, sed etiam possibili possibile. Hoc autem ostenso manifestum est
quoniam falso posito, et non impossibili, et quod accidit propter positionem
falsum erit, et non impossibile, ut si A falsum quidem est, non tamen
impossibile, cum autem sit A et B, et B erit falsum quidem, non tamen impossibile.
Nam ostensum est quoniam cum est A, est B, et cum possibile est A, possibile
est B. Positum autem est A possibile esse, et B erit possibile, si enim
impossibile est B, simul idem erit possibile et impossibile. Determinatis autem
iis, insit A omni B, B autem contingit omni C, necesse est A igitur contingere
omni C inesse. Non enim contingat, B autem omni C ponatur inesse, hoc autem
falsum quidem, non tamen impossibile, si ergo A quidem non contingit omni C, B
autem omni C insit, A non omni B contingit. Fit enim syllogismus per tertiam
figuram. Sed positum erat omni C contingere inesse, necesse est ergo A omni C
contingere. Falso enim posito, et non impossibili, quod accidit est
impossibile. Possibile est autem et primam figuram facere impossibile ponentes
B inesse C, nam si B omni C inest, A autem omni B contingit, et omni C
continget A, sed positum erat non omni possibile inesse.Oportet autem accipere
omni inesse non secundum tempus determinantes, ut nunc, aut in hoc tempore, sed
simpliciter (per huiusmodi enim propositiones et syllogismos facimus), quoniam
secundum nunc sumpta propositione, non erit syllogismus. Nihil enim fortasse
prohibet quandoque et omni moventi hominem inesse, ut si nihil aliud moveatur,
movens autem contingit omni equo, sed homo nulli equo contingit. Amplius: sit
primum quidem animal, medium vero movens, postremum vero homo, ergo
propositiones quidem similiter se habebunt, conclusio vero erit necessaria, non
contingens. Ex necessitate enim homo est animal, manifestum igitur quoniam
universale sumendum simpliciter, et non tempore determinantes. Rursum: sit
privativa propositio universalis A B, et sumatur A quidem nulli B inesse, B
autem contingat omni C inesse. His igitur positis necesse est A contingere
nulli C inesse, non enim contingat, B autem ponatur inesse C sicut prius,
necesse est igitur A alicui B inesse, fit enim syllogismus per tertiam figuram.
Hoc autem impossibile, quare contingit A, nulli C. Posito enim falso, et non
impossibili, impossibile est quod accidit. Hic ergo syllogismus non est
contingentis secundum definitionem, sed nulli inesse ex necessitate. Haec est
contradictio factae hypothesis. Positum est enim ex necessitate A alicui C
inesse, syllogismus autem per impossibile, oppositae est contradictionis. Amplius
autem et ex terminis manifestum quoniam non erit conclusio contingens, sit enim
A quidem corvus, in quo autem B intelligens, in quo autem C homo, nulli ergo B
inest A, nam nullum intelligens, corvus, B autem contingit omni C, omni enim
homini inest intelligere, sed A ex necessitate nulli C, non igitur conclusio
contingens. Sed nec necessaria semper: sit enim A quidem movens, B autem
scientia, in quo autem C homo, ergo A quidem nulli B inerit, B autem omni C
contingit, et non erit conclusio necessaria, non enim necesse est nullum
hominem moveri, sed necesse est aliquem. Manifestum igitur quoniam est
conclusio eius quod est nulli ex necessitate inesse. Sumendum autem melius
terminos. Si autem privativum ponatur ad maiorem extremitatem contingere
significans, ex ipsis quidem sumptis propositionibus, nullus erit syllogismus,
conversa autem secundum contingens propositione, erit quemadmodum in prioribus.
Insit enim A omni B, B autem contingat nulli C, sic ergo habentibus se
terminis, nihil erit necessarium. Si autem convertatur B C, et sumatur B
contingere omni C, fiet syllogismus quemadmodum prius, similiter enim habent se
termini positione. Eodem autem modo et cum privativa sunt utraque intervalla,
si A B quidem non inesse, B C autem nulli, contingere significat, nam per ea
quidem quae sumpta sunt nullo modo fit necessarium, conversa autem secundum
contingens propositione erit syllogismus, sumatur enim A quidem, nulli B
inesse, B autem contingere nulli C, per haec quidem nihil necessarium. Si autem
sumatur B omni C contingere, quod verum est, A B autem propositio similiter se
habeat, rursus erit idem syllogismus. Si autem non inesse ponatur B omni C, et
non contingere non inesse, non erit syllogismus nullo modo, sive privativa sit,
sive affirmativa A B propositio. Termini autem communes ex necessitate quidem
inesse, album, animal, nix. Non contingere autem, album, animal, pix. Manifestum
est igitur quoniam cum universales sunt termini, et haec quidem propositionum
inesse, illa vero sumitur contingens, quando quae ad minorem est extremitatem
contingere sumitur propositio, semper fit syllogismus, verumtamen quandoquidem
ex ipsis, quando autem propositione conversa, quando vero utrumque horum, et ob
quam causam, diximus. Si autem hoc quidem universale, illud vero particulare
sumitur intervallorum, quando ad maiorem quidem extremitatem universale
ponitur, et contingens sive negativum, sive affirmativum, particulare autem
affirmativum et inesse, erit syllogismus perfectus, quemadmodum et cum universales
sunt termini, demonstratio autem eadem quae et prius. Quando autem universale
quidem fuerit, ad maiorem extremitatem inesse, et non contingens, alterum vero
particulare, et contingens, sive affirmative, sive negative ponantur utraeque,
sive haec quidem negativa, illa vero affirmativa, omnino erit syllogismus
imperfectus. Verum hi quidem per impossibile ostenduntur, illi vero per
conversionem contingentis, quemadmodum in prioribus. Erit autem syllogismus per
conversionem, et quando universalis quidem ad maiorem extremitatem posita
significaverit inesse, vel non inesse, particularis vero cum sit privativa,
sumatur contingens, ut si A quidem omni B inest, vel non inest, B autem alicui
contingit non inesse, conversa enim B C, secundum contingere fit syllogismus.
Quando autem non inesse sumetur particulariter posita propositio, non erit
syllogismus Termini inesse, album, animal, nix; non inesse autem, album,
animal, pix, per indefinitum enim est sumenda demonstratio. Si autem universale
quidem ponatur ad minorem extremitatem, particulare autem ad maiorem sive
privativum, sive affirmativum, sive contingens, sive inesse utrumvis, nullo
modo erit syllogismus. Nec cum particulares, vel indefinitae ponentur
propositiones, sive contingere sumptae, sive inesse, seu permutatim, nec sic
erit syllogismus, demonstratio autem eadem quae in prioribus. Termini autem
communes inesse quidem, ex necessitate, animal, album, homo; non contingere
vero, animal, album, tunica. Manifestum est igitur quoniam universali posito ad
maiorem extremitatem semper erit syllogismus, ad minorem autem nunquam. Quando
autem haec quidem propositionum ex necessitate inesse, vel non inesse, illa
vero contingere significat, syllogismus quidem erit hoc modo habentibus se
terminis. Et perfectus, quando ad minorem extremitatem ponetur necessaria.
Conclusio autem, si praedicativi sunt quidem termini, contingentis, et non
inesse erit, sive universaliter, sive non universaliter ponantur, si autem sint
hoc quidem affirmativum, illud vero privativum, quando affirmativum quidem
fuerit necessarium, et contingentis erit conclusio, et non eius quod est non
inesse. Quando autem privativum necessarium, et contingentis non esse, et non
inesse, sive universales, sive non universales sint termini. Contingere autem
in conclusione eodem modo accipiendum est quo in prioribus. Eius autem quod est
ex necessitate non inesse, non erit syllogismus, aliud enim est non ex
necessitate inesse, et ex necessitate non inesse. Quoniam igitur
universalibus affirmativis existentibus terminis non fit conclusio necessaria,
manifestum: insit enim A omni B ex necessitate, B autem contingat omni C, erit
igitur syllogismus imperfectus, quoniam A contingit omni C inesse. Quoniam
autem imperfectus, ex demonstratione palam, eodem enim modo ostendetur quo et
in prioribus. Rursum A quidem contingat omni B inesse, B autem omni C insit ex
necessitate, erit itaque syllogismus, quoniam A contingat omni C inesse, sed
non quoniam inest, et perfectus quidem, sed non imperfectus, statim enim
perficitur ex principio propositionis. Si autem non similis figurae sint
propositiones, sit primum privativa necessaria, et A quidem nulli contingat B
ex necessitate, B autem contingat omni C, necesse est igitur A nulli C inesse.
Ponatur enim A inesse aut omni, aut alicui, positum autem est A nulli
contingere B, quoniam ergo convertitur privativa, et B nulli A contingit, A
autem positum est inesse C aut omni, aut alicui, quare nulli, aut non omni C
continget B inesse, sed supponebatur omni ex principio. Manifestum autem
quoniam et eius quod est contingere non inesse fit syllogismus, siquidem non
inesse. Rursum sit affirmativa quidem propositio necessaria, et A quidem
contingat nulli B inesse, B autem insit omni C ex necessitate. Ergo fit
syllogismus quidem perfectus, sed non eius quod est non inesse, sed eius quod
est contingere non inesse. Nam et propositio sic sumpta est, quae ad maiorem
est extremitatem, et ad impossibile non est ducere: nam si ponatur A inesse
ulli C, positum est autem et A B contingere nulli inesse, nihil accidit per
haec impossibile. Si autem ad minorem extremitatem ponatur privativum quando
contingere quidem significaverit, syllogismus erit per conversionem,
quemadmodum in prioribus. Quando autem non contingere, non erit ex necessitate,
nec quando utraque quidem propositio privativa, non est autem contingens quod
ad minorem est. Termini autem inesse quidem, album, animal, nix; non inesse
quidem, album, animal, pix. Eodem autem modo se habebit, et in particularibus
syllogismis. Quando enim fuerit privativa necessaria, et conclusio erit eius
quod est non inesse, ut si A quidem nulli B contingit inesse ex necessitate, B
autem alicui C contingat inesse, necesse est A alicui eorum quae sunt C non
inesse. Si enim A omni C inest, nulli autem contingit B, et B nulli A contingit
inesse: quare si omni C inest A, nulli C contingit B, sed positum erat alicui
contingere. Quando autem particularis affirmativa necessaria fuerit, quae in
privativo est syllogismo, ut B C, aut universalis in affirmativo, ut A B, non
erit inesse syllogismus. Demonstratio autem eadem quae in prioribus. Si autem
universale quidem ponatur ad minorem extremitatem vel affirmativum vel
privativum contingens, particulare autem necessarium, non erit syllogismus.Termini
autem inesse quidem ex necessitate, animal, album, homo; non contingere autem,
animal, album, tunica. Quando similiter universale quidem est necessarium,
particulare autem contingens, cum privativum quidem est universale, inesse
quidem termini, animal, album, corvus; non inesse, animal, album, pix. Cum
autem affirmativum, inesse quidem, animal, album, cygnus; non contingere autem,
animal, album, nix. Nec quando indefinitae sumuntur propositiones, aut utraeque
particulares, non sic erit syllogismus. Termini autem communes, inesse quidem,
animal, album, homo; non inesse autem, animal, album, inanimatum. Nam et animal
alicui albo, et album inanimato alicui est necessarium inesse, et non contingit
inesse, et in contingenti similiter, quare ad omnia utiles sunt termini.
Manifestum ergo ex iis quae dicta sunt, quoniam similiter habentibus se
terminis, et in eo quod est inesse, et in necessariis, et fit, et non fit
syllogismus, verumtamen secundum inesse quidem posita privativa propositione,
eius quod est contingere erat syllogismus, secundum necessarium autem
privativa, et contingere, et non inesse. Palam autem et quoniam omnes
imperfecti syllogismi, et quomodo perficiuntur per praedictas figuras.In
secunda autem figura quando contingentes quidem sumuntur utraeque
propositiones, nullus erit syllogismus, sive sint affirmativae, sive
privativae, sive universales, sive particulares. Quando autem haec quidem
inesse, illa vero contingere significat, affirmativa quidem inesse
significante, nunquam erit syllogismus, privativa universali existente, semper.
Eodem modo et quando haec quidem ex necessitate, illa vero contingere
assumatur, oportet autem et in his accipere quod in conclusionibus est contingens
quemadmodum in prioribus. Primum igitur ostendendum quoniam non convertitur in
contingenti, privativa, ut si A contingit nulli B, non necesse est et B
contingere nulli A. Ponatur enim hoc et contingat B nulli A inesse, ergo
quoniam convertuntur quae sunt in eo quod est contingere affirmationes
negationibus, et contrariae, et contraiacentes, B autem contingit nulli A
inesse, manifestum est quoniam et omni A contingit B inesse. Hoc autem falsum
est. Non enim si hoc huic omni contingit, et hoc huic contingat necessarium,
quare non convertitur privativa. Amplius autem nihil prohibet A quidem
contingere nulli B, B autem alicui A ex necessitate non inesse, ut album quidem
contingit omni homini non inesse, nam et inesse hominem autem non verum est
dicere, quoniam contingit nulli albo, pluribus enim ex necessitate non inest,
necessarium autem non inerat contingens. Sed nec ex impossibili ostendet
convertens, ut si quis pPomba quoniam falsum est B contingere nulli A inesse,
verum non contingere nulli A, affirmatio enim et negatio, si autem hoc verum,
ex necessitate alicui A inesse B, quare et A alicui B inesse, hoc autem
impossibile. Non enim si A non contingit nulli B, necesse est A alicui B
inesse. Nam non contingere nulli dicitur dupliciter, hoc quidem si ex
necessitate alicui inest, illud vero si ex necessitate alicui non inest. Nam
quod ex necessitate alicui eorum quae sunt A non inest, non est verum dicere
quoniam omni contingit non inesse, quemadmodum nec alicui inest ex necessitate,
quoniam omni contingit inesse. Si ergo aliquis pPomba quoniam contingit C omni
D inesse, ex necessitate alicui non inesse ipsum, falsum sumet, omni enim
inest, si contingat, sed quoniam quibusdam ex necessitate inest, propter hoc
dicimus non omni contingere. Quare ei quod est contingere omni inesse, et ea
quae est ex necessitate alicui inesse, opponitur, et ea quae est ex necessitate
alicui non inesse, similiter autem et ei quae est contingere nulli. Palam ergo
quoniam ad sic contingens, et non contingens, ut in principio definivimus, non
solum ex necessitate alicui inesse, sed et ex necessitate alicui non inesse
sumendum. Hoc autem sumpto, nihil accidit impossibile, quare non fit
syllogismus. Manifestum ergo ex iis quae dicta sunt quoniam non convertitur
privativa. Hoc autem ostenso ponatur A, B quidem contingere nulli, C vero omni,
per conversionem ergo non erit syllogismus. Dictum est enim quoniam non
convertitur huiusmodi propositio. Sed nec per impossibile, nam posito B omni C
contingere inesse, nihil accidit falsum, continget enim A et omni et nulli C
inesse. Omnino autem si est syllogismus, palam quoniam contingens erit, eo quod
neutra propositionum sumpta est in eo quod est inesse, et hic vel affirmativus,
vel privativus: neutro autem modo possibile est, affirmativo enim posito,
ostendetur per terminos quoniam non contingit inesse; privativo autem, quoniam
conclusio non est contingens, sed necessaria. Sit enim A quidem album, B autem
homo, in quo autem C equus, ergo album A contingit huic quidem omni, illi vero
nulli inesse, sed B neque inesse contingit C, neque non inesse. Quoniam igitur
inesse non possibile, est manifestum, nullus enim equus homo, sed neque
contingere non inesse, necesse est enim nullum equum hominem esse, necessarium
autem non erat contingens, non igitur fit syllogismus Similiter autem
ostendetur, et si e converso ponatur privativa, et si utraeque affirmative
ponantur, vel privative, nam per eosdem terminos erit demonstratio. Et quando
haec quidem universalis, illa vero particularis, vel utraeque particulares, vel
indefinitae, aut quolibet modo aliter contingit permutari propositiones, semper
enim erit per eosdem terminos demonstratio. Manifestum ergo quoniam utrisque
propositionibus secundum contingere positis, nullus fit syllogismus. Si autem
altera quidem inesse, altera vero contingere significat, praedicativa quidem
inesse posita, privativa vero contingere, nunquam erit syllogismus, sive
universaliter, sive particulariter sumantur termini, demonstratio autem eadem,
et per eosdem terminos. Quando autem affirmativa quidem contingere, privativa
inesse, erit syllogismus. Sumatur enim A B quidem nulli inesse, C vero omnia
contingere, conversa ergo privativa, B inest nulli A, A autem omni C
contingebat, fit ergo syllogismus, quoniam B contingit nulli C, per primam
figuram. Similiter autem et si ad C ponatur privativa. Si autem utraeque sint
privativae, significet autem haec quidem non inesse, illa vero contingere non
inesse, per ea quidem quae sumpta sunt nihil accidit necessarium, conversa
autem secundum contingere propositione fit syllogismus, quoniam B contingit
nulli C inesse, quemadmodum in prioribus, erit enim rursum prima figura. Si
autem utraeque ponantur praedicativae, non erit syllogismus. Termini quidem
inesse sanitas, equus, homo. Eodem autem modo se habebit et in particularibus
syllogismis. Quando autem erit affirmativa inesse, sive universaliter, sive
particulariter sumpta, nullus erit syllogismus; hoc autem similiter, et per
eosdem terminos demonstratur, quibus et prius. Quando autem et privativa, erit
per conversionem, quemadmodum in prioribus. Rursum si ambo quidem intervalla
privativa sumantur, universaliter autem quod non inesse, ex ipsis quidem
propositionibus non erit necessarium, conversa autem contingenti sicut in
prioribus, erit syllogismus. Si autem inesse quidem sit privativa, particulariter
quidem sumpta, non erit syllogismus, neque praedicativa, neque privativa
existente altera propositione. Nec quando utraeque ponuntur indefinitae, vel
affirmativae, vel negativae, aut particulares; demonstratio autem eadem et per
eosdem terminos. Si autem haec quidem propositionum ex necessitate, illa vero
contingere significat, privativa quidem necessaria, erit syllogismus, non solum
quoniam contingit non inesse, sed et quoniam non inest, affirmativa autem non
erit. Ponatur autem A B quidem nulli inesse ex necessitate, C autem omni
contingere, conversa ergo privativa, et B nulli A inerit, A autem omni E
contingebat. Fit igitur rursum per primam figuram syllogismus, quoniam B
contingit nulli C inesse. Simul autem manifestum quoniam neque inest B nulli C,
ponatur enim inesse, ergo si A nulli B contingit, B autem inest alicui C, A
alicui C non contingit, sed omni ponebatur contingere. Eodem autem modo
ostendetur, et si ad C ponatur privativum. Rursum. Sit praedicativa quidem
necessaria, altera autem privativa, et contingens, et A B contingat nulli, C
autem omni insit ex necessitate, sic ergo habentibus se terminis, nullus erit
syllogismus, accidit enim B ex necessitate non inesse. Sit enim A quidem album,
in quo autem B, homo, in quo vero C, cygnus, ergo album cygno quidem ex
necessitate inest, homini autem contingit nulli, et homo nulli cygno ex
necessitate. Quoniam igitur eius quod est contingere non est syllogismus,
manifestum est, nam ex necessitate non erat contingens. Sed tamen non
necessarii, nam necessarium aut ex utrisque necessariis, aut ex privativa
necessaria contingebat. Amplius et possibile est iis positis B inesse C. Nihil
enim prohibet C quidem sub B esse, A autem B quidem omni contingere, C vero ex
necessitate inesse, ut sit quidem C vigilia, B autem animal, in quo autem A
motus. Nam vigilanti quidem ex necessitate inest motus, animali autem nulli
contingit, et omne vigilans animal. Manifestum ergo quoniam non eius quod est
non inesse, siquidem sic se habentibus terminis, necesse est inesse, neque
autem oppositarum affirmationum, quare nullus erit syllogismus. Similiter autem
ostendetur, et e converso posita affirmativa. Si autem similis figurae sint
propositiones, cum privativae sint, semper fit syllogismus, conversa secundum
contingere propositione, quemadmodum in prioribus. Si sumatur enim A B quidem
ex necessitate non inesse, C autem contingere non inesse, conversis autem
propositionibus, B quidem nulli inesse A, A autem omni C contingit, fit igitur
prima figura, et si ad C ponatur privativum similiter. Si autem praedicativae
ponantur, non erit syllogismus, nam eius quod est non inesse, aut eius quod est
ex necessitate non inesse, manifestum quoniam non erit, eo quod non sumpta sit
privativa propositio, neque in eo quod est inesse, neque in eo quod est ex
necessitate inesse, sed neque eius quod est contingere non inesse, ex
necessitate enim sic se habentibus, B non inerit C, ut si A quidem ponatur
album, in quo autem B cygnus, in quo autem C homo, neque oppositarum
affirmationum, quoniam ostensum est B ex necessitate non inesse C, non ergo fit
syllogismus omnino. Similiter autem se habebit et in particularibus syllogismis.
Quando autem fuerit privativa, et universalis, et necessaria, semper erit
syllogismus, et eius quod est contingere non inesse, et eius quod est non
inesse, demonstratio autem per conversionem. Quando autem affirmativa, nunquam,
eodem autem modo ostendetur quo et in universalibus, et per eosdem terminos.
Nec quando utraeque sumuntur affirmative, nam et huius eadem demonstratio, quae
et prius. Quando utraeque quidem privativae, universalis autem et necessaria,
quae non inesse significat, per ea quidem quae sumpta sunt, non erit
necessarium, conversa autem secundum contingere propositione, erit syllogismus,
quemadmodum in prioribus. Si autem utraeque indefinitae, vel particulares
sumantur, non erit syllogismus, demonstratio autem eadem, et per eosdem
terminos. Manifestum igitur ex praedictis quoniam privativa quidem universalis
posita necessaria, semper fit syllogismus, non solum eius, quod est contingere
non inesse, sed et non inesse, affirmativa autem nunquam. Et quoniam eodem modo
se habentibus, et in necessariis, et in iis quae insunt, fit et non fit
syllogismus Palam et quoniam imperfecti omnes sunt syllogismi, et quoniam omnes
perficiuntur per praedictas figuras. In postrema autem figura, et utrisque
contingentibus, et altera, erit syllogismus. Quando ergo contingere significant
propositiones, et conclusio erit contingens. Et quando haec quidem contingere,
illa vero inesse, similiter erit syllogismus. Quando autem altera ponitur
necessaria, si affirmativa quidem non erit conclusio, neque necessaria, neque
inesse. Si autem privativa, eius quod est non inesse erit syllogismus,
quemadmodum in prioribus. Sumendum autem et in his similiter, quod est in
conclusionibus contingens. Sint ergo primum contingentes, et A et B contingant
omni C inesse, quoniam ergo convertitur affirmativa particulariter, B autem
omni C contingit, et C alicui B contingit, quare si A quidem omni C contingit,
C autem alicui B, et A alicui B contingit, fit enim prima figura. Et si A
quidem contingit nulli C inesse, B autem omni C contingat, necesse est A alicui
cui B contingere non inesse, erit enim rursum prima figura per conversionem. Si
autem utraeque privativae ponantur, ex his quidem quae sumpta sunt non erit
necessarium, conversis autem propositionibus erit syllogismus, quemadmodum in
prioribus. Si enim A et B contingunt C non inesse, si transmutatur contingere
non inesse, rursum erit prima figura per conversionem. Si autem hic quidem
terminorum est universalis, ille vero particularis, eodem modo se habentibus
terminis quo inesse, et erit, et non erit syllogismus. Contingat enim A quidem
omni C, B autem alicui C inesse, erit ergo rursum prima figura particulari
propositione conversa, nam si A omni C, C autem alicui B, et A alicui B
contingit. Et si ad B C ponatur universale, similiter. Similiter autem et si A
C quidem privativa sit, B C autem affirmativa, erit unum rursum prima figura
per conversionem, si autem utraeque privativae ponantur, haec quidem
universaliter, illa vero particulariter, per ea quidem quae sumpta sunt non
erit syllogismus, conversis autem propositionibus erit quemadmodum in
prioribus. Quando autem utraeque indefinitae vel particulares sumuntur, non
erit syllogismus, etenim necesse est A omni B, et nulli inesse. Termini inesse,
animal, homo, album: non inesse, equus, homo, medium album. Si autem haec
quidem propositionum inesse, illa autem contingere significet, conclusio quidem
erit quoniam contingit, et non quoniam inest, syllogismus autem erit eodem modo
se habentibus terminis, quo et in prioribus. Sint enim primum praedicativae, et
A quidem omni C insit, B autem omni C contingat, conversa ergo B C erit prima
figura, et conclusio quoniam contingit A alicui B inesse, cum enim altera
propositionum in prima figura significabit contingere, et conclusio erit
contingens. Similiter autem et si B C quidem inesse, A C autem contingit
inesse. Et si A C quidem privativa, B C autem praedicativa, insit autem
alterutra utrinque, contingens erit conclusio, fit enim rursum prima figura.
Ostensum est autem quoniam si altera propositio significet contingere in prima
figura, et conclusio erit contingens. Si autem contingens privativa ponatur ad
minorem extremitatem, vel si utraque ponatur privativa, per ea quidem quae
posita sunt non erit syllogismus, conversis autem erit, quemadmodum et in
prioribus. Si autem haec quidem propositionum sit universalis, illa vero
particularis, utrisque quidem praedicativis, aut universali quidem privativa,
particulari autem affirmativa, idem modus erit syllogismorum, omnes enim
clauduntur per primam figuram. Quare manifestum quoniam eius quod est
contingere, et non eius quod est inesse, erit syllogismus. Si autem affirmativa
quidem universalis, privativa autem particularis, per impossibile erit
demonstratio. Insit enim B quidem omni C, A autem contingat alicui C non
inesse, necesse est ergo A alicui B contingere non inesse, nam si omni B inest
A ex necessitate, B autem omni C positum est inesse, A omni C ex necessitate
inerit. Hoc autem ostensum est prius, sed positum est alicui contingere non
inesse. Quando autem indefinitae, vel particulares sumuntur utraeque, non erit
syllogismus, demonstratio autem eadem quae et in universis et per eosdem
terminus. Si autem est haec quidem propositionum necessaria, illa vero
contingens, si praedicativi quidem sunt termini, semper eius quod est contingere
erit syllogismus. Quando autem fuerit hic quidem praedicativus, ille autem
privativus, si sit affirmativus quidem necessarius, eius erit quod est
contingere non inesse, si autem privativus, et eius quod est contingere non
inesse, et eius quod est non inesse; eius autem quod est ex necessitate non
inesse non erit syllogismus, quemadmodum et in aliis figuris. Sint ergo
praedicativi termini primum, et A C quidem omni insit ex necessitate, B autem
omni C contingat inesse, quoniam ergo A omni C necessario inest, C autem alicui
B contingit, et A alicui B contingens erit, et non inerit, sic enim accidit in
prima figura. Similiter autem ostendetur, et si B C quidem ponatur necessaria,
A C autem contingens. Rursum sit hoc quidem praedicativum, illud vero
privativum, necessarium autem praedicativum, et A quidem contingat nulli C
inesse, B autem omni insit ex necessitate C, erit ergo rursum prima figura, et
conclusio contingens, sed non inesse. Nam privativa propositio contingere
significat. Manifestum est igitur quoniam conclusio erit contingens; cum enim
sic se habebant propositiones in prima figura, et conclusio erat contingens. Si
autem privativa sit propositio necessaria, et conclusio erit, quoniam contingit
alicui non inesse, et quoniam non inesse Ponatur enim A non inesse C, ex
necessitate, B autem omni C contingere, conversa ergo B C affirmativa, prima
erit figura, et necessaria privativa propositio. Cum autem sic se habebant
propositiones, accidebat A et contingere alicui C non inesse, et non inesse,
quare et A necesse est alicui B non inesse. Quando autem privativum ponitur ad
minorem extremitatem, si contingens quidem, erit syllogismus transsumpta
propositione, quemadmodum! et in prioribus. Si autem necessarium, non erit. Etenim
necesse est omni et nulli contingat inesse. Termini omni inesse, somnus, equus,
dormiens homo. Nulli inesse, somnus, equus, vigilans homo. Similiter autem se
habebit, et si hic quidem terminorum sit universalis, ille autem particularis
ad medium, nam si utrique sint praedicativi, eius quod est contingere, et non
eius quod est inesse erit syllogismus. Et quando hoc quidem privativum sumetur,
illud vero affirmativum, necessarium autem affirmativum, huius quod est
contingere. Quando autem privativum necessarium, et conclusio erit quod est non
inesse, nam idem modus erit demonstrationis, et cum universales et non
universales sunt termini. Necesse est enim per primam figuram perfici
syllogismos, quare ut in illis, et in his necessarium accidere. Quando autem
privativum universaliter sumptum ponitur ad minorem extremitatem, si contingens
quidem, erit syllogismus per conversionem, si autem necessarium sit, non erit,
ostendetur autem eodem modo quo et in universalibus, et per eosdem terminos. Manifestum
ergo et in hac figura quando et quomodo erit syllogismus, et quando eius quod
est contingere, et quando eius quod est inesse. Palam autem et quoniam omnes
imperfecti, et quoniam perficiuntur per primam figuram. Quoniam igitur qui in
his figuris sunt syllogismi perficiuntur per eos qui in prima figura sunt
universales syllogismos, et in hos reducuntur, palam ex dictis. Quoniam autem
simpliciter omnis syllogismus sic se habebit, nunc erit manifestum, cum
ostensus fuerit omnis qui fit, per aliquam harum figurarum fieri. Necesse est
ergo omnem demonstrationem et omnem syllogismum aut inesse quid, aut non inesse
monstrare. Et hoc aut universaliter, aut particulariter, amplius aut ostensive,
aut ex hypothesi. Eius autem quod est ex hypothesi, pars est per impossibile.
Primum ergo dicemus de ostensivis, his enim ostensis, manifestum erit et de iis
qui ad impossibile, et omnino de iis qui ex hypothesi. Si ergo oporteat A de B
syllogizare, vel inesse, vel non inesse, necesse est sumere aliquid de aliquo. Si
ergo A sumatur de B, quod ex principio erit sumptum, si autem A de C, C autem
de nullo alio, nec aliud de illo C, neque de A alterum, neque de altero A,
nullus erit syllogismus, nam in eo quod unum de uno sumitur, nihil accidit ex
necessitate, quare assumenda est altera propositio. Si igitur sumatur A de
alio, aut aliud de A, aut de C alterum, esse quidem syllogismum nihil prohibet,
ad B autem non erit per ea quae sumpta sunt, nec quando C inest alteri, et
illud alii, et hoc alteri, non copuletur autem ad B, nec sic erit ad B
syllogismus ipsius A. Omnino enim dicimus quoniam nullus nunquam erit
syllogismus alius de alio, non sumpto aliquo medio, quod ad utrumque se habet
quoquo modo praedicationibus. Nam syllogismus quidem simpliciter ex
propositionibus est, ad hoc autem syllogismus ex propositionibus, quae ad hoc,
qui autem est huius ad hoc, per propositiones huius ad hoc, impossibile est
autem ad B sumere propositionem, nihil neque praedicantes de eo, neque
negantes, aut rursum eius quod est A ad B, nihil commune sumentes, sed
utriusque propria quaedam praedicantes, aut negantes, quare sumendum, utriusque
quod copulet praedicationes, si erit huius ad hoc syllogismus. Ergo si necesse
est aliquod sumere ad utrumque commune, hoc autem contingit tripliciter, aut
enim A de C et de B praedicantes, aut C de utrisque, aut utraque de C, hae
autem sunt tres dictae figurae. Manifestum quoniam omnem syllogismum necesse
est fieri per aliquam harum figurarum. Nam eadem ratio est, etsi per plura
copuletur ad B, eadem enim erit figura et in pluribus. Quoniam igitur ostensivi
terminantur per praedictas figuras, manifestum est. Quoniam autem et qui ad
impossibile, palam erit per haec, omnes enim qui per impossibile concludunt,
falsum quidem syllogizant. Quod autem ex principio erat, ex hypothesi
demonstrant, quando aliquid accidit impossibile posita contradictione, ut
quoniam diameter est asymeter, eo quod fiunt abundantia aequalia perfectis,
posito symetro. Ergo aequalia quidem fieri abundantia perfectis syllogizant,
asymetrum autem esse diametrum, ex hypothesi monstrant, quoniam falsum accidit
propter contradictionem.Hoc enim fuit per impossibile syllogizare, ostendere
aliquid impossibile propter priorem hypothesin. Quare quoniam falsus fit
syllogismus ostensivus in his quae ad impossibile deducuntur, quod autem est ex
principio, ex hypothesi monstratur, ostensivos autem diximus prius, quoniam per
has terminantur figuras, manifestum quoniam et per impossibile syllogismi per
has erunt figuras Similiter autem et alii omnes qui sunt ex hypothesi, in
omnibus his enim syllogismus quidem fit ad transsumptum, quod autem est ex
principio, terminatur per confessionem aut per aliquam aliam hypothesin. Si
autem hoc verum, necesse est omnem demonstrationem et omnem syllogismum fieri
per tres praedictas figuras. (0666C) Hoc autem ostenso, palam quoniam omnis
syllogismus perficitur per primam figuram, et reducitur in huius universales
syllogismos. Amplius autem in omnibus oportet aliquem terminorum praedicativum
esse et universalem, sine universali enim non erit syllogismus, aut non ad hoc
quod positum est, aut quod ex principio est petet. Ponatur enim musicam
voluptatem esse studiosam, si ergo poposcerit voluptatem esse studiosam, non
addens omnem, non erit syllogismus, si autem aliquam voluptatem esse studiosam,
si aliam quidem, nihil ad hoc quod positum est, si autem eamdem, quod ex
principio erat, sumit. Magis autem fit manifestum in figuris, ut quoniam
aequicruris aequales sunt anguli, qui sunt ad basim: sint enim in centrum
ductae A B, si ergo aequalem sumpserit A C angulum ei qui est B D, non omnino
petens aequales eos qui sunt semicirculorum, et rursum C ei qui est D, non
omnem assumens eum qui est incisionis. Amplius, ab aequalibus existentibus
totis angulis, aequalibus demptis, aequales esse reliquos, scilicet E F, quod
ex principio est petet, nisi sumat ab omnibus aequalibus, aequis demptis,
aequalia relinqui. Manifestum igitur quoniam in omni syllogismo oportet
universale esse. Et quoniam universale quidem ex omnibus terminis universalibus
monstratur, particulare autem et sic, et aliter. Quare si conclusio sit
universalis, et terminos necesse est universales esse, si autem universales
sint termini, contingit conclusionem non universalem esse. Palam etiam quoniam
in omni syllogismo aut utramque, aut alteram propositionem similem necesse est
fieri conclusioni, dico autem non solum in eo quod affirmativa sit, vel
negativa, sed in eo quod necessaria aut inesse, aut contingens: considerare
autem oportet et alia praedicamenta. Manifestum autem et simpliciter quando
erit, et quando non erit syllogismus, et quando perfectus, et quoniam si est
syllogismus, necessarium est habere terminos secundum aliquem dictorum modorum.
Palam autem et quoniam omnis demonstratio erit per tres terminos, et non per
plures, nisi per alia et alia eadem conclusio fiat, ut E per A B, et per C D,
aut per A B, et A C, et B C, plura enim media eorumdem nihil esse prohibet,
haec autem cum sint, non unus, sed plures sunt syllogismi. Aut rursum, quando
utrumque A B sumitur per syllogismum, ut A per D E, et rursum B per F G, aut
hoc quidem inductione, illud autem syllogismo, sed et si plures erunt
syllogismi, plures enim conclusiones sunt, ut A B et C. Si igitur non plures,
sed unus (sic autem contingit fieri per plura media eamdem conclusionem, ut E
quidem per A B C D ), impossibile. Sit enim E conclusio ex A B C D, ergo
necesse est aliquid eorum, aliud ad aliud sumptum esse, hoc quidem ut totum,
illud vero ut pars, hoc enim ostensum est prius, quoniam si est syllogismus,
necesse est sic aliquos se habere terminorum. Habeat se ergo A sic ad B, est
itaque aliqua ex eis conclusio, aut ergo E, aut alterum eorum quae sunt C D,
aut alterum aliud quidem praeter haec. Et si E quidem, ex A B tantum, erit
syllogismus, C D autem quidem se habeant sic ut sit hoc quidem ut notum, illud
vero ut pars, erit aliquid ex illis aut E, aut aliquid eorum quae sunt A B, aut
alterum aliud quidem praeter haec. Et si E quidem, aut eorum quae sunt A B
alterum, aut plures erunt syllogismi, aut (ut contingebat) idem per plures
terminos concludi accidit, si autem aliud quidem praeter haec, plures erunt et
inconiuncti syllogismi ad invicem, si autem non sic se habeat C ad D ut faciat
syllogismum, vane erunt sumpta, nisi inductionis, aut celationis, aut alicuius
alius talium gratia. Si autem ex A B non E, sed alia quaedam fiat conclusio, ex
C D autem aut horum alterum, aut aliud praeter haec, et plures fiunt
syllogismi, et non eius quod positum est. Ponebatur enim eius quod est E esse
syllogismum. Si autem non fiat ex C D nulla conclusio, et vane sumpta esse ea
accidit, et non eius quod est ex principio esse syllogismum. Quare manifestum
quoniam omnis demonstratio et omnis syllogismus erit per tres terminos
solos.Hoc autem manifesto, palam quoniam et ex duabus propositionibus, et non
pluribus, nam tres termini, duae sunt propositiones, nisi assumatur aliquid
(quemadmodum in prioribus dictum est) ad perfectionem syllogismorum. Manifestum
igitur quando, ut in oratione syllogistica, non pares sunt propositiones per
quas fit conclusio principalis (quasdam enim superiorum conclusionum
necessarium est esse propositiones), haec oratio aut non syllogistica est, aut
plura necessariis interrogavit ad positionem. Secundum igitur principales
propositiones sumptis syllogismis, omnis syllogismus erit ex propositionibus
quidem perfectis, ex terminis autem abundantibus, uno enim plures termini
propositionibus, erunt autem et conclusiones dimidietas propositionum. Quando
autem per prosyllogismos concluditur, aut per plura media non continua, ut A B
per C D, multitudo quidem terminorum similiter uno superabit propositiones, aut
enim extrinsecus, aut medium ponetur intercidens terminus, utrinque autem
accidit uno minus esse intervalla quam terminos, propositiones autem aequales
sunt intervallis. Non tamen hae quidem semper perfectae erunt, illi vero
abundantes, sed permutatim, quia cum propositiones quidem sunt perfectae,
abundantes erunt termini, cum vero termini perfecti, abundantes erunt
propositiones, simul enim termino addito, una additur propositio, undecunque
addatur terminus. Quare quoniam hae propositiones quidem perfectae, illi vero
abundantes erant, necesse est transmutare eadem, additione facta.Conclusiones
autem non etiam eum habebunt ordinem neque ad terminos, neque ad propositiones,
uno enim termino addito, conclusiones adiungentur uno, pauciores
praeexistentibus terminis, ad solum enim ultimum non facit conclusionem, ad
alios autem omnes. Ut si eis quae sunt A B C, adiacet D, statim et conclusiones
duae adiacent, quae ad A, et ad B, similiter autem et in aliis. Si autem ad
medium intercidat, eodem modo, ad unum enim solum non faciet syllogismum, quare
multo plures conclusiones erunt et terminis et propositionibus. Quoniam autem
habemus ex quibus syllogismi, et quale in unaquaque figura, et quot modis
monstratur, manifestum nobis est, et quae propositio facile, et quae difficile
argumentabilis est. Nam quae in pluribus figuris et per plures casus
concluditur, facilis; quae autem in paucis et per pauciores, difficilius
argumentabilis. Ergo affirmativa quidem universalis per primam tantum figuram
monstratur, et per hanc simpliciter. Privativa vero et per primam, et per
mediam. Per primam quidem simpliciter, per mediam autem dupliciter.
Particularis autem affirmativa per primam et per postremam, simpliciter quidem
per primam, tripliciter autem per postremam. Privativa vero particularis in
omnibus figuris monstratur, verum in prima quidem semel, in media autem et
postrema, in illa quidem dupliciter, in hac vero tripliciter. Manifestum ergo
quoniam universalem affirmativam construere quidem difficillimum, destruere
autem facillimum, omnino autem est interimenti quidem, universalia quam
particularia facilius. Etenim si nulli, et si alicui non insit interemptum est,
horum autem alicui quidem non in omnibus figuris monstratur, nulli autem in
duabus. Eodem autem modo et in privativis, etenim si omni, et si alicui,
interemptum est quod ex principio. Hoc autem fuit in duabus figuris. In
particularibus autem simpliciter, aut omni, aut nulli ostendentem inesse.
Construenti autem, facilius est particularia, nam in pluribus figuris, et per
plures modos. Omnino autem non oportet latere quoniam destruere quidem per se
invicem est, et universalia per particularia, et haec per universalia;
construere autem non est per particularia universalia, per illa vero haec est.
Nam si omni, et alicui. Simul autem manifestum quoniam destruere quam construere
facilius. Quomodo ergo fit omnis syllogismus, et per quot terminos et
propositiones, et quomodo habentes se ad invicem, amplius autem quae propositio
in unaquaque figura, et quae in pluribus, et quae in paucioribus monstratur,
palam ex his quae dicta sunt. Quomodo autem idonei erimus semper syllogizare ad
propositum, et per quam viam sumemus circa unumquodque principia, nunc
dicendum. Non enim solum fortasse oportet generationem considerare
syllogismorum, sed et potestatem habere faciendi. Omnium igitur quae sunt, haec
quidem sunt talia, ut de nullo alio praedicentur vere universaliter, ut Cleon,
et Callias, et quod singulare, et sensibile, de his autem alia, nam et homo, et
animal uterque horum est. Illa vero et ipsa quidem de aliis praedicantur, de
illis autem alia prius non praedicantur, alia autem et ipsa de aliis, et de his
alia, ut homo de Callia, et de homine animal. Quoniam ergo quaedam eorum quae
sunt de nullo nata sunt dici, palam: nam sensibilium pene unumquodque est
huiusmodi, ut de nullo praedicetur, nisi, ut secundum accidens, dicimus enim
quandoque album illud Socratem esse, et hoc veniens Calliam. Quoniam autem in
sursum pergentibus statur quandoque, rursum dicemus. Nunc autem sit hoc
positum, de iis ergo praedicatum aliquod non est demonstrare nisi secundum
opinionem, sed haec de aliis, neque singularia de aliis, sed alia de ipsis. Quae
autem in medio sunt, manifestum quoniam utrumque contingit, nam et haec de
aliis, et alia de his dicuntur, et pene rationes et considerationes sunt maxime
de his. Oportet ergo propositiones circa unumquodque horum sic sumere
supponentem, ipsum primum et definitiones, et quaecunque propria sunt rei,
deinde post hoc quaecunque sequuntur rem. Et rursum quae res sequitur, et
quaecunque non contingit ipsi inesse, quibus autem ipsa non contingit, non
sumendum, eo quod convertitur privativa. Dividendum autem est, et eorum quae
sequuntur, quaecunque in eo quod quid est, et quaecunque ut propria, et
quaecunque ut accidentia praedicantur, et horum quae secundum opinionem, et
quae secundum veritatem. Quanto enim plurium talium abundaverit quis, citius
inveniet conclusionem, quanto autem veriorum, magis demonstrabit. Oportet autem
eligere non quae sequuntur aliquam, sed quaecunque totam rem sequuntur, ut non
quod aliquem hominem, sed quod omnem hominem sequitur, per universales enim
propositiones fit syllogismus. Cum autem est indefinitum, incertum si
universalis est propositio, cum vero definitum, manifestum. Similiter autem
eligendum et quae ipsum sequitur tota, propter dictam causam. Ipsum autem quod
sequitur, non est sumendum totum sequi, dico ut hominem omne animal, aut
musicam, omnem disciplinam, sed simpliciter solum sequi quemadmodum et
praetendimus, etenim inutile alterum et impossibile, ut omnem hominem esse omne
animal, vel iustitiam omne bonum, sed cui consequens est, in illo omni esse
dicitur. Quando autem ab aliquo continetur subiectum, cuius consequentia
oportet sumere, quae universale quidem sequuntur, vel non sequuntur, non
eligendum in his, sumpta enim sunt in illis quaecunque animal et hominem
sequuntur, et quaecunque non animali insunt, similiter. Quae autem in unoquoque
sunt propria, sumendum: sunt enim quaedam speciei propria praeter genus,
necesse est enim diversis speciebus propria quaedam inesse. Neque autem
universale eligendum iis quae sequitur quod continetur, ut animal iis quae
sequitur homo, necesse est enim si hominem sequitur animal, et haec omnia
sequi, convenientiora autem haec hominis electioni. Sumendum autem et quae
plerumque sequuntur ea quae consequuntur, nam et problematibus quae plerumque,
et syllogismus ex propositionibus, quae plerumque aut in omnibus, aut
aliquibus, similis enim est uniuscuiusque conclusio principiis. Amplius quae
omnibus sequentia sunt, non eligendum, non enim erit syllogismus ex ipsis, ob
quam autem causam, in sequentibus erit manifestum. Construere ergo volentibus
aliquid de aliquo toto, eius quidem quod construitur, inspiciendum ad subiecta
de quibus ipsum dicitur, de quo autem oportet praedicari quaecunque hoc
sequuntur. Si enim aliquod horum sit idem, alterum alteri necesse est inesse.
Si autem non quoniam omni, sed quoniam alicui, quae sequitur utrumque, si enim
aliquod horum idem fuerit, necesse est alicui inesse Quando autem nulli
oporteat inesse, cui quidem oportet non inesse, ad sequentia subiecti, quod
autem oportet non inesse, inspiciendum ad ea quae non contingunt illi adesse.
Aut conversim cui quidem oportet non inesse, ad ea quae non contingunt eidem
adesse, quod vero non inesse, inspiciendum ad sequentia. Nam si haec sint eadem
utrorumque, nulli contingi alteri alterum inesse, fit enim quandoque quidem in
prima figura syllogismus, quandoque autem in media. Si autem alicui non inesse,
cui quidem oportet non inesse, quae consequitur: quod vero non inesse, quae non
possibile est illi inesse. Si enim aliquid horum sit idem, necesse est alicui
non inesse. Magis autem fortasse erit sic, unumquodque eorum quae dicta sunt
manifestum. Sint enim sequentia quidem A, in quibus B, quae autem ipsum
sequitur, in quibus C, quae autem non contingunt ei inesse, in quibus D, rursum
autem ipsi E quae quidem insunt, in quibus F, quae autem ipsum sequitur, in
quibus G, quae autem non contingunt eidem inesse, in quibus H. Si ergo eidem
aliquid eorum quae sunt C, alicui eorum quae sunt F, necesse est A omni E
inesse, nam F quidem omni E, C autem omni A, quare omni E inest. Si autem C et
G idem, necesse est alicui E inesse A, nam id quod est E A, id vero quod est G
E, omne ei sequitur. Si autem F et D sint idem, nulli E inerit ex proprio
syllogismo, quoniam enim convertitur privativa, et F ei quod est D idem, nulli
F inerit A, F autem omni E. Rursus si B et H idem, nulli E inerit A, nam B A
quidem omni, ei autem in quo E nulli inerit. Idem enim erat ei quod est H, B; H
autem nulli E inerat. Si autem G et D idem, A alicui E non inerit, nam ei quod
est G non inerit A, quoniam neque D, G autem sub E est, quare alicui E non
inerit. Si autem G et B idem, conversus erit syllogismus, nam G inerit omni A,
nam B ei quod est A, E autem ei quod est B, idem enim erat ei quod est G, A
autem ei quod est E, omni quidem non necessarium est inesse, alicui autem
necessarium, eo quod convertatur universale praedicativum in particulare. Manifestum
ergo quoniam ad praedicta perspiciendum utrinque in unaquaque quaestione, per
haec enim omnes syllogismi. Oportet autem et sequentium, et quibus sequitur singulum,
ad prima et universalia maxime inspicere, ut E quidem magis ad k F quam ad F
solum, A autem ad k C magis quam ad C solum. Si enim ei quod est k F inest A,
et ei quod est F inest et ipsi E, si vero hoc non sequitur A, possibile est id
quod est F sequi. Similiter autem et in quibus idem sequitur, considerandum,
nam si primis, et iis quae sub ipsis sunt, sequitur; si autem non his, et iis
quae sub ipsis sunt, possibile. Palam autem quoniam per tres terminos et duas
propositiones consideratio, et per praedictas figuras syllogismi omnes,
monstratur enim omni quidem E inesse A, quando eorum quae sunt C F idem,
quiddam sumitur, hoc autem erit medium, extremitates autem A et E, fit enim
prima figura. Alicui autem quando C et G sumitur idem, hoc autem postrema
figura, medium enim fit G. Nulli vero quando D et F idem; sic autem et prima
figura, et media: prima quidem, quoniam nulli F inest A, siquidem convertitur
privativa, F autem omni E. Media autem quoniam D A quidem nulli, E autem omni
inest. Alicui autem non inesse, quando D et G idem fuerit, haec autem postrema
figura, nam A quidem nulli G inerit, E vero omni G; manifestum igitur est
quoniam per praedictas figuras omnes syllogismi. Et quoniam non eligendum
quaecunque omnibus sequuntur, eo quod nullus fiat syllogismus ex ipsis, nam
construere quidem non omnino erat ex sequentibus, privare autem non contingit
per ea quae omnibus sequuntur, oportet huic quidem inesse, illi vero non
inesse. Manifestum autem quoniam et aliae considerationes quae secundum electiones,
inutiles ad faciendum syllogismum. Ut si sequentia utrumque eadem sint, aut
quae sequitur A, et quae non contingit E inesse, aut rursum quaecunque non
possibile est utrique inesse, non enim fit syllogismus per haec. Nam si
sequentia sunt eadem, ut B et F, media fit figura praedicativas habens utrasque
propositiones. Si autem ea quae sequitur A, et quae non contingit E, ut C, et
H, prima erit figura privativam habens propositionem ad minorem extremitatem.
Si autem quaecunque non contingunt utrique, ut D et H, privativae utraeque
propositiones erunt vel in prima figura, vel in media, sic autem nullo modo
erit syllogismus. Palam autem et quae eadem, sumendum secundum considerationem,
et non quae diversa vel contraria, primum quidem quoniam medii gratia,
inspectio, medium autem non diversum, sed idem oportet sumere. Deinde et in
quibus accidit fieri syllogismum quod sumantur contraria, aut non contigentia
eidem inesse, in praedictos omnia reducuntur modos. Ut si B et F sint
contraria, aut non contingant eidem inesse, erit enim his sumptis syllogismus,
quoniam nulli E inest A, sed non ex ipsis, sed ex praedicto modo, nam B A
quidem omni, E autem nulli inerit, quare necesse est B idem esse alicui eorum
quae sunt H. Rursum si B et G non possint eidem adesse, erit quoniam alicui E
non inerit A, nam et sic media erit figura, nam B A quidem omni, G vero nulli
inerit, quare necesse est G idem esse alicui eorum quae sunt D, nam non
contingere G et B eidem inesse nihil differt, aut G alicui D idem esse, omnia
enim sumpta sunt in D, quae non contingunt A inesse. Manifestum ergo quoniam ex
istis quidem inspectionibus nullus fit syllogismus, et si B et F sint
contraria, idem esse B alicui H, et syllogismum semper fieri per haec. Accidit
ergo sic inspicientibus considerare viam aliam necessariam, eo quod quandoque latet
identitas horum quae sunt B et H. Eodem autem modo se habent et qui ad
impossibile deducunt syllogismi, ostensivis, nam et ipsi fiunt per ea quae
sequuntur, et quibus sequitur utrumque. Et eadem consideratio in utrisque, nam
quod monstratur ostensive, et per impossibile est syllogizare, et per eosdem
terminos, et quod per impossibile et ostensive. Ut quoniam A nulli E inest,
ponatur enim alicui inesse, ergo quoniam B omni A, A autem alicui E, et B
alicui E inerit, sed nulli inerat. Rursum quoniam alicui E inest A, si enim
nulli E inest A, E autem omni G, nulli G inerit A, sed omni inerat. Similiter
autem est in aliis propositis, semper enim erit in omnibus per impossibile
ostensio, ex sequentibus, et quibus sequitur utrumque. Et in uno quoque
proposito, eadem consideratio et ostensive volenti syllogizare, et ad
impossibile ducere, nam ex eisdem terminis utraeque demonstrationes. Ut si
ostensum est nulli E inesse A, quoniam accidit et B alicui E inesse, quod est
impossibile. Si sumptum sit E quidem nulli B, A autem omni B inesse, manifestum
est enim quoniam nulli E inerit A. Rursum si ostensive syllogizatum sit A
inesse nulli E, suppositis inesse per impossibile monstrabitur nulli inesse,
similiter autem et in aliis. In omnibus enim necesse est iis qui per
impossibile communem aliquem sumere terminum alium A subiectis, ad quem erit
mendacii syllogismus, quare conversa ea propositione, altera autem similiter se
habente, ostensivus erit syllogismus per eosdem terminos. Differt autem
ostensivus ab eo qui ad impossibile, quoniam in ostensivo secundum veritatem
ambae propositiones ponuntur, in eo autem qui ad impossibile, falsa una. Haec
vero erunt magis manifesta per sequentia quando de impossibili dicemus; nunc
autem tantum nobis sit manifestus, quoniam ad haec perspiciendum, et ostensive
volentibus syllogizare, et ad impossibile deducere. (0673C)In aliis autem
syllogismis quicunque sunt ex hypothesi, ut quicunque secundum transsumptionem,
aut secundum qualitatem in subiectis, non in prioribus, sed in transsumptis
erit consideratio, modus autem inspectionis idem: considerare autem oportet, et
dividere quot modis sunt ex hypothesi, monstratur ergo unumquodque propositorum
sic. Est autem et alio modo quaedam syllogizare horum, ut universalia per
particularem inspectionem ex hypothesi. Si enim C et G eadem sint, solum G
autem sumatur E inesse, omni E inerit A, et rursum si G et D eadem, solum autem
de G praedicetur E, quoniam nulli E inerit A, manifestum ergo quoniam sic inspiciendum.
Eodem autem modo et in necessariis, et in contingentibus, nam eadem
consideratio, et per eosdem terminos erit, eodemque ordine et contingentis, et
inesse syllogismus. Sumendum autem et in contingentibus et quae non insunt, possibilia
autem inesse. Ostensum est enim quoniam et per haec fit contingentis
syllogismus, similiter autem se habebit et in aliis praedicationibus. Manifestum
ergo ex praedictis quoniam non solum possibile est per hanc viam fieri omnes
syllogismos, sed etiam quoniam per aliam impossibile. Omnis enim syllogismus
ostensus est quoniam per aliquam praedictarum figurarum fit, has autem non
contingit per alia constitui quam per sequentia et quae sequitur unumquodque,
ex his enim propositiones, et medii sumptio, quare nec syllogismum possibile
est fieri per alia. Ergo methodus quidem de omnibus eadem est, et circa
philosophiam, et circa autem quamlibet disciplinam. Oportet enim quae insunt,
et quibus insunt circa unumquodque colligere, et his quamplurimis abundare, et
hoc per tres terminos considerare, destruentem quidem sic, construentem vero
sic, et secundum veritatem quidem, ex iis quae secundum veritatem scripta sunt
inesse, ad dialecticos autem syllogismos, ex propositionibus quae sunt secundum
opinionem. Principia autem syllogismorum universaliter quidem dicta sunt, et
quomodo se habeant, et quomodo oportet inquirere ea, quatenus non aspiciamus ad
omnia quae dicuntur, neque eadem construentes et destruentes, neque
construentes de omni aut de aliquo, destruentes ab omnibus aut ab aliquibus,
sed ad pauciora et determinata. Secundum singulum autem eorum quae sunt
eligere, ut de bono aut disciplina. Propria autem in unaquaque sunt plurima,
quare principia quidem quae sunt circa unumquodque, experimento est crescere,
dico autem ut astrologicam quidem experientiam astrologicae disciplinae,
sumptis enim sufficienter apparentibus, sic inventae sunt astrologicae
demonstrationes. Similiter autem et circa quamlibet aliam se habet et artem et
disciplinam. Quare si sumantur quae insunt circa unumquodque, nostrum erit iam
demonstrationes prompte declarare: si enim nihil secundum historiam omittatur
eorum quae subtiliter et vere insunt rebus, habebimus de omni (cuius quidem non
est demonstratio) hanc invenire et demonstrare, cuius autem non nata est
demonstratio, hoc facere manifestum. Universaliter ergo quo oportet modo
propositiones eligere pene dictum est, per diligentiam autem pertransivimus in
eo negotio quod circa dialecticam est.Quoniam autem divisio per genera parva
quaedam particula est dictae methodi facile videre: est enim divisio velut
infirmus syllogismus, nam quod oporteat quidem ostendere petitur, syllogizatur
vero semper aliquid superiorum. Primum autem idem hoc latuit omnes utentes ea,
et suadere conati sunt quoniam esset possibile de substantia demonstrationem
fieri, et de eo quod est quid; quare neque quoniam contingebat syllogizare eos
qui dividunt, intellexerunt, neque quoniam contingebat sic quemadmodum diximus.
Ergo in demonstrationibus quidem cum oporteat quid syllogizare, oportet medium
per quod fit syllogismus minus semper esse, et non universaliter de prima
extremitate. Divisio autem contrarium vult, nam universalius sumit medium. Sit
enim animal quidem in quo A, mortale autem in quo B, et immortale in quo C,
homo vero cuius terminum oportet sumere in quo D, omne ergo animal accipit aut
mortale, aut immortale: hoc autem est quidquid erat, omne esse aut B, aut C. Rursus
hominem semper qui dividit, ponit animal esse, quare de D sumit A esse, ergo
syllogismus quidem est, quoniam D, aut B, aut C omne erit, quare hominem aut
mortalem, aut immortalem oportet sumere, nam mortale quidem, aut immortale esse
necessarium est animal, mortale autem non necessarium est, sed petitur. Hoc
autem erat quod oportebat syllogizare. Et rursus qui ponit A quidem animal
mortale in quo autem B pedes habens, in quo autem C, non habens pedes, hominem
vero D, similiter sumit A quidem, aut in B, aut in C esse. Omne enim animal
mortale aut pedes habens, aut pedes non habens est, de D autem A, nam hominem
animal mortale sumpsit esse, quare habens pedes, vel non habens pedes esse
animal, necesse est hominem, pedes autem habens non necesse est, sed sumit, hoc
autem erat quod oportebat rursum ostendere. Et ad hunc modum semper
dividentibus, universale quidem accidit eis medium sumere, de quo oporteat
ostendere et differentias et extremitates. In fine autem quoniam hoc est homo,
aut quidquid erat quod quaeritur, nihil dicunt manifestum, quare necessarium
est esse, etenim aliam viam faciunt omnem, non quidem contingentes idoneitates,
opinantes esse. Manifestum est autem quoniam neque destruere hac via est, neque
de accidente aliquid, aut de proprio syllogizare, neque de genere, neque de
quibus ignoretur utrum hoc modo aut illo se habet, ut putasne diameter est
symeter, vel asymeter? si enim sumat quoniam omnis longitudo est symetros vel
asymetros, diameter autem longitudo, syllogizatum est quoniam symeter vel
asymeter est diameter. Si autem sumetur incommensurabile, quod oportebat
syllogizare sumetur, non ergo est ostendere, nam via quidem haec, per hanc
autem non est ostendere symetrum vel asymetrum, in quo A longitudo, B autem
symeter aut asymeter, diameter C. Manifestum est igitur quoniam neque ad omnem
considerationem congruit inquisitionis modus, neque in quibus maxime videtur
convenire, in his est utilis. Ex quibus ergo demonstrationes fiunt, et quomodo,
et ad quae perspiciendum secundum unumquodque propositum manifestum ex dictis. Quomodo
autem reducemus syllogismos in praedictas figuras, dicendum erit post haec,
restat enim consideratio haec, si enim et generationem syllogismorum
inspiciamus, et inveniendi habeamus potestatem, amplius autem factos reducamus
praedictas figuras, finem habebit quod ex principio propositum est, accidet
etiam simul quae praedicta sunt confirmari et manifestiora esse, quoniam sic se
habent per ea quae nunc dicenda sunt. Oportet enim omne quod verum est, ipsum
sibi ipsi manifestum esse omnino. Primum ergo oportet tentare duas
propositiones accipere syllogismi, facilius enim in maiora dividere quam in
minora: maiora autem compositiora sunt quam ea ex quibus componuntur. Deinde
considerare utra in toto, et utra in parte. Et si non ambae sumptae sint, eum
qui ponit alteram. Aliquoties enim universalem protendentes, eam quae in hac
est non sumunt, neque scribentes, neque interrogantes, aut has quidem
protendunt, per quas autem hae concluduntur, omittunt, alia vero vane
interrogant. Considerandum autem si quid superfluum sumptum sit, et si quid
necessariorum omissum, et hoc quidem ponendum, illud vero auferendum, donec
veniat quis ad duas propositiones, sine his enim non est reducere sic interrogatas
orationes. In aliquibus ergo facile est videre quod minus est, aliqui vero
latent, et videntur quidem syllogizare, eo quod necessarium quid accidit ex iis
quae posita sunt. Ut si sumatur, non substantia interempta substantiam non
interimi, ex quibus autem est, interemptis, et quod ex eis est corrumpi. His
enim positis, necessarium est substantiae partem esse substantiam, non tamen
syllogizatum est quod ea quae sumpta sunt, sed desunt, propositiones. Rursum si
cum est homo, necesse est esse animal, et cum est animal, substantiam, et cum
est homo, necesse est esse substantiam, sed nondum syllogizatum est, non enim
se habent propositiones ut diximus. Fallimur autem in talibus eo quod
necessarium quiddam accidat ex his quae posita sunt, quam et syllogismus,
necessarium est, in plus autem est necessarium quam syllogismus, nam omnis
syllogismus, necessarium, necessarium autem non omne syllogismus. Quare non (si
quid accidat positis quibusdam) statim tentandum est reducere, sed primum
secundum est duas propositiones. Deinde sic dividendum in terminos. Medium
autem ponendum terminorum, qui utrisque propositionibus dicitur, necesse est
enim medium in utrisque esse in omnibus figuris. Si ergo subiiciatur et
praedicetur medium, aut ipsum quidem praedicetur, aliud vero illo abnegetur,
prima erit figura. Si autem et praedicetur, et negetur ab aliquo, media erit
figura: si vero alia de illo praedicentur, aut hoc quidem praedicetur, illud
vero ab illo negetur, postrema, sic enim se habuit in postrema figura medium,
similiter autem etsi non universales sint propositiones, nam est eadem
determinatio medii. Manifestum igitur quoniam in qua oratione non dicitur idem frequenter,
non fit syllogismus, non enim sumptum est medium. Quoniam autem habemus quod
propositorum in unaquaque figura clauditur, et in qua universale, et in qua
particulare, manifestum est quoniam non ad omnes figuras perspiciendum, sed in
unoquoque proposito ad propriam. Quaecunque vero in pluribus concluduntur,
medii positione cognoscimus figuram. Frequenter ergo falli accidit circa
syllogismos propter necessarium, quemadmodum dictum est prius: aliquoties autem
propter similitudinem positionis terminorum, quod non oportet latere nos. Ut si
A de B dicitur, et B de C, videbitur enim sic se habentibus terminis esse
syllogismus, non fit autem neque necessarium quidquam, neque syllogismus. Sit
enim in quo A semper esse, in quo autem B intelligibilis Aristomenes, in quo
autem C Aristomenes, verum est autem A inesse B, semper enim est intelligibilis
Aristomenes, sed et B de C, nam Aristomenes est intelligibilis Aristomenes, A
autem non inest C, corruptibilis est enim Aristomenes; non igitur fiebat
syllogismus sic se habentibus terminis, sed oportebat universaliter A B sumi
propositionem: hoc vero falsum quod putabat omnem intelligibilem Aristomenem
semper esse, cum Aristomenes sit corruptibilis. Rursum sit in quo quidem C
Micalus, in quo autem B musicus Micalus, in quo autem A corrumpi cras. Verum
est ergo B de C praedicari, nam Micalus est musicus Micalus, sed et A de B,
corrumpetur enim cras musicus Micalus, A autem de C falsum: hoc autem idem est
priori, non enim verum est universaliter, Micalus musicus quoniam corrumpetur
cras. Hoc autem non sumpto non erat syllogismus. Haec ergo fallacia fit in eo
quod pene, ut enim nihil differens dicere hoc huic inesse, aut hoc huic omni
inesse, concedimus. Frequenter autem mentiri evenit, eo quod non bene
exponuntur secundum propositionem termini, ut si A quidem sit sanitas, B autem
aegritudo, C vero homo, verum est enim dicere quoniam A nulli B contingit
inesse, nulli enim aegritudini sapitas inest; et rursum quoniam B inest omni C,
omnis enim homo susceptibilis est aegritudinis, videbitur ergo accidere nulli
homini contingere sanitatem inesse. Huius autem causa est quod non bene
exponuntur termini secundum locutionem, quoniam transsumptis quae iis sunt
secundum habitudines, non erit syllogismus. Ut si pro sanitate quidem ponatur
sanum, pro aegritudine autem aegrum, non enim verum est dicere quoniam non
contingit aegrotanti inesse sanum esse, hoc autem non sumpto, non fit
syllogismus, nisi contingentis. Hoc autem non impossibile, contingit enim nulli
homini inesse sanitatem. Rursum in media figura similiter erit falsum. Nam
sanitatem aegritudini quidem nulli, homini vero omni contingit inesse, quare nulli
homini aegritudo. In tertia autem figura secundum contingere accidit falsum,
etenim sanitatem, et aegritudinem, et disciplinam, et ignorantiam, et omnino
contraria omni eidem contingit inesse, sibi vero invicem impossibile, hoc autem
confessum in praedictis. Cum enim eidem plura contingere inesse, contingebant
et sibi invicem. Manifestum igitur quoniam in omnibus his fallacia fit propter
terminorum expositionem, transsumptis enim his quae sunt secundum habitudines,
nihil fit falsum. Palam ergo quoniam secundum huiusmodi propositiones semper
quod est secundum habitum, pro habitu sumendum et ponendum terminum. Non
oportet autem terminos semper quaerere nomine exponi, saepe enim erunt
orationes quibus non ponuntur nomina, quare et difficile erit reducere
huiusmodi syllogismos, aliquot es autem et falli accidet propter huiusmodi
inquisitionem, ut quoniam immediatorum erit syllogismus; sit enim A duo recti,
B autem triangulus, C vero aequicrurus; ergo ei quod est C inest A propter B;
ei vero quod est B, non iterum propter aliud, per se enim triangulus habet duos
rectos, quare non erit medium eius quod est A B, cum sit demonstrativum. Manifestum
enim quoniam medium non sic semper est sumendum ut hoc aliquid, sed aliquando
orationem, quod accidit et in praedicto. Inesse autem primum medio, et hoc
postremo non oportet sumere, ut praedicentur semper ad se invicem similiter, et
primum de medio, et hoc de postremo, et in non inesse similiter, sed quoties
dicitur esse et verum dicere, hoc toties arbitrari oportet significare et
inesse. Ut quoniam contrariorum una est disciplina: sit enim A unam esse
disciplinam, B autem contraria sibi invicem, A ergo inest B, non quoniam
contraria unam esse eorum disciplinam, sed quoniam verum est dicere de ipsis
unam esse eorum disciplinam. Accidit autem quandoque primum de medio dici,
medium autem de tertio non dici, ut si sophia est disciplina, boni autem est
sophia: conclusio, quoniam boni est disciplina, et non bonum quidem est
disciplina, sophia autem est disciplina. Quandoque autem medium quidem de
tertio dicitur, primum autem de medio non dicitur, ut si qualis omnis est disciplina,
aut contrarii. Bonum autem est, et contrarium, et quale: conclusio quidem,
quoniam boni est disciplina. Non est autem bonum disciplina, neque quale, neque
contrarium, sed omnium disciplina. Non est autem bonum disciplina, neque
conclusio secundum rectum, neque quale, neque contrarium, sed bonum haec. Est
autem quandoque neque primum de medio, neque hoc de tertio, primo de tertio
quandoque quidem dicto, quandoque autem non dicto. Ut si cuius est disciplina,
huius est genus, boni autem est disciplina: conclusio, quoniam boni est genus.
Praedicatur autem nullum de nullo, si autem cuius est disciplina, genus est
hoc, boni autem est disciplina: conclusio, quoniam bonum est genus: ergo de
extremo quidem praedicatur primum, de se autem invicem non dicuntur. Eodem
autem modo et non inesse sumendum, non enim semper significat non inesse hoc
huic, non esse hoc, hoc; sed aliquando non esse hoc huius, aut hoc huic: ut
quoniam non est motionis motus, aut generationis generatio, voluptatis autem
est, non ergo voluptas generatio. Aut rursus quoniam risus est signum, signi
autem non est signum, quare non est signum risus; similiter autem et in aliis,
in quibus interimitur propositum, eo quod dicitur aliquo modo ad id genus. Rursus
quoniam occasio non est tempus opportunum, Deo enim occasio quidem est, tempus
autem opportunum non est, eo quod nihil sit Deo conferens. Terminos enim
ponendum est occasionem, et tempus opportunum, et Deum. Propositio autem
sumenda secundum nominis casum, simpliciter enim hoc dicimus de omnibus,
quoniam terminos quidem semper ponendum secundum declinationes nominum, ut
homo, aut bonum, aut contraria, aut hominis, aut boni, aut contrariorum.
Propositiones autem sumendum secundum cuiusque casus, aut enim quoniam huic ut
aequale, aut quoniam huius ut duplum, aut quoniam hoc ut feriens, vel videns,
aut quoniam hic ut homo, animal, aut si quolibet modo aliter cadit nomen
secundum propositionem, inesse autem hoc huic, et verum esse hoc de hoc, toties
sumendum, quoties praedicamenta divisa sunt, et haec aut aliquo modo, aut
simpliciter, amplius aut simplicia, aut complexa. Similiter autem et non
inesse. Considerandum haec autem, et determinandum optimum. Reduplicatum autem
in propositionibus ad primam extremitatem ponendum, non ad medium, dico autem
ut si fiat syllogismus, quoniam iustitiae est disciplina quoniam bonum, ad
primam extremitatem ponendum. Sit enim A disciplina quoniam bonum, in quo autem
B bonum, in quo autem C iustitia, ergo verum est A de B praedicari. Nam boni
est disciplina quoniam bonum. Sed et B de C, nam iustitia quiddam bonum est; sic
ergo fit resolutio. Si autem ad B ponatur, quoniam bonum, non erit, nam A
quidem de B verum erit, B autem de C non erit verum, nam bonum quoniam bonum
praedicari de iustitia falsum est, et non intelligibile. Similiter autem et si
salubre ostendatur, quoniam disciplinatum est in eo quod bonum, aut
hircocervus, opinabilis in eo quod existens, aut homo corruptibilis in eo quod
sensibile, in omnibus enim praedicatis ad extremum reduplicationem ponendum. Non
est autem eadem positio terminorum, quando simpliciter quidem syllogizatum
fuerit, et quando hoc aliquid, aut quo, aut quomodo. Dico autem ut quando bonum
disciplinatum ostensum erit, et quando disciplinatum quoniam bonum. Sed
simpliciter quidem disciplinatum ostensum est medium ponendum ens, si autem
quoniam bonum, quid ens. Sit enim A disciplina quoniam quid ens, in quo autem B
ens quid, in quo autem C bonum, verum est ergo A de B praedicari, erat enim
disciplina alicuius entis, quoniam quid ens, sed et B de C, nam in quo C ens
quid, quare et A de C, erit ergo disciplina boni quoniam bonum, erat enim quid
ens, proprie substantiae signum. Si autem ens medium positum sit, et ad
extremum ens simpliciter, et non quid ens dictum sit, non erit syllogismus,
quoniam est disciplina boni quoniam bonum, sed quoniam ens, ut si sit in quo A
disciplina quoniam ens, in quo B ens, in quo C bonum. Manifestum igitur quoniam
in particularibus syllogismis sic sumendum terminos. Oportet autem accipere
quae idem possunt nomina pro nominibus, et orationes pro orationibus, et nomen
et orationem et semper pro oratione nomen suscipere, facilior est enim
terminorum expositio, ut si nil differt dicere suspicabile opinabilis non esse
genus, aut non esse idem quiddam suspicabile, quod opinabile, nam si idem est
quod significatur, pro oratione dicta, suspicabile et opinabile terminos
ponendum. Quoniam vero non est idem voluptatem esse bonum, et esse voluptatem
quod bonum, non similiter ponendum terminos; sed si est syllogismus quoniam
voluptas quod bonum, terminum ponendum quod bonum; si autem quoniam bonum,
bonum, similiter autem et in aliis. Non est autem idem neque esse, neque dicere
quoniam cui B inest, huic quoque omni A inest, et dicere, cui omni B inest, et
A inest omni, nihil enim prohibet B inesse C, non autem omni. Ut sit B pulchrum
quid, C autem album, si igitur alicui albo inest pulchrum quid, verum est
dicere quoniam albo inest pulchrum, sed non omni fortasse. Si ergo A inest B,
non omni autem de quo B (neque si omni C, inest B, neque si solum alicui), non
necesse est ei quod est C inesse A, non quia non omni, sed nec inesse ei quod
est C. Si autem de quocunque B dicatur vere, huic omni inest A, accidet A de
quo omni B dicitur, de eo omni dici. Si autem A dicitur de omni de quo B
dicatur, nihil prohibet ei quod est C inesse B, non omni autem A, aut non
inesse omnino. In tribus igitur terminis manifestum est quoniam de quo B quidem
omni, et A dicitur, hoc est de quibuscunque B dicitur, de omnibus dicitur et A,
et si B quidem de omni, et A similiter, si autem non de omni, non necesse est A
inesse omni. Non oportet autem arbitrari propter expositionem accidere aliquod
inconveniens, non enim laboramus in eo quod aliquid sit hoc, sed quemadmodum
geometer pedalem, et rectam hanc esse et sine latitudine dicit quae non est,
sed non sic utitur, ut eis syllogizans. Omnino enim quod non est ut totum ad
partem, et aliud ad hoc ut pars ad totum, ex nullo talium ostendit
demonstrator, neque enim fit syllogismus, expositione autem sic utimur, ut et
sentiat qui discit dicentes, non enim sic ut sine his non possibile sit
demonstrare, quemadmodum ex quibus est syllogismus. Non lateat autem nos,
quoniam in eodem syllogismo, non omnes conclusiones per unam eamdem figuram
sunt, sed haec quidem per hanc, illa vero per aliam. Palam ergo quoniam et
resolutiones sic faciendum. Quoniam autem non omne propositum in omni figura,
sed in unaquaque disposita sunt, manifestum est ex conclusione in qua figura
sit quaerendum. Et ad definitiones orationum quaecunque ad unum quiddam sunt
argumentatae in eorum quae insunt termino, ad quod argumentatum est ponendum
terminum, et non totam orationem, minus enim contingit perturbari propter
longitudinem, ut si quis aquam ostendit quoniam est humidus potus, potum et
aquam terminos ponendum. Amplius autem ex hypothesi syllogismos non est
tentandum reducere, nam non est ex iis quae posita sunt reducere; non enim per
syllogismum ostensi sunt, sed ad placitum concessi sunt omnes. Ut si quis
ponat, si una quaedam potestas non sit contrariorum, neque disciplinam esse
unam; deinde dispPomba quoniam non est una potestas contrariorum, ut sanativi
et aegrotativi, simul enim idem erit sanativum et aegrotativum. Quoniam autem
non est omnium contrariorum una potestas, ostensum est, sed quoniam disciplina
non una, non est ostensum; quamvis confiteri sit necesse, at non ex syllogismo,
verum ex hypothesi; hoc igitur non est reducere, quoniam non una potestas est:
hic enim fortassee erat syllogismus, illud autem hypothesis. Similiter autem in
his qui per impossibile concluduntur, nam neque hoc est resolvere, sed ad
impossibile quidem reductio est; syllogismo enim monstratur; alterum autem non
est, nam ex hypothesi concluditur. Differunt autem A praedictis quoniam in
illis quidem oportet prius confiteri, si debet concedere, ut si ostendatur una
potestas contrariorum, et disciplinam es E eamdem; hic autem et non prius
confessi concedunt, eo quod manifestum sit falsum, ut posita dian etro symetro,
eo quod imparia esse aequalia paribus. Plures autem et diversi terminantur ex
conditione, quos prospicere oportet, et notare apte. Quae ergo horum
differentiae, et quoties fiunt, qui sunt ex hypothesi, postea dicemus. Nunc
autem tantum sit nobis manifestum quoniam non est resolvere in figuras
huiusmodi syllogismos, et ob quam causam diximus. Quaecunque autem in pluribus
figuris monstrantur proposita, si in altera syllogizetur, est reducere
syllogismum in alteram, ut eum qui in prima est privativum in secundam figuram,
et eum qui in media est in primam. Non omnes autem, sed quosdam, erit autem in
sequentibus manifestum. Si enim A nulli B, B autem omni C, A nulli C, sic ergo
prima figura; si autem convertatur privativa, media erit. Nam B A quidem nulli,
C autem omni inerit. Similiter autem et si non universalis, sed particularis
fit syllogismus, ut si A quidem nulli B, B autem alicui C, conversa enim
privativa media erit figura. Eorum autem syllogismorum, qui sunt in secunda
figura, universales quidem reducentur in primam figuram, particularium autem
alter solum. Insit enim A B quidem nulli, C vero omni, conversa privativa prima
erit figura, nam B quidem nulli A, A autem omni C inerit. Si autem
praedicativum quidem sit ad B, privativum autem ad C, primus terminus ponendus
est C, hoc enim nulli A, A autem omni B, quare nulli B inerit C, ergo et B
nulli C, convertitur enim privativa.Si autem particularis sit syllogismus,
quando privativum quidem erit ad maiorem extremitatem, resolvetur in primam
figuram, ut si A nulli B, B autem alicui C, conversa enim privativa prima erit
figura, nam B quidem nulli A, A autem alicui C. Quando vero praedicativum, non
resolvetur, ut si A quidem omni B, C vero non omni, non enim suscipit
conversionem A B, neque cum fit, erit syllogismus. Rursus qui in tertia quidem
sunt figura, non resolvuntur omnes in primam, qui autem sunt in prima, omnes in
tertiam. Insit enim A quidem omni B, B autem alicui C, ergo quia convertitur
particularis praedicativa, inerit et C alicui B, A vero omni B inerat, quare
fit tertia figura. Et si privativus sit syllogismus, similiter: convertitur
enim particularis affirmativa, quare A quidem nulli B, C autem alicui inerit. Eorum
autem sylogismorum qui sunt in postrema figura unus tantum non resolvitur in
primam, quando non universalis ponitur privativa, alii autem omnes resolvuntur.
Praedicentur enim de omni C, et A et B, ergo convertetur C ad utrumque
particulariter; inerit ergo A alicui B, quare erit prima figura, siquidem A
omni C, C vero alicui B; et si A quidem omni C, B autem alicui C, cadem ratio,
convertitur enim ad B C. Si autem B quidem omni C, A autem alicui C, primus
ponendus B, nam B omni C, C autem alicui A, quare B alicui A, quoniam autem
convertitur particularis, et A alicui B inerit. Et si privativus sit
syllogismus universalibus terminis, similiter sumendum. Insit enim B omni C, A
autem nulli C, ergo alicui B inerit C, A autem nulli C, quare erit medium C.
Similiter autem et si privativa quidem si universalis, praedicativa autem
particularis, nam A quidem nulli C, C autem alicui B inerit. Si autem
particularis sumatur privativa, non erit resolutio, ut si B quidem omni C, A
autem alicui C non inest, conversa enim B C, utraeque propositiones erunt
particulares.Manifestum autem quoniam ad resolvendum ad se invicem figuras,
quae ad minorem extremitatem est propositio, convertenda in utrisque figuris,
hac conversa, transitio fit; eorum autem qui in media sunt figura, alter quidem
resolvitur, alter vero non resolvitur in tertiam, nam cum sit universalis privativa,
resolvitur. Si enim A nulli quidem B, alicui autem C, utraque similiter
convertitur ad A, quare B quidem nulli A, C vero alicui, medium ergo A. Quando
autem A omni B, C autem alicui non insit, non fit resolutio, neutra enim
propositionum ex conversione universalis. Qui autem ex tertia sunt figura,
resolventur in mediam, quando fuerit universalis privativa, ut si A nulli C, B
autem alicui, aut omni C, nam C, A quidem nulli, B autem alicui inerit. Si
autem particularis sit privativa, non resolvetur, non enim suscipit conversionem
particularis negativa. Manifestum ergo quoniam iidem syllogismi non resolvuntur
in his figuris, qui nec in primam resolvebantur, et quoniam in primam figuram
reductis syllogismis, isti soli syllogismi per impossibile clauduntur. Quomodo
ergo oportet syllogismos reducere, et quoniam resolvuntur figurae in se
invicem, manifestum ex dictis. Differt autem in construendo vel destruendo
opinari, aut idem, aut diversum significare, non esse hoc, et esse non hoc, ut
non esse album, ei quod est esse non album; non enim idem significant, nec est
negatio eius quae est esse album ea quae est esse non album, sed non esse
album. Ratio autem huius haec est; similiter enim se habet possibile est
ambulare ad possibile non ambulare, id quae est esse album ad esse non album,
et scit bonum ad scit non bonum: nam scit bonum vel sciens bonum nihil differt,
neque potest ambulare vel est potens ambulare; quare et opposita, non potest
ambulare et non est potens ambulare. Si igitur non est potens ambulare idem
significat et est potens non ambulare, ipsa simul inerunt eidem, nam idem
potest ambulare et non ambulare, et idem sciens bonum et non bonum est.
Affirmatio autem et negatio non sunt oppositae simul in eodem. Quemadmodum ergo
non idem est, non scire bonum et scire non bonum, nec esse non bonum et non
esse bonum idem, nam proportionalium, si alterum sit, et alterum, nec esse non
aequale et non esse aequale idem, huic enim quod est non aequale subiacet
aliquid, et hoc est inaequale, illi vero nihil, eo quod aequale quidem vel
inaequale non omne est, aequale autem vel non aequale omne; amplius, est non
album lignum et non est album lignum non simul sunt, si enim est lignum non
album, erit lignum, quod autem non est album lignum, non necesse est esse
lignum: quare manifestum est quoniam non est eius quod est bonum, est non
bonum, negatio; si ergo de omni uno vel affirmatio, vel negatio vera, si non
est negatio, palam quoniam affirmatio aliquo modo erit; affirmationis autem
omnis, negatio est, et huius ergo, ea quae est non est, non bonum. Habent autem
ordinem hunc ad invicem, sit esse quidem bonum in quo A, non esse autem bonum
in quo B, esse autem non bonum in quo C sub B, non esse autem non bonum in quo
D sub A, omni ergo inerit aut A, aut B, et nulli eidem, et omni aut C, aut D,
et nulli eidem, et cui C inest, necesse est B omni inesse. Si enim verum est
dicere quoniam est non album, et quoniam non est album, verum; impossibile est
enim simul esse album et esse non album, aut esse lignum album et esse lignum
non album: quare si non affirmatio, et negatio inerit. Ei autem quod est B, non
semper C, quod enim omnino non est lignum, neque lignum erit album, nec non
album. E converso autem cui inest A, et D omni inest, aut enim C, aut D:
quoniam autem non possunt simul esse non album et esse album, D inerit, nam de
eo quod est album verum est dicere quoniam non est non album. De D autem non
omnino A erit, nam de eo quod omnino non est lignum, non verum est dicere A
quoniam est lignum album; quare D verum est, et A non verum, quoniam est lignum
album. Palam autem quoniam et A et C nulli eidem insunt sed B et D contingit
eidem alicui inesse. Similiter autem tem se habent et privationes ad
praedicationes eadem positione: sit enim aequale in quo A, non aequale in quo
B, inaequale in quo C, non inaequale in quo D. In pluribus autem quorum his
quidem inest, illis vero non inest idem, negatio quidem similiter vera fit, ut
quoniam non sunt alba omnia, aut quoniam non est album unumquodque, aut quoniam
est non album unumquodque, aut quoniam omnia sunt non alba, falsum est. Similiter
autem et eius quae est omne animal album, non haec (est non album omne animal)
negatio, ambae enim falsae, sed es, non omne animal album. Quoniam autem palam
quod aliud significat est non album, et non est album, et illa quidem
affirmatio, haec vero negatio, manifestum quoniam non est idem modus monstrandi
utrumque, ut quoniam quidquid est animal, non est album, aut contingit non esse
album, et quoniam verum dicere non album, hoc enim est esse non album. Sed
verum quidem dicere, est album, sive non album, idem modus. Constructive enim
ambae per primam ostenduntur figuram, nam verum ei quod est similiter
ordinatur, eius enim quae est, verum dicere album, non haec, verum dicere non
album, negatio, sed haec, non est verum dicere album. Si enim verum est dicere
quidquid est homo musicum esse, aut non musicum esse, quidquid est animal
sumendum musicum esse, aut non musicum esse, et ostensum est. Non esse autem
musicum quidquid est homo, destructive monstratur secundum dictos tres modos. Simpliciter
autem quando sic se habent A et B, ut simul quidem eidem non contingant, omni
autem de necessitate alterum, et rursum C et D similiter. Sequitur autem id
quod est C, A, et non convertitur, et id quod est B sequetur D, et non
convertitur, et A quidem et D contingunt eidem, B autem et C non contingunt.
Primum ergo quoniam id quod est B sequitur D, hinc manifestum quoniam eorum
quae sunt C D alterum ex necessitate omni inest, cui autem B non contingit C,
eo quod simul infert A, A autem et B non contingunt eidem, manifestum quoniam D
sequetur B. Rursum quoniam ei quod est A non convertitur C, omni autem vel C,
vel D, contingit A, et D eidem inesse; B autem et C non contingit, eo quod
consequitur A id quod est C, accidit enim quiddam impossibile. Manifestum est
ergo quoniam nec B ei quod est D convertitur, eo quod contingit simul A, D
inesse. Accidit autem aliquoties in huiusmodi terminorum ordine falli, eo quod
opposita non sumantur recte, quorum necesse est omni alterum inesse: ut si A et
B non contingunt simul eidem, necesse est autem inesse cui non alterum,
alterum, et rursus C et D similiter, cui autem C omni sequitur A, accidet enim
cui D, B inesse ex necessitate, quod falsum est; si sumatur enim negatio eorum
quae sunt A B, ea quae est in quibus F, et rursus eorum quae sunt C D, ea quae
est in quibus G. Necesse est igitur omni inesse vel A, vel F, aut enim
affirmationem aut negationem, et rursum, aut C, aut G; affirmatio enim et
negatio, et cui C omni A subiacet, quare cui F omni hoc quod est G. Rursum
quoniam eorum quae sunt F B omni alterum, et eorum quae sunt G D similiter.
Sequitur autem G id quod est F, et id quod est D sequitur B, hoc enim scimus. Si
ergo A id quod est C, et id quod est D sequetur B, hoc autem falsum; E
contrario enim erat in his (quae sic se habent) consequentia. Non enim fortasse
necessarium omni inesse, aut A aut F, nec F aut B: non enim est negatio eius
quod est A hoc quod est F, nam boni non bonum negatio; non autem est idem hoc
quod est non bonum ei quod est neque bonum neque non bonum; similiter autem et
in C D, nam negationes quae sumptae sunt, duae sunt. In quot ergo figuris, et
per quales, et quot propositiones, et quando, et quomodo fit syllogismus,
amplius autem ad quae perspiciendum construenti et destruenti, et quomodo
oporteat quaerere de proposito secundum unamquamque artem, amplius autem per
quam viam sumemus, quae in singulis sunt principia iam pertransivimus.
Quoniam autem alii quidem syllogismorum sunt universales, alii vero
particulares: universales quidem omnes semper plura syllogizant, particularium
autem praedicativi quidem plura, negativi vero conclusionem solam. Nam aliae
quidem propositiones convertuntur, privativa vero non convertitur. Conclusio
vero aliquid de aliquo est, quare alii quidem syllogismi plura syllogizant: ut
si A ostensum sit omni aut alicui B inesse, et B alicui A necessarium est
inesse, et si nulli B inesse A, et B nulli A, hoc autem aliud est A priore. Si
autem A alicui B non insit, non necesse est et B alicui A non inesse; contingit
enim omni A inesse. Haec ergo communis omnium causa universalium et
particularium. Est autem de universalibus, et aliter dicere, quaecunque enim
aut sub medio aut sub conclusione sunt, omnium erit idem syllogismus, si illa
quidem in medio, haec vero in conclusione ponantur, ut si A B conclusio per C,
quaecunque sub B aut sub C sunt, necesse est de omnibus dici A, nam D si in
toto B, et B in A, et D erit in A. Rursum si E in toto C, et C in toto A, et E
in toto A erit. Similiter autem et si privativus sit syllogismus. In secunda
autem figura quod sub conclusione erit, solum erit syllogizare, ut si A insit
nulli B, et omni C, conclusio quoniam nulli C inest B; si autem D sub C est,
manifestum quoniam non inest ei B, iis autem quae sunt sub A, quoniam B non
inest, non palam est per syllogismum, et si non inest B ei quod est E, si est E
sub A, sed inesse quidem B nulli C per syllogismum ostensum est, non inesse vero
A hoc quod est B, indemonstratum sumptum est, quare nec per syllogismum accidit
B non inesse E. In particularibus autem, eorum quidem quae sub conclusione
sunt, non erit necessarium. Non enim fit syllogismus, quando ea sumpta fuerit
particularis, eorum autem quae sunt sub medio, erit omnium, verumtamen non per
syllogismum, ut si A omni B, et B alicui C: nam eius quod sub C est positum,
non erit syllogismus, eius vero quod sub B erit, sed non propter eum qui prius factus
est syllogismum. Similiter autem et in aliis figuris, nam eius quidem quod sub
conclusione est non erit, alterius vero erit, verum non per syllogismum, eo
quod et in universalibus ex indemonstrata propositione quae sunt sub medio
ostendebantur; quare neque hic erit, vel et in illis. Est ergo sic se habere,
ut verae sint propositiones per quas fit syllogismus; est autem ut falsae, est
vero ut haec quidem vera, illa autem falsa, conclusio autem aut vera, aut falsa
ex necessitate. Ex veris ergo non est falsum syllogizare, ex falsis autem verum,
tamen non propter quid, sed quia, nam eius qui est propter quid non est ex
falsis syllogismus, ob quam autem causam in sequentibus dicetur. Primum ergo
quoniam ex veris non possibile falsum syllogizare, hinc manifestum. Si enim cum
est A, necesse est esse B, si non est B, necesse est A non esse; si ergo verum
est A, necesse est et B verum esse, aut accidet idem simul et esse et non esse,
hoc autem impossibile. Non autem quoniam ponitur A unus terminus, accipiatur,
contingere uno aliquo existente, ex necessitate aliquid accidere, non enim
potest. Nam quod accidit ex necessitate conclusio est, per quae autem fit ad
minimum tres sunt termini, duo autem intervalla et propositiones. Si ergo verum
est cui omni inest B et A, cui autem C et B, cui C, necesse est A inesse, et
non potest hoc falsum esse, simul enim erit idem et non inerit; ergo A ut unum,
positum est duas propositiones colligere. Similiter autem se habet et in
privativis, non enim est ex veris ostendere falsum. Ex falsis autem est verum
syllogizare, utrisque propositionibus falsis, et una; hac autem non utralibet
contingit, sed secunda, si quidem totam sumamus falsam, non tota autem sumpta
est utralibet. Insit enim A omni C, ei autem quod est B nulli, nec B insit C;
contingit autem hoc, ut nulli lapidi animal, et lapis nulli homini; si igitur
sumatur A omni B, et B omni C, A omni C inerit, quare ex utrisque falsis vera
est conclusio, omnis enim homo animal. Similiter autem et privativum: insit
enim C nulli, nec A, nec B, A autem B omni, ut si eisdem terminis sumptis
medium ponatur homo, lapidi enim nec animal, nec homo nulli inest, homini autem
omni animal; quare si cui quidem omni inest, sumamus nulli inesse, cui vero non
inest, omni inesse, ex falsis utrisque vera erit conclusio. Similiter autem
ostendetur et si in aliquo utraque falsa sumatur. Si autem altera ponatur
falsa, prima quidem tota falsa existente, ut A B, non erit conclusio vera, B C
autem erit. Dico autem totam falsam quod contrariam verae, ut si quod nulli
inest, omni sumptum est; aut si quod omni, nulli inesse. Insit enim A B nulli,
B autem omni C; si ergo B C quidem propositionem sumamus veram, A B autem
falsam totam, et omni B inesse A, impossibile est A C conclusionem veram esse,
nulli enim inerat A earum quae sunt C, siquidem cui B nulli, B autem omni
C. Similiter autem nec si A omni B inest, et B omni C, sumpta sit autem B
C quidem vera propositio, A B autem falsa tota, et nulli, cui B inest A,
conclusio falsa erit, omni enim C inest A, siquidem cui B omni C et A, B autem
omni C. Manifestum ergo quoniam prima tota sumpta falsa, sive affirmativa, sive
privativa, altera autem vera, non fit vera conclusio. Non tota autem sumpta
falsa, erit: nam si A C quidem omni inest, B autem alicui, B autem omni C, ut
animal, cygno quidem omni, albo autem alicui, album autem omni cygno, si
sumatur A omni B, et B omni C, A omni C inerit vere, omnis enim cygnus animal.
Similiter autem et si privativa sit A B; possibile est enim A B quidem alicui
inesse, C vero nulli, B autem omni C, ut animal alicui albo, nivi vero nulli,
album vero omni nivi; si ergo sumatur A quidem nulli B, B autem omni C, A nulli
C inerit. Si autem A B quidem propositio tota sumatur vera, B C autem tota
falsa, erit syllogismus verus, nihil enim prohibet A, et B et C omni inesse, B
autem nulli C, ut quaecunque eiusdem generis sunt species non subalternae, nam
animal et homini et equo inest, equus autem nulli homini inest; si ergo sumatur
A omni B, et B omni C, conclusio vera erit, tota falsa B C propositione.
Similiter autem cum universalis privativa est A B propositio, contingit enim A
neque B, neque C nulli inesse, et B nulli C, ut ex alio genere speciebus
diversum genus, nam animal nec musicae, nec medicinae inest, neque musica
medicinae. Sumpta ergo A quidem nulli B, B autem omni C, vera erit conclusio.
Et si non tota falsa sit B C, sed in aliquo, etiam sic erit conclusio vera. Nihil
enim prohibet A, et B et C toti inesse, B autem alicui C, ut genus speciei et
differentiae, nam animal homini omni et omni gressibili, homo autem alicui
gressibili, et non omni; si ergo A omni B, et B omni C sumatur, A omni C
inerit, quod quidem erat verum. Similiter autem cum privativa est A, B
propositio, contingit enim A nec B, nec C nulli inesse, B vero alicui C, at
genus ex alio genere speciei et differentiae, nam animal nec sapientiae nulli
inest, nec contemplationi, sapientia vero alicui contemplationi; si ergo
sumatur A nulli B, B autem omni C, nulli C inerit A, hoc autem erat verum. In
particularibus autem syllogismis contingit, prima propositione tota falsa
existente, altera autem vera, veram esse conclusionem, et A B in aliquo falsa
existente, B C autem vera, et A B quidem vera, particulari autem falsa, et
utrisque existentibus falsis. Nihil enim prohibet A B quidem nulli inesse, C
autem alicui, et B alicui C inesse, ut animal nulli nivi, albo autem alicui
inest, et nix albo alicui. Si ergo ponatur medium nix, primum autem animal, et
sumatur A quidem toti B inesse, B autem alicui C, A B tota falsa, B C autem
vera, et conclusio vera. Similiter autem et cum privativa est A B propositio,
possibile est enim A B quidem toti inesse, C autem alicui non inesse, B vero
alicui C inesse, ut animal homini quidem omni inest, album autem aliquod non
sequitur, homo vero alicui albo inest; quare si medio posito homine sumatur A
nulli B inesse, et B alicui C, vera fit conclusio, cum sit tota falsa A B
propositio. Et si in aliquo sit falsa A B propositio, B C vera existente, erit
conclusio vera. Nihil enim prohibet A, et B, et C, alicui inesse, B autem
alicui C, ut animal alicui pulchro, et alicui magno, et pulchrum alicui magno
inest; si ergo sumatur A omni B, et B alicui C, et A B, quidem propositio in
aliquo falsa erit, B C autem vera, et conclusio vera. Similiter autem et cum
privativa est A B propositio, nam iidem erunt termini, et similiter positi ad
demonstrationem. Rursum si A B quidem vera, B C autem falsa, vera erit
conclusio. Nihil enim prohibet A quidem toti inesse B, C autem alicui, et B
nulli C inesse: ut animal cygno quidem omni, nigro autem alicui, cygnus vero
nulli nigro; quare si sumatur A omni B, et B alicui C, vera erit conclusio, cum
sit falsa B C. Similiter autem et privativa sumpta A B propositione, possibile
enim A B quidem nulli, C autem alicui non inesse, et B nulli C, ut genus ex
alio genere speciei et accidenti eius speciebus, nam animal quidem numero nulli
inest, albo vero non alicui, numerus autem nulli albo; si ergo medium ponatur
numerus, et sumatur A quidem nulli B, B autem alicui C, A alicui C non inerit,
quod fuit verum, cum A B quidem sit propositio vera, B C autem falsa. Et si in
aliquo sit falsa A B, falsa autem et B C, erit conclusio vera. Nihil enim
prohibet A alicui B et alicui C inesse utrique, B autem nulli C, ut si B sit
contrarium ipsi C, et ambo accidentia eidem generi, nam animal alicui albo et
alicui nigro inest, album autem nulli nigro inest; si ergo sumatur A omni B, et
B alicui C, vera erit conclusio. Et privativa quidem sumpta A B, similiter. Nam
iidem termini, et similiter ponentur ad demonstrationem. Et ex utrisque falsis
erit conclusio vera. Possibile est enim A B quidem nulli, C autem alicui
inesse, B vero nulli C. Ut genus ex alio genere speciei, et accidenti speciebus
eius, animal enim numero quidem nulli, albo vero alicui inest, et numerus nulli
albo. Si ergo sumatur A omni B, et B alicui C, conclusio quidem vera, propositiones
vero ambae falsae. Similiter autem et cum privativa est A B. Nihil enim
prohibet A B quidem toti inesse, C autem alicui non inesse, et neque B nulli C,
ut animal cygno quidem omni, nigro autem alicui non inest, cygnus vero nulli
nigro: quare si sumatur A nulli B, B autem alicui C A non inerit; ergo
conclusio quidem vera, propositiones autem falsae. In media autem figura omnino
contingit per falsa verum syllogizare, et utrisque propositionibus totis falsis
sumptis, et hac quidem vera, illa tota falsa, utralibet falsa posita, et si
utraeque in aliquo falsae, et si haec quidem simpliciter vera, illa autem in
aliquo falsa, et in universalibus, et in particularibus syllogismis. Si enim A
B quidem nulli inest, C autem omni, ut lapidi animal quidem nulli, homini autem
omni, si contrariae ponantur propositiones, et si sumatur A B quidem omni, C
vero nulli, ex falsis totis propositionibus erit vera conclusio. Similiter
autem et si A inest B quidem omni, C vero nulli, nam idem erit
syllogismus. Rursum si altera quidem tota falsa, altera autem tota vera.
Nihil enim prohibet A et B et C omni inesse, B autem nulli C, ut genus non
subalternis speciebus. Nam animal equo omni, et homini inest, et nullus homo
equus; si ergo sumatur animal huic quidem omni, illi vero nulli inesse, haec
quidem erit falsa, illa vero tota vera, et conclusio vera, ad quodlibet posito
privativo. Et si altera in aliquo falsa, altera autem tota vera, possibile est
enim A B quidem alicui inesse, C autem omni, et B nulli C, ut animal albo
quidem alicui, corvo autem omni, album vero nulli corvo. Si ergo sumatur A B
quidem nulli, C autem toti inesse, A B quidem propositio in aliquo falsa est, A
C autem tota vera, et conclusio vera, et transposita quidem privativa,
similiter. Nam per eosdem terminos demonstratio. Et si affirmativa quidem
propositio in aliquo falsa, privativa autem tota vera, nihil enim prohibet A B
quidem alicui inesse, C autem toti non inesse, et B nulli C, ut animal albo
quidem alicui, pici autem nulli, album vero nulli pici: quare si sumatur A to i
B inesse, C autem nulli, A B quidem in aliquo falsa, A C autem tota vera, et
conclusio vera. Et si utraeque propositiones in aliquo falsae, erit conclusio
vera, possibile est enim A, et B, et C alicui inesse, B autem nulli C, ut
animal, et albo alicui, et nigro alicui, album vero nulli nigro. Si ergo
sumator A B quidem omni, C autem nulli, ambae quidem propositiones in aliquo
falsae, conclusio autem vera; similiter autem transposita privativa per
terminos. Manifestum autem et in particularibus syllogismis, nihil enim
prohibet A B quidem omni, C autem alicui inesse, et B alicui C non inesse, ut
animal omni homini, albo autem alicui, homo vero alicui albo non inerit. Si
ergo ponatur A B quidem nulli inesse, C autem alicui inesse, universalis quidem
propositio tota falsa, particularis autem vera, et conclusio vera. Similiter
autem et affirmativa sumpta A B, possibile est enim A B quidem nulli, C autem
alicui non inesse, et B alicui C non inesse, ut animal nulli inanimato, albo
autem alicui, et inanimatum non inerit alicui albo Si ergo ponatur A B quidem
omni, C vero alicui non inesse, A B quidem propositio universalis tota falsa, A
C autem vera, et conclusio vera. Et universali quidem vera posita, minori autem
particulari falsa, nihil enim prohibet A nec B nec C nullum sequi, et B alicui
C non inesse, ut animal nulli numero nec inanimato, et numerus aliquod
inanimatum non sequitur. Si ergo ponatur A B quidem nulli, C autem alicui, et
conclusio vera, et universalis propositio vera, particularis autem falsa. Affirmativa
autem universali similiter posita, possibile est enim A et B et C toti inesse,
B autem aliquod C non sequi, ut genus speciem et differentiam. Nam animal omnem
hominem et totum gressibile sequitur, homo vero non omne gressibile: quare si
sumatur A B quidem toti inesse, C autem alicui non inesse, universalis quidem
propositio vera, particularis falsa, conclusio autem vera. Manifestum autem
quoniam et utrisque falsis erit conclusio vera, siquidem contingit A et B et C
huic quidem omni, illi vero nulli inesse, B vero aliquod C non sequi, nam
sumpto A B quidem nulli, C autem alicui inesse, propositiones quidem ambae
falsae, conclusio autem vera. Similiter autem et cum praedicativa fuerit
universalis propositio, particularis autem privativa, possibile est enim A B
quidem nullum, C autem omne sequi, et B alicui C non inesse, ut animal
disciplinam quidem nullam, hominem autem omnem sequitur, disciplina vero non
omnem hominem. Si ergo sumatur A B quidem toti inesse, C autem aliquod non
sequi, propositiones quidem falsae, conclusio autem vera. Erit autem et in
postrema figura per falsas totas, et in aliquo utraque, et altera quidem vera,
altera autem falsa, et haec quidem in aliquo falsa, illa autem tota vera, et e
converso, et quotquot modis aliter possibile est transumere propositiones.
Nihil enim prohibet nec A nec B nulli C inesse, A autem alicui B inesse, ut nec
homo, nec gressibile, nullum inanimatum sequitur, homo autem alicui gressibili
inest; si ergo sumatur A et B omni C inesse, propositiones quidem totae falsae,
conclusio autem vera. Similiter autem et cum haec quidem est privativa, illa
vero affirmativa. Possibile est enim B quidem nulli C inesse, A autem omni, et
A alicui B non inesse, ut nigrum nulli cygno, animal autem omni, et animal non
omni nigro: quare si sumatur B quidem omni C, A vero nulli, A alicui B non
inerit, et conclusio quidem vera, propositiones autem falsae. Et si in
aliquo fuerit utraque falsa, erit conclusio vera, nihil enim prohibet et A et B
alicui C inesse, et A alicui B, ut album et pulchrum alicui animali inest, et
album alicui pulchro; si ergo ponatur A et B omni C inesse, propositiones
quidem in aliquo falsae, conclusio autem vera. Et privativa A C posita, similiter:
nihil enim prohibet A quidem alicui C non inesse, B vero alicui inesse, et A
non omni B inesse, ut album alicui animali non inesse. Pulchrum autem alicui
inest, et album non omni pulchro: quare si sumatur A quidem nulli, C B autem
omni, utraeque propositiones quidem in aliquo falsae, conclusio autem
vera. Similiter autem et haec quidem tota falsa, illa vero tota vera
sumpta. Possibile est enim A et B omne C sequi, et A alicui B non inesse, ut
animal et album omne cygnum sequitur, et animal non omni inest albo; positis
igitur his terminis, si sumatur B quidem toti C inesse, A vero toti non inesse,
B C quidem tota erit vera, A C autem tota falsa, et conclusio vera. Similiter
autem et si B C quidem falsa, A C autem vera, nam hi quidem termini ad demonstrationem,
nigrum, inanimatum, cygnus. Sed et si utraeque assumantur affirmative, nihil
enim prohibet B quidem omne C sequi, A autem toti C non inesse, et A alicui B
inesse, ut omni cygno animal, nigrum vero nulli cygno, et nigrum inest alicui
animali: quare si sumatur A et B omni C inesse, B C quidem tota vera, A C autem
tota falsa, et conclusio vera. Similiter autem et A C sumpta vera, nam per eosdem
terminos demonstratio. Rursum hac quidem tota vera existente, illa vero
in aliquo falsa, possibile est enim B quidem omni C inesse, A autem alicui C et
alicui B, ut bipes quidem omni homini, pulchrum non omni, et pulchrum alicui
bipedi inest. Si ergo sumatur A et B toti C inesse, B C quidem tota vera, A C
autem in aliquo falsa, conclusio autem vera. Similiter autem et A C quidem
vera, B C autem falsa in aliquo sumpta, transpositis enim eisdem terminis erit
demonstratio. Et cum haec quidem est privativa, illa vero affirmativa, quoniam
possibile est B quidem toti C inesse, A autem alicui C, et quando sic se
habeant, non omni B inesse A. Si ergo assumatur B quidem toti C inesse, A autem
nulli, privativa quidem in aliquo falsa, altera autem tota vera, et conclusio
erit vera. Rursum quoniam ostensum est quod cum A quidem nulli C inest, et B
alicui, evenit A alicui B non inesse, manifestum igitur quoniam et cum A C tota
est vera, B C autem in aliquo falsa, contingit conclusionem esse veram; si enim
sumatur A quidem nulli C, B autem omni, A C quidem tota vera, B C autem in
aliquo falsa. Manifestum autem et in particularibus syllogismis quoniam omnino
per falsa erit verum, nam iidem termini sumendi, et quando universales fuerint
propositiones, in praedicativis quidem praedicativi, in privativis autem
privativi; nihil enim differt, cum nulli inerat, universaliter sumere inesse,
et si alicui inerat, universaliter sumere ad terminorum positionem; similiter
autem et in privativis. Manifestum igitur quod quando sit conclusio falsa,
necesse est ea ex quibus est oratio falsa esse, aut omnia, aut aliqua; quando
autem vera, non necesse est verum esse nec aliquod quidem, nec omne. Sed est
cum nullum sit verum eorum quae sunt in syllogismis, et conclusionem similiter
esse veram, non tamen ex necessitate. Causa autem quoniam cum duo sic se habent
ad invicem, ut cum alterum sit, ex necessitate esse alterum, hoc cum non sit
quidem, nec alterum erit; cum autem sit, non necesse est esse alterum; idem
autem cum sit, et non sit, impossibile ex necessitate esse idem. Dico autem,
cum sit A album, B esse magnum ex necessitate, et cum non sit A album, B esse
magnum ex necessitate; quando enim cum hoc sit (ut A ) album, illud necesse est
(ut B ) esse magnum, cum autem sit B magnum, C non esse album, necesse est, si
A sit album, C non esse album. Et quando duobus existentibus, cum alterum sit,
necesse est alterum esse, hoc autem cum non sit, necesse est A non esse, cum
ergo B non sit magnum, A non potest album esse, cum vero A non sit album,
necesse est B magnum esse, accidit ex necessitate cum B magnum non sit, idem B
esse magnum: hoc autem impossibile, nam si B non est magnum, A non erit album
ex necessitate; si ergo cum non sit A album, B erit magnum, accidit, si B non
est magnum, B esse magnum, ut per tria. Circulo autem, et ex se invicem
ostendere est per conclusionem, et e converso praedicationem alteram sumentem
propositionem concludere reliquam, quam sumpserat in altero syllogismo, ut si
oportuit ostendere quoniam A inest omni C, ostendat autem per C, rursus si
monstret quoniam A inest B, sumens A quidem inesse C, C autem B, et A inerit B,
prius autem e converso sumpsit B inesse C, aut si quoniam B inest C, oporteat
ostendere si sumat A de C, quae fuit conclusio, B autem de A esse, prius autem
sumptum est e converso A de B. Aliter vero non est ex se invicem
ostendere, sive enim aliud medium sumetur, non circulo, nil enim sumitur
eorumdem, sive horum quiddam, necesse est alterum solum, nam si ambo, eadem
erit conclusio, at oportet diversam esse. In iis igitur quae non convertuntur
ex indemonstrata altera propositione fit syllogismus, non enim est demonstrare
per hos terminos, quoniam medio inest tertium, aut primo medium. In iis autem
quae convertuntur, erit omnia monstrare per se invicem, ut si A, et B, et C
convertuntur sibi invicem: ostendatur enim A C per medium B, et rursum A B per
conclusionem, et per B C propositionem conversam; similiter autem et B C, et
per conclusionem, et per A B propositionem conversam; oportet autem et C B, et
B A propositionem demonstrare, nam his demonstratis usi sumus solis. Si
ergo sumatur B omni C inesse, et C omni A, syllogismus erit eius quod est B ad
A. Rursus si sumatur C omni A inesse, et A omni B, necesse est C inesse omni B.
In utrisque ergo syllogismis C A propositio sumpta est indemonstrata, nam aliae
probatae erant: quare si hanc ostenderimus, omnes erunt approbatae per se
invicem; si ergo sumatur C omni B, et B omni A inesse, utraeque propositiones
demonstratae sumuntur, et C necesse est inesse A. Manifestum est ergo quoniam
in solis iis quae convertuntur, circulo et per se invicem contingit fieri
demonstrationes, in aliis vero quemadmodum prius diximus. Accidit autem et in
iis eodem quod monstratur uti ad demonstrationem, nam C de B, et B de A
monstratur sumpto C de A dici, C autem de A per has ostenditur propositiones:
quare conclusione utimur ad demonstrationem. In privativis autem syllogismis
hoc modo monstratur ex se invicem: sit B quidem omni C inesse, A autem nulli B,
conclusio autem quoniam A nulli C. Si ergo rursum oporteat concludere quoniam A
nulli B, quod prius sumptum erat, erit A quidem nulli C, C autem omni B, sic
enim e converso propositio. Si autem quoniam B inest C, oporteat concludere,
non iam similiter convertendum A B, nam eadem propositio est B nulli A, et A
nulli B inesse, sed sumendum, cui A nulli inest, huic B omni inesse. Sit enim A
nulli C inesse, quod quidem fuit conclusio, cui autem A nulli B, si sumatur
omni inesse, necesse est ergo B omni C inesse: quare cum sint tria, unumquodque
conclusio est facta, et circulo demonstrare, hoc est conclusionem sumentem et e
converso alteram propositionem, reliquam syllogizare. In particularibus autem
syllogismis universalem quidem propositionem non est demonstrare per alias,
particularem autem est; quoniam autem non est demonstrare universalem,
manifestum, nam universale monstratur per universalia, conclusio autem non est
universalis, oportet autem ostendere ex conclusione et altera propositione.
Amplius, omnino non fit syllogismus conversa propositione, nam particulares fiunt
utraeque propositiones. Particulare autem est, ostendatur enim A de aliquo C
per B, si ergo sumatur B omni A, et conclusio maneat, B alicui C inerit, fit
enim prima figura, et est A medium. (0693C) Si autem fit privativus
syllogismus, universalem quidem propositionem non est ostendere, propter hoc
quod prius dictum est, particularem (si simpliciter convertatur A B quemadmodum
et in universalibus) non est, per assumptionem autem est, ut cui A alicui non
insit, B alicui inesse; nam aliter se habentibus non fit syllogismus, eo quod
negativa est particularis propositio. In secunda autem figura affirmativam
quidem non est ostendere per hunc modum, privativam autem est; ergo
praedicativa quidem non ostenditur, eo quod non sunt utraeque propositiones
affirmativae, nam conclusio privativa, praedicativa autem ex utrisque ostendebatur
affirmativis. Privativa autem sic ostenditur: insit enim A omni B, C autem
nulli, conclusio quoniam B nulli C; si ergo sumatur B omni A inesse, et nulli
C, necesse est A nulli C inesse, fit enim secunda figura, medium B. Si autem A
B privativa sumpta sit, altera vero praedicativa, prima erit figura, nam C
quidem omni A, B autem nulli C, quare B nulli A, ergo nec A B, medium C; ergo
per conclusionem quidem et unam propositionem non fit syllogismus, assumpta
autem altera erit. Si autem non universalis sit syllogismus, quae in toto
quidem est propositio non ostenditur, propter eamdem causam quam quidem diximus
et prius, quae autem in parte, ostenditur quando universalis sit praedicativa. Insit
enim A omni B, C autem non omni, conclusio B C; si ergo sumatur B omni A, C
autem non omni, conclusio A alicui C non inerit medium B. Si autem est
universalis privativa, non ostenditur A propositio, conversa A B, accidit enim
utrasque aut alteram propositionem fieri negativam: quare non erit syllogismus;
sed similiter ostendetur quemadmodum et in universalibus, si sumatur, cui B
alicui non inest, A alicui inesse. In tertia autem figura, quando utraeque
propositiones universaliter sumentur, non contingit ostendere per se invicem
propositionem. Nam universalis quidem ostenditur per universalia, in hac autem
conclusio semper est particularis: quare manifestum quoniam omnino non
contingit ostendere per hanc figuram universalem propositionem. Si autem haec
quidem universalis sit, illa vero particularis, quandoque quidem erit, quandoque
vero non inerit; quando ergo utraeque praedicativae sumantur, et universalis
sit ad minorem extremitatem, erit; quando vero ad alteram, non erit. Insit enim
A omni C, B autem alicui C, conclusio A B. Si ergo sumatur C omni A inesse
conversa universali, et A inesse B, quod erat conclusio, C quidem ostensum est
alicui B inesse, B autem alicui C, non est ostensum, quamvis necesse est si C
alicui B, et B alicui C inesse; sed non idem est hoc illi, et illud huic
inesse, sed assumendum est, si hoc alicui illi, et alterum alicui huic, hoc
autem sumpto iam non sit ex conclusione et altera propositione syllogismus. Si
autem B quidem omni C, A autem alicui C, erit ostendere A C, quando sumatur C
quidem omni B inesse, A autem alicui; nam si C omni B inest, A autem alicui B,
necesse est A alicui C inesse, medium B. Et cum fuerit haec praedicativa
quidem, illa vero privativa, universalis autem praedicativa, ostendetur altera.
Insit enim B omni C, A autem alicui non insit, conclusio quoniam A alicui B non
inest. Si ergo assumatur C B omni inesse, inerat autem et A non omni B, necesse
est A alicui C non inesse medium B. Cum autem privativa universalis sit, non
ostenditur altera nisi sicut in prioribus, si sumatur cui hoc alicui non inest,
alterum alicui inesse, ut si A nulli C, B autem alicui, conclusio quoniam A
alicui B non inest. Si ergo sumatur cui A alicui non inest, eidem C alicui
inesse, necesse est C alicui B inesse, aliter autem non est convertentem
universalem propositionem ostendere alteram, nullo enim modo erit syllogismus. Manifestum
igitur quoniam in prima quidem figura per se invicem est ostensio, et per
primam, et per tertiam figuram fit: nam cum praedicativa quidem est conclusio,
per primam, cum autem privativa, per postremam; sumitur enim cui hoc nulli,
alterum omni inesse. In media autem, cum universalis est quidem syllogismus et
per ipsam, et per primam figuram, et per postremam; cum autem particularis, et
per ipsam, et per postremam. In tertia vero per ipsam, omnes. Manifestum etiam
quoniam in media et in tertia qui non per ipsas fiunt syllogismi, aut non sunt
secundum eam quae circulo est ostensionem, aut imperfecti sunt. Convertere
autem est transponentem conclusionem facere syllogismum, quoniam vel extremum
medio non inerit, vel hoc postremo; necesse est enim conclusione conversa, et
altera remanente propositione, interimi reliquam; nam si erit, et conclusio
erit: differt autem opposite aut contrarie convertere conclusionem, non enim
fit idem syllogismus utrolibet conversa; palam autem hoc erit per sequentia. Dico
autem opponi quidem omni inesse non omni, et alicui nulli, contrarie autem omni
nulli, et alicui non alicui inesse. Sit enim ostensum A de C per medium B; si
igitur sumatur A nulli C inesse, omni autem B, nulli C inerit B, et si A quidem
nulli C, B autem omni C, A non omni B, et non omnino nulli, non enim
ostendebatur universale per tertiam figuram. Omnino autem eam quae est ad
maiorem extremitatem propositionem non est destruere universaliter per
conversionem, semper enim interimitur per tertiam figuram, necesse enim ad
postremam extremitatem utrasque sumere propositiones. Et si privativus sit
syllogismus, similiter: ostendatur, enim A nulli C inesse per B, ergo si
sumatur A omni C inesse, nulli autem B, nulli C inerit B. Et si A et B omni C,
A alicui B, sed nulli inerat. Si autem opposite convertatur conclusio, et alii
syllogismi oppositi, et non universales erunt, fit enim altera propositio
particularis, quare conclusio erit particularis. Sit enim praedicativus
syllogismus, et convertatur sic, ergo si A non omni C, B autem omni B, non omni
C. Et si A quidem non omni C, B autem omni A, non omni B. Similiter autem et si
privativus sit syllogismus, nam si A alicui C inest, B autem nulli, B alicui C
non inerit, et non simpliciter nulli, et si A quidem alicui C, B autem omni,
quemadmodum in principio sumptum est, A alicui B inerit. In particularibus
autem syllogismis quando opposite convertitur conclusio, interimuntur utraeque
propositiones, quando vero contrariae, neutra; non enim iam accidit quemadmodum
in universalibus interimere deficiente conclusione secundum conversionem, sed nec
omnino interimere. Ostendatur enim A de aliquo C per B; ergo si sumatur A nulli
C inesse, B autem alicui C, A alicui B non inerit, et si A nulli C, B autem
omni, nulli C inerit B; quare interimentur utraeque. Si autem contrarie
convertantur, neutra; nam si A alicui C non inest, B autem omni, B alicui C non
inerit, sed nondum interimitur quod ex principio, contingit, enim alicui
inesse, et alicui non inesse: universali autem sublato A B, omnino non fit
syllogismus. Si enim A quidem alicui C non inest, B autem alicui inest, neutra
propositionum universalis est. Similiter autem et si privativus sit
syllogismus, si enim sumatur A omni C inesse, interimuntur utraeque; si autem
alicui, neutra; demonstratio autem eadem. In secunda autem figura, eam quidem
quae est ad maiorem extremitatem propositionem, non est interimere contrarie,
quolibet modo conversione facta, semper erit conclusio in tertia figura,
universalis autem non fuit in hac syllogismus, alteram autem in hac
interimemus, similiter conversione. Dico autem similiter: si contrarie quidem
convertitur, contrarie; si opposite, opposite. Insit enim A omni B, C autem
nulli, conclusio B C. Si ergo sumatur B omni C inesse, et A B maneat, A omni C
inerit, fit enim prima figura. Si autem B omni C, A autem nulli C, A non omni
B, figura postrema.Si autem opposite convertatur B C, A B quidem similiter
ostendetur, A C autem opposite: nam si B alicui C, A autem nulli C, A alicui B
non inerit; rursum si B alicui C, A autem omni B, A alicui C, quare oppositus
fit syllogismus. Similiter autem ostendetur et si e converso se habeant
propositiones. Si autem particularis est syllogismus, contrarie quidem conversa
conclusione neutra propositionum interimitur, quemadmodum nec in prima figura,
opposite autem, utraeque. Ponatur enim A B quidem nulli inesse, C autem alicui,
conclusio B C. Si igitur ponatur B alicui C inesse, et A B maneat, conclusio
erit quoniam A alicui C non inest, sed non interimitur quod ex principio,
contingit enim alicui inesse et non inesse. Rursum si B alicui C, et A alicui
C, non erit syllogismus, neutrum enim universale eorum quae sumpta sunt, quare
non interimitur A B. Si autem opposite convertatur, interimuntur utraeque, non
si B omni C, A autem nulli B, nulli C, A erit autem alicui. Rursum si B omni C,
A autem alicui C, alicui B, A. Eadem autem demonstratio et si universalis sit
praedicativa. In tertia vero figura quando contrarie quidem convertitur
conclusio, neutra propositionum interimitur secundum nullum syllogismorum;
quando autem opposite, utraeque in omnibus. Si enim ostensum A alicui B inesse,
medium autem sumptum C, et sint universales propositiones, si ergo sumatur A
alicui B non inesse, B autem omni C, non fit syllogismus eius quod est A de C.
Neque si A B alicui non inest, C autem omni, non erit eius quod est B C
syllogismus. Similiter autem ostendetur et si non universales sint
propositiones, aut enim utrasque necesse est particulares esse per
conversionem, aut universalem ad minorem extremitatem fieri, sic autem non fiet
syllogismus, nec in prima figura, nec in media. Si autem opposite convertantur
propositiones, interimuntur utraeque, nam si A nulli B, B autem omni C, A nulli
C. Rursum si A B quidem nulli, C autem omni, B nulli C. Et si altera non sit
universalis, similiter; si enim A nulli B, B autem alicui C, A alicui C non
inerit. Si autem A quidem nulli, C autem omni, nulli C, B. Similiter et si
privativus sit syllogismus; ostendatur enim A alicui B non inesse; si autem
praedicativa quidem B C, A C autem negativa, sic enim fiebat syllogismus.
Quando igitur contrarium sumitur conclusioni, non erit syllogismus, nam si A
alicui B, B autem omni C, non fit syllogismus eius quod est A et C. Neque si A
alicui B, nulli autem C, non fuit eius quod est A B et C syllogismus, quare non
interimuntur propositiones. Quando vero oppositum, interimuntur; nam si A omni
B, et B omni C, A omni C, sed nulli inerat. Rursum si A omni B, nulli autem C,
B nulli C, sed omni inerat. Similiter autem monstratur, et si non universales
sint propositiones: sit enim A C universalis et privativa, altera autem
particularis et praedicativa, ergo si A quidem omni B, B autem alicui C, A
alicui C accidit, sed nulli inerat. Rursum si A omni B, nulli autem C, et B
nulli C. Si autem A alicui B, et B alicui C, non fit syllogismus. Neque si A
alicui B, et nulli C, nec sic. Quare illo quidem modo interimuntur, sic autem
non interimuntur propositiones. Manifestum est ergo ex iis quae dicta sunt
quomodo conversa conclusione in unaquaque figura fit syllogismus, et quando
contrarie propositioni, et quando opposite; et quoniam in prima quidem figura
per mediam et postremam fiunt syllogismi, et quae quidem ad minorem
extremitatem semper per mediam interimitur, quae vero ad maiorem per postremam;
in secunda autem, per primam et postremam, quae quidem ad minorem extremitatem
semper per primam figuram, quae vero ad maiorem, per postremam; in tertia vero,
per primam et per mediam, et quae quidem ad maiorem per primam semper, quae
vero ad minorem per mediam semper. Quid ergo est convertere, et quomodo in
unaquaque figura, et quis fit syllogismus, manifestum. Per impossibile autem
syllogismus ostenditur quidem, quando contradictio ponitur conclusionis, et
assumitur altera propositio. Fit autem in omnibus figuris, simile enim est
conversioni. Verumtamen differt in tantum quoniam convertitur quidem facto
syllogismo, et sumptis utrisque propositionibus. Deducitur autem ad impossibile
non confesso opposito prius, sed manifesto quoniam est verum. Termini vero
similiter se habent in utrisque, et eadem sumptio utrorumque, ut si A inest
omni B, medium autem C, si supponitur A non omni vel nulli B inesse, C vero
omni, quod fuit verum, necesse est C B aut nulli aut non omni inesse, hoc autem
impossibile, quare falsum est quod suppositum est. Verum ergo oppositum;
similiter autem in aliis figuris, quaecunque enim conversionem suscipiunt, et
per impossibile syllogismum. Ergo alia quidem proposita omnia ostenduntur per
impossibile in omnibus figuris, universale autem praedicativum in media et in
tertia monstratur, in prima autem non monstratur: supponatur enim A non omni B
aut nulli inesse, et assumatur alia propositio, utrolibet modo, sive A omni
inest C, sive B omni D (sic enim erat prima figura); si ergo supponatur A non
omni B inesse, non fiet syllogismus quomodolibet sumpta propositione. Si autem
nulli B, D quidem assumatur, syllogismus quidem erit falsi, non ostenditur
autem propositum; nam si A nulli B, B autem omni D, A nulli D, hoc autem sit
impossibile, falsum igitur est nulli B inesse A, sed non si nulli falsum, omni
verum. Si autem C A assumatur, non fit syllogismus, nec quando supponitur non
omni B inesse A; quare manifestum quoniam omni inesse non ostenditur in prima
figura per impossibile. Alicui autem, et nulli, et non omni ostenditur.
Supponatur enim A nulli B inesse, B autem sumptum sit omni aut alicui C, ergo
necesse est A nulli aut non omni C inesse, hoc autem impossibile. Sit enim
verum et manifestum quoniam omni C inest A, quare si hoc falsum, necesse est A
alicui B inesse. Si autem ad A sumatur altera propositio, non erit syllogismus,
neque quando subcontrarium conclusioni supponitur ut alicui non inesse;
manifestum ergo quoniam oppositum sumendum est. Rursum supponatur A alicui B
inesse, sumptum autem sit C omni A, necesse est igitur C alicui B inesse, hoc
autem sit impossibile, quare falsum quidem suppositum est; si autem sic, verum
est nulli inesse. Similiter autem et si privativa sumpta sit C A. Si autem ad B
sumpta sit propositio, non erit syllogismus. Si autem contrarium supponatur,
syllogismus erit et impossibile, non tamen ostenditur quod est propositum:
supponatur enim A omni B, et C sumptum sit omni A, ergo necesse est C omni B
inesse: hoc autem impossibile, quare falsum est omni B inesse A, sed nondum
erit necessarium, si non omni, nulli inesse. Similiter autem et si A D B
sumatur altera propositio: nam syllogismus quidem erit et impossibile, non
interimitur autem hypothesis, quare oppositum supponendum. Ad ostendendum autem
non omni B inesse A, supponendum omni inesse, nam si A omni B, et C omni A,
omni B inerit C; si ergo hoc impossibile, falsum quod suppositum est; similiter
autem et si ad B sumpta sit altera propositio. Et si privativa sit C A,
similiter, nam et sic fit syllogismus. Si autem ad B sumpta sit privativa,
nihil ostenditur. Si autem non omni, sed alicui inesse supponatur, non
ostenditur quoniam non omni, sed quoniam nulli: si enim A alicui B, C autem
omni A, alicui B inerit C; si ergo hoc impossibile, falsum est alicui B inesse
A, quare verum nulli; hoc autem ostenso, interimitur verum, nam A alicui quidem
B inerat, alicui vero non inerat. Amplius autem non tam propter hypothesin
accidit impossibile, falsa enim erit, siquidem ex veris non est falsum
syllogizare: nunc autem est vera, inest enim A alicui B, quare non supponendum
alicui inesse, sed omni. Similiter autem et si alicui B non inest A,
ostenderemus; si enim idem est alicui non inesse, et non omni inesse, eadem in
utrisque demonstratio. Manifestum ergo quoniam non contrarium, sed oppositum
supponendum in omnibus syllogismis, sic enim necessarium erit et axioma
probabile; nam si de omni vel affirmatio vel negatio, ostenso quoniam non
negatio, necesse est affirmationem veram esse; rursum si non ponant veram esse
affirmationem, constat veram esse negationem; contrariam vero neutro modo
contingit ratum facere. enim necessarium, si nulli falsum, omni verum, neque
probabile ut sit alterum falsum, quoniam alterum verum. Manifestum ergo quoniam
in prima figura alia quidem proposita omnia ostenduntur per impossibile,
universale autem affirmativum non ostenditur. In media autem figura et postrema
et hoc ostenditur. Ponatur enim A non omni B inesse, sumptum sit autem omni C
inesse A; ergo si B quidem non omni inest A, C autem omni, non omni B inest C,
hoc autem impossibile. Sit enim manifestum quoniam omni B inest C, quare falsum
quod suppositum est, verum est ergo omni inesse. Si autem contrarium
supponatur, syllogismus quidem erit ad impossibile, non tamen ostenditur quod
propositum est. Si enim A nulli B, omni autem C, nulli B, C, hoc autem
impossibile, quare falsum est, nulli inesse, sed non si hoc falsum, verum omni.
Quando autem alicui B inest A, supponatur A nulli B inesse, C autem omni insit,
necesse est ergo C nulli B inesse, quare si hoc impossibile, necesse est A
alicui B inesse. Si autem supponatur alicui non esse, eadem erunt quae in prima
figura. Rursum supponatur A alicui B inesse, C autem nulli insit, necesse est
igitur C alicui B non inesse; sed omni inerat, quare falsum quod suppositum
est, nulli ergo B inerat A. Quando autem non omni B inest A, supponatur omni
inesse: C autem nulli, necesse est ergo C nulli B inesse, hoc autem
impossibile, quare verum est non omni inesse. Manifestum ergo quoniam omnes
syllogismi fiunt per mediam figuram. Similiter autem et per ultimam. Ponatur
enim A alicui B non inesse, C autem omni B, ergo A alicui C non inerit; si ergo
hoc impossibile, falsum alicui non inesse, quare verum est omni. Si vero
supponatur nulli inesse, syllogismus quidem erit, et impossibile, non ostendit
autem quod propositum est; si enim contrarium supponatur, eadem erunt quae in
prioribus. Sed ad ostendendum alicui inesse, eadem sumenda est hypothesis,
nam si A nulli B, C autem alicui B, A non omni C; si ergo hoc falsum, verum est
A alicui B inesse. Quando autem nulli B inest A, supponatur alicui inesse,
sumptum sit autem et C omni B inesse, ergo necesse est A alicui C inesse; sed
nulli inerat, quare falsum est alicui B inesse A. Si autem supponatur omni B
inesse A, non ostenditur propositum: sed ad ostendendum non omni inesse, eadem
sumenda hypothesis, nam si A omni B, et C alicui B, A inest alicui C; hoc autem
non fuit, quare falsum est omni inesse, si autem sic, verum non omni. Si autem
supponatur alicui inesse, eadem erunt quae et in iis quae prius dicta sunt. Manifestum
ergo quoniam in omnibus per impossibile syllogismis oppositum supponendum.
Palam autem et quoniam in media figura ostenditur quodammodo affirmativum, et
in postrema universale. Differt autem quae ad impossibile demonstratio ab ea
quae est ostensiva, eo quod ponat quod vult interimere, deducens ad confessum
falsum, ostensiva autem incipit A confessis positionibus veris. Sumunt ergo
utraeque duas propositiones confessas, sed haec quidem ex quibus est
syllogismus, illa vero unam quidem harum, alteram vero contradictionem
conclusionis. Et hinc quidem non necesse est notam esse conclusionem, neque
prius opinari quoniam est, aut non est; illinc vero necesse est, quoniam non
est. Differt autem nihil affirmativam, vel negativam esse conclusionem, sed
similiter se habet in utrisque. Omnis enim quae ostensive concluditur, et per
impossibile monstrabitur, et quae per impossibile ostensive, et per eosdem terminos,
non autem in eisdem figuris. Nam quando per impossibile syllogismus fit in
prima figura, quod verum est in media erit, aut in postrema, privativum quidem
in media, praedicativum autem in postrema. Quando autem syllogismus in media
fit, quod verum est erit in prima figura in omnibus propositionibus, quando
autem in postrema syllogismus, quod verum est erit in prima et in media,
affirmativa quidem in prima, privativa autem in media. Sit enim ostensum A
nulli aut non omni B per primam figuram, ergo hypothesis quidem erat alicui B
inesse A, C autem sumebatur A quidem omni inesse, B autem nulli, sic enim
fiebat syllogismus ad impossibile. Hoc autem media figura, si C A quidem omni,
B autem nulli inest, et manifestum ex his quoniam B nulli inest A. Similiter
autem et si non omni ostensum sit inesse, nam hypothesis quidem est omni B A
inesse, C autem sumebatur A quidem omni, B autem non omni, et si privativa sit
sumpta C A, similiter etenim sic fit in media figura. Rursum sit ostensum
alicui B inesse A, ergo hypothesis quidem est nulli inesse, B autem sumebatur
omni C inesse, et A vel omni vel alicui C, sic enim erit impossibile. Hoc autem
postrema figura, si A et B omni C, et manifestum ex his quia necesse est A
alicui B inesse, similiter autem et si alicui C sumatur inesse B vel A. Rursum
in media figura ostensum sit A omni B inesse, ergo hypothesis quidem fuit, non
omni B inesse A, sumptum est autem A omni C, et C omni B, sic enim erit
impossibile; hoc autem prima figura, si A omni C, et C omni B. Similiter autem
et si ostensum sit alicui inesse, nam hypothesis quidem fuit, nulli B inesse A,
sumptum est autem A omni C, et C alicui B. Si autem privativus fit syllogismus,
hypothesis quidem A alicui B inesse, sumptum est autem A nulli C, et C omni B,
quare fit prima figura. Et si non universalis sit syllogismus, sed A alicui B
ostensum sit non inesse, similiter: nam hypothesis quidem omni B inesse A,
sumptum est autem A nulli C, et C alicui B, sic enim prima figura. Rursum in
tertia figura ostensum sit A inesse omni B, ergo hypothesis quidem fuit non
omni B inesse A, sumptum est autem C omni B, et A omni C, sic enim erit
impossibile, hoc autem prima figura. Similiter autem et si in aliquo sit
demonstratio, non hypothesis quidem erit nulli B inesse A, sumptum est autem C
alicui B, et A omni C. Si autem privativus sit syllogismus, hypothesis quidem A
alicui B inesse, sumptum est autem C A quidem nulli, B autem omni, hoc autem
media figura. Similiter autem et si non universalis sit demonstratio, nam
hypothesis quidem erit omni B inesse A, sumptum est autem C A quidem nulli, B
autem alicui, hoc autem media figura. Manifestum ergo quoniam per eosdem
terminos et ostensive est demonstrare unumquodque propositum, et per
impossibile. Similiter autem erit, et cum sint ostensivi syllogismi, ad
impossibile deducere in terminis sumptis, quando opposita propositio
conclusioni sumpta fuerit, nam fiunt iidem syllogismi iis qui sunt per
conversionem, quare statim habemus et figuras per quas unumquodque erit. Palam
ergo quoniam omne propositum ostenditur per utrosque modos et per impossibile
et ostensive, et non contingit separari alterum ab altero. In qua autem figura
est ex oppositis propositionibus syllogizare, et in qua non est, sic erit
manifestum. Dico autem oppositas esse propositiones, secundum locutionem quidem
quatuor, ut omni et nulli, et omni et non omni, et alicui et nulli, et alicui
et non alicui inesse; secundum veritatem autem tres, nam alicui et non alicui
secundum locutionem opponuntur solum; harum autem contrarias quidem
universales, omni nulli inesse, ut omnem disciplinam esse studiosam, nullam
esse studiosam, alias vero oppositas. In prima igitur figura non est ex
oppositis propositionibus syllogismus, neque affirmativus, neque negativus;
affirmativus quidem, quoniam oportet utrasque affirmativas esse propositiones,
oppositae autem affirmatio et negatio; privativus autem, quoniam oppositae
quidem idem de eodem praedicant et negant, in prima autem medium non dicitur de
utrisque, sed de illo quidem aliud negatur, idem autem de alio praedicatur, hae
vero non opponuntur. In media autem figura, et ex oppositis, et ex contrariis
contingit fieri syllogismum. Sit enim bonum quidem in quo A, disciplina autem
in quo B et C; si ergo omnem disciplinam studiosam sumpsit, et nullam, A inest
omni B, et nulli C, quare B nulli C, nulla ergo disciplina disciplina est.
Similiter autem et si omnem sumens studiosam disciplinam, medicinam vero non
studiosam sumpsit, nam A B quidem omni, C autem nulli, quare aliqua disciplina
non erit disciplina. Et si A C quidem omni, B autem nulli, est autem B quidem
disciplina, C autem medicina, A vero opinio, nullam enim disciplinam opinionem
sumens, sumpsit aliquam disciplinam esse opinionem. Differt autem A priore in
terminis converti, nam prius quidem ad B, nunc autem ad C affirmativum. Et si
sit non universalis altera propositio, similiter; semper enim medium est, quod
ab altero quidem negative dicitur, de altero vero affirmative. Quare contingit
opposita quidem perfici, non autem semper, neque omnino, sed sic se habeant,
quae sunt sub medio, ut vel eadem sint, vel totum ad partem; aliter autem
impossibile, non enim erunt propositiones ullo modo, neque contrariae, neque
oppositae. In tertia vero figura affirmativus quidem syllogismus nunquam erit
ex oppositis propositionibus propter causam dictam, et in prima figura. Negativus
autem erit syllogismus, et universalibus, et non universalibus terminis. Sit
enim disciplina in quo B et C, medicina autem in quo A; si ergo sumat omnem
medicinam disciplinam, et nullam medicinam disciplinam, B omni A sumpsit, et C
nulli A, quare erit aliqua disciplina non disciplina. Similiter autem et si non
universaliter sumpta sit A B propositio, nam si est aliqua medicina disciplina,
et rursum nulla medicina disciplina, accidit disciplinam aliquam non esse
disciplinam. Sunt autem universaliter quidem sumptis terminis contrariae
propositiones, si autem particularis altera sit, oppositae. Oportet autem scire
quoniam contingit opposita sic sumere quemadmodum diximus, omnem disciplinam
studiosam esse, et rursum nullam aut aliquam non esse studiosam, quod non solet
latere; erit autem per alias interrogationes syllogizare alteram, et
quemadmodum in Topicis dictum est, sumere. Quoniam autem affirmationum
oppositiones sunt tres, sexies accidit opposita sumere, aut omni et nulli, aut
omni et non omni, aut alicui et nulli; et hoc converti in terminis, ut A omni B
et nulli C, aut omni C et nulli B, aut huic quidem omni, illi vero non omni, et
rursum hoc converti secundum terminos; similiter autem et in tertia figura.
Quare manifestum est et quoties et in quibus figuris contingit per oppositas
propositiones fieri syllogismum. Manifestum est quoniam ex falsis est verum
syllogizare, quemadmodum dictum est prius; ex oppositis autem non est, semper
enim contrarius syllogismus fit rei (ut si est bonum non esse bonum, aut si
animal non animal) eo quod ex contradictione est syllogismus, et subiecti
termini aut iidem sunt, aut hic quidem totum, ille autem pars. Palam autem
quoniam in paralogismis nihil prohibet fieri hypotheseos contradictionem, ut si
est impar non esse impar, nam ex oppositis propositionibus contrarius erit
syllogismus; si ergo sumpserit hoc modo, hypotheseos erit contradictio. Oportet
autem considerare quoniam sic quidem non est contraria concludere ex uno
syllogismo (ut sit conclusio quoniam non est bonum, bonum aut aliud quiddam
tale), nisi statim huiusmodi propositio sumatur, ut omne animal esse album et
non album, hominem autem animal, sed vel assumere oportet contradictionem, ut
quoniam omnis disciplina opinio et non opinio, deinde sumere quoniam medicina
disciplina quidem est., nulla autem opinio, quemadmodum redargutiones fiunt,
vel ex duobus syllogismis. Quare esse quidem contraria secundum veritatem quae
sumpta sunt, non est alio modo quam hoc quemadmodum dictum est prius. In
principio autem petere et accipere est quidem, ut in genere, sumere in eo quod
non est demonstrare propositum. Hoc autem accidit multipliciter, nam et si
omnino non syllogizatur, et si per ignotiora aut similiter ignota, et si per
posteriora quod prius est, demonstratio enim ex prioribus et notioribus est. Horum
ergo nullum est petere quod ex principio est, sed quia haec quidem nata sunt
per se cognosci, illa vero per alia (nam principia quidem per se, quae autem
sub principiis, per alia), quando quod non per se notum est, per se aliquis
conatur ostendere, tunc petit quod ex principio est. Hoc autem est sic
facere quidem ut statim postulet id quod propositum est: contingit autem et
transgredientes et ad alia eorum quae nata sunt per illa ostendi per haec
monstrare quod ex principio est, ut si A ostendatur per B, et B per C, C autem
natum sit ostendi per A, accidit enim idem A per se demonstrare eos qui sic
syllogizant, quod faciunt qui parallelas arbitrantur scribere, latent enim ipsi
seipsos talia sumentes quae non valent demonstrare, cum non sint parallelae. Quare
accidit sic syllogizantibus unumquodque esse dicere si est unumquodque, sic
autem omne erit per se notum, quod est impossibile. Si ergo aliquis dubitat
assumpto dubio quoniam A inest C, similiter et quoniam B, petat autem i inesse
B, nondum manifestum si quod in principio est petat, sed quoniam non
demonstravit manifestum, non enim est principium demonstrationis, quod
similiter est incertum. Si autem B ad C sic se habet ut idem sit, aut
manifestum quod convertuntur, aut inest alterum alteri, quod in principio est
petit, nam et quoniam A inest B, per illa monstrabit si convertantur, nunc
autem hoc prohibet, sed non modus. Si autem hoc faciat, quod dictum est faciet,
et convertet per tria, similiter autem et si B sumat inesse C, quod similiter
incertum sit, ut et si A inest C, nondum quod ex principio petit, sed neque
demonstrat. Si autem idem sit A et B, aut eo quod convertuntur, aut eo quod A
sequitur ei quod est B, quod ex principio est petit propter eamdem causam, nam
ex principio quod valet, prius dictum est A nobis, quoniam per se monstrabitur
quod non est per se manifestum. Si ergo est in principio petere per se
monstrare quod non per se est manifestum, hoc autem est non ostendere quando
similiter dubitantur quod monstratur et per quod monstratur, vel eo quod eadem
eidem, vel eo quod idem eisdem inesse sumitur, in media quidem figura et tertia
utrorumque continget similiter quod est in principio petere, in praedicativo
quidem syllogismo et in tertia figura, et in prima, negative autem quando
eadem ab eodem, et non similiter utraeque propositiones, similiter autem et in
media, eo quod non convertuntur termini secundum negativos syllogismos. Est
autem in principio petere in demonstrationibus quidem quae secundum veritatem
sic se habent, in dialecticis autem, quae secundum opinionem. Non propter hoc
autem accidere falsum (quod saepe in disputationibus solemus dicere) primum
quidem est in iis qui ad impossibile syllogismis, quando ad contradictionem est
huius quod monstratum est ea quae ad impossibile. Nam neque qui non contradicit
dicit non propter hoc, sed quoniam falsum est aliquid positum priorum, neque in
ostensiva, non enim ponit quod contradicit. Amplius autem quando interimitur
aliquid ostensive per A B C, non est dicere quoniam non propter quod positum
est factus est syllogismus, nam non propter hoc fieri tunc dicimus, quando
interempto hoc nihilominus perficitur syllogismus, quod non est in ostensivis,
interempta enim propositione, nec qui ad hanc est erit syllogismus. Manifestum
igitur quoniam in iis qui ad impossibile sunt dicitur non propter hoc, et
quando sic se habet ad impossibile quae ex principio est hypothesis, ut cum
sit, vel cum non sit haec, nihilominus accidit impossibile. Ergo
manifestissimus quidem modus est non propter suppositionem esse falsum, quando
ab hypothesi inconiunctus est A mediis syllogismus ad impossibile, quod dictum
est in Topicis; quod enim non est causa, ut causam ponere hoc est; ut si volens
ostendere quoniam asymeter est diameter, conetur Zenonis ratione quoniam non
est moveri, et ad hoc inducat impossibile, nullo enim modo continuum est falsum
locutioni quae est ex principio. Alius autem modus, si continuum quidem sit
impossibile hypothesi, non tamen propter illam accidat, hoc autem possibile est
fieri, et in hoc quod superius, et in hoc quod inferius sumenti continuum, ut
si A ponatur inesse B, B autem C, C vero D, hoc autem sit falsum B inesse D,
nam (si ablato A, nihilominus B inest C, et C D ) non erit falsum propter eam
quae ex principio est hypothesin. Aut rursum si quis in superiori sumat
continuum, ut si A quidem B, E autem A, F vero E, falsum autem sit F inesse A,
nam et sic nihilominus erit impossibile, interempta quae est ex principio
hypothesi. Sed oportet ad eos qui ex principio terminos copulare impossibile,
sic enim erit propter hypothesin, ut in inferiori quidem sumenti continuum ad
praedicatum terminum; nam si impossibile est A inesse D, interempto A, non
amplius erit falsum. In superiori autem de quo praedicatur; nam si F non
possibile est inesse B, interempto B non amplius erit impossibile; similiter
autem et cum privativi sint syllogismi. Manifestum ergo quoniam cum impossibile
non ad priores terminos, non propter positionem accidit falsum; an nec sic
semper propter hypothes in erit falsum? nam si non ei quod est B, sed ei quod
est k positum est inesse A, k autem C, et hoc D, et sic manet impossibile; similiter
autem et in sursum sumenti terminos, quare (quoniam cum est, et cum non est,
hoc accidit impossibile) non erit propter positionem, aut cum non est hoc,
nihilominus fieri falsum. Nec sic sumendum ut alio posito accidat impossibile,
sed quando ablato hoc idem per reliquas propositiones concluditur impossibile,
eo quod idem falsum accidere per plures hypotheses nihil fortasse inconveniens
est, ut parallelas, contingere, et si maior est qui interius est, eo qui
exterius, et si triangulus habet plures rectos duobus.Falsa autem oratio fit
propter primum falsum; aut enim ex duabus propositionibus aut ex pluribus omnis
est syllogismus; ergo si ex duabus quidem, harum necesse est alteram, aut etiam
utrasque esse falsas, nam ex veris non erat falsus syllogismus; si vero ex
pluribus (ut sic quidem per A B, hoc autem per D F G ), horum erit aliquid
superiorum falsum, et propter hoc oratio, nam A et B per illa concluduntur,
quare propter illorum aliquid, accidit conclusio et falsum. Ut autem non
catasyllogizetur, observandum, quando sine conclusionibus interrogat orationem,
ut non detur bis idem in propositionibus, eo quod scimus quoniam sine medio
syllogismus non fit, medium autem est quod plerumque dicitur. Quomodo autem
oportet ad unamquamque conclusionem observare medium manifestum est, eo quod
scitur quale in unaquaque figura ostenditur, hoc autem nos non latebit, eo quod
videmus quomodo submittimus orationem. Oportet autem quod custodire praecipimus
respondentes, ipsos argumentantes tentare latere, hoc autem erit primum quidem
si conclusiones non prius syllogizent, sed sumptis necessariis non manifestae
sint. Amplius autem si non propinqua interrogant, sed quam maxime longe media,
ut si sit opportunum concludere A D E F, media B E D E, oportet ergo inquirere
si A B, et rursum non si B E, sed si D E, deinde si B C, et sic reliqua, et si
per unum medium sit syllogismus, A medio incipere, maxime enim sic latebit
respondentem. Quoniam ergo habemus quando et quomodo se habentibus terminis fit
syllogismus, manifestum et quando erit, et quando non erit elenchus, nam
omnibus affirmativis, vel permutatim positis responsionibus (ut hac quidem
affirmativa, illa vero negativa), contingit fieri elenchum: erit enim
syllogismus, et sic in illo modo se habentibus terminis; quare si id quod
positum est contrarium sit conclusioni, necesse est fieri elenchum, nam
elenchus syllogismus contradictionis est. Si vero nihil affirmetur, impossibile
est fieri elenchum, non enim erat syllogismus, cum omnes termini erant
privativi, quare nec elenchus: nam si elenchus, necesse est syllogismus esse;
cum autem est syllogismus, non necesse est elenchum esse. (0706A) Similiter
autem si nihil positum sit secundum responsionem universaliter; nam eadem erit
definitio syllogismi et elenchi. Accidit autem quandoque (quemadmodum in
positione terminorum fallebamur) et secundum opinionem fieri fallaciam, ut si
contingat idem pluribus principaliter inesse, et hoc quidem latere aliquem, et
putare nulli inesse, illud autem scire, ut insit A B et C per se, et haec omni
D similiter. Si igitur B quidem pPomba omni A inesse, et hoc D, C autem nulli
A, et hoc omni D, eiusdem secundum idem habebit disciplinam et
ignorantiam. Rursum si quis fallatur circa ea quae sunt ex eadem
coniugatione, ut si A inest B, hoc autem C, et C D, opinetur autem A inesse
omni B, et rursum nulli C. Simul enim sciet, et non opinabitur inesse; ergo
nihil aliud existimat ex iis quam scit, hoc non opinari, scit enim aliquo modo
quoniam A inest C per B, velut in universali hoc quod est particulare; quare
quod aliquo modo scit, hoc omnino existimat non opinari, quod est impossibile. In
eo autem quod prius dictum est, si non ex eadem coniugatione sit medium;
secundum utrumque quidem mediorum ambas propositiones non possibile est
opinari, ut A B quidem omni, C autem nulli, haec autem utraque omni D; accidit
autem aut simpliciter aut in aliquo contrariam sumere primam propositionem. Si
enim cui B inest omni A opinatur inesse, B autem D novit, et quoniam A D novit,
quare si rursum cui C nulli, putat A inesse, cui B alicui inest, huic non putat
A inesse, quod autem omni putat cui B, rursum alicui non putare cui B, aut
simpliciter, aut in aliquo contrarium et; sic ergo non contingit opinari.
Secundum utrumque autem unam, aut secundum alterum utrasque, nihil prohibet A
omni B, et B D, et rursum A nulli C. Nam similis huiusmodi fallacia, veluti
fallimur circa particularia, ut si A omni B inest, B autem omni C, A omni C
inerit; si ergo aliquis novit quoniam A cui B inest omni, novit et quoniam ei
quod est C; sed nihil prohibet ignorare C quoniam est, ut si A quidem duo
recti, in quo autem B triangulus, in quo vero C sensibilis triangulus;
opinabitur enim aliquis non esse C, sciens quoniam omnis triangulus habet duos
rectos: quare simul sciet et ignorabit idem, nam scire omnem triangulum quoniam
duobus rectis, non simplex est, sed hoc quidem universalem habet disciplinam,
illud vero singularem. Sic ergo in universali novit C, quoniam duobus rectis,
in singulari autem non novit, quare non habebit contrarias. Similiter autem est
quae in Menone est oratio, quoniam disciplina est reminiscentia; nunquam enim
accidit praescire quod singulare est, sed simul inductione sumere particularium
disciplinam, velut recognoscentes. Nam quaedam scientes, statim scimus, ut
quoniam duobus rectis, si scimus quoniam triangulus, similiter autem et in
aliis. Ergo universali quidem speculamur particularia, propria autem non
scimus; quare contingit et falli circa ea, verum non contrarie, sed habere
quidem universale, decipi autem particulari. Similiter autem in praedictis, non
enim contraria quae est secundum medium ei quae est secundum syllogismum
disciplinae, nec quae est secundum utrumque mediorum opinatio, nihil enim
prohibet scientem, et quoniam A toti B inest, et rursum hoc toti C, putare non
inesse, ut quoniam omnis mula sterilis, et haec mula, putare hanc habere in
utero; non enim scit quoniam A, C qui non conspicit, quod est secundum
utrumque. Quare manifestum quoniam et si hoc quidem novit, illud vero non
novit, falletur, quod habent universales ad particulares disciplinas; nullum
enim sensibilium cum extra sensum fit scimus, nec si sentientes fuerimus
scimus, nisi ut in universali, et in eo quod habet propriam disciplinam, sed
non in eo quod est in actum. Nam scire tripliciter dicitur, aut ut universali,
aut ut propria, aut ut in actu, quare et decipi totidem modis, nihil ergo
prohibet et scire, et deceptum esse circa idem, verumtamen non contrarie. Quod
accidit et ei qui secundum utramque scit propositionum, et non pertractavit
prius, nam opinans in utero habere mulam, non habet secundum ac um disciplinam,
neque propter opinionem fallaciam contrariam disciplinae, syllogismus enim est
contraria fallacis in universali. Qui autem opinatur quod bonum esse est malum
esse, idem opinabitur bonum esse et malum. Sit enim bonum esse in quo A, malum
autem esse in quo B, rursum bonum esse in quo C; quoniam igitur idem opinatur
et B et C, et esse C B opinabitur, et rursum B esse A similiter, quare et C A,
nam quemadmodum si erat verum de quo C B, et de quo B A, et de quo C A verum
erat, sic et in opinatione. Similiter autem et in eo quod est esse. Nam cum
idem sit C et B, et rursum B et A, C A idem erit, quare et opinatione
similiter; ergo hoc quidem necessarium si quis det primum. Sed fortasse illud
falsum opinari aliquem quod malum esse est bonum esse, nisi secundum accidens;
multipliciter enim possibile est hoc opinari, perspiciendum autem hoc melius. Quando
vero convertuntur extremitates, necesse est et medium converti ad utramque; si
enim A de C per B est, si convertitur et inest cui A omni, C et B A
convertitur, et inest cui A omni, B per medium C, et C B convertitur per medium
A. Et in non esse itidem, ut si B inest C, A vero non inest B, neque A inerit
C. Si ergo B convertatur ad A, et C ad A convertetur: sit enim B nulli A
inexistens, ergo neque C, omni enim C inerat B, et si B convertitur ad C, et A
convertetur ad C; nam de quocunque omnino B, et C. Et si C ad A convertitur, et
B convertetur ad A: cui enim B inest, et C; cui autem C, A non inest; et solum
hoc A conclusione incipit, alia autem non similiter, ut in praedicativo
syllogismo. Rursum si A et B convertuntur, et C et D similiter, omni autem
necesse est A aut C inesse, et B et D sic se habebunt, ut omni alterum insit;
quoniam enim cui A B, E cui C D, omni autem A aut C, et non simul, manifestum
quoniam et B aut D omni, et non simul, ut si ingenitum, incorruptibile, et
incorruptibile ingenitum, necesse est quod factum est corruptibile et
corruptibile factum esse, duo enim syllogismi constituti sunt. Rursum si omni
quidem, A vel B, et C vel D, simul autem non insunt, si convertitur A et C, et
B et D convertetur. Nam si alicui non inest B, cui D, palam quoniam A inest; si
autem A, et C, convertuntur enim; quare simul C et D, hoc autem impossibile.
Quando autem A toti B et C inest, et de nullo alio praedicatur, inest autem et
B omni C, necesse est A et B converti, quoniam enim de solis B C dicitur A,
praedicatur autem B et idem dese et de C, manifestum quoniam de quibus A, et B
dicetur omnibus, verum et de A. Rursum quando A et B, toti C insunt convertitur
autem C B, necesse est A omni B inesse, quoniam enim omni C A, C autem B, eo
quod convertuntur, et A omni B inerit. Quando autem duo fuerint opposita, ut A
magis eligendum sit quam B, cum sint opposita, et D quam C similiter, si magis
eligenda sunt A C quam B D, A magis eligendum quam D. Similiter enim sequendum
A, et fugiendum B, opposita enim, et C ei quod est D, nam et haec opponuntur;
si ergo A ei quod est D similiter eligendum, et B ei quod est C fugiendum,
utrumque enim utrique similiter fugiendum eligendo; quare et haec ambo A C iis
quae sunt B D, quoniam autem magis, non possibile similiter, nam et B D
similiter erunt. Si autem D magis eligendum quam A, et B quam C minus
fugiendum; nam quod minus est minori opponitur; magis autem eligendum est maius
bonum et minus malum quam minus bonum et maius malum. Universum igitur B D
magis eligendum quam A C, nunc autem non est, ergo magis A eligendum quam D, et
C ergo minus fugiendum quam B. Si ergo eligat omnis amans secundum amorem A sic
se habere, ut concedere, et non concedere in quo C, aut concedere in quo D, et
non tale esse ut concedere in quo B, manifestum quoniam A huiusmodi esse, magis
eligendum est quam concedere; ergo diligi quam conventio magis eligendum secundum
amorem; magis ergo amor est in amicitia quam convenire. Si autem maxime huius,
et finis haec, ergo convenire aut non est omnino, aut diligendi gratia, nam et
aliae concupiscentiae et artes sic fiunt. Quomodo ergo se habent termini
secundum conversiones, et in eo quod magis fugiendum vel magis eligendum sit,
manifestum est. Quoniam autem non solum dialectici et demonstrativi syllogismi
per praedictas fiunt figuras, sed et rhetorici, sed et simpliciter quaecunque
fides est, et secundum unamquamque artem, nunc erit dicendum. Omnia enim
credimus per syllogismum aut ex inductione; ergo si inductio quidem est,
et ex inductione syllogismus per alteram extremitatem medio syllogizare. Ut si
eorum quae sunt A C medium sit B, per C ostendere A inesse B, sic enim facimus
inductiones. Ut sit A longaevum, in quo autem B choleram non habere, in quo
vero C singulare longaevum, ut homo, equus, et mulus. Ergo toti B inest A, omne
enim quod sibi cholera est, longaevum, sed et B non habere choleram, omni inest
C; si ergo convertatur C ei quod est B, et non transcendat medium, necesse est
C inesse B. Ostensum enim est prius quoniam, si duo aliqua eidem insunt, et ad
alteram eorum convertatur extremum, converso et alterum inerit praedicatorum.
Oportet autem intelligere C ex singularibus omnibus compositum, nam inductio
per omnia. Syllogismus autem huiusmodi est primae et immediatae propositionis:
quarum enim est medium, per medium est syllogismus; quorum vero non est, per
inductionem. Et quodam modo opponitur inductio syllogismo, nam hic quidem per
medium extremum de tertio ostendit, illa autem per tertium extremum de medio.
Ergo natura quidem prior et notior per medium syllogismus, nobis autem
manifestior qui est per inductionem. Exemplum autem est, quando medio extremum
inesse ostenditur per id quod est simile tertio. Oportet autem et medium
tertio, et primum simili notius esse, inesse. Ut sit A malum, B autem contra
confines inferre bellum, in quo autem C Athenienses contra Thebanos, in quo
autem D Thebanos contra Phocenses. Si ergo volumus ostendere quoniam Thebanis
pugnare malum est, sumendum quoniam contra confines pugnare est malum, huius
autem fides ex similibus, ut quoniam Thebanis contra Phocenses. Quoniam ergo
contra confines malum, contra Thebanos autem contra confines est, manifestum
quoniam contra Thebanos pugnare malum. Quoniam ergo B C et D inest, manifestum,
utrumque enim est contra confines inferre bellum, et quoniam A D, Thebanis enim
non fuit utile contra Phocenses bellum. Quoniam autem A inest B, per D
ostendetur, eodem autem modo et si per plura similia fides fiat medii ad
extremum. Manifestum ergo quoniam exemplum est neque ut totum ad partem, neque
ut pars ad totum, sed ut pars ad partem, quando ambo quidem insunt sub eodem,
notum autem alterum. Et differt ab inductione, quoniam haec quidem ex omnibus
individuis ostendebat inesse extremum medio, et ad extremum non copulabat
syllogismum, hoc autem et copulat, et non ex omnibus ostendit. Deductio
autem quando medio quidem primum palam est inesse, postremo autem medium dubium
quidem, similiter autem credibile aut magis conclusione. Amplius, si pauciora
sunt media postremo et medio, omnino enim propinquius esse accidit scientiae.
Ut sit A docibile, in quo B disciplina, C iustitia, ergo disciplina quoniam docibilis,
manifestum; iustitia autem si disciplina, dubium. Si igitur similiter aut magis
credibile sit B C quam A C, deductio est, propinquius enim scientiae, per quod
assumpserint A C, disciplinam prius non habentes. Aut rursum si pauciora media
sint B C, nam et sic propinquius est scientiae. Ut si D sit quadrangulare, in
quo autem E rectilineum, in quo F circulus, si ergo eius quod est E F unum
solum sit medium, per lunares figuras aequalem fieri rectilineo circulum
propinquius erit scientiae. Quando autem neque credibilius est B C quam A C,
neque pauca media, non dico deductionem, neque quando immediata est B C,
disciplina enim quod eiusmodi est. Instantia autem est propositio
propositioni contraria. Differt autem A propositione, quoniam contingit quidem
instantiam esse in parte, propositionem vero aut omnino non contingit, aut non
in universalibus syllogismus. Fertur autem instantia duobus modis et per duas
figuras: duobus modis quidem, quoniam aut universalis aut particularis omnis
instantia; per duas autem figuras, quoniam oppositae feruntur propositioni,
opposita autem in prima et tertia figura perficiuntur solis. Nam quando
postulatur omni inesse, instamus quoniam nulli, aut quoniam alicui non inest.
Horum autem nulli quidem ex prima figura, alicui autem non ex postrema. Ut sit
A unam esse disciplinam, in quo B contraria; proponit ergo unam esse
contrariorum disciplinam, aut quoniam omnino non est eadem oppositorum instant.
Contraria autem opposita, quare fit prima figura; aut quoniam noti et ignoti
non una, haec autem tertia. Nam secundum tertiam notum et ignotum contraria
quidem esse verum, unam autem esse eorum disciplinam, falsum. Rursum in
privativa propositione similiter: cum postulat enim non esse contrariorum unam
disciplinam, aut quoniam omnium oppositorum, aut quoniam contrariorum aliquorum
est eadem disciplina, dicimus, ut sani et aegri, ergo omnium quidem ex prima,
aliquorum vero ex tertia figura. Simpliciter autem in omnibus universaliter
quidem instantibus, necesse est ad id quod universale est proposito
contradictionem dicere (ut si non unam existimet contrariorum omnium, dicere
oppositorum unam; sic autem necesse est primam esse figuram, medium enim fit
universale ad hoc quod ex principio); quod autem ad hoc in parte est
universale, dicitur propositio, ut noti et ignoti non eamdem, nam contraria
universale ad haec, et fit tertia figura, medium enim in parte sumptum, ut
notum et ignotum. Nam ex quibus est syllogizare contrarium, ex iis et
instantias conamur dicere, quare et ex his solis figuris ferimus, nam in his
solis oppositi syllogismi, per mediam enim figuram non fuit affirmare. Amplius
autem et si sit, oratione indiget plurima, quae est per mediam figuram, ut si
non concedant A inesse B, eo quod non sequitur hoc C, hoc enim per alias
propositiones manifestum; non oportet autem instantiam converti ad alia, sed
statim manifestam habere alteram propositionem. Quapropter et signum ex sola
hac figura non est. Perspiciendum autem et de aliis instantiis, ut de iis quae
sunt ex contrario, et simili, et secundum opinionem, et si particularem ex
prima, vel privativam ex media possibile est sumere. Eicos autem et signum non
idem est, sed eicos quidem est propositio probabilis. Quod enim ut in pluribus
sciunt sic factum; vel non factum, aut esse vel non esse, hoc est eicos, ut
odire invidentes, vel diligere amantes. Signum autem vult esse propositio
demonstrativa, vel necessaria, vel probabilis; nam quo existente est, vel quo
facto prius vel posterius res, signum est vel fuisse vel esse. Enthymema ergo
est syllogismus imperfectus ex eicotibus et signis. Accipitur autem signum
tripliciter, quoties et medium in figuris, aut enim ut in prima, aut ut in
media, aut ut in tertia: ut ostendere quidem parientem esse, eo quod lac
habeat, ex prima figura, medium enim lac habere, in quo A parere B, lac habere
mulier in quo C. Quoniam autem sapientes, studiosi, nam Pittacus est studiosus,
per postremam, in quo A studiosum, in quo B sapientes, in quo C Pittacus. Verum
igitur A et B de C praedicari; sed hoc quidem non dicunt quia notum sit, illud
vero sumunt. Peperisse autem quoniam pallida, per mediam figuram vult esse;
quoniam enim sequitur parientes pallor, sequitur autem et hanc, ostensum esse
arbitrantur quoniam peperit. Pallor in quo A, parere in quo B, mulier in quo C.
Ergo si una quidem dicatur propositio, signum fit solum, si autem et altera
sumitur, syllogismus. Ut Pittacus liberalis, nam ambitiosi liberales, Pittacus
autem ambitiosus. Aut rursus, quoniam sapientes boni, Pittacus autem bonus, sed
et sapiens, sic ergo fiunt syllogismi. Verum quidem per primam figuram
insolubilis, si verus sit, universalis enim est. Qui autem per postremam, est
solubilis, et si vera sit conclusio, eo quod non universalis, est in tertia,
nec ad rem syllogismus, non enim si Pittacus est studiosus, propter hoc et
alios necesse est esse sapientes. Qui vero per mediam figuram est, semper et
omnino solubilis, nunquam enim syllogismus fit, sic se habentibus terminis. Non
enim si quae peperit pallida, pallida autem et haec, necesse est parere hanc;
ergo verum est quidem in omnibus figuris, differentias autem habent iam dictas.
An igitur sic dividendum signum? horum autem medium indicium sumendum, nam
indicium dicunt esse quod scire facit, tale autem maxime medium, an vero quae
quidem ab extremitatibus signa dicenda, quae autem ex medio indicium?
probabilissimum enim et maxime veram est quod est per primam figuram. Naturas
autem cognoscere possibile est, si quis concedat simul transmutare corpus et
animam, quaecunque sunt naturales passiones; discens enim aliquis fortasse
musicam, transmutavit secundum quid animam, sed non earum quae natura nobis
insunt, haec est passio, sed ut irae et concupiscentiae, et naturalium
motionum. Si igitur et hoc det, et unum unius signum esse, et possumus sumere
proprium uniuscuiusque generis passionem et signum, poterimus naturas
cognoscere. Si enim est proprie alicui generi individuo existens passio, ut si
leonibus fortitudo, necesse est et signum esse aliquod, compati enim sibi
invicem positum est, et sit hoc magnas summitates habere, quod et aliis
generibus, non totis contingit. Nam signum sic proprium est, quoniam totius
generis propria passio est, et non solius proprium, sicut solemus dicere. Erit
ergo et in alio genere hoc, et erit fortis homo, et aliquod aliud animal;
habebit ergo signum, unum enim unius erat. Si ergo haec sunt, poterimus talia
signa colligere in iis animalibus quae solum unam passionem habent aliquam
propriam, unaquaeque autem habet signum, et quoniam unum habere necesse est,
poterimus naturas cognoscere.Si vero duo habet propria totum genus, ut leo,
forte et communicativum, quomodo cognoscemus utrum utrius sit signum, eorum
signorum quae proprie sequuntur? An si et alii alicui non toti ambo, et in
quibus non totis utrumque, quando hoc quidem habet, illud autem non? nam si
fortis quidem, liberalis autem non, habet autem duorum hoc, palam quoniam et in
leone hoc signum fortitudinis. Est vero naturas cognoscere in prima quidem
figura, eo quod medium priori extremitati convertitur, tertiam autem
transcendit, et non convertitur, ut sit fortitudo A, summitates magnas habere
in quo B, C autem leo; ergo cui C, B omni, sed et aliis, cui autem B, A omni,
et non pluribus, sed; convertitur si autem non, non erit unum unius signum.
Boethius. Boezio.
Keywords “Boethian International Society”, Boethianism. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Boezio” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Bolano – colloquenza romana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo italiano. Grice: “I was born at
Harborne, but there’s no volcano there- Bolano was born in Catania, and he is
especially revered THERE, rather than at Oxford, because he was able to see
some monuments – notably the Naumachia and the Hippodrome – before it was
covered by ‘lava’ –“ –“Oddly, when he philosophised on rhetoric – he used that
as a blurb – many philosophers traveled to Catania to be tutored by him – vide
Salonia --. So he used the blurb of his expertise on Catania to promote -- or rather his editor did, since
he is a gentleman, and a gentleman does not promote – his work on rhetoric --.”
“There are very few copies of this!” – “And Evola tired in vain – ‘in vano’ –
to find one!” Assai scarse sono le notizie sulla sua vita. Quel poco che
sappiamo viene riassunto nell'opera del Mongitore. Insegna filosofia a Catania.
Uno dei più eminenti esponenti dell'ateneo catanese: chiamato “philosophiae
peritissimus”, acquisce grande fama. Insegna a Palermo come lettore con il
"favoloso stipendio di ottocento onze annue"; Seguace della tradizione
aristotelica. Tipico esempio dell’umanista, unendo l'interessi per la natura e
la filosofia romana antica. Stampa a
Messina un “Opus logicum”, compendio di filosofia aristotelica e frutto del suo
insegnamento logico. Stampa anche di retorica e fisica ed abbiamo notizie di un
saggio naturalistica sull'Etna, il Discorso di Mongibello. Ma l'opera cui
maggiormente è legato è un “Chronicon urbis Catinae”, in cui ci lascia preziose
notizie e descrizioni su Catania e le sue vestigia storiche prima di una
catastrofica eruzione dell'Etna che profondamente ne cambiò paesaggio,
fisionomia ed urbanistica. Il Chronicon
rappresenta un raro esempio di indagine archeologica diretta su Catania e
rimase uno dei pochi lavori utili e seri sulle antichità della città etnea.
Riguarda, tra l'altro, la fondazione di Catania, l'anfi-teatro romano,
l'acquedotto romano, gli archi, il tempio di Cerere, la naumachia, l'ippodromo.
Per questi ultimi due edifici è la prima ed unica fonte a noi rimasta. Carrera
e Grossi attinsero direttamente dal manoscritto, traendone spunto per le loro
opere e pubblicando i pochi frammenti a noi rimasti. Eppure Bolano sube una grave umiliazione. Nell'anno
in cui si perdono le sue tracce, presentatosi a chiedere l'incarico di
filosofia nell'Università dove con onore insegnava da oltre quattri decenni, i
filosofi ecclesiastici lo contrastarono preferendo Riccioli. Il venerando
filosofo riottenne l'insegnamento solo per grazia del viceré Pietro Giron de
Osuna, una nomina, sottolinea Matteo Gaudioso, peggiore di una sconfitta, forse
la prima e ultima umiliazione del Bolano, scomparso successivamente dalla
scena. Fu il suo ultimo anno di insegnamento e forse di vita. Antonino Mongitore, Bibliotheca sicula, sive
de scriptoribus siculis, qui tum vetera, tum recentiora saecula illustrarunt. Storia
della filosofia in Sicilia da'tempi antichi al sec. XIX, libri quattro. Archivio
storico per la Sicilia. Catanense Decachordon..., Catanae. La Sicilia del
Cinquecento: il nazionalismo isolano, Roma, Mursia, Storia della filosofia in
Sicilia da' tempi antichi al sec. XIX, libri quattro. Rivista internazionale di
filosofia del diritto, Giorgio Del Vecchio, Società anonima poligrafica
italiana, Bibliotheca sicula, sive de scriptoribus siculis, qui tum vetera, tum
recentiora saecula illustrarunt
Osservazioni sopra la storia di Catania cavate dalla storia generale di
Sicilia,Vincenzo Cordaro Clarenza Riggio, Sopra uno rudere scoperto in Catania
cenni critici dell'arch. Mario Musumeci, pag. XXX, Mario Musumeci, dalla
tipografia della regia Università, L’indagine archeologica a Catania nel secolo
XVI e lBolano, in Archivio Storico per la Sicilia. Edilizia pubblica e privata
nelle città romane, Lorenzo Quilici, Stefania Quilici Gigli, L'ERMA di BRETSCHNEIDER,
Carrera, Delle Memorie historiche della città di Catania, I, Catania, Catanense
Decachordon, Archivio di Stato di Palermo, Tribunale del R. Patrimonio,
Memoriali. Modelli scientifici e filosofici nella Sicilia. Napoli, Guida. L'Catania
nel secolo XVII, in Storia della Catania
dalle origini ai nostri giorni, Catania, Zuccarello e Izzi. Delle Memorie
historiche della città di Catania, I, Catania. Catanense Decachordon...,
Catinae, Antonino Mongitore, Bibliotheca sicula, sive de scriptoribus siculis,
qui tum vetera, tum recentiora saecula illustrarunt, D. Bua, Sopra uno rudere
scoperto in Catania cenni critici dell'arch. Mario Musumeci, dalla tipografia
della regia Università. Storia della filosofia in Sicilia da'tempi antichi al
sec. XIX, libri quattro, Lauriel, Guido Libertini, L'indagine archeologica a
Catania nel secolo XVI e Bolano in Archivio Storico per la Sicilia Orientale. Dizionario
biografico degli italiani. 0 habmio L'imperatore Carlo V abdicando
iltrono (a) lasciava nel re Filippo II suo figlio un principe intento ad
ingrandireil suo impero ed estendere isuoi domini:I vicerèdisseminati La mente
del vescovo Nicolò Caracciolo era rivolta a liberare la cattedrale di Catania
non ASTE Dorp (a) Vel 1556. per BIOGRAFIA SICILIANA Catania N.5-
LORENZO Bolano. Je secolo xvi scorreva per Catania,, e forse per 1 Europa tutta,
se la Sicilia di coltura, non in iscevro di lustro o mancante tieramente
purgatoperò ancora da'tristieffetti del vandalica e della gotica barbarie, ed
la ignoranza discipline mostravansi a dito. icultoridelle buone le provin cie,
e per mezzo de' quali lostato de'sudditi pre come per 2 ' do stabile o sicuro
di quanto operavasi da loro gli animi di tutti erano irresoluți ed incerti, e
Catania,vedevain alloraisuoi cittadinioccupati soltanto del
presente,interessarsi piùdicontese ed intestíni partiti, che delle scienze e
delle lettere. dalla diversi negli umori e nelle in clinazioni, dgiotvernavanoipopoli
con principi se non senza de'Cassinesi, ed a riporvi in vece i canonici
secolari. Il vicerè Lacerda fa diroccare la casa del la Università degli
studi'ed altre abitazioni per in grandirelapiazzadelduomo.Marcantonio Colon na,
successor suo, interpone la sua autorità a con 20 pre ciliare le
dispute del vescovo Vincenzo Coltello colsenato(a).La cortediRomaè costrettaa
chiamare ad ubbidienza il vescovo che acremente contrastava col vicario
apostolico Matteo Samiati (b).Controversielunghe ed ostinaleinsorgono fra'i
Catanesi e i Palermitani ecclesiastici Se in tale condizione ditempi
l'Università di Catania fioriva,ciò debbesi alla sovrana protezione, che
riguardar vuolsi per le lettere come il raggio del sole che vivifica gli esseri
e dà movimenti o p portuni al loro sviluppo. Dietro le favorevoli rap
presentanze di Marcantonio Colonna, il re Filippo volge benigno lo sguardo al
liceo catanese,ed il vicerèinterpetre della sovrana volontà,in com penso del devastamento
ordinatodalsuo predeces sore Lacerda da lui sì discorde, fa costruire un nobile
edifizio per la Università, corrispodente al la magnificenza di Catania (d),e
forma i regola menti per gli studi (e). Filippo provvede di più, per mezzo del
vicerè conte di Alba (f ), che i soli laureati in Catania aspirar potessero
alle magistra (a) Ut perpetua jurgiorum semina inter episcopum patresque
conscripti collerentur.Amico, Cat.illustr.,lib. VIII, c. 2. (Detti
Constitutiones Marci Antonii Columnde, 1576. per patria di s.Agata. I
nostri magnati erano tutti intesi a stabilire la loro sacra congregazione dei
Bianchi, a loro esempio (c) gli altri ceti aumen tano le rispettive
confraternite. (b)Denuo Romam ille interpellator eorumquaeges serat rationem
redditurus. Amico, loc. cit. $ la 42 (c) Nel 1570. (a)Ul
urbismajestatiresponderet.Amico,loc.cit. (f,Nel1591. ture:
autorizza le ingenti speseche ilvescovo Pro spero Reibiba, non lascindo sfuggire
le favorevoli disposizioni del governo, impiegava nel portare a compimento
l'edifizio, e non permette che alzasse Messina un'altra Università (a).
Accrescevasi in tal modo il numero dei discenti in Catania; e l ' o nore di
ammaestrare nella sola Università del re gno,ed isignificanti
stipendidallasovranamuni ficenza aumentati, incoraggiavano i dotti a lasciar le
brighe volgari, a rivolgersi alla coltura delle lettere,edasegnalarsi nel
pubblico insegnamento. (f Dopo averdettato questo articolo ho saputo che
nellabiblioteca de'PP.Benedettinidi questa città avvi un esemplare dell'Opus
logicum, Messanae 1597. 43 (b) Mongitore, Bibl, sic. c) Grossis, Dec. ix,
151. Fra gli uomini scienziati che onoravano illi ceo catanese nel finedel xvi
secolo distinguevasi Lorenzo Bolano nato in Catania circa l'anno 1550. Per più
di anni 20 vi fu professore di medicina (b ), di cui avea dato lezioni anche
presso l'estero (c ), ere soave acelebreilsuonomeperlesuecono scenze
matematiche ed anatomiche, e pel gusto nella latina poesia (d ). Seguendo le
aristoteliche dottrine, volle pnbblicare per le stampe di Brea in Messina un
libro di istituzioni filosofiche sotto il titolo di Opus logicum, ed un altro
di rettorica (e) libri divenuti oramai così rari da non petersi
trovarechineavessenotizie(f).Ma ciavanzanope rò i frammenti di opere più solide
che tanto ap prezzar seppe l'accurato Carrera. (a) Nel settembre del 1595.
Amico, P Amico,Cat.il.,lib.xu,c.v. e
)Mongitore,Bibl.sic. Un Discorso sopraMongibello conteneva la
descrizione fisica di questo vulcano, e la storia di molte sue eruzioni.
Carrera fa rilevare nel capi tolo della sua opera (a)in cui tratta del mont Et
na, aver ricavato da quel discorso quanto riguarda la misura dell'altezza del
vulcano,le sue regioni, la fertilità del suolo, la storia delle sue eruzioni; e
queste doveano dal Balano rapportarsi con som m a esattezza, imperciocchèegli
giungeva a notare anche il tempo in cui l'Etna non eruttava,co me avvenne per
anni trenta dopo la grande eru zione del 1536, durante la quale, come dice lo
stesso Bolano, formossi quel cratere oggi detto Monte negro. Selesueideecircala
origine degli incendî vulcanici non sono da riferirsi,è colpadei tempi, in cui
limitatissime erano le conoscenze de'feno meni naturali, e basta il dire chei
scriveva nel 1588. Ma l' Quel pregevole manoscritto conservavasi sino al1637 in
mani del di lui figliuolo Girolamo Bo Carrera, Notizie istor.'di
Catan.,lib.'11, c. 2. (b) Così dice il Grossis, ilMongitore eco.,ma l'ab. Amico
chiama quelmanoscritto Opusculum de rebus Catanae.Tom.3,lib.14,42. 44 1
opera che principalmente gli fa meri tare il rispetto e la riconoscenza
de'suoiconcittadini fu quellascritta in latino nel 1592 per illustrare la
storia di Catania, e che portava il titolo di Chronicon urbis Catanae (b); ed
abbenchè non fosse stata mai pubblicata per intero,fu quella però da cui tanto
giovaron si l'Arcangelo, il Carrera, il Grossis e molti altri che delle notịzie
sto riché di Cataniasi sono occupati. Vetusta Catanae monumenta e
lenebris eruens primus vulgavit. Amico. mare il piano del duomo(d),edaltempiodi
Castore e Polluce quelli presso il nuovo vico, die tro,ilForo lunare.Stimava
essere statodiMar cello un busto marmoreo di squisito lavoro,che conservossi
per lunga serie di anni nella chie as di s. Agata, finchè Ferdinando de Vega
non lo regalasseal chitaristaPietro Murabito da Mes sina (e). La sua
descrizione poi dell'anfiteatro èdistintaed eloqnente,(f)efa conoscere che il
luogo ove erasi fabbricato appellavasi Cam po stesicoreo Restavano sino ai suoi
tempi tali avanzi de'corridori e delle mura circolari, quanto potè misurarsi
più dicento piedi: calcolò cheil diametro dell'arena ascendeva a 290 piedi, ma
colle fabbrichede'corridoja490,coni470piedi di 45 for lano, da cui
l'ebbeprestato il Carrera,come egli stesso confessa (a): e quali cognizioni ne
ab bia ricavato questo storicolaborioso,può ben ve dersi in tutto il corso
della sua opera, e princi palmente ove trattasidegli antichi monumenti. Il
Bolano che fu il primo (b ) a descrivere le antichità catanesi, riconobbe
ivestigi del tem piodi Cerere,fuoril'antica Porta reale pressole müra della
città,sulla collinetta appellataTorre del vescovo,oggi covertadal Bastione
deglinfetti (c). Credè doversi riferire al tempio diBacco li ruderi a fianchi
delle terme,oggi demoliti per (a) Carrera. Bolano presso Carrera circonferenza.
Le porte della esterna facciata era no larghe 18 piedi,e doveano essere60 in nu
mero,a 7 piedi distanti una dall'altra. Con eguale esattezza rapporta le misure
del l'odeo, detto da lui piccolo teatro, ed el gran teatro (a),da cui furono
svelte molte colonne di marmo, oltre ai materiali tolti per le fabbriche
moderne. Situa la naumachia presso l'antica por ta della decima, e descrive non
solole mura ed i ruderi che esistevano allora,ma dell'uso della naumachia da
archelogo ragiona(b),come fa per ilcontiguo ippodromo (c). Tutti descrive i
resti delle terme che scopri vansi a'suoi tempi in Catania (d),riforisce lemi
sure della fabbrica dell'arco diMarcello,ed ammi ra la solidità del cemento(e)
e l'architettura. Ma sopratutto elegantissima è la descrizione degli acquedotti
che portando le acque soprala collina oveoggièilquartieredelCorso,le
distribuiva no perlacittà; e dal Corso delle acque quell sito trasse il nonne
che fin oggi conserva. Zelantissimo il Bolano del vero decoro della sua patria
mal soffiriva il poco conto in che tene vansi que resti del di lei antico
splendore. I cit tadini catanesi, pochissimi eccettuati, in quel t e m po, come
abbiamo osservato, poco o nulla calco (e) Moles sane calcis ubertate et
aelneorum lapidum concinnitate tamcelebris,utmiraripotiusquam obser vare
debeamus. Quingentoscirciterannosab Ansgerioepisco po catanensi dirutum est, ut
divae Agathae, comitis Rogerii sumptibus,struerentur aedes:cujus et gratia theatra
ruinam experta sunt. Loc. cit. (e) Columnarum plurimae et concinnati lapides ab
Ansgerio translati sunt omnes,ut decorticatum jure pos sit appellari theatrum
istud. Loc. cit. 47 lar potevanoil valore di sì veneranda antichità: e
l'arco di Marcello dopo il tremuoto soffriva la ultima sua rovina per la
fabbrica della chiesa di s. Caterina, poi confraternita de' Bian chi.Le pietre intagliatedell'anfiteatroedelteatro
servirono al vescovo Angerio per la costruzione del duomo (a), ed il resto
impiegossi in appres so alla fabbrica delle cortine delle muraglie (b).Il duomo
stesso alzavasiin gran parte sopra antiche terme: sull'anfiteatro ergeansi
chiese ed abitazioni di privati, come ugualmente sopra la scena ed i corridori
del teatro. I Assisoeglisu'ruderidiqueigloriosimonu menti, simileal franco
viaggiatorea vistadelle rovine di Palmira, meditava a quale insultante di
menticanza condannavali il tempo, (c), come egli contentasididire,pernon
urtardifronte,iocre do, la ignoranza e la barbarie: e da pertutto nel
lasuaopera, fatralucere ilsuorammarico,quan do parladelteatro(d)e
dell'anfiteatro(e). (a)Nel 1094 (b) Nel 1553. Scorgesi nel dilui manoscritto la
grande ac curatezzache egliusava nelleosservazioni,ela diligenza nelle misure.
Animirando la maestà di quegli avanzi scriveva quasi entusiastato, par che (c)
Quae sola temporis diuturnitate sunt perpeluae oblivioni tradita. la lingua
prestavasi allora, al suo genio, e lo stile del suo Chronico fa in certo modo ammirarsi (a). LIR. Nè ilsuo
zelo per la patria limitato erasól tanto a mettere in luce ladi
leianticagloria; Bolano lo estendeva a tutta possa alla di lei effet tiva
prosperità nell'. vistadeipositivi dannicherecavanoallasalutepub blica le acque
dell'Amenano, raccoltenell'antica Piazza dell'erbe,perusodialcunimuliniiyisesi
stenti,caldeistanzeavanzòalsenato onde:toglie re quel fomite d'infette
esalazioni, e seppe tanto insistere colla sua medica autorità,cheriuscita
diroccareimuliniedar,liberocorso alleacqueper appositi canali sino al mare (b ).
Charts ! Tutto misein opera in fineonde ricostruisse Catania il suo molo. U n
ragionato discorso scris sealsenato,incuifeconoscerecomeperlamu mficenza del re
Alfonso il magnanimo la fabbrica del molo erasi cominciata ip.Catanianel, che
si era dell'opera desistito alla morte di quel 48 i fundiores ductus
concinnatis lapidibus confectosaqua maredelata,atqueomniperniciosa
humiditatesublata. intero (a) Non sarà fuor diluogo ilrapportare'per quel passo
ove il Bolano parla della magnificenza di Gatan j a 'nell'aver trasportato da
Licodia le acque in città: <e.Hinc mirari non desino priscam illam urbis
rosirae majestatem pene incredibilem, quae tot pariter quot h o die insignita
fontibus ac putealibus aquis BE op A,refertissima, effatudignissimissumptibus
aquamhanc eLicodia, milliaribus sexdecim distantem, qua Naumachiąm et
Thermescompleret,domos pariteretdetergeretet or, naret est emerita, ut qui et
situ ei climale pro studiorum domicilio purissimusaer est defecatus,insuper in
cię vium columitatem vel arte eficeretur: cit. ad Se la memoria
degl'illustritrapassati servir debbedi modello alla condotta de'viventi,Loren
zo Bolanoèuno diqueipochi alcertocheimitar dovrebbonsi da'veri
cittadini:imperciocchè einon giovossi delle scienze per sola coliura del súd
spi rito, ma curò dirivolgerle ad utilepubblico,e efece onore alla
patriamettendo in luce imonu menti del di lei antico splendore: diè opera onde
cessassero i fomiti che il puro aere ne infettavano, e procurò, per quanto
valevano le sue forze, che ampie ricchezze ritraese Cataniadalcommerciom a
GEMMELLARO. b) 41, at titis (a) Quippequipro statuendamolenihil'non'ani
madvertit utile et commodum publicis civitatum et'op pidorum adjacentium
sumptibus pro publiciaeris copia
struendumregiapotestatepraecepit.Mortepraeventus suo tempore exorsus non
perfecie.Posteri vero pelfucata negotiidificultateperterriti, velreimomentum"tam
ada mirabilenon agnoscentesaversiprimordiorumruinam
nonrepararunt.Op.cit.lib.1.c.38.!.:!! > ípoinel16obecc.)!. Opus logicum Laurentii Bolani Siculi Catanensis philosophiae, ac
medicinae professoris candidissimi, nec non in almo studio vrbis Catinæ
lectoris celeberrimi. In quo scientias cum callentibus, tum adepturis
necessaria duntaxat, ex Aristotelis vberrimo fonte recepta breuiter, ac
peripatetice traduntur OPVS LOGICVM LAVRENTII BOLANI SICVLI CATANENSIS PHILOSOPHII
CANDIDISSIMI NEC NON IN ALMO STVDIO
VRBIS CATINÆ CELEBERRIMI IN QVO SCIENTIAS CVM CALLENTIBVS TVM ADEPTVRIS NECESSARIA
DVNTAXAT EX ARISTOTELIS VBERRIMO FONTE
RECEPTA PERIPATETICE TRADVNTVR OPVS LOGICVM LAVRENTII
BOLANI SICVLI CATANENSIS PHILOSOPHII CANDIDISSIMI NEC NON IN ALMO
STVDIO VRBIS CATINÆ CELEBERRIMI IN QVO SCIENTIAS CVM CALLENTIBVS TVM
ADEPTVRIS NECESSARIA DVNTAXAT EX ARISTOTELIS VBERRIMO FONTE
RECEPTA PERIPATETICE TRADVNTVR Bolani Laur., cat. Opus logicum. Mess. Metaphysica, Naluralis
Philosophia, Praedicamenta, nec non Theologia Naturalis.Ven.in fol. OPVS
LOGICVM LAVRENTII BOLANI SICVLI CATANENSIS PHILOSOPHII CANDIDISSIMI NEC NON IN
ALMO STVDIO VRBIS CATINÆ CELEBERRIMI IN QVO SCIENTIAS CVM CALLENTIBVS TVM ADEPTVRIS
NECESSARIA DVNTAXAT EX ARISTOTELIS VBERRIMO FONTE RECEPTA PERIPATETICE TRADVNTVROpus
logicum Laurentii Bolani Siculi Catanensis philosophiae, ac medicinae
professoris candidissimi, nec non in almo studio vrbis Catinæ lectoris
celeberrimi. In quo scientias cum callentibus, tum adepturis necessaria
duntaxat, ex Aristotelis vberrimo fonte recepta breuiter, ac peripatetice
traduntur
Lorenzo Bolano. Keywords: dialettica,
colloquenza romana, i romani a Sicilia – sicilia regione dell’impero romano,
filosofia romana antica – filosofia romana nella monarchia; filosofia romana
nella repubblica, filosofia romana nell’impero. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Bolano” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Bonatelli – la patognomia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Iseo).
Filosofo italiano. Grice: “Bonatelli is undoubtedly a Griceian – like me, he
merges psychologia – ‘psychologia rationalis or metaphysica’ as he puts it –
with logic -. He makes fun of ‘inglese,’ which by lacking inflections,
disallows complex thought – He distinguishes, in ways the Oxonian really cannot
– unless he is into ‘Italian studies’! – between ‘linguaggio,’ and THEN
‘’lingua.’” Grice: “Within the lingua he distinguishes a primary stage which he
genially calls ‘patognomico,’ or pathognomic, as Strawson would prefer, i. e.
to ‘know the emotion’ of your co-conversationalist – Italians never take
‘conoscere’ as sacred as we at Oxford take ‘know’ – He considers the copula in
something like “Fido is shaggy,” there is the ‘nome’ – and within it the ‘nome
aggetivo’ – this he says, and rightly so, is the stuff of ‘il filosofo delle
lingue’ – and the copola which is the ‘is.’ He grants that he’ll only be
concerned with lingua of ‘cepo indeuropeo,’ literally ‘indo-germanic vintage’!”
– Grice: “Bonatelli is a Griceian because he is into ‘significato’ – how an
utterance becomes a vehicle by which an utterer can SIGNIFY – il segno
patognomico, as it were --.” Grice: “Like me, he allows for ‘utter’ to be used
broadly – ‘sordomuti’ have a ‘linguaggio di gesti e moti’ as ‘signo
patognomico.’” Figlio di Filippo (n. 1789m. 1844), -- un commissario
distrettuale al servizio del governo austriaco -- e da Elisabetta Bocchi.
Si trasferì a Chiari per compiere gli studi ginnasiali presso uno zio materno:
il canonico Annibale Bocchi. In questo periodo studiò con Carlo Varisco,
che, in seguito, diverrà suo cognato. Il Varisco, infatti, sposò Giulia,
sorella del Bobatelli e, dopo la morte di questa, convolò a seconde nozze con
un'altra sorella del Bonatelli: Laura. Dall'unione fra Carlo e Giulia
nacque Bernardino Varisco, insigne filosofo anch'egli, e senatore del Regno
d'Italia. Terminato il ginnasio, proseguì gli studi a Brescia,
frequentando il locale liceo, ed iniziando precocemente l'attività didattica
presso il Liceo Classico Arnaldo. Nel frattempo si rese protagonista del
grande fermento politico della sua epoca. Troviamo conferma del suo
fervente patriottismo in ciò che ne scrisse Michele Rosi nel “Dizionario del
Risorgimento nazionale” del 1937: «Venuti i tempi nuovi, ebbe incarico di
istruire gli ufficiali della guardia nazionale; continuando nello stesso tempo
nel proprio insegnamento, cercò di suscitare nell'animo dei giovani i più fervidi
sentimenti patriottici. Per questo cadde in sospetto della polizia austriaca,
alla quale sfuggì (…) in Svizzera». Rientrato in patria, nel 1849,
ottenne l'abilitazione all'insegnamento della filosofia, della matematica e
della fisica, che alternò tra Milano, presso l'istituto ginnasiale “Sorre”, e
Chiari. La sua prima pubblicazione, di interesse psicologico, risale al
1852, ed ha titolo “Sulla sensazione”. Nel 1853 si unì in matrimonio con
Laura Formenti. Nel medesimo anno, venne privato del posto di lavoro per
motivi politici. Per riottenere l'ammissione all'insegnamento, dovette
avvalersi dell'intercessione della nobildonna e benefattrice clarense, Ottavia
Bettolini, col maresciallo Josef Radetzky- In cambio di questa
concessione, avvenuta soltanto nel 1855, il governo austriaco gli impose di
seguire un corso di studi superiori a Vienna, che abbandonò forzatamente
soltanto qualche mese dopo, essendosi ammalato di tifo. Fu durante questa
breve esperienza che il Bonatelli venne in contatto coi maggiori esponenti
della filosofia tedesca, da cui rimase profondamente influenzato. Resta
incerto se, nella capitale austriaca, conseguì o meno la laurea, come
ipotizzato da alcuni autori (Giulio Alliney, “BONATELLI”, Brescia, La Scuola,
1947). Nel 1858 insegnò presso il liceo di Mantova, dove rimase fino al
Giugno '59, dopo lo scoppio della Seconda Guerra d'Indipendenza, quando quella
città fu messa in stato d'assedio. Le imprese guerresche del sovrano
sabaudo, supportato da francesi e volontari garibaldini, vennero celebrate dal
B. con la composizione di un carme: “Il servaggio e la liberazione”, scritto a
Chiari il 13 agosto 1859, con dedica a Vittorio Emanuele II.
Successivamente, l'attività didattica del B. proseguì al liceo di Brescia
(1859-60) ed al Carmine di Torino sino al 1861, anno in cui si trasferì a
Bologna per insegnare filosofia teoretica, nonostante avesse appena vinto un
concorso presso l'Genova che gli avrebbe permesso di ricoprire la stessa
cattedra. Nell'ateneo felsineo, il B. ebbe modo di conoscere Giosuè
Carducci, che vi era professore di Letteratura Italiana. Lo stretto
legame fra i due cattedratici è testimoniato da una ventina di lettere,
scritte fra il 1862 ed il 1881, conservate nell'archivio della Casa Carducci di
Bologna. Gli anni trascorsi a Bologna furono particolarmente proficui per
l'elaborazione del pensiero filosofico del Bonatelli: nacque allora una delle
sue opere principali, “Pensiero e conoscenza”, pubblicata nel 1864. Nel
dicembre 1867, il B. passò alla cattedra di filosofia teoretica dell'Padova;
impiego che manterrà fino alla morte. Nell'ateneo lombardo ebbe diversi
incarichi, fra cui quello di insegnare filosofia della storia (dal 1878 al
1910) e di tenere per qualche anno i corsi di antropologia, pedagogia e storia
della filosofia. Divenne anche preside della facoltà di lettere e
filosofia. A Padova scrisse la sua opera maggiore: “La coscienza e il
meccanesimo interiore”. La fama del B. iniziò specialmente negli ambienti
del “platonismo” legati a Terenzio Mamiani, ottenendo anche ruoli di alto
prestigio al di fuori della propria attività didattica. Fu membro del
comitato di redazione del periodico “La filosofia delle scuole italiane”,
fondato dal Mamiani nel ‘69; posizione che mantenne fino al 1874, quando
rassegnò le proprie dimissioni in seguito alla pubblicazione di alcuni articoli
del filosofo Giovanni Maria Bertini che, contenendo aspre critiche al
cattolicesimo, urtavano con le sue solide convinzioni religiose. Nonostante
ciò, il B. proseguì la propria collaborazione con la rivista, curandone la
rubrica “Conversazioni filosofiche”. Socio corrispondente nazionale
dell'Accademia dei Lincei per la classe di Scienze morali, storiche e
filologiche; mentre, il 5 febbraio 1882 divenne socio corrispondente della
Reale Accademia delle Scienze di Torino, nella sezione di Scienze filosofiche.
Nell'ultimo decennio del secolo XIX pubblicò un altro saggio importante:
“Percezione e pensiero”. Bonatelli fu anche un brillante verseggiatore ed
autore di alcune pregevoli opere letterarie, fra cui: il carme “In morte di
Tommaso Grossi” (Milano, 1853), il poemetto “Alfredo” (Lodi, 1856), il carme
precedentemente menzionato “Il servaggio e la liberazione” (Brescia, 1860) e
numerose composizioni in lingua dialettale. Il filosofo Giovanni Gentile
ne lodò le doti letterarie, apprezzando la forma netta e quasi sempre precisa
della sua espressione ed il linguaggio vivo ed immaginoso; affermando
addirittura che gli scritti del Bonatelli potranno essere sempre cercati e
letti con profitto. (G. Gentile, “La filosofia in Italia dopo il 1850”, su “La
Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da B.
Croce”). Inoltre, non esitò ad esporre il proprio pensiero su tematiche
politiche d'attualità. Ricordiamo, a proposito, due saggi sulla
possibilità di allargamento del diritto di voto: “Intorno al fondamento
naturale del diritto di voto” (Padova; Rendi) ed “Intorno al diritto
elettorale” (Atti del Reale Istituto veneto di scienze, lettere ed
arti). Con l'avanzare dell'età, si manifestò inevitabilmente qualche
acciacco fisico, che egli accolse stoicamente, confortato da una fede sincera e
tenace. È significativo quanto scrisse al nipote Bernardino Varisco, in
una lettera datata 25 Gen. 1906. «Carissimo Dino, l'aver io tardato
a congratularmi teco della riuscita non deriva certo dall'essermene io poco
rallegrato, bensì dal cumulo di noie, di pensieri, di tribolazioni che ora più
che mai m'è piombato addosso e che quasi mi schiaccia. Non entro nei
particolari, perché a cosa servirebbe? […] Basta, [sia] quello che Dio
vuole!». (Massimo Ferrari, “Lettere a Bernardino Varisco, La Nuova Italia,
Firenze. Malgrado ciò, il filoso d'Iseo proseguì l'attività di docente ed
accademico anche nei primi anni del '900, senza affatto abbandonare l'indagine
speculativa, grazie ad una lucidità mentale che mai lo abbandonò, dedicando i
suoi ultimi sforzi alla traduzione del primo volume dell'opera “Microcosmo” di
Hermann Lotze, che sarà pubblicato postumo. Morì a Padova. Aveva
insegnato fino a due giorni precedenti alla morte. Le sue spoglie mortali
riposano nel piccolo cimitero di Longiano (FC), dove furono traslate da Padova,
negli anni '80 del secolo scorso, per volontà del nipote Gualtiero.
Pensiero Filosofo spiritualista, Pose al centro della sua speculazione l'uomo e
ne difese la spiritualità contro il positivismo materialista. Sulla scia di
Hermann Lotze valorizzò il sentimento e pose in esso la principale rivelazione dell'essere
per mezzo del giudizio di valore. La psicologia e la logica furono sempre
risguar date o come parte integrante della filosofia o almeno come una
preparazione essenziale allo studio di questa. E in vero essendo la filosofia
la ricerca dei fon damenti ultimi d'ogni cosa conoscibile all' uomo e una tale
ricerca suddividendosi in due grandi rami, che sono l'uno l'inves jigazione de'
supremi prin cipii dell'essere e l'altro quella dei supremi prin cipii del
conoscere, questa seconda parte della filo sofia domanda necessariamente lo
studio del sub bietto conoscente e della funzione conoscitiva, cioè la
psicologia, e lo studio delle forme e delle leggi della conoscenza, cioè la
logica. Ecco perchè al breve trattato che precede si fanno qui seguire questi
elementi di logica. 264 1 La logica poi differisce essenzialmente dalla
psicologia per questo, che mentre la seconda studia il fatto del pensare e del
conoscere (oltre agli altri fatti interni o psichici) come effettivam ente
avviene, la logica in cambio studia le norme secondo le quali deve essere
conformato e diretto, perchè rag giunga il fine dell'attività conoscitiva che è
il pos sesso della verità. Essa quindi è una scienza nor mativa o precettiva e
potrebbe non male definirsi la scienza delle forme del pensiero in quanto sono
ordinate alla conoscenza. La verità, oggetto della conoscenza, è di tre ma
niere: a ) verità materiale, cioè la conformità del pensiero con la cosa a cui
si riferisce; b ) verità formale, che è l'armonia del pensiero con se stesso; c
) verità melafisica o ideale od obbietliva in senso as soluto, che è
l'intrinseca ragionevolezza degli esseri o delle essenze. La seconda, cioè la
formale, è l'ob bietto speciale della logica ed è una condizione necessaria,
sebbene non sufficiente, anche della prima. In quanto alla verità nel terzo
significato, ella, come s'è visto, riguarda più presto l'essere che non il
pensiero; ma il pensiero è pensiero razio nale solo a condizione di partecipare
a quella. La logica, secondo alcuni, è scienza puramente forinale cioè
considera esclusivamente la forma del pensiero che è quanto dire il modo in cui
gli ele menti di questo sono tra loro combinati); secondo altri essa è anche
materiale, cioè risguarda anche la contenenza del pensiero. Senza discutere qui
una tal questione assai sottile e intricata noi ossserveremo: 1. ° Che una
logica strettamente formale è possibile, benchè così se ne restringa il campo e
si debbano lasciare insoluti de' problemi ch'essa medesima solleva. In questo
campo ella è scienza rigorosamente esatta e offre delle affinità colla
matematica. • 2.º Che a voler trattare a fondo le questioni logiche, è mestieri
entrare in attinenze del pen siero, che oltrepassano la pura forma e toccano da
una parte alla psicologia dall'altra alla metafisica. Il pensiero poi, oltre
alle forme logiche, ne ha delle altre che si riferiscono vuoi all ' esercizio
dell'attività pensante (forme psicologiche), vuoi al sentimento del bello (forme
estetiche ), vuoi al l'espressione del pensiero per mezzo della parola (forme
grammaticali e retoriche). Tutte queste non riguardano la logica; ma le
psicologiche e le grammaticali hanno colle logiche delle attinenze
strettissime. Il valore della logica è doppio; cioè essa ha in primo luogo un
valore assoluto in quanto è un complesso sistematico di verità, una scienza per
sé stante; poi ha un valore relativo in quanto serve a dirigere il pensiero e
gli addita le norme, a cui deve conformarsi se vuol raggiungere il suo fine. Il
primo è nn valore puramente teoretico, il secondo è un valore pratico e in
questo senso la logica chiamasi anche arte del pensiero. 266 Le parti
principali della logica si possono ri durre a due, che sono 1.º il trattato
delle forme logiche elementari, cioè del concetto, del giudizio e del
raziocinio; 2.º la metodologia logica ossia. l'applicazione delle forme logiche
a ' fini speciali delle scienze. Questo manualetto si circoscrive quasi unica
mente alla parte prima; per la seconda dovremo contentarci di qualche breve
cenno. Del concetto Il pensare, come funzione conoscitiva, è sem pre un
giudicare (come s'è veduto nella psicolo gia); quindi la sua forma primitiva è
il giudizio. Perciò il concetto, come forma del pensiero, nonché şia anteriore
al giudizio, lo presuppone. Onde, con formemente alle dottrine esposte nella
parte psicolo gica (1 ), s ' ha a stimar falsa l'opinione di quelli che
considerano il concetto come una rappresenta zione generale; prima perchè una
rappresentazione non può esser mai generale, poi perchè il concetto si compone
di giudizi e questi non si possono in verun modo ridurre a rappresentazioni. Il
concetto, psicologicamente considerato, è un sistema di giu dizi reso
fisso , la cui unità solitamente è legata a un vocabolo o ad una
espressione equivalente 2 ). (1 ) Cf. Sez. prima, cap. XX e XXIII. (2) Di qui
lo sforzo delle lingue per foggiare nomi composti, come ferrovia,
cromolitografia, Strafrecht (diritto penale) ecc. Obbiettivamente poi il concetto
è l'essenza della cosa, che in esso si pensa, o vogliam dire la cosa in quanto
pensabile. Ma per la logica il concetto è un tutt' insieme di più
determinazioni o note. Conviene per altro che le note (caratteri) ineriscano a
qualche cosa, di cui siano note e questo substratum si può chia mare la
sostanza logica del concetto; questa è sempre presupposta in ogni concetto,
quando sia considerato in sè e come per sè stante (1). Per altro il concetto,
benchè sia un prodotto del pensiero e non della sensibilità, ha bisogno di un
elemento rappresentabile (sensibile) a cui s'ap poggi. A questo fine servono
principalmente quelle rappresentazioni sommarie, che abbiamo chiamato schemi
fantastici (2), e la parola; talvolta la sola parola. Ci sono poi nelle nostre
rappresentazioni, di qualunque specie sieno, delle relazioni le quali alla lor
volta si riflettono nelle relazioni intrinseche dei concetti. Tra codeste
relazioni principalissime sono quelle d'omogeneità e d'eterogeneità. Le rappre
sentazioni omogenee formano generalmente una scala di disgiunzione, ossia una
serie ordinata, in cui la differenza va aumentando dall'uno all'altro termine.
Le rappresentazioni omogenee (disgiunte) (1 ) Sostantivamente e non
aggettivamente direbbe la gram matica. (2) Cf. Psicologia non si escludono non
solo le une dalle altre, ma possono nemmeuo inerire a un tertium quid identico;
le eterogenee o disparate, com'anco si chiamano, non possono immedesimarsi tra
loro, ma ben pos sono inerire simultaneamente a una stessa cosa. Per quanto si
proceda innanzi nel cercare la ragione delle differenze tra le
rappresentazioni, non si può fare a meno d'arrestarsi finalmente davanti a
delle differenze originarie, di cui non si può ren dere altra ragione se non il
fatto. Il concetto è logicamente perfetto quando tut tociò che in esso si pensa
armonizza seco stesso; ma sotto il rispetto epistemologico ed obbiettivo il
concetto per essere perfetto deve adeguare piena mente la cosa, cioè quel quid
qualsiasi a cui si ri ferisce. Ciò non si avvera quasi mai in senso asso luto
per l'uomo, anzi nella più parte de' casi i nostri concetti sono molto
inadeguati. E qui vuolsi notare un equivoco, in cui spesso si cade per non aver
distinto il concetto, in quanto è da noi effet tivamente pensato, dal concetto
nella sua perfezione obbiettiva. Perocchè inteso in quest'ultimo signifi cato
esso contiene già tutte le sue determinazioni e non è suscettivo di svolgimento
e di perfeziona mento. Le qualità che il concetto deve possedere per accostarsi
alla sua perfezione sono: 1.° la determinalezza. Se questa manca, esso è un
frammento, un abozzo di concetto, non un con cetto compiuto. La determinatezza
poi contiene 270 1 1 anche la chiarezza e la perspicuità; la prima ri chiede
che il concetto sia pensato in modo che si possa distinguere da ogni altro; la
seconda si ot tiene quando si distinguono perfettamente tra loro i suoi
elementi e questi sono pensati nelle loro vere relazioni. 2.° L'universalità. E
questa è di due maniere, cioè il concetto deve essere valido per tutti i pen
santi e deve potersi applicare a tutti gli oggetti, che cadono entro il suo
àmbito. 3.0 L'armonia ossia l'intrinseca congruenza; la quale sotto l'aspetto
negativo è l'assenza d'ogni contraddizione tra le parti del concetto, sotto
l'aspet to positivo è la reciproca esigenza, il mutuo lega me delle parti
stesse. Osservazione: -- Dall'universalità del concettto deriva ancora la sua
indipendenza dal tempo; onde si può dire immutabile ed eterno (estra
-temporario ). Nè a ciò osta punto se la materia del concetto sia per natura
sua mutabile e soggetta al tempo. Il concetto di cosa che muta e passa, anche
di ciò che ha l'esistenza appena d'un istante (p. es. della vita umana, del
temporale, dalla caduta dei corpi, ecc. ) non muta e non passa, anzi, è
eternamente identico a se stesso. Comprensione ed estensione del concetto;
astrazione e determinazione Il concetto, come di sopra notammo, conside rato
logicamente è l'unione di più determinazioni o note, le quali ineriscono a
quella che fu detta sostanza logica del concetto. Si vedrà più innanzi che cosa
sia e quel che importi codesta sostanza logica; qui si osservi che essa pure
può essere con siderata come una nota o un gruppo di note, on dechè il concetto
si potrà risguardare come l'in - sieme di tutte le sue note. Ora il complesso
di tutte le note d'un concetto costituisce quella che chia masi comprensione o
tenore o contenenza del con. cetto stesso. Siccome poi un concetto si può
pensare come determinazione di altri (siano concetti, siano en tità quali si
vogliano, per. es. il concetto mammi fero è determinazione de' concetti:
cavallo, cane, topo, ecc. e cosi dei singoli cavalli, cani ecc. ), l'in sieme
di tuttoció, di cui quel concetto è una de terminazione, forma ciò che chiamasi
estensione o sfera o ámbito del concetto medesimo. Così, posto che il concetto
A riunisca in se soltanto le note a, b, c, queste nella loro totalità
formeranno la comprensione di A. Se poi A è una 272 determinazione di in, n, pe
nulla più, la totalità m, n, p, costituirà l'estensione di A. A significare il
rapporto, che collega tra di loro le parti della comprensione ossiano le note
di un concetto, si suole usare il simbolo algebrico della moltiplicazione; onde
comprensione di A = axbxc, o abc. Il rapporto invece delle parti dell'
estensione tra di loro suolsi esprimere col simbolo dell'addi zione, onde
estensione di A = m + n + p, E non a torto, perchè come nella moltiplica zione
ogni fattore moltiplica tutti gli altri, così ogni nota determina l'insieme di
tutte le altre; mentre le parti dell'estensione si escludono tra di loro, come
gli addendi, e sommate insieme costi tuiscono il tutto. Questa relazione, che
corre tra le note del concetto, fu da molti disconosciuta e se ne accusò la
logica, quasi essa pretenda ridurre i concetti più differenti tra di loro a un
tipo unico, ignorando anzi cancellando le attinenze molto più essenziali che in
ciascun concetto ne collegano tra di loro i vari elementi. Ma a torto, perchè
non tutti gli ele menti, che entrano a comporre un concetto, possono per ciò
dirsi note di questo. Nota veramente non è se non ciò che può legittimamente
applicarsi a un concetto come un suo predicato. (Così p. es. nel concetto di
triangolo entra senza fallo anche l'idea della linea; ma siccome non può dirsi:
il triangolo è una linea, così linea non è nota di triungolo. Il medesimo
dicasi del numero tre). Ciò che entra in un concetto e non è nota di esso, sarà
elemento d'una sua nota; elemento che per costituire que sta nota deve essere
pensato in certe speciali rela zioni con altri elementi; ma queste non sono re
lazioni logiche e appartengono alla materia, non alla forma logica del
concetto. Se da un concetto si toglie qualche nota (o, a, parlar più
propriamente, se nel pensare un concetto si esclude dal nostro sguardo mentale
qualche nota) questo processo si chiama astrazione. Il processo contrario, che
consiste nell'aggiungere qualche nota a un concetto, prende il nome di
determina zione, L'astrazione poi può essere di due maniere, ascendente o
verticale l ' una, laterale od orizzon tale l ' altra. La prima si fa quando si
tien fermo il concetto nella sua parte sostanziale e si abban dona una o più
note del medesimo (1 ). Per es, dato il concetto animale vertebrato mammifero,
si lascia [La locuzione propria in tal caso è astrarre da, Nel l'esempio
addotto di sopra si dirà: astraggo dal carattere mammifero. da parte la nota
mammifero e si mantiene il con cetto animale vertebrato. La seconda si effettua
ritenendo del concetto dato una nota (o un gruppo di note), che viene cosi a
costituire un nuovo con cetto, e lasciando andare tutto il resto. Per ciò fare
è d'uopo comporre alla nota che si astrae una nuova sostanza logica (1 ). Ad es.
dato il concetto giglio, io ritengo la nota bianco e abbandono il rimanente;
qui il nuovo concetto non avrà più per sostanza logica fiore, ma colore o
qualità. La determinazione è il processo contrario, come s'è veduto; ma di
regola si contrappone non all ' astrazione orizzontale, bensì alla verticale.
Per essa da un concetto più generico, cioè di minor comprensione, se ne forma
uno meno generico os sia di maggiore comprensione, aggiungendovi col pensiero
qualche nuova nota. Per es. se al concetto governo io aggiungo il carattere
costituzionale, for mando così il nuovo concetto meno generale go verno
costituzionale, ho eseguito quell'operazione che dicesi determinazione. Tale
aggiunta di nuove note non è del resto arbitraria del tutto; occorre che il
carattere aggiunto sia compatibile colla sostanza logica del concetto dato e
col resto de'suoi elementi. Per es. non si potrà aggiungere al concetto
triangolo la nota quadrilatero, al concetto virtù la nota verde, (1 ) In questo
caso si usa il verbo astrarre transitiva mente. Nell'esempio di sopra: astraggo
la bianchezza. ecc. Donde si vede che la determinazione, per esser valida,
presuppone la conoscenza della materia del concetto e della reale dipendenza
de' suoi elementi tra di loro; criteri che la logica formale è impo tente a
somministrare. É poi chiaro che per l'astrazione ascendente si impicciolisce la
compressione e con ciò si au menta l'estensione del concetto; all'incontro per
la determinazione si accresce la comprensione e si diminuisce l'estensione.
Questo rapporto tra le estensioni e le compren sioni di due concetti, l'uno più
l'altro meno astratto, si esprime dicendo, che la comprensione e l'esten sione
stanno tra di loro in ragione inversa. Rap porto il quale perciò suppone che i
due o più con cetti, che si considerano, appartengano allo stesso tronco ossia
abbiano la stessa sostanza logica, in altri termini. appartengano alla medesima
categoria. Di qui ci nasce il bisogno di considerare bre vemente che cosa
s'intenda in logica per categoria. I concetti, considerati puramente sotto il
ri. spetto della forma logica, si distinguono tra di loro solamente per la
ricchezza maggiore o minore della comprensione e per la maggiore o minore am
piezza dell' estensione, che è quanto dire pel vario grado della loro
generalità e particolarità. Pure ci sono delle differenze fondamentali tra i
concetti, che non si possono trascurare, sebbene propriamente riguardino più la
materia loro che non la forma. Tali differenze vengono espresse anche dal
linguaggio (1) colla differente forma dei voca boli, significandosi per es.gli
oggetti concreti in dividuali coi nomi propri, le classi di questi co'nomi
comuni, le qualità cogli aggettivi, le azioni co' verbi e cosi via. Di qui i
tentativi tante volte rinnovati per determinare le specie originarie de
concetti os. siano le categorie. I più famosi tra codesti tenta tivi furono
quello d'Aristotele fra gli antichi e del Kant fra i moderni. Le categorie
aristoteliche sono dieci: oủoia (che contiene un' ambiguità, potendosi tradurre
per so stanza e per essenza ), nogóv (quantità), nolóv (qua lità) noóo ti (relazione,
noú (il dove), noté (il quando), nemogai (la giacitura), èzelV (l'avere, l '
abitus), TOLETV (azione), náoxelv (passione). In quanto alle categorie kantiane
si noti che esprimono più presto le forme generali a priori, sotto le quali la
nostra intelligenza è, necessitata a pensare qualunque dato (stando alla teoria
del Kant) che non le specie supreme dei concetti. Esse sono dodici, ripartite a
tre a tre sotto quattro dif ferenti rispetti. Eccone il quadro: secondo la
quantità Unità Pluralità Totalità secondo la secondo la secondo la qualità
relazione modalità Realtà Sostanzialità Possibilità Limitazione Causalità
Esistenza Negazione Az. reciproca Necessità (1) Parliamo qui delle lingue del
ceppo indoeuropeo, & cui appartengono le classiche e quasi tutte le moderne
europee. · 277 Il Kant le dedusse dalle varie forme del giu dizio, come
apparirà della trattazione di queste. Ad Aristotele le sue furono suggerite
dall'analisi delle forme grammaticali della lingua. Le categorie aristoteliche
possono comodamen te ridursi alle quattro seguenti: 1.0 Sostanza. 2.º Proprietà
(che comprende la qualità e la quantità). 3. Stato (che comprende la giacitura,
l'abito, il fare, il patire). 4.° Relazione (che compende il n1980 ti, il
luogo, e il tempo). Finalmente alcuni le ridussero tutte a due; sostanza e
accidente. E qui voglionsi notare due cose, ciò sono: 1. Che la categoria
costituisce propriamente quel che abbiamo chiamato sostanza logica o tronco del
concetto, dimodochè levando via coll'astrazione ascendente tutte le note d'un
concetto, quello che resta sarà in ogni caso una delle categorie. 2.º Che il
nostro pensiero, pe ' suoi fini parti colari, usa sovente spostare la categoria
de'concetti, concependo per es. una qualità quasi fosse una so stanza oppure
un'azione, una relazione come qua lità ecc. L'astrazione orizzontale di solito
implica uno spostamento di categoria. Di qui i così detti nomi astratti della
grammatica, come bianchezza dall'aggettivo bianco, conoscenza del verbo cono
scere, ecc. Del resto non sempre quando una pa 278 rola muta la categoria
grammaticale (facendo per es. d'un verbo un sostantivo, d'un aggettivo un
verbo, ecc. ) si muta veramente anche la categoria logica. S'è creduto da molti
che tutti i concetti po tessero essere così distribuiti o ordinati tra loro,
salendo via via dagli infimi (più concreti e parti colari ) ai superiori (più
astratti o generali) e da questi a uno supremo, che venissero a formare quasi
una piramide appuntantesi in codesto concetto su premo. Ma questo a rigore è
impossibile, perocchè: 1.0 Dato il concetto supremo (che indicheremo con A),
donde si avrebbero le differenze che occor rono a costruire i concetti
inferiori? Poniamo in fatti che il concetto supremo A si divida in due, M ed N.
In tal caso M dovrebbe essere A più una differenza d, N sarebbe = A più una
differenza d'. Ma ded dunque non contengono la nota A; dunque sono concetti
anch'essi e originari al pari di A.. 2.° Il concetto supremo sarà l'ente o il
qualche cosa. Ma in tal caso ci sarà almeno il concetto del nulla e della
negazione, che ne saranno esclusi. Oltredichè sarà un far violenza non solo
alle pa role ma anche al concetto, se si considerino come enti" p. es. le
relazioni, come l'eguaglianza, la dif ferenza, ecc. Se poi vogliasi risguardare
come concetto as solutamente supremo il pensabile (lasciando stare che abbiamo
pure il concetto dell'impensabile), è 279 bensì vero che tutti i concetti,
(tranne appunto quello dell'impensabile ) si potranno subordinare a questo; ma
il pensabile è un genere puramente analogico, ossia non riguarda il contenuto
de' con cetti, bensì soltanto la loro relazione estrinseca verso il subbietto
pensante (Come se v. gr. tutti gli oggetti ch'io posseggo li volessi ridurre al
ge nere supremo: il mio ). Le note dei concetti furono distinte dai logici in
essenziali e non essenziali ossia accidentali. Le essenziali si suddivisero in
costitutive o primarie e consecutive o attributi. Per altro queste e altre
distinzioni analoghe appartengono più presto alla metafisica che non alla
logica, essendochè questa non ci fornisce criteri sicuri per siffatte
distinzioni. Infatti se noi dichiariamo essenziali a un con cetto quelle note,
tolte le quali il concetto non è più quello di prima, tutte diventano
essenziali. Se poi si dichiarino essenziali solamente quelle note, levate le
quali il concetto non solo si muta, ma si sfascia del tutto (come p. es. se dal
concetto trian golo si tolga la nota figura o la nota trilatero), noi usciamo
dalla logica.Delle relazloni logiche che possono intercedere tra due concetti
Affinché due concetti possano essere paragonati logicamente tra di loro all'
uopo di determinarne la relazione, bisogna che abbiano la stessa sostanza
logica ossia appartengano alla stessa categoria. Ciò fermato, le relazioni in
cui possono tro varsi tra loro due concetti si ridurranno alle in frascritte.
Alcuni chiamano equipollenti due concetti quando sono un medesimo concetto
espresso in due differenti maniere. Questa denomi nazione crediamo sia
impropria. Altri più esatta mente dicono equipollenti que' concetti, che hanno
la stessa estensione, ma una differente compren sione. Tali sono p. es.
triangolo equilatero e trian golo equiangolo. Ente infinito e spirito assoluto,
ecc. 2.0 Sopra e sott'ordinazione. Questa relazione si avvera tra due concetti,
quando l'estensione dell' uno fa parte dell ' estensione dell'altro; per
conseguenza la comprensione del secondo fa parte di quella del primo. Il più
generale (ossia quello che ha l'estensione maggiore e minore la comprensione)
dicesi sopra ordinato, il più particolare subordinato. (Per es. figura è
sopraordinato, triangolo è subordinato ). Il superiore o sopraordinato dicesi
anche genere, l' in feriore o subordinato specie. Ogni genere poi è alla sua
volta specie rispetto ad uno che gli sia supe riore, ogni specie è genere
rispetto a' suoi inferiori, e ciò finchè s'arrivi al supremo, che non può es
sere più specie e all'infimo che non può essere mai genere. Notisi per altro
che il concetto di un ente individuale, per es. di Tizio, logicamente non è per
necessità infimo e può considerarsi ancora come genere in rispetto al medesimo
come concetto preso con ultertori determinazioni. Così Tizio è genere riguardo
a Tizio seduto, a Tizio addormentato, ecc. 3.0 Coordinazione. Sono coordinati
tra di loro i concetti che sono subordinati in pari grado a uno stesso concetto
superiore. Alcuni logici, col Wundt alla testa, distinguono cinque maniere di
coordinazione. Noi le riportiamo qui sotto, osservando nel tempo stesso che la
vera e propria coordinazione è soltanto la prima. Code ste varie specie di
coordinazione pertanto hanno luogo: a) Quando due o più concetti, subordinati
in pari grado a uno più generico, sono tra di loro di sgiunti, vale a dire
quando le loro estensioni si escludono reciprocamente. Per es. rosso, verde, az
zurro, ecc., che sono tutti subordinati a colore. 282 b) Quando tra due
concetti v' ha una relazione vicendevole; per es. maschio e feminina, padre e
figlio, agente e paziente, ecc. Questi si chiamano propriamente concetti
correlativi. c) Quando due concetti, compresi sotto un terzo comune, hanno la
massima differenza possi bile tra loro. Per es. buone e cattivo, bianco e nero,
angolo acuto e ottuso, ecc. Tale relazione dicesi di contrarietà. d) Quando tra
due concetti, compresi sotto un terzo comune, passa la minima differenza
possibile. Per es. tra i sette colori dello spettro, giallo e verde; tra i
poligoni, pentagono ed esagono, ecc. Perché ciò avvenga occorre che la serie
sia discreta; chè se in cambio è continua, potendosi tra due termini qua lunque
concepirne sempre uno intermedio, questa, relazione a rigore non si avvera mai.
Tale rela zione si dice di contiguità (1 ). e) Quando due concetti
s'incrocicchiano, ossia le loro estensioni hanno una parte comune. Per es.
figura rettangolare e figur'il equilatera, europeo e cattolico. Codesta
relazione è detta da alcuni d' in ter: ferenza. 4. Dipendenza, che può essere
unilaterale o reciproca. Ha luogo tra concetti, che senza essere tra loro nè
coordinati nè subordinati, sono tali (1 ) Il termine contingenza adoperato da
taluno in que st'uso è ambiguo.]che l ' uno determina l'altro; e questa
dipendenza può essere o non essere mutua. Per es. pena o colpa hanno una
dipendenza unilaterale, perchè la pena dipende dalla colpa, ma non questa da
quella; fra il tempo occorrente a eseguire un dato lavoro e la quantità del
lavoro v'è dipendenza reciproca, ecc. Tale relazione ha luogo tra un concetto
qualsiasi e la sua negazione; essi si chiamano anche contradit torii. Il
concetto negativo non si trova qui, come accade del contrario, in una
opposizione determi nata verso il positivo, anzi, preso a tutto rigore, esprime
l’indefinita sfera di tutto il pensabile ad esclusione del solo positivo
opposto. Perciò Aristo tele chiama le espressioni non -uomo, non -albero, ecc.
nomi indefiniti. Ma ne' casi concreti il concetto negativo si pensa solitamente
come tale, che, in sieme col suo opposto positivo, costituisca l'esten sione
d'un concetto prossimamente superiore. Così ad es. non -verde non verrà pensato
come equiva lente a tutto il pensabile ad eccezione del verde (1); ma bensì
sotto il superiore colore, di cui insieme col suo opposto verde costituisce
tutta l'estensione. (1 ) In tal supposto il non - verde comprenderebbe i con
cetti più disparati, per esempio giustizia, strada ferrata, mu sica, cilindro,
balena, ecc. Si può dire che la re lazione che passa tra questi concetti
consiste nel non avere tra loro veruna relazione. Del resto la disparatezza non
è si può dir mai assoluta, po tendosi sempre trovare un qualche rispetto, sotto
del quale i due concetti cessano d'essere tra loro disparati. - Per
rappresentare graficamente le relazioni lo giche de' concetti tra di loro si
ricorre solitamente al simbolo dei circoli tracciati in un piano. Per A es. la
congruenza di due circoli simbo B leggia l'equipollenza. La subordinazione
viene significata con l'in O o B clusione d'un circolo in altro dove A è il A
subordinato e B il sopraordinato. La coordinazione dei concetti disgiunti in ge
nerale è simboleggiata con vari circoli entro un D altro. B Questa
rappresentazione per altro Oc è imperfetta, perchè esprime bensi l'inclusione
delle estensioni di A, B, C in quella di D e la loro vi cendevole esclusione;
ma non già che la somma 285 delle tre estensioni degli inclusi eguaglia quella
dell'includente. Se tuttavia i coordinati disgiunti sono due soli, tale
relazione è significata meglio colla divisione d'un circolo per mezzo del dia с
metro, А B Tra le varie maniere di coordinazione, che noi consideriamo come
improprie, solo l'interferenza A B si rappresenta bene con questo sistema, O
> Il Wundt propone degli altri simboli, consi stenti in linee rette, de'
quali daremo qui una suc cinta idea per mezzo della figura seguente: n b с e f
m Dove 1.° l'equipollenza è significata dal rap porto d'un segmento con se
stesso; per es. ad: ad. 2. ° La sopra- ordinazione del rapporto d'una retta con
una sua parte: per es. ag: ab, e la su bordinazione inversamente, ab: ag. La
coordinazione a) di disgiunzione, dal rapporto di una parte del segmento totale
con una qualunque altra parte, per es. ab: de. a) di correlazione, dal rapporto
tra due parti collocate simmetricamente; per es. bc: ef. c) di contrarieti, dal
rapporto tra i due seg menti più distanti; per es. ab: fg. a ) di contiguità,
dal rapporto tra due porzioni contigue, per es. de: ef. e) d' interferenza, dal
rapporto tra due seg menti che in parte coincidono; per es. bd: ce. La
dipendenza si esprime col rapporto di una retta ad un'altra, la cui situazione
dipenda dalla prima, per es. ag: am. Se la dipendenza è reciproca, tale
relazione è rappresentata meglio dal rapporto tra due rette, le quali si
suppone che si determinino reciprocamente; per es. am: an. A ben intendere la
natura di la definizione come operazione logica giovi considerarne i fini. E
anzi tutto quando l ' uomo possedesse de' concetti obbiettivamente per fetti,
non ci sarebbe bisogno di definizioni; dun que la definizione sovviene in primo
luogo alle imperfezioni del nostro pensiero. Le imperfezioni principali, a cui
ripara la de finizione, sono a) l'incertezza del vincolo tra il concetto e la
parola con cui lo si esprime; ) l'in debolimento del nesso psicologico tra gli
elementi logici del concetto. Rispetto al primo fine la definizione è sempre
nominale, perchè serve a fissare il senso del voca bolo, a far sì che a quel
dato vocabolo si unisca sempre quel dato concetto. Rispetto al secondo fine la
definizione è reale, perchè serve a fissare e chia rire l'organismo interno del
concetto. Si aggiunga che la definizione (per es. nelle scienze puramente
formali, come le matematiche pure) spesso equivale alla formazione del concetto.
Infatti l'unità concettuale, come individuo logico, è spesse volte arbitraria.
In una moltitudine d'ele menti pensabili, la definizione ne fissa un certo
gruppo per iscopi vuoi scientifici, vuoi didattici. La definizione pertanto è
l'esposizione o me glio la determinazione della comprensione d'un con cetto e
prende la forma d' un giudizio, il cui sog getto è il concetto di cui si tratta
(detto il defi niendo ovvero definito) e il predicato (che chiamasi definiente)
è quel gruppo di note mediante le quali il primo viene definito. Non è per
altro necessario e nemmeno oppor tuno che il concetto da definirsi si risolva
in tutte le note che contiene; bensì basta si indichino quelle che sono
sufficienti a determinarlo perfetta- · mente, ossia a distinguerlo e dai
concetti conge neri e da quelli che appartengono ad altri generi. A tal uopo
servono il genere prossimo (cioè il con 288 cetto prossimamente superiore al
definiendo ) e la differenza specifica cioè quel carattere che lo con
traddistingue dai concetti coordinati ). Non s' inten de tuttavia con ciò che
ogni definizione debba es ser fatta per mezzo di due soli elementi; soltanto si
avverte che il tutt' insieme dei caratteri, che costituiscono il definiente,
dee comprendere due parti, cioè le note generiche e le specifiche. L'in
dicazione del genere serve anche a indicare a qual categoria il definiendo
appartenga. Anche la regola del genere prossimo non vuole esser presa con pedantesco
rigore. Una definizione può essere vera e logicamente irreprensibile anche
servendosi d'un genere che non sia il prossimo. Del resto non è nemmeno sempre
possibile il de terminare in via assoluta quale sia il genere pros simo a cui
appartiene un dato concetto. Per es. nella definizione dell'uomo si suol as
segnare come genere prossimo l'animale; mentre senza fallo ve n'è di più
prossimi, come a. verle bralo, mammifero, ecc. I logici, come già s'è accennato
più sopra, sogliono distinguere varie maniere di definizione, come la nominale,
che determina soltanto quel che si deve intendere sotto una data espressione, e
la reale, che si riferisce all ' intrinseco valore del con cetto. Una
sottospecie della definizione reale è la genelica, che esprime il processo onde
la cosa de finita si forma. 289 Si noti per altro che la distinzione delle de
finizioni in nominali e reali non è rigorosa, per che ogni definizione è reale,
in quanto indica le note dell'oggetto ed è nominale, in quanto il con cetto
così determinato si collega con un dato nome. Alcuni tuttavia intendono la
distinzione tra la de finizione reale e la nominale in un senso alquanto
differente; e dicono la definizione essere nominale, quando ha per fine
solamente di assegnare un dato vocabolo a un gruppo d'elementi pensabili, senza
curarsi se codesto gruppo abbia poi un' intima con nessione ed unità, se quindi
sia un concetto ob biettivamente valido; chiamano invece reale una definizione,
quando in essa apparisce anche la va lidità obbiettiva del definito. Gli errori,
da cui conviene guardarsi per dare una buona definizione sono principalmente
quelli che seguono: a ) L'angustia. Una definizione è angusta quando il
definiente contiene qualche nota che non appar tiene a tutta l'estensione del
definito. 0) L'ampiezza, la quale ha luogo quando, per mancanza di note
specifiche sufficienti, il definiente oltrecchè al definito, conviene anche ad
altri con cetti congeneri. c) La sovralbondanza, che consiste nell'aggiun gere
note non essenziali e superflue rispetto al fine di distinguere il concetto
dato da tutti gli altri. d ) La tautologia, che ha luogo quando il con cetto
stesso da definirsi è contenuto, sia manifesta 19 290 mente sia copertamente,
nel definiente. (Per es. la legge è il comando del legislatore). " e ) Il
circolo o diallele, che consiste nel defi nire A per mezzo di Be B daccapo per
mezzo di A; ovvero anche nel definire A per B, B per C, C per D, ecc. e D
daccapo per A. Questo errore uel definire è analogo e spesso si confonde col pa
ralogismo detto ysleron - proteron, pel quale si fon damenta una dottrina o un
concetto sopra una dot trina o un concetto, che hanno bisogno dei primi per
essere scientificamente validi. f) Le definizioni metaforiche. g ) Le
definizioni negative, che è quanto dire quelle che si servono unicamente di
negazioni. Pure la definizione negativa talvolta è giusti ficata, sia perché il
concetto da definirsi è esso medesimo negativo, sia perch' esso è semplice e
però non si può determinare in altro modo che di stinguendolo per via di
negazioni da quelli coi quali potrebbe essere confuso. A determinare l '
estensione d'un concetto e insieme a mettere in chiaro le attinenze intrinseche
di più concetti subordinati ad un altro serve la divisione logica. Essa
consiste in un giudizio, di cui il soggetto è il concetto da dividersi (detto
il dividendo o il diviso, secondochè la divisione si considera come già fatta
oppure da farsi), e il pre dicato è una serie di concetti subordinati al primo
o coordinati disgiuntivamente tra di loro (membri dividenti). In altre parole
il soggetto è il genere e il predicato è l'enumerazione delle specie com prese
sotto quel genere. Siccome le specie nascono dalle varie determi nazioni di cui
il genere è suscettivo, quindi in ge nerale occorre per la divisione che il
concetto da dividersi possegga una nota, la quale sia suscetti bile di varietà.
Codesta nota chiamasi fondamento della divisione, che dicesi anche il rispetto,
sotto cui il concetto dato si divide. Cosi il concetto uomo possiede la nota
colore e questa essendo capace di varietà, se n'avrà una divisione dell'uomo
sotto il rispetto o il fondamento del colore, in bianchi, neri, gialli, ecc. Lo
Herbart pel primo fece osservare che, do vendo la nota, la quale serve di
fundamentum di visionis, essere un concetto già diviso, ne segue che ogni
divisione ne presupporrebbe un'altra già fatta. Ora è chiaro che per tal modo
s' andrebbe all ' in finito e quindi niuna divisione sarebbe possibile. Donde
segue che ci debbono essere alcnne di visioni primitive cioè senza un
fondamento asse gnabile. Tale è per es. la divisione del colore in rosso,
verde, ecc.; la divisione del numero in 1, 2, 3, ecc. 292 Secondo il numero de'
membri dividenti la di visione chiamasi dicotomia, tricotomia, ecc. Ogni
divisione può essere ridotta a una dico tomia, ponendo come primo membro il
genere, col. l'aggiunta d'una differenza specifica e a questo contrapponendo il
genere stesso più la negazione di quella. Così la divisione degli uomini sotto
il rispetto del colore sarà sempre possibile nella forma dico tomia così: gli
uomini sono bianchi o non bianchi. In generale A ¢ A b o A non b. Per altro, se
le specie sono realmente più di due, il termine nega tivo resta indeterminato.
La dicotomia presenta dei vantaggi; per il che alcuni l'hanno considerata come
la divisione più rigorosamente logica; infatti in essa i membri dividenti
costituiscono una perfetta contrarietà. Altri preferiscono la tricotomia, per
la ragione che questa ci dà due termini opposti e uno che serve di mediatore
tra essi. Queste considerazioni per altro, valide per certi casi e per certi
determinati fini scientifici, non sono d'ordine generale nè applicabili a tutti
i casi. La dicotomia però può considerarsi come un utile processo preparatorio
affine di trovare tutte le spe cie d'un concetto. La divisione dicesi naturale,
se il fondamento è preso tra le note essenziali del concetto; artifi ciale ove
sia preso tra le accidentali. Notisi tutta via che per gli speciali fini
scientifici può riuscire 293 importantissima una divisione, la quale per il pen
sar comune parrebbe frivola e artificiosissima. Quando tutti i membri dividenti
d' una data divisione vengono divisi alla loro volta, si ha la suddivisione.
Per la quale non è necessario che i membri dividenti della prima siano
suddivisi tutti sotto lo stesso fondamento. Se all'incontro un concetto viene
successiva mente diviso sotto più d'un fondamento, il com plesso di queste
divisioni ci dà una codivisione. I membri di questa saranno in numero eguale al
prodotto del numero di termini che si ottengono da ciascuna delle singole
divisioni. Perché la co divisione sia possibile bisogna che ciascuno dei
termini ottenuti con una delle divisioni sia atto a esser diviso sotto il
medesimo fondamento. La divisione logica, per essere corretta, deve rispondere
ai seguenti requisiti: 1. ° Ella dev'essere adeguata; il che vuol dire che i
membri dividenti presi insieme devono ri produrre tutta intera l'estensione del
diviso. 2.° Membra sint opposita, vale a dire che le estensioni dei membri
dividenti debbono escludersi tra di loro. 3.° Si deve sfuggire il saltus in
dividendo, os sia la divisione dev'essere continua. Il salto con siste nel
passare da termini ottenuti colla divisione fatta dietro un fondamento a
termini ricavati da una suddivisione fatta sotto un altro fondamento. (Come v.
gr. se uno dividesse i verbi in transitivi, intransitivi e passivi). 4.° La
divisione non deve scendere a minuzie. se Osservazione. - Una divisione per
essere logi camente compiuta domanderebbe che tutte le parti in cui il
fondamento è già diviso, fossero applicate al concetto da dividersi. Ma in
realtà ciò non si avvera se non rade volte, perchè spesso il dividendo non è
suscettivo di assumere non alcune di quelle varietà; perciò il numero effettivo
delle spe cie d'un dato genere non è dato dal puro schema tismo logico, ma
dalla natura delle cose. Così per es. gli uomini non possono dividersi, sotto
il ri spetto del colore, in tante specie in quante é di viso il fondamento
colore. Assai difficile a determinarsi logicamente è l'esclusione reciproca
delle estensioni di più con cetti tra loro e quindi dei membri dividenti,
quando l'uno' non sia la pura negazione dell'altro. In par ticolare manca la
reciproca esclusione e perciò i concetti sono interferenti, quando sono
risultati da una divisione fatta sotto più d'un fondamento (Per es. europeo e
musulmano, russo e marinaio, qua drilatero e figura regolare sono, a due, a
due, con cetti interferenti e perciò non si escludono tra di loro; il che
deriva da ciò che la prima coppia fu ottenuta colla divisione di uomo sotto i
due fon damenti parte del mondo e religione; la seconda colla divisione sotto i
fondamenti nazionalità e pro fessione; la terza sotto i fondamenti numero dei
tati e grandezza relativa degli angoli e dei lati). Ma l'escludersi dei termini,
in cui un concetto originariamente si divide (i quali servono poi di fondamento
a tutte le divisioni) è un fatto primi tivo, su cui la logica nulla può dire.
Le difficoltà incontrate dai logici ne' tentativi fatti per definire l'atto
giudicativo o il rapporto obbiettivo che a quello corrisponde, nascono da ciò
ch'esso è l'atto primitivo del pensiero e però as solutamente sui generis. Se
per es. lo si definisce quell'atto per cui si afferma o si nega qualche cosa di
qualche cosa, in realtà abbiamo fatto una definizione tautologica, perché
l'affermare o negare è appunto ciò che co stituisce il giudizio, ond' è come
dire: il giudizio è l'atto per cui si giudica. Riporteremo qui alcune altre
definizioni del giudizio. Per es. questa: Il giudizio è la determinazione d'un
concetto per mezzo d'un altro. E quest'altra: Il giudizio è il congiungimento o
la disgiunzione di due elementi del pensiero in 296 corrispondenza all'unione o
alla separazione delle cose. O anche: È la coscienza d'un rapporto esi stente
tra due concetti. 0: La rappresentazione o la coscienza del l'unità o della non
unità di due concetti. Oppure: La decomposizione d'una rappresen tazione ne'
suoi elementi, ecc., ecc. • A proposito di queste due ultime definizioni (la
seconda è del Wundt) si noti il fatto, parados sale in apparenza, che la stessa
cosa, cioè il giu dizio, possa essere definita in modi diametralmente opposti.
Ma questo fatto appunto rivela meglio di ogni altra considerazione la vera
natura del giu dizio, che è di essere sintesi e analisi ad un tempo, di
dividere unendo e unire dividendo. E ciò è pro prio e caratteristico del
pensiero, perchè io non posso separare mentalmente due elementi senza pensarli
insieme l'uno e l'altro col medesimo atto indiviso, nè posso mentalmente
riunirli senza te nerli al tempo stesso l'uno fuori dell'altro. Nel giudizio si
distinguono tre parti o elementi che sono 1.º il soggetto, che è il concetto da
de terminarsi ossia ciò di cui si afferma o nega qual che cosa. 2.' Il
predicato, che è il concetto che serve a determinare il soggetto. 3.° La
copula, che è la relazione tra il soggetto e il predicato, o guar dando il giudizio
come atto della mente, è l'affer mazione stessa. La copula è espressa dalla
lingua propriamente ed esplicitamente colla voce è, ovvero è significata dalla
flessione del verbo. Il giudizio senza fallo è una forma propria del pensiero;
nelle cose, a cui il pensiero si riferisce, (tranne il caso in cui l'oggetto
del pensiero con sista esso medesimo in pensieri) non ci sono giu dizi; ma se
il pensiero è vero, esso deve rappre sentare le cose, quindi in queste ci ha da
essere alcun che, il quale corrisponda alla forma del giu. dizio. Che cosa è
questa? Un tal problema è metafisico e però esce dai termini della logica;
crediamo tuttavia opportuno di farne un brevissimo cenno. Ricordiamoci che
l'atto di coscienza, base del pensiero, è essenzialmente reduplicazione, la cui
forma più semplice è questa A è A. Ciò posto la prima occasione obbiettiva dei
no stri giudizi potrebbero essere le differenze e i can giamenti delle cose e
la loro costanza o persistenza; le differenze come occasione che ne fa
avvertire la costanza. Ora la costanza delle cose, la loro fedeltà per così
esprimerci, a sè stesse, sono l'equivalente ob biettivo del giudizio d'identità
e in generale del giudizio affermativo. La differenza è di regola il
corrispondente del giudizio negativo. Il cangiamento poi, che del resto non può
esser mai totale e as soluto, ma che si fa sopra un fondo che rimane identico
a sè stesso, è rappresentato dai giudizi narrativi, p. es, il cane corre (mentre
prima era 298 fermo); l'albero perde le foglie (mentre prima era fronzuto) ece.
Insomma le cose, con la loro essenza immuta bile, le qualità, gli avvenimenti,
le relazioni, sono categorie obbiettive, che trovano il loro riscontro nel
giudizio. Di più il giudizio, come s'è visto nella Psico logia, è per l'essenza
sua un riferire; ora le cose possono essere riferite o al subbietto pensante
(p. es. io vedo, io percepisco, io penso la cosa A ); O a sè stesse (A è A,
l'uomo è uomo, ecc. ); o le une alle altre (come: la terra gira intorno al
sole, ecc. ); o anche le parti tra di loro (p. es. le colonne so stengono la
volta ); la cosa alle sue proprietà, a' suoi stati successivi, alle azioni e
passioni e via via. Le relazioni poi si partono in due classi, cioè reali o del
pensiero. Reali diciamo quelle che in teressano il modo d' esistere delle cose
(p. es. cau salilà, paternità, reciproca azione ecc. ); diciamo ideali o del
pensiero quelle che non interessano le cose, ma solo il nostro pensiero intorno
alle cose, come uguaglianza, somiglianza, differenza, maggioranza. Per es. la
grandezza relativa dei lati e quella degli angoli sono in una relazione reale;
all'incontro la relazione ch' io pongo fra un trian golo, pognamo, e un
quadrilatero quando dico che questo ha un lato di più di quello, è del
pensiero. Kant chiama analitici que' giudizi, il cui predicato si cava dalla
semplice analisi del soggetto, che cioè anche prima del giudizio faceva parte
del pensiero del soggetto; sintelici quelli, il cui pre dicato è preso fuori
del soggetto. Contro questa dottrina si sono sollevate fino dal tempo del Kant
molte obbiezioni, alcune delle quali insussistenti. Tra cui questa: se il
giudizio ha da esser vero, per necessità il soggetto deve contenere il
predicato; dunque tutti i giudizi sono analitici. Ora questa obbiezione suppone
che il giu dizio sia anteriore a sè stesso. Quel predicato che dopo il
giudizio, appartiene al soggetto, ha pure abbisognato d'un primo giudizio che
glielo appli casse. Così io potevo ad es. conoscere la capra ab bastanza per
distinguerla da ogni altro animale, eppure non sapere che è un ruminante.
Quando vengo a scoprire questa sua proprietà, tale scoperta prende la forma del
giudizio: la capra è un ru minante, il quale perciò è sintetico. D' allora in (1)
So il professore crede la sua scolaresca immatura per questa questione, potrà o
saltare questo capitolo o tras portarlo in fondo al trattato del giudizio. 300
poi, dato ch'io ripensi lo stesso giudizio, questo sarà per me analitico. Ciò
mostra che, almeno per molti giudizi, la differenza tra l' essere sintetici o
analitici, è relativa allo stato delle cognizioni di chi li fa. Ma la
distinzione tra giudizio analitico e sin tetico potrebbe fondarsi sopra, un
altro rispetto; analitici sarebbero quelli, il cui predicato è un ele mento
cosi essenziale al concetto del soggetto, che questo senza di esso non possa
affatto esser pen sato. Tale sarebbe p. es. la trilateralità rispetto al
concetto triangolo. Sintetici al contrario saranno quelli, il cui soggetto può
essere pensato anche senza il predicato (p. es. Tizio scrive, il tale pro getto
di legge è stato approvato dal Parlamento, ecc. ). La dottrina del Kant del
resto non coincide perfettamente nè colla prima interpretazione, nė colla
seconda; egli insiste sulla differenza tra l'es ser preso il predicato entro la
comprensione del sog getto o fuori di essa. L'esempio di giudizio sinte tico
addotto da lui e tanto criticato (7 + 5 = 12), è realmente sintetico, perché
chi pensa il numero 7 e il numero 5 e anche l'operazione significata dal +, non
per questo ha già il concetto dell'unità nu merica 12, numero che è formato con
quell'addi zione e che è quindi posteriore ad essa. In generale su questa
contro versia e anche sul l ' altra che ne dipende, se cioè (dato che ci siano
de' giudizi sintetici ) altri di questi siano a poste 301 riori e altri a
priori, ci contenteremo qui di que. sta osservazione. È chiaro che acciò siano
possibili delle analisi, quindi dei giudizi analitici, fa d'uopo che
anteriormente ci siano state delle sintesi. Ora codeste sintesi non sono opera
del pensiero? E il pensare non è sempre un giudicare? Dunque ci devono essere
dei giudizi sintetici. E siccome c'è un pensare, a posteriori e uno a priori,
cosi pare innegabile che ci dovranno essere anche de' giudizi sintetici a
priori (1 ). I giudizi rispetto alla forma si sogliono distin. guere anzitutto
in semplici e composti. E qui si noti che debbono considerarsi come composti
sol tanto quei giudizi, che si possono senza alterarne il valore risolvere in
due o più giudizi semplici. I semplici si dividono primamente sotto il ri
spetto della qualità in affermativi e negativi. Af fermativi sono quelli in cui
il predicato è posto come, relativamente, identico al soggetto; negativi quelli
in cui il predicato è escluso dalla compren (1 ) Del resto la distinzione de'
giudizi in analitici e sin tetici non è veramente logica, ma psicolog da un
lato, dal l ' altro metafisica. 302 sione del soggetto; ovvero, avendo riguardo
alle estensioni, pel giudizio affermativo il soggetto vien posto
nell'estensione del predicato, pel negativo ne è escluso. A queste due specie
si po trebbe aggiungerne una terza, ch' io proporrei di chiamare dei giudizi di
disparatezza o per più bre vità disparanti; e sono quelli i quali non esclu
dono il predicato dalla comprensione del soggetto nė ve lo includono, ma
affermano soltanto che il soggetto per sè non implica quel dato predicato,
benchè lo possa ricevere. Per es. se io prendo per soggetto il ferro e per
predicato ossidato, io non posso affermare che un tal soggetto includa un tal
predicato e nemmeno che lo escluda e un tale rap porto ove sia affermato (p.
es. colla formola: il ferro per sè, o in quanto ferro, non è ossidato )
costituisce un giudizio disparante. Del resto nes sun logico, per quanto mi
consta, ha tenuto conto di questa classe speciale di giudizi. Osservazione 2. -
Secondo alcuni logici la ne gazione, ne' giudizi negativi, non affetta la
copula, ma bensì il predicato (A non è B equivarrebbe al giudizio: A è non - B).
Ma questo modo di consi derare il giudizio negativo non è naturale nè rap
presenta l'intenzione di chi pronuncia il giudizio, salvo in rari casi. Osservazione
3. – Oltre a' giudizi affermativi e negativi taluni col Kant ammettono una
terza specie di giudizi, sotto il rispetto della qualità, cioè 303 - gl'
indefiniti. Tali sarebbero quelli in cui è nega tivo il predicato (A è un non
B). Ma è una classe superflua, perchè in realtà questi giudizi coincidono coi
negativi. In secondo luogo i giudizi si distinguono sotto il rispetto della
quantità, vale a dire secondo la estensione in cui è preso il concetto che fa
da sog getto. Se l'estensione del soggetto è presa in tutta la sua totalità, il
giudizio dicesi universale. (Tutti gli A sono B o più brevemente A è B; nessun
A è B, o più brevemente A non è B). Se in cambio il soggetto è preso solo con
una parte della sua estensione, il giudizio è particolare (Alcuni A sono B;
alcuni A non sono B ). Stando a una teoria propugnata dallo Hamilton e da altri
e oonosciuta sotto il nome di teoria della quantificazione del predicato, nel
giudizio sarebbe determinata non solo l'estensione in cui si prende il
soggetto, ma anche quella del predicato. Cosi nel giudizio: tutli gli uomini
sono mor tali, il soggetto sarebbe preso in tutta l'estensione e il predicato
solo in parte della sua estensione, cosicchè la forma rigorosamente logica
sarebbe: tutti gli uomini sono alcuni mortali (vale a dire parte dei mortali ).
Nel giudizio: alcuni animali sono mammiferi, il soggetto sarebbe preso in parte
della sua esten sione e il predicato in tutta la sua estensione; sic chè la sua
forma rigorosa sarebbe: alcuni animali sono tutti i mammiferi. Così ogni
giudizio affer 304 merebbe una congruenza di estensione e corrispon derebbe
sempre ad un'equazione. Ma questa teoria non è accettabile, perché se anche la
determina zione dell'estensione del predicato si può artificio samente dedurre
da ogni giudizio, essa è innaturale non essendo effettivamente pensata da chi
forma il giudizio, tranne certi casi speciali che la lingua suole esprimere con
qualche suo spediente. Osservazione 1. – Secondo Aristotele a' giu dizı
universali e particolari si dovrebbe aggiungere per terza la classe degli
indefiniti o aorisli (1 ) sarebbero quelli, in cui al soggetto si attribuisce o
si nega un predicato senza aver riguardo all'esten sione (P. es. la virti
merita premio; concepito senza pensare se ci siano o no molte virtù e se il
predicato meritevole di premio convenga a tutte o no). Questa forma di giudizio
coincide con quello che alcuni moderni chiamano giudizio della com prensione,
per distinguerlo da quelli, in cui il pre dicato viene determinatamente attribuito
a tutti o solo a una parte dei termini che formano l ' esten sione del soggetto
e ch'essi denominano giudizi dell' estensione. Noi non accogliamo codesta
classe di giudizi; perchè, sebbene sia vero che chi forma il giudizio ' ora ha
di mira la comprensione del sog getto ora l ' estensione, pure l ' una
relazione trae (1 ) Da non confondersi cogli indefiniti del Kant, che sa
rebbero una classe nel rispetto della qualità. Vedi sopra la Osservazione 3.
305 con sè l ' altra anche se non esplicitamente pen sata. Osservazione 2. –
Altri, col Kant, a' giudizi universali e particolari aggiungono i singolari,
quelli cioè in cui il soggetto ha il minimum pos sibile di estensione cioè è un
individuo. Ma se que st' individuo è determinato, esso costituisce tutta
l'estensione del concetto (p. es. Giulio Cesare) e pertanto il giudizio è
universale; se é indetermi nato (p. es. un soldalo ), esso rappresenta una
parte dell'estensione e perciò il giudizio cade nella classe dei particolari.
Osservazione 3. - I giudizi particolari possono ricevere ulteriori
determinazioni secondochè la parte che si prende dell'estensione del soggetto o
è più o men determinata o si lascia affatto indeterminata (Per es. molti A sono
B, pochissimi A sono B, la più parte degli A sono B, dodici A sono B, ovvero
semplicemente parte degli A sono B ). Ma per la logica queste specificazioni
hanno di regola poca importanza, salvo il caso che l'interesse del pen siero
cada appunto su esse, come p. es. nel numero de' voti d'un corpo deliberante.
Osservazione 4. – Il giudizio particolare dif ferisce d'assai quanto al suo
valore secondochè preso indeterminatamente o determinatamente. In fatti il
giudizio: alcuni A sono B, può significare o che almeno alcuni A sono B, o che
soltanto al cuni A sono B. Nel primo significato esso è vero anche se tutti gli
A sono B, nel secondo senso il 20 306 giudizio universale, tutti gli A sono B,
è necessa riamente falso. I primi giudizi si chiameranno giudizi parti colari
in luto senso, i secondi particolari in senso stretto. I giudizi in terzo luogo
si distinguono in ri spetto alla relazione, vale a dire secondochè affer mano (o
negano) l'inerenza del predicato al sog getto (g. categorici), oppure: la
dipendenza del pre dicato dal soggetto (g. ipotetici), o, finalmente, se al
soggetto viene come predicato attribuita l'alter nativa fra due o più membri
d'una disgiunzione, p. es. A è o Bo CoD (g. disgiuntivi). Osservazione Questa
classificazione de' giu dizi sotto il rispetto della relazione, sebbene comu nemente
accettata, pecca gravemente contro le leggi della divisione logica. E invero i
giudizi disgiun tivi non sono veramente una specie coordinata alle altre due,
ma piuttosto una sottospecie di quelle; difatti tanto il giudizio categorico
quanto l'ipotetico possono essere disgiuntivi (Il tipo del y. categorico
disgiuntivo è: A è o B o C, dell'ipotetico -disgiun tìvo: se A è B, o C è D, o
M N ). In quarto luogo finalmente i giudizi o sono tali che il predicato si
pensa come necessariamente pertinente al soggetto, e questi chiamansi giudizi
necessari o apoditlici; o sono tali che il predicato si pensa come di fatto
appartenente al soggetto, senza necessità, e diconsi giudizi della realtà o as
sertorii; o, in terzo luogo, sono tali che il predi 307 cato si pensa come
possibile ad appartenere al sog. getto e diconsi giudizi possibili o
problematici. Que sto rispetto chiamasi modalità del giudizio. Osservazione. –
Veramente in questa classifi cazione della modalità si confondono due rispetti
differenti. I giudizi considerati obbiettivamente, sono o necessari, o della
realtà, o possibili; con siderati obbiettivamente sono apodittici, assertori o
problematici. Vale a dire che nel primo rispetto si considera la necessità, la
semplice realtà o la possibilità delle cose; nel secondo rispetto si con sidera
l'intensità della nostra affermazione. La dif ferenza tra i due rispetti
apparisce principalmente nella terza classe, in cui il giudizio della possibi
lità afferma che un concetto è suscettivo d'una data determinazione, benchè
possa non averla (Per es. una casa può essere di nove piani ), mentre il
problematico afferma soltanto la nostra incertezza (A è B? ). Tuttavia, affine
di non moltiplicare eccessiva mente le suddivisioni, nella logica si può
prescin dere dal considerare queste differenze. Riassumendo, i giudizi si
dividono: 1.º rispetto alla qualità, in affermativi e ne gativi; 2.º rispetto
alla quantità, in universali e par ticolari; 3.º rispetto alla relazione, in
categorici, ipo tetici e disgiuntivi (categorico -disgiuntivi e ipote tico
- trovano il loro riscontro nel giudizio. Di più il giudizio, come s'è
visto nella Psico logia, è per l'essenza sua un riferire; ora le cose possono
essere riferite o al subbietto pensante (p. es. io vedo, io percepisco, io
penso la cosa A ); O a sè stesse (A è A, l'uomo è uomo, ecc. ); o le une alle
altre (come: la terra gira intorno al sole, ecc. ); o anche le parti tra di
loro (p. es. le colonne so stengono la volta ); la cosa alle sue proprietà, a'
suoi stati successivi, alle azioni e passioni e via via. Le relazioni poi si
partono in due classi, cioè reali o del pensiero. Reali diciamo quelle che in
teressano il modo d' esistere delle cose (p. es. cau salilà, paternità,
reciproca azione ecc. ); diciamo ideali o del pensiero quelle che non
interessano le cose, ma solo il nostro pensiero intorno alle cose, come uguaglianza,
somiglianza, differenza, maggioranza. Per es. la grandezza relativa dei lati e
quella degli angoli sono in una relazione reale; all'incontro la relazione ch'
io pongo fra un trian golo, pognamo, e un quadrilatero quando dico che questo
ha un lato di più di quello, è del pensiero. Kant chiama analitici que'
giudizi, il cui predicato si cava dalla semplice analisi del soggetto, che cioè
anche prima del giudizio faceva parte del pensiero del soggetto; sintelici
quelli, il cui pre dicato è preso fuori del soggetto. Contro questa dottrina si
sono sollevate fino dal tempo del Kant molte obbiezioni, alcune delle quali
insussistenti. Tra cui questa: se il giudizio ha da esser vero, per necessità
il soggetto deve contenere il predicato; dunque tutti i giudizi sono analitici.
Ora questa obbiezione suppone che il giu dizio sia anteriore a sè stesso. Quel
predicato che dopo il giudizio, appartiene al soggetto, ha pure abbisognato
d'un primo giudizio che glielo appli casse. Così io potevo ad es. conoscere la capra
ab bastanza per distinguerla da ogni altro animale, eppure non sapere che è un
ruminante. Quando vengo a scoprire questa sua proprietà, tale scoperta prende
la forma del giudizio: la capra è un ru minante, il quale perciò è sintetico.
D' allora in (1) So il professore crede la sua scolaresca immatura per questa
questione, potrà o saltare questo capitolo o tras portarlo in fondo al trattato
del giudizio. 300 poi, dato ch'io ripensi lo stesso giudizio, questo sarà per
me analitico. Ciò mostra che, almeno per molti giudizi, la differenza tra l'
essere sintetici o analitici, è relativa allo stato delle cognizioni di chi li
fa. Ma la distinzione tra giudizio analitico e sin tetico potrebbe fondarsi
sopra, un altro rispetto; analitici sarebbero quelli, il cui predicato è un ele
mento cosi essenziale al concetto del soggetto, che questo senza di esso non
possa affatto esser pen sato. Tale sarebbe p. es. la trilateralità rispetto al
concetto triangolo. Sintetici al contrario saranno quelli, il cui soggetto può
essere pensato anche senza il predicato (p. es. Tizio scrive, il tale pro getto
di legge è stato approvato dal Parlamento, ecc. ). La dottrina del Kant del
resto non coincide perfettamente nè colla prima interpretazione, nė colla
seconda; egli insiste sulla differenza tra l'es ser preso il predicato entro la
comprensione del sog getto o fuori di essa. L'esempio di giudizio sinte tico
addotto da lui e tanto criticato (7 + 5 = 12), è realmente sintetico, perché
chi pensa il numero 7 e il numero 5 e anche l'operazione significata dal +, non
per questo ha già il concetto dell'unità nu merica 12, numero che è formato con
quell'addi zione e che è quindi posteriore ad essa. In generale su questa
contro versia e anche sul l ' altra che ne dipende, se cioè (dato che ci siano
de' giudizi sintetici ) altri di questi siano a poste 301 riori e altri a
priori, ci contenteremo qui di que. sta osservazione. È chiaro che acciò siano
possibili delle analisi, quindi dei giudizi analitici, fa d'uopo che
anteriormente ci siano state delle sintesi. Ora codeste sintesi non sono opera
del pensiero? E il pensare non è sempre un giudicare? Dunque ci devono essere
dei giudizi sintetici. E siccome c'è un pensare, a posteriori e uno a priori,
cosi pare innegabile che ci dovranno essere anche de' giudizi sintetici a
priori. I giudizi rispetto alla forma si sogliono distin. guere anzitutto in
semplici e composti. E qui si noti che debbono considerarsi come composti sol
tanto quei giudizi, che si possono senza alterarne il valore risolvere in due o
più giudizi semplici. I semplici si dividono primamente sotto il ri spetto
della qualità in affermativi e negativi. Af fermativi sono quelli in cui il
predicato è posto come, relativamente, identico al soggetto; negativi quelli in
cui il predicato è escluso dalla compren (1 ) Del resto la distinzione de'
giudizi in analitici e sin tetici non è veramente logica, ma psicolog da un
lato, dal l ' altro metafisica. 302 sione del soggetto; ovvero, avendo riguardo
alle estensioni, pel giudizio affermativo il soggetto vien posto
nell'estensione del predicato, pel negativo ne è escluso. Osservazione 1. – A
queste due specie si po trebbe aggiungerne una terza, ch' io proporrei di
chiamare dei giudizi di disparatezza o per più bre vità disparanti; e sono
quelli i quali non esclu dono il predicato dalla comprensione del soggetto nė
ve lo includono, ma affermano soltanto che il soggetto per sè non implica quel
dato predicato, benchè lo possa ricevere. Per es. se io prendo per soggetto il
ferro e per predicato ossidato, io non posso affermare che un tal soggetto
includa un tal predicato e nemmeno che lo escluda e un tale rap porto ove sia
affermato (p. es. colla formola: il ferro per sè, o in quanto ferro, non è
ossidato ) costituisce un giudizio disparante. Del resto nes sun logico, per
quanto mi consta, ha tenuto conto di questa classe speciale di giudizi.
Osservazione 2. - Secondo alcuni logici la ne gazione, ne' giudizi negativi,
non affetta la copula, ma bensì il predicato (A non è B equivarrebbe al
giudizio: A è non - B). Ma questo modo di consi derare il giudizio negativo non
è naturale nè rap presenta l'intenzione di chi pronuncia il giudizio, salvo in
rari casi. Osservazione 3. – Oltre a' giudizi affermativi e negativi taluni col
Kant ammettono una terza specie di giudizi, sotto il rispetto della qualità,
cioè 303 - gl' indefiniti. Tali sarebbero quelli in cui è nega tivo il
predicato (A è un non B). Ma è una classe superflua, perchè in realtà questi
giudizi coincidono coi negativi. In secondo luogo i giudizi si distinguono
sotto il rispetto della quantità, vale a dire secondo la estensione in cui è
preso il concetto che fa da sog getto. Se l'estensione del soggetto è presa in
tutta la sua totalità, il giudizio dicesi universale. (Tutti gli A sono B o più
brevemente A è B; nessun A è B, o più brevemente A non è B). Se in cambio il
soggetto è preso solo con una parte della sua estensione, il giudizio è
particolare (Alcuni A sono B; alcuni A non sono B ). Stando a una teoria
propugnata dallo Hamilton e da altri e oonosciuta sotto il nome di teoria della
quantificazione del predicato, nel giudizio sarebbe determinata non solo
l'estensione in cui si prende il soggetto, ma anche quella del predicato. Cosi
nel giudizio: tutli gli uomini sono mor tali, il soggetto sarebbe preso in
tutta l'estensione e il predicato solo in parte della sua estensione, cosicchè
la forma rigorosamente logica sarebbe: tutti gli uomini sono alcuni mortali
(vale a dire parte dei mortali ). Nel giudizio: alcuni animali sono mammiferi,
il soggetto sarebbe preso in parte della sua esten sione e il predicato in
tutta la sua estensione; sic chè la sua forma rigorosa sarebbe: alcuni animali
sono tutti i mammiferi. Così ogni giudizio affer 304 merebbe una congruenza di
estensione e corrispon derebbe sempre ad un'equazione. Ma questa teoria non è
accettabile, perché se anche la determina zione dell'estensione del predicato
si può artificio samente dedurre da ogni giudizio, essa è innaturale non
essendo effettivamente pensata da chi forma il giudizio, tranne certi casi
speciali che la lingua suole esprimere con qualche suo spediente. Osservazione
1. – Secondo Aristotele a' giu dizı universali e particolari si dovrebbe
aggiungere per terza la classe degli indefiniti o aorisli (1 ) sarebbero
quelli, in cui al soggetto si attribuisce o si nega un predicato senza aver
riguardo all'esten sione (P. es. la virti merita premio; concepito senza
pensare se ci siano o no molte virtù e se il predicato meritevole di premio
convenga a tutte o no). Questa forma di giudizio coincide con quello che alcuni
moderni chiamano giudizio della com prensione, per distinguerlo da quelli, in
cui il pre dicato viene determinatamente attribuito a tutti o solo a una parte
dei termini che formano l ' esten sione del soggetto e ch'essi denominano
giudizi dell' estensione. Noi non accogliamo codesta classe di giudizi; perchè,
sebbene sia vero che chi forma il giudizio ' ora ha di mira la comprensione del
sog getto ora l ' estensione, pure l ' una relazione trae (1 ) Da non
confondersi cogli indefiniti del Kant, che sa rebbero una classe nel rispetto
della qualità. Vedi sopra la Osservazione 3. 305 con sè l ' altra anche se non
esplicitamente pen sata. Osservazione 2. – Altri, col Kant, a' giudizi
universali e particolari aggiungono i singolari, quelli cioè in cui il soggetto
ha il minimum pos sibile di estensione cioè è un individuo. Ma se que st'
individuo è determinato, esso costituisce tutta l'estensione del concetto (p.
es. Giulio Cesare) e pertanto il giudizio è universale; se é indetermi nato (p.
es. un soldalo ), esso rappresenta una parte dell'estensione e perciò il
giudizio cade nella classe dei particolari. Osservazione 3. - I giudizi
particolari possono ricevere ulteriori determinazioni secondochè la parte che
si prende dell'estensione del soggetto o è più o men determinata o si lascia
affatto indeterminata (Per es. molti A sono B, pochissimi A sono B, la più parte
degli A sono B, dodici A sono B, ovvero semplicemente parte degli A sono B ).
Ma per la logica queste specificazioni hanno di regola poca importanza, salvo
il caso che l'interesse del pen siero cada appunto su esse, come p. es. nel
numero de' voti d'un corpo deliberante. Osservazione 4. – Il giudizio
particolare dif ferisce d'assai quanto al suo valore secondochè preso
indeterminatamente o determinatamente. In fatti il giudizio: alcuni A sono B,
può significare o che almeno alcuni A sono B, o che soltanto al cuni A sono B.
Nel primo significato esso è vero anche se tutti gli A sono B, nel secondo
senso il 20 306 giudizio universale, tutti gli A sono B, è necessa riamente
falso. I primi giudizi si chiameranno giudizi parti colari in luto senso, i
secondi particolari in senso stretto. I giudizi in terzo luogo si distinguono
in ri spetto alla relazione, vale a dire secondochè affer mano (o negano)
l'inerenza del predicato al sog getto (g. categorici), oppure: la dipendenza
del pre dicato dal soggetto (g. ipotetici), o, finalmente, se al soggetto viene
come predicato attribuita l'alter nativa fra due o più membri d'una
disgiunzione, p. es. A è o Bo CoD (g. disgiuntivi). Osservazione Questa
classificazione de' giu dizi sotto il rispetto della relazione, sebbene comu
nemente accettata, pecca gravemente contro le leggi della divisione logica. E
invero i giudizi disgiun tivi non sono veramente una specie coordinata alle
altre due, ma piuttosto una sottospecie di quelle; difatti tanto il giudizio
categorico quanto l'ipotetico possono essere disgiuntivi (Il tipo del y.
categorico disgiuntivo è: A è o B o C, dell'ipotetico -disgiun tìvo: se A è B,
o C è D, o M N ). In quarto luogo finalmente i giudizi o sono tali che il
predicato si pensa come necessariamente pertinente al soggetto, e questi
chiamansi giudizi necessari o apoditlici; o sono tali che il predicato si pensa
come di fatto appartenente al soggetto, senza necessità, e diconsi giudizi
della realtà o as sertorii; o, in terzo luogo, sono tali che il predi 307 cato
si pensa come possibile ad appartenere al sog. getto e diconsi giudizi
possibili o problematici. Que sto rispetto chiamasi modalità del giudizio.
Osservazione. – Veramente in questa classifi cazione della modalità si
confondono due rispetti differenti. I giudizi considerati obbiettivamente, sono
o necessari, o della realtà, o possibili; con siderati obbiettivamente sono
apodittici, assertori o problematici. Vale a dire che nel primo rispetto si considera
la necessità, la semplice realtà o la possibilità delle cose; nel secondo
rispetto si con sidera l'intensità della nostra affermazione. La dif ferenza
tra i due rispetti apparisce principalmente nella terza classe, in cui il
giudizio della possibi lità afferma che un concetto è suscettivo d'una data
determinazione, benchè possa non averla (Per es. una casa può essere di nove
piani ), mentre il problematico afferma soltanto la nostra incertezza (A è B?
). Tuttavia, affine di non moltiplicare eccessiva mente le suddivisioni, nella
logica si può prescin dere dal considerare queste differenze. Riassumendo, i
giudizi si dividono: 1.º rispetto alla qualità, in affermativi e ne gativi; 2.º
rispetto alla quantità, in universali e par ticolari; 3.º rispetto alla
relazione, in categorici, ipo tetici e disgiuntivi (categorico -disgiuntivi e
ipote tico -disgiuntivi); 308 4.º rispetto alla modalità, in apodittici, asser
torii e problematici. Secondo alcuni logici poi la modalità nor non appartiene
alla forma logica del giudizio, ma alla sua materia. Alle distinzioni sopra
enumerate alcuni vogliono aggiunta anche questa in: a) giudizi narrativi, nei
quali il predicato esprime un fatto e suol essere rappresentato da un verbo; b
) descrittivi, nei quali il predicato è una pro prietà del soggetto e suole
grammaticalmente essere espresso da un aggettivo; c ) esplicativi, nei quali il
predicato è un con cetto più generale, per se stante, nella cui esten sione
viene collocato il soggetto e solitamente si esprime mediante un sostantivo
(Esempi di queste tre specie: Cesare fu ucciso in Senato, il gelsomino è
odoroso, il triangolo è una figura ). La qualità e quantità de' giudizi vengono
de. signate per brevità colle lettere a, e, i, o, secondo i versi mnemonici:
Asserit a negat e, sed universaliter ambo; Asserit i negat o, sed
particulariter ambo. Altri preferiscono i seguenti segni: a = 72 19 ta =
giudizio universale affermativo negativo particolare affermativo Pр negativo. P
79 72 309 Osservazione sul giudizio ipotetico. - Codesta forma di giudizio è
stata interpretata in quattro maniere, ciò sono: 1.º Come un giudizio, il cui
soggetto e predi cato sono il soggetto e il predicato del conseguente, ma la
copula è subordinata all' antecedente come a condizione. (Dato p. es. il
giudizio ipotetico: Se A é B, C è D, il soggetto sarebbe C, il predicato D, e
la copula (ė ) è posta sotto la condizione che A sia B ). 2.º Come un giudizio,
il cui soggetto è il con seguente e il predicato è il suo dipendere dall'an
tecedente. Ossia, dato il tipo precedente, del nesso (Cé D) si afferma ch'esso
dipende dal nesso (A é B). 3º. Come un giudizio, in cui l ' antecedente fa da
soggetto ed il conseguente equivale al predicato. Cioè del nesso (A è B) si
afferma che da esso di pende la realtà del nesso (CUD). Questa interpre
tazione, che è la preferita dalla scuola erbartiana, è comoda specialmente per
la trattazione dei sillo gismi. 4.° Come un giudizio, il cui soggetto è il nu
mero dei casi in cui si avvera l'antecedente, e di questo si afferma ch'esso
coincide o non coincide, in tutto o in parte, col numero de casi in cui si
avvera il conseguente, che costituisce il predicato. Secondo quest'ultinia
interpretazione il giudi zio ipotetico non esprime la dipendenza o condi
zionalità dell'un membro rispetto all'altro, ma sol tanto la loro connessione
di fatto ossia la coincidenza. 310 Prendendo i giudizi ipotetici secondo una
delle tre prime interpretazioni, questi non possono esser mai particolari.
Infatti, posto un giudizio di questa forma: qualche volta, se A è, B'è che
sarebbe la forma del giudizio ipotetico particolare), non si po trebbe più dire
che B dipenda da A. Un'altra questione sorge a proposito del giu dizio
ipotetico, vale a dire quand' esso debba dirsi negativo. Secondo taluni il
giudizio ipotetico ne gativo è quello, col quale si nega che il conseguente
dipenda dall'antecedente. Ma hanno torto, o per lo meno questo modo di vedere
sconvolge tutta la teoria del giudizio. Noi diremo a miglior diritto essere
negativo quello, in cui è negativo il conse guente (p. es. se A è, B non è,
oppure se A è B, C non è D). Se fosse negativo l'antecedente e po sitivo il
conseguente, il giudizio sarà ancora affer mativo (p. es. se A non è B, C è D,
è un giudizio affermativo ). Quell' altra maniera di considerare il giudizio
ipotetico negativo (se A è, non ne segue che B sia, oppure se A è B, non ne
segue che C sia D ) sarebbe più presto una forma di giudizio ipotetico
parallela a quella dei giudizi categorici da noi chiamati disparanti. - 311 -
CAPITOLO IX. Relazioni logiche possibili tra due giudizi considerati in
rispetto alla loro qualità e quantità Perchè due giudizi possano essere
paragonati logicamente tra di loro, occorre che abbiano la stessa materia, cioè
che contengano i medesimi concetti. Osservazione. -- Ci sono relazioni logiche
an che tra due giudizi, che hanno la stessa materia solo in parte; per es. tra
questi A è Be A è C; oppure A è B, C è B. Ma queste speciali relazioni qui non
si considerano, come quelle di cui si dovrà trattare nella teoria del
sillogismo. Ciò posto, divideremo tutte le relazioni formali, che possono aver
luogo tra due giudizi contenenti gli stessi concetti e considerati in rispetto
alla loro qualità e quantità secondo lo schema seguente: Indicando con a la
medesima posizione dei concetti; con P la posizione inversa de' concetti; con y
la medesima qualità ne' due giudizi; con 8 la qualità contraria ne' due giudizi;
con & la medesima quantità ne' due giudizi; con Ġ la quantità differente
ne' due giudizi, avremo: 312 E aye relazione d'identità (A è B, A è B ). 12 Ś -
ays relazione di subalternazione (A è B, qualche A. è B, A non è B, qualche a
non è B); dove l'universale si chiama subalternante é il par ticolare
subalternato. a E ada relazione di contrarietà (se i giudizi sono uni versali )
(A è B, A non è B; di subcontrarietà (se particolari ) qualche d è B, qualche A
non è B ). 8 Ś = ad relazione di contradditorietà (tutti yli A sono B, qualche
A non è B; oppure: nessun A è B, qualche A è B ). E = Byɛ relazione di
conversione semplice (A è B, B è A; qualche A è B, qualche B é A; A non è B,
B non è A; qualche A non è B, qualche B
non è A ). Ś = By5 relazione di conversione accidentale (A è B, qualche B é A;
A non è B, qualche B non è A). Bdɛ relazione di contrapposizione semplice (A è
B, ciò che non è B non è A; qualche A è B, qual che non - B non è A; A non è B,
ciò che non è Bè A; qualche A non è B, qualche non- Bè 4). d Ś = 386 relazione
di contrapposisione accidentale (A è B, qualche non - B non è A; Anon è B, qual
che non - B è A; qualchè A è B, ciò che non è B non è A; qualche A non è B, ciò
che non è B è A ) (1 ). (1 ) La conversione e la contrapposizione si chiamano
semplici, se i due giudizi, hanno la stessa quantità, cioè sono o ambedue
universali o ambedue particolari; si dicono acci dentali (per accidens) ove la
quantità sia differente, cioè l'uno sia universale e l'altro particolare. 313
contra vorietà Le relazioni 2a, 3a, e 4a, cioè tutte le relazioni formali
possibili tra due giudizi, data la stessa po sizione dei concetti (escludendo
la 1a, d'identità, che non è veramente relazione tra due giudizi, giac che i
giudizi identici non sono che un giudizio solo) furono dagli antichi
simboleggiate nel se guente diagramma: a contrarietà e subalternazione
subalternazione subcontrarietà Dove convien rammentarsi che a significa un
giudizio universale affermativo, e un g. universale negativo, i un g.
particolare affermativo, o un g. particolare negativo (1). (1 ) Sarà un
esercizio utile pei principianti di trovare esempi concreti per ciascuna delle
relazioni di giudizi sopra indicate. Noi ce ne siamo astenuti per non
ingrossare senza necessità il volume. Il medesimo diciamo in riguardo ai
capitoli seguenti che trattano delle inferenze immediate e delle forme sillogi
314 CAPITOLO X. Delle inferenze immediate a) specie prima (dipendente dalla
qualità e quantità) Quando da un giudizio dato se ne può rica vare un altro
immediatamente, cioè senza uopo di un terzo giudizio, ha luogo quella che
dicesi infe renza immediata. Noi distingueremo tre specie di tali inferenze: a)
quelle che nascono dai rapporti formali tra due giudizi, dipendenti dalla
qualità e quantità loro; b) quelle che procedono dalla relazione; c) quelle che
dipendono dalla modalità. Noi indicheremo qui sommariamente le infe renze della
specie accennata sub a, le quali dipen dono dai rapporti formali, che possono
intercedere tra due giudizi, svolti nel capitolo precedente, omet tendo quello
d'identità. 1.º Dalla subalternazione. Dal gudizio subal ternante si deduce
legittimameute il subalternato, ossia se il subalternante è vero, sarà vero
anche il stiche. Noi per brevità abbiamo dato il nudo schematismo;:
l'insegnante potrà proporre o far cercare agli alunni gli esempi opportuni a
illustrarlo. – 315 1 subalternato. (Se è vero il giudizio: tutti gli A sono B,
sarà vero anche il giudizio: alcuni A sono B. Se è vero: nessun A è B, sarà
vero anche che qual che A non è B ). Ma dalla verità del subalternato non segue
la verità del subalternante. I alla falsità invece del subalternato segue la
falsità del subalternante. Ma dalla falsità del su balternante non segue la falsità
del subalternato. Osservazione. Questa legge della subalter nazione è valida
soltanto ove il giudizio partico lare sia preso in senso lato (cioè nel senso
dell'al meno non in quello del soltanto ). Se invece il giu dizio particolare
si prenda in senso stretto, dalla verità del subalternante segue la falsità del
subal ternato e dalla verità del subalternato segue la falsità del
subalternante; ma dalla falsità del su balternante nulla segue rispetto al
subalternato. 2.° Dalla contrarietà. Due giudizi contrari non possono essere
amendue veri, ma possono bensì es sere amendue falsi; ossia dalla verità
dell'uno segue la falsità dell'altro, ma dalla falsità d'nino nulla segue
rispetto all'altro. 3. ° Dalla subcontrarietà. Due giudizi subcon trari possono
essere amendue veri, ma non amendue falsi. Ossia dalla verità dell' uno nulla
segue ri spetto all'altro; ma se l'uno è falso, l'altro deb b' essere vero.
Osservazione. Anche questa legge vale so lamente prendendo i giudizi
particolari in lato - 316 senso. Prendendoli in senso stretto dalla verità del
l'uno segue la verità anche dell'altro; ma dalla falsità di uno d'essi nulla
segue rispetto all'altro. 4. Dalla contradittorietà. Due giudizi contra
dittorii non possono essere nè amendue veri ne amendue falsi. Quindi dalla
verità dell' uno segue la falsità dell'altro, dalla falsità dell'uno la verità
dell' altro. 5.º. Dalla conversione. Un giudizio universale affermativo può
essere convertito solo accidental mente; l'universale negativo può essere
convertito e semplicemente e accidentalmente. Un giudizio par. ticolare
affermativo può essere convertito solo sem plicemente. Il particolare negativo
non ammette conversione. Osservazione. -- Anche qui si prende il giudizio
particolare in senso lato. Prendendolo in senso stretto, l'universale negativo
non può essere con vertito accidentalmente e il particolare affermativo non si
può convertire. 6.° Dalla contrapposizione. Il giudizio univer sale affermativo
può essere contrapposto semplice mente e accidentalmente. L'universale negativo
solo accidentalmente. Il particolare affermativo non ammette contrapposizione;
il particolare negativo può essere contrapposto semplicemente. Osservazione 1.
– Anche per questa legge vale l'osservazione precedente. Osservazione 2. - La
dimostrazione di tutte le inferenze, così valide come invalide, indicate in -
317 questo capitolo, è assai facile, qualora si ricorra al paragone delle estensioni,
nel che serve di grande aiuto l'uso delle rappresentazioni simboliche. Pren
dasi per es. la relazione di contrarietà. Tutli gli A sono B, nessun A i B. Che
non possano essere amendue veri risulta intuitivamente dalla figura. Sia B vero
il primo si avrà; ora il contrario А non è compossibile col B. primo. Che poi
possano essere falsi entrambi lo mostra il caso, che i due concetti A e B siano
in A terferenti O; il qual caso esclude B tanto che tutti gli A siano B, come
che A А B nessun A sia B Però la O dimostrazione di tutte le leggi delle
inferenze immediate può essere un utile esercizio da farsi dagli alunni. b ) specie seconda (inferenze della
relazione) Diconsi inferenze della relazione quei giudizi che possono dedursi
da un altro con mutamento della relazione. Così da un giudizio categorico
affermativo si può dedurre un ipotetico affermativo e uno nega tivo. Infatti
dato il giudizio: A e B si ha diritto d'inferirne che: se A è, B é, ed anche
che, se B non è, A non é. La ragione è facile a intendersi; perchè se B é un
predicato di A, la realtà di A trarrà seco quella di B; e togliendo B, la cui
esten sione comprende quella di A, si toglie anche A. Dal giudizio categorico
disgiuntivo si possono dedurre parecchi ipotetici, che qui brevemente in
dicheremo. Sia dato il giudizio A é o M o N o P, ne segue: 1º. Se A è, Ô M o N
o P è. 2." Se A è M, esso non è nè N nè P. 3.° Se A non è M, esso è o N o
P. 4.° Se A non é nė M né N, esso é P. 5.° Se nè M nè N nè P è, A non é. . c )
specie terza (inferenze modali) Chiamasi inferenza o conseguenza modale la
deduzione d'un giudizio da un altro per mezzo di un cangiamento di modalità. Il
principio che giustifica tali inferenze è que sto, che affermando il più si
afferma implicitamente anche il meno e negando il meno si nega impli citamente
anche il più: ma non inversamente. Quindi dalla verità d'un giudizio apodittico
s' inferisce legittimamente la verità dell'assertorio e del problematico; ma
non in ordine inverso. Dalla falsità poi d'un giudizio problematico segue la
falsità dell'assertorio e tanto più dell'apo dittico; dalla falsità del
giudizio assertorio segue la falsità dell'apodittico; ma non viceversa. Le
leggi precedenti sono giustificate da ciò che la negazione d'un giudizio
problematico è un giudizio apodittico, mentre la ne gazione d'un apodittico, è
un giudizio problematico. Si avverta che il giudizio problematico negativo ha
la forma A può non esser Be non già questa: A non può esser B. Quest'ul timo è
un giudizio apodittico.. 320 Queste relazioni appariscono intuitivamente nella
tabella seguente. 1 2 3 dover essere essere poter essere 4 5 6 non dover essere
non essere non poter essere ! Dove si vede che le formole 4, 5, 6 sono le
formole 1, 2, 3 ' coll' aggiunta della negazione. Ora mentre il n. 1 è
apodittico, il n. 4 è problematico: mentre il n. 3 è problematico, il n. 6 ė
apodittico. Osservazione 3. -- Le formole 1, 2, 3, potreb bero essere anche
negative; in tal caso la tabella precedente si trasforma in quest'altra. 1 1 2
3 dover non essere non essere poter non essere 4 6 non dover non essere non non
- essere che equivale a poter essere che equivale a non poter non essere che
equivale a essere dover essere Col confronto delle due tabelle è facile riscon
trare le formole che si equivalgono: così il n. 6 della prima tabella equivale
al n. 1 della seconda; il n. 5 della prima è identico al n. 2 della seconda; il
n. 4 della prima equivale al n. 3 della seconda. Gli equivalenti dei numeri 4,
5, 6, della seconda tabella sono già stati indicati nella tabella stessa. Il
giudizio disgiuntivo falsamente da taluni fu considerato come composto; esso
non è una somma di giudizi, ma un giudizio unico indecomponibile. Giudizi
veramente composti sono: 1º. i copulativi, i quali possono essere: a )
copulativi nel soggetto. Es. A, B, C sono M. b ) copulativi nel predicato. Es.
A è M, N, P. c ) copulativi in ambedue i termini. Es. A, B, C, sono M, N, P.
2.° I remotivi. Questi alla loro volta possono essere: a ) remotivi nel
soggetto. Es. nè A, nè B, né C À M. b ) remotivi nel predicato Es. A non è nè M,
nè N, nè P. In quanto ai giudizi complessi in forma attri butiva, logicamente
considerati, sono giudizi sem plici, perchè l'attributo non è che una nota sia
del soggetto sia del predicato. Essi o 1.º sono complessi nel soggetto; es. A (che
è M) è N. o 2.º sono complessi nel predicato; es. A è un M (che è N); o 3.º
sono complessi in amendue i termini; es. A (che è B) è un M (che è N). 21 322
Il problema generale che un sillogismo si pro pone di risolvere è: dati due
giudizi indipendenti tra di loro, i quali contengono un termine comune,
ricavarne un terzo eliminando il termine comune. Se noi paragoniamo la forma
rigorosamente sillogistica col processo reale del nostro pensiero, vedremo che
di rado il secondo combacia esatta mente colla prima. Le cause principali di
questo fatto sono le due infrascritte. 1.º Che i nostri pensieri e i discorsi
con cui li significhiamo, anche se indirizzati a dimostrare qualche tesi, di
solito contengono più sillogismi svariatissimamente intrecciati e allacciati
insieme. 2.º Che molti giudizi, benchè formino una parte essenziale de' nostri
ragionamenti, sono sottintesi e solo implicitamente pensati, ossia pensati
senza averne piena coscienza. Ora la logica, non può e non deve proporsi di
seguire i meandri psicologici del pensiero, sibbene di determinare le forme
esatte, le quali debbono essere almeno implicitamente osservate se il nostro
ragionamento ha da essere concludente. Contro il valore del sillogismo furono
emesse, massime dai moderni, varie obbiezioni. Qui si ac I 323 cennano
brevemente le più speciose, unendo a cia scuna una concisa risposta. Il
sillogismo non produce verun au mento di cognizione, perché la conclusione era
già racchiusa nelle premesse. Risposta Codesta obbiezione potrebbe tutt'al più
esser valida se il pensare umano fosse istan taneo e tutto abbracciasse con uno
sguardo. Ma siccome è discorsivo, quindi successivo, la combi nazione del
soggetto col predicato della conclusione ha mestieri d' essere esplicitamente
pensata; il che è per 1 appunto ciò che si fa per mezzo del sillo gismo. 05. 2.
- Il sillogismo è una pura petizione di principio, perchè la verità della
premessa mag giore dipende dalla verità della conclusione, anzi chè questa da
quella. Infatti non può esser vero per es. che tutti gli uomini sono mortali,
se già non sia vero che Pietro, Paolo, Antonio ecc. sono mortali. Risposta. –
Codesta obbiezione si fondamenta sul falso concetto che un giudizio universale
altro non sia che la somma di tanti giudizi particolari. Ora ciò nella massima
parte dei casi non è nem meno possibile, come se per es. io dovessi aspettare a
formulare il giudizio: gli uomini sono mortali, d'aver prima verificato la
morte in ciascun uomo. È vero invece che le premesse universali parte ri
sultano dall'analisi del soggetto considerato nella sua comprensione, parte da
nessi necessari tra un 324 concetto e un altro, parte da legittime induzioni.
In generale sono indipendenti dai singoli giudizi particolari e il sillogismo
applica a questi la regola già riconosciuta nel generale. 06. 3. - Il
sillogismo potrà servire tutt'al più a rischiarare o ad esporre
sistematicamente ve rità già note, ma non mai a scoprirne, perché la scoperta
del nuovo si fonda su processi psicologici. Risposta. Prima di tutto è da
notarsi, che tra i processi psicologici, onde può risultare la sco perta di
nuove verità, ce ne sono anche di quelli che coincidono col sillogismo. Ma quel
che più importa si è che un processo psicologico, in quanto tale, non ha alcun
valore scientifico e quello che può avere è giustificato soltanto dal processo
logico che lo informa. Finalmente contro tutte le predette obbiezioni e altre
analoghe sta questa osservazione fondamen tale, che le premesse d'un sillogismo
contengono la ragione della conseguenza. Certo se è vero che tutti gli uomini
sono mortali e che Pietro è uomo, è già vero che Pietro è mortale; ma questa
pro posizione è vera appunto perché sono vere le prime due e il valore del
sillogismo consiste nel mostrare questa dipendenza. Tutti i sillogismi semplici
possono ripartirsi nelle cinque classi seguenti: 1. ° categorici puri, e sono
quelli in cui tanto le premesse come la conclusione sono giudizi ca tegorici;
2.° categorico - ipotetici o ipotetici spurii, nei quali si le due premesse
come la conclusione sono giudizii ipotetici; 3.0 ipotetico -categorici o
ipotetici in senso pro prio, che sono quelli la cui premessa maggiore è un
giudizio ipotetico, la minore un giudizio cate gorico e la conclusione
ordinariamente non sempre) un giudizio categorico; 4. ° categorici disgiuntivi,
nei quali la maggiore è un giudizio categorico disgiuntivo, la minore un
giudizio categorico semplice o anche.categorico di sgiuntivo, la conclusione un
giudizio categorico semplice o anche categorico - disgiuntivo; 5.° ipotetici
disgiuntivi, in cui la premessa mag giore è un giudizio ipotetico disgiuntivo,
la minore è un giudizio categorico semplice o categorico di sgiuntivo, la
conclusione un giudizio categorico semplice o disgiuntivo. - 326 Osservazione 1.
Alcuni considerano l'indu zione e l'analogia come forme speciali d'argomen tare
distinte dal sillogismo; ma noi vedremo a suo luogo che non sono se non casi
particolari di questo. Osservazione 2. – C'è chi distingue prima di tutto i
sillogismi in semplici e composti. Ma i così detti sillogismi composti non sono
che serie di sil logismi semplici, i quali ricevono la loro unità dalla forma
stilistico - grammaticale. Del sillogismo categorico (puro) I due giudizi, da
cui si cava il terzo, qui come in tutte le forme di sillogismo, si chiamano pré
messe; il terzo conclusione. I concetti o termini, che esso contiene, non
possono essere nè più né meno di tre, perché le due premesse debbono avere un
termine comune. S'intende da sè che i concetti o termini del sillogismo possono
essere significati verbalmente o con una parola o con parecchie. Di questi tre
concetti quello che è comune ad ambedue le premesse e che dev'essere escluso
dalla conclusione dicesi medio, gli altri due diconsi - 327 estremi; dei quali
il soggetto della conclusione chiamasi minore, il predicato della conclusione,
maggiore. Delle due premesse l ' una si dice maggiore e suol essere più
generale, l'altra minore. Quella, nel sillogismo ordinato, si enuncia per
prima, que sta per seconda. Per altro la premessa maggiore è distinta
rigorosamente dalla minore solo nella fi gura prima, come si vedrà a suo luogo.
Il sillogismo può avere diverse figure (oxńuara) secondo la posizione che
occupa il termine medio. Se questo funge da soggetto nella maggiore e da predicato
nella minore si ha la figura prima. Se è predicato in entrambe le premesse, si
ha la figura seconda. Se è soggetto in tutte e due, si ha la fi gura terza.
Fnalmente se è predicato nella mag giore e soggetto nella minore, avremo la
quarta figura. Le tre prime furono scoperte da Aristotele; la quarta è
attribuita a Galeno. Eccone qui i tipi; dove si noti che con S si indica il
termine minore, con M il medio, con P il maggiore. Fig. 1. Fig. 2.a Fig. 3.a MP
PM MP Fig. 4.8 PM SM Ş M MS MS SP SP SP SP - 328 SM Osservazione. – L'ordine in
cui vengono enun ciate le premesse è indifferente rispetto al produrre la
conclusione; questo per altro è l'ordine normale. Ma rispetto alla figura 1.a
alcuni, col Leibniz, so stennero come più naturale l'ordine inverso come quello
in cui apparisce intuitivamente la con tinuità della subordinazione,
conformemente al tipo matematico (S < M < P ). Codesta continuità però è
intuitiva anche nell'ordine tradizionale, quando come appunto suol fare
Aristotele, nell'enunciare il giudizio si parte dal predicato (P compete ad M,
M ad S). Siccome poi le premesse possono variare di qualità e di quantità, cosi
si hanno tanti modi (τρόποι των σχημάτων) quante sono le combinazioni che due
giudizi possono presentare sotto questo rispetto. Queste in effetto sono sedici
per ciascuna figura a a e a ia оа a e e e ie ое (1) αι ei i i o ¿ α Ο e o io 00
e pertanto sessantaquattro per tutte le figure. (1) Cioè amendue le premesse
universali affermative (a a), la maggiore universale affermativa e la minore
universale negativo (a e ), la maggiore universale affermativa e la minore
particolare (a i), ecc. 4 Ma dei 64 'modi possibili, ce n'è 41 che non danno
conclusione; sicchè i modi concludenti e quindi validi si riducono a 19 tra
tutte le figure; dei quali 4 appartengono alla figura prima, 4 alla seconda, 6
alla terza e 5 alla quarta. Essi sono enumerati nei seguenti versi barbari, che
con qual che leggera variante si trovano per la prima volta nelle Sunmulae
logicales di Petrus Hispanus, il quale fu poi papa Giovauni XXI. Barbara,
Celarent, primae, Darii, Ferioque; Cesare, Camestres, Festino, Baroco, secundae;
Tertia grande sonans recitat Darapti, Felapton, Disamis, Datisi, Bocardo.
Ferison. Quartao Sunt Bamalip, Calemes, Dimatis, Fesapo, Fresinon. L'artifizio
di questi versi mnemonici (tante volte messi in ridicolo, eppure anche a '
giorni no stri reputati utilissimi, come sussidio alla memoria, da filosofi
insighi d'oltralpe) consiste in questo: che le vocali di ciascun vocabolo
denotante un modo indicano la qualità e quantità delle premesse e della
conclusione. Per es. i tre 4 di Barbara significano che nel 1.º modo della 1.a
figura sono universali afferma tive le due premesse e la conclusione; l'e, i,
o, di Festino significano che nel 3.º modo della 2. figura la maggiore è
universale negativa (e ), la minore particolare affermativa (ë ), la
conclusione particolare negativa (0), ecc. In quanto alla consonante iniziale,
questa nella figura prima esprime il numero d'ordine nel modo (B essendo la
prima consonante del l ' alfabeto, C la seconda, D la terza, F la quarta ); ma
nelle altre figure indica a qual modo della 1.8 figura quel dato modo venisse
ridotto nella logica aristotelico - scolastica per dimostrarne la validità.
(Per es. l'iniziale di Cesáre e Camestres nella fi gura 2.a e di Calemes ·
nella 4.&, indicano che tutti e tre questi modi si dimostrano con ridurli
al modo Celarent della 1.a figura ). Le altre consonanti, nella figura 1. sono
puramente eufoniche; ma nelle re stanti figure le lettere s, m, p, c,
significano l'ope razione logica, che si deve eseguire per dimostrare la
validità di quel dato modo riducendolo a un modo della figura 1. Così s
significa conversio Sim plex, p conversio Per accidens, m Metathesis prae
missarum, c ductio per Contradictoriam proposi tionern. Che se si chiedesse con
qual metodo e secondo quali criteri siansi trascelti fra i 6+ modi possibili i
19 dati come concludenti, si risponde che Aristo tele e in generale gli antichi
e gli scolastici si servirono a tal uopo d'un processo differente da quello che
preferiscono i moderni. Aristotele di mostra dapprima quali modi siano validi e
quali no nella figura 1.a; e ciò fa sia partendo da' prin cipi generali del
ragionamento, sia per via d'esempi. Per le altre figure procede in parte
riducendone i modi a quelli della figura 1.“, in parte per via di esempi, ossia
mostrando che, se si ammettesse la validità di certi modi, si avrebbero
conclusioni ma 331 nifestamente false. Questo processo non è rigoro samente
logico. I moderni in generale procedono per via d'eli minazione, cioè scartano
via via tutti quei modi ne' quali dalle relazioni tra gli estremi e il medio
contenute nelle premesse non risulta determinata la relazione tra i due
estremi. E ciò fanno col con fronto delle estensioni, nel che ci si può giovare
anche dei simboli grafici. Contro questo metodo si può obbiettare che è
meccanico e che suppone che le premesse siano sempre giudizi di subassunzione e
che il predicato sia sempre un concetto sostantivo, mentre in realtà esso può
rappresentare anche un'attività, una pro prietà, uno stato del soggetto. A ciò
si risponde 1.º che ogni giudizio, anche se narrativo o descrit tivo, contiene
pur sempre una subassunzione (1); 2.º che per mezzo dello spostamento di
categoria è sempre possibile concepire il predicato sostanti vamente. Ora
applicando il detto processo d'eliminazione, si ripudiano 1.º i modi e e, eo, o
e, oo in tutte o quattro le figure. Con che si giustifica l'antica re gola: ex
mere negativis nihil sequitur. I rapporti tra le estensioni degli estremi e del
(1 ) Pietro ieri passeggiava in giardino equivale alla subassunzione di Pietro
sotto gli esseri che ieri passeggiavano in giardino. Indichiamo con P il
complesso di tutti quelli che ieri passeggiavano in giardino e abbiamo Pietro e
P. 332 medio si possono simboleggiare come segue nella ipotesi e e, ossia che
entrambi le premesse siano universali negative. Mм P S M M S Dove si vede a
colpo d'occhio, che stando ferma la esclusione re ciproca tra M e Pe tra Se M,
la relazione di S con P può concepirsi in tutti i modi possi bili; il che val
quanto dire che niuna conclu. sione è legittima. Se poi una delle pre messe
(come in eo e in o e) od amendue (0 o) siano particolari, l ' in determinazione
è anco ra maggiore. Così sono scartati 16 modi. 2.° In guisa analoga si
eliminano i modi che hanno amendue le premesse particolari e ciò per tutte le
figure. Donde la regola: ex mere particu laribus nihil sequitur. I modi che per
questa legge vengono esclusi sono i i, io, oi, oltre ad oo, che fu già
eliminato in forza della legge precedente. Sono così espunti altri 12 modi. 3.°
Si rifiutano similmente per tutte le figure M M SP 333 io, quei modi che hanno
una maggiore particolare e insieme una minore negativa. Così si elimina i e in
tutte le figure (giacchè io, o e, 00 sono già stati eliminati) e così altri 4
modi sono dimostrati in concludenti. 4.° In figura 1.a se la maggiore è
particolare e del pari se la minore è negativa, non si ha con clusione. Restano
cosi esclusi per la figura 1a, oa, o e, a o (essendochè gli altri modi che
cadono sotto questa legge sono già stati esclusi in virtù delle leggi
precedenti ). Ecco dunque eliminati altri 4 modi. 5.° In figura 2.a sono
invalidi i modi, ne ' quali la premessa maggiore è particolare e quelli in cui
entrambi le premesse sono affermative. Così, oltre a' già esclusi, sono
eliminati dalla totalità dei 64 gli altri 4 modi i a, o a, a a, ai in fig. 2. *
6. ° In figura 3." sono esclusi i modi, che hanno la minore negativa;
quindi, oltre a' già esclusi, si espungono a e, a o. Altri due della totalità.
7.° In figura 4. non sono concludenti quei modi in cui sia contenuta una
premessa particolare negativa. Sicché, oltre a' già esclusi, vengono eli minati
i modi o a e ao. Di più in questa figura è invalido anche il modo che ha la
maggiore univer sale affermativa con una minore particolare affer mativa (a i).
Eliminati così altri tre modi, che coi precedenti sommano a 45, restano i 19
concludenti. 334 Con un processo simile si dimostra la validità di questi (1 ).
Dall'ispezione comparativa di tutti i modi con cludenti si ricavano le
infrascritte regole per tutte le figure. 1.° Se amendue le premesse sono
affermative, la conclusione sarà pure affermativa. 2. ° Se una delle premesse è
negativa, negativa è pure la conclusione. 3.° Se ambe le premesse sono
universali, la conclusione sarà universale nelle figure prima e se conda e
talvolta nella quarta; nella terza e talvolta nella quarta particolare. 4. ° Se
una delle premesse è particolare, è par ticolare anche la conclusione. 5.° La
figura prima ha conclusioni di tutte le forme; la figura seconda solamente
negative, la terza solamente particolari. Le regole quassù esposte sono
compendiate nel detto: conclusio sequitur pártern debiliorem (dove s'intende
che un giudizio negativo è più debole d'uno affermativo, uno particolare più
debole d'uno (1) Un 'esercizio che potrà essere utilmente fatto dagli alunni,
sarà di dimostrare quali siano i modi concludenti e i modi non concludenti per
ciascuna figura, sia col metodo di raffrontare le estensioni dei termini, di
cui s'è dato un esem pio rispetto a quelli che hanno ambedue le premesse nega
tive, sia col metodo aristotelico - scolastico della riduzione alla figura
prima. 335 universale ). Questa legge poi vale non solamente per la qualità e
quantità delle conclusioni, ma an che per la loro modalità. Vero è che
Aristotele in segna che con una premessa apodittica e una as sertoria si può
avere una conclusione apodittica. Ma ciò non è rigorosamente vero, come già
rico nobbero gli antichi. Del sillogismo per sostituzione, se un dato concetto
fa parte comecchessia (at tributivamente od obbiettivamente) del soggetto o del
predicato d' un giudizio, servendo a determi narli, e se da un secondo giudizio
risulta che quel concetto è equipollente a un altro, questo potrà es sere
sostituito a quello nel primo giudizio. Così s'avrà un sillogismo che chiamasi
di sostituzione. Eccone il tipo. 1 2 Am è P A è Pm in S m S dunque As è P
dunque A è Ps. Ma se il giudizio, che funge da premessa mi nore non è un
giudizio d'identità, sibbene di sub assunzione, in quali casi sarà lecito
sostituire nella premessa maggiore il nuovo termine della minore? 336 Se il
dato concetto fa parte del soggetto della maggiore, potrà essere sostituito da
qualunque con cetto che sia subordinato al primo. Se in cambio esso fa parte
del predicato, vi si potrà sostituire qualunque concetto, che contenga il primo
cioè che gli sia logicamente superiore. Così: 3 4 Am é P s è m A è Pm m è s
dunque As è P (1 ) dunque A è Ps Questa regola vale se il concetto dato entra
nella maggiore sotto forma positiva; che se v'entra negativamente, allora vale
la regola inversa 5 6 A non mè P m és A è P non m s è m dunque A non s è P
dunque A è P non s La dimostrazione di queste leggi si trova fa cilmente col
confronto delle estensioni e potrà as segnarsi per esercizio agli scolari, come
pure l'esco gitare degli esempi concreti. (1) Si avverta esser facile a cadere
in equivoco riguardo a questa formola, qualora si ritenga che la conclusione
af. fermi che A è s, mentre afferma soltanto che se A è s, esso è P. 337 Noi
daremo un esempio del tipo N. 3. Lo studio delle lingue classiche giova a formare
la mente. Il latino è una lingua classica. Dunque: Lo studio del latino giova a
formare la mente. La logica aristotelico - scolastica ha trascurato questa
forma di sillogismo, che pure è quella di cui si fa uso più frequente. Dei
sillogismi ipotetici spurii o categorico- ipotetici Se entrambe le premesse
d’un sillogismo sono giudizi ipotetici, si avrà una conclusione del pari.
ipotetica e, quando s'adotti il sistema di risguar dare l'antecedente come
soggetto e il conseguente come predicato, anche la posizione dei termini sarà
identica a quella dei sillogismi categorici. Anzi, secondo alcuni trattatisti
di logica, si avranno esat tamente tutte le figure e i modi del sillogismo ca
tegorico. Figura 1. Figura 2.2 modo BARBARA modo CAMESTRES Se A è B, C è D Se E
è F, A è B Se A e B, C e D Se E è F, C non è D Se E è F, CD. Se E è F, A non è
B 22. · 338 Figura 3.2 Figura 4.a modo DARAPTI modo BAMALIP Se A e B, C D Se A
i B, E È F se A è B, C i D se c è D, E è F Talvolta, se E é F, C è D. Talvolta,
se E é F, A è B. E così dicasi degli altri modi delle varie figure. Senonchè
contro questa dottrina si solleva una gravissima difficoltà; poichè come
abbiamo veduto, un giudizio ipotetico, ove s'interpreti come espri mente la
dipendenza del conseguente dall'antece dente, non può esser mai particolare.
Resterebbero quindi escluse le figure 3.8 e 4.a e tutti i modi delle altre due,
in cui o nelle premesse o nella conclusione entri un giudizio particolare. Se
in cambio s'interpreti il giudizio ipotetico come semplice coincidenza
dell'antecedente col con seguente, tutte le figure e tutti i modi del sillo
gismo categorico si potranno applicare anche ai giudizi ipotetici. Perocchè in
tale ipotesi il giudizio ipotetico universale affermativo significa che la to
talità dei casi, in cui s'avvera l'antecedente, coin cide con una parte almeno
de' casi in cui s ' avvera il conseguente; e il giudizio ipotetico particolare
affermativo significa che una parte dei casi, in cui s'avvera l'antecedente,
coincide con una parte al meno de' casi, in cui s'avvera il conseguente. Ana
logamente dicasi dei negativi. Così p. es. nel modo Darapti in figura 3. recato
qui sopra, la maggiore 339 significa che il numero totale dei casi, in cui A è
B coincide con una parte almeno dei casi, in cui C è D; la minore significa che
la totalità dei casi, in cui A e B.coincide anche con una parte almeno dei casi,
in cui E è F. Sicché è legittima la con clusione che una parte dei casi in cui
E é F coin cide con una parte almeno de' casi in cui C e D. Conclusione
espressa dal giudizio: Talvolta se E è F, C e D. Se pertanto al giudizio
ipotetico voglia man tenersi il suo significato tradizionale, di esprimere cioè
la dipendenza del conseguente, come condizio nato, dall'antecedente, come
condizione, questa teo ria deve essere rigettata. Siccome per altro anche la
semplice coincidenza o connessione è una rela zione, che effettivamente ha
luogo tra i fatti, è pur legittimo anche il sillogismo inteso in questo senso.
Solo a togliere gli equivoci, sarebbe neces sario farne una classe a parte e
designarlo con un nome particolare. E ciò basti per la presente que stione, che
il diffonderci di più sarebbe violare le proporzioni di questo trattatello
elementare. Dei sillogismi ipotetici propriamente detti ossia ipotetico- categorici
Sono questi quei sillogismi, di cui la maggiore è un giudizio ipotetico, la
minore è un giudizio 340 categorico che afferma l'antecedente o nega il con
seguente della maggiore e la conclusione è un giu dizio categorico il quale
afferma il conseguente o nega l'antecedente della maggiore. Sicché questo
sillogismo ha due modi fonda mentali, il modo ponente (ponendo ponens) e il
modo tollente (lollendo -tollens). 1 2 MODO PONENDO PONENS MODO TOLLENDO -
TOLLENS Se A e B, C è D A è B Se A è B, C e D C non è D Dunque CD Dunque \ non
i B Il modo ponente segue il tipo della prima fi gura del sillogismo
categorico, il tollente quello della figura seconda. La conclusione poi si
giusti fica col metodo della riduzione all'assurdo; perchè, supponendo falsa la
conclusione, ne segue esser falsa una delle premesse. Onde la regola: posta la
condizione, è posto il condizionato, ma non vice versa; tolto il condizionato,
è tolta la condizione, ma non vice versa. Che se nella premessa maggiore il
conseguente sia negativo, si hanno due modi po nendo tollentes.. 3 4 MODO
PONENDO TOLLENS MODO PONENDO TOLLENS Se A ¿ B, C non ¿ D A e B Se A è B, C non
¿ D Сер Dunque C non è D Dunque A non è B 341 Se l'antecedente è negativo e
affermativo il conseguente, si hanno due modi lollendo ponentes. 5 6 MODO
TOLLENDO PONENS MODO TOLLENDO PONENS Se A non è B, C è D A non è B Se A non è
B, C è D C non è D Dunque C è D Dunque A è B Finalmente, ove siano negativi
tanto l'antece dente quanto il conseguente, si avranno i due modi seguenti:
MODO TOLLENDO TOLLENS MODO PONENDO PONENS Se A non è B, C non è D A non è B Se
A non è B, C non è D C è D Dunque C non è D Dunque A è B Un caso particolare di
sillogismo ipotetico, che merita considerazione, sebbene per quanto a me consta
non sia stato mai trattato dai logici, è il seguente. Sia la premessa maggiore
un giudizio ipotetico copulativo nel soggetto, ossia tale che il condizio nato
dipenda da più condizioni riunite; se la mi nore afferma la realtà d'una o più
di tali condizioni, non però di tutte, la conclusione sarà un giudizio
ipotetico, nel quale il conseguente dipenderà da quella o quelle condizioni,
che non sono state poste nella premessa minore. Tipo 342 1 MODO PONENTE Se A è
B, C e D, ed E è F S è P A è B e C è D dunque Se E è F, S è P Ora siccome il
progresso scientifico consiste per gran parte nel trasformare i giudizi
ipotetici in categorici, è chiaro che questa forma d'argomen tazione non ha
piccola importanza, come quella che tende ad eliminare via via le ipotesi, da
cui dipende il conseguente e si accosta così sempre più allo scopo. Se poi la
premessa minore sia negativa, avremo un modo tollente, in cui la conclusione
affermerà la mancanza di tutte o d' alcune o almeno d' una delle condizioni.
Tipo 2 MODO TOLLENTE Se A è B, C è D é E è F S è P S non è P dunque o nè A è B,
nè C è D, né E é F o né A é B, né cé D o né A é B, né E é F oné C é D, né E é F
O A non é B o C non ¿ D O E non é F 343 Sillogismi disgiuntivi a) CATEGORICI Il
sillogismo categorico disgiuntivo ha per pre messa maggiore un giudizio
categorico disgiuntivo, per premessa minore un giudizio categorico sem
plicemente o categorico remotivo e per conclusione un giudizio categorico,
disgiuntivo o no secondo i casi. I tipi principali di questa maniera di
sillogismo possono ridursi ai quattro seguenti: 1 1 2 A è o BoCoD A é o Bo COD
F non è nè B nè C nè D dunque Fio Bo CoD dunque F non é A 3 4 Аёо восор A non è
nè B mè C A è o Bo COD A non è B dunque A è D dunque A è o COD b) IPOTETICI Il
sillogismo ipotetico disgiuntivo è quello che ha come premessa maggiore un
giudizio ipotetico 344 disgiuntivo. I principali suoi tipi sono i seguenti: 1 2
Se A ¢ B, o C é Do E é F A é B Se A e B, o C é Do E é F né Cé D, né E é F
dunque o C é Do E é F dunque A non é B 3 4 Se A e B, o C é Do E é F А ё Весё D
Se A é B, OC é Do E é F A é B e C non é D dunque E non é F dunque Eé F In tutte
poi le forme dei sillogismi disgiuntivi, se la minore nega tutti i membri
disgiunti della maggiore, la conclusione nega il soggetto (o l'an tecedente)
della maggiore. 1 2 A É O MONOP Né Mné N né P sono Se' A é B, o C é Do E é Fo G
é H C non é D, E non é F, G non é H dunque A non é dunque A non é B Forma che
dicesi dilemma, trilemma, quadri lemma, ecc. secondo il numero dei membri
disgiunti. 345 CAPITOLO XXI. Dell induzione L'induzione (erayoyń ) non è se non
un sillo gismo, nel quale in luogo del termine medio (M) è data la serie
completa o incompleta delle sue specie (u, u', u ', u ' ', ecc. ). Il suo tipo
pertanto è questo: M, u ', u '.... sono P My u ', u '.... sono S dunque S è P
Il quale è un sillogismo in figura 3.a, colla differenza che la conclusione è
(o tende ad essere) universale. Se la serie delle specie di Mè completa così
nell' una come nell'altra premessa, l'induzione di cesi completa o perfetta e,
potendosi la minore con vertire, equivale a un sillogismo in Barbara: (u, u ' u
'') sono P Séoul, ou ou" dunque S e P Ma se i concetti specifici, in cui
il medio ė risoluto, non esauriscono l'estensione di S, l'in duzione dicesi
imperfetta e, stando alle leggi formali, non può dare se non una conclusione
più o meno probabile. Infatti la conclusione attribuisce a tutta l'esten sione
del genere di S quella proprietà P, che se condo la premessa maggiore è riconosciuta
appar tenere a un certo numero delle specie di S. Perciò suol dirsi che, a
differenza del sillogismo propriamente detto, il quale conchiude dall'univer
sale al particolare, l'induzione dal particolare con chiude all ' universale.
Ma per grande che fosse il numero dei casi particolari u, u', u ', ecc. non si
avrebbe giammai il diritto d' estendere il carattere P ai rimanenti che con
quelli costituiscono tutta l'estensione di S, quando non s'avesse fondamento di
supporre che P competa ai primi non accidentalmente, sibbene in forza della
loro comune natura. Quindi la pro babilità della conclusione aumenta di molto
qualora My u ', U ", ecc., anzichè concetti specifici del genere S, siano
esemplari d'un'unica specie. In tal caso può bastare che la proprietà P si
scopra anche in un solo. Il principio fondamentale, su cui si appoggia
l'induzione, è la ferma nostra persuasione dell'uni formità e della costanza
delle leggi naturali. Que sto principio tuttavia non basterebbe a fondamen tare
l'induzione senza la supposizione sopra accen nata: perché ove non si supponga
che il carattere P appartenga a M, u', u ', ecc. appunto in forza d'una legge
di natura, non saremmo in diritto di attri buirlo ad S. Ma stando ad alcuni
empiricisti e positivisti moderni l'induzione è l'unica sorgente d'ogni no stra
cognizione; quindi anche il principio della uniformità e costanza della natura
non potrebb’es sere ottenuto se non per mezzo dell'induzione. Ora ciò è
contradittorio, e per fuggire questa contrad dizione si ricorse a uno spediente
poco migliore della stessa contraddizione. Si disse che le prime nostre
induzioni, non potendo appoggiarsi a un principio che non è ancora dato, si
sostengono pu ramente sul numero dei casi, che presentano la proprietà P; onde
furono dette induzioni per enu meralionem simplicem. Ma se la semplice
enumerazione basta per le prime induzioni, per quelle in particolare da cui poi
risulterà il principio dell'uniformità di natura, perché non dovrebbe bastare
per tutte, rendendo così inutile il detto principio? E se non basta per le
altre, come basterà per quelle? Se la nostra credenza nell ' uniformità e
costanza delle leggi di natura non ha fondamento logico, quindi è irragio
nevole, come potranno aver valore le induzioni fon date sopra di essa? Non si
esce da questo laberinto di contraddi zioni e di assurdi se non si riconosca
che l'uomo è particeps rationis, cioè possiede delle verità ori ginarie, le
quali poi cumunicano il loro valore an che a quelle che si acquistano
coll'esperienza, in quanto contengono la giustificazione dei processi
sperimentali e in particolare del processo induttivo. Con il nome di “analogia”
si suole designarsi un raziocinio, che va da un particolare ad un altro
particolare coordinato, ossia più specificatamente, un raziocinio, pel quale
date due cose aventi un certo numero di caratteri comuni, un nuovo carattere
che si co nosca appartenere all'una di esse viene attribuito anche all'altra.
Il suo tipo è questo A (che è m, n, q ) é P S é m, n, a dunque S é P
Paragonando questa formola col sillogismo pro priamente detto si vede ch'essa
risulta di due sil logismi, che sono: 1 2 A é m, n, 9 S é m, n, 9 A é P S é A (Dunque
S ė A?) Dunque $ é P È chiaro che il n. Í non autorizza a conchiu dere che Sè
A, essendo un sillogismo in figura 24 con le premesse amendue affermative.
Perchè la conclusione (S è A), la quale deve servire di pre messa minore al n.
2, sia legittima e certa, biso gnerebbe che la premessa maggiore del n. 1 fosse
319 convertibile semplicemente ciò, che è m, n, q, è A). Ora ciò di regola non
si avvera e perciò le con clusioni dell'analogia non possono essere se non più
o meno probabili a seconda che l'enumerazione dei caratteri m, n, q si accosta
più o meno al tipo: ciò che è m, n, q, è A, ossia secondo che essi ser vono più
o meno perfettamente a caratterizzare A. È restato celebre il raziocinio per
analogia, col quale Franklin nel novembre 1749 argomentò che il fulmine dovesse
essere attirato dalle punte me talliche. Esso risponde esattamente al tipo
proposto di sopra. L'elettricità (la quale è condotta dai metalli, dà una luce
d'un certo colore, ha un movimento velocissimo, ecc. ) è attirata dalle punte
metalliche. Il fulmine è condotto dai metalli, dà una luce di quel dato colore,
ha un movimento velocissimo, ecc. Dunque: il fulmine sarà attirato dalle punte
metalliche. Anche l'analogia, come l'induzione, si fonda menta sul principio
dell'uniformità delle leggi della natura e della costanza dei tipi naturali.
Vuolsi poi notare che se il fatto del riscon trarsi i medesimi caratteri m, n,
q in S ed in A non basta a provare che S sia specie e A genere o viceversa,
indicherà che almeno deve esserci tra loro una correlazione e una
corrispondenza; sicchè se non potremo a rigore attribuire ad $ il carat tere P,
potremo attribuirgliene uno analogo Pin modo che s'abbia la proporzione: 4: P =
S: P'. 350 E il carattere P' sarà il prodotto di ciò per cui A coincide con S e
di ciò per cui differiscono. Così in fatti ha considerato l'analogia il Dro
bisch. Il quale istituisce questo ragionamento: Po niamo che G sia un genere di
cui A e B siano specie. Dato che in A scoprasi una nota ", questa potrebbe
spettare ad A per una di queste tre ra gioni: 1.° Perché y sia un carattere del
genere G. In tal caso y competerà anche a B. 2. Perché y sia nota specifica di
4 (quella per cui esso si distingue da B). In questo caso y non si può
attribuire a B. 3.° Perché y sia il prodotto o la risultante della natura
generica di A (cioè di G) e della sua tura specifica. In tal caso a B si dovrà
attribuire non già y, ma una nota y ', che sia il prodotto della natura
generica che B ha comune con de delia sua peculiar natura speclfica. Questo
terzo caso sarebbe la propria e vera aualogia. Così un naturalista, che abbia
scoperto in una specie animale un dato carattere, p. e. un certo organo, non
attribuirà a un'altra specie con genere alla prima l'identico carattere (organo);
ma ben piuttosto uno analogo, cioè tale che raccolga, in sè la natura del
genere e risponda insieme alla particolar natura della seconda specie. na Della
prova o dimostrazione Chiamasi con questo nome un ragionamento, il quale si
propone non solamente di vedere quali conseguenze dipendano logicamente da certe
pre messe, ma bensì di dedurre da premesse vere la verità di una conclusione.
La verità da dimostrarsi dicesi tesi o anche teorema, le premesse si chia mano
argomenti. La prova è di due specie, di cui l'una è la diretta, l'altra l '
indirelti o apagogica. Diretta è quella che, partendo dalla verità delle
premesse, ne deduce per via sillogistica (sia poi qualunque la forma e il
concatenamento dei sillo gismi) la verità della tesi. Indiretta o apagogica
quella, che muove dal supporre falsa la tesi e da questa supposizione de duce
una proposizione assurda in sé o tale che stia in contraddizione con una verità
già riconosciuta. Dicesi anche riduzione all'impossibile o all'assurdo (ab
assurdis, duà tõv aduvátov). È una dimostrazione indiretta anche quella che,
partendo da una premessa disgiuntiva, esclude ad uno ad uno tutti i membri di
questa disgiun zione meno uno; di che resta provato solo valido essere quell'
uno che rimane. La dimostrazione diretta ha un pregio maggiore in quanto, non
solamente produce la certezza della verità della tesi, ma ne fa vedere anche la
ragione. Codesto pregio è massimo quando il fondamento logico, da cui la prova
è ricavata, coincide col fon damento reale della cosa (dimostrazione dalla
causa. L'indiretta in cambio ha il vantaggio d'essere, per dir così, più
violentemente necessitante; essa, in forza del principio di contraddizione, ci
strappa l'assenso, benchè noi non vediamo il perchè della cosa. Osservazione:
-- La dimostrazione detta ad ho minem, non è una vera dimostrazione, ma piuttosto
un artifizio della discussione. Essa parte da un principio, non in quanto sia
vero in sé, ma in quanto è accettato e ritenuto vero dall'avversario, onde
questi è forzato ad accettare la tesi sotto pena di cadere in contraddizione
con se stesso. Gli errori da fuggirsi nella dimostrazione o 1.º risguardano il
modo in cui la conclusione fu dedotta dalle premesse; o 2.º risguardano le pre
messe (gli argomenti); o 3.º stanno nella conclu sione. Gli errori della prima
specie consistono nella violazione di qualghe legge logica, in particolare
delle leggi del sillogismo; e ad' evitarli, oltre la conoscenza pratica delle
dette leggi, conviene por mente sopratutto al valore logico delle espressioni.
In quanto agli errori della seconda classe, il principale è la falsità d'una o
più delle premesse. E siccome questo per lo più si nasconde nel modo in cui il
medio è connesso cogli estremi, così prende il nome di fallacia falsi medii.
Nelle dimostrazioni apagogiche è assai fre quente l'errore della disgiunzione
incompleta della premessa maggiore. Altro errore riguardante le premesse è la
pe tizione di principio, la quale ha luogo quando si assume come principio una
proposizione, che può anche esser vera, ma la cui verità dipende da quella
della tesi che si vuol dimostrare. Gli errori della 3.* specie consistono in
ciò che la proposizione effettivamente dimostrata non è quella che si suppone
d'aver dimostrato (éregosumnos ). Codesta differenza tra la conclusione
realmente ot tenuta col nostro ragionamento e la tesi da dimo strarsi puo
essere qualitativα (μετάβασις εις άλλο γένος) ovvero quantitativa (il provar
troppo o troppo poco). Nella disputa un vizio frequente è la consape vole o
inconsapevole ignoratio elenchi (ή του ελέγχου äyvora ); vale a dire il non
avvertire o non voler avvertire qual sia il punto in discussione. Un caso
particolare di quest'ultimo difetto della prova è lo scambiare la confutazione
d'una data dimostrazione con la confutazione della tesi. Per rispetto al provar
troppo o troppo poco notisi che si prova troppo poco quando la conclu sione
effettiva è un giudizio meno ampio ossia meno generale della tesi; quindi in
tal caso la prova è senza fallo insufficiente. 354 Ma il provar troppo, se
veramente esatto, non nuoce al valore della prova, anzi fornirebbe una
dimostrazione a fortiori della tesi. Tuttavia accade generalmente che la
proposizione, con quella gene ralità con cui sarebbe dimostrata se la prova
fosse realmente corretta, è manifestamente falsa; di che risulta ch'essa è
destituita di valore anche per la tesi, che è più ristretta. Ogni dimostrazione
poi suppone che le pre messe siano certe. Ora questa certezza o è il resul tato
di altre dimostrazioni o converrà sia immediata. Quindi coloro che negano che
ci sia verun princi pio immediatamente certo, tolgono con ciò la pos sibilità
di qualsiasi dimostrazione e però d'ogni certezza. Il medesimo avviene anche
per chi non am mette Verità se non relative; perocchè anche la verità relativa,
perche si possa dimostrare, abbisogna di qualche principio che sia vero di
verità assoluta. Chi invece nega alcuni principii amnettendone altri, può
essere convinto per via di ragionamento; il che per lo più si ottiene mostrando
che il ne gare la certezza immediata di quelli ch'egli nega conduce per logica
necessità a negare anche quelli che ei riconosce per veri. Ma in genere si
tratta più ch' altro di dissi pare un'illusione. L'avversario crede di
ammettere soltanto questo o quel principio, ma poi ne' suoi ragionamenti
presuppone tacitamente la verità an che di quelli ch'egli professa di non
riconoscere. 355 L'argomentazione allora deve essere rivolta a pro vargli che
implicitamente egli ammette anche que sti. (Cosi ad es. il famoso cogito ergo
sum di Car. tesio, che egli pretendeva essere l'ultima e unica åncora di
salvezza contro il dubbio universale, per aver valore e servire di base alle
deduzioni ch'egli ne trae, richiede la verità anche del principio di identità e
in genere de' principii logici). Delle
fonti da cui si ricavano le premesse dei nostri ragionamenti e in particolare
del me todo sperimentale. La logica non può avere per ufficio di enume rare
tutti i principii de' nostri ragionamenti; ogni scienza particolare si occupa
di quelli che la ri guardauo. Tuttavia ella può offrire delle norme generali valide
per qualunque ordine di ricerche. I principii in genere consistono in un
giudizio che può essere o analitico o sintetico. Un giudizio analitico è per sè
evidente ogni qualvolta il con cetto di cui si tratta (il soggetto del
giudizio) sia valido (il che importa 1.º che non contenga ele menti
contradittorii tra di loro; 2.0 che rappresenti una sintesi legittima di
elementi) e il predicato sia evidentemente contenuto nel soggetto. L 356 I
giudizi sintetici o sono a priori (e in questo caso essi debbono esser tali che
il negarli conduca alla negazione della ragione e dello stesso pensiero),
ovvero sono a posteriori (e in tal caso l'ultimo criterio è l'esperienza si
interna che esterna, si diretta che indiretta (storica] ). Per rispetto alle
cognizioni che provengono da quest'ultima fonte, cioè dall'esperienza, si vuol
di stinguere l'osservazione dall'esperimento propria mente detto.
L'osservazione non dipende da regole logiche o almeno quelle che vi si possono
assegnare hanno ben poca efficacia; essa dipende sopra tutto dalle attitudini
naturali, che per altro possono essere educate e guidate. Uno de' maggiori
ostacoli, che si oppongono alla buona osservazione è la facilità a vedere nelle
cose più di quello che realmente c'è, ossia le false integrazioni della
percezione. Un altro sta nel non distinguere le parti d'un tutto o, con
tendenza con traria, nel concentrare e isolare l'attenzione sulle parti in
guisa da perdere di vista il loro nesso ed il tutto (che è quello che il
proverbio tedesco esprime dicendo che gli alberi non lasciano vedere il bosco
). Nella grande complessità dei fenomeni naturali, la massima difficoltà, che
s'incontra per distinguere le cause dagli effetti e a ciascun effetto assegnare
la sua causa propria, nasce il più delle volte dal l'impossibilità, in cui
siamo, di osservare gli uni separatamente dagli altri. A superare questo
scoglio l'osservazione si giova, sempre che lo possa, delle circostanze varie
in cui un medesimo fatto si presenta. Ma a questo fine serve sopratutto
l'esperimento con produrre artificialmente il fatto, che si vuol studiare, in
circostanze differenti e isolandone fin dove è possibile i vari elementi. E
l'esperimento s' avvantaggia sopra l'osser vazione non solo col variare le
circostanze del fatto, ma col produrre per l'appunto quelle varietà che meglio
servono all'uopo. (Si confrontino p. es. le cognizioni intorno all'elettricità
che si potrebbero ottenere dalla semplice osservazione dei temporali, dei
lampi, dei fulmini, ecc., con quella che il fisico ricava dagli esperimenti
istituiti sistematicamente nel suo laboratorio ). Ma la via comoda e fruttuosa
dell'esperimento non ci è sempre aperta; moltissimi esperimenti per la natura
della cosa e per la limitazione dei nostri mezzi sono impossibili (come sarebbe
per es. il produrre una cometa artificiale, un uomo due teste, ecc. ); molti,
benchè possibili, sono ille citi, come quelli che lederebbero dei diritti e vio
lerebbero le leggi della morale (P. es. l'allevare un bambino in un ambiente
viziato, spaventare un uomo con una falsa notizia ecc. ). Il famoso esperi
mento di Psammetico, narrato da Erodoto nel 2.º libro delle Storie, sui due
fanciulli, cui non fu in segnato a parlare e che probabilmente è una favola,
sarebbe stato illecito. con 358 In generale se l'esperimento, quando è possi:
bile, è superiore all'osservazione nello scoprire gli effetti di date cause,
l'osservazione supera l'espe rimento nel determinare le cause di dati effetti.
Perocchè se d'un effetto, che la natura ci presenta noi ignoriamo la causa o le
cause, di dove potremmo muovere per produrlo artificialmente? Se per altro
l'osservazione ci mostra certi fatti preceduti sempre da certi antecedenti, si
avrà ra gione di congetturare che tra questi antecedenti ci sia la causa, che
cerchiamo. Allora interviene l'espe rimento e provando e riprovando scopre se e
quale sia la vera causa. L'investigazione sperimentale, a cui la scienza della
natura deve i meravigliosi progressi che ha fatto da due secoli in qua, si
giova massimamente di due metodi, che secondo lo Stuart Mill, sono i seguenti:
1. ° Paragonare tra loro differenti casi, in cui il fenomeno che si studia,
avviene. 2.° Paragonare i casi, in cui il fenomeno ay viene, con altri (simili
nel rimanente) in cui quello non avviene. Il primo chiamasi metodo della
concordanza, il secondo metodo della differenza. E qui si avverta che altra
cosa è se si cerca la causa, altra se si cerca l'effetto d'un fenomeno
qualsiasi, quantunque nella maggior parte dei casi queste due ricerche
procedano per la stessa via. 359 Ciò posto, le regole del primo metodo si rias
sumono in questa: Se due o più casi d'un dato fenomeno hanno comune una sola
circostanza, que sta circostanza, ch'è la sola in cui tutti i casi combinano,
conterrà la causa (oppure l'effetto) di quel fenomeno. Pel secondo metodo si
assegna la regola se guente: Se un caso, in cui il fenomeno da esami narsi s'
avvera, e un caso, in cui il medesimo non ha luogo, hanno comuni tutte le
circostanze ad ec cezione d'una sola e quest'una s' incontra solo nel primo
caso, questa circostanza, per la quale sol tanto i due casi differiscono, sarà
l'effetto o la causa o una parte necessaria della causa del feno meno.
Osservazione. -- Il metodo della concordanza serve specialmente ne' casi in cui
l'esperimento è impossibile; quello della differenza nei casi in cui è
possibile. Siccome poi s'incontrano spesso' de' casi, in cui nè l'uno nè
l'altro dei due metodi accennati, preso da sè, ci potrebbe condurre allo scopo,
cosi l'uno può integrarsi per mezzo dell'altro ricor rendo a un terzo metodo,
che è la riunione di que' due e che si formola in questa regola: Se due o più
casi in cui un dato fenomeno (A ) si avvera, hanno comune una sola circostanza
(a), mentre due o più casi, in cui quello non s'avvera, non hanno comune
l'assenza di verun altro fra gli antecedenti di A, tranne quella di a, questa
circostanza in cui 360 le due serie di casi unicamente differiscono, sarà
l'effetto o la causa o una parte necessaria della causa del fenomeno (1 ).
Questo dicesi il metodo della concordanza e della differenza riunite. Altri due
metodi della ricerca sperimentale sono: a) quello che dicesi dei residui, il
cui canone può essere così formulato: Se da un fenomeno si detragga quella
parte, che in forza di anteriori in duzioại si sa essere effetto di certi
antecedenti, il (1) Lo Stuart Mill, da cui abbiamo preso la teoria sopra
esposta dei metodi per la ricerca sperimentale, ha formolato questo terzo
canone in altro modo, cioè precisamente cosi: Se due o più casi, in cui il
fenomeno avviene, hanno sol tanto una circostanza comune, mentre due o più casi,
in cui quello non avviene nulla hanno di comune tranne l'assenza di questa
circostanza; la circostanza in cui solamente le due serie di casi differiscono,
è l'effetto o la causa o una parte indispensabile della causa di quel fenomeno
(A system of Logic 5. edit. London 1862, pag. 435). Ora noi abbiamo già
osservato fino dal 1867 in una recensione della detta logica del Mill (Rivista
bolognese) che qui era corso un errore o ne abbiamo proposto la correzione
colla formola riportata nel testo. 6 Perocchè scrivevamo - più casi che
differiscano in tutto meno nella mancanza di una sola circostanza (a) sono
nonch'altro inescogitabili; le coincidenze puramente negative sono infinite. »
E a giustificare la mia formola io soggiungeva: « Supponiamo che si avverino i
casi A B C, A DE, A FG, le conseguenze dei quali siano per or dine abc, ad e,
afg; noi non siamo ancora in diritto di ri tenere A come l'antecedente costante
di a, potendo questo O 361 resto del fenomeno sarà l'effetto degli antecedenti
che sopravanzano. b) Il metodo delle variazioni concomitanti. Il suo canone è
questo. Se un fenomeno varia in qual siasi modo ogniqualvolta un altro fenomeno
varia in una certa particolar maniera, quello sarà una causa o un effetto di
questo o sarà connesso col medesimo per qualche vincolo causale. essere una
volta l'effetto di B, un'altra di D, una terza di F, ecc. Se ora siano dati i
casi G HL, MNO, ecc., che non sono seguiti dal fenomeno a, il coincidere essi
nella man. canza di A non prova nulla; ma ben maggiormente provereb bero i casi
BCH, DEL, FGM, perchè non avendo essi co mune l'assenza di nessuno tra gli
antecedenti di a, tranne quella di A, ne risulta che nè B, nè C, nè D, nė E, nè
F, nė G sono la causa di a, ossia che in tutti i casi osservati, in cui a ebbe
luogo, esso fu sempre dovuto ad A. Il Mill ha notato essere difficile applicare
il metodo della concordanza ai casi negativi, cioè ai casi in cui quel
determinato fenomeno non succedo, ma non avverti che è ancora più enorme per
non dire infinita la difficoltà di determinare la coincidenza nei caratteri
negativi, vale a dire d'aver comuni delle mancanze. Nella lezione precedente
[v. sommario] abbiamo ricercati i principii generatori della lingua italiana;
venendo ora a parlarvi dell’importanza che il medesimo ha rispetto al pensare,
noteremo prima di tutto su che falso terreno si pongono coloro, che vogliono
fare una separazione assoluta tra il pensiero e la parola [greco ‘parabola’,
cf. romano ‘per-ferenza], per esaminare poscia se questa riesca a quello di
aiuto ovvero d’impedimento. La quale disamina, qualora venga istituita in
questa maniera, conduce quasi inevitabilmente alla seconda soluzione, cioè a
considerare la lingua italiana come un impaccio e nulla più, come un traino
inutile e pesante che il pensiero e costretto a trascinarsi dietro e che ne
impedisce il libero volo. Noi faremo ragione un’altra volta di queste opinion.
Quello che qui vogliamo si avverta si è che la parola [parabola, transferenza] e
il pensiero sono talmente concresciuti e fusi nella vita dello spirito, che non
si può movere un passo nella storia di questo senza trovarli l’uno nell’ altro
inviluppati. Come non e concepibile la lingua italiana in un essere che fosse
destituito dell attivitta pensativa, così non possiamo dire che cosa sarebbe il
pensiero senza la lingua italiana. Nè si dica che i sordo-muli ce ne porgono un
esempio vivente, giacché prima di tutto ogni educazione di questi infelici e
solo possibile per mezzo d' un sistema di comunicazione arbitrario, convenzionale,
e artifiziale che viene sostituito a quello negato a loro dalla natura, e iu
secondo luogo anche quel poco disviluppo intellettuale, che essi possono
raggiungere senza una siffatta educazione, è evidenlemenle conneso colla lingua
italiana, via un sistema di comunicazione di gesti e di moti, che sebbene
imperfettismo in confronto della parola, pure ne tien loro le veci comechessia.
Affine di formarci un’idea dell’ importanza che ha la lingua italiana per lo
svolgimento spirituale dell’uomo, noi esamineremo i seguenti punti. Come la
lingua italiana cooperi alla formazione delle prime nozioni che noi
acquistiamo. Qual ufficio la lingua italiana adempia nel collegamento di queste
in sistemi di cognizioni. Qual parte abbia nelle produzioni dello spirito via
le implicature. Questo argomonlo lu Iraltalo in Ire lezioni, delle quali diamo
qui solo la seronda j rispetto alle allre due, vedi il Sommario in lino. Quanto
al punto della cooperazione basti richiamare quanto si è dotto allorché
esaminammo il processo psicologico, onde la singola intuizione sensitiva danno
origine ad una nozione generale. Una nozione generale risulta da moltissimo
intuizioni singolari fuse insieme o collegale in serie. Ma come avviene poi che
tanti elementi psichici formino una unità? Come avviene che l’anima nostra
componga a sò stessa di quella pluralità una sola rappresentazione? Sta
benissimo che rinforzandosi reciprocamente le parti identiche, mentre le parti
diverse per la loro opposizione si oscurano a vicenda, quelle predominino sopra
di queste in modo da comparire esse sole nella coscienza; ma che cosa è poi
finalmente che dà a quelle il valore di una unità? Che cosa ò ciò che le tiene
insieme stabilmente congiunte di modo che non solo compariscano sempre unite,
ma compariscano come una cosa sola? Evidentemente non è altro se non la parola
(greco: parabola). La parola (greco: parabola) forma il nocciolo stabile,
intorno a cui si aggruppano tutti i singoli caratteri, che presi insieme
costituiscono una nozione, essa è come l’apice d' una piramide o d’un cono, la
cui base ò formata da tutte le singole intuizioni ond’ò risultata l’idea
generale. In tal modo poi, se ben si avverta, è spiegata non solamente l’unità
della nozione, ma anche la sua universalità, che ne è il carattere essenziale.
Niuna intuizione sensibile infatti, niuna imagine della fantasia può mai
vestire questo carattere della universalità; sia pure che l’imagine stessa, non
contenendo se non quei caratteri che sono comuni a molle intuizioni e quindi a
molli oggetti, possa risguardarsi corno il tipo generico di questi; la ò questa
una relazione che non è contenuta nell’ imagine stessa, ò una relazione
aggiuntavi dal pensiero che la considera in rapporto a quelle intuizioni e a
quegli oggelli. Conviene pertanto che essa imagine ridivenga oggetto della
coscienza riflessa, e questo accade solo per mezzo della parola (Steinlhul.
Gram. Log. u. Psych.). Un’ intuizione si colleghi psicologicamente con un suono
vocale – il sistema fonologico della lingua italiana. Ora il ricomparire di
quest’ultimo nella coscienza trae seco il ricomparire anche di quella e cosi
nel suono — cioè nella parola (greco: parabola) — è di nuovo intuita l’intuizione,
ossia l’intuizione è divenuta alla sua volta oggetto d’un’altra intuizione –
l’imagine -- vale a dire è divenuta oggetto della coscienza riflessa. Per tal
guisa nella intuizione riflessa, ossia nella parola (greco: parabola), non
solamente una somma di intuizioni viene aggruppata in una unità, ma anche tutte
le unità simili (cioè tutte le somme di intuizioni, che sono intuite dalla coscienza
riflessa sotto una sola intuizione) vengono comprese nella unità d’una sola
specie. Così la nozione o parola della lingua italiana, “albero”, è una sola,
qualunque sia il numero degl’oggeti a cui può applicarsi, qualunque il numero
delle singole intuizioni di alberi reali o dipinti che noi possiamo avere avuto,
e in questa sua unità “albero” ha il potere di essere il “rappresentante”
(segnante) di tutti gli infiniti alberi possibili. Io debbo per altro farvi
avvertire una cosa, acciocché non abbiale ad attribuirmi dottrine che non sono
le mio. Io ho mostrato come il processo psicologico onde i diversi tratti
rappresentativi si unificano in una sola
rappresentazione complessa e la universalizzazione di questa sono strettamente
connessi colla parola “albero” (greco: parabola). Con ciò io non ho inteso
affermare clic le idee delle cose — prese in sò — altro non sieno che parole,
ossia che quella sia mera unità fìttizia tenute insieme dalla parola (greco:
parabola). No, io conosco le enormi conseguenze che si trarrebbe seco questa
teoria. Essa riuscirebbe nientemeno che alla negazione assoluta delle idee e
con ciò alla negazione dell' ordine morale, dell’ ordine logico e dell' ordine
estetico del mondo; alla negazione assoluta del vero, del bello, del bene e del
giusto. Vedete pertanto se in questa materia occorra camminare guardinghi e
come un passo falsi dato in una investigazione apparentemente secondaria puo
far precipitare noi sistemi più spaventevoli. Io dico pertanto: l’idea di una
cosa e in se quello che e, eterna, immutabile, assoluta, norma e archetipo del
tutto. Essa si trovano più o meno realizzate nella natura e nell' uomo, ma non
per questo esaurite o scemate d’efficacia. Noi sappiamo che essa vi e, perchè
vediamo il creato e ogni processo che si compiono in esso soggetto a certa
legge, perchè nell’ente organici sopratutto viamo una rispondenza di fini e di
mezzi, troviamo un ordine, una proporzione, un’armonia, una bellezza, che rivelano
evidentemente un disegno. Noi sappiamo che essa e assoluta ed eterna perchè il
nostro pensiero si rifiuta a pensarle distrutto o alterato, perchè noi
concepiamo che gli assiomi, che valgono per noi, non potrebbero non valere per
qualunque altro essere in qualunque altro mondo a qualsiasi enorme distanza ili
tempo. Ma noi sappiamo altresì che solo un piccolo numero di tali idee è accessibile
alla nostra mente, che difficilmente la pensiamo nella sua purezza e
integrita), che molte nostre concezioni, che noi crediamo di poter mettere nel
novero di quelle, non sono che informi aborti della nostra imaginazione. Noi
argomentiamo finalmente che una idea assoluta, archetipo, eterna non possono
esistere completamente che nel pensiero divino; giacché altrimenti dove
esisterebbero esse? Sarebbero forse anteriori alla mente che dee concepirle,
come suona la paradossale sentenza di Hegel? Esisterebbero da sè, in aria,
aspettando che finalmente dopo molte evoluzioni e ri-assorbimenti sorga dal
loro seno un essere capace di afferrarle col suo pensiero? Essa esistoe dunque.
Na non e il patrimonio ereditario dell’uomo. Questi dee faticare tutta la sua
vita, anzi le intere generazioni devono a poco a poco accumulare il fruito
delle loro fatiche, perchè l’uomo giunga al possesso d’ una parte di quelle.
Ora in questo lavoro, l'uomo è sostenuto e guidato per mano dalla parola. L’impressione
sensibile e la ri-produzione (coppia) di queste forniscono il materiale
greggio, da cui lo spirito colle strumento della lingua italiana distilla i
suoi concetti: o questi non sono addirittura e comunque generati l’equivalente
di quelle, ma si hanno il compilo di avvicinarvisi sempre più e noi abbiamo
veduto, allorché parlammo degli elementi a priori dell'intelligenza dell’uomo,
come nella natura stessa dell’ anima sia deposta la norma istintiva, la misura
originaria. a tenore della quale un prodotto dello spirito viene a mano a mano
depurato e condotto a quel punto in cui possono aver valore di assoluta verità.
E tanta è 1’importanza della parola in questo procosso, che noi non sappiamo
altrimenti concepire nò anche il pensiero divino, che come una intima parola
che il pensiero divino dice a sè stesso. La parola è per noi il “rappresentante”
della cosa in sè, dell’intima natura d’ogni essere, appunto perchè i nostri pensieri
non possono sollevarsi a quei concetti universali, che rappresentano non più le
accidentalità della cosa, ma la loro stabile essenza, se non nella parola e per
mezzo della parola. Dove si vede la causa d' un fatto a prima giunta
inesplicabile, cioè di quelle credenze superstiziose, giù altre volte tanto
diffuse e comuni a quasi tutti i popoli, sulla potenza magica di certe parole.
Tornando ora al nostro argomento osserveremo un altro importantissimo ufficio
che fa la parola per il pensiero. Benché l’attività del pensiero puro sia in sè
altra cosa dalla rappresentazione sensibile è tuttavia per la nostra natura
impossibile o per lo meno estremamente difficile di pensare senza l’appoggio
d’un elemento sensibile (l’imagine – di un segno). Basta la più leggera
riflessione sopra di sè per convincersi come anche un concetto astrattio non
viene mai pensato da noi senza un qualche fantasma sensibile che ad essi si
accoppia, anzi che fa l’ufficio di darcene a dir così un “segnale” che li
contraddistingua. Così l’idea di minaccia suole accompagnarsi all’ imagine
visiva – il gesto, il moto -- d’un dito brandito in alto. L’idea di frazione a
quella di due numeri o lettere separati da una linea orizzontale. L’idea di
morte a quella dell’oscurilt e va dicendo. Questo fallo, che si spiega
osservando il processo psichico che ha luogo nel pensare un concetto astratto, mentre
consistendo questi in una moltitudine grandissima di singole rappresentazioni
fuse e complicale insieme e che non possono più ri-comparire ad una ad una o
non lo possono che successivamente, conviene che vi sia nella coscienza qualche
elemento chiaramente re-presentabile e congiunto con quelle, il quale porta con
sè la tendenza alla successiva evoluzione di quella massa. Questo fatto mostra
ad un tempo l’utilità della parola. La parola infatti è un’magine sensitiva –
uditiva, ma cf. segno per l’altri quattro sensi -- facilmente re-presentabile,
distinta da ogni altra e perciò acconcia mirabilmente a quello suopo. Per la sua
chiarezza e distinzione la parola (o espressione o segno patognomico) evita il
pericolo di ri-chiamare altre serie di rappresentazioni da quelle che si
vogliono, ossia altri concetti, mentre per la sua semplicità e vivezza è facile
a tenersi presente nella coscienza. In tal modo, assicurali che noi siamo che
ogni espressione è il re-presentante d’un dato complesso di idee, noi non
abbiamo più mestieri di affaticarci a richiamare questo e colla rapidità del
baleno percorrendo colla mente diversi espressioni, compiamo un processo
cogitativo complicatissimo, che altrimenti op primerebbe il nostro pensiero
colla sua spaventevole molliplicità. Un altro fallo psicologico che dimostra
l’intimo nesso del pen¬ siero colla parola, si è questo che noi non crediamo
mai aver piena cognizione d’ una cosa finché non ne sappiamo il nome, mentre
al1' opposto molte volte ci sembra di conoscerla, quando in realtà ne
conosciamo solo l’espressione (nominale,
il nome) e nulla più. Noi avremo esaminato un oggetto (o cosa) sotto
ogni aspetto, ce ne saremo fatti un’imagine completa, ma finché non sappiamo il
“nome” (l’espressione nominale, alpha) che ha nel sistema di comunicazione
della lingua italiana, esso ci sembra pur sempre avvolto in una certa oscurità.
Dato poi che ci venga appreso un tal “nome”, quell’ oscurità pare dilegui al
risonare di esso, e sembra che l’oggetto o la cosa acquisti allora
definitivamente il suo posto fra le cose esteriori, che diventi allora qualche
cosa di stabile e indipendente (1). Quante volte passeggiando pei campi ci
abbattiamo a considerare un fiorellino, che forse abbiamo già spesso veduto, ma
senza che mai l’imagine del fiorellino pigliasse nella nostra memoria un luogo
stabile e fisso. Dopo averlo guardato e riguardato noi stiamo per gettarlo e
così esso rimarrebbe anche questa volta un oggetto perduto per noi, quando l’amico
che ne accompagna, studioso coni’ è di botanica, ce ne insegna il “nome”; ed
ecco che questo fiorellino ha preso per noi una consistenza e individualità
nuova. Noi sappiamo oramai -- che cosa? Se alle nostre cognizioni non si è aggiunto
altro che un puro “nome”? Un puro “nome” sì. Ma questo nome è un testimonio che
quel fiorenillo è già noto all’uomo. Testimonio che ha ricevuto un posto
determinato nell’ordine degli esseri. Quel nome ci attesta che esiste pari a
quello una intera *specie*, che gl’uomini possiedono questo concetto come cosa
oramai stabilita e indubitabile. Tanta è la forza d’ un nome! L’osservazione
che facemmo or ora intorno ai servigi che ci presta la lingua per
re-presentarci un concetto astratto ci introduce ad altro punto che ci siamo
proposti di esaminare. Per essere la parola il re-presentante del concetto, noi
possiamo operare sulla parole o il segno patognomico quasi fossero esso
medesimo il concetto, e i risultati riescono esatti al pari di quelli che
ottiene l’ algebrista, il quale designando arbitrariamente, artificialmente,
colle lettere dell’alfabeto le quantità, su cui vuole istituire le sue
investigazioni, ne cava fuori dei risultati non meno rigorosi di quel che se
avesse operato sulle effettive quantità. Che immensa facilitazione sia questa
per i processi del pensiero non occorre ch’io mi fermi a osservarlo. Una frase,
un *periodo*, un breve discorso equivalgono a dei mondi intieri di idee con
tutti i loro rapporti reciproci ! idee e rapporti che, ove non fossero nella
coscienza re-presentali da un’espressione, richiederebbero un enorme sforzo
mentale e un tempo non breve per venire effettivamente pensati. Bastici
ricordare quello che a ciascuno di noi certamente sarà più volte intervenuto,
cioè la difficoltà che si prova per concepire un’idea chiara di qualche cosa,
non trovando un vocabolo appropriato che la significhi (che e segno). Non è
pertanto da disprezzare — come fanno leggermente ta¬ luni — la tendenza di
tutte le scienze a crearsi una determinata e minuta terminologia, mentre senza
di questa è impossibile la sveltezza e la libertà di moversi del pensiero. E sotto
questo rispetto mi sembrano ridicoli coloro che, per un concètto esagerato
della purità della lingua, vorrebbero tolto alle scienze il più potente loro
stromento, i vocaboli. Che altri si provi a scrivere di fisica o di fisiologia
o di chimica o di psicologia nella lingua dei trecentisti! Anzi tutto io sono
certo che egli avrà pensato prima ciò che scrive sotto altri termini e altre
forme linguistiche e poi si sforzerà di sostituirvi alla meglio quelli del
Cavalca e del Villani; e poi che lentezza, che strascico, che indeterminatezza,
che equivoci, che confusioni! Non c’è via di mezzo, (I) Lolze, Mikrokosmus. E.
I. 8 i) pensare coinè <jaelli di cui volete copiare il linguaggio o servirvi
d’ altro materiale linguistico. Certo ogni novità ha da essere giustificata da
duo ragioni, l’insufficienza del materiale preesistente e la novità del
pensiero; ove manchi l’una o l’altra di queste due condizioni, avremo o
licenziosi corrompitori della lingua o miseri ammantatori di idee vecchie solto
spoglie novelle. Per mezzo della lingua italiana il pensiero ricostruisce entro
di sè il mondo esterno, col suo ordinamento, le sue graduazioni e lo sue
reciproche attinenze; gli esseri stabili c permanenti si distaccano dalle
accidentalità mutabili e passeggere, le sostanze si distinguono dalle qualilà,
gli avvenimenti si distribuiscono nel tempo, gli citelli mostrano il loro
concatenamento colle cause, le azioni e le passioni si contrappongono agli enti
che agiscono o che patiscono, i correlativi si fronteggiano e va dicendo, e
tuttociò sotto l’influsso c per l’opera della parola. E che la cosa sia così
voi lo vedete nelle forme gramaticali della lingua italiana e anzi tutto nelle
cose dette parti del discorso. Mentre la lingua italiana comprende un concetto
sotto la forma di “nome sostantivo”, la lingua lo riconosce è lo caratterizza
come una cosa che sta da sè, che si appoggia a sè stessa c che è idonea a
servire di punto di partenza por una seconda, di oggetto ad una terza. Il
sostantivo è la forma natu¬ rale con cui la lingua riproduce la cosa e elio
però in origine essa impiega solamente a designare ciò che come oggetto stabile
e indi¬ pendente si presenta alla intuizione sensibile. Se essa ad un altro
concetto impronta la forma di aggettivo, con ciò lo denota corno cosa che non
islà da sè e che riceve esistenza, grandezza, forma, circoscrizione solu da un
altro concetto sostantivo, a cui è pur sempre costretto appoggiarsi: e le
qualità sensibili delle cose sono le prime che la lingua italiana comprende
sotto forma di “nome aggettivo”. A questi elementi la lingua italiana aggiunge
il terzo, che è il più indispensabile, cioè il “verbo” o la copula, aflìne d’esprimere
il passaggio, con cui l’avvenimento collega fra loro quello imagini immote (1).
Anche questa forma serve da principio solamente a denotare i cangiamento
sensibile, ma poi ben presto venne estesa anche ad esprimere la relazione stabile
della cosa, mentre il movimento interno del nostro pensiero che va dall’una all’altra
e per coi solo noi possiamo concepire la relazione, viene riguardato come un
movimento reciproco che abbia luogo fra le cose stesse paragonale. Senza tener
dietro allo svolgimento delle altre forme gramaticali — ciò che è ufficio della
“filosofia della lingua italiana” — osserviamo qui che queste tre forme — nome
sostantivo (alpha), nome aggettivo (beta), e verbo o copula (“il alpha e beta”)—
presentano il minimo di organizzazione e di distribuzione nel contenuto del
pensiero, senza di cui sarebbe a questo impossibile di intraprendere le sue
operazioni. Nè è da opporre a queste considerazioni che parecchie lingue non
distinguono le parti del discorso con particolari *modificazioni* di suono
(amare, amante, amato, l’amante ama l’amato, l’amato e amato dall’amante);
perocché non è necessario che ogni forma del pensiero abbia il suo
corrispondente nella forma del suono, basta bene che questo sia pensato con
quella relazione (l) 111. ibiil. 9 Cogitativa. So un “idioma” non possiede, a
cagione di esempio, alcun distintivo esteriore per caratterizzare il nome sostantivo,
però la sua parola, sintatticamente informe, nell’anima di chi parla (il
mittente), per il pensiero concomitante dello stare da sè, è trasformata in
nome sostantivo. Ma se v’hanno alcune lingue che difettano dei mezzi per
rendere esternamente sensibile il concatenamento dei pensieri, le più di esse
invece inclinano all'altro estremo, producendo da sè una quantità di forme
gramaticali e sintattiche che evidentemente soverchiano il bisogno logico del
pensiero (1). E questo sia il luogo di richiamare una verità non mai abbastanza
ripetuta, cioè che la forma della lingua italiana è in sè diversa dalla “forma
logica”. La “forma logica” non conosce altri rapporti che quello di universale
e particolare, di subordinazione, coordinazione, inclusione ed esclusione,
posizione e negazione, mentre le forme linguistiche oltre di queste relazioni
ne esprimono infinite altre che si attengono vuoi alla natura delle cose, vuoi
alla maniera con cui queste fanno impressione sulla nostra sensibilità. La qual
ultima attinenza essendo suscettiva di infinite e finissime gradazioni ha dato
origine a tutte quelle delicate e svariatissime tinte (o implicature) della
lingua italiana?, di cui non possiamo farci un’ idea se non collo studio dei
filosofi più perfetti. In particolare la antica lingua latina usata dai romani
ha sotto questo rispetto dispiegalo un lusso e una ricchezza di forme, che il pensiero
italianao più arido e severo ha abbandonato come superflue. Basti ricordare le
ricchissime flessioni del verbo. Aggiungiamo a queste considerazioni l’immenso
vantaggio che l’antica lingua latina usati dai antichi romani all'individuo in
grazia del tesoro di pensieri che nella antica lingua latina già si
improntarono e che egli riceve come in eredità dalle generazioni precedenti col
solo apprendere la lingua latina. Quante intuizioni, quanti giudizi, quante
riflessioni, quanti confronti e raziocinii di infiniti uomini romani si sono a
dir così depositati nella lingua di un po¬polo! e il bambino che viene alla luce
nuovo a tutlociò che lo circonda, col solo apprendere la lingua italiana si
risparmia una fatica che supererebbe enormemente le forze del genio più
potente. Venendo da ultimo a considerare l'influenza che la lingua esercita
sulle produzioni dello spirito in generale e in particolare sulle creazioni
letterarie e poetiche, dobbiamo prima di lutto avvertire che la lingua italiana
non è già solamente una veste esteriore del pensiero, alla quale sia
indifferente di sostituire qualsiasi altro segno, ma sibbene la forma stessa in
cui il pensiero è fuso e concresciuto: che a volergliela strappare per aver nudo
il contenuto, gli'è come se si volesse togliere a una foglia o ad un fiore la
sua forma lasciandone intatta la sostanza. Noi avremmo in tal caso un dato
miscuglio chimico di materie, ma non più una foglia nè un fiore. Ma quello che
più imporla, considerando la lingua italiana sotto l’aspetto letterario, si è
che qualsiasi concetto può venir pensalo in varie maniere, in diverse
attinenze, con una maggiore o minor ricchezza di (1) Irt. iblei. 2 10
contenuto, con un accompagnamento più o meno ricco di fantasie e di sentimenti.
Conviene qui distinguere il valore del concetto strettamente logico od
obbiettivo che dir si voglia dal valore psicologico o subiettivo. Il primo deve
essere eguale per tulli e in tutte le circostanze, a menochè l'idea di cui si
tratta non sia addirittura falsata — il che equivarrebbe a dire che in vece di
un' idea se n' ha un- altra. Il secondo invece varia a seconda della persona (mittente)
che lo pensa, del lernpo, delle circostanze, dell' unione con altri e va
dicendo. Chi dice per esempio “la primavera”, certo intenderà quella data
porzione dell'anno che è determinata dal calendario. Ma questo non è che il
valore assoluto obbiettivo di tal concetto; quanti diversi aspetti non vestirà
esso invece nella mente delle varie persone che lo pensano! Per uno è la stagione
dei fiori, delle aure miti e feconde, del ringiovanimento delia natura, per
altri è il ritorno delle giornate del lavoro, delle opere campestri, pel
pastore è 1’epoca di ricondurre le gregge su pe’monli, per la giovinetta la
stagione della gioia e dell' amore e va dicendo che non finiremmo sì presto. E
basti questo esempio per mille che potremmo addurre a conferma delle nostre
parole. Ora la lingua italiana non si limita a denotare quel concetto astratto
e nudo, ma per lo più lo colora in una data guisa, lo lumeggia a suo modo, ne
mette in risalto un aspetto, ne accenna una profondità, ne tratteggia un
attinenza con altri, gli dà uno sfondo particolare, una positura determinala.
Tultociò senza dubbio la parola lo ottiene per mezzo diquella che chiamammo
forma interna (1) e che è contenuta nell' etimologia dell’espresione; ed è per
questo altrettanto vero che scomparendo l’etimologia od origine, come si è dello,
dalla coscienza del mittente e del recipiente col procedere della coltura, la
lingua italiana dei moderni non presenta a gran pezza quella vivacità di
colorito, quella vita che sembra un eco ili quella elio si agita nel seno delle
cose stesse, quella freschezza d'imagini, che sono proprietà delle lingue e dei
popoli primitivi. Ma è pur vero che in sostiluzione di quella forma interna,
perdutasi insieme colla etimologia del vocabolo, nei tempi storici ognuno che
parla se ne vien formando un’altra, spesso indipendente dalla perentela
gramaticnle di quello e dalla sua primitiva derivazione. Chi dicendo per
esempio “cannone” pensa, come porterebbe la etimologia a noi pur vicinissima
del vocabolo, ad una grossa “canna”? 0 non si è egli piuttosto formata un’altra
forma interna, dovuto forse all'analogia tra il suono di questa parola e il
rimbombo solenne, e cupo dello sparo? lo forza di questa il cannone non è più
per noi la grossa canna, ma sibbene quello che tuona e rimbomba; ragione per
cui questo vocabolo da qual che poeta moderno si è potuto introdurre nel verso,
a malgrado della eccessiva schiiìltosilà della poesia italiana. Giù posto è
facile argomentarne con quanta forza debba la parola influire sul nostro
pensiero; posciachè a tenore delle speciali rappresentazioni e de’sentimenti
che ogni I) Questo concetto messo in luce specialmente dallo Sleinlhal. Qui
basii notare che la forma interna è l’anello intermedio che congiunge il
significato (il segnato) della parola (l’espressione) colla forma eslerna di
questa cioè col suono. Il vocabolo e ogni giro di frase e ogni costruito porla
seco nella coscienza, anche le ideo, che formano per così dire lo scheletro d’
un dato pensiero, rivestonsi di polpe e di vene, e indossano ora un manto
sfarzoso e sfolgorante, ora una lugubre gramaglie, ora sprizzano vivaci e
saltellanti come la gragnola sui tetti, ora fluiscono tranquille e compatte
come l’onda d’un ruscello. Ben si accorgono di questa verità coloro che si
provano a voltare un poeta d'ima in altra lingua; chè mentre la lettura di un
passo dell’originale li esalta e li rapisce, quel medesimo passo reso colla
massima proprietà e purezza nell’altro idioma non appare che un pensiero
dozzinale e senza effetto. E certi poeti non Sono mai propriamente gustati fuori
della propria nazione italiana! Ecco eziandio perchè la poesia nei tempi di
progredito incivilimento è costretta ad abbandonare una gran parte del comune
materiale linguistico, come quello che si è logorato ed è divenuto senza
effetto in grazia dell' uso cotidiano nelle bisogne triviali e prosaiche della
vita, per attenersi a quella parte che è ancora fresca di giovinezza e che
porla seco nell’animo del recipient quelle tinte fantastiche, quelle speciali
rappresentazioni e quei sentimenti, che debbono contribuire all'effello della
comuniccazione. Nè però è solamente l'uno o l’altro vocabolo che sia capace di
questa efficacia; la medesima voce riceve dal contesto, cioè dall’insieme di
quelle idee a cui è associata, un valore tutt’affatto particolare; e mentre in
un caso non desta in noi che un concetto astratto, in un altro eccita un’
imagine triviale e bassa, in un terzo è capace di vestire la più splendida
corona di superbe fantasie. Prendiamo ad esempio l’espressione “ala”. Chi
dicesse; la lunghezza dell’ala deve avere la tale o tal’altra proporzione col
peso del volatile, non mi desta che il concetto astratto di quella parte del
corpo del Uccello che serve al volo; è un concetto scientifico. Se altri invece
dica: “Ami meglio l'ala, la coscia o il petto?” risveglierà nel recipient delle
irnagini gastronomiche eia rappresentazione per esem pio d’ un cappone
arrostilo. Allorché invece Ogo Foscolo canta di chi vede il suo spirito ricovrarsi
sotto le grandi ale Del perdono di Dio (metafora). Foscolo è forse l’estremità
anteriore del volatile, o la gustosa polpa del cappone che si muovono nella
nostra fantasia? o non piuttosto qualche cosa di indefinito e misterioso che si
stende sul creato come un gran manto e tutto lo copre e lo avvolge? L'oggetto
non è per noi se non ciò, per cui lo percepiamo, e siccome la parola, come si è
veduto, è l'organo della percezione, così ogni cosa è per noi quello che la
parola ce ne annunzia. Or chi non vede come tutte le produzioni dello spirito
saranno intimamente legate alla natura della lingua italiana e non solo della
lingua in generale. ma sì particolarmente della lingua italiana in cui si
pensa. Se poi lo scopo della composizione non sarà unicamente di trasmettere un
certo numero d'idee insieme colle loro attinenze, ma più di tutto di commovere
gli animi, di suscitare gli affetti, mettere in gioco la fantasia — ciò a cui
mirano appunto i prodotti della letteratura, nessun dubbio che la lingua italiana
sarà l’elemento predominante. E come essa guida per mano il poeta e gli conduce
innanzi questa o quell’altra imagine, questa o quell'altra serie di pensieri e
di fantasie, così alla sua volta il poeta per guidare e signoreggiare gli
uditori dovrà essere padrone di tutti i segreti, di tutti gli espedienti della
lingua italiana. La storia 'della letteratura lo conferma. Sommario di
tutto il corso: il segno patognomico. Dfferenti opinioni intorno al concetto
della filosofia. Se la Filosofìa sia una scienza, ovvero una speciale tendenza
del pensiero, un bisogno dello spirilo umano sempre linascente e non inai
appagabile. La Filosofia è una scienza in formazione. Oggetto della filosofia. La
filosofia è la scienza della verità assoluta, degli ultimi fondamenti del
tutto. Quindi essa investiga i principii su cui si fondano la altre scienze ed
è la scienza suprema (la regina delle scienze). Dottrina della cognizione. I problemi
fondamentali di questa. Lo scetticismo. Il criticism. L’idealismo. La dottrina
della cognizione vuol essere preceduta dalla psicologia. La Psicologia è una
parte della filosofia propriamente detta? Pensar volgare, pensar scientifico,
pensar filosofico. Esperienza e cognizione assoluta e loro rapport. La Psicologia
abbraccia questi due ordini di cognizioni. Partizione di essa, materia, metodo,
fonti, difficoltà, scopo e importanza. Se quesla parie della psicologia sia
indipendente dalla questione intorno all’ esistenza dell’ anima. Si ammette qui
l’esistenza dell' anima come un’ipolesi, senza però che una tale supposizione
influisca sullo sludio dei fenomeni spirituali. Primi passi della (I) /. pubblicata a parte. r,o r.rj.a, *?1
Complessili dei fenomeni psichici _ Zu T lrasf0rmazione d«' corpo, coscienza —
classilìcazione provvisoria dei fenomeni psicWci “na "Ua SUCC0ssione ~
Sirss- descriz!°ne re-presentazione, percezione, fattori dell’intuizione ali sensazione» intuizione, re-ppresentazione
co!,.plesso ed elementideHe med» me"-~a~e. 77 1 intuizione lolale e per
cui gli elementi ranni-esenti,ivi si S P.. Sl spezza in piu in cui questi
clementi si compongono è un nun-1 ele,nen?n ° ~ la fo,ml.’ ficazione della
sensazione. Sentimento fondamentale di Rosmini**'-"duncoHà°d' s ClaSSI' ‘
'golosamente l’elemento re-presentativo dal sentimento „ fi. dira?011,1 d'
separare distingue la materia dalia forma da che sia data " una 7v aZ m ^
grandezza, "forma' c solidità d;i°cro%i0in%S „"rson7Mi pel Ziio~
*?".,,ÌT0 aMa vtne„ùr?c,'ia s s^no1: “-JM materia - suoni o romori - scala
musicalo - seHIkinn^ r’ ‘ncdl° f, p,ocesso ~ ^5?*“ SSS - materia - manca ogni
dislinzione di parti - se si «a una mCd'° ° P''?Cesso ^assu riarr.. ~.%sa sar*
delle sensazioni. ’g CSl6"C' “ r,gorosa '"dividualità c
incoi,,unicabililà mSmSVSfiS, iÌ^SSSS£ --—1 itipioduzione — meccanismo
doli’anima — si» i« „... o scsi debba ammettere un principio suneriore (r/i U f
p,,n.c,p,° atl,vo in essa della dottrina di Ile, hai ! (la re-presentazione
consi. ef /lé”'"' 0 J r~ prinClp" fondamentali ra,nonio reciproco
residn eauiE 1 T,, '?omc fori!c ~ contrasto, oscue soglia meccanica -
con,piloni c fusioni l°1'0i„ ed8S,!ne ~ coscienza, soglia statica
incrocicchia,ncnto delle serie ed elTetli del medesimo -nSdTmnn, T •*“ “
percezione - appercezione interna) Il sentir.» o t> r • f,1? f1alazl0;M -
eli¬ porti di re-presentazione appetire ■■ciotti da llerbart a rap¬ ai. stabile
a^ufslo ta *« — - «ebba ritenere codella re-presentazione c al gradualo
oscuramento deMc^s etsc"6'''^-!0 '"‘-T al!anforza produzione, memoria
e imaginazione. 1 0 “ ggl clnP*ricl,e della
ricirca^la'realtà"^^*tiiva*dello*spazio c *«7 Zr't'T Si**".-* «- - «
-TS5S *r-s.%SS Intelligenza caratteri che la distinguono dalla sprmihititò, •
cartesiana, maiebranchiana (e giobe,-liana, egeliana e rosa,intana)
P'egaZ,°"e plat0nica’ Il giudizio come allo foridamcnlale del pensiero —
sli.iii •,, luizione, riconoscimento, classiflcazione giudizio logico ! - „iT '
da,- T T"0 (informazione del concetto generic. Il giudizio implicito ed il
giudizio esplicito. falli senza consapevolezza di una o d’ambedue le raziocinii tasr*. - - «*— « »
~Wssutnsr--^.^.«• •,» mm* pili le idee innule se una tale ipolesi sia
aminrsihile i> •' pi'e"d?ssero Pel' lo risolvere queslo problema -
lendcnze innata de, pensiero os^g^I“nT'in! r.i consapevolmente nelle sue
operazioni e che poi la riflessione discopre sceverandole dalla materia
accidentale e riconoscendone la necessilà ed il valore assoluto. Il pensiero e
la lingua italiaa. Importanza dei problemi che si riferiscono alla lingua
italiana. S’elimina il problema circa l’origine storica della lingua italiana.
La disposizione fisiologica e psichica che concorrano alla produzione di un
sistema di comunicazione – un sistema – il segno patognomico – della lingua
italiana. Ripercussione dalla sensazione al movimento. L’associazione del
movimento fra loro e colla sensazione. Come l’anima si scarichi della sua
“affezione” (pathos) per via del movimento. Il segno articolato. onomatonee.
Come un segno (segnante, signans) acquisti un significalo (segnato, signatum), ossia
diventi parola [parabola] espressione o segno patognomico. Il periodo o la fase
patognomico – il segno patognomico. Il periodo patognomico. La fase
patognomica. Periodo patognomico, onomatoeico e caratteristico-- nella formazione o costituzione della
comunicazione -- di un sistema di comunicazione -- linguaggio — Signo
patognomonico. Periodo patognomonico. Il processo linguistico nei tempi storici
che cosa s’ intenda per forma interna della lingua. Come la lingua italiana
coopera alla formazione della nozione generale. L’dea eterna e i concetti umani
— lorza dei non» ordinamento sistematico delle nostre idee per mezzo della
parola — influenza della lingua sui prodotli letterarii — la lingua non è
solamente I’ espressione del pensiero — spiritualizzazione progressiva del
linguaggio - la lingua è uno dei prin¬ cipali elementi che costituiscono le
nazioni — danni che a dello di alcuni la lingua arreca al pensiero dilesa della
lingua — organismo indipendcnle di questa. La mitologia considerata nella sua
origine psicologica. L’nfanzia dell’ umanità. Come si possa scoprire il
processo psicologico che dà origine alla mitologia (tre cose ser¬ vono a questo
fine: I. la cognizione generalo delle leggi psichiche. Lo studio della
mitologla comparata, o la mitologia dei bambini e le superstizioni popolari.
Che cosa sia la Mitologia - fasi per cui passa - rapporti tra la biologia e la
morale - due opposte opinioni (tei pensatori intorno all’ origine della
mitologia. Della coscienza di sà - distinzione di questa dalla coscienza dei
propri stali. Se si possa ammettere un senso interno stadii che il pensiero
percorre per arrivare alla concezione del proprio io - pretesa contraddizione
nel concetto dell’ io tre gradi o potenze della coscienza. Lo fenomenale e lo
trascendente - lo, soggetlo puro* pura attivila c lo realtà — l' lo e il centro
mobile delle cose. Egoismo primitivo e’come 1 uomo ne esca — raddoppiamento
dell’ Io nel sogno... Scnl"-"<» >nipossibilità di dedurlo da
altre attività, quindi è un’ attività primil'va. 7- J°, S‘ rPICg? cssenza ’ ma
bensi *’ or'Sine del sentimento - le due forme ladicali de sentimento - cause
della varietà dei sentimenti - intreccio di questi - che cosa impedisca la loro
fusione in un sentimento unico indistinto — efTctti della progredì a col ura
sulla varietà dei sentimenti sentimenti inavvertiti. Influenza del sentimento
sulla fantasia e sulla ragiono. Classificazione dei sentimenti sentimenti
estetici - il bel o d.liburne U ridicolo e 1 loro opposti - due diverse teorie
estetiche senlimenli mo all -- clementi innati della inoratila - idea formale
del dovere - contraddizioni intrin¬ seche ne I egoism. Lo sviluppo dei
sentimenti morali. La civiltà. Il sentirnent1 religiosi — origine di questi -
depurazione progressiva del sentimento religioso — come il terrore passi in
venerazione. Il sentimento simpatico — spiegazione meccanica di questi. Con
quale uomo un uomo po simpatizzzare — crudeltà dei bambini e degli desimi'. T°m importanza del sentimento simpatico per la morale,
educazione dei me Riproduzione dei sentimenti, associazione di questi fra loro
e colle re-presentazione dC ° 'ggl che,e?olano la re-produzione e tras-missione
del sentimento per la concezione fantastica dell’universo per le arti, per la
comunicazione coll’altr’uomo. Ecc. Affetti in che differiscano dai sentimenti,
classificazione dei medesimi, appetizione, distinzione fra l’appetito e il
sentimento, analisi dell’appetizione appetizione cieco c desiderio accompagnato
dalla re-presentazione dell’ oggetto Vamato iTtinb g eia n Pr',na °. de' S,‘C°n < l0 classificazione degli appetiti
«ratiere degH sbassi? bi“8ni "“b‘“, volontà - in che differisca dall’
appetite, fattori della volontà, due alti di (me¬ sta - fine e mezzo, molivi
della volontà - so il motivo sia da confondere colla caule efficiente
spontaneità e liberta la volontà è sempre spontanea. non sempre liberà _ Jra.Ps*cologica
e libertà morale, schiavitù del volere procedente dallo passioni se VI siano
passioni buone, nobili, ecc. effetti delle passioni sull’anima ine so'uzione -
fine supremo - carattere morale e immorale) - in che consta „ Zi Svolgimento
progressivo della vita psichica — vifa del sentimenlo vita delti »ni::r.'.ivsr.s4 PSICOLOGIA RAZIONALA 0 METAFISICA 0) Problema
circa l'esistenza dell' anima, so non sia un vero di evidenza immediate, perchè
si debba dimostrare - contraddizione inerente al materialismo in quanto vuol
essere teoria, il fatto di coscienza diversità dei fenomeni fisici c psichici,
pretesa spiegazione materialistica della coscienza - come la natura del fenomeno
psichico non permetta di attribuirlo ad un principio materiale unità della
coscienza incompatibile con un ente compost, altri argomenti in favore
dell'"esistenza" dell’ anima, obiezione idealistica conilo
l’esistenza dell’anima monismo spirituale. Dell’unione dell’anima col corpo so
si possa spiegare il commercio fra due sostanze se la spiegazione del nesso fra
anima e corpo sia più facile supponendo l'anima materiale - come si spieghino
le sensazioni e i movimenti (sp. volontarii del corpo ammollendo 1'anima di
naura soprasscnsiliva. Fin dove sia conoscibile l’essenza dell'anima. Sede
dell’anima nel corpo che senso possa avere questo quesito organo centrale dell’
anima presenza dell- anima in (ulto il corpo. (Il Di i/ iieslu seconda parte
non si fecero per mancanza rii tempo se non tre sole lezioni, delle finali si
dà qui il sommario. Altre opere: “Pensiero e conoscenza” (Bologna, G. Monti);
“La coscienza e il meccanismo interiore. Studi psicologici, Padova, Minerva);
“Discussioni gnoseologiche e note critiche, Venezia, Antonelli); “Elementi di
psicologia e logica, ad uso dei licei, Padova, Tip. F. Sacchetto); “Percezione
e pensiero” (Venezia, Tip. Ferrari); “Percezione e pensiero”; “La percezione
interna”; “Il pensiero”; “Intorno alla conoscibilità dell'io” (Venezia,
Officine grafiche di C. Ferrari); “Studi d'epistemologia, Venezia, C. Ferrari);
“Sentire e conoscere, Prato, Tip. Collini). G. Calogero, Enciclopedia Italiana,
riferimenti in F. De Sarlo, F. Bonatelli, Firenze, Ufficio della «Rassegna Nazionale»
Erminio Troilo, Il pensiero filosofico di Bonatelli, estratto dagli «Atti del
Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti» Venezia, Ferrari. D. oggi,
La coscienza e il meccanesimo interiore. F. Bonatelli, R. Ardigò e G. Zamboni,
Padova, Poligrafo, Guido Calogero, «BONATELLI, Francesco», in Enciclopedia
Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, BONATELLI, Francesco», in
Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Francesco Bonatelli. Keywords: segno patognomico, period
patognomico-periodo onomatopoieco-periodo caratteristico – patognosis,
patognomia, tratto da Volkmann, “Lehrbuch der Psychologie” astrattio, imagine
sensibile, vehicolo di communicazione, segno, segnante, segnato, ‘fiorinello’;
concetto, giudizio; percezione; comunicazione pathognomica; pathognomia
reciproca. logica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bonatelli” – The
Swimming-Pool Library.
Grice
e Bonavino – schola labri -- la scuola
italiana – uso di ‘scuola’ per significare ‘maniere’ – scuola italiana -- la
filosofia delle scuole italiane – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pegli). Filosofo italiano. Grice: “In fact, Bonavino is the
same – vide my ‘Personal identity’ – he changed his name when he ‘lascio
l’abito,’ and teaches philosophy – his essays are slightly rationalistic – he
endorsed Thomistic orthodoxy at a later point.’” -- Grice: “I love Bonavino, but not every
Oxonian would – for one, he used a pseudonym, since he was a priest – we cannot
imagine Copleston doing that – or Kenny! As a philosopher he was a
‘rationalist,’ and indeed, the editor of a journal called ‘Reason’ (like my
Carus lectures), as a priet, he was ‘irrationalist.’ – My favourite of his
tracts is his ‘storia della filosofia,’ – which concentrated on Rome (Ancient
Rome, that is) and Croce --!” Nacque in
una casa che sorgeva sulla via Aurelia, successivamente demolita per la costruzione
del lungomare. Entra in seminario. A Bobbio, entra nella congregazione degli
oblati di Alfonso Maria de' Liguori, fondata, in quella stessa città da Gianelli.
Venne accolto nella diocesi di Bobbio da Gianelli il quale lo riteneva persona
dotata di ottime qualità. Venne ordinato sacerdote in tre feste consecutive,
dallo stesso Gianelli il quale lo accolse tra i suoi oblati, da poco fondati in
Bobbio alla Madonna dell'Aiuto. Il vescovo lo costitue vicesuperiore. In tale
posizione Bonavino indusse Gianellio ad irrigidire molto la regola che aveva
loro data. Usav con i colleghi un rigore che essi reputarono intollerabile,
tanto che molti ne rimasero disgustati e parecchi se ne andarono. Qualche suo
compagno nota in lui uno spirito di superbia inoltre in una disputa filosofica,
mostra una dottrina diametralmente opposta a quella di Alfonso Maria de'
Liguori, tanto che Gianelli dovette intervenire per richiamarlo, dicendogli:
"se continuate in questa guisa, voi non potrete recare che gravi
dispiaceri alla Chiesa e voglia Iddio che non diventiate apostata". Dapprima
rispose positivamente al richiamo, ma poi nuovamente ritornò sulle sue
posizioni. Attinto dallo spirito giansenista, tenacemente combattuto da
Gianelli e non ancora assopito, sia leggendo opere spregiudicate sia
discorrendo con qualche filosofo ancora seguace di quella dottrina. Gianelli o
chiamò nuovamente a sé e gli chiese paternamente se e vero quanto gli viene
riferito. Audacemente risponde di sì e dice che persiste nel suo sentimento e
che non vi era alcuna speranza che si potesse ricredere. Le sue parole sono:
"No, neppure se mi trovassi innanzi alla bocca di un cannone e mi si
minacciasse di darmi fuoco!" Allora Gianelli dovette cacciarlo da Bobbio, dubitando
della buona riuscita del nuovo istituto. Sube, anche, l'influenza del
positivismo e del criticismo. Venne espulso dalla congregazione per le sue
dottrine che si allontanavano dal probabilismo alfonsiano. A Genova apre una scuola. Partecipa nelle
lotte contro i gesuiti, collaborando alla redazione de “Il gesuita moderno” e e
con due saggi, “I gesuiti” e “Autentiche prove contro i gesuiti”. Vive in prima
persona la rivoluzione condividendo gli
ideali risorgimentali, e stando in contatto, al punto di arrivare alle
polemiche, colli filosofi più rappresentativi di esso. E sospeso a divinis per
la difesa degl’errori del suo Corso di religione all Bernardo, e lascia il
ministero sacerdotale. Us ail nome di Ausonio Franchi, cioè "italiano libero". Su consiglio di Gioberti, verso il quale si
orienta politicamente, si dedica agli studi filosofici. In questo periodo
scrisse “Lla filosofia delle scuole italiane”, ove giustifica la propria
filosofia; “La religione del secolo XIX”, “Studi religiosi e filosofici”, “Del
sentimento; “Il razionalismo del popolo”. Trasferitosi a Torino, divenne
mazziniano. Fonda “Ragione, un bimestrale di critica politica e sociale. Si
trasferì a Milano dove diresse La gente latina. Ottenne la cattedra di storia
della filosofia a Pavia. Venne trasferito all'Accademia di Scienze e Lettere di
Milano. Membro della loggia massonica "Insubria" di “rito simbolico
italiano”, che con altre, di numero minore rispetto alle prevalenti di rito
scozzese antico e accettato, si strinsero intorno alla Loggia madre torinese
"Ausonia" e si organizzarono all'obbedienza del Gran Consiglio
Simbolico, sorto da un'assemblea tenuta a Milano. Membro onorario della Loggia "Azione
e Fede", di Pisa. Il Gran Consiglio
Simbolico ha sede prima a Torino e poi a Milano e con la sua presidenza si une
al Grande Oriente Italiano con un atto firmato per il Gran Consiglio tra gli altri
dallo stesso, che fu strenuo e auterevole propugnatore della fusione nel nuovo
Grande Oriente. In questo periodo
scrisse i saggi, “Soria della filosofia moderna,” “La teoria del giudizio”, “Saggi
di critica e polemica”. Inizia poi un periodo in cui rimise in discussione la
propria attività filosofica. Ciò lo portò a scrivere “L'ultima critica”. Dice
di voler essere la confutazione del paralogismo che mi conduce al razionalismo”
ed esposizione degli argomenti che mi hanno ricondotto prima alla filosofia
d’Aquino e poi alla fede Cristiana. Vive isse l'esperienza della conversione
filosofica e religiosa. Iniziò facendo visita al Santuario di Virgo Potens in
Sestri Ponente, dove è collocata una lapide in ricordo dell'evento. TRA QUESTE
SACRE MURA LA VERGINE POTENTE CON UN PRODIGIO DI MATERNA PIETÀ IL FIERO NEMICO
D'OGNI CRISTIANA RIVELAZIONE AUSONIO FRANCHI TRAMUTA IN CRISTOFORO BONAVINO
RIDONANDO ALLA VERA SCIENZA UNO TRA I PIÙ PROFONDI FILOSOFI DELLA NOSTRA ETÀ
DAL VORTICE DELLA RIVOLUZIONE MISERAMENTE TRAVOLTO PERCHÉ IL RICORDO DI SÌ BEL
TRIONFO DELLA POTENZA DI MARIA SI PERPETUASSE A CONFORTO E A SPERANZA DELLE
FUTURE GENERAZIONI IL COMITATO LIGURE DEI CONGRESSI CATTOLICI.” L'ultima critica venne da lui annunciata a Magnasco. Manifesta, inoltre, l'intenzione
di ritirarsi nel santuario di Rho per confessarsi e riconciliarsi con la
Chiesa. Il saggio fu terminato nel convento carmelitano di Sant'Anna, a Genova.
Ha un buon rapporto con i frati, anche se conduce vita molto ritirata. Dopo il
ritorno alla fede confida che anche negli anni in cui sembrava più lontano
dalla Chiesa cattolica e più imbevuto di positivismo, non aveva mai abbandonato
la pratica quotidiana di recitare tre Ave Maria e non era mai venuto meno al
celibato sacerdotale. Sulla casa natale di Pegli e apposta questa lapide,
trasferita alla piazzetta della Giuggiola al Vico Condino). “Filosofo tra i
primi dell'età nostra [a] professa[re] il razionalismo più aperto.”Dizionario
biografico degli italiani. Giuseppe Bonavino. La storia delle scienze
è un portato del pensiero moderno. Nel suo stesso conceito essa involge un
periodo di tempo e un grado di riflessione, che doveano per condizion di natura
mancare agli antichi romani. Perocchè, prima di poter comporre una storia
scientifica, bisogna aver costituita ed attuata la scienza che d e v'esserne la
materia. Onde l'epoca, in cui lo spirito umano in tende alla costruzione del
suo sapere, ha necessariamente da precedere a quella, in cui esso, raccogliendo
i monumenti e idocumenti, le tradizioni e le memorie, ne rintraccia l'origine,
ne studia i progressi, ne descrive le trasformazioni. Quello era il compito
assegnato agli antichi romani; questo era riserbato ai moderni. Ed a Francesco
Bacone si deve, se non la prima idea, certo l'idea più chiara e distinta, più
larga e profonda d'una storia delle scienze, lettere, ed arti, e dello scopo
ch'era in essa da prefigersi, delle leggi da seguire, dei servigj da rendere,
dei frutti da produrre. Quel Bacone, a cui communemente si attri buisce la
gloria di tante risorme ch'egli non ha mai fatte ne sognate, e di tante
scoperte ch'erano già belle e fatte assai prima di lui, ha non dimeno un gran
merito, che pur li stessi suoi ammiratori non mostrano d'apprezzare abbastanza;
ed è quello di aver proposto il disegno e stabilito il programma di varie
scienze nuove, che non tardarono in effetto ad arricchire il patrimonio
intellettuale dell'umanita. Ora fra le nuove discipline, ch'egli additava ai
posteri in forma di desiderj (desiderata), primeggia la storia letteraria,
senza della quale, diceva egli argutamente, la storia del mondo rassimiglia
troppo bene alla statua di Polifemo privo dell'occhio; giacchè la parte
mancante è quella appunto, che potrebbe ritrarre meglio il carattere ed il genio
del personaggio. Vero è, che in certe scienze particolari, nella
giurisprudenza, nella matematica, nella retorica, nella *filosofia*, sole già
darsi un qual che ragguaglio assai magro delle sette e delle scuole, degli
filosofi e dei saggi, delle vicende e degl'incrementi loro; ma una storia
propriamente detta della letteratura, come la concive Bacone, dove essere ben
altra cosa. Essa deve, per usare le sue parole, rovistare li archivi di tutti I
tempi,e indagare quali scienze e quali arti fiorissero nel mondo, in quali
tempi e luoghi fossero più o meno cultivate; notare con la più minuta esattezza
possibile la loro antichità, i progressi, le migrazioni nelle varie parti della
terra; poi la loro declinazione, e il loro risurgimento; specificare, per
rispetto a ciascuna scienza od arte, l'occasione che la fece inventare; le
regole e le tradizioni, secondo le quali venne via via trasmessa; i metodi e i
processi, con cui si esercita; registrare poscia le varie scuole, in cui si divisero
i suoi cultori; le più famose controversie, che occuparono l'ingegno dei
filosofi; le calunnie, a cui la scienza e esposta; li elogj e i premj, onde
viene onorata; indi. care i principali filosofi e i migliori saggi in ciascun
genere; le academie, i collegj, li instituti, tutto quanto insomma concerne lo
stato della letteratura; e massime chè in ciò consiste propriamente la vita e
la bellezza della storia accoppiare li eventi con le loro cagioni, notando la
natura dei paesi e del popolo romano, che mostrarono più o meno di idoneità
alle scienze; le circostanze storiche che tornarono loro propizie o contrarie;
lo zelo, il fanatismo religioso, che vi si immischio; li ostacoli, onde le
leggi attraversarono loro il cammino, e le agevolezze che loro procurarono. Infine
li sforzi generosi, l'energia magnanima, di cui fecero prova i più illustri e
potenti ingegni per migliorarne la condizione e promuoverne l'avanzamento. Nè
il frutto di si mili lavori ha da essere una vana pompa di minuzie erudite, bensì
un ajuto alla sagacia e alla prudenza degli studiosi nella cultura del sapere; poichè
in una storia cosi fatta puo evocarsi quasi per incanto il genio letterario
d'ogni èra passata; osservarsi i movimenti e le perturbazioni, le virtù e i
vizj del mondo intellettuale, non altrimenti che del mondo politico; e
ricavarne ammaestramenti e conforti per un miglior indirizzo futuro. Tal
era, giusta il concetto grandioso di Bacone, l'indole, l'oggetto, e l'officio
d'una storia letteraria in generale. Or applicandolo alla storia della *filosofia*,
che è una porzione rilevantissima di quel gran tutto, convien determinare in
nanzi tratto, entro quali confini essa vada circoscritta; chè al trimenti si
correrebbe rischio o di escluderne certe materie che le appartengono, o di
includervene altre che non le spettano punto, come la teologia. E siccome i
confini della storia d'una scienza sono prestabiliti nel concetto specifico
della scienza stessa; cosi non c'è altra via da circoscrivere ilcampo de'nostri
studj,se non quella di risalire all'idea medesima della filosofia, per
definirne il con tenuto in guisa da comprendere nella sua storia tutte e sole
le materie, che ne fan parle. Ma questa determinazione è più difficile assai di
quel che a prima giunta si crederebbe. V'ha nel concetto della filosofia, come
indica lo stesso nome (amore alla sapienza), un'ampiezza originaria cosi indefinita
e quindi variabile, che se pur ammette certi limiti, lascia sempre al filosofo
una gran latitudine di fissarli a tenore del proprio sistema. Così dopo venticinque
secoli di speculazione filosofica, si desidera ancora una definizione della
filosofia che possa dirsi generalmente accettata da'suoi cultori. Tacio degli
antichi romani, i quali per lo più stando all'interpretazione etimologica del
nome, pigliavano la filosofia in senso latissimo, e comprendevano sotto di essa
ogni specie di scienze. Ma anco tra i moderni, sebbene tanta confusione non
potesse più aver luogo, dac chè varj rami del sapere si sono affatto staccati
dall'albero filosofico, ed hanno costituito altre tante scienze particolari;
pure il concetto definitivo della filosofia non è ancora di commune accordo
stabilito, e ogni scuola lo stabilisce un po'a modo suo. Chi considera la
filosofia sotto l'aspetto meramente *ontologico*, la riguarda come la scienza
dell'ente, la scienza del reale, la scienza dell'assoluto; e perciò nella sua
storia non deve abbracciare fuorchè le prette dottrine speculative,
trascendenti, o metafisiche. Chi all'incontro contempla la filosofia dal lato
puramente *logico* o psicologico, la qualifica per scienza del pensiero, scienza
della ragione, o scienza dello spirito umano; e quindi nella sua storia non
avrebbe da esporre se non le dottrine formali della cognizione. Chi
poi studia la filosofia sotto il rispetto *morale* e sociale, la tiene in conto
di scienza del bene, la scienza della vita, o la scienza dell'umanità; onde
nella sua storia non potrebbe raccogliere fuorchè la dottrina pratiche del
dovere e diritto umano. Egli è manifesto, che simili concetti e definizioni
della filosofia peccano per difetto, in quanto che non comprendono l'intero suo
campo, ma solo alcune parti; talche, ove si pigliassero a guida d'una storia
della filosofia, essa riu scirebbe per necessità parziale, esclusiva, inetta ad
adeguare il suo oggetto e conseguire il suo scopo. Nell'estremo opposto cadono
le scuole, che formandosi un concetto della filosofia più vasto, ma più vago
insieme ed indeterminato, peccano d'eccesso; poichè la confundono con la
scienza in genere, e la sforzano ad entrare nella messa di ogni dottrina, che
per qualche rispetto sieno da qualificarsi d'indole razionale: la sua storia,
in tal caso, deve invadere quasi tutta l'enciclopedia. A scansare questo doppio
errore fa dunque mestieri di allargare il concetto dei primi, e di restringere
quello dei secondi, per poter comprendere nella storia della filosofia tutto il
necessario, che li uni a torto ne escludono, ed escluderne tutto il superfluo,
che li altri v'introducono senza ragione. Ora: se da un lato è assai malagevole
di circoscrivere l'objetto della filosofia mediante una definizione logicamente
rigorosa. Dall'altro però la difficultà vien meno, ove basti determinarlo per
via di semplice classificazione o enumerazione di parti. Perocchè confrontando
insieme i termini varj e disparati, onde le varie scuole concepiscono la
filosofia, apparisce tosto come la ragione del loro contrasto sia una
condizione della sua natura medesima, la quale non è, come quella delle altre
scienze particolari, tutta subjettiva o tutta objettiva, cioè esclusivamente
razionale o empirica, ideale o positiva; ma è mista, e partecipa dell'uno e del
l'altro carattere, e tocca ai due poli opposti della cognizione. Ed invero, la
cognizione consiste in quel rapporto, che scaturisce dal combaciarsi, dal compenetrarsi
dei due termini intellettivi: subjetto conoscente ed objetto conoscibile; e la
filosofia ha per officio principale di investigarne l'indole, le proprietà, le
forme, le leggi più intime e più generali. E siccome le determinazioni di un
rapporto non possono ricavarsi se non dal mutuo riscontro de’ suoi termini
costitutivi; cosi la filosofia dee necessariamente addentrarsi nello studio del
subjetto e del l'objetto della cognizione, per poter giungere ad una teorica
universale della scienza, Ora, in quanto essa scruta la natura del subjetto
conoscente, anima, spirito, intelletto, mente, o Io che dir si voglia, prende
forma di scienza subjetliva; si traduce in *logica*, psicologia, e antropologia;
e riesce ad una dottrina generale del pensiero. Sotto questo solo aspetto la
considerano le scuole, che mostrano di ridurla ad una semplice ideologia.
All'incontro, in quanto essa studia la natura dell'objetto conoscibile,
acquista il valore di scienza objettiva. Ma l'objetto stesso può trattarlo in
due modi. O nella sua massima universalità, come ente in genere; e allora essa
diviene una schietta ontologia, protologia, o metafisica generale: ovvero sotto
certe speciali determinazioni, a cuirispondono le varie parti della *metafisica
speciale*; come di ente *assoluto* o Dio, oggetto della teodicea; di Cosmo o
universo, oggetto della *cosmologia*; di uomo o Umanità, oggetto della morale.
All'una o all'altra soltanlo di coteste parti la restringono le scuole, che
intendono di ridurre il suo campo all’uno o all'altro di simili objetti. Il che
spiega bensi, ma non giustifica punto il loro procedere esclusivo: lo spiega,
poichè assegna la ragione che li muove ad appigliarsi rispettivamente al
proprio metodo; ma non lo giustifica, poichè il considerare un oggetto da un
lato solo, per vero e giusto che sia, non vale mai a conoscerlo intero; e il
non conoscerlo intero implica necessariamente due condizioni, che repugnano
troppo all'indole del sapere scientifico. La prima, che alcune parti
dell'oggetto rimangono fuori della trattazione, e quindi ignote. La seconda,
che la cognizione delle parti stesse trattate e chiarite rimane inadequata,
incompiuta, e quindi più o meno erronea e fallace; onde i giudizi coşi discordi,
e non di rado contrarj circa il valore di un sistema o il carattere di un'epoca:
veri tutti in parte, per quel rispetto Se noi pertanto vogliamo esporre
nella sua integrità propria e specifica la storia della filosofia, dovremo
abbracciare, nel quadro delle varie epoche e de’varj sistemi, due ordini di dottrine
filosofiche: quelle che si riferiscono alla determinazione del subjetto stesso,—
logica, psicologia, antropologia; e quelleche concernono le determinazioni
dell'objetto, in quanto appartiene al regno della speculativa: cioè, o nella
sua universalità assoluta,— ontologia, protologia; o sotto certe forme razionalie
metafisiche di Infinito, di Universo, di Umanità, teodicea, cosmologia, e
morale. Ecco le materie, che direttamente fanno parte della filosofia, e per
conseguente della sua storia. Ma nessuna scienza può dirsi compiutamente
esposla, finchè si considera in sè stessa unicamente, e come segregata da tutte
le altre. L'unità del pensiero da un lato, e dell'universo dall'altro,
stabilisce un cotal nesso intrinseco sra i varj ordini di cognizione, che sono
quasi i rami del grand'albero del sapere: nesso, che fra alcuni ordini più
affini, più omogenei introduce relazioni cosi strette e necessarie, che l'uno
non si potrebbe adequatamente conoscere senza contemplarlo eziandio nelle sue
attinenze con l'altro. Laonde per ciascuna scienza, come per la sua storia,
oltre le materie di sua diretta spettanza, ve n'ha certe altre che indi
rettamente le appartengono, siccome quelle che per una loro particolare ed
essenziale relazione con essa, valgono a meglio rilevare il suo valore e la sua
efficacia, a spiegare le sue evoluzioni e le sue trasformazioni, ad apprezzare
il suo influsso, cosi nello svolgimento teoretico del sapere, come
nell'incremento pratico della civiltà. Questa condizione ha luogo sopratutto
nella filosofia, la quale appunto per il suo carattere di *scienza prima* ed
universale, tocca ai principj supremi della cognizione, e con essi porge li
ultimi fondamenti a tutte le scienze. Non sarebbe difficile quindi a trovarle
qualche attinenza, prossima o remota, con le singole parti dell'intera enciclopedia;
ma volendo pur contenere il tema sotto cui riguardano questa o quello ma tutti in parte falsi, per li altri
rispelti da cui prescindono,e di cui non fanno caso. Primeggia fra esse la *religione*
cattolica, che ha con la filosofia medievale una tal affinità, da scusar quasi
l'errore assai commune di chi le confunde ambedue insieme. Ed infatti,
l'oggetto proprio di ambedue è in sustanza lo stesso; poichè si travagliano del
pari nello studio dell'ente infinito ed assoluto, e delle sue relazioni
metafisiche e morali con l'universo e con l'uomo. Diversificano bensi
profondamente nel metodo, onde ciascuna piglia rispetti vamente a trattarlo: giacchè
l'una procede per via di intuito, di sentimento, d'affetto; l'altra invece per
via di riflessione, d'analisi, e di raziocinio. Quella traduce l’ideale in un
*simbolo*, e questa in una formula. La prima ne fa un dogma di fede, e la
seconda un sistema di scienza. Tuttavia coteste differenze non tolgono punto,
anzi confermano li influssi scambievoli, che l'una deve esercitare nel corso
della storia su l'altra. La religione cattolica sta alla filosofia,come il sentimento
alla ragione; e nella guise medesima che questa prende da quello la materia
prima de'suoi concetti, la filosofia trae dalla religione cattolica il primo
abbozzo de' suoi teoremi. Vediamo infatti dovunque il simbolo cattolico andare
innanzi ai sistema filosofico; e la fede cattolica governare l'uomo prima che
la scienza; e i miti e le leggende pascere la sua fantasia lungo tempo prima
che il suo intelletto li sapia discernere dal reale e dal vero. E quando la
ragione, fatta adulta e robusta, comincia ad aver coscienza di sè ed a provare
il bisogno d'una cognizione più chiara, più pura, e più soda, non può pigliare
d'altronde le mosse che dallo stato mentale, a cui l'uomo è educato dalla sua
fede cattolica instintiva o tradizionale; si che i primi passi della filosofia
non sono altro che tentativo di tradurre una credenza religiose in un concetto
razionale. E siccome in quest'opera di semplice riduzione esso incontra
bentosto difficultà insuperabili, incontra cioè elementi al tutto fantastici e
ribelli ad ogni forma scientifica; cosi la filosofia perde in breve quel
carattere primitivo d'interpretazione del simbolo cattolico o dogma ne'suoi più
rigorosi confini, come mai si potrebbe disconoscere il mutuo vincolo, che lega
intimamente la filosofia con alcune dottrine ed instituzione della Chiesa
cattolica romana, nelle quali la ragione speculativa rinviene o i suoi più
importanti materiali,o le sue più solenni applicazioni religiosi, ed
assume per necessità, verso di essi, quello di critica, di scetticismo, di
negazione. Indi le prime lutte fra la leggenda e la storia, la mitologia e la scienza,
la fede e la ragione; e indi, per legge naturale e quasi organica
deli’intelletto umano, le prime vitlorie della verità schietta e positiva su i
pregiudizj idoleggiati dall'imaginazione o dal cuore. Disfatta però la prima
forma d'un simbolo non è già distrutta l'idea ch'esso adombra e preconizza; nè
tanto meno è eliminata la questione, ch'esso mirava a troncare, se non a risolvere.
La fede della chiesa cattolica è una funzione psicologica cosi con-naturata
all'umanità come la ragione: quella può e dee formare, riformare, e trasformare
il suo simbolo, come questa I suoi sistemi; ma nell'organismo mentale l'una è
cosi irreduttibile e indistruttibile come l'altra. Sotto il Martello della critica
adunque cadono e scompajono la credenza della Bibbia semita, mitologica e
leggendaria, che non rispondono più al grado superiore di cultura, cui un
popolo ha raggiunto; ma danno luogo ad altre credenze meno grossolane e fantastiche,
e più consentanee alle nuove idee, alle nuove dottrine, che la ragione fa
prevalere. E allora, su quei simboli rinovati la filosofia ripiglia da capo il
suo lavoro: in prima teoretico, finchè il pensiero speculativo armonizza con
essi, e cerca solo di interpretarli in guisa da cavarne, un significato o
costrutto razionale; e poscia critico, quando, grazie al progresso del pensiero
e all'incremento del sapere, quell'interpretazione riesce vana, quell'armonia
impossibile. Indi un'altra èra di conflitto, e un'altra serie di teoriche e di
critiche filosofiche, di riforme e di ricostruzioni religiose, rispondenti ad
un periodo superiore dell'educazione umana. E cotesta vicenda non è cessata, ne
cesserà, infino a che l'objetto ultimo della fede e de’ suoi simboli, della
ragione e de'suoi sistemi, che è l'assoluto, non sia adequatamente conosciuto e
compreso; e il subjetto commune di questi e di quelli, che è l'io, non sia
pervenuto a concertare e identificare tutte le sue facultà o funzioni
psicologiche in una si perfetta unità, da cancellare ogni specie di antagonismo
fra il cuore e la mente, fra il senso e l'intelletto, fra l'imaginativa e il
raziocinio, fra quei due elementi, insomma, uno animale e l'altro divino,
che in modo si misterioso e ad un tempo si manifesto concorrono a costituire
l'umanità. E vale a dire, che per quanto a noi è dato di conghietturare, quel
processo del pensiero, svolgentesi in una serie di azioni e di reazioni tra il
dogmatismo della religione e il criticismo della filosofia, è la sua condizion
naturale, e durerà finchè l'uomo sia uomo; poichè e il dualismo subjettivo
dell'io e l'incomprensibilità objettiva dell'assoluto sono due leggi, che hanno
il loro fondamento nella stessa natura umana, essenzialmente finita e limitata,
e come risultante di due forze, indefinitamente perfettibili e armonizzabili,
ma non capaci di acquistare giammai una perfezione infinita ed un'unità
perfetta. Simiglianti, per non dire identiche, sono le relazioni che ha la
filosofia con la poesia, presa nel suo più ampio significato di arte, e
rappresentata nella sua moltiforme varietà dai varj ge neri della letteratura.
La poesia, come la religione, precede alla metafisica. Nasce anch'essa dal
sentimento dell'infinito, che è innato ed immanente nell'uomo; anch'essa tenta
di ritrarre l'Assoluto, e i rapporti che seco hanno la natura e l'Umanità; e i
suoi canti primitivi sono teogonie e cosmogonie, poco differenti dai libri
sacri della Biggia. Anch'essa, come la religione, traduce l’Assoluto in un
Ideale simbolico; ma i simboli religiosi pigliano bentosto l'aspetto di dogmi
rivelati, che s'impongono alla fede; laddove i simboli poetici serbano il
carattere di imagini spontanee, la cui efficacia risiede nella loro idoneità
estetica à soddisfare la fantasia ed il cuore, senza offendere la ragione.
Quindi sotto l'inspirazione religiosa l'Ideale veste una forma o affatto impersonale,
o d'una persona como Gesu cosi posta al di fuori e al di sopra del mondo, che
apparisce al rivelatore stesso come un Ente sovrintelligibile e sovranaturale;
laddove sotto l'inspirazione poetica l'Ideale tiene sempre dell'umano, del
subjettivo, e ritrae della persona stessa dell poeta, che lo immedesima con sé,
mentre s'immedesima con esso.La filosofia pertanto, nelcorso deila sua storia,
s'intreccia col movimento letterario, quasi come col religioso. Trora pure nei
primitivi poemi l'addentellato della speculazione; incomincia a farne
l'esegesi, e poi la critica; e conduce l'arte a dover creare una nuova
forma dell'Ideale,che possa appagare il gusto di genti più culte, e più avvezze
a non iscompagnare il Bello dal Vero. Nascono cosi e si succedono via via
progressivamente le forme letterarie, a quel modo che i simboli sacri, sotto
l'influsso critico della filosofia; la quale, determinando in modo sempre più
razionale il concetto dell'Assoluto, prescrive all'arte, come alla fede, di
effigiare l'Ideale con imagini d'età in età più pure, più atte a conciliare il
sensibile con l'intelligibile, l'intuito con la riflessione, l'affetto col
pensiero. La qual conciliazione tuttavia, per quanto venga informando l’arte ad
un tipo gradualmente più filosofico, non può togliere via il carattere
differenziale, che distingue l'opera poetica dal sistema speculativo,come due
specie di cognizione, che muovono da facultà diverse, procedono con diverso
metodo, e mirano a diverso fine. L'arte è figlia principalmente dell'intuizione
e dell'imaginazione; la filosofia invece, dell'analisi'e del raziocinio. L'arte
riveste le idee di forme sensibili, fantastiche, dramatiche, le dispone con
libera scelta, le connette a suo gusto, non vincolata ad altre leggi che alle
convenienze estetiche, e licenziata ad abbandonarsi in grad parte all'impeto
spontaneo e quasi autonomo dell'inspirazione, dell'estro, del genio, che agli
antichi pareva il soffio prepotente d'un nume. La filosofia, all'incontro,
scevera dalle figure poetiche il concetto puro, passa l’ imagine sensibile al
suo crogiuolo per cavarne le idee, e con le idee costruisce un sistema
regolare, modellato rigorosamente su i canoni della logica, e ridutto ad unità
scientifica mediante quell'intreccio dialettico di principj, applicazioni, e
conseguenze, che è prestabilito dall'indole stessa del tema, deduttivo o indut ivo,
razionale o sperimentale che sia. La poesia ha per iscopo la rappresentazione
del bello; non esclude il vero, ma neppure il finto; subordina l'uno e l'altro
egualmente al suo disegno; e se ne vale come di mezzi per colorirlo con più di
varietà, di vivacità, di efficacia. Lafilosofia, all'opposto, ha per oggetto la
dimostrazione del vero; tiene il bello in conto di accessorio, e non di
principale; lo tratta da mezzo, e non da fine; e lo ammette solo in quanto non
repugni alle condizioni della scienza. La sua storia adunque non
potrebb'essere compiutamente descritta, se non avesse riguardo, come allo stato
religioso, così allo stato letterario di ciascun'epoca, per apprezzare
equamente liinflussi scambievoli della poesia su la speculativa e della
metafisica su l'arte, e per meglio dilucidare la legge progressiva che dirige
lo spirito umano nello svolgimento armonico delle sue facultà conoscitive. Se
non che, nelle sue attinenze verso della letteratura, la filosofia procede più
all'amichevole che non verso della teologia; perocchè il simbolismo estetico non
pretende mai all'impero dottrinale, che si arroga il simbolismo teologico; non
invoca per sè l'autorità di una rivelazione divina; non si usurpa nessun
privilegio d’infallibilità assoluta: canta, e non decreta; narra, e non
dogmatizza; inventa, instruisce, diletta, commuove, e non oracoleggia. La
filosofia pertanto può scorgere in esso un errore da emendare, ma non un nemico
da combattere; delpari che l'arte può rinvenire nella filosofia una censura un
po'se vera, ma non una guerra dichiarata ed implacabile. Le religioni adunque,
le letterature, e le scienze, come hanno contribuito per qualche rispetto
all'origine ed al progresso della filosofia, devono parimente fornirci utili
sussidi e schiarimenti per la sua storia. Ma non basta il porre mente alle sue
relazioni intrinseche con le varie discipline d'ordine dottrinale. Essa inoltre
ha moltiplici attinenze con quelle instituzioni d'ordine pratico, che si
comprendono sotto il nome di condizioni politiche e sociali di un'epoca o di
una nazione: attinenze estrin seche, è vero, ma non per ciò men necessarie ad
intendere e spiegare levicende storiche de'suoi sistemi. I quali, per trascendenti
che sieno, ritraggono pur sempre qualche cosa delle cre. Per quello poi che
spetta alle attinenze della filosofia con altre scienze, e particolarmente con
le scienze fisiche e naturali, e massime con quelle loro parti, che trattano
dei primi principj delle cose e delle leggi generali dell'universo, gli è un
fatto cosi per sè manifesto e notorio, che appena è mestieri di accennarlo per
sentire la necessità di farne gran caso in una storia del pensiero filosofico.
credenze e delle dottrine, che predominano nei tempi e nei luoghi, in cui vive
il loro autore; siccome questi, per novatore che sia, non può mai rompere ogni
communione intellettuale con la società, in mezzo a cui è nato, cresciuto,
educato; e il suo pensiero, esplicandosi in un dato ambiente mentale, dee imbe
versi più o meno delle idee communi e prevalenli. I filosofi stessi più
originali precorrono bensì per un verso alla loro generazione, ed anticipano il
futuro; ma rimangono, per l'altro, figli del loro secolo, e raccolgono,e
riassumono nel loro genio, in modo più chiaro, ordinato, e complessivo, tullo
quanto v'ha di più eletto, di più sodo e secondo nel suo sapere. Essi partecipano
della vita scientifica di due età, poichè sono alunni del presente e
institutori dell'avvenire. Laonde ciò che v'ha di nuovo no'loro sistemi, ha sempre
il suo germe nello stato intellettuale de’loro contemporanei; talchè questo è
la chiave della genesi di quello. Ora dello stato intellettuale di un secolo o
di un popolo qual documento v'è egli più reale ed autentico, più vi vente e
parlante che la sua costituzione politica e sociale, e i suoi costume domesticie
civili. Nei costume esso incarnai suoi principj di morale; nella costituzione,
i suoi principi di diritto: e con la notizia de'suoi principj di diritto e di
morale si ha la guida sicura per penetrare nei recessi della sua coscienza e
della sua ragione, e per delineare un quadro fedele delle sue cognizioni. La
storia politica e civile dovrà quindi porgere an ch'essa il suo ajuto alla
storia della filosofia; la quale appren derà tanto meglio a conoscere i grandi
filosofi ed a giudi care i loro grandiosi sistemi, quanto meglio avrà
conosciuto i tempi e i luoghi a cui appartenevano, e le idee e le instituzioni
che reggevano le genti, di cui erano dessi prima discepoli, e poi maestri.
Circoscritta in tali termini la materia, che direttamente e in direttamente
spetta alla storia della filosofia, vede ognuno da sé quanto sia vana e falsa
l'accusa di chi la spaccia a dirittura per un'arida e vuota farraggine di metafisicherie,
l'una più astrusa e stravagante ed incomprensibile dell'altra. Essa è invece il
racconto delle più eroiche lutte e delle più nobili conquiste del ל M acciocchè la contenga di fatto, bisogna dare a
quella materia, che è il corpo della storia, la forma conveniente, che ne sia
l'anima. Chi si contentasse di narrare la vita ed esporre la dottrina di
ciascun filosofo, ma separatamente, a guisa di fatti o eventi diversi,
sconnessi, indipendenti l'uno dall'altro, senza un principio organico che li
coordini, e riduca la loro varietà fenomenica ad un'unità sistematica, e mostri
il perchè ed il come l'uno sia causa dell'altro, e questo effetto di quello: fa
rebbe una cronaca,e non una storia della filosofia.Ilcompito della storia si è
di riprodurre i fatti nel loro intreccio origi nario. E siccome ogni serie di
fatti non è altro che l'atluazione successiva d'una legge naturale, ed ogni
legge della natura si riscontra con un principio della ragione; così il
racconto dei fatti od eventi filosofici non può acquistar il valore di
storia,se non in quanto li riordina, li classifica, li accentra sotto della
legge psicologica, che ne ha determinato l'origine, il processo, e la
trasformazione; di guisa che lo svariato contrasto di afferma zioni e negazioni,
di tesi e antitesi, di teoriche e critiche, o n 15 genio umano nel campo
del pensiero, che sovente,pur troppo ! ebbe a convertirsi in campo di
battaglia. Le questioni, venti late dai sistemi in essa esposti, toccano agli
affetti e ai desi derj più intimi, ai bisogni e agl'interessi più gravi
dell'animo: la cognizione di noi medesimi e delle nostre facultà, del mondo e
delle sue leggi; il criterio del vero e l'amore del bene; l'educazione
dell'intelletto e il persezionamento del cuore; l'os servanza del dovere e la
rivendicazione del diritto; le condizioni della felicità privata e della
prosperità publica; la missione della vita presente e la speranza della futura.
Li autori, ch'essa prende a commentare, sono l'ingegni più potenti e su blimi
ed ardimentosi che vanti l'Umanità: sono propriamente i legislatori del
pensiero e li instauratori dell'incivilimento. Ed infine, per le sue attinenze
con tutte le vicende religiose, let terarie, e scientifiche, con tutte le forme
e le riforme politiche e sociali, essa diviene lo specchio verace della vita
interiore dell'Umanità; onde può dirsi fondatamente, che la Storia della
Filosofia contiene in sustan.za la Filosofia della Storia. E il
fondamento di questa legge d'unità storica non è fitti zio o arbitrario, ma
concreto e positivo, siccome quello che ri posa su la doppia unità del subjetto
conoscente e dell'objetto conoscibile. Il subjetto è lo spirito umano, l'Io; il
quale se per rispetto agl'individui ammette infinite graduazioni e differenze,
al pari d'ogni altro essere, serba pure in riguardo alla specie tutta la unità
e identità di natura, che si osserva in ciascun altro tipo. Quindi,per diverse
e discordanti che sembrino le m a nifestazioni della sua attività individuale,
non escono però mai fuori del limite, che segna la cerchia delle sue funzioni
speci fiche; e vanno tutte comprese sotto certe categorie, le quali pure non
rappresentano altro che certi aspetti o rapporti di un unico principio attivo.
L'objetto poi è ilvero in genere,o quelle specie di vero che formano la materia
della filosofia. Ora che può egli mai concepirsi di cosi identico ed uno, come
il vero in sè stesso e nella sua forma universale ed assoluta? E quanto agli
ordini particolari di verità, che danno luogo alle singole parti della
filosofia, o si tratta dell'Io stesso, qual ente p e n sante; e allora l'unità
dell'objetto s'immedesima con quella del subjetto, ed è tanto una la
scienza,quanto uno è il pensiero: o si tratta invece di objetti esterni, della
società umana, del mondo, dell’Assoluto; e allora l'unità della scienza ha pure
il suo fondamento nell'unità del principio protologico, cosmologico, e morale,
di cui quelle dottrine sono rispettivamente una m e todica esplicazione. La
legge di unità adunque,che deve infun dere la vita, l'anima, la forma nella
storia della filosofia, sus 16 d'è intessuta la storia della filosofia,
apparisca, non quasi un caos informe e fortuito, ma come un mondo ideale, in
cui i varj sistemi tengon luogo di elementi o forze integranti, che rappresentano
nel loro complesso la moltiforme attività di un principio unico, del pensiero;
e producono col loro antagonismo un'armoniá simile a quella del mondo reale.
Indagare e veri ficare questa legge primitiva, che sotto l'infinita varietà dei
si stemi stabilisce l'unità di un organismo dottrinale, e dirige la vita
interna del pensiero, è dunque l’officio proprio d'una sto ria della
filosofia. A trovarla però occorre sopratutto di saperla cercare;
onde nella storia della filosofia, non altrimenti che in qualsiasi di sciplina,
ha un'importanza capitale il metodo. Or qual è il metodo da seguire per
giungere con maggior sicurezza al nostro scopo? chè v'è anche qui disparità e
contrarietà d'opinioni. In generale, li storici antichi, vale a dire quelli dei
due ultimi secoli scorsi, e dei primi anni del corrente procedevano con metodo
quasi affatto empirico edescrittivo; badavano solo a far la biografia dei
filosofi e il sommario delle loro dottrine, sen z'altro legame che la
successione cronologica, o la parentela etno grafica, o la classificazione
scolastica; raccoglievano la materia dellastoria,ma netrasandavanolaforma.Fra
imoderni,al cuni e de'più rinomati si gettarono nell'estremo opposto, e precut
ă tesero di costruire la storia della filosofiacon metodo specula- láhystal
tivo ed a priori. Costoro, ove mai fossero venuti a capo d'una simile
impresa,avrebbero disegnato una cotal forma idealedella storia, m a vuota di
contenuto reale; avrebbero mostrato ciò che, nel loro concetto, doveva essere
la filosofia, m a non mai cið che fu nella sua realtà; insomma avrebbero
costruita una teorica, ma non già narrata una storia. Perocchè oggetto della
storia sono i fatti; e i fatti si apprendono per via d'esperienza e d'os
servazione, di memorie e di documenti, e non già per opera di deduzioni
dialettiche e di evoluzioni metafisiche. Del resto, la scuola che tentò di
introdurre le costruzioni a priori anche nella storia, obediva necessariamente
al principio cardinale della sua filosofia, che identificando il pensiero con
l'essere, affer m a risolutamente, i fatti e le leggi della storia, della
natura, dell'universo doversi cercare nei fatti e nelle leggi del pensiero
stesso.Ma quando essa volle passare dalla teorica allapratica, e chiarire col
proprio esempio la superlativa bontà del suo m e todo, a che è riuscita? A
null'altro fuorchè a provare lavanità 17 siste non meno nel subjetto che
nell'objetto del pensiero spe culativo. Potrà in qualche caso riuscire
malagevole a scoprirsi e significarsi; potrà eziandio rimanere ancor ignota: m
a sarà per difetto nostro, e non per mancanza sua; e vorrà dire sol tanto, che
non si è ancora trovata, e non già che non esista. delle sue
speculazioni; giacchè tutto quanto v'ha di slorico noi suoi lavori, è attinto
dai monumenti ordinarj, e non fabricato a priori; è ciò che v'ha di
propriamente dedutto a priori, è ipotesi, poesia, romanzo, ogni cosa, fuorchè
storia. Tra l'empirismo degli uni e il trascendentalismo degli altri s'apre
nondimeno una via di mezzo, che è quella indicata dalla ragione, e battuta
dalla scienzaUn metodo non è altro che un mezzo di cognizione: il suo valore è
dunque relativo,e con siste nella sua rispondenza al fine, cui dee servire. L a
sto ria della filosofia consta di due elementi: d'una materia positiva. e d'una
forma razionale; dunque il metodo di studiarla vuol essere misto: positivo,
quanto all'esposizione dei fatti; e razio nale, quanto alla investigazione
delle leggi. A questo metodo si potrebbe meritamente appropriare il nome di
critico; poiche esso è ilsolo,in cui una critica sagace e sapiente riconosca
mantenuti i suoi principj, ed osservate le sue regole. Comunque però si chiami,
esso è quello che noi ci studieremo di se guitare costantemente. Le regole di
questo metodo sono le stesse, che la logica pre scrive generalmente negli studi
storici. Le principali, per quanto spetta in particolare al nostro tema,
saranno. 2.° Equilà nel giudizio delle dottrine; e perciò aver s e m pre
riguardo alle condizioni de'luoghi e de'tempi, in cui vivea l'autore;
apprezzare le sue idee in relazione con quelle d'allora, e non con quelle
d'adesso; discernere accuratamente le veré. Fedeltà nel ragguaglio dei fatti; -
e quindi, anzitutto lasciare a ciascun autore la fisionomia sua propria; non
aggiungere, nè togliere nulla alla sua parola; riferire il suo sistema tal
quale piaque a lui di comporlo, e non come piacerebbe a noi di rifarlo: chè
primo officio della critica si è di non far dire ad alcuno nulla più e nulla
meno di quel ch'egli ha detto: officio, a cui mancano tutte le scuole esclusive
e parziali, che vanno a cercare nella storia della filosofia, non una notizia
del sistema altrui, m a una giustificazione del proprio; e in luogo di farsi
interpreti degli altri, costringono -li altri a farsi loro apologisti.
dalle false; non assolvere queste in grazia di quelle, nè con danpar
quelle in odio di queste; e cosi nell'approvazione come nella riprovazione
procedere con tutto il rigore, non so lamente della logica, ma anche della
giustizia:chè debito della critica si è di esercitare il diritto di lode e di
biasimo come una funzione non meno morale che letteraria: debito,a cui fal
liscono del pari e i panegiristi fanatici e i detrattori arrabiati; poichè li
uni, predisposti a lodar tutto, scambiano la storia in adulazione; e li altri,
prerisoluti a tutto biasimare, conver tono la critica in maldicenza: e questi e
quelli tanto più rei, in quanto che d'ordinario trattasi di giudicare
personaggi, che non partecipano più alle nostre dispute, e non sono più in
grado di difendersi nè dalle cortigianerie de’partigiani,nè dalle calun nie
degli avversarj. Terzo, Cautela nell'assegnazione delle leggi; - e però non in
durre da fatti particolari, nè dedurre da dozioni generali più di quel che
contengano; professare il dubio, dove ragioni pro e contro interdicono la
certezza; é confessare l'ignoranza, dove il difetto di notizie e di documenti
non lascia penetrare alcuna luce di scienza; tener conto dell'elemento
variabile, che la li bertà introduce nella storia; e non ostinarsi a geometrizzare
tutta la vita dell'Umanità, quasi che ilpensiero fosse suggetto alla regolarità
di una combinazione chimica o di una produzione b o tanica; evitare con egual
diligenza l'errore dell'empirismo, che non sa riconoscere verun nesso causale
tra li eventi umani, e rimette la storia in balia del caso; e l'errore del
trascendenta lismo, che vuole incatenare anche i fenómeni volontarj all'im pero
di una fatalità inesorabile, e ragguaglia tutti liattimorali alla condizione di
effetti fisici: che dovere della critica si è di studiare la natura in sè
stessa, e non di foggiarsela a proprio gusto; e perciò di apprendere da essa le
sue leggi, e non di det tare ad essa le proprie. Ora, che il regno umano non
sia inte ramente governato dalle forze necessarie, a cui obediscono ine
Juttabilmente lialtri regni della natura,ed in quello operi una forza
libera,che in questi non ha luogo:eglièun fatto,lacui sussistenza ci è cosi
nota e,certa, come la coscienza di noi stessi. Ben si potrà disputare
dell'essenza, dell'origine, della costitu zione di questa potenza superiore,
che crea il mondo morale; si potrà allargare o restringere si la cerchia della
sua compe tenza nella vita interna ed esterna del pensiero, e si quella de'suoi
rapporti con le altre funzioni della natura umana ed universa: ma simili
questioni, che riguardano la spiegazione teoretica del fatto, non detraggono
punto all'evidenza della sua positiva realtà, nè valgono a revocare menomamente
in dubio l'ingerenza, che spetta alla libertà nell'andamento delle cose umane.
E con la libertà entra nella storia un principio,ilquale per rispetto agli
altri elementi, tutti fatali ed invariabili,assume ilcarattere di
irregolare,anomalo,perturbativo,e dà origine ad una serie particolare di
fenomeni, assai più complessi, poichè ten gono insieme del necessario e del
libero, del fisico e del morale. Questa serie pertanto, se è determinata per
una parte, è indeterminabile per l'altra; giacchè libertà e predeterminazione
sono concetti, che scambievolmente si escludono. La storia ammette dunque leggi
fisse ed immutabili, in quanto essa procede a tenore di cause fisiche e fatali;
e ammette solo divinazioni, conghietture, probabilità, più o meno plausibili e
ragionevoli, m a non leggi anticipatamente definibili e indecli nabilmente effettuabili,
in quanto essa dipende da cause m o rali e libere.E la sagacia della critica
consisterà nel raccogliere la maggior somma possibile di probabilità induttive,
a fine di trarre dal passato un qualche lume per rischiarare un po' l'avvenire;
e non già nel trascurare tutto ciò che non quadra alla simmetria preconcetta di
un sistema, per procacciarsi la vana soddisfazione di aver compassato ogni cosa
alla stregua del proprio cervello. Egli è quindi manifesto, come dicendo noi,
la storia della filo sofia,presa nell'ampio giro del suo
significato,convertirsi davvero in una filosofia della storia, non sia questa
da intendersi nel senso dogmatico degli aprioristi, secondo i quali applicar la
filo sofia alla storia equivale a trasformare la storia in una cotal metafisica
imaginaria, che fa dell'uomo un concetto astratto e dell'Umanità una formula
matematica. Un tal genere di specu 20 lazione potrà per
avventura intitolarsi ancor filosofia, m a certo non merita punto il nome di
storia; di quella disciplina, cioè, a cui non è lecito di acquistare un
carattere filosofico, fuorchè a palto di non ismettere mai il carattere
storico,che costituisce la sua stessa natura. E poichè, come storia, è una
dottrina es senzialmente positiva e sperimentale, dee 'pure, come filosofia,
serbare la forma medesima,e procedere con metodo sperimenlale e positivo. Essa,
in luogo di narrare i fatti particolari,ad uso della pretta storia descrittiva,
baderà a raccogliere da ciascuna serie di falli leleggi psicologiche,morali,e
sociali,che ne rampollano; m a le raccoglierà con quello stesso metodo
induttivo, onde le varie scienze naturali ricavano dall'osservazione e dalla
classifi cazione dei fenomeni fisici, chimici, fisiologici, le leggi dell'uni
verso. Solo a questa condizione ci sembra possibile di innestare la filosofia
nella storia, e sopratutto di effettuare l'innesto m e diante la storia della
filosofia. Alla quale ritornando ancora per poco, ci resterebbe da chia rirne
brevemente l'importanza, l'utilità, la necessità,così per sè stessa, come per
le sue atlinenze con le altre discipline. Ma bastano a tal uopo, in tesi
generale, li argumenti stessi, che ci valsero a stabilirne la materia,la forma,
ed ilmetodo;giacchè sono ben poche,per fermo, le scienze a pro delle quali si
possa no addurre titoli eguali per provarle importanti, utili,e necessarie. Per
altro, ciò che sarebbe al tutto superfluo sotto il rispetto teoretico ed in
astratto, può di leggieri tornare assai conveniente in qualche caso pratico e
concreto, che da un singolare con corso delle circostanze di tempo e di luogo
riceva un'impronta tutta sua propria. Ed è il caso nostro. Commendare lo studio
della filosofia colà, dove il pensiero filosofico è nel pien vigore del suo
esercizio, e fiorisce sotto tutte le sue forme, e si svolge largamente,
liberamente in tutta la svariata energia delle sue funzioni, saprebbe di
anacronismo o di paradosso. M a oggi, tra noi,- a che dissimularlo?— pon ècosì.
L'Italia, che alter volte s'ebbe il primato in ogni genere di studj; che
nell'antichità ebbe tanta parte al progresso della filosofia per opera delle
scuole della Magna Grecia; e che al cadere del medio evo suscitò nel mondo
intellettuale quel gran moto del Risurgimento, e con di esso rimise l'Umanità
su la via di ogni riforma e di ogni sco- tu perta: non occupa più da lungo
tempo il seggio,che le pareva che assegnato dalla natura medesima nel regno del
sapere. Le ca gioni, che le hanno rapita la corona scientifica, possono ben vie
tarci di imputarle a colpa la sua caduta;ma non già disentire in questa caduta
il peso di una tremenda sciagura. Si, la per dita della libertà, le sette
politiche, le persecuzioni religiose, dominazioni straniere, le tirannidi
nostrali, rendono più che sufficiente ragione delle misere condizioni, a cui
venne dannato negli ultimi tre secoli il pensiero italiano; e spiegano
abbastanza come il genio filosofico, perseguitato a morte in questa regione che
parea divenuta sua patria, dovesse emigrare in altre con trade, e cercare
ospitalità presso altre genti, che li avi nostri chiamavano barbare, e che a
noi tocca invece di salutare mae- al stre. Ma spiegare il fatto non è
distruggerlo; e sieno pur evi. di denti, necessarie, irrefragabili le sue
cagioni, sta sempre vero, che nella storia della speculativa moderna l'Italia
non occupa più, dinanzi alla culta Europa, uno de'primi, bensì uno degli ultimi
posti. Ed è tempo oggimai, che una tanta
umiliazione abbia fine. di Per lo passato potevamo sopportarla senza troppo
rossore,come ni una conseguenza fatale dell'oppressione, sotto di cui il bel
paese di gemeva; m a d'ora in poi la cesserebbe di essere una sventura, e
diventerebbe un'ignominia. Perocchè la massima parte delle fo barriere, che
divideano e smembravano l'italica famiglia, sono cancellate; li spegnitoj, che
l'arte o la violenza avea sovrapostizie all'ingegno,sonocaduti:anche a noi
siapre ilgloriosoarringo dei nobili e liberi studj; e possiamo correrlo anche
noi con ge- in nerosa gara e con nuovo e più fortunato ardore. Sta dunque a noi
di dar l'ultima mano a questo prodigioso rinovamento d'I talia. Il valor
militare e il senno civile l'hanno redenta dalla servitù politica, e la van
componendo a nazione indipendente, libera, e forte; m a questo risurgimento
stesso o non sarebbe d u raturo, o rimarrebbe sterile e vano, ove non avesse il
suo de N le a 20 210 zid Sg TO de SE gno riscontro in una restaurazione
scientifica e letteraria, capace & 1 - in di redimerla pure
della sua minoranza intellettuale, e di resti On tuirle nel mondo delle idee il
luogo corrispondente a quello, Ta che si è rivendicato nel mondo degli Stati.
-a Ed invero, la vita dei popoli, non altrimenti che degli indi eu vidui,
proviene dal complesso di un doppio ordine di fatti e di re leggi: l'uno
fisico, e l'altro morale, di cui ciascuno risponde ad una serie di forze
rispettivamente analoghe. E nella costituzione le sociale del genere umano egli
è fuori di dubio, che le forze he fisiche vanno subordinate alle forze
morali,siccome lo strumento 10 all'opera, il mezzo al fine. Che se da un lato è
verissimo,non alla ragione il suo impero; o sono esse medesime effello d'un i
disordine morale, produtto dall'ignoranza e dall'errore nelle co; 'scienze, e
il loro rimedio non può venire se non da un grado à superiore di educazione e
di cultura publica, cioè da un pro li gresso intellettuale. L'indipendenza, la
libertà, la grandezza dei popoli hanno dunque il fondamento della loro durata e
la ra B.;dice del loro incremento nelle idee,nelle credenze,nelle opi é nioni,
in cui sono essi allevati;vale a dire,insomma,nelle con je dizioni della loro
vita mentale. Ora l'alimento più sano, più sustanzioso del pensiero non è e
forse la filosofia? Non è dessa lo studio più idoneo ed efficace 0 a svelare, a
combattere,a distruggere i pregiudizj, le supersti tizioni, li errori d'ogni
fatta, che mantengono i popoli nello stato o di fanciullezza, e li conducono
troppo spesso ad esser vittime - infelici e strumenti inconsapevoli di servitù?
Non è dessa il ti a rocinio più sicuro per informare l'intelletto al
riconoscimento.del vero,la ragione al culto della scienza, l'ingegno al gusto a
del bello, l'animo all'annore del bene, la coscienza all'adempi mento del
dovere e al rispetto del diritto, e tutto l'uomo all'e sercizio delle virtù
private e publiche, domestiche e sociali?. Non è dessa la fonte viva, da cui
tutte le altre scienze attin za > sempre quest'ordine naturale reggere in
effetto le sorti delle n a nezioni, e non di rado prevalere la violenza al
diritto e alla giu 1 stizia; dall'altro però non è men vero, che o simili
perturba rizioni sociali sono temporanee, e alla lunga lasciano ripigliare 1,.
e gono i principj, i metodi, i criterj del loro insegnamento? Non
è dessa pertanto, in ogni periodo della storia, la misura più certa del grado
di potenza, di energia, e di fecondità, a cui per venga di mano in mano il pensiero?
Nella grand' opera della restaurazione scientifica d'un popolo spetlano dunque
alla filo sofia le prime parti; e sarà quella tanto più pronta,prospera, e
permanente, quanto più vasta e profonda sarà la cultura di questa. Laonde, oggi
che l'Italia, sciolto il voto di tante gene razioni, e raccolto il frutto di
tanti martirj, saluta finalmente l'alba di un'êra nuova, deve insieme provedere
alla sicurezza e stabilità del suo riscatto politico mercè di un rinovamento in
tellettuale e morale, cioè prima e sopra di tutto, filosofico. Del quale poi,
chi potrà mai e chi dovrà pigliarsi il carico precipuo, se non quell'eletta
gioventù che si consacra di pro fessione agli studj? Essa, che ha già pagato
eroicamente il d e bito suo alla patria col valore del braccio, si ricordi che
la p a tria stessa attende da lei altre prove di devozione,più pacifiche e
riposate, ma non meno ardue e magnanime,col valore dell’ ingegno. Essa, che ha
mostrat, fra l’ammirazione e d il plauso del mondo civile, come nel sangue
italiano sia ridesto il ge nio della guerra; s'accinga a provare, con egual
entusiasmo di fede e di sacrificio, come riviva é rifiorisca del pari nell’in
telletto ilaliano il genio della sapienza. E poichè le due grandi e culte
nazioni, che al di là delle Alpi ricingono l'Italia, hanno oggimai dovuto
persuadersi, che al di quà è risurto un popolo degno di star loro a fianco o di
fronte coll'armi; oh ! possano apprendere bentosto, che questo popolo stesso
intende di emu lare le loro glorie, non solo marziali, ma anche scientifiche;
intende di gareggiare con esse, non solo di coraggio e di p o tenza, ma anche
di studio e di sapere; intende che d'ora in nanzi,quando
essedescriverannoilmappamondo filosofico,non abbiano più a dividerlo, con
orgoglio purtroppo da lunga pezza non affatto temerario,in
duesoleregioni:FranciaeGer mania; ma debbano, buono o mal loro grado,
disegnarvi una terza divisione, e chiamarla Italia. Due
parti essenziali del metodo: la critica, e la teorica. Ordine tenuto
dall'Autore nella pu blicazione de' suoi scritti. Questione preliminare dei
rapporti fra la filosofia e la religione. pag. S 2. Sistema che nega il primo
termine del rap porto, cioè la filosofia. - Dottrina fondamentale del
cristianesimo. Spoglia la filosofia d'ogni carattere di scienza razionale.
Circolo vizio Filosofia e cristianesimo son termini, che si escludono a vicenda
S3. Sistema che nega il secondo termine del rap porto, cioè la religione.
Dottrina degli Enci clopedisti. La scuola rivoluzionaria. Espo sizione della
teoria di C. Lemaire, di G. Fer rari, di Proudhon, -di Feuerbach, - di C. Marx
e A, Ruge. so. Critica di questo sistema. Vero stato della questione.
Universalità e perpetuità della re ligione. Non se ne può attribuire l'origine
al l'arbitrio degli individui. È un elemento natu rale dell'Umanità.
Testimonianze di 0. Müller, -di P. Leroux, e di Lamennais. Objezione di
Proudhon. - Risposta. - La religione si tras forma sempre, ma non muore mai.
Confessione di Feuerbach. Giudizio di G. Villeneuve Sistema che confunde i due
termini insieme. Alcuni riducono tutta la religione alla sola mo rale. Dottrina
di Kant, di Saint- Simon, d'altri Riformatori. Critica di tale sistema. -
Necessità d'una dot trina teoretica per la morale. La morale della. carità e
della fratellanza non fu un trovato dell'E vangelio. - Lo han confessato li
scrittori eccle siastici antichi. Documenti. Li Esseni ei Terapeuti. -
Parallelo di Reynaud. - Giudizio di De Potter. La carità e la fratellanza del
cristianesimo sono il rovescio del socialismo. Sentenza di D. Stern ".
Altri immedesimano affatto la religione con la metafisica e la scienza.
Esposizione e critica dei sistemi di Leroux, di Reynaud, di La mennais, e di
Comte. Sistema che separa affatto i due termini l'uno dall'altro. Professione
di fede dell'ecletticismo. Contradizioni di E. Saisset, già ben notate da F.
Génin. La bandiera dell'ecletticismo di sertata. Altre contradizioni di E.
Martin. Vani tentativi per conciliare il razionalismo col sovranaturale. scenza.
Conclusioni che derivano dalla critica di questi sistemi. — Condizioni generali
del problema da risolvere. Significato preciso dei due termini: la religione
come dogmatica, e la filosofia come metafisica. Il rapporto d'unione fra loro è
nell'u nità del loro oggetto. Il rapporto di distinzione non può dedursi che da
una teorica della cono Conoscenza sensibile e razionale. Sensazioni,
imaginazioni, e sentimenti. Per cezioni, credenze, e concetti. Sentimento pri
mitivo dell'Assoluto. — Cognizione razionale, che ne proviene. La credenza,
propria della reli gione. Il concetto, proprio della filosofia. Simboli e
teoriche. Influenza reciproca della filosofia e della religione. Perpetuità di
am bedue. Giudizio di Strauss. Sistemi che mantengono tutti e due i termini; ma
pongono fra essi un rapporto inesatto. Ana lisi critica dei sistemi di Constant,
di Trul di Villeneuve, di Mamiani. Filoso fia della religione di Hegel, esposta
da A. Véra. » Varj significati, in cui si prende il raziona lismo. Razionalismo
teologico. Dogma tismo. Ontologismo. Idealismo. Il solo sistema, che il
razionalismo escluda, è il dogma tismo. Caratteri positivi e negativi del razio
nalismo. Parte scientifica e parte critica, - lard, Carattere objettivo della
filosofia antica, e subjettivo della moderna. Necessità e importanza della psi
cologia. Classificazione incompleta delle facultà umane. = Trascuranza del
sentimento nelle scuole italiane Classificazione proposta dagli autori
scolastici » Sistema del Galluppi. Sistema del Mancino. Vizio commune di questi
due sistemi Analisi critica della teoria del Poli X - Esposizione e censura
della teoria di Gioberti » Pregio commune di queste due teorie Analisi dei due
sistemi del Rosmini. Assurdità e contradizioni. Rosmini confutato da Rosmini
Saggio della sua modestia. Suoi giudizj in torno alle scuole tedesche, alla
filosofia moderna, e al nostro secolo. — Il calculo degl'interessi mate riali.
Come Rosmini intenda la storia Danni, che recò alla filosofia la negligenza del
sentimento. - Principio della classificazione psi cologica. - Non si può
riporre nel subjetto. E ne pure nell'objetto Se il senso abbia un oggetto.
Giochi di pa role del Rosmini. Contradizioni e sofismi. Il principio della
classificazione sta nel rapporto del subjetto con l'objetto, cioè nella fun
zione. La classificazione delle funzioni deriva > » dai caratteri de'
fenomeni conoscitivi, Metodo induttivo di Bacone. Avvertenze e canoni di
Garnier Tradizione filosofica su la divisione delle facultà in senso e ragione
Se fra il sentire e l'intendere passi una differenza generica, o specifica
soltanto. Strane contradizioni di Gioberti e di Rosmini Non havvi una
differenza generica ed essenziale fra il sentire ed il conoscere. Prova
filologica. Valore di certe locuzioni ammesse an che dai filosofi. Il senso
commune. Séguito delle contradizioni di Rosmini. Il buon senso. Il senso
intimo. Sofismi di Rosmini circa la natura della sensazione. Il senso e
l'intelletto si identi ficano nel genere, e si distinguono nella specie.
Dottrina di Tomaso d'Aquino, e del Poli.. La funzione generica della conoscenza
si divide in due funzioni specifiche: il sentimento e la ragione. Tre serie di
fenomeni del sentimento. Sensazioni. Errore della scuola psicologica francese,
Dottrina di Matthiae. Imaginazioni. Sentimenti. Elemento proprio, ed elemento
commune dei varj modi della conoscenza sensibile. Sono spontanei, immediati,
concreti Tre serie di fenomeni della ragione. Percezioni. Credenze. Concetti.
Elemento proprio ed elemento commune dei varj modi della conoscenza razionale.
Sono riflessi, - mediati, - astrattivi. Assurdità del Rosmini su lo sviluppo
cro nologico della conoscenza. I bambini filosofi. La nipote di venti mesi.
Curiosa confessione Funzioni pra Unità dello spirito umano. Intimo nesso delle
funzioni conoscitive. tiche. Classificazione generale Analogie e differenze tra
questo sistema e quello di Franck, di Garnier, di Lamennais, di Leroux. Elogio
e critica della teoria di A. Martin. La divisione delle facultà in attive e pas
sive è falsa e contradittoria. Li atti attivi, e li atti passivi del Rosmini. È
erronea del pari la di visione in facultà objettive e subjettive. Sofismi del
Rosmini circa la subjettività del sentimento e l'objettività dell'idea. Quali
sieno le conoscenze reali ed oggettive, e quali le suggettive ed astratte.
Dottrina di G. Ferrari. Antitesi del dogma tismo Objezioni e risposte. Che cosa
sia la verità. S'ella esista in sè stessa, fuori della mente. Paralogismi del
Rosmini. Egli non si prende cura e timore delle conseguenze. · Non ha paura
dell'assurdo. Assurdità e contradizioni della sua teorica delle idee. Caratteri,
che differenziano l'uomo dal l'animale. Della cognizione delle essenze. Come il
Rosmini fa ragionare i moderni. Come ragionino davvero. Storchenau, Dmowski.
Scempiaggini che Rosmini affibbia agli antichi. Conoscere l'essenza d'una cosa,
per lui, vale saperne il nome. Origine delle idee. Confini della scienza umana.
Divisione delle scienze. Due specie diverse di credenza. Elogio di Alfonso
Testa. Saggio delle sue dottrine. » Kant,
» Esame della teorica del Bianchetti. Şuoi meriti. Critica delle sue objezioni
contro la dottrina del sentimento. -Egli stabilisce la que stione in termini
contradittorj. - Equivoco dell'as soluto. Se siano più mutabili i sentimenti, o
le idee. Certezza della cognizione. Conseguenze della teoria platonica delle
idee. Guida sicura del | l'Umanità è la natura. In qual senso la verità, la
giustizia, e la bellezza sieno assolute. Cognizione dell'io fenomeno e dell'io
sustanza. Qual parte abbia il sentimento nella morale. L'assoluto formale, e
l'assoluto reale. La regola delle azioni. Applicazione della teoria psicologica
alla pedagogia, e alla storia. - Il sentimento del Vero e la filosofia della
conoscenza. Il sentimento del Bello e la filosofia dell'arte. - Il sentimento
del Bene e la filosofia della morale e del diritto. Il senti mento dell'Infinito e la filosofia
della religione e del l'assoluto.. Critica degli argumentidel Rosmini contro la
teorica del sentimento religioso. Se possano collocarsi tutte le religioni
sotto una stessa cate goria. La prova rosminiana è logicamente un so fisma.
Storicamente è una falsità. Dottrine cristiane anteriori al cristianesimo.-
Carattere del l'Evangelio. Un filosofo inquisitore. L'accusa d'empietà. –Logica
buffonesca del Rosmini. - Sua storia dell’empietà. Contradizioni ed assurdità
del suo catechismo. Insulti all'Umanità. Ca lunnie in luogo di ragioni. Verità
assoluta e ve rità relativa della religione. Il Dio vero e il Dio falso. -
L'infallibilità del dogmatismo. Rosmini - - dichiara bestia chi non pensa come
lui. - Il fondo e le forme della religione. Chi ammette il senti mento non
lascia la via della ragione. La ragione e il sentimento non sono contrarj.
Subjettività della religione. Trasformazioni dell'idea di Dio. - L'uomo ha una
religione perchè è uomo. -Come nella dottrina del sentimento vi sia la verità,
la certezza, e la morale. I motivi della fede. Con tradizioni del Rosmini
intorno alla natura. Là legge e l'obbligazione morale. - Dove cominci l'im
moralità delle religioni. –La credenza non precede il sentimento. Avvertimento
ai giovani stu diosi Programma d'un corso di Filosofia. Il razionalismo e la
fede. Distruttore d'ogni fede è il dogmatismo. Differenze reali e pratiche fra
il razionalista e il dogmatico. - Analisi e critica dell'opera di G. A. Nallino:
Del Sentimento. B. Dottrina di C. Lemaire intorno alla verità. C. Esame di una
lettera del vescovo d'Annecy all'Ar monia su l'educazione D. Legge storica del
progresso, giusta il sistema di Comte e di Ferrari. E. Inno di Cleanto a Giove
tradutto dal Pompei F. Dottrina di Franck intorno alla fede. » Teorica del
Sovranaturale Introduzione allo studio della Filosofia. Della formula ideale.
Del necessario e del contingente. - Dell'intelli gibile. Della esistenza dei
corpi. —Dellaindividuazione. Dell' evidenza e della certezza. Dell'origine
delle idee. De' giudizj analitici e sintetici. Della natura del raziocinio
Della universalità scientifica della formula ideale. -Della matematica. Della
logica e della morale. Della co smologia Della estetica Tavola delle
trasformazioni ontologiche della formula ideale, corrispondenti ai vari stati psicologici
dello spirito umano Teorica dei Primi.' – Della dialettica La grande
innovazione, che Gioberti portò nella filosofia, è quella dei vocaboli e delle
locuzioni. - Il suo sistema però è sempre il vecchio dogmatismo della
scolastica. -Egli 1 s'era proposto di ricondurre la scienza ideale alle
credenze catoliche e all'obedienza della chiesa, onde l'aveano sviata; il
metodo, il principio, e il criterio della filosofia moderna, e volea sostituire:
I. Come metodo, l'ontologismo al psicologismo. — Defi nizione dei due metodi. —
Il psicologismo osserva, e l'on tologismo viola il primo canone di una buona
metodica, che è di procedere dal noto all' ignoto; - parimente il secondo, che
è di camminare dal certo all'incerto. - Li miti del psicologismo. - Conseguenze,
che il filosofo ne dee tirare. Gioberti ba ragione contro i psicologisti
dogmatici, e noncontro i psicologisti critici. - Il processo psicologico non è
ipotetico. L'ontologismo invece non può essere che una ipotesi. L'uomo di
Gioberti, e l'intuito diretto, immediato della creazione. Come principio, la
creazione al panteismo. –Che valore debba attribuire la filosofia al panteismo,
ed ai varj sistemi ontologici e cosmogonici. Anche la creazione, nel sistema di
Gioberti, è una ipotesi. - Non la stabilisce su d'alcuna prova. Tutti i sistemi
possono appropriarsi il suo ragionamento. Gioberti non prova il fatto capi tale
del suo sistema, che è la notizia della creazione nel l'intuito primitivo.
Anziquesto fatto medesimo, in virtù de' suoi principj, non è ammissibile.
Scambia la que stione dell'esistenza con quella del modo. - In luogo di tre
termini ne abbiamo un solo. Differenza essenziale fra l'azione dell'Ente e
quella degli esistenti - Il sistema di Gioberti si risolve o in una
contradizione formale, o in un'asserzione gratuita Comecriterio, il
sovranaturale al razionalismo. cosa intenda Gioberti per sovrintelligenza.-Un
commento favoloso di Mauri. – La
sovrintelligenzaèuna facultà contraditioria ed assurda. Stato della questione
fra il razionalismo ed il teologismo. Per la filosofia, la fede non può esser
altro che una maniera di cognizione. La distinzione dei sovranaturalisti fra la
certezza o evi denza estrinseca ed intrinseca non giova. Il sovrana turale o
non è oggetto di conoscenza, o il suo criterio è la ragione. I fatti
sovranaturali, a cui ricorre Gioberti, o non sono fatti, o non conchiudono
punto. La crea zione. La parola. La beatitudine. La rivelazione. Il
sovranaturalismo consiste nel fondare il noto su l'ignoto, o nel dedurre
l'evidente dall' incomprensibile. 329 Una confutazione efficace del
razionalismo non è pos sibile, fuorchè a patto di ammettere due specie diverse
e contrarie di verità e di ragione Come risultato finale, la teologia alla
filosofia. È un corollario. Gioberti stesso lo ha dichiarato in mille luoghi.-
Suamoltiforme definizione della filosofia. — Saggio di commenti, con cui
Gioberti laspiega. — Anche per lui, come per Rosmini, la filosofia è la serva
della teologia. Il signor Mauri lo nega formalmente; formalmente lo afferma.
Egli vede lucidamente il 'nulla. —E mostra d'intendersi cosi bene di teologia,
come di filosofia. - Ar gumento di Gioberti per conciliare il primato della teo
logia con la libertà della scienza. E un controsenso. L'unico principio di
ordine nel regno delle idee e la Gioberti con la sua teorica del magisterio e
della regola autorevole condanna il proprio sistema. – Egli non credeva alla
filosofia, non era filosofo. - Suoi impro bi. E contro Descartes, como
rappresentante di essa. Varie classi d' avversarj. -La critica presente si rife
risce ai soli avversarj delle dottrine filosofiche di Gioberti. Nella questione
del metodo, suoi avversarj naturali do vean essere i psicologisti critici.
-Ma'in Italia una scuola critica non esiste. – Nicolò Tommaseo. Salvatore
Mancino - Terenzio Mamiani. I psicologisti rosminiani. Questione fondamentale
tra Gioberti e Rosmini. La critica di Gioberti distrusse la metafisica del
psicologismo. E la critica de' rosminiani disfece la metafisica dell'on tologismo.
Il sistema di Kant riceve una nuova conferma dal fatto stesso de' suoi
detrattori. Lato comico della controversia fra Gioberti Rosmini. Conclusione,
che ne dee trarre la filosofia e l'Italia. Pag. 88 Nella questione del
principio, avversarj di Gioberti avrebbero dovuto essere i panteisti. - Ma
nella patria di Giordano Bruno il panteismo non ha una scuola. Si levarono
inyece contro Gioberti i difensori officiali della creazione, e lo accusarono
di panteismo. Mala fede di questiaccusatori. - Protesta diGioberti. - Il
panteismo é inevitabile nel sistema psicologico del dogmatismo —La critica dei
teologi era una cavillazione ed una sofistiche ria. Gioberti non è panteista.
Il che però non gli torna a lode Nellaquestione del criterio, avversarj di
Giobertinon furono i razionalisti, ma i teologi. E l'accusarono di
razionalismo. Favole, che un frate diede ad intendere a otto vescovi degli
Stati Romani. Gioberti ebbe il torto di prenderle sul serio, Sua protesta.
L'accusa non è giustificata dalla guerra, ch'egli mosse ai gesuiti. Ma in virtù
de suoi stessi principj egli non poteva lagnarsi della sentenza de' teologi
L'ordine degli avversarj, eziandio quanto al risultato ultimo della
controversia, apparvorovesciato. Gioberti non fu combattuto in nome della
filosofia. Vera filosofia, nel senso moderno, non esiste ancora in Italia.
Quivi regna tuttora la scolastica. Fu in quella vece combat tuto dai teologi. -
E con ragione. - Problema della con ciliazione fra la ragione e la fede.
Soluzione dei razio nalisti, o dei teologi. - Gioberti s'era condannato da sè
stesso con la sua professione di fede. Il catolicismo era la sua religione, e
lo trattavada catolico. Opposizione assoluta della fedee della ragione.-
0razionalismo, o teologismo: nessuna via di mezzo. L'esempio di Gioberti è una
conferma di questa verità o di questo fatto Opere postume di Gioberti. Riforma
catolica della chiesa Filosofia della rivelazione - Divisione del programma.
False accuse che Mamiani dà all'età nostra. Egli nega i fatti più notorj ed
evidenti. Afferma, che oggidi la mente umana ha perduta una sua facultà
naturale. Se ella sia diventata inetta a conoscere i sommi principj Mamiani
taccia l'età nostra d'inettitudine a conoscere le dottrine, che ogni pro
fessore insegna, ed ogni studente impara. Anche l'ac cusa di empirismo è vana.
- L'influenza dell'empirismo grosso e cieco non esiste. V' ha però un empirismo
no grosso, nè cieco, a cui la scienza rende omaggio. E una volta Mamiani lo
riconosceva anch'egli come il metodo naturale. Testimonianze del Rinovamento,
dell'Onto logia, e dei Dialoghi. Egli ora nega perfino i pro gressi
dell'industria. Per questo rispetto, lo scopo del Ľ Academia è inutile o
dannoso Il titolo dell' Academia. È un idiotismo. A che razza di patrioti possa
piacere, Abuso che Mamiani fa dell'espressioni di filosofia italica, e italiana
- L'antico moderno. Ritratto ch'egli fa di questa filosofia. È
un'amplificazione retorica da declamatore. Che Ma miani 'abbia inventato o
scoperto una nuova storia? Il suo giudizio è falso, o si riferisca alla scuola
pitagorica: Testimonianze diFréret, -Tennemann. Degerando, Ritter, e del
Dizionario delle scienze filosofiche. O s'intenda della scuola eleatica. O
anche delle dot trine de' nostri filosofi riformatori al principio dell' era
moderna. Conseguenze del giudizio di Mamiani intorno all'eccellenza della
filosofia antica. Risposta di Mamiani a Mamiani Discussioni non filosofiche.
Altre, di cui s'accenna il titolo solo o si fa un indice sommario. Paragone,
che Mamiani instituisce fra l'Academia di scienze morali e po litiche, e la
sua. Strana censura dell'Academia fran cese. I difetti del secolo e della
nazione. Se un'A cademia li possa correggere. A chi appartenga questo officio
educativo. Al carattere del secolo e della nazione partecipano paturalmente
l'individui. - E il Genio stesso, Se l'Academia francese dipendesse troppo dal
potere ministrativo. Fondazione Statuto. Soppressione, rinovazione, e stato
attuale, - Le moltitudini di Francia. -Mamiani rinfaccia loro ingiustamente la
preoccupazione dei materiali interessi. Che cosa farebbe il Conto della Rovere,
qualora si trovasse nel caso di quello moltitudini, Forma dell'intelligenza
francese. - Mamiani la taccia di poco idonea agli studi speculativi. Falsità o
calun nia. Se moltidell'Instituto seguilino ancoraledottrino superficiali del
secolo andato. L'Academia di Mamiani. Stato personale dei fondatori e socj
primarj. Sono tutti indipendenti d' un nuovo genere: impiegati. -Pro blema,
cheMamiani dovrebbe proporre a 'suoi colleghi. Un elogio degl' Italiani
peggiore d'ogni insulto. Nuove materie di filosofia italica antica. Mamiani ac
cusa di superficialità e leggerezza tutti i fisiologi. E liene per sodezza e
profondità l'ignoto e l'assurdo. Domanda di un illustre scrittore piemontese.
Risposta degna di un casista. - La religione di Mamiani e della sua Academia è
un enigma. - Questione della sovranità e del diritto. Teoria di Mamiani. Li
ottimati. Formula: Dio e la legge. Critica di questa teoria e di questa formula.
Doppio senso del problema intorno alla sovranità. Un fatto di natura, che non
s'è mai effet tuato. Il diploma d'ottimo e di sapiente. Dio e Dio. Anche
Mamiani crede alla favola, che di Tomaso d'A quino fa un dottore della
democrazia. E cita lopu scolo De regimine principum. -Ad ognuno il suo. Analisi
del famoso opuscolo. Mamiani dunque non l'avea letto. Un'impertinenza del
segretario Boccardo. II suo discorso su la filosofia della storia è un tessuto
di contradizioni, d’arzigogoli, e d'assurdità Discussioni che non meritano il
nome di filosofiche. Discorso proemiale di Mamiani. Critica. La censura filosofica, che Mamiani
fa dei tedescbi, è ingiusta ed assurda. – L'esperienzae l'Assoluto. - Fede e
temerità dei filosofi tedeschi. Così ne avessero un po' l'Italiani. - I
tilosofi e la rivoluzione. - I Tede hi e l'Italici. Errori di Mamiani intorno
allo scetticismo. È erro Se debbano querelarsene i savj e li onesti. Quali
siano i suoi confini. Chi reca guasti nelle intelligenze e nei cuori è il
dogmatismo, e non lo scetticismo. Nuova descrizione, che Mamiani fa dello
scetticismo. pea. Mamiani grida allo scetticismo senza conoscerlo. Che cosa dee
fare per circoscrivere la vera signoria dello scetticismo. - Ideo confuse e
stravolte circa la reli gione. L'asserzione di Mamiani, che il secolo torna a
religiosità per impulso di ragione, è un doppio contro senso. Prove che non
provano nulla. La pianta e le radici della fede. Mamiani chiama religione ciò
che tutte le religioni chiamano empietà ed ateismo. Dev'essere un' ironia. La
piaga © la peste dell'epoca nostra è l'ipocrisia di certi scrittori. Sarebbe
tempo che Ma miani cessasse dall'equivocazione e dall'anfibologia. E facesse
una professione di fede chiara e precisa. Almeno la gioventù conoscerebbe le
sue guide. Pag. 238 Dottrina di Mamiani su la filosofia della storia. Qual
mezzo rimanga ad un popolocorrotto per tornare alla li bertà e alla virtù
civile. Il popolo, Le politiche in stituzioni, - I metodi educativi, L'incremento
del sa pere commune, non pajono a Mamiani una ragione sufficiente. Egli muoveda
un'ipotesi assurda. E da un'enu merazione incompiuta.Donde possa ricavarsi la
soluzione delproblema. -Questione del progresso – Definizione di Mamiani.
Sommario del suo primo discorso. - Con tradizione fondamentale. - Sommario del
secondo discorso. Una conclusione che rovescia le premesse Se Ma miani ammetta,
o no, il progresso, è un mistero. Lo affermae lo nega ad un tempo. Due grandi
scoperte del professore Garelli. Un'altra del professor Torre. Li applausi dell
Academia. L'eletto parto d' un gio vine e raro ingegno. Altra e più mirabile
scoperta del signor Bonghi. Ê riescito a capire che i filosofi antichi non
erano teologi cristiani. Fuori della chiesa catolica l'anima catolica non può
trovarsi. Concetto ch'egli s'è formato della filosofia italiana. Le viscere e
le croste dei dogmi cristiani. L'estremo della loro possapza re stauratrice. Il
signor Bonghi lo hanno già restaurato perfettamente. Discorso proemiale del
signor Boncompagni, su li officj civili della filosofia. Sommario. Diritti
della ragione. Libertà della filosofia. Libero esame. Lite fra li ettici e la
umana generazione. Origine e causa dello scetticismo. -Eccesso dei dogmatici
edegli scettici. Me todo di combattere lo scetticismo. Se la filosofia moderna
lo posseda. La filosofia e il paganesimo.
Il cristianesimo e la filosofia. Accordo della fede e della ragione.
Torti del secolo XVIII. Filosofia scozzese e tedesca. La filosofia moderna non
ha finora adempiuto i suoi officj. Speranza fallace di un riposo. Dove si la
vera, sana, ed utile filosofia Critica di questo discorso.. Il figlio degno
della madre. - Il discorso di Boncompagni è un paralogismo. Le premesse
confutano la conclusione. La conclusione rovescia le premesse - Diritti della
filosofia verso il cristia nesimo. Boncompagni dee riformare le premesse, o la
conclusione. L'esempio degl'instauratori della filosofia moderna non prova
nulla. Il metodo italianissimo dei filosofi italici ministri di Stato. Lo
scetticismo è la pie tra d'inciampo anche per Boncompagni. - Cinque affer
mazioni, che son cinquo falsità. Contro di chie di che combattano li scettici.
Di che dubitino. Se ricono scano il progresso del pensiero umano verso la
verità. Che verità e che scienza impugnino. Un altro discorso di Boncompagni su
la libertà d'inse gnamento. Perchè non se no facia l'analisi. Conci liazione
della libertà del pensiero con l'autorità. Tre parole convertite in principi
essenziali alla vita intellet iuale e morale dell'uomo Per Boncompagni la
massima parte degli uomini sono bestie. E l’Inquisizione è un Ufficio veramente
santo. – L'autorità veneranda dei birri. Che risposta e che trattamento
dovrebbe aspettarsi Boncompagni, se i suoi avversarj gli applicassero i suoi
stessi principj Discorso di Bertrando Spaventa su i principj della filo sofia
pratica di Bruno. La prima e l'unica lodė data a chi la meritava. Quel dotto
discorso è la critica e la satira più
acerba della filosofia italica. Sommario. Il proe mio. Fondamento della
filosofia pratica. Forme della moralità e del diritto: la verità. La prudenza.
La filosofia. La legge. La giustizia pupitrice. Il governo. Il lavoro. La
religione. Sviluppo della idea di Bruno nella storia della filosofia. Spinoza.
Kant. Hegel. Il principio essenziale del cristianesimo. L'identità della natura
divina e della natura umana è un'eresia e non un dogma. I dogmi cristiani della
creazione e del l'incarnazione l'escludono. Il cristianesimo avrebbe regnato
per sedici secoli, senza nè pur esistere. Ne seguirebbe che una religione nasce
allorchè muore. - Lo religioni orientali non avrebbero cominciato a trionfare
che su la fine del secolo passato. La rivoluzione francese e il cristianesimo.
La filosofia moderna e la rivoluzione non possono dirsi una realizzazione
dell'Evangelio. - I germi delle idee. Il criterio comparativo delle religioni
non è il germe o la sustanza dell'idea, ma la forma del sentimento. Analogia
del cristianesimo conle religioni antecedenti e con la democrazia moderna. Non
bisogna chiedere, nè attribuire ad un'instituzione ciò ch'essa non è destinata
a dare. Rapporto del razionalismo co ' l cri stianesimo. Legge di successione e
di progresso nella storia delle religioni. - Importanza d'una questione di
parole. Bandiera dell'autorità e della libertà Cicalata di un principe Torella.
E il segretario la chiama elegante. Giunta peggiore della derrata. La
moderazione dei sedicenti moderati. Origine e defini zione del socialismo,
secondo l'onesto e moderato principe Torella. Risposta per le rime. Mamiani con
la sua Academia non ha recato nessun vantaggio alla filosofia. Ha fatto grave
torto all'Italia. Patriotismo fanatico ed esaggerato. E un errore nelle
questioni politiche. On assurdo nelle scientifiche. Scambia l'amor della patria
con una vile piacenteria. L'Italia e la filosofia moderna. Il primato
dell'ignoranza. Quale dovrebb’ essere il programma filosofico di un ' Academia,
che volesse meritar bene del l'Italia. Ma in Italia non si potrebbe attuare.
Che cosa dovrebbero fare i politici e i filosofi patrioti. Occasione e
argumento dell'opera. Nuova genía di filosofanti. Vanità de' loro sforzi, e
consola zione della filosofia. Se la divisione de' giudizj in analitici e
sintetici fosse già fatta da Aristotele (Rosmini ), V. O da S. Tomaso (Balmes),
O da Locke (Galluppi). VII. O da Hume (Kuno Fischer ). Divario fra la teorica
di Hume e di Kant, IX, Dichiarato da Kant stesso pag. Due edizioni della
Critica della Ragione Pura. Stato della questione. IValore della formula: A è B;
la differenza tra i giudizj analitici e sintetici non dipende dall'essere
contenuto, o no, il predicato nel subjetto Nè dall'essere identico, o no, il
pre dicato co ' l subjetto. V. I giudizj: Tutti i corpi sono estesi, e Tutti i
corpi sono pesanti, non differiscono formalmente tra loro. Il giudizio
analitico di Kant è il giudizio categorico in genere, ed il giudizio sintetico
è un giudizio impossibile. Relazioni dei concetti in ordine alla loro
estensione e comprensione. Il concetto di corpo include la nota della gra vità
non meno che dell'estensione. IX. Vale la stessa legge per i giudizj empirici e
particolari. X. Con fusione che fa Kant dell'analisi con la sintesi, e della
forma sintetica con la forma contingente del giudizio. Inesattezza del divario
ch'egli stabilisce fra la cognizione a posteriori, a priori, e pura. –
Cognizione propriamente empirica, propriamente pura, e mista; universalità e
necessità del giudizio. quale classe appartenga il giudizio: Tutti i corpi sono
estesi. E della stessa classe è il giudizio: Tutti i corpi sono pesanti.
Erroneo commento che fa a Kant il suo traduttore italiano. Determi ne del
doppio processo intellettuale d'analisi e sintesi. Carattere differenziale dei
giudizj ana litici e sintetici; concetti e giudizj primi. II carattere analitico
e sintetico non può ridursi nè alla mera conversione de' giudizj, nè ad una
semplice diver sità di funzione del subjetto e del predicato. Due testimonianze
di Kant. Importanza della teorica del giudizio sintetico per la questione dell'ori
gine delle idee. Sorte diversa ch'ebbero le due parti della dottrina kantiana.
Officio dell'esperienza ne' giudizj analitici e sintetici di Kant, III. Nella
sintesi empirica e pura. Valore del giudizio: Tutto ciò che avviene ha la sua
causa; e necessità de' giudizj sintetici a priori in tutte le scienze.Valore
de'giudizj matematici: 7 +5 = 12; La linea retta è fra due punti la più breve;
Il tutto è eguale a sè stesso, e maggiore della sua parte. Carattere logico di
tali giudizj. Principj della fisica, X. E della metafisica. Il mistero de'
giudizj sintetici. Il problema universale della ragione pura: Come sono
possibili i giudizj sintetici a priori? Se da esso dipenda l'esistenza della
metafisica COUsil, Seguaci e spositori di Kant. Prima divisione che fa Cousin
del giudizio; medesimezza logica e psicolo gica delle due specie. Riduzione del
giudizio ana litico al categorico in genere e del sintetico all'im · possibile.
Suddivisione del giudizio sintetico. Errori di Cousin nell'interpretazione de'
giudizj: Tutti i corpi sono pesanti, e Ogni mutamento ha una - Non tutti i
giudizj analitici sono i priori. Due corollarj di Cousin su l'origine delle co
gnizioni e su la natura de' giudizj. VIII. Scambio che fa il Testa del giudizio
sintetico con l'empirico e dell' analitico co' l pur'o. Objezione e risposta;
confusione del carattere sperimentale con la contingenza, e del carattere puro
con la necessità. Pos sibilità de'giudizj sintetici a priori; principio di cau
salita. Le definizioni sono giudizj analitici sintetici. Definizioni
geometriche e costruzioni. Definizioni genetiche e concezioni. non Erronea
nozione del giudizio sintetico proposta dal Gal luppi con l'esempio: La nere è
fredda. Erroneo paragone di questo giudizio con l'altro: triangolo ha tre
angoli; assurdità del giudizio sintetico kantiano dimostrata dallo stesso
Galluppi. ILa divisione del giudizio in analitico e sintetico non può desumersi
nè dalla necessità o contingenza della relazione fra su bjetto e predicato, nè
dall'impossibilità o possibilità dell'opposto. Non v'ha differenza per questo
rispetto fra i giudizi empirici e puri. Altro pa ragone fallace tra il giudizio:
La nere è freddo, e Due quantità eguali ad una terza sono eguali fin loro. -
Tolto il predicato, può essere distrutta o no l'idea del subjetto cosi nei
giudizj empirici come nei puri. Erra il Galluppi non meno di Hune nel determi
nare quali sieno i giudizj, di cui è inconcepibile l'op posto. Confunde l '
intelletto speculativo con l'intelletto pratico. Fallacia della sua argumen
tazione contro la possibilità de ' giudizj sintetici a priori. S'aggira in un
circolo vizioso. Necessita fisica e necessità logica, repugnanza assoluta e
repu gnanza ipotetica o relativa. Contingenza del giu dizio; predicati di
qualità e predicati di azione. -Al giudizio sintetico non conviene propriamente
il ca rattere di necessità, Nè il carattere di contin genza. Ed al giudizio
analitico appartiene il ca rattere di necessità, e repugna quello di
contingenza. Fra i concetti di cavallo alato e di monte senza valle non c'è
differenza d'ordine razionale, ma d'ordine imaginativo. Le nozioni di possibi
lità ed impossibilità han valore logico e non fisico. Erronea dottrina del Galluppi su la natura
della definizione, E su ' l divario ch'egli fa tra de finizione e proposizione e
tra idea e segno dell'idea. Li esempj,
con cui Vacherot spiega la nozione kantiana del giudizio analitico e sintetico,
valgono a scalzarne il fondamento. Sua ridu zione di tutti i giudizj analitici
in puri e di tutti i sin tetici in empirici. Merito e difetto della cri tica
ch'egli fa del giudizio 7 + 5 = 12. Perspicacia nell'avvertire il difetto
capitale della teorica kantiana e il vero punto della questione. Erronea
tuttavia è la nozione che ha il Rosmini del giudizio sintetico empirico. - Sua
formula del problema dell'ideologia: Come si formino i concetti; e del giudizio
primitivo: Esiste ciò che io sento. Suoi giudizj con un subjetto -sensazione ed
un predicato -idea. Non sono un fatto della.coscienza, ma un'illu sione del
Rosmini; Nè possono dirsi giudizj sintetici. False supposizioni ch'egli imputa
vana mente a Kant. Teorica rosminiana della per cezione intellettiva de' corpi.
Strana distinzione fra subjetto e concetto del subjetto; E strane conclusioni
che il Rosmini ne trae. I giudizj, con
cui egli vuol risolvere il problema dell'ideologia, non sono nè primitivi, nè
sintetici, nè a priori. Condizioni del problema e della sua soluzione. Nozione
del giudizio sintetico, guasta dalla clau sula ch'esso debba avere per subjetto
un'idea sem plice. Applicazione che ne fa il Gioberti ai giu dizj matematici.
Valore del giudizio: A è eguale ad A. Eccezione del giudizio: L'essere è l ' es
V. Se la realtà de ' giudizj sintetici a priori di penda dalla struttura dello
spirito umano o dalla sin tesi objettiva del Gioberti. Sua tesi circa i giudizj
a priori, tutti analitici rispetto alla cognizione rifles sere. . siva, e tutti
sintetici rispetto alla cognizione intuitiva; Contraria a' suoi principj, in
virtù de quali appartengono all'ordine della riflessione e non dell' in tuito
così i giudizj sintetici come li analitici. Analisi della percezione primitiva
fatta dal Reid e ri fatta da Kant. Spiegazione che dà il Gioberti del giudizio
primo; mistero sopra mistero. X. Sua divisione de' giudizj sintetici a priori
in assoluti e re lativi. Se il problema kantiano sia psicologica mente
insolubile. Fallacia dell' argumentazione giobertiana contro il processo
psicologico. Que stione dell'origine delle idee; differenza tra il fatto e la
sua spiegazione Principio della teorica.
Divisione che si fa del giudizio analitico, piena di repugnanze e inefficace
contro la teorica kantiana. V. Altra divisione del giudizio non meno inesatta.
La differenza tra le due specie non sussiste Nè quanto al carattere di
necessità o contingenza, nè quanto al riferimento dell'idea all'essere attuale
o all'eterna possibilità. La materia attuale e la materia possibile. Sequela di
repugnanze, che deriva dalla classificazione de' giudizj secondo che hanno
objetto finito od infinito.Critica infelice che il Mamiani fa de' giudizj
sintetici a pricri di Kant con vernenti la matematica E la metafisica.
Divisione ch'il filosofo fa del giudizio e che disfà con li esempj. Fallacia
della definizione dall'accidente. Il carattere di essenzialità o accidentalità
del predicato verso del subjetto è d'ordine logico e rela tivo, non già d'
ordine reale ed assoluto. Si ri duce alla relatività dei concetti di genere e
di specie. Il giudizio sintetico del Peyretti è intrinseca inente falso e
logicamente impossibile. Non si può mai negare ciò che si afferma senza
contradirsi. Paralogismi del Peyretti a prova della tesi che tutti i giudizj
empirici sono sintetici; – E della tesi che tutti i giudizj analitici sono
puri. Tesi disdette dalla sua stessa teorica dell'opposizione de' giudizj. Caso
di un predicato non incluso nel subjetto. La teorica dell'analisi e della
sintesi, professata dal Peyretti, mal s'accorda con le sue teo riche
dell'apprensione analitica e sintetica; Del l'affermazione artificiale e
naturale; del giudizio primi tivo o intuitivo, e secondario o razionale; della
distinzione intensiva ed estensiva delle idee. Nozione dell'analisi e della
sintesi e teorica della definizione, con cui il Peyretti s' accosta alla vera
idea del giudi-. zio analitico e sintetico. La divisione anche del giudizio
falso in analitico e sintetico, Fondata
in una differenza affatto arbitraria e fallace tra due giudizj, Che paragonati
a dovere fra loro non differiscono punto Autori da omettersi. Errori circa la
forma negativa del giudizio analitico e sintetico ecirca il carattere spontaneo
della sintesi e riflesso dell'analisi. Critica ch'egli fa della dottrina di
Kant su i giudizj sintetici a priori E delle obje zioni mosse contro di quella
dottrina dal Galluppi E dal Rosmini. Teoria ontologica del Toscano, condannata
dal Gioberti E distrutta da gli esempj stessi, con cui il Toscano crede
d'illustrarla. Vanagloria della scuola degli ontologi.Dottrina del Romano su i
giudizj necessarj e contingenti; Su la necessità assoluta e condizionale E su
la sintesi e l'analisi. Assimilazione e dissimilazione spontanea tra le
percezioni. Erronea definizione dell'analisi e della sin tesi. Esempj con cui
il Corleo non chiarisce, ma distrugge la sua teorica dell'assimilazione. Della.
sintesi, E dell' analisi. Nesso ch'egli sta bilisce fra l'analisi e la sintesi;
E contempora neità delle due funzioni. Forme principali della cognizione.
Ordine di priorità e posteriorità fra la sintesi e l'analisi. Dottrina del
Corleo su la sintesi riflessa; disdetta da' suoi esempii e da fatti d'
esperienza commune. Differenza che si fa tra il giudizio e la sintesi ed
analisi. Giu dizj che per lui non sono veri giudizj. Censura ch'egli muove alla
maggior parte dei filosofi per aver confuso la sintesi ed analisi riflessa co'l
giudizio. Sua scoperta della conversione de' giudizj empirici in necessarj. Analisi
del giudizio: Ogni corpo è grave; E confronto coʻl suo reciproco: Ogni grave è
corpo. - Correzioni e giunte del Corleo alla teorica kantiana de'giudizj
analitici e sintetici, a priori ed a posteriori. Altra sua scoperta della
priorizzazione de' concetti. Effetti prodigiosi della quinta percezione e conseguenze davvero nuove della
priorizzazione de'concetti. Critica delle definizioni del giudizio date da varj
filosofi; Da Stuart Mill e dal Rosmini. III. Defi nizione che ne dà il Barbera.
Sua teorica del giudizio analitico Identità manifesta ed occulta. Esempio del
quadrato di 13.Teorica del giudizio sintetico. Officio della copula. Esempio
del campanile di Pisa. Teorica della for mazione delle idee. Risoluzione
dell'idea ne'suoi elementi mediante il giudizio. Attributi del su hjetto ideale
e del subjetio reale. Esempio del peso dei corpi. Teorica del giudizio
sintetico a priori. Vocaboli che dinotano l'ignoto. Subjetto ignoto ed
attributi noti. Esempio del yocabolo. Declinazione degli studj logici in Inghilterra.
- INota di Stuart Mill su la questione de'giudizj analitici e sin tetici.
Condizione degli studj logici in Francia. IV. A. Garnier e C. Bailly. Dottrina
di Re nouvier intorno al giudizio in genere, al giudizio cate gorico, e al
giudizio analitico e sintetico. Se ogni giudizio sia analitico e sintetico
insieme. Delbouf: sua teorica del giudizio sintetico E dell'ana litico. Confusione ch'egli fa dell'uno con l'altro,
Confermata da' suoi esempj. Una nuova riforina dell'insegnamento filosofico in Italia.
es guaci ed avversarj di Kant in Germania Que stione de’giudizj analitici e
sintetici ripigliata da Stuart Mill nella sua critica della Filosofia di
Hamilton. Sue objezioni contro la teorica commune del giu dizio. Teorica sua
propria; divario ch'egli am mette tra il concetto ed il fatto.Relazione tra
giudizi e concetti; come i fatti possano esser materia dei giudizj. Proposizioni
ch'egli trova nei fenomeni esterni; ed elementi o momenti della sua teorica del
giudizio. Giudizj nuovi e giudizj ripetuti; Co pernico e Tolomeo. Attributi che
racchiude il concetto. Attributi impliciti nel senso del nome; teorica della
definizione. Esempio del vocabolo Precisione del linguaggio filosofico di
Stuart Mill nella divisione del giudizio in analitico e sintetico. Objezioni
del Krug alla teorica kantiana; esposizione della teorica sua propria. II.
Contenenza originaria del predicato nel subjetto; astrazione della logica dal
pensiero sintetico. Altre definizioni del giudizio analitico e sintetico.
Relazione del concetto con l'objetto. Esempi che non confermano punto la tesi.
Differenza tra ' giudizj sintetici ed analitici mal fondata dal Krug
nell'opposizione fra objetti determinati e concetti già esistenti; E fra
objetto, idea del l'objetto, e nota della sua idea. Distinzione fra il valore
objettivo e subjettivo de'giudizj, male appli cata. Eposizione che si fa della
teorica, non guari migliore delle altre. Sistema. In luogo di correggere, si
aggrava l'inesattezza che riconosce nelle dottrine altrui. Valore teoretico e
pratico della sua divisione; forme vuote della logica e forme piene della
metafisica. Confusione del giudizio analitico con l'a priori. Teorica del
Twesten,E del Braniss. Officio della sintesi e dell'analisi; giudizj
esistenziali ed essenziali; cognizione empirica e razionale; necessità assoluta
e relativa. Brevi e giuste ossservazioni
del Troxler su la classifi cazione kantiana del giudizio. Teorica del Krause:
nozione inesatta del giudizio sintetico,
E del l'analitico. – Giunta del Tiberghien. Dottrina del Drobisch
intorno al giudizio categorico ed ipotetico. Classificazione del giudizio
analitico e sintetico fondata nell'opposizione arbitraria fra le note interne
ed esterne de concetti. Teorica del Trendelen burg. Sua critica del sistema
kantiano; meca 1 nismo ed organismo, composizione e sviluppo. Valore materiale
e formale del giudizio. Errore del Trendelenburg nel fare analitici tutti i
giudizi positivi, e tanto più i negativi. Divario essenziale fra il giudizio
positivo e negativo. Carattere sin tetico attribuito erroneamente dal
Trendelenburg ad ogni giudizio. Sue variazioni circa la natura < lel
giudizio sintetico.Giudizj sintetici a priori; giudizj tetici ed
esistenziali.Valore sintetico ed analitico de'giudizj tétici. Doppio valore
anche de' giudizj esistenziali. Oscurità e confusione della teorica del
Reinhold. Sistema del Beneke: differenza tra subjetto e predicato del giudizio.
INozione dell'analisi e della sintesi. Contenenza qualitativa e quantitativa
del predi cato nel subjetto. V. Aumento della cognizione me riante il giudizio,
determinato assai male dal Beneke. Critica ch'egli fa della divisione. kantiana:
enigmi sopra enigmi. Applicazione del principio d'iden tità a' giudizj
analitici e sintetici. VNon ogni giudizio sintetico è fittizio. Lacuna nel
sistema del Beneke. Teorica singolare e stravagante della validità del giudizio
esposta dallo Zimmermann. Applicazione non meno strana ch ' egli ne fa al
giudizio analitico e sintetico. Assurdità della sua classi ficazione. Sistema dell' Ulrici: sua tesi dell'iden tità
de'giudizj analitici e sintetici. Ammessa pure la differenza a parole, ma
cancellata in effetto. Critica savia ch'egli avea già fatta della dottrina
kantiana. Nuova teorica dello Zimmermann. Sintesi a priori ed a posteriori. For
mazione di nuovi concetti mediante una nuova osservazione. Soluzione del
problema dei giudizj sin tetici a priori, Fondata in falsi supposti.
Conclusione che rinega il suo principio. Differenza che il Ritter introduce fia
proposizione e giudizio, fra giudizio e concetto, fra concetto e rap
presentazione. Significato de' vocaboli.
Intelligibile diretto e riflesso; valore del vocabolo e della
proposizione. Se le proposizioni analitiche espri mano un solo concetto. V.
Proposizioni analitiche e sintetiche, le quali, secondo il Ritter, non
esprimono giudizj analitici e sintetici. VI. Proposizioni analiti che e
abolizione de giudizj analitici. Bizzarra nozione del giudizio sintetico.
Censura che fa il Ritter de giudizj sintetici a priori di Kant. Va lore
objettivo e subjettivo de concetti; determinazione delle essenze individuali.
X. Note essenziali e neces sarie, e note accidentali e contingenti
dell'individuo. Diversità della forma analitica de' giudizj neces F 1 sarj e
contingenti. Autorità di Platone mal in vocata dal Ritter. Valore variabile
delle sue proposizioni sintetiche; negazione della scienza. - Teorica dell'
Ueberweg. Teorica del Lindner: giunte alla nozione kantiana de' giudizj
analitici e sin tetici.Se campo proprio della logica sia il giu dizio analitico
e non il sintetico. Altre definizioni 1 1 del Lindner, che sopprimono ogni
differenza logica fra i giudizj analitici e sintetici. Relatività naturale
della sintesi e dell'analisi. Questioni da trattare; criterio e divisione. II.
Appli cazione del carattere analitico e sintetico ai giudizj uni versali,
particolari, e singolari. Ai positivi e negativi. Agli infiniti Ai categorici, ipo tetici, e
disgiuntivi. Riduzione del giudizio ca tegorico in ipotetico, e dell'ipotetico
in disgiuntivo. Modalità de ' giudizj secondo la scuola kantiana e secondo la
scuola peripatetica. Esclusione del carattere sintetico ed analitico da'
giudizj modali. Origine, scopo, fondamenti del criticismo kan tiano. Suè
relazioni con li altri sistemi, e suoi pregi. Suoi difetti: dualismo fra
subjetto ed objetto della cognizione. Unità e dualità ori ginaria della
coscienza; identità e distinzione del su bjetto e dell' objetto. Altre forme
del dualismo kantiano; attinenze della ragione co ' l senso nell' unità dell'
io. XV. Realtà ed objettività, materia e forma della cognizione. XVI. Il
criticismo kantiano e il problema capitale della filosofia. Esempio del
principio di causalità. From here both the hot and probably also the cold water
were conducted to the bath tub on the other side of the partition wall.
550 Since this wall between l and 20 is heavily
restored, no remains of the pipes or even openings for them have survived.
Whether these features were removed already in antiquity, either before the
eruption or soon after it by looters or in connection with the excavation is
unknown, due to the lack of reports. In corridor h² two concave
and parallel indentations from two round features such as pipes (diam.
0.04 m, preserved length 1.2 m) run in a north-south direction along the west
wall at a height of 1.1 m with a slight downward incline ( Fig. 89 ). The
form and dimension of these indentations indicate that they stem from two
parallelly- placed lead pipes, running along the west wall of the corridor.
Since the wall at both ends of these indentations shows modern repairs, the
original length and the starting and end points can no longer be established.
But since the repair to the south of these indentations covers the back side of
the east wall of kitchen l , it could be very probable that the pipes
that made these indentations came from the boiler in front of the north wall of
the kitchen and left that room through its east wall. The repaired area to the
north corresponds to the rear side of the niche for the schola
labrum ( Fig. 56 ). 551 To the north of this 0.95 m
wide repaired area of the wall, no indentations can be found. Thus it seems
probable that the supposed pipes led into caldarium 20
in the niche of the schola labrum to supply this element of
the bath with water as well.Ausonio
Franchi. Cristoforo di Giovan Battista Bonavino. Cristoforo Bonavino. Keywords:
la filosofia delle scuole italiane, i due massoni, giudizio, sentimento, storia
della filosofia, storia della filosofia italiana, risorgimento, rito italiano
simbolico, name index in Austonio Franchi’s works. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Bonavino” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Boniolo – l’atleta del vicolo -- le regole e il sudore – filosofia del sudore
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo italiano.
Grice: “I like Boniolo; especially that he takes ‘antichita’ seriously – he is
right on the emphasis on ‘argomentare’ but obviously the balance shoud be
between epagoge and diagoge – I would like to see more diagoge! He has
philosophised on other topics, too!” Cresciuto nel Petrarca Basket, debutta in
prima squadra diventando in quell'anno il più giovane giocatore di Serie A.
Giocò con il Petrarca Basket. Presidente. Laureato a Padova, insegna a
Padova, Roma, Milano, e Ferrara. Studia I fondamenti filosofici della
biomedicina e sulle loro implicazioni etiche, in collaborazione con diversi
istituti e fondazioni mediche milanesi. Svolge ricerca in ambito filosofico, in
particolare sulla filosofia della ricerca biomedica e della pratica clinica,
nonché di etica pubblica e individuale. Si è occupato anche di filosofia della
scienza di filosofia della fisica, di storia della filosofia e della fisica
contemporanee. Il suo lavoro è documentato
da saggi pubblicati su riviste. Membro dell'Accademia dei Concordi di
Rovigo. Altre opere: “Mach e Einstein. Spazio e massa gravitante” (Armando
Editore); “Linguaggio, realtà, esperimento” (Piovan); “Metodo e
rappresentazioni del mondo. Per un'altra filosofia della scienza” (Bruno
Mondadori); “Filosofia della scienza” (Bruno Mondadori); “Questioni di
filosofia e di metodologia delle scienze sociali” (Borla); Introduzione alla
filosofia della scienza” (Bruno Mondadori); “Il limite e il ribelle: etica,
naturalismo, darwinismo” (Cortina);. Argomentare” (Bruno Mondadori); “Individuo
e persona. Tre saggi su chi siamo” (Bompiani); “Strumenti per ragionare: logica
e teoria dell'argomentazione” (Bruno Mondadori); “Il pulpito e la piazza.
Democrazia, deliberazione e scienze della vita” (Cortina); “Le regole e il
sudore. Divagazioni su sport e filosofia” (Raffaello Cortina); “Strumenti per
ragionare” (Pearson Italia spa); “Conoscere per vivere. Istruzioni per
sopravvivere all'ignoranza” (Meltemi); “Filosofia della fisica, Bruno
Mondadori, J. von Neumann, I fondamenti matematici della meccanica quantistica,
Il Poligrafo); Storia e filosofia della scienza. Un possibile scenario
italiano” (Le Scienze); “La legge di natura. Analisi storico-critica di un
concetto” (McGraw Hill); “Laicità. Una geografia delle nostre radici”
(Einaudi); “Filosofia e scienze della vita. Un'analisi dei fondamenti della biologia
e della medicina” (Bruno Mondadori); “Passaggi. Storia ed evoluzione del concetto
di morte cerebrale” (Il Pensiero Scientifico Editore); “Etica alle frontiere
della biomedicina. Per una cittadinanza consapevole” (Mondadori); Consulenza
etica e decision-making clinico. Per comprendere e agire in epoca di medicina
personalizzata” Pearson Italia spa,.Poincaré, Opere epistemologiche, Mimesis. Mimesis,.
Etica alle frontiere della biomedicina. Per una cittadinanza consapevole (Mondadori).
Apoxyómenos Apoxyomenos Pio-Clementino Inv1185.jpg AutoreLisippo
DataCopia latina dell'età claudia da un originale bronzeo greco del 330-320
a.C. circa Materialemarmo pentelico Altezza205 cm UbicazioneMusei Vaticani,
Città del Vaticano Coordinate41°54′24.23″N 12°27′12.65″E L'Apoxyómenos
(traslitterazione dal participio grecoἀποξυόμενος, "colui che si
deterge") è una statua bronzea di Lisippo, databile al 330-320 a.C. circa
e oggi nota solo da una copia marmorea (marmo pentelico) di età claudia del
Museo Pio-Clementinonella Città del Vaticano. Si conoscono inoltre varie copie
con varianti. Dettaglio La testa Storia Modifica La statua
bronzea dell'Apoxyómenos, assieme ad un'altra statua di Lisippo che
rappresentava un leonegiacente, si trovò, in epoca successiva, ad abbellire e
ornare le terme di Agrippa in Roma. Tiberio, affascinato dall'opera, provò a
portarla nel suo palazzosul Palatino, ma dovette poi ricollocarla a posto per
le proteste dei Romani. Una versione marmorea fu rinvenuta nel 1849 nel
quartiere romano Trastevere, nel vicolo delle Palme, che da quel ritrovamento,
prese poi il nome di "vicolo dell'Atleta".Unitamente alla statua
furono ritrovate anche le statue del Toro frammentario e il Cavallo di
bronzo. L'opera venne esposta, quasi subito, nei Musei Vaticani[3] (Città
del Vaticano), inizialmente nella camera del Mercurio, nel cortile ottagonale,
quindi fu rimossa e spostata al Braccio Nuovo. Nel 1924 fece il percorso a
ritroso e ritornò nella Camera dell'Hermes, dove ci fu un nuovo, più accurato
restauro effettuato dal Galli. Questi, tra le altre cose, tolse il dado posto
dal Tenerani nella mano destra, provvide a rifare lo strigile, effettuò la
sostituzione di vari perni esistenti e infine, vi integrò molto accuratamente le
dita distese. Nel 1932 la statua trovò la sua collocazione definitiva nella
stanza più propriamente detta Gabinetto dell'Apoxyómenos. Nel 1994 la scultura
fu oggetto di una profonda e completa opera di pulitura. La statua fin
dal suo ritrovamento ebbe subito una grandissima notorietà mondiale: di essa fu
diffuso il calco in gesso, in numerose copie e in varie parti d'Europa. Una
copia del calco, venne richiesta anche dallo scultore Shakespeare Wood, al
quale venne donata, per essere poi collocata nell'Accademia di Belle Arti di
Madras. In tale occasione e per tale finalità fu realizzata una copia
cosiddetta "forma buona", vale a dire, una particolare matrice in
gesso; di questa operazione, rimasero visibili le tracce fino a quando fu
effettuato l'ultimo restauro. Una variante del tipo dell'Apoxyómenos è il
cosiddetto Atleta di Lussino, un originale bronzeo trovato nel 1996. Una più
simile a quest'ultima, ma con le braccia reggenti un vaso si trova nella
galleria degli Uffizi. Descrizione Modifica L'Apoxyómenos raffigura un
giovane atleta nell'atto di detergersi il corpo con un raschietto di metallo,
che i Greci chiamavano ξύστρα e i Romani strigilis, in italiano striglia.[4]
Era uno strumento dell'epoca, di metallo, ferro o bronzo, che era usato solo
dagli uomini e, principalmente, dagli atleti per pulirsi dalla polvere, dal
sudore e dall'olio in eccesso che veniva spalmato sulla pelle prima delle gare
di lotta.[1] L'atleta è quindi raffigurato in un momento successivo alla
competizione, in un atto che accomuna vincitore e vinto.[4] La versione
dei Musei Vaticani si presume sia stata eseguita in un'officina romana di buona
qualità, pure se, ad una più attenta analisi, resta qualche piccola
imperfezione e decadimento di livello; ne è un particolare esempio la resa
della zona interna del braccio sinistro. La statua risulta nella sua totalità
sostanzialmente completa e tuttora in condizioni molto buone. Piccoli
particolari rovinati si possono riscontrare nella punta del naso, mancante,
diverse scheggiature relative all'orecchio sinistro, ai capelli, a una delle
mascelle e anche allo zigomo sinistro. Esistono due fratture sul braccio
destro; una è situata alla metà circa del bicipite e una seconda sopra il
polso. Il braccio sinistro riporta una frattura alla spalla, dove si possono
anche notare piccole perdite di materiale e una seconda frattura al
polso. Su una vasta zona dell'avambraccio destro sono evidenti le tracce
di leggere corrosioni e di un'antica azione del fuoco. In una delle mani
mancano tutte le dita e si notano fori di perni che risalgono ad un precedente
restauro. Mancano anche il pene e una parte dei genitali nella zona
inferiore. La gamba sinistra rivela una frattura sotto l'anca. La gamba destra
rivela due fratture; sotto la caviglia e sotto il ginocchio. Stile
Modifica Col gesto di portare in avanti le braccia (tesa la destra e piegata la
sinistra), la figura segnò una rottura definitiva con la tradizionale
frontalità dell'arte greca: le statue precedenti avevano infatti il punto di
vista ottimale davanti (un retaggio delle collocazioni dei simulacri nelle
celle dei templi), mentre in questo caso per godere appieno del soggetto si
deve girargli intorno. Con tale innovazione l'opera è considerata la prima
scultura pienamente a tutto tondo dell'arte greca. La figura si muove
ormai nello spazio con una grande naturalezza, con una posizione a contrapposto
che deriva dal Doriforo di Policleto; in questo caso però entrambe le gambe
sostengono l'atleta e la sua figura è leggermente inarcata verso la sua
sinistra, seguendo quel gusto per la dinamica e l'instabilità maturato da
Skopas qualche anno prima. Esso si protende nello spazio con audacia, col peso
caricato sulla gamba sinistra (aiutata da un sostegno a forma di tronco
d'albero) e con una lieve torsione del busto, che spezza irrimediabilmente la
razionalità del chiasmopolicleteo, cosicché i pesi non sono più distribuiti con
simmetria sull'asse mediano. Il corpo dell'opera è percorso da una linea di
forza ondulata e sinuosa, che dà l'impressione allo spettatore che l'opera
possa in qualche modo andargli incontro. Il corpo è snello, con una testa
più piccola del tradizionale 1/8 dell'altezza del canone di Policleto, in modo
da assecondare un'innovativa visione prospettica, che tiene conto del punto di vista
dello spettatore piuttosto che della reale antropometria della figura. Scrisse
a tale proposito Plinio che Lisippo «soleva dire comunemente che essi [gli
scultori a lui precedenti] riproducevano gli uomini come erano, ed egli invece
come all'occhio appaiono essere» (Naturalis Historia). Apoxyomenos, su
museivaticani.va. URL consultato il 28 luglio 2017. ^ Vicolo dell'atleta, su
romasegreta.it. URL consultato il 28 luglio 2017. ^ a b Apoxyómenos, su
treccani.it, Treccani. URL consultato il 28 luglio 2017. ^ a b Lisippo di
Scicione: l’Apoxyomenos, su instoria.it. URL consultato il 28 luglio 2017. Voci
correlate Modifica Lisippo Policleto Scopas Atleta di Lussino Strigile
Borrelli, APOXYOMENOS, in Enciclopedia dell'Arte Antica, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1958. Modifica su Wikidata Paolo Moreno,
APOXYOMENOS, in Enciclopedia dell'Arte Antica, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1994. Portale Scultura: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di
scultura Ultima modifica 15 giorni fa di Botcrux. Doriforo scultura di
Policleto Atleta di Lussino scultura greca Eros con l'arco Il
contenutoGiovanni Boniolo. Keywords: le regole e il sudore, sweat, sudore,
instrument to oil, and get sweat off, strigila, strigil, cricket, golf,
football. Grice, captain of the football team at Corpus Christi. His philosophy
tutor taught him to play golf. Competed in cricketshire for Oxfordshire.
Founding member of the Demi-Johns, ‘philosopher and cricketer’, ‘cricketer and
philosopher’. Sluga learns cricket from Grice. References to cricket in THE
TIMES. ‘rules of games’ – “The conception of values” – rule, “we don’t like
rules, except rules in games and to keep quiet in colleges!” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Boniolo” – The
Swimming-Pool Library.
Grice
e Bonomi – i quattro elementi – filosofia italiana – Luigi Speranza -- (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Bonomi is undoubtedly a
Griceian – my favourite is his account of the copula – as in ‘The wrestlers are
good’ – in terms of what Bonomi, after Donato, calls ‘aspetto’ – S is P, S was
P, S will be P, Be P!, and so on – Most of his philosophising is Griceian, such
as his explorations on what he calls ‘the ways of reference,’ ‘image’ and
‘name’ in terms of ‘significato,’ and
‘rappresentazione,’ – he is a Griceian in that he respects ‘la struttura
logica’ and leaves whatever does not fit to the implicaturum!” Insegna a Milano. Nei lavori di filosofia del
linguaggio (“Le vie del riferimento” – Milano, Bompiani – “Universi di
discorso” – Milano, Feltrinelli) concentra il proprio interesse verso il ruolo
che l'apparato concettuale svolge nella determinazione dei contenuti semantici
grazie ai quali ci riferiamo a oggetti ed eventi del mondo circostante. Il suo saggi teoreticamente più impegnativo
(“Eventi mentali”, Milano, Il Saggiatore) tratta invece delle modalità logiche
che sono alla base delle procedure con cui, nel linguaggio, rappresentiamo i
contenuti cognitivi di altri soggetti. Si è poi occupato della struttura
semantica degli universi narrativi, concentrandosi in particolare sul ruolo che
hanno le cosiddette espressioni indicali nel determinare la struttura spazio-temporale
di un testo (“Lo spirito della
narrazione”, Bompiani). Un saggio di
semantica formale è dedicato alla struttura degli enunciati temporali (“Tempo e
linguaggio. Introduzione alla semantica del tempo e dell'aspetto verbale”, Bruno
Mondatori). A metà strada fra realtà autobiografica e immaginazione si colloca
invece la opera narrativa (“Io e Mr Parky”, Bompiani), nella quale si
descrivono i mutamenti che intervengono nella vita di una persona che scopre di
essere affetta da una patologia neurodegenerativa. Altre opere: “Esistenza e struttura, saggio
su Merleau-Ponty, il Saggiatore, Milano); “Sintassi e semantica nella
grammatica tras-formazionale” (Milano, Il Saggiatore); “Le immagini dei nomi” (Milano,
Garzanti). “Gli analitici lo fanno meglio. Le ragioni di un successo crescente
anche tra i filosofi italiani cresciuti nella tradizione continentale, in La
Stampa. Scuola di Milano. A DARK and mysterious art, called Alchemy, which originated
with the Arabian sages about the seventh century, was the parent of
the brilliant and enchanting science of Che- Baistay.
Philosophers of the polemical schools main- tained that Fire, Air,
Earth, and Water, were the Four Elements of Nature; but the
disciples of Alchemy denied the validity of this doctrine, and
asserted that Salt, Sulphur, and Mercury, were the Three Elements, from
whose admixture or union emanated the various productions of the
a,nima.l, vegetable, and mineral kingdoms. Both notions were
erroneous, as the sequel will prove, but that of the alchemists
rapidly excited intense interest, because it led to the performance
of curious experiments, and to the observance of strange phenomena
attendant upon the mixture of adds, salts, spirits, and
metala ^ B U^ im^ pROMB golci^ ami ieSd findk td hrrfr^
V>f»^^ duit tiie noe afl»adt»iiL of d (ftimdhf fA Salt, Salphur, and
Mercnrr of tl ^/r»#» ii^aS wr/tUd eaaase ite TraBSHntaciija ini
Th^» ffAvht^mt^f therefore, consfcroctei powe fifl f^rrirt^'^^
wvfmUid curious stills^ alembic I'i^.hdn, t^titf'^)tUmf and much costly
and con fillf'Mf^d h^pnmim for extractrug strong acid «nJlM, Mifid
w<ilvt»fif.«, from minerals and earths. A1jI»mI ljy llu^Mo tliny
(jommenced an arduox MhrtH'li llihiHwIuMd. mII Nature, for an
imaginai substance, which they named the Philosopher's stone;
a minute fragment of this miracle of art, when discovered, and thrown upon
molten lead, was destined to alter the proportions of its three
supposed elements, to cleanse it fix)m impurity and dross, and transmute
it into pure and efful- gent gold From the laboratories of
Arabia, the prin- ciples of this seductive art soon spread over
Europe, and all ranks of society joined in wild pursuit of the golden
phantom for a long succes- sion of ages; vain was their incessant toil
and labour, it eluded their anxious grasp, and instead of enjoying
riches and splendour, they invariably languished in poverty and
misery. The alchemists, baffled in the acquisition of
metallic treasure, sought after a powerful liquid for dissolving all
things; but this was quickly abandoned, because an Universal solvent
could not be retained in their retorts or crucibles.
Ultiniately they dared to think Immortality within their reach, and
presumptuously endea- voured to prepare a medicine to prevent the
decay of nature, and prolong life to an indefinite extent; but disease
and death were the grim attendants upon the operators, who trusted
to obtain an Elixir of life amidst the poisozi^ fiimes of the
furnace. Such were the three grand objects of alchern^^^ art,
and though abortive in regard to their at:::;^ ticipated results, yet
productive of the good eflFec:^ of inducing philosophers to descend from
disput^-'^ upon words, to experiments upon things.
Accordingly, out of the vast mass of intricat^^ materials accumulated
by the alchemists, a fe^^' master minds were enabled to select,
examin^^ and classify valuable facts, striking experimentsf^ and
wonderful phenomena, which had been either abandoned or forgotten during
the in- fatuated pursuits now briefly described. The gradual
introduction of metallic pre- parations into Medicine, as substitutes for
the drugs and simples of its ancient practice, and of others into
the arts and manufactures, conjoined with the publication of essays
concerning these and other experimental facts, eventually drew the
attention of civilized society to the utility of the labours of the
philosophers, who engaged upon the ruins of the once dearly cherished,
yet delusive art, and in an incredibly short time, like the fabled
Phoenix of Arabia, Chemistry soared from the ashes of
Alchemy. Chemistiy, guided by accurate experiment sound theory, has
attained its just rank in "^^ circle of the sciences, and has proved
the ^^^Unate connexion of its beautiful facts and ^^^^^^trines, with
the wonderful phenomena of the ^^^^d, and their great utility when
judiciously applied to the arts of life, in aid of the wants,
^^^orts, and luxuries of mankind. The votary of Chemistry is not
chained to ^Q flaming furnace in fruitless labour after gold, ^or
compelled to invoke witchcraft and magic for the production of an
universal solvent, nor immured in the dark laboratory, amidst
deadly exhalations, to discover the art of prolonging life; no! in
this happy age, the fetters of ignorance and superstition are shattered
by the powerful hand of Truth, and he comes forth with freedom into
the glowing sunlight of Phi- losophy, as the servant and interpreter
of Nature; he looks abroad into the rich and mag- nificent
Universe, calls the delightful scenery all his own, the mountains, the
valleys, the oceans, the rivers, and the sky; through these wide
bounds he is free at will to choose Whate'er bright spoils the
florid earth contains, Whatever the* waters, or the ambient air. All
present him with perfect instances of tb^ consummate wisdom of the
Almighty God, wb^ created a World so fraught with beauty, and \K
their examination he gains materials for refle^^ tion and research,
which, if properly applied axx* pursued, not only enlighten and adorn,
hv exalt and purify his mind, teaching him to ap preciate the
miraculous workings of an Omid potent and Eternal Power.
Chemisfay is the most instructive and de lightfiil study that can
be pursued, because it i purely a science of Experiment; no
anticipatioit can be formed as to the results which will ensu^ upon
the presentation of different substances U each other. By
making experiments with great attentior and accuracy, and intently
studying the results, philosophers soon discovered the real nature oi
the Four Ancient, and the Three Alchemical Elements; a short account of
the conclusiom which are thus established will furnish a correct
notion of the modem meaning of the term Elements, which will frequently
occur during the present inquiry. Fire is not a peculiar or
distinct principle, but a result of intense attraction between two
i '- or Q^Qpe
substancea Air is a mixture of two S^^QB, called Oxygen and
Nitrogen. Earth is a ooQapound of Oxygen and numerous Metala
" ^ter is a compound of Oxygen and a gas * ^ed
Hydrogen. Salt is a compound of a vapour called Ohio-
'^e, and a metal called Sodiimi; but the com- P^xxents of
Sulphur and Mercury are unknown, "^^lefore these two
substances are called Ele- °^^xits, to denote that they have not
been 8*Udysed, and in this acceptation of the term
C^Xygen, Nitrogen, Hydrogen, Metals, and several ^ther
substances, are Elements; altogether there ^e Fifty -six such
Elements: their names are shown in the following list. Aluminum. A
metal thus named from the Latin dt/u/men, clay. Antdcont. a
metal thus named from the Greek am, agoMisty and imvos, movJc,
because several monks were poisoned by its preparations. Arsenic. A
metal thus named from the Qmk apcrsytKoy, powerful, on aoooont of
iti strengA aa a poison. Bariu^l a metal extracted from
Baiyta^ ft heavy mineral thus named frx>m the Gieekj
^apvs, weight. Bismuth. A metal said to be thus named byihe
German miners, from wiesarruitte, a Uoomr ing meadow, because
of the variegatied hues of its tarnish. Boron. A non-metallic
combustible, obtained from Borax, a substance so called from
the Arabic, burvJc, brillicmt, Bromink a non-metallic
incombustible liquid. Its name is derived from the Greek, Spufjoi,
stench, on account of the insupportable odour of its
vapour. Cadmium. A metal thus named from the Greek xaSjw.gia,
cola/mine, an ore of zinc. Calcium. A metal thus named from the
Latin calx, Ivme. Carbon. A non-metallic combustible, thus
named from the Latin carbo, coaL Cerium. A metal thus named in
honour of the planet Ceres. Chlorine. A non-metallic
incombustible vapour, thus called from the Greek yO^^pos, green, in
aUusion to its colour. HRomuM. A metal thus named from the
Greek XP<»f^oC) colour, on account of the varied hues which its
compounds assume. OBALT. A metal thus named after Kobold, a
sprite or gnome of the German mines. OLUMBIUM. A metal thus named from its
dis- covery in a mineral from CoVwmbia, DPPER A metal thus
named from being ori- ginally wrought in Cyprus. DDYMITJM. A
metal thus named from SiJiz/Aoi, twins, on account of its resemblance
to Lantanum. LUORINK A non-metallic iminflammable va- pour,
extracted from fluor-spa/r, LUCINUM. A metal extracted from a
mineral named Glucina; a term derived from the Greek yXvKv;, sweet,
on account of such taste being communicated by its com-
pounds. DLD. A metal the etymology of whose 5tiame is
uncertain. YDROGEN. A non-metallic inflammable-: gas, and being an
element of water, it is thus called from the Greek if^cjp, water,
t^d yBvcj, to generate. K Bume a red colour; hence ite
name tiOM ' the Greek ^ dSw», a rose. Selenium. A
non-metallic inflammable ela ment, thus named in honour of the moOE
from the Greek atMvn, the nwon. SrucRTM. A metal thus named from the
Latin SlLTXB. A metfd, ihe oii^ of whose name is
obecnra. SoDiuiL A metal obtained from the ashes oJ a
plant called the solaola «m2a. StbontiuU. a metal extracted from a
minera] discoTersd at j%vn<Ja«. Sdlphdb. a non-metaUio
cnmbustible, whoBC name is probably of Arabic eztntct^on.
Tbxlukium. a metal thus named in honour o: the Earth, from the
Latin TeUAia, the earth. Thobintju. a metal thus named in honour o:
the Saxon deitj Thor. Tin. a metal, the origin of whose name is
t matter of doubt TiTANiUH. A metal thus named in honour
o: the Tita/ns of heathen mythology, TtraGSTENUM. A metal
thus named from th< Swedish word tUTigaten, heavy-stone,
fron which it was extracted.
^Hanium. a metal thus named in honour of the planet
Uranus, ^Akadium. a metal thus najned in honour of Vcmadis, a
Scandinavian deity. TTranjM. A metal extracted from a mineral
found at Ytterby. ZlKa A metal supposed to be thus named from
the Grerman zi/nJcen, ruiUa. ZmcoKTCTM. A metal obtained from a
gem called zircoon, by the Cingalese, in allu- sion to its
four-cornered shape. By far the greater number of the above
host of elements have been elicited by chemical analysis; very few are presented
absolutely pure by Nature. The Elements may be thus
classed: L Forty-four Metals, Aluminum, Antimony, Arsenic, Barium,
Bismuth, Cadmium, Calcium, Cerium, Chromium, Cobalt, Columbium,
Cop- per, Didymium, Glucinum, Gold, Iridium, Iron, Lantanum, Lead,
Lithium, Magnesium, Man- ganesium. Mercury, Molybdenum, Nickel, Os-
mium, Palladium, Platinum, Potassium, Rho- dium, Silicium, Silver,
Sodium, Strontium, Tel- lurium, Thorinum, Tin, Titanium,
Tungstenmn, 14 Cnac^rcoL TjoimSizsl. YmrmB Zsnc,
and 1 IL Tla^ie Gaae&. HrdrQeoL Qo?ai. v IIL Two
Vapcrais. CIjctom* awi FhuHin^ V. fSx NoEHiXfcetallic s^aA^ Baran.
Cuboi l^/ijlx*^; Pb</«]>lKAi2£, Selfiimmi. zuA Solphur. Tl^
H*JpporteirE fA combosdon are BromiiM CJU^^riuLtf;; FliK/nne, Iodine, and
QxygtoL Ti><<:; O/tnlHutibl^s are. Boron. CarlMMi,
H] dr'>g<^^ Vhf^hfjmu^ Selenium, and Snlphm: It miitst
fie particularly remembered that tli (itM^mhA doe« not affirm these
suhstances to I Um^ Ai/fmif^f or AWJute Elements of Xature ou
iiit', ^yyutrary, }kh d^r/^ms it extremely probabl tliiit th'ry rrjAy
}>^5 aiialysed or decomposed i the ^y;ijr«-r; of time, but until this
be effectei he «tyl<?« them Elements for convenience <
diw'.'ijwjion, and as a confession of the limits < hiii aiialyti/;al
skilL Tlie (yliemist investigatf^js the habitudes <
tlies^i KlefrK^itH, dis^^^ivers how they combine 1 form (Join(>oijndH,
and how these combine t form I)oubl(} compounds; he ascertains th
Weight in which tliesc Primary and Secondai combinations ensue, and
how the elements of all known compounds may be separated; he
determines the laws which preside over all these changes, and studies to
apply such know- ledge to the interpretation of natural pheno-
mena, and to useful purposes in the arts of Ufe. Throughout these extensive
researches the Chemist depends entirely upon Experiment; and the
marvels which it reveals are referrible to the exertion of a power which
promotes union between elements and compounds, even though their
natures be strongly opposed. This power is called Chemical
Attraction, Attraction of Composition, or Chemical Affinity, the
latter term being used in a figurative sense, to suggest the idea of
peculiar attachments between different substances, under the influ-
ence of which they combine so that their indi- vidual characters are
totally changed and dis- guised. Thus, the Elements Hydrogen
and Oxygen, are gases viewless as air, the one combustible, the
other incombustible, and they are opposed in other respects, but they
have mutual affinity, and combine to form the liquid Compound
called Water. Wikipedia Ricerca Quattro elementi Lingua Segui Modifica Il
riferimento a quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco) è comune a tutte le
cosmogonie. Tanto l'Oriente quanto l'Occidente hanno concepito una
stretta connessione tra il microcosmo umano e il macrocosmo naturale.
Dall'equilibrio degli elementi dipendeva la vita della specie umana e la
sopravvivenza del cosmo: l'universo ordinato, sorto dal caos, era governato da
personificazioni divinizzate dei quattro elementi.[1] Tiziano
Concerto campestre, 1509, Parigi, Museo del Louvre La donna alla fonte è
una personificazione dell'Acqua. Il suonatore di liuto rappresenta il Fuoco.
L'uomo con i capelli scompigliati dal vento simboleggia l'Aria. La donna di
spalle raffigura la Terra.[2] Storia del concetto in Occidente Modifica «Uno
dei sette sapienti, Talete di Mileto, indicò nell'acqua il principio di ogni
cosa, Eraclito nel fuoco, i sacerdoti magi nell'acqua e nel fuoco, Euripide […]
nell'aria e nella terra. Pitagora in verità, Empedocle, Epicarmo e altri
filosofi della natura sostennero che gli elementi primordiali sono quattro,
aria fuoco terra acqua.» (Vitruvio, De architectura, libro VIII, pref.)
Nella tradizione ellenica gli elementi sono quattro: il fuoco (Fire symbol
(alchemical).svg), la terra (Earth symbol (alchemical).svg), l'aria (Air symbol
(alchemical).svg), e l'acqua (Water symbol (alchemical).svg).
Rappresentano nella filosofia greca, nell'aritmetica, nella geometria, nella
medicina, nella psicologia, nell'alchimia, nella chimica, nell'astrologia e
nella religione i regni del cosmo, in cui tutte le cose esistono e
consistono. Empedocle Modifica Platone sembra che si riferisca agli
elementi con il termine stoicheia, rifacendosi alla loro origine presocratica.
Essi infatti si trovano già elencati dal filosofo ionico Anassimene di Mileto e
poi da Empedocle di Girgenti, il primo a proporre quattro elementi che chiama
rizòmata (rizoma al plurale) "radici" di tutte le cose, immutabili ed
eterne. «Empedocle occupa un posto a parte nella storia della filosofia
presocratica. Se si prescinde da quella figura poco conosciuta e per qualche
verso mitica che è Pitagora, egli appare in effetti il primo autore
dell'Antichità a voler riunire contemporaneamente in un solo e medesimo sistema
concezioni filosofiche e credenze religiose. [....] nessun pensatore prima di
lui aveva inserito all'interno di un quadro filosofico questa corrente di idee
mistiche delle quali si troverà più tardi l'eco nelle iscrizioni funerarie
dell'Italia meridionale e nei dialoghi di Platone: per Empedocle, infatti, come
per gli anonimi autori delle iscrizioni funerarie, l'uomo, essendo di origine
divina, non raggiungerà la vera felicità che dopo la morte, quando si riunirà
alla compagnia degli dèi.[3]» Afferma Empedocle: «Conosci
innanzitutto la quadruplice radice Di tutte le cose: Zeus è il fuoco luminoso,
Era madre della vita, e poi Idoneo, Nesti infine, alle cui sorgenti i mortali
bevono»[4] Secondo una interpretazione Empedocle indicherebbe Zeus, il
dio della luce celeste come il Fuoco, Era, la sposa di Zeus è l'Aria, Edoneo
(Ade), il dio degli inferi, la Terra e infine Nesti (Persefone), l'Acqua.
Secondo altri interpreti i quattro elementi designerebbero divinità diverse: il
fuoco (Ade), l'aria(Zeus), la terra (Era) e l'acqua (Nesti-Persefone[5]).
L'unione di tali radici determina la nascita delle cose e la loro separazione,
la morte. Si tratta perciò di apparenti nascite e apparenti morti, dal momento
che l'Essere (le radici) non si crea e non si distrugge, ma è soltanto in
continua trasformazione. L'aggregazione e la disgregazione delle radici
sono determinate dalle due forze cosmiche e divine Amore e Discordia (o Odio),
secondo un processo ciclico eterno. In una prima fase, tutti gli elementi e le
due forze cosmiche sono riunite in un Tutto omogeneo, nello Sfero, il regno
dove predomina l'Amore. Ad un certo punto, sotto l'azione della Discordia,
inizia una progressiva separazione delle radici. L'azione della Discordia, non
è ancora distruttiva, dal momento che le si oppone la forza dell'Amore, in un
equilibrio variabile che determina la nascita e la morte delle cose, e con esse
quindi il nostro mondo. Quando poi la Discordia prende il sopravvento sull'Amore,
e ne annulla l'influenza, si giunge al Caos, dove regna la Discordia e dove è
la dissoluzione di tutta la materia. A tal punto il ciclo continua grazie ad un
nuovo intervento dell'Amore che riporta il mondo alla condizione intermedia in
cui le due forze cosmiche si trovano in nuovo equilibrio che dà nuovamente vita
al mondo. Infine, quando l'Amore si impone ancora totalmente sulla Discordia si
ritorna alla condizione iniziale dello Sfero. Da qui il ciclo
ricomincia.[6] Il processo che porta alla formazione del mondo è quindi
una progressiva aggregazione delle radici. Tale unione, lungi dall'avere un
benché minimo carattere finalistico, è assolutamente casuale. E tale casualità
si evidenzia a proposito degli esseri viventi. All'inizio infatti le radici si
uniscono a formare arti e membra separati, che solo in seguito si uniranno,
sempre casualmente tra di loro. Nascono così mostri di ogni specie (come ad
esempio il Minotauro), che, dice Empedocle quasi anticipando Charles Darwin,
sono scomparsi solo perché una selezione naturale favorisce alcune forme di
vita rispetto ad altre, meglio organizzate e perciò più adatte alla
sopravvivenza.[7] Le quattro radici sono anche alla base della
gnoseologia di Empedocle. Egli infatti sostenne che i processi della percezione
sensibile (modificata dagli oggetti esterni) e della conoscenza razionale
fossero possibili solo in quanto esisteva una identità di struttura fisica e
metafisica tra il soggetto conoscente, ossia l'uomo, e l'oggetto conosciuto,
ossia gli enti della natura. Sia l'uomo che gli enti erano formati da analoghe
mescolanze quantitative delle quattro radici ed erano mossi dalle medesime
forze attrattive e repulsive. Questa omogeneità rendeva possibile il processo
della conoscenza umana, che si basava dunque sul criterio del simile, tesi
esattamente opposta a quella di Anassagora: l'uomo conosceva le cose perché
esse erano simili a lui. Infatti così affermò Empedocle: «noi conosciamo la
terra con la terra, l'acqua con l'acqua, il fuoco con il fuoco, l'amore con l'amore
e l'odio con l'odio»[8]. Ad ognuno di essi Platone associò nel Timeo uno
dei solidi platonici: il tetraedro al fuoco, il cubo alla terra, l'ottaedro
all'aria, l'icosaedro all'acqua.[9] A questi quattro elementi Aristotele
ne aggiungerà un quinto (la quintessenza medioevale) che egli chiamerà etere e
che costituisce la materia delle sfere celesti. La tetraktys pitagorica
Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Tetraktys. Per Pitagora (575 a.C. circa - 495 a.C. circa) la successione
aritmetica dei primi quattro numeri naturali, geometricamente disposti secondo
un triangolo equilatero di lato quattro, ossia in modo da formare una piramide,
aveva anche un significato simbolico: a ogni livello della tetraktys corrisponde
uno dei quattro elementi. Rappresentazione della tetraktys a piramide. 1º
livello. Il punto superiore: l'Unità fondamentale, la compiutezza, la totalità,
il Fuoco 2º livello. I due punti: la dualità, gli opposti complementari,
il femminile e il maschile, l'Aria 3º livello. I tre punti: la misura
dello spazio e del tempo, la dinamica della vita, la creazione, l'Acqua
4º livello. I quattro punti: la materialità, gli elementi strutturali, la
Terra La medicina e la psicologia ippocratiche Modifica Magnifying glass
icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Teoria umorale. I quattro
elementi della filosofia antica, base per lo sviluppo della teoria umorale.
Ippocrate di Coo (460 a.C. circa – prima del 377 a.C.) elaborò la teoria umorale,
che rappresenta nell'Occidente il più antico tentativo di fornire un'eziologia
per le malattie e una classificazione per i tipi psicologici e somatici.
Secondo Empedocle, ogni radice possiede una coppia di attributi: il fuoco è
caldo e secco; l'acqua fredda e umida; la terra fredda e secca; l'aria calda e
umida. Ippocrate tentò di applicare tale teoria alla natura umana definendo
l'esistenza di quattro umori base, ossia bile nera, bile gialla, flegma e
sangue (umore rosso): il fuoco corrisponderebbe alla bile gialla; la
terra alla bile nera (o melancolia, in greco Melàine Chole); l'aria al sangue;
l'acqua al flegma.[12] Il buon funzionamento dell'organismo dipenderebbe
dall'equilibrio degli elementi, mentre il prevalere dell'uno o dell'altro
causerebbe la malattia. A questi elementi e umori corrispondono quattro
temperamenti, pertanto la teoria ippocratica è anche una teoria della
personalità. La predisposizione all'eccesso di uno dei quattro umori
definirebbe un carattere psicologico e insieme una costituzione fisica: il
malinconico, con eccesso di bile nera, è magro, debole, pallido, avaro, triste;
il collerico, con eccesso di bile gialla, è magro, asciutto, di bel colore,
irascibile, permaloso, furbo, generoso e superbo; il flemmatico, con eccesso di
flegma, è grasso, lento, pigro e sciocco; il tipo sanguigno, con eccesso di
sangue, è rubicondo, gioviale, allegro, goloso e dedito ad una sessualità
giocosa.[13] Secondo i racconti mitologici e folcloristici, ogni elemento
sarebbe inoltre animato da un suo specifico spirito elementare, detto anche
«elementale», che Paracelso riteneva realmente operante dentro di essi,
dedicando loro un trattato, il Liber de nymphis, sylphis, pygmaeis et
salamandris, così suddividendoli: le Salamandre che sono gli elementali
del fuoco; le Ondine gli elementali dell'acqua; le Silfidi gli elementali
dell'aria; gli Gnomi gli elementali della terra.[14] La quintessenza Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Etere (elemento
classico). L'etere (in greco antico αἰθήρ, confluito in latino come aether),
sinonimo di "quintessenza" (dal latino medievale quinta essentia, a
sua volta calco dal greco pémpton stoichêion, 'quinto elemento'), era un
elemento che, secondo Aristotele, si andava a sommare agli altri quattro già
noti: il fuoco, l'acqua, la terra, l'aria. Secondo gli alchimisti,
l'etere sarebbe il composto principale della pietra filosofale,[15] fungendo da
matrice o materia prima degli altri elementi.[16] La storia dell'etere
inizia con Aristotele, secondo il quale era l'essenza del mondo celeste,
diversa dalle quattro essenze (o elementi) di cui si riteneva composto il mondo
terrestre: terra, aria, fuoco e acqua. Aristotele credeva che l'etere fosse
eterno, immutabile, senza peso e trasparente. Proprio per l'eternità e
l'immutabilità dell'etere, il cosmo era un luogo immutabile, in
contrapposizione alla Terra sublunare, luogo di cambiamento. Lo stesso
concetto venne espresso alcuni secoli più tardi da Luca Pacioli, neoplatonico
del XVI secolo, che coinvolge anche le strutture matematiche e geometriche:
secondo il Pacioli, infatti, il cielo, il quinto elemento, aveva la forma di un
dodecaedro, struttura perfetta secondo lo studioso. «Successivamente gli
alchimisti medievali indicarono con l'etere o quintessenza la forza vitale dei
corpi, una sorta di elisir di lunga vita: Quella cosa che muta i metalli in oro
possiede altre virtù straordinarie: come, ad esempio, conservare la salute
umana integra sino alla morte e di non lasciar passare la morte (se non dopo
due o trecento anni). Anzi, chi la sapesse usare potrebbe rendersi immortale.
Questo lapisnon è certamente nient'altro che seme di vita, gheriglio e
quintessenza dell'intero universo, da cui gli animali, le piante, i metalli e
gli stessi elementi traggono sostanza.» (Jan Amos Komensky, da Labirinto
del mondo e paradiso del cuore del 1631) Tra il XIV e il XVIII secolo, i
chimici supposero che la quintessenza non fosse altro se non un elisir ottenuto
dalla quinta distillazione degli elementi; da questa ultima accezione la
quintessenza ha anche assunto un significato più ampio di caratteristica
fondamentale di una sostanza o, più in generale, di una branca del
sapere. La raffigurazione dei quattro elementi (da sinistra) terra,
acqua, aria e fuoco, con le sfere alla base rappresentanti i simboli
dell'alchimia. La chimica Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Stato della materia. Secondo Odifreddi,
«[i] quattro elementi concreti: cioè terra, acqua, aria e fuoco, [...]
oggi noi [li] associamo rispettivamente agli stati solido, liquido e gassoso
della materia, e all'energia che permette di trasmutare uno nell'altro (ad
esempio, il ghiaccio in acqua, e l'acqua in vapore).[10][17]» La fisica
Modifica I quattro elementi in fisica sono associati agli stati solido (terra),
liquido (acqua), gassoso (aria) e plasma(fuoco), quest'ultimo definito il
"quarto stato" della materia, estende il concetto di fuoco,
considerato gas ionizzato della categoria dei plasmi terrestri, come anche i
fulmini e le aurore, nell'universo costituisce più del 99% della materia
conosciuta: il plasma è infatti la sostanza di cui sono composte tutte le
stelle e le nebulose[18]. L'astrologia Modifica I segni zodiacali
suddivisi in base al loro elemento: terra, fuoco, aria, acqua Magnifying glass
icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Segno zodiacalee Triplicità.
Nell'astrologia occidentale i segni sono divisi in: segni di fuoco
(Ariete, Leone, Sagittario) segni di terra (Toro, Vergine, Capricorno) segni
d'aria (Gemelli, Bilancia, Aquario) segni d'acqua (Cancro, Scorpione, Pesci) In
tal modo essi formano complessivamente le quattro triplicità. Pensiero
religioso Modifica Un pentacolo La rappresentazione simbolica del
microcosmo e del macrocosmo si ritrova nell'antico segno del pentacoloche
combina cioè in un unico segno tutta la creazione, ovvero l'insieme di processi
su cui si basa il cosmo. Le cinque punte del pentagramma interno simboleggiano
i cinque elementi metafisici dell'acqua, dell'aria, del fuoco, della terra e
dello spirito. Questi cinque elementi sintetizzerebbero i gruppi in cui si
organizzano tutte le forze elementali, spiritiche e divine
dell'universo[19]. Il rapporto tra i vari elementi rappresentati
all'interno del pentacolo è ritenuto una riproduzione in miniatura dei processi
su cui si basa il cosmo. Questo processo inizia dall'elemento dello spirito, il
quale si manifesta dando origine a tutto ciò che esiste. La creazione si
verifica partendo dalla divinità e scendendo verso la punta in basso a destra,
simboleggiante l'acqua, ovvero la fonte primaria e sostentatrice della vita
sulla Terra. Dall'acqua ebbero origine le primissime forme elementari di vita,
le quali poi evolsero con il passare dei millenni staccandosi dall'elemento
primordiale. Dall'acqua il processo creativo risale verso l'aria, la quale
rappresenta le forme di vita sufficientemente evolute da potersi organizzare da
sole, prendendo coscienza del proprio sé. Questi esseri, dalla loro innocenza
originaria, si evolvono e si organizzano moralmente e tecnologicamente,
procedendo lungo la linea orizzontale verso la terra a destra. La terra
simboleggia il massimo grado di evoluzione che un'epoca può supportare, quando
questo diviene troppo ingente avvengono delle ricadute, sotto vari punti di
vista, ma innanzitutto sotto il profilo spirituale. L'essere si allontana dallo
spirito, degradando verso il basso, il fuoco, simboleggiante l'apice della
degenerazione. In seguito alla depressione avviene però sempre una ripresa, un
ritorno alle origini, in questo caso allo spirito, l'essere umano riscopre la
spiritualità[20]. Ebraismo Modifica Nella tradizione ebraica è ampia la
letteratura sui quattro elementi di cui se ne riportano tanto la simbologia
tanto le corrispondenze nella Creazione. Ricordando anche il testo di El'azar
da Worms Il segreto dell'Opera della Creazione, oltre allo Zohar, il testo più
importante che ne tratta l'argomentazione secondo l'interpretazione mistica
ebraica è il Sefer Yetzirah, la cui sapienza risale ad Avraham: questo testo
argomenta il confronto tra le Sefirot, i quattro elementi, le lettere ebraiche,
i pianeti, i segni zodiacali, i mesi e le parti del corpo umano. Se ne
discute anche in altri testi di Qabbalah ed è tra i principali oggetti di
studio del percorso esoterico ebraico definito Ma'asseh Bereshit, lo Studio
dell'Opera della Creazione. Si ritiene che il mondo sia stato creato con la
Torah le cui parole sono formate da lettere ebraiche che, permutate, sono il
riferimento della Sapienza divina da cui sorse la parola di Dio al fine di
creare ogni cosa esistente. Derivando dal significato delle lettere la loro
corrispondenza con le creature e le create è così possibile avvicinarsi alla
sapienza della Qabbalah che permette di cogliere il significato segreto proprio
di esse. Lo Zohar afferma che i quattro elementi fuoco, acqua, aria e
terra corrispondono ai quattro metalli: oro, rame, argento e ferro;
un'ulteriore corrispondenza è quella del Nord, del Sud, dell'Est e dell'Ovest.
Dopo averne descritto i rapporti, lo Zohar continua l'esposizione ammettendo
che, come si contano così 12 elementi, si possono contare 12 pietre preziose
corrispondenti alle dodici tribù d'Israele, cosa confermata poi dalle fattezze
degli Urim e Tummim. Importante anche il confronto con i quattro
venti. I quattro elementi, uniti nel corpo vivente, con la morte si
separano. Con lo studio della Torah l'uomo si eleva al di sopra dei
quattro elementi dominandoli anche nel proprio corpo e talvolta, in questo, si
collega alle quattro figure metaforiche della Merkavah Cristianesimo
Modifica Il profeta Elia, di José de Ribera. Secondo il primo libro dei
Re, Elia sul monte Oreb « [...] entrò in una caverna per passarvi la
notte, quand'ecco il Signore gli disse: «Che fai qui, Elia?». [...] Gli fu
detto: «Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore». Ecco, il Signore
passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le
rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu
un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un
fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un
vento leggero. » ( 1Re 19, 9.11-12, su laparola.net. Per
l'esegesi biblica di Carlo Maria Martini, «Al versetto [11 e] 12
abbiamo i quattro segni: vento, terremoto, fuoco, mormorio di un vento leggero.
Non si dice che il Signore fosse in quest'ultimo ma si nega che fosse nei primi
tre. È un passo ricchissimo di simboli che rimandano a tante altre pagine
bibliche, un passo oscuro perché non riusciamo bene a capirlo: Jahvé era o non
era nel mormorio di un vento leggero? E perché altrove, nella Scrittura, Dio è
nel fuoco mentre qui non lo è?[22]» Sempre per Martini,
«Anche nel Nuovo Testamento troviamo i primi tre segni del racconto di
Elia: "rombo, come di vento che si abbatte gagliardo", "lingue
come di fuoco",[23] "quando ebbero terminato la preghiera, il luogo
in cui erano radunati tremò, e tutti furono pieni di Spirito santo".[24]
Il vento, il fuoco, il terremoto sono simboli ben noti in tutta la Scrittura;
hanno significato la presenza del Signore sul Sinai, nel cammino del deserto, e
sono stati ripresi dai Salmi. Non troviamo però il vento leggero.[25]»
Ciò significa che, tanto per l'ebraismo quanto per il cristianesimo, è dubbio
che le manifestazioni relative almeno ai primi tre dei quattro elementi
costituiscano una teofania, sia per Mosè ed Elia sul Sinai/Oreb sia per la
Pentecoste. Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Letteratura apocalittica § Uso del termine. Pensiero orientale
Modifica Pensiero hinduista Modifica Il pancha mahabhuta, o "cinque grandi
elementi", nell'Hinduismo[26] sono: khsiti o bhumi (terra) ap o jala
(acqua) agni o tejas (fuoco) marut o pavan (aria o vento) byom o akasha
(etere). Gli hindu credono che Dio usò l'aakasha per creare i restanti quattro
elementi, e che la conoscenza dell'uomo sia nell'archivio akashiko.
Pensiero del buddhismo antico Modifica Nella letteratura Pali, i mahabhuta
("grandi elementi") o catudhatu ("quattro elementi") sono
terra, acqua, fuoco e aria. Nel primo buddhismo, erano alla base per la
comprensione della sofferenza, e per la liberazione dell'uomo dalla
sofferenza. Gli insegnamenti del Buddha riguardanti i quattro elementi li
raggruppano come base delle reali sensazioni, più che un pensieri filosofici.
Gli elementi erano quindi intensi come "caratteristiche" o
"proprietà" di varie sensazioni: la coesione era una proprietà
dell'acqua. la solidità e l'inerzia erano proprietà della terra. l'espansione e
la vibrazione erano proprietà dell'aria. il calore era una proprietà del fuoco.
I suoi insegnamenti dicono che ogni cosa è composta da otto tipi di 'kalapas',
il cui gruppo principale è composto dai quattro elementi, mentre il gruppo
secondario è composto da colore, odore, gusto e alimento, derivati dai primi
quattro elementi. Gli insegnamenti del Buddha precedono quelli dei
quattro elementi nella filosofia greca. Questo può essere spiegato perché
furono inviati 60 arhat nel mondo conosciuto al tempo per diffondere i suoi
insegnamenti. Pensiero giapponese Modifica Il pensiero tradizione
giapponese usa cinque elementi chiamati 五大 (go
dai, letteralmente "cinque grandi"). Gli elementi sono: terra,
che rappresenta le cose solide acqua, che rappresenta le cose liquide fuoco,
che rappresenta le cose distrutte aria, che rappresenta le cose mobili vuoto,
che rappresenta le cose che non sono nella vita quotidiana. Pensiero cinese
Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Wu
Xing. Si ritiene che anche la filosofia tradizionale cinesecontenga degli
«elementi» come nella filosofia grecaclassica: nel taoismo infatti sono presi
in considerazione tre termini affini a quelli occidentali, l'acqua il fuoco e
la terra, più altri due, il legno e il metallo, per un totale di cinque, wu
xing in cinese, sebbene più che di elementi si tratti di fasi in movimento
all'interno di un ciclo, come spiega Anne Cheng: «La traduzione
convenzionalmente adottata di wuxing con "Cinque Elementi" presenta
innanzitutto l'inconveniente di non rendere conto dell'aspetto dinamico della
parola xing 行
("camminare", "andare", "agire"). Inoltre non vi
è qui nulla in comune con i quattro elementi o radici costitutivi dell'universo
- fuoco, acqua, terra, aria - individuati da Empedocle nel V secolo a.C., ma
sembrano essere originariamente concepiti in una prospettiva essenzialmente
funzionale, più come processi che come sostanze.[27]» (Anne Cheng, Storia
del pensiero cinese) Si tratta a ogni modo di distinzioni storicamente poco
accettate,[28] ad esempio i mongoli hanno accolto nel novero degli elementi sia
quelli cinesi che quelli occidentali.[29] Analogie tra i due sistemi sono
rinvenibili nel fatto che l'elemento cinese del legno si avvicina maggiormente
al concetto occidentale dell'aria, poiché entrambi corrispondono alle qualità
del punto cardinale est,[30] della primavera, dell'infanzia e della crescita,
mentre il metallo sembra inglobato nelle proprietà occidentali della terra,
quali l'ovest, l'autunno e il declino.[31] La terra in Cina occupa propriamente
il centro della rosa dei venti, ed è più che altro la matrice degli altri
quattro elementi,[32] come in Occidente lo è la prima materia o
etere.[33] La peculiarità della concezione cinese consiste semmai nel
carattere trasmutatorio dei suoi cinque elementi,[34] da intendere come forze
attive o facoltà dinamiche.[35] La loro origine si perde nella preistoria
cinese ed è difficilmente ricostruibile.[35] La prima descrizione delle
caratteristiche dei Wuxing la troviamo nello Shujing («Classico della
Storia»): «L'acqua consiste nel bagnare e nello scorrere in basso; il
fuoco consiste nel bruciare e nell'andare in alto; il legno consiste
nell'essere curvo o diritto; il metallo consiste nel piegarsi e nel
modificarsi; la terra consiste nel provvedere alla semina e al raccolto. Ciò
che bagna e scorre in basso produce il salato, ciò che brucia e va in alto
produce l'amaro; ciò che è curvo o diritto produce l'acido; ciò che si piega e
si modifica produce l'acre; ciò che provvede alla semina e al raccolto produce
il dolce.[36]» (Shu-ching, Il grande progetto) Questi Cinque Agenti sono
in relazione tra di loro e danno vita a molte altre serie di cinque
combinazioni complementari ai Wuxing stessi: i punti cardinali ed il centro, le
note musicali, i colori, i cereali, le sensazioni, ecc. Sempre nello Shujing,
nella sezione detta "Grande Norma" si fanno seguire ai Wuxing Cinque
Funzioni: «Poi è quella delle Cinque Funzioni. La prima è il
comportamento personale; la seconda è la parola; la terza la visione; la quarta
l'udito; la quinta il pensiero. Il comportamento personale deve essere decoroso,
la parola ordinata; la visione chiara; l'udito distinto; il pensiero profondo.
il decoro dà solennità, e l'ordine dà regolarità, la chiarezza dà intelligenza,
la distinzione dà deliberazione; la profondità dà saggezza.[37]»
(Shu-ching, La grande norma) Rappresentazione dei due cicli: in verde
quello generativo che procede in senso orario dal padre al figlio (in rosso
quello inverso di riduzione o impoverimento); ed in blu le linee dirette del
ciclo di controllo con cui il nonno inibisce il nipote. I cinque pianeti maggiori
del nostro sistema sono associati e prendono il modo degli elementi: Venere è
oro (metallo), Giove è legno, Mercurio è acqua, Marteè fuoco e Saturno è terra.
In aggiunta, la Lunarappresenta lo Yin e il Sole lo Yang. Lo Yin, lo Yang
e i cinque elementi sono temi ricorrenti dello I Ching, il più antico testo
classico cinese, che descrive la cosmologia e filosofia cinese. La
dottrina delle cinque fasi descrive due cicli di equilibrio, uno generativo e
creativo (生,
shēng), e l'altro dominante e distruttivo (克,
kè). Generativo il legno alimenta il fuoco il fuoco crea la terra
(cenere) la terra genera il metallo il metallo raccoglie l'acqua l'acqua nutre
il legno Distruttivo il legno divide la terra la terra assorbe l'acqua l'acqua
spegne il fuoco il fuoco scioglie il metallo il metallo abbatte il legno Gli
elementi nella cultura di massa Modifica Nel 1997 il regista francese Luc
Besson ha girato il film di fantascienza Il quinto elemento. La Walt
Disney Company Italia ha prodotto dei racconti a fumetti e una serie di film a
cartoni animati (W.I.T.C.H.) ideati da Elisabetta Gnone dove le
protagoniste incarnano i poteri degli elementi naturali. Sempre nei
fumetti, i superpoteri dei Fantastici 4, supereroi della casa editrice Marvel
Comics, sono basati sui quattro elementi naturali. I Gormiti sono basati
sugli elementi naturali e hanno poteri collegati ad essi. La rock band
italiana dei Litfiba negli anni novanta ha pubblicato 4 album che compongono la
"tetralogia degli elementi", dedicando un disco ad ogni elemento
naturale: El Diablo (rappresentante il "fuoco"), Terremoto (la
"terra"), Spirito (l'"aria") e Mondi Sommersi
(l'"acqua"). Note Modifica ^ Anna Marson, Archetipi di
territorio, Alinea Editrice, 2008, p. 23 sgg. ^ Matilde Battistini, Simboli e
Allegorie, Milano, Electa, O' Brien, Empedocle in Il sapere greco. Dizionario
critico, vol. 2. Torino, Einaudi, 2007, p. 80 ^ (v.460),Empedocle, frammento B
6: I presocratici, Gallimard, p.376 ^ Peter Kingsley, Misteri e magia nella
filosofia antica. Empedocle e la tradizione pitagorica, Il Saggiatore, 2007 ^
Fabrizio Tinaglia, Pensiero primario NPT, Lampi di stampa, Mariucci, Il Sapere
degli Antichi Greci, SteetLib, Empedocle, fr.109 ^ Giovanni Reale, Per una
nuova interpretazione di Platone, Odifreddi, Le menzogne di Ulisse. L'avventura
della logica da Parmenide ad Amartya Sen, Milano, Longanesi, Milano, TEA,
Corinne Morel, Dizionario dei simboli, dei miti e delle credenze, Firenze,
Giunti Editore, 2006, p. 836. Sala, Gabriele Cappellato, Viaggio matematico
nell'arte e nell'architettura, ed. Franco Angeli, Geymonat, Gianni Micheli,
Corrado Mangione, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Volume 1,
Garzanti, 1970, p.380 ^ Paracelso, Liber de nymphis, sylphis, pygmaeis et
salamandris et de caeteris spiritibus, trad. it. in Paracelso, Scritti
alchemici e magici, pp. 17–32, Phoenix, Genova 1991. ^ Glenn Alexander Magee,
Hegel e la tradizione ermetica, § 4.4, Mediterranee, 2013. ^ Isabella
Puliafito, Feng Shui: armonia dei luoghi, pag. 49, Hoepli Editore, 1999. ^ Cf.
Ferdinando Abbri, Le terre, l'acqua, le arie. La rivoluzione chimica del
Settecento, Bologna, il Mulino, Rogoff, Ed., IEEE Transactions on Plasma
Science, vol. 19, dicembre 1991, p. 989 ^ Heinrich Cornelius Agrippa, Of Occult
Philosophy, Book 3, Part 5, su esotericarchives.com, traduzione di John French,
The Key of Solomon, Trans. S. L. MacGregor Mathers. ^ Giorgio Tarditi Spagnoli,
Cabala e Antroposofia, NaturaSofia, Martini, Il dio vivente. Riflessioni sul
profeta Elia, Casale Monferrato, Piemme, Cf. Atti At 2, 2-3, su laparola.net..
^ Cf. Atti 4, 31, su laparola.net.. ^ Carlo Maria Martini, op. cit., p. 108. ^
Gianfranco Bertagni, La teoria indù dei cinque elementi - Da Studi
sull'Induismo (René Guénon) ^ Anne Cheng, Storia del pensiero cinese, Vol I,
Dalle origini allo studio del mistero, Einaudi, pag.257 ^ Derek Walters, Il
libro completo dell'astrologia cinese, pag. 21, Gremese Editore, 2004. ^ Derek
Walters, op. cit., pag. 21. ^ Isabella Puliafito, Feng Shui: armonia dei
luoghi, pag. 49, op. cit. ^ Isabella Puliafito, op. cit., pag. 49. ^ Isabella
Puliafito, op. cit., pag. 50. ^ Isabella Puliafito, op. cit., pag. 49. ^
Isabella Puliafito, op. cit., pag. 50. ^ a b Averna V. Leonardo, La Filosofia
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psychological attitudes Operator, Addressee, Sender, propositional content. I
want you to know that p, Iinform you that p, I want you to want to do p, I
force you to do P, etc. Symbols in “Aspects of Reason”, Op1 Op2 Op3 Op4
judicative volitive indicative informative intentional imperative interrogative
reflective inquisitive reflective Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bonomi” – The
Swimming-Pool Library.
Grice
e Bontadini – la neo-classica –de-ellenizante –I nazionalisti romani – Appio --
filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice:
“I would call Bontadini a Griceian; first, he likes sports, like I do; second
he is a neo-classical (as I am) and a anti-anti-metaphysicist, as I am!”
-- “Se Dio non ci fosse, il mondo
sarebbe contraddittorio» (G. Bontadini, Saggio di una metafisica dell'esperienza).
Esponente di spicco del movimento neotomista, che ebbe presso Milano uno dei
suoi più importanti punti di riferimento e diffusione. Iscrittosi presso Milano
quando essa aveva iniziato le sue attività, ma non era ancora riconosciuta dal
governo italiano, egli fu il terzo laureato assoluto dell'ateneo, presso il
quale fu poi professore di filosofia teoretica. Ha insegnato anche presso
l'Urbino, Milano e Pavia. Pur rifacendosi alla metafisica classica, quella
aristotelica e tomistica, Bontadini si dichiara "neoclassico"
intendendo evidenziare il nuovo ruolo che quell'antica metafisica può svolgere
nella filosofia contemporanea. Egli infatti definisce se stesso come «un
metafisico radicato nel cuore del pensiero moderno». Rifacendosi alla
filosofia idealistica ne apprezza soprattutto la «verità metodologica» che ha
evidenziato il ruolo della coscienza, del cogito cartesiano, nel cogliere il
significato dell'essere pur considerandolo come altro, diverso dalla
soggettività della coscienza stessa, realizzando cioè una identità tra il
soggetto e l'oggetto, tra l'intelletto e la sensibilità che riporta in luce
l'antica teoria parmenidea dell'identità di Essere e Pensiero. Un
Parmenide, quello di Bontadini, che non esclude la constatazione del divenire,
da un lato, e la denuncia della sua contraddittorietà, dall'altro. Due
protocolli che fanno capo rispettivamente ai due piloni del fondamento:
l'esperienza e il principio di non contraddizione (primo principio). I due
protocolli sono tra loro in contraddizione, e tuttavia godono entrambi del
titolo di verità sono verità, però, che
in quanto prese nell'antinomia (antinomia dell'esperienza e del logo) si
trovano a dover lottare contro un'imputazione di falsità. Giacché l'esperienza
oppugna la verità del logo e il logo quella dell'esperienza». Il sapere
Una nuova concezione del sapere è alla base del pensiero di Bontadini che ne
ribadisce l'origine nell'esperienza che però va intesa non più come risultato
delle operazioni della ragione (razionalismo) o come ricezione passiva dei dati
empirici (empirismo), ma come "presenza": mentre la gnoseologia
contemporanea continua a concepirla nell'ambito di un dualismo dell'essere e
del conoscere, correlando così il problema metafisico a quello del conoscere e
facendo nascere la questione, di difficile soluzione, di quale correlazione
possa esserci tra il pensiero e la realtà. Ma ogni qual volta si
considera ciò che si ritiene sia "al di là" del pensiero, questo
inevitabilmente è nel pensiero, appartiene al pensiero stesso. Quindi
ogni esperienza come presenza è assoluta, perché non costruita, ed è totale,
poiché ogni singolo fatto empirico fa parte di essa. L'unità
dell'esperienza Si arriva quindi alla concezione di "unità
dell'esperienza" dove tra l'esperienza e il pensiero si sviluppa quel rapporto
di circolarità che costituisce il sapere. Ma secondo l'insegnamento di
Parmenide l'essenza dell'esperienza è il divenire che si presenta come
contraddittorio nella sua realtà di essere e di esistere inteso come opposto al
non essere. Come può il sapere allora basarsi su una struttura
contraddittoria di essere e divenire? «Il divenire si presenta cioè
contraddittorio; anzi come la stessa incarnazione della contraddittorietà
(l'identificarsi del positivo e del negativo), come la smentita alla suprema e
immediata identità: l'essere è. La soluzione in Dio creatore «L'ente, che è
temporale in quanto empirico, è eterno in quanto divino». La
contraddizione insita nel divenire cioè può essere superata nell'esistenza di
Dio creatore. La contraddizione del divenire è superata con la dottrina della
creazione, in quanto quella identificazione dell'essere e del non essere, che
riscontriamo nell'esperienza, è ora vista come il risultato dell'azione
dell'Essere, di Colui che crea dal non essere l'essere. Ma l'essere poi
non ricade, divenendo, nel nulla? Non si può, risponde Bontadini, pensare
assurdamente che l'essere sia distrutto dal nulla ma il mondo creato da Dio è
diverso da Lui ma insieme coincide nella sua creazione non alterando la sua
essenziale immutabilità. Severino, traendo le conclusioni dalla concezione
del suo maestro Bontadini in un saggio
pubblicato su la Rivista di filosofia neo-scolastica dal titolo “Ritornare a
Parmenide” elimina ogni differenza tra l'immutabilità di Dio e quella del mondo
soggetto al divenire per cui ogni cosa è eterna come è eterno Dio.
Rispose con toni duramente ironici Bontadini in un articolo dal titolo“Sozein
ta fainomena”. Io mi chiesi con quale barba si trovi, nel mondo dell'essere, il
mio alter ego immutabile. Giacché, da quando ero matricola venendo fino ad
oggi, di barbe io ne ho cambiate molte centinaia. Ora, se poniamo che tutte
sono immutabili, mi pare che non troverei abbastanza superficie sul mio
corpoquello fissato per l'eternitàper fare posto a tutte. Ribadì quindi la sua
concezione del principio di creazione che permette di superare la
contraddittorietà del divenire tramite l'azione creatrice di Di, «in quanto
quella identificazione dell'essere e del non-essere, che riscontriamo
nell'esperienza, è ora vista come il risultato dell'azione dell'essere (azione
indiveniente dell'essere indiveniente). Altre opere: “Saggio di una metafisica
dell'esperienza” (Milano, Vita e pensiero); “Studi sull'idealismo” (Urbino, A.
Argalia); “Dall'attualismo al problematicismo. Studi sulla filosofia italiana
contemporanea” (Brescia, La scuola); “Studi sulla filosofia dell'età
cartesiana” (Brescia, La scuola); “Dal problematicismo alla metafisica. Nuovi
studi sulla filosofia italiana contemporanea, Milano, Marzorati); “Indagini di
struttura sul gnoseologismo moderno” (Brescia, La scuola); Il compito della
metafisica” (Milano, Fratelli Bocca); “Studi di filosofia moderna, Brescia, La
scuola); “Conversazioni di metafisica” (Milano, Vita e pensiero); Metafisica e
de-ellenizzazione” (Milano, Vita e pensiero); “Appunti di filosofia, Milano,
Vita e pensiero), “Metafisica e de-ellenizzazione”; “Sull'aspetto dialettico
della dimostrazione dell'esistenza di Dio”. Espulso per le sue posizioni
filosofiche dalla Cattolica di Milano. Sembra qui tornare il Deus sive Natura
di Spinoza. “Sozein ta fainomena”. Dal diveniente all'immutabile. Studio sul
pensiero di Gustavo Bontadini, prefazione di Emanuele Severino, Venezia:
Cafoscarina,. Bontadini e la metafisica. L'Essere è Persona. Riflessioni su ontologia e
antropologia filosofica in Gustavo Bontadini, Orthotes, Napoli-Salerno.
Francesco Saccardi, Metafisica e parmenidismo. Il contributo della filosofia
neoclassica, Orthotes, Napoli-Salerno. Dizionario di filosofia. SIEKE. APPIUS
CLAUDIUS CAECUS CENSOR. Historische disöertation, welche... ^M vi
"^r. eingereicht hat. Marburg, Thesis. Marburg. APPIÜS
CLAUDIUS CAECÜS CENSOR. HisTORiscFiE Dissertation, WELCHE ZUR ErLAKGUXG
DER DoCTüRWÜRDE BEI DER Philosophischen Facultät DER KÖNIGLICHEN
Universität Marburg EINGEREICHT HAT -- SIEKE. MARBURG. Der Censor
App. Claudius ist schon den Alten ein Problem gewesen. Die
Quellenberichte, welche uns vorliegen, geben uns keineswegs ein
einheitliches und übereinstimmendes Bild; wir werden vielmehr zwischen
den einzelnen Gewährsmännern sowohl in Bezug auf die Thatsachen, als auch
auf das Urteil über den Censor und seine politische Wirksamkeit die
grössten Unterschiede und Widersprüche finden. Von den alten
Autoren haben sich, wie das natürlich ist, die Differenzen auf die
neueren Forscher übertragen. In diesem Widerstreit der
Meinungen galt es für mich, eine feste Grundlage für alle Erörterungen zu
finden. Und diese glaube ich in dem Satze sehen zu müssen, dass der
Bericht Diodors über die Censur der älteste, reinste und beste ist,
welcher uns überliefert ist. Von diesem Berichte müssen wir bei jeder
einzelnen Frage ausgehen, ihn überall zu Grunde legen. Von keinem neueren
Forscher scheint mir dieser quellenkritische Grundsatz konsequent
durchgeführt zu sein. Dies zu versuchen, ist die Aufgabe der
folgenden Abhandlung. Cap. 1. Amtsantritt und Amtsdauer
des Censors App. Claudius. Die Quellen, aus denen fast allein die
Kenntnis von der Censur des App. Claudius Caecus und überhaupt seiner
Per- sönlichkeit und politischen Wirksamkeit fliesst, sind Diodor
(XX, 36) und Livius (IX, 29, 33 f. 46). Verschiedener zu- fälliger
Erwähnungen des Censors bei anderen Schriftstellern sowie seines Elogiums
(Corp. Inscr. lat. I. p. 287 n. XXVIII), welches die Ämterlaufbahn giebt,
werden wir im Gange der Darstellung zu gedenken haben. Ich stelle die
Berichte der beiden Hauptquellen im Zusammenhang voraus.
Diod. XX, 36 lautet: 'Ev dt "Fotfifi xartx lomov tot iviamov
ri^n^rai; «Aovto xai rovTViv o eteQOi: '^titiio^ K'/Mudiog inmoov l%on'
tov avvctiixoyTa yUvxiov Ilkuriiov tio'A/m nur ^GTituiiav vo/ulfiMv
ixivf^ae, xat n^onov fih to xaloö^ttrov ^'ATiTtiOvvÖMQ and atadiiov
oydoi-xoma xmi-yayfv dg rijv 'Piofn;v xai TiolXd Tiov dt]/iWaio)r xQ^Jf^ckm'
eig lavrr^r n]v xazaaxevfjv dvi^kcjasv av€v doyitiatog rijc; aiyxh'^iov.
fif-uc dt ravta lijg a^'avTOv xh^&eiat^g ''AnTiiag oöov rd 7cktov
fitQOi; d^oig areQeoig xartarQwaev and 'Pio/iit^g f^x^i^ Kanvi^g ovroi:
tov öiaöTrjltiaTOi; aradiviv Tiltiown'*' i^dnon' rovi; /.dv
vnsQtxovTai; öiaüxcci^fag roug dt (paQayyviöfig ?} xoilovg dvalrifi^iaaiv
d^iohlyotg iSiocooccg xaravi^hoatv dnaöag rag ör^liwalag n()oa6dovgy
auzod de juvi^juelov d&dvarov xaTehnev dg xoivrjv evx{)j]aTiav
cpiloTifiT^d^eig' xatejiii^t dt xai rijv auyxh]TOv ov tovg evyevslg xai
nQOtxovTag xdig a'^uofiaac 7i()ogyiid<pcov ^lovovg, uig r^v si^oS,
dlkd nollovg xai rtov d7iBXtvd^i{)iov vlovg dvt^u^B^ i(f olg ßaQtojg
tfSQOv oi xavx^o/nevoi Tijg eoyeveiag* edioxe dt Toig noUTaig xai ti]y
t^ovalav onoi TiQoaiQoh'TO rifii^- aaa^ar ro dt okov dQclt'
rtOrjaavQiafutvov xax" avrov TiaQa rolg iTiKpavtatdioig rdv
<p^dvov i^txhve rd Tt^oaxomHy^iöi tiov dllojv Tiohtviv dvTiiay^ia
xaTaoxevd^on' rjj rwv svyevdjv dkko- TQiozr^Tt TTJv 7ia(td lioY nokhov
evvoiav xai xaid fitv T?jv tiov Innkiiv doxijtiaaiav ovdevdg dcfsü.eTO
rdv 'innov, xard dt r?}v TcJv avvtdQtJv xatayQaipi]}' oudtva tiov
ddo^ovvTon' avyxh]TixLov t^tßakevj onti) j}y td^og noielv rolg rifirjaJg,
a^' oi fih vnaTOi did TOV (fO^drov xa) duc rd ßovltotha Tolg
tniffareOTaTOig x«- ()U€Gi)^ai oimy/or n)v Oüyyh]TOv ov ti)v vrid toütov
xaraleyelöav, dlld T}]v und Ttr7v n()oyty€V7^^itru)v tifirjiör
xcaayqacptlöav o dt di^jiwg jOiTOig fitv dvTi7T()dTTiov, Tift dt ^AnnUi*
ov/ii(pikoTt jitovuti'og Xia f/;r nor dcoytTtor 7ii)oay('tyt]r ßtßcucoaai
ßov?,6fitrog dyo()dvofior tiktio trg tniifartaititag dyoi>avoftiag
vidv dnelevd^iiiov rralov 0/Mßiov, og n^onog ' FiD^ialuv TavTrjg
Trjg di)xrjg f-V<7« naiodg vh' dtdov'/.tixoTog. d dt ^'Anniog zijg
dQyrjg dno/.v&e}g xai tov and Tijg avyxlrjtov ip^ovov
8vkaßr;^€lg nQoaenoiijO^r^ rvcpkdg elvai xai xar oixiav ejAeivsv, —
Liv. IX, 29: Et censura clara eo anno App. Claudii et C. Plautii
fuit, memoriae tarnen felicioris ad posteros nomen Appi, quod viam
munivit et aquam in urbem duxit, eaqüe unus perfecit, quia ob infamem
atque invidiosam senatus lectionem verecundia victus collega magistratu
se abdicaverat: Appius iam inde antiquitus insitam pertinaciam familiae
gerendo solus censuram obtinuit Cap. 30: Itaque consules, qui
eum annum secuti sunt, C. Junius Bubulcus tertium et Q. Aemilius Barbula
iterum, initio anni questi apud populum deformatum ordinem prava
lectione senatus, qua potiores aliquot lectis praeteriti essent,
negaverunt eam lectionem se, quae sine recti pravique dis- crimine ad
gratiam et libidinem facta esset, observaturos, et senatum extemplo
citaverunt eo ordine, qui ante censores App. Claudium et C. Plautium
fuerat. Permulti iam anni erant, cum inter patricioa magistratus
tribunosque nulla certamina fuerant, cum ex ea familia, cui velut fato
lis cum tribunis et plebe erat, certamen oritur. App. Claudius censor
circumactis decem et octo man- sibus, quod Aemilia lege finitum censurae
spatium temporis erat, cum C. Plautius collega eius magistratu se
abdicasset, nulla vi compelli, ut abdicaret, potuit. P. Sempronius
erat tribunus plebis, qui finiendae censurae intra legitimum tempus
actionem susceperat, non populärem magis quam iustam nee in vulgus quam
optimo cuique gratiorem Cap. 34 (Schluss): Haec taliaque cum
dixisset, prendi censorem et in vincula duci iussit. adprobantibus sex
tribunis actionem collegae tres appellanti Appio auxilio fuerunt,
summaque invidia omnium solus censuram gessit. Cap. 42, 3: Appium
censorem petisse consulatum, comi- tiaque eius ab L. Furio tribuno plebis
interpellata, donec se censura abdicarit, in quibusdam annalibus invenio.
creatus consul, Cap. 46, 10: Ceterum Flavium dixerat aedilem
fore nsis factio, App. Claudii censura vires nacta, qui senatum
primus libertinorum filiis lectis inquinaverat et, posteaquam eam
lectionem nemo ratam habiiit, nee in curia adeptus erat, quas petierat
opes urbanas, humilibus per omnes tribus divisis forum et campum
corrupit ex eo tempore in duas partes discessit civitas: aliud
integer populus fautor et cultor bonorum, aliud forensis factio tenebat,
donec Q. Fabius et P. Decius censores facti, et Fabius, simul concordiae
causa, simul ne humillimorum in manu comitia essent, omnem forensem
turbam excretam in quattuor tribus coniecit urbanasque eas
appellavit. adeoque eam rem acceptam gratis animis fcrunt, ut
Maximi cognomen, quod tot victoriis non pepererat, hac ordinum tem-
peratione pareret .... Diodor berichtet die Wahl des App.
Claudius zum Censor zu Ol. 117, 4. Er erzahlt, man habe in diesem Jahre
den App. Claudius und Lucius (sie !) Plautius zu Censoren gewählt.
Es ist dies das Jahr 444 der Varronischen Zählung oder das Jahr 310 v.
Chr., das Jahr der Consuln Q. Fabius und C. Marcius (Diod. XX, 17).
Zugleich erzählt er an dieser Stelle (XX, 36) alles, was er von der
Censur zu berichten hat; nur noch einmal erwähnt er späterhin den App.
Claudius, nämlich als Consul des Jahres Ol. 118, 2 (XX, 45) d. i. des
Jahres 447 aer. V. 807 V. Chr. Livius, welcher
die Nachrichten über den Censor anna- listisch zersplittert, setzt den
Amtsantritt der Censoren App. Claudius und Gaius (!) Plautius unter das
Consulat des M. _ _ , 1 TL 44* Ä6r. VÄrr. Valerius und
P. Decius (IX, 29), d. h. m das Jahr 312 v. chr. Zum Jahre ^ berichtet
er, dass App. Claudius nach Verlauf von IS Monaten, welches nach der lex
Aemilia die gesetz- mässige Dauer der Censur war, sein Amt nicht
niedergelegt, sondern es, obwohl sein College C. Plautius abgedankt
habe (IX, 33 f.), bis zur Bewerbung um das Consulat 1. J. -^
fortgeführt habe (IX, 42, 3). Es besteht also im chronologischen
Ansatz der Censur zwischen Diodor und Livius eine Differenz von zwei
Jahren. Die neueren Forscher schliessen sich sämtlicii, olnie die
Differenz zu erörtern, dem Livius an (vgl. Xiebuhr, K. G. III, 345.
Mommsen, R. G. I, 454. R. Forsch, I, 301). Wir w^erden jedoch den
Ansatz Diodors als den richtigen erkennen. Schon das
allgemeine Quellenverhältnis der beiden Autoren, ihr Wert und ihre
Glaubwürdigkeit, wird bei der Entscheidung der Frage von Bedeutung
sein. Es ist eine seit Niebuhr feststehende Thatsache, dass die bei
Diodor erhaltenen Berichte über die ältere römische Ge- schichte eine
weit bessere und glaubwürdigere Tradition sind als die livianisclien
(Xiebuhr, R. G. II, 122 A. 367. II, 511, 514, 599. 629 f. III, 264 f.
277. Kissen, Rhein. Museum XXV, 27; vgl. dagegen Schwegler, R. G. 11, 22.
III, 199). Während diese von Fälschungen völlig durchsetzt sind, bis in
das geringste Detail durch die Tendenz rhetorischer Ausschmückung
und Erweiterung und patriotischer Verherrlichung entstellt sind und
infolge dessen eine sehr trübe Quelle bieten, so weisen die Berichte
Diodors, so wenig ihrer sind, (XI, 37. 40. 53. 68. XII, 23—26. 30. 64.
80. XTII, 6. 42. XIV, 11. 16. 34. 43. 93. 96. 98. 102. 109. 113—117. XV,
27. 35.47.61. 75. XVI, 36. 45. 69. 90. XIX, 10. 65. 72. 76. 101.
105. XX, 26. 35. 36. 44. 80. 90. 101) und so knapp und lücken- haft
diese wenigen auch sind (vgl. jNFommsen, R. Forsch. II, 225. 270, A. 68.
275. Chron. 121. Niebuhr, R. G. II, 630. Volquardsen, Quelle Diodors 11)
eine fast reine und unver- fälschte Tradition auf. Die
Quelle, aus der Diodor geschöpft hat, reicht eben in relativ alte Zeit
hinauf. Freilich lä^st sich sein Gewährsmann nicht mit Bestimmtheit
nachweisen ; es ist nicht erwiesen, dass Fabius, der älteste römische,
noch griechisch schreibende Annalist, Diodors Quelle sei (Petavius,
Doctr. Tempi. Lib. IX, C. 55. Wesseling zu Diodor XI, 1. Xiebuhr, R. G.
II 192 A. 629 if., wo aber das 13, und 14. Buch Diodors aus-
genommen ist. Mommsen, Chron. 221. R. Forsch. II, 263 ff: Fabius und
Diodor." Vgl. dagegen Schwegler, R. Gesch. II, 24. C. Peter,
Zur Kritik der Quellen der ältesten römischen Geschichte, 118 f. Nitzsch,
Rom. Annalistik, 227. Niese, Hermes XIII, 412 f. Thouret, Fleckeisens
Jahrbücher, Splb. 1880. Meyer, Rhein. Museum, 37, 611); es ist leere
Hypothese, dass Diodor aus der angeblich ältesten Redaktion der
römischen Annalen, welche der Schützling und Parteigenosse unseres
App. Claudius, derÄdil Gn.Flavius, bewerkstelligt haben soll,
geschöpft habe (Nitzsch, R. Annalistik, 229 if. ; vgl. Momnisen,
Chronol. 204. R. G. I, 467. R. Forsch. II, 278. 338. Schwegler, R.
G. II, 7); ebenso hypothetisch ist die Behauptung, dass L. Piso,
ein Annalist aus der Grachenzeit, Diodors Quelle sei (Clason,
Heidelberger Jahrbücher 1872 S. 35. R. G. I, 17. Klimke, Diodor und die
röm. Annalistik. Colni, Philologus 1883. S. 1 bis 22; vgl. Mommsen, R.
Forsch. 11, 338 A); ganz in der Luft aber schwebt die neueste Ansetzuug
Matzats, der in L. Cincius Alimentus, neben Fabius dem ältesten
römischen Annalisten, Diodors Gewährsmann sieht (Matzat, R. Chronol.
I, 288; vgl. Niese, Piniol. Anzeiger 1884 S. 554 f.). Aber wenn auch alle
diese Versuche, die Quelle Diodors mit Sicher- heit zu ermitteln,
misslungen sind, so ist dieselbe dennoch in relativ alte Zeit
hinaufzusetzen (vgl. Rhein. Museum 37, 617). Dagegen gehören die Quellen
des Livius fast nur der sullanischen und nachsullanischen Zeit oder sogar
der cicero- nischen und augusteischen an, wo der Fälschungs- und
Aus- schmückungsprozess der Annalistik in vollem Gange war.
Zuweilen nennt Livius zwar ältere Gewährsmänner, den Fabius (I, 44, 45.
II, 40. VIII, 30. X, 37), Cincius (VII, 3), Piso (IX, 44. X, 9); aber
sehr wahrscheinlich hat er diese nur aus zweiter Hand benutzt oder
höchstens an dieser oder jener Stelle kurz eingesehen. Meistens nennt
Livius als Gewährs- männer Namen wie Lic. Macer, Val. Antias, Aelius
Tubero, von deren ersterem es z. B. feststeht, dass er ein
Geschichts- fälscher im verwegensten Sinne des Wortes war (Mommsen,
R. Forsch. I, 1 ff. II, 315 f. Seeck, Kalendertafeln der Pon- tifices S.
42 ff.). Alle Fälschungen darf man freilich nicht diesen Männern
zuschreiben, es giebt Anhaltspunkte, dass die Ausschmückung der Annalen
selbst zu Ciceros Zeiten fort- geführt wurde (Niese, Observationes de
annalibus Romanis^ Marburg 1885 L 13). Im einzelnen lassen sich die
livianischen Berichte nicht auf bestimmte Quellen zurückführen. Man
hat ^s zwar, wie für die 3., 4. und 5. Dekade (Nissen, Kritische
Untersuchungen über die Quellen der 4. und 5. Dekade des Livius.
Böttcher, Quellen des Livius im 21. und 22. Buch), «o auch für die 1.
Dekade zu thun versucht (Nitzsch, Röm. Annalistik; Clason, R. G.); aber
die Mittel, die man dabei -angewandt hat, leisten keine Bürgschaft für
die Wahrheit der Resultate (vgl. Peter, Zur Kriiik der Quellen S. ü ff.
Mommsen, R. Forsch. 224). Das dargelegte Quellenverhältnis
zwischen Diodor und Livius, wonach Diodor eine weit ältere und getreuere
Ueber- lieferung giebt als Livius, lässt sich für die
Kriegsgeschichte,^ Verfassungsgeschichte sowie auch für die Zeitrechnung
und die Fasten, auf denen die Chronologie beruht, nachweisen.
Mommsen hat an schlagenden Beispielen die Güte der diodo- rischen
Tradition gegenüber der sonstigen , namentlich der livianifcchcn,
nachgewiesen (R. Forsch. II, 222 fl'.). Zwei der Mommsenschen Beispiele
betreffen die Fasten (die Consuln des Jahres 433, die
Consulartribunenliste a. a. O.). Selbst bei chronologischen
Einzelan?ätzen ist derjenige Diodors, wenn €r von dem des Livius
abweicht, immer der richtige. Gerade in der Zeit des sog. zweiten
Samnterkrieges, in welche die Censur unseres App. Claudius fällt, können
wir mehrfach bei Livius Verschiebungen von Ereignissen um mehrere
Jahre finden, so berichtet Livius den Waffenstillstand des Jahres 320 zu
318 (IX, 20 vgl. Rhein. Museum 25, 34;, so setzt er den Anfang des
Etruskerkrieges (310) schon ins Jahr 312 (Liv. IX, 29, 1. Diodor XX, 35.
Fleckeisens Jahrb. Splb. 13, 708). Das allgenn'ine
QuellenverhälMiis, wie wir es dargestellt haben, weist darmif hin. 'lass
wii in Betreff des Zeitansatzes der Censur unseres Ajjp. Claudius bei
Livius eine Verschie- bung anzunehmen und dem Diodor zu folgen haben
werden. Zudem lassen sich hierfür eine Reihe von sachlichen Gründen
geltend machen. Zunächst ist zu erwähnen, dass sich in des Livius eigener
Erzählung Spuren von der ünwahrscheinkeit seines Ansatzes finden. Wenn
nämlich Livius den Amts- antritt des Censors in das Jahr 312 setzt (IX,
29, G) und zum Jahre 310 berichtet (IX, 33, 3ff), dass die 18 Monate,
in welchen App. Claudius nach der lex Aemilia gesetz- mässiger Censor
war, abgelaufen seien, so folgt daraus, dass sich die 18 ]\Ionate auf
;> Jahre erstreckt liätten, und dass App. Claudius seine Censur in der
zweiten Hälfte des Jahres 312 angetreten habe. Nun aber ist nach allem,
Avas wir von diesen Verhätnissen wissen, ziemlich sicher, dass die
Censoren gewöhnlich kurz nach dem Amtsansritt der ihre Wahl
leitenden Oberbeamten, der Consuln, d. i., um hier nur eine
allgemeine Bestimmung zu geben, im Frühjahr gewählt wurden
i]\Iommsen, Str. II, 324 ff.)? sodass also die 18 Monate jedes Mal
schon im nächsten Jahre abliefen. Eine Erstreckung der Censur über
3 Jahre ist nirgends bezeugt, vielfach aber ist überliefert, dass das
Lustrum, der Abschluss der censorischen Thätigkeit, im folgenden Jahre
stattfand (z. B. i. J. 300, De Boor, fasti censorii S. 9., Liv. X, 9, 14.
i. J. 294. De Boor, S. 10, Liv. X, 47, 2. i. J. 209. De Boor S. 15,
Liv. XXVII, 36, 6 cf. 11, 7 u. s. w.). So wird auch die Censu des
App. Claudius, solange sie rechtmässig war, t^ich nicht über 3 Jahre
erstreckt haben. Vielmehr wird durch diese Angabe des Livius sein
chronologischer Ansatz sehr unwahr- scheinlich gemaclit. De
Boor (fasti censorii 44) hat die zwischen Diodor und Livius bestehende
Differenz zu Gunsten des livianischen An- satzes so auszugleichen
versucht, da^s er annimmt, Diodor habe die Censur deswegen zum Jahre 310
behandelt, weil er unter diesem Jahre in seiner Quelle die wichtigsten
Ereignisse der Censur, die Zwietracht des App. Claudius mit seinem
Collegßn C. Plautius und die Uebertretung des über die Dauer der Censur
gegebenen Gesetzes (lex Aemilia) von Seiten des App. Claudius, berichtet
gefunden hätte. Diese Annahme hebt aber einerseits nicht das Bedenken,
welches über die Ausdehnung der Censur oben geltend gemacht ist,
und dann widerspricht sie direkt den Worten Diodors, dessen Bericht so
beginnt: tv <)t ' Pv'tiii] zcaa rovrov iny triavrov /444 \ ^ f
', ^ ' t f " # 1'^ ' f -J Tiiirini^ hi/.inro y.ca lovntv o
fTfooc, ^iTTcrio^ hhxv- tho^ etc. — Man könnte nun für den
livianischen Ansatz anführen, dass sowohl die Capitolinischen Fasten, als
auch Frontin und Cassiodor mit Livius übereinstimmen. Frontin (de aquis
5) und Cassiodor setzen die Censur unter das Consulat des M.
Valerius und P. Decius d. h. in das Jahr 312. Aber dies hat unserer
Ansicht nach absolut keine Bedeutung; denn die gesamte nachlivianische
Geschichtschreibung über die römische Republik ruht auf den Schultern des
Livius, alle Historikei*^ nach Livius gebrauchen ihn als Gewährsmann, so
haben auch sor.der Zweifel Frontin und Cassiodor diese
chronologische Angabe aus Livius geschöpft. Von grösserer
Bedeutung schon könnte es sein, dass die Capitolinischen Fasten
gleichfalls mit Livius übereinstimmen, indem sie berichten (C. J. L, I,
432 z. J. ^, De Boor, a. a. O. S. 8), dass im Jahre 312 App. Claudius und
C. Plautius das 2ß. Lustrum gefeiert hätten. Es pflegen nämlich die
Capitolinischen Fasten zum Antrittsjahr der Censoren die Lustration zu
berichten, obwohl das Lustrum doch als Schluss- akt der censorischen
Thätigkeit gegen Ende der Censur, also im 2. Jahre der Censur, abgehalten
wurde (Mommsen, Str. 11^ 326 A.). Aber auch diese
Uebereinstimmung des Livius mit den Capitolinischen Fasten kann nichts
für den livianischen Ansatz beweisen. Es ist zwar sicher, dass die Fasten
des Livius^ obwohl die Capitolinischen Fasten, als Livius schrieb,
schon auf dem Forum standen (Mommsen, R. Forsch II, 81), doch von
den letzteren unabhängig sind, und dass zwischen beiden die
grundsätzlichen Differenzen bestehen, welche überhaupt die Fasten der
Jahrtafel (Fasti Capitolini, Chronograph v. J. 354, Idatius,
Paschalchronik) von denen der Chroniken — <Diodor, Dionys,
Livius, Cassiodor) trennen, deren wesent- lichste die ist, dass die
Jahrtafel die sog. 4 Diktatorenjahre <333, 324, 309, 301 v. Chr.) der
chronologischen Aus- gleichung wegen eingefügt hat, während die
Chroniken -dieselben weder nennen noch zählen (Mommsen, R. Chronol.
110 ff.). Aber ebenso sicher ist, dass die Capitolinischen Fasten, wie
die gesamte Jahrtafel, aus keiner besseren und früheren Quelle geflossen
sind als die des Livius, während <iie Fasten und die Chronologie des
Diodor auf derselben guten, alten Quelle beruhen, aus denen seine
Berichte ge- flossen sind (vgl. Rhein. Museum 37,611). Es giebt
eine Menge Beispiele dafür, dass, während Livius und die
€apitolinisclien Fasten gefälschte oder entstellte Fasten und falsche
Chronologie haben, Diodor die echten Fasten bewahrt und die richtige
Chronologie giebt (vgl. Mommsen, R. Forsch II, 222 u. passim). Deshalb
geben wir auch hier dem diodorischen Ansatz den Vorzug. Es
bedarf noch der Untersuchung, wie derselbe in die Reihe der Lustren und
Censoren, die uns, obzwar nicht von 'Quellen ersten Ranges überliefert
ist, passt. Die Vorgänger des App. Claudius in der Censur traten ihr Amt
i. J. 318 an. Darin stimmen die Capitolinischen Fasten mit Diodor
und Livius überein (C. J. L. I, 432 z. J. ^f, Diod. XIX, 10
Liv. IX, 20, 5). Wenn die beiden letzten dies auch nicht ausdrücklich
sagen, so berichten sie doch, dass in diesem Jahre die Tribus Falerna und
Ufentina neu eingerichtet seien. Die Neueinrichtung der Tribus war aber
ein censorisches Geschäft (Liv. VIII, 17, 11. X, 9, 14 cf. Mommsen, Str.
II, 361 m. A. 1.) Zwischen dem Amtsantritt, und füglich auch dem
Lustrum, dieser Censoren und demjenigen des App. Claudius und C. Plautius
lagen demnach, wenn wir dem Livius und den Capitolinischen Fasten folgen,
6 Jahre (318—312); wenn wir mit Diodor den Amtsantritt des App. Claudius
ins Jahr 310 setzen, 8 Jahre (318—310). Die nächsten Censoren, M.
Valerius und C. Junius, wurden im Jahre 307 gewählt <fasti Capit. C.
J. L. I, 432 z. J. ^J^ Liv. IX, 43,25). Das Lustrurn des App. Claudius
und C. Plautius ist also nach Livius vierjährig (312—307), nach Diodor
zweijährig (310—307); das Jahr 309 ist nämlich als Diktatorenjahr nicht
zu berechnen^ Die Nachfolger in der Censur, Q. Fabius u. P.
Decius, bind nach dem Zeugniss des Livius (IX, 46, 13,) und der Ca-
pitolinischen Fasten ((J. J. L. z. J. ~) i. J. 304 gewählt; efv liegen
also zwischen ihrem Amtsantritt und dem ihrer Vor- gänger drei Jahre (307
— 304). Das Lustrum des Q. Fabius^ u. P. Decius war dreijährig; die
folgenden Censoren traten nämlich ihr Amt i. J. 300 an, wie ^loramsen aus
den Resten der Capitolinischen Fasten eruiert hat (C. ,1. L. I, 566
z. J. ~) ; das Jahr 303 ist dabei als Diktatorenjahr nicht zu rechnen.
Schon aus dieser Reihe der Lustren, welche dem des- App. Claudius
und C. Plautius unmittelbar vorangingen und folgten, geht hervor, dass
das Lustrum kein bestimmter Zeit- raum damals gewesen sein kann. In der
späteren Zeit, seit dem hannibalischen Kriege, wurde als regelmässige
Frist des- Lustrums 5 Jahre festgesetzt und es ist lange so
durchgeführt worden (De Boor, fasti censorii S. 15 — 20), bis die
beginnende Revolution das Institut erschütterte und bald ganz
zerstörte (Mommsen, Chronol. 161. Str. II, 318). In der früheren
Zeit waren die Lustrenintervalle ganz imbestimmt ; es werden Lustren von
3, 4, 5 und mehr Jahren überliefert (De Boor, a. a. 0. S. 1 — 14), ja
eins wird ausdrücklich als siebzehn- jährig bezeichnet (Dionys XI, 63).
Eine solche Unregel^ mässigkeit kann doch offenbar nicht erklärt werden,
wenn man nicht für die frühere Zeit auf die Annahme des Lustrums^
als einer festen Zeitfrist verzichtet; falsch ist es, wenn Mommsen meint,
das Lustrum sei, wie die griechische Olym- piade, ursprünglich ein
vierjähriger Zeitraum gewesen, aber es sei dies nur als Minimaldauer
festgesetzt worden (Chronol. 158. Str. II, 316): es sind ja doch mehrere
dreijährige Lustren sicher bezeugt ; unbewiesen ist ferner, wenn De
Boor als anfängliche Minimaldauer des Lustrums drei Jahre ansetzt
(a. a. 0. S. 43 f.). Die Dauer des Lustrums war ohne Zweifel von der
all- gemeinen Lage des Staates abhängig, je nach den Bedürfnissen
war das Lustrum länger oder kürzer. Für mehrere Lustren ist es bezeugt,
dass sich ihre Kürze aus der Lage der Zeit erklärt z. B. für die des
Jahres 89 u. 92 v. Chr. (vgl. Rhein. Museum 25, 487). Da nun
das Lustrum ursprünglich kein fester Zeitraum war, so widerspricht dem
die Annahme des appianischen Lustrums als eines zweijährigen (310—307)
nicht, obgleich kein anderes von solcher Kürze nachweisbar ist. Diese
aber erklärt sich aus den Zeitverhältnissen von selbst : Die
Patrizier waren durch die Anordnungen des Censors App. Claudius,
seine senatus lectio und Tribusänderung, hart getroffen und suchten so
schnell als möglich dieselben zu nichte zu machen (s. unten, vgl.
Niebuhr, R. G. III, 374. Mommsen, Chronol. 160 f. A. 320). Deshalb
wählten sie schon zwei Jahre nach dem Amtsantritt des App. Claudius, also
gleich im Jahre nach des Appius Lustration, i. J. 307, neue Censoren,
den M. Valerius u. C. Junius. Da aber diese Censoren nichts
erreichen konnten — wir wissen nicht, aus welcher Ursache, da von ihrer
Amtsführung nichts überliefert ist (Liv. IX, 43, 25. Val. Max. II, 9, 2)
— so wurden schon nach weiteren drei Jahren, i. J. 304, neue Censoren in
den Personen des Q. Fabius u. P. Decius gewählt, welche alsbald die
Tribus- verteilung des App. Claudius rückgängig machten oder
wenigstens umänderten (s. unten). Auch die anstössige Senats- liste des
App. Claudius (s. unten) wurde von den Patriziern sogleich umgestossen,
u. zwar sofort von den Consuln des folgenden Jahres. Dies waren, wenn
wir, wie es richtig ist, mit Diodor den Amtsantritt des App. Claudius in das
Jahr 310 setzen — das Jahr 309 ist Diktatorenjahr — die Consuln d.
J. 308, Q. Fabius u. P. Decius (Diod. XX, 37. Liv. IX, 41). Also haben,
wenn wir der guten Quelle Diodors folgen, dieselben Männer, welche als
Censoren i. J. 304 die Tribusänderung des App. Claudius rückgängig
gemacht haben,^ als Consuln i. J. 308 die Senalsliste des App. Claudius
umgestossen. Und es ist diese Thatsache in sich sehr wahr- scheinlich:
denn nachdem die ersten Nachfolger des App. Claudius in der Censur die
Abschaffung der Tribusänderung des App. Claudius nicht hatten erreichen
können, ist es sehr natürlich, dass die Patrizier nun die Männer, welche
schon als Consuln so energisch gegen die Neuerungen des App.
Claudius vorgegangen waren, zu Censoren wählten. Dies von der
Kritik hergestellte Zusammentreffen scheint mir unsere Ansiclit, dass
Diodors chronologischer Ansatz der richtige sei, wesentlich zu
stützen. In den Quellen des Livius ist also die Censur von
310 auf 312 verschoben: der Grund dieser Verschiebung hängt mit der
Ansiclit des Livius über die Amtsdauer des App. Claudius zusammen,
worüber wir nun zu sprechen haben. Die Censur ist nach der
Ueberlieferung (Liv. IV, 8, Dion. XI, 63, Zonaras VII, 19, Val. Max IV,
13, Frontin, de aquis 5) bei ihrer Einsetzung (443 v. Chr.) als
fünfjährige Magistratur bestimmt worden. Die lex Aemilia d. J. 434
V. Chr. soll sie dann auf 18 Monate beschränkt haben (Liv. IV, 24).
Wahrscheinlich aber ist sie überhaupt erst i. J. 434 V. Chr. eingesetzt
worden u. von Anfang an auf 18 Mo- nate beschränkt gewesen (Mommsen,
Chronol. 91, Str. II, 322, vgl. dagegen Rhein. Museum 25, 480 ff.).
Die angeführte lex Aemilia nun hat App. Claudius, so erzählt
Livius, eigenmächtig übertreten, indem er nach Ver- lauf von 18 Monaten
sich das Amt selbst prorogierte (Liv. IX, 29, 8. 33, 34). Betrachten wir
die Angaben des Livius hierüber, so müssen wir zunächst das Resultat
einer Mommsenschen Abhandlung berücksichtigen: „Die patrizischen
Claudier" (Rom. Forsch. I, 287 — 318). Mommsen hat darin
nachgewiesen, dass in den jüngeren römischen Annalen, bei Livius u.
Dionysius u. bei den aus diesen schöpfenden Sueton u. Tacitus alle
Glieder der alten und hochadligen gens Claudia eine ähnliche oder
dieselbe Rolle spielen, indem sie sämtlich vom höchsten Adelstolz und
höchster Feindseligkeit gegen die Plebs beseelt sind. Nicht bloss wird
dies häufig von der geiiB Claudia im allgemeinen ausgesagt (gens
superbissima in plebem Romanam Liv. II, 56), sondern man lässt alle
Claudier, welche auf dem politischen Schauplatz auftreten, harte
Kämpfe mit der Plebs und den Volkstribunen auskämpfen. Ja, es^
kehren sogar häufig Reden von Claudiern gegen die Plebs oder umgekehrt
claudierfeindliche Reden von Volkstribunen wieder, worin sich offenbar
die Erfindung ausdrückt. Dass Livius oder Dionysius die Erfinder seien,
wird Niemand annehmen. Mommsen meint, die Fälschung sei in politischer
Tendenz ge- schehen, ein wütender Claudierfeind zur Zeit der
Bürger- kriege habe die Annalen in solch claudierfeindlichem Smne
gefälscht: und zwar sei dies L. Macer gewesen. Die letzte Behauptung ist
völlig unbewiesen, und was die Erfindung selbst angeht, so glaube ich
nicht, dass sie in politischer Tendenz geschehen ist ; sie scheint
vielmehr aus der rlietorischen Strömung, welche die römische
Geschichtschreibung beherrscht, geflossen. Man suchte nach allen Mitteln,
die Erzählung aus- schmückend zu erweitern, und wie so vieles in den
Annalen, z. B. die meisten Schlachtberichte, nach feststehenden Mustern
erzählt wurde, so wurden, da vielleicht ein Claudier ein adelstolzer
Junker war, alle Claudier schablonenhaft als Volks- feinde
behandelt. Dieselbe Rolle ist nun auch unserm Censor
übertragen, was wir zunäclist und besonders aus der Erzählung von
der ungesetzlichen Fortführung der Censur ersehen. Livius be-
richtet hierüber zuerst IX, 29, 7 f. App. Claudius, heisst es da,
vollendete die Bauten allein, weil sein College C. Plautius aus Scham
über die ruchlose und gehässige Senatsliste ab- dankte, während Appius
mit dem alten Claudiertrotze die Censur weiterführte. Daraus muss
geschlossen werden, dass C. Plautius abgedankt habe, ohne die senatus
lectio zu billigen, oder wenigstens gleich nach ihrer Vollendung.
Da aber die Censoren die senatus lectio kurz nach dem Amts- antritt
vornahmen (Mommsen, Str. II, 3i)6, Lange, Alter- thümer, I, 805. Willems,
le senat de la republique Ro- maine I, 240), was auch nach der Ordnung
der Erzählung bei Diodor und Livius in der Censur des App. Claudius ge-
schehen zu sein scheint, so müsste C. Plautius vor Ablauf der 18 Monate
abgedankt haben (vgl. Weissenborn, Livius zu IX, 29, 7. Willems, a. a. 0.
I, 186). Dies hat schon Frontin (de aquis I, 5) aus Livius' Worten
gefolgert; er sagt: sed quia is (Plautius) intra annum et sex menses
deceptus a collega . . . abdicavit se censura. Aber an einer
späteren Stelle (IX, 33, 4) sagt Livius selbst, dass C. Plautius
nach Verlauf von 18 Monaten vom Amte abgetreten sei. Er
widerspricht sich also ausdrücklich. Von dem Verhältnis des App. Claudius
zu seinem Collegen wissen wir nur, dass letzterer alles that oder thun
musste, was Appius wollte (Diodor a. a. O. : VTitjxoov f/wv tov
avvcc()xovTCi Aevy.iov nkavTiov)^ also eine untergeordnete Rolle spielte.
Er hätte ja die senatus lectio durch seinen Widerspruch vernichten
können. An das Verliältnis des App. Claudius zu C. Plautius hat die
Fälschung des Livius offenbar angeknüpft. Sie ist gemacht, um den Censor,
den Claudier, als ungesetzlich handelnden Mann darzustellen, dass er
gegen das Gesetz der Collegialität (Mommsen, Str. IT, 312) die Censur
allein fortgeführt habe. Aber damit begnügte sich der Fälscher noch
nicht. Er erdichtete auch noch eine Fortführung des Amtes über die
gesetzmässige Dauer hinaus. „Viele Jahre, so beginnt Livius hierüber zu
erzählen (IX, 33, 3), waren schon vergangen, seit zwischen den
patrizischen Magistraten und den Volkstribunen keine Streitigkeiten
stattgefunden hatten, als aus der Familie, quae velut fatalis ad lites cum
tribunis ac plebe erat, sich ein Kampf erhob. App. Claudius konnte nach
Ablauf der gesetzmässigen Frist der Censur nicht bewogen werden,
sein Amt niederzulegen. Der Volkstribun P. Sempronius übernahm die
Aufgabe, ihn zur Abdankung zu zwingen. Livius setzt selbst hinzu, dass
diese actio ebenso populär als gerecht und auch dem Volke angenehm
gewesen sei, w^ie den Optimaten; dennoch rechnet er sie zu den
Streitigkeiten, welche den Claudiern mit der Plebs und ihren Tribunen
gleichsam vom Schicksal beschieden gewesen seien. Der Tribun Sempronius erinnerte
nun den Ap]). Claudius ener-iscli an die lex Aemilia. Dieser erwiderte,
dnss dies Gesetz nur für die beim Erlass desselben amtierenden Censoren
bindend gewesen wäre, während alle danach gewählten Censoren und also
auch er selbst nicht von ihm betroffen würden ; denn, sagt er, id
quod postremum popuhis iussisset, ius ratumque esse. Wie
sophistisch dieses Zwölftafelgcsetz hier angewandt wird, liegt auf der
Hand. Eine rechtliche Begründung für die Amts- verlängernng, die dem App.
Claudius in den l\lund gelegt werden könnte, fehlt völlig; aber darauf
kam es auch den Fälschern nicht an, sie wollten eben den Claudier als
einen jedes Gesetz verachtenden Mann darstellen. Alsdann lä&st
Livius den Tribun Sempronius eine längere Rede lialten (IX, 34), in
welcher der gens Claudia ein langes Sündenregister vorgehalten ^'ird. Es
kehren, wie erwähnt, solche claudier- feindliche Reden oder auch Reden
von Claudiern gegen die Plebs sehr häufig bei Livius wieder (vgl. II, 56,
57. IV, 48. Y 3 — 6. VI, 40, 41 u. a.) u. sie stehen sämtlich auf
dem- selben Niveau, d. h. sie sind sämtlich erdichtet, entstanden
aus dem rhetorischen Bedürfnis der Annalisten ihre Erzählung
auszuschmücken. Dennoch, so erzählt Livius weiter, stehen dem App.
Claudius sechs Volkstribunen bei, und er führt summa invidia omnium
ordinum die Censur allein w^elter. Die inneren
Unwahrscheinlichkeiten, die wir in diesem Berichte dargelegt haben,
machen uns sehr misstrauisch gegen denselben. Dazu kommt aber noch eine
ganze Reihe von Gründen, durch welche der ganze Bericht als völlig
un- historisch erwiesen wird. Zunächst ergeben sich einige aus
Livius selbst. Wenn Livius den Tribun Sempronius sagen lässt: „Satis est
aut diem aut mensem censurae adicere? triennium, inquit, et sex menses
ultra quam licet Aemilia lege censuram et solus geram% so folgt daraus,
dass Livius annimmt, App. Claudius habe das Amt fünf Jahre
beibehalten wollen, und da er ausser einer Andeutung (s. unten) nichts
weiter hierüber sagt, so scheint er auch anzunehmen, App. Claudius habe
dies durchgeführt. Der Verfasser von „de viris illustribus" hat dies
offenbar aus der Angabe des Livius gefolgert, wenn er sagt: censuram
solus omnium quinquen- nis obtinuit. Von der Abdankung des Censors sagt
Livius selbst nichts, er führt nur eine Version an (IX, 42, 3),
dass nämlich Appius Claudius noch als Censor sich um das Consulat
])eworben hätte, aber vom Tribun L. Furius ge- zwungen sei, die Censur
niederzulegen, und dann zum Consul gewählt sei: Livius scheint sich
dieser Version anzuschliessen. Danach hat also App. Claudius seine Censur
am Ende d. J. 308 niedergelegt; das konnten die Annalisten nicht
ändern, weil 307 neue Censoren und Appius Claudius selbst für
dieses Jahr als Consul in den Magistratsfasten verzeichnet
waren. Nun liegen nach den Capitolinischen Fasten
zwischen 312 und 307 zwar 5 Jahre, nicht aber so bei Livius, da er
ja das Diktatorenjahr 309 nicht kennt und zählt: seine An- sicht, App.
Claudius habe die Censur 5 Jahre hindurch be- hauptet, wird also durch
seine eignen Angaben widerlegt. Dass App. Claudius sich noch als
Censor um das Con- sulat beworber habe, ist eine Erfindung eines
Annalisten, der dem Censor ausser den genannten Ungesetzlichkeiten noch
^as Streben nach der Cumulierung zweier hoher Amter an- dichtete, um ihn
noch schärfer als Verächter aller Gesetze darzustellen. Bei
dieser ganzen Erdichtung von der gewaltsamen Proro- gation der Censur
durch App. Claudius hat man ohne Zweifel nach Analogie dessen verfahren,
was von dem Ahnen unseres Oensors, dem Decemvirn gleichen Kamens,
überliefert ist, der decemvir in annum creatus, altero anno se ipse
creavit, tertio nee a se nee ab ullo creatus fasces et imperium obtinuit
(Liv. IX, 34, 1). Nach unserer Ansicht ist demnach der
Bericht des Livius über die gesetzwidrige Amtsverlängerung des Censors
von Anfang bis Ende erfunden. Dafür spricht ausser der oben
gegebenen Kritik des Berichtes . entscheidend folgende Er- w^ägung : App.
Claudius hat nach der guten Nachricht Diodors i. J. 310 die Censur
angetreten, wir Laben das als historisch nachgewiesen. Am Ende des Jahres
308 muss er aber ab- gedankt haben, einmal weil 307 neue Censoren in den
Ma- gistratslisten erscheinen (Liv. IX, 43, 25. C. J. L. I, 432 z.
J. ^), und dann weil App. Claudius selbst i. J. 307 zum Con-
307 ' ' sul gewählt wurde (Diod. XX, 45. Liv. IX, 42, 3. C.
J. L. I, 432 z. J. ^). Zwischen 310 und 307 liegen aber
nur zwei Jahre, also kann die Censur kaum länger als 18 Monate gedauert
haben. Dennoch halten die meisten neueren Forscher, obwohl
sie zugeben, dass in der Erzählung des Livius Vieles er- dichtet und
übertrieben sei, an der Annahme der Prorogation, der Censur fest. Ja
Niebuhr (R. G. III, 356), Lange (Alterth. I, 85 ff.), Siebert (Appius
Claudius S. 67 ff.) u. a. folgen dem Livius fast in dem ganzen, offenbar
erfundenen Detail, dass er die Censur 5 Jahre habe beibehalten wollen,
dass er das Con- sulat der Censur habe cumulieren wollen u. a.
Nur stellen sie, wovon nichts überliefert ist, eine Hypo- these
über den Zweck der Amtsfortführung auf. App. Clau- dius, meinen sie, habe
sich deshalb sein Amt verlängert, um seine grossartigen Bauten zu Ende zu
führen, und damit keinem andern die Ehre der Vollendung zufalle.
Mommsen schliesst sich dieser Hypothese an, nur ver- mutet er, es
sei keine ungesetzliche Prorogation gewesen. Es bestand nämlich in der
That die Einrichtung, dass die Censur, wenn 18 Monate nicht genügten,
prorogiert wurde „ad opera, quae censores locassent, probanda et ad sarta
tecta exigenda^' (Liv. 45, 15. cf. Mommsen, Str. II, 324 m. Anm. 1,
2.). Es sei nun, wenn man alles Incriminieren und Moti- vieren, welches
den Claudiererzählungen anzuhaften pflege, ausscheide, sehr
wahrscheinlich, dass auch des App. Claudius Amtsverlängerung nur eine
solche gesetzmässige Prorogation sei (ähnlich Madvig, Verfassung und
Verwaltung I, 396. Herzog, Geschichte und System l, 273). Aber dagegen
ist zu sagen, dass grade die Ungesetzlichkeit in dem Berichte
<ias Wesentliche ist, dann, dass die kolossalen Bauten,
die des Censors Namen tragen , auch schliesslich in vier oder fünf
Jahren nicht vollendet werden konnten , woran schon Niebuhr erinnert (R.
G. III, 356). Ausserdem ist wohl bei einer solchen gesetzmässigen
Prorogation (ex instituto) immer beiden Censoren das Amt verlängert,
weil, wie Mommsen selbst sagt, (Str. II, 312 m. Anm, 6), das Prinzip der
CoUe- gialität bei der Censur mit besonderer Strenge gehandhabt
wurde. Und wenn nun Mommsen dennoch meint (a. a. 0.), dass die
appianische Prorogation diesem Prinzip nicht wider- streite, so scheint
mir das keineswegs ein bindender Schluss zu sein. Endlich liegen, was das
Entscheidende ist, zwischen dem Amtsantritt des App. Claudius und dem
seiner Nach- folger überhaupt nur zwei Jahre (310 — 307 s. oben);
die Censur kann ihm also kaum, jedenfalls nicht 4 oder 5 Jahre
prorogiert sein. Wiederholen wir kurz unsere Resultate: App.
Claudius trat seine Censur i. J. 310 v. Chr. an und behielt sie ganz
ge- setzmässig 18 Monate lang mit seinem Collegen C. Plautius, der
ihm völlig zu Willen war {vTir/.oog), Wir kommen nun zu den Thaten
des Censors. Cap. 2. Die Bauthätigkeit des App.
Claudius. Eine Hauptseite der censorischen Thätigkeit war die
Re- gulierung der Gemeindeeinnahmen (mit Ausnahme der persön-
lichen, directen Vermögenssteuer, des Tributums) und der Ge-
meindeausgaben. Nach der römischen Finanzpraxis wurden die
indirecten Staatseinnahmen von jeglichem ertragsfähigen Staatsgut (Zölle,
Gemeindeland, Ausbeutung von Flüssen, Seen, Bergwerken u.a.) nicht direct
vom Staate erhoben, sondern an einzelne Unter- nehmer zur Ausnutzung
gegen eine bestimmte Entrichtung an die Staatskasse verpachtet.
Ebenso Hess der Staat die Lieferungen, die er brauchte, und die
Arbeiten, die er vornehmen Hess, an Private verdingen (locare opera
publica od. sarta tecta od. ultro tributa). 99
Die Censoren waren es, welche mit diesen Verpachtungen beider Art
betraut waren. Aber sie standen dabei unter der Oberaufsicht des Senates.
Neue Zölle konnten sie z. B. nur mit Bewilligung des Senates anordnen,
der Senat konnte cen- sorische Verpachtungen rückgängig machen, die
Pachtsumme ^rmässigen u. a. Bei vielen Ausgabeposten
wurde den Censoren nicht bloss die Verdingung, sondern auch die
Überwachung, Leitung und schliessliche Übernahme der Arbeit übertragen
(Polyb. 6, 17 Liv. 42, 3 faciendum oder reficiendum curare C. J. L.
I,. p. 177, n. 605). Dies geschah namentlich bei den
öfFentlichen Bauten, bei Reparaturen (z. B. des Circus Liv. 41, 27, der
Mauern Liv. 6, 32, der Strassen Liv. 29, 37. 41, 47,
Wasserleitungen, Frontin. aq. 95 u. a.) wie bei Neubauten (z. B. bei
Tempeln, Basiliken, Theatern, Brücken, Heerstrassen, u. a.). Nach
dieser Seite hin wird die censorische Competenz gradezu als Fürsorge für
die Bauten aufgefasst. Aber auch hierbei waren sie vom Senat abhängig.
Vor allem musste der Senat die- Gelder verwilligen; nur wenn und insoweit
es der Senat ge- stattete, konnten die Censoren das aerarium in
Anspruch nehmen,, und zwar durch Vermittlung der Quästoren, welche als
Ver- walter der Staatskasse die Gelder einnahmen und auszahlten.
Der Senat bewilligte den Censoren eine Bauschsumme (pe- cunia decreta
Liv. 39, 44. Polyb. G, 13), jedoch als certa pe- cunia, und zwar
gewöhnlich eine gewisse Quote der Staats- einnahmen (vectigal annuum Liv.
40, 46. 44, 16). Was die Censoren im einzelnen damit anfangen wollten,
war ihre Sache. Inwieweit sie darin vom Senat abhängig waren, ob sie z.
B. zu Neubauten die Einwilligung des Senates einholen mussten (cf.
Liv. 36, 36), lässt sich nicht bestimmen. Soviel musste ich im
allgemeinen über diese Seite des censorischen Amtes vorausschicken, um
die Thätigkeit des- App. Claudius in dieser Hinsicht richtig zu
würdigen. Die Censur des App. Claudius ist nämlich die erste,
bei der uns dies censorische Geschäft in der Überlieferung entgegeniritt,
und App. CLnudius n acht von dieser Seite semes Amtes in so grossartiger
und zugleich von der gewöhnlichen und späteren Handhabung dieses Rechtes
verschiedentlich in so abweichender Art Gebrauch, wie es kaum wieder
ge- schehen ist. . Über die Bauthätigkeit des Censors
App. Claudius sind ausser den Notizen bei Diodor und Livius noch die
Angaben des S. Julius Frontinus in seiner Schrift „de aquis Romae"
zu benutzen. Ohne Zweifel beruhen die Angaben Frontins, der unter
dem Kaiser Nerva 97 n. Chr. curator aquarum war (Fronün 1. c.
Einleitung), auf eigener Erfahrung und Anschauung. Ausführ- lich und klar
beschreibt er auch die aqua Appia, berichtet, wo- her sie kommt, wie lang
sie ist, welchen Weg sie nimmt etc. Was er sonst über die Censur des App.
Claudius beibringt, ist offenbar aus den Hvianischen ähnlichen Quellen
geschöpft. Auch Diodors Angaben sind relativ ausführlich, und mit
Recht nimmt Mommsen an, dass der vielgereiste Verfasser (Diodor 1,
4) hier aus eigener Anschauung spricht (Mommsen, Rom. Forsch. II,
284 A. 90). Livius berührt die Bauten des Appius nur ganz
kurz; doch ist bemerkenswert, dass er, während er im allgemeinen
sowohl in dem Sachlichen als in der Beurteilung sehr von Diodor abweicht,
im Lobe der Bauthätigkeit des Censors mit ihm übereinstimmt. Er sagt (IX,
29,6): et censura clara eo anno App. Claudii et C. Plautii fuit, memoriae
tamen felicioris apud posteros quod viam munivit et aquam in urbem
duxit, und bei Diodor heisst es: caror d^ ^nriiehn' c^Jcaarov Die
Bauwerke, welche des App. Claudius Censur ver- ewigen, sind die
Wasserleitung und die Heerstrasse, welche beide seinen Namen tragen, die
via und aqua Appia. Es war nämlich das Recht des bauleitenden
Beamten, den öffentlichen Gebäuden, natürlich mit Ausnahme der
Tempel, seinen Namen beizulegen; seit App. Claudius ist dies wenig-
stens zumeist geschehen, und es scheint sein Beispiel dies Recht
hervorgebracht zu haben, da sich vor ihm keine solche Fälle nachweisen
lassen. Die grossartigen Bauwerke der Republik in der Stadt Rom sind fast
alle nach ihren Erbauern genannt, die mit wenigen Ausnahmen Censoren sind
(Beispiele : basilica Porcia, Aemilia-Fulvia , Sempronia; circus
Flaminius. Die Erbauer der Bauten ausserhalb Roms sind nicht
Censoren, ausgenommen von zwei Heerstrassen, der via Appia und
Flaminia). Die aqua Appia ist der älteste und erste
Trinkwasser- aquadukt Roms, deren es später so viele gab. Bis zur
Zeit des Appius hatte man sich mit dem Wasser mehrerer Quellen und
Brunnen (Frontin I, 4: putei, worunter auch Cisternen bejrriften werden
können. Kiebuhr, R. G. III, 359 A. 24) begnügt, ja man hatte Tiberwasser
getrunken (Frontin a. a. O.j. Der Ruhm, die Quellen gefunden zu haben,
aus denen die aqua Appia gespeist wurde, wird dem Collegen des
Appius, L. Plautius, zugeschrieben, der deshalb den Beinamen Venox
(von Vena) erhalten haben soll (Frontin I, 5. Fasti Capit. C. J. L. I,
432 ad a. 442: qui in hoc honore Venox appel- latus est). Das Bedenken
Drumanns, dass dies Cognomen nicht von vena abgeleitet sei, da hiervon
besser Venosus ge- bildet werde, sondern mit dem häufig in der gens
Plautia wiederkehrenden Cognomen Venno oder Veno (vgl. Liv. VIII,
19, IX, 20) identisch sei, scheint in der That begründet. Die Quellen,
welche diese etymologische Ableitung geben, leisten nicht hinlänglich
Gewähr für die Richtigkeit derselben ; es scheint nur ein Versuch der
Erklärung des Cognomens zu sem, wie wir von dem des Appius selbst mehrere
finden werden. Den Lauf der aqua Appia beschreibt Frontin (I, 5)
fol- gendermaassen : Concipitur Appia in agro Lucullano via Prae-
nestina inter milliarium septimum et octavum deverticulo sinis- trorsus
passuum septingentorum octoginta; ductus eius habet longitudinem a capite
usque ad Salinas, qui locus est ad por- tam Tergeminam, passuum undecim
millium centum nonaginta: ex eo rivus est subterraneus — offenbar
absichtlich unter- irdisch, damit das Wasser nicht abgeschnitten würde
(Nie- buhr, R. G. III, 361) — passuum undecim millium
centum triginta : supra terram substructio et opus arcuatum proximum
portam Capenam — ein Mauerwerk, welches wahrscheinlich die sog. XII
portae bildete (vgl. Siebert, App. Claudius S. 63). Jungitur
ei ad Spem veterem in confinio hortorum Tor- quatianorum . . . ramus
Augustae ab Augusto in supple- mentum eius additus . . . hie via
Praenestina ad milliarium sextum deverticulo sinistrorsus passuum
nongentorum octoginta proxime viam Collatiam accipit fontem, cuius ductus
usque ad Gemellos efficit rivo subterraneo passuum sex millia tre-
centos sexaginta. Incipit distribui Appia imo Publica clivo ad portam
Trigeminam (Frontin, de aq. I, 5. cf. Kiebuhr, R. G. III, 356 ff\
Siebert, App. Claud. S. 62 f. Becker, Handbuch I, 702. Jordan, Topogr.
der Stadt Rom I, 456. <jf. „Auetor de viris illustr." 34, der die
aqua „Anienem'^ nennt, was oifenbar ein Schreibfehler ist. Eutrop II, 4
nennt sie „aqua Claudia", die erst von Kaiser Claudius ausge-
führt ist). Wie Frontin angiebt (s. oben) hatte man in dem
Thal zwischen dem Caelius und Aventinus ein Mauerwerk von nur 60
Schritt nötig; daraus zieht Kiebuhr mit Recht den Schluss, dass die Gänge
nicht eben sehr tief gelegt waren (R. G. III, 361). Die
aqua Appia war von den 9 Wasserleitungen, die €s zur Zeit des Kaisers
Claudius gab, die zweitniedrigste (Siebert a. a. O. 62). Sie konnte daher
nur den niedrigsten Stadtteilen, der Vorstadt, dem Circus, dem Velabrum,
dem Vicus Tuscus, vielleicht noch der Subura, Wasser zuführen und
selbst diesen kaum in ausreichendem Maasse (Kiebuhr, R. G. III,
361). — Das grössere der Bauwerke des Censors ist jene Heer-
strasse, welche gleichfalls seinen Kamen trägt. Es scheint aber nicht die
älteste ihrer Gattung zu sein ; bei der via Latina und Salaria weist der
Käme auf höheres Alter hin, (Kiebuhr, R. G. III, 359). Die späteren
Heeresstrassen, welche in Italien censorische Bauten (Flaminia, Aemilia)
, in den v" r . -a i. "a >
< 4 4 ~ 26 — Provinzen und im cisalpinisclien
Gallien consularisclie Baute» sind (Aemilia in Gallia cisalpina, Postmnia
ebenda, Doniitia in iS^arbonensis u. a.), sind alle nach ihren Erbauern
genannt;, die via Appia wäre also die erste, bei der dies geschehen
ist, sodass also allgemein das Beispiel des App. Claudius das Recht der
Eponymie für die bauleitenden Beamten hervor- gebracht zu haben scheint.
Es führte die via A])i)ia an der ]\[eeresküste entlang durch die
Städte Terracina, Fuudi, lAIola bis nach Capua. Durch die pomptinischcn
Sümpfe hat erst Trajan die Strasse gebaut. App. Claudius hat durch
dieselben wahrscheinlich, nur einen Damm gelegt, während man als
lleeresstrasse durch die Sümpfe von Velitrae nach Terracina damals
die- via Setina benutzte (Niebuhr, R. G. III, 358). Diodor
berichtet, dass App. Claudius die via Appia von- Rom bis Capua mehr als
1000 Schritte weit zum grössten Teil mit festen Steinen gepflastert habe
(//^o/c; ateoeolg- yxalöTQOJüev), Nissen (Pompejanische Studien S. 519)
meint, dies sei nicht recht: Diodor und seine Gewährsmänner hätten
ihre eigene Zeit vor Augen, wenn sie von der Pllasterung der via Appia
sprächen (ebenso der Verfasser von „de viris illustribus" 34 und
Procop, bell. got. I, 14). Denn erst i. J. 29G sei die erste Strecke der
via Latina saxo quadrato (Peperinplatten, Kiebuhr III, 357. Nissen,
a. a. O.) gepflastert, und zwar eine semita von der porta Ca- pena bis
zum Marstempel, so berichte Livius (X, 23). Dann hätten i. J. 293 die
curulischen Aedilen die Chaussee von dort bis nach Bovillae silice
(Lavapolygonen, s. Niebuhr und Nissea a. a. 0.) zu pflastern fortgefahren
(Liv. X, 47). ]\lir scheint aber durch diese Notizen des Livius das
Zeugnis Diodors noch nicht aufgehoben zu werden. Es ist zwar
zuzugeben,, dass App. Claudius die Chaussee nicht schon mit der
Kunst und in der herrlichen Weise gepflastert habe, wie die römi-
schen Heerstrassen später gepflastert wurden. Aber der Aus- druck Diodors
{yMCtocQtoü'F — bedecken, bestreuen) braucht o-ar nicht von einer
eigentlichen Pflasterung verstanden zu werden; und dann sagt Diodor auch
nur, dass Appius de» grösseren Tlieil (n> 'ixUmy uioog) der Strasseso
ausgeführt habe. Worin die wesentliche Arbeit beim Bau dieser
Chaussee bestand, sagt Diodor mit deutlichen Worten: 7('7r rorrtüv
riwg fdr v7ie()tyoviic^ (hanyMif^as, tov^ (>^ ijcyir/ytodets K y.inhw^
<}vah;ufia(JLV u'^io/jr/oii: fif/rRr^W.c yaniW/AOüF etc... Dass das
Terrain, über welches die Strasse führen sollte, ge- ebnet wurde, Anhöhen
abgetragen und Thäler ausgefüllt wur- den, dass der Grundbau solid und
bequem hergestellt wurde, - darin bestand zunächst die Hauptarbeit, darin
das Ver- dienst des App. Claudius. Deshalb konnte er mit Repht die
Heerstrasse als sein Werk betrachten, und derselben sein Name beigelegt
werden. Keineswegs aber kann sie App. Clau- dius schon ganz in der
grossartigen Weise vollendet haben,, in der sie später den Namen regina
viarum erhielt. Mitten in den pomptinischcn Sümpfen, unmittelbar an
der via legte App. Claudius das forum Api)ii an, das jetzt noch als
Foro Appio existiert (vgl. IMommsen, U. Forsch. IL 309. Niebuhr, 11. G.
HL 358. Lange, Alterth. II, 87). Hier scheint er sich selbst eine statua
diademata gesetzt zu haben,. woraus das Gerücht entstanden ist, dass er
sich Italien per clientelas habe unterwerfen wollen. Denn was Sueton
(Tib. 2> über einen gewissen Claudius Drusus sagt, bezieht sich,
wie Mommsen überzeugend dargethan hat (R. Forsch. II, 305 ff. vgl.
Niebuhr, R. G. HI, 355 ff. und Strebe, xM. L. Drusus, Diss. Marburg
1889), auf unsern App. Claudius. Diodor setzt beim Bericht über die
aqua Appia hinzu r xcd TioUix TOJV dj;iioouov yorjuucor fig icwn.r T/;r
yMiaüxevy- ccn-hoaev avev d(r/itcaü^ zi^g ücyyhpov; und weiter unten
beim Bericht über die via Appia: xtaco7;/.oKJ6v c^tJüc^c,- 7«^*
(5';.«o<^'W nooooöov^ Wir bemerkten, dass in späterer Zeit die
Censoren. in Bezug auf ihre Ausgaben ganz vom Senat abhängig waren^
indem ihnen eine pecunia certa angewiesen wurde. Wenn nun Diodor sagt,
dass App. Claudius die Staatsgelder urfir düyftcnog Tr^s; övyyli[iov
verwandt habe, so kann er entweder me'i'nen, dass zur Zeit des Appius lür
die censorischen Aus- -jviibcii tlas ^)uyitlc iP^^
ar/yli\inv noch nicht nötig gewosen sei, oder, was nilher liegt, dass
App. Claudius venuüge seiner energischen Persönlichkeit sicli von der
Abhängigkeit vom Senate in seinen Geldausgabcn zum öftcntlichen Nutzen
trei- gemaclit habe. Jedenfalls folgt aus der Thatsache, das App.
•Claudius das öoyficc des Senates ganz übergehen konnte, die weitere,
dass die Grenze der Befugnis des Senats und des Zensors bei den
Staatsausgaben nicht gesetzlich scharf ge- zoecen war, und dass das
Schalten der Censoren zu dieser Zeit freier war als später.
Ein drittes Bauwerk, welches App. Claudius ausführte, ist der
Tempel der Bellona d. i. der griechischen 'Evvu) (Liv. X, 19. Ovid, fasti,
6, 203. C. J. L. I, 287: Elogium des Appius Claudius); es fällt dies aber
erst in seine spätere Lebenszeit. Ap]-). Claudius ist es aber entgegen
der Mommsenschen An- nahme (K. Forsch. I, 308) nicht gewesen, der in
diesem Tem- . ■pel die Ahnenbilder seiner Vorfahren autgestellt hat
(vergl. Starck, Verhandlungen der dtsch. rhilologenversammlung zu
Tübingen, Lpz. 1877. S. 38 11".). Auf diese Fragen jedoch brauche
ich, da sie sich nicht auf die Ccnsur beziehen, füglich nicht
einzugehen. Jn der gewaltigen Bautliätigkcit drückt sich sehr
prägnant •der politische Charakter dos Ccnsors und seine politischen
Ten- denzen aus. „Er warf^', sagt ]\Ionnnscn treifend, „das
veraltete Bauernsystem des Si)arschatzsammeln bei Seite und lelirtc
seine ]\Iitbüvger die ölfentlichen jNIittel in würdiger V\Visc zu
gebrauchen'' (R.- G. I, 448). App. Claudius war, wie wir bei allen seinen
politischen Maassnahmen sehen werden, ein De- mokrat, und zwar förderte
er besonders die Verkehrsinteressen, die der städtischen Bevölkerung;
dazu passt vortrefflich, dass wir ihn als Beförderer des griechischen
Einflusses in Kom kennen lernen, was sich sclion in dem Bau eines Tempels
zu Ehren einer rein griechischen Gottheit ausdrückt.
Vortrefflich passt zu solchen politischen Tendenzen die Bauthätigkeit
des App. Claudius .und die Richtung, in der er .sie entfaltete.
Cap. 3. Die Senatsliste und die Rittermusterung des App.
Claudius. Die senatus lectio des App. Claudius ist die erste,
über •welche uns etwas Bestimmtes überliefert ist. Es ist dcshalb-
von liohem Wert, dass wir grade über sie den Bericht eines 80 alten und
bewährten Autors, wie ihn Diodor benutzt hat,, besitzen. Schon zur Zeit
des App. Claudius, das sagt Diodor deutlich, war es Sitte {i}v tO-o^),
die euyerelg und u^uoftuöt nqohyfivieg in den Senat zuzuschreiben
{7Toni:'/ou(fetr). Von- dieser Gewohnheit nun, erzählt Diodor, sei App.
Claudius in- sofern abgewichen, als er nicht bloss diese
hinzuschrieb,- sondern auch viele Freigelassenensöhne darunter niischte-
(avtfu^e jToAAotv ycd ich' dTiF?.8i)0^t()0)v tiovi;), Livius
erzählt zwar zu dem Jahre der Censur selbst nur, dass die senatus lectio
infamis und invidiosa gewesen sei, dass^ sie sine recli pravique
discrimine geschehen sei, dabei potiores- aliquot übergangen seien. Offenbar
berichteten seine Quellen an dieser Stelle nichts Spezielles von der
Senatsliste; und diese hatten die Wahl von Libertinensöhnen in den
Senat ohne Zweifel übergangen, weil eine solche Maassregel dem
hocharistokratischen Charakter, welchen sie dem App. Clau- dius beilegen,
widers])rochcn hätte. Livius selbst aber fügt an einer späteren Stelle
(IX, 4G), die, wie wir darthun werden, aus einer anderen und besseren
Quelle geschö])ft ist, hinzu,, dass App. Claudius den Senat zuerst durch
Libertinensöhne befleckt habe. Auch von anderen
Geschichtschreibern wird die senatus lectio des App. Claudius erwähnt.
Sueton sagt im Leben des Claudius (24) : (Claudius imperator) Appium
Caecum cen- sorem generis sui proauctorem libertinorum tilios in
senatum adlegisse docuit, ignarus temporibus Appii et deinceps ali-
quamdiu libertinos dictos non ipsos qui manu mitterentur sed ingenuos ex
his pracreatos. Aus welcher Quelle Sueton diese Nachricht hat,
wisse» wir nicht; manche neuere Forscher halten sie für richtig;
sie „,cineu also, dass u,>tcr libcrtini ursi,rü,.glich
nicht Frei- gelassene, d. h. ge^-esene Sklaven, sondern deren ^öhne
ver- standen seien (Momnisen, Str. I, 387 f. m. Ann,. Madvg, \ erf.
u Verhalt. I, 137. Siel.crt, Ap,.. Claud. 23 ft. A\ os.senborn. zu Liv
IX, 4C, 1 u. 10). Mommsen, der frülier auch diese Ansicht vertrat, hat
neuerdings seine Meinung etwas geändert (Str III 422 m. Anm. 2 u. 3). In
späterer Zeit hicssen libcrtini diejenigen, welche Servituten, servierunt
oder manu missi .sunt. ■ Wenn nun Sucton sagt, früher seien als
l.bevt.n. die Sühne solcher Freigelassenen bezeichnet, so schen.t er
zu meinen, dass die Freigelassenen selbst liberti genannt seien..
Dies ist aber sprachlich unmöglich, was durch die Analogien divus -
divinus, masculus - masculinus bewiesen wird (W lUenis, le sönat, I, 184
,n. A. 3). Ausserdem widerspricht einer solchen Annahme der feststehende
Unter-schicd der beiden Be- zeichnungen : beide bez-eichnen nämlich
allein den gewesenen Sklaven, nur dass bei libertinus derselbe nach
seiner allge- meinen bürgerlichen Stellung, bei libertus aber nach
dem Verhältniss zu seinem Herrn verstanden wird (Mommsen,
Str. III, 423). . c . A So kann also die Stelle Suetons nicht
gefasst werden. Ernesti meint, Sueton wolle sagen, zur Zeit des
App. Claudius seien nicht bloss die Freigelassenen, sondern auch
ihre Sühne libcrtini genannt. Diese Interpretation setzt allerdings
eine ungenaue Ausdrucksweisc bei Sueton voraus; aber sie kann ja richtig
sein, obwohl auch dies noch unbewiesen bleibt. Es ist ohne jeden Zweifel,
dass alle andern Schriftsteller unter libcrtini nur die Freigelassenen,
und zwar für alle Zeiten, verstehen. Alle beziehen die senatus lectio
unseres Censors auf die Söhne gewesener Sklaven. Diodor nennt die von
App. Claudius in den Senat Aufgenommenen c}Tre).i'^ii>iov wotv,
und von dem i. J. 304 zum curulischen Aedil gewählten An- lönger unseres
Censors, dem Cn. Flavius, sagt er direkt, er sei der Sohn eines gewesenen
Sklaven gewesen (rr«ro<.,- «»■ dsdov/.suxöms). Hiermit stimmen alle
andern Gewährsmänner überein: Livius (IX, 46), der Kaiser Claudius
(Sueton 1. c), l Tacitus (ann. XI, 24),
Plutarch (Pomp. 13). Wir werden -also mit diesen Autoren annehmen müssen,
dass Söhne von Freigelassenen, niclit Enkel, wie Sueton meint, von App.
Clau- <lius in den Senat aufgenommen seien. Wertlos ist
die Angabe des Verfassers von „de viris illustribus" (34), dass App.
Claudius Libertinen selbst in den Senat aufgenommen habe. Die
Freigelassenen selbst wie ihre Söhne waren eben, ^a sie mit dem Makel der
Knechtschaft behaftet waren, ob- Äwar nicht durch Gesetz, sondern nur
durch das Herkommen Tom Senat wie von der l\Iagistratur ausgeschlossen
(Mommsen, Str. l, 459 f.)» während die Enkel der Freigelassenen zu
allen Zeiten zu den ingenui gehört haben (Mommsen, Str. III, 422),
und von den plebejischen Geschlechtern, deren Glieder im Senat sassen ,
stammen sicher manche von Libertinen ab (Willems, le s^nat, I, 188).
Indem nun App. Claudius I.iber- tinensöhne in den Senat wählte, warf er
den staatsrechtlichen Usus, wonach sie vom Senat und von der Magistratur
aus- geschlossen waren, um. Und dies ist der Grund, weshalb die
senatus lectio unseres Censors für so schimpf lieh galt und den Adel aufs
äusserste erbitterte (Diod. 1. c. : i(p' olg ßaQtvf^ i'(feQOV oi
yMVXiouaroi 7a/> Fvyeveiai;). Il2in hat nun die von App.
Claudius in den Senat auf- genommenen Libertinensöhne näher bestimmen zu
können ge- glaubt. Willems meint, es seien solche Libertinensöhne
ge- wesen, welche seit dem .1. 318 v. Chr. Volkstribunen gewesen
.seien (le senat, I, 185 m. Anm. 5). In dieses Jahr ungefähr setzt
nämlich Willems die lex Ovinia, durch welche bestimmt wurde, dass optimus
quisque ex omni ordine — d. h. nach Willems omni ordine magistratuum et
curulium et plebeiorum in den Senat gewählt werden sollte. Nach
diesem Gesetze * hätten, meint Willems, nicht bloss gewesene
Consuln, Prätoren, <>urulische Aedilen, sondern auch Volkstribunen
und plebejische Aedilen gewählt werden müssen (I, 157 f.).
Dass die von App. Claudius in den Senat gewählten Libertinensöhne
gewesene Volkstribunen seien, glaubt Willems
daraus folgern zu können, dass zu diesem Amte welches zehn Männer jedes
Mal zusammen bekleideten, d,e L.bertmensohne leichteren Zutritt hatten
als zu irgend einem andern Wir wissen niehts darüber, dass in dieser Zeit
schon em L.ber- tinensohn zum Volkstribunat gelangt sei; L. Macer L.v
IX, 46, 3), dessen Zeugnis sehr wenig gilt, überliefert allem dass
Cn. Fiavius vor seiner Aedilität (i. J. 304) sclK,n Volkstnbun gewesen
sei. Es ist dies aber sehr unwahrschemhch, da vor ier Tribusänderung des
App. Claudius das St.mmrecht d r niedri-en Bürger in den Tributcomitien
wenig Gewicht hatte (s. unten). ,. ^ , xj„„;i Wie
hypothetisch dieser Schluss ist, liegt auf der Hand.. Und dass überhaupt
die gewesenen Tribunen hätten in der. Senat gewählt werden müssen, ist
nichts als Vemmtung. Willems behauptet es nach seiner Auslegung der lex
Ovinia. Ich habe mich auf diese Frage, weil sie memem Ziele fern
liegt, nicht einzulassen, will nur erwähnen, dass m der lex Ovinia unter
omnis ordo, aus dem optimus quisque m den Se- „at gewählt werden sollte,
nicht omnes ordines magis ra uum et curulium et plebeiorum (Willems a. a.
OO, auch nicht blos. ordines magistratuum curulium (Lange, R. Alterth. I,
«U de plebiscito Ovinio et Atinio. Progr. 7 ff.) zu vers eben sind
sondern dass die Worte am einfachsten und natürlichsten als der gesamte
Bürgerstand zu fassen sind (Hotmann, der rom. Senat S 7 ff., Becker,
Handbuch, II, 2, 300 .Herzog Gesch. u. System 1,882 f. Mommsen, Str. H,
39o, 397 -• Anm^ 1). Die senatus lectio des App. Claudius war nicht
bloss wecen der Aufnahme von Libertinensöhnen anstössig, sondern
auch deshalb, weil App. Claudius nicht, wie es die Censoren zu thun
hatten, die anrüchigen Senatoren ausstiess (Diod. 1. c. o,]J^m rc.>
döo^ocvTcov avyy2rjry.ä^v tS^ßale), Beachten wir aber den Grund, welchen
Diodor für diese Maassregel angiebt: Weil App. Claudius, sagt er, sich
bei den Patriziern äusserst verhasst gemacht habe, so mied er es, bei
irgend einem an- dern Bürger anzustossen, und in dieser Absicht
unterliess er auch die Reinigung der Senatsliste von anrüchigen
Personen VeOTUTOL^ TÜV (fd^üVOV^ i^l'xklVF TO TlQOOXÜTlTeiVTlVt liOV
tikXcüV tioXltwv .... xai xaia rtiv riov owtö^icüv xarayQatfr^v
ovdh'ct etc. Diod. 1. c). In demselben Gedanken nahm er auch
bei der Rittermusterung (equitum recognitio oder census) keinem sein
Ritterpferd (Diod. : xa) xara Trjv tcüv ltitifhov doxLf.iaolav ovdh'a
difFiXero Tov 'iTtJiov), Es ist dies die einzige Notiz, welche wir
über die Rittermusterung des App. Claudius haben. Sein Auftreten
dabei steht aber im Einklang mit seiner politischen Stellung, die Diodor
mit den Worten bezeichnet: ccvTiTayf^a xaxaaxF vciCiov Die
Senatsliste unseres Censors ist aber bald wieder um- gestossen worden.
Die Consuln beriefen, so erzählt Diodor, aus Hass und zugleich um sich
dem Adel gefällig zu zeigen, den Senat nach der früheren Liste,
{sid^" ol fih v^raTot did zov (fMvov xal did to ßovkEöd^ai rolg
sTiKpavsaTaTOic; /«(»/Led^ar övvijyov irjv GvyxXr^cov etc. Diod. 1.
c.) Damit stimmt Livius über ein (IX, 30, 1,2): Consules
negaverunt eam lectionem observaturos esse et senatum ex- templo
citaverunt eo ordine, qui ante censores App. Claudium et C. Plautium
fuerat. Diodor erzählt die Zurückweisung der appianischen Senats-
liste zu demselben Jahr, wo App. Claudius sein Amt antrat (310 V. Chr.).
Daraus darf man aber nicht schliessen, dass es von den Consuln dieses
selbigen Jahres geschehen sei. Das war nicht der Fall, nicht sowohl, weil
Livius, der den Amtsantritt des App. Claudius in das Jahr 312 setzt, die Zurückweisung
der Senatsliste zum folgenden Jahr 311 erzählt und den Con- suln d.
J., C. Jun. Bubulcus und P. Aem. Barbula, zuschreibt, als deshalb, weil
die Censoren nach den Consuln und zwar unter ihrem Vorsitz gewählt
wurden, im ersten Jahr der Cen- sur also immer der Senat schon in der
früheren Ordnung zu- sammen getreten war (Mommsen, Str. II, 396). Und
diese Annahme widerstreitet dem Diodor keineswegs, da er öfters
Ereignisse, die sich auf mehrere Jahre verteilen, zusammen erzählt, wofür
die Erzählung der Gallierkriege (Diod. XIV, 113 ff) ein klares Beispiel
giebt. Diodor deutet d,es an unserer Stelle klar genug an, indem er die
Zurückwe.sung der Senatsliste zugleich mit der ebenfalls nieht m das
Jahr 310 .gehörenden Wahl des Cn. Flavius zum Aedden am Schlüsse seines
Berichtes erzählt und mit dra anknüpft. Wenn wir nun mit Diodor den
Amtsantritt des App. Claudius h. d. J. 310 setzen, so müssen --
J"-'™-: ^^^JJ die Senatsliste von den Consuln des Jahres 308 -oO.» ^
em Diktatorenjahr - umgestossen ist. D.ese waren (f 1 abms und P
Decius (Diod. XX, 37). Es sind d.es dieselben Manner, welche als Censoren
i. J. 304 die Tribusänderung des App. Claudius rückgär>gig machten (s.
unten). Wir sähe,, m d.esem von der Kritik hergestellten Zusammentreften
emen kratt.gen Beweis für die Richtigkeit des chronologischen
Ansatzes Aus den Angaben Diodors folgt, dass schon die Vor-
gänger des App. Claudius und C. Plautius in der Censur eine lenatsliste
aufgestellt haben; er sagt ausdrücklich, dass die Consuln den Senat
berufen hätten o*^ ir:v vm> tinnov y.ara- }a^^8lmv dl/M t^v vn.) u^n'
.r^oy. /fr^7'^ rrn- xt//yo>r yaia^'oaifeiaar. Diese unzweideutige
Angabe scheint mir ent- scheidend für eine weitere Streitfrage , welche
sich an die Senatsliste des App. Claudius knüpft. Es ist nämhch die
An- Sicht aufgestellt worden, dass die senatus lectio des App.
Claudius überhaupt die erste censorische sei, und dass die lex Ovinia,
welche das Amt der Senatswahl von den Consuln auf die Censoren übertragen
hat, im Jahre der Censur des App. Claudius oder kurz vorher gegeben
worden sei. Die lex Ovinia ist uns von Festus an einer etwas verderbten
stelle überliefert (p. 246 ed. Müller: praete riti senatores
quondam in opprobrio non erant, quod ut reges sibi legebant
sublege- bantque, quos in consilis publico haberent, ita post
exactos eos consules quoque et tribuni militum c. p.
coniunctissimos sibi quosque patriciorum et deinde plebeiorum legebant,
donec Ovinia tribunicia intervenit, qua sanctum est, ut censores
ex omni ordine optimum quemque legerent, quo factum est, ut >qui
praeteriti essent et loco moti haberentur ignominiosi"). Über die
vielen Streitfragen in Bezug auf dies Plebiscit vgl. Hofman, der röm.
Senat S. 3 if. Willems, le senat, 153 ff. u. a. Uns geht nur die Frage
nach der Datierung an. Dieselbe ist nicht überliefert. Man
bringt nun die lex Ovinia in engen Zusammenhang mit der senatus lectio
des App. Claudius (Mommsen, Str. II, 395 m. A. 1. Willems, le senat, I,
185 ff.). Es gebe, so meint man, kein anderes Beispiel dafür, dass eine
censorische senatus lectio von den Consuln umgestossen sei. Und
wenn die Censoren schon lange diese Befugniss gehabt hätten, so
hätten die Consuln nicht gewagt, die appianische Senatsliste zu
ignorieren. Wenn man dagegen annehme, dass App. Clau- dius und C.
Plautius zum ersten Male als Censoren den Senat zusammengesetzt haben, so
erkläre es sich leicht, dass die Consuln, zu deren Amtskreis bis dahin
die Senatswahl gehörte, die Liste des App. Claudius hätten umstossen
können, zumal dieselbe gegen Gesetz und Herkommen Verstössen habe.
Es ist diese Deduction reine Hypothese; von unsern Quellen w^ird
als Grund der Verwerfung der appianischen senatus lectio ganz allein ihre
Ungesetzlichkeit oder vielmehr ihr Verstoss gegen das Herkommen angegeben
; und es scheint dies zur Erklärung auch völlig zu genügen.
Zudem sagt ja Diodor mit klaren Worten, dass schon die früheren
Censoren den Senat gewählt hätten, und diesem •bestimmten und guten Zeugnis
glaube ich mehr Gewicht bei- legen zu müssen als den unbestimmten Worten
des Livius (IX, 33 senatum citaverunt eo ordine qui ante censores
App. Claudium et C. Plautium fuerat). Wir werden also den Er- lass
der lex Ovinia jedenfalls vor das Jahr 318, wo die Amts- vorgänger des
App. Claudius Censoren wurden, setzen. Ge- nauer dem Datum nachzuforschen
ist nicht meine Aufgabe. Allerdings können wir in der Umstossung
der appiani- schen senatus lectio von Seiten der Consuln noch einen
Nach- klang eines ehemals senatorischen Rechtes bemerken. Die
Consuln vom J. 308 werden sich bei ihrer That ohne Zweifel darauf berufen
haben, dass die Senatswahl ursprünglich ein consularisches Recht
war. Was ist nun von der Senatsliste unseres Censors zu ur-
teilen? Welche politische Absicht verfolgte er bei der Ein- wahl von
Libertinensöhnen? Auch hierüber bestehen die grössten Differenzen
zwischen den neueren Forschern. Nie- buhr (R. G. III, 344 ff".) und
mehrere Anhänger (Lange, R. Alterth. II, 78, 79. Herzog, Gesch. u. Syst.
I, 271. Siebert, App. Claudius 44, 45) halten an dem Grundcharakter
fest, welcher der Politik des App. Claudius von Livius bei- gelegt wird,
d. h. sie meinen, App. Claudius sei ein strammer Aristokrat gewesen und
habe nur die hohe und höchste No- bilität mit allen seinen censorischen
Maassregeln fördern wollen. Diesem politischen Charakter widerspricht nun
off'enbar die senatus lectio, durch welche die niedrigste
Bevölkerungsklasse der Libertinen begünstigt wurde, sowie auch die Tribusänderung
des App. Claudius. Auf eigenthümliche Weise suchen die ge- nannten
Forscher diesen Widerspruch zu lösen. Der Adel, so führt Niebuhr aus, und
also auch der Senat zerfalle damals in zwei Klassen, die patrizische
Kobilität, welche schon sehr ab- genommen habe, und die plebejische
Nobilität, welche jene zu überflügeln drohe. App. Claudius nun, selbst
aus einem alt- und hochadligen Geschlecht stammend, habe seine ganze
poli- tische Thätigkeit in den Dienst des alten patrizischen Adels
gestellt und den plebejischen Adel herabdrücken wollen. Dies erkenne man
aus seinen späteren Thaten: J. J. 299 v. Chr. habe er gegen die lex
Ogulnia gestimmt (Liv. X, 7), als Kandidat für das Consulat (Liv. X, 15)
i. J. 295 und als interrex (Cic. Brutus XIV, 55) habe er mit aller Macht
da- nach gestrebt, dass die Patrizier die beiden Consulnstellen
wieder erlangten (Niebuhr, R. G. 353). Durch die Aufnahme von
Libertinensöhnen in den Senat, dessen grösster Teil schon damals dem
plebejischen Adel angehört habe, habe er diesen nur insultieren und sich
dafür rächen wollen, dass er bis jetzt, eben durch die Verhinderung des
plebejischen Adels, noch nicht zum Consulat gelangt sei (R. G. III, 345).
Andere fingieren eine sog. „Coalitionspartei" (Siebert, a. a. O.
45), deren Ziel gewesen sei, eine enge Verbindung zwischen der
patrizischen und plebejischen Nobilität im politischen Leben
herzustellen. Gegen diese sei besonders die politische Thätig- keit
unseres Censors gerichtet gewesen. Um sie herabzu- drücken, habe er die
Libertinensöhne in den Senat aufge- nommen, damit sie die Zahl der
Anhänger der alten Nobilität vergrössern sollten. Die
UnWahrscheinlichkeit steht dieser Ansicht an der Stirn geschrieben. Sie
könnte sich allein stützen auf zwei Angaben des Livius, wo dieser den
App. Claudius nach seiner Censur altpatrizische Standesvorrechte
vertreten lässt. Dass diese aber Dichtungen sind, erfunden nach der
bekannten Claudier- schablone, werden wir in anderm Zusammenhange
nachweisen (s. unten). Wir fassen die politische Bedeutung der
Senats- liste in dem positiven Sinne, dass App. Claudius
Libertinen- söhne in den Senat aufnahm, weil er das libertinische
Element und überhaupt die niederen Volksschichten begünstigte und in
ihren politischen Rechten fördern wollte. Die Demagogie, die sich in der
appianischen senatus lectio, wie in der ge- sammten censorischen
Thätigkeit ausdrückt, ist in dem Berichte Diodors klar gesagt, was selbst
die Gegner zugeben müssen {Siebert, a. a. 0. 21). C a p.
4. Die Tribusänderung des App. Claudius und ihre Verwerfung
durch die Censoren d. J. 304 v. Chr., Q. Fabius und P. Decius. Die
Änderung, welche App. Claudius mit der Tribus- ordnung vornahm, gilt
allgemein als die wichtigste und ein- schneidendste seiner censorischen
Maassregeln. Sie wurde schon von den zweiten Nachfolgern des App.
Claudius und O. Plautius, den Censoren Q. Fabius und P. Decius d. J.
304 V. Chr., umgestossen; daher ist diese Censur in den
Rahmen unserer Betrachtung mit hinein zu ziehen. Über die
Tribusänderung des App. Claudius liegen un& drei Berichte vor :
Diodor XX, 36. Livius IX, 46. Plutarch, Popl. 7. Die Gegenmassregel des
Fabius erwähnen: Liv. IX^ 46. Val. Max. II, 2, 9 und der Auetor de viris
illustribus 32^ von denen die beiden letzten Angaben wertlos sind.
Diese Berichte sind aber weder hinlänglich ausführlich und klar,
noch stimmen sie so überein, dass sie, aus einander ergänzt, ein genaues
und deutliches Bild von des Appius Claudius Tribusänderung geben. Zudem
wissen wir im übrigen vom Wesen der Tribus, ihrer Bedeutung und
praktischen Ver- wendung im Staat äusserst wenig. Es kann daher
nicht Wunder nehmen, dass dies Edikt des App. Claudius von seiner
gesamten censorischen Thätigkeit am meisten umstritten ist. Vieles
freilich, was von den Gelehrten zur Begründung ihrer Ansichten über die
Tribusänderung des App. Claudius vor- gebracht wird, ist lediglich
Vermutung; und wenn derselben auch bei der Knappheit der Überlieferung
Raum gegeben wird, so scheint mir doch das, was vermutet und aus
der Überlieferung gefolgert wird, von dem, was wirklich unzwei-
deutig überliefert wird, streng geschieden werden zu müssen. In Bezug auf
die Überlieferung unseres Gegenstandes ist die Grundfrage, welchem
Berichte wir das Hauptgewicht beilegen sollen, ob dem diodorischen oder
dem livianischen. Nach unsern Erörterungen im ersten Kapitel über den
Wert und das Verhältnis der beiden Quellen ist die Frage für uns
schon dahin entschieden, dass wir von Diodors Berichte auszugehen
und ihn zu Grunde zu legen haben. Wenn seine Angabe auch äusserst kurz
ist, so werden w^ir doch finden, dass sie, genau und wortgetreu
ausgelegt, das Edikt des Censors über die Tribusänderung in der knappsten
Weise, vielleicht mit den Worten des Ediktes selbst, richtig wiedergiebt,
ohne frei- lich seine Bedeutung oder Wirkung auch nur zu berühren.
Den Bericht des Livius glauben wir zur Ergänzung heran- ziehen zu dürfen,
wir haben Gründe dafür, dass er da, wo er von der Tribusänderung des App.
Claudius und ihrer Ver- werfung durch Q. Fabius spricht, aus einer
besseren Quelle schöpft, als sein hauptsächlicher Gewährsmann dieses
ganzen Abschnittes ist (s. unten), und wir werden sehen, dass seine
Angaben in Bezug auf die Wirkung der appianischen Tribus- änderung mit
den Schlüssen, die wir aus Diodors Worten ziehen müssen, wohl
übereinstimmen; daher werden wir auch seinen Angaben über die Censur des
Fabius, wo er die einzige Quelle ist, und w^elche er offenbor von
demselben Gewährs- mann hat, in gewissem Grade Vertrauen entgegen
bringen. Erörtern wir zunächst kurz, was wir von der Tribus-
ordnung vor der Censur des App. Claudius, ihrem Wesen und ihrer Bedeutung
weissen, weil dies notwendig zum Ver- ständnis der appianischen Änderung
ist. Die Tribus sind von Haus aus lokale Bezirke. Das be-
weisen viele Quellenbelege (Dionys IV, 14. Liv. I, 43. Verrius Flaccus b.
Gellius XVIII, 7. Laelius Felix b. Gelhus XV, 27), die ich in anderm
Zusammenhang, wo ich erörtere, wie die lokale Grundlage der Tribusordnung
zu fassen ist, behandeln werde. Das beweisen vor allem die Namen
der einzelnen Tribus. Zunächst haben die 4 städtischen Tribus
örtliche Namen: Die Sucusana von der Sucusa (Subura) (Jordan, Topogr. v.
Rom I, 185 f. 199), die Esquilina vom mons Esquilinus (Jordan I, 183 f.),
die Palatina vom mons Palatium (Jordan, I, 182 f.), die Collina vom
collis sc. Qui- rinalis (Jordan, I, 180 f.). Alsdann ist die lokale
Grundlage evident für alle in historischer Zeit seit 389
errichteten Tribus, deren Namen von Seeen, Flüssen, Städten ge-
nommen sind oder sonstigen örtlichen Ursprungs sind (vgl. Moramsen, Str.
III, 171 A. 1—8. 172 A. 1—9. Kubit- schek, de Rom. tribuum origine et
propagatione bei Be- handlung der einzelnen Tribus). Wenn die ältesten
sechszehn Tribus auch nach alten patrizischen Geschlechtern genannt
sind, so gilt für sie dennoch dasselbe örtliche Prinzip: es wird z. B.
neben der Tribus Pupinia der ager Pupinius ge- nannt (s. Kubitschek a. a.
O. S. 10). Grotefend vermutet, dass erst i. J. 495 mit der Tribus
Crustumina die Lokaltribus ein- gerichtet sei (Imp, Rom. trib. descr. S.
3). Aber dem ist entgegen zu halten, dass doch die tribus urbanae, welche
nach der Überlieferung zuerst geschaffen sind, schon Namen ört-
lichen Ursprungs tragen. Die Benennung von 16 Tribus nach
patrizischen Ge- schlechtern erklärt man so, dass die Tribus von der
gens, deren Grundbesitz der Tribusbezirk umfasste, den Namen er-
halten habe (Mommsen, Str. III, 168). Das die Geschlechter im frühesten
Gemeindeleben Roms von grosser Bedeutung gewesen sind, ist ohne Zweifel,
und es kann leicht sein, dass, als das damals noch kleine römische Gebiet
in Tribus zerlegt wurde, die einzelnen Tribus nach den Geschlechtern
genannt wurden, deren Grundbesitz hauptsächlich den Tribusbezirk
bildete. Aber es kann ja auch möglich sein, dass die gentilizischen
Namen erst später erfunden sind. Genug, der Grundsatz, dass die Tribus
ursprünglich Territorialbezirke sind, wird allgemein anerkannt. Nur ist
man uneinig, in welcher Weise die lokale Grundlage der Tribus zu fassen
ist. Damit hängen aufs engste die verschiedenen Ansichten von der
Tribusänderung des App. Claudius zusammen. Mommsen fasst die
lokale Grundlage der Tribus in eigen- tümlichem Sinne, er meint, dass die
Tribuseinteilung anfangs nur eine Einteilung des römischen
Privatgrundbesitzes (ager privatus) gewesen sei (Rom. Trib. 17, 151 ff.
Rom. Forsch. I, 151). „Die Tribus, sagt er bei der neuesten und
ausführ- lichsten Auseinandersetzung dieser seiner Ansicht (Rom.
Staatsr. III, 164), kommt nur dem Grundstück zu, welches im quiri-
tischen Eigentum steht oder stehen kann. Die Einzeichnung von
Grundstücken in die Tribus ist nicht Folge der Grenz - erweiterung ,
sondern der Ausdehnung des Privateigentums, mag diese nun erfolgen durcii
die Adsignation von Gemeinde- land an römische Bürger, wohin namentlich
die Gründung der Bürgerkolonien gehört, oder durch Aufnahme von
Halb- bürger- oder Nichtbürgergemeinden in das Vollbürgerrecht."
Der ursprüngliche Privatbodenbesitz ist nach Mommsens Ansicht der an Haus
und Garten (Str. III, 24). Dann wurde das personale Eigentum ex iure
Quiritium auf den Orundbesitz überhaupt übertragen, was dasselbe ist als
die Erstreckung der Tribus von der Stadt auf die Flur (Str. III,
166, 168). Demnach hat sich die Tribuseinteilung anfangs (bei der
Giündung durch Servius TuUius) nur auf die Stadt bezogen (Str. III, 166)
und ist erst, als die Flur quiritisches Eigentum ward, auf sie bezogen
worden. Diese Übertragung ivird ausgedrückt durch die Einrichtung der 16
ältesten Tribus, ivelche ihre Namen von den Geschlechtern, deren
Grundbesitz sie umfassten, erhielten: die Flur war ja Anfangs
lediglich Geschlechtsbesitz und zerfiel in Geschlechtsäcker, deren
Auf- teilung eben die Einrichtung der ältesten ländlichen Tribus
bedeutet (Str. III, 168, 170). Aus der Bodentribus ist die
personale abgeleitet ; und da «ich die Bodentribus anfangs nur auf den
ager privatus bezog, so folgt für Mommsen daraus, dass ursprünglich nur
die Römer die Tribus hatten, welche am ager privatus ex iure
<5uiritium partizipierten d. h. anfangs standen nur die An- sässigen
(adsidui-adsidentes, locupletes = qui in loco sunt) in den Tribus, einerlei
ob dies Patrizier oder Plebejer waren (Rom. Forsch. I, 151 f. 154. Rom.
Trib. 151 ff. Str. II, ^71 f. Str. III, 182 ff.). Der Besitzer von
Privatgrund- stücken stand in der Tribus, in welcher sein Grundstück lag
; und mit dem Grundstück ist die personale Tribus von dem jedesmaligen
Besitzer gewonnen und verloren worden. Die Personaltribus ist also
wandelbar (Str. II, 372), während die Bodentribus unwandelbar ist, indem
das einer Tribus zuge- schriebene Grundstück späterhin nicht in eine
andere über- tragen werden kann (Str. II, 371; III, 162). Die
Tribus in personaler Hinsicht umfassen also die ge- samte Bürgerschaft,
Patrizier wie Plebejer, welche am ager privatus partizipieren. Aber dies
ist keineswegs die Gesamt- bürgerschaft (R. Str. III, 182. R. Forsch. 154).
Alle nicht ansässigen Bürger stehen eben ausserhalb der Tribus.Die
personale Tribus ist nun der Inbegriff aller Pflichten ' und Rechte,
welche dem Bürger aus der Bodentribus er- wachsen ; sie ist das Zeichen
desjenigen Bürgers, der zur Be- steuerung und Aushebung fähig ist und das
Stimmrecht be- sitzt. Steuer-, Heer- und Stimmordnung beruhen auf
der Tribusordnung, sodass die Tribulen, d. h. die Ansässigen, und
nur diese, nach Tribus diesen ihren Pflichten und Rechten nachkamen. Was
zunächst die Kriegspflicht imd das Stimm- | recht betrifft, so gilt für
beides die Tribus als Qualifikation^ nur mit dem Unterschied, dass diese
schlechthin an den Grund- besitz, Dienstpflicht und Stimmrecht dagegen an
einen Minimal- satz von Grundbesitz geknüpft ist (III, 247). Denn
wenn auch die 5 Abstufungen, welche König Servius in Heer- und
Stimmordnung geschaffen hat, in Geldansätzen überliefert sind^ so sind
diese doch anfangs vermutlich in Landmaass aus- gedrückt (s. Gründe
Mommsens Str. III, 247): die 1. Klasse hat den Besitz einer Hufe
(wahrscheinlich c. 20 iugera) und die vier niederen den Besitz einer
Dreiviertel-, Halb- Viertel- und Kleinstelle (c. 20 jug.) erfordert,
während Eigentümer von kleinerem Grundbesitz nicht zu den Grund-
besitzern gezählt sind (Str. III, 248). Innerhalb dieser Grenze war die
Bürgerschaft, von den Censoren in Centurien formiert und zwar nach dem
Prinzip der gleichmässigen Verteilung der Tribulen einer jeden Tribus in
sämtliche Centurien, zu Waflendienst und Abstimmung berechtigt. Die
Nichtgrund- besitzer und Vermögenslosen gehörten in eine
Zusatzcenturie (accensi velati), deren Stimmrecht aber bei ihrer Masse
illu- sorisch war (Str. III, 284), und die zwar in der Ordnung des
exercitus centuriatus ihre Stelle hatten, aber vom Waffendienst
ausgeschlossen waren (Str. III, 281, 82). Zwischen der Heer- und
Stimmordnung einerseits und der Steuerordnung anderer- seits bestehen
nach Mommsen keine inneren Beziehungen (III, 230). In älterer Zeit ist
nur Grund und Boden und das, was wesentlicher Bestandteil der
Ackerwirtschaft ist (Sklaven, Zug- und Lastvieh), steuerpflichtig.
Indessen gilt dies nur für die Grundbesitzer, d. h. die Tribulen. Ihnen
entgegengesetzt sind die Aerarier „die Steuerpflichtigen" im
eminenten Sinn, diesehaben nämlich nach Mommsen von Haus aus Steuern vonL
sämtlichen Mobiliarvermögen entrichtet, während sie, wie wir erwähnten,
in Heer- und Stimmordnung nur scheinbar berück-^ sichtigt waren.
Späterhin, es scheint ziemlich früh, setzt Mommsen hinzu, wurde das
tributum allgemein, also auch für die Grundbesitzer, zur Vermögenssteuer;
so war also der Gegensatz zwischen Grundbesitzern (= Tribulen) und
Arariern in Frage gestellt (Str. II, 262 ff.). Unmittelbar hieran
knüpft Mommsen seine Ansicht über die Tribusänderung des Censors
Appius Claudius. / Bleiben wir zunächst hier stehen. Wir haben das
System Mommsens von dem Wesen und der ursprünglichen Bedeutung^ der
Tribus kurz in seinem Zusammenhang dargelegt, um zu zeigen, wie der Grundgedanke
des Systems, dass der Grund- besitz ursprünglich das Requisit für den
römischen Vollbürger gewesen ist, zwar consequent, aber zu sehr
schematisch und doktrinär durchgeführt ist , und um nun unsere Kritik
der Mommsenschen Ansicht anzureihen und unsere eigene ab- weichende
Ansicht zu entwickeln. In den späteren Zeiten der römischen
Geschichte, seit dem Bundesgenossenkrieg, war der lokale
Zusammenhang der Tribus, welcher bei einer Bodeneinteilung jedenfalls
ur- sprünglich vorauszusetzen ist, völlig zerstört. Nach dem ge-
nannten Kriege, durch welchen die meisten bisher bundes- genössischen
italischen Städte und Staaten das römische Vollbürgerrecht und damit die
Tribus erlangten, verteilte man die neuen Vollbürgergemeinden in die
bestehenden 35 Tribus, sodass nun die einzelnen Tribus, lokal gefasst,
aus zerstückelten, über ganz Italien verbreiteten Landcomplexen
bestanden. Eine Zusammenstellung der zu den einzelnen Tribus gehörigen
Ge- meindeterritorien ergiebt die Italia tributim descripta (Cic. de
pet. cons. 8, 30), welche Grotefend mustergültig, soweit es möglich,
rekonstruiert hat („Imperium Romanum tributim descriptum" Hannover
1863 vgl. Kubitschek, de Romanarum tribuum origine et propagatione.
Abhdl. des arch. - epigr^ Seminars. Wien 1882). Schon in Italien
schrieb man grössere Territorien einer bestimmten Tribus zu (wie z. B.
Calabrien der Fabia, Campanien der Falerna, u. a. vgl. Kubitschek 1.
c. S. 74) *, und in der Kaiserzeit, als der Zuwachs des römischen
Gebietes immer grösser wurde, pflegte man oft ganze Länder- massen
einzelnen Tribus einzuverleiben (so wurden die neuen Vollbürgergemeinden
von Spanien der Quirina und Galeria, die von Gallia Narbonensis der
Voltinia zugeteilt vgl. Kubit- schek S. 199). Indem eine
Gemeinde in das Vollbürgerrecht aufge- ] nommen wurde, wurden alle in ihr
heimatsberechtigten frei- gebornen Bürger einer bestimmten Tribus
zugewiesen. Sie ist also der Ausdruck der Zugehörigkeit 1. zur
communis patria Roma und 2. zur Sonderheimat, der domus (origo) und
der aus dieser Zugehörigkeit erwachsenden politischen Pflichten und
Rechte; sie ist das Zeichen der Heimatsberechtigung in einer römischen
Vollbürgergemeinde. Es ist dies inschriftlich so ausgedrückt und sehr
vielfach belegt, dass hinter den Namen die Bezeichnung der Ingenuität,
der Tribus und des Heimatsortes gesetzt wird. (Z. B.: L. Cornelius. L. F.
Vel. Secundinus. Aquileia. Grotefend. S. 31.) Die Qualifikation für
die Tribus ist die Ingenuität: Jeder Freigeborne in einer neuen Vollbürgergemeinde
erhält die Tribus seiner Heimat und damit eine persönliche und erbliche
Rcchtsqualität, die nicht durch Adoption (Grotefend S. 23) noch durch den
In- <iolat, selbst wenn der Übergesiedelte zu Magistratswürden
in ,€einem neuen Wohnort gelangte (Grotefend 21), affiziert wurde.
Kur bei Aussendung einer römischen Colonie (colonia <5ivium Romanorum)
mussten die Ausgesandten ihre ange- stammte Tribus mit der Tribus der
Colonie vertauschen (Grote- fend, S. 15). In der Auff'assung
dieser Bedeutung der jüngeren Tribus, wie wir sie hauptsächlich aus den
Inschriften kennen, herrscht im allgemeinen Übereinstimmung (Grotefend.
Vorbemerkungen. Mommsen, R. Forsch. I, 151 fl". R. Str. HI, 178 ff*.
780 fF.). Mommsen, der als Qualifikation für die Tribus älterer
Form 45 den Grundbesitz annimmt , giebt
nun selbst zu , dass die spätere Tribus vom Grundbesitz unabhängig
gewesen sei. Er hat also die Pflicht zu erklären, wie und wann sich
diese radikale Veränderung im Wesen der Tribus vollzogen haty. dass
aus der Tribus, welche das Zeichen der Ansässig- keit ist, die Tribus
geworden ist, welche die origo, die Heimatsberechtigung in einer
Vollbürgergemeinde ausdrückt. Staatsrecht II, 341 A. 2 nennt er dieselbe
eine ebenso bekannte und sichere wie in ihrer Entstehung schwierig
zu erklärende Umgestaltung. Er giebt zu, dass über das Auf- kommen
der theoretisch wie praktisch gleich tief einschneiden- den Änderung
nichts berichtet werde (Str. III, 781). Aber sie stimme so vollkommen mit
der Tendenz des Bundes- genossenkriegs, dass sie mit voller Sicherheit
auf ihn zurück- geführt werden könne. Er beschreibt dann die
Änderungen^ welche seit Einführung des neuen Prinzips mit den
Tribus- verhältnissen in lokaler und personaler Hinsicht
vorgenommen sein müssten (Str. III, 782 ff".). Was die Stadt Rom
selbst angehe, so sei auch für ihre Bürger, die füglich keine
Sonder- heimat und also keine Ortsangehörigkeit hätten, irgend
einmal durch Gesetz die Tribus als eine persönliche und erbliche
vom Grundbesitz unabhängige Rechtsqualität fixiert worden, sodass jeder
Bürger diejenige Tribus, die er infolge seines dermaligen Grundbesitzes
eben inne hatte, als persönliche über- kam und auf seine Nachkommen
vererbte (R. Forsch. I, 153). Die Patrizier hätten sich die Tribus selbst
gewählt bei dem Eintreten der neuen Ordnung: daher komme es, dass
zwei der ältesten Patriziergeschlechter, die Aemilier und Manlier,
in der Palatina erschienen, die ihrem Adelstolz durch diese Tribus des
königlichen Rom hätten Ausdruck geben wollen. (Str. III, 789.)
Die Auff'assung Mommsens von der lokalen Grundlage der Tribus ist
also die, dass dieselbe sich anfangs auf den ager privatus Romanus, und
personal auf die Ansässigen bezogen habe, später dagegen auf das
Territorium einer Vollbürger- gemeinde und personal auf alle freigeborne
in diesem Territorium Heimatsbereclitigten ; die Entwicklung vom ersten
zum letzten Prinzip liabe sich im Bundesgenossenkrieg vollzogen.
Abgesehen davon, dass die jüngere und ältere Tribus nach dieser
Auffassung nicht die geringste Verwandtschaft mit ein- ander haben,
sondern etwas ganz und gar Fremdes, Ver- schiedenes, ja Entgegengesetztes
ausdrücken, würde es doch äusserst merkwürdig sein, wenn eine solche gänzliche
Um- wandlung der rechtlichen Bedeutung der Tribus auch nicht die
geringste litterarische Spur hinterlassen hätte, zumal sie doch in
ziemlich später Zeit geschehen sein soll. Und dass «ie absolut unbezeugt
ist, muss Mommsen selbst zugeben. Die Erklärung einer solchen
radikalen Umwandlung fehlt zudem bei Mommsen völlig. Denn was er über die
allmäh- liche Einwirkung der Ortsangehörigkeit auf die
Personaltribus (Str. III, 779 f.) und über das Verhältnis beider (Str.
III, 782 ff.) sagt, wird man doch nicht als Erklärung gelten lassen
können. Es erheben sich aber überhaupt gegen eine solche Umwandlung der
Tribus die gewichtigsten Bedenken. Zu- nächst wäre, vorausgesetzt einmal,
dass aus der Tribus der Grundsässigkeit die des Territoriums einer
Vollbürgergemeinde entstanden sei, der Zweck einer solchen Umwandlung
absolut nicht abzusehen. Bei der Aufnahme einer Vollbürgergemeinde
wies man die gesamten Bürger derselben, einerlei ob Grund- besitzer oder
nicht, einer bestimmten Tribus zu. Warum zeichnete man denn z. B. bei der
Aufnahme Tusculums nicht bloss den ager Tusculanus und die Eigentümer an
demselben in die papirische Tribus? So wäre ja das alte Prinzip ge-
wahrt worden. Ein weiterer Widerspruch ist folgender: Auf die
Stadt Rom selbst ist das neue Prinzip nicht vom Anfang seines
Aufkommens an bezogen worden: denn aus der Zunahme der
Vollbürgergemeinden hat es sich ja erst entwickelt. Wenn also für Rom
noch die alte Ordnung bestand, d. h. nach Mommsen, wenn nur die Grundbesitzer
in den ländlichen Tribus standen, während die nicht Grundansässigen in
den 4 tribus urbanae zusammengedrängt waren, so standen die Bürger
einer Vollbürgergemeinde sämtlich in einer ländlichen Tribus, sodass z.
B. ein nichtansässiger Tuskulaner vor dem nichtansässigen Römer ein
Vorrecht hatte, indem jener in der Papiria stand, dieser aber in eine der
städtischen Tribus ge- hörte. Welches Missverhältnis dies bei dem
Dignitätsunter- :schiede der tribus urbanae und rusticae (s. unten)
gewesen wäre, liegt auf der Hand. Der entscheidende Grund
ergiebt sich aus folgender Er- wägung : Dass die Tribus der späteren Form
vom Grundbesitz unabhängig ist, giebt auch Mommsen zu. Kun aber
bezieht sich die Hauptquellenstelle (Cic. pro Flacco 32, 80), auf
welche Mommsen seinen Grundsatz, dass die Tribus - Distrikte des ager
privatus Romanus seien, stützt (Mommsen, Str. II, 360 mit A. 2 u. 3. Rom.
Trib. 3), auf die Zeit Ciceros, wo, auch nach Mommsen, die neue
Tribusordnung schon bestand. Wenn Cicero den Decianus fragt: sintne ista
praedia censui censendo ... in qua tribu denique ista praedia
censuisti? fio geht doch daraus mit Evidenz hervor, dass noch
damals der Grundbesitz in der Tribus stand. Und dass er dies stets
sethan hat and der Grundbesitz stets für die Tribus von Be- deutung
gewesen ist, werden wir in anderm Zusammenhang erörtern. Keinesfalls aber
kann die angeführte Stelle dazu benutzt werden, um die Ansicht, dass die
Tribus sich ur- sprünglich lediglich auf den ager privatus bezogen
habe, zu stützen. Alle diese Erwägungen führen zu dem Resultate,
dass eine Entwicklung, wie sie Mommsen annimmt, von einer Tribus,
welche die Grundansässigkeit ausdrückte, zu einer solchen, welche, vom
Grundbesitz unabhängig, die Zugehörigkeit zu einer Vollbürgergemeinde bezeichnete,
nicht stattgefunden haben kann. Da nun das Wesen der späteren Tribus
fest- steht, so muss die Mommsensche Auffassung von der ursprüng-
lichen Tribus falsch sein. Und in der That ist der Satz, dass die
Tribus sich ur- sprünglich lediglich auf den Grundbesitz b^ogen habe,
den Mommsen freilich stets als quellenmässig belegt bezeichnet
und in seinen Consequenzen darlegt, gänzlich unbewiesen. Zunächst ist
scharf zu betonen, dass er keineswegs in dei> Quellen bezeugt ist und
ledighch eine kühne Hypothese ist. ,| Nirgends findet sich bei den alten
Autoren, so oft sie auch die Tribuseinteilung erwähnen, eine Angabe, dass
die An- sässigkeit die Grundbedingung für das Stehen in der Tribute
sei. Und es wäre dies doch sehr zu verwundern, wenn ein so klares Prinzip
so scharf durchgeführt wäre, wie ea Mommsen annimmt, zumal dasselbe,
wenigstens für die tribu& rusticae, bis in die späte historisch helle
Zeit gegolten haben soll. Welches war aber die lokale
Grundlage der Tribusord- nung? Was sagen die Alten darüber? Unserer
Ansicht nach war die Tribuseinteilung eine geographische
Distriktseinteilung des gesamten römischen Gebietes, eine nackte
Zerlegung in Bezirke, und zwar war sie von Haus aus dazu bestimmt,
eine Volks einteilung zu sein mit dem Zwecke, im Staatsleben
praktisch verwandt zu werden. Die Tribus wurde also vom Lokal auf die
Person übertragen und zwar, wie das natürlich ist, in der Weise, dass
alle, die in dem Bezirke einer Tribus wohnten, dieser Tribus angehörten,
um in ihr ihre politischem Pflichten und Rechte zu erfüllen. Das Domizil
bestimmte also ursprünglich die Tribus. Eine Reihe direkter
Quellenbelege lassen sich für diese unsere Auffassung geltend machen.
Wenn Laelius Felix (b. Gellius XV, 27) die Tributcomitien so definiert,
dass in ihnen ex regionibus et locis abgestimmt würde, so kann das-
nicht anders aufgefasst werden, als dass nach Bezirken und Wohnsitzen
abgestimmt werde. Mit regiones meint er offen- bar die lokalen
Tribusbezirke, nach denen geordnet die Bürger- schaft abstimme, und mit
loca die Wohnsitze der Einzelnen. Durchaus müsste, wenn der Grundbesitz
das notwendige Re- quisit für das Stehen in der Tribus also das Stimmen
in den Tributcomitien wäre, dies possessorische Prinzip in einer
De* finition der Tributcomitien ausgedrückt sein. Dionys erwälint
direkt die Beziehung zwischen Tribus und Domizil. Nacli ihm (IV, 14)
richtete König Servius die Tribus ein rjf-jnom^ Hfiyxcoij^^
dTrodf-i'^ca^' ()ruuo()ic{^ vjü'Tre(i ül/.iuY {-'yMüH}^ üiy.rl ;
ausserdem lässt Dionys (IV, 14) den König Servius demjenigen , der in
eine bestimmte Tribus eingeschrieben sei, verbieten '/Mitßari-ti' uh^ku
oiy.rüiv. Wenn diese Angaben auch keineswegs im einzelnen zu
glauben sind, so folgt doch daraus, dass Dionys meint, der Wohnort habe
die Zugehörigkeit zur Tribus bestimmt. Und das ist unserer Ansicht nach
sicher der Fall gewesen. Wenn Avir in diesem Sinne die lokale
Grundlage der Tribus auflassen, lässt sich das, was uns vom
Verhältnis der Tribulen unter einander überliefert ist, sehr einfach
und. natürlich erklären. Es was ein nachbarlicher Geist, so wird
uns mehrfach berichtet, der sie verband. Freilich wäre dies ja auch
denkbar, wenn die Tribus nur die Grundbesitzer um- fasst hätten. Aber es
ist mehrfach bezeugt, dass grade zwischen den niederen und höheren
Tribulen einer Tribus dies Nahver- hältnis bestand (der geringe Mann wird
von seinem vornehmen Tribusgenossen zu Tisch gezogen Horaz ep. I, 13, 15
und beschenkt Sueton, Aug. 4 und anderes; vgl. Mommsen, Str. III,
197 f.). Es war das gemeinsame Interesse des Wohnbezirks (Cic. pro Roscio
IG, 47: tribules vel vicinos meos), welches die Tribulen mit einander
verband (so z. B. wie die Censoren i. J. 204 in einigen Tribus den
Salzpreis erhöhten). Und dies weist eben darauf hin, dass die
Tribus rein lokale Bezirke sind. Wie viel leichter
lassen sich bei dieser Auffassung der lokalen Grundlage der Tribus die
anderen Quellenstellen ver- stehen, welche die Lokalität der Tribus erwähnen!
Die Worte des Livius (I, 4o): (Servius Tullius) quadrifariam urbe
divisa regionibus collibusque partes eas tribus appellavit sind
doch, meine ich, viel naturgemässer so auszulegen, dass S. Tullius
das gesamte Stadtgebiet in vier rein lokale Bezirke teilte, als so, dass
der im Stadtgebiet gelegene ager privatus in vier Tribus zerlest sei.
Dasselbe gilt von dem Ausdruck des Dionys, dass S. Tullius die Stadt in 4
to.-ax«, <fcm zerlegt habe. Dionys sagt selbst, wie er
ro.-r,.o,aufgefasst wissen will, und auch Livius hat nach den ob.gen
Worten die lokale Bedeutung der Tribus nicht anders aufgetasst.
Schliess- lich führe ich noch die Erklärung der Tribus an, welche
Verrius Flaccus (b. Gellius XVIII, 7) giebt: tribus d.c. et pro loco et
pro iure et pro hominibus. Auch hier ist locus einfach und natürlich als
Wohnort zu fassen. Wenn also Mommsens Anschauung von dem Wesen der Tnbus
einer- seits auf einer gezwungenen Quelleninterpretation beruht, so
erheben sich anderseits dagegen auch viele sachliche Be- Der
Tribule. d. h. nach Mommsen der Grundbesitzer, hat diejenige persönliche
Tribus, in deren lokalem Bezirk sein Grundbesitz lag. Wie aber war es,
wenn Jemand in mehreren Tribusbezirkcn Grundstücke besass? Persönlich
konnte doch Jeder nur in einer Tribus stehen (Mommsen, Str. 111,
1»^), und in der Steuerrolle konnte Jeder nur einmal seinen Platz
finden In einem solchen Falle, vermutet Mommsen, habe die Wahl der
Personaltribus und die EinSchätzungssumme vom Censor besthumt werden
müssen. Die Willkür, die in einer solchen Sachlage liegt, giebt Mommsen
selbst zu (11, d7 J t.;. So hätte es also Grundstücke gegeben, deren
Tribus sich nicht auf den Eigentümer übertrug. Dasselbe trat
ein, wenn Personen, die nicht Bürger sein konnten, - etwa Frauen oder
Ausländer - römischen ager privatus erwarben. Auch dann sei, meint
Mommsen (Str. 111 18;]) die Übertragung der Bodentribus auf die Personen
tort- gcfallen, so dass also für die Tribus in diesem Falle der Um-
stand, dass Jemand nicht aktiver römischer Bürger sein konnte, wichtiger
war als der Grundbesitz. Wie sich gegen die Auffassung des Tribulen
Bedenken erheben, so auch' gegen die des Nichttribulen, des
Arariers. Die Annahme, es seien die Ärarier eine den Tribulen absolut
entgegengesetzte Bürgerklasse, sie seien ohne Stimmrecht und Heerespflicht
und nur stärker besteuert, ist lediglich Hypo- these ; sie beruht allein
auf der häufig wiederkehrenden Formel der censorischen nota „tribu movere
et aerarium facere". Aus derselben geht allerdings hervor, dass das
aerarium facere häutig mit tribu movere verbunden war, aber nicht, dass
es identisch ist. Dies kann es vielmehr nicht gewesen sein. Das
folgt deutlich aus einem Bericht des Livius, wo er erzählt, der Censor M.
Livius habe 34 Tribus zu Arariern gemacht (Liv. 29, 37). Da nach Mommsen
tribu movere in späterer Zeit gleich einer Versetzung in die tribus
urbanae ist, so müssten also damals alle Tribulen in die städtischen
Tribus versetzt sein, was Unsinn ist. Tribu movere kann nicht dasselbe
sein wie aerarium fa- cere ; dazu stimmt, dass letzteres mehrfach allein
genannt wird (Liv. 9, 34. 27, IL Gellius 4, 12 u. a.). Wer Ärarier
war, brauchte noch nicht tribu motus zu sein ; das folgt gleich- falls
aus dem angeführten Bericht des Livius. Der tribu motus war aber immer
aerarius: also ist der eine Begriff weiter als der andere.
Tribu movere heisst die Tribus ändern lassen (Liv. 45, 15 : tribu
movere nihil aliud est quam mutare iubere tribum). Was dies für Nachteile
mit sich brachte, wissen wir absolut nicht. Die Ärarier aber sind nichts
als eine Art Strafklasse, die höher besteuert war. Livius deutet die Art
dieser will- kürlichen Straf besteuerung an, wenn er berichtet (IV,
24), Mam. Aemilius sei zum aerarius octuplicato censu gemacht, d.
h. zum Ärarier unter Erhöhung seiner Steuerpflicht um das Achtfache (vgl.
Soltau, Volksversamml. 535 ff., Madvig, Verf. u. Verw. 122). Hiermit ist
der absolute Gegensatz auf- gehoben, welchen Mommsen zwischen Tribulen
und Arariern annimmt, als seien alle Ärarier Nichttribulen.
Das Resultat dieser Erörterungen besteht darin, dass die
Mommsensche Theorie von der Tribusordnung, als sei sie an- fangs
lediglich eine Einteilung des ager privatus, und als ständen nur die
Grundbesitzer in den Tribus, nicht recht sein kann. Die lokale Grundlage
besteht vielmehr, wie wir aus den Quellen gefolgert haben und jetzt noch
weiter erörternd beweisen werden, darin, dass die Tribuseinteilung eine
einfache geographische Distriktseinteilung des gesamten römischen
Ge- bietes war. Diese lokale Grundlage ist stets dieselbe geblieben:
deutlich lässt sie sich noch in der späten Zeit er- kennen, wo Mommsen
einen völligen Umschwung im Wesen der Tribus annimmt. Denn nachdem man zu
dem Grundsatz ge- kommen war, keine neuen Tribusbezirke mehr
einzurichten, konnte man füglich das angegebene lokale Prinzip nur
wahren, wenn man das ganze Gebiet einer neuen Vollbürgergemeinde
einer der bestehenden Tribus zuwies. Und so geschah es: nach demselben
einfachen lokalen Prinzip, nach welchem das gesamte römische Gebiet in
Tribusbezirke zerlegt war, schrieb man die späteren neuen
Vollbürgerterritorien einem jener Ur- bezirke zu. Nur der örtliche
Zusammenhang, welcher für die Urbezirke bestand, ward dadurch aufgehoben
; das war aber eine notwendige Folge davon, dass man keine neue Bezirke
seit d. J. 241 v. Chr. stiftete. Es liegt nicht in meinem Plane, zu
erörtern, aus welchen Gründen man zu diesem Grundsatz kam, die Zahl der
Tribus nicht mehr zu vermehren, noch auch, nach welchen Prinzipien man
später die neuen Vollbürgerterritorien an die einzelnen Tribus verteilte.
Darin dass man bei der Neuaufnahme einer Vollbürgergemeinde ihr
ganzes Territorium einer Tribus zuschrieb, zeigt sich dasselbe lokale
Prinzip, welches wir von Anfang an anzunehmen haben. Von dem Lokal wurde
die Tribus auf die Person übertragen. In späterer Zeit gehörte derjenige
zum Verbände einer Voll- bürgergemeinde, also in die Tribus dieser
Gemeinde, der in ihrem Territorium heimatsberechtigt war. Dass die
Heimats- berechtigung in der Regel mit dem Domizil zusammenfiel,
liegt in der Natur der Sache; aber es ist ausdrücklich be- zeugt, dass
solche, welche in andere Städte übersiedelten, die Tribus ihrer Heimat
behielten (Mommsen, R. Forsch. I, 153). In früherer Zeit war in dieser
Hinsicht das Domizil ent- scheidend. Wer in dem Bezirke einer Tribus
wohnte, hatte persönlich diese Tribus, und mit dem Wechsel des
Wohn- sitzes ward auch die Tribus gewechselt. Die
Personaltribu& ist also auch nach unsrer Ansicht wandelbar. IMit
diesen Unterschieden der Personaltribus in späterer und früherer
Zeit, werden wir sehen, hängt das Edikt des App. Claudius eng
zusammen. Die lokale Grundlage der Tribus in dem Sinne, wie
wir entwickelt haben, nimmt schon Niebuhr an (R. G. I, 458). Wenn
wir auch in allem andern, was er über die Tribus und ihre ursprüngliche
Bedeutung annimmt, ihm widersprechen müssen, so hat er doch das lokale
Prinzip, auf dem die Tribusordnung beruht, richtig erkannt, dass sie
nämlich eine einfache Distriktseinteilung ist und in persönlicher
Hinsicht alle in dem Distrikte einer Tribus Wohnenden umfasst. Von
Niemanden ist diese Ansicht angenommen, nur Clason (Kritische
Erörterungen über den röm. Staat. II. S. 1 ff.) vertritt sie, leitet sie
aber weder beweisend ab, noch verfolgt er ihre Consequenzen in der
politischen Verwendung der Tribusord- nung. Die Übertragung der Tribus
vom Lokal auf die Per- son geschah in der Weise, dass, grade wie später
die Per- sonen, welche dem Territorium einer Vollbürgergemeinde an-
gehörten, der Tribus derselben zugeschrieben wurden, auch früher die
Tribus auf die Personen, welche ihrem Bezirke an- gehörten, übertragen
wurde. Doch war dazu eine bestimmte Qualifikation notwendig. Diese war in
späterer Zeit die In- genuität. Wann dies Prinzip aufgekommen, habe ich
nicht zu erörtern; es scheint erst sehr spät (Mommsen, R. Staatsr.
III, 439 ff.j. In früherer Zeit und ursprünglich bestand diese
Grenze nicht. Vielmehr haben ursprünglich alle in dem Be- zirke einer
Tribus wohnenden römischen Bürger auch personal diese Tribus gehabt. Die
Qualifikation für die Personaltribus war also ursprünglich das
Bürgerrecht, und zwar das Bürger- recht schlechthin und unbeschränkt.
Die Ansicht Niebuhrs (R. G. I, 457 f.), dass ursprüng- lich nur die
Plebejer in den Tribus gestanden hätten, wird schon dadurch widerlegt,
dass die 16 ältesten ländlichen Tribus ^atrizische Geschlechtsnamen
tragen. Die Schriftsteller bezeichnen ausdrücklich die 35 Tribu» als
identisch mit dem ganzen römischen Volke (z. B. Cic. de leg. III, 19
populus fuse in tribus convocatus und viele andere Stellen), und nirgends
schliessen sie einen Teil der Gesamt- bevölkerung aus, was bei der
Annahme einer distriktartigen Einteilung des gesamten Gebietes sehr
erklärlich und natur- gemäss ist. Selbst die
Freigelassenen haben ursprünglich in den Tribus gestanden. Denn wenn
Dionys und Zonaras über- liefern, dass S. Tullius den Libertinen das
Bürgerrecht ge- geben habe und sie in die Tribus (Zon. VII, 9), und
zwar in die 4 tribus urbanae (Dion. IV, 22) aufgenommen habe, so
besagt dies jedenfalls soviel, dass das römische Staatsrecht, indem es
die Tribus der Freigelassenen auf S. Tullius, den mythischen Urheber des
römischen Verfassungslebens, zurück- führt, keine Zeit kannte, wo die
Freigelassenen nicht in den Tribus gestanden hätten. Die Freigelassenen
haben ja von Haus aus das Bürgerrecht, wenn auch ein
zurückgesetztes. Und da sie deshalb dem Staate gegenüber Pflichten
und Rechte, wenn auch in geringerem Masse, hatten, so mussten sie
auch in den Abteilungen der Bürgerschaft Platz linden, welche dazu
bestimmt waren, damit die Bürgerschaft nach ihnen ihren Pflichten und
Rechten dem Staate gegenüber ge- nüge (vgl. über die Tribus der Libertinen
Becker, Hdb. II, 1, 96 ff. Madvig, Verf. u. Verw. I, 203. Clason,
App. Claud. 80). In der politischen Bedeutung nämlich
liegt das weitere wesentliche Moment der Bedeutung der
Tribusordnung. Sie ist dazu geschaffen, und dieser Zweck ist ihr von
Haus aus eigentümlich, dass sie im Staatsleben praktisch zu
politisch- administrativen Zwecken verwandt werde. Denn was hätte
eine solche geographische Distriktseinteilung für einen Wert, wenn sie
nicht von Anfang an dazu bestimmt gewesen wäre, eine Volkseinteilung zu
sein, dass die Bürgerschaft, nach diesen Distrikten geordnet, ihren
politischen Pflichten und Rechten nachkomme? Die Tribusordnung ist von
Anfang an die Voraussetzung der Steuerordnung, Heerordnung und
Stimm- ordnung. Die Alten selbst betrachten diese politisch - admi-
nistrative Verwendung der Tribus als ihren Zweck. Dionys sagt vom König
Servius (IV, 14) : Ta^ y.cauyoaifd^ tlov oya- Tivncov ycci nc^
Fi^7ii>a§F.i^ n^n' y^njicktov rag yivofihag etg ra oroaTiomyi} vmi rag
aUag /of/c.,-, ag ^yaorov ^'ösi toj y.oivco Tiuolyeiv, inyÄTi yard rag
iQflg cfr/Mg rag yerimg, (k tcqoteqov, cWm 'xard rag rhra^ag rag romy^g
rag v(f' kwnw diarayßeiaag tTCOulro. Dasselbe ergiebt sich aus den
Etymologien, welche von dem Worte tribus gegeben werden. Varro (d. 1. 1.
V, 181) sagt: tributum dictum a tribubus quod ea pecunia, quae
populo imperata erat, tributim a singulis pro portione census exigebatur,
und Livius umgekehrt (I, 43): (Servius) partes urbis tribus appellavit,
ut ego arbitror, a tributo. Diese Ety- mologien haben selbstverständlich
als solche keinen Wert; sie beweisen nur, dass sich die Schriftsteller
die Steuerordnung und die Tribuseinteilung als unzertrennlich dachten;
ebenso haben auch ohne Zweifel Heer- und Stimmordnung von Anfang an
auf der Tribusordnung beruht. Ich kann, wenn ich die politische
Bedeutung der ur- sprünglichen Tribus darlegen will, selbstverständlich
nicht alle die einzelnen Fragen, die zum Teil äusserst schwierig
sind, und über die noch lange nicht die Akten geschlossen sind,
sowie über die politischen und administrativen Institute, bei denen die
Tribuseinteilung praktisch verwandt worden ist, handeln : ich habe mich
lediglich darauf zu beschränken, dar- zulegen, in welchem Verhältnis die
Tribus zu Steuer-, Heer- und Stimmordnung stehen. Der Akt, welcher eine
allgemeine Zählung der Bürger bezweckte, um nach ihren eidlichen
Aus- sagen über ihre Verhältnisse ihre Bürgerpflichten und Bürger^
rechte zu bestimmen, ist der Census, die Schätzung (vgl. Mommsen, Str. H,
333 ff". Madwig, Verf. u. Verw. I,^ 399 ff".). Diese nun beruht
unmittelbar und allein auf der Tribusein- teilung. Denn tributim mussten
alle römischen Bürger auf dem Marsfelde vor dem Censor erscheinen und ihre
eidlichen Angaben über Namen, Alter, Vermögen machen. (Dionys, IV,
15. V, 75). Darin dass beim Census durchaus alle Bürger
mcldungspfliclitig waren (Ladungsbefehl b. Varro 1. 1. 6, 86: omnes
Quirites, Liv. 1, 44: lex de incensis etc. Cic. pro Cluent. 34. Dion. IV,
15), und dies tributim geschah, sehe ich einen neuen Fingerzeig dafür,
dass die Tribus auch alle Bürger umtasst haben: von einer Schätzung, die
nicht tributim geschehen wäre, erfahren wir absolut nichts. Momm-
sen hilft sich, indem er für seine ausser der Tribus stehenden Ärarier
eine besondere Schätzung, welche derjenigen der Tribulen folgte, annimmt
(Str. II, 343). Auf dem Census beruht zunächst die Bestimmung des
Tributum, der direkten Vermögenssteuer (Mommsen, Str. III, 228. Madvig,
Verf. u. Verw. II, 387 f.). Der Bürger musste sein Vermögen de-
klarieren, und der Censor hatte es abzuschätzen zum Zweck der
Besteuerung. Als steuerpflichtig werden die verschieden- sten Gegenstände
bezeichnet (cf. Mommsen, Str. II, 363 m. A. 1). Das hauptsächlichste
steuerpflichtige Objekt ist, zumal vor dem Aufkommen der Geldwirtschaft,
der Grundbesitz: m Grundbesitz hat Anfangs wohl allein, wie das
natürlich ist und allgemein angenommen wird, der Pwcichtum
bestanden, und auch später ist dies vielfach der Fall gewesen. Da
nun die o-esamte Schätzung und also auch die Deklarierung des
steuerfähigen Vermögens tributim geschah, so musste auch der Grundbesitz
tributim zum Zweck der Besteuerung ab- geschätzt werden d. h., wenn man
will, auch der ager pri- vatus stand in der Tribus. Es ist dabei
natürlich, dass an- fangs, wo die Personaltribus an das Domizil gebunden
war, dies in der Tribus geschah, in dessen Bezirk der Grund-
besitzer wohnte, mochte sein Grund])esitz oder Teile desselben auch in
den Bezirken andrer Tribus liegen. So allein, glaube ich, können die
Quellenstellen, die von agri censui censendo oder der Tribus von
Grundstücken sprechen, ausgelegt werden. (Festus, epit. p. 58. Cic. pro
Flacco 32, 79). Dies ist das Verhältnis von tribus und ager privatus,
welches, wie Cic. pro Flacco 32, 79 beweist, stets so geblieben.
Auf dem Census beruht ferner die gesamte sog. servianische
Klasseneinteilung und Centurienverfassung. Da der Census nach Tribus
geschah, so folgt, dass zwischen Tribus- einteilung und der
Centurienverfassung ein Zusammenhang be- stehen muss. Für die sog.
reformierte Centurienverfassung, welche seit der Mitte des dritten
vorchristlichen Jahrhunderts bestand (vgl. Mommsen, Str. III, 280), steht
das Verhältnis ziemlich fest, schon seit Pantagathus (vgl. die neusten
Ab- weichungen Mommsens vom bekannten Schema Str. III, 274 ff.).
Aber damit habe ich mich nicht zu befassen. Auch für die ältere sog.
servianische Centurienverfassung ist ein Verhältnis zur Tribusordnung
anzunehmen, wenngleich nichts <lavon überliefert ist. Mommsen hat das
wahrscheinliche Ver- hältnis nachgewiesen (Trib. 132 ff. Str. III, 267
f.). Sein Resultat ist dies, dass das leitende Prinzip bei der
Centuriation ^die gleichmässige Verteilung der Tribulen einer jeden
Tribus in sämtliche Centurien, also die Zusammensetzung einer jeden
Centurie aus gleich vielen Tribulen aller Tribus" gewesen sei. Aber
mehr als approximativ hätte diese Gleichmässigkeit im besten Falle nicht
sein können. Ganz so wie Mommsen das Prinzip der Centuriation annimmt,
kann es unmögUch gegolten haben. Denn wenn eine jede Centurie aus gleich
vielen Tribulen aller Tribus zusammengesetzt worden wäre, so würde
dadurch vorausgesetzt, dass in jedem Tribusbezirk gleich viel Bürger
einer jeden Censusklasse gewohnt hätten, dass also alle Tribus an
Kopfzahl und Vermögen sich einander gleich gewesen wären, was, selbst
approximativ, unmöglich der Fall gewesen sein kann, wie Polyb. VI, 20 (s.
unten die Inter- pietation) beweist. Das Prinzip der
gleichmässigen Centuriation ist wohl nur auf die Angehörigen einer Tribus
von gleichem Census zu beziehen, sodass die in einer Tribus wohnenden
Bürger mit gleichem Census in die Centurien ihrer Censusklasse
gleich- massig verteilt wurden. Und selbst so eingeschränkt, kann
das Prinzip keineswegs als Gesetz gegolten haben, sondern ist vielfach,
wie Mommsen sehr wahrscheinlich macht (Str. III, 269), der
Machtvollkommenheit der Censoren überlassen : vielleicht sind auch noch andere
Dinge bei der Centuriation be- rücksichtigt (s. unten). Für die nicht
klassischen Tribulen d. h. die Bürger, deren Census den Satz der
untersten Klasse nicht erreichte, kam die Centuriation überhaupt nicht in
Frage ; sie standen in einer Zusatzcenturie. Wenn sich auch kein
be- stimmtes Verhältnis zwischen der Tribusordnung und der älteren
Centurienverfassung nachweisen lässt, so müssen sie doch in notwendigem
Zusammenhang stehen ; es folgt die& eben schon daraus, dass die
Centurienordnung auf dem Census^ und dieser auf den Tribus beruht.
Direkt auf der Tribusordnung ruhten die Tributcomitien, Sie waren
diejenige Volksversammlung, in welcher unmittelbar nach Tribus, Mann für
Mann, viritim, ohne Rücksicht auf Census oder Unterschied des Standes und
der Stellung ab- gestimmt wurde (Dionys VII, 59 Cic. de leg. III, 19 Liv.
39,^ 15 u. a.). Wir haben das Wesen der Tribus dahin
festgestellt, das» sie lediglich einfache, lokale Bezirke sind, dass alle
römischen Bürger, welche in dem Bezirke einer Tribus wohnen, auch
persönlich dieser Tribus angehören, und zwar, um in derselben . ihre
politischen Pflichten und Rechte auszuüben. So können wir zur Erörterung
der Tribusänderung des App. Claudius übergehen. Wir gehen aus
von der besten Überlieferung Diodors. Wenngleich seine Angabe äusserst
knapp ist und vielleicht mehrfache Auslegung zulassen könnte, so glaube
ich doch,, dass sie, wortgetreu aufgefasst, klar, deutlich und wahr
ist. Diodor sagt (XX, 36): i^dioite rolg Tio/Ajai^ ij]v e^ovaiav
otiol TiQoaiQolvTO xif.uaaal>ca d. h. er gab den Bürgern die
Erlaub- nis, sich schätzen zu lassen, wo d. h. in welcher Tribus
sie wollten. Mit Recht hat Dindorf die Worte, welche in einigen
Handschriften folgen: 'Acd iv unoia Tig ßov/.8Tai cpv/,fi TccTzea- d^ai
gestrichen, da sie dasselbe bedeuten wie die vorhergehen- den. Wenn
Siebert (App. Caudius S. 50) die Worte otiol tt^^o- aiQolvTO TifojaaaS^ta
auf die Klassen bezieht, während die folgenden iv oTioia iig ßauXerat
(fvXfi TaTTeoO^at nach seiner 'i!- Meinung die Tribus
bezeichnen, so ist die Tautologie, die in dem Zusatz läge, noch nicht
aufgehoben, weil, wer in der Tribus stand, auch nach dem Census in die
Klassen aufge- nommen werden musste; zudem widerspricht Sieberts
Aus- legung den Worten Diodors; denn er -giebt selbst zu, das&
der Census bei der Bestimmung der Klasse massgebend war : die Bürger
konnten sich also die Klasse nicht wählen {7i()oaL~ QohTo), sondern der
Censor hatte sie nach dem Census in die bestimmte Klasse zu setzen.
Noch willkürlicher ist der Versuch Gerlachs („Griechischer Einfluss
in Rom" Basel 1872. S. 36 ff. 40), die Worte iv OTioirf rtg ßovkeTai
(fvl^ Tcareoü^ca als echt zu erweisen. Appius Claudius gab nach
Diodors Worten den Bürgern die Erlaubnis, sich in der Tribus, in welcher
sie wollten^ schätzen zu lassen. Der Ton liegt auf den Worten oTiot
TiQOaiQoh'TO, und es folgt aus ihnen, dass vor App. Claudius die Bürger
sich nicht in jeder beliebigen Tribus schätzen lassen durften, sondern,
so fahren wir nach unseren obigen Erörte- rungen fort, in der Tribus, in
deren lokalem Bezirke sie wohnten. Es stimmt dies so genau und klar
zusammen, dass Diodors Worte nicht anders ausgelegt werden können,
wenn man ihnen nicht Gewalt anthun will. Diodor bezieht die Ände-
rung, die Appius Claudius mit den Tribus vornahm, zunächst auf die
Schätzung {jL^irfiaad^ai)', da aber auf dem Census^. der eben nach den
Tribus vorgenommen wurde, Steuer-^ Heer- und Stimmordnung, wie wir sahen,
beruhte, so musste das Edikt des App. Claudius natürlich und notwendig
auf alle diese Verhältnisse zurückwirken. Die Änderung des App.
Claudius bestand also darin, dass er die Personal- tribus von dem
Wohnsitz löste, dass er den Zwang be- seitigte, nach welchem der römische
Bürger für die Aus- übung seiner politischen Pflichten und Rechte an den
Bezirk seines Wohnortes geknüpft war; an Stelle des früheren
Domizilzwangs für die Ausübung der Bürgerpflichten und Bürgerrechte
setzte App. Claudius also die Freizügigkeit. Absoluter Domizilzwang hat wohl
nie bestanden, obwohl dies Dionys vom König Servius einführen lässt (IV,
14); also ist wohl auch Tribuswechsel gestattet gewesen: aber vor
Appius <^laudius konnte letzterer nur die Folge des ersteren
sein, nur wer sein Domizil in einen andern Tribusbezirk verlegte,
erhielt auch personal diese andere Tribus und kam in ihr seinen
politischen Obliegenheiten nach. Seit der Censur des App. Claudius konnte
jeder Bürger in jeder beliebigen Tribus sich schätzen lassen und seinen
politischen Pflichten und Rechten nachkommen, jeder im Bezirk einer
städtischen Tribus wohnende Bürger in jeder beliebigen städtischen und
länd- lichen und umgekehrt. Den Zweck, welchen App. Claudius
mit seinem Edikte verfolgte, seine Wirkung und Bedeutung werden wir,
soweit und was sich darüber festsetzen lässt, unten erörtern; sehen
war zunächst, w^as die anderen Berichte über die Tribusände- rung des
App. Claudius sagen. Livius übergeht in dem Jahre, in welches er
die Censur <les App. Claudius setzt, die Tribusänderung desselben
vöUig. Ohne Bedenken kann man annehmen, dass seine Quelle, der «r
an dieser Stelle folgt, gleichfalls davon schwieg. Und es scheint dies
bei dem Standpunkt, den die Quellen des Livius dem App. Claudius und
überhaupt der gens Appia gegenüber einnehmen, nicht wunderbar. In anderm
Zusammenhang haben wir bereits erwähnt, dass der gens Claudia in der
späteren römischen Annalistik eine merkwürdige, durchweg erkennbare
Rolle angedichtet ist: alle Appii Claudii werden seit Livius und
besonders von ihm als ultraconservative Vertreter des Adelsregimentes
dargestellt. Nach demselben Schema ist auch unser Censor geschildert (9,
34). Es hätte nun die Massregel der Tribusänderung, welche, wie wir noch
genauer betrachten -werden, durchaus demagogisch ist, mit dem politischen
Cha- rakter, den die spätere Annalistik dem App. Claudius beilegt,
keineswegs übereingestimmt: so überging man dieselbe eben. Zu einem
späteren Jahre jedoch, dem Jahre der Adilität des €n. Flavius (304),
berührt Livius kurz die Tribusänderung des App. Claudius, und es ist
höchst wahrscheinlich, dass er an dieser Stelle (9, 4G von ceterum bis
Schluss) aus einer andern, und zwar bessern, Quelle geschöpft hat. Er
berichtet nämlich in diesem Kapitel (9, 46) zunächst die Wahl des
Cn. Flavius zum Ädilen, alsdann dessen Amtsführung und kehrt schliesslich
mit ceterum wieder zur Wahl zurück, um noch neues Detail über dieselbe
beizubringen. Es ist dies offenbar ein Compositionsfehler, der sich am
besten so erklärt,. dass man annimmt, Livius habe nach Abschluss seiner
Er- zählung in einer neuen Quellle andere Angaben gefunden über die
Wahl des Cn. Flavius, die er nun anhangsweise bei- fügte (cf. Seeck,
Kalendertafel der Pontifices S. 5 f.). Dass diese Quelle eine bessere ist
als die, welcher Livius sonst über App. Claudius folgt, geht daraus
hervor, dass er die Massregeln des App. Claudius erwähnt, welche als
dema- gogische dem ihm sonst von Livius beigelegten politischen
Charakter widersprechen, und das Demagogische derselben sogar ohne Hehl
ausdrückt. Es heisst bei Livius a. a. 0.: Ceterum Flavium
dixerat aedilem forensis factio Appii Claudii censura vires nacta,
qui senatum primus libertinorum filiis lectis inquinaverat et
postea- quam eam lectionem nemo ratam habuit nee in curia adeptus
erat quas petierat opes urbanas humilibus per omnes tribus divisis forum
et campum corrupit. Den Gedanken, dass App. Claudius, weil er nach dem
Scheitern seiner senatus lectio nicht die erstrebten opes urbanas
erreicht hatte, dies nun durch seine Tribusänderung bezweckt habe, werfen
wir weg: es ist offenbar eine causale Verbindung der beiden Massregeln,
die Livius selbst hergestellt hat, und die aus der allgemeinen
Auffassung des Livius von dem politischen Streben des App. Claudius
geflossen ist. Nach Livius besteht die Tribusände- rung des App. Claudius
darin, dass derselbe die humiles über alle Tribus verbreitet habe und so
die Tributcomitien (forum) und die Centuriatcomitien (campum sc. Martium)
verschlechtert, heruntergebracht habe. Unter humiles
versteht Livius nie eine bestimmte Bürger- klasse, es ist bei ihm nur der
Gegensatz von nobilis, potens opuleritus, bedeutet also im allgemeinen niedrig,
an Geburt, Stand oder Macht und Vermögen (I, 8, 39. III, 36, 53,
56. VI, 41. XXII, 25. XXIII, 3. XXVI, 31 cf. Siebert, 1. c. 49).
Zuweilen versteht Livius darunter auch die ärmeren Plebejer (III, 19, 65.
V, 32). Und ein solcher allgemeiner Begriff, den Livius stets mit humilis
verbindet und daher sicher auch hier, passt vortrefflich zu unserer
Auffassung von des App. Claudius Tribusänderung. Es ist
naturgemäss anzunehmen, dass die Bewohner der Stadt Rom dichter
zusammenwohnten als die des umliegenden flachen Landes, ferner dass die
Stadtbewohner zum grössten Teil zu den mittleren und unteren
Volksschichten gehörten, seien es Kaufleute, Handwerker oder ein
sonstiges städtisches \ Gewerbe Treibende. Zu den Reichen werden die
Stadtbe- i wohner in ihrer grossen Masse nicht zählen können, zumal
in ältester Zeit nicht, wo der Grundbesitz der alleinige Reich- tum
war. Dabei ist nicht ausgeschlossen, dass reiche Grund- besitzer in der
Stadt wohnten und umgekehrt Nichtgrund- besitzer auf dem Lande, wie für
die spätere Zeit der Repu- blik es vielfach bezeugt ist, dass
Grundbesitzer in der Stadt wohnten (s. unten). Ihrer grossen ]\Iasse nach
waren aber die Städter einmal dichter zusammengedrängt und dann
ärmer als die Masse der Landbewohner. Zur Ausübung ihrer poli- tischen
Pflichten und Rechte waren sie nun an die Tribus ihres Wohnplatzes
gebunden, und es ist nicht zweifelhaft, dass sie in diesem d. h. ni den
tribus urbanae von jeher das Übergewicht gehabt haben. Aber es standen
den städ- tischen Tribus von jeher eine grössere Anzahl ländlicher
gegenüber, in denen ohne Zweifel die Reicheren und Reichsten die Überzahl
ausmachten. Zur Zeit des App. Clau- dius standen 21 ländliche gegen die 4
städtischen Tribus. Vermöge der Überzahl der Bezirke der ländlichen
Tribulen hatte diese also stets, vor allem in den Tributcomitien,
die Oberhand, während das Stimmrecht der ärmeren und ärmsten
Tribulen, die in der Stadt zusammengedrängt waren, ziemlich illusorisch
war, da nur die Abstimmung der 4 tribus urbanae — 63
— .precLde Macht in den Comitien m we chen d- Kopfzahl
entschied, zu erlangen, sich über d.e l^^^^f ^ Jj \^ ;;;„ breiteten und
so vern,öge ihrer Masse '" -«1^ "/^^ J" ^^^ „meisten
ländlichen Tribus das Übergewicht -lang -Und dies sagt ia eben Livius mit
nicht misszuverstehenden Worten (ipp C humilibus per on,nes tribus
divisis forun, corrup.t . Ltht so leicht erklärbar ist der Zusatz des
Livius, dass durch JSicht so leiciii. Stimmrecht in den
Centuriatcomitien diese Massregel auch das Stimmrecht m ae
verschlechtert sei (eampum sc. Martmm corrupit). Denn de Erklärung
Clasons (1. c. S. 104), -'»^r campus se. d^ u. .eine ländliche Tribus,
unter forum d.e S;-";-J '^;;. comitien zu verstehen, wird doch schon
aus dern g'-f J^^J fällig weil darin eine Tautologie läge, mdem das Ubei
gewicht Tln gesamten Tributcomitien dasjenige - /-.-f"/;^
Tribusbezirken voraussetzt. Wenn bei der Centunafon das Szt dir
gleichmässigen Verteilung der TrlbtUen em. jeden Tribus auf alle
Centurien Gesetz gewesen wäre, so hatten schon n; Claudius die hunüles
auf die Centurien der d.em^.us entsprechenden Klasse gleichmässig verteil
--d- ^^Tg Aber dass dem nicht so gewesen ist, wird d-h die Wnkun
des appianischen Ediktes bewiesen. Liyius sagt, dass durch die Verteilung
der humiles auf alle Tribus auch das Stimm thl il den Lturiatcomitien
verschlechtert worden sei ; als gewannen die humiles, indem sie sich auf
alle T"bus zer Eeuten, auch mehr Geltung in den C-turi^-— ^^^^
^ ,. je mehr Tribus sie -;^ VklTsiorl^Tu: aTf t langten sie
auch von da aus. Ls kann sicn u ■ letzte höchstens vorletzte
Censusklasse beziehen, da de dltber Stehenden wohl nicht mehr zu den
humiles gezahlt werden können. So liegt hier das Verhältnis
zwisciien Tribus und Cen- turien; aber wie es zu erklären ist, ist mir
unmöglich zu finden. Die ]\[achtvollkommenheit der Censoren, die dies
zu regeln hatte, genügt auf keinen Fall zur Erklärung (vgl.
Mommsen, Str. III, 269). Sei ihm, wie es wolle, wir dürfen dem Livius
glauben, dass die Wirkung des appianischen Ediktes sich nichi bloss auf
die Tribut-, sondern auch auf die Centuriatcomitien geäussert hat.
Aber damit hören auch unsere Nachrichten über die Wirkung des
Ediktes auf. Ob es und welchen Einfluss es auf Steuererhebung und Aushebung
geübt hat, ist kaum zu er- mitteln. Die Zahl der Steuer- und
aushebungspÜichtigen Bürger wurde durch dasselbe nicht vergrössert,
sondern es trat durch die Massregel nur eine andere Verteilung der
Tribulen über die Tribus ein. Also trat wohl eine Veränderung der
Tribulen- anzahl in den meisten Tribus ein, indem sich viele Bürger
nicht in ihrer Heimattribus sondern in einer andern schätzen Hessen; aber
das Gesamtresultat der Aushebung und Steuer- erhebung musste, da die Zahl
der zu beiden Verpflichteten nicht vermehrt wurde, füglich dasselbe
bleiben. Das Edikt hatte wesentlich nur die oben ausgeführte, von Livius
über- lieferte politische Wirkung, dass es durch die Freistellung
der Tribuswahl das Stimmrecht der humiles verbesserte. Und wenn
hierin der hauptsächlichste, wenn nicht ehizige, Zweck des Censors selbst
beim Erlassen des Ediktes bestanden hat, so stimmt dies vortrefflich mit
seinem gesamten politischen Charakter. Er war Neuerer und Demagog,
begünstigte die niederen Volksschichten und besonders die städtische
Be- völkerung. Ohne Zweifel ist der Samniterkrieg, der ja unter der
Censur des App. Claudius geführt wurde, auf die demokratische Massregel
von Einfluss gewesen. Die W^ehr- kraft des römischen Volkes musste in
diesen Jahren aufs höchste gespannt werden, und da die unteren Schichten
die meisten Krieger stellten, so war es zeitgemäss, wenn unser
volksfreundlicher Censor deren politischen Rechte förderte. Die
Tribusänderung des App. Claudius ist sehr wohl denkbar mit der alleinigen
Wirkung auf die Comitien, be- sonders die Tributcomitien. Alles, was
sonst von neueren Gelehrten über die Wirkung der appianischen Massregel
auf Steuerordnung und Aushebung aufgestellt ist, ist unbeglaubigt;
besonders gilt dies von Mommsens Ausführungen, die aller- dings
consequent mit seiner Ansicht über das ursprüngliche Wesen der Tribus und
die Tribusänderung- des App. Clau- dius zusammenhängen. Anfangs steuerten
nach Mommsen die Tribulen d. h. die Grundbesitzer nur vom Grundbesitz,
während die Ararier von jeher vom ganzen Vermögen steuerten. Bald aber
ward auch für die Tribulen aus der Grund- steuer eine Vermögenssteuer.
Und hieran consequent an- knüpfend, verband App. Claudius die persönliche
Tribus statt mit dem Grundbesitz mit dem Vermögensbesitz schlecht-
hin oder vielmehr mit dem Bürgerrecht, indem er die Ararier in die Tribus
aufnahm, sie also den Tribulen gleichstellte (Str. II, 375). In Folge des
Ediktes, dass sich jeder Bürger, in welcher Tribus er wolle, schätzen
lassen dürfe, konnte^ während früher nur der Ansässige in der Tribus
seines Grund- besitzes gestanden hatte, jetzt sowohl der Ansässige in
eine andere als auch der Nichtansässige, der bisher ausserhalb der
Tribus gestanden hatte, in jede beliebige Tribus eintreten. Die natürliche
Wirkung des Erlasses sei die gewesen, dass sich die besitzlose, in Rom
zusammengedrängte Menge über alle Tribus verteilt habe (Rom. Trib. 153
f.) : es habe sich diese Wirkung geäussert auf Stimm-, Heer- und
Steuerordnung, in Bezug auf die erstere sowohl in den Tribut- als den
Cen- turiatcomitien. Für die Tributcomitien sei es klar , ebenso
für die (Centuriatcomitien, da jeder, der in die Tribus neu aufgenommen
werde, auch in die Centurien gelangen müsse je nach dem Census. (Rom.
Trib. 154. Str. III, 248). Da nun die Centurien sowohl dem Zwecke der
Abstimmung als dem des lleerdienstes dienten, so hätten die
Nichtansässigen seit App. Claudius auch ihre Stellung in der
Wehrordnung. Nur sei das letztere an einen Minimalsatz von Vermögen
ge- knüpft. Dieses, das ursprünglich, wie alle Censussätze,
in Bodenmass ausgedrückt sei, könne in der Epoche des App. Claudius
nur in schweren Ass angesetzt sein, grade wie die gesamten Censussätze
(40,000, 30,000, 20,000, 10,000, 4400 Ass, letzteres der Miniraalsatz.
Str. III, 249.) In Bezug auf die Steuerordnung sei durch die
Censur des Appius der Vermögensbesitz schlechthin auch für die
Tribulen d. h. die Grundbesitzer als Objekt der Besteuerung festgesetzt
worden (Str. III. 249). Grade dieser Punkt ist 1^ geeignet, um mit der
Kritik der Mommsenschen Ansicht ein- zusetzen. Mommsen macht nämlich
selbst den Zusatz, dass die Censur des App. Claudius nicht wohl denkbar
sei, wenn nicht damals schon das Tributum allgemein zur Ver-
mögenssteuer geworden wäre, d. h. wenn nicht damals schon auch die
grundsässigen Leute vom ganzen Vermögen gesteuert hätten (Str. II, 363 A.
4). Appius Claudius habe nur die Consequenz daraus gezogen, indem er die
Ärarier auch an Rechten den Tribulen gleichstellte. Mommsen erkennt
also an, dass der faktische Gegensatz, der nach seiner Ansicht
zwischen Ärariern und Tribulen bestand, dass jene vom ganzen Vermögen
steuerten, diese nur vom Grundbesitz und also die bessere Steuerklasse
waren, schon vor der Censur des Appius Claudius aufgehoben sei.
Mindestens müsste man doch beides als gleichzeitig ansetzen; denn die
Gleichstellung in den Pflichten gegenüber dem Staate hätte doch
naturgemäss die Gleichstellung in den Rechten zur notwendigen und
sofortigen Folge gehabt. Aber überiiaupt steht diese
Ansicht von der Tribusände- rung des App. Claudius auf schwachen Füssen.
Wie ge- zwungen ist zunächst die Interpretation der Quellenstellen,
wenn man sie in Mommsens Sinne auflassen will. Sagt denn Diodor oder
Livius ein Wort oder liegt in ihren Notizen auch nur eine Andeutung, dass
die Massregel des App. Claudius in der Neuaufnahme von Nichttribulen
bestanden hätten? Vv'arum hätten diese Schriftsteller, wenn sie die
appianische Massregel so aufFassten, wie Mommsen meint, nicht
deutlich gesagt, dass App. Claudius viele bisherige Nichttribulen
in <lie Tribus aufnahm und dann allen Tribulen das Recht gab,
«ich in einer beliebigen Tribus schätzen zu lassen? Diodor und Livius
selbst können also die Massregel unmöglich in Mommsens Sinne gefasst
haben, denn sonst hätten sie ja, müsste man annehmen, das Wesentliche
derselben, die Neu- aufnahme bisheriger Nichttribulen, nicht gesagt.
Nein! Beide sprechen nur von einer anderen Verteilung der Tribulen.
Es hängt diese Ansicht Mommsens, die von vielen Seiten, nur hier und da
mit nebensächlichen Abweichungen vertreten wird (Niebuhr R. G. I, 477,
ITI, 346 f. 349 — 52. Alterth. 70, 98, ist darin Mommsens Vorgänger, hat
die Ansicht nur nicht im einzelnen so genau ausgeführt. Herzog,
Gesch. und System I, 269 fl*. Ihne, Rom. Gesch. I, 366 fl*. u. a.)
eng zusammen mit seiner Auflassung vom ursprünglichen Wesen der
Tribusordnung, die wir oben widerlegt zu haben glauben. Wie
unwahrscheinlich ist es, um den oben ausgeführten Grün- den noch eine
hierhin gehörende Erwägung vom historischen Standpunkt aus hinzuzufügen,
dass eine ganze Bevölkerungs- klasse mit einem Male in die Rechte der
Vollbürger eingesetzt sei. Denn es umfassten doch nach Mommsen die
Ararier d. h. die Nichtgrundbesitzer die ganze gewerbetreibende und
die „ganze in Rom zusammengedrängte besitzlose Menge" (R.
Trib. 153), deren Gesamtzahl doch sehr gross gewesen sein muss, da sie
durch die Verteilung auf alle Tribus in der Mehrzahl der Tribus die
Majorität erlangt hat, sodass sie z. B. die noch nicht dagewesene Wahl
eines Libertinensohnes zum Curulaedilen durchsetzen konnte. Diese
Nichtgrund- besitzer müssen demnach nach Mommsen, da doch
Centuriat- und Tributcomitien den populus („die patriizisch -
plebejische Bürgerschaft") ausmachen, bis auf App. Claudius aus
dem Begrifl* des populus ausgeschieden werden. Die ganze grosse
Bevölkerungsklasse der Nichtansässigen lebte also Jahrhunderte lang bis
zum Jahre 310 v. Chr. ohne jede Teilnahme an den politischen Rechten der
Bürger lediglich als Steuerzahler. Und nirgends wird von einem Versuche
dieser grossen Be- ^ölkerungsklasse, sich die politischen
Vollbürgerrechte zu erringen, berichtet, wie es doch die plebs gethan hat. Erst
da& Machtedikt eines Schatzungsbeamten setzte sie in die Voll-
bürgerrechte ein. Ziehen wir hinzu, dass nirgends in unser» Quellen weder
von einer ursprünglichen Ausschliessung der Nichtgrundbesitzer aus den
Tribus, d. h. den VoUbürgerrechten^ noch von einer Neu aufnähme derselben
durch Appius Clau- dius auch nur eine Andeutung gemacht wird, so kann
man wohl das gesamte System Mommsens als hinfällig bezeichnen,
zumal wenn dessen Consequenzen, wie wir bei der Erörterung, der Censur
des Fabius darthun werden, bestimmten, von Quellen ersten Ranges
überlieferten Thatsachen widersprechen. Ausser Diodor imd Livius erwähnen
noch einige alte Autoren die Tribusänderung des App. Claudius:
Plutarch,. Popl. 7. Val. Max. II, 2, 9. Valerius Maximus hat, wie
man auf den ersten BHck erkennt, aus Livius geschöpft und kann, da er
nichts neues beibringt, übergangen werden. Plu- tarch sagt a. a. O. :
(Ova/Joio^) rov Orndlxior t.iJ>}](pioc(ro ngviTOv tmekevd^eimv
ty,elr<n' tv 'Piöur yeviO&ai TToUxr.v xal (fl^etv ifjijffov I]
ijOv'/MiTO (f>(ita()iH :TO(K;rfiit;0ivTa. Tol^; dt aklot^
ccTislecdiooii; oipf- y.ca uem riolvv yomov tiovoiav Diese Stelle
ist der Ausgangspunkt für die von manchen Neueren, in einigen
Variationen, vertretene Ansicht, dass die Massregel des App. Claudius
sich lediglich auf die Frei- gelassenen bezogen habe, indem man meint,
der präciseren Angabe Plutarchs über die vom appianischen Edikt
Betroffenen vor den ungenaueren des Diodor und Livius den Vorzug
geben zu dürfen. Madvig lässt die Freigelassenen mit der übrigen
besitz- losen hauptstädtischen Einwohnermasse von Anfang an auf die
4 tribus urbanae beschränkt sein (Verf. u. Verw. 1, 202 f.),. während die
übrigen Bürger je nach der Lage ihres Grund- besitzes in die Tribus
eingezeichnet wären (a. a. 0. lOO), In den städtischen Tribus hätten die
Libertinen seit Ser- vius Tullius, wie Dionys (IV, 22) überliefere, das
Stimm recht gehabt (a. a. O. 203). Zwar sei diese Beschränkung: in
und wieder durchbrochen, aber immer wieder zur Geltung gekommen und habe
bestanden, so lange es Volksversamm- lungen gegeben habe. Die erste
Aufhebung dieser Beschrän- kung sei eben das Edikt des App. Claudius,
welches den Freigelassenen den Zutritt zu allen Tribus gestattet
habe <a. a. 0. 203). Siebert fasst den Begrift der
Leute, auf welche sich das Edikt des App. Claudius bezogen habe, noch
enger. Er meint, es seien davon nur die grundsässigen Libertinen
betroifen; das Prinzip der Ansässigkeit für die ländlichen Tribus
habe der Censor nicht aufgehoben, sondern nur die grundsässigen
Libertinen den ingenui gleichgestellt, indem er sie und ihre ISöhne,
welche beide mit den nichtansässigen Freigelassenen und nichtansässigen
Freigebornen bisher auf die städtischen Tribus eingeschränkt waren (S. 23
ff.), in die ländlichen Tribus aufnahm, und zwar in diejenige, in welcher
sie ansässig waren ; in Folge dessen habe er sie auch in die Klassen und
Cen- turien aufgenommen, während sie vorher von diesen ausge-
schlossen waren und in der letzten Zusatzcenturie gestimmt hatten. In diesem
Sinne interpretiert Siebert in äusserst ge- zwungener Weise die Angaben
aller Autoren über App. -Claudius (l. c. S. 50 ff.). Ausgehend von der
Auffassung ;Niebuhrs über den politischen Charakter des App.
Claudius als eines streng patrizischen Politikers bringt nun Siebert
die Tribusändrung in der Weise mit den angeblich patrizischen
Tendenzen in Einklang, dass er annimmt, App. Claudius habe die Libertinen
begünstigt, um sich auf sie gegen die plebejische Nobilität und die
„Coalitionspartei", deren Ziel die Verbindung ^er patrizischen und
plebejischen Nobilität gewesen sei, zu stützen. Nach
Lange sind unter den humiles, welche das Edikt <les Censors betraf,
sowohl die nichtansässigen Freigeborenen als die gesamten Freigelassenen,
einerlei ob ansässig oder nicht, zu verstehen. Diese habe App. Claudius,
wenn sie es wünschten, in die Tribus des Landes eingezeichnet. Das
Prinzip der Grundsässigkeit sei also für die Tribus aufgehoben nicht aber
für die discriptio classium et centuriarum. Diese sei von App. Claudius'
Edikt nur insofern berührt, als die^ ansässigen Freigelassenen auch in
die Klassen und Cen- turien gelangt seien (Lange, Altert. II, 79 fF.).
Soltau, nach dessen Ansicht das Prinzip der Grundsässigkeit zur Zeit
der Decemvirn durchbrochen ist (Entstehung u. Zusammensetzung der
altröm. Volksversammlungen S. 477 ff.) lässt den App. Claudius nur die
Libertinen in die Tribus aufnehmen (a. a, O. 404 ff. 606).
Diesen Ansichten gegenüber muss zunächst die Frage aufgeworfen
werden, ob der einzige Plutarch, der für gewöhn- lich seine Nachrichten
über römische Geschichte aus späten» Quellen schöpft, das Gewicht hätte,
dem Diodor und Livius vorgezogen zu werden. Letztere können nämlich
sicher nicht die Tribusändrung des App. Claudius allein auf die Frei-
gelassenen bezogen haben. Denn es wäre doch wahrlich wunderbar, wenn sie
diese allein als vom appianischen Edikt betroffen angenommen hätten und
sich dabei so unbestimmt ausgedrückt hätten (Diodor: ol Tiollxm. Liv.
humiles), während sie doch bei der senatus lectio des Censors die von
Appius in den Senat Aufgenommenen ganz bestimmt als Libertinen -
söhne bezeichnen. Aber sagt denn Plutarch wirklich, das& sich die
Tribusändrung des Censors allein auf die Freigelassenen, bezogen habe?
Vindicius, so berichtet er, erhielt zur Be- lohnung von Valerius
Poplicola das Bürgerrecht und die Erlaubnis, sich eine Tribus, welcher er
angehören wolle, zu wählen ; daran knüpft er die Bemerkung : col^ (U
ttlloi^ dne- ^evd^'ciioig e^ovoiar ffi/^ipou ör^(.it(yioytov vöioi^e
^'ATiTTiot^, Das kaim doch nicht heissen, dass App. Claudius den
Freigelassenen^ das Bürgerrecht gegeben habe, da dies doch noch mehr
als das Stimmrecht umfasst, sondern es bezieht sich auf das, was-
Plutarch vom Stimmrecht des Vindicius gesagt hat; Plutarch meint also
ohne Zweifel, dass App. Claudius den Libertinen dasselbe Stimmrecht
gegeben habe, wie Valerius dem Vin- dicius, d. h. das Recht, die Stimme
in der Tribus, in welchei?. sie wollen, abzugeben. Und so gefasst
enthalten die Worte Plutarchs offenbar Wahrheit. Denn dass die
Freigelassenen zum grössten Teile von städtischem Gewerbe lebten und
unter den humiles urbam eine grosse, wenn nicht die grösste, Anzahl
ausmachten, ist an sich schon wahrscheinlicli und folgt auch daraus, dass
eme der wichtigsten Wirkungen der appianischen Tribusänderung die
Wahl eines Libertinensoimes zur curulischen Aeddität gewesen ist (s.
unten), dass also die vom appianischen Edikt Betroffenen vom
libertinischen Element dominiert wurden. Aber allein können die
Freigelassenen nicht diejenigen gewesen sein, auf welche sich das Edikt
bezog. Das sagt kein Schriftsteller, selbst Plutarch nicht, und es wird
be- sonders dadurch bewiesen, dass erst im 6. Jahrhundert der Stadt
ein rechtlicher Unterschied zwischen libertini und ingenui festgesetzt
wurde, indem um das Jahr 220 v. Chr. die liberum auf die 4 tribus urbanae
beschränkt wurden (Liv. Ep. 20. cf. Mommsen, Str. III, 436 ff Madvig,
Verf. und Verw. I, 203 f.). Auch Mommsen lässt die Freigelassenen nur
einen Teil derer sein, auf welche sich die Massregel des App.
Claudius bezog, und zwar hätten sie unter den Bürgern, denen sie
vor allem zum Vorteil gereichte, an Zahl besonders hervorgeragt.
Die Libertinen, meint er (R. Trib. 153 f. Str. III, 43o), hätten unter
den nicht grundsässigen ohne Zweifel die erste Stelle eingenommen, weil
es ihnen bei „der noch ungebrochenen Erbgutsqualität ^ unmöglich,
wenngleich nicht verboten, ge- wesen sei, Grundbesitz zu erwerben. Deshalb
hätte die That des Appius, die Aufhebung des Prinzipes der
Grundsässigkeit für die Personaltribus , allenfalls als Verleihung des
Stimm- rechtes an die Freigelassenen bezeichnet werden können, wie
es Plutarch thue. Es hängt diese Ansicht, wie man sieht, eng mit der allgemeinen
Auffassung Mommsens von der Tribus- ändrung des App. Claudius
zusammen. Recapitulieren wir kurz unsere Resultate: Die
Tribus- ändrung war eine lokale Distriktseinteilung, sie war von
Haus aus dazu bestimmt, eine politische Volkseinteilujig zu sein,
d. h. sie hatte den Zweck, dass die Bürger nach ihr geordnet ihre
Ptlichten und Rechte gegenüber dem Staate erfüllten. Sie umfasste daher
die gesamte Bürgerschaft (mit P]inschluss der Freigelassenen): die Tribus
in personaler Beziehung be- zeichnete also das Bürgerrecht schlechtliin.
Der Bürger war in Bezug auf die Ausübung der Rechte, welche ihm die
Tribus gewährte, an die Tribus seines Wohnortes gebunden. Diesen
Domizilszwang für die Tribusordnung hob App. Claudius auf. Es hatte dies
die natürliche Wirkung, dass sich die in der Stadt zusammengedrängte
Masse der niedrigen Volksschichten über alle Tribus verbreiteten, um
einen ihrer Kopfzahl ent- sprechenden Einfluss in den einzelnen Tribus zu
gewinnen; sie erhielten so' in den Tributcomitien die Oberhand und
auch in den Centuriatcomitien gewannen sie grössere Geltung.
Es haben sich Spuren in der Überlieferung erhalten, dass die
humiles von ihrem neuen Rechte, in jede beliebige Tribus eintreten zu
dürfen, ausgiebig und leidenschaftlich Gebrauch gemacht haben, vielleicht
dass sie sich planmässig über die einzelnen Tribusbezirke verteilt haben,
um in möglichst vielen oder allen Tribus vermöge ihrer Kopfzald — und
diese muss gross gewesen sein — die Majorität zu erlangen. Livius sagt
(IX, 46, 13) : ex eo tempore (vgl. Weissenborn z. d. St.: seit der Censur
des Appius Claudius) in duas partes discessit civitas: aliud integer
populus fautor et cultor bonorum, aliud forensis factio tenebat, doncc
etc. ; es sind hier unter der forensis factio die Leiter der Bewegung zu
verstehen, welche bezweckte, auf Grund der appianischen Tribusänderung
die humiles möglichst planmässig über die Tribus zu verteilen, um
ihnen in den meisten Tribus die Majorität zu verschaffen, während der
integer populus diejenigen bezeichnet, welchen nichts daran lag oder
liegen wollte, dass die humiles so in ihren Rechten gefördert wurden, und
welche sich daher an der Bewegung nicht beteiligten. Die humiles, zu
deren Nutzen A.pp. Claudius sein Edikt der Tribusändrung erlassen
hat, scheinen also ihr neues Recht energisch benutzt zu haben.
Einen grossen Erfolg erreichten sie sechs Jahre nach dem Erlass des
Ediktes: sie setzten nämlich in den Tributcomitien ciie Wahl eines
Libertinensohnes, des Cn. Flavius, zum curu- lischen Aedilen durch. Dass
diese Wahl mit der Censur des App. Claudius zusammenhängt, ist sicher
bezeugt (s. unten). Diodor sagt a. a. O.: o di- drjuo^ TOthoig f-dv
dvTi7TQdTT0)v (d. i. rolg iTiKpaveOTcnoig) t(;7 di- ^Atttiui) o i luf i
/.OTijiiObuerog y.a) t/]v tlov dtoyerolr TFQOayioyj]}' ßsßcatoaai
ßoch^ievog^ dyn^aroiwr eilezo ^rjg tTiKfarearFnag ccyooavoiiiag vlor
uTte/.rvd^H^no FvaTov 0l(xßiov etc. ; und Livius : ceterum Flavium
dixerat aedilem forensis factio App. Claudii censura vires nacta . .
. Die Nobilität hatte zwar sogleich im folgenden Jahr nach
der Abdankung des App. Claudius (d. i. im J. 307) neue Censoren, M.
Valerius und C. Junius , gewähl t, offenbar so schnell, um die
Tribusändrung des App. Claudius rückgängig zu machen. Aber diese
erreichten nichts, wir wissen nicht, warum. Kach sehr kurzem Lustrum,
drei Jahren, wählten sie nun zwei Männer zu Censoren, welche schon als
Consuln d. J. 308 energisch gegen eine Neuerung des App. Claudius
vor- gegangen waren, den Q. Fabius und P. Decius. Diesen
gelang es auch, die Tribusändrung des App. Clau- dius umzustossen.
Über die Censur des Q. Fabius und P. Decius ist allein der Bericht
des Livius (IX, 46) von Wert. Wir haben er- örtert, dass der Abschnitt,
in welchem Livius hiervon berichtet (IX, 46 von ceterum bis Schluss) ,
aus einer andern und besseren Quelle geschöpft ist. Valerius Maximus (II,
2, 9) kann, weil er den Livius benutzt hat und nichts neues bei-
bringt, bei Seite gelassen werden ; ganz wertlos ist wegen ihrer
Nachlässigkeit die Angabe des Auetor de viris illustribus 32: censor
libertinos tribubus amovit. Es heisst bei Livius a. a. O. : Fabius
simul concordiae causa simul, ne humillimorum in manu comitia essent,
omnem forensem turbam excretam in quatuor tribus coniecit urbanas-
que eas appellavit; adeoque eam rem acceptam gratis animis ferunt, ut
Maximi cognomen, quod tot victoriis non pepererat, hac ordinum
temperatione pareret. Dieser Bericht wird von den Forschern je nach
ihrem verschiedenen Standpunkt, den sie der Massregel des App^
Claudius gegenüber einnehmen, ausgelegt. Mommsen nimmt an, dass Fabius
für die seitdem sogenannten ländliclien Tribu» den Zustand wieder
eingeführt habe, der vor Appius war, d. h. dass für sie ländlicher
Grundbesitz wieder das Requisit wurde. Die vier städtischen dagegen , in
deren lokalem Be- reich die forensis turba domiziliert war, habe er den
nicht ansässigen Bürgern überlassen und habe sie, die nicht minder
ländliche gewesen waren , deshalb die städtisclien genannt. (R. Trib.
154.) Von Ansässigen seien vermutlich mir die nicht zahlreichen
Hausbesitzer ohne Landbesitz in den städti- schen Tribus geblieben (Str.
III, 186). Dass so in den Tribut-^ comitien das Übergewicht der ansässigen
Bürger w^ieder her- gestellt wurde, sei klar; und dafür, dass die
Nichtansässigen sich nicht aus den vier städtischen Tribus über alle
Centurien verbreiteten, habe die Machtvollkommenheit der Censoren
sorgen müssen. (R. Trib. 155. Str. III, 184 f. 269 f.). Es steht
und fällt diese Ansicht mit der Auffassung vom Wesen der Tribus und der
Änderung, die App. Claudius damit vornahm. Aber gerade an dieser Stelle
erheben sich noch einige gewichtige Bedenken, welche das ganze
Mommsensche System treffen. Mommsen meint, dass in den
städtischen Tribus nur Nichtansässige und höchstens w^enige städtische
Hausbesitzer, also zumeist die ärmeren und ärmsten Bürger, ständen.
Es müssen aber in ihnen Bürger aller Censusklassen gestanden haben.
Das geht deutlich aus dem Ausliebungsbericht des Polybius (VI, 19, 20)
hervor. Von der Aushebung sind nach Polybius überhaupt au.sgeschlossen
die Libertinen und alle, deren Census 4000 Ass nicht erreichte. Nach dem
Berichte des Polybius werden nun die einzelnen Tribus nach dem
Loose vorgerufen imd dann für 4 Legionen je 4 und 4 ausgewählt. Da
die Dienstpflicht und die Ausrüstung sich nach dem Census abstufte, so
muss innerhalb der einzelnen Tribus die Aushebung nach den Censusklassen stattgefunden
haben. Also müssen doch alle Censusklassen in allen Tribus vertreten sein,
also auch in den städtischen (vgl. Niese, Göttinger gelehrte An-
zeigen 1888, No. 25, S. 959). Auch in den städtischen Tribus müssen
demnach die höchsten Censusklassen vertreten gewesen sein. Für die
spätere Zeit ist dies wirklich nachgewiesen. Senatoren erscheinen
mehrfach in städtischen Tribus: Ein Aemilier (C. J. L. II, 3837),
ein Manlier (C. J. L. VI, 2125), ein Nummier (C. J. L. V, 4347>
in der Palatina, ein Sestius (Bull, de corr. hellen. XI, 225), ein
Coponius (Josephus, Archäol. XIV, 8, 5), ein Matius^ (C. J. L. V, 1872),
welches sämtlich Senatoren sind (vgL Mommsen Str. III, 788 f. Niese,
Gott. Gel. Anz. a. a. O.). Mommsen übersieht dies freilich nicht, er
weiss es auch zu erklären: In der späteren Zeit, so sagt er, sei die
Bedeutung^ der Tribus ganz anders geworden, und zwar seit dem
Sozial- krieg ; sie habe seitdem eine persönliche und vom
Grundbesitz unabhängige, nur die origo d. h. die Heimatsberechtigung
in einer Vollbürgergemeinde ausdrückende Rechtsqualität be-
zeichnet. Auch auf Rom selbst sei diese neue Bedeutung^ übertragen; und
als dies geschehen sei, da hätte sich ein jeder seine Tribus wählen
können oder seine frühere behalten können. So seien die genannten
Patrizier in die städtischen gelangt: und die altadligen Manlier und
AemiHer hätten füg- lich ihrem Adelstolz durch die Wahl der Tribus des
könig- lichen Rom Ausdruck geben wollen (Str. III, 789). Die Un-
wahrscheinlichkeit steht dieser Erklärung an der Stirn geschrieben. Wozu
nimmt man eine solche Wandlung in der Bedeutung der Tribus an, die so
künstlich erklärt werden muss, und die zu dem ganz und gar unbezeugt ist.
Nach unserer Ansicht erklärt sich der Umstand, dass später auch die
ersten Censusklassen in den städtischen Tribus vertreten sind, einfach
so, dass sie auch in früherer Zeit und von Anfang: an darin haben stehen
dürfen und gestanden haben. Diejenigen Forscher, welche die
Tribusändrung des App^ Claudius allein auf die Libertinen beziehen,
müssen dasselbe^ auch von der Massregel des Fabius behaupten; sie
meinem also, dass die Libertinen von Fabius auf die 4 städtischen
Tribus beschränkt seien. Auf die einzehien Variationen dieser Ansicht
(Madvig, Verf. u. Verw. I, 203. Lange, Altert. II, 92 f. Siebert, App.
Claud. 79) und ihre Widerlegung brauche ich nicht einzugehen, nachdem wir
nachgewiesen, dass des Appius Massregel nicht allein die Libertinen
betroffen haben kann. Wie nun hat Q. Fabius die
Tribuaiindrung des App. Claudius rückgängig gemacl\t?
Die wichtigste und den Optimaten so unangenehme Wirkung des
appianischen Edikts war die gewesen, dass die urbani Jiumiles sich über
alle Tribus verteilten und besonders die Abstimmungen der Tributcomitien
völlig in ihre Gewalt be- kamen. Diese Wirkung musste nun ausgeglichen
werden. Und Fabius bewirkte dies dadurch, dass er den humiles nicht
mehr alle Tribus, sondern nur eine kleine Anzahl frei Hess. Omnem
forensem turbam excretam in quatuor tribus coniecit urbanasque eas
appellavit, sagt Livius. Fabius schied also die forensis turba, die
humiles aus, d. h. er schied sie aus <ler Zahl der übrigen Tribulen
und den Gesetzen, welche für diese galten, aus, nahm ihnen das Recht,
sich in jeder beliebigen Tribus zu schätzen, und beschränkte sie auf vier
Tribus, und zwar, wie sich das natürlich ergab, auf die ihres
Wohnsitzes, die städtischen. Der Domizilszwang für die Ausübung der
Rechte, welche mit der Tribus verbunden waren, blieb nach wie vor
aufgehoben. Nur auf die humiles bezog sich das Edikt des Fabius, während
für alle andern Bürger die An- ordnung des App. Claudius auch weiterhin
zu Rechte bestand, sodass sich dieselben also in jeder beliebigen
ländlichen oder städtischen Tribus schätzen lassen konnten , welches
letztere aber kaum vorgekommen ist, da es wertlos war. Die Massregel
bezweckte nur das Übergewicht der humiles urbani ^u brechen, welches
diese nach dem Edikt des App. Claudius vermöge ihrer Kopfzahl in den
Tributcomitien erlangt hatten, und dies wurde dadurch erreicht, dass den
humiles die vier «tädtischen Bezirke angewiesen wurden, in welchen sie
allein ihre politischen Rechte ausüben durften. Innerhalb derselben
wird dem Einzelnen die Wahl der Tribus überlassen sein^ sodass also auch
für sie nicht wieder der alte Domizilszwang für die Ausübung der
politischen Rechte eingesetzt wurde. Das Edikt des Fabius bezog
sich demnach ledighch auf die humiles urbani, deren Vorteil App. Claudius
mit seiner Tribusänderung bezweckt hatte. Aber Fabius kann unmög-
lich als die, welche sein Edikt betraf, nur ganz unbestimmt die humiles
genannt haben, er muss eine bestimmte Grenze gezogen haben für die,
welche in der Folge nur in den städtischen Tribus ihre politischen Rechte
ausüben durften. Es ist darüber nichts überliefert. Kahe liegt die
Vermutung^ dass die Beschränkung sich auf diejenigen bezog, welche
den Minimalcensus nicht erreichten. Doch ist das eine blosse
Vermutung. Wenn Livius sagt: urbanas eas appellavit, so heisst
das nicht, dass diese Tribus vorher noch nicht bestanden hätten^
oder dass die Bezeichnung tribus urbanae von Fabius er- funden wäre. Da
aber jetzt durch ein Gesetz der in der Stadt wohnenden niederen
Volksmasse die vier städtischen Tribus speziell angewiesen wurden, so
verband sich mit dem Begriff der tribus urbanae seitdem der Begriff der
geringer geachteten Tribus gegenüber den rusticae; und so scheint
Livius den obigen Ausdruck zu fassen: Fabius habe die Tribus urbanae
zuerst so in dem geringschätzigen Sinn ge- nannt. Damit ist nicht
ausgeschlossen, dass nicht Patrizier oder sonstige reiche Grundbesitzer
in den städtischen Tribut nach Fabius stehen konnten. Gestattet war es
nach unserer Auffassung der Massregel des Fabius, und es ist nach
den angeführten Beispielen sicher. Vielleicht sind es solche,
welche in der Stadt wohnten und es vorzogen, ihre politischen Rechte am
Wohnort zu üben oder aus einem andern Grund. Wie durch die
Massregel des Fabius das Uebergewicht der humiles in den Tributcomitien
gebrochen wurde, ist klar. Aber auch in weniger Centurien müssen sie
verteilt sein, da. "sie in weniger Tribus standen. Doch
dies ist eben ein völlig unbekannter Punkt (s. oben). Die Bedeutung
und der Zweck der Massregel des Fabius lag darin, dass sie das
Uebergewiclit der humiles in den meisten Tribus brach. Und
dies war eine grosse That, seitdem dieselben schon sechs Jahre lang ihr
neues Recht, sich in allen Tribus schätzen zu lassen, gebraucht hatten.
Fabius erhielt davon den Namen des Grossen (Liv. a. a. O.).
Cap. 5. Sonstiges über den Censor App. Claudius Caecus
und Schlussurteil. Der Neuerungssinn unseres Censors hat sich
auch auf andern Gebieten bethätigt. Ich erwähne kurz, dass er sich
auch mit litterarischen Dingen, Eloquenz, Poesie, Grammatik,
Orthographie, befasst haben soll (Cic. Tusc. 4, 2. Priscian 8, 18. Dig.
1, 2, 36. Hart. Cap. 1, 3, 261. vgl. Mommsen, Rom. Forsch. 1, 303).
Alsdann habe ich zwei Anordnungen des App. Claudius über sakrale
Dinge zu nennen. Die erste ist die Austreibung der Pfeifergilde aus dem
Tempel des Jupiter. Livius (X, 30) erzählt diese heitere Geschichte
genauer (vgl. Censorin. d. d. n. 12. Ovid, fasti, VI, 653-92. Val. Max.
II, 5, 4); man kann aber nicht wissen, in wie weit sie historisch ist
(vgl. Mommsen, R. Forsch. 1, 303. Lange, Alterth. II, 78). Eine
zweite Änderung des App. Claudius im Götterkult ist die Uebertragung des
Herkuleskult von der gens der Potitier auf Gemeindesklaven (Liv. IX, 29.
cf. I, 7. Festus, pag. 237. Varro, 1. 1. VI, 54. Val. Max. I, 1, 17.
Macrob. Saturn. III, 6). Historisch scheint daran die Uebernahme des
Her- kuleskult von Seiten des Staates zu sein, der ihn dann durch
Staatssklaven ausüben Hess (Preller, Mjthol. 651. Marquardt,
Staatsalterth. VI, 422. Niebuhr, III, 362. Schwegler, R. G. I,
69.). Mit der Potitierlegende steht in unserer Ueberlieferung
unseres Censors Beiname Caecus im Zusammenhang. Die Götter seien durch
jene Massregel erzürnt , erzählt Livius <^IX, 29), und hätten ihn
einige Jahre nach seiner Censur mit Blindheit geschlagen. Daher habe er
seinen Beinamen er- halten. Aber diese Annahme wird schon dadurch
widerlegt, •dass App. Claudius in den Fasten noch zwei Mal, i. J.
307 und 296, als Consul erscheint (Diod. XX, 45). Es ist diese Erzählung
ohne Zweifel nur ein Versuch , das Cognomen zu erklären, der aber durch
die angegebene Thatsache als falsch "bewiesen wird; denn was Cicero
(Tusc. disp. V, 38, 112) sagt, App. Claudius habe sich, obwohl er blind
gewesen sei, keinem Amte entzogen, ist doch nicht zu glauben. Ein
eben- so zu beurteilender Erklärungsversuch des Beinamens ist die
Nachricht Diodors, dass App. Claudius ^iji; di)yf^g diioi.v^tig xal lor
icTTO r/;s' avyy.hWov ifih'.vov ev'Ucßr.^rt)^ tc oo^- tTTOirOrj TV(fi/Mg
elvai y.u) xar^ oiy.iar iiietrer. In Diodors eignen Fasten erscheint App.
Claudius i. J. 307 bereits wieder als Consul (Nitzsch, Rom. Annal. 233.
Mommsen, Forsch. II, 362). Die natürlichste Erklärung des Beinamens
ist die , dass man annimmt, App. Claudius sei im Alter erblindet;
einige Autoren melden dies (Liv. ep. XIII. Cic. de senect. 6, 16.
Plut. Pyrrh. 18. Appian, Samn. X, 2. Dionys. 16, 6); und viele neuere
Forscher folgen ihnen (vgl. dagegen Mommsen, R. Forsch. I, 302). Sicher
nachweisen lässt es sich nicht, denn in den ältesten Annal en ist es
nicht überliefert. Das geht daraus hervor, dass der alte Gewährsmann
Diodors eine so falsche und merkwürdige Erklärung des Beinamens
geben konnte. Die Aemter, welche App. Claudius ausser der
Censur bekleidet hat, führt sein Elogium (C. J. L. I, S. 287 N.
XXVIII) auf, welches auch einige Thaten berichtet. Es lautet: Appius
Claudius C. F. Caecus Censor. cos. bis dict. interrex III. Pr. II. aed.
cur. IL Q. Tr. mil. III complura oppida de Samnitibus cepit, Sabinorum et
Tuscorum exerci- tum fudit, pacem iieri cum Pyrrho prohibuit, in censura
viam Appiam stravit et aquam in urbem adduxit, aedem Bellonae
facit. Ich komme nun zu einer wichtigeren Frage, zur Erörte-
rung des Zusammenhangs der Censur des App. Claudius mit der Ädihtät des
Cn. Flavius im J. 304 (über die Schwierig, keiten des chronologischen
Ansatzes der Adilität vgl. Liv. IX. 46. Plin. n. h. XXXIII, 1. 17—20.
Mommsen, Chron. 193, 388. Matzat, Chron. I, "266. Seeck,
Kalendertafeln 20, 22 f. Soltau, Prolegomena zu einer röm. Chron. 4
ff.). Cn. Flavius war der Sohn eines Freigelassenen (Diod:
TiuT{id^ (oy ()8dov'/.evy,(hü^). Als solcher ist er zuerst zu einem
curulischen Amte gelangt. Bald scheint dies öfter vorge- kommen zu sein ;
in einem Briefe Philipps V. von Makedonien an die Larisäer (Hermes 17,
469) heisst es, dass die Römer im Unterschiede von den Griechen die
freigelassenen Sklaven zum Bürgerrecht und zu den Amtern zulassen. Cn.
Flavius verdankte seine Wahl der Tribusänderung des App. Clau-
dius. Die curulischen Adilen wurden in den Tributcomitien gcAvählt, was
bei dieser Gelegenheit zuerst erwähnt wird (Pisa b. Gellius VII, 9.
Livius IX, 40, 1 — 2, der aus Piso wört- lich geschöpft hat). Wir haben
erörtert, dass durch die appia- nische Tribusänderung die niederen
Bevölkerungsklassen das Übergewicht in den Tributcomitien erhalten haben,
sodass sie einen solchen Erfolg, wie die Wahl eines
Libertinensohnes^ zum curulischen Ädilen, erzielen konnten. Diodor und
Livius erwähnen klar genug den Zusammenhang der Tribusänderung des
App. Claudius mit der Wahl des Cn. Flavius zum Ädilen (Diod.: o ()i-
()/;/i()s" f^;^ \i7i7iUi) oi\u(fi'/.OTtfiouf.i€vOi; xui Ttjv
diayev(^)i' 7r{iüir/vr/i]r ßeßati'lGai ßou/.uuerOi^ cr/OQm'ojnor eilfjo
etc. Liv: ceterum Flavium dixerat aedilem forensis factio Appii Claudii
censura vires nacta). App. Claudius und Cn. Flavius haben überhaupt
wahrscheinlich in nähern Be- ziehungen zu einander gestanden. Eine
Nachricht lässt den Flavius vor seiner Aedilität Schreiber des App.
Claudius sein (Plin. a. -a. O.j. Cn. Flavius führte sein Amt ganz im
Sinne seines Meisters, des App. Claudius. Das beweisen seine
Thaten, auf die ich aber nicht einzugehen habe. Die Forscher shid sich
noch nicht einig darüber (vgl. Liv. IX, 46, 5. Cic. pro Murena 11, 25.
Plin. n. h. XXXIII. , 1, 17—20. Mommsen, Röm. Forsch. I, 304. Seeck,
Kalendertafeln 32 ff.). Ohne Zweifel ist, dass die Thaten des Cn.
Flavius den- selben demokratischen Neuerungssinn zeigen als diejenigen
des App. Claudius. Über App. Claudius hat schon der gute
Gewährsmann Diodors dieses Urteil, tioIICc toIv TtaT^ycliov voiiliicor
ly.ivr^ae. sagt Diodor von unserm Censor. Dem gegenüber haben
einige Notizen jüngerer Autoren, woraus folgen würde, dass App. Claudius
speziell hocharistokratische Tendenzen in seiner Po- litik verfolgt habe,
kein Gewicht. Die Nachrichten des Livius, App. Claudius habe i. J. 299
die lex Ogulnia, wonach vier Pontifices und fünf Augurn aus der Plebs
hinzugewählt werden sollten, mit allen Mitteln zu vereiteln gesucht, er
habe als Kandidat für das Konsulat (nach Cic. Brut. XIV, 55 als
interrex, was er i. J. 399 (Liv. X, 11) war,) die zweite Konsulstelle den
Patriziern zurückzugewinnen versucht, diese Nachrichten sind, was Mommsen
(R. Forsch, I, 311 f.) dar- gethan hat, erfunden: wer wird es glauben,
dass ein Mann wie App. Claudius, nachdem er als Censor die niederen
Volks- schichten mit seinen Massnahmen begünstigt hat, nun einige
Jahre später extrem aristokratische Tendenzen verfolgen konnte? Offenbar
sind diese Nachrichten erfunden nach dem Schema, nach welchem alle
Claudier als Volksfeinde in der jüngeren Annalistik dargestellt sind.
/ Unserer Ansicht nach war unser Censor ein demo- kratischer
Neuerer, ein Urteil, welches schon, wie gesagt, der Gewährsmann Diodors
gehabt hat. Er begünstigte und förderte die niedrigen und niedrigsten
Volksschichten, be- sonders die städtische Bevölkerung^klasse , den
Handelsstand und das in ihm am meisten vertretene libertinische
Element. Dazu passt vortreff'lich , dass wir ihn als Beförderer des
griechischen Einflusses kennen lernen; und schliesslich lässt sich in
diesem Zusammenhange recht klar sein letztes politisclies Auftreten, seine
bekannte Senatsrede gegen den Gre- sandten des Pyrrlms, verstehen. Nur in
dieser Auffassung lässt sich ein harmonisclies Bild von dem politischen
Charakter unseres Censors, von seinen politischen Absichten und
Zielen herstellen. 4 Lebenslauf. I Icli,
Theodor Ludwig Carl Sieke, Solin des Volksschul- llehrers Friedrich Sieke
zu Marburg, bin geboren am 6. Oc- itober 1864 zu Mengringhausen im
Fürstentum Waldeck. ;Ich bekenne mich zur evangelischen Confession. Die
erste Ausbildung erhielt ich von meinem Vater, trat Ostern 1878 in
die Quarta des Marburger Gymnasiums, welches icli Ostern mit dem Zeugniss
der Reife verliess. Ich bezog als- dann die Universität Marburg, um mich
dem Studium der '^eschichte, germanischen und klassischen Piiilologie
zu idmen. Ich hörte Vorlesungen bei den Herren Professoren
Bergmann, Birt, Caesar (f), Cohen, Fischer, Justi, Koch, -^enz, Lucae
(f), Niese, Varrentrapp, Schmidt, beteiligte mich nehrere Semester an den
Uebungen der historischen Semi- liare, des althistorischen unter Leitung
des Herrn Professor Niese, des neuhistorischen unter Leitung der Herren
Professoren >nz und Varrentrapp, war Mitglied des germanistischen
Semi- ^lars des Herrn Professor Lucae (f) und wohnte den pliilo-
Bophischen Uebungen des Herrn Professor Bergmann bei. fm Sommer-Semester
1885 besuchte ich die Universität Berlin md hörte dort Vorlesungen bei
den Herren Professoren Delbrück, Kiepert, Koser, Roediger, Scherer (f),
v. Treitschke md Zeller. I Allen diesen Herren spreche ich an
dieser Stelle meinen iefsten Dank aus, besonders den Herren Professoren
Niese and Varrentrapp. I>ruck von Gebrüder
Gotthelft in Casael. Gustavo Bontadini. Keywords: la neoclassica, neoclassico
come concetto contradittorio o ironico -- storia della filosofia, storia della
filosofia italiana, de-ellenizzazione”, appio primo filosofo romano in lingua
Latina -- “conversazioni metafisiche”, “conversazione metafisica”, “gnoseologia”,
“gnoseologismo”, “problematicismo”, “metafisica dell’esperienza”, ens,
essential, l’essere, essere, verbo, nome, sostantivo, copula, parmenideismo,
severino, la porta di Velia, Grice Vx, x izz x. Grice, RAA, Reductio ad
absurdum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Bontadini” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Bontempelli – il sintomo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pisa).
Filosofo italiano. Grice: “Bontempelli knows that the Romans never liked the
Greek ‘symptom,’ but ‘coincidence’ seems weak: x means y if y coincides with x,
or if x is a symptom of y.’ (‘those spots mean measles’ – and ‘dog’ means that
there is a dog.”” -- “I suppose my favourite Bontempelli is his section on
Roman philosophy in his history of philosophy series!” -- There is the other
Massimo Bontempelli, nato a Como. Como-born Massimo Bontempelli had a son,
called Massimo Bontempelli. Massimo Bontempello ha un cugino, nipotte di
Massimo Bontempelli: Alessandro Bontempelli. Nato a Pisa, dopo il conseguimento
della laurea in filosofia, Bontempelli dedica all'insegnamento negli
istituti superiori, alla realizzazione di manuali scolastici di storia e
filosofia e alla stesura di saggi di argomento filosofico. Storico di
impostazione marxiana, e originale pensatore filosofico di orientamento
neoidealista, realizza i suoi più importanti contributi imperniando lo studio
dei processi storici attorno alla categoria di "modo di produzione".
Tematizza con attenzione le strutture sociali entro i modi di produzione neo-litico,
nomade-pastorale, prativo-campestre, antico-orientale, asiatico, africano, meso-americano,
schiavistico, colonico, feudale e capitalistico, elaborando su queste basi una
ri-costruzione della genesi sociale dei fenomeni filosofici. Rilevante è la sua
interpretazione della figura storica di Gesù, ricostruita entro una totalità
sociale a partire dalla analisi dell'economia pianificata del modo di
produzione antico-orientale palestinese, sulla scorta di una prospettiva
metodologica storico-scientifica nei confronti dei vangeli. Come storico della
filosofia ha studiato in particolare il pensiero platonico, neo-platonico e la
dialettica hegeliana. Come pensatore filosofico originale viene collocato da
Costanzo Preve all'interno della corrente del neo-idealismo italiano, essendo
il suo pensiero fortemente influenzato dalla Scienza della Logica hegeliana. Muove
dalle profonde critiche al nichilismo contemporaneo e al relativismo anti-metafisico
per approdare ad un tentativo di rifondazione onto-assiologica degli orizzonti
di senso dell'esistenza umana sulla scorta di una indagine della natura
trascendentale dell'uomo, alla luce di un superamento della polarità dualistica
empiria/trascendenza. Si dedica alla critica serrata della sinistra politica e
allo sviluppo del tema della decrescita. Altre opere: “Il senso della
storia antica. Itinerari e ipotesi di studio” (Milano, Trevisini); “Antiche
strutture sociali mediterranee” (Milano, Trevisini), “Storia e coscienza storica”
(Milano, Trevisini); Per il triennio; “Civiltà e strutture sociali
dall'antichità al medioevo” (Milano, Trevisini); “Antiche civiltà e loro
documenti” (Milano, Trevisini); “Civiltà storiche e loro documenti” (Milano,
Trevisini, Per il triennio); “Filosofia: Il senso dell'essere nelle
culture occidental” (Milano, Trevisini); Filosofia, Napoli, Istituto Italiano
per gli Studi Filosofici PRESS,. [riedito nel
in versione aggiornata dalle edizioni Accademia Vivarium Novum] “Eraclito
e noi”” (Milazzo, Spes); “Percorsi di verità della dialettica antica” (Milazzo,
Spes); “Nichilismo, verità, storia” (Pistoia, CRT); “Gesù. Uomo nella storia,
Dio nel pensiero” (Pistoia, CRT); “La conoscenza del bene e del male, Pistoia,
CRT); “La disgregazione futura del capitalismo mondializzato, Pistoia, CRT); “Tempo
e memoria, Pistoia, CRT); “Il concetto di realtà e il nichilismo contemporaneo,
Pistoia, CRT); “L'agonia della scuola italiana” (Pistoia, CRT); “Un sentiero attraverso
la foresta hegeliana, Pistoia, CRT); “Eraclito e noi. La modernità attraverso
il prisma interpretativo eracliteo, CRT, Diciamoci la verità, "Koiné"
n.6, Pistoia, CRT, Le sinistre nel capitalismo globalizzato, Pistoia, CRT, Un
nuovo asse culturale per la scuola italiana, CRT, Pistoia, L'arbitrarismo della
circolazione autoveicolare, Pistoia, CRT, -- very Griceian: Grice: “D. K. Lewis
drew his example of the arbitrariness of a convention from Massimo
Bomtempelli.” Il sintomo e la malattia. Una riflessione sull'ambiente di Bin
Laden e su quello di Bush” (Pistoia, CRT, -- cf. Grice: “I took the example,
‘those spots mean measle’ from Bontempelli, “Il sintomo e la malattia” – “Il
sintomo” -- [ristampato nel dalla casa
editrice Petite Plaisance] Diciamoci la verità, CRT, Pistoia); “Il respiro del
Novecento. Percorso di storia del XX secolo. 1914-1945” (Pistoia, CRT, Il mistero
della sinistra’ (Genova, Graphos, La
Resistenza Italiana. Dall'8 settembre al 25 aprile. Storia della guerra di liberazione,
Cagliari, CUEC, La sinistra rivelata” (Bolsena, Massari, Il Sessantotto. Un
anno ancora da scoprire, Cagliari, CUEC [ristampato nel ] Civiltà occidentale” Genova,
Il Canneto,. Marx e la decrescita, Trieste, Abiblio,. Platone e i preplatonici.
Morale in Grecia, introduzione di Antonio Gargano, Napoli, Istituto Italiano
per gli Studi Filosofici PRESS); “Un pensiero presente: scritti su Indipendenza, Roma, Indipendenza Editore
Francesco Labonia,. Capitalismo globalizzato e scuola, Roma, Indipendenza Editore
Francesco Labonia, La sfida politica della decrescita, Roma, Aracne,. Gesù di
Nazareth, Pistoia, Petite Plaisance; “Il respiro del Novecento, "Koiné"
n.6, Pistoia, CRT); “Metamorfosi della scuola italiana, "Koiné" n.4,
Pistoia, CRT, Visioni di scuola. Buoni e cattivi maestri, "Koiné"
n.5, Pistoia, CRT, Scienza, cultura, filosofia, "Koiné" n.8, Pistoia,
CRT, 2002. I cattivi maestri, in I Forchettoni Rossi, Roberto Massari, Bolsena,
Massari. Addio al professor Massimo Bontempelli, Il Tirreno. Bontempelli individua, in diverse epoche, un
feudalesimo ario, cinese, indiano, iranico del regno dei Parti, del Vicino
Oriente islamico, del Ghana e infine il feudalesimo occidentale. Gesù uomo nella storia, Dio nel pensiero
(uaar) Costanzo Preve, Ideologia
italiana. Saggio sulla storia delle idee marxiste in Italia, Milano,
Vangelista, 1993 (p. 201 sgg.) Marxismo
modo di produzione. Una vita semplice, una mente scintillante,Le idee forti di
Massimo Bontempelli. Il bene come processo possibile concreto: natura umana e
ontologia sociale. u a be US (2 Se Um
. %. Pr pn d Der sd g,’ fr Ben = Ri »
e Wu sIGM FREUD Hemmung, Symptom und
Angst re et . Van * A 1.1 ee
ne ia he Hemmung, Symptom und
Angst von Siem. Freud Internationaler
Psychoanalytischer Verlag Leipzig u RE ai Zürich Alle Rechte
vorbehalten, insbesondere die der Übersetzung in alle Sprachen
Copyright 1926 bv „Internationaler Psychoanalytischer Verlag, Ges.
m. b. H.*, Wien Druck: Elbemühl Papierfabriken und Graphische
Industrie A.G. Wien, IL, Rüdengasse ıı I Unser Sprachgebrauch
läßt uns in der Beschreibung pathologischer Phänomene Symptome und
Hemmungen unterscheiden, aber er legt diesem Unterschied nicht viel
Wert bei. Kämen uns nicht Krankheitsfälle vor, von denen wir aussagen
müssen, daß sie nur Hem- mungen und keine Symptome zeigen, und wollten
wir nicht wissen, was dafür die Bedingung ist, so brächten wir kaum
das Interesse auf, die Begriffe Hemmung und Symptom gegeneinander
abzugrenzen. Die beiden sind nicht auf dem nämlichen Boden
erwachsen. Hemmung hat eine besondere Beziehung zur Funktion und bedeutet
nicht notwendig etwas Pathologisches, man kann auch eine normale
Ein- schränkung einer Funktion eine Hemmung derselben nennen.
Symptom hingegen heißt soviel wie Anzeichen eines krankhaften Vorganges.
Es kann also auch eine Hemmung ein Symptom sein. Der Sprachgebrauch
verfährt dann so, daß er von Hemmung spricht, wo eine einfache Herabsetzung
der Funktion vorliegt, von 6 Siem. Freud Symptom, wo es sich
um eine ungewöhnliche Ab- änderung derselben oder um eine neue Leistung
handelt. In vielen Fällen scheint es der Willkür überlassen, ob man
die positive oder die negative Seite des pathologischen Vorgangs betonen,
seinen Erfolg als Symptom oder als Hemmung bezeichnen will. Das
alles ist wirklich nicht interessant und die Fragestellung, von der wir
ausgingen, erweist sich als wenig fruchtbar.Da die Hemmung begrifflich so innig
an die Funktion geknüpft ist, kann:man auf die Idee kommen, die
verschiedenen Ichfunktionen daraufhin zu unter- suchen, in welchen Formen
sich deren Störung bei den einzelnen neurotischen Affektionen äußert.
Wir wählen für diese vergleichende Studie: die Sexual- funktion,
das Essen, die Lokomotion und die Berufs- arbeit. | a) Die
Sexualfunktion unterliegt sehr mannigfaltigen Störungen, von denen die
meisten den Charakter einfacher Hemmungen zeigen. Diese werden als
psy- chische Impotenz zusammengefaßt. Das Zustande- kommen der
normalen Sexualleistung setzt einen sehr komplizierten Ablauf voraus, die
Störung kann an jeder Stelle desselben eingreifen. Die
Hauptstationen der Hemmung sind beim Manne: die Abwendung der
Libido zur Einleitung des Vorgangs (psychische Unlust), das Ausbleiben
der physischen Vorbereitung (Erektionslosigkeit), die Abkürzung des Aktes
(Eja- culatio praecox, die ebensowohl als positives Symptom
Hemmung, Symptom und Angst beschrieben werden kann), die Aufhaltung desselben
vor dem natürlichen Ausgang (Ejakulationsmangel), das Nichtzustandekommen
des psychischen Effekts (der Lustempfindung des Orgasmus). Andere
Störungen erfolgen durch die Verknüpfung der Funktion mit
besonderen Bedingungen, perverser oder fetischistischer Natur.
Eine Beziehung der Hemmung zur Angst kann uns nicht lange entgehen.
Manche Hemmungen sind offenbar Verzichte auf Funktion, weil bei deren
Aus- übung Angst entwickelt werden würde. Direkte Angst vor der
Sexualfunktion ist beim Weibe häufig; wir ordnen sie der Hysterie zu,
ebenso das Abwehr- symptom des Ekels, das sich ursprünglich als
nach- trägliche Reaktion auf den passiv erlebten Sexualakt
einstellt, später bei der Vorstellung desselben auf- tritt. Auch eine
großse Anzahl von Zwangshandlungen erweisen sich als Vorsichten und
Versicherungen gegen sexuelles Erleben, sind also phobischer Natur.
Man kommt da im Verständnis nicht sehr weit; man merkt nur, daß
sehr verschiedene Verfahren verwendet werden, um die Funktion zu stören:
7) die bloße Abwendung der Libido, die am ehesten zu ergeben
scheint, was wir eine reine Hemmung heißen, 2) die Verschlechterung in
der Ausführung der Funktion, 3) die Erschwerung derselben durch
besondere Bedingungen und ihre Modifikation durch Ablenkung auf andere
Ziele, 2) ihre Vorbeugung 8 Siem. Freud durch
Sicherungsmaßregeln, 5) ihre Unterbrechung durch Angstentwicklung, sowie
sich ihr Ansatz nicht mehr verhindern läßt, endlich 6) eine
nachträgliche Reaktion, die dagegen protestiert und das Geschehene
rückgängig machen will, wenn die Funktion doch durchgeführt wurde.
6) Die häufigste Störung der Nahrungsfunktion ist die Efunlust
durch Abziehung der Libido. Auch Steigerungen der Eßlust sind nicht
selten; ein Eß- zwang motiviert sich durch Angst vor dem Verhungern,
ist wenig untersucht. Als hysterische Abwehr des Essens kennen wir das
Symptom des Erbrechens. Die Nahrungsverweigerung infolge von Angst
gehört psychotischen Zuständen an (Vergiftungswahn). c) Die
Lokomotion wird bei manchen neurotischen Zuständen durch Gehunlust und
Gehschwäche gehemmt, die hysterische Behinderung bedient sich der
motorischen Lähmung des Bewegungsapparates oder schafit eine
spezialisierte Aufhebung dieser einen Funktion desselben (Abasie).
Besonders charakteristisch sind die Erschwerungen der Lokomotion durch
Ein- schaltung bestimmter Bedingungen, bei deren Nicht- erfüllung
Angst auftritt (Phobie). Die Arbeitshemmung, die so oft als
isoliertes Symptom Gegenstand der Behandlung wird, zeigt uns
verminderte Lust oder schlechtere Ausführung oder Reaktionserscheinungen
wie Müdigkeit (Schwindel, Er- brechen), wenn die Fortsetzung der Arbeit
erzwungen wird. Die Hysterie erzwingt die Einstellung der Arbeit
durch Erzeugung von Organ- und Funktionslähmungen, deren Bestand mit der
Ausführung der Arbeit unver- einbar ist. Die Zwangsneurose stört die
Arbeit durch fortgesetzte Ablenkung und durch den Zeitverlust bei
eingeschobenen Verweilungen und Wiederholungen. Wir könnten diese
Übersicht noch auf andere Funktionen ausdehnen, aber wir dürfen nicht
erwarten, dabei mehr zu erreichen. Wir kämen nicht über die
Oberfläche der Erscheinungen hinaus. Entschließen wir uns darum zu einer
Auffassung, die dem Begriff der Hemmung nicht mehr viel Rätselhaftes
beläßt. Die Hemmung ist der Ausdruck einer Funktions- einschränkung
des Ichs, die selbst sehr ver- schiedene Ursachen haben kann. Manche der
Mecha- nismen dieses Verzichts auf Funktion und eine allge- meine
Tendenz desselben sind uns wohlbekannt. An den spezialisierten
Hemmungen ist die Tendenz leichter zu erkennen. Wenn das Klavierspielen,
Schreiben und selbst das Gehen neurotischen Hemmungen unter-
liegen, so zeigt uns die Analyse den Grund hiefür in einer überstarken
Erotisierung der bei diesen Funk- tionen in Anspruch genommenen Organe,
der Finger und der Füße. Wir haben ganz allgemein die Einsicht
gewonnen, dafs die Ichfunktion eines Organs geschädigt wird, wenn seine
Erogeneität, seine sexuelle Bedeutung, zunimmt. Es benimmt sich dann,
wenn man den einigermaßen skurrilen Vergleich wagen darf, wie
eine Köchin, die nicht mehr am Herd arbeiten will, weil der Herr des
Hauses Liebesbeziehungen zu ihr ange- knüpft hat. Wenn das Schreiben, das
darin besteht, aus einem Rohr Flüssigkeit auf ein Stück weißes Papier
fließen zu lassen, die symbolische Bedeutung des Koitus angenommen hat,
oder wenn das Gehen zum symbolischen Ersatz des Stampfens auf dem
Leib der Mutter Erde geworden ist, dann wird beides, Schreiben und
Gehen, unterlassen, weil es so ist, als ob man die verbotene sexuelle
Handlung ausführen würde. Das Ich verzichtet auf diese ihm
zustehenden Funktionen, um nicht eine neuerliche Verdrängung
vornehmen zu müssen, um einem Konflikt mit dem Es auszuweichen.
Andere Hemmungen erfolgen offenbar im Dienste der Selbstbestrafung,
wie nicht selten die der be- ruflichen Tätigkeiten. Das Ich darf diese
Dinge nicht tun, weil sie ihm Nutzen und Erfolg bringen würden, was
das gestrenge Über-Ich versagt hat. Dann verzichtet das Ich auch auf
diese Leistungen, um nieht in Konflikt mit dem Über-Ich zu
geraten. Die allgemeineren Hemmungen des Ichs folgen einem
einfachen anderen Mechanismus. Wenn das Ich durch eine psychische Aufgabe
von besonderer Schwere in Anspruch genommen ist, wie z. B. durch eine
Irauer, eine großartige Affektunterdrückung, durch die Nötigung,
beständig aufsteigende sexuelle Phantasıen niederzuhalten, dann verarmt es so
sehr an der ihm verfügbaren Energie, dafs es seinen Aufwand an
vielen Stellen zugleich einschränken muß, wie ein Spekulant, der seine
Gelder in seinen Unternehmungen immobilisiert hat. Ein lehrreiches
Beispiel einer solchen intensiven Allgemeinhemmung von kurzer Dauer
konnte ich an einem Zwangskranken beobachten, der in eine lähmende
Müdigkeit won ein- bis mehrtägiger Dauer bei Anlässen verfiel, die
offenbar einen Wutausbruch hätten herbeiführen sollen. Von hier aus mufß
auch ein Weg zum Verständnis der Allgemeinhemmung zu finden sein,
durch die sich die Depressionszustände und der schwerste derselben, die
Melancholie, kenn- zeichnen. Man kann also abschließend über
die Hemmungen sagen, sie seien Einschränkungen der Ichfunktionen,
entweder aus Vorsicht oder infolge von Energie- verarmung. Es ist nun
leicht zu erkennen, worin sich die Hemmung vom Symptom unterscheidet.
Da Symptom kann nicht mehr als ein Vorgang in oder am.Ich
beschrieben werden. Die Grundzüge der Symptombildung sind längst
studiert und in hoffentlich unanfechtbarer Weise aus- gesprochen worden.
Das Symptom sei Anzeichen und Ersatz einer unterbliebenen
Triebbefriedigung, ein Erfolg des Verdrängungsvorganges. Die Verdrängung
geht vom Ich aus, das, eventuell im Auftrage des Über- Ichs, eine
im Es angeregte Triebbesetzung nicht mit- machen will. Das Ich erreicht
durch die Verdrängung, daß die Vorstellung, welche der Träger der
unlieb- samen Regung war, vom Bewußtwerden abgehalten wird. Die
Analyse weist oftmals nach, daß sie als un- bewußste Formation erhalten
geblieben ist. So weit wäre es klar, aber bald beginnen die
unerledigten Schwierigkeiten. Unsere bisherigen
Beschreibungen des Vorganges bei der Verdrängung haben den Erfolg der
Abhaltung vom Bewußtsein nachdrücklich betont, aber in anderen
Punkten Zweifel offen gelassen. Es entsteht die Frage, was ist das Schicksal
der im Es aktivierten Triebregung, die auf Befriedigung abzielt? Die
Antwort war eine indirekte, sie lautete, durch den Vorgang der
Verdrängung werde die zu erwartende Befriedigungs- lust in Unlust
verwandelt, und dann stand man vor dem Problem, wie Unlust das Ergebnis
einer Trieb- befriedigung sein könne. Wir hoffen den Sachverhalt zu
klären, wenn wir die bestimmte Aussage machen, der im Es beabsichtigte
Erregungsablauf komme infolge der Verdrängung überhaupt nicht zustande,
es gelingt dem Ich, ihn zu inhibieren oder abzulenken. Dann
entfällt das Rätsel der „Affektverwandlung‘‘ bei der Verdrängung. Wir
haben aber damit dem Ich das Zugeständnis gemacht, daß es einen so
weitgehenden Einfluß auf die Vorgänge im Es äußern kann, und sollen
verstehen lernen, auf welchem Wege ihm diese überraschende
Machtentfaltung möglich wird. Ich glaube, dieser Einfluß fällt dem
Ich zu infolge seiner innigen Beziehungen zum Wahrnehmungssystem,
die ja sein Wesen ausmachen und der Grund seiner Differenzierung vom Es
geworden sind. Die Funktion dieses Systems, das wir W-Bw genannt haben,
ist mit dem Phänomen des Bewußstseins verbunden; es empfängt
Erregungen nicht nur von außen, sondern auch von innen her und mittels
der Lust-Unlustempfindungen, die es von daher erreichen, versucht es,
alle Abläufe des seelischen Geschehens im Sinne des Lustprinzips zu
lenken. Wir stellen uns das Ich so gerne als ohn- mächtig gegen das Es
vor, aber wenn es sich gegen einen Triebvorgang im Es sträubt, so braucht
es blof3 ein Unlustsignal zu geben, um seine Absicht durch die
Hilfe der beinahe allmächtigen Instanz des Lust- prinzips zu erreichen.
Wenn wir diese Situation für einen Augenblick isoliert betrachten, können
wir sie durch ein Beispiel aus einer anderen Sphäre illustrieren.
In einem Staate wehre sich eine gewisse Clique gegen eine Mafsregel,
deren Beschluß den Neigungen der Masse entsprechen würde. Diese
Minderzahl bemächtigt sich dann der Presse, bearbeitet durch sie die
souve- räne „Öffentliche Meinung“ und setzt es so durch, daf$ der
geplante Beschluf3 unterbleibt. An die eine Beantwortung knüpfen
weitere Frage- stellungen an. Woher rührt die Energie, die zur Erzeugung
des Unlustsignals verwendet wird? Hier weist uns die Idee den Weg, daß
die Abwehr eines un- erwünschten Vorganges im Inneren nach dem
Muster der Abwehr gegen einen äußeren Reiz geschehen dürfte, daß
das Ich den gleichen Weg der Verteidi- gung gegen die innere wie gegen
die äußere Gefahr einschlägt. Bei äußerer Gefahr unternimmt das
organische Wesen einen Fluchtversuch, es zieht zu- nächst die Besetzung
von der Wahrnehmung des Gefährlichen ab; später erkennt es als das
wirk- samere Mittel, solche Muskelaktionen vorzunehmen, dafs die
Wahrnehmung der Gefahr, auch wenn man sie nicht verweigert, unmöglich
wird, also sich dem Wirkungsbereich der Gefahr zu entziehen.
Einem solchen Fluchtversuch gleichwertig ist auch die Ver- drängung.
Das Ich zieht die (vorbewußte) Besetzung von der zu verdrängenden
Triebrepräsentanz ab und verwendet sie für die Unlust-(Angst-)Entbindung.
Das Problem, wie bei der Verdrängung die Angst entsteht, mag kein
einfaches sein; immerhin hat man das Recht, an der Idee festzuhalten, daß
das Ich die eigentliche Angststätte ist, und die frühere Auffassung
zurück- zuweisen, die Besetzungsenergie der verdrängten Regung
werde automatisch in Angst verwandelt. Wenn ich mich früher einmal so
geäußert habe, so gab ich eine phänomenologische Beschreibung, nicht eine
meta- psychologische Darstellung. Aus dem Gesagten leitet
sich die neue Frage ab, wie es ökonomisch möglich ist, daß ein bloßer
Abziehungs- und Abfuhrvorgang wie beim Rückzug der vorbewufßsten
Ichbesetzung Unlust oder Angst erzeugen könne, die nach unseren
Voraussetzungen nur Folge gesteigerter Besetzung sein kann. Ich antworte,
diese Verursachung soll nicht ökonomisch erklärt werden, die Angst
wird bei der Verdrängung nicht neu erzeugt, sondern als Affektzustand
nach einem vorhandenen Erinnerungsbild reproduziert. Mit der weiteren
Frage nach der Herkunft dieser Angst — wie der Affekte überhaupt —
verlassen wir aber den unbestritten psychologischen Boden und betreten
das Grenzgebiet der Physiologie. Die Affektzustände sind dem
Seelen- leben als Niederschläge uralter traumatischer Erlebnisse
einverleibt und werden in ähnlichen Situationen wie Erinnerungssymbole
wachgerufen. Ich meine, ich hatte nicht Unrecht, sie den spät und
individuell erwor- benen hysterischen Anfällen gleichzusetzen und
als deren Normalvorbilder zu betrachten. Beim Menschen und ihm
verwandten Geschöpfen scheint der Geburts- akt als das erste individuelle
Angsterlebnis dem Aus- druck des Angstaffekts charakteristische Züge
geliehen zu haben. Wir sollen aber diesen Zusammenhang nicht
überschätzen und in seiner Anerkennung nicht über- sehen, daß ein
Affektsymbol für die Situation der Gefahr eine biologische Notwendigkeit
ist und auf jeden Fall geschaffen worden wäre, Ich halte es auch
für unberechtigt anzunehmen, daß bei jedem Angst- ausbruch etwas im Seelenleben
vor sich geht, was einer Reproduktion der Geburtssituation
gleichkommt. Es ist nicht einmal sicher, ob die hysterischen
Anfälle, die ursprünglich solche traumatische Reproduktionen sind,
diesen Charakter dauernd bewahren. Ich habe an anderer Stelle
ausgeführt, daß die meisten Verdrängungen, mit denen wir bei der
therapeutischen Arbeit zu tun bekommen, Fälle von Nachdrängen sind. Sie
setzen früher erfolgte Urverdrängungen voraus, die auf die neuere
Situation ihren anziehenden Einfluß ausüben. Von diesen Hintergründen und
Vorstufen der Verdrängung ist noch viel zu wenig bekannt. Man kommt
leicht in Gefahr, die Rolle des Über-Ichs bei der Verdrängung zu
überschätzen. Man kann es derzeit nicht beurteilen, ob etwa das Auftreten
des Über-Ichs die Abgrenzung zwischen Urverdrängung und Nachdrängen
schafft. Die ersten —- sehr intensiven — Angstaus- brüche erfolgen
jedenfalls vor der Differenzierung des Über-Ichs. Es ist durchaus
plausibel, daß quantitative Momente, wie die übergroße Stärke der
Erregung und der Durchbruch des Reizschutzes, die nächsten Anlässe
der Urverdrängungen sind. Die Erwähnung des Reizschutzes mahnt uns
wie ein Stichwort, daß die Verdrängungen in zwei unter- schiedenen
Situationen auftreten, nämlich wenn eine unliebsame Triebregung durch
eine äußere Wahr- nehmung wachgerufen wird, und wenn sie ohne
solche Provokation im Innern auftaucht. Wir werden später auf diese
Verschiedenheit zurückkommen. Reizschutz gibt es aber nur gegen äußere
Reize, nicht gegen innere Triebansprüche. Solange wir den
Fluchtversuch des Ichs studieren, bleiben wir der Symptombildung ferne.
Das Symptom entsteht aus der durch die Verdrängung beeinträch-
tisten Triebregung. Wenn das Ich durch die Inan- spruchnahme des
Unlustsignals seine Absicht erreicht, die Triebregung völlig zu
unterdrücken, erfahren wir nichts darüber, wie das geschieht. Wir lernen
nur aus den Fällen, die als mehr oder minder mißglückte
Verdrängungen zu bezeichnen sind. Dann stellt essich im Allgemeinen
so dar, dafs die Triebregung zwar trotz der Verdrängung einen Ersatz
gefunden hat, aber einen stark verkümmerten, ver- schobenen, gehemmten.
Er ist auch als Befriedigung nicht mehr kenntlich. Wenn er vollzogen
wird, kommt keine Lustempfindung zustande, dafür hat dieser Vollzug
den Charakter des Zwanges angenommen. Aber bei dieser Erniedrigung des
Befriedigungs- ablaufes zum Symptom zeigt die Verdrängung ihre
Macht noch in einem anderen Punkte. Der Ersatz- vorgang wird wo möglich
von der Abfuhr durch die Motilität ferngehalten; auch wo dies nicht
gelingt, mufS er sich in der Veränderung des eigenen Körpers
erschöpfen und darf nicht auf die Außenwelt über- greifen; es wird ihm
verwehrt, sich in Handlung um- zusetzen. Wir verstehen, bei der
Verdrängung arbeitet das Ich unter dem Einfluß der äußeren Realität
und schließt darum den Erfolg des Ersatzvorganges von dieser
Realität ab. Das Ich beherrscht den Zugang zum Bewußtsein wie
den Übergang zur Handlung gegen die Außen- welt; in der Verdrängung betätigt
es seine Macht nach beiden Richtungen. Die Triebrepräsentanz
bekommt die eine, die Triebregung selbst die andere Seite seiner
Kraftäußerung zu spüren. Da ist es denn am Platze, sich zu fragen, wie
diese Anerkennung der Mächtigkeit des Ichs mit der Beschreibung
zusammen- kommt, die wir in der Studie „Das Ich und das Es“ von der
Stellung desselben Ichs entworfen haben. Wir haben dort die Abhängigkeit
des Ichs vom Es wie vom Über-Ich geschildert, seine Ohnmacht und
Angstbereitschaft gegen beide, seine mühsam aufrecht erhaltene
Überheblichkeit entlarvt. Dieses Urteil hat seither einen starken
Widerhall in der psychoanaly- tischen Literatur gefunden. Zahlreiche
Stimmen betonen eindringlich die Schwäche des Ichs gegen das Es,
des Rationellen gegen das Dämonische in uns und schicken sich an, diesen
Satz zu einem Grund- pfeiler einer psychoanalytischen „Weltanschauung“
zu machen. Sollte nicht die Einsicht in die Wirkungs- weise der
Verdrängung gerade den Analytiker von so extremer Parteinahme
zurückhalten? Ich bin überhaupt nicht für die Fabrikation von
Weltanschauungen. Die überlasse man den Philosophen, die
eingestandenermafßsen die Lebensreise ohne einen solchen Baedeker, der
über alles Auskunft gibt, nicht ausführbar finden. Nehmen wir demütig
die Verachtung auf uns, mit der die Philosophen vom Standpunkt
ihrer höheren Bedürftigkeit auf uns herab- schauen. Da auch wir unseren
narzißtischen Stolz nicht verleugnen können, wollen wir unseren Trost
in der Erwägung suchen, daß alle diese ‚„Lebensführer“ rasch
veralten, daß es gerade unsere kurzsichtig beschränkte Kleinarbeit ist,
welche deren Neuauflagen notwendig macht, und daß selbst die
modernsten dieser Baedeker Versuche sind, den alten, so be- quemen
und so vollständigen Katechismus zu ersetzen. Wir wissen genau, wie wenig
Licht die Wissenschaft bisher über die Rätsel dieser Welt verbreiten
konnte; alles Poltern der Philosophen kann daran nichts ändern, nur
geduldige Fortsetzung der Arbeit, die alles der einen Forderung nach
Gewißheit unter- ordnet, kann langsam Wandel schaffen. Wenn der
Wanderer in der Dunkelheit singt, verleugnet er seine Ängstlichkeit, aber
er sieht darum um nichts heller. IM Um zum
Problem des Ichs zurückzukehren: Der Anschein des Widerspruchs kommt
daher, daf wir Abstraktionen zu starr nehmen und aus einem kom-
plizierten Sachverhalt bald die eine, bald die andere Seite allein
herausgreifen. Die Scheidung des Ichs vom Es scheint gerechtfertigt, sie
wird uns durch bestimmte Verhältnisse aufgedrängt. Aber anderseits
ist das Ich mit dem Es identisch, nur ein besonders differenzierter
Anteil desselben. Stellen wir dieses Stück in Gedanken dem Ganzen
gegenüber, oder hat sich ein wirklicher Zwiespalt zwischen den beiden
ergeben, so wird uns die Schwäche dieses Ichs offen- bar. Bleibt das Ich
aber mit dem Es verbunden, von ihm nicht unterscheidbar, so zeigt sich
seine Stärke. Ähnlich ist das Verhältnis des Ichs zum Über-Ich; für
viele Situationen fließen uns die beiden zusammen, meistens können wir
sie nur unterscheiden, wenn sich eine Spannung, ein Konflikt zwischen
ihnen hergestellt hat. Für den Fall der Verdrängung wird die Tatsache
entscheidend, daß das Ich eine Organisation ist, das Es aber keine; das
Ich ist eben der organi- sierte Anteil des Es. Es wäre ganz
ungerechtfertigt, wenn man sich vorstellte, Ich und Es seien wie
zwei verschiedene Heerlager ; durch die Verdrängung suche das Ich
ein Stück des Es zu unterdrücken, nun komme das übrige Es dem
Angegriffenen zu Hilfe und messe seine Stärke mit der des Ichs. Das
mag oft zustande kommen, aber es ist gewifs nicht die
Eingangssituation der Verdrängung; in der Regel bleibt die zu
verdrängende Triebregung isoliert. Hat der Akt der Verdrängung uns die
Stärke des Ichs gezeigt, so legt er doch in einem auch Zeugnis ab
für dessen Ohnmacht und für die Unbeeinflußbarkeit der einzelnen
Triebregung des Es. Denn der Vorgang, der durch die Verdrängung zum
Symptom geworden ist, behauptet nun seine Existenz außerhalb der
Ichorganisation und unabhängig von ihr. Und nicht er allein, auch alle
seine Abkömmlinge genießen das- selbe Vorrecht, man möchte sagen: der
Extraterritoria- lität, und wo sie mit Anteilen der Ichorganisation
assoziativ zusammentreffen, wird es fraglich, ob sie diese nicht zu sich
herüberziehen und sich mit diesem Gewinn auf Kosten des Ichs ausbreiten
werden. Ein uns längst vertrauter Vergleich betrachtet das Symptom
als einen Fremdkörper, der unaufhörlich Reiz- und Reaktionserscheinungen
in dem Gewebe unterhält, in das er sich eingebettet hat. Es kommt
zwar vor, daß der Abwehrkampf gegen die unliebsame Triebregung durch
die Symptombildung abgeschlossen wird; soweit wir sehen, ist dies am
ehesten bei der hysterischen Konversion möglich, aber in der Regel
ist der Verlauf ein anderer; nach dem ersten Akt der Verdrängung folgt
ein langwieriges oder nie zu beendendes Nachspiel, der Kampf gegen die
Trieb- regung findet seine Fortsetzung in dem Kampf gegen das
Symptom. Dieser sekundäre Abwehrkampf zeigt uns zwei
Gesichter — mit widersprechendem Ausdruck. Einer- seits wird das Ich
durch seine Natur genötigt, etwas zu unternehmen, was wir als
Herstellungs- oder Ver- söhnungsversuch beurteilen müssen. Das Ich ist
eine Organisation, es beruht auf dem freien Verkehr und der
Möglichkeit gegenseitiger Beeinflussung unter all seinen Bestandteilen,
seine desexualisierte Energie bekundet ihre Herkunft noch in dem Streben nach
Bindung und Vereinheitlichung und dieser Zwang zur Synthese nimmt
immer mehr zu, je kräftiger sich das Ich entwickelt. So wird es verständlich,
daß das Ich auch versucht, die Fremdheit und Isolierung des
Symptoms aufzuheben, indem es alle Möglichkeiten ausnützt, es
irgendwie an sich zu binden und durch solche Bande seiner Organisation
einzuverleiben. Wir wissen, daß ein solches Bestreben bereits den Akt der
Symptom- bildung beeinflußt. Ein klassisches Beispiel dafür sind
jene hysterischen Symptome, die uns als Kompromifszwischen Befriedigungs- und
Strafbedürfnis durchsichtig geworden sind. Als Erfüllungen einer
Forderung des Über-Ichs haben solche Symptome von vorneherein
Anteil am Ich, während sie anderseits Positionen des Verdrängten und
Einbruchsstellen desselben in die Ichorganisation bedeuten; sie sind
sozusagen Grenz-stationen mit gemischter Besetzung. Ob alle primären
hysterischen Symptome so gebaut sind, verdiente eine sorgfältige
Untersuchung. Im weiteren Verlaufe benimmt sich das Ich so, als ob es von
der Er- wägung geleitet würde: das Symptom ist einmal da und kann
nicht beseitigt werden; nun heißt es, sich mit dieser Situation
befreunden und den größtmög- lichen Vorteil aus ihr ziehen. Es findet
eine Anpassung an das ichfremde Stück der Innenwelt statt, das
durch das Symptom repräsentiert wird, wie sie das Ich sonst normalerweise
gegen die reale Außenwelt zustande bringt. An Anlässen hiezu fehlt es
nie. Die Existenz des Symptoms mag eine gewisse Behinde- rung der
Leistung mit sich bringen, mit der man eine Anforderung des Über-Ichs
beschwichtigen oder einen Anspruch der Außenwelt zurückweisen kann. So
wird das Symptom allmählich mit der Vertretung wichtiger Interessen
betraut, es erhält einen Wert für die Selbstbehauptung, verwächst immer
inniger mit dem Ich, wird ihm immer unentbehrlicher. Nur in ganz
seltenen Fällen kann der Prozeß der Einheilung eines Fremdkörpers etwas
ähnliches wiederholen. Man kann die Bedeutung dieser sekundären Anpassung
an das Symptom auch übertreiben, indem man aussagt, das Ich habe
sich das Symptom überhaupt nur ange- schafft, um dessen Vorteile zu
genießen. Das ist dann so richtig oder so falschh wie wenn man die
Ansicht vertritt, der Kriegsverletzte habe sich das Bein nur abschießen
lassen, um dann arbeitsfrei von seiner Invalidenrente zu leben.
Andere Symptomgestaltungen, die der Zwangs- neurose und der
Paranoia, bekommen einen hohen Wert für das Ich, nicht weil sie ihm
Vorteile, sondern weil sie ihm eine sonst entbehrte narzißtische
Befriedigung bringen. Die Systembildungen der Zwangs- neurotiker schmeicheln
ihrer Eigenliebe durch die Vorspiegelung, sie seien als besonders
reinliche oder gewissenhafte Menschen besser als andere; die Wahn-
bildungen der Paranoia eröffnen dem Scharfsinn und der Phantasie dieser
Kranken ein Feld zur Betätigung, das ihnen nicht leicht ersetzt werden
kann. Aus all den erwähnten Beziehungen resultiert, was uns als der
(sekundäre) Krankheitsgewinn der Neurose bekannt ist. Er kommt dem
Bestreben des Ichs, sich das Symptom einzuverleiben, zu Hilfe und
verstärkt die Fixierung des letzteren. Wenn wir dann den Ver- such
machen, dem Ich in seinem Kampf gegen das Symptom analytischen Beistand
zu leisten, finden wir diese versöhnlichen Bindungen zwischen Ich
und Symptom auf der Seite der Widerstände wirksam. Es wird uns nicht
leicht gemacht, sie zu lösen. Die beiden Verfahren, die dasIch gegen das
Symptom anwendet, stehen wirklich in Widerspruch zu einander.
Das andere Verfahren hat weniger freundlichen Charakter, es setzt
die Richtung der Verdrängung fort. Aber es scheint, daß wir das Ich nicht
mit dem Vorwurf der Inkonsequenz belasten dürfen. Das Ich ist
friedfertig und möchte sich das Symptom einverleiben, es in sein Ensemble
aufnehmen. Die Störung geht vom Symptom aus, das als richtiger Ersatz
und Abkömmling der verdrängten Regung deren Rolle weiterspielt,
deren Befriedigungsanspruch immer wieder erneuert und so das Ich nötigt,
wiederum das Unlust- signal zu geben und sich zur Wehre zu setzen.
Der sekundäre Abwehrkampf gegen das Symptom ist vielgestaltig,
spielt sich auf verschiedenen Schau- plätzen ab und bedient sich
mannigfaltiger Mittel. Wir werden nicht viel über ihn aussagen können,
wenn wir nicht die einzelnen Fälle der Symptombildung zum
Gegenstand der Untersuchung nehmen. Dabei werden wir Anlaß finden, auf
das Problem der Angst einzugehen, das wir längst wie im Hintergrunde
lauernd verspüren. Es empfiehlt sich, von den Symptomen, welche die
hysterische Neurose schafft, auszugehen; auf die Voraussetzungen der
Symptombildung bei der Zwangsneurose, Paranoia und anderen Neurosen
sind wir noch nicht vorbereitet. IV Der erste Fall, den wir
betrachten, sei der einer infantilen hysterischen Tierphobie, also z.B.
der gewifs in allen Hauptzügen typische Fall der Pferdephobie des
‚Kleinen Hans‘. Schon der erste Blick läßt uns erkennen, daß die
Verhältnisse eines realen Falles von neurotischer Erkrankung weit
komplizierter sind als unsere Erwartung, solange wir mit
Abstraktionen arbeiten, sich vorstellt. Es gehört einige Arbeit
dazu, sich zu orientieren, welches die verdrängte Regung, was ihr
Symptomersatz ist, wo das Motiv der Verdrängung kenntlich wird. Der
kleine Hans weigert sich, auf die Straße zu gehen, weil er Angst vor dem
Pferd hat. Dies ist der Rohstoff. Was ist nun daran das Symptom:
die Angstentwicklung, die Wahl des Angstobjekts, oder der Verzicht
auf die freie Beweglichkeit, oder mehreres davon zugleich? Wo ist die
Befriedigung, die er sich versagt? Warum muß er sich diese
versagen? 1) Siehe: Analyse der Phobie eines fünfjährigen Knaben.
(Ges. Schriften, Bd. VII.) Es liegt nahe zu antworten, an dem Falle
sei nicht so viel rätselhaft. Die unverständliche Angst vor dem
Pferd ist das Symptom, die Unfähigkeit, auf die Straße zu gehen, ist eine
Hemmungserscheinung, eine Einschränkung, die sich das Ich auferlegt,
um nicht das Angstsymptom zu wecken. Man sieht ohne weiteres die
Richtigkeit der Erklärung des letzten Punktes ein und wird nun diese
Hemmung bei der weiteren Diskussion außer Betracht lassen. Aber die
erste flüchtige Bekanntschaft mit dem Falle lehrt uns nicht einmal den
wirklichen Ausdruck des vermeint- lichen Symptoms kennen. Es handelt
sich, wie wir bei genauerem Verhör erfahren, gar nicht um eine
unbestimmte Angst vor dem Pferd, sondern um die bestimmte ängstliche
Erwartung: das Pferd werde ihn beifsen. Allerdings sucht sich dieser
Inhalt dem Bewußt- sein zu entziehen und sich durch die unbestimmte
Phobie, in der nur noch die Angst und ihr Objekt vorkommen, zu ersetzen.
Ist nun etwa dieser Inhalt der Kern des Symptoms? Wir kommen
keinen Schritt weiter, so lange wir nicht die ganze psychische Situation
des Kleinen in Betracht ziehen, wie sie uns während der
analytischen Arbeit enthüllt wird. Er befindet sich in der eifersüchtigen
und feindseligen Ödipusein- stellung zu seinem Vater, den er doch, so
weit die Mutter nicht als Ursache der Entzweiung in Betracht kommt,
herzlich liebt. Also ein Ambivalenzkonflikt, gut begründete Liebe und nicht
minder berech- tigter Haß, beide auf dieselbe Person gerichtet.
Seine Phobie muß ein Versuch zur Lösung dieses Konflikts sein. Solche
Ambivalenzkonflikte sind sehr häufig, wir kennen einen anderen typischen
Ausgang derselben. Bei diesem wird die eine der beiden mit-
einander ringenden Regungen, in der Regel die zärt- liche, enorm
verstärkt, die andere verschwindet. Nur das Übermaß und das Zwangsmäßige
der Zärtlichkeit verrät uns, daf3 diese Einstellung nicht die
einzig vorhandene ist, daß sie ständig auf der Hut ist, ihr
Gegenteil in Unterdrückung zu halten, und läßt uns einen Hergang
konstruieren, den wir als Verdrängung durch Reaktionsbildung (im Ich)
beschreiben. Fälle wie der kleine Hans zeigen nichts von solcher
Reaktionsbildung; es gibt offenbar verschiedene Wege, die aus einem
Ambivalenzkonflikt herausführen. Etwas anderes haben wir unterdes mit
Sicherheit erkannt. Die Triebregung, die der Verdrängung unter-
liegt, ist ein feindseliger Impuls gegen den Vater. Die Analyse lieferte
uns den Beweis hiefür, während sie der Herkunft der Idee des beifßenden
Pferdes nachspürte. Hans hat ein Pferd fallen gesehen, einen
Spielkameraden fallen und sich verletzen, mit dem er „Pferd“ gespielt
hatte. Sie hat uns das Recht gegeben, bei Hans eine Wunschregung zu
konstruieren, die gelautet hat, der Vater möge hinfallen, sich
beschädigen wie das Pferd und der Kamerad. Beziehungen zu einer beobachteten
Abreise lassen ver- muten, daß der Wunsch nach der Beseitigung des
Vaters auch minder zaghaften Ausdruck gefunden hat. Ein solcher Wunsch
ist aber gleichwertig mit der Absicht, ihn selbst zu beseitigen, mit der
mör- derischen Regung des Ödipuskomplexes. Von dieser verdrängten
Triebregung führt bis jetzt kein Weg zu dem Ersatz für sie, den wir in
der Pferdephobie vermuten. Vereinfachen wir nun die psychische
Situation des kleinen Hans, indem wir das infantile Moment und die
Ambivalenz wegräumen; er sei etwa ein jüngerer Diener in einem
Haushalt, der in die Herrin verliebt ist und sich gewisser
Gunstbezeugungen von ihrer Seite erfreue. Erhalten bleibt, dafß er den
stärkeren Hausherrn haßt und ihn beseitigt wissen möchte; dann ist es die
natürlichste Folge dieser Situation, daß er die Rache dieses Herrn
fürchtet, daß sich bei ihm ein Zustand von Angst vor diesem einstellt —
ganz ähnlich wie die Phobie des kleinen Hans vor dem Pferd. Das heißt,
wir können die Angst dieser Phobie nicht als Symptom bezeichnen;
wenn der kleine Hans, der in seine Mutter verliebt ist, Angst vor dem
Vater zeigen würde, hätten wir kein Recht, ihm eine Neurose, eine Phobie,
zuzu- schreiben. Wir hätten eine durchaus begreifliche affektive
Reaktion vor uns. Was diese zur Neurose macht, ist einzig und allein ein
anderer Zug, die Ersetzung des Vaters durch das Pferd. Diese Verschiebung
stellt also das her, was auf den Namen eines Symptoms Anspruch hat. Sie
ist jener andere Mechanismus, der die Erledigung des Ambivalenz-
konflikts ohne die Hilfe der Reaktionsbildung gestattet. Ermöglicht oder
erleichtert wird sie durch den Um- stand, daß die mitgeborenen Spuren
totemistischer Denkweise in diesem zarten Alter noch leicht zu
beleben sind. Die Kluft zwischen Mensch und Tier ist noch nicht
anerkannt, gewif3 nicht so überbetont wie später. Der erwachsene,
bewunderte, aber auch gefürchtete Mann steht noch in einer Reihe mit
dem großen Tier, das man um so vielerlei beneidet, vor dem man aber
auch gewarnt worden ist, weil es gefährlich werden kann. Der
Ambivalenzkonflikt wird also nicht an derselben Person erledigt, sondern
gleich- sam umgangen, indem man einer seiner Regungen eine andere
Person als Ersatzmann unterschiebt. Soweit sehen wir ja klar, aber in
einem anderen Punkte hat uns die Analyse der Phobie des kleinen
Hans eine volle Enttäuschung gebracht. Die Entstellung, in der die
Symptombildung besteht, wird gar nicht an der Repräsentanz (dem
Vorstellungsinhalt) der zu verdrängenden Triebregung vorgenommen,
sondern an einer davon ganz verschiedenen, die nur einer Reaktion
auf das eigentlich Unliebsame entspricht. Unsere Erwartung fände eher
Befriedigung, wenn der kleine Hans an Stelle seiner Angst vor dem
Pferd eine Neigung entwickelt hätte, Pferde zu mißshandeln, sie zu schlagen,
oder deutlich seinen Wunsch kundgegeben hätte, zu sehen, wie sie
hinfallen, zu Schaden kommen, eventuell unter Zuckungen verenden
(das Krawallmachen mit den Beinen). Etwas der Art tritt auch wirklich
während seiner Analyse auf, aber es steht lange nicht voran in der
Neurose und — sonderbar — wenner wirklich solche Feindseligkeit,
nur gegen das Pferd, anstatt gegen den Vater gerichtet, als Hauptsymptom
entwickelt hätte, würden wir gar nicht geurteilt haben, er befinde sich
in einer Neurose. Etwas ist also da nicht in Ordnung, entweder an
unserer Auffassung der Verdrängung oder in unserer Definition eines
Symptoms. Eines fällt uns natürlich sofort auf: Wenn der kleine Hans
wirklich ein solches Ver- halten gegen Pferde gezeigt hätte, so wäre ja
der Charakter der anstößigen, aggressiven Triebregung durch die Verdrängung
gar nicht verändert, nur deren Objekt gewandelt worden. Es
ist ganz sicher, daß es Fälle von Verdrängung gibt, die nicht mehr
leisten als dies; bei der Genese der Phobie des kleinen Hans ist aber
mehr geschehen. Um wieviel mehr, erraten wir aus einem anderen
Stück Analyse. Wir haben bereits gehört, daß der kleine Hans
als den Inhalt seiner Phobie die Vorstellung angab, vom Pferd gebissen zu
werden. Nun haben wir.später Einblick in die Genese eines anderen Falles
von Tier- phobie bekommen, in der der Wolf das Angsttier war, aber
gleichfalls die Bedeutung eines Vaterersatzes hatte." Im Anschluß an
einen Traum, den die Analyse durch- sichtig machen konnte, entwickelte
sich bei diesem Knaben die Angst, vom Wolf gefressen zu werden, wie
eines der sieben Geifjlein im Märchen. Daß der Vater des kleinen Hans
nachweisbar ‚‚Pferdl‘‘ mit ihm gespielt hatte, war gewiß bestimmend für
die Wahl des Angsttieres geworden; ebenso lief3 sich wenigstens
sehr wahrscheinlich machen, daf3 der Vater meines erst im dritten
Jahrzehnt analysierten Russen in den Spielen mit dem Kleinen den Wolf
gemimt und scherzend mit dem Auffressen gedroht hatte. Seither habe
ich als dritten Fall einen jungen Amerikaner gefunden, bei dem sich zwar
keine Tierphobie aus- bildete, der aber gerade durch diesen Ausfall
die anderen Fälle verstehen hilft. Seine sexuelle Erregung hatte
sich an einer phantastischen Kindergeschichte entzündet, die man ihm
vorlas, von einem arabischen Häuptling, der einer aus eßbarer Substanz
bestehenden Person (dem Gäingerbreadman), nachjagt, um ihn zu
verzehren. Mit diesem eßbaren Menschen identifizierte er sich selbst, der
Häuptling war als Vaterersatz leicht kenntlich und diese Phantasie wurde
die erste Unterlage seiner autoerotischen Betätigung. Die Vor-
stellung, vom Vater gefressen zu werden, ist aber typisches uraltes
Kindergut; die Analogien aus der Bd. VIIL) Mythologie (Kronos) und
dem Tierleben sind allgemein bekannt. Trotz solcher
Erleichterungen ist dieser Vorstellungs- inhalt uns so fremdartig, daß
wir ihn dem Kinde nur ungläubig zugestehen können. Wir wissen auch
nicht, ob er wirklich das bedeutet, was er auszusagen scheint, und
verstehen nicht, wie er Gegenstand einer Phobie werden kann. Die
analytische Erfahrung gibt uns aller- dings die erforderlichen Auskünfte.
Sie lehrt uns, daß die Vorstellung, vom Vater gefressen zu werden,
der regressiv erniedrigte Ausdruck für eine passive zärtliche
Regung ist, die vom Vater als Objekt im Sinne der Genitalerotik geliebt
zu werden begehrt. Die Ver- folgung der Geschichte des Falles läßt keinen
Zweifel an der Richtigkeit dieser Deutung aufkommen. Die genitale
Regung verrät freilich nichts mehr von ihrer zärtlichen Absicht, wenn sie
in der Sprache der überwundenen Übergangsphase von der oralen zur
sadistischen Libidoorganisation ausgedrückt wird. Handelt es sich
übrigens nur um eine Ersetzung der Repräsentanz durch einen regressiven
Ausdruck oder um eine wirkliche regressive Erniedrigung der
genital- gerichteten Regung im Es? Das scheint gar nicht so leicht
zu entscheiden. Die Krankengeschichte des russischen „Wolfsmannes“
spricht ganz entschieden für die letztere ernstere Möglichkeit, denn er
benimmt sich von dem entscheidenden Traum an „schlimm“, quälerisch,
sadistisch und entwickelt bald darauf eine richtige Zwangsneurose.
Jedenfalls gewinnen wir die Einsicht, daf3 die Verdrängung nicht das
einzige Mittel ist, das dem Ich zur Abwehr einer unliebsamen Trieb-
regung zu (sebote steht. Wenn es ihm gelingt, den Trieb zur Regression zu
bringen, so hat es ihn im Grunde energischer beeinträchtigt, als durch
die Ver- drängung möglich wäre. Allerdings läßt es manchmal der
zuerst erzwungenen Regression die Verdrängung folgen. | Der
Sachverhalt beim Wolfsmann und der etwas einfachere beim kleinen Hans
regen noch mancherlei andere Überlegungen an, aber zwei unerwartete
Ein- sichten gewinnen wir schon jetzt. Kein Zweifel, die bei diesen
Phobien verdrängte Triebregung ist eine feindselige gegen den Vater. Man
kann sagen, sie wird verdrängt durch den Prozeß der Verwandlung ins
Gegenteil; an Stelle der Aggression gegen den Vater tritt die Aggression
— die Rache — des Vaters gegen die eigene Person. Da eine solche
Aggression ohne- dies in der sadistischen Libidophase wurzelt, bedarf
sie nur noch einer gewissen Erniedrigung zur oralen Stufe, die bei Hans
durch das Gebissenwerden ange- deutet, beim Russen aber im
Gefressenwerden grell ausgeführt ist. Aber außerdem läßt ja die
Analyse über jeden Zweifel gesichert feststellen, daß gleich-
zeitig noch eine andere Triebregung der Verdrängung erlegen ist, die
gegensinnige einer zärtlichen passiven Regung für den Vater, die bereits
das Niveau der genitalen (phallischen) Libidoorganisation erreicht
hatte. Die letztere scheint sogar die für das Endergebnis des
Verdrängungsvorganges bedeutsamere zu sein, sie erfährt die weitergehende
Regression, sie erhält den bestimmenden Einfluß auf den Inhalt der
Phobie. Wo wir also nur einer Triebverdrängung nachgespürt haben,
müssen wir das Zusammentreffen von zwei solchen Vorgängen anerkennen; die
beiden betroffenen Triebregungen — sadistische Aggression gegen den
Vater und zärtlich passive Einstellung zu ihm — bilden ein
(Gegensatzpaar, ja noch mehr: wenn wir die Geschichte des kleinen Hans
richtig würdigen, erkennen wir, daß durch die Bildung seiner Phobie auch
die zärtliche Objektbesetzung der Mutter aufgehoben worden ist,
wovon der Inhalt der Phobie nichts verrät. Es handelt sich bei Hans —
beim Russen ist das weit weniger deutlich — um einen Verdrängungsvorgang,
der fast alle Komponenten des Ödipuskomplexes betrifft, die feindliche
wie die zärtliche Regung gegen den Vater und die zärtliche für die
Mutter. Das sind unerwünschte Komplikationen für uns, die wir
nur einfache Fälle von Symptombildung infolge von Verdrängung studieren
wollten und uns in dieser Absicht an die frühesten und anscheinend
durch- sichtigsten Neurosen der Kindheit gewendet hatten. Anstatt
einer einzigen Verdrängung fanden wir eine Häufung von solchen vor und
überdies bekamen wir es mit der Regression zu tun. Vielleicht haben
wir die Verwirrung dadurch gesteigert, daß wir die beiden
verfügbaren Analysen von Tierphobien — die des kleinen Hans und des
Wolfsmannes — durchaus auf denselben Leisten schlagen wollten. Nun fallen
uns gewisse Unterschiede der beiden auf. Nur vom kleinen Hans kann
man mit Bestimmtheit aussagen, daß er durch seine Phobie die beiden
Hauptregungen des Ödipuskomplexes, die aggressive gegen den Vater
und die überzärtliche gegen die Mutter, erledigt; die zärtliche für den
Vater ist gewif) auch vorhanden, sie spielt ihre.Rolle bei der
Verdrängung ihres Gegensatzes, aber es ist weder nachweisbar, daß sie
stark genug war, um eine Verdrängung zu provozieren, noch dafs sie
nachher aufgehoben ist. Hans scheint eben ein normaler Junge mit sog.
„positivem‘‘ Ödipuskomplex gewesen zu sein. Möglich, daß die Momente, die
wir vermissen, auch bei ihm mittätig waren, aber wir können sie
nicht aufzeigen, das Material selbst unserer eingehendsten Analysen ist
eben lückenhaft, unsere Dokumentierung unvollständig. Beim Russen ist
der Defekt an anderer Stelle; seine Beziehung zum weib- lichen
Objekt ist durch eine frühzeitige Verführung gestört worden, die passive,
feminine Seite ist bei ihm stark ausgebildet und die Analyse seines
Wolfs- traumes enthüllt wenig von beabsichtigter Aggression gegen
den Vater, erbringt dafür die unzweideutigsten Beweise, daß die
Verdrängung die passive, zärtliche Einstellung zum Vater betrifft. Auch
hier mögen die anderen Faktoren beteiligt gewesen sein, sie treten
aber nicht vor. Wenn trotz dieser Unterschiede der beiden Fälle, die sich
nahezu einer Gegensätzlichkeit nähern, der Enderfolg der Phobie nahezu
der nämliche ist, so muß uns die Erklärung dafür von anderer Seite
kommen; sie kommt von dem zweiten Ergebnis unserer kleinen vergleichenden
Untersuchung. Wir glauben den Motor der Verdrängung in beiden Fällen zu
kennen und sehen seine Rolle durch den Verlauf bestätigt, den die
Entwicklung der zwei Kinder nimmt. Er ist in beiden Fällen der nämliche,
die Angst vor einer drohenden Kastration. Aus Kastrationsangst gibt
der kleine Hans die Aggression gegen den Vater auf; seine Angst,
das Pferd werde ihn beißen, kann zwanglos ver- vollständigt werden, das
Pferd werde ihm das Genitale abbeißßen, ihn kastrieren. Aber aus
Kastrationsangst verzichtet auch der kleine Russe auf den Wunsch,
vom Vater als Sexualobjekt geliebt zu werden, denn er hat verstanden,
eine solche Beziehung hätte zur Voraussetzung, daß er sein Genitale
aufopfert, das, was ihn vom Weib unterscheidet. Beide Gestaltungen
des Ödipuskomplexes, die normale, aktive, wie die invertierte, scheitern
ja am Kastrationskomplex. Die Angstidee des Russen, vom Wolf gefressen zu
werden, enthält zwar keine Andeutung der Kastration, sie hat sich
durch orale Regression zu weit von der phallischen Phase entfernt, aber
die Analyse seines Traumes macht jeden anderen Beweis
überflüssig. Es ist auch ein voller Triumph der Verdrängung, daß im
Wortlaut der Phobie nichts mehr auf die Kastration hindeutet.
Hier nun das unerwartete Ergebnis: In beiden Fällen ist der Motor
der Verdrängung die Kastrations- angst; die Angstinhalte, vom Pferd
gebissen und vom Wolf gefressen zu werden, sind Entstellungsersatz
für den Inhalt, vom Vater kastriert zu werden. Dieser Inhalt ist es
eigentlich, der die Verdrängung an sich erfahren hat. Beim Russen war er
Ausdruck eines Wunsches, der gegen die Auflehnung der Männlich-
keit nicht bestehen konnte, bei Hans Ausdruck einer Reaktion, welche die
Aggression in ihr Gegenteil umwandelte. Aber der Angstaffekt der Phobie,
der ihr Wesen ausmacht, stammt nicht aus dem Ver- drängungsvorgang,
nicht aus den libidinösen Besetzungen der verdrängten Regungen, sondern
aus dem Ver- drängenden selbst; die Angst der Tierphobie ist die
unverwandelte Kastrationsangst, also eine Realangst, Angst vor einer
wirklich drohenden oder als real beurteilten Gefahr. Hier macht die Angst
die Verdrängung, nicht, wie ich früher gemeint habe, die Ver- drängung
die Angst. Es ist nicht angenehm, daran zu denken, aber es
hilft nichts, es zu verleugnen, ich habe oftmals den Satz vertreten,
durch die Verdrängung werde die Triebrepräsentanz entstellt, verschoben
u. dgl., die Libido der Triebregung aber in Angst verwandelt. Die
Untersuchung der Phobien, die vor allem berufen sein sollte, diesen Satz
zu erweisen, bestätigt ihn also nicht, sie scheint ihm vielmehr direkt zu
widersprechen. Die Angst der Tierphobien ist die Kastrationsangst
des Ichs, die der weniger gründlich studierten Agora- phobie scheint
Versuchungsangst zu sein, die ja genetisch mit der Kastrationsangst
zusammenhängen muß. Die meisten Phobien gehen, so weit wir es heute
übersehen, auf eine solche Angst des Ichs vor den Ansprüchen der Libido
zurück. Immer ist dabei die Angsteinstellung des Ichs das Primäre und der
Antrieb zur Verdrängung. Niemals geht die Angst aus der verdrängten
Libido hervor. Wenn ich mich früher begnügt hätte zu sagen, nach der
Verdrängung er- scheint an Stelle der zu erwartenden Äußerung von
Libido ein Maß von Angst, so hätte ich heute nichts zurückzunehmen. Die
Beschreibung ist richtig und zwischen der Stärke der zu
verdrängenden Regung und der Intensität der resultierenden Angst
besteht wohl die behauptete Entsprechung. Aber ich gestehe, ich glaubte
mehr als eine bloße Be- schreibung zu geben, ich nahm an, daß ich
den metapsychologischen Vorgang einer direkten Um- setzung der
Libido in Angst erkannt hatte; das kann ich also heute nicht mehr festhalten.
Ich konnte auch früher nicht angeben, wie sich eine solche
Umwandlung vollzieht. Woher schöpfte ich überhaupt die Idee
dieser Umsetzung? Zur Zeit, als es uns noch sehr ferne lag, zwischen
Vorgängen im Ich und Vorgängen im Es zu unterscheiden, aus dem Studium
der Aktualneurosen. Ich fand, daß bestimmte sexuelle Praktiken, wie
Coitus interruptus, frustrane Erregung, erzwungene Abstinenz
Angstausbrüche und eine allgemeine Angstbereitschaft erzeugen, also
immer, wenn die Sexualerregung in ihrem Ablauf zur Befriedigung gehemmt,
aufgehalten oder abgelenkt wird. Da die Sexualerregung der Aus-
druck libidinöser Triebregungen ist, schien es nicht gewagt, anzunehmen,
daf die Libido sich durch die Einwirkung solcher Störungen in Angst
verwandelt. Nun ist diese Beobachtung auch heute noch gültig;
anderseits ist nicht abzuweisen, daß die Libido der Es-Vorgänge durch die
Anregung der Verdrängung eine Störung erfährt; es kann also noch immer
richtig sein, daß sich bei der Verdrängung Angst aus der Libido-
besetzung der Triebregungen bildet. Aber wie soll man dieses Ergebnis mit
dem anderen zusammen- bringen, daß die Angst der Phobien eine Ich-Angst
ist, im Ich entsteht, nicht aus der Verdrängung hervor- geht,
sondern die Verdrängung hervorruft? Das scheint ein Widerspruch und nicht
einfach zu lösen. Die Reduktion der beiden Ursprünge der Angst auf
einen einzigen läft sich nicht leicht durchsetzen. Man kann es mit
der Annahme versuchen, daß das Ich in der Situation des gestörten Koitus,
der unterbrochenen Erregung, der Abstinenz, Gefahren wittert, auf die
es mit Angst reagiert, aber es ist nichts damit zu machen.
Anderseits scheint die Analyse der Phobien, die wir vorgenommen haben,
eine Berichtigung nicht zuzulassen. Von liguet! V Wir
wollten die Symptombildung und den sekun- dären Kampf des Ichs gegen das
Symptom studieren, aber wir haben offenbar mit der Wahl der Phobien
keinen glücklichen Griff getan. Die Angst, welche im Bild dieser
Affektionen vorherrscht, erscheint uns nun als eine den Sachverhalt
verhüllende Komplikation. Es gibt reichlich Neurosen, bei denen sich
nichts von Angst zeigt. Die echte Konversionshysterie ist von
solcher Art, deren schwerste Symptome ohne Bei- mengung von Angst gefunden
werden. Schon diese Tatsache müßte uns warnen, die Beziehungen
zwischen Angst und Symptombildung nicht allzu fest zu knüpfen. Den
Konversionshysterien stehen die Phobien sonst so nahe, daß ich mich für
berechtigt gehalten habe, ihnen diese als ‚Angsthysterie anzureihen.
Aber niemand hat noch die Bedingung angeben können, die darüber
entscheidet, ob ein Fall die Form einer Konversionshysterie oder einer
Phobie annimmt, niemand also die Bedingung der Angstentwicklung bei
der Hysterie ergründet. Die häufigsten Symptome der
Konversionshysterie, eine motorische Lähmung, Kontraktur oder
unwillkür- liche Aktion oder Entladung, ein. Schmerz, eine Hallu-
zination, sind entweder permanent festgehaltene oder intermittierende
Besetzungsvorgänge, was der Erklärung neue Schwierigkeiten bereitet. Man
weiß eigentlich nicht viel über solche Symptome zu sagen. Durch die
Analyse kann man erfahren, welchen gestörten Erregungsablauf sie
ersetzen. Zumeist ergibt sich, daß sie selbst einen Anteil an diesem haben,
so als ob sich die gesamte Energie desselben auf dies eine Stück
konzentriert hätte. Der Schmerz war in der Situation, in welcher die
Verdrängung vorfiel, vor- handen; die Halluzination war damals
Wahrnehmung, die motorische Lähmung ist die Abwehr einer Aktion,
die in jener Situation hätte ausgeführt werden sollen, aber gehemmt
wurde, die Kontraktur gewöhnlich eine Verschiebung für eine damals
intendierte Muskel- innervation an anderer Stelle, der Krampfanfall
Aus- druck eines Affektausbruches, der sich der normalen Kontrolle
des Ichs entzogen hat. In ganz auffälligem Maße wechselnd ist die
Unlustempfindung, die das Auftreten der Symptome begleitet. Bei den
perma- nenten, auf die Motilität verschobenen Symptomen, wie
Lähmungen und Kontrakturen, fehlt sie meistens gänzlich, das Ich verhält
sich gegen sie wie unbe- teiligt; bei den intermittierenden und den
Symptomen der sensorischen Sphäre werden in der Regel deutliche
Unlustempfindungen verspürt, die sich im Falle des Schmerzsymptoms zu
exzessiver Höhe steigern können. Es ist sehr schwer, in dieser
Mannigfaltigkeit das Moment herauszufinden, das solche Differenzen
ermöglicht und sie doch einheitlich erklären läßt. Auch vom Kampf des
Ichs gegen das einmal gebildete Symptom ist bei der Konversionshysterie wenig
zu merken. Nur wenn die Schmerzempfindlichkeit einer Körperstelle
zum Symptom geworden ist, wird diese in den Stand gesetzt, eine
Doppelrolle zu spielen. Das Schmerzsymptom tritt ebenso sicher auf,
wenn diese Stelle von außen berührt wird, wie wenn die von ihr
vertretene pathogene Situation von innen her assoziativ aktiviert wird,
und das Ich ergreift Vor- sichtsmaßregeln, um die Erweckung des
Symptoms durch äußere Wahrnehmung hintanzuhalten. Woher die
besondere Undurchsichtigkeit der Symptombildung bei der
Konversionshysterie rührt, können wir nicht erraten, aber sie gibt uns
ein Motiv, das unfrucht- bare Gebiet bald zu verlassen. Wir
wenden uns zur Zwangsneurose in der Erwartung, hier mehr über die Symptombildung
zu erfahren. Die Symptome der Zwangsneurose sind im allgemeinen von
zweierlei Art und entgegengesetzter Tendenz. Es sind entweder Verbote,
Vorsichtsmaß- regeln, Bußen, also negativer Natur, oder im Gegen-
teil Ersatzbefriedigungen, sehr häufig in symbolischer Verkleidung. Von
diesen zwei Gruppen ist die negative, abwehrende, strafende, die ältere; mit
der Dauer des Krankseins nehmen aber die aller Abwehr spotten- den
Befriedigungen überhand. Es ist ein Triumph der Symptombildung, wenn es
gelingt, das Verbot mit der Befriedigung zu verquicken, so daß
das ursprünglich abwehrende Gebot oder Verbot auch die Bedeutung
einer Befriedigung bekommt, wozu oft sehr künstliche Verbindungswege in
Anspruch genommen werden. In dieser Leistung zeigt sich die Neigung zur
Synthese, die wir dem Ich bereits zuerkannt haben. In extremen
Fällen bringt es der Kranke zustande, daß die meisten seiner Symptome zu
ihrer ursprünglichen Bedeutung auch die des direkten Gegensatzes erworben
haben, ein Zeugnis für die Macht der Ambivalenz, die, wir wissen
nicht warum, in der Zwangsneurose eine so große Rolle spielt. Im rohesten
Fall ist das Symptom zweizeitig, d. h. auf die Handlung, die eine
gewisse Vorschrift ausführt, folgt unmittelbar eine zweite, die sie
aufhebt oder rückgängig macht, wenngleich sie noch nicht wagt, ihr
Gegenteil auszuführen. Zwei Eindrücke ergeben sich sofort aus
dieser flüchtigen Überschau der Zwangssymptome. Der erste, daß hier
ein fortgesetzter Kampf gegen das Verdrängte unterhalten wird, der sich immer
mehr zu ungunsten der verdrängenden Kräfte wendet, und zweitens,
daß Ich und Über-Ich hier einen besonders großen Anteil an der
Symptombildung nehmen. Die Zwangsneurose ist wohl das
interessanteste und dankbarste Objekt der analytischen Untersuchung,
aber noch immer als Problem unbezwungen. Wollen wir in ihr Wesen tiefer
eindringen, so müssen wir eingestehen, daß unsichere Annahmen und
unbe- wiesene Vermutungen noch nicht entbehrt werden können. Die
Ausgangssituation der Zwangsneurose ist wohl keine andere als die der
Hysterie, die not- wendige Abwehr der libidinösen Ansprüche des
Ödipus-komplexes. Auch scheint sich bei jeder Zwangsneurose eine unterste
Schicht sehr früh gebildeter hysterischer Symptome zu finden. Dann aber
wird die weitere Gestaltung durch einen konstitutionellen Faktor
ent- scheidend verändert. Die genitale Organisation der Libido
erweist sich als schwächlich und zu wenig resistent. Wenn das Ich sein
Abwehrstreben beginnt, so erzielt es als ersten Erfolg, daf3 die
Genitalorgani- sation (der phallischen Phase) ganz oder teilweise
auf die frühere sadistisch-anale Stufe zurückgeworfen wird. Diese
Tatsache der Regression bleibt für alles folgende bestimmend.
Man kann noch eine andere Möglichkeit in Erwägung ziehen. Vielleicht
ist die Regression nicht die Folge eines konstitutionellen, sondern eines
zeit- lichen Faktors. Sie wird nicht darum ermöglicht werden, weil
die Genitalorganisation der Libido zu schwächlich geraten, sondern weil
das Sträuben des Ichs zu frühzeitig, noch während der Blüte der
sadi- stischen Phase eingesetzt hat. Einer sicheren Entscheidung getraue
ich mich auch in diesem Punkte nicht, aber die analytische Beobachtung
begünstigt diese Annahme nicht. Sie zeigt eher, dafs bei der
Wendung zur Zwangsneurose die phallische Stufe bereits erreicht ist. Auch
ist das Lebensalter für den Ausbruch dieser Neurose ein späteres als das
der Hysterie (die zweite Kindheitsperiode, nach dem Termin der
Latenzzeit), und in einem Fall von sehr später Entwicklung dieser
Affektion, den ich studieren konnte, ergab es sich klar, daß eine reale
Entwertung des bis dahin intakten Genitallebens die Bedingung für
die Regression und die Entstehung der Zwangs- neurose schuf."
Die metapsychologische Erklärung der Regression suche ich in einer
„Triebentmischung“, in der Ab- sonderung der erotischen Komponenten, die
mit Beginn der genitalen Phase zu den destruktiven Besetzungen der
sadistischen Phase hinzugetreten waren. Die Erzwingung der
Regression bedeutet den ersten Erfolg des Ichs im Abwehrkampf gegen
den Anspruch der Libido. Wir unterscheiden hier zweck- mäßig die
allgemeinere Tendenz der „Abwehr“ von der „Verdrängung“, die nur einer
der Mechanismen ist, deren sich die Abwehr bedient. Vielleicht noch
klarer als bei normalen und hysterischen Fällen erkennt man bei der
Zwangsneurose als den Motor der Abwehr Be an 2 n S. Die
Disposition zur Zwangsneurose. (Ges. Schriften, den Kastrationskomplex,
als das Abgewehrte die Strebungen des Ödipuskomplexes. Wir befinden
uns nun zu Beginn der Latenzzeit, die durch den Unter- gang des
Ödipuskomplexes, die Schöpfung oder Kon- solidierung des Über-Ichs und
die Aufrichtung der ethischen und ästhetischen Schranken im Ich
gekenn- zeichnet ist. Diese Vorgänge gehen bei der Zwangs- neurose
über das normale Maß hinaus; zur Zerstörung des Ödipuskomplexes tritt die
regressive Erniedrigung der Libido hinzu, das Über-Ich wird besonders
strenge und lieblos, das Ich entwickelt im Gehorsam gegen das
Über-Ich hohe Reaktionsbildungen von Gewissen- haftigkeit, Mitleid,
Reinlichkeit. Mit unerbittlicher, darum nicht immer erfolgreicher Strenge
wird die Versuchung zur Fortsetzung der frühinfantilen Onanie
verpönt, die sich nun an regressive (sadistisch-anale) Vor- stellungen
anlehnt, aber doch den unbezwungenen Anteil der phallischen Organisation
repräsentiert. Es liegt ein innerer Widerspruch darin, dafs gerade im
Interesse der Erhaltung der Männlichkeit (Kastrationsangst) jede
Betätigung dieser Männlichkeit verhindert wird, aber auch dieser
Widerspruch wird bei der Zwangsneurose nur übertrieben, er haftet bereits
an der normalen Art der Beseitigung des Ödipuskomplexes. Wie jedes
Übermaß den Keim zu seiner Selbstaufhebung in sich trägt, wird sich auch
an der Zwangsneurose bewähren, indem gerade die unterdrückte Onanie
sich in der Form der Zwangshandlungen eine immer weiter gehende Annäherung an
die Befriedigung erzwingt. Die Reaktionsbildungen im Ich der
Zwangsneuro- tiker, die wir als Übertreibungen der normalen Cha-
rakterbildung erkennen, dürfen wir als einen neuen Mechanismus der Abwehr
neben die Regression und die Verdrängung hinstellen. Sie scheinen bei
der Hysterie zu fehlen oder weit schwächer zu sein. Rückschauend
gewinnen wir so eine Vermutung, wodurch der Abwehrvorgang. der Hysterie
ausge- zeichnet ist. Es scheint, daß er sich auf die Ver- drängung
einschränkt, indem das Ich sich von der unliebsamen Triebregung abwendet,
sie dem Ablauf im Unbewußstten überläßt und. an ihren Schicksalen
keinen weiteren Anteil nimmt. So ganz ausschließend richtig kann das zwar
nicht sein, denn wir kennen ja den Fall, daf$ das hysterische Symptom
gleichzeitig die Erfüllung einer Strafanforderung des Über-Ichs
bedeutet, aber es mag einen allgemeinen Charakter im Verhalten des Ichs
bei der Hysterie beschreiben. Man kann es einfach als Tatsache
hinnehmen, daß sich bei der Zwangsneurose ein so strenges Über-Ich
bildet, oder man kann daran denken, daß der funda- mentale Zug dieser
Affektion die Libidoregression ist, und versuchen, auch den Charakter des
Über-Ichs mit ihr zu verknüpfen. In der Tat kann ja das Über- Ich,
das aus dem Es stammt, sich der dort einge- tretenen Regression und
Triebentmischung nicht entziehen. Es wäre nicht zu verwundern, wenn
es seinerseits härter, quälerischer, liebloser würde als bei
normaler Entwicklung. Während der Latenzzeit scheint die Abwehr
der ÖOnanieversuchung als Hauptaufgabe behandelt zu werden. Dieser
Kampf erzeugt eine Reihe von Symptomen, die bei den verschiedensten Personen
in typischer Weise wiederkehren und im allgemeinen den Charakter
des Zeremoniells tragen. Es ist sehr zu bedauern, daß sie noch nicht
gesammelt und systematisch analysiert worden sind; als früheste
Leistungen der Neurose würden sie über den hier verwendeten Mechanismus
der Symptombildung am ehesten Licht verbreiten. Sie zeigen bereits die
Züge, welche in einer späteren schweren Erkrankung so
verhängnisvoll hervortreten werden : die Unterbringung an den
Verrichtungen, die später wie automatisch ausgeführt werden sollen, am
Schlafengehen, Waschen und Ankleiden, an der Lokomotion, die Neigung
zur Wiederholung und zum Zeitaufwand. Warum das so geschieht, ist
noch keineswegs verständlich; die Subli- mierung analerotischer Komponenten
spielt dabei eine deutliche Rolle. Die Pubertät macht in der Entwicklung
der Zwangsneurose einen entscheidenden Abschnitt. Die in der
Kindheit abgebrochene Genitalorganisation setzt nun mit großer Kraft
wieder ein. Wir wissen aber, daß die Sexualentwicklung der Kinderzeit
auch für den Neubeginn der Pubertätsjahre die Richtung vorschreibt. Es
werden also einerseits die aggressiven Regungen der Frühzeit wieder
erwachen, anderseits muß ein mehr oder minder großer Anteil der
neuen libidinösen Regungen — in bösen Fällen deren Ganzes — die
durch die Regression vorgezeichneten Bahnen einschlagen und als
aggressive und destruktive Absichten auftreten. Infolge dieser Verkleidung
der erotischen Strebungen und der starken Reaktions- bildungen im
Ich, wird nun der Kampf gegen die Sexualität unter ethischer Flagge
weitergeführt. Das Ich sträubt sich verwundert gegen grausame und
gewalttätige Zumutungen, die ihm vom Es her ins Bewufßstsein geschickt
werden, und ahnt nicht, daß es dabei erotische Wünsche bekämpft, darunter
auch solche, die sonst seinem Einspruch entgangen wären. Das
überstrenge Über-Ich besteht um so energischer auf der Unterdrückung der
Sexualität, da sie so abstoßende Formen angenommen hat. So zeigt sich
der Konflikt bei der Zwangsneurose nach zwei Rich- tungen verschärft, das
Abwehrende ist intoleranter, das Abzuwehrende unerträglicher geworden ;
beides durch den Einfluß des einen Moments, der Libido-
regression. Man könnte einen Widerspruch gegen manche unserer
Voraussetzungen darin finden, daß die unlieb- same Zwangsvorstellung
überhaupt bewußt wird. Allein es ist kein Zweifel, daß sie vorher den
Prozeß der Verdrängung durchgemacht hat. In den meisten ist der
eigentliche Wortlaut der aggressiven Triebregung dem Ich überhaupt nicht.
bekannt. Es gehört ein gutes Stück analytischer Arbeit dazu, um ihn
bewußt zu machen. Was zum Bewußtsein durchdringt, ist in der Regel
nur ein entstellter Ersatz entweder von einer verschwommenen, traumhaften
Unbestimmtheit, oder unkenntlich gemacht durch eine absurde Ver-
kleidung. Wenn die Verdrängung nicht den Inhalt der aggressiven
Triebregung angenagt hat, so hat sie doch gewiß den sie begleitenden
Affektcharakter beseitigt. So erscheint die Aggression dem Ich
nicht als ein Impuls, sondern, wie die Kranken sagen, als ein
bloßer ‚„‚Gedankeninhalt‘, der einen kalt lassen sollte. Das Merkwürdige
ist, daß dies doch nicht der Fall ist. Der bei der
Wahrnehmung der Zwangsvorstellung ersparte Affekt kommt nämlich an
anderer Stelle zum Vorschein. Das Über-Ich benimmt sich so, als
hätte keine Verdrängung stattgefunden, als wäre ihm die aggressive
Regung in ihrem richtigen Wortlaut und mit ihrem vollen Affektcharakter
bekannt, und behandelt das Ich auf Grund dieser Voraussetzung. Das Ich,
das sich einerseits schuldlos weiß, muß anderseits ein Schuldgefühl
verspüren und eine Verantwortlichkeit tragen, die es sich nicht zu
erklären weiß. Das Rätsel, das uns hiemit aufgegeben wird, ist aber nicht
so groß), als es zuerst erscheint. Das Verhalten des Über-Ichs ist
durchaus: verständlich, der Widerspruch im Ich beweist uns nur, daß es
sich mittels der Ver- drängung gegen das Es verschlossen hat, während
es den Einflüssen aus dem Über-Ich voll zugänglich geblieben ist.‘
Der weiteren Frage, warum das Ich sich nicht auch der peinigenden Kritik
des Über-Ichs zu entziehen sucht, macht die Nachricht ein Ende, daf
dies wirklich in einer großen Reihe von Fällen so geschieht. Es gibt auch
Zwangsneurosen ganz ohne Schuldbewußtsein; soweit wir es verstehen, hat
sich das Ich die Wahrnehmung desselben durch eine neue Reihe von
Symptomen, Bußhandlungen, Einschrän- kungen zur Selbstbestrafung,
erspart. Diese Sym- ptome bedeuten aber gleichzeitig Befriedigungen ma-
sochistischer Triebregungen, die ebenfalls aus der Regression eine
Verstärkung bezogen haben. Die Mannigfaltigkeit in den
Erscheinungen der Zwangsneurose ist eine so großartige, daß es noch
keiner Bemühung gelungen ist, eine zusammenhängende Synthese aller ihrer
Variationen zu geben. Man ist bestrebt, typische Beziehungen
herauszuheben und dabei immer in Sorge, andere nicht minder
wichtige Regelmäßigkeiten zu übersehen. Die allgemeine
Tendenz der Symptombildung bei der Zwangsneurose habe ich bereits
beschrieben. Sie geht dahin, der Ersatzbefriedigung immer mehr Raum
ı) Vgl. Reik, Geständniszwang und Strafbedürfnis, 1925, SEHE.
u auf Kosten der Versagung zu schaffen. Dieselben Symptome, die
ursprünglich Einschränkungen des Ichs bedeuteten, nehmen dank der Neigung
des Ichs zur Synthese später auch die von Befriedigungen an, und es
ist unverkennbar, daf3 die letztere Bedeutung all- mählich die wirksamere
wird. Ein äußerst einge- schränktes Ich, das darauf angewiesen ist,
seine Befriedigungen in den Symptomen zu suchen, wird das Ergebnis
dieses Prozesses, der sich immer mehr dem völligen Fehlschlagen des
anfänglichen Abwehr- strebens nähert. Die Verschiebung des
Kräfteverhält- nisses zugunsten der Befriedigung kann zu dem
gefürchteten Endausgang der Willenslähmung des Ichs führen, das für jede
Entscheidung beinahe ebenso starke Antriebe von der einen wie von der
anderen Seite findet. Der überscharfe Konflikt zwischen Es und
Über-Ich, der die Affektion von Anfang an beherrscht, kann sich so sehr
ausbreiten, daf keine der Verrichtungen des zur Vermittlung
unfähigen Ichs der Einbeziehung in diesen Konflikt entgehen kann.
VI Während dieser Kämpfe kann man zwei symptom- bildende Tätigkeiten
des Ichs beobachten, die ein besonderes Interesse verdienen, weil sie
offenbare Surrogate der Verdrängung sind und darum deren Tendenz
und Technik schön erläutern können. Viel- leicht dürfen wir auch das
Hervortreten dieser Hilfs- und Ersatztechniken als einen Beweis dafür
auffassen, dafs die Durchführung der regelrechten Verdrängung auf
Schwierigkeiten stößt. Wenn wir erwägen, dafs bei der Zwangsneurose das
Ich soviel mehr Schauplatz der Symptombildung ist als bei der Hysterie,
daß dieses Ich zähe an seiner Beziehung zur Realität und zum
Bewußtsein festhält und dabei alle seine intellek- tuellen Mittel
aufbietet, ja, daß die Denktätigkeit überbesetzt, erotisiert, erscheint,
werden uns solche Variationen der Verdrängung vielleicht näher
gebracht. Die beiden angedeuteten Techniken sind das
Ungeschehenmachen und das Isolieren. Die erstere hat ein großes
Anwendungsgebiet und reicht weit zurück. Sie ist sozusagen negative
Magie, sie will durch motorische Symbolik nicht die Folgen eines
Ereignisses (Eindruckes, Erlebnisses), sondern dieses selbst „wegblasen“.
Mit der Wahl dieses letzten Ausdruckes ist darauf hingewiesen,
welche Rolle diese Technik nicht nur in der Neurose, sondern auch
in den Zauberhandlungen, Volksgebräuchen und im religiösen Zeremoniell
spielt. In der Zwangsneurose begegnet man dem Ungeschehenmachen zuerst
bei den zweizeitigen Symptomen, wo der zweite Akt den ersten
aufhebt, so, als ob nichts geschehen wäre, wo in Wirklichkeit beides
geschehen ist. Das zwangsneu- rotische Zeremoniell hat in der Absicht des
Unge- schehenmachens seine zweite Wurzel. Die erste ist die
Verhütung, die Vorsicht, damit etwas Bestimm- tes nicht geschehe, sich
nicht wiederhole. Der Unter- schied ist leicht zu fassen; die
Vorsichtsmafßregeln sind rationell, die „Aufhebungen‘ durch
Ungeschehen- machen irrationell, magischer Natur. Natürlich muß man
vermuten, daß diese zweite Wurzel die ältere, aus der animistischen
Einstellung zur Umwelt stam- mende ist. Seine Abschattung zum Normalen
findet das Streben zum Ungeschehenmachen in dem Ent- schluß ein
Ereignis als ‚»on arrive“ zu behandeln, aber dann unternimmt man nichts
dagegen, kümmert sich weder um das Ereignis noch um seine Folgen,
während man in der Neurose die Vergangenheit selbst aufzuheben, motorisch
zu verdrängen sucht. Dieselbe Tendenz kann auch die Erklärung des in
der Neurose so häufigen Zwanges zur Wieder- holung geben, bei dessen
Ausführung sich dann mancherlei einander widerstreitende Absichten
zu- sammenfinden. Was nicht in solcher Weise geschehen ist, wie es
dem Wunsch gemäß hätte geschehen sollen, wird durch die Wiederholung in
anderer Weise ungeschehen gemacht, wozu nun alle die Motive hin-
zutreten, bei diesen Wiederholungen zu verweilen. Im weiteren Verlauf der
Neurose enthüllt sich oft die Tendenz, ein traumatisches Erlebnis
ungeschehen zu machen, als ein symptombildendes Motiv von erstem
Range. Wir erhalten so unerwarteten Einblick in eine neue, motorische
Technik der Abwehr oder, wie wir hier mit geringerer Ungenauigkeit sagen
können, der Verdrängung. Die andere der neu zu beschreibenden
Techniken ist das der Zwangsneurose eigentümlich zukommende
Isolieren. Es bezieht sich gleichfalls auf die moto- rische Sphäre,
besteht darin, daß nach einem unlieb- samen Ereignis, ebenso nach einer
im Sinne der Neu- rose bedeutsamen eigenen Tätigkeit, eine Pause
ein- geschoben wird, in der sich nichts mehr ereignen darf, keine
Wahrnehmung gemacht und keine Aktion ausgeführt wird. Dies zunächst
sonderbare Verhalten verrät uns bald seine Beziehung. zur
Verdrängung. Wir wissen, bei Hysterie ist es möglich, einen trau-
matischen Eindruck der Amnesie. verfallen zu lassen, bei der
Zwangsneurose ist dies oft nicht gelungen, das Erlebnis ist nicht
vergessen, aber es ist von seinem Affekt entblößt und seine assoziativen
Bezie- hungen sind unterdrückt oder unterbrochen, so daß es wie
isoliert dasteht und auch nicht im Verlaufe der Denktätigkeit
reproduziert wird. Der Effekt dieser Isolierung ist dann der nämliche wie
bei der Ver- drängung mit Amnesie. Diese Technik wird also in den
Isolierungen der Zwangsneurose reproduziert, aber dabei auch in magischer
Absicht motorisch verstärkt. Was so auseinandergehalten wird, ist gerade
das, was assoziativ zusammengehört, die motorische Isolierung sol
eine Garantie für die Unterbrechung des Zusammenhanges im Denken geben.
Einen Vorwand für dies Verfahren der Neurose gibt der normale
Vorgang der Konzentration. Was uns bedeutsam als Eindruck, als Aufgabe
erscheint, soll nicht durch die gleichzeitigen Ansprüche anderer Denkverrichtun-
gen oder Tätigkeiten gestört werden. Aber schon im Normalen wird die
Konzentration dazu verwendet, nicht nur das Gleichgültige, nicht
Dazugehörige, sondern vor allem das unpassende Gegensätzliche
fernzuhalten. Als das Störendste wird empfunden, was ursprüng- lich
zusammengehört hat und durch den Fortschritt der Entwicklung
auseinandergerissen wurde, z. B. die Äußerungen der Ambivalenz des
Vaterkomplexes in der Beziehung zu Gott oder die Regungen der Ex-
kretionsorgane in den Liebeserregungen. So hat das Ich normalerweise eine
große Isolierungsarbeit bei der Lenkung des Gedankenablaufes zu leisten,
und wir wissen, in der Ausübung der analytischen Technik müssen wir
das Ich dazu erziehen, auf diese sonst durchaus gerechtfertigte Funktion
zeitweilig zu ver- zichten. Wir haben alle die Erfahrung
gemacht, daß es dem Zwangsneurotiker besonders schwer wird, die
psychoanalytische Grundregel zu befolgen. Wahr- scheinlich infolge der
hohen Konfliktspannung zwischen seinem Über-Ich und seinem Es ist sein
Ich wach- samer, dessen Isolierungen schärfer. Es hat während
seiner Denkarbeit zuviel abzuwehren, die Einmengung unbewußter
Phantasien, die Äußerung der ambi- valenten Strebungen. Es darf sich
nicht gehen lassen, befindet sich fortwährend in Kampfbereitschaft.
Diesen Zwang zur Konzentration und Isolierung unterstützt es dann
durch die magischen Isolierungsaktionen, die als Symptome so auffällig
und praktisch so bedeut- sam werden, an sich natürlich nutzlos sind und
den Charakter des Zeremoniells haben. Indem es aber
Assoziationen, Verbindung in Gedanken, zu verhindern sucht, befolgt es
eines der ältesten und fundamentalsten Gebote der Zwangsneu- rose,
das labu der Berührung. \Wenn man sich die Frage vorlegt, warum die
Vermeidung von Berührung, Kontakt, Ansteckung in der Neurose eine
so große Rolle spielt und zum Inhalt so komplizierter Systeme gemacht
wird, so findet man die Antwort, daß die Berührung, der körperliche Kontakt,
das nächste Ziel sowohl der aggressiven wie der zärt- lichen
Objektbesetzung ist. Der Eros will die Berüh- rung, denn er strebt nach
Vereinigung, Aufhebung der Raumgrenzen zwischen Ich und geliebtem
Objekt. Aber auch die Destruktion, die vor der Erfindung der
Fernwaffe nur aus der Nähe erfolgen konnte, muß die körperliche
Berührung, das Handanlegen, voraussetzen. Eine Frau berühren ist im
Sprach- gebrauch ein Euphemismus für ihre Benützung als
Sexualobjekt geworden. Das Glied nicht berühren ist der Wortlaut des
Verbotes der autoerotischen Befrie- digung. Da die Zwangsneurose zu
Anfang die ero- tische Berührung, dann nach der Regression die als
Aggression maskierte Berührung verfolgte, ist nichts anderes für sie in
so hohem Grade verpönt worden, nichts so geeignet, zum Mittelpunkt eines
Verbotsystems zu werden. Die Isolierung ist aber Aufhebung der
Kontaktmöglichkeit, Mittel, ein Ding jeder Berührung zu entziehen, und
wenn der Neurotiker auch einen Eindruck oder eine Tätigkeit durch eine
Pause isoliert, gibt er uns symbolisch zu verstehen, daß er die
Gedanken an sie nicht in assoziative Berührung mit anderen kommen lassen
will. So weit reichen unsere Untersuchungen über die
Symptombildung. Es verlohnt sich kaum, sie zu resu- mieren, sie sind
ergebnisarm und unvollständig ge- Siem. Freud blieben, haben
auch wenig gebracht, was nicht schon früher bekannt gewesen wäre. Die
Symptombildung bei anderen Affektionen als bei den Phobien, der
Konversionshysterie und der Zwangsneurose in Betracht zu ziehen, wäre
aussichtslos ; es ist zu wenig darüber bekannt. Aber auch schon aus der
Zusammenstellung dieser drei Neurosen erhebt sich ein
schwerwiegendes, nicht mehr aufzuschiebendes Problem. Für alle drei
ist die Zerstörung des Odipuskomplexes der Ausgang, in allen, nehmen wir
an, die Kastrationsangst der Motor des Ichsträubens. Aber nur in den
Phobien kommt solche Angst zum Vorschein, wird sie einge- standen.
Was ist bei den zwei anderen Formen aus ihr geworden, wie hat das Ich sich
solche Angst erspart? Das Problem verschärft sich noch, wenn wir an
die vorhin erwähnte Möglichkeit denken, daß die Angst durch eine Art
Vergährung aus der im Ablauf gestörten Libidobesetzung selbst hervorgeht,
und weiters: steht es fest, daß die Kastrationsangst der einzige
Motor der Verdrängung (oder Abwehr) ist? Wenn man an die Neurosen der
Frauen denkt, muß man das bezweifeln, denn so sicher sich der
Kastrations- komplex bei ihnen konstatieren läßt, von einer
Kastrationsangst im richtigen Sinne kann man bei bereits vollzogener
Kastration doch nicht sprechen. Kehren wir zu den infantilen Tierphobien
zu- rück, wir verstehen diese Fälle doch besser als alle anderen.
Das Ich muf also hier gegen eine libidinöse Objektbesetzung des Es (die
des positiven oder des negativen Odipuskomplexes) einschreiten, weil
es verstanden hat, ihr nachzugeben brächte die Gefahr der
Kastration mit sich. Wir haben das schon erörtert und finden noch Anlaß,
uns einen Zweifel klar zu machen, der von dieser ersten Diskussion
erübrigt ist. Sollen wir beim kleinen Hans (also im Falle des posi-
tiven Odipuskomplexes) annehmen, daß es die zärt- liche Regung für die
Mutter oder die aggressive gegen den Vater ist, welche die Abwehr des
Ichs heraus- fordert? Praktisch schiene das gleichgültig, besonders
da die beiden Regungen einander bedingen, aber ein theoretisches
Interesse knüpft sich an die Frage, weil nur die zärtliche Strömung für
die Mutter als eine rein erotische gelten kann. Die aggressive ist
wesent- lich vom Destruktionstrieb abhängig, und wir haben immer
geglaubt, bei der Neurose wehre sich das Ich gegen Ansprüche der Libido,
nicht der anderen Triebe. In der Tat sehen wir, daf$ nach der
Bildung der Phobie die zärtliche Mutterbindung wie ver- schwunden
ist, sie ist durch die Verdrängung gründ- lich erledigt worden, an der
aggressiven Regung hat sich aber die Symptom- (Ersatz-) Bildung
vollzogen. Im Falle des Wolfsmannes liegt es einfacher, die ver-
drängte Regung ist wirklich eine erotische, die feminine Einstellung zum
Vater, und ah ihr vollzieht sich auch die Symptombildung. Es
ist fast beschämend, daß wir nach so langer Arbeit noch immer
Schwierigkeiten in der Auffassung der fundamentalsten Verhältnisse
finden, aber wir haben uns vorgenommen, nichts zu vereinfachen und
nichts zu verheimlichen. Wenn wir nicht klar sehen können, wollen wir
wenigstens die Unklarheiten schart sehen. Was uns hier im \Wege steht,
ist offenbar eine Unebenheit in der Entwicklung unserer Trieb- lehre.
Wir hatten zuerst die Organisationen der Libido von der oralen über die
sadistisch-anale zur genitalen Stufe verfolgt und dabei alle Komponenten
des Sexual- triebs einander gleichgestellt. Später erschien uns der
Sadismus als der Vertreter eines anderen, dem Eros gegensätzlichen Triebes.
Die neue Auffassung von den zwei Iriebgruppen scheint die frühere
Konstruktion von den sukzessiven Phasen der Libidoorganisation zu
sprengen. Die hilfreiche Auskunft aus dieser Schwierigkeit brauchen wir aber
nicht neu zu erfinden. Sie hat sich uns längst geboten und lautet, daß
wir es kaum jemals mit reinen Triebregungen zu tun haben, sondern
durchwegs mit Legierungen beider Triebe in verschiedenen
Mengenverhältnissen. Die sadistische Objektbesetzung hat also auch ein
Anrecht, als eine libidinöse behandelt zu werden, die
Organisationen der Libido brauchen nicht revidiert zu werden, die
aggressive Regung gegen den Vater kann mit dem- selben Anrecht Objekt der
Verdrängung werden wie die zärtliche für die Mutter. Immerhin setzen wir
als Stoff für spätere Überlegung die Möglichkeit beiseite, daf3 die
Verdrängung ein ProzefS ist, der eine beson- dere Beziehung zur
Genitalorganisation der Libido hat, daß das Ich zu anderen Methoden der
Abwehr greift, wenn es sich der Libido auf anderen Stufen der
Organisation zu erwehren hat, und setzen wir fort. Ein Fall wie der des
kleinen Hans gestattet uns keine Entscheidung; hier wird zwar eine
aggressive Regung durch Verdrängung erledigt, aber nachdem die
Genitalorganisation bereits erreicht ist. Wir wollen diesmal die
Beziehung zur Angst nicht aus den Augen lassen. Wir sagten, so wie
das Ich die Kastrationsgefahr erkannt hat, gibt es das Angstsignal
und inhibiert mittels der Lust-Unlust- Instanz auf eine weiter nicht
einsichtliche Weise den bedrohlichen Besetzungsvorgang im Es.
Gleichzeitig vollzieht sich die Bildung der Phobie. Die
Kastrations- Freud: Hemmung, Symptom und Angst 5 66
Sigm. Freud angst erhält ein anderes Objekt und einen entstellten
Ausdruck: vom Pferd gebissen (vom Wolf gefressen), anstatt vom Vater
kastriert zu werden. Die Ersatz- bildung hat zwei offenkundige Vorteile,
erstens, dafß sie einem Ambivalenzkonflikt ausweicht, denn der
Vater ist ein gleichzeitig geliebtes Objekt und zweitens, daf3 sie dem
Ich gestattet, die Angstentwicklung ein- zustellen. Die Angst der Phobie
ist nämlich eine fakultative, sie tritt nur auf, wenn ihr Objekt
Gegen- stand der Wahrnehmung wird. Das ist ganz korrekt; nur dann
ist nämlich die Gefahrsituation vorhanden. Von einem abwesenden Vater
braucht man auch die Kastration nicht zu befürchten. Nun kann man
den Vater nicht wegschaffen, er zeigt sich immer, wann er will. Ist
er aber durch das Tier ersetzt, so braucht man nur den Anblick, d. h. die
Gegenwart des lieres zu vermeiden, um frei von Gefahr und Angst zu
sein. Der kleine Hans legt seinem Ich also eine Einschränkung auf, er
produziert die Hemmung, nicht auszugehen, um nicht mit Pterden
zusammenzutreffen. Der kleine Russe hat es noch bequemer, es ist
kaum ein Verzicht für ihn, daß er ein gewisses Bilderbuch nicht
mehr zur Hand nimmt. Wenn die schlimme Schwester ihm nicht immer wieder
das Bild des auf- rechtstehenden Wolfes in diesem Buch vor Augen
halten würde, dürfte er sich vor seiner Angst gesichert fühlen.
Ich habe früher einmal der Phobie den Charakter FHTemmung,
Symptom und Angst 67 einer Projektion zugeschrieben, indem sie
eine innere Triebgefahr durch eine äußere Wahrnehmungsgefahr
ersetzt. Das bringt den Vorteil, daß man sich gegen die äußere Gefahr
durch Flucht und Ver- meidung der Wahrnehmung schützen kann,
während gegen die Grefahr von innen keine Flucht nützt. Meine
Bemerkung ist nicht unrichtig, aber sie bleibt an der Oberfläche. Der
Triebanspruch ist ja nicht an sich eine Gefahr, sondern nur darum, weil
er eine richtige äußere Gefahr, die der Kastration, mit sich
bringt. So ist im Grunde bei der Phobie doch nur eine äußere Gefahr
durch eine andere ersetzt. Daß das Ich sich bei der Phobie durch eine Vermeidung
oder ein Hemmungssymptom der Angst entziehen kann, stimmt sehr gut
zur Auffassung, diese Angst sei nur ein Affektsignal und an der
ökonomischen Situation sei nichts geändert worden. Die Angst
der Tierphobien ist also eine Affekt- reaktion des Ichs auf die Gefahr;
die Gefahr, die hier signalisiert wird, die der Kastration. Kein
anderer Unterschied von der Realangst, die das Ich normaler- weise
in Gefahrsituationen äußert, als daf3 der Inhalt der Angst unbewußt
bleibt und nur in einer Entstellung bewußt wird. Dieselbe
Auffassung wird sich uns, glaube ich, auch für die Phobien Erwachsener
giltig erweisen, wenngleich das Material, das die Neurose verarbeitet,
sehr viel reichhaltiger ist und einige Momente zur Symptombildung
hinzukommen. Im Grunde ist es das nämliche. Der Agoraphobe legt seinem
Ich eine Beschränkung auf, um einer Triebgefahr zu entgehen. Die
Triebgefahr ist die Versuchung, seinen erotischen Gelüsten nachzu-
geben, wodurch er wieder wie in der Kindheit die Gefahr der Kastration,
oder eine ihr analoge, herauf- beschwören würde. Als Beispiel führe ich
den Fall eines jungen Mannes an, der agoraphob wurde, weil er
befürchtete, den Lockungen von Prostituierten nach- zugeben und sich zur
Strafe Syphilis zu holen. Ich weiß wohl, daf viele Fälle eine
kompliziertere Struktur zeigen und dafs viele andere verdrängte
Trieb- regungen in die Phobie einmünden können, aber diese sind nur
auxiliär und haben sich meist nachträglich mit dem Kern der Neurose in
Verbindung gesetzt. Die Symptomatik der Agoraphobie wird dadurch kompli-
ziert, daßß das Ich sich nicht damit begnügt, auf etwas zu verzichten; es
tut noch etwas hinzu, um der Situation ihre Gefahr zu benehmen. Diese
Zutat ist gewöhnlich eine zeitliche Regression in die Kinderjahre (im
extremen Fall bis in den Mutterleib, in Zeiten, in denen man gegen
die heute drohenden Gefahren geschützt war) und tritt als die Bedingung
auf, unter der der Verzicht unter- bleiben kann. So kann der Agoraphobe
auf die Straße gehen, wenn er wie ein kleines Kind von einer Person
seines Vertrauens begleitet wird. Dieselbe Rücksicht mag ihm auch
gestatten, allein auszugehen, wenn er sich nur nicht über eine bestimmte
Strecke von seinem Haus entfernt, nicht in Gegenden geht, die er nicht gut
kennt und wo er den Leuten nicht bekannt ist. In der Aus- wahl
dieser Bestimmungen zeigt sich der Einfluß der infantilen Momente, die
ihn durch seine Neurose be- herrschen. Ganz eindeutig, auch ohne solche
infantile Regression, ist die Phobie vor dem Alleinsein, die im
Grunde der Versuchung zur einsamen Önanie aus- weichen will. Die
Bedingung der infantilen Regression ist natürlich die zeitliche
Entfernung von der Kindheit. Die Phobie stellt sich in der Regel
her, nachdem unter gewissen Umständen — auf der Straße, auf der
Eisenbahn, im Alleinsein — ein erster Angstanfall erlebt worden ist. Dann
ist die Angst gebannt, tritt aber jedesmal wieder auf, wenn die
schützende Be- dingung nicht eingehalten werden kann. Der
Mechanismus der Phobie tut als Abwehrmittel gute Dienste und zeigt
eine große Neigung zur Stabilität. Eine Fort- setzung des Abwehrkampfes,
der sich jetzt gegen das Symptom richtet, tritt häufig, aber nicht
notwendig, ein. Was wir über die Angst bei den Phobien
erfahren haben, bleibt noch für die Zwangsneurose verwertbar. Es
ist nicht schwierig, die Situation der Zwangsneurose auf die der Phobie
zu reduzieren. Der Motor aller späteren Symptombildung ist hier offenbar
die Angst des Ichs vor seinem Über-Ich. Die Feindseligkeit des
Über- Ichs ist die Gefahrsituation, der sich das Ich entziehen muß.
Hier fehlt jeder Anschein einer Projektion, die Gefahr ist durchaus
verinnerlicht. Aber wenn wir uns fragen, was das Ich von seiten des
Über-Ichs befürchtet, so drängt sich die Auffassung auf, dafs die Strafe
des Über-Ichs eine Fortbildung der Kastrationsstrafe ist. Wie das
Über-Ich der unpersönlich gewordene Vater ist, so hat sich die Angst vor
der durch ihn drohenden Kastration zur unbestimmten sozialen oder
Gewissens- angst umgewandelt. Aber diese Angst ist gedeckt, das Ich
entzieht sich ihr, indem es die ihm auferlegten Gebote, Vorsichten und
Bußhandlungen gehorsam aus- führt. Wenn es daran gehindert wird, dann
tritt sofort ein äußerst peinliches Unbehagen auf, in dem wir das
Äquivalent der Angst erblicken dürfen, das die Kranken selbst der Angst
gleichstellen. Unser Ergebnis lautet also: Die Angst ist die Reaktion auf
die Gefahr- situation; sie wird dadurch erspart, daß das Ich etwas
tut, um die Situation zu vermeiden oder sich ihr zu entziehen. Man könnte
nun sagen, die Symptome werden geschaffen, um die Angstentwicklung zu
ver- meiden, aber das läßt nicht tief blicken. Es ist richtiger zu
sagen, die Symptome werden geschaffen, um die Gefahrsituation zu
vermeiden, die durch die Angst- entwicklung signalisiert wird. Diese
Gefahr war aber in den bisher betrachteten Fällen die Kastration
oder etwas von ihr Absgeleitetes. Wenn die Angst die Reaktion
des Ichs auf die Gefahr ist, so liegt es nahe, die traumatische
Neurose, welche sich so häufig an überstandene Lebensgefahr
anschliefst, als direkte Folge der Lebens- oder Todes- FIemmung,
Symptom und Angst 71 angst mit Beiseitesetzung der Abhängigkeiten
des Ichs und der Kastration aufzufassen. Das ist auch von den
meisten Beobachtern der traumatischen Neurosen des letzten Krieges
geschehen, und es ist triumphierend ver- kündet worden, nun sei der
Beweis erbracht, dafs eine Gefährdung des Selbsterhaltungstriebes eine
Neurose erzeugen könne ohne jede Beteiligung der Sexualität und
ohne Rücksicht auf die komplizierten Annahmen der Psychoanalyse. Es ‘ist
in der Tat aufserordentlich zu bedauern, daß nicht eine einzige
verwertbare Analyse einer traumatischen Neurose vorliegt. Nicht wegen
des Widerspruches gegen die ätiologische Bedeutung der Sexualität,
denn dieser ist längst durch die Einführung des Narziffmus aufgehoben
worden, der die libidinöse Besetzung des Ichs in eine Reihe mit den
Objekt- besetzungen bringt und die libidinöse Natur des Selbst-
erhaltungstriebes betont, sondern weil wir durch den Ausfall dieser
Analysen die kostbarste Gelegenheit zu entscheidenden Aufschlüssen über
das Verhältnis zwischen Angst und Symptombildung versäumt haben. Es
ist nach allem, was wir von der Struktur der simpleren Neurosen des
täglichen Lebens wissen, sehr unwahrscheinlich, daß eine Neurose nur
durch die objektive Tatsache der Gefährdung ohne Beteiligung der
tieferen unbewufßten Schichten des seelischen Apparats zustande kommen
sollte. Im Unbewußsten ist aber nichts vorhanden, was unserem Begriff der
Lebens- vernichtung Inhalt geben kann. Die Kastration wird
sozusagen vorstellbar durch die tägliche Erfahrung der Trennung vom
Darminhalt und durch den bei der Entwöhnung erlebten Verlust der
mütterlichen Brust; etwas dem Tod Ähnliches ist aber nie erlebt
worden oder hat wie die Ohnmacht keine nachweisbare Spur
hinterlassen. Ich halte darum an der Vermutung fest, dafs die Todesangst
als Analogon der Kastrationsangst aufzufassen ist, und dafß die
Situation, auf welche das Ich reagiert, das Verlassensein vom schützenden
Über- Ich — den Schicksalsmächten — ist, womit die Sicherung gegen
alle Gefahren ein Ende hat. Außer- dem kommt in Betracht, daf3 bei den
Erlebnissen, die zur traumatischen Neurose führen, äußerer
Reizschutz durchbrochen wird und übergroße Erregungsmengen an den
seelischen Apparat herantreten, so dafs hier die zweite Möglichkeit
vorliegt, daß Angst nicht nur als Affekt signalisiert, sondern auch aus
den ökono- mischen Bedingungen der Situation neu erzeugt wird.
Durch die letzte Bemerkung, das Ich sei durch regelmäßig
wiederholte Objektverluste auf die Kastration vorbereitet worden, haben
wir eine neue Auffassung der Angst gewonnen. Betrachteten wir sie bisher
als Affektsignal der Gefahr, so erscheint sie uns nun, da es sich
so oft um die Gefahr der Kastration handelt, als die Reaktion auf einen
Verlust, eine Trennung. Mag auch mancherlei, was sich sofort ergibt,
gegen diesen Schluß sprechen, so muß uns doch eine sehr merkwürdige
Übereinstimmung auffallen. Das erste Angsterlebnis des Menschen wenigstens
ist die Geburt und diese bedeutet objektiv die Trennung von der
Mutter, könnte einer Kastration der Mutter (nach der Gleichung Kind —
Penis) verglichen werden. Nun wäre es sehr befriedigend, wenn die Angst
als Symbol einer Trennung bei jeder späteren Irennung wiederholt
würde, aber leider steht einer Verwertung dieses Zu- sammenstimmens im
Wege, daß ja die Geburt subjektiv nicht als Trennung von der Mutter
erlebt wird, da diese als Objekt dem durchaus narzifßstischen Fötus
völlig unbekannt ist. Ein anderes Bedenken wird lauten, daß uns die
Affektreaktionen auf eine Trennung bekannt sind, und daß wir sie als
Schmerz und Trauer, nicht als Angst empfinden. Allerdings erinnern
wir uns, wir haben bei der Diskussion der Trauer auch nicht
verstehen können, warum sie so schmerzhaft ist. VII
Es ist Zeit, sich zu besinnen. Wir suchen offenbar nach einer Einsicht,
die uns das Wesen der Angst erschließt, nach einem Entweder—Oder, das
die Wahrheit über sie vom Irrtum scheidet. Aber das ist schwer zu
haben, die Angst ist nicht einfach zu erfassen. Bisher haben wir nichts
erreicht als Widersprüche, zwischen denen ohne Vorurteil keine Wahl
möglich war. Ich schlage jetzt vor, es anders zu machen; wir wollen
unparteisch alles zusammentragen, was wir von der Angst aussagen können,
und dabei auf die Erwartung einer nahen Synthese verzichten.
Die Angst ist also in erster Linie etwas Empfundenes. Wir heißen
sie einen Affektzustand, obwohl wir auch nicht wissen, was ein Affekt
ist. Sie hat als Empfindung offenbarsten Unlustcharakter, aber das
erschöpft nicht ihre Qualität; nicht jede Unlust können wir Angst
heifßen. Es gibt andere Empfindungen mit Unlust- charakter (Spannungen,
Schmerz, Trauer) und die Angst mufS außer dieser Unlustqualität andere
Besonder- heiten haben. Eine Frage: Werden wir es dazu bringen, die
Unterschiede zwischen diesen verschiedenen Unlust- affekten zu
verstehen? Aus der Empfindung der Angst können wir immer- hin
etwas entnehmen. Ihr Unlustcharakter scheint eine besondere Note zu
haben; das ist schwer zu beweisen, aber wahrscheinlich; es wäre nichts
Auffälliges. Aber außer diesem schwer isolierbaren Eigencharakter
nehmen wir an der Angst bestimmtere körperliche Sensationen wahr,
die wir auf bestimmte Organe beziehen. Da uns die Physiologie der Angst
hier nicht interessiert, genügt es uns, einzelne Repräsentanten dieser
Sensa- tionen hervorzuheben, also die häufigsten und deut- lichsten
an den Atmungsorganen und am Herzen. Sie sind uns Beweise dafür, dafß
motorische Inner- vationen, also Abfuhrvorgänge an dem Granzen der
Angst Anteil haben. Die Analyse des Angstzustandes ergibt also ı) einen
spezifischen Unlustcharakter, 2) Abfuhraktionen, 3) die Wahrnehmungen
derselben. Die Punkte 2) und 3) ergeben uns bereits einen
Unterschied gegen die ähnlichen Zustände, z. B. der Trauer und des
Schmerzes. Bei diesen gehören die motorischen Äußerungen nicht dazu; wo
sie vor- handen sind, sondern sie sich deutlich nicht als Bestand-
teile des Ganzen, sondern als Konsequenzen oder Reaktionen darauf. Die
Angst ist also ein besonderer Unlustzustand mit Abfuhraktionen auf
bestimmte Bahnen. Nach unseren allgemeinen Anschauungen werden wir
glauben, daß der Angst eine Steigerung der Erregung zugrunde liegt, die
einerseits den Unlustcharakter schafft, andererseits sich durch die
genannten Abfuhren erleichtert. Diese rein physiologische
Zusammenfassung wird uns aber kaum genügen; wir sind versucht,
anzunehmen, dafß ein historisches Moment da ist, welches die Sensationen
und Innervationen der Angst fest an einander bindet. Mit anderen Worten,
daß der Angstzustand die Reproduktion eines Erlebnisses ist, das
die Bedingungen einer solchen Reizsteigerung und der Abfuhr auf bestimmte
Bahnen enthielt, wodurch also die Unlust der Angst ihren spezifischen
Charakter erhält. Als solches vorbildliches Erlebnis bietet sich
uns für den Menschen die Geburt, und darum sind wir geneigt, im
Angstzustand eine Reproduktion des Greburtstraumas zu sehen.
Wir haben damit nichts behauptet, was der Angst eine
Ausnahmsstellung unter den Affektzuständen ein- räumen würde. Wir meinen,
auch die anderen Affekte sind Reproduktionen alter, lebenswichtiger, eventuell
vorindividueller Ereignisse und wir bringen sie als allgemeine, typische,
mitgeborene hysterische Anfälle in Vergleich mit den spät und individuell
erworbenen Attacken der hysterischen Neurose, deren Genese und
Bedeutung als Erinnerungssymbole uns durch die Analyse deutlich geworden
ist. Natürlich wäre es sehr wünschenswert, diese Auffassung für eine
Reihe anderer Afiekte beweisend durchführen zu können, wovon wir
heute weit entfernt sind. Die Zurückführung der Angst auf das
Geburts- ereignis hat sich gegen naheliegende Einwände zu
verteidigen. Die Angst ist eine wahrscheinlich allen Organismen,
jedenfalls allen höheren zukommende Reaktion, die Geburt wird nur von den
Säugetieren erlebt, und es ist fraglich, ob sie bei allen diesen
die Bedeutung eines Traumas hat. Es gibt also Angst ohne
Geburtsvorbild. Aber dieser Einwand setzt sich über die Schranken
zwischen Biologie und Psychologie hinaus. Gerade weil die Angst eine
biologisch unent- behrliche Funktion zu erfüllen hat, als Reaktion auf
den Zustand der Gefahr, mag sie bei verschiedenen Lebewesen auf
verschiedene Art eingerichtet worden sein. Wir wissen auch nicht, ob sie
bei dem Menschen ferner stehenden Lebewesen denselben Inhalt an
Sen- sationen und Innervationen hat wie beim Menschen. Das hindert
also nicht, daf3 die Angst beim Menschen den Geburtsvorgang zum Vorbild
nimmt. Wenn dies die Struktur und die Herkunft der Angst ist,
so lautet die weitere Frage: Was ist ihre Funktion? Bei welchen
Gelegenheiten wird sie reprodu- ziert? Die Antwort scheint naheliegend
und zwingend zu sein. Die Angst entstand als Reaktion auf einen
Zustand der Gefahr, sie wird nun regelmäßig reprodu- ziert, wenn sich ein
solcher Zustand wieder einstellt. Dazu ist aber einiges zu
bemerken. Die Inner- vationen des ursprünglichen Angstzustandes
waren wahrscheinlich auch sinnvoll und zweckmäßig, ganz a ——
so wie die Muskelaktionen des ersten hysterischen An- falls. Wenn
man den hysterischen Anfall erklären will, braucht man ja nur die
Situation zu suchen, in der die betreffenden Bewegungen Anteile einer
berech- tigten Handlung waren. So hat wahrscheinlich während der
Geburt die Richtung der Innervation auf die Atmungsorgane die Tätigkeit
der Lungen vorbereitet, die Beschleunigung des Herzschlags gegen die Ver-
giftung des Blutes arbeiten wollen. Diese Zweckmäßig- keit entfällt
natürlich bei der späteren Reproduktion des Angstzustandes als Affekt,
wie sie auch beim wiederholten hysterischen Anfall vermißt wird.
Wenn also das Individuum in eine neue Gefahrsituation gerät, so
kann es leicht unzweckmäßig werden, daß es mit dem Angstzustand, der
Reaktion auf eine frühere Gefahr antwortet, anstatt die der jetzigen
adäquaten Reaktion einzuschlagen. Die Zweckmäßigkeit tritt aber
wieder hervor, wenn die Gefahrsituation als heran- nahend erkannt und
durch den Angstausbruch signa- lisiert wird. Die Angst kann dann sofort
durch ge- eignetere Maßnahmen abgelöst werden. Es sondern sich also
sofort zwei Möglichkeiten des Auftretens der Angst: die eine,
unzweckmäßige, in einer neuen Gefahr- situation, die andere, zweckmäßige,
zur Signalisierung und Verhütung einer solchen. Was aber ist
eine „Gefahr‘‘? Im Geburtsakt besteht eine objektive Gefahr für die Erhaltung
des Lebens, wir wissen, was das in der Realität bedeutet. Aber
psychologisch sagt es uns gar nichts. Die Gefahr der Geburt hat noch
keinen psychischen Inhalt. Sicherlich dürfen wir beim Fötus nichts
voraussetzen, was sich irgendwie einer Art von Wissen um die
Möglichkeit eines Ausgangs in Lebensvernichtung an- nähert. Der Fötus
kann nichts anderes bemerken als eine großartige Störung in der Ökonomie
seiner narzißtischen Libido. Große Erregungssummen dringen zu ihm,
erzeugen neuartige Unlustempfindungen, manche Organe erzwingen sich
erhöhte Besetzungen, was wie ein Vorspiel der bald beginnenden
Objektbesetzung ist; was davon wird als Merkzeichen einer ‚Grefahr-
situation‘ Verwertung finden? Wir wissen leider viel zu wenig von
der seelischen Verfassung des Neugeborenen, um diese Frage direkt
zu beantworten. Ich kann nicht einmal für die Brauch- barkeit der eben
gegebenen Schilderung einstehen. Es ist leicht zu sagen, das Neugeborene
werde den Angst- affekt in allen Situationen wiederholen, die es an
das Geburtsereignis erinnert. Der entscheidende Punkt bleibt aber,
wodurch und woran es erinnert wird. Es bleibt uns kaum etwas
anderes übrig, als die Anlässe zu studieren, bei denen der Säugling
oder das ein wenig ältere Kind sich zur Angstentwicklung bereit
zeigt. Rank hat in seinem Buch „Das Irauma der Geburt‘ einen sehr
energischen Versuch gemacht, I) Otto Rank, Das Trauma der Geburt
und seine Bedeutung für die Psychoanalyse. Internat. Psychoanalyt.
Bibliothek XIV, 1924. die Beziehungen der frühesten Phobien des
Kindes zum Eindruck des Geburtsereignisses zu erweisen, allein ich
kann ihn nicht für geglückt halten. Man kann ihm zweierlei vorwerfen:
Erstens, dafs er auf der Vor- aussetzung beruht, das Kind habe bestimmte
Sinnes- eindrücke, insbesondere visueller Natur, bei seiner Geburt
empfangen, deren Erneuerung die Erinnerung an das Greburtstrauma und
somit die Angstreaktion hervorrufen kann. Diese Annahme ist völlig
unbewiesen und sehr unwahrscheinlich; es ist nicht glaubhaft, dafs
das Kind andere als taktileund Allgemeinsensationen vom Geburtsvorgang
bewahrt hat. Wenn es also später Angst vor kleinen Tieren zeigt, die in
Löchern ver- schwinden oder aus diesen herauskommen, so erklärt
Rank diese Reaktion durch die Wahrnehmung einer Analogie, dieaber dem
Kinde nicht auffällig werden kann. Zweitens, daß Rank in der Würdigung
dieser späteren Angstsituationen je nach Bedürfnis die Erinnerung an
die glückliche intrauterine Existenz oder an deren trauma- tische
Störung wirksam werden läßt, womit der Willkür in der Deutung Tür und Tor
geöffnet wird. Einzelne Fälle dieser Kinderangst widersetzen sich direkt
der Anwendung des Rank schen Prinzips. Wenn das Kind in Dunkelheit
und Einsamkeit gebracht wird, so sollten wir erwarten, dafs es diese Wiederherstellung
der intrauterinen Situation mit Befriedigung aufnimmt, und wenn die
Tatsache, daß es gerade dann mit Angst reagiert, auf die Erinnerung an
die Störung dieses Glücks durch die Geburt zurückgeführt wird, so
kann man das Gezwungene dieses Erklärungsversuches:nicht länger
verkennen. Ich muf3 den Schluß ziehen, daß die frühesten
Kindheitsphobien eine direkte Rückführung auf den Eindruck des
Geburtsaktes nicht zulassen und sich überhaupt bis jetzt der Erklärung
entzogen haben. Fine gewisse Angstbereitschaft des Säuglings ist
unver- kennbar. Sie ist nicht etwa unmittelbar nach der Geburt am
stärksten, um dann langsam abzunehmen, sondern tritt erst später mit dem
Fortschritt der seelischen Entwicklung hervor und hält über eine
gewisse Periode der Kinderzeit an. Wenn sich solche Frühphobien über
diese Zeit hinaus erstrecken, er- wecken sie den Verdacht einer
neurotischen Störung, wiewohl uns ihre Beziehung zu den späteren
deutlichen Neurosen der Kindheit keineswegs einsichtlich ist.
Nur wenige Fälle der kindlichen Angstäufßserung sind uns
verständlich; an diese werden wir uns halten müssen. So, wenn das Kind
allein, in der Dunkelheit, ist und wenn es eine fremde Person an Stelle
der ihm vertrauten (der Mutter) findet. Diese drei Fälle reduzieren
sich auf eine einzige Bedingung, das Vermissen der geliebten (ersehnten)
Person. Von da an ist aber der Weg zum Verständnis der Angst und zur
Vereinigung der Widersprüche, die sich an sie zu knüpfen scheinen,
frei. Das Erinnerungsbild der ersehnten Person wird
Freud: Hemmung, Symptom und Angst 6 GB ., Siem. Freud
gewif) intensiv, wahrscheinlich zunächst halluzinatorisch besetzt. Aber
das hat keinen Erfolg und nun hat es den Anschein, als ob diese Sehnsucht
in Angst um- schlüge. Es macht geradezu den Eindruck, als wäre
diese Angst ein Ausdruck der Ratlosigkeit, als wüßte das noch sehr
unentwickelte Wesen mit dieser sehn- süchtigen Besetzung nichts Besseres
anzufangen. Die Angst erscheint so. als Reaktion auf das Vermissen
des Objekts und es drängen sich uns die Analogien auf, daf®? auch die
Kastrationsangst die Trennung von einem hochgeschätzten Objekt zum Inhalt
hat, und daß die ursprünglichste Angst (die „Urangst“ der Geburt)
bei der Trennung von der Mutter ent- stand. Die nächste Überlegung
führt über diese Betonung des Objektverlustes hinaus. Wenn der Säugling
nach der Wahrnehmung der Mutter verlangt, so doch nur darum, weil
er bereits aus Erfahrung weiß, daß sie alle seine Bedürfnisse ohne Verzug
befriedigt. Die Situation, die er als „Gefahr“ wertet, gegen die er
versichert sein will, ist also die der Unbefriedigung, des Anwachsens der
Bedürfnisspannung, gegen die er ohnmächtig ist. Ich meine, von
diesem Gesichtspunkt aus ordnet sich alles ein; die Situation der
Unbefriedigung, in der Reizgrößen eine unlustvolle Höhe erreichen, ohne
Bewältigung durch psychische Verwendung und Abfuhr zu finden, muß für den
Säug- ling die Analogie mit dem Geburtserlebnis, die Wiederholung der
Gefahrsituation sein; das beiden Gemein- same ist die ökonomische Störung
durch das Anwachsen der Erledigung heischenden Reizgrößen, dieses
Moment also der eigentliche Kern der „Gefahr“. In beiden Fällen
tritt die Angstreaktion auf, die sich auch noch beim Säugling als
zweckmäßig erweist, indem die Richtung der Abfuhr auf Atem- und
Stimmuskulatur nun die Mutter herbeiruft, wie sie früher die
Lungentätigkeit zur Wegschaffung der inneren Reize anregte. Mehr als
diese Kennzeichnung der Gefahr braucht das Kind von seiner Geburt nicht
bewahrt zu haben. Mit der Erfahrung, daß ein äußeres, durch
Wahr- nehmung erfaßbares Objekt der an die Geburt mahnenden
gefährlichen Situation ein Ende machen kann, ver- schiebt sich nun der
Inhalt der Gefahr von der öko- nomischen Situation auf seine Bedingung,
den Objekt- verlust. Das Vermissen der Mutter wird nun die Gefahr,
bei deren Eintritt der Säugling das Angst- signal gibt, noch ehe die
gefürchtete ökonomische Situation eingetreten ist. Diese Wandlung
bedeutet einen ersten großen Fortschritt in der Fürsorge für die
Selbsterhaltung, sie schließt gleichzeitig den Über- gang von der
automatisch ungewollten Neuentstehung der Angst zu ihrer beabsichtigten
Reproduktion als Signal der Gefahr ein. In beiden Hinsichten,
sowohl als automatisches Phänomen wie als rettendes Signal, zeigt
sich die Angst als Produkt der psychischen Hilflosigkeit des
Säuglings, welche das selbstverständliche Gegenstück seiner biologischen
Hilflosigkeit ist. Das auffällige Zusammentreffen, daß sowohl die
Geburtsangst wie die Säuglingsangst die Bedingung der Trennung von
der Mutter anerkennt, bedarf keiner psychologischen Deutung; es
erklärt sich biologisch einfach genug aus der Tatsache, daf3 die Mutter,
die zuerst alle Bedürf- nisse des Fötus durch die Einrichtungen ihres
Leibes beschwichtigt hatte, dieselbe Funktion zum Teil mit anderen
Mitteln auch nach der Geburt fortsetzt. Intrauterinleben und erste
Kindheit sind weit mehr ein Kontinuum, als uns die auffällige Zensur des
Geburts- aktes glauben läßt. Das psychische Mutterobjekt ersetzt
dem Kinde die biologische Fötalsituation. Wir dürfen darum nicht
vergessen, daf3 im Intrauterin- leben die Mutter kein Objekt war, und daß
es damals keine Objekte gab. Es ist leicht zu sehen, daß es
in diesem Zusammen- hange keinen Raum für ein Abreagieren des
Geburts- traumas gibt, und daß eine andere Funktion der Angst als
die eines Signals zur Vermeidung der Gefahrsituation nicht aufzufinden
ist. Die Angst- bedingung des Objektverlustes trägt nun noch ein
ganzes Stück weiter. Auch die nächste Wandlung der Angst, die in der
phallischen Phase auftretende Kastrationsangst, ist eine Irennungsangst
und an die- selbe Bedingung gebunden. Die Gefahr ist hier
die Irennung von dem Genitale. Ein vollberechtigt scheinender Gedankengang
von Ferenczi läßt uns hier die Linie des Zusammenhanges mit den
früheren Inhalten der Gefahrsituation deutlich erkennen. Die hohe
narzifßtische Einschätzung des Penis kann sich darauf berufen, daß der
Besitz dieses Organs die Gewähr für eine Wiedervereinigung mit der Mutter
(dem Mutter- ersatz) im Akt des Koitus enthält. Die Beraubung
dieses Gliedes ist soviel wie eine neuerliche Trennung von der Mutter,
bedeutet also wiederum, einer unlust- vollen Bedürfnisspannung (wie bei
der Geburt) hilflos ausgeliefert zu sein. Das Bedürfnis, dessen
Ansteigen gefürchtet wird, ist aber nun ein sSpezialisiertes, das
der genitalen Libido, nicht mehr ein beliebiges wie in der Säuglingszeit.
Ich füge hier an, daf3 die Phantasie der Rückkehr in den Mutterleib der
Koitusersatz des Impotenten (durch die Kastrationsdrohung
Gehemmten) ist. Im Sinne Ferenczis kann man sagen, das Individuum,
das sich zur Rückkehr in den Mutter- leib durch sein Genitalorgan
vertreten lassen wollte, ersetzt nun regressiv dies Organ durch seine
ganze Person. Die Fortschritte in der Entwicklung des
Kindes, die Zunahme seiner Unabhängigkeit, die schärfere Sonderung
seines seelischen Apparats in mehrere Instanzen, das Auftreten neuer Bedürfnisse,
können nicht ohne Einfluß auf den Inhalt der Gefahrsituation
bleiben. Wir haben dessen Wandlung vom Verlust des Mutterobjekts zur
Kastration verfolgt und sehen den nächsten Schritt durch die Macht des
Über-Ichs verursacht. Mit dem Unpersönlichwerden der Eltern-
instanz, von der man die Kastration befürchtete, wird die Gefahr
unbestimmter. Die Kastrationsangst ent- wickelt sich zur Gewissensangst,
zur sozialen Angst. Es ist jetzt nicht mehr so leicht anzugeben, was
die Angst befürchtet. Die Formel: „Trennung, Ausschluß aus der
Horde‘, trifft nur jenen späteren Anteil des Über-Ichs, der sich in
Anlehnung an soziale Vorbilder entwickelt hat, nicht den Kern des
Über-Ichs, der der introjizierten Elterninstanz entspricht. Allgemeiner
aus- gedrückt, ist es der Zorn, die Strafe. des Über-Ichs, der
Liebesverlust von dessen Seite, den das Ich als Gefahr wertet und mit dem
Angstsignal beantwortet. Als letzte Wandlung dieser Angst vor dem
Über-Ich ist mir die Todes-(Lebens-)Angst, die Angst vor der
Projektion des Über-Ichs in den Schicksalsmächten erschienen.
Ich habe früher einmal einen gewissen Wert auf die Darstellung
gelegt, daß es die bei der Verdrän- gung abgezogene Besetzung ist, welche
die Verwen- dung als Angstabfuhr erfährt. Das erscheint mir nun
heute kaum wissenswert. Der Unterschied liegt darin, daß ich vormals die
Angst in jedem Falle durch einen ökonomischen Vorgang automatisch
entstanden glaubte, während die jetzige Auffassung der Angst als
eines vom Ich beabsichtigten Signals zum Zweck der Beeinflussung der
Lust-Unlustinstanz uns von diesem ökonomischen Zwange unabhängig macht.
Es ist natürlich nichts gegen die Annahme zu sagen, daß das Ich
gerade die durch die Abziehung bei der Verdrängung frei gewordene Energie
zur Erweckung des Affekts verwendet, aber es ist bedeutungslos
geworden, mit welchem Anteil Energie dies geschieht. Ein anderer
Satz, den ich einmal ausgesprochen, verlangt nun nach Überprüfung im
Lichte unserer neuen Auffassung. Es ist die Behauptung, das Ich sei
die eigentliche Angststätte; ich meine, sie wird sich als zutreffend
erweisen. Wir haben nämlich keinen Anlaß, dem Über-Ich irgendeine
Angstäußerung zuzu- teilen. Wenn aber von einer „Angst des Es die
Rede ist, so hat man nicht zu widersprechen, sondern einen ungeschickten
Ausdruck zu korrigieren. Die Angst ist ein Affektzustand, der natürlich
nur vom Ich verspürt werden kann. Das Es kann nicht Angst haben wie
das Ich, es ist keine Organisation, kann Gefahrsituationen nicht
beurteilen. Dagegen ist es ein überaus häufiges Vorkommnis, daß sich im
Es Vor- gänge vorbereiten oder vollziehen, die dem Ich Anlaß zur
Angstentwicklung geben; in der Tat sind die wahrscheinlich frühesten
Verdrängungen, wie die Mehrzahl aller späteren, durch solche Angst des
Ichs vor einzelnen Vorgängen im Es motiviert. Wir unter- scheiden
hier wiederum mit gutem Grund die beiden Fälle, daß sich im Es etwas
ereignet, was eine der 88 Siem. Freud
Gefahrsituationen fürs Ich aktiviert und es somit bewegt, zur Inhibition
das Angstsignal zu geben, und den anderen Fall, daß sich im Es die dem
Geburts- trauma analoge Situation herstellt, in der es automatisch
zur Angstreaktion kommt. Man bringt die beiden Fälle einander näher, wenn
man hervorhebt, daf der zweite der ersten und ursprünglichen
Gefahrsituation entspricht, der erste aber einer der später aus ihr
abgeleiteten Angstbedingungen. Oder auf die wirklich vorkommenden
Affektionen bezogen: daß der zweite Fall in der Ätiologie der
Aktualneurosen verwirklicht ist, der erste für die der Psychoneurosen
charakteri- stisch bleibt. Wir sehen nun, daf wir frühere
Ermittlungen nicht zu entwerten, sondern bloß mit den neueren
Einsichten in Verbindung zu bringen brauchen. Es ist nicht abzuweisen,
daß bei Abstinenz, mißbräuchlicher Störung im Ablauf der Sexualerregung,
Ablenkung derselben von ihrer psychischen Verarbeitung, direkt
Angst aus Libido entsteht, d. h. jener Zustand von Hilflosigkeit des Ichs
gegen eine übergroße Bedürfnis- spannung hergestellt wird, der wie bei
der Geburt in Angstentwicklung ausgeht, wobei es wieder eine
gleich- gültige, aber nahe liegende Möglichkeit ist, daß gerade der
Überschuß an unverwendeter Libido seine Abfuhr in der Angstentwicklung
findet. Wir sehen, daß sich auf dem Boden dieser Aktualneurosen
besonders leicht Psychoneurosen entwickeln, das heißt wohl, daß
Femmung, Symptom und Angst 89 das Ich Versuche macht, die
Angst, die es eine Weile suspendiert zu erhalten gelernt hat, zu ersparen
und durch Symptombildung zu binden. Wahrscheinlich würde die
Analyse der traumatischen Kriegsneurosen, welcher Name allerdings sehr
verschiedenartige Affektionen umfaßt, ergeben haben, daf3 eine
Anzahl von ihnen an den Charakteren der Aktualneurosen Anteil
hat. Als wir die Entwicklung der verschiedenen Gefahr-
situationen aus dem ursprünglichen Geburtsvorbild darstellten, lag es uns
ferne zu behaupten, dafs jede spätere Angstbedingung die frühere einfach
außer Kraft setzt. Die Fortschritte der Ichentwicklung tragen
allerding dazu bei, die frühere Gefahrsituation zu entwerten und beiseite
zu schieben, so daf man sagen kann, einem bestimmten Entwicklungsalter
sei eine gewisse Angstbedingung wie adäquat zugeteilt. Die Gefahr
der psychischen Hilflosigkeit pafst zur Lebenszeit der Unreife des Ichs,
wie die Gefahr des Objektverlustes zur Unselbständigkeit der ersten
Kinder- jahre, die Kastrationsgefahr zur phallischen Phase, die
Über-Ichangst zur Latenzzeit. Aber es können doch alle diese
Gefahrsituationen und Angstbedingungen nebeneinander fortbestehen bleiben
und das Ich auch zu späteren als den adäquaten Zeiten zur Angst-
reaktion veranlassen, oder es können mehrere von ihnen gleichzeitig in
Wirksamkeit treten. Möglicher- weise bestehen auch engere Beziehungen
zwischen der wirksamen Gefahrsituation und der Form der auf sie
folgenden Neurose.' Als wir in einem früheren Stück dieser
Unter- suchungen auf die Bedeutung der Kastrationsgefahr 1)
Seit der Unterscheidung von Ich und Es mußte auch unser Interesse an den
Problemen der Verdrängung eine neue Belebung erfahren. Bisher hatte es
uns genügt, die dem Ich zugewendeten Seiten des Vorgangs, die Abhaltung
vom Bewußtsein und von der Motilität und die Ersatz- (Symptom-) Bildung
ins Auge zu fassen, von der verdrängten Triebregung selbst nahmen wir an,
sie bleibe im Unbewußten unbestimmt lange unverändert bestehen. Nun
wendet sich das Interesse den Schicksalen des Verdrängten zu, und
wir ahnen, daß ein solcher unveränderter und unveränderlicher Fort-
bestand nicht selbstverständlich, vielleicht nicht einmal gewöhnlich ist.
Die ursprüngliche Triebregung ist jedenfalls durch die Ver- drängung
gehemmt und von ihrem Ziel abgelenkt worden. Ist aber ihr Ansatz im
Unbewußten erhalten geblieben und hat er sich resistent gegen die
verändernden und entwertenden Einflüsse des Lebens erwiesen? Bestehen
also die alten Wünsche noch, von deren früherer Existenz uns die Analyse
berichtet? Die Antwort scheint naheliegend und gesichert: Die verdrängten
alten Wünsche müssen im Unbewußten noch fortbestehen, da wir ihre
Abkömmlinge, die Symptome, noch wirksam finden. Aber sie ist nicht
zureichend, sie läßt nicht zwischen den beiden Möglichkeiten entscheiden,
ob der alte Wunsch jetzt nur durch seine Abkömmlinge wirkt, denen
er all seine Besetzungsenergie übertragen hat, oder ob er außerdem selbst
erhalten geblieben ist, Wenn es sein Schicksal war, sich in der Besetzung
seiner Abkömmlinge zu erschöpfen, so bleibt noch die dritte Möglichkeit,
daß er im Verlauf der Neurose durch Re- gression wiederbelebt wurde, so
unzeitgemäß er gegenwärtig sein mag. Man braucht diese Erwägungen nicht
für müßig zu halten; vieles an den Erscheinungen des krankhaften wie des
normalen Seelenlebens scheint solche Fragestellungen zu erfordern. In
meiner Studie über den Untergang des Ödipuskomplexes bin ich auf
den Unterschied zwischen der bloßen Verdrängung und der wirklichen
Aufhebung einer alten Wunschregung aufmerksam geworden. bei mehr
als einer neurotischen Affektion stießen, erteilten wir uns die Mahnung,
dies Moment doch nicht zu überschätzen, da es bei dem gewiß mehr
zur Neurose disponierten weiblichen Geschlecht doch nicht ausschlaggebend
sein könnte. Wir sehen jetzt, daf3 wir nicht in Gefahr sind, die
Kastrationsangst für den einzigen Motor der zur Neurose führenden
Abwehr- vorgänge zu erklären. Ich habe an anderer Stelle
auseinandergesetzt, wie die Entwicklung des kleinen Mädchens durch den
Kastrationskomplex zur zärtlichen Objektbesetzung gelenkt wird. Gerade beim
Weibe scheint die Gefahrsituation des Objektverlustes die
wirksamste geblieben zu sein. Wir dürfen an ihrer Angstbedingung die
kleine Modifikation anbringen, daß es sich nicht mehr um das Vermissen
oder den realen Verlust des Objekts handelt, sondern um den Liebes-
verlust von seiten des Objekts. Da es sicher steht, daß die Hysterie eine
größere Affinität zur Weiblich- keit hat, ebenso wie die Zwangsneurose
zur Männlich- keit, so liegt die Vermutung nahe, die Angstbedingung
des Liebesverlustes spiele bei Hysterie eine ähnliche Rolle wie die
Kastrationsdrohung bei den Phobien, die Über-Ichangst bei der
Zwangsneurose. IX Was jetzt erübrigt, ist die Behandlung der
Be- ziehungen zwischen Symptombildung und Angst- entwicklung.
Zwei Meinungen darüber scheinen weit verbreitet zu sein. Die eine
nennt die Angst selbst ein Symptom der Neurose, die andere glaubt an ein
weit innigeres Verhältnis zwischen beiden. Ihr zufolge würde alle
Symptombildung nur unternommen werden, um der Angst zu entgehen; die
Symptome binden die psychi- sche Energie, die sonst als Angst abgeführt
würde, so dafß® die Angst das Grundphänomen und Haupt- problem der
Neurose wäre. | Die zumindest partielle Berechtigung der
zweiten Behauptung läßt sich durch schlagende Beispiele er- weisen.
Wenn man einen Agoraphoben, den man auf die Straße begleitet hat, dort
sich selbst überläßt, produziert er einen Angstanfall; wenn man
einen Zwangsneurotiker daran hindern läßt, sich nach einer
Berührung die Hände zu waschen, wird er die Beute MHemmung,
Symptom und Angst 93 einer fast unerträglichen Angst. Es ist also
klar, die Bedingung des Begleitetwerdens und die Zwangs- handlung
des Waschens hatten die Absicht und auch den Erfolg, solche
Angstausbrüche zu verhüten. In diesem Sinne kann auch jede Hemmung, die
sich das Ich auferlegt, Symptom genannt werden. Da wir die
Angstentwicklung auf die Gefahr- situation zurückgeführt haben, werden
wir es vor- ziehen zu sagen, die Symptome werden geschaffen, um das
Ich der Gefahrsituation zu entziehen. Wird die Symptombildung verhindert,
so tritt die Gefahr wirklich ein, d. h. es stellt sich jene der Geburt
analoge Situation her, in der sich das Ich hilflos gegen den stetig
wachsenden Triebanspruch findet, also die erste und ursprünglichste der
Angstbedingungen. Für unsere Anschauung erweisen sich die Beziehungen
zwischen Angst und Symptom weniger eng als angenommen wurde, die
Folge davon, daß wir zwischen beide das Moment der Gefahrsituation
eingeschoben haben. Wir können auch ergänzend sagen, die
Angstentwicklung leite die Symptombildung ein, ja sie sei eine not-
wendige Voraussetzung derselben, denn wenn das Ich nicht durch die
Angstentwicklung die Lust-Unlust- Instanz wachrütteln würde, bekäme es
nicht die Macht, den im Es vorbereiteten, gefahrdrohenden Vorgang
aufzuhalten. Dabei ist die,Tendenz unverkennbar, sich auf ein Mindestmaß
von Angstentwicklung zu be- schränken, die Angst nur als Signal zu
verwenden, 94 Sigm. Freud denn sonst bekäme man die
Unlust, die durch den Triebvorgang droht, nur an anderer Stelle zu
spüren, was kein Erfolg nach der Absicht des Lustprinzips wäre,
sich aber doch bei den Neurosen häufig genug ereignet. Die
Symptombildung hat also den wirklichen Erfolg, die Gefahrsituation
aufzuheben. Sie hat zwei Seiten; die eine, die uns verborgen bleibt,
stellt im Es jene Abänderung her, mittels deren das Ich der Gefahr
entzogen wird, die andere uns zugewendete zeigt, was sie an Stelle des
beeinflußten Triebvorganges geschaffen hat, die Ersatzbildung.
- Wir sollten uns aber korrekter ausdrücken, dem Abwehrvorgang
zuschreiben, was wir eben von der Symptombildung ausgesagt haben, und den
Namen Symptombildung selbst als synonym mit Ersatzbildung
gebrauchen. Es scheint dann klar, daß der Abwehr- vorgang analog der
Flucht ist, durch die sich das Ich einer von außen drohenden Gefahr
entzieht, daß er eben einen Fluchtversuch vor einer Triebgefahr
darstellt. Die Bedenken gegen diesen Vergleich werden uns zu
weiterer Klärung verhelfen. Erstens läßt sich ein- wenden, daß der
Objektverlust (der Verlust der Liebe von seiten des Objekts) und die
Kastrationsdrohung ebensowohl (Gefahren sind, die von außen drohen,
wie etwa ein reißsendes Tier, also nicht Triebgefahren. Aber es ist
doch nicht derselbe Fall. Der Wolf würde uns wahrscheinlich anfallen,
gleichgültig, wie wir uns gegen ihn benehmen; die geliebte Person würde
uns aber nicht ihre Liebe entziehen, die Kastration uns nicht
angedroht werden, wenn wir nicht bestimmte Gefühle und Absichten in
unserem Inneren nähren würden. So werden diese Triebregungen zu
Bedingungen der äußeren Gefahr und damit selbst gefährlich, wir
können jetzt die äußere Gefahr durch Maßregeln gegen innere
Gefahren bekämpfen. Bei den Tierphobien scheint die Gefahr noch durchaus
als eine äußerliche empfunden zu werden, wie sie auch im Symptom eine
äußserliche Verschiebung erfährt. Bei der Zwangsneurose ist sie
weit mehr verinnerlicht, der Anteil der Angst vor dem Über-Ich, der
soziale Angst ist, repräsentiert noch den innerlichen Ersatz einer
äußeren Gefahr, der andere Anteil, die Gewissensangst, ist durchaus
endopsychisch. Ein zweiter Einwand sagt, beim Fluchtversuch
vor einer drohenden äußeren Gefahr tun wir ja nichts anderes, als daß wir
die Raumdistanz zwischen uns und dem Drohenden vergrößern. Wir setzen uns
ja nicht gegen die Gefahr zur Wehr, suchen nichts an ihr selbst zu
ändern, wie in dem anderen Falle, daß wir mit einem Knüttel auf den Wolf
losgehen oder mit einem Gewehr auf ihn schießen. Der Abwehr-
vorgang scheint aber mehr zu tun, als einem Flucht- versuch entspricht.
Er greift ja in den drohenden Triebablauf ein, unterdrückt ihn irgendwie,
lenkt ihn von seinem Ziel ab, macht ihn dadurch ungefährlich.
Dieser Einwand scheint unabweisbar, wir müssen ihm 96 Siem.
Freud Rechnung tragen. Wir meinen, es wird wohl so sein,
dafß es Abwehrvorgänge gibt, die man mit gutem Recht einem Fluchtversuch
vergleichen kann, während sich das Ich bei anderen weit aktiver zur
Wehre setzt, energische Gegenaktionen vornimmt. Wenn der Vergleich
der Abwehr mit der Flucht nicht überhaupt durch den Umstand gestört wird,
dafs das Ich und der Trieb im Es ja Teile derselben Organisation
sind, nicht getrennte Existenzen, wie der Wolf und das Kind, so daf
jede Art Verhaltens des Ichs auch abändernd auf den Triebvorgang
einwirken muß. Durch das Studium der Angstbedingungen haben
wir das Verhalten des Ichs bei der Abwehr sozusagen in rationeller
Verklärung erblicken müssen. Jede Gefahr- situation entspricht einer
gewissen Lebenszeit oder Entwicklungsphase des seelischen Apparats und
er- scheint für diese berechtigt. Das frühkindliche Wesen ist
wirklich nicht dafür ausgerüstet, große Erregungs- summen, die von außen
oder innen anlangen, psychisch zu bewältigen. Zu einer gewissen
Lebenszeit ist es wirklich das wichtigste Interesse, daß die
Personen, von denen man abhängt, ihre zärtliche Sorge nicht
zurückziehen. Wenn der Knabe den mächtigen Vater als Rivalen bei der
Mutter empfindet, seiner aggressiven Neigungen gegen ihn und seiner
sexuellen Absichten auf die Mutter inne wird, hat er ein Recht dazu,
sich vor ihm zu fürchten, und die Angst vor seiner Strafe kann
durch phylogenetische Verstärkung sich als Kastrationsangst äußern. Mit
dem Eintritt in soziale Beziehungen wird die Angst vor dem Über-Ich,
das Gewissen, zur Notwendigkeit, der Wegfall dieses Moments die
Quelle von schweren Konflikten und Gefahren usw. Aber gerade daran knüpft
sich ein neues Problem. Versuchen wir es, den Angstaffekt für
eine Weile durch einen anderen, z. B. den Schmerzaffekt, zu
ersetzen. Wir halten es für durchaus normal, daß das Mädchen von vier
Jahren schmerzlich weint, wenn ihm eine Puppe zerbricht, mit sechs
Jahren, wenn ihm die Lehrerin einen Verweis gibt, mit sechzehn
Jahren, wenn der Geliebte sich nicht um sie bekümmert, mit
fünfundzwanzig Jahren vielleicht, wenn sie ein Kind begräbt. Jede dieser
Schmerzbedingungen hat ihre Zeit und erlischt mit deren Ablauf; die
letzten, defini- tiven, erhalten sich dann durchs Leben. Es würde
uns aber auffallen, wenn dies Mädchen als Frau und Mutter über die
Beschädigung einer Nippsache weinen würde. So benehmen sich aber die
Neurotiker. In ihrem seelischen Apparat sind längst alle Instanzen
zur Reizbewältigung innerhalb weiter Grenzen aus- gebildet, sie sind
erwachsen genug, um die meisten ihrer Bedürfnisse selbst zu befriedigen,
sie wissen längst, daß die Kastration nicht mehr als Strafe geübt
wird, und doch benehmen sie sich, als bestünden die alten
Gefahrsituationen noch, sie halten an allen früheren Angstbedingungen
fest. Die Antwort hierauf wird etwas weitläufig aus- fallen. Sie
wird vor allem den Tatbestand zu sichten haben. In einer großen Anzahl
von Fällen werden die alten Angstbedingungen wirklich fallen gelassen,
nach- dem sie bereits neurotische Reaktionen erzeugt haben. Die
Phobien der kleinsten Kinder vor Alleinsein, Dunkelheit und vor Fremden,
die beinahe normal zu nennen sind, vergehen zumeist in etwas späteren
Jahren, sie ‚wachsen sich aus‘, wie man von manchen anderen
Kindheitsstörungen sagt. Die so häufigen Tierphobien haben das gleiche
Schicksal, viele der Konversionshysterien der Kinderjahre finden
später keine Fortsetzung. Zeremoniell in der Latenzzeit ist ein
ungemein häufiges Vorkommnis, nur ein sehr geringer Prozentsatz dieser
Fälle entwickelt sich später zur vollen Zwangsneurose. Die Kinderneurosen
sind überhaupt — soweit unsere Erfahrungen an den höheren
Kulturanforderungen unterworfenen Stadt- kindern weißer Rasse reichen —
regelmäßige Episoden der Entwicklung, wenngleich ihnen noch immer
zu wenig Aufmerksamkeit geschenkt wird. Man vermißt die Zeichen der
Kindheitsneurose auch nicht bei einem erwachsenen Neurotiker, während
lange nicht alle Kinder, die sie zeigen, auch später Neurotiker
werden. Es müssen also im Verlaufe der Reifung Angst- bedingungen
aufgegeben worden sein und Gefahr- situationen ihre Bedeutung verloren
haben. Dazu kommt, daß einige dieser Gefahrsituationen sich da-
Femmung, Symptom und Angst 99 durch in späte Zeiten
hinüberretten, daß sie ihre Angstbedingung zeitgemäß modifizieren. So
erhält sich z. B. die Kastrationsangst unter der Maske der
Syphilisphobie, nachdem man erfahren hat, daß zwar die Kastration nicht
mehr als Strafe für das Gewähren- lassen der sexuellen Gelüste üblich
ist, aber daß dafür der Triebfreiheit schwere Erkrankungen drohen.
Andere der Angstbedingungen sind überhaupt nicht zum Untergang bestimmt,
sondern sollen den Men- schen durchs Leben begleiten, wie die der Angst
vor dem Über-Ich. Der Neurotiker unterscheidet sich dann vor den
Normalen dadurch, dafs er die Reak- tionen auf diese Gefahren übermäßig
erhöht. Gegen die Wiederkehr der ursprünglichen traumatischen
Angstsituation bietet endlich auch das Erwachsensein keinen zureichenden
Schutz; es dürfte für jedermann eine Grenze geben, über die hinaus sein
seelischer Apparat in der Bewältigung der Erledigung heischen- den
Erregungsmengen versagt. Diese kleinen Berichtigungen können
unmöglich die Bestimmung haben, an der Tatsache zu rütteln, die
hier erörtert wird, der Tatsache, daf$ so viele Menschen in ihrem
Verhalten zur Gefahr infantil bleiben und verjährte Angstbedingungen
nicht über- winden; dies bestreiten, hieße die Tatsache der Neu- rose
leugnen, denn solche Personen heifst man eben Neurotiker. Wie ist das
aber möglich? Warum sind nicht alle Neurosen Episoden der Entwicklung,
die mit Erreichung der nächsten Phase abgeschlossen werden?. Woher
das Dauermoment in diesen Reak- tionen auf die Gefahr? Woher der Vorzug,
den der Angstaffekt vor allen anderen Affekten zu geniefsen
scheint, daß er allein Reaktionen hervorruft, die sich als abnorm von den
anderen sondern und sich als unzweckmäßig dem Strom des Lebens
entgegen- stellen? Mit anderen Worten, wir finden uns unver- sehens
wieder vor der so oft gestellten Vexierfrage, woher kommt die Neurose,
was ist ihr letztes, das ihr besondere Motiv? Nach jahrzehntelangen
analy- tischen Bemühungen erhebt sich dies Problem vor uns,
unangetastet, wie zu Anfang. Die Angst ist die Reaktion auf die Gefahr.
Man kann doch die Idee nicht abweisen, daß es mit dem Wesen der
Gefahr zusammenhängt, wenn sich der Angstaffekt eine Ausnahmsstellung in der
seelischen Ökonomie erzwingen kann. Aber die Gefahren sind
allgemein menschliche, für alle Individuen die näm- lichen; was wir
brauchen und nicht zur Verfügung haben, ist ein Moment, das uns die
Auslese der Indi- viduen verständlich macht, die den Angstaffekt
trotz seiner Besonderheit dem normalen seelischen Betrieb
unterwerfen können, oder das bestimmt, wer an dieser Aufgabe scheitern
muß. Ich sehe zwei Versuche vor mir, ein solches Moment aufzudecken; es
ist begreif- lich, daß jeder solche Versuch eine sympathische
Aufnahme erwarten darf, da er einem quälenden Be- dürfnis Abhilfe
verspricht. Die beiden Versuche ergänzen einander, indem sie das Problem
an ent- gegengesetzten Enden angreifen. Der erste ist vor mehr als
zehn Jahren von Alfred Adler unternommen worden; er behauptet, auf seinen
innersten Kern reduziert, daf3 diejenigen Menschen an der
Bewältigung der durch die Gefahr gestellten Aufgabe scheitern, denen die
Minderwertigkeit ihrer Organe zu große Schwierigkeiten bereitet. Bestünde
der Satz Simplex sigillum veri zurecht, so müßte man eine solche
Lösung wie eine Erlösung begrüßen. Aber im Gegenteile, die Kritik des
abgelaufenen Jahrzehnts hat die volle Unzulänglichkeit dieser Erklärung,
die sich überdies über den ganzen Reichtum der von der Psychoanalyse
aufgedeckten Tatbestände hinaussetzt, beweisend dargetan. Den
zweiten Versuch hat Otto Rank 1923 in seinem Buch ‚Das Trauma der Geburt‘
unternommen. Es wäre unbillig, ihn dem Versuch von Adler in einem
anderen Punkte als dem einen hier betonten gleichzustellen, denn er
bleibt auf dem Boden der Psychoanalyse, deren Gedankengänge er fortsetzt
und ist als eine legitime Bemühung zur Lösung der ana- Iytischen
Probleme anzuerkennen. In der gegebenen Relation zwischen Individuum und
Gefahr lenkt Rank von der Organschwäche des Individuums ab und aut
die veränderliche Intensität der Gefahr hin. Der Geburtsvorgang ist die
erste Gefahrsituation, der von ihm produzierte ökonomische Aufruhr wird
das Vor- bild der Angstreaktion;, wir haben vorhin die Ent-
wicklungslinie verfolgt, welche diese erste Gefahr- situation und
Angstbedingung mit allen späteren verbindet, und dabei gesehen, daß sie alle
etwas Ge- meinsames bewahren, indem sie alle in gewissem Sinne eine
Trennung von der Mutter bedeuten, zuerst nur in biologischer Hinsicht,
dann im Sinn eines direkten Objektverlustes und später eines durch
in- direkte Wege vermittelten. Die Aufdeckung dieses großsen
Zusammenhanges ist ein unbestrittenes Ver- dienst der Rankschen Konstruktion.
Nun trifft das Trauma der Geburt die einzelnen Individuen in ver-
schiedener Intensität, mit der Stärke des Traumas variiert die Heftigkeit
der Angstreaktion, und es soll nach Rank von dieser Anfangsgröße der
Angst- entwicklung abhängen, ob das Individuum jemals ihre
Beherrschung erlernen kann, ob es neurotisch wird oder normal.
Die Einzelkritik der Rankschen Aufstellungen ist nicht unsere
Aufgabe, bloß deren Prüfung, ob sie zur Lösung unseres Problems brauchbar
sind. Die Formel Ranks, Neurotiker werde der, dem es wegen der
Stärke des Geburtstraumas niemals gelinge, dieses völlig abzureagieren,
ist theoretisch höchst anfechtbar. Man weiß nicht recht, was mit dem
Abreagieren des Traumas gemeint ist. Versteht man es wörtlich, so
kommt man zu dem unhaltbaren Schluß, daß der Neurotiker sich um so mehr
der Gesundung nähert, je häufiger und intensiver er den Angstaffekt
repro- duziert. Wegen dieses Widerspruches mit der Wirk- lichkeit
hatte ich ja seinerzeit die Theorie des Abreagierens aufgegeben, die in der
Katharsis eine so große Rolle spielte. Die Betonung der wechselnden
Stärke des Geburtstraumas läßt keinen Raum für den berechtigten
ätiologischen Anspruch der hereditären Konstitution. Sie ist ja ein
organisches Moment, welches sich gegen die Konstitution wie eine
Zu- fälligkeit verhält und selbst von vielen, zufällig zu nennenden
Einflüssen, z. B. von der rechtzeitigen Hilfeleistung bei der Geburt
abhängig ist. Die Rank- sche Lehre hat konstitutionelle wie phylogenetische
Faktoren überhaupt außer Betracht gelassen. Will man aber für die
Bedeutung der Konstitution Raum schaffen, etwa durch die Modifikation, es
käme viel mehr darauf an, wie ausgiebig das Individuum auf die
variable Intensität des Geburtstraumas reagiere, SO hat man der Theorie
ihre Bedeutung geraubt, und den neu eingeführten Faktor auf eine
Nebenrolle ein- geschränkt. Die Entscheidung über den Ausgang in
Neurose liegt dann doch auf einem anderen, wiederum auf einem unbekannten
Gebiet. Die Tatsache, daß der Mensch den Geburtsvor- gang mit
den anderen Säugetieren gemein hat, während ihm eine besondere
Disposition zur Neurose als Vorrecht vor den Tieren zukommt, wird
kaum günstig für die Ranksche Lehre stimmen. Der Haupt- einwand
bleibt aber, daß sie in der Luft schwebt, anstatt sich auf gesicherte
Beobachtung zu stützen. Es gibt keine guten Untersuchungen darüber, ob
schwere Aemmung, Symptom und Angst und protrahierte Geburt in
unverkennbarer Weise mit Entwicklung von Neurose zusammentreffen, ja, ob
so geborene Kinder nur die Phänomene der frühinfantilen
Ängstlichkeit länger oder stärker zeigen als andere. Macht man geltend,
daf präzipitierte und für die Mutter leichte Geburten für das Kind
möglicher- weise die Bedeutung von schweren Traumen haben, so
bleibt doch die Forderung aufrecht, dafS Geburten, die zur Asphyxie
führen, die behaupteten Folgen mit Sicherheit erkennen lassen müßten. Es
scheint ein Vorteil der Rankschen Ätiologie, daß sie ein Moment
voranstellt, das der Nachprüfung am Material der Erfahrung zugänglich
ist; solange man eine solche Prüfung nicht wirklich vorgenommen hat, ist
es unmöglich, ihren Wert zu beurteilen. Dagegen kann ich mich
der Meinung nicht an- schließen, daß die Ranksche Lehre der bisher in
der Psychoanalyse anerkannten ätiologischen Bedeutung der
Sexualtriebe widerspricht; denn sie bezieht sich nur auf das Verhältnis
des Individuums zur Gefahr- situation und läßt die gute Auskunft offen,
dafs, wer die anfänglichen Gefahren nicht bewältigen konnte, auch
in den später auftauchenden Situationen sexueller Gefahr versagen muß und
dadurch in die Neurose gedrängt wird. Ich glaube also nicht,
daß der Ranksche Versuch uns die Antwort auf die Frage nach der
Begründung der Neurose gebracht hat, und ich meine, es läfst
sich noch nicht entscheiden, einen wie großen Beitrag zur Lösung der
Frage er doch enthält. Wenn die Unter- suchungen über den Einfluß
schwerer Geburt auf die Disposition zu Neurosen negativ ausfallen, ist
dieser Beitrag gering einzuschätzen. Es ist sehr zu besorgen, daß
das Bedürfnis nach einer greifbaren und einheit- lichen ‚letzten
Ursache‘‘ der Nervosität immer un- befriedigt bleiben wird. Der ideale
Fall, nach dem sich der Mediziner wahrscheinlich noch heute sehnt,
wäre der des Bazillus, der sich isolieren und reinzüchten läßt, und
dessen Impfung bei jedem Individuum die nämliche Affektion hervorruft.
Oder etwas weniger phantastisch: die Darstellung von chemischen
Stoffen, deren Verabreichung bestimmte Neurosen produziert und
aufhebt. Aber die Wahrscheinlichkeit spricht nicht für solche Lösungen
des Problems. Die Psychoanalyse führt zu weniger einfachen,
minder befriedigenden Auskünften. Ich habe hier nur längst Bekanntes zu
wiederholen, nichts Neues hinzu- zufügen. Wenn es dem Ich gelungen ist,
sich einer gefährlichen Triebregung zu erwehren, z. B. durch den
Vorgang der Verdrängung, so hat es diesen Teil des Es zwar gehemmt und
geschädigt, aber ihm gleichzeitig auch ein Stück Unabhängigkeit gegeben
und auf ein Stück seiner eigenen Souveränität ver- zichtet. Das folgt aus
der Natur der Verdrängung, die im Grunde ein Fluchtversuch ist. Das
Verdrängte ist nun „vogelfrei‘, ausgeschlossen aus der
großen Organisation des Ichs, nur den Gesetzen unterworfen, die im
Bereich des Unbewußten herrschen. Ändert sich nun die Gefahrsituation, so
daß das Ich kein Motiv zur Abwehr einer neuerlichen, der
verdrängten analogen Triebregung hat, so werden die Folgen der
Icheinschränkung manifest. Der neuerliche Triebablauf vollzieht sich
unter dem Einfluß des Automatismus, — ich zöge vor zu sagen: des
Wiederholungszwanges, — er wandelt dieselben Wege wie der früher
ver- drängte, als ob die überwundene Gefahrsituation noch bestünde.
Das fixierende Moment an der Verdrängung ist also der Wiederholungszwang
des unbewufsten Es, der normalerweise nur durch die frei bewegliche
Funktion des Ichs aufgehoben wird. Nun mag es dem Ich mitunter gelingen,
die Schranken der Ver- drängung, die es selbst aufgerichtet, wieder
ein- zureißßen, seinen Einfluß auf die Triebregung wieder-
zugewinnen und den neuerlichen Triebablauf im Sinne der veränderten
Gefahrsituation zu lenken. Tatsache ist, daß es ihm so oft mißlingt, und
daß es seine Verdrängungen nicht rückgängig machen kann. Quanti-
tative Relationen mögen für den Ausgang dieses Kampfes maßgebend sein. In
manchen Fällen haben wir den Eindruck, daf die Entscheidung eine
zwangs- läufige ist, die regressive Anziehung der verdrängten
Regung und die Stärke der Verdrängung sind so groß, daß die neuerliche
Regung nur dem Wiederholungs- zwange folgen kann. In anderen Fällen
nehmen wir den Beitrag eines anderen Kräftespiels wahr, die An-
ziehung des verdrängten Vorbilds wird verstärkt durch die Abstoßung von
Seiten der realen Schwierigkeiten, die sich einem anderen Ablauf der
neuerlichen Trieb- regung entgegensetzen. Dafß dies der
Hergang der Fixierung an die Ver- drängung und der Erhaltung der nicht
mehr aktuellen Gefahrsituation ist, findet seinen Erweis in der an
sich bescheidenen, aber theoretisch kaum überschätz- baren Tatsache der
analytischen Therapie. Wennwir dem Ich in der Analyse die Hilfe leisten,
die es in den Stand setzen kann, seine Verdrängungen aufzu- heben,
bekommt es seine Macht über das verdrängte Es wieder und kann die
Triebregungen so ablaufen lassen, als ob die alten Gefahrsituationen
nicht mehr bestünden. Was wir so erreichen, steht in gutem Einklang
mit dem sonstigen Machtbereich unserer ärztlichen Leistung. In der Regel
muß sich ja unsere Iherapie damit begnügen, rascher, verläßlicher,
mit weniger Aufwand den guten Ausgang herbeizuführen, der sich
unter günstigen Verhältnissen spontan ergeben hätte. Die
bisherigen Erwägungen lehren uns, es sind quantitative Relationen, nicht
direkt aufzuzeigen, nur auf dem Wege des Rückschlusses faßbar, die
darüber entscheiden, ob die alten Gefahrsituationen festgehalten
werden, ob die Verdrängungen des Ichs erhalten bleiben, ob die
Kinderneurosen ihre Fortsetzung finden oder nicht. Von den Faktoren, die
an der Verursachung der Neurosen beteiligt sind, die die
Bedingungen geschaffen haben, unter denen sich die psychischen Kräfte mit
einander messen, heben sich für unser Verständnis drei hervor, ein
biologischer, ein phylogenetischer und ein rein psychologischer. Der
biologische ist die lang hingezogene Hilflosigkeit und Abhängigkeit des
kleinen Menschenkindes. Die Intrau- terinexistenz des Menschen erscheint
gegen die der meisten Tiere relativ verkürzt; es wird unfertiger
als diese in die Welt geschickt. Dadurch wird der Ein- fluß der
realen Aufßenwelt verstärkt, die Differen- zierung des Ichs vom Es
frühzeitig gefördert, die Gefahren der Außenwelt in ihrer Bedeutung
er- höht und der Wert des Objekts, das allein gegen diese Gefahren
schützen und das verlorene Intrau- terinleben ersetzen kann, enorm
gesteigert. Dies bio- logische Moment stellt also die ersten
Gefahrsituationen her und schafft das Bedürfnis, geliebt zu werden,
das den Menschen nicht mehr verlassen wird. Der zweite,
phylogenetische, Faktor ist von uns nur erschlossen worden; eine sehr
merkwürdige Tat- sache der Libidoentwicklung hat uns zu seiner An-
nahme gedrängt. Wir finden, daß das Sexualleben des Menschen sich nicht
wie das der meisten ihm nahestehenden Tiere vom Anfang bis zur
Reifung stetig weiter entwickelt, sondern daß) es nach einer ersten
Frühblüte bis zum fünften Jahr eine energische Siem. Ireud
Unterbrechung erfährt, worauf es dann mit der Pubertät von neuem
anhebt und an die infantilen Ansätze anknüpft. Wir meinen, es müßte in
den Schicksalen der Menschenart etwas Wichtiges vorge- fallen sein,
was diese Unterbrechung der Sexualent- wicklung als historischen
Niederschlag hinterlassen hat. Die pathogene Bedeutung dieses Moments
ergibt sich daraus, dafß die meisten Triebansprüche dieser kind-
lichen Sexualität vom Ich als Gefahren behandelt und abgewehrt werden, so
daf die späteren sexuellen Regungen der Pubertät, die ichgerecht sein
sollten, in Gefahr sind, der Anziehung der infantilen Vorbilder zu
unterliegen und ihnen in die Verdrängung zu folgen. Hier stoßen wir auf
die direkteste Ätiologie der Neu- rosen. Es ist merkwürdig, daß der frühe
Kontakt mit den Ansprüchen der Sexualität auf das Ich ähnlich
wirkt, wie die vorzeitige Berührung mit der Aufßen- welt. Der
dritte oder psychologische Faktor ist in einer Unvollkommenheit unseres
seelischen Apparates zu finden, die gerade mit seiner Differenzierung in
ein Ich und ein Es zusammenhängt, also in letzter Linie auch auf
den Einfluß der Außenwelt zurückgeht. Durch die Rücksicht auf die
Gefahren der Realität wird das Ich genötigt, sich gegen gewisse
Triebregungen des Es zur Wehre zu setzen, sie als Gefahren zu be-
handeln. Das Ich kann sich aber gegen innere Trieb- gefahren nicht in so
wirksamer Weise schützen wie Flemmung, Symptom und Angst III
gegen ein Stück der ihm fremden Realität. Mit dem Es selbst innig
verbunden, kann es die Triebgefahr nur abwehren, indem es seine eigene
Organisation ein- schränkt und sich die Symptombildung als Ersatz
für seine Beeinträchtigung des Triebes gefallen läßt. Er- neuert
sich dann der Andrang des abgewiesenen Triebes, so ergeben sich für das
Ich alle die Schwierig- keiten, die wir als das neurotische Leiden
kennen. Weiter muß ich glauben, ist unsere Einsicht in das
Wesen und die Verursachung der Neurosen vorläufig nicht gekommen. Im
Laufe dieser Erörterungen sind verschiedene Themen berührt worden, die
vorzeitig verlassen werden mußten und die jetzt gesammelt werden sollen,
um den Anteil Aufmerksamkeit zu erhalten, auf den sie Anspruch
haben. A MODIFIKATIONEN FRÜHER GEÄUSSERTER
ANSICHTEN a) Widerstand und Gegenbesetzung Es ist ein
wichtiges Stück der Theorie der Ver- drängung, daß sie nicht einen einmaligen
Vorgang dar- stellt, sondern einen dauernden Aufwand erfordert.
Wenn dieser entfiele, würde der verdrängte Trieb, der kontinuierlich
Zuflüsse aus seinen Quellen erhält, ein nächstes Mal denselben Weg
einschlagen, von dem er abgedrängt wurde, die Verdrängung würde um
ihren Erfolg gebracht oder sie müßte unbestimmt oft wiederholt werden. So
folgt aus der kontinuierlichen Natur des’ Triebes die Anforderung an das
Ich, seine Abwehraktion durch einen Daueraufwand zu versichern.
Diese Aktion zum Schutz der Verdrängung ist es, die wir bei der
therapeutischen Bemühung als Wider- stand verspüren. Widerstand setzt das
voraus, was ich als Gegenbesetzung bezeichnet habe. Eine solche
Gegenbesetzung wird bei der Zwangsneurose greifbar. Sie erscheint hier
als Ichveränderung, als Reaktionsbildung im Ich, durch Verstärkung jener
Ein- stellung, welche der zu verdrängenden Triebrichtung
gegensätzlich ist (Mitleid, Gewissenhaftigkeit, Reinlich- keit). Diese
Reaktionsbildungen der Zwangsneurose sind durchwegs Übertreibungen
normaler, im Verlauf der Latenzzeit entwickelter Charakterzüge. Es ist
weit schwieriger, die Gegenbesetzung bei der Hysterie auf-
zuweisen, wo sie nach der theoretischen Erwartung ebenso unentbehrlich
ist. Auch hier ist ein gewisses Maß von Ichveränderung durch
Reaktionsbildung un- verkennbar und wird in manchen Verhältnissen so
auf- fällig, daß es sich der Aufmerksamkeit als das Haupt- symptom
des Zustandes aufdrängt. In solcher Weise wird z. B. der
Ambivalenzkonflikt der Hysterie gelöst, der Haß gegen eine geliebte
Person wird durch ein Übermaß von Zärtlichkeit für sie und
AÄngstlichkeit um sie niedergehalten. Man muß aber als Unter-
schiede gegen die Zwangsneurose hervorheben, daß solche
Reaktionsbildungen nicht die allgemeine Natur 8 Freud:
Hemmung, Symptom und Angst von Charakterzügen zeigen, sondern sich auf
ganz spezielle Relationen einschränken. Die Hysterika z. B., die
ihre im Grunde gehafstten Kinder mit exzessiver Zärtlichkeit behandelt,
wird darum nicht im ganzen liebesbereiter als andere Frauen, nicht einmal
zärt- licher für andere Kinder. Die Reaktionsbildung der Hysterie
hält an einem bestimmten Objekt zähe fest und erhebt sich nicht zu einer
allgemeinen Dis- position des Ichs. Für die Zwangsneurose ist
gerade diese Verallgemeinerung, die Lockerung der Objekt-
beziehungen, die Erleichterung der Verschiebung in der Objektwahl
charakteristisch. Eine andere Art der Gegenbesetzung scheint
der Eigenart der Hysterie gemäfßser zu sein. Die verdrängte
Triebregung kann von zwei Seiten her aktiviert (neu besetzt) werden,
erstens von innen her durch eine Verstärkung des Triebes aus seinen
inneren Erregungs- quellen, zweitens von außen her durch die Wahr-
nehmung eines Objekts, das dem Trieb erwünscht wäre. Die hysterische
Gegenbesetzung ist nun vor- zugsweise nach außen gegen die gefährliche
Wahr- nehmung gerichtet, sie nimmt die Form einer beson- deren
Wachsamkeit an, die durch Icheinschrän- kungen Situationen vermeidet, in
denen die Wahr- nehmung auftreten müßte, und die es zustande
bringt, dieser Wahrnehmung die Aufmerksamkeit zu ent- ziehen, wenn
sie doch aufgetaucht ist. Französische Autoren (Laforgue) haben kürzlich
diese Leistung der Hysterie durch den besonderen Namen ‚Skoto-
misation ausgezeichnet. Noch auffälliger als bei Hysterie ist diese
Technik der Gegenbesetzung bei den Phobien, deren Interesse sich darauf
konzentriert, sich immer weiter von der Möglichkeit der gefürch-
teten Wahrnehmung zu entfernen. Der Gegensatz in der Richtung der
Gegenbesetzung zwischen Hysterie und Phobien einerseits und Zwangsneurose
ander- seits scheint bedeutsam, wenn er auch kein absoluter ist. Er
legt uns nahe anzunehmen, dafs zwischen der Verdrängung und der äußeren
Gegenbesetzung, wie zwischen der Regression und der inneren Gegen-
besetzung (Ichveränderung durch Reaktionsbildung) ein innigerer
Zusammenhang besteht. Die Abwehr der gefährlichen Wahrnehmung ist
übrigens eine allgemeine Aufgabe der Neurosen. Verschiedene Gebote
und Verbote der Zwangsneurose sollen der gleichen Ab- sicht
dienen. Wir haben uns früher einmal klargemacht, dafs der
Widerstand, den wir in der Analyse zu über- winden haben, vom Ich
geleistet wird, das an seinen Gegenbesetzungen festhält. Das Ich hat es
schwer, seine Aufmerksamkeit Wahrnehmungen und Vorstel- lungen
zuzuwenden, deren Vermeidung es sich bisher zur Vorschrift gemacht hatte,
oder Regungen als die seinigen anzuerkennen, die den vollsten Gegensatz
zu den ihm als eigen vertrauten bilden. Unsere Bekämp- fung des
Widerstandes in der Analyse gründet sich auf eine solche Auffassung
desselben. Wir machen den Widerstand bewufst, wo er, wie so häufig,
infolge des Zusammenhanges mit dem Verdrängten selbst unbewußt ist;
wir setzen ihm logische Argumente ent- gegen, wenn oder nachdem er bewußt
geworden ist, versprechen dem Ich Nutzen und Prämien, wenn es auf
den Widerstand verzichtet. An dem Widerstand des Ichs ist also nichts zu
bezweifeln oder zu be- richtigen. Dagegen fragt es sich, ob er allein
den Sachverhalt deckt, der uns in der Analyse entgegen- tritt. Wir
machen die Erfahrung, daß das Ich noch immer Schwierigkeiten findet, die
Verdrängungen rück- gängig zu machen, auch nachdem es den Vorsatz
gefaßt hat, seine Widerstände aufzugeben, und haben die Phase
anstrengender Bemühung, die nach solchem löblichen Vorsatz folgt, als die
des ‚„Durcharbeitens“ bezeichnet. Es liegt nun nahe, das dynamische
Moment anzuerkennen, das ein solches Durcharbeiten notwendig und
verständlich macht. Es kann kaum anders sein, als dafß® nach Aufhebung
des Ichwiderstandes noch die Macht des Wiederholungszwanges, die
Anziehung der unbewußstten Vorbilder auf den verdrängten Trieb-
vorgang, zu überwinden ist, und es ist nichts dagegen zu sagen, wenn man
dies Moment als den Wider- stand des Unbewußten bezeichnen will.
Lassen wir uns solche Korrekturen nicht verdrießen; sie sind
erwünscht, wenn sie unser Verständnis um ein Stück fördern, und keine
Schande, wenn sie das frühere nicht widerlegen, sondern bereichern,
eventuell eine Allgemeinheit einschränken, eine zu enge Auffassung
erweitern. Es ist nicht anzunehmen, daß wir durch diese
Korrektur eine vollständige Übersicht über die Arten der uns in der
Analyse begegnenden Widerstände gewonnen haben. Bei weiterer Vertiefung
merken wir vielmehr, daß wir fünf Arten des Widerstandes zu
bekämpfen haben, die von drei Seiten herstammen, nämlich vom Ich, vom Es
und vom Über-Ich, wobei sich das Ich als die Quelle von drei in ihrer
Dynamik unterschiedenen Formen erweist. Der erste dieser drei
Ichwiderstände ist der vorhin behandelte Ver- drängungswiderstand, über
den am wenigsten Neues zu sagen ist. Von ihm sondert sich der Über-
tragungswiderstand, der von der gleichen Natur ist, aber in der Analyse
andere und weit deutlichere Erscheinungen macht, da es ihm gelungen ist,
eine Beziehung zur analytischen Situation oder zur Person des
Analytikers herzustellen und somit eine Ver- drängung, die blof3 erinnert
werden sollte, wieder wie frisch zu beleben. Auch ein Ichwiderstand, aber
ganz anderer Natur, ist jener, der vom Krankheitsgewinn ausgeht und
sich auf die Einbeziehung des Symptoms ins Ich gründet. Er entspricht dem
Sträuben gegen den Verzicht auf eine Befriedigung oder
Erleichterung. Die vierte Art des Widerstandes — den des Es — haben
wir eben für die Notwendigkeit des Durcharbeitens verantwortlich gemacht. Der
fünfte Wider- stand, der des Über-Ichs, der zuletzt erkannte,
dunkelste, aber nicht immer schwächste, scheint dem Schuldbewußtsein oder
Strafbedürfnis zu entstammen; er widersetzt sich jedem Erfolg und demnach
auch der Genesung durch die Analyse. 6) Angst aus Umwandlung
von Libido Die in diesem Aufsatz vertretene Auffassung der
Angst entfernt sich ein Stück weit von jener, die mir bisher berechtigt
schien. Früher betrachtete ich die Angst als eine allgemeine Reaktion des
Ichs unter den Bedingungen der Unlust, suchte ihr Auftreten
jedesmal ökonomisch zu rechtfertigen und nahm an, gestützt auf die
Untersuchung der Aktualneurosen, daß Libido (sexuelle Erregung), die vom
Ich abge- lehnt oder nicht verwendet wird, eine direkte Abfuhr in
der Form der Angst findet. Man kann es nicht übersehen, daß diese
verschiedenen Bestimmungen nicht gut zusammengehen, zum mindesten nicht
not- wendig aus einander folgen. Überdies ergab sich der Anschein
einer besonders innigen Beziehung von Angst und Libido, die wiederum mit
dem Allgemeincharakter der Angst als Unlustreaktion nicht
harmonierte. Der Einspruch gegen diese Auffassung ging von
der Tendenz aus, das Ich zur alleinigen Angststätte zu machen, war also
eine der Folgen der im ‚Ich und Es‘ versuchten Gliederung des seelischen
Apparates. Der früheren Auffassung lag es nahe, die Libido der
verdrängten Triebregung als die Quelle der Angst zu betrachten; nach der
neueren hatte vielmehr das Ich für diese Angst aufzukommen. Also Ichangst
oder Trieb-(Es-)Angst. Da das Ich mit desexualisierter Energie
arbeitet, wurde in der Neuerung auch der intime Zusammenhang von Angst
und Libido gelockert. Ich hoffe, es ist mir gelungen, wenigstens den
Wider- spruch klar zu machen, die Umrisse der Unsicherheit scharf
zu zeichnen. Die Ranksche Mahnung, der Angstaffekt sei, wie
ich selbst zuerst behauptete, eine Folge des Geburtsvorganges und eine
Wiederholung der damals durchlebten Situation, nötigte zu einer
neuerlichen Prüfung des Angstproblems. Mit seiner eigenen Auf-
fassung der Geburt als Trauma, des Angstzustandes als Abfuhrreaktion
darauf, jedes neuerlichen Angst- affekts als Versuch, das Trauma immer
vollständiger „abzureagieren“, konnte ich nicht weiter kommen. Es
ergab sich die Nötigung, von der Angstreaktion auf die Gefahrsituation
hinter ihr zurückzugehen. Mit der Einführung dieses Moments ergaben
sich neue Gesichtspunkte für die Betrachtung. Die Geburt wurde das
Vorbild für alle späteren Grefahrsituationen, die sich unter den neuen
Bedingungen der veränderten Existenzform und der fortschreitenden
psychischen Entwicklung ergaben. Ihre eigene Bedeutung wurde aber
auch auf diese vorbildliche Beziehung zur Gefahr Siem. Freud
eingeschränkt. Die bei der Geburt empfundene Angst wurde nun das
Vorbild eines Affektzustandes, der die Schicksale anderer Affekte teilen
mußte. Er reprodu- zierte sich entweder automatisch in Situationen,
die seinen Ursprungssituationen analog waren, als unzweck- mäßige
Reaktionsform, nachdem er in der ersten Gefahrsituation zweckmäßig
gewesen war. Oder das Ich bekam Macht über diesen Affekt und
reproduzierte ihn selbst, bediente sich seiner als Warnung vor der
Gefahr und als Mittel, das Eingreifen des Lust-Unlust- mechanismus
wachzurufen. Die biologische Bedeutung des Angstaffekts kam zu ihrem
Recht, indem die Angst als die allgemeine Reaktion auf die
Situation der Gefahr anerkannt wurde; die Rolle des Ichs als
Angststätte wurde bestätigt, indem dem Ich die Funk- tion eingeräumt
wurde, den Angstaffekt nach seinen Bedürfnissen zu produzieren. Der Angst
wurden so im späteren Leben zweierlei Ursprungsweisen zuge- wiesen,
die eine ungewollt, automatisch, jedesmal öko- nomisch gerechtfertigt,
wenn sich eine Gefahrsituation analog jener der Geburt hergestellt hatte,
die andere, vom Ich produzierte, wenn eine solche Situation nur
drohte, um zu ihrer Vermeidung aufzufordern. In diesem zweiten Fall
unterzog sich das Ich der Angst gleichsam wie einer Impfung, um durch
einen abge- schwächten Krankheitsausbruch einem ungeschwächten
Anfall zu entgehen. Es stellte sich gleichsam die Ge- fahrsituation
lebhaft vor, bei unverkennbarer Tendenz, FAemmung, Symptom und
Angst dies peinliche Erleben auf eine Andeutung, ein Signal, zu
beschränken. Wie sich dabei die verschiedenen Grefahrsituationen
nacheinander entwickeln und doch genetisch mit einander verknüpft
bleiben, ist bereits im einzelnen dargestellt worden. Vielleicht gelingt
es uns, ein Stück weiter ins Verständnis der Angst ein- zudringen,
wenn wir das Problem des Verhältnisses zwischen neurotischer Angst und
Realangst angreifen. Die früher behauptete direkte Umsetzung der
Libido in Angst ist unserem Interesse nun weniger bedeut- sam
geworden. Ziehen wir sie doch in Erwägung, so haben wir mehrere Fälle zu
unterscheiden. Für die Angst, die das Ich als Signal provoziert, kommt
sie nicht in Betracht; also auch nicht in all den Gefahr-
situationen, die das Ich zur Einleitung einer Ver- drängung bewegen. Die
libidinöse Besetzung der ver- drängten Triebregung erfährt, wie man es am
deut- lichsten bei der Konversionshysterie sieht, eine andere
Verwendung als die Umsetzung in und Abfuhr als Angst. Hingegen werden wir
bei der weiteren Dis- kussion der Gefahrsituation auf jenen Fall der
Angst- entwicklung stoßen, der wahrscheinlich anders zu
beurteilen ist. c) Verdrängung und Abwehr Im Zusammenhange
der Erörterungen über das Angstproblem habe ich einen Begriff — oder
beschei- dener ausgedrückt: einen Terminus — wieder auf- Siem.
Freud genommen, dessen ich mich zu Anfang meiner Studien vor
dreißig Jahren ausschließend bedient und den ich späterhin fallen
gelassen hatte. Ich meine den des Abwehrvorganges.” Ich ersetzte ihn in
der Folge durch den der Verdrängung, das Verhältnis zwischen beiden
blieb aber unbestimmt. Ich meine nun, es bringt einen sicheren Vorteil,
auf den alten Begriff der Abwehr zurückzugreifen, wenn man dabei
festsetzt, daß er die allgemeine Bezeichnung für alle die Techniken
sein soll, deren sich das Ich in seinen eventuell zur Neu- rose
führenden Konflikten bedient, während Verdrän- gung der Name einer
bestimmten solchen Abwehr- methode bleibt, die uns infolge der Richtung
unserer Untersuchungen zuerst besser bekannt worden ist. Auch eine
bloß terminologische Neuerung will gerechtfertigt werden, soll der
Ausdruck einer neuen Betrachtungsweise oder einer Erweiterung unserer
Ein- sichten sein. Die Wiederaufnahme des Begriffes Ab- wehr und
die Einschränkung des Begriffes der Ver- drängung trägt nun einer
Tatsache Rechnung, die längst bekannt ist, aber durch einige neuere Funde
an Bedeutung gewonnen hat. Unsere ersten Erfahrungen über
Verdrängung und Symptombildung machten wir an der Hysterie; wir sahen,
daß der Wahrnehmungs- inhalt erregender Erlebnisse, der
Vorstellungsinhalt pathogener Gedankenbildungen vergessen und von
der 1) Siehe: Die Abwehr-Neuropsychosen, Ges, Schriften, Bd.
1. Reproduktion im Gedächtnis ausgeschlossen wird, und haben darum
in der Abhaltung vom Bewußtsein einen Hauptcharakter der hysterischen
Verdrängung erkannt. Später haben wir die Zwangsneurose studiert
und gefunden, daß bei dieser Affektion die pathogenen Vorfälle nicht
vergessen werden. Sie bleiben be- wußt, werden aber auf eine noch nicht
vor- stellbare Weise ‚isoliert‘, so daß ungefähr der- selbe Erfolg
erzielt wird wie durch die hysterische Amnesie. Aber die Differenz ist
groß genug, um unsere Meinung zu berechtigen, der Vorgang, mittels
dessen die Zwangsneurose einen Triebanspruch be- seitigt, könne nicht der
nämliche sein wie bei Hysterie. Weitere Untersuchungen haben uns
gelehrt, daß bei der Zwangsneurose unter dem Einfluß des
Ichsträubens eine Regression der Triebregungen auf eine frühere
Libidophase erzielt wird, die zwar eine Verdrängung nicht überflüssig
macht, aber offenbar in demselben Sinne wirkt wie die Verdrängung.
Wir haben ferner gesehen, dafß die auch bei Hysterie an- zunehmende
Gegenbesetzung bei der Zwangsneurose als reaktive Ichveränderung eine
besonders große Rolle beim Ichschutz spielt, wir sind auf ein Verfahren
der „Isolierung‘‘ aufmerksam worden, dessen Technik wir noch nicht
angeben können, das sich einen direkten symptomatischen Ausdruck schafft,
und auf die magisch zu nennende Prozedur des „Ungeschehenmachens‘,
über deren abweisende Tendenz kein Zweifel sein kann, die Sigm.
Freud aber mit dem Vorgang der ‚Verdrängung‘ keine Ähnlichkeit
mehr hat. Diese Erfahrungen sind Grund genug, den alten Begriff der
Abwehr wieder einzu- setzen, der alle diese Vorgänge mit gleicher
Tendenz — Schutz des Ichs gegen Triebansprüche — umfassen kann, und
ihm die Verdrängung als einen Spezialfall zu subsumieren. Die Bedeutung
einer solchen Namen- gebung wird erhöht, wenn man die Möglichkeit
erwägt, daf3 eine Vertiefung unserer Studien eine innige Zu-
sammengehörigkeit zwischen besonderen Formen der Abwehr und bestimmten
Affektionen ergeben könnte, z. B. zwischen Verdrängung und Hysterie.
Unsere Erwartung richtet sich ferner auf die Möglichkeit einer
anderen bedeu samen Abhängigkeit. Es kann leicht sein, daßß der seelische
Apparat vor der scharfen Sonderung von Ich und Es, vor der Ausbildung
eines Über-Ichs, andere Methoden der Abwehr übt als nach der
Erreichung dieser Organisationsstufen. Der Angstaffekt zeigt einige Züge,
deren Unter- suchung weitere Aufklärung verspricht. Die Angst hat
eine unverkennbare Beziehung zur Erwartung; sie ist Angst vor etwas. Es
haftet ihr ein Charakter von Unbestimmtheit und Objektlosigkeit an;
der Femmung, Symptom und Angst 125 korrekte
Sprachgebrauch ändert selbst ihren Namen, wenn sie ein Objekt gefunden
hat, und ersetzt ihn dann durch Furcht. Die Angst hat ferner außer ihrer
Beziehung zur Gefahr eine andere zur Neurose, um deren Aufklärung wir uns
seit langem bemühen. Es entsteht die Frage, warum nicht alle
Angstreaktionen neurotisch sind, warum wir so viele als normal
aner- kennen; endlich verlangt der Unterschied von Real- angst und
neurotischer Angst nach gründlicher Wür- digung. Gehen wir
von der letzteren Aufgabe aus. Unser Fortschritt bestand in dem
Rückgreifen von der Re- aktion der Angst auf die Situation der Gefahr.
Nehmen wir dieselbe Veränderung an dem Problem der Realangst vor,
so wird uns dessen Lösung leicht. Realgefahr ist eine Gefahr, die wir
kennen, Realangst die Angst vor einer solchen bekannten Gefahr. Die
neurotische Angst ist Angst vor einer Gefahr, die wir nicht kennen. Die
neurotische Gefahr mufs also erst gesucht werden; die Analyse hat uns
gelehrt, sie ist eine Triebgefahr. Indem wir diese dem Ich unbe-
kannte Gefahr zum Bewußtsein bringen, verwischen wir den Unterschied
zwischen Realangst und neuro- tischer Angst, können wir die letztere wie
die erstere behandeln. In der Realgefahr entwickeln wir zwei
Reaktionen, die affektive, den Angstausbruch, und die Schutz-
handlung. Voraussichtlich wird bei der Triebgefahr dasselbe geschehen. Wir
kennen den Fall des zweck- mäfßligen Zusammenwirkens beider Reaktionen, indem
die eine das Signal für das Einsetzen der anderen gibt, aber auch den
unzweckmäfßligen Fall, den der Angstlähmung, daß die eine sich auf Kosten
der anderen ausbreitet. Es gibt Fälle, in denen sich die
Charaktere von Realangst und neurotischer Angst vermengt zeigen.
Die Gefahr ist bekannt und real, aber die Angst vor ihr übermäßig groß,
größer als sie nach unserem Urteil sein dürfte. In diesem Mehr verrät
sich das neurotische Element. Aber diese Fälle bringen nichts
prinzipiell Neues. Die Analyse zeigt, daß an die bekannte Real-
gefahr eine unerkannte Triebgefahr geknüpft ist. Wir kommen weiter,
wenn wir uns auch mit der Zurückführung der Angst auf die Gefahr nicht
be- gnügen. Was ist der Kern, die Bedeutung der Gefahrsituation?
Offenbar die Einschätzung unserer Stärke im Vergleich zu ihrer Größe, das
Zugeständnis unserer Hilflosigkeit gegen sie, der materiellen Hilf-
losigkeit im Falle der Realgefahr, der psychischen Hilf- losigkeit im
Falle der Triebgefahr. Unser Urteil wird dabei von wirklich gemachten
Erfahrungen geleitet werden; ob es sich in seiner Schätzung irrt, ist
für den Erfolg gleichgültig. Heißen wir eine solche erlebte
Situation von Hilflosigkeit eine traumatische; wir haben dann guten
Grund, die traumatische Situation von der Gefahrsituation zu
trennen. Es ist nun ein wichtiger Fortschritt in unserer
Selbstbewahrung, wenn eine solche traumatische Situa- tion von
Hilflosigkeit nicht abgewartet, sondern vorher- gesehen, erwartet, wird.
Die Situation, in der die Be- dingung für solche Erwartung enthalten ist,
heiße die Gefahrsituation, in ihr wird das Angstsignal gegeben.
Dies will besagen: ich erwarte, daß sich eine Situation von Hilflosigkeit
ergeben wird, oder die gegenwärtige Situation erinnert mich an eines der
früher erfahrenen traumatischen Erlebnisse. Daher antizipiere ich
dieses Trauma, will mich benehmen, als ob es schon da wäre, solange
noch Zeit ist, es abzuwenden. Die Angst ist also einerseits Erwartung des
Traumas, anderseits eine gemilderte Wiederholung desselben. Die
beiden Charaktere, die uns an der Angst aufgefallen sind, haben
also verschiedenen Ursprung. Ihre Beziehung zur Erwartung gehört zur
Gefahrsituation, ihre Unbe- stimmtheit und ÖObjektlosigkeit zur traumatischen
Situation der Hilflosigkeit, die in der Grefahrsituation antizipiert
wird. Nach der Entwicklung der Reihe: Angst — Gefahr —
Hilflosigkeit (Trauma) können wir zusammen- fassen: Die Gefahrsituation
ist die erkannte, erinnerte, erwartete Situation der Hilflosigkeit. Die
Angst ist die ursprüngliche Reaktion auf die Hilflosigkeit im
Trauma, die dann später in der Gefahrsituation als Hilfssignal
reproduziert wird. Das Ich, welches das Trauma passiv erlebt hat,
wiederholt nun aktiv eine abgeschwächte 128 Sigm. Freud
Reproduktion desselben, in der Hoffnung, deren Ab- lauf
selbsttätig leiten zu können. Wir wissen, das Kind benimmt sich ebenso
gegen alle ihm peinlichen Ein- drücke, indem es sie im Spiel reproduziert;
durch diese Art von der Passivität zur Aktivität überzu- gehen,
sucht es seine Lebenseindrücke psychisch zu bewältigen. Wenn dies der
Sinn eines „Abreagierens des Traumas‘ sein soll, so kann man nichts
mehr dagegen einwenden. Das Entscheidende ist aber die erste Verschiebung
der Angstreaktion von ihrem Ur- sprung in der Situation der Hilflosigkeit
auf deren Erwartung, die Gefahrsituation. Dann folgen die weiteren
Verschiebungen von der Gefahr auf die Bedingung der Gefahr, den
Objektverlust und dessen schon erwähnte Modifikationen. Die
„Verwöhnung‘“ des kleinen Kindes hat die uner- wünschte Folge, daß die
Gefahr des Objektverlustes — das Objekt als Schutz gegen alle Situationen
der Hilflosigkeit — gegen alle anderen Gefahren über- steigert
wird. Sie begünstigt also die Zurückhaltung in der Kindheit, der die
motorische wie die psychische Hilflosigkeit eigen sind. Wir
haben bisher keinen Anlaß gehabt, die Realangst anders zu betrachten als
die neurotische Angst. Wir kennen den Unterschied; die Realgefahr
droht von einem äußeren Objekt, die neurotische von einem Triebanspruch.
Insoferne dieser Trieb- anspruch etwas Reales ist, kann auch die
neuro- Hemmung, Symptom und Angst tische Angst als real begründet
anerkannt werden. Wir haben verstanden, daß der Anschein einer be-
sonders intimen Beziehung zwischen Angst und Neu- rose sich auf die
Tatsache zurückführt, daß das Ich sich mit Hilfe der Angstreaktion der
Triebgefahr ebenso erwehrt wie der äußeren Realgefahr, daß aber
diese Richtung der Abwehrtätigkeit infolge einer Unvollkommenheit des
seelischen Apparats in die Neurose ausläuft. Wir haben auch die
Überzeugung gewonnen, dafs der Triebanspruch oft nur darum zur
(inneren) Gefahr wird, weil seine Befriedigung eine äußere Gefahr
herbeiführen würde, also weil diese innere Gefahr eine äußere
repräsentiert. Anderseits muß auch die äußere (Real-) Gefahr
eine Verinnerlichung gefunden haben, wenn sie für das Ich bedeutsam
werden soll; sie muf3 in ihrer Beziehung zu einer erlebten Situation von
Hilflosigkeit erkannt werden." Eine instinktive Erkenntnis von
aufSen drohen- der Gefahren scheint dem Menschen nicht oder nur in
sehr bescheidenem Ausmaf3 mitgegeben worden zu 1) Es mag auch oft
genug vorkommen, daß in einer Gefahrsituation, die als solche richtig
geschätzt wird, zur Realangst ein Stück Trieb- angst hinzukommt. Der
Triebanspruch, vor dessen Befriedigung das Ich zurückschreckt, wäre dann
der masochistische, der gegen die eigene Person gewendete Destruktionstrieb.
Vielleicht erklärt diese Zutat den Fall, daß die Angstreaktion übermäßig
und unzweckmäßig, lähmend, ausfällt. Die Höhenphobien (Fenster, Turm,
Abgrund) könnten diese Herkunft haben; ihre geheime feminine
Bedeutung steht dem Masochismus nahe. Freud: Hemmung, Symptom
und Angst Siem. Freud sein. Kleine Kinder tun unaufhörlich
Dinge, die sie in Lebensgefahr bringen, und können gerade darum das
schützende Objekt nicht entbehren. In der Beziehung zur traumatischen
Situation, gegen die man hilflos ist, treffen äußere und innere Gefahr,
Realgefahr und Triebanspruch zusammen. Mag das Ich in dem einen
Falle einen Schmerz, der nicht aufhören will, erleben, im. anderen Falle
eine Bedürfnisstauung, die keine Befriedigung finden kann, die
ökonomische Situation ist für beide Fälle die nämliche und die
motorische Hilflosigkeit findet in der psychischen Hilflosigkeit
ihren Ausdruck. Die rätselhaften Phobien der frühen
Kinderzeit verdienen an dieser Stelle nochmalige Erwähnung. Die einen
von ihnen — Alleinsein, Dunkelheit, fremde Personen — konnten wir als
Reaktionen auf die Gefahr des Objektverlusts verstehen; für andere
— kleine Tiere, Gewitter u. dgl. — bietet sich vielleicht die
Auskunft, sie seien die verkümmerten Reste einer kongenitalen
Vorbereitung auf die Realgefahren, die bei anderen Tieren so deutlich
ausgebildet ist. Für den Menschen zweckmäßig ist allein der Anteil
dieser archaischen Erbschaft, der sich auf den Objektverlust
bezieht. Wenn solche Kinderphobien sich fixieren, stärker werden und bis
in späte Lebensjahre anhalten, weist die Analyse nach, daf ihr Inhalt
sich mit Trieb- ansprüchen in Verbindung gesetzt hat, zur
Vertretung auch innerer Gefahren geworden ist. Zur Psychologie der
Gefühlsvorgänge liegt so wenig vor, daf$ die nachstehenden schüchternen
Bemer- kungen auf die nachsichtigste Beurteilung Anspruch erheben
dürfen. An folgender Stelle erhebt sich für uns das Problem. Wir mufsten
sagen, die Angst werde zur Reaktion auf die Gefahr des Objektverlusts. Nun
kennen wir bereits eine solche Reaktion auf den Objektverlust, es ist die
Trauer. Also wann kommt es zur einen, wann zur anderen? An der Irauer,
mit der wir uns bereits früher beschäftigt haben,’ blieb ein Zug
völlig unverstanden, ihre besondere Schmerz- lichkeit. Daß die Trennung
vom Objekt schmerzlich ist, erscheint uns trotzdem selbstverständlich.
Also kompliziert sich das Problem weiter: Wann macht die Trennung
vom Objekt Angst, wann Trauer und wann vielleicht nur Schmerz?
Sagen wir es gleich, es ist keine Aussicht vor- handen, Antworten
auf diese Fragen zu geben. Wir werden uns dabei bescheiden, einige
Abgrenzungen und einige Andeutungen zu finden. Unser
Ausgangspunkt sei wiederum die eine Situation, die wir zu verstehen
glauben, die des Säug- lings, der anstatt seiner Mutter eine fremde
Person erblickt. Er zeigt dann die Angst, die wir auf die ı)
S. Trauer und Melancholie, Ges. Schriften, Bd. V. 193 Siem. Freud
Gefahr des Objektverlustes gedeutet haben. Aber sie ist wohl
komplizierter und verdient eine eingehendere Diskussion. An der Angst des
Säuglings ist zwar kein Zweifel, aber Gesichtsausdruck und die Reaktion
des Weinens lassen annehmen, daß er außerdem noch Schmerz
empfindet. Es scheint, daß bei ihm einiges zusammenflieft, was später
gesondert werden wird. Er kann das zeitweilige Vermissen und den
dauernden Verlust noch nicht unterscheiden; wenn er die Mutter das
eine Mal nicht zu Gesicht bekommen hat, benimmt er sich so, als ob er sie
nie wieder sehen sollte, und es bedarf wiederholter tröstlicher Erfahrungen,
bis er gelernt hat, daf3 auf ein solches Verschwinden der Mutter
ihr Wiedererscheinen zu folgen pflegt. Die Mutter reift diese für ihn so
wichtige Erkenntnis, indem sie das bekannte Spiel mit ihm aufführt,
sich vor ihm das Gesicht zu verdecken und zu seiner Freude wieder
zu enthüllen. Er kann dann sozusagen Sehnsucht empfinden, die nicht von
Verzweiflung begleitet ist. Die Situation, in der er die
Mutter vermißt, ist infolge seines Mißverständnisses für ihn keine
Gefahr- situation, sondern eine traumatische, oder richtiger, sie
ist eine traumatische, wenn er in diesem Moment ein Bedürfnis verspürt,
das die Mutter befriedigen soll; sie wandelt sich zur Gefahrsituation,
wenn dies Bedürfnis nicht aktuell ist. Die erste Angstbedingung,
die das Ich selbst einführt, ist also die des Wahr- Memmung,
Symptom und Angst 133 nehmungsverlustes, die der des
Objektverlustes gleich- gestellt wird. Ein Liebesverlust kommt noch nicht
in Betracht. Später lehrt die Erfahrung, dafs das Objekt vorhanden
bleiben, aber auf das Kind böse geworden sein kann, und nun wird der
Verlust der Liebe von seiten des Objekts zur neuen, weit
beständigeren Gefahr und Angstbedingung. Die traumatische
Situation des Vermissens der Mutter weicht in einem entscheidenden Punkte
von der traumatischen Situation der Geburt ab. Damals war kein
Objekt vorhanden, das vermifst werden konnte. Die Angst blieb die einzige
Reaktion, die zu- stande kam. Seither haben wiederholte
Befriedigungs- situationen das Objekt der Mutter geschaffen, das
nun im Falle des Bedürfnisses eine intensive, „sehn- süchtig‘ zu nennende
Besetzung erfährt. Auf diese Neuerung ist die Reaktion des Schmerzes zu
beziehen. Der Schmerz ist also die eigentliche Reaktion auf den
Objektverlust, die Angst die auf die Gefahr, welche dieser Verlust mit
sich bringt, in weiterer Verschiebung auf die Gefahr des Objektverlustes
selbst. Auch vom Schmerz wissen wir sehr wenig. Den einzig
sicheren Inhalt gibt die Tatsache, dafßß der Schmerz — zunächst und in
der Regel — entsteht, wenn ein an der Peripherie angreifender Reiz
die Vorrichtungen des Reizschutzes durchbricht und nun wie ein
kontinuierlicher Triebreiz wirkt, gegen den die sonst wirksamen
Muskelaktionen, welche die gereizte Stelle dem Reiz entziehen, ohnmächtig
bleiben. Wenn der Schmerz nicht von einer Hautstelle, sondern von
einem inneren Organ ausgeht, so ändert das nichts an der Situation; es
ist nur ein Stück der inneren Peripherie an die Stelle der äufseren
getreten. Das Kind hat offenbar Gelegenheit, solche
Schmerzerlebnisse zu machen, die unabhängig von seinen Bedürfnis-
erlebnissen sind. Diese Entstehungsbedingung des Schmerzes scheint aber
sehr wenig Ähnlichkeit mit einem Objektverlust zu haben, auch ist das für
den Schmerz wesentliche Moment der peripherischen Reizung in der
Sehnsuchtssituation des Kindes völlig entfallen. Und doch kann es nicht
sinnlos sein, dafs die Sprache den Begriff des inneren, des
seelischen, Schmerzes geschaffen hat und die Empfindungen des
Objektverlusts durchaus dem körperlichen Schmerz gleichstellt.
Beim körperlichen Schmerz entsteht eine hohe, narzißßtisch zu
nennende Besetzung der schmerzenden Körperstelle, die immer mehr zunimmt
und sozusagen entleerend auf das Ich wirkt. Es ist bekannt, daf
wir, bei Schmerzen in inneren Organen, räumliche und andere
Vorstellungen von solchen Körperteilen bekommen, die sonst im bewußten
Vorstellen gar nicht vertreten sind. Auch die merkwürdige Tatsache,
dafs die intensivsten Körperschmerzen bei psychischer Ablenkung
durch ein andersartiges Interesse nicht zu- stande kommen: (man darf hier
nicht sagen; unbewußt FHemmung, Symptom und Angst 135
bleiben), findet in der Tatsache der Konzentration der Besetzung auf die psychische
Repräsentanz der schmerzenden Körperstelle ihre Erklärung. Nun
scheint in diesem Punkt die Analogie zu liegen, die die Übertragung
der Schmerzempfindung auf das seelische (sebiet gestattet hat. Die
intensive, infolge ihrer Unstillbarkeit stets anwachsende
Sehnsuchtsbesetzung des vermißten (verlorenen) Objektes schafft
die- selben ökonomischen Bedingungen wie die Schmerz- besetzung der
verletzten Körperstelle und macht es möglich, von der peripherischen
Bedingtheit des Körper- schmerzes abzusehen! Der Übergang vom
Körper- schmerz zum Seelenschmerz entspricht dem Wandel von
narzißtischer zur Objektbesetzung. Die vom Be- dürfnis hochbesetzte
Objektvorstellung spielt die Rolle der von dem Reizzuwachs besetzten
Körperstelle. Die Kontinuität und Unhemmbarkeit des Besetzungs-
vorganges bringen den gleichen Zustand der psychi- schen Hilflosigkeit
hervor. Wenn die dann entstehende Unlustempfindung den spezifischen,
nicht näher zu be- schreibenden Charakter des Schmerzes trägt,
anstatt sich in der Reaktionsform der Angst zu äußern, so liegt es
nahe, dafür ein Moment verantwortlich zu machen, das sonst von der
Erklärung noch zu wenig in Anspruch genommen wurde, das hohe Niveau
der Besetzungs- und Bindungsverhältnisse, auf dem sich diese zur
Unlustempfindung führenden Vorgänge voll- ziehen. 136 Siem.
Freud Wir kennen noch eine andere Gefühlsreaktion auf den
Objektverlust, die Trauer. Ihre Erklärung bereitet aber keine
Schwierigkeiten mehr. Die Trauer entsteht unter dem Einfluß der
Realitätsprüfung, die kate- gorisch verlangt, daß man sich von dem
Objekt trennen müsse, weil es nicht mehr besteht. Sie hat nun die
Arbeit zu leisten, diesen Rückzug vom Objekt in all den Situationen
durchzuführen, in denen das Objekt Gegenstand hoher Besetzung war. Der
schmerz- liche Charakter dieser Trennung fügt sich dann der eben
gegebenen Erklärung durch die hohe und un- erfüllbare Sehnsuchtsbesetzung
des Objekts während der Reproduktion der Situationen, in denen die
Bindung an das Objekt gelöst werden soll. Kö @ “s NET
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filosofia pre-platonica secondo Diogene”, “il viaggio di Platone in Italia”,
“Il parricidio parminedeo di Platone”, “il platonismo latino” “Boezio e
l’aristotelismo”, “ficino”, “telesio e campanella”, “galilei”, “storia e
ragione in Vico” “Hegelianismo italiano” “Vera”, “Spaventa” “Jaja” – “idealism
italiano” “Croce” “Gentile” “il concetto di stato in Gentile” “Severino e il
neo-parmenedismo”, Vattimo e l’implicatura debole, la debolezza della
communicazione in Eco”, implicatura sintomatica, sintoma. “feudalesimo ario” --. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Bomtempelli” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Bonvecchio – Dumezil e Marte – la scoperta di 1992 dei delinquenti – al
Quirinale -- guerriero – la triada Giove Marte Giano -- marziale – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Pavia). Filosofo
italiano. Grice: “Bonvecchio is a good one; of course, he has philosophised on
what Italian philosophers have philosophised most: ‘e amore’ – only he calls it
eros --.” “This is strange: this Italian
fascination with the Hellenism: one BAD thing about the Hellenic or Grecian
lingo is that they have FOUR words for ‘love’: philos, eros, agape, charitas –
Cicero followed William of Ockham’s razor, ‘do nott multiply words’ – and
translated them all by ‘amore’ – Now, with Bonvecchio, it’s not just, as with
Tonny Bennett, just ‘amore,’ – iit’s amore ‘come simbolo’, that is, as used in
communication – as per Socrates with Alcebiades – the daemon, Amore, is the
metaxu – so there is a communication of Apollo and Dioniso via love – all VERY
philosophical, and actually very Oxonian – vide Walter Pater!” Laureatosi in
Filosofia Teoretica presso l'Pavia inizia la sua carriera accademica come
borsista, contrattista e ricercatore presso la Facoltà di Lettere e Filosofia
della stessa Università. Dal 1987
insegna "Filosofia della Politica" nella Facoltà di Lettere e Filosofia
dell'Università degli Studi di Palermo. Nello stesso ambito dottrinale insegna
nel 1990 nell'Università degli Studi di Trieste sino al 2001. Da questo stesso
anno è Professore di Filosofia delle Scienze Sociali nel Corso di Laurea di
Scienze della Comunicazione della Facoltà di Scienze MM. FF. NN.
dell'Università degli Studi dell'Insubria dove dal 2003 diviene vicedirettore
del Dipartimento di Informatica e Comunicazione. Claudio Bonvecchio è stato iniziato alla
Massoneria presso la loggia del Grande Oriente d'Italia Cardano di Pavia nel
1992, dove ha ricoperto varie cariche. Dal 6 aprile è Grande Oratore del Grande Oriente d'Italia
in seno alla Giunta guidata dal Gran Maestro Stefano Bisi, nel è stato eletto Gran Maestro aggiunto. Dal 5 dicembre è componente del Cda della Fondazione Luigi
Einaudi Onlus. Altre opere: Particolarmente
dedito agli studi sulla simbologia e sulla mitologia politica. “Immagine del
politico. Saggi su simbolo e mito politico” (Milani, Padova); “Imago imperii
imago mundi” (Milani, Padova); “L'ombra del potere. Il lato oscuro della
società: elogio del politicamente scorretto” (Red, Como); “La lanza di Marte; o
il simbolico nella guerra” (Milani, Padova). “La spada e la corona: studi di
simbolica politica” (Barbarossa, Milano); Gli’arconti di questo mondo. Gnosi:
politica e diritto” (Edizioni Trieste, Trieste); “Il pensiero forte, Settimo
Sigillo, Roma); “Apologia dei doveri dell'uomo” (Terziaria, Milano); “La
maschera e l'uomo” (Franco Angeli, Milano); “Il coraggio di essere” (Dadò,
Lugano); “Europa degli Eroi Europa dei mercanti. Itinerari di ribellione”
(Settimo Sigillo, Roma); “Inquietudine e verità” (Giappichelli, Torino); “Dove
va l'idea di Tradizione” (Settimo Sigillo, Roma); “Il sacro e la cavalleria”
(Mimesis Edizioni, Milano); “Esoterismo e Massoneria, Mimesis Edizioni,
Milano); “I Viaggi dei Filosofi” (Mimesis Edizioni, Milano); “La Filosofia del
Signore degli Anelli” (Mimesis Edizioni, Milano); “Ripensare l'identità. Per
una geopolitica dell'anima europea” (Settimo Sigillo, Roma); “Il Cavaliere, la
Morte e il Diavolo. Un percorso nella post-modernità” (ScriptaWeb, Napoli); “La
Magia e il Sacro: saggi Inattuali” (Mimesis Edizioni); “Eros come simbolo”
(Amore, Cupido). AlboVersorio, Milano); L'orologio dell'Apocalisse. La fine del
mondo e la filosofia” (AlboVersorio, Milano,. Scritti in onore Simboli,
politica e potere. Scritti in onore di Claudio Bonvecchio, Paolo Bellini,
Fabrizio Sciacca ed Erasmo S. Storace, AlboVersorio, Milano. Università
dell'Insubria[collegamento interrotto]
Grande Oriente d'Italia Convegno
a Matera: Europa, Libera muratoria, cultura
Claudio Bonvecchio scheda nel sito dell'Università degli Studi
dell'Insubria. Filosofia Filosofo del
XX secoloFilosofi italiani Professore1947 20 gennaio PaviaMassoni. The
Archaic Triad is a hypothetical divine triad, consisting of the three allegedly
original deities worshipped on the Capitoline Hill in Rome: Jupiter, Mars and
Quirinus.[1] This structure was no longer clearly detectable in later times,
and only traces of it have been identified from various literary sources and
other testimonies. Many scholars dispute the validity of this
identification. Description Edit Georg Wissowa, in his manual of the
Roman religion, identified the structure as a triad on the grounds of the
existence in Rome of the three flamines maiores, who carry out service to these
three gods. He remarked that this triadic structure looks to be predominant in
many sacred formulae which go back to the most ancient period and noted its
pivotal role in determining the ordo sacerdotum, the hierarchy of dignity of
Roman priests: Rex Sacrorum, Flamen Dialis, Flamen Martialis, Flamen Quirinalis
and Pontifex Maximus in order of decreasing dignity and importance.[2] He
remarked that since such an order no longer reflected the real influence and
relationships of power among priests in the later times, it should have
reflected a hierarchy of the earliest phase of Roman religion.[3] Wissowa
identified the presence of such a triad also in the Umbrian ritual of Iguvium
where only Iove, Marte and Vofionus are granted the epithet of Grabovius and
the fact that in Rome the three flamines maiores are all involved in a peculiar
way in the cult of goddess Fides.[4] However Wissowa did not pursue
further the analysis of the meaning and function of the structure (which he
called Göttersystem) he had identified. Dumézil's analysis Edit Georges
Dumézil in various works, particularly in his Archaic Roman Religion[5]
advanced the hypothesis that this triadic structure was a relic of a common
Proto-Indo-European religion, based on a trifunctional ideology modelled on the
division of that archaic society. The highest deity would thus be a heavenly
sovereign endowed with religious, magic and legal powers and prerogatives
(connected and related to the king and to priestly sacral lore in human
society), followed in order of dignity by the deity representing braveness and
military prowess (connected and related to a class of warriors) and lastly a
deity representing the common human worldly values of wealth, fertility, and
pleasure (connected and related to a class of economic producers). According to
the hypothesis, such a tripartite structure must have been common to all
Indoeuropean peoples on accounts of its widespread traces in religion and myths
from India to Scandinavia, and from Rome to Ireland. However it had disappeared
from most societies since prehistoric times, with the notable exception of
India. In Vedic religion the sovereign function was incarnated by Dyaus
Pita and later appeared split into its two aspects of uncanny and awe inspiring
almighty power incarnated by Varuna and of source and guardian of justice and
compacts incarnated by Mitra. Indraincarnated the military function and the
twins Ashvins(or Nasatya) the function of production, wealth, fertility and
pleasure. In human society the raja and the class of the brahmin priests
represented the first function (and enjoyed the highest dignity), the warrior
class of the kshatriya represented the second function and the artisan and
merchant class of the vaishya the third. Similarly in Rome Jupiter was
the supreme ruler of the heavens and god of thunder, represented on earth by
the rex, king (later the rex sacrorum) and his substitute, the Flamen Dialis,
the legal aspect of sovereignty being incarnated also by Dius Fidius, Mars was
the god of military prowess and a war deity, represented by his flamen
Martialis; and Quirinus the enigmatic god of the Roman populus
("people") organised in the curiae as a civilian and productive
force, represented by the Flamen Quirinalis. Apart than from the analysis
of the texts already collected by Wissowa, Dumezil stressed the importance of
the tripartite plan of the regia, the cultic centre of Rome and official
residence of the rex. As recorded by sources and confirmed by archeological
data it was devised to lodge the three major deities Iupiter, Mars, and Ops,
the deity of agricultural plenty, in three separate rooms. The cult of
Fides involved the three Flamines Maiores: they were carried to the sacellum of
the deity together in a covered carriage and officiated with their right hand
wrapped up to the fingers in a piece of white cloth. The association with the
deity that founded divine order (Fides is associated with Iupiter in his
function of guardian of the supreme juridical order) underlines the mutual
interconnections among them and of the gods they represented with the supreme
heavenly order, whose arcane character was represented symbolically in the
hidden character of the forms of the cult. The spolia opima were
dedicated by the person who had killed the king or chief of the enemy in
battle. They were dedicated to Jupiter in case the Roman was a king or his
equivalent (consul, dictator or tribunus militum consulari potestate), to Mars
in case he was an officer and to Quirinus in case he was common soldier.[6] The
sacrificial animals too were in each case the ones of the respective deity, i.
e. an ox to Jupiter, solitaurilia to Mars and a male lamb to Quirinus.
Besides Dumézil analysed the cultural functions of the Flamen Quirinalis to
better understand the characters of this deity. One important element was his
officiating on the feriae of the Consualia aestiva ( of the Summer), which
associated Quirinus to the cult of Consus and indirectly of Ops (Ops Consivia).
Other feriae on which this flamen officiated were the Robigalia, the Quirinalia
that Dumezil identifies with the last day of the Fornacalia, also named
stultorum feriae because on that day the people who had forgot to roast their
spelt on the day prescribed by the curio maximus for their own curia were given
a last chance to make amends, and the Larentalia held in memory of Larunda. These
religious duties show Quirinus was a civil god related to the agricultural
cycle and somehow to the worship of Roman ancestry. In Dumézil's view the
figure of Quirinus became blurred and started to be connected to the military
sphere because of the early assimilation to him of the divinised Romulus, the
warring founder and first king of Rome. A coincident facilitating factor of
this interpretation was the circumstance that Romulus carried with himself the
quality of twin and Quirinus had a correspondence in the theology of the divine
twins such the Indian Ashvins and the Scandinavian Vani. The resulting
interpretation was the mixed civil and military, warring and peaceful
personality of the god. A detailed discussion of the sources is devoted
by Dumézil to showing that they do not support the theory of an agrarian Mars.
Mars would be invoked both in the Carmen Arvale and in Cato's prayer as the
guardian, the armed protector of the fields and the harvest. He is definitely
not a deity of agricultural plenty and fertility. It is also noteworthy
that according to tradition Romulus established the double role and duties,
civil and military, of the Roman citizen. In this way the relationship between
Mars and Quirinus became a dialectic one, since Romans would regularly pass
from the warring condition to the civil one and vice versa. In the yearly cycle
this passage is marked by the rites of the Salii, they themselves divided into
two groups, one devoted to the cult of Mars (Salii Palatini, created by Numa)
and the other of Quirinus (Salii Collini, created by Tullus Hostilius).
The archaic triad in Dumézil's view was not strictly speaking a triad, it was
rather a structure underlying the earliest religious thought of the Romans, a
reflection of the common Indoeuropean heritage. This grouping has been
interpreted as a symbolic representation of early Roman society, wherein
Jupiter, standing in for the ritual and augural authority of the Flamen Dialis
(high priest of Jupiter) and the chief priestly colleges, represents the
priestly class, Mars, with his warrior and agricultural functions, represents
the power of the king and young nobles to bring prosperity and victory through
sympathetic magic with rituals like the October Horse and the Lupercalia, and
Quirinus, with his source as the deified form of Rome's founder Romulus and his
derivation from co-viri ("men together") representing the combined
military and economic strength of the Roman people. According to his
trifunctional hypothesis, this division symbolizes the overarching societal
classes of "priest" (Jupiter), "warrior" (Mars) and
"farmer" or "civilian" (Quirinus). Though both Mars and
Quirinus each had militaristic and agricultural aspects, leading later scholars
to frequently equate the two despite their clear distinction in ancient Roman
writings, Dumézil argued that Mars represented the Roman gentry in their
service as soldiers, while Quirinus represented them in their civilian
activities. Although such a distinction is implied in a few Roman passages,
such as when Julius Caesar scornfully calls his soldiers quirites
("citizens") rather than milites ("soldiers"), the word
quirites had by this time been dissociated with the god Quirinus, and it is
likely that Quirinus initially had an even more militaristic aspect than
Mars,[citation needed] but that over time Mars, partially through synthesis
with the Greek god Ares, became more warlike, while Quirinus became more
domestic in connotation. Resolving these inconsistencies and complications is
difficult chiefly because of the ambiguous and obscure nature of Quirinus' cult
and worship; while Mars and Jupiter remained the most popular of all Roman
gods, Quirinus was a more archaic and opaque deity, diminishing in importance
over time. References Edit ^ Ryberg, Inez Scott "Was the Capitoline
Triad Etruscan or Italic?". The American Journal of Philology. Festus s.v.
ordo sacerdotum p. 299 L 2nd. ^ Wissowa cited the following sources as
supporting the existence of this triad: Servius ad Aeneidem VIII 663 on the
ritual of the Salii, priests who use the ancilia in their ceremonies and are
under the tutelage of Jupiter, Mars and Quirinus; Polybius Hist. III 25, 6 in
occasion of a treaty stipulated by the fetials between Rome and Carthage; Livy
VIII 9, 6 in the formula of the devotio of Decius Mus; Festus s.v. spolia
opima, along with Plutarch Marcellus 8, Servius ad Aeneidem VI 860 on the same
topic. ^ G. Wissowa Religion und Kultus der Roemer Munich 1912 pp. 23 and
133-134. ^ Dumézil, G. (1966, 1974 2nd) La religion romaine archaique, part I,
chapters 1 & 2. Paris. ^ Festus s.v. spolia opima p. 302 L 2nd who has
Ianus Quirinus, which let it possible an identification of Quirinus as an
epithet of Ianus. ^ G. Dumézil La religion romaine archaique Paris 1974 part I
chapt. 6 end; It. tr. Milano 1977 p. 252. Last edited 9 months ago by Citation
bot Quirinus Roman
deity Flamen Priest in ancient Rome Flamen Quirinalis High priest
of Quirinus in ancient Rome Wikipedia Content is available under CC BY-SA
3.0 unless otherwise noted.Dal 5 maggio al 14 luglio 2019 il Palazzo del
Quirinale ospiterà nelle sale della Palazzina Gregoriana la mostra L’arte di
salvare l’arte. Frammenti di storia d’Italia, curata dal Prof. Francesco
Buranelli. L’esposizione è realizzata in occasione del 50° anniversario
dell’istituzione del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, un
reparto specializzato dell’Arma dei Carabinieri istituito il 3 maggio del 1969
per contrastare i crimini a danno al nostro patrimonio storico artistico.
E’ davvero un onore ed un emozione per noi guidoniani partecipare alla mostra
“L’Arte di Salvare l’arte”. Con un pizzico d’orgoglio siamo lieti di annunciare
che è stata esposta la nostra “Triade Capitolina”, fiore all’occhiello del
Museo di Montecelio, presente anche sull’homepage del sito del Quirinale
all’interno della sezione in cui viene presentata la mostra.
Ringraziamo il Generale dei Carabinieri Fabrizio Parrulli, Comando
Carabinieri di Tutela del Patrimonio Culturale, per l’invito a questo prestigioso
evento. Una presenza davvero gradita nell’inaugurazione è stata quella della
signora Ena, vedova del Generale Roberto Conforti il quale, con la sua
instancabile opera all’interno dell’Arma dei Carabinieri, riuscì a recuperare
la Triade Capitolina sottraendola alla criminalità. La presenza della
Triade al Quirinale rappresenta un volano importantissimo per la crescita
culturale e turistica della nostra Guidonia su cui tutta l’Amministrazione
punta tantissimo. Per tutte le informazioni sulla mostra è
possibile visitare il sito:
http://palazzo.quirinale.it/…/_art…/arte-salva_home.html Claudio Bonvecchio. Keywords: marziale, simbolo della
repubblica romana, simbolo dell’impero, imago impero, imago mundi, Romolo,
primo re, la corona del re. La spada, il guerriero. Guerra, longobardo, guerra
ostrogoto, bellum romanum, bellum civile, etimologia di ‘mascara’, il concetto
di eroe, Europa degl’eroi, italia degl’eroi, gl’eroi, Bruno, furore eroico,
Vico, eta eroica, equites, cavalleria, massima stirpe guerriera romana, Mars,
Marte, marziale, Marte, padre di Romolo, Marte, emblema della guerra, marziale,
campo marzio, Marte, l’archeologia di Boni, mistica fascista, imago imperi,
guerriero, Romolo re corona, emblem della republica, eta degl’eroi, fascism,
fascist imagery. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bonvecchio” – The
Swimming-Pool Library.
Grice
e Bordoni – grammatica al mio figlio – Luigi Speranza – filosofia italiana (Rocca di Riva, Riva di Garda).
Filosofo italiano. Grice: “Bordon is a genius; my favourite tract is his ‘ludi
romani,’ in a piece he philosophised for Silvio’s figlio, whoever he is – but
he also philosophised on ‘communication’ – and surely a game is a kind of
communication – cf. my ‘conversation-as-game’!” Figlio di Benedetto. L’imperatore
Massimiliano I d'Asburgo lo nominò suo pagge. Si dstinguendosi come soldato. Nella battaglia di Ravenna, in cui padre e suo
fratello sono uccisi, mostra grandi doti di coraggio. Riceve i più alti onori
della cavalleria dal suo imperiale cugino che gli conferì con le proprie mani
l'Ordine dello Speron d'oro, aumentato con il collare e l'aquila d'oro. Lascia
la corte. Dopo un breve impiego presso il duca di Ferrara, decise di abbandonare
la vita militare, e s'iscrisse come studente di filosofia a Padova. Laureato,
reside al castello di Vico Nuovo, in Piemonte, come ospite dei Della Rovere, dividendo
il suo tempo tra spedizioni militari in estate e la filosofia in inverno. Ha quindici
figli, tra i quali Giuseppe Giusto Scaligero Bordone. Stampa una invettiva
contro Erasmo da Rotterdam, in difesa di Cicerone e dei Ciceronianus. È un
pezzo di invettiva vigorosa, che mostra una retorica brillante, anche se carica
dell'abuso del volgare, che forse non inquadrava affatto la vera essenza dei
ciceroniani di Erasmo. Una seconda invettiva, più violenta e abusive. Un
trattato “De comicis dimensionibus” (Delle dimensioni comiche) e “De causis linguae
Latinae” (“Delle cause della lingua”) lo resero il primo grammatico che segue
principi e metodo scientifici. Ha acute critiche basate sulla Poetica di
Aristotele, “imperator noster; omnium bonarum artium dictator perpetuus”. Considera
Virgilio moltissimo superiore ad Omero. Lode le tragedie di Seneca. I suoi
saggi sono tutti sotto forma di commenti. Considera “De insomniis” di
Ippocrate. Stampa “De plantis”. Stampa “Exercitationes” su De subtilitate di
Cardano. Altre opere: “Commentari su Teofrasto De causis plantarum” “Commenti
alla storia degli animali di Aristotele”. Combina autentica conoscenza,
ragionamento acuto, e osservazione dei fatti e dei dettagli. Anticipa il
ragionamento induttivo del metodo scientifico. Non si può mettere in discussione che non
abbia anticipato in qualche maniera il ragionamento induttivo del vero metodo
scientifico, anche se i suoi studi di botanica non lo condussero a qualche
forma di idea su un sistema naturale di classificazione. Rigetta la scoperta di
Copernico. Rimase ancorato ai dogmi di Aristotele nella metafisica e nella
storia naturale, così come a quelli di Galeno. Corregge alcune dichiarazioni di
Aristotele utilizzando i principi aristotelici. Le sue Exercitationes
basate sul libro De subtilitate di Cardano è il libro che dà a Scaligero la sua
notorietà come filosofo. Si lo riconoscoe come il migliore esponente della
fisica e metafisica di Aristotele. “Poetices libri septem”.“Oratio pro
Cicerone contra Erasmum” nel quale liquidava Erasmo come un parassita letterario,
un mero correttore di bozze. In queste Scaligero analizza il corretto stile di
Cicerone e indica 634 errori commessi da Valla e i suoi predecessori umanisti. "Imperatore
nostro, dittatore perpetuo di ogni buona qualità nelle arti". Dizionario biografico degli italiani. Quem ad modum natura frescante nascir non uno
modo circa unam cine isina soubine verfaturrem, ita nec ars. Na sicuti solis vis
quercum educit, atque firmat aqua putrefacit ignis absumit. Sic faber eidem
quercui formam abaci imponit: statuarius, lovis: architectus; tigni. Par item
ratio in scientiis est. Hominem contemnplatur philosophus naturalis ut movetur:
Geometra quatenus eum metiri debet. Medicus que a morbis aut vindicet aut
tueatur. Natura enim est ut es tartifex quasi quidam eorum quæ molitur: ita
artifex tanquam natura quædam eorum, quæ Ampalaya figurat. Hoc igitur quod est materia
prima naturæ vt ei formam imponat, id est artifici naturalis vogures cui
figuram indat. Res autem quum duplices mralint: aut materiales aut
immateriales. Et immate n'arece riales aut extra intellectu ut deus, aut
inintelle etu ut notions. Notiones appello rerum species mente comprehensas,
Quod utique manus agit in materiam, hoc intellectus agit in notiones. Ergo, ut
manibus subiectam materiam habet, aurum faber. Ita, intelleettu notiones
philosophus moderatur. Et enim quo pacto manus instrumentorum instrumentum est.
Sic ratio scientiarum. Est autem ratio vis animæ, qua id, quod ea præditum est,
boncinema comprehendit universalia. Comprehedimus au cinst tem vel per
inventionem vel per disciplinam. Ac per inventionem quidem paucis darum est ut
divinitus fierent sapientes. Per disciplinam autem pluribus. Sane disciplina
est scientia acquisita in Sdiscete. Discimus vero ab alio per auditu tanqua per
instrumentum, et per voces tanquam per nostas. Est enim vox nota caru notionu,
quæ in ani voce coulmasunt. Vocis affectiones tres: formatiositio, compositio,
et veritas. Veritas est orationis æquatio cum re cuius est nota. Compositio est
unio partium procarum proportione. Formatio est creation et figuratio. Itaque
orationem eiusque partes duo artifices diversis modis conteplantur. Dialeetticus
sub *ratione* veritatis tanquam subsine. Grammaticus sub figurationis et compofitionis
modo, vocarunt conitructionem, tanquam materiam. Nam tamet si grammaticus etiam
considerat si- gold move gnificatum, qui quasi forma quædam est, non ta men
propter se id agit, sed ut veritatis indagatori subministret. Accidit autem ei
postea ornatus ab oratore, et numerus a Poeta. Nam historia parum ab utroque
differt, sed ex utroque potius mista est. Grammatici igitur unus finiset, recte
grammas loqui. Quare in duo intendit: in partes ut parios tienen una funt, et
in easdem ut interferes pondincat compositione. Nam quod addunt, creía vitedi arte
esse: bis peccant. Neque enim ars est, sed scientia neque necesse habet scribere.
accidit. Scriptura voci. Neque aliter scribere debemus, quam loqua mur.Illa quo
que tertia parte, qua afribunt, iudicandi, non recte attribuêecncque na ettio
distinguitur a potestate per differentias forma costitutas. Et enim eo de modo,
quo scio, iudico. Fostre mo quod cfficiu interpretando ruautothandu merar ut,
id sane grammatici non est, sed lapietis procuiusque rei captu. Est enim
oratoru poetarumque, atque historicorus lectio disserta variis artibus, atque
scietiis non ad ipsos literatores potius qua in ad veros artifices pertiner. Na
quod ad interpretationem ipsam atrinei eadem ratio est; et componendi et composita
cognoscendi. Quippe orationem qui interpretatur codem modo eam resolvit in
partes quomodo eam qui construxit ex iisdem partibus comparavit. Tresigitur cum
sint rationes literaturæ. Prima figurandi. Secundaria significandi. Tertia
componendi. Prima quidem diligentissimi viri receviores exactiflimetra
ettarunt. Secundam non ita plane. Tertiam exautorum observationibus satis
admodum sunt assecuti. Verum quunon solum vsu, atque autoritate partes hæc
onftenç sed etiam ratio ipsa naturalis magna multaque loca sibi vindicet. Quæ illi
ipsi diligenter sunt executi, nullius nostrum opera indigere arbitrabamur. Quæ
vero rationes ab his sunt omislæ vel quasi ignoratæ vel quasi relictæ nobis,
necessario hoc opere erunt perscrutandæ. Non solum materia opus est, certify limitibus,
sed etiam ordine atque instrumentis. Ordinem duplicem esse. Unum ab elementis
ad composita, alterum huic contrarium. Instrumenta item duplcra: altera naturæ
notiora, nobis vero mie nous nota: altera bis contraria. Anale Hitler imptam
materiam certisque limitibus cir per se ettenosse possimus. Duo sunt docedi,
totidem queii dem discendi modi. Alter quo quid suas in partes resolvimus, ut
si navim ignoranti cuipiam, primum nome edam. Deinde quid sit edifferam: postremo
cuius rei causa structa sit, ostedam, partibus enumeratis. Hæc via resolutoria
ab Aristotele dicta est. Is modus nobis notior est, quippe moim totum ipsum
repræsentatum specie primum in note scit, a quo ad partes indagandas ipsas possea
fya ducimur. Alter modus huic cotrarius est, naturæ ha infille quidem notus
atque certus, quem componentem dicimus. Propter ea quod acceptis partibus totum
ipsum ex ædificamus. Galenus frustra ad didit tertium quem definitivum vocat. Cum
ta men a resolutorio nihil differat resolvimus enim totum res est ipsa definita,
definitio autem notio speciei. Præstantior autem via utique cela ea est, quæ componere
docet: tum quia naturam imitatur, tum quod excellentiam tradentis ostendit
ingenii, quod necesse est omnia habeat in numerato atque ordine disposita ante,
quam ani mum ad dicendum appellat. Ad hoc, nisi a primoribus elementis
ordinare, necessfario cogêris idem, sæpius repetere. Universus igitur docendi ordo
rls is quum lit, singulæ partes quo consilio quamperte se et iffime recenferi
tractarique possint videamus. Discere dicimur cum ignotum per *indicia* quædam
percipimus animo. Hoc bifariam esse potest. Nanque *indicium* illud interdum
est po-Apossterius co, quoddiscimus, veluti cum significatio vocis huius,
gloriosus intelligitur posse accipi in bonam partem per exempla lumpta de Cicerone.
At sane id prius significavit quam sic Cicero utendum sumeret. Et tamen per Ciceronem
ita mihi notum fit. Est alterum in diciorum genus A hun natura prius. Et caussa
quasi quædam eiuscerei thi quam
discimus, ut cum per gloriæ significatum acper flexum illius vocis descendo ab
origine ad usu meum, quem in Ciceronis libris deprehendi ac prior quidem notior
ac facilior est. Alter ut paulo obscurior, ac minus sæpe notus nobis, ita
excellentior tanto quanto certius scimus quum per causam quam per accidentia
cognoscimus. Hoc igitur duce abipfa philosophia in Latinarum vocum naturam, ad
rationes investigandas, deducamur. Duplices partes: alie ex quibus vox
constituitur ut ex materia. Ab a tangu species sub genere perfectam scientiam,
non definusone acquire sed etiam ex affectuum cognitione. page Sligitur est a partibus
incipiendum, propter ea quod causæ sint iplius totius, quodnunc tractanas: 11offeinter
est, earum rationem duplicem esse. Et enim cum dicimus, in, Dictione, partes
esse alias simplices, cuiusmodi literæ func, ar lias compositas quales videmus
syllabas. Ex his iudico elementis integram vocem fieri, atque coalescere. Cum
vero dicimus. Dictiones aliæ sunt nomina, aliæ verba. Non has altendo partes
Wycius eile modi ut per eas concrescat nomen, sed quæ ipso genere tanquam re
universali quadam comprehendantur inde recte pronuciamus, tam nomen, quam
verbum dicttionem esse. Cum aute PH*2.poilim genus ipsum intelligere etiam
seclufss par mi ne tibus his, quasi pecies appellanimus. Necessario fatebimur,
inapte natura i pecies esse illas post genus. Si quidem genus materia quasi
quædam spe cieru v cít. Contra, quoniam genus ipsum animo perfecte capere
nequeamus, niii partes, quibus constat, perspexerimus. Necesse erit ut primua
de his partibus, deinde de genere, hoccli de diction quæ est materia nostræ
operæ subie et ta, tumde speciebus fermo noster instituatur. Videndum igitur,
quid litera: mox quid syllaba. Tertio quid diction. Postremo quæ species dictionis.
Quoniam vero perfecta Scientia non ex sola ha si betur definitione, sd omnes quoque rei affecttus cognoscere
oportet: de ipsis affectibus cuiusque partis quid veteres prodiderint quid nos
sentiamus, perspiciendum erit. Definituro litera, nominis prius originem
querendam. More peripatetico inde errures multos ecolligit igo corrigit. Ante
vero quam literam definimus, sicuti sie ce in omni definitione, nomen ipsum
estex- Nimm an plicandum. Quippe ex cuius interpretatione facilius rei ratio
nota sit. Togam.n. definiturus, cam si norim ategendo dietam, sane vestigando
cius genus sic inveniemus. Esse lana text ad tegendo, ita de litera acturi,
vera eiusce nominis rationem ex figura emergere căperiemus, quu eas certis lia
Ale! neis contineri videbimus exeptis nanq; cx prisca mily nominis origine
aliquor elementis, quu primum di ettæ essent lincaturæ, literæ possea fa ettæ
sunt. Scut apud græcos redivirala otlew sexuuris. Euenitde inde ut quoniam
album nigre dinea spergeretur, atquei quasi officeretur, ut ea sgnificatio
latius fufa fit, et litura inde etiam macula diceretur. Obliterare autēverbum
no a literis ut dixere sed a lituris deductu est, versa scilicet vocali. Quem ad
modu a fænus fæneror et a pignus pigneror, et a têpustepero: fica lincando,
linere, unde lineaturæ, et literæ, etlituræ, ex code fonte æque omnia. Neq enim
alituris literæ quiade lerentur. Prius enim factæ, quam deletæ sunt. At formæ
potius atque cueras rationem, quam intea ritus habeamus. Ex his constat eosdem
veteres, non recte quasi legiteram commentos esse:vtex crema pars vocis ab
itinere fingatur. Atque id A iiij. que Huskha Om quoque non geminata consonante
ut consueue re, scribendum esse: sub sux nanque originis for ma produxit primam
natura. Si igitur a lineis di eta est, et linea minima corporis dimensio est. Erit
profecto litera minima pars dictionis. Accidit enim dictioni cuipiam, unica ut
litera contineatur, ibi enim est pars et totum idem. Sed sicuti ex elementis
constant mista naturalia, sic ex lite mlaliris dictions, unde elementorum
quoque no men fortitæ merito sint. Simul ut hinc refellatur veterum sentential,
qui falso literas notas dixere, elementa autem pronunciationes. Nam ut litera
sola nota sit, satis habemus at
elementum et i plum hoc sit quod pronunciatur non autem ipsa pronunciation et
ipla nota æque, siquidem est pars dictionis ipsam constituens sicuti ignis, aer,
aqua, terra, corpora naturalia hæc nostratia. Sed et par corūdem error in
literæ definitio. Primo nan que partem vocis dixere quare aut non eruntli teræ,
quæ script nõdum pronunciantur, aut falso definierint vocem, esse aerem percussum.
Sed neque recte neque necessario adducut vocis de carregare finitionem. Neque
enim ad literatorem sed ad mus philosophum spe ettathoc, aquo id quod ipse sta
tuat accipere debemus. Quin ipse quoque vocem in libro de interpretation non
definivit: quum alioqui et coniunctior esset pars illa cum cætera philosophia,
et interpretatio vocem habeat pro instrumento, itaque divinus ille vir per
vocem definitiones attulit, vocis contemplationem ad philosophum naturalem
retulit. Quod si quis pertinacius contendat, necessario definiendam vocem esse
in literæ definitione, quasi genus quoddam: cogetur idem fane, quid aer sit
quid, percussio, definire, atque porro, quemad modum frat auditus, ostendere.
Verum ii ignorarunt, no omnia principia discutienda esse, sed quibusdam eorum
certis in scietiis simplici intellectione acquiescendum, ipsam que principiorum
rationem ad solum metaphysicum pertinere. Quam obrem grammaticus hic fatis
habet vocis tantum nos se significatum: non est igitur necessaria. Non est item
vera quum dicit aerem tenuissimum: te a dor Larmes nuenet crassum significat
partium positionem. Samorato tenue enim quum opponitur crasso significatrarum.
Sic dicimus crassum aerem, raru aerem esse nuem. In aere igitur Bæotio non
pronunciabitur litera quem aerem crassum fuisse proverbio quoque circunfertur.
Sed illi ut minimam pare name tem literam esse ostenderent eius materiam
scilicet aerem, tenuissimu esse voluere ut minimum significarent. Sed tenue non
excludit longitudinem. Itaque non erit aer minimus. Præterea in codem genere
nullum minimum minus alio minimo est: at litera alia aliis minor quædam enim
unico tempore fluit alia pluribus constat, et quædam dimidium alterius est. Nam
1 est duplex ad 0, et ipsa interdum sui ipsius, cuius modi sunt communes vocales
apud græcos. Ad hæc aiunt definitionem esse a substantia: at eer vocis
substantia non est, sed materia subiecta. Accidit enim vox aeri. Hic enim
substantiam pro essentia capiunt at essentia vocis non est aer: neque enimgenus
fius est, aut differentia: sed percussio, aut elisio ge AV. nu IvL. nys est
summum proximum autem genus, est fo nusis enim ordo est. Sonus e percussione
corpo vor a wheru, vox, sermo. Est enim sermo dispositio vocu articulataram ad
interpretandum animum.Vox, sonus ex ore animalis. Sonus qualitas obiecta au
ditui ex occursu corporu. Ita que n eid quide re et e, strepitum vocem esse
inarticulate. Strepitus es nim est sonis pecies, sicut et vox. Neq divisio
proba est, cum dicutin articulatas voces eas, quæ nul con lo proferutur affectu:
nãomnis vox est ab animi affectu. Est enim data animalibus ad expressione
voluntatis ut in quinto historiaru latius disputa uimus. Et multæ voces ab esse
et u proficiscuntur quæ sunt inarticulatæ, ut gemitus et sibilus venatorum. Sed
neque recte a brutis excludut articulatas: ouiu enim voces adeo clare scribe
possunt ut ab ipsis verbum apud nos formatum sit, balare. Literatas aute voces
aut illiteratas perinde atque scribi possent vel no possent, etia do et iores
dixe re, ut est apud Gelliu lib.xi. Non decreto, inquit, iussoque, sed tacito,
illiteratoque atheniensium consensu. Quare articulata sit quæ scripto excipi
atque exprimi valeat. Inarticulata, quæ no. Possit Vorige meo autem quis
dubitare, an necessaria sit definitio dimisour ettionis syllabæ, literæ per
vocem: præfertim cum philosophus in libro siegulweias sic egerit. Quibus
respodemus id eu fecisse quonia de elocutione feribebat, qua vocat interpretationem,
Sic nos vocem in his libris, prodictiöe scripta accipimus, quoniam vox esse
possit: idque ex usu vetera Latinorum. Atisti vocis partem cum dicantlitera,
voce ma; acrem percussum litera tantum in aere ponunt. Ergo cum scripta erit
non ei competer definition neq; cum in intelle et um recipietur. Poteste nim
nunquam fuisse in pronunciationc. Litere definitio. Differentie generica,
quibus species litera rum constituuntur. Affecttus generice proprio communes.
Quid primum horum natura fa, quid primo loco tradedum. Itera igitur est pars
dictionis indiviisibilis comuni Nam quanquam sunt literæ quæ de duplices una
tamen tantum litera est sibi quæque certum sonum unum servans. Ita 12 magnum
dietum est non autem compositum neque enim duo parva cotinettanqua partes sed
duabus temporibus v pas tra et us indivisibilis. Litera ergo genus quoddam est,
cuius specics primariæ duæ, vocalis et consonans, quarum natura et constituțio
non potest percipi, nisi prius cognoscantur differetiæ forma Eles, quibus
factum est, vtinter se non convenirent. Quire de ipsis differentiis in communi,
deq affectibus prius dicendum est. Litere differentia generica est, potestas quam
nimis rudi consilio veteres accidens appellarunt, est enim forma quæ dami
plefexus in voce quasi in materia propter quem flexum sit ut vocalis per se
possit pronunciari, muta non possit. Ex hac potestate ortūno men est, qui est affectas
proprius, cuiusque literæ, ce consequens cam vim quæin pronuntiatione sita est.
Figura autem cít accidens ab arte inftitutum: potestenim etle litera sine
figura: pote itque attributa mutari, acque solum per nationcs sed etiam eidem cidem
genti aliam atque aliam diversis seculis in usu suifle. Neque vero quod veteres
fecere, hæ Olyfolæaffe et iones assignandæ sunt literis sed etor do. Quædam
enim natura sua aliis priores sunt neque hac ferie qua eas accepimus ab
antiquis Ordgaut ortæ, aut disponendæ. De potestat cigitur pri ha trasmum
deinde de aliis scribendum esset. Veru quia a facilioribus semper est
incipiendum a figuris, notulis que ipsi spingendis auspicabimur quaru causas
possea explicare instituemus simul et numerum et ordinem ex priscis historiis
narrabimus quem suo loco tandem corrigemus. Historia literarum, Figura, Numero,
Ordine. Iteræ primum fuere sexdecim numero, a more on spiciis receptæ: his
notulis, A, B, C, D, E, I, K, L, M, N, O, P, Q, R. Palamedem autem duas
adieciffe bello Troiano Duabus ab Epicharmoaudu numerum: 0 Duæ ad Simonidem,
tanquam ad autorem, referutur: Alii autem aliter fen sere, duasque eiusdem
inuento appositas: Z, Latinæ haud
magnopere ab his abhorrent, his notis -- A, B, C, D, E, F, G, I, L, M, N, O, P,
Q, R, S, T, V, X, Y, Z. Summari adiuifio literarum. Nomina singularun.
Arumquæper feipfas possent pronunciari, vocales appellarunt: quæ non, nisi cu
aliis, consonantes. Ita que etiam vocalium nomina, simplici sono nec differente
a potestate, statuerut, at consonantibus, quæ egerent adminiculo, appel- osa'
lationes mistas ex ipsarum fono, et ex certo adminiculo indidere. Itaque
vocales sic nominarunt, cu ut scribebant: “A”, “E”, “I”, “O”, et “V”. At consonantes
additis vocalibus. Idque non uno modo quibusdam enim præ-posuere aliis post-posuere.
Sunt autem hægt “A”, “BE”, “CE” DE, “E” “EF”, “GE”, “I”, “EM”, “EN”, “PE”,
“QV”, “ER”, “ES”, “TE”, “IX”. Duas autem reliquas “Y” et “Z”, propte rea quod
non, nisi in græcis vocibus scriberent, non mutarunt earum figuram neque aliud
no men impofuerunt. Item duabus vocalibus “I” et “V” cum fiunt confonantes, nullum est nomen factu
a Latinis sed a Græcis. Æolicum elementum appellatum est: et vau:habuitquefiguram
hanc, 1, Claudio inventam, inuerla, r, atque duplicata. Verum nominis rationem
(“di-gamma” enimin denominarunt cum ipsa nominis potestate non conuenire, suo
loco dictum est. Ex his constat, quare in verbo Des, necessario inter priorem
et posteriorem consonantem interponi debeat e vocalis: cum tamen nomen et mutæ
in fine, et sibili in principio eam habeant vocalem. Nequce nim nomina ingrediunturc
ompositionem sed potestas tantum. Sola “Q” eadem et poteftate et nomine semper
est. Semper enim et pronunciatur, et nominatur fociata obscuræ vocali: sic, pv.
Eftigitur proprium tam figuræ, quam no - smo minis, nunquam mutari, potestatis
autem mu- poem tari, vt mox videbimus. Hoc autem dico apud veteres tum Latinos
tum Græcos. Nam nostra tempestate certis notulis malunt inchoare et ducere
dictionem aliis autem terminare. Hebræi autem chaldæique et armenii, et arabes
sema per aliquot literarum figuras mutarunt, quibus clauderêt voces suas. A
nominum ratione porro diviserunt Consonantes in mutas, atque Semi vom, vocales vt
quarum nomen inciperet a consorante; cx Muta essent: quarum a vocali, essent
Semi-vocales (“V”, “I”). Quam sententiam
qui essent auto resipfi, nihilo prudentius corrupere. Ita vt mutis ascriberent “EF”
quum tamen inciperet a vocalis verum et
hanc fuo loco explodimus, ethicillam emendamus. Principio, non a nominibus
species fa ettæ sunt, sed a potestate,a qua etiam nomina fluxere. Igitur iam
fundamentum destructum est. Præterea quo modo fregere se ipsos quum rin mutas
abiccerunt, ita ctiam sibi luntaduer fati, quum hac cadcm sua regula cogurtur ean
dem literam quæ apud græcos sit Muta, apud fe facere semi-vocalem. Nam îi verum
est, mutas effe, quarum nomina incipianta conionaia te: E1 græca muta erit ea
ratione, quæ tamen apud nossitsemiuocalis: fi quidem huius figurr; qua vtimur,
x, pro, cil, nomen Latinis cit, is, Immo vero fi a nomine petas argumentum,
multo sint Motæ clariores, quam Scmiuocaics. Quis enim ncfciat clarius
pronunciari posse, EE, quam en, aut EL? Ucrum ita faetum eit, vt MuTra
tædicerentur, quarum poteftas fine vocali focia, nulla effet. Neque enim
quisquam aut, “B” aut, €, aut alias mutas, nulla vocali addita, clare possit
one pronunciare: Contra semi-vocales, propterea quod aliquam haberent
pronunciationem. Vocalium enim fecutæ integritatem nominis dimi dium obtinuere:
nemo enim interposito inter labia spiritu ipsum “F”. nequeat efflare: item sibi
lumins, et mistuminx: linguæ autem vibratio nem in r:leniorem autem atque
hærentem in “N”. longeleniorem, et libiloaffinem,in “Z”, mugitum vero vel
facilimum, atque craffiffimum in ipfo m. Ex his patet error alius corundem
quifcripfe re- x, abi, vocali nomen feum apud nosincho are propterea, quod apud
Græcos eadem vocali Fillorum proferatur. Etenim fi ea ratio fatisef- Crop set,
etiam im, et IN, etif, dixiffemus, qua has vocali græci nominant. Sediccirco fa
et um est, ut a præpositione Ex, differret. K, autem lite ram quare is
præsentia omiserimus, suo loco di sputainus. Ex his fatis constat, prudentius,
quam aut Græci, aut Syri fecerint, fecisse nos; quum vo calium nomina
simplicissimo fono eduxerimus, quasi fuo fibi fatu ortæ effent: neque confo
nantium fublidiis indigere, ad suas opes decla. fandas, quas consonantes ipfæ
fane sua fouerent autoritate. Singularum literarum potestates. Rebus suas
species constituebat s affectiones genericas, rationem fpecierum conditaru
diximus: superest, vt vnicuiusque literæ vim deinceps ex vsu, atque ratione,
eiufque causas ftatuamus: quod negotium non sine magno labore, variaq; controversia
expediri potest. Adeo enim dege ' nerauimus a prisca pronuciandi ratione, vt
etvix extentipfoin vfu vestigia: etfiquid afferas, quod emendet vulgus,tanto
vero ipfipertinacius obfi ftant.Acfuit quidem tempus, quum vsui dabatur
aliquid:erat enim inter Latinos. Nunc vero, cum etiam Itali ipfi in patria sua
peregrini sintadeo, vt etiam studiose inuenta noua a prisca detor queant
Latinitate. Nihil aut Barbaris dandum, aut nobi sindulgendum esse cenfeo. A
vocalibus autem incipiamus. Singularum literarum potestates labioru maxime
conformatione dignoscuntur. Quemadmo dum non folum ex Martiani ac Prisciani,
Victorini, Gellii, Quintiliani, Varronis, Nigidii, Ciceronis præceptionibus,
verum etiam variarum usu nationum aliqua ex parte percipi potest. Duobus autem
modis potestas variatur,velsonus ipse, vt quum “I” vocalisaliter in voce “Ira”,
aliter in voce Optimus,pronunciatur: vel soni modus, veluti quæ exempla a
veteribus adducuntur, quibus deni modi eidem vocalis sono attribuuntur: qui ni afpiratæ,
et totidem tenui. Brevi fub acuto, et graui:longæ sub iisdem, et fub
circunflexo: ex empla sunt hæc: “Hamus, Hamorum, Hami: Arae, Ararum,Ara: Habeo,
Habemus: Abed, Abimus. Sed efttertius quoque modus, quum in fine clausulæ aut
verlus longam breuemque in differenti sono accipiturita, ut etiam prolongis
breues habeantur: etfi auribus suis aliter respondere, dixit Quintilianus. Ac
de fecundomodo in historia syllabarum scriptum satis est. de primo is mo autem sic agendum est. A, non eodem
semper apud græcos fuisse via the name detur fono: fiquidem Æolenses iplum pro,
Hypo fuere,vixa. contra, Iones pro eo, h, menyua. Ve- Inha rum mihi videtur apud
latinos eius literæ sem per idem sonus extitisse, qui etiam nunc auditur vulgo
Romæ. Atnon ficcæteræ. Namquee, latius sonat in aduerbio, Bene, quam in
aduerbio, Here: huius enim posteriorem vocalem exilius pronuntiabant, ita vt
etiam in maxime exilein tranfierit sonum, Heri. Id quod latius in multis quoque
patet:vt cum ab Eo, verbo, deducis Irc. Et in eodem casu. dicimus enim, et lis,
et Eis: ficut et “diis” et “deis”; “turrim” et “turrem”, “priore” et “priori”. Sicutiigitur
hæc inter se com mutabant, fic et v, cum eorum altero habuit af.2 "
finitatem: quod est animaduersum in illis vocibus, Optimus, Maximus, Monimentum.
Quæ ni hilominus etiam per v, scriberentur. Igiturha buit 1, vocalis sonos
tres, suum exilem alterum, latiorem, propioremque ipsi £, et tertium obscu
riorem iplius v.inter quæ duoy, Græcæ vocalis sonus continetur, ut non
inconsulto Victorinus ambiguam illam, quam adduximus vocem, per “Y”, scribendam
esse putarit “Optymus”. Quem so num etiam agnouere veteres græcæ prolatio
nis,poft, 1, velv, consonantes, et ante “D”, “M”, “R”, “T”, x,cuius rei exempla
sint “video”, “vim”, “virtus”, “vitium”, “vix”. Cæterum neque id nunc
deprehendi mus ex vfu noftro, neque illi afferre exemplum possunt, in quo “I”
vocalis sequatur 1, consonantem, ante eas literas quas in propofito apote 1. lesmate
constituebant: sed de v; accipiendurte eft: cuius erunt exempla “iudex”,
“iumentum”, “iuro”, “iuturna”. Verum ante x, non habeas: ne que enim præpositio
Iufta, per laanc duplicem scribenda eft: et puto, si Iuro certum fibisonum
habuit, Ius, quoque eundem habiturum. Ne “V” que tamen semper codem sono
profertur v, sed aliquando pleniore obscuritate, quo modo vulgus italicum dicit
“dux”. Interdum hiatu rotun diore, vt in verbo Columna, et Alumnus. quidam sunt
ex Umbra et Etruria qui propius o ad ipfius o, accedunt mollitiem. Omnino autem
latini cum græcos casus verterent, consiteri coegere nos,fonos illos esse
cognatos, au, Priamus. Quo etiam modo nunc pronunciant romani. Quare, quod illi
I lEds, noslu ba, Æoles secuti, qui ou oux,wvvia dicebant. Ita que o, duplicem
quoque fonum habuit: latio rem, et exiliorem, ut cum ipfo y, conueniret.
Productis enim labiis et cohærentibus, “Y” est pronuntianda, quomodo gallorum
quidam pro ferunt aduerbium, Nunc. Graca enim vox est yuŰge. Sic etiam in
multis aliis, quorum v, breue est, ea prolatio feruari debet, ut Numa, w uãs:
Romulus, puur G. Habet igiturv, tot fo nos,exilein ipfius 1, latiorem ipsius o,
obscurio rem fuum et medium quendam ipfius y, Græcæ. Quamobrem cumfuum fonum
feruare il li volebant veteres, addebant o, ne in exilita tem illam Græcæ
vocalis degeneraret: fic enim scribebant, Oufentina: autor Feftus eft. Restat
Ali etiam sonusalius, poft G, et Q. et s, a superiori bus valde diuersus, implens
scilicet confortan tium illarum vim,Lingua,Aqua,Suadeo. quan quam poft fibilum
hoc tertio exemplo etiam a prioribus distet fane: auditur enim aliquantum, ac
propius accedit ad consonantis lineamenta'. In prioribusautem exemplis, aut
nihil, aut vis auditur: fed craffitudineñ quandam apponit duntaxat: aliter enim
dicas Tingo, aliter Tin guo. Germani noftrates pene per digamma Æolicam
proferunt, fufpenfo ipso 'c, parum per: Rhenani, et qui in Belgio funt, longe
mollius, et fatis Romane.' At Erasmus in libro pri de pronunciatione falso
putauit v, eodem ino dolubiiciipfi c, ficPomba ipfit, in exemplo pro nominis cv
I. eft enim ibi y, vera vocalis: 1, au tem consonans, vt suo loco dictum eft.'
Illud quoque igitur falfum erit, quod veteres prodi dere v, cum pofta,
velo,præcedit, aut E, aut 1, aut 2, Græcæ vocalis.Y, vim obtinere ne que enim
vllum sonum fimilem gerit. Si eniin ita effet, Græci ipfinon tam laborarent:
'habe rent enim ad manus fuam literam, et fcriberent KTINTOE, quod apud nos
eft,Quintus. Sedip fi et fcribunt, KONTOL et pronunciationem il lam nullo
modoqueuntaffequi. Quemadmo dum autem i, et v,fiantconfonantes,fuo loco dia
ctum eft. Diphthongoru quoq;ratio non constat:ho-cu's die nullam enim ex
pronuciatu noftro percipias: lego neque tamen fruftra inucetæ funt. verum non
est nunc laborandum; yt ora distorqueantur, ad Bij. ciuf 1 i IvL. I. 1 ciusmodi
explendam ambitionem. Satis tamen $ ex constat, “Æ” proximam fuiffc Græcæ “AI” et
oe, an vocaliv. Nam et Maros, et Muros, legimus, AV, autem non vt nunc pronuntiant
Itali, a quibus audias sonos duarum explicatum, sed declinauit olim ado,
quomodo Franci nunc re et iffimey tuntur. Quorum siquis dicat Caurum, etiam Co
rum audias. Græci nescio an bene pronuncient: a quibus intelligas priorem
vocalem:alteram au tem fono fimiliore consonantis Æolicæ, Sic et WEY,iidem.
Nosæquemale,atqueipfam av.Græ cam vero oy,ridicule Galli pene per o,proferüt,
them et ineptius adhucmagis cum diphthongos diui dunt ac diffoluunt,earum vt
fonus audiarur. Nec defucre qui Græcam inueherent in Latinos, quo niam veteres
licenunciabant,Terrai,Frugiferai. Item alteram, EL, iis in vocibus sono tum
e,tum 1, ederentur, vt Treis, Parte is: Verum priscos vnica adidlitera
contentos fuisse idem Nigidius autor est. quæ vtriufuis Origo etcauffa,quare 1, etv, e vocalibus
faettæ fintconfonantes. Vanquam igitur mutantur soni, manet il lis tamen
priftinæ genus potestatis: at tam 1, quam v, penitus amiffa priori vi, in aliam
cefunt transmutata. Nam cum fequente vocali vellenteas pronunciare difundim,
fic, Viet or, Iųftus,fubist fane vocalis illa, ac præcedentismu tauit vim.
Quorum altero vt Græci carentsci, 12 licet 1, ita ipsum multæ nationes
retinuere hebraica, arabica, germanica, scythica, armeniea, illyrica. Quod
iccirco a Græcis factam non est, quia longiore femper tractu vterentur, in
pronunciando,ipfoque in hiatu confifterent: quod vel ex eo declaratur, fiquis
animaduertat la eam literam etiam ante vocales frequentisfime contra communem
cæterarum naturanaprodu ci: quare non potuit in alium sonum spurium degenerare.
At Latini paruo posito momento obToni gracilitatem facilimeinfubeuntem pro
ximam transiliere, vt non penitus abesset ab sono ipfius G, a qua tamen quantum
distet,** falo loco videbimus. Quemadmodum illud quo que, An Græci alteram
habeant: v, scilicet. ne que enim hîc de his cognofcere possumus ante, i quam
etipfius G, cui estı, proxima: et ipfarum 0, acPH, atque a naturam
perspexerimus. Hoc i igitur'iam agamus. Consonantium potestates. ACB; quidem
Græci hodicaliter,aliter pro «« nunciant Latini. Nam pressislabisLatini, at
Græci laxiore labro fuperiore, et inferiore ap plicato dentibus
fuperioribus;quanquam veteres Græcos non aliter, quam nos vtimur, vfos effe
palam est. Varro nanque cum noftrum balare, verbum magis commendat, quam
Græcorum peñdo, fane vtrunque fa ettitium a sono pecudum contendit: ostenditque
cos debuifle imitari. Biij. VOS??1P 22 AN vocem auis Balantis, vt Bínov, non
uñaov nomen įmponerent. Quod fi vt ipsi loquuntur nunc, nonvtnos proferimus,
olim pronuntiaffent, sic quali propemodum per Æolicum digairma, na recte
corrigeret eos Varro: nequeenim valant tace Semente pecudes,fed balant.
Vafconibusquoquehoc eft vitium peculiare, vt eo modo pronuncient B, quo et
Græcos dicimus. Itaque lusimus in cos epigrammate,vt eorum “vivere” “bibere” fit.
Con tra quædam nationes nimis crafse pronunciant per p, vt Puliam, praco quod
effedeberet, Bull lam, dicant. Multo diuerfior vsus est ipsius c, idque non
folum in diuerfis nationibus, fed etiam ipfa in I elktalia. Ac laneidem effe
noftrum c, quodGræco rum fitx,iam receptum est:explosaquecorû fen gêtia,qui
aliter autumarent. Tantaq magis Scau cow hari Grammatici, qui putarit nomina,
in quibusA, scamm secunda effet statim fede, perk, scribenda effe: fic:
Kalendæ, Karus. Etenim fi propterea fiat quod Kappa, nomen includit vocalem
illam, fa nenulla eiufmodi vocalisaddaturin contextu di et ionis: aut ca consonans
nulli præterea voci ab aliis vocalibus incipienti apponerur. Họcautem falsum
effe vel ipli oftendunt Græci. præterea ipfum c, eadem ratione non apponeretur
nis fequenti E, vt Cepe,cæterorumque elemen torum par item effet ratio. Quin
Kappa no men maius eft, quam quanta fit hæcpotestas, ad quam arctare conatur
ipsum.Aliiita censuere, em Græcis tantum vocibus attribuendam, qui æ que falfi
sunt. Etenim id fi verum esset, etiam Chremetem, per x, Græcum scriberent. Quod
sola afpiratione ab ipfok, distat. Nulla igitur ra tio eft.Ipfius ergo sonus c,
cum fit idem cu sono ipsius k, cauendum nobis maxime est,neaddatur volan
aspiratio (id quod Thuscorum non paucifaciut: sed ii frequentius, qui Arnum
flumen accolunt) sed ficcissime eft pronunciandum,non mucrone, sedlatiore parte
linguæ interioris adducta ad pa latum,atque aftrietta,vt quamtenuissimus quam
que expeditissimus fonus transabeat. Galli turer, alle piffimeper fibilum
edunt: vtnon discernas, Cel-tali lamne, an Sellam, audias. Germani noftrates
non tam crasso sibilo: at Germani Belgæ, et Hi spani,non aliter,quam galli
Circumpadani, et Veneti, etFlaminii, et Ligures, libilo tenuissimo, et balbo.
Qui omnes redarguuntur eo, quod in fine di et ionum Græcum seruari fonum fatis
patet: ut Hic, Nec, Ac, Alec: nequeenim fi bilo terminantur, fed in ficciorem
sonum, qui apposita vocali debuit perpetuari. Acquirit ta- Crayon men
craffiorem sonum pro vocalium ratione: çrassius enim dicas, Carus, Collum,
Cuma, pro pter latiorum vocalium hiatum, quam Cera, Cippus, propter exilitatem.
Eandem inibimus imme "rationem addita aspiratione, ut crațiusaliquan-
lagimens to pronuncies zuers xep, quam xew.xic. In tem diphthongos prout ad
vocalium certarum sonum propius accedent. Si autem “s”, præcedat se ipsum c,
vulgo non audias: atqui yoluntcose mendare, etiam ineptis conatibus vastant pro
nunciationem,quamtu e Thuscorum consuetum dinecommodiustemperabis. Şiini 4. 3 B
iiij. Similima huic eft, atque adeo, vt ineptiuf cule quidam eandem
essecontenderent. " Galli nihilo fecius eam proferunt, atque ipfum, at que
etiam craffius, horumque imitatores Ligue res Taurini.Qui vero caste atque
integre in pro uincia verfantur pronunciationis,includuntali quantum potestatis
ipfius,v, sine quo ca de cauf fa Q, nunquam scribitur. Non minor aliorum error,
qui cum hujus vim fimilem esse prode rent potestati ipfius C, male cauffam
afsignarunt, menim propterea quod mutuo inter se conuerterentur: hb w quoniam
diceremus, “coquus”, “coci” et Arcus, Arquites, et “cum”, “quum”, et Sequor,
Secu tus. Etenim mutationis ratio fallaciffima eft, Omittoflexionum
terminationes, quibus in m, s,mutarividcas, “Titus”, “Titum” et in D, “Paris”,
“Paridis”. hoc enim factum sit discriminis gra tia in cafibus. At pro R,s:pros,
t,inuenias: appavy a coev, Jeasanos, Jetlonos. Non igitur a muta tione, fed a
fono ducendum eft argumentum. Sed neque, yt ex Varronis authoritate conten
r:Aldunt, e, erit a literis potius excludenda, quam aliæ literæ quærendæ: Nam
in elementis ita c uenit, quemadmodum in rebus: vt plures ef sent foni, quam
corum notæ. Quæ fuit cauffa, vt etiam diphthongos comminiscerentur. Ita que
frustra litigant, sıc: fi alia eft, ab ipfoc, propterea quod v, fequente alium
percipimus sonum: ergo erit G, quoque alia a seipfa,vel cum necessario sequatur
v, vel fi fortuito. Intelligo neceffario propter ipsam, vt Lingua: fortui to,
propter vocem, vt Ligus. Hic enim dicimus nos, consultius quærendam aliam figu
sam, ipfi, qua hanc capiamus potestatem, quam prudentiffime inuentum, excluden
dum. Fatemur enim,, aliud, atque aliud effo non minus, quamipsum v, cum
fequitur vel's vel g, aut alias consonantes.Non erit igituridem cum c. Nam si
sit: ergo alterum pro altero pona tur. idem igitur erit et Qui, et Cui. cum
tamen vtrunque sit monofyllabum: et alterum clauda tur vocali, posterius autem
consonante. in priore non audiatur secundi sonus elementi, in altero autem
audiatur. Neque vero potiffimus autor Catullus initio statim pulcherrimi, ac
diuini poc matis,fiçsçripfiffet, Peliaco quondamprognata vertice pinus. neque
enim idem fonat ac fi dicas, Peliaco collissurgitde vertice. Eftautem lonusis
et Græcis, et Gallis inimicus. Hispaninon femper, Vascones semper, Itali fa
cilime obseruant, Proximum ipfi c, est. Itaque Cneum et Gneum,dicebant;fic
Curgulionem et Gurgulio nem. appulfa enim ad palatum lingua, modicello relicto
interuallo,fpiritu tota pronunciatur. At Calabri, etCampani, Vmbrigue,
atquealiieius tractus, etiam fibilo cius fonum faciunt craffio rem: Contra
Flaminii., et extremaPicenorum pars, ac togata Gallia versus z, vt quantum
distat Lombardorum c,abipfoc, Thuscorum,tantum Flaminiorum, ab ipfog, aliorum:
medio inter vtrofque nos proferimus rectiffime. D, tam Græci, quam Vascones,
atqueetiam B V Ara G I Iul. I. Arabesaspiratius pronunciant, subdita fcilicet,
dentibus lingua. Nos ficcius, vix appofita ac ce T'leriterabduđa. Huic affinis
est t,pertinaciusap $ pulla lingua.at Græca cu his coniun ettae,non ve Galli
proferunt,excito degutture fpiritu craffio re,fed vt Græciipfi interpofito
fuauiore flatu sub ieet a lingualaxiorespatio dentibus, quamin D. F, PH, V,
quum est consonans, tressonos, fuum quæque edunt:fed ita,vt et
cõgeneresintelligas, et non vnu. Acdigamma quidem Æolicu, quod noftrum eftv, ab
ipfa differre palam eft. Æoles enim, qui haberent, etiam digammaquæli gere. Ita
f,ab ipfo o, distare videamus, cum ante F,, ponamus N, atante, et PH, noftrum
pona musM. etM. Tullius irrisit Græcum testem, qui primam literam Fundanir,
nesciret exprimere. Itaque no defucre, qui Phamam, quam Famam fcribere mallent,
propterea quod Græca effet $***vox. Puto autem fuisse F, validiflimum aftrieta
fuperioribus dentibus labio inferiore. Mox sequi, dilutiore vi. Quo more etiam
in præ fentia vtuntur Græci ipsi. Tertio locomollifli mum v, quomodo nunc
quoque dicimus, aut non multo attentius. Par enim eft: vt retincat etiamnum
quippiam veteris vocalis, vnde or tum habuit.Quare notat Viętorinus fic
fcriptum inueniffe, Seras: quasi duplicis wv, nota elet,ve SERVVS, diceretur.
Sed multamarmora barban, riffima fuere innouantibus.posteris in veterum? ram
contemptum. Quod autem aiunt v,femper effe fimplicem, nunquam duplicem
consonantem, fiuein principio, liucin medio fit: et ipfis habere debeemus
fidem, qui tucincorruptas pronuncia: di tenebantleges: et facit ad id, quod
statuebamus mollifimofono esse. Quod fi quis obiiciat, præ terițum Audiui, dịcamusmediam
fyllabam illam sua, non consonantis natura produci: fic enim 1- Audire,ficOuum
quoniam av. Itaque non pro, duxit primam in Que,quoniã non potuit: fuerat enim,
šis. quaresonus no fuit multus interpofitæ. L, geminant atque aspirant etiam
cum solum er est,Gabali,Aruerni, et Ligures Taurinilocisali o quot. cotra
nostrum vulgus vix adducipoteft, vt geminent.Græcinuncsic pronuciant, vt
aliquid et aliud intelligas, quali fuccedati, consonans ipfi 1, etsequente
præeat vocalem:qua pronuciatia. ņem audias hodie apud Thuscos, quum dicunta !
Gli: et apud Vascones, quum postpanunt aspira tionem:apudHispanos,quu
geminant.Sicigitur sebep Græcus,xinasa: Tuscus,Agliada: Vasco,Alhada..
Hispanus. Allada:omnesæquemale,fi ad Latini, tatem sofe conferant. Sed Græcis
hoc corrupte dici puto. Quin veteres obseruabant exiliuseffe 46 quum
geminaretur, Mella: plenius quum finit fyllabam, aut ante sein eadem syllaba habet
cona sonanțem,vt Sol, Flavius:medio sono esse,quum inchoat,vtLux, Cælius,
Huicaliquo modo similis estr,fed longinqua com tamen: codeenim oris modo
editur. Sed vda est “L” at R, spirituosa: illa simplicifertur tra ettu,hæc
vibratur. Itaque ob ea vibrationeaspirationeaca cepit a Græcis,exit enim quasi
bulliente voce.A pudnostrate vulgus vix duplicata vsquam audias, Quidă distenta
acrigida lingua ignauius efferüt. Inma IvL. LIB.‘L minne Inm,nullam vocem Græciaterminauit:
Bar baris,nobisquc modusnullus.Tres sonos habere animaduerterunt: craffiffimum
in principio,mi nimum in medio, mediocrem in fine. Sitom nium vnicum
exemplam,Mimum: et figemina ta mutatur, Mammam. Initio enim collecta Vox
adinteriora narium, mugit;in medio penitus fal lit,obsessa scilicet ac ftipata
vocalibus: in fine au ditur mediocriter,abeunteiam voce: etquum ge minatur,
prior implet aures etiamnum magis, quam quum est in fine di et ionis. Eft et
aliusro nus quum terminat diettionem,et altera di ettio fe qyens incipita
vocali: vt, Equidem cgo:neque e Barcnim aut Galli,autLombardireettetum
proferut: ita enim proferunt, vt firiem alterius cum initio sequentis
coniungant. Nos mediocri sono, et fa nedimidiato,vt intelligas, fi voles,
poffeelidi: percipiasque differentiam si dicas Multum ille: et, Multaille.
neque enim totum fonum abolebant: neque enim intelligeres,sitne,Multum, an Mul
ta,an Multi, an Multæ,anMulto, an Multam, Ita quelibato tantum sono, ftatim
transabit yox, et in fubeuntem sese dat. * Nabm, differt gracilitate: claufo
enim ore, et effufofono in nares m conformatur: at N, aperto ore, etlingua in
palatum repercutiente vocem. BriffSplendidiflimo sono estin fine, et
fubtremulo, pleniore in principiis,mediocriin medio, Nino. præcedes aüt feipfum
penedimidio minor eft: vt Brenus, etfequete,vel c, fiue exili, fiue aspirato,
longe adhucmutilatior,Ancile, Angustum, An çhora. ita vero, yt etiam diuersam
literam puta BE rent: nec dignarentur vulgari figura,sed aliam · quærerent,
exemploGræcoru: qui vtaliam often derent,inepte alienifsimi soni figura
substituere, ipfius fcilicecr. Hæcigitur cum G,aut c, præcedi tur: atquum
pręceduntipfum N,optime aGræcis i pronunciatur. Redea Germanis, a Gallismale:
fic enim proferunt, vt nihilinterfit,vtrum dicas, Magnus, an Mannus. Itali hoc
committuntinn, quod Græciin 1, suo:vt nescio quid fpuriiinue xerint, quod
literis exprimi nonpoffit. Videntur cnim omittereipsum G, et aspirare ipsum n:
ficuti Infulani Græci faciunt vulgo, fequenter, aut II, autor, auty.Nam
Bysantios ego ita loquentes audiui,vt nos pronuntiamus. S,facitima omniu
literaru, neq; enim sineipfa eflare posfimus. Quare non estmeritavt a Pin daro
diceretur Lavxibdynor. Dionysius quoq; ca Rygenerosissimam vocat,at ipfums,
expellit,re-, ïcitg; ad serpentes, maluit canem irritatam imi tari, quam
arborum naturales susurros sequi. Pro nunciada vero eft mafculo ac coftanti
tenore, no dimidiato, vt Itali, etGalli, quiper z,proferunt. Idem.n.sonus eftin
Misi,qui in Miffus:sed duplo maior: non cftigitur alia vis, sed
duplicata:distat enim no substantia, sed quantitate. Itaqueipfum x,Latinum male
pronuntiant, præsertim Itali in Flaminia, vt parum distet az. Quin iidem
pessimo consilio atque vsu adduntiņ pronunciationc, posts,in quoddesinat diet
io, et postx. AnT fempercodem fit fono. Acde C de literarum quidem potestatibus
hæc Quonia autê quæda funt controuerfæ, eas seorsum tra et arecommodius visum
est nobis. As primum quidem de t.Eius,vt diximus, fonus fit Vam appulla lingua
ad radices dentium quemsonum apudGræcos receptum est variare cum fequitur N, vt
ANTONINO 2. emollitur e nim atqueaccedit ad D, noftrum. Eius rei caufla eft,
quiafufpeditur pronuciatio in ipfon, ad pa latum, vt lingua non ita cito
demittaturad deti tes: ita potius D,quam T.exprimitur.Sicetiam no 2 tam plene
efferatur, quum lequituripfum, Al tus. Ergo quum non semper eodemsono vsuisit;
At ayon quæsitum eft, quum præcedit vocalem Ì, atque hanc alia fequitur
vocalis, an recte cõsuetudo te neat, vt aut Galliper integrum libilum, aut
Itali per dimidiatum edant: vt in exemplis, Iustitia, bo Amicitia. Igitur
quimutari contendunt,nitun tur consuetudine, ac præterea Grammatico rum
quorundam autoritate, qui Litium, et vi tium, obliquos a Lite, et vite,
finefibilo iubent pronunciari, vt a rectis duobus Vitius, et Li. cium
differant. Vtuntur præterea argumento de Græcis fumpto: Nam fiillini, suum in
8, fo ni fleatunt polt m: fi apud cofdem r, esttransa aliud formatur: li
denique t,ipsum apud Græcoś poft Nfonum mutata poterit et hic mutare. Poterant
etiam fubtilius addere: fic, et Ć, crassius ante A, 0, v: exilius ante e, et 1,
editur: eodem modo Con etiam t. Contra aliqui ita sentiunt,vsum nunc minimi
esse et precii; et autoritatis, multaque 2 > mini 31 ud 4 ). 100 ! 4
minimeintegra haberi.M.quoque Tullium, cum vsui quidda dedit,id iccirco
fecisse, quoniã apud populum dicebat quem sibi attentum,non recla mantem
volebat: atquenihilominus sibi scien tia reseruaffe. Neque enim, quæ barbaries
admi fit,foueda: fed quæ omisit vindicada. Neque nuc extare vfum quempia nobis:
Barbaros enim om nes esse nos:atque,vtminimum dicant, peregrinos. Consuetudine,quæ
legem habeatreclaman tem,corruptelam effe,non confuetudinem.Non jü, negare fese
tenuiorem esse sonum ipfius T, ante 1,quam ante A, auto: sed eundem tamen
fonum. effe. Nunc vero nullam effe rationem, quare in fibilum transeat: neque
proba esse argumenta superiora. Consonantes enima sequenti vocali au mai nullas
mutari, fed a præcedentibus consonanti bus,aut a fequentibus ob sonorum
diffimilitudi nem.ficutilonicrassitie quæ in B, et P,fit,effici venjin M, mPombaur.
Græcos quoque habuiffe au tores linguæ noftræ nos, quinihileiusmodicom autto
menti fint: sed a Gotthis,Vandalis, Longobardis. inuectum sibilum illum.
Præterea pudere vehe menter debere illosquiquum alios veniuntop pugnatum, ipfi
vitiofa arma afferunt; quorum culpa conuincantur. Licium enim a ligando di et
um GcPomba Lictorem, nõ iisdem literis quibus obliqui huius vocis,
Lis,scribuntur,scribi.Ratio nem autem huius prauitatis esse, propterea quod
Barbari omni in pronunciatione multum po nunt spiritus,ita vt pleraque
insibilum degenen rent necessario. Quoerrore ctiam ipfum c,dixi mus ab ipfispronunciari.Hy
1 ma:: ) • 32 IvL. Cas. Scal. I. Cenice. De I, confonante. Consonantem 1,
semper in principio fimpli cem effe obferuarunt: in medio autem non femper
duplicem: nam in Periurus, simplex eft, in aliis autem multis pro duplici
accipitur: Maius, Pompeius. Adducunt argumentum ab antiqua scriptura,
pergeminum enim 11, scribebantur, Mailus, Pompeilus, quoru prius priorem
claudat fyllabam: quomodo etiamnuncquidam pronun ciant Lombardi: fic etiam, vt
supra di et um eft, claudit tertium casum relatiui Cui: alterum au tem sequens
fequentem inchoabat. Igiturnoso lum quumincipit ab eo fyllaba,vt dixere,confo
nanserit:sed etiam,quod omisere,quum termi nabit,esse possit. Quin etiam
fequenteconfona. te vtin pronomine Huic.neq; enim v. hic est co
fonans,afpiratur.ni.neque est diphthongus, et eft monofyllabum, atqueidem Iest,
quodpriusfuit in fecundo casu,Huius,sicut in Cuiest,quod erat in Cuius. Ad hanc
autem naturam non potuit v, aspirare, sed transiit in pleniorem, scilicetin B,
celebs. neque enim temere a cælo et vita dedu xitCaius,minimemeritushoc,qui a
Quintiliano notaretur:sed sibilussequensincausa fuit:quem admodum e cotrario in
eiussonum aliquemmu tatumeftipsum B, Aufero,Abstuli.Proprium au Filipotem eft
ipfius Inconfonantis, in pristinam vocalis care formam redigi: etaugere numerum
fyllabarum. Hocque communehabet cum v,consonante,vt diximus. Martialis verfus eft:
sed Tum rum. Sed norunt cuiseruient. Leones. Ftin obfcæno farmine ita pofitü
eft: fed detestadu nõ meruitre citari.In Virgiliano auteversu etiã omissum est,
Tityrepascentes a fluminereice tapellas. Fecit enim verbum illud Tribachum
extrita A, quæ fueritin origine simplici, lacio. qua sublata, neceffario in
veterem vocalis naturam reftitu tum fuit I, quo exemplo etiam in Bilugo, et
Quadrisugo,idem euenit. Non recte igitur an- Rajce tiqui,cum Reilce,ita legunt,
vt primam cor - quab. pripiant, ftatuuntque i, simplicem ibi consonan tem effe:
redarguutur enim quum aliorum, tum ciufdem poetæ autoritatee tertio Georgicon,
v rad bi producitur illa fyllaba:consonantis igitur ra com tione duplicis,nam
fuapte natura breuiseft: Rejcene maculis infufcet vellera pullis. die Inuenias
etiam, quumnatura media quasi quali dam sit inter consonantem, et
vocalem:legimus enim Stellio apud poetam bisyllabum, et apud Terentium Iniuria,
trisyllabum:item Oppressio, et Beneficio, quadrisyllabum, aliaque talia ple
taque,oppresso sono ipfius I, ficut etiam in voce illa Dies,facta monofyllaba.
Accidit autem hoc aliis quoq; vocalibus. Ea, Mea, Tua,Sua, mono fyllaba apud
eosdem comiços facere cogimur: et apud alios poetas: Unoeodemque tulit partu.
Et Propertium: Eofdemhabuit fecum, quibusest elata, capillosa I,indifferens eft
nunc consonans, nunc vocalis apud Comicos in aduerbio, lam. 7 tona cel us TlUSE
hodk OIL CA a di pleine ma VOC CAP. XIII. Affeettus finalisapoteftate. с Quo
ante 34 IYL. 1. Q Voniam vero literarum finis eft, constitues rediet
ioncs,iccirco secundum earum pote ftatem factum eft, vt certis
significationibus aliæ Sparemmaliis potius seruirent:in metu enim,ac doloreef
flamus:itaque A,A, dictum est,multum enim hi atum præstat:eadem decauffa,etiam
afpirationes interie et ionib.afcitæ funt, affe ettum enim notat, confertus
enim fpiritus editur. Ita consonantib. fietitia nomina suis quæque facta
sunt.Quid.n. mollius,quam vox ipla hoc significans:quid im peditius,quam
Bambalio, habes, et Baubare? paffiua voca quum protulit Lucretius, etiam plus
tumultusexcitauit, Baubantur.s, valde fer, uit ad spiritus elifionem: -
Salefaxa fonabant. R,autem rudiotem atquo asperiorem, vtMurmur. vtrunque coniun
et tum implent valde, Stridere. et magis cum terminant diâionem, Stridor. Aspiratæ
consonantes mul to acrius vrgent his adiunctæ, Fragor.quippe er tiam
molliffimam omnium literarum etiam ex asperant, orcio6os, Praw,za01@
{w.Cyseruit hæfi. tantiæ. T, timori, AT, AT. M, vafticati, Malum, Mons, Mirum.
etiam fonumipfum audias,quafi præsentem, in quibusdam vocibus,nízze. et apud.
Virgilium cuius diligentiam non affectatam, ac diuinum iudicium nemo est
affequutus omni um ynquampoetarum: percipies enim lignato rum operamillis
vocibus: --fonat i£ta fecuribus ilex.etillud quantumeft --tremitietibus area
puppis. Illa autem etiam cum naui dilabuntur. Labitur vnela vadis abies.- $ R 1
Tinni. 35 o Tinnitui fefe datn, Canere,Hinnire.Sed omnia exequi non eft
præfentisoperæ, nequein omni u bus hoc inuenias: fortuitæ enim multæ funt vo
ces;vtin yltimo libro est disputatum. Vitia potestatum allata vocalibus, aut
confonantibus. TOn solum id, quod recteatque ex officio fa ciundum
eft,cognoscere oportet,fed etiam quod prauum est cauere: ita in scientiis
quoque perfeette proficimus. Ergo postqua meras pote fates perscrutati sumus;
ipsa quoquevitia, quæ vitemus ex antiquoru obseruatione, fed moreno fro,hoc
est,Peripatetico,sunt declaranda.Depra queste uantur aut vocales, aut
consonantes singulæ,aut coniunctæ. Omneautem vitium fit autDefcctu, aut
Excessu, autMutatione.Mutatio duplex,aut i literarum, aut locorum. Ita fit
peccatum,aut in ubstantia, cum altera pro altera ponitur: aut in quantitate,cum
maior,minorve efficitur: autin i qualitate, cumsono suo defraudatur, detorque E
turq.in degenerē,aut peregrinū:autin loco, cum trasfertur,vt odayavor,
Ox'oryavov.Igitur cum alia spalia subditur,quod faciuntParisienses,comuni »
nomine, non proprio,Rusticitatem veteres Lati ni,Barbariem Græciappellarunt. In
quantitate autem error per excessum, Labdacismus: cum *** craffius ponitur, ýt
diximus, L Locus, pro Low e cus: fic Metacismus, cum m, mugiunt:fiçin voca
libus Platyasmus, quum hiatu vasto putantgraui tatem afferri actioni.Huius
eftgeneris etiã,lota cismus.cum ipsū I, exiliter maximeproferüt:atq; C2 21 ed
CO ita,vtetiam fupercilia collat: eftenim exceffus in Sono:ac quanquam exilitas
sit defectus,tameetiã defeetus capit incremetu. Sic cu alias cosonantes
aspirant,aut crassius edunt,dicitur Saouras, Cra tes,pro Grates: Bibo, pro
Viuo,aut etiam 'Fifo,, sic etproillo, Pipo. Contraria huic io xorysscum defectu
peccamus: fice,et o, exiliter nimis pro munciant quidam Germani,quum tamen 1,
ver fus et.deuoluant. Eftautem excessuset ille, quum addunt literarn,
quemadmodum E,addunt Hil pani,et Valconesipfis, fi coniunctum fir, Escri bere,
Esperare,Estare:vt vitarens overyuov; quod vitiuni est cum ipfum s,
craffisfimum, ac pene fibilantcs cdimus. Eftetiam in defectu,kond6Wocy id
eft,mutilatio, quum aliquid omittimus: quod Galli faciunt, qui multas literas
inculcant, vto riginem, vnde deprauatum eft verbum, repræ fentent: paucas autem
exprimunt. Contra est Battologia,quiet Battarismus, a Barto, qui Cy renas
condidit,hominelinguæ impeditioris.Ge minant enim aut initia, fic, Popons pro
Pons. aut fines, Paulala, pro Paula. hoc etiam dicitur jyros, et nouos ab
Echo.Vitium autem initio rum vocaturab Erafino Titubantia:commodius Hälitantiam
dicastu: hærent enim primæ fta tim consonanti: falso ab eodem rsauriouds.qua-,
imf litatisenim vitium eft tecunotu-,fiuc osaurouess cum cauts,non quimus recte
efferre:sicutnob. femper defuit linguaadipfius R, asperitatem. hi Latine Balbi
diet ifunt: quo vitio laborauit Ari ftoteles. Et Alcibiadcs qui R,in L,
detorquebat quanquain substantia poffis etia peccata dicere. X v. UN 10 =2 Sed
hi Balbi ab Erasmo male appellantur Blæsi. Eft.n. Blæsıtas vitium oris, ficut
et Xo11o5ouía: sed blæsidiftorquet literas,exoris tortura: xoirosopoz aute e
palato loquuntur aut e naribus. Brasoos au tēet wbos, funt vitia cruru
distortoru, valgiorum etvacciorum, vt apud Galenum videreelt. СА Ртт Vtrum
F,fimula, aniemiuoralis. Poftquam vidimus poteftatem,quæ eftforma dicare iarn
poterimus F, mutane sit, an semiuoca lis: sic enim Galenus quoque tlw
zeciarpriorem mol Toćnepyeżą dicit. Ac mutam quidem effe, veteres med at ficpote
contendunt: Principio,inquiunt,nome ! habet tantum semiuocalis, at noinen non
mutat fubftantiam: Item si esset semiuocalis, di ettionem 2.. į quampiam
clauderet, at nullam claudit: Præte-, 1:a reanullasemiuocalis ante I, aut R, in
eadem fyl- **** laba ponipoteft,fed f,ponitur. Quarto,nulla se - t miuocalis
ante L, aut R, pofita communem facit fyllabam,at F,facit.Ad hæc, Græcisidem
esto, 95 nobis F: fed o apud illosmuta est:igitur et apud nos F. Sextum
argumentum, præteritorum ini tia finesque non geminari nisi a muta incipiant:
quare cum Fallo geminetfic, Fefelli, non erit femiuocalis. Poftremo F, pro p,
et aspiratione acy cipitur,vt olim Phuga, Phama:at P,mutaeft: igi tur et F.
Hæcargumenta fepte numero, vtqualia sint videamus,meinoria eft repetendum, quod
fupra diet umeft:Murasnon inde appellatas, quod pa-ssou rum sonarent,fed quod
nihilnullo: cnim conatuta? ad 11 باز C3 38 IVL. I. adduciqueas, vt B, nulla
addita vocali proferas. Neque quod pro ratione adducunt,ratio est:Mu » liere
informediettã,pro deformi: est. n. in eo voca bulo, Forma,çquiuoca vox: Nam et
prospecicac cipitur, et procerta partium proportione, quib. figura constituitur
perfe et ior. Hanc igitur negat præpofitio non illa. Sic formosu, a formato
aliud eit:fic locutus eit Euripides: 1īpötov refieidas dēžiov Tupevvidos,
Açmutæ nomen penitusvocem tollit, Græcoru fane imitatione, qui d Owe,nõlvoQwva
dixere: nό κακόφωνα, non μικρόφωνα, quonia nul lam fibi retinerent vocem. Ea
enim funt natura, yt magna pars, nisi clausis labiis, aur dentibus, aut vtrinque
conformentur, vox edi nequeat: Idque declarat Mato quoque in Theæteto: αι
βήτα,inquit, 'τε Φωνη,δεψάφος, επ των πλείσων stani hysoig eiw. Semiuocales
autem fclo eduntur fpiri metodentu:adducta nanque ad palatum,vti diximus,lin
gua solo fpiritu pronuciatur:tremula,atquevi brata paulo inferius, R: si
spiritus ad nares af cendat introrsum, vt idem vult Plato in Craty lo, n,
pronūciatur: fimplici mugitu editurm: i. psum vero fibilum, fatis
constat,nullius ope vo calis indigere', quare factum est,vt etiam afpira tionis
loco poneretur, leos, sedes. Ex quibus in fumma illud constat, spiritu pene
solo enunciari semiuocales, ficut vocales fane solo, a quibus hoc illæ
differant: quoniam vocales hiatu simplici, ferniuocales operosiuscula
efflatione pronun çiențur, mutę nulla.Hanc autem horum nominū aptissimam
cauffam,noftręscientię magistra au toritas Græcorum ostcdit, Nasi propterea
essent semiuocales, quodincipiant a vocalibus: pfe et o cum a vocalibus non
incipiant apud Græcosea rum nomina, non erut semiuocales. Igitur Lati ni
priscicum animaduerterent P,quiděnullu pe nitus habere fonu, nifi vocalis
addatur:addita ve ro aspiratione,haberevel maximum, intellexere:
quippeinferioribus dentibus ad labia leniter ap: plicatis exiens spiritus,
libilum imitatus, ipsius F, imaginereddidit:quo fa et um eft, yt propter:oni
sui facilitate, obiret plerunque munera, quæipli s,debebantur. Id quod ite
agnofcimus in semiuo calibus: Siquidē paspiratione quoq.positüfuit,,, vt
Felena, pro Helena. Atque iccirco etiam, etx, a Græcis semiuocalium in numerü
suntre latæ: quarum tamen tenues essent mutæ. Aspira tio enim tenuium literarum
naturam animarat ita, vt nullius indigensadiumentisonusappofi tusin aliam
speciem ad sese traheret. Eft enim aspiratio quali vocalis quædam, aut etiam vo
calium anima ipfa: quare mutæ appofita femisse consonantis illi reliquit,
alterum semissem fibi vindicauit, vnde et semiuocaliu nomē fit fecutu.
Soluuntur ex his argumenta: Ac primum ato afferuntnon debere vim a nomine
mutari: tantu ”, abest,vt, negemus vt affeuerem antiquos ppen sa huiusliteræ
potestate, summostudio nomen, quod a Græcis acceperant,inuertisse:ídque indi
diffe fecudum vim,quä сompertam habuere. Ne que talem putaffe, quia
ficappellaretur: sed no. men impofitum propterea,quod talis effet, Aduerfus
secundu argumentu:negamus necef Atz fe efle,omnia nomina omnib.claudi
lemiuocalib, Neque vero re ette fic cosargumetari: Cæteræfe miuocales claudunt
nomina:igitur fi F, est semi uocalis,clandereitem debet. Neque.n. dictiones
efficiunt vt litcræ semiuocaliu aut mutarum natu ra foitiantur: fcd literæ
faciuntvtdictiones fint: partes cnim totius caufla funt. Neque fiquali tcra non
claudat continuo no fit femiuocalis.Sed caregula constituta eft abijs, qui hanc
mutam pu tab-it effe. Præterea hoc eodem argumento a mutis excludam: Cæterarum
pleræque mutæ claudunt Lac, Adad, Volup,Caput:at F non clau dit: non estigitur
muta. Quid, quod priscorum testimonia aduerfantur neganţibus nomina clau di
ipfok.nam vt omitta eos ysosesseAf pae præ politione: ipfius sane literæ nomen
suo libifono F, claufere,etia cotra quam a Gręcis acccpiffent, * Tertia ratio
negabat vllam semiuocalem ante I aut r in eadem fyllaba ponipolle. At hoc tibi
negamus nos: quis enim hoc fibi persuasit, nifi quimutam putaret F?
petitigitur,quod proba re debet. Sed et hoc falsum est: scmiuocales enim
Græcianteposucre Sadw zepce, Quartü argumentu quo aiunt,Nulla femiuo #calem
antelet R pofitam cfficere syllabam com * muneridiculum est.Si nanquefuperius
argume tuin verum eft,hoc erit falsum: hoc.n.abilio tolli tur, nam et
ibinegabant,nunchicponunt. Quo eniin modo communem fyllabam efficit, quæ ne
syllabam quidem facit? Quid? li femiyocalis fa çilitas in cauffa eft,vtmutæ
postposita, mora tain pofilla trahatur in fyllaba, vt etiam corripi por tiç, in
qua tamen muta sit; quanto aptius atque comin commodius id inter duas
semiuocales fiat? Mu tarum enim rationeminimefiericonstat: liqui dem vbi duæ
funt mutæ,non id euenit, vtin ver bo, Tracto,quod natura sua dibrachum eft. Sed
v bi muta cumsemiuocali vtin verbo, Agrum. aut duæ feruiuocales, vt in verbo
ourvui. Quintam rationem, ex iis, quæ diximus,solu-,Asy tam
videmus:?,nanquesemiuocalis eit,immuta: ta ipsius P, per spiritum potestate.
Sicut etiam, etx, cum tamen T, et K, mutæ fint, vt diceba mus. Quoinstitutoinalias
quoque species eædē mutanturmutæ. Addito enim sibilo ipfis C, D, P, fiunt
semiuocales, præfertim cum fateantur ip: fius Y, quam ipforum Ps; esse sonum
faciliorem. Sexta obiectio seipsam damnat: nam sumpta regula hac, Non geminari
præterita, nisiid per 486 mutas fiat: cocludit per, Fefello,mytam esse F, cu
tamen inueniamus,Šteti,Spopondi,Scicidi, quæ incipiunt a semiuocali. Nequevero
ad id confu giendum eft, vts, nullam ibivim habere dica mus: liquidem eius
sibili tanta est vis, etiam ipsis in præteritis Græcis,a quibus hic fluxit
mos,at- p? que adeo in verborum initiis ita viget, vtiplam impediat
geminationem s« {wěscexd.Atlis,nul lum erat,vtique eo abiectogeminatio admiffa
fuisset. Sed quid agunt hi? nonne Momordi,ge minauit? quid enim aliud eftm, hic
dicere,mutæ vice fungi, vt aiuntipfi;quam dicerem, mutam non esse sed
semiuocalem? Quæ quia diruebat i sum canonem, ad mutæ functiones,atqucvices eos
miserrime compulit. Quaresi eis neges verű effeillud apotelesma,probandum erit
ea ratione: quia CS 42 Ivl. I. > quia non admittit femiuocales. At ego
contra, non folum Momordi, hoc obiiciam: fed illud ip fum etiam, Fefelli.
Igiturid, per quod probauit, maiore estin controuersia, quam hoc,quod quæ
rimus: vt omittamus Græcorum et prudentiam, etinstitutum, a quibus morem
noftrum induxi. mus, quiσε σηπε, dicunt, et λέλαπε, et μέμηνε, et vevu qe,
atque alia eiusmodi. puerile enim est abducere a geminandi poteftate
semiuocales, mutífque alperioribus attribuere: cum aspe riores literæ
prohibcant in quibusdam gemi nationem. AlyPoftrema pertinacia,vtcum quinta
cohæret, ita cum illa quoque foluitur spiritu mutatum, in F, etmutatam fpeciem,
argumento etiam ip se ordo eft coniun et arum in diet tionibus: quippe ipsum
r., ante senon patitur N: at F, patitur, ita vt etiam ipsum m, in fe mPomba,
Anfractus, erate nim AM, abuol. Ludicrum quiddam additum ne res quidem meretur,
vt diluamus: Audentenim fingere mo som dum nescio quem,vndeF,geminetur:scilicet
per albumutationem:vt Offendo.at semiuocales non per, mutationcm, fed fuapte
natura geminari, Olla, Flamma, Ennius, etalia. Quafi verointerfit po testatis
per mutationemne,an per naturam gemi netur: geminatur enim, quia eius natura
ita fert. Quali vero non cæteræ quoq.mutægeminentur: Obba, Acca, Reddo,
luppiter, Rettulit: qua fi vero ipsum quoque F, non idem patiatur, Offa. Quafi
vero omnibus femiuocalibus idem eueniat ylu: Non enim duplicibus, Quali vero E
half somewea la veteres vllam consonantem geminarint. Hoc enim negat cum
Feftus, tum Varro: et ta men eo quoque tempore et mutæ erant, et fe miuocales. Viram,,
an, H, fit longior, O Vanquam 2, et, Græcæ funt:tamen quią nostratium dietionum
aliquæ ab illis profe ettæ, harum vocalium femina retinent: feftiua, nobis
quæstio tractanda eft, vtra scilicet longior 9 fit. Duas fententias
constituamus: alteram ab origine, philofophice: alteram ab focietate,
mathematice. Aborigine, fic: Quæ proportion | materiæ ad alterius proportionem,
eadem et compositiad compositum: sed e, est materia ip * fush: et o, ipfius i:
ergo fi o, est longius quam E, ita, quamH. Quod autem o, lit longius, quam e,
probantper regulam: Quinti cafus fyl.: labam vltimam aut eandem effe cum
poftrema - Reetti fyllaba, aut minorem. Igitur wioge, cum non siteadem cum
nogos, minor erit. Ratioau, tem Mathematicaestcontra hanc,a proportio- oefening
I ne societatis: Quæ est proportio totiusad to en tum, eadem est partium ad
partes: fi æqualia in æqualibusdemas, quæremanent, sunt inæqua [ lia:Ergo cum
ei, diphthongus sit longior quam 01: exempta vtrobiques, communi vocali; erit:
quod remanet E,longiusquamo. Quod autem F1, sit longior quam oIs patet
ex'accentu. Nam.p fine polyra Er, nunquam aut antepenultima acuetur,
autpenultimacircumfleet etur:at fi o 1, sitin fine,vtrunque fiet. oixos,
Pinorogol, Afferre etiam illud poffumus,E, ante L, apud Homerum
produetumaliquando,uenwserwera. O autem nu quam: repugnat enim naturæ eius
productio. Sole Hæcargumenta etsi sunt magis exercitatoria, quam
neceffaria:tamen etiam pertinent ad veri tatem:neque enim illud Quintiliani
recipiendu eft: Grammatico expedire etiam fi quædam ne sciat. Nam quem tandem
ille fingite quadriuio extra encyclopædian? Dicamusigitur, e, esse breuius,
quam o,plus enimtemporisin hac poni zur proferenda.Diphthogorum autem obie et
tio illa nulla eft. Nemoenim ignorat, A, esse longius, 1 quam o, ettamen idem
eucnit ipsi a i,quodipfi * 01, eucnire dicebant, pofita enim in fineacuitur
antepenultima. Præterea eidem o 1, non id con tingit femper:non enim Aduerbiis,
non Optati uis, cikol, a novo.Et in fecundo libro vsus is repro batus eft: nam
si iccirco non acuitur antepenulti ma, cum poftremaeft longa, quia refolui
potest: igitur accentus acutus in quartam a fine recipere tur: quod eft
absurdum: fic, turlygues participio fæminino in quarto cafu: idem monstrum se
quetur etiam si penultima longa resoluatur, fic 3uTlx00, Nec tamen ad id
refpexere. Vfustamen Atticorum, fiaccentu rem metiare, huic fenten tiæ
aduerfatur, et fauet priori: dicunt enim, μενέλεως. Locorum affe et u a
poteftatibus inueftigantur. Hacferefunt poteftates cuiusque fonifin gulares: ex
quibus fi quid præterea in me dium afferatur, pofsit tolli controversia. Neque
enim optimi artificis est (vt ait Galenus) omnia persequi. Nunc fecundum loca
sedes cuiquede- Loui bitas videamus.estenim potestatispars, comitem aut vicinam
literam aut pati,aut nonpati.Igitur efftemed 7 literx'aut funt in dictionibus,
aut no funt. Ti sunt, patiuntur mutationem aut in substantia, autin loco. In
substantia bifariam: nanque autabolen tur a principio,amedio,a fine.Sic nomina
triain uenta sunt, Aphæresis,Latineablatio:Syncope, Latine concilio:Apocope,
Latine abscisso.Aut. transmutaturin aliam,Græce,uel Gonne Patiun 1. turin loco.
Latinetranslatio, Græce MetJ8075, transpositio. Si non funt,addunt,
autprincipiis, Desaters, Latine appolitio: autmediis,ervers Latine
interpositio:autfini, Græci dixerunt hac abgerywoles, productionem. Hæc funt
genera. Species autem, fic:Nartque aut sunteiusdem no tæ, et
poteftatis,autdiuerfæ. Item a numero:vna, aut plures, Affectus autem non
omnibus iidem, aut æquales:neque enim eiusdem generis conso aans aut
principiis,aut finibus additur:nequedu ptices geminantur, vt nunc
vsurpantItali,vt ex primant vitia linguæ degeneris a Latina:ponunt enim
duplexzz. Acciduntautem hæc; aut ex v- Aca " fu:vt quafe, quafi: aut ex
arte, et hocautex infle xione:vt, ago,egi:aut ex deductionc, et hîc bifa
siam:naaut a peregrina,vtPatroclus, margoxiosa Auo, 31 Space kus ) 46 IvL. Cæs.
SCAL·Io Auo, Punicum, vnde noftrum, Aue: Marathi Hebræum, vnde Mare, noftrum:
aut a Lati nos et hincdupliciter: autenim simplex fluxits vt, a Titulo,
Tutus:non, vt aitVarro, e con trario:nam Titulus, age' the rule, vnde et tiey.
aut compositum,a luisparţibus,vtabigo. Dequi bus suo quoqueordine, agendum est.
Sed quia transpositio facilior est, ab ipfa;cumvenią, inci piamus: nihil enim
nocet. Transpositio. Ranspofitione fane interest ytrum intelli pages gas,
relatas in prioressedesliteras, an dila tas in posteriores. Nam fi dicas
Fretum, quafi Fertum, a Feruendo: vtrum intelligas R, ante latum ipfi E,an E,
postpositum ipfi r? Sed omit tamus exemplum: fortaffe enim fuit Feruetum, atque
inde nulla transpositione, sed extritio ne, fa et um Fretum. In rem ipfam
intenda iusvocalisne,an confonans transponatur. Re etius fane iudicemus,
consonantem, non voca lem transferri. Differuntur enim difficilia: difs
ficultas autem in consonantibus:quare qui fta tim non poffent,moxin proximam
sedem tran ftulere. Eft etiam a Græcis exemplum, opa jev dicimus, vnde Qayavov.
quare cum cac gyavov dicatur,consonans, non vocalis tranflata videtur, Abolitio, Ablatio, Concifio, Abscisso.
Propofitio, Interpo fitio; Appofitia Bolitie est, cumtollitur litera.genushoc
#beli A ho prius tractandafunt, quam Præpositio, Interpolitio, Appofitio:
propterea quod tollimusquod Oro eft: at quod est, prius eft, quam quod non
eft:est enim habitus prius priuatione. Si autem ita con. sideres,iam ablatas
effe: tuncecotrario et Synco pametalias primo tractesloco.Nesitigiturfrau di,
fiue quali ablatas, siue quasi auferendas con templemur. Additur ergo diuersa
in principio:Aals Edurus,apud poetam, pro Durus." In medio, Mederga. quæ
cuitandi hiatus cauffa inuenta V eft. maximeque pertinet ad V, vocalem: Alcu ·
mena, Aesculapius, Hercules. I, quoque eius 1 vsus sit particeps: Nauita,
Nautris, Nauta enim C primum fuit. et, C, consonans, Sicubi, Combu ro. et
'aspiratio vehemeris: Mihi, Prehendo. et # ante medium, poft principium:
Loumen,,P Lumen.et in fine: vt, Comperior,pro Comperio. Additurautem fimilis, A
HI AM, in principio:in medio, Reddo: in fine Nausicaa. Quod autem ve teres
adducunt pro exemplo ex Horatio: Reducet in sedem vice. itemex Terent.
Phormione, Sectari in ludum:ducere, acreducere. hoc est, librariorum manum, non
autoris fidem implorare, neque crim in his iambicis velin illo dimetro; yel j hoc
tetrametrozneceffaria spodco fedes eft. Sed e Lucretii libro primo poterad
afferre: Redducit Venus: aut redductum Dadala tellus. Quemadmodum autem s s,etR
R, et L L, ge minata debeantur superlatiuis, suo loco dictum est: contra quam
recentiores deprauarunt. Con iner tra autem tolliturab initiis: vt Natus. fuit
enim Gnatus, Generor. De medio: vt, Periculum.de loco ante medium qui
est:Pratum,quod fuit Pa ratu. Hæc a Nigidio Figulo Intercilio diet ta fuit
poteft etiam Concisio dici, vt, fermo breuis, qu vocabitur concisus. Rationc
carminis interdum fa et um eft,vtapud Homerum, qums, pro aique πος. etαγροτητα,
pro ανδρότητα. etapud Oppiani, μόλυβος, pro μόλυβδος. Ιnterdum ob tedium pro
lixæ diet ionis: Periculum. Aliquando ob difficul tatem:vt, eonos, quodaliis
eftesãos.Alias ob vtru que:Bruma,ßpoczurua. Aufertur a fine: vt in ple risque
verbis, etlusit Ausonius: Qui reminisco putatse dicere poffe Latinė: Hic,vbi
Co, fcriptüeft,faceret Corficorhaberet. Sed etin vsu communi a fiiciebantM, et
appella batxantar, extritionem. Items, Multi modis. Sed in scribendo. nanque
aiunt M Catonem fic fcripfiffe: Die hanc,pro Diem. Pindarus poeta non folum
eligit, s, fedetiam eiecit exulem: cum poematium condidit, in quo nullus penitus
fi bilus reperiebatur. Mutatio in communi. Vtatio est parte incolumi vel manifefta,
10 qui* M ptioque extranei: neque enim mutaretur fine fymbolo. Appello nunc
symbolum, quod philo fophi, communem quandam rem anatura colla tam. Quanqua
enim elementum indiuiĝbile eft: tamen quia fonos quofdam latentes inter fe affi
nes habent:iccirco ea foni parte incolumi, altera inducta eft. Ac manifesta
quidem eftin duplici- nani bus. Etenim, 2, cum fit exs, et D, in Medentio,D,
fila remanfit: fibilus abiit hæcmutatio per ablatio. nem, non per
transmutationem facta est. At ve riorin verbo Plautino,Siciliffo,s, remanet:
Din alterum s, abit.osenicacia Occulta autemia Cari circon - santra, ex
Cassandra.communis nanquesonuseft quidam D, T. neque differunt,nisi mollitie
qua dam,autexilitate. Alia unutario, ex infle et endi Ja fleiri modo, haud ita
vera eft. Cum mutantur ea, quæ habent inter se cognationem, aut genericam: vt
vocalis in vocalem, consonantisin consonan tem:aut quæ secundum fpeciem fit:
vt,certa vo calis in certam. At participium aetiuum præsen tis temporis a
præterito perfeet o cum deduci mus: duas diuerfas consonantes recipi,vocalem
que transmutari conftat. Mutatio,qua fit ex consuetudine. Vocales. G.Enerica
mutatio hæc,atquehuiusmodi eft: cætcras nunc fecundum fpecies exequa-, mur: ac
primum cam, quæex vlufacta est: cer tissimis enim fonis cognationem
oftenderunt: nam quod veteribus fuit, Magefter,Amecus,Me- 1 derua, Quase
Misc.Sibe Here:puncper1,Magi D fter,; so Ivl. I ster, et reliqua. Sic
olim Leparenfes, postea Li zparenses, autor Feftus. Contra 1, ponebant,vbi
nose:Niapud Plautum,et Vergilium,quodnos Ne. et E,prov:Auger,nosAugur: illi
Hemona, nos Humana. et pro o,illicompes,nosComjos: Eolummore,vttoties diximus:qui
Sortu, quod Attici, isívtz. Siceriam Hilus, proHolus.et He Pmone,pro Homine.
Vbi etiam o, pro i, quo niain Homonem, dicebant: NuncHomincm. € etiam E, quod
nos, A, Cato enim Dicem, Fa o ciem: quæ poft illum Dicam, Faciam. Item o, in
A,vt iam oftendimus. Hemona, pro Humana Et pro e, Amplođi, pro Amplecti: nam
eiuf dem fontis eft texa, et wazr. Sed etiam in a liis. Voftris, Vorti,nunc
Vestris,Verti: vt primus omnium Africanus emolliuit: nam quod erat Vortex, et
Vorfus: ipse Vertex, et Versus, ma luit. Sic etiam in 1, Olli, nunc illi. Item
quod Isthuc, nos Isthoc. contra il li Voltis, nos Vultis. illi e contrario
Fulguri bus, vt apud Lucretium, nos Fulgoribus, Cun cha, Gungrum, Fretu, Lauru,
Huminem, Fruns, Acheruns: nos hæc omnia per o. Dev, et 1, fatis fupra di etum
est: aiunt enim €. Cæ farem primum omnium Optimum, et Maxi mum, quod erat apud
priscosOptumum Maxu mum pronunciaffe. o, Thuscos, Vmbrosque
caruiffe,memoriæproditum est. Quarequi Epi fulam, et Adulescentesmaluntdicere,
Vmbros fese, non Romanos profitentur. Nam contra Romani Polchrum, etHercolem,
etDauom, et Scruom,protulere. Ex diphthongis autem, illi oe, nos v, Moeri, o
aosMuri. adhuc antiquitatis vestigia remanent in Mænia, pofteritatis autem in
Munus. origo autem erat ab or: uchege, rata fcilicet cuiusque mouletto civis
pars. Apud eosdem Æ, integramanfit,quam nos ini, mutauimus: Exquære, apud
Plautuma nos Exquire. Av, in o, ete contrario: Claudius, AV Clodius:Aula,
Qila:Plostrum, Plaustrum. Mutatio Consonantium ess confuetudine."
Onsonantes autem veterum fic mutauitp. fus: posuiteoim b, prod, Duonum, Bow 3 {
num: Duellum, Bellum. quod etin Græcis no I tauimus, dis, Bis. et eandem,pro
f:illi AF,nos AB: (illi Sifilum, nos Sibilum. Sicut e contrario, illi Bruges,
nos Fruges. 1 D.posuimuspro R, illi Aruena, nos Aduena: illi s Aruocati,nos
Aduocati. et eandem pros:illi Af uerfa,nosadversa. Fypofuimus pro PH,Fama,
quodfuit Phama. * et Fuga, quad fuit,Phuga. 6, posuimuspro R, Argerilli, nos
Agger. il- G. li Argrego, nos Aggrego. Itali die Arger
dicunt.curiosenimisVictorinus, vt diximus, Anger:sicut contra, Agchora,non An
M,posuimuspro s.Committere,quod illiCofam. mittere. R, posuimus prod, Meridies,
olim Medidies..R D 2 quia quoque ho chora. $ IvL. CAS SCAL. L quia uteo, et
uloor, et mcdium, cognata crant. Elifimus, Carmena, Camena. et candem pros
Odor, Vapor,atque eiusmodi: olim Odos. Sed et abillis Passes,di ettum fuit:
quod nos Passer. Vul gatum quoqueillud eft,Valesius,Fufius:nos Va ferius. Item
illi Carmena, quod poftea Carme na, quod retinuimus in carmine. ItemUfrcna,
posteri Orrena, Æolensium imitatione qui non dicunt opw egw; fed pow. S ś pofuimus
pro C.Suscepit, olim Succepit: sed ita puto, a veteri voce pofteros deduxisse,
quæ fuerit Sus: priscos autem a communi Sub. Et eandem pro aspirationc: nam
quod est no bis mufa, illis fuit Muha. Etpro M, Prorsus,quod eratProrsum. Etiam
elifimus: nam illi Calmil la,Celna,Dulmus: nos detraximus sibilum. In quibufdam
tamen manfit folus, Strenna: fed cum aliis, Stlites, Stlatum, pon manfit:
Litics, Latumi. T, posuimus prop. Adqueilli dixere, nosAt que. fane melior
priscorum ratio: nam et mollior fonus eft, etorigo seruatur. præpofitionis enim
vis adhuc manet, ut dicamus, Tu atque ego: et sit, Tu et ad teego. Sed voluere
discrimen effein ter præpofitionem, etconiun et ionem. Eiusdem modifuit,Sed:nam
e contrario olim erat, SeEt: difiungit enim, Tucurris,Se Et ego sedeo. Sepa
rata enim efta et io meaab operetuo. adversatur cnim vox illa,Se, ut seorsum,
fecurus, segrego, separo, et aliainnumera.Etiam Aud, non aut, et illi dixere,
et nos dicere deberemus: nam fi negatiux Haud, addita cft afpiratio differentia
cauffa: sane cætera elementa ad quærendum di fcrimen non funt mutanda. quin
fortasse potius vtrunque ficciore elemento scribendum fit, Aut, Haut. Græcum
enim fuit, art. Omnis autem difiun et io vim obtinet negationis. v,pofuimus,
pror, Seruus. at Æolice ficleri - V bebant, Serfus. Aspirationem supposuimus:
illi, Belena:noszl. Helena, detraxinus autemmultis, Charum scri bebant,nos
Carum,vndeet Carere:quoniam de ficiente annona carebant, atque ibitum illa cara
erat, Aiunt remanfiffe in tribus, Orchus, Pul cher, Lurcho. Orchus tota Græca
fuerat, et trans lata aspiratione a vocali ad consonantem špxos.vi. detur ex
epitaphio Næuii poetæ, aspirate preto, nunciatum: Poftquam est Orchio
traditusthefauro. Lurcho, contra analogiam afpiratum fuit: nam Mucco, a muccis:
et Bucco, a buccis: ita Lur co, a lura, ob ingluuiem: fed ratio significatio
ais potiorfuit, ob fonitum voratoris. Sic Quốir, aspirationem admißt. At quare
pulcher aspi retur, ratio declarat: fuitenim Græcum10 auxere, id est, fortis:
fic omnium do et iffimus poeta. --fatns Hercule pulchre. PulcherAuentinus.
Igitur Romani qui omnia ponerent in fortitu dine, cum demum bonum, et formosum
puta runt, qui effet fortis. Itaque fortis quoque pro pulchro positum eft apud
Plautum in Milite:AC que sine ratione: exemplo enim Græcorum fa, et um est, qui
nænor, æque et formofum, et bonum fignificarunt. at bonus fortis eft: malus au
tem,caxos,imbellis:vndeCaculæ,quiin numero militum non effent,age' to xaltats;
quod eft ce dere. χαζεο τυδείδη. lidem veteres multa inuertêre: Catamitum, pro
Ganymede: Melonem, pro Nilo:Lubedon tem, pro Laomedonte. etiam inueni vbi Sagun
tum pro Zacyntho dixerint: quæ nos omnia funditus euertimus,non solum elementa
immu tauimus. Mutatio per inflexionem. Vocales. Oteramus fine flagitio, non
exequi partem hancabinflexionibus:nequeenim certa niti. tur ratione, etpuri
Grammatici interest. Sed ne quidomitteremus,appofuimus: non tam vt om sia
comple etteremur, quam vt principia ipfa fta tueremus. ز A. Igitur A, breue in
longum mutatur, ve Re et us fert primæ declinationis, et sextus cafus: e
contrario longum in breue, Par, Paris. A, breue in, breue, Parco, Peperci: nam
parco eft, partem arceo: id eft, continco: Pars autem nagura corripitur, a nop
@, quoniam pars præ cedit totum: fumptum nomen a mefforibus, et
vindemiatoribus, et lignatoribus, et paftori bus. A, breue in e, longum, Facio,
Feci. A, lon gumine, longum, Fallo, Fefelli. A, longum in E, breue, Stas,
Steti. A, breue in 1, breue, Ca do, Cecidi. A, breue in 1, longum, Peccata,Pec
catis. A, longum ini, longum, liasexto fingu- i 1 " Iari 51 EN T 1 lari
primæ deducas sextum pluralem, Bona,Bo nis. E,breuein E, longum, Scro,Seui. e,
longum E in E, breue, Fides, Fidei. E, longum in a, bre ue, etlongum Anchises,
Anchifa, fexto casu, et Anchisa quinto. E, in 1, breue, Culinen,Culmi nis: ini,
longum, Eo, lui., breuein v, breue, • Pello,Pepuli. i breve in 1, longum,
Audio, Audiui.1,lon- g. gumin i, breue, Ainbire ambitus. I, breue in A, breue,
Siquis, Siqua, rectus fæmininus: in A, longum, Siqua,aduerbium. 1, longum in A,;
longum, Qui, Quas aduerbium: fuere enimo lim casus quarti, posteafacti
suntaduerbia. I,bre ue in e, breue, Rapio,Rapere:in E, productum, Turris,
Turres. 1 breuein v,breue, Rapio,Ra pui: fic enim volunt: nam nos putamus
fuiffe olim Rapiui. Sed sunt alia exempla, Alitis, ali tum: in v,longum,
Quis,Cuius. 1,longumin v, longum, Qui, Cuius. Sed et in o, quod etprius
fuit,Quoius. o, breue in longum, Pulmo, Pulmonis. O, 1 breue in A, longum, Amo,
Amaui: in Aj bre =; ue, Do, Dare: in E,produ ettum, et correptums Lego, Legere,
Legerunt: in i.correptum, Hon mo, Hominis: in 1, productum, Scindo, Scia di: in
v, correptum, Domo, Domui, in v, pro du ettum, Sequor, Sequutus. 0, productum
in v produetum, Erato, Eratus: in 1, breue agni 1 * 3 I tum. 7. V 2 v, breucin
longum, Domus, Domu.v, logum in v,breue, Penu, Penuris. Sicenim fcripfere pri D
4 mun, s 56 IvL. I. mum, quod nos Penoris. Sed eft et aliud exem plum, Cornu, Cornua.
v, breue in A, breue, Cor aum, Corna: in 1, correptum,Genus, Generis: in
1,longum, Bonus,Boni: in breuc, Caput, Ca pitis: in o,breue, Fenus, Fænoris: in
o,longum, “bonus”, “bono”. Mutatio Dephthongorum ex inflexione. FOOrtasse
etaliæ quædam sint mutationes, quæ addentur, fiquis inueniat:fed fi quæsunt,
non Epi multæ superlint. Diphthongi autem fic trans eunt: et in A, Quæ,
Quarum:in 1,longumCædo,, Cecidi,diphthonguscnimibi fuit, a Græco kai ww. Contra
ex 1,factumestoe,Incipio, Incæpi: quoniam fuit, Cæpio. Inuenias autem etiam
interiplas mutationes, fi Nigidium fequare,cui re ettuspluralis fuit, Bonei, ad
differentiam fe. cundicafus fingularis Boni.et fecit l'urreis quar tum
pluralem,neesset, Turris vnuse singulari bus. Quod fi ita debuit, debuit et
variari quar tus pluralis fic, Domous, ne esset vnus e singu faribus, Domus.
Sed nos præclara ingenia ad miramur, confuetudinem fequimur. Sic etiam
relatiuum variabis: re et us fingularis, Qui: ter tius cafus, Quoi: reetus
pluralis, Quei. Vete tes autem etiam tertium fimplicissimefcripfe re, Qui,non
Quoi. sic enim legimus illud Ver gilianum: --qui non rifere parentes: Nec
Deushíc mensa,Dea necdignata cubili est. eft enim pofitum pro, Quoi fiue Cui.
Scriptura autem communis etiam reco, fecit vt etfenfum inuerterent Grammatici,
et peffime Hiftoriam, aut fabulain, quam afferunt, adaptarent. Mutatioconfonantium
exinfexione. Aior adhuc reftat labor: sed fane sit cum venia,figratia carebit.
Boni enim artificis partes funt, quam paucissima possit, omittere.B, B lemi C,
D, G, M, N, Q,R, T,mutanturins. lubeo,lulli: Pard co, Parsi: Lædo,Læsi:Spargo
Spars: Premo.Pref fi:Pono,Pofui: Torqueo,Torsi:Vro, V ffi:Fle et o, Flexi.
Videretur autem etiam aspiratioin s,muti tari in ' I rabo, Traxi: sed
acutiusinfpicienti par lam erit, aspirationem in gutture mansisse, at que
induiffc proximi elementi pronunciatio nem, ipfius fcilicet c, additumque
potius effeli bilum, sicutin,Prefli,m, mutatum, libilum addi tum: in Torqueo
autem q.ablatum, atque in cæ teris alia. Contra,s,in D:Paris,Paridis.Item fic
di xere: quemadmodum B,ingeminum ss, Iubeo, luffi:ita et D, Cedo,Cefli: et
T,Concutio, Concus fi. Scd profe et o prudentius contemplabimur,
cosonantesillas in simplexs,mutatas, alterum au tem esse præteriti ipsius. Ita
G, mutatur in suam - comparem: vt, l'ingo, Pioxi:nam in ct, mutari quod
aiunt,falsumeft,in verbo, Agor, A ettus.Sed eadem proportione affinitatis in C,
mutata as fumit t: ficut faciebatin verbo Fingo, in præte rito assumebat s, in
supino T, Finxi, Fiet um. apparet id e contrario: namque c, in G, “grex’,
“gregis”. Quod autem ftatuunt, c, in v, coe - xemplo, Pasco, Paui, abie et o
fibile, puto E DS nou 58 I'vL. I. nonita effe: sed verbum vetus fuit now, quod
fi gnificauit et fequi, et assequi: vnde etiam satws: quafi iuwi, vt org: yes.
Æoles enim et decurta bant, et tollebant aspirationem:iidem vero adde bant onw,
indefactum eftnoftrum Pasco. Eiur dem originis fuit etToo', quoniam in pacato,
non in hoftico pascebant:vnde etiam Pax. Aby trouis autem præteritum illud
fluxit: neque e nim Palco, fuit primigenium: ficutincqueNo sco,Noui:fedqoxu,
fuitgrow,grão Sic ncque in T,mut:tur, vtputabant in verbo, Irascor,Iratus: Fuic
enim iralcitus,quod poftca deficum est: etab iecit fibilum, quiretcncuscft alio
verbo, Pascor, Partus. Non clt igiturs, quod mPombaur in T, vt prodidere:in
conanque verbo mansitincolume: a neque c,in t,mutatum: etenim fuit Pascitus. N,
abiicitur, Scindo, Scidi. neque mutatur in v, vt scripsere,in verbo
Sino,Siui.Aliquadoenim fuit, 27Siniu.Q in suagermanam, ScquorSecutus.Nec
trasitin x,vtvoluere,in Coquo,coxi:sed assumit K fibilum. NequeR,in v,
quodaiunt, in Sero, Seui: fuit enim Serui: quodextritu est,ad differentiam
eiusdem verbiin alio significatu: vix enim muta tam eam literam inuenias
inflectendo. Ats,mu. tatur in n.Sanguis,Sanguinis:quoniam fuit San-, guen. In
D, ycdiximus, Paris,Paridis. abiicitur ex duplici remanente altera
parte,Perdix, Perdicis. Trastin R,Flos, Floris:in T,Nepos,Nepotis.Sed non eft
verum, quod profitentur,in v.confonan temmutarisibilum eo exemplo, Bos,Bouis:
as fumpsit enim Æolicum digamma, vt in Oue, et Quo. Nequemutariia I, in verbo
Paciscor, Pa et tusy etus,vt sensere,jam colligi poteft ex iis, quæ fupra.
diximus, fed t, eft peculiaris ipsi participio, Ama tas, Doctus, Lectus,
Auditus, Latus: fedin Pos Poris, t,in x,tranfire, üidem male docuerunt, illor
exemplo,Fle et o, Flexi,fed in fibilu,vt fupra dixi mus: quod coaluit cumc, et
fccit duplice,xin vox confonatem æque male mutari arbitrantur,in ca
voceNix,Niuis: Verum vietw, et Denis, ogTo vína, vnde etiam nostrum
Neptunus:non,vtCi cero prodidit, a nando. Inde noftrum,Ninguo,et.. Ninguis in
reeto: et niuis,concisum: et aliud con cisum,Nix, mutato in c, etconcreto cum
fibi • loin x, in obliquis autem mansirprisca vox. Ne- H: quercetesen scre,
afpirationem in CT,transferri, Veho, Vecum: fed ita fuit,vt diximus. Habetaf
piratio aliquid fimile cum c: itaq; alicubi in Va fconia quod alii
Hodiedicunt,ipfi fua linguaGo die. Ergo Veho, facerer Vehfi, affumto libilo, vt
Ć Duco, Ducli.postea,Vecfi: et fupinomutatofi bilo in c, vt diximus, Veettum.
v,quoqueabiici v notauere. Citant Solinum in colle et aneis: quali vero is fit
antor veteris Latinitatis: eius verba · funt: Tatius hominem exiit,quasi vero
apud pro bariffinum quenque Kedilt, Exilt, Adilt, Pre-. " terilt,
desideretur. et fortaffe apud Solinu Exuit, 1 legendum est. Mutatur quoque in
feipfam, rece į pra vocalis pristina natura: et econtrario, Gau deo, Gauiius:
et Persoluiffe apud Tibullum:quo niam Soluo, fuit örovava. Mollescit vero adeo,
vt ctiam abeat, vt apud Catullum eundem, Nonita me dini, vera gemunt.iuerint,pro
Iuuc rint. quemadmodum etiam in libro de Camicis s dimensionibus obseruauimus 1
1 Pres IvL.Proprium trium liquidarum L,R, N,C, T,non Ligmamutari in quibusdam
nominibus:Sal,Salis: Ci cur, cicuris: Tita, Titanis:Halec,Halecis:Caput,
LR.Capitis. Proprium et l, et Raffumere fibi alte c ram:Mel,Mellis,Far, Farris.
Ipfius autem c, assu mr.sme etiam t: vt,Lac,Laettis: nisi lita reeto pri
sco:dicebant enim Lađe, a Græco, amputatis duabus litcris, ranentos.
Obfervarunt etiam id, EDO 1.,2,5,x,in præteritisnon mutari:Caelo,Caclaui:
Stupeo, Stupui:Laffo,Laffaui: Laxo Laxavi. Sed his adderentetiam R, Torquco,
Torli.et c, Dico, Dixi:coaluitenim,non autem mutatum est. et P, Scalpo,Scalpfi:
pam si duplicis literæ figuramha beremus in hoc, vt habuimus in Dixi, poluifle
Bmus.B autem non mansit semper, ledig compa rem suam mutatum
eft:Scribo,Scripfi. X Proprium x, quod mutatumfuerit in compo fitione in
declinatione elidi: Effero, Elatus:quo niam verbum quoquemutatum eft. 1 costs »
Q que Mutasio in deductis Gracis. Vocales. VæaGræcisdeducuntur, in iisita fiunt
vo calium mutationes: Breues autlongæin en æquales:aut in inæquales:contra
natura commu nes in illas. Igitur longæ Græcæ in longas no ftras, woy,
Quum:breues in breues švos, onus:bre ues in longas,me,ab eo quod fuit ue.longæin
bre ues,opoinaAxov, orichalcum: rgra crepida:origo FERA: in natura comunes,
qul.Corripitur ma ximæ parti poetarum: producitur Statio,Gatul lo, Cornelio
Gallo.Item verba dyw. Communes natura in natura comunes: vt, Pharfalia,Sicania.
Eædem in breues perpetuo, Humus, ab i'w.vua' et in longas perpetuo,Vdus,ab
eadem origine.sic Whou,sputuin. Idque non solum ob vsum,fedet iam obpartes,
nanq; positioneinterdum fithoc: vt co a qua In, natura breuis,aliquando fit
pofi tione longa: vt Indigena. aliquando fit natura, propter naturam pofitæ
consonantis: vt, Infelix, infolens:abs, aut F,incipientibusquum coniun gitur.
Hæfuntin communi præceptiones:sigilla tim autem fic recenfeas. Ain A
mutatur,κάλαθος Calathus: in 1, κανατρον, Α caniftrum: in o, fi Copo,azarnos
venit:in v,9şi au6ss, Triumphus: payyanilev,stragulare: xpære many,
Crapula:non,vtdixere, quod caput graua ret.Quodautem aiunt a, in y, apud Græcos
verti co exemplo,savuno,qualionos naufw, falli sunt, eftenimότι όλων πόδας,
3λιτρις, montis nomenob altitudinem: quem quum afcenderent, interro gati
quoirent,dicebat,in cælum,vndecæloco municata yox, A, etiam sibi assumit I.
more Æo lico, φαισιν, φασίν. Ιta αίσκηπιός,nos Efculapium. E,in e,breue,
feos,Deus:in longum,ido Sedes: et per abscissionem.dew,De:fic enun dicunr
cixos, "Subir deivtov: nos duodeuiginti. In 1,ryyu, Tin go: In o, et uw,
Vomo: in v,dvos, Vnus.Abiicitur #polyw, Rudo: fed puto Erudo, fuiffe fimplex
non compositum. H, vt diximus in sui dimidium.xennis,Crepida: H news,Herus.In
se totam,tlwenom,Penelope.Nun quam autem h, in I, transit, vt barbari
invertere,. atq; etiam corripuerein Paracletus, Eleeson, E leemo 1 IvL. I. 1
leemofyna,Iordanes.Nequequod poffent suspi cari,Vestis ab iis, fed ab Vae, et
vuota, Græca origine,Latina terminatione. Male corripuitlu uenalis in Satyra
xun CALPE: neque enim fuit vt zpeurs. In Æ, diphthongum nonmutatur Ħ,vt
dixcre,fedin E, illo exemplo, ozler, SCENA: si enim dipthongum quispiam
comminiscatur, id nulla faciat ratione. fed in A, frequens eius tranfirus est
apud Dorienses, et nos folcnsium imitatores, xiboensn's, Citharista. 1, in A,
9.ygoeves, Tango:in e, cx diphthongo, suivr', Pæna: etiam folum:? apriva,
Cancer, in I, longū,ai liuidus, Qi G, Filius: etvoce vsitata malit, omnix,
Homilia:falso enim transmutandu iudicarunt.fic notes,Litus,quod effet terra
tenuis: etnoftrum mitto, au tov wizer, quoniã qui mit tit elongat. Abiicitur,
quaesia, Norma,emedio: fic etiam a fine, ei, Per. Additur rau't, Nauita. ' o,
in feipfam breue ci,ouis:in logam, G-,So las:in,decreov.Aratrum, ve voluere:
fed commo dius a sup.Aratū:ficut Rutrūaruendo.neq;bonu cstexemplum, ab
iļus,acus:fed acus, ab a žueor, ta pro arista excuffa, Acus, Aceris proprie,
quam metaphorice pro instrumento sutorio. In e, joriy Genu, Æolum more, qui
idrs, quod aliiodx.fic Euander, l'avdeo: In 1934620,Imber.in vibles, Iuba:
rozpoxa, Patroclus:.ivaseus, Vlyffes.Sicin principio,medio,fine.In vlongum,
Boords, Bru tus. In Avdiphthongum, opeixa Axor,Aurichalcũ. Abiicitur ab
initiis, odi's,Dens. A fine,Si,AB. Y Y,in v, rusplevos, Turrhenus:
Truppos,Purrus: in Avend, Illurius: duw,duo: duw, verbũ, Dumus, tam brevem,
quam longum cthis exõplis.In o,cyniex, Anchora: Duici, Folium.In E,
zAwue's,Aicedo.in 2,brcue, 270,vimen,vnde no?rum Ligae,non a legendo, vt
Varro.In a, muo,Canis. s, in fe totam,woy, Quum, inuidimidium.de fyc.;Ego. In
vlongum,oue, Fur: non ve Varosa Furuo. In Ave, Æolicum, scommunc, Aurs, Latinc.
In v,brcucije Herus.In e, fparu, F12 tcr: fic enimmutaruntXolcs,quod erat Dp,
integrum, Deizturpinon autem plagiariorum fal fæ etymologiæ. Dithehongorum
mutationes. A Gracis. AL Æ,cencia ', Ænças.In A, longu, repertuan,Cra At
pula,extritor,more Æolensium:ficute contrario quoque, vt diximus. In e,
breue,faire,venio.Im perite nanque verbum hocita funtinterpretati, quasi versus
nos eo. Habes deductionis noftræ exemplum, in Fenestra,adTo Calvetar. autmu
tata,aut abscissa, faltem ab e povov. Non licin Ple gethonte, et Phaethonte.
nequc enim ab GeoJo's, diphthongum traxere, fed agese feer, vt ex Cra tylo
Platonis, et Ariftotelein primodecoelo, et M. Tullii multis locis diximus in
libris de infom niis: neque diphthongum illam redigiad sonum breuem: quippe
dai,dixere: sicut etiam 9: etgea, Gcut gaia. Abiccta a, remanet i longum, quo
niam Æolenfium more facta est diphthongus.er: a Xands,Achiuus:Æoles enim aze,
vndeetiam fine digamma inuenias Acheus.quod ego non per diphthongum scripferim
Latinis Ar, fed per, E,exdiphthongo Æolensium, vt Lyceum, que xtos:cos caim
maximefequimur. AY, 64 IvL. 1. A ' Ay, manet in Taurus, turīgo:mutaturin v.cau.
pec,Surus:qucm et lacertum piscem vocant. Abii citur, haipos, Parum: nisi a
parteducatur: nam Pauluin, inde venit omning. E1 E I, ante consonantem,semper
in I, filit naru ralis verbo, inces, Thefidcs.at Beveowono fic, nifi Græce
loquamur fyllabæ gratia,vtnosin he decafyllabo dactylum fecimus Xeinia.hæcautem
mutatio femper fit fequente consonante, non autem L,tantum,vt dixere,illo
exemplo, Nilus, Eing. Diximus autem literam naturalem, quæ effer ipsius
dictionis, onrai,Grociên: nam in zettw, aduentitia etsiccirco non feruatur a
Latinis. An te vocalem ipsum isolitariuin nunquam muta
tur,Sophia,Comedia:nequediphthongus sem. per, 1 halia, Alexandria, Nicomedia,
Langia, Lampia, Argia,Lycius: sunt enim Goemmel, et ciur. modi: et nuxeios, li
Lycie apud Statium scriptum eft: nam ctiam Lycee, legimus. At fæpius in E,
productum, vtin Acheus, dicebamus. Dareus, Penelopea, Adrastea, et Seruius
Thaleam, dici debere autumat. Eft auteme,longum Æolen fium imitatione, qui
Snuosterns pro imposterer din cunt, et nde!, pro idei,et uñov, pro ucior. vnde
et her sexinterpretatione Platonis: ettrov,pro W16 ox. Interdum mutatur in
E,correptum,more Do rico,expuncto 1: To vixsov,Puniceũ,vt apud Ver gilii
πυφωέα,Typhoea, pro τυφώeια, et φοινίκειον, in fine vocum quoque vnica litera
scriptum fuit in vetustissimis codicibus,Orphi Calliopea:et V lyffi,quod erat
őPeñaduasti. Horatius diuisit, Laboriof nec cohors Vlyfsei. Itaque etiam in
meris Latinis pronunciandum monent, Idem, Eidem:lfdem,pro Eisdem,eorundem niore
Aco lenfium. Ey, manet, Qeü heu.Abiicity,Achilles,axona v acus. Itaque etiam
Achilleus legitur, cuius obli. quum secundum posuit Horatius. Heu peruicacis ad
pedes Achillei. Neque e nim verum est, vtaiunt, in v, mutari, illius ver-
ym biexemplo,Peuzw,fugio:nam ab aoristo ductum fuit Ouzov.lic epau
yw,Ructo,dempto E, etpofito frequentatiuo. oi, inoć, naivino Poena. Patitur
autem multa di- 0 phthongus hæc:diuidunt eam Aeolenses,rorov, zoinov. Eorum
legib. nos Troia reoło, sicut Maia, z wała, Aiax, sas. Interdum mutatur eius
pars,in terdum aufertur, arbitrio eorüdem,month,Poe ta.Vertiturin Ei, vt of
her: in v, Poivixetov, Puni 19 14 ceum, 1 and 71 oy, in vnostrum, Musa, uolls.
In v, breue, Bu s bulcus.In olongum more Aeolensium,38,3ūsy Bos.In breue,
Borqu.co Volo:abiccto y, moreco 4. rundem, qui αμπέλος, dicunt pro αμπέλες.
dico, ei abieeto in mora,non in scriptura.nam oynon est illis consonans.Sicenim
dicunt Asgatup, sicut lo. nies Buzoriupo Quiautem putant hanc diphthon gum ad
Gallos manaffe ex us, et Tou: non femel ineptiunt.Eorundem enim in aliis vitium
est, E, vocalem ficdeprauare. Sic enim corrupêre no mina mutarum:fic vulgo quum
voluntinterro gare Quid?aut Quæ?sic Rex,Fides, Vicem etalia infinita pene o y
eademin E, '885, Dens it's ' Pes, etiam aliquo modo mutata est, cum ex 18'w, E
Lauo lu L.E. B Lauo factum est. 121, diphthongus spuria in legitimam o ujxclien
Mesidía. Comedia.In o, w8, Ude. 71 T.eiufdem nocæ atque ordiniseft. recipitur
in vocibus Græcis integra Harpyia, d'oc. Y sr,Latinivalde distortam, ionib.
r'eliquera. Confonantium mutatioin deductisa Gracis. B Græcorum et facile et
legitime tranfit: idem enim effe fupra oftendimusBwi, Bos. In v, di gamma,
z36x, Auus.In affinem huiusPH: 9play Goss Triumphus. ryingi,zorvs Genu: aut in
fimilem'vt Työss, Cam ius. nam quemadmodum apud Athenienses aus Toxhoreca
etapud Thebanos ouaplois ita Latinis? vetustate, etOpici, et Indigenæ, et Cail
dieti funt. In n, aut ei propinquam, azgeros, Angelus. Abiicitur, gumentua,
Norma. A,in D,onos, Dolus. In 2, odvartucy Viyffes. In B, C, Bis. In's » n'am
quoflexu illi, tepare.coem, nos eorum exemplo, Arenosum. z, in z, iccirco apud
nos etiam figura eadem cum eadem poteftate recepta est. LtPusos, Zephy• rus. In
ssuaisa, Massu.In i, tuzo, lugum. e,in TH, tptow ', Thraso. In D beasyDeus. Itt
1,θρίαμβος, Triumphas. K. K; in c, Calare, nonet: Caloncs, varov. In co. gaatam
fuam et, Quatuor, xxxpd. prorojen na, line aspiratione apud acoles. nam quum
dixiffent, Vnum,Alterum,Tria: pro quarto di mere, et alterum. Sicapud poetam,
Alter ab vndecimo. Slove urce Aurea mala decem misi: cras altera mittan Sic
etia, Quinque deduxere: vt effet, et vnam præter quatuor; cêrze. In G, xutpvcew;Guberno,
Ain L, nit, Libs.In Difeneto, Meditari: falso A enim ncgarunt. Mnegarunt
mutari, attulerunt exemplum il - M lud, tabua xes, Telemachus: fed fruftra
fuere: nam ex uñnce, Balare factum eft. Etextritum eft ayudc. Amenta: oyuao,
Sagus,Sagitta. Nin N, nostrum; Ninus, vīvošo In Djnajvw, Cx- * do, έκανεπ,
όκάεπ τον έλλίωων τον αριστν, ex Εu ripide. In L, nam quinquagenarii numeri nota
fuit Græcis N, nobis L, fic quod illi veuQxr, nos Lymphas: et apud Virgilium
fic legêre quidam: Dant famalimanibus Nymphas. In M; wal gusov, Pægnium.
Additur a Græcisnoftris nomine nibus, xatwy Cato. Demitura nobis in illorum
commune riuwv, Simo: et in nostris ab illis defluxis addi- sonho Borda tur,
idx, Dens: =, falso negaruntmutari:nanq. etbovec, Afleres, non ab aslidendo, vt
dixere. Supra declarauimus Acum et Acuruin,vndeduccrerur:itaq. ab Oc; non
putauimus fieri Acor: nam potiusabwav'. 11, in B, Tubor,Buxus: mubas, Barrus:
70, Ab: 11 Caij sub: accipit aspiratione:gownlo's Trophrű. P, nimis iprudeter
mutari negarut,vtaip,aer: na mutatur, 20 pxūves, Cacer, ne effet Carcer, et in.
1, a cupov, Paulum: sed potius eft diminutiuu, In D, fi raveriw fit, vnde fiat
nostrum Gaudeo. 2 2, in D, uesov, Medium.Tollitur non foluin in prima
inflexione,vt dixere; quipias, Býrria:sed e tiarn in aliis, aas Sal: et in
principio, ouu't s, Cu tis: alibi feruatum Scutum. In x, amo, Aiax. E ij Contra
quidam fcripfere Vlyxes.In R, κυβερνήτης, Gubernator: quoniam Aeolenses xubEphy
Trip, et xubepvýrwp, qua forma verbalia nostra funt. Quin Eretrieses, vfque ad
proverbium dicebant, ouan potm-, quod alis effetsunypotus.quod et in Francis Be
notabis. E cotrariossin x,noftrum uc osow, Ma xilla: nam Mala per fyncopam
curtatum fuit. Mandere quoque a ux'asw ductum fuit, sed fane non pauca eget
interpolatione. T, in s, isa, Offa. led commodius sic dicere, fubductum
fuiffe:alioquitranslatitia sunt inter se,33 runos, Theffalus. 9, in PH, popew,Phormio.Ine,
quc, Fundus. 0, For. x, in CH, Chromisszevõues,In G, Ay % w, Ango. In
Kyroxos,Locus. in Aeye, denan, Loquor. pie neque enim â locis,vt Varro vult.
Sicet xxenãos, Montent Aqua. Omnis enim aqua dicta eft eius amnis no mine, et a
lauãdo quoniam erat cemenzos: quod et Macrobius docuit nos etVibius Crispus: et
non ignorauit do et iffiinus omnium poeta, Poculaque inuentis Acheloia miscuit
vuis. neque enim ab æquore aqua: fed ab ea, æquor. 1, in Ps, quasov, Psyllium:
et in proximas BS, yť A4, Libs: dexy, Arabs. # Aspiratio manet, ouws. Homo:
eft.n. animal sociale:non ab humo, ytsomniarunt. Adimitur, anuwv, Alcedo:
tunc,Amentum. Mutatur € dos, Sedes:epTwy,Verpus lumbricigenus,trallata vox ad
obscenaob exilitatemi,nona vertendo pelle, vt aiunt: fed mediunt digitum
propter gracilita tem significauie metaphorice Manet cum consonantibus,
Tholus,4oros. Adimitur, vt Opiaubos,. Triumphus. Additur, oportcev,Trophæum.
Dt.C Subtilius autem intuenti etiam id deprehen sudah 1, detur, aliquas etiam
fi mutentur, remanere:vt, Aloj Troia, Troia: etenim 1, et eadem etnon eade est.
Digamma interponitur, vt diximus õis, Ouis.. et Præponitur, -, Vis.
Interponituretc, co bos, Spe Fraau nm. lidla cus. dice Funds DISM Mutatio ex
deductione in fimplicibus I Ammultæ operæ prouinciam capessimus:fi- Ralowe Ibi
enim quisq. placuit in verboru deductionę.ueJakbosui's Ergo quæipli non
inuenere, nolunt effe ita: do ceri enim turpe putant. Aliquiautem, inter quos
di Varro,etiam maligneeruerunt omnia e Latinis, com Græcisque fuas origines
inuidêre. Nos cum sci vite remus Magnæ Græciæ nomine priscos Auso nes, atque
Latinos frequentatos, reddidimus pud fuis qnanquenatalibus vocein.
Deducio,eftcreatio noui verbi,exprioris ele quis mētis.Prius igiturde
simplicib. mox decopofitis. Abreue in breue,Paro, Pario: in longum, Pa- A 22.
ro,Parco: in AE, Aqua, Aequor. a, longum in lon gum, Vado, Vades:in breue,Vado,
Vadu: Ater, Atrox: feroces enim fufcefcunt ira. In E, apud Græcos,Baww,Ben...
apud Latinos,Pasco,Pecus, non eft:namn zoxoc, Homero fuit lana: quonomi 1
ncetiam nunc fafciculum certum, fiue penfum ta * vocant in Italia alicubi, fed
pe Itaque a lana vetusta vox nekos. In o,Vena, Ve nox. In v, Mare, Maria. E,
breue in A, longum, Legere, Legare, quoniam adlegendum, hoceft, E iij dicens 24
7.251 " anim mitt genere fæminino, scilit 360 " Son 70 I dicendum
mittebantur,au o 7o aegeiv. € Elongum in breue, Sedes, Sedile. In 1, Veha, Via:
vt vult Varro, ino, Tego, Toga, Græco tum ex mplo, neyw, neges. Etlongum in
o,bre ue, Sedes, Solium. Inv, Tego, Tugurium. In v, longum, Dies, Diu. In
AE,Sequor,Sæculum. 1, longum in breue, Dicere, Dicare: in lon gum, Simus,
Simia:nonautem w To wuela, vrinepriunt. í, breue in breue, Mina Minax: in
longum, Via,Villa,Vilis. In A, non mutatur illo exemplo, Generis, Generatim;
sed a plurali re cto fere deducitur. Viritim,Ostiatim. in E, cor reprum.
Hlicio,illex. In v, Specio, Specula. o, breue in longum, Vomer, a Vomendo,vt
vult Varro; in breue, Volo, Volones. Longum in longum, Donum, Donari: in breue,
Moles, Moleltus. In a longun.,Dico, Dicax: in E, lon gum,Tutor, Tutela:in
breue, BonusBellus: fuit enim Bonulus,Boncllus. In 1, et longum, et bre ue,
Amo,Amicus,Amita. Inv,Tego, Tegula sed Tega, prius fuit:Stclo, Stultus. V. v,
longum in longum, Þus, Puridus, in breue, Scutum, Scutulatum: Rus, Rudis.
Breuein bre ue, Lutum, Lutofum: breue in longum, Pucra Pulio: Suo, Sutiliş. In
- A, Veredum, Vereda rius: nisi sit a plurali quod et puto: Cudo, Qua tio. In
e, Pignus,Pigneror,quia fuit Pigneris. In, Cures, Quiritis. In o,Pignus,
Pignoratio:sed ab obliquis potius:Decus,Decor,commodiusex sinplum eft. Mutatio
in diphthongis exdeduetione. or,in, v,Poena,Punio:Moeri, Muri, vt dixie a mus.
Av, in v, breue, Randum, Rude: nam pafos, A. fuit virga dempta ex arbore
impolita: inde Raye dumæs: et ab ca ruditate, Rus.Consonant:um mutatio ex
deductions 3, in M, Globus, Glomus. B c, in G, præcedente n, Centum, Quadrigen
G.. ta.In R, Scco, Serra; sed puto primam syllabam fuiffe originis: canina
autem litera geminata, ftrepitum imitatos. Geminatur Pecus, Peccare: non
vtgrammaticorum ineptiæ, pedem capere, Din T, Cudo,Quatio.fuitenim vetus verbu,
mu'dw,adhucdurat muda wasignificat ftrepere:vn E de xudes, conuitių, et xvocs,
gloria, ftrepitus ille po i pulariş. G,in c,Genera,Cneus:Gula:Curgulio: Vi;in
ti,Vicesimus:Pertingo, Pertica, rusticum inftru, mentum ad fructus decutiendos.
Le in x, non mutatur exemplis illis, Ala, Axile la:Mala, Maxilla, vt aiunt:
nonenim ab Ala, Axil. i la: sed ab Axilla Ala, extrita, vt ait Cicero, ele.
menti vaftitate: fic enim cenfuit M. Tullius, Veho, Vexi, Vexum, Vexulum,
Vexillum,: et cvyxorlu, Velum: Ago, Axo, Axa,Axue a la, Axilla, Ala:
Masso,Maxo, Maxa, Maxula, Maxil a, Mala, vnde uauntiños: Pango, Paxo,? Paxus,
Paxillus;Palus:vt non parum errent qui aby Ala,putent, Axillam,diminuutum duci.
Ašą E jij au 7autem et alia, fic funt dicta, vt Faxo, Graxo. Etia falso mutãtin
R,illo exemplo Tabula, Taberna. nam Tabula, fuit diminutiuu nominis,quod nuc
non extat, a quo Taberina, vt Suterina, Tonfte rina. Sedin his,E, abiit. in
Taberina fublatum eft 1. Omnino autem a Tabula etiam Tabulerna, fi cut
Nafiterna, est autem Taba, et Tabula au TO TriLu,quoniam tabulata in ædibus, et
vlmis pla niciem extendebant, Nin L, Vnus, Vllus: Vinu, Villum:non muta tur vt
dixere. Sed fuit Vnulus: etvinulum. Ins, mutatur Findo, Fissus.In r, Canis,
Catulus. sed a Cato, deducunțpotius,etplacet: atiidem, a Ca nis, Catus, ipsum
trahunt, Rinn,Murus,Munus.fuit enim Munus, onus muris reficiendis, vbi primum
vnum in locum e vicis conueniffent ad condendum oppidum: inde Munimenta. Id
oneris cum remittebatur yirtutis ergo Donum dicebatur. Ab Ære au tem non fit
AEneus, vt dixere, yt mPombaur R, in ' N: cuiusreiargumentum eft,quod etiam AES
neus dixcre. Itaque fuit AErineus. Sic AEter nus, ab AEthcre: et fuit
AEtherinus: vnde Sem piternus, quod fuit Sempæternus: mutatur e pin ae, in i,
Quæro, In Quiro, etabiecta est af piratio, vt in multis. Sica
Vere,Verinus.Vernus. 1, enim abiecere,quod mansitin Matutinus, et a liis
eiufmodi. Nulla igitur ratione corripuere fe cundam fyllabam. Mutatur R, in l,
Niger, Ni gellus, quia fuitNigerulus, et in s, Ardco, Ar, fum. Aflum ynde
Aflare. T, ind, Quatuor, Quadra. 1 xadditum estin Vix, aduerbio, a Vi, quod?
negat facilitatem. vnde Vices: nam quod per / vices fit, videtur difficile
effe, etvix fieri. Fortar fe etiam rectum ipsumfuit, Vix, Vicis. z, tota
Græcorum est. neque a Latinis in La- 2 tina deriuatur. Demitur aspiratio,
Fingere, Pingere. Mutatio in compofitis. Vocales. Ompositio, est coalescentia
similiu aut fpe-Amis nisi esset,ea fimilitudo, quam Græci vocant or use Banov.
Dico autem, compofitionem non actio nem, quæ præcedit ipfam concretionem; este
nimin prædicamentomotus:sed ipsam mistio nem duarum vocum,partim diuersarum,
partim fimilium. Eft autem modusquidam inter ipfa: Nomina enim nominibus
propiora sunt: faci lius enim dicitur, Pontifex quam Proconsul. nam
consuetudine extortum hoc fuit: erat enim per initia, Proconsule. Sic etiam
verba cum diuersis partibus desinunt effe, vt Mancipium. A, breue in a, breue, Comparo,Paro.
In A.. A longum, Indago.etratio est euidens, concreue runt enim vocales dex. A,
longum in A, lon gum,Gnarus,Ignarus. A, breue in e, breue, Sa crum,
Confecro:Caput, Princeps. A,longum in E,longum,Arma, Inermis. In e, bręue,Ti
bia, Tibicen,tibia canens. A,breueini, breues, Ago, Abigo. In 1,longum,Instigo,
ex coalescent te 0,et A,infto,ago.Verbum agasonum, et armen tario 1 1 A E V 74
IVL. I. + tariorum. Sic, Tibia, Tibicen, exi, et A. In o, Historia,
Historiographus. In v, Sallus, Inful. sus. In Troiugena quoque videtur a, in v,
muta tum.In diphthongum,Mufa,Museum: li usation fit, in E,vt supra
diximus. E E, breuein E, breue, Ferus, Efferus, Hercise rço, Nouerca, noua
diuisio familiæ, non vtnu gantur. In e, longum, a RE. Rettuli. E, lon gum, in
longum,Telare, Protelare, in 1, lon gum, Ledo, Collido. Ini, breue, Lego, Col
Jigo. o,in o,longum,Solus,Consolari,a viduis, que I cum fe
Tolasrelictaslamentarentur, oratio lenia ens defiderium dicebatur, in Homicida,
non ver titur in 1,fed ab obliqua fuit, Hominicida. In v, vertitur,a rola,Exul.
v v, breue in breue, lubeo, Fideiubeo: neque fere cumaliavoce compositum
inueniasa longa tamen fit, Ius hab o, quam quantitatem reti nuit etiam in
Iubilo: nifi fit, ab iwin's vocibus triumphatorum:superstitesenim vitam Apollia
niacceptam ferebant, cui canerent pæana in vi et oria.iw.BiwiToma'v.v,in e,
breue, Iuro, Peiero. In 1, breue, Cornicen. v, in feipfam,consonans in
vocalem,Pituita, quadrifyllabum Catulla. con kain Auceps. Diphthongorum mutatio
in compositione, AE, in, 1, vt diximus. Aeternus, Sempi the A v,in
q:Plaudo,Complado, In F, Audio, O tcrnus. Bedio.vbi ob, nihil detrahit, fed
cauffam finalem dicit. In y, Claudo, Includo. Consonantium mutatio in
campositione.. Bemutatur in C, F, G, L, M, P, R. Succurro, Suf. B fero,
Suggero, Sulleuo, Summitto, Suppeto, Surripio. id Acolenfium more, qui,
xatteCON, reclamar; dicebant, præcedentem sequentis vi · pronunciantes. Neque
tamen in omnibus his literis femper eadem connixio eft. Malim enim Suslimen,
quam Sullimen dicere, et Submur, murare. at Plautus Summanare, a manu, fu?
rari, ficut a Vola, Inuolare: item Subreperc. Cum D, autem integrum manet,
Subdo: cum N, Subnixe: cum s, $ ublilire:cum T, Subtice re. Ante seipsum quoque
non mutari par eft: nam fi aliorum fonos fequitur, ne obturbet, ip sum se
fouebit: vt in fimplici Obba, quæ esset obi bibendum: ita igitur dicetur,
Obbibo. Neque mutatur ante T, in s, vt dixere, in Sustollo, nanque fuit vctus.
VQx, S V $, quæ motum ce lum versus significaret, Ünoder, fortasse autem fuerat,
Subs, ficut, Abs: quanquam hoc vide tur fuiffe cit. et a Sus, fuit Susum: fecit
autem ex fe Sustuli, non enim a fuffero, venit. Ea dem est ante c. Suscipio,
quod veteres Suc cipio, ve diximus, Acolenfium more, quem admodum supra
declaratum est, quos prisci e tiam in aliis obseruarunt, vt est apud Plautum,
in AGnaria. Supe 1 1 76 Ivl. 1. CI Suppendas potiusme, quam tacita hæc aufe
ras.Quod nos Sufpendas.l'ari exemplo,Suspicio, Suftineo, Suscito,Susuin,Cito.
Exteritur ante M, aliquando, Omitto. [ c,mutatur in G, Negligo Neglego: ficut
Ne gotium, nec otium. d,in c,Quicquid, Quidquid, Accurro, Acqui ro:in
G:Aggero:in F,Affero: in L, Allego: in n, Annuo:inp. Appon:nam quod in
Aperio,sub flatum est, factum fuit poetica licentia, nam e. tiam
Apparere,dicimus.In R, Arrogo: in s, Af sideo:in T,Attollo. Sed inuenias,
Adrepere, et Adfum, et Adniti. Consules enim auribus, etma „ teriæ: ficuti
Plautus cumiocatur: et maluit Ar fum dicere, quam Adsum: vt Tubinferret, Ate
go, Elixu Volo.Antem,manet, Admitto.Eximi tur sequentes, coniuncto, Aspiro,
Ascendo, A struo:item G,coniun etto,Agnosco.Contra,addi turinter vocales, vel
mutata, altera, vt Redigo, vel neutra, Prodeft,Mederga,Redhostire, M. Min
Nanteomnes, præterquam aute B, P, et seipfam. Imbuo, Impono, Immoror, Concio,
Gondo, Confero, Congero,Coniuro,Coluţibi lis, Connitor,Conquiro,
Conrugo,Consequor, Contueor, Conuolo, Anxur. Sed aliquando etiã fequentis L,
aut k,naturam, subit, Colligo, Cor myrigo:fuit enim Cum,præpofitio, no Con,
alia ab illa, quæ in compositionc tantum inueniretur: Nam etiam in aliquibus
integra manfit, Cum primis, quod verbum, qui diuisere, vt duo face rent, paucæ
fuere lectionis, neque meminere e tiam a veteribus, Cumprime. ficut, Apprime. /
Item. 77 0 Item fi effet Con, vt dixere, quæ nam illa sit, qua z audimus in
Comes, Comitium, et clarius etiam num,in Mecum, Tecum?Præterea fequente vo - 3
cali, quis vnquam adiecit n? atabiicitur conso nans in hac præpofitione
composita cum voca lis initiis:ergo talis est, qualis abie ettionem patia. tur,
ea autem eft m. Nam alioqui interponimus consonantes, vt diximus Mederga,
Redeo: etiam sequente aspirationis craffitudine, Redho stire. At in Cogo, quod
fuit Coago, et: Cohor tor, et Coorior, et Cooperio, quid dicant? Postret mo
inepte putent I n,aliam effe,cum per n,aliam cum perm,fcribitur.Sed curto fuere
prisci Gram matici iudicio, quorum nostri nomen potius, quam merita funt
fequuti. Atfatis constat fonu ipfius v,in Cum, rotundioremfuisse, qui etiam
nunc manet. Vmbri enim non Latini obfcurio-)) rem illum alterum in vfu
habebant, Nunc, Gallis pronunciari,admonebamussupra. Mabiicitur, Circuitus, et
Cafeus, fi a cogendo, vt vult Varro,non a Cafa, vt nos iudicamus, dedu catur.
Item in Cognosco,nam yaorw, integrum } fuit:nequcenim est additum,
G,vtputarunt,erat 5 enim γινώσκω. n, in M,ante B, P, M. Imbuo, fuit enim a Græ-
N 60 Buo, priscum verbum buw; etfignificauit in =; fercio. Immortalis. Impono.
Inc, etiam volunt illis exemplis, En, Quid, Ecquid: En,Ce. Ecce. Abiicitur
qualegem,lupra,Ignauus,Ignotus. In G, non vertitur in lgnominia, vt putabant:
fed eft vt Gnomon. Ryin L, Intelligo;hocautem vsu, non lege fa - R Stum o quem
in 78 IvL. CAB. etum eft:nam Interluo, et Subterlabor, et Perli tus,
etSuperlatiuum. At Politianus, cum mauult, PELLEGO, videbaturin hoc,vtin
cæteris fibi, no poffeeffeprinceps literarum, nisi solus effct: fed aliunde
poterat diuinum ingenium fibi parere gloriam,quam ex deformatione Latinæ purita
tis; Abiiciturin verbo, Peiero. Śs,in'F,Diffundoineque enim fuere duæpræpo fitiones,
vt suntarbitrati Grammatici,Di,et Dis: fed Dis: Græca: nam binarius numerus
primus est,qui diuidi poteft:quod igitur bis facimus,dif continuata opera
fit.iccirco præpofitio hæc ex v no plurademonstrat, Dinido. quoniam quæ fc etta
funt,bis videntur. Seruatur in multis, Disco lor, Disgrego,
Disiungo,Dispono,Disquiro, Dir fidco, Distuli. Ante cæteras tollitur, Diligo,
Di mouco, Dignofco, Dinumero, Dirimo; Diuido; SwohisDiiudico. inuenias
tamenDisrumpo: Antee; * Sy haar te nondum venit in mentem, anponatur hæc præ.
pofitio: x, ante f,mutatur: Effigio. ante vocales ma net, Exaro, Exeo, Exilis,
txoletum. Non abiici turate D,fed ipsum d, tollitür, Exuo, erduci. Ano te alias
manet, Excio, Exlex, Expono, Exquiros · Extero. In aliis autem non'eximitur,
sed E, præ positio est,non e x, bibo,Edico, Egero, Eiicio; Eligo, Eminco, Enato
Eruo, Evado. Inuenias Lampytamcnante F, integrum, Ex: fed in eo verbo, quod
quia nolo hic ponere pudoris gratia, aut per te ipfe intelliges: autfi non
intelligas, non docebo.Cum vocibus autem abs, incipientibus b -componas, quid
facias? tollas fibilum?non.n. ne.? 7 7 1 necessariumest, nanque in x, fyllaba
poteft ter minari: sed soni suauitarem fequendam censeo: Itaque
commodiusdicemus, Exequor, Græco tum exemplo: qui certis locis em,aliis, l
", dicunt. Sed recentiores, vt fapere videantur, omnia ob -SAYY turbant:at
nosveterum fequimur simplicitatem, qui Exul,fcripferc,quanquam ab Ex,et Solo,du
ceretur. Hocitaque cum re et e fic fe habeat, pes fimo argumento probandi
rationem male iniue re. Nam inquiunt,fi poftx, liceret feruare sini, tio vocum
compositarum:pari ac simili lege etia liceret polt Y. fed nõlicet: neque enim
dicimus, Abffectum neque Obffeffum: ied vnicas,fuitco tentus vsus. Vbi
dupliciter peccant: primum. cum putant s, quod in Excquor est, præpofitio. nis
effe non verbi:hocenim falfum eft: nam fi- > gnificatio verbo debetur, ergo
et partes, etrema nıt veftigium prxpofitionis Græcorum lege. quos imiramur,
Ecfequor. Alterum errorem vi. deas manife'tum, cum putant Abs, esse integram »
et natiuum præpositionem, cum tamen fit Ab, 4.5.14 per apocopen, vm, quod et
pater in ob: neqreco nim nec ile habeas dicereObs. fed per apocopa
ötw.nanquera,fuit fimpl. x.hrw. compositum. Obs tamen fuiffe in quibufdam,
videmus illis e xemplis,Obfcurus,acura:Obfiænus,andtoxcs/ you,vnde Cænum
noftrum. Atin abfcedo, Abs eft, et Cedo. fed nihil ad rem. 1, mutaturin R, fia
patre, non a parente, lic'a' Parricida: fed hoc plus placet nobis. MORdinis
nomen Græcum eft. Dicebantmi. Ordo literarum,quatenus diettionis partes funt.
Que cuique syllabe debeatur. Rdinisnomen Græcum eft. Dicebant mi: limbus
Tribuni: Hactenus tibi licet: Hîc consistes: Eo progrediere: Huc reuertere:
Öpor dwindeordo. Acoles autem non aspirant, quo. rum instituto fane libens
accedo:nihil enim hel Juonem magis fapit, aut Barbarum, quame gut ture
insufflare aduersus eum, quicum loquare. guideft igitur ordo, loci ratio, qua
quidaut præit, autsequitur: velante, vel retro, vel dextrorsum: vel
sinistrorfum:vel fursum, veldeorsum. Nam prioris ratio est,præeundi:
posterioris,sequendi. In militia, vt diximus, nata vox.fic etGræcitoa Žuv, ab
aciei directione: Translata in ciuitatem prostatu hominum,liberorum,seruorum.
Inde patrum,plebis:additi et Equites. Et Lex Otho nis Theatralis. In plebe
etiarn fuit ordo: classia riorum, proletariorum, duicenforum,capitecen forum.
Ab hisad corpore carentesres fusum sia gnificatum, vtetiam ordo innumeris
dicatur, non folum in rebusnumeratis:non temere. Eft enim et numerus et mensura
caufla rei numera tæ, vel menfuratæ, non quidem vt fint, quod funt:fed vta
nobis cognoscuntur,aut tot,aut ta tæ, fed hæc altioris sunt operæ. Eftigitur in
lite ris ordo,potestatis pars,fecundumquamlicet ip hiefis aliam atque aliam
sortiri sedem, propter vim qua inter seautconueniunt,autdissident. Quam uis
autem in fyllabis cognoscitur, non tamen a fyllabis 81 fyllabis fit, sed facit
fyllabas:eftenim forma fylla- Online sales barum Ordo:ac propterea nonad loca,
quæ de fyllabis ftatuunt, referendus, vt fecere vetercs:fed hicretinendus, vbi agitur
de elemetis: Elementa enim fyllabarum materia sunt: ordo aute forma, aut
poteftatis pars, aut abipfa pendens poteftate. Eftigiturvnum ex duob.
principiis fyllabaruin. Quum autem duplex fitordo:vnus ob composi-ceSpeeches
tionem quo quid aut præit, aut præitur:alterin difccndo: vt de quo elemento
primum lit scri bendun.: prior species ordinis vera eft: quippe ex quasyllabæ
conftantur: is enim literaruni finis, qui partium prop: er totu. Alter modus,
qui qua lisve sit,suo moxdiceturloco. Eftenim acciden talis quanquam abipfa
profeet us fubftãtia. Iam cuiusformaeft eiusmodi, vt prima prodierit in lucem
atque vsum sermonis, hoc de lese præstat, vt prima quoque dicatur,proximanamq;
eft na turæ communi. Acquanquam defyllaba non. dum dicimus, tamen hic tanquam de
principiis fyllabæ scribentes, nomine tenus syllabam refe remus. Omnis
igiturliterarum cohærentia, autin ea dem fyllaba fit,quam propterea Græcio 2013
m. 72 Ziarlas nosin philofophia aliquando constitutionem, a liâs concretionem,
hic faciliusconiunctione di camus, per quam syllaba, quæ literarum coniun Etio
quęda lít, conitat:aut in diversa deftituuntur literæ,nequefub eundem tenorem
veniüt,iccir coque Ale saou vocant Græci,nosdiscretionem, diliun
ettionemvenominamus:iplasq; literas dis fijas. Id autem vocum dignoscitur
proportione: by stay Iul. tit. 1. Renquarum vt quequeinitia observamus,ita et
fylla Du bisascribenda iudicamus. quoniam enim ab his incipiunt vocesper
fyllabas,ipfæ quoque syllaba incipient.Exemplum eft Conspiro:quia ab NSP; nulla
vox incipit, nefyllaba quidem incipiet: fed Nyprioriseritfyllabæ finis in
diastasi, cum fequeni te,proptereaquod a cæteris duab. invenias prin cipium
diettionis, Spes. Neque vero evenit id propterea, quodex Cum, et Spiro,
compositum est,vtquasi in partes pristinas reducatur:fed idem modus erit etiam
in Pulchro:erit cnirn Pul,prior fyllaba. Altera autem a duabus incipiet confo
06. nantibus: iccirco quia vocis initium invenias 2. tale, Credo. In Excedo,
autemi si quis quærat, vbi sit distinctio faciunda, intelligat non esse
neceffariam fcindere x. nam quanquam est du plex vi, figura tamen vna eft, et
indivistbilis, quemadmodum supradiximus,alioqui non esset elementum. Neque fi
fit facta vis dietioni - bus, per concifionem, ve Extin etti. duarum e nim
literarum vltima erit fyllaba, quia Lynx di citur. Proprium autem eft
confiunctionis,certas vo cales,certa que admittere consonantes. Difian ctionis
autem, omnes quidēvocales,nonomnes confonantes:vtn, non admittit ante fep, aut
B. Etin coniun et ione nonaliam admittit, quam V, etad diphthongos cõficiendas
non omnes cow currunt vocales. Las igitur fe mutuo anteire, aut consequi
diversis in fyllabis, iam declaratum eft. In eadem autem fyllaba præeunt, et, “E”
o: sub sunt, E, V. Quinetiamveterein diphthongo eIs fubirs subit, i, vt Queis, pro
Quibus: fcriptum a Vergilio esse vnica litera,constat ex Gellianis narratio
nibus.In interieetione tamen, Hei, manet adhuc. At Græci postposuere etiam
ipsiy, in Harpyia: et 1, et H, et Agriçãow.Sed et post v,in eadem fylla
bainvenitur, Suavis, Suadeo. Consonantes autem fic ördinantur: Omnes Conso pene
consonantes anteeunt duas liquidas,1, et R. Nathy Duplices autem non atiteeût,
præter z:antecedit enim ipsum M si, verum eft, quod placuit quibus
dam,Zmýrna.Exemplaliquidarum sunt, Blæsus; Brutus; Clarus,
Crassus,Draco,Flaccus, Frango; Gloria, Graccus;Plico, Precor;Stlatum, Trica.AE
Q neque liquidas,nequc aliam quampiam prece dit. NequeD,nifi vnam ex ipsis:non
enim l. Cx teras B, nullas præcedit; acneipfumquidem n, id verbo Abnuo. Sed in
Abdolas, amplectituri psum v; quoniam invenias,Bdellium. Etiam, in Aetna,
difiuncta sunt T, et N. Atvero, C, D, G; P, non respuuntur. Exempla funt; duo
depes, Cneus, Gnatus; nxew. Igitur coniuncta erunt in Cydnus; da'ruw; Agnus,
Sypnus. M, in ca demsyllaba cum nulla sequente est;præterquam cum N: vtin
Mnemosyne: et ipsum ante sevnam aut alteram tantum patitur: Di apud Græcos,
duwniet s,Smaragdus:et fi verum eftquod aiunt; etiam z, Zmyrna:quod li verum
eft hoc,duplicemt præcedere; etiam vtravis eius pars idem munus Obire poterit,
tams,quam p. Habet aPombat ipfumi Meandem rationem cum p, etc, etliquidis:vt po
ni poflit ante s. Nam quemadmodum dicimus; Fij. 84 Iul. I. Ex,a't: fic etiam
Hyems, Sirems, ains, Mes, Ars: Namm, et n, inter liquidasquoque recensuere.
Sicante x, tres ponuntur, Falx, Lanx, Arx.quod commune habentinter fe, non
autem cum M. E freçontrarioipsum s, antecedere potest B, C, D, F, P, Q.
T,obevvu'w's Scaligers codwsquiaeft in z, Coivdo vorulur G Spes, Squilla,
Stolo: cum cæterarum *** nulla. Veteres hic quum alios admisere errores,
Angelenum infignem illum, qui negarent ante D, po ni: at tanto nobilius ac
verius: coeunt enim ad eo,vcliteram cfficiant vnam, z. Nullæ mutæ in Bol ter fe
cocunt; nisi B D,vt Bdellium. quod etiam videbatur quibufdam aspcriusculum,iccircoque
mitigaruntinterpofitavocali, Bedellium. Sed tamen apud Græcos est 31cmw.
Quinegant z, zamipræponiipli Msin Smaragdo, fortaile vera di cunt. Sed eorum
argumentum falsum est: sic e nim aiunt: in fine carminis dactylicinon poffet
collocari vox illa, neque enim præcedenssylla ba finalis in præcedenti dictione
poffet corripi, non enim potestabiiciipsum z, sicut abiicitur s. Sed falla eft
comparatio:interpofito enim inter vallo non coniunguntur voces: itaquenon fit
positio ad productionem. Quam quisibi con finxere, vt
evadanthancincommoditatem,mo do mutam cum liquida excusant, modo fibi lum,
modo'aspirationem tollunt: fed totmon stris opus non eft: multa sunt exempla,
mul tæ rationes. Nam quemadmodum dicent il - lud Homericum dactylo comprehendi?
ai ouncedLwr: aspiratio enim cum ipso R, pro: ducit præcedentem, quod est
manifestum in versus 85 versu Theocriti ex Herculillo, özcvet..finis enim
senarij da ettylici est. Item I consonansinter duas vocales semperlőga est.
Ergo quomodo di camus, Regia luno.Eft et illa ratio invicta si diph thongi
finales,non semper corripiuntur fequete; vocali, sed etiam poetarum arbitratu
producun tur: sequens fyllaba initio vocum, fines præce dentium non mutabit.
Sed hæc alibi propria o pera sunt expedita contra ambitionein Gram maticorum. Dedifiunctione
five difsitis literis. Vocales. Ifiun ettio accidit omnibus vocalibus,et
mudojme cum cæteris, Aer, Sais, Tetraon, Phaülus.E,cu cę teris,Ei, Eo,Eunt,
Ea.1,cum aliis, Fio,Fiunt, Fi at, Fiet. O, cum reliquis, Cous, Coa, Coco; coit.
v, cum reliquis Sua,Suem, Sui, Suo. Item cum se ipsis,Nausicaa,Deest, Dil,
Coopto, Suus. Sunt hx disiun et iones numero quinque et viginti. Quarum viginti
inter se reciprocă sunt:Nam vt quæque præcedit cæteras, ita præcediturab illis.
Confonantium difiunctiones. D, disiungitur a B, Abdomen: etquidemmu tuo,
Adbibo, B, ab n, Abnuo: sicutm, a D, Ad mitto. B, præcedit F, fed mutatum,
Aufero: ne que enim eft,vt ait do et tissimus Gellius: eius acumen
laudamus,iudicium non fequimur.Præ ceditur autem a tribus liquidis, idque com,
Fiij. 86 Iul. I. mune habet cum suis comparibus, Album, Als bo, Arbor:Alpes,
Ampulla, Arpinas: Alfenus, Arferia. sed m, ab hacexcluditur, vtdiximus. l. tem
præceditur abipfo c: idque commune ha bet cumMT, s; Pyracmon, Flecto, Flexum:
eft enim Fleçsum. Præceditur etiam a G, Egbatana, ídque habet comune
cump,Migdonides:et cum M, Agmen. TT,præceditura 'c; et p,siyetenuibus, five
aspi ratis: fed plus Græcis, quam nobis,raw, riww, ogą γέω, χθων.quorum exemplo
intelligamus Ααασιν in illis, Actus, Aptus,Aphthonius,c'xto Ipfum C, præceditur
ab x, Excutio. Item suum par, Ex quiro. Habethoc communecum L, Exlex: cum P,
Expuo; cum T, Extulit. M M, præcedit B, et P, vt diximus, etfeipfum, ac
præterea nullam,Ambo, Amplum, Ammentum: neque enim antecedit n, vt dixcre:nam
in A. mne, est ousmas: exemplum, Mnemosyne. IR L, et R, fere omnespræcedit,
Arbor, Arccrra, Ardeola, Corfinium,Corgo, Periurus, Perlego, Permco, Pernox,
Perpes, Perquiro,Perrexi, Per, sono, Pervolo: Albion, Alcon, Aldus, Alfenus,
Galgulus, Saliuncula, Almon, Alnus, Alpes, Al fiosus, Alcellus,Alveus.Iccirco
diximus, Fere: L, non præcedit Q,neque R. Ita n, quoque mul tas præcedit, Anco,
Andes,Anfractus, Cõiunx, Angeria, Conlutibilis, Anquiro, Conrugo,Con
sul,Antes,Convolo,Anxur, Zinziber. Ante B, MA Pununquam. s,interdum oblidetur
ytrinquea c, in ipsadu. plici excipiens adveniensc, initio subeuntis di
etionis. Excoquo:idem est Ecscoquo. Duplices nullampræcedunt.nequein
cõstan-Shopli 44 tia,nequein distantia: sed vocales semper in con ftitutionç.bínGocmpovefaww.at
non retinent eam pertinaciam in subeundo: dicuntenim Ariobar zanes,Perfæ, et
Xerxes:et nos Anxius,vtoftendi musiam;Græcixdutw: Arabes etiam Alzit, et Al
zibib, oleum, et vua; et alia multa etiam extra are ticulum. Ordo discendi
Elementa, 4? $ est ordo, qui est principium, ac quafiforma Syllabæ: nuncautem
diligenter ordinem nata-xatire lium,atque vsus earum videamus. Nequeenim re et
e fecere prisci,aut Latini,qui quem aGræcis, aut Græci quem a Syris
accepissent, ordinem re tinuere. Sed vt quæque primanata fuitlitera,ita Kesan
prima quoque sese offert ad pronunciandū. Iccir " la co et a
vocali,propterea quod vocalessyllabarum formam feruntfecum,et angtissimaearum
recte, omnia idiomata ordinem auspicata funt, Chal dæi, Arabes,
Scythæ,Græci,Latini. Eftenim Az prima,notissimaqueinfantis vox, cu qua vitæ hu
ius fpiritum primum hausimus: neq; re ylla eget alia, et hiatu oris solo fine
vllo cæteroru motu in, strumentorum.Ludunt enim Græci, quia Phe,
nicibusAlpha,bovem dictum autumant: cuius, pecoris quali auspicio quodam Cadmus
vrbem Thebas condiderit: cuiusque opera feminio illo F iiij fabuloso cives
suos, quos ideo awagie's vocavit, collegisse: a terra enim oriundos
mentiebantur, co dimetientes, et nobilitatem fuam et pofseflio nemperegrinis
inacceffam: quo iure quali paren tem ab occupatorum amplexibus arcerent. Sic et
Gai, et Opici, in Italia ab eadem terra sese nuncu parunt. Cæterum Græcorum in
mentiendo au daciam fuperavit quorundam ftultitia, non in credendo solum, sed
etiam in prodendo. Nosau tem Arabicæ linguæ non totius ignari, fcimus et a
Syris hodie, et a Mauris qui inde advecti sunt, Taur, bovem dici: putamusque in
Græciam a Cadmo eam vocem translatam, Igitur vocales A O duæquæ effent
amplissimi soni A,et o,pręponen dæ aliis fuerant, quemadmodum huic illaeftan
teposita: quæ aute essetobscurissima postponen. vy da v, eiusque similis altera
ei apposita y. Duæ au E 1 tem mediæ, E, et 1,mediu in locus conveniffent. E Sed
dee,posta,primo statim loco scribendu fuit, propterea quod effet magistra quali
quædã nium confonantium: Quarum nomina, paucis exceptis, aut in eam desinerent,
aut ab ea incipe S. rent. Ante alias autem cõsonantesde Sibilo pri mo loco
agedum fuit: vocali enim proximus eft: H fimul et deAspiratione: nam paulo
compressiore spiritu Aspiratio,paulo tenuiore Sibiluseffertur. Atque etiam de
Aspirationeprius, quam de Vo icalibus dicendum fuerat. Sed quia affe et uspo
tius quidam est, quam elementum, poftremam omnium commodius ponemus. O et avo
eam lo co Latini conftituere,veterum imitatione. Nam quum a Simonide e, vocalis
fonus, vbi perpetuo pro,. 1a tu car det 89 ) produceretur, notatus fuerit
figura H, qua Athe nienses vfi essent antea ad afpirandum: atqueille eã post E,
cui substituiffet, ftatim reposuisset: La tini receptam ab Atticis etfigura et
potestatem, Simonidx ordinem sunt fecuti. Na Latini ipsam F, cum interponeret,
fane numerum auxere: cui fedemeam quare aflignarint, baud facile explica-
", polo ri possit. Na et inusitata litera apudmultosGræ corum eft: et fi
fpiritum eius impronunciatione respicias, ipli,anteponidebuit: fioriginecon
templere,post, statui:fuit enim ex duplici, vn de etiam digammaappellata:
partes enim totum anteire debent. Primores autem confonantum in cunnis
sunt,B,G,M. quare Arabesatque He- 3 M bræi, Græcique longe quam Latini
sapientius, qui ftatim poft a, ponerent B. poft quem, non c, vt nostri.
facilius enim, quam c,pronuncia tur: quanquam inter linguæ vitia aliquos inve
nias in c, aliquos in t,hæfitantes. L, quoquefaci--- lima fuit, atque inter
primas reponenda: la et en tis enim ætatis est: itaque vdam Græci appella runt:
minus commode communicato nomine etiam ipfi r.quam equidem iudico postrema in
se R derecensendam,sed anteduplices tame, quarum ynaquæque eo loco ftatueretur,
quo eius origo fuit: yt Y,prima sit,qa B:at z,vltimaquiac: me chupfe' dia autem
z,quia Die, novum inventum Lati norum, autstatim poft c, automniū vltima col
locaretur. N, autem poft L: idem eius filum pro N nunciationis vtrique
fuit.Neque vero idem or do apud omnes fit nationes, fed vt cuique fre-, quetior
est litera,ita prior alia esse debet.Quem FS ! 1 90 Iul. I. neFINjust admodum
etiam illud intelligas, apud Vmbros prius de v, quam de o:contra apudRomanos. Figura
Elementorum et earum canssa. Vnc de figurarum caussisdicendum eft: de antiquis
figuris loquor: quas quiAtticas, Addressto antiquas voluerunt
appellare,oftenderuntq etmultum scirent, etparum saperent, Nequees ním
Atticarum cognometo circunlatz vllæ vn quam literæ fuere, sed lonicarum: pars
enim lo niæ Attica regio fuit. Nam quum in duas partes vniversa effet
Græciadistributa, Peloponnesum, Dores, cætera regionem lones obtinuere. Duos
super hacreversus ponit Strabo certis incisos co lumnis, quos qui volet leget.
Nam iidem quum in Asia loniam recensent,coloniaspro matrice ac primaria regione
supposuere.Quorum mores in luxu, ac mollitiam Barbarorum quum abiiffent,
puditum est Atticos Ionicæ appellationis. Cætes rum nomen et illorum vfui in
literis, et Dorienfis um manfit confuetudini. Iccirco autedi ettæ sunt Anli antiguæ,
quia recentiores aliis notulis vti malue quire, quibus etiam maximam
horumpartem descri ptam videmus: quare etiam Maiusculæ funt ap pellatz: a
notioribus igitur incipiendum est. Rabi Lacfiguraquide acciditliteris,per
lineas, Qua= Liudij quam autem figura est spatium lineis contētum, paucæque
literæ, aut totæ concludunțur lineis,vt " D, B: aut partes earum, vt P, Q,
R: quædam vero e tiam vnica tantum linea describuntur: tamen eft eis attributum
figuræ nomen, propterea quod non effent veræ lineæMathematicą, fed potius super
Grana ܕܐ fuperficies angustæ quædam. Omnisautê linca, autest
obliqua,autrecta.NamquodGalenus di vidit in curvam et cavam,id eftper accidens:
ei dem enim lineæ contingit,vt et cavasit et curva; ficuti obliqua dimetiens
linea quadratum, infe riori triangulo curva erit:superiori cava: neque enim in
linea obliqua cavum a curvo melius diz ftingui poteft, quam in puneto dextrum a
fini stro,superum abinfero. Sed eadem linea diftin guitur figurę vniuscavum,ab
alterius figuræ curs uitate. Omnis igitur litera, aut linea,autlineis
conftat:item aut recta,vti: autrectis, vt h: auto bliqua, vt o:aut obliquis, vt
q: autrecta, et obli qua,vt p.:aut obliqua et recta,vtc:autrecta, et o
bliquis,vt R, B. Hæc est divisio a substantia:abac, cidentiautem fic:nam
transversum,et perpendi culare, etdiametrale, et iugale, et decussatorium
accidentia funt lineæ vel re et tæ vel obliquæ. Per pendicularis vna,1: duxw,
cæqueiugatæ: Dux angulares ad medium perpendiculum, a: vna p pendiculariscũ vna
iugata,:cum duabus, F: cum tribus, e: Duæ perpendiculares iugatx diametro
quadrati, n: et alio fitu z: duæ diametrales x.Sunt et curvæ inordinatæ s: na
Græca ex æquo respon det sibi, 2: sunt simplices, vt aliæ:cöpositæ,vtwa et
F:quarum illa originem suam repræfentat,,0; þæcnullam 5,5, pateftate. CAP. XL
Cauffa fingularum, Vnc fingularum cauffas videamus. A, tota ma ipli quidem sine
caussa: a Syris enim. Quid Syri? Quidam A 92 Iul. I. Laura Quidam dixere latum
sonumin angulu desine 25 Airc,iugumque ipsum præscriberemetaslatitudi nis. Sed
corum audaciam arguit et A, Græcorum, a quibus ipsum illud A,Auxit: et A
eorundem,cu ius iugum præfcribat hiatum nullum:nam quo pa et o autexore, aut in
ore triquetram poffint fi guram constituere, fane nescio. Differt autem y tram
ineas rationem.Nam fi propterca fimplicis simum putes elemetum,quia primum
eft:ita fane Scribas sicutArabes,quipofitæ lineę perpendicu Jaris calcem
linistrorsum versusproduxcre,quali in figuram noftri Lyaut G, Hebrei
inversi.Sin hia tum contemplere,patula facies eipotius debea tur,quam ctiam
quadratam primum finxiffe He: bræos par est,item Chaldæos:vel ve ante hos
fabu:lanturquidam, nescio quos Aramæos. eamque linea dimetiente disfe ettam,
fic, quam postea concinnarunt. Sicigitur esto divaricata propter hiatum. Huicautem
cum soni exilitate atq;ob Y scuritate contraria esset Y, vndeet Yonor acceperit
cognomentum, figuram quoqueopposuerein versam, bifurcatam. Huius itaque sono
quu pro V ximum sit v,nostrum,novaldeab eius figuradi versam facie habuit.sed
subducta columella, fur cas bivias contrarias ipfi A,retinuit.cuiusnaturæ ipsum
quoqueesset contrarium pronunciationis obscuritate.Ac fanealiquando
fecit,vtdubitare mus,vir do et iffimus Ausonius poeta, an v,notula fuerit in
vfu Græcis, ille. n. Græcam negationem O Yavnicam fuisselitera illis versib,
professus est; Unafuit quondam, qua respondere Lacones Litera: irato
Regiplacuere negantes. Sed ! 93 Sed videtur allusisse ad fonum Græcu et ad
figu... ram nostram: exprobrat enim hocillisNigidiust Figulus, qui nesciverint
figuram vnam invenire, qua v,noftratis exprimerent sonum. o, suis sibia
natalibusvsq; figuram attulit, ex- (pressa piettaque oris rotunditate: sicut
i,sonima- 1 xime exilis,excuffo omni tumore,ac vetre,quam tenuitatem cum
e,faciat pinguiusculam, iugula vimus obeliscis quibusdam:quorum sane nume-, rus
potius servivitdecori, quam necessitati: sed: aut duobus extremis fatis
efficere poterantsic, t: aut medio vno, lic,:fedilla propiusaccedebat ad Csapud
nos: hæc autem apud Græcos ad aspirati-> onis nota. Nam quominasfummo tantu
essent contenti, in cauffa fuitr, Græcis: quemadmodum Latipiimo solo
nequiverunt effe contenti, pro pterca quod eam figuram L,occupaffet:placuiti
taqueternis roftrisfaciem efficere pleniorem V si autom antiqui funt
longiuscula forma,ipso t,nolu describendo, quum geminaretur:idquedecoris gratia,
sic, lulij. Huius consuetudinis litera lon gam vocat Plautusin Aulularia. qua
interpretes iccirco,pro L,suntinterpretati,quiaBarbarorum vsu fic nunc
fcribimus. B,item Græca est.sicut “M”, “N”, “T”, 2,velsono, vel Greeca figura:atC,ex
dimidio Græca est:subtra ettanam -.K que columna ipfiusK.cuspisnuda remanfit,
fic 2: 1. cui ad faciliorem scripturam angulum ademere. Sicut etiam ipli, quod
fecere vt effect:fic ex I, D creavere sglubdu etta bali, et angulo fiebetato,
vt $ non amplius Scythicum arcum imitaretur,idq Notabat Athenæus ex priscis
fabulis: fic ex quod abscidissentden7,finxere ipsum p.circulie nim quam anguli
du et us facilior: ppterea quod vnica lineavnico abfolviturmotu:at
Angulºdua.:bus lineis, ergo duob: motibus, igitur quietein "terposica: hoc
enim in naturalibus declaratū elt:: Poftea quum noftrum hoc P,concurreret
cũillo rum litera, quanı Caninam vocat Persius,vt a no ftra diftaret,caudam
addidere,R, ficut etipfi c,ex G quo cognatam effingerentG.atque eodem cons
filio eidem addita alio modo cauda vt fieret Latic Ona litera, qua Græci carent
sic, Q,quam postea in huncmodum clausere. Q. Eftetiam ratio, quare fubdidissent
caudam:deferendusenim ei femper comes suus fuitilli, fic, Qv. AlimpsoFaet um autem
eft,vt non folum Angulorum Grad"hebetatione,et virgularum
additione,ademptio ne,Græcasin ysumsuum transferrent Latini, sed ctiam integras
fervatas inversafigura reponeret: mdos,e nihil enim aliud eft noftrum l, quam
illorum r. quoniam illorum 4; nimis propeeffetipfamAz cuius iugi describendi
poffent oblivisci.simultur pe forearbitrabantur,li vocalis nota plus egeret
operæ,quam consonans.cum pronuciatio elim pliciori penderetpotestate. Digamma
quoque inversum,duplex eft í. Quare non male cxco gitavere,vty,Græcam
exprimerent per antisi Andrefagma,E.neque, quominusid reciperent,in cauffa
fuit,vtaiunt,fonimollitia, quam ipfum Y, reprę * fentat,noftra ps, non
affequuntur.nam quod ar gumentumadducunt, id est nullum.šeguit, qafa cită eg6G
estenim vbi no faciat,orisontis:qua re quod officiu præstatillis; nobis no
denegaffet. Age vero quid prohibuit, quominus illi aliqua fi gura
exprimerentnostrum e: nam quia Roma nis vivendileges accepiffent;etiam loquendi
nori negligerēt.erat enimeis in promptu av tixand; x. nequeaddere “V”, quod ne
Latinis quidemfue rat necessarium. Nam quemsonum,ipfum cica v, iunetum habet,
potuit etiam seorsum, fi attri buiffent,per se obtinere.Ita etiam Angelo, fi
non eft n, in cygersnon estr, geramusmorem mo rosisistis, et
antigammastatuamussic j. quod ip summet fit hoc quod neutrum illorum quivit
effe: Acceperunt autein noh folum eafdem eadem poteftate, et figura,eodem vel
inverso situ, sede tiam et figuraet fitu eadem, poteftate vero longe Fishes
dissimili:vtx,quæ illis esset afpirata, nobis effet nesting duplex: et quæillis
esset media fimplexr, nobis effet aspirata geminatu f.Sed etvocalis notam ab
Athenienfium institutis vfquerepetivimus ada* fpirationem, cuius illi vfum
invertiffent.H, enim nunc pro e,longa:olim pro aspiratione Acticipo fuere,ita
ctiam,vtinfererent:quos Latini suntfe cuti,Heraton:etiam in medio,KTAHS2N.quod
ne nos quidem negleximus, Prohæmium. Quare poftea femper tenuit confuetudo,
vtcentenarij ! numeri nota eflet H. quod fuiffet illius vocis ini tium. sicut
apud nos eadem ratione, c. Ijautem et vsconsonantium figuras nonexco
gitarunt,poteranttamen ficfieri, nifi Acolicum illud mayis ti. Literarum nota
cum potestate numerorumfignan. dorum, C Nominum. con Flarespotius
referenduseft: tamenquiafine et figura cognoscinon potuit, huc,vtopinor,com
modissime distulimus. Eftautem duplex: quippe Omployelad numeros digerendos,
vel ad certa nomina Nement indicanda.IgiturVnumper 1,fignabant,qñmi nimo fpatio
effet virgula, sicut vnitasnullo: Ac repetebant fane vnitates,ad quinque vsq;,
quem numerum per v,defcribebant: non propterea ca ea nota esset
dimidiumipsiusx, quodenariûde a fignarent: neque iccirco, quia olim fcripferanț
QV, et poftea q fuftuliffent: fed quoniam esset quinta vocalis:cum qua
repetitis; atqucappofi tis vnitatibus,ducebantur ad numerum Denari jum: quem
iccirco x. litera notavere,quia in nu mero atq;ordine vulgari statim ipsum v,
feque batur. Quo confilio etiam Centenarium nume rum quum ftatuiffent per c,
sequentielemento, scilicet D, Quinquagenariu deposuere. Ratio aut Centenarij a
prima litera ipfiusnoininis accepta fuit: sicut et Millenarij,per m.
Quinquagenarij autem notam'non a nomine,fed a Gręcorum in yftituto
excogitarunt:nam quum illiper N, pinge rent quinquaginta, prisci Latini,
quihuius ele menti loco ponerentidentidem L, in hunc quo quevsum substituêre:
et monuim ' apud poetam fic fcriptum legi solitum a doctioribus.
DantmanibusfamuliNymphas. Sane vero Lymphas a Græco víu on ductum ne-»
monegat.et içigan;quasi79igfur,vtvolūt. Io no - Nomorsa minibus quoque designandis
vsi sunt certis lite ris,iísque eorum primis:c.Caius:P.Publius:et in versa,vty,
Caia diceretur.Ergo Publiam si lege-, remus, etiam inverso d, scribendum fuit.
Sed de his suo loco inter nominum rationes, ac præno. minum disputatum est. Poteftas
mutua quarundam cognatarum literarum, quas Græci vocant alsoíx85. Pgularum
diximus poteftate, nunc elemento rum cognationem quandam videamus. Propriu
Arhe's hit? igitur elt Novem literarum, in quincunce, quasi dispositarum
triplici serie, costitui: quasiccirco Græci avtiquya appellarint, quiainter se
mutua subirent fede. Noselegantissime dicere vicarias poffumus. Cognatæ vero,
atque etiam coniu gatæ re ette vocabuntur. Sunt tenues tres, C, P, T: quibus
addita aspiratio,totidem creat Græca pru dentia,vnica sua quanquenotula
insignitas,X,Q, ©. Mediam autem interc, et Græcam habe mus Ġ. Itaque et
dyxuege, et Anchora dictum eft: et Cneus, et Gneus.Inter P, et•, fuit B. quam
re et βινάκια, et φιτακια, et πιτάκια dici confue visse,prodidit Athenæus.
Intert, et,ficum est D. iccirco curaüta, et cx Jadro dicere Græci fine flagitio
insticuêre:etnos Adque in Atquemuta vimus. Quincunx igitur sic disponetur:
Tenues tres, Medix sub his, imæ Aspiratæ. Vt quam 2 F 7 1 Gj IvL. Cas. ŠCAL.
Lis. proportionem ipfainter fe habent propter fpes ciem, a qua tales
dicuntur,ea habeant ad cogna tas propter affectionem. eiusdem enim speciet funt
“C”, “P”, “T”, “P”, “B”, quippe aspiratæ funtfemivoca les, tenues funt mutæ,
media inter eas. at inter fe habent proportionem affe et ionis,id est potelta
tis, quam Græci toidtorg vocant. Hasautem con iugationes quartus ordo etiam
augebit. Na ques admodum tenues aspirationemutabantur: ita P Abilum additum in
alium ordinem transibut. eo enim duplices evadunt,ex Quincunx c, et s, no ftrum
x:ex P, et s,Græca'y: ex T, et s, fieret aliqua pari exemplo:nequerepugnat aut
communi po testati pronuntiandi, aut Barbara Vasconu con € P T suetudini,
quiltse, proipfe pronuciant.Sed Ma GBD tricem fuam Græciam fecuti funt
Opicinoftri: a * ° quibus rccipere vna cum vocabulis quibufdam Ey z placuit
vfum diverfæ duplicis,z. Diverfæ fane, propterea quod et media cum'fibilo
iungitur,no aspirata: et poftponitur illi, noanteponitur: Du plices igitur in
suas compares foluuntur cum in-, He et untur: Faex, Faccis:Grex,Gregis:04. Os
Kiefsn.bos. CAP. XLIII. Naturaquedampropria, 1, vocalis. St et natura quædam
propria I, vocalí:Nam quum cæteræ vocales ante vocales corripian tur (hoc
effecit facilitas pronuntiationis, ni hil enimmoræ inter fimplices hiatus
infereba tur) vaatantum obtinuit quadam quafi præro gatiua, certis velocis
Græcorumoreproducere Dr tre 1 tur,rovėszíscilu,sit.id quod non penitus fine
ratio nefactum eft: Multum namque temporis poni- Comsa musin exilis vocalis
pronunciatų, propterea og Aatus cunctabundus exitinter oris anguftias: ic circo
Græci in multis, Latini parcius produxerė. Quemadmodum in verbo,Fio:quoin
verbove- rx * teres duim legem volunt constituere,errarüt: sic enim dixere,
Semperin co producii,nisisequa tur E,vt in ficrem: Hoc enim falfum eft: nam in
futuroFiet, item longa eft: vbi enim effet mul tisyllabum multitudine
fyllabarum, vocalis bres vitati quali supplementuin milêre. Sed illi per
ftantin sententia, adduntque, Non satis effe, vt £, fequatur: sed id
quoqueopuseffe, vt et, fequa =! tur in prima persona:at Fies, Fiet, non eft in
prima: verum adhuc errant: nam Fiemus,prima eft: itaque addere debuerant et id,
Vc effet fin gularis. Sed ne lic quoqueprocederet e senten tia: ita enim
priscoseffe locutos constat, Ficm. Cuius rei argumentum habemus ex analozia
fecundæ, et tertiæ personæ: eti præsto est Cato ñis autoritas: Qui ita et
pronunciavit, etfcri. ptum reliquit. SicPomba illa Dicem, faciem. Eius enim
vocalis fonus cum infinitivi Vocali con iunctus eft, Amabo, Amare: Docebo,
Docerc! Audibo,Audire: fic,Dicere,Dicem Fieri, Fien. Prætcrca, quam afferunt
regulam, non bene exprimunt liceniın dicunt: Produci, natin iis cuius persona
prima habebit i, at Fierem, elt persona prima, ipfa autem perfonam primam non
habet. Poftremo non est ratio hæc vlla, ked observatio: at observatio neminem
cogit, nog fed oftendit,quidinvenerit turpiter autem qui mugedam recentiorum
corripuerein Fio. In fecun l 1Ulman dis autein casibus pronominum quorundam et
relativorum, quare corripiaturin promptu ratio est,quippe ante vocalem:at quare
producatur,fi cut ne aliarum quidem rerum, nullam caufam af signarunt,lllius,
istius, Vtrius, Vnius: quare eam fic eruamus nos: Quæ ad hunc modum cxeunt,
nonita oliin pronunciabantur: nam confonans inmultis,non vocalis
reperietur,Cuius,Eius: lic erat,IlleIlleius:fic qualidiphthongusGræcare mansit,
ac longa fuit. Ergo vir doetiffinus Te vrentianus non fuit veritus producere in
Alteri us, quum tamen cæteri corriperent. Ncque e nimverum est, quod aiunt,
corripi propterca, quod fyllaba vna numerosius fit, quam cæte. ra eiusmodi:
neque enim eft Altrius, quemad modum Vtrius: fed fane quomodo fuit Vterei us,
sic Altereius. Neque vero eorum ratio bo.na eft: fed vfus contentus fuit
communi regu la, vocalis fequentis vocalem. Analogia autem etiam in cæteris
conftar. Nam fecundus casus, Poffeffivus dictus est: Poffeffivorum autem mul 1
'ta fic invenias, Petreius, Luceius, Locutulei us, a petra, luce, locutione.
Quxautem Græ ca lunt, non solum disyllaba,vtdixere,deChio, Dia, fed
etiammultisyllaba', vt Sophia,et lo nium. Theocritus enim illud produxit in Sy
ringa: hoc autem etiam omnes Latini. Nam quod addunt a Station Templa Lycie da
bis: non facit ad præsentem observatio xem: eft cnim Auxcio,cum diphthongo. Ge
1 minata IOI ' i 7 1 $ minata quoqueet in seipsum concreta,syllabam
potestproducerecorreptam,vt in decima satyra Iuvenalis: Eloquiofed vterg,perit
orator.effe enimdebuityand periit. Divisa contra passa est moræ divisionem,
Mihi, pro Mi. et interpofita alio elemento, mois Tibi: oi,Sibi:quemadmodum
fupra diximus: Ti,x enim, et Si, olim fuerant. Cuius rei argumento funt alij
casus, Tis, Te, Se. Proprietas quedammutarum,semivocalium et. Ropriumutarum, ve
vocales naturacorre rheto prashabeat, Ab, Ad, At.sed c,variat:Lacenim longum
est, sic Hic, adverbium: Hicpronomen breve; et Hoc, apud Plautum, vt docuimus
in li bro decomicis dimensionib. Disputant,an Fac. Cung brevesit: verum apud Plautum
eundemin Cure' Fac gulione longum elt. Sedgrandiorem gradšergofac ad
meebfecro.Al tera enim estsyllabaspondei. Sic etiam apud O vidium in primo de
Remedio: Duriusincedit: facambulet. Nam litigiosi Grammatici perverterut, cum
volunt depravare, vt legatur, Obambulet:ne sciunt enim quid sit, obambulare.
Neque e nim in vetustissimo codice aliter,quam vulgole gitur: et ambulantem
vult videri, ob vitiu: nam obambulare,nihil eft neceffe. Duo quæ afferunt
argumenta,nullafunt. Primum ab exemplis,v - 1 bi corripitur: nam in illis Face,
fcriptum est: non Fac. Alterum ab analogia: nam si A pocope2 1 3) ] G iij * 102
Ivl. C's. Scal. Lis. 1. in aliis non produxit vocalem, Fer, quod crat: Fere,ne
in hoc quidem debuit. At. n. non fem persequitur nosproportio illa:vtin
Fio,Fies, Fi erein, cadem vocalisnunc longa, nuncbrevis est; et vfus
extorquetmuta. Apo ope quoquemul ja produxitbrevia, quum moram, quam tubdų
cebant ex consonante subtracta, reponerent in vocali; Pecus, brevem habet
finalem:Pecu, lon gam. Quare illi iidem dedere manus, addu ai Ovidij manifesta
autoritate, in primo de Arte: Hosfac Armenios: hec est Danaeíaproles. aking
Quanquam autem hæc corum natura est, ta men aliis quoque camperis,fed vario
fane even tu,Mel,Vel: En Nomen: Ver, Per. Mesemper çor one ripitos, Sibilus
varius eft,Suus, Suos. Dicimus autem commodius nos,quam veteres dicebant, mutas
habere vocales breves; at illi aliter locu malamiti sunt, Mutas esse breves,
dupliçes autem lon gas: Neque enim consonantium affectio eft, yel corripi, vel
produci: fed quarundam natu ra est y patiantur vocales corripi: duplicium autem
efficere, vt illæ producantur. Șienim con fonantes producerentur,aut
corriperentur, non « egeremus vocalibus in pronunciationc:ncquee (nimtengres,aut
temporain consonantibusfunt; z,enim producit:non est products ipsa. Sic'non
reet te dixere liquidasesse breves: ncque illa ora etio proba eft, Liquidæ
brevem efficiuntiyllaa bam. Nam quod duplices longam faciunt mo s ra ac
difficultasin cauffa eft: at liquidębrçvem facere non poffunt: fi enim
possent,vbicunque poney 1 Du fue • ponerentur,faceret:hocautem falfum eft:sequi
turenim tam l.quam R, longas: vt uñaoyswow. Sic duplices,aut duplicatæ, non
producuntqualibet fyllabam:nam tūkis priorem produçit natura, na positione:
sic, yncasa. Nonfaciuntigitur vt fit brevis, fed permittunt, neque
mutant:nullami gitur habent a ionem: vtin Patre, nihil mutat, fed patiuntur
talem tantamģueelle,quanta ratin Pater. iccirco a Græcis et molles, etvda dia,
etx sunt: at mollis non est agere, fed pati. Deaspirationis poteftate fecundum
loca, INterestaspirationisomnib,interdum praponia vocalibus:vni autem y,
femper,nilimore Aco- tini lico: eam enim non aspirant, vtdiximuseIgmca dio
autem inter, A, E,1,0, Athenielium imitatio ne, qui X TAHAN, scribebant.exempla
funt, Ha mus,Herus,Hio, Honor, Humus: Vaha, Vehe mens,Mihi, Oho. Præterea
anteponi diphthon gis omnibus,Hau, Hcu,Hei,Hac, Hoedus. Hu iussonum mępuero non
audisses:nuncmaxime” observant literari:quida erią putide. Indo etti vero etiam
locis non neceffariis, ita, vt latrare videan. tur: id et irridebatin Arrio
Catullus poeta: cuius fales quum Politianus exultabundus iactar fefe ințel
exisse,non est assecutus. neq;enim satis est, cat tam,
deprehendereaspirationes,quæibitüessent afcri.charta'. præ:fed opus fuit
cautonelepidissimi, poeræ festi vitas refrigefceret.Nam quare, multa verba cum
proposuiflict,Chommodaet Hinsidias, clausite pigramma flu et ibus potius lonij
maris, quam I. Adriatici? Sane quia ab
Ione cum diet a effet tų regio,tum mare,factum eft ab Arrio, vt ab hiatu, quem
aspirando affc et abat, Hionij dicerentur, CongoConsonantibus tribus apponitur,
quarum ex na hy emplafunt, Chremes, Philippus, Thraso. Non temere autem
dubitatum eft a nobis olim, vtru Ane pia wyr, ab aspiratione antecedatur
vocalium more, Cobek restulan antecedat eam ritu consonantium. Ratio du bitandi
fuit; nam quum aspirationis loco pone bant, B, præponebant ipli R, vt Bretor:
ergo si vices gerit,videtur etiam locum vindicare. Præ terea R,nulli
confonantium præponi poteft: er go neque ei, quæ consonantis habetur loco. Sa
ne vero aspiratio ante vocales statuitur, neque valde differt ab Acolico
elemento." Poteft et il lud augere dubitationem: excogitaturos fuisse
Græcos aliquam notam qua concretam afpira tionis et illius literæ significarent
potestatem, fi cut cum complexi sunt, alia tria, 0,1,x. Sed no tula imposýta
ipli Roostenderunt eundem vsum - aspirationisin co fuiffe,qui et in yocalibus
intel Comhaligeretur. Contra tamen Latinietiam in yetustis monumentis
postposuere. Causa afpirandi fu it foni volubilitas, atque vibratio, vt
diccbamus. In omni autem vibratione recipitur aer per in tervalla: quare intra
ipfum potiuselementum a spiratio ipsa, quam præposita percipiatur, La tini
autem sprevere illam asperitatem. Na quem noLahiris admodum extra ipsum K, eam
deprehendasae ris crassitiem geminetur? enim, quod apud Cræcos fit, non possis
præponere fic, Pyfrrus, fcd fi postponas fic Pyrpfrus, non potius video re ros
Roiz, re priorem literam, quam pofteriorem onerare. Quidam minus sapienter
etiara Romamafpirats cum tamen Romani ipfi de fuo R, omnem exe merint vsum
aspirationis. Stultius autem, quie tiam Renum fluvium: neque enim Germani ei
elemento apponunt flatum vllum: Leniffime e + nim sua lingua
pronunciant,iudice, etannulum, Richter, et equum, etalia. neque par est
nobilissimæ gen Ring, tis fluvium a Græculis rationem nominis acce Rf:
piffe:fed qua nunc voce pruinam appellant, for tasseaquam omnem gelidam, atque
inde etiam Renum nominarint.In opdGautem etOzolucov vidcris quemadmodum præponatur
ipli R, fuit enim regedod. CAP. XLVI. Demodo, ac rationescribendi. Ostquam
literarum originem,numeru,cauf-tako fas,atque ysum contemplati
fumus:interestyuaphone's veri philosophi illud quoque indagare, vtersit
modusnaturæ propior in fcribendo:ifne,quein Hebræi fequuntur, a dextra noftra
in sinistram introrsum:an nofter, quia sinistra in dextram ex trorsum excurrit:
eft enim motus vna ex causis li terarum: quaremotusipsius ratio five modus li-
ie terarum quoque generationis erit affeettio. At- 4f. queilli quidem tuentur
se mundi origine, quafi cum naturæ legibus omnia inftituta fua tumin
corruptąnaet i fint. Cæterum hoc nihil iuverit cos: quippe multarum artium
invęta postilla ru dimenta emersere. quare consulta factum sit, vt multis cum
aliis corum legibus, hocquoque fit GY d Si 106 IvL. I cmendatum: atqueiccirco
arazionibusdeducen da fint consilia huius consuetudinis. Poterutaf ferre,
motumcæli effe a dextro in finiftrum: at queita eorum tra et um in scribendo
cæleftēmo tum imitari: a dextro enim in sinistrym ducunt. Huic rei fumma cura
certis in locis refpondimus; etin libris de Calo, et in Commentariis de In
fomniis. Cælum neque dextrum habere,neque Chafiniftrum.Ad hæc multæ sunt
rationes,quib.per 1 yerse scribere arguuntur. Principio motusma nus naturalis
extrorsum est. quies epimintusad peet us et oculosin fætu. igitur primusmotusex
trorfum explicatur. quarepugna quoque ficcies tur, et cætera opera, extento
brachio, non retra. z cto. Præterea nobis relinquitur fub oculis ad
contemplandum, quid, quantum que descriptum fit: quod illis calamo acmanu
tegitur item in « dextrum humerum converfa facic funt ftatuæ, atqueimagines:
sic enim etcreditæ sunt opus su um refpicere, et contra hostem stare:quare Aqui
larum roftra in fignis ad cam quoque partem fi et a fuere. Ergoobtutus nofter
suapte natura plus dextrorfum versum fertur, Illud vero argumen tum invictum
est, cosipfosinter fcribendum li: terarum ipfarum virgulasac lineas directas
aut transverfas a finiftra inchoatas, in dextram defi, nentes terminare.Quæigitur
partis ratio, eadem etiam fidtotius et quemadmoduin linearum tra f et us,ita
literarum quoque ordo servadus erit.Sed Notexpripam priusinvenitgens illa, qua
scripturam. Textores enim tramæ primum filum introrfum iaciunt:idautcm coaet
ti, non natura, quoniam dextra manu cum incipiunt, et finiftræ operavi cissim
petunt,fic motus fuit auspicandus. Verum iidem ipsi, vbi cætero opere naturæ
legibus ad movendum libere vti poffunt, poliuntque telas, aüt pannos, aut sepum
inducunt, et furfures: tum vero extrorsum versus a sinistra in dextram, iure
suo vt fruatur manys in excurfum, faciunt. Elementorum affe tus adprincipia
fyllaba constituende. A et enus quæ cuiusque esset naturaitteræ, dici- Rako
mus,explicanda eft earundem ratio,quam ad fyl labam ipsam cõstitucndam
iniredebeamus. Co fonantibus igiturconvenitomnib. di ettiones in Puchonse choare,
atque etiam terminare, præter G, Qız:hią çnim nulla præfinitur.nam confeflum
eft VESPE RUG, ita fcriptum esse,ficutPont.Max.item FOR TITUD. sicut TERT. et
EXERCIT. Dep,non opore çeţ dubitare: Volup.enim etapud Ennium et, a - Y pud
Plautum etiamnuocquibusdam verfib. ex tantibus de seipso facitfidem. Vocales
autem z que omnes, et inchoant, et claudunt, Ama, Ede, Oro, Ivi,Vsu.Item
diphthongi,Ænças, o Ebalia, Eldus, Euge, Aurum: et claudere, Væ, Evæ, Hei, Hau,
Heu. Vocalis vna Græca ab initiis exclufa fuit lineaspiratione,nisi
moreAçolico,y. A dua bus consonantibus poteftincipere, ficut aduab.
vocalibus,vt Cras: fed etiam a tribus, vbifuntli quidx cum c, P., T, líbilo præcedente,
Scopus, Scrus s' 0 I 108 Iul. II. Scrupus, Spledor, Spretus, Stalatum,
Strepitus. et apud Græcos etiam addita aspiratione, odegyis, In duaspoffunt
definere, Hyės. etin tres, Stirps. Quarum quædam iam sunt declarata. sed hîc
per conclufionem quandam colle et a fint pro prin cipiisfyllabarum, more Peripatetico.
Que fitformasyllabe, quamateria, VEMADMODUM ex elementis primis quatuor
naturain vnu coalescentibus fit id,quod mistum dicimus, et ex puneto fit linea;
ita ex literarum coftitutione id con fieri dixere, ab ea comprehensione ovina
lew Græci vocant: q obcaufam etiam lic definivere: hrib Syllaba est
comprehenfio literarum fub vno ac centu,etvno fpiritu indistanter prolata. Quam
definitionem et falfam effe, et eius partes male cohærere oftendamus. Nam
ficuțlitera ipsa est quiddam indivisibile, non autem privatio divi lud fionis:
ita fyllaba erit quiddam divisibile, non au tem ipfarum partium comprehenfio:
atqucid ex co manifeftum est, cum dicunt, fyllabam ex bi nis aut pluribus
literis conflari:at comprehensio non dividiturin literas: nequeenim vnio mate
rix et: formæ corpus ipsum eit. Male etiam dixere prolatam: acciditenim fyllabæ
proferri:poteste nim et fcribi, et in mente reponi ipla: quare ita di cantreete.
Quæ proferripoffit. Tertius error ex his manifeftuscit: nam G lubyno accentu
eft, eric et fub vnospiritu, et fineintervallo: suum enim quæque fyllaba
accentum habet: ' vacant igitur hæc. Poftremopessimo consilio putaruntomne
mnyama fyllabam multis concrescere elementis: accidit lekerk; enim huic
rei,quam syllabam appellant, nume ruselementorum. Si enim essetessentia
syllabæ, ergo substantia reciperet intentionem et remif fioncm:hocautens falsum
eft: atquehac ratione, pois fyllaba hæc Stirps,effet magisfyllaba, quam hæc,
Ab: aťmaiorest p quantitatein, non autem ma gis per substantiain. Nam
quodaiuntmonogra matas ' vocales, non esse veras fyllabas, ridiculum est.
Quidigitur sint? Imo vero verissime sunt hoc, quod falso nominesyllabæ vocat:
quoniam pacaloy nga etpriores funt,et fimpliciores, et hocipfum funt, quod
aliis communicant literis. Syllabæ igitur econe i'ne nomen falsum est,
atqucaliud quærendum: vte mur tame vsitato vtintelligamur: definieturau tem
fic, Syllaba est elementum subaccentu. Ita- alt frankos queetmateriam habebis,
et formam: eftenime lementum materia:id autem perquod accentum poteftfuscipere,
forma. 1 Acci IIO ivi. L 1 B. IL w.Accidit autem numerus elemetorum syllaba
ficut plan is foliorum et ramorum, etradicum,et fibrarum. Nam animalibus quoque
satisest, si ýnum instrumentum habeant sentiendi:neque enim desinunt effe
animalia. Itaquelianimal de finias, falso apponas, pluribus conftitui. Hos au
tem quod dicimusaccidere, aut fitquod Græci proprium vocant, aut esto etiam
differentia fpe cies certasdistinguens in rebusnaturalibus:at in fyllaba DĖ,
nulla forma eftfeparanseain ab hac fyllaba, e: fedpars illa tantum inaterialis
scilicet, Daccidensipli e. Numerusautem est a fingulis ad senas vsquc,a, Ab,
Abs, Mars,Stans,Stirps, xi 998: dempta enim diphthongototremanent. Sekrompi.
Germanis etiam longe maior. Intelligoautem nunc diphthongorum vocales numero
notufa rum,non sono feparatas. Aut igitur fola vocalis Wir helt:aut cum alia,vt
in diphthongo: aut confona tem vnicam præcedens, Ab: autduas, Abs: aut tres,
Stirps:aut vnum fequens, Da: aut duas, Dra. co: aut tres, Strenna. Quare licet
non adinif rit vsus,tamen quantum earuin natura fert, octofte literarurn
poteftfyllaba: fiquidem trinis oblideri consonantibusdiphthongi sonus patitur.
Eam tamen afperitatem mitiorem fecit vlus,exhilara - A53 ta'tristitia
confragofæ pronunciationis: vtalter nis,sitres præcederentcolonantes,duæ subirent.'.
ete contrario. Consonans,que interduasvocaleseft, vtriapplicetur. Riore libro
de Systali et Diastasi dixiinus: vt literarum ' mutuam cognationem, quæ pars
eithe 2 er 21" Do Ĉavsis LInc. Lat. tü Ś. Erat poteftatis
intelligeremus. Nunc vero videnia dumeft, quod et veteres disputarunt; ad vtra
fyl labam constituendam conparetur consonans, quæ inter duas vocales fita fit.
Ac Herodianus quidem ita sensit, qualemcunque vocalem hæ rere præcedenti
consonanti: fi dictio inveniatur, soula ab eadem incipieņs consonante. non quod
hoc illius cauffa fit: sed quia per hocillud cognosca tur.vtin verbo Fero, quod
bifyllabum sit, R, po sterioris vocalis effe, non prioris: idemque in co.
pofitis debere observari.Nam quanquam ex Ab, etAetus, coinponirur, Abacus,
tamen vbi duo hęcin wnurn convenere,B, coire cum a; sequenti in fyllabam,non
cum præcedenti. Sed adversus C- s, hanc senrenuam fic argumentantur:in abigo, a
B, accedit ad fecundam vocalem, ibi primanon ' poterit corrip,propterea'quod
iam fit A, præpo sitio, quæ femper et vbique longa est. Item in Circumago, non
fieret clirio ipsius m, si sequen ti applicarerur: p ærereain Abhinc, et
Adhuc,b, et c,aspirarentur: id quod eftabfurdum,ac nuf quam receptum. In tandem
fententiam videos tur inclinare Quintilianus, atque in vocib.com pofitis
syllabas dividire pro modo partium, in Arofpice, et Abstemnio. Vt has rationes
solvain mus, animadvertendum eft, cum ex duabus vocibus vra fit, non accentum
folum, fed litems rarum quoque exigi cohærendiam: neque e. nim ita pronuncies,
A bactus, compositum,vt Ab, Aetus, difiuncta. quianam igitur pronun ciatione
efficietur, vt B, a fequenti vocali fub bahatur? Adhæc,lipicuita a petendo
vitam dom > 2. catur, nisi cohæreat T, cum v, semper sit v, con. sonans:at
non eft.Sic in hac voce, Etiam, duæ ef sent fyllabæ, Et, lam: est enim
consonans i, in Iam: fed pronunciationis tractus cogit nos ele menta coniungere.Poftremo,
corum regula hæc eft, et vera:Nulla fyllabaaspirationeterminatur. Igitur in his
vocib ',mbwuszeor, et diximus,apud Lycophronem, et dimostov,quid comminiscen
tur? aut enim in aspiratam delinet prima fyllaba, autid fiet, quod nos
censemus. Nam argumenta illa omniaridicula funt:ac primum quidem'puti dum.Nam
in Abigo, licet B, subtrahaturpronun ciatione,non tamen est A,præpositio, sed
vocalis ipsius AB, non enim propter B, sit A, dut longum, aut breve, fed vfus
autoritate:neque enim fieret vnum compositione: fed fit tamen: quare quam
quisque poteft,fedem occupat. Neque vero dica mus, quod is, qui ita corrupit
versum Ovidia num Sive quis Antilochumnarrabat a Memnone vi ettum. quanquamin
compositione, five lim pertinacius cavillari, oftendam in voce hac Amarum,
etiam corripi,fi illorum trupov sequa 2mur.quoniam aMari,venit:Alterum argumen
tum sic diluimus, auferrim,in Circumago, quia subiens vocalis non patiatur, non
tolli autem, si nolis. vt apud Ennium, Tumdele etta virum sunt millia militum
octor quod et in Comitio, manifeftum eft. Nigamus enim hoc,femper poftremam
consonantem acce dere ad fubeuntem vocalem: fed id tantummo do evcnire,cum
eiusdem initij reperitur, vt dixi (Inuse mus, vox. Quare cum nulla vox a B,
incipiat al piraro,disiun ettis sedibus hæc duo inter fe erunt. Sicut in
adbibere, nemo nostrum dicat præpo fitionis confonantem, cum initio verbi
coniun gi: impeditur enim. Hocigitur impedimentum etiamab ipsa aspiratione
allatum est. Ex his sequitur,in fimplicibus tantum,fifylla- saj n2 ba incipiat
a vocali,necesse esseeriam præceden tem vocaliterminari. In compofitis autem
non neceffario:Comitium,Coco. Item quemadmodum fyllabarum initiaa vos isa's cum
initiis menfurantur: ita et fines a finibus. Quare in voce hacIlhic, debet
etiam effe aspi ratio, quammale faciunt,cum omittuntrecen tiores.Cum enim
reperiatur fimilis literarum fo cietas in verbo Est, potuitprima fyllaba
esfellt, postrema Hic: atin yerbo Illic,non potuit:pro. pterea quod nulla yox
in eandem desinit ge minatam, neque ab eadem geminata vlla in. cipit. Illud
quoquehinc constat, in quamuis voca- receila lem desinerefyllabam polle, quauis
sequenteccoccoon nang fonante, Itemque syllabam non finalem quali bet
consonante terminari,quæ geminetur. quod fiduæ diuerfæ fint,in F,G,P,s,nequeuntdefinere,
Hisenim nõ finitur fyllaba, nili geminatis.Quod autem etiam addidere, B,etT,
errarunt, Abnuo, Atque, Abseco,Ætna. In q,nullam terminarive rum est, quia v,
habeat comitem:Sed in c,non estverum,Ecbasis, Ecquis,Eçdosis, Pyracmon. Quod
autem addiderunt exemplum Acnc, fal. fumeft. Scd.c, transit cum Noad finalem
voca H lenlem:quia dicimus,Cneus, Cnidus. Sicut etillud erraruntidem in A et
us:dicimus enim Ctelipho. In'd, autem definit sequentibus fere omnibus li
antiquorum more maneat incolumis in com pofitione, Adbibo, Adcurro, et reliqua.
In 1, definit, cum mutæ fequuntur, Album, Calcar, Caldus, Algco, Alpes, Altus.
etante semiuoca les, excepta R, Calfacio, Almon, Alnus, Alfiosus. etconfonantes
duas, Aluus, Saliuncula. Eandem proportionem na et umeft R,Arbor, Arcus, Ar
deo, Argus, Arpi, Artus. Item ante femiuocales, etiam ipsol, viciffim non
excluso, Arferia, Ar ma, Arnus, Arsus,Perlego, et vtranque confo
nantem,Peruicax, Periurus, etiam ante ipsum Q. Arquites. In-H, nisiperApocopen
fyllabam exire ne garunt. Ah, Vah. fuiffe enim Aha, Vaha. et verifimile fit ita
factum effe: fæpe enim do tentes etiam nunc fic geminatum pronuncia Inm,fi
sequatur B,P,Ambo, Amputo... " In N, fubeunte “C”, “D”, “F”, “G”, “H”, “Q”,
“S”, “T”. An con, Andes, Anfraet us, AngeronaAnquiro,, Ansanctus, Antes'. et
more veterum ante R, Congruo. etin paucis ante duplices duas,Anxur, Zinziber.
His rationibus deduci poteft, fyllabam termi. hari poffe quauis confonante,
cuius natura lita sptageminati. mory Item constat, veteres ca sententia falfos
effc, ss fyllabam finiri ante c, in Abscodo:etenim,Sca tam,dicimus. Ncqueverum
effe, inx, delinere fyllabama mus.nis. nem. fyllabam sequente vocali. quippe
diximus, Xer nia: et Anxur,eorum fententiam iugulat. Omnis autem litera
præcedens i,aut v,çonso nantes, neceffariofyllabam terminat, fi eas con
fonantes aliæ sequantur vocales: yt Cuius, Perią. rus,Aduolo, Cauum. Namin Cui,
et Huic, nul. la fequitur vocalis. Item fi ipfa geminetur, Maila. In X,autem
desinit fyllaba præcedens c, et co.2 parem fuam, q, et P,et T.Excurro, Exquiro,
Exzen. pono, Extendo.itemL, Exlex, z, femperinitium syllabæ facit, punquam fi -
2 Nulla diphthongus in duas definit consonan tes: non quod eius natura
repugnet, vtdiximus; fed quia vsus fic obtinuit. Duplici enim poteft terminari,Fæx,Faux
CARL Syllabarumaffetme Voniam fyllabarum fubftanţia partimex materiafit, quæ
funt fiţerxipfapartim: ex unol'est forma, quæ eft ipfa natura recipiendi pronun
çiationem in partem di et ionis: fyllaba iccirco affe et us quosdam pa et a eft
fecundum materiam, yt numerum elementorum: alios autem fecun dumformam, yt
tenorem,fpiritum,tempus.Do pumero igitur primum diximus:materia enim quam
formaprior.Denumcri autem affe et ionis bus nupc. Syllaba prepositio,
geminatio,appofirio,interpofitio, ablatio,extritic94bleißcran politia Vm igitur
ab singulis ad fenas literas fylla ba augeatur: quibus affe et ibus eius partes
obic ettæ sunt, iifdem etiam ipsa agitata cst. Nam quemadmodum præponebantur
elementa,fic et syllabæ, Durus, Edurus. Interponuntur, Impe
rator,Induperator.Apponuntur, Videri, Vide fropiatier.Hocautem amplius, quod
abnullo gemina to elemento incipiebat vox:at incipit a syllaba geminata,
Pupugi. In nullum geminatum deli nebat:at in geminatam desinit, Scindidi. Con
tra, Elementa in medio geminabantur, fyllaba pane vautem nulla: vicissim quoque
aufertur, vt apud Vergilium, Inter secoiseviros, et cernere ferro.pro, decerne,
re:ficenim legunt, abscinditur, Vaha, pro Vah. etapud Homerum, fwy wpło nima,
prodwa,kestis Astorgow, quod et lusitin poematico monosyllabo rum doctissimus
Ausonius. Exteritur e medio Deûm,pro Deorum.TransponunturQueibam,, etAdeibam:
quod Adiebam, et Quiebam fuit poftea. Mutari vero syllabas vt elementa, omni no
constat ex eo, quod vocales mutantur ipfet: quarefyllabam ipfam mutari necesse
est. Acque Gura admodum ex vna litera duæ fiunt, Mihi, ex eo quod erat,Mi,et
contra:ita euenit fyllabis quo que,Aquai,Aquai,etCui, Cuï.econtrario apud
Varronem, Et te flagrantideieettum fulminePhathon.Et sicuti quædam cx clementis
semper præponuntur, vt z, et
v.consonans, et q: nunquam poftponuntar: Alia e contrario postponuntur femper,
yt, V, quando neque confonans neq; vocalis eft: non nulla fine discrimine
vtranlibet fortiuntur fe dem: ita syllabæ quoque, quæ ex illis suntconsti,
tuta.Affe ettiones aformasyllabarum. Accentus. Væ vero fyllabæ
acciduntpropterformanı per quam syllaba hoc eft, quod eft: ca fub accentus
appellatione, tripartita diuifionc complexifunt: Tenore,Spiritu,Tempore. Hoc
igiturloco quid fit Accentus, quoquemodohæc contineat, videamus. Canere Latini
ab hiata Cana dixere Græca voce Exaver: nam Æoles ab co WS quod eft x cives,non
apponuntincrementa præ teritis,sed dicuntyavor,demuntqueaspirationes. quasi rem
Barbaram. Est autem canere, vocem modulis certis tollere, autpremere: certilq;
tem poribus producerc, aut corripere. Idquod cum in pronunciando necessario
eueniat,quibuslegi bus fyllabasmoderaremur,eas legesAccentiones, Acorns
Accentus, Accetiunculas,Moderamenta, Vocu lationes
Latinivocarunt,Græcos,imitati,qui ea dem de caufla megtudhas nominabant. Cum
i.nthin giturvocem quantitate metiamur, et fyllaba in voce fit, vt in fubieetta
materia, et quantitas tri plici dimensione conftituatur, Longa,Lata; Alta: $
neceffario fyllaba quoque iisdem rationibusaf fe etta erit, vt Leuatio aur
Preffio in altitudine Afflatio aut Attenuatio in latitudine: Tradu Hiij, ia 0 1
Sto 20 M ti Mm et i n3 Ivt. II. + in longitudinefit. Hæcigitur tria interdum
vnt cidemque syllabæ aliter atque aliter cum poffine contingere, videmus eandem
longam aliquando circunfexo, aliquando acuto insigniri: alteram vero nunc
tenuem, nunc aspiratam:non poteft keri,quod quidam profeffi funt, Accentum effe
modum quantitatis syllabarum: vnam enim tan tumvim ex tribus compleši funt. Sed
nos fic de Eniemus,Modus fyllabæ. Intelligo nunc mo dum, quod Vitruuiuset
HoratiusModulum, id eft, menfuram propofitæ rei. Ouomododiftinguantur inter
setriansembra diuifionis,o Tenorumratio.,quot dimen fiones: Altitudo, Latitudo,
Longitudo. Quare falli sunt veteres, qui Accentum fyllabæ quali
qualitatemidefiniuere. Grauecnim etleue in E lementis primarium est. Inde
translata ratio eorü ad dimensiones quantitatum, propterea quod locus fit
fuperficies ambienslocatum:motusau tem fiat in loco:graueetleue ratione et
motus et locorum dicatur. Igitur in voce quæ esset affe ettio aeris, inuentæ
sunt rationes quantitatis,fea omnes fundum aeris dimentiones: idquemathematicis
incis deprehensumeft nam altitudinis ratio eft w kylineaperpendicularis.
Iccirco cum vocemtolle remus, ca liñca signataest. Sed cum eadem linea fecundum
superiorem partem indicetaltum, se cundum inferiorem notetprofundum: facien Cum
fuit, vtleuatio vocis diuerfam notulam haberet adepressione. itaq; excogitarunt
virgulam afscendentem,eo tractu quofcriberemus, index teram scilicet nostri
partem sic !. quæ autem de pressam indicaret,quali caderet contrario situ, /.
Cadit enim manus noftra cum pingimus eam, Atque hanc quidem suo nomini
reliquere,Gra- your vemque appellarunt, ab inftrumentis scilicet vo cis:
propterea quod in gutturaut pectuscam de mitteremus. Alteram autem prioremillam
ab ef fe et tu potiusnominarunt,Acutam:ferit enim au. res, quarum
viribusobieetta eft:acfane plus ponas spiritus latiorisin grauivoce,
anguftiorisautem in acuta. Quare et pueriacutius canunt, quorum guttutangustius
eft: etlatiora,crafstorague instru mentagrauius fonant: vt etiam ab illis
grauem sonum dixerit Pythagoras. Ita omnibus in rebus se certissima ratione
libi ipsa respondet natura. E venitautem yr duæ fyllabæ inter se concurrerent,
Hilers quarum prior priorem haberet, id eft Acutume altera posteriorem,id eft
Grauem: quareex cum coalescerent, concreuerunt in vnum etiam ipli apices,fic,
A. quem Græcicum mesco wjfuer dixc re,abusi lunt licentia inuentionis: neque
enim circuntractus fait, sed suarwufor rectiusnomi naffent. Nostri quoque
Circunflexum cum ap pellarunt, ad celeritatem potiuspingentis manus respexere,
quæ vnico motu virgulam arcuatam fecit,angulodempto fic,, Hosomnes Græci tokss,
vocauere,translata eneo rationc a fidibus, quarum intentioneautremifm.com fione
acutior graviorveredderetur vox. Inde nos Tenores, propterea quod noftrum
tenercindea Hiiij. du 0 Move duxiffemus, fcilicetadToTeiverv.nam quod ni xu
quodam arceremus, id beneficio TWV TVMVTON fieret: et tranflata fuit significatio
ab helcyariis, et aurigis currus inhibentibus: item militibus prædam
diuidentibus. Hocpotes ctiam percipe reex maximi poctæ Oppiani piscatione
quadam, atqucanteeum ex Theocrito: quorum versibus trahentium tenentiumque nixu
primarii nerui TAYOY TIS extantesdeclarantur. Siigitur Latum a Longo, et
vtrunque ab Al to distinguitur fpecie, specie quoquetenores a { piritibus, et a
temporibusdistinguentur. Ve rum non ita eft: perpendiculariseniin linea a dua
bustransuersisdecussatis non diftat specie.Sedin so spire Ziance. corpore
quadrato mobilieadem linea nunclati embar yang Xudinis,nuncaltitudinis,
nunclongitudiniserit: neque enim differunt,nisi accidente.Id quod fa ne
pertinet ad Metaphysicum: et tactum efta no bis atqueexplicatum in quarto
historiarum dea nimalibus. Spiritus, Lter fyllabæ dimensus est Latitudo, secun
Info dum quam fyllaba est aut Craffa, aut Te nuis. nam præterquam aut producas
aut tollas vocem,dilatare spiritum potes, atque adderevel vocalibus, vel
consonantibus. In tenui autem pronunciatione minus exit fpiritus: namet hoc
Computerrarunt veteres, cumin tenuinegarunt spiritum nouelle: sine fpiritu enim
non esse vocem in quarto hiftoriaru,etin fecundodeanimadeclarauimus: Nullum enim
animal pulmone carens, vocale eit:fed lonum emitterealiis inftrumentis constat.
Iccirco nmin, Græci vim illam vocauere, noftri leuem:propterea quod craffum in
corporibus vi- www deretur effe graue: et lene, quia facilius laberc-. tur. Hoc
quoque ex philosophia depromptum est. Nam corpora latiora, vt laminæ plumbex, diutius
fluitantin aqua: breuiora autem citiuse uadunt ad fundum. At eadem ratio eft
corpo rum grauium ad descendendum, et leuium ad ascendendum: Nebula enim
angustior citiusaf cendet: sic et fpiritus præterfluit commodius fauces, quo
est aret iore superficie. Qui ftudent voculis mutandis, maluerc dicere
Læuigatio nem, male: neque enim ipsa fin læuigatvoca lem, sed nota est vocalis
læuigatæ. Catullus autem eo, quo diximus, epigrammate vtrunque coniunxit,
Audiebant eadem hæcleniter, etleuiter. Alteram Græci sarão, noftri Denlam:
ftipa tur enim fpiritus vberior acfrequentior inter fauces: itaqueet Crassam,
et Flatilem vocauere. Nam Aspirantem æque perperam, atque illam læuigantem.
Atqueolim quidem tu apud Athe nienses,tu apud nos, sola craffa nota,quam fupra
diximus habuit, H, quæ in ordineliterarum po neretur: vbiautem deeffet ca vis,
is defe et us,de fe et u quoque notulæ fignaretur. Poftea veroa RRatio vsus
obrinuit, vt feet a hæclitera, aspirandino-figma tam exhiberet dextra sui parte
fic, F: sinistraaut quæcontraria esset, contrariam quoque lignaret sig i.
Nequeiam inter literas, fedtanquam apex $ H V. literis imponeretur. Mox ad
celeriorem motum anguliilli, vt in aliis multis hebetati,redu ettæque norulęin
căpares semicirculosdextru læuumque fic, c,5.Quæremusautem et hoc veteribus
indif-. Anger cuffum: propriane hæc affe et io fitvocalium: an criam communis
consonantibus: videtur enim coaluiffe cum T, in, etcum aliis duabus. Verum in
libro superiore, neomnia turbaremus: secuti fumus priscorum fimplicitatem. At
hîc exa ettius interest philosophi contemplari haud ita effe: fia Rosolitus
enim craffitudo antecedit vocalem, non se quitur: fic, usagers ergo cum
præponitur confo hans ad copofitionem, ide flatus eiusdeelementi
cft,newbusegov: non autem consonantis, nisi qua tenus ex ea et aspirata vocalivna
fyllaba fit. De tempore Saudi Yllabæ morammaiorem minoremve longia tudinis
linea dimerimur: productionecnim Kone vociscomparatur. Itaquetardi sermonis,
aut citi dicimus hominem. Iccirco cui syllabæ plus im penderent temporis, eam
Longadixere:cui mi nus, Bredem vtrunque autem fub quantitatis ratione
continetur:fed ita, vtinter se referantur, atque relatione fint contraria,
ficut magnum et paruum. Iccirco vnopluribusve temporibus co Ititutas, dixere
syllabas. At omne tempus quan tum. Sed de numero videndum eft. Antiquific
dixere:longam conftars duobus temporibus,bre wem ynotempore. Sane reste: cum
enim syllaba breuis prior sit et natura ettempore, quam lon gasita
eiusmcnfuramagnouere,vt vnum tempus bac dicerent: quod tempus cum protraherent
adal terum tantum, non immerito et longitudinis ad ditione, et geminatione tra
ettus inetiti sunt. Ita-, quefiguraquoque longætransuerfa linea signa- Fashion
ta eftlic,-:Breuis autem dimidio tantum erat ex plicanda: fed inter scribendum
excurrentis in terdum manus error fallere potuiffet: quare ed deuentum eft, vt
notula; quæ circunflexo aduer faretur, aduersam quoque ei figuram haberet, fic,
9. propterea quod non nisi longa fyllaba circumflcetatur. Noneffeplures
accentus,quam quot dietifunts Vm igiturfyllabas non nisi prædi is mo dis tribus
dimeriamur, non nisi accentus semper ptem erunt:quoru Primus extrema duo,medium
habet vnum: Alter duo extrema tantum, fineme dio: ac Tertius eiusdem modi eft.
Iccirco erat ali quid, quod dubitaremus.Etenim relatiua ficain what's
rentmedio,graue etacutum,quo modomedium habuere circuflexum?aut fi inter ca
hocfuit:quar reinter tenuitatem etaspirationem nõ fuit, quæ erantcontraria per
positionem?In vtroque enim exit fpiritus:quarc etiam mediocris potuit. Acde
longa quidem ac breui mora iam fupra dictum libro, eft,quemadmodum in
musicis,ita in syllabis cer ="ubering ta ratione alia atquealia, plus
minusvenoræpo- Jam tant ni. Nam et longa fitmatura, et fubeat duplex,aut
duplicata, vttrğusyawarayvideturin ea pluspo ni temporis, quam fi fimplex
consonanssequa rur. Itaque etli longum breueq; ratione compa-7 rationismedio
carent: ipfæ tamen quantitates, 1 lab OG Tip Lico 124 IvL. II. Cibro de
ankitanchalia 1 in quibus litæfunt relationes, possunt magnitu dincaddita aut
dempta,medium recipere.Omnis cnim quantitas apta ' nata clt fieri vel maior,
vel minor, quatenus quantitas est, Dico autem fe sundum rationem quantitatis,
propterea quod corporatione fubftantiæ eius affectus immunia funt. eft enim
maior homo, vt est quantus, non vt apheft homo. Sic inter afpirationem extremam
et extremam exilitatem spiritus, fiue nuditatem, a liquod fuit medium: veinter
T, et, fuitd, et quæ fupra diximus. Id quod manifestum est,
liidiomataiplacomparentur: nanque Arabes af pirant suum: et Græcum x, fi ad
Hebraicum comparetur, non iam ficextrema,fed media aspi rata: efummoeniin
gutture Græcum,Hebra um ex imo pene pulinone prodit.In graui quoque et acuto
ratio par:ex vtriusque enim compositione faetum eft tertium quiddam medium,
ficut ex e lementis naturalibus corpus aliquod, cuius mc tus extremorum loca
non appetat. Harum au mohalgo tem differentiarum notulæ quæ medias illas na
mirasxturas indicarent,aliis atque aliis confiliis suntin ftitutæ. Nam in
tenore composito figuram ex cogitarunt. In spiritibusmediis non ita,propter ea
quod certis consonantibus includeretur,B,Gj D. In temporibus autem omnem
tractumqui ve sodiy num tempus fuperarct, breuitati neceffariæ op posuere. Dico
neceffariam breuitatem:iccirco quia estetiam breuitas indifferens in breaivoca
li,quæfitmutaliquidaqueaffinis. Tros notule abascenensinratione excluduntur.
then at Ergo E:non e VA runtaccentus tria illa,quæ Græciv.de,214500 alu, spoca:
nos Coniunctioncm Difiun et io nem', Auersionem ' nominainus. Falso autem in ter
accentus relatas a veteribus vidcamus. Nam Coniućtio, dictionum duarum affeet
us eftcom- Conapone positarum, quoties ex nulla facta partium mu tatione ita
cohærent, vt propter feruatam inte gritatem non cohærere etiam videantur. exem
pla in promptu funt: Ante-uolans, Ante -ma lorum: et apud Laurentium, Semper-
florentis; huic indicio figuram apte attribuere pando fe micirculo
supposito,lic, sumpta fimilitudine a b subscudibus carinarum:quibus afferes
coagmen tantur. Contraria huic Disiun et io:quæ quas mine voces posses temere
componere, distanti pro nuntiatione iubet pronunciari, vt in exemplo
Vergiliano, --in litore conpicitur,sus. De vrsus, legatur. Ei itaque eundem
locum attribuere quali paric tem hercifccntem familias. ac fatis quidem fue rat
virgula perpendicularis: verumne accipe retur pro vocalii, curuam pinxere:
cuiustamen cornua præcedentem complectendo di et ionem, præfcriberent ei mctas
quasdam. Auersionem Amat autem nostri Conuersionem dixere: at Græcam vocem
contemplere, Smespooni, illud non hoc signat: eftautem affectionon fyllabæ
nccef sario,fed literæ per se, fyllabæ autem per acci enim semper fyllabæ
defeet um o ftendit: sed femper literæ aut literaru quæ cuiuf piam fyllabæ
partes lint. Exemplumvtriusq;eft, Mult'illa desiderantur enim duæ partes il.
lius fyllabæ,Tvm, vocalis scilicet cum postrema confonante. exemplum syllabæ
eft. Dura vi'est, quæ fternititer dominatibus altis. defit cnim A, ytlit, Via.
Eftigitur nota defectus literæ: accidit enim vt fit aut literarum, aut fylla
bæintegræ. Defe ettus autem duobusmodis vsų venit: aut per Synalæphen, aut per
Suspensio milmem: ac Synalæphen quidem dixere veteres, "Tu i cum elisis
literis, vicinas coniungerent:vt inex emplis pofitisconstat.Eft metaphora a
glutinan uibus fumpta, quum delibutas ferruminatione particulas componunt, vt
vnum faciant,hocfuit e neimev. Id quod quum non poffit euenire in fyllabis
quibusdam, nisi demptis mediis literis, piccirco LatiniCollifionem affeettum
huncappel latum maluere: nam faneaffcctio fyllabæ illius deficientis eft
Colligo, non autein Coniunctio: neque ex illis vocibus vna fit. neque femper
vnus pes, neque femper continuatur pronuntiatione, vrin altero exemplorum
superiorum. Quare me lius nos quam Græci, Alter modus est, per Su spensionem:
quoties non excipientealiqua di ctíonc, prior amissa vocali sufpenditur:idque
alia quando simpliciterfit, vt apudPeetam, Mortalin'. pro mortaline. Aliquando
au tem multipliciter,vtapud Catullum, Vide'n ' vt perniciter exiluere: hîcenim
estamis fa non folum vocalis,fed etiã cõfonans: Videsne. Hancaffe et ionem
Græci nominarunt rospo plew, quoniam auerfi ab ea litera, quamfuftuli, mus
suspendimuspronūtiationem. iccirco įn su hernes periaS periore partequası
habenulas inhibendo excur lui dietionis appendêre, eadem forma quam fe cerant
Disiun et ioni:propterea quod idem effet officium limitibus præfcribendis.
Totum autem genus hoc fapientes aon appellarunt, reote. Sed quum syllabis
vniuerfum attribuerent, errassco stendimus. His ergo constat, vtin elementis,
tanquã par- emiling,people womanho vor tibus, et corum corporibus, vel
fyllabis,vel di et ione nibus, etmateria,fcilicet, figura, et forma estqua,
inter se differunt hocipso quo sunt:sicin corửaf. fectionibus,vtrunqueesseiam planum
fecimus. Caussa finalis Tenorum primum de Acuti accentu vu Oftaccentuum
subftantiam tam ex materia prima quam ex forma, quæ erant duæ caufæ quibus in
final constituebantur, nunc cauffa finalis contem planda est: corum ergo
vsus,cuius gratia sunţin ftituti, deinceps videndus eft. Ac quod ad no-, ftra
quidem tempora attinet, nihil turpius pu tamus, quam cantiunculis, et vocularum
tremu lisaflultibus gesticulari. Itaque feruata temporum duntaxat ratione,
feuerioribus fæculis omiffus eft fæmineus ille tinnitus, vnoque duetumultæ
voces codem tenore pronunciatæ. At veteres a liter consucuere,quorum leges
fuerebæ: Syllabæ glo? aut sunt in priuis vocibusaut, in iis quibus ora tio
constituitur: priuævoces funt, Amor,Er go, Perco: ex quibus possis orationem to
xere fic, Amoris Ergo Perco. Primo modo pallumeft nomca impositum, propterea
quod fos di ettio JO ܨܪܐ 12 hi 06 128 IvL. II. L in dietiones non propter feipsas,sed
proptet oratio ncm funtinuentæ:iccirco fecundo modo nomen Sampate
indidere,ouezreiasque appellauere: nos Conse. menfequentiam dicere possumus:
quailli alia vocepau her lo afpcriorc, ou apeglee',et molliore owerowy GTV TWO
niw ". Nos commodius, Ordinem conti, nuum orationis definimus. Quum igitur
Græci tam in vltima fyllaba singulariu feparatarumque vocum, quain in altera,ac
tertia a fine fede acu tum imponere confueuiffent:in consequentia si necontextu
orationis, quos accentusin fine po gonfinebantacutos omisere,
proqueeisgrauessubsti tuere: idque eo egere confilio,propterea quoda cutus
accentus videtur tellere fyllabamita, vt fequens fyllaba prematur: qua tanquam
fini fuo quiescat vox. Quum igitur nihil haberent, quod fequeretur, nihil
quoquemetuêre:arcum effet vox,quæ lubiret, cauêrene taquam vna fie ret cum
præcedente. Id quod etiam in Encliti cis euenire
videretur.Igituracuuntmouc,etmli, et Tav: quæ quum contexuere,grauibus
infigniunt, Chitous,dei, tov überrv.Nos vero hanc eandem ani
maduertentesrationem,quaacutus accentus tola litvocem in fyllabam, quam acuit,
vt fequenspre matur, in fine vocisnoponimus,neexpectemus aliam fyllabam
fubeuntem, in qua vox conquie scat: id quod Latini suis libris omnes testati
sunt, Nullam apudnos fupremam syllabam acui. A cutusenim
pofitus,autexigitaliasconsequentes syllabas, aut non. Siexigit, igitur non est
ponen dusin fine vocum separatarum: fi non exigit,era goin consequentia quoqucponi
potuit.Sed falfi Graeci sunt, cum putarent, gravēaccentum nihil ad vocem
pertinere, fed ad syllabas tantum,vnde hand etiam Syllabicum vocavere.lccirco
addueti funt, vt crederet, turpe effe,ederedictionem, quæ nul lo accentu
insigniretur.quali quum iura quoque absurdum celent, hominem inteftatum mori.
Id autem eveniebat, nisi acutum in fine faltem rcpo fuiffent: cum dictio in
fyllabis præcedentib. neq; illum haberet, neque circunflexum. Sed ca ratio, aut
perspiciendafuit etiam in consequentia,vbi y gravemcollocaffent:aut nein primis
quidem you cibus admittenda. Apud nos igitur aut in penulisse tima, aut in
tertia a fine sedem ei ftatuere.Occupa re autem alias initio propiores, Græci
sibilicere noluerunt:quos etiam prisci Latini secuti casdein posteris,
imitationepotius,quain confilio ducti, leges præscripsere. Nam quainobrem non
liceat mihi vocem tollere in quarta a fine, nulla ratio pobyt musica potuit
persuadere: poffunt enim eode te- Pain nore tain in voce,quain in tibia,aut
fidib. deduci multæ vel breves,vellongx. Quod fi iccircono lucre, quia duabus
fyllabis fequentibusimmine reacuta fyllaba videatur, in quibus tractus yocis
non immorctur:quod fieret; fi eflentplures: vi deamus quam non recte servarint
hæc. Esteadě ratio tam apudGræcos, quam nobis,fed diversus modus. Nam
vtriquenegant ante tria finaliatê pora lingula, id est, antetres breves
fyllabas, a cui poffe fyllabam. quare li duæ poftremæ line longe,quoniam solvi
poffunt in quatuor breves: non potuit in præcedenti vlla syllaba acucuscol
locari. Ratio hæc vna communis. At modus I j. di. 21 126 Iul. Kolodiversus
fic: Græci, fi vltimalongasit, et penult. a brevis, vltimæ longitudinem, ex
quafieriduç bre ves poffent,observarunt: at si penultimaloga sit, et
vitinrabrevisymiseræ huiuspenultimę,tanqua ibi nulla effet, nullam rationem
habuere. Latini contra, vltimæ longitudinem non curarunt: pe nultimæ ius fuum
attributum retinuere. Ergo ia deprehendimus accētuuin horum cãtillationem
ridiculam, non natura, sed vsu quodamn gesticulatorio constare. Videamus vero,
quod et fupra tc wurde eindigimus, quamipsa sibi suisnon constetlegibus. milla
Principio Græci diphthongos aliquot,quas pdu cebantin pronunciando,
quodattinebat ad ac centuum ledes, pro brevibushabuere, 8t ritu fce. præterea Latinieadem
ratione vltimis omnesne glexere. Poftremo antepenultimas omnesGræci longas
nullo detracto tempore, acuto accentui poltposuere. Quare fi vna ex his vel in
fine, vel in -proximafini sede folvatur in duo tempora, fane in quarto a fine
tempore acutus ille Gręculus, quem ab ea sede exulare iubent,invenietur. Qua
refapienter a posteris factum est, qui præterqua in quibusdam partib.orationis,
vtin exclamatio nibus,indignationibus,interrogationibus,nulla huius puridi
servitij iugum ferre voluerint. Nam fi ante acutum in eadem voceplurimæ fyllabæ
gravi pronunciantur, xong QALXR67e's: quare poftillum totidem non poffint?
Quodfi refpon deantinclinari nequire tantum numerum: qua re,vbi nulla eft quæ
inclinetur, hunc eundemip sum ftatuêre?vtin præsenti exemplo, nulla fylla ba
fecuta, fit Soloihin qua tini pe bi lem ula itch pus. pidu 26 sne ill bre
Gravis accentus sedes. GNRavis accentus locupletissimus fuit vsus: Nam quum
acutus non plures duab. Tedib. occupafset, hic qualemcunq; premit fyllaba:qua
re fyllabicum, vt supradiximus,appellarunt. No; vt putarunt,propterea quod no
interesserdiction num: sed quia paffim quamcunque syllaba vindi caret:funt enim
dictiones quæ præter hunc nul lum habent. Omnis igitur diaio, aut habet acu
tum, vt A'mor:autgravem, vt Fax:aut circumfle xum,vt Mîles. Quare præter eum
accentum tam e non præcedentes syllabæ, q quæ fubeunt,grave susci piunt, sic,
A'moris. Nonre ette igitur Quintiliani præceptores,quos ait ipsesicfe
docuiffe,vepriore ham in acuta pronunciaret,A treus, quo neceffario poftea
Walico rior gravem susciperet. nam ad huc modum gra- Cho halmas vem
susciperetper accides: At ipfa hæc vox, Atre's bit per se gravi terminatur: vt
non solum syllabæ sit accentus: sed etiam dictionis: quemadmodumul ta alia
quoque proferuntur, Antonspolis; cEw tísmen weid. Quamobrem gravem accentum
inter dum primarium cenferinec effe eft: aliâs autem ac cefforium. Cuiusetiam
proprium fit quantam- loin cunque fyllabam nullo discrimine admitcere: et
quotamcunque sedem accessorie. Poftremam au tem legitime, et primario. Devfulocifý
circumfleti. Ircunflexus accētus fi, vti diximus,ex vtroq; grans illo
conftat:neceffe est, nulla nisilögafylla. 12 bam Tad nitu clo Can: Qui squi
2010 Tull Nabi quar POR 982 m ! Tylls CM Acondiversus fic: Græci, fi
vltimalonga sit, et penult. brevis, vltimæ longitudinem, ex qua fieriduçbre Fes
poffent,observarunt: atli penultimalogå fit, et vitiorrabrevisymiseræ huius
penultimę, tanqua ibi nulla effet, nullam rationein habuere. Latini contra, ultimæ
longitudinem non curarunt: pe. nultimæ ius fuum attributum retinuere. Ergo ia
deprehendimus accetuun horum cãtillationem ridiculam, non natura, fed vsu
quodam gesticula torio conftare. Videamus vero, quod et fupra tc auntien
taligimus,quamipsa sibi suisnon constetlegibus. medla.Principið
Græcidiphthongos aliquot,quas pdu cebantin pronunciando, quodattinebat ad ac
centuum fedes,pro brevibushabuere, $t titulo. præterea Latinieadem ratione
vltimisomnesne glexere. Poftremo antepenultimas omnesGræci longas nullo
detracto tempore, acuto accentui poltposuere. Quare si vra ex his vel in fine,
vel in -proximafinisede folvatur in duo tempora, fane in quarto a fine tempore
acutus ille Gręculus, quem ab ea fede exulareiubent,invenietur. Qua refapienter
a pofteris fa et um est, qui præterqua in quibusdam partib. orationis, veiñ
exclamatio Inibus,indignationibus,interrogationibus,nulla huius putidi servitij
iugum ferre voluerint.Nam fi ante acutum in eadem voce plurimæ fyllabæ gravi
pronunciantur, xangoaguardze's: quare poftillum totidem non possint? Quod fi
refpon deantinclinari nequire tantum numerum:qua re,vbi nulla eft quæ
inclinetur,hunceundem ip fum ftatuêre? vtin præfenti exemplo, nulla fylla ba
fecuta, ore lit Lini gefehing C. em lla. tc. us du IC ne xdi tui. Gravis
accentus sedes. Ravis accentus locupletissimus fuit vsus: 1 Namquum
acutusnonplures duab. Tedib.pole occupasset,hicqualemcunqs premitfyllaba:qua re
fyllabicum, vt fupra diximus,appellarunt. No; vt putarunt,propterea quod no
intereffet dictio num: sed quia paffim quamcunque syllaba vindi caret:sunt enim
dictiones quæ præterhunc nul lum habent. Omnis igitur diaio, aut habet acu tum,
vt A'mor: autgravem, vt Fax: aut circumfle xum,vt Mîles. Quare præter eum
accentum tam præcedentes syllabæ, ğ quæ subeunt, grave fusci piunt, fic, A'moris.
Non re et eigitur Quintiliani præceptores,quos aitipsesicfe docuifle,vepriore
sament acuta pronunciaret,Atreus,quo neceffario poste Walica rior gravem
susciperet. nam ad huc modum gra- me habus, vem susciperetper accides: at ipfa
hæc vox, Atre's per fegraviterminatur: vt non folum fyllabæ lit accentustsed
etiam dictionis:quemadinodu mul ta alia quoqueproferuntur, Antanapolis, Ew
tñsee WETTE. Quamobrem gravem accentum intera dum primarium censeri neceffe
eft: aliâs autem ac cefforium. Cuiusetiam proprium sit quantam- low cunque
fyllabam nullo discrimine admittere: et quotamcunquesedem accessorie. Poftremam
au tem legitime, et primario. Devsulocifý circumfleti. Ircunflexus accētus
fi,vti diximus,ex vtroq; illo conftat:neceffe eft,nulla nisiloga fylla. bam INC
"IIS ua 10 art -11 g1 p I 2 128 Iq bam admittat. Nam ficuti
affectus is compositus est: ita etsubiectum corpus compofitum agnosce nius. At
vero oinnis brevis syllaba simplex est:E ius autem ortus ad hunc modum iam
declaratus eft. Cumaliquando dux coaluiffent, prior acuto elata alteradepressagravi.vt
dad: certe etiam af feetusipfi in vnum coiere, sic disc,exlegib. aute,
Loungquas supra recitavimus, non poteft nisiautin fi ne, aut in
proximafiniconstitui.in præcedetium autemnulla porest. fi enim diffolveretur,
acutus in quarta inveniretur, lic, Aêneus. Aeneus. Qua renein penultimaquidem
ponitur,fifubeat su premalonga. Hac enim diffoluta dissolutaq; cir cumflexa,
idem error´eveniret: vt quartam a fine acutus accentus tolleret. îi autein
lubeat brevis, tum vero circüfle et itur.quoniam in ea etpenul timacum gravi,
etantcpenultimacum acuto fit. intelligo autem hoc apud Latinos,quinullam fi
nalem acuunt: namapud Græcosinvenias lon gam ante brevem vltimam, quæ longa
accentum nullum proprium habeat:fed vltimaacutum,ox w...Hinc fatis constat,
quod dicebamus, gravem accentum etiam addictionem pertinere, non fo vt
demonstrabamus,fed etiam in compositione citra consequentiam:ex eo.n.et a 'cuto
fit circunflexus.Item non, folum in eade di ettione,sed etiamin eadem syllaba
et acutu et gra veinveniri:lic enim quidã pronunciant gwasa, et eiusmodi vt
etmeram intelligas, etin eadem fyllaba et levatum etdepreffum lonum audias in
luo quenque tempore fic,yaodosa. Cõstat et Era commalfmi lapsus, qui Plane,
adverbium, quum aperte signific lum in we 70 mradt to ti significat, et quum
affirmat,differre fic pote pro-.. didit, quod illud priorem circunflectat
fyllabam; hoc, quod acuat pofteriorem. vtrumque.n.cum fit spondiaca dictio,non
potuit penultimacircu fleetcre. Adverbia enim eiusmodi femper produ i ömrm's
xere vltimam quæ afecunda fuere declinatione apie plant 1. iccirco quod erat
Apprime, Vergilius coactus est Apprima, dicere. fuere autem eiufmodi ad verbia
pleniore sono,et originis analogia, a fex - ' exe to casu, sicut Fallo, Raro,
Cito, fic etiam Plano. quorum quædam ad arbitrium poetarum cor repta sunt
interdum, Sero, apud Martialem, et Cito apud omnes. Atin E,quæ defineret,nula
lum,præter duo,Male, et Bene. et a tertia totidem Sępe,Pene.quibusiccirco
facile potuit brevitatis fyllaba contingere, quia in ipfis nominib.brevis us 2
ni quoque fuit. De Αρστι et Θέσει. Syllabæ igitur modus quotollitur ineavoxa-
#they cutior, di et us eft a Græcis cegor, re ette Tane. in alteram autem
fubeuntem cum demittatur vox, gear appellarutminus commode. Principio Jens Otay
morn significationem habet latam:namin acuta quoq; la'2 * ponis vocem:eft enim
positio, collocatio:itaque melius xc tuh: dicta fuisset. Sed neid quoque
cuiusaccentui gravi conveniebat: nam initium quadrisyllabæ dictionis gravem
accentum ha bet. at nucquis dicat mevocem deponere, quam nondum levavi? ergo
Æquabilitatevocis potius appellafsent.yndeetiã in musicis overra quidam I wj.
di Iul. 11. dicuntur tractus,in quibus apois est nulla. Quemadmodum accentuum
leges foluantur. aut acutus autflexusaccentus.claudit:fed in eum locum introdu
et us acutus est a Grammati cis pro aduerbiistantum, et præpositionibus, in
Exc.cæteris veterum mansit lex. Tres igitur cauflas assignayere grammatici,
quib.aduersum prisca puritatem nouam inueherent pronunciationę. Ros?
Distinguendi ratio,ypafuit; altera, Ambiguitas 3 vt poffet euitari: tertia,
Necessitas pronuncian di. Nam vt Pone, aduerbium, a verbo Pone, di
stingueretur, accentus mutatus eft: codem mo do Coram, adųerbium, a Coram, præpositio
ne. hæc funt exempla primæ rationis. Ambi guitatem autem fuftulerunt in voce,
Interca loci, translato accentu in tertiam a fine: vt ne quis duas putaret
partes. Tertium confilium fuit a peceffitate pronunciationis: vt quum
encliticas ponimus, præcedentis dictionis po strema fuit acuenda, Hominesne,
Feræ'ne. Has tres partes fiquis acrius contemplețur, inueniet duas esse tantum;
vnicam enim priores duas, v. trobique enim vitamus ambiguum: in fecun da
partium, in prima,vocum. Ita in duo mem, bra diuides, ficut et tertiam in duo.
Namne cefsitas pronunciandi, aut per fe eft, vtin en cliticis: carum enim
natura ita fert,quod et no, men,vtinclinentin sefeaccentum: aut per acci, dens,
vt cum exempta fyllaba, decurtata diettio ne vol 2 3 13 oce din nati s, in auffas
prisca ationę. iguitas uncian Pone, di dem mo æpositio ne coeuntibus in vnum
extremis, fitcircunfle xus. Cuiusreiexempla multa funt, Arpinatis, Arpinâs,
Noftrâs, et alia eiusmodi. Sic etiam pu taruntin tertio diuini operis legendum,
vtre. fpondeatcæteris præteritis. --cecidira fuperbum Jlium: t -omnishumofumat
Neptunia Troia. vbi circunflexus potius manfit, quam concreuita. In Græcis
autem fæpenumero creatur ex dua bus, vt diximus voos, vous. An admirrenda fint
quafuperioricapite a veteria bus recepta sunt, Aecveteribuscum placuiffent,qui
contra- Cantare diceret, nullu habuere. Verum interest phi lofophi placitis
humanisanteponere ratione: Ni hil enimpretiosius veritate:eaenim hominis fo
lius sola meta est. Quæigitur ratio foluebat acce tuu leges, ob cöponedas
voces,cafalfam efsecondo for uincimus exeplis eiufmodivoçu, quaru syllabæ
fequentes tranflatum illum accentum,longa Jut. funt, vt in Malefanus. Si enim
acui potestyl timaprioris vocis compofitæ, poterit etin sim plicibus: fi non in
illis, ne in his quidem: ncque enim fubftantia rei mutari poteft ab accidente:
neque id quod drov Græci vocant, mutabile eft, ab effentia enim fluit:cumque
illa mutuo conuer titur,quippe cui soli, et femper competit. Quare do
ettiffimus quoque vir Gellius ita fenfitlibro fe ptimo. Igitur inistis vocibus,
quas nos non acui diximus,eacauffaeft, quod fyllaba insequitur na țura
lõgior,quæ non ferme patitur acui prioremin Ambi Interea ine: yt ne confiliom
vt quum ictionis po erz'ne. He tur, inuenit nores duas, n: in fecun in duomem
10. Namne eft, vtinen ert,quod et Mo m: autper acci Tecurtata dictio I jij in
vocabulis syllabarum plurium quam duarum: intelligere voluitpriorem penultima.
Dixit au tem, ferme, quia Grammaticorum istas regulas tum obfervabant. At
enimvero ficam cauffam, qua suntadducti, probavero nullam efle, etiam legem
ipsam probavero nullam: sublata enim Le caussa,tolletur et effe et us.Ergoin
vocehac, An I temalorum, et Prævolantes, et Antecursores,et Anteambulones si
ratio hæc fruftra est, et tamen vna di ettio intelligitur: codem modo et aliæ
in telligentur. Quid? nonne ctiam tribus parti bus quædam compositæ sunt? li
igitur Dona 2 tus, aut aliusquis in hac voce Exadversum, yult acutum transferri
fupra Ad.quod erat fupra Ver, in Versum, antequam componeretur: eaque ra
tioneadduettusfuit, vt vna di et io videretur: non absolvit consilium suum:
adhuc enim extra feptū illud istius accentus,pofita est particula Ex.quare
frustra laboravit, vt rerum confunderet natu ob co tram. Atque iccirco
intelligct 1 $ inventam a Græcis, cuius figura duceret oculos ad compo
fitionem:forma autem, id eft, continuatus fpiri. tus pronunciationis, cogeret
aures vnum audi re. Hoc quoque e Græcorum observationis bus constat planius:
nam quum #xdloudov di huc cantmaiore non audent ambignitate
έκδουλουςcreolezenou, 1ed έκδούλους: et ad veræ partes constructæ non coniun
ettæ poffint intelligi. Præterea quis dicit Mustela cum a çuto in prima? Quis
hoc modo, Compono? Quis etiain Præcurro, et eiusmodi? Quid,. quod idem moncnt
Tepçfacis dicendum na pocua as gnat. Habemus es, et imen parti- از هر Dona n,
vult ora Ver, aque ra tur: non trafeptu Ex.quare eret natu aventam a pocutovws,
et cætera a facio? Quare vbi fylla ba patitur, transferendus accentus erit,
quem admodum vbi numerus syllabarum non repu quoque Feftum autorem gra am uem,
veterumque sententiarum accuratum et narratorem, et interpretem: is in abuerbio
Adeo An mediam præcipitacuendam: ergo,vtfaciat differ re a verbo Adeo quo
tollit vnam ambiguitatem, alteram ponit, dicam enim duas effe partes, sicut
Vsque eo, Cum aduerbiis enim iungebant præ positiones veteres, contra quam
negantGram matici, Derepente, Infimul, Inibi, Vltimam a- migar, cuunt quidam in
tribus tantum, pone, Ergo,Pe- 4 ne: alii nullam excludunt:non defunt,qui prisco
rum adoratis vestigiis, pro illis pugnent: verum memoriæ proditum est,
Acolenses, quorum exe. plo aciudicio peneomnia Latini compararent ad loquendum,
nullius vocis poftremam acuiffe, præpositionibus exceptis. Egomalim Latine,
quam curiose sapere:putoquemaioresnostrosin ter fe, cum loquerentur,fineistis
legibus peregri nisintellexiffe. Nam fihæ distincionesfuntarenizin har hon
cessendæ: fane longe plura inuenias,maioreque nema?... yel ambiguitate, vel
necessitate. Nam pręposi tiones a nominibus ipso contextu, ipfoquesen su valde
differre illico intelliguntur, Vt omittam Face, verbum,FACE et nomen, aliaque
infinita, Gundæ pollin quib. modis difcernes cafus, et numerosbinario rum, et
ternariorum nominum adeo vt cum di -),Compono xerint,Mea
interestsapere:pofterorum multii mnodi? Quid gnorarint pronomen MEA, Vtrius
eflet casus: quartine pluralis, an fexti singularis. Quid? differ ad compo
vatus fpiri vnum audi bfervationis Ex.dloukar di cuhous: et ad ww: duæ enim
Mustela cum a 5 dicendum ferentiæ iftius cauffam, quam ftatuebant, misere
fubuertêre. Cum enim præpofitionem hanc Circum, vltimaacutapronunciarent, ne “Circus”
la cusadludos esse videretur; Vbi cam postpone rent casui, Mistíque altaria
circum, translato in primam accentu, sublatam prius, vt putabant, contra quam
putabant, redintegrarunt, Fu mat, autem Vergilianum præsentis temporis est, non
præteriti, vt dixere: euersas enim incendiis vrbes complures dics fumare, mi
wu, ferrimis exemplis experti fumus.et Nostras, at qucaliaeiusmodi, Sarlinas,
Arpinas, perapoco pen reli et o tantum fibila, in quonullus effet ac centus,
factum dicimus. Itaquetransferri accen tus potuit, Græcorumexemplo, nos a good
a'a Nam ficuti illis turpe fuit, vocem fine accentu esse: ita apud Latinos
supremam syllabam acuia, Id quod etiamex præteritis quartæ coniugatio pis
deprehendi poteft:nam audîuit, mediam cir cunflectit: concide, vt sit, Audilt:
nonmediam accentu afficit, fed transfert in præcedentem, et tamen acutus ibi
potuit poni, vtin z pW TO TONCS, Sic in Mercuri, remanserat acutus suo loco,
licet Grammaticorum faperstitione tranflatus fuerit. Usus Temporum. ' Emporum
vsusfatis ex iis, quæ fupra dixi. mus,patet:quod simpliciffime tum pro rei,
locorumque rationediuifimus inlongu,et breue. Quædam igitur vocales erant
femper breues, 1 mg T 1, Os Do ac 1 cen xda Centu, o, his fingula tempora
funtattributa: carum coparibus longis bina, H,12, Tres sunt comunes, 1, 1, Y:
ita vt quibufdam in vocibus semper sint breues, vt neatra pluralia, xana; in
aliis semper longæ: vtin cafu quarto plurali primæ: uovares; in quibusdam
indifferentes, vtin odpornis et - 1. svią. Varientur quoque perdialectos:nam
Da. res vltimam illam quartiusoses corripiunt: exem pla multaapud
Theocritum,quare profuo qua que captu, vt sors feret, tempus aut tempora na
ciscetur. Hæc eftipfarum substantia; a qua,na tura fluit certa quantitatis, quæ
natura est moi dror, neque vnquam fallit. Quod fiquærat phi- ane maula iatti
ļosophus, quomodo erit propria hæc ipsarum communium? incerta enim est. Primum
refa pondębo, vtnumero, fecundum totum genus, vtrunque competit, par,et impar:
sed certo nu mero, alteru tantum:fic communib. vocalib.in generę vtrunque
conuenit, corripi, et produçi: at vni cuipam designatæ, alterutrum tantum.
Præterea acutius adhuc: hoc ipfum cffe earum proprium, variari; hocque ipsum
quod est, va riari,perpetuum effe:nec variari: ficut effe corru ptibile, est
affe ettio rerum naturalium, quæ hace ipsa scienția comprehenduntur, quod
corrupti bilia funt:hoc enim ipsum, esse corruptibile, no corrumpitur:semper
enim tale eft. Accidit au tçm extrinfecus augeri ipsas produ et iones, vt Tu
quoque monuimus,perconsonantium con. cursum, quam pofitionem appellarunt.
Additæ muta et femiuocalis breui vocali, femiffem tem poris afferet: duæ mutæ
geminatæ tantundem, fed acui gatio am cir mediam denterk. TPW TOTEKOCHA fuo 6
loco tranflata Has the pra axfupra dixi ongū,et breu e tumproro cmper brenes
1,1 136 sed necessariam productionem, quam illæ folam contingentem:nequeenim
neceffario produce bant,RR geminatum plus afferetmoræ. Sicetiam longæ vocali
hæc elementa fuperuenientia com ponent pro rata, plura tempora. Ita atio modo
producit media:Tenebra:alio Abba:illa.n.potest etproduci, et corripi: hæc
corripi nonpotelt. Ita que in illa posuere vnum tempus ac semis:in hac duo
tempora. Si autem longam natura sequatur muta cumliquida, non minus apponent
tempo ris, quam duæ mutæ, neque enim poteft corripi. Sed addentæquevnum tempus.
Scio alitera ve teribus pofitum esse,fed nequere et e, neque per feet e:nam
sequente simplici,vnicaque consonan telongam, voluere affici duobustemporibus
ac { semis.Ergonon plene dixere:debuerant enim o ftendere,nulla fequente
consonante quanta ef set. Et ridicule putarunt ab vna consonante addi tempus.
Omnino autem hæc omnia ad oftenta tionem litcratoriam suntinuc et a. Spirituum
officium, etloca. may Vpererat officium sedesquespirituu, quæ de clararemus:fed
quimeminerit, qua deh, de queconiugatis dixerimus cõsonantibus, is facile
intelliget commodius abs sese hucea vocari pof fe,quam a nobis repeti debuisse.
Accentuum ra tio,figura,vfus,tribus cauffis expedita funt:For mali,Materiali,
Finali.Absolutaquecontempla tio partium inaterialium, quibus dictio, quod eft
subiectum argumentü præfenti operæ, constitui tur. Nuc de ipso toto quid fentiedu
fit, videamus. camillæfolum Marioproduce
orz Sicetiam nientia com Ita aliomodo
illa.n.p potcft. Ita “LATINÆ”, LIBER ernis in hac TERTIVS ra sequatur ent tempo
eft corripi literave eque per onloman oribus et enina teade anta el P ftenta.
Dictionis nomen, atque definitio. ARTIBVS, partiumque affecti- 0. bus
inuestigatis, quib.subiectama teria noftri operis componeretur: nunc de ipfo
toto agendum est. Quod Græci dixiw vocant cauffam zostaj nos appellamus: quare
addito iuris vocabu. Bad lo, etiam Græcum fonum mutuati fumus, etlunarea dicium
nominauimus: Qua in Causla, fiue lu dicio propterea quod orationisvsus maxime
vi get, Latini poftea verbum Dicere, fumpfere ad significandum, quoties
loqueremur. At sicuti vox hæc Dicere, contextum magis verborum, quam fingula
verba significat: itae contrario, verbale nomen hoc Dictio, non folum dicendi
actum, vt eft apud Liuium, sed etiam vnicum quoduis notauitverbum: ex qua
origine, atque vfu, cum definitionem fatis commode poffimus elicere: tamen vt
fapientius agamus, paulo altius eft contemplandum. Sicut in fpeculo ea, Pen quæ
edet de cili 21 3 Origt quæ videntur, non funt, fed corum species, vnde etiam
nomen obtinuere, vt Species appellaren tur, atqueiccirco a Catullo diettum est
imagino fum, að rerum imitatione, quas obiectas repraa Tentaret: ita quæ
intelligimus, ea suntreipfa ex tra nos, eorumque species in nobis.Eftenim qua
firerum fpeculum intclle et usnoster, cui nifi per fenfum repræsententur res,
nihil scit ipse. Argu mento funt muti, qui nutibusloquuntur ex vsu
oculorumiaures, quaru officio sunt destituti, non potuerunt conferread vocum
receptionem,quas exceptas redderent vicislim. Itaque fuit quali, quod Plato de
aliis rebus dicit,emuayeão quodda intelle et us nofter, in quod res ipfæ certo
modo recepte conderentur,promerenturque ad huma nam,divinamque fapientiam
communicandam. Igitur harum rerum notionessuę cuiusque fiunts in cuius
intellectum recipiuntur. At enimvero cum homo animal fit non folum sociale, vt
for Home Pornomica, fed etiam divinum:opushabuitofficio quo dam atqueinstrumentis,
quibus hancfocietatem non forte autinstinctu oblatam, fed prudentia, atque
consilio quæfitam, comparatamquecofer varet: quare et doceri debuit, et docere.
Necessa ria igitur fuit illa quoque naturæ facultas, qua i. pfæ illa notiones,
quæ in intelle et u fitæ erant, sensibus concipipossent.Per fensilia ergo eruen
dæ fuerunt illæ species: at ineptus ad id fuit Ta Etus: non enim ad eum
poterantelici res immate riales, qui maximematerialis est. Ineptus æque Gustus:
quicum ta et us quidam sit, tanto minus potuit fervire,quod minore ambito, qua
ta ettus, pre præscribebatur. In odoresquoque transfundi non poterant, quibus
exceptæ, adiscente perci perētur:eft enimOdor res minimepofita in po testate
hominis. Duo igitur senfilia reliqua fa etta, funt,Color,et Sonus:acSonusquidem
interpresauce fuit animi dupliciter: vel vt sonusfimplex quip pe
fupplosionepedum, et applausu manuum, et crepitu digitorum, atque aliis
eiufmodi declara mus cuipiam animi nostri affe iones: vel vt fo nus in
specie,fcilicet vox:eaque fuit duplex:al-Voy tera rudis, Sibilus, Vlulatus,
Gemitus, Cachin nus, et reliqua talia: altera conformata, vt Vera ba, et
Nomina. Alterum fenfile fuit Color: 04 colon mnis autem color cum figura,
vtrunque enimin corpore eft:Igitur duobusquoque modisfactum eft:nam aut rudi,vt
nutu,et gestu:autperfecto,id que dupliciter:aut Pictura,aut Scriptura: vndea
pud Græcos vterque artifex dietus est communi nomine regol. Ergo rerum notiones
a rebus in mentem primum per sensus fine medio huma no profe ettæ sunt: intelligo
autem per fenfuso. mnes,eague scientia autodidagis dicta est:aut per medium
humanum,quoniam non ab rebus,fed a notionibus, quæ effent in docentis
intellectu, prodiere in duos sensus. Auditum per locutio nem, Visum per
scripturam: vnde poftea in in tellectum ipsum insinuarentur. Quemadmodum autem
res naturam non mutant fed eædem apud moboma's omnes sunt, ita et carum
notiones: tam enim Equus ipse, quam eius species apud omnes est:
nequehominisolum, fed quibufcunque anima libus tribuit natura aptum sensum ad
percipien dum. At nomina rerum, et literæ non cæde suntnen i omnibus.
Sicutigiturimagines rerum suotno tiones intellectui:ita voces suntnotionum
illaru notiones, et vocum ipfarum scripta quoque sunt notiones,vt talis ordo
naturæ fit: Equus,equi spe cies in intellectu,equi nomen in voce, equirepo
masgan sitio scriptura. Prima igitur duo a natura sunt: nam equiprincipiu et
forma, et materia, et finis natura eft:Equiquoquefpeciem ab equo educta intelle
et us agens in intelleet um possibilem im ant pressit.Ataltera duo ab arte,aut
cafu sunt: quan quam enim natura fecit vocem loquentis,et atra mentum, calamum,
manum: tamen et vocifle ordy, xuum, anfractuum, articuloru, temporum,fpiri
tuum, orde ac fedes fortuita fuere: et eodem ino do scribēris manus,cursus,
mora, series.Multa sut in operibus noftris naturalia: velipfa Ambulatio: ac
forte fit,vt tantum faciam spatiorum, vt recta inMilani, vt properem, vt
sublistam, vt alternem, vt diuaricem, vt vacillem, vt suspendam gradu,
ytreuertar. Poffum etiam hæc aliquando simul miscere,quæ coire queant. Itaque
equi crus sem: " per fuo loco eft: at e litera in nomine equis apud Græcos
nulla. quare arbitrio cius qui hoc primu nomen inucnit,factum est,vt sic
appellaretur.Ex his itaquedefinimus Didionem,Nota vniusfpe ciei, quæ estin
animo, indita eirci, cuiuseft fpe cies, fecundum vocem,pro arbitratu
eius,quipri de moindidit.Dico Notam vnius fpecieiiquoniam oratio multarum
specierum eft: et dictio compo: fita rei composita cft: omneautem compofitum
pro vno accipitur: ita eximitur hæc dubitatio. Sed quæremus etiam fuper
definitione s vna enim eft resomnis definitio:non copula:non alio iubim bor
inftrumeto,fednatura: neque enim aliud eft,A- vefinn nimal rationale
mortale,quam Homo. Quare si in definitione vna est notio, et plures dićtiones,
videbitur diettio notionis pars, non totius tota i mago. Sicest respondendum:
in rebus fingulis effe multa fuapte natura, quævnum fiunt ab vna forma:vt
effe,vegetari,sentireintelligere:hæc o mnia ab vna anima vnum fiunt in homine:
in quo ita sunt, vt vnum alterum complectatur, et capiat:quam feriem et in
octavo historiarum, et ", in xii.Metaphysicæ satis declaravimus.Ergo de
finitum vnum eft etre, et nomine: ipfa enim res est yt est, definitio autem
vnius rei et vnum di cens, quia dicit definitum: fedpermulta dicensit
perdefinition illud vnum, quoniam vnum illud permulta efter at have one
conftitutum. Non recte vero veteres definive -berehitabis re, qui Dictionem
partem orationis dixere.Prin -'Emory cipio malefactumest, cum per partem definive
re: eft enim dictio etiain extraorationem: ita que coaet i funt addere,
Constructæ: ergo non constructa oratione Dictio nulla crit. Præterea eft dicio
quædam, quæ etiam fitoratio perfecti fenfus, ac quidem
tota,vtimperativa,Lege,Scri be:et interiectiones, Hev. Poftremopeffimo con
filio fecere, vt adderent, minimam: quis enim dicat minimam partem hominis
manum? Nam ficuti in multis rebus naturalibus, ita in oratio ne partes sunt,
non vniusmodi: aliæ enim funt divisibiles: aliæ non, vt literæ. Divisibilesau
tem duplicis sunt naturæ: quædam dividuntur in consimiles, quædam in
condissimiles: vt anguinis parsfanguis est, et ossis os:at pedis pars: non est
pes. Hæpartes non possuntminimæ dict in homine, quę in alias vltimas fecantur
partes: i ta neque dictiones in oratione: quare coacti fue rescipsos
interpretari:Minimas,inquiunt,intel ligimus quo ad sensum.ergo male omisere in
de, finitione, quod per interpretationem addendum fuit. Dubitare possit aliquis
fic:Nomina,quęno tiones funt figmentorum,non esse dietiones: rei Danksy enim
nulliuslunenotæ.Hocfic eft accipiendum, Hoc quod dicitur ens, aliquando verum
effe, vt Deus:aliquando non verum,et hoc dupliciter: aut enim eit Privatio,aut
eft Fictio. Privatio, vt Vacuum:Fictio, vt Phænix. Itaque fane horum nomina non
significant codem modo, ipfa, quo inodo Deus Deum: fed privationem per habitu
De* fic: Quia Plenum significat locum tacium vbiq; a corpore: eius contrarium
Vacuum fignificabit: quod quanquam non est, tamen per illud, quod est,
intelligitur. Fiet a autem faciliuspercipiun. tur, funt enim quafi orationes
fallæ: idem enim eft Phenix, et oratio hæc, Avis rediviva, suicauf far
Dietionem Græci.negav, vnde noftrum Lege. re, etab hocLegati, quorum scilicet
officiumef fet, dicere. Utrum Dictiones a natura fint,an arbi. trio inventoris.
Samo v Erum quoddiximus, itaindita effe nomi na vt inventori libitum eflet:
primum a nobis inventum est,et olim commovit huius fentetiæ autor Aristoteles
quofdaPlatonis de 143 ma Hefensores,cuius sententia in Cratylo videtur ef fe hęc:Sermonem
rem esse naturalem,non ab at te.Id quod cogebantur ita sentire,quippeq nihil
fcientiarum adipisci nosprofiterentur, fed remi nilci tantum. Quod et ex eo
dependebat, cum di cerent animasin corpora alia atque alia transini grare,
quemadmodum e Pýthagoræ institutis re ferebatipfe Platoin
Atlantico.Habebantauteria que etiam, vt fibividebantur, rationes:nam loquendi,
huma instrumenta, et materia funt naturalia,Pulmo,Se ptum, Guttur, Palatum
Lingua, Aēr, ergo et ipfa e nomina. Trahi præterea nos a rerum cauflist quibus
moti du et ique, sic potius quam licloqua mur. Quod fi contingit vt eandem rem
aliter nos, Græçialiter appellent,nihil mirum:diverse enim cauffæ funt eiusdem
rei, quarum vna illi, al gera nos agamur ad nomina imponenda. Verum Sæmoræ defenfiones
errorum sunt.Atqueequi. Com ho dem sæpenumero miratus sum mortalium velau
Haciam, vel pertinaciam, qui cuerentur errores, dosij, qui commisere, fi
viverent, emendarent Neque enim erraffe turpeest: eft enim initiami pientix: si
non eiipli qui fallitur, at aliisnon ilendi. Verum errores fovere, id vero vel
ex ema dementia eft: vel vt i ti faciunt; qui semel que iterum deie etti,
malunt confodi, quâ con tari. Principio argumentum estnullum:Ma- As, cria et
ioftrunienta fünt naturaliajergo et figura mposita. Quis enim dicat,currus aut
carpentifi uram naturalem effe,nili Anaxagöras? Isita di cebat, nisicarpenti
figura fuiffetin ligno, non uifle futurum ytineffet. Sed nugabatur:neque enim
inerat,sed inesse tantum poterat. Itaque a maioribusnoftris Facies dietta eft
afaciendo: fit enim quod non est:itaque etiam pretium persol vitur artifici. Et
accidens a Latinis appellatur, quoniam casu factum est, vt dei imago potius
fieret, quam scamnum e ficu Horatiana: si enim naturalis facies fuiffet illa,
omnibus ficubusines fet. Sic etiam Vocem efle naturalem fatemur: i tem Flexus,
et Tempora, et Modos: fed eorum se riem, aut misturain forte,aut arte factam
constat. 7 Sienim natura eorum effet autor,vnusomnium {moduseffet, vna enim
natura: velutin aviculis manifeftum eft:cæ enim sua in specieæqueidem
cantillant omnes. At quod ab arte est, et discunt. As, et dedifcunt. Quod autem
aiuntin rebuseffe que dam peculiaria, id fane vcrum est:atcum addunt iis
nosexcitari ad certas voces creandas, fallun tur. Nam quæramus sic: aut nota
sunt nobis ca propria et peculiaria, aut nonsunt. Si non funt, non ducimur: fed
non funt nota maxima ex par te: nam quotus quisque rerum ipfarum naturas
compertas habeat: fatemur fanenos, non pauca effe diet a a certis caussis: sed
ipfx cauffæ, quæro porro,an cauffas habeant.Sinon habent,ergo no mina erunt
fortuita:sin habent, ad vltimas tande procedendum erit, quę pręterea nullam
habeat. Si dicant ab effectionibus cöparari nomencauf Læsergoerit circulus,vt
cauffa ab effe et u,effe et us a caussa dicatur: quare vtrumque erit fortuitum.
AHis rationibus repulfi aiunt et Providentia regi RespinosNugx..Si enimnrebus
civilibus,in bellis,in | redivina, deftituimurrectis confiliis, atque adeo ill2
La Providentia: sane putida illa fuerit, quæma mis in rebus negleetos nos,
apprehensos manu ahat in nominum veras cauffas. Sanevero pul- 2 hram
Prouidentiam, quæ Canis et Vrsa etiam ab homo i diis placet) caudatæ nomen in
cælum tulit. mymini uid Canicum cælo:quia herbas exurit. At ne ue exurit Canis,
neque herbiuorum animal est. tque vni quidem rei diuersa nomina impofita3 nt,
vt Ventum a veniendo dixerint Latini, a irando iveuer Græci. Esto: diuerfi,inquiunt,
af etus totidem nomina exegêre. At diuersas res uare iisdem vocibus disfitæ
nationes appella ant? Quænam?inquies.Illyrica, Arabica,ludza, Germanica,Latina,
Scythica. Air,vocantScy -nos aen? næ quam pro calamo aromatico circunferunt:
Veneti arborem quandam, quam puto esse al am populum, non enim mcmini, fed
arbor est. ith oleum dicunt Arabes, at Græci ex hordeo otūm. Gelon,
Hebræismigrans, at cum mi rabantflebant: Græcisautem ridens. Manecít lis
numerus, nobis parsdiei. Num,est nobis in rrogationis particula, illis piscem
notat. Bagoa omen est Perfis et Medis impurum: at in co pud Hebræos est et
cellitudo, et excellentia: Fantabri autem fic appellant glandem fagi am:
pulchræ vero cauffæ cohærentes iisdem rincipiis, Rex, Glans, Eunuchus. Illyrii
Flu ium eodem nomine vocant, quo Itali diuitem. Jolo dicere quid Mauris
lignificet zve fed lon diuerfum eft ab Illyrico significatu, Dentes nim sic
appellant. Abbaelt nomen quo Deum eneramur, Syri appellant sic ilsonier's Rub
Liguribus Taurinis numerum significat vice num quiqum, Illyriimappam
intelligunt.ȚIA Græcis quid sit, etiam pueri sciunt, Illyrii Ca nem fic vocant.
Vaccam iidem Craua vocant, at Ligures tic Capram. Age vero quot Latina aliter
accipit Germanus: Araneam vocat Spi nam: Vicem, Malum: Altum nominantsenem:
Album, quod nos medium: Glut, appellant prunas, nos collan: carbonem,
Collü.n.Quid quod etiam contraria iifdem vocibus funt com prehensa. Nam
Germanis est Caldum, quod { nobis,frigus. Scd iam modus fit.vt etia inteligat
certis nationibus Illyricis, et Cantabris notas at formatiuas, aliis gentibus
negare, quare etiam eandem vocem contraria fignificare pasii sunt Latini,
Vefcum et Obeffum, etalią. Et iidem » Pythagorei mutanda nominasuasere
malefortu natis: propterea quod cum eoruin genio iamim posita non conuenirent.
In quosi nos illa proui dentia deserit, quanto magis despicabitur, cum matellam
pofcemus?Vtrum nominasint penitus fortuita,an certo,confilio. Vm igitur nomina
arerum naturanon flu xerint,reette definimus, notam eflerorum
stenbyDiettionem,vtlibuit inuentori. At fibido duplex elt, vno modo, cum impetų
a ettus primum quod que obuium sumam: altero, cum iccirco libitum mihi fuerit
ita facere, quia id ratio quæpiam per fuasit. Ergo cum priores orta cum rebus
nomina cötenderet, suntexplosi. Alii cõlalțius accepere. Natura quidem non
ortas, sed arte, ac prudentia factas Diet iones. Nam subftatia,inquiunt,fenfu
non appreheditur,sed affe et iones:puta,Magnity laho do, Qualitas, Motus, A et
io,Passio. Quare hisaffe et ibus motiatque instructi nomina imposita sunt. Afferunt
igitur exempla duo: Lapidis, et Petræ. Nam Lapis,inquiunt,a pede lædendo di
etus est, habuitigiturnomen a duritia, et aetione; Petra vero, quia
pedibusteratur: ab eo quod p? titur inuenerit appellationem. Hinc deindedia
gressi,multa millia monstrorum conficiunt. A. lii contra, omnia cafu facca
nomina, multo au - conha dacius affirmant:Nimirum quibus vniuersi mun di
compago, series, temperatio, cafu, ac temere prta conftituuntur,seruantur
constituta. Atque hos posteriores, poftremos esse sinamus: neque enim merentur
dici homines, qui ipsiessenolut. Nam quod ad vocum attinet rationem, quis me
tis compos, ab amando amatorem negabit esse diet um Illis autem fic
respondeamus: Principio, fola pon neceflario concluderetribus quatuorvee
xemplis omnium naturam vocum: Deinde,ridi cule attribuere pro caussis Latinas
appellationes. Lapis enim, et Petra,vtrunque Græcum fuit,nes, et metga: nam
Laterem,pro quo solo barbare pe tram capiunt, nivfov Græci vocant. Sicigitus
çensemus: Multa nomina temere extitisse pris mum, fine flexu,fine ornameto,quo
tempore no quiero dumrerum naturæ cognitæ fuiffent:ab his mulram sana, a
fimpliciffime ducta, vt flexiones:alia immutatis cela quins particulis, vt
denominatiua, et alia ciusinodi: un son moment, nulla distorta sütcopositjone.
Quodautinque forants horsen Ver sout. Bigualta strapwiWAS own Shait plovek, bug
comlimani Referencia recent home songs unr, formis principia deducantur, in
quibus neceffe fit fifte re intellectum, id etex rebus patet naturalibus, vbi
nullum est infinitum, et in vocibus ipsis fic conftabit. Amaritudo ducetur ab
Amaro: Ama rum a Mari; Mare ynde deriuabitur?ab Hebræo, Marath. Quæro porro,
vnde sit hoc. Vt finigas quod velis, diuertendum est ad vnum, in quo
conquiefcas,quod aliorum cauffa fit:ipfius nulla sit caufla. Plures esse voces
primarias.. Si igitur ad certasvoces cæteras referimus; lepimpice operæpretium
fuit quotnam effent illæ, inue mimmeinstigare. Etenim si quemadmodum res ab re,
ita nomēanomineprocedat: ab hoc nomine DEVS, potissimum omnia deducerentur; at
ab hoc pau ca deducuntur. Duo igitur modi testant princi piorum:vnus in
Materia, et forma:addeetiam fi vis tlustenay, fiue Carentiam, vt delicatiores,
fiue Priuationem, vt ex Topicis M. Tullii colli gere potes, voces.Verum extra
hæc omnia, inue nias multa, Calidum, Magnum, Filium, Arma 2_tum, atque alia
eiusinodi. Alter moduseftin de cem prædicamentis: sed neque asubstantiali no
minededucas substantiale, nequea relatiuo re latiuum,nequeab aliis generibus
eiusdem gene ris alia. Nam a Cæfare cum dicis Cæsarianum, potes tam prudentiam
intelligere, quam equum. sica patre patrimum cum deducis,a filio eadem lege non
potes. et quæuis dictio in prædicamen to rclationis efto eft enimnota, cuius
eft. verum sha hoc) che hoc ipfum nomen relationis,non eft relatio: ne queab
ipfo relatiua ducta sunt.non enim Quis, aut Qualis, quicquam cum verbo refero,
tanqua cum origine sui,habet affinitatis. Certus igitur atque finitus
primogeniarum vocum numerus eft: sed nuncquidem, non autem semper: multa enim
finxere veteres: vt etiam apud Pindarum inauditum alias conquerantur
Gramatici,le iniz? pro eo quod alii wiecuo dicerent. Satis autem nobis fit,
scire, multa a Græcis deducta effe, in quoru principiis fani fuerit hominis
acquiescere. Non eodem modorem abreduci, et nomēa nomine Vævero deducuntur, non
necessario rerum ordinem seruabunt: vtquemadmodum res mody 1 ab re, ita illius
nomen ab huius nomineexcipia tur. Nam quantum a quantitate est, li rem Ipe
ettes. at contra quantitasa quanto dicta est, vox a per voce,non quantum a
quautitate. Ratio huius rei Ratio eft, propterea quod cognitio nostra
contrarium habet ordinem,quam natura; prius enim natura notam habuit
quantitatem, quam eam poneret: in quanto. Contra, nobis ea, quæ concretavo lini
cant notiora suntiis,quæ abftra et a nominant. Ita que antiqui, Quale,
dicebant: Qualitatem non dicebant. M. enim Tullius primuseam vocem commentus
est. Et adhuc in multisabstracta de siderantur: vt in pingui, neque enim
fereante Plinii tempora, Pinguedinem,legimus. Nunc masa cameo quoque animum
hostilem dicimus: Hostilita vero tem an dicat quis, non memini. lllud fcimus,
Quid COM n oll nu: rm n de in uon gen anun quus header aprobatis antoribus
Ingratum vfurpari, Ingra titudinem explodi. Harumlegum rationes cum ignorarent
recentiores, fallo putarunt, eundem ordinem deberi nominibus fignifịcanţibus,
qui fignificatis rebus inest. Dictionis affectus. DLitionis affectus secundum
definitionem nel teriæ rationem: nam ficut in syllabis literaru nu: merus
recenfetur, ita in diet ionibus fyllabarum, Accidit autem vt dictio fit vel
monogramma, vel polysyllaba. Exempla autem suntcoinitio, atque ordine. A, Amor,
Amator, Amatores, Ama rorie, ad superlatiuorum, atque adeo dithyram bicorum
vsquenumerum: neque enim Græca rum audaciæ lex vlla certa polita fuit, qui
veli. psos pedes poeticos ad qdonas fyllabas produ huisere.Patiuntur quoque
diet iones ficut et literæ, et syllabæ: commutantur enim:et appellatur in
genere cvcentags: quemadmodum cum ponitur declinabilis proindeclinabili, et e
contrario.Flos apprima tenax. et Meurngo xanoswv, pro divas, et καλός σοιών,
pro καλώς. Dico autern in generc; nam li particulas ipfasspectes,dicitur
avmuspid; vt cum nominapro nominibus, verba pro ver bis, et alia fuo quæque in
genere,suis congeneri-. bus supponuntur,de quibus omnibus locis scri ptum
eft.Item transponuntur,vt fiquis dicat, Plebis Tribunus, Patriæ Pater,
Conscriptos Pa çres. Et quomodo fyllabæ præponebantur di etionibus, M ret.
ettionibus, aut poftponebantur, aut interpone. bantur: ita di et ionesorationi.
Anteponitur a lu reconfultis:Ecce: sic, Precium ob cauffam da tum, cauffa non
secuta, condici poffe.vt:Ecce Me nius decem dedit, vt tuta fibi in foro effe
lice Citra illam vocem, Ecce, oratio perfecta erat.Sic adduntar pronomina sine
emphası. Ega amo,vas militaris. In medio, coniun et iones com pletiuæ, Tu
quidem aberas, ego feriebam. Etin fine,apud M.Tullium ad Atticum: Triginta erat
dies, ipfi:Geminatur, Ah Corydon, Corydon. Eximitur, Quos ego. Mutantur autem
vt lite - umfolie ræ ac fyllabæ, quatenus illæ quoque mutantur, Adhæc et
diuiduntur, vtapudEnnium, -Cerering. diminuiç, brym. Ete contrario componuntur,
Malefanus. Et ficut literæ atq. syllabæ incolu mescoiungutur interdã: interdu
vero vitiatæ:ita et diet tiones. Nam aut ex duabus integris vna fit; vt, Manucapio.aut
duab.corruptis:vt, Mancipi, aut integra et corrupta: vt Cumprime. aut e con
trario:vt,Omnipotens.Hoc autem fit, aut in dua bus Latinis: quales eæ sunt. aut
duabus Græcis: ut, Menelaus. aut Latina et Græca: vt, Mustela. aut Græca etĻatina:
vt, Epitogium. Diet tionis fpeçies,qua
rationefintinuestiganda. Iigitur dictio rerum nota est, prorerum spe- one
cicbus, partes quoquesuas fortietur. Videamus mus ergoin magnaautorum
controversia, quot, hag van quæ've lint.Quod Græci, o, vocant:apud nosaucamais
çem vsitato potius, quam Latino caret nomine; id (Scien • ab quot, gothe SO I
1. Jli. Ju Buaid partim significat res permanentes:vt, equum, album,
decempedam:quarum natura poftquam perfecta est,diu perstat:Partim
fluentes,quarum natura est, esse tandiu, quandiu fiunt: vbi vero funt absolutæ,
non sunt amplius. In hac partitio ne tota vis orationis noftræ confiftit:
complecti tur eniin etiam Deum: nam poftquamperfectus eft, diu eft: hocautem
diu fine caret. Costantium Nomerigitur rerum notam. Nomēdixere:corum vero, quæ
fluunt, Verbum. Nam tametsi nomina quæ dam rem fluentem significant, vt Annus, at
non reifluxum. Quin hæc vox,Fluxus,quanquam vi detur a ettum fuendiindicare:
non tamen mensu ram ipfius fluxus connotat: id quod verbaipfa fa ciunt. Quoniam
vero hæc omnia ad orationem comparata funt, quæ quippam alteri inefle o
ftendit, ve Amorem in Cæsare, id aliquandofe juncta nota signatur: vt, Cæsar
currit aliquando propius ac felicius naturam imitari instituimus: sicuti nanque
Cæsar ipfe, et ipse cursus vno eo demque corpore continetur:ita inuenta est a
pri fcis notaidem efficiens suo significatu, quæ qua fi infitione quadam vnum
ftatueret. Quarevelut ex Equa et Asino fit Mulus, feruatis vtrinque a liquot
vtriusque naturæ particulis: ita ex Nomi ne et Verbo confectum est
Participium:quod fic appellarunt, vt hac quoque in parte Græcos,qui us to
wdixiffent,imitarentur. Atenim vero vo cabulorum ratio diuerfa eft: nam Græca
vox a * et ionem significat:vt,ezoxrapudMathematicos, cæli pars quæ fidera
continet: et Pyrrhonis affe {tio, qua in dubitãdo mentis cursum inhibebat.
Verum participium non fic videtur: Analogia nanque alia eft in Mancipio,paffiva
fcilicet quod manu caperetur.fed fuit sicutMunicipium.Ino ratione autem etiam
pro modo vsuque loquendi deeratadhuc aliquid: interdumenim inomine no Prono
suppetente, aut iam semel dictum nerepetere mus, nutu aut digito indicavimus
aliquid: exem pligratia,Lanceam si petam, etimmijhentib. ho fibus clade
sociorumturbatus præci pitem con silia suppetiarum nomen non edam:fed indica
tam petam: huius quoque rei nota i nvenienda fuit,nutus scilicet ipsius
atqueindicationis. Qua re Pronomen invētum est, quod esser Notarum, id est
nominum nota: ficut indicatici digito aut capite fa etta erat nota lanceæ. Nisi
enim licinve stiges, non potes, quin veterum errcirem com mittas. Quorum
definitionibus neque asNomen a Pronomine distinguere. his positis, illud quo
queex rebus explicandum fuit:Namomnequod 'merlin elt,aut fit, aut elt caufa,
vtDeus: aut elft effectus, ytridere: aut vtrunque, vt Homo. Ca uffarumi gitur
naturam per nomina indicabant; at cauf larumodusnonpotuit: itaque excogitandæ
nails fuere notæ, quibushoc quoq; explicarı:tur: quas a situ nimis ruditer
veteres appellarunt, præpoli tiones:fed de hoc suo loco. Igitur Cat 5 quu esse
posset efficiens cauffa, etpoffet ide esse finis, hoc nomen Cato efficientem
cauffam indicavit fic, Cato ædificat, ratione verbi intelligisi psum effe
cauffam:at finc verbo fi sit, nihil intelliggas: quare addita præpofitione A
statim efficient em decla rabit: fiautem apponas Ad, aut Propter, finem explices.
Porro vthis notis Nominum modi de hai clarantur,ita verborum quoque modi,
qualita cu telquetemperandæ fuere: Nam quum signantur ex res, quæ dum fiunt,
sunt:aut temporis finibus certis præscribuntur, vt Hodie lego:aut qualita tis
modum recipiunt, vt Bene curro. fccirco hic quoque notas suas habuere, quæcum
verba ipfa moderanda fufcepiffent,verbis ipfis appositæ,ad verbia dici meruere.
Restabat etiamnum aliquid; quodinrebuspositum deberet etiam notis infi-. ho
gniri. Nam res vna est,autforma,vrAnimal ra tionale:aut
accidente,vtLacalbum:aut subiecto, vt Album et dulce in lacte: autmistione,vt
oxy mel:autcumulo, vt acervus. Ergo quæ fierent v num, vt vnum quoque
dicerentur, commenti funt fapientes cõiun ettiones, quarum natura fuo loco
acutillime explicata eft: Sicigitur in præsen tia fatis eft dicere, Lacest
album;et dulce: Atque his quidem feptem partibus vniversus rerumam bitus,
modusque contineri videbatur: niliani way morum affe et us quidam fuperfuiffent,
qui nie masbequeiunguntur verbis, neque nominibuscohæ rent: fed eorum vis in
animo totafibi confiftit. Nam voxhæc, Dolor, affe et um fignificat: fed Heu,
nonhocipsum,quod dolor eft,quir !: re affe et i animi nota eft. Igitur quune c.
nes indignatione; atque dolore, atque et yentis interrumpi soleant, maluere
interpone re, vnde et interie ettio eft appellata. Acpotuit quidem etiam
anteponisetiam poftponi:fed qar Zanteponerets temerenimis,no redditacauila aut
Lirasci, aut minitari videbatur: quipoftponeret; leviter dolere.Itaqueet
consulto interposuere, et perturbationi animiserviere. Exhis vt patet partium
numerus, ita excludu- Em tur falso ascripta: etenim Appellatio, idem quod tay
nomenArticulus nobis nullus, et Græcis super fluus, nisi quum rem notam repetit
subiicerein tellectui. at tunc est relativum. Idem enim eft, O doûnos pous quod
down avoidta: alioqui otio sum loquaciffimæ gentis inftrumentum eft. In finita
quoque verba a verbis receptis feparanda non effe, ex definitioneconftat.
Præpofitiones au tem idem effe quod Coniunctiones, negamusex his, quædiximus.
Nam Vocabulum quiaddide re,ne meriti quidem funt,vt refellantur: genus e nim
est ve Diettio,non nominis species,vrinepti unt.Nibilenin diftar a voce
Vocabulum, nisiqa flexus atque articulosin voce habet. Idem enim est Mendicus
etMendicabulum, Saburra etSabu lam,Statio et Stabulum. Eruptigitur Dictionis
fpecies odo: Nomen, Verbum,Participium, Pro nomen, Præpofitio, Adverbium,
Interiectio, Coniunctio. Quaratione investigande finispecies,quainfle ettatur:
et quarenon pluresfintautPerfona, ant Numeri HAArum autem partium quædam cum
infle- Ongo ctantur; quædam exdem, eademque facie perpetuo fint: quæ etquare
ita afficiantur dein ieps dicendum erit: tiprius inflexionis ipfius ra
uiones,atque necessitates eruamus. tlocutioab vno,pluribusve
proficiscatur,nihilinterest: fed vnum plurave significet: fcilicetvnius,
plurium **** $ venota fit. Forma enim orationis, Significatio eft: Significatio
autem, a recit, non a loquente: Chamadoquens enim efficiens est. Omnis autem
nume mil rus ternionecontinetur: nam Vnum numeri i nitium tantum eft: Dualis
primus numerus imp - fectus: Ternio autem primus numerus verus. Quod enim
æquales in partespotest dividi, Fini ti habetrationem: quod non potest,
Infiniti. Et Ternicipfe et numerum continet, et numeri principium:at Dualisnon
nisi in principium,id quevnum, resolvi poteft: itaquePotentialispo
ciusnumerussit: quippe numeri potentiam, id eft, Vnitatem biscontinens. Ternio
autem actu alis, qui quidem divisibilem fecerit indivisibi lem. Quare Græci
quoque mbifor nominavere: Nempe quem si dividas; invenias infiniti habere
aliquam imaginem, quæ supersit. Ergoin rerum naturaseparatus in corporibus
noreperitur pun et ifluxus,vt lineam efficiat, quæ prima dimensi one obtinet vnitatis
proportioner: neq; lineæ fluxus, vt superficiem seorsum designare nobis liceat,
verum quum ad Tertium perveneris,vtsu perficiem ducas in seipfam, corpus
efficies, præ ter quod nihil est, quod, quove metiamur: Vi demus igitur omnia
principio,medio, fine con tineri: fane hæc tria funt. Motuspretcrea,aut est a
centro, aut ad centrum, aut circa centrum: ne queab his vllus est alius. Nam
qui in animali in venitur voluntarius, ex his compositus eft.Sed et in
facristam veteribus, quam noitratibus, ter ple raque 2 taque aut fiunt, aut
dicuntur. Et unam Dei substantiam tres, neque plures personas effe verd
credimus. Et Grammatici ipfi genus illud, quod tres caperet articulos,
omnegenüs appellarunt. Quarequum deduobus loquimur,dicimus, Am bo: quum de
tribus, Omnes. Hæcita sunt Trias Sed et hæc eademi tria, dugsunt. Nanqueprin
cipium numerị vnum eft: Numerus autem in pre, plura. Ergo in oratione quod
significatur aut vnum est, autplura: quare duo tantum nu meri inuenti
sunt,quibusdi ettiones afficerentur. Nam Dualem Æoles vt fuperfluum omifere.
Acordo significandi accepit Ternionem,a cause mi,assome abow sea fa efficiente:
ea enim quum sit principium, re et e Prima dićta est: itaque cum de fe
loqueretur,Pria mam conftituit personam. Finis autem eius est communicare quod
fentit cum quopiam: ergo Secundam reetet dixit. Materiam autem ipfam,de
qualoqueretur Tertiam, Eftigitur Primaeffici ens doctrinæ: doctrinæ enim caufla
oratio: See cünda Finis. docetur enim: Tertia materia, de ea enim agitur:
Oratio autem Forma,sunt enim Propositiones forma coniclufionis. Quarta au tē
fub tertiæ ratione coprehenfa fuit', propterca quod aprimafemper effet tertia:
pro materia e nim habebatur. Verum Personæ vocabulo abusi Sharan funt veteres.
nam Primam quidem veloqüent- Jy? * ". tem, Secundam vt audientem
agnofcimus: hæ fane personæ fint, ar Tertiam quarepeta v. 174, mas i fonam
dicam, quæ muta res fit: hocfa et um eft tab omalo,inane propter rei
nobilitatem. Eft enim Homo fie biipse omnium rerum regula quædam, fi fefe
antimp M Oi ted -y Ljn rintedmusic IVL.
- III. intueatur, quare, etiam Paruusmundusappella tus eft: itaque deseipfo
semperloquendum præ cepit, qualı dere cognita subratione regulæ,cu ius menfura
cætera cognofcerentur. iccirco per gain fonæ nomen ad ea, quæ perfona carerent,
non temere translatum est. Sane Persona intelligi, tur status hominis ab animo,
aut fortuna. Ne que verum eft, quod aiunt, fignificare indiuia duam fubftantiam
rationalem, vt vulgo vtun tur, cum Itali numerant turbam nomine perso narum:
sed accidensnotat, vt feruum, liberum, ingenuum, Heroem, Senatorem, fænerato
rem, militem. Itaque cumdefiniuimus ab Ani mo, virtutem et vitia
comprehendimus: quum Fortunam, libertatem et dignitatem,et contra ria. Sic enim
semper locutisunt probati autores, Nam M. Tullius in octauo ad Atticumin episto
la ad Pompeium cum dicit: Mea personaadim proborumciuium impetum semperhabuiffc
vi detur aliquid populare: nonintelligit suum cor pus fimpliciter, sed
virtutem, ac fortunam suam, quæmeritorum nomine iam commemorat. Ita que in
primo Rhetoricorum loca a personisex plicat,nomen,naturam, viettum,habitum,
etalia eiusmodi. et in oratione pro Sylla fic locutus eft: Si mihi propter
resmeas gestas hancimponis per fonam. Cum dixit Mihi, intellexit subftantiam:
aìm dixit Personam, intellexit accides:cum dixit Resgestas, intellexit caufam
perfonæ, et circun feriptionem.EtSuscipere personam boniviri:et, Suftinere idem
alibifæpedixit atneque suscipit substantiam, acqucmutari poteft fine interitu,
Igl.7 UL RIO ut Igitur idem eft, fi dicas, Persona Ciceronis: et, Status
consularis: fic enim ad Atticum fcribens, quum negat effe edignitate consulari,
di et a quæ dam iacere in Clodium, poffis interpretari, Non pertinere ad
personam eius. Vnde autem dicatur, contraquam Gellius fenferit, quotque significatibus
audta sit,in libris Originum amplis fimenarratum eft. Fuitet aliud
imitandum,quod com extabąt natura: siquidem intererat, vt quodmas, ro fæminave
effet, et quod præterea neutrum, indi caretur. Quare quod per marem fæminamque
propagarentur genera, genusid diet u fuit: quod autem extra hæc dugeffet, non
dire et o fignifica tu generis nomine accipi debuit (ytiocatur fux per ineptiis
Grammarici lepidiffime Ausonius ) DrTo sed per negationem. Neutrum enim, genus
elt, Nisha quianon estgenus: ipsum enim nomen indicat, non essegenus. Hoc
igitur est,quod non eft.Hoc enim habent negationes, vt non ponendo per nant,
veluti cum dico, Nullus homovenit: hic 1 actio eft, finepersona; fi enim non
fubeft homo In aduentui, non eritactio. Nam præceptores mej S hoc errabant,cum
moremedicorum Neutruge nus ex vtriusque participatione constituebant, use
Temporum autem rationem fuiffe necessariam Rum, no spe intelliget, qui motum,
quid fit, fcit. Sed illud ia fuitanimiofficium, opulque perfpicacis. Nam
plentas quum affe ettus varii fint in functionibushuma # nis,puta Optandi,
Imperandi,veritatem designa i diverba ipfa,quæ a ettiones significarent,
inflexê Cipre,eosquefexusModosappellauere; propterea i quod aliter, atque
aliter animi propensiones Lij. teme in COM 260 IvL. III. temperarent. Videndum
est igitur has diet tionis affectiones,quæ, quotve partcs orationis,quibus Vede
caufis sibi vindicent. com Substantias,quæ seipsis constant,cade semper
effe,qualicunque animi affe ettu notentur, mani festum est. Nam Equum pronunciarovel
optan do,vel imperando,non mutabo: itaquecum ne que meianimi mutatione, neque
temporismen fura mPombaut, quin idem equus sit: nequenomi na,nequenominum notæ
pronomina, tempore aut modo variabuntur. Simpliciores autem no tæ,quævincula
tatum essent orationis, non ma. gis potuere mutari, quam vin et io ipsa in
rebus.Si enim Cæfar cum Catone bellum gerit, neque per fonam possis ei hosticæ
conuentioni, neque nu. merum, nequealia apponere, vt varietur: ideme nim femper
eft to umegye evcvartiov. Sic reiectz funt Coniun et iones,
Præpofitiones,Interie ettio nes, nudæ enim,etfimplicis rei notæ sunt.Vnum venit
in cotrouerfiam. Aduerbium:nempecum dico Heri, Cras, videor temporadiscernere.
Sed non ita est,haud magis,quam quum dicam,Dies, Annus:tempus enim significatprimoftatim
fig nificatu: at verbum non tempus,led subtempore. Itaque non vna eademquevoce,
sed diuerlis di versa temporasunt aduerbiis significata: itaque ctiam a numeris
exempta sunt: cum enim efsent temperamenta quædam verborum, verborum numeros sequifatis
fuit. Erunt igitur Nomina variata per Numeru, et Perfonam, ficut et Verba:
peculiaria autem illis alia,alia his,dequibus suo loco.Nuncenim cauffas 161: 1 1
US ep CD fas declinabilium, etindeclinabilium vt perscru taremur,fatis hæc hîc habuimus
declarare. Affeettus specierum dictionis alterius modi. Tquehis quidem
affectibus rerum ratio ex -plicabatur:fed et alii fuere potius, vtita di- maksi
cam,materiales: Figura, et Casus. Cafusenim ad diftin ettionem intellectionis
funtinuenti,nonex ipsarum rerum mutatione. Figura autem non femper a re.
Namquoniam vel mistæ, vel com politæessentsubstantiæ,composita quoqueno mina
fuere quædam,vt Tragelaphus, Vulpan ser:aut substatia et accidēs,vt Equiferus.
At quæ dam fuere figuræ, quæ nihil ostenderent in re compositum,vt personare,
insistere, et alia talia. Despecieautemdubitari poflit: nam quemad- Spremni
modum qualitas intellecta per fe, a nullo tunç dependet, puta. Iustitia: at in
Cæsare eam fi con templemur, videtur ab eo et constitui et pen dêre, iccirco videri
quoque possit deriuatum nomen lustus, substantiam iplam tanquamsui principium
confignificare. illa omnino eft in verbo materialis,Coniugatio: nihil
enimrefert (omu quodnam in elementum abeat,modo a et io, aut gako passio
fignificetur: quare diuersæ inueniasCon iugationisidem verbuin, Lauo, Denso:
Lauare, et Lauere: Denfare, et Denfere. Ordo vero,ne-owo que a re fumptus
feruatur, neque immutat 0 rationem, nifi certis modis transponantur: ne que
enim codem dicasmodo, Omne viuens est animali et Animal eftomne viuens: fed
structura L ij. et Ini 20 1 D mk Too Us atac elle eni mi 701 om IvLi III. BON omnino nonmutatur.Anautem fit
proprius af fe et us cuiuspiam,suo loco dietum eft. Hinccolligere poffumus, cum
alii sinterebus hati,alii materiam ipsam vocis potius sint fecuti, ex quibufdam
conftare neceffario veritatem, ex aliis non neceffario: nanque
vitiatotempore,fal sa fit oratio:vt, Vergilius iterum nascetur. Siau tem vities
genus; non fiet falsa, Vergilius bona: Figura autem etiam falfam facit
orationem, vt si dicas, Vergilius est poesis. Modorum autem fo lus Indicatiuus
pertinet ad veritatem. Sed de his fuo locos. QuodPerfona, etNumerus
accidat omnibuspara tibus, quomodo: et An Sexus Verbis addi debeat. STatua
intelle etionon vniufmodieftita, ned voces: ftatuam enim interdu agnoscimus, vt
eft fignum Cæsaris; interdum vtmarmor eft:po fteriore modo, percipitur vt
substantia: privre, vtrefertur. Sic imago in speculo et res eft quæ dam per ses
etsignum alterius rei. Eodem modo *** quüm voces rerum signa funt;eatum
quoquena turar imitantur:vbivero per seaccipiuntur,ipfit na quoquetanquam res
quædam intelligutur.Qua retum aduerbia, tum Coniunettiones, aliæque eiufdem
modi, cum Nominibus Verbisque et fecundas perlonas, et tertias obtinebunt: fed
non codem modo: nam Nomina Verbaque res lignificant,personasconsignificant:
Coiun ettio nes; atque cæteræ tales partes; rerum odos asn't figni. 16 € bi U:.
-50 nh let poli significant, perfonas
non confignificant,fed ipfa snb persona consignificantur. Exemplumrei huius hoc
eft: tra et abo naturam huius coniun et ionis Quanquam: in ca narratione
femperap ponam verba tertiæ personæ. Exclamabo adi psam oratorum more: vtin
fabulis, O coelum, a terra, o maria Neptuni i quæ nihilo melius re spondebunt
mihi: apponam fecundæ: confi ciam Prosopopæiam addentur primæ. Eodem quoque
modo vox hæc, Patres erit numeri plu ralis,quum lignificabit: quum
significabitur,lin gularis: quaratione etiam pluralis numerus, dicetur
singularis. Sed restat quæstio, Quam ob rem Verbo sexum non addidere, id quod
fece runt Nominibus. Atfieri debuiffe vel ratione vi tur posse comprobari: Nam
quumVerbum sub tempore id significet, quod Appellatio fine tempore: ficuti
Appellationes fecutæ sunt fixo ram naturam, ita etiamVerba fequi debuere. At
Appellationes fexum, iuxta fexum nominum fixorum, id eft, substantiuorum,
mutant: igitur etiam Verba mutare debuere: Curro enim corsum significat sub
præfsnti tempore, et albesco, album. Siigitur re et e di et um eft, mulier
alba, quo in loco, album, mulierem fequitur: eodem modo Albescit, quoque mutare
genus debuisset. Satis igitur eft colligere, fieri po. tuiffe: breuitati autem
cor sultum effe, quum, factum non eft. QuareVerbum, quum trans it in
Participium, facile ipsum genus recipere quiuit. Diuiditur igitur in Declinabile,etin
Ladecli nabia LIS, ultra ique ma ujen are F.Q Liza que R;/ Zule! nd ma L iiij.
164 IvL. IV, nabilem, quaternis dispositis fpeciebus:ibiNo. mine, Verbo,
Participio, Pronomine; hîç aduerir bio, Præpositione, Interiectione,
Coniunctione, Kase Nominis essentiam, tamabappellatione,quam a reipsa, statuit.
HACTENVS postpartes,diet io: nis Substantiam ipsam venati fumus, eiusqueAffeet
us: tum Species, earumque affectiones incommuni quibusque essent cauffis in
vium profectæ. Nunc iam deinceps fingulis libris fingulorumratio ex Onio
plicandaeft,codem ordinequotesipfas,quarum notæ habebantur,funt
fecutæ.Nomenigitur pri mumexequamur:efseenimnotam rei permane. tis,ex
iis,quæfupra diximus, fatis conftat. Itaque iniplaappellatione comprehenfa est
vis quædam ađionis: quasi ipsam esset cauffa quædam notio Vox pis Namyt
aMouco,moui,motum,Mouimen, Mor ne 1 s Momen; sica Nosco,noui,notum,Nouimē,No
men:eft enim imago quædam,qua quid nofcitur: instrumentum quali
quoddamcognitionis: ac veteres quidem rectam yiain institêre, cum dice- Vol.
rent, quasi notamen. Verum minus recte bonam ser ntiam explicarunt: Notatum
enim poftc mi reft, quam Notum: sic Notamen, quam Nomen; vt e contrario ab
hocillud potius fit. Fuit prius Noo,a quo Nosco:vtnetucaw,a quo niespoo
onu,apudTheocritum; Æoles enim ficloquicon fueuene. Multo minus audiendisunt,
quia Græ co όνομα,φuodωρα το νέμειν, ficut et νόμος, dedu. Α. Αν xere: quoniam
quo pacto lex suum cuiq; tribuit: ita et nomen fuam cuique imaginem rerum red
dit, nequeenim reette deductum intelligas ex ip * fa, quam temere
auferunt,vocali. sed övojce, rei vc titulus fuit, a iuuandoquafi o;eopa: cuius
vsu rem agnofçeres. Hæc est vocis origo. Res autem lis fic fehabet in
definitione, Didio declinabi- Sey per cafum, significans rem finetempore.O.
mnes enimpartes fiue species diet ionis, per ge nus suum, fcilicet per
diettionem suntdefinien... Test dæ: vt constet error gramaticorum,qui eam par
tem grammatices appellassent. Aliud enim eft le grammatica, aliud grammaticæ
subie et um Di et tio fue Oratio.Sicut neq; verum eft quod aiunt
alii,quiGrammaticæ partes quatuor fecere, Li teram,Syllabam,Diet
ionem,Orationem. neque enim est grammaticæ pars Oratio, fed totum ip
fumargumentumquod vocante'moxeipfuor.Quis enim dicat Archite et uram diuidi in
ædes? Diffe rentiæ autem illæ neceffariæ funt. nam Præpo L y fitio to Da tuca
2017 TUI pri gh t10 hel Com > Sitio non declinatur:Verbum remouetur per ca
füm, Participium per temporispriuationem:Hac tamen definitionenon differt
aPronomine, nisi adhucaliquidagas; sic primo,vel finemedio rem fignificans.Nam
pronomen hoc,OVI, Cafarem fignificat,sed nonstatim: primum enim refi psum nomen
hoc CÆSAR, deinde rem ip haveteres autem vt in cæteris definitionibus, fail li
funt,cum dixere fignificari, substantiam aut qua litatem,
propriam,velcommunem.Nametiam aliud quamsubstantiam significant, vel qualita
tem:quippe quantitatem, relationem,fitum, pri vationem, to egely,to. Illi vero
etiam ridiculi fint, quiin nominis definitionerem a corporedi ftinxere, nihil
eniminfelicius grammatico defini tore. Nominis affectus etiam accidentia
appella vere, quoniam Græci ovubsExxotoko verum itain telligas; non xouvai, fed
idhis, quæ Quintilianus recte propria vocat: sunt autem sex, Species,Ge
nus,Numerus,Figura, Persona; et Casus.Atque horum quide quinque a veteribus
confeffa sunt, Puumapersonaautemturpiter omiffa.Principio,ficcir. w >2.90.co
reiecere, quia eadem vox finevlla variatione, quamlibet confignificetpersonam,
etiam a pro nomine auferenda erit:neque.n.hoc pronomen Ipfe, vt primamaut aliam
notet, variatur: neque hoc pronomen Ego, aliam, quam prima indicat Sed hîc
quoque acrius iudicandumest:namPro nominaperfonam fignificant.Ataliud est
signifi care,aliud cõsignificare: vt hoc nomen Tempus, significat menfuram
motus,verum non cöfigni ficat motum.atnomenhoc Persona,id quodfu pra
ra H, TE enhers i OL 11 lin ope veli pra
diximus significat, sed personam certam non consignificat,sic Pronomen hoc Ego,
personam significat quamlibet:pro quolibet enim nomine ponitur,fed primam
tantum consignificat:quare cum per personas non varietur,non allignabit af feet
um perfonæ Pronomini. Poftremoid falsumbern videmus esse, quod de
Nomineafferunt: ideme nim nomen vtalioflexucasum, numerum, figu ram mutat, fic
etpersonam. Nam fecundæ per fonæ quinti casus omnes sunt,quos dixere Voca
tiuos. Verum neq; hanc fubtilem sententiam illi intellexere, et omnino tertiæ
tantum persona nomina putarunt, adeo inepte, vt nisi adiecto
Pronomine,negarintpoffe dici,Homocurro. At aamce o bone,quod Pronomen agit,
vicarius quidam: herus ipse,Nomen scilicet pro quo illud ponitur, non ager?
ergo non Pronomen a Nomine, fed Nomen a Pronomine dependebit.Atfuit aliqua alt.
do, quum nullum effet Pronomen: tum miseri mortales de feipfis nihil poterant
enunciare Co cedunt pudentiores vsum verbi fubstantiui,et fi milium,Homo
lum,homofio, homo nascor;ho mo dicor: at quid est, Homo curro, aliud, quam Homo
fumcurrens? Itaque paulo modestius alii sunt nugari, Appellatiua huic vsui
concessere, Propria fuftulere:vt nð nominiin suo genere co- poruci petat
variatio per personas, sed eius fpeciebus ali quibus,proprio autem no.Verum qui
intelligat; quid grammatica fit, facile corum reprimat au daciam. Eftenim
Grammatica fcientia loquendi ex vsu:neque.n.conftituitregulas scientibus vfus
modum:fed ex corum ftatis,frequentibusq; vfur patio 2011 tan.G fuera pationibus, collegitcomunem rationem loque di,
quam discentibus traderet. Igitur cum tam a Ex. pudGræcos, quam apud Latinos
prima verbi persona cum propriis nominibusposita sit: idque eta probatiffimis,
et frequenter fa et um fit:debue reabillis isti legesaccipere fibi, non de suo
finge re potius, quam figere. Omitto illud Euripidæ, jww nonu'dwpas. et
inoratione Demosthenis con tra Midian, παμμένηςπκμμένεςέπαρχος,έχον χει oog
acicu ciw, roixa @zizuorech ag eghalomgy. Venio ad noftros: Ouidiussic
loquitur:Hospita Phyllis queror:in epiftola Heroina.In fine comediarum Terenţii
verba illa funt:Calliopius recenfui. Sue tonius C. Cæsaris verba refert: Tantis
rebus ge stis C. Cæsarcondemnatus essem. T. Liuius in primo, Romuli hæc: Hæc
tibi victor Romulus Rex regia arma fero. Idem in perfona Anniba lis: Annibal
peto pacem. Sallustius in oratione C. Cottæ confulis:En C.Cotta conful facio.
Ne Rs que vero fubeftratio,qua possis dicere, Homole go: et non
poflis,Cæsarlego.Imoveromultore et tius: Cæsar enim ego sum, non alius.at alius
ho mo æque, atque ego. Quare in tertiam potuit transferri
appellatiuum:propriumautem reman fit mihi in prima. Eft et illud
validissimumargu mentum, Nomenessenotam rerum, siue igitur pe
tempusinspicias,siuedignitatem, primum feip fum nominauithomo: at in homine,
priino per sona, et ab eo aliis communicata. Quidillud? fi Nominiin communi,vt
nomen est competitca { us: et tamenqaluuma variatio defecit aliquotno mina;erga
quid dicendum?Respondebut, etreas et lo Ete casus quidem effe, vt in nomine Cornu,sed
per diuersa elementa non effe manifestos. Ita et iam nos,perfonarum ordinem in
nominibuseffe indiscretum, quem in vocatiuis aperte pofteaex plicarent. Ex his
constat Linacri lapsus, qui ita scripsit, Sinc certæ personæ adsignificatione
fi gnificare: quintus enim casus certam fecundam præscribit. Et ipse in
participii definitione dicit, Capere a nominenumerum et personam. Est autem
persona primo nominis affecttio, secundo verbi quod iplum fit Nomen secutum, vt
dixi mus, quod,Prima:ad quod,Secunda:de quo, Ter tia, Efficiens, finis,materia.
Hæcestigitur nomi nis effentia,fignificare rem permanentem:atpri sci id effe
proprium eius ridicule prodidere; qua inscitia etiam in aliis fubftantiam cum
accidente confudêre. Quoquifque ordine affectus traltandus fit. Rdinem
quoquehorumaffectuum veteres on UL uc T neenatus fluxit:ita debuit explicari.Ac
nemode bet dubitare, quin et Numerus, et Persona pri mas sibi sedes
occuparint:sednumerus prior fuit. Rummus Nam primum etsecundum, quod eftin
persona positum,eft relatiuum:prima enim dicta est,pro pter fecundam. At
Numerus non eft relatiuus, sed absolutus: absolutum autem prius relatiuo. Poft
perlonam autem genus cditum est: videmus cnim in pronominibus primitiuis genera
con fusa. Poft Genus emerfit Casus, quem expressit ambiguitas:cum
primum ficcssentlocuti, Cața interficit Cæsar. Itaque ve distinguerent oratio
nem flexumapposuere. Vltimæ fuereSpecies, et Figura: ac Species quidem multo
magis necessa ria, itaque Figuram præcedet: fine Figura enim constabit oratio,
lineSpecie non omniscõltabit. Neque enim dices, Cato cft iustitia. Atque ipfo
Socquidem Cafu Species fuit præstantior: materiæ pi bel enim affectio simplex
cafus eft:Species autem et iam ipfi Teineceffaria eftad fignificandum:mu tat
enim Species modum fignificationis, Cafus autem nonmutat. Sed fere et a
philofophis ipfæ funt Species introductæ, Denominatiuorum, et eiusmodi: at
Cafus vsu tantum exorti facile funt, ac propterea priores fuere.Sicigitur
recensebun tur:Numerus,Perlona, Genus,Cafus,Species, Fi gura. Sed prisciita
peruerterunt: ficuti cum ante Verbi, aliarumque partium definitionem, pro pria
eorum narrant. PeNumero, C depersona
quidem iam diet um eft: coas et i enim disputationeid fecimus:'de Nume ro autem
est hîc agendum. Numerus eft quanti štas, quæ per fe ipfa diuisa ac cumulate
vltimo kermino ab aliis distinguitur. Eft enim Binarius numerus duæ vnitates,
Ternariustres: quæ sua natura non sunt fimul, fed cumulatione,liueag
gregatione, fiue appofitionedicas,nihilintereit. Distinguitur autem omnis numerusab
alio nu: mero vnicotấtum termino, coque vltimo: vnam A ind enim No TE Song ILL
C enim habet dimensione quantitas discreta, quip pe longitudinem: fuit enim
vnitas discötinuata; nequeenim recte dicitur fluere. Cumigitur om nis numeri
vnitas initium sit,non differet nume ri inter fe hoc termino vnde fluunt, fed
eo in quo fiftuntur. Hoc enim Quaternio a Ternionedi ftat, vnitate scilicet
poftremo apposita loco. Occu patum autem eft confuetudine, vt Vnum, ctiam
numerus diceretur: quare id quoquefecutu fuit, yt numerusalius
dicereturSingularis, alius Plu ralis: neque enim mediu vllum estinter vnum et
plura:quoniã plura ex vno frequętato fa etta funt,similar Quarelones non re
ette fecere, qyi Dualem nummon merum a plurali discerpsere: atq;iccirco feuerio
res Æolesnequerecepere,nequein Latinos tras misere. etnugacitas illa Ionum in
multis tempo ribus verboră personas aliquot nõ potuit eruere in eo numero:in
nominibus autem pauculosca of sus expressere. His autem, quæ diximus,infelicif
simegrammatici obstrepunt:egrelli enim esep pris suis non poffunt quin
ineptiant. Singularis, lwg.mo inquiut, numerus verissimºnumerus eft,propter
when a ea quod repetitus facitnumeros, inque eum ipli resoluutur. Principio, hoc
est disputatu in divina philosophia, Unitatem non effenumerum, ficut neq; pun
et um quantitatem neutrumque; efle in bet prædicamento
quantitatis,nifitanquãprincipia. Multis autem argumentis deiiciuntur de staru
13! fuo. Si enim numerus eft quantitas discreta, id est a quantitatesdiuise per
superficies, et coniun et x te per comprehenfionem,imo vero ipsaquantitatī. ratio
comprehēsarum: non erit vnitas numerus, non TIES m2 nas le IyL. IV. non enim
diuidi potest: idem enim eft diuisum, etdifcretum: ficutidem cocretum
etindiuifum. Sumptis quoque eorum principiis direeto aduer fus eos colligamus.
Numerus, inquiut,singularis 2 reet edicetur: quiageminatus,aut multiplicatus
cæteros omnes creat. Ergo numerusnon eft:hac enim ratione punctum esset linea,
linea superfi cies,fuperficies corpus. præterea Binarius, Tere narius,
Quaternarius,non esset vnusquisqueñu merus feorsum:sed Binarius, duo
numeri:Terna rius tres:non effet igitur quantitas, sed quantita tes: numerus
enim quantitas eft,ergo numeri qua titates. Nihil vero mirum hoc errasse qui eu
ma Ale iam definiuerant, Numerus eft dictionis for ma, quæ discretionem
quantitatis facere poteste | Principio male assignaruntdiet ioni:nequeenim
competit diettioni,vtdiftio est; omnibus enim competeret dictionibus: hoc autem
eft falfum. 2. Deinde formam dixere, cum tamen numerus fit 3* accidens. Et male
dixere, discretionem quantita tis facere; sed potius discretæ quatitatismodum,
44 aut differentiam notare.neque excluduntur Ad verbia illorum definitione: Nam
Bis, Ter, for mam habent dictionis, quadistingui potest qua Propmatitas.
Proprium autem eltfingularis,finitumef fe:id eft,certum:quiafcimusquantum sit
homi num, cum dicimus, Homo. At pluralis infinitus est,non quod fine
careat,nihilenim in natura in finitum:sed quia sitincertus. Sienim dicas, Ho
mines: quotsint, nefcias: itaque addituraliquid præscribens, vt Decem, viginti.
Accidit autem interdum, vt eadem vocediuersus numerus in telligatur:
quemadmodum eft in fecudo casulina gulari fecundæ inflexionis, et in
primopluralie iufdem: in neutris pluralibustribus, ac hngulari fæminino:
vt,SACRA. In quib.autem evettiat, in capite decafu dictum est. Secutus autem
eft nu NE merus grammaticorum, suiipfiusnaturam in reo busiplis: par enim
etdispar, vt diximus, non si muladfunteidem numero: ficneque pluralis, et
fingularis: fed satis est alterutrum vni voci ineffe. Ac quemadmodum numerus
quivisaddita vni- Awesome tatc acquirit rationem pluris, ita aut numero ly !
labarum, aut temporum, plurales numeri nostri maximaex parte,lingulares
fuperarunt: Poeta, noule Poetæ:Dominus,Domini:Pater, Patres: Cornu, Cornua:
pauca enim aliter invenias. Sed et ina liis cafibus fereidem invenies. Quare
cum idem numerus non poffit esse vnus, et pliires, et idem nomen vtrunque
significare queat, ut “Amor”, “Amores”, consultum elt huicrci,vt per
fyllabarumi aut temporum appofitionem, idem nomen effet seipso maius, et aliquo
modoa feipfo diverfum. Hocautem, vtdiximus,maxima in parte nomi num est, non in
omnibus. Sermo enim teme re inter agrestia ingenia primum örtuš refraga tur
aliquando legibus doctiorum. Igitur quæ - yna v hrun dam sunt nominä сiusmodi,
vt numerum v trunque obtineänt, qualia diximus: nonnulla semper singularia:
quædam semper pluralia: et in his quædam pronumeri natura numeru red dentia:
quædam non: fed alia singulari nume to plura fignificantia:alia plurali numero,
singu la: Semperigitur fingularia,aut semper pluralia 46 T 7 Mj: Vin
vteffent,effecit aut natura,aut vsus. Natura sunt singularia, quæ certa sunt
individua, ut “Sol”, “Czsar”.Item pluralia, quæ multa sunt; vt sunt hoc; quod
effe dicuntur,vi Gemini,Pisces. Dico autem, Et funt hoc, quod effe dicuntur:
propterea quod colle et io illa plurium fingularium maxima ex parte pendet ab
intelle et u:vfus autem tyran nide extortum est, vt quædam sine ratione essent
fingularia,vtfumus:nam quare non dicam duos fumos?et duos sanguines? Hæc igitur
sine ratio ne. Quin etiam contra rationem: etenim Pul verem, et Arenam dicimus,
totum illum cuma. lum, cum tamen ipfarum partiumminutaru po. tius effe
debuislit. Pluralia autem quare dicas Lynum dicm, Saturnalia, Floralia, ratio
subest Comprehendit enim et ludos, et ioca et merca tus,et comeffationes,et
alia. AtCervicesquare dicebant,cum Collum quoque dicerent:aut qua re
Colla,vnius tantum hominis: Emendat ramen fefealiquandopublicus vsus tollēdo
quod statue rat, probatorum autoritate: quibus aliter placuit 4 poftea dicere:
vt Cervicem primus Hortensius pronunciavit: item Farra, et Mella, et Vinaalij:
et quibus placuit idem nomen proprium diuersis imponere:vt, mihi, et lulio
CæfariDiet tatori. Ea dem quoque autoritate coacti sumus verum fin gularem in
plures dividere. Vna Gallia eft,fin. gulis vtrinque montibus, totidem maris
limiti bus, etfuvio Reno præfcripta. quare igitur in tres, quatuorve Gallias
divifimus? cum vna Græcia, yna Italia diceretur. Ac fane commo. idius Italia in
plures potuit distingui a namvetus Ausonia, quæ et Oenotria,et Italia nominata
fu= 4/2010 it,ne Tiberim quidem attingebat.Poftea Roma-> ni ne Barbari
ellent, vi extorsere,vtad Rubicone vsque fines extenderentur. Octavius rerum
po-). titus,ctiam nominum dominus effe potuit: atq; etiam, li Diis placet, ad
Varum vsque propagavit: ut Alpes ipsas quoque, quas natura fixerat com munes, a
barbarie vindicatas Latino nominiat tribueret. Sanevero, quí Nicæam in Italia
transtulit, potuit Italiam ipsam, ad sociam et participem velnominis,vel gloriæ
Romanæ Maffiliam pro rogare. Sed de his aliâs. Eft et illud contemplan- Rana
dum: Nihil referre, vnum pluravelint:an vnum plurave putemus. Ita cum ex
divisione provinci. arum acpræfe et uris,Transpadanam, Cispadana, a Cisalpinam,
Transalpinam,Belgicam, Celticam, Aquitanicam dixere,propterea quod ita effe ar
bitrabantur: fic philofophorumquidam cuplu r'es Mundos, Soles, Lunas
intellexeretquodano bis numero fingulari prolatum fuerat,ab illis no heeft vitiofiusin
verbis quam in rebus multiplica tum.Itaque loues etiam dicimus, et Veneres, et
Cupidines. Itaquefcribunt, Orbem terræ:et,Or bem terrarum. NamTerra
nomenproprium est in singulari vnius elementi, quæElementum est, atque idem
semper in sui fimiles partes dividitur. Cum autem in plurali ponitur, eitidem
nomeli teřis, et materia,sed non substantia. Neque.n.ex W proprio
fitappellativu,vrdixere:fed aliud estre, 1 licet voce coveniat. Sicut in Caet
Numeris in 1 dem quoq; evenit:Nam,facra generis fæminini, Mij. numeri numeri
singularis, non eft eademyox cum plura libus neutris:accidit enim, vt iisdem
fcribatur e lementis. Terræ autem divisionem aufpicati sunt a
familiaribusoccupationibus, et ius ipfam iniu riam'appellarunt: neque enim
melius Terra de buitalijatque alij attribui,quam aer. Itaq; natura vindicat
fefe, et mortuos Tyrannos nonmaiore tegit tumulo,quam vnum ex oppreffis, fefe
om. nibusæqualem oftendensmatrein.Quęvero lin gulari numero plura fignificant,
naturam ipsam in eventibus rerum funtimitata: quippe vnuscu mulus,vnus
acervusdicitur: atid vnu, plura funt: edita Populus,Turba,non fine ratione
fimplici nu mero, multiplicem significatum comprchende Thebae.Nam Thebx,et alia
eiufmodi,fecura sunt con ventum libertatemque civium:quorum omnium nomine, non
vniusgererentur res: alibi enim a pertius hoc declaratur vt in Commentariis
Cæsaris, Helvetij, Menapij, Arverni. Multitudo enim in populis, nonmania in
vrbibus explicaptur. Harum autem vrbium numeruscu fingularifle. xu profertur,
vt apudStatium, Theba,fequitur v nionem ipfam in fignificando. Quæ igiturperti.
nent ad numerorum naturam, affectus, vsumý;, hæc funt. De Genere. Bon Aturalia
quofdam habent affe et us propter fe: vt,moventur animalia, quia fentiunt:er
govt evitentnoxia, etvt commoda consequan turymovendi facultate prædita fuere.
Alios affes et us or 7.2 DIC Aus habent
propter alia non propter se: ut excrementa sunt, vt cujus Tunt,ipsis
exonerentur:ne que enim aliqui pili quibusdam in partibus ho minis vllum
propter sefinem habent: nulli enim ysui funt: fed ve fumofis exhalationibus
illis va cet intus ibi corpus. Eft et alius modus, vt genera tio affectus enim
animalis eft non propter ip sum,sed propter speciem. Nisi enim indiuidua certa
producerentlibisimile, interiret species ip fis deficientibus. Quare generandi
facultas eis da ţa est:atque aliis quidem alio modo:perfe ettis au tem per
fexum:in quibus mas, et fæmina distin guerentur. His de cauffis, quæ voces
fexus effent notæ, qua rationcidiudicarent, eam rationem en Genus appellarunt, a
poteftate earum rerum, ', que significarentur.Sexus enim cstalterutra po-
liceret testas generandi. Neque recteantiqui dictioniSlim? isl attribuere:
Trium enim tantu in partium eft,non autem Dictionis.Sed ipfi falfi funt, cum
non ef fet nomen pofitum ei generi, quodpeculiariter has tres folas partes
capit. Alii addiderunt fic,Di * et ionis declinabilis:fed falso:neq.enim
Verbiest, pc Eftigitur illius fubalterni: fic enim media va i cant: generis
affc et tus terminatione fexum notas. Sita enim eft in fine vocis, vt Cælar,
Mufa. Ne que vero impedimento cít, quod ctiam masculia na terminatio cum
fæininina concurrat: vtMu rena,Aurata, quæ funt cognomina virorum.Hoc S. op
enim accidit a cognominibu sanimalibus: sic Syl nila, aprudentia, quasi Sibylla:
et alia, quorum ra tio fuit hæc secuta. Neque Barbara obsunt, Iu i gurtha,
luba: illis enim ca fuerit terminatia ad hoc le M iij. 178 Iul. IIIL 1 hoc
officium,yt postra nobis, Quod si qua eft ve triquefexui communis,non
destruitur iccirco de finitio: vt, Legens, et Felix: intelligis enim vtrum
quegenus includi: quod non facies in Leetus, Le Ćta:aliter enim terininantur.
Iccirco fapienter diximus, Notans, non autem distinguens:non enim semper
distinguit, ob verborum scilicet pe nuriam: funt enim res plures, quam vocabula.
Cætera autem, genera aut non sunt, aut hæc funt. Ac deNeutro quidem
diximus:nomene, nim hoc, Neutrum, negat ipsum cffe genus, Cum enim dicis,
Neutrum genus est, significas wipfum effe,quianon est. Sicutsvavulla quædam
herbæ di ettæ funt:quæ quianomen non haberet, che nomeniņuenere. Eft autem
Neutrum duplex: vnum, quod vtrạnque fimul reiicit genus: vta Scamnum. neque
enim autmas, aut fæminaest, Alterum, quod ncquc rejicit, nequeftatuit: vt, Gubi
Mancipium. Addidere autem, quod Incertum vocarent; vt, Dies: fed hocabipfa re,
neutrum quoque eft. Sexus enim non nisi in animali, aut in iis, quæ animalis
naturam imitantur, vt arbo res. Sed ab vsų boc factum est, qui nunc mascu linum
sexum, nunc fæmininum attribuisset, hocitaque nonulli eţiam Dubium appellarunt.
At illud ferendum non fuit, cum animalia quæ, dam suis generibus non notarent;
hanc ncgli gentiam Græci vocarunt genus etiroivov, pessi me: nam xovov, id quod
Duocomprehendereç genera nominabant. hoc autem Alterutrum tan tum cum recipiat,
no potuit habere præpofitio pēem:addit enim quatitatēmathematicis. Vt emia
rippv,Noftrimelius promiscuum, quod differret I 1 lad. avt cius pics
ns3 LIC cam ma co FC 010 ego com-, GUE a communi: quoniã comuneidem æquecaperet
vtrunq. fexum, et effet vox generica autspecialis capies indiuidua:vt homo,cui
aliquando femini num,aliquando masculinu apponeres adieet iuũ, vt homobonns,
homo bona. At Promifcuo non item: fed alterutro sub sexu captę voci, vtrun-,
que sexum affignares: vt paffer albus, ctiam de femella. Is autem defe et us
cum in vsum furtim irrepGifset, timiditate quadam fotusest. Nam vt$$
Mulus,Mula, Ceruus,Cerua, quare no Aquilus, Aquila, et cum haberesfuucs, Fwvis,
quamobrem non dixisti, Thunnus, Thanna.Namquçadmit, tuntcommunes terminationes,
ausim muni quoq. genereinsignire: vt hic et hæcouis potius dicatur,quam aut
hæc,aut hic vel hæc, vt etiam veteres pronunciabant. Atque illi quidem, cum
Taurum re et e dicerent, etiam ad conuiciu Tauram, comentisunt. Quare igitur
voluptatis diuerticula quæfiuere: necessitati autno inferuie re verum nulla ars
repete perfecta extitit. Ille ve roin multis vocib. ficin vocu terminatione
fata Opuze lis defe et tus fuit, cum tria genera vnica vnius vom cis
terminatione coprehensa sunt, vt Felix: vng enim vox est,materia fifpectes; at
si formaintro. spectes,tres sunt vna facic.llludquoque ex anti quiseft cautius
accipiendů: Nacumdiscrimogenos a Nerum statuut, per notă Pronominis, a pofterio
- riaccipiunt cognitionem:nequeenim Cæfar, eft generismasculini,quia ei
præponitur hic:sedco gnoscitur ita cffe,qaita præponitur: præponitur aute,quia
eft. Hæc de re ipsa. eorum autevoces etia sunt declarandæ.NaMas,Ofcadiettio
fuit că la cifa a Mamerte; Mamers.n. et Mauors, et Mars, forrem apud illos
fignificarut;non quodma na UIT CIT IO MIC Sil m voca vorteret vtaiunt:
neque enim Latinæ voces fue re. Fæminina antem a fætu:fætusautem cause to
Coitur: nam hocverbo veteresrem Veneream fi, gnificarant pudenter: ficut
Latini, Coire: quid enim purias,quam comitem esse? item consuetu do: ' lic
Græci owevci, et vyzivela, et alia mplta, quæ in libris historiarum
diligenteranno * tauimus. Disputarunt autem Grammatici Ma pufcula Lante genera
anMasculina dicenda effent: et Fe stus in xii. Masculina mauult, quoniam Græci
quoque apravixa Hai Inaura ', non autem appara, etFraua. Idem Feftuşin primo,
Fæmineum di citGenus, non Femininum. Recentiores deli cati malunt dicere,
Generis neutrius, quam peu tri,fed antiqui fiçinflexêre Vter, vtri, vtro; fi
cut,Vnus,vni,vno,vnum,vne: vt es apud Catullum. et Terentius, Mihi solæ. Et vt
nomen gene ris differat a communiilla vocenegatiua, pruden ter, qua
potuit,effectum est. Proprium autem Ge nerum effe,pati mutationem,fatis patet
ex genc en reincerto, vt etiam Armentas, dixerit Ennius, quæ nos Armenta. Sed
de his in historia originu faris dictum est, Cafors. Vncco ordine,
quem præcepimus,de Cafia bus agędum eft,operoso fane negotio.Ca pildusigitur,
per veteru definitionem, quid sit,non bolle med fatis cognoscipoteft:quippe, et
Nomen per Ca fum, et Cafum per nomen cuin definiant neque þæciņter
felintrelatiua, circularis erit cognitio: 1 sic Pt fic cnim vocant philosophi,
quum ignotum per æqueignotum explicatur. Nam fi nomen eft de clinabile per
casum, Quæro, quid fit casus. Eft declinatio (aiut )nominis, quareper hæc nihil
ng tum mihi fit. Sed addidere, vel aliarum casua lium dictionum, quæ maxime fit
in fine, At vero, Cafus non eft declinatio:Declinatio enim duo fi gnificat: A
et um illum inflectendiprimo fuo fia, gnificatu:motum.n. notat ciusmodi
verbalia, ve ambulario.Id nõ eft casus: no erit igitur hocmo do declinatio:
fecudo,significatcaputquoddaad,, quod reducuptur eiufdem flexionis nomina:ve
primam, secunda, et alias dicimus: ne sicquidem erit casus, declinatio, Casus
enim ipsi ad ea capi ta reducuntur. Quod autem ad aliquid reducitur, non eftcum
eo idem. Reducere enim notat mos tum:at omnis motus statuit priuationem: igitur
liidem effent, idem careret feipfo. Voluitigitur Ĉ intelligere declinationem
ipfam mutationem terminationis; sed Casus non eftilla mutatio, fed hoc ipfum quod
iam mutatum est: Casus enim Vocatiui est, Bone, quod iam est mutatum a Bo nus,
non nunc mutatur. Itaque vox hæc, Cafus, elt præteriti temporis,declinatio
præsentis, Præa terca Species est declinatio nominis, hoc mo?? doper
terminationem: vta Iustitia luftus: hæc enim est definitio Denominatiuoru.
Quidquod illa verba, Quæ maxime fit in fine: perturbant. pon declarant. Nam vox
hæc,Maxime accipitur Fc pro eo,quod est potiffimum. Atpotisfimum re mittit
interdum amplitudinem fignificati: vt quum dico. Potiffimum hyeme pluit:
significo. -DV 7de ene you non semper
æquepluere: quare oftedunt ca vet ba, euenire aliquando, vt Calus non fiant in
fine vocum, sed alibi quoque. Quod ficoconfugiant, vt dicant,Maxime,idem esse
quod,Semper: ad derent potius vocem manifestamSemper. Ve rumneid quidem faciunt
do et i: Definitiones e nimita funt natura comparatæ, vt hocaduerbio neegeant.
In ipfis enim ligna vniuerfalia, tum nu merorum, tum temporum neceffario,et
femper intelliguntur. Idem enim dicas, Homo eft ani mal:Omnis et homoest
femperanimal. Cum e nim a fubftantia confiant definitiones, ipfaque
abeslenequeat: etde omnibus, etfemper dicen turserit igitur casus terminationis
effectusdiuer fus aprimaimpositione:eft.n. idenomealterius, atque alterius
cafus, quiaalia atq.alia terminatio Hemutatusest. Isautem affe us eftin prædica
mentoQualitatis, in capite de figura. Intelligo figuram mathematicam, non autem
iftam fåt Sam dequa mox. Eft enim Figura terminusqua titatis: igiturhæc
voxPoeta,quantitate certa, et figura eft:a, enim vocali clauditur. At vox hæc
Poetarum,alia quantitate, alia figura terminatur. Som Eft autem affe et usis
Nominum primo, etvero: Pronominum autem, quatenus illorum vicarii
funt:Participiorum,vtin ipfis Nominum natu fa ineft. Sicut ego fum calidus,
quia ignis calidus est, quiin meelt:ita proprium accidens alicuius, poteft effe
hoc modo comune:quonia subftantia illa,cuius eft proprium,eft fubftantia
imperfecta, et comparata ad vlteriorem fine,quam fuu: cu jusmodi sunt elementa,
que nonfunt propter fe GcutEst en Eatin nfugi Tipe: per. Egok adaa 2, tur etts
Cor o ipa erdic Caso ficutneque materia prima.Illud in memoria ha- Countro
bendum eft:Siquę voces cafu distinguuntur: que tamen non funt mutatæ, vtMufa,
in Recto, et Vacatiuo, hoc defectu materiæ, non formæ eue nire: Quæ fuit ratio,
vt etiam æquiuoca nominaw sa orta sunt. Dico autem diuersam a primaimpoli tione;
inuentores eniin nomen indidiffe Reco patet ex vsuloquentium,qui præfentis
temporis primam personam, 6lua appellant,et Reetum ipsum Jog. nominis. Casus
eflentia hæc eft:igitur de numero corý, aut deque appellationibus nunc agendu.
Caderedi çimus moueri deorsum naturaliter:intelligo na taraliçer, secundum
graue. Nam alia, quęingres su aut volatu,aut alioquouis modo deorsum mo uentur,
non ferutur naturali motu grauitatis, fed voluntario: quo motu etiain fursum
subeunt. At naturalis motus ad vnum tantum fit. Quare pa, luserectus,aut
columnacum ruit, caderedicitur: non quia totadeorsum feratur,Ted quia plurima
eius pars. Translatum eft deinde, vt quoties aliter quidauțesset, aut eueniret,
quam aut prius erat, aut fperabatur verbum hoc vsurparemus:'vt Ca dere caussa,
in qua erat: Cadere fpe: Excidere memoria. Corporis enim folius interest natura
liter moucre: fed ad res corpore carętes translatu fuit. Huius verbi arigotora
Græca esta prætevov rito medio?oūmaiat. quo sono integropræsen tis etiam nunc
Valcones pronunciant. Cum igi ţurapud Homerūdicatur verba excidere ab ore, a
mente quoque cadant neceffe eft. Quare cum a cadendo Casus sit, paffiua forma,
vt Occasus Sol MI10 prad Deck tami ODISI serti Post TioN etTE n 110 na34 Scak
alice biter esti uus: ople 184 Ivl. IIII. Sol,quemadmodum fupra diximus,qui iam
oc. cidiffet, in x 1 1. tabulis legebatur: Casus appel latione etiam Rcctum
ipfum afficere aufi funt, quia a mente caderet imponentis. Sed quum nos ILCR
wdeaffectu nominum fcribamus,non erit ea recta, fententia: reliquæ enim
quoquepartes Casus di cerentur: igitur non esset nominum affectus ex mutatione
finali, sed fine mutatione cuiufuis vo cis: vt Hev: vtappareat, quam
negligenter fibii pfis istiaduersentur. Sed ferendico erant, quod In vera
dicerent.quanquam non fecundum ea, quæ proponerentur. Atcontra,quiita sentiunt,
Ca sus omnes efseRectos,quia a generalicadunt no mine:landineptiunt.nam quid
est hoc,quod ge nerale nomen appellant? Nomen ipsum? Atquis dicat, Cæfarem
anominccecidiffe, in quo nun quam fuit: quis Sputum? cuius ne vnam quidem habet
fyllabam. Materia igitur huius, ab illius non cecidit.Quod fi hoc ab illo
contemplantur, quia illius speciessit, sane non cecidit: quis enim dicat
fpeciem a genere cadere? in quo eftvt pars comprchesa prædicatione: et in qua
illud eft vt pars constituens essentialis, vt omittam tempora verborum futura
casus, quoniam a verbo gene rali cecidiffent. Erggalii subtiliffime dixere,Re
to ctum effe Cafum,quoniam ipfecft quicadit,cum definit effe Rectus, et fit
cafus. Si cnim Rectus est, quideclinatur,qui ficditur, nepe eritCasus. Itaque
Aptota vocata nomina, in quibus rectus non caderet. Verum ne hi quidem funt
audien wie di:Nam quæro Reetusantequam cadat, Casuf ne fit? fr est casusante quam
cadat, ergo finc cauf fa, CE, nts ode 20
sa, id est, fine mutatione etflexioneerut obliqui cafus. Sin hicasus funt, ille
non fuit: mutatum e niin non eftidem. Quidam.vbideiectisunt his rationibus, ad
alia commenta confugere:eundem effe poffe et Rectum et Casum quia stylusema-na
nu poftquam cecidit,fectus adhuc elt. Hîc falla- john cia eft keci et Eredi:
iccirco duplex fuit vox, Cria, et 60). interpretamur primam vocem re
Etam,alteram erectam.Reettæ ratio eft a partibus, ne extremorum tenorem
egrediantur: nam qui fic definiunt,Breviffima extensio,per proprium, non per
esscntiam definivere.Erectæ autem ratio esta litu, etrelatione vniversitatis:
cuius fcilicet partes extremæ non egrediuntur lineam mundi perpendicularem. Ita
etiamcuruus stilus poterit erectus effe, et ftilus rectus, iacens: opponitur e
nim Recto Obliquum, Erecto autem lacens.Ic circo dicimus in definitione Erecti,
cuius extre mæ partes non exeunt liticam mundi perpendi cularem. quoniam etiam
curua erecta effe pof sunt. Vere autem Erectum sicintelligas: nam Nutaris licet
non fit lacens,non tamenvere Ere et us eft: fed eft,vt aiuñt, in fieri:
definitiones au tem rerum sunt perfectarum. Hinc Nominati vum vocabimus L.
Jeñor Rectum,quia brevissima nominis extensioeft: vt linea recta: iccirco Clu
apud Græcos significat statim. opJw autem,quia ftat:nequedum flexa est: erectum
dicas,silubet. Ceteras autem partes inflexinominis,a Recoq dem Obliquas,ab
Erecto autem casus. Sed reci us fiat,vtobliquorum nomeomittas: nullo enim
modopotest competere ratio curvitatis. Casum autcm DHI NIE ch ZA CN -,R Cat ca
die 24U Cealus autem appelles illam terminatam mutationem; exemplo
Aristotelis,o milosa Alge Pepdv oz'Tx quivua Mam 75wrotua. Enumerantur
Casus:explicatur vfies:re cipiuntur Tomina: Asus, vocelargius cu recto quoq;
comuni: cata,vidcamus quotsint et qui,etquare no write plures, Ğ a
veterib.traditi sunt, neq;pauciores.In mm. omniactioneestid g agit,id quod
fit,id quodfa et u recipit, privatio, et finis cuius cauffa fit. Quin quecafus
fuerenecessarij: Agens, Rectus: quod fit, Secundus: cui fit, id est finis,
Tertius: quodreci pit, Quartus.privatio, Sextus:Agit enimfaber, fa cit formam
freni in ferro, facit Cæsari, recipit for mam ferrum, quod carebat ea. Ita
constitues o rationem, Faber cudit ferrumi Cæsari ex catena. Interroges igitur,
Quid facit ferro?Formam fre au Patuni: ex catena in catena enim nonerat. Ac
quan quam videtur formailla effe finis: imposita enim fony
conforma,ceffatartifex; tamen non eft finis vltimus: eft.n.finis operæ, id eft,
a ettionis; non autem ope ris.fit.n.propter equu Cæsaris. Sic et super Quar i
ti natura poterat dubitari: videtur.n.formam no materiam fignificare, cum
dicimus,Ædificodo mum.Atrudib.philofophiæ hoc veniat inmen, tem: Domus.n. et
materiam dicit et formam:Vo. cabulum igitur hoc facit,non autem Casus. Cui' rei
sigrueft,dica, Cædo lapideszhic nihil est, præ ter materia: Cæsura autem forma
eft, puta lovis, aut Cæsaris. Ita in domo, fi formam a materia intelle et tione
distinguas, siç dicas, Lapides cuius sunt e mi quod erha Erfa reso teni funt?
Domus: a forma enim hoc habet, vt define Pontis,aut alterius rei. Mutantur
autem locutios nibus Casuum rationes, aliter enim accipias in passivis: sed
simplex inventio rerum talis ab ipsis principiisfuit. Quoniam vero fermo
institutus est, vt dicebamus, quocumaltero sententiam no stram communicaremus:
iccirco Quintus cafus inventus est, cuius officium vocandiellet.Sapien -Nomme
tius autem a nobis fit,quam fit fa et um ab antiqs: cum ordinis nomen
indimuscafibus. Primui; ndt Secundum, Tertium,non aute officiorum. Nain Duis
cum in varios vsus fusi essent, non folum diversa nomina, sed etia supervacanea
sunt sortiti. Quid drea enim Vxorium cafum dixerunt Secundum? mo destius alij
Patrium,prudentius Poffefforiu. Nam Hectoris Andromache, non eft Vxorius,fed Ma
ritalis: sicut apud Valerium, Terentia Cicero nis. Ita cum dicis Cæfar Sylvij
pater, Filialis fit, si sit Patrius ibi, Sylvius Cæfaris. Sic enim Cicero:
Cato, huius pater, qui Uticæ sese interfecit. Qua ratione etiam Genitivu
nominarat. Quid? nonne erit etiam Carpentarius cum dicam, Car peatum opus Epei?
Sed grammaticis nullus finis ineptiendi.Dativum non inepte dixere,Acquisi
mitivummelius: nam quodcontraria natura inve nitur: vt, Aufero
tibilibrum:hicetiam acquisitio nem intelligamus: nam recipitablationem. Ac
cusativu peffime Latini,Græcimitius, aile Tixlu vt cauffa fit non accusatio.
nam fic oportet dicas PPA Sextum casum, Defensorium: namquemadma dum eft,
Contra Vatinium: fic erit, Pro Vati nio. Sed et ridiculum fane:etenim ytelt,
Accufo Clo i fire 028 OS DIUS opt do 009 Vo Col 017 tera UARY um 188 IvL.
CClodium: sic, Defendo Clodium potior autede fenfio effe debet.Salutatorium
etiam Vocatiuum non male: sed hoc generalius: etiam falutas, vo cas: neque enim
Vocare primo significatu fuit, arceffere, aut ciere:sed,vocem edere: poftea
fuit, nominare. Sic clamare vocem contentam ede re, poftea appellare:vtapud
Plautum tranfitive. ienon absolute,Clamahominem, koneix. Ablativi quoque nomen
non femper fervit,sed etiam dat: A Cæsare daturregnum Antonio: nisi dicas, au
ferri ab eo quod dat;id quod datur, et reette. Se ' S ptimus autem a Sexto non
magis distat,qua Ge phimnitivus afeipso,quumaliudquam gignere,et Dativus aliud
quam dare fignificat. Isautem ca fus Septimus,vt voluere,vtnosSextus, habuit ra
tionem instrumenti:nam hoc quoqueinter caus sas numerätu est. AcPlatonici
quidem,interquos etiam Galenus fuit, instrumencariam cauffam ab aliis
distinctam posuere: at Peripatetici(vtom nia) fapientius ad genus cauffæ
efficientis: eft e nim Malleus efficiens Annuli: neque ipfe fine Aurifice,
neque fine ipfo Aurifex: fed ita vt fi Malleo non agat, agat alia re, quæ
illius loco fit. “ Adeo vt Aristoteles etiam ipsam motionem inter efficientes
víumerarit. Igitur in rećtonon potuit esse, propterea quod simplexelt. In fexto
casu fuit, quomodo eft efficiensin paffiva locutione: vtidem fit; A Cæfare, et
a Laricca vulous fictum est: vtrunque enim eft agens. Itaque et a Lancea et
Lancea: quare quum neque Cafär fine Lancea, nequc Lancea'sine Cæsare vulnus pos
fit facere, et tamen Cæsar muito potior fit, quip. pe 189 tam Abi erine idios
reche 0,00 honek در و habu peages a feipfo, tenuit priscusvsus, vt præpofitio
hæc Cvm, adderetur: ficut, Theseus cum Hercu le. Verum quia non erat focietas
æqualis, fed ve rusmotus a ettivus in agente,motuspallivus in instrumento,
sustulerunt præpofitionem, qua verus comitatus in aliis indicaretur.Ratio
igitur, et vsus sequens rationem priscus ad hunc modum fuit. Nuncvero cum
grammatici negantinveniri di tum a doctis cum præpofitione, falluntur. Nam in
quarto Fastorum,in antiquisexemplarib.Flo rentinis fic fcriptum fuit:
Hecmodoverrebat raro cumpectine terrum. Verum itain codicibus do et iffimi
viriGryphije mendatum invenimus: Hacmodo verrebatftantemtibicine villam.
Necdisplicuit festivitas priscæ vocis, fulturaque casætenuioris. Sed is
loquendi modus fuit pecu liaris illi poetæ: cum alibi,tum in primoTrãsforo
mationum, --concuffitters,quaterý Casariem:cumqua terram, mare,fidera movit.
Plinius quoq; in lib.ix.demolloquenspisci bus,fic scripsit: Cæteri çirri, cum
quibusvenatur. Proprium autem est Sexti,etSecundi mutuo 64 subire sedesquasdam.
Quædam.n.verbaæquei-comide oppsos refpiciunt,vtEgeo, et eiusmodi:fed etalio va
su loquendi:vt,Imperator miræ fortunæ:et Mira fortuna. Vbi fi multa iungantur
cola, idemcalus fere repetitur:Bonæindolis, summæ spei,raræfi dei.
Pliniusvariayit vii. Chromandorum ģentem fyivestrem, sine voce, stridoris
horren Ai, hitris corporibus.Alius dixiffet, Stridore hor Nis rendo: intar
INITI caula ci Otis: + 2 108 ed in is lori nema. ustig cal Sine اrendo:vbi
etiam vocem a stridoreoris mald seps ravit. Sed etCicero eodem modo elegantia
con divit varietate: Lentulum noftrum; eximiafper fummæ virtutis adolescentem.
Vbisemper inve nies adiectivum:nam exemplum ex invectivain Sallustium falso
adducut,sic, Quos protulit Sci piones,Metellos et, ante fuerintopinionis:legut
enim docti, Tantæ, et re ette. Rectus autem et Quintusapud Atticosidem
quifuit:quosetiam poeta imitatus eft: Corniger Hesperidum fluviusregnator
aquarum. etin plerisquevocibustam Nominu,quam Pro nominum, atque etiam
Participiorum adhucita est. Iccirco in oratione vtrunque fimul iunctum
invenimus: vt apud Plinium in vit. Salve omniu primus, parens patriæ appellate.
Namca verba, Primus, etAppellate fimul coeunt in coftru et io ne. Illud autem
ex Virgilio, Nate, mea vires,meamagna potentia folus, Natepatrisfummi,quitela
Typhoea temnis: duob. modis aptari poteft,vteximatur ex eomoi do
dicendi:primo,vt folus sitmagna potentia:fe cundo, qui folus temnis
tela.Cafuumordo,quaretalisfit. х öm nium mam habuit pofituram, Secundum locum
forma occupavit: eftenim ftatim in animoefficientis,vt materiæ eam imponat:
quippe, vti dicebamus, operæ finis est. Proximam huic sedem vindicavit is,
quivlrimumfinem significavit. Rcliqui erant duo: w.. Emilum primum,Reetum habuit:et
quia primali duo: alter materialis, quem Accufativu dicebant: anti alter,qui
signaret privatione: iccirco merito huic m illum præpofuere.Vocativus autem
poftremolo co fuerat collocandus: veruın Sextus quum totus Latinus fit,atquc ab
ipfis, cæteris additus, omniu oculis vltimus fuit. Neque enim verum est,quod
aiunt, bas: fueJer, Je, Sextum fuiffe Græcis: non. n. flection for love tur:
sed est, ficut apud nos,coelitus. Itaqueetiam 1.0il alios ficinvenias,segvavde,
d'egvos.quare etiã pla res cafus fint.cęterum adverbia locifunt,vt fuega 16.
Quid quod illa addita terminatio non femper Lad distinxit,nam etiam præpofitio
addita eft, regvo adh fo me.ficut et $ quæ particula omnibus additur Ljuni
casibus, nequeipfosvariat: et omnibus numeris: sec id quod ab Vrbảno
diligentissime ex Homericis obleryationibus collectum est. Deiis,qua vnico cafu
constant, “ pluribus. an Aptota inveniantur. Vemadmodum igitur interdum videmus
volimo nomen quodpiam, verbumve voceconyes puna nire:vt, face: neque tamen
eadem est natura: ita quanquam quidam casus eiusdem vocis, limitib. iisdem
contineantur,nihil tamen impediet,quin mi suiquæq; vox Casus naturam
vsumq;fervet.Sunt qua enim quædam nomina per omnesCasus variata, quæ iccirco
Senaria dicta funt, vt Solus. Quædam jes per quinquevt Pater:quæ,Quinaria,
Quaterna cebut ria: vt, Puer.Ternaria:vt Turris.Simplicia,quæ v india num
tenoremsemper obtinent:vt,Frugi.Binaria mut que autem: live Bipartita quidam
fecere, adduntque Nije Siffres Sell mm exeo ! DICOD Q umtu பொய் -
exemplum a Genu: propterea quod in Secundo, et 'Tertio, et Sexto producat, in
Recto, Quarto, Quinto corripiat vitiam fyllabam. Apud poe tastamen eam
semperproductam invenias: Nudagenu, nodog,finus collecta fluentes: eft Gcnu,
Quarti cafus, ficur et Sinus fluetes. Ne que necesse cítinveniri defectus hosin
omnibus numeris: vt quoniam fint,Singularia, et Terna ria, et deinceps, etia
Binaria statuatur. casu namq; non consulto hec evenere: quin etiam siconsulto
factum esset,adid non cogerentur, siçutin patu ra animalium, sunt Bipedes, funt
Quadrupedess Sexpedes,Octopedes, I ripedes autem non sunt. neque in arte.nam
culinarij Tripodes sunt: qna drupedes vt effent,non placuit. hoon Antiquiigitur
fic minutatim collegêre. Sena ríaModum habent vnicum, vt Solus. Quinaria duos,
Rectum eundem cum vocativo: vt, Mater. is primus modus est: Alter, cum idem eft
Tertius cum Sexto: vt, Marcus. Quaternaria fex primus, Genitivum cum Dativo,
etVocativum cum Abla tivo: vt, Aeneas, Secundus, Nominativum cum Vocativo,
Dativum cum Ablativo: vť,Aper. Ter fius,Genitivum cum Vocativo, et Dativum cum
Ablativo: vt, Iulius: Genitivum enim vnico I, fcribebant. Quartus, Nominativum
cum Vo. cativo, etGenitivứcum Dativo: vt, Dies. Quin tus, Nominativum cum
Genitivo, et Vocativo. Sextus,Nominativum cum Accufativo, et Voca
tivo:vt,neutra, Sidus, Scamnum. Ternariaquoq; sex fiut modis: Primus,
Nominativum cum Ge nitivo, et Vocativo: Datiyum cum Ablativo, vt Turriso bi Hi
16 UK Turris, Secundus,in iis, quæ sunt sicut Portus. V biantiqui Datiuum eodem
sono quo ablatiuum proferebant. Tertius in iis, quæ funt ficut Poe ta: nihil
enim habent præterea, nisi Poetam, et Poeræ. Quartus in iis quæ funtficut
THISBE; in quibus idem est nominatiuus,Genitiuus, Da tiuus, Vocatiuus.
Ablatiuus. Quintus,in Græcis fæmininisin o, antiquorum more. Sappho, Sap
phonis, Sapphoni.Sextus, vtinneutris Secundæ, scamnym, Veterum di etta examinat
diligentius. As minuțias omittere aliquando in animo fuit:fed ne quid
desideretur,apposuimus:si mul vt veterum errores caftigaiemus. Primum, i fingularcs
tantu casus sunt profecuti: at cnimue ro plurales aliter fonant: iccirco tota
hæc via non folum inutilis, fed etia falla. Præterea capita quo 2. que ipfa non
omnia verasunts, inter quæ illa e mendes: nam Ternarioru fecudus modus ideeft.
cum primc:nam in Portu, et Turri, iidem sunt ca. fuum modi,fi literas fpectes,
Nominatiuus, Ge nitiuus, Vocatiuus, vnus: Datiuus, vt prisci,Por tu, et
Ablatiuus ynus. etTertius, accusatiuus. Ar enimuero differt Genitiuus, Portus,
a nomina suo fyllabæ finalis produ et ione. Itaque ad maio rem numerųm
referenda hæc erunt: ipfi enim Binaria agnoscebant, ex eiusdem vocalis diucrfam
quantitate. Quare Tertius quoque modus ' Ter nariorum reiicietur in
Quaterparia: nam Dea,a liter fonat, in Nominatiuo, aliter in Ablatiuo, Quartus
vero etiam ridiculus est. Quis enim di catin Thisbe: eundem effe velGenitiuum,
vel Datiuum cum Recto? quem ab eo diphthongus longediuidit:vtståspicari libeat,
iam Diomedis tempore defitas effe diphthongorum pronun ciationes. Quintus
quoquemodusexplodendus eft: Nam si veteres fequimur, vt Sapphonis, et Sapphoni
dicamus: etiam Sapphoncm, etiam Sapphone, addernus, integrum.n.declinabant. sin
cultioribus feculis obfequamur,in aliam mox formam erunt redigenda. Hæcigitur
omnes fibi habent cafus,corum e nim vsusomnibus præsto eft: atcasuum formam
desiderant: verum inueniuntur nomina multis defecta cafibus: quædam etiam
omnibus, præter vnum: vt, Sponte is enim Sextus cafus quum fit, fui vfum cum
aliorum nullo communicat:quare hæc Græci recte Moveiew. dixere.alia vero qui
bus duo tantum relieti effent,Diptota:vt, luppi ter, rectum tantuin et
vocatiuum habet, reicctis antiquorum, Iuppitris, luppitrem.alia,Triptota: vt,
louis, louem.reiecoRecto antiquorum, co verfu, Quem fouisipse tremit. In quo
Apuleiussecu tus est vetus carmen, quod recitatur a Martiano, Mercurius
louis,Neptunus, Vulcanus, Apollo, Et Tetraptota, et Pentaptota, a numero quoque
dicas fi inuenias: vt pronomen Ego, caret enim Vocatiuo. Hexaptota autem etiam
Ilavta wide nominauimus, quoniam omnes cafus comple eterentur. Siigitur, vt
oftedimus, aliud est, esse Bipartita, Tripartita, Quadripartita: et aliud
Diptota, Tri ptota, Tetraptota: fatis constat veteres non re e inuexisse,
Aptotorum appellationem. Namim Qilol? Frugi, et nihili,non carent
calibus,vtdixere:fed Nihili,Monoptotum est, casus scilicet Geniti ui:vt sit homonihili,sicuthomonullius
precii: et Frugi omnium casuum est.omnibus.n. cafib.iun gitur,licetvoce non
varietur. Si.n.id tolleret ca luum naturam, non posses dicere,Turrismagnx:
quoniam Turrisin nominatiuo ius sibi certum occupaffet, quo excluderet
Genitiuum. Verum vt dicebamus, materia tantum, id est voce fola conueniunt,
forma autem distant: vt homo pi etus, et homoverus. Illa vero etiam idsus est
inuicta: Si nominis definitio eft, p casus variari: ergo cafus eft,aut essetia
nominis, aut ab effentia Auens: Omniigitur nominicompetet. His aute capitibus
vfi fumus appellationibus vulgaribus, Genitiui,Datiuiet aliorum, nefi Primum et
Se cundum, etTertium, vt polliciti fueramus,dixil, femus, confusa esset
oratio,in qua identidem ca dem nomina inculcanda erant, Primus modus, Secundus
modus. Singularum casuum ratio, qua pertinetad terininationes, 21 CH. 100
acquiescit animus:reddenda enim cauffa eft ipfiusterminationis: fiquidem casus
Termina, tio est. ac pleraque sanead Græcos referre, no-rang bis satis sit, a
quibus pene vniuersa linguaflu. xit. Tres igitur ordines declinationum potiffi.
N iij. mum 19 ) 196 IvL. IIII,, mumsicuti sumus. Nam ex primaet secunda v 2 nam
conflatam videmus: ex eorum tertia,fecun dam noftram: ex quinta
illorum,tertiam, quarta tim. etquintam. Igitur tertium casum vt illi per diph
thongum spuriam fcribebant: fic nos per legiti quasimam zonty,usor, poetæ,
mufæ. Quartum casum Aeolice pronuciauiinus, montar, On6 « v:Poetam, Sterom
Thebam. Seundum autem quare non secuti su mus,fane miror. Nam in v, monlou,vt
Genu, efle potuit.Musas,autem in fecundo, ficut Aeoles, nõ diximus, quia
concurriffet cum plurali Quarto: atque illi distinxere fic, vt is vltimam
produce ret, Quartus autem corriperet. exemplasunt pe tenda ex Pindaro, et
Theocrito. Et fane veteres Latinos sic quoque locutos constat: quod etiam »
patet ex Vergilio in yndecimo, -Nihilipsa, nec auras, nec fonitus memor. Sic
enim legendum: non vtimperiti mutarunt, Auræ. Cum igitur ex duabus vnam
fecissent, quam ob caussampo tius vocalem secundæ, quam primæ retinuere?
propterea quod rectius et facilius ex a, huius Redi Poeta, facies Poetæ quam
Poetų. Plu plur. rales autem casus duo integri sunt, Reetus et nh. Quartus,
montaj, monta's. Tertiusautem abie cite diphthongo priorem vocalem muintus,poe
tis. Quumtamen Acoles valde amarent diph και thongtum illam “Φαιστ” pro “φαστ”,
et Αισκληπιός, pro sal. Apoxanes, vt diximus. Secundus autem casus, ut evitaret
consonantiam cum quarto fsngulari, distortus fuit, folytoiv. poetam: non
tūv,poetarum. propterea quod accentu non potuereapud nos distingui: neq; enim
vltimas accentu afficimus. ItaqueD rta ul. um ITI fu elle no to ce re Top 20 76
Itaque secuti funt alterum modum eorundem casuum, Tourtowy: sed effugere hiatum
illum dum » volunt, R,interposuere:maxime enim accedunt» vestigia huius
elementi ad hiatum: nam etiam qui ipfum non possunt plenepronunciare, idemio
nant quod obscurus hiatus. Secundæ autem de senere clinationis casus peneomnes Græci
sunt: solusse cundus effugit illam obscuritatem ipsius v, vt Ho meri
potius,quam ocarp8 diceremus: fed ita pu-» to efferri solitum, ficuțin Optimus,
vt aliquid er set, quasi etiam in Optumo. Nam in veteri exem plari
Terentiano,quodvidimus in manibus præ-. ceptoris nostri Calii Rhodigini, fic
fcriptu fuit, Apollodoru. Quartum autem pluralem contra " go han euenit,
vt pronunciarent: Cum enim ex oʻurpos feciffent Homerus, contra ex Ourpes,
fecere Ho meros: sicenim proferebant,vt diximus, Acoles » Ouvipusi. Secundi
autem cafusratio eadem quæ vete. in prima, et altera longe maior.nam cum
diceret, o umpov,nos Homerum, et olemow in secudo, no bis non licuit
feruare.eadem non fuiffet vox, ita que caudam illam addidere, Homerorum,fane
infuauem, quam etiam caudata litera explerent, R, scilicet.acper ipitia quidem,
vt Græciloque bantur,fic Nos locutosputo:vt censeã,et Meûm,» et Deum, et
Liberûm,dixisse:pro Meorum,Deo rum,Liberorum:adeo,vt contra omncs sentiam, non
per Syncopen sic enunciari, sed integras fuis, se voces. Tertia maxime, vt
diximus, a Quinta Taka pendet,fed exilem literam maluimus nos: marcos,
patris:sicut etiam in Quarto patrem, ex mate,et: addito illo mugitu ex
priscis,vt opinor,opicis: fic N V CH 0 re 10 IL så 00 ob JIO VI 11 7) JO enim
LIC 198 IvL. IIII. pher, enim Græca fuauitas fuit contaminata. Pluralis cautem
fecundus non coactus fuit exirein cauda illam,nequeenimcum quarto fingulari
conue he's thonjniebat.Sed ea infelicitas contigit Tertio plurali, vt Patribus,
barbaro fane exitu dicerent. nam • Patris,non potuere: crat enim iam occupatus
so spus a secundofingulari. Quarta autem decli natio sub hac fuit per initia
ipfius linguæ. Sice nim dicebant, Anus, anuis,anui: poftea etiam breuioribus
vocibus, Anus, anus, anu: fed mista fuit cum Secunda,Anum enim dicunt. Sic
etiam in plurali cum Tertia conuenit, Anuum,anubus. qawlaAtquinta longe diuersa
fuit: nam terminatio quoqueipsius Kecti, fua ipfius priscæ Italiæ fuite
Dies,Fames,Spes. Secundo cafu pluralisecundæ declinationis terminationem est
secuta. Tertio autem cafu Tertiæ,: Diebus, vt Patribus: fica ut etiam Secundo
fingulari,Secundam: Domi ni, Diei: quam tamen bis mutarunt: nam et Dies, et
Die, in codem cafu dixiffe, ' autor est do et iffimus vir Gellius: vt vel hinc
pateat, ar " bitrio loquentium et nasci namina, et inter rire. De specie.
yu Pecere vetus verbum fuit. In compofitis auc culari:vox saneipfamilitaris.Cum
politis insidiis aut e specubus contemplarentur agrestes olim Latini prælia
inituri:aut fupra Specus ipsas, edi. to faxo stantes obferuarent, quid rerum
agerent pro. sh ec TILS tiae 1ats fur procul hoftes. Specusautem
Græcum.est.cmee.com IndeSpecies,prore visa, sicut facies,prorefacta Ipla igitur
imago rei quæ in fpccendi instrumen tum reciperetur, Species diđa. Ergo fi
reserit primi status, eius imago species primaria dieta perana est: vt, nomen
Ilus, Regem Troianum repræ fentabat, quiprimus ita diet us eft:iccirco Primi,
tiuam fpeciem appellarunt. Quæ vero flueret a priore, Deriuatiuam, quoniam
nomen alterum Itv. a priore per eius vim deriuaretur: vt ab llus, Iu lus. Quod
fi figura est decomposita, quæ a com pofita deducitur: erit fane vltra speciem
Deri uatiuam alia fpecies, cui nomen non posuere, propterea quod ad eam animum
non aduerte tant a lulus, Iulius: et item alia, Iulianus: et a lia porro,
lulianius: Verum de figura illa,mox. Hîc autem consultius dicamus, multos esse
mo-onlama's dos, ordinesque in deriuatis, vt quædam primo fint: quædam
deinceps. Duobus autem modis Primum dicitur: aut quod ante alia omnia sui
ordiniseft: aut ante quod nihil, licet poftipfum, nihil. ita etiam primaria,
feu primitiua:aliqua enim sunta quibus nihil dedu ettum sit. Quod fi hæc duo
inter fe comparentur,præstantiore ra tione dicatur Primum, ante quod nihil est,
quam quod alia præcedit: prior enim ratio eft absoluta, et longe validior. Deus
enim ante quam quicquam crearet, erat Primum, priore ratione. Nomen tamen tam
Græcum, quam Latinum pofteriorem rationem indicat: et faci lius Græcum wpūTOV (est
enim opo, tov ) etiam » in duobus poteft efle.vnde et m potepov,76e ÊTepov, fue
DIE art, d Lor cher pri 200 Iul. IIII, 1 siçenim orta sunt comparatiua, ab
enepov.Latinu autem morosius,superlatiuum enim est:nam Pri, vetus vox fuit,
ficut N I, poftea latiore vocali fu · fæ sunt, Ne, Præ: vnde aduerbium, pridem:
comparatiuum, Prius:superlatiuum, Primum; nam ab aduerbio Pridem; Primum qui
ducunt, çrrant. De Figura. coxupaab Sole cea dixere,linas ducere.Pi et ura
primum et vmbra orta est, vnde μονογραμμα Tos: poftea addiderelucem et vmbram:
a potiori Latinis visum est denominare.vt a peygos, dice rent Fingere, et
detracta aspiratione, Pingere, Eftigitur Fingere, exprimerç imitatione veram
rem:iccirco dietta Figura in signis, ettabulis:atq; hinc porro in grammaticis,
Figuræ physicissunt, quæ extrema quantitatis ciusdem subiiciunt ali ter, atque
aliter oculis, quatenusextrema sunt. " Reinaturalis
diuinadefinitio.Principio in plura li definiuimus vt facilius intelligeretur.
Et dixi mus, Quatenus extremasunt:quia colores aliter atque aliter etiam
obiiciunt quantitatcm oculis. Et quanquam etiam tactu comprehenditur figu ra:
tamen primarium obic et um oculorum eft. In Amilo re literariamodusidem; Nam
ficuti coniunctio ne certarum partium corporacoalescunt, ita no tarum
notiopumveconiun ettione voces compo nuntur, ita, vt alterius modi fiat alia
vox, ex Ma gno, et Animo,Magnanimus. quareMagnum, Simplicis figuræ dixerunt,
item Animum:at vti ū que quest. LI a C queiunctum, Compositæ. Dubitatur: fi
nomen, elt notarei, an nomen compositum fit nota rei compofitæ.Duplex est
compositio: vna vera, al- 2 tera nonvera:et prior huiuspofterioris regula est.
Connectuntur enim interdum res duæ, vt Ani mus; et Magnitudo: ergo nomen
compositum, coniuncta illa tanquam vnum significabit. Alter modus eftin iis,quæ
sunt, ficut Indoctus: signifi cat enim compositionem, pofitioniset privatio
nis, quæ in re non funt:intelle et us autem eas non potest apprehendere, nisi
aliquo cöponat modo. Non re et te addi Decompofitam. HÆC Æc sic veteres: quæ a
nobissunt perspicaci us contemplanda. Igituretsicrescit quanti- m.la tas,non
tamen neceffe eft,vt mPombaurfigura. ve luti cum additur quadrato Norma, quam
Græci,, Jiwuova vocant:augetur quatitas: figura no muta tur. Interdum vero
mutatur,vt fi eidem quadra to apponatur Triangulum. Eodem modo ali quando crescit
vox eadem, ncquemutaturfigu ra: vt magnanimus, eadem facie est,qua “magnus
animus”, licet maiore.Siautem addatur Animitas, fit diversitas a diverso: neque
enim semper compositio figura mutatur. Quod etiam in re bus liquidis, et in
prima Elementorum mistione conftat. Quare hocquodappellarunt veteres Fi guram,
mihi potius vocandavideturSpecies,id eft facies quædam:quanquam enim vsu, Animi
tas, non dicatur:at Analogia hoc non respuit,sic at Pietas, Felicitas, et alia.
Quare duæ tantum TO le. 1 brunt quantitates:Simplex, et Coposita.Decom ter
positavero,quæ aGræcisdiet a eftagerw'JETO, s non video, quare tertium faciat
membrum. Ne que cnim Magnanimirasa Magnanimo deduci tur:ficut neque ab Impio
Impietas, fed ex in, et Pietas, factum est. Quædam enim simplicia non
inveniuntur,queinveniuntur compofita.Exem (ploest Epitogium:nonenim Togium
dicitur. I gitur non erit compositum, cum partium altera nusquam extet
separata. Item alia multa eiufdem modi sunt:Mustela. Confpicor: quaru partesde
fiderantur.Sed facita effe,vt voluere: fpecies erit quædam potius derivata a
Magnanimo,non aute Figura diversa, si spectes compositionem: nihil enim priori
voci additum aut demptu eft. Qua re decompositum esset aliter: cum priori compo
fitioni, aliqua vox apponeretur porro: vt, Incūra. viceruix. Redit adfuperiora,
ob Figura vsum. Va rationecomponereturdictiones, inter earum affectus
commemoratum est: is ve: ro attcet us totus nomini competit, quanquam non
soli.Evenit duobusintegris: vt, lufiuradum. Duobuscorruptis:vt, Benevolus.
Integro, etcor rupto: vt,Extorris.Corrupto, et integro:vt,effe rus. Componuntur
autem nomina et inter se; vt diximus, et cum aliis. cum Verbis, Luciferi cum
Participiis, Omnipotens: cum Pronomini bus, Eiufmodi: cum Adverbiis, Benevolus:
cum Præpositionibus, Imprudens: cum Coniunctio mod Q nibus, 203 Out 16 4 010
ent Lidl den ca Ar ! UB ibi hibus, Vterque: cumInterie et ionibus, VæIovis.
Partium autem numerusin compofitis,a duobus ad plures, Semiuir, Imperterritus,
Cuiuscunquc modi: etilla faceta vox, nulli Græcarum cedens, Incuruiceruicum
pecus: vnica enim diet io est, non duæ, vt putarunt, et illa vetus,
Solitaurilia:no vt funt interpretati male veritatem, Sue, Oue, Tauro:neque enim
in voce hac, Soli, est Ouis: sed, sic fuit per initia,Sue Soloce, Tauro: fic
enim per. cudem lana tectam prisciappellarunt, quam ad facrificium egregiam
habebant, ideftegrege fe gregatam: integram, non tonsam: vnde et no men,
quoniam cum tota lana esset. Solon enim Osci dicebant totum, vt Græci onov.
Igiturnon ” in fimplices solum, sed in compofitas quoquepar tes resolventur:
sicuti diet iones non in literasta tum, fed etin fyllabas: etnaturalia corpora
non in materiam modo et formam, fed etiam in Eles menta. Quoniam autem tam
Rectiquảm Obli qui inter fe promiscuo componuntur,Reet us fle Hyis Etetur,
Obliquinon flectentur. Quare falso ex cepere, Alteruter, quoniam in secundocafu
faci at, Alterutrius.Nam tametfiin Quinquagintali, bris,itemque apud alios
legitur, vtin libris Origi numdi tum eft:at M.Tullium, et in Protagora et in Epistolis,
ipsumque Catonem in oratione de Ambitu, alteriusutrius fcripfiffe conftat.
Itaque » cum dicimus, Alterutrius: vox illa Alter, hocloco no eft Reetus, sed Genitiv
casus, et prisco modo amputata vocali cum sibilo, Sarti'tcatis,teetti'frau,
ais.Ergo nö debuit excipiab calege,qua dicebat. Rectum semper flecti. Illud
quoque errarunt: fic eilim aiunt,Obliquũ hoc Alterutrius,livefæmi ninº
fit;sivea neutro Recto, neceffario exclusifle syllabas poftremas prioris
vocisAlterius, quonia iain idem fecerant in Kecto.fic alterutra, et Al
terutrum,non Alterautra, et Alterumutrum. At cnimvero hoc ridiculum eft:Nam pin
Rectis fa actasit collisio,paffa est vocalis,et confonansm, id quod patitur
altera vocalisubeunte: At diffimilis ratio in Obliquis, quod etiam fua ipsorum
ratio ne debilitarunt.Nam in rectis ob hiatum evitan dum,elisam aiunt vocalem,
ergo in obliquis cum nullus fit hiatus, nulla esse debuit elifio. Neq;.n. quia
elides fic, Patrem eius, vt dicas in carmine, Patr'eius: iccirco pro Patris
eius,codem modo au deas, Patr' eius. Quid quodhæ vocesduplici vsu a receptæ
funt:nam Alter fuit, et fuit alterus:amos SiteGu.Itaquein fæmnininis etiam
duravit,Astera, alteræ vt diceretur aliquando apud priscos: quare foni
commoditati fervientes, molliffimam quan queflexionem sunt secuti, vt
Alteruter,potius di cerent,quam Alterusuter: et Alterutrius,ab eog effet
Alteriutrius. Elisionis autem exemplum ha beas ex Amphitruone Plauti, Culeftquidonum
dedit: pro,qualis est. An alia fint nominum accidentia,fi-. ve affectiones. Æc funtab
antiquis Accidentia numerata. 4 alle lame cosynum omififfe: Nam cum deciinatio
fitaffe ako et us genericus quatuorpartium:imo vcro differentia
essentialis,habuit etiam aliam fignificatio nem.priore namquemodo
communisefttano mini,quam Verbo: eft enim mutatio quæda ter minationu. At in
verbo,et in nomine aliud qd dam estvtriquesuum et peculiare. Quorum alte
rum,quod cilet Verbi, vocarunt Cõiugationem: quod effet Nominis,Declinationem.
Eftautem declinatio non illalolainflexiocomunis, fedcer ta etpropria:vt aliter
dicatur Poeta,aliter Dies de clinari.Ergo affectus nominum quidam eft, ficut et
fpecies.Quare cum Verbo attribuerintconiu gationem, et recte:
Nominideclinationem cum non assignarunt, inconsulto fecere: cum frustra
timerent, ne quod effet genericum, Nomini ad fcriberent. Wominium species
venatur ex elementis philosophia. STatim poft definitionem Nominis,eius
affe-.'n'o etus posuimusmerito,antequam species enu meraremus: sicut
animalisaffectus sunt, moveri voluntarie etsentire, priores ipsis fpeciebus,Ho
mine, Ostrea,Leone: in quib. poftea per differen tias disponuntur.Atveteres
more fuo in hoc quo que nobis negotium exhibuere, cum Species rio minum prius,
quâipforum affectiones tractant. Nosigitur his castigatis, eas deinceps,
carumque origines atque cauflas contemplemur. Reru nu- latha merum pene
immenfum totidem vocibuscum non. affequi nequiverit humana mens",
neceffario comparavit, vt non folum quæ eiufdem fub ftantiæ participes
eflentres, codem quoque no Oj mine significarentur, vt Equus etHomoanima. lis
nomine, cuius natura cõltarentcommuni: fed etiam quæreipsa diversa
effent,veluti,Canis co Aparmi lestesidus, et Canisanimal. Quarum sane rerum Msubstantiæ
apud Averroem, vtaiuntphilofophi, etiam plus quam generedifferunt.Nos autequid
sentiamus,aliis libris di etum est, inevu uc Græci vocant: noftris
recentioribus aptissimo vocabu lo Æquivoca libuit appellare: qualivocis bære
ditate æqualirem inæqualem repræsentarent. Si nomina quis Vnonima velit dicere,
nihil vetat: sed Græ fort ca appellatio magis sapit, juãsenim simul significat,
non autem. Nam profecto vtin re non sunt eadem,ita nominissignificato alio,
atq; alio funt. Itaque fic vere poflis dicere,Canisnon eft Canis: id est, res
Cæleftis, non cftres Terrestris: at nomen et materiam habet,ipfas literas, C,
A, N, 1,5: etformam,id eftsignificatum,ergoCanis cæ lestis materiam eandem
habet Elementorum,a Canis terrestris, formam autem, id est significa tum,non
habet:ergo non eft idem nomen: a for maenim est,quod eft:iccircoGræcicuws: at La
tininon ita recte, cum æquitatem illam interse. ruere. Itaque commodius
fortasse nos Vnonima, vt vna, fit adverbium, simul.Hæcautem non vno Bruggh.modo
orta funt:fed quædam temere,atq;vtfors tulit: qualia funt Alexander, et
Achilles, tam in Regibus, quam in Nautis nequam. Alia autem consulto: vt cum
cuiuspiam similitudo ad impo. nendum idem nomen alteri fimili traxit: ea fimi
litudo fuit aut Substantiæ: veluti cum dicimus, Xiphian piscem, et herba ab
inftrumento bellico. AutZA 1. Mannana Dimmane. JI 10 Aut Quantitatis:vt eft
inproverbio,Motes et ma tia polliceri: et apud Callimachum os a'd code tor Geld
in hymno Apollinis: et Mare Solomo nis.Aut Qualitatis:vtcuinmetallo et præviæ
diei parti, fulgoris nomen inditum eft Gręca voce xi çov: prisca enim est, quod
teftatur aweso, fcilicet sequens mane: quod et Germani imitati sunt, et
Hispani, et Itali. Item ab aliis prædicamcntis: vt Mörgen. cum arboresmasculas
aut foeminas, et Thura ma scula, etvites masculas, et nigra toxica,ab actione,
et relatione: et Regem, divitem quempiã, aga To Ezdv: Delphos, orbis vmbilicum.
Hæc omnia nomina fibi aliqua imitatione fünt consecuta. Acreliquis quidem
generibus evenire fatentur. Subftantiam autem hoc vt admitteret, dubita - font:
runt. Cum enim non intendatur, non remitta - quare tur,non videbatur dari
gradusad similitudinem in ipfa. Verum facile id intelligimus,eandefub ftantiam
non intendi: fed genus communemul tis, arctariin species multas.quare non
poteftfie ri, vtæquales fintillæ,æqualitasenim in substan tia,eft identitas.
Quod et in octavo Historiarum dixit divinitus Aristoteles, Species sub eodem ge
nere coniun et ione quidem generis illius vnum effe: differentiarum autem
fucceflione, harere. Effeenim tum in materia, tum in forma, turn in compositis
certas aut affe ettiones, aut differenti as inter fe vicinas, et inæquales. In
materia, vtof sain Homine, in Leone, differreper medullam: in Delphinopaululum
abeffe: in cæteris piscibus prb offespină:in Sepia esse,aliud:in infettis aliud
quod nomine careat. Sic et in formis, Rationem, o ij. Ni 70 11 5, 7 in 208 Iul.
IV. in anima Hominis: Instinctum naturalem in For micæ anima. Sicin
compolitis:Artemin Homi ne: in Ape quomodo dicas vim illam favificandi: in
Pfittaco mirificum nidum texendi? itaq; fpe cies suntæquales in genere: inter
feautem com paratæ, inæquales:ab ipsarum differentiarum in æqualitate. Adeo
enim sunt inæquales, vt altera 2 vnum genusinterdum conftituat subalternu, al
terain multa distribuaturgenera.exempligratia: Korpus dividitur per
differentias, Mortale, et Immortale:hoc ccelum tantum conftituit: Mor-, tali
autem cætera omnia comprehenduntur. Sic intelligas Voivocum,quodidem
genusdifpertit,: reque omnibus:vt Animal. Analogum,quod non zque,fed
ordinequodam:ytsapere.Æquivocum, Juodnomen folum communicat: yt,prataride
Mareiralci.Haec postrema diximus,quomodo appellarentur. Analogaautem a Latinis
Propor tionalia: ficut civium iusnonidem omnibus, fed suutn cuique attributum,
Senatori, Equiti, Plebi. Quod C.Cæfar dicit,pro rata:nos,Pro portione:
Vecuiufqueres fert:id eft, rata pars,live portio. Ditiores enim plus
obibantmuneris. vnde apud Athenienses, owridons. Vnivoca autem a Græcis 2x
qwvus,prudentiffime: cum nomine enim rem communicabant: non enim Toow,
coniungit ea fub nomine: fed nomen etnominis rationem. La tine Cognominarectiffime
dicas. Cum autem res non omnes codem modo Ant:sed aliæ per fe, vt Substantiæ:
aliæ in aliis, vtAccidentia: atque Accw9. hæcdupliciter,vt hocfunt,quod funt:
et quomo udo funt, quod funt:Dam Albedo etiam fine nive pex ilaw alie aliquid
est: intelligimus esse, q est: et Albedincm appellauimus, percepimufqueeffe
vniuocã, quia eadein genere esserin niue,et in la ette. Aliquan do intelligimus
ipfam esse, quomodo eft:licet e nim aliud fita niue: tamen non poteft effe sine
aut niue, autalio corpore. Is igitur cft modus, per quem est, id quod
eft:quoniam inhærentia, est essentia accidentis. hoc quoque opus habuit frane.
nominealiquo:iccirco ab albedine, Album de ductum cftnam: id quod est,
pofterius est,quam id quo est.igitur etiam nomen hocabillo ductu. νηde ortafunt
“το έπαθώνυμα, quαολαέπρoν” deri uarentur, fula terminatione a priore
differentia: Latini denominatiua commode vocitarunt. Co traria autem aequivocis
quædam sunt: nam vtil- forong the Ja vnam voccm multa habent: ita multas voces
in his,vnum:Ensis, Spatha, Gladius. Græci hæc πολυώνυμα:quidam Enoftris
συνώνυμα Falfo. for- ), tasscautem explicatius eífent locuti Græci,si uo
vwvelda appellaffent, quæ solo nominc cxtarent indicantia res diuerfas. Igitur
colligamus sic: Comunes res,quæ aut sua natura per se funt, vt Homo: aut licet
fintin aliis, fi intelligatur fine eo inquo funt.vt Albedo, Vniuocis
nominib.sunt indicatæ. Sin quomodo in aliis infunt,accipiantur, Denominatiuis:
vt al bu. zenuw'www.ce autcm cadē suntquę Vniuoca.Res aurefingulares quaru
natura ab aliis dissita est,k lownonen porn codēdomine,quo illæ
appellentur:nomen iilude erit Aequiuocu:vt Cæfar:neque enim quicquam mei in
altero qui dicatur Cæfarcrit: neque sola fubftantiæ, sed etiam accidentia, quæ
in ipsisin di i faham Paper hrin more Adiuiduis sunt vt hic rubor, hæc
cicatrix, Aequiuo marie ca est propria Cçsaris vnius: ficut et substantia ia
qua cít.Quare tamnomen hoc Casar, quam hoc Cæfaris cicatrix, plurali çarebit:
fed cius pluralis numerus crit vagus:velut quum dicis, Homines: at,Hic
homo:caret numero plurali: o'rqua enim facta sunt, apud Græcos:apud nos,
Indiuidua, shape?Itaq.in Declinationibus, qpræponitur prono incn nominibus, Hic
homo, Hæc cicatrix, non elt nota indicans etpræscribens indiuiduum, sed fexum
tantum. Nam quo modohæc cicatrix indi cata, poteft fieri cicatrices? Quinimene in
eode quidemCæfare si plures sint,pefisiccirco ficcte read numerum pluralem.
Etiam fac vt cætera pa ria sint, Tepus, Qualitas,Magnitudo:at loco dif ferent.
Comunia autcm,Gue Vniuerfalia loco na præfcribuntur. Hęc omnia tam Vaiņoca,
quam Aequiuoca veteres Subftãtiua,fane ambigue, vɔ
cauere.Substantiæ,n,appellatione abufi lunt, pro Effentia:ficuti
Græcinomincxalasin prædica mento.Nanq.s'oia etiam conuenitreb.estrapię
dicamenta,vtDeo. At Substatia neq; extra præ dicamenta, nequein omnibus: sed in
iis tantur, quæ fubftant accidentibus.quarc nomen hoc Al bedo, non erit
Substantiuum, quia substantiam nõ fignificat.iccirco alii Fixum diceremaluerüt,
propterea quod rem indicaret,quęnon mucare taralio atq; alio fubie etto. Sed
anceps ea quoque vox fuit:nam Fixum viderctur effeindeclinabile,
opponitur,n.Mobili.Itaquenoslongeconsultius Effentialenome
appellauimus:quippequodtam fubftantiæ, quam accidệtishocipfum quodsung? Gigne
ZII S Onnk: 2. T significaret, Denominatiua autem eadem quæ Adie et iua:
quęctiam Accidentalia dicere posses, nisi nomina differentiarum impedirent: nam
a “Ratione”, Rationale duces: hoc est Denominati uum,sed non eft
Accidentale.Anvero fit Effen - Gubis tiale? Iccirco intelligendum
eft,:0106,fiue essentia triplicem esse: Materiam, et Formam, et Coposi
tum.Forma igitur dicitur Effentia quia dateffen tiam:Materia, quia dantem
gerit: fed, pprie dich esttotum ipsum: a qua g Substantiuum vocabat,«
nominauimus Effentiale. Denominatiua intel lexere variari, ac poterça Mobilia
vocitarunt:vt conueniat idem nomen viro et mulieri, fi litva riatum: Albus,
Alba. Hacdecauffa in oratione antes semper Denominatiuum pofterius effe
debuitEs fentiali: vir fortis, equus celer: verum vsus obti nuit elegantięcauffa,
vt aliter quam vulgus loqui tur,loqueremur. Neque vero penitus temerefa etum
eft:namq;vt equus potefteffe celer,ita celes ritas effe poteft et in equo,et in
non cquo: quare olubibit,moderabitur.Quod fi eft Denominati uum pprium,vt
Sentiens, est,pprium animalis: nihil refert vtrum præponatur: paria.n. sunt:
fed natura ipfaEffentiale priuscft.ridiculecnim pro conheça feffi sunt, Fixum
sequi Mobilis natura,1,præce dat Mobile.idcm enim est,Animusperuerfus: et
Peruersus animus. Scd ita intelligebant differre, fidicamus,Corrupta mente
etcorpore,et,Mente etcorpore corrupto. Verum hoc non eft Fixum sequi
Mobilisnaturam:ncq;.n. mutatur: sed ex duobus fixis diuerfis genere, et numero,
alterum apponiipli adie ettiuo, quod ei fimile tit. Verum fidis 1. ridicule negatur possediciæque Corruptamen
tes: et, Mēte corrupta.Neque verum est Substan tjua obsequiAdie ettiuis: sed
contra, Adiectiuum prospicere ad vtrunquc Substantiuum,aut ad id, quod propius
eft: et ipfi contra hanc male expli catam fententiam etiam ex Ciceronis
Philippica, dicendi moduin obferuare. An vero Adicctiuum etSubftantiaum sit
affectus, aut species folius no minis,in fexto libro declaratum eft. subThe cio
elt.Fixum autem aliud Proprium,quod vnius Nominis igiturvelFixi, vel Mobilis
hæcra tantum est: aliud Commune fecere: atque hoc Appellatiuum quare vocarint,
fane nefcio. Ve rum neque diuifio bona eft,neq; nominis impo sitio. Nanq; etiam
Mobilia,fiueadieet iua,partim funt communia, vt candor:partim propria,vt hic
candor quiin Cæsare est. Itaque diuisio nominis qin Fixum etMobile,eft
ficutdiuisio rei,in effe, et, in modum quo eft:Diuisio autem in Commune, et
Proprium, nõ estFixorum tantum: fed gencri ca nominis:sicut diuisio rei in
vniuerfalem, et in diuiduatam. Appellatiuum autem quare dixcre? an quia lub fe
vocat multa? at etiam Adiectiuiid interest: nihil enim diffcrt Concretum ab
Abstra eto, nisi modo significationis, non significatio ne: at etiam propria
rjominasuam rem appellant. Hoc autem ipsum quod suntautPropria,aut hogy 2.0,
Comunij,aut Fixa, autMobilia,recētioresQua litatem nominis vocarunt:eaque inter
accidentia cum fpecie, et genere cnumerarut.Item Compa rationem, atque alia
eiusmodı,magno errore.Na Homo et Cæfar, no differüt qualitate: neq; albū ab
homine qualitate differt,sed effentia: neque enim qualitatis qualitas est.
Comparatio autem atque alia eiufmodi non sunt nominis qualitates
genericæ.omnib.enim nominibus conuenirent, At propria non recipiunt
Comparationem:ne que substantialia: fed Denominatiuorum affe ctio est. Sicut Patronymicum,
non est Nominis qualitas, vt nomen est:sed vt Nomen proprium. Illud quoque
contemplandum eft, Nomen hoc, Sol, et Luna, et alia eiufmodi, Communesit, 22.
an proprium. Nam fpecies prior est indiuiduo: sa igitur lì vnum indiuiduum
explet totiusambitu fpeciei, id quod facit Sol, erit nomen speciei, no
indiuidui. Nomen enim priori inditur. Hoc fic fenfere veteres falso: nam qui
nomen impofuit ferhat's rebus, indiuidua nota prius habuit,quam species, you
may f Romanus enim qui vnicum Elephatum primus motene, vidit, ei nomen indidit,
Lucam bouem: nihildu4 mp4, с. metitus animo vniuerfalem naturam illam. Sic page
bratom't etiam Soli, quod folus efset: et eiusconsortiope ging en geri ris,
Lucinæ, quam poftea concisa voce Lunam Freien, dixiinus. Eftigitur nomen
hocindiuidui indiui- m poyi tu? duo impofitum per se,speciei autem per accides.
Itaque quum dicas ex Democrito, Mundos, et Soles, et Lunas,fietquasiquum
appellabis,et me, et Dictatorem, Cæfares,aut si fpeciei tunc voles, vt fiat:
erit. indiuiduis autem alia tibierunt quæ renda nomina. Quid quoque loco
statuendum, deg propriorum natura, atque affeetibus. O v. b. Væ res vt diximus,
hoc habeant vt sint aliquid prius, quam sint alicuius: ea nomi na quæ eas res
fic significant, primo quoquelo co tractanda erunt. Quoniam autem Singularia
sunt notissima: propria item nomina quibus fignificantur, notiffimo, hoc eftprimo
loco, ex plicanda funt:vt Cæsar, Bucephalus, Athesis, Ro ina quæ nomina bina
trinave sunt yni homini conftituta,an propria fintap. pellanda? Hocsicagamus.
Voces, quibusRoma na capita recensebantur,fuere hę:Prenomen,No
Bomen,Cognomen,Agnomen.Horum autem na. tura, atque origo fic fuit: raptis per
initia Sabina rum virginibus, atque ea de caufa conflato bello, ipso in confli
et u earum interuentu vterque po pulus conciliatus, nõ solum animos mutuo bene
uolentes conciliauit, fed etiam nomina commu nicauit. Sicaiunt: puts queira
fuiffe in aliquibus: Boston Ternam in omnib. noncoitat: quippe ipfi Hersilia
youm nomen et fuit, et maplit folum: item Ro mulo et Tatio:Numę Pompilio
Sabino, et Me tio Curtio itē bina: Hoflio Hoftilio Romano to Nom tidem: Itaq;
hoc fentio,a virtutecuiuspiam nome primum mutuatos, vt ab Iulio, Iulii,
dicerentur, quoru Iulus autorgenerisfuiffet:iccirco, Nome appellatum vnde
Nobiles, id eft noti essent. Inde vt dignofceretur,additum aliquid notę ab
euetu: ftatima; Cognoinen orcum fuisse: vt Pompilii, a
ceremoniis,Nume:Hoftiliiab reb.geftis, Hostio: Curtii,a celeritate,Metio:
Herdonii, a ftrenuitą te, Turno:l'roculi,ab cuentu natalium,lulio.Po ftca Atea
nobiliores quum liberos procreassent, et ne- Hammas que Nomen possent, neque
Cognomen auferre vellent, aliamnotam excogitarunt:quamquonia infantibus
imponerent, quos sola ca appellarent, præposuere; atque iccirco dixereNomen.
Hac inde fatis constat,quod quę primo loco cssento lim Nomina, poftea secundo
fuere:vt lulius Pro culus:Iulius prius fuit:at C.Iulius posterius. Quæ
Prænomina ab euentis quoque orta funt, aut na talium, aut alterius fortunx: a
fortitudinc,Mar cus:ab antiquitate, Caius, raios, a terra fcilicet, quasi suzby
boves effet: ab honore et dignitate, Ti tus:abGenerositate,Cneus: a
generisdefrauda tione, Spurius: a numero liberorum, Quintus, Decimus: a decore,
Decius; a cultu populi, Pu-. blius: a rempore natalium, Lucius: et item alia,
Qux sors etiam aliis obtigit nominibus. Nam Marius, a Manc dictum fuit. et
habuit præ nomen, Quintus, Aucta autem Republica, numeroque ciuium illustrium,
factum eft, vt aliorum nominum nguæ cauliz cxtiterint. quæ nomina, quod
accederent ad priora, cumquç eis vni attribuerentur, Cognominadietta funt.
Horum origo fuit, a corporis habitu, Labco, Crassus,Longus,
Varus,Valgius,Sedigitus, Buc culeius, Plautus, Plancus, Varius, Pansa, Ruf fus:
ab cuentis aliis, Posthumus, Praculus, Ge minus: a rebusgestis, Aphricanus,
Nero,Celer: ab a ettis, Salinator, Venox, Seranus, et alia eius modi. Quæ
posteri a maioribus suis honoris cauila accepta quum retinerent, aliqui etiam
auxeres ogh. Aon auxere,additisaliis insignibus,vt Publius, a po
pularitate:Cornelius, a viro forti, qui eam fami liam primus illuftrauit:
Scipio, ab opera,quam pa ' tri præstitit seniori: addidit his vir summusab
Aphrica domita, titulum Aphricani: hoc quonia tandem accessisset,Agnomen merito
appellaue re. ficut Agnatos dicimus, qui familiamaugent accessione fua: et
Agnata membra, apud Pliniu, quorum additamento corpus auctius fa et um eft. Vor
Quidam recentiorum affentiti sunt negantibus vocem hanc Agnomen, probam esse,
sed grani maticorum superstitione commêtitiam: verum a M.Tullio in fecundo rhetoricorum
pofita eft. Hæ sunt romanorum caussæ nominum atque Rahi effentiæ, quæ fic
definientur: Nomen familie ! nota: præ-nomen, proprium cuiusque: cognome, quod
euētu accessit. Agnomen, quod eventus accessionem notat. Ordo patet ex ipfarum
vocum mapevi: Materia autem nominum fic pote eft, vt quu fcribuntur, cætera
omnia omnibus fuis elemen tis explicentur: Prænomina non omnibus: fed aut
singulis: vt, C. aut binis: vt, Cn.aut trinis:ve Sex, p:o Sextus. Ex his patet,
non re ette aliquos prodidisse, Nomen effe vniusillius cuius eft: re tius ab
aliis Gentilitium, et ab illis ipfis nomen 06: Familiarum. Græci Prænomine
carent: fed po fito nomine vnico apponutpatris nomen: Aae Gudpus o Dininu. Hoc
idem etiam Arabes fa ciunt: fed ctiam autoris nomen subticent, et patris tantum
ponut: A uen,rois. Auen,pace. Auen, zoar. Græce vcro etiam cognomine vhi funt,
fed rariore,vt Ευ πάτως, φιλαδελφος, κεραυνός, Χαλκίνη foi. gos. vtmulti
putentDejanov et A'zapeuvova, et A " degsor, et aliamultafuisse cognomenta
a militib. excogitata: ille quod filij cadaver redemerit: al ter,quiadiu ad
Troia sederit:hic, quia re infecta ' ab obfidionereversus sit,vt dicantur. Quin
etiam diis iplis a potestatibus quibusdam sunt attribu ta:vt, 'πόλων, Παιαν,
vtraqueappellatio et Φοίβου. crogiya evNeptuni: [lzatais,o textuvidosagde gode
φέντης, Ερμού. Ηoc έτσώνυμον Greci, Agnomen βασα και να autem Depurvuon
appellarunt. Videamus nunc scans affectiones.Proprium estPrænominisin virisiis,
Affet hel quisibicognonien illuftrecompararunt,aliquan do fubticeri:vt,Cæsar
Diet ator:intelligis enim c. E contrario positum,necelario interdum alioru
appositione declaratur:vt,c.apponesCęsar:item addes,Dictator: aut,
Dictatorispater: Proprium item etid, certis familiis certa ascita effe Prænomi
na:vt,L.et c. Cæfarum:P.L.et c N. Scipionum: L. et M.Crasforum. Legimusetiam
quædam quibuf dam interdicta: veluti m.Prænomine cautum fu it s.c.ne
quis,Manliorū appellaretur,ob M. Man lij Capitolini mala merita in Rempub.
quaquam Senatus Consultum illud poftea abolitum elt ve tuftate.Illud quoque
patiuntur nomina et cogno mina, vt fedem inter fe mutentin narrationibus:
invenias enim et Cæsonem Fabium, et Fabium Cæsonē. Etiam in Pacuuij Epitaphio
Prænomen poftpofitum est. Hicfunt Pacuuij Marcisita offa. Vțiam definant altercari
paucæ leettionis gram matici super verba Quintiliani, Viet ori Marcelles Iut.
IV. le: an, Marcelle Victorifcribendum sit.Illud etia est observatum, multa
Nomina facta effe aliis Prænomina: vt, lulij Dictatoris nomen, mihi: quum ita
PaulusMideburgius, qui poftea Foro semproniensium Potifex fuit, Mathematicus in
comparabilis, Divorumque Friderichi, atq; Ma ximiliani et alumnus et altor,
persuasiffetpatri. Verum ab antiquis quoquefactitatum fuit:Nam 9.Tulli yox,fuir
Regi Hoftilio Prænomen: at pofte risin nomen recepta est. L. Sergium
legimus:hîc Gentileest: at aliis Prænomen. Etiam Romæin monumentis fic
fcriptum, Ser. Et in xxxIII. apud T. Livium, PacuviusCalanius: hîcest Præ
nomen: at Nomen est poetæ, poft Prænomen: » M. Pacuvius.Proprium et illud Cognominis,at
que Agnominis, li post Prænomen, aut Nomen, patris Prænomen ponatur, postremum
locum obtinere:sic,C.Iulius,C. t. Cæsar: C. Cæsar. C.F. Dictator. Item duo prænomina
præponentur v ni Nomini,aut Cognominipluralis numeri: fic, Pons M, et, qv,
Tullij Cicerones. Itaque Prænomina vere non queuntfledi numero plurali, cæterao
mnia queunt:suntenim generis,non viri: nisi sit Cognomen, aut Agnomen eius cui
primum eft attributum: eius enim folius esttunc. Agno men autem ab Antiquis
etiam Cognomen dia et um fuit: Africani enim Cognomen vocat M. Tullius in Sexto
de Repub. Proprium etiam » Prænominis, vt idem et patris fit, et pri mogeniti:
vt, M. Tullius. M. F. Quod autemait energyProbus grammaticus, Prænominanon esse
solita imponi pueris antequam togam sumerent viri lem 219 lem, puellis
antequamnuberent falfum eft: fed 1 feptimodie,quam natieffent, quum
luftrabatur, Prænomen inditum fuiffe conftat. Sicut etapud Græcos, vt ait
Aristoteles in septimo historiarum. Et ridiculum fuerit sex liberorum patrem
vnum 2. appellare,omnes respondere:hoc enim faciat,ni fi nomine distinguantur.
Hæredes esse non pof fint,quos ille non poffit nominare. Eft etia præ. ter hos
certos legitimosque modos, vfus alius qui dam nominum communiorum. Maior,Minor,
Superior.Quætempora perpendunt femper, vir • tutem non semper:vt nolint dici
Dionysium Tya rannum Maiorem,sed Superiorem. An vero in. feriorin ea
significationeinveniatur,non sinera tione disceptatum est: luniorem enim
dicimus, Inferiorem autem nondum memini. Ex his pa tet, male a Servio dietum,
lulo Ascanium fuiffe Agnomen: patet id quoque,la wivulavetiã Lati nis Diis
attributam, vt Græcis: Marti,Gradivi: Romulo, Quirini:Hersiliæ,Horæ. Si igitur
verum est carereplurali Prænomina, et AgnominaetCognominaparta, excludentur
etiam ab eiusmodi locutione, Alter Cæfar, Alter Tullius: virtutes enim
etfortunam poffis innue re, at Nomen non eritidem: fed fic dices: Cæfar alter a
Cafare. διωνυμαautem etτριώνυμα non 4 recte dices: nullum enim nomen eft
Binomen:vya fed res ipsa. Omneenim quod eft, vnum nume- my. ro est. Itaque Irum
Ovidius, Ausonius lstrum bi nominem dixere.Ita Xanthum, et Alexandru vo. ces.
vt etiam quæ woawwna fupra dieta a veteri bus legas, male fint appellata: neque
enim Ensis 1 nomen est nonuwvwpov,fed ferrum hoc: quoniam ethoc, etaliis nominibus
recenfetur. Defixis,five Essentialibus communibus,eorum quefpeciebus. chungen.,
Elxacommuniafunt. 'Ixacommuniasunt, quævniversalis,vt vocat, mune, sicut supra
diximus, sumpta fignificatione a civili consuetudine. Quod.n.aut opus aut offi
cium faciundum fuerit omnium civiuin opera, antimpensa, id dictum sit, Communi
studio fa et um iri: quoniam munia fua quisquein vnum conferrent. Itaqueid opus
vt compleetitur om nium civium functiones, Commune dictum est: ita nomina quæ
eadem ratione vniversitatis præ amini ditas resfignificarent. Hocfummum genus
divi am fere veteres in multasspecies, non omnes neceffa rias, et temere
digestas. Nam et falso fub Appel lativo posuere Adiectivū:et incondito,actumul
tuario vocum numerorem difficile effecere. Ac fiomnia rerum genera, qux
Subalternavocat, fe quivelint,et nequeant, etconfundant artem: sin
nolint,necongeriem quidem cam affectent. Ex vero funt: Ad aliquid di ettun,
Cuasi ad aliquid di et um,Gentile, Patrium,Interrogatiyum, infini
tum,Relativum,Demõstrativum,Similitudinis, Collectivum,Dividuum,Factitiu,
Gencrale, Spe ciale,Ordinale,Numerale, absolutum, Tempo rale, Locale. Has
dixere effc Communes nomi num et Principaliu et Derivativorum: proprias autem
fcorfun Derivatorum has, Patronymi Gum Am cum.Poffeffiuum, Coparatiuum, Superlatiuum,
Diminutiuum, Denominatiuum, in quo, aiunt, intelligimus cum multisaliis,
Comprehensiuum, Verbale,Participiale, Aduerbiale. Hæceft eorum farçina: quam
vțintrofpiciamus, publicanorum more folucnda eft. Principio male dixerunt, has
omnes Species mory esse Appellatiuorum;nam etiam sunt Propriorum: Vafriti. enim
Vlyssis, Adiectiuo nomine indicatur quæ ei propria est.Item ejus locus,in
quoeft,eius solius eft.EtconfundütAdiectiuum 2 cum Substantiuo: ergomale
diuisițnomệin heç duo, tanquam in genera, Nam fi Populus eft no. men
Substantiuum, et MagousAdiectiuum; qua re Adiectiuum fecit speciem
Appellatiuorum, Substantiuum autem non fecit? Species igitur attribuere non fuo
generi: et species confude. 3 recum suo genere cum dicunt, Patronymicum, et
Denominatiuum; eft enim Denominatiuo, rum species Patronymicum: apertius autem
ip fum Comparatiuum; denominat enim gradum, ficut Positiuum, qualitatem.
Sicetiam Absolutu quum sitgenus multorum, vt Factitii, Tempo, ralis, Localis,
in eundem ordinem cum fuis infc rioribus redegere; Nihilo feliçius genus ipsum
Adaliquid cum suis speciebus miscuere: vt Or. dinale, et Patrium, et alia. Sed
etillud falfi sunt, quum dicunt, Ad aliquid diet um; nanqucapud 4 Philosophos
etMetaphysicos fic excogitatum est,alia effeAd aliquid:alia non effe, fed
dici,vt hocipfum,quod eit, Effepater: habet naturalem reciprocam Coniun et
ionem cum hoc, quodest, Effe filius: etiam fi nulla extet oratio, quæ hoc di
cat. hoc aüt quod est,Effecaput:no habet ex sei pro reciprocam Coniun tione cum
Corpore:sed ex co quod est, Effe pars, ad Totum. Itaque hoc lixere,Diciad
aliquid: non autem Effe. Quare it res sunt, ita notæ rerum: igitur nomina quæ
Adaliquid fignificabunt, erunt,Ad aliquid:quæ ignificabuntAd aliquid dicta,
erunt Ad aliquid dicta. Iccirco etiam bis errarunt: nanque idem Ś eft, Ad
aliquid diettum: et, Quasıad aliquid: quæ cunque enim nõ sunt vere Ad
aliquid,funt Qua fi ad aliquid:per formam quandam accidenta lem, attributam ab
intellectu. Hoc autem eft dici Ad aliquid: id est,referri per intellectum
subcer to modo, quia reipfa per feipfa referrinequeunt, 6 Quin vero videtur
nihil dici Ad aliquid, fed esse. neque enim intellectus facitCaput, effe partem
Totius:fed ipsum ex sua natura pars eft. et quem admodum Caput ipsum non
refertur, ita neque Cæsar refertur: fed ficut illud quali pars, ita hic quafi
pater. Sed de his alibi: coaeti enim sumus detergere horum rubiginosam
orationem. Præ 7 erea li ponunt Intcrrogatiuum, quare non Responsiuum?hocenim
nobilius illo est: constituit, ' nim orationem verum velf alsum significatem.
--)mnis enim Conclusio nobilior est ipsa Quæ ione. Numerale pofuit,quare
nöposuit Dime onale? Continua enim quantitas nobilior eft, uam Discreta.
Numerus enim accidit quatitati iscretæ:neque quodcunque est, vnum est: neq; nim
discreta quantitas est genus distinctumre sa a quantitatecontinua, vtphilofophi
veteres putauere: sed affectus quantitatis. Igitur hanc per Quantum,illam
perQuot,explicamus. Tem porale quoquequum dixiflent, addideruntAd verbiale:
atHodiernus, eft Aduerbiale et Tem porale: non igitur sunt species distinctæ,
fed Temporali accidit, vt ab Aduerbio deducatur. Localerecensuerunt: quarenon
Situale? vt Supinus, Pronus, Ingeniculus, que Græci lygovariv dicunt? Quare non
memorarunt alią neceffaria? NomenGrammaticum: vt, Deriuatiuum, Geni tiuus,
Modus, Figura: Nomen Logicum: vt, Consignificatio, Conclusio; Nomen Mathematicum,
Nomen Metaphysicum,et alia? quæ alia alio modosignificant, quam hæc vulgata
nostra, Poftremo pessimeíensere, quum dicerent, prio- 3 res illas species esse,
təm Primitiuorum, quam Deriuatiuorum. Quis enim dicat, Patrium nome aut
gentile, græcus, “romanus”, “latinus”. Atti esse Primitiua? Vbi error maximus
eorum patet,qui putarunt diuerfum effe Denominatio nem a Deriuatione, propterea
quod fic in aliqui businuentum effet: vtalufto luftitiam deduce bant.
Athocaccidit contra rei naturam: nam Iu ftitia prior est, quam Iuftus, fed
ficut res a re,ita vox a voce: quare vt Romaprior fuit quam Cæ far, ita a
RomaRomanus dictus; vbi etPatrium, et Deriuatiuum, et Denominatiuum vnum sunt.
Has nebulas Gramaticorum quu discussimus, duo supersunt,quæagamus: primum
emendabi- Erhome mus eorum definitiones, qua opus fit: deinde cxa ettiore iudicio
ad certa capita reducemus. Pij, Ada cus, MW Pre TE RH cíten Qus Diner liorat
uatirati gra? 1: 1 Qume Veteris puch 224 IvL. IV. 2 Arte
Adieettiuum,inquiūt,quod adiicitur propriisvel appellatiuis, et lignificat
laudem, vel vitupera tionem,vel mediu,vel accidens,vnicuique.Prin i cipio
definitio hæcnoestabessentia, sed abacci. dente. Essentia enim Adicetiui est,
significare a. liquid alicui quod insit: at hoc, quod est Adiici, accidens eft:
poteft enim vel adiici, vel non ad jici: accidit enim voci vt conftruat
orationem: quanquam hoc accidens est proprium fluens ab ipsa essentia, Sane
etiam extraorationem hæc vox Bonus, dicetur Adiectiuum: nec tamen adii cietur.
Itaque peruerse quoque data eft defini tio hæc: cum præpofitum fuit hoc quod
eft Ad iici,huic quod eftSignificare. Peruerfa vero et iam alia ratione. Cum
enim Laudem etVitupe rationem posuere,addiderunt Accidens:quasi ve ro ea
accidentia non fint:atque est,veluti li dicas, Coruus est crocitans
animal,nigrum,coloratum. Accidesigitur fiuefignifcet σύμπτωμα, fiueσυμ 667xws,
live codexerfov, genus est comprehen dens Laudem, et Vituperationem, non minus
quam Album, et Nigrum, quæ ipfi pro exem 3 plis apposuere. Male etiam apposuere
Vnicui que: non enim dantur definitiones indiuiduo rum, fed folæ fpecies
definiuntur. Verum poft hæc maiorem errorem commisere: nam (omit 1 to alias
ineptias ) ficftatuunt, proprium elfe Ad ieet iuorum, suscipcre Comparationem:
At hoc est falfiffimum: nam quisaudeatdicere hoc no men Medius,intendi
poffe,etremitti gradu Co parationis? Quis nescic, Hodiernum,e fse Adic diuum?
quis alia multa. Negligentia quoque illa non parua: etenim de iis, quæ Quasi ad
ali quid dicuntur,vbi scripsere, interponunt deSy nonymis nescio quæ,
etDionymis, atque eius. modi, etfalso, vt diximus supra, et non luo loco.
Interrogatiuum, aiunt, est quod cum interroga tione profertur. Leuiter lane
nimis: quippeet Verba cum interrogatione proferuntur. Deinde dixere, infinitum
efle Interrogatiuo contra- Juf. rium, profe et o inanemmodum docendi: Nihil enim
est contrarium interrogationi: nisi non interrogare: aut fane Respondiuum
appellandum n'y. sit, vt aliquid affequamur:Responsio nanque non est vere
contraria Interrogationi:quippealiquan do eadem:vt, Venit? respondebis, “Venit”.
Neque forma ipsa interrogandi est vere contraria for mæ respondendi: alioqui
quæstio effet contraria conclusioni. At quæstio nihil affirmat: ergo non contradicit.
Sed vsus tenuit, ut dicamus: Contra respondit: quia ex altera parte item eum
esse dicimus,qui refpondet. Infinitum vero quo... modocontrarium faciant
Interrogatiuo? neutru cnim quicquam ponit: alterum quærit, alterum nescit. Quid
quod Infinita dixit esse Relatiua? della qua oratione nihilturpius.
Relatiua.n.omnia Fi- **3 nita sunt. Fiunt autem infinita appositis verbis non
finientibus: vt Nescio,ficis, quitam indo,qui et e scribit. fed ipfa
Interrogatiua sunt Infini ta:n: hil enim statuit,qui interrogat.Diuiduum, hun
Jan inquiunt,est, quodaduobus, velamplioribusad fingulos habet relationem.vel
ad plures in nu meros pares distributos: vt Vterque, Alteruter,
Quisque,Singuli,Bini, Terni.Omitto barbariem Piij. upo DD CH Arche orm quum
posuere. Amplioribus, pro eo quod effet, Pluribus. Rem ipfam agamus. Male
expressere vim horum exemplorum: neque enim hæc vox Vterquehabet relationem a
duobus ad fingulos: Ted åfingulisadduos transfert significatum. nam quum
dicas,Vter? vnum intelligis ex duobus.Ita quecolliges-ambosin responsione fic:
ethic, et hic, per coniun et ionem. Que: Vterque.Itaque non eft Diuiduum, fed
Diuiduo contrarium. Dividuum potius erit, Alter uter, Utercunque, Vteruis.
Præterca non puduit distinguere hæctan. Nouve quam in specie, divisa a specie
numeralium. Imo vero numerale est genus comple et ensduas species, dividuum:
vt: alteruter: “indiuiduum” -- hoc autem rursusdaas: distribuens, vt singulus:
Non distribuens, vt unus. Itaque potius affectiones numerandi, quam species
sint sicut: et Ordinale. Hæcita fe habent.Nos autem hęc incondita prudentius
digeramus, recepta prius nominum fi hangi significatione. Omne quod est,aur est
Absolutum, mgo aut Relatiuum. Absolutum est quod a nullo de pendet. Relatiua,
quæ mutuo naturæ nexu con almolol ftant. Eftautem Abfolutinomen minus consul to
pofitum. quod.n. aliquando vinctum fuerit, quả defiit vin et ữesse, Absolutu
diet u est. Verum verborű inopia interdum premimur: vtemurau tem receptis,
vtintelligamur, Videamus igitur, an vllu nomere ette dici queat Absolutū.
Absolu tu pluribusmodisintelligitur:Absolutű a cauffa: vt, Deus: amateria, vt
motrices mentes orbium coeleftiű: a fubie etta fubftatia, vt fubftãtiæ omnes: a
relatione, vt quæ ad aliud non referuntur. Igi tur ICH D 1 V tur ipfiusnominis
naturanullo horum modoru vlnu absoluta eft:caussasenim habet, primum sui auto
Tours tem:promateria,vocem, scripturamve, aut quid fimile. Quu autem reru notæ
fint,fiue figna quæ dam arelatione,non erut Absoluta. Nomina igi tur omnia in
prædicamento Relationis funt qua tenus significant. Verum omni in relatione eft
ratio referendi, et termini ipfi relationis, et res subiectæ, quæ deferunt
relationem: vt, Cæsar fi Catonis filius eít, tria hæc oítendentur: nam ratio
qua Cæfarad Catonem vt filius, et Cato ad Cæfa rem vt pater,est vis illa
procreandi tum actiua, tu paffiua.Resdeferetes relationem, funt duæ fub Itantiæ
indiuidux. Terminus relationis filii, est Cæfar:patris,eft Cato.Igitur filius
in prædicame to Relationis eft: fed connotat fecurcm absoluta scilicet
substantiam. Non longe diffimili ratione Nomen dicas ipfum quatenus significat,
effe Re latiuum. quatenusabsolutam rem fignificat,effe vt figna Absolutum. Sic
dicas, Cæfarem effe filium mili tarem: vt relatiuu filius,etia militia
consignificet rem absolutam. Ergo fic Nomina certis generi. Gomora bus
partiamur:auta Reftatim deducuntur,aut ab ' A 2 alia voce. A Re autabfoluta,
autrelatiua. Si a vo ce, yt Hodiernus, ab aduerbio, Hodie,vocisillius naturam
fequentur. Quæ autem a Rebus dedu centur,rerum naturam retinebut. Oportet enim
fignum æquari rei cuiusfignum eft.Itaque fifub- Goreng ftantiam indicabit, ant
quantitatem,aut quali tatem, aut alia, inde fumetappellationem. Per. sequi
autem tot species, easque certis nuncupa tionibus affequi, difficileest. Summa
autê genere. Relatiuorum funt hæc: aut æqualia, vt Socius, vicinus: aut
inæqualia, ut “servus”, “dominus”. Absoluta substantina decorum generaat
species. Absolutorum genera hæc sunt, quædam subsantiam significant, ut, Ensis.
Quædã quantitatem eam queduplicem: continuam: vt, Magnitudinem, corpus: locum, forum:
tempus, Annus. Et discretam, vt, numerum “unus”, “duo”. A lia significant
qualitatem: ut, “candor”, facies.Ex quibus ducas nomina generum, ac reddas suum
cuique: Temporale, Locale, et quæ supra. Facti Atia autem ad genus qualitatis,
quatenussic sonat, Murmur, Turtur, Sibilus, Fremitus: quanquam significatus ad alia
genera referatur.Sic etiam Ad verbialia diet a,non quodaduerbium fignificent:
sed ab origine:quoconstat, has denominationes non sempera significato produci.
Generale aute et Speciale potius ad dialecticum spectant. Sic Corporale et
Incorporale reduces ad fubftatiam et alia genera:vt, Deus substantiale eft,
incorpo rale: Candor qualitas incorporalis. An verd id, quod aiunt,verum fit,
Orationem esse incorpo ralem? Nam de vocali, aut fcripta oratione si fic sentias,
falso intelligas. Eft enim orationis For ma significatio: Materia, papyrus
atramentum, aer ipse: Figura,ftru et ura illa. Absoluta diminutina. th.Horum
affe et usquorūdam,Diminutio est:ita vtresipfæ quibant autintendi,aut remitti.
Quare in substantia non videbatur inueniri pof- Am se fignificatusDiminutionis.
Verum ab affeet i- ' W4L. bus, siue accidentibus circumstantibus effe ettum
eft, vt reciperet Diminutionem. Sicuti etiam di cimus, Maiorem equum:eft enim
quod ad quan titatem spectet,non quodfubstantiam. Igitur fic resoluimus, vt
dicatur, Plus quantitatis in eque, non autem plus cqui. Ita dicimus Homuncione,
et Homulum,quantitatem respicientesin homi ne, non hominis substantiam.Atqueis
lane error a vulgo, non a sapientibusprofectus est. Puellus autem ætatem
significat, non substantiam:ætas autem fub tempore collocatur. Compofita etiam
ex vtroque inuenias. vt, Pumilus, et Pumilio, ex Puero et Homulo conflatum
fuit. Abufi autem sunt veteresnomineDiminutionis:namMinue- vox rt, est tollere
quantitatem: Diminuere igitur, Vtranque quantitatem statuit in diuersa: at ab
Hominecum ducis Homulum, decurtaspotius, quam Diminuis. Quæ fuit cauffa, vt
aliiconful rius Deminuere dicant. Eftenim Diminutio affe etus
consequensDiuisionem. Omneenim diui sum ita minuitur, vt eadem quantitas minor
di - sot catur,quoniam partes feparentur: at in nominis Diminutiui
significatione nullæ extant partest fed Deminutiuucstquod fignificat minus quam
Primitiuum.Quoniam autem eft fpecies Deriua tiuorum, et Deriuatio est Figura,
et Figuraeft af feet us nominum generalis: igituretiam Deminutio generalis
nominuaffeet us erit: iccirco et Absolutis, et Relativis, et Appellatiuis, et Adiectiuis,
et Communibus, et Propriis competit.Quarcna tweet elteise PY. in. emir Quis 230
IvL. IV. inter genera nominum,sed inter accidentia pro. pria recensendum
fuit:vt, Homulus, Pulchellus, Romulus, Meliusculus est, Antonilla. Nunc igi tur
de Abfolutis. peromeQuantitatem quædam imitantur, quædam non,fed ei cohærent
tantum. QuareDeminutia fecundumhæctria dicentur: competit enim ma ins,vel minus
soliquantitati. Dicimus tamen ma iorem calorem analogia quadam fignificationis
Igitur primo indicabunt quantitatem: secundo foco id, quod hæret ei:tertio,quod
eam imitatur. Quantitatem ftatim dicunt,Tantulus: et proxi mahuic in ipfa
fubstantia, Auicula, Capitulum, Fraterculus, quæ ci cohærentia sunt. Sic Annicu
lus, non diminuit annum, sed notat paruitatem fubftantiæ,cuius
motum,anni quantitasmeritur. Ea vero quæ quantitatem imitantur, sunt ficut
Regulus,cum Regēparuium significat:propterea quodquivasto corporesunt; cæteros
anteirero borevidentur,item imperio:ita ii, quorum in po testate populares
funt; eam magnitudinem imi tantur:atque iccirco deminutione notantur. hnutil.
Quum autem variis terminationibuspræfcri bantur cæ non funtpræfentis operæ.
Sedillud a nimaduertendum, quædam quibufdam flexibus Deminutiuorum efferri, quæ
ad ipfum genus nal laratione adduciposlint:vt,Cuculus,et Cænacu lum, aliaque
eiusmodi aliquot: nam quæ veteres afferunt exempla non omnia verasunt. vt Auun
culus Deminutum ab auo eft: Abba enim auum appellabant:item patrem, et
patrisacmatris fra trema. Illi cum patrui nomen quasi patrem alte rum pitud
ntiapfum attribuerent, matris fratrem quafi remotio alchesiem pusillum auum
appellarunt. Nunci · Finis igitur Deminutiuorum is, Tollere quan titatem,aut
alia quæ remitti possunt:sic Regulus, quxparuum regem imperio, Veraniolum
dixitCatul ninusus vrbanitate: ficut Romulum, et Sergiolum, nimpueros: non
adulatione,vtaiunt, qui id a Græcis imen fumpsere:Romani enim non fuit
adulari.Frater catio: culum quoque gigantum iidem male dixere ab fecus
vrbanitate:sed refpexit ad Gigantum vaftitatem, imit:
Probro:Meretricula,Pusio.Imitatione:abAngui, et pri Anguilla. Minus reete
etiam,qui contendunr, a Redo Fidis,et Apis, Fidiculam et Apiculam,du-fericia
Ans Eta: falla enim ratio eft. Si a Fides, effet fidecula. cuit Primum videntur
negare mutationem vocalium meni in dedu et tis: Deinde fatis constat commodius
fie Eunti ri si Reet tus a fecundo casu differat. Itaque si non ropli
inueniatur apud autores Fidis, rectius facias, si ne teir ges vnquamfuiffe.Et
Ouidiana Apis, ex deterio imi re deprompta vfu fit. Verumegoarbitrorinter v emi
trunquefonum pronunciari folitum: vtin Nise, Nisi: Here, Heri. Itaque quum “Ædes”,
non “Ædis”; “Sedes”, non “Sedis” in recto legatur, tamen Ædicu łam et,
Sediculam diet umlegimus. His autem no erat hic locus,nisi huius quoque rei
cauffa nobis reddenda fuisset. Ex his, quæ diximus,conftat,Nominain
Aster,we'arts a veteribus re et e inter Deminutiua effe colloca- sene sont A
ta,temere a recentioribus ablata.Eoru argumen ta sunt hæc: Si essent
Deminutiua, non fuisset a Terētio addita altera nota paruitatis, apud quele
gimus, Parasitaster paruulus.Ite Pullastra, grandi uscu atu pra Case TIK ETU mula IvL. IV. ad usçulam potius
significat pullam ':Præterca Apia ftrum est miræ altitudinis. non igitur erit
demi nutiuum: quare Imitationem non Dcminutio solinem dicent.
Adhæcficrespondemus:omnemi mitationem indicare deminutione: quare quod tollunt
idipsum statuunt. Et quod additur ase rentio paruulus, significat corporis
quantitatem ætate imperfectam, vt fitdeminutio corporis: at parasitaster est
artisdeminutio:vtis sit, qui haud magnacum re parasıtatur: et quia agit, fiue
imita tur parasitum, citra parasiti modum est. Apia ftrum autem non est
diminutiuum ab Apio, sed ab Apibus ductum, vndeetiam uersaroquior,id est
Apifolium dicitur a Græcis, Citraria enim cst: quin ea Apium neque
imitatur,ncquefimilis eius est. At quod Apiastrum est ab Apio deminutum fane eo
longeminusest. Verba Plinii suntin xx. libro: Nasci in Sardinia herbam
fylueftrem Apii fimilem,quod fit A piastrum,Apio minorem. E Sallustii historia
sumptum videtur. In Sardinia, inquit,herbanascitur, quæ Sardoa dicitur, Apia
stri similis: hæc ora hominum, et rictus dolore contrahit, etquali ridentes
interimit. Pullastram autem omnino minorem Pullam intelligimus: quippe Pulla,
et Gallina iuuencula:idque tam contra eos,quam pro eis facit: neque enim Pul te
laftra, aut fylueftris est, autpullam imitans: vt trupi want quid enim minorem
maior imitetur? aut quomo doimitatio in substantia, autin quantitate natu rali
fita fit, quæ affeet us animi, autin ipso affectu posita est? Surdaster quoque
qua rationefurdum dicetur imitari? sed enim idem eft, quod fubfur dus. Cauffa
autem huiusce terminationis a Græ cis constituta eft: 017:Tmile,I'vtwwwxleiv,
cst Philippum, aut Antonium agere:sicwsgarrile:v,vn de Antoniaster, et Paralitaster;
fic oyxisnis,apud Galenum ageto oynilev: agortashs, et Æolice 1 verso líbilo in
literam vibratiorem. Qui igitur imitationem tantum attribuere, non memine
rantsurdaftri:quisustuleredeminutionem ob Te rentium, non videbant duas
paruitates eidem s poffeeuenire,corporis, et artis: qui omnino non putarunt
esse Deminutiua, nesciebant imitatio, ne significari inæqualitatem duorum,
quorum. minor sitis altero, quem imitatur. Proprium Deminutiuorum habere
dcriuata. si non a primigeniis,Hortulanus. Collectiua, etcomprehenfina.
NGcnerequantitatis, quæ reliqua funt,ponc mus ea, quæ vocant Collectiua. verum
voxa ri? y definitionediffentit.Colligerenanquoeftaliquo * chin modovnuex
multis facere: at, Populus,aut, Vut gus, quod dat signum nobis colligendi?
potius, Vterque, et Ambo, et Omnis,funt figna Colle etti-,,: ua:illa autem,quæ
ficabantiquis funt dicta,Cog prehenfiua potius iudicabuntur. At ipsi Com - 3 3
prehenfiua dixere his non abfimilia: cuiufmodi o est, Vinetum, Rosetum, et
eiusmodi. Verum hæc i nihilo distant, nisi modoipfo significationis:nam Populus
rem vnam e multis constantem notat: pie at, Vinetum,vnam rem multas
comprehenden Pietem. Non est Colle ettiuis diffimile, Arena, Scopa, Scala, Scala,
et eiusmodi, quæ frustra plurali duntaxat en numero dicidebere
contenderunticcirco, quia multa essent. Nequeillisin mente venerat, quod cunque
eft,vnum effe. Atquod eft, aut est vnum Subflantia,velutdicebamus, ut Homo et
Equus: aut accidente, ut homo et Albumiaut Subiecto, ve Album et Dulce in
lacte:autMistione, vt Pos sca:aut Aggregatione,vt Aceruus. Igitur in fingu lari
si pronuncies, rectius designes vnum effe: vt, Cumulus, Grex, Turma, Thesaurus,
vt etiã in plu rali diuerfislocis pofita fignifices: vt, Cumulosaa renæ,Italicæ
et Ægyptiæ:Greges,tuum etmeum, Eft præterea vnum Mathematicum:vt Quadran talis
figura vnum cst ex multis lateribus: fic Qua drigam debes dicere, vt et
Alcibiadis et Hieronis Quadrigas possis. Est etiam unum dialecticum, vel
metaphysicum, ut definitio, quæ constat ex genere et differentia, et Species
quæ constat exif dem defignatisa definitione: quæ tamen singularem in numero
proferuntur.Quaremulto usuinomi na hæc Comprehenfiua fuere. Multoque consul
tius est hoc excogitatum, quam fit admiffusmos pluralium, vt Thebæ, Pifæ: namfi
fic neceffe fit dicere, illud quoquencceffe fuerit, vt ciuitates, non autem ciuitas appelletur. Sic grege
legato, wna res legata est, vtait Paulus, neque pars potest recipi,pars fperniRelatiua
substantina. Elatiua aut sunt Substantiua, vt feruus: aut RA, nomie lur U
nominis aut genus vtranquecopleettensspeciem,rakis fubstantiuorum, et
adiectiuorum: nequemirum: neq; enim substantiam significant, fed essentiam
referendi:itaque accidentis semper notæ funt. In priore genere continentur
Ordinalia, Primus, So cundus:aut his fimilia.Centurio,præfe et us: et a lia
talia quæ diximus, vt Ciuis,Vicinus:Nepos, Fi lius:quæ vnum tantum terminum
significant. Vi dentur autem etGentilia, et Patria ad hæc referriq.m fub
adiectiuorum fpecie:nequeenim dicas Græ- pohon cum, fine Græciæ intellectu: fed
tamen Græ ciam, sine Græci intelle et ione poffe dicere vide ris. Verum non ita
eft. Plato Græcus fuit: Regio Attica,Græca:sisubstantias ipfas respicias, nõre
feres: si nomina impofita, quæ gētem significent,q non possis, quin referas.
Terrailla non est alicu-} ius terra: sed patria eftalicuius patria: Græcia autem
Græcorum eft, et Græci Græciæ, Itaqueo mnium nobiliffima fuere Patronymica, quæ
in contents voce substantiua, adie ettiuorum plenitudinem sunt consequuta.
Adieettiua enim significant acçi dcns et modum quo in hzret substantiæ: quare
aliqua ratione etiam ipfam connotant subltan tiam. Hoc etiam amplius
Patronymica, quæ et iam certam fubftantiam consignificant:nam in certum quidem
filium vel nepotem, at certum vel patrem,vel auum, tanta vi,vtetiã propria no
mina referri penecogant. Videtur enim Priamus b'lari referri ad filios
hocnomine Priamides: verum non ita eft: nam tametsi terminum nominat,non
tameneum refert ad hunc quem primario figni ficat: significat enim filiu
Priami, quead Priamu refert:consignificat Priamum, sed adfilium non 1 1 qua?
236 IvL. IV. 1 * refert. Cæterum eo præstant cæteris, vt diximus, pas here quod
vtrunque terminum relationisfimulsta tuunt voceipfa non soluın
significatu.illud quo » que mirum fuit, a proprio ductam vocem perde
nominationem,non effe Adiectiuam,fed Fixam: quaksid quod non potuerunt obtinere
Poffeffiua.Ap pellatiua autem fuere amiffo iure proprietatis. Nequeenim potius
Hector, quam Helenusintel ligetur co nomine PRIAMIDES, Non pro pter
camrationem,quamafferunt, Singularia no referri: hoc enim falso dixere
philosophiquidã. Nam Relatiua quoquesua habentindiuidua; vt, hiç filius huius
patris. Proprium vero cumfuisset per initia Patrony. VM micorum, Græcis tantum
in nominibus fieri: v sus Romanus ad sua transtulit commoda, vt Ro. mulides.
Falso enim dicebantquidem Patrony. miciloco vfostum Poffeffiuo; nemo enim hoclo
git nunc.Auxerequoque inscitiam,cum Latino, rum tantum effe dicerēt
poffeffiuum:qui fi Græ caignorabant:at meminiffent ex poemate,quod legerent
assidue, Troja, et Typhoel, et Euan drius. Quoniam vero etiam Materita refertur
vt gum ea, tum Pater vnico nomine Parentis com ple ettantur:iccirco ab ea qudq;
dacta sunt;vt Co ronides,Æsçulapius apud Ouidium.Item eodem filo abauis
maternis, quo a paternis trahebantur: Atlantides, Mercurius. Poft hæca
fororibus quo que, Phaethontiades, forores Phaethontis. Hora tius etiam a faet
is, non ab fanguine Tyndaridem dixit eam, quæ Clytæmnestræ more diffidiffet
bipenni caput viro. Moderatius veteres,qui ciues omnes, tametfi non erant a
principe civitatisge niti, ab eo appellarunt, Cecropidas, Athenienses. Mobilia,
five adiectiva absoluta. Vem ad modum supra diximus, Mobilia sut alia
Absolutarum rerum, alia Relativarum Garten nota.Abfolutæ sunt, Vivus, Exanimis,
Annicu lus,Sesquipedalis, Albus, Calidus, Frigidus, Cir cularis,Forensis, et
eiufmodi:genera ipfa rerum si spectaveris. Habentautem affeet us hos,æqualiam
L. effe ei,vndefunt denominata: vt a luftitia,luftus: iuftus enim est, qui
iustitiam æquavit. Secundus affectus fuit,minussignificare:vt,Bellus.Tertius,2
augere significatum:vt,Gloriosus,Populabūdus. 3 Propriumautem fuit Mobilium,
transirein natu ram Fixorum:vt,Pluvia: fuit enim per initia; A. qua pluvia.id
quod etiam ex Ll.libris deprehen ditur, De aqua pluuia arcenda. Eadem analogia
fluuius,vt poffisdicere, Fluuium Rhenu. Ducta enim funt, auta nomine, vt
Cadidus: aut a verbs, vt Bibax:aut ab adverbio:vt Hesternus.Fluere igi tur quũ
significaret ipsum accidens per fe: duđa eft ab eo verbo vox,quæ in alio effe
indicaret, Flu men vius. Itaq; vehemeter fallifunt, quiscripfere, quę.comhet
bus dam Nomina esse neq; Substantiva,neq; Adiecti atrop Ďa: vt Verbalia, et
alia quædã: cuiusmodi eft, Ci vis, et Servus:quæ proptereaipsi Ambigua appel
larunt.Verum res fealiter habet: Verbalia.n. fue ' re Adiectiva, nihilo fecius
quam Participia: fed brevitatis caussa omissum estSubstantivum: quis aj. enim
La 16.01 RE tert: tiso tivo/ OLISI is.H dari Title qui Lt $. IIII. enim neget
non Thew,fuisse primum appositum, tu widet: sicut et Homerus dicit, inteos
cuine: ficuti 04.810. avvie: fi enim Bellare habet naturam Ad icativi,nonne
Bellatoritem habebit?significate nim bellandi scientiam in Cæsare, aut alio
Itaque variatumfuit, vt etiam Bellatricem diceremus Ca millam, et Arma
victricia.Sic Servum, et Servam, Dauum, etSyram: et Servum imperium, quod a lij
parêret.Sic pauper, Irus, Ilia, Regnum, at seor fum ponitur ab Ovidio, Pauper
vbique iacet.No sunt igiturAmbigua: nihil enim medium inter sabo ea,quæ diximus
in rebus: ergo nequeinnomini abus: fed sua naturaAdiectiva fuere: vsusautem que
no me nonmutavit,vt efficeret Substantiua,fed Substan tiua sustulit: non vt hæc
essent, fed vtilla fubin » telligerentur.Sic dixitperinitia Pluit Deus:poft ea
fuftulit Nomen. Sic dixit, Amatur a Cæfare: postea tacuitnomen, et paffus est
verbo nullam certam attribui personam. Quodautem addunt his, Ciuem, et
Regem:vtdicatur, et vir Ciuis, et Ciuis bonus: et Populus Rex, etRex bonus. hoc
sicincrebuit,quemadmodum apudGręcosquod perarticulumdeclaratur, ανηρο πολίτης,
λαόςοβα arnolis. quanquam Rex quoquefuit Adie ettivum primo, et Consul, et
Prætor. Namquod vnum Jobu.tantum genus obtinuerit,id non ipfius nominis, sed
rei quam notaret cauffa fa ettumest. Quum e nim hæc accidentia non nisi in
viris inveniren tur:nonnisi virili genere potuere enüciari: qua. quam etiam
Reginam dicas. Sic Autor, vtrun quegenus complexum eft,cum terminatio Masculi I
att culinitantum analogia præfcripfiffet. Sic Græci per initia
dixere,nwandywiv, pauidum lepo rem: at ysus to taxa dixit, naywov, subticuit.
fis DonBor Stonwa, Phæbum perditorem:at fimpli citer Stonwy, substantiui sui
nomen obtinuit. fic u hier porta onkuardigov žantov, quod pecora flavescerentes
forly ius potu: at Xanthi sola appellatione Scaman drum intelligebant: vt
hocfane magismirum fit, et Adicet ivo fa et um Proprium substantia EN vum. Olle
101 ICH molt dos LIN Secundum rerum genera quum Adiectiva di ftinguantur,non
paucaeorum certisterminatio.hmm. nibus insignita fuere. Quæ igitur substantiam
fi- Subit. gnificarent,multas facies funt fortita:in Aceus:in Itius:in Inus:in
Eus.In Accus,materiam signifi cant:Panis hordeacens:Interdum totam: vtMer.. Tis
triticea: et, Pila cretacea. Alias partem:vt,Pti sanahordeacea:nam etiam ex
aqua constat,noTo lo hordeo. Etiam fusa significatio ad cohærentia, ytacino
contentum granum,Vinaceum: quem admodum imitatus elt Gallinaceus: quoniam ex
gallinæ materia ac satu esset. Huic proxima ter minatio, Cratitius paries, et
Cæmentitius: idem significavit. item materiæ cohærentia, vt Mul titia vestis:
neque enim Multitudo materia est, sed Linum, autLana:fic Multatitia pecunia,quæ
ex Multa: år Multatio materia non est, sed forina potius, quapecuniaexigatur.
Vt et hoc erra rint, qui folam materiam, non etiam formam dicerent significari:
et male scripserint, Icius,» non Itius: nam vt est a lufto, luftitia: fic fuit
a Crate, Gratitius. Atque hæ duæterminationes şij. Lati os Hea r tres. Latinis suntpeculiares:Alteræ duæ a
Græcispro fectæ, Cedrinus, Cupressinus, in Inus: et in Eus, Ferreus jordmedG
Æolice,exemiptosve diximus t, ex diphthongo. Abiegnus autem fuit paulo coa Gius
dictum, ab Abiete. lantinusvero et Ame thystinus videtur colorem, non
substantiam fi gnificare:verum ita fuit, vt quafi ex ipsa Viola, et Amethysto
confecta esset vestis.quoniam ex suc cis herbarum tin et turæ perficiebantur.
Quæret a liquis, An Tribunitius, atquealia eiusmodi in su: periorem ordinem
redigantur? Saneita est: ete we: nim Tribunatus quasi materia eft eius loci in
Re ini publica, qui Tribunitiis debebatur: fic Patritius Civis, cuius
dignitatis materiam præbuerint pa yrazo Quæ vero qualitatem fignificant; alia
exeune fimplici,communique finitione:vt, Bonus, Ce ler.Alia Græco flexu
denominativorum:vta Py thagoræ sapientia, Pythagoreus, et Pythagoricus. Sunt etiam
duo alijmodiverbales,Tufazozistis,vt Grammatista: et mutuyoeuntuisy Vt Touc74::
et ove - UTAS; Acolice. Sic nescio quo felicissimo com tento Franci etiam ounc
poetam, patria lingua, Factistam dicufit. qua voce nulla meliore analo gia
Græcam potuit et excipere, et exprimere. E narratores Theocriti agnofcuntinter
eas termia nationes differentiam ad significandum, quam qui volet s inde petat.
Sunt et alia quæ ipsam zum.qualitatem fub excessu quodam notant, exeunt quein
os vs: ea habuere originem a Græcis, vt appeticsciv syss estenim oradns qui
plus vini appetit, quam par sitšaue quiplus viniobtinet, scilio qub w fut AK 1
6 EN fcilicet autsubstantiæ, aut faporis, aut odoris, aut coloris: vt apud
Homerum aliatermination intowany ne, vivo nece moV TOY. ni ww Sic duo quoque
modi signifi candi apud Latinos fuere: ingeniosus, qui mulță ingenii haberet:
Mulierosus, qui multum mu lierum vellet habere. Trahunt autem origi nem a
hominibus, græcorum eorundem exem plo: non a verbis,vtputarunt:his exemplis,
Sto. machofus, “studiosus”, “quæstuosus, Sumptuofus Sed a Stomacho:quod
apertius patet in aliis:nam a Studio, non a Studeo, habet vocalem suam
studiofus: et a Sumptu, et Quæstu, suam cætera. Itaque M. Tullius fic loquutus
est: Non yt mihiftomachum facerent, quem nullum ha beo. Quare a Criticis
notatus fuit Nigidius Figulus, qui Bibofum dixit, fuam enim habent a >>
verbis terminationem pari significato, Edax, Bie bax, Emax,Vendax,
Loquax,Diçax,a nominib, raro,Linguax. Et aliam infrequentiorem, Bibo nes,
Comedoncs, Calcitrones: et a nominibus, Catillones, Popinones: quanquam a
Catillando et popinãdo quoque duci poffint, vt a Lurcan doLurcones. Sed quædam
omnino sunranomi- nibus, vt Ciliones a Ciliis, et Labeones a Labiis. Horum item
Græca origo fuit: fic enim effin gunt illi nominaComprehensiua: vt, opv.TW as»
dd Duwvec Tia cvwx loca plena Auibus, Lauris,. Platanis. et vnum facetum
fane,xerecv «, partem corporis, quæ ilia a quibusdam putata sunt. quo; niam
igitur plus vacui ibi effet, quası multo va cuo plena effet, keveuve fuperiorum
analogia ap pellarut. Eorum autem Gignificatus alius aqtiuus,suono some vt
Studiofus: alius paffiuus, vt Formidolofus: alius indifferens, vtMotosus: qua
fuit cauffa, vt a verbis deduci poffe putaritNigidius.Habue Huse autem modum
significandi, vt diximus, ex ceflum. Exceflus autem omnis vitiofus: Virtus enim
aut medium, aut in medio. Verumnomi, ņum quorundam vi factum eft, vt etiam
virtus tis limitibus continerentur: eius rei cauffa fuit, propterea quod omne
bonu difficile paratu est: vt est apud Hefiodum, et Vergilium, et Plato. nem,
et Aristotelem. Ergo conatus ille frequen tium atque affe et atarum actionum
intra laudis metas constitit: vt, Studiofus: nemoenim fatis pro restudere
possit. Quin media quoque voca „bula, vt Fama, et Dolus, in deteriorem partem
flexa fuere. Famofam Mạcham, Dolofum mer catorem: propterea quod facilior
habitus, dete rior eft. Iccirco diuinus poeta Famam, malum definiuit. Hæc
pertinentad cauffas et Originis, market et Significationis. Materia autem fic
fe habet; Quædam fimpliciter deducuntur, vta cerebro, cerebrosus: quædam cum
additamento vocalisa vea cura, Curiosus; quanquam non fine ratio ne: Sabina vox
fuit,non vt ineptiunt, quia Cor vrat. Quirites dixit Plebem Romulus,se Qui
rinum, Senatum Curiam:omnes eodem voca bulo,vario flexu. IndeCuriolus diet us,
quifa tageret Confultorum Senatus. fimul Curæ no men deriuatum qua
diligentiores patres voca rentur. At apertiffime affumpsit Formidolofus a
Formidine. Monstruosus, autem quod dicunt quidam, puto esse barbarum; nam
inmanu scri pto TIL Holok cani Halk < -US, 6 - Vir non 7 yint la
fi atud Plan ceque land imga you Dante mi me pto Martialis exemplari, quod de
præda Fonta rabiz nacti sumus, fic fcriptum eft, Montofa decus Vmbriæ.
Tortuosus quoque et Saltuosus nihil assumpsere: sed a Tortu, et Saltu, ducta
funt: ficut a faftu Faftuofus. quanquam igitur videnturquantitatem fignificare,
tamen non ita est, sed intentionem qualitatis:nam tamet fi Mons significat
quantitatem, at Montosus, habitum illum montium notat. Sic euenit e tiam in
alia terminatione, ™ND vs: Magnitu- View they dinem nanque indicat: Cæterum non
folius Quantitatis, immo vero, vt fupra dixi, Habi-. tum quendam. Neque vero
dubium eft, quin a maris excefsu naturam nacta fint, quippe ab Vndis. Nam Maris
nomine antiqui pro ma- » gno vfi funt. hinc Pelagus, quia n'hasdize'. lam enim
to renæs significat tractum ipsum. Ex Callimachus quasi prouerbio vtiturin
Apolli nis hymno: Ου φιλέω τον αδέν και δδ δσα πονος αείδε». Et apud
Latinos,Maria acmontes polliceri. Vul goetiam dicimus, Maria, dere immensa.Sic
Ca tullus quum multa propofuifset etiam maiora fi de,subdidit, Cætera
suntmaria. Sed de his alibi, Eorum autem Materia talis eft, vt quædam Bha-mana
beant, alia c. Populabundus,Iracundus, Rubi cundus, Verecundus: quorum origo a
futura Trom. verborum ducta fignificatum expressit perpc tuationis:
vt,Populabundus, non folum qui pa pulatur, fed etiam populabitur. Pauca ad præ
lens respexere: vt, Iracundus ab eo quod est, Ifasci,exempto sibilo,quafi
quifemper irascatur: Qiiij. R4 s,de malo igini haba Tehn oat rati Tal VOO wik
PM vou plai Rubicundus,qui semper rubricet:non,vt vulgo
vtimur,actiualignificatione transitiua, fed abło Muta, aut usor, quemadmodum
cum dicimusLa uat, id eft, Lauatur. et apud Poetam, lam venti posuere. Verecundus
autem originem paulo ha buit obscuriorem, propterea quod abolitu ver bum est
Verescor: sicutcontra, Adipiscor fuum primogenitum amisit,dicebant.n. Apere,
and To ZTTHY, Ynde Apex, et Apes,etExamen, cuius fimplex non inuenitur
sicvoceprimaria. sed in Amento. verum de his alibi. Continuationem igitur
dicimus,quia Rubicundum no dicam me, sed Silenum, cuius facies multi atque
aperți rubo ris fit: Nireum non dicam iracundum,Achillem dicam,multæ iræ, et
quam ipse præ se ferat. F2 cundusliteram mutauit, fi a fando,non ab effica cia
ductum sit. Fæcundaa fætu, per concisione. Rotundum quoque,si ab eruditioris
iudicio con cedatur mihi, videtur non abhorrere. Neque ve ro habitum illum cum
excessu folum indicant, 2 fed etiam vehementiam quandam,atque extan tein præter
modum exuperantiam in rebus ina nimis: quasi quum dicas M.re fluctuabundum, vel
vtaitGellius, Vndabundum. In rebus au 3 tem voluntate præditis, etiam
Oftentationem, fiue Professionem,atque etiam, vtita dicam, Sa tagentiam, nam
quemadmodum differt Verbale a Participio, ita a Verbali genus hoc nominum.
Pugnare poteft quiuis,atque erit Pugnans: Pu gnator longe alio modo idem
fignificat: addit.n. habitumsciendi pugnas. Sic,Populans,etPo pulator: at
Populabundus hoc apponit insuper, vt palam præ se ferat animum acfpiritum
Popula toris.Iccirco veteres non male dixere: quum imi. tarionem quandam his
nominibus attribuêre,si mulet fimilitudinem:quippe gestuotaquodam modo quæ
fint. Propterea dixitSallustius in lu gurthino: Qualı vitabundus: id eft,quasi
is, qui præ se ferret mețum, vt hostem eliceret, quemvi. tare Gmularet. Eft
alius moduseiusdem terminatiois in Invs; Juul nam supra correpta vocali
pronunciabatur, Fa ginus axis: et Materiam indicabat. at in quibus dam
producitur,et Qualitatem consistentem fi gnificat: vt Libertinus, Et in
llis,Seruilis,Heri lis, et vnum correptum Pugil.fuit enim Pugi F lisperinitia,
siçut Ciuilis. Et quemadmodumsu pra in Itius Materiam notabant, Cementitius,
Cratitius; ita etiam Aedilicius, et Tribunitius, quasi materiam, non veram,analogice
enim Tri bunatus dicitur materia dignitatis, ac status ho minis. Qualitatem
igitur indicant, id est condic, tionem, amateria,aut quasia materia,sub ratio
ne quadam pafsionis: vt Afcriptitius, qui esta scriptus:Fiđitius,qui eft fiet
us:Dedititius,qui est passus deditionem: Deditio enim quasi materia de quædam
est Capitediminutionis: eft.n.affe et us deditionis, amisfio libertatis.Eiufdem
modi funt in Alis: vt Triumphalis, qui ex Triumpho gra dum adeptus est in
ciuitate: furialis, furiis ca A ptus:Mortalis, eadem ratione dicitur, quimor te
affc ettus eft: nam quod ad aptitudinem trans latum fit, hoc vsus occupauit.
Cæterum de mortuo primum fic sunt locuti, Mortalis fuit:» deinde etiam quum ad
viuentes refpicerent, pro pterea quod essent eiusdem naturæ,cofdem quo que
Mortales vocauere: fic etiam Capitale cri men dixere, quodcapite lui meritum
esset:quo fignificato etiam quç nondum vocata eflentiniu omdicium intellexere.
His fimilia in Orius:Censori us, Prætorius: hæcfequutum illud fuit,Vxorius, Nam
Cēsura ac Prætura acta cortislimitibus vi tæ præfcribebant ciuibus:ita vxoris
imperio qui coħiberetur, eodem vocis flexu significatus eft, Verum quia certa
nomina eamterminationem nonadmittebant,aliam eundem in vsum excogi and
carunt,in Aris:Consularis,vicino fono fuperiori, quæ eratin Alis. Verum
huiusmodus late fusus eft:dices enim Roburmilitare,etiam in Remige, qui nunquam
miles fuerit, quoniam in milito repertum iam eft. verum a cauffa efficiente du
etâ funt: vt Viam militarem: etiam in prædica mento toixer, yt Sagum militarem.
ASingulo quoque Singularis diet us. et alia quædam,quæ ad philofophum fpe et
ant:de quibus exa ettiffime in primo historiarum a nob. est disputatum. Alia
Ahe naturaeorum est, quæ in Aticus, habitum a na tura inditum notant, Venaticus:
aut etiam sub ftantiam, vt Aquaticus: fiue, vt malis, habitum in aqua,
autpropter aquam agendi. Mutuatica pecunia apudGellium quæ, a ettione mutuicon
dici poteft; Mutui enim naturam induit ex ftia pulatione,aut pa etto, aut
eiusmodi. Alia eorum, humma quæ in Trimus, in prædicamento?oü yev, vt
Patrimus,Matrimus,qui patrem etmatrem ha. **bet: Aeditimus, quiædem:
atLegitimus,potius paffiue ri. rapha 01.
57 net 106 palliue, qui a lege constitutus est. Finitimus vi detur relationem
notare, verum id non a termie nationesed a significatione nominis huius finis,
factum eft: et lignificat eum qui fuos fines ha- lo bet. Hæc omnia corripiunt
terminationem. At Catuler Bimus, Trimus, Quadrimusab anno ducta,noni.2 facile
eft dicere, falua verecundia ineptiendi, lengan quare producant, nisi propter
concisionem. In Arius, eundem habitum ad agendum: Sagitta - anie an rius, qui
fagitta vti scit: Bustuarius, qui busto præeft. Quædam etiam paffionem
notarunt: vt, Tumultuarius, qui tumultu sit conscriptus. Etiam ad ætates vsus
tranftulit, Sexagenarius, vbi nequeadio, neque paffio, sed 7o exeur: ficut
Centenaria vsura,de qua suoloco: quomodo Bi. qarius, Ternarius. Atcarpentarius
etiam opus fa cit: carrucarius non, fed facto vtitur, vt Armenta rius.Nuncalia
duo videamus: Quodaptum naturalian eft quippam autagere, aut pati, id nequrevoy
dixe- appogg. runt Græci: propterea quod rei ipfius Quor fe queretur affe ettus
ille. Duas autem habuere apud Latinos,totidemapud Græcos terminationes:in
Iuus,actiuam.in llis,paffiuam:ficGræci il yaixovgimas ilaj id quod aptum natum
esset ad fentiendum ali quid: angoy, id quod aptum natum esset ad sentiendum ab
aliquo. Praue a Barbaris ex vo 9" ces translatæ funtin Latinitatem: fic
enim inter pretati fuere inscriptionem libri Aristotelici, de Sensu et
Senfato,nam danas fenfus eft:MjIyTixdy, 19 quod sensu præditu eft.eoģ. aptu est
vti: antov, etsensu perspici potest. De Seluo et Sęsilidicen du fuit:aut
molliore, fi reperiaş vocabulo, led ad huns fo THE T' Iul. IIII. 1 hunc modulum
apto: vtin libro de Inscriptione a nobis declaratum est. Nam etfi Sensio passio
quædam est, tamen fub actionis rationem rece pta eft eius fignificatio:vt
Tango, etGusto, et Audio: fed de hisalibi. Adiua igitur terminatio Græca maximaprudentịa
constituta fuit. affinitate quadam coniun et a cum verbis illis, tunie's
Bitntio, vt affeettus a verbo, et aptitudo a nomi NE TUTTIXO, MyTixo habeant
cognitione. Molli® tamen ducas a præterito,quasi lita tuuni (W TRT imy napixov.
Noftriin suus,vt diximus, hoc expreffere, fumpta occasione ab Aeolensibus. nam
quædam nominadedu et a communi pronuciatione inter posito pprio elemento
pronunciabant. Apybos alii ipfi A'PȚEIFO £. Igitur vt ab eo quod eft vetes,
dicitur vorcios, quiAuftrivim habet: fic ab cog est,Actio dicetur A et iuus, quiagendihabeatpo
testatem. Exempla sunt multa: Internecium bel lum vtrunque bellatorem necat.
Fugitiuus ser uus, qui fugit, quoniam fuapte natura ad id pro pensus fuit:
Genitiuamembra, apud Quidium, G' zfurntixa. Tempestiuus quoque,non, vt dixe re,
significauitoccultiorem actionem:sed fane fu augsmanjitis.qui tempore
temperaret. At enimuero passi Boilers Winesquum qua ratione diet um fuit?
Terminatio a et io has un talles qui mal nem,pafsionem notat significatio.
Græcos male Hrovat secuti suntqui ad Innuov,potius zaIntov.nam pas fiuum
eritid, quod faciat aliquid pati:hocautem fuerit potius actiuum. a ettio
enimetpaffio quum vnum tantum fit, sed differat ratione: vt vulne ratio a ettio
fit Achillis, et paffio Telephi: pafsiuu et actiuum idem erit,quoniam et
fignificatio est eiufdem huis ciusdem rei, et modus idem: Nam et terminatio in
luus, significat actionem, et ipsa passio ab a et i one non distinguitur re
ipfa: igitur significabit rem ipsam in agente. verum Grammatici sero fapientiam
cum vocabulorum vsu coniunxere. Quævero significant passionem, in llis exeunt,
1 ks præeunte secundum verbi naturam consonante: umie vt, Habilis, Facilis;
Agilis, Plicatilis: in quibus ele mentum verbianteit:Habeo, Facio, Ago, Plico.
Quædam autem a futurisducta sunt:vt,Amabin lis: et a fupinis:Pensilis,Flexilis,
non fine rationes aptitudinem enim significarunt, quænon est ne cesse vt in a
ettum producatur. Acrecentiores au dacter nimis iam actus significationem
attribue re, idq; frivolis faneargumentis. Fictile,inquiut, Vas quod eftiam
fictum.coctiles lateres,qui iam ecoctiatque alia multa eiusdem modi. Auxere er
rorem pertinacia: Navis, aiunt, Agrippinæ folu tilis,quia non beneeratconfuta,
sed soluta. hoc autem ridiculum eft.fcimus enim etfatis nautaru continuisse: et
diu cursum vsquein altum tenuis se: fed quia lolvi poterat, folutilis diet a
fuit. Sic Versatilis scena, quæ verfari potestmachinis,qua lis illa Marcelli
fuit: quod si est Versatilis quia versatur: quum nơn versabitur, versatilis non
e rit. Sed Aristotelesin nono Metaphysices dispu Cat hoc adversus Euclidæ
sectatores,quos ibiMe garicos vocat: ij fic profitebantur, nonposse nos moveri
nisi quum movemur. Verum de iis am $ pliusin Oratione de Endelechia pro M.
Tullio. Quaitem ratione facient, vt vpupæcrista ipfis fa Veat? neq; enim semper
plicataeft, sed quia ali 21 quando poftquam fuerit ere ettasplicaripotest.Fi
Etile autē,atquealia eiusmodi, fi talia funt,nonne talia
fieripotuere?Omne.n.quod est, ab eo g vere est, factuin fuit:Omne quod
est,præter Deum,ab aliquo fa et um fuit:omneq fa et um est, ab aliquo fieri
potuit. Coctileslateres dicuntur,quia crudi neousfic primum suntappellati,
quoniam coqui potue re. Sic Rafiles calathi, et Tapetes, et alia:Lychni
pensiles, antequam pendantur:potestatem enim pristinam fignificat: fic Vva,
Balnea, Horti,quo niam in superiora eorum vfus transferri potuit. Flexiles
rami,lenti:quia possuntfle et i.hæcvoxe tiam additamentum paffafuitin
formatione, Fle xibilis.Aurum,autęs ductile,quodex massa in la umellas duci
potest. Selfileslactucæ,quarum natu ra est ad fedendum poftquam creverint: vbi
ab soluta significatio eft; non transitiva ad paffionē, quasi quas sedere cogat
natura.Ansatortilis, quæ inter fabricandum ex directa torta facta est. "A.
pertile latus,quod quiuit aperiri. Altiles gallinæ; quæ poffuntet ali, etnon
ali. Horum igitur ratio shup duplex:namque poteftas hæc, aut a naturaest, ve
flexilis iuncus: aut ab arte, vt coctiles lateres: er gonaturalis illa vis
nunquam deficit: nami ctiam quum flexisuntiuaci;retinent nihilominus pri ftinam
flectendi facultatem: coniungitur enim a et us cum potentia, ettales sunt,quia
poffunt ef fe. Huiusrei ratio est,quia ab effentiæ principiis fuit
potestasilla. Scire potest infans Musica. Ad ultus scit nunquis dicettunc
amififfe soiendipo • teftatem?Quæ autem ab arte proficiscuntur,non fic fe
habent:neque enim codi lateres poffunt coqui: qñ co et io accidensest,
extrinsecus adue niens, non a primordiis laterum. Sed hæc qarte fierent fecuta
sunt rationem eorum qfuerent a patura. Sic.n.consultiusfietą garecentiorib.fa.
- et um est,vt qa lateres coqui nequirent, idemque in ipsis etcoctum etco et
ile effe videretur:iccirco flexilem ramum eundem putarent et flexum: Et
fissileroburidem cum fiffo. Nam quu Plinius in quit, Alia fiffilia,alia
celeriora frangi, ğ findi:no neintellexit,aptiora,quorumquenatura præuer
teretur citius fractione, q fiffione? Sic etiã Theo. phrastus,vndeille guisa'y
Frasa,Ipausa,quæipfeac ceperat a præceptore diuino fuo, vbiloquitur de crustis
ac testis Aquatilium. et in 8.Metaphysices. Poetica licentia dictum est,
Penetrabile active:(1-7 ) cut Porrum fe et iuum,vulgus cotra paffiue.Hing
constat male reprehendi Boetium a curiofis re centioribus, qui Jencesıxov,
Kisibileinterpretatus, eft. fecit enim exemplo codem et analogia, qua Sefilis
lactuca dicitur, absolute. Quantitatem autem quædam simpliciter de- quanta
clarant,quædam non.Nam tempus,et locum submenuanla quantitate quum
intelligamus: Tempus fimpli- Gadone anom citer quædam fignificarunt:vt Bimus.
at locum non simpliciter,id estsub quantitate,fed fubindre com a apk Posen
neque enim Montanus,eum significat,qui mon- et Ettiva. tis inftar eft: fed qui
montem habitat. ficut In- midogopts teftinus loci habitum.Hæc multas cu aliis
comu nes habuere terminationessin Anus Sylvanus:cu Anul ius affea propri
fuit,vt ex adie et ivo fieret sub N ftantivum,Cælestis:Terrestris: addito
elemento ficutPalustris:nam Paludeltris, afperum eft, et for when fortasse
barbarum. Supra posuimus, Aquaticam, a qualitate non male: fequitur enim
qualitas sub. ftantiam, et loci rationem.Cognatio enim eftin ter locum et
locatum. ac fane ipsum hoc genus, to egetv, alij cum qualitate,alij cum
relatione mi scuere: quidam neque habitum fpeciem qualita tis a relatione: fed
hæc sunt alterius operæ. Habes and ctiam alia: Litoralis,Marinus,Maritimus,
Pelagi us, Fluuialis, Fluuiatilis; Aquatilis;Tartareus,Ae rius, et eiusmodi. Et
a partibus terrarum, in qui wfubus etiam id diverfum fuit: in Ensis,vt peregri
num incolam,non indigenam declararet: jane Martialis mavult librum suũHispaniêfem,
quam Hispanum:vt Romanus sit,quiin Hispaniam a nimi gratia diverterit. In
aliquibustamen Nati vum est:vt,Veronensis. longediversa ratione di etus est
Cato Vticenfis,quum Vticæ periit, non " est natus. Etampliorelimite, vt
Pratenfis. ficut Subcinericius panis, non ex cinere, sed sub cine re:adiuuatur
autem a præpositionc. Græca funt Tarchaniota, et Drotoniata. Prisci ita
constitue re, vtanimadverterent, quædam excedere nome "
loci:Creta,Cretensis: quædam non,fed alia equa re: Macedonia,Macedonicus:
quædam fupera woonri,Italia,Italus. Hæca regionibus. Aboppidis au temnegarunt.
Itaque a Venetia, Venetus:a Ve netiis, Venetianusmaluere. At Barbari quidam
nihil discriminis faciunt inter Venetiam, et Ve netias. verum vt illoruin
consilium placet, Venetiani enim a Venetis distinguendi sunt ficuti Patavini a
Venetianis: Veneti enim Patavini quoqrie funt: ita regulæ fervitus displi cet.
Idem enim ab oppidis quoqueeuenit: a Ro ma, Romanus: a Tiferno, Tifernas:a
Camerino, Camers: quare a Lauinio oppido, etLauina et Lauinia reette ducas.
nequeagrammaticis vtrum legendum sit apudVergilium, sed quemadmo. dum poeta
fcriptum reliquerit obseruandum, Proprium horum est paticoncisionem. Sarsinas,
quod fuerat Sarsınatis: et literas transferrc:vtä } Velitris, non Velitrenus,fed
Veliternus: quan quam demptam potius iudicarim, vt fueritVeli trerinus, deinde
vsu vox expolita sit. Exhis col ligitur non esse verum quod aiunt,in Ensis ea
ef se, quæ a Græcis oix aquatixa vocantur: namety, iam suntinindigenarum,
Coloniensis,Lugdy nensis. denique pratensis, Tempus autem etTeporis partes, fic
Extem- thoma poraneus, nam Tempestiuus,vt diximus,potius omny temporis habitum
significat. ficut Intempeftus, upil quod concisum tempeftiui. Hora, habetHora
rium,quum diei partem fignificat: atGræciqua ternasanni partes sic appellarunt.
vnde Latini Hornum, quod huiusanni effet,nequcinalienas trasıfset wpusanni
sequentis. Diurnus,a die:No. aurnus a nocte:Vespertinus,Matuținus,penulti ma
producta.itaque etiam Diutinus et Serotinus pronunciandu eft,cotra quam
prodidere. A Co ticinio, et Diluculoet Crepusculo, no suntdedu et ta, fed
Aduerbiorum forma vtuntur. Perdius, et Pernox cöpofitione adiuta
sunt,quominuscoge rentur in communem terminatione: ficut igeue por animal
dietum ab Aristotele. AMense vulga ris voxMenftruus,durafare:itaque
emolliuitilla Rj. Cicero; et Mens urnu fecit. Annuus no solum an ni habitum
significauit,vt reditum statum indi caret:veluti quudicimus, Annua sacra: fed
etiam totu tempus idque vnicum:vtapud Iureconsul tos, Annua; Bima, Trimadie,
Anniculus ætatem subtempore,ficutQuadragenarius, etciusmodi. mamme Discretam
autem quantitatem fignificant his terminationibus, Centenarius, Binarius, Terna
rius, quæ etiam fub exerreduximus:neque enim Som solum numerum, fed etiam
habitum ponderis, aut ætatisaut, ordinis connotat, resenim valde sunt
complicatæ:ncquenisi a philosophis digno sci plane possunt,ficut Bini,
Quaterni, eteiusmo di:quæiccirco carent numero lingulari, quia plu
racomprehenfa ad totidem referunt: sed licentia poetica pleraquetorfit. Relatinorumfpecies
recenfentur. yawan R ne, enim Elatiuum fignificat vt diximus, aut Aqua
Locum,vtfalso lcripfere: fedRelationem in loco. Aut Inæqualitatem: hîc
suntipecies tres, Poffel fiuum,Coparatiuum, et Superlatiuum.Deminu tiuum autem
comparatiui species eft: dequibus omnibus iam cdicendum. prorsun Den funt enim
Po hleffiua quæ id denomi Enominatiuorum species censentur Poffel grice
unt,cuius funt:vt,Enfis Casarianus:Ac quzfitu quidem alias a nobis eft, quamnam
ad cauffam iwia prion reducentur: nam Cæfar enfis sui nequemateria est, nequc
efficiens, neque forma: videtur igitur juv. potius effe finis. Sic Pompeianus
ager, Seianus equus, in vsumPompej, etSeij. Sic Olympij ludi in honorem Iouis
eo cognomento: fic Circen ses,et Megalenses ad Pofteffiua redigendisunt:fic
Florales, et Robigales et Saturnales primum fuc re, fiue Dies, fiue Ludi, fiue
Vacationes. deinde tenuit consuetudo,vt potius Robigalia, et Satur nalia
dicerentur, propterea quod honeftiorcco filio Sacra,quam Dies intelligerentur.
Quzsiui mus illud quoquc, An amateria: vt,cretaceus: a shorti forma:vt,ftatua
Herculea:ab efficiente: vt, Venuscm art. Appellæa: ducerentur. Et non videtur:
fed fim. pliciter Denominatiua funt: ac quanquamvide tur quædam relatio, tamen
non correspondent. Neque enim Creta Cretacei eft,fed parstorius. Haud enim fere
inuenias præter Deum, quod non aliquo modo referatur. Omniaenim faltem abillo
dependemus:Solus enim vere eft. Differunt autem a Patronymicis Poffeffiua:
94.c. primum quod Patronymica fixa dicuntur, hæc pohorito mobilia:illa
patrum,aut auorum,automoinoge, neris habent fignificationem:hæc cuiufuis rei no
tæ funt: illa a propriis,hæc a communibus. Ex quibus colligi possunt rationes,
et cauffæ repo nendarum specierum, quæ funt a veteribus pro ditz. Neque enim
aut Cardiacus, aut Mathematicus, aut ciusmodi, funt Possessiva, vt putarunt,
sed denominaziwa: sicut et alia quæ funt fupra enmoi declarata. Comparatiuorum
superlatiuorumg, natu, ra, et caulja, da ufus. St hoc receptum e scientiis tain
quæ Magnitudines, quam quæ Naturam contemplantur: e nihilo nihil ficri. Ita e
rebus, quæ carēt cor pore coniun et is,nuquam quicqua corporis fieri, Nam ne coniungiquidem
poffunt, Coniuncio enim extremorum, extrema autem corporum, Quere a incrementa
fiutex Quantitate, et omne Quantum divisibile est in semper divisibilia, incrementa
quoque ipsa diuidentur: igitur quæ sifignificarunt quantitatē, primo
receperuntmodu tum incrementi, tum diuisionis. horum imitatio neitemea, quæ
indicarent Qualitatem: propter ea quod intendiac remitti poflet. Iccirco De
nominatiuorum, quæ referuntur, duæ fuerespe mihi cies conftitutæ,
Comparatiua,et Superlatiua,quę QuantitatisQualitatifve, dicerent incremetum:
etDenominatiua, quxincrementidicerent cer tam ablationem. Oecurrunt autê primoloco
deminutiua: lirei naturam fpectes. pofito enim nomine Iustitix: fiquid
adiungatur accessionis: perpropiores gra 'dus ascendemus ad excessum: Verum quia
non suat specie diuerfa a coparativo, Ted modulo tan tum quodam, atquciccirco
posterius excogitata posteriore loco tractanda iudicauimus. Etenim fi dicas
Meliusculum effe Triticum Siligine, et iam Melius, poffis dicere. Comparatiuum
autem etSuperlatiuum fimulftatuemus, haud enim ab Gmili funt natura: Nequcenim
distant nifi quate Ono 1 nus pars a toto.vt quemadmodumDeminutivu modus sit comparativi,
ita coparativum Super latiui: vt qui sit doctissimus, etiam doctior. An vero
etiam possit dici Doettiusculus? Et videtur. Amated Toto enimpartem contineri
verum eft. fi enim qui lit do et ifsimus, etiam doctus effe dicitur: et iam
doctior:quare non etiam doctiusculus,quod * inter docum et do et iorem
intercipitur? Verum res aliter fefe habet. Deminutiuum enim non fomnono
lumpartem notat, verum etiam eicertospræscri-1} bit limites. Nequevero solo hoc
differunt: fed et alia caussa subest. Nam superlatiuum etiam abse }, lute poni
potest:vt, Cafar fuitfortiffimus.Signi ficat enim adeptum fortitudine, omnes
eiusnu meros absoluifsc. Ar fi dicas, Doctiorem,neceffa rioquempia, quicu
coparetur, autponas,aütin Je * a he or lacus * telligas.Prius autem cöparatiuum
inuentum eft. kogoofmus Eft igitur Comparatiuum species diet ionis, Camper
exceffum significans ad alterum relatum. Dicom autem quantumcunque, et
qualemcunque ex ceffum:non, vtdixere,mediocrem; neque dico speciem
nominis,utnomen eft:fed vt nomen est6ans species dietionis. NametParticipium et
Præpo sitio etAduerbium comparantur. Hi duo erro res veterum fuere: quorum
alterum moxexplica. bimus. quiverocontaminauit definitionem, fic conftat:Omnem exceffum
totumq;etiam a comasign.one. paratiuo significari,non autem mediocrem. Prier
celles mum, fallumestmediocrem effe. poteft enim fal-, tem citra summum,sed
proximecofiftere: vt do ettior tantu fit,cuiillud tantum desit, quod fit do et
iffimus. Deinde hoc quoque falfum est.Nam 2 R iij. qui qui fit do ettiffimus,
ide etiam do et ior dici poteft. vt Nigidius aut Varro,li fitdo ettiss.
Romanorum omniu, nonnedoctiorcæteris Romanis effe po terit? Quare Coparatiuum a
Superlatiuo non di Itat specic,vtdiximus: sedestaut Gicut pars in to Pro,Giuc
ad totum: aut idem cum ipso in re, diuer sam autem in modo: relatione ipsa
scilicet. Igitur fi eius naturam acrius contemplemur, haud fane noriurpro
renomen inditum deprehendemus: ncque in your enim satis ipsum diciCoparatiuum:
multa enim funt nomina Comparatiua, quippenotæ Cum parationis: multa Aduerbia:
vt,Similis, Disfimi lis,Propinquus,Qualis, Quantus,Velut,sicPomba alia
eiusmodi. Neque vero omnis Comparatio exceflum significat: quarcab hac
differentiapo. tius nomen consequi parfuit, quam a communi seyin est cummultis
naturailla. Itaque commodiusumaga Jepanon, quam quyx stixovappellari potuit. Ne
tuy queenim superlatiuam recte a Græcis umeeJeri Laith ar di et um fuit, Nanque
Touti non significat rdõrov, fed ipsum habet suos gradus: sed consul tius
orogetskov, aut cxpo Jetixo.Latiniautem hoc etiam amplius crrarunt,quineque
præpositio nem emendarunt, et verbum Feroinmiscue runt, quod motum significat
Græci fapientius constantem qualitatem aut quantitatem per ver bum nibvert ita
ctiam constat, minus prudenter finixov dictum nomen vnde hæc fiant, vt Iu
itus:nam ctiam Iuftior, tugmor: ftatuit enim lufti tiam. Cuius rei fignum est,
quod etiam superla tiuum di et um eft, ni devou umrig mod Jetixov.præter ca
quiluftuseft, potest elle lastiffimus. Omnem enim wak Tic CHE 4 1 ITA enim
Iuftitiæ habitum habet. Itaque a beisov po -u tius dici debuit Indefinitum.
neque enim decla rat graduum præscriptionem, Comparatiuum autem, wieJetixav
superatiuum. superlatiuum autem, airgo fetixor a Græcis, a nobis aliquo AQ
mine, quod vltimum exceffum indicaret. Ex his definitionibus videmus, veceres
nore ste dixisse, Cöparativum significare pofitiuum, cumMagis. Primum
peffimelocuti sunt. Nequem.Roy enim Denominatiuum fignificatnomen, vnde:
ducitur, sed rem aliomodo: fic Comparatiuum rem, non nomen significat.
Deinde,Magis, esta Comparatiuum: quareidem refolueretur in sei psum,atqueelset
resolutio infinita.In quod enim refolueretur ipfum Magis? vbi fifteret
resolutio nem? Neque vero prudenter negarunt, Magis namate effe coparatiuum.
NamMagnus fecit,Magnior mangeung Magnius et Magius, ac tandem Maius. Aduer.
biumautem volueruntvariare,retentalitera pri stina, ac fecerc, Magis. At quod
argutant, non differre Aduerbium a neutro in aliis: fatemur. » Quodaddunt, nein
hoc quidem esse faciendum: ridemus. Libenter enim in aliis item feciffent, f
quiuissent. Fecere, vbi potuere, vsigue sunt et li bertate, et commoditate.
Errarur quoquein Su perlatiuo, in cius intelle et u inesse Multum, auteng
Valde. Nam multum magnusest, cumquima ior, quam qui maximus. AtValde, quideft,
nifi falling Valide? Igitur Validiffimus erit valide vali- posten dus.Bisigitur
validus. At Superlatiuum ter vali-'pro for dum potius fignificat. Id quod Galli
ncq; temeres, neque imprudenter in patriam linguam recepta TI Title ch eri des
17 oli pe mit Riiij ctiam nunc retinent. Hæc igitur ipsorum nomi na
atqueNaturæ: nunc caultas,ac tandem Affe ettus videamus. mafm. Ergo materiam a
Græcis mutuati sunt Lati niin Comparatiuis, imitatisonum sub r, licera:
ououtrgos,Sapientior: et in Aduerbioadhuc propius, sapienter, superlatiui autem
terminatione græcam repudiarunt, propterea quod conue niebat cumpaffiuo
participio, Nam vt a ocoas's CWTOC TOs; fic ab eo quod est Incitus, deduxif
sent, factum esset fane incitatus.Itaque alius fle xus placitus eft. Geminarunt
autemlibilum fic, Incitissimus: iccirco quia etiam Græci produxe re mutatam
vocalem, quæ esset breuis postbre uem, vt fuperiore in exemplo patet. Tractus e
nim vocis longioris id exigere videbatur. Quare codemexemplo etiam aliam
terminationemco ftituere,Vberrimus:tanto facilius, quod iam alte ram literam ex
geminatis ibi inueniebant. Atin tertia terminatione,quare recentiores vnica
tan? simtum liquida pronüciarunt,lic, Similimus? quum tamen proprium eius
fuerit geminari obfoni le nitatem, et producatur apud poetas semper, et in
antiquis exemplaribus omnibus ita scriptum çit et fublit, tum analogi, tum
analogiæ cauffa, quare lit geminanda. Communis autem termi. nationis caussa
etiam a Græcis quandam habuit originem: ngoQocov enim eftaltile, quod scilicet
naðum sit naturam, vt alatur. Naturam igitur cam quum plene poffideret, mutauit
fimilemlo zoubt num aliis quæ summum illud a depta effent. Fiut forro igitura
nominibus incrementum luscipientibus. Ha? Qua el 2.0 CE 2u chi HIS
Quare a significantibus fubftantiam non fient: nam aw to CTO etIpfisfimus, mera
licentia Poetie: ca fuit. Natione vero indicantia ita demu exorie tur,fi non
ftatum hominis, fed gentis oftendent mores: vt quia Pani perfidi
legemusPæniorem apud Plautum. aut etiam ab alio significato. Qua re et,
Neronior,nö a Neronis fubftantia, fed a fæ uitia comparabitur ad fignificadum.
Confeffum etiam ab omnibus est, Comparatiua duci ex ad verbiis quibusdam: vt,
Dodus. Nec deest ratio: verborum enim qualitatem fignificant Aducr bia.
Abcæteris autem partibusnegant. A partici piis non fiet, qui tranfeant in
nomina, nequea» Præpofitionibus,quiaamittant vim, qua casibus præponuntur. Nos
cum his aduersus veteres di cimus, a verbis non duci, Exempla enim falla mort
Deshomme sunt: Nam a verbo Potiri, eftridicule dedu et um Comparatiuum
Potioret, Superlatiuum Potiffi mum:neque enimsignificata valde cohærent.fed a
Potis,fiue Pote, fiunt. Parinscitia, quum Dete ro verbum ex sese aiunt gignere
Deterior: quip pe Deterior, paffiuam habet rationem significan di,vt quod fit
plus detritum, deterius sit. etvox vetufta fuit,Deter: sicuti,Dexter, Citer,
Exterja pud Catonem, et Statium:quæ nunc exoleuere. Contra hos autem cum
veteribus viciffim fentia mus, A participisduci:Giquidem non omnia par A partir
ticipia in nomen tranfire poffe. nam Expugnare significat aettionem
fubtempore.Cuifi addasca fum nominis non verbi, amiffo tempore nomen fit,
retenta sola Participii terminatione: vt, Ex. pugnans yrbium,sicut
Expugnatoryrbium,nul R. mi 12 Ar 1 UK ei 1 gui apoirs F IvL. Cas. SCAL.
IV. lum tempus designat. At Participia pafsiuaquo *modo nominum naturam
asciscant:neque enim fimili ratione casus nominis apponipoteft: itaq;
Expugnatum, semper præteritum indicabit. Et Honoratiorem atque Honoratissimum,
nunqua de aliotempore, quam de præterito pronunties. Immo vero quibusdam horum
nominum ctiam casus verbiadditur: vt,Expugnatus a Cæfare:ita etiam Expugnabilis
a Cæfare: tantum abeft, vt Participiis ipfis derogari id ius poffit. Sic locu.
tus eftM.Tullius ad Cornificium: Cæteris, in quit, omnibus rebus
habeascosamecommenda " tiffimos: id eft, qui maximea me commenden boyme
sur. A Præpositionibus quoque deriuari, mul tus exemplis conuincuntur, in
quibusmanetvis Præpofitionis casum exigencis: vtapud Liuium in primo: Duo
corpora propius Albam. Neque ac fine ratione: Interuallum enim in poteft: Cuius
interualli conditionem ipfa Pra positio declarabat. Ex quibus,vt
diximus,acutius contemplanticonstat: Comparationem essedif ferentiam, quagenus
sub diet ioneconstitutum compleet itur non folum Nomen, sed etiam Ad uerbium,
et Præpositionem, et Participium, quæ inter fedifferunt specie. Idemque de
Superlatiuo intelligendum. Affe et usautem corum vsu cotinentur,verum non fine
controuersia. Cum enim ncget nemo casum Sextum debericomparatiuo, Secundum
Superlatiuo, etpluralem semper numerum: Du em Jochorbitatum cst, An pluralis
casus Secundus Compa: patumivaziuo apponi poffet. Quarc non defuêre, qui Com
partes fecari 3 Es, AC Comparatiuum inter duos tantum, cum Secun do
cafu ponipofse contenderent: idqueHoratii exemplo, quidixit: O maior
iuuenum.Sextum au tem inter plures duobus diuerfi gencris: vt Cx far
fortiorGallis.Nosvero sic fentimus:Compa se ratiuum cum semper aliquo modo
referatur,non semper tamea ad fequentem referri calum: fed ad eum qui
subintelligitur. Igitur fi dicas, o maior iuuenum, dire etta orationcad duos
Piso nes, non redditur casus ille fecundus Compara tiuo. Neque enim fieri
poteft, vt alter Pisomaior sit, quam Gnt iuuenes: fed refertur ad fratrem
alterum fic, alter iuuenum, quialteromaior es. Sic etiam dicimus explicatius:
Elephantorum Indici maiores Afris:etiam fi Afris, fubticeatur, constet oratio.
Exponitur autem ad hunc mo. dum: Elephantorum alii Indici, aliiAfri:quæ* rum
Indici maiores Afris. Sicut ergo cafusille Quorum, non eft Comparatiui, sed
Distributio-4, nis: ita erit in exemplo quoque fuperiore. Ex hac natura constat
ratio, quare poni qucat cum præpositionibus Inter, et;Ante: vt Inter alios,
dodior. Ac sane quum in comparatiuoduofiat, Relatio,et Excessus:præpofitio
Ante,non abhor reat ab cius natura. Altera vero quæ eft, later, languidiorem
operam præftat: nisi enim mul. ta luppleantur, non exprimit vim exceffus,fed
potius æqualitatem: vt, Cicerointerciues fuos do et ior: potius enim tendit ad
Naturam abfolu ti, quam comparatiui: nisi subintelligas distribu tionem ad
fingularia, quemadmodum in Se cundo calu exemplorum, qux fupra diximus. Guin's
21 20 file HT ni CO cre 264 Ivl. IV. و suplalincuius Secundi cafus natura
partitionem item di anstpantsheitin constructione Superlatiuorum: quæ fuerit
cauffa, vtsemperinter congeneres fiat significa tio. Quæ vero patiuntur, quæquedistribuuntur,
eiufdem generiseffe neceffe eft: quemadmodum fi dicas: Cæsar
clementissimusRomanorum: in telligitur Cæsar vnus e Romanis, qui aliis cle
mentior fit, quoad fieri poteft. Quare videmus eorum,, porn siccum
Superlatiuoponipolle. Si enimdicatur,in quiunt, Cæsar do et isfimus omnium:
Cæsar non excladitur ab ea vniuerfitate,quin vnus omnium fit:igitur fieret, vt
fe quoque efter doctior. Atque hi falli sunt:cum non intelligerentSecundiillius
cafus partitionem.Idem nanque eft, Do et tiffimus hominum:et, Do ettiffimus
homo. Comparatiuu Wero cum Sexto casu ne fic ftatuas,quemadmo dum poctæ tum
Græci, tum Latini ausi sunt: Cun et is doctior. hic enim fit relatio do et
rinæad cun et os: non autem fola partitio fine compara tionc. Itaque vocem
excludentem addendum est, cuius vires comparata excipiatur. Id quod fecit
doctissimus poeta: -Ante alios immanior omnes. addidit enim Alios, nesub'voce
Omnes, Pygmalion quoq;comprehenderetur. quãquam idem alibisubticuit,cum
fcripsit: Sed cun et is al tioribat Anchises. Præpofitiones igitur ipfæ at
tulerunt vim partitionis,non folum Ante, et in - ter,sed etiamEx: vtapud Liuium
primo: Sextus filius eius, quiminorex tribus erat.non enim po tuitdici, Minor
tribus. Tres enim tantum erant: ipfe enim secum compararetur: effetque feipso.
minor. IT IL 19 Ulo minor, Illud etiam aduersus veterum fententiamgoo eft
animaduertendum: Siad secundum illum ca nefna fum referatur Superlatiuum: aliam
quoque ab iis, quas supra posuimus,cauffam esse,propter quam illi fuperlatiuum
maleinterpretati suntperMul tum et Valde: neutrun cnim horum aduerbioru
refertur. Poftremo id quoquefalso eos prodidif se constatGræcos, arrogantia
quadam commifif- fotbal fe, vt non niliadidem genus Superlatiuum refca he
latest ratur, quoniain præ se vnis, cæteros omnesbarba ros
appellassent.Atenimuero in suatantum gen teid obieruaffent: nunc vero
videmusetiam in ter Barbaros legis rigorem tenere. Sed in cauffa, vt diximus
fuit, Partitio acDistributio. Itaque hoc loco, vox hæc Genus non solum gentem
aut nationem indicauit: sed etiam diffudit significa tum ad
aliamulta:putamores,artes, et eiusmodi. Dicam enim, Epeum Tolertiffimum
fabrorum. hu Sicin primo de Oratore M. Tullius, de Craffo, et 13 Scæuola;
alterum parcorum elegantiffimum, al terum elegantium parcissimum. Neque enim ad
Due diuersa genera relatum est: in vtroque enim erat elegantia cum parcitate.At
Martialis in duode 121 cimo,multo effufius: Pones, credemihi bonus.quidergo? Vt
verum loquar, optimusmalorum. Inter " as bonos enim et malos nullum
commercium eft, contraria nanquesunt: sed suo more lusit. Neil lud quidem reće
prodidere,Comparatiuum po- comeframtiden ni aliquando absolute: semper enim
habet ali o quid, saltemoccultæ, relationis. Sic seniorem A celtem dixit Poeta:
aut quam alii, aut quam fue. M WW ! LOG Sert rat, aby mirat, aut quam
videretur: tantum abcft, vtminus Ignificent, contra quam scripserint: exemplum
enim Vergilii, Tristior,deVenere, fignificat cam plus quam tristem. declaratur
id tum lacrymis, tum dolore qui exprimitur in conqueftione. Multo vero minus
significabunt contrarium:re latio enim est inter participantia igitur: Mare
Ponticum qui dicunt effedulciusceceris:non in telligendam proponutamaritudinem,
sed dulce dinem miftam in omni mari, in Pontico autem maiorefluuiorum
incremento, neque enim ma re extremæamaritudinisest: igitur contrarii,hoc eft
dulcis admiftione remiffum. Quod autem in Sarahithe mari firaqua dulcis,in
quarto historiarum decla. ratum eft.και πτιμω τρέφεσθαι τεςιχθυς. Sic etiam
Theophrastussenfit, et verum est.Eodem modo locutus est Philosophusin codem
quarto: nati προνο επτο οξυ των πυθών. Nii enim το οξυ ha beretlatitudinem, non
dixisset WAKTU TEQOY, Et idem neuxonege dixit, quæ effent minusnigra, colores
enim inter fe mutuo congressu diluunt pitorem. Etin o et auo comparauit ourgov,
cum aniru. Lombate a Hisitaconstitutis, intelligemus cuenire poffe sobysi valvt
Comparatiuo Superlatiuum excedatur:non sua natura quidem, fed ob fortuitas
rationes: quum enim Cæfar vnus e Gallis non fit, non dicara Cæsarem Gallorum
fortiffimum. Igitur si non omnes numeros fortitudinis expleuerit, nihinter
Romanos: fic dicam. CæfarRomano rum fortiffimus fuit: Maximius autem fortior.
Fit enim hoc,non natura Comparatiui, sedquia additur
Natio.itaqueliquisapponatgenus, qua professio fiuears, fiue scientia
comprehendatur, non poterit abvllo excedi Comparatiuo: veluti quum dicam,
Bellatorum omnium fortiffimum Maximium. Huius rei cauffa eft in Radicibus
philofophiæ. Siquidem primum perfeet umque moi duplex eft: quippe aut vere,et
quodaiuntapuwosoaplicate vt Deus:aut in genere, vt circulus: eft enim suo e
tantum in genere figurarumperfe ettiffimus: ic circo extra genus fuum
altericomparatus inuc nietur inferior. Atprofessio est affectusgeneri cus,
comple et ens variaaccidentia,velgentium, vel nationum: itaque comparari porro
non po terit. Nam Bellator eft affectus hominis, nc quecoercetur potius
limitibus Romanis, quam Germanis, ac proptereatota fummam exhaufit. Quoniam
vero, vt dicebamus,hi tractus incre mentorum gradus habent suos: iccirco ctiam
multos Longue's notas excogitarunt, quibusvel Comparatiuum, vel etiam
Superlatiuum ipfum augeretur:vt, Longe, et Multo. Nam etli Superlatiui
significa tus summus est, non tamen in pundo versa tur. Vt etiam hinc
appareatleuiffimapugna Grammaticorum, qui ex poeta litigant,anpo tuerit ab eo
dici, Diomedes Danaûm fortiffi-,, mus: quoniam Achilles fuerit fortissimus. Nam
ctiam Aiax fuit fortiffimus: etiam alii effe potuere. Quare illud quoque a
veteribus omis lum fanciamus: non folum in diuersis generibus, sed in eodem
quoque duo Superlatiua pofle ita comparari, vt alterum reda ettum in Compara
tiuum fuperet: fic, Fortiffimus M. Manlius etfor EMI > Si opy ire fak et
fortiffimus Sicinius Dentatus, et fortissimus Scæua Centurio C. Cæsaris: at
Sicinius vtroque fortior. Vtrum vero e reipta ita ortum fitan v. 20fu
occupatum, quærere operæ pretium eft. Nam fi fortissimus est, qui omnem ambitum
explevit e fortitudinis; multi effe poterunt fortissimi, sed nemoalio fortior.
Quare cõsuetudinepotius,at que opinione fa et um eft,vtita loquerentur:neq;
enim statim erat omnibusnominibusfortis, qui fortissimus creditus est. Ergo
alterum cum ani maduertissent meliorem, non omisso priore iudi cio,
coparationem addidere. Nam sane aut prior non erat fortissimus, aut fecundus
non erit for Chung tior. Nonsolum autem gradusipsi conferantur, vt doctior, et
multo doctior: fortissimus, et longe fortissimus: sed etiam diuerfa significata
inter fe: poffum enim esse fortis, et non tam doctus:ergo cro fortior,quam
doetior. Interdum igitur exx quo ponuntur perinterrogationem: interdū no exæquo
per affirmationem: nam Interrogatio dubitat: itaque ex æquo proponit
iudicandum, non ftatuit: affirmatio autem non quit duo Com de web vooraf
sparatiua inter fe collata æqualia facerePrimo. modo locutus est Cicero in
secunda Philippica: Impuriorne, qui in senatý:animprobior, qui in Dolabellam,
et cætera. Alio modo omnesloquu tur, Cæfar clementior,quam iustior. Nam quod
addunt Magis fic: Clementior magis, quam iu Atior: Qullum autorem habent, quem
adducant, In hunc enim modum foluitur oratio, Clemens estet iuftus eft: fed
Clementia est maior quam Iustitia: Iustitia non eft maior, quam Clementia. At
met 2JUK curt 18 2: m 04 Kic At Comparativum si vtaiunt,significat Positivū,
cum magis resolvatur Comparativum in eorum oratione, fient fane ridiculi:
CæsarClemensma gis est,quamiustus. Nam quod poetæ dicunt,Ma gis,atque
magis:idfit per avadianworr: sicut, E tiam atque etiam. hicautem hocnon
quærimus. At non addidit Livius in libro duodetricefi mo: Vt propiusfastidium
eius fim, quam desi derium. Quoniam vero vsus etaffe et us reru, substan tiam
earum naturamque demonstrant, manife -wwgegebenen sto colligimus, Magisesse
Comparativum, çon traquam, vt diximus, sint arbitrati. Id enim ex o rationisvsu
patet, quum dico: Hoc volo magis, quam illud. Eft enim idem modus comparatio
nis, qui in Philippicis apud M. Tullium: Hocci tius, quam hoc. et quo vulgo
vtimur,Hoc potius, quam hoc. Ex quo vsu illud quoque a veteribus, tanquam
peccatum animadvertamus: quinega- ' come rint, Complures,esse comparativum:
dicitenim perangnya Terentiusin Heautontimorumeno: Nemome liorem agrum habet:
nemo fervos complures.Et ratio etiam iubet:compofitum enim eftapræpo fitione,et
Plus. Quodfi Compluria dixere prisci. contra Comparativorum analogiam: flexionem
novaminvexerint potius, quam vocis naturam depravarint. Proprium autem eft
Comparativo rum, pati vt Adverbia sonu mutentneutrorumon Maiusenim,
vtdiximus,fa ettum eft Magis. Inter dum etiam vtdeficianturpositiva,etaliunde
pe nitusmutuentur, tam in Adverbiis, quamin no minibus: vt,Parum yiriu,Minusaudaciæ:
Parum Si A, WITH 06 ol
Paul ! mo 21 cen 270 Iut. CÆs: Scat. IV. census, Minorepudicitia. Item quomodo
aNo. minibus Adverbia fiunt,etcorum affectus com << parandi: ita e
contrario ab Adverbiis, Nomina superlativa:vtapud Catonem Nepotem, Sæpissi «
mam discordiam. Etficuti quæ a Præpofitionib. ducuntur casus servant suos:vt
Proximepontem: ita etiam quæaNominibus,corum Nominu ca sus admittunt:vt, Moræ
patiens,More patientissi mus:Similis Neronis,Similimus Neronis. Proprium
eftautemSuperlatiuoru, fixa fieri:vt, Pro. ximus, pro cognato: Erapud Liviū
libro primo: Proindigniffimo habuerant fe patrio regno tuto risfraude pulsos.
Etin fecundo: Necambigitur, quin Brutus, qui tantu gloriæ Superbo rege cxa eto
meruit.pessimo publico fa et urus fuerit:Iccir co etiam comparationem
fuscipient: vt apud Vl it has Para pianum,Proximior. Sicutautem sunt compara
tiua fine superlatiuis,vt Anterior:ita e contrario apud Plautum,a
Pene,Penisfime. Privatim autem u proprium est huius comparatiui,Prior,etiam po
ni pro Primo:vt in Titulo;de Remnificari: et apud Varronem,cuius verba
refertGelliushæc, Quo ties magistratus pluresessent Roma, qs prior ef set. Sed
ita accipiendum eft, vt tota lummain duo dividatur.Primus enim vnus est, qui
præit: cæteri quafi vnus,qui przitur. Malim tamen abstinere. de, Potissimum,
etiam nonnihil obseruauimus. Armm. Restant Deminutiva, quæ cognofcere facile
eft: comparatiua enim fequuntur, vt pars totum Att. Deficiunt tamen in plaribus
nominibus, veluti in eo quod mododicebamus:a, Prior, enim non
duciturDeminutiuu:neq; ab aliis eiufmodi.Hæceft MODE EX est eorum forma et
origo. Quodautem pertinet ad cauffam materialem, non inutilisquæstio eft: Quare
a neutris potiffimum orta fint, vt non po tius Doctiorculus, qua Doettiusculus,
haud fane patet ratio: nisi ab Adverbiis primum ducta in on telligamus.Fortiuscule
fecit,vtlitorigo vocis mi it - Jitaris CAP. CII. 100 ota ok > 0 PPLE vilgiu
ged Grille bud! TI Nominumaffectuscommunes. Affeet us hi:generales aut,Affe et iones
mul, tæ in ipfa accidentium mutatione. Mutatur aute mail.com aliquid
multismodis:fed ad duos reducuntur. Nã aut Substantiam amittit, veluti quum e
terra fit herbaaut Accidens. Idque fit autin Quanto,va pie deeftaugmentum:
aurin quali,gamoiwon Græ ci nominant, noftri Alterationem,voce novaqui il dem,
fed elegantissima, etmaxime neceffaria, sut interpretati:aut secundu
locum,quidicitur Mo - ** tus.Ergo sicevenit ei,q mutatur.Autipfum fit 2 non
erat:cum mutatur substantia: aut in ipfo fit, gnon erat,incremento,et
ano:woriiautipsu fit, in quo non erat,scilicetin loco.Suntetia mutatio nesin
aliis generib.prædicamentorum.Quin etiã immutaturaliqd non propterfuam, fed ob
alterius rei mutatione.vt mortuo Catoni vnico filio, de fat ipfc Pater effe.
Etequusqad dextram Cæfariset est constitutus, fi ad læuam transmoueatur: ipfe
Cæfarqsinister equo erat,fit dexter. Quib.igitur modis nominum mPombaur
accidentia videamus. Sij. Spes S, Jim
odif Species quidemipfæ non mutantur, vt
quæ pri mitiva effet, fiat derivativa:sed alijatq; alijcom. paratæ, eo modo
mutari intelliguntur. Amator, derivativum ab Amo, eft. Primitivum autem eft ad
amatorium. ut Philippus Amyntæ filius, idem et Alexandri pater. Quoniam vero
Primum dici tur, aut quum anteit, ve vnitas: aut cum etfi non VL misen antcit,
tamen ne anteitur quidem:quippePrimo comes genitus etiam vnicus dici poteft
filius:iccirco rri mitiuum quoque fic intelligiqueathac ratione: non a quo
derivativum sit, fed quodipfum a nul lo:hocenim neceffe eft aliquando fuiffe,
vt ab a more nihil duceretur. Ita poftea mutavit specić, vt ex primitivo
absoluto relativum primitivum fieret.Etquemadmodum primitiva vera no mal
tantur, ita vt fiant derivativa: itane derivativa quidem vltima: ab his enim
nihil fit, ficut illa a nullo. CAP. CIII. Nominum Genera quomodo mutentur.
Omninum quoqueGenera mutantur adco vt privatim librossuperhac re veteres con
2fecerint. Alterum argumentü eft ex iis, quæ Du bia, sive Incerta vocant: fic
enim dictum est, hic 3 ex.vel hæc Dies. Tertiumtestimoniumeftin qui bufdam,nam
Plautus collum masculino dixit. i. temlubar, Palumbem, atque alia diversis,
quam nosvtimurGeneribus esse aprifcis pronunciata. pafit etiam aliomodo, cum
attribuiturgenus ei,ad quodminus spectat:veluti quum Masculam Sap
phodiximus.Sicquum fæmina sola possit effep gnans: tamen Gravidum equum
Troianum, et Prrægnans louis cerebrum,et Fætum eiusdem fe. murdicimus.Sicin in
quinto historiarum de Ci cadis Aristoteles, is j'appeves oi Soutes cv alue Doti
ρο 5 τοις άνεση. θήλεις και οιεπρ2•.dixit enim θήλεις no Irjaetajo vt
significatum eller fæminæ,vocis aute modus Masculi, quoniam dicuntur oi se
lizes. Numerorummutatio. Vmeros mutat, vt apudHomerum Irelus Vonino 23 P:1 INCO
rallor: et ma 1163 TIVT dicuta Ttur30 eresa Hortensius primus Ceruicem dixit,
vtfupra fcri ptum est. Vascones etiam fua lingua Iecora di cunt, quod nos
Iecus: et Dorsa non dorsum:fi cuti Pulmones Latini. Figura mutatio. guram
mutari,ex ipsa Figurę definitionema tozu ang ta quum fiant,mutari
oportetneceffario.Compositor hat tum autem non vno modointelligimus: nam et fascem
dicimus e virgis compositum: sicuti An- sirina driam, etPerinthiam iisdem
ferecompofitas ora tionibus. Is modus loquendi est vulgatior: alter diac
verior, cum dicimus virgas essecompositas ad co dist ficiendos fasces: virgæ
nanque suot simul politæ. 18, que Sic Antenorem dixit doctissimus poeta
cöpositu quiescețe:quia quibuscum degeret, cius imperiū iis non effet durum.
Primo igitur modo non fit mutatioin figuris:nunquam enim quod simplex eft, fựt
Compositum:nequeenim Simplicis par S iij. qur! muncia luser hams Titel Mun tes
nomina sunt. Sed altero modo, ut “magnum” et “animum” dicemus composita in
“magnanimo”, ita vt e simplicibus fa etta fint Composita. Nam quanquam
Magnanimum Compofitum dicimus:tamen nonelt ira mutata vox vt priusip sa fuerit
fimplex:atipsa Simplicia,exSimplicibus mutata funt,vt fierent Compofita,id eft
fimul po fira. Vbi illud quoque veterum incuriæ afcribas, qui fimplex Compofito
contrarium fecere: nam *Simplex Multiplici aduerfatur:eft enim Simplex
fineplica, vnde Duplicatum dicimus prociden tis Turni poplitem.
Hocautem,quodlaxe nimis compositum appellamus, conftat ex iis, quæ squia lunt
simul posita, Composita erunt:quia ex multis non constant, erunt Simplicia.
Nobis autem vtendum eft vocibus acceptis ab antiqui tate. fapientis vero partes
sunt, illam libi faltem emendare C
Persone mutatio. Persona ita mutatur, vt facies mancat in pluri mis, visautem
mPombaur. Ut poeta “cano”, “canis”, “canit”. Neque enim vera mutatio est, sfed
communis terminatio transfertur, atque accommoda. tur, non mutatur. At in
quinto casu mutatur: aftringitur enim legibus secundæ tantun. Cafus mutatio et
ordinis. und Vm terminatione casuum costituti fint Or menolar dines atque
dispertiti, vt alia atque alia inflexion, sive declinatio dicatur; altera
inutato, al terum quoque mutari neceffe eft. Mutabitur.n. a Cafu Declinatio,
Cafus a Declinatione: fed ita vt ad cognitionem nostram tantummodo fpe ettet
hęcreciprocatio.scilicet cognofcemus quem calumintelligere debcamus, li pposita
fuerit Declinatio, Sic declinatio mutabit cafum.Nam vere casus mutat
Declinationem, non mutatur ab ea, Verum ne id quidem semper: nam Fru et uis, 9
Jako fucrat,Fructus, fa ettum est: neque tamen mutauit Declinationem: at
Tumultus,quum fa et umfuit Tumulti, mutauit. Sic Fames, Famis, nunc dici
tur:olim quintæ fuisse, Famei,manifestum estex, Sexta casu, Fame,cuius finalis
syllabaproducitur,i Proprium autem eft Casuum etiam alio mutari a la modo.
Quemadmodum ambigui vitandi caussa, quum aiuntFęci,diphthongum impofitam, quo
differret a verbo Feci: eamqueinde tatinomini communicatam, Fex, Fæcis. Omise a
veteribus Affefliones. Vnt et aliæ Affe et iones: neq; enim solum ra tione nominis
deriuati; Primitiuum dicitur nomen:sed etiam aliarum partium cauffa. ANo mine
enim Nomen, Orbis,Orbicularis: Verbum Sylla, Syllaturit:Aduerbium, Doctus,
Docte: In tericeio, Infandus, Infandum:Præpofitio, Circus, Circum: Coniunctio,
Verus, Verum. Nominis sus loco aliarum partium A caur S V ti $ iiij. 2 IIII.
forma AA Caussa quoque finalialium affectum nacta 24 คน funt
Nomina:veluti alias partes transfertur. Pro verbo enim poni tur, vt apu !
Plautum: Qux, malum, tibi isihanc taetio est? Sic ex Thucydide Demosthenes fre
quenter loquitur. Pro Participio: Magnificus, pro magna faciens.Pro A
duerbio:Lucretius, Al peracerba tuens. Nam timida tuebatur,quippe incutiebat
pauorem: itaque eft pro acerbe. Pro Præpolītione:Virgil. Plena fecundum
flumina. Pro Coniunctione: Vero. Pro interiectione, a pud Catullu, Doctis, luppiter,
et laboriosis. Hanc veteres αντιμερίαν appellarunt, alii μεταλαγα. baciti
fubticetur etiam: vt apud Sallustium in Iugur tha:Quæ poftquamgloriofa modo,
nec belli pa trandi cognouit. fubticuit enim Cauffa, Græco
more,Tēroniev:subticent yaon. Iransmutate tiam in fefe alias partes, quod
Dialectici positio nem materialem vocant.quum dico, Propter, est que voxpræpofitio.
Vox hæc Propter, nomen eft. more patet apud Græcos, qui præpo Whemi alarmisms
Xe nuntarticulum to akce.. fic O e muito me uidius, Sæpe, vale, Osta heti a o
zmenyvodicto. 'Store DECEK S, v s. LIPS fi midi Grat nutar: pterje policia. Ha
Ordopartiū.Nominisvox,aforma.Verbi vox,ama มา teria.
Tum autem Derbi Ratio universa, en Augu Divisio. celli po Ost Nomen, verbi
natura ponen Oo da est.Non defueretamen, quifta tim secundum Nomen ponerent “Pro
nomen”, fecuti rationem ciui, lem, eadem in. potestate erat “pro-prætor” et
Prætor. “pro-consul” in prouincia, et consul Romæ. Verumaliter contemplatur philolophus:
Res enim necessarias primo quoque i loco ftatuit:accessorias aut, et vicarias
mox. Igitur fi partes hæ coparatæ suntppter orationeora et tionis finis,
eit-animi interpretatio: Interpre tatio autem Nomine et Verbo explicetur: et
Pronomen poft hæc inuentum est: fane Ver bum anteibit. Quinetiam Verbo vnico
ftabit 2 oratio, atque affirmatio affirmatio.. Pronomine autem nullo. Quare
verbi natura potior eft: vt, “Amo”, “Lego”, “Scribo”, ac tantum abeft, vt
Pronomine posterius sit, ut etiam ipsum secum referat. Verba quoque multa sunt
adeo absoluta a Pronomine, vt mirum sithocgenus hominum ita fcripfiffe.
Nam,Pluit,Grandinat, p Pronomen nunquam interpretere.Dei enim certa sunt
nomina, Prono,,minanulla ipli Deo, fed nobis craffiore ingenio mortalibus.
dicit enim nobis Deus fic ego: quia hoc quod est, E ç ointelligimus: hoc est
Tetragrammaton,non intelligimus. Præterca 4 Impersonalia, Scribitur, Pugnatur,
nonne plena funt fignificatione?nec tamen propterea vllum nomen explicatur,
nedum vt præfit Pronomen. Omiffo igitur horum errore, Verbiipsius sub ftantiam
videamus. Duabus his vocibus Nomi ne Verboque, communiappellatione omnia fi
gnificantur. Nomine enim comprehendi fupra The docuimus. Sic etiam Verba
dicimus data, quum orationedeceptisumus. Ac de Nomine quidem, ve vfusita
sentiret, suasit ratio: a notione.n. du. cumest,quæ eft cognitio: vt etiam
interpretatur Vlpianus, qui emendat prætorem in Titulo de Reindicata. Itaque
vox nominis, a forma duda eft:eft enim Forma dietionis Significatio:Signū,
autem, et Nota,idem. At Verbivocabulū ab ipsa aeris materia, quæ
verberaretur,proptereaquod vox esset aeris impulų fogus. siç Plaut. in Amphi
truone voce facit verberariaures Mercurii. igi,vti diximus, res duplices fint
aliæ, quæ constarent:aliæ, quæ fierent:illasmerito perex celletia Signi,
Notæquevocabulo indicarut; bas aute fluetes ipso aeris fluxu. Quasivero,id quod
fane ita eft, nihil effet partium præter istas duas; cxtera autem omnia abhis
duabus duceţengur, etad tur quum, 1 GO ten ime OP niho 113: fup etad
hæc reducerentur. Cæterum ipsum Ver bum nonsolum earum rerum nota eft, quæ fic
rent: verum etiam quæ effent, fed ita, vtipfum hoceffeignificaretur:dicimus
enim Cæsar est: » per Nomen declaratur res, quæ eft:per Verbum indicatur ipsum
esse. Tertius quoquemodusin » !! ipfo verboreperirividetur:nam quum dico, Ceea
far eft Clemens: ipsum Eft, non videtur aliquid id fignificare:sed effe nota
coniunetionis, quaCle= » mentia in Cæsare prædicetur.Ex his patet,falsain
effdefinitionem veterum, quiVerbumpræfcrip sere agendi, vel patiendi
significatione, atquead huncmodumdefiniendum effe:Verbumeitno. In ta rei
subtempore. Hæc autem res aut fit,aut eft: vt Curro, dicit cursum nondum
expletum: et Gi gno,dicitimperfeet um animal.at fi dicam, Cæsar i eft: perfectum
hominemintelligam.reducitur au * p tcm illud ad hoc. du enim Curro, cursus ipfe
ali quid eft.Verba autem Priuatiua,vtDeeft:et Ne- prole de gatiua,vt Nego:
etiam aliquid significant. Recrű enimest menfura Obliqui. Sic Affirmatio est mẽ
sura Negationis. In Verbis autem imperfe ettæ figuificationis est res ipsa quæ
fluit: vt in Scribo, bonga Scriptio:at Scriptio accidens eft:ergoin aliquo,
fumptismal vor et ab aliquo: quare et a et io et passio compre hendentur,
vbiacriusintuenti, aliter eueniat v fu, quam euenit antiquis. Nam fi dicam,
Scri bolibrum: non rectevidentur accepiffe librum pro pafliuo:non enim huius a
et ionis receptio eft in libro: tria quippe sunt:quod scribit, quod fcribitur,
quod recipit fcriptura: at liber non scribi tur, fed fcriptura, Itaque prisci
Attici huius rei gnari dixere, Seruire feruitutem, Viuere vitam. Řecipit igitur
liber fcripturam: scriptura autem recipit actionem scribendi. Intelligo
nuncfcri. spturam opus ipsum, scriptionem operam, scrip: torem L. Flauium,
Membranas vero, fiue Tabu kelas, in quibus opus ipsum extat, fcripturæ nomi ne,
puta ipsa elementorum lineamenta. Verum Denimuero qui primi fermonem
inuenereagresti (canimomortales, vt quæquefese dabant, ita exce << pere.
Sapientia vero vix tandem fero ccelitus de (miffa eft: vel ad hanc vsque diem
quanta latita uere? quot adhuc latent,quæ pofteritas eruet ad iuta? Ac veteres
quidem simul et recentiores non malo consilio in variasdistraxere
terminationes, diuersaque genera constituere. Nobis autem fa Spoemat eis fit,
vniuerfum Verborum ambitum in duo di Igua uidere,quæ A ettionem,et quæ
Paffionem fignifi cent: atque eo cetera omnia, tanquam adligna,
recipere:quemadmodum horum vtrunque adv num, quippe adipsum Eft:nam tametfinon
fig nificat άεργείαι,tamen nota cft ενδελεχείας, qua eft finisActionis et
Pallionis. Agimus enim, vt tandem fit: et dum agimus, hoc aliquid iam cit.
Actio autem duplex eft.Quod enim fit, aut tran. se poatefirabeo, qui facit,in
aliud:atquehæcvocabimus Iranfitiua:vt, Amo te. Autnon tranfit, fed rema net in
eo, qui agit: vt, curro: quæ vocabimus Ab soluta. lta codem modo Paffiua
intelligentur: quum explicabitur a quo fiattranfitus, etquum unon
explicabitur:vnde Impersonalia orta sunt. Eft autem supra declaratum,Actiuum
aliionem dicere, et aetionis modum:at Passiuum passione fignifi. 1 281. 1. D DO
significare, fednon passionis modum. Nam a et i vum indicat id quod facit
passionem. Paffivumaha tostay autem ostendere debuit id quod recipit paffio
rather parts nem, vt passibile potius fit. Sunt igitur omnia A điva, quæ
declarantaćtionem:Palfiva,quæ passio nem.Quib.manifestum est,verba Neutra nõ
esse ») 1907. ab Actiuis seiun et ta, nisi ob formationem, ppter eaquod ab sefe
passiva non edunt: nequeDepot memen nentia, nisi ob diverfam terminationem. Hac
autory tem divifionem neilliipfi quidem negabunt: qui tot genera funtcominenti.
Etenim communium appellatione quu terminatio nihilimpediat, quo». minus tam
Аctiva quam Paffiva recipiantur:duo tantum erunt capita,quibuspromiscue termina
tiones comprehendantur. Hortor enim cum in Or,desinat, nequcfiat abactivo,
Passivum tamen dicitur: etActivum, quum Paffivum gignat nul-. lum. Hæc igitur
vera Verborum effentia est,ve ræque species. Delinentiæ autem sunt accidentia
materiæ: id quod constat ex eo, quod abolentur,» restiruunturque incolumi tamen
Verbipristina natura. Idem enim eft Comperio et Comperior. Quædam autem falso a
et iva, quædam peranalo- okto giam di etta funt. nam quæverba Sensionessigni
ficarunt, vt Visionem, Auditionem, Tactionem, eteiusmodi, ea paffiva effe
decuit: Sensio enim passio est. Analogia autem dictum estillud, Lau-. do Deum,
neque enim Deus paritur: sed exem ' plo diet um eft illius,laudo Cæsarem: et
poti us ad Diale et icum, aut Metaphysicum spectat. Non beneigitur recentiores
Ađivumsic defini vere, q transmittit in aliuma et ionem: neque.n. nomine 20 a1
D I S; Com 9 qui olfacit, transmittit olfa et um in rosam. Et fi dicam,Amome:
eft a et tio reciproca: ettamen A etiuum eft. Item poteft abfolute proferri,
Cano, Curro. Quædam igitur verba funt, quæ omnino non transmittunt: vt, “Vivo”.
Quædam quæ omni no transmittunt:vt, Ferio. Quædã, quæ etfi tral mittunt, tamē
absolute proferri queunt:vt, Amo Lucinam: et, Amo. Amamusenim aliquado im
Cipromprudentes ipfo primo ingreffu. Quare quæsunt trabloluta femper, non reet
e Neutra dicta sunt: quafi vero in hisnulla esset aetio. Nam qui Vivit, (hocipfum,quod
Viuit, agit:vnde, Age vitam, di cimus. Quoniam vero quodcunque constat ex
materia,dum agitypatitur ab co, in queagit, hoc autem in philosophia probatum
eft: iccirco sia etio trasmittatur, fietreciproca passio aliquomo do. Quam ob
cauffam fapientissime Atticiverbis Passivis etiam ad a ettionem significãdum
vfi funt. Si non transmittetur,nihilvicissim redibit: sed in agente refidebit:
adactionem tamen reducetur, ficutalia adpaflionem: vt, Ditescorneceffe enim
estad illud prædicamentū reduciiaut ad prædica mcntum cf.Sed hoc haud
valdeabiliodicra fum eft, ac fortasseidem. Passio autem nõ vnom ) do
intelligatur:nam quædã est perniciola:vt,Oc cidi: quçdam perficiensivt,
Creari,Gigoi,Isauda ri.hoc genus passionis eft, gresidetin agente:vt, Viuo
atqueid fit dupliciter:aut palam, vt hoc ex emplosaut occulte,vt fupra
monuimus. Verbaea nim sensum significantia, habere videntur mo dum quendam a et
ionis:inftrumento. n. agimus: Sed 1 De Causts 2m; E Sed tamen occultam passionem
significant, quæ resider in eo, cuius actionem Verbum ipfum fi. ignificat.
Quæret porro aliquis: Sia ettio et Pallio funt correlativa, et Absoluta
ponuntura nobis in ter Actiua: vbi erit Paffio? Lam est relpõsum:Pass i fio hæc
perficies est, et residet in agente:eiusmodiu sunt Gaudeo, et Lätor,et
eiufmodi.Huncigitur Verborum affe et um Latini Genusappellarunt. Omar le Quos
equidem ab incuria defendam, fipoffim. Sane hocaul sunt: quia a et ionis
species,esset ge Šneratio, et pallionis. Græci communi nimisvo cabulo
noQ.Omniaenim accidentia mcm di-> et a sunt. aut nimis speciali, neque enim
folum fi gnificant 'siv, fed etiani įvapzieivo Commodio. reautem nomine
Alogeny. afficimur enim adam gendum,vel patiendum. Nequenobis solisdif plicuit
veterum licentia:itaque quinon probarat: consilium,quo Genus dictum fuiffet:
maluerunt Significationem appellare. Verum vtillos hizita hos reiiciendos
censemusnos. Significatio. n. 0 mnium dictionum forma est. Tiw Ali'ton igitur
noluimus disposicioneinterpretari: ordinem. n. significat,non propenfionem: sed
ita cēsebamus, magna difficultate poffeindicari vnica voce affc- )) et ionem
hanc: propterea q nephilosophi quide" ađioni et passioni vnum cõmune nomēinvenis
fent, quo summum id prædicamentu declarent. Conftat hinc a verbis omnibusin o,
pafsiua pofse que posar fieri:modo ne ipfa illarecipiant residente passio-
fribisgarsą. nem:vt, Egeo, et ciusmodi, Argumentum noltra fentenrir fumiture
multis, Aro, Seruio, Vivo, Curro: quæ veteres delicate nimis activa dicere
metue. 284 Iul. IV. metuerunt:propterea quod obfcuriusculein qui busdam
paflionis extaret vis. Sed fane in tertiis p fonis quin fit, negari non
poteft:idquod fatis eile potestad Verborum naturam constituendam:ne queenim
deest hoc verbis his, fedres quæ ipfis lint applicandæ. Facterrain loquide se,
inve nies illico priiņam paflivi personam. Quis ho rum non pPombaEo, verbum
effe neutrum atpal sivum exfese format non folum in compositis,fed etiam in
fimplici: -amatum ire, amatum iri. Sic ce nihil impedimentoeft, quominus
verbumPluit, primam perfonam habere dicamus, fi modo lo quatur Deus. Quare,vti
diximus, res ipfæ potius, quam Verborum naturæ defecere. Igitur vt quæ fint
Activa aut Passiva intelligamus,minutiores Viony antiquorum fectiones funt
retractandæ. inter more on Neutra, statuêre Neutro passiva: vt, Exulo, Va pulo:
ac Neutra quidem, quoniam exsese Paffi yum non crearent: Palliva autem, quia
significa. tiorecideret in eum de quo verbum dicebatur. Igitur ab
accidente,boceit, a voce.Neutra: a for ma, hoceft, a significatione, Passiva
dicta sunt Quare non recte alij Transgressiva nominarunt Tantumenim abest, vt
tranfgrediantur, vt in fe ipla ralidant. Quodfi intelliganttransgredi na turam
neutrorum:multo plura, ac pene omnia, Neutra talia inveniat: ut, Egeo, Gaudeo.
Quin etiam Aệtiva: quid enim eft Amo, nisi patior? Item Intelligo,Video, Tango,
Audio, Gusto, Sentio, et alia innumera. Etiam Deponcntia transgrediuntur:
quippein o R, paffionem non actionem significare debuerut.Alteram (peciem 1 285
posuere, autoeregulxov, vtuaxopeo, quasi quod aliai fuapte natura activum
eflet, siper vocem liceret. Cui contrarium ftatuunt onozu Jes fub Seow, tanquam
fubgenere communi speciem cotra di ftin tam,propterea quod passiva tum voce,
tum significatione sit. Item autotaJvLxov, vt neqw, per vocem stat, quominus
sit Passivum: in eo e nim est, vt censeatur p significatum:et a'viooden gov, vt
01,8TW, quia voce A ettivum videatur, at:: sit Neutrum. Et alteram neutrorum
fpeciem ÖRoEverymli:cov, iccirco quia quarti cafus habeat i constru et
ionem,quæ a ettiuorum propria videtur esse. Etripiegov autem et Inringivov voce
passiva, communi vtriusque significato. Atque hæ fpe- Exp: cies si veræ sunt:
tamen ada et ivapaffiuaque redu cuntur. Verum et frustra, et incolulto commen
tos esse hec videamus.Constat igitur p duo nomi na tractas hasce
compositiones,ökov et auto,quo rumnatura vbi perpenfa erit, eorum constabit,
consilium. Igitur öror est, cuiuspars extra ipsum cc nulla eft: hocautem duobus
modis invenitur, aut a fimpliciter: vt; Mundum onov dicimus,quippe ex tra quem
nihil eft,aut in genere:veluti quu quip piam adiicimus:Hominem enim nonmancum,
Totum dicimus, id eft,integrum. lccirco voces i hæmodo quodam differunt: in
neutro genere aov significat ipsum vniversum: in alio genere a.adiectivum eft.
Sic etiam zūv etmus.Ergo ho mo integer non dicetur esse Totum fimpliciter, fed
Totus, aut Totum suum. Non igitur verum, erit nomen 7 oorvegglisar. Nam id fi
est A etiuum, quod et vocem habet, et fignificatum, a Boca 1 I j. ve aiunt:ergo
totum A et iuum tantomagisvtrun quc obtinebit. Sic enim öronagi's dixere, cuius
0 mnes partesessent passivæ, quippeet vox, et ligni fcatus: νε γίνομαι.igitur
ολοενεργηλικών non erit Neutri species.Omnis enim fpeciestotam gene ris naturam
continet: ergo fi neutrum genus ab ađivo genere distinguitur, quomodo alterius
species tub altero,etiam addita differentia percefectionis, collocabitur?
MuseveEmkov potius di xiffent:constructionem enim quarticasus, et vo cem
activam habet. sed quia ex se passiuum non formabat, non erat įvegzolenav.
tanto ergo mi nus öner evegzalekev. quod enim non eft aliquid, U tantominus illud
effe totum potest. auto au tem fignificatsubstantiam: et id, quod hocip fum
quod eft, per fe eft. vt aronegros, outeau dis. etapud Aristotelem, autoetes
quod anni cir cunscribit spatium,aut quod per se agit hoc,quod agit: vt
αυθεντιά. Quare αυτοενεργήικών ηδfunt commenti probe: vtuaxquel. non cnim ab se
habet agendi formam a Toeveggnuxev. neque e. nim est evegylaxen, per formam:
caret enim ter minatione, quam ipfi Aetiui formam ftatuunt. « Commodius et
verius, etreporvegnkvor. ab alio enim habet vim activam, fcilicet ab vlu. lif
adem rationibus auronzo Jhxcv, vt migas eorun dem excludet superstitionem:wrogderegov
vero, quare non sit idem cum 'de regu;non video: nam fi vocem hanc are
addiderunt ivepzelerei, quod haberet pafsiuam terminationem: et r « Jakina,
quod haberet activam: quare addunt xdetegco quod alienam terminationem nullam
habet quodquegeritnaturam totam 'derepov? Ineptiut autemquiPluit,et ciusmodi
putabant aurezdets-Plagen, eg.quum tamen fit Aetiuum veriffimu. Pluitfan-,
guine, etlapides dicimus in historiis, et terra co pluta est. Diomedes vero quu
hæc Supina vocat,3 veteres recitat fineratione loquentes,atque iple} nihil
aliud,quamloquens.Fuitet tertia vox,istory õ adderent vni speciei,g
vocarentidor Jhx et: vt » Ferueo: non fane inepte:fignificarunt.n.passione
intus manere.Sed tameacute funtintelligeda.ne. que enim a feipso quicquam
patitur: neque pro pria est passio agentis ab selepatiente. Omne..).
quodmutatur, ab alio mutatur. Distinguuntur autem multis modis: Loco, vt Ensis
a Cæfaremo vetur, et loco distat:aut Substantia,non loco:ídq; multis modis.Aut
enim duæ funt fubftatiæ, vt ma teria etforma:aut fubftantia etaccidens, vt
Cæfar et Calor accefforius. Materia autem non vna: aut Dic, enim prima est,aut
secunda. Itaqueanimamovet ble corpus per fe,differutenim eflentia perfe et a:
afte forma ignis materiam primam movetalia ratio. ne quęinoetavo Physicorum
estdeclarata.Igitur Cæfarli feruet, a fole, aut ab igni fervebit: aut fi ab
intus cauffa est putabilis: omnino quod fervebit, etquo fervebitdifferent.
quare nonerit paffio ab seipso. Latini consultius Neutropalsiua, quacom »
positione et terminationem et fignificationem sunt complexi. Ex hissatis
constat, noftrorum verborum nonnulla fapere aliquid e ue.dig Græ-)) corum. Cum
enim dico, Lauo, Tondeo, et e iusmodi,idem repræsentatur, quodin dome.cs, et
Leigohuet 18ojfuor,quu Lauaret:subintelligimus. 10 CLEAN 1 quei A tuneTij.
enim,Se. Ita enim Nigidius loquebatur apud Gel lium: Syllaba mutat, pro
mutatur. Quare Attiva Passivis præponantur: etdema teria Verborum. CHVm igitur
omnia verba,autAativa, aut Pas siva sint, ad hæc duo principia omnes illz species,
emendatis tame priscoruin nominibus, mo lang referentur.Priora autsunt Activa
Paflivis,pon vt dixere,quia is, qui agit incipiat:qui patitur,sequa tur:actio
enim et pallio simuladco sunt,vt vnum multi existimarint. ages quoque ac
patiens simul sunt secunduin formam. Quin criam fecundum subiecta corpora,non
neceffario præitagens: ne que prius existit, quam patiens. Trabs enim ante
WIonel, quam ignis excitetur, nasci poteft: fednobilitate naturæ id faet um
fuit. Eft enim Ages pro cauffa: Patiens autem,vtdiximus, aut perficitur, autma
le habetur ab agente: igitur vtrovis modo nobi lius est.Itaque ctiam Grammatici
id fecere,vtPal fivum ab Activo ducerent. Hæcigitur eft eorum Makari ratio a
formaet fine significandi. Materia autem varia fuit iccirco, quia non est
neceffaria: sed ad arbitrium tum primi inventoris, tum ipfiusvsus instituta,vt
in o,autin or, delinerent.Habuere tn 2Aetiva originem terminationis a Græcoin
o, tua 1w. Passiva autLatini aliter formarut, neaccede rêt aut ad oratione, aut
ad fimilitudine nominu. Si.n.yteft ru 700w, fic dixiffent Amome, videre *
turoratioex Verbo, et Pronomine. Si aut fuiffet cudiphthongo: eadem crat
nominisdesinetia in na hurco prima declinatione. Quare expeditius addito R. G
negotium confecere: “Doceo”, “Doceor”. Verbi Svm, Es, EST, declarat
necessitatem. Gitur Verbum corum nota eft, quæ funt, aut fiuntin tempore.
Oinnisautcm Quantitas par tes habet: Motus autem et Teinpus, Quantita - Pengimo
tes sunt: partiuntur igitur. Caletadio cnim ha buit, frigidum non efle, vnde
ccepit primum: itemque calidum esse,quo tendit:ergo etiain me dium.Iccirco
verba quxdam inuenta sunt,vthuc motumdicerent: quare necessaria quoquefuerit
Erits inuentio cuiuspiam, quod illud extremum figni- mons ficaret: quodque
formam illam non ainplius flu entem, fed iam consistentem indicaret. Fluentes
3. autem formæ illæ duplices fuere; alteræ accidenta fles,vt Candor: alteræ
fubftantiales, ytHumani i tas: iccirco duplicis quoque naturæ Verba exti tere,
quibus ex declararentur. Candor enim acquiri dicitur a verbo “candesco”. Humanitas
au tem, id est formahominis, aut Equi, autplaptæ, aut metalli, aut alterius
substantiæ, indicata est subire in materiam per verba generationis, vt ); Fio,
Gigno, et eiusmodi. Quæ etli pofluntetiam accidentia significare,vt fit
albus,fit pater, tamen o primo significatu pertinentad fubftantias. Gene? ratio
enim primo dicitur de substantia; fecundo loco deaccidentibus.Acformarum quidem
Au xus his Verbis oftenditur: consistenția autem » vnico Sum, Es, Est, tam
accidentialium, quam substantialium, Dicimus enim, Est albus Cæfar Tij. nunc
290 IuL. V. nunc, qui heri albescebat, aut fiebat albus. Et di cinus, Eft nunc
Carbo canis qui his diebus fie bat canis. Quare hoc verbum tam accidens quam
fubflantiam quum fignificet, peffime a Gram zmaticis Verbum Subltantiuum dictum
eft. Et Femisautem fupra diet um a nobis,duobus modisponi Verbum học: aut
Nomini (oli folum adiacerc; autinter duo extrema quafi fequeftrum. Exem plum
priorismodisic habemus: Cæfarest: exem plumfecundi sic, “Cæsar est albus”. Ac
primum quidem modum significare existentiam in rerum ste natura ab omnibus
receptum cft. Altero autem modo Divinus vir Aristoteles animaduertit nihil
significare, sed quasi nexum, et copulam esse qua albedo iungeretur Caesari.
Hæcost forma et fi nas nis huius verbi: Vfus vero etiam latiuspatuit, ve etiam
verba alia quasi animaret: ita additum fuit criam Passiuis verbis; Doctus sum,
Doet us fui; TETEA COPEv Ověsu, cum perfe ti operis fummam declarandam
instituimus. Sicut inchoatum idem opus alio verbo motum, vt
diximus,fignificante notabamus: fic enim locuti sunt veteres, Pugna zum ire,
Amatum iri: sumpto a Græcis vfulo quendis prouci ipewr. Galli quoquchodie sicve
tuntur per verbum Eo, is, It, cum volunt dicere, materiaFit diues,Fie
phthisicus. Materia aute huius ver ubi duplex fuit. duplex enim eft, nam a Quws
Fuo noftrum, et ipfum Fio. Sum autem ab ciui. Es,,, totum Græcuin eft, abiecta
vocali, esi, CAP. CXIII. Temeporum Natura,Numerus, Ratio, Nomina
Tempoorisigitur partes diuerfasdiuerfis Ver Puigo rum partiunminutiores
quoquepartessunt:hac de caussa diuisa sunt Verba certismomentis: quæ Grammatici
re et ifsimetempora nominarunt.Diminy my 1 uisereigitur ad huncmodum:In
partem,queiam abiit: in partem,quęiam subibit: et in id,quo hæc duo coniunguntur.Anvero
id ita fit in natura: et vtrum tempussit, cuius partes non fint, necne, - non
est præsentis operæ: sed ad philosophum fpe et at. Cumigitur tres hæ temporum
partes fint: cam quæ abiit, quare paffiua vocedixere veteres nett. Præteritum:
nam fane Græci Actiua mpwxnuis. w Anvero ita dixere, quia huius verbi
Prætereo,no, habebant Participium actiuum in eo tempore, fi cut Græci? An
quemadmodum in testamento di 2 citur Præteritus filius,cuiusnullam fecitmentio
nem pater,quafi eiusfuerit oblitus:ita nobis gex ciderit tempus, Præteritum
dictum est? ita, Præ. teritum Laterancnfem in comitiis, ait Ciceros qui non esset
creates præter: quasi non fueritin memoria tribuum. Ansubtilius cöremplabimur? Itio
motus quidam est: tempus autem non mo-3 uetur, fedeft ipfamenfuramotus: at
nosmoue-); murac mutamur. Itaque dicimus,Fungi vita, et Obire mortem, et Abire
ex humanis. iccirco ipa sum tempus permanere, nos præterire, illud præa meninos
teriri.Quæ vero nondu effet pars,eam Futuinteactie, pusappellarut:Græci ukra
orą.Tertium quod has interiaceret partes,partem nequeas dicere, indi uiduum
enim est. Præsens eft dictum: non fane praze. comode:nam fiest, Præ, relationem
notat: ergo ! T iiij. quan T 292 IvL. V. Og'oquum vtrunque coniungat et
Præteritum, et Fu turum: nonpotius debuit accipere appellatio nem ex eo q
futuro præesset, quam quod præteri 2 tum fequeretur. Quin etiam certior natura
Præ teriti est,quam Futuri,a quo Preterito consultius 3 nominaretur.Iam vero fi
poffet diuidi, prior eius pars esset præterito iuncta, posterior aute futuro.
quare ratio eius cõiun et ior eft præterito quam fu (turo. Verum ita
intellexere. Præfens, effe Præ, id eft,ante oculos:non autem ante Futurum. Alij
vero Instans, appellarunt. fed quidam sunt male there iuterpretati, quasi
instabile esset, et abiret momen utancum. Sanea Græcis mutuati sumus quićvesu,
dixere, quodinstaret cedenti Præterito: non autem quod non ftaret. Imo vero
cætera tempo ra non stant:fed Præteritum iam non eft, Futu rum autern nondum:
vnü præsens semper est: na uetsi abit tempus, tamen hoc quod est, præsens eft.
Hocautem in libris naturalibus eft comodius de claratū.IgiturhocTempus, quod
effetindiuiduu non diuisere.Duo reliqua cum latissime pateant, Græci alterum,
id eft, futurum fecuere in eam partem, quæmox esset fubitura, jer onigov uen
hora dixere.Nosquoniam incerto ferretur euen tu, non diuisimus.Niliputemusin
modo Subiun Ĉiuo extare vestigia, etvim huius fignificatus: hennaivt, Fecero.
Hocautem etiam in Promiffiuum. pern wit partiti sunt Nasceturpulchra Troianus
origine Casar. Verum nunquam desinent nugari Grammati ci, Sic enim dicas
etiam,Minatiuum, Cædam te: et, Aduletiuum, et alias nugas. At affe et us non
mutant species. Præteriti autem amplitudinem, forazie b quantammemoria late
metiri poteramus, partiti » rz: sunt veteres in partes treis, Perfectum, Imper
P: fe et um, Plusquamperfectum:ac perfectum qui de dem adduxe-refiov male
vocatum fuit a Græcis: » e quod enim abiit, non cft: at wequeijfvovspecies ut
eft g TupwX9u6los, quonam igitur modo, li non ca eft,
poteltasqueisasdiffertenim colerot ai,apos "12 TO Xaveil ou tanto magis,
w; os to un'eivce che riuri A noiv. Noftri dixere Perfectum, propterea quod em
absolutam actionem oftendit, cuius pars fuperfic com nulla: vt Pugnauit: nihil
eius pugnæ reliqui fa bis etum est. Mutuati autem sunt appellationem » sibi
hanc ab iisdem Græcis, qui alterum tempus, cm quod adderet huic spatium,
uweprewleninovnomi Fit narunt, 7TEP UP TO DATEnerov lwar. Noftri hoc el:
Plusquamperfe et um: vtriquemale. Nam Perfe- ense ctum, etsi recipit
comparatiuum, et Superlatiuu: hocrerum genera patiuntur:vt, Canc homo per
fectior est; at quouis tempore aliud tempusperfe Etius non eft. Defendendi
tamcn suntsic: aba-» inü. ettionibus temporadenominaffe:vt quod agerēt, neque
dum perfećtum effet,Imperfectuin tepus, fubquoageretur denominarent. Verum
Græci Subs cautius, qui Præpofitionem notarunt tractum, ficati umep, quod effet
transperfectum, id est, præscri Cilici ptum tempus: noftri ridiuscule p
Comparativu Plus: melius Vltra,aut Super aut Trans. Quippe ita differunt: vt
Perfectuin nihil præterea notetun Scripfi: Transperfectum indicet et ipfum
Perfe-> Etum, et tra ettum interponat inter ipsum etaliam } non cohærentem
actionem, Scripferam,Cæna quum lusc Liit atent Cænabam: non cohæret cæna
scriptioni, qua " Icriptio est absoluta. Igitur non, vt aiunt Perfe. v
etum, et Tranfperfe et um distancinter se tempo rislonginquitate. Dicam enim,
Ris iam quin quaginta tribus annis: et dicam, Legeram versum heriantequam
biberem. Eft igitur idem cum « Perfeetto,tanquam species cum genere,nodistin.
etum tanquam species a fpecie, vt fecere: vbi cunque enim pones Transperfe et
um, poneres e tiamPerfectum.Imperfeet umautem Græci com umodiffime, aqtutuev:protenditurenim
inter præsens, et quod sequitur:operæquefignificat co tinuationein:vt, Legebam,
quum venisti:nihil.n. interualli interlectionem, et aduentu fuit.Iccirco
philofophi hoc va sunt ad declarada ev eteaezetar, uquæ perpetuatione naturæ
defignaret: wvIw TO, Erat homo: vt fignificet etiã effe. Er doetif fimus poeta:
Lauruserat: id eft, Lauri ipfius vera species. Quod Plinius quoque estimitatus.
Cicea ro in reetiam penitus infecta vsus est: fic enim scripsit in quarto ad
Atticum:Ad eum poftridic manevadebam,quum hæc fcripfi:et Perfeet o pro
Plusquãperfecto. Alius fic dixisset, Poftridiequa hæcfcripfiffem,iturus
eram.Præterita autem pri maaut fecunda, quod effent ad vsum magis vo cum, quam
ad fignificationu discrimen inuenta, non fumus imitati: temperatam breuitatem
im. mani copiaditiorem arbitrati.Vnumefttempus, quod Præteritum infinituin
appellarunt Græci, doposolin hoc veteres putarunt a Latinis ignoratu: extat
tamen in quibusda, vtin Palsiuis:năm, Ca 'fus fuit:id eft quod, erdP34: Cxsus
est, TÍTUTTIH: Ex his constat Instans cum indiuiduum fit,no reetedefinitum,
cffe fic, cuiuspars præterit, et in the dimi pars futura cft:ad hunc enim
modumnon effentwilanki tria tempora,fed vnum tempus: fed et Præteritu,
etfuturum Præfentis partes. Sed falsi sunt Gram matici,quum dicerent Scribo
yerfum:neque iam * expletus cffet verfusfcribendo. Vis igitursuntin telligere
Præsentem fcriptionem habere partem in parte versus perfcripta, et partem in
scriben da,quaspartes scribendo coniungant, cotinuent que.Atvero hic non vnum
præfens est,sed multa Præsentia, quemadmodum quum dico, Flumien fluit: quis
dicat hoceffe præsens, quumiamanna aut amplius fluxerit? Quare ficuti dicimus
Præ sentem diem, Præsentem annum:vt multa instan tia complectaranimo:ita
dicam,Scribo: quodic circo præfentis temporis eft, quia quum hoc di co, fub eo
sum temporequod huiusceverbi effe intelligo. Non enim lignificatpartem
prescripta, neq; cam quæ scribetur:fed hoc,quod fcribo.Di. cimus autem Scribere
versum,quoniam eius par. tes scribimus. Conftat etiã hoc apertius in extre mis
aetionum. fic præfens erit initium currendi, cuius tamen pars nulla aoteceffit:
fic finis, cuius pars nulla futuraest. Instans igitur femper adeft, vnde et
Prafens dietuin fit:Futurum et Præteritű imperabsunt. Iccirco de Præfeori
poffumustria, una pellarunt,exemploVergilii: Verum anceps belli
fueratfortuna:fuisset. V iij. Quum 0 598 in 010 306 IvL. V. Quum tamen,
Fuisset, Subiun et iuus fic codem, quo fuperiori,modo. Si fuiffet, mallem,quam
ficą quumnulla belli fortuna vincor,etmorior. Opa tatiuus autem et subiunctiuus
inter fe fimiles, ab Indicatiuo no differunt, nisi quatenus hoc quod hic
ftatuit,Optatiuusnõ ponit, etponivult: Sub. iun et iuus ponit,fi ab alio
ponatur. Iccirco tepo raomniafant coniecuti, verum non omnibusin verbis:neq;
enim par eft, vt omniaoptemus, quæ « possunt euenire.Igitur Futurum ab Optatiuo
no tollut doctiores: quu hoctempusverissimum, ac maxime proprium huius sit
modi, no discreuere ce tamen a Præsenti Futuri vocem: propterea quod in ipso
quoque Præsenti abest optata res,veteres autem illud putarunt Futurum Optatiui:
· ce Hac Troiana tenus fueritfortuna fecutaq Quod quidem valde placer. Sic
igiturerit Op. fatiuum et illud, quod fupradicebamus: Verumanceps belti fueratfortuna:
fuiffet. Modorum Ordo Ndicatiuum autem nobilitate, acrerum natu. ra primariū
intelligimus: nobis non item: stas tuit enim id, quod poftappetitum, ac
delibera, * tionem euenit. Neque verum eft, quod autu mant, Rem çertam redubia
priorem esse, Quin ante, quam scias,quæras. Quinamquesciam, Ha minem effe
animal: nisi quid homofit, quæram? + Præterea qua ratione res çerta, erit prior
feipfa dubia? Etenim poftquam adeptus es scientiam, non potes amplius dubitare.
Scis enim per cauf | laa 3. quarum contrarias Iisficcando Em cua Trorior. O
elimiles: ushora nipuli otem us! inimum Ōdiscrer plereaga res, kom tu: ecutao
fas primas,immediatas, neceffarias, notas,immu tabiles: putas falsas: alioqui
non scis. Sed ob nobilitatem pręiuitIndicatiuus, folus modusaptus scientiis,
folus pater veritatis. Cæteri fermoniaccommodatiores,quemadmo- 2. dum suoloco
dietum eft: ii vr quisque nobililli. mus fuit, ita potiffimum locum occupauit.
Ita Circot omnibus que Imperatiuusprinceps eorum extitit: mox Optatiuus, quasi
seruilis ingenuum eft hunc se - zima quutus: Subiunctiuusautormultiloquentiæ po
Depreciate tremam in sedem reie et us est: compofita eniin fimplicibus
pofteriora. Infinitiuus autem fane adeoModusnon eft,vt etiamn Verbumne
cffet,fit dubitatum. An Infinitiuusfit verbum. C Modum quidem non effe ipfum,fupe
rioribus rationibus fatis constat: Verbum off. autem efle, Verbi definitio
clamat: significates nim rem fub tempore. Qui autem ipsum exclu- (. ) sere,addu
et ifunt,vtfentiret ita, proptereaquad fui verbi efset significatum: fic enim
interpreta cur Verbum suum, Socrates exulat, dico Socra temexulare, Socrates
estin exilio. Præterea no- 2 minis habet conftructionem.apud Græcos enim etiam
articulos recipit, to spxTuyau mane, vt Ver gilianum illud. -Pulchrumg, mori
fuccurrit,in armis. Verum hæc argumenta leuia sunt:neque enim art, magisipseelt
Verbi fignificatum, quam Verbum miesnota? ipfius: neque magis exprimir
Indicatiuum per boo42 interpretationem, quam ab eoexprimitur; Viiy. Kureri
A.COM US: fastfel ruma diItem: edehr uoda fle (Ciami QUITO Torle cient pero IN.
ERR mutuaenim esse quit explanatio vtriusque ora tionis fic, Dico Socratem
exulare:id est,Socrates ab 2 exulat. Articulus autem non tollit significatum
fub tempore: naapud me, to spa Traje COMESTxa aov: sed no espotazmeyou. Itaq;
fibiipfi fubiicitur, tanquam Verbo, plusquam Verbum, fic, Video Apo leo mi
emeditari currere.Itaque contraStoicifolum mawh Infinitiuum Verbum esse
professi sunt: cætera θα λογαuterm κατηγορήμαG,ideftappellationes, και συμ
metin the Beijualc id est accidentia, quippein infinitiuum tanquam in formam
fuam, et quasianimam re folui cæteros modos. Igitur Græci etiam pro a ce liis
fupponuntmodis, quorum naturam expleat, OHOT EIV,Jewgev. Sic etiam nunc Itali
loquunturs quum negatiua utuntur oratione, Non legere, pro nelegas.quæ cauffa
fuit, vteadem sit forma « actiui Infinitiui, et Imperatiui passiuiapud Lati
senos. Quinetiam pro Indicatiuo: Illerubere,ter giuerfari, abnuere. Cæterum
apud Græcos de est dã in superiore oratione;apud Latinos,Cæ pit, aut tale quid.
Quinetiam pro Participio et Gerundio vsum subiit tam apud Græcos, quam apud
Latinos: vt apud Poetam: -Dederatque comam diffundere ventis. Erin tertio de
Natu ra Dcorum: Magnammoleftiam fufcepit Chry sippus reddere rationem
vocabulorum. Pro prium autem est Infinitiui, receptum in Futuro fuo Participium
sibi fimile efficere, vt genus a mittat, et numerum: Amaturum effe tam defce
mina, quam depluribus: exemplapetes deGel lio, Valerii Antiatis, Catonis,
Q.Claudii, M. Tullii ex quinta in Verrem: Hanc libirem præsidio COLE i fidio
fperant futurum. Illud quoque habuit pe culiare,duo verba fibivtasciscat, Esse,
et Ire,quo rum societate formet Futurum suum: Amatum ire: Amatum iri. emporum,
Modorumq, inter se mutatio. Filout Roprium autem est Temporum Modorum queinter
femutatio, quuaffectui feruimus. Il Liuianus Annibal: Sitales animos in prælio
ha bebitis, vicimus. Nam quod fperabat, procerto man iam afferebat: quafi
dicat, Tam certa eft futura vis 1.90* et oria,quam iam extitiffet. Nihil enim
Præterito create certius:ne a Deoquidem mutari poteft, quia sim » un plex
eiusvoluntas eft:tantum abeft, vt fit contra-); leger ria fibi:non poteft,quia
non vult:neque vult pos ciami se, neque potest velle effe diffimilis libi.
Modus Le item Subiun et iuus pro Indicatiuo: In fexto de gryn Repub.Etquod
deviafeffus effem:dixiffet, Cum de via feffuseffem. Quemadmodum autem illud
Isla Iuuenalis sit accipiendum, Greculus efuriensin cælum, iufferis, ibit:
fupra diximus. Sic est,quum Græca oratio per avdwwnn TIKoy exprimitur: vt in
tertio Officiorum: Male Hi etiam Ĉurio, quum cauffam Transpadanorum Cm
æquamesse diccbat,femper addebat, Vincatnti Pipo litas:potius diceret,non
esseæquam. id est, negle ov: dicere poterat: aut, debuerat. Horatius Indi
catiuo pro Subiun et iuo vsus est: Metuentis illa deta pluscerebro lubftulerat:
nisi Faunus ictum dex Cele tra leuasset.Et quod fupra diximus, ex secundo
Georgicon, Lauruserat: quod et Plinium imi tatum monebamus. cipiol QUA Futuro NUSZ V v. gro Perfonarum
vfus, et affectus. Videffet Persona, quorqueeffent, etquare affeettiones in verbis
videamus; nequeenimre xae veteres dixere, Primam et Secundam fanitas
effe,quiaprasentes demonstrantur: Tertiam infinitam, quia absens eft: cauffa
enim quam affe runt, nulla est. Non enim omne abfens infinitu: nequefemper
Secunda præsenseft: et Tertia præ fens aliquando est, et fempereffe poteft:no
enim aduerfatur fermonis vfui, vt adsit semper id de quo loquamur, tametsi
hocin rebuspofitum est. Ita igiturintelligendum eft, Primam, et Secun dam
finitas effe,quia certædesignentur: lego, fižno me: Legis, ligno te: Legit,
nullum cer tam signo,nisi quippiam addatur, Cato; Cæsar. Hamms and illud quoque
crraruntquumdicerent, opus este aminimomoPronomineadpræfcribendam Tertiam.Nam
ct alime nesima iam fidicas,lllelegit:nointelligas qui sit, nifi aut preferat,
aut demonstretur coram:ergo non fietvi higmi hann eema San.Pronominis sed
Relationis, aut Demoftrationis, Sed et Primam, Secundamque Pronominibus tantum
iungi, iam eftfupra refutatum: Vocatiuis nanque etiam fecunda
adiungitur:vbifinalub intelligitur pronomen Tv, ne in cæteris qui dem
fubintelligetur. Eft præterea aliud argume tum: Licet, inquiunt, dicere, Cæfar
fum: er go Cæsar, est persona primæ: neque enim Ver bum variabit Nomen, ied
NominisrationeVer bạm sequitur:Numerum fçilicet. et Perfonam. Quo pofupoint mir
teachers Quoniamigitur Cxsar, estpersonæ primæ:potes " dicere, Sum. nam
fiinco Verbo ea effet potestas, vt Persona Nomini attribueretur: efset etiam
ea, qua numerus quoque affignaretur, etliceret di cere, Cæsar sunt. Proprium
autem estPrimæ nondependereab » aliis. Caussa huius rei eft uia ipsa loquitur
fem per: ergo etvtranque fibiaddicet: vt,Ego, Tu,et Ille facimus. et feorfum
alterutrum: vt, Ego, et Tu:Ego, et Ille.Falsum estigitur, quod dixereve teres,
Secundam fibi coniungere Tertiam:illo exemplo, Tu, etilli facitis:;et Tertiam
feipfam, fic, Ille, et ille faciunt. Sed eft Primaquæ coniun. git Sccundæ
Tertiam, et Tertiam sibiipfi: cac nim coniungit quæ loquitur, licet nonexprima,
çur:quum de aliis loquitur,nonde feipfa. Numerorum Ratio etcauffa. Vmerusidēqui
in Nominibus, ficut et Per fonæ. Cumenim Verbum fequaturnomi nis rationem, et a
ratione proueniant affe ettus: af fectus quoq; eosdem efle par eft. Significat
enim Verbum aut Accidens, aut substantiam Nominisstheti Cæfar currit,Cæsar
eft.Ergo neceffario auta No mine dependet:aut etiam idem repræsentat. Pro priu
autem Verborum eft, nullam vocem vtriq;» numerocomunem habere.Hoc apud
nos:Græci imprudentius quitantã copiã haberent Teporu, defecere in difcernendis
Numeris, et Personis.na in duali confudere personas: meter, turistev. in
primasingulari, et Tertia plurali confudere namo y numeros inszor. Soli Æolenfes, quorumpars
fuere Dores, pluralem fine incremento posuere. In Nominibus autem et
Pronominibus non i dem eft: vt, viri: sai.item Participiis pafliuis: vt, lecti.
Hoc autem dicimus de Verbis eodem in genere:namin diuersisgeneribus voces
inuenias communes: Docere palliuum Secundæ personæ; Docere actiuum Indefinitæ:
cauffam autem su pradiximus. Infinito enim Græcipro Imperati vo vfi
funt. Affectuum ratio, et ordo. Orum affe ettuum quatuor tantum
necessa rii (lineiis enim verbum noneft ) Tempus, Modus, Persona, Numerus: ac
Personaquidem et Numerus,quemadmodu dicebamus,propter ea quod Verbũ a
Nominedependet,neceffe fuit vt aliqua in recouenirent:conuenirêtautein Per
fona,quia a Persona proficifcitur oratio. Item in Numero cadem decauffa:aut
enim vnus loqui tur, autplures:et aut de yno autdepluribus. Quæ rebamus igitur
vter affcctus effet prior: ac Nu vinerus quidem amplior est, complectitur enim
omnes Personas: præterea accidit Numero Per fona. Equidem vnussum:poteftigitur,
vt et Pri mæ, et Secundæ, etTertiæpersonæ subeam mu. unus. Tempus autem non
videtur effe affectus Verbi, fed differentia formalis, propter quam
Verbumipsum, Verbum est. Modusautem non fuit neceflarius: vnus enim tantum
exigitur ob veritatem, vt dicebamus, Indicatiuus: cæteriau., 1 tem emob
commoditatem potius.Genus autem an Gwojno it neceffarium? nam videtur, feclufa
omnitum et tione, tum pafsione, conftare Verbum prima rium ipfum, Eft:
nequeenim solum per Partici pium refoluimus, Cæsar pugnat, Cæfar est pu gnans:
sic enim poneretur verbum Pugno necef sarium, quare Genusipfum quoque cffet
necef sarium, in multa verba distributum, non intra vnum contentum: non igitur
ficresoluetur, sed in Nomen, Cæsar est in pugna. Hærationes acu tiores sunt a
philofophis profe ettæ. Verum non fit vera resolutio: poterat effein pugna, nec
pu gnaret. Verba ipfaAdic et iua neceffaria funt, fic ut et Substantiuum:
quemadmodum Acciden tia, ficut Subftantiæ. Vter vero affe et tus sit prior,
Genalne, an Modus? Acgenus fane prius eft,vt qomus pouvez aliud fignificet A et
ionem, aliud Substantiam: Modus autem generi accidat. Tres reliqui affe et us
cuiusmodifintvideamus:nam Coniugatio Connig. eft, quod Nomini Declinatio: certa
meta ac facies terminationis. Hoc autem cõpetit quatuor fpe
ciebusdeclinabilibus. vt supradictum est. Com petitigitur Verbo, vt diettio eft
declinabilis: ficut et Species quoque, et Figura. Coniugationes au tem quatuor
fecere: sed et prima cum Quarta in multis eadem fuerat,Audibo, sicut Amabo: ad hucenim
dicimus Ibo. Et confusa indifferenter Secunda cum Tertia: Ferueo, Feruo. et
Prima cũ >> Tertia:vt,Lauere,Lauere. Etnonnulla extra ord))** e dinem:vt,Sum:cuius
neque Præsens, neque Fu. ) turum, neque Infinitiuus cum cæteris conuc nit, vt
ad caput certum reducatur: solum præteri € 10 id IDE All temi gir 2007 "
tum Irl. V. tum gerit aliquam fpeciem, Fui:fed incertam: nam dicimus, et Explicui,
et Docui,paricumillo analogia:sed inter fe diuersa. Figura zeiasg, caussa. Figuram nominarunt
partiu compofitionem: orta autem eft ab ipfa oratione, etceleritate vt;Versus
facio, quod fuerat;fieret Versificor. l gitur prior fuit, quam Species: ex ipfa
cnim oraa tione quæ essetex primitiuis nata eft. Placuit au tem vt eodem modo
quod non effet compofitu; Figuratum diceretur: quu tamen fatis coitat per
initia,ante quam Compofitio inuenta effet; Sim plicia ipsa nullius fuiffe
Figuræ:quare per relatio pem potius sicdicta sunt. Proprium Figuræ est, mutare
interdum genus: vt a Facio, Versificor: a Specio, Conspicor. Item
Coniugationem:Stera nere, Cöfternare: quod etiam fine compositione fit,vt,
Legere, Legare. Si a Fio passiuo ducas Suf: fio adiuum, etiam significatum
mutari constats. Species;earumg significata,c. cauffe V Erboru Species, vt
diximus, duæ: Primarioz rum, et Deriuatiuorum: fic.n. melius;quam Deriuatiua
dicere: deriuantur enim, non deri Joeyguant.Deriuata duplex:alterain quanon
mutatur * modusfignificationis: vt Albeo,Albico. Altera Tisho in qua
mutatur:cuius funtfpecieshæ, Inchoati ua,Meditatiua;Frequentatiua:Dcfideratiua,De
frinmi.minutiua: Inter hæc Deminutiua non funt con trouerfa: nemo enim dubitat
in Lo definentia cho promis. Ne Deminutiua: qualia,Sorbillo,Conscribillo.
Errorautem antiquorum eft, qui dicerent mutas x ri significatum: non enim verum
eft:idem enim fignificant,fed alio modo. Cauffaautem huiufce » terminationis
fuit Græcus fonus: fic enim quæi dam Deminutiua fua pronunciarutueregexvideo At
Inchoatiua, quæ in Sco, facerent: vtFerue- sco sco:recepta quidem sunt ab
omnibus: sed recen i tiores in iplis negarunt inchoationem,idemque que no
velle, quod ea, quæ a Fio componuntur: vt fit michoani Calesco, quod
Calefio:quorum Præterita expo - 1 nantur per Fadum effe:fic,Macruit,macrefa et
us eft: quæ Præterita, si fiat a Primitiuis, per Fuit,
interpretemur:sic,Macruit,id est,macer fuit:quo nia Macreo sit, Macersum. Igiturnon
significare Inchoationem, propterea quod apudVirgilium sit, Incipiunt agitata
tumefcere.Cæterum eorum? Sententia ficelt perpedenda: Tumere,alio modo Examp.
accipitur, alio Tumefcere:naqueMonstumet.no, tumefcit: at Fluctus et tumet, et
tumefcit. Item Ignis calet, non calescit:at Ferrum igne calescit. vt fint
verba, qua habet significatum perov, qua-» le
seguovipou,calesco.Ergo,quemadmodum di cebamus, Qualitatcs,aut
Accidentiailla,quæhis. verbis fignificantur, interdum sunt in fluxu,et,vt
sitPlato in Craylo,ca Tu Cee interdum iam f xa. Quare per Primitiua dicuntur,
quu sunt fixa: etenim in monte tumor iam non mouetur, iccir cocumtumere
dicimus.At dum fluunt,per Ver. bum in Sco, explicantur: iccirco vbi erit Ver
bumin Sco, poteritesseetiam Primitiuum, 861) non e contrario: propterea quod
habitus iam rV. introdu et tus est, quem habitum ipsum Verbum significat: fed
non est idem modus: nam motus ille augefcendi,aut procedendi, a Primitiugde
claratur. Igitur fluctus, et tumet,quiain eo eft tu mor: et tumefcit,quia
tumortenditad alium gra dum: fic Crescere, eft Creafcere, id eft,accipere
augmentum in Carne, agetoxgeas. Ex quibus conftat, non inepte di etta a
veteribusIncohatiua, nondum enim explerunt vltimum fignificatum. Quod et in
quibusdam verbis Græcis fatis per cefpicuum eft: xuw, est Vterum gero:
atzvionw, eft Cõcipio, quasi, Incipio gerere vterum:significat enim incohatam
xunav. quo verbo et Hippocra tes vfus eftin quinto Aphorismoru, et Aristote les
in fexto historiarum. Quod autem tamper, tinaciter affeuerant, vt per Fio,
interpretentur, idadeo mutilum eft: Si enim hoc verum effet,er verba actiua hac
terminatione penitus care bunt, fignificatio enim eis nullo modo compe ter:
atextant tum apud alios, tum apud Teren tium in Adelphis, Atque edormiscam hoc
villi: quare per Fio, non sunt exponenda: sed conti nuatio. etaugmentum potius
ineiusmodi agno fcenda funt. Pliniusautem in libro xxv. etiam u mollius
loquutus est,Radix vasta, rubescens,te nera. quafi Centaurii radix non sit vere
rubra, Curcu sed incohata rubedine. Carent autem Præteritis non propter
fignificationem, vt aiunt,nam et i » psum Incoho, habet præteritum: sed quia
non patiturformatio: quum mutuantur a Primitiuo, facilecõfunduntur
interpretationes: vtsMacruit, Macer fuit, et pro eo, quod eft, Macer factus
est. Vir: go th couha 1.41" Vi Virgiliusautem addidit Incipiunt: vtPlautus
di xit,Pergispergere. EtMedici initium quarunda» ægritudinum diuidunt etia in
initium,etaugme » tum, et ftatum: et multa fimilia inuenias iteratan tung Ergo
igitur: Adeo ad eum: Longe fortissimus:et, » Cauencneges:apud Terentium,
Sallustium,Ca-» tullum.Delideratiua quoque damnant, aiuntque itestonte genima
corporis motum fignificare:vt, Viso,co ad vide dum: quale illud. Nam memini
Efionem visen cti tem regna.Non enim cupiebat,quod agebatiam;remony ea nanque
cupimus,quibus caremus: vnde Cor pora desiderata, quæ cæsaessent. Etqui
Lacessit, plusquam Lacerat: et qui Vexat, plusquam Ve hit: non igitur
desideratis, qui plus agit: Non sunt igiturqualeapud Græcos, itew. Nosvero
sohez? ita cefemus:verba hæc parum differre a Frequen g. tatiuis,habent enim
eadē et origine, et termina-> tionem,a Supino enim fiunt, vehemetiam igitur
aetionis significare: quorum aliqua explicēt cam, per actionem
cötinuatam.cuiusmodi dicta sunta veteribus Desideratiua, propter affectum animi
intentioris: aliqua per actiones iteratas,cuiusmo di sunt Frequentatiua.
Indideruntigitur nomen meteen consequenti rei ab antecedente deliderio, Re
centiorum autem quidam Inchoatiua etiam au - x fi funt appellare:quoniam Viso,
dicat, eo ad vide du.Sed quomodoincipiat videre,qui eat ad vide dum?nondu enim
videt. Sed geftum,vt diximus,, significat animicorporisq; ad id
propensioris:sic Cicero ad Petum. Vt videre te, et viserē, et cæna rem etiam.
Quoniam vidētinter fe etiam qui no lunt videre: at visunt, qui cum cura. At,
Vexasle. X 1 rates canibusmarinis: quo modo tantum inchos asse exagitationem,
quum inchoare imperfe ctionemdicat, horum autem sentetia etiam frizmimpugmento
fit. Alia autem frequentatiuain To, sunt: quoniam eorum Supinaeandem nacta sunt
terminationem, Ventito, Vecto.neque frustra a fupinis du etta funt: nam alterum
fignificattermi num ynde fit motus. Itaque Veet o,significat Ve ho, fed ita, vt
semper in ipsa fim actionc, quæ ad „ finem tendit, quali Vectum co: nunquam
igitur ), absoluit, sed iterat a et iones. Dormito autemino est frequenter
dormio: cuius significati cauffa eft, quod qui leuiter dormit, repetit fomnum
inter ceptum,aut interruptum. muzica Meditatiua autem optime fic funt a veteri
busappellata,quæ in Rio, exeunt: vt Efurio, Co naturioapud Martialem: quibus
formis tantum affeet um oftendimus, tamque intensum, vt nihil aliud meditari
videamur.Non igitur nomen mu tandum eft, quod fecererecentiores, vt Delide
ratiua potius vocentur. Nam desiderii cauffa co gnitio exmemoria.
Desideramusea, quæ in po teftate noftra non sunt: at Meditamur ctiam ca, quæin
nobissunt, vt ea exequamur. Itaque non defiderabat Cæsar proscribere,
poteratenina: fed gestiebat. Iccirco dixit M. Tullius ad Attic. IX. Ita
fyllaturit animus eius, et profcripturit iam diu.Horum autem caussam,
etoriginem æquei gnorarunt: neque enim a Supino veniunt, seda » Futuro
participio aetiuo: Quo tendis Gnatho? ad Pamphilum:Cuius rei ergo? Cænaturus,
inde Cænaturio. Fue X 319 he a ne 10 al Fuere vero etiam alia verba huius
ordinis, non ignota quidem illa antiquis: sed in hanc claffem min quum non
redegere, minus re ette ab ipfisfa et tum fuit. Sunt igitur ea, quæ Imitationem
quan dam significant,de quibus supra diximus: AGræ cis orta,in zo. Tres autem
modos in ipfis animad vertimus: Aut enim fignificant apertam imita-; tionem:
vt, Atticiffo. Aut minus apertam: vt 0-2 dinmw. neque enim Æschynes potius
imitaba tur Philippum, quam fequebatur. Tertiusmo- 4 dus est quum dicimus
Cyathiffare. neque enim autimitamur, aut sequimur Cyathum:fed trans latum est
significatum a cauffa efficiente in in strumentum. Imperfonalium Natura, Ortus,
Caussa, Vfus. Væ prisci tam Latini, quam Græci dixere primum quidem constat,
quum et Numeroca - vox rere dicantur, et Persona: atque Numerus,vto stendimus,
quam persona potior fit:dubitandum esse, an comodius Innumeralia, quam Imperso
nalia dici debuerint. Verum illud maioris mo menti eft: quum verbum sit fpecies
diet ionis,de-An? clinabilis per Numeros, et Personas,ab ipsisdefi nitum, tamen
verbi fpeciem comenti sunt, quam vtroque carere putarint. at Generis fubftantia
tota in qualibetspecieest, igitur et genericæ dif ferentiæetaccidentia propria
inerunt Quierror vt clarius pateat: priuatim de his, quid illi sense rint,
videndum eft, Xij. Im veni Des. spany
Impersonale, inquiunt, duplex,vnum Actiuæ vocis,quod imitetur aetiuorum
tertias, vt Placer: alteru palsiuæ, quod repræsentet tertias passiuo. rum,vt
Amatur: vtrunqueautem carere tum nu. meris, tum personis: nequeenim primæ, aut
fe cundæ, auttertiæ effe, fed nullius. Hæcigitur vt Exam.sefutentur, paucula
repetamus.Oftendimus Ver ba aut transmittere fignificatum in appofitum, aut
proferri absolute: lic, Cæfar amat Lucinam, tranfmittiturhicactioamadiin
Lucina: eodem que modo paffiuum quo pacto proferretur inue tum est, “Lucina
amatura Cæsare”. Abfolute aute fic, Cæsar amat: et, a Cæfareamatur: nam tametfi
scia' quidamet,tamen non edisseram:itaque cue nit, vt aliquando nulla explicata
persona fignare tur:at enimuero nequeprima,neque fecunda, ne que tertia
excludebatur,poflum enim intelligere lic, Cæfar amat Me, Te, lllum. Títum vero
abeft, vtin paffiua voce nulla persona intelligatur,vtet iam neceffario tertia
fubfit, fed incerta. Alii igitur vthoc euitarent, plus errarunt,Imperfonale
dici, * propterea quod nulla persona, a quo id fieret, ex plicaretur:quu contra
cõstetapud omnes, neque sit digna fententia quæ refellatur. Na a Parmeno ne
dictum est dese,Statur: et a Vergilio de Ænea, Ventum eratad limen: et a Liuio
de Tarquiniis, Reditum Romam. Præterea hi non re ette refpe xerunt ad obliquum:
vt quoniam a et io, a quo pro diret, non indicabatur, personam subiectam ne
garent. Non enim cum Obliquo verbu cõuenit, » led cu Recto.Igitur cum Rectu
subintelligamus, fubintelligitar et Persona. Nequevero ad neutra confugiendum
est, qualia agnouere, StaturCur, ritur: nam Stare ftatum, et Currere stadium,
et Vitam viuere, et Ire viam dicimus: et Decurfa spatia, et Vitam euitari, et
Mortem obita legimus. Alia enim etfi videbuntur absurda consuetudine
reclamante,suapte tamen natura talia funt. Quin etiam legimus Tellurem inaratam,
et Pyros insi+ 1 tas. Quare quæ Verba non patiuntur eiufcemo-, di constru et
ionem, ne hunc quidem loquendi « modū admisere, qualia funt, Egeo,Gaudeo. Quu
enim Obliquum poftulent, non potuit dici, E getur: quod poftulat Rcetum: quod
fi aliterre periatur, hoc fiat, propterea quod prisci aliter quoque fint
loquuti, quemadmodum Cato, Ca reo pecuniam. Si igitur fubie etta Personaintelli
gitur, Numerus etiam intelligetur: qui etsi non » præfcribatur, tamen ad
singularem referretur:vt, Quid fit Gnatho? Editur.licet multa esitet,tamē
fingula disponas ad intelligendum. Quodfiquis a verbisin or, aliqua ducta pro
exemplo habeat, is animaduertat, quod esta nobis diettum supra, Verborum
mutataesse genera, Opperior, Nu., trior, Pascor, et alia, quæ a Nonio in libellum
re dacta, recenfitaquesunt. Atinavocisimpersonalix. ws WE E A doirrepsere,
quãdo Reettus, cuius auspiciis » Verba in Numeros, atque Personas circumagu
tur, latuit nos. Nam hoc, Placet mihilucubrare: idem sitatq; hoc, Placet
mihiamor præsens. Iam so Qindivorce to Pianua idem effe docuimus: quare X iij.
fatis s sus fatis patet,nehæc quidem vocanda esse Imperso. nalia. Aliquot tamen
sunt vfu potius distorta, quxintegra nihilominus aliquando fuisse necef Rc
feestinter quæ ea numeratur,Pænitet,Piget, Pu det, Miseret, Tædet:nam Obliquis
coniungutur: sicut etiam distorsit Plautus in Captiuis,Nã post quam Rexmeus est
potitus hoftium. Noseam af peritatem in meliorem receptam legem emolli »,
uimus, et interpretamur verbum Potitus est,pal fiue:subintelligimus,vi,aut
opera:sicut xxięnv sub intelligunt Græci et Sallustius, vtsupradiximus. Ita,
Miseret mefortunæ tuæ: id eft, vis tuæ fortu facit me miserum. Sic fuit in
verbis integris, Misereor tui: miser fio tuigratia. Argumentum huius rei
maximum eft,quod horum vox singu lari numero remanfit, vt fit του το αρέσκει
μοι, ήγειω To Qingv. Duorum autem naturam male funt ve teres interpretati,vt
Interest, et Refert,quum sex to casu putarint ftatui, quum pronominibus ad
derentur: Interestmea,vt effet,In re mea eft: et, Mea refert vt effet, Fert re
mea, nunquam.n.fue ccre Imperfonalia: nimis enim delicate potuitve nire in
mentein istis, vt verbum Substantiuum fa cerent Impersonale: quod tamen
necessario sem wper aliquid vere statuit. Sed ita fuit, Interest mea legere, vt
meæ partes suntlegere: Intermea,hoc est quoq;legere. Et alio verbo, Legere fert
mea, id est,repræsentat mea negotia. Sicigitur tam aetiuæ, quam pafsiuæ vocis
hæc verba fefe habent, verum in vtrisque eft quæftio: nam dubitaruntan dici
poffet, et quomodo, Vi Anbi deturmihite fuiffe Romæ. Multi enim magis * do et
i 16 ly doeti ratione, quam cxercitati le et tionc, Latine dici
pofse negarunt: verum ea loquutio etapud Græcos, etapud Latinos inuenitur
passim,et han bet rationem: totain. oratio illa infinitiui depen det ab
articulo, fic, Videtur mihi hoc,te fuiffe Ro mæ. Ita Liuius de Gallis: Eam
gentem traditur fama,dulcedine frugum, inaximevininoua tum voluptate captam.
Xenophon quoque, * ğ xvpor “σεις ταύτιν Σποκρίναοθαι, λέγεται”. Ιtaloquutus est
Aristoteles quoquein x. historiarum. Altera dubitatio est in his verbis, Pluit,
Tonat: nondefuereplanie? enim qui Impersonalia ausi sint dicere, nimis fa
neleuiter: eodem enim more subtra et a persona est, idque facile, vnus enim
eftqui id agat, quare absolutæ potestatis appellatasunt ab aliis. Proxi ma his
funt Germinat, Florescit, quæ ad terram referunt, atquealia in anima, quæ
feipfa in pri mam personam recipere nequeunt: fed de hissu praquoque
ampliusdictumest. Affectus verborum communes. P Roprium Verborum eft, non folum
mutare Genus,Coniugationem, Modum,Significa - A tionem, etNumerum, vt tu Wa
essvēra uza: fic ut fupra diettum est: sed etiam Casus: Ausculto seni, et
fenem. Item vt confundunt Personas, Statur:fic confusasexplicant, Cæfar scribo,
Ca to fcribis, Cælius audit. Proprium etiam creare 2 ex fefe alias partes, vt
Nomen, Creo, Crea tor: neque femper pleno fignificatu, nanque a mouc TOMTS,
coar et atur ad carminum tantum Xiiij auto De e LI 2 1a. in 324 IvL. V.
autorem, Latinum vero, Faetor, ad eum qui o leum faceret, folummodo. Aduerbia,
Fere,Age. Item creari a Nomine, Strues, Struere:Imperiu, Imperare.Sed et creare
aliâs generis nomina, quę verbalia non dicantur, vt a Do, Dos. Illud etiam
obseruauimus eorum peculiare accipere fignifi * cationem ex alia actione, riw,
eft cibum capio. Atquia e cibo oritur fitis,iccirco Latiniea occa fioneid
verbum recepercad significandum quod fequebatur,quippe, te doebav. Igitur
patitur etiam amuegia. Etponitur proAduerbio, Age, Sodes, Amabo: pro Coniun
ettione, Licet: etin compositione, Quam uis, pro Nomine, vt dixi mus ex
Ouidio,Sæpe Valedicto. IV LII Asia. 1 Pre Un Pronominissedes inter
partes,Ratio, Diuifio. PARonomen qaidam ante Verbum ono. posuere, alii etiam
poft Participiu tractauere: vtriq; male. Priores co redarguatur, quod Verbum
necef faria vox est in oratione: Prono men non eft neceffaria: nullum enim
Vicarium neceffariu. Igitur si Pronomensemperloco No. minis ponitur:posito
Nomine, Pronominis vsus nullus erit. Quod autem Pronomen przcedere 2 debeat
Participiū, sic demonftramus: nam Parti cipii Ognificatio ad Verbu reducitur,
modus sig nificationis ad pomen:Pronominis auteet figni ficatio, et modus, ad
Nomen referuntur: plus ha bet Participiū Verbi,quam Nominis:Pronomen penetøtu
nomen eft: atNomen eft prius,quam Verbum: igitur et Pronomen,quamParticipiu.
Definitionem aute more noftro ex vi Nominis X V. clicia 1 316 IvL. VI. 1 Vox.
eliciamus. Pro præpofitio,vtin libris Originum plenius narratum est, quum multa
significet, id u habuit genuinum,vtvices indicaret. Pro Milone dixitM.Tullius:
id est, obiit munus, quod Milo debuerat exequi. Fuit eius etorigo, et vfus a
Græ cis. Nam tametfi frequentius fignificat Ante, to awes, tamen apud Herodotum
in Polymnia legas etiam aegav digtns: sicut nos pro caftris, etpropa tria
pugnare. Ergo videture nominc oriri defini shyo tio,vtPronomen (it, quod
pronomine ponatur. Nam quemadmodum dicebamus, quædam re rum notæ sunt: vt,
Nomina: quædam notæ « Nominum. quippe ad hanc vocem Nomen, si quæramus vt
aliquid reddatur: fic, Cedo mihi Nomenaliquod:cotinuo dabo vnum quippiam,
Cæfar, Equus, Enfis. Item Cedo Participium, Orationem, ratiocinationem: ad hæc
non res, fed voces reddentur. Ab horum igitur natura non videntur abhorrere
Pronomina: nam fi di xero, is, aut ille, aut, Ego, non ftatim interpre tentur
perres ipfas:per sed Nomina, fic, Is, Ca to: Ille, Antoninas: Ego, Cæsar. Græci
autem rem ipsam hanc candem expressere, sed paulo licentiore voce vfi funt.
Etenim avtwuia non estipsumhoc quod pro Nomineponitur:feda et tio quædam, qua
ponimus Nomen pro Nomi ne. Cæterum acrius, profundiufque intuenti fortaffe
aliter res fefe habere videatur: tantum enim abeft, vt pro Nomineponi quis pPomba,
vt + etiam prius, vetuftiusque intelligamus Prono i men quam Nomen. Quum enim
quædamfint demongratiua, vt Hoci ctiam ignoras irei Nomen demonstratæ aliquid
significabit. multæ res carent nomine, per Pronomen demonstratiuum
intelliguntur: ergo pro Nomine non ponitur, quod nomen fane nondum extat:
eodemque modo significabit,quo modo significant Nomi-" na hæc, Res, Ens:
vtcommunis nota quædam fit. Dico autem, codem modo: quia communi quadamæque
circunferutur significatione:nam modo alio diuersa sunt: quoniam illa
simpliciter significant, Pronomen autem Hoc, per demon-” strationem. Non igitur
pro Nomineponetur, nihilo magis quam Řes, aut Ens: sed to ti statim acfinemedio
notabit. Præterea Ego, et Tu,in-2 diuidualitatem ftatuunt magis quam nomen Cæ
faris, et Catonis: neque enim quum dico, Ego, potes alterum intelligere, neque
cum altero com municare: quum dico: Cæsar, etiam in alterum transmitti poteft
intelleetus: vt non folum non ponatur Ego, loco nominis huius Cæfar: sed et
iamecontrario, nomen ipfum Cæsar, per Pro nomenad certama substantiam
præfcribatur. Vt etiam plus errarint, qui sicsentiut, Ego effe Pro nomen,
quoniam pro Proprio nomineponitur:* fic enim etiam nomen Appellatiuum esset Pro
nomen, cum dicam,Homoloquor:ponereture nim pro Cælare: fed fubftantiam meam
ftatim fignificat, non nomen meum. Præterea fibiipfi cõtradicunt: negant enim
poffe ficmeloqui, lu lius scribo: fed fic, “ego Iulius scribo”, ergo pronomine
non ponitur vt vicarium, sed ut primarium. Neque Verű est, quod aiüt,
appellatiuu in Propriu resolui.sunt.n.nomina quædam generica, et specialia
seorfum a propriis,quæ nunquam resol uuntur:vt Piscis,Auis, Homo:
quibuspotestattri buioratio, et ad eaetiam conuerti: veluti quum
humanigenerismiserias fleam, ficinstituam, o homo,genus infelix, Tutibi paras
infortunium. PronomēTu, eft fpeciale. Eadem ratio sui comparis, Ego: respondere
enim faciam hominem pro tota specie, sic, Deus me talem creauit. Sed etalia
exempla sunt commediora, vt in nominis bus Collectiuis, Auditu populus Albanus:
Hæc dicit populus Sabinus: Ego non ceda tibi lare pa trio.Quid igitur? aut
nihilintererit inter Nome etPronomen: aut etiam Pronomen erit præstan Joba,
tius Nomine?Minime:fednomina inuenta sunt, quia resnobifcum ferre nequimus:
itaque sem per significantfine adminiculo. At Pronomina, w autreferunt
Nominaiam pofita, aut egent præ sentia loquentium: et per se nihil ftatuunt,
nisi u aut Nominibus adiuta: aut præfcripta demon uftratione: iccirco communis
hæc natura'eftinda ganda. Sicitaq; alii definiuere, Diet ioinflexa ca Libus,indiuiduam
maxime effentiam fignificans, fine vlla quidem temporis,fed nunquam fine de
finitæ personæ differentia. Verumnequaquam 1 Aduerbium Maxime,inferendum
fuit:æquabilis enim est omnis definitionis vis: neque recipit in tenfionem aut
remiffionem: neq; plus fignificat effentiam indiuidualem Pronomen Ego, quam
Nomen hoc indiuiduum, ne quis dicat Aduer bium illud positum esse ad nominis
difcrimen: Neq; essentiäfignificat potius, quam ipsum ens: quum enim dico Ego,
no significo mcam humanitatem: id eft, hominis formam,qua homo fum: fed totu
hoc quod sum: ncque potius effentiam, quam essentias.habent enim etiam pluralem
nu merum. et relationem æque multa significant, non essentiam: immo etiam
plura. Nam ab Ego, duo habes, Meus, et Nofter:a Tu, totidem: a Qui, item
duo,Cuius, et Cuias. Præterea cætera relati ua, qualis, Quantus, atque eius modi,
omnia di cunt accidens, non substantiam. Quin etiam obliqui casus illorum
rclationem notant, sic,Ensis Illius:non significat hîc ensem, fed poffeffionem,
etcnsem consignificat. Tertius error, cum ne - 3 gant vnquam Indefinitam
perfonam a Prono minestatui. Omitto quod vocem hanc Nunqua, male inseruerunt
definitioni: nam definientisa tis est,dicat,Est hoc, aut hoc: sic,aut sic:
definitio enim intelligitur competereper se, et omni, et vni, et femper. Sed
demus hoc Grammaticorum fupellectili curtæ,at illud falsum est, Multa funt,
Pronomina, quxcuiuis adhæreant personæ, Is, lllc, Ipse. Ille ego,qui quondam:
Ipfefubibo: Is fum Quirites, quem me effe voluistis, Ergo non definiunt
personam,fed ab aliis definiuntur.Item Meus fum, Meus cs, Meus eft, et vt ait
feftiue Plau » tus, Noster sum: in quo nihil a nominibus diffe runt, quæ non
variata voce varias recipiuntur in personas. Igitur aliter quoque definitum
eft: Quod certius, quam Proprium nomen signifi- soc. cat.Hoc autem falsum
est:certiorem quidem rem poteft significare, scilicet præsentem: at certius non
poteft: Etenim sine medio Propriu nomen fignificat indiuiduum suum, præterea
non cuiuis competit Pronomini: quis enim dicat, Meus, Tuus, certius
fignificare, quam Dauus, Syrus?. Immo nisi aliquid apponatur, nihil
significant: Quum enim relatio non in vna tantum reinue niatur, fed intes
plura, nisi aliquid addas ad quod Resoben illa referantur: corum
fignificatusvix extet. Nos igitur aliter sentimus: Pronomen a Nominenon
differre significatione, fed modo significandi. Hæc autem differentia eft
triplex:acquemadmo dum,Par et Impar, non cuiuis numero vtrunque fimul, sed
certo alterutrum competit: ita hiaf fectus, quos Modos significandi diximus,
alius alii competit Pronomini. Primus est, quod rem præfentemindicant loquenti:
id quodnon facit Nomen:vt, Ego: aut etiam ei,quicum loquitur: cevt, Tu.Atque
hæc poffuntponi, nullo nomine fubintellecto:rem enim ipfam ftatim per fpeciem
intelle etui repræsentat, non per nomen. Alter 2 est, quod pro Nomine ponuntur,
vt Relatiua: Cæsar bellum geffit, isvicit:idem estCæsar vicit. Tertius est quod
non folum pro Nomine ponun 3 tur, fed etiam cum Nomine, vt ipsum repræ fentent:
Ego Cæfar. Ex quibusipfa Definitio colligi poteft: atque ex Definitione Diuilio
cer tas in fpecies, quæ de manu veterum afferendz funt nobis, atque vindicandæ:
ipfi enim Relati prone vum Quinegarunt Pronomen esse, peffimo qui dem consilio:
quum fecundum eorum definitio nem, quænihilaliud ftatuit, quam pro Nomine poni,
totam eam naturam,ac multo melius quam Ego, et Tu, fibiassumat. Nam fi Is,
Pronomen est, quare Qvi, non crit? idem enim Vfus vtriuf que, etForma, id est
significatio, et materia: nam fuit real d's,Quis:ro, Qui. Par error etiam quum
» + Relatiuum substantiæ appellarunt, refert enim etiam accidentia: vt,
Calorem, quem vides,con traxiex ira. Quare alio modo ex diuisione nun cupandum
erit: non ficut fecere. quibus Prouo- + cabulumpotius dicere placitum est. Nam
Voca bulum eft quodcunque in voce consistit: etiam ipsa Verba Vocabula sunt:
quis hoc neget: nifi superstitio Grammaticorum? potius nutus quif-» piam,aut
oftengo aliqua.Prouocabulum dicatur, quibusloco Vocis,et Vocabulivtamur.
Diuifioautem fiet,ficPomba Nominis:nam alia Sprej dicentur substantiua (vtemur
enim vocabulis re ceptis ) alia Adiectiua, non quæ Substantiam Roho tantum
significent,fed etiam Accidens: vt, Isco lor. Sed quia non repræsentant modum
acciden tis, alia autem ftatuunt ipsum modum, vtMeus: nam sicutSeruusfignificat
poffeffionem, etcon ť fignificatsubstantiam: fic etiam Meus. Quare er iam
Relatiua, alia dieta funt Subftantiæ, vt Qui, as Is: propterea quod line
fubftantiam fiue Acci dens referrent,modum ipsum apponerent Sub ftantiæ: quum
enim dico, Is color: tametlico lor in corpore est, tamen non indicatur a me, I
quatenus eft in corpore. Alia dieta funt Acci identis, non folum quæ Accidens
natarent, fed Anhmpi etiam quæ consignificarent Substantiam. Nam
Quale,significat Accides vteftin substantia.Re centiores autem leui nimis de
cauffa Qui, inter + Pronomina recēluere: propterea quod,inquiut, quorun: nlah IvL.
VI. quorundam Pronominumdeclinationem feque Į retur, Hoc autem eft ridiculum,
Affectus variare Subftantiam accidit enim Declinatio Pronomi ni. Itaque etiam
vsu mutantur. nam quod dici mus Alterius, fuit olim, Alteræ,in fecundo cafu 2
feminino. Præterea multa Pronomina Nomi num fequuntur Declinationem,
Nominaigitur erunt.Ego,Mei: Tu, Tui: Meus, Mei. Et contra, NominaPronomipurn:
Vnus, Vnius: Solus,So grozilius. Ex quibus constat Pronomina Relatiua ac
cidentis resolui in substantiuum cum ipso acci dente quod referunt. Nam Tantus,
eft nomen confulam fignificans magnitudinem. Sic Tan tus Aftyanax, Tantus
Hercules: id est, hac, vel hac magnitudine. et fubdam, Quantus Syluius, Quantus
Cæfar: id eft, qua magnitudine. Ea dem ratio et in cæteris:Qualis.quo colore:
Quo tus, quo ordine, etreliqua. Proprium Relati omuifubftantiui eft fle ettere
naturam fuamin ora tione, ficuti de modo Indicatiuo dicebamus: id fit ei tribus
modis: Interrogationc, Quiestis vos? 2 Negationc,Nescio quam in gentem
veni:vbiec 3 culta est quædam relatio. Occultior autem etiam in illo, Quid
hominis es? vbi vim quandam No minis fubiiffe aiunt: fed vfus hæc flexit.
Hincet iam elicimus,quod veteres omifere, Adieetiuum + etSubftantiuu, non efle
Nominis affectiones aut differentias, vt Nomen est, fed vtest Dictio.com petit
enim etiam Pronomini. Atque erroranti + quorum patet, qui putarunt Pronomen a
Nomi ne diffcrre: quoniam Nomen nullam personam determinet: Pronomen autem
certam ftatuat. Nam et Vocatiuus Nominum certam ponit: et, Ipse,llle,atquealia
non certam.Illud quoquecon topresent templandum est,quod aiưnt, Pronomesine
Dest monstratione, aut Kelationenihil significare.Act fententia quidem vera eft
ipsa, sed oratio minus at bene compofita: vsi enim sunt voce demonstra mulher
se tionis,pro repræsentatione. Neque enim qui di Evden cit, Ego,semper
demonstrat: nam quemadmodu meablenti tibi demonstrabo, quinungmgmuli?Iyon a
casa lus vides? mispoloma 1322878 Ambigitur autem etpræter hæc, Alter, et Neu
asygoiza delo ter,atque eiufmodi,sintne Pronomina.nam qui dam ipla vocarunt
nomina Partitiva:sicut On nis,nomer Distributiuum. verum enimueroli Si
quiseorum ortum fpectet, inveniet effe Prono-so', mina. Est enim Neuter, non
vtero et Alter; alius yter: at ipsum Vter, Pronomen effeconstar: non / enim
differt a Qui,nisi per modum: quoniã duo bus tantum apponitur Vter: Qui, vero
pluribus., Quareetiam Alius, pronomeni eritidiffert enim Ali ab Alter,sicutQui,ab
Vter: atq; exponuntur per nomina lic, Vter fecit? Cæsar?Non: Alterfecit.
Quisille alter est? Cato: neque enim alio mo do ponitur,quam fi dicat, ille
fecit, non hic. Est autem Vter, oĚTERG'Alterjan GuerepG itern cę=> ter,
ngungo. Quare etiam Omnis, et eiufmodi Ommi erunt Pronomina,suntenim signa
Nominuine-, quenumerum significant, effent enim Nomina, vt Vnus,Duo: sed niotæ
tantum funt Nominum. Quum enim dicis; Quis homo disputat? et refa pondes,Omnis
hocsignificat;atque si fingulos homines nominatim redderes, vfque ad vnum Y jo
ýitie int nh T. 334 IvL. CÆs. Seal.VI. vltimum. Videbitur autem quibusdam
absurda hocpropterea quod fignificet Quantitatem: fed non ita est: imo vero
hignificat Distributionein a etionis,aut eiusmodi in quantitatem.itaqueper
Pronomina quoque cæteræ propositiones expli cantur, Quidam, Aliquis. Dubitabit
autem quis. * wley piam,Nullus, Nomenne fit; an Pronotnen, ete nim ab
Vnoducitur: at Vnus Nomen est, quãti tatem enim, siue principium eius
significat. ad shoc fic refpondemus: Nomen esse,etinopia ser wimbonis vsurpatum
pro eo quod effet, Non quil. quam. Eft autem origo ipfius Omnis, Greca, couco,
vt Collectionem et Distributionem, non Quantitatem accipi intelligamus. Pronominum
affe tus. Ronomina afficiuntur quib. et Nomina, Speranter. Primæ Speciei,
“ego”, “tu”, “sui” Deriuatx, “meus”, “tuus” “tuus”. Genera in quibusdam distin
et ta, “meus”, “mea”, “meum”. In quibusdam conueniunt, Ego, “bonus”, “bona”,
“bonum”. Numeri duo, “Ego”, “Nos”. Personæ: tres: “ego”, “tu”, “ille”. Figuræ
duæ: simplex, Ego: Composita, Egomet. Casusalii alijs, neque numero æquali. Ac
de Specie quidem, met Genere, Numero, Figura satis conuenit: de Ca duautem non
in omnibus. Circa Personam quo que non idem sentiunt omncs. Ad hæcigicur in
telligenda, vsus ac ratio corum cxaettius suntper perso fcrutanda. Signantur
igitur duæ personæ,Prima, ac Secunda duobus tantum Pronominibus: at Tertia
pluribus.Non quia Prima, et Secunda, prę fentes funt, vt dixere: non.n.id verum
eft: nam quamobrem Epistolæ sūħtinftitutæ? Sanein his abfentes loquimur
deTertia etiam präsenti al $ terutri scribentium. Sed quoniam et qui loqui- »
mur, et ad quem loquimur, vnico intelligimus modo: at tertiam non vnonam aut
monftramus, aut absentem referimus: fic enim distinguimus, vt alia fint
Demonstratiua, alia Relatiua quæ fia ne discrimine vtriusque naturæ vices
fubeant, Demonstratiua autem laxa, vt diximus, voce: nã aut præfentem
sensibus,aut intelle ettu:Non quệ. + i admodum scripsere, fic, præsentem autad
oculu, aut ad sensum: quasi vero oculus senfus non fit; quali vero si de voce
loquar, oculo percipiatur. Itaque demonstrato colore,aut sono, aut fapore, aut
odore, aut retactili, sensu constitui ostensio De nem dicemus. fi dicam, Hic
motor, cujusvolun 16 tate orbis rotatur: intellectui præsens demonstra i bitur.
huius generis est Hic. sub quoetiam alius moduscontinetur:interdum enim quod
non vi I demus nos,alteri,quicum loquimur,demonstra al mus. quippe rem iplius
præfentem fenfibus, aut y notam intelle et ui:huius generis est iste:
absen-> ti enim fic scribam, Ista tua cura, quæ te angit: Iftud Mufæum, in
quo scriptitas. Neque enim prisci re ette fcripfere, Pronomen Iste, lignificare
+ præsentem personam: fic enim fcribam, istud tuum prædium, in q diuerti fessus
de via, abest ab vtroque noftrum mille paffibus. Præterea i pa pfi
fibicontradicunt:aiunt enim, Primam et Sccữ + for dam non variari per genera,
quoniam presentem Y iji rem semper indicarent: ergo ifte, quomodo per genera
variatur, fi semper præsentem perfonam + indicant? Alter quoqueeorum error,
quum HIC, appellarunt Pronomen præpofitiuum, iccirco, quia fignificet primam
rei cognitionem: id est, " quod reddaturinterroganti,fic, Quis fecit? Hic.
lam omitto pessimum loquendi modum, neque enim significat cognitionem rei, fed
nota eftco 2 gnitionis, significans rem. At enimvero etiam subiungitur relative
ficut etiam Is, frequenti vsu Cæfaris, et Salluftij, nimirum vtriusque origo ea
a dem est.soxiglfee:oxe, Hice, a quo per Apocopen, Hic:nam lones:, pro o,
dixere. q An vero, q aiunt,verum eft? Primam et Secu dam non variare vocem per
genera, propterca quod præsentes semper fint: 1 ertiam variare, il lella,illud:quianon
(int præsentes; quæ sub ter Rc tia circumferuntur. Atquehociam a nobis reie '
ettum eft.Namque quod appellantPronome Demonftrativum “hic”, “hæc”, “hoc” variatur,
ac præ fens tamen ab ipsis femper ponitur: itaque suis ipfitelis pereunt:
pereunt vero et noftris: non e 2 nim semper præsentes inteľ nosloquimur. Quid
enim ex vltima Germania fcribat ad me puella, atque ego refcribam? Amo
te,inquiet: ia hicge nus neceffarium eft: vt fciam, amicusne ani amica bene de
me fentiať. Quærunt etiami, qüum Pri. ma, etSecunda certis feratur
numeris,quamobre Tertia non distinguatur: Quoniam,inquiunt,ex
antecedentinumeromoderamurfequentisper • fonæ intelle et uri,sic, Ipfe se
interfecit:ipfæ fe in Renterfecere. Atenimvero ratio hæcnulla eft: nam priimum
dicam, Græcos non carere numero plu rali, ex tOY, łauto's. Deinde hoc modo
foluentur- 2 oinnes quæstiones; Mobilia enim Nomina, non erit pecesse variare:
intelligimus enim fexum ex præcedenti substantiuo, et Casum, et Numerum: lic et
verborum ratio vnica voce eadem fit, qua. lis qualis præcedat: Cauffaautem
huius rei fuit Græcorum imitatio: nam tametfi in composito distinguant, vt
posuimus: tamen simplex vox, tou vnde noftrum Se, communis vtrique numero fuit:
id quod non tam consulto fecere illi,quam cc euenit forte, vt etiam in multis:
Nam quid limi leințer fyw, et nueis: rv, et vues? defe et u igitur multa
funtinnouata, fuis deftituta, aucta alienis, ficapud Latinos, Ego, Nos, Tu,Vos.
Quare vt eum errorem emendarent, addidere alterum Pro nomen quod afferret et
numerum, et genus.Grę ci antes; nos, ipse. Ealov, seipsum. Quod autem
chicafferimus,verum effe fatis constat,quum in ca » ulibus quoque non inuenere
vocem, qua differtent. Nihil.n, intelligas diuersum, cum dicis, Se interfecit
Cato: et,Seauthore voluit Cæfarem in kerfici. Orationis enimvi
percipiasCasuumdif Kerentiam,vocis autem fexunon percipias. Assi egneatigitur
rationem, quare duorum Cafuum, esnaxime'diuerforum, idem fit fonus.
Relatiuaautem funt Is,etQui,vno modo: ree nila tina? cerunt enim rem jam
positam. Altermodus este quum relatio fit per reciprocationem,hæc vnica
Elantum, ocem habuit in Pronominibus, SE. Exemplum veriųfq; esto fic, Cæfar
optimus.jma.» perator, atque vir fuit clementiffimus. is Gallos pue Out Y 'iij.
VI. pygnando, et seipseignofcendo,vicit.
Inter hæc. connumeraruntetiam ille. Nonpessime sentiut, fed exemplo vtunturnon
bono,e feptimoÆnei. dos, -- Sic Juppiter ille monebat. At enimuero in
exemplaribuslegitur Ipse, non autem ille: neque enim refert Iouem, cuius no men
ibinufquam positum eft: eft enim Ule, Iste: non dicas igitur hocloco, Sic is
luppiter mone bat. Quis tandem füppiter? nullus enim ibielt. Quod li in
quibufdam fcriptum inueniatur, vt volunt, Emphalim intelligamus: vt, Thais illa
Corinthiaca. Eft autein miltæ naturæ, atq; indif Ce ferentis,tum ad Relationem,
tum ad Demonstra tionem primi exempla frequentissima. -Teretesfuntaclidesillis.
ato -Ille etterris iactatus. Oftendit autern in Sexto, Ille triumphata
caputolta ad alta Corintho. demonftrat enim Mummium. Differunt autem Demonftratiua
abRelatiuis, quod Demonstrati uaftatuunt primam cognitionem: vt, lste tuus
animus C.Cæfar te perdidit. Relatiua autem eam iterant fic, Is te reddet
immortalem. Nam quod Gaiunt, boc Pronomine Bíte, propinquam rem fi pang
gnificari: hoc Pronomine lile, longinquam; non plane verum eft. fed ita
accipiamus,vt Iste 11. semper referatur ad rem,aut perfonam,adquam loquimur,
vtin Secunda in Antonium. Iltis fau cibus, ista gladiatoria firmitate: id eft,
tya. Istam vrbem appellabo cam, in qua agit is, ad quem fcribo: illam autem, ab
eo remotam,aut istạm vrbem de qua locuti fumus, Quoniam eius ori, gouls, parem
vsum habet. Sed et aliquid præsens» $ E Iitud, appellamus,vt apud Quintilianum,
lite iuuenis.Et de eodempaulo post,Hic iuuenis.Se cundo modo vsus est Gellius:
Brundufium ve ni, atqueisthic offendi quendam: pro, Ibi: atque fi dicat, Ifto
in oppido offendi:vt,æque dicatur, Isto oppido, et Eo oppido: quoniam ifte,lit,
ls, Te Atipse, commune omnium personarum est: upan dicimus enim, - Ipseferam
teneralanugine mala. et, Ipse vides: et ipseratem contofubigit. Quare quuin
Tertiam assignarint, minus verea Prima, eta Secunda 2-, mouere.nequeenim recte
probant sic: Dicimus, inquiunt,Ego feci,Tu fecisti, Ipfe fecit: quare si cut
Ego,est primæ;Tu, fecundæ: fic Ipfe, Tertix. Huic nosad hunc modum et
refpondemus, et obiicimus: Si Ipse, non effet omnium personaru,» noniungeretur
Primæ, fic, Ego ipfe. Neque vlus) lam figuram effe in toto ambitu literaturæ,
quay: Prima cum Tertia iungipossit. Item dicimusno effe verum, sic poffe dici,
nifi prius aliquidsub- ») + fic quod referat: exempli cauffa. Quærit Anto nius
de O auio, et Lepidum alloquitur: Quis patrauit parricidium Ciceronis?
nonpoteft dice rede Octauio,Ipfe fecit: nis O et tauium nomina rit.efteniin
relatiuum: fed commodius etiain si senon nominat, potest dicere, Ipfe feci.
Sednul- + gantur etiam cum dicunt, Verbum ipfum Primæ perfonæ habere
intellectum Pronominis Ege: quoniam si sic dicas,Feci:neceffario intelligas, E
go.igicur poffe ponicum primaVerbi,quia pria. maPronominis fubfit.Verum de
Tertia quoqne idein CIE 16 1016 7.50 del adi Y iiij. VI. bigo ling 0 idem
intelligas,Fecit, habet intellectum prono 2 - minis Tertiæ. Præterea Gcut
Relatiua cætera o mnium funt personarum:fic etiam hoc: nam eius see metha ho
qual harorigo est ab Is: Ipse. at, is sum,dices: et, ls es: et, is est. Addunt
alterum augmentum. interro ganti, Quisfecit? nüquam respondebimus, Ipfee pro,
Ego:aut pro,Tu:sedpro Tertio. Hic eft'fal lacia fimul et falsitas: Fallacia
eft,quia fi dicas lp: fe, et oftendas Tertium, recte dicas: fed etrede cefite
oftendas, auteum quicum loqueris: Nutas enim et ostensio statuunt primam
cognitionem, quam iterat Ipse.Si autem nullum oftendas, fal sum est,fic poffe
loqui nos. Quis enim eft ifte ip se? Acutius etiam intuenti apparebit ratio:
nam ce interrogatio est in tertia persona verbi: itaq; fa cile reddas Ipfe fine
verbi repetitione. At fi dicas fic, Iune fecisti hoc? possim refpondere, Ipfe
fane: etiam nullo verbo repetito. 2'Præterea quis nescit; Affirmantis, et Interro:
ganuis, et Respondentis orationes non differre nisi modo quodam? igitur Aeneas
quum dicit, Quæque ipfemiserrimavidi.nonneinterroganti Reginæ fic, Vidifti
ipfe?refpondeat, Ipfe. Respon demus tamen certius, et commodiuspalia, Hic, w ]
ste,ille, ficut et Græci, što, deiva, cileivG.Pru udentius igitur fecere, qui
Fi@ yuanxov appella uere, propterea quodomnibus subiungeretur p fonis, quasi
ordinarium additamentum intelli e gas. Consultius autem etiam,qui dm et
Tixev,pro pterea quod intenderet significatum. certame nim rem ftatuit, atq;
circūscribit:plusenim est, Ego ipfe,quam Ego.Iccirco pro Solo,etiam
sunt interpretati: at id euenit pro structura orationis, atque yi
verborum: yteoversue Sexto diuinio peris, Iple ratem conto subigit. Quum enim ne-
> - minem, præter Charontem, nominaffet, retulit = eum in fingulari. quare
etiam folum intellexit Sed fi duo aut plures fuissent, poteratetiam fic, Ipsi
ratem subigunt: vbi nihil effet solitarium: Sed nunquam Grammatiçidesinent
ineptire: ve slutiquum ausi suntdicere, effe hoc versu Nome, + non Pronomen: et
tamen eftloco eius nominis, Charon. Sed æque est, atque sidixiffet,idem.In
terdumvero etiam additum nihiladdit:vt apud Ciceronem, Quiante seipsum
Consulfuit. Vfos autem fuiffe veteres aliter hoc Pronomine, quam ab istissit
obseruatum, oftendimus in O triginum libris. vtaliquando quasi loco Adner.no
satiuæ, autSubdifiun et iuæ capiamus:velut apud Catullum eo versu, Namcaftum
effe decet pium poetam _ Ipsum: verficulos nihil neceffe eft. Etapud Virgilium
in Tertio, Portus ab acceffu ventorum immotus, etingens Ipse: fed horrificis
iustatonatAetnaruinis, Eodem modo in primo Achilleidos Statius, Vacuisque
reliquerat antris Ipsam: sed carulos afporiat: Plinius quoque id obseruauit,
vsusque est libro, decimofeptimo: Vites,inquit, Aquilonem fpe ctare debent
ipfæ: sed eorum palmițes Meri diem. In vicefimotertio Liuius non cum Aduer
Satiua, sed cum Copulatiua iungit: L. Pofthu mium consulem dilignatum, ipsum
atque exer citum deletum.Eftigitur trium personarum con munis vox,tam sola,quam
addita:tam Relatiua, quam Demonstrans. Pronominaderiuata. 20 D Eriuata
Pronomina;a Primaet aSecunda, bina sunt, a fingulari, etplurali, eaque di ftin
etta vocibus, quia origines distinctæ: Ego, Meus:Nos, Nofter. Tu, Tuus: Vos,
Vester. Vbi fecudę facilior esse videtur analogia, a “Tu”, “Tuus”. At Primæ non
item, fed ab obliquo Mei,nõ are LIĆto,Ego: In học Græcos sequuti sumus,
uzzeući, allli autem non temere pofseffiuum pronomen Cerâ poffeffiuo cafu
deduxere: neq. enim diftat fues lembuos, nisi ficut Albedo, etAlbum:quare neque
« Taysa Turecto, vt putarunt, fed obliquo fecun do casu ortu est.A tertia vero
persona non fuit de ductio,ppter numeros variata, ppterea quod ne primitiuum
quidem variabatur.cauffa autem pro pter quam ab vtroqueNumero deriuentur, hæc
eft,Quod Græcidicunt apos, ti, nos relationem: fignificar duo,rem ipfam,et
terminum quendam ad quem refertur:igiturpoffessiua pronomina et Grem poffeffam,
et poffidentem consignificabunt Square numcrum pronominis poffefui accipie, mus
a numero reipoffeffæ: etnumerum prono {minis primitiui,vndeillud poffefauum du
et um est a numero poffidentis. Igitur quum dicamus, Ego polsideo libros:dica,
Librimeisunt.et, Vos poffidetis librum:dica, Liber vester est. Hincli. quçt qua
ratione a pronomineprima persone du ettum sit pronomen tertiæ. Equustertiæ
peren sonæ eft: itaque Meus equus si dicam, tertiæ quo que erit, et a ME, quod
est primæ perfonæ, due ettum est. quoniam relatio eft adprimam: figni-. ficatio
ad tertiam. Natura, et vsus prominz Sui,Snus,etreliquarão porei ori Vanquam non
est presentis operæ,decon-? structionis vsu,autlegibusscribere: tamen quia
natura primitiui, et deriuatiui Terrix per fonæ multæ præclara ingenia vexauit:
alia etiam jelulit:a multis confuse aut perplexe tractata funt: videamus hîc
quæ eorum fit ratio. Relatio du. ou gone splicimodo intelligitur:nam aut habet
terminum i extra rem quæ refertur: vt Dominus refertur ad Seruum.Aut habet
terminut eundem cu requæ refertur, ratione tantummodo differentem:velu ti quum
dico, Cato fe interfecit:Pronomen Sereia et fest Catonem ad Catonem: ratione ab
fefe diffe rentem, non substantia: propterea quoddifferta seipso tanquam agens
a patiente. Iccirco Græci a vpexAcest, quafirefra et um dixere: funt.n.oria's
fia, sellæ plicatili in feipfas reciprocatu. Verum ea vox dariufcula eft,
reditenim in agentem para fiointegra,non fracța.Itaque alia w Toma Desa fed et
communis hæc nimis:sunt enim yerba quar "dam talia, talique nomine
censita, vt Bereo: et al terum tantum terminum dicit,Paffionem.Noftri autem
melius,Reciprocum:qua appellationemx tuam rationem referendi complexisunt: semper.n.redie
vis reirelatæ in feipsam:Ipsefui memor: Ipfe fibi hostis: ipseseamat: Ipse de
se hoc exigit. Ætas noftræ proxima in cæteris cafibus optime uvfa eft: intertio
cafu frequentiffime hallucinata; apud plerosque enim inueniasfic, Ego dedifibi:
etiamin oratione diserti yiri Agricolæ. Græci cautem veteres abusi sunt in
poematis fuo opě, co dem modonon reciproce,fed transitiue. prome? Cumigitur
idem sitmodusorationis, etnar rantis fimpliciter, et referentis narrationem: ea
dem quoque erit ratio dicentium fic, Portia fe interfecit: et fic,Portia
rogauit, vtse interficias, Refertur enim in prioreexemplo,Interfe ettio: in
pofteriore,Rogatio interfectionis: at Interfe ettio.. femper in Portiam
recidit, hæc est natura Pri. mitiui. Quod autem ab hoc deriuatur Suus, parem
naturam, vfumqueeft conseeutusa: vt quocun que loco primitiuum poneretur, in
eum locum ius fuum haberet: sic, Portia fe interfecit: et fic, Portia fuam
vitam intercepit. Differtautem a Primitiuo ficut Adicctiuum a Substantiuo: Ita
que etiam reciprocatio differt ab illius recipro cations namin deriuatiuo redit
reciprocationo inrem a quaprocedit a et io, sed in ea quæipfius rei funt.fit
hoc exemplum:Vidi Cæfarem homi nem:hîc fubftantiam ipfius Cæfaris intelligo:
at, VidiCæfaremhumanum: intelligo hoc, quodis pliushominisest. Sicin
Pronominibus. Vidit fę Cafar: Substantia reciprocatur:ar,Vidit fua Ca
farareciprocantur ea, quæ Cæfaris sunt. Acquan uquam hocquoque modo potest
Substantia reçi aprocari,vt fi dicat, Vidit Cæsar sua crura: tamen non
permodumsubstantię refertur,fed alio præ OC dica EN 1 pro, vestrum. 00. 101
dicamento, 58 l'adv, per poffeffionem fane: quare Poffeffiva bæc di ta funt.
Intelligo autem pofler fionem, quæ aut fuit, aut eft, aPombaiam futura eft:
vtsuum regnum hæres dicat, quo nondum poti tus est. atque ipfam
negationem:vtapud Vergil. Non fuapomia. lidem tamen Græci licentius vsi funt:vt
Hefiodus, o nepov za tele vureisoa. suum, Sed loquendivfus maximus Tyrannus
elt:Surving replit enim etiam Latinis, vt vbiponeretur veras,
bumSubstantiuum.eo quoq; fubiret Pronomem hoc: vtapud Vergil. --Sua femper
apudme Munera funt Lauri. Et alibi, --Sunt hic etiam suapræmia laudi. Neque
abeft ratio: per verbum nanque Substan tiuum nihil extra effertur, fed in eodem
quiescit: ! itaque par est reciprocationi, quali stenow,licu tidicimus
quædammembriscarentia,Sedere:qa' non moventar.Paulatim tamen invaluit, vtad -
ll lia verba transferretur: Nam quum dicendum effet,Suo gladio feipfe iugulat:
tamen Terentius, Suo gladio iugulo,dixit: Eft apud Martialem a pertius:
Etsuariseruntsacula Maonidem.Id autem pau lisper medio quodam loquendi modo
invedums eft,qualis apud Catullum: Snus cuig, attributus est error: eft enim
ibi et Substantiuứ, etParticipium. Quarepotuit præ terca dici,Suus cuique
innafcitur error. Ita fcri ptum est in inveđiva in Sallustium: Quod fi i Te
ftius vitam memoria vicerit; aliam P. c. non ex DOS 017 eti 7:6 2:07 701 Ja idi
QUE W oratio 2 346 Iul. VÍ. oratione,fed ex morib.suis fpe ettare debetis. Eiuf
dem modi eft illud Ouidianæ Penelopæ, Aspice Laertem, vt iam fua luminacondas.
Ita que ridicule nimis ausi sunt accusare folçcismi Diuinum poetam eo verfu:
Namg;fuam in patria antiquarintsater habebar. Eftenim eiusdem
rationiscumfuperioribus. Ne -mo vero dixit vnquam solæcismum eum, quo do etti
viri vterentur.Sicenim omnes sunt loquu ti, vt pure, nonruftice loqui
putarentur:quemad modum M.Tullius pro Sylla:Sylla,fi fibi füus pu dor,
etdignitas non prodesset,nullum auxilium + requisiuit. quem dicendi modum
temere nimis inusitatumappellarurit:quum etiam Plautus, qui Romanæ linguæ lex
quædam fuit:etiam Teren tiusqui veteris nouique Latij limaquædam ha bitus eft,
ita etfcripferint, et feripta totiusvrbis iudicio approbarint.Plautus in
Mercatore fic,Is " bet faluêre suusvir vxorem suam. Terentius aute etiam
fine vllo responso mutuo, sed absolutene que solum deriuatiuum, verum etiam
primitiuus Suo fibigladio hunciugulo. Quare feretur illud Ver gilianuin eadem
prudentia: 1 Viuitefelices, quibus est fortunaperalta Iam fua.Id est, iam sua
cuique, ficut eft clarius in Sexto: Quiquefuospatimur manes. Tria'kinc
colligimus:Primogeniüm nuquam fineaperta reciprocatione poni præterquam mo
doillo Terentiano: Deriuatum autem occultio re, sic, Sylla si fuuspudor fibi
non pdeffet:id eft, prodeffe intelligeret. Alterum est, nullum efle 1
dia terbietet CIOK 0 CUTIQUE 1101 umaut emeret etiamTe y quedar
tatorin discrimen, fiue vulgarem teneat significatum, et ue pro eo, quod est
proprium ponatur: præterca recte dici,Suus Cæizris, et Cæsarum.quoniam la
primitiui voxa numeris non variatur,et SuusCæ fari:quoniam verbum orationis
obliquz dux est, atque ipfam regit. Eft et illud manifeftum, Distributiuo Prono
mini additum circumagi per omnia Genera, Per funtia sonas,Numeros,et Cafus,
idque fieri vi distribugg tionis: Non folum igitur cum Quisque,vt dixere: sed
etiam cum Omnis, et Quicunque, et Quil quis, et eiusinodi: Suum omnes Nationes
tuen tur morem: Quemcunque suæ originis pænitet, Plats eum oportet
effeineptuin: Suus omnib. A fiaticis dicendi mos eft: et alia talia. Sic etiam
additis Pra politionibus: Starum fortunarum ergo nauigac Lufitanus. Etiam in
Sexto casu, contra quam sen fere:Suo quinis genio potelt acquiescere. Hoc etiam
eliciemus, quuin Scintelligamus el se semperreciprocum, fi duæ lint
perfor:ą,tolle- zimmunocom dæambiguitatis caussa, alio Pronomine vsos ver que
teres. Diligenter itaqueobscruatum eftin decla matione Quintiliani: Non sic
nuper repugnafz fct, fi illum i ribunus voluiffet occidere. Si n.dia ! xiffet
Se, haud intelligeret Marius, vtrum accipe ret, Reumne,an Tribunum. Par
exemplum est, Rogauit Nero Epaphroditum, vt fe occîderet, Nescias vter sit
occidendus; Nero, an Epa phroditus. Verum hoc loco fi illum, pro Se, fubdas,
minus commodeloquare. Ita est:Rogat Philumena te Pamphile, ne fe deferas. Ergo
i dem crit: Rogat Philumena Pamphilum ne fa desea crcatoret serenie dablole
tampre returille serafta. licurelt enium Di przterea autem or cht,ouli deferat.
Verum hæ orationes maxime funt fu giendæ. Cuius consilij modum in primo librod
exemplis eloquentiæ a nobis dictum fuit:quili ber mihi vna cum duobus
pofterioribus iam per fectis aut a Carnuto, aut a Provinciali surreptu est. Mr
Eft etiam aniniadvertenda locutio illa, Inte fe: fic, FratresThebani inter fe
dissident. Grad anon tam feliciter: sannous, alius alium: non. n. complectuntur
illum mutuum responsum vltra citroque: at nos,Inter se, quali dicas, Medium in
ter cos diffidium eft. Itaque Se, eft casus pluralis, vtrumque
componensfimulacdisidium:iccirco distribuitur, deinde ad duo singularia
partitum hincinde. Animadvertimus autem Ciceronem in primo Officiorum sic
locutum: Homines au tem hominum cauffa essegeneratos, vt ipsi inter se, alij
aliis prodeffe poffint. Declarat enim, In ter fe, per dimonous. Etin eodem
alius loquendi soruyu mamodus est, Qua focietas hominum inter ipsos, et vitæ
quafi communitascontinetur. Idem enim eft, Qua homines inter fe fociati
continentur: imacon Colligitur etiam lex dicendi hæc, Suacaussa
feci:recte.Suicauffa feci: non re et e:non enim re ciprocat. Sed, Mei caussa
feçi:Sui caussa vt face % rem,rogavit. Quæram igitur,andicam, Tui cauf fa
feci:Mei cauffa fecisti.Etfanepoteft:non enim sunt reciproca, fed personam
tantum deli egnant:fed passivesemper accipiuntur.Tuiamor, quia tu amaris: Amor
Tuus,quia amas: vt apud Ciceronem: Quod desideriumtui ferre non pos fet.Etin
proæmio sexti Quintilianus,sic,Amore i inci Tolbe ab 01:18: G INH Donicos
Vledes. callspice 12 DATE diues arian in Cicent · Homia IS, VEINIL arateuis mei
vicitetiam matrem fuam. quod plusamatus fuieta filio quam a matre. Et
Vergiliusin xila Viettus amoretui. Quare vbierit reciprocatio, ni hil eritambi
uum: vrNarcissus Ouidianus,Vtor amoremei. Est enim ibi autoQinawlia. Atque hæc
quidem natura horum Pronomi- Exay numeít,vtfuum quodqueobtineatlocum: quod fi
eadem fine discrimine sedem ineant, id non ipforum natura fit,fed vi partium
aliarum, qui bus oratio constituitur. Sunt enim quædam No mina, vt Cauffa,
Fama, Imago, quibus vtrum ad dideris, idem fonat:Cauffa meafecisti: et, Cauffa
mei: propterea quod vox hæc Cauffa, vim habet tanquam pafsiua.fic,Imago mea, et
mei.quia Ima govno tantum accipiturmodo,de eo,cuiusest: 2 ethabet vnam tantum
rationem relationis: fic et Fama. At non fic Poteftas, non Memoria, non aº lia
ciusmodi:nam habet Potestas duplicem rela tionem: alteram adme, qua possum:
alteram ad alium, qua in me poteft.fic et Memoria, etVlus, nistel et Copia.
Copiamea,quam posfideo, quasum diues:Copia mei, qua quis in me vtitur. Sic
Fa-> cultas, etVtilitas, et alia talia:vt, Accusatio mea, qua drwxws ago
enim reum: Accufatio mei,qua Qevywagor enim reus.Sunt etalia Nomina, quo rum
natura non repugnats sed vsus tantumnon sur le icam, I admittit:vt,Seruitus.Nam
fi Dauus estmeus,eius otelio feruitus mea est: ille autem sic loquetur, Mei ser
uitus: ettamen correlatiuum eius non respondet ntur.Tu pari ratione: dico enim,
Meus Dominatus: et 12 am2; Dauus ad me, Tuus, inquiet, mei Dominatus. i ferreno
Caussa autem eft,quia funt relatiua inæqualitatis.-) Z j. Yeriant alius.log at.
Idea: continent 26, Sama e:noner ni caullari tuy tantum anus,liidid Iyl. VI. ti
et CI Verum,vt dixi, vulgus non ficloquitur,vt Domi nus dicat, Meaferuitus: sed
feruus. At philofophi orationi vsum illi concedunt, fibi reseruant sapi
lentiam. Quædamapertius etiam cumnominibus iuneta eandem naturam declarant, vt
apud Sallu © ftium, Metus Pompeij:non, quem metueret: sed, b quometueretur.
Quemadmodum igitur Nomina sunt,quibus gmin mofine discrimine assignentur:ita et
Nomina,in qui bus vnumpro altero ponctur. At non e contra P rio,vt vbicunque
erit Primogenitum, effe possit etiam Deriuatum.Ea vero funt, Pars, Totum,Di
midium, et eiusmodi. Hec.n.tam ad corpus meu, quam ad alia transferri queunt.
Quoniam vero a duplicem habent relationem, vnam qua declara P
ceturpoffesfio:alteram, qua fuis correlatiuis respon dent: iccirco duplici
quoq; Pronomine præscri bi sese patiuntur. Effentiapartiseft ad Totum,et Totius
ad partem, igitur per essentiale Prono E amenstatuetur:vt, Pars mei; ego enim
sum totum per partes. Poffeffio autem partis accidentalis ceeft:itaque mei pars
poteft effe non mea,puta vn a guium resegmina: autos e cicatrice, quod ferua
uit sibi Chirurgus,vtoperam ostentaret. Quo in loco falli funt, qui hocnegabant:
pars igitur bo mednot'ei uis,qua vescor,mea est possidentis:non vt pars, fed
vtres poffeffa. Sic Ouidij parte fruimur nos, nuncipfe non fruitur:idest
Nomine: itaque fica fcripsit, Partetamen meliore meifuper altaperennis 9 Aftra
ferar.qum viueret,poterat dicere, Parte vmca etMei: nunc non poteft dicere,
Parte mea, quan nullam habet: fed mei, quæ pertinetad to tum hominem, cuius
pars Fama eft, quasi anima rerum geftarum. Atque hoc quidem vfitatum ac
frequens est.. Quod vero e Plauti afferunt Pseudulo, non pro bant:id eft
eiufmodi: Duorum hominum labori parfiffem lubens,Meiterogandiset tui refponder
jeg dendi mihi:aiuntquedicendum fuiffe, Meo, et us Tuo.afferuntque a
Ciceronepro Gabinio exem plum: Dico mea vnius opera seruatam Rempub. et p
Murena: Extuoipsius animo conie et uram ceperis. Ego vero puto Plautum non
folum Lati ne,sed etiam purelocutum: neq;defuisseilli, aut, vfum produce, aut
rationem psuasore. Principio Græcisicloquuntur,monGous. Deinde lepoto nitidio restorationis:
Tum priscos vfos effe pri- i mitiuo prius, quam deriuatiuo,verum est.Poftreal
mo Cicero quoque fic fcripfit ad Curionem, 1 Eam vnius tui studio me affequi
poffe confido.» Neque enim est Librariorum mendum,vtaiunt: temere enim nimis
expungunt, fiquid non arri det.Nequeverum est,quod profitentur,cum No minib.
numerum præscribentib. fic faciundum effe: fed qualecunqneapponatur,ordinem
esseau torem diuerfitatis, feruitumque auribus exipfa concinnitate. Si præcedat
Pronomen, cõfueuere admittere Deriuatiuum; sic; Tuoipfiusstudio:fi sequatur,
ponere Primitiuum,Vnius tui operai ); quoniam nomen Vnius vagum est ad
plures,cir- » cunscribitur essentiali pronomine fubeunte:vt quærenti quis
fitille Vnusrintelligo, Tc. Quum autem præcedit poffeffiuum, fic, Tuo studio: Z
ij cir Ivt. V. 1 ر cecircumscribitur Studium, et exemptumemultis attribuitur
yni. Tuo studio vnius,exclusa opera aliorum. In tertia vero persona etiam fi
præce. udat Pronomen, primitiuum fit:Cicero aiebat sui vnius opera seruatam
Rempub. Quoniam autem affeuerabant, passiue sem + per accipi eum cafum fic
terminatum, Mei, Tui: a conati funt alias terminationes reddere actiuis, Mis,
Tis. Verum longe falsi sunt: ficenim dice ' tent Tertiam perfonam Sis; etiam a
etiue intelli gi: id quod nemo auderet: eft enim, ve diceba musai'rowaIesi
citantporro versum Ennianum: 4 Ingenscuramis eft concordibus æquiparere.
Vtfitucí Sed fic fane esto: non cötinuo illa pas. fiuis tantum addicent. Maiore
quoq; curiositate + negarunt poffc dici in plurali, Milites noftrum: Ticuti,
Milites nostri, a nofter: fed facile redar. guunturratione. Adeo enim re et e
dici putarunt; * t cafum eundem Primitiui duabus cfferrent citerminationibus,
Noftram, et Noftri: quoru al terum effet a Græco, nuwr, alterum idem effetcứ
deriuatiuo plurali.Quare etiam Sallustius in Ca catilina, Maiores vestrum: pro
Vestri, pofuit: fic enim legit Gellius. Et Plautus in Mostellaria oftendit
Vestrüm,effe concisum:vtvescovo quum cedicit: Verum illhuceffe maxima pars
veftrorumi intelligit. Sicut Æolenses dicuni, vućw! postea factumeíturwis etvestram.
Cæterum vsus obti nuit,vt Ego, Tu, Nos, significarent quiddam to tum, quod distribueretur:
non autem possessionem: ut Vnus vestrum, qui tamen non effet ve ster: Vous
veftrum et RomanioceupabitRem pub. DECarsts pub. Cæsar non erat
illorum vt res poffeffa: sed vt pars toțius. In plurali quoque candem inue
nicmus variationem, apud Ciceronem in tertio de Oratore, Veftrum omnium
voluntati paruit; pro, veftræ. Sic enim loquitur idemad Brutum Scribens,
Veftris paucorum respondeat laudi bus. Sicut autem dicimus, Ego Cæfar video te
Ca tonem:ita dicam,Ego Cæsartui egeo,o Cato.Siç ctiam igirur, Tu Cato eges mei
Cæsaris. nam quid hoc prohibet? aut quare negaruntid poffe dici? Nequeenim
satis probant suamsententiam illo exemplo Virgiliano, Siquatui Corydonis habet
te cura,venito, este, nim per Apostrophen a feipfa in aliam: quafi gura
frequenter vțimur, exemplo ergo ponit: •. hoc,illud non negat, Non est autem
verum,quod aiunt,differre De “ riuata a Primițiuis, propterea quod Deriuata ver
bis iuncta imperfeetta lint: Primitiua perfecta Sed quemadmodum dicebamus,
Adiectiuum, et Substantivum sunt differentia non nominis fo lius, fed actionis
genericæ communes Nomini ac Participio: Nomini quidem simul vtraq;, Par ticipio
autem altera tanțum, Adie ettiuum, Pro nominiautem ytraque, nam Primitiua
substan țialia sunt, Deriuataaccidentalia. Deperfectio ne autem
praționisamplius iudicandumeft: pole sum:n.fic dicere. Meusfcribo: fane oratio
pfecta » eft: ficut, Fortis pugnat. Et Sofia Plaucinus festi uiffime, Certe
nofterfum. Tertia autem Primi, tiuorum adeo imperfecta eft:, vt nihil magis Z
iij. neqi IVLvic 2 1 + 1 Ongs M ! *. VI.
neq; enim poni poteft fine adminiculo: Cæfarfe macerat:fi.n. dicas,
Semacerat:quid intelligas? Quare fi iccirco imperfeet a funt Deriuata, quia
egeant adiumenti: hac quoque ratione illud erit imperfeet iffimum. Alia duo
deriuata Noftras. Veftras. Ira vero deductio duorum aliorum: Nam veteres
Aruspices atq. Augures quum ter ram diuiderent auspiciorum cauffa,fic
instituêre: Agrum omnem efle aut Romanum,aut Gabinu, aut Peregrinum,aut
Hofticum,aut Incertum.Ic circo Amatam do et issimus omnium Virgilius fe
citiudicare Turnum externum, qui Latini agri ce non efset:et Cæfar, qui id non
ignoraret, Gallias diuisit in partes treis: exempta ex ea partitionc Prouincia,
ppterea quod continebatur agropere grino tunc:Galliæautem tres, Hostico.
Ideacauf ce lafecit, quia eadem effentauspicia in Peregrino, etGabino, quæ
etiam in Romano. Ergo iidē Au gures agrum, qui nondum effet difpe et us, quib.
ccauspiciis designaretur,incertum vocarunt: vbili queretRomanum effe, non fatis
habuere fic dice cre, noster est: nam multi agri pacati peregriniita abiplis
poterantappellari,quum eorum esset po pulus potitus.Itaquc excogitarunt vocem a
voce, qua coarctarēt fignificationem ad Regiones:quæ ** fuitcauffa,vt eflet
analogia terminationis comu. nis cum nominibus regionum: Sarsinatis a Sark po:
fic Noftratis, Nofter: et per exemptionem duorum elementorum Noftras. Nequcfine
sa sont d. tiano PA tione a plurali duxere: quoniam de Ciuibus dici:7 tur, et
ad ciues refertur. Ita habes cauffam etvo cis, et terminationis, et numeri.Vsus
autem obti- Dokta nuit poftea, vt etiam ad familias transferretur: n etiam ad
fectas Philosophorum: quæfane fami liæ quoque diettæ sunt. itaq. Noftrates
Peripate ticos poterimus appellare. Cicero etiã verbavul garia,Noftratia
dixit:non quafi Romana, omnia enim Romanaerant: fed quafi ex sua fupelleet ili.
Quæremus autem nosmorenoftro,quam ob new name cauffam a Tertia persona nullum
deriuarut: quis 5* sweet enim neget rectea nobis ficexcogitatum, Roma ni fuates
captiuosAnnibali dedendos censuere. di Imo vero et concinna oratio eft, et
neceffaria.Ve rum duo in cauffa fuere, quominus id factum sit: 6 Incuria gentis
illius, quz manu promptior per i initia, dịcenda facere, quam diceremaluere: Et
vasta, atq. inexplebilis animi libido ad Imperiu: e inuitus enim Romanus hoc
pronomen Suum, a gnoscebat:omnia per Meum,aut Nostrum, meti ri cupiebant. His
autem duobus deriuatis etiam Græcorum copiam superarunt. Articulus. Is declaratis,
fatis constat, Græcorum artis culosnon negle et osa nobis, sed eorum vsű u.
fuperfluum. Nam vbialiquid præfcribendueste, pense quod Græci per articulum
efficiunt, ěrecev o AG:expletura Latinis per ls, aut Ille:Is, autille feruus
dixit:dequoferuo antea fa et a mentio fit, aut qui alio quopacto notus fit:
additur enim articulus ad rei memoriam renouandam, cuius. DS 7. iiij. antea 356
Iul. V I. 1 antea non nescij sumus, quiipfum ponimus: aut componente am ad
præscribendum intelleet ionem,quæ latius mamime met paterequeat, veluti quum
dicimus, C. Cæsar, is qui pofteadictator fuit. Nam alii fuere Caii Cæ fares,fic
Græce, Kajoup o au Toxpatwp. Numerus. Vitautem numerus necessarius, vti supra
di co nomine, quoilla res significatur, a numero au tem vno numeri duo deducti
funt propter relationem. Nam Vos, pluralis est: deduciturautem abeo singularis,
Vester: quia fignificat rem fin gularem admultos relatam, vt dicebamus. Persona,
Erfonæ quemadmodu distinguerentur, iam i Pronominibus, amodo in Nominibus,
Namin 11 Nomine omnes personæ quinque casibusconti pentur; in vocatiuoautem
vna. Atin Pronomine vna tantum persona in prima, etvna in secunda. Itaque
inNominibus variantur propter cafus: in Pronomine non variantur. Tu,enim
omnibus in calibus secundæ personæ eft: et, Ego primæca, ręt enim vocatiuo. Se,
folam habet tertiam: De: riuata, omnes. Casus: Vmhocita fit:igiturQuintum
quoque ca Clumsum non solum habebuntipsorum aliquaz verum etiam quædam
constituent: vt, Tu, Vos, Vester. In poffeffiuisantem non immerito dubi tatur.
Nam ficuti Ego, caret Quinto cafu fingu lari, quia nemoseiplum vocet:ita Meus,
quod ab eo ducitur, carere quoque debuit, e contrario Tuus, casum illum
habebit, quiaTu, ipsum ha bet: et Sui,quia caret Suus, quoque deficidebue rat.
Atenimuero quemadmodum aliter contin- holone gat, videndum est. Omnis Vocatiuus
cafus duas personas designat neceffario: significat in. Rem insecundapersona,
et consignificat primam lo quentem: atque tanta facultate eft, vi videatur »
folus constituere orationem. Si.n. voces, Dauc: Dauus refpondeat: igitur res
vocata nisi distin guatur ab re vocante, eius cafus nulli vfui erit. Meum
seruum igiturcum appello, çu alloquor, quialius est
amesubstantia:accidentęautem re fertur ad me, iccirco potesta me vocari, quia
eft alius, etvocatur per pronomendeduậum ame, quia eft quodam certoquemodo
qualı ynu me. cum.Eft enim ynum relatione: ideo relatiuum al terum sine altero
nullum essequit. Atin, Tuus, non idem effe potest; Nam etlieft diuersaperso
nayocata a vocante: tamen significatam rem ap pello, et terminum relationisad
alteram pfonam dirigo, ita diftra et ussermo, ad feruum tuum vo catum, etad Te,
ad quemrefertur ille, non po teft cohærerc. Videamus vero subtilius, an huic
quoque cafus ille attribui possit, ac fic dicamus; Poffeffio excludit aliam
poffeffionem, iure enim meoius alienum tollitur.Meus enim ego fum,non alterius:
quare Ancilla manumiffam liç yocabo, ZY O TuaGedimino Tua. quia etiamfic
possim, quum eam libera: pollo mine Abi iam tua çs. Vfustamen infrequens non po
719 fuitlegemhanc loquendisic.De Suusautemfic ftatuamųs: Contradicere
fibiipfis, qui hæcduo di cant:Suus,semper reciprocumeffe debet:Suus ha Sbet vocatiuum.
quæ enim reciprocatia pofsit in teruenire inter vocantem, et vocatum relatum ad
aliam perfonam ab vtroque? Itaque nos etaffir inamus,haberevocatiuum: et
negamus, femper efle reciprocum: sed recte dici, Sui ferui eum In ftulere: et,
Suiserui eum sustollite. Figura. more Implicia, Hic,Is, Ego, Tu,Sui.Componuntur
autem partįm secu, fcilicet geminationepu. rä:partim aliquo
interpofito:vt,Identidem:quod etiam mutauit naturam. Item cum diuerfis: vt,
Isthic. Etiam cumaliis extra genus suum: vt, Tu te, Egomet, Idem, Suapte,
Hocce. Sic cum Præpo fitiõibus, Nobiscum Mecum. Cumnominibus, (Reapfe, quod
aiuntpro, Reipfa, pofitum aban Stiquis.Ipfe, quoque compositum effe diximus, et
lifte, et ille,ab Is, Doresimitati, quitaddebant, lones te.Acoles etiam
dicebant fe pro o, et coru pars,Dores. Sic Theocritus in quarto Idyl lio: maile
spußdav.Atenimuero quum inficdan tur Illius, Isțius.Ipfius,non videbantựr
composi ta.Sicut Tute noflectitur, neque Hoc, nili interi a
tus,Hyiufce.Composita funttamen,quçvfus suo arbitratu deflexit. Cum his autem
alia quoque ingenias:Egoipfe:et numerosius, Egamětipfe. Cape Excludit apresenti
opera.confilia antiquorum. Vlta alia de Pronomine ab antiquis di etta sunt, quæ
alterius operæ indigent, partim enim pertinent ad eam contemplationem, quæ
docet inflectiones: partim ad conftru et ionis le ges: quæ omnia
fimulcoaceruata minus recte ve: teres confudêre. Materialis caussa Pronominum.
Vorundam materia patet, aliorum non ite. Nam obliquiquorundam secutisunt nomi
num tertiæ declinationis terminationem, Mis, » Tis, Sis. Quædam pronominum,
Huius, Eius, Illius. Obliquus autem Tui, Atticos secutusest, Tü: additumiwla,
vt T8786. Tibi,interpofuit con fonantem,non aspirationem,vt Mihi, Toi, Moi.;)
Nos, et Vos,non habent elementa, quæ sequan turGræcam originem: sed Nigidius
conatus eft deducere materiam a cauffa, non penitus inepte. eam,quivolet, e
Gellio petet. Inter Primitiua est Is, et Hic: alterum sine aspiratione, alterum
», fine sibilo, ab eo quod Græce erat.o, addito ke, » et adempta vocali prioris
obliqui aliam fibivo çalem asciuere,Is,Eius, Ei. In quibusdam com munem habuit.
In plurali, li. In cauffa est fonus affinis vocalium, quem fonum foli Belgæ
hodie » incolumem,vtpleraquealia, feruant, Contra,quam feceruntPrisci,quade
causa prius de Pronomine, quamde Participio egerit. ETMTG huius libri initio fa
ettum eft, vt declara remus ordinem, quo cffet Pronomenftatuen dum: tamen hîc
quoquenonnihilconfilij capia mus. Pronominis intelle ettionem esse priorem
Participio, ficfatis constat: Sinomen anteit alias species, etiam Pronomen
præponetur. Nam fi partes anteponuntur toti, eaquoq; quæ partium vices geruntpræibunt
id quodtotum fit: veluti carnium, ossiumque fubftantia primoloco nota synt:
item Pedis, Cruris, Oris ratio potior quam totum animal:puta Homo,Leo,Canis:ita
etiam harum partium vicariæ partes quæ dvofnoga, vo cantGræci, antegredientur
intelleet ionem ani, malis ex ipfis constituci: vt,quæ loco sanguinis funtin
Infectorum genere, et a Græcis dicuntur, ixapes,quæ pro ossefuntin Piscibus,
etvocantur, Spinæ: quæ pro ore sunt in Plantis, etnominan tur Radices:hęcomnia
anteerunt cognoscenda, quam aut Inseđa,aut Pisces,aut Plantæ. Quam obrem quum
Participium quiddam site Nomi ne, Verboqueconflatum; non tantum poft No. men:
Verbumque, sed etiam post Pronomen ex. hibetfefe nobis intelligendum. Præterea (vtar
e nim quibusdam falsis, sed quę illi ipsi pro verisha buere) oratio perfeet a
effe finePronomine nulla poteft:constitui enim personas a folo Pronomi. ne
arbitratsunt, faltem primam, et fecundam: atsine participio poteft: vt etiam
Pronomina fint adorationem,quam Nominamagis necessaria. Affectiones quadam.
Roprium Primitiuorum vagari, ac diftribui in multa, putauerunt.co exemplo.
Neuetibi adfolem vergant vineta cadentem. aiunt enim omnibus dictum eo
Pronomine Tic " bi: verum res fefe aliter habet: Alloquiturenim Mæcænatem:
libri enim didascalicimaxima ex parte certis nominibus discipulorum nuncupan
tur. Ita etiam aiuntad ornatum orationis poni fi apud Ciceronem ad Brutum, Ecce
tibiPom-» ponius nofter:nam tum aberatBrutus. Egove to aliter cenfeo: Aduerbium
potius Ecce,positu, ad ornatum, ficut et apud Iureconsultos: at pro * nomen
Tibi seruire legenti epistolam Bruto. Proprium autem Pronominum etiam alia ex i
fefe parere Pronomina, vt Is, ille. Et Aduerbia. illo. Quodvero fcripsere,oriri
abipsis etiam No. + mina, falsum eft:neque enim Noftras, nomen eft: fed vt
noster ad poffeffionem communem, ita Noftras,ad communionem poffeffionis. Nonnc
dicis, Meus ciuis, etMeus popularis? Siç dicet Solia,Nostratem Getam, apud
Terentium. Ita que ij, quinomen putauere etiam inter Prono mina recensuere: fed
alio exemplo vtendum fuit. Nam a Quisquis, Quisquiliæ diettæ sunt.fuit enim
quicquid, so tugav, vile,et obuium forte, non consilio. Proprium etiam,vt
diximus,etinter fe etcum aliis iungi, et geminari, et inter se construi ad ora
tionem:Mea tu. Etiam inter fe referri: Is,qui ve mit. Item amittere significatum
p casus ratione. Del more Æolico: n. interdum enim nihil significat apud
Theocritum. Sicnos, Tute folus loqueris. Plautus in Milite etiam amplius, Tute
fcisfoli te tibi. vtpofsis arbitrari effe potius additamentum, vtin alio
pronomine, Iste. Proprium quoq;, poni pronominis significa. to:Suus, pro
proprio, et agnato. Apud Iure conful ços.at exemplum quodadducuntno feruit,
Sunt etiam sua premia landi. hîc enim elt poffeffiuum Sicfalluntur altero
exemplo:Is, pro Talis: Non ea vis animo, etapud Ciceronem, Pro eo quanti te
feci:imo pronomen est relatiuum. Pro Aduerbio etiam ponitur: Quidmaiora
fequar.estetiam ad uerbiuminterrogandi:non,vt putarunt,Coniun ettio.Coniun et
io potius illa sit, Quod scribis te venturum, vt voluêre: mihi vero acu tius
videtur effe relatiuum,Hoc, quod scribit,te venturum scripsisti enim hoc
Veniam. ni IVLII 1 36 bilgai lus lour tamien I Talis:11 eo quart eruir,s Aduer
nt, Com 1 ft etiam Non recte feruatum a veteribus ordinem ini disputando de
Participio. odica oack VEMAD MODYM perturbarut 6 ördinem partium, ita
quæstiones non suo quanque loco tra et auere. Duo cnim foliti sumus quærere.
prior quæstio eft:vtrum fit,necne? ) Altera hac fequitar, Ouanam sede id de quo
quæ VI litum est,lit collocandum. hæcilli cobiæret, tan quam effe et us
causa:ex ipfa enim subftantięno “ ), tione eliciuntur rerum prærogatiuæ. Quare
per uerse tractauerunt prius fedem Participij: poste rius autem, an Participium
esset pars, et species diet ionis. At enimuero si Parçicipiū res nota eft,
quorsum tantęcongeries argumentorum.li non eit nota, imo vero linonnullis ne
pars quidem o rationis vllaab aliis separata iudicata eft, quo co Lilio ei rei,
quz nusquamextat, fedem ftatuunt? Quo 5 364 Iul. V.. quum dici Quoniam vero
nullusartifex, pbat fuum subie et um effe: fed fuperiore scientia prolatum, pro
certo ftatuit:iccircovideamus, qua ratione parti cipium, quod subiectum est
libri huius, efle pro betur.Triplex modus est probandi, per cauffam, per effeet
u, predargutionem. Primusmodusest per demonstrationem, fic: Diet iones quædam
funt declinabiles, quia omnis sermoeget aliqua variatione. Alter modus est, per
conuerfionem de monstrationis,fic: Variatur sermo, quia di et iones funt
declinabiles: caussa enim hîc probatur per effectum. Tertius modus est,quuma
pertinacib. negatur subiectum ipsum esse: veluti 2 mus, Ideas eflenullas.
Autsubie et i ratio forma lis:veluti quum dicimus, Metalla quidem esse,fed
transmutationem no inueniri arte humana, qua re Alcumia nulla erit. Aut quum
agnofcimus quidem et fubie ettum, et rationem formalem,fed negamuspertinere ad
eam scientiam,cui attribui tur: veluti quum Grammaticus de voce vult di
sputare. Horum modorum duopriores non ad mittunturad probandum fubieet um effe,
fed fo lus Tertius. Ratio autem huius legis eft aliis libris anobis
explicata.Nuncautem aduersariorum ra. tionesperpenfas diruamus. An participium sit Diettionis pars ab aliis
separata. Vi Participio partium numerum non au gent, appellant ipsum avavaxna
son at poor siue övTISpe@ xoxv, id autem fonat, re ciprocam itidemque altera ex
parte respon « Qah den. I gopicer I dentem appellationem: quoniam
fic dicatur,Cur rens est cursor: et, cursor eft curres.Præterea nul- 2 lum
deriuatum aliam a primogenio naturam for tiri: nam si Pater Nomen, etiam
Patrius nomeno Ferueo Verbum, etiam Feruesco. Quarequum Participium a Verbo
fiat: fub Verbi veniat ratio nem. Vt horum argumentorum videamusvim, quid
Reciprocum lit, etquemadmodum fiat, et quomodo deriueturaliquid a primitiuo,
intelli gendum est. Ac quanquam superiorelibro de 1 Řeciproco diximus, id tamen
co fpe et abat, vt * Nomen acciperemus: meliusque a nobis, quam a Græcis
expressum effe. Nuncautem paulo ac. curatius contemplemur. Reciprocatio, cft
par priori ex eisdem, aut ex contrariis transpositio ex eisdem: vt, Conful est,
qui consulitsenatum: et, Qui consulest, consulit senatum. Excontra riis: vt,
Philosophia est, eloquentia disputatoria: eloquentia est, pbilosophia
elocutoria. Oratoria est, diale ettica diffusa: dialeetica estoratio pressa. Palma
eft, pugnusapertus:pugnus est,palmaclau fa. Hinc dicta reciproca, quoniam
procreentury, retrorsum: idest repetant.Sicrespondere opinio, ni, atque
expectationi,quum par estopera indo li. His constat, non reet e dictam
reciprocam ap pellationem. Neque enim pares hæ suntoratio Aes. Cursor est
currens: etcurrens eft cursor:nam Cursor designat robis naturam, ingeniumque ad
currendum: Currens autem dicitactum cur rendi nunc. At non omnc currens eft
habilead currendum: habilem autem dico ad celeritatem, non ad conatum, Tev
aequxota. Curritsuo modo Aa teftudo,non Curforis. Idautem manifeftius aliis
nominibus apparct: Non enim omnis Pugnans, #Pugil est.Et quum Orare, fitore
pronuntiare: ve teres verbuin illud omnibus conceffere: orato ris autem nomen
sui vnius in L. Crassi persona a gnovit Cicero. Neque carentratione hæc:vise
nim horum nominum inde manauit, quod ex 'frequentibus actibus habitus fit. qui
igitur vicio vrfüm semel, fortaffe casu factum eft, vt debella ret:at
Carpophorus Domitiani, et Vergilianus Picus debellatores appeilabuntur. Si
igitur essent eiusmodi appellationes eiusdem substantiæ, v.
niuersalienuntiatione vltro citroq; efferrentur, 2 atquereferrentur. Deriuatum
autem vel fequi tur Primogenium, vel excedit,excediturve: Sife quitur, ciufdem
speciei cft (intelligo nuncfpe ciem contentam fub dictione, tanquam sub ges
nere )vt,quia Rex Nomen, eriam Regius:nõex cedit enim, neque exceditur. Ata
Bono, Bene quum deriuetur,exceditur numero, et aliis Qua re Participium quum
excedat casu,et genere Vera ba,nullo modo effe Verbum poterit. Falso igitur
regabant, desciscere Deriuatum a primogenij ratione: quin etiam Deriuata quædam
vel man ciora funt,vel ampliora, vt ipforummet vtar pla citis. Aiunt enim
Tuuscarere casu Quinto,quem tamen cafum Tu, constituit. Contra Suus, et * Meus,
Primitiua excedunt fua: hoc Quinto ca su, quo caret Ego: illud etcasuum, et
nume rorum variatione, quo caret Se. Ad hæc lia cantando, erit cantor, Verbum
erit, non No. men. Quod autem Participium, Nomen nonlite ODAVATE LESZT 1 mantis
fit, inde colligimus: habet enim Verbicostrudio,wenn nisheyet nem: Legens
librum. At Nomen nullum his lc gibus fruipoteft: fed fiquem casum nanciscun for
tur, id euenit aut vi drationis, aut yerbicuiuspia uliopelo merito: vt
PotensLyræ,poffeffionem quandam significat, sicut, DominusLyræ. Quodfi quis
sit, cui dicat, Appetens gloriæ, non significare polles fionem (quod enim
appetit, non polider )is File intelliget eo modo dici, quo Auidusgloriæ; est
Pepe enim iç'ter.sad possessionem. Alij autem casus in attribuuntur Nominibus
per defeet um fupple-, menti: vt, Amicus illi: id fic est, quoniam litae Pern
micus, adfit illi, ac faucat: Superbus pecunia, et fa et us a pecunia. Debile
autem eorum eft argu ekrok mentum, quo excludunt a Nominis ratione, quum
dicunt, Quiano significantadionem.Ma. le enim elocutisunt,quod recte
sentiebant:nam etiam Nomen hoc Adio, actionem significat, Ergo Participium ab
aliis fecreta erit orationis Tipars. Nequc impedimento fit,quod nome suum,
acceperit a portione Verbiac Nominis: Tere ziumenim quiddam factum eft. Neque
enim ex verbi nominífque coitione fa etta eft Tertia sub ftantia; fed ortum a
Verbo traxit secum tempo ra etfignificationem, adiunxitque generi etcasio ·
bus: plusenim Verbi quam Nominis obtinet; id quod fane non potuit exprimi ipso
nomine, quod nomeactiue intelligi voluere,quiacaperet, AtMancipiu, aliam
sequutum eft analogiam, vt fignificaret,quod manucaperetur.SedParticipiu, că
Municipiocouenit.Minus vero bona oratio neyli sunt, quiliç diceret, Partem
capitaNoming7 NO E B 4 och 368 IvL. VIT. CXA: 1 partem a Verbo,partem ab
vtroque. Quis enim fic, Partem a Cæsare, partem a Lælio,partem ab vtroque?
nonnciam ab vtroque accepit? Sed ita intelligendum eft, Accidentium quæ
funtParti cipij, partim esse a Nominefolo, partim a solo Verbo, partim ytrique
communia: dummodo il lud quoque meminerimus, ipsum habere cum Nominecommunem
differentiam Adiectiuo rum. Substantiuorum autem nullam. Participii necessitas.
T vero ne ad orationis quidem volupta tem solam inuenta ea species eft, quemad
modum partes quædam coniunettiuæ: sed necessitate quadam, ac vi naturæ. Quum
enim declaratum iam sit, verbum significarc aliquid,quod significato nominis adiiciatur,
sic, “Cæsar pugnat”, coacti sunt sapientes aliquid excogitare, quod non folum
recto casuiadneet eret, vt hoc exem Uplo:sed Etiam Obliquo.Neque enim si dicas,
“Video Cæsarem”. addas eiusmodiVerbum nisi addi to relatiuo, fic, Qui pugnat.
Quare Participium commenti sunt, quod et significationem obtine ret, etadderet
modum adic et tionis: quafi quum dicas, Cæsarem pugnantem: eadem sit ratio, ac
fisic, “Cæsarem pugnacem”. Quod siquis ob iiciat ita dici poffe etiam per
verbum. “Video Cæsarem pugnare”. lane intelligat verbi illius vi factumeffe,
non infinitivi: si eius loco substituat aliud, fic, Verbero Cæsarem: ncque
enimfi militer apponere queas infinitiuu. Eft præterea cauffa 1 ola ! tan sonra.
caussa alia nõignobilis. Quo modo res vna dicco 2 retur, fupra docuimus te:
nücquaratione yna fit oratio, videamus: Quædam enim eft yna, Natu ra: ut, “Cæsar
amat Lucinam”. quædam Coniunetione: ut: “Cæfar amat Lucinam et pugnat” at que huius
quidem modi species libro undecimo declaratæ sunt. Quæ vero Natura vna est,
vnum de uno dicit: quæ coniun et ioneyna, secatur in plures. Nam et Amor et Pugna
in Cæsare, et de Cesare dicitur, nihilo fecius, quam si dicas, “Cæsar amat,
Caefar pugnat”. hîc sunt seiun. etx orationes duæ, carent enim tam artis, quam
naturæ coniunctione. Quare manifestum est, Artem coniungere in oratione, quæ
natura coniunxit in corpore subiecto. Hæc autem aut seriatim sese consequuntur,
aut difiun etta sunt. Si sunt dissita, natura, ut Candor et Dulcedo in Laet te,
per ipsum corpus, quo deferuntur, coniunguntur quoque. Ita in oration per
copulam coaguntur sicut per corpus in re. Siseleconfequun tur, ea funt, aut
substantia aut accidens. Neu trumvero eget artificiofa cõiun ettione:sed que
admodum natura vnum funt fibiipfis fubeuntia, continentiaque alia aliud,
tanquam quum est triangulum in quadrangulo: ita etiam carum rerumnotævnum sunt,
hoc modo: “corpus animatum, sentiens, rationis capax, vna res est, ita yna
oratio hæc: “Homo est corpus animatum, sentiens, rationis capax”. Nihilo secius
in accidente, sic, Aptum natum admirari, discere,fcire:neque enim scimus, nisi
discamus: ncque discimus,nisi admiremur: quæ hæc ad hunc modum vnum Az iij. Ssunt: neque vllius artis egent ad coniugendum.
Quævero disiun essa sunt, ea per copulam coniunguntur, ut, “Lego et scribo” quam
obrem sicuti per subiectum a natura coniunguntur: ita fa etum est, ut per
participium similem nanciscerentur coniunetionem, ut, “Legens scribo”. Tertiam
vero necessitatis caussam ut intelligamus, hæc prius sunt perpedenda. Caussarum
quædam seextra rem sunt,quas Galenus vocat w goxata näs, recentiores, primitivas.
Quædam interiores, atque hæ duplices: aut enim sunt, aut non sunt coniun ettæ.
Ea vero diuisio secundum Accidens, non fecundum Substantiam fit: diuerfæ enim Yunt
aliquando a se ipsis secundum situm, vel fecundum Tempus: neque vnam tantum fpe
ciem cauffarum fequuntur:fed tum in efficiente, tum in materiali inueniuntur.
Ac illa quidem quæ extra rem anobis agnofcebatur, est: veluti, Ferrum, fiue
ferri illaactio: e percussione enim fit vel tumor; vel fanies, vel eiufmodi.
Quæ au tem interior est,nondum coniuncta, opony syfucr KaGaleno, a nostris antecedens
dicta est,tam a pte,quam a Cicerone quü dicitur in Officiis, An tegteffam esse
honeftatem: vt, succus hesternus, qui poftea putruit, cauffa febris factus
est:caussa coniuncta estis, quinunc putridus eft: atque hic quidem nonsolum
tempore, aut situ tantum differt a seipso, sed etiamsubstantia. Aliquando
autem, vtdicebamus, non fubftantia, fed Lo co: interdum enim fuit fanguis
probus,atque incorruptus, qui tumoreeffidiat,cuius ipse caussa kit materialis.
Adhasigiturcauffas significandas quam sit Participium
fabricatum.maximum fui vlunı videtur præbuiffe. Quippe sidica, Percussi, et
yalncraui: non necessario adducor,yt credam ' vaincris caussam esse
percussionem, quam intel ligo ex verbo, Percutio. Quod fi dicam, Percu tiens
vulneraui:iarn planecostat. Si dico.. Sanguis putruit, et febrem fecit:Putret,
et Facit,non tam clare explicat, atque fic,Putrefcens facit. Præter hanc
neceffitatem, etiam mirum afferunt oratio nidecorum: cuiusmodi in futuro
passiuo vtitur Liuiusin xxiv.Et fibi pedites comparandos effe: id eit, qui
poffint cum cæteris committi, neque cedant. Gerundi Cauffa., per
piumabsoluerctur, maiorü noftrorum pru dentia factum eft, vt
haberemus,quomodofor- oniga mæ finísque eadem orationis commoditate ex
plicaretur. Quare ex his Participiis tempora quæ dam elegêre, quæimitarentur
quidem Græca illa λεκπον,μαχητέον, amplioritamen, vberiorique vsu
circumferrentur. Hæc Gerundia appellaue re,tribus præscripta casibus,
“pugnandi”, “pugnando”, “pugnandum: quorum medium seruauit vires, Participij:
sed tanto aptioremodo, quanto supe rabantur a Participiis Verba. Sicut enim
apertius editur cauffa, quum dicas, Cædens vulneraui: quam cecîdi:
sicexcellentius quum dicam, Quia cæderem vulneraui.hocautem Gerundio conci pitur
totum, Cædendo vulneraui. est autem Aa iiij. mely Emultis in rebus forma, et
finisidem. Finis autem 1 partim extra nos eft, vt Nauisextra fabrum: par tim
intus in animo, vt ea quam idear vocant, qua mouemurad eam quæ extra nos futura
est. Vtru quesapientiffime explicarunt. Nam et Pugnan di, et Pugnandum,finem
fignificant,fic,Pugnan codi cauffa equum afcendi: et, Pugnandum eft ex cquo:
fed illud est medius finis, hic autem illum so por consequitur. Exhisautem
patet eflcParticipia, *Co tum natura, tumvfu non abfimili, atqueetiam | forma.
Habentenim Casum, vt Advefcendum, apudM.Tullium: et, Ob tacendum,apudGrac 2
chum, Neque tempus,vt aiunt, amisere:nam ta ir metfi cum
præteritisponütur,fic,qui ad pugnan dum:tamen pugna futura fuit, quæ nondum ef
set: alioquinequeasdicere, Marius deduxerat le giones, fa etturas hoftibus
pugnandicopiam. Pu gnando autem paulo liberius, elapfum eft: Pu mignandovinço:
id est, dum pugno: ac potiuscauf sam præcedit, quam constituat: vincendi enim
cauffa pugnamus. Significationes quoqueita te nuere, vt cafusfuos expetant:
Studiovisendi vr bem. Sed ita fane fa et um eft, vt quum forma fit paffiua,
infrequentius passiue accipiantur: a deo vt quidaman re ette ponerentur,
dubitarint, Atcnimuero corum vsum primuın formæ ipfius rationem sequutum effe,
par est. Justinus tam in prooemio, quamin xvii. exipfo Trogo et iamprimum
casumpaffiue pofuit: Athenas e cerudiendi caussamissus.' Hac quoqueparte Græ ci
funt a Nobis superati, quibus Infinitiuus cum Articulo mendicandus fuit.
Veteresautem bre uita. 8 373 2 uitatis studiosi frequentius vsi sunt, etiam in
i. psis Titolis,de edendo,atque eiusmodi. M.Tul. sius in tertio Officiorum
feftiue, fi discendi labor potius est, quam voluptas, non enim posuit pro
Infinitiuo, vt dixere: fed abstinuit ab repetenda voceilla Labor, fie:Si
discendi labor,potius labor est, quam voluptas. Hinc do et iffimi viri college
re, nenos quidem paffiui Participij præsenti de- a luna • fici tempore,
Verberando sum defessus,Pugnan winny do vici, Legendolibro:idem est, Verberans,
Pu Ignans,Legens. Etiam illud Vergilianu,Voluen da Dies, præfentis temporis
inuenere: ficut et lusiurandum. Sed fane Iusiurandum, futuri fuit amine 2
temporis,antequam daretur,fic dicebant, Iuran mė dum tibi eft: fic,
Voluendadies,quæ attulit, quod the nondum fuerat. Poftea vfu deflexa suntin
præa Du sens tempus, atque etiam in præterito,vt diceba Pus mus, Cæsarignoscedo
auxit hoftium numerum, I quia ignouit.cauffa autem eft,qualis quum dicis, Di
Pugnaturus fum, et fui.Quoniam vero transitint ca variatione,ficut,
uaxcutt'ovetuagtia, iccirco alia bir partem a Participio nonnulli penitus
negarunt: quia idem fit, Legendislibris, etLegendi libros. c Alij vero, hocipfo
affirmarunt effe aliam, pro atis pterea quod constructio effet diuersa. Sed nos
candemcum Participio diximus, vfum autem; non semper eundem: Accidentiautem
nonmu tatur species. Proprium autem eft recipere Præ. positiones, Adagendum.
Vergilius etiam aliam Gf apposuit, Ante domandum: et,Inter agendum: quod
Græcijste tu dywv, et, Obtacendu:et apud mbat M. Tullium: vtrumque dietum eft
ab amandao Ava OITE Star goe 028 ISCU co ωςτο φιλεϊνοποτε φιλεϊν. Εt
Quintilianum,ra fio fcribendi iuncta cum loquendo eft. Ausi sune quidam dicere.
In capiendum hostem vado: fed hocmon memini. Propriū item carere variatione
Personarum,Generum, atque etiam Numero ram. id quod traxere ab Infinitiuorum
natura. * «Cæsar it ad oppugnandum Massiliam: Camilla pergit ad fugandum
Aruntem. vt commune sit ad vtrunque, Oppugnandam Maffiliam, et Fu gatura
Aruntem. Sic Numerum communem a pud M. Tullium: Stoicos Epicureis irridendi sui
facultatem dedisse. et Liuiusin primo: Vestri ad Xhortandi cauffa. Falluntur
antem quiperDebet, aut Oportet, putant interpretari Gerundium, vtin illo, Pacem
Troiano ab Rcge petendum. Omnenanque futurum,authanc,auteiuscerno direcipit
interpretationem: ducimur enim, aut vtili, aut necessario. Quoniam vero caussam
sta tuunt,iccirco plus indicant, quam Verba, atque ctiam Participia, lic. Video
futurum vt vrbs expugnetur, Video vrbem expugnandam: euen tum solum narrassac
fic, Dico expugnandum yf bem: proponiturnon solum finis, fed etiam deli
beratio. quare Græci dixere Aduerbia Jecses, 2πλευρέον, τυραννοκτονη τέον.
Latini autem ctia mo tum illum animi, qui in finem duceretur,como adius
declararunt, quum Gerundia appellarent. vocis flexułeodem fane quicorum natu
ccfræ fons fuit. ve quia gerendæ res elsent, quæ vo ces hocindicarent Gerundia
dicerentur.Alij ab eorum vsu, Nomina participialia: neq; enim esse pura Nomina,
quæregerent casum:neque pura Sed quo Partis. Participia, quæ passiua voce
gererent a et tiuam si gnificationem. Cauffa autem qua ducti sunt, vt
defraudarent significationem, atquein actiuam demitterentur, hæcfuit: quod
passiue intellige bant ex parte appofiti, non suppositi, fic: Eoad oppugnandum
vrbem: quoniam prius fuerat, Ad oppugnandam: et eodem modo di etum fuit,fic uti
notauit Gellius, et nos diximus in capite de Infinitiuo, Hancrem præsidio
futurum. Alij et iam Gerundiua yoluêre, quæab illis petes. Supirorum Ratio. 1 0
bi gemaioreaffeetu notant:na, Eo ad pugnan- this dum,futurum significauit: Eo
pagnatum,ita po fuit futuru, vtiam abfolutum sit. Ita est,quono do apud
Homerum, ra tetenequevověsw:Signifi -1) catigitur aettionem cum A et
iuis,pafsionem am» Palliuis. Eo factum iniuriam: Iniuria mihi fi et u itur. Sed
lane femper pasfionem quandan sa- ) ) pit: neque enim est, Eo vt faciam: fed,
Eo vt hoc fiat.quali, Eo ad rem faciendam quidem,fed ita, yt faettum iam
sperem. Sic Sosia: Diąun puta. Quumigitur hîc finissignificaretur, norimme rito
altera voce alterum extremorum Ignatum est,Inmotu enim est, et vnde fit,et quo
re et iflime dicitur, Venatu venio: ficut Venatum Vado. Sextum n. casum huic
vsui effe coparatum diximus.A meitur:sic,Venatu itur: cætra quam putarunt.
Plauti. a. estin Menachmi, Obfonatu - 10 redco: ft.Itaque 1 376 IvL. VII. 1
redeo. etCatonis in libro dere Rustica, Primus cubitu resurgat. vt hæc fit vera
constructio huius Bupini. Nam ea quam ipsius putant, Expugnatu « difficile,
Mirabile dictu: fortaffe non fit, sed No minis. Vocatų Druli, id eft,
vocatione,fic lussu et Permissundicimus enim, Facile expugnatu,id eft,
expugnatione. Quareautem supinum di et um sit, haud fane conftat. Nam quod
aiunt veteres, id ca cauffa fa et um, quia a præteritis paffiuis du et a
essent, quæ præterita veteres supinaappellarint: non folum non foluit
quæstionem, sed etiam auget. Nam quam ob rem Præterita, caque passiua tantum
hoc nomine dixerint illi? Nos in libris historia rum Aristotelis ostendimus
quid Pronum, quid Supinum sit. Neque recte aTheodoro towmocy effeacceptum, vt
Latinis auribus satisfiat. hîc ve ro ita placet fatagere: Gerundium a supino
ita cidifferre, ficut Futurum a Præterito: vt aliud fit, Faciendum: aliud,
Faetum. Itaque quod geren dumesset, ftrenui viri ac fortisiudicarent: con tra,
quod iam esset gestum, minus excitare nos adagendum.Itaque Tityrum supinum
facit poe ta sub arbore,lentum scilicet,acrecubantem:Me liboun certantem
cumfortuna, acres fuasma gisftrerue, quam feliciter gerentem. Igitur, Eo ad
pugnndum: gerendam rem significat in viro diligenti: Venio pugnatum: rem geftam
in ho mine qu possit otio parto frui. Hæc esto cauffa, quæ persuaserit antiquis
vt Præterita pafsiua Su pina dicer:ntur,vt poffet in vtranque aurem:at que
ctiam upinus cubare. Q1 Pugnando. Non excludi Modum a Participiis,
sed Modi variationem. Vemadmodum Gerundium idem diuersis Temporibus
accommodatur: vinco, vici, vincam:sic etiam idem Participium,! diuerfis Modis:
adeo, vt in pafliuis etiam Modos ipfos constitucrit:Do et us effem, fuiffem,
fuerim, fuero. Vtinam pugnans vincerem alio modo di citur quam sic, Pugnans
vinco, hîcenim eft et Pugno, et Vinco:ibiautem,Vtinam pugnarem, Vtinam
vincerem.hoc quoque a veteribus omis fum est. Nonreette Generum cauffam a
veteribus affignatams. Enera tria eadem vox compleetitur, hæc,hocpugnans. neque
id natura potius quapia,quam forte: nihilofane consultius,quam in
nomineFelix.Falsam nanqueaddducuntcauf fam: Quum enim Verba,inquiunt,omnibus
fine + vllo discrimine iungantur generibus sub eadem voce:Vir,Mulier,Mancipium
sedet, eiusdem ni mirum effe debuit naturæ Participium, cuius fuit Verbum, a
quo fluxerat. At enimuero fal luntur: Quippeverbalia quoqucnomina, quæ a,
verbis manant, nihilominusgenera variant: Vi cor, Vi et rix, atque etiam Viet
tricia, apud Luca num. Præterea quisnefcit apud Græcos tria genera in
Participiis totidem fignari vocibus? Po Atremo ne in noftratibus quidem
variatio illa i gnota est: vt in paffiuis patet: Amatus, Amata, A matum, et
inadiuis,Amans, Amantia. Figura.
Pcomposita a copositis Verbis deriuari: iccir co Figuram ab illistrahere, non
ipfa illam confi cere. Hoc autem falfum eft:multa enim sunt quę suo genere
Compofitionem admisere, non aba liis traxere; vt, Omnipotens. neque enim a Ver
bis tantum composita fluuntomnia. Ergo figura Participiis per fe competet,vt
cæteris:non per ac cidens,vtdixere. empus. Empora quædam fimplicioris intelle
et us, quædamamplioris habuit Participium:nc que secutum Verbi eftintegram
rationem. Nam Futurum, quod erat diffutissimum atqueobida Græcis scissum in duo
vnica voce coplexum fuit. Item duo Pręterita.At Præsensquod effet simpli
ciffimum cum intelle et ione Præteriti imperfe et i.coniunxit vnica nota.vt
Amans effet,quiamat,et cequiamabat.Neq; caruitratione:oftedimusenim apud
Philofophos naturale quandam continua tione significari per Pręteritů imperfe
et ű,vt non multum a Præsenti dissideret. Illud vero maxime quæretur:quumapud
Græcos tria hæç Tempora tam A'diuis, quam Passiuis fint attributa:quam % obrem
Latini Præterito actiuq, paffiuo Praesenti defe ettisunt? Atq;in quibusdam
fanehæc omnia. Rc sunt:Hortans, Hortatus,Hortaturus,Hortadus. Atin aliis, quæ
simplici constant forma, vt Ama, quare 379 2 quare non possedere præteritum: vt
Amor,qua re non possedere præsens? Sane hîcnihil habcas, quod refpondeas,
præter negligentiam: adeo, ves af in illis quoque,in quibus omnia esse
videbantur, vocem quidem videas, significationem non vi 2 deas. NamSequens
præsens quidem eft, et Hor- tans: sed significatus actiuus: ac fane ab codem
it., verbo Sequor, si potuit deduciet Sequuturus, et za Sequendus: quare no
potuitin præterito distin cum effe,Hortatus actiuum, ab Hortatus,paffi uo? Si
potuit ab Amo, Amans: quare ab Ainor, nihil potuit? Significatio. Vemad modum
Verba manent, aut muti. tur,fic et Participia. Nam Lauant recensen Na bamus
interuíça. Sic Voluentibus annis, eadem fuit significatione, qua Volućda
dies,vt eft apud de Homerum:withoueYWV EVIAUT@.Sicmutauit O-, riundus, nõ
rationc fubeftautem cauffa vtigno rata, sicacuta. Eftoriundus Roma quiBononiz )
ortus,Romæ oriri debuit quo in loco lares habet patrios. itaque idem eft
Oriundus, quod Oritu rus. Futurum enim hocnon defignat quod erit. fed quod non
fuit, et futurum esse debuit.In paras fiua autem voce declararunt: quoniam ipse
iam per se no poteratoriri,aut agere,vtoriretur:sed fato,
autsenatusconsulto,aut rescripto, aut re cenfionc affici muneribus ciuitatispoterate
0: June. Affoftus. Program que 380 IuL. VIL leret: 1 Tutus alos to 10 Huis ca
mus, tilusa ttiam Gnar tarctu P Roprium eft Participii,fieri a quibusdam teftem
Verbis, quorum nõfequatur significatione: vt Sequendus, a Sequor: paffiua
fignificatione ab a et iua. Id autem propterea euenit, quia hæcom cnia, quæ
vocamusDeponentia, olim Communia apes. cefuere:atque iccirco Deponentia dieta,
quod de suape pofuiffent alteram significationem, quam habu iffent. Sic verbi
significatio vetus abolita in Ver bo,mansit Participio, quemadmodu deleto Ver 2
bo toto, mansit Participium:Laboratus, Regna tus, Erratus, Triumphatus,
Decursus. Sed adhuc longinquiore ratione, Auritus, Pellitus, si sunt
Participia. Quæ autem exempla afferunt muta tæ fignificationis, fortasse non
omnia carent ra utione. NaDiscretus, fac significet viru modera tum: nõ eft
quiadiscernit, sed quia a vulgo fapie. Cetu fentetia fecretus fuit. fic
Circufpeettus, no qui Circuspicit:sed,vt Homer dicebat, qui circunsta tiu
ora,atq; ocul sin fe conuertit:id quod quum fiat ob eius pr stantiam, actum
admirantium tranftulêre ad significandum caussam, propter li quam admirarentur.
Sic Beatus, diuitem notat, qui multa bene, ac benigne poteftagere: at Bea quad
guu` ' tuspaffiuum eft Participium, quem bonis,vt ap cxpellat GræciBiov,
Fortuna voluit beari. Sic Cau tus,quem cauendum dicerent:quem,vt ait ille, a
trumagnoscerent, aut fænumin cornu gestan caem. Falsum, quoque quis neget
passiue femper et accipi? etiam quum falsum est testamentum: ic circosic
dicitur, quiaipsum fefellit,fcribat:Falle rcenim eftoamen. diffusa significatio
ad fal kumteste, quareactiuehîc accipi putarut, qa fal aque Pre etiam poffit
mus, et priur nega ave men men age. و ووو et CUE Iereto cato ation hecco Ommy
CHO amba tain clerol Seda tus, unta I İeret: verum analogia transtulita
Testamento ad Ebulda testem, quoniam vtrunque corruptum esset. Tutus quoque fem
per paffiue: Tutus portus,qui», alios tueatur, propterea quod ipfum tucantur
rupes: Ita alia nonnulla eruentur, et reddentur suis caufis: neque enim nostra
nunc intereftom nia persequi. Quædam tamen omnino, vt dixi mus, mutãt
significationem: vt Disertus, et Pro fufus apud Sallustium:neque enim mirum,
quum etiam Nomina ipfa hoc pafa fint: fic enim et 15. Rio Gnarum,quinosceretur,
et Nescium, quiigno rarctur sunt interprctati: Sicut etiam Euidens; atquealia
animaduertêre. Propriu item eft Futuri temporis pafliui,poni// etiam prore,
quænon fit futura, modo effe aut poffit, aut debear: vt exemplo Liuiano diccba
mus, Milites comparandos,et alia eiufmodi. Pro prium etiam nondeficiCasibus, et
carere Specie: negarunt enim prisci vllum ab alio deriuari, fed uodą aVerbis
deriuatisfieri:yt Gemisces non fit a Gea mens,ficutGemiscoaGemo. Ite, Tranfire
in no n, pre men primogenium,vt Pugnas pro Pugnator:ali Caren: Ηπιους ulgole
CUS, DC, circuit quado in deriuatum, vt Çöfidens.Interdu ambi guum eft vtrum
sit, vt Horatianum illud: Me tuenstanga.Etiam creare Nomen: Amas, Aman tior.
Ettransferresignificatum a re patiente in agentem: nam etsi dicimus,
Cænaturrhombus: tamen Lucullus dicet, Cænatus fum: fic Pransus et Potus. Hoc
factum eft, vt in Pasco, Pastæ oues: et,Depaftasali ta: vt fuerit Cænor
deponens, fi cut Pascor. Et euadere Nomen substantiuum:vtn Sene et a: fuit enim
verbum Senco, quo et Ca. tullu's whirare temas ere: ar oni.com 17. SiG. vtaicik
Tapete Tueles entum ribat:E atio21 Bb j. TUI tullus vsusest: cuius
paffiuum participium, fuit hoc. Itaque veteres fic dicebant, Sene etta ætate.
Eademlicentia, Occasum dicis locum, vbi Soloc cidit:at paffiuum hocfuit
Participium; vtin XII. tabulis: Sole occaso. Præterea etiam aduerbium
gignere:Indulgens,Indulgenter.Proprium etiam I fequi Verborum naturam qua deficiunturcertis
modis orationis:nam fi Pario, foeminam tantum fpe et at:ita Pariens, vnico
tantum genere præscri berur:nilifigura quapiam in ordinem redigatur: DE ficuti
dicimus, Mulierern foecundam: ita etiam Ventrem fæcandum: quare etiam Ventrem
pa- L rientem, quominus dicamus, vis Participii ne quaquam prohibet. '.
Antimeria in participio fit quum pro Verbo « ponitur,vtin Hecyra: In arcem
transcurso opus eft. Et apud Sallustium, Mature facto opus eft Sed non
finecaussa hoc factum eft: plus enim di cit Transcurso, quam Transcurrere: et
Facto quam Facere. Illa enim rem abfolutam desi gnant, vtiam totum iter quod
inter Pamphilum etarceminteriace bat,iam effet tranf cursum. Quar partes
licatio Num. IV LII Prop Lii num re QUX 3 quos imm cuorent. tQuatuor
partes reliqua,quarefintindeclinabiles; etquare aliis postposita. DICTIONE
tanquam ex genere fummo,alteraque differentia,quæ rol. lit inflexionem,fit
species inedia, quã vocant Indeclinabilium: fub ea funt partes quatuor,
Præpofitio, Aduerbium; Inter iectio, Coniunctio. Quare autem Persona, aut
Numerus his non fint attributa, quærendum est. Propterea quod hæ partes erant
notæ connexion can be what · num, quemadmodum fupra dicebamus: at ea, quæ
conectebantur eratiã pradita his affcetibus: quos affcctus si hæ quoq;
effentcõlequutæ; fane immelus fuiffet numerus fimul,et fuperfluus:ali quotque
earum a suis primogeniis nihilo differ rent. Si enim Bene fcribit et Cæsar, et
Corinna, Bb ij. Et Mancipium. adde genus ei Aduerbio, iam fier mod Nomen Bonus,
Bona, Bonum. Quædam tamen co partes fequutæ suntautTempora,aut Modos, aut 2
Casus, tanquam affeclæ propter significationem, non tanquãcopotes propter
niodum significadi: vt,Heri,lignificattempus, itaque addetur modo
significanditempus,Amaui:fignificat enim non tempus, sed actionem amandi cum
tempore. Ita eft, Vtinã Ame,Siames,Ad amandum, Ob pug nandu, Dereducendo
Regem.Quareautem sunt Com aliis poftpofitæ? Nă suntlimpliciores:ergo prio 2
reluco erant cognofcendæ. Item funt nobiliores quedam quibusda,nonnullæ
omnibus:magis ne? ceffaria eft Præpofitio, ğ Pronomen: perfe et ior est
Interiectio quam velVerbu,Yel Nomen, in De tegra enim oratio cft,Heu.Hîcita
respondemus: at 2 Facilius cognofci potuiffe Pronomen cum No St?, minė, quam fi
differretur. Simplicitatem autem illam mancamesse, neque poffepercipi illorum
rfaturam fine declinabilibus:quia hæ illarum con iungendarum notæ sunt.
Præterea non eft Sim plicitas, carere Declinatioessed Defectus. Quare non
poffis intelligere, quemadmodum Aduer biū Personis careat, nisi sciasprius,quid
Persona fit. Nefcias quid Gt Persona, eft enim accidens, nisi noris effentiam
eius cuius ipsum accidens eft. Harum autem partium nomina a fedibus, quas in
oratione fortitæ effent, dietta funt a vete ribus: qui et hoc negligenter
nimis,quum perac cidens effentiam definirent: et inepteprius inter fe partes
has compararunt, quam quæ qualefve effent ipfæ declararent. Nosautem, proptera
quod 17 WIB. TE D20 quod compositus intelle ettus a simplici anteitur,
etcoparatio eft fimplicium cöpofitio, sigillatim quæ cuiusque ratio,atquenatura
sit, videamus. Præpofitionis definitio, et fedesinter cæteraspartese Ic igitur
definiuere, Præpositio eft parsora- + tionis, quæ præposita aliis
partibus,lignifica tionein earu aut complet,autmutat, aut minuit. Complere, vt
Intercipio,Demiror: Mutare, vt Aufero: Minuere, vt Subrideo.Verum et confusa
eft, et ab accidenti, et non omnibus competit et luperfluis particulis. Nam
quod fit confusa fatis patet, quum nodesignat quibus partibus præpo natur:pars
estorationis Interięcio,atei nulla vn qua Præpositio præpofita fuerit.
Abaccideti data 2 eft: neque enim est Præpolitio, quia præponitur: fed
præponitur, quia est Præpofitio. Non omni 3 bus çõpetit: nequeeniin cöpositæ
Præpofitioni, Mecum, tecum. Particulæ autem quædam vacanta fic,quod çöplet,
autminuit,mutat:eftenim mu-.wo. tatio, effectio vt aliquid differat ab eo, quod
erat, Voluêre fic intelligere, Mutare, id eft,destruere significatum:sedexemplo
inutili vsi sunt; etenim et quiadfert, et qui aufert, fert. Commodius dic' xissent
augere, minuere, et alia talia. Fortaffe veros falfa quoq; fit,neq; enim
effentia Præpofitionis eft præponi,sed vsus:liqua,n. vnquam poftponce retur:
ergo eo desincret esse præpofitio: quarea lio cofilio eius definitio
eftinuestiganda. Rerum in genera summacætera fuperioribus libris recelula ius,
fubstantiam, quantitatem, qualitatem, et m nila? Bb. iij eiusmodi.vnum in
præsentia nobis reliquum eft. philofophis tantum notum,aðGræcivocat:qui bus
autem rationibus cum loco conueniat, aut ab eo differat, aliis libris dictum
est: hæret fane semper etloco, et corpori: nullum enim Corpus inuenias quod
alicubi non sit. Porro Oinne cor pus aut morietur,aut quiefcit: quare opusfuit
ali qua nora, quæ to 78 lignificaret, fiue effetinter duo extrema,
interquæmotus fit: siueeffetin al tero extremorum, in quibus fit quies. Hinç
eli ciemus Præpositionis essentialem definitionem. comp Affe et usautem
præponendihincfluxit, propter ea quod terminum lignificaret: Adforum: indi cat
enim interuallum, quod ante forum eft: fic, Apud te: designat spatium a
meadte:quem ter minum quum nactaeffet res mota, etquiesceret, merito etiam
præposita est: pendet enim a mo tu. itaque eadem Præpofitio vtrunque munus
obiuit: dicimus enim, Eoin vrbem: ac tandem, Sumn in vrbe. Quæram tamen, quare præpona.
Por fimmturea, quæ locum, vnde fit motus,designat,fic, quo ab vrbead villam: fi
enim interuallum notatin quo res mouetur, debuit illa prior postponi. Hic ita
respondendum est, Cõceptam animo fenten. tiain priino quoque loco exponi debere
oratio. ne: igitur quum dico Vrbs, vnum vno modo intelligo. Quum destinaui
futurum, vt vrbssit terminus, vnde motus futurus sit, ftatim hoc occurrit
intellectui: quod, quum ftatuatur per præpositionem, primo loco ponedum fuit.
Hxe cm fuit fedes in oratione. Locus autem in partium e. äumeratione, quæ
inflexione carent, primus da ce tug 10% ca 387 a tus est non immerito: eft enim
maxime neceffa-, ty ria.quippe Natura omnis constatautmotu, aut,, a quiete,
Præpofitio autem harum rerum nota est. et Interieet io autem,quanquam exprimit
perfecte Com animi quasdam affectiones:tamen ea,vt diximus,', i potuimus
carere.Coniunctioautem tanto poste rior eft Præpofitione,quanto est prior
simplexo ratio,compositis.Aduerbiivero neceffitatem suo. loco
declarauimus,verum supplementum potius orationis effe,minore prerogatiua,quam
qua vti tur Præpofitio, videtur. An vero họcita fit, fe. quenti libro acutius
perspectum est. Prepositionum generica diuifioredu et ta adcauffas. Ifputarunt
Philosophivteresset prior,Mo-'" tulne an Quies.ac fanein noft: atibus
Quies prior eft: non quod fit priuatio Motus, vtaiunt, (Motus enim item Quietis
priuatioeft ) sed quia nobilior:mouemurenim vtquiescamus. Contra” videatur
cuipiam Motum effe priorem: tu quia, (vtipfi credidere)semper in cælo fuit: tum
quia si vult Auerrois, Motum effe perfe et ionem cor- > poris naturalis.
Verum vt de cælo loquamur, di cimus ipsum mouerivecertis quiefcat.Intelli->
gonuçQuiefcere,adipisci quod non habebat hac vel illa parte. Deinde fatis
patet, ipfum toto, loco quiescere: quiescere igitur propter fe:mo utri autem
propter nos noftraque: at finis fui perfectior eft. Auerrois autem non debuit
ina telligere vltimam perfe tionem, sed perfectio nem per proceffus: et quam
vocant evtu ya senen 1 1. perficimur enim mouendo, propterea quodad quietem
propius accedimus. Quum igitur quæ dam Præpofitiones motum, quædam quictem
indicent,quædam vtrüque: hæ ambiguæ vltimo loco tractandæ fuere: quæ autem
quietem signi ficant,primo.Verum vnam tantuminuenio, quæ Pecfolius quietis nota
sit, ea est, Penes:significatenim potestatem immobilem ab co, cuius eft: itaque
est: itaquemaximeSubstantiuu verbum sibi vin dicauit. Plures funt motus
indices: Terminum quo vnde fit motus notant, a, De, Ex: quæ ad com moditatem
orationis sunt interpolatæ, Ab, Abs. Het ateş E. Alterum autem terminum, Ad,Ob,
Víque. Eft etiam vna quæ tres terminos comprehendit ita cevt terminum ad quem
fit motus, nominet,atque interuallo statuat; ea est, Trans: Curro trans montem
ab vrbe: supponit vrbem,nominatmo zemas tem, et petit aliud. Aliæ vtrunque
significant pro verborum,quibus iunguntur,ratione: In vrbem co: In vrbe
sum.Itaqueetiam casusmutat, quo. rum rationem suo loco diximus. Sunt etiam
cfimul vtrunq; miscent:vt,Apud;sic,Apud te cur- Biu Tentem curro: est hic
cursusmistusçũ quiete. No dimoueor abste: hæcest quies: Moueor æque el actu a
carceribus: hic est motus. Eft autem qui 2. dam motus verus, vt in corporibus:
quidam,vt eaiunt Græciavanogenes, vt quum dicimus quem piam mente motum.
Sicigitur etiam loquimur, E Daug audiui: motus quidam est. Et, Ad me redeo: et,
A libellis, A manu: ex eius enim manu proficiscitur actio ad officium. Sic Ob
et Pro pter,oliin locum significarunt:Ob Romamobe GIC 012 ner quæ gu tans I.C V
coda quitans Annibal: Athelim propteramanum. Tou Nunc deflexæ funt ad cauffam
tantum decla, lite randam. Things Affecttus præponendiratio, atg; vfus. Eter:
Idendum igitur quid fit Præponi, quotque Traces modis quidquam præponatur:tum
præpo bir 'nendi vsus quibus partibus communicetur.Quu nin: igitur voces ad eum
finem sint comparatæ, vt aut 7 dicat ex duabus vna fiat, aut ex duabus
feiunctis vna o ratio, atque vtrobique neceffe fit, vt altera alte I ram
sequatur, vtroque modo Præpositio præpo ni debuit. Quamobrem fatis conftet:
minus con fulto veteres alterum modū, Appofitionem ap-» pellaffe:aliud
nanqueest Apponerc,aliud Præpo nere:ac fortasse hæc inter fecontraria: sic enim
dicimus Appositum, quod eftin extrema fitum orationis parte.idem enim est
Addere, et Appo nere. Quum,postquam res videtur perfecta,iufta quippiam ponitur:
atque eodem modo Aduer bium nominarunt, quod verbo tãquam præscri ptio quædam
apponeretur. Quare non rectein telligemus, Appofitionem, esse speciem præpo
nendi, fed oppositum quoddam genus:sed vtrū quepræpositionem;eiusautem species,
Seiun etta, et Coniun ettam. Ergo quum prius fitseiunctim, sayangan quam coniun
et im præponi,de eo prius quoque dicendum est.Seorsum igitur præponiturNomi
ni,Participio,Pronomini, Ad Cæfare:Adipfum: Ad pugnantem. Coniunctim autem et iisdem,
et Verbo, et Aduerbio, et Coniunctioni.Præfortis, Bb y.
Adddo,Subies,Perinde,Absque. Quod vero aiutą, mo mom cum Coniunctione vim
suammutare,falsum est: ithoor etenim A BSQVE, tametfi motum verum non dicit,
tamen ita est, Abvrbe distamus mille passi bus:ita, Absque te Triumphaui.Significat
absen tiam, et interuallu, quod poffit effe locusrei mo Cafe tæ inter duo
extrema. Cafus autem duos certos fibi destinarunt, Quartum, et Sextum:ac Quartu
quidem, quoniam cauffam finalem significat: A mo Cæfarem: Cæfarcauffa amoris
est. Eoad Ca. farem: caufla eft motus. Huius natura fecutus eft Secundus
quoquecafus,fic enim dicimus, Vin cendi caussa pugnamus: significat enim termi
num quendametiam in poffeffione: Ego fum?Dei, non Fortunæ. Itaque etiam hunc
cafum ad eundem vsum traxere, Crurum tenus, apud Ver gilium:Nutricum tenus,
apudCatullum. Alter u casus Sextus designauitre et e terminum yndefie ret
motus, eius enim natura talis est: Abvrbe. Et uquia tempus cum corpore, etloco,
etmotu,mul. tas habet affinitates, iccirco eadem locutioncin, terdum sicloquimur,A
prandio, Aborbe condi to. Sic etiam caussain materialem indicauit: De iurc
disputo:quia abipfius contemplatione mo tus, in eo declarando versor. Quæret
quifpiam acutius, quamobrem Sextus cafus etiam quieti fignificandæ attributus
fit? k Haudfane præter rationem hoc fuit:nam Græ uci Tertium cafum ei
aflignauere, even signifi cat'enim acquifitionem:nihil enim fimilius loco, quam
locatu:acpropterea Latini, quiex Tertio Çafu fuuma Sextum progenuere, illius in
hunc prærogatiuam transtulere. Eft præterea quod in ueftigemus: quædam enim
sunt Præpositiones,q. quæ Quartumcasum exigunt et tamen terminu, vnde fit
motus, denotant: Poft hyemem: Post prandium. Huius rei ratio est, quæ et in
Trans: significat enim motum ad prandium: atq; etiam » vltra. Par caussa et in
Circa. Quartum enim ha bet:Circa vrbem. Nam omnis motus, aut eft ad » centrum,
aut a centro, aut circa centrum. Ergo centrum tametsi non eft meta motus
circularis, tamen eft præscriptio quædam: atq; iccirco eun-> demcum Meta
ipsa casum admisit. Ratio autem qua sunt addu et i,vt eidem Præpofitioni duos
ca fus apponerent, iam dicta est.In vrbe, quietem di cit: In vrbem, motum. At
vero quæ porro cauffa, vt etmotum, etquietem eiusdem effe paterentur: propterea
quod in, loci significat rationem: In vrbe,tanquam in loco. Itaque cum motum
ita si gnificares, vt etiam terminum no folum pro tera mino,fed etiam proloco
ftatueres, eadem vti po tuisti:nam, Eoin vrbem, ita dicimus, vt etiam in
vrbefuturus fim. Aliæ autē pari confilio ad cauf fas reducentur: Sub terra
fum,fub terram co. Su per,fcxit significatu,vtponeretur pro De: quo-» niam
argumentum,de quo loquimur, diettum est abantiquis, Materia: at Materia
defert,itaq; etiã moleselpos,vtsupra fcriptu fuit,appellarunt.Ve rum de his
sigillatim, quid vfusftatuerit, in libris Originūdiximus adeo,vtfit
prætermissam nihil. Nuncnö est huius operæ, sed vniuerfalia philoso
phorūmoreinuesligare. Sunt autequædam,que femper fcļūđī ponutựr:vt, Apud,
Circiter, Secus. Quat Quædam cotra:
'vt,Dis,Re, Se, Am. Quædam in differentes:vt,Ante, Cum, et eiusmodi. AcSeius et
tis quidem qui casus deberentur,diximus.Con iunguntur autem cuiuis fine
discrimine. Neque ex folum, quæ abfolute poni poffunt:vt,Ante,in verbo,
Anteuolans: fedetiam quæ casum exigere cevidentur, qualis est.Pro:quodmanifestum
eft in + voce hac, Pronomen.Quare non recte dixere re centiores, Magistratum,
qui præsit prouinciæ, auspiciis viri consularis, fine vlla inflexione no
aminari in Sexto casu tantum, fic, Cælar pro con lule, Cæsarem pro Consule. Nos
vero vt nonne gamus recte dici, ita affirmamusetiam pro cuiuf que sententia
variari, nõ minusquamprimariam vocem Consul. Nam præterquam quod superio ribus
rationibus ac fere omnium vsu liquet, Græ cxcis quoqueid defenditur:quippe
dicunt a'rgora mov. Et nos, Proconfulatu,nihilominus flectendo vsurpamus.
Nonnepernox Luna dicitur? Atque huiusquidem vsumcommoditas potius persua
fit,quam ratio docuit Sanenos, quia caremusar ticulis,arripuimusoccasionem ça'm
breui sermo ne vtendi: fic enim relatiuum esset interponen - dum,Dignitasproconsulatus:
dignitas, quæ pro Consulatu est. 1. Proprium autem quarundamest, vtsignifica ta
varient, qualis est, Aduersus: quarundam,vt suum perpetuo feruent, qualis est
inter.Quædam femper cum casu sunt, vtCis:quædam femper fi ne casu, vt quæ
componuntur: circumagunture "enim per omnes casus. Quædam vsus fentiunt vi
çiffitudinem, vt Pone. Quædam femper præpo nuntur, cie. P 1 tia 5 DO Büntur, vt
Ad. Quædam femper poftponuntur. vt Tenus. Quæ litratio vt(quemadmodadice - camy
bamus ) non re ettein definitione pofitum sit tan quam essentiale, Præponi.
Neque enim Aduer bium est,vtdixere: iungitur enim cafu. nam fi i ies sit
Aduerbium, quid ad nos? Tenus enim est » uezes. vt apud Aristotelem in fexto
historiarum, nezee zopkw: et tot locisapud eunde:mezeitiali."
quatenus.Quædam nunc subeunt,nuncpræeut: * Cum Cæfare: Mecum. Nequefolum in
compo fitione, fed etiam alteromodo: vt apud Teren-> tiumin Eunucho,Vnaire
amica cum Imperato remin via. Hinc fatis conftat, nullum effe vsum +
tertium,quem dixere,interponedi,his exemplis, Qua dere, Quam ob rem. signat
enim Relatiuu,sı cuipostponitur:non Nomen: quod manifestumn estalia locutione
hac: Res, qua deagitur. Pro-, prium et illud,vim amittereconstructionis, quu
componuntur: præpono te mihi: Tertius furre pfit proSexto, quali Verbum esset
fimplex. Sed etaliis modis, Prxeo Cæsarem: vbi Quartuspro Sexto. Sed etin
ipfamet compofitione:Quapro pter, Quocirca. Sed et seiunctim,fipoftponatur,
Multo poft tempore: et fit Aduerbium,atqueab folute ponitur,fine vllius cafusofficio.
Superflue etiam additur, Adeo ad Cæsarem. CAP. Ĉiv. Prepositionum Efficiens,
etMateria. Æcde carumforma, et fine,hoc eftvfu:nuc. tant igitur feipsas
interdum, vt A, fa et a eftex alia, -1 10 C c alia, quæ eft Ab: quæ a Græca fuit
mutila, izos Gainis, ab llio. Sic ex Dis, facta Di: et illa a Græca d'esquod
enim bis fit, feparatim fit. Quiæ u dam a Verbis, vt Sine,Pone.Am, tota Græca
eft, "et apud nos non nifi in compofitione: Theo critus autemetiam feorfum
posuit, ajega. Et quemadmodum Græci vfitatum additamentum Laddidere, xuqi,
sicutBingo: fic nos noftru Te, « Ante: ficut Ifte, Tute. Nam Ante, caftrenfis
vox cfuit:quum obsiderent oppida dicebantseefsean ute oppidum. Vsque,a Græca
ws5 The pro eo quod west, wess. Coram tota Græca, ob oculos, nogue aEtiam a
participiis, Aduersum. Cum et Con, v nam eandemque effe, aliis locis diximus:
Con " fonantem finalem mutari pro natura sequen tium se, vt Compono,
Confero: Vocalem au tem, vt auribusplus feruiat. item mutari, vt Co
mes,Comitium:Cumprimis, Cumprime. quod autem fit Com, non autem Con,
patetexclufio che: vt Coorior, Coco, et in Contra. eft enim a Cum: sunt enim
contraria relatiua, ergeli mul. Fuit autem Græca, ughes,nam,fuit par ticula
completiua, huw. Ea igitur genuitCon tra:sicut,in,Intra:Ex,Extra: Cis,
Citra:In, Infra: a Sup, Supra: fuit enim fic prius: poftea Sub, ab wiat:vt Ab,
X. Sed antea orta sunt, “Inter”, “Infer”, “Super”, “Exter”, deinde, “Intera”,
“Infera”, “Supera”, “Extera”. Qemadmodum ex Phänomenis Ciceronis obseruari
potuit. Tornu Draco ferpit,subterfuperag, retorquens. Fuit et alia terminatio,
Subtus ficucIntus. Pasize autē sunt oenor apud Græcos: nam Aristoteles et Thucydides,
etPlato, etalii Attici, ita vtun tur, cows procures. Ex Di, factum est
De,ficutex Pri,Præ: vnde Pridie: et ficut ex Ni,Ne.Aliquan do putaui a Græco
je,Deductum:neque ineptū® est. Hæcde origine, et materia: nunc de aliis affe et
tibus: Etiam a Nomine,Circum, ab eo quod eft ” Circus,xiguo. Accentusprepositionbus,quemadmo.
dum attribuatur. VEterumÆolenfium;vt faepe diximussix » quam plurimis
autoritatem secuti: vt a no minibus, vcrbissueabiecimusa fine accentus v fum:
ita in præpolitionibusrecepimus. Sic enim prisci prodidere: Omnes extrema
fyllaba, nili poftponantur, Græcorum ritu, acui: codemque tipoflponantur, accentum
transferri, na jurnami jual x mc men. Ita noftris placuit, vt dice remis Penes
Cæsarem: et, Cæsarem pencs. Quod fi vfu veniat, vt Præpofitio fit ambigua yox,
aliique particommunis:ne postposita qui dem transferri: vt femper dicatur:
Altaria cir cum: ficut Circum altaria: necocurrat cum Quar to cafu nominis
huius Circus. Quædam vero et iam amisere accentum, quippe ex quæ Encliti- st.
carum naturam induere, vbi postponuntur; qualis est Cum: dicimus enim Mecum,
sicut Mene. Verum deAccentibus, deque Cantilla tione illa fatis fuo loco di
ettum eft. Eofdem fo lensesrefpexereyeteres, quum nullam aspirarut: ». Illi
enim ito, et uzeg, dicunt. Caussa autem huius Sobre DS rei Ivl. VIII. t f rei
festiua esto: quum enim motu fignificetma xima earum pars, celeritate opus
fuit,nonmora et craflitie spirationis. Item quæ dicereritquiete, suauiteret
tranquillecamindicandam fufcepere: Afpiratio autem animi eft affe et i nota. Aly
affeettus. cong. Popriumitemcomponiet inter fe, Circum I circa:vtapud Homerum,
ucineispo© x ante cõueet to: Et cum seipsis, vt apud eundem, wes
xududozefia:Etcum aliis partibus: cum Nomi ne,Incola: cum Verbo,Impono: cum
Participio, quod a Verbo venit:cum Aduerbio, Abhinc: cu sogn. Coniun et
ione,Absque.Interdum autem retinet significatum, vtDeinceps, Coniunx: idqueaut
fimpliciter, vt his exemplis: aut auget, vt Impo tens, Infra et us. Interdum
amittit, idqueaut tor quet in contrarium, vt iniustus: aut in diuersum
trahit,vtPerbonus. Ratio autem huius poftremi 1 a Græcofluxit:nam mei
significat Circum:quod fi autem continet, id maiuseft, quam contentum. Abeo
noftrum Per,du ettum eft.itaque Perbonus, est o wexey.ww To digatov: Quæ autem
intendunt fignificatum, cauffam hanc habent: funguntur Huenim pene officio
eodem,quo in difiun et a oratio ne. Impotens,vt lit, potens in alios:Infractus,
qui ipfeintus fractus sit. Atvero quæ in Contrarium transformarunt, qua ratione
id efficere potuere? nam fane priuatiua Græca habuit cauffam, ad G:nam to d,eft
ficut to do, vnde noftru a:figni ficat enim motum, vt sit, qui mouetur a
iustitia: C و 0 ac at noftrum In,significat locum, et habitum:qua renon satis
manifesta cauffa est. Sunt et aliæ prę pofitionesaugentes, vt Adprime: motum
enim et propensionem notat ad id cuiiungitur. Con tra, sunt quæ minuunt: vt
Subrubidus. Suppude bat: non immerito: est enim respondense con trario tb w €
lo quod enim sub aliqua reelt, abea tegitur: ergo eft illa minus. Proprium
etiamfupponere aliquidad significandum, quod in caco > pofitione non fit,vt
Internecium:hic Nex figni ficatur. Inter,autem est nota relationis ad duo: at
ea non ponuntur. Græciclarius, annodovovat repov. Et mutari in eodem verbo
Effero, Elatus. verba tamen duo sunt. Proprium etiam creare ex fe Nomen, Ante,
Anticus: Verbum, Prope, Propinquare. Proprium etiã, vt altera pro altera
ponatur:di- Enak cimus.n.Ajpro DE,et ecotrario:fed non re et evti lagi Lin sunt
exemplis quibufda,vtide sit Ad oppidum, et In oppidum. Barbare item dicunt, Per
vrbesum, ficut In vrbe. Barbare Apud Balilea, sicut Bafileæ: falsianalogia
alteriuslocutionis, Apud foru: licay.. n. dicebant prisci, vt Terētius in
Andria,In foro n.homineslitigant: etannona est.Tu Donati in terpretatio hæc:
Verba,inquit, Dauide forove nietis.voluit dicere, simulatis venire de foro.qua
re autem fic aufi fint, haud fatis coftat: aliud enim eft ωδα,aliud ν.1llud “το
έχόμιον” hoc “τε ω ιεχό-“ refror notat. Falso quoque putant Propter, poni
alieno loco pro eo, quod est Prope: na hæc illius parens eft. weydiximusalio
libro,Græca effe mee. Itaq;Prope,fuit pro pedib. ita Græci loquuntur;» Сс ј.
med İVL. VIII. meg moduko at a Prope, fa et a est Propter: sicut ab In,Inter: a
Sub, Subter. quare Vergilius cum di xit,Athesim propter amænum:fincero;re
ettoq; significato vsus est. cum autem nos referimus ad vlum causæ finalis,
translato vtimur significato: quoniam finis cohæret actioni, mouet enim nos.
(Apud autem fuit, ad pedes,eodem modo:itaque Ad, et, Apud, proxima funt et
fignificatione, et v ufu.Ad Leccam velle cænare, vt fit etiam pragnas oratio:
ad Leccam cogitare cænandi cauffa. Ad Capua caftra habere quoniã eo cõtenderat
prius, Confequens a præcedenti. sic mutila oratio, Ad febres facit: immo
Adægrotum, cotra febres.sed Ad, accipitur pro qualicunque termino, etiã ho ce
stili. messzonw Tl- proco quod eft, aduersus. Cæ tera omnia exempla ad hunc et
motum, et termi num reducuntur. Quodautem aiunt, Apud ma iores, pofitum pro eo,
quod effet, A maioribus, falsum cft:fed eit ficut,Ætatenostra hoc fit:quip pe
ab aliquo apud cæteros, quod ad feculum hoc pertinet:præsentesenim sumus tempore.
mitter Proprium. et illud, Ponå absolute, atque inter du ficri Aducrbium:vt
apud Virgiliū, Pone fubit coniunx. nam oratio fimplex eft ex Aduerbio, intelle
ettus autē Præpofitionis. Poft, enim figni ficat relationem: quod enim eft
Poft, habetali icquid Ante.Eft autem Post, pone est. Interdum # quod plus eft
euadit Verbum,vt apud eundem: Omihifola meifuper Astyanaĉtis imago.proco, quod
eft, quæ fupereft:vt quodammodo sit quafi Participium: atque hoc quoque
Græcorum imi ai tatione factum est. Frequens est apud Sophoclem locutio,nie
prowlkesi: et ev«,pro šviş. Quo » rum legibus nostri quoqueaccentum translatuma
voluere. Obferuata est avauseia his exemplis, pro Ad=ffining. uerbio, apud 1
erentium, Fortunatus fum cære-> ris rebus,abfquehæc vna foret. apud
Sallustium pro Coniunctione, Præter rerum capitalium, condemnatis. fic Varro,
Præter fi aliter nc queas. Sed mihi videtur caussa huius loquutionis in promptu
esse: nam prxpositio illa præter, to tum quodfequitur excludit: fic eftin illo
exem plo Enniano, Præterpropter vitam: id eft, viui- » mus ita, vt videamur
propter quiduis potius; quam propter vitam. Aduerbiy necessitas: Sedesinter
partes:Nominisraa tiofalfa:Item Definitio, Ortus, Species. Cc ij. Dy Ivl. IX.
organa DyplexAduerbii neceffitas fuit,ficPomba, duplex est vocum temperamentum
per adiectionem. Nanque aut adiicitur accidens substantiæ, aut gradus
accidenti. Exempla hæc funto, Vir fortis: hîcaccidens substantiæ addi.. tum
eít. atquum dico Fortior, tuncgradusacci denti additus eft. Igitur quod faciunt
adicctiua substantiuis, vt fecum affcrant accidentia: hoc vt a agantAduerbia
Verbis, excogitata sunt. neque enim fi dicas, Velox fcribo, aut, Velocia
fcribo, intelligas scriptionis velocitatem: fed Velociter fcribo, fi dicas:
intelligas. Sic igitur quum ex plesset Verba, adhuc fupererat aliquid agen ce
dum. itaque etiam gradus illi dengnandifuere. Quare quum bonitas, atque aliæ
qualitates in tendi, ac remitti qucant, neque Comparatiuo, ba aue Superlativo
ita plene poflint explicari, Ad uerbii ope factum eft, vt explicarentur: Valde
bonus, Nimis fæuus, Lorge alienus,Multo for- ni tiffimus: vt etiam illa ipfa
nomina gradus signi ficantia, hocindigerent, Paulo doctior. Quare a Vox non
folum nomen Aduerbii male fabricarunt 6 vite feteres,fed etiamimprudenter assignaruntdefi-
a nitionem: Neque enim folius Verbi tempera mentum est, sed Nominis quoque. Sed
nimis fe- cure fecuti sunt Græcos, qui æque inconsulte Strafpnua ipfum
appellarunt.Hinc constat ratio w originis, et fpecierum. Nam sicut Adieetiua ap
ponuntur Substantiuis: ita quod verbo appo unendum fuit, ab ipso Adie et iuo
deduci par est. Si enim dicam, Celerem scriptionem: dicam et iam, Celeriter
fcriberc, quæ fanefortienturno at POO 4 specierum a natura ipsorum Adiectiuo-,;
rum: vt si Bonus qualitatem, Magnus quanti tatem fignificat: can aduerbia ab
his deducta aut qualitatem, ant quantitatcm dicere intelli gentur. Propterea
vero quod a et tio et locum, et » tempus exigit, iccirco horum quoque præfcri
ptio ad Aduerbii vim relata est.Temporum enim et locorum vaftiorem ambitum
certis limitibus intercidi oportuit. Itaque necessario inuenta sunt,Heri,
Cras,Hîc, llluc: Cum igitur gradus quasi quofdam deducat per Verbi Nominisque
tractus:eiufdem quoq; interfuit, cofdem gradus,, detrahere ad nihilumvsque.
Quare fi dicain, Cur rit çeleriter, tarde: et Albus plus, minus: debuit etiam
poffetolli eodem inftrumeto, quominue batur: itaquedeuentum estad negationem,
tum eam quæVerbis præponitur ad cotradiettionem affirmationis: tum eam,quæ
præponitur Nomi nibus ad efficiendum id, quodvocatAristoteles, cioessov: Non
çușrit, Non homo. Quæ negatio cum folo Aduerbii genere compleettatur, fane ef-
" ficere potuit, vt contra, quam veteres putarint, omnium partiu
indeclinabilium princeps esset. Omnisenim oratio ftatim a suis primordiisin af
firmatiuam, et negatiuam diuiditur:quæ fiofficii meritum putes,illico poft
nomen, ac verbum Ad uerbium ftatuendumeft, Deducuntur autem Aduerbia alia
aperte, vt home Bonus, Bene: alia obfcure, vt Senfim, a Sensue Item a Verbis,
vt modis quibusdam seruiant, vt, Age,Fere: illud hortando Imperatiuum exi. git,
militarę verbum fuit, ab Ago: alterum non + Сс 11] eficia I e a eft finilitudinis,vt aiunt,fed
diminutionis:quoda enim fimileeft, cum dico, Fere poetæ nullo ho nore funt? fed
fic intelligo,apud paucos pauci fi poetæ sunrin honore: intelligo autem diminu
utionem non magnitudinis, fed præscriptionis: vt aliquid detrahatur firmitati
sententiæ, vt ne- (queat dicere, Nullus poeta: et item nequeam, Omnes. Sic Fere
fingulos parit mulier: vt fit, ne- V que semper, ncquenunquam. Tractum autem ce
est a philofophiæ radicibus: quod enim fertur, in motu est:itaque terminum
nullum attigit, neque enim a Feris ductum fuit,vt aiunt, quoniam ferz fint
celeres: nam etdurum eft, etnugantur, cuın dicunt, Feras esse ccleres, quia
fint quadrupedes: nam etAquilæ funt feræ, et celeres, nequequa drupedes;
etmultæ quadrupedes feræ sunt,'nc queceleres, vt Elephanti: iroda et quædam ce
lerrima,vt Angues.nequeCanis fera eft, et eft ce- fa ļer.sed de his alibi.
Belli autem,et Domi, et Vef peri, et Tempori, ad alia reducuntur. Loci, et
Temporis, et Sortiapud Vergilium (vt voluere) Aduerbiis qualitatis
annumerabitur. a nomini bus omnia. ct Quæ igitur tempus notant, alia funt
Infinita, vt Aliquando, Olim: alia Finita, vt Cras, Hodie. Sic et Loci,quippe a
Pronominib. deducta sunt: Hic, lllic, delignantcertum locum: Alibiincer tum et
Viquam,etalia. Falso autem putarunt, Prorsum, Rurfum, Sur a suim,loci
effe:neque enim locum significant, fed motum ad locum. Illa autem, Oltiarim,
Vica Ketim, Viritim,quantitatis discretæ sunt. Quædara autem, vtdicebamus, ad
modos relata funt. Sed cum dicunt, O, esse optandi,tantum abeft vt af- er 05p
fentiar, vt etiam Vtinam putem effe interiectio - hiho nem: neque enim modum
vllum apponit Verbo:) pie idem enim est, Ainarem, et Vtinam amarem: et, ji
Omihi præteritos referat si Iuppiter annos: idem est, Heu quaremihi non refert?
Neque omnino Vocandi vllum Aduerbium fit: nihil enim detor quet, aut addit, aut
tellit a Nomine: quare qui Præpofitionem agnouere, propius ferunt veri-»,
tatem. Nam tametfi neque motus, neque quietis indicatrix est, tamen disponit
admotum, Sicut punctum non eft quantitas, sed tamen ad prædi camentum reducitur
quãtitatis: sicin hac,neque enim dicas, Ad me veni: nisi aut voces, aut voca tum
intelligas. Loci ac temporis Aduerbia maximo ambitu feruntur: quare placuit
veteribus ca inter sese co parari. Sed turpiternimis lapli sunt: Nam quum
limfowla dicant,Aduerbialoci ampliore esse significato, adplecia quam temporis:
quia Nusquam, plusampleet aringen tur, quam Nunqua:non animaduertere,fola cor,
peste pora deberilocis. at ea fimul cum aliis rebus mul- 2 tis,quæloco nullo
cõrinentur, fub tempore effe. Non estin loco, Qualitas,non Relatio, nonalia
multa prædicamenta. et tamen subtempore sunt, aut fiunt: igitur Tempus multo
plura circunscri bit: Locus pauciora.Quod igitur nunquam est, nufquam item est:
at non ecotrario, multa enim nufquam sunt, quæ aliquando sunt. Quippenul lo in
loco eft hicactus scribendi meus; at aliquo tempore quin fit fieripoteft. ou
Figur ain Aduerbiis. N Aduerbiis figuræ sunt,simplex, vt Diu: Cõe posita,vt
Interdiu. Componuntur autem vel tre poltquam Aduerbia sunt,vel ab ipfis
compofitis au fiunt, vt Hodie: fuit enim,Hocdie: et Nuper,fuit Nouo opere:
Semper,Semiopere:Toper, Toto copere: fignificat.n.cito, et expedite:ita vt
opera absolutasit. Itaque Semper,ei cotrarium eft,pro pterea quod liquid
dimidio tantum opere fit, id non abfoluitur, fed continuatur.Geminatur,vbi vbi.
Componitur cum Nominibus, Vbigerium: Te cum Verbis,Vbilibet:cum
præpofitionibus, Per- L diu:cum Coniun et ionibus fimplicibus, Vbique: VE cum
illis et fecum,Vbicunque, Profe et o, etiam, et illico, fuere composita, vt
Hodie, ac NE Antiquorum Error in
Structura. SligiturAduerbiumVerbimodus eft,fatispa tet, quam inconsulto veteres
ita præcepere, onto præponendum esse Aduerbium Verbo,vțita di camus, Bene
currit. At enimuerocontra est: ac ceffio enim significatus fit ad yerbum ab
Aduer- G bio: et quemadmodum prius fumusviri, quant fortes: etprior natura Curlus
est, in genere, quam Cursus çeler, in specie:fic erit pri?Currere,quam
Celeriter cursere. Nonenim hîc loquimur de fer monis elegantia, fed de caussis
ipsius. Acquan quam ars atq; vsus dicitur natura imitari: tamen in quibusdam
rebus placuit varietas. Itaque ele gantius acceptum eft Verbum in fine
orationis ÇON on 0 die va U lee ic 40$ Opera 110. ziur ge DUSA Vbiz, ft contra,
quam a natura ipsius reisappeditaretur, quo more præpofitum est Adiectiuum
Substan tiuo: et Verbo Aduerbium.Sicin Tripudiis finiz, ftro pede
mouemurprimum, quum natura dex-} ") trum primum moueat: vt arteid
factum,non cu jusuis communilegevideatur. TAffeettus Aduerbii. Roprium est
Aduerbiorum quorunda, afsu - ioni mere sibi quædam Nomina, Vbi gentium,
Terrarum,Loci:eiusdem naturæ, Nusquam, et Longe: respexere enim significatum:
eft enim Vbiquafi, dicas, Quo loco terrarum? Sed et tem, pus cum loco
communicatum, Intercaloci: co gnati enim inter se sunt. Magna autem affinitas
Aduerbii cum Nomine, vt diximus: Itaque et a Nomine fit Hoc die, Hodie: etfacit
NomenHo diernus. Adeo,vt etiamcafum retincat Nominis,}»: funn Verbi,vnde
fiebat: vt apud M. Tullium in tertio Officiorum: Conuenienter naturæ viuit.
quia etiam conueniens.hocautem,quia cõuenit: Græcorum imitatione fa et us
Atticismus, ouobws » 00. Eadem affinitate casum quoq; pristinum re tinuere: In
Recto, Fors: a quo compositum per dubitatione cum An, Forsan:et Verbo
interposiz, to, Forssitan. In Secudo casu, Belli. et apud Cos
micumiocose,Foci.In Tertio, Ruri. In Quarto, » Romam. In Sexto, Forte: qua
formafuere, Ci to,Falso,Şero: et horum secutum analogiam ver þum ynum, Præste.
Interdum etiam mutantur, Gatis ecen VIID ad vt, ار Сс у. 1 IvL. ITE DE BE ER vt,Modus, Modo, Mox. Sic
etiam retinet naturam transformatæ in sedin !! Præpofitionis, cuiufmodi est
Cum. coniungit e nim tempus, Cum veneris faciam: vt officium meum cum aduenta
tuo coniungatur. Itaque re clatiua quædam facta funt, Cum do et us,tum pro
bus:id eft,quotempore doctus,eo temporepro bus:coniungitcum doettrinamutuo
probitatem. Sed hæc minutius in libris Originum dicta sunt. !! Proprium etiam
inter se vsum commutare: fic « dicimus, Illico, pro tempore: fed fuit,in
loco:et Hefternum panem atrum: pro pridiano. Refert venimHeri,loquentem
tantum:sicut Cras, et Ho pl die, et Perendie. Imitati funt Græcos, qui xtes ad
hunc modum dicunt: vt eft etiam apud Lucia num,in cunviw. Proprium item, habere
comparem, vt Haud, Non: et non habere, vt Ne: prohibetenim, non u
negat:quanquam in compositione pofitum inue nias negatiue, Nequaquam, Nequicquam,Ne-
ir frendes: sicut Non,prohibendo, apud poetas. In Item habere feriem teporis,
Hodie,Heri,Nu diustertius, Quartus: et vt fecit Plautus, Quintus, Sextus: Cras,
Perendie. Item minutiora: Nunc, Modo, Dudum,Nuper, lam, lamdudum, lam pridem,et
futurum Mox. Præterea quemadmodum amiffo cafu Præpo fitiones abeunt in
aduerbia: fic aduerbia in In ceterieet tiones, Euge: nam hoc fuit eje, at Penė,
Aduerbium eft. Item communicare eidem terminationi di perfum modum
significandi; vt Gælitus,delocoeft u 11 est,r gvoder, Diuinitus. Jebjev: at
Publicitus non, dusjer, sed dnu61: habet tamen motum quen dam a populo:sic
Primitus,a Primo. Falsum autem est, quod dixere Cafum habere no con Aduerbia.
vtponebamusönucler, Snuovde, ånuolio noted fed a Casu ducta, co caruere: quare
etiam contra ria additur Præpofitio. sexvb. ges. Item Perfo nam attribuere ausi
sunt ridicule, Mecum: oratio enim eft facta vna. si enim fit Aduerbiu. ergo di
cas,Egocum: Aduerbium.n.nullu casum exigit. Falluntur æque quum dicunt,Heu esse
notam responsionis ad Heus: nam fane nullum exem plum afferunt. Ponitur autem
adverbium pro nomine: Sic bine erat confilium: id est, Tale: aut fit Pronomen,
Hoc.Et apud Vergilium,Terrorum ac fraudis a-,, bunde est: id est, copia. et
Græce scit, pro Græ-, ca. Pro Pronomine: Hinc illæ lacrymæ: id est, ex hac
cauífa. Sic, Vnde: pro, A quo. Pro Præ pofitione, Intus Templo, apud Vergilium,
pro » În templo. Sed est expofitio in voce Templo yocis Intus: sicutiquudicis,
Fcram leonem: po terat enim esse,Intus,alibi quam in Teplo. Quod autem dicunt,
PridicCalendas,effe Aduerbio po-, fitum, pro præpositione, falfum eft: nam
Pridie, estoratio copofita,sicutMecum: Præ die: et,Ca lendis, est vox termini
in quem tempus abit, fic, Eo die, qui ante Calendas, et ad Calendas, (ve ita
dicam) it. Itaque etiam dicimus, Pridie Calendarum: quanquam durius in quarto
casu. Sed factum est analogia aliorum, vt quia dicere tur, Quarto Calendas,id
eft, Quarta ad Calendas, ita etiam,Pridie Calendas.etfi non erat ante eum diem
qui iret ad Calendas. Huius motus ratio et cauffa elicitur exmodo loquendi
Ciceronis: In ante diem nonum Cal. Pro Coniun et ione: Qua do,pro Quoniam, ett
ce re filI mo et mi In CE Interieetionis natura, Ratio. feri te 1 te ef
fis Vog INTERIECTIONEM veteres quum a situ et nominarint, et definiuerint,
nequaquam aa cæteris cæteris partibus distin xere: nulla enim pars orationis
non « interponitur. Sed ita intellexere,Interponi,qua fi alienam a cæterorum
structura: ficuti dicimus Interuenire. Verum nomine paulo liceatiore leyfi
sunt: nam et, lacere, est duriuscula vox: et wa ettionis significans
terminatio. Nam Coniuctio sit,quæ cõiungit:atPræpositio? nequeenim præ
ponit,sed præponitur;ita Interiectionõ inţeria B que cit, fedinteriacitur, et
interiacet. at a Iacendo, la ettus,autLactio non ducitur: vel G ducatur,
rarius, vt diximus,fanesit.Antiquoru simplicitatem re centiores castigare
aggreffi accuratius definiue re fic,Interiectio cst, quæ sub rudi,inconditaque
+ voce affe ettumanimi demonstrat. Verum hæc et falsa est, etcum aliis quibusdam
partibus comu nis.nam quid appellamus rude? quod vocem pro nunciantis
exasperat, vt dupliciconsonante, E I uax: aspiratione, Ohe:mutarum obscurioru
ter minatione,Atat. Verum enimuero aut tales, aut eriam duriores alibiinuenias
offenfiones. Verbo rum persone eadem muta aliquot finiuntur, at etiam obscurius
fane in plurali, Dormiut. A spiratio per omnes pene partes comeat: Honor,
Haurio, Heri.Duplices onerant frequentius no mina, Felix Xenopho: quid
rudius,quam'Extra, Intra Infra? Quid simplicius,quam o? Præterea 2 quid est
Inconditum? quod incompofitum suam fedem amisit:Inconditæ ædes, Incõditæ
fluctua tes acies, Agmen incoditum. At nullus locus In teriectioni fraudi est:
quare falso a priscis di et ta est Interie et io, quæ etia præponi,etiam
postponi, etiam sola ponipoffit. Quodautem animi aiunt fignificare affe et
ione, non eft ab eis declaratum: nam vox hæc, Dolor, animi affe et um
significat: at Heu, non significatdolorem.quemadmodum Balteus ab Imperatore
militi datus non signifi cat militia: Deque enim vox,ncque a et io inciui lis
Cimonis, significatftoliditatem: fed notæ ta men etligna sunt, illud militiæ,
hoc stultitiæ. Sic Heu,dolorem non significat, sed ofdolentisani-" minow
1. 10 be Paylminota, itaque fola posita
explet audientis ani mrb. mum indicio fuo. Quæ cauffa fuit plena optimi
confilii, quamaiores noftriab Aduerbiis distin grouxerint. Elt igitur
Interiectio nota animiaffe et i, quæ nullius orationis indiget adiumento. Quare
fequiturilla natura, vt careat inflectione: Gbie nim vnufquifque affe ettus
præscribit certos limi tes: non.n.continuatur dolor admirationis, sed penitus
distinctus est. Quare diuersarum quoq; Spacesmiaffectus, tot eruntinteriectiones.
Minamur, Væ: admiramur, Papæ: fastidimus, Ohe: dolemus: Hei: paucmus,Atat:
indignamur,Vah: percelli mur,Au:abhorremus,Phy:optamus, vtinam:ab iicimus,
Apage: Laudamus, Euge:Attestamur, Doctis,Iuppiter,et laboriofis:ficut etapud
alium poetam,Nauibus,infandum,anillis.etHomeria I u cum illud qera G, in
fineperiodi: mirificusc enim ornatus orationis est, et augustiores cilius animi
motus, quemadmodum in libris P coices a nobis exaettiffime dictum est. Sic
chiapud ch. dcm diuinum poetam: Hunc ego te Euryale afpicio? tuneilla senecia
Seramearequies:potuisti linqueresolam?? Perfecta erat oratio: at incomparabilis
ille vir non fatis habuit, addiditque. Crudelis. Nam etfi nomina sunt, tamen
vim illam plene obtinent. Iurantis quoque animus Interie et ionis potius, quam
Aduerbii nota ex plicabitur,Profecto. Mediusfidius: et affeueratis, aut
sciscitantis, vt Sodes: et illud Terentianum; 1 bu v Els T, Indicentis
filentium: quemadmodum et iam apud Plautum. Ex hacessentia atquevsu, il
ludenatum est, vt etiam casus quosdam quærant », fibi: in cauffa enim eft
efficacia significatus. Vx me, Væ mihi. Certos aliæ sibi calus vsu potius, quam
ratione asciuerunt, Heu mc, Heumihi, O ingentem confidentiam. Voces quadam ab
Interiectionis natu ra excluduntur. C.Vm igitur affeetti animitota fitinterie
et io, quærat aliquis, an brutorum vocesin hunc a. ordinem fint redigendæ, Cra,
Vhu, Crucu, Be, Pau, et eiufmodi fortafle carum aliquæ fint, nihilo minus, quam
noftrum Au: fed non reci piunturin orationem,ficut ncque alia fi etta a poe
tis,nifi periocum, aut figuram, Bosxszexet, Jp877- νελω, τίω ελα. Caufa
efficiens etmaterialis, et affeettus ab bis etab essentia.
EssentiaInteriećtionis, et finis eft:origo alla tem multarum ab ipsa ftatim
natura elt: Inn metu enim vocem edin.us primam quanque la tiffimam, Hu: in
dolore Hoi, Hei,apud P autum: aliæ autem ab aliis partibus fubductis ex integra
oratione, vt dicebamus, luppiter, Infandum, et eiusmodi. ltem ab Aducrbiis,aut
Coniunctioni bus, aut Præpofitionibus: nanque 0, avocan di munere acceptum, transferimus
fine calu in admi IvL. X. Tim
admirationem, aut vota: Omihipræteritos referatsiluppiterannos. Vtinam
Coniunctio fuit Vt, et additum eft Nam:ficuti in Qujanam: significat enim Vt,
fi nem, quem in optando animo concipimus sem per, non semper
orationeexplicamus. Coniun c ettio est At: geminata in metu, nonneaduerfatur
imminenti periculo? A verbis quoque manarunt: Sodes. prisi Proprium ergo est
aspirari iisdem de caussis: Aspiratio enimexplicat fufpiria, et difficultatis
nota est. Itaque a Græcis sumptam seruarunt, cePhy, Qeū, Heu: non inuentam
addidere, ci, Hei, Hor:quibufdam initio, Hau:aliis in medio,Eheu, Vaha:aliis in
fine Proh, Oh, Ah. Veteres tamen negant, vllam vocem in fineaspirari: quare
fuit, ceaiunt, Ah a. nostra nihilinterest, quidfenferint agrestes Opici: nam
meliora secula ita pronun ciarunt, Vah, Ah:quare etiam plus afficit Proh, quam
Pro:et,Oh,quam O. « Proprium etiam cơmponi, vt diuor, Mediusfi dius. Heuheu:
quare non re ette omifere Figuram. « Proprium etiam, nullo ordine statui: et
ratio cofane subest valida: perturbatus enim animus,aut præuenit affe et um
oratione, aut affc et u oratio nem: quare non reete Ordinem veteres assigna
Proprium etia carere specie, contra quam di xere: neque enim vna ab alia deriuaturnanque:
Eheu compofita est,nondedu et ta. Igitur hoc erut conscquutæ, vt interfe
dicantur Infe ettæ:fic enim toces primitiuæ a Varrone appellantur in se cundarunt.
cudode Analogia. Dico autem,inter le:propter ea quod ab aliis,vt diximus,
deriuantur partibus. Åntimeria autem nulla afficitur alia, quæ di etta eft, vt
pro integra oratione ponatur. Catullianum enim illud,Jupiter:fic est,
OIuppiter, tu testisesto. Women eteffentia Coniunctionis. RÆCORYM secuti quidam
libentius Vox interpretationem, quam vocis con cinnitatem, Conuin ettionem,
quam." Coniunctionem dicere maluerunt. At vero etvfitatum nomen aptius
fonat, etdu ritia translationis prohibet sic innouari: lenius e nim dicimus
lungere, quam Vincire: quanquam Sextus quoque Pompeiusowideouco potius Col- »
ligationem dicendam censuit. Coniunctionis au tem notionem veteres
pauloinconsultius prodi dere:neq; enim, quod aiunt, partes alias coniun Dd j.
gits Ivl. XI. git: ipfæ enim partes per
se inter seconiungun tur: Verbum nanque Nomini iungitur affinitatc nito numeri
et persone. Sed Coniunctio eft,quæ con iungit orationes plures, fiue aettu,fiuc
potestate: nam, Cæsar pugnat, Cæfar scribit,duæ funtora tiones separatæ, quæ
Cõiunctione in vnuin coa lescent: actu igiturduzsunt: at Cæfar et pugnat, et
scribit,poteltate duæfunt: quoniam Cælar bis cft repetendus.
Inuefiigatsubtiliffimecauffamfpecieram. bonjo IGitur hæcConiunetio quum
fieripoffevidea dum verba tantům, autfecundum vtrunque: ex ipsis
rebus,quemadmodu hæc reete fiant, videa mus.Res aut neceffario cohærent, autnon
neces fario cohærent,aut neceffario non cohærent.Ne cessitas autem duplex:
autabsoluta, ve Deus eft: necessario enim est non ab alio, sed quia immuta
abiliter eft:eft nanqueNeceffe,quodnccesscaliter 4potest. Theologiautem abusi
sunt hac voce, vt eam a Deo excluderent: quali idem effet necesse, et coaetum:
at enimuero ipfis vt libet: vocis vero ufatioeft, Perfectio: contingens enim
pertinet ad imperfe et ionem. Alia eft Necessitas dependens: hæcin Deo nulla
eft: Deus enim eft, Primum,et Simplex, etPotens omnia, et Omniu cauffa. Hu ius
Neceffitatis duæ sunt species, siue modi: Dam ipfa cauffa, quã aliquid
fequitur,autextat suapte natura:aut no extat quidem,sed per wohoovsta
tuitur.cxcmplum primi est:Homo,ergo discipli na nguna montare Btellare Luntora
uin COP Calarbi ! he capax. hic, Homocauffa eft, et feipfo extat in oratione.
At non ita in fecundo modo,cuius exe ux complum hoc efto:
Siambulat,mouetur.hîcenim no Hatuitur Ambulatio. ex his igitur coniunctio num
species sunt eliciendæ. Ergo secundum sen sum tantum quæ coniungant, non
reperientur, pugni propterea quod sensus notæ voces funt: quare omnes verba
coniungunt;fed earum quædam et iam sensum, qnædamnon. Copulatiua. Ut ergo
sensum coniungunt, ac verba: aut pino verba dif unque: iungunt: “et, fifensum
cõiungunt, aut necessario, aramelo int, vida aut non necessario: et, fi non
neceffario, tunc fiut nondes copulativæ, quas connexiuas vocat Gellius li
erent.N bro decimo,et funt hæc: “Et”, “Que”, “Ac”, “Atque”. vt: vt Deuset Cæfar
doctus fuit, et pugnax: nõ enim neceflario ja immuti cohærenthæres, appofita
negatione,Cæsar do et us etnon timidus: fic,Nequecrudelis,neque timidus. His
addidere sufpenliuas,hoc exemplo, Et fu-)) E: vociste git; et pugnat:fed
frustra: merito enim verborum a pertinet fit hoc: vt,Homo eft,et inhumanus.
Saneeftsu = depend perflua curiositas. Continuativa. TAMY osle vide autfecw A
ccelcali 720 VOCE, Elletneret Primum īcaulla, i emodi: textatfun aut
præstituunt, aut subdunt. Præstituunt riwayam cæ,quas Continuatiuas vocant
veteres:recentio tes autem Conditionales: vt, Sistertit, dormit: cauffa crgo
dilo Dd ij. 416 IvL. x 1. cauffa nanq; dormiedi, etfino eftipfum ftertera fed e
cotrario: tamen ipfa Coniun et io necessario huic rei,quæ eftstertere, subdit
dormire: vt que admodun res are dependet, ita intellectus ordi. Ine contrario.
Prior eft Morus, quam Cursus: Ita que posito Cursu, etiam motus poneturabintel
lectu: eft enim Cursus cauffa intelle et ionisMo tus: hoc autem eft
neceffarium, non absolutum, neque pofitiuum, fed iweJenxor. Fit autem quia
cotinetur a fpecie genus: item comes eft affectus. + Quare non re
ettefcripfere, Coniungiab hissen; sus imperfectos:sunt enim perfeettiffimihi,
Dies eft,Luxeft:Addunt etiam id,lungunt,inquiunt, fine subfiftentia. At hoc eft
falfum:aliquando e nimsubsistunt,vtNunc,quum scribo:Nox eft. et dicam: Si nox
eft,Sol subterra nobis est. Ergo nuc nox fubfiftit, et tamen eft continuatiua.
Sed ita cedicere debuere,Sinesubsistentia neceffaria:potest enim fubfiftere, et
non sublistere:Vtrunque enim admittunt. Sub eodem genere funt Abnegatiuæ: vt,
Si interfuiffem, pugnassem: ostendunt enim effe et tum abeffe, quia defuerit
caussa. Hoc autcm non ex Coniunctione fit, fed merito Modorum, et Temporum:
fimile enim eft id, Si intereo: pugnabo. Quæautem nonex hypothesi, sed ex eo
quod soba subsistit, coniungunt:Subcontinuatiuasdixere. Cauffassubdunt hæ,
sic:Movetur, quoniam am bulat. statuit enim ambulare atque iccirco moue ri:
Continuativa autem non ftatuebat,ambulare. Vox Male autem a veteribus ita dicta
sunt: nam Præ positie E pofitio Sub, in hoc nomine aut fpecić significat, vt
hominem sub animali dicimus:aut diminutio 12 nem poteftatis, vt hypopheten fub
prophetein telligimus. At neutrum conuenit: nequeenim EI species efse quit
certa res incertæ rei: et Subconti nuatiuz poteftas maior eft, quamContinuati
ux.Sed ita excufandi funt:amplitudinemConti-, tinuatiuæ percipi ex co quod
ctiam impoffibileali quandopræfupponit. Exhac quoq; claffe funt Adiunctiuz: vt,
Pu- » gnadumvires.Et quægeneris nomine Caussatia D. uas appellarunt: ve,
Pugnaui, quia læsus fui. Et E Approbatiuz: vr, Pugnaui,equidem lælus.
Col->> ad le et iuis eadem natura, sed diftant ordine: pra ein ponuntenim
cauffam:vt,Homo, ergoanimal. 00 Simileshuicsunt, Igitur,Quare,Itaque, Quod: od
fic, Cæfar fuit Diet ator, quare omnia occupauit. Exemplum vltimą, Veniadte
euocatus: Pugnaa ui iusfutuo, vici:Regnum recuperasti,miser pro pterea sum:Quod
te per communesrerum vicif, litudinesrogo, fubuenimihi.deestenim Præpom,
ofitio,fic. Propter quod:dicimusenim etiam Pro- " pterea, et Iccirco,
etalia. Er omnino quæ aliquamcaussam apponunt adintelle ettum: Efficientem fic,
Quiaiubes, faciagn tu enim mouesmead faciendum. Finalem fic, Do, vt des.
eftenim Vti,. Poffuntautem et hæ, et etaliæ tranfponi:Quia dabis,do.Has antiqui
Per -Zoo fe ettiuas, etAbfolutiuas nominabant: inter quas. etiam Quatenus
recensuere, et Quo. Quium au tem addunt prohibentem particulam Ne,luduntta:):
operam:Aduerbium enim eft. Ddiij. a2 CO d ĈResolutioin Copulatiuas.
aft.REEsoluuntur autem in Copulatiuas omnes ptenatura coniuncta est: itaque
dicemus, Et do, etdabis:Etdies eft, et lux eft. Sicloquutifunt pri cefci
Audieras, et famafuit:quia fuit fama. Habes igitur caudam huius
quoqueloquutionis.Quum autem Copulatiua duplex fit, affirmans et negans.
Negativa in affirmatiuam resoluetur, Cæ ledar neque timidus, inequcayarus
fuit:fubeftenim (habitus contrarius, Et fortis, et liberalis. Difiun sgit autem
negativa propter negationem non propter seutt; Vis vincere, nec pugnare:est
enim, et non pugnare. Hoc autem percipitur exinte gra: Nec mutila est. Neque
integra est autem Neque et Non. Disiunctiva et Subdisiunctiva necessario,
Caussativæ; quarų species duz; aut ex hypothesi, aut absolutæ. Quæautem ne
Siceffariono coniungunt, Difiun et iuæ diettæ funt: nawis “Aut”, “Vel”, “Siuve”
a quibusdifferre fecerunt Sub disiunctiuas,propterea quod hæ vtranqueponce rent
partem ad eleậtionem: Difiun ettiuæ autem alteram tantum. SicutContinuatiuæ
alteri in certæ, alteram positam continuabant: Subcons tinuatiuæ vtranquepositam,
alteram alteri sub Ves-continuabat. Et fane nomen Subdifiun et iuarum. secte
acceptum est: neque enim ita planedisiun. Il git,quam Disiunetiuæ:Nam Disiun et
iuæsunt in contrariis, aut Politiue,vt,Aut fanus est,aut æger; aut Priuatiue,
Aut dies est, aut nox; aut Relatiue, Autpater eft,aut filius. Subdifiun et iuæ
autem et iam in non contrariis, fed diuerfis tantum: vt, Ale xander,fiue Paris.
Differunt igiturinter fe fecun dum cotextum orationis: propterea quod difu
Stiuarum partes nunquam cohærent,sed sub co tradiettione politæ sunt; at Subiun
et iuæ no item, cauffa eft, quia Subdifiunetiuz ortæ sunt a Con. ditionali,quæ
etiam impossibileadmittit siç, Situ " homolis,fi,ve Equus, si,ve
lapis:neceffe eft çor pore præditus fueris:fic enim vsusestTerentius. Quas
autem vocant Dubitatiuas, ex ad Disiu ettiuas reettaaccedunt: ac magnum
faneambitum na et x funt, quippeex omnioratione potestoriri dubitatio:adeo vt
Scepticietiam tciğimua G po nerent in difceptationem.Poft dubitationem fiet
quæftio perinterrogationem. quaremodusqui dam estorationis, non species, vt
quum dicam, Eloquar, an fileam? intelligo mihi aut loquena dum, aut filendum.
Quoniam vero alterum capimus pro certoin difiun et ione:iccirco vsus rapuit
Velad vtriusque o partis affirmationem, vt et separata intelligas na tura, et
vtraque pofita, veluti alterum tantum ponebatur a Subcontinuatiuis: exemplum
hoc esto, Vel quia eshomo, velquia nobilis, vel quia:y. Romanus, noli pati
seruitutem. vnam ex his ca. pere possis cauffam, at tres ipsas omnes afferre
queas. Terentius etiam folam posuit semel: Vel ' ) Rex mihi gratias agere.
fubintelligas, vel alii Dd iiij. sed potiorem parte satis habuitponere.
Immergia amox's Græcivocant, nos Electiuas. huius ex quo que generis
sunt:vt,Malo Cæsarem, quam Cato nem.Nam etfi alterutrum non capiunt, fed desi
gnatum tantum fumunt, latiore tamen difiun gendi voce subiiciuntur,quemadmodum
dice bamus deVel,apud Terentium. Commoda vel mulum,velequum,maliş tamen equum:
neque enim copulatiuæ sunt, abiicitur enim alterum irmembrum disjunctum. Quid
fi Aduerbia hæc fint Comparationis? nam dicimus, Tam volo Cæsarem, quam
Catonem: quia Nomina siciu. bent, Tantus Cæsar est,quantusCato. Vsus po ftea
inæquali Comparatione etiam retinuit, ve ficut erat Tam,quam: sic fit, Magis, quam.
thely Aduersatiuæ quoque ad Difiun ettiuarum na turam accedunt:propofitæenim
rei aduersantur; difiungunt igitur neceffario: Quanquam Cæfar nobiliflimis
auisortus est, tamen deterioris im perio paret, feruitus enim aduerfatur
nobilitati. Huius notæ funt, Quin, Imo, Atque,At:vt apud Liuium in Tertio, Si
plebciæ leges displicerent; « atillicommuniterlegumlatores etexplebe, etex
patribus finerent creari. In eandem fententiam Mo"admittitur etiam
Saltem,fic,Saltem meinterfice fice. Sic, Quanquam potes liberare, tamen mor te
hoc li facias, gratum erit, Diminutiuas appel uflant has Latini, Græci
enet/wixa's. Completina. Con Dega Menu D C HA Completiva autem et si
ornatusmagiscaul.de tur:tamen augent sensum orationis:atqueita au Adela gent,
vt pene cum Subdifiunctiuis incant socie lo fatem: Ego quidem scribo,tu vero
legis. disiungit: dis enim fenfum appofitæ orationis ab intellectu nder
propositą. Summa. Æcigiturfic fe habent certis concepta gea neribus,quæab
antiquis etfuse, etconfuse hi prodita fuerant: iungūt enim aut verba tantum,
lupo aut etiam sensum: quare tribus claffibusdispofi uit tæ funt: autenim
iungunt necessario,aut non ne-, ceffario:aut neceffario non.Neceffitas autem,
aut ima est propositione priore subGftente, aut ex hy in potheli, Cauffa
efficiens, etmaterialis. Ssentiam finemque Conjunctionum fatis a 'pte
explicatam puto; nunc earum originem, va bo' materiamquç videamus. Neque vero
sigillatim percurrereomnesin animo est.In primis nanque libris Originum
exactissime pofita ca opera a no þis fuit; fed ytvniuerfalis natura plenius
decla retur. Quædam igitur a Græcis du ettæ funt in tegræ, quædam interpolatxe,
Integra eft NL. » renodes cnim dieti funt a Græcis pisces, vtapud Oppianum;
vnde etiam noftra Nepa, pedibus » enim minime valet: nisi mauis effe vocabulum
Punicum, nam a barbaris ita di etta fuit. Vticft DIY mus Call 31 erer di 2012
or 1 kemutata, ti,sicut šti, Et,ficutQue, na, abie ettodi: wphthogi sono,
quemadmoduse, da. Multæ cum Aduerbiis communem sonum habent: Vt, Qua.
quam.atque etiam naturam, etenim Vt, Aduer bium fimilitudinis, et
eftcausfxfioalisindicatiua Coniunetio: nihil enim fimile magis rei mota (quam
finis.Sicaduersatiua Quanquam,Aduerbii vestigia refert in comparatione:
Quanquam es nobilis, tamen es prauus. idem est, tam es prauus, aquam es
nobilis.Sic Aut;fuitHaud:eadem enim vis occulta, Aut da,autaccipe. negat enim
omnis difiun et io,quoniam femel'ponebant, Da, aut ac cipe.fuit enim fic,Da,non
accipe: et,Accipe, non reda postea miscuêre, Aut da, aut accipe. ItaVc, a et
Vel, proximæ funt. Si fuit e!, addito fibilo: < cqua du et a eft Sic: fuit
enim Sice, ficuti Nece! Nec. Sic est Aduerbium fimilitudinis. Condi cctionalis
aute Si, affert fimilitudine inter cauffam, et effectum. At, fuit Adaccessionem
enim dicit. Affectus. Aduerbiis, Etiam;fuit enim Et, lam::et tri (< fyllabum
Etiam, quia lam, bifyllabum, vtfre quenter apud Comicos.Quædam compositænus
quamcomponuntur in oratione:vt,Nequidem: semper enim per tuño, quanquam alicubi
aliter legitur:fed parant do et iores mendum effe. Cum Præpositionibus,
Abfque.Cum verbis Quamuis, Quædam semper præponuntur, Quanquam quædam
fubeuntsemper, Que, Ve,Ne: quædam vtrunque patiuntur,Igitur, Nanque. Cum Pronomine,
Ideo, cum nomine, Quare. Proprieatem, ut diximus, ab aduerbiis multum naturæ
mutuari, adeo, ut Aduerbio proipsis vtamur; Quando,pro Quoniam: necimmerito,
nam Quoniam, Aduerbium est, Quum,lam caur fa translationis fuit temporis
efficacia, est enim, mensura rerum naturalium. Et abundare, Etet iam, Atque
etiam. A'etilisehvad hücmodum in Coniu et ionibus famio obferuata fuit;
Commutanturinter fe:vt, Item prosic, apud Ciceronem:Vel, pro Etiam. Pro
Nomineponitur, Illius ergo venimus; sed fane nomen fuitiplum, igor: Pro
Pronomine, Pro-, pterea quod:id est, propterid, quod.sed potius eft numerus pro
numero, ficutquum dicimus Ad hæc,et Ad hoc.2.112 Epilogus vniuerfalis. ngo
Xhisfatisconftat, non plures esseparteis,que admodum autrydiores, aut acutiores
arbitra tifunt; non igitur recteadditum,Vocabulum ad significandumea, quæ fub
sensum caderent: vt Paries, et Lapis, essent Vocabula:Virtusautem et
Anima,essentNomina: propterea quodintelle et tutantum caperentur. Patet
enim,Vocabulum effe genusad omnja:nametia Amo, quu pronus ciatur, Vocabulum
est: vt Stabulu, vbi ftarur:Pa. bulum:vbi pascitur: Tintinnabulum,quodfonat:
Vocabulum quodin voce est. Eiusdem supersti-> tionis, et plusquam Græce,
inminimadiuides re,quæ vnius corporis sunt:vtin Affeuerationem ea quæ
effentInterieet ionis, cuiusmodi putarunt Heu. Et Attracttionem, ea quæ ad
Aduerbium attinebant,quale eftFasceatim: quæ enim Attra dio sit, Viritim
cansulere, quos non trahis,sed addis?Quæ omnia iure optimo a do et iffimis ante
nos explofa funt. Confiliumopera ampliariaseta de Figura, Am fatis videbatur
elaboratum vel mihi, qui fortaffeetiam quz nufquam effent excuffiffem:vel
aliis, qui coaet i funtautaliter sentirc, quam effent ha et enus professi:aut
irridere cariolam noftram di ligentiam. Verum interest accurati procurato
ris,non folum eorum tenere rationem,qui infa miliafünt: sed etiain agere, vt fiquid
furreptum, autextortum, aut alioquomododebitumlit, co recuperato census
augeatur. Itaque quum vete Frumleges, corumque consilia a nobis hactenus
explicata sint: fupereffe videtur, ve fiquid extra easdem leges receptum
fit,morenostro et recen fcamus, et eiusinstituti røddamus rationem. Igitur
loquendi modosquofdam Figuras priscima. Vox le nominarunt: omnis enim oratio
figurata cft: eftenim Figura qualitas extremitatum in corpo re:Oratio in voce
eft,vox in aerc,aer corpus: er go quasi lincamenta funt quædam huius corpo
ris,vocum elationes,depresiones,productioncs, correptioncs,aspirationes,
attenuationes, ince ptiones,terminationes.Quarcquocunqueloqua ris modo, non
aberit Figura. veteribus tamen ita libitum fuit, vt non quæuis loquutio Figura
præ. fcriberetur: sed aut in materia ipia aliquid quali peregrinum, aut in
forma quod esset, Figura dice? retur. Ac Quintilianusquidem quemadınodum et
senserit,et scripseritdehis, palam eft. Tebar52 nim, et gempaa,
vtifierent,docuit: sed adeoipse perplexus fuit, vtquum distingueret, eadem di
Itin etta non agnofceret. præstatautem ficinteili gere, quæad formam
pertinerent orationis,id est ad fententiam,caeffe Algvos,et tropos dici: quz
autem admateriam, ea effe nezew, et schemata:)) namgchua corporis est:reemos,
animi,quare eos, quasi mores, modosque orationis, quibus ipfa quali et
animatur, et mouetur fimul, acmouet, oratori relinquemus. Quæ autem verborum
iioning ncamenta sunt, ea aut suntvfitata, et ad numeros pertinent,vtSimiliter
cadens, eteiulmodi: aut ad ftru etturæ variationem. Illa igitur ad poliuiorenu
i { pe et abunt scripturam, hæc ad scribendi loquen díve leges:vtraque autem
Figura continebuntur. Quareillas oratori, historico, poetz deslinabi di mus:
harum nos caussas præsenti opera inuesti gandas curabimus. Bu uf If rah. Appositio.
Auffa,propter quam duo Substantiua, non ponunturfineCopula, e Philosophia pe
tendaeft: neque enim duo substantialiter unum esse possunt, ficutSubstantia et
Accidens: itaque non dicas, Cæsar Cato pugnat. Si igitur aliqua Subftantia
eiufhaodi eft,vtex ea, et alia,vnum in telligi queat, carum duarum
Substantiarum to tidem potæ,id eft nomina, in oratione fine Con iun et
ionccoherere poterunt. Quarepropofitum nomen amplioris intelle et us, fubeuntis
nominis U præscriptionemoderabimur,fic,Vrbs Roma: po sita enim Vrbis vox,
deducet meum intellectum per omnesvrbes, donec addito Romæ nomine caftigabitur.
Est autem amplitudo huius intelle 4 etionis duplex: aut enim est Vniuoca, vt
Vrbs, 2) Arbor:autÆquiuoca,vt Lepus, Lupus, Turtur: fignificant enim et piscem,
et alia animalia ge * neris diuerfi: itaque in præfentia sunt maioris
fignificatus,quam Piscis: quod tamen eft nomen Jatiffimi generis: Comple ettitur
enim plura Pi fcis, quam lepus. Sed iccirco fit hoc loco, quia Æquiuocum nullo
certo genere ponitur: eft enim Lupus, et in Pifcibus, et in Terrestri bus, quæ
duo fumma genera funt. Eft et alius cemodus moderationis adenominatione: nam fi
dicas Cæsar, multas virtutes aut vitia poffis at tribuere. Itaque temperabis
eum cursum tam vagum,appositisnominibus, Imperator, Diet a tor. Et alio flexu
fic, Catilina pestis rerum romanarum: Procas Romanæ gloria gentis. Fir etiam
luat. phia cerrt cur2: larus opot 500 $ Tomate 2 etiam quarto modo, quum
transferturfigurare set denominatio in primitiuum. Zoilus vitium, pro vitiofo.
Cauffa aute huiufce loquutionis fuit are ansa ticulus Græcus; naywsoix Jus,
Kairap o autoxegia tw. Euenit autem aliquomodo,vtvtrunquealaz tero maius sit.
quare fine vllo discrimine com- " mutare fedes inter fequeunt. Exempli
gratia,Le The pus piscis:et, Piscis lepus. eftçnim lepussub pilce, tanquam
subgenere. Iccirco pesfime errarunt, cinsl cum putarent tic dicendum Fratres,
gemini:non to lic, Gemini fratres. Etenimfratres effe poffunt, nec gemini:
etgemini, nec fratres. vt omittam, non esseappofitionem hîc ex Substantiuo et
Ad icctiuo. Sic dicas, Flumen Renus:quia alia quo- » quefumioasunt: et, Renus
flumen: propterea quod nihil interest, aliquid ita fit, anita effepu-come
tetur, itaque etfi Renus, non eftæquiuocum,ta-i ima men ncfcienti quid Renus
fit, æquiuocum ef se potest, quemadmodum fane eft: nam etiam Bononienfis
fluuius Renus est. Sed par fit alio rum quoque ratio: nam Taxusæquiuocum non
eft, et tamen ad explicandum eius naturam, ad ditur Arbor: poflim enim herbam,
aut etiam montem intelligere. Hoc per initia ita fa et um eft, ac poftea etiam
non necessariatenuit con fuetudo: ficenim fitin vsu ciuili quoquc, et mill
tari, vt Cristas etiam in pacegestemus. Vergi lius autem commutauit fedes ob
carmen, Ca Atancargue nuces. omnis enim Castanea nux eft. Nam posita specie
genus non debet appo ni, vt diximus, nifi ad explicacionem: quodfi apponitur,
decet ipfum coartari ad angustiora, Ti mai ft.no Terra Cts. ScA L. LB. xt.
where 4 vt quum dicas, Cæsar homo imperterritus. Eftes nim Homo genus: at quum
addis “imperterritus”. Cogis in ar et iorem significatum: quia poffit effe,
etnon esse Imperterritus. An vero fit Appositio ab Adiectiuis? Tectum auguftum;
ingens, centum sublime co luminis. ec Non ita est, sed Tropusdow getov: et
repetitur intelle tione, teetum: Hinc patent nugæ Gram maticorum, qui negant
recte dici a Vergilio,Vr bem Patauii: quum tamen omnes ita fint locuti: In
oppido Cumarum, Palladius:In oppido An tiochiæ,Cicero: et eodem filo Liuius,
Vrbs Ro semana: est enim in illis casus Pofseffiuus, in hoc nomen ipsum. ac
quanquam poffidens etpoffef fum diuerfa effe debent: tamen hæc duo, quz v inum
sunt,Vrbs,etRoma, duo esse aliquo modo intelligentur: quasi vrbem Patauinorum
dicas et Romanorum. Etfane duo sunt: nam Vrbs, est appellatiuum: Patauium,
proprium:quafipro prium possideat appellatiuum. ficuti dicimus, Vrbs nominis
inclyti: sic, Vrbs nominis Pataniis Euocatio. " E Vocationem dixerunt,
quumtertia persona euadit prima, aut secunda, quafi hæ euocent illam de suastatione,
aut ex hybernis:vocabulum enim est militare. apponuntexemplum, Ego Ca far
scribo:Tu Cato legis.verum hoca nobis iam improbatum eft: Onine enim nomen
cuiusuis perfonæ cft,fed non variatæ: ficuti Felix,cuiusuis generis eadem voce:
ridiculum enim est, Cæsa remin me effe perfonæ Tertix: nunquam enim loquens,
aut fcribens de me, effem personæ pri mæ.Nequeposlem dicere,Ego sum Cæsar. Nam
si esset perfonæ Tertiæ: pofsemitem dicere, Ego fum ille:et,Ego fum persona
tertia. Conceptio. Vemadmodum vna fieret oratio, in supe riore libro et alibi
dictum est.Coniun et io nes enim fit vna: Cæsar etCato equitant.Equita tio hîc
vna eftin duobus. Itaque aliquando sub ie etta intelligis: quæ quia fant
plura,pluralem nu merum appones. Aliquando prædicati vnitatem communem vtrique
accipies: quare numerum attribues vnitatis, Cæsaret Cato equitat.Malue- m.9110
runt igitur illam effe figuram in plurali, quam mig. hancin singulari. Et ratio
est, quia Coniunetio repetitnumerum singularem: ostendimusenim, duas esse
orationes potestate, quare ytraque erity singularis. Nequevero sola Copulatiua
hocagets ö fed et Disiun et iua, sic, Aut tu, aut Cæsar date mi. hi facultatem
scribendi. Paulo figuratius eadem oratio in obliquis versatur,fic,Cæfar cum
Cato ne disputant. Cuius loquutionis necessitas eue nit ad euitandam
ambiguitatem. fi diceres, Cæ sar cum Catonedisputat:non vnionem,fed con
trouersiam pofsas accipere. Sed illalonge figura tiorapud Ouidium; fliacumLaufo
de Numitore nati. Neque enim Ilia eratnæi, fed nata cum Lauso Itaque ante quam
reddasVerbum Recto, Redus cum Obliquo ita sunt coniungendi, yt vnum fite
pluribus, quibus pluribus Verbi numerus re fpondeat.Recte vero putarunt illam
esse figuram apud Poetam, Cana Fides, et Vesta, Remo cum fratreQuirinus
-Iuradabunt. Sed nos etiam vtroque modo figuram intelligi mus. Fides etVesta
iura dabunt: etalteram in oba liquo, Quirinus cum Remo. Fit autem hæc ynio non
folum in Numero, fed etiam in Persona:vt reddatur verbum prima; et secundæ, non
sine cauffa: Nobiliori cnim de. betur. Quæ loquitur, nobilissima eft: facit
enim orationem: et libiipfi, vt ita dicam, proximaest: mox secunda. Itaque cum
feipfa pofuit, non po teft ad aliam transferre verbum: fic enim definie batur.,
Quæ de fe ipfa loquitur: ita igitur loque mur, Ego et tu fcribimus: Tu et Cato
pugnatis. Eadem nobilitatis ratione in genere fit Figura, ut masculino reddatur
at feminino. Cum ergo et in numero et in persona et in genere fiac conception.
Ilud habetproprium sibi, ut in numero solo poffit fieri. Cum autem fit in
Persona, aut in Genere,semperetiamFigura numeri adsit, Ego et Lucina læti
viuimus:Tucum matre lauti cænatis. Atque iccirco dieta conceptio eft dua bus
decaussis: aut quia minus a maiore: aut quia minus nobile a nobiliori
continebatur. Quem admodum vero autores ea vfi fint, adGramma sticum cum
fpeetat, qui docet componercoratio Grand nem.: 435 TO.RO i vnumer - umerus K
kias D minteli eramini nNume 1 Dum pri OFICNIMA: facies proxima:. it, fick
Jugatio. Roxima huic lugatio est,quam Zeugma Grae vox co vocabulo maluerunt
appellare, quum ta men Latinis ahis vterentur. Nam quemadmo 7 Onni dum in
Coceptione quodvniuserat,commune cuadebat: licin Iugatione, quod vnius est,ita
ad cum pertinet,vteius lignificatuiadiugat alterum.l. Per Conceptionem fic
loquare, Tu et Lucina mihi cari estis: per sugationem sic,Tumihicarus cs,et
Lucina. Non igitur hîc cocipit, sed permit tit tantūdem. Eftitaque coceptionis
visdimidio maior. lugum igitur quodda quasi est Adiectiuũ quo in vnum coeunt
significatum extrema duo: quare medio in loco fedem fibi iure vindicat.Ve rum
vsu extortum eft, vt vocum stationes com mutarentur. Itaque tribus modis
excogitarunt: Primo loco,sic; Carus mihi es tu, et Lucina, Me Fopulls dio, fic,
Tumihicaruses,et Lucina. In poftremo, ft. Tu mihi; et Lucina cara eft. Græca
Latine ad huc o.Cut modum interpretere, σείζευγμα, μεσύζευγμα; Gener
iwozuyuc:Præiugatio, Interiugatio, Adiuga tio. Fitautem quemadmodum et
Conceptio per in Per Numerum,Perfonam, et Genus: Tu, et mulieres umen bonæ
sunt. per Conceptioncm diceres, Bonih estis. Quare pessimeaggressi sunt
emendare Vir ocio elogilii carmen illud: -Nihil hic,nifi carmina desunt. et
male in singu, ur.Qläri deeft:Sic enim dicas, No quicquain, fed car
Gruuminadesunt:idem nanque. Sinon desuntcarmi: na; nihil deest,verissimum
hypozeugmaest. Anticipatie An umda ziturloc Ti, vein matres re:aut! Tercolor home
A CE zaho A Nticipationem triplicem accepimus, Poe ticam, Oratoriam,
LiterariamPoeta. ante capit ex sua perlona intellectionem communem auditoris:
vt, -Portus reqnire Velinos. Hinc enim de sua persona occupat personam Palinuri
poēca:neque enim tunc Veliniportusdicebantur, quum Pali nurus loquebatur: lic,
Lauinia litora, dixit. Ora Utoria est,quum antecapimus locum in animisiu. dicu,
refpondêtes tacitis obiectionibus. Literaria est, cum præcipimus toto
partes,fic, Ciues nati ad interitum Reipublicæ,Pompeius superbia,Cæ far
magnanimitate. Eft autem maxime coniun et ta figura hæccum Conceptione,quatenus
totu concipit partes suas: neque ab ea differt, nisi di ftributione:et eft
contraria ordinatione vocu Ap positioni:Paftores compulerant gregem,Thyrlis
oues, Corydon capellas: distributio eft per anti cipationem, conuerte
sic,Thyrfis, et Corydo pa stores:appofitio eft.hanc Prolepsin Græce appel
larunt, quafi præceptionem. Compositio. Voxes Vid effet Componere, fatis
superioribus Jaho libris declaratum eft: quod fiquis aut me minerit, aut
animaduertat, intelligetnon conue nire huic loquendimodo, quem fic nominarunt:
Efterim hæc loquutio, quu significatū voci co trariū, voceipfa
ducimuspotiorem.Populus vnu fignificat e multis confectum:multaigitur figni a
ficat per se, vnum per accidens: quare liverbum plurali
numeroattribuatur,fignificatūrespiciet Q dos takoa uttert, foneva mus,fi non
vocem. Figura igitur sane eft non longe a pocue Cõceptione: Idun enim est
Populus, et hic ciuis; ommun et hic, et ille. Vetefc » autem coposicionem nulla
vera ratione diccre potuere,nihil enim componi crimde tur, fed trãsfert:!r. Ita
quu dicis,Fætupecus: co» peus ponis genuscum genere,et transfers lignificatū.
gurum? Nam pecusgeilereneutro quý Mares et Fæmel. civil las comprehendat,
affectum fæmellarum tranf julia tulit ad femellas comprehensas. Eft igitur po
stius Tranilatio,aut Conceptio, quam Composi 6, 6 tio. Sic variaturGenus etiam:
vt, Parsper agros finestra dilaplı: quia Pars, sitidem quod,Milites. Sicelta
net pud Homerum, rezvov pins, Sic elt, Tristelupusº stabulis: vt illud, In
Eunuchum fuam: quoniam Eunuchus sit comcdia: Lupus autem res: vtlit, Triste,
Tristis res. Comprehenfio. Vic non abfimilis Comprehensio.Græci quing owersoxlu
vocat quum ex toto excipitaffe,i et um partis, cui toto eum affectum
attribuamus; Elephas curuus dentes. Hoc tota figura coniistit in denominatione
totius a parte. Nain verum est,s ) Dens est pars elephanti curua: ergo
Elephantus est curuus et tous oðovæs.In priore figura significa tus concipiebat
vocem, in hac pars toti in ligni ficatu.in voce e contrario Totum concipit
partē Igitur Græcum nomen multæ efficaciæ eft; nam ) out, significat totu et
partē fimuleffe: -u, significat excepta qualitate,autaliud a parte, et toti
attribu tū. Sexeaiz, fignificat ipsum motum translationis. Antiptosis. Ee iij.
Non gem,7. cocte et CCT Guinea Hid Ilipent oliquis a 1 etПодії CONI sicacuva 7.
Pope ta izier lare LTE bicarum go On possumus vnico verbo latine græca
exprimere, αντίπωσιν: que figura multis modis fit, cum Calum pro calu ponimus:
ac fit: quidem veteru autoritate:carea pecunia, et pecu: 1 niã. Sed fane hîc
Figura nulla est:vsus enimextor fit poftea,quo antea placitű erat.
Aliusmoduseft ifque multiplex, et Attici longediuerso more v tuntur, quum
relatiui casum eundem faciut cum a antecedête, weinogesvg ev eneža.quo modo
etiam Gellius aliquando vfus eft: Latini cæteri vix vtun tur. Mollissimum fuit
genus illud, Quam vrbem 6c ftatuo,accipite:at duriusculum, Vrbem,quam fta tuo,
vestra est. Iccirco non inepte nobis pueris præceptores noftri lic
interpretabantạr, Vultis canis regnis confiftere: vultis vrbem, quam ftatuo?
vestra est. Verum hîcita sit, sed profecto veteres nimis multa liçere sibi
voluere, velut Plautus,Au edularia, Picidi uitiis,qui aureosmontescolunt,egoso
ļus supero. Cauffa huius orationis fuit, aliorfumin tentus animus,deinde defịcxus
filus loquutionis: id quod patet ex eodem Plauto in Captiuis, Hos quos videres
ftarehîc captiuos duos,illi quistant,bistat hic ambo, non sedent. Diet urus
enim aliud videba tur alio verbo,quum fubiunxit festiuecotrariu. Hæ funtcauffæ
extortæ orationis: non quem: admodum folute prodidere sine vlla ratione.Mo dos
autem ampliores non eft præsențis instituti contemplari: sed pertinet ad
construendi leges, et obferuationes autorum: reducunturq; ad hos, quos
descripfimus: veluti quum ex affirmatiua sfacias aut negativam, aut dubitatvam:
aliaquç eiusmodi. Pocum caussas duplices esse Essentiales, Accidentales, ir.
frunz ACTENVS fingularum partium Foreonha H mam, efficientem, finem, materiam, Affe et us
declarauimus: quique Affectas effent abipfa Essentia profeet i, superiorib libris
di et i funt: quive vsu extorti hocpostremo.Nunc aute cömunem.omnium vocu
natura videamus, ex instituto sic repetentes: Vocum et Materia, et Formaeft, et
Origo:qua pro efficienteacccpimus femper: igitur cauffas quoque duplices habuere:
alteras essentiæ, alteras materiæ et accidentium essentiales etymologias græci
vocant. Nam E quamobrem, Amodicitur:quia qua, et cuda, et aw Essentialisest.
Quare Amo, Amas, Amat? Quia Canto, Cantas, Cantat, Materialis, et Accia
dentalis est. Quas cauffas propterea quod veteru aliqui aut reiecerunt, aut
negauerut, in præsentia a nobis verioribus argumentis agendum est, ki Ee in merito
etreceptæ, et probatæ videantur. Id quod operis initio non fecimus eo
confilio,quod iupra u narrabamus: quum enim subiectum suum effe nullus artifex
probet argumentis, neque Tcdoti, at ne z o'ri, quidem:fed tantummodo redarguen
do pertinaces, iccirco in hũc poftremum librum hæc opera destinanda fuisse visa
est. Veterum argumenta, Cbox ETymologiam Græci vocarunt cauffam vnde socesancte
fint:veriloquium Latinis placuit is interpretari, led quain frigide, videamus:
Nam yoritasin orationeest, nou in verbis priuis. Præ torea ify it in hac voce
significat rationem, non aucm loquutionem,vtvera ratio potiusdicenda fu fit:
quare nos, Vocis rationem, transferre malui mes sautifam autê accidentalem
iidem ovanoziar Jor coco confilio nominarūt,id est, rationem pro- na
ennportionis. Easfic destruere nonnulliinstituêre, Nominum,
inquiunt,naturæ,nisi per nomina de monftrari nequeunt; nomina enim rerum sunt
notæ. Intelligunt autem nunc per nomina,voces omnes: ficut per Tignum
immittendum Iurecon fultus etiam lapidem. Quodcunque igiturdecla- di Fatur, per
notiorem quampiam rem notü fit. Er goilla nomina,per quæ nomeillud definitur,no
mine ipso notiora erunt. Ea pomo nomina, aut nota habebimus, aut nộ: at
absurdum est ea igno- di rari, per quæ aliud notum facimus; itaquenota ni sunt:
et fi nota, per aliud fane nora, per aliud igi- ta tur nomen. Quare vsque in
infinitum: hocau tem absurdum eft: non eft igitur verum nomi an m num vllam
esse cauffam.Præterea nomina essein- 2 finita, aut omnino, aut propemodum,
atqueic circo ignorata: infiniti autem finita natura no stra capax noneft. Ad
hæc, quæ vsu mutantur af 3 fiduo,partimqueinteriere, partim quotidie sub
nascuntur,ea ignorari neceffe eft:quuęternarum tantum rerum fcientia fit:
eft.n.Scientia habitus animæ certus:at corruptibilia incerta funt. Postre
maratio hæc fummos adduxit viros, vt integris contenderent libris: Quæ nullis,
inquiunt,cer: 4 tis inter fe cohærent legibus ca nullo modo sub certas venire
leges. Eiusmodi vero esse nomina. Quum enim duæ, ut diximus, caussæ sint, etymologiam
ignotam esse, velex eo conftare, quod super eodem vocabulo diversa senserint
autores. Aalogiam autem, quam æqualitatem vocant, omnino extare nullam.
Quareipsaquoq; nomina per caussas nunquam nota erunt. Argumenta dissoluuntur,
Tprimam rationem diffoluamus, ita acci-. piendum est. Intellectionem noftram
esse duplicem,Reettam,et Reflexam:igiturnomeob uium excipimus recto a ettu
intellectus, fimplicia; fini destinatum ad fignificandum. Exempli gra tia,
Lancea,atque ibi pro nota, aut figno rei,vti dicebamus,habetur
nobis.Reflectimus deinde a nimi cursum ab ipfa re super nomen, ipfumque tanquam
rem quandam contemplamur. Quæri musigitur tum eiuscauflam inter ea quæiamno ta
habemus. Quemadmodum autem duæ essent nominu cauffæ, dictum iam esta nobis
libro ter tio: quædam enim erantDeducta, quædam Pri mogenia.Deductorum igitur
cauffasesse Primo genia: Primogeniorum autem caussas cognosce re easdem non est
necesse, sed calum, aut arbitrium inventoris pro caussa habere fatis est. Est
enim duplex cognitio nofsra, aut positiva, quum el cognoscimus hoc esse, aut
priuatiua, quum cognoscimus illud non esse: hoc enim est esse illius, quia non
est. Altera vero, ac tertia ratio simul fic W 2 e, diluuntur. Scientia
specierum est, et singularium, ut
subspeciebus continentur, Ea igitur, in quæ conueniunt omnia singularia,
Diciones appellanimus, Earum essentie, atque affectus neque corrumpuntur, neque
mutantur, puta Species, Gen ra, Casus: semper nanque Calus, Casuseft, fem per
Modus, Modus. Quæ autem singular sunt, aut unon corrüpuntur,fed perstant:quare
nihil faciüt difpendii:multæ enim voces sunt, quas nullus yn quam aut distorsit
vsusaut, aboleuit. Aut si cor crumpuntur,æque scireintereftnoftraea corrum
pi.Quamobrem etCorruptibilium, et Incorru ptibilium scientessumus.Corruptibiliumautem
rerum corruptionem non sequiturcorruptiosci entiænoftræ:hoc enim scimus
nos,Corruptibi lia effe.Idipfum igitur,quod est Corrumpi poffe, non interit,
sed semper eiusdem naturæ eft: fem per enim hoc habet,vtcorrumpiqueat. Quarti
argumentisuperiorisprobatio nes ab aduerfariis. Hæc sic expediuimus, vt exa
ettius quartam rationem, qua et Analogiam et Etymologiam tollunt,
perpendamus:quare videndu prius est, quibus vtantur rationibus ad confirmandu, QuumAnalogia,
inquiunt, fit æqualitas.quædam secundum quam fimilia ducimus e similibus: vt, a
Fructu Fructuosus: sic, a Gestu Gestuosus: pri mum oftendere nituntur, quod non
fitnccessa ria: deinde quod nullo modo fit. Vtilitatis cauffa nou mode inuentus
est sermo: magis igitur refert,vtbre:. ! uis, et re etus, et simplex lit, quam
longus, et va rius: atæqualitas deducendi variatmulta:noni gitur admittenda.
præterea Ab eodem rerum ysu 2 reiicituræqualitas,eo nanque consilio muliebris
mundus a virili ornatu differt. itemq; in ædificiis Corinthia structura a
Dorica, et Thufianica, et Ionica longe alia est. Neque vero id ex artibus so
lum conic et ari,fed ipfa quoque natura late cospi ci potest. Etenim membrorum
compagem aliam atque aliam esse vsui fuit. Æqualitas igitur non folum non
neceffaria eft, fed etia officit. Quod fi quis ita dicat:non Vfum folum quæri,fed
Elega-porok. tiam quoque: is adhucintelligat, magisreiicien dam etiamnum similitudinem;
nihil enim pro pius fastidio,nihilelegantius varietate. Ad hæc, aut Artem
fequemur,aut Consuetudine: fi hanc, 3. nihil opus eft æqualitate.fed quæcunque
vsusug gerentur, ea nobis eruntfatis. Sivero Artē,ac prę çepta, vtæqualiter
omnia ducamus, pro insanis habeamur,nequeenim id fiat, vt quemadmodo Lupus, sic
Lepus fle ettatur, sed hoc leporis, illud lupi faciet. Non eftergo necessarią
Analogia. Quodautem nulla fit, fic conantur: Abestab Woh omnibusorationis
partibus: igitur nusquam est. Ac fane in Generibusnon eft: quædamnanque trium
vocum sunt,Humanus,Humana, Huma num: quædam duarum, ceruus, cerua: quædam singulis
contenta, A per. Neque ipsa Genera simi litudine vocum afficiuntur:canMartia,
et Sisen pa, diuerso sexu, eadem vocis forma sunt. Item eadem Genera vnica voce
confusa,atque ignota, vt,Passer,Aquila: quum tamen et ibi fæmina, et z hîc
etiam mas sit, Aț nenumerus quidem agno uit Analogiam: nam quamobrem non
dicimus Cicera,ficuți Farra? neque Olea, ficuti Vina? No enim re et e
responderunt antiqui,ob generum di uerfitatem in vino multitudinis numerum rece
ptum effe:quia aliud efset Chium, aliud Lesbiu, aliud Falernum: nam Ciceris
quoque valde sunt diversæ species, folio, Siliqua, Semine. In temporibus item
desideratur: quippe a Fleo, Fleui: a Sero, Seui: a Fero, Tuli: vbi a
diffimilibus fimilia, a fimilibus diffimilia orta funt. Item a Pafco: Paui; ab
Amasco non eft. ModiquoqueAnalogiæ im munes funt; multi enim carent, vt Forem.
Nec Figuræ ducuntur Analogia: nam quare diço Æ nobarbum: non Ænibarbum? aut
quareMagni loquum,noMagnoloquum?Quinetiam in deri uando ipfas speciesæqualitatis
nullam curam ha bemus.Siquidem a Boue, Bouile:ab Que Quile: a Sue nihil
ducitur. Et Bubulam dicimus: at ab O ue, Ouillam:a Scribo, Scriptor: a Bibo
nihil tale: fed cotra, a Bibo, Bibacem: a Scribonullum fimi 7 le.Itemin
Comparatiuis,et Superlatiuis: clarus, clarior, clarissimus: similis, similimus:
bono, melior, optimus. Sic nequein Diminutiuis: A nus, Anicula: manus,
manuscula: a Pufione, Pu fillus: a Morione nihil. Quid quod ne Accentus9 i
quidem ratio vlla eft fimilis? Etenim Hectorem, et prætorem eiusdem formæ
nominaalia et qua titate, et foni qualitate pronuntiamus. Sed et ea dem nomina
variis quatitatibusalias, atque alias 10 i proles generant: a Lucco Lux
longa,Lucerna bre uis. Immo etiam eadem inconftantia in eadem voce deprehendetur:
nequeid apud poetas so lum.Pharfalia, Italia, Sicania:fed etiamcommuni ysu. Nam
in lege fundi venditionis, Ruta.cæsa ita v pronuntiabant prisci, vt prima
vocalis produce retur,alibisemper correptaesset. Quod fi non eft
neceffaria:neq; est in acciden tibus partium: quippe nonin Primariis, non in
Deriuatis, non in Declinatis: immo in vno eo demque inæqualitas: Analogia nulla
erit. Argumentorum dissolutiones. HI, quifese literature hoftes profiterentur,
Can potuiffent a nobis ferri fane, nifi pessimum tve facinus ausi effent. Neque
enim solum caussas ra tionesque proportionis tollere in re literaria, fed etiam
totam naturam ipsam demoliri videntur mihi. Diruunt enim æqualitatem et
similitudinem, omniaque casui subiiciunt: contra quam fa ciebat Plato, quietiam
Nominum ac Verborum" ) ftatum, fexumquc naturæ certis legibus confta re,
atque duci arbitrabatur. Nosigitur vtrunque extreeue na quo na de PE lu I red
011 m tia ui LE te: 1 extremum tanquam vitiosum reiiciamus. Acdea cem quidem
principes rationes,quibusaliæ que annectuntur, scio a veteribus obfcure fimul;
et pluribus verbis inculcatas: quæ hîc tam clare patery, tamque ordine digestæ
funt:vt quod illi orationis fuco, nec fatis apta copia quæfiuere, id hac nos
serie, vt quam efficacissimæ appareant, confecuti videamur. Quibus vt
refpondeamus, paulo altius ordiendum eft. Fumit Naturam rerum omnium
autorem,quæcunq; agat, propter finem agere receptum eft:quare ne ceffario
fit,vtcertum quiddam agat: vndemem brorum, quæ in animalibus sunt, causfx,
officia; opera luculentissimis libris a nobis funt explica ta. Propterea vero
quod interdum aliis, atquea liis circumuenitur impedimentis ita, vt aberra re
cogatur: quibusdam præuenta anguftiis non id agit, quod intendebat. Itaque homini
aut addit fextum digitum,aut tollit manum, aut de curtat crus, aut aliud
quippiam eiusdem modi monstrorum parit. Cæterum quia maxima ex ceparte reete
opus suum peragit, nequaquarn ci de elle operi,quod proponit, dicimus:neque
iccircơ riaturam negare debemus. Verum nonnulla re ete, atque ordine in lucem
prolata deprauat Co suetudo: quales funtii, quos vsusadegit, vti Val gii
effent,aut Vari, aut Compernes. etiam Cafus multum potuit, quo aliquis
Claudicaret, aut Luf cus effet, aut Strabo. Ætas quoque, atque imitatio
detorsit pristinum quorundam institutum, quo detraetianatura sua degenerarent.
Quem admodumigitur vel cafu,velvfu, natura aut per ce CE all 2 fe cy Pu liu T
bo di 1 al 9 9 Herti NU Pm edeme uertitur, aut immutatur,nequepropterea tamen
naturæ opera neganda sunt:ita non cantinuo Аnalogia, quæ natura quædam vocum
est, ficuti ureline desit, ab omnibus tollenda sit. Est ante oculos KMC
Phalaris, Dionysius, Nero, alia monstra: in his quo iustitiam, atque animi
moderationem deside res: igitur nusquam hæcerunt? Alexander rau pparea cius loquebatur,
obstipa ceruice erat; non a pri mordiis natalium suorum, sed pædagogine qui tia
distra ettus fuit a simplici illa regia indole. Hominis igitur fuerar integritas,
consuetudinis pra qua vitas. Species enim per singula corpora propa gantur,
inter quæ nullum formæ difcrimen in Ez,c uenitur: ita etiam in verbis fit.
Sicut ergo in natu utepi ra dedu et io triplex, fic et in vocibus. Triplex au-,
5,244 tem ad modum hunc: propterea quod ea quæ tabe deducuntur tribus diueria
sunt differentiis:nam uliset aliquid dicitur effe diuersum ab alio Forma, vt 2.
equus ab homine. Aliud Materia, vt hic homo Col.ab hoc homine. Aliud Accidente,
vthic homo me sedens, ab se ipso stante. Quare in vocibus quo ai que aliud erit
nomen hoc, Homo, a verbo hoc, Pugro: forma enim distant. Secundo modo a Leica
liud nomen hoc homo, a nomine hoc equus: nuk Tertio; aliud nomen hoc Homo, a
nomine allal,hocHominis. Possunt autem ea, quæ vel for milima, vel materia fola
distant, etiam accidente um C differre: vtHomoniger, ab Equo, et Homine Walbo:
fic nomen hoc homo, et a verbo hoc Se tout quor, et a nomine hoc equus diftabit
accidente quoq, id efs lineamentis elementorum. Itaq; et Quiam inflexione
diftare poterut. Acquemadmodu eiuf Image 1300C ' s iterum eiufdem
nationis viri duo, etiam fratres, etiam gel mini, etiam pares facie, etiam
colore,tamen ma nuum aut crurum flexu diffimiles effe poterunt: neque tamen
auferetur,quin duo peregrini inter se similes fint: hoc enim accidens est. Ita
in voci bus: Equus et lupus convenient accidente, Lepus non conveniet: sed
Analogia erit inter lupu et equum quia cum lepus non est. Non ergo tolletur
propterea quodinter lepus non est: sed ponetur, quoniam inter lupus est, et
equus. Sed cehabet suam cauffam Lepus, qua desciscat, sequa turque aliam proportionem,
vt faciat Leporis, propterea quod Græci Dorienses ita et appella bant,et
flectebant:quare generis quoque Analo giam fequutus est Lepus Græcam, non
Latinam Equi, ongu valtoers: neque folum Lenusinde, fed vocis in re etto cafu
lineamenta Latina fibi affum psit, ut efset Lepus, sicut equus. Quare hoc etiam
intererit analogiæ, vtaliis atque aliis caussis par tim talia, partim alia
sint. Neque enim quem uis hominem decet “robur”, aut celeritas: qua re
“robustum”, et celerem non fequetur ea dem membrorumAnalogia: at omnes Robu
stos eadem, eademque alia seorsum Veloces omnes. Si quem autem membrorum
proporzio ne præditum inueniamus, officio autem illiinu tilem: hunc casu, aut
alio quo fato separatum ab ea proportione iudicabimus, non propter vnum
tollentes cætera omnia. Itaque fic eftacutifsime Cornelas.cos inficiari
Analogiam,nifiin quibusdampo nant:eftenim Habitus priorPriuationenõ tem pore,
Bu pore, fed cognitione: ficut Affirmatid Negatio ne. In paucis non efle calu,
in ceteris omnibus cofilio limilitudinis. Euenit autem interdum vt deficiantur
nomina proportioneilla, propterea 2 ) quod res ipfæ deficiuntur: nam fexus et
princi piis quibufdam, et officiis discreti funt:itaqueal teri quod designes
nomen, alteri non conueniat. Proprium fæmellæ Nubere est: iccirco non tranlibis
a fæmina ad marem ipso Participio, vt tantummodo Nuptam dicas: vbi non tolletur
Analogia, quia Doetum et Do et tam dicas: sed po- » netur iccirco, quia
Analogiæ pars eft, sequi signi-» ficatum, alia quoque quoque pars pars eiuseft,
fcquiconcin-), nitatem: ficuti hominis officium feruare deco rum.Ergo liquid
scabrum critin deducto, maluit ars abstinere: quum tamen natura non repugna
ret. græci ovu Dwriavnominant finem hunc,nos etiam Habilitatem possumus, non
folum Con cinnitatem. Sic reiecta sunt multa. For, Faux, Prex, Metuturus,
Nutritrix, atque eius modi, ve fuppreffæ potius ab vsu, quam negatæ a natura
vocum sint. His legibusdiruuntur argumeta omnia:Nam 67, friuolasatis sunt,quæ
negant necessariam.Ac pri mum quidem admodum ridiculum, quod breui tatis
ratione tollendas curat inflexiones, quum tamen per inflexiones tollatur
ambiguitas. Aliæ quoque rationes nullæ sunt.Varietas enim,quam 2, afferunt,
nequaquam reiicitæqualitatem. Eft e tim æqualitas interdum inter duo, propterea
quod ipfa funt aliis inæqualia. ita distant aqua liter duo triangula, ab vão quadrato:quia
inter Ff j. sex fump ! inea fe æqualia funt: Acfatis eft,vt varietas fit inter
speftatue cies,non diuersitas in fpeciebus. res cis diner assertio etymologia
che atque analogiæ quidem ratio acnatura grelli sic constat. Etymologia vero et
si in multis detur obscura est, superque eadem voce alia alii visa: certa
tantum tamen absft ut tollenda sit, ut tam maxi- sæpe me fit investiganda, quam
maxime latet. Quide- quoc nim occultius veritate? at multis in rebus ca im-
pica primis defideratur: neque tamen quispiam tam dam. fitimpudens, qui eam
neget. Nam qui semper niac dubitabant Pyrrhonii, vel propter hoc id age bant,
ne a veritate, quæ in altera parte contradi- da,y u et ionis latitabat,
aberrarent. Ita materiæ primæ natura præterieratveteres omnes Philosophos, quæ
donec a Platoneinuenta, ab Aristoteleomoium Qu sapientum principe eruta eft in
lucem. Quare itiu omni opeatqueconsilio nitendum eft,vt ne plus ab i illa operæ
latendo exigere,quam nos inuestigan- que do ponere videamur. Que pri Quidde inceps
agendum, quoque ordine. V Ocum principia, causas, elementa, affeectiones,
quemadmodum uniuersa natura comprehenderentur, hactenus declarauimus:de 94 owo
inceps ad ipsas voces priuas cursus flectenduseft. Sic enim philosophus
naturalia corpora sub modi tu accepta deducit communi intellectione ad
historiam singularium: cuius exemplo nobis quoq; statuen Præp Prae nu. qu litt
tra statuendum est, quo usu privæ voces apud auto res circunferantur.
Quumigitur quidam per or- reno dinem Elementorumhoc profeffi fuerint, alii
fumpto autore interpretandi munus magnis di gressionibus
contaminarint,vnusVarro mihi vi detur confultius fecisse, ut verborum connexum.
certa serie explicaret: alioqui diuersis locis eadem fæpe repetasnecesse est.
Verum enim vero ipse quoque M. Varro suorum librorum initium auspicatus esta
Temporis, Locique diuisione qua dam, perinde quasisub vtroque,alterutrove om
nia continerentur:ac non infinita pene fint,quæ in eam partitionem vel reluctantia
lint arceffen da, ut omitta particulas minores, cuiusmodi sunt præpositiones,
coniunetiones, interieettiones, quænullam habet cum nominibus affinitatem:
Quarelonge præstiterit a primariis vocibus in -joset, itium fumere,atqueab his
deducerecæteras, quæ ab illis ortæ sunt. verum inter casce primarias quum
quædam steriles sint, ut interiectiones, et præpositionum, ac coiunetionum
maxima pars: quædam sintgenetrices, quæ aliasex sesepariant: primo quoque loco
tractare steriles decet, quæ nullam cum cæteris habent coniunctionem. Et
quoniam non omnes voces elementorum similitudine aut significati cohærent
affinitate ne quaquam absurdum fuerit, si interdum in contrarium transeamus.
Neque enim qui de motu dixerit, de quiete quoque non poffit loqui. Advnum
fignificatum cætera reducenda, Ff ij. Vnum 448 Ių L. Num pterea quod
fignificatorum similitudoyni eidemque voci attributa fæpius est, aut fcriben
tium autoritate, aut prodentiam curiofo iudicio; principem omnium fignificatum
indagariopor- a tere cenfeo,ad quem,tanquam ad tesseram,signa que
cæterasreducere legiones: sed propofitis sem per caussis,sine quibus tam
stultecredimus,quam arroganter profitemur. Nam quum hoc inter pretandi munus
Vlu, autoritate, ratione con itare'dixerint: lane intelligendum est, vsum sinę
ratione non semper moueri, veluti si atpirat trophæum, et Anchoram, quæ leniter
a Græcis aliis uproferuntur, Atheniensium exemplo sciamus fa P Etumesse.
Autoritas vero quid aliud, quamVfus eft?Nam quodautore M. Tullio dicimus, ex
cius 1 vsuid habemus. Atfi ab vfu recedat, tum vero auctoritas nulla est. Quare
etiam Cæcilium reprehendit Cicero, etiam M. Antonium, qui tum aliter, quam ex
vsu loqnerentur. Ad rationem igi, tur, quoad fieri poterit, erunt hæc
reducenda, e tu C Nonrecte z'ni vocifignificatorum multitudinema a veteribus
assgnatan. ForVerunt antem do ettissimi, multarum quelite rarum viri, qui
propterea quod niinis mulca variis observationibus comporta sciuissent, multa
item significatorum monstra unicidem q. Voci designarunt. Quoru in opera tantunabestveca
moda sit, ut maxime etiam libria duerseturinleria ptioni. Nam specioso titulo
de sermonis proprietate edidiffent, nihil minus quam quod pro fitebantur,
effecere. unius nanque vocis vnatan tum sit “significatio propria”, ac
princeps. cæteræ aut communes, autaccessoriæ, aut etiampuriæ, non enim ab
reidem verbum adiecit vfus Nominibus diversorum significatorum, sd quia co rum
natura conueniebat, sic dicimus Scindcre vallum: Scinde re adamantem non
dicimus. Non enim natura fert. Ac verbum quidem pristinum recipit significatum sed
non cohærent. Non igi tur potuit mutari significatum huius verbi, in ca verba
quæ cum adamante convenire possunt, puta tundere. Nam dicimus, scindere in lue
tu togam; ergo erit hoc loco idem scindere, quod Lugere: et scindere
vallum,erit, Castra occupare. Ita que male plurima sic ab illis distorta funt,
quæ a nobis in libris O. iginum certis appofitis cauffis correeta fuere. Nam
quis putarit verbum hoc Potiri, idem effe quod Condi? propterea quod poetæ
versus est, Potiuntur Tybridis alueo, fic Subigere, acuere, et stringere,
percutere, et spectare, Dirigere: et ventus, odor, et alia innumera, quæ omnia
longe accuratius ad sua quæ que principia reducenda fuere. Est autem viri et
boniet sapientis non solum alienos errores de tegere, atque arguer sed etiam
rationes suas atque consilia aperire. Quare quo sitindagandum modo,
sicinftituamus. Si Condi, significat Potiring loco verbi Potiri ponatur verbum
Condi: fipatitur sedes, bene est: si non patitur, non significat. Quis igitur
dicat, Conditus sum libro? Et Conditus sum Turdo? et Conditus sum Ense? Item si
Premere, Defodere est: dicamus igitur Fossam premere. Sic, Premere, Tegere
significat: igitur Colo premi, dicamus nos, quos non attingit tamen. Nolo nunc
duciper omnia, quæ suo loco in originibus exactis fime persequuti sumus: sed
satis lit icciffe fundamenta scientiæ tibi, more principis nostri Aristotelis,
cuius sapientiæ luce grammaticorum tenebræ discutiantur. Scaliger''s main essay
on language is his “De causis linguae Latinoae,” a grammar he wrote for his son
Silvio, and which was published by Sebastiano Grifio. There Bordoni tries to
establish a philosophical basis for a science of grammar. Bordoni
approaches his subject en philosophe. In order for logic to qualify as
philosophical logic has to deal with eternally true and necessary analytic statements
about a language such as Latin or any system of communications that a Roman
used to communicate with another Roman. This is a problem which confronts
speculative grammarians like Bordoni or Grice. Bordoni tries to establish the ‘cause’,
or four causes of language, because in an Aristotelian context, a cause (causa,
aitia) is that which always and by necessity brings about one specific
‘consequentia’ or effectus, or result. The discussion of the cause normally
centres about the central passages of the “Physics” and the “Metaphysics”. In
the grammar for his son, Bordoni does not devote much space to the discussion
of the nature of ‘cause’. His philosophical presuppositions remain for the most
part implicit. Thus, in order to understand more fully his philosophical stance
on single problems, it is necessary to draw extensively on his other essays as
weIl, especially those he did not write for Silvio! The ‘formaI cause’ (causa
formalis) of language is traditionally identified as ‘significatio’. It is
clear, therefore, that ‘significatio’ poses a series of problems which involves
not only language. The most fundamental ontological and epistemological
problems are clearly at stake. A fundamental essay from which discussions of ‘significatio’
arises is a passage from the beginning of Aristotle''s De ·
interpretatione: “Now a spoken sound is a symbol of an affection in the soul.
Of what this is in the first place a sign or symbol – the affections of the
soul -- is the same for every man. Of what this affection is a likenesses – a
thing –is also the same. If an expression ‘signifies’ an affection of the soul,
or through an affection of the soul, we must know how the latter relate to the
thing in order to be able to account for the full process of ‘significatio’.
Central problems will be Bordoni’s ideas on the nature of the universale, on
the conception of individual phenomena, on individuation, and on the agent
intellect. We find useful hints of Bordoni’s position scattered in many of his
essays such as the commentary on the Hippocratean De Imnsomniis, the dialogue
on Pseudo-Aristotle De plantis, and in the commentaries on Theophrastus''s
botanical essays. The most important text is, however, the Exotericoe
exercitationes, where a section is devoted 'to a series of problems concerning
the soul. The Italian scholar Paganino Gaudenzio is rather sceptical about the
value of these exotericoe exercitationes as a source to Bordoni’s thought.
Gaudenzio thinks that the work was too marked by Bordoni’s polemic against
Cardano, which occasioned the essay. Gaudenzio was scandalized by sorne un-Aristotelian
views of Bordoni’s, and he tried to dismiss the essay as being not seriously
meant. 1 do not think him right in doing so, although I do admit that it can be
difficult to use Bordoni’s “exotericoe exercitationes” because its choice
of subjects is determined by the polemic, and also because the language is notoriously
obscure. Our senses are immediately presented with the singular and material
thing. What we sense, however, is not the substance or essence of a concrete
phenomenon, but its accidents, such as its size, colour, position, or its
number. The intellect removes these accidens, and what remains is the essence
(substantia), i. e. the species universalis which is therefore in
sorne sense produced by the intellect. Bordoni does not take this to its
nominalist extreme of calling the species or the universals exclusively a mental
phenomenon. He gives an ontological status to the two. ln order to solve the
problem of the nature of the' universals, Bordoni briefly analyses a passage
from the Analytica priora (Al, 24a 25), and concludes that an universal is a
thing (res) whose nature it is to be predicable about many things. A universal
do not exist in the soul. A universal is discovered there rather than created. What
the soul does to an universal in turning it into an affection of the soul is
merely to make the universable predicable. Intellectus autem nihil affert nisi
proedicabilitatem. The ontological foundation of the affection of the soul thus
remains pronounced. In support of his view Bordoni quotes a passage from the “De
anima” where Aristotle says that a universal (“ton kath’olou”) exists in the
soul somehow (“pas”). Had Aristotle meant that a universal actually has its only existence there he
would not have used the word “pas”. Bordoni’s attitude is not identical to any
of the great medieval schools of thought, but it does recall the common
natures of Johannes Duns Scotus, which were actualised by the intellect as
predicable universals. This sort of fundamental Scotism was by no means
uncommon i n the sixteenth century, and ought to cause even less surprise
in Bordoni, who claims to have spent sorne years in a Franciscan monastery, and
who had prefaced and index to Duns Scotus with a laudatory poem. One should
not, however, unduly stress the Scotisi aspects of Bordoni. Athough it is a
conspicuous trend in his thought it is but one amongst many. For instance in
connection with the universal he here and in several other conneçtions used the
phrase “res uniuersalis”. This is an unusual usage of “res”. One would rather
have expected “aliquid” or the like. It could perhaps best be understood in
connection with the terminology which came in after Valla''s Dialectics, where
res replaced ens, aliquid, and several other scholastic terms. Also in the De
causis linguae Latinae we meet res used for universalis and even for
accidentia. This is not an obvious usage for a man who, like Bordoni, was a
moderate realist: he did not ascribe a separate existence to the universals
ante rem, only a real existence “in re”. Points of view akin to the one
outlined above are found not only in the “Exotericoe exercitationes”, from the
last years of Bordoni’s life, but also in his earlier writings. A corresponding
attitude is for instance expressed in the commentary on the Hippocratean
De insomniis. Regarding species as a predicable or a universal as Bordonir
does was a Platonising interpretation of Aristotle which stems back to Porfirio.
This interpretation created serious problems within the Aristotelian system. How
can two single individuals of the same species differ, and how can they be
grasped by the intellect if at all? This set of problems underlies a wide range
of metaphysical and logical discussions and it would be pointless to give even
an outline of its importance here, but we cannot avoid a presentation of
Bordoni’s views on individuation and of the intellection of singular material
phenomena. According to Bordoni, Averroes assumes that there is one intellect
for the whole of humanity, and that it cannot grasp the individual phenomena.
In Italian Renaissance Aristotelianisrn, the unity of the intellect is a
standard topic of discussion. Bordoni’s interest in the subject probably
reflects his Padova days. Averroes was held to believe that the intellect
assumed the form of the thing intellected. Bordoni points out that to Averroes
the intellect does not realiter become res intellecta, but only modo
similitudinis et receptionis, although he in other places ascribes the more
radical view to Averroes, and he also ascribes it to Cardano. According to
Bordoni, Aquino also rejects the intellection of the individuals, not because
of their materiality, but because of their, individuality. This is hardly in
accordance with modern readings of Aquino but it seems to have been communis
opinio. Zimara bases his De primo cognito on a refutation of what he saw
as a nominalist acceptance of the intellection of the singulars simpliciter.
The arguments used by Zimara, one of the men whom Bordoni quotes as his
preceptors in the epistle to the reader prefixed to the Exotericoe
exercitationes, are listed as either Scotist or Thomist. A thing is considered
incompatible with the intellect because it is respectively, material and
singular. These are the same reasons which Bordoni ascribes to Averroes and
Aquino. For Bordoni the matter is clear. We do perceive the individual in our
intellects. They are indeed the first things perceived by it. If this were not
the case, he continues, a proposition like “Caesar est homo” would be devoid of
sense. To the objection that the individual only per modum is distinguished from
the species, he responds. Now listen: This Caesar who is writing this, is
something different from the universal nature of man; therefore, it is
necessary that Caesar is intellected as differing from the universal through
some particulars. Therefor, the singular is intellected. Bordoni proceeds to
argue that the higher faculties have a more perfect cognition than the
lower ones, and therefore the intellect is bound to have cognition of the
singulars of which the senses have perception, for the intellect is a higher
power than are the senses. This is very close to the traditional Scotist
argument in favour of the intellection of the singulars. Again it is
interesting to see that this was a constant point of view in the works of
Bordoni. In the commentary on the De insomniis he says. Therefore,
if the intellect grasps the universals, it also has knowledge of the
material things. This opinion was expressed forcefully enough for Bordoni to be
quoted for it several times in later academic literature (Pomerano). In the
section of the Exotericoe exercitationes with which we have been mainly
concerned, we were still left in the dark as to what constitutes the
individuating principle. Another section, however, provides us with a clue. It
is entitled “De principiis naturre indiuidure”. Anima is the individuating
principle of the human being. Bordoni does not say so in so many words, but
thus it. becomes clear that “forma” to him is the individuating principle,
since the human forma is anima. This would seem to pose more problems than it
solved, for the “forma” is that which makes a thing be what it is. It is its
common nature or universal principle, and hence it should really be the “forma”
which requires individuation. Bordoni is obviously not very precise here, and
although he uses the term individuation, he probably does not want to commit
himself too unequivocally to Scotism by introducing the haeccitas, which
is formally distinct from the soul. But even so it seems clear that for
Bordoni’s contemporaries this was accepted as a Scotist approach. Nifo, for
instance, another of the philosopher Bordoni identifies as his preceptor,
specifies as Scotist his thought that the soul is irreduceably individual in
itself, and that it is in its own · right an individuating principle. The same
vaguely Scotist attitude can also be detected in the section of the Exotericoe
exercitationes which is called Quid sit intellectus. There we read. Thus we see
that there are several notions for one and the same thing. We calI them
formalitates. This is seen as a barbarism by those who are themselves
harbarians, but for the learned it is not an inapt term. Admittedly the idea
that one thing could hring about various notions is rather more nominalist than
Scotist, and the Scotist would altogether have described the formalitates
as having a higher degree of reality, but even so the provenance of Bordoni’s ideas
on individuation seems clear. We now know that an individual phenomenon is
first to he perceived by our senses, but it is also grasped by the
intellect before it proceeds to denuding it of its differentia in order to
make it into species. In this function the intellect could be called
intellectus agens (“nous poietikos”). If one assumes that a universal is
created in the intellectus materialis (or possibilis, or passivus – nous
pathetikos), Bordoni says, there would indeed be use for an intellectus agens.
If, on the other hand, one does not believe that the intellect actually creates
the universal, it is superfluous. Either one can say that the intellectus
agens both recognizes the singular and through the process of ‘abstraction’ cornes
to recognize the universal, or the other way round, one might say that the
material intellect can have a facultas diuidendi, componendi, separandi, and
colligendi. Therefore the agent intellect will not be necessary, where the
material intellect is, or it will exist on its own without the material intellect.
Thus there is no real distinction between the two, but Bordoni does permit a
distinction ratione or ui by insisting that the intellect is but
one according to its potentia, whereas it has several uires. Aiso Bordoni’s
preceptor Nifo rejects the Thomist idea that the soul had several protestates
(the structure power of the soul). Thus Scaliger once again recalls Scotist
terminology. Bordoni states his views on the agent intellect very
strongly, even suggesting that the notion is ridiculous, and this becomes the
object of much attention in the generation immediately following Bordoni’s. Thus
Goclenius discusses the problem in his “Aduersarium”. An sit necessarium
ponere intellectum agentem. And Gaudentius is positively scandalized at the
thought that a man who wanted to pass for an Aristotelian could hold such
opinions. The agent intellect, which which Aristotle deals very earnestly is
being attacked by Scaliger as superfluous, nay ridiculous. Bordoni takes the
same attitude in his commentary on Pseudo-Aristotle’s De Plantis and also in the
commentary on Theophrastus's De causis plantarum. As an introduction to his
discussion of the “diction” in the “De causis linguae Latinae”, Bordoni
provides a summary of his epistemological views. Most of it should be
self-evident after the discussion of the Exercitationes exotericoe on the same
subject. The “De causis” is far more jejune and far less explicit, but
none of the information there provided, seems to contradict our findings. In
the Dè causis, however, Bordoni takes us, also briefly, from the
epistemological level to the level of language. We have the intellection of the
species in common with other animaIs, but we distinguish ourselves from other
animals by our rationality (“prudential”, “consilium”), whereby we participate
in God. The rationality can only be perpetuated socially, by the process of
learning and teaching. Therefore language is necessary. Reading the De causis
one might weIl wonder why language is necessary at aIl. Every affection of the
soul as weIl as the thing it reflects are identical for every man. If an
expression ‘signifies’ an affection of the soul, language is really only an
instrument for communicating what is already perceived and intellectually
grasped equally by everybody. We would, according to Apel, be metaphysically
guaranteed to say the same things about the same shared world. Bordoni’s answer
to this would be that the “finis orationis” is not only naming an affections of
the soul. It is an interpretation of the soul. The soul does not only perceive
the singular and grasp the universals, two objective processes. It is also discursive
and combines them in complexa, which in turn can be compared with the
external world. The relationship to truth is that which makes language
significant. The relationship between an affection of the soul and a thing is
far closer for Bordoni than the arbitrary relationship between an expression
and the affection of the soul that it signifies. An expression of the soul does
not ‘signify’ at all. ‘Significare’ is never used about an affection of the
soul, nor is this affection ever called a “notum” in the way an expression
always is. Only an expression ‘signifies,’ and it seems to be clear that
an expression signifies an affection of the soul. This last statement is
nothing special; for even the nominalists has to make use of an affection of
the soul for “significatum”, when e. g. a universal is concerned, although they
generally assume that an expression signifies a singular and material thing directly.
It therefore cornes as a surprise that throughout his essay on the causes of
the Latin language Bordoni clearly and unambiguously states that an expression
signifies a thing (res). The mental intermediate level is practically entirely
left out of consideration in the discussion of the Latin language and its
causes. For instance an expression follows directly the nature of the thing. In
the same way as an expression is a sign of a thing, it also imitates its nature.
In sorne places Bordoni explicitly excludes influence from an intervening
mental level. Consequently amabigous nomina do not exist, for in the real world
(in rebus) there is no intermediate between that which I have called an
adjective name and a substantive name. Hence there can he no intermediate
lzomen. Even if we remember that for Bordoni “res” could mean far more than
just a physical thing, this leaves the mental process completely out of the
picture as far as language is concerned. At the risk of explaining away what
might only he a banal inconsistency, I venture to propose that Bordoni did
believe that an expression signifies an affection of the soul, which in its
turn is a ‘re-flection’ of the res, but that the mirror of the intellect is so
perfect that the mental level becomes superfluous when one talks about the
matter. We have seen that the soul neither adds nor detracts from nature. The
soul arrives at the universals through abstraction. Bordoni is close to the
entirely objective relation between mental term and extra-mental phenomenon
which Nifo maintains in his Dialectica ludicra. When he says that “nomen
significat rem” or the like, Bordoni is not therefore talking as a nominalist,
although sorne philosophers did maintain that an expression refers directly to a
things. On the contrary 1 think that Bordoni uses a shorthand expression
possible only for a realist. Leaving the mental level without any importance in
language Bordoni notably disances himself from not only the realist modistae,
but also from their nomilist opposers/ followers, who reinterpreted the” modis ignificandi”
iriio “modi agenda” of the intellect. Here Bordoni breaks radically with Aristotelianism,
including Scotism. Bordoni is not, however, the only one of his time to do so.
Nifo explains this tendency more fully in his Dialectica ludicra where he sets
out to prove that there is no such thing as a “natural” “sign”. Not even the affection of
the soul signifies naturally, for a notion is received objectiveIy. Hence there
is no formaI causal relation between the singular material thing and the notion.
This is not dissimilar to Aquino’s idea that the a notion is a “similitudino”.
The affection of the soul is itself something signified (signatum); the
affection of the soul does not signify (signans). It is clear that Nifo
can deprive the affection of the soul of signification because of the objective
relationship between the thing and the affection of the soul, an approach
which is very close to the restricted function of the intellect as set out by
Bordoni. The tendency in philosophy had been to underline the function of the
affection of the soul in the process of ‘significatio’, and both Scotists and Averroists therefore
stress that an expression admittedly signifies a thing, but through an
intermediary abstract ‘concept’. We occasionally find this attitude reflected
in the De causis as weIl but on the whole this seems to be overruled by
Bordoni’s practice, where he is closer to Nifo. However, although an affection
of the soul itself does not not signify, it is still in exceptional cases
considered as the “significate” of expression by Bordoni. He does not always
insist on an expression merely signifying a thing. Having recourse to the
mental level seems to have been Bordoni’s ultimate resource when the more simple
approach was not viable. I will consider the following passage. Somebody might
object. An apparent substantive name – like phoenix -- which is a name of a
figment of the soul, is not an expression. For ‘phoenix’ – or “Pegasus” is not
the sign of a thing. It should be understood as follows. That which is called an“ens”
sometimes has true being, e. g., God, sometimes not.. The latter case can have
two forms, either “privation” (negation) or fiction. The apparent expression
“vacuum” (as in ‘this name is vacuous’) is an example of privation. The
apparent expression ‘phoenix’ or ‘Pegasus,’ as in Bellerofonte mot ail cavallo
alato Pegaso’) is an example of fiction. The apparent expression or name or
substantive name of this thing (ens vacuum, ens phoenix) does not signify in
the same way as ‘God’ signifies God. Privation or negation signifies through
the category of having. (“I am not hearing a sound”, “This not not red; it is
green” – as a bird has wings and flies, so does Pegasus, the Greeks believed). It
is easier to understand a figment – simple like ‘phoenix’ or complex like
‘squared circle,’ or ‘winged horse’, for they are a sort of false enunciations.
For ‘phoenix’ is the same as this enunciation, ‘This ia a bird resuscitated on
account of itself. This horse flies, and Bellerophon rides him. “Vacuum” is
described in practically modistic terms. “Per modum privationis” significare is
not written explicitly, but aIl the elements are there. This involves a concept
of a mental process which cannot be derived from Bordoni’s own epistemology. ln
order to explain how Bordoni sees the ‘significatio’ of ‘phoenix,’ Luhrman
paraphrases perhaps inadvertently the nominal phrase ‘phoenix’ to the full
utterance, ‘phoenix est avis rediviva sui causa”. Thus he obtains an utterance
and a proposition which can he either
true or false, but this does not help us with this rather obscure passage.
Bordoni does *not* equate or associate the vacuous name ‘phoenix’ with a
proposition, but with Bordoni calls a “complexum indistans”. “Avis rediviva sui
causa” – cf. ‘equus volans”. Bordoni confuses two problems here, that of ‘significatio’
(connotation) and that of truth (denotation). This cannot be dismissed so
easily as this. It is worthwhile recalling the commentary of Averroes on De
interpretation, where he states the generally accepted view that an expression
(alpha, beta) on its own is neither true nor false. Only if we add the copula
''is'' (the S is P, the alpha is beta) or '' is not'' can one talk about truth.
Averroes continues. “And therefore, when we say that a ‘chimaera’ (goat-stag)
cannot eat secondary intentions, we signify something true—for it is true that
a chimaera does not eat secondary intentions – quaestio subtilissima. Bordoni's
preceptor Zimara deals with a related problem in his best-selling “Solutiones
contradictionum”. Zimara claims that in one way, the formation of the intellect
is always true; that is by the first operation of the intellect. In a similar
context in the Exotericoe. exercitationes Bordoni says. Ffr that which is
understood by the intellect is always true (“It is true that the Greeks
believed or conceived of Pegasus as a flying horse”). In another way, however,
the formation of the intellect, when negated in an utterance, is true (“It is
true that Pegasus does not fly”), because, as we nave seen, uerzcas can only oe
eSIaOllsnea Inrougn an “adaequatio rei”, which involves “composition”
(conjunction of properties: equus volans) or disiunctio. Neither of these two
ways of regarding truth allows of
declaring phoenix a lie. Sorne light can be thrown on this contradiction in
Bordoni by looking at the central passage in the Metaphysics where Aristotle
discusses the ways in which falsitas can be said, i. e., not a philosophically
unambiguous term, but the usage of the term in Greek, although Aristotle takes
it for granted that all the ways in which ‘falsum’ may be said are equally
adequate instances of ‘falsitas’. What is important for my purpose is that
Aristotle in one section ignores or underestimates a ‘statement’, an
‘utterance’, or the content of a desire or a belief in favour of a states of
affair which he groups with under the category of a thing that is not as it
seem, as false, a thing. Averroes says on the same locus. ‘’Falsum’ is also
said about a fictional thing which is imagined according to their not having
existence, or not being at all. And this sort of ‘falsum’ has to do with
intellection and primarily with desiring or believing It must be a
‘falsum’ of this kind which Bordoni has in mind, although this is difficult to
explain without ascribing a greater independence to mental operations. Bordoni
is likely depending on a passage like the one from Averroes than on scholastic
quaestiones on figmentum. This is reinforced by his choice of the example
‘phoenix’, which usually exemplifies a species or set with only one member in
it (hence it grows capital letters, as Strawson says). The example of a figmentum is usually either ‘hircocervuus’
(unicorno) or chimaera (goat-stage), cf. sirena, centauro -- which
are more complicated to account for than the singular ‘Phoenix’ or ‘Pegasus’
(‘Vacuous Names’). However, allowing that Bordoni means what was usually meant
by ‘chimaera’, there is some traditional sense to be made out of this passage.
ln one other instance Bordoni has to take mental operations into consideration.
That is when he discusses what was traditionally known as suppositio materialis
(the use-mention distinction). Scaliger never uses ‘suppositio’, and he is
refreshingly untechnical on the subject. ln sorne places he is, however,
reminiscent of logical terminology. Bordoni’s explanation of material
supposition corresponds to his description of the mental auto-reflection on an
affection of the soul. Thus we see that Scaliger does explicitly acknowledge
mental operation in the De causis linguae Latinae in sorne special
circumstances, although it on the whole is of less than secondary importance to
him. I do not deny, therefore, that a mental level exists in Scaliger''s
epistemologically based concept of ‘significatio’. My point is rather that the
functions which Bordoni ascribes to the intellect are so limited that he can
most often ignore them in practice. Scaliger''s indifference to the mental
operations has sorne linguistic consequences as weIl. He has a.preference for
the expression ‘significatum’ (cf. implicatum, implicatura) rather than ‘significatio’,
‘implicatio’). And it is remarkable that he does not seem to mind whether
‘significatum’ gets confused with ‘significatus’ (‘signatus’,
‘signatum’). Bordoni quite often uses forms where the two co-incide, without
giving any indication of which of the two he means. When discussing homoym,
paronym, and synonym, Bordoni says: Nam pro-fecto ut inre non sunt eadem
(eequi-voca), ita nominis *significato* alio atque alio sunt. Itaque sic vere
possis dicere. “Canis non est canis.” Id es, res coolest is non est res terrestris.
At nomen et materiam habet ipsas literas, “C”, “A”, “N”, “I”, et “S”, et
formam, id est significatum. Ergo “canis coelestis” materiam eandem habet
elementorum quam canis terrestris. Formam autem, id est significatum, non
habet. Ergo non est idem nomen (costellatio canis caelestis). The two places
where Bordoni writeso “significatum” he seems to be thinking of the relaterd
(but distinct) form of “significatus”. It would, syntactically, have been at
least as correct to have ‘significatus’ (or ‘significatum’) nominative case
(casus rectus, not casus obliquus) in the two instances – in which case the nominative
forms ‘significatus’ and ‘significatum’ are different. When Bordoni has ‘significato’,
this expression seems is a declined form of the nominative “significatum”. But
this would makes but little sense. As Pattison notes, it would amount to saying
something very otiose if not nonsensical. Just as two 'homonyms, say, ‘dog’ and
‘dog’, are different in the real world, they are not the same in the real
world. It make more sense to read ‘significatu’, the declined form of the
nominative neuter noun ‘significatus’ instead. The same is true of
another passage. Proprium autem quorundarum prae-positionum est ut *significate*
uarient. Prepositions (like “on” the table), being con-significantia, do not
strictly have a significatum at all – even if “See Strawson under Grice,
and Grice on Strawson” does – or Pears is between Grice and Strawson. With the
case of ‘on’ or ‘between’, ‘significatu’ or ‘significatus’ (cf. conceptus) would
have constituted a more understandable text. – cf. the conception of negation. My
intention is not, however, to propose emendations ot the text, but to show that
Bordoni is practically indifferent to any distinction between ‘significatus’
(conceptus – incuding figmentum) and significatum (signatum – what affection of
the soul is behind the expression ‘phoenix’?). A rather dramatic consequence of
the objective relation between the extra-mental world and the corresponding
mental concepts. Bordoni’s ‘significatio’ makes it very difficult to explain
contextually changing usages of a word. Each varying usages must reflect a
different affection of the soul. Two different uses of an expression must
therefore be considered as two different dictiones, which only accidentally
have the same ‘matter’ or form. This is standard in the modistae, but Bordoni’s
‘significatio’ becomes even more rigid and static because of the limited role
he ascribes to the mental operations. Not only does he ignore theories of
supposition, which involve words changingaccording to context; he rejects the
possibility explicitly by telling us that discussions of sermonis proprietas
are cOlnpletely misguided, because words have Ollly one signification (Scaliger).
This make it very difficult to acc() unt theoretically for the philological
discussions of the niceties of usage. That was also a sort of proprietas
sermonis. Bordoni unhesitatingly gives use precedence over rationality in
lànguage, when confronited with the problem, but his theoretical discussion of
use remains fundamentally incompatible. with his concept of ‘significatio’. A
discussion of the concept of usus will, therefore lead to far away from the
theme of this, and it must here be left as a hint at the range of Scaliger''s
eclecticism. Arist., Phys. Met.te Scripsimus autem desumptis a philosopho
principiis pro confessis quod in omni scientia fit infmore» -- where he
discusses criticism of the De causis. Arist. / nt. 16-3-8. Gaudentius. For
a modern discussion of Scaliger's relationship with Cardanus see Maclean. Te
ita et naturre opulentia et Aristotelis opibus euincam esse in natura res universales
piuribus communicabiles. te At intellectus nullam facit substantiam. Neque cum
abstrahit circumstantiam quicquam addit de suo... sed agnoscit eandem esse in
utroque, quia utrique communicabilem et iam communicatam. Bordoni is clearly
and often explicitly anti-nominalist. For Bordoni’s stay in a monastery cf.
Billanovich. The poem is in de Fanti. Ad hrec uniuersalia in materia sunt. Sunt
enim unum in multis. Nam idearum figmenta non admittimus». It is worth noting
that Bordoni does not agree with Zimara who says. Unde, sicut mea fert opinio,
sententia peripateticorum fuit quod intellectio singularis materialis repugnat
intellectui, ut intellectus est, non quatenus singulare, sed quatenus materiale
est. Sic erat respondendum: in rebus singulis esse multa suapte natura qure
unum fiunt ab una forma: ut esse, uegetari, sentire, intelligere. Hrec omnia ab
una anima unum fiunt in homine. Sic uidemus eiusdem rei diuersas esse notiones
quas barbare quidem barbaris, sed non inscite apud doctos formalitates
appellabamus. See Poppi (1966) for-a discussion of the Scotist doctrines on
formal distinction at Padova. Bordoni’s thoughts are very similar to the notion
of the immediate contact between the intellected object and the passive intellect
which Achillini was noted at Padova. Bordoni’s thoughts are very similar
to the notion of the immediate contact between the intellected object and the
passive intellect which Achillini was noted for maintaining. Perhaps more interesting
here is that Nifo and Bacilieri also nurtured such ideas. Bordoni does not,
however, completely reject the existence of the species intelligibilis. Rationality
is the traditional Aristotelian differentia of the human being. Luhrman sees a
dependence on Pico della Mirandola in the use of “divinum”. The idea of the
divine participation of the soul is general neo-PLATONIC doctrine and can
hardly he identified with Pico specifically. It is worth noting that Bordoni does
not make the human use of language an argument for the divinity of the souI.
This would have brought him far closer to the language mysticism of Pico. Veritas
in oratione est, non in uerbis priuis. When Scaliger talks about materiam,
formam and qualitatem significare: about substantiam significare and about
actionem/ passionem significare, aIl these concepts are also res, not with a
separate existence, but nevertheless with a real existence. E. g. Hieronymus
Pardo, who took up the nominalist argument that the assumption of an
intervening concept would lead to Infinite regress: cf. Ashworth 1974: 43. (20)
Averroes in Aristotle (1562) Vol. 1, 1, fol. 68 v. (21) Zimara
(Contradictiones) fol. 53 v., commenting on the De anime III textus 21 and 26 =
r 6. 43Qa26 sqq. and 43{) b 26 sqq. (22) Kirwan Averroes in Aristotle (1562)
Vol. VIII, Met. V, textus 34: fol. 141. The chimaera not only poses a problem
of truth, but as a true figmentum it exemplifies that which it is impossible to
comprehend, in the sense that it signifies something which has the essential
characteristics of “lion”, “woman”, and “dragon”. That Bordoni does not use the
chimaera here is so more remarkable as he did know why ‘chimaera’ is a
complicated example. As it is described in Bordoni’s exercitatio on which
Goclenius comments. Ac aliquando sine hac specie intellectus intelligit, nempe
cum intellectus recepta species exsinuat se ipsum et speciem ipsam intelligit.
Id est ipsam speciem cognoscit esse rei notionem, non autem rem. Hzc
intellectio est animi action. I cannot therefore entirely agree with Stefanini
in calling Scaliger “a modest mentalist”. For signification is the forma of a
word, not something separate from it. Est st enim forma dictionis
signification. -- intelligibilis. -- the he human him. Sgnificare
nevertheless of and exemplifies which: know 3v.,:: species
rei. 1cannot therefore entirely agree with Stefanini in calling Scaliger te
mentaliste ». ACKRILL, J. L. (1 Aristotles Categories and De
interpretatione, Translated with. Notes and Glossary, Oxford, Oxford University
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Translated with. Notes and Glossary, Oxford, Oxford University Press.
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dictis \\ Auerrois, Lyons, apud Scipionem de Gabiano. Julius Caesar
Scaliger. Giulio Cesare della Scala. Giulio Cesare Scaligero. Giulio Bordon. Bordon.
Bordoni. Keywords: “De causis linguae latinae, subtilitate, grammatica
filosofica, filosofia retorica, Cardano, aristotelismo, rinascimento, bordone.
Grammatica a mi figlio, Grammatica silvia – per il figlio Silvio. Cf.
Aristotle, etica per mi figlio Nicomaco. Luigi Speranza, “Grice e Bordoni” –
The Swimming-Pool Library.
Grice
e Borelli – del moto – origine della vita – fitotropismo, geotropismo,
tacto-tropismo. filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli).
Filosofo italiano. Grice: “I would call Borreli a Griceian; I never took
Sraffa’s rude Neapolitan gesture too seriously, but Borelli, like Vitters, does
– as he notes, a bended wrist can mean, the utterer by moving his hands this or
that way IMPLICATES that p – or q; I certainly allows my ‘utter’ to cover such
cases – ‘express’ – but Borreli is into the mechanics of it!” La ricostruzione
della vita di Borelli si basa sull'epistolario che Borelli tiene con Viviani,
Marchetti, Magliabechi e Marcello Malpighi. Figlio di Michele Alfonso Alonzo, soldato
di fanteria del presidio distaccato al Castel Nuovo di Napoli.Il padre fu
processato per aver favorito la fuga del Campanella dal Castel Nuovo, e fu
condannato alla pena capitale, che gli fu poi commutata nell'esilio a Roma.
Questo ultimo sarà il luogo dove Borelli effettua i suoi studi diventando
allievo di Castelli. Insegna matematica prima a Messina a Pisa, dove fonda
la Societa degl’Investigandi. Si ritira a Roma dove fonda la Societa dell'Esperienza
Fisica-Matematica. A Roma frequenta le lezioni di idrodinamica di Castelli.
Castelli gode di una notevole fama e fu certamente in quell'occasione che
Borelli comincia ad appassionarsi alla fisica e, in particolare, alla meccanica
classica. Chiaramente questo periodo e decisivo per il suo indirizzo culturale
in quanto gli permise di elaborare quella metodologia di pensiero grazie alla
quale lascia impresso il suo nome nella storia. Borelli infatti utilizza
l'applicazione della matematica della meccanica e del metodo sperimentale,
proprio della scuola galileiana, per risolvere i problemi biologici.Borelli fu
chiamato dal senato accademico dell'Messina, grazie in parte alla
raccomandazione del Castelli, al fine di occupare la nuova lettura de
matematiche. L'Messina lo tenne in gran conto e gli fornì i mezzi per viaggiare
e mettersi in contatto con i professori delle altre università. Borelli
pubblica la risoluzione di alcuni problemi geometrici di Pietro Emanuele
Scoppia una epidemia in Sicilia che da l'occasione a Borelli di scrivere la sua
prima opera da medico. L'opera intitolata “Cagioni delle febbri maligne in
Sicilia” e pubblicata a Cosenza. La precisione con la quale Borelli tratta questa ‘febbre maligna’
conferma ulteriormente che egli già in precedenza aveva raggiunto notevoli
conoscenze mediche. Lasciò Messina al fine di occupare la cattedra di
matematica a Pisa, conferitagli dal Granduca Ferdinando II. Tenne la sua prima
lezione pisana ma con scarso successo. Non passa molto tempo però che quegli
stessi allievi dovettero ricredersi sulle qualità del maestro. Tra i suoi più
illustri discepoli, merita di essere citato Marchetti. Il soggiorno pisano si
rivela di grandissima importanza al fine di plasmare l'orientamento scientifico
di Borelli, che già alla scuola del Castelli si era andato rafforzando. Per
sottolineare l'importanza del soggiorno pisano è giusto considerare che il
territorio di Pisa ha visto passare i più illustri medici del tempo: Vesalio,
Colombo, Cesalpino, Galilei infine che era stato a Pisa per conseguire il
titolo di dottorato, ma poi finì per insegnare matematica. Sebbene tra i medici
appena nominati Galilei possa sembrare estraneo al loro campo non bisogna
escluderlo del tutto. La tradizione galileiana infatti trae nuove risorse
grazie alla fondazione del Cimento che ha costituito un evento di notevole
importanza per l'evoluzione del progresso scientifico. Della suddetto Cimento
ha parte Viviani, Dati, Segni, Redi, Torricelli, Oliva (di Reggio Calabria), e Borelli.
Il motto del Cimento e “provando e riprovando”. Col Cimento viene dato credito
al metodo sperimentale galileiano in contrapposizione al principio di autorità
del metodo aristotelico. Borelli da un contributo notevole a ogni importante
esperienza del Cimento. Tozzetti si riferisce a Borelli come uno dei maggiori
luminari del Cimento. Borelli pubblica “L’Euclides restitutus” di notevole
importanza matematica. Sccessivamente si dedica alla traduzione del “Dei
conici” di Apollonio. Pisa si presenta come il teatro di una epidemia di
febbri. Borelli studia questo morbo e ne fa una descrizione in alcune lettere
che inviò a Malpighi. Pubblicò il De rerum usu, completando le osservazioni
anatomiche del Bellini L. con delle osservazioni fisiologiche. Si
occupa anche di astronomia, in particolare della cometa che era apparsa. Nel
Theoricae medieorum planetarum ex causis phisicis deductaem si interessa del
movimento dei satelliti di Giove. Borelli, parallelamente alle esperienze di
matematica e fisica, si occupa di anatomia e soprattutto di fisiologia. Queste
ultime esperienze gli sono di estremo aiuto per la successiva elaborazione del
De motu animalium. Sia l'anatomia che la fisiologia compiono in questi momenti
dei progressi significativi, soprattutto grazie all'applicazione del metodo
sperimentale alla fisiologia (Harvey con la dimostrazione della circolazione
del sangue). In questo period, l'intento principale è quello di abbandonare il
cieco empirismo al fine di porre le basi di quella che sarà la medicina moderna.
Sotto questi auspici nasce, grazie anche a Borelli, un nuovo movimento, la
scuola iatro-meccanica che agli inizi viene anche chiamata scuola iatro-matematica.
Tuttavia, già sorgeno i primi dissidi e le prime inimicizie tra i membri del Cimento;
Borelli e in dissidio soprattutto con Viviani, per cui cominciava a maturare il
convincement odi ritornare a Messina. Borelli scrive al Principe Leopoldo e
manifesta l'intenzione di lasciare Pisa adducendo il pretesto della salute. La
partenza di Borelli dispiacce al Principe Leopoldo, il quale tuttavia non lo
priva della sua stima. Secondo Francesco Redi, Borelli si pente di aver
lasciato Pisa. Con il ritorno a Messina si chiude la fase più feconda di
risultati nella vita di Borelli. Il ritorno di Borelli a Messina fu molto
gradito dai cittadini di questa città, grazie sia al ricordo che conservano e
sia per la fama che Borelli aveva conquistato in Toscana. Nella città sicula,
Borelli riprese l'attività di docente impegnandosi sullo studio dei fenomeni
riguardanti l'astronomia e la fisiologia. Pubblicò le Osservazioni intorno alle
virtù ineguali degli occhi. E incaricato dalla Royal Society di Londra per
studiare l'eruzione dell'Etna. Alla descrizione dell'eruzione del vulcano fatta
da Borelli si interessa anche il Principe Leopoldo. Durante il soggiorno
messinese, Borelli frequenta il palazzo del Visconte Ruffo, luogo nel quale, a
quanto sembra, si cospira contro il regime. Questa attività cospiratrice
culmina in una congiura, a quale, oltre
a non provocare nessuna alterazione nella situazione politica, ha conseguenze
disastrose per la cultura dell'isola. Borelli, per le sue idee e per il suo
operare in nome della libertà e dell'indipendenza, e accusato di ribellione e
dovette espiare la sua colpa a Roma. Borelli raggiunse Roma. Il poco avere che
era riuscito a portare con sé gli fu derubato da un servo infedele. Malgrado
queste tristi condizioni, non abbandona l'attività intellettuale, anzi riprese
lo studio al fine di portare a termine la sua più grande opera, il De motu
animalium. Fortunatamente Borelli
incontra a Roma la regina Cristina di Svezia, la quale avrebbe poi patrocinato
la pubblicazione della sua opera capitale. A causa delle condizioni economiche
in cui versa, Borelli dove accettare l'ospitalità offertagli da B. Carlo
Giovanni di Gesù nella sua casa di San Pantaleo. Il De motu animalium
rappresenta il suo ultimo grande contributo per la conoscenza scientifica
infatti, mentre lavora su questa opera, fu colpito dalla malattia,
probabilmente polmonite. Prima di morire, Borelli, raccomanda la pubblicazione
del De motu animalium a B. Carlo Giovanni di Gesù. L'opera più conosciuta del
Borelli è il trattato De Motu Animalium, con il quale cerca di spiegare il
movimento del corpo dei uomoni basandosi su principi meccanici, tentando di
estendere all'ambito biologico il metodo di analisi geometrico-matematica
elaborato da Galilei in ambito meccanico e per il quale si guadagna il titolo
di padre della iatromeccanica. Borelli si occupa anche di astronomia,
elaborando una teoria generale sul moto dei pianeti, seppure limitatamente ai
satelliti di Giove. Si suppone che la decisione di limitare lo studio a tali
corpi fosse stata dettata dall'opportunità di non andare in contrasto con le teorie
geocentriche imposte dalla Chiesa. Nel suo studio Theoricae mediceorum
planetarum, sostiene che tutti i satelliti abbiano una naturale tendenza ad
avvicinarsi a Giove, mentre la loro orbita circolare intorno ad esso li
spingerebbe ad allontanarsene. Le forze contrapposte si equilibrerebbero:
l'attrazione verso Giove sarebbe costante mentre la spinta contraria sarebbe
inversamente proporzionale alla distanza dei satelliti da Giove. Borelli
giustifica il moto delle orbite e la loro forma ellittica come una combinazione
di forze tra "l'attrazione dei raggi solari" e i "raggi
motori" originati da Giove. Giovanni Alfonso Borelli, continuando i
tentativi di Galileo sulla misurazione della velocità della luce, eseguì un
esperimento utilizzando un sistema di specchi riflettenti sulla distanza tra
Firenze e Pistoia, circa 35 km. Questo metodo fu poi ripreso da Fizeau che riuscì
a valutare una velocità di 283.000 km/s, molto vicino alla misura esatta.
Altre opere: “Cagioni delle febbri maligne in Sicilia”; “Della cagioni delle
febbri maligni” (Pisa); “Euclides restitutus, sive prisca geometriae elementa,
brevius, et facilius context” (Pisa); “De Renum usu Judicium” (Strasburgo); “Lettera
del movimento della cometa apparsa a Pisa”; “Theoricae mediceorum planetarum ex
causis phisicis deductae” (Pisa); “De Vi Percussionis, et Motionibus Naturalibus
a Gravitate Pendentibus” (Bologna); “Osservazioni intorno alle virtù ineguali
degli occhi” (Messina); “Meteorologia Aetnea, seu historia et methereologia
incendi Aetnei” (Reggio Calabria); “De motionibus naturalibus a gravitate
pendentibus” (Bologna); “De Motu Animalium. (Roma), Lettere di Borelli ad
Alessandro Marchetti, Lettere di Giovanni Alfonso Borelli, dirette una a
Malpighi, le altre a Magliabechi. Napoli. La scuola di Roma. Alfonso Borelli,
fisico: Celebrazione dell'Accademia del Cimento nel tricentenario della
fondazion, Pisa. Dal Borelli al Malpighi. La mécanique céleste de Giovanni
Alfonso Borelli. Di una diversa soluzione di un problema di meccanica muscolare
da parte di due medici matematici. Considerazioni sulle vedute
neurofisiologiche. Spunti di neurofisiologia nel De Motu Animalium di Borelli. L'apparato
motore nello studio di Borelli. Memoria della pontificia Accademia Romana dei
Nuovi Lincei. Dizionario biografico degli italiani. Wikipedia Ricerca
Origine della vita possibili teorie sulla genesi della vita da materia non
vivente Lingua Segui Modifica L'abiogenesi (dal greco a-bio-genesis,
"origini non biologiche"), o informalmente l'origine della vita,[1][2][3]
è il processo naturale con il quale la vita si origina a partire da materia non
vivente, come semplici composti organici.[1][4][5] La Terra per
lungo tempo è stata pensata come l'unico luogo dove la vita si potesse
sviluppare Il passaggio da sistema non vivente ad organismo vivente non è stato
un singolo evento ma piuttosto un processo graduale di aumento di complessità
del sistema.[6][7][8][9] L'abiogenesi è studiata combinando conoscenze di
biologia molecolare, paleontologia, astrobiologia e biochimica per determinare
come l'organizzazione crescente di reazioni chimicheabiotiche in sistemi non
viventi abbia portato all'origine della vita sia sulla Terra che in altri
luoghi dell'universo, dopo un po' di tempo dalla sua nascita (che si fa
risalire ad un evento colossale noto con il nome di Big Bang, che si stima sia
avvenuto circa 13,8 miliardi di anni fa) fino ai giorni nostri.[10] Inizi
Modifica L'origine della vita sulla Terra è databile entro un periodo compreso
tra i 4,4 miliardi di anni fa quando l'acqua allo stato liquido comparve sulla
superficie terrestre[11] e i 2,7 miliardi di anni fa quando la prima
incontrovertibile evidenza della vita è verificata da isotopi stabili[12][13] e
biomarcatori molecolari che mostrano l'attività di fotosintesi.[14][15]. Si
ritiene comunque che la vita abbia avuto origine intorno ai 3,9 miliardi di
anni fa, quando la terra iniziò a raffreddarsi fino ad una temperatura alla
quale l'acqua poté trovarsi diffusamente allo stato liquido; lo avvalorano le
scoperte di strutture microbiche risalenti a 3,7 miliardi di anni fa nelle
rocce verdi di Isua, in Groenlandia[16]. Inoltre varie campagne di ricerca
hanno attestato la presenza di cianobatteri fossili racchiusi in rocce
stromatolitiche dell'Australia occidentale dell'età di circa 3,5 miliardi di
anni[17]. Uno studio recente ha analizzato possibili microfossili, individuati
come filamenti di ematite presenti in campioni prelevati dal Nuvvuagittuq
Supracrustal Belt, datandoli tra i 3,75 miliardi di anni fa e i 4,28 miliardi
di anni fa. Se lo studio venisse confermato sarebbe la prova che la formazione
della vita sulla Terra sia avvenuta in tempi molto rapidi dopo la sua
formazione.[18] Il concetto di origine della vita è stato trattato fin
dall'antichità nell'ambito di diverse religioni e nella filosofia: con lo
svilupparsi di modelli scientifici spesso in contrasto con quanto letteralmente
affermato nei testi sacri delle religioni, l'origine della vita è diventato
tema di dibattito tra scienza e fede.[19] Dal punto di vista scientifico la
spiegazione dell'origine della vita parte dal presupposto fondamentale che le
prime forme viventi si originarono da materiale non vivente. Spiegazioni
Modifica L'interrogativo su come si originò la vita sulla Terra si pose soprattutto
in seguito allo sviluppo della teoria della evoluzione per selezione naturale,
elaborata in modo indipendente da A.R. Wallace e da C.R. Darwinnel 1858, la
quale suggeriva che tutte le forme di vita sono legate da relazioni di
discendenza comune attraverso ramificati alberi filogenetici che riconducono ad
un unico progenitore, estremamente semplice dal punto di vista biologico. Il
problema era capire come si originò questa semplice forma primordiale,
presumibilmente una cellula molto simile ai moderni procarioti e contenente
l'informazione genetica, conservata negli acidi nucleici, oltre a proteine e
altre biomolecole indispensabili alla propria sopravvivenza e riproduzione. Il
processo evolutivo che ha portato alla formazione di un sistema complesso e organizzato
(ovvero il primo essere vivente) a partire dal mondo prebiotico è durato
centinaia di milioni d'anni ed è avvenuto attraverso tappe successive di
eventi, che dopo un numero elevato di tentativi hanno portato a sistemi
progressivamente più complessi. La prima tappa fondamentale è stata la
produzione di semplici molecole organiche, come amminoacidi e nucleotidi, che
costituiscono i mattoni della vita. Gli esperimenti di Stanley Miller e altri
hanno dimostrato che quest'evento era realizzabile nelle condizioni
chimico-fisiche della Terra primordiale, caratterizzata da un'atmosfera
riducente. Inoltre il ritrovamento di molecole organiche nello spazio,
all'interno di nebulose e meteoriti ha dimostrato che queste reazioni sono
avvenute anche in altri luoghi dell'universo, tanto che alcuni scienziati
ritengono che le prime biomolecole siano state trasportate sulla Terra per
mezzo di meteoriti. Ultimi quesiti Modifica La questione più difficile è
spiegare come da questi semplici composti organici, concentrati nei mari in un
brodo primordiale, poterono formarsi delle cellule dotate dei requisiti minimi
essenziali per poter essere considerate viventi, cioè la capacità di utilizzare
materiali presenti nell'ambiente per mantenere la propria struttura,
organizzazione e potersi riprodurre. Molti scienziati hanno cercato di chiarire
attraverso ipotesi ed esperimenti le tappe fondamentali che hanno condotto alla
vita, tra cui l'origine dei primi polimeri biologici e tra questi di una
molecola capace di produrre copie di se stessa, il replicatore, dal quale
derivano i nostri geni e la formazione delle prime membrane biologiche, che
hanno creato dei compartimenti isolati dall'ambiente esterno, nei quali si sono
evoluti i primi sistemi di reazioni e le prime vie metaboliche catalizzate da
enzimi. Nonostante ciò, la ricostruzione della storia della vita presenta
ancora molti interrogativi, concernenti soprattutto la successione degli
eventi. I progressi in questo campo di ricerca sono ostacolati dalla carenza di
reperti fossilie dalla difficoltà di riprodurre questi processi in
laboratorio. Storia del concetto nella scienza Modifica La teoria della
generazione spontanea Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Generazione spontanea. Un testo del 1658
raffigurante degli insetti. Prima del 1668 si pensava che gli insetti
prendessero vita per "generazione spontanea". Per generazione
spontanea (o abiogenesi) si intende la credenza, molto diffusa dall'antichità
fino al XVII secolo, secondo cui la vita possa nascere in modo
"spontaneo" dalla materia inerte o inanimata, tramite l'effetto di
"flussi vitali". Si riteneva che Dio avesse creato direttamente
solo gli esseri viventi "superiori" (come l'uomo e i grandi animali),
mentre quelli "inferiori" (come i vermi e gli insetti) potessero
nascere spontaneamente dal fangoo da carcasse in putrefazione. A tale
riguardo, il chimico Jean Baptiste van Helmontarrivava a fornire la seguente
ricetta per "creare dei topi": Lascia una camicia sporca o
degli stracci in un contenitore, come una pentola o un barile, aperto
contenente alcuni chicchi di grano o mangime e in 21 giorni appariranno dei
topi. Vi saranno esemplari maschi e femmine adulti e in grado di accoppiarsi e
riprodurre altri topi. Questa teoria fu confutata nel XVII secolo, grazie ad
alcuni esperimenti di Francesco Redi e di Lazzaro Spallanzani. Francesco
Redi nel 1668,[21] per determinare se avvenisse o meno il processo di
generazione spontanea, effettuò un rigoroso esperimento a proposito, che rappresenta
un classico esempio di applicazione del metodo sperimentale alla
biologia. Esperimento di Francesco Redi sull'abiogenesi. Un
pezzetto di carne è inserito in un barattolo in vetro; nel barattolo aperto (1a
e 1b) si ha comparsa di larve e mosche, mentre nel barattolo chiuso (2a e 2b)
non si formano né mosche né larve. Redi prese otto barattoli, in ognuno dei
quali introdusse pezzi di diversi animali: un serpente, dei pesci, delle
anguille ed un pezzo di carne di bue, e li divise in due gruppi di quattro:
Senza tappo ('gruppo di controllo', in cui venivano riprodotte le condizioni
presenti nei luoghi dove "la generazione spontanea" era più evidente,
quali macellerie, etc.) Con tappo ('gruppo sperimentale') Nei barattoli del
gruppo di controllo si osservarono delle mosche, che venivano a diretto
contatto con la carne e, dopo poco tempo, si sviluppavano diverse larve. Nei
barattoli tappati non furono ritrovate né larve, né mosche. Da questi
risultati Redi dedusse che le mosche potevano essere generate solo da altre
mosche: nel barattolo aperto, le mosche erano entrate e avevano deposto le loro
uova sulla carne; nel barattolo chiuso, invece, le mosche, impossibilitate ad
entrare, non erano riuscite a depositare le loro uova sulla carne. Questi
risultati non erano ancora conclusivi, poiché Redi, per eliminare qualsiasi
dubbio sulla possibilità che la mancata circolazione d'aria, nei recipienti
chiusi, poteva aver in qualche modo interferito con lo sviluppo delle larve,
eseguì un altro esperimento nel quale i barattoli del gruppo sperimentale
furono chiusi con della garza, che permetteva la circolazione dell'aria,
impedendo l'ingresso delle mosche. Anche in questo caso non si svilupparono
larve, confermando i precedenti risultati sperimentali. Col passare degli
anni la teoria della generazione spontanea venne progressivamente abbandonata.
Tuttavia, l'avvento, lo sviluppo e il perfezionamento del microscopio portò ad
una generale ripresa della teoria, poiché si scoprirono altre forme di vita,
prima sconosciute, come funghi, batteri e vari protozoi: si notò infatti che
bastava mettere delle sostanze organiche in decomposizione in un luogo caldo
per breve tempo e delle strane "bestiole viventi" apparivano sulla
superficie. Nel 1745-1750, John Turberville Needham,[22] un ecclesiastico
e naturalista inglese, partendo dall'osservazione che i microrganismi
crescevano rigogliosamente in varie zuppe, ottenute dall'infusione di carne o
vegetali, quando queste erano esposte all'aria, concluse che all'interno di
tutta la materia, inclusi l'aria e l'ossigeno, era presente una "forza
vitale" responsabile della generazione spontanea.[23]Per avvalorare questa
tesi, egli bollì per pochi minuti alcune delle sue zuppe, al fine di eliminare
eventuali microbi contaminanti, e le versò in beute "pulite", chiuse
con tappi di sughero; anche in questo caso, tuttavia, osservò la crescita dei
microrganismi. Alcuni anni più tardi (1765), Lazzaro Spallanzani,[24] un
abate e biologo italiano, non convinto delle conclusioni di Needham, condusse
degli esperimenti simili con diverse variazioni, applicando un metodo più
rigoroso: innanzitutto, egli sottopose ad ebollizione di un'ora le zuppe, poi
sigillò le beute di vetro che contenevano il brodo fondendo le aperture. Il
brodo ottenuto era sterile e non si rilevò la crescita di microrganismi nemmeno
dopo diversi giorni. In un gruppo di controllo, bollì il brodo solo per alcuni
minuti e osservò che in queste beute crescevano microorganismi. In un terzo
gruppo bollì il brodo per un'ora, ma chiuse le beute con tappi di sughero (che
erano larghi abbastanza per il passaggio dell'aria) ed anche in questo osservò
lo sviluppo di microorganismi. Spallanzani concluse che, mentre un'ora di
bollitura sterilizzava la zuppa, pochi minuti non erano sufficienti per
uccidere tutte le forme viventi inizialmente presenti ed inoltre che i
microorganismi potevano essere anche trasportati dall'aria, come era avvenuto
nelle beute del terzo gruppo. Questi risultati accesero un'animata
discussione tra Spallanzani e Needham riguardo alla sterilizzazione come metodo
per confutare la generazione spontanea. Needham affermò che l'eccessiva
bollitura del brodo usata per sterilizzare i contenitori aveva ucciso la
"forza vitale", mentre la breve ebollizione non era stata
sufficientemente gravosa per distruggerla, cosicché i microbi erano ancora
capaci di svilupparsi. Inoltre sostenne che l'uso di contenitori sigillati
impediva l'ingresso della forza vitale. Contrariamente, nei contenitori aperti,
l'aria fresca poteva entrare, dando così l'avvio alla generazione
spontanea.[25] Un gruppo di formiche mentre si cibano della
carcassa di un serpente. Probabilmente l'ipotesi della "generazione
spontanea" è nata da interpretazioni erronee di osservazioni di fenomeni di
questo genere. Quando la controversia divenne troppo vivace, l'Accademia delle
Scienze di Parigi offrì un premio a chiunque fosse stato in grado di fare luce
sull'argomento. Il premio fu vinto nel 1864 da Louis Pasteur, che attraverso un
semplice esperimento riuscì a confutare la teoria della generazione spontanea.
Egli impiegò per i suoi esperimenti dei matracci a collo d'oca, che
permettevano l'entrata dell'ossigeno, elemento indispensabile allo sviluppo
della vita, ma impedivano che il liquido all'interno venisse a contatto con
agenti contaminanti come spore e batteri. Egli bollì il contenuto dei matracci,
uccidendo così ogni forma di vita all'interno, e dimostrò che i microrganismi
riapparivano solo se il collo dei matracci veniva rotto, permettendo così agli
agenti contaminanti di entrare. Attraverso questo semplice, ma ingegnoso
esperimento Louis Pasteur fu in grado di confutare definitivamente la teoria
della generazione spontanea e, come lui stesso disse in una serata scientifica
alla Sorbona di Parigi: Mai la teoria della generazione spontanea potrà
risollevarsi dal colpo mortale inflittole da questo semplice esperimento. Verso
le teorie moderne Modifica In una lettera a Joseph Dalton Hooker del 1º
febbraio 1871, Charles Darwin suggerì che l'iniziale scintilla della vita
poteva essersi verificata in un "piccolo e tiepido stagno, contenente
ammoniaca e sali fosforici, luce, calore, elettricità, ecc., in modo che una
proteinafosse chimicamente prodotta pronta per subire nuovi e più complessi
cambiamenti". Egli proseguiva spiegando che "oggi tale materia
sarebbe istantaneamente divorata o assorbita, cosa che non sarebbe avvenuta
prima della formazione delle creature viventi". In altre parole, la
presenza della vita stessa evita che la generazione spontanea di semplici composti
organici avvenga sulla Terra oggi; una circostanza che rende la ricerca
dell'origine della vita dipendente dalle condizioni sterili del
laboratorio. Un approccio sperimentale alla questione era oltre le
possibilità della scienza di laboratorio ai tempi di Darwin, e nessun progresso
reale fu compiuto fino al 1924, quando Aleksandr Ivanovič Oparin intuì che fu
la carenza di ossigeno atmosferico a precedere la catena degli eventi, la quale
avrebbe condotto all'evoluzione della vita. In effetti, secondo Oparin, il
catalizzatore delle prime reazioni fu costituito dalla radiazione ultravioletta
la quale, in presenza di ossigeno, sarebbe stata prontamente schermata dalla
formazione di ozono. Tale meccanismo è spiegato nella pubblicazione dello
scienziato intitolata L'origine della vita sulla Terra, in cui Oparin ipotizzò
che, in un'atmosfera povera di ossigeno e per azione della luce solare, si
sarebbero prodotte molecole organiche, le quali, accumulate nei mari primitivi,
avrebbero formato un "brodo primordiale". Queste prime sostanze
organiche si sarebbero combinate formando molecole sempre più complesse, fino
ad arrivare ai coacervati. Queste goccioline, simili nell'aspetto alle attuali
cellule, si sarebbero accresciute per fusione con altre gocce e riprodotte
attraverso la divisione in gocce figlie, ottenendo così un
metabolismoprimordiale in cui quei fattori che promuovevano l'integrità
cellulare si mantenevano, al contrario degli altri che si estinguevano. Molte
teorie moderne sull'origine della vita mantengono l'idea di Oparin come punto
di partenza. Modelli correnti Modifica Stromatoliti risalenti al
Precambriano nella Formazione di Siyeh Formation, Glacier National Park. Nel
2002, William Schopf della UCLA pubblicò un controverso articolo sul giornale
scientifico Nature affermando che formazioni geologiche come quelle
appartenessero ad alghemicrobiche fossilizzate di 3,5 miliardi di anni fa. Se
fosse vero, si tratterebbe della prima forma di vita conosciuta sulla Terra. In
verità non esiste un modello standard dell'origine della vita. Tuttavia i
modelli attualmente accettati si basano su alcune scoperte circa l'origine
delle componenti molecolari e cellulari della vita, che sono elencate qui
sotto: Le condizioni pre-biotiche hanno permesso lo sviluppo di talune
piccole molecole (monomeri) basilari per la vita, come gli amminoacidi. Questo
fu dimostrato nel corso dell'esperimento di Miller-Urey da Stanley Miller e
Harold Urey nel 1953. I fosfolipidi (se di lunghezza appropriata) possono
spontaneamente formare un doppio strato, componente base della membrana
cellulare. La polimerizzazione di nucleotidi in molecole casuali di RNA
potrebbe aver originato i ribozimiautoreplicantisi (ipotesi del mondo a RNA).
Una selezione naturale diretta verso una maggiore efficienza catalitica e
diversità ha prodotto ribozimi dotati di attività peptidil-trasferasica (di qui
la sintesi di piccole proteine), dalla formazione di complessi tra oligopeptidi
e molecole di RNA. Nacque così il primo ribosoma, e la sintesi proteica divenne
più prevalente. Le proteine hanno superato i ribozimi per abilità catalitica,
divenendo quindi i biopolimeri dominanti. Gli acidi nucleici sono stati
limitati ad una funzione prettamente genomica. Esistono dubbi sull'esatto
ordine cronologico delle tappe 2 e 3, poiché la comparsa dell'RNA
autoreplicante potrebbe aver preceduto la formazione delle prime membrane
biologiche. L'origine delle biomolecole fondamentali, benché non stabilita, è
meno controversa. Le sostanze fondamentali da cui si pensa che la vita si sia
formata sono: metano (CH4) ammoniaca (NH3) acqua (H2O) acido solfidrico
(H2S) anidride carbonica (CO2) o monossido di carbonio(CO) fosfati (PO43-).
L'ossigeno molecolare (O2) e l'ozono (O3) erano entrambi rari o assenti.
È stata sintetizzata una "protocellula" usando componenti base, che
avesse le proprietà necessarie per la vita attraverso il cosiddetto
"approccio dal basso verso l'alto" (in inglese:
"bottom-up")[27]. Alcuni ricercatori stanno lavorando in questo
campo, in particolare Steen Rasmussen al Los Alamos National Laboratory e Jack
Szostak all'Harvard University. Altri ricercatori ritengono più attuabile un
"approccio dall'alto verso il basso" (in inglese:
"top-down"). Un tale approccio, tentato da Craig Venter e da altri al
The Institute for Genomic Research, comporta la modifica di cellule procariote
esistenti, per ottenere cellule con un numero sempre minore di geni, tentando
di discernere a che punto i requisiti minimi per la vita sono raggiunti. Il
biologo John Desmond Bernal coniò per tale processo il termine Biopoiesi e
suggerì che vi erano alcuni "stadi" chiaramente definiti che potevano
essere riconosciuti per spiegare l'origine della vita: stadio 1:
l'origine dei monomeri biologici stadio 2: l'origine dei polimeri biologici
stadio 3: l'evoluzione dalle molecole alla cellula. Bernal suggerì che
l'evoluzione Darwiniana doveva essere iniziata presto, in un periodo compreso
tra gli stadi 1 e 2. Il biologo evolutivo Eugene Koonin ha proposto dei
calcoli[28] che suggeriscono che le probabilità in gioco diventano ammissibili
per giustificare la possibilità di pervenire al sistema di traduzione/replica
mediante la selezione darwiniana solo se si accetta la teoria del
multiverso. Origine delle molecole organiche Modifica Esperimenti di
Miller Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Esperimento di Miller-Urey e Ipotesi del mondo a IPA. Nel 1953 un neolaureato,
Stanley Miller, ed il suo professore, Harold Urey, realizzarono un esperimento
che provò che molecole organiche si sarebbero potute formare spontaneamente
sulla Terra primordiale da precursori inorganici. In quello che è passato alla
storia come "esperimento di Miller" si fece uso di una soluzione
gassosa altamente riducente, contenente metano, ammoniaca, idrogeno e vapore
acqueo, per formare, sotto l'esposizione di una scarica elettrica continua,
alcuni monomeri organici di base, come gli amminoacidi. Resta argomento
controverso se la soluzione di gas utilizzata nell'esperimento riflettesse
davvero la composizione dell'atmosfera della Terra primordiale. Altri gas meno
riducenti producono una minore quantità e varietà di prodotti. Un tempo si
pensava che nell'atmosfera prebiotica fossero presenti quantità apprezzabili di
ossigeno molecolare, che avrebbe essenzialmente prevenuto la formazione di
molecole organiche; tuttavia, la comunità scientifica odierna ritiene che tale
ipotesi sia fuorviante. Nel 1961 Joan Oró, dell'Università di Houston,
preparò una soluzione acquosa contenente ammoniaca ed acido cianidrico, un
composto che si formava nell'atmosfera riducente proposta da Miller, ed
ottenne, insieme agli amminoacidi, grandi quantità di adenina, una base azotata
presente sia negli acidi nucleici che nell'ATP. Anche le altre basi azotate
sono state ottenute in esperimenti simili, da reazioni tra l'acido cianidrico
ed altri composti che potrebbero essersi originati nell'atmosfera primordiale,
come il cianogeno ed il cianoacetilene.[29] Cyril Ponnamperuma nei
laboratori NASA durante un esperimento per verificare la possibilità della vita
su Giove, nel solco del noto esperimento di Stanley Miller. Immettendo scariche
elettriche in una miscela di acetilene e metano a bassissime temperature si
formano catene di polimeri. Nel 2006 un altro esperimento mostrò che una densa
foschia organica avvolgeva la Terra primordiale.[30]Una tale foschia organica
poteva dar luogo alle grandi concentrazioni di metano e anidride carbonica che
si ritiene fossero presenti nell'atmosfera della Terra a quel tempo. Una volta
formate, tali molecole organiche sarebbero ricadute sulla superficie terrestre,
consentendo la fioritura della vita a livello globale.[31] Le molecole
organiche di questo tipo sono, ovviamente, molto distanti da una forma di vita
pienamente compiuta ed autoreplicantesi, ma in un ambiente privo di forme di
vita preesistenti, queste molecole si sarebbero accumulate ed avrebbero fornito
un ambiente ricco per l'evoluzione chimica("brodo primordiale").
D'altro canto la formazione spontanea di polimeri complessi da monomeri
generati abioticamente in tali condizioni non è un processo diretto. Inoltre
alcuni isomeri dei monomeri organici fondamentali, che avrebbero evitato la
formazione di polimeri, si sono formati in elevate concentrazioni
nell'esperimento. Sono state ipotizzate altre sorgenti di molecole
complesse, incluse quelle di origine extra-terrestre o interstellare. Per
esempio, da analisi spettrali, si sa che tali molecole organiche sono presenti
su comete e meteoriti. Nel 2004, un'équipe trovò in una nebulosatracce di
idrocarburi policiclici aromatici (IPA), attualmente il tipo di molecole più
complesse mai rinvenuta nell'universo. Gli IPA sono stati anche proposti come
precursori dell'RNA nella cosiddetta "ipotesi del mondo a IPA".
Si può obiettare che la questione cruciale a cui questa teoria non fornisce una
risposta esauriente è come le molecole organiche relativamente semplici si
siano polimerizzate a formare strutture più complesse, fino alla protocellula.
Per esempio, in ambiente acquoso l'idrolisi degli oligomeri/polimeri nei loro
monomeri costituenti è favorita rispetto alla condensazione dei singoli
monomeri in polimeri. Ancora, l'esperimento di Miller produce varie sostanze
che potrebbero dar luogo a reazioni di doppio scambio con gli amminoacidi o
bloccare la crescita della catena peptidica. Esperimenti recenti che si
rifanno agli esperimenti di Miller Modifica Negli anni cinquanta e sessanta,
Sidney W. Fox studiò la formazione spontanea di strutture peptidiche in
condizioni che potrebbero essersi verificate nella Terra primordiale. Egli
dimostrò che gli amminoacidi potevano spontaneamente formare piccoli peptidi.
Tali amminoacidi e piccoli peptidi potevano essere indotti a formare membrane
sferiche chiuse, chiamate "microsfere".[32] Esperimenti più recenti
compiuti dal chimico Jeffrey Bada presso la Scripps Institution of Oceanography
(La Jolla, California) sono simili a quelli eseguiti da Miller. Comunque, Bada
notò che nei modelli correnti delle condizioni della Terra primordiale, il
biossido di carbonio e l'azoto formano nitriti, che distruggono gli amminoacidi
appena si formano. Tuttavia, sulla Terra primordiale dovevano essere presenti
quantità rilevanti di ferro e carbonati in grado di neutralizzare gli effetti
dei nitriti. Quando Bada eseguì un esperimento che ricalcava quello di Miller
con l'aggiunta di ferro e minerali carbonati, i prodotti risultarono ricchi di
amminoacidi. Questo suggerisce che l'origine di quantità significative di
amminoacidi possa essere avvenuta nella Terra primordiale anche se
nell'atmosfera erano presenti biossido di carbonio e azoto.[33] Ipotesi
di Eigen Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Teoria delle quasispecie. All'inizio degli anni settanta, un'équipe
di scienziati riuniti intorno a Manfred Eigen dell'Istituto Max Planckcercò di
risolvere definitivamente il mistero dell'origine della vita. Essi cercarono di
esaminare i passaggi di transizione tra il caos molecolare nel brodo
primordialee un sistema autoreplicantesi di semplici macromolecole. In un
"iperciclo", il sistema di memorizzazione dell'informazione (forse
l'RNA) produce un enzima, che catalizza la formazione di un altro sistema di
informazione, e così via in sequenza, finché il prodotto dell'ultimo aiuta
nella formazione del primo sistema di informazione. Trattati matematicamente,
gli ipercicli possono dar luogo a quasispecie, che attraverso la selezione
naturale entrarono in una forma di evoluzione darwiniana. Una spinta alla
teoria dell'iperciclo fu la scoperta che l'RNA in certe circostanze si
trasforma in ribozimi, una forma di enzimi. Ipotesi di Wächtershäuser
Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Teoria
del mondo a ferro-zolfo. Una fumarola neranell'oceano Atlantico. Un'altra
possibile risposta all'enigma della polimerizzazione venne fornita negli anni
ottanta da Günter Wächtershäuser nella sua teoria del mondo a ferro-zolfo. In
questa teoria, egli postulò l'evoluzione sottomarina di pathways (vie
metaboliche) biochimici come fondamento dell'evoluzione della vita.[34]
Inoltre, presentò un consistente sistema per tracciare un percorso
retrospettivo dalla biochimica moderna fino alle reazioni ancestrali, le quali
fornirono i pathways alternativi per la sintesi di mattoncini organici da
semplici composti gassosi. In contrasto con l'esperimento di Miller
classico, che dipende da fonti di energia esterne (come la simulazione di
fulmini o radiazione ultravioletta), i "sistemi di Wächtershäuser"
funzionano con una risorsa energetica endogena, i solfuri di ferro e altri
minerali come la pirite. La reazione di ossidoriduzione di questi solfuri
metallici {\displaystyle \mathrm {Fe^{2+}+FeS_{2} + H_{2}\leftrightharpoons
\;2\ FeS+2\ H^{+}\;\;\,\Delta G^{0}=-\
44,2\,kJ/mol} } libera energia che non solo è disponibile per la sintesi di
molecole organiche, ma anche per la formazione di oligomeri e polimeri. È
pertanto ipotizzato che tali sistemi possano evolvere in insiemi autocatalitici
di entità metabolicamente attive e autoreplicantesi, che avrebbero preceduto le
forme di vita oggi conosciute. L'esperimento così eseguito produsse una
quantità relativamente bassa di dipeptidi (dallo 0,4% al 12,4%) ed una ancora
minore di tripeptidi (0,10%) e gli scienziati notarono che a quelle stesse
condizioni i dipeptidi si idrolizzano rapidamente. Un'altra critica che si può
muovere è che l'esperimento non includeva nessuna delle organomolecole che
probabilmente avrebbero reagito o interrotto la catena.[35] L'ultima
modifica all'ipotesi ferro-zolfo fu apportata da William Martin e Michael
Russell nel 2002. Nello scenario da loro ipotizzato, le prime forme di vita
cellulari si sarebbero evolute all'interno di vulcanisottomarini sui fondali di
mari molto profondi. Schema biogeochimico dell'ecosistema dei
vulcani sottomarini Queste strutture consistono di piccole caverne, coperte da
leggeri muri membranosi formati da solfuri metallici. Pertanto, tali strutture
risolverebbero molti punti critici dei sistemi puri di Wächtershäuser: le
micro-caverne forniscono un modo per concentrare le molecole appena
sintetizzate, aumentando perciò la possibilità di formare oligomeri; i
gradienti di temperatura nel vulcano permettono di raggiungere le condizioni
ottimali per le reazioni parziali in differenti regioni del vulcano (sintesi
dei monomeri in quelle più calde, oligomerizzazione nelle parti più fredde); lo
scorrere di acqua idrotermale dalle strutture fornisce una fonte costante di
energia e di molecole semplici (solfuri metallici appena precipitati); il modello
consente una successione di diversi passaggi dell'evoluzione cellulare (chimica
prebiotica, sintesi di monomeri e oligomeri, sintesi di peptidi e proteine,
mondo dell'RNA, assemblaggio di proteine ribonucleari e mondo del DNA) in una
singola struttura, facilitando lo scambio tra tutti gli stadi di sviluppo; la
sintesi dei lipidi come mezzo di protezione delle cellule contro l'ambiente non
è necessaria, fino a che tutte le basilari funzioni cellulari sono sviluppate.
Questo modello localizza il LUCA ("Ultimo Antenato Comune
Universale") nel vulcano sottomarino, piuttosto che assumerne l'esistenza
come forma di vita libera. L'ultimo passo evolutivo sarebbe stata la sintesi di
una membrana lipidica che, alla fine, avrebbe permesso agli organismi di
abbandonare il sistema di microcaverne dei vulcani sottomarini e iniziare vite
indipendenti. Questa acquisizione tardiva dei lipidi è coerente con la presenza
di membrane lipidiche completamente diverse negli archaebatteri e negli
eubatteri e con la notevole somiglianza di molti aspetti della fisiologia
cellulare di tutte le forme di vita. Ipotesi sull'origine
dell'omochiralità Modifica Alanina R e L Un'altra questione irrisolta
nell'evoluzione chimica è l'origine dell'omochiralità, cioè la presenza negli
organismi viventi di molecole organiche con la stessa configurazione (ad
esempio, gli amminoacidi sono tutti nella configurazione L, mentre il ribosio e
il deossiribosio degli acidi nucleici hanno configurazione D). L'omochiralità,
spiegabile semplicemente con un'iniziale asimmetria, è essenziale per la
formazione di ribozimi e proteine funzionali. Un lavoro eseguito da scienziati
al Purdue identificò l'amminoacido serina come probabile causa prima
dell'omochilarità delle molecole organiche.[36][37] La serina, infatti, forma
legami particolarmente saldi con gli amminoacidi della stessa chiralità,
risultando in un oligopeptide di circa otto molecole, nel quale gli amminoacidi
hanno la stessa configurazione, D o L. Questa proprietà non è condivisa dagli
altri amminoacidi, che sono in grado di formare legami deboli anche con
amminoacidi di chiralità opposta. Benché il mistero sul perché la serina L
divenne dominante sia ancora insoluto, questo risultato suggerisce una risposta
alla questione della trasmissione chirale, poiché una volta che l'asimmetria si
è stabilita, le molecole organiche di una chiralità diventano dominanti.
Uno studio su alcuni amminoacidi, ritrovati sul meteorite Murchison, dimostrava
che c'era una maggiore percentuale di L-alanina e L-acido-glutammico rispetto
ai corrispondenti enantiomeri D.[38] Da questi risultati si è formulata
l'ipotesi di una probabile origine nello spazio dell'omochiralità. Secondo
questa teoria, la luce polarizzata all'interno del disco protoplanetario
potrebbe aver provocato una fotodecomposizione selettiva di uno dei due
enantiomeri, conducendo a un eccesso dell'altro.[39] Altri studi hanno
dimostrato che il decadimento betapuò determinare una degradazione
preferenziale dell'isomero D-leucina, in una miscela racemica.
Quest'osservazione, associata alla possibile presenza di 14C nelle molecole
prebiotiche identifica il decadimento radioattivo come una probabile causa
all'origine dell'omochiralità.[40] Un'altra teoria si basa sulla
caratteristica dei cristalli chirali di concentrare sulla loro superficie uno
dei due enantiomeri. Quest'osservazione ha condotto all'ipotesi di un possibile
scenario prebiotico, in cui cristalli naturali chirali hanno agito da
catalizzatori per l'assemblaggio di macromolecole formate da unità monomeriche
chirali.[41]. Di recente è stata formulata l'ipotesi, supportata da
simulazioni al computer, che una serie di eventi di estinzione selettiva possa
avere selezionato un certo tipo di chiralità in una fase assai primordiale
della vita[42] Dalle molecole organiche alle protocellule Modifica La
domanda "Come semplici molecole organiche possono formare una
protocellula?" è tuttora senza risposta, ma vi sono molte ipotesi. Alcune
di queste postulano come tappa iniziale la comparsa degli acidi nucleici,
mentre altre ritengono antecedenti l'evoluzione delle reazioni biochimiche e
dei pathways. Recentemente stanno emergendo modelli ibridi che combinano gli
aspetti delle due ipotesi. Modello "Prima i Geni": il mondo a
RNA Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Ipotesi del mondo a RNA. Confronto tra le basi di RNA e DNA L'ipotesi del
mondo a RNA suggerisce che molecole relativamente corte di RNA, capaci di
catalizzare la propria replicazione, potrebbero essersi formate spontaneamente.
È difficile valutare la probabilità di tale evento, ma sono state avanzate
varie teorie sulle possibili modalità di formazione di queste molecole.
Le prime membrane cellulari si sarebbero formate spontaneamente da proteinoidi,
molecole simili a proteine che vengono prodotte riscaldando soluzioni
amminoacidiche e, se presenti alla corretta concentrazione in ambiente acquoso,
formano microsfere che si comportano in modo simile a compartimenti racchiusi
in membrana. Altre possibilità includono sistemi di reazioni chimiche
all'interno di substrati di argilla o sulla superficie di rocce di pirite. I
fattori che supportano l'importante ruolo del RNA nelle prime fasi della vita
sulla Terra sono: la sua abilità nel replicarsi; la sua capacità sia di
immagazzinare informazioni che di catalizzare reazioni chimiche (come nei
ribozimi); i suoi molteplici ruoli come intermedio nell'espressione e nel
mantenimento dell'informazione genetica (nella forma di DNA) negli organismi
superiori; Il ruolo centrale assunto dall'rRNA all'interno dei ribosomi nel
catalizzare la formazione del legame peptidico della catena proteica nascente;
la possibilità di ottenere le sintesi chimiche dei suoi componenti in
condizioni che approssimano quelle della Terra primordiale. I problemi che
sollevano dubbi contro questa ipotesi sono legati, in particolare:
all'instabilità dell'RNA, soprattutto quando viene esposto alla radiazione
ultravioletta; alla difficoltà di ottenere i nucleotidi presenti nella molecola
di RNA in esperimenti di laboratorio, a partire dai suoi componenti; alla
scarsità in soluzione di fosfati disponibili, necessari a formare la spina
dorsale; alla difficoltà di ottenere le basi citosina e uracile in esperimenti
in vitro; all'instabilità della base citosina, che è facilmente idrolizzata; al
problema legato al ribosio, che viene prodotto in vitro come miscela dei due
enantiomeri D ed L. Esperimenti recenti hanno rilevato che le prime stime sulle
dimensioni di una molecola di RNA capace di auto-replicarsi erano molto
probabilmente fortemente sottostimate. Le forme attuali della teoria del mondo
a RNA propongono che molecole più semplici, in grado di auto-replicarsi,
abbiano preceduto l'RNA (che un altro "Mondo" si sarebbe evoluto
producendo successivamente il Mondo a RNA). Secondo alcuni studiosi,
acidi nucleici alternativi potrebbero essersi formati in tempi prebiotici,
precedendo il mondo a RNA. Uno dei possibili candidati è il piranosil-RNA
(p-RNA), molto simile alla molecola di RNA ma che, al posto del ribosio,
presenta una versione modificata di questo, con un anello a sei atomi. Questo
polimero, prodotto da Eschenmoser, può formare strutture a duplice filamento e
si è dimostrato più adatto dello stesso RNA all'auto-replicazione in assenza di
un sistema enzimatico.[43]Altri acidi nucleici possibili precursori dell'RNA
sono il PNA, che invece possiede uno scheletro di tipo proteico, il TNA
(Threose nucleic acid), ed il GNA(Glycerol nucleic acid). Attualmente,
tuttavia, le varie ipotesi hanno un impianto sperimentale incompleto: molte di
esse possono essere simulate e testate in laboratorio, ma la scarsità di rocce
sedimentarie risalenti a quel periodo della Terra primordiale conferisce scarse
opportunità di verificare quest'ipotesi con certezza. Modelli "Prima
il Metabolismo": mondo a ferro-zolfo e altri Modifica Molti modelli respingono l'idea dell'auto-replicazione di un
"gene-nudo" e ipotizzano la comparsa di un primitivo metabolismo che
avrebbe fornito l'ambiente per il successivo emergere della replicazione
dell'RNA. Una delle prime formalizzazioni di quest'idea fu avanzata nel
1924 da Alexander Oparin, che postulò la presenza di primitive vescicole
auto-replicantesi, antecedenti all'evoluzione della struttura del DNA. Varianti
più moderne, risalenti agli anni ottanta e novanta, includono la teoria del
mondo a ferro-zolfo di Günter Wächtershäuser e i modelli introdotti da
Christian de Duve basati sulla chimica dei tioesteri. Tra le argomentazioni più
astratte e teoriche a sostegno dell'emergenza del metabolismo in assenza geni
si includono un modello matematico introdotto da Freeman Dyson all'inizio degli
anni ottanta e l'idea di Stuart Kauffman a proposito di insiemi autocatalitici,
discussi più tardi in quel decennio. Tuttavia, l'idea che un ciclo metabolico
chiuso, come il ciclo dell'acido citrico, si possa formare spontaneamente (come
proposto da Günter Wächtershäuser) rimane priva di supporto. Secondo Leslie
Orgel, un leader negli studi sull'origine della vita degli ultimi decenni, le
cose non cambieranno in futuro. In un articolo intitolato Self-Organizing
Biochemical Cycles,[44] Orgel riassume la sua analisi sull'argomento
affermando: "Non vi sono attualmente ragioni per credere che cicli formati
da più passaggi, come il ciclo riduttivo dell'acido citrico, si siano
auto-organizzati su una superficie composta da FeS o FeS2o da qualche altro
minerale". È possibile che un altro tipo di pathway metabolico si sia
evoluto al principio della vita. Per esempio, invece del ciclo riduttivo
dell'acido citrico, il pathway "aperto" dell'acetil-CoA(uno dei
quattro modi oggi riconosciuti per la fissazione del biossido di carbonio in
natura) risulta più compatibile con l'ipotesi dell'auto-organizzazione sulla
superficie di un solfuro metallico. L'enzima chiave di questo pathway, la
monossido di carbonio deidrogenasi/acetil-CoA sintetasi, ospita gruppi misti
nichel-ferro-zolfo nei suoi centri di reazione e catalizza la formazione
dell'acetil-CoA in un singolo passaggio. Teoria delle bolle Modifica Le
onde che s'infrangono sulla riva creano una delicata schiuma composta da bolle.
I venti che soffiano sugli oceani hanno la tendenza a portare gli oggetti
galleggianti a riva, come la legna che si accumula sulla battigia. È possibile
che, nei mari primordiali, le molecole organiche si siano concentrate sulle
rive più o meno allo stesso modo. Inoltre, le acque costiere poco profonde
tendono anche a essere più calde, concentrando ulteriormente le molecole con
l'evaporazione. Mentre le bolle composte soprattutto da acqua si dissolvono
rapidamente, quelle oleose possiedono una maggiore stabilità.
Rappresentazione del doppio strato fosfolipidico. I fosfolipidi
costituiscono un buon esempio di composto oleoso ritenuto abbondante nei mari
prebiotici. Siccome i fosfolipidi contengono una testa idrofila da un lato, e
una coda idrofobica dall'altro, hanno la tendenza spontanea a formare membrane
lipidiche in acqua. Una bolla formata da un unico strato può contenere solo
olio, e, pertanto, non è favorevole a ospitare molecole organiche idrosolubili.
D'altro canto, una bolla lipidica a doppio strato può contenere acqua e, al
momento della sua formazione nei mari primitivi, potrebbe aver intrappolato e
concentrato numerose molecole organiche idrosolubili, tra le quali zuccheri,
proteine e anche polimeri di acidi nucleici, e per questo motivo rappresenta il
precursore più probabile delle moderne membrane cellulari.[45] All'interno di
questa bolla neoformata, le molecole organiche catturate potrebbero aver
reagito formando composti organici più complessi. Inoltre, l'acquisizione di
una proteina all'interno del doppio strato, aumentando la stabilità della
membrana, può aver offerto un vantaggio selettivo ad alcune bolle, poiché le
macromolecole in esse contenute hanno interagito per un periodo di tempo
maggiore, sintetizzando nuove proteine e acidi nucleici. Quando queste bolle si
sono dissolte, a causa delle sollecitazioni meccaniche e del moto ondoso, hanno
rilasciato nel mezzo circostante il loro contenuto di molecole organiche, le
quali, a loro volta, possono essere state catturate all'interno di nuove bolle
in formazione, realizzando una forma primitiva di trasmissione genetica. Una
sequenza di questi processi avvenuta nei mari primordiali, grazie alla
selezione naturale, potrebbe aver trasformato le bolle primitive nelle prime
cellule, dalle quali poi si sono evoluti i primi procarioti, eucarioti ed,
infine, gli organismi pluricellulari.[46] Similmente, le bolle formate
interamente da molecole simili a proteine, denominate microsfere, si formeranno
spontaneamente alle giuste condizioni. Ma non sono un probabile precursore
delle moderne membrane cellulari, dal momento che le membrane cellulari sono
formate prevalentemente da composti lipidici che amminoacidici. Altri
modelli Modifica Autocatalisi Modifica L'etologo britannico Richard Dawkins,
nel suo libro Il racconto dell'antenato. La grande storia dell'evoluzione edito
nel 2004, sostenne l'ipotesi di un possibile ruolo dell'autocatalisi nelle
prime fasi dell'origine della vita. Gli autocatalitici sono sostanze che
catalizzano la propria produzione, e pertanto sono dei semplici replicatori
molecolari. In questo libro, Dawkins cita esperimenti effettuati da Julius
Rebek ed i suoi colleghi allo Scripps Research Institute in California, nei
quali combinarono ammino adenosina e pentafluorofenilestere con l'autocatalita
ammino adenosina triacido estere (AATE). Varianti di AATE, contenuti in un
analogo sistema sperimentale, mostrarono di possedere la proprietà di
catalizzare la propria sintesi. Questo esperimento dimostrò la possibilità che
l'autocatalisi poteva manifestare competizione all'interno di una popolazione
di entità con caratteristiche di ereditarietà, che poteva essere interpretata
come una forma rudimentale di selezione naturale. Teoria dell'argilla
Modifica Una teoria basata sull'argilla fu avanzata da A.Graham Cairns-Smith
dell'University of Glasgow nel 1985 e adottata come un'ipotesi plausibile anche
da altri scienziati (tra cui Richard Dawkins). La teoria di Graham Cairns-Smith
postula la formazione graduale di molecole organiche complesse su una
piattaforma inorganica preesistente, presumibilmente cristalli di silicati in
soluzione. In pratica, si propone un modello di "vita dalla
roccia". Cairns-Smith è uno strenuo critico di altri modelli di
evoluzione chimica.[47] Tuttavia, ammette che, come molti altri modelli
dell'origine della vita, anche il suo contiene dei risvolti problematici
(Horgan 1991). Peggy Rigou dell'Institut national de la recherche
agronomique (INRA), a Jouy-en-Josas, in Francia, riporta sull'edizione dell'11
febbraio 2006 della rivista Science News[48] che i prioni sono capaci di
legarsi alle particelle di argilla e migrare quando l'argilla diventa carica
negativamente. Anche se in questa relazione non c'è alcun riferimento sulle
possibili implicazioni per le teorie sull'origine della vita, questa ricerca
suggerisce che i prioni possano rappresentare un probabile pathway per le prime
molecole replicantesi. "Biosfera profonda-calda" modello di
Gold Modifica La scoperta dei nanobi (strutture filiformi contenenti DNA e di
dimensioni inferiori ad un batterio) in rocce profonde, portò negli anni
novanta alla formulazione, da parte di Thomas Gold, di una controversa teoria
secondo cui le prime forme di vita non si svilupparono sulla superficie
terrestre, ma vari chilometri al di sotto della crosta. È noto che la vita
microbica è abbondante fino a cinque chilometri al di sotto della superficie
terrestre nella forma degli archaea, che generalmente si considerano come
anteriori o per lo meno contemporanei agli eubatteri, molti dei quali vivono
sulla superficie, inclusi gli oceani. Si ritiene che la scoperta di vita
microbica sotto la superficie di altri corpi celesti nel nostro Sistema Solare
darebbe una credibilità rilevante a questa teoria. Secondo Gold una sorgente
profonda di sostanza organica, asciutta e difficile da raggiungere, promuove la
sopravvivenza, perché la vita che si forma in una pozzanghera di materiale
organico tende a consumare tutto il cibo fino ad estinguersi. Il Mondo a
lipidi Modifica I fosfolipidi sono in grado di formare membrane
biologiche Secondo questa teoria le prime entità autoreplicantesi erano
composti organici simili ai lipidi. È noto che i fosfolipidi formano
spontaneamente doppi strati in acqua - la stessa struttura delle odierne
membrane cellulari. Anche altre molecole anfifiliche, con una catena lunga
idrofoba ed una testa polare, sono in grado di formare spontaneamente strutture
simili a vescicole racchiuse da membrane. Queste catene carboniose erano
presenti sulla Terra primordiale, dove la loro capacità di auto organizzarsi in
strutture sovramolecolari può essere stata determinante per l'emergere della
vita. Infatti, i corpi lipidici formati da anfifili possiedono, nella zona
centrale apolare, molecole capaci di assorbire la luce visibile e utilizzarla
per numerose reazioni, tra cui la sintesi di altre molecole anfifiliche a
partire da precursori presenti nell'ambiente. Le molecole neosintetizzate,
inserendosi nel doppio strato, provocano l'espansione delle vescicole, le
quali, in seguito ad eccessiva espansione, vanno incontro ad una scissione
spontanea, conservando la stessa composizione dei lipidi nella progenie.
Questo processo può aver rappresentato una prima forma di replicazione e di
trasferimento dell'informazione. Secondo questo modello, infatti, sulla Terra
primordiale esistevano diversi tipi di questi corpi lipidici, alcuni dei quali,
grazie alla loro particolare composizione, possedevano capacità catalitiche
superiori, e quindi si accrescevano e replicavano più velocemente degli altri,
trasferendo la loro informazione composizionale alla progenie; in questo modo
si sarebbe realizzata una forma di selezione naturale e solo in seguito,
l'evoluzione condusse alla comparsa di entità polimeriche come l'RNA o il DNA
più adatte alla conservazione dell'informazione.[49] Il modello a
polifosfati Modifica Il problema con la maggior parte degli scenari
abiogenetici è che l'equilibrio termodinamico degli amminoacidi con i peptidi è
spostato nella direzione degli amminoacidi liberi; sono stati spesso
tralasciati, infatti, i meccanismi che hanno indotto la polimerizzazione. La
risoluzione di questo problema può essere rilevata nelle proprietà dei
polifosfati,[50][51] generati dalla polimerizzazione di ioni monofosfato
ordinari PO4−3 ad opera della radiazione ultravioletta. I polifosfati inducono
la polimerizzazione degli amminoacidi in peptidi, guidando il processo contro
la direzione dell'equilibrio. Grandi quantità di ultravioletti erano probabilmente
presenti negli oceani primordiali. Il problema fondamentale, tuttavia, sembra
essere che il calcio reagisce con il fosfato solubile formando fosfato di
calcio insolubile, per cui occorre trovare un meccanismo plausibile per
mantenere gli ioni calcio liberi in soluzione. Forse, la risposta potrebbe
trovarsi in alcuni complessi stabili e non reattivi come il citrato di
calcio. Il modello dell'ecopoiesi Modifica Il modello dell'ecopoiesi
propone che i cicli biogeochimici degli elementi biogenici, catalizzati da
un'atmosfera primordiale ricca di ossigeno, generato dalla fotolisi del vapore
acqueo, siano stati la base di un metabolismo planetario che precedette e
condizionò la graduale evoluzione della vita.[52] Vita
"primitiva" extraterrestre Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Esobiologia. Un'alternativa all'abiogenesi
terrestre è l'ipotesi che la vita primitiva si sia originariamente formata in
ambiente extraterrestre, o nel cosmo o su un pianeta vicino (Marte). (Si noti
che l'esogenesi è legata, ma non coincide con la nozione di panspermia).
La presenza di acqua Modifica Distese ghiacciate su Europa. Per questo
motivo ultimamente rivestono particolare importanza le osservazioni dei pianeti
esterni alla Terra o addirittura fuori dal Sistema Solare. Per cercare la
presenza di vita su questi pianeti, ci si concentra principalmente sulla
ricerca di acqua allo stato liquido, considerata indispensabile alla formazione
di entità viventi. In questi casi, la situazione è molto diversa: il calore
necessario per la presenza di acqua allo stato liquido non è più legata
principalmente all'energia ricevuta dal Sole, ma da quella prodotta all'interno
dei singoli pianeti per effetto della forza gravitazionale e del decadimento
radioattivo. Per esempio, si ipotizza la possibile presenza di acqua allo stato
liquido all'interno dei cosiddetti satelliti di ghiaccio, dove le forze di
marea indotte dal pianeta stirano e distorcono la crosta causando
l'innalzamento della temperaturaoltre il punto di fusione.[53] Acqua su
Marte Modifica Magnifying glass icon mgx2.sv Lo stesso argomento in dettaglio:
Vita su Marte. Varie missioni spaziali sono state effettuate sul pianeta rosso
al fine di verificare la presenza di acqua. Sul suolo marziano sono state
rintracciate tracce di ematite, un minerale che si forma solamente in presenza
di acqua e sono state osservate zone sedimentarie che si ipotizza possano
essersi formate per azione erosiva di un liquido; il rover Opportunity ha
inoltre ottenuto riscontri che in un antico passato l'acqua esisteva allo stato
fluido sulla superficie di Marte. I solchi, che si originano dal
bordo rialzato del cratere, sono attribuiti al ruscellamento di liquidi
(probabilmente acqua) sulla superficie di Marte Nel dicembre del 2006 Mars
Global Surveyor ha fornito le prove fotografiche che a tutt'oggi l'acqua
fuoriesce da fenditure lasciando depositi sul terreno. Altre fotografie hanno
mostrato alvei di antichi fiumi, isole che sorgevano al loro interno, prove
inconfutabili che un tempo il liquido scorreva formando le caratteristiche
formazioni ora visibili. Ma col diminuire del campo magnetico il vento solare
ha spazzato via la primitiva atmosfera facendo diminuire drasticamente la
pressione ed eliminando quasi completamente l'acqua dalla superficie. Nel
marzo del 2004 la sonda Mars Express ha rilevato la presenza di metano
nell'atmosfera di Marte, e siccome questo gas può persistere solo per poche
centinaia di anni, essa viene spiegata solamente attraverso un processo
vulcanico o geologico non identificato o con la presenza di certe forme di vita
estremofile. Secondo altri esperti, il minerale chiamato olivina in presenza di
acqua potrebbe essere stato convertito in serpentina, e questo fenomeno
potrebbe essere successo in qualche posto nel sottosuolo di Marte ed aver
liberato abbastanza metano da poter essere stato rilevato dalle sonde. Ancora
il Mars Express nel febbraio 2005 ha segnalato la presenza di formaldeide,
altro indizio di presenza di vita microbica. Nel novembre del 2005 i
ricercatori dell'ESA hanno comunicato che la sonda utilizzando il radar
MARSISha individuato quello che probabilmente è un lago ghiacciato largo fino a
250 chilometri nel sottosuolo del pianeta ad una profondità di circa 2
chilometri. Il bacino del lago deriverebbe da un impatto di un meteorite che in
seguito si sarebbe riempito di materiale ricco di ghiaccio. Tramite MARSIS si
sono potuti contare i crateri nascosti dai sedimenti e dalle colate laviche
della regione nord di Marte. Il numero di questi crateri è comparabile con il
numero di quelli presenti nella regione sud, quindi entrambe le regioni si
sarebbero formate nello stesso arco temporale.[54]Lo strumento MARSIS inoltre
ha permesso di effettuare una stima di massima della quantità d'acqua
immagazzinata sotto forma di ghiaccio nella regione del polo sud.[55] Nel
maggio 2008 è atterrata la sonda Phoenix su una regione polare con il compito
di analizzare l'ambiente per verificare se vi possano vivere i microorganismi;
il lander con un braccio meccanico ha scavato nel terreno ed analizzato il
materiale ottenuto. Si ritiene che i terreni, analizzati da Phoenix siano
vecchi di 50.000 e forse un milione di anni, e potrebbero avere tracce di un
antico clima marziano più temperato. Il 1º agosto 2008 in una conferenza stampa
la NASA ha annunciato la rilevazione da parte della sonda Phoenix di ghiaccio
presente a 5 centimetri sotto il suolo marziano.[56] L'arrivo sulla Terra
Modifica I composti organici sono relativamente comuni nello spazio,
specialmente al di fuori del sistema solare, dove i composti volatili non
evaporano per effetto del calore solare. Le comete sono rivestite da strati
esterni in materiale scuro, ritenuto essere simile al catramecomposto di
materiale organico complesso formato da semplici composti del carbonio andati
incontro a reazioni dovute soprattutto all'irraggiamento da parte degli
ultravioletti. Si può supporre che una pioggia di materiale dalle comete possa
aver portato sulla Terra quantità significative di tali complessi
organici. La cometa Hale-Bopp. L'impatto di comete come questa con
la superficie terrestre potrebbe aver rilasciato una gran quantità di complessi
organici Un'ipotesi alternativa ma legata a quest'ultima, proposta per spiegare
la presenza della vita sulla Terra così presto su un pianeta appena
raffreddato, con un tempo per l'evoluzione prebiotica evidentemente molto
ridotto, è che la vita si sia formata inizialmente su Marte. A causa delle sue
minori dimensioni, Marte si sarebbe raffreddato prima della Terra (una
differenza di centinaia di milioni di anni), permettendo processi prebiotici
mentre la Terra era ancora troppo calda. La vita sarebbe poi stata trasportata
sulla Terra quando il materiale crostale subì esplosioni a causa di impatti con
comete e asteroidi. Marte avrebbe continuato a raffreddarsi molto velocemente
divenendo ostile alla prosecuzione dell'evoluzione e anche all'esistenza stessa
della vita (perse la sua atmosfera a causa di un blando vulcanesimo). La Terra
sta andando incontro allo stesso destino, ma a minore velocità. Questa
ipotesi non risponde in realtà alla domanda su come si sia originata la vita,
ma semplicemente sposta la questione su un altro pianeta o su una cometa.
Tuttavia, il vantaggio di un'origine extraterrestre della vita primitiva è che
la vita non deve necessariamente essersi evoluta su ciascun pianeta per esservi
presente, ma piuttosto da un singolo luogo da cui si sarebbe diffusa nella
galassia ad altri sistemi stellari attraverso comete e meteoriti. L'evidenza a
supporto della plausibilità del concetto è scarsa, ma trova dimostrazione nello
studio recente delle meteoriti marziane ritrovate in Antartide e negli studi
sui microbi estremofili[57] e sui risultati di esperimenti sulla resistenza
all'esposizione nello spazio di alcune forme di vita terrestri. Un ulteriore
sostegno all'ipotesi viene dalla recente scoperta di un ecosistema batterico la
cui sorgente di energia è la radioattività.[58] L'origine della vita
nella cultura Modifica L'interrogativo di come abbia avuto origine la vita ha
coinvolto molto la cultura umana e prima che la scienza elaborasse le teorie
che oggi conosciamo, è tramite la mitologia, la religione e la filosofia che
l'uomo ha provato a fornire risposte a tale interrogativo. Religione e
mitologia Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in
dettaglio: Cosmogonia. Secondo l'induismo, Brahmā è il padre di tutti gli
esseri viventi. Il concetto di creazione permea tutte le culture, e in talune è
comune la mancanza di un processo evolutivo. Le dottrine o complesso di miti
che si rifanno alla creazione possono tuttavia essere fra loro molto diversi,
spostandosi da cultura a cultura. Infatti alcuni miti fanno nascere il mondo
dalle lotte intestine tra le divinità, altri affidano la creazione ad un'unica
divinità che fa nascere il creato dal nulla mentre, per altri ancora, la Terra
e tutto ciò che ci circonda sarebbe fuoriuscito da un uovo cosmico primordiale.
In ognuno di questi miti, le varie società e le varie culture hanno inserito
gli elementi e le metafore che ritenevano più rappresentativi della loro
concezione del mondo. Alcuni ritengono che il mito della creazione influenzi
l'atteggiamento degli uomini che vivono nella società che gli ha dato vita,
anche se essi non vi credono. Australiani aborigeni Modifica Nella
cultura degli aborigeni australiani, la creazione del mondo svolge un ruolo
fondamentale. La creazione risale al Tempo del sogno, in cui gigantesche
creature totemiche attraversarono la Terra cantando di ciò che incontravano
(rocce, pozze d'acqua, animali, piante) e così facendo portarono questi
elementi alla creazione vera e propria. Babilonia Modifica Il mito della
creazione babilonese è stato descritto nell'Enûma Elish, di cui esistono varie
versioni e copie, la più antica delle quali è datata al 1700 a.C. Secondo
questa descrizione, il dio Marduk si armò per combattere il mostro Tiamat.
Marduk distrusse Tiamat, tagliandola in due parti che divennero la terra e il
cielo. Dopo, distrusse anche il marito di Tiamat, Kingu, usando il suo sangue
per creare l'umanità. Bantu Modifica Secondo i Bantu, in origine la Terra
non era altro che acqua e oscurità. Mbombo, il gigante bianco, governava questo
caos. Un giorno egli sentì un fortissimo dolore allo stomaco e vomitò il sole,
la luna e le stelle. Il sole splendeva perfidamente e l'acqua evaporò nelle
nuvole. Gradualmente, apparvero delle colline asciutte. Mbombo vomitò di nuovo
e questa volta vennero fuori gli alberi, gli animali, le persone e molte altre
cose: la prima donna, il leopardo, l'aquila, l'incudine, la scimmia Fumu, il
primo uomo, il firmamento, la medicina e la luce. Nchienge, la donna delle
acque, viveva ad Est. Ella aveva un figlio, Woto, e una figlia, Labama. Woto fu
il primo re dei Bakuba. Buddismo Modifica Il Buddismo normalmente ignora
le questioni riguardanti l'origine della vita. Il Buddha a questo riguardo
disse che sarebbe stato possibile ponderare su queste questioni per tutta la
vita senza tuttavia avvicinarsi al vero obiettivo, la cessazione della sofferenza.
Cherokee Modifica In principio, c'era solo l'acqua. Tutti gli animali vivevano
sopra di essa ed il cielo era sommerso. Erano tutti curiosi di sapere cosa ci
fosse sotto l'acqua ed un giorno Dayuni'si, lo scarabeo acquatico, si offrì
volontario per esplorare. Esplorò la superficie, ma non riuscì a trovare nessun
terreno solido. Esplorò sotto la superficie fino al fondo e tutto quello che
trovò fu del fango che portò in superficie. Dopo aver preso il fango, esso
cominciò a crescere e a spargersi tutto intorno, fino a che non divenne la
Terra così come la conosciamo. Dopo che tutto ciò accadde, uno degli
animali attaccò questa nuova terra al cielo con quattro stringhe. La terra era
ancora troppo umida, così mandarono il grande falco nel Galun'lati per
prepararla per loro. Il falco volò giù e quando raggiunse la terra dei Cherokee
era così stanco che le sue ali cominciarono a colpire il suolo. Ogni volta che
colpivano il suolo si formava una valle od una montagna. Gli animali poi
decisero che era troppo buio, così crearono il sole e lo misero lì dove è
tutt'oggi. Cina Modifica In Cina sussistono cinque maggiori punti di
vista sulla creazione. Secondo il primo non ci sono le prove necessarie
per spiegare la creazione e le sue origini. Il secondo si fonda sull'idea che
il paradiso e la terra erano un'entità unica che poi si separò in due parti. Il
terzo, apparso relativamente tardi nella storia della cultura cinese, è quello
del Taoismo. Secondo questo il Tao è la forza alla base della creazione grazie
alla quale, dal nulla si è creato il tutto, ovvero dal vuoto si è generata la
materia (rispettivamente lo yin e lo yang) e da questi è nata ogni cosa
attraverso i vari processi naturali. Il quarto, anch'esso relativamente
giovane, è il mito di Pangu. Secondo questa spiegazione, offerta dai monaci
Taoisti secoli dopo Lao Zi, l'universo nacque da un uovo cosmico. Una divinità,
Pangu, nascendo da quell'uovo lo ruppe in due parti: quella superiore divenne
il cielo e quella inferiore la terra. Man mano che la divinità crebbe le due
parti dell'uovo si separarono sempre più e, quando Pangu morì, le parti del suo
corpo divennero varie zone terrestri. Il quinto è costituito da racconti
tribali non legati in un sistema unicizzante. Bibbia Modifica Un mosaico del
Duomo di Monreale, raffigurante la creazione delle specie animali ad opera di
Dio. Nella Bibbia si narra che Dio avrebbe creato il mondo, ivi inteso
l'universo, in sei giorni, riposandosi il settimo. Alcune dottrine cristiane
insegnano che si tratta di giorni letterali, mentre altre credono che il
termine "giorno" debba essere inteso come Ere creative, della durata
di migliaia, se non milioni, di anni e il riferirsi a giorni sia solo un
espediente per facilitare la comprensione con un'immagine il più semplice e comprensibile
da tutti[senza fonte]. Nella Genesi, il primo libro del testo sacro per ebrei e
cristiani, ma riconosciuto tale anche dai musulmani, la narrazione della
Creazione occupa i capitoli 1,1-2,4a[59]. La Genesi si apre con le seguenti
frasi: «In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e
deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle
acque.» Filosofia Modifica Sin dalle origini della filosofia
occidentale, in particolare nella filosofia greca, il problema dell'origine
della vita è stato posto al centro della riflessione; le varie scuole di
pensiero si distinguono fra quelle che attribuivano l'origine del cosmo a un
principio statico (l'acqua, il numero, il logos, l'essere), ovvero a una
pluralità di fattori(amore e odio, gli atomi etc.) che, mediante un equilibrio
dinamico, assicurano il divenire della vita. Nel Poema sulla natura Parmenide
sostiene che la molteplicità e i mutamenti del mondo fisico sono illusori, e
afferma, contrariamente al senso comune, che sola realtà è l'Essere:
immutabile, ingenerato, finito, immortale, unico, omogeneo, immobile, eterno.
Questa concezione è diametralmente opposta alla tesi formulata da Eraclito,
secondo il quale tutto il mondo non è che un flusso perennemente in divenire,
nel quale nessuna cosa è mai la stessa poiché tutto si trasforma ed è in una
continua evoluzione. Pur se la filosofia di Eraclito ci è giunta in modo
frammentario, egli sembra quindi ancorare la realtà al tempo e alle continue
trasformazioni che esso comporta; in questo senso sostiene che solo il
cambiamento e il movimento siano reali e che l'identità delle cose sia
illusoria: per Eraclito tutto scorre (panta rei). Anche gli atomisti
democriteisi opponevano alla concezione di immobilismo degli eleati. La teoria
atomistica prevedeva, in effetti, la coesistenza di Essere e Non essere. La
realtà sarebbe originata da scontri casuali di atomi che si uniscono formando
gli enti sensibili. Una teoria differente è elaborata da Anassagora secondo cui
la vita sulla Terra si sarebbe sviluppata in seguito allo sviluppo di
"semi" presenti in tutto l'Universo, armonizzati da un Nous, una
sorta di intelligenza divina. Tale ipotesi è stata ripresa nell'Ottocento e
prende il nome di panspermia. Secondo Platone, il mondo visibile sarebbe opera
del Demiurgo, una sorta di divinità che avrebbe traslato il mondo perfetto
delle idee nel mondo terreno imperfetto. Diversa invece la concezione
aristotelica: secondo Aristotele, infatti, essendo Dio puro pensiero e
immutabile, non può creare il mondo, che è anch'esso eterno. Come riporta
Cicerone (Tuscolane, 15, 42): «il mondo non ha mai avuto origine, poiché non vi
è stato alcun inizio, per il sopravvenire di una nuova decisione, di un'opera
così eccellente» Arte Modifica Affresco della Cappella Sistina,
raffigurante la creazione dell'uomo. Anche varie opere artistiche (letterarie,
pittoriche, ecc.) hanno affrontato il tema dell'origine della vita. Il tema
della Creazione, preso dalla Genesi si trova in innumerevoli cicli pittori e
musivi di storie dell'Antico Testamento. Michelangelo dipinse alcuni
affreschi sul soffitto della Cappella Sistina in cui rappresentava scene tratte
dai primi capitoli della Genesi: una di queste rappresentava la creazione del
primo uomo, Adamo, in cui Dio viene rappresentato come un vecchio signore che
fluttua in aria con il suo mantello e che conferisce la vita a Adamo
sfiorandolo con la mano. Il Tintoretto eseguì a Venezia nel 1550 la sua
Creazione degli Animali, oggi conservata nelle Gallerie dell'Accademia. Vi si
può vedere il Creatore in mezzo ad una brillante luce nella Terra ancora oscura
dopo la creazione della Terra stessa nel secondo giorno; e si può ammirare la
scena del quarto giorno: pesci, uccelli ed anche mammiferi. Raffaello Sanzio
nel 1519 a Roma aveva già eseguito un bellissimo dipinto sulla creazione degli
animali con lo stesso titolo del Tintoretto; esso è visitabile nella Loggia di
Raffaello nel Vaticano. In esso gli animali sono tutti intorno al Creatore,
anche gli animali mitici, come l'unicorno. Note Modifica ^ a b Oparin,
1953, p. vi. ^ Juli Peretó, Controversies on the origin of life( PDF ), in
International Microbiology, vol. 8, n. 1, Barcelona, Spanish Society for
Microbiology, 2005, pp. 23–31, ISSN 1139-6709 (WC · ACNP), PMID 15906258. URL
consultato il 1º giugno 2015 (archiviato dall' url originale il 24 agosto
2015). ^ Scharf, Caleb, A Strategy for Origins of Life Research, in
Astrobiology, Bibcode:2015AsBio..15.1031S, DOI:10.1089/ast.2015.1113, PMC 4683543,
PMID 26684503. URL consultato il 28 novembre 2016. ^ David Warmflash e Benjamin
Warmflash, Did Life Come from Another World?, in Scientific American, vol. 293,
n. 5, Stuttgart, Georg von Holtzbrinck Publishing Group, novembre 2005, pp.
64–71, Bibcode:2005SciAm.293e..64W, DOI:10.1038/scientificamerican1105-64, ISSN
0036-8733 (WC · ACNP). ^ Yarus, 2010, p. 47. ^ Elizabeth Howell, How Did Life
Become Complex, And Could It Happen Beyond Earth?, in Astrobiology Magazine, 8
dicembre 2014. URL consultato il 14 febbraio 2018 (archiviato dall' url
originale il 17 agosto 2018). ^ John Davis, Paleontologist presents
origin of life theory, in Texas Tech University, 29 ottobre 2013. URL
consultato il 14 febbraio 2018. ^ Staff, Abiogenesis - A Brief History, in All
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Modifica Abitabilità planetaria Astrobiologia Astrochimica Brodo primordiale
Bugonia Creazionismo DNA Equazione di Drake Esobiologia Ipotesi della rarità
della Terra Mimivirus (virus gigante che potrebbe aver preceduto gli organismi
cellulari) Panspermia Sistemi complessi Storia della Terra Stuart Kauffman
Ultimo antenato comune universale (LUCA) Zeolite Collegamenti esterni Modifica
Origine della vita, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto
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che include giornali, risorse, del Dr. Michael Russell all'Università di
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scienziati trovano indizi che la vita iniziò nello spazio profondo — NASA
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Leslie Orgel, su pnas.org. (Come iniziò la vita: Una nuova ricerca suggerisce
un approccio semplice, su livescience.com. (EN) Il brodo primordiale: gli
scienziati replicano l'esperimento più famoso sull'evoluzione - articolo in
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dall' url originale il 6 ottobre 2014). Origine della vita, c’è un nuovo
ingrediente per il brodo primordiale, su galileonet.it, 6 dicembre 2018.
Podcast, video ( EN ) video Freeview 'L'origine della vita, di John
Maynard-Smith' A Royal Institution Discourse by the Vega Science Trust, su
vega.org.uk. Evolution and the Origins
of Life - lettura di Harold Morowitz, George Mason University. Portale
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Scienze della Terra Ultima modifica 25 giorni fa di Quinlan83 PAGINE CORRELATE
Aleksandr Ivanovič Oparin biochimico e biologo russo Brodo primordiale
ipotetico ambiente di origine della vita sulla Terra Ipotesi del mondo a
RNA ipotesi sull'origine della vita Wikipedia Il. Giovanni
Francesco Antonio Bonelli. Giovanni Alfonso Borelli. Keywords: corpo umano,
fisiologia, teoria de la natura – natural philosophy, physics, physicist,
physician, anatomia, psicologia, motu, fisiologia filosofica, explanation of
bodily movement, behaviourism, body movement, corpore, corporalism, animism,
corpo animato, che cosa anima il corpo, che cose animano i corpori? Che anima
il corpo? Spirito, anima, personificazione del principio vitale, vita,
l’origine della vita dalla materia inorganica – l’idea di vita in Aristotle –
De anima --. Zoon, animale – bios – biologia
e zoologia – l’origine della vita animale -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Borelli” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Borsa – imitazione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Mantova).
Filosofo italiano. Grice: “I would call Borsa a Griceian – I mean he wrote on
eloquence, as I did – and he qualified this in two ways: ‘eloquenza sacra’ and
‘in Italia’ – Like Austin, he thought that this or that ‘filosofismo academico’
(think ‘impilcatura’) was an abuse to the ‘eloquenza sacra’ in Italia – another
was the use of ‘neologism’ – Friends tried to disencourage: “This or that
filosofismo did have some influence on Roman poetry!” “Damn them!” – He also
wrote a rather anti-pathetic ‘elogio di me stesso,’ whose chapter on ‘gli
amori’ is hardly sincere!” “But I love him!” -- Studia a Verona, Reggio Emilia, e Bologna.
Gl’interessi di Borsa sono di stampo prettamente filosofico. Publica “I
fisiologi” e “Gl’empirici”. Segretario dell'Accademia mantovana. Pubblica “Del
gusto” presente in letteratura italiana, saggio scritto in risposta a un
quesito posto dalla medesima Accademia, ovvero, “I vizi più comuni e
osservabili del corrente gusto italiano” in belle lettere. Il vizio, non la
virtu, del gusto, la corruzione del gusto s’incarna in tre diversi aspetti; il ne-ologismo
no-romano, ovvero straniero, il filosofismo enciclopedico, e la confusione dei generi grammaticali. Insegna
logica e metafisica nel ginnasio di Mantova. Tra le opere di Borsa vanno
inoltre ricordati due saggi problemi
estetici in relazione alla musica – “La musica imitativa” -- e alla danza – “I
balli pantomimi” – la pantomima. – musica imitazione – Scruton. “A sad melody”.
Si cimenta inoltre nella composizione di
una tragedia, “L’assassinio d’Agamennone”. “Palese”. “Zatta”. Dizionario
biografico degli italiani. M a selecircostanzepolitiche,elemorali,che il primo
difetto del Neologismo portaronci, quello ci comunicarono in seguito del
Filosofismo; an che questo Secondo un terzo ne produce, che è la universale
Confusione dei Generi, e quindi la noja dei puri, ed eccellenti. Questo vizio
anzi ė si immediatamente, e intimamente connesso, colla Filosofia,ma col
Filosofismo, che par talota identificarsi con lui, e costituire una medesima
coa sa.Ad occhio intelligente però saran molto diver.
si,eparràaggravarsiinquest'ultimoildestinodel. la Letteratura Italiana. Tom.II.
- raven propria cosi, che il Tragico le passioni istesse di. pinga con
colori molto lontani dal Comico; che ciascuno esponga fatti, animi personaggi,
scelga incidenti degni di lui; e che infine ognun parli il proprio linguaggio,
e faccia il proprio mestiere. 1 1 tendo quell'intima natura della cosa in se
stessa, la quale nega d'estendersi ad oggetti stranieri, ne i propri sa
maneggiare in foggia diversa da quella, che si conviene. Intendo per ultimo
quell'avvedu tezza, e integrità di composizione, per cui dal Poema Epico
discendendo perfino all'Epigramma, e alla Lettera, ogni sua parte, e ogni
membro oc çura cosi esattamente quel luogo, che gli sta bene, che trasposizione
non soffra senza difetto. Queste cose oltre l'esserci insegnate da più gravi
Fi. lologi, sono anche cosi chiaramente emanate dalla natura della persuasione,
e della illusione, e cosi strettamente silegano colla necessaria generazion
dell'idee, che nulla più. In questo senso sono, e si devono esse dire la
Filosofia propria, e rispet. tiva di ciascun genere. Quella, che nell’Articolo
antecedente si dipinse latente, animatrice, dispo. sitrice, e anticipatamente
ragionata. Quella che a forza d'osservazioni su la natura ha imparato a
col. Sento dunque io dentro di me (sia a ragio. ne, sia a torto )
che e nel totale, e nelle singole parti dei più dei libri, che si scrivono e
leggono, serpe profonda una tal confusione di generi, che perverte ogni cosa;
turba, ed offende le idee a n che le più obvie del Bello, e del Perfetto. O
piut tosto sentendo ciò ne argoniento, che sien que 83 locare i varj
istrumenti o poetici, od oratorj in quel modo, luogo, numero,aspetto, che ¢
l'ec cellente a farli giuocare su le fantasie, e sui cuori, con tutto quel
massimo vantaggio, che sia possibi le, in quella tale situazion d'oggetti, e di
persone. Quindi ognun vede, che non più no delle frasi, e delle sintassi, come
nell'Articolo primo, né del Gusto Italiano or non trattasi nella generale
maniera di piegare i pensieri staccati, e colorire la superficie delle cose,
che si maneggiano, come nel secondo. A più alte cose moviamo; a ricercare qual
sia il Gusto presente degl'Italiani nel disegro, nel getto delle Opere loro; e
se seguono in ciò la natura, ed il genio delle materie diverse, e delle compo
sizioni. Si esaminano infine ora i libri nel loro tut. to;non già i modi, e i
periodi; non le strofe,le scene, le digressioni. ste idee, che
guastatesi, e corrotte, guastano poi, e moltiplicano si fatti libri a di nostri.
Il bello, e il sublime, dice Aristotile, nasce dall'Espressio ne della
Grandezza con Ordine;cioè,come spiega dal mostrare il suo soggetto nelle
proporziv ni più ampie, di cui sia capace. Ommettiam p u re, che il pensier
d'Aristotile non s'adatta trop po bene al sublime propriamente tale, come s'é
esposto nel Saggio su la Fantasia; ma certo s'a datta egregiamente al bello, al
maestoso, al gran de, all'imponente; e certo è che questa grandezza, e quest
ordine non son niente affatto secondo il Gusto presente? Anzi al contrario la
proprietà nel. lo scrivere, l'esattezza in dividere, e separar ogni parte più o
meno spiegatamente, secondo la natura dell'opera: un'aria infine ora di
trattazione seria e posata, ora di composizion meditata e rigorosa, egli è omai
quello appunto, che decide della m o r te d'un libro di Belle Lettere appena
nato, alme no riguardo ad una gran parte de'leggitori. Pur troppo è cosi; e
comunemente parlando, non de. ve procedere altrimenti la cosa. Poiché se la
Filo. sofia per temperamento si grave, e per natura, p u re è resa oggi si
instabile, e si leggera presso in 84 no, finiti; che non
debbon poi essere le Belle Lettere amiche soltanto di piaceri, e di delizie, e
meno assai tolleranti della fatica? La leggerezza, e il carattere d'una facile
universalità contrarrano es se dalla Filosofia con somma rapidità. Si getteran
su la carta, come prima i pensieri s'affaccino, e le materie, senza meditare
gran fatto, senza con nettere, ed ordinare. Incerti come colui, se del suole g
n a m e farsi dove s s e uno scanno, ovvero un nume. Tutta l'arte starà nella
pratica d'aver pron. te scappate verso i luoghi topici della Filosofia. Questa
tiene il luogo di disegno. Questa s'adopra egualmente e nei modi medesimi in
ogni argomen to. E questa dopo aver fusi tutti insieme i generi, ne ha fatto un
solo. Perciò l'arte della disposizio. ne, donde l'armonia delle parti, la
progressione crescente, il convincimento; l'arte, che ad ogni massa assegna il
suo luogo più decente, e oppor tuno,e da cui tutta dipende la somma delle co se;
la preziosa Unità infine parmi perduta, perché la massima parte perduta n'ha
l'intelligenza, e il sapore. S'aggiugne, che oggi la Critica Filologica, cioè
quella che tende a mantenere, e perfezionare l'arte 85 86
delloscrivere,'edelcomporre'siin Poesia,che in Prosa è decaduta. Adesso anzi la
Critica si col tiva in ogni suo ramo, é si ama assaissimo in ogni materia fuori
che in questa venuta in derisione. Doglianza tanto legittima, che Arteaga la
ripete anch'egli, e rinforza con molto zelo. M a i più condotti da un'apparenza
di libertà, e indipenden za Filosofica, e senza ricordar, che tal Critica la
dobbiamo a un dei più grandi,ed illustriFilosofi, ad Aristotile, dicono,
ch'ella insegna solo a cucire meccanicamente le cose; che i precetti sono
inezie d'oziosi; e che il modo di poco o nulla nelle co. se decide. N è
s'avveggono poi, che mentre il m o. do trascurano, perdono senza vederlo la
sostanza medesima delle cose. Non già, che abbiasi a gita tar molto tempo in
precetti, dove la seria medias tazione, l'esercizio lungo, e severo, l'esempio
degli ottimi infine può giovare assai più; ma non succede comunemente parlando
nè l'un, né l'al tro. La critica Filologica, cioè l'intima ragione dell'Arti,
ne dai precettisti s'impara, nè colla pra. tica propria si studia sui
grandi·Autori. Quindi. nei generi stessi ipiù severi è sostanzialmente per
dutaogniseverità. E dall'eccessod'un'altravolza orperlopiùsitrascorre all'eccesso
contrario.. Cosi ė;alle pedanterie de'secoli andati or ne suca céde un'altra,
né so ben quali sieno le più nojo. se; giacchè tutto poi va a finire in far
perdere il tempo, e lasciar vota la mente. La prova d'un li. bro, o
composizione ben fatta quella io la credo del restarmene impressa la traccia
totale e la tes. situra coi principali suoi tratti, e le cose le più
importanti. Questo piacere manca egli mai per fret. ta di leggere, che abbiasi,
e nei Classici, e nei v e ramente grandi Scrittori di qualunque nazione si
sieno? Manca egli mai quando l'Autore abbia ben meditata, e. ordinata la sua
materia? M a questo piacere si trova egli spesso nei libri di letteratura
moderna, sebben faccia illusione una larva di Fió losofia, che anche in
tai-libri d’amenità sorge di tanto in tanto, e par che severa alla ragion ci
ri. chiami,anzi pure alla meditazione? Che se ad un Italiano non credesi,
credasi dunque al sopra lo. dato Signor Juvigny, il quale dimostra, che il via
zio generale, e c o m u n e egli è quello, ch'io p r e 87 ta, per cui ad
ogni inezia si montava in bigoncia, e perorar si volea; e i punti, e le
divisioni a n o do di scuola seguivansi con accademica stitichez.. !
Che se tali sono le disposizioni, con cui tan ti ora si pongono a
scrivere, qual maraviglia, che questo Autore eccellente il secol nostro
rimprove, ri, quasi di suo caratteristico vizio in Letteratura, di quel
trascurare le regole dei costumi, e dell'ar ti, e dello snaturare e confondere
stranamente ogni genere di composizione? Donde, se non da ciò, quello stile,
che ne i contraria r g o menti è il medesimo, nei medesimi opposto? Ond'é, che
perfino nell'intima sostanza s'offende la proprietà delle cose? Ond'è, che in
Filosofia, e in Novelle, e nella Storia, ed in Fisica, ed in Teatro, ed in
Chiesa vediamo indistintamente, come si disse, e affettazione di bello spirito,
e modi epigrammati. ci, e similitudini forzose, e frasi tecniche, e di. sparate
allusioni, e tutto il tritume gotico infine della Letteratura moderna
Filosofica per caratteri. zarlo con Hume? Ma nè ciò solo,siccome pur ora diceva.
La corruzione non si ferma già ella nell'a, 88 sentemente riprendo; e che
consiste nel non sen tir, non intendere, non ponderare abbastanza la natura
delle materie; e nello sprezzare sovrana mente, e sopra ogni cosa il disegno, e
la sua sem plicità, e l'unità. vere uno stile anche nelle più
difformimaterie uni forme, benchè per ciò stesso riesca poi a parte a parte
disgregato, tumultuoso, e di mille fisiono. mie: ma si va fino a trasforniare
l'intera natura, l'originaria destinazione dei generi. Le Prediche più non
propongonsi di commuovere icuori dei cre denti; si son cambiate in
Dissertazioni polemiche; e all'utile certo della morale la più pura, e divia na,
soè sostituito il pericolo di gettare lo scanda. lo nell'anime felici di
quelli,che non bebbero an. cora alle torbide fonti delle umane dottrine. La
Lirica, che sotto Augusto era l'interprete della fantasia, e del cuore, ora
serve, o vuol almeno servire al raziocinio astratto, e all'intelletto m e d i
tabondo:La Storia eraun misto diracconti,edi orazioni ora pubbliche, ed ora
private dei tra passati, piena però di una Filosofia grandiosa, e robusta,ma
toltadalmomento,dalfatto,dalla verità. Adesso altri l'ha convertita in un
seguito di discussioni piccole, minute, meschine, talche pajon anzi processi
per una Curia,che Annali d'u. na Nazione. Altri, come ultimamente ho veduto, ha
fatto il salto, ed ha ridotta ogni cosa a discor si, e dialoghi; distribuendo
le vite di Carlo, d ’ E n 89 rico ec. in tante Azioni con
Atti, Scene, e tutto il corredo teatrale. La Tragedia stanca, e non a torto, di
star tra gli Eroi, e tra'Giganti della m o. rale, dopo d'essersi compiaciuta un
momento del quadro vero, e patetico delle private, e virtuose sciagure, si è
tosto gittata tra gli orrori dei C a stelli privati dei Feudatarj. Ha cercate
le atrocità e i raccapricci in tutte le raunanze di uomini, e perfipo di donne,
pel solo piacere di filosoficamen te istruirci sul pericolo dei Voti immaturi,
e su l'empietà dei forzati.La Commedia poi,altronon è bene spesso, che
un'infilzatura di pezzi scuci. ti degli ordinarj sermoni Filosofici, che hanno
per giunta una grazia infinita in bocca del pezzente da strada, dello sciocco
staffiere, e perfin dello sgher ro, e del pubblico assassino nell'atto d'andare
al patibolo. Cosi l'una s'abbassa di troppo, l'altra s'arrampica da pazza,
tutte perdono il punto del. la natura, e niente s'ottiene. Bastano essi ancora
cotesti esempj per mostrare,che,generalmente par. lando, tutti i generi sono
confusi, snaturati, e tra volti nell'intima loro sostanza secondo il gusto cor,
rente, e ciò per ragione del Filosofismo? Matteo Borsa. Keywords: imitazione,
genere grammaticale, la confusion dei generi grammaticali, il genere tragico,
il genere comedico, il genere conversazionale, Tannen, stile conversazionale –
la tragedia della morte di Agammenone --. Virtu e vizio di stilo – filosofismo,
neo-logismo, confusion di genero. Austin sul filosofismo, implicatura come
filosofismo – remedio contra filosofismo, la filosofia del linguaggio
ordinario. Etimologia del cognome ‘borsa’ – origine. Grice. -. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Borsa” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Botero – la memoria di
cicerone al rostro -- Cicerone sull’equita civile -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Bene
Vagienna). Filosofo italiano. Grice: “You gotta love Botero – my favourite is
not so much the one on the reason of state (the critique of the reason of
state) – but his memorabilia of ‘vires’ of the ‘imperium romanum’!” Studia a Palermo;
fu poi in varie case dell'Italia centrale, fra cui nel Collegio Romano. Pur
essendo stimato quale poeta in versi in latino, forse a causa di un carattere
difficile e da una tendenza alla polemica, interrompe gli studi a Roma e fu
inviato come insegnante in località periferiche (ad Amelia e a Macerata). A
Roma fu al servizio di Borromeo, del cui cugino, san Carlo, fu stretto
collaboratore a Milano, impegnato nella riforma della diocesi, una volta uscito
dalla Compagnia di Gesù. Occorre tenere presente sin dall'inizio che Botero
s'impegna nella sua nota opera dal titolo emblematico di “Ragion di Stato” dieci
agili libri di circa 300 pagine, ove rimedita le tesi esposte nel suo “De Regia
Sapientia” in quanto ritiene essenziale combattere il machiavellismo per poter
riaffermare la stretta dipendenza di ogni potere politico dalla religione e
dalla chiesa (fu segretario di Borromeo) ed approfondire gli studi sulla
"ragion di stato", principalmente al fine di individuare un pensiero
politico-guida alternativo a quello cui si riferivano le tesi dei riformatori
(quello cioè di Machiavelli e di Bodin). La contro-riforma, dunque, necessita
di un suo punto di riferimento in materia di scientia civilis (teoria
politica), come aveva già fatto presente Minucci. Il fine e, per alcuni
aspetti, il metodo di Botero può solo apparentemente e prima facie, richiamare
quelli di Machiavelli. Botero infatti considera lo stato italiano come un
dominio assoluto e stabile sui popoli. La ragion di stato secondo Bottero altro
non è che l'insieme di tutti i metodi ("i mezi") e gli strumenti
necessari e opportuni per conservare e gestire questo dominio. Ma in realtà,
sia la sostanza del suo pensiero politico, che lo scopo ultimo cui esso è
indirizzato, sono decisamente divergenti, tanto che Botero arriva a definire
rea e falsa la ragion di stato machiavelliana e giunge a sostenere che il principe,
rispettoso dei precetti religiosi, non ha bisogno di leggere né Machiavelli né
Tacito. Si comprende, allora, come la differenza principale della
filosofia di Botero rispetto a quello di Machiavelli consista nell'importanza
assegnata alla morale – la ragione prudenziale -- come strumento di governo;
l'uso spregiudicato della “ragion di stato” di natura machiavelliana da parte
del governante dev'essere cioè temperato dall'applicazione di virtù, quali la
moderazione e la giustizia. Ciò, infatti, conferisce allo stesso principe quella
reputazione indispensabile per ottenere obbedienza raggionabile dai suoi
sudditi. Botero peraltro, afferma che solo i sudditi raggionabile siano sudditi
ubbidienti. In questo senso Botero propone una ferma lotta alle eresie, che comportano
dissidi fra i sudditi. Lo stato italiano deve essere confessionale e la ragion
di stato comprende, al suo interno, la garanzia dell'orto-dossia, la cui
curanella divisione boteriana delle funzioni dello stato italiano spetta alla
Chiesa. Ulteriore fondamentale differenza con Machiaveli è l'importanza che
Botero dà all'economia e alla demo-grafia come parametro per la misurazione
della potenza dello stato italiano. Botero, invero, non fu giurista e,
conseguentemente, pose l'accento sull'interesse. Pienamente conscio
dell'importanza della variabile economica, Botero prende ad esempio la Spagna,
incapace di promuovere manifatture e attività commerciali, come regno dalle
risorse coloniali praticamente infinite, ma destinato ad essere relegato in
secondo piano dallo stato italiano più dinamico nel campo dello sviluppo e
della crescita dell'agricoltura e delle attività produttive interne.
Nell'ambito della polemica anti-europea, che porta, tra l'altro, a
un'elaborazione del concetto di “civiltà romana” in opposizione a ciò che è
barbaro o selvaggio, Botero tratteggia il processo di incivilimento come
passaggio dalla pastorizia all'agricoltura, all'attività industriale e
commerciale; è un processo che richiede, inoltre, il costituirsi di governi
stabili e la promulgazione di leggi certe. Altre opere: “Della ragion di
stato, Venezia, Giovanni Giolito de Ferrari); “Delle cause della grandezza e
magnificenza delle città”; “Le relazioni Universali”; “I Capitani, Giovan
Domenico Tarino, Torino). Prudenza di Stato, o maniere di governo. Die Idee der
Staatsräson, Berlino-Monaco. Il primo scritto italiano di Oceanografia, Società
geografica italiana. Le origini della Statistica e dell'Antropo-geografia. Dizionario
biografico degli italiani. IMPERIUM ROMANUM. IMPERIUM Romanum, quod imperante
Trajano eratama pliſfimum in Scotia, extendebatur enim ab Oceano Hibernico,
ultra Tigrim: Oceano Athlantico ad finum Perficum: ab Athlante adſylvam
Calidoniam, pertingebatg ad flumen Albim, tranſi batg Danubium: primùm labi
cæpit bellis civilibus Galba, Othonis, Vitellii: iis enim temporibus
exercitus,quiin magna Britannia propre fidio erat,trajecit in Continentem.Hollandia
&vicinæ regiones rebels larunt, paucig, temporis progreffu, Imperii finibus
præfidio deftitutis tranfmiferunt Sarmarta Danubium: Alani ſuperaruntfauces
Caſpias: Perla acquifiverunt nomen & potentiam:Gothipervagati funtMoe fiam
&Macedoniam: Franci ingreſſi ſunt Gallias. Conftantinus Imp. reſtituit
Imperium antiquofplendori, ſopivit bella domeſtica,frenavit tyrannos, barbaros,
& gentes hoſtiles. Sedduofuerunt,qua Imperium multum debilitarunt:
primumfuit tranflatiofedis Imperialis Roma Conftantinopolim, quod factum
dipoliavit Romam, es debilitavit. Imperium. Luce enim clarius est,quòd ficut
plante ex nativoſoloin re gionesclimate & qualitatediverſastranſplantatæ, parumretinentvir
tutis naturalis: ita,res humana, præcipuè autem dominia & ftatus magnis
illis mutationibusperdunt fuum vigorem & ftabilitatem.Eam obcauſam Senatus
Romanus nunquă plebiconſentirevoluit, ut Roma Vejam commigraret, quæ
civitasmultògratior, & magisconimodae rat,quàm Roma,maximèpofiquam à Gallis
ruinæ tradita fuerat.Locus in quo Conſtantinopolis fitaest, adcòamænus,commodus
& fertilisest, utſit difficilimū, utvirtus ibialtas radices agat:non enim
toto orbe ter rarumcivitas eft, quamterra maremajorefavore profequantur.Illa
enim nuncſein fertiliffimos campos extendendo,nuncindelitioſas val les ſe
demittenda, rurſusgleniter in fructiferos colles affurgendo, nunc ſe flexibusin
mare inſinuando, rurſusá ſe retrorfum vertendo,abun dèincolis omne delitiarum
genus,non folum frumenta do vina canfert. Diceresibi Bacchum cum Cerere,
Pomonam cum Flora,pulchritudi nem cum fæcunditate certare. Postquam
mareminimopacie,plurimos gratos ſinus& tranquillos portus fecit,quorum in
folo Boſphoro (nec is tamen plus quàm 25.miliaria longus est ) triginta
numerantur, beni gno aſpectuquafiblanditur civitati & regioni,ducitý eo
magnisclaffi bus hinc annonamSyrie &Ægypti, inde divitias TrapezuntinasCa,
phag.Nunquam ibi fructusnecmeffes,nunc Thracia,Afia tunc defunt, Eoquog, tendit
tanta optimorum piſcium copia,quigyrosagendo &lu dendo, ferè domuscivitatis
fubeunt,utquiidnon viderit,incredibile judicet.Pifces enim nuncfugiendofrigus
hyemis,tranfeunt ex pontoEu-, xino, in aſpectu civitatis Conſtantinopolitana,
Propontidem verſus: nuncvitanteseſtatisfervorem, redeunt eadem via,qua
digrefierant. Duabus itag, anni tempeftatibus, eorum infinita copia
fummadelecta tione,cui commodum parest,capitur.Sunt ibi præterea Cidari &
Bar biſa fummèamæni & jucundiflavii,quiambo celebrem hunc finum
influunt,qui inter Conſtantinopolim & Peram est,dilataturg:dicitur is a
ſcriptoribuscornuaureū. Vtfinemfaciam:Noneft locus rerum af fluentia, enervanda
virtuti aptior,nec advirtutem voluptatibuscor rumpendam commodior: id apertè
demonſtrant fegnities&mollities majorispartis Imp.Græcorum,ipforumg
exercituum. Si amænitas ora Tarentine, &delitiæ regionis Sibaritarum
potuerunt ignavosfacere, &corrumperemores iftorum populorum:fidelitia
Capuana potuerunt emollire & extinguere ferociam virtutemg
Hannibalis,fuorumg,mi. litum: fiPlato diſcipline incapaces Cyreneos æftimavit,propter
fuam profperitatem: quid ſtatuendum erit deloco Conftantinopolitano,dulci &
oportunofupra omnes, qui in orbe terrarum funt? In ſumma,cùm nulla
resmagispernitiofæ fintReipublica,quàm magnanovitates: que resmajoridamno,
nedicam exitio potuitcontingere Imperio Romano, quàmadeò ingens acfubita,
prater omnium expectationem immuta tio? Nonplusminúsvefecit bonus ille Imperator,quàmfiquis
addan. dumanimali meliorem formam, cerebrum adgenua,aut cor è ſuoloco adcubitum
transferret. Secundum erratum Conftantinifuitdiviſio Imperiiſuisfiliis facta in
trespartes, quodcontigit anno Domini 341. qua ex magno Imperio tria fecit, cum
notabili diminutione authorita. tis da virium. Cùmenim ejus filii inter fearmis
decertarent, taliter ſe invicem confumpferunt, ut Imperium quafiexangue corpus
remanſe git. Quamvis autem Imperium aliquot vicibusſubunoPrincipe coa luerit,
diviſioni tamen adeò aptum remanfit, ut rarò acciderit, quin in Orientale
&Occidentale non fuerit partitum,ufq;dum Odoacer, Heru lorum
&Turingorum Rex, magno cum exercitu,Italiam ingreffus,in tam magnas
anguſtias conjecit Auguftulum, utpredefperatione feIm perio Occidentali
abdicarit, quod acciditanno 476.Hunnijam antea Danubium tranfmiferant:
Alaricus, Vandalorum Rex, Romam cepe rat: Vandaliprimùm Andaluſiam, &
poftea Africam: Alani Luſita niam: Gothimajorem Hifpaniæpartem: Angli
Britanniam: Curguna diones Provinciãoccupabant.Iuſtinianus Imp.res aliquantulum
in me lius reftituit,nam per fuos Capitaneosexegit VandalosAfrica, & Gothos
Italia,annosso. Sed parvotantùm tempore id duravit,nam anno 713. cæperunt
Orientale Imperium vexare, arma &herefis Mahumetana, breviſ tempore fuereà
Saracenis oppreſſa prater Syriam,Ægyptum do Archipelagum, Africa, Sicilia &
Hifpania. ' Anno 735.occuparunt quog Saraceni Narbonem, Avenionem,Tolofam,
Burdegalam,& re giones vicinas. Imperiumitag, Occidentalepaulatimprorfus in
dire ptionem abiit: Orientale autem adeò invalidum remanfit,ut vixali quot
vicibus, civitatem Conftantinopolitanam contra Saracenorum arma defendere,
multò minus Occidenti auxilium potuerit. Annoalla tem Chriſti 800.titulos
Occidentalis Imperii adeptus est Carolus Ma grises, Francorum Rex, quam rem
recenfet Ado, ViemeArchiepifcopus, verbisfequentibus: In die fan £to
nativitatis Domini, anteconfeſio. nem beati Apoſtoli, cùm gloriofus Rex Carolus
ab oratione furrexiffet, Leo Pontifex capiti ejus coronam impofuit,ficg,ab
univerſopopulo ac clamatum est: Carolo Auguſto, à Deo.coronato Magno,pacifico,Imperatori
Romanorum,vita &victoria. Divifum itafuit Occidentale Imperium ab
Orientali, hoc modo, ut Neapolis Sipontum Orientem verfus, cùm Sicilia Græcorum
effet, Beneventum Longobardis rema neret, Veneti neutri parti adfcripti,ſtatus
Ecclefia libereffet,reliquum Carclo Magno cederet. BlondusvultIrenem
Imperatricem primumin eam divifionem confenfiffe, deindeà Nicephoro
confirmatameffe. Ha buit itag, diviſio Imperiiinitium à tranſlatione fedisImperialisRoma
Conftantinopolim: crevit diſtractione in plures Principespervenit: ad
perfectionem affumptione Caroli Magni. Anteeumenim modus re
giminis,leges,magiſtratus, & confilia erantcommunia, tendebantg ad bonum
commodumg utriuſ, Imperii, tanquam membrorum ejufdem corporis. Etfiunus
Imperatorum moriebaturabſque filiis, totum impe rium manebat alteri: fed Carolo
Magno in Imperatorem Occidentis electo, nulla amplius fuit habita ratio Imperii
Orientis, nec Imperado lor Orientis unquam fucceffit in Imperium Occidentis,
nec ejus Im perator in Orientis Imperium. Permanfit autem Imperium Occiden tis
in familia Caroli Magnipaulò minus quàm centum annis: defe cit autem ea familia
in Arnolpho. Anno Chriſti 100 2.abfcripto omni jure hereditatis, creatio
imperatoris in libera electione ſeptem Principum, qui Electores nuncupantur,
pofita fuit. Ratio faciendi · Imperium electivum, quod eò uſque familia Caroli
Magni haredi. tarium extiterat,fuit,quòd Imp.Otho 111. filios non habuit: utgdi
gnitate perſona, qua eligeretur,Imperium firmius redderetur, Impe rium
Occidentis tunc valde coarctatum & concifum erat: nihilenim ci quàm
Germania &Italiæ parsfupererat: Pontifex fiquidem Roma nus bonam
Italiepartem poſſidebat: Veneti in medio utriuſqueImpe riipoſitivivebant in
plenalibertate, cum dominio annexo fuo ftatui; Regna Neapolis &Sicilia, qua
Normanni Gracis eripuerant, Ecclefia Romana feudatariafacta erant, primùm fub
Clemente Antipapa, deinde fúb Nicolao 1 1. & ejus fuccefforibus,qui
Antipapa faktum, propteremolumentum approbarunt: Lombardia & Thufcia,
partim pro IMPERIUM ROMANUM. propter diffidia Imperatorum, Henrici IV. &
V.Friderici I. &11. cum Pontificibus Romanis,partim propterpopulorum
ferociam, Imperato ribus pluslaboris&impenfa, quàm commodi attulerant.
Rudolpho Imp.itag,non folùm in Italiam proficiſci,cura non fuit (quòdeum in
fortunia, adverfagresfuorum anteceſſorum terrerent )fed &populis Italia
libertatem parvo precio vendidit.Lucenfibus nonconſtitit liber tasplusquàmdecem
aureorum milibus: Florentini eam fex aureorum millibus
redemerunt.Deficientibusitag, cumreputatione, viribus Im perii,inei
Italia,preter nomen,nihilferèremanfit. Vicecomites Medio lanenfes,&
fucceſſivè alii domini,aliis locis rapuerunt libi dominia,quæ potuerunt,abſq;
ullo imperatoris reſpectu,tantumg petebant inveſtitu ram fuorum ftatuum.Sed
Franciſcus, cùmfibi armisſtatum Medio lanenfem paraffet,parvifecitinveſtituram,
exiſtimansſepoſſe feipfum conſervare in ejuspoſſeſſione,iiſdem artibus, quibus
eum fibi compara. verat. Vltramontes ſubſtraxerunt ſeImperio multi Principes,
ita, ut Imperium prafentitemporeferè in Germania conclufumfit. Sedquòd dominia
in Germania uniformia non funt,defcribam illa, utfequitur: Aliqua dominia
funtquaſi membra Imperii,fed ſeparata:quamvis enim Imperiifint,non idagnoſcunt,
nec agnofcere volunt, ficut Reges Danie&Suecia,Dux Pruffie, Helvetii,
Rheti: alia agnoſcunt quidem Imperatorem proſupremoPrincipe,fed dietas
Imperiinon invifunt, nec contribuunt, feruntgonera Imperii,ficut Duces
Sabaudia, Lotha ringia, &Principes Italia: alia in viſuntdiatas,feruntgonera,ficut
principes &civitates Germania:ſed Rex Bohemie à Carolo IV.imp. à
contributionibusexemptus est. Alia dominia non folùmpenduntcom munes
contributiones imperii,fedquodplus eft folvuntimperatoritri butum
particulare:ea funtilla civitates, queImperialesnuncupantur: aliqui principes
Germania non folùm interſuniComitiis Imperiifed, Gelečtioni Imperatoris:
hifuntfex Electores, tres Ecclefiaftici, de tres Laici,quibusjungitur,li vota
imparia funt, Rex Bohemia,qui non ve wit adconvocationem (quæ diatadicitur)
nihilominus calculum in ele Elione stionehabet. Sed loquendo ftriétè:Civitates
&Principes Imperiipro priè dicuntur,qui dietis interfunt,& tanquam
membra uniuscorporis, participant bona &mala, emolumenta &onera. Hi
viventesferè mo dò Reipublicæ fimulunita;ad defenſionem communemhabent impera
torem procapite, quinonregit abſolutè,fed per Comitia, nec tamenin. dicit illa
abſqzprecedenti confenfu maximepartisElectorum. Delibe rationum Decreta,qua
edicuntur, irritafieri nonpoffunt, niſi peraliam diatam: fed imperator habet
plenam authoritatem mandandi execu tioni decreta. Imperatorita quod ad
dignitatem & præeminentiam Spectat,eft primusChriſtianorum princeps,tanquam
is,in quem ceſſere Jura Reipublicæ &Imperii Romani: ejus est protegere
Ecclefiam Dei, defendere fidem,procurareg_pacem,&bonum Reipublicæ
Chriſtiana. V I R E s. Cimo Vmvires Imperiifitæ fintin Germania, neceſſe est,
ut duo verba dicamus dehac ampliſima nobiliffimaſ provincia.lacet ferè in. ter
Oderam & Moſam: inter Viſtulam & fluviolum Aa, quiapud Grae velingam
fluit:& inter Oceanum Germanicum &Balthicum,Alpesg. Ejus figura
quadrata est,longitudine ferè&latitudine aqualis, oso.mi líariumquaquà
verſum. Maximè abundatfrugibus,pecudibus, piſcia bus: id experientia compertum
fæpè fuit. Carolus enim Viut Turcisre. fifteret, habuit fubfignisadViennam
go.peditum, & 35. equitum mil lia adIavarinumcontra eoſdem Turcas, nec
tamen caritas ibi experta fuit. Bello inter Carolum V. Proteſtantes peraliquot
menfes abundè fefuftinuerunt in campis ferèiso. militum millia. Divesquog, est
mi narisauri, argenti,omnisý generis metalli,ſuperatý,alias Europæ pro vincias:
natura quog, largitaest ei inregionibus longiffimèàmaridig fitis fontes da
puteos aqua ſalſa,ex quibus excoquitur ſalperfectum.Nec minusmercatrixest, quàm
fertilis. Indigena enim plusquàm ulla alia natio,vacant opificiis, faciunt
artificia miratu digna, ešta Germania tam probèà natura dotata, ornatag magnis
fluminibus, qua ubig na vigantur, utcommeatus &mercesfaciliter ex uno locoinaliumdeve
bantur. Fluviorum omniummaximus est Danubius, ab illo Rhenus, quiGermaniam à
Meridiead Septentrionem tranfgreditur, ficut Das nubius ab Occafu ad Ortum:
Albis oritur in Bohemia,lambit Miſniam, Saxoniam,Marchiam'antiquam:Odera oritur
in Moravia, lavat Si lefiam,duas Marchias, Pomeraniam.Wefara,Neccarus, Mofa,
Mofel la,lfara, Oenus, Varta, Mænus. (HicGermaniam in fuperiorem & in.
feriorem dividit.Superior est,qua à Mæno ad Alpes uſ feextendit.In ferior,quæ à
MænoOceanum verfus excurrit. Germania in pluresPro vinciasdiviſa est,ſed
precipua funt(loquor de iis, que viva membra. Imperii ſunt ) Alſatia,Suevia,
Bavaria, Auſtria, Bohemia (quamvis hæc multis privilegiis gaudeat, quacamab
oneribus eximunt) Mora via,Sileſia, Luſatia,dua Marchia,Saxonia, Miſnia,
Thuringia, Fran conia, Hafia,Weſtphalia,Clivia, Megapolis,Pomerania. In
dictisGer mania Provinciis,cum iis non computando Belgium & Helvetiam,&
ftimatur effecirciter decem hominummyriades. Dividitur populusin quatuor
hominum munera autftatus: rufticos nempe,qui nullo in nu mero funt, civitatum
incolas,Barones, Prelatos.Vltima tria genera con veniunt, faciuntg
ſtatusImperii. 'Inter Prelatos obtinent primum lo cum Archiepiſcopi
Electores:inter hos Moguntinus est Cancellarius Germania, fequiturColonienfis,
deinde Trevirenfis, Cancellarii, ille Italiæ,hic Gallia.Sequitur
ArchiepifcopusSaltzburgenfis, maximus do dignitate &divitiis. Epifcopus
MagdeburgenfisſePrimatem Germa nieinferibit. Bremenfis&Hamburgenfis
quog,multasjuriſdictiones habuerunt.Sequuntur deindeplus quàm 40.
Epiſcopi,& magnusMagia fter Ordinis Teutonici, &Magiſter
EquitumHierofolymitarum. Suns quog feptem Abbates, iig Imperii Principes. Inter
Principes feculares öchtinetprimum locum Rex Bohemia, qui est ſupremusDapifer:
Dux Seaconia Mareſcallus: Marchio Brandenburgenfis Camerarius: Co Palatinus
Architriclinus Imperii.Preter hos Principes funt34. alii Duces, inter quos
habent primum locumArchiduces Auſtrie.Inter Du ces imp. viiquog, numerantur
RexDania,propter Ducatum Holſatie. Sunt deinde
Marchiones,Landgravii,Comites,Barones innumeri.Ci. vitates libere (quarum
go.effe folebant,nunc funt circiter6o.que omnes feiplaspropriis
legibusregunt)ulterius obligata nonfunt, quàm quòd duasquintas partes, ejus,
quodin conventu conſentitur,contribuunt. Earumaliqua Imperiales dicuntur (ficut
diximus, quòd cenfum Impe ratoriſolvant, quicenſusin totumadIs-florenorummillia
accedit. Ha bent civitates fatisamplosreditus,qui utplurimumonera excedunt. Æ
ftimatur Imperium in totum habereplus quàm feptem myriades in re ditibus,
quodproreparvi momenti habendū non est.Cùm enim populi gravati non fint,utin
Italia, dantprater ordinarium ſuis Principibus maximafubſidia,quando id
requirit neceſitas. Imperium obligatúeſt, ſaltem
ex.confuetudine,praftareImperatori, quando Romā vadit ut co ronetur,20.peditum,&
4.equitum millia,fpacio oito menfium, diciturg ideò fubfidium Romanum. Reditus
civitatum &Principum laicorum, valdecrevere,tumufurpatione bonorum
Ecclefiafticorum, tum variis impofitionibuspopulo impofitis,quæcùm in Italia
ortü habuerint, facia le ſediffuderunt (exemplumenim malum creſcit femper )per
Franciam & Germaniam. Neceſitate exigente, contribuit Imperiú maximaspe
cuniarum ſummas,colligunturg extraordinariè: utex contributiones facilius
colligi poffint,eštGermaniain decem circulos diviſa, in quibus fiunt
conventusparticulares,proexecutione Edictorum, quæ in diætis Imperii facta
funt,&aliislimilibusincidentibus.Vires Germaniafunt abſq dubiomaxima:
copiaenimcommeatuum inexhauftaeft. Reditus ordinarii
&extraordinariipermagni,&modus colligendi commeatus
facillimusest,propter fluviori opportunitatem. Quod ad populum at tinet,
aſtimaturtotum Imperiumin exercitum educerepoſſe,tum equi tum,cùmpeditum
ducenta millia,cujus experimentum factumfuit bel lis,
quafupràcommemoravimus,docet idquog experientia. Abanno enim 1566.permultum
belligeratum eft in Francia,&in Belgio militi bus Germanis, quorum facta
funtfiuntg, adhucquotidie conſcriptio nes non minus frequentes, quàm magna,cüm
peditum,tum equitum. Vnoeodemtempore Wolfgangus Dux Bipontinus,duxitin Franciam
12.peditum,& Sequitum Germanorum millia,pro Huguenotis,erantý in ea (Francia)
adhuc alia quinqueequitum millia, quibus præerat Co mes Mansfeldiuspro
Catholicis. Guilelmus Naffavius habebat in Beli gio & finibusFrancia octo
equitum, &10.peditum millia dicta natio nis, &Dux Albanus tria millia.
Taceo de numero Germanorum, qui Flandriam ingreffifuntDuce Caſimiro,
&Franciam,eodem Duce an no 157 8.eorumg quorum parsannopreſentieamingreffa
eft in auxi lium Regis Francia: pars, ut auxilio effet fæderi Catholicorum
Frana cia. Vt extremammanumimponam:Cùmcontinuò belligeretur in di verſis Europæ
partibus,natio Germanica adeò numeroſa est, ut abſqzea nulla
ferèfiantexpeditiones.Non loquor hic de Flandris,qui aliquot vie cibus
exercitum 30.millium virorum collegerunt, iis, reftiteruntpøe tentie Francorum:
aut de Helvetiis,quos i20.peditum millia,adfuide fenfionem poffe cogere
aftimatur.Eorumaliquandoplus quàm 30.mil lia extraditionem miſerunt in
defenfionem ftatus Mediolanenfis, ad verſus Franciſcum 1. Francia Regem. Sed ut
ad inſtitutum reverta mur: Inter Germania peditesmeliores cenfentur Tyrolenſes,
Suevido Weſtphali:inter equites Brunfuicenfes, maximè autem Clivenſes de
Franconienſes: inter arma meliustractant Germani enfem,fariſſamga quàm
fclopeta.Valent Germaniſatispræliis campeſtribus,tam ad confli gendum cum
hoftibus,quàm ad iis refiftendum.Multum enim facit or do,qui ipſis
quaſinaturaliseft,inceffusgravis & firmus,armağıquibus #tuntur, defenfioni
apta:parum valent ad defenfionem munitionum, & propter corporum gravitatem,
&quòdutplurimùm ventricoſi funt, oppugnationibus inepti habentur. Sunt
itag, Germanipotiùsconftan tes,quàm audaces, feroces,quàmftrenui. Non enim
tentantres, in qui busmagnanimitaselaceat: in victoria occiduntfine exceptione
ætatis & fexus,in quofcung, incurzunt:fibellum in longum ducitur, aut obfi
dentur,dedunt fe præfegnitie:ſiin caftris degunt,morampatienternon
ferunt,necfciuntvincerecunčtando: fiprima molimina non fuccedunt ex
fententia,ſtant attoniti, caduntý animis: in fugam femel conjeéti nunquam
amplius recolliguntur: in eo præftant Hifpani omnibus na tionibus: in
Germanorum militiamagnifumptus faciendifunt,multa quog, moleftia eft, quòd
uxores fecum in bella ducant, tantumg abſua munt commeatus,uteum convehere
difficile,conſervare quafi impoli bilefit: abfg, commeatu autem nihil
boniſperandum est. Equi Germa nicipotiùsfortes quàm animofi funt, & cum ex
decem; qui in bellum ducuntur,octo ab aratro fumuntur,parum profunt: videntesg
ſangui. nem vilefcunt:contrarium accidit Afturconibus,iisenim crediit audas
cia.Concludendo rem: Peditatus Germanicus in fuo genereequitatu po tior
eft.Vires maritima Germania terreftribus minores no funt,quam. vis ea non adeò
in ufu fint,ficut terreſtres. Civitates enim Hambur gum, Lubeca, Roftochium,
& alie, habent heccentum, hæc iso.naves, quibusæquant vires Regum Dania
&Suecia. His viribus adeò fortis, potensõest Germania,ut unita nullum
hoftem timeat.Viribus,quas di ximus Germania,junguntur (cùm opus est)auxilia
Principum Italia, Sabaudia, Lotharingia. Hienim Principes in neceſſitatenunquam
de fuere Imperio. Bello enim Zigethano miſit Emanuel, DuxSabaudia, fexcentos
equites fclopetarios: Cofmus, Florentia Dux, triapeditum millia,quibus
ipfeftipendia dabat: Alphonfus 11. FerrariaDux, ipfe profectus est cumille
& quingentis equitibus, adeò probèinſtructis,ut in caftris melior equitatus
non eſſet. Eofe quoquecontulit Guilielmus, Mantua Dux,cum inftruétiffima
cohorte virorum.HenricusLotha ringus, Guifia Dux, ei expeditioni interfuit cum
trecentis nobilitate claris viris. Cumhis militibus &alis,quos adjunxit
Papa PiusViha buit Maximilianus 11.fubfignis centum peditum,&3s.equitummil
lia: Ordines Imperii ei in Comitiis annois00.Auguſte Vindelicorum habitis,
conceffèrunt 40.peditum,&8.equitum milliain 8.menfes, 20.peditum, &
4.equitum millia in tres annosſubſequentes. Meinecke: Der konservativste unter ihnen war
Giovanni Botero, ein Jesuitenzögling und Kleriker, der als Sekretär des
Kardinals Karl Borromäus in Mailand, dann im Dienste des Herzogs von Savoyen in
Rom, als Erzieher savoyischer Prinzen in Madrid und schließlich in gelehrter
Muße in Paris die politische Welt Süd- und Westeuropas gründlich kennen lernte
und durch seine vielgelesenen Werke, vor allem durch das ‘saggio’ “Della ragion
di Stato” politisch Schule machte und zahlreiche Nachtreter seiner Gedanken
fand.1) Denn er befriedigte so recht das Bedürfnis des höfischen und sonstwie
politisch interessierten Publikums nach einer leicht verdau lichen und
geschmackvoll gebotenen Nahrung. An Machia velli gemessen,war er ein
mittelmäßiger Kopf. Er hatte nicht wiedieserEcken und Kanten,an denen man sich
wund reiben konnte, und empfahl sich den katholisch-bigotten Höfen der Gegenreformation als ein mildes Gegengift gegen Machiavellis
Zynismus und Unkirchlichkeit, ohne daß man dabei auf das Nützliche in
Machiavellis Rezepten ganz zu verzichten brauchte. Sein Lehrgebäude stellt eine
aus dem Renaissancestil erwach sene, reich geschmückte Jesuitenkirche dar, und
sein Lehrton ist der eines Würde,
Sanftmut und Strenge richtig mischen den Predigers. Er bot aus dem Schatze
seines Wissens und seiner politischen Erfahrungen jedem etwas und konnte die
Freunde der spanischen Weltmacht und der Kirche ebenso befriedigen, wie die
Bewunderer der republikanischen Selb ständigkeit Venedigs. Man lobte an ihm,
recht aus dem [1 Wahre Katakomben
von vergessener Literatur der Medio kritäten tun sich hier auf. Vgl. über sie
die von außerordentlicher Belesenheitzeugenden,
geistvollen,aberetwaskapriziösenund wort reichen Bücher von Ferrari, Histoire
de la raison d'état 1860 und Corso sugli scrittori politici italiani 1862 (auch
viele ungedruckte Schriften werden von ihm behandelt) und Cavalli, La scienza
politica inItaliainMemor. delR.IstitutoVeneto17(1872). Im allgemeinen vgl.
Gotheins Darstellung in „ Staat und Gesellschaft der neueren Zeit“ (Hinneberg,
Kultur der Gegenwart) und das 5. Kapitel dieses Buches. 6* Kunstgeschmacke der
Zeit heraus, die dolce armonia, und katholische Monarchen empfahlen sein Buch
ihren Thron folgern.] Gleich zu
Beginn seines Werkes unternahm er es, das
neue, machiavellistisch anrüchig gewordene Schlagwort der ragione di stato
zu entgiften und ihm einen harmlosen Sinn zu geben. Ragione di stato,
definierte er, ist die Kenntnis der Mittel, die geeignet sind, einen Staat zu
gründen, zu erhalten und zuvermehren.Wenn man aberfrage,welchesdiegrößere
Leistung sei, einen Staat zu vergrößern oder zu erhalten, so müsse man
antworten, das letztere. Denn man erwirbt durch Gewalt, man erhält durch
Weisheit. Gewalt können viele üben, Weisheit nur wenige. Und wenn man frage,
welche Reiche die dauerhaftesten seien, die großen, mittleren oder
kleineren,soseidieAntwort:diemittleren. Denn diekleinen seien zu sehr bedroht
von den Machtgelüsten der großen, und die großen seien der Eifersucht der
Nachbarn und der inneren Entartung zu sehr ausgesetzt. „Die Reiche, die die
Frugalität auf die Höhe geführt hat,sind durch die Opulenz verfallen.“ Sparta
verfiel erst, als es seine Herrschaft er weiterte. Als Beispiel aber für die
größere Haltbarkeit der mittleren Staaten rühmte er vor allem Venedig. Leider
jedoch wollten die mittleren Staaten sich nicht immer begnügen, sondern
strebten nach Größe, und dann kämen sie in Gefahr, wie Venedigs frühere
Ausdehnungsversuche zeigten. Die spanische Großmacht warnte er in geschickter
Weise, die Freiheit Venedigs nicht anzutasten: „Brich nicht mit m ä c h tigen
Republiken, außer wenn der Vorteil sehr groß und der Sieg sicher ist; denn die
Liebe zur Freiheit in ihnen ist so heftig und so tief verwurzelt, daß es fast
unmöglich ist, sie auszurotten. Die Unternehmungen und Pläne der Fürsten
sterben mit ihnen; die Gedanken und Beratschlagungen der freien Städte sind
fast unsterblich.“ Nach dieser Anleihe bei Machiavelli) bekam dann aber auch
das Haus Habsburg [1) Calderini,
Discorsi sopra la ragion di stato del Signor Botero, Proemio, Neudruck 1609. 2) Principe, c.5: “Ma nelle
repubbliche è maggior vita, maggior] odio, più desiderio di vendetta; nè gli
lascia nè puo lasciare riposare la memoria dell'antica libertà”] sein Lob, denn
die Größe seiner Fürsten sei der Lohn ihrer hervorragenden Frömmigkeit. Brich
vor allem auch nicht, lehrte er weiter, mit der Kirche, es würde immer als
gottlos erscheinen und doch nichts nützen. Mailand, Florenz, Neapel, Venedig
haben bei ihren Kriegen mit den Päpsten ja doch nur viel ausgegeben und nichts
profitiert. Die Koinzidenz des kirchlichen und des realpolitischen Interesses,
auf der das ganze spanische System beruhte, war also auch ein Kernstück seiner
Lehre von der ragione di stato. Geh mit der Kirche, und es geht dir gut, ist
ihr Sinn. Er riet den Fürsten, vor jeder Beratung im Staatsrate die Sache erst
in einem Gewissensrate mit ausgezeichneten Doktoren der Theologie zu
besprechen. Dennoch war er weltklug und erfahren genug, um zu wissen, daß es
zwischen Welt klugheit und Frömmigkeit nicht immer ganz stimmte. Mochte er das
Wesen der wahren Staatsräson noch so sanft und maßvoll umschreiben und es den
Bedürfnissen der Kirche und der Moral anzupassen versuchen, so konnte er sich
doch, wenn er den Dingen ins Auge sah, nicht verhehlen, daß der kristallisch
harte Kern alles politischen Handelns, ganz wie es Machiavelli schon gelehrt
hatte, das selbstische Interesse des Fürsten oder Staates war. „Halte es für
eine ausgemachte Sache," schrieb er,„daß in den Erwägungen der Fürsten das
Interesse das ist,was jede Rücksicht besiegt. Und deswegen darf man nicht
trauen auf Freundschaft, auf Verwandtschaft, auf Bündnis, auf irgendein anderes
Band, wofern nicht dieses auch das Interesse dessen, mit dem man verhandelt,
zum Fundamente hat.“ In einem Anhange zu seinem Buche gab er schließlich
unumwunden zu,daß Staatsräson und Interesse im wesentlichen dasselbe seien: „
Die Fürsten richten sich in Freundschaften und Feindschaften nach dem, was
ihnen Vorteil bringt. Wie es Speisen gibt, die von Natur un schmackhaft, durch
die Würze, die ihnen der Koch gibt, schmackhaft werden, so neigen sie, von
Natur ohne Affektion, zu dieser oder jener Seite, je nachdem das Interesse
ihren Geist und ihren Affekt zurichtet, weil schließlich ragione di stato wenig
anderes ist als ragione d'interesse." 1) [1) Aggiunte fatte alla sua
ragion di stato. Venedig 1606, S. 67 f. ] Ein tieferes Nachdenken hätte ihn
irre machen müssen an der von ihm so salbungsvoll gelehrten Harmonie staat
licher Interessen und kirchlicher Pflichten und ihn in allerlei für das Denken
seiner Zeit noch nicht reife Probleme der Weltanschauung verstricken können. Er
ging dem aus dem Wege, wie es der praktische Staatsmann aller Zeiten getan
hat,und begnügte sich,die Fürsten zu ermahnen,keine Staats räson aufzurichten,
die dem Gesetze Gottes widerspräche, gleichsam wie einen Altar gegen den
anderen Altar. U n d a m Schlusse seines Buches schwang er sich gar zu einer
Ver urteilung der modernen Interessenpolitik überhaupt auf. Heute können, so
führte er aus, keine großen gemeinsamen Unternehmungen der Fürsten mehr
zustande kommen, weil die Verschiedenheit der Interessen sie zu sehr spaltet.
Einst aber, in den heroischen Zeiten der Kreuzzüge, konnte m a n sich ohne
anderes Interesse als das der Ehre Gottes z u s a m mentun. Die griechischen
Kaiser traten den Kreuzfahrern in den Weg. Was war die Folge? Die Barbaren
vertrieben zuerst die Unseren aus Asien und unterwarfen sich dann die Griechen.
Ecco il frutto della moderna politica. In einem späteren Werke führte er auch
den Verfall Frankreichs auf dieselbe Ursache zurück. Weil sich Frankreich mit
Türken und Hugenotten befreundete, erschlaffte der Glaube, denn „wenn man alle
Dinge auf eine unvernünftige und tierische ragion di stato zurückführt, löst
sich das Band der Seelen und die Vereinigung der Völker im Glauben."1)
Boteros Theorie konnte also als gutes Brevier für politisierende katholische
Beichtväter dienen. Man predigte die Unterwerfung des eigenen Interesses unter
die Ehre Gottes, man predigte ferner, was nicht immer ganz stimmte, die
Harmonie des eigenen Interesses mit der Ehre Gottes, und man konstatierte schließlich,
wenn es darauf ankam, bald achselzuckend, bald beklagend den Sieg des eigenen
Interesses über alle anderen Lebensmächte. Aber diese Brechungen und
Widersprüche spiegelten genau die politische Praxis der gegenreformatorischen
Höfe. Einer der Päpste selber, U r ban VIII., gab ihnen in den folgenden Zeiten
das verführe [1) Le relazioni
universali (1595) 2, 8; s. darüber unten] rische Beispiel, das Staatsinteresse
über das kirchliche Interesse zu stellen und den katholischen Mächten in ihrem
Kampfe gegen Gustav Adolf in den Arm zu fallen.] Nicht nur die kirchliche, sondern auch die humanistische
Tradition hinderte Botero, mit konsequentem Wirklichkeits sinne und rein
empirisch seine Lehre auszubauen. Er entnahm Probleme und Mittel der
Staatskunst noch in großem U mfange aus den antiken Schriftstellern, ohne sich
zu fragen, ob sie auf die modernen Verhältnisse anwendbar seien.) Freilich
verfuhren auch größere als er, Machiavelli und Bodinus, nicht anders. Diese
konventionelle humanistische Methode beruhte nicht nur auf der Verehrung, die m
a n d e m Altertume widmete,sondern auch auf der althergebrachten dogmatischen
Geschichtsauffassung, die alles geschichtliche Geschehen und die in ihm zutage
getretenen Staats- und Lebensformen als gleichartig und deshalb als immer
wiederkehrend ansah. So war Botero imstande, als beste und höchste Quelle poli
tischer Klugheit nicht die eigene Erfahrung, die doch immer beschränkt sei,
auch nicht die Information durch Zeitgenossen, sondern die Historien zu nennen,
„denn diese umfassen das ganze Leben der Welt.“ So sahen er und seine Zeitgenossen alte und neue G e schichte als
eine einzige Beispielmasse an, aus der man all gemeingültige Maximen der
Staatskunst herauszog, wobei man dann sehr relative Erfahrungen naiv
verallgemeinerte. Dabei fehlte es keineswegs an Interesse für die individuellen
Verschiedenheiten innerhalb der wirklichen Staatenwelt, in der man lebte. Die Verfasser der venetianischen Relationen gaben
sich Mühe genug, ihre Herren über sie zuverlässig zu informieren, und Botero
suchte dasselbe Bedürfnis zu b e friedigen durch eine groß angelegte
Staatenkunde,die er unter dem Titel Le relazioni universali 1595 herausgab.) Er
ver sprach hier auch über die Ursachen der Größe und des Teich tums der
mächtigeren Fürsten zu handeln, aber blieb dabei im rein Statistischen und
Zeitgeschichtlichen stecken und [1)
Vgl. namentlich Buch 6 der Ragione di stato über die Mittel zur Abwehr
auswärtiger Feinde.3) Den ungedruckten 5. Teil des Werkes hat Gioda in seiner
Biographie Boteros (1895, 3 Bde.) herausgegeben.] begnügte sich meist mit tatsächlichen Angaben über Re
gierungsformen, Finanzen, Heerwesen und Beziehungen zu den angrenzenden
Fürsten. Zu einer schärferen Charakteristik der verschiedenen politischen
Systeme und Interessen schwang er sich noch nicht auf. Auch der Bedeutendste dieser ganzen Gruppe, die an der Lehre von
der ragione di stato arbeitete, Boccalini tat es noch nicht. Aber er ragte aus
ihr weit heraus durch das per sönliche Lebensfeuer, das sein politisches Denken
durch glühte. Die Probleme, die ihn beschäftigten, und die A n t worten, die er
gab, waren von denen Boteros und seiner Genossen nicht so sehr verschieden.
Aber während sie bei diesen zu einer seichten Konvention verflachten, wurden
sie ihm zu einem wahrhaften, leidenschaftlichen Erlebnis und entwickelten erst dadurch ihren vollen
geschichtlichen Inhalt. Der Geist der echten Renaissance und Machiavellis lebte
in ihm wieder auf, aber fortentwickelt zum unruhig bewegten Barock. Er wirkte auf die Zeitgenossen vor allem als ein überaus
witziger Spötter, als ein Meister der Ironie und S a tire, der allen über den
Nacken sah und alle Menschlichkeiten erbarmungslos bloßstellte. Aber schon
hierin und erst recht in seinen nachgelassenen Schriften, die lange nach seinem
Tode erschienen, offenbaren sich dem Nachlebenden die tieferen Hintergründe
seines Denkens”. Meinecke. Il più conservatore filosofo e Botero. Segretario di
Borromeo a Milano, poi al servizio del duca di Savoia a Roma, come educatore
dei principi sabaudi e finalmente nel tempo libero a Parigi, conosce a fondo il
mondo politico dell'Europa e, attraverso le sue opere molto lette, in
particolare il saggio “Della ragion di Stato” fa scuola politica e trova numerosi
seguaci. [1]. Perché soddisfa davvero le esigenze del pubblico aulico e per
altro politicamente interessato alla ricerca di cibi facilmente digeribili e
gustosi. Messo a confronto con Machiavelli, e una testa mediocre. Non ha questi
angoli e spigoli contro cui fregarsi, e si raccomanda alle fanatiche corti della Contro-riforma come mite antidoto al
cinismo e all'infedeltà di Machiavelli, senza dover rinunciare completamente
all'utilità delle sue ricette. Il suo edificio didattico è una chiesa gesuita
riccamente decorata che è cresciuta dallo stile rinascimentale. Il suo tono di
insegnamento è quella di una dignità, mansuetudine e severità mescolando opportunamente
il predicatore. Dal tesoro della sua conoscenza ed esperienza politica offre
qualcosa a tutti ed è in grado di soddisfare gli amici della potenza mondiale e
della Chiesa, nonché gli ammiratori dell'indipendenza repubblicana di Venezia.
Uno lo loda, fin dal [1 Qui si aprono vere catacombe della letteratura
dimenticata della critica mediatica. Su di essi, vedi i saggi estremamente ben
letti, ingegnosi, ma un po' capricciosi e ricchi di parole di Ferrari, “Storia
della ragione di stato” e il suo “Corso sugli scrittori politici italiani” (si
occupa anche di molti scritti non stampati) e Cavalli, “La scienza politica in Italia
in “Memor. del R.Istituto Veneto. In generale, vedere la presentazione di
Gothein in “State and Society of Modern Times” (Hinneberg, Kultur der
Gegenwart) e il quinto capitolo di questo libro. 6. I gusti artistici
dell'epoca, la dolce armonia ei monarchi raccomandano il suo saggio deducendone
il trono]. Proprio all'inizio del suo saggio, intrapreso
questo disintossicare il tormentone
machiavellico disdicevole della “ragione di stato” e dargli un significato
innocuo. “Ragione di stato”, define Botero, è la conoscenza dei mezzi atti a
fondare, mantenere e accrescere lo stato italiano. Ma, se ci si chiede quale
sia la più grande conquista per allargare o mantenere lo stato italiano, si
deve rispondere, quest'ultimo. Perché si acquisisce con la violenza, si riceve
con la saggezza. Molti possono praticare la violenza. Pochi possono praticare
la saggezza. E se chiedi quali imperi sono i più duraturi, il grande, il medio
o il piccolo, la risposta è: il mezzo. Perché il impero piccolo e troppo
minacciato dalla brama di potere dal impero grand. Il impero grande e troppo
esposto alla gelosia dei loro vicini e alla degenerazione interna. Gl’imperi
che la frugalità ha innalzato sono caduti a causa dell'opulenza." Sparta
cadde in rovina solo quando espanse il suo dominio. Tuttavia elogia soprattutto
l’impero di Venezia e l’impero di Genova come esempi della maggiore durabilità
di uno stato centrale. Sfortunatamente, però, uno stato intermedio non vuole
sempre essere soddisfatti, ma lotta per le dimensioni, e allora sarebbero stati
in pericolo, come dimostrarono i primi tentativi di espansione di Venezia, ma
no di Pisa, Genova, o Amalfi. Avvertì abilmente una superpotenza di non invadere
la libertà di Venezia. Non rompere con una repubblica potente se il vantaggio
non è grande e la vittoria è certa. L’amore per la libertà in loro è così
intenso e così profondamente radicato che è quasi impossibile sradicarlo.
L’impresa e il progetto di un principi muoiono col principe. Il pensiero e la
deliberazione di una città libera sono quasi immortali. Dopo questo prestito di
Machiavelli) anche la Casa d'Asburgo ottenne [Calderini, “Discorsi sopra la
ragion di stato di Botero) 2) Principe, c.5: “Ma nella repubblicha è maggior vita, maggior
odio, più
desiderio di vendetta; nè gli lascia nè può lasciare riposare la memoria
dell'antica libertà], perché la grandezza dei suoi principi è la ricompensa
della loro eccezionale pietà. Soprattutto, non rompere colla religione, insegna,
sarebbe sempre apparsa senza Dio e tuttavia non sarebbe stata di alcuna
utilità. Milano, Firenze, Napoli e Venezia spendano solo molto nelle loro
guerre colla religione e non ne beneficiano. La co-incidenza di interessi
ecclesiastici e reali politici, su cui si basa un sistema, e quindi anche un
elemento centrale della sua dottrina della ragione di stato. Vai colla
religione e stai bene, è il loro scopo. Consiglia al principe, prima di ogni
consultazione nel consiglio di stato, di discutere la questione con la sua
coscienza. Eppure e abbastanza mondano ed esperto da sapere che non e sempre
giusto tra la saggezza mondana e la pietà. Per quanto gentilmente e misurato
puo descrivere l'essenza della vera ragion d'essere e cercare di adattarla alle
esigenze della morale, quando guarda le cose negli occhi, non puo nascondersi
che la durezza cristallina nucleo di ogni azione politica [Come già aveva
insegnato Machiavelli, e l'interesse egoistico del principe o l’interesse
colletivo dello stato italiano. Considera cosa scontata che nella deliberazione
del principe il suo interesse è ciò che supera ogni considerazione. Ed è per
questo che non ci si può fidare dell'amicizia, della parentela, dell'alleanza,
di qualsiasi altro legame, se così non è anche questo ha gli interessi di
coloro con i quali si negozia come fondamento. Infine mette francamente che “ragione
di stato” e “interesse colletivo del stato” sono essenzialmente la stessa cosa.
Il principe si orienta nell’amicizia e nell’inimicizie secondo quanto vi sono
piatti che sono naturalmente sgradevoli, resi appetibili dal condimento che dà
loro la cuoca, per cui tende, naturalmente senza affetto, da una parte o
dall'altra, a seconda dell'interesse del suo animo e preparano il suo affetto,
perché in fondo la ragione di stato è poco altro che ragione d'interesse. Aggiunte grasso alla sua ragion di stato. Venezia] Una
riflessione più profonda avrebbe dovuto sviarlo dall'armonia della ragione
dello stato italiano e dell’interesse dello stato italiano e del dovere etico e
religioso che insegna in modo così untuoso e coinvolgerlo in tutti i tipi di
problemi di visione del mondo che non erano ancora maturi per il pensiero del
suo volta. Evita ciò, come ha fatto lo statista pratico di tutti i tempi, e si
limita a esortare il principe a non stabilire un senso di stato che
contraddirebbe la morale, come un altare contro l'altro. Alla fine del suo
saggio si è persino mosso per condannare la politica di interesse in generale.
Spiega che il principe non puo più realizzare grandi imprese comune ad altro
principe perché la differenza dei interessi li dividono troppo. Ma nei tempi
eroici della repubblica romana ci si poteva unire senza altro interesse che
quello della gloria di Roma. Gli imperatori greci ostacolano i crociati.
Qual'era il risultato? I barbari goti e longobardi prima cacciarono i nostri
dall'Asia e poi si sottomisero ai Greci. Ecco il frutto della politica. In un
saggio successivo attribuisce alla stessa causa anche il declino della
repubblica dei franchi. Poiché il regno franco (l’antica Gallia) fa amicizia
con turchi e ugonotti, la fede si allentò, perché se si attribuisce ogni cosa a
una “ragion di stato irragionevole” e animale, si scioglie il vincolo dei animi
e l'unione del popolo.] La filosofia di Botero puo quindi essere usata come un buon breviario per
la politi servire i confessori cattolici. Predica la sottomissione del proprio
interesse alla gloria ed al interesse colletivo, si predica ancora, cosa non
sempre del tutto vera, l'armonia del proprio interesse con l'onore patrio, e
infine, quando si arriva al punto, si alza le spalle, a volte lamentando la
vittoria del proprio interesse su ogni altra forza della vita. Ma queste
rotture e contraddizioni riflettevano esattamente la pratica politica dei
tribunali contro-riformisti. Uno dei papi stesso, Urbano VIII, la loro questa
seduzione in tempi successivi [Le relazioni
universali] [Vedi sotto per un esempio di mettere gli interessi dello stato al
di sopra degli interessi della chiesa e di cadere nelle braccia delle potenze
cattoliche nella loro lotta contro Gustavo Adolfo.] Non solo la
tradizione ecclesiastica, ma anche umanistica impedì a Botero di ampliare il
suo insegnamento con un senso coerente della realtà e puramente empiricamente.
Ha preso i problemi e i mezzi di governo su larga scala. Comincio dagli
scrittori antichi senza chiedermi se siano applicabili alle condizioni
moderne.] Certo, anche quelli più grandi di lui, Machiavelli e Bodino, non si
sono comportati diversamente. Questo metodo umanistico convenzionale si basa
non solo sulla venerazione che l'uomo dedica all'antichità, ma anche sulla
tradizionale concezione dogmatica della storia romana, che vede simili e quindi
sempre ricorrenti tutti gli eventi storici e le forme di stato romano e di vita
che in essi emergevano. Botero sa quindi nominare la migliore e più alta fonte
di saggezza politica, non la propria esperienza, che è sempre limitata, né le
informazioni dei contemporanei, ma la storia di Roma, perché questa abbraccia
l'intera vita del mondo. Così Botero vedevano la storia della Roma antica come
un unico insieme di esempi, da cui si estrae una massima universalmente valida
di governo, per cui una esperienze molto relativa viene poi ingenuamente
generalizzata. Non mancava l'interesse per le differenze dei soggetti o
individui all'interno del mondo reale dello stato italiano in
chi visse. Gli
autori delle relazioni veneziane fecero di tutto per informare in modo
affidabile i loro padroni su di loro, e Botero cerca di soddisfare la stessa
esigenza attraverso uno studio su larga scala dello statio romano che pubblica
con il titolo di “Le relazioni universali”. Anche qui promise in procinto di
agire sulle cause della grandezza e del pool dei principi più potenti, ma
rimase bloccato nella storia puramente statistica e contemporanea e [1) Cfr. in particolare il libro 6 della
Ragione di stato sui mezzi di difesa contro i nemici stranieri.
3) Gioda
pubblica la quinta parte non stampata dell'opera nella sua biografia di Botero]
di solito si accontenta di informazioni reali su forme di governo, finanze,
eserciti e rapporti con il principe vicino. Non arriva ancora aa una
descrizione più nitida dei vari sistemi e interessi politici.
Anche il più
importante di tutto questo gruppo che lavoa alla dottrina della ragione di stato,
Boccalini non lo fece ancora. Ma lui sporge lontano da lei attraverso il fuoco
personale della vita che brilla attraverso la sua filosofia politica. I
problemi che lo preoccupavano e le risposte che dava non erano poi così diverse
da quelle di Botero e dei suoi compagni. Ma mentre si sono appiattiti a una
convenzione superficiale in questi, sono diventati un'esperienza vera e
appassionata e per lui solo in questo modo svilupparono il loro pieno contenuto storico. Lo
spirito del vero Rinascimento e di Machiavelli rivive in lui, ma si sviluppò in
uno spirito irrequieto e commovente Barocco. Ai suoi contemporanei apparve principalmente come un beffardo
estremamente divertente, come un maestro dell'ironia e della satira, che guarda
sopra il collo e smascherava senza pietà tutte le discipline umanistiche. Ma
già qui si rivela a coloro che vedeno dopo di Botero lo sfondo più profondo
della sua filosofia politica. DE IVRE CIVILIS. M. TVLLIO CICERONE IN ARTEM REDACTO
EXERCITATIO SCRIPSIT ILLVSTRIS IVii^^^P^LTOlArM
ORDINIS TORITATE PRAESIDE D. CHRIST. GOTTL. HAYBOLDO
SVPREMAE CVRIAE PROVINCIALIS ADSESSORE, IVRIS SAXONICI FROFESSORE
PVBL. ORDIN. ACAD. ELECT. MOGVNT. SCIENTIAR VTILIVM SODALI .AD
DISPVTANDViM PROPOSVIT ANNES GOTTHELF i^ORNEJVIANNVS
i I.VBENA LIPSIAE EX GFFIG^IA SAALBAGHIA DE IVRE
CIVILI A M. TVLLIO CICERONE IN ARTEM REDACTO
EXERCITATIO SCRIPSIT ILLVSTRIS IVi^^B^LTOI^M
ORDIXIS ;toritate PRAESIDE D. CHRIST. GOTTL,
HAVBOLDO SVPRKMAE CVRIAE PROVIXCIALIS ADSESSORE, IVRIS
SAXOXICI PROFESSORE PVBL. ORDIN. ACAD. ELECT. MOGVNT. SCIEXTIAR
VTILIVM SODALI A. D. Vr. INI. OCT. A. C. cI^LoCCLXXXXVXI AD
DISPVTAXD\'M PROi^OSVIT L V H E N A - t. V Sta T V S ilOANNES
GOTTHELF M^RNEMANNVS L I P'S I A E EX OFFICiNA
SAALDACHIA I R O AMPLISSIMO ATQVE
CONSVLTISSIMO «lOANNI CHRISTOPHORO * HORNEMANNO *
rf ' PARENTI OPTIM O NEC NON VIRO ILLVSTRI ET AMPLISSIMO
– BOTERO -- SERENISSIMO DVCI SAXO - VINARIENSI IN SVPREMO SENATV
ECCLESIASTICO A CONSILUS ET ILLVSTRIS QVOD ^VINARIAE FLORET
GYMNASII DIRECTORI ^ - PRAECEPTORI OMNI PIETATIS CVLTV
PROSEQTENDO HOCCE QVIDQVID EST LITTERARH MVNERK OBSEQVII £T
OBSERVANTIAE MONIMENTVM A V G T O R -DE IVRE CIVILI. M.
TVLLIO CICERONfi o^^f ' IN ARTEM REDACTO ^ "btinuit haec
fempet vxtOL do£^os honiaes constans opinio, atque etiam nunc in omnium, qui
dehis rebus optime existimare pofTunt, penitus inhaeret animis., quidquid
viiquafti iit poUtiorum difciplinarum, nuUis aliis, quam Romanorum libris ac
litteris contineri, nec vllam omnino efl*e artem ^que icientiam, cui non
iniignis lux ex veterum fcriptis adfundatur. Elgo quidem , quo faepius
lego praeftantiHimos veterum libros , eo magis, quam iam dudum perfuafam
mihihabui, iententiam
con- firmatam video, nuliam reperiri difciplinam, «ui maiora
fubfidia fuppeditet veterum fcriptorum le£Ho, quam iuris ciuilis
fcientiam '), quae tota fere ab antiquitatis Romanae cognitione
proficifcttor, nec vllum vmquam intei: omnes , quos tulit Latium, excellentiam
in- V - ; . genio- <) De commodis, (}ua£ ex
adfidua auAarum clafficorum ledione InAudium iuris ciuilis redundant,
gcneracimdixerunt Fridl Placnerus in Praef. fuper vtUitate leffienis
au^trum c/affictrtm im hure ciuili., I. Fr. Groneuii Okfer- va$t. Lipf.
1755. edic. prseminar et Ge. Frid. Kraufius in OiC de fraefiiiis
«ufin-u^f veterum in explicand* iitrt fraefmim ^mant, Vit^inb. r- .
''' geriiorum /CTiptores M. T. Cicer brie exftitifle vberldrem, in quo
tot tamque praeclara de iure litteris conngnata reperiantur.
Euoluaa enim, quaefo, diuini illius au£loris fcripta, non orationes
folum, -<# fed illa etiam, quibus artem dicendi tradit vel
philofophic^tra^at, et reperies in fingulis ipfius libris , ne dicam in
iinguiis fere capiti- bus, innumera iuris fcientiae vefligia , non
leuiter illa adumbrata, fed manifefta ac penitus expreifa *). ludae
mehercule molis volu- men confcribendum eflet, (i quis omnia, quae ad
iurifprudentiam fpe£lant, ex CICERONE coUigere vellet atque illuftrare
3). Quae quum ita (int, haud fcio, an operae pretium fa£luri iimus, ii,
qunm com- mode nobis obtulit et de litterulis noilris quaedam ,
qualiacumque iint, diilerendi (hidiorum noftrorum ratio, occaiione ita
vtamur, vt Ciceronls iurifprudentiam paullo copioiius explanemus, et,
quot quantaque ad ius ciuile in artem redigendum ipfe ftudia
contulerit, quantum in riobis iitum efl;, pertra£lemus. Sed valde
pertrmefco, ne quis hifce conipe£Hs alto fupercilio ac vultu magna
minanti mihi ..-:Si quis flty cui non facis ponderis habere videacur haec
mea oratio, age lo. Aug. Hachium , cuius merica de hiAuria iuris Romani
atque eleganriori iurifprudenria nufla vmquam delebir dies, eum igirur
excircmus, vr» quae modo diximus, hls audoritatem tribuat. Nam in WJf.
iurifpr. Rom. 11, 2, 4, 4). p. S46. edit. 111. Stockmanni omnibus ius
Romanum cum laude per- cepturis adHduam iibrorum Tullianorum le^ionem vcl
idro commendauir, quod in aliis veteribus au6loribus tot tantxeque
veteris iuris reliquiae» vcl potius copiae, quantae in hoc vno, haud
reperiantur. 3) lam olim Franc. Balduinus (in Epift. de opt. iur.
doe. et difc. rat. ad fludio- fam iuuentutem confcriptti et
praemifla Eius Catecbefi iuris p. m. 46.) tantuiQ otii fibi
optauit, vt lurisprudentiam Ciceronianam colligere, et eam, vci
inftituerat, in locos rommunes digerere pofTet; nihii cnim dignius
Rotnano iure, nikil ca tdccfliouc graciu; cflc poiTc.
r^ji ' ':
conSsfHmoecHnt : col n6n di£iusTl7!fts? Me qufdetn nofi jfu^i
laiil s magnis viris fumnn cum laudehuic &rgumento nau^tam efTe
ope* W .mck 4), coniilio tamen multum haud dubie diuerfo 4ib e6, quod
no^ bispropoiitum e^y ita, vt negotium noftrum paucis certe etfere
- obiter antehac tmtatum effe^ abfque adrogantia adfirmemus. Omnes
enim , quofcumque infpiciendi perluflrandique copi& . nobis USoi
erat»^in eo maxime elaborarunt> vt oftenderent, G- Vid. Anr.
Scbultlagil Or./4r imrifpntdentia Ciceremis^ calci fubiefta Dj^//.
^:^ Fr«n«qa. 170». 4. ian^m cditarum» ct recufa in OpufcuKs ad bijitritm
imrii xx. ftrtinentibust a lo. Lud. Vhlio colleAfs (Halae 173$.) p.
309. fqq. Henr. . Mtxi.\ Keftneri Difl*. Cicer» Iurec^nfuttus in
Tr. de Officiis. Rinrelii 1719. 4. Uenrici Brokes DiflT de Cieerne
iuris ciuilis tejy »c interpretet fpecistim d». •"'"'' Cicerene
ICt9. Vitemb. ijjg. 4. Eiufd. Diff. de Cicerone iuris ciu. trfiesc-
*\ inttrprete t fpeciatim in fuis de Inuentiene Ithris. ibi<L 1739.4.
Efafd. DiiC de Cicerone iuris viu. tffle ae intei^pretep fpeciatim
i» primo de erattre iibri m cap. I — 3g. ibid- 174 1 4. Henrici
Conftantini Cra< Specimen iurifprmdentiae Ciceronianae f. ^iceronem iujiam
pro A. Caecina cauffam dixijje. L. B. 1769. lo. Olivier Diatr. de
iurifprudentia Ciceronis; in £i. Ciuiiis doQrinae anaiffi
pbilofopbica (Rom. 1777.4-) P* 97—136. lof. Lud. Em. Puttmaimi Obf.
de vtHitate e leStione fcriptorum M. 'Tuilii Ciceronis phraecipueque
eratio- num TuiJianarum in difciplina iurit erimina/is capienda ;
in Ei. M^cellan. c 19. Quibus addcndi funt» qaos Ciceronianae
eniditionis praeconet magno numero recenfct largiflimus eiufmodi
fcriptorum promus condus lo. Ge. MeufcUus Vir III., in BibHotb.
Hifi. Vol. IIII. P. i. p. «77. fqq. Multa qaoque er praedara diuerfls
in locis dc Tulliana iuris fcientia protulic Conyers Middleton in
praeclaro opere, cui tituius eft: Hijiory of tbe Lifd ' of M.T.
CicerO' London 1741. 4. quodque in vernaculam linguam tranfta- lit
Seidelius. (Gedani 1791.IIII. Vol.) At ilfud miratus fum, qui fa^um fit,
quod in eo capite, quo de Ciceronis doflrina ct erudicione (Vol.
IIII. ^ p. 3'}- fq. verf. Seidel.) ^bferuauit pluriroa lcvhi
digniflima auftor elegan- tiffifflu^ ne verbulum quidcoi dixcric de
cius i)uis fcicncia. oeronem in iure non futfTe hofpitem »
vel plura ac praeclara in eo reperiri, quae ad ius Romanum expiicandum
inprimis faciunt; illam vero quaeflionem, quot quantaquede
iureciuiliaddifciplinaedigni- tatem euehendo eius merita exdant, vel
iicco pede tran(ilierunt, vel ieui tantum bracchio pertralanint. Quae
quum ita fint, nuUus profe^o dubito , quin nos non prorfus inanem in hac
quaeftione pertra^anda operam infumturi ilmus. Quod quidem ii
cognoue- rimus, fieri foriitan potefl, vt, quaepingui, quod aiunt,
Minerua adumbrauimus^ lineamenta iatius aliquando dedgnemus , et quan-
tum ad vniuerfam iurifprudentiam augendam et in aitius promo« vendam
contulerit Gcero, copiodus exponamus. Quod vero ad hafce (ludiorum meorum
pnmitias adtinet, eas omnium, qut Ittteris fauent, quibufue et leuia aut tenuia
haud difplicent, oculis lu- benter fubmitto ac fpefn foueQ certi(Timam,
fore, vt aequi exifli- natores et erga iuuenis mode/lam imbecillitatem
indulgentes lcri- ptiuaculae coaiilium Hnt refpe^uri. A dgrcdienti
autcm mihi hunc locum animus hon eff adnm agree et putida ditigcntia Arpinatis
vitam confcribere; quod prorfus cft ab inftituto meo aRenura. Id tantum
adfequi voto , quod femh per niihi in fummos homines ac fummis ingeniis
praeditos intnenti ^ coniidierandum efle vifum eff, vt ex qnibufdam quafi
dcHneamentis', , quo fiicrit ille a natura fa^s ingenio, oftendam, ct,
quod poffini^ inueftigem , quibus initiis ac fandamcntis haec tanta
rurrfprudenr . tiae facultas excitata fit, quibus praefidiis adiutus, qua
ria ac rtt- tione indu^us ad id legitimae fcientiae faftigiura penetrauerit.
Iti enim fiet, vt, quo diRgentius haec cdnffderemusr ac perpendamus
fingula, eo ditucidius adpareat, quantum ad artem noftram augeny dam et
ampKficandam contuterit atque adeo conferre potuerit. Inter omnes fere populos
maximam curam conftat educanda i^eris adhibuiffe Romanos 9). ProDe enim
gnari, quantum iiiter- ^, quantunai^|EEfemomenti habeat tenelios adhuc
animos veluti ce» reos fingere et ad bona omnia^conformare, puerilem
praecipue aetatem cura fua amplexi funt, et id in primis ipedarunt^ vt
fincera atque integra vniufcuiufque natura toto ftatim peiQore a di ipe r
et ar- tes honeftas, et, ad quod maiora haberet adiumenta, in eo
mice eiaboraret. Eodem modo TuHium noftmm inftitutum fuifte, vel ex
eo iam colligi poteft, quod eius pater, qui, quum eftet infirma -
valetudine, in Arpinati villa remotus a proceUis reipublicae aetatem Cf. Taciti
Diai. de 6raf, a». Wz tem«ge^t
inlttteris, <]^dquid dabatur otii, id f«re4ii hoe -enifM conrumrerit
^). lam a primis, vt Graeci dicunt, vnguiculis, iis, quaeL. Graflb
placebarit, artibuset ab iis do£loribus, quibus ille vtebatur^ eruditus
7) elementa iitterarum celeriter percepit, tan-- tumgue adtigit do^rinae,
quantum praeftantidmio quifque ingenio praeditus prima illa puerili
inftitutione potuiffet. Ac fi verum eft, quod fafepius prodltum legimus
et ipfi obferuauimus quidquid suscipias imprimere, id facile recipere teneros
inuenum animos, noa eft, quod dubitemus, quin puerulo iam amor quidam
iingularis ear rum litterarum, quibus ftudia forenfia aluntur, infitus
fuerih Confideret enim aliquis eius ingenium a fimilitudine paterni
haud abhorrens, ponat fibi ob oculos aui magiftratum fumma cum
laude gerentis exemplum 8^, expendat educationem Crafli, quem elo-
quentium iurifperitiifimum vocare Cicero ipfe 9) non dedignatus cft,
arbitratu inftitutam. Quae fi quis fingulatim percenfeat, con- iefturain
noftram haud vano niti argumento, inficias fane ire non poterit. £x
vmbratili ac dAneftiCa difciplina Romam fecontulit, eo con^lio , vt
mirificum et ad omnia fumma tutum ingenium, quod in vnius vrbis , quae
naibentem ^remio et (inu fuo exceperat^ gyrum fe compellinon fuftinebat,
maiorem inueni^ret aliquem cam- pum, in quem excurreret, roaius, in quo
Jfpeilaretar , theatrum. Incidit quidem tunc temporis in funeftum ac
perturbatum reipubli- cae ftatiun, quo vrbs, imperii domicilium, variis
fa^lionibus, servire 6) de leg. 8» X. de prst. i, i. Ep. ad Dim, if,
4. de ttrmt. 3, l. t) de leg. a, i. }, i6. de wat. fl, 6<.
- - • 9) Brut. 1%. vi» phrictis, iHbortbat, emmli
adlitttt«»Tnrce amnitnti «doer- tfts, felix vere et anreum feculiim , quo
omnis Graeciae {apientta tam feuera lege excolebatur, vt, quod ibi fuerat
exercitatio ingenii, liic in femen conuerteretur publicae vtilitatis
'<>). Quam ob reiii dolefcentes prirots annis Graecis iitteris dare
et grammatico^ rhetores, phildfophos Graecos audire folebant ").
Quum eoim ve- teres ea, quam Plato iam fbuerat, imbuti efTertt opinione,
omneni ingenuarum artium do^inam Vno quodam focietatis vincuio
conti- n'eri **), nihil profedo prius neque antiquius habuerunt, quam
vt iuuenes, iiue ad rem militarrai, iiue ad iuris fcienttam, iiue
id eloquentiae ftudium fefe adplicarent, id non fblum agereot, fiad
omnem etiam liberalis difciplinae orbem emetirentur. Adeam quo-
<|ue^fententiam (ludiorum fuonun rationem adcommodauit Gcero ; de quo
fi quis dixerit, tanto eum ingenio fuifle, vt, quaecunque effent in
litteramm cognitione pofita, intelligentia comprehende- rit, fi quis
commemorauerit^ tanta eum induftria exfMtifk, vt, quidquid librosum
philofophi Graeci reliquiflent, qui in aliqUo fiumero haberentur, qmdquid
oratores, quidquid hiflorici iitteris coniignaflent, quidquid.cecinilTent
poetae, ideuoluerit ac fhidiofe legerit, ii quis adfemerit, antiquitatis
memori^m paene omnem, maximarum gentiura ac nationum res geftas cognitas
eum habuiffe, ' lo) Cf. Seneca mPrae/. L. i. Controu. nQtiidquid,
Inquic, Romana facundia habet» quod infolenti Graeciae auc opponac aut
praeferac, circa Cicerpnem effloruic: omnia ingenia, quae iucem flndiis
nollris adtuleruflt, tuncnaca II) Bfut. 40. dfg off. I, I. Sueton.
de el. rbet. i. et ^* riv>i^* hicy inquam, qui omma haec illi
Tindicare non dubitatet, nimias lorfitan laudum TuUianariun videretur eSe
buccinator. Nemo Tero Cicesonem adtigit, qui dubitare, quin ita fit, vUo
modo poC- £t '3). In primis vero in philofophiae (ludio, non eft £aciie
di^hi^ quantum excelUierit '4) ; quani non a limine, vt dicitur,.
falutauiti fad ad intima eiufdera cubilia penetrauit, et vnamquamque eius
par- %em ita adcurate diiigenterque perluilraiut, vt Ulos, qui in
vna phiiofophia quafi tabernaculum vitae {iiae coUocauerant,^ fere superaret.
Legatnr lac. Periaonii Orttib de deeronts eruditione et indii/fria
(Frane^a. l6%i.) p. l^ {qq. ^ ii. -Non fe e porricu Zenonif, atit
Lyceo Arlftoteir», lat liortis Epicuri, fcd cxAcadcmiae fpMJis
maxime exiiHie dicit Or. |. Ep.adDiy. 1,9. Nempe ..,«:. Acadcinicae
philofophiae ezat, de ooinibus zebus in vtranque partem difpu-
tare, quod ad forcnfcm etoquentiam fane valebat quam plurimum,
nequc ' / ad angufte ec tcnurter, ftd cleganccr, copiofe ct ornate.
Sed philofophiam f^/ aon folum tamquam eloquentiae miniftram
amptexus *eft, quae arma ipfi »r«, iuppcditarc poflcCt quibus
aduerfarios, hifce fubfidiis deftitucos,. pEoftcrncnt ,.' valeret,
vcrum etiam ad ituifprudentiac Audium tranilulit, vt haec, philo-
Ibphiae opcra fubjeuata, paullo magis fe commoucrct, ec tamquam
carncm, ' fuccnm, iaaguinem coioremque adciperet. Cuius focietatis
illu/Vre arga« ■lentum ipfe exftare voluit eo loce {de Itg. i, (.), vbi
non a psactoris ediiffco» Bcquc a XII tabulis, fed penitus ex
intima philofephia hauriendam iuris difciplinam putat. Qycm autem
morcm dilFcrendi Socraticum in omnibus libris fequutus eft, eumdem quoque jn
iuris fcientia adfiibuit. Vbf- cumque cnim de iuris quaeftionibus
vel controvcrfiis fermo eft, ab vna parte fententias , et quibus
nituntur rationes fumma arte difponit, his vero jka difpofftis,
contratias opiniones earumque argumenta ita tn aciem educit» vt
quiuis ex earum coniliftu, quid in vtraque parte minus firmum, quid
verifimiltus (ir, facile intelligere pollit. Ci.de I»u. s, a — 9. Orut.
Tart. 14. cc 34. Plura dtbunt, qui de philofophia Doftri ex
iolUcuto coounentati .li- •^ji-:
rar^. Omnibus lis itaque do^lrims , quibus aetas pilerilts
inleiy imari adhumanitatemlblet, -atque omnium ik)narum artium ormi^
v mentis iitflrudus in forum , tamquam in ifAcra ac puluerem, Mu*
€txis eft, rt eius auditor efTet et fedator iu^eiorum. IVes Tiimiruni Hs
temp6ribus artes fuere, qwie ad furoma quaeque viam muniebanl^^ ars
dicendt, iuris fctentia atque arma ^i). Ek quibus -quas ^potiifi* , mum
amplexus fit nofter, facile ^uhns potf ft comedura adfequi', qui eius
mentem penitus introfpeut. Qunm enim-omnes tFahaiiiur' - iandis ftudio,
quid mirum, H Qcero, qui, quum amore gioriaenimis :- acri fortafle neque
proHus inhonefto ftagraret} nihai invtta ezpe*. tendumputabat, ntd
quod||0et cmn laude et cum dignitate coniua* . Chim, eumdem, quem optimi
ac nobilHnmi, petere curfum laudts, atque in iis elaborare yeiiet ac
deiudare, quibus maxima expofita / erant vel ad gratiam vel ad opes vel
ad dignttatem praemift, quae- que in omni libero populo femper fleruerunt
fefnperque dominatae funt "'^). Aiia qnoque ratio tn retpuMicae
ilatu ac temporibus, quaeillum exceperunt, quaerenda «ft. . QuaeqHtdem^
dUig^ter tnfpidamus, tnuememus, i^mpubiioam Romanam tunctemporis
. -ciuiH- " Xfunt, Gautier de Siberc in Dlatr. cui
litulus: Examen de U PblUftftU d« '^'?'Ciciront inferta AUm. deVAemd. d.
hfcr. XXXXI.p.466. fqq. ettn ^ians ^; '.^ C Meinc»rfius, VirlU., inOr.
degantiffim; ac dodi/fimc fcripta de pbtlefitphis ^^ Cicerenii eiufque in
vniuerfam pbilofopbitm meutis^ quae exibt in Opuftc. . ' pbilofophlcis
varii argumenti (Lipf. 1777.) T. i. p. 374. Add. Middletoni /. /. T. 11
II. p. 3)o. fq. ex verf. SeideU Xxji) BKttf^4s. Cf. quae egrcjie, vt
oronia^ hanc in rem «bieruauic Cbr. Gtr> viuf. Vir Celeb., ia den
pbilofopb. Anmerhungen itnd Abbandlungen zu Ciee- '■ •' r#V BUcbern vn
den Pflicbteh T. f . p. aa j fim. 41.
^ro Afor.<t. <Aj;^a, 19. .i;^ *v.-v^*^ >^^f'<jj^ ?&?<
, m - ciuilibus di^Hdik ac bellis mirum in modum
conquafTatam fuiflc et Ubefa£Utara. Ac primum quidemGracchanae
Druiianaeque atque Apuleiae feditiones rempublicam conturbauere, quibus
ea femina fparfa funt, vnde bellorum ciuilium, Sullani, Mariani atque
Cinatr oi formidolofa fufeitata eil flamma, quae ciuium fanguine
reftiob guebatur. In tantis tenebris atque parietinis reipublicae omnia
bo^ oarum artium fludia iiluerunt. Forum moeilum etvaftatum, muta
i^tque elinguis curia, fides venalis, iudicia diflbluta, perdita, num*
maria. Sed non dilatabo orationem meam ; etenim poffet efTe in- finita, a
mihi liberet commemorare iiios turbines, illas procellas ac ciuiles
difleniiones, quibus fatis ^^nter deplorandis alicuius eorum, qui tunc
occubuerunt> opus eflet ingenio. Ad Ciceronen^ vnde deflexa efl noflra
oratio, reuertamur. Qui quidem quiim omnia haec adfpiceret, quid mirum,
fl eius animus, veterum ie^ione innutritus, ac fortiflimorum virorura,
quoruiQ imagines et ad in- tuendum et ad imitandumi expreflas reliquerunt
et Graeci et Ro> mani fcriptores, exemplis incitatus eo adduceretur,
vt omnes curas, omnes cogitationes, omnes vigilias in eo collocandas
eflTe putaret, vt flrenuiflimus iibertatis vindex, ^umanitatis acerrimus
propugna- tor, iufliflimus cauflarum patronus, ii4|^roborum adcufator
ai|da- cifHmus atque fortiflimus infontium defenfor euaderet. Nihil
enim pulcrius, nihil honeflius, nihil dignius cogitari pofle
putabat, 4)uam improbos adcufare et miferos calamitofofque defendere
^7). Quem quidem finem flbi propofltum quo plenius adfequeretur, in
Diuintt. in Caecil. s, so. ai. PbiUpp. i, }. pr» ClMeni.%7, lo prinus
vero lc^u digiuffifflus cft locu^ qui cxftat i^ O^ a, 14.
-"^0 ;i fo^Xeiiiikpvit ^^m^^S>tt»ttm^M^6per9my
vt et trtem dicendt «| v iuris icientinin, iiiH} qur tegttima defenfio rel
adcufatto, in foro tfinr| ilituenda, nuUo modo fuccedere poterat,
ar^flSKio vtnculo eoniuii^ gtoret ^^), Quam ob rem, neXhemidis&cra
illotis mantbus adttQ#; geret, Mtm 9 paruis leges decenrairales» a
quibus, tamqqam pobUǤ pTiuatiqueiurisfonte, iioifprudenttae ftudium
aufpicahdum pufetf ^ bant vetetes, edidieit i9), atquein fcholis
rbeUvuin» vt tam ih dttiTl fendendo, quam ui adcufando ejcerctt:«tur ,
fumma induftria M^ • l| I I
I I I I III lll# -;. /" ig) DHliiifta eraht iit tempbribtts
ihter fe ittrirconfs!r»ram ct pttronoKMi^V •^fi^' mnoi»-, qmmquam haud
decranr» qui Ttnim<)u« <umma otm 1^4c &^ilii^^' .| rcnt, vcluti
}A. Porcius Cato (^Er «r^/. 1, ]7» ct K.lJ.)* P- Crafliis DtueaO^;; ' .
ar««. I, 37. ^rc/. 36.) i Q. Mucius Scaeuola pontifex (BrM. |9. et 40.),
h, T CraiTus (2?r»/. jg. 39. 40.) etSeruius Sulpicius (ffrivr. ^i.ec^a.).
Noftmrt 'ft*" Vero Vtnmqoe perfonam pari com fiutdc faftiaoiffe,
qdeanadmodoa miur* •$^.,fi|m^i/u4:de oratore diuinum opus ioquicur, ia
tf^^^iaih^ ^ngnthr»^^ locorum» vbi iis, qui ^crfeflt oracorct ellj:
VBUiK»lPnt Gp^tUmem cll^^- necCiuriam ipfe prbfefTus cfl, tcftimonlis
aDuadc ihtclligitur. Vid. md ^ HerHm. u li. de hutnt. i, f. Ormt. Pitrt.
«t. (it Or. t, $» 6. %. 14. 41. >^. Or, |. 41. 43. Brut. 93. Hinc
accrrtaic perftrinxic cauilanim patrenos« qw t\ huc^tque iiliic ofagrui
cum cacerua in foro voJitareqc, praefidium cUeQC»i' bus atque opem amicis
et ctitnAis prope ciuibus lucem ingenii et confilii •(^' ftti
porrigerent, qui vero ignari plane legum in maiorum inftitutis
-faacfit»*^ rJe;ii^8C,'ir quaHeiure Incidcrct"dtt6itacio, ad ICtoram
prudenciam anffSi geren^ a quibus liaflas ameiuatis adciperentf qnas
oraeeriis kccrtis et virU' A' busLtorqttcreiu: Ttpic 17. de Orat. i, {7.
Quac ICti ct oratoris offici» .'^: quamquam Corn, van BfnJcershoelc Oiffi
iar. R»n$. 7, 6. Aib Impcratoribua >«».. coniund» fuiff^ iudicat :
tamcn .contrarium, de qno cx Qjuinftil. fnfii.Ormt»' la* 3. nec
non-Ittucacl. 7«4af^ ciniqne Scholiaftk conftaro potcrar, ftlidi» racionlbns
euindt lo.Guil. Hoftmannus in Prmef' Aegitlii Menmgii AniHWit^' •: ti^s
intitciuiUtprmemiffm, Cf. Schultingii Qr. M: p. J4f, > ^n 19) de teg.
a, aj. Liu. J, J4. Tactt. .«^. J, aj. ' i •Mf^< Ihoque ftudio
verfatus «ft >•). PoftiBaquam rero in foram ^eduBtit erat, iuxta
prifcum Romanorum morem ad Q, Mucium ScMuoIam augurem, Timm i^s ciuilis
intelligentia atque "omni prudentiae genere confpicumn fe contulit,
quem fenem iuvtenis ita' fe^Htus eft, vt, quoad poftet, abeius
latere'nunrquam decederet, «t^ quae itb eo prudenter diiputata eftent,
fedulo menuMiae mandaret omnta ^>)i' (I.UO mortuo fe ad^. Mucium
Seaeuolam pontificem adplicuit, ^i quum ea aetate iurifperitorum
elequenci(SmiK putaretur ^% Tullium in primis exemplo fuoexcitafte
videtur, vt eloquentlam cum iuris fcientia coniungerei , eamque indotatam
atque incomitatam yerborum dote locupletaret et 4}rnaret *3). Magni ifti
viri, in duorum familia iupifprudentiae laus erat hereditaria, et er^quorum
ludo, tamquam ex equo Troiano, multi prodierunt lurecorifulti, guam(}uam
nemini fe {id docendum dabant, domi tamen in hemicy- dio fedentes aeque
ac tranfuerfo foro obambulaotes admittebant adolefcentes difc^wii
eupidos, vt, quid conMentibus refj)0nde-* rent, quas aQiones, exceptiones
et cautiones in quauis caufta com- jnendarent, quibufque rationibus in
his omnibus vterentur, .audi- fent , eaque omnia libi in futuros vAis
enotarent ^4). Ificredibi- lis tamen^quaedam ingeniij quod (ibiplurima
deberet, magnitudo . 4ion jU) Brut. 36.
et 89. A Amick. u quem ad locum c£ Wetzd. ^p. iif. ' Plu« ''tarch- ia vks
Cu-.c.J. 4]uum.Ciceroneai PhiloiM Academico operam naua/re .
•^ommemoraneC, haec addk: ,i(ta i$ r$t« wtp MetuuB» avSfmtt tvmv troMrtme
. xKi ntnfmm/tt tnt ^Mhnu $ts tiix$igim$ rm $oimv .m^$MtT$. •j>'i >^ >
^. '^* ., a4) ^non magnepewf clefiderauitaherit» iflfeefadiendo
lalJdrfiBnrWfia- duftriam '^), fed ipfa iuriiperitbrum et prudentum de
iure ciw^ fcripta etcommentarios percenfuit^ in iifque quum in iuuenili
tuqi ' in matura aetate fingukrlem -quamdam iueuttdikatem ae
deleflafiqi^' , nem fefe.reperi0e teflatum reliquit *^). Sed non in
patrio foltiitt - iure cognofcendo fubftitit , verumre^am^ quum ftudiorum
eat^ Athena$, tamquam ad mercafeuram bcmiiruM ar^um, fe con£ert«i|[
actotam fereGraeciam peragraret, omne fuum ftudium in Gra»* ' carum legum
hiftoria, funmifte prudentiae fonte Tberrimo, nonu* x^atim Lycurgi,
Dracoms et Solonis inftitutis percipiendis peAiil^ i^x iif<}ue, quod
iuri Romano explicando maxime inferuiret, d«*' promfit«7). Qqantum autem
iam ineunte aeti^e in iurisibienti» prpfecerit, luculenter teftantur,
quos de inuentione fcripfit admo* ■ dum adolefcens iibros, atque
orationes pro Quin^o et Sex. Roficio" Amerino habitae ^s), in quibus
tot tantaque furgentis ac creicentis in immenfum ingenii documenta
deprehendebantur , vt qt|iuit fa- - cile poffet iudicare , vnum e fummis
viris euafunim illum, vel ta- lem potius f uturum» cuius iimilem vix yUa
praeteritorum feculo- rum aetas tulitTet. Cicero aeai
(mffe.avrtitSaxrov ac propria vimice et Stutniri ad taoeum fa-
,^\,.yftigi\>m penctraaifle, egregie me docuerac S^ettigfrust cuiiis futnmi
vici pi» ,,i^aieinoria numciuam exanimo diicedet meo» la Pr«iMjUtu tui
Uctm Ck. m . Catiih. }, 8. ». (Budiflac 1791 J p. 17^^ s-:i,
«6) Jt Ortt. ii 43« 44- ^' P'»' «» 4- t .'l .: ' ^^ . aj)
C£|^^ddIetoa. /. /. T. I. p. 60. Atcamen iam antc iter in Graecian
.^,^fiircd|pi plurimas Graecotum ieges cogi^itas irabuine Tullium,
patetes libris de inuentione, in quibus nulta» quae »pud Craecos
vigeban^ infU- ^ tuta recenfet, vt i, }}. 2, a). ii. }8. ,
•t) ViA. Breuiitriittn vit^e^ m^ionitm ei fcriftQritm Ciceremft
pcaeaiflttai B^OB- , tw* «4«. T, L Pv WVI. iq. ; ,_ .
I^ ■yxpoluimus {«-o virium noltranim tnodulo, qua via
ac ratione ^-^ iuris peritiam omnino naQus fit Cicero. Quae (i quis rite
per- penderit) quis e(l, qui ambigat, quin Tullius ciuilem
prudentiam non extremis modo labris dcguftarit, verum, qiiemadmodum reli*
quas humaniores difciplinas, ita et hanc ad vnguem caliuerit? Attamen
dici vix potefl, quantopere inter fe eruditi dilTentiant de Ciceronis iurisprudentia.
Fuerunt^'), qui ideo, quod numquam fe ICtum profeflus fit, nec de iure
refponderit, ICtis adnumeran- dum eflfe praefra€ke negarent ^oy Quomm
vero iniquae fubtilitati iam aff) Eorura
antdigBanus eft Corn. van Byrnkershoek, qui (in Praetermiffis zA L. 2. $.
4^. D. de O. I. infertis ec ipfms Kynkershoekii Opufcf. T. II. p. 60. f()q.
et Colleflioni Vhiianae p. ag^. fqq.) magna id cgic opera, vc Ciceronem
ex albo ICcorum expungeret. Simite quid iam ante Bynkershoekium in
men- tem venerac Anc. Fabro in Libro de error. pragmat. Dec. 94. err. 9.
et Vberto Folietae de philofopkiae et iuris ciuitis inter fe comparattene
Lib. I. p. i^. Eanidem fenccntiam amplexi fuBt lo. Sam Brunqu?llius in
Hijl.iurit Pcm. c.-iO. ^. 34. et Eu. Otto in Lib. fing. Je vita, fludiis,
fcriptis et bonwi' kitt Seruii Suipicii c. 4. $. g- hic qurdem, vt iarn
Craflius Praef. Spec. iuris- fruHenfiae Cicero». p. II. nvt. 4.
fulpicacus e((i herois fui » quem runc lau- dabat, extoileadi cauila.
Cerce idem parum fui memor in Dt({. de perpetua feminarum tutela c. i. $.
4. (repccica in Differtatt. iur, puH. et priu. p. 199.) in «aflra eorum,
qui cencrarias parccs fequuncur, cranliiiic, vbi^rimas, m- quic» teneat
At. Tullius, difertifjimus inttr lCtos orator, et lufffinter ora- tores
eruditijpmus.** JO) V't probetur, TuUium non fuiflTe ICtum,
pkrumque etiam falent adfcrre, quod h«^ ihido Pompohius, hid. L.i. de 0.
I lurifccnraltomm reccnium agens, Ciceronem filencio praeterieriC) verom
tfciam Q. FuHus Olcmis in Oratio« iam dodHRi
fttma^m cfle abiis,^^tti inCiMroatt pa^roeinio fofti- pieado fitronu cum
laude rerfiiti tet, tiettie eft, qoA nelbUf J^. Suum cuique hac de re
iudicmm efto : hic tamen memiiiifl*e <^p4F- tet eitis , <]uod
grauiter dizit Quin^tilianns »)t modiJt$ tt tkttkh JptSfo imdiao 4U toMtu
mrit promuUumdum tjl, nt, quod fMf^ tM- ^tidUt iMmntnt, quod nom
mttUigMt^ figo vero profiteri noii TiltiM^ In eam aninuim meum femper
tncUnafle fentcntfam , ftciniutiiii^ aon fuo ttmtum tempore iuris
fcientia ioter primos potniffe eeii>- fivi, ied et iufilprudfiiitiae
pomoeria haud parumprottdiife, A^eri» .^
^>,; pradoae contn CSecroncai/atne loliginit ^ltOM, ^mc a^d Dioocm
GrfT. " ' jCAi. 46. cxftat» ftttdia Ciceronis expreiTerit,
aullaai irero iorif fcientiac,ipca- ^^^''Mlioiicm ftcerit.
Poiiipottittt «ttteni l L tm fikkcm ICtok nomiiiafle i^illtut, tnu
:Vi Wl «i« jure ec^ponaetuDC, vcl icri|Nts md io* ptriitiwihiii indWM.
^^ . rnaCi vcl alio qtto<?iinqiM vap^ crtcm ittris ^ofeffi fuat. Ifife
cticai aMl> tot ^ios maximac «uftoriatis iCtot omifit, «i^ mienwriat
c«cram -IQte- ^^''rttiik nott «^co adeutaVe dciiacaait; cttlut
nej^fli«fltiae «xemi>ta coUcgk .^- :^ilM^e« inDifl*. ik Pmt^»,
kijhrku Btietmrim ^fMi^eO^itcbt if)^.). Giiaao -r ^tpud Caflittm
quin nulla planc fidcs ha bfco d< fit« ntaio dtAitabttg qm iot^
Jieet, ex odio, quod crga Ciceronem Calcnot fiifoepmtj ywictCfai jn
aoil- Yione fttpprimi inagts« <juam connnnari. . Cf.^ttte
mbtttterant Gml Bttdactts ^tt. D. deh H 7. Gdlf. GfMt ht^ Tdkvith
.fCttrmmVhk 1. c f . Ittioh. Bachooittk md Ami FmM Ctiko, fTj .frtgmmt.
Pcc 94. err. 9. S^ultii^^ii in Or. fiepius Jaudaci, Chrii^
Waechtlerut in Ihterist tecsfime PrMtermiJerttm Bynkersboeiii eid L t.
D. ^ **'^4fe 0. /. fcriptif, ipfiurque Ofnfcc. rsrier. p. 7 »6. fqq. nec
non C^Ut&iem n^^WZnJMr p^ 29^. fqq. inferti^Tffoltesin
ti^.deT:teerene iurijeenfmhe $. it. 1' Sf^; 15; CMffittt i»ni^.
J)pir^iibrii^. €itt NW h n ioi p. 11. toKfatos /C^ imr. <H i X^
pb«<«4*/edit; TOCCMM& <||iuMiaci'OM. <4lr iariffrm/i Cie. in
€/«//// doarinae amUjfi pHhfefkica p. 97« fqq- « Piittmannus
Mi/cell^ I9*pil4l- 3») InfihMt. Orat.X. i. •'- * ^
«tte/btntur lucurenttifima ilta «t darifCma,
qua6,;qnotic&um<{ue 'Cacerdiuf opera euoluo, noR ime magna
animi dele£Utione animad- -terto, ciuilis iuris veftigia,
com{»:obant cauflae abeo orataer..^de« ckraot res in oiHcio geftae.
Quis vmquam tot prircanun legum •4* uui^ pnblico priuatoque nomina,
quin et ipla earum verb&.no* ;lus ceBTemauit? quis iilas omnes
«xaQius ac preffius ejumiinauit? ,^pi» eamm fenfura, rationem, vim
dtlucidius adeoque dignitatem .c!Urius expHcMMt? Quidquid «nim in
legibus eflet vel vtile ct 'iiiy^n, vel noxium et iniuftum, nofter
peruefligauerat, quaeqise ,cz iis probandae improbandaeue efTent,
probe perfpexerat. Ac il quis^ qpaerat, an iuris naturaBs praecepta
tenoerit, nonne teSes tocupletiffimi praeter praeclarum de hgibuT
opus Amt aurei illi iibri , quos dt ojpcns elaborauit lam (enex? Si
quis rog^st , iurifn» publici tum communis) tum patriae fuae propf
ii, reique pul^icae gerendaeprudentia caUuerit, nonne i^ae
refpondent iagsfiiiaiyquas ad Atticura fcrip(it, epi{!otae? Se^
quid opus eft hiec pluribus per&qul? Hoc folummodo addam,.
pofle iumn^onmi. virorum epinioncs, quamuis toto, quod aiunt, coelo
diuerfae videatitur, fiicilltfflo artificio, fi quid mihi cemere
datum , conciHari. Tota «nim lis poti^mum verfatur in vocabulo lCiu
Hunc Bynkershee^ kius aliique, qui eius partes (equuntur^ cum ip£b.
Gcerone eum cfle voluerunt, qui legum «t ad r^pondendum et ad
agendum et ad cauendum peritus £t 3^. Inde non negant, TuUium
exeeHuifle .- 'Qgpdlibroruai pratftaiicIAinorum coaiilHun dofte
i<ittfflbrtuit Qvi A. Aag. G&nclMras,. V. IIJ., ia GeoMB. 4k kgt
immm tt mmt Cmrmit, LipC nuis
ff1(?IlliX)*"m!|g9Aftttlttini, 'BUlilllmi faimClCttnt,'"
NiBUlUiTIOl hoc dldmus, tdque iis lubenter largiri pofTumus, liummodo
omnei in maximaiuris fcientiaCiceronlmbuenda amice confpireot. Fa*
cileiui(&it ilUv fp»* pcimo a«t»tiflKtemp<>re iuri oper9Jn-4^M%
oft^j^dore ac profiterir ie etiam I(ki perfanafp tueri ppfl<v ii cuiit
rf^ujbiicae pptuiiTet a je^tbticei:^ *i). Qmiil ^q^odQ^Uitus fcaW^
ipfeyUii^quaiHU^iwcfuaclere voluit, vt, ialuis inuoeribus pu(blici% {Utkn
fedaret ad ius refpoadendum ^), Ac x;onfen/i(ret adeoCjl-^ oero, ^(juidem
nuHutneiiet in experiend<i periculam, mii y^ttii- «flet,. ne
iBterpi:«tati;0.ittfis, ctUfnfi miaus molq^ propter, {«bOrj cei^jV
auferret tamen ipft«eiBp<¥:9i «4 di^peodi cogitationem 4ilftt'* «atil*
: Quafn ob rem fUA|tt|,«am-> doaec va(;atioiif«m aetas ipfi^ fioret
acUaturaJT), et ni^ praiecAariu^ dujcit neque hone^ios, qupa^: bonoribus
et reipubiica£ «nuncribus perfunctum fenem pofife Iu& iurd ^cere
idem, qued apiild-BAnium dicat iUe Pythius ApoUQ, 4p. efXe eum, vnde
iibi., £ non popiiU et reg9s,> at onine»^ ^PMtfS oonfiiium expetant
3*). ^ ''^^In omaiam ore fttoc verbaHla nociiEma, -«luae pnt Nhar, \% .
occnrrant ^v Si mUbit btmimi vtiementer jocci^4UtfiomMhm moturUis, trida»
mt ImrtS" etnfuttum effi frtfteiw., Ad quem iocum comroematus eft
Ge. Ricfatec»» Or. de fioma</bo Cicertnis in InrecPnfiiJtcs, ioter
eiufU. Oratt. (Norim^ -J6) deLeg. t,. If) de Or*t. I,
4J. |t) Eamdem diaerits virorum doflorura &atentias conciliandi
viam iniuit et>' ^ -itmlo.JLxMC-Sfee^. memd-^^Mbii.^bftrnatitnes
nemmuUmt ^iftUgetiems frm lOis . i Bm, (L. B. 17«. 4») c- 3- ^ «5 -- «7-
P- 46« fq^ . Veakmus nunc, praemiflTs, quae necenarit
praemittenda piftauf«. ad merita TVittiana de iureciuili in ^rtem
redig^do ritedelV^ aeanda. Quae qutdem it diiigenter con(tderare'TeIimiii
ae|>erppA'^ dere iingula, ahimum potiflimumadiurifprudentiam,.
qiiaUsCidi^ ronis aetate fuerit, adoertamua necefle e(l. Namet hic
vhemeA- ter eomntendanda eft cautio, quam tn art^ critica obferuari
fuadet loi Cterictts 39), dom ^o/^erfff,*^ itiquit, ^.vitutimftrnrumopmaHhiin
(tbMfci, etqtiaertri, quid tfitePit il^mg^ifinfirinty non, qmdfii^ tin
diBmffi mHs tfidtnturt vtfajfif^ha^f^' Af^uflis «utem a^odutif ftnibus id
temporis circum(eripta fuit hirifprudentia ^), necdum tottantafque Aibiit
viciditudines , a^pefteafub imperatoribus illi adciderunt, quibus inane
quahtuitt^on^nsac confudonts legum ihi-^ dio adcefHt. Quum
veroHurecotiAiltf, fiue erroris obiiciendi csuflai quoplura et
difHciliora fcire vlderentur, fiue^ quod fiminus veri eft, ignoratione
docettdi, faepe, quod pofitum eflet in vna cognitio- ne, id in iofinit»
dirpertiti fuerint 4*;, non ef^ y quod miremur, dtfcipUnam ea aetate
euafiflfe hiu^cam et tftafe cohaerentem, indkr gedaeque moli haud
abn^milem. Non defuere quideih ingenio maximi, arte vero rudes, vel fapirates
pottus, qtiam itireconfulti, qui, in cunis quafi vagieiite iurifprudentia
, quum legibus colli- J9) Art. Critic. P. II. Seft. a. c. 3.
$. 7. ' 40) de OrMt. u |3. 41) dt ieg. i, 19.
4it Or. I, 4J. hilM^^^titt liM PkipirW teget regias in ymnn
coiitident 4*), A{m» pius^^ iegi&' a^ones conih-ipferat 41), Sextus
Aelius Tripcrtita edK d^t 44)y qate inris tncunabata continebant^ P.
Madiis Sdwinli^ M.- IiiAitt»-'Frutus et M^iMsrtilhii teguU» iuris inttr
foren^^ tationem exe6gitftCltfr col{eger«nt-4f), Qutn im^ i^"Mudm
Hm ekAitpimio» icodfHtuentt 4^), generatim illud in cboem et
6dol& bros redigendo, et mediam iurifprudentiam , funuiib eius
capitibiai Vftand«^'confef!onis gratia diftindis, foii^us HrmavOTat 4P);
ffudii 'tueufentir ' teftimoni» iw frtgmeiiti», er iibro ijfm eivfi
IGAihtil>ig0(b trattfiat&»^ 1i«£«ni«m 6buw iunt; Seif la ijaiJMi
oMtt)^ fniii^ et matjseiaili congieflenu^, aedi^ciam ante^ Oaamoami.
aftruxit nemo 4S),. a quo nouus quait incipit rmun ordo» dum tns
mmi^ J^) L. i. f^ i.i>. m0.r,
tklmwjftHat, Uh p-^ >7t^ «d. Sfftvfg^v.^^ 4iv .^. 41) 1. 1: f 1«. O; A
O. /. nia.iM, N. }}» c . - ::>t, •44) i:.s.-^.|T.i>.w^O.A
-•:-=!• r^h.'^r:-::^-.f:^ , , ' ^^ 45)! Hoc fchfo triumiitros,
qiKi^ reccafuic Pomponius in £. «^ |.|4. D. db O./. - {atclt^gvndo» «flc
.^Mi/tf^ M« rflki^t docoic BracAn iUuftric iar£r«v)q||«Mi> ^/x
titm. frHmti «Mnrj^E«wV-<* 4. f. »9. p>3). Qf. Fraac Gnr. fioiMMU>
Or. liir i§rify*%iitii»i« ¥tgmktri^1^m4iu4/ram (rer. Li{rf'. 1^62.
4-> |K f . • 4«> V- •. f. 4t- A dr O. I. Gcil. N. A. Vil, if.
tloiu^ftii» frqnU aifeqiu fotktp pfofc£to fftcilc nobi» perfuafam
iMbcrcmuc*? prftcotptoric fammi > cxcmpl» ia primis •dduftuia fuiiCe
Tnllium» vt de iurtt ciuiiit arteperfi- cien^ cogftarct.^.
^-i-<*' -'••'J'*-i>5?3|- f;i*.l »ci f(M^4 r» trrfc>a4i : :•
'^.-^.n^r-^ja^' 47) £u. Octo Lib. fiog: A vttm Sertii Sm/picS c 7* 1- ».
ia 7»c/ imtii V. V. P* t59f' • r,i;i'.. :...'ts:. 4S>
Sunc quidcm, qui Seruium Sulpic!um« (^ccronis acqnaieih, iMi IMtc
CiccroiKa pMctUcinfe flaciianc; vcior Cc. Sclu4>amis dt /mtitimrJf^.
Rm. Ex. 3. $.^ t. cc Brokes Oifll commcm. tlt Cictrtmt ICtt\. %, Ae
Jaqnitur i^euifbrmtmjirels redegit, et fft;^/M«
piitterciiiHim Qftioiim» vk,' in cfuo omnU, e priacipits futs
dedu£ia» fiomo^eocu cy>}MM||e« iiBnt. DeplorandLa fane eft rei
litterariae ia^uca, quo/i tx ill^ khro, priMter Yerbula qutedam,
quae Geliius 49) «t Charifiu« ^o) ienuV vmnt, nihil nobi» iit
r^liqui. 7 . Qiiem nt(i.itat<malehibMifletiii- iitria temporuifi,
pLurinu icirerans cognitu iucuBdiflinia •at/ipf; vlA-: Ikate
fertiliffima^ <quae nunc aefeemae no^is teo^bris iepuita pse«
mantur. Quemadmodum vere., qui in iprima pi£hirae cuiufdara;
lineamenta incidunt, ^uamuis «x totius operie ooiitemplatioBe
iUi«s imlcritudinem multo faciltus eflent perfpe^ui«,itamen
yele> primis, quibus-adumbrata eft, iiiieis detotius pii^urae
pnae^ntia^ Jband 'inftdiriter iudicant, ita fi% nobis^ quibus per
lat^nynlmquir. yNiar^^l^-vr,'-r- r-f: ^'tatem l^
4mt TuUius in Srtit. c^4i. dc arte iuzis» .quac ip Scruio nuxuna. iuerit»
aut verius vnica» tam magnificef vt hoc de fummo ICto iudicium
" ^ix concitiiri ppfle wideatnr cua' aKa noftri profeiioiic (de OTf,
i, 44. i^ qua necdum cxftitinc» qui jus artificiofe xligeftum generacim
cempafuerir, iU>let» optatque , vt aut Hbi» quod iara diu cogitaueric,
>tale opus perficere ' liBcatf aec aiios qutfpiamie impedito,
/ufcipiat. Quod piofc^ nenopiafS- . ^Xt fi i^ tum Seruius in co
genere «cellui/ree. Vcrum <nimuerQ« (i ccm* pofis «aiiioDCS
intueamur, ct Smtwm fcre decennio pott libros dt Ormtme a Cicerone
icripcum eflTc recordenur» facilc concordiam i«(er vtrumque lo.
^'^'r'4sn fic rcftitttciiius» «t» Ciceroocm poft libfos 4e i)r4itore
cditesiid ipfpm ttntalTe» mox autem, quia fe foccc a Seruio, interea idem
molito* fupcra» <um intellexifTet , conntium •rurfuc abMcifle, ec Opus
in£e^m rciiquinc, dicamus. Vt taceam, in Brute ne fatis quidem clare
adfirraari, Sulpiciura jtlud«' dc quo qxueijmiu, Jcriptit efeoiik^
quandoquidfm ars im Jtomiue fumma efle poted^ ctiamfi de ea ex iitterarum
monimentia non cvnAcc. 'ijd) Vid. fragMenim eit libris Cieereuit
fkUofepkicit^ adied» £dic. Bipont. VW.XH. p. 30r' «0
dttftftaav >«t} .' <(i|od in projaerkto eft «, ^ n^eleoataL ieiHan»
Ificebit. , FrimftitU Imeaiiichtft, qut.e piogiui, quo^aHint; Mtnenil
^tiautM; defignAuit Tuliiiis^ ^tnquMa ea irridete videtur do^tM^
iilkV)Vf»ruii&>iodoiQus A]ifednlus5«), ;ii jquts ad^ciat, qviseH^
^ ;9<^r«taMbiqiiidttBi-^perFundatttr:iidiB»a M fomxm qdr
^MmcoviBMo iuhbictua&iSJ) ine, qui iQ^hs^imae^H(»..vfitat»e in
rebu» cai^&fquiK ciuiura iequabititarti» cenfen*atione cernitijur«
omoe ius ciuite digerenduni ceii^uit in geuera, quae perpauca fimti
tdfifideeiwuqigfnprumqnafirnicnibi^aiquAj^bwi difpeitifada, atq«»
-eimiia» qitailK^Bt^^iiBcnua vsel partbifli;fioiniaa» definitieniblifi
;<{uam quaAquervini.habeaht, . ej^imenda i£e aebitratus' eft S^ Bieuit
quidem eft haec deliiieatii>, fed iiirif^dentiae, qttaltstnnc 4emperis
c^at, valds adcolnmodata:, nee.nos dubitare patitur Tnl- 4tus, qhii^
& quisy quae b»ui eomplexus eflb, iatius eip|iearet, peC" ie^
if$\h»m< ciuMis ^fiB^€t, cfaurimr iUaatque vbecior , 4illMA diiEcili^
ati^eobicura. Quae quidem omnia numquam efferiflet ipfius iuris
(icientia^ nifi ad ea artem omntum artiom maodmam, ^ il) Cuius
cognitlonem qaim Cicen» a iiirrs poatiCcii fhidio preninquc feiiiii- '
gerc fwar, vt Brat. ^t. dt kg, s, \%^ i % criiiiiiile £t, ad illui, JMm ad
hec • - ffcfioncfn t>peris pe rrinnife. Quod Ciccronis confilium idcnrate exprc4it M.
Aur. Galttanuc StvJ»» fru/tm c. 17. j. |. dum argumentum libri in iis
potiflimum iusis pracccyjtio- nibus, quae, do^inae gratia inucntae,. dcfiaiti^aibps,
diuifimiibutr mfdio* dici» difpofi(iombu% aUif^uc iimilibi»
obiciaatiMiibtts ceaftaMSI» ciSimoaaic. . ni
fjot&fowm, iiffnlifTrtinfnlrfTiniini pnli. i]ii«inim
ri^iifafMii fiiiiim nemt, dtfibhitxm diwilfimique conglutinaret «t
ration»€QritcJKOii- 'ftnng^t. Indo re€ta. partium difpofitio, et iufius
ordo, ifto fki- •piiM. ^naeque coilocentur, inde vis arguroentationts i«
rtttiomifn iptmdar, tnde «titm deftniendi et diuidendi modiit^ qiti
in^omnl -do£lrinainim i^nere explicatU' primui 9(f. > tStA- id*
;md«iWiitione tiuins operis haec quidem h«(Sennai. lo^tnttnci «mnwdem
ejoeni- pUsaiiquot e reliquis TuUianae eniditionis monfBMitoti»
potitisil- ^luftrare. Quam In rem optima procid dubb difctplina
eftle&io 'Ihpkonm , Jid C 'IVebattumr 2Gtinn i cocfmiiim} *
Iqiptotsum, qivie (toia in praeceptis difl«rendi «d luris ^uaefHoines
tranfferendis rt- 'fiintur. Sic, quale dt partitiomun ac diisffiohum
gemtf, tp^i Mttjis •artem ingrediatur, elegantifltmis ipie exeroplis iarU
tiuilif et abuHt' if0thnis declarauit ^S). Definitionum:quis modus eflfe
debeat, hirh atitim-^t gttrtilis Aibtiliterd^niendadocoit ^). QoiDiiiodo
argii- imeitkis dtale2Hcis in iuiie ttendum £t, tamH>ttfcsm,
timi»al^', «iajri- ^e in Hbris de imteraio$n iiy^ perpartes
eundodefhonlMMtit. Qii*e (mgula, (icut axiomata iuris generaiia, pailiffl
aCioemne^tligeni^itfs multo, quam ab aliis, inculcata, quale e(l iliud :
nullam ejfe perfo- -nem^ fu t ie nd viteim eiue, qm s~vita emigraut rit^
fMfj^ut md eedat k ei ie - de 58), aut illud : vniur pecuniae ptures , diffimitibus
ok ta^fiti^heredet ejfe non pojfe 59J , fi vberius perfequi vellem ,
veroOr,' 'tk te^pus . , ^i^ pfius •W
'* 575 V. g. de hment. t. f jV'W4.''f-'**'*) delnuent. z, tt.
"J ""' ^' '*'• ^iius, qaafll ititteriil,
deficeret ^). Alui vero nobis reftat quaeftio, «tque grauKHmar ac
difficiilima , quani dirimere vijc audeo, nui^ ^ciHoet ipfe rmquam librum
de iure ciuiii in artem redigendo ab- foluerit Gcero. Qtiin ita iit, in
dubium vocat Bynkershoekius ^^), quem irero grauiflimis verbis
reprehendit Bachius ^'). Abfit a nif -procul, vt (an£liflimas violera
Bachii manes; attamen non pofTum, •quin fententiae Bynkershoekii calculum
meum adiiciam, ac mihi perTuafum habeam, hunc librum a Gcerone ad
vmbilicum num<> iquam fuilTe perdu£lum. Idque quum <:onie£lura
probabiie ell, tum quibufdam etiam veftigiis indicatur. Ac primum
quiden Quin^iianus ^), cui maximam puto fidem iiai>eadam efTe,
difertis verbis dicit, eum aliqua de iure ciuili componere corpijfe.
Qui ^ldem iocus nullo alio modo, ii quid iudicare valeo, inteliigi
potefl, nifi de hoc libro inchoato foium, non perfe£lo ^4). Tui* lium
multa de iure ciuiii in animo h«buifle fcril>ere, quorum in^ itium
{a£him iit hoc vno iibro edito, vt Baciiius opinatur, non fatis confiat,
nec vlium omnino, in quo expcefHe id.pro£efrus fit Cicero, reperi iocum.
Deinde vero in Ciceronis iibris, quos roatura aetate 60)
Quaedam occupauic OUncrhts mi DiMr., quam aliquoties «xcicauimus, a
pag-99- - 61) Praetermiff: ad i. ». §• ^^•J>. Je V. f. in
Ofufcc. T. II. p. tf^. etin CoUef}. Vbl. p. i%j. <Ja)
Hift. iur. Rom. p. S47. cd. nouiflT. . ; .6j) /njiitt. Ormt. XII, }, 10.
64) Hadr- quidcm Tumebus «^ (^infiilimni d. l. verba Fabii interpretatur
de libris Ciceronis de legibus «t de repuUicM , qui tamen non ir.agis de
lure fue- runt, quam eiufdem argumenti !'latonis. Cf. Luzac Sjtec. acad.
fuura lau- dacum c. 3. $. 17. not. i8. p. 49* C ..^ D
conlcrjpfit, ne verbo quiderahuius ofperis mentio fit. Denique «iw paret,
eum voluifle primas illas lineas leuiter adumbratas latiut explicare,
dumraodo paullum otii fuppeditaret imraenfa nego^ tix)rum moles. lam vcro
ab illp inde tempore, quo priraum ad rempublicam adteflerat, cauflHrum
defeniionibus, amicitiis et cUeitv- telis tuendis, inimicitiis
pcepulfandi», ampUflimis deaique mun&' ribus adminiftrandis occupatus
fuit ; fenem vero exceperunt tur- bulentiflima reipublicae tempora,
quibus aiiimus nofter facile in* ducatur ad credendum, haud potuifl*e
TuIIiura propter otii inopiam huic libro vltimam imponere manum ^5)^
,y..<. t» Haec funt, quae in raeam iententiam brenlter
adducenda^ pu^ taui, certe non eo coniiUo, vt, quorum.aliter de-hac re
fententift eft, eorum au^oritatem infringere conarer, fed vt, quae
conie£luy ra adfequutus fueram, virorum eruditorum iudicio exaCtius
ponde* randa reUnqucrem, quo modo optinw cognofcere poflem, flntue
in his aUqua ) quae vero efle confentanea exiftimentur,. nec ne. ^5) Qaoi etiam
fuboluifle videtur Eu. 0)-toni in laud. Lib. Cng. dt vit» Str'- w SuJfiieih
c 6* $. $^ iii Tbel iur. T. V. p. i^^u ERRATVM. fag.
9. liOt S- pn> : pnmis 0imij, lege: primct MH$r.
yiRO V t R O LITTERARVM AC VIRTVTVM
LAVDE f FLORENTISSIMO mANm GOTTHELP
HORNEMANNO CHRIST. GOTTL. HAVBOLD ' iJwd "QuinUUiafiut
vmjtme tinftut , tum^am mi4tttm proffcij/e, ad CUero ijatde plaeeai, idi»
TEquidem, NOBILISSIME HORNE- MAI^E-t totum eonueniret vel hic TFi^S
Ubetlus planijime^jlendit, t quo famiHaritas cum primipe Romanae
eioquentiae, eruditionis atquf venuftatis tam arcte contracta eiucet, vt
eam in finguHf ^octijjimae difputationis partibus, ne dicim, verhls,
exprimtre videaris. Quae quemadmodum iamfota et ad iujium Jludiis TP^I S
pretium fiatuendum, et ad maiarem indies de ingenii TVJ txcellentia
diligentiaeque adjiduitate D 2 fpem Grice:
“If I were asked to name the most brutal death an Italian philosopher ever
suffered I am between Gentile and Cicero. The former was a typical leftist
mafia thing in the middle of Florence; the latter was commanded by Marcantonio
and committed by Erennio – il centurione – and Pompilio Lena – il tribuno
militare – the action was fast. Lena was careful to keep the head and the right
hand --. He brought them to Fulvia’s bedroom when Marcantonio was there. A
slave displayed the head and the right hand on a platter – the right hand and
the head were later displayed on the Rostro – Fulvia in the bedroom took a pin
from her coiffure and stuck it in Cicero’s tongue. Cicero had been captured on
his way to Greece – He could have saved his life, but the housekeeper informed
Lena what road in the wood he had taken. Cicero would have left earlier, but
his brother wanted to buy provisions for Greece (‘you never know what the food
is like there’). Cicero’s brother Quintus, along with his son, were killed soon
after. The prescriptions followed a rigorous order declared by the ‘ragione di
stato’ .. Cicero was first on the list. Mark told Plutarco: “I would not engage
in such cruelty – but Cicero was the most vile serpent!” --. Giovanni Botero.
Keywords: Staatsräson, Ferrari, civil equita di Vico, civilis aequitas di
Cicerone, ragion di stato, Candarini, Macchiavelli, Grice, conversational
cooperation, conversational equality, pirotic generality, conceptual,
applicational, formal. Generality, universalizability, civilis aequitas,
aequitas, =, identity and aequitas, aequi-, justice as fairness, principle of
conversational reciprocity. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Botero” – The
Swimming-Pool Library.
Grice
e Botta – il primo filosofo italiano – fat philosopher, brave, addicted to
general reflections about life, greatest living, Continental -- ‘professional engaged in philosophical
research’ – Appio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cavallermaggiore).
Filosofo italiano. Grice: “The most relevant of his tracts is his ‘storia della
filosofia romana,’ – but he also played with Leopardi, and he is especially
loved in the Piemonte as a ‘dantista’! --
Grice: ““You’ve gotta love Botta – my favourite is his tract on Alighieri
as a philosopher – he applied all he had learned about philosophy at Cuneo to
Aligheri – the result is overwhelming!” Studia e insegna a Torino. Il suo
palazzo divenne un rinomato salotto culturale. Examina la filosofia italiana,
Cavour, Alighieri. Dizionario biografico
degli italiani. The rise of what Italians call philosophy ‘in the volgare’ is
contemporary with the Revival of Letters, when the hahit of independent
thought, gradually developing, asserted itself in opposition to Scholasticism.
The early establishment of the four Republics (Genova, Pisa, Venezia and
Amalfi), the growth of industry, commerce and wealth, the increasing
communication with the East, the propagation of Arabic Science, the influence
of the Schools of Roman Jurisprudence, the gradual formation of the ‘volgare’
out of the Roman language, and above all, the growing passion for the
literature of Ancient Rome, all combined to stimulate the human mind to free
itself from the servitude of prevailing methods and ideas. The Catharists
appeared in Lombardy, and extending throughout the Peninsula under various
names, such as the ‘Paterini’, the ‘Templari’, the ‘Albigesi,’ the ‘Publicani’,
and others, remained the unconqnered champions of intellectual liberty. A numerous
and powerful school of philosophers, embracing the most prominent
representatives of the Ghibelline party, laboured so persistently for freedom
of thought and expression, that it was denounced by the Roman Popist Church as
a School of Epicureans and Atheists. Foremost among these, according to
Aligheri, himself a Ghibelline, is the Emperor Frederick II., the patron of the
Arabian scholars, a poet, a statesman and
aphilosopher. His friend, CardinalUbaldini;Farinata degli Uberti, a hero in war
and peace; Latini, the teacher of Alighieri; and Cavalcanti, ‘the physicist,
the logician and Epicurean,’ as a contemporary biographer calls him. Meanwhile
Brescia strives to extend to the field of politics the philosophical revolution
which had so early begun, and which is now sustained by secret societies widely
spread throughout the Peninsula, alluded to in the early poem of St. Paul's
Descent to the Infernal Regions. To the same object of intellectual
emancipation are directed the religious and social movements headed by such
Reformers as Parma, San Douuino, Padova, Casale, Valdo, and Dolciuo. But- as a
promoter of freedom in philosophy as well as in political science, Aligheri stands
preeminent in the history of his country. He is sthe first to construct a philosophical
theory of the separation of the ‘lo stato fiorentino’ from the Pope’s Church in
his De Monarchia, in which he advocates the independence of the civil power
from all ecclesiastical control. Aligheri also opposes the Papal power in
immortal strains in the Divina Commedia; and, under the popular symbols of the
age, strive to enlarge the idea of Christianity far beyond the limits, to which
it wasconfined by the Scholastics. Petrara boldly attacked Scholasticism in
every form, denounced the Church of Rome as the impious Babylon which has lost
all shame and all truth, with his friend Boccaccio devoted himself to the
publication of ancient MSS., and laboured throughout his life to excite among
his contemporaries an enthusiasmfor Classical Ancient Roman Literaccure. His works
“DeVera Sapientia”; “De Remediis Utriunque Fortunes”; “De Vita, Solitaria”; “De
Contempu Mundi”;, blending Platonic ideas with the doctrines of Cicero and
Seneca, are the first philosophical protest against the metaphysical subtilties
of his age. Thus the fathers of Italian literature are also the fathers of the
revolution which give birth to the philosophy in ‘the volgare’. The study of the original writings of Plato and
Aristotle, and the introduction of an independent exegesis of the ancient
philosophers, soon produces a still more decided opposition to Scholasticism; a
movement aided by the arrival of Greek scholars in Italy before, and after
thefall of Constantinople. Prominent among these, were the Platonists Pletho
and Bessarion, and the Aristotelians Gaza and Trebizond, who place themselves at
the head of the philosophical revival in Italy. While Platonism becomes predominant
in Tuscany under the patronage of Medici, the influence of Ficino, and the
Platonic Academy founded by the former in Florence, Aristotelianism extends to
the Universities of Northern Italy and particularly to those of Padua and Bologna,
taking two distinct forms, according to the sources from which the interpretation
of Aristotle is derived. The Averroists followed the great commentary of
Averroes, and the Hellenists, or the Alexandrians, sought the spirit of the
Stagirite in the original, or in his Greek commentators,chiefamongwho m was Alexander
of Aphrodisias. The Averroistic School, mainly composed of physicists and
naturalists,was the most decided opponent of the Scholastic system in its
relation to theology. Indeed,medicine,Arahicphilos ophy,Averroism,astrology,
and infidelity, early in the Middle Ages hud become synonymous terms. Abano, who
may he considered as the founder of the Avcrroistic School in Italy, was one of
the first who asserts, under astrological forms, that religion has only a
relative value in accordance with the intellectual development of the people. He
was arrested by the order of the Inquisition; but he died before sentence was
passed upon him. His body was burnt, and his memory transmitted to posterity as
connected with infernal machinations. Ascoli, a professor at Bologna and a
friend of Petrarca, is condemned to burn all his books on astrology, and to
listen every Sunday to the sermons preached in the church of the Dominicans.
Later he was burnt at the stake, and his picture appears in one of the many
Infernos painted on the walls of the Italian churches by Orcagna. The eternity
of matter and the unity of human intellect are the two great principles of the
Averroistic doctrine. Hence the negation of creation, of permanent personality
and of the immortality of the soul became its principal characteristics.
Although some of the members of this School endeavour to reconcile its
doctrines with the dogmas of the Church, others accept the consequences of its
philosophy, and boldly assert the eternity of the imiverse and the destruction of
personality at death. Fra Urbano di Bologna, Paolo of Ven ice, Nicola da
Foligno, and many others, are among the first. Among the second may be
mentioned Nicoletto Verniaa, Cajetano and above all Pomponazzi, with whom began
a period in the development of Anti-Scholastic philosophy. Hitherto the
followers of Averroism confine their teaching to commentaries upon the great
Arabian philosopher; but with Pomponazzi philosophy assumes a more positive and
independent character and becomes the living organ of contemporary
thought. Indeed. while he adheres to the Averroists in his earnest opposition
to Scholasticism, he is a follower of the Alexandrians in certain specific doctrines.
Thus on the question of theimmortality of the sonl (‘l’animo’), which so agitated
the mind of the age, while the Averroists assert that the intellect after death
returns to God and in time losses its ndividuality, Pompouazzi with the
Alexandrians reject that compromise, and openly denies all future eexistence.
He holds that theorigin of man (‘l’uomo’) is due to the same causes which
produce other things in nature: that miracles a but illusions, and that the
rise and the decadence of religion depends on theinfluence of th estars. It is truet
hat he insists on the opposition of philosophy and faith, and thought that what
is true in the former might be false in the latter, and vice versa; a
subterfuge, into which many philosophers of the Middle Ages are forced by the
dangers, to which they are exposed. Pomponazzi is the author of many works, one
of which, De immortalitate animae, was burnt in public. His most celebrated
disciples are Gonzaga, Giovio, Porta, and Grattarolo. His opponents are
Achillini, Nifo, Castellani and Contarini, all moderate Averroists, who strive
to reconcile Christianity with natural philosophy; an effort, in which they are
joined by Zimara, Zabarella, Pendasio and Cremonini. Among the Hellenists, who
maintained in part the opinions of Pomponazzi, is Thomeo, a physician at Padua,
who, on account of the vivacity of his polemic against Scholasticism, the
Hippocratic character of his doctrines, and the beauty of his style, is considered
as the founder of Hellenic criticism and naturalism in the Age of the Renaissance.
To the same class of philosophers, although neither pure Hellenists nor
Averroists, belong Pico and Cardano, who strive to substitute in place of
Scholasticism philosophic systems founded partly on Christianity, and partly on
Platonic ideas, or on doctrines derived from the Cabala and astrology;
Cesalpino, who constructs a pantheistic philosophy on Averroistic ideas, and
Vanini, who for advocating a system of naturalism is burnt at the stake. Other
philosophers oppose contemporary philosophy chiefly for the barbarous form, in
which it is expressed, such as Valla, Poliziano, Barbaro, Nizolio, and Vives.
But a more effectual opposition to Scholasticism is due to the
introduction of the experimental method into scientific investigations, which
was first inaugurated by Vinci, who, within the compass of a few pages
anticipates almost all the discoveries which have been made in science, from
Galilei to thecontemporar ygeologists. Nizolio, Aconzio, Erizzo, Mocenigo and
Piccolomini continue the work of Vinci in insisting on the application of the
experimental method in philosophy. This application is partially at least
attempted by Telesio aud by Patrizi who oppose Scholasticism by striving to
create a philosophy founded on nature. Bruno boldly undertakes the philosophical
reconstruction of mind and nature on the basis of the unity and the universality
of substance; while Campanella establishes his philosophy on experience and
consciousness. To promote this scientific movement learned associations
everywhere arise; the "Acadeinia Secretorum Naturae” is instituted at
Naples by Porta; the Telesiana is established by Telesio in the same city; the
Lynchean is founded in Rome by Cesi, and the Academia del Cimento in Florence.
Meantime the opposition to Scholasticism extends to the field of politics,
where Machiavelli establishee the principles of that policy, which is destined to triumph in the establishment of
Italian unity on the ruins of papal sovereignty, a policy which found a
powerful impulse in the religious revolution attempted by Savonarola, a still
more effectual aid in the invention of the art of printing, and a pledge of its
final triumph in the great Reformation. In vain the sacerdotal caste persecute
and imprison the philosophers and reformers, and burn them at th e stake; in
vain it strives to drown philosophical liberty in blood. The opposition increases
and reappears in th ewritingsof Gnicciardini and Sarpi, the bold defender of
the Republic of Venice against the encroachments of the Papal See, the philosopher
and the naturalist, to whom many discoveries in science are attributed. The
political writings of Giannoti, of Paruta, and Bottero, which are devoted to
the emancipation of society from the authority of the Church, close the period which
opens with the aspirations of Alighieri aud Petrarch, and is now crowned
by the martyrdom of Bruno and Vamni. For the exposition of the doctrines of the
Italian philosophers of the Renaissance, the reader is referred to Ueberweg's statements.
See further: Tiedemann, Geistder Speculative/} Philosophic; John 6. Biihle,
Gesch. der neueren Philos.; Tennemann, Geschichte der Philosophic; Ritter,
GescMchU der Philos.; Supplement) alia Storia delta Filosofia di Tennemann, by
Romagnosi and Poli; Mamiani, Jiinnovamento delia Filmofm antica Italiana;
Spaventa, Carattere e sviluppo della Filosofia ItaliamidalSctxlo16"finoalnostrotempo.
On the philosophy of Aligheri, see A. F. Ozanam, Dante et la Philosophie
Cathdique. tranal. By Boissard, Lond; N.Tommaseo.La Commediadi Dante, G.Frap- porti,SuMaFiiosofiadiDante,
UgoFoscolo,DiseorsomiltestodelPoemadiDante, G. Rossetti, Commento analitico
delta Diuina Commedia, Barlow, Critical, Historical, and Philosophical
Contributions to the Study of the.Dicina Commedia, Botta, Dante as Philosopher,
Patriot and Poet, New York; Rossetti, A Shadow of Dante, Boston, and the
valuable works written on the Italian poet by Schlosser, Kopish, Wegele, Blanc,
Goschel, Witte, and Philalethes (the present King John of Saxony). On Petrarch,
see Bonifas, De Petrarca Philosopho, and Maggiolo, De la Philosophie morale de
Petrarque. On the opposition of Petrarch to Scholasticism cf. Renan's Averroes
et VArenvisme. The doctrines of Averroes were introduced into the Peninsula
from Sicily, where appeared the first translations of the commentary of the Arabian
philosopher. They soon became naturalizedi at Padua, Bologna, and Ferrara, and
the absorbing subject of lectures and discussions. The principal lecturers
belonging to this School are Abano, the author of “Conciliator differentiarum
Philosophorum et Medicorum”; Gonduno, whose
Quastiones et Comments on Aristotle, Averroes, and Abano are extant in the
national library of Paris, some of which were published in Venice; Urbano da
Bologna who writes a voluminous commentary of the work of Averroes on the book of
Aristotle, De Physico Audita. It was published in Venice with a preface of
Vernias; Paolo di Venezia, the author of “Summa totius Philosophiae”, who
defends the doctrines of Averroes in the presence of eight hundred Augustinians
against Fava, the Hellenist; Tiene, Bazilieri, Foligno, Siena, Santa Sofia,
Forll, Vio, Vernias and many others have left voluminous MSS. in the libraries
of Venice, Padua, and Bologna, as witnesses of their devotion to the ideas of
the great Arabian philosopher. Pomponazzi may be classed among the Averroists,
as far as he believes in the existence of a radical antithesis between religion
and philosophy. Pomponazzi, however, rejects the fundamental principle of
Averroism, the unity of the intellect, and in this respect he belongs to the Alexandrian
School. He is the author of several works: “De Immortalitate Animae”; De Fato; De
Libero Arbitrio; De Pmdes Unatione; De Providentia Dei; and De naturatium effectaum
admirandorum causis, scilicet de Incantationibus. Achillini is one of his opponents,
and the School o fPadua has left no record more celebrated, than that of the public
discussions held by those two philosophers. Achillini's works were published
inVenice. The two adversaries having been obliged to leave Padua, established
themselves in Bologna, where they continued their disputations till the occurrence
of their death. Nifo is another opponent of Pomponazzi. At the request of Leo
X. he writes his “De Anima”, which gives occasion to Pomponazzi to publish his “Defensorium
contra Niphum”. Nifo was also the author of “Dilucidarium Metaphyscarum
Disputationum.. Marta in his Apologia de Animae Immortalitate, Contarini in his
De Immortalitate Animae and several others strive to confute the doctrines of
Pomponazzi on the mortality of the soul. He is defended by several of his pupils,
and particularly by Porta in his “De Aniina, de Spcciebus inteUigibiUbus.” Porta
is also the author of De Humana Mente DispuUitU), De Merum Naluralium
Prindpiis, De Dolore; A n homo bonus vel malus vokns fiat. The Lattr. m
Council condemns both those, who taught that the human soul was not immortal, and
those who asserted that the soul is one and identical in all men. It condemns
also the philosophers who affirm that those opinions, although contrary to
faith, are philosophically true. It enjoins professors of philosophy to refute
all heretical doctrines to which they might allude, and prohibits the clergy to
study philosophy for a course longer than five years. Indeed, Averroism becomes
hostile to the doctrines of the Church, and it is condemned by Tempier,
archbishop of Paris, who causes its principles to be embodied in distinct propositions.
Among these were the following: Quod iermoi.est/wologicisuntfundatiin fabulia.
QuodnUiilplussciturprop tersciretheologian. Quod Jobulmandfalsasuntinlege Christiana,
sicPombainaliis. Quod lex Christianaimpeditaddiscere.
Quodsapicntesinundisuntphilosophitantum. Notwithstanding the condemnation of
the Church, those ideas seem to have taken hold of the philosophical mind of
the age, and long continue to find favour among teachers and students. There
are, however, philosophers who, adhering to the doctrines of Averroes, strive
to blend them with the standard of an orthodox creed. Among them Zimara in his “Solutiones
contradictionum in dicta Aristotelis et Aeerrois,” Antonio Posi di Monselice, Palamede,
Bernandino Tomi-tano di Feltre and several others. Meantime, new translations
and new editions of the works of Averroes, more correct and more complete,
appear, due to the labors of Bagolini of Verona, Oddo, Mantino, Balmes, Burana and
others. Zabarella, follows Averroes in his lectures at the University of Padua,
and findsan opponent in Piccolomini. Pendasio strives to blend Averroism with
Alexandrianism, and Cremonini, the last repre sentative of Averroism in Italy,
gives new forms and new tendencies to the doctrines of his master. His lectures
are preserved in the library of St.Marc in Venice, and form twenty-four large volumes.
Cf.PUtro Pomponacci, Studi Storicisulla Scuola di Bologna t di Padua by
Fiorentino, P. Pomponacci by B. Podesta; and P. Pomponacci e la Scienza by
Luigi Ferri, published in the Archivio Storico Italiano, Hellenic
Aristotelianism, not less than Averroism, was a step toward the emancipation of
the human intellect. The same object was greatly promoted by the Schoolof
Humanists, represented by Valla, Poliziano and Vives, and by the Platonic
revival through the Academy of Florence, and the translations and the works of
Ficino; cf. Tiraboschi's Storia delta, Letteratura Italiarut; Heeren's GeschkhU
det Studiums der dassischen LUeratur seitdem WiederauJUben der Wissensehaften, Renan's
op. c.; I. Burckhardt's Die Cultur der Renaissance in It/Uien, Von Alfred von
Reumont's Geschicht* der Stadl Home; I. Zeller's Italit et In Renaissance, and
the Edinburgh Review, Tiie Popes and Ute Italian Humanists. The Humanist revival,
properly speaking, commenced with the advent to Florence of Chrysoloras; and it
is promoted and illustrated by the researches and the writings of many
scholars, such as Poggio, Filelfo, Aretino, Valla, Traversari, Vegio, and
Tommaso di Sarzana, who afterwards became Pope under the name of Nicholas V.
The Council of Constance contains among its members several of the most learned
humanists of the age. and for a time the Papal See is at the head of the movement
for the revival of the study of classical literature. Prominent among the popes
who promoted that revival are Nicholas V., already mentioned, Martin V., Eugene
IV., Pius II., known under the name of Enea Silvio Piccolomini, and Leo X. To
this revival may also be referred the origin of the Academical bodies and
literary associations which formed so characteristic a feature of the literary life
of Italy of that time. Of these associations, those which held their meetings
in Florence, at the Camaldolese Convent degli Angeli and at the Augustine Convent
delloSpirito, are the most celebrated. The controversy between the Platonists
and Aristotelians of the Age of the Renaissance is described in De GeorgWs
Dmtriba by Leo Allatius in Script. Bizant.; in Boivin's QuereUe rtes Phibsophes
du XV. Hidcle (M/'tnoires de literature de l'Academie des Inscriptions), and in
Gcnnadius and Pletho, Aristotdismus und Platonismus in der Grieehixclien
Kirehe, by W. Gass. The following are the works of L. Thomeo, the Hellenist:
Arist'itelis Stagirita par&i owe vacant naturaUa, Dialogide Divinatione; Be
Animorum ImmorUtlitate; De Tribus Animorum Vehiculis; De Nominum Ineentione; De
Precibus; De Compescendo Luctii; De JEUitum. Moribus; De Belativorum Natura; De
Animorum Essentia. Giovanni Pico della Mirandola writes De Ente et Una: Twelve
book* against Judiciary Astrokigy; Ileptaplon, or a treatise on Mosaic
Phileisophy; Rtgu!* Oirigentis lwminem in pugna spirituali, and Nine hundred
Theses on Dialectics, moral, physical, and mathematical sciences, which he defends
in public in Rome. His nephew, Giovanni Francesco Pico, holds the same
doctrines, and writes in defence of the book De Ente et Uno. Cf. Das System des
John Pico von Mirandola by Dreydorff. Cardano writes many works, which are published
in ten volumes in quarto. The principal ones are: “De Subttilitate librixx; De
Rermn Varielate. Cardano is celebrated for his Formula for solving equations of
the third degree. Cardsano is also the author of an autobiography. His doctrines
are refuted by Scaligero in his Exereitalionesexotcrica. And defended by himself in his Apologia. Cf. Rixner's and
Siber's Beitrage zur Geschiehte der Physiologie im weiteren und engeren Sinne
[Ltben nnd MeinungenberuhmterPhysiherim.). Cesalpino is the author of several
works on physiology and medicine, PerifHJtetiearum Quasii'w*m libriqvinque,and
“DtemonumInvestigatin Peripatetiea. Valla writes Etegas-
tutrumlibrisex.DialeetiroyDixputatioiws, and DeVeraBono. He translates also the
Iliad, Herodotus, and Thucydides. Poliziano translates the Manual of Epictectus,
the Questions and Problems of Alexander of Aphrodisias, the Aphorism of
Hippocrates, and the Sayings and the Deeds of Xenophon. He writes also Parepistomenon,in
which he proposed to describe the tree of human knowledge. Barbaro writes on
Themistius, and on the Aristotelian doctrine of the soul. Tives De Causis
corruptarum artium, De Initiis, SectisetLaudibus Philosop7tia, id.; De Anima et
Vita. Of the numerous treatises of Vinci the greater part still remainin manuscript
in the Ambrosian library at Milan. They are written from right to left, and in
such manner that it is necessary to employ a glass in order to decipher them.
Extracts from his MSS. were published in Paris by Yenturi. Xizolio writes the Antibarbarusiseu
de veris principiis et vera rntviM philosophandi contra Pseudo-PhUosi/phos. Aconzio,
Metliodus, scilicet recta investigandarum tradendnrumque artium ac scientiarum
ratio. Sadoleto, Phadrus, seu de laudibus Philosophia. Erizzo, De W Istrumentu
e Via incentrice degli Antichi. Mocenigo, De eo quod est paradoxa. Piccolomini,
“L'Istrumento della Filosofia”, Filo- «"Jin luiturale, and Istituzione
morale. According to Tiraboschi, Piccolomini is the first philosopher who used
‘the volgare’ in his writings. He is however, preceded by T. Golferani, who
long before writes treatise in that language, Della Memoria locale. Piccolomini,
a nephew of Piccolomini, writes “De Rerum DefinUionibus;andUnicersa de Moribus Philotophia.
Here may also be mentioned Porta, the author of “De Humana Physiognomia” and Deoc-
eulti* Uterarum initio, seu De A rte animi sensi occulta aliis significandi”; Brisiani
Methodus Scientinram”; “Veneto, De Hdrmoaia ifundi”; Con tarini, De Perfectione
rerum, libri sex”; “Mazzoni, De TripUci Hominum Vita”, “De Consensu Aristotelis
et Ptatonis” and “In AristoteU*etPlatonis unitersam Philosophiam Praludia”, and
Valerii, “Opus aureum in quo omnia explicantur, qua Scientiarum omnium parens Lullus
tarn in Scientiarum arbore, quam arte gcnerali, tradit. Telesio writes “De
Rerum Natura juxta propria principia. Varii de naturalibus rebus libelli, “De hisquainaerefiuntetdeterra-motibus.
Quod aniirud universum ab unica anima substantia gubernatur, adversus Oalenum. Cf.
Hixter's and Siber'sop.c.;alsoli.Telesio by Fiorentino. The method pursued by
Telesio he himself thus describes. “Sensum videlicet et nos et naturam, aliud praterea
nihil sequutis umus, qua summes ibiipsa concorsidem semper, et eo demagit modo,a
tque iilemsem perojteratur. Of the origin of the world he says as follows. Liemotissimamsci
licet obscurissimamque rem et minime naturali ratione afferendam; cujus
cognitio omnis a sensu peiulet, et de quanihilomninoasserendumsitunqumn, quod volnonipso,
telipsiussimile perceperit sensu. Patrizi, a Croatian, writes “DiscussionesPeripatetica,
Nonade L'niccrsis Pliilosuphia, in qua Aristolelica methodo nun per m/itum, sed
per lucem ad primaincausamascenditur; DeliaPoeticaolaDecaistoriale. Cf.Rixner
and Siber op. cit. Of the works of Bruno some are written in the learned and
some in the vulgar. The latter are edited by Wagner, Leipzic, the former (only
in part) by Gefrorer, Stuttgart. The following is the complete catalogue of his
writings: “L’Area di N'ie”; “De Sphara”; “Dei Segni dei tempi”; “De Anima”;
“Claris magna”; “Dei Predieamenti di Dio”; “De Umbris Ideurnm”; “De Compendiosa
Architectura”; “II Candelajo, a Comedy, “Purgatorio dell’Inferno”; “Explicatio
tri- ginta S giU/irum, l a Cenadelle Ceneri, five dialogues; “Delta Causa,
Princi-fiio et Uno, De, flnfinito Unieerso e Mondi, Spaccio delta bestia
trionfante, Cabala dd cacallo Pegaseo con Fagyiunta de/F asino C'iUenico;Degli
heroici Furori”; “Figuratio AristoteliciAuditusphys”; “DtalogiduodeFabriciimorden
tuSaUrnitanipropediritiaadinttntKmeadpeTftctam Cmmimttx impraiim. J$ri Brum
intomnium”; “De Lampade combirtaturia Lulliana”; “De Program a Lampade
cenatoria Logieorum, Acrotirmu*. teu ration** articuiorvat phyxiomm advertu*
Arisloteiieat, Oratio Valedictoria”; Yitemberga habiUi; De Sfxtrrum
ScruiinioetLampade eombinaVoria Raymondi Luilit.Centum ft Seragikt-i ArtieuU
adeem* hvju* tempettati* Mathtmatico» atque PhAutuplto*. Oratio «*»>
latoriahabitainobituPriridpUJuUiBrun*ricen*iumD»ci*.IS"*!*;DtItnagiuum.S§**-
rumetIdearumCompomtiane, De TriplieeMinimaetMemura, DeMonadt.
NutneroetFigura.1591;DererumImagmibut”; Libredew tette arti liberali”; “Liber
triginta Statuarum, Tempiam Mnemonidi”; “BeMuttipUciJfundiVita,1591(unpublishedandlost);DeSatmie
gettibu*(id.); De Prindpii* Yeriiid.); De Attrobigia {.id); De Magia pAgnca;Itt
Phytica; Libretto di eongiurazioni; Surmna terminorum metayJtysicorum, pubL W H;
Artiftcium perorandi. pubL 1012. Cf. Bruno oder uber da* uaturliche. and
gi-ttlxit PrineipderDinge,bySchelling.1802.
AlsotheintroductionofT.Mami.iiitothe translation of Schelling's dialogue by the
Marchioness M. Florenzi Waddington;Bax ter's and Siber's op. cit Bruckerii
Hutoria PhMonophia. L 6. Buhle, Commentat» deOrtuetProgre**u PantheimniindeaXenophane
Cohfoiaoprimaeju*authtrreunptt ad Spinozam; Nioeron, M'moiret pour »ercir a
Chiatoire de* hmmnt* iiitutre*; C. Stepo. Jordan, Di*qui*itio de Jordano Bruno
Nolano; Guil. F. Christiani. De Studii* Jordan
Brunimathematicis;Kindervater,Beitrdgetur LebentgetchichUde*Jord.Bruno. D.
Lessman. Giordano Bruno in Cisalpinische Blatter. Tom. 1; Fullebom. BeitrAye
tur G e*chiehte der PhUmoph., F. L Clemens, Giordano Bruno und Nicheiae* t'/n
Cusa, 1847; John A. Scartazzini, Ein BluUeuge de* Wittens, 18(37; Ch. Bar-
tholmes, Jordano Bruno, George Henry Lewes, History of Philosophy, laBS:
Sigwart. Spinoza's neuentdeckter fractal von Gott, A. Debs, Jordani Bruni Vila
et Scripta, Lange, Geochiehtc de* Materialumus, 1800; Donienico Berti, Vita di
Bruno, which contains the proceedings of Bruno's trial before the Inquisition
of Venice, recently discovered in the archives of that city., Tommaso
Campanella's principal works are as follows: L'nicersm PhilnsoyJiiaten
Metaphyxicarum Rerum juxta propria dogmata, parte* Ire*, Philoaephia teia&u
demonttrata et in octo disputation** di*tincta, advertu* eo* qui propria
arbitral*, non autem semata duce natura, philosophati aunt, 1591; Beak*
Philosopher eptiegutit* parte* quatuor, hoc e*t de rerum natura, hominum,
moribus, etc. His Ciiitas Soli*, akindof Utopian romance, formspartofthe latter
work. Delibruproprii*etrecta ratione studendi Syntagma, De Seiuu rerum et
Mugia. De GentSesimo nonretinendo; Atheismu» triumphatu*;Apologiapro Galihro; DeMonarchU\Ui*pa*i-
cti; Disputationum in quatuor partes PhUosophia BeaU* libri quatuor; several
philosophical poems in Latin and Italian. Cf.Baldachini, VitaeFilosofiadiT.Campaneila,
A. D. Ancona. Introduction to the new edition of Campanella's works, Turin,
1854;S.Centofanti, an essay published in the Archirio Storico Italiano; Spaventa
and Mamiani, op. cit.; also Sigwart, Tit. Campaneila und Heine poUtischen Idem,
in the Preuss. Jahrb., Mile. Louise Colet, QSucrechoutie de CampaneBa, Pierre
Leroux, Encyclopedic nouveUe, and G. Ferrari, Corso sugli Scrittvri pdititi
Italiani. L. Vanini is the author of Amphitheatrum JEternai Procidentia; De
edau- randi* Natura;, Regina Detrque morlalium, arcatti», Dt Vera Sapientia;
Phytic- Magicum;DeContemneiidaGloria;ApolngiiiproMotaieaetOirirtianalege.
Cf.W.D. Fuhrmann, Leben und Schicksale, Character und Meinungeii de* L. Yaumi, Emue
Waisse. L. Vantili, sa vie, sa doctrine, et sa mort; Bxtrait dea
mcmoires de P Aoadémie dea Sciences de Toulose. Arpe, Bayle, and Voltaire in
several of their works undertake the defence ofV anirò.
Cf.alsoLaVieetlesSentimentsdeL.VanirtibyDavidDurand,and Rousselot CEuvres P/Ulosophiques
de L. Vanini. Of all the editions of Machiavelli's works, that of Florence, in 8
vols. 8vo. is the fullest and thebest. AneweditionhasbeenrecentlypublishedinFlorencepartlyby
Lemmonier and partly by G.Barbera. Ofhiswritings,11Principe,writteninloll, Discorsi
sulle Decite di T. Livio, and Le Storie Fiorentine are the most celebrated. Cf.
Gesohichte der Staatswissensc/uiften, by B. von Mohi, Banke's zar Kritik
neuerer Gesc/iichts/icreiber, 1834; Macaulay's Essay on Machiavelli in his Critical
and Historical Essays. Ferrari in his Corso sugli Scrittoripolitici Italiani,
and Pasquale St.Mancini, Della Dottrinapolitica del Machiavelli. See also the life
of Machiavelli published in the Florentine edition of his works. The principal work of Guicciardini is
“La Storia d'Italia”, extendingfrom1490to Its best edition is that of Pisa in 10
vols. An edition of his unpublished works appeared in Florence,under the editorship
of G.Canestrini. This valuable publication contains “Le Considerazioni intorno al
Discorso di Nicolò Macliiavélli sopra la prima Deca di T.Livio; I Ricordi politici
e civili; I Discorsi politici; Il Trattato ei Discorsi sulla Costtuziome della
Republica Fiorentina e sulla riforma del suo governo; Im Storia di Firenze; Scelta
dalla corrispondenza ufficiile tenuta dal Guicciardinidurante le diverse sue
Legazioni; and il Carteggio, or his correspondence with Princes, Popes,
Cardinals, Ambassadors, and Statesmen of his time.
Cf.Banke'sop.cit.;Thiers'Ilis- totre du Consulat et de l'Empire — Avertissement;
the Preface by Canestrini to the Opere inedite di Guicciardini, and Storia
della Letteratura Italiana, by Guidici. For the works of Savonarola, Sarpi,
Giannoti, Parata, and Bottero, cf. Ferrari, op.cit. Savonarola is the author of
Compendium totius philosopliimtarn naturalisquam moralit, and of Trattato circa
il reggimento e il governo della città di Firenze; cf.Storia di Savonarola by
Villari. Sarpi writes in the volgare “La Storia del Concilio Tridentino”, a
work which has been translated into the learned, also, “Opinione come debba
governarsi la Republica Veneziana”, and many other works, of which a full
catalogue may be found in the Biografia di FraPaoloSarpi bhyk.Bianchi-Giovini. The
principal writings of Giannoti are “Della Republica di Venezia”; “Della
RepubUca Fiorentina”, and Opuscoli; of Parata, Perfezione della vita politica,
Discorsi politici. Of G. Bottero, La Ragione di Stato; Republica Veneziana;
Cause della grandezza delle Città, and I Principi. The sun of philosophy in
Italy rose with Galilei, a native o fPisa,
and the chief of the School, which a century before had begun with Vinci. At an
early age, Galileo is a professor at Pisa and Padua, and afterwards holds the
office of mathematician and philosopher at the Court of Tuscany. He is the true
founder of inductive philosophy. Regarding nature as the great object of
science, the autograph book of the Creator, Galilei holds that it cannot be
read by authority, nor by any process a priori, but only by means of
observation, experiment, measure and calculation. While, to aid his
investigations, he invents, the hydrostatic balance, the proportional compass,
the thermoseope, the compound microscope and the telescope, he borrows from
mathematics the formulas, the analyses, the transformation and development of his
discoveries. Applying this method to terrestrial and celestial mechanics, he
makes important discoveries in every branch of physical science, and places th eheliocentric
system on a scientific basis. Having thus given the death-blow to Scholasticism,
he is arrested by the Inquisition, forced publicly to recant, and to remain
under its surveillance for the rest of his life. Speaking of the comparative merit
of Galilei and Bacon, Brewster says that had Bacon never lived, the student of
nature would have found in the writings and the works of Galilei not only the
principles of inductive philosophy, but also its practical application to the
noblest efforts of invention and discovery. The eminent scientist Biot, while asserting
the uselesness of the Baconian method, insists upon the permanent validity of
that of Galilei; and Trouessart declares that in science we are all his pupils.
Galileo founds a School honoured by the names of Torricelli, Viviani, Castelli,
Borelli, Cavalieri, Malpighi, Spallaiizani, Morgani, Galvani, Volta and other
eminent scientific men, who, following his method successively, take the lead
in the scientific progress of Europe. It is due to this activity in science, that
the Italian soul is enabled to resist the oppressive influence of the political
and ecclesiastical servitude, under which Italy labored, and it is through the
example of Galilei, that physical science never becomes so predominant, as to
exclude the stndy of philosophy. Throughout hi sworks he loses no occasion to
insist n efficient and final causes, and on the infinite difference which
exists between the divine and the human intelligence; and while he deprecates
the scepticism, which denies the legitimate power of reason, Galieli rejects
pure rationalism, which knows no limit for human knowledge. Galilei asserts that
beyond all secondcauses, there must necessarily exist a First Cause, whose
omnipotent and allwise creative energy alone can explain the origin of the
world; and he professes faith in that Divine Providence which embraces the
universe as well as its atoms, like the sun which diffuses light and heat
through all our planetary system, while at the same time it matures a grain of
wheat as perfectly, as if that were the only object of its action. The
works of Galilei have een published in a complete edition, 10 vols., under the editorship
of Alberi. “Le Opere dì Galileo Galilei, prima edizione completa,condutta sugli
autentici Manoscritti Palatini,Firenze. This edition contains the life of
Galilei,written by hi spupil Viviani. Among his biographers and critics may be mentioned
Ghilini in his Teatro di uomini letterati; Rossi in his Pinacotheca Nustnum
Virorum, Frisi, Eloggo di Galileo, which is inserted in the Supplement de L’Encyclopedic
de Diderot and D’Alembert; Andres in his history of literature and in Saggio delli
Filosofia di Galileo; Brenna, “Vita di
Galileo”, inserted in the work of Fabroni, “Vita Italorum doctrina excettentium
qui Saculis xvii. et xviii. Jloruerunt; Tozzetti, in his Notizie degli
aggrandimenti dette Scienze fisiche in Toscana, in which he publishes the life
of Galileo written by Gherardini, his contemporary; C. Nelli, Vita e Commercio
letterario di Galileo; Bailly, Histoire de l’Astronomie moderne; G. Tiraboschi,
Storia della Letteratura Italiana; Montucla, Histoire des Mathematiques, Libes,
Histoire Philosophique de Progrès de la Physique, IL T. Biot, Artide Galileo in
Biographie universelle, published by Michaud; Barbier in his Examen critique et
complement des Dictionnaires hlistoriques les plus repandus; Brougham, Life of
Galileo; Salii, in his continuation of
the Histoire Uttiraire d'Italie de Ginguenò; Cuvier,
Histoire des Sciences Naturelles; Libri, “Histoire des Sciences Mathematiques
en Italie”; Brewster, Lines of Copernicus and Galileo (Edinburgh Review), Life of
Newton,and the Martyrs of Science; Boncompagni, Intorno adalcani avanzamenti delibi
Fisica in Italia; Wbewell, History of the Inductive Sciences”; Marini, Galileoe
VInquisizione, D.Bezzi, in the Atti dell'Academia Pontificia dei nuovi Lincei; A.
de Keumont, Galilei und Rom, published in his “Beitrage zur lUiUeniscJten
Geschicltte; Chasles, Galileo Galilei, sa Vie, son Proeès et ses Contemporains,
Madden, Galileo and the Inquisition; Bertrand, in his Les Fon diteurs de l’Astronomie
moderne; Trouessart, in his “Galilee, sa Missionscientìfique, saVie ets
onProeès”; Panhappe, “Galilee, sa Vie, ses Découvertes et ses Travaux”; Epinois,
Galilee, son Proeès, sa Condam'nation, d'après des document» inédits, in the
Revue des Sciences Historiques; Rallaye, Galilee, la Science et l’Eglise, in
the Revue du Monde Catholique; Jagemann, “Geschichte des Lebens und der Schriften
des Galileo Galilei”; Drinkwater, “Life of Galileo”; Selmi, “Nel Trecentesimo
Natalizio di Galileo in Pisa”; Feliciani, “Filosofia Positiva di Galileo”; Wohlwill,
Der Inquisition — Process des G. G.”; “Galileo and his
Condemnation,Rambler(Lond.), Casc of Galileo, Dublin Rerietp.specially worthy
of consultation; The Martyrdom of Galileo, North British Review, in reply to Biot in the Joural des Savants; Castelnnu,
Vie, Trataux. Proeès, etc. de Galil, Paris; Martin, “Galilee et les Droits de la
Science; “Galileo's ''System of the World " was translated into English by
Thomas Salusbury, fol. Lond. --. Giovanni Battista Vico, as the founder of the
philosophy of history, stands foremost among the philosophers of modern times.
He was born in Naples, and early devotes himself to the study of law,
philosophy, philology and history. Living in an age when the philosophy of Descartes
had become popular in Italy, Vico attacks the psychological method as the
exclusive process of philosophic investigation, maintains the validity of
common sense, and upholds the importance of historic and philological studies.
Vico’s writings, “De Ratione Studiorum,” “De Antiquissiiiia Italorum
Sapientia”, and “Jus Universale”, containing his “De Una et Universi Juris Principio
et Fine”; his “De ConstantiaPkUosophiceandDC Constantia-Pht- luloyias, form a
sort of introduction to his “Priiicipii di Scienza Nuova”, in which he develops
his theoryof the historyof civilization. Of this work, twice re-written, he
publishes two editions. In his introductory writings, Vico discusses the
question of method, particularly as applied to moral and juridical science, and
strives to evolve a metaphysical theory from the analysis of the roots of the language
of the Ancient Romans and from the general study of philology, which, according
to him, embraces all the facts of historical experience. Knowledge consists essentially
in a relation of causality between the knowing principle and the knowable. Since
the mind can only know that which it can produce through its own activity; that
is to say, the mind can only know those data of experience, which it can
convert into truth by aprocess of reason. This conversion, in which, according
to Vico, lies the principle of all science, neither the psychological method,
nor the geometrical process introduced by Descartes, can effect. It can only be
produced by a method in which certainty and truth, authority and reason,
philology and philosophy become united and harmonized, so as to embrace the
necessary principles of nature as well as the contingent productions of human
activity. To establish a fact which may be converted into truth, to find a
principle which has its basis in experience and common sense, yet is in harmony
with the eternal order of the universe, is the problem of metaphysics. This factorthis
principle, according to Vico, is to be found in God alone. the only true “ens” who,
being an infinite cause, contains in himself all facts and allintelligence. Thus DivineProvidence,
acting inu» mysterious way, but through the spontaneous development of human
activity, is the basis of all history, which reveals itself in the evolution of
language, mythology, religion, law and government. Whether we accept the mosaic
account, which points ont a state of de-gradation as a consequence of the fall,
or admit a primitive condition of barbarism, it is certain that, at a remote
period, the human race is in a condition far above that of the brutes. Gigantic
in stature, their bodies covered with hair, men roam through the forests
which covered th eearth, without family, language, laws, or gods.
Tetwithin them, though latent, there are the principles of humanity, sympathy,
sociability, pudor, honour and liberty, which, call forth by extraordinary
events, gradually raise them from animalityto the first condition of human beings.
This awakening is caused by terrific phenomena of nature, which, stimulating
the mind to consciousness, brought a jxirtion of mankind under the influence of
a super-natural power, and induces a number of individuals to take refuge in
caverns and to commence the formation of families. From thi spoint the dynamic
process of civilization is subject to certain laws, which preside over the development
of all history. Prominent among these laws is that which produces the universal
belief of all people in the great principles of religion, marriage and burial,
which from the first beome the true./ter/tfra humanitatix. This lawm anifests itself
in all the progress of civilization, which is divided into three different
ages: the divine, the heroic, and the human. The divine age is the first stage
of civilization, when the chief of the family is king and priest, ruling over his
subordinates as the delegate of heaven. It is the age of the origin of
language, rude and concrete, the age of sacred or hieroglyphic characters, of
right identified with the will of the gods, and of a jurisprudence identified
with theology, the age of idolatry, divination, mythology, auspices and oracles.
The heroic age has its birth when that portion of mankind which remains in a
savage condition, seeks refuge from the violence of their companions, still
more degraded than themselves, in the homes of those families already
established, and at the feet of the altars erected on the heights. The newcomers
are admitted into the family on condition of becoming servants of their
defenders, who now claim to be the off-spring of the gods,and heroes by right of
birth and power. Thus the primitive families are the rulers of the community,
enjoying rights which are not accorded to slaves -- such as the solemnity of
marriage, the possession of land, etc. Gradually the number of slaves
increases. They become restless under the domination of their masters, who
after long struggle are finally constrained to grant them some of their rights.
Hence the origin of agrarian laws, patronages, serfs, patricians, vas sals, and
plebeians, and with them the rise of cities, subject to aristocratic government.
Meantime language, losing some of its primitive rudeness, becomes imaginative
and mythologic; its characters become more fantastic and universal. Law is no
longer from the gods, but from the heroes, though still identified with
force; and the duel and retaliation take place of sacerdotal justice. In this period
the predominance of imagination is so great that general types become
represented bv proper names, and accepted as historical characters. Thus the
inventive genius of Egyptians finds a personification in Hermes, the heroism of
ancient Greece in Hercules, and its poetry in Homer. So Romulus and the other
kings of ancient Rome, in whom periods of civilization have been personified,
descend to posterity as historical characters. With the gradual development of
democracy the human age appears: and with it aristocratic or democratic
republics and modern monarchies, established more or less on the equality of the
people. Language becomes more and more positive, and prose and poetry more
natural and more philosophic. Religion loses a great part of its mythologic
alcharacter, and tends to morality and to refinement. Civil and political
equality is extended, natural right is considered superior to civil legality, and private right becomes distinguished from public.
In the pefection o fdemocratic governments there is only one exception to
equality, and that is wealth. But wealth is the cause of corruption in those
who possessit, and of envy and passion in those who desireit. Hence abuse of
power, discords, insurrections, and civil wars, from which monarchy often
arises as a guarantee of public order. Monarchy failing, the country which is
rent by corruption and anarchy will finally fall by conquest, or, in the
absence of conquest, it will relapse into a state of barbarism equal to that
which preceded the divine age, with the only difference that the first was a
barbarism of nature, the second will be a barbarism of reflection. The one is
ferocious and beastly, the other is perfidious and base. Only after a longp eriodof
decadence will that nation again begin the course of civilization, passing
through its different stages, liable again to fall and rise, thus revolving in
an indefinite series of “corsi” and “ricorsi”,
which express the static and the dynamic conditions of human society.
This theory is evolved by Vico from the history of Rome, making that the
typical history of mankind, whose principal features are repeated in the histories
of all nations. Thus the same law manifests itself again after the fall of the
Roman empire, when in the dark, the middle ages, and modern times, the divine,.the
heroic, and the human ages reappear. Civilization therefore in a given people,
that is to say, their progress from brutal force to right, from authority to
reason, and from selfishness to justice, is not the work of legislators
and philosophers, not the result of communication with other communities; but
it is the spontaneous growth of their own activity working under the influence
of exterior circumstances. The primitive elements of civilization are found
only in the structure of their language and mythology, their poetry and traditions.
The "Scienza Nuova," according to Vico, may he regarded as a natural
theology, for it shows the permanent action of Divine Providence in human
history; and as a philosophy, for it establishes the basis of the origin and
the development of human society, points out the origin of its fundamental
ideas, and distinguishes the real from the mythical in the history of nations.
This distinction, so far as it regards the history of Rome, is fully confirmed
by the more recent researches of Niebuhr, Schwegler, and Mommsen. The treatise
of Vico may also be regarded as the natural history of mankind and a philosophy
of law, for it gives the principles of ail historical development and the
genesis of the idea of natural right, as deduced from the common wisdom of the
people. The complete edition of the works of Vico in 6vols, was published in Milan,
under the editorship of Ferrari, the author of “La Mente di G. B. Vico”, an important
work on theNewScience.Giudice publishes “Scritti inediti diVico.” Vico's
philosophy gives birth to aconsiderablebranchof literature containing writings
of criticism and exegesis. Among his contemporary opponents may be mentioned Romano
in his “Difesa Storiai delleLeggi GrecJte venule a Roma, contro topinione
moderna del Signirr Vico”, and in his Lettere ml terzoprindpio della Scienza
Nvoua, in which he defends the Greek origin of the laws contained in the XII Tables,
and opposes the theory on spontaneous formation of language and civilization.
He is also the author of ScienzadelDirittoPublico, of the Origine della Societa
and other works, in which he holds doctrines antagonistic to those of Vico.
Finetti in his “De Principiis Juris Naturae et Gentium ad cerisuillobbeniuin,
Pufendorfium, Woljium et alios, and in his Sommario dell’ opposizione dd
sistema ferino,elafalsitddditstatoferineattacks thedoctrinesofVicoon
theoriginofciviliza tion. HisdefensewasundertakenbyEmanuele Duniinhis
Origineeprogramdelcittadino, edelgovemo civile di Roma, 1703, and in his La
Scienza del Costume oimia Sistema del Diritlo Universale; also by Ganassoni in
his Memoria in difesa del Prindpio del VicosiilTe/riginedettexn. Tatole.;and
Rogadei in his DeWanticostatoeldpopo L’ItaliaCisliberina. Among Vico's followers
and imitators may bementioned Stellini, in his “De Ortu et Progreami morum” and
in his “Ethica”; Pagano, the patriot who suffers death for his adhesion to the
Partbenopean Republic, in his Suggi politici d d Prindpii, Progresso e Decadenza
dtlle Soctetda”; Cuoco, in his “Platone in Italia”; Filaugeri. in his “Scienza
della legislazione”, who adopts many of the principles of Vico, and particularly
that of the original incommunicability of primitive myths among different
people, and spontaneous origin of historical manifestations; and Delfico who, in his “Ricerclie mil rero carattere della
juriurisprudema Romana e de' suoi outtori exaggerates the principies of Vico and
falls into a system of historical scepticism. Foscolo in his “Discorso dflC
Origine e deS1 Uffizio delta Lettemtura adopted the doctrines of Vico on the
origin and the nature of language as well as society and civil government. Janelli,
one of the most eminent critics of Vico, in his SuUa Naturti e NeoettitA dfUa
ijcienza deUe Cose e delle Storie wnane gives the critical analysis of the
historical Synthesis, as expressed in the Scienza Nuova. of the original and
spontaneous growth of different civilizations. Jamelli introduces the three ages
of the senses, imagination and reason in history, corresponding to the divine,
heroic, and human ages of Vico, and characterises the last age by the
development of Telo&ifoi and Etiolngia, the former the science of finalities,
the latter that of causalities. Romagnosi I nhis OmerrasioM tnti Scitiaii
Nuota, and other works, examines the doctrines of Vico from a critical point of
view, and while he accepts some of his principles he rejects his fundamental
idea of the spontaneity of the growth of civilization, and holds that this is always
the result of a derivation from another people. LuigiTontiinhisSagyiv Htpra, la
Scienza Nvota, makes a philosophical exposition of the doctrines of Vico, and
dwells particularly on the relations existing between Vico, Machiavelli, Gravina.
Herder, and other jurists and philosophers. Predari undertakes the edition of
Vico's works, but he published only one volume, in which he gives an historical
analysis of Vico’s mind in relation to the science of civilization. Cattaneo in
his Vico e F Ittiliti in the PoHtecnito, holds that Vico succeeds in fusing together
Machiavelli's doctrine of the supremacy of self-interest with that of the supremacy
of reason, as denied by Grotius. Tommaso, in Studi critiei maintains that the
idea of progress is apparent in the Scienza Nuova, in which, although the
course of history is fixed within the limits of a certain orbit determined by
the law of the Corsi and Ricorsi, this orbit is not limited, and may become
wider and wider in the progress of time. Mamiani, in his “RinnocamentodettaFtiotnjiaantteaIaliaana”,
adopts the criterium of the conversion of fact into truth as expressed by Vico,
his doctrine on the unity, identity, and continuity of force, the spontaneity
of motion as belonging to a principle inherent to every atom independently of
the mass, and the idea of the indivisible, indefinite, and immovable, as
evolved from phenomenical reality. And so Rosmini and Gioberti have in their
various works endeavoured to bring hie authority to the support of their
theories, while Centofanti, in his “Formda logic* dellii Fifvsojia (IMa Storia”
follows Vico in considering historical reality in its ideal genesis, in
ascending from experience to the philosophical idea of history, and in connecting
under one principle the cosmic, psychologic, and social orders. Carmignani, in
his 8t/ma deW Oriffini e dei Progressi della Filosofia del Diritto”, attributes
to Vico the origin of a true philosophy of jurisprudence, and Amari in his “Critica
di una Scienza delle legislazioni comparate”, gives a complete analysis of
Vico’s doctrines having relation to the philosophical and historical department
of comparative legislation. Carlo, in his FUosofiatetondoiPrindpUdiVico and La
Mente (ClUttia e O. B. Vico; Fornari, in his Delhi Vita di Cntto; Zocchi, in his Studi sopra T. Jfenwi; Galasso,
in his Del Stulema Hegdiano, and Del Metoda Storico del Vico; Spaventa,
Florentine, Vera, Bertrai, Conti, Franchi, Mazzarella and others either adopt
some of the fundamental principles of Vico, or subject his doctrine to critical
examination. Siciliani, in his Sid Rinnotamento della FUo»ofin ponitiva in
Italia”, having examined all the principal systems of philosophy, rejects them
all, and contends that the reconciliation of modern positivism with ancient
idealism can only be effected throuch the doctrines of Vico, from which he
strives to develop not only a historical philosophy, but a logical and metaphysical
doctrine. Siciliani isa lsotheauthor of “Dante, Galileo e Vico”. Other works of
criticism on the philosophy of Vico are Colangelo's “Consideraaoni sulla
Scienza Nuova”, Cesare's “Kmimario dcUe dottrine del Vico”; Gallotti's
Principii di una Scderna Nuova di G. B. Vico”; P. Jola'B Studio snl Vico”; Mancini's
“Intorno alia Fihsofia d d Diritto”, Valle's Stiggi nulla Scienza ddla Storia”;
Rocco's Elogio Storico di Vico”; Reggio's “Introduzioneai1rincipiidclleUinaneSucieta”;
Marini'sG. B.Victo; Giani'sDeW UnicoPrincipioedell'UnicoFine ddV Universo
Diritto”; Fagnani's “Delia necessitd e dcW uso ddla Ditinazione UntificatadallaScienzaNuova
diVico”; Fontana's/>(FiUisofiuneJlaStoria”; J. Merletta's “G. B. Vico e la sapienza
antichissima degli Italiani”; Luca’s “Saggio ontiilogico suVe dottrine deW
Aquinute e del Vico”; Cantoni's G. B. Vico”. In Germany the philosophy of Vico
finds interpreters in Savigny in his NtebuJir, E. Gans in his preface to UegeVs
Philosophy of HiMory; Jacoby in his Cantoni uber Vico”; Wolff in the Museum dcr
Alterthumswissenschaft”; OrelliinhisVicoandNiebuhr; Weber, thetranslatoroftheScienzaNuova;
Giischel in the Zerstreute Blatter; Cauer in the Germanic Museum, and C.EiMiiller.
thetranslatorofVico' s minor works. In France, Michelethas interprets Vico’s
doctrines in his Principe-i de la Philosophie de CHi*toirc”; Ballanche, in his
Prolegomenc* din Palingenesie Sociale, and in his Orphee”; Cousin, in his
Introduction a F'ITM'irt'delu Philosophic”; Lerminior." in his
Introduction generate a Fllistoire dn Droit; Jouffroy, in his Melanges
Philosophiques; Bouchez, in his Introduction, dla Science deVllistoire; the
anonymous author of la Science Nouvelle par Vico”; Franck, in the Journal de*
Savants”; Ferron, in his Theorie du Progres”; Vacherot, in his Science et
Conscience”; Laurent, in his Etudes sur l’histoiredeVHumanite”; Barthlomess, in
the Dictionnuire des Sciences PhUosophiques; Boullier in his Histoire dela
Philosophic Cartesienne”; Renouvier,in his “Manuel de la Philosophie Moderne” and
Comte in his letter to Mill. Cf. Littr6,A. C'ornteetla.PhilosophicPositire. Among
the English philosophers, Mill has given attention to the historical principles
of Vico in his “System of Logic”. Cf.Vico's "New Science and Ancient Wisdom
of Italians," in Foreign Review, Lond., Foreign Quarterly Review. The
philosophic revolution which began with Descartes in France, soon extends toItaly
and manifests itself in the two forms of psychologism (or idealism), and sensualism
-- represented by Descartes and Malebranehe on the one side, and by Locke and
Condillac on the other. Among the followers of the Psychologism of Descartes
are Cornelio, who in his “Progymnaxmata Physica” tries to blend the doctrines
of Telesio with the method of the French philosopher; Fardella, the friend of
Amauld and Malebranehe, and the author of Universe PhUosopliijt Systcma”; Doria, who in his “Difesa ddla Metafisica”
opposes the doctrines of Locke; Grimaldi, who in his Discussioni htoriclie, TetHugiche
e Filosofiehe” vindicates the Cartesian philosophy against the attacks of the
Aristotelians of his age; and Brescia, the authorof “Philosophia Mentis
methodice tractate”. Among the opponents of Aristotle may also be mentioned Basso,PluUmtphias
Natural!* adcersw Aristotelem, libri 12. The following writers belong to
the school of Descartes through the affinities with Malebranche: Gerdil who
held to the vision of ideas in the divine mind, and opposed the Sensualism of Locke,
the Ontologism of Wolff, and the Pantheism of Spinoza. Among his numerous works
the following relate to philosophical subjects: “L immateriality de Cdute
dimmlti coidre Locke”; “Defense du sentiment du P. Malebranclie— sur la nature
et Corigine da idee*contreteaamendeMr.Locke; “Anti-Emile,or,Reflexion*svrlatlteorieetlapra
tique tie l’education contre les principes de Rousseau”; Traite de* combat*
singnliert; Discours philosoplugue* nur Vhomme; Dintostrazione maternaltea
eontro CeferMtd deBa materia; Del? inflnito Assoluto consulerato iitUa
grandezza; Esame e coitfuUtzi-me dti principii deUa FHosofla WiAfiana; Introdtmone
alio Studio deUa Religion. Rossi, contemporary of Vico, and author of “La
Meitte Sorrana “; Mieeli. who strives to reconcile Christian idealism with the Eleatic
doctrines, and whose system may be found in Gioanni's work, “Mieeii. ovcerotldCEnte
I'noeRente; Palmieri, who defends Christianity against the materialistic doctrines
of Frerct and oother French writers; Carli, who in his “Elemesti di Morale”
attempts a philosophical confutation of Rousseau on the inequality of men; Falletti,who,
in his work on Condillac, establishes the principle of knowledge on the idea of
being as evolved from the ego; Draghetti, who founds his Psychology on moral
instinct and reason; Torelli, in his treatise “De Sihtl/t”; Chiavacci in his
Saggio sulla grandezza di Dio”; Orazi in his” MeJodo mi tersnle di filosofare”;
Pini, author of the “Protologia”, in which he establishes all principles of
knowledge and morality on the unity of the Divine Nature; Giovenale, who in his
“Soli* intdligentitr, cttinon nieeedit itox. lumen iiideficiensac
inextinguibile Muminan* omrtem hominem” seeks in divine illumination the source
of all science; Tellino, who in his “These*PhUosojiltiea1deInflnito.1(W1”
ascends to the idea of the Infinite as the principle of all knowledge; a
principle which was also regarded as transcendental by Pasqualigo in “Disputationes
Met'tphgxicae”. By M.TerralavoroinMetaphysial; and by Boschovich in
“SullaLeggediCo&- tinuitd”. While these philosophers are characterized by a
Platonic tendency, the following professed themselves disciples of Aristotle:
Liccto in his “De Ortu Aninur IJtiman^r”; “DeInteMectuAgente”; DeLurerni*aittiqitorninreeonditi*;DeAi,mili*a»ti-
qui*; Apologia pro AristoUU. Athei-tini aceunato; De, Pittate Aristotetis”;
Polizzo in his “Philosophical Disputationes”; Andrioli, in his “Plttlosophia
Erperimentale”; Langhi, in his “Xoriasima Philvsophia”; Jlorandi. in his Curm*
Ph&*np/ua”; Maso. in his Theatrum Pldlosophicum”; Scrbelloni. in his Phibtnphii”;
Spinola, in his “Korissima Plttlosophia”; Ambrosini, in his Method**
ineentiea”; Benedetti, in his Plttlosophia Peripatetica”; Rocco. in his
Esercitnzionifi'.otofiche”. As Empiricists more independent of scholastic influence
may be mentioned Borelli, the eminent scientist, in his great work, “De Motu
Animalium”, in which animal mechanics are established on scientific principles;
Magalotti, in his Lettere famigliari against Atheism”; Grandi, author of a
Logic in which he opposed Scholasticism, and of “Diacresi”, in which he refutes
the doctrines of Ceva, as expressed in his “PlttlosophiaNovo-Antigua”, a workwritten
in verse, intended as a confutation of Gassendi, Descartes, and Copernicus;
Severino, who in his “Pawofta”stives to investigate nature through the study of
ancient monuments. Magneno precedes Gassendi in the restoration oft he
atomistic philosophy in his “Democritus reviciscens” and in “De Re*tauraU'oite
Phitotopki Z>em. Epieurea”; Ciassi anticipates Leibnitz in the doctrine of
Monades, in his “Tntorno (die Forte Vice; and Algarotti calls the attention of
his contemporaries to the works of Newton in his “Netctonuinismo”. The philosophy
of Wolff finds an exponent in the author of “InstUutiones Pliilosophm
Wo'.fianae” and the doctrine of Leibnitz is interpreted in the works of
Trevisani and Cattanco. Meanwhile, the questions as to the soul of animals, and
the union of the soul with the body, are treated by Cadonici in “Dissertazionc
epistolare”, Fassoni, in “Libro suW anima delle bestie”, L. Barbini, “Nuoro
Sistema intorno all’anima dei bruti”, Sbaragli, “Enteleehia, sen anima
sensitiva brutorum demonstrate contra Cartesium”; Pino, “Trattato sojyra
l’essenza dtW anima ihlle bestie”, Vitale, “L'unione dell’anima col corpo”, Papi,
“Sull’anima delle bestie”, Monti, “Anima brutorum”; Corte, “Sul tempo in cui si
injbnde Vanima nelfeto. Empiricism is greatly extended. At first it remains independent,
but it soon falls under the influence of the doctrines of Locke and Condillac.
Among the early Empiricists of that age may bementioned Martini, “Logica, seu
Ars coffutandi”, Fuginelli, “Prina'pia Metaphysial gcomctriai
meUiodopertractata”, Visconti, “Theses ex Universa Philosophia”; Sanctis, “Delle
passioni e rizi drWintelktto”; Fromond, “NonaIntroductioadPMosophiam”, Spedalieri,
Dei Diritti dtW Homo”, Zanotti, philosophical works, Longano, Dell’uomo
naturale”; Boccalossi, “Sulla-liiflessione”, Amati, EtMca ex tem pore
conciitnata”, Verri, philosophical works, Baldinotti, “Tentaminum
Mttap/iyskorum, Libri 3, and “De Recta Humana! Mentis Institutione”, Tettoni, “Priacipii
del Diritto naturale”, Capocasale, “Cursxs PhUosophicus”, Bianchi,
“Meditozioni”, Muratori, the author of the Annals of Italy, and of DdleForzc
deWIntiiulimento, DeliaForzadeUaFantasia,and DaFilosofiaMorale”; Gravina, the
author of De Origine Juris Ronnini, and
La Ragione poetica”. The influence of the sensualistic school of France is
chiefly introduced into Italy through the translation of Locke's "Essay on
tlut Understanding" by Soave (il modo delle parole, la parola e segno
dell’idea, e l’idea e segno della cosa), a member of the Order of the Somaschi,
and the author of “Instituzioni di Logica, Metafisica e Morale” and of many
other philosophical works, all moulded on the philosophy o fLocke. His “Instituzioni”
have long been the text-book of philosophical instruction in the Colleges of
Northern Italy. The translations of the writings of Bonnet, D’Alembert,
Rousseau, Helvetius, Holbach, De Tracy, and, above all, the philosophical works
of Condillac give a powerful impulse to the doctrine, and the philosophy of the
senses became predominant in the universities and colleges of the Peninsula.
The personal influence of Condillac, who resided at theCourt of Parma as tutor to
a Bourbon prince, greatly contributes to this result. The philosophical text-books
written by Mako and Storcheneau also greatly added to the propagation of
Sensualism in the Italian Schools. Among the representatives of this philosophy
may be mentioned, besides Soave already named Bini, “Lettere Teologiehe e
MeUifisicliche”, Pavesi, “Elementa Logices, Meta- physicei, et Phil. Moralis”, F.
Barkovich, SaggiosuUe passioni”, Rezzonico, SuHa FUmofia”; Tomaio, InstituzionidiMetaj
Utiea”, Valdr.s- tri, Lezioni di analisi delle Idee”, Lomonaco, Analisi della
scnsibilita”, Schedoni, “Delle morali influenze”, Cestari, “Tentatiro secondo
delta rigenerazione delle Scienze”, Abba, “Elementa Logices et Metaphysices,
Delle Cognizioni umane and Letterea F Uomatomille credenze primitive,;and "Patio,Blemeata
PhilosophimMoralis. On the same basis Cicognara seeks to establish Aesthetics in
his “Del Bello”, Cesarotti, Philology, in his Sulla Filosofia deUe Scienze”, Costa,
Rhetoric, in his D d modo di comporre, le idee, and Borrelli, Psychology, in
his “Prineipii della Genealogia del Pensiero”. To counteract these materialistic
tendencies, some philosophers endeavour to construct a philosophy ou the basis
of revelation, while others seek refuge in a kind of eclecticism. Among the first
may bementioned Premoli, “De etistentiaDei”, Riccioli, “De distinction sentium in
Deo et in creaturis”, Sicco, “Logica et Metaph.Institutiones”, Semery, Triennium
Philosophicum”, Ferrari, PJal<m>- phia Peripatetica adcersus teteres et
recensiores prasertim PhUosoplios, and Leti, “Nihil sub Sole Novum” and “De
unico rerum naturalium formali principio, ten de Spirita Materiali”. Among the second
class are Ceva,alreadymentioned; Corsini, Institution** Phtf.osofJiic* uè
Matematico”, Gorini, Antropologia”, Luini, Meditazione Filotvfie”, Ansaldi, Riflessioni
sulla Filosofia Morale”, “De traditioneprincipiorvm legis naturalis” and “Vindicim
Maupertuisinnm”, Scarella, “Element* Logica; Ontologia, Psycdnght et Teologia
naturalis, and above all, Genovesi in his “Elementa Mdaphysices”, “Elementorum
Artis Logico-Critiar”, “Instituzioni delle Scienze Metafisicli”, “Logica pei
Giovanetti, “Diceosina or moni science”, “MeditazioniFàosoficJie”, “Elementi di
Fisica sperimentale” and in his “Lezioni<& Commercio e di EeonAnia
Citile”, which work contains his lectures on political economy, delivered from
the chair established at Naples by his friend Interi, a wealthy Florentine who
resided in that city. To this same School may be referred Galiani, tne author
of “Trattato della moneta” and tin Dialogues stir le Commerce de Uè”, Bianchini, who, in his “Storia Unitersale”
strives to separate history from its legendary elements by a philosophic
interpretation of ancient monuments, Giannone, who, in his “Storia arile del
Regno di Napoli” puts in evidence the usurpations of the Church over the State,
and boldly asserted the independence of the latter; and Beccaria, the author of
“Dei Delitti e delle Pene”, a work which, more than any other, contributes to a
radical reform of penal law in Europe. Cf. StoriadellaLetteraturaItaliana di
G.Tiraboschi; Della Storia e detf Indole (fogni Filosofia di Buonafede, Delia Ristanrazione (Fogni
Filosofia nei Secoli 15°, 16°, 17°, by thesanv? writer, Dell’Origine e Progresso
d'ogni Letteratura, by Andres; /ecali della Letteratura Italiana, di Corniani
continuata da Ticozà e C. tigoni ls>5fi; Storiadella Letteratura Italiana di
Lombardi, HistoireUttérair' <fItalie, par Ginguène— eontinuée par Salfi; Storia
della Letteratura Italiana, di Maffei, Storia, della Letteratura Italiana, di
Giudici. Cf. also Supplementi alla Storia della Filosofia di Tennemann” by Bomagnosi
and Poli. OnGenovesi cf.Genovesi by Racciopi, and on Beccaria, “Beccar»
eilDirittoPenale” by Cantù. The predominance of French philosophy makes the
ideas of the French encyclopedists and sensualists popular among the more
advanced philosophers of Italy. The progress of natural science, of
jurisprudence and political economy contributes to foster the habit of mental
independence, while the national spirit which had penetrated the literature in
‘the volgare’ from the age of Aligheri, becomes more powerful than ever,
especially through the writings of VAlfieri, who, in his Misoyatto, earnestly
opposes the prevailing influence of French philosophy, and in his tragedies
strives to excite his countrymen to noble and independent deeds by the dramatic
representation of ancient Roman patriotism. This spirit is kept alive by the
poetry of Foscolo and Leopardi, the satires of Parini and Giusti, the political
writings of *.!;./.ini, the historical novels of Guerrazzi and Azeglio, the
tragedies of Manzoni and Niccolini, and the historical works of Troya,
Colletta, Hotta,SlidCesareBalbo. But no department of mental activity
contributes so powerfully to the advance of the national sentiment as
philosophy, which, embodying the aspirations of the people, aims to give them a
scientific basis and a rational direction. In its development it passes through
the same phases as in France, adjusting itself to the wants of the country, yet
keeping on the whole an independent character. The Italian contemporary
philosophy may be divided as follows: Empiricism, Criticism, Idealism,
Ontologism, Absolute Idealism or Hegelianism, Scholasticism, and Positivism. Of
the School of Empiricism Gioja is the first representative. He was born in Piacenza,
an dearly devoted himself to the cause of liberty and national independence.
Witht he advent of Napoleon in Italy he enters public life, and advocates a
Republican government. Under the Cisalpine Republic Gioja is appointed historiographer
and director of national statistics. With the fall of Napoleon Gioja retires
from office; and twice suffers imprisonment for his liberal views. Accepting
the doctrines of Locke and Condillac, Gioja strives to apply them to the social
and economic sciences in the defence of human rights, and the promotion of
wealth, and happiness among the people. In his “ElementidiFtlvsojin”, Gioja defines
the nature of external observation, and describes its methods its instruments,
its rules, and the other means through which its sphere may be extended. The foundation
of all science, according to him, lies in the science of Statistics, which
supplies the phenomena of scientitic investigation, classifies them, and brings
them under general laws. Thus, Statistic embraces nature and mind, man and
society; it originates in philosophy and ends in politics, to which it reveals
the economic resources of nations, wealth, poverty, education, ignorance,
virtue, andvice. This process he follows in his “FllosojiudtHaStatistioa”, in
which he reduces all economic and political phenomena to certain fundamental categories,
the bases of social science, and the criteria of productive forces in society.
Gioja follows the same method in defining the nature of social merit in his “Del
Merita e delle Ricompense”, fixing its constituent elements, he verifies them
in the history of nations, and by their presence or absence traces the
different degrees of their civilization. A follower of Condillac in psychology,
Gioja is the disciple of Bacon in his method, and of Bentham in hi smorals. The
general good constitutes the source of duty, right, and virtue; even self-
sacrifice springs from utility. Imagination and illusion play a great part in
human life, indeed it is only through these faculties that man excels other animals.
Through them man loves fame, wealth, and power, his greatest motives to action.
Virtue itself finds its bestcompensation in illusion, and religion has in the
eyes of a true statesman no other value than the influence it exerts on the
people. Gioja writes also “Teoria Civile e Penale del Divorzio”, “Indole,
Estenxione e Vantaggi dfllaStatistical”, “Nuovo ProspcttodelleScienseEconomise”,
“Ideolo gia” and “11Nuovo Gakitco. Gf. ElogioStorico di Gioja by Romagnosi, Discorso
su Gioja, by Falco, and Es*at sur PHistoire de la Philosophical Italieau Dix-Neuvieme
Sieclt,\^ Louis Ferri. Romagnosi, the eminent jurist, marks a step in advance in
the empiric philosophy. Romagnosi was born in Piacenza, supports the government
of Napoleon in Lombardy, and holds a professorship of jurisprudence at Parma, Pisa,
and Milan. He is tried for treason againstAustria, and acquitted. His psychologic
doctrines are contained in his “Che Cosa e la Mcnte Sana”, “La Supremo, Economia
deW Umano Sapcre”, Vcdutefondameiitali sulT Arte loyica”, “Dottrine della
Ragione. W'hile he admits the general tenets of Condillac, Romagnosi rejects
tho notion that our ideas are but transformed sensations. Lier ecognizes in the
mind a specific sense, the logical, to which he attributes the formation of universal
ideas and ideal syntheses. It is this faculty which perceives differences and
totalities, as well as all relations which form the chain of creation. The
harmony between the faculties of the mind and the forces of nature is the foundation
of all philosophy. It is through the logical sense that that harmony is
reached, and the connection and co-ordination of mind and nature are effected.
Its sphere, however, is limited to experience, and is therefore essentially phenomenal.
The reality of nature, cause, substance and force escapes our mind. Moral
obligation arises from the necessary conjunction of our actions with the laws of
nature, in reference to our own perfection. The ideal of this perfection,
formed from experience and reason, constitutes the rational necessity of moral order.
Right is thepower of doing whatever is in accordance with that order; hence
right is subordinate to duty. Hence, too, human rights are inalienable and
immutable; they are not created by law, but originate in nature, and culminate
in reason. Civil society is the child of nature and reason, and not the
offspring of an arbitrary contract, as Rousseau believed. Civilization is thecreation
of the collective intelligence, in the pursuit of the ends established by
nature. It is both internal and external; the first is the result of the
circumstances amidst which a nation may find itself, in relation to its own
perfection; the second is transmitted from one people to another, and modified by
local causes. As a general rule, civilization is always exteriorly transmitted
through colonies or conquest, or communicated by Thesmothetes (law-givers), foreign
or native. Romagnosi develops these ideas in his “Introduzione alio Studio del
Dlritto Publico Univer sale”, “Principii della Scienza del Diritto”; “Delia
Natura ed<?FattorideWIncivilimento”, “HisDella GenesidelDiritto Penale” in
which he limits the right of punishment to the necessity of social defence, has
contributed, not less than the work of Becaria on crimes and punishments, to
the reform of penal law in Europe since the beginning of the present century. A
complete edition of Romagnosi's works is published in Milan under the
editorship of Giorgi. Cf. La Mente di Romagnosi by Ferrari, his Biografia by
Cantu, and Ferri, op. tit. 2. The philosophic scheme of Criticism proposes to
establish the validity of knowledge by the analysis of thought. Its chief Italian
representative is Galuppi. Galuppi was born in Calabria, and holds a
professorship of philosophy at Naples. A student of Descartes, Locke,
Condillac, and Kant, Galuppi directs his attention chiefly to psychology, which
in connection with ideology constitutes, according to him, all metaphysical science.
Philosophy is the science of thought in its relation to knowledge and to
action; hence It is theoretical or practical. The former embrace pure logic -- which
occupies itself with thought, that is,with timjorM ofknowledge which is
independentofexperience.; Ideologyand Psychology -- the science of thought and
of its causes, and, third, Mixed Logic -- which considers empiiic thoughts, the
matter of knowledge, and unites the principles of pure reason with the data
given by sensations. A fourth branch, Practical philosophy, or Ethics,
considers thought in relation to the will,the motivesandrulesofitsactions. To this
a fifth branch, Natural Theology is added, which from the conditional evolves
the unconditional and from the relative the absolute. Philosophy from another point
of view may also be divided nto subjective and objective, as its object is th emind
itself, or th erelations which unite it to the externalworld. The fundamental
problem of philosophy is found in the question of the reality of knowledge.
Rejecting the solution of it given by Locke and Condillac, Galuppi accepts the
distinction of Kant between the form and the matter, the pure and the empiric
elements in human thought; but he insists that by making the former the product
of the mind, the philosopher of Konigsberg renders it a merely subjective
function, in a de knowledge entirely subjective, and paved the way for the
Scepticism of Hume. Realism in knowledge can only be obtained from the assumption
of two principles. First, the immediate consciousness of the Ego; second, the objectivity
of sensation. The consciousness of the substantiality of the Ego is inseparable
from the modifications of our sensibility; at the same time sensation, either
internal or external, is not merely a modification of our existence, but is
essentially objective; it affects thesubject and contains the object. Our mindi
s thus indirect communication with itself and the external world through a relation
which is not arbitrary, as Reid supposes, but essential, necessary, and direct.
This relation is expressed in the immediate sentiment of the metaphysical unity
of the Ego, which thus becomes the foundation of knowledge. From the primitive consciousness
of the Ego, and of the non-Ego, the mind rises to distinct ideas through
reflection, aided by analysis and synthesis— the analysis preceding the
synthesis— by distinguishing the sensation both from the ego, and the object
which produces it. Thus, an idea is essentially an analytic product, although
it may be considered a ssynthetic,iur elation to the substantial unity of the ego in which it is formed. Although all
knowledge of reality is developed from the consciousness of experience, there
is a previous element in the mind which renders that development possible. This
element is subjective, that is, it is given by th emind itself in its own
activity, andc onsists in the immediate perception of the identity of our
ideas, from which arises metaphysical evidence or logical necessity, which
forms the basis of allphilosophicalreasoningandscientificcertainty.
Thuseveryjudg ment based on logical necessity proceeds from the principle of
iden tity, which in its negative form becomes the principle of contradic tion.
It is therefore analytical; indeed no synthetic; judgment d priori is
admissible, and those which were held as such by Kant may all be reduced to
analytical ones, in which the attribute is contained in the subject, and which
therefore are based on identity. General ideas are all the product of
comparison and abstraction; none of them are innate, although they are all
natural, that is to say, the product of mental activity. Thus from the perception
of another body than its own, the mind evolves the ideas of duality, plurality,
extension, and solidity; from these the idea of matter; and through further
analysis, those of substance, causality,time and space. They are all analytical,
subjective and objective; analytic because derived through analysis from
identity, subjective because elaborated by theactivity of the mind out of its own
consciousness, and objective because contained in the objective perceptions of
sensibility. A spiritualist in psychology, Galuppi maintains the unity, the
simplicity, the indivisibility and the immortality of the human soul, which he
considers as a substantial force, developing into various faculties as it
becomes modified by diverse surrounding circumstances, from the consciousness
of the Ego and of the non-Ego (or Tu) arising to abstract and universal principles.
Remaining, however, withinthe bonds of empiricism, though he places the human
mind above nature, yet Romagnosi also holds that it cannot attain to the
knowledge of its own essence, or of the essence of matter, nor understand the
origin of the universe, and the processes of its development. In Ethics,
Galuppi rejects both the doctrine of Helvetius, which founds morality on the
instinct of pleasure, and that of Wolff and Romagnosi, who derive its essence
from our natural longing for perfection. First among modern philosophers of
Italy, Galuppi establishes with Kant the absolute obligation of moral law, and
its pre-eminence above self-interest and self-perfection. Happiness is a motive
to our actions; it is not the essence of moral obligation, nor the source of virtue.
Absolute imperatives, or practical judgments a priori,such as "Do
thy rduty” are at thefoundationof moral law; they originate from the very
nature of practical reason, which contains also the principle of the final
harmony between virtue and happinesss -- expressed in the moral axiom, virtue
merits reward, and vice punishment. From this principle as well as from ou rown
consciousness, Galuppi demonstrates the freedom of the will, both as a psychological
and moral fact. Natural religion has for it sobject the existence of God, of
whom we may obtain the idea by rising from the conditional to the
unconditional, from the finite to the infinite, and from the relative to the absolute.
This idea is subjective: it is developed from that of identity, that,is, the one
isi ncluded in the other. But we reach also the existence of infinite reality
through the principle of causality, and in this sense the idea of God is objective.
Theism alone can reconcile the infinite goodness of God with the existence of
evil; a reconciliation, however, which is imperfect, from the very fact that
human reason cannot understand all the relations which exist between all beings.
God is incomprehensible, creation is amystery, miracles are a possibility, and
revealed religion is an important aid to our education. Cf. L.Ferri,op.cit.,and
It.Mariano,LaPhilosophicContemporaine en Ltalie. he following are the works of
Galuppi: “Saggio FUosqfico sulla Critlca della Conoseema”, “Letter? Fllosofiche
suite Vicende della FUosofia intorno ai Prineipii dtlla, Conoscenza Umana da
Cartesio fino a Kant, Elementi di Filosofia”; “Lezioni di Logica e di Metajlsica”;
Fili* sojuidellaVolontd”’ “ConsiderazionisuWIdealismotrascen- dentala e sid
Itazionalismo assoluto”. The following writers may be referred partly to Empiricism,
and partly to Criticism:P.Tamburini, “Introduzionealio Studwddla FUosofiaMorale”;
ElementaJitri*Xa- turce”, “Cennisiiila PerfettibiUtddtW Umana Famiglia”, Ceresa.Prineipiit
Leggigeneralidi FUosofiae Medieina”, Zantedeschi, Elementi di Psieologia Empirica”,
Poli, Saggio FUotofico sopra la Swola dei modernifilosofi naturalisti”, “Saggio
cFun Corso di Filosofia; and Primi Elementi di FUosofia”, Ricci. in his
C'ottsiuitmo (AntologiadiFirenze). Rivato, Ricobelli.and Devincenzi, who wrote on
theFrench Eclecticism in the CommentarideW Alencodi Brescia”, Lusverti,
Inxtituzioni Logico-lfetafisiche”, Gigli,AnalisidnUe.Idee”, Bini,LezioniLogieo-itfta-
fixieo Morali”, Pezzi, Lezioni di FUosofia della mente e del more; Accordino,
ElementidiFUosofia”, ZeUi,ElementidiMetafisim”, Alberi,DdXaciWe”, Gatti,PrineipiidiIdeologic”,
Passeri, Ddlanaturaumanasocietoie”, DeW umana perfezione”, Scaramuzza, Esame
analiUco ddUi facoliA di*»• tire, Bonfadini, Sulk Categoric di Kant”, Bruschelli,
Prdectiones Logico- Mctaphisicm”, Bellura, La Coseieiua”, Fagnani, Storia
naiurale ddla potenza umana”, Delle intime relazioni in cui progrediscono
la Filosofia, la Religione e la. Libertà”, Ocheda, Della Filosofia degli
Antichi”, Pizzolato, Introduzione allo Studio detta Filosofia”, DomowBki, a
Jesuit, In stitution!s Philosophica”, Testa, La Filosofia del Sentimento”, “La Filosofia
dell' Intelligenza”, “Esame e discussione della Critica della Ragione Pura ài
Kant, Critica del Nuovo Saggio suW Origine delle Idee di A. Rosmini, Grazia, “Saggio
sulla realtà della conoscenza umana”, I.ettieri, “Dialoghi filosofici suW intuizione”,
Introduzione alla Filosofia monde e al Liiilto razionale”, Longo, Pensieri
filosofici”, Teoria della conoscenza”, Dimostrazione analitica delle facoltà
dell' anima”, Tedeschi, Elementi di Filo sofia”, Mancini, Elementi di
Filosofia”, Mantovani, Traduzione della Critica della Ragione Pura di Kant”, Mazzarella,
Critica della Scienza”, Della Critica. Empiricism is applied to ^Esthetics by Delfico
in his Nuove Ricerche sid Bello, Talia, Princijni di Estetica, Ermes Visconti,
Saggi sul Bello, and Riflessioni
idcologicìie intorno al linguaggio grammaticale dei popoli colti”, Venanzio,
Callofilia”, Zuccaia, Principi! eMetici, Lichtenthal, Estetica”, Longhi,
Callografia” and Pasquali, lnsliluziind di Estetica”. Zuccaia and Lichtenthal,
however, separate themselves from the empirical School, and strive to find the
essence of beauty in the idea. The same principles of Empiricism are followed
by writers who undertake to construct a genealogy of sciences, such as Ferrarese
in his “Saggio di una nuova classificazione delle Scienze”. He is also the author
of “Delle diverse specie di follia”, “Ricerche intorno all'origine diWistinto”,
“Trattato della monomania suicida”, De Pamphilis in his Geografia del'j>
Scibile considerato nelXn sua unità di utile e di fine” and Rossetti in his “DelloScibileedelsuoinsegnamento”.
Amongthe writers on Pedagogy who follow empirical doctrines may be mentioned
Pasetti in his “Saggio suW Educazione fisico-morale”, Raffaele, Opere Pedagogiche”,
Boneschi, recetti di Eilucazione”, Fontana, Manuale per l'Educa zione umana”, Parravicini
in his various educational works; Aporti, Manuale di Educazione e di
Ammaestramento per le Scuole infantile”, Assarotti, Istruzione dei Sordi-Muti”,
Bazutti, Sullo stato fisico intellettuale e morale deiSordi-Muti”, Renzi, SiuT
indole dei deciti, and Fantonetti, “Della Pazzia”. Among the historians who
follow the doctrines of historical criticism may be named Rossi in his
”StudiStorici”, Denina in his “Rivoluzioni d'Italia”, Verri in his “Storia di
Milano”, Gregorio in his “ConsiderazionisullaStoriadiSicilia”, Colletta inhis “StoriadelRegnodiNapoli,
Botta in his Storia della Guerra dell' Indipendenza Americana” and “Storia
d'Italia, continued from that of Guicciardini”, Palmieri in his Saggio Storico
e Politico sulla Costituzione del Regno di Sicilia”, Cantù in his Storia
Universale” and Storia degli Italiani”. Also by Micali in his L'Italia avanti
ilDominio de' Romani”, Mazzoldi in his
Delle Origini Italiche”, Lamperdi in his Filosofia degli Etruschi”, Berchetti
in his Filosofia degli antichi pojioli”, “Sacchi in his Stona dilla Filosofia
Greca, Roggero in hisori. della Filosofia da Cartesio a Kant”, Raguisco, Storia
delle Categorie da Taletead Hegel”, Sclopis, Storia detta Legislazione
Itidiana”, Farini, Stati Romani” and Farina, Storia d'Italia”. Next is
Idealism. Whatever may be the value of the psychological investigations of
Galuppi, and the seeming "realism" by which his theory is
characterized, his doctrine, founded as it was on the subjective activity of
the miiid in connection with experience, could not supply an objective foundation
for science. It therefore left the problem of knowledge unsolved. To establish the
objectivity of human thought on an independent and absolute principle is the
task which Rosmini, the founder of modem Idealism in Italy, proposes to himself.
Rosmini was born in Rovereto in the ItalianTyrol, and receives hiseducation at
Padua. He enters the priesthood, and at a later period founds a religious
institute of charity, whose members devote themselves to the education of youth
and the ecclesiastical ministry. He is charged by King (Jharlcs Albert with a
mission to Rome, the object of which was to induce Pius IX. to join the Italian
Confederation, and to allow the citizens of the Roman States to participate in
the W r of National Independence. Rosmini’s efforts at first promised success.
He is made a member of the Papal Cabinet and is even invited to the honours of
the Cardinalate. But the influence of the reactionary party in the Church
having become predominant, the Pope withdraws from the liberal path on which he
had entered, Rosmini's proposal is rejected, and the ambassador himself dismissed in disgrace. He returns to his retreat
at Stress on the Lago Maggiore, where he again devotes himself to the work of
the restoration of philosophy, for which he had so long laboured. Philosophy,
according to Rosmini, is the science of the ultimate reasons; the product of
highest reflection, it is the basis of all sciences in the universal sphere of
the knowable, embracing ideality, reality and morality, the three forms under which
Being manifests itself. Hence there are three classes of philosophical
sciences. First, the Sciences of intuition, of which ideality is the object, such
as Ideology and Logic. Second, he Sciences of perception, the object of which
is reality, as given in the sensibility, such as Psychology and Cosmology.
Third, the Sciences of reason, whose object is not immediately perceived, but
is found through the inferences of reason, such as Ontology and Deontology; the
former considering Being in itself and in its three intrinsic rela tions; the
latter, Being in its ideal perfection, of which morality is the
highestcomplement. Ideology is the first science. It investigates the origin,
the nature, and the validity of ideas, and with Logic establishes the
principle, the method, and the object of philosophic investigation. His
Ideologic and Logical works, containing the fundamental principle of his
system, and the germ of all his doctrines, are as follows: “Sagyio sutt'
Origine delle Idee”, “Rliinnovamento ddla Filog<yia in Italia”, a
polemical work directed against Mamiani, “Introduzione alla Filosojia”, and
“LaLogioa”. Having reduced the problem of knowledge to the intellectual per
ception of reality, Rosmini examines and rejects the solutions given by the principal
philosophers of ancient and modern times. He however accepts the views of Kant
on the essence of that perception, and places it in a synthetic judgment a priori,
the subject of which is given by our sensibility, and the attribute by our mind;
the one being furnished by experience, the other having a transcendental origin.
But against Kant, Rosmini contends that this transcendental element is one and
objective, not plural and subjective. It is not evolved by the activity of the
mind, but although essentially united to it, it has an absolute, objective and independent
existence. This element, the objective form of the mind, to which all Kantian
forms may be reduced, is Being in its ideality (“l’esere ideale”), which contains
no real or ideal determinations, but is ideal activity itself, deprived of all
modes and outlines, the potential intelligibility of all things, native to the
mind, the light of reason, the source of all intelligence, the principle of all
objectivity, and the foundation of all knowledge. Essentially simple, one and
identical for all minds, universal, necessary, immutable and eternal, the idea of
being is the condition of every mental act. It cannot originate from
reflection, abstraction, or consciousness. It has a divine origin. Indeed, it is
the very intelligence of God, permanently communicated to the human mind under the
form of pure ideality. All transcendental ideas, logical principles, identity,
contradiction, substance, causality, the very idea of the Absolute, are
potentially contained within it, and become distinct through the process of
reflection. It is only through the synthesis of sensibility and ideality, that
man intellectually perceives the existence of realities. To think is to judge,
says Rosmini, and to think of reality is to judge that it is actually existent.
To this judgment sensibility gives the matter or the subject, mind the form or
the attribute, by applying to the former the attribute of existence; while the
substantial unity of our nature, at once sentient and intelligent, affords the
basis on which that synthesisi saccomplished. Thus reality, which is subjective,
that is to say, is essentially connected with sensibility, becomes objectively
known through the affirmation of its existence. Thus ideality alone is knowable
per se; while reality acting on our sensibility is perceived only through
ideality. Through the faculty of universalizing, separating the possibility, or
the intelligibility, or the essence (these terms have the same meaning) of the
objects so perceived, the fluid forms universal ideas, which are thus but
specific determinations of the infinite ideality. Logic establishes the truth
of knowledge and the foundation of its certainty. Now truth is aquality of knowledge;
that is to say, our knowledge is true when that which we know exists. Truth is,
accordingly, the same as existence, and as existence is the form of our
intelligence, so our mind, in its very structure, is in the posses sion of
truth. No error is possible on this subject; for the idea of existence is
affirmed in the very act of denying it. So delusion is possible as to its modes;
for that idea has no mode, or determination. So all specific ideas and logical principles
are free from error; for they represent mere possibilities, considered in
themselves and without relation to other things. The same may be said of the
primitive judgment, in which the existence of reality is affirmed. Confining
ourselves to the simple affirmation of the actual existence of the object as it
is given in sensibility, we cannot err; error beginswhen we undertake to affirm
more than we perceive, or when we assert relations between ideas which do not
exist. Error, therefore, is always voluntary, although not always a free act; it
may occur in the reflex, but never in the direct or primitive knowledge. On
these principles, Rosmini rejects the doctrine of Hume and Berkeley as to the
validity of our knowledge. Rosmini's psychological, cosmological, and
ontological ideas are contained in his Psicoloyia, Antropologia, Teodic&i, and TiMsofia. Psychology considers the human
sol in its essence, development, and destiny. A fundamental sensibility
(“sentimento fondamentale”), substantial and primitive, at once corporeal and
spiritual, having two terms, one of which is a force acting in space, the other
ideality itself, constitutes the essence of the soul. It is active and passive;
it is united with internal and external extension, and its body has double relation
to it, of subjectivity and of extra-subjectivity. It is one, simple and spiritual,
and by this quality it I sessentially distinguished from the souls of mere animals.
Having for its aim and end the potential ideality of all things, it will last
as long as this intuition: it is therefore immortal, although its term of
extension will perish with th edisorganization of the body. Life consists in fundamental
sensibility, the result of that double hypo-static relation, in which the
body partakes of the subjective life of the soul, and the soul of the
immortality of the infinite ideal. Cosmology considers the totality and the
order of the universe, its parts and their relations to the whole. As reality
is essentially connected with sensibility, so that the idea of the one involves
the idea of the other, Rosinini admits a primitive sensibility in matter, and
holds, with Campanella, that chemical atoms are endowed with a principle of
life. Hence a hierarchy of all beings exists in nature, from the primitive
elements to the highest organisms, a hierarchy founded on the basis of the
different degrees of sensibility, with which they are endowed. Hence, also,
Rosmini affirms the existenceof a universal soul in nature, much like that
admitted by Bruno, whose sphere is indefinite space; a soul one in itself, yet
multiplied and individualized in the numberless existences of the universe.
Spontaneous generation is a natural consequence of the theory of universal life.
Ontology includes Theology; but while the former considers the essence of
Being, its unity and the trinity of its forms in the abstract, the latter
regards it in its substantial existence, as the absolute cause and finality of
the universe. The intelligibility of things, as revealed to the human mind,
being only potential and ideal, cannot properly be called ‘god’, who is the
absolute realization of the infinite essence of being, and therefore contains
in the unity of his eternal substance an infinite intelligibility, as well as
an infinite reality and morality, a reality which is essentially an infinite
sensibility, and a morality which is essentially an infinite love. It is thereforenot
through a natural intuition, but through the process of reasoning that the mind
acquires a knowledge of an existing God. It is by reflecting on the logical
necessity and the immutability which belong to ideality, on the conditions
required by the existence of contingent realities, and the nature of moral
obligation, that, by the process of integration, our reason is led to believe
in the existence of an absolute mind, the source of all intelligibility, reality,and
morality. Thus the idea of god is essentially negative, that is to say, affirms
his existence, but it excludes the comprehension of his nature. Creation is the
result of divine love. The Absolute Being cannot but love being, not only in itself,
but in all the possibilitiesof its mani festations. It is by an nfinitely wise
abstraction that the divine mind separates from it sown intelligibility the
ideal type of the univers; and it is by an infinitely sublime imagination that
it makes it blossom, as a grand reality in the space. Yet the universe is distinct
from the Creator, because it is necessarily limited and finite; and as such
it cannot be confounded with the Infinite and the Absolute, although it is
identi fied with it in its ideal type, which indeed flows from the very bosom
of the divine nature. Thus creation in its ideal essence is God; but it is not God
in its realization, which his essentially finite. In hisTefxii&sa, Rosmini
strives to show that the existence of evil does not stand in contradiction with
an all wise and omnipotent Providence. Man is necessarily limited, and evil is
a necessary consequence of his limitation. Perfect wisdom in its action must necessarily
follow immutable laws, which in their intrinsic development will come in
antagonism with partial forces, and produce discords in the universal harmony.
Such are thelaws of the maximum good to be obtained through the minimum, of
action, the exclusion of all superfluities, the graduation of all things and
their mutual dependence; the universal law of development; the existence of
extremes and their mutual antagonism; finally, the unity and the celerity of
the divine action, which presides over the government of the universe. The
problem of the possibility of a better world has no meaning: God may create
numberless worlds, but each of them will always be best in relation to its own
object. As from a box full of golden coins we can only draw golden coins, so
the Creator can only draw from his own mind thatwhichisbest. Deontology
considers the archetypes of perfection in all spheres, and the means through
which they may be realized. Moral science, including the philosophy of right,
is one of its principal branches. This is treated by Rosmini in the following
works: “Princij_rii <lrl!<t Seiema Mbrale, Storia Cumparativae
CriticadeiSwtemiMorali, Antropologia, Trattato delta Cosdema Morale” FilunojiadelDiritto,
OpuscoliMorali”. The essence of morality consists in the relation of the will
to the intrinsic order of being, as it reveals itself to our mind; hence the
supreme moral principle is expressed in the formula, recognize practically being
as you know it, or rdapt your reverence and love to the degree of worth of the being,
and act accordingly. The idea of being giving us the standard of this
recognition, implies the first moral law, which is tin; identified with the
primum notum, the first truth, the very light of reason. Hence moral good is essentially
objective, consisting in the relation of the will to ideal necessity. Thus morality
is essentially distinct from utility, the former being the cause, the latter
the effect; hence Eudemonology, the science of happiness, cannot be
confounded with Ethics, of which it is only a corollary. The relative worth of
beings arises from the degree of their participation in the Infinite; hence
man, whose mind is allied with an infinite ideality, has an infinite worth. It
is through this union, not through the moralautonomy of the will, as Kant
maintains, that man is a “person” and not a thing; and it is for this reason
that actions, to be morally good, must have for their object an intelligent being.
Moral categories are therefore founded on the gradations of intelligence and virtue,
which is but the realization of intelligence. The duties towards ourselves are derived
from the Imperative, which commands the respect and love of humanity, and we
are the standard, by which we estimate the faculties and the wants of our neighbours.
Rights are found in the faculty of acting according to our will, so far a sprotected
by morall aw. Man has an inalienable right to truth, virtue, and happiness, and
his right to liberty and property is founded on his very personality. Domestic societyis
the basis of all civil organization, and the authority of the State is limited
to the regulation of the modality of right, and never can place itself against rights
given by nature. Indeed its principal objectis the protection of those rights.
Liberal in almost all his doctrines, Rosmini’s ideas on the rights of the
Church betray a confusion of Catholicism with Christianity, indeed with
humanity. They are therefore extravagant as they are indefensible. It is true that
in his Le CinquePlayheildla C/tiesa, Rosmini strives to introduce intotheChurch
such reforms, as would have made it less antagonistic to the spiritof
Christianity. In that work Rosmini urges th enecessity of abolishing the use of
a dead language in the religious services, of raising the standard of clerical education,
of emancipating the episcopate from political ambitions and feudal pretensions,
and, above all, of intrusting the election of bishops to the people and the
clergy, as is required by the very nature of the Church. His essay is placed at
once in the “Index Expnrgatorius”. Rosmini applies also his philosophy to politics
in his filosojiu detta Politica, and to pedagogic science in his Principle Supremo
della Metodologia. Rosmini is also the author of Eponizione Critica della
Filosojia di Aristetele, “Gioberti e il Panteismo”, “Opuscoli Filosofi” and of
several volumes of correspondence. A complete edition of Rosmlni's works has been
published in Milan and inTurin. His posthumous work published in Turin under
the editorship of his disciple Paoli. ARJsumiof his system, written by himself,
may be found in the Storia universale di O. C'antil, in its documentary part.
Rosmini’s philosophy is early introduced into the universities and colleges of
Piedmont, through the labours of Sciolla, Corte and Tarditi, the chief
professors in the philosophical faculty at Turin. The two first embody the doctrines
of Rosmini in their text-books of mental and moral philosophy, while the third,
in his “Lettere di un Rosminiano”, undertakes to refute the objections which
Gioberti advances against that philosophy. It was this work, which gives Gioberti
occasion to publish his voluminous essay on Rosmini. Meanwhile, Rosmini’s
doctrines extend to the schools of Lombardy, owing to the essays of Pestalozza.
whose Element! di KUo-nyfiii, contain the best exposition of Rosminianism.
Pestalozza is also the author of “Difesa delle Dottrine di Rosmini” and LuMenie
di Rosmini, To the same School belong Manzoni, the author of the “Promessi
Sposi” who, in his Dialogo »>j2T /»- venzwne, applies the Rosminian
principles to the art of composition; Tommaseo, the author of the “Dizionario
Estetico”, the “Dizionario dei Sinonimi”, and of several educational works, in
his Espoxizione del Sistema Filosofico di Rosmini, A. Rosmini. Studi
Filosofici” and “Studi critici”. G. Cavour. the brother of the statesman of
that name, in his Fragment* Phitosopluquts; Bonghi, translator of several works
of Plato and Aristotle, and author of “Compendio di Logica”, who gives an
exposition of philosophical discussions held with Rosmini in his Le Sresiane; Rayneri,
in his “Primi Principii di Metodica”, and “Dlla Pedagogia”; Berti, the author
of “La Vita di Bruno”, Garelli, in his “Sulla Filosofia Morale” and in
“Biografia di Rosmini”, Villa, in his “Kant e Rosmini”; Peyretti, in his “Ekmenti
di FUosofui” and “Saggio di Logiea
generate”; B. Monti, in his “Del Fondamento, Progresso, e Sistema delle
Conoteeme Umnne”; Imbriani, in his Sul Fautsto di Goethe” and/Mr
Organism)poeticio e delta Poetica popolare Itliana”, Minghetti, the statesman
and colleague of Cavour, whose work, Dell’Economia Publica, bears the traces of
the influence of Rosmini's doctrines; Allievo, in his “Jlegdinnismo, la Scienza
e hi Vita”, and P. Paganini, in his “Bella Natura delle Idee secondo Platone”;
“Considerazumi sulle profonde armonie della Filosofia Naturale”, tkiggio Cosmologleo
sullo fypazin. and Stiggio sopra S.Tommaso e il Rosmini. To this classification
may be referred Les Principes de Philosophic, of Caluso. ptranslated into Italian
by P.Corte,an published with notes of Rosmini. Corte is the author of “EkmentidiFilosqfla”, embracing logical, metaphysical,
and ethical sciences. He publishes also Anthologia ex M. T. Cicerone and L. A.
Seneca in usum Philiw/phi-r Studiosorumconcinnaia,The doctrine of Rosmini on the
nature of originalsin, as it was expressed in his Trattato delta C'oscienza”, having
been violently attacked by several ecclesiastical writers belonging to the Order
of the Jesuits, it is ablydefended by eminent theologians of the Catholic
Church, Bertolozzi, Fantozzi, Pagani. and by Gastaldi, a collegiate doctor of
divinity at Turin, and Archbishop of that See. On Rosmini's System, see
further.— Leydel, in “Zeitschrift f. Philosophic, Annales de Philos.
Chretiennr, Bonnetty, ed. Paris, on Rosmini and the decree of the Index. Also
same Annaks, Bartholmcss, Hist. critique des Doctrines Religieuses, Paris, Lockhard, “Life of Rosmini”, Lond, Ferri, op.
cit., and Ferrari in the Revue des Deux Monde. Next comes Ontologism. The ontologic
school places the "primum philosoophicum" not in simple ideal
existence, but in absolute reality, the cause of all things as well as theprinciple
of all knowledge. This doctrine, held by St. Augustine and Fidanza, and revived
by Malebranche, is developed under a new form by Gioberti. Gioberti was born in
Turin, receives his education in that city, and early becomes a priest.
Arrested as a sympathiser with the revolutionar schemes of Mazzini, he is
condemned to exile.While in France and Belgium he devotes himself to the work
of Italian regeneration, and endeavours to attach the clergy to this cause. In
his “Primato Morale e Civile degli Italiani” Gioberti urges upon the papacy the
necessity of placing itself at the head of the liberal movement, and becoming
the champion of Italian nationality and the centre of European civilization. In
his Prlegomeni, and “Il Jesuita Moderno”, Gioberti labours o crush the opposition
with which his views are received by the reactionary party of the Church and
exposes the dangers of its policy. With th eaccession of Pius IX, and the subsequent establishment of
constitutional governments in the Peninsula, Gioberti’s ideas seem to have
triumphed. Gioberti returns to Italy and enters at once into public life,
accepting a seat in the Parliament and in the Cabinet of Piedmont, where he
soon becomes a ruling spirit. After the battle of Novara he is sent to Paris as
ambassador, in the hope of obtaining aid for the national cause. Unable to accomplish
his mission, Gioberti resigns his office, and remaining in that city a voluntary
exile, he again devotes himself to philosophical studies. The philosophy of
Gioberti is embodied in the following works: “La Teoria del Supra-naturale”,
“Introduzione allo Studio della Filosofia”, “Trattato del Buono”, “Trattato del
Bello”, “Errori Filosofici di Rosmini”. Philosophy, according to Gioberti, has
long since ceased to exist; the last genuine philosophers are Leibnitz,
Malebranche, and Vico. By substituting psychologic for the ontologic method and
principles, Descartes renders all genuine philosophic development impossible.
Descartes does in regard to philosophy what Luther does in regard to religion,
by substituting private judgment for the authority of the Church. Sensualism,
subjectivism, scepticism, materialism and atheism are the legitimate fruits of
the doctrine of Descartes. To do away with these errors is theobject of
true philosophy. Rosmini's theory cannot attain it; for it is founded on a psychologic
process, assumes as a principle of knowledge a pure abstraction, and thus falls
into the very errors which it proposes to combat. Through ideality, the mind cannot
reach reality, nor from the fact of consciousness can it ascend to universal
and necessary ideas. We must therefore invert the process, and look both for method
and principles not in the subject, but in the object. The object is the idea in
its absolute reality, immanently present to the mind under the form of a
synthetic judgment, which comprehends in itself all being and knowledge. This
judgment, as it is produced through reflection, finds its expres sion in the
ideal formula, “Ens creat existentias,” Being create existences — the supreme principle
of Ontology and of Philosophy. Through the intuition of this principle, mind is
in possession at once of the real and the ideal; for the first member of the
formula (the “Ens”) contains the object, Being, the absolute idea as well as the
absolute substance and cause; the second (“Existences”) gives the organic
multiplicity of contingent substances and causes and relative ideas; the third,
The Creative Act, expresses the relation existing between the absolute and the
relative, the unconditional and the conditional, and the production of real and
ideal existences from the Absolute. But although this intuition gives the power
of intelligence to the mind, it is in itself not yet an act of knowledge; as long
as it is not reproduced by the mind, it remains in a latent or germinal condition.
It is only by a reflex judgment that we affirm the contents of intuition;
coming to the consciousness of its elements, we become acquainted with their
mutual bearing and relations. This reproduction therefore is made through
ontok>gi«ilreflection, by which the mind, so to say, reflects itself upon
the object, and through which alone it is capable of acquiring the knowledge of
that ideal organism, which is expressed in the intuition. Thus the ontological
method is the only true philosophical process, and stands in opposition to the
psychological method, which is founded on psychological reflection, through
which the mind turns its attention, not upon the object, but upon itself. But to
direct its reflection upon the object of its intuition, the mind needs the
stimulus of *language*, through which it may determine and limit the object for
its comprehension. Hence the necessity of a first divine revelation, which by
language supplies the instrument of our reflection, and constitutes that
relation which necessarily exists between the idea itself, and the idea as it
manifests itself to our rmind. Fo ralthough the idea in itself is one and
indivisible, in reference to the human mind it has two sides: the one which is intelligible,
the other incomprehensible— thus being antithetic towards each other, and
giving rise to all the apparent antinomies between Science and Religion. The
faculty of super-intelligence, which is inherent in all finite minds, consists
in the sense which reveals to the mind its own limitations, as to the comprehension
of theidea. It is through revelation that the mind acquires some positive
knowledge of the superi-ntelligibility of the idea, although always limited and
clouded in mystery. Science, being the reproduction of the ideal formula, must
therefore be divided into two branches, corresponding to the intelligibility
and the super-intelligibility of the idea;— the one constituting the Rational
Sciences, the other the Super-Rational, the last being superior to the former
from their more extensive comprehension of the idea through positive revelation.
The genesis of sciences from the ideal formula is as follows: "
Jfiia" or the subject of the formula, gives Ontology and Theology. The copula
(creat) demands a science which shall com prise the double relation between “ens”
and existences, in both an ascending and a descending method. The descending
process (from Jieuifj to faiatenees) originates the science of time and space,
or Mathe matics. The ascending (from Existences to Being) the science of the
true, the good, and the beautiful, that is, Logic, Ethics, and AEsthetics. The
predicate (Existences) gives rise to the spiritual and material sciences. Oon
the one side Psychology and Cosmology, on the other, physical Science in its various
branches. The super-natural sciences follow the same division. As to the
validity of the knowledge arising from this formula, its first member expresses
its own absolute reality and necessity. The intuitive judgment in which this
reality and necessity are pronounced, viz.. '"En* *'•*," and ^Ens is
necessary" do not originate in the human mind, but are contained in the
idea itself, while the mind in its primitive intuition only listens to them —
repeating them in its succeeding reflex judgments. So that the validity of
those judgments is not affected by the subjectivity of the mind. Thus is it with
the funda mental ideas of necessity, possibility, and existence. The first
being the relation of the En sto itself; the second the relation of the
necessary to the existing; and the third the relation of possibility to
necessity. To these ideas correspond three great realities. To thefirst, the
Absolute reality, God. To the second, infinite or continuous m agnitude, pure
time and pure space. To the third, actual and discrete magnitude, the universe an
dits contents. Time and space are ideas, at once pure and empirical, necessary
and contingent. As pure and necessary, they may be conceived as a circular
expansion growing out of a single centre and extending to the infinite; by this
centre, Ens (Being) is symbolized. As contingent and empirical, they may be
represented by a circumference which projects from the centre and develops in
successive degrees. In this projective development, we have the finite reality,
multiple and contingent in itself, but one and necessary, if considered as
existing in the central point from which it emerges. For existences have a necessary
relation to the Ens, and it is only in that relation that it is possible to
know them. The very word existences implies their derivation from the Absolute
reality. But the nature of that derivation cannot be reached through reasoning.
It manifests itself in the intuition, in which it is revealed in the creative
act. By considering the two extreme terms of the formula out of the relation of
its copula, they become identified, and philosophy at once falls into Pantheism.
Thus the creative act is the only basis of our knowledge of contingent existences.
It is by bringing the phenomenal elements of perception into their relations to
creative activity that the sensible becomes intelligible, and the
individualization is of the idea are brought in the concrete into our minds.
And as our own ideas are formed in witnessing the creative act, it follows that
that they may be considered as copies of the divine idea, created and limited,
yet stamped with the character of a divine origin. Thus the ideal formula
considered in relation to the universe becomes transformed into these other
formulas. The one creates the multiple. The multiple returns to the one. These
two formulas express the two cycles of creative development, viz., the one, by
virtue of which existences descend from Ens; the other, by which they return to
I -- a double movement, which is accomplished in the very bosom of the ens
itself, at once the efficient and the final cause of the universe. The first cycle,
however, is entirely divine, while the second is divine and human, because in
it human powers are brought into play. In the Garden of Eden ther&- tiini
of the mind to its Creator is perfect; reason predominant over passion, man's
reflection was in perfect accord with the organic intui tion; but theFallalteredthatorder,andman
puthimselfmoreorless intooppositionwiththeformula. Ileucetheerrorsofancient
theogonies and Mythologies, and their Pantheistic and Uualistic Philosophies.
Thus the Bralnuinicand Buddhistic doctrinesoftheEast absorbed the universe and
man himself in the first member of the formula; while the philosophical systems
of the Greeks reduced everything; to the third member, with the exception of
Pythagoreanism and Platonism, in which the condition of its organic order is
substantially preserved. Christianity restores that order through the
miraculous intervention by which God, becoming man, brings the human race back
to its primitive condition. In such a dispensation, the tradition which contains
the organic structure of the fomula was placed in the keeping of the Church; hence
its infallibility, and its right to preside over Theology, as well as the whole
development of Science. The idea as expressed in the formula becomes, in its
application to the will, the supreme moral law, the basis of Ethics. While its first
and second terms give us the idea of moral good, its first cause, law and
obligation, the third term supplies the moral agent, and contains the conditions
of moral development. It is through his free will that man can copy the creative
act by placing himself in accord with the will of God, as manifested in moral law.
Hence, moral law partakes of the character of absolute reality; it is
objective, apodeictic, and religious, because it is founded on the very
relation of God to the human will. From this relation arises an absolute right
in the Creator, to which an absolute duty in man corresponds, the source of all
the relative duties and rights, which spring from his relation to his fellow-creatures.
It is through this accord of the human with the divine will, that man attains
happiness, consisting in the voluntary union of his intellectual nature with the
divine. The supreme formula of ethics is this: Being creates moral good through
the free-will of man. Fom this two others follow, corresponding with the two
cycles of creation. The first: that free will produces virtue by the sacrifice
of passion to law. Second, that virtue produces happiness by the reconciliation
of passion to law. AEsthetic science likewise finds its principles in the ideal
formula. Creation, with the ideas of time, space, and force, gives us the idea
of the sublime, while Exigences, that is to say. the real in its relation to
the idea, contain the elements of the beautiful. Thus, as existences are
produced arid contained in the creative act, so the sublime creates and contains
the beautiful. Hence the formula, being creates the beautiful through the sublime.
The two ideas are co-related. They both consist in the union of the intelligible
with an imaginative element, but while, in the sublime, one element predominates
over the other, in the beautiful the harmony of the two is preserved. Yet the
two ideas are subject to the cycles already noticed in the development of the
formula: The Sublime creates the Beautiful,
and the Beautiful returns to th eSublime. In the history of art the sublime
precedes the beautiful. The temple and the epic poem are the oldest forms of
art. The super-intelligibility of the idea gives rise to th emarvellons, which,
expressing itself in language, poetry, painting, and music, becomes an element
of AEsthetics. The first arts resting in the organic structure of formula, it
follows that only in orthodoxy can the full realization of beauty be found. Heterodoxy,
altering more or less that structure, introduces an intrinsic disorder into the
lield of AEsthetics, as well as into that of science, morality, and religion.
Gioberti at the time of his death was preparing other works, in which his idea sseem
to have undergone considerable change. Imperfect and fragmentary as they are
left, they were published under the editorship of his friend Massari, and bear
the follow ing titles, “La Protologla”; “La Filosofia della Rivelazione”, “La
Itifor-ma detta Chiesa. A tendency to rationalism blended with Hegelian transcendentalism
appears in those works, although ostensibly founded on the idealformula ofthen'rst
philosophy. The idea here becomes the absolute thought, which creates by its
very act of thinking. Sensibility is thought undeveloped, as reason is thought
developed; and even the incomprehensible is but thought undeveloped, which becomes
intelligible through development. Language as the instrument of reflexion plays
still a conspicuous part in the woof of the absolute thought, as wrought out in
creation, but it has become a natural product: and even of supernatural
revelation itissaid, that it may be considered natural, as soon as it is received
into th emind. It is through the creative act that absolute thought appears in
the development of Nature and Mind, a development which proceeds under the logical
form of a sorites, the principle of which is inexhaustible, the progress continuous.
The members of this sorites are prop»>-r which rest on categories, or fundamental
ideas produced by the absolute thought in its union with the mind, and the
tinners which it creates. In the absolute, the categories are one and in<!
idea, but become, multiple through the creative act. These are < and trine.
The first express the opposite while the last reconcile the oppositions of the former.
The absolute thought is the concrete and supreme Category, out of which all
others receive existence through its creative activity. An existence which is
developed, according to a dialectic movement. The organic structure of the
Categories, which embraces the relations between the terms of each dual one,
and the relations between their couples, is moulded on the ideal formula.
Pantheism does not consist, in a substantial synthesis of God and the universe,
but in the confusion of the finite and the infinite, and of the different modes
of existence which belong to them. God is infinite,both actually and
potentially. The world is potentially infinite, but actually finite. With Cusa
and Giordano lining it may properly be said, that the universe is a potential
God or a limited or contracted God. Hence,God and the universe are one in the
infinite reality of the first, and in the infinite potentiality of the second; for
the potentiality of the universe exists in God. As to its finitude, it is given
as a term of the creative act; it is a primitive fact which is presupposed by
all mental acts, which therefore cannot be reduced to other categories and thus
to the unity of the absolute. Finite realities, however, have a double relation
to the absolute, which is determined by the metexis and the mimesis. Through
metexis they are phenomenal copies of the divine ideas.. Through the mimesis
they participate in the divine essence, the condition of their existence. The
change in Gioberti's metaphysical ideas manifests itself in his thoughts in relation
to the Church. Catholic philosophy rests nolonger on the authority of an
ecclesiastical organization, but on the universality and continuity of human
thought, in the history of mental evolution. Religion is no longer superior to philosophy;
but it is philosophy itself, enveloped in myths and symbols, so as to bring it
to the intelligence of the common people. All religions are effects of the
creativeact, having different degrees of moral value. Christianity, however, is
the complement of all religious forms, and Christ is the Pan-Idea, in which the
realization of the moral type fully corresponds its inner excellence.
Mysteries:ui lmiracles are facts, whichcannot considered as complete. Their
value consists in their relation to the;i!» phenomena which containtin; doctrinesof
Palingenesis. No can live which dm-s not follow the laws of ideal development;
•i i verse would perish, the moment it should cease to be subchange. The
modification introduced in his political doctrine, Gioberti himself
published a year before his death, in his “Rinnocamento Civile(VItalia”, where the
papacy no longer appears as the natural support of Italian regeneration, but as
its greatest obstacle. In Lois work, by far the best of all his voluminous
productions, Gioberti gives a new programme to Italian patriots; placing the
national cause under the hegemony of the king of Piedmont, he urges his country
men to rally around that throne, the only hope of the Peninsula. This
programme, carried out to the letter, brings the Italian States under one
national government, and finally made Rome the capital of th enation. No statesman,with
the exception of Cavour, has ever exerted for a time so great influence on the affairs
of Italy as Gioberti. His name is preserved in honuor among his countrymen for
the purity of his patriotism, the loftiness of his aspirations, and the
liberality of his views, rather than for the solidity and the permanent value of
hi sphilosophy. On the political relations o fGioberti to Cavour, cf. Life,
Character, and Policy of Count Cavour, by V. Botta, New York. As a philosopher,
Gioberti does not succeed in forming a large school, although the following
writers doubtless derive their inspirations from his works: Fomari, “Dell'
Armonia Universale, Lezioni suW arte della parata”, G. Eomano, aJesuit, LaScknzadelTuomointerno«ituoirapporticollaNaturaeconDio;
“Elementi di Filosofi"-; Gioanni, Principii della Filosofia Prima, Micrti,
o dei- VEiaereUno e Reale”, Miceliol'ApologiadelSistema” N.Garzilli, Saggioatti
rn]ypor(idella Formula idealeeoiproblemi importanti della Filosofia”, Acquisto,
“Sistema della Scienza universale”; “ElementidiFilosofiafondamentale”; “Corso
di Filosofia morale”; Corso di Diritto naturale”; “Necessità dtW autorità e
della legge”; “Saggio sulla- naturae sulla genesi del Diritto di proprietà,
Trattato(fIdeologia. In the United States of America. Gioberti finds a devoted
interpreter in Brownson, whose able exposition of the doctrine contained in the
ideal formula was published in in the Review bearing his name. To the
Ontological School, although independent of Gioberti, belong Bertóni, Idee di una
Filosofia della Vita, Questione Religiosa,;and La Filosofia Greca prima di
Socrate”; Centofanti, “Delia Filosofia detta Storia”; A. Conti, “Storia della Filosofia”;
“Evidenza,AmoreeFede, Dio e il male”; J.Puecinotti, Serilti Storici e
Filosofici, Storia della Medicina”, Baldacchini, Trattato sullo Scetticismo; La
Filosofia dopo Kant”; Corleo, Filosofia vnirermle”; Mangeri. Corso di Filosofia
e Sistema Pitico-Ontologico”; Labranca, Lezioni di Filosofia razionale, Mora
and Lavarino, in their Enciclopedia Scientifica, Turbiglio,” L'impero della
Logica” and “Analisi Storica delle FUo-vfie di Ix-rte e Leibnizio. On Gioberti,
cf. h. Ferri, and R Mariano, op. cit.; Seydel in Zeit- schrift fi Pftilosophie,
C. B. Smyth, Christian Metaphysicians, Lond. Prominent among the Ontologists is
Mamiani. He was born in Pesaro. Mamiani joins the revolutionary movement of the
Romagnas, but was arrested and condemned to exile. He takes up his residence in
Paris, where he is engaged in literary and philosophical pursuits. He returns to
Italy, and gives his support to the liberal reforms inaugurated by Pius IX.
When the Pope abandons Rome, Mamiani, as a member of the Constituent Assembly,
opposes the proclamation of the Republic, as contrary to the interest of the
national cause. With the restoration of the papal power by the aid of France,
Mamiani retires to Piedmont, where he is elected member of Parliament and
appointed professor of philosophy at Turin. He is a staunch supporter of the policy
of Cavour, under whose administration he holds successively the offices of
minister of Public Instruction and that of minister to Greece. He is member of
the Senate and professor of the philosophy of history atRome. In the early part
of his philosophical career, represented by his “Del RintwvameiUsi dtW antica
Filusojw italiana”, Mamiaui holds the doctrine of Empiricism founded on
psychological investigations, in which he strives to combine experience with
reason. Mamiani maintainsthat the principal question of philosophy is that of
method; and that this can only be found in experience and nature. It is this
method which prevails among the philosophers of the Renaissance, and to which
science is indebted for its great achievements, particularly through the teachings
and the example of Galilei. This essay calls forth the work of Rosmini, II
Itinnovamento, etc., in which he controverts some of Mamiani's statements, and
tries to show that the experimental method alone cannot philosophically
reconstruct the science of Nature and Mind. Mamiani himself soon becomes convinced
of this, and in his works “Discorso sull’Ontologia e sul Mt-todo” and Dialoghi
di Sciema 1'riina”, he endeavours to find a philosophical basis in common sense.
In these essays appears for the first time his doctrine on immediate perception
as the only foundation of the knowledge of reality. The last phase of his doctrine
is containedin his “Confessioni di un Metafisico”. It is divided into two
parts: Ontology and Cosmology. In the first, Mamiani considers theAbsolute,
ideas, natural theology, and the creative act; in the second, the finite, its
relation to the Infinite, the co-ordinatiou of nature's means, life, finality,
and progress in the universe. Mamiani’s fundamental doctrines are as follows. The
knowledge of the real and the ideal is effected through two faculties essentially
distinct, although both acting in the subjective unity of the mind: perception
and intellection. The first does not consist in a syntheticjudgment a priori,
as Rosmini and Gioberti hold after Kant, but in a direct and immediate relation
of the mind to finite realities, as Reid and Galuppi maintains, although Reid
and Galuppi overlook its intellectual character. Intellection consists in the relation
of the mind to ideas; and, as these have an essential connection with Absolute
reality, the mind may be said to possess an intrinsic relation to the
"entia realissima"— the most real being. Ideas indeed are intellectual
*symbols* of the Absolute reality in its relation of causality; and they are
supplied by the intellective faculty, when the mind apprehends their
realizations through perception. Tims our intelligence attains to Absolute reality
through the intermedium of ideal representations, but it does not penetrate so far
as to reach its essence; it remains on its surface. A similar process occurs in
perception, through which the mind reaches the object given in sensibility, not
in essence, but through the medium of sensation. But while our ideas are mere *representative
emblems* -- simbolo ed embolo -- in the divine mind they are real objects in
themselves. They are identical with the absolute intelligibility, the possibility,
the reason of all things. They are therefore the foundation of all Unite
realities, their common attributes and final perfection. They are indeed the
efficient and final causes of the world, manifesting themselves under the triple
relation of the true, the good, and the beautiful. Hence our ideas, as *representations*
and determinations of the divine causality, are essentially objective and immutable
representations, and determinations of eternal truth. It follows that the existence
of God is founded on the very nature of primitive intuition, which includes the
eternal substantiality of truth, and that its demonstration a priori is a
simple process of deduction from the principle of identity. It follows also
that every ideal relation contains an eternal truth, to which an intelligible
reality in God corresponds. It is therefore independent of the human mind.
Ideas however are not innate. Threy originate in finite reality, from which
they receive their determinations, and have a necessary reference to absolute
reality through their *representative* character. It is only through reflection
that the minddisc. in itself its relation both to finite reality, contained in
internal and external perception, and to infinite reality, contained in the
Infinity. Creation is the result of the infinite good, which of necessity tends
to communicate itself. The idea of a God infinitely good implies the idea of a creation,
founded on the greatest good, as its outward manifestation and ultimate end.
This manifestation is brought forth by an infinite power, and an infinite
wisdom, under the forms of the laws of causality and finality. From the very nature
of the finite, and its opposition to the infinite, arises the immense cosmic
diversity. Hence the universe cannot be properly represented as a sphere; it is
rather to be regarded as a system of numberless spheres, moving concentrically
in various directions, and forming that universal harmonv, which is the highest
expression of the infinite good. As the cosmic diversity is equal to its
possibility, it follows that there is only one idea of the universe in the
divine mind as well as in the universe itself, although in a continuous
generation and development. The idea of a better world is impossible; because
the idea of the universe, which is in the act of developing, contains already all
possibilities. Evil is inherent in the finite; but it diminishes, as the finite
more and more approaches the infinite, and in this progressive union of the one
with the other lies the ultimate end of creation. In the achievement of this end,
the divine causality creates and determines the whole, the divine intelligence
pre-arranges the whole, while nature produces the whole under the influence of that
causality and intelligence. The finite is an aggregate of monads or forces,
which are brought together by their mutual attraction; thus a communication
arises between those, which have a diameter of similarity, a participation
between the diverse ones, and a co-ordination of all. Hence arises the cosmic system,
with its great divisions of nature, life, and mind. Nature reveals itself first
in the stellar order, in the ether in connection with light, heat, and
electricity, and in the order of chemical compounds, such as water and twater.
In the elaboration of the syntheses preparatory to the final ones, the divine art
is revealed in that wise co-ordination of means which is produced by the union
and separation, the action and reaction of homogeneous, as well as heterogenons
forces. But it is only in life (vita) that finality (fine) appears, for life
alone contains the possibility of receiving the communication of JJIXK], which is
the essence and the object of creation. Life is the development through a
suitable organization of the individual, in reference to its participation in the
good. At its lowest degree it is nothing but a chemical compound – the amoeba
--, enclosed in a cellular envelope and capable of reproducing itself. At
its highest point, life is an intellectual and volitional activity which tends
to an absolute object, and to this end co-ordinates all the means at its disposal.
Between the two extremes there are numberless degrees of vital activity, each
developing in accordance with its own end. Vegetation, animality, and humanity
or spirituality mark the principal degrees in the scale of life. In these three
manifestations, life is a specific force. Bflchner and other Scientists, who give
to matter the power of producing life, deny the existence of this specific
force, and attribute it to a cause, which in itself has not the elements
necessary to its development. So Darwin's theory of the genesis of species involves
the negation of the objective reality of the idea or specific essence,
containing a substantial fixedness of character and form, and the power of
producing itself within the limits of its own nature. It confounds accidental
varieties with substantial transformations, and artificial means with natural
processes. It is contrary to all historical experience, and the constant fact
of the sterility of hybrids. It stands in contradiction with itself in the
bearing of the two laws of the struggle for life, and natural selection, which
will restrict rather than widen the limits of development, and keep the species
within their own boundaries, rather than expand them into new forms and modes
of existence. The order of life in relation to the general end of creation
begins with plants. In plants, the living force has the specific value of being
the organ for life, or rather it is the laboratory in which its elements are
prepared. This passes over into animality, which has a real relation of
finality, although limited and relative, as are its senses and instincts,
through which it enjoys participation in the divine good. Man (Homo sapiens
sapiens) alone, whose life is partly the growth of vegetation and animality, is
an absolute finality, for he alone has a life, through which he can know and
act in accordance with the absolute. The law of indefinite progress is
universal and necessary, founded as it is in the very object of creation, in
the divine goodness, and the progressive union of the finite with the infinite.
This law, which embraces all the universe, is still more apparent in the development
of mankind. But in order that it may be verified in history, its application
must comprehend humanity as an organic and spiritual unit. It would fail if
applied to an isolated nation, or measured by the invariable Roman type, as Vico
insists. To see the full bearing of this law, mankind must be regarded in the
multitude of its nationalities, in the variety of their character, in the multiplicity
of the elements and of the ages of civilization. The law itself must he viewed
in its different aspects, and in the agencies which are at work to carry it ont
in history; such as the influence of a national aristocracy, the subordination
of lower to higher forms of civilization, the mingling of the Italian three
tribes, and the expansion of social forces, through which a kind of polarity among
the tree tribes is created. All these and other causes, while they preserve the
spiritual unity of mankind, maintain its growth and secure its general
advancement. Besides the works already mentioned, Mamiani writes also “Meditazi-
oniCarte&iane, and “Di un Nuovo Diritto
Europe”, in which he strives to establish international right on a philosophical
basis. In his “Iiinaacimento Cattolico”, Mamiani contemplates the possibility
of a reform in the Catholic Church, that should reconcile it with the spirit of
modern times. Mamiani is also the author of “Teoria dclla Religions e dello
Stato, e dei suoi raj/porti speciali con Roma e colle Nazioni Cattoliche”, “Sei
Lettere a Rosmini”, “Saggi di Filosofia Civile” and “Saggi Politici”. Among the
philosophers who have treated of Mamiani's philosophy, the more prominent are Ferri,
the author of the “Esmi sar CHUtoire de la Philosophic en Ilalie au 19ine
Steele”; Debrit, “Histoire de» Doctrine* Philosophiqves daiu Vltalie Con-
temporaine”. These two philosophers, particularly the first, give a complete
survey of the principal systems of contemporary philosophy in Italy.) See also Lavarino,
“La Logica e la Filosofia di Mamiani” and Fiorentino, several articles in the
Rivista di Bologna, under the title of Positivismo e Platonismo in Italia;
Brentazzoli, the author of “Di uri1 ultcriore e deflnitico arplicamento della
Filosofia Seokxttka”; Tagliaferri, who writes on Mamiani's theory, and Bonatti,
who discusses the ontological argument of the existence of God as presented by
Mamiani in Bonatti iand Mamiani, Bonatelli is also the author of “La
Concienza”, and of a sketch of Italian philosophy published in the “Zeituchrift
fiir Philorphie und Philosophische Kritik” in Halle. To the Ontologic
classification may also be reduced the “Dialoghi Politico-Filosofici” di Buscarini;
and “Sopra la Filosofia del Diritto Publico Interno di L.C. di Montagnini; also,1stFUomfiadette
Scuote Italiane, a philosophical review supported by Mamiani, Berti, Bonghi,
Barzellotti, and other members of an association recently established in Rome
for the promotion of philosophical studies; Oerdil, a weekly periodical
published in Turin, under the editorship of Allievo, chiefly intended to
reconcile philosophy with Christianity; and Il Campo della FUosoflItaUani, a
philosophical periodical published in Naples, and edited by Milone. Next is
Absolute Idealism or Hegelianism. Vera is the recognized head of the Hegelian
School in Italy. He was born in Amelia, a city of Umbria, and early goes to Paris, where he completed
his education. Having spent some years in Switzerland, he returned to
Paris, and is appointed professor of philosophy in several colleges connected with the University of
France. He rreturns to Italy, where he is at once made professor of philosophy
at the Royal Academy of Milan. He ransfers to the University of Naples, where
he sholds the professorship of the history of philosophy and the philosophy of
history. Vera’s works are devoted to the interpretation and application of the
Hegelian pliilosophy.They include— ProW.me dela Certitude; VHcgiUanisme et la
Philosophit. Melanges Philono- phiques; Essais de Philosophic Hegelienr.e,
1804; Introduction a la Philasrqkfc cCHegel, Logique d Hegel; Philo»,plue de la
Nature d'Hegel; Phi losophic de CEsprit (VHegel; Philosophic de la Heligion
<THegel; Platonis Aristattiu el Hegelii de medio termino Doctrina; Inquiry
into Speculative and Experimental.Se»>v««. Lond; “Lezioni sulla filosofia
delta storia”; PrUusiovi alla Storia della Filosofia (epoca Socratica), ed alla
Filosofia delta -Storia; II Problema deff Avm-'iito; II Cataitr e la libera
Chiesa in Ubero Statot in which the doctrine of the separation of the Church
from the Stateheld by Cavour is opposed on philosophical and political grounds.
He also translated into English the History of Heligion and of the Christian
Church by Bretschneider, London. Vera not only interprets and expounds. Hegel's
philosophy, but develops it and expresses it in a more intelligible form, thus rendering
it accessible to students not familiar with Hegelian terminology. In his Introduction
dla Philosophica"Hegel he rejects the Trinity of being, thought, and motion
which Trendelenburg proposes to substitute to the Hegelian trinity of being
(thesis), not being (antithesis) and becoming (synthesis). Vera also confutes
French Eclecticism and the materialistic theories of Bilchner and Moleschott.
In his Inquiry into Spcndatice and Experimental Science, Vera refutes the
doctrines of Bacon, Locke, and other representatives of Empiricism. Vera’s
labours have been highly praised by eminent German Hegelians, among whom is Eoeenkranz in
"Der Gedanke" and in his Wissenschaft iter hyifchc Idee. See also an article
of Saisset in the ItecuedtsDeuxMonde. Among other Hegelians in Italy
maybementioned Spaveuta.who. in his “Filosofia di Gioberti” aims to show the
connection of the doctrines of this philosopher with the ideas of Hegel.
Spaventa is also the author of Introduzione alle Lezioni di Filosofia. Principii
di Filosofia, Saggi di Critiea filosofica, politca e religiata, Filosofia di Kant
e sua relatione colla Filosofia Italiana. D H T intmoraW.ildel Vanimavmana;ltiiflcssionimlSodalitmoeComunismo.
Herebe longs also Fr. Fiorentino, the author of Pietro Pomponazzi— Ttlesio, and
Stvdj Stnriei sullaScuoladiBolognaep"PadomalSecolo16°. He also wrote on Positivism
and Platonium in Italy (Rivista di Bologna). Miriano wrote La Philomphie Contemporaine
en Italie; Lasalle e il sua Ernclito, II Ilisnrgimcn Italiano secondo i principii
della Filosofia della Storia di Hegel, Il Problema Rdigioso in Italia.
Among those who have devoted themselves to the application of the Hegelian doctrine
to the special branches of science may be mentioned Meis, naturalist and
physiologist; Sanctis, Mareelli, Delzio, Salvetti, Gatti, Vitto, Camerim, and
Trani, who applied it particularly to literary and historical criticism, and to
political, juridical and aathetical sciences. Next is Scholasticism. The
philosophical development of Italian
philosophy is distinguished by its national character, and the decided impulse
it has given to the reconstruction of Italy, on the basis of independence and liberty.
An exception to this general tendency is to be found in the writers who, labouring
in the interests of the Church, h a vestr iventore-establish Scholasticism, and
with its a cerdotal domination over national thought. Ventura is the principal
representative of this School. He was born in Palermo, and early becomes a amember
of the Order of the Theatins. He is soon elected Superior-General of the Order,
and holds a high position in the government of the Church. He is one of the
most prominent supporters of the reforms
inaugurated by Pius IX. In his eulogy on O'Connell, in his funeral oration on
the victims of the revolution of Vienna, and in his sermons delivered in the
Chapel of the Tuileries, in Paris, he continues to show himself a warm champion
of popular rights. In his philosophical works, howover, he constantly maintains
the fundamental idea of scholasticism, placing the authorityof the Church above
reason and human conscience, indeed above all sovereignty. Holding that philosophy
was buta deduction from revelation, he
asserts that the ultimate criterion of truth lies in that authority. It is true,
Ventura says, that ideas originate in sensations, and in the subsequent images
which are left by them in the mind; but ideas have no value if not incorporated
in language, which is itself derived from revelation. Philosophy reaches its
culminating point in Aquino, and nothing is left to philosophers but to study, and
to expound the doctrines of that philosopher. Ventura is the author of the following
works: De Mctlwdo Philosophandi, De la Vraie et de la Fausse Philosophie; La
Tradition et Us Semipelagiens de la Philosophie, La Raison Philosophique et
Catholique, La Phil/jxophie Chretienne, Of. Le Pere Ventura et la Philosophie, par
Clis.deRemusatinLaRevuedesDeux Mondes,Fevrier;also,EtudesMoralesetLitteraircsparA.de
Broglie, SeealsoonVentura, Drownson's Quarterly Review, and Annates de
Philosophie Chretienne, Paris. To the same school belongs Liberatore, a Jesuit,
the author of Trwtitutlines Phllosophiaoe, Sitjjio aulta Conoscenza
Intellettuale, EthicaetJusNatural,Compendium LogicaletJfe- taphy»ivc. Liberatore
rejects the vision of God, as well as the doctrine of pure tradition, as the
principle of knowledge, and holds that human reason, aided by the senses and
the power of abstraction, can originate ideas, and attain truth and certainty
in the order of nature. But above nature and man there is the authority of the
Church, the only infallible guide in philosophy as well as in theology. To the
same School may bereferred Sanseverino, author of Philosophia Christianacumantl'juaetnovacomparata,
Crescenzio who wrote Seuole di Filosofia; Capozza, author of Sulla Filosofia
dei Padri e Dottori della Chiesa e in ixpecialitd d’Aquino in opposizione alla
filosofia moderna. Also Azeglio, a Jesuit, brother of the statesman of the same
name, the author of Etame Crltlco dei Ooverni Jiapprefsentativi delle Sorieta
Moderna, and Soggio teorico del Diritto Naturale fondato sull’esperienza. La
Clvilta Cattolica, a monthly Review, literary, political, and phillosophical,
published in Rome, is the principal organ of this sect. Since its origin it has
been chiefly edited by writers belonging to the Order of the Jesuits, such as
Liberatore, Perrone, Azeglio, Bresciani, and Curci. The fundamental idea of
this periodical is the insufficiency of human reason in all questions which
refer to religion, philosophy, morality, jurisprudence, and politics. European
civilization is the result of Catholicism, and it is onlv in Catholicism that
man and society can find a basis for their develop ment. Protestantism, liberty
of conscience and thought are only sources of infidelity and revolution, and it
is only by subjecting itself to the authority of the Church, that the human
mind can re-establish its natural relations with God and man. The revolution
which has made Italy one, having been carried out against the interests of the
Church, isa nti-Catholic and anti-Christian. These doctrines have received the sanction
of Piu sIX., who in his Syllabus condemns as monstrous errors the following
propositions. Moral science and philosophy are independent of the authority of
the Church. Philosophy may be treated without regard to revelation. The principles
and the method of the Scholastics are not in accordance with the need, and the
progress of science. Everyone may embrace that religion,which he in his conscience
may think true. Protestantism is a form of Christianity, in which man may
please God, equally as well as if he were in the Catholic Church. Common
schools ought to be exempted from the authority of the Church. These and other
propositions, proclaimed as religious errors, received formal condemnation from
the Church in the Council of the Vatican, through the dogmatic definition of
papal infallibility, the logical consequence of genuine Catholicism and the
highest synthesis of Scholasticism. Positivism, or rationalistic naturalism, as
implying the negation of all metaphysical science, is represented by Ferrari. A
Lombard by birth, and a disciple of Romagnosi, he early visits Paris, where he
becoes connected with the University of France, as associate doctor, he afterwards
holds a professorship at Strasbourg, which he iss obliged to resign on account
of his radical opinions. He returns to Italy, enters Parliament, and is appointed
professor of philosophy successively in Turin, Milan, and Florence. Admitting
as insoluble the antinomies of reason in the sense of Kant, Ferrari holds that
experience is the only foundation of truth. There are two species of contradiction
into which the mind may fall: the positive and thecritical. The former arise from
faults of reasoning, and may disappear through a verification of the intellectual
process. The latter are theresults of a fatal law of the mind, and cannot be avoided.
Kant reduces these contradictions to the ideas having reference to God, the
world, and man; but in fact they are numberless. They are in us and out of us;
they manifest themselves in our ideas and actions, in both the theoretical and the
practical order. The universality is the law of mind and nature. Hegel with an effort
of genius attempts to reduce them to a rational unity. But he succeeds only in
giving us a philosophy of contradictions. Hegel’s failure shows the
impossibility of metaphysical science, and the futility of the labours of
metaphysicians to find a relation between Nature and Logic. Between the two there
is no relation; the former is founded on the law of con trastand change, the
latter on identity. Hence there is an essential opposition between them, which
renders it impossible to represent unity in accordance with mental ideality.
Indeed the mind itself is subject to the law of opposition, so that in reality
an absolute identity even in the logical order is an impossibility. The effort
therefore to reduce nature and mind to scientific unity must ine vitably result
in transforming the critical antimonies into positive ones, and thus in making
error a necessity. The mind is neither superior nor equal to nature; it is its
child; and it is only in sub mission to nature that it can co-ordinate its
thoughts, determine its knowledge,andfindabasisforspeculation.
Phenomenalism,there fore, with all the oppositions which are revealed in the
ever-chang ing movement of nature, is the object as well as the limit of our
intelligence. The ideal relations, such as the relations of quality and
substance, of effect and cause, of finite and infinite, and all others which
relate to the supreme laws of nature and thought, are so many oppositions which
predominate in the universe, and in all our analyses; they are the inexplicable
conditionsof our knowledge, and the insuperable limits of all science. An impenetrable
mystery envelopes them, and the mind cann either explain or.reconcile them.
Hence it follows that no absolute truth exists in the human mind, and that
philoophy is only so far true as it does not overstep the limits of a phenomenal
experience, the cause of which is an everlasting movement, and its law a
perpetual opposition. Led by these ideas, Ferrari attempts a philosophical
reconstruction of the political development of nations, founded exclusively on
experience and induction. Ferrari establishes therefore a general and uniform
type of this development, and divides I tinto four periods, each comprising about
thirty years. The first period is an epoch of preparation, in which new ideas
are manifested, and the genus of future events and laws deposited in the soul of
th epeople. This isfollowed by the period of explosion, in which those germs,
having reached their maturity, burst forth in explicit ideas, and are
transformed into politica laction. A phasis of reaction, next appears, by which
a temporary return is made to the ancient regime, and the new form of
civilization and the doctrines of revolution are momentarily suppressed. In this
phase the body politic finds itself in a kind of oscillation between the old
and the new, seeking its equilibrium. Finally, the last period completes the
movement through a solution, and it ends with ingrating the new ideas in the
minds of the people, and in the character of the government. Thus in France,
Louis X1Y. represents the first period, the revolution the second, the last
years of Napoleon and the kingdoms of Louis XVIII., Charles X., and Louis
Philippe the third, while the fourth begins in the revolution, is interrupted
by thes econd empire, and recommences with its fall. Ferrari is the author of “La
Mente di G. B.Vico”, “La Mente di G.D.Romagnosi”; “De l’Erreur”; “Vico e l’Italie”,
“Idees&urlaPoiii 51o de Platon et d'Aristote”, “Essai stir h Principe
et lea Limites de la Philosophie dell’histoire”, Histoire de hi RaisondeVEtat”;
“Histoire des Revolutions oVItalie, “Corso di Lezioni swjli Scrittori Politici
Italiani, Filosofia della Rivoluzione. Bonavino is another representative of this
School. In his youth he became a priest, but soon renounces this position, and
avows himself a rationalist and a naturalist. He is professor of the philosophy
of history at Pavia. In “La Filosofia delle Scuole Italiane”, Bonavino attempts
a criticism of the philosophies of Rosmini, Gioberti, and Mamiani, and rejects
them all as exponents of old Scholasticism under new forms. Admitting the
negative part of the doctrine of Kant, Bonavino derives his positive ideas from
the French philosophers of the 18th century. Nature and its phenomena are the
limits of our knowledge, and time and space its exclusive conditions. There is no
other reality, which the mind can reach; there is no substance, no truth in
itself. The infinite is only the indefinite, and even this is not real,bu tideal.
In “Del Sentimento”, Bonavino rests his psychology on sensation, and makes this
the origin of all mental faculties. Applying these ideas to religion in his “La
Religione del Secolo 19°”, and in his “II Razionalismo del Popolo”, Bonavino borrows
from Feuerbach, from Comte and other positivists, the idea of humanity as the
basis and the object of a genuine rationalistic religion. In his Review, La Raaione,
he discussed the most important questions of philosophy, religion, and
politics, showing a decided tendency towards Socialism, yet maintain ing a
proper regard for the rights of property and the institution of thefamily. He is
also the author of “Lezioni sulla Storia della Filosofia Moderna” and of the
work “Sulla Teorica del Giudizio”. Moleschott, professor at Turin,in his
“LaCirculation de la Vie” and other numerous works on physiology, Tommasi,
professor at Naples, author of the Naturalismo Moderno, and other eminent physiologists
and scientists, contend that all knowledge is essentially relative and finite,
and that therefore all questions relating to the b solute and the Infinite are insoluble. Hence
they assert that the province of philosophy must be confined within the limits
of natural science. To this School, although from an entirely different
point of view, may be referred Villari, the authorof “La Storia di Savonarola,”
who in his “Saggi di Storia, Critica, e Politica” insists on the exclusive
application of the historical method to philosophical sciences, a method, the
adoption of which is urged by Lambruschini, the author of “Dell’Educazione e
dell'Istruzione”, “La Guida, dell’Educatore” and other valuable works on
education; cf. his La Filosofia Positiva esaminata secondo I Principii della Pedagogia,
in the Gioventù of Florence, a weekly paper devoted to the progress of education.
The following writers, under different aspects, illustrate the contemporary
history of Positive Philosophy in Italy. Bissolati, “Introduzione alle
Istituzioni Pirroniane”, Secchi, “Unità delle Forze Fisiche”; Pozzolini, “Induzione
delle Forz Fisiche”; Barbera, “La Legge
universale di rotazione, and “Newton e la Filosofia naturale”; A.Martinozzoli,
“La Teoria detta Filosofia”; Bianco, “La Rivoluzione nela Filosofia, ossia il
Vero ed il Lecito applicati al Materialismo”; Dandolo, “Storia del Pensiero nei
tempi moderni”; G. Coco-Zanghi, “Antropologia: l’uomo e la scimmia”; Angiulli,
“La Filosofia e la Ricerca Positiva”, P. Siciliani, “Sul Rinnovamento della
Filosofia Positiva in Italia”; Barzellotti, “La morale nella Filosofia
Positiva”; Lanciano, “Saggio di Scienza Prima, Universo,T'Astroe, L’Individuo”;
Panizza, “Il Positivismo Filosofico e il Positivismo Scientifico”, “Lettere ad Tclmholtz”.
Grice: “Botta uses ‘filosofo italiano’ too freely. When we reflect on ‘filosofo
italiano’ I can think of Heidegger, whom was described as ‘the greatest living
philosopher’ – or consider a ‘fat poem’ – In what way is a fat philosopher not
like a French poem? If Mr. Buddle is ‘our man in nineteenth-century Continental
philosophy’ – why is it that Puddle doesn’t sound Continental enough. Bravery
is usually the consequence of being addicted to general reflections about life
– I can think of Empedocles who threw himself into the Etna to prove that he
was a god – when his sandal sprang up,
the implicature was unequivocal!” Vincenzo
Botta. Keywords: filosofia italiana, dall’A alla Z – indice di nome della
storia della filosofia italiana di Botta – Botta, storico dela fiosofia
italiana, Botta su Alighieri, Botta su Cavour, empiricismo, positivismo, Vico,
criticismo, idealismo, scolasticismo, ontologia, psicologia filosofica. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Botta” – The Swimming-Pool Library
Grice
e Bottiroli – la seduzione di Ovidio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Novi Ligure). Filosofo italiano. Grice: “I like Bottiroli –
he is an Italianist, rather than a philosopher, but typically in the Italian
fashion, he uses philosophical vocabulary – my favourite are his tracts on
‘seduzione,’ ‘desiderio,’ ‘amore,’ ‘sesso,’ which of course is all Plato’s
symposium – but he has also explored not just pragmatics, but semantics and
syntax – notably with his ‘rigid/flexible’ distinction – Since he is associated
with les belles lettres, philosophers in Italy do not take him too seriously,
though!” -- Giovanni Bottiroli (Novi Ligure) è un filosofo e professore
universitario italiano. Professore di
Teoria della letteratura, da molti anni, a Bergamo. Ha insegnato Retorica e
Narrazione, Teoria dell’interpretazione, Estetica, in questa Università.
Inoltre, è docente all’IRPA (Istituto di Ricerca di Psicoanalisi applicata),
diretto da Massimo Recalcati. È
direttore della rivista “Comparatismi" (rivista della Consulta del SSD
“Critica letteraria e Letterature Comparate”). Dal è Presidente della Consulta di questo settore. Fa parte del Comitato Scientifico di
“Enthymema” e di “Symbolon”, e della Direzione di “L’immagine Riflessa”.
Collabora alla rivista “Segnocinema”.
Pensiero Una filosofia della flessibilità Giovanni Bottiroli ha
elaborato una nuova prospettiva filosofica che si ispira alla nozione di
“flessibilità”, e che egli ha indicato con diverse espressioni: ragione
flessibile, pensiero della Metis, pensiero strategico. Questa prospettiva viene esposta nella forma
più ampia e sistematica in La ragione flessibile () e La prova non-ontologica
(). Dalla filosofia alla letteratura
(come modo di pensare) In Teoria dello stile la letteratura viene intesa come
modo di pensare e ad essere privilegiato è il suo legame con la filosofia. Il
legamenon privo di conflittualitàtra letteratura e filosofia richiede di essere
analizzato mediante il concetto di stile, inteso sia come invenzione
linguistica sia come “stile di pensiero”. Esemplare, da questo punto di vista,
è l’analisi della “Lettera rubata” di Poe, proposta da Lacan negli Scritti
(1966). La teoria della letteratura In
Che cos'è la teoria della letteratura. Fondamenti e problemi, la teoria della
letteratura viene intesa come una disciplina ibrida che deve attingere alle
teorie del linguaggio, alle teorie del desiderio e alle teorie
dell’interpretazione, ispirandosi principalmente a tre fonti: Saussure, Freud,
Heidegger. L'interpretazione dei testi
come conflictual reading L’interpretazione del testo è intesa come un
conflictual reading capace di lasciare emergere la pluralità degli stili, il
problema dell’identità del soggetto e le dinamiche del desiderio. Il suo
orizzonte sono le estetiche conflittuali, a cuiin prospettive assai
diversehanno contribuito Nietzsche e Heidegger, Freud e Lacan, ma anche
Bachtin. Le riflessioni su questo tema sono confluite in diversi articoli tra
cui Il desiderio “effrayant” di Julien Sorel. Un “conflictual reading” per un
romanzo di formazione in “Enthymema”, 21,.
Opere Libri 1975 Parodia Milano: Scheiwiller (con prefazione di Cesare
Segre) 1980 La contraddizione e la differenza. Il materialismo dialettico e la
semiotica di Julia Kristeva, Giappichelli, Torino 1987 Interpretazione e
strategia, Guerini e associati, Milano 1987 Retorica della creatività. Per
l'interpretazione e la produzione di testi, Paravia, Torino 1990 Figure di
pensiero. La svolta retorica in filosofia, Paravia, Torino 1993 Retorica.
L'intelligenza figurale nell'arte e nella filosofia, Bollati Boringhieri,
Torino 1995 Il reggicalze. Come l'abbigliamento diventò seduzione, Gribaudo,
Torino 1997 Teoria dello stile, La nuova Italia, Firenze 2001 Problemi del
personaggio (curatela), Bergamo University Press, Bergamo 2002 Jacques Lacan.
Arte linguaggio desiderio, Bergamo University Press, Bergamo 2005 Le incertezze
del desiderio. Scritti brevi su strategia e seduzione, Ecig, Genova 2006 Che
cos'è la teoria della letteratura. Fondamenti e problemi, Einaudi, Torino La ragione flessibile. Modi d'essere e stili
di pensiero, Bollati Boringhieri, Torino
La prova non-ontologica. Per una teoria del Nulla e del “non”, Mimesis,
Milano-Udine Voci di Enciclopedia Enciclopedia Einaudi: Eros (1978), Piacere
(1980), Pulsione (1980), Soma/Psiche (1981) (quest’articolo in collaborazione
con Guido Ferraro). Enciclopedia Treccani: Letteratura e psicoanalisi, in
Appendice 2000 Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi
(diretta da Franco Brioschi e Costanzo Di Girolamo): Il pensiero filosofico e
scientifico e La prosa della filosofia e della scienza, IV, 1996 (21-58 e 945-974) Letteratura
europea (P. Boitani e M. Fusillo): Letteratura e psicoanalisi, 5,
399-417, POMBA, Torino Articoli
di filosofia e di teoria della letteratura (una selezione) 1990 Bachtin, la
parodia del possibile, in "Strumenti critici", 63, 147-66 1994 Il comico inesistente. I regimi
figurali nell’opera di Calvino in “Calvino e il comico” (L. Clerici e B.
Falcetto), Marcos Y Marcos 1996 Sinistra come "bêtise". Il problema
degli attriti nel "Dono” di Nabokov in "Strumenti critici” 80, 1996
2001 Il comico delle articolazioni, in BarbieriBottiroliPerissinotto “Il
Comico: approcci semiotici”, Documenti di lavoro 303-304-305, Centro
Internazionale di Semiotica e Linguistica, Urbino 2001, 27-39 2002 Introduzione a Flaubert,
L’educazione sentimentale, Einaudi, Torino,
V-XXI 2003 Un sogno di Raskolnikov, in “Nel paese dei sogni” (V.
Pietrantonio e F. Vittorini), Le Monnier, Firenze 2003, 70-84 2004 La logica del diviso in "William
Wilson" in Fantastico Poe (R. Cagliero, Ombre Corte, Verona) 2007 Non
sorvegliati e impuniti. Sulla funzione sociale dell’indisciplina, in Forme
contemporaneee del totalitarismo (Massimo Recalcati), Bollati Boringhieri,
Torino 2007 Metaphors and Modal Mixtures in Metaphors (di Stefano Arduini),
Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008 L’identità modale nei romanzi di
Kafka. Descrizione di un progetto di ricerca in “Cultura tedesca”, 35 2009 In
principio era la bêtise, in Soggettivazione e destino. Saggi intorno al
‘Flaubert’ di Sartre (G. Farina e R. Kirchmayr), Bruno Mondadori, Milano Ibridare, problema per artisti. Alcune tesi,
in “Enthymema”, n.1, 154-163 Dalle somiglianze alle differenze di
famiglia, in L’immagine riflessa, n.1-2,
181-2 L’inganno del cortile
centrale. Interpretazione della “Phèdre” come testo diviso, in Ermeneutica
letteraria, VIII Introduzione a “La
conversazione infinita” di M. Blanchot, Einaudi, Torino Lost in styles. Perché nel cognitivismo non
c’è abbastanza intelligenza per capire l’intelligenza figurale, in “Lo
sguardo”, 17 153-193 Il perturbante è
l’identità divisa. Un’interpretazione di “Der Sandmann” in Enthymema, 12, 205-229
The possibility of not coinciding with oneself: a reading of Heidegger
as a modal thinker, in The Italian Psychoanalytic Annual, /10, 133-149, Cortina Editore Le parole uccidono le cose oppure altre
parole? Il linguaggio come perdita e come articolazione agonistica in Per Enza
Biagini (A. Brettoni, E. Pellegrini, S. Piazzesi, D. Salvadori), Firenze
University Press, Firenze Liberatore e
incatenato: le aporie di Dioniso (e del dionisiaco) da Euripide a Nietzsche in
Enthymema, XIV, 51-81 Return to literature. A manifesto in favour
of theory and against methodologically reactionary studies (cultural studies
etc.) in “Comparatismi”, 3, 1-37 What is alive and what is dead in Jakobson.
From codes to styles in Roman Jakobson, linguistica e poetica (E. Esposito, S.
Sini e M. Castagneto), Ledizioni, Milano,
213-220 Il desiderio “effrayant”
di Julien Sorel. Un “conflictual reading” per un romanzo di formazione in
Enthymema, 21, 134-151 Shakespeare e il teatro dell’intelligenza.
Dagli errori di Bruto a quelli di René Girard in Metodo, 6, n. 1,
73-98 Il desiderio e i suoi
destini: dal rapporto ai modi del rapporto, in A. Badiou, Il sesso l’amore
(Federico Leoni e Silvia Lippi), Mimesis, Milano-Udine, 41-52
Sade e il desiderio di essere in “aut aut” 382 To be and not to be.
Hamlet’s Identity, in Enthymema 23,
250-285 Heart of Darkness e la
teoria lacaniana dei registri in Anglistica pisana, XIV, 1-2 () The Turn of the Screw. A tale that “turns” in
Enthymema 24, 43-58 Articoli di cinema
(una selezione) 2007 I registi sono alleati preziosi. Un'interpretazione di
Mulholland Drive di David Lynch, in Segnocinema 144 Identità come identificazione (nei film e non
negli spettatori), in “Imago”, 2 Joe, o
le disavventure di una ninfomane (Nymphomaniac di Lars von Trier), in
“Segnocinema” 196 Non infantilizzate, vi
prego, Ingmar Bergman. Desideri senza magia in “Fanny e Alexander” in
Segnocinema 214 L’arte è un lusso, la
fiction una necessità. Žižek e Hitchcock, qualche anno dopo in “Segnocinema”
223-224 Recensioni Niccolò Scaffai, recensione a Che cos'è la teoria della
letteratura? Fondamenti e problemi, in Allegoria, n. 55, 2007 Panella Giuseppe,
recensione a Che cos'è la teoria della letteratura? Fondamenti e problemi, in
Ermeneutica letteraria n. 3, 2007 Franzini Elio, recensione a La ragione
flessibile, in “Enthymema”, n. IX,
412-414, Dalmasso Gianfranco,
recensione a La ragione flessibile, in “Rivista di Filosofia Neo-Scolastica”,
1, 240-245, Carmello Marco, recensione a La prova
non-ontologica, in “Enthymema”, n. XXV, 703-707, Note
Giovanni Bottiroli (database Università degli Studi di Bergamo), su
www00.unibg. Docenti titolari di
materiaIrpa Milano, su istitutoirpa.
Comparatismi. Rivista della Consulta di Critica letteraria e Letterature
comparate, su ledizioni. Enthymema, su
riviste.unimi. Curriculum Vitae, su
unipa. Elio Franzini, La ragione
flessibile di Giovanni Bottiroli, in Enthymema, n. 9. Marco Carmello, Giovanni Bottiroli "La
prova non-ontologica. Per una teoria del nulla e del 'non' ", Enthymema,
n. 25. Giuseppe Panella, A proposito di
Giovanni Bottiroli, "Che cos'è la teoria della letteratura", in
Ermeneutica letteraria. Rivista internazionale, n. 3. Niccolò Scaffai, Giovanni Bottiroli"Che
cos'è la teoria della letteratura. Fondamenti e problemi", in Allegoria,
n. 55. Giovanni Bottiroli, Il desiderio
"effrayant" di Julien Sorel, in Enthymema, n. 21. Letteratura e psicoanalisi, su treccani.
giovannibottiroli/it///www00.unibg/struttura/strutturasmst.asp?rubrica=1&persona=89&nome=Giovanni&cognome=Bottiroli&titolo=Prof.
59307684 I0000 0000 8138 7227
IT\ICCU\CFIV\053603 81043256
135880033 cb144625951 XX1744209
Identitieslccn-n81043256 Biografie
Biografie Letteratura Letteratura
Psicologia Psicologia Filosofo del XX
secoloFilosofi italiani del XXI secoloAccademici italiani del XX
secoloAccademici italiani Professore1951 24 giugno Novi Ligure. THE ART OF SEDUCTION ROBERT GREENE Choose the Right Victim
2 Create a False Sense of Security-Approach Indirectly Send Mixed Signals
Appear to Be an Object of Desire- Create Triangles Create a Need-Stir Anxiety
and Discontent () Master the Art of Insinuation 7 Enter Their Spirit Create
Temptation Keep Them in Suspense-What Comes Next? Use the Demonic Power of
Words to Sow Confusion Pay Attention to Detail A Penguin Book £ Psychology
www.penguin.com THE ART OF SEDUCTION ROBERT GREENE rci A JOOST ELFFERS. Get
what you want by manipulating every one's greatest weakness: the desire for
pleasure. Seduction is the most subtle, elusive, and effective form of power.
It's as evident in John F. Kennedy's hold over the masses as it is in
Cleopatra's hold over Antony. Now, the author of the bestselling The 48 Lazes
of Pozeer has written a handbook synthesizing the classic literature of
seduction from Freud to Kierkegaard and Ovid to Casanova, with cunning
strategies illustrated by the successes and failures of characters throughout
history. And once again Robert Greene identifies the rules of a timeless,
amoral game and explores how to cast a spell, break down resistance, and,
ultimately, compel a target to surrender. The Art of Seduction takes us through
the characters and qualities of the ten archetypal figures of seduction
(including the Siren, the Ideal Lover, the Dandy, the Natural, the Charismatic,
and the Star) and the twenty-four maneuvers by which anyone can overcome a
victim's futile resistance to the practice of this devastating and timeless art
form. Every bit as essential as The 48 Lazes ofPozver, The Art of Seduction is
an indispensable primer of persuasion that reveals one of history's greatest
weapons and the ultimate form of power. ISBN Poeticize Your Presence Disarm
Through Strategic Weakness and Vulnerability Confuse Desire and Reality- The
Perfect Illusion i Isolate the Victim , 1 ( Prove Yourself 1 Effect a
Regression j 18 Stir Up the \ Transgressive and Taboo Use Spiritual Lures 2 (
Mix Pleasure with Pain 21 Give Them Space to Fall-The ¦ Pursuer Is Pursued f I
22 Use Physical j Lures 13 Master the Art of the Bold i Move Beware ' i of the
Aftereffects PENGUIN BOOKS THE ART OF SEDUCTION Robert Greene, author of The 48
Laws of Power, has a degree in classical literature. He lives in Los Angeles.
Visit his Web site: www.seductionbook.com Joost Elf fers is the producer of
Viking Studio's bestselling The Secret Language of Birthdays, The Secret
Language of Relationships, as well as Play with Your Food. He lives in New York
City. the art of seduction Robert Greene A Joost Elffers Book PENGUIN BOOKS
PENGUIN BOOKS Published by the Penguin Group Penguin Group (USA) Inc., 375
Hudson Street, New York, New York 10014, U.S.A. Penguin Books Ltd, 80 Strand,
London WC2R ORL, England Penguin Books Australia Ltd, 250 Camberwell Road,
Camberwell,Victoria 3124, Australia Penguin Books Canada Ltd, 10 Alcorn Avenue,
Toronto, Ontario, Canada M4V 3B2 Penguin Books India (P) Ltd, 11 Community
Centre, Panchsheel Park, New Delhi - 110 017, India Penguin Books (N.Z.) Ltd,
Cnr Rosedale and Airborne Roads, Albany, Auckland, New Zealand Penguin Books
(South Africa) (Pty) Ltd, 24 Sturdee Avenue, Rosebank, Johannesburg 2196, South
Africa Penguin Books Ltd, Registered Offices: 80 Strand, London WC2R ORL,
England First published in the United States of America by Viking Penguin, a
member of Penguin Putnam Inc. 2001 Published in Penguin Books 2003 13579 10
8642 Copyright (c) Robert Greene and Joost Elffers, 2001 All rights reserved
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for any errors or omissions in the hst that follows and would be grateful to be
notified of any corrections that should appear in any reprint. Greene Robert.
The art of seduction / Robert Greene, p. cm. "A Joost Elffers
book." 1. Sexual excitement. 2. Sex
instruction. 3. Seduction. I.Title. HQ31 .G82 2001 306.7-dc21 2001025868
Printed in the United States of America Set in Bembo Designed by Jaye Zimet
with Joost Elffers Except in the United States of America, this book is sold
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Grateful acknowledgment is made for permission to reprint excerpts fiom the
following copyrighted works: Falling in Love by Francesco Alberoni, translated
by Lawrence Venuti. Reprinted by permission of Random House, Inc. Seduction by
Jean Baudrillard, translated by Brian Singer. St. Martin's Press, 1990.
Copyright (c) New World Perspectives. 1990. Reprinted by permission of
Palgrave. The Decameron by Giovanni Boccaccio, translated by G. H. Me William
(Penguin Classics 1972, second edition 1995). Copyright (c) G. H. McWilliam,
Reprinted by permission of Penguin Books Ltd. Warhol by David Bourdon,
published by Harry N. Abrams, Inc., New York. All rights reserved. Reprinted by
permission of the publisher. BehindtheMask: OnSexualDemons, SacredMothers,
Transvestites, Gangsters and Other Japanese Cultural Heroes by Ian Buruma,
Random blouse UK, 1Reprinted with permission. Andreas Capcllanus on Love by
Andreas Capellanus. translated by P. G. Walsh. Reprinted by permission of
Gerald Duckworth & Co. Ltd. The Book of the Courtier by Baldassare
Castiglione, translated by George Bull (Penguin Classics 1967, revised edition
1976). Copyright (c) George Bull, Reprinted by permission of Penguin Books Ltd.
Portrait of a Seductress: The World of Natalie Barney by Jean Chalon,
translated by Carol Barko, Crown Publishers, Inc., 1979. Reprinted with
permission. Lenin: The Man Behind the Mask by Ronald W. Clark, Faber &
Faber Ltd., 1988. Reprinted with permission. Pursuit of the Millennium by
Norman Cohn. Oxford University Press. Used by permission of Oxford University
Press, Inc. Tales from The Thousand and One Nights, translated by N. J. Dawood
(Penguin Classics, 1955, revised edition 1973). Translation copyright (c) N. J.
Dawood. 1954, 1973. Reprinted by permission of Penguin Books Ltd. Emma, Lady
Hamilton by Flora Fraser, Allied A. Knopf, 1987. Copyright (c) 1986 by Flora
Fraser. Reprinted by permission. Evita: The Real Life of Eva Peron by Nicolas
Fraser and Marysa Navarro, W. W Norton & Company, Inc., 1996. Reprinted by
permission. The World's Lure: FairWomen, TheirLoves, TheirPower, Their Fates by
Alexander von Gleichen-Russwurm. translated by Hannah Waller, Alfied A. Knopf,
1927. Copyright 1927 by Alfred A. Knopf. Inc. Reprinted with permission. The
Greek Myths by Robert Graves. Reprinted by permission of Carcanet Press
Limited. The Kennedy Obsession: The American Myth ofJFKby John Heilman,
Columbia University Press 1997. Reprinted by permission of Columbia University
Press. The Odyssey by Homer, translated by E. V Rieu (Penguin Classics).
Copyright (c) The Estate of E. V. Rieu, 1946. Reprinted by permission of
Penguin Books Ltd. The Life of an Amorous Woman and Other Writings by Ihara
Saikaku, translated by Ivan Morris. Copyright (c) 1963 by New Directions
Publishing Corp. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.
"The Seducer's Diary" fiom Either/Or, Part 1 by Spren Kierkegaard,
translated by Howard V. Hong and Edna H. Hong. Copyright (c) 1987 by Princeton
University Press. Reprinted by permission of Princeton University Press.
Sirens: Symbols of Seduction by Meri Lao, translated by John Oliphant of
Rossie, Park Street Press, Rochester. Vermont, 1998. Reprinted with permission.
Lives of the Courtesans by Lynne Lawner, Rizzoli, 1987. Reprinted with
permission of the author. The Theatre of Don Juan: A Collection of Plays and
Views, 1630-1963 edited with a commentary by Oscar Mandel. Copyright (c) 1963
by the University of Nebraska Press. Copyright (c) renewed 1991 by the University
of Nebraska Press. Reprinted by permission of the University of Nebraska Press.
Don Juan and the Point of Horror by James Mandrell. Reprinted with permission
of Penn State University Press. Bel-Ami by Guy de Maupassant, translated by
Douglas Parmee (Penguin Classics, 1975). Copyright (c) Douglas Parmee. 1975.
Reprinted by permission of Penguin Books Ltd. The Arts and Secrets of Beauty by
Lola Montez, Chelsea House, 1969. Used with permission. The Age of the Crowd by
Serge Moscovici. Reprinted with permission ot Cambridge University Press. The
Tale ofGenji by Murasaki Shikibu, translated by Edward G. Seidensncker, Alfred
A. Knopf, 1976. Copyright (c) 1976 by Edward G. Seidensticker. Reprinted by
permission of the publisher. The Erotic Poems by Ovid, translated by Peter
Green (Penguin Classics, 1982). Copyright (c) Peter Green, 1982. Reprinted by
permission of Penguin Books Ltd. The Metamorphoses by Ovid, translated by Mary
M. Innes (Penguin Classics, 1955). Copyright (c) Mary M. Innes, 1955. Reprinted
by permission of Penguin Books Ltd. My Sister, My Spouse: A Biography of Lou
Andreas-Salome by H. F. Peters, W. W. Norton & Company, Inc., 1962.
Reprinted with permission. The. Symposium by Plato, translated by Walter
Hamilton (Penguin Classics, 1951). Copyright (c) Walter Hamilton. 1951.
Reprinted by permission of Penguin Books Ltd. The Rise and Fall of Athens: Nine
Greek Lives by Plutarch, translated by Ian Scott-Kilvert (Penguin Classics,
1960). Copyright (c) Ian Scott-Kilvert, 1960. Reprinted by permission of
Penguin Hooks Ltd. Love Declared by Denis de Rougemont, translated by Richard
Howard. Reprinted by permission of Random House, Inc. The Wisdom of Life and
Counsels and Maxims by Arthur Schopenhauer, translated by T. Bailey
Saunders (Amherst, NY: Prometheus Books, 1995). Reprinted by
permission of the publisher. The Pillow Book of Sei Shonagon by Sei Shonagon,
translated and edited by Ivan Morris, Columbia University Press.
1991. Reprinted by permission of Columbia University Press. Liaison
by Joyce Wadler, published by Bantam Books, 1993. Reprinted by permission of
the author. Max Weber: Essays in Sociology by Max Weber,edited and
translated by H. H. Certh and C. Wright Mills. Copyright 1946, 1958 by H. H.
Gerth and C. Wright Mills. Used by permission of Oxford University
Press, Inc. The Game of Hearts: Harriette Wilson & Her Memoirs edited by
LesleyBlanch. Copyright (c) 1955 by Lesley Blanch. Reprinted with permission of
Simon & Schuster. To the memory ofmyfather Acknowledgments First, I would like
to thank Anna Biller for her countlesscontributions to this book: the research,
the many discussions, her invaluable help with the text itself, and, last but
not least, her knowledge of the art of seduction, of which I have been the
happy victim on numerous occasions. I must thank my mother, Laurette, for
supporting me so steadfastly throughout this project and for being my most
devoted fan. I would like to thank Catherine Leouzon, who some years ago
introduced me to Les Liaisons Dangereuses and the world of Valmont. I would
like to thank David Frankel, for his deft editing and for his much-appreciated
advice; Molly Stern at Viking Penguin, for overseeing the project and helping
to shape it; RadhaPancham, for keeping it all organized and being so patient;
and Brett Kelly, for moving things along. With heavy heart I would like to pay
tribute to my cat Boris, who for thirteen years watched over me as I wrote and
whose presence is sorely missed. His successor, Brutus, has proven to be a
worthy muse. Finally, I would like to honor my father. Words cannot express how
much I miss him and how much he has inspired my work.
Contents Acknowlegments • ix Preface • xix Part One The
Seductive Character The Siren A man is often secretly oppressed by
the role he has to play-by always having to be responsible, in control, and
rational. The Siren is the ultimate male fantasy figure because she offers a
total release from the limitations of his life. In her presence, which is
always heightened and sexually charged, the male feels transported to a realm
of pure pleasure. In a world where women are often too timid to project such an
image, learn to take control of the male libido by embodying hisfantasy. The
Rake page A woman never quite feels desired and appreciated enough. She wants
attention, but a man is too often distracted and unresponsive. The Rake is a
great female fantasy-figure -w hen he desires a woman, brief though that moment
may be, he will go to the ends of the earth for her. He may be disloyal,
dishonest, and amoral, but that only adds to his appeal. Stir a woman's
repressed longings by adapting the Rake's mix of danger and pleasure. The Ideal
Lover Most people have dreams in their youth that get shattered or worn down
with age. They find themselves disappointed by people, events, reality, which
cannot match their youthful ideals. Ideal Lovers thrive on people's broken
dreams, which become lifelong fantasies. You long for romance? Adventure? Lofty
spiritual communion? The Ideal Lover reflects your fantasy. He or she is an
artist in creating the illusion you require. In a world of disenchantment and
baseness, there is limitless seductive power in following the path of the Ideal
Lover. The Dandy Most of us feel trapped within the limited roles that the
world expects us to play. We are instantly attracted to those who are more
fluid than we are-those who create their own persona. Dandies excite us because
they cannot be categorized, and hint at a freedom we want for ourselves. They
play with masculinity and femininity; they fashion their own physical image,
which is always startling. Use the power of the Dandy to create an ambiguous,
alluring presence that stirs represseddesires. The Natural. Childhood is the
golden paradise we are always consciously or unconsciously trying to re-create.
The Natural embodies the longed-for qualities of childhood - spontaneity,
sincerity, unpretentiousness. In the presence of Naturals, wefeel at ease,
caught up in their playful spirit, transported back to that golden age. Adopt
the pose of the Natural to neutralize people's defensiveness and infect them
with helpless delight. The Coquette The ability to delay satisfaction is the
ultimate art of seduction-while waiting, the victim is held in thrall.
Coquettes are the grand masters of the game, orchestrating a back-and-forth
movement between hope and frustration. They bait with the promise of reward-the
hope of physical pleasure, happiness, fame by association, power-all of which,
however, proves elusive; yet this only makes their targets pursue them the
more. Imitate the alternating heat and coolness of the Coquette and you will
keep the seduced at your heels. The Charmer Charm is seduction without sex.
Charmers are consummate manipulators, masking their cleverness by creating a
mood of pleasure and comfort. Their method is simple: They deflect attention
from themselves and focus it on their target. They understand your spirit, feel
your pain, adapt to your moods. In the presence of a Charmer youfeel better
about yourself. Learn to cast the Charmer's spell by aiming at people's primary
weaknesses: vanity and self-esteem. The Charismatic Charisma is a presence that
excites us. It comes from an inner quality - self-confidence, sexual energy,
sense of purpose, contentment-that most people lack and want. This quality
radiates outward, permeating the gestures of Charismatics, making them seem
extraordinary and superior. They learn to heighten their charisma with a
piercing gaze, fiery oratory, an air of mystery. Create the charismatic
illusion by radiating intensity while remaining detached. The Star Daily life
is harsh, and most of us constantly seek escapefrom it infantasies and dreams.
Stars feed on this weakness; standing out from others through a distinctive and
appealing style, they make us want to watch them. At the same time, they are
vague and ethereal, keeping their distance, and letting us imagine more than is
there. Their dreamlike quality works on our unconscious. Learn to become an
object offascination by projecting the glittering but elusive presence of the
Star. The Anti-Seducer Seducers draw you in by the focused, individualized
attention they pay to you. Anti-seducers are the opposite: insecure,
self-absorbed, and unable to grasp the psychology of another person, they
literally repel Anti-Seducers have no self-awareness, and never realize when
they are pestering, imposing, talking too much. Root out anti-seductive
qualities in yourself and recognize them in others-there is no pleasure or
profit in dealing with the Anti-Seducer. The Seducer's Victims-The Eighteen
Types Part Two The Seductive Process Phase One: Separation-Stirring Interest
and Desire 1 Choose the Right Victim Everything depends on the target of your
seduction. Study your prey thoroughly, and choose only those who will prove
susceptible to your charms. The right victims are those for whom you can fill a
void, who see in you something exotic. They are often isolated or unhappy, or
can easily be made so-for the completely contented person is almost impossible
to seduce. The perfect victim has some quality that inspires strong emotions in
you, making your seductive maneuvers seem more natural and dynamic. The perfect
victim allows for the perfect chase. 2 Create a False Sense of
Security-Approach Indirectly If you are too direct early on, you risk stirring
up a resistance that will never be lowered. At first there must be nothing of
the seducer in your manner. The seduction should begin at an angle, indirectly,
so that the target only gradually becomes aware of you. Haunt the periphery of
your target's life-approach through a third party, or seem to cultivate a
relatively neutral relationship, moving gradually from friend to lover. Lull
the target into feeling secure, then strike. 3 Send Mixed
Signals Once people are aware of your presence, and perhaps vaguely
intrigued, you need to stir theirinterest before it settles on someone else.
Most of us are much too obvious - instead, be hard to figure out. Send mixed
signals: both tough and tender, both spiritual and earthly, both innocent and
cunning. A mix of qualities suggests depth, whichfascinates even as it
confuses. An elusive, enigmatic aura will make people want to know more,
drawing them into your circle. Create such a power by hinting at
something contradictory within you. 4 Appear to Be an Object of Desire-Create
Triangles Few are drawn to the person whom others avoid or neglect; people
gather around those who have already attracted interest. To draw your victims
closer and make them hungry to possess you, you must create an aura of
desirability-of being wanted and courted by many. It will become a point of
vanity for them to be the preferred object of your attention, to win you away
from a crowd of admirers. Build a reputation that precedes you: If many have
succumbed to your charms, there must be a reason. 5 Create a Need-Stir Anxiety
and Discontent pA perfectly satisfied person cannot be seduced. Tension and
disharmony must be instilled in your targets minds. Stir within them feelings
of discontent, an unhappiness with their circumstances and with themselves. The
feelings of inadequacy that you create will give you space to insinuate
yourself to make them see you as the answer to their problems. Pain and anxiety
are the proper precursors to pleasure. Learn to manufacture the need that you
can fill. 6 Master the Art of Insinuation Making your targets feel dissatisfied
and in need of your attention is essential, but if you are too obvious, they
will see through you and grow defensive. There is no known defense, however, against
insinuation-the art of planting ideas in people's minds by dropping elusive
hints that take root days later, even appearing to them as their own idea.
Create a sublanguage - bold statements followed by retraction and apology,
ambiguous comments, banal talk combined with alluring glances-that enters the
target's unconscious to convey your real meaning. Make everything suggestive. 1
Enter Their Spirit Most people are locked in their own worlds, making them
stubborn and hard to persuade. The way to lure them out of their shell and set
up your seduction is to enter their spirit. Play by their rules, enjoy what
they enjoy, adapt yourself to their moods. In doing so you will stroke their
deep-rooted narcissism and lower their defenses. Indulge your targets' every
mood and whim, giving them nothing to react against or resist. 8 Create
Temptation Lure the target deep into your seduction by creating the proper
temptation: a glimpse of the pleasures to come. As the serpent tempted Eve with
the promise offorbidden knowledge, you must awaken a desire in your targets
that they cannot control. Find that weakness of theirs, that fantasy that has
yet to be realized, and hint that you can lead them toward it. The key is to
keep it vague. Stimulate a curiosity stronger than the doubts and anxieties
that go with it, and they will follow you. Phase Two: Lead Astray-Creating
Pleasure and Confusion 9 Keep Them in Suspense-What Comes Next? page 241 The
moment people feel they know what to expect from you, your spell on them is broken.
More: You have ceded them power. The only way to lead the seduced along and
keep the upper hand is to create suspense, a calculated surprise. Doing
something they do not expectfrom you will give them a delightful sense of
spontaneity-they will not be able to foresee what comes next. You are always
one step ahead and in control. Give the victim a thrill with a sudden change of
direction. Use the Demonic Power of Words to Sow Confusion It is hard to make
people listen; they are consumed with their own thoughts and desires, and have
little time for yours. The trick to making them listen is to say what they want
to hear, to fill their ears with whatever is pleasant to them. This is the
essence of seductive language. Inflame people's emotions with loaded phrases,
flatter them, comfort their insecurities, envelop them in sweet words and
promises, and not only will they listen to you, they will lose
their will to resist you. 11 Pay Attention to Detail Lofty words of
love and grand gestures can be suspicious: Why are you trying so hard to
please? The details of a seduction-the subtle gestures, the offhand things you
do-are often more charming and revealing. You must learn to distract your
victims with a myriad of pleasant little rituals-thoughtful gifts tailored
justfor them, clothes and adornments designed to please them, gestures that
show the time and attention you are paying them. Mesmerized by what they see,
they will not notice what you are really up to. 12 Poeticize Your Presence
Important things happen when your targets are alone: The slightest feeling of
relief that you are not there, and it is all over. Familiarity and overexposure
will cause this reaction. Remain elusive, then. Intrigue your targets by
alternating an exciting presence with a cool distance, exuberant moments
followed by calculated absences. Associateyourselfwithpoeticimages and objects,
so that when they think of you, they begin to see you through an idealized
halo. The more you figure in their minds, the more they will envelop you in seductive
fantasies.Disarm Through Strategic Weakness and Vulnerability Too much
maneuvering on your part may raise suspicion. The best way to cover your tracks
is to make the other person feel superior and stronger. If you seem to be weak,
vulnerable, enthralled by the other person, and unable to control yourself you
will make your actions look more natural, less calculated. Physical weakness -t
ears, bashfulness, paleness-will help create the effect. Play the victim, then
transform your target's sympathy into love. 14 Confuse Desire and Reality-The
Perfect Illusion To compensate for the difficulties in their lives, people
spend a lot of their time daydreaming, imagining a future full of adventure,
success, and romance. Ifyou can create the illusion that through you they can
live out their dreams, you will have them at your mercy. Aim at secret wishes
that have been thwarted or repressed, stirring up uncontrollable emotions,
clouding their powers of reason. Lead the seduced to a point of confusion
in which they can no longer tell the difference between illusion and
reality. 15 Isolate the Victim page 309 An isolated person is weak. By slowly
isolating your victims, you make them more vulnerable to your influence. Take
them away from their normal milieu, friends, family, home. Give them the sense
of being marginalized, in limbo-they are leaving one world behind and entering
another. Once isolated like this, they have no outside support, and in their
confusion they are easily led astray. Lure the seduced into your lair, where
nothing is familiar. Phase Three: The Precipice-Deepening the Effect Through
Extreme Measures Prove Yourself page Most people want to be seduced. If they
resist your efforts, it is probably because you ham' not gone far enough to
allay their doubts-about your motives, the depth of your feelings, and so on.
One well-timed action that shows how far you are willing to go to win them over
will dispel their doubts. Do not worry about looking foolish or making a
mistake-any kind of deed that is self-sacrificing and for your targets' sake
will so overwhelm their emotions, they won't notice anything else. 17 Effect a
Regression page 333 People who have experienced a certain kind of pleasure in
the past will try to repeat or relive it. The deepest-rooted and most
pleasurable memories are usually those from earliest childhood, and are often
unconsciously associated with a parental figure. Bring your targets back to
that point by placing yourself in the oedipal triangle and positioning them as
the needy child. Unaware of the cause of their emotional response, they will
fall in love with you. 18 Stir Up the Transgressive and Taboo There are always
social limits on what one can do. Some of these, the most elemental taboos, go
back centuries; others are more superficial, simply defining polite and
acceptable behavior. Making your targets feel that you are leading them past
either kind of limit is immensely seductive. People yearn to explore their dark
side. Once the desire to transgress draws your targets to you, it will be hard
for them to stop. Take them farther than they imagined-the shared feeling of
guilt and complicity will create a powerful bond. 19 Use Spiritual Lures
Everyone has doubts and insecurities-about their body, their self-worth, their
sexuality. If your seduction appeals exclusively to the physical, you will stir
up these doubts and make your targets self-conscious. Instead, lure them out of
their insecurities by making them focus on something sublime and spiritual: a
religious experience, a lofty work of art, the occult. Lost in a spiritual
mist, the target will feel light and uninhibited. Deepen the effect of your
seduction by making its sexual culmination seem like the spiritual union of two
souls. 20 Mix Pleasure with Pain The greatest mistake in seduction
is being too nice. At first, perhaps, your kindness is charming, but it soon
grows monotonous; you are trying too hard to please, and seem insecure. Instead
of overwhelming your targets with niceness, try inflicting some pain. Make them
feel guilty and insecure. Instigate a breakup-now a rapprochement, a return to
your earlier kindness, will turn them weak at the knees. The lower the lows you
create, the greater the highs. To heighten the erotic charge, create the
excitement of fear. Phase Four: Moving In for the Kill 21Give Them Space to
Fall-The Pursuer Is Pursued If your targets become too used to you
as the aggressor, they will give less of their own energy, and the tension will
slacken. You need to wake them up, turn the tables. Once they are under your
spell, take a step bach and they will start to come after you. Hint that you
are growing bored. Seem interested in someone else. Soon they will want to
possess you physically, and restraint will go out the window. Create the
illusion that the seducer is being seduced. 22 Use Physical Lures Targets with
active minds are dangerous: If they see through your manipulations, they may
suddenly develop doubts. Put their minds gently to rest, and waken their
dormant senses, by combining a nondefensive attitude with a charged sexual
presence. While your cool, nonchalant air is
loweringtheirinhibitions,yourglances,voice,and bearing-oozing sex and
desire-are getting under their skin and raising their temperature. Never force
the physical; instead infect your targets with heat, lure them into lust.
Morality, judgment, and concern for the future will all melt away. 23 Master
the Art of the Bold Move A moment has arrived: Your victim clearly desires you,
but is not ready to admit it openly, let alone act on it. This is the time
tothrow aside chivalry,kindness, and coquetry and to overwhelm with a bold
move. Don't give the victim time to consider the consequences. Showing
hesitation or awkwardness means you are thinking of yourself as opposed to
being overwhelmed by the victim's charms. One person must go on the offensive,
and it is you. 24 Beware the Aftereffects Danger follows in the aftermath of a
successful seduction. After emotions have reached a pitch, they often swing in
the opposite direction-toward lassitude, distrust, disappointment. If you are
to part, make the sacrifice swift and sudden. If you are to stay in a
relationship, beware a flagging of energy, a creeping familiarity that will
spoil the fantasy. A second seduction is required. Never let the other person
take you for granted-use absence, create pain and conflict, to keep the seduced
on tenterhooks. Seductive Environment/Seductive Time Soft Seduction:
How to Sell Anything to the Masses Thousands of years ago, power was mostly gained
through physical violence and maintained with brute strength. There was little
need for subtlety-a king or emperor had to be merciless. Only a select few had
power, but no one suffered under this scheme of things more than women. They
had no way to compete, no weapon at their disposal that could make a man do
what they wanted-politically, socially, or even in the home. Of course men had
one weakness: their insatiable desire for sex. A woman could always toy with
this desire, but once she gave in to sex the man was back in control; and if
she withheld sex, he could simply look elsewhere-or exert force. What good was
a power that was so temporary and frail?Yet women had no choice but to submit
to this condition. There were some, though, whose hunger for power was too
great, and who, over the years, through much cleverness and creativity,
invented a way of turning the dynamic around, creating a more lasting and
effective form of power. These women-among them Bathsheba, from the Old
Testament; Helen of Troy; the Chinese siren Hsi Shi; and the greatest of them
all, Cleopatra-invented seduction. First they would draw a man in with an
alluring appearance, designing their makeup and adornment to fashion the image
of a goddess come to life. By showing only glimpses of flesh, they would tease
a man's imagination, stimulating the desire not just for sex but for something
greater: the chance to possess a fantasy figure. Once they had their
victims' interest, these women would lure them away from the mascu line world
of war and politics and get them to spend time in the
feminine world-a world of luxury, spectacle, and pleasure. They
might also lead them astray literally, taking them on a journey, as
Cleopatra lured Julius Caesar on a trip down the Nile. Men would
grow hooked on these refined, sensual pleasures-they would fall in
love. But then, invariably, the women would turn cold and
indifferent, confusing their victims. Just when the men wanted more, they found
their pleasures withdrawn. They would be forced into pursuit, trying
anything to win back the favors they once had tasted and growing weak and
emotional in the process. Men who had physical force and all the social
power-men like King David, the Trojan Paris, Julius Caesar, Mark Antony, King
Fu Chai-would find themselves becoming the slave of a woman. In the face of
violence and brutality, these women made seduction a Oppression and scorn,
thus, were and must have been generally the share of women in emerging
societies; this state lasted in all its force until centuries of experience
taught them to substitute skill for force. Women at last sensed that, since
they were weaker, their only resource was to seduce; they understood that if
they were dependent on men through force, men could become dependent on them
through pleasure. More unhappy than men, they must have thought and reflected
earlier than did men; they were the first to know that pleasure was always
beneath the idea that one formed of it, and that the imagination went farther
than nature. Once these basic truths were known, they learned first to veil
their charms in order to awaken curiosity; they practiced the difficult art of
refusing even as they wished to consent; from that moment on, they knew how to
set men's imagination afire, they knew how to arouse and direct desires as they
pleased: thus did beauty and love come into being; now the lot of women became
less harsh, not that they had managed to liberate themselves entirely from the
state of oppression to which their weakness condemned them; but, in the state
of perpetual war that continues to exist between women and men, one has seen
them, with the help of the caresses they have been able to invent, combat
ceaselessly, sometimes vanquish, and often more skillfully take advantage of
the forces directed against them; sometimes, too, men have turned against women
these weapons the women had forged to combat them, and their slavery has become
all the harsher for it. -CHODERLOS DE LACLOS, ON THE EDUCATION OF WOMEN, IN THE
LIBERTINE READER, FEHER Much more genius is needed to make love than
to command armies.-NINON DEL'ENCLOS Menelaus, if you are really going to kill
her, Then my blessing go with you, but you must do it now, Before her looks so
twist the strings of your heart That they turn your mind; for her eyes are like
armies, And where her glances fall, there cities burn, Until the dust of their
ashes is blown By her sighs. I know her, Men elans, \ And so do you. And all
those who know her suffer. - HECUBA SPEAKING ABOUT HELEN OF TROY IN EURIPIDES,
THE TROJAN WOMEN, sophisticated art, the ultimate form of power and persuasion.
They learned to work on the mind first, stimulating fantasies, keeping a man
wanting more, creating patterns of hope and despair-the essence of seduction.
Their power was not physical but psychological, not forceful but indirect and
cunning. These first great seductresses were like military generals planning
the destruction of an enemy, and indeed early accounts of seduction often
compare it to battle, the feminine version of warfare. For Cleopatra, it was a
means of consolidating an empire. In seduction, the woman was no longer a
passive sex object; she had become an active agent, a figure of power. With a
few exceptions-the Latin poet Ovid, the medieval troubadours-men did not much
concern themselves with such a frivolous art as seduction. Then, in the
seventeenth century came a great change; men grew interested inseductionasaway
to overcome a young woman's resistance to sex. History's first great male
seducers-the Duke de Lauzun, the different Spaniards who inspired the Don Juan
legend-began to adopt the methods traditionally employed by women. They learned
to dazzle with their appearance (often androgynous in nature), to stimulate the
imagination, to play the coquette. They also added a new, masculine element to
the game: seductive language, for they had discovered a woman's weakness for
soft words. These two forms of seduction-the feminine use of appearances and
the masculine use of language-would often cross gender lines; Casanova would dazzle
a woman with his clothes; Ninon de l'Enclos would charm a man with her words.
At the same time that men were developing their version of seduction, others
began to adapt the art for social purposes. As Europe's feudal system of
government faded into the past, courtiers needed to get their way in court
without the use of force. They learned the power to be gained by seducing their
superiors and competitors through psychological games, soft words, a little
coquetry. As culture became democratized, actors, dandies, and artists came to
use the tactics of seduction as a way to charm and win over their audience and
social milieu. In the nineteenth century another great change occurred;
politicians like Napoleon consciously saw themselves as seducers, on a grand
scale. These men depended on the art of seductive oratory, but they also
mastered what had once been feminine strategies: staging vast spectacles, using
theatrical devices, creating a charged physical presence. All this, they
learned, was the essence of charisma-and remains so today. By seducing the
masses they could accumulate immense power without the use of force. Today we
have reached the ultimate point in the evolution of seduction. Now more than
ever, force or bmtality of any kind is discouraged. All areas of social life
require the ability to persuade people in a way that does not offend or impose
itself. Forms of seduction can be found everywhere, blending male and female
strategies. Advertisements insinuate, the soft sell dominates. If we are to
change people's opinions-and affecting opinion is basic to seduction-we must
act in subtle, subliminal ways. Today no political campaign can work without
seduction. Since the era of John F. Kennedy, political figures are required to
have a degree of charisma, a fascinating presence to keep their audience's
attention, which is half the battle. The film world and media create a galaxy
of seductive stars and images. We are saturated in the seductive. But even if
much has changed in degree and scope, the essence of seduction is constant:
never be forceful or direct; instead, use pleasure as bait, playing on people's
emotions, stirring desire and confusion, inducing psychological surrender. In
seduction as it is practiced today, the methods of Cleopatra still hold. People
are constantly trying to influence us, to tell us what to do, and just as often
we tune them out, resisting their attempts at persuasion. There is a moment in
our lives, however, when weall act differently-when we are in love. We fall
under a kind of spell. Our minds are usually preoccupied with our own concerns;
now they become filled with thoughts of the loved one. We grow emotional, lose
the ability to think straight, act in foolish ways that we would never do
otherwise. If this goes on long enough something inside us gives way: we
surrender to the will of the loved one, and to our desire to possess them.
Seducers are peoplewho understand the tremendous power contained in such
moments of surrender. They analyze what happens when people are in love, study
the psychological components of the process-what spurs the imagination, what
casts a spell. By instinct and through practice they master the art of making
people fall in love. As the first seductresses knew, it is much more effective
to create love than lust. A person in love is emotional, pliable, and
easilymisled. (The origin of the word "seduction" is the Latin for
"to lead astray") A person in lust is harder to control and, once
satisfied, may easily leave you. Seducers take their time, create enchantment
and the bonds of love, so that when sex ensues it only further enslaves the
victim. Creating love and enchantment becomes the model for all
seductions-sexual, social, political. A person in love will surrender. It is
pointless to try to argue against such power, to imagine that you are not
interested in it, or that it is evil and ugly. The harder you try to resist the
lure of seduction-as an idea, as a form of power-the more you will find
yourself fascinated. The reason is simple: most of us have known the power of
having someone fall in love with us. Our actions, gestures, the things we say,
all have positive effects on this person; we may not completely understand what
we have done right, but this feeling of power is intoxicating. It gives us
confidence, which makes us more seductive. We may also experience this in a
social or work setting-one day we are in ait elevated mood and people seem more
responsive, more charmed by us. These moments of power are fleeting, but they
resonate in the memory with great intensity. We want them back. Nobody likes to
feel awkward or timid or unable to reach people. The siren call of seduction is
irresistible because power is irresistible, and nothing will bring you more
power in the modern world than the ability to seduce. Repressing the desire to
seduce is a kind of No man hath it in his power to over-rule the deceitfulness
of a woman. -MARGUERITE OF NAVARRE This important side-track, by which woman
succeeded in evading man's strength and establishing herself in power, has not
been given due consideration by historians. From the moment when the woman
detached herself from the crowd, an individual finished product, offering
delights which could not be obtained by force, but only by flattery .... the
reign of love's priestesses was inaugurated. It was a development of
far-reaching importance in the history of civilization. . . . Only by the
circuitous route of the art of love could woman again assert authority, and
this she did by asserting herself at the very point at which she would normally
be a slave at the man's mercy. She had discovered the might of lust, the secret
of the art of love, the daemonic power of a passion artificially aroused and
never satiated. The force tints unchained was thenceforth to count among the
most tremendous of the world's forces and at moments to have power even over
life and death. The deliberate spellbinding of man's senses was to have a
magical effect upon him, opening up an infinitely wider range of sensation and
spurring him on as if impelled by an inspired dream. -ALEXANDER VON GLEICHEN-
RUSSWURM, THE WORLD'S LURE. TRANSLATED BY HANNAH WALLER The first thing to get
in your head is that every single \ Girl can be caught-and that you'll catch
her if \ You set your toils right. Birds will sooner fall dumb in \ Springtime,
\ Cicadas in summer, or a hunting-dog \ Turn his back on a hare, than a lover's
bland inducements \ Can fail with a woman, Even one you suppose \ Reluctant
will want it. -OVID, THE ART OF LOVE, The combination of these two elements,
enchantment and surrender, is, then, essential to the love which we are
discussing. What exists in love is surrender due to enchantment. -JOSE ORTEGA Y
GASSET, ON LOVE, TRANSLATED BY TOBY TALBOT What is good?-All that heightens the
feeling of power, the will to power, power itself in man. • What is bad?-All
that proceeds from weakness. What is happiness?-The feeling that power
increases-that a resistance is overcome. -FRIEDRICH NIETZSCHE, THE ANTI-CHRIST,
HOLLINGDALE hysterical reaction, revealing your deep-down fascination with the
process; you are only making your desires stronger. Some day they will come to
the surface. To have such power does not require a total transformation in your
character or any kind of physical improvement in your looks. Seduction is a
game of psychology, not beauty, and it is within the grasp of any person to
become a master at the game. All that is required is that you look at the world
differently, through the eyes of a seducer. A seducer does not turn the power
off and on-every social and personal interaction is seen as a potential
seduction. There is never a moment to waste. This is so for several reasons.
The power seducers have over a man or woman works in social environments
because they have learned how to tone down the sexual element without getting
rid of it. We may think we see through them, but they are so pleasant to be
around anyway that it does not matter. Trying to divide your life into moments
in which you seduce and others in which you hold back will only confuse and
constrain you. Erotic desire and love lurk beneath the surface of almost every
human encounter; better to give free rein to your skills than to try to use
them only in the bedroom. (In fact, the seducer sees the world as his or her bedroom.)
This attitude creates great seductive momentum, and with each seduction you
gain experience and practice. One social or sexual seduction makes the nextone
easier, your confidence growing and making you more alluring. People are drawn
to you in greater numbers as the seducer's aura descends upon you. Seducers
have a warrior's outlook on life. They see each person as a kind of walled
castle to which they are laying siege. Seduction is a process of penetration:
initially penetrating the target's mind, their first point of defense. Once
seducers have penetrated the mind, making the target fantasize about them, it
iseasyto lower resistance and create physical surrender. Seducers do not
improvise; they do not leave this process to chance. Like any good general,
they plan and strategize, aiming at the target's particular weaknesses. The
main obstacle to becoming a seducer is this foolish prejudice we have of seeing
love and romance as some kind of sacred, magical realm where things just fall
into place, if they are meant to. This might seem romantic and quaint,but it is
reallyjust a cover for our laziness. What will seduce a person is the effort we
expend on their behalf, showing how much we care, how much they are worth.
Leaving things to chance is a recipe for disaster, and reveals that we do not
take love and romance very seriously. It was the effort Casanova expended, the
artfulness he applied to each affair that made him so devilishly seductive.
Falling in love is a matter not of magic but of psychology. Once you understand
your target's psychology, and strategize to suit it, you will be better able to
cast a "magical" spell. A seducer sees love not as sacred but as
warfare, where all is fair. Seducers are never self-absorbed. Their gaze is directed
outward, not inward. When they meet someone their first move is to get inside
that person's skin, to see the world through their eyes. The reasons for this
are several. First, self-absorption is a sign of insecurity; it is
anti-seductive. Everyone has insecurities, but seducers manage to ignore them,
finding therapy for moments of self-doubt by being absorbed in the world. This
gives them a buoyant spirit-we want to be around them. Second, getting into
someone's skin, imagining what it is like to be them, helps the seducer gather
valuable information, leam what makes that person tick, what will make them
lose their ability to think straight and fall into a trap. Armed with such
information, they can provide focused and individualized attention-a rare
commodity in a world in which most people see us only from behind the screen of
their own prejudices. Getting into the targets' skin is the first important
tactical move in the war of penetration. Seducers see themselves as providers
of pleasure, like bees that gather pollen from some flowers and deliver it to
others. As children we mostly devoted our lives to play and pleasure. Adults
often have feelings of being cut off from this paradise, of being weighed down
by responsibilities. The seducer knows that people are waiting for
pleasure-they never get enough of it from friends and lovers, and they cannot
get it by themselves. A person who enters their lives offering adventure and
romance cannot be resisted. Pleasure is a feeling of being taken past our
limits, of being overwhelmed by another person, by an experience. People are
dying to be overwhelmed, to let go of their usual stubbornness. Sometimes their
resistance to us is a way of saying. Please seduce me. Seducers know that the
possibility of pleasure will make a person follow them, and the experience of
it will make someone open up, weak to the touch. They also train themselves to
be sensitive to pleasure, knowing that feeling pleasure themselves will make it
that much easier for them to infect the people around them. A seducer sees all
of life as theater, everyone an actor. Most people feel they have constricted
roles in life, which makes them unhappy. Seducers, on the other hand, can be
anyone and can assume many roles. (The archetype here is the god Zeus, insatiable
seducer of young maidens, whose main weapon was the ability to assume the form
of whatever person or animal would most appeal to his victim.) Seducers take
pleasure in performing and are not weighed down by their identity, or by some
need to be themselves, or to be natural. This freedom of theirs, this fluidity
in body and spirit, is what makes them attractive. What people lack in life is
not more reality but illusion, fantasy, play. The clothes that seducers wear,
the places they take you to, their words and actions, are slightly
heightened-not overly theatrical but with a delightful edge of unreality, as if
the two of you were living out a piece of fiction or were characters in a film.
Seduction is a kind of theater in real life, the meeting of illusion and
reality. Finally, seducers are completely amoral in their approach to life. It
is all a game, an arena for play. Knowing that the moralists, the crabbed
repressed types who croak about the evils of the seducer, secretly envy their
power, they do not concern themselves with other people's opinions. They do not
deal in moral judgments-nothing could be less seductive. Everything is The
disaffection, neurosis, anguish and frustration encountered by psychoanalysis
comes no doubt from being unable to love or to be loved, from being unable to
give or take pleasure, but the radical disenchantment comes from seduction and
its failure. Only those who lie completely outside seduction are ill, even if
they remain fully capable of loving and making love. Psychoanalysis believes it
treats the disorder of sex and desire, but in reality it is dealing with the
disorders of seduction. The most serious deficiencies always concern charm and
not pleasure, enchantment and not some vital or sexual satisfaction.
BAUDR1LLARD, SEDUCTION Whatever is done from love always occurs beyond good and
evil. -NIETZSCHE, BEYOND GOOD AND EVIL, KAUFMANN Should anyone here in Rome
lack finesse at love- making, \ Let him \ Try me-read my book, and results are
guaranteed! \ Technique is the secret. Charioteer, sailor, pliant, fluid, like
life itself. Seduction is a form of deception, but people want to be led
astray, they yearn to be seduced. If they didn't, seducers would not find so
many willing victims. Get rid of any moralizing tendencies, adopt the seducer's
playful philosophy, and you will find the rest of the process easy and natural.
oarsman, \ All need it. Technique can control \ Love himself. - OVID, THE ART
OF LOVE. GREEN The Art of Seduction is designed to arm you with weapons of
persuasion and charm, so that those around you will slowly lose their ability
to resist without knowing how or why it has happened. It is an art of war for
delicate times. Every seduction has two elements that you must analyze and
understand: first, yourself and what is seductive about you; and second, your
target and the actions that will penetrate their defenses and create surrender.
The two sides are equally important. If you strategize without paying attention
to the parts of your character that draw people to you, you will be seen as a
mechanical seducer, slimy and manipulative. If you rely on your seductive
personality without paying attention to the other person, you will make
terrible mistakes and limit your potential. Consequently, The Art of Seduction
is divided into two parts. The first half, "The Seductive Character,"
describes the nine types of seducer, plus the Anti-Seducer. Studying these
types will make you aware of what is inherently seductive in your character,
the basic building block of any seduction. The second half, "The Seductive
Process," includes the twenty- four maneuvers and strategies that will
instruct you on how to create a spell, break down people's resistance, give
movement and force to your seduction, and induce surrender in your target. As a
kind of bridge between the two parts, there is a chapter on the eighteen types
of victims of a seduction-each of them missing something from their lives, each
cradling an emptiness you can fill. Knowing what type you are dealing with will
help you put into practice the ideas in both sections. Ignore any part of this
book and you will be an incomplete seducer. The ideas and strategies in The Art
of Seduction are based on the writings and historical accounts of the most
successful seducers in history. The sources include the seducers' own memoirs
(by Casanova, Errol Flynn, Natalie Barney, Marilyn Monroe); biographies (of
Cleopatra, Josephine Bonaparte, John F. Kennedy, Duke Ellington); handbooks on
the subject (most notably Ovid's Art of Love); and fictional accounts of
seductions (Choderlos de Laclos's Dangerous Liaisons, Spren Kierkegaard's The
Seducer's Diary, Murasaki Shikibu's The Tale ofGenji). The heroes and heroines
of these literary works are generally modeled on real-life seducers. The strategies
they employ reveal the intimate connection between fiction and seduction,
creating illusion and leading a person along. In putting the book's lessons
into practice, you will be following in the path of the greatest masters of the
art. Finally, the spirit that will make you a consummate seducer is the spirit
in which you should read this book. The French writer Denis Diderot once wrote,
"I give my mind the liberty to follow the first wise or foolish idea that
presents itself, just as in the avenue de Foy our dissolute youths follow close
on the heels of some strumpet, then leave her to pursue another, attacking all
of them and attaching themselves to none. My thoughts are my strumpets."
He meant that he let himself be seduced by ideas, following whichever one
caught his fancy until a better one came along, his thoughts infused with a
kind of sexual excitement. Once you enter these pages, do as Diderot advised:
let yourself be lured by the stories and ideas, your mind open and your
thoughts fluid. Slowly you will find yourself absorbing the poison through the
skin and you will begin to see everything as a seduction, including the way you
think and how you look at the world. Most virtue is a demand for greater
seduction. -NATALIE BARNEY Part One Seductive Character W e all have the power
of attraction-the ability to draw people in and hold them in our thrall. Far
from all of us, though, are aware of this inner potential, and we imagine
attractiveness instead as a near-mystical trait that a select few are born with
and the rest will never command. Yet all we need to do to realize our potential
is understand what it is in a person's character that naturally excites people
and develop these latent qualities within us. Successful seductions rarely
begin with an obvious maneuver or strategic device. That is certain to arouse
suspicion. Successful seductions begin with your character, your ability to
radiatesome quality that attracts people and stirs their emotions in a way that
is beyond their control. Hypnotized by your seductive character, your victims
will not notice your subsequent manipulations. It will then be child's play to
mislead and seduce them. There are nine seducer types in the world. Each type
has a particular character trait that comes from deep within and creates a
seductive pull. Siren.': have an abundance of sexual energy and know how touse
it. Rakes insatiably adore the opposite sex, and their desire is infectious.
Ideal Lovers have an aesthetic sensibility that they apply to romance. Dandies
like to play with their image, creating a striking and androgynous allure.
Naturals are spontaneous and open. Coquettes are self-sufficient, with a
fascinating cool at their core. Charmers want and know how to please-they are
social creatures. Charismatics have an unusual confidence in themselves. Stars
are ethereal and envelop themselves in mystery. The chapters in this section
will take you inside each of the nine types. At least one of the chapters
should strike a chord-you will recognize part of yourself. That chapter will be
the key to developing your own powers of attraction. Let us say you have
coquettish tendencies. The Coquette chapter will show you how to build upon
your own self-sufficiency, alternating heat and coldness to ensnare your
victims. It will show you how to take your natural qualities further, becoming
a grand Coquette, the type we fight over. There is no point in being timid with
a seductive quality. We are charmed by an unabashed Rake and excuse his
excesses, but a halfhearted Rake gets no respect. Once you have cultivated your
dominant character trait, adding some art to what nature has given you, you can
then develop a second or third trait, adding depth and mystery to your persona.
Finally the section's tenth chapter, on the Anti-Se cluce r, w i 11 make you
aware of the opposite potential within you-the power of repulsion. At all cost
you must root out any anti-seductive tendencies you may have. Think of the nine
types as shadows, silhouettes. Only by stepping into one of them and letting it
grow inside you can you begin to develop the seductive character that will
bring you limitless power the iren man is often secretly oppressed by the role
he has to play-by always having to be responsible, in control, and rational.
The Siren is the ultimate male fantasy figure because she offers a total
release from the limitations of his life. In her presence, which is always
heightened and sexually charged, the male feels transported to a world of pure
pleasure. She is dangerous, and in pursuing her energetically the man can lose
control over himself something he yearns to do. The Siren is a mirage; she
lures men by cultivating a particular appearance and manner. In a world where
women are often too timid to project such an image, learn to take control of
the male libido by embodying his fantasy. The Spectacular Siren I n the year 48
B.C., Ptolemy XIV of Egypt managed to depose and exile his sister and wife.
Queen Cleopatra. He secured the country's borders against her return and began
to rule on his own. Later that year, Julius Caesar came to Alexandria to ensure
that despite the local power struggles, Egypt would remain loyal to Rome. One
night Caesar was meeting with his generals in the Egyptian palace, discussing
strategy, when a guard entered to report that a Greek merchant was at the door
bearing a large and valuable gift for the Roman leader. Caesar, in the mood for
a little fun, gave the merchant permission to enter. The man came in, carrying
on his shoulders a large rolled-up carpet. He undid the rope around the bundle
and with a snap of his wrists unfurled it-revealing the young Cleopatra, who
had been hidden inside, and who rose up half clothed before Caesar and his
guests, like Venus emerging from the waves. Everyone was dazzled at the sight of
the beautiful young queen (only twenty-one at the time) appearing before them
suddenly as if in a dream. They were astounded at her daring and
theatricality-smuggled into the harbor at night with only one man to protect
her, risking everything on a bold move. No one was more enchanted than Caesar.
According to the Roman writer Dio Cassius, "Cleopatra was in the prime of
life. She had a delightful voice which could not fail to cast a spell over all
who heard it. Such was the charm of her person and her speech that they drew
the coldest and most determined misogynist into her toils. Caesar was
spellbound as soon as he set eyes on her and she opened her mouth to
speak." That same evening Cleopatra became Caesar s lover. Caesar had had
numerous mistresses before, to divert him from the rigors of his campaigns. But
he had always disposed of them quickly to return to what really thrilled
him-political intrigue, the challenges of warfare, the Roman theater. Caesar
had seen women try anything to keep him under their spell. Yet nothing prepared
him for Cleopatra. One night she would tell him howtogethertheycould revive the
glory of Alexander the Great, and rule the world like gods. The next she would
entertain him dressed as the goddess Isis, surrounded by the opulence of her
court. Cleopatra initiated Caesar in the most decadent revelries, presenting
herself as the incarnation of the Egyptian exotic. His life with her was a
constant game, as challenging as warfare, for the moment he felt secure with
her she In the mean time our good ship, with that perfect wind to drive her,
fast approached the Sirens' Isle. But now the breeze dropped, some power lulled
the waves, and a breathless calm set in. Rising from their seats my men drew in
the sail and threw it into the hold, then sat down at the oars and churned the
water white with their blades of polished pine. Meanwhile I took a large round
of wax, cut it up small with my sword, and kneaded the pieces with all the
strength of my fingers. The wax soon yielded to vigorous treatment and grew
warm, for I had the rays of my Lord the Sun to help me. I took each of my men
in turn and plugged their ears with it. They then made me a prisoner on my ship
by binding me hand and foot, standing me up by the step of the mast and tying the
rope's ends to the mast itself. This done, they sat down once more and struck
the grey water with their oars. We made good progress and had just come within
call of the shore when the Sirens became aware that a ship was swiftly bearing
down upon them, and broke into their liquid song. "Draw
near," they sang, "illustrious Odysseus, flower of Achaean chivalry,
and bring your ship to rest so that you may hear our voices. No seaman ever
sailed his black ship past this spot without listening to the sweet tones that
flow from our lips . . • The lovely voices came to me across the water, and my
heart was filled with such a longing to listen that with nod and frown I signed
to my men to set me free. - HOMER, THE ODYSSEY, BOOK XII, TRANSLATED BY E.V.
RIEU The charm of [Cleopatra's ] presence was irresistible, and there was an
attraction in her person and talk, together with a peculiar force of character,
which pervaded her every word and action, and laid all who associated with her
under its spell. It was a delight merely to hear the sound of her voice, with
which, like an instrument of many strings, she could pass from one language to
another. -PLUTARCH, MAKERS OF ROME, SCOTT-KILVERT The immediate attraction of a
song, a voice, or scent. The attraction of the panther with his perfumed scent
. . . According to the ancients, the panther is the only animal who emits a
perfumed odor. It uses this scent to draw and capture its victims. But what is
it that seduces in a scent? What is it in the song of the Sirens that seduces
us, or in the beauty of a face, in the depths would suddenly turn cold or angry
and he would have to find a way to regain her favor. The weeks went by. Caesar
got rid of all Cleopatra's rivals and found excuses to stay in Egypt. At one
point she led him on a lavish historical expedition down the Nile. In a boat of
unimaginable splendor-towering fifty-four feet out of the water, including
several terraced levels and a pillared temple to the god Dionysus-Caesar became
one of the few Romans to gaze on the pyramids. And while he stayed long in
Egypt, away from his throne in Rome, all kinds of turmoil erupted throughout
the Roman Empire. When Caesar was murdered, in 44 B.C., he was succeeded by a
triumvirate of rulers including Mark Antony, a brave soldier who loved pleasure
and spectacle and fancied himself a kind of Roman Dionysus. A few years later,
while Antony was in Syria, Cleopatra invited him to come meet her in the
Egyptian town of Tarsus. There-once she had made him wait for her-her
appearance was as startling in its way as her first before Caesar. A
magnificent gold barge with purple sails appeared on the river Cydnus. The
oarsmen rowed to the accompaniment of ethereal music; all around the boat were
beautiful young girls dressed as nymphs and mythological figures. Cleopatra sat
on deck, surrounded and fanned by cupids and posed as the goddess Aphrodite,
whose name the crowd chanted enthusiastically. Like all of Cleopatra's victims,
Antony felt mixed emotions. The exotic pleasures she offered were hard to
resist. But he also wanted to tame her-to defeat this proud and illustrious
woman would prove his greatness. And so he stayed, and, like Caesar, fell
slowly under her spell. She indulged him in all of his weaknesses-gambling,
raucous parties, elaborate rituals, lavish spectacles. To get him to come back
to Rome, Octavius, another member of the Roman triumvirate, offered him a wife:
Octavius's own sister, Octavia, one of the most beautiful women in Rome. Known
for her virtue and goodness, she could surely keep Antony away from the
"Egyptian whore." The ploy worked for a while, but Antony was unable
to forget Cleopatra, and after three years he went back to her. This time it
was for good: he had in essence become Cleopatra's slave, granting her immense
powers, adopting Egyptian dress and customs, and renouncing the ways o/Rome.
Only one image of Cleopatra survives-a barely visible profile on a coin- but we
have numerous written descriptions. She had a long thin face and a somewhat
pointed nose; her dominant features were her wonderfully large eyes. Her
seductive power, however, did not lie in her looks-indeed many among the women
of Alexandria were considered more beautiful than she. What she did have above
all other women was the ability to distract a man. In reality, Cleopatra was
physically unexceptional and had no political power, yet both Caesar and
Antony, brave and clever men, saw none of this. What they saw was a woman who
constantly transformed herself before their eyes, a one-woman spectacle. Her dress
and makeup changed from day to day, but always gave her a heightened,
goddesslike appearance. Her voice, which all writers talk of, was lilting and
intoxicating. Her words could be banal enough, but were spoken so sweetly that
listeners would find themselves remembering not what she said but how she said
it. Cleopatra provided constant variety-tributes, mock battles, expeditions,
costumed orgies. Everything had a touch of drama and was accomplished with
great energy. By the time your head lay on the pillow beside her, your mind was
spinning with images and dreams. And just when you thought you had this fluid,
larger-than-life woman, she would turn distant or angry, making it clear that
everything was on her terms. You never possessed Cleopatra, you worshiped her.
In this way a woman who had been exiled and destined for an early death managed
to turn it all around and rule Egypt for close to twenty years. From Cleopatra
we leam that it is not beauty that makes a Siren but rather a theatrical streak
that allows a woman to embody a man's fantasies. A man grows bored with a
woman, no matter how beautiful; he yearns for different pleasures, and for
adventure. All a woman needs to turn this around is to create the illusion that
she offers such variety and adventure. A man is easily deceived by appearances;
he has a weakness for the visual. Create the physical presence of a Siren
(heightened sexual allure mixed with a regal and theatrical manner) and he is
trapped. He cannot grow bored with you yet he cannot discard you. Keep up the
distractions, and never let him see who you really are. He will follow you
until he drowns. The Sex Siren N orma Jean Mortensen, the future Marilyn
Monroe, spent part of her childhood in Los Angeles orphanages. Her days were
filled with chores and no play. At school, she kept to herself, smiled rarely,
and dreamed a lot. One day when she was thirteen, as she was dressing for
school, she noticed that the white blouse the orphanage provided for her was
torn, so she had to borrow a sweater from a younger girl in the house. The
sweater was several sizes too small. That day, suddenly, boys seemed to gather
around her wherever she went (she was extremely well-developed for her age).
She wrote in her diary, "They stared at my sweater as if it were a gold
mine." The revelation was simple but startling. Previously ignored and
even ridiculed by the other students, Norma Jean now sensed a way to gain
attention, maybe even power, for she was wildly ambitious. She started to smile
more, wear makeup, dress differently. And soon she noticed something equally
startling: without her having to say or do anything, boys fell passionately in
love with her. "My admirers all said the same thing in different
ways," she wrote. "It was my fault, their wanting to kiss me and hug
me. Some said it was the way I looked at them-with eyes full of passion. Others
said it was my voice that lured them on. Still others said I gave off
vibrations that floored them." of an abyss? Seduction lies in the annulment
of signs and their meaning, in pure appearance. The eyes that seduce have no
meaning, they end in the gaze, as the face with makeup ends in only pure
appearance. The scent of the panther is also a meaningless message-and behind
the message the panther is invisible, as is the woman beneath her makeup. The
Sirens too remained unseen. The enchantment lies in what is hidden. BAUDRILLARD, DE LA SEDUCTION We're dazzled by
feminine adornment, by the surface, \ All gold and jewels: so little of what we
observe \ Is the girl herself And where (you may ask) amid such plenty \ Can
our object of passion be found? The eye's deceived \ By Love's smart
camouflage. - OVID, CURES FOR LOVE. GREEN He was herding his cattle on Mount
Gargarus, the highest peak of Ida, when Hermes, accompanied by Hera, Athene,
and Aphrodite delivered the golden apple and Zeus's message: "Paris, since
you are as handsome as you are wise in affairs of the heart, Zeus commands you
to judge which of these goddesses is the fairest. " "So be it," sighed
Paris. "But first I beg the losers not to be vexed with me. I am only a
human being, liable to make the stupidest mistakes." The goddesses all
agreed to abide by his decision. • "Will it be enough to judge them as
they are?" Paris asked Hermes, "or they he naked?" • "The
rules of the contest are for you to decide," Hermes answered with a
discreet smile. • "In that case, will they kindly disrobe?" • Hermes
told the goddesses to do so, and politely turned his back.Aphrodite was soon
ready, but Athene insisted that she should remove the famous magic girdle,
which gave her an unfair advantage by making everyone fall in love withthe
wearer. "Very well" said Aphrodite spitefully. "/ will, on
condition thatyou remove your helmet-you look hideous without it. " "Now,
if you please, 1 must judge you one at a time" announced Paris. . . . Come
here, Divine Hera! Will you other two goddesses be good enough to leave us for
a while?" • "Examine me conscientiously," said Hera, turning
slowly around, and displaying her magnificent figure, "and remember that
if you judge me the fairest, 1 will make you lord of all Asia, and the richest
man alive. " • "/ am not to be bribed my Lady . . . Very well, thank
you. Now I have seen all that I need to see. Come, Divine Athene!" •
"Here I am," said Athene, striding purposefully forward.
"Listen, Paris, if you have enough common sense to award me the prize, I
will make you victorious in all your battles, as well as the handsomest and
wisest man in the world." • "/ am a humble A few years later Marilyn
was trying to make it in the film business. Producers would tell her the same
thing: she was attractive enough in person, but her face wasn't pretty enough
for the movies. She was getting work as an extra, and when she was
on-screen-even if only for a few seconds-the men in the audience would go wild,
and the theaters would erupt in catcalls. But nobody saw any star quality in
this. One day in 1949, only twenty-three at the time and her career at a
standstill, Monroe met someone at a diner who toldher that a producer casting a
new Groucho Marx movie. Love Happy, was looking for an actress for the part of
a blond bombshell who could walk by Groucho in a way that would, in his words,
"arouse my elderly libido and cause smoke to issue from my ears." Talking
her way into an audition, she improvised this walk. "It's Mae West, Theda
Bara, and Bo Peep all rolled into one," said Groucho after watching her
saunter by. "We shoot the scene tomorrow morning." And so Marilyn
created her infamous walk, a walk that was hardly natural but offered a strange
mix of innocence and sex. Over the next few years, Marilyn taught herself
through trial and error how to heighten the effect she had on men. Her voice
had always been attractive-it was the voice of a little girl. But on film it
had limitations until someone finally taught her to lower it, giving it the
deep, breathy tones that became her seductive trademark, a mix of the little
girl and the vixen. Before appearing on set, or even at a party, Marilyn would
spend hours before the mirror. Most people assumed this was vanity-she was in
love with her image. The truth was that image took hours to create. Marilyn
spent years studying and practicing the art of makeup. The voice, the walk, the
face and look were all constructions, an act. At the height of her fame, she
would get a thrill by going into bars in New York City without her makeup or
glamorous clothes and passing unnoticed. Success finally came, but with it came
something deeply annoying to her: the studios would only cast her as the blond
bombshell. She wanted serious roles, but no one took her seriously for those
parts, no matter how hard she downplayed the siren qualities she had built up.
One day, while she was rehearsing a scene from The Cherry Orchard, her acting
instructor, Michael Chekhov, asked her, "Were you thinking of sex while we
played the scene?" When she said no, he continued, "All through our
playing of the scene I kept receiving sex vibrations from you. As if you were a
woman in the grip of passion. ... I understand your problem with your studio
now, Marilyn. You are a woman who gives off sex vibrations-no matter what you
are doing or thinking. The whole world has already responded to those
vibrations. They come off the movie screens when you are on them." Marilyn
Monroe loved the effect her body could have on the male libido. She tuned her
physical presence like an instrument, making herself reek of sex and gaining a
glamorous, larger-than-life appearance. Other women knewjust as many tricks for
heightening their sexual appeal, but what separated Marilyn from them was an
unconscious element. Her background had deprived her of something critical:
affection. Her deepest need was to feel loved and desired, which made her seem
constantly vulnerable, like a little girl craving protection. She emanated this
need for love before the camera; it was effortless, coming from somewhere real
and deep inside. A look or gesture that she did not intend to arouse desire
would do so doubly powerfully just because it was unintended-its innocence was
precisely what excited a man. The S ex Siren has a more urgent and immediate
effect than the Spectacular Siren does. The incarnation of sex and desire, she
does not bother to appeal to extraneous senses, or to create a theatrical
buildup. Her time never seems to be taken up by work or chores; she gives the
impression that she lives for pleasure and is always available. What separates
the Sex Siren from the courtesan or whore is her touch of innocence and
vulnerability. The mix is perversely satisfying: it gives the male the critical
illusion that he is a protector, the father figure, although it is actually the
Sex Siren who controls the dynamic. A woman doesn't have to be born with the
attributes of a Marilyn Monroe to fill the role of the Sex Siren. Most of the
physical elements are a construction; the key is the air of schoolgirl
innocence. While one part of you seems to scream sex, the other part is coy and
naive, as if you were incapable of understanding the effect you are having. Your
walk, your voice, your manner are delightfully ambiguous-you are both the
experienced, desiring woman and the innocent gamine. Your next encounter will
be with the Sirens, who bewitch every man that approaches them. For with the
music of their song the Sirens cast their spell upon him, as they sit there in
a meadow piled high with the moldering skeletons of men, whose withered skin
still hangs upon their bones. -CIRCE TO ODYSSEUS, THE ODYSSEY, BOOK XII Keys to
the Character The Siren is the most ancient seductress of them all. Her
prototype is the goddess Aphrodite-it is her nature to have a mythic quality
about her-but do not imagine she is a thing of the past, or of legend and
history: she represents a powerful male fantasy of a highly sexual, supremely
confident, alluring female offering endless pleasure and a bit of danger. In
today's world this fantasy can only appeal the more strongly to the male
psyche, for now more than ever he lives in a world that circumscribes his
aggressive instincts by making everything safe and secure, a world that offers
less chance for adventure and risk than ever before. In the past, a man had
some outlets for these drives-warfare, the high seas, political intrigue. In
the sexual realm, courtesans and mistresses were practically a social institu-
herdsman, not a soldier," said Paris. . . . ".But I promise to
consider fairly your claim to the apple. Now you are at liberty to put on your
clothes and helmet again. Is Aphrodite ready?" • Aphrodite sidled up to
him, and Paris blushed because she came so close that they were almost
touching. • "Look carefully, please, pass nothing over. ... By the way, as
soon as I saw you, I said to myself: 'Upon my word, there goes the handsomest
young man in Phrygia! Why does he waste himself here in the wilderness herding
stupid cattle?' Well, why do you, Paris? Why not move into a city and lead a
civilized life? What have you to lose by marrying someone like Helen of Sparta,
who is as beautiful as I am, and no less passionate? ... I suggest now that you
tour Greece with my son Eros as your guide. Once you reach Sparta, he and I
will see that Helen falls head over heels in love with you." • "Would
you swear to that?" Paris ashed excitedly. • Aphrodite uttered a solemn
oath, and Paris, without a second thought, awarded her the golden apple.
GRAVES, THE GREEK MYTHS To whom aw I compare the lovely girl, so blessed by
fortune, if not to the Sirens, who with their lodestone draw the ships towards
them? Thus, I imagine, did Isolde attract many thoughts and hearts that deemed
themselves safe from love's disquietude. And indeed these two-anchorless ships
and stray thoughts - provide a good comparison. They are both so seldom on a
straight course, lie so often in unsure havens, pitching and tossing and
heaving to and fro. Just so, in the same way, do aimless desire and random
love-longing drift like an anchorless ship. This charming young princess,
discreet and courteous Isolde, drew thoughts from the hearts that enshrined
them as a lodestone draws in ships to the sound of the Sirens' song. She sang
openly and secretly, in through ears and eyes to where many a heart was
stirred. The song which she sang openly in this and other places was her own
sweet singing and soft sounding of strings that echoed for all to hear through
the kingdom of the ears deep down into the heart. But her secret song was her
wondrous beauty that stole with its rapturous music hidden and unseen through
the windows of the eyes into many noble hearts and smoothed on the magic which
took thoughts prisoner suddenly, and, taking them, fettered them with desire!
-GOTTFRIED VON STRASSBURG, TRISTAN. HATTO tion, and offered him the variety and
the chase that he craved. Without any outlets, his drives turn inward and gnaw
at him, becoming all the more volatile for being repressed. Sometimes a
powerful man will do the most irrational things, have an affair when it is
least called for, just for a thrill, the danger of it all. The irrational can
prove immensely seductive, even more so for men, who must always seem so
reasonable. If it is seductive power you are after, the Siren is the most
potent of all. She operates on a man's most basic emotions, and if she plays
her role properly, she can transform a normally strong and responsible male
into a childish slave. The Siren operates well on the rigid masculine type-the
soldier or hero-just as Cleopatra overwhelmed Mark Antony and Marilyn Monroe
Joe DiMaggio. But never imagine that these are the only types the Siren can
affect. Julius Caesar was a writer and thinker, who had transferred his
intellectual abilities onto the battlefield and into the political arena; the
playwright Arthur Miller fell as deeply under Monroe's spell as DiMaggio. The
intellectual is often the one most susceptible to the Siren call of pure
physical pleasure, because his life so lacks it. The Siren does not have to
worry about finding the right victim. Her magic works on one and all. First and
foremost, a Siren must distinguish herself from other women. She is by nature a
rare thing, mythic, only one to a group; she is also a valuable prize to be
wrested away from other men. Cleopatra made herself different through her sense
of high drama; the Empress Josephine Bonaparte's device was her extreme
languorousness; Marilyn Monroe's was her little-girl quality. Physicality
offers the best opportunities here, since a Siren is preeminently a sight to
behold. A highly feminine and sexual presence, even to the point of caricature,
will quickly differentiate you, since most women lack the confidence to project
such an image. Once the Siren has made herself stand out from others, she must
have two other critical qualities: the ability to get the male to pursue her so
feverishly that he loses control; and a touch of the dangerous. Danger is
surprisingly seductive. To get the male to pursue you is relatively simple: a
highly sexual presence will do this quite well. But you must not resemble a
courtesan or whore, whom the male may pursue only to quickly lose interest in
her. Instead, you are slightly elusive and distant, a fantasy come to life.
During the Renaissance, the great Sirens, such as Tullia d'Aragona, would act
and look like Grecian goddesses-the fantasy of the day. Today you might model
yourself on a film goddess-anything that seems larger than life, even awe
inspiring. These qualities will make a man chase you vehemently, and the more
he chases, the more he will feel that he is acting on his own initiative. This
is an excellent way of disguising how deeply youare manipulating him. The
notion of danger, challenge, sometimes death, might seem outdated, but danger
is critical in seduction. It adds emotional spice and is particularly appealing
to men today, who are normally so rational and repressed. Danger is present in
the original myth of the Siren. In Homer's Odyssey, the hero Odysseus must sail
by the rocks where the Sirens, strange female creatures, sing and beckon
sailors to their destruction. They sing of the glories of the past, of a world
like childhood, without responsibilities, a world of pure pleasure. Their
voices are like water, liquid and inviting. Sailors would leap into the water
to join them, and drown; or, distracted and entranced, they would steer their
ship into the rocks. To protect his sailors from the Sirens, Odysseus has their
ears filled with wax; he himself is tied to the mast, so he can both hear the
Sirens and live to tell of it-a strange desire, since the thrill of the Sirens
is giving in to the temptation to follow them. Just as the ancient sailors had
to row and steer, ignoring all distractions, a man today must work and follow a
straight path in life. The call of something dangerous, emotional, unknown is
all the more powerful because it is so forbidden. Think of the victims of the
great Sirens of history: Paris causes a war for the sake of Helen of Troy,
Caesar risks an empire and Antony loses his power and his life for Cleopatra,
Napoleon becomes a laughingstock over Josephine, DiMaggio never gets over
Marilyn, and Arthur Miller can't write for years. A man is often ruined by a
Siren, yet cannot tear himself away. (Many powerful men have a masochistic
streak.) An element of danger is easy to hint at, and will enhance your other
Siren characteristics-the touch of madness in Marilyn, for example, that pulled
men in. Sirens are often fantastically irrational, which is immensely
attractive to men who are oppressed by their own reasonableness. An element of
fear is also critical: keeping a man at a proper distance creates respect, so
that he doesn't get close enough to see through you or notice your weaker
qualities. Create such fear by suddenly changing your moods, keeping the man
off balance, occasionally intimidating him with capricious behavior. The most
important element for an aspiring Siren is always the physical, the Siren's
main instrument of power. Physical qualities-a scent, a heightened femininity
evoked through makeup or through elaborate or seductive clothing-act all the
more powerfully on men because they have no meaning. hi their immediacy they
bypass rational processes, having the same effect that a decoy has on an
animal, or the movement of a cape on a bull. The proper Siren appearance is
often confused with physical beauty, particularly the face. But a beautiful
face does not a Siren make: instead it creates too much distance and coldness.
(Neither Cleopatra nor Marilyn Monroe, the two greatest Sirens in history, were
known for their beautiful faces.) Although a smile and an inviting look are
infinitely seductive, they must never dominate your appearance. They are too
obvious and direct. The Siren must stimulate a generalized desire, and the best
way to do this is by creating an overall impression that is both distracting
and alluring. It is not one particular trait, but a combination of qualities:
Falling in love with statues and paintings, even making love to them is an
ancient fantasy, one of which the Renaissance was keenly aware. Giorgio Vasari,
writing in the introductory section of the Lives about art in antiquity, tells
how men violated the laws, going into the temples at night and making love with
statues of Venus. In the morning, priests would enter the sanctuaries to find
stains on the marble figures. -LYNNE LAWNER, LIVES OF THE COURTESANS The voice.
Clearly a critical quality, as the legend indicates, the Siren's voice has an
immediate animal presence with incredible suggestive power. Perhaps that power
is regressive, recalling the ability of the mother's voice to calm or excite
her child even before the child understood what she was saying. The Siren must
have an insinuating voice that hints at the erotic, more often subliminally
than overtly. Almost everyone who met Cleopatra commented on her delightful,
sweet-sounding voice, which had a mesmerizing quality. The Empress Josephine,
one of the great seductresses of the late eighteenth century, had a languorous
voice that men found exotic, and suggestive of her Creole origins. Marilyn
Monroe was born with her breathy, childlike voice, but she learned to lower to
make it truly seductive. Lauren Bacall's voice is naturally low; its seductive
power comes from its slow, suggestive delivery. The Siren never speaks quickly,
aggressively, or at a high pitch. Her voice is calm and unhurried, as if she
had never quite woken up-or left her bed. Body and adornment. If the voice must
lull, the body and its adornment must dazzle. It is with her clothes that the
Siren aims to create the goddess effect that Baudelaire described in his essay
"In Praise of Makeup": "Woman is well within her rights, and
indeed she is accomplishing a kind of duty in striving to appear magical and
supernatural. She must astonish and bewitch; an idol, she must adorn herself
with gold in order to be adored. She must borrow from all of the arts in order
to raise herself above nature, the better to subjugate hearts and stir
souls." A Siren who was a genius of clothes and adornment was Pauline
Bonaparte, sister of Napoleon. Pauline consciously strove for a goddess effect,
fashioning hair, makeup, and clothes to evoke the look and air of Venus, the
goddess of love. No one in history could boast a more extensive and elaborate
wardrobe. Pauline's entrance at a ball in 1798 created an astounding effect.
She asked the hostess, Madame Permon, if she could dress at her house, so no
one would see her clothes as she came in. When she came down the stairs,
everyone stopped dead in stunned silence. She wore the headdress of a
bacchante-clusters of gold grapes interlaced in her hair, which was done up in
the Greek style. Her Greek tunic, with its gold- embroidered hem, showed off
her goddesslike figure. Below her breasts was a girdle of burnished gold, held
by a magnificent jewel. "No words can convey the loveliness of her
appearance," wrote the Duchess d'Abrantes. "The very room grew
brighter as she entered. The whole ensemble was so harmonious that her
appearance was greeted with a buzz of admiration which continued with utter
disregard of all the other women." The key: everything must dazzle, but
must also be harmonious, so that no single ornament draws attention. Your
presence must be charged, larger than life, a fantasy come true. Ornament is
used to cast a spell and distract. The Siren can also use clothing to hint at
the sexual, at times overtly but more often by suggesting it rather than
screaming it-that would make you seem manipulative. Related to this is the
notion of selective disclosure, the revealing of only a part of the body-but a
part that will excite and stir the imagination. In the late sixteenth century.
Marguerite de Valois, the infamous daughter of Queen Catherine de Medicis of
France, was one of the first women ever to incorporate decolletage in her
wardrobe, simply because she had the most beautiful breasts in the realm. For
Josephine Bonaparte it was her arms, which she carefully always left bare.
Movement and demeanor. In the fifth century B.C., King Kou Chien chose the
Chinese Siren Hsi Shih from among all the women of his realm to seduce and
destroy his rival Fu Chai, King of Wu; for this purpose, he had the young woman
instructed in the arts of seduction. Most important of these was movement-how
to move gracefully and suggestively. Hsi Shih learned to give the impression of
floating across the floor in her court robes. When she was finally unleashed on
Fu Chai, he quickly fell under her spell. She walked and moved like no one he
had ever seen. He became obsessed with her tremulous presence, her manner and
nonchalant air. Fu Chai fell so deeply in love that he let his kingdom fall to
pieces, allowing Kou Chien to march in and conquer it without a fight. The
Siren moves gracefully and unhurriedly. The proper gestures, movement, and
demeanor for a Siren are like the proper voice: they hint at something
exciting, stirring desire without being obvious. Your air must be languorous,
as if you had all the time in the world for love and pleasure. Your gestures
must have a certain ambiguity, suggesting something both innocent and erotic.
Anything that cannot immediately be understood is supremely seductive, and all
the more so if it permeates your manner. Symbol: Water. The song of the Siren
is liquid and enticing, and the Siren herself is fluid and un- graspable. Like
the sea, the Siren lures you with the promise of infinite adventure and
pleasure. Forgetting past and future, men follow her far out to sea, where they
drown. Dangers. N o matter how enlightened the age, no woman can maintain the
image of being devoted to pleasure completely comfortably. And no matter how
hard she tries to distance herself from it, the taint of being easy always
follows the Siren. Cleopatra was hated in Rome as the Egyptian whore. That
hatred eventually lead to her downfall, as Octavius and the Roman army sought
to extirpate the stain on Roman manhood that she came to represent. Even so,
men are often forgiving when it comes to the Siren's reputation. But danger
often lies in the envy she stirs up among other women; much of Rome's hatred
for Cleopatra originated in the resentment she provoked among the city's stern
matrons. By playing up her innocence, by making herself seem the victim of male
desire, the Siren can somewhat blunt the effects of feminine envy. But on the
whole there is little she can do-her power comes from her effect on men, and
she must learn to accept, or ignore, the envy of other women. Finally, the
intense attention that the Siren attracts can prove irritating and worse.
Sometimes she will pine for relief from it; sometimes, too, she will want to
attract an attention that is not sexual. Also, unfortunately, physical beauty
fades; although the Siren effect depends not on a beautiful face but on an
overall impression, past a certain age that impression gets hard to project.
Both of these factors contributed to the suicide of Marilyn Monroe. It takes a
genius on the level of Madame de Pompadour, the Siren mistress of King Louis
XV, to make the transition into the role of the spirited older woman who
continues to seduce with her nonphysical charms. Cleopatra had such an
intellect, and had she lived long enough, she would have remained a potent
seductress for many years. The Siren must prepare for age by paying attention
early on to the more psychological, less physical forms of coquetry that can
continue to bring her power once her beauty starts to fade. the A woman never
quite feels desired and appreciated enough. She wants attention, but a man is
too often distracted and unresponsive. The Rake is a great female fantasy
figure-when he desires a woman, brief though that moment may be, he will go to
the ends of the earth for her. He may be disloyal, dishonest, and amoral, but
that only adds to his appeal. Unlike the normal, cautious male, the Rake is
delightfully unrestrained, a slave to his love of women. There is the added
lure of his reputation: so many women have succumbed to him, there has to be a
reason. Words are a woman's weakness, and the Rake is a master of seductive
language. Stir a woman's repressed longings by adapting the Rake's mix of
danger and pleasure. The Ardent Rake. F or the court of Louis XIV, the king's
last years were gloomy-he was old, and had become both insufferably religious
and personally unpleasant. The court was bored and desperate for novelty. So in
1710, the arrival of a fifteen-year-old lad who was both devilishly handsome
and charming had a particularly strong effect on the ladies. His name was
Fronsac, the future Duke de Richelieu (his granduncle being the infamous
Cardinal Richelieu). He was impudent and witty. The ladies would play with him
like a toy, but he would Mss them on the lips in return, his hands wandering
far for an inexperienced boy. When those hands strayed up the skirts of a
duchess who was not so indulgent, the king was furious, and sent the youth to
the Bastille to teach him a lesson. But the ladies who had found him so amusing
could not endure his absence. Compared to the stiffs in court, here was someone
incredibly bold, his eyes boring into you, his hands quicker than was safe.
Nothing could stop him, his novelty was irresistible. The court ladies pleaded
and his stay in the Bastille was cut short. Several years later, the young
Mademoiselle de Valois was walking in a Paris park with her chaperone, an older
woman who never left her side. De Valois's father, the Duke d'Orleans, was
determined to protect her, his youngest daughter, from all the court seducers
until she could be married off, so he had attached to her this chaperone, a
woman of impeccable virtue and sourness. In the park, however, de Valois saw a
young man who gave her a look that set her heart on fire. He walked on by, but
the look was intense and clear. It was her chaperone who told her his name: the
now infamous Duke de Richelieu, blasphemer, seducer, heartbreaker. Someone to
avoid at all cost. A few days later, the chaperone took de Valois to a
different park, and lo and behold, Richelieu crossed their path again. This
time he was in disguise, dressed as a beggar, but the look in his eye was
unforgettable. Mademoiselle de Valois returned his gaze: at last something
exciting in her drab life. Given her father's sternness, no man had dared
approach her. And now this notorious courtier was pursuing her, instead of all
the other ladies at court-what a thrill! Soon he was smuggling beautifully
written notes to her expressing his uncontrollable desire for her. She
responded timidly, but soon the notes were all she was living for. In one of
them he promised to arrange everything if she would spend the night with him;
imagining it was [After an accident at sect, Don Juan finds himself washed up
on a beach, where he is discovered by a young woman.] • TISBEA: Wake up, handsomest
of all men, and be yourself again. • D 0 N JUAN: If the sea gives me death, you
give me life. But the sea really saved me only to be killed by you. Oh the sea
tosses me from one torment to the other, for I no sooner pulled myself from the
water than I met this siren - yourself. Why fill my ears with wax, since you
kill me with your eyes? I was dying in the sea, but from today I shall die of
love. • TISBEA: YOU have abundant breath for a man almost drowned. You suffered
much, but who knows what suffering you are preparing for me? . . I found you at
my feet all water, and now you are all fire. If you burn when
you are so wet, what will you do when you're dry again? You promise
a scorching flame; I hope to God you're not lying. • D O N JUAN: Dear girl, God
should have drowned me before I could be charred by you. Perhaps love was wise
to drench me before I felt your scalding touch. But your fire is such that even
in water I burn. • TISBEA: So cold and yet burning? • DON JUAN: So much fire is
in you. • TISBEA: How well you talk! • D O N JUAN: How well you understand! •
TISBEA: I hope to God you're not lying. -TIRSO DE MOLINA, THE PLAYBOY OF
SEVILLE, SCHIZZANO. MANDEL Pleased with my first success, I determined to
profit by this happy reconciliation. I called them impossible to bring such a
thing to pass, she did not mind playing along and agreeing to his bold
proposal. Mademoiselle de Valois had a chambermaid named Angelique, who dressed
her for bed and slept in an adjoining room. One night as the chaperone was
knitting, de Valois looked up from the book she was reading to see Angelique
carrying her mistress's nightclothes to her room, but for some strange reason
Angelique looked back at her and smiled-it was Richelieu,expertly dressed as
the maid! De Valois nearly gasped from fright, but caught herself, realizing
the danger she was in: if she said anything her family would find out about the
notes, and about her part in the whole affair. What could she do? She decided
to go to her room and talk the young duke out of his ridiculously dangerous
maneuver. She said good night to her chaperone, but once she was in her
bedroom, the words she had planned were useless. When she tried to reason with
Richelieu, he responded with that look in his eye, and then with his arms
around her. She could not yell, but now she was unsure what to do. His
impetuous words, his caresses, the danger of it all-her head was whirling, she
was lost. What was virtue and her prior boredom compared to an evening with the
court's most notorious rake? So while the chaperone knitted away, the duke
initiated her into the my dear wives, my faithful rituals of libertinage.
companions, the two bemgs Months later, de Valois's father had reason to
suspect that Richelieu had chosen to make me happy. i sought to turn their
broken through his lines of defense. The chaperone was fired, the precau-
heads, and to rouse in tions were doubled. D'Orleans did not realize that to
Richelieu such mea- them desires the strength of which I knew and which would drive
away any reflections contrary to my plans. The skillful man who knows how to
communicate gradually the heat of love to the senses of the most virtuous woman
is quite certain of soon being absolute master of her mind and her person; you
cannot reflect when you have lost your head; and, moreover, principles of
wisdom, however deeply engraved they may be on the mind, are effaced in that
moment when the heart yearns only for pleasure: pleasure alone then commands
and is obeyed. The man who has had experience of conquests nearly always
succeeds where he who is only timid and in love fails. When I had brought my
two belles to the state of abandonment in which I sures were a challenge, and
he lived for challenges. He bought the house next door under an assumed name
and secretly tunneled a trapdoor through the wall adjoining the duke's kitchen
cupboard. In this cupboard, over the next few months-until the novelty wore
off-de Valois and Richelieu enjoyed endless trysts. Everyone in Paris knew of
Richelieu's exploits, for he made it a point to publicize them as loudly as
possible. Every week a new story would circulate through the court. A husband
had locked his wife in an upstairs room at night, worried the duke was after
her; to reach her the duke had crawled in darkness along a thin wooden plank
suspended between two upper-floor windows.Two women who lived in the same
house, one a widow, the other married and quite religious, had discovered to
their mutual horror that the duke was having an affair with both of them at the
same time, leaving one in the middle of the night to be with the other. When
they confronted him, the duke, always on the prowl for something novel, and a
devilish talker, had neither apologized nor backed down, but proceeded to talk
them into a menage a trois, playing on the wounded vanity of each woman, who
could not stand the thought of him preferring the other. Year after year, the
stories of his remarkable seductions spread. One woman admired his audacity and
bravery, another his gallantry in thwarting a husband. Women competed for his
attention: if he did not want to seduce you, there had to be something wrong
with you. To be the target of his attentions became a great fantasy. At one
point two ladies fought a pistol duel over the duke, and one of them was
seriously wounded. The Duchess d'Orleans, Richelieu's most bitter enemy, once
wrote, "If I believed in sorcery I should think that the Duke possessed
some supernatural secret, for I have never known a woman to oppose the very
least resistance to him." In seduction there is often a dilemma: to seduce
you need planning and calculation, but if your victim suspects that you have
ulterior motives, she will grow defensive. Furthermore, if you seem to be in
control, you will inspire fear instead of desire. The Ardent Rake solves this
dilemma in the most artful manner. Of course he must calculate and plan-he has
to find a way around the jealous husband, or whatever the obstacle is. It is
exhausting work. But by nature, the Ardent Rake also has the advantage of an
uncontrollable libido. When he pursues a woman, he really is aglow with desire;
the victim senses this and is inflamed, even despite herself. How can she
imagine that he is a heartless seducer who will abandon her when he so ardently
braves all dangers and obstacles to get to her? And even if she is aware of his
rakish past, of his incorrigible amorality, it doesn't matter, because she also
sees his weakness. He cannot control himself; he actually is a slave to all
women. As such he inspires no fear. The Ardent Rake teaches us a simple lesson:
intense desire has a distracting power on a woman, just as the Siren's physical
presence does on a man. A woman is often defensive and can sense insincerity or
calculation. But if she feels consumed by your attentions, and is confident you
will do anything for her, she will notice nothing else about you, or will find
a way to forgive your indiscretions. This is the perfect cover for a seducer.
The kej| is to show no hesitation, to abandon all restraint, to let yourself
go, to show that you cannot control yourself and are fundamentally weak. Do not
worry about inspiring mistrust; as long as you are the slave to her charms, she
will not think of the aftermath. The Demonic Rake. I n the early 1880s, members
of Roman high society began to talk of a young journalist who had arrived on
the scene, a certain Gabriele D'Annunzio. This was strange in itself, for
Italian royalty had only the deepest contempt for anyone outside their circle,
and a newspaper society reporter was almost as low as you could go. Indeed
well-born men paid D'Annunzio little attention. He had no money and few
connections, coming from a strictly middle-class background. Besides, to them
he was downright ugly-short and stocky, with a dark, splotchy complexion and
bulging eyes. The men thought him so unappealing they gladly let him mingle
with their wives and daughters, certain that their women would be safe with
this gargoyle and happy to get this gossip hunter off their hands. No, it was
not the men who talked of D'Annunzio; it was their wives. wanted them, I
expressed a more eager desire; their eyes lit up; my caresses were returned;
and it was plain that their resistance would not delay for more than a few
moments the next scene I desired them to play. I proposed thateach should
accompany me in turn into a charming closet, next to the room in which we were,
which I wanted them to admire. They both remained silent. • "You
hesitate?" I said to them. "I will see which of you is the more
attached to me. The one who loves me the more will be the first to follow the
lover she wishes to convince of her affection. . . I knew my puritan, and I was
well aware that, after a few Struggles, she gave herself up completely to the
present moment. 'This one appeared to be as agreeable to her as the others we
had previously spent together; she forgot that she was sharing me [with Madame
Renaud].[When her turn came ] Madame Renaud responded with a transport that
proved her contentment, and she left the sitting only after having repeated
continually: "What a man! What a man! He is astonishing! How often you
could be happy with him if he were only faithful!" - THE PRIVATE LIFE OF
THE MARSHAL DUKE OF RICHELIEU, TRANSLATED BY F. S. FLINT His very successes in
love, even more than the marvellous voice of this little, bald seducer with a
nose like Punch, swept along in his train a whole procession of enamoured
women, both opulent and tormented. D'Annunzio had successfully revived the
Byronic legend: as he passed by full-breasted women, standing in his way as
Boldoni would paint them, strings of pearls anchoring them to life-princesses
and actresses, great Russian ladies and even middle- class Bordeaux
housewives-they would offer themselves up to him. -PHILIPPE JULLIAN, PRINCE OF
AESTHETES: COUNT ROBERT DE MONTESQUIEOU, HAYLOCK AND FRANCIS KING In short,
nothing is so sweet as to triumph over the Resistance of a beautiful Person;
and in that I have the Ambition of Conquerors, who fly Introduced to D'Annunzio
by their husbands, these duchesses and marchionesses would find themselves
entertaining this strange-looking man, and when he was alone with them, his
manner would suddenly change. Within minutes these ladies would be spellbound.
First, he had the most magnificent voice they had ever heard-soft and low, each
syllable articulated, with a flowing rhythm and inflection that was almost
musical. One woman compared it to the ringing of church bells in the distance.
Others said his voice had a "hypnotic" effect. The words that voice
spoke were interesting as well-alliterative phrases, charming locutions, poetic
images, and a way of offering praise that could melt a woman's heart.
D'Annunzio had mastered the art of flattery. He seemed to know each woman's
weakness: one he would call a goddess of nature, another an incomparable artist
in the making, another a romantic figure out of a novel. A woman's heart would
flutter as he described the effect she had on him. Everything was suggestive,
hinting at sex or romance. That night she would ponder his words, recalling
little in particular that he had said, because he never said anything concrete,
but rather the feeling it had given her. The next day she would receive from
him a poem that seemed to have been written specifically for her. (In fact he
wrote dozens of very similar poems, slightly tailoring each one for its
intended victim.) A few years after D'Annunzio began work as a society
reporter, he married the daughter of the Duke and Duchess of Gallese. Shortly
thereafter, with the unshakeable support of society ladies, he began publishing
novels and books of poetry. The number of his conquests was remarkable, and
also the quality-not only marchionesses would fall at his feet, but great
artists, such as the actress Eleanor Duse, who helped him become a respected
dramatist and literary celebrity. The dancer Isadora Duncan, another who
eventually fell under his spell, explained his magic: "Perhaps the
perpetually from victory to m0 st remarkable lover of our time is Gabriele
D'Annunzio. And this Victory and can never prevail with themselves to put a
bound to their Wishes. Nothing can restrain the Impetuosity of my Desires; I
have an Heart for the whole Earth; and like Alexander, I could wish for New
Worlds wherein to extend my Amorous Conquests. -MOLIERE, DON JOHN OR THE
LIBERTINE. OZELL notwithstanding that he is small, bald, and, except when his
face lights up with enthusiasm, ugly But when he speaks to a woman he likes,
his face is transfigured, so that he suddenly becomes Apollo. . . . His effect
on women is remarkable. The lady he is talking to suddenly feels that her very
soul and being are lifted." At the outbreak of World War I, the
fifty-two-year-old D'Annunzio joined the army. Although he had no military
experience, he had a flair for the dramatic and a burning desire to prove his
bravery. He learned to fly and led dangerous but highly effective missions. By
the end of the war, he was Italy's most decorated hero. His exploits made him a
beloved national figure, and after the war, crowds would gather outside his
hotel wherever in Italy he went. He would address them from a balcony,
discussing politics, railing against the current Italian government. A witness
of one of these speeches, the American writer Walter Starkie, was initially
disappointed at the appearance of the famous D'Annunzio on a balcony in Venice;
he was short, and looked grotesque. "Little by little, however, I began to
sink under the fascination of the voice, which penetrated into my
consciousness. . . . Never a hurried, jerky gesture. ... He played upon the
emotions of the crowd as a supreme violinist does upon a Stradivarius. The eyes
of the thousands were fixed upon him as though hypnotized by his power."
Once again, it was the sound of the voice and the poetic connotations of the
words that seduced the masses. Arguing that modern Italy should reclaim the
greatness of the Roman Empire, D'Annunzio would craft slogans for the audience
to repeat, or would ask emotionally loaded questions for them to answer. He
flattered the crowd, made them feel they were part of some drama. Everything
was vague and suggestive. The issue of the day was the ownership of the city of
Fiume, just across the border in neighboring Yugoslavia. Many Italians believed
that Italy's reward for siding with the Allies in the recent war should be the
annexation of Fiume. D'Annunzio championed this cause, and because of his
status as a war hero the army was ready to side with him, although the
government opposed any action. In September of 1919, with soldiers rallying
around him, D'Annunzio led his infamous march on Fiume. When an Italian general
stopped him along the way, and threatened to shoot him, D'Annunzio opened his
coat to show his medals, and said in his magnetic voice, "If you must kill
me, fire first on this!" The general stood there stunned, then broke into
tears. He joined up with D'Annunzio. When D'Annunzio entered Fiume, he was
greeted as a liberator. The next day he was declared leader of the Free State
of Fiume. Soon he was giving daily speeches from a balcony overlooking the
town's main square, holding tens of thousands of people spellbound without
benefit of loudspeakers. He initiated all kinds of celebrations and rituals
harking back to the Roman Empire. The citizens of Fiume began to imitate him,
particularly his sexual exploits; the city became like a giant bordello. His
popularity was so high that the Italian government feared a march on Rome,
which at that point, had D'Annunzio decided to do it-and he had the support of
a large part of the military-might actually have succeeded; D'Annunzio could
have beaten Mussolini to the punch and changed the course of history. (He was
not a Fascist but a kind of aesthetic socialist.) He decided to stay in Fiume,
however, and ruled there for sixteen months before the Italian government
finally bombed him out of the city. Seduction is a psychological process that
transcends gender, except in a few key areas where each gender has its own
weakness. The male is traditionally vulnerable to the visual. The Siren who can
concoct the right physical appearance will seduce in large numbers. For women
the weakness is language and words: as was written by one of D'Annunzio's
victims, the French actress Simone, "How can one explain his conquests
except by his extraordinary verbal power, and the musical timbre of his voice,
put to the service of exceptional eloquence? For my sex is susceptible to
words, bewitched by them, longing to be dominated by them." The Rake is as
promiscuous with words as he is with women. He chooses words for their ability
to suggest, insinuate, hypnotize, elevate, in- Among the many modes of handling
Don Juan's effect on women, the motif of the irresistible hero is worth
singling out, for it illustrates a curious change in our sensibility. Don Juan did
not become irresistible to women until the Romantic age, and I am disposed to
think that it is a trait of the female imagination to make him so. When the
female voice began to assert itself and even, perhaps, to dominate in
literature, Don Juan evolved to become the women's rather than the man's ideal.
. . . Don Juan is now the woman's dream of the perfect lover, fugitive,
passionate, daring. He gives her the one unforgettable moment, the magnificent
exaltation of the flesh which is too often denied her by the real husband, who
thinks that men are gross and women spiritual. To be the fatal Don Juan may be
the dream of a few men; but to meet him is the dream of many women. -OSCAR
MANDEL,"THE LEGEND OF DON JUAN," THE THEATRE OF DON JUAN feet. The
words of the Rake are the equivalent of the bodily adornment of the Siren: a
powerful sensual distraction, a narcotic. The Rake's use of language is demonic
because it is designed not to communicate or convey information but to
persuade, flatter, stir emotional turmoil, much as the serpent in the Garden of
Eden used words to lead Eve into temptation. The example of D'Annunzio reveals
the link between the erotic Rake, who seduces women, and the political Rake,
who seduces the masses. Both depend on words. Adapt the character of the Rake
and you will find that the use of words as a subtle poison has infinite
applications. Remember: it is the form that matters, not the content. The less
your targets focus on what you say, and the more on how it makes them feel, the
more seductive your effect. Give your words a lofty, spiritual, literary flavor
the better to insinuate desire in your unwitting victims. But what is this
force, then, by which Don Juan seduces? It is desire, the energy of sensuous
desire. He desires in every woman the whole of womanhood. The reaction to this
gigantic passion beautifies and develops the one desired, who flushes in
enhanced beauty by his reflection. As the enthusiast's fire with seductive
splendor illumines even those who stand in a casual relation to him, so Don
Juan transfigures in afar deeper sense every girl. KIERKEGAARD, EITHER/OR Keys
to the Character A t first it may seem strange that a man who is clearly
dishonest, disloyal, and has no interest in marriage would have any appeal to a
woman. But throughout all of history, and in all cultures, this type has had a
fatal effect. What the Rake offers is what society normally does not allow
women: an affair of pure pleasure, an exciting brush with danger. A woman is
often deeply oppressed by the role she is expected to play She is supposed to
be the tender, civilizing force in society, and to want commitment and lifelong
loyalty. But often her marriages and relationships give her not romance and
devotion but routine and an endlessly distracted mate. It remains an abiding
female fantasy to meet a man who gives totally of himself, who lives for her,
even if only for a while. This dark, repressed side of female desire found
expression in the legend of Don Juan. At first the legend was a male fantasy: the
adventurous knight who could have any woman he wanted. But in the seventeenth
and eighteenth centuries, Don Juan slowly evolved from the masculine adventurer
to a more feminized version: a man who lived only for women. This evolution
came from women's interest in the story, and was a result of their frustrated
desires. Marriage for them was a form of indentured servitude; but Don Juan
offered pleasure for its own sake, desire with no strings attached. For the
time he crossed your path, you were all he thought about. His desire for you
was so powerful that he gave you no time to think or to worry about the
consequences. He would come in the night, give you an unforgettable moment, and
then vanish. He might have conquered a thousand women before you, but that only
made him more interesting; better to be abandoned than undesired by such a man.
The great seducers do not offer the mild pleasures that society condones. They
touch a person's unconscious, those repressed desires that cry out for
liberation. Do not imagine that women are the tender creatures that some people
would like them to be. Like men, they are deeply attracted to the forbidden,
the dangerous, even the slightly evil. (Don Juan ends by going to hell, and the
word "rake" comes from "rakehell," a man who rakes the
coals of hell; the devilish component, clearly, is an important part of the
fantasy.) Always remember: if you are to play the Rake, you must convey a sense
of risk and darkness, suggesting to your victim that she is participating in
something rare and thrilling-a chance to play out her own rakish desires. To
play the Rake, the most obvious requirement is the ability to let yourself go,
to draw a woman into the kind of purely sensual moment in which past and future
lose meaning. You must be able to abandon yourself to the moment. (When the
Rake Valmont-a character modeled after the Duke de Richelieu-in Laclos'
eighteenth-century novel Dangerous Liaisons writes letters that are obviously
calculated to have a certain effect on his chosen victim, Madame de Tourvel,
she sees right through them; but when his letters really do burn with passion,
she begins to relent.) An added benefit of this quality is that it makes you
seem unable to control yourself, a display of weakness that a woman enjoys. By abandoning
yourself to the seduced, you make them feel that you exist for them alone-a
feeling reflecting a truth, though a temporary one. Of the hundreds of women
that Pablo Picasso, consummate rake, seduced over the years, most of them had
the feeling that they were the only one he truly loved. The Rake never worries
about a woman's resistance to him, or for that matter about any other obstacle
in his path-a husband, a physical barrier. Resistance is only the spur to his
desire, enflaming him all the more. When Picasso was seducing Fran£oise Gilot,
in fact, he begged her to resist; he needed resistance to add to the thrill. In
any case, an obstacle in your way gives you the opportunity to prove yourself,
and the creativity you bring to matters of love. In the eleventh-century
Japanese novel The Tale ofGenji, by the court lady Murasaki Shikibu, the Rake
Prince Niou is not disturbed by the sudden disappearance of Ukifune, the woman
he loves. She has fled because although she is interested in the prince, she is
in love with another man; but her absence allows the prince to go to extreme
lengths to track her down. His sudden appearance to whisk her away to a house
deep in the woods, and the gallantry he displays in doing so, overwhelm her.
Remember: if no resistances or obstacles face you, you must create them. No
seduction can proceed without them. The Rake is an extreme personality.
Impudent, sarcastic, and bitingly witty, he cares nothing for what anyone
thinks. Paradoxically, this only makes him more seductive. In the courtlike
atmosphere of studio-era Hollywood, when most of the actors behaved like
dutiful sheep, the great Rake Errol Flynn stood out in his insolence. He defied
the studio chiefs, engaged in the most extreme pranks, reveled in his
reputation as Hollywood's supreme seducer-all of which enhanced his popularity.
The Rake needs abackdrop of convention-a stultified court, a humdrum marriage,
a conservative culture-to shine, to be appreciated for the breath of fresh air
he provides. Never worry about going too far: the Rake's essence is that he
goes further than anyone else. When the Earl of Rochester, seventeenth-century
England's most notorious Rake and poet, abducted Elizabeth Malet, one of the
most sought- after young ladies of the court, he was duly punished. But lo and
behold, a few years later young Elizabeth, though wooed by the most eligible
bachelors in the country, chose Rochester to be her husband. In demonstrating
his audacious desire, he made himself stand out from the crowd. Related to the
Rake's extremism is the sense of danger, taboo, perhaps even the hint of
cruelty about him. This was the appeal of another poet Rake, one of the
greatest in history: Lord Byron. Byron disliked any kind of convention, and
happily played this up. When he had an affair with his half sister, who bore a
child by him, he made sure that all of England knew about it. He could be
uncommonly cruel, as he was to his wife. But all of this only made him that
much more desirable. Danger and taboo appeal to a repressed side in women, who
are supposed to represent a civilizing, moralizing force in culture. Just as a
man may fall victim to the Siren through his desire to be free of his sense of
masculine responsibility, a woman may succumb to the Rake through her yearning
to be free of the constraints of virtue and decency. Indeed it is often the
most virtuous woman who falls most deeply in love with the Rake. Among the
Rake's most seductive qualities is his ability to make women want to reform
him. How many thought they would be the one to tame Lord Byron; how many of
Picasso's women thought they would finally be the one with whom he would spend
the rest of his life. You must exploit this tendency to the fullest. When
caught red-handed in rakishness, fall back on your weakness-your desire to
change, and your inability to do so. With so many women at your feet, what can
you do? You are the one who is the victim. You need help. Women will jump at
this opportunity; they are uncommonly indulgent of the Rake, for he is such a
pleasant, dashing figure. The desire to reform him disguises the true nature of
their desire, the secret thrill they get from him. When President Bill Clinton
was clearly caught out as a Rake, it was women who rushed to his defense,
finding every possible excuse for him. The fact that the Rake is so devoted to
women, in his own strange way, makes him lovable and seductive to them.
Finally, a Rake's greatest asset is his reputation. Never downplay your bad
name, or seem to apologize for it. Instead, embrace it, enhance it. It is what
draws women to you. There are several things you must be known for: your
irresistible attractiveness to women; your uncontrollable devotion to pleasure
(this will make you seem weak, but also exciting to be around); your disdain for
convention; a rebellious streak that makes you seem dangerous. This last
element can be slightly hidden; on the surface, be polite and civil, while
letting it be known that behind the scenes you are incorrigible. Duke de
Richelieu made his conquests as public as possible, exciting other women's
competitive desire to join the club of the seduced. It was by reputation that
Lord Byron attracted his willing victims. A woman may feel ambivalent about
President Clinton's reputation, but beneath that ambivalence is an underlying
interest. Do not leave your reputation to chance or gossip; it is your life's
artwork, and you must craft it, hone it, and display it with the care of an
artist. Symbol: Fire. The Rake burns with a desire that enflames the woman he
is seducing. It is extreme, uncontrollable, and dangerous. The Rake may end in
hell, but the flames surrounding him often make him seem that much more
desirable to women. Dangers ";e the Siren, the Rake faces the most danger
from members of his J _/Dwn sex, who are far less indulgent than women are of
his constant skirt chasing. In the old days, a Rake was often an aristocrat,
and no matter how many people he offended or even killed, in the end he would
go unpunished. Today, only stars and the very wealthy can play the Rake with
impunity; the rest of us need to be careful. Elvis Presley had been a shy young
man. Attaining early stardom, and seeing the power it gave him over women, he
went berserk, becoming a Rake almost overnight. Like many Rakes, Elvis had a
predilection for women who were already taken. He found himself cornered by an
angry husband or boyfriend on numerous occasions, and came away with a few cuts
and bruises. This might seem to suggest that you should step lightly around
husbands and boyfriends, especially early on in your career. But the charm of
the Rake is that such dangers don't matter to them. You cannot be a Rake by
being fearful and prudent; the occasional pummeling is part of the game. Later
on, in any case, at the height of Elvis's fame, no husband would dare touch
him. The greater danger for the Rake comes not from the violently offended
husband but from those insecure men who feel threatened by the Don Juan figure.
Although they will not admit it, they envy the Rake's life of pleasure, and
like everyone envious, they will attack in hidden ways, often masking their
persecutions as morality. The Rake may find his career endangered by such men
(or by the occasional woman who is equally insecure, and who feels hurt because
the Rake does not want her). There is little the Rake can do to avoid envy; if
everyone was as successful in seduction, society would not function. So accept
envy as a badge of honor. Don't be naive, be aware. When attacked by a moralist
persecutor, do not be taken in by their cmsade; it is motivated by envy, pure
and simple. You can blunt it by being less of a Rake, asking forgiveness,
claiming to have reformed, but this will damage your reputation, making you
seem less lovably rakish. In the end, it is better to suffer attacks with
dignity and keep on seducing. Seduction is the source of your power; and you
can always count on the infinite indulgence of women. the Ideal lover Most
people have dreams in their youth that get shattered or worn down with age.
They find themselves disappointed by people, events, reality, which cannot
match their youthful ideals. Ideal Lovers thrive on people's broken dreams,
which become lifelong fantasies. You long for romance ? Adventure? Lofty
spiritual communion? The Ideal Lover reflects your fantasy. He or she is an
artist in creating the illusion you require, idealizing your portrait. In a
world of disenchantment and baseness, there is limitless seductive power in
following the path of the Ideal Lover. The Romantic Ideal O ne evening around
1760, at the opera in the city of Cologne, a beautiful young woman sat in her
box, watching the audience. Beside her was her husband, the town burgomaster-a
middle-aged man and amiable enough, but dull. Through her opera glasses the
young woman noticed a handsome man wearing a stunning outfit. Evidently her
stare was noticed, for after the opera the man introduced himself: his name was
Giovanni Gi- if at first sight a girl does acomo Casanova. The stranger kissed
the woman's hand. She was going to a ball the following night, she told him;
would he like to come? "If I might dare to hope, Madame," he replied,
"that you will dance only with me." The next night, after the ball,
the woman could think only of Casanova. He had seemed to anticipate her
thoughts-had been so pleasant, and yet so bold. A few days later he dined at
her house, and after her husband had retired for the evening she showed him
around. In her boudoir she pointed out a wing of the house, a chapel, just
outside her window. Sure enough, as if he had read her mind, Casanova came to
the chapel the next day to attend Mass, and seeing her at the theater that
evening he mentioned to her that he had noticed a door there that must lead to
her bedroom. She not make such a deep impression on a person that she awakens
the ideal, then ordinarily the actuality is not especially desirable; but if
she does, then no matter how experienced a person is he usually is rather
overwhelmed. KIERKEGAARD, THE SEDUCER'S DIARY. HONG AND HONG laughed, and
pretended to be surprised. In the most innocent of tones, he said that he would
find a way to hide in the chapel the next day-and almost without thinking, she
whispered she would visit him there after everyone had gone to bed. So Casanova
hid in the chapel's tiny confessional, waiting all day and evening. There were
rats, and he had nothing to lie upon; yet when the burgomaster's wife finally
came, late at night, he did not complain, but quietly followed her to her room.
They continued their trysts for several days. By day she could hardly wait for
night: finally something to live for, an adventure. She left him food, books,
and candles to ease his long and tedious stays in the chapel-it seemed wrong to
use a place of worship for such a purpose, but that only made the affair more
exciting. A few days later, however, she had to take a journey with her
husband. By the time she got back, Casanova had disappeared, as quickly and
gracefully as he had come. Some years later, in London, a young woman named
Miss Pauline noticed an ad in a local newspaper. A gentleman was looking for a
lady lodger to rent a part of his house. Miss Pauline came from Portugal, and
was of the nobility; she had eloped to London with a lover, but he had been A
good lover will behave as elegantly at dawn as at any other time. He drags
himself out of bed with a look of dismay on his face. The lady urges him on:
"Come, my friend, it's getting light. You don't want anyone to find you
here." He gives a deep sigh, as if to say that the night has not been
nearly long enough and that it is agony to leave. Once up, he does not
instantly pull on his trousers. Instead he comes close to the lady and whispers
whatever was left unsaid during the night. Even when he is dressed, he still
lingers, vaguely pretending to be fastening his sash. • Presently he raises the
lattice, and the two lovers stand together m the side door while he tells her
how he dreads the coining day, which will keep them apart; then he slips away.
The lady watches him go, and this moment of parting will remain among her most
charming memories. • Indeed, one's attachment to a man depends largely on the
elegance of his leave- taking; When he jumps out of bed, scurries about the
room, tightly fastens his trouser sash, rolls up the sleeves of his court
cloak, overrobe, or hunting costume, stuffs his belongings into the breast of
his robe and then briskly secures the outer sash-one really begins to hate him.
PILLOW fBML iO F SEI SHONAGON. TRANSLATED AND forced to return home and she had
had to stay on alone for some while before she couldjoin him. Now she was
lonely, and had little money, and was depressed by her squalid
circumstances-after all, she had been raised as a lady. She answered the ad.
The gentleman turned out to be Casanova, and what a gentleman he was. The room
he offered was nice, and the rent was low; he asked only for occasional
companionship. Miss Pauline moved in. They played chess, went riding, discussed
literature. He was so well-bred, polite, and generous. A serious and
high-minded girl, she came to depend on their friendship; here was a man she
could talk to for hours. Then one day Casanova seemed changed, upset, excited:
he confessed that he was in love with her. She was going back to Portugal soon,
to rejoin her lover, and this was not what she wanted to hear. She told him he
should go riding to calm down. Later that evening she received news: he had
fallen from his horse. Feeling responsible for his accident, she rushed to him,
found him in bed, and fell into his arms, unable to control herself. The two
became lovers that night, and remained so for the rest of Miss Pauline's stay
in London. Yet when it came time for her to leave for Portugal, he did not try
to stop her; instead, he comforted her, reasoning that each of them had offered
the other the perfect, temporary antidote to their loneliness, and that they
would be friends for life. Some years later, in a small Spanish town, a young
and beautiful girl named Ignazia was leaving church after confession. She was
approached by Casanova. Walking her home, he explained that he had a passion
for dancing the fandango, and invited her to a ball the following evening. He
was so different from anyone in the town, which bored her so-she desperately
wanted to go. Her parents were against the arrangement, but she persuaded her
mother to act as a chaperone. After an unforgettable evening of dancing (and he
danced the fandango remarkably well for a foreigner), Casanova confessed that
he was madly in love with her. She replied (very sadly, though) that she already
had a fiance. Casanova did not force the issue, but over the next few days he
took Ignazia to more dances and to the bullfights. On one of these occasions he
introduced her to a friend of his, a duchess, who flirted with him brazenly;
Ignazia was terribly jealous. By now she was desperately in love with Casanova,
but her sense of duty and religion forbade such thoughts. Finally, after days
of torment, Ignazia sought out Casanova and took his hand: "My confessor
tried to make me promise to never be alone with you again," she said,
"and as I could not, he refused to give me absolution. It is the first
time in my life such a thing has happened to me. I have put myself in God's
hands. I have made up my mind, so long as you are here, to do all you wish.
When to my sorrow you leave Spain, I shall find another confessor. My fancy for
you is, after all, only a passing madness." Casanova was perhaps the most
successful seducer in history; few women could resist him. His method was
simple: on meeting a woman, he would study her, go along with her moods, find
out what was missing in her life, and provide it. He made himself the Ideal
Lover. The bored burgomaster's wife needed adventure and romance; she wanted
someone who would sacrifice time and comfort to have her. For Miss Pauline what
was missing was friendship, lofty ideals, serious conversation; she wanted a
man of breeding and generosity who would treat her like a lady. For Ignazia,
what was missing was suffering and torment. Her life was too easy; to feel truly
alive, and to have something real to confess, she needed to sin. In each case
Casanova adapted himself to the woman's ideals, brought her fantasy to life.
Once she had fallen under his spell, a littleruse or calculation would seal the
romance (a day among rats, a contrived fall from a horse, an encounter with
another woman to make Ignazia jealous). The Ideal Lover is rare in the modern
world, for the role takes effort. You will have to focus intensely on the other
person, fathom what she is missing, what he is disappointed by. People will
often reveal this in subtle ways: through gesture, tone of voice, a look in the
eye. By seeming to be what they lack, you will fit their ideal. To create this
effect requires patience and attention to detail. Most people are so wrapped up
in their own desires, so impatient, they are incapable of the Ideal Lover role.
Let that be a source of infinite opportunity. Be an oasis in the desert of the
self-absorbed; few can resist the temptation of following a person who seems so
attuned to their desires, to bringing to life their fantasies. And as with
Casanova, your reputation as one who gives such pleasure will precede you and
make your seductions that much The cultivation of the pleasures of the senses
was ever my principal aim in life. Knowing that I was personally calculated to
please the fair sex, 1 always strove to make myself agreeable to it. -CASANOVA
The Beauty Ideal I n 1730, when Jeanne Poisson was a mere nine years old, a
fortune-teller predicted that one day she would be the mistress of Louis XV.
The prediction was quite ridiculous, since Jeanne came from the middle class,
and it was a tradition stretching back for centuries that the king's mistress
be chosen from among the nobility. To make matters worse, Jeanne's father was a
notorious rake, and her mother had been a courtesan. Fortunately for Jeanne,
one of her mother's lovers was a man of great wealth who took a liking to the
pretty girl and paid for her education. Jeanne learned to sing, to play the
clavichord, to ride with uncommon skill, to act and dance; she was schooled in
literature and history as if she were a boy. The playwright Crebillon
instructed her in the art of conversation. During the early 1970s, against a
turbulent political backdrop that included the fiasco of American involvement
in the Vietnam War and the downfall of President Richard Nixon's presidency in
the Watergate scandal, a "me generation" sprang to prominence-and
[Andy] Warhol was there to hold up its mirror.Unlike the radicalized protesters
of the 1960s who wanted to change all the ills of society, the self- absorbed
"me" people sought to improve their bodies and to "get in
touch" with their own feelings. They cared passionately about their
appearance, health, lifestyle, and bank accounts. Andy catered to their self-
centeredness and inflated pride by offering his services as a portraitist. By
the end of the decade, he would be internationally recognized as one of the
leading portraitists of his era. Warhol offered his clients an irresistible
product: a stylish and flattering portrait by a famous artist who was himself a
certified celebrity. Conferring an alluring star presence upon even the most
celebrated of faces, he transformed his subjects into glamorous apparitions,
presenting their faces as he thought they wanted to be seen and remembered. By
filtering his sitters' good features through his silkscreens and exaggerating
their vivacity, he enabled them to gain entree to a more mythic and rarefied
level of existence. The possession of great wealth and power might do for
everyday life, but the commissioning of a portrait by Warhol was a sure
indication that the sitter intended to secure a posthumous fame as well.
Warhol's portraits were not so much realistic documents of contemporary faces
as they were designer icons awaiting future devotions. -DAVID BOURDON, WARHOL
Women have served all these centuries as looking glasses possessing the magic
and delicious power of reflecting the figure of a man at twice its natural
size. -VIRGINIA WOOLF, A ROOM OF ONE'S OWN On top of it all, Jeanne was
beautiful, and had a charm and grace that set her apart early on. In 1741, she
married a man of the lower nobility. Nowknown as Madame d'Etioles, she could
realize a great ambition: she opened a literary salon. All of the great writers
and philosophers of the time frequented the salon, many because they were
enamored of the hostess. One of these was Voltaire, who became a lifelong
friend. Through all Jeanne's success, she never forgot the fortune-teller's prediction,
and still believed that she would one day conquer the king's heart. It happened
that one of her husband's country estates bordered on King Louis's favorite
hunting grounds. She would spy on him through the fence, or find ways to cross
his path, always while she happened to be wearing an elegant, yet fetching
outfit. Soon the king was sending her gifts of game. When his official mistress
died, in 1744, all of the court beauties vied to take her place; but he began
to spend more and more time with Madame d'Etioles, dazzled by her beauty and
charm. To the astonishment of the court, that same year he made this
middle-class woman his official mistress, ennobling her with the title of the
Marquise de Pompadour. The king's need for novelty was notorious: a mistress
would beguile him with her looks, but he would soon grow bored with her and
find someone else. After the shock of his choice of Jeanne Poisson wore off,
the courtiers reassured themselves that it could not last-that he had only
chosen her for the novelty of having a middle-class mistress. Little did they
know that Jeanne s first seduction of the king was not the last seduction she
had in mind. As time went by, the king found himself visiting his mistress more
and more often. As he ascended the hidden stair that led from his quarters to
hers in the palace of Versailles, anticipation of the delights that awaited him
at the top would begin to turn his head. First, the room was always warm, and
was filled with delightful scents. Then there were the visual delights: Madame
de Pompadour always wore a different costume, each one elegant and surprising
in its own way. She loved beautiful objects-fine porcelain, Chinese fans,
golden flowerpots-and every time he visited, there would be something new and
enchanting to see. Her manner was always lighthearted; she was never defensive
or resentful. Everything for pleasure. Then there was their conversation: he
had never been really able to talk with a woman before, or to laugh, but the
marquise could discourse skillfully on any subject, and her voice was a
pleasure to hear. And if the conversation waned, she would move to the piano,
play a tune, and sing wonderfully. If ever the king seemed bored or sad, Madame
de Pompadour would propose some project-perhaps the building of a new country
house. He would have to advise in the design, the layout of the gardens, the
decor. Back at Versailles, Madame de Pompadour put hersell in charge of the
palace amusements, building a private theater for weekly performances under her
direction. Actors were chosen from among the courtiers, but the female lead was
always played by Madame de Pompadour, who was one of the finest amateur
actresses in France. The king became obsessed with this theater; he could
barely wait for its performances. Along with this interest came an increasing
expenditure of money on the arts, and an involvement in philosophy and
literature. A man who had cared only for hunting and gambling was spending less
and less time with his male companions and becoming a great patron of the arts.
Indeed he stamped a whole era with an aesthetic style, which became known as
"Louis Quinze," rivaling the style associated with his illustrious
predecessor, Louis XTV. Lo and behold, year after year went by without Louis
tiring of his mistress. In fact he made her a duchess, and her power and
influence extended well beyond culture into politics. For twenty years, Madame
de Pompadour ruled both the court and the king's heart, until her untimely
death, in 1764, at the age of forty-three. Louis XV had a powerful inferiority
complex. The successor to Louis XTV, the most powerful kingin French history,
he had been educated and trained for the throne-yet who could follow his
predecessor's act? Eventually he gave up trying, devoting himself instead to
physical pleasures, which came to define how he was seen; the people around him
knew they could sway him by appealing to the basest parts of his character.
Madame de Pompadour, genius of seduction, understood that inside Louis XV was a
great man yearning to come out, and that his obsession with pretty young women
indicated a hunger for a more lasting kind of beauty. Her first step was to
cure his incessant bouts of boredom. It is easy for kings to be
bored-everything they want is given to them, and they seldom learn to be
satisfied with what they have. The Marquise de Pompadour dealt with this by
bringing all sorts of fantasies to life, and creating constant suspense. She
had many skills and talents, and just as important, she deployed them so artfully
that he never discovered their limits. Once she had accustomed him to more
refined pleasures, she appealed to the crushed ideals within him; in the mirror
she held up to him, he saw his aspiration to be great, a desire that, in
France, inevitably included leadership in culture. His previous series of
mistresses had tickled only his sensual desires. In Madame de Pompadour he
found a woman who made him feel greatness in himself. The other mistresses
could easily be replaced, but he could never find another Madame de Pompadour.
Most people believe themselves to be inwardly greater than they outwardly
appear to the world. They are full of unrealized ideals; they could be artists,
thinkers, leaders, spiritual figures, but the world has crushed them, denied
them the chance to let their abilities flourish. This is the key to their
seduction-and to keeping them seduced over time. The Ideal Lover knows how to
conjure up this kind of magic. Appeal only to people's physical side, as many
amateur seducers do, and they will resent you for playing upon their basest
instincts. But appeal to their better selves, to a higher standard of beauty,
and they will hardly notice that they have been seduced. Make them feel
elevated, lofty, spiritual, and your power over them will be limitless. Love
brings to light a lover's noble and hidden qualities - his rare and exceptional
traits: it is thus liable to be deceptive as to his normal character. NIETZSCHE
Keys to the Character E ach of us carries inside us an ideal, either of what we
would like to become, or of what we want another person to be for us. This
ideal goes back to our earliest years-to what we once felt was missing in our
lives, what others did not give to us, what we could not give to ourselves.
Maybe we were smothered in comfort, and we long for danger and rebellion. If we
want danger but it frightens us, perhaps we look for someone who seems at home
with it. Or perhaps our ideal is more elevated-we want to be more creative,
nobler, and kinder than we ever manage to be. Our ideal is something we feel is
missing inside us. Our ideal may be buried in disappointment, but it lurks
underneath, waiting to be sparked. If another person seems to have that ideal
quality, or to have the ability to bring it out in us, we fall in love. That is
the response to Ideal Lovers. Attuned to what is missing inside you, to the
fantasy that will stir you, they reflect your ideal-and you do the rest,
projecting on to them your deepest desires and yearnings. Casanova and Madame
de Pompadour did not merely seduce their targets into a sexual affair, they
made them fall in love. The key to following the path of the Ideal Lover is the
ability to observe. Ignore your targets' words and conscious behavior; focus on
the tone of their voice, a blush here, a look there-those signs that betray
what their words won't say. Often the ideal is expressed in contradiction. King
Louis XV seemed to care only about chasing deer and young girls, but that in
fact covered up his disappointment in himself; he yearned to have his nobler
qualities flattered. Never has there beenabettermoment than now to play the
Ideal Lover. That is because we live in a world in which everything must seem
elevated and well-intentioned. Power is the most taboo topic of all: although
it is the reality we deal with every day in our struggles with people, there is
nothing noble, self-sacrificing, or spiritual about it. Ideal Lovers make you
feel nobler, make the sensual and sexual seem spiritual and aesthetic. Like all
seducers, they play with power, but they disguise their manipulations behind
the facade of an ideal. Few people see through them and their seductions last
longer. Some ideals resemble Jungian archetypes-they go back a long way in our
culture, and their hold is almost unconscious. One such dream is that of the
chivalrous knight. In the courtly love tradition of the Middle Ages, a
troubadour/knight would find a lady, almost always a married one. and would
serve as her vassal. He would go through terrible trials on her behalf, undertake
dangerous pilgrimages in her name, suffer awful tortures to prove his love.
(This could include bodily mutilation, such as tearing off of fingernails, the
cutting of an ear, etc.) He would also write poems and sing beautiful songs to
her, for no troubadour could succeed without some kind of aesthetic or
spiritual quality to impress his lady. The key to the archetype is a sense of
absolutedevotion. A man who will not let matters of warfare, glory, or money
intrude into the fantasy of courtship has limitless power. The troubadour role
is an ideal because people who do not put themselves and their own interests
first are truly rare. For a woman to attract the intense attention of such a
man is immensely appealing to her vanity. In eighteenth-century Osaka, a man
named Nisan took the courtesan Dewa out walking, first taking care to sprinkle
the clover bushes along the path with water, which looked like morning dew.
Dewa was greatly moved by this beautiful sight. "I have heard," she
said, "that loving couples of deer are wont to lie behind clover bushes.
How I should like to see this in real life!" Nisan had heard enough. That
very day he had a section of her house torn down and ordered the planting of
dozens of clover bushes in what had once been a part of her bedroom. That
night, he arranged for peasants to round up wild deer from the mountains and
bring them to the house. The next day Dewa awoke to precisely the scene she had
described. Once she appeared overwhelmed and moved, he had the clover and deer
taken away and the house rebuilt. One of history's most gallant lovers, Sergei
Saltykov, had the misfortune to fall in love with one of history's least
available women: the Grand Duchess Catherine,future empress of Russia.
Catherine's every move was watched over by her husband, Peter, who suspected
her of trying to cheat on him and appointed servants to keep an eye on her. She
was isolated, unloved, and unable to do anything about it. Saltykov, a handsome
young army officer, was determined to be her rescuer. In 1752 he befriended
Peter, and also the couple in charge of watching over Catherine. In this way he
was able to see her and occasionally exchange a word or two with her that
revealed his intentions. He performed the most foolhardy and dangerous
maneuvers to be able to see her alone, including diverting her horse during a
royal hunt and riding off into the forest with her. He told her how much he
sympathized with her plight, and that he would do anything to help her. To be
caught courting Catherine would have meant death, and eventually Peter came to
suspect that something was up between his wife and Saltykov, though he was
never sure. His enmity did not discourage the dashing officer, who just put
still more energy and ingenuity into finding ways to arrange secret trysts. The
couple were lovers for two years, and Saltykov was undoubtedly the father of
Catherine's son Paul, later the emperor of Russia. When Peter finally got rid
of him by sending him off to Sweden, news of his gallantry traveled ahead of him,
and women swooned to be Ms next conquest. You may not have to go to as much
trouble or risk, but you will always be rewarded for actions that reveal a
sense of self- sacrifice or devotion. The embodiment of the Ideal Lover for the
1920s was Rudolph Valentino, or at least the image created of him in film.
Everything he did-the gifts, the flowers, the dancing, the way he took a
woman's hand-showed a scrupulous attention to the details that would signify
how much he was thinking of her. The image was of a man who made courtship take
time, transforming it into an aesthetic experience. Men hated Valentino,
because women now expected them to match the ideal of patience and
attentiveness that he represented. Yet nothing is more seductive than patient
attentiveness. It makes the affair seem lofty, aesthetic, not really about sex.
The power of a Valentino, particularly nowadays, is that people like this are
so rare. The art of playing to a woman's ideal has almost disappeared-which
only makes it that much more alluring. If the chivalrous lover remains the
ideal for women, men often idealize the Madonna/whore, a woman who combines
sensuality with an air of spirituality or innocence. Think of the great
courtesans of the Italian Renaissance, such as Tullia d'Aragona-essentially a
prostitute, like all courtesans, but able to disguise her social role by
establishing a reputation as a poet and philosopher. Tullia was what was then
known as an "honest courtesan." Honest courtesans would go to church,
but they had an ulterior motive: for men, their presence at Mass was exciting.
Their houses were pleasure palaces, but what made these homes so visually
delightful was their artworks and shelves full of books, volumes of Petrarch
and Dante. For the man, the thrill, the fantasy, was to sleep with a woman who
was sexual yet had the ideal qualities of a mother and the spirit and intellect
of an artist. Where the pure prostitute excited desire but also disgust, the
honest courtesan made sex seem elevated and innocent, as if it were happening
in the Garden of Eden. Such women held immense power over men. To tMs day they
remain an ideal, if for no other reason than that they offer such a range of
pleasures. The key is ambiguity-to combine the appearance of sensitivity to the
pleasures of the flesh with an air of innocence, spirituality, a poetic
sensibility. This mix of the high and the low is immensely seductive. The
dynamics of the Ideal Lover have limitless possibilities, not all of them
erotic. In politics, Talleyrand essentially played the role of the Ideal Lover
with Napoleon, whose ideal in both a cabinet minister and a friend was a man
who was aristocratic, smooth with the ladies-allthe things that Napoleon Mmself
was not. In 1798, when Talleyrand was the French foreign minister, he hosted a
party in Napoleon's honor after the great general's dazzling military victories
in Italy. To the day Napoleon died, he remembered tMs party as the best he had
ever attended. It was a lavish affair, and Talleyrand wove a subtle message
into it by placing Roman busts around the house, and by talking to Napoleon of
reviving the imperial glories of ancient Rome. This sparked a glint in the
leader's eye, and indeed, a few years later, Napoleon gave himself the title of
emperor-a move that only made Talleyrand more powerful. The key to Talleyrand's
power was his ability to fathom Napoleon's secret ideal: his desire to be an
emperor, a dictator. Talleyrand simply held up a mirror to Napoleon and let him
glimpse that possibility. People are always vulnerable to insinuations like
this, which stroke their vanity, almost everyone's weak spot. Hint at something
for them to aspire to, reveal your faith in some untapped potential you see in
them, and you will soon have them eating out of your hand. If Ideal
Lovers are masters at seducing people by appealing to their higher selves, to
something lost from their childhood, politicians can benefit by applying this
skill on a mass scale, to an entire electorate. This was what John F. Kennedy
quite deliberately did with the American public, most obviously in creating the
"Camelot" aura around himself. The word "Camelot" was
applied to his presidency only after his death, but the romance he consciously
projected through his youth and good looks was fully functioning during his
lifetime. More subtly, he also played with America's images of its own
greatness and lost ideals. Many Americans felt that with the wealth and comfort
of the late 1950s had come great losses; ease and conformity had buried the
country's pioneer spirit. Kennedy appealed to those lost ideals through the
imagery of the New Frontier, which was exemplified by the space race. The
American instinct for adventure could find outlets here, even if most of them
were symbolic. And there were other calls for public service, such as the
creation of the Peace Corps. Through appeals like these, Kennedy resparked the
uniting sense of mission that had gone missing in America during the years
since World War II. He also attracted to himself a more emotional response than
presidents commonly got. People literally fell in love with him and the image.
Politicians can gain seductive power by digging into a country's past, bringing
images and ideals that have been abandoned or repressed back to the surface.
They only need the symbol; they do not really have toworry about re-creating
the reality behind it. The good feelings they stir up are enough to ensure a
positive response. Symbol: The Portrait Painter. Under his eye, all of
yourphysicalimperfectionsdisappear.Hebrings out noble qualities in you, frames
you in a myth, makes you godlike, immortalizes you. For his ability to create
such fantasies, he is rewarded with great power. Dangers T he main dangers in
the role of the Ideal Lover are the consequences that arise if you let reality
creep in. You are creating a fantasy that involves an idealization of your own
character. And this is a precarious task, for you are human, and imperfect. If
your faults are ugly enough, or intrusive enough, they will burst the bubble
you have blown, and your target will revile you. Whenever Tullia d'Aragona was
caught acting like a common prostitute (when, for instance, she was caught
having an affair just for money), she would have to leave town and establish
herself elsewhere. The fantasy of her as a spiritual figure was broken.
Casanova too faced this danger, but was usually able to surmount it by finding
a clever way to break off the relationship before the woman realized that he
was not what she had imagined: he would find some excuse to leave town, or,
better still, he would choose a victim who was herself leaving town soon, and
whose awareness that the affair would be short-lived would make her idealizing
of him all the more intense. Reality and long intimate exposure have a way of
dulling a person's perfection. The nineteenth-century poet Alfred de Musset was
seduced by the writer George Sand, whose larger-than-life character appealed to
his romantic nature. But when the couple visited Venice together, and Sand came
down with dysentery, she was suddenly no longer an idealized figure but a woman
with an unappealing physical problem. De Musset himself showed a whiny, babyish
side on this trip, and the lovers separated. Once apart, however, they were
able to idealize each other again, and reunited a few months later. When
reality intrudes, distance is often a solution. In politics the dangers are
similar. Years after Kennedy's death, a string of revelations (his incessant
sexual affairs, his excessively dangerous brinkmanship style of diplomacy, etc.)
belied the myth he had created. His image has survived this tarnishing; poll
after poll shows that he is still revered. Kennedy is a special case, perhaps,
in that his assassination made him a martyr, reinforcing the process of
idealization that he had already set in motion. But he is not the only example
of an Ideal Lover whose attraction survives unpleasant revelations; these
figures unleash such powerful fantasies, and there issuchahunger for the myths
and ideals they have to sell, that they are often quickly forgiven. Still, it
is always wise to be prudent, and to keep people from glimpsing the
less-than-ideal side of your character. the Dandy Most of us feel trapped
within the limited roles that the world expects us to play. We are instantly
attracted to those who are more fluid, more ambiguous, than we are-those who
create their own persona. Dandies excite us because they cannot be categorized,
and hint at afreedom we wantfor ourselves. They play with masculinity and
femininity; they fashion their own physical image, which is always startling;
they are mysterious and elusive. They also appeal to the narcissism of each
sex: to a woman they are psychologically female, to a man they are male.
Dandies fascinate and seduce in large numbers. Use the power of the Dandy to
create an ambiguous, alluring presence that stirs repressed desires. The
Feminine Dandy W hen the eighteen-year-old Rodolpho Guglielmi emigrated from
Italy to the United States in 1913, he came with no particular skills apart
from his good looks and his dancing prowess. To put these qualities to
advantage, he found work in the thes dansants, the Manhattan dance halls where
young girls would go alone or with friends and hire a taxi dancer for a brief
thrill. The taxi dancer would expertly twirl them around the dance floor,
flirting and chatting, all for a small fee. Guglielmi soon made a name as one
of the best-so graceful, poised, and pretty. In working as a taxi dancer,
Guglielmi spent a great deal of time around women. He quickly learned what
pleased them-how to mirror them in subtle ways, how to put them at ease (but
not too much). He began to pay attention to his clothes, creating his own
dapper look: he danced with a corset under his shirt to give himself a trim
figure, sported a wristwatch (considered effeminate in those days), and claimed
to be a marquis. In 1915, he landed a job demonstrating the tango in fancy
restaurants, and changed his name to the more evocative Rodolpho di Valentina.
A year later he moved to Los Angeles: he wanted to try to make it in Hollywood.
Now known as Rudolph Valentino, Guglielmi appeared as an extra in several
low-budget pictures. He eventually landed a somewhat larger role in the 1919
film Eyes of Youth, in which he played a seducer, and caught women's attention
by how different a seducer he was: his movements were graceful and delicate,
his skin so smooth and his face so pretty that when he swooped down on his
victim and drowned her protests with a kiss, he seemed more thrilling than
sinister. Next came The Four Horsemen of the Apocalypse, in which Valentino
played the male lead, Julio the playboy, and became an overnight sex symbol
through a tango sequence in which he seduced a young woman by leading her
through the dance. The scene encapsulated the essence of his appeal: his feet
smooth and fluid, his poise almost feminine, combined with an air of control.
Female members of the audience literally swooned as he raised a married woman's
hands to his lips, or shared the fragrance of a rose with his lover. He seemed
so much more attentive to women than other men did; but mixed in with this
delicacy was a hint of cruelty and menace that drove women wild. In his most
famous film. The Sheik, Valentino played an Arab prince (later revealed to be a
Scottish lord abandoned in the Sahara as a baby) who rescues a proud English
lady in the desert, then conquers her in a manner Once a son was born to
Mercury and the goddess Venus, and he was brought up by the naiads in Ida's
caves. In his features, it was easy to trace resemblance to his father and to
his mother. He was called after them, too, for his name was Hermaphroditus. As
soon as he was fifteen, he left his native hills, and Ida where he had been
brought up, andfor the sheer joy of travelling visited remote places. . . .He
went as far as the cities of Lycia, and on to the Carians, who dwell nearby. In
this region he spiedapool of water, so clear that he could see right to the
bottom. The water was like crystal, and the edges of the pool were ringed with
fresh turf and grass that was always green. A nymph [Salmacis] dwelt there.
Often she would gather flowers, and it so happened that she was engaged in this
pastime when she caught sight of the boy, Hermaphroditus. As soon as she had
seen him, she longed to possess him. She addressed him: "Fair boy, you
surely deserve to be thought a god. If you are, perhaps you may be Cupid? ...
If there is such a girl [engaged to you], let me enjoy your love in secret: but
if there is not, then 1 pray that I may be your bride, and that we may enter
upon marriage together." The naiad said no more; but a blush stained the
boy's cheeks, for he did not know what love was. Even blushing became him: his
cheeks were the colour of ripe apples, hanging in a sunny orchard, like painted
ivory or like the moon when, in eclipse, she shows a reddish hue beneath her
brightness. . . . Incessantly the nymph demanded at least sisterly kisses, and
tried to put her arms round his ivory neck. "Will you stop!" he
cried, "orI shall run away and leave this place and you!" Salmacis
was afraid: "I yield the spot to you, stranger, I shall not intrude,"
she said; and, turningfrom him, pretended to go away. . . . The boy, meanwhile,
thinking himself unobserved and alone, strolled this way and that on the grassy
sward, and dipped his toes in the lapping water-then his feet, up to the
ankles. Then, tempted by the enticing coolness of the waters, he quickly
stripped his young body of its soft garments. At the sight, Salmacis was
spell-bound. She was on fire with passion to possess his naked beauty, and her
very eyes flamed with abrilliance like that of the dazzling sun, when his
bright disc is reflected in a mirror. . . . She longed to embrace him then, and
with difficulty restrained her frenzy. Hermaphroditus, clapping his hollow
palms against that borders on rape. When she asks, "Why have you brought
me here?," he replies, "Are you not woman enough to know?" Yet
she ends up falling in love with him, as indeed women did in movie audiences
all over the world, thrilling at his strange blend of the feminine and the
masculine. In one scene in The Sheik, the English lady points a gun at
Valentino; his response is to point a delicate cigarette holder back at her.
She wears pants; he wears long flowing robes and abundant eye makeup. Later
films would include scenes of Valentino dressing and undressing, a kind of
striptease showing glimpses of his trim body. In almost all of his films he
played some exotic period character-a Spanish bullfighter, an Indian rajah, an
Arabsheik, a French nobleman-and he seemed to delight in dressing up in jewels
and tight uniforms. In the 1920s, women were beginning to play with a new
sexual freedom. Instead of waiting for a man to be interested in them, they
wanted to be able to initiate the affair, but they still wanted the man to end
up sweeping them off their feet. Valentino understood this perfectly. His
off-screen life corresponded to his movie image: he wore bracelets on his arm,
dressed impeccably, and reportedly was cruel to his wife, and hit her. (His
adoring public carefully ignored his two failed marriages and his apparently
nonexistent sex life.) When he suddenly died-in New York in August 1926, at the
age of thirty-one, from complications after surgery for an ulcer-the response
was unprecedented: more than 100,000 people filed by his coffin, many female
mourners became hysterical, and the whole nation was spellbound. Nothing like
this had happened before for a mere actor. There is a film of Valentino's,
Monsieur Beciucciire, in which he plays a total fop, a much more effeminate
role than he normally played, and without his usual hint of dangerousness. The
film was a flop. Women did not respond to Valentino as a swish. They were
thrilled by the ambiguity of a man who shared many of their own feminine
traits, yet remained a man. Valentinodressed and played with his physicality
like a woman, but his image was masculine. He wooed as a woman would woo if she
were a man-slowly, attentively, paying attention to details, setting a rhythm
instead of hurrying to a conclusion. Yet when the time came for boldness and
conquest, his timing was impeccable, overwhelming his victim and giving her no
chance to protest. In his movies, Valentino practiced the same gigolo's art of
leading a woman on that he had mastered as a teenager on the dance floor-
chatting, flirting, pleasing, but always in control. Valentino remains an
enigma to this day. His private life and his character are wrapped in mystery;
his image continues to seduce as it did during his lifetime. He served as the
model for Elvis Presley, who was obsessedwith this star of the silents, and
also for the modern male dandy who plays with gender but retains an edge of
danger and cruelty. Seduction was and will always remain the female form of
power and warfare. It was originally the antidote to rape and violence. The man
who uses this form of power on a woman is in essence turning the game around.
employing feminine weapons against her; without losing his masculine identity,
the more subtly feminine he becomes the more effective the seduction. Do not be
one of those who believe that what is most seductive isbeingdevastatingly
masculine. The Feminine Dandy has a much more sinister effect. He lures the
woman in with exactly what she wants-a familiar, pleasing, graceful presence.
Mirroring feminine psychology, he displays attention to his appearance,
sensitivity to detail, a slight coquettishness-but also a hint of male cruelty.
Women are narcissists, in love with the charms of their own sex. By showing
them feminine charm, a man can mesmerize and disarm them, leaving them
vulnerable to a bold, masculine move. The Feminine Dandy can seduce on a mass
scale. No single woman really possesses him-he is too elusive-but all can
fantasize about doing so. The key is ambiguity: your sexuality is decidedly
heterosexual, but your body and psychology float delightfully back and forth
between the two poles. I am a woman. Every artist is a woman and should have a
taste for other women. Artists who are homosexual cannot be true artists
because they like men, and since they themselves are women they are reverting
to normality. PICASSO The Masculine Dandy I n the 1870s, Pastor Henrik Gillot
was the darling of the St. Petersburg intelligentsia. He was young, handsome,
well-read in philosophy and literature, and he preached a kind of enlightened
Christianity. Dozens of young girls had crushes on him and would flock to his
sermons just to look at him. In 1878, however, he met a girl who changed his
life. Her name was Lou von Salome (later known as Lou Andreas-Salome), and she
was seventeen; he was forty-two. Salome was pretty, with radiant blue eyes. She
had read a lot, particularly for a girl her age, and was interested in the
gravest philosophical and religious issues. Her intensity, her intelligence,
her responsiveness to ideas cast a spell over Gillot. When she entered his
office for her increasingly frequent discussions with him, the place seemed
brighter and more alive. Perhaps she was flirting with him, in the unconscious
manner of a young girl-yet when Gillot admitted to himself that he was in love
with her, and proposed marriage, Salome was horrified. The confused pastor
never quite got over Lou von Salome, becoming the first of a long string of
famous men to be the victim of a lifelong unfulfilled infatuation with her. In
1882, the German philosopher Friedrich Nietzsche was wandering around Italy
alone. In Genoa he received a letter from his friend Paul Ree, a Prussian
philosopher whom he admired, recounting his discussions with a remarkable young
Russian woman, Lou von Salome, in Rome. Salome was his body, dived quickly into
the stream. As he raised first one arm and then the other, his body gleamed in
the clear water, as if someone had encased anivory statue or white lilies in transparent
glass. "I have won! He is mine!" cried the nymph, and flinging aside
her garments, plunged into the heart of the pool. The boy fought against her,
but she held him, and snatched kisses as he struggled, placing her hands
beneath him, stroking his unwilling breast, and clinging to him, now on this
side, and now on that. Finally, in spite of ail his efforts to slip
from her grasp, she twined around him, like a serpent when it is being carried
off into the air by the king of birds: for, as it hangs from the eagle's beak,
the snake coils round his head and talons and with its tail hampers his beating
wings. "You may fight, you rogue,
but you will not escape. May the gods grant me this, may no time to come ever
separate him from me, or me from him!" Her prayers found favour with the
gods: for, as they lay together, their bodies were united and from being two
persons they became one. As when a gardener grafts a branch on to a tree, and
sees the two unite as they grow, and come to maturity together, so when their
limbs met in that clinging embrace the nymph and the boy were no longer two,
but a single form, possessed of a dual nature, which could not be called male
or female, but seemed to be atonce both and neither. - OVID,METAMORPHOSES,
INNES Dandyism is not even, as many unthinking people seem to suppose, an
immoderate interest in personal appearance and material elegance. For the true
dandy these things are only a symbol oj the aristocratic superiority of his
personality. ..." What, then, is this ruling passion that has turned into
a creed and created its own skilled tyrants? What is this unwritten
constitution that has created so haughty a caste? It is, above all, a burning
need to acquire originality, within the apparent bounds of convention. It is a
sort of cult of oneself, which can dispense even with what are commonly called
illusions. It is the delight in causing astonishment, and the proud
satisfaction of never oneself being astonished. BAUDELAIRE, THE DANDY , QUOTED
IN VICE: DAVENPORT-HINES In the midst of this display of statesmanship,
eloquence, cleverness, and exalted ambition, Alcibiades lived a life of
prodigious luxury, drunkenness, debauchery, and insolence. He was effeminate in
his dress and would walk through the market-place trailing his long purple
robes, and he spent extravagantly. He had the decks of his triremes cut away to
allow him to sleep more comfortably, and his bedding was slung on cords, rather
than spread on the hard planks. He had a golden shield made for him, which was
emblazoned not with any there on holiday with her mother; Ree had managed to
accompany her on long walks through the city, unchaperoned, and they had had
many conversations. Her ideas on God and Christianity were quite similar to
Nietzsche's, and when Ree had told her that the famous philosopher was a friend
of his, she had insisted that he invite Nietzsche to join them. In subsequent
letters Ree described how mysteriously captivating Salome was, and how anxious
she was to meet Nietzsche. The philosopher soon went to Rome. When Nietzsche
finally met Salome, he was overwhelmed. She had the most beautiful eyes he had
ever seen, and during their first long talk those eyes lit up so intensely that
he could not help feeling there was something erotic about her excitement. Yet
he was also confused: Salome kept her distance, and did not respond to his
compliments. What a devilish young woman. A few days later she read him a poem
of hers, and he cried; her ideas about life were so like his own. Deciding to
seize the moment, Nietzsche proposed marriage. (He did not know that Ree had
done so as well.) Salome declined. She was interested in philosophy, life,
adventure, not marriage. Undaunted, Nietzsche continued to court her. On an
excursion to Lake Orta with Ree, Salome, and her mother, he managed to get the
girl alone, accompanying her on a walk up Monte Sacro while the others stayed
behind. Apparently the views and Nietzsche's words had the proper passionate
effect; in a later letter to her, he described this walk as "the most
beautiful dream of my life." Now he was a man possessed: all he could
think about was marrying Salome and having her all to himself. A few months
later Salome visited Nietzsche in Germany. They took long walks together, and
stayed up all night discussing philosophy. She mirrored his deepest thoughts,
anticipated his ideas about religion. Yet when he again proposed marriage, she
scolded him as conventional: it was Nietzsche, after all, who had developed a
philosophical defense of the superman, the man above everyday morality, yet
Salome was by nature far less conventional than he was. Her firm,
uncompromising manner only deepened the spell she cast over him, as did her
hint of cruelty When she finally left him, making it clear that she had no
intention of marrying him, Nietzsche was devastated. As an antidote to his
pain, he wrote Thus Spake Zarathustra, a book full of sublimated eroticism and
deeply inspired by his talks with her. From then on Salome was known throughout
Europe as the woman who had broken Nietzsche's heart. Salome moved to Berlin.
Soon the city's greatest intellectuals were falling under the spell of her
independence and free spirit. The playwrights Gerhart Hauptmann and Franz
Wedekind became infatuated with her; in 1897, the great Austrian poet Rainer
Maria Rilke fell in love with her. By that time her reputation was widely
known, and she was a published novelist. This certainly played a part in
seducing Rilke, but he was also attracted by a kind of masculine energy he
found in her that he had never seen in a woman. Rilke was then twenty-two,
Salome thirty-six. He wrote her love letters and poems, followed her
everywhere, and began an affair with her that was to last several years. She
corrected his poetry, imposed discipline on Ms overly romantic verse, inspired
ideas for new poems. But she was put off by Ms childish dependence on her, Ms
weakness. Unable to stand weakness of any kind, she eventually left him.
Consumed by her memory, Rilke long continued to pursue her. In 1926, lying on Ms
deathbed, he begged Ms doctors, "Ask Lou what is wrong with me. She is the
only one who knows." One man wrote of Salome, "There was something
terrifying about her embrace. Looking at you with her radiant blue eyes, she
would say, 'The reception of the semen is for me the height of ecstasy.' And
she had an insatiable appetite for it. She was completely amoral ... a
vampire."TheSwedish psychotherapist Poul Bjerre, one of her later
conquests, wrote, "I think Nietzsche was right when he said that Lou was a
thoroughly evil woman. Evil however in the Goethean sense: evil that produces
good. She may have destroyed lives and marriages but her presence was
exciting." The two emotions that almost every male felt in the presence of
Lou Andreas-Salome were confusion and excitement-the two prerequisite feelings
for any successful seduction. People were intoxicated by her strange mix of the
masculine and the feminine; she was beautiful, with a radiant smile and a
graceful, flirtatious manner, but her independence and her intensely analytical
nature made her seem oddly male. This ambiguity was expressed in her eyes,
which were both coquettish and probing. It was confusion that kept men
interested and curious: no other woman was like this. They wanted to know more.
The excitement stemmed from her ability to stir up repressed desires. She was a
complete nonconformist, and to be involved with her was to break all kinds of
taboos. Her masculinity made the relationship seem vaguely homosexual; her
slightly cruel, slightly domineering streak could stir up masochistic
yearnings, as it did in Nietzsche. Salome radiated a forbidden sexuality. Her
powerful effect on men-the lifelong infatuations, the suicides(there were
several), the periods of intense creativity, the descriptions of her as a
vampire or a devil-attest to the obscure depths of the psyche that she was able
to reach and disturb. The Masculine Dandy succeeds by reversing the normal
pattern of male superiority in matters of love and seduction. A man's apparent
independence, Ms capacity for detachment, often seems to give him the upper
hand in the dynamic between men and women. A purely feminine woman will arouse
desire, but is always vulnerable to the man's capricious loss of interest; a
purely masculine woman, on the other hand, will not arouse that interest at
all. Follow the path of the Masculine Dandy, however, and you neutralize all a
man's powers. Never give completely of yourself; while you are passionate and
sexual, always retain an air of independence and self-possession. You might
move on to the next man, or so he will think. You have other, more important
matters to concern yourself with, such as your work. Men do not know how to
fight women who use their own weapons against them; they are intrigued,
aroused, and disarmed. Few men can resist the taboo pleasures offered up to
them by the Masculine Dandy. ancestral device, but with the figure of Eros
armed with a thunderbolt. The leading men of Athens watched all this with
disgust andindignation and they were deeply disturbed by his contemptuous and
lawless behaviour, which seemed to them monstrous and suggested the habits of a
tyrant. The people's feelings towards him have been very aptly expressed by
Aristophanes in the line: "They long for him, they hate him, they cannot
do without him. . . • The fact was that his voluntary donations, the public
shows he supported, his unrivalled to the state, the fame of his ancestry, the
power of his oratory and his physical strength and beauty ... all combined to
make the Athenians forgive him everything else, and they were constantly
finding euphemismsfor his lapses and putting them down to youthful high spirits
and honourable ambition. -PLUTARCH, "THE LIFE OF ALCIBIADES," THE
RISE AND FALL OF ATHENS: NINE GREEK LIVES, SCOTT-KILVERT Further light-a whole
flood of it-is thrown upon this attraction of the male in petticoats for the
female, in the diary of the Abbe de Choisy, one of the most brilliant men-
women of history, of whom we shall hear a great deal more later. The abbe, a churchman
of Paris, was a constant masquerader in female attire. He lived in the days of
Louis XIV, and was a great friend of Louis' brother, also addicted to women's
clothes. A young girl, Mademoiselle Charlotte, thrown muchinto his company,
fell desperately in love with the abbe, and when the affair had progressed to a
liaison, the abbe asked her how she came to be won . . . • "/ stood in no
need of caution as I should have with a man. I saw nothing but a beautiful
woman, and why should I beforbidden to love you? What advantages a woman's
dress gives you! The heart of a man is there, and that makes a great impression
upon us, and on the other hand, all the charms of the fair sex fascinate us,
and prevent us from taking precautions. " -C.J.BULLIET, VENUS CASTINA Beau
Brummell was regarded as unbalanced in his passion for daily ablutions. His
ritualistic morning toilet took upward of five hours, one hour spent inching
himself into his skin-tight buckskin breeches, an hour with the hairdresser and
another two hours tying and "creasing down" a series of starched
cravats until perfection was achieved. But first of all two hours were spent
scrubbing himself with fetish zeal from head to toe in milk, water and eau de
Cologne. Beau Brummell said he used only the froth of champagne to polish his
Hessian boots. He had 365 snuff boxes, those suitable for summer wear being
quite unthinkable in winter, and the fit of hisgloves was achieved by
entrusting their cut to two firms-one for the fingers, the other for the
thumbs. The seduction emanating from a person of uncertain or dissimulated sex
is powerful. -COLETTE Keys to the Character M any of us today imagine that
sexual freedom has progressed in recent years-that everything has changed, for
better or worse. This is mostly an illusion; a reading of history reveals
periods of licentiousness (imperial Rome, late-seventeenth-century England, the
"floating world" of eighteenth-century Japan) far in excess of what
we are currently experiencing. Gender roles are certainly changing, but they
have changed before. Society is in a state of constant flux, but there is
something that does not change: the vast majority of people conform to whatever
is normal for the time. They play the role allotted to them. Conformity is a constant
because humans are social creatures who are always imitating one another. At
certain points in history it may be fashionable to be different and rebellious,
but if a lot of people are playing that role, there is nothing different or
rebellious about it. We should never complain about most people's slavish
conformity, however, for it offers untold possibilities of power and seduction
to those who are up for a few risks. Dandies have existed in all ages and
cultures ( Al- cibiades in ancient Greece, Korechika in late-tenth-century
Japan), and wherever they have gone they have thrived on the conformist role
playing ofothers.The Dandy displays a true and radical difference from other
people, a difference of appearance and manner. Since most of us are secretly
oppressed by our lack of freedom, we are drawn to those who are more fluid and
flaunt their difference. Dandies seduce socially as well as sexually; groups
form around them, their style is wildly imitated, an entire court or crowd will
fall in love with them. In adapting the Dandy character for your own purposes,
remember that the Dandy is by nature a rare and beautiful flower. Be different
in ways that are both striking and aesthetic, never vulgar; poke fun at current
trends and styles, go in a novel direction, and be supremely uninterested in
what anyone else is doing. Most people are insecure; they will wonder what you
are up to, and slowly they will come to admire and imitate you, because you
express yourself with total confidence. The Dandy has traditionally been
defined by clothing, and certainly most Dandies create a unique visual style.
Beau Brummel, the most famous Dandy of all, would spend hours on his toilette,
particularly the inimitably styled knot in his necktie, for which he was famous
throughout early- nineteenth-century England. But a Dandy's style cannot be
obvious, for Dandies are subtle, and never try hard for attention-attention
comes to them. The person whoseclothes are flagrantly different has little
imagination or taste. Dandies show their difference in the little touches that
mark their disdain for convention: Theophile Gautier's red vest, Oscar Wilde's
green velvet suit, Andy Warhol's silver wigs. The great English Prime Minister
Benjamin Disraeli had two magnificent canes, one for morning, one for evening;
at noon he would change canes, no matter where he was. The female Dandy works
similarly. She may adopt male clothing, say, but if she does, a touch here or
there will set her tmly apart: no man ever dressed quite like George Sand. The
overtall hat, the riding boots worn on the streets of Paris, made her a sight
to behold. Remember, there must be a reference point. If your visual style is
totally unfamiliar, people will think you at best an obvious attention-getter,
at worst crazy. Instead, create your own fashion sense by adapting and altering
prevailing styles to make yourself an object of fascination. Do this right and
you will be wildly imitated. The Count d'Orsay, a great London dandy of the
1830s and 1840s, was closely watched by fashionable people; one day, caught in
a sudden London rainstorm, he bought a paltrok, a kind of heavy, hooded duffle
coat, off the back of a Dutch sailor. The paltrok immediately became the coat
to wear. Having people imitate you, of course, is a sign of yourpowers of
seduction. The nonconformity of Dandies, however, goes far beyond appearances.
It is an attitude toward life that sets them apart; adopt that attitude and a
circle of followers will form around you. Dandies are supremely impudent. They
don't give a damn about other people, and never try to please. In the court of
Louis XTV, the writer La Bruyere noticed that courtiers who tried hard to
please were invariably on the way down; nothing was more anti-seductive. As
Barbey d'Aurevilly wrote, "Dandies please women by displeasing them."
Impudence was fundamental to the appeal of Oscar Wilde. In a London theater one
night, after the first performance of one of Wilde's plays, the ecstatic
audience yelled for the author to appear onstage. Wilde made them wait and wait,
then finally emerged, smoking a cigarette and wearing an expression of total
disdain. "It may be bad manners to appear here smoking, but it is far
worse to disturb me when I am smoking," he scolded his fans. The Count
d'Orsay was equally impudent. At a London club one night, a Rothschild who was
notoriously cheap accidentally dropped a gold coin on the floor, then bent down
to look for it. The count immediately whipped out a thousand-franc note (worth
much more than the coin), rolled it up, lit it like a candle, and got down on
all fours, as if to help light the way in the search. Only a Dandy could get
away with such audacity. The insolence of the Rake is tied up with his desire
to conquer a woman; he cares for nothing else. The insolence of the Dandy, on
the other hand, is aimed at society and its conventions. It is not a woman he
cares to conquer but a whole group, an entire social world. And since people
are generally oppressed by the obligation of always being polite and
self-sacrificing, they are delighted to spend time around a person who disdains
such niceties. Dandies are masters of the art of living. They live for
pleasure, not for work; they surround themselves with beautiful objects and eat
and drink Sometimes, however, the tyranny of elegance became altogether
insupportable. A Mr. Boothby committed suicide and left a note saying he could
no longer endure the ennui of buttoning and unbuttoning. - THE GAME OF HEARTS:
HARRIETTE WILSON'S MEMOIRS. LESLEY BLANCH This royal manner which [the dandy] raises
to the height of true royalty, the dandy has taken this from women, who alone
seem naturally made for such a role. It is a somewhat by using the manner and
the method of women that the dandy dominates. And this usurpation of
femininity, he makes women themselves approve of this. . . . The dandy has
something antinaturaland androgynous about him, which is precisely how he is
able to endlessly seduce. LEMAlTRE, LES CONTEMPORAINS with the same relish they
show for their clothes. This was how the great Roman writer Petronius, author
of the Satyricon, was able to seduce the emperor Nero. Unlike the dull Seneca,
the great Stoic thinker and Nero's tutor, Petronius knew how to make every
detail of life a grand aesthetic adventure, from a feast to a simple conversation.
This is not an attitude you should impose on those around you-you can't make
yourself a nuisance- but if you simply seem socially confident and sure of your
taste, people will be drawn to you. The key is to make everything an aesthetic
choice. Your ability to alleviate boredom by making life an art will make your
company highly prized. The opposite sex is a strange country we can never know,
and this excites us, creates the proper sexual tension. But it is also a source
of annoyance and frustration. Men do not understand how women think, and vice
versa; each tries to make the other act more like a member of their own sex.
Dandies may never try to please, but in this one area they have a pleasing
effect: by adopting psychological traits of the opposite sex, they appeal to
our inherent narcissism. Women identified with Rudolph Valentino's delicacy and
attention todetailin courtship; men identified with Lou Andreas-Salome's lack
of interest in commitment. In the Heian court of eleventh-century Japan, Sei
Shonagon, the writer of The Pillow Book, was powerfully seductive for men,
especially literary types. She was fiercely independent, wrote poetry with the
best, and had a certain emotional distance. Men wanted more from her than just
to be her friend or companion, as if she were another man; charmed by her
empathy for male psychology, they fell in love with her. This kind of mental
transvestism-the ability to enter the spirit of the opposite sex, adapt to
their way of thinking, mirror their tastes and attitudes-can be a key element
in seduction. It is a way of mesmerizing your victim. According to Freud, the
human libido is essentially bisexual; most people are in some way attracted to
people of their own sex, but social constraints (varying with culture and
historical period) repress these impulses. The Dandy represents a release from
such constraints. In several of Shakespeare's plays, a young girl (back then,
the female roles in the theater were actually played by male actors) has to go
into disguise and dresses up as a boy, eliciting all kinds of sexual interest
from men, who later are delighted to find out that the boy is actually a girl.
(Think, for example, of Rosalind in As You Like It.)Entertainers such as
Josephine Baker (known as the Chocolate Dandy) and Marlene Dietrich would dress
up as men in their acts, making themselves wildly popular-among men. Meanwhile
the slightly feminized male, the pretty boy, has always been seductive to
women. Valentino embodied this quality. Elvis Presley had feminine features
(the face, the hips), wore frilly pink shirts and eye makeup, and attracted the
attention of women early on. The filmmaker Kenneth Anger said of Mick Jagger
that it was "a bisexual charm which constituted an important part of the
attraction he had over young girls and which acted upon their
unconscious." In Western culture for centuries, in fact, feminine beauty
has been far more fetishized than male beauty, so it is understandable that a
feminine-looking face like that of Montgomery Clift would have more seductive
power than that of John Wayne. The Dandy figure has a place in politics as
well. John F. Kennedy was a strange mix of the masculine and feminine, virile
in his toughness with the Russians, and in his White House lawn football games,
yet feminine in his graceful and dapper appearance. This ambiguity was a large
part of his appeal. Disraeli was an incorrigible Dandy in dress and manner;
some were suspicious of him as a result, but his courage in not caring what
people thought of him also won him respect. And women of course adored him, for
women always adore a Dandy. They appreciated the gentleness of his manner, his
aesthetic sense, his love of clothes-in other words, his feminine qualities.
The mainstay of Disraeli's power was in fact a female fan: Queen Victoria. Do
not be misled by the surface disapproval your Dandy pose may elicit. Society
may publicize its distrust of androgyny (in Christian theology, Satan is often
represented as androgynous), but this conceals its fascination; what is most
seductive is often what is most repressed. Leam aplayful dandyism and you will
become the magnet for people's dark, unrealized yearnings. The key to such
power is ambiguity. In a society where the roles everyone plays are obvious,
the refusal to conform to any standard will excite interest. Be both masculine
and feminine, impudent and charming, subtle and outrageous. Let other people
worry about being socially acceptable; those types are a dime a dozen, and you
are after a power greater than they can imagine. Symbol: The Orchid. Its shape
and color oddly suggest both sexes, its odor is sweet and decadent -it is a
tropical flower of evil. Delicate and highly cultivated, it is prizedfor its
rarity; it is unlike any other flower. Dangers T he Dandy's strength, but also
the Dandy's problem, is that he or she often works through transgressive
feelings relating to sex roles. Although this activity is highly charged and
seductive, it is also dangerous, since it touches on a source of great anxiety
and insecurity. The greater dangers will often come from your own sex.
Valentino had immense appeal for women, but men hated him. He was constantly
dogged with accusations of being perversely unmasculine, and this caused him
great pain. Salome was equally disliked by women; Nietzsche's sister, and
perhaps his closest friend, considered her an evil witch, and led a virulent
campaign against her in the press long after the philosopher's death. There is
little to be done in the face of resentment like this. Some Dandies try to
fight the image they themselves have created, but this is unwise: to prove his
masculinity, Valentino would engage in a boxing match, anything to prove his
masculinity. He wound up looking only desperate. Better to accept society's
occasional gibes with grace and insolence. After all, the Dandies' charm is
that they don't really care what people think of them. That is how Andy Warhol
played the game: when people tired of his antics or some scandal erupted,
instead of trying to defend himself he would simply move on to some new
image-decadent bohemian, high-society portraitist, etc.-as if to say, with a
hint of disdain, that the problem lay not with him but with other people's
attention span. Another danger for the Dandy is the fact that insolence has its
limits. Beau Brummel prided himself on two things: his trimness of figure and
his acerbic wit. His main social patron was the Prince of Wales, who, in later
years, grew plump. One night at dinner, the prince rang for the butler, and
Brummel snidely remarked, "Do ring. Big Ben." The prince did not
appreciate the joke, had Brummel shown out, and never spoke to him again.
Without royal patronage, Brummel fell into poverty and madness. Even a Dandy,
then, must measure out his impudence. A true Dandy knows the difference between
a theatrically staged teasing of the powerful and a remark that will truly
hurt, offend, or insult. It is particularly important to avoid insulting those
in a position to injure you. In fact the pose may work best for those who can afford
to offend-artists, bohemians, etc. In the work world, you will probably have to
modify and tone down your Dandy image. Be pleasantly different, an amusement,
rather than a person who challenges the group's conventions and makes others
feel insecure. the Natural. Childhood is the golden paradise we are always
consciously or unconsciously trying to re-create. The Natural embodies the
longed- for qualities of childhood - spontaneity, sincerity, unpretentiousness.
In the presence of Naturals, we feel at ease, caught up in their playful
spirit, transported back to that golden age. Naturals also make a virtue out of
weakness, eliciting our sympathy for their trials, making us want to protect
them and help them. As with a child, much of this is natural, but some of it is
exaggerated, a conscious seductive maneuver. Adopt the pose of the Natural to
neutralize people's natural defensiveness and infect them with helpless
delight. Psychological Traits of the Natural. C hildren are not as guileless as
we like to imagine. They suffer from feelings of helplessness, and sense early
on the power of their naturalcharm to remedy their weakness in the adult world.
They learn to play a game: if their natural innocence can persuade a parent to
yield to their desires in one instance, then it is something they can use
strategically in another instance, laying it on thick at the right moment to
get their way. If their vulnerability and weakness is so attractive, then it is
something they can use for effect. Why are we seduced by children's
naturalness? First, because anything natural has an uncanny effect on us. Since
the beginning of time, natural phenomena-such as lightning storms or
eclipses-have instilled in human beings an awe tinged with fear. The more
civilized we become, the greater the effect such natural events have on us; the
modern world surrounds us with so much that is manufactured and artificial that
something sudden and inexplicable fascinates us. Children also have this
natural power, but because they are unthreatening and human, they are not so
much awe inspiring as charming. Most people try to please, but the pleasantness
of the child comes effortlessly, defying logical explanation-and what is
irrational is often dangerously seductive. More important, a child represents a
world from which we have been forever exiled. Because adult life is full of
boredom and compromise, we harbor an illusion of childhood as a kind of golden
age, even though it can often be a period of great confusion and pain. It
cannot be denied, however, that childhood had certain privileges, and as
children we had a pleasurable attitude to life. Confronted with a particularly
charming child, we often feel wistful: we remember our own golden past, the
qualities we have lost and wish we had again. And in the presence of the child,
we get a little of that goldenness back. Natural seducers are people who
somehow avoided getting certain childish traits drummed out of them by adult
experience. Such people can be as powerfully seductive as any child, because it
seems uncanny and marvelous that they have preserved such qualities. They are
not literally like children, of course;that would make them obnoxious or
pitiful. Rather it is the spirit that they have retained. Do not imagine that
this childishness is something beyond their control. Natural seducers learn
early on the value of retaining a particular quality, and the seductive power
it contains; they Long-past ages have a great and often puzzling attraction for
men's imagination. Whenever they are dissatisfied with their present
surroundings-and this happens often enough-they turn back to the past and hope
that they will now be able to prove the truth of the inextinguishable dream of
a golden age. They are probably still under the spell of their childhood, which
is presented to them by their not impartial memory as a time of uninterrupted
bliss. -FREUD. When Hermes was born on Mount Cyllene his mother Maia laid him
in swaddling bands on a winnowing fan, but he grew with astonishing quickness
into a little boy, and as soon as her back was turned, slipped off and went
looking for adventure. Arrived at Pieria, where Apollo was tending a fine herd
of cows, he decided to steal them. But, fearing to betrayed by their tracks, he
quickly made a number oj shoes from the bark of a fallen oak and tied
themuntilplaitedgrassto the feet of the cows, which he then drove off by night
the road. Apollo discovered the loss, but Hermes's trick deceived him, and
though he went as far as Pylus in his westward search, and to Onchestus in his
eastern, he was forced, in the end, to offer a reward for the apprehension of
the thief. Silenus and his satyrs, greedy of reward, spread out in different
directions to track him down but, for a long while, without success. At last,
as a party of them passed through Arcadia, they heard the muffled sound of
music such as they had never heard before, and the nymph a cave, told them that
a most gifted child had recently been born there, to whom she was acting as
nurse: he had constructed an ingenious musical toy from the shell of a tortoise
and some cow-gut, with which he had lulled his mother to sleep. • "And
from whom did he get the cow-gut?" asked the alert satyrs, noticing two
hides stretched outside the cave. "Do you charge the poor child with
theft?" asked Cyllene. Harsh words were exchanged. • At that moment Apollo
came up, having discovered the thief s identity by observing the suspicious
behaviour of a long-winged bird. Entering the cave, he awakened Maia and told
her severely that Hermes must restore the stolen cows. Maia pointed to the
child, still wrapped in his adapt and build upon those childlike traits that
they managed to preserve, exactly as the child learns to play with its natural
charm. This is the key. It is within your power to do the same, since there is
lurking within all of us a devilish child straining to be let loose. To do this
successfully, you have to be able to let go to a degree, since there is nothing
less natural than seeming hesitant. Remember the spirit you once had; let it
return, without self- consciousness. People are much more forgiving of those
who go all the way, who seem uncontrollably foolish, than the halfhearted adult
with a childish streak. Remember who you were before you became so polite and
self-effacing. To assume the role of the Natural, mentally position yourself in
any relationship as the child, the younger one. The following are the main
types of the adult Natural. Keep in mind that the greatest natural seducers are
often a blend of more than one of these qualities. The innocent. The primary
qualities of innocence are weakness and misunderstanding of the world.
Innocence is weak because it is doomed to vanish in a harsh, cruel world; the
child cannot protect or hold on to its innocence. The misunderstandings come
from the child's not knowing about good and evil, and seeing everything through
uncorrupted eyes. The weakness of children elicits sympathy, their
misunderstandings make us laugh, and nothing is more seductive than a mixture
of laughter and sympathy. The adult Natural is not truly innocent-it is
impossible to grow up in this world and retain total innocence. Yet Naturals
yearn so deeply to hold on to their innocent outlook that they manage to
preserve the illusion of innocence. They exaggerate their weakness to elicit
the proper sympathy. They act like they still see the world through innocent
eyes, which in an adult proves doubly humorous. Much of this is conscious, but
to be effective, adult Naturals must make it seem subtle and effortless-if they
are seen as trying to act innocent, it will come across as pathetic. It is
better for them to communicate weakness indirectly, through looks and glances,
or through the situations they get themselves into, rather than anything
obvious. Since this type of innocence is mostly an act, it is easily adaptable
foryour own purposes. Leam to play up any natural weaknesses or flaws. The imp.
Impish children have a fearlessness that we adults have lost. That is because
they do not see the possible consequences of their actions-howsome people might
be offended, how they might physically hurt themselvesin the process. Imps are
brazen, blissfully uncaring. They infect you with their lighthearted spirit.
Such children have not yet had their natural energy and spirit scolded out of
them by the need to be polite and civil. Secretly, we envy them; we want to be
naughty too. Adult imps are seductive because of how different they are from
the rest of us. Breaths of fresh air in a cautious world, they go full
throttle, as if their impishness were uncontrollable, and thus natural. If you
play the part, do not worry about offending people now and then-you are too
lovable and inevitably they will forgive you. Just don't apologize or look
contrite, for that would break the spell. Whatever you say or do, keep a glint
in your eye to show that you do not take anything seriously. The wonder. A
wonder child has a special, inexplicable talent: a gift for music, for
mathematics, for chess, for sport. At work in the field in which they have such
prodigal skill, these children seem possessed, and their actions effortless. If
they are artists or musicians, Mozart types, their work seems to spring from
some inborn impulse, requiring remarkably little thought. If it is a physical
talent that they have, they are blessed with unusual energy, dexterity, and
spontaneity. In both cases they seem talented beyond their years. This
fascinates us. Adult wonders are often former wonder children who have managed,
remarkably, to retain their youthful impulsiveness and improvisational skills.
True spontaneity is a delightful rarity, for everything in life conspires to
rob us of it-we have to leam to act carefully and deliberately, to think about
how we look in other people's eyes. To play the wonder you need some skill that
seems easy and natural, along with the ability to improvise. If in fact your
skill takes practice, you must hide this and leam to make your work appear
effortless. The more you hide the sweat behind what you do, the more natural
and seductive it will appear. The undefensive lover. As people get older, they
protect themselves against painful experiences by closing themselves off. The
price for this is that theygrow rigid, physically and mentally. But children
are by nature unprotected and open to experience, and this receptiveness is
extremely attractive. In the presence of children we become less rigid,
infected with their openness. That is why we want to be around them.
Undefensive lovers have somehow circumvented the self-protective process,
retaining the playful, receptive spirit of the child. They often manifest this
spirit physically: they are graceful, and seem to age less rapidly than other
people. Of all the Natural's character qualities, this one is the most useful.
Defensiveness is deadly in seduction; act defensive and you'll bring out
defensiveness in other people. The undefensive lover, on the other hand, lowers
the inhibitions of his or her target, a critical part of seduction. It is
important to leam to not react defensively: bend instead of resist, be open to
influence from others, and they will more easily fall under your spell.
swaddling bands and feigning sleep. "What an absurd charge!" she
cried. But Apollo had already recognized the hides. He picked up Hermes,
carried him to Olympus, and there formally accused him oftheft, offering the
hides as evidence. Zeus, loth to believe that his own newborn son was a thief
encouraged him to plead not guilty, but Apollo would not be put off and Hermes,
at last, weakened and confessed. • "Very , come with me," he said,
"and you may have your herd. I slaughtered only two, and those I cut up
into twelve equal portions as a sacrifice to the twelve gods" •
"Twelve gods?" asked Apollo. "Who is the twelfth?" •
"Your servant, sir" replied Hermes modestly. "I ate no more than
my share, though I was very hungry, and duly burned the rest. " The two
gods [ Hermes and Apollo] returned to Mount Cyllene, where Hermes greeted his
mother and retrieved something that he had hidden underneath a sheepskin. •
"What have you there?" asked Apollo. • In answer, Hermes showed his
newly- invented tortoise-shell lyre, and played such a ravishing tune on it
with the plectrum he had also invented, at the same time singing in praise of
Apollo's nobility, intelligence, and generosity, that he was forgiven at once.
He led the surprised and delighted Apollo to Pylus, playing all the way, and
there gave him the remainder of the cattle, which he had hidden in a cave. •
"A bargain!" cried Apollo. "You keep the cows, and I take the
lyre. " "Agreed," said Hermes, and they shook hands on it. • . .
. Apollo, taking the child back to Olympus, told Zeus all that had happened.
Zeus warned Hermes that henceforth he must respect the rights oj property and
refrain from telling downright lies; but he could not help being amused.
"You seem to be a very ingenious, eloquent, and persuasive godling,"
he said. • "Then make me your herald, Father," Hermes answered,
"and I will he responsible for the safety of all divine property, and
never tell lies, though I cannot promise always to tell the whole truth ."
• "That would not be expected of you," said Zeus with a smile. . . .
Zeus gave him a herald's staff with white ribbons, which everyone was ordered
to respect; a round hat against the rain, and winged golden sandals which
carried him about with the swiftness of the wind. -GRAVES, THE GREEK MYTHS. A
man may meet a woman and be shocked by her ugliness. Soon, if she is natural
and unaffected, her expression makes him overlook the fault of her features. He
begins to find her charming, it enters his head that she might be loved, and a
week later he is living in hope. The following week he has been snubbed into
despair, and the week afterwards he has gone mad. -STENDHAL, LOVE. SALE
Examples of Natural Seducers 7. As a child growing up in England, Charlie
Chaplin spent years in dire poverty, particularly after his mother was
committed to an asylum. In his early teens, forced to work to live, he landed
ajob in vaudeville, eventually gaining some success as a comedian. But Chaplin
was wildly ambitious, and so, in 1910, when he was only nineteen, he emigrated
to the United States, hoping to break into the film business. Making his way to
Hollywood, he found occasional bit parts, but success seemed elusive: the
competition was fierce, and although Chaplin had a repertoire of gags that he
had learned in vaudeville, he did not particularly excel at physical humor, a
critical part of silent comedy. He was not a gymnast like Buster Keaton. In
1914, Chaplin managed to get the lead in a film short called Making a Living.
His role was that of a con artist. In playing around with the costume for the
part, he put on a pair of pants several sizes too large, then added a derby
hat, enormous boots that he wore on the wrong feet, a walking cane, and a
pasted-on mustache. With the clothes, a whole new character seemed to come to
life-first the silly walk, then the twirling of the cane, then all sorts of
gags. Mack Sennett, the head of the studio, did not find Making a Living very
funny, and doubted whether Chaplin had a future in the movies, but a few
critics felt otherwise. A review in a trade magazine read, "The clever
player who takes the role of a nervy and very nifty sharper in this picture is
a comedian of the first water, who acts like one of Nature's own
naturals." And audiences also responded-the film made money. What seemed
to touch a nerve in Making a Living, setting Chaplin apart from the horde of
other comedians working in silent film, was the almost pathetic naivete of the
character he played. Sensing he was onto something, Chaplin shaped the role
further in subsequent movies, rendering him more and more naive. The key was to
make the character seem to see the world through the eyes of a child. In The Bank,
he is the bank janitor who daydreams of great deeds while robbers are at work
in the building; in The Pawnbroker, he is an unprepared shop assistant who
wreaks havoc on a grandfather clock; in Shoulder Arms, he is a soldier in the
bloody trenches of World War I, reacting to the horrors of war like an innocent
child. Chaplin made sure to cast actors in his films who were physically larger
than he was,subliminally positioning them as adult bullies and himself as the
helpless infant. And as he went deeper into his character, something strange
happened: the character and the real-life man began to merge. Although he had
had a troubled childhood, he was obsessed with it. (For his film Easy Street he
built a set in Hollywood that duplicated the London streets he had known as a
boy.) He mistrusted the adult world, preferring the company of the young, or
the young at heart: three of his four wives were teenagers when he married
them. More than any other comedian, Chaplin aroused a mix of laughter and
sentiment. He made you empathize with him as the victim, feel sorry for him the
way you would for a lost dog. You both laughed and cried. And audiences sensed
that the role Chaplin played came from somewhere deep inside-that he was
sincere, that he was actually playing himself. Within a few years after Making
a Living, Chaplin was the most famous actor in the world. There were Chaplin
dolls, comic books, toys; popular songs and short stories were written about
him; he became a universal icon. In 1921, when he returned to London for the
first time since he had left it, he was greeted by enormous crowds, as if at
the triumphant return of a great general. The greatest seducers, those who
seduce mass audiences, nations,theworld,haveaway of playing on people's
unconscious, making them react in a way they can neither understand nor
control. Chaplin inadvertently hit on this power when he discovered the effect
he could have on audiences by playing up his weakness, by suggesting that he
had a child's mind in an adult body. In the early twentieth century, the world
was radically and rapidly changing. People were working longer and longer hours
at increasingly mechanicaljobs; life was becoming steadily more inhuman and
heartless, as the ravages of World War I made clear. Caught in the midst of
revolutionary change, people yearned for a lost childhood that they imagined as
a golden paradise. An adult child like Chaplin has immense seductive power, for
he offers the illusion that life was once simpler and easier, and that for a
moment, or for as long as the movie lasts, you can win that life back. In a
cruel, amoral world, naivete has enormous appeal. The key is to bring it off
with an air of total seriousness, as the straight man does in stand-up comedy.
More important, however, is the creation of sympathy. Overt strength and power
is rarely seductive-it makes us afraid, or envious. The royal road to seduction
is to play up your vulnerability and helplessness. You cannot make this
obvious; to seem to be begging for sympathy is toseemneedy,whichisentirely
anti-seductive. Do not proclaim yourself a victim or underdog, but reveal it in
your manner, in your confusion. A display of "natural" weakness will
make you instantly lovable, both lowering people's defenses and making them
feel delightfully superior to you. Put yourself in situations that make you
seem weak, in which someone else has the advantage; they are the bully, you are
the innocent lamb. Without any effort on your part, people will feel sympathy
for you. Once people's eyes cloud over with sentimental mist, they will not see
how you are manipulating them. "Geographical" escapism has been
rendered ineffective by the spread of air routes. What remains is
"evolutionary" escapism - a downward course in one's development,
back to the ideas and emotions of "golden childhood," which may well
be defined as "regress towards infantilism," escape to a personal
world of childish ideas. • In a strictly- regulated society, where life follows
strictly-defined canons, the urge to escape from the chain of things
"established once and for all" must be felt particularly strongly.
And the most perfect of them [ comedians] does this with utmost perfection, for
he [ Chaplin ] serves this principle . . . through the subtlety of his method
which, offering the spectactor an infantile pattern to be imitated,
pscyhologically infects him with infantilism and draws him into the
"golden age" of the infantile paradise of childhood. EISENSTEIN,
"CHARLIE THE KID," FROM NOTES OF A FILM DIRECTOR 2. Emma Crouch, born
in 1842 in Plymouth, England, came from a respectable middle-class family. Her
father was a composer and music professor who dreamed of success in the world
of light opera. Among his many children, Emma was his favorite: she was a
delightful child, lively and flirtatious, with red hair and a freckled face.
Her father doted on her, and promised her a brilliant future in the theater.
Unfortunately Mr. Crouch had a Prince Gortschakojf used to say that she [Cora
Pearl] was the last word in luxury, and that he would have tried to steal the
sun to satisfy one of her whims. -GUSTAVE CLAUDIN, CORA PEARL CONTEMPORARY
Apparently the possession of humor implies the possession of a number of
typical habit-systems. The first is an emotional one: the habit of playfulness.
Why should one be proud of being playful? For a double reason. First,
playfulness connotes childhood and youth. If one can be playful, one still
possesses something of the vigor and the joy of young life ..." But there
is a deeper implication. To be playful is, in a sense, to befree. When a person
is playful, he momentarily disregards the bindingnecessities which compel him,
in business and morals, in domestic and community life. What galls us is that
the binding necessities do not permit us to shape our world as we please. What
we most deeply desire, however, is to create our world for ourselves. Whenever
we can do that, even in the slightest degree, we are happy. Now in play we
create our own world. OVERSTREET, INFLUENCING HUMAN BEHAVIOR dark side: he was
an adventurer, a gambler, and a rake, and in 1849 he abandoned his family and
left for America. The Crouches were now in dire straits. Emma was told that her
father had died in an accident and she was sent off to a convent. The loss of
her father affected her deeply, and as the years went by she seemed lost in the
past, acting as if he still doted on her. One day in 1856, when Emma was
walking home from church, a well- dressed gentleman invited her home for some
cakes. She followed him to his house, where he proceeded to take advantage of
her. The next morning this man, a diamond merchant, promised to set her up in a
house of her own, treat her well, and give her plenty of money. She took the
money but left him, determined to do what she had always wanted: never see her
family again, never depend on anyone, and lead the grand life that
herfatherhadpromised her. With the money the diamond merchant had given her,
Emma bought nice clothes and rented a cheap flat. Adopting the flamboyant name
of Cora Pearl, she began to frequent London's Argyll Rooms, a fancy gin palace
where harlots and gentlemen rubbed elbows. The proprietor of the Argyll, a Mr.
Bignell, took note of this newcomer to his establishment- she was so brazen for
a young girl. At forty-five, he was much older than she was, but he decided to
be her lover and protector, lavishing her with money and attention. The
following year he took her to Paris, which was at the height of its Second
Empire prosperity. Cora was enthralled by Paris, and of all its sights, but
what impressed her the most was the parade of rich coaches in the Bois de
Boulogne. Here the fashionable came to take the air-the empress, the
princesses, and, not least the grand courtesans, who had the most opulent
carriages of all. This was the way to lead the kind of life Cora's father had
wanted for her. She promptly told Bignell that when he went back to London, she
would stay on alone. Frequenting all the right places, Cora soon came to the
attention of wealthy French gentlemen. They would see her walking the streets
in a bright pink dress, to complement her flaming red hair, pale face, and
freckles. They would glimpse her riding wildly through the Bois de Boulogne,
cracking her whip left and right. They would see her in cafes surrounded by
men, her witty insults making them laugh. They also heard of her exploits-of
her delight in showing her body to one and all. The elite of Paris society
began to court her, particularly the older men who had grown tired of the cold
and calculating courtesans, and who admired her girlish spirit. As money began
to pour in from her various conquests (the Due de Mornay, heir to the Dutch
throne; Prince Napoleon, cousin to the Emperor), Cora spent it on the most
outrageous things-a multicolored carriage pulled by a team of cream-colored
horses, a rose-marble bathtub with her initials inlaid in gold. Gentlemen vied
to be the one who would spoil her the most. An Irish lover wasted his entire
fortune on her, in only eight weeks. But money could not buy Cora's loyalty;
she would leave a man on the slightest whim. Cora Pearl's wild behavior and
disdain for etiquette had all of Paris on edge. In 1864, she was to appear as
Cupid in the Offenbach operetta Orpheus in the Underworld. Society was dying to
see what she would do to cause a sensation, and soon found out: she came on
stage practically naked, except for expensive diamonds here and there, barely
covering her. As she pranced on stage, the diamonds fell off, each one worth a
fortune; she didnot stoop to pick them up, but let them roll off into the
footlights. The gentlemen in the audience, some of whom had given her those
diamonds, applauded her wildly. Antics like this made Cora the toast of Paris,
and she reigned as the city's supreme courtesan for over a decade, until the Franco-
Prussian War of 1870 put an end to the Second Empire. People often mistakenly
believe that what makes a person desirable and seductive is physical beauty,
elegance, or overt sexuality. Yet Cora Pearl was not dramatically beautiful;
her body was boyish, and her style was garish and tasteless. Even so, the most
dashing men of Europe vied for her favors, often ruining themselves in the
process. It was Cora's spirit and attitude that enthralled them. Spoiled by her
father, she imagined that spoiling her was natural-that all men should do the
same. The consequence was that, like a child, she never felt she had to try to
please. It was Cora's powerful air of independence that made men want to
possess her, tame her. She never pretended to be anything more than a
courtesan, so the brazenness that in a lady would have been uncivil in her
seemed natural and fun. And as with a spoiled child, a man's relationship with
her was on her terms. The moment he tried to change that, she lost interest.
This was the secret of her astounding success. Spoiled children have an
undeservedly bad reputation: while those who are spoiled with material things
are indeed often insufferable, those who are spoiled with affection know
themselves to be deeply seductive. This becomes a distinct advantage when they
grow up. According to Freud (who was speaking from experience, since he was his
mother's darling), spoiled children have a confidence that stays with them all
their lives. This quality radiates outward, drawing others to them, and, in a
circular process, making people spoil them still more. Since their spirit and
natural energy were never tamed by a disciplining parent, as adults they are
adventurous and bold, and often impish or brazen. The lesson is simple: it may
be too late to be spoiled by a parent, but it is never too late to make other
people spoil you. It is all in your attitude. People are drawn to those who
expect a lot out of life, whereas they tend to disrespect those who are fearful
and undemanding. Wild independence has a provocative effect on us: it appeals
to us, while also presenting us with a challenge-we want to be the one to tame
it, to make the spirited person dependent on us. Half of seduction is stirring
such competitive desires. 3. In October of 1925, Paris society was all excited
about the opening of the Revue Negre. Jazz, or in fact anything that came from
black America, All was quiet again. (Genji slipped the latch open and tried the
doors. They had not been bolted. A curtain had been set up just inside, and in
the dim light he could make out Chinese chests and otherfurniture scattered in
some disorder. He made his way through to her side. She lay by herself, a
slight littlefigure. Though vaguely annoyed at being disturbed, she evidently
took him forthe woman Chujo until he pulled back the covers. His manner was so
gently persuasive thatdevils and demons could not have gainsaid him. She was so
small that he lifted her easily. As he passed through the doors to his own
room, he came upon Chujo who had been summoned earlier. He called out in
surprise. Surprised in turn, Chujo peered into the darkness. The perfume that
came from his robes like a cloud of smoke told her who he was. [Chujo] followed
after, but Genji was quite unmoved by her pleas. • "Come for her in the
morning," he said, sliding the doors closed. • The lady was bathed in
perspiration and quite beside herself at the thought of what Chujo, and the
others too, would be thinking. Genji had to feel sorry for her. Yet the sweet
words poured forth, the whole gam ut of pretty devices for making a woman
surrender. . . . • One may imagine that he found many kind promises with which
to comfort her. SHIKIBUTHE TALE OF GENJI. SEIDENSTICKER was the latest fashion,
and the Broadway dancers and performers who made up the Revue Negre were
African-American. On opening night, artists and high society packed the hall.
The show was spectacular, as they expected, but nothing prepared them for the
last number, performed by a somewhat gawky long-legged woman with the prettiest
face: Josephine Baker, a twenty-year-old chorus girl from East St. Louis. She
came onstage bare-breasted, wearing a skirt of feathers over a satin bikini
bottom, with feathers around her neck and ankles. Although she performed her
number, called "Dame Sauvage," with another dancer, also clad in
feathers, all eyes were riveted on her: her whole body seemed to come alive in
a way the audience had never seen before, her legs moving with the litheness of
a cat, her rear end gyrating in patterns that one critic likened to a
hummingbird's. As the dance went on, she seemed possessed, feeding off the
crowd's ecstatic reaction. And then there was the look on her face: she was
having such fun. She radiated a joy that made her erotic dance oddly innocent,
even slightly comic. By the following day, word had spread: a star was born.
Josephine became the heart of the Revue Negre, and Paris was at her feet.
Within a year, her facewas on posters everywhere; there were Josephine Baker
perfumes, dolls, clothes; fashionable Frenchwomen were slicking their hair back
a la Baker, using a product called Bakerfix. They were even trying to darken
their skin. Such sudden fame represented quite a change, for just a few years
earlier, Josephine had been a young girl growing up in East St. Louis, one of
America's worst slums. She had gone to work at the age of eight, cleaning
houses for a white woman who beat her. She had sometimes slept in a rat-
infested basement; there had never been heat in the winter. (She had taught
herself to dance in her wild fashion to help keep herself warm.) In 1919,
Josephine had run away and become a part-time vaudeville performer, landing in
New York two years later without money or connections. She had had some success
as a clowning chorus girl, providing comic relief with her crossed eyes and
screwed-up face, but she hadn't stood out. Then she was invited to Paris. Some
other black performers had declined, fearing things might be still worse for
them in France than in America, but Josephine jumped at the chance. Despite her
success with the Revue Negre, Josephine did not delude herself: Parisians were
notoriously fickle. She decided to turn the relationship around. First, she
refused to be aligned with any club, and developed a reputation for breaking
contracts at will, making it clear that she was ready to leave in an instant.
Since childhood she had been afraid of dependenceon anyone; now no one could
take her for granted. This only made impresarios chase her and the public
appreciate her the more. Second, she was aware that although black culture had
become the vogue, what the French had fallen in love with was a kind of
caricature. If that was what it took to be successful, so be it, but Josephine
made it clear that she did not take the caricature seriously; instead she
reversed it, becoming the ultimate Frenchwoman of fashion, a caricature not of
blackness but of whiteness. Everything was a role to play-the comedienne, the
primitive dancer, the ultrastylish Parisian. And everything Josephine did, she
did with such a light spirit, such a lack of pretension, that she continued to
seduce the jaded French for years. Her funeral, in 1975, was nationally
televised, a huge cultural event. She was buried with the kind of pomp normally
reserved only for heads of state. From very early on, Josephine Baker could not
stand the feeling of having no control over the world. Yet what could she do in
the face of her unpromising circumstances? Some young girls put all their hopes
on a husband, but Josephine's father had left her mother soon after she was
born,and she saw marriage as something that would only make her more miserable.
Her solution was something children often do: confronted with a hopeless
environment, she closed herself off in a world of her own making, oblivious to
the ugliness around her. This world was filled with dancing, clowning, dreams
of great things. Let other people wail and moan; Josephine would smile, remain
confident and self-reliant. Almost everyone who met her, from her earliest
years to her last, commented on how seductive this quality was. Her refusal to
compromise, or to be what she was expected to be, made everything she did seem
authentic and natural. A child loves to play, and to create a little
self-contained world. When children are absorbed in make believe, they are
hopelessly charming. They infuse their imaginings with such seriousness and
feeling. Adult Naturals do something similar, particularly if they are artists:
they create their own fantasy world, and live in it as if it were the real one.
Fantasy is so much more pleasant than reality, and since most people do not
have the power or courage to create such a world, they enjoy being around those
who do. Remember: the role you were given in life is not the role you have to
accept. You can always live out a role of your own creation, a role that fits
your fantasy. Learn to playwithyourimage,nevertaking it too seriously. The key
is to infuse your play with the conviction and feeling of a child, making it
seem natural. The more absorbed you seem in your ownjoy-filled world, the more
seductive you become. Do not go halfway: make the fantasy you inhabit as
radical and exotic as possible, and you will attract attention like a magnet.
4. It was the Festival of the Cherry Blossom at the Heian court, in late-
tenth-century Japan. In the emperor's palace, many of the courtiers were drunk,
and others were fast asleep, but the young princess Oborozukiyo, the emperor's
sister-in-law, was awake and reciting a poem: "What can compare with a
misty moon of spring?" Her voice was smooth and delicate. She moved to the
door of her apartment to look at the moon. Then, suddenly, she smelled
something sweet, and a hand clutched the sleeve of her robe. "Who are
you?" she said, frightened. "There is nothing to be afraid of,"
came a man's voice, and continued with a poem of his own: "Late in the
night we enjoy a misty moon. There is nothing misty about the bond between
us." Without another word, the man pulled the princess to him and picked
her up, carrying her into a gallery outside her room, sliding the door closed
behind him. She was terrified, and tried to call for help. In the darkness she
heard him say, a little louder now, "Itwilldo you no good. I am always
allowed my way. Just be quiet, if you will, please." Now the princess
recognized the voice, and the scent: it was Genji, the young son of the late
emperor's concubine, whose robes bore a distinctive perfume. This calmed her
somewhat, since the man was someone she knew, but on the other hand she also
knew of his reputation: Genji was the court's most incorrigible seducer, a man
who stopped at nothing. He was drunk, it was near dawn, and the watchmen would
soon be on their rounds; she did not want to be discovered with him. But then
she began to make out the outlines of his face-so pretty, his look so sincere,
without a trace of malice. Then came more poems, recited in that charming
voice,the words so insinuating. The images he conjured filled her mind, and
distracted her from his hands. She could not resist him. As the light began to
rise, Genji got to his feet. He said a few tender words, they exchanged fans,
and then he quickly left. The serving women were coming through the emperor's
rooms by now, and when they saw Genji scurrying away, the perfume of his robes lingering
after him, they smiled, knowing he was up to his usual tricks; but they never
imagined he would dare approach the sister of the emperor's wife. In the days
that followed, OborozukiyocouldonlythinkofGenji.She knew he had other
mistresses, but when she tried to put him out of her mind, a letter from him
would arrive, and she would be back to square one. In truth, she had started
the correspondence, haunted by his midnight visit. She had to see him again.
Despite the risk of discovery, and the fact that her sister Kokiden, the
emperor's wife, hated Genji, she arranged for further trysts in her apartment.
But one night an envious courtier found them together. Word reached Kokiden,
who naturally was furious. She demanded that Genji be banished from court and
the emperor had no choice but to agree. Genji went far away, and things settled
down. Then the emperor died and his son took over. A kind of emptiness had come
to the court: the dozens of women whom Genji had seduced could not endure his
absence, and flooded him with letters. Even women who had never known him
intimately would weep over any relic he had left behind-a robe, for instance,
in which his scent still lingered. And the young emperor missed his jocular
presence. And the princesses missed the music he had played on the koto. And
Oborozukiyo pined for his midnight visits. Finally even Kokiden broke down,
realizing that she could not resist him. So Genji was summoned back to the
court. And not only was he forgiven, he was given a hero's welcome; the young
emperor himself greeted the scoundrel with tears in his eyes. The story of
Genji's life is told in the eleventh-century novel The Tale of Genji, written
by Murasaki Shikibu, a woman of the Heian court. The character was most likely
based on a real-life man, Fujiwara no Korechika. Indeed another book of the
period. The Pillow Book of Sei Shonagon, describes an encounter between the
female author and Korechika, and reveals his incredible charm and his almost
hypnotic effect on women. Genji is a Natural, an undefensive lover, a man who
has a lifelong obsession with women but whose appreciation of and affection for
them makes him irresistible. As he says to Oborozukiyo in the novel, "I am
always allowed my way." This self-belief is half of Genji's charm.
Resistance does not make him defensive; he retreats gracefully, reciting a
little poetry, and as he leaves, the perfume of his robes trailing behind him,
his victim wonders why she has been so afraid, and what she is missing by
spurning him, and she finds a way to let him know that the next time things
will be different. Genji takes nothing seriously or personally, and at the age
of forty, an age at which most men of the eleventh century were already looking
old and worn, he still seems like a boy. His seductive powers never leave him.
Human beings are immenselysuggestible;theirmoods will easily spread to the
people around them. In fact seduction depends on mimesis, on the conscious
creation of a mood or feeling that is then reproduced by the other person. But
hesitation and awkwardness are also contagious, and are deadly to seduction. If
in a key moment you seem indecisive or self- conscious, the other person will
sense that you are thinking of yourself, instead of being overwhelmed by his or
her charms. The spell will be broken. As an undefensive lover, though, you
produce the opposite effect: your victim might be hesitant or worried, but
confronted with someone so sure and natural, he or she will be caught up in the
mood. Like dancing with someone you lead effortlessly across the dance floor,
it is a skill you can leam. It is a matter of rooting out the fear and
awkwardness that have built up in you over the years, of becoming more graceful
with your approach, less defensive when others seem to resist. Often people's
resistance is a way of testing you, and if you show any awkwardness or
hesitation, you not only will fail the test, but you will risk infecting them
with your doubts. Symbol: The Lamb. So soft and endearing. At two days old the
lamb can gambol gracefully; within a week it is playing "Follow the
Leader." Its weakness is part of its charm. The Lamb is pure innocence, so
innocent we want to possess it, even devour it. Dangers A childish quality can
be charming but it can also be irritating; the innocent have no experience of
the world, and their sweetness can prove cloying. In Milan Kundera's novel The
Book of Laughter and Forgetting, the hero dreams that he is trapped on an
island with a group of children. Soon their wonderful qualities become intensely
annoying to him; after a few days of exposure to them he cannot relate to them
at all. The dream turns into a nightmare, and he longs to be back among adults,
with real things to do and talk about. Because total childishness can quickly
grate, the most seductive Naturals are those who, like Josephine Baker, combine
adult experience and wisdom with a childlike manner. It is this mixture of
qualities that is most alluring. Society cannot tolerate too many Naturals.
Given a crowd of Cora Pearls or Charlie Chaplins, their charm would quickly
wear off. In any case it is usually only artists, or people with abundant
leisure time, who can afford to go all the way. The best way to use the Natural
character type is in specific situations when a touch of innocence or
impishness will help lower your target's defenses. A con man plays dumb to make
the other person trust him and feel superior. This kind of feigned naturalness
has countless applications in daily life, where nothing is more dangerous than
looking smarter than the next person; the Natural pose is the perfect way to
disguise your cleverness. But if you are uncontrollably childish and cannot
turn it off, you run the risk of seeming pathetic, earning not sympathy but
pity and disgust. Similarly, the seductive traits of the Natural work best in
one who is still young enough for them to seem natural. They are much harder
for an older person to pull off. Cora Pearl did not seem so charming when she
was still wearing her pink flouncy dresses in her fifties. The Duke of
Buckingham, who seduced everyone in the English court in the 1620s (including
the homosexual King James I himself), was wondrously childish in looks and
manner; but this became obnoxious and off-putting as he grew older, and he
eventually made enough enemies that he ended up being murdered. As you age,
then, your natural qualities should suggest more the child's open spirit, less
an innocence that will no longer convince anyone. the Coquette The ability to
delay satisfaction is the ultimate art of seduction-while waiting, the victim
is held in thrall. Coquettes are the grand masters of this game, orchestrating
a back-and-forth movement between hope and frustration. They bait with the
promise of reward-the hope of physical pleasure, happiness, fame by
association, power-all ofwhich,however,proves elusive; yet this only makes
their targets pursue them the more. Coquettes seem totally self-sufficient:
they do not need you, they seem to say, and their narcissism proves devilishly
attractive. You want to conquer them but they hold the cards. The strategy of
the Coquette is never to offer total satisfaction. Imitate the alternating heat
and coolness of the Coquette and you will keep the seduced at your heels. The
Hot and Cold Coquette I n the autumn of 1795, Paris was caught up in a strange
giddiness. The Reign of Terror that had followed the French Revolution had
ended; the sound of the guillotine was gone. The city breathed a collective
sigh of relief, and gave way to wild parties and endless festivals. The young
Napoleon Bonaparte, twenty-six at the time, had no interest in such revelries.
He had made a name for himself as a bright, audacious general who had helped
quell rebellion in the provinces, but his ambition was boundless and he burned
with desire for new conquests. So when, in October of that year, the infamous
thirty-three-year-old widow Josephine de Beauhamais visited his offices, he
couldn't help but be confused. Josephine was so exotic, and everything about
her was languorous and sensual. (She capitalized on her foreignness-she came
from the island of Martinique.)Ontheotherhandshehadareputationasaloose woman,
and the shy Napoleon believed in marriage. Even so, when Josephine invited him
to one of her weekly soirees, he found himself accepting. At the soiree he felt
totally out of his element. All of the city's great writers and wits were
there, as well as the few of the nobility who had survived-Josephine herself
was a vicomtesse, and had narrowly escaped the guillotine. The women were
dazzling, some of them more beautiful than the hostess, but all the men
congregated around Josephine, drawn by her graceful presence and queenly
manner. Several times she left the men behind and went to Napoleon's side;
nothing could have flattered his insecure ego more than such attention. He
began to pay her visits. Sometimes she would ignore him, and he would leave in
a fit of anger. Yet the next day a passionate letter would arrive from
Josephine, and he would rush to see her. Soon he was spending most of his time
with her. Her occasional shows of sadness, her bouts of anger or of tears, only
deepened his attachment. In March of 1796, Napoleon married Josephine. Two days
after his wedding, Napoleon left to lead a campaign in northern Italy against
the Austrians. "You are the constant object of my thoughts," he wrote
to his wife from abroad. "My imagination exhausts itself in guessing what
you are doing." His generals saw him distracted: hewould leave meetings
early, spend hours writing letters, or stare at the miniature of Josephine he
wore around his neck. He had been driven to this state by the unbearable
distance between them and by a slight coldness he now detected There are indeed
men who are attached more by resistance than by yielding and who unwittingly prefer
a variable sky, now splendid, now black and vexed by lightnings, to love's
unclouded blue. Let us not forget that Josephine had to deal with a conqueror
and that love resembles war. She did not surrender, she let herself be
conquered. Had she been more tender, more attentive, more loving, perhaps
Bonaparte would have loved her less. -IMBERT DE SAINT-AMAND, QUOTED IN THE
EMPRESS JOSEPHINE: NAPOLEON'S ENCHANTRESS. SERGEANT Coquettes know how to
please; not how to love, which is why men love them so much. -PIERRE MARIVAUX
An absence, the declining of an invitation to dinner, an unintentional,
unconscious harshness are of more service than all the cosmetics and fine
clothes in the world. -MARCEL PROUST There's also nightly, to the unintiated, \
A peril-not indeed like love or marriage, \ But not the less for this to he
depreciated: \ It is-I meant and mean not to disparage \ The show of virtue
even in the vitiated - \ Itaddsanoutwardgraceuntotheircarriage - \ But to
denounce the amphibious sort of harlot, \ Couleur de rose, who's neither white
nor scarlet. \ Such is your cold coquette, who can't say say "no,"
\And won't say "yes," and keeps you on- and off-ing \ On a lee shore,
till it begins to blow - \ Then sees your heart wreck'd with an in her-she
wrote infrequently, and her letters lacked passion; nor did she join him in
Italy. He had to finish his war fast, so that he could return to her side.
Engaging the enemy with unusual zeal, he began to make mistakes. "To live
for Josephine!" he wrote to her. "I work to get near you; I kill
myself to reach you." His letters became more passionate and erotic; a
friend of Josephine's who saw them wrote, "The handwriting [was] almost
indecipherable, the spelling shaky, the style bizarre and confused .... What a
position for a woman to find herself in-being the motivating force behind the
triumphal march of an entire army." Months went by in which Napoleon
begged Josephine to come to Italy and she made endless excuses. But finally she
agreed to come, and left Paris for Brescia, where he was headquartered. A near
encounter with the enemy along the way, however, forced her to detour to Milan.
Napoleon was away from Brescia, in battle; when he returned to find her still
absent, he blamed his foe GeneralWiirmser and swore revenge. For the next few
months he seemed to pursue two targets with equal energy: Wiirmser and
Josephine. His wife was never where she was supposed to be: "I reach
Milan, rush to your house, having thrown aside everything in order to clasp you
in my arms. You are not there!" Napoleon would turn angry and jealous, but
when he finally caught up with Josephine, the slightest of her favors melted
his heart. He took long rides with her in a darkened carriage, while his
generals fumed-meetings were missed, orders and strategies improvised.
"Never," he later wrote to her, "has a woman been in such
complete mastery of another's heart." And yet their time together was so
short. During a campaign that lasted almost a year, Napoleon spent a mere fifteen
nights with his new bride. inward scoffing. \ This works a world of sentimental
woe, \ And sends new Werters yearly to the coffin; \ But yet is merely innocent
flirtation, \ Not quite adultery, but adulteration. -LORD BYRON, THE COLD
COQUETTE Napoleon later heard rumors that Josephine had taken a lover while he
was in Italy. His feelings toward her cooled, and he himself took an endless
series of mistresses. Yet Josephine was never really concerned about this
threat to her power over her husband; a few tears, some theatrics, a little
coldness on her part,andheremained her slave. In 1804, he had her crowned
empress, and had she born him a son, she would have remained empress to the
end. When Napoleon lay on his deathbed, the last word he uttered was
"Josephine." There is a way to represent one's cause and in doing so
to treat the audience in such a cool and condescending manner that they are
bound to notice one is not doing it to please them. The principle should always
be not to makeconcessions to those who don't have anything to give but who have
everything to gain from us. We can wait During the French Revolution, Josephine
had come within minutes of losing her head on the guillotine. The experience
left her without illusions, and with two goals in mind: to live a life of pleasure,
and to find the man who could best supply it. She set her sights on Napoleon
early on. He was young, and had a brilliant future. Beneath his calm exterior,
Josephine sensed, he was highly emotional and aggressive, but this did not
intimidate her-it only revealed his insecurity and weakness. He would be easy
to enslave. First, Josephine adapted to his moods, charmed him with her
feminine grace, warmed him with her looks and manner. He wanted to possess her.
And once she had aroused this desire, her power lay in postponing its
satisfaction, withdrawing from him, frustrating him. In fact
thetortureofthechasegave Napoleon a masochistic pleasure. He yearned to subdue
her independent spirit, as if she were an enemy in battle. People are
inherently perverse. An easy conquest has a lower value than a difficult one;
we are only really excited by what is denied us, by what we cannot possess in
full. Your greatest power in seduction is your ability to turn away, to make
others come after you, delaying their satisfaction. Most people miscalculate
and surrender too soon, worried that the other person will lose interest, or
that giving the other what he or she wants will grant the giver a kind of
power. The truth is the opposite: once you satisfy someone, you no longer have
the initiative, and you open yourself to the possibility that he or she will
lose interest at the slightest whim. Remember: vanity is critical in love. Make
your targets afraid that you may be withdrawing, that you may not really be
interested, and you arouse their innate insecurity, their fear that as you have
gotten to know them they have become less exciting to you. These insecurities
are devastating. Then, once you have made them uncertain of you and of
themselves, reignite their hope, making them feel desired again. Hot and cold,
hot and cold-such coquetry is perversely pleasurable, heightening interest and
keeping the initiative on your side. Never be put off by your target's anger;
it is a sure sign of enslavement. She who would long retain her power must use
her lover ill. -OVID The Cold Coquette I n 1952, the writer Truman Capote, a
recent success in literary and social circles, began to receive an almost daily
barrage of fan mail from a young man named Andy Warhol. An illustrator for shoe
designers, fashion magazines, and the like, Warhol made pretty, stylized
drawings, some of which he sent to Capote, hoping the author would include them
in one of his books. Capote did not respond. One day he came home to find
Warhol talking to his mother, with whom Capote lived. And Warhol began to
telephone almost daily. Finally Capote put an end to all this: "He seemed
one of those hopeless people that you just know nothing's ever going to happen
to. Just a hopeless, born loser," the writer later said. Ten years later,
Andy Warhol, aspiring artist, had his first one-man show at the Stable Gallery
in Manhattan. On the walls were a series of silkscreened paintings based on the
Campbell's soup can and the Coca-Cola bottle. At the opening and at the party
afterward, Warhol stood to the side, staring blankly, talking little. What a
contrast he was to the older generation of artists, the abstract
expressionists-mostly hard-drinking womanizers full of bluster and aggression,
big talkers who had dominated the art scene for theprevious fifteen years. And
what a change from the Warhol who had badgered Capote, and art dealers and
patrons as well. The critics were both until they are begging on their knees
even if it takes a very long time. -FREUD, IN A LETTER TO A PUPIL, QUOTED IN
PAUL ROAZEN, FREUD AND HIS FOLLOWERS When her time was come, that nymph most
fair broughtforth a child with whom one could have fallen in love even in his
cradle, and she called him Narcissus. Cephisus's child had reached his
sixteenth year, and could be counted as at once boy and man. Many lads and many
girls fell in love with him, but his soft young body housed a pride so
unyielding that none of those boys or girls dared to touch him. One day, as he
was driving timid deer into his nets, he was seen by that talkative nymph who
cannot stay silent when another speaks, but yet has not learned to speak first
herself. Her name is Echo, and she always answers back. So when she saw
Narcissus wandering through the lonely countryside, Echo fell in love with him
and followed secretly in his steps. The more closely she followed, the nearer
was the fire which scorched her: just as sulphur, smeared round the tops of
torches, is quickly kindled when aflame is brought near it. How often she
wished to make flattering overtures to him,to approach him with tender pleas! •
The boy, by chance, had wandered away from his faithful band of comrades, and
he called out: "Is there anybody here?" Echo answered:
"Here!" Narcissus stood still in astonishment. looking round in every
direction. He looked behind him, and when no one appeared, cried again:
"Why are you avoiding me?" But all he heard were his own words echoed
back. Still he persisted, deceived by what he took to be another's voice, and
said, "Come here, and let us meet!" Echo answered: "Let us
meet!" Never again would she reply more willingly to any sound. To make
good her words she came out of the wood and made to throw her arms round the
neck she loved: but he fled from her, crying as he did so, "Away with
these embraces! I would die before I would have you touch me!" Thus
scorned, she concealed herself in the woods, hiding her shamedface in the
shelter of the leaves, and ever since that day she dwells in lonely caves. Yet
still her love remained firmly rooted in her heart, and was increased by the
pain of having been rejected. Narcissus had played with her affections,
treating her as he had previously treated other spirits of the waters and the
woods, and his male admirers too. Then one of those he had scorned raised up
his hands to heaven and prayed: "May he himselffall in lovewith another,
as we have done with him! May he too be unable to gain his loved one!"
Nemesis heard and granted his righteous prayer. Narcissus, wearied with hunting
in the heat of the day, lay down here [by a clear pool]: for he was attracted
by the beauty of the place, and by the spring. While he sought to quench his
thirst, another thirst grew baffled and intrigued by the coldness of Warhol's
work; they could not figure out how the artist felt about his subjects. What
was his position? What was he trying to say? When they asked, he would simply
reply, "I just do it because I like it," or, "I love soup."
The critics went wild with their interpretations: "An art like Warhol's is
necessarily parasitic upon the myths of its time," one wrote; another,
"The decision not to decide is a paradox that is equal to an idea which
expresses nothing but then gives it dimension." The show was a huge
success, establishing Warhol as a leading figure in a new movement, pop art. In
1963, Warhol rented a large Manhattan loft space that he called the Factory,
and that soon became the hub of a large entourage-hangers-on, actors, aspiring
artists. Here, particularly at night, Warhol would simply wander about, or
stand in a corner. People would gather around him, fight for his attention,
throw questions at him, and he would answer, in his noncommittal way. But no
one could get close to him, physically or mentally; he would not allow it. At
the same time, if he walked by you without giving you his usual "Oh,
hi," you were devastated. He hadn't noticed you; perhaps you were on the
way out. Increasingly interested in filmmaking, Warhol cast his friends in his
movies. In effect he was offering them a kind of instant celebrity (their
"fifteen minutes of fame"-the phrase is Warhol's). Soon people were
competing for roles. He groomed women in particular for stardom; Edie Sedgwick,
Viva, Nico. Just being around him offered a kind of celebrity by association.
The Factory became the place to be seen, and stars like Judy Garland and
Tennessee Williams would go to parties there, rubbing elbows with Sedgwick,
Viva, and the bohemian lower echelons whom Warhol had befriended. People began
sending limos to bring him to parties of their own; his presence alone was
enough to turn a social evening into a scene- even though he would pass through
in near silence, keeping to himself and leaving early. In 1967, Warhol was
asked to lecture at various colleges. He hated to talk, particularly about his
own art; "The less something has to say," he felt, "the more
perfect it is." But the money was good and Warhol always found it hard to
say no. His solution was simple; he asked an actor, AllenMidgette, to
impersonate him. Midgette was dark-haired, tan, part Cherokee Indian. He did
not resemble Warhol in the least. But Warhol and friends covered his face with
powder, sprayed his brown hair silver, gave him dark glasses, and dressed him
in Warhol's clothes. Since Midgette knew nothing about art, his answers to
students' questions tended to be as short and enigmatic as Warhol's own. The
impersonation worked. Warhol may have been an icon, but no one really knew him,
and since he often wore dark glasses, even his face was unfamiliar in any
detail. The lecture audiences were far enough away to be teased by the thought
of his presence, and no one got dose enough to catch the deception. He remained
elusive. Early on in life, Andy Warhol was plagued by conflicting emotions: he
desperately wanted fame, but he was naturally passive and shy "I've always
had a conflict," he later said, "because I'm shy and yet I like to
take up a lot of personal space. Mom always said, 'Don't be pushy, but let
everyone know you're around.' " At first Warhol tried to make himself more
aggressive, straining to please and court. It didn't work. After ten futile
years he stopped trying and gave in to his own passivity-only to discover the
power that withdrawal commands. Warhol began this process
inhisartwork,whichchangeddramaticallyintheearly1960s.His new paintings of soup
cans, green stamps, and other widely known images did not assault you with
meaning; in fact their meaning was totally elusive, which only heightened their
fascination. They drew you in by their immediacy, their visual power, their
coldness. Having transformed his art, Warhol also transformed himself: like his
paintings, he became pure surface. He trained himself to hold himself back, to
stop talking. The world is full of people who try, people who impose themselves
aggressively. They may gain temporary victories, but the longer they are
around, the more people want to confound them. They leave no space around
themselves, and without space there can be no seduction. Cold Coquettes create
space by remaining elusive and making others pursue them. Their coolness
suggests a comfortable confidence that is exciting to be around, even though it
may not actually exist; their silence makes you want to talk. Their
self-containment, their appearance of having no need for other people, only
makes us want to do things for them, hungry for the slightest sign of
recognition and favor. Cold Coquettes may be maddening to deal with-never
committing but never saying no, never allowing closeness-but more often than
not we find ourselves coming back to them, addicted to the coldness they
project. Remember; seduction is a process of drawing people in, making them
want to pursue and possess you. Seem distant and people will go mad to win your
favor. Humans, like nature, hate a vacuum, and emotional distance and silence
make them strain to fill up the empty space with words and heat of their own.
Like Warhol, stand back and let them fight over you. [Narcissistic] women have
the greatest fascination for men. The charm of a child lies to a great extent
in his narcissism, his self-sufficiency and inaccessibility, just as does the
charm of certain animals which seem not to concern themselves about us, such as
cats. ... It is as if we envied them their power of retaining a blissful state
of mind-an unassailable libido-position which we ourselves have since
abandoned. FREUD in him, and as he drank, he was enchanted by the beautiful
reflection that he saw. He fell in love with an insubstantial hope, mistaking a
mere shadow for a real body. Spellbound by his own self, he remained there
motionless, with fixed gaze, like a statue carved from Parian marble.
Unwittingly, he desired himself, and was himself the object of his own
approval, at once seeking and sought, himself kindling the flame with which he
burned. How often did he vainly kiss the treacherous pool, how often plunge his
arms deep in the waters, as he tried to clasp the neck he saw! But he could not
lay hold upon himself. He did not know what he was looking at, but was fired by
the sight, and excited by the very illusion that deceived his eyes. Poor
foolish boy, why vainly grasp at the fleeting image that eludes you? The thing
you are seeking does not exist: only turn aside and you will lose what you
love. What you see is but the shadow cast by your reflection; in itself it is
nothing. It comes with you, and lasts while you are there; it will go when you
go, if go you can. He laid down his weary head on the green grass, and death
closed the eyes which so admired their owner's beauty. Even then, when he was received
into the abode of the dead, he kept looking at himself in the waters of the
Styx. His sisters, the nymphs of the spring, mourned for him, and cut off their
hair in tribute to their brother. The wood nymphs mourned him too, and Echo
sang her refrain to their lament. The pyre, the tossing torches, and the bier,
were now being prepared, but his body was nowhere to be found. Instead of his
corpse, they discovered a flower with a circle of white petals round a yellow
centre. - OVID .METAMORPHOSES, INNES Selfishness is one of the qualities apt to
inspire love. -NATHANIEL HAWTHORNE The Socrates whom you see has a tendency to
fall in love with good-looking young men, and is always in their society and in
an ecstasy about them...but once you see beneath the surface you will discover
a degree of self-control of which you can hardly form a notion, gentlemen. He
spends his whole life pretending and playing with people, and I doubt whether
anyone has ever seen the treasures which are revealed when he grows serious and
exposes what he keeps inside. Believing that he was serious in his admiration
of my charms, I supposed that a wonderful piece ofgood luck had befallen me; I
should now be able, in return for my favours, to find out all that Socrates
knew; for you must know that there was no limit to the pride that I felt in my
good looks. With this end in view I sent away my attendant, whom hitherto I had
always kept with me in my encounters with Socrates, and left myself alone with
him. I must tell you the whole truth; attend carefully, and do you, Keys to the
Character A ccording to the popular concept, Coquettes are consummate teases,
experts at arousing desire through a provocative appearance or an alluring
attitude. But the real essence of Coquettes is in fact their ability to trap
people emotionally, and to keep their victims in their clutches long after that
first titillation of desire. This is the skill that puts them in the ranks of
the most effective seducers. Their success may seem somewhat odd, since they
are essentially cold and distant creatures; should you ever get to know one
well, you will sense his or her inner core of detachment and self- love. It may
seem logical that once you become aware of this quality you will see through
the Coquette's manipulations and lose interest, but more often we see the
opposite. After years of Josephine's coquettish games, Napoleon was well aware
of how manipulative she was. Yet this conqueror of kingdoms, this skeptic and
cynic, could not leave her. To understand the peculiar power of the Coquette,
you must first understand a critical property of love and desire: the more
obviously you pursue a person, the more likely you are to chase them away. Too
much attention can be interesting for a while, but it soon grows cloying and
finally becomes claustrophobic and frightening. It signals weakness and
neediness, an unseductive combination. How often we make this mistake, thinking
our persistent presence will reassure. But Coquettes have an inherent
understanding of this particular dynamic. Masters of selective withdrawal, they
hint at coldness, absenting themselves at times to keep their victim off
balance, surprised, intrigued. Their withdrawals make them mysterious, and we
build them up in our imaginations. (Familiarity, on the other hand, undermines
what we have built.) A bout of distance engages the emotions further; instead
of making us angry, it makes us insecure. Perhaps they don't really like us,
perhaps we have lost their interest. Once our vanity is at stake, we succumb to
the Coquette just to prove we are still desirable. Remember: the essence of the
Coquette lies not in the tease and temptation but in the subsequent step back,
the emotional withdrawal. That is the key to enslaving desire. To adopt the
power of the Coquette, you must understand one other quality: narcissism.
Sigmund Freud characterized the "narcissistic woman" (most often
obsessed with her appearance) as the type with the greatest effect on men. As
children, he explains, we pass through a narcissistic phase that is immensely
pleasurable. Happily self-contained and self-involved, we have little psychic
need of other people. Then, slowly, we are socialized and taught to pay
attention to others-but we secretly yearn for those blissful early days. The
narcissistic woman reminds a man of that period, and makes him envious. Perhaps
contact with her will restore that feeling of selfinvolvement. A man is also
challenged by the female Coquette's independence-he wants to be the one to make
her dependent, to burst her bubble. It is far more likely, though, that he will
end up becoming her slave, givingher incessant attention to gain her love, and
failing. For the narcissistic woman is not emotionally needy; she is
self-sufficient. And this is surprisingly seductive. Self-esteem is critical in
seduction. (Your attitude toward yourself is read by the other person in subtle
and unconscious ways.) Low self-esteem repels, confidence and self-sufficiency
attract. The less you seem to need other people, the more likely others will be
drawn to you. Understand the importance of this in all relationships and you
will find your neediness easier to suppress. But do not confuse self-absorption
with seductive narcissism. Talking endlessly about yourself is eminently
anti-seductive, revealing not self-sufficiency but insecurity. The Coquette is
traditionally thought of as female, and certainly the strategy was for
centuries one of the few weapons women had to engage and enslave a man's
desire. One ploy of the Coquette is the withdrawal of sexual favors, and we see
women using this trick throughout history: the great seventeenth-century French
courtesan Ninon de l'Enclos was desired by all the preeminent men of France,
but only attained real power when she made it clear that she would no longer sleep
with a man as part of her duty. This drove her admirers to despair, which she
knew how to make worse by favoring a man temporarily, granting him access to
her body for a few months, then returning him to the pack of the unsatisfied.
Queen Elizabeth I of England took coquettishness to the extreme, deliberately
arousing the desires of her courtiers but sleeping with none of them. Long a
tool of social power for women, coquettishness was slowly adapted by men,
particularly the great seducers of the seventeenth and eighteenth centuries who
envied the power of such women. One seventeenth-century seducer, the Due de
Lauzun, was a master at exciting a woman, then suddenly acting aloof. Women
went wild over him. Today, coquetry is genderless. In a world that discourages
direct confrontation, teasing, coldness, and selective aloofness are a form of
indirect power that brilliantly disguises its own aggression. The Coquette must
first and foremost be able to excite the target of his or her attention. The
attraction can be sexual, the lure of celebrity, whatever it takes. At the same
time, the Coquette sends contrary signals that stimulate contrary responses,
plunging the victim into confusion. The eponymous heroine of Marivaux's
eighteenth-century French novel Marianne is the consummate Coquette. Going to
church, she dresses tastefully, but leaves her hair slightly uncombed. In the
middle of the service she seems to notice this error and starts to fix it,
revealing her bare arm as she does so; such things were not to be seen in an
eighteenth-century church, and all male eyes fix on her for that moment. The
tension is much more powerful than if she were outside, or were tartily
dressed. Remember: obvious flirting will reveal your intentions too clearly.
Better to be ambiguous and even contradictory, frustrating at the same time
that you stimulate. The great spiritual leader liddu Krishnamurti was an
unconscious coquette. Revered by theosophists as their "World
Teacher," Krishnamurti was also a dandy. He loved elegant clothing and was
devilishly handsome. At the Socrates, pull me up if anything I say is false. I
allowed myself to be alone with him, I say, gentlemen, and I naturally supposed
that he would embark on conversation of the type that a lover usually addresses
to his darling when they are tete-a-tete, and I was glad. Nothing of the kind;
he spent the day with me in the sort of talk which is habitual with him, and
then left me and went away. Next I invited him to train with me in the
gymnasium, and I accompanied him there, believing that I should succeed with
him now. He took exercise and wrestled with me frequently, with no one else
present, but I need hardly say that I was no nearer my goal. Finding that this
was no good either, I resolved to make a direct assault on him, and not to give
up what I had onceundertaken;I felt that I must get to the bottom of the
matter. So I invited him to dine with me, behaving just like a lover who has
designs upon his favourite. He was in no hurry to accept this invitation, but
at last he agreed to come. The first time he came he rose to go away
immediately after dinner, and on that occasion I was ashamed and let him go.
But I returned to the attack, and this time I kept him in conversation after
dinnerfar into the night, and then, when he wanted to be going, I compelled him
to stay, on the plea that it was too late for him to go. • So he betook himself
to rest, using as a bed the couch on which he had reclined at dinner, next to
mine, and there was nobody sleeping in the room but ourselves. •... I swear by
all the gods in heaven thatfor anything that had happened between us when I got
up after sleeping with Socrates, I might have been sleeping with my father or
elder brother. • What do you suppose to have been my state of mind after that?
On the one hand 1 same time, he practiced celibacy, and had a horror of being
touched. In 1929 he shocked theosophists around the world by proclaiming that
he was not a god or even a guru, and did not want any followers. This only
heightened his appeal: women fell in love with him in great numbers, and his
advisers grew even more devoted. Physically and psychologically, Krishnamurti
was sending contrary signals. While preaching a generalized love and
acceptance, in his personal life he pushed people away His attractiveness and
his obsession with his appearance might have gained him attention but by
themselves would not have made women fall in love with him; his lessons of
realized that I had been slighted, but on the other I felt a reverence for
Socrates' character, his self-control and couragehe result was that I could
neither bring myself to be angry with him and tear myself away from his
society, nor find a way of subduing him to my will. ... I was utterly
disconcerted, and wandered about in a state celibacy and spiritual virtue would
have created disciples but not physical love. The combination of these traits,
however, both drew people in and frustrated them, a coquettish dynamic that
created an emotional and physical attachment to a man who shunned such things.
His withdrawal from the world had the effect of only heightening the devotion
of his followers. Coquetry depends on developing a pattern to keep the other
person off balance. The strategy is extremely effective. Experiencing a
pleasure once, we yearn to repeat it; so the Coquette gives us pleasure, then
withdraws it.The alternation of heat and cold is the most
commonpattern,andhasseveralvariations.TheeighthcenturyChineseCoquetteYang
Kuei-Fei to- of enslavement to the man tally enslaved the Emperor Ming Huang
through a pattern of kindness and the like of which has never bitterness:
having charmed him with kindness, she would suddenly get angry, blaming him
harshly for the slightest mistake. Unable to live without alcibiades, quoted in
^ p] easure s b e gave him, the emperor would turn the court upside down PLATO,
THE SYMPOSIUM to please her when she was angry or upset. Her tears had a
similar effect: what had he done, why was she so sad? He eventually ruined
himself and his kingdom trying to keep her happy. Tears, anger, and the
production of guilt are all the tools of the Coquette. A similar dynamic
appears in a lover's quarrel: when a couple fights, then reconciles, the joys
of reconciliation only make the attachment stronger. Sadness of any sort is
also seductive, particularly if it seems deep-rooted, even spiritual, rather
than needy or pathetic-it makes people come to you. Coquettes are never
jealous-that would undermine their image of fundamental self-sufficiency. But
they are masters at inciting jealousy: by paying attention to a third party,
creating a triangle of desire, they signal to their victims that they may not
be that interested. This triangulation is extremely seductive, in social
contexts as well as erotic ones. Interested in narcissistic women, Freud was a
narcissist himself, and his aloofness drove his disciples crazy. (They even had
a name for it-his "god complex.") Behaving like a kind of messiah,
too lofty for petty emotions, Freud always maintained a distance between himself
and his students, hardly ever inviting them over for dinner, say, and keeping
his private life shrouded in mystery. Yet he would occasionally choose an
acolyte to confide in-Carl Jung, Otto Rank, Lou Andreas-Salome. The result was
that his disciples went berserk trying to win his favor, to be the one he
chose. Their jealousy when he suddenly favored one of them only increased his
power over them. People's natural insecurities are heightened in group
settings; by maintaining aloofness, Coquettes start a competition to win their
favor. If the ability to use third parties to make targets jealous is a
critical seductive skill, Sigmund Freud was a grand Coquette. All of the
tactics of the Coquette have been adapted by political leaders to make the
public fall in love. While exciting the masses, these leaders remain inwardly
detached, which keeps them in control. The political scientist Roberto Michels
has even referred to such politicians as Cold Coquettes. Napoleon played the
Coquette with the French: after the grand successes of the Italian campaign had
made him a beloved hero, he left France to conquer Egypt, knowing that in his
absence the government would fall apart, the people would hunger for his
return, and their love would serve as the base for an expansion of his power.
After exciting the masses with a rousing speech, Mao Zedong would disappear
from sight for days on end, making himself an object of cultish worship. And no
one was more of a Coquette than Yugoslav leader losef Tito, who alternated
between distance from and emotional identification with his people. All of
these political leaders were confirmed narcissists. In times of trouble, when
people feel insecure, the effect of such political coquetry is even more
powerful. It is important to realize that coquetry is extremely effective on a
group, stimulatingjealousy, love, and intense devotion. If you play such a role
with a group, remember to keep an emotional and physical distance. This will
allow you to cry and laugh on command, project self-sufficiency, and with such
detachment you will be able play people's emotions like a piano. Symbol: The
Shadow. It cannot be grasped. Chase your shadow and it will flee; turn your
back on it and it will follow you. It is also a person's dark side, the thing
that makes them mysterious. After they have given us pleasure, the shadow
oftheir withdrawal makes us yearn for their return, much as clouds make us
yearn for the sun. Dangers C oquettes face an obvious danger: they play with
volatile emotions. Every time the pendulum swings, love shifts to hate. So they
must orchestrate everything carefully. Their absences cannot be too long, their
bouts of anger must be quickly followed by smiles. Coquettes can keep their
victims emotionally entrapped for a long time, but over months or years the
dynamic can begin to prove tiresome. Jiang Qing, later known as Madame Mao,
used coquettish skills to capture the heart of Mao Tse-tung, but after ten
years the quarreling, the tears and the coolness became intensely irritating,
and once irritation proved stronger than love, Mao was able to detach.
Josephine, a more brilliant Coquette, was able to adapt, by spending a whole
year without playing coy or withdrawing from Napoleon. Timing is everything. On
the other hand, though, the Coquette stirs up powerful emotions, and breakups
often prove temporary. The Coquette is addictive: after the failure of the
social plan Mao called the Great Leap Forward, Madame Mao was able to
reestablish her power over her devastated husband. The Cold Coquette can stimulate
a particularly deep hatred. Valerie Solanas was a young woman who fell under
Andy Warhol's spell. She had written aplay that amused him, and she was given
the impression he might turn it into a film. She imagined becoming a celebrity.
She also got involved in the feminist movement, and when, in June 1968, it
dawned on her that Warhol was toying with her, she directed her growing rage at
men on him and shot him three times, nearly killing him. Cold Coquettes may
stimulate feelings that are not so much erotic as intellectual, less passion
and more fascination. The hatred they can stir up is all the more insidious and
dangerous, for it may not be counterbalanced by a deep love. They must realize
the limits of the game, and the disturbing effects they can have on less stable
people. the Charmer Charm is seduction without sex. Charmers are consummate
manipulators, masking their cleverness by creating a mood of pleasure and
comfort. Their method is simple: they deflect attentionfrom themselves andfocus
it on their target. They understand your spirit, feel your pain, adapt to your
moods. In the presence of a Charmer you feel better about yourself. Charmers do
not argue or fight, complain, or pester -w hat could be more seductive? By
drawing you in with their indulgence they make you dependent on them, and their
power grows. Learn to cast the Charmer's spell by aiming at people's primary
weaknesses: vanity and self-esteem. The Art of Charm S exuality is extremely
disruptive. The insecurities and emotions it stirs up can often cut short a
relationship that would otherwise be deeper and longer lasting. The Charmer's
solution is to fulfill the aspects of sexuality that are so alluring and
addictive-the focused attention, the boosted self-esteem, the pleasurable
wooing, the understanding (real or illusory)-but subtract the sex itself. It's
not that the Charmer represses or discourages sexuality; lurking beneath the
surface of any attempt at charm is a sexual tease, a possibility. Charm cannot
exist without a hint of sexual tension. It cannot be maintained, however,
unless sex is kept at bay or in the background. The word "charm"
comes from the Latin carmen, a song, but also an incantation tied to the
casting of a magical spell. The Charmer implicitly grasps this history, casting
a spell by giving people something that holds their attention, that fascinates
them. And the secret to capturing people's attention, while lowering their
powers of reason, is to strike at the things they have the least control over:
their ego, their vanity, and their selfesteem. As Benjamin Disraeli said,
"Talk to a man about himself and he will listen for hours." The
strategy can never be obvious; subtlety is the Charmer's great skill. If the
target is to be kept from seeing through the Charmer's efforts, and
fromgrowingsuspicious, maybe even tiring of the attention, a light touch is
essential. The Charmer is like a beam of light that doesn't play directly on a
target but throws a pleasantly diffused glow over it. Charm can be applied to a
group as well as to an individual: a leader can charm the public. The dynamic
is similar. The following are the laws of charm, culled from the stories of the
most successful charmers in history. Birds are taken with pipes that imitate
their own voices, and men with those sayings that are most agreeable to their
own opinions. BUTLER Make your target the center of attention. Charmers fade
into the background; their targets become the subject of their interest. To be
a Charmer you have to leam to listen and observe. Let your targets talk,
revealing themselves in the process. As you find out more about them-their
strengths, and more important their weaknesses-you can individualize your
attention, appealing to their specific desires and needs, tailoring your flatteries
to their insecurities. By adapting to their spirit and empathizing with their
woes, you can make them feel bigger and better, validating their sense of
self-worth. Make them the star of the show and they will become Go with the
bough, you'll bend it; \ Use brute force, it'll snap. \ Go with the current:
that's how to swimacross rivers -\Fightingupstream's no good. \ Goeasy with
lions or tigers ifyou aim to tame them; \ The bull gets inured to the plough by
slow degrees. So, yield if she shows resistance: \ That way you'll win in the
end. fust be sure to play The part she allots you. Censure the things she
censures, \ Endorse her endorsements, echo her every word, \ Pro or con, and
laugh whenever she laughs; remember, \ If she weeps, to weep too: take your cue
\ From her every expression. Suppose she's playing a board game, \ Then throw
the dice carelessly, move \ Your pieces all wrong. Don't jib at a slavish task
like holding \ Her mirror: slavish or not, such attentions please. . . . -OVID,
THE ART OF LOVE. addicted to you and grow dependent on you. On a mass level,
make gestures of self-sacrifice (no matter how fake) to show the public that
you share their pain and are working in their interest, self-interest being the
public form of egotism. Disraeli was asked to dinner, and came in green velvet
trousers, with a canary waistcoat, buckle shoes, and lace cuffs. His appearance
at first proved disquieting, but on leaving the table the guests remarked to
each other that the wittiest talker at the luncheon-party was the man in the
yellow waistcoat. Benjamin had made great advances in social conversation since
the days of Murray's dinners. Faithful to his method, he noted the stages:
"Do not talk too much at present; do not try to talk. But whenever you
speak, speak with self-possession. Speak in a subdued tone, and always look at
the person whom you are addressing. Before one can engage in general
conversation with any effect, there is a certain acquaintance with trifling but
amusing subjects which must be first attained. You will soon pick up sufficient
by listening and observing. Never argue. In society nothing must be discussed;
give only results. If any person differ from you, bow turn the conversation. In
society never think; always be on the watch, or you will miss many and say many
disagreeable things. Talk to women, talk to women as much as you can. This is
the best school. This is the way to gain fluency, because you need not care
what you say, and had better not be sensible. They, too, will rally you on many
points, Be a source of pleasure. No one wants to hear about your problems and
troubles. Listen to your targets' complaints, but more important, distract them
from their problems by giving them pleasure. (Do this often enough and they
will fall under your spell.) Being lighthearted and fun is always more charming
than being serious and critical. An energetic presence is likewise more
charming than lethargy, which hints at boredom,an enormous social taboo; and
elegance and style will usually win out over vulgarity, since most people like
to associate themselves with whatever they think elevated and cultured. In
politics, provide illusion and myth rather than reality. Instead of asking
people to sacrifice for the greater good, talk of grand moral issues. An appeal
that makes people feel good will translate into votes and power. Bring
antagonism into harmony. The court is a cauldron of resentment and envy, where
the sourness of a single brooding Cassius can quickly turn into a conspiracy.
The Charmer knows how to smooth out conflict. Never stir up antagonisms that
will prove immune to your charm; in the face of those who are aggressive,
retreat, let them have their little victories. Yielding and indulgence will
charm the fight out of any potential enemies. Never criticize people
overtly-that will make them insecure, and resistant to change. Plant ideas,
insinuate suggestions. Charmed by your diplomatic skills, people will not
notice your growing power. Lull your victims into ease and comfort. Charm is
like the hypnotist's trick with the swinging watch: the more relaxed the
target, the easier it is to bend him or her to your will. The key to making
your victims feel comfortable is to mirror them, adapt to their moods. People
are narcissists- they are drawn to those most similar to themselves. Seem to
share their values and tastes, to understand their spirit, and they will fall
under your spell. This works particularly well if you are an outsider: showing
that you share the values of your adopted group or country (you have learned
their language, you prefer their customs, etc.) is immensely charming, since
for you this preference is a choice, not a question of birth. Never pester or
be overly persistent-these uncharming qualities will disrupt the relaxation you
need to cast your spell. Show calm and self-possession in the face of
adversity. Adversity and setbacks actually provide the perfect setting for
charm. Showing a calm, un- mffled exterior in the face of unpleasantness puts
people at ease. You seem patient, as if waiting for destiny to deal you a
better card-or as if you were confident you could charm the Fates themselves.
Never show anger, ill temper, or vengefulness, all disruptive emotions that
will make people defensive. In the politics of large groups, welcome adversity
as a chance to show the charming qualities of magnanimity and poise. Let others
get flutered and upset-the contrast will redound to your favor. Never whine,
never complain, never try to justify yourself. Make yourself useful. If done
subtly, your ability to enhance the lives of others will be devilishly
seductive. Your social skills will prove important here: creating a wide
network of allies will give you the power to link people up with each other,
which will make them feel that by knowing you they can make their lives easier.
This is something no one can resist. Follow-through is key: so many people will
charm by promising a person great things-a better job, a new contact, a big
favor-but if they do not follow through they make enemies instead of friends.
Anyone can make a promise; what sets you apart, and makes you charming, is your
ability to come through in the end, following up your promise with a definite
action. Conversely, if someone does you a favor, show your gratitude concretely.
In a world of bluff and smoke, real action and true helpfulness are perhaps the
ultimate charm. Examples of Charmers 1. In the early 1870s, Queen Victoria of
England had reached a low point in her life. Her beloved husband. Prince
Albert, had died in 1861, leaving her more than grief stricken. In all of her
decisions she had relied on his advice; she was too uneducated and
inexperienced to do otherwise, or so everyone made her feel. In fact, with
Albert's death, political discussions and policy issues had come to bore her to
tears. Now Victoria gradually withdrew from the public eye. As a result, the
monarchy became less popular and therefore
lesspowerful.In1874,theConservativeParty came to power, and its leader, the
seventy-year-old Benjamin Disraeli, became prime minister. The protocol of his
accession to his seat demanded that he come to the palace for a private meeting
with the queen, who was fifty-five at the time. Two more unlikely associates
could not be imagined: Disraeli, who was Jewish by birth, had dark skin and
exotic features by English standards; as a young man he had been a dandy, his
dress bordering on the flamboyant, and he had written popular novels that were
romantic or even Gothic in style. The queen, on the other hand, was dour and
stubborn, formal in manner and simple in and as they are women you will not be
offended. Nothing is of so much importance and of so much use to a young man
entering life as to be well criticised by women." -ANDRE MAUROIS,
DISRAELI. MILES You know what charm is: a way of getting the answer yes without
having asked any clear question.CAMUS A speech that carries its audience along
with it and is applauded is often less suggestive simply because it is clear
that it sets out to be persuasive. People talking together influence each other
in close proximity by means of the tone of voice they adopt and the way they
look at each other and not only by the kind oflanguage they use. We are right
to call a good conversationalist a charmer in the magical sense of the word. -TARDE,
L'OPINION ET LA FOULE. QUOTED IN SERGE MOSCOVICI, THE AGE OF THE CROWD Wax, a
substance naturally hard and brittle, can be made soft by the application of a
little warmth, so that it will take any shape you please. In the same way, by
being polite andfriendly, you can make people pliable and obliging, even though
they are apt to be crabbed and malevolent. Hence politeness is to human nature
what warmth is to wax. - SCHOPENHAUER, COUNSELS AND MAXIMS, SAUNDERS Never
explain. Never complain. -DISRAELI taste. To please her, Disraeli was advised,
he should curb his natural elegance; but he disregarded what everyone had told
him and appeared before her as a gallant prince, falling to one knee, taking
her hand, and kissing it, saying, "I plight my troth to the kindest of
mistresses." Disraeli pledged that his work now was to realize Victoria's
dreams. He praised her qualities so fulsomely that she blushed; yet strangely
enough, she did not find him comical or offensive, but came out of the
encounter smiling. Perhaps she should give this strange man a chance, she
thought, and she waited to see what he would do next. Victoria soon began
receiving reports from Disraeli-on parliamentary debates, policy issues, and so
forth-that were unlike anything other ministers had written. Addressing her as
the "Faery Queen," and giving the monarchy's various enemies all
kinds of villainous code names, he filled his notes with gossip. In a note
about a new cabinet member, Disraeli wrote, "He is more than six feet four
inches in stature; like St. Peter's at Rome no one is at first aware of his
dimensions. But he has the sagacity of the elephant as well as its form."
The minister's blithe, informal spirit bordered on disrespect, but the queen
was enchanted. She read his reports voraciously, and almost without her
realizing it, her interest in politics was rekindled. At the start of their
relationship, Disraeli sent the queen all of his novels as a gift. She in
return presented him with the one book she had written. Journal of Our Life in
the Highlands. From then on he would toss out in his letters and conversations
with her the phrase, "We authors." The queen would beam with pride.
She would overhear him praising her to others- her ideas, common sense, and
feminine instincts, he said, made her the equal of Elizabeth I. He rarely
disagreed with her. At meetings with other ministers, he would suddenly turn
and ask her for advice. In 1875, when Disraeli managed tofinagle the purchase
of the Suez Canal from the debt- ridden khedive of Egypt, he presented his
accomplishment to the queen as if it were a realization of her own ideas about
expanding the British Empire. She did not realize the cause, but her confidence
was growing by leaps and bounds. Victoria once sent flowers to her prime minister.
He later returned the favor, sending primroses, a flower so ordinary that some
recipients might have been insulted; but his gift came with a note: "Of
all the flowers, the one that retains its beauty longest, is sweet
primrose." Disraeli was enveloping Victoria in a fantasy atmosphere in
which everything was a metaphor, and the simplicity of the flower of course
symbolized the queen-and also the relationship between the two leaders.
Victoria fell for the bait; primroses were soon her favorite flower. In fact
everything Disraeli did now met with her approval. She allowed him to sit in
her presence, an unheard- of privilege. The two began to exchange valentines
every February. The queen would ask people what Disraeli had said at a party;
when he paid a little too much attention to Empress Augusta of Germany, she
grew jealous. The courtiers wondered what had happened to the stubborn, formal
woman they had known-she was acting like an infatuated girl. In 1876, Disraeli
steered through Parliament a bill declaring Queen Victoria a
"Queen-Empress." The queen was beside herself with joy. Out of
gratitude and certainly love, she elevated this Jewish dandy and novelist to
the peerage, making him Earl of Beaconsfield, the realization of a lifelong
dream. Disraeli knew how deceptive appearances can be: people were always
judging him by his face and by his clothes, and he had learned never to do the
same to them. So he was not deceived by Queen Victoria's dour, sober exterior.
Beneath it, he sensed, was a woman who yearned for a man to appeal to her
feminine side, a woman who was affectionate, warm, even sexual. The extent to
which this side of Victoria had been repressed merely revealed the strength of
the feelings he would stir once he melted her reserve. Disraeli's approach was
to appeal to two aspects of Victoria's personality that other people had
squashed: her confidence and her sexuality. He was a master at flattering a
person's ego. As one English princess remarked, "When I left the dining
room after sitting next to Mr. Gladstone, I thought he was the cleverest man in
England. But after sitting next to Mr. Disraeli, I thought I was the cleverest
woman in England." Disraeli worked his magic with a delicate touch,
insinuating an atmosphere of amusement and relaxation, particularly in relation
to politics. Once the queen's guard was down, he made that mood a little
warmer, a little more suggestive, subtly sexual- though of course without overt
flirtation. Disraeli made Victoria feel desirable as a woman and gifted as a
monarch. How could she resist? How could she deny him anything? Our
personalities are often molded by how we are treated: if a parent or spouse is
defensive or argumentative in dealing with us, we tend to respond the same way.
Never mistake people's exterior characteristics for reality, for the character
they show on the surface may be merely a reflection of the people with whom
they have been most in contact, or a front disguising its own opposite. A gruff
exterior may hide a person dying for warmth; a repressed, sober-looking type
may actually be struggling to conceal uncontrollable emotions. That is the key
to charm-feeding what has been repressed or denied. By indulging the queen, by
making himself a source of pleasure, Disraeli was able to soften a woman who
had grown hard and cantankerous. Indulgence is a powerful tool of seduction: it
is hard to be angry or defensive with someone who seems to agree with your
opinions and tastes. Charmers may appear to be weaker than their targets but in
the end they are the more powerful side because they have stolen the ability to
resist. 2. In 1971, the American financier andDemocratic Party
power-playerAverell Harriman saw his life drawing to a close. He was
seventy-nine, his wife of many years, Marie, had just died, and with the
Democrats out of office Ms political career seemed over. Feeling old and
depressed, he resigned himself to spending his last years with Ms grandchildren
in quiet retirement. A few months after Marie's death, Harriman was talked into
attending a Washington party. There he met an old friend, Pamela ChurcMll, whom
he had known during World War II, in London, where he had been sent as a
personal envoy of President Franklin D. Roosevelt. She was twenty-one at the
time, and was the wife of Winston Churchill's son Randolph. There had certainly
been more beautiful women in the city, but none had been more pleasant to be
around: she was so attentive, listening to Ms problems, befriending Ms daughter
(they were the same age), and calming him whenever he saw her. Marie had
remained in the States, and Randolph was in the army, so wMle bombs rained on
London Averell and Pamela had begun an affair. And in the many years since the
war, she had kept in touch with Mm: he knew about the breakup of her marriage,
and about her endless series of affairs with Europe's wealthiest playboys. Yet
he had not seen her since Ms return to America, and to Ms wife. What a strange
coincidence to run into her at this particular moment in Ms life. At the party
Pamela pulled Harriman out of his shell, laughing at Ms jokes and getting him
to talk about London in the glory days of the war. He felt Ms old power
returning-it was as if he were charming her. A few days later she dropped in on
him at one of Ms weekend homes. Harriman was one of the wealthiest men in the
world, but was no lavish spender; he and Marie had lived a Spartan life. Pamela
made no comment, but when she invited him to her own home, he could not help
but notice the brightness and vibrancy of her life-flowers everywhere,
beautiful linens on the bed, wonderful meals (she seemed to know all of Ms
favorite foods). He had heard of her reputation as a courtesan and understood
the lure of Ms wealth, yet being around her was invigorating, and eight weeks
after that party, he married her. Pamela did not stop there. She persuaded her
husband to donate the art that Marie had collected to the National Gallery. She
got him to part with some of Ms money-a trust fund for her son Winston, new
houses, constant redecorations. Her approach was subtle and patient; she made
him somehow feel good about giving her what she wanted. Within a few years,
hardly any traces of Marie remained in their life. Harriman spent less time
with Ms childrenandgrandchildren. He seemed to be going through a second youth.
In Washington, politicians and their wives viewed Pamela with suspicion. They
saw through her, and were immune to her charm, or so they thought. Yet they
always came to the frequent parties she hosted, justifying themselves with the
thought that powerful people would be there. Everything at these parties was
calibrated to create a relaxed, intimateatmosphere. No one felt ignored: the
least important people would find themselves talking to Pamela, opening up to
that attentive look of hers. She made them feel powerful and respected.
Afterward she would send them a personal note or gift, often referring to
something they had mentioned in conversation. The wives who had called her a
courtesan and worse slowly changed their minds. The men found her not only
beguiling but useful- her worldwide contacts were invaluable. She could put
them in touch with exactly the right person without them even having to ask.
The Harrimans' parties soon evolved into fundraising events for the Democratic
Party. Put at their ease, feeling elevated by the aristocratic atmosphere
Pamela created and the sense of importance she gave them, visitors would empty
their wallets without realizing quite why. This, of course, was exactly what
all the men in her life had done. In 1986, Averell Harriman died. By then
Pamela was powerful and wealthy enough that she no longer needed a man. In
1993, she was named the U.S. ambassador to France, and easily transferred her
personal and social charm into the world of political diplomacy. She was still
working when she died, in 1997. We often recognize Charmers as such; we sense
their cleverness. (Surely Harriman must have realized that his meeting with
Pamela Churchill in 1971 was no coincidence.) Nevertheless, we fall under their
spell. The reason is simple: the feeling that Charmers provide is so rare as to
be worth the price we pay. The world is full of self-absorbed people. In their
presence, we know that everything in our relationship with them is directed
toward themselves- their insecurities, their neediness, their hunger for
attention. That reinforces our own egocentric tendencies; we protectively close
ourselves up. It is a syndrome that only makes us the more helpless with
Charmers. First, they don't talk much about themselves, which heightens their
mystery and disguises their limitations. Second, they seem to be interested in
us, and their interest is so delightfully focused that we relax and open up to
them. Finally, Charmers are pleasant to be around. They have none of most
people's ugly qualities-nagging, complaining, self-assertion. They seem to know
what pleases. Theirs is a diffused warmth; union without sex. (You may think a
geisha is sexual as well as charming; her power, however, lies not in the
sexual favors she provides but in her rare self-effacing attentiveness.)
Inevitably, we become addicted, and dependent. And dependence is the source of
the Charmer's power. People who are physically beautiful, and who play on their
beauty to create a sexually charged presence, have little power in the end; the
bloom of youth fades, there is always someone younger and more beautiful, and
in any case people tire of beauty without social grace. But they never tire of
feeling their self-worth validated. Leam the power you can wield by making the
other person feel like the star. The key is to diffuse your sexual presence:
create a vaguer, more beguiling sense of excitement through a generalized
flirtation, a socialized sexuality that is constant, addictive, and never
totally satisfied. 3. In December of 1936, Chiang Kai-shek, leader of the
Chinese Nationalists, was captured by a group of his own soldiers who were
angry with his policies: instead of fighting the Japanese, who had just invaded
China, he was continuing his civil war against the Communist armies of Mao
Zedong. The soldiers saw no threat in Mao-Chiang had almost annhilated the
Communists. In fact, they believed he should join forces with Mao against the
common enemy-it was the only patriotic thing to do. The soldiers thought by
capturing him they could compel Chiang to change his mind, but he was a
stubborn man. Since Chiang was the main impediment to a unified war against the
Japanese, the soldiers contemplated having him executed, or turned over to the
Communists. As Chiang lay in prison, he could only imagine the worst. Several
days later he received a visit from Zhou Enlai-a former friend and now a
leading Communist. Politely and respectfully, Zhou argued for a united front:
Communists and Nationalists against the Japanese. Chiang could not begin to
hear such talk; he hated the Communists with a passion, and became hopelessly
emotional. To sign an agreement with the Communists in these circumstances, he
yelled, would be humiliating, and would lose me all honor among my own army.
It's out of the question. Kill me if you must. Zhou listened, smiled, said
barely a word. As Chiang's rant ended he told the Nationalist general that a
concern for honor was something he understood, but that the honorable thing for
them to do was actually to forget their differences and fight the invader.
Chiang could lead both armies. Finally, Zhou said that under no circumstances
would he allow his fellow Communists, or anyone for that matter, to execute
such a great man as Chiang Kai-shek. The Nationalist leader was stunned and
moved.The next day, Chiang was escorted out of prison by Communist guards,
transferred to one of his own army's planes, and sent back to his own
headquarters. Apparently Zhou had executed this policy on his own, for when
word of it reached the other Communist leaders, they were outraged: Zhou should
have forced Chiang to fight the Japanese, or else should have ordered his
execution-to release him without concessions was the height of pusillanimity,
and Zhou would pay. Zhou said nothing and waited. A few months later, Chiang
signed an agreement to halt the civil war and join with the Communists against
the Japanese. He seemed to have come to his decision on his own, and his army
respected it-they could not doubt his motives. Working together, the
Nationalists and the Communists expelled the Japanese from China. But the
Communists, whom Chiang had previously almost destroyed, took advantage of this
period of collaboration to regain strength. Once the Japanese had left, they
turned on the Nationalists, who, in 1949, were forced to evacuate mainland
China for the island of Formosa, now Taiwan. Now Mao paid a visit to the Soviet
Union. China was in terrible shape and in desperate need of assistance, but
Stalin was wary of theChinese, and lectured Mao about the many mistakes he had
made. Mao argued back. Stalin decided to teach the young upstart a lesson; he
would give China nothing. Tempers rose. Mao sent urgently for Zhou Enlai who
arrived the next day and went right to work. In the long negotiating sessions,
Zhou made a show of enjoying his hosts' vodka. He never argued, and in fact
agreed that the Chinese had made many mistakes, had much to learn from the more
experienced Soviets: "Comrade Stalin," he said, "we are the
first large Asian country tojoin the socialist camp under your guidance."
Zhou had come prepared with all kinds of neatly drawn diagrams and charts,
knowing the Russians loved such things. Stalin warmed up to him. The
negotiations proceeded, and a few days after Zhou's arrival, the two parties
signed a treaty of mutual aid- a treaty far more useful to the Chinese than to
the Soviets. In 1959, China was again in deep trouble. Mao's Great Leap
Forward, an attempt to spark an overnight industrial revolution in China, had
been a devastating failure. The people were angry: they were starving while
Beijing bureaucrats lived well. Many Beijing officials, Zhou among them,
returned to their native towns to try to bring order. Most of them managed by
bribes-by promising all kinds of favors-but Zhou proceeded differently: he
visited his ancestral graveyard, where generations of his familywere buried,
and ordered that the tombstones be removed and the coffins buried deeper. Now
the land could be farmed for food. In Confucian terms (and Zhou was an obedient
Confucian), this was sacrilege, but everyone knew what it meant: Zhou was
willing to suffer personally. Everyone had to sacrifice, even the leaders. His
gesture had immense symbolic impact. When Zhou died, in 1976, an unofficial and
unorganized outpouring of public grief caught the government by surprise. They
could not understand how a man who had worked behind the scenes, and had
shunned the adoration of the masses, could have won such affection. The capture
of Chiang Kai-shek was a turning point in the civil war. To execute him might
have been disastrous: it had been Chiang who had held the Nationalist army
together, and without him it could have broken up into factions, allowing the
Japanese to overrun the country. To force him to sign an agreement would have
not helped either: he would have lost face before his army, would never have
honored the agreement, and would have done everything he could to avenge his
humiliation. Zhou knew that to execute or compel a captive will only embolden
your enemy, and will have repercussions you cannot control. Charm, on the other
hand, is a manipulative weapon that disguises its own manipulativeness, letting
you gain a victory without stirring the desire for revenge. Zhou worked on
Chiang perfectly, paying him respect, playing the inferior, letting him pass
from the fear of execution to the relief of unexpected release. The general was
allowed to leave with his dignity intact. Zhou knew all this would soften him
up, planting the seed of the idea that perhaps the Communists were not so bad
after all, and that he could change Ms mind about them without looking weak,
particularly if he did so independently rather than while he was in prison.
Zhou applied the same philosophy to every situation: play the inferior, unthreatening
and humble. What will this matter if in the end you get what you want: time to
recover from a civil war, a treaty, the good will of the masses. Time is the
greatest weapon you have. Patiently keep in mind a longterm goal and neither
person nor army can resist you. And charm is the best way of playing for time,
of widening your options in any situation. Through charm you can seduce your
enemy into backing off, giving you the psychological space to plot an effective
counterstrategy. The key is to make other people emotional while you remain
detached. They may feel grateful, happy, moved, arrogant-it doesn't matter, as
long as they feel. An emotional person is a distracted person. Give them what
they want, appeal to their self-interest, make them feel superior to you. When
a baby has grabbed a sharp kmfe, do not try to grab it back; instead, stay
calm, offer candy, and the baby will drop the kmfe to pick up the tempting
morsel you offer. 4. In 1761, Empress Elizabeth of Russia died, and her nephew
ascended to the throne as Czar Peter III. Peter had always been a little boy at
heart-he played with toy soldiers long past the appropriate age-and now, as
czar, he could finally do whatever he pleased and the world be damned. Peter
concluded a treaty with Frederick the Great that was Mghly favorable to the
foreign ruler (Peter adored Frederick, and particularly the disciplined way Ms
Prussian soldiers marched). This was a practical debacle, but in matters of
emotion and etiquette, Peter was even more offensive: he refused to properly
mourn Ms aunt the empress, resuming his war games and parties a few days after
the funeral. What a contrast he was to Ms wife, Catherine. She was respectful
during the funeral, was still wearing black months later, and could be seen at
all hours beside Elizabeth's tomb, praying and crying. She was not even
Russian, but a German princess who had come east to marry Peter in 1745 without
speaking a word of the language. Even the lowest peasant knew that Catherine
had converted to the Russian Orthodox Church, and had learned to speak Russian
with incredible speed, and beautifully. At heart, they thought, she was more
Russian than all of those fops in the court. During these difficult months,
wMle Peter offended almost everyone in the country, Catherine discreetly kept a
lover, Gregory Orlov, a lieutenant in the guards. It was through Orlov that
word spread of her piety, her patriotism, her worthiness for rule; how much
better to follow such a woman than to serve Peter. Late into the night,
Catherine and Orlov would talk, and he would tell her the army was behind her
and would urge her to stage a coup. She would listen attentively, but would
always reply that tMs was not the time for such things. Orlov wondered to
himself: perhaps she was too gentle and passive for such a great step. Peter's
regime was repressive, and the arrests and executions piled up. He also grew
more abusive toward his wife, threatening to divorce her and marry his
mistress. One drunken evening, driven to distraction by Catherine's silence and
his inability to provoke her, he ordered her arrest. The news spread fast and
Orlov hurried to warn Catherine that she would be imprisoned or executed unless
she acted fast. This time Catherine did not argue; she put on her simplest
mourning gown, left her hair half undone, followed Orlov to a waiting carriage,
and rushed to the army barracks. Here the soldiers fell to the ground, kissing
the hem of her dress-they had heard so much about her but had never seen her in
person, and she seemed to them like a statue of the Madonna come to life. They
gave her an army uniform, marveling at how beautiful she looked in men's
clothes, and set off under Orlov's command for the Winter Palace. The
procession grew as it passed through the streets of St. Petersburg. Everyone
applauded Catherine, everyone felt that Peter should be dethroned. Soon priests
arrived to give Catherine their blessing, making the people even more excited.
And through it all, she was silent and dignified, as if all were in the hands
of fate. When news reached Peter of this peaceful rebellion, he grew
hysterical, and agreed to abdicate that very night. Catherine became empress
without a single battle or even a single gunshot. As a child, Catherine was
intelligent and spirited. Since her mother had wanted a daughter who was
obedient rather than dazzling, and who would therefore make a better match, the
child was subjected to a constant barrage of criticism, against which she
developed a defense: she learned to seem to defer to other people totally as a
way to neutralize their aggression. If she was patient and did not force the
issue, instead of attacking her they would fall under her spell. When Catherine
came to Russia-at the age of sixteen, without a friend or ally in the country-she
applied the skills she had learned in dealing with her difficult mother. In the
face of all the court monsters- the imposing Empress Elizabeth, her own
infantile husband, the endless schemers and betrayers-she curtseyed, deferred,
waited, and charmed. She had long wanted to rule as empress, and knew how
hopeless her husband was. But what good would it do to seize power violently,
laying a claim that some would certainly see as illegitimate, and then have to
worry endlessly that she would be dethroned in turn? No, the moment had to be
ripe, and she had to make the people carry her into power. It was a feminine
style ofrevolution: by being passive and patient, Catherine suggested that she
had no interest in power. The effect was soothing-charming. There will always
be difficult people for us to face-the chronically insecure, the hopelessly
stubborn, the hysterical complainers. Your ability to disarm these people will
prove an invaluable skill. You do have to be careful, though: if you are
passive they will run all over you; if assertive you will make their monstrous
qualities worse. Seduction and charm are the most effective counterweapons.
Outwardly, be gracious. Adapt to their every mood. Enter their spirit.
Inwardly, calculate and wait: your surrender is a strategy, not a way of life.
When the time comes, and it inevitably will, the tables will turn. Their
aggression will land them in trouble, and that will put you in a position to
rescue them, regaining superiority. (You could also decide that you had had
enough, and consign them to oblivion.) Your charm has prevented them from
foreseeing this or growing suspicious. A whole revolution can be enacted
without a single act of violence, simply by waiting for the apple to ripen and
fall. Symbol: The Mirror. Your spirit holds a mirror up to others. When they
see you they see themselves: their values, their tastes, even their flaws.
Their lifelong love affair with their own image is comfortable and hypnotic; so
feed it. No one ever sees what is behind the mirror. Dangers T here are those
who are immune to a Charmer; particularly cynics, and confident types who do
not need validation. These people tend to view Charmers as slippery and
deceitful, and they can make problems for you. The solution is to do what most
Charmers do by nature: befriend and charm as many people as possible. Secure
your power through numbers and you will not have to worry about the few you
cannot seduce. Catherine the Great's kindness to everyone she met created a
vast amount ofgood will that paid off later. Also, it is sometimes charming to
reveal a strategic flaw. There is one person you dislike? Confess it openly, do
not try to charm such an enemy, and people will think you more human, less
slippery. Disraeli had such a scapegoat with his great nemesis, William
Gladstone. The dangers of political charm are harder to handle; your
conciliatory, shifting, flexible approach to politics will make enemies out of
everyone who is a rigid believer in a cause. Social seducers such as Bill Clinton
and Henry Kissinger could often win over the most hardened opponent with their
personal charm, but they could not be everywhere at once. Many members of the
English Parliament thought Disraeli a shifty conniver; in person his engaging
manner could dispel such feelings, but he could not address the entire
Parliament one-on-one. In difficult times, when people yearn for something
substantial and firm, the political charmer may be in danger. As Catherine the
Great proved, timing is everything. Charmers must know when to hibernate and
when the times are ripe for their persuasive powers. Known for their
flexibility, they should sometimes be flexible enough to act inflexibly. Zhou
Enlai, the consummate chameleon, could play the hard-core Communist when it
suited him. Never become the slave to your own powers of charm; keep it under
control, something you can turn off and on at will. Charisma is a presence that
excites us. It comes from an inner quality - self-confidence, sexual energy,
sense ofpurpose, contentment-that most people lack and want. This quality
radiates outward, permeating the gestures of Charismatics, making them seem
extraordinary and superior, and making us imagine there is more to them than
meets the eye: they are gods, saints, stars. Charismatics can learn to heighten
their charisma with a piercing gaze, fiery oratory, an air of mystery. They can
seduce on a grand scale. Learn to create the charismatic illusion by radiating
intensity while remaining detached. Charisma and Seduction C harisma is seduction
on a mass level. Charismatics make crowds of people fall in love with them,
then lead them along. The process of making them fall in love is simple and
follows a path similar to that of a one-on-one seduction. Charismatics have
certain qualities that are powerfully attractive and that make them stand out.
This could be their selfbelief, their boldness, their serenity. They keep the
source of these qualities mysterious. They do not explain where their
confidence or contentment comes from, but it can be felt by everyone; it
radiates outward, without the appearance of conscious effort. The face of the
Charismatic is usually animated,full of energy, desire, alertness-the look of a
lover, one that is instantly appealing, even vaguely sexual. We happily follow
Charismatics because we like to be led, particularly by people who promise
adventure or prosperity. We lose ourselves in their cause, become emotionally
attached to them, feel more alive by believing in them-we fall in love.
Charisma plays on repressed sexuality, creates an erotic charge. Yet the
origins of the word lie not in sexuality but in religion, and religion remains
deeply embedded in modern charisma. Thousands of years ago, people believed in
gods and spirits, but few could ever say that they had witnessed a miracle, a
physical demonstration of divine power. A man, however, who seemed possessed by
a divine spirit-speaking in tongues, ecstatic raptures, the expression of
intense visions-would stand out as one whom the gods had singled out. And this
man, a priest or a prophet, gained great power over others. What made the
Hebrews believe in Moses, follow him out of Egypt, and remain loyal to him
despite their endless wandering in the desert? The look in his eye, his
inspired and inspiring words, the face that literally glowed when he came down
from Mount Sinai-all these things gave him the appearance of having direct
communication with God, and were the source of his authority. And these were
what was meant by "charisma," a Greek word referring to prophets and
to Christ himself. In early Christianity, charisma was a gift or talent
vouchsafed by God's grace and revealing His presence. Most of the great
religions were founded by a Charismatic, a person who physically displayed the
signs of God's favor. Over the years, the world became more rational.
Eventually people came to hold power not by divine right but because they won
votes, or proved their competence. The great early-twentieth-century German
soci- "Charisma" shall be understood to refer to an extraordinary
quality of a person, regardless of whether this quality is actual, alleged or
presumed. "Charismatic authority," hence, shall refer to a rule over
men, whether predominately extern l or predominately internal, to which the
governed submit because of their belief in the extraordinary quality of the
specific person. -MAX WEBER, FROM MAX WEBER: ESSAYS IN SOCIOLOGY. GERTH MILLS
And the Lord said to Moses, "Write these words; in accordance with these
words I have made a covenant with you and with Israel." And he was there
with the Lordforty days and forty nights; he neither ate bread nor drank water.
And he wrote upon the tables the words of the covenant, the ten commandments.
When Moses came down from Mount Sinai, with the two tables of the testimony in
his hand as he came down from the mountain, Moses did not know that the skin of
his face shone because he had been talking with God. And when Aaron and all the
people of Israel saw Moses, behold, the skin of his face shone, and they were
afraid to come near him. But Moses called to them; and Aaron and all the
leaders of the congregation returned to him, and Moses talked them. And
afterward all the people of Israel came near, and he gave them in commandment
all that the Lord had spoken with him in Mount Sinai. And when Moses had
finished speaking with them, he put a veil on his face; but whenever Moses went
in before the Lord to speak with him, he took the veil off, until he came out;
and when he came out, and told the people of Israel what he was commanded, the
people of Israel saw the face of Moses, that the skin of Moses's face shone;
and Moses would put the veil upon his face again, until he went in to speak
with him. -EXODUS ologist Max Weber,
however, noticed that despite our supposed progress, there were more
Charismatics than ever. What characterized a modern Charismatic, according to
Weber, was the appearance of an extraordinary quality in their character, the
equivalent of a sign of God's favor. How else to explain the power of a
Robespierre or a Lenin? More than anything it was the force of their magnetic
personalities that made these men stand out and was the source of their power.
They did not speak of God but of a great cause, visions of a future society.
Their appeal was emotional; they seemed possessed. And their audiences reacted
as euphorically as earlier audiences had to a prophet. When Lenin died, in
1924, a cult formed around his memory, transforming the communist leader into a
deity. Today, anyone who has presence, who attracts attention when he or she
enters a room, is said to possess charisma. But even these less-exalted types
reveal a trace of the quality suggested by the word's original meaning. Their
charisma is mysterious and inexplicable, never obvious. They have an unusual
confidence. They have a gift-often a smoothness with language-that makes them
stand out from the crowd. They express a vision. We may not realize it, but in
their presence we have a kind of religious experience: we believe in these
people, without having any rational evidence for doing so. When trying to
concoct an effect of charisma, never forget the religious source of its power.
You must radiate an inward quality that has a saintly or spiritual edge to it.
Your eyes must glow with the fire of a prophet. Your charisma must seem
natural, as if it came from something mysteriously beyond your control, a gift
of the gods. In our rational, disenchanted world, people crave a religious
experience, particularly on a group level. Any sign of charisma plays to this
desire to believe in something. And there is nothing more seductive than giving
people something to believe in and follow. Charisma must seem mystical, but
that does not mean you cannot learn certain tricks that will enhance the
charisma you already possess, or will give you the outward appearance of it.
The following are basic qualities that will help create the illusion of
charisma: Purpose. If people believe you have a plan, that you know where you
are going, they will follow you instinctively. The direction does not matter:
pick a cause, an ideal, a vision and show that you will not sway from your
goal. People will imagine that your confidence comes from somethingreal--just
as the ancient Hebrews believed Moses was in communion with God, simply because
he showed the outward signs. Purposefulness is doubly charismatic in times of
trouble. Since most people hesitate before taking bold action (even when action
is what is required), single-minded self-assurance will make you the focus of
attention. People will believe in you through the simple force of your
character. When Franklin Delano Roosevelt came to power amidst the Depression,
much of the public had little faith he could turn things around. But in his
first few months in office he displayed such confidence, such decisiveness and
clarity in dealing with the country's many problems, that the public began to
see him as their savior, someone with intense charisma. Mystery. Mystery lies
at charisma's heart, but it is a particular kind of mystery-a mystery expressed
by contradiction. The Charismatic may be both proletarian and aristocratic (Mao
Zedong), both cruel and kind (Peter the Great), both excitable and icily
detached (Charles de Gaulle), both intimate and distant (Sigmund Freud). Since
most people are predictable, the effect of these contradictions is
devastatingly charismatic. They make you hard to fathom, add richness to your
character, make people talk about you. It is often better to reveal your
contradictions slowly and subtly-if you throw them out one on top of the other,
people may think you have an erratic personality. Show your mysteriousness
gradually and word will spread. You must also keep people at arm's length, to
keep them from figuring you out. Another aspect of mystery is a hint of the
uncanny. The appearance of prophetic or psychic gifts will add to your aura.
Predict things authoritatively and people will often imagine that what you have
said hascome true. Saintliness. Most of us must compromise constantly to
survive; saints do not. They must live out their ideals without caring about
the consequences. The saintly effect bestows charisma. Saintliness goes far
beyond religion: politicians as disparate as George Washington and Lenin won
saintly reputations by living simply, despite their power-by matching their
political values to their personal lives. Both men were virtually deified after
they died. Albert Einstein too had a saintly aura-childlike, unwilling to
compromise, lost in his own world. The key is that you must already have some
deeply held values; that part cannot be faked, at least not without risking
accusations of charlatanry that will destroy your charisma in the long run. The
next step is to show, as simply and subtly as possible, that you live what you
believe. Finally, the appearance of being mild and unassuming can eventually
turn into charisma, as long as you seem completely comfortable with it. The
source of Harry Truman's charisma, and even of Abraham Lincoln's, was to appear
to be an Everyman. That devil of a man exercises a fascination on me that I
cannot explain even to myself and in such a degree that, though I fear neither
God nor devil, when I am in his presence I am ready to tremble like a child,
and he could make me go through the eye of a needle to throw myself into the
fire. -GENERAL VANDAMME, ON BONAPARTE [The masses ] have never thirsted after
truth. They demand illusions, and cannot do without them. They constantly give
what is unreal precedence over what is real; they are almost as strongly
influenced by what is untrue as by what is true. They have an evident tendency
not to distinguish between the two. -FREUD. Eloquence. A Charismatic relies on
the power of words. The reason is simple: words are the quickest way to create
emotional disturbance. They can uplift, elevate, stir anger, without referring
to anything real. During the Spanish Civil War, Dolores Gomez Ibarruri, known
as La Pasionaria, gave pro-Communist speeches that were so emotionally powerful
as to determine several key moments in the war. To bring off this kind of
eloquence, it helps if the speaker is as emotional, as caught up in words, as
the audience is. Yet eloquence can be learned: the devices La Pasionaria used-
catchwords, slogans, rhythmic repetitions, phrases for the audience to
repeat-can easily be acquired. Roosevelt, a calm, patrician type, was able to
make himself a dynamic speaker, both through his style of delivery, which was
slow and hypnotic, and through his brilliant use of imagery, alliteration, and
biblical rhetoric. The crowds at his rallies were often moved to tears. The
slow, authoritative style is often more effective than passion in the long run,
for it is more subtly spellbinding, and less tiring. Theatricality. A
Charismatic is larger than life, has extra presence. Actors have studied this
kind of presence for centuries; they know how to stand on a crowded stage and
command attention. Surprisingly, it is not the actor who screams the loudest or
gestures the most wildly who works this magic best, but the actor who stays
calm, radiating self-assurance. The effect is ruined by trying too hard. It is
essential to be self-aware, to have the ability to see yourself as others see
you. De Gaulle understood that self-awareness was key to his charisma; in the
most turbulent circumstances-the Nazi occupation of France, the national
reconstruction after World War II, an army rebellion in Algeria-he retained an
Olympian composure that played beautifully against the hysteria of his
colleagues. When he spoke, no one could take their eyes off him. Once you know
how to command attention this way, heighten the effect by appearing in
ceremonial and ritual events that are full of exciting imagery, making you look
regal and godlike. Flamboyancy has nothing to do with charisma-it attracts the
wrong kind of attention. Uninhibitedness. Most people are repressed, and have
little access to their unconscious-a problem that creates opportunities for the
Charismatic, who can become a kind of screen on which others project their
secret fantasies and longings. You will first have to show that you are less
inhibited than your audience-that you radiate a dangerous sexuality, have no
fear of death, are delightfully spontaneous. Even a hint of these qualities
will make people think you more powerful than you are. In the 1850s a bohemian
American actress, Adah Isaacs Menken, took the world by storm through her
unbridled sexual energy, and her fearlessness. She would appear on stage
half-naked, performing death-defying acts; few women could dare such things in
the Victorian period, and a rather mediocre actress became a figure of cultlike
adoration. An extension of your being uninhibited is a dreamlike quality in
your work and character that reveals your openness to your unconscious. It was
the possession of this quality that transformed artists like Wagner and Picasso
into charismatic idols. Its cousin is a fluidity of body and spirit; while the
repressed are rigid, Charismatics have an ease and an adaptability that show
their openness to experience. Fervency. You need to believe in something, and
to believe in it strongly enough for it to animate all your gestures and make
your eyes light up. This cannot be faked. Politicians inevitably lie to the
public; what distinguishes Charismatics is that they believe their own lies,
which makes them that much more believable. A prerequisite for fiery belief is
some great cause to rally around-a crusade. Become the rallying point for
people's discontent, and show that you share none of the doubts that plague
normal humans. In 1490, the Florentine Girolamo Savonarola railed at the
immorality of the pope and the Catholic Church. Claiming to be divinely
inspired, he became so animated during his sermons that hysteria would sweep
the crowd. Savonarola developed such a following that he briefly took over the
city, until the pope had him captured and burned at the stake. People believed
in him because of the depth of his conviction. His example has more relevance
today than ever: people are more and more isolated, and long for communal experience.
Let your own fervent and contagious faith, in virtually anything, give them
something to believe in. Vulnerability. Charismatics display a need for love
and affection. They are open to their audience, and in fact feed off its
energy; the audience in turn is electrified by the Charismatic, the current
increasing as it passes back and forth. This vulnerableside to charisma softens
the self-confident side, which can seem fanatical and frightening. Since
charisma involves feelings akin to love, you in turn must reveal your love for
your followers. This was a key component to the charisma that Marilyn Monroe
radiated on camera. "I knew I belonged to the Public," she wrote in
her diary, "and to the world, not because I was talented or even beautiful
but because I had never belonged to anything or anyone else. The Public was the
only family, the only Prince Charming and the only home I had ever dreamed
of." In front of a camera, Monroe suddenly came to life, flirting with and
exciting her unseen public. If the audience doesnot sense this quality in you
they will turn away from you. On the other hand, you must never seem
manipulative or needy. Imagine your public as a single person whom you are
trying to seduce-nothing is more seductive to people than the feeling that they
are desired. Adventurousness. Charismatics are unconventional. They have an air
of adventure and risk that attracts the bored. Be brazen and courageous in your
actions-be seen taking risks for the good of others. Napoleon made sure his
soldiers saw him at the cannons in battle. Lenin walked openly on the streets,
despite the death threats he had received. Charismatics
thriveintroubledwaters;acrisissituationallowsthemtoflaunt their daring, which
enhances their aura. John F. Kennedy came to life in dealing with the Cuban
missile crisis, Charles de Gaulle when he confronted rebellion in 102 In such
conditions, where half the battle was hand- to-hand, concentrated into a small
space, the spirit and example of the leader countedfor much. When we remember
this, it becomes easier to understand the astonishing dfect of Joan's presence
upon the French troops. Her position as a leader was a unique one. She was not
a professional soldier; she was not really a soldier at all; she was not even a
man. She was ignorant of war. She was a girl dressed up. But she believed, and
had made others willing to believe, that she was the mouthpiece of God. • On
Friday, April 29th, 1429, the news spread in Orleans that a force, led by the
Pucelle of Domremy, was on its way to the relief of the city, a piece of news
which, as the chronicler remarks, comforted them greatly.-VITA SACKVILLE-WEST,
SAINTJOAN OF ARC Algeria. They needed these problems to seem charismatic, and
in fact some have even accused them of stirring up situations (Kennedy through
his brinkmanship style of diplomacy, for instance) that played to their love of
adventure. Show heroism to give yourself a charisma that will last you
alifetime.Conversely, the slightest sign of cowardice or timidity will ruin
whatever charisma you had. Magnetism. If any physical attribute is crucial in
seduction, it is the eyes. They reveal excitement, tension, detachment, without
a word being spoken. Indirect communication is critical in seduction, and also
in charisma. The demeanor of Charismatics may be poised and calm, but their
eyes are magnetic; they have a piercing gaze that disturbs their targets'
emotions, exerting force without words or action. Fidel Castro's aggressive
gaze can reduce his opponents to silence. When Benito Mussolini was challenged,
he would roll his eyes, showing the whites in a way that frightened people.
President Kusnasosro Sukarno of Indonesia had a gaze that seemed as if it could
have read thoughts. Roosevelt could dilate his pupils at will, making his stare
both hypnotizing and intimidating. The eyes of the Charismatic never show fear
or nerves. All of these skills are acquirable. Napoleon spent hours in front of
a mirror, modeling his gaze on that of the great contemporary actor Talma. The
key is self-control. The look does not necessarily have to be aggressive; it
can also show contentment. Remember: your eyes can emanate charisma, but they
can also give you away as a faker. Do not leave such an important attribute to
chance. Practice the effect you desire. Genuine charisma thus means the ability
to internally generate and externally express extreme excitement, an ability
which makes one the object of intense attention and unre- flective imitation by
others. -LI AH GREENFIELD Charismatic Types-Historical Examples The miraculous
prophet. In the year 1425, Joan of Arc, a peasant girl from the French village
of Domremy, had her first vision: "I was in my thirteenth year when God
sent a voice to guide me." The voice was that of Saint Michael and he came
with a message from God: Joan had been chosen to rid France of the English
invaders who now ruled most of the country, and of the resulting chaos and war.
She was also to restore the French crown to the prince-the Dauphin, later
Charles VII-who was its rightful heir. Saint Catherine and Saint Margaret also
spoke to Joan. Her visions were extraordinarily vivid: she saw Saint Michael,
touched him, smelled him. The Charismatic • 103 At first Joan told no one what
she had seen; for all anyone knew, she was a quiet farm girl. But the visions
became even more intense, and so in 1429 she left Domremy, determined to
realize the mission for which God had chosen her. Her goal was to meet Charles
in the town of Chinon, where he had established his court in exile. The obstacles
were enormous: Chinon was far, thejourney was dangerous, and Charles, even if
she reached him, was a lazy and cowardly young man who was unlikely to crusade
against the English. Undaunted, she moved from village to village, explaining
her mission to soldiers and asking them to escort her to Chinon. Young girls
with religious visions were a dime a dozen at the time, and there was nothing
in Joan's appearance to inspire confidence; one soldier, however, Jean de Metz,
was intrigued with her. What fascinated him was the detail of her visions: she
would liberate the besieged town of Orleans, have the king crowned at the
cathedral in Reims, lead the army to Paris; she knew how she would be wounded,
and where; the words she attributed to Saint Michael were quite unlike the
language of a farm girl; and she was so calmly confident, she glowed with
conviction. De Metz fell under her spell. He swore allegiance and set out with
her for Chinon. Soon others offered assistance, too, and word reached Charles
of the strange young girl on her way to meet him.On the 350-mile road to
Chinon, accompanied only by a handful of soldiers, through a land infested with
warring bands, Joan showed neither fear nor hesitation. The journey took
several months. When she finally arrived, the Dauphin decided to meet the girl
who had promised to restore him to his throne, despite the adviceof his
counselors; but he was bored, and wanted amusement, and decided to play a trick
on her. She was to meet him in a hall packed with courtiers; to test her
prophetic powers, he disguised himself as one of these men, and dressed another
man as the prince. Yet when Joan arrived, to the amazement of the crowd, she
walked straight up to Charles and curtseyed: "The King of Heaven sends me
to you with the message that you shall be the lieutenant of the King of Heaven,
who is the king of France." In the talk that followed, Joan seemed to echo
Charles's most private thoughts, while once again recounting in extraordinary
detail the feats she would accomplish. Days later, this indecisive, flighty man
declared himself convinced and gave her his blessing to lead a French army
against the English. Miracles and saintliness aside, Joan of Arc had certain
basic qualities that made her exceptional. Her visions were intense; she could
describe them in such detail that they had to be real. Details have that
effect: they lend a sense of reality to even the most preposterous statements.
Furthermore, in a time of great disorder, she was supremely focused, as if her
strength came from somewhere unworldly. She spoke with authority, and she
predicted things people wanted: the English would be defeated, prosperity would
return. She also had a peasant's earthy common sense. She had surely heard
descriptions of Charles on the road to Chinon; once at court, she could Amongst
the surplus population living on the margin of society [in the Middle Ages ]
there was always a strong tendency to take as leader a layman, or maybe an
apostatefriar or monk, who imposed himself not simply as a holy man but as a
prophet or even as a living god. On the strength of inspirations or revelations
for which he claimed divine origin this leader would decree for his followers a
communal mission of vast dimensions and world-shaking importance. The
conviction of having such a mission, of being divinely appointed to carry out a
prodigious task, provided the disoriented and the frustrated with new bearings
and new hope. It gave them not simply a place in the world but a unique and
resplendent place. A fraternity of this kind felt itself an elite, set
infinitely apartfrom and above ordinary mortals, sharing also in his miraculous
powers. COHN, THE PURSUIT OF THE MILLENNIUM "How peculiar [Rasputin's]
eyes are," confesses a woman who had made efforts to resist his influence.
She goes on to say that every time she met him she was always amazed afresh at
the power of his glance, which it was impossible to withstand for any
considerable time. There was something oppressive inthis kind and gentle, but
at the same time sly and cunning, glance; people were helpless under the spell
of the powerful will which could be felt in his whole being. However tired you
might be of this charm, and however much you wanted to escape it, somehow or
other you always found yourself attracted back and held. • A young girl who had
heard of the strange new saint camefrom her province to the capital, and
visited him in search of edification and spiritual instruction. She had never
seen either him or a portrait of him before, and met him for the first time in
his house. When he came up to her and spoke to her, she thought him like one of
the peasant preachers she had often seen in her own country home. His gentle,
monastic gaze and the plainly parted light brown hair around the worthy simple
face, all at first inspired her confidence. But when he came nearer to her,
shefelt immediately that another quite different man, mysterious, crafty, and
corrupting, looked out from behind the eyes that radiated goodness and
gentleness. • He sat down opposite her, edged quite close up to her, and his
light blue eyes changed color, and became deep and have sensed the trick he was
playing on her, and could have confidently picked out his pampered face in the
crowd. The following year, her visions abandoned her, and her confidence as
well-shemade many mistakes, leading to her capture by the English. She was
indeed human. We may no longer believe in miracles, but anything that hints at
strange, unworldly, even supernatural powers will create charisma. The
psychology is the same: you have visions of the future, and of the wondrous
things you can accomplish. Describe these things in great detail, with an air
authority, and suddenly you stand out. And if your prophecy-of prosperity,
say-is just what people want to hear, they are likely to fall under spell and
to see later events as a confirmation of your predictions. Exhibit remarkable
confidence and people will think your confidence comes from real knowledge. You
will create a self-fulfilling prophecy: people's belief in you will translate
into actions that help realize your visions. Any hint of success will make them
see miracles, uncanny powers, the glow of charisma. The authentic animal. One
day in 1905, the St. Petersburg salon of Countess Ignatiev was unusually full.
Politicians, society ladies, and courtiers had all arrived early to await the
remarkable guest of honor: Grigori Efimovich Rasputin, a forty-year-old
Siberian monk who had made a name for himself throughout Russia as a healer,
perhaps a saint. When Rasputinarrived, few could disguise their disappointment:
his face was ugly, his hair was stringy,hewas gangly and awkward. They wondered
why they had come. But then Rasputin approached them one by one, wrapping his
big hands around their fingers and gazing deep into their eyes. At first his
gaze was unsettling: as he looked them up and down, he seemed to be probing
andjudging them. Yet suddenly his expression would change, and kindness, joy,
and understanding would radiate from his face. Several of the ladies he actually
hugged, in a most effusive manner. This startling contrast had profound
effects. The mood in the salon soon changed from disappointment to excitement.
Rasputin's voice was so calm and deep; his language was coarse, yet the ideas
it expressed were delightfully simple, and had the ring of great spiritual
truth. Then, just as the guests were beginning to relax with this dirty-looking
peasant, his mood suddenly changed to anger: "I know you, I can read your
souls. You are all too pampered. . . . These fine clothes and arts of yours are
useless and pernicious. Men must learn to humble themselves! You must be
simpler, far, far simpler. Only then will God come nearer to you." The
monk's face grew animated, his pupils expanded, he looked completely different.
How impressive that angry look was, recalling Jesus throwing the moneylenders
from the temple. Now Rasputin calmed down, returned to being gracious, but the
guests already saw him as someone strange and remarkable. Next, in a
performance he would soon repeat in salons throughout the city, he led the
guests in a folk song, and as they sang, he began to dance, a strange
uninhibited dance of his own design, and as he danced, he circled the most
attractive women there, and with his eyes invited them to join him. The dance
turned vaguely sexual; as his partners fell under his spell, he whispered
suggestive comments in their ears. Yet none of them seemed to be offended. Over
the next few months, women from every level of St. Petersburg society visited
Rasputin in his apartment. He would talk to them of spiritual matters, but then
without warning he would turn sexual, murmuring the crassest come-ons. He would
justify himself through spiritual dogma: how can you repent if you have not
sinned? Salvation only comes to those who go astray. One of the few who
rejected his advances was asked by a friend, "How can one refuse anything
to a saint?" "Does a saint need sinful love?" she replied. Her
friend said, "He makes everything that comes near him holy. I have already
belonged to him, and I am proud and happy to have done so." "But you
are married! What does your husband say?" "He considers it a very
great honor. If Rasputin desires a woman we all think it a blessing and a
distinction, our husbands as well as ourselves." Rasputin's spell soon
extended over Czar Nicholas and more particularly over his wife, the Czarina
Alexandra, after he apparently healed their son from a life-threatening injury.
Within a few years, he had become the most powerful man in Russia, with total sway
over the royal couple. People are more complicated than the masks they wear in
society. The man who seems so noble and gentle is probably disguising a dark
side, which often come out in strange ways; if his nobility and refinement are
in fact a put-on, sooner or later the truth will out, and his hypocrisy will
disappoint and alienate. On the other hand, we are drawn to people who seem
more comfortably human, who do not bother to disguise their contradictions.
This was the source of Rasputin's charisma. A man so authentically himself, so
devoid of self-consciousness or hypocrisy, was immensely appealing. His
wickedness and saintliness were so extreme that it made him seem larger than
life. The result was a charismatic aura that was immediate and preverbal; it
radiated from his eyes, and from the touch of his hands. Most of us are a mix
of the devil and the saint, the noble and the ignoble, and we spend our lives
trying to repress the dark side. Few of us can give free rein to both sides, as
Rasputin did, but we can create charisma to a smaller degree by ridding
ourselves of self-consciousness, and of the discomfort most of us feel about
our complicated natures. You cannot help being the way you are, so be genuine.
That is what attracts us to animals: beautiful and cruel, they have no
self-doubt. That quality is doubly fascinating in humans. Outwardly people may
condemn your dark side, but it is not virtue alone that creates charisma;
anything extraordinary will do. Do not apologize or go halfway. The more unbridled
you seem, the more magnetic the effect. dark. A keen glance reached her from
the comer of his eyes, bored into her, and held her fascinated. A leaden
heaviness overpowered her limbs as his great wrinkled face, distorted with
desire, came closer to hers. She felt his hot breath on her cheeks, and saw how
his eyes, burning from the depths of their sockets, furtively roved over her
helpless body, until he dropped his lids with a sensuous expression. His voice
had fallen to a passionate whisper, and he murmured strange, voluptuous words
in her ear. • Just as she was on the point of abandoning herself to her
seducer, a memory stirred in her dimly and as if from some far distance; she
recalled that she had come to ask him about God. FULOP-MILLER, RASPUTIN: THE
HOLY DEVIL By its very nature, the existence of charismaticauthority is
specifically unstable. The holder may forego his charisma; he may feel
"forsaken by his God," as Jesus did on the cross; he may prove to his
that "virtue is gone out of him." It is then that his mission is
extinguished, and hope waits and searches for a new holder of charisma. WEBER:
ESSAYS IN SOCIOLOGY. GERTH AND WRIGHT MILLS The demonic performer. Throughout
his childhood Elvis Presley was thought a strange boy who kept pretty much to
himself. In high school in Memphis, Tennessee, he attracted attention with his
pompadoured hair and sideburns, his pink and black clothing, but people who
tried to talk to him found nothing there-he was either terribly bland or
hopelessly shy. At the school prom, he was the only boy who didn't dance. He
seemed lost in a private world, in love with the guitar he took everywhere. At
the Ellis Auditorium, at the end of an evening of gospel music or wrestling,
the concessions manager would often find Elvis onstage, miming a performance
and taking bows before an imaginary audience. Asked to leave, he would quietly
walk away. He was a very polite young man. In 1953, just out of high school,
Elvis recorded his first song, in a local studio. The record was a test, a
chance for him to hear his own voice. A year later the owner of the studio, Sam
Phillips, called him in to record two blues songs with a couple of professional
musicians. They worked for hours, but nothing seemed to click; Elvis was
nervous and inhibited. Then, near the end of the evening, giddy with
exhaustion, he suddenly let loose and started to jump around like a child, in a
moment of complete selfabandon. The other musicians joined in, the song getting
wilder and wilder. Phillips's eyes lit up-he had something here. A month later
Elvis gave his first public performance, outdoors in a Memphis park. He was as
nervous as he had been at the recording session, and could only stutter when he
had to speak; but once he broke into song, the words came out. The crowd
responded excitedly, rising to peaks at certain moments. Elvis couldn't figure
out why. "I went over to the manager after the song," he later said,
"and I asked him what was making the crowd go nuts. He told me, 'I'm not
really sure, but I think that every time you wiggle your left leg, they start
to scream. Whatever it is, just don't stop.' A single Elvis recorded in 1954
became a hit. Soon he was in demand. Going onstage filled him with anxiety and
emotion, so much so that he became a different person, as if possessed.
"I've talked to some singers and they get a little nervous, but they say
their nerves kind of settle down they get into it. Mine never do. It's sort of
this energy something maybe like sex." Over the next few months he
discovered more gestures and sounds-twitching dance movements, a more tremulous
voice-that made the crowds go crazy, particularly teenage girls. Within a year
he had become the hottest musician in America. His concerts were exercises in
mass hysteria. Elvis Presley had a dark side, a secret life. (Some have
attributed it to the death, at birth, of his twin brother.) This dark side he
deeply repressed as a young man; it included all kinds of fantasies which he
could only give in to when he was alone, although his unconventional clothing
may also have been a symptom of it. When he performed, though, he was able to
let these demons loose. They came out as a dangerous sexual power. Twitching,
androgynous, uninhibited, he was a man enacting strange fantasies before the public.
The audience sensed this and was excited by it. It wasn't a flamboyant style
and appearance that gave Elvis charisma, but rather the electrifying expression
of his inner turmoil. A crowd or group of any sort has a unique energy. Just
below the surface is desire, a constant sexual excitement that has to be
repressed because it is socially unacceptable. If you have the ability to rouse
those desires, the crowd will see you as having charisma. The key is learning
to access your own unconscious, as Elvis did when he let go. You are full of an
excitement that seems to come from some mysterious inner source. Your
uninhibitedness will invite other people to open up, sparking a chain reaction:
their excitement in turn will animate you still more. The fantasies you bring
to the surface do not have to be sexual-any social taboo, anything repressed
and yearning for an outlet, will suffice. Make this felt in your recordings,
your artwork, your books. Social pressure keeps people so repressed that they
will be attracted to your charisma before they have even met you in person. The
Savior. In March of 1917, the Russian parliament forced the country's ruler.
Czar Nicholas, to abdicate and established a provisional government. Russia was
in rums. Its participation in World War I had been a disaster; famine was
spreading widely, the vast countryside was riven by looting and lynch law, and
soldiers were deserting from the army en masse. Politically the country was
bitterly divided; the main factions were the right, the social democrats, and
the left-wing revolutionaries, and each of these groups was itself afflicted by
dissension. Into this chaos came the forty-seven-year-old Vladimir Ilyich
Lenin. A Marxist revolutionary, the leader of the Bolshevik Communist party, he
had suffered a twelve-year exile in Europe until, recognizing the chaos
overcoming Russia as the chance he had long been waiting for, he had hurried
back home. Now he called for the country to end its participation in the war
and for an immediate socialist revolution. In the first weeks after his
arrival, nothing could have seemed more ridiculous. As a man, Lenin looked
unimpressive; he was short and plain-featured. He had also spent years away in
Europe, isolated from his people and immersed in reading and intellectual
argument. Most important, his party was small, representing only a splinter
group within the loosely organized left coalition. Few took him seriously as a
national leader. Undaunted, Lenin went to work. Wherever he went, he repeated
the same simple message; end the war, establish the rule of the proletariat,
abolish private property, redistribute wealth. Exhausted with the nation's
endless political infighting and the complexity of its problems, people began
to listen. Lenin was so determined, so confident. He never lost his cool. In
the midst of a raucous debate, he would simply and logically debunk each one of
his adversaries' points. Workers and soldiers were im- He is their god. He
leads them like a thing \ Made by some other deity than nature, \ That shapes
man better; and they follow him \ Against us brats with no less confidence \
Than boys pursuing summer butterflies \ Or butchers killing flies. . . . -WILLI
AMS HAKES PE ARE, CORIOLANUS The roof did lift as Presley came onstage. He sang
for twenty-five minutes while the audience erupted like Mount Vesuvius. "I
never saw such excitement and screaming in my entire life, ever before or
since," said I film director Hal ] Kanter. As an observer, he describ-ed
being stunned by "an exhibition of public mass hysteria ... a tidal wave
of adoration surging up from 9,000 people, over the wall of police flanking the
stage, up over the flood-lights, to the performer and beyond him, lifting him
to frenzied heights of response." -A DESCRIPTION OFPRESLEY'S CONCERT AT
THE HAYRIDE THEATER, SHREVEPORT, LOUISIANA, DECEMBER 17, 1956, IN PETER
WHITMER, THE INNER ELVIS: A PSYCHOLOGICAL BIOGRAPHY OF ELVIS AARON PRESLEY No
one could so fire others with theif plans, no one could so impose his will and
conquer by force of his personality as this seemingly so ordinary and somewhat
coarse man who lacked any obvious sources of charm. . . . Neither Plekhanov nor
Martov nor anyone else possessed the secret radiating from Lenin of positively
hypnotic effect upon people-I would even say, domination of them. Plekhanov was
treated with deference, Martov was loved, but Lenin alone was followed
unhesitatingly as the only indisputable leader. For only Lenin represented that
rare phenomenon, especially rare in Russia, of a man of iron will and
indomitable energy who combines fanatical faith in the movement, the cause,
with no less faith in himself. POTRESOV, QUOTED IN DANKWARTA. RUSTOW, ED..
PHILOSOPHERS AND KINGS: STUDIES IN LEADERSHIP "I had hoped to see the
mountain eagle of our party, the great man, great physically as well as
politically. I had fancied Lenin as a giant, stately and imposing. Mow great
was my disappointment to see a most ordinary-looking man, below average height,
in no way, literally in no way distinguishable from ordinary mortals. STALIN,
ON MEETING LENIN FOR THE FIRST TIME IN 1905,QUOTED IN RONALD W. CLARK, LENIN
:THE MAN BEHIND THE MASK pressed by his firmness. Once, in the midst of a
brewing riot, Lenin amazed his chauffeur by jumping onto the running board of
his car and directing the way through the crowd, at considerable personal risk.
Told that his ideas had nothing to do with reality, he would answer, "So
much the worse for reality!" Allied to Lenin's messianic confidence in his
cause was his ability to organize. Exiled in Europe, his party had been
scattered and diminished; in keeping them together he had developed immense
practical skills. In front of a large crowd, he was a also powerful orator. His
speech at the First All- Russian Soviet Congress made a sensation; either
revolution or a bourgeois government, he cried, but nothing in between-enough
of this compromise in which the left was sharing. At a time when other
politicians were scrambling desperately to adapt to the national crisis, and
seemed weak in the process, Lenin was rock stable. His prestige soared, as did
the membership of the Bolshevik party Most astounding of all was Lenin's effect
on workers, soldiers, and peasants. He would address these common people
wherever he found them-in the street, standing on a chair, his thumbs in his
lapel, his speech an odd mix of ideology, peasant aphorisms, and revolutionary
slogans. They would listen, enraptured. When Lenin died, in 1924-seven years
after single- handedly opening the way to the October Revolution of 1917, which
had swept him and the Bolsheviks into power-these same ordinary Russians went
into mourning. They worshiped at his tomb, where his body was preserved on
view; they told stories about him, developing a body of Lenin folklore;
thousands of newborn girls were christened "Ninel," Lenin backwards.
This cult of Lenin assumed religious proportions. There all kinds of
misconceptions about charisma, which, paradoxically, only add to its mystique.
Charisma has little to do with an exciting physical appearance or a colorful
personality, qualities that elicit short-term interest. Particularly in times of
trouble, people are not looking for entertainment- they want security, a better
quality of life, social cohesion. Believe it or not, a plain-looking man or
woman with a clear vision, a quality of single- mindedness, and practical
skills can be devastatingly charismatic, provided it matched with some success.
Never underestimate the power of success in enhancing one's aura. But in a
world teeming with compromisers and fudgers whose indecisiveness only creates
more disorder, one clear-minded soul will be a magnet of attention-will have
charisma. One on one, or in a Zurich cafe before the revolution, Lenin had
little or no charisma. (His confidence was attractive, but many found his
strident manner irritating.) He won charisma when he was seen as the man who
could save the country. Charisma is not a mysterious quality that inhabits you
outside your control; it is an illusion in the eyes of those who see you as
having what they lack. Particularly in times of trouble, you can enhance that
illusion through calmness, resolution, and clear-minded practicality. It also
helps to have a seductivelysimple message. Call it the Savior Syndrome: once
people imagine you can save them from chaos, they will fall in love with you,
like a person who melts in the arms of his or her rescuer. And mass love equals
charisma. How else to explain the love ordinary Russians felt for a man as
emotionless and unexciting as Vladimir Lenin. The guru. According to the
beliefs of the Theosophical Society, every two thousand years or so the spirit
of the World Teacher, Lord Maitreya, inhabits the body of a human. First there
was Sri Krishna, born two thousand years before Christ; then there was Jesus
himself; and at the start of the twentieth century another incarnation was due.
One day in 1909, the theosophist Charles Leadbeater saw a boy on an Indian
beach and had an epiphany: this fourteen-year-old lad, Jiddu Krishnamurti,
would be the Teacher's next vehicle. Leadbeater was struck by the simplicity of
the boy, who seemed to lack the slightest trace of selfishness. The members of
the Theosophical Society agreed with his assessment and adopted this scraggly
underfed youth, whose teachers had repeatedly beaten him for stupidity. They
fed and clothed him and began his spiritual instruction. The scruffy urchin
turned into a devilishly handsome young man. In 1911, the theosophists formed
the Order of the Star in the East, a group intended to prepare the way for the
coming of the World Teacher. Krishnamurti was made head of the order. He was
taken to England, where his education continued, and everywhere he went he was
pampered and revered. His air of simplicity and contentment could not help but
impress. Soon Krishnamurti began to have visions. In 1922 he declared, "I
have drunk at the fountain of Joy and eternal Beauty. I am
God-intoxicated." Over the next few years he had psychic experiences that
the theosophists interpreted as visits from the World Teacher. But Krishnamurti
had actually had a different kind of revelation: the truth of the universe came
from within. No god, no guru, no dogma could ever make one realize it. He
himself was no god or messiah, but just another man. The reverence that he was
treated with disgusted him. In 1929, much to his followers' shock, he disbanded
the Order of the Star and resigned from the Theosophical . And so Krishnamurti
became a philosopher, determined to spread the truth he had discovered: you
must be simple, removing the screen of language and past experience. Through
these means anyone could attain contentment of the kind that radiated from
Krishnamurti. The theosophists abandoned him but his following grew larger than
ever. In California, where he spent much of his time, the interest in him
verged onculticadoration. The poet Robinson Jeffers said that whenever
Krishnamurti entered a room you could feel a brightness filling the space. The
writer Aldous Huxley met him in Los Angeles and fell under his spell. Hearing
him speak, he wrote: "It was like listening to the discourse of the
Buddha- such power, such intrinsic authority." The man radiated
enlightenment. The actor John Barrymore asked him to play the role of Buddha in
a film. Tirst and foremost there can be no prestige without mystery, for
familiarity breeds contempt. ...In the design, the demeanor and the mental
operations of a leader there must always be a "something" which
others cannot altogether fathom, which puzzles them, stirs them, and rivets
their attention ... to hold in reserve some piece of secret knowledge which may
any moment intervene, and the more effectively from being in the nature of a
surprise. The latent faith of the masses will do the rest. Once the leader has
been fudged capable of adding the weight of his personality to the known
factors of any situation, the ensuing hope and confidence will add immensely to
the faith reposed in him. -CHARLES DE GAULLE, THE OF THE SWORD. IN DAVID
SCHOENBRUN, THE THREE LIVES OF CHARLES DE GAULLE Only a month after Evita's
death, the newspaper vendors' union put forwardher name for canonization, and
although this gesture was an isolated one and was never taken seriously by the
Vatican, the idea of Evita's holiness remained with many people and was reinforced
by the publication of devotional literature subsidized by government; by the
renaming of cities, schools, and subway stations; and by the stamping of
medallions, the casting of busts, and the issuing of ceremonial stamps. The
time of the evening news broadcast was changedfrom 8:30 pm. to 8:25 P.M., the
time when Evita had "passed into immortality," and each month there
were torch-lit processions on the twenty-sixth of the month, the day of her
death. On the first anniversary of her death, La Prensa printed a about one of
its readers seeing Evita's face in the face of the moon, and after this there
were more such sightings reported in the newspapers. For the most part,
official publications stopped short of claiming sainthood for her, but their
restraint was not always convincing. In the calendar for 1953 of the Buenos
Aires newspaper vendors, as in other unofficial images, she was depicted in the
traditional blue robes of the Virgin, her hands crossed, her sad head to one
side and surrounded by a halo. -NICHOLAS FRASER AND MARYSA NAYARRO. EVITA
(Krishnamurti politely declined.) When he visited India, hands would reach
outfrom the crowd to try to touch him through the open car window. People
prostrated themselves before him. Repulsed by all this adoration, Krishnamurti
grew more and more detached. He even talked about himself in the third person.
In fact, the ability to disengage from one's past and view the world anew was
part of his philosophy, yet once again the effect was the opposite of what he
expected: the affection and reverence people felt for him only grew. His
followers fought jealously for signs of his favor. Women in particular fell
deeply in love with him, although he was a lifelong celibate. Krishnamurti had
no desire to be a guru or a Charismatic, but he inadvertently discovered a law
of human psychology that disturbed him. People do not want to hear that your
power comes from years of effort or discipline. They prefer to think that it
comes from your personality, your character, something you were born with. They
also hope that proximity to the guru or Charismatic will make some of that
power rub off on them. They did not want to have to read Krishnamurti's books,
or to spend years practicing his lessons-they simply wanted to be near him, soak
up his aura, hear him speak, feel the light that entered the room with him.
Krishnamurti advocated simplicity as a way of opening up to the truth, but his
own simplicity justallowedpeople to see what they wanted in him, attributing
powers to him that he not only denied but ridiculed. This is the guru effect,
and it is surprisingly simple to create. The aura you are after is not the
fiery one of most Charismatics, but one of incandescence, enlightenment. An
enlightened person has understood something that makes him or her content, and
this contentment radiates outward. That is the appearance you want: you do not
need anything or anyone, you are fulfilled. People are naturally drawn to those
who emit happiness; maybe they can catch it from you. The less obvious you are,
the better: let people conclude that you are happy, rather than hearing it from
you. Let them see it in your unhurried manner, your gentle smile, your ease and
comfort. Keep your words vague, letting people imagine what they will.
Remember: being aloof and distant only stimulates the effect. People will fight
for the slightest sign of your interest. A guru is content and detached-a
deadly Charismatic combination. The drama saint. It began on the radio.
Throughout the late 1930s and early 1940s, Argentine women would hear the
plaintive, musical voice of Eva Duarte in one of the lavishly produced soap
operas that were so popular at the time. She never made you laugh, but how
often she could make you cry-with the complaints of a betrayed lover, or the
last words of Marie Antoinette. The very thought of her voice made you shiver
with emotion. And she was pretty, with her flowing blond hair and her serious
face, which was often on the covers of the gossip magazines. In 1943, those
magazines published a most exciting story: Eva had begun an affair with one of
the most dashing men in the new military government. Colonel Juan Peron. Now
Argentines heard her doing propaganda spots for the government, lauding the
"New Argentina" that glistened in the future. And finally, this fairy
tale story reached its perfect conclusion: in 1945 Juan and Eva married, and
the following year, the handsome colonel, after many trials and tribulations
(including a spell in prison, from which he was freed by the efforts of his devoted
wife) was elected president. He was a champion of th edescamisados -the
"shirtless ones," the workers and the poor, just as his wife was.
Only twenty-six at the time, she had grown up in poverty herself. Now that this
star was the first lady of the republic, she seemed to change. She lost weight,
most definitely; her outfits became less flamboyant, even downright austere;
and that beautiful flowing hair was now pulled back, rather severely. It was a
shame-the young star had grown up. But as Argentines saw more of the new Evita,
as she was now known, her new look affected them more strongly. It was the look
of a saintly, serious woman, one who was indeed what her husband called the
"Bridge of Love" between himself and his people. She was now on the
radio all the time, and listening to her was as emotional as ever, but she also
spoke magnificently in public. Her voice was lower and her delivery slower; she
stabbed the air with her fingers, reached out as if to touch the audience. And
her words pierced you to the core: "I left my dreams by the wayside in
order to watch over the dreams of others. ... I now place my soul at the side
of the soul of my people. I offer them all my energies so that my body may be a
bridge erected toward the happiness of all. Pass over it ... toward the supreme
destiny of the new fatherland." It was no longer only through magazines
and the radio that Evita made herself felt. Almost everyone was personally
touched by her in some way. Everyone seemed to know someone who had met her, or
who had visited her in her office, where a line of supplicants wound its way
through the hallways to her door. Behind her desk she sat, so calm and full of
love. Film crews recorded her acts of charity: to a woman who had lost
everything, Evita would give a house; to one with a sick child, free care in
the finest hospital. She worked so hard, no wonder rumor had it that she was
ill. And everyone heard of her visits to the shanty towns and to hospitals for
the poor, where, against the wishes of her staff, she would kiss people with
all kinds of maladies (lepers, syphilitic men, etc.) on the cheek. Once an
assistant appalled by this habit tried to dab Evita's lips with alcohol, to
sterilize them. This saint of a woman grabbed the bottle and smashed it against
the wall. Yes, Evita was a saint, a living madonna. Her appearance alone could
heal the sick. And when she died of cancer, in 1952, no outsider to Argentina
could possibly understand the sense of grief and loss she left behind. For
some, the country never recovered. As for me, I have the gift of electrifying
men. -NAPOLEON BONAPARTE, IN PIETER GEYL, NAPOLEON: FORAND AGAINST I do not
pretend to be a divine man, but I do believe in divine guidance, divine power,
and divine prophecy. I am not educated, nor am I an expert in any particular
field-but I am sincere and my sincerity is my credentials. -MALCOLM X, QUOTED
IN EUGENE VICTORWOLFENSTEIN, THE VICTIMS OF DEMOCRACY: MALCOLM X AND THIS BLACK
REVOLUTION Most of us live in a semi-somnambulistic state: we do our daily
tasks and the days fly by. The two exceptions to this are childhood and those
moments when we are in love. In both cases, ouremotions are more engaged, more
open and active. And we equate feeling emotional with feeling more alive. A
public figure who can affect people's emotions, who can make them feel communal
sadness, joy, or hope, has a similar effect. An appeal to the emotions is far
more powerful than an appeal to reason. Eva Peron knew this power early on, as
a radio actress. Her tremulous voice could make audiences weep; because of
this, people saw in her great charisma. She never forgot the experience. Her
every public act was framed in dramatic and religious motifs. Drama is
condensed emotion, and the Catholic religion is a force that reaches into your
childhood, hits you where you cannot help yourself. Evita's uplifted arms, her
staged acts of charity, her sacrifices for the common folk-all this went
straight to the heart. It was not her goodness alone that was charismatic,
although the appearance of goodness is alluring enough. It was her ability to
dramatize her goodness. You must leam to exploit the two great purveyors of
emotion: drama and religion. Drama cuts out the useless and banal in life,
focusing on moments of pity and terror; religion deals with matters of life and
death. Make your charitable actions dramatic, give your loving words religious
import, bathe everything in rituals and myths going back to childhood.
Caughtupintheemotions you stir, people will see over your head the halo of
charisma. The deliverer. In Harlem in the early 1950s, few African-Americans
knew much about the Nation of Islam, or ever stepped into its temple. The
Nation preached that white people were descended from the devil and that
someday Allah would liberate the black race. This doctrine had little meaning
for Harlemites, who went to church for spiritual solace and turned in practical
matters to their local politicians. But in 1954, a new minister for the Nation
of Islam arrived in Harlem. The minister's name was Malcolm X, and he was
well-read and eloquent, yet his gestures and words were angry. Word spread:
whites had lynched Malcolm's father. He had grown up in a juvenile facility,
then had survived as a small-time hustler before being arrested for burglary
and spending six years in prison. His short life (he was only twenty-nine at
the time) had been one long run-in with the law, yet look at him now-so
confident and educated. No one had helped him; he had done it all on his own.
Harlemites began to see Malcolm X everywhere, handing out fliers, addressing
the young. He would stand outside their churches, and as the congregation
dispersed, he would point to the preacher and say, "He represents the
white man's god; I represent the black man's god." The curious began to
come to hear him preach at a Nation of Islam temple. He would ask them to look
at the actual conditions of their lives: "When you get through looking at
where you live, then . . . take a walk across Central Park," he would tell
them. "Look at the white man's apartments. Look at his Wall Street!"
His words were powerful, particularly coming from a minister. In 1957, a young
Muslim in Harlem witnessed the beating of a drunken black man by several
policemen. When the Muslim protested, the police pummeled him senseless and
carted him off to jail. An angry crowd gathered outside the police station,
ready to riot. Told that only Malcolm X could forestall violence, the police
commissioner brought him in and told him to break up the mob. Malcolm refused.
Speaking more temperately, the commissioner begged him to reconsider. Malcolm
calmly set conditions for his cooperation: medical care for the beaten Muslim,
and proper punishment for the police officers. The commissioner reluctantly
agreed. Outside the station, Malcolm explained the agreement and the crowd
dispersed. In Harlem and around the country, he was an overnight hero- finally
a man who took action. Membership in his temple soared. Malcolm began to speak
all over the United States. He never read from a text; looking out at the
audience,hemade eye contact, pointed his finger. His anger was obvious, not so
much in his tone-he was always controlled and articulate-as in his fierce
energy, the veins popping out on his neck. Many earlier black leaders had used
cautious words, and had asked their followers to deal patiently and politely
with their social lot, no matter how unfair. What a relief Malcolm was. He
ridiculed the racists, he ridiculed the liberals, he ridiculed the president;
no white person escaped his scorn. If whites were violent, Malcolm said, the
language of violence should be spoken back to them, for it was the only
language they understood. "Hostility is good!" he cried out.
"It's been bottled up too long." In response to the growing
popularity of the nonviolent leader Martin Luther King, Ir., Malcolm said,
"Anybody can sit. An old woman can sit. A coward can sit. ... It takes a
man to stand." Malcolm X had a bracing effect on many who felt the same
anger he did but were frightened to express it. At his funeral-he was
assassinated in 1965, at one of his speeches-the actor Ossie Davis delivered
the eulogy before a large and emotional crowd: "Malcolm," he said,
"was our own black shining prince." Malcolm X was a Charismatic of
Moses' kind: he was a deliverer. The power of this sort of Charismatic comes
from his or her expression of dark emotions that have built up over years of
oppression. In doing so, the deliverer provides an opportunity for the release
of bottled-up emotions by other people-of the hostility masked by forced
politeness and smiles. Deliverers have to be one of the suffering crowd, only
more so: their pain must be exemplary. Malcolm's personal history was an
integral part of his charisma. His lesson-that blacks should help themselves,
not wait for whites to lift them up-meant a great deal more because of his own
years in prison, and because he had followed his own doctrine by educating
himself, lifting himself up from the bottom. The deliverer must be a living
example of personal redemption. The essence of charisma is an overpowering
emotion that communicates itself in your gestures. In your tone of voice, in
subtle signs that are the more powerful for being unspoken. You feel something
more deeply than others, and no emotion is more powerful and more capable of
creating a charismatic reaction than hatred, particularly if it comes from
deep- rooted feelings of oppression. Express what others are afraid to express
and they will see great power in you. Say what they want to say but cannot.
Never be afraid of going too far. If you represent a release from oppression,
you have the leeway to go still farther. Moses spoke of violence, of destroying
every last one of his enemies. Language like this brings the oppressed together
and makes them feel more alive. This is not, however, something that is
uncontrollable on your part. Malcolm X felt rage from early on, but only in
prison did he teach himself the art of oratory, and how to channel his
emotions. Nothing is more charismatic than the sense that someone is struggling
with great emotion rather than simply giving in to it. The Olympian actor. On
lanuary 24, 1960 an insurrection broke out in Algeria, then still a French
colony. Led by right-wing French soldiers, its purpose was to forestall the
proposal of President Charles de Gaulle to grant Algeria the right of
self-determination. If necessary, the insurrectionists would take over Algeria
in the name of France. For several tense days, the seventy-year-old de Gaulle
maintained a strange silence. Then on lanuary 29, at eight in the evening, he
appeared on French national television. Before he had uttered a word, the
audience was astonished, for he wore his old uniform from World War II, a
uniform that everyone recognized and that created a strong emotional response.
De Gaulle had been the hero of the resistance, the savior of the country at its
darkest moment. But that uniform had not been seen for quite some time. Then de
Gaulle spoke, reminding his public, in his cool and confident manner, of all
they had accomplished together in liberating France from the Germans. Slowly he
moved from these charged patriotic issues to the rebellion in Algeria, and the
affront it presented to the spirit of the liberation. He finished his address
by repeating his famous words of lune 18, 1940: "Once again I call all
Frenchmen, wherever they are, whatever they are, to reunite with France. Vive
la Republique! Vive la France!" The speech had two purposes. It showed
that de Gaulle was determined not to give an inch to the rebels, and it reached
for the heart of all patriotic Frenchmen, particularly in the army. The
insurrection quickly died, and no one doubted the connection between its
failure and de Gaulle's performance on television. The following year, the French
voted overwhelmingly in favor of Alself-determination. On April 11, 1961, de
Gaulle gave a press conference in which he made it clear that France would soon
grant the country full independence. Eleven days later, French generals in
Algeria issued a communique stating that they had taken over the country and
declaring a state of siege. This was the most dangerous moment of all: faced
with Algeria's imminent independence, these right-wing generals would go all
the way. A civil war could break out, toppling de Gaulle's government. The
following night, de Gaulleappearedonceagain on television, once again wearing
his old uniform. He mocked the generals, comparing them to a South American
junta. He talked calmly and sternly. Then, suddenly, at the very end of the
address, his voice rose and even trembled as he called out to the audience:
"Francoises, Frangais, aidez-moi!" ("Frenchwomen, Frenchmen,
help me!") It was the most stirring moment of all his television
appearances. French soldiers in Algeria, listening on transistor radios, were
overwhelmed. The next day they held a mass demonstration in favor of de Gaulle.
Two days later the generals surrendered. On July 1, 1962, de Gaulle proclaimed
Algeria's independence. In 1940, after the German invasion of France, de Gaulle
escaped to England to recruit an army that would eventually return to France
for the liberation. At the beginning, he was alone, and his mission seemed
hopeless. But he had the support of Winston Churchill, and with Churchill's
blessing he gave a series of radio talks that the BBC broadcast to France. His
strange, hypnotic voice, with its dramatic tremolos, would enter French living
rooms in the evenings. Few of his listeners even knew what he looked like, but
his tone was so confident, so stirring, that he recruited a silent army of
believers. In person, de Gaulle was a strange, brooding man whose confident
manner couldjust as easily irritate as win over. But over the radio that voice
had intense charisma. De Gaulle was the first great master of modern media, for
he easily transferred his dramatic skills to television, where his iciness, his
calmness, his total self-possession, made audiences feel both comforted and
inspired. The world has grown more fractured. A nation no longer conies
together on the streets or in the squares; it is brought together in living
rooms, where people watching television all over the country can simultaneously
be alone and with others. Charisma must now be communicable over the airwaves
or it has no power. But it is in some ways easier to project on television,
both because television makes a direct one-on-one appeal (the Charismatic seems
to address you ) and because charisma is fairly easy to fake for the few
moments you spend in front of the camera. As de Gaulle understood, when
appearing on television it is best to radiate calmness and control, to use
dramatic effects sparingly. De Gaulle's overall iciness made doubly effective
the brief moments in which he raised his voice, or let loose a biting joke. By
remaining calm and underplaying it, he hypnotized his audience. (Your face can
express much more if your voice is less strident.) He conveyed emotion
visually-the uniform, the setting-and through the use of certain charged
words:the liberation, Joan of Arc. The less he strained for effect, the more
sincere he appeared. All this must be carefully orchestrated. Punctuate your
calmness with surprises; rise to a climax; keep things short and terse. The
only thing that cannot be faked is self-confidence, the key component to
charisma since the days of Moses. Should the camera lights betray your
insecurity, all the tricks in the world will not put your charisma back
together again. Symbol: The Lamp. Invisible to the eye, a current flowing
through a wire in a glass vessel generates a heat that turns into candescence.
All we see is the glow. In the prevailing darkness, the Lamp lights the way.
Dangers O n a pleasant May day in 1794, the citizens of Paris gathered in a
park for the Festival of the Supreme Being. The focus of their attention was
Maximilien de Robespierre, head of the Committee of Public Safety, and the man
who had thought up the festival in the first place. The idea was simple; to
combat atheism, "to recognize the existence of a Supreme Being and the
Immortality of the Soul as the guiding forces of the universe." It was
Robespierre's day of triumph. Standing before the masses in his sky-blue suit
and white stockings, he initiated the festivities. The crowd adored him; after
all, he had safeguarded the purposes of the French Revolution through
theintensepoliticking that had followed it. The year before, he had initiated
the Reign of Terror, which cleansed the revolution of its enemies by sending
them to the guillotine. He had also helped guide the country through a war against
the Austrians and the Prussians. What made crowds, and particularly women, love
him was his incorruptible virtue (he lived very modestly), his refusal to
compromise, the passion for the revolution that was evident in everything he
did, and the romantic language of his speeches, which could not fail to
inspire. He was a god. The day was beautiful and augured a great future for the
revolution. Two months later, on July 26, Robespierre delivered a speech that
he thought would ensure his place in history, for he intended to hint at the
end of the Terror and a new era for France. Rumor also had it that he was to
call for a last handful of people to be sent to the guillotine, a final group
that threatened the safety of the revolution. Mounting the rostrum to address
the country's governing convention, Robespierre wore the same clothes he had
worn on the day of the festival. The speech was long, almost three hours, and
included an impassioned description of the values and virtues he had helped
protect. There was also talk of conspiracies, treacery, unnamed enemies. The
response was enthusiastic, but a little less so than usual. The speech had
tired many representatives. Then a lone voice was heard, that of a man named
Bourdon, who spoke against printing Robespierre's speech, a veiled sign of
disapproval. Suddenly others stood up on all sides, and accused him of
vagueness: he had talked of conspiracies and threats without naming the guilty.
Asked to be specific, he refused, preferring to name names later on. The next
day Robespierre stood to defend his speech, and the representatives shouted him
down. A few hours later, he was the one sent to the guillotine. On July 28,
amid a gathering of citizens who seemed to be in an even more festive mood than
at the Festival of the Supreme Being, Robespierre's head fell into the basket,
to resounding cheers. The Reign of Terror was over. Many of those who seemed to
admire Robespierre actually harbored a gnawing resentment of him-he was so
virtuous, so superior, it was oppressive. Some of these men had plotted against
him, and were waiting for the slightest sign of weakness-which appeared on that
fateful day when he gave his last speech. In refusing to name his enemies, he
had shown either a desire to end the bloodshed or a fear that they would strike
at him before he could have them killed. Fed by the conspirators, this one
spark turned into fire. Within two days, first a governing body and then a
nation turned against a Charismatic who two months before had been revered. Charisma
is as volatile as the emotions it stirs. Most often it stirs sentiments of
love. But such feelings are hard to maintain. Psychologists talk of
"erotic fatigue"-the moments after love in which you feel tired of
it, resentful. Reality creeps in, love turns to hate. Erotic fatigue is a
threat to all Charismatics. The Charismatic often wins love by acting the
savior, rescuing people from some difficult circumstance, but once they feel
secure, charisma is less seductive to them. Charismatics need danger and risk.
They are not plodding bureaucrats; some of them deliberately keep danger going,
as de Gaulle and Kennedy were wont to do, or as Robespierre did through the
Reign of Terror. But people tire of this, and at your first sign of weakness
they turn on you. The love they showed before will be matched by their hatred
now. The only defense is to master your charisma. Your passion, your anger,
your confidence make you charismatic, but too much charisma for too long
creates fatigue, and a desire for calmness and order. The better kind of
charisma is created consciously and is kept under control. When you need to you
can glow with confidence and fervor, inspiring the masses. But when the
adventure is over, you can settle into a routine, turning the heat,out, but
down. (Robespierre may have been planning that move, but it came a day too
late.) People will admire your self-control and adaptability. Their love affair
with you will move closer to the habitual affection of a man and wife. You will
even have the leeway to look a little boring, a little simple-a role that can
also seem charismatic, if played correctly. Remember: charisma depends on
success, and the best way to maintain success, after the initial charismatic
rush, is to be practical and even cautious. Mao Zedong was a distant, enigmatic
man who for many had an awe-inspiring charisma. He suffered many setbacks that
would have spelled the end of a less clever man, but after each reversal he
retreated, becoming practical, tolerant, flexible; at least for a while. This
protected him from the dangers of a counterreaction. There is another
alternative: to play the armed prophet. According to Machiavelli, although a
prophet may acquire power through his charismatic personality, he cannot long
survive without the strength to back it up. He needs an army. The masses will
tire of him; they will need to be forced. Being an armed prophet may not
literally involve arms, but it demands a forceful side to your character, which
you can back up with action. Unfortunately this means being merciless with your
enemies for as long as you retain power. And no one creates more bitter enemies
than the Charismatic. Finally, there is nothing more dangerous than succeeding
a Charismatic. These characters are unconventional, and their rule is personal
in style, ing stamped with the wildness of their personalities. They often
leave chaos in their wake. The one who follows after a Charismatic is left with
a mess, which the people, however, do not see. They miss their inspirer and
blame the successor. Avoid this situation at all costs. If it is unavoidable,
do not try to continue what the Charismatic started; go in a new direction. By
being practical, trustworthy, and plain-speaking, you can often generate a
strange kind of charisma through contrast. That was how Harry Truman not only
survived the legacy of Roosevelt but established his own type of charisma.
Daily life is harsh, and most of us constantly seek escape from it in fantasies
and dreams. Stars feed on this weakness; standing outfrom others through a
distinctive and appealing style, they make us want to watch them. At the same
time, they are vague and ethereal, keeping their distance, and letting us
imagine more than is there. Their dreamlike quality works on our unconscious;
we are not even aware how much we imitate them. Learn to become an object
offascination by projecting the glittering but elusive presence of the Star.
The Fetishistic Star O ne day in 1922, in Berlin, Germany, a casting call went
out for the part of a voluptuous young woman in a film called Tragedy of Love.
Of the hundreds of struggling young actresses who showed up, most would do
anything to get the casting director's attention, including exposing
themselves. There was one young woman in the line, however, who was simply
dressed, and performed none of the other girls' desperate antics. Yet she stood
out anyway. The girl carried a puppy on a leash, and had draped an elegant
necklace around the puppy's neck. The casting director noticed her immediately.
He watched her as she stood in line, calmly holding the dog in her arms and
keeping to herself. When she smoked a cigarette, her gestures were slow and
suggestive. He was fascinated by her legs and face, the sinuous way she moved,
the hint of coldness in her eyes. By the time she had come to the front, he had
already cast her. Her name was Marlene Dietrich. By 1929, when the
Austrian-American director Josef von Sternberg arrived in Berlin to begin work
on the film The Blue Angel, the twenty- seven-year-old Dietrich was well known
in the Berlin film and theater world. The Blue Angel was to be about a woman
called Lola-Lola who preys sadistically on men, and all of Berlin's best
actresses wanted the part-except, apparently, Dietrich, who made it known that
she thought the role demeaning; von Sternberg should choose from the other
actresses he had in mind. Shortly after arriving in Berlin, however, von
Sternberg attended a performance of a musical to watch a male actor he was
considering for The Blue Angel The star of the musical was Dietrich, and as
soon as she came onstage, von Sternberg found that he could not take his eyes
off her. She stared at him directly, insolently, like a man; and then there
were those legs, and the way she leaned provocatively against the wall. Von
Sternberg forgot about the actor he had come to see. He had found his
Lola-Lola. Von Sternberg managed to convince Dietrich to take the part, and
immediately he went to work, molding her into the Lola of his imagination. He
changed her hair, drew a silver line down her nose to make it seem thinner,
taught her to look at the camera with the insolence he had seen onstage. When
filming began, he created a lighting systemjust for her-a light that tracked
her wherever she went, and was strategically heightened by gauze and smoke.
Obsessed with his "creation," he followed her everywhere. No one else
could go near her. The cool, brightface which didn't ask for anything, which
simply existed, waiting-it was an empty face, he thought; a face that could
change with any wind of expression. One could dream into it anything. It was
like a beautiful empty house waiting for carpets and pictures. It had all
possibilities-it could become a palace or a brothel. It depended on the one who
fdled it. How limited by comparison was all that was already completed and
labeled. - ERICH MARIA REMARQUE, ON MARLENE DIETRICH, ARCH OF TRIUMPH Marlene
Dietrich is not an actress, like Sarah Bernhardt; she is a myth, like Phryne.
-ANDRE: MALRAUX, QUOTED IN EDGAR MORIN, THE STARS. TRANSLATED BY RICHARD HOWARD
When Pygmalion saw these women, living such wicked lives, he was revolted by
the many faults which nature has implanted in thefemale sex, and long lived a
bachelor existence, without any wife to share his home. But meanwhile, with
marvelous artistry, he skillfully carved a snowy ivory statue. He made it
lovelier than any woman born, and fell in love with his own creation. The
statue had all the appearance of a real girl, so that it seemed to be alive, to
want to move, did not modesty forbid. So cleverly did his art conceal its art.
Pygmalion gazed in wonder, and in his heart there rose a passionate love for
this image of a human form. Often he ran his hands over the work, feeling it to
see whether it was flesh or ivory, and would not yet admit thativory was all it
was. He kissed the statue, and imagined that it kissed him back, spoke to it
and embraced it, and thought he felt his fingers sink into the limbs he
touched, so that he was afraid lest a bruise appear where he had pressed the flesh.
Sometimes he addressed it in flattering speeches, sometimes brought the kind of
presents that girls enjoy. . . . He dressed the limbs of his statue in woman's
robes, and put rings on its fingers, long necklaces round its neck. . . . All
this finery became the image well, but it was no less lovely unadorned.
Pygmalion then placed the statue on a couch that was covered with cloths of
Tynan purple, laid its head to rest on soft down pillows, as if it could
appreciate them, and called it his bedfellow. • The festival of Venus, which is
celebrated with the greatest The Blue Angel was a huge success in Germany.
Audiences were fascinated with Dietrich: that cold, brutal stare as she spread
her legs over a stool, baring her underwear; her effortless way of commanding
attention on screen. Others besides von Sternberg became obsessed with her. A
man dying of cancer. Count Sascha Kolowrat, had one last wish: to see Marlene's
legs in person. Dietrich obliged, visiting him in the hospital and lifting up
her skirt; he sighed and said "Thank you. Now I can die happy." Soon
Paramount Studios brought Dietrich to Hollywood, where everyone was quickly
talking about her. At a party, all eyes would turn toward her when she came
into the room. She would be escorted by the most handsome men in Hollywood, and
would be wearing an outfit both beautiful and unusual-gold-lame pajamas, a
sailor suit with a yachting cap. The next day the look would be copied by women
all over town; next it would spread to magazines, and a whole new trend would
start. The real object of fascination, however, was unquestionably Dietrich's
face. What had enthralled von Sternberg was her blankness-with a simple
lighting trick he could make that face do whatever he wanted. Dietrich
eventually stopped working with von Sternberg, but never forgot what he had
taught her. One night in 1951, the director Fritz Lang, who was about to direct
her in the film Rancho Notorious, was driving past his office when he saw a
light flash in the window. Fearing a burglary, he got out of his car, crept up
the stairs, and peeked through the crack in the door: it was Diet- rich taking
pictures of herself in the mirror, studying her face from every angle. Marlene
Dietrich had a distance from her own self: she could study her face, her legs,
her body, as if she were someone else. This gave her the ability to mold her
look, transforming her appearance for effect. She could pose in just the way
that would most excite a man, her blankness letting him see her according to
his fantasy, whether of sadism, voluptuousness, or danger. And every man who
met her, or who watched her on screen, fantasized endlessly about her. The
effect worked on women as well; in the words of one writer, she projected
"sex without gender." But this selfdistance gave her a certain
coldness, whether on film or in person. She was like a beautiful object,
something to fetishize and admire the way we admire a work of art. The fetish
is an object that commands an emotional response and that makes us breathe life
into it. Because it is an object we can imagine whatever we want to about it.
Most people are too moody, complex, and reactive to let us see them as objects
that we can fetishize. The power of the Fetishistic Star comes from an ability
to become an object, and notjust any object but an object we fetishize, one
that stimulates a variety of fantasies. Fetishistic Stars are perfect, like the
statue of a Greek god or goddess. The effect is startling, and seductive. Its
principal requirement is self-distance. If you see yourself as an object, then
others will too. An ethereal, dreamlike air will heighten the effect. You are a
blank screen. Float through life noncommittally and people will want to seize
you and consume you. Of all the parts of your bodythat draw this fetishistic
attention, the strongest is the face; so learn to tune your face like an
instrument, making it radiate a fascinating vagueness for effect. And since you
will have to stand out from other Stars in the sky, you will need to develop an
attention-getting style. Dietrich was the great practitioner of this art; her
style was chic enough to dazzle, weird enough to enthrall. Remember, your own
image and presence are materials you can control. The sense that you are
engaged in this kind of play will make people see you as superior and worthy of
imitation. She had such natural poise . . . such an economy of gesture, that
she became as absorbing as a Modigliani. She had the one essential star
quality: she could be magnificent doing nothing. -BERLIN ACTRESS LILI DARVAS ON
MARLENE DIETRICH The Mythic Star O n July 2, 1960, a few weeks before that
year's Democratic National Convention, former President Harry Truman publicly
stated that John F. Kennedy-who had won enough delegates to be chosen his
party's candidate for the presidency-was too young and inexperienced for the
job. Kennedy's response was startling: he called a press conference, to be
televised live, and nationwide, on July 4. The conference's drama was
heightened by the fact that he was away on vacation, so that no one saw or
heard from him until the event itself. Then, at the appointed hour, Kennedy
strode into the conference room like a sheriff entering Dodge City. He began by
stating that he had run in all of the state primaries, at considerable expense
of money and effort, and had beaten his opponents fairly and squarely. Who was
Truman to circumvent the democratic process? "This is a young
country," Kennedy went on, his voice getting louder, "founded by
young men . . . and still young in heart. The world is changing, the old ways
will not do, . . . It is time for a new generation of leadership to cope with
new problems and new opportunities." Even Kennedy's enemies agreed that
his speech that day was stirring. He turned Truman's challenge around: the
issue was not his inexperience but the older generation's monopoly on power.
His style was as eloquent as his words, for his performance evoked films of the
time-Alan Ladd in Shane confronting the corrupt older ranchers, or James Dean
in Rebel Without a Cause. Kennedy even resembled Dean, particularly in his air
of cool detachment. A few months later, now approved as the Democrats'
presidential candidate, Kennedy squared off against his Republican opponent,
Richard Nixon, in their first nationally televised debate. Nixon was sharp; he
knew pomp all through Cyprus, was now in progress, andheifers, their crooked
horns gildedfor the occasion, had fallen at the altar as the axe struck their
snowy necks. Smoke was rising from the incense, when Pygmalion, having made his
offering, stood by the altar and timidly prayed, saying: "If you gods can
give all things, may I have as my wife, I pray-"henot dare to say:
"the ivory maiden," but finished: "one like the golden Venus,
present at her festival in person, understood what his prayers meant, and as a
sign that the gods were kindly disposed, the flames burned up three times,
shooting a tongue of fire into the air. When Pygmalion returned home, he made
straight for the statue of the girl he loved, leaned over the couch, and kissed
her. She seemed : he laid his lips on hers again, and touched her breast with
his hands-at his touch the ivory lost its hardness, and grew soft. -OVID
,METAMORPHOSES, TR ANS L ATEDB YM AR YM .INNES [John F.] Kennedy brought to
television news and photojournalism the components most prevalent in the world
of film: star quality and mythic story. his telegenic looks, skills at self
presentation, heroic fantasies, and creative intelligence, Kennedy was
brilliantly prepared to project a major screen persona. He appropriated the
discourses of mass culture, especially of Hollywood, and transferred them to
the news. By this strategy he made the news like dreams and like the movies-a
realm in which images played out scenarios that accorded with the viewer's
deepest yearnings. Never appearing in an actual fdm, but rather turning the
television apparatus into his screen, he became the greatest movie star of the
twentieth century. -JOHN HELLMANN, THE KENNEDY OBSESSION: THE MYTH OF JFK But
we have seen that, considered as a total the stars repeats, in its own
proportions, the history of the gods. Before the gods (before the stars) the
mythical universe (the screen) was peopled with specters or phantoms with the
glamour and magic of the double. • Several of these presences have
progressively assumed body and substance, have taken form, amplified, and
flowered into gods andgoddesses. And even as certain major gods of the ancient
pantheons metamorphose themselves into hero-gods of salvation, the
star-goddesses humanize and become new mediators between the fantastic world of
dreams and man's daily life on earth. The heroes of the movies are, in an
obviously attenuated way, mythological heroes in this of becoming divine. The
star is the actor or actress who absorbs some of the heroic - i.e., divinized
and mythic-substance of the hero or heroine of theenriches this substance by
the answers to the questions and debated with aplomb,quotingstatisticson the
accomplishments of the Eisenhower administration, in which he had served as
vice-president. But beneath the glare of the cameras, on black and white
television, he was a ghastly figure-his five o'clock shadow covered up with
powder, streaks of sweat on his brow and cheeks, his face drooping with
fatigue, his eyes shifting and blinking, his body rigid. What was he so worried
about? The contrast with Kennedy was startling. If Nixon looked only at his
opponent, Kennedy looked out at the audience, making eye contact with his
viewers, addressing them in their living rooms as no politician had ever done
before. If Nixon talked data and niggling points of debate, Kennedy spoke of
freedom, of building a new society, of recapturing America's pioneer spirit.
His manner was sincere and emphatic. His words were not specific, but he made his
listeners imagine a wonderful future. The day after the debate, Kennedy's poll
numbers soared miraculously, and wherever he went he was greeted by crowds of
young girls, screaming andjumping. His beautiful wife Jackie by his side, he
was a kind of democratic prince. Now his television appearances were events. He
was in due course elected president, and his inaugural address, also broadcast
on television, was stirring. It was a cold and wintry day. In the background,
Eisenhower sat huddled in coat and scarf, looking old and beaten. But Kennedy
stood hatless and coatless to address the nation: "I do not believe that
any of us would exchange places with any other people or any other generation.
The energy, the faith, the devotion which we bring to this endeavor will light
our country and all who serve it-and the glow from that fire can truly light
the world." Over the months to come Kennedy gave innumerable live press
conferences before the TV cameras, something no previous president had dared.
Facing the firing squad of lenses and questions, he was unafraid, speaking
coolly and slightly ironically. What was going on behind those eyes, that
smile? People wanted to know more about him. The magazines teased its readers
with information-photographs of Kennedy with his wife and children, or playing
football on the White House lawn, interviews creating a sense of him as a
devoted family man, yet one who mingled as an equal with glamorous stars. The
images all melted together-the space race, the Peace Corps, Kennedy facing up
to the Soviets during the Cuban missile crisis just as he had faced up to
Truman. After Kennedy was assassinated, Jackie said in an interview that before
he went to bed, he would often play the soundtracks to Broadway musicals, and
his favorite of these was Camelot, with its lines, "Don't let it be forgot
/ that once there was a spot / For one brief shining moment / That was known as
Camelot." There would be great presidents again, Jackie said, but never
"another Camelot." The name "Camelot" seemed to stick,
making Kennedy's thousand days in office resonate as myth. Kennedy's seduction
of the American public was conscious and calculated. It was also more Hollywood
than Washington, which was not surprising: Kennedy's father, Joseph, had once
been a movie producer, and Kennedy himself had spent time in Hollywood,
hobnobbing with actors and trying to figure out what made them stars. He was
particularly fascinated with Gary Cooper, Montgomery Clift, and Cary Grant; he
often called Grant for advice. Hollywood had found ways to unite the entire
country around certain themes, or myths-often the great American myth of the
West. The great stars embodied mythic types: John Wayne the patriarch, Clift
the Promethean rebel, Jimmy Stewart the noble hero, Marilyn Monroe the siren.
These were not mere mortals but gods and goddesses to be dreamed and fantasized
about. All of Kennedy's actions were framed in the conventions of Hollywood. He
did not argue with his opponents, he confronted them dramatically. He posed, and
in visually fascinating ways-whether with his wife,withhis children, or alone
onstage. He copied the facial expressions, the presence, of a Dean or a Cooper.
He did not discuss policy details but waxed eloquent about grand mythic themes,
the kind that could unite a divided nation. And all this was calculated for
television, for Kennedy mostly existed as a televised image. That image haunted
our dreams. Well before his assassination, Kennedy attracted fantasies of
America's lost innocence with his call for a renaissance of the pioneer spirit,
a New Frontier. Of all the character types, the Mythic Star is perhaps the most
powerful of all. People are divided by all kinds of consciously recognized
categories- race, gender, class, religion, politics. It is impossible, then, to
gain power on a grand scale, or to win an election, by drawing on conscious
awareness; an appeal to any one group will only alienate another.
Unconsciously, however, there is much we share. All of us are mortal, all of us
know fear, all of us have been stamped with the imprint of parent figures; and
nothing conjures up this shared experience more than myth. The patterns of
myth, born out of warring feelings of helplessness on the one hand and thirst
for on the other, are deeply engraved in us all. Mythic Stars are figures of
myth come to life. To appropriate their power, you must first study their
physical presence-how they adoptadistinctive style, are cool and visually
arresting. Then you must assume the pose of a mythic figure; the rebel, the
wise patriarch, the adventurer. (The pose of a Star who has struck one of these
mythic poses might do the trick.) these connections vague; they should never be
obvious to the conscious mind. Your words and actions should invite
interpretation beyond surface appearance; you should seem to be dealing not
with specific, nitty-gritty issues and details but with matters of life and
death, love and hate, authority and chaos. Your opponent, similarly, should be
framed not merely as an enemy for reasons of ideology or competition but as a
villain, a demon. People are hopelessly susceptible to myth, so make yourself
the hero of a great drama. And keep your distance-let people identify with you
without being able to touch you. They can only watch and dream. his or her own
contribution. When we speak of the myth of the star, we mean first of all the
process of divinization which the movie actor undergoes, a process that makes
him the idol of crowds. -EDGAR MORIN, THE STARS, TRANSLATED BY RICHARD HOWARD
Age: 22, Sex: female, Nationality: British, Profession: medical student
"[Deanna Durbin] became my first and only screen idol. I wanted to be as
much like her as possible,both in my manners andclothes. Whenever I was to get
a new dress, I would find from my collection a particularly nice picture of
Deanna and ask for a dress she was wearing. I did my hair as much like hers as
1 could manage. If I found myself in any annoying or aggravating situation . .
. I found myself wondering what Deanna would do and modified my own reactions
accordingly. ..." • Age: 26, Sex: female, Nationality: British "I
only fell in once with a movie actor. It was Conrad Veidt. His magnetism and
his personality got me. His voice and gestures fascinated me. I hated him,
feared him, loved him. When he died it seemed to me that a vital part of my
died too, and my world of dreams was bare. " -J. P. MAYER, BRITISH CINEMAS
AND THEIR AUDIENCES The savage worships idols of wood and stone; the civilized
man, idols of flesh and blood. -GEORGE BERNARD SHAW When the eye's rays some
clear, well- polished object-be it burnished steel or glass or water, a
brilliant stone, or other polished and gleaming substance having luster,
glitter, and sparkle . . . those rays of the eye are reflected back, and the observer
then beholds himself and obtains an ocular vision of his own person. This is
what you see when you look into a mirror; in that situation you are as it were
looking at yourself through the eyes of another. HAZM, THE RING OF THE DOVE:A
TREATISE ON THE ART AND PRACTICE OF ARAB , ARBERRY The only important
constellation of collective seduction produced by modern times [is] that of
film stars or cinema idols. . . . They were our only myth in an age incapable
of generating great myths or figures of seduction comparable to those of
mythology or art. • The cinema's power lives in its myth. Its stones, its
psychological portraits, its imagination or realism, the meaningful impressions
it leaves-these are all secondary. Only the myth is powerful, and at the heart
of the cinematographic myth lies seduction-that of the renowned seductive
figure, a man or woman (but Jack's life had more to do with myth, magic,
legend, saga, and story than with political theory or political science.
-JACQUELINE KENNEDY, A WEEK AFTER JOHN KENNEDY'S DEATH Keys to the Character
Seduction is a form of persuasion that seeks to bypass consciousness, stirring
the unconscious mind instead. The reason for this is simple: we are so
surrounded by stimuli that compete for our attention, bombarding us with
obvious messages, and by people who are overtly political and manipulative,
that we are rarely charmed or deceived by them. We have grown increasingly
cynical. Try to persuade a person by appealing to their consciousness, by
saying outright what you want, by showing all your cards, and what hope do you
have? You are just one more irritation to be tuned out. To avoid this fate you
must learn the art of insinuation, of reaching the unconscious. The most
eloquent expression of the unconscious is the dream, which is intricately
connected to myth; waking from a dream, we are often haunted by its images and
ambiguous messages. Dreams obsess us because they mix the real and the unreal.
They are filled with real characters, and often deal with real situations, yet
they are delightfully irrational, pushing realities to the extremes of
delirium. If everything in a dream were realistic, it would have no power over
us; if everything were unreal, we would feel less involved in its pleasures and
fears. Its fusion of the two is what makes it haunting. This is what Freud
called the "uncanny": something that seems simultaneously strange and
familiar. We sometimes experience the uncanny in waking life-in a deja vu, a
miraculous coincidence, a weird event that recalls a childhood experience.
People can have a similar effect. The gestures, the words, the very being of
men like Kennedy or Andy Warhol, for example, evoke both the real and the
unreal: we may not realize it (and how could we, really), but they are like
dream figures to us. They have qualities that anchor them in reality-
sincerity, playfulness, sensuality-but at the same time their aloofness, their
superiority, their almost surreal quality makes them seem like something out of
a movie. These types have a haunting, obsessive effect on people. Whether in
public or in private, they seduce us, making us want to possess them both
physically and psychologically. But how can we possess a person from a dream,
or a movie star or political star, or even one of those real-life fascinators,
like a Warhol, who may cross our path? Unable to have them, we become obsessed
with them-they haunt our thoughts, our dreams, our fantasies. We imitate them
unconsciously. The psychologist Sandor Fer- enczi calls this "introjection":
another person becomes part of our ego, we internalize their character. That is
the insidious seductive power of a Star, a power you can appropriate by making
yourself into a cipher, a mix of the real and the unreal. Most people are
hopelessly banal; that is, far too real. What you need to do is etherealize
yourself. Your words and actions seem to come from your unconscious-have a
certain looseness to them. You hold yourself back, occasionally revealing a
trait that makes people wonder whether they really know you. The Star is a
creation of modern cinema. That is no surprise: film recreates the dream world.
We watch a movie in the dark, in a semisomno- lent state. The images are real
enough, and to varying degrees depict realistic situations, but they are
projections, flickering lights, images-we know they are not real. It as if we
were watching someone else's dream. It was the cinema, not the theater, that
created the Star. On a theater stage, actors are far away, lost in the crowd,
too real in their bodily presence. What enabled film to manufacture the Star
was the close-up, which suddenly separates actors from their contexts, filling
your mind with their image. The close-up seems to reveal something not so much
about the character they are playing but about themselves. We glimpse something
of Greta Garbo herself when we look so closely into her face. Never forget this
while fashioning yourself as a Star. First, you must have such a large presence
that you can fill your target's mind the way a close-up fills the screen. You
must have a style or presence that makes you stand out from everyone else. Be
vague and dreamlike, yet not distant or absent-you don't want people to be
unable to focus on or remember you. They have to be seeing you in their minds
when you're not there. Second, cultivate a blank, mysterious face, the center
that radiates Starness. This allows people to read into you whatever they want
to, imagining they can see yourcharacter, even your soul. Instead of signaling
moods and emotions, instead of emoting or overemoting, the Star draws in
interpretations. That is the obsessive power in the face of Garbo or Dietrich,
or even of Kennedy, who molded his expressions on James Dean's. A living thing
is dynamic and changing while an object or image is passive, but in its
passivity it stimulates our fantasies. A person can gain that power by becoming
a kind of object. The great eighteenth-century charlatan Count Saint-Germain
was in many ways a precursor of the Star. He would suddenly appear in town, no
one knew from where; he spoke many languages, but his accent belonged to no
single country. Nor was it clear how old he was-not young, clearly, but his
face had a healthy glow. The count only went out at night. He always wore
black, and also spectacular jewels. Arriving at the court of Louis XV, he was
an instant sensation; he reeked wealth, but no one knew its source. He made the
king and Madame de Pompadour believe he had fantastic powers, including even
the ability to turn base matter into gold (the gift of the Philosopher's
Stone), but he never made any great claims for himself; it was all insinuation.
He never said yes or no, only perhaps. He would sit down for dinner but was
never seen eating. He once gave Madame de Pompadour a gift of candies in a box
that changed color and aspect depending on how she held it; this entrancing
object, she said, reminded her of the count himself. Saint- Germain painted the
strangest paintings anyone had ever seen-the colors above all a woman) linked
to the ravishing but specious power of the cinematographic image itself. The
star is by no means an ideal or sublime being: she is artificial. .Her presence
serves to submerge all sensibility and expression beneath a ritual fascination
with the void, beneath ecstasy of her gaze and the nullity of her smile. This
is how she achieves mythical status and becomes subject to collective rites of
sacrificial adulation. • The ascension of the cinema idols, the masses'
divinities, was and remains a central story of modern times. There is no point
in dismissing it as merely the dreams of mystified masses. It is a seductive
occurrence. ..." To be sure, seduction in the age of the masses is no
longer like that of. . . Les Liaisons Dangereuses or The Seducer's Diary, nor
for that matter, like that found in ancient mythology, which undoubtedly
contains the stories richest in seduction. In these seduction is hot, while
that of our modern idols is cold, being at the intersection of two cold
mediums, that of the image and that of the masses. The great stars or
seductresses neverdazzle because of their talent or intelligence, but because
of their absence. They are dazzling in their nullity, and in their coldness-the
coldness of makeup and ritual hieraticism. These great seductive effigies are
our masks, our Eastern Island statues. -JEAN BAUDRILLARD, SEDUCTION. TRANSLATED
BY BRIAN SINGER If you want to know all about Andy Warhol, just look at the
surface of my paintings and fdms and me, and there I am. There's nothing behind
it. -ANDY WARHOL, QUOTED IN STEPHEN KOCH, STARGAZER: THE UFE. WORLD & FILMS
OF ANDY WARHOL were so vibrant that when he paintedjewels, people thought they
were real. Painters were desperate to know his secrets but he never revealed
them. He would leave town as he had entered, suddenly and quietly. His greatest
admirer was Casanova, who met him and never forgot him. When he died, no one
believed it; years, decades, a century later, people were certain he was hiding
somewhere. A person with powers like his never dies. The count had all the Star
qualities. Everything about him was ambiguous and open to interpretation.
Colorful and vibrant, he stood out from the crowd. People thought he was
immortal, just as a star seems neither to age nor to disappear. His words were
like his presence-fascinating, diverse, strange, their meaning unclear. Such is
thepower you can command by transforming yourself into a glittering object.
Andy Warhol too obsessed everyone who knew him. He had a distinctive
style-those silver wigs-and his face was blank and mysterious. People never
knew what he was thinking; like his paintings, he was pure surface. In the
quality of their presence Warhol and Saint-Germain recall the great trompe
l'oeil paintings of the seventeenth century, or the prints of M. C.
Escher-fascinating mixtures of realism and impossibility, which make people
wonder if they are real or imaginary. A Star must stand out, and this may
involve a certain dramatic flair, of the kind that Dietrich revealed in her
appearances at parties. Sometimes, though, a more haunting, dreamlike effect
can be created by subtle touches: the way you smoke a cigarette, a vocal
inflection, a way of walking. It isoften the little things that get under
people's skin, and make them imitate you-the lock of hair over Veronica Lake's
right eye, Cary Grant's voice, Kennedy's ironic smile. Although these nuances
may barely register to the conscious mind, subliminally they can be as
attractive as an object with a striking shape or odd color. Unconsciously we
are strangely drawn to things that have no meaning beyond their fascinating
appearance. Stars make us want to know more about them. You must learn to
stirpeople's curiosity by letting them glimpse something in your private life,
something that seems to reveal an element of your personality. Let them
fantasize and imagine. A trait that often triggers this reaction is a hint of
spirituality, which can be devilishly seductive, like James Dean's interest in
Eastern philosophy and the occult. Hints of goodness and big-heartedness can
have a similar effect. Stars are like the gods on Mount Olympus, who live for
love and play. The things you love-people, hobbies, animals- reveal the kind of
moral beauty that people like to see in a Star. Exploit this desire by showing
people peeks of your private life, the causes you fight for, the person you are
in love with (for the moment). Another way Stars seduce is by making us
identify with them, giving us a vicarious thrill. This was what Kennedy did in
his press conference about Truman: in positioning himself as a young man
wronged by an older man, evoking an archetypal generational conflict, he made
young people identify with him. (The popularity in Hollywood movies of the
figure of the disaffected, wronged adolescent helped him here.) The key is to
represent a type, as Jimmy Stewart represented the quintessential
middle-American, Cary Grant the smooth aristocrat. People of your type will
gravitate to you, identify with you, share your joy or pain.The attraction must
be unconscious, conveyed not in your words but in your pose, your attitude. Now
more than ever, people are insecure, and their identities are in flux. Help
them fix on a role to play in life and they will flock to identify with you.
Simply make your type dramatic, noticeable, and easy to imitate. The power you
have in influencing people's sense of self in this manner is insidious and
profound. Remember: everyone is a public performer. People never know exactly
what you think or feel; they judge you on your appearance. You are an actor.
And the most effective actors have an inner distance: like Dietrich, they can
mold their physical presence as if they perceived it from the outside. This
inner distance fascinates us. Stars are playful about themselves, always
adjusting their image, adapting it to the times. Nothing is more laughable than
an image that was fashionable ten years ago but isn't any more. Stars must
always renew their luster or face the worst possible fate: oblivion. Symbol:
The Idol. A piece of stone can'ed into the shape of a god, perhaps glittering
with gold and jewels. The eyes of the worshippers fill the stone with life,
imagining it to have real powers. Its shape allows them to see what they want
to see-a god-but it is actually just a piece of stone. The god lives in their
imaginations. Dangers Starscreateillusions that are pleasurable to see. The
danger is that people tire of them-the illusion no longer fascinates-and turn
to another Star. Let this happen and you will find it very difficult to regain
your place in the galaxy. You must keep all eyes on you at any cost. Do not
worry about notoriety, or about slurs on your image; we are remarkably
forgiving of our Stars. After the death of President Kennedy, all kinds of
unpleasant truths came to light about him-the endless affairs, the addiction to
risk and danger. None of this diminished his appeal, and in fact the public
still considers him one of America's greatest presidents. Errol Flynn faced
many scandals, including a notorious rape case; they only enhanced his rakish
image. Once people have recognized a Star, any kind of publicity, even bad,
simply feeds the obsession. Of course you can go too far: people like a Star to
have a transcendent beauty, and too much human frailty will eventually
disillusion them. But bad publicity is less of a danger than disappearing for
too long, or growing too distant. You cannot haunt people's dreams if they
never see you. At the same time, you cannot let the public get too familiar
with you, or let your image become predictable. People will turn against you in
an instant if you begin to bore them, for boredom is the ultimate social evil.
Perhaps thegreatest danger Stars face is the endless attention they elicit.
Obsessive attention can become disconcerting and worse. As any attractive woman
can attest, it is tiring to be gazed at all the time, and the effect can be
destructive, as is shown by the story of Marilyn Monroe. The solution is to
develop the kind of distance from yourself that Dietrich had-take the attention
and idolatry with a grain of salt, and maintain a certain detachment from them.
Approach your own image playfully. Most important, never become obsessed with
the obsessive quality of people's interest in you. in the anti-O jeducer
Seducers draw you in by the focused, individualized attention they pay to you.
Anti-Seducers are the opposite: insecure, self-absorbed, and unable to grasp
the psychology of another person, they literally repel. Anti- Seducers have no
self-awareness, and never realize when they are pestering, imposing, talking too
much. They lack the subtlety to create the promise of pleasure that seduction
requires. Root out anti-seductive qualities in yourself, and recognize them in
others-there is no pleasure or profit dealing with the Anti-Seducer. Typology
of the Anti-Seducers Anti-Seducers come in many shapes and kinds, but almost
all of them share a single attribute, the source of their repellence:
insecurity. We are all insecure, and we suffer for it. Yetwe are able to
surmount these feelings at times; a seductive engagement can bring us out of
our usual selfabsorption, and to the degree that we seduce or are seduced, we
feel charged and confident. Anti-Seducers, however, are insecure to such a
degree that they cannot be drawn into the seductive process. Their needs, their
anxieties, their self-consciousness close them off. They interpret the
slightest ambiguity on your part as a slight to their ego; they see the merest
hint of withdrawal as a betrayal, and are likely to complain bitterly about it.
It seems easy: Anti-Seducers repel, so be repelled-avoid them. Unfortunately,
however, many Anti-Seducers cannot be detected as such at first glance. They
are more subtle, and unless you are careful they will ensnare you in a most
unsatisfying relationship. You must look for clues to their self-involvement
and insecurity: perhaps they are ungenerous, or they argue with unusual
tenacity, or are excessively judgmental. Perhaps they lavish you with
undeserved praise, declaring their love before knowing anything about you. Or,
most important, they pay no attention to details. Since they cannot see what
makes you different, they cannot surprise you with nu- anced attention. It is
critical to recognize anti-seductive qualities not only in others but also in
ourselves. Almost all of us have one or two of the Anti-Seducer's qualities
latent in our character, and to the extent that we can consciously root them
out, we become more seductive. A lack of generosity, for instance, need not
signal an Anti-Seducer if it is a person's only fault, but an ungenerous person
is seldom truly attractive. Seduction implies opening yourself up, even if only
for the purposes of deception; being unable to give by spending money usually
means being unable to give in general. Stamp ungenerosity out. It is an impediment
to power and a gross sin in seduction. It is best to disengage from
Anti-Seducers early on, before they sink their needy tentacles into you, so
learn to read the signs. These are the main types. Count Lodovico then remarked
with a smile: "I promise you that our sensible courtier will never act so
stupidly to gain a woman's favor." • Cesare Gonzaga replied: "Nor so
stupidly as a gentleman I remember, of some repute, whom to spare men's blushes
I don't wish to mention by name. " • "Well, at least tell us what he
did," said the Duchess. • Then Cesare continued: "He was loved by a
very great lady, and at her request he came secretly to the town where she was.
After he had seen her and enjoyed her company for as long as she would let him
in the time, he sighed and wept bitterly, to show the anguish he was suffering
at having to leave her, and hebegged her never to forget him; and then he added
that she should pay for his lodging at the inn, since it was she who had sent
for him and he thought it only right, therefore, that he shouldn't be involved
in any expense over the journey." • At this, all the ladies began to laugh
and to say that the man concerned hardly deserved the name of gentleman; and
many of the men felt as ashamed as he should have been, had he ever had the
sense to recognize such disgraceful behavior for what it was. -BALDASSARE
CAST1GL10NE, THE BOOK OF THE COURTIER. The Brute. If seduction is a kind of
ceremony or ritual, part of the pleasure is its duration-the time it takes, the
waiting that increases anticipation. Brutes have no patience for such things;
they are concerned only with their own pleasure, never with yours. To be
patient is to show that you are thinking of the other person, which never fails
to impress. Impatience has the opposite effect: assuming you are so interested
in them you have no reason to wait, Brutes offend you with their egotism.
Underneath that egotism, too, there is often a gnawing sense of inferiority,
and if you spurn them or make them wait, they overreact. If you suspect you are
dealing with a Brute, do a test-make that person wait. His or her response will
tell you everything you need to know. Let us see now how love is diminished.
This happens through the easy accessibility of its consolations, through one's
being able to see and converse lengthily with a lover, through a lover's
unsuitable garb and gait, and by the sudden onset of poverty. Another cause of
diminution of love is the realization of the notoriety of one's lover, and
accounts of his miserliness, bad character, and general wickedness; also any
affair with another woman, even if it involves no feelings of love. Love is
also diminished if a woman realizes that her lover is foolish and undisceming,
or if she sees him going too far in demands of love, giving no thought to his
partner's modesty nor wishing to pardon her blushes. A faithful lover ought to
choose the harshest pains of love rather than by his demands cause his partner
embarrassment, or take pleasure in spurning her modesty; for one who thinks only
of the outcome of his own pleasure, and ignores the welfare of his partner,
should be called a traitor rather than a lover. • Love also suffers decrease if
the woman realizes that her lover is fearful in war, The Suffocator.
Suffocators fall in love with you before you are even half- aware of their
existence. The trait is deceptive-you might think they have found you
overwhelming-but the fact is they suffer from an inner void, a deep well of
need that cannot be filled. Never get involved with Suffocators; they are
almost impossible to free yourself from without trauma. They cling to you until
you are forced to pull back, whereupon they smother you with guilt. We tend to
idealize a loved one, but love takes time to develop. Recognize Suffocators by
how quickly they adore you. To be so admired may give a momentary boost to your
ego, but deep inside you sense that their intense emotions are not related to
anything you have done. Tmst these instincts. A subvariant of the Suffocator is
the Doormat, a person who slavishly imitates you. Spot these types early on by
seeing whether they are capable of having an idea of their own. An inability to
disagree with you is a bad sign. The Moralizer. Seduction is a game, and should
be undertaken with a light heart. All is fair in love and seduction; morality
never enters the picture. The character of the Moralizer, however, is rigid.
These are people who follow fixed ideas and try to make you bend to their
standards. They want to change you, to make you a better person, so they
endlessly criticize and judge-that is their pleasure in life. In truth, their
moral ideas stem from their own unhappiness, and mask their desire to dominate
those around them. Their inability to adapt and to enjoy makes them easy to
recognize; their mental rigidity mayalso be accompanied by a physical
stiffness. It is hard not to take their criticisms personally so it is better
to avoid their presence and their poisoned comments. The Tightwad. Cheapness
signals more than a problem with money. It is a sign of something constricted
in a person's character-something that keeps them from letting go or taking a
risk. It is the most anti-seductive trait of all, and you cannot allow yourself
to give in to it. Most tightwads do not realize they have a problem; they
actually imagine that when they give someone some paltry crumb, they are being
generous. Take a hard look at yourself-you are probably cheaper than you think.
Try giving more freely of both your money and yourself and you will see the
seductive potential in selective generosity. Of course you must keep your
generosity under control. Giving too much can be a sign of desperation, as if
you were trying to buy someone. The Bumbler. Bumblers are self-conscious, and
their self-consciousness heightens your own. At first you may think they are
thinking about you, and so much so that it makes them awkward. In fact they are
only thinking of themselves-worrying about how they look, or about the
consequences for them of their attempt to seduce you. Their worry is usually
contagious: soon you are worrying too, about yourself. Bumblers rarely reach
the final stages of a seduction, but if they get that far, they bungle that
too. In seduction, the key weapon is boldness, refusing the target the time to
stop and think. Bumblers have no sense of timing. You might find it amusing to
try to train or educate them, but if they are still Bumblers past a certain
age, the case is probably hopeless-they are incapable of getting outside
themselves. or sees that he has no patience, or is stained with the vice of
pride. There is nothing which appears more appropriate to the character of any
lover than to be clad in the adornment of humility, utterly untouched by the
nakedness of pride. • Then too the prolixity of a fool or a madman often diminishes
love. There arc many keen to prolong their crazy words in the presence of a
woman, thinking that they please her if they employ foolish, ill-judged
language, but infact they are strangely deceived. Indeed, he who thinks that
his foolish behavior pleases a wise woman suffers from the greatest poverty of
sense. -ANDREAS CAPELLANUS,"HOW LOVE IS DIMINISHED," The Windbag. The
most effective seductions are driven by looks, indirect actions, physical
lures. Words have a place, but too much talk will generally break the spell,
heightening surface differences and weighing things down. People who talk a lot
most often talk about themselves. They have never acquired that inner voice
that wonders. Am I boring you? To be a Windbag is to have a deep-rooted
selfishness. Never interrupt or argue with these types-that only fuels their
windbaggery. At all costs leam to control your own tongue. The Reactor.
Reactors are far too sensitive, not to you but to their own egos. They comb
your every word and action for signs of a slight to their vanity. If you
strategically back off, as you sometimes must in seduction, they will brood and
lash out at you. They are prone to whining and complaining, two very
anti-seductive traits. Test them by telling a gentlejoke or story at their
expense: we should all be able to laugh at ourselves a little, but the Reactor
cannot. You can read the resentment in their eyes. Erase any reactive qualities
in your own character-they unconsciously repel people. The Vulgarian.
Vulgarians are inattentive to the details that are so important in seduction.
You can see this in their personal appearance-their Real men \ Shouldn't primp
their good looks. . . . \ Keep pleasantly clean, take exercise, work up an
outdoor \ Tan; make quite sure that your toga fits \ And doesn't show spots;
don't lace your shoes too tightly \ Or ignore any rusty buckles, or slop \
Around in too large a fitting. Don't let some incompetent barber \ Ruin your
looks: both hair andbeard demand \ Expert attention. Keep your nails pared, and
dirt-free; \ Don't let those long hairs sprout \ In your nostrils, make sure
your breath is never offensive, \ Avoid the rank male stench \ That wrinkles
noses. ... \ I was about to warn you [women] against rank goatish armpits \ And
bristling hair on your legs, \ But I'm not instructing hillbilly girls from the
Caucasus, \ Or Mysian river-hoydens-so what need \ To remind you not to let
your teeth get all discolored \ Through neglect, or forget to wash \ Your hands
every morning? You know how to brighten your complexion \ With powder, add
rouge to a bloodless face, \ Skillfully block in the crude outline of an
eyebrow, \ Stick a patch on one flawless cheek. \ You don't shrink from lining
your eyes with dark mascara \ Or a touch of Cilician saffron. . . . \ But don't
let your lover find all those jars and bottles \ On your dressing- table: the
best \ Makeup remains unobtrusive. A face so thickly plastered \ With pancake
it runs down your sweaty neck \ Is bound to create repulsion. And that goo from
unwashed fleeces - \ Athenian maybe, but my dear, the smell !- \ That's used
for face-cream: avoid it. When you have company \ Don't dab stuff on your
pimples, don't start cleaning your teeth: \ The result may be attractive, but
the process is sickening. . . . - OVID, THE ART OF LOVE. clothes are tasteless
by any standard-and in their actions: they do not know that it is sometimes
better to control oneself and refuse to give in to one's impulses. Vulgarians
will blab, saying anything in public. They have no sense of timing and are
rarely in harmony with your tastes. Indiscretion is a sure sign of the
Vulgarian (talking to others of your affair, for example); it may seem
impulsive, but its real source is their radical selfishness, their inability to
see themselves as others see them. More than just avoiding Vulgarians, you must
make yourself their opposite-tact, style, and attention to detail are all basic
requirements of a seducer. Examples of the Anti-Seducer 1. Claudius, the
step-grandson of the great Roman emperor Augustus, was considered something of
an imbecile as a young man, and was treated badly by almost everyone in his
family. His nephew Caligula, who became emperor in A.D. 37, made it a sport to
torture him, making him run around the palace at top speed as penance for his
stupidity, having soiled sandals tied to his hands at supper, and so on. As
Claudius grew older, he seemed to become even more slow-witted, and while all
of his relatives lived under the constant threat of assassination, he was left
alone. So it came as a great surprise to everyone, including Claudius himself,
that when, in AD. 41, a cabal of soldiers assassinated Caligula, they also
proclaimed Claudius emperor. Having no desire to rule, he delegated most of the
governing to confidantes (a group of freed slaves) and spent his time doing
what he loved best: eating, drinking, gambling, and whoring. Claudius's wife,
Valeria Messalina, was one of the most beautiful women in Rome. Although he
seemed fond of her, Claudius paid her no attention, and she started to have
affairs. At first she was discreet, but over the years, provoked by her
husband's neglect, she became more and more debauched. She had a room built for
her in the palace where she entertained scores of men, doing her best to imitate
the most notorious prostitute in Rome, whose name was written on the door. Any
man who refused her advances was put to death. Almost everyone in Rome knew
about these frolics, but Claudius said nothing; he seemed oblivious. So great
was Messalina's passion for her favorite lover, Gaius Silius, that she decided
to marry him, although both of them were married already. While Claudius was
away, they held a wedding ceremony, authorized by a marriage contract that
Claudius himself had been tricked into signing. After the ceremony, Gaius moved
into the palace. Now the shock and disgust of the whole city finally forced
Claudius into action, and he ordered theexecution of Gaius and of Messalina's
other lovers-but not of Messalina herself. Nevertheless, a gang of soldiers,
inflamed by the scandal, hunted her down and stabbed her to death. When this
was reported to the emperor, he merely ordered more wine and continued his
meal. Several nights later, to the amazement of his slaves, he asked why the
empress was not joining him for dinner. Nothing is more infuriating than being
paid no attention. In the process of seduction, you may have to pull back at
times, subjecting your target to moments of doubt. But prolonged inattention
will not only break the seductive spell, it can create hatred. Claudius was an
extreme of this behavior. His insensitivity was created by necessity: in acting
like an imbecile, he hid his ambition and protected himself among dangerous
competitors. But the insensitivity became second nature. Claudius grew
slovenly, and no longer noticed what was going on around him. His
inattentiveness had a profound effect on his wife: How, she wondered, can a
man, especially a physically unappealing man like Claudius, not notice me, or
care about my affairs with other men? But nothing she did seemed to matter to
him. Claudius marks the extreme, but the spectrum of inattention is wide. A lot
of people pay too little attention to the details, the signals another person
gives. Their senses are dulled by work, by hardship, by self-absorption. We
often see this turning off the seductive charge between two people, notably
between couples who have been together for years. Carried further, it will stir
angry, bitter feelings. Often, the one who has been cheated on by a partner
started the dynamic by patterns of inattention. 2. In 1639, a French army
besieged and took possession of the Italian city of Turin. Two French officers,
the Chevalier (later Count) de Grammont and his friend Matta, decided to turn
their attention to the city's beautiful women. The wives of some of Turin's
most illustrious men were more than susceptible-their husbands were busy, and
kept mistresses of their own. The wives' only requirement was that the suitor
play by the mles of gallantry. The chevalier and Matta were quick to find
partners, the chevalier choosing the beautiful Mademoiselle de Saint-Germain,
who was soon to be betrothed, and Matta offering his services to an older and
more experienced woman, Madame de Senantes. The chevalier took to wearing
green, Matta blue, these being their ladies' favorite colors. On the second day
of their courtships the couples visited a palace outside the city. The
chevalier was all charm, making Mademoiselle de Saint-Germain laugh
uproariously at his witticisms, but Matta did not fare so well; he had no
patience for this gallantry business, and when he and Madame de Senantes took a
stroll, he squeezed her hand and boldly declared his affections. The lady of
course was aghast, and when they got back to Turin she left without looking at
him. Unaware that he had offended her, Matta imagined that she was overcome
with emotion, and felt rather pleased with himself. But the Chevalier de
Grammont, wondering why the pair had parted, visited Madame de Senantes and
asked her how it went. She told him the truth-Matta had dispensed with the
formalities and was ready to bed her. The chevalier But if, like the winter cat
upon the hearth, the lover clings when he is dismissed, and cannot bear to go,
certain means must be taken to make him understand; and these should be
progressively ruder and ruder, until they touch him to the quick of his flesh.
• She should refuse him the bed, and jeer at him, and make him angry; she
should stir up her mother's enmity against him; she should treat him with an
obvious lack of candor, and spread herself in long considerations about his
ruin; his departure should be openly anticipated, his tastes and desires should
be thwarted, his poverty outraged; she should let him see that she is in
sympathy with another man, she should blame him with harsh words on every
occasion; she should tell lies about him to her parasites, she should interrupt
his sentences, and send him on frequent errands away from the house. She should
seek occasions of quarrel, and make him the victim of a thousand domestic
perfidies; she should rack her brains to vex him; she should play with the
glances of another in his presence, and give herself up to reprehensible
profligacy before his face; she should leave the house as often as possible,
and let it be seen that she has no real need to do so. All these means are good
for showing a man the door. -EASTERN LOVE, VOLUME II: THE HARLOT'S BREVIARY OF
KSHEMENDRA, MATHERS Just as ladies do love men which be valiant and bold under
arms, so likewise do they love such as be of like sort in love; and the man
which is cowardly and over and above respectful toward them, will never win
their good favor. Not that they would have them so overweening, bold, and
presumptuous, as that they should by main force lay them on the floor; but
rather they desire in them a certain hardy modesty, or perhaps better a certain
modest hardihood. For while themselves are not exactly wantons, and will
neither solicit a man nor yet actually offer their favors, yet do they know
well how to rouse the appetites and passions, and prettily alluretothe skirmish
in such wise that he which doth not take occasion by theforelock and join
encounter, and that without the least awe of rank and greatness, without a
scruple of conscience or a fear or any sort of hesitation, he verily is a fool
and a spiritless poltroon, and one which doth merit to be forever abandoned of
kind fortune. • I have heard of two honorable gentlemen and comrades, for the
which two very honorable ladies, and of by no means humble quality, made tryst
one day at Paris to go walking in a garden. Being come thither, each lady did
separate apart onefrom the other, each alone with her own cavalier, each in a
several alley of the garden, that was so close covered in with a fair trellis
of boughs as that daylight could really scarce penetrate there at all, and the
coolness of the place was very grateful. laughed and thought to himself how
differently he would manage affairs if he were the one wooing the lovely Madame.
Over the next few days Matta continued to misread the signs. He did not pay a
visit to Madame de Senantes's husband, as custom required. He did not wear her
colors. When the two went riding together, he went chasing after hares, as if
they were the more interesting prey, and when he took snuff he failed to offer
her some. Meanwhile he continued to make hisoverforward
advances.FinallyMadamehadhadenough,andcomplainedtohim directly. Matta
apologized; he had not realized his errors. Moved by his apology, the lady was
more than ready to resume the courtship-but a few days later, after a few
trifling stabs at wooing, Matta once again assumed that she was ready for bed.
To his dismay, she refused him as before. "I do not think that [women] can
be mightily offended," Matta told the chevalier, "if one sometimes
leaves off trifling, to come to the point." But Madame de Senantes would
have nothing more to do with him, and the Chevalier de Grammont, seeing an
opportunity he could not pass by, took advantage of her displeasure by secretly
courting her properly, and eventually winning the favors that Matta had tried
to force. There is nothing more anti-seductive than feeling that someone has
assumed that you are theirs, that you cannot possibly resist them. The
slightest appearance of this kind of conceit is deadly to seduction; you must
prove yourself, take your time, win your target's heart. Perhaps you fear that
he or she will be offended by a slower pace, or will lose interest. It is more
likely, however, that your fear reflects your own insecurity, and insecurity is
always anti-seductive. In truth, the longer you take, the more you show the
depth of your interest, and the deeper the spell you create. In a world of few
formalities and ceremony, seduction is one of the few remnants from the past
that retains the ancient patterns. It is a ritual, and its rites must be
observed. Haste reveals not the depth of your feelings but the degree of your
self-absorption. It may be possible sometimes to hurry someone into love, but
you will only be repaid by the lack of pleasure this kind of love affords. If
you are naturally impetuous, do what you can to disguise it. Strangely enough,
the effort you spend on holding yourself back may be read by your target as
deeply seductive. 3. In Paris in the 1730s lived a young man named Meilcotp\
who was just of an age to have his first affair. His mother's friend Madame de
Lursay, a widow of around forty, was beautiful and charming, but had a
reputation for being untouchable; as a boy, Meilcour had been infatuated with
her, but never expected his love would be returned. So it was with great
surprise and excitement that he realized that now that he was old enough,
Madame de Lursay's tender looks seemed to indicate a more than motherly
interest in him. The Anti-Seducer • 139 For two months Meilcour trembled in de
Lursay's presence. He was afraid of her, and did not know what to do. One
evening they were discussing a recent play. How well one character had declared
his love to a woman, Madame remarked. Noting Meilcour's obvious discomfort, she
went on, "If I am not mistaken, a declaration can only seem such an
embarrassing matter because you yourself have one to make." Madame de
Lursay knew full well that she was the source of the young man's awkwardness,
but she was a tease; you must tell me, she said, with whom you are in love.
Finally Meilcour confessed: it was indeed Madame whom he desired. His mother's
friend advised him to not think of her that way, but she also sighed, and gave
him a long and languid look. Her words said one thing, her eyes another-perhaps
she was not as untouchable as he had thought. As the evening ended, though,
Madame de Lursay said she doubted his feelings would last, and she left young
Meilcour troubled that she had said nothing about reciprocating his love. Over
the next few days, Meilcour repeatedly asked de Lursay to declare her love for
him, and she repeatedly refused. Eventually the young man decided his cause was
hopeless, and gave up; but a few nights later, at a soiree at her house, her
dress seemed more enticing than usual, and her looks at him stirred his blood.
He returned them, and followed her around, while she took care to keep a bit of
distance, lest others sense what was happening. Yet she also managed to arrange
that he could stay without arousing suspicion when the other visitors left.
When they were finally alone, she made him sit beside her on the sofa. He could
barely speak; the silence was uncomfortable. To get him talking she raised the
same old subject; his youth would make his love for her a passing fancy.
Instead of denying it he looked dejected, and continued to keep a polite
distance, so that she finally exclaimed, with obvious bony, "If it were
known that you were here with my consent, that I had voluntarily arranged it
with you . . . what might not people say? And yet how wrong they would be, for
no one could be more respectful than you are." Goaded into action,
Meilcour grabbed her hand and looked her in the eye. She blushed and told him
he should go, but the way she arranged herself on the sofa and looked back at
him suggested he should do the opposite. Yet Meilcour still hesitated: she had
told him to go, and if he disobeyed she might cause a scene, and might never
forgive him; he would have made a fool of himself, and everyone, including his
mother, would hear of it. He soon got up, apologizing for his momentary
boldness. Her astonished and somewhat cold look meant he had indeed gone too
far, he imagined, and he said goodbye and left. Meilcour and Madame de Lursay
appear in the novel The Wayward Head and Heart, written in 1738 by Crebillon
fils, who based his characters on libertines he knew in the France of the time.
For Crebillon fils, seduction is all about signs-about being able to send them
and read them. This is not Now one of the twain was a bold man, and well
knowing how the party had been madefor something else than merely to walk and
take the air, and judging by his lady's face, which he saw to be all a-fire,
that she had longings to taste other fare than the muscatels that hung on the
trellis, as also by her hot, wanton, and wild speech, he did promptly seize on
so fair an opportunity. So catching hold of her without the least ceremony, he
did lay her on a little couch that was there made of turf and clods of earth,
and did very pleasantly work his will of her, without her ever uttering a word
but only: "Heavens! Sir, what are you at? Surely you be the maddest and
strangest fellow ever was! If anyone comes, whatever will they say? Great
heavens! get out!" But the gentleman, without disturbing himself, did so
well continue what he had begun that he did finish, and she to boot, with such
content as that after taking three or four turns up and down the alley, they
did presently start afresh. Anon, coming forth into another, open, alley, they
did see in another part of the garden the other pair, who were walking about
together just as they had left them at first. Whereupon the
lady,wellcontent,didsay to the gentleman in the like condition, "I verily
believe so and so hath played the silly prude, and hath given his lady no other
entertainment but only words, fine speeches, and promenading." • Afterward
when allfour were come together, the two ladies did fall to asking one another
140 how it had fared with each. Then the one which was well content did reply
she was exceeding well, indeed she was; indeedfor the nonce she could scarce be
better. The other, which was ill content, did declare for her part she had had
to with the biggestfool and most coward lover she had ever seen; and all the
time the two gentlemen could see them laughing together as they walked and
crying out: "Oh! the silly fool! the shamefaced poltroon and coward!"
At this the successful gallant said to his companion: "Hark to our ladies,
which do cry out at you, and mock you sore. You will find you have overplayed
the prude and coxcomb this bout." So much he did allow; but there was no
more time to remedy his error, for opportunity gave him no other handle to
seize her by. -SEIGNEUR DE BRANTOME, LIVES OF FAIR & GALLANT LADIES.
because sexuality is repressed and requires speaking in code. It is rather
because wordless communication (through clothes, gestures, actions) is the most
pleasurable, exciting, and seductive form of language. In Crebillon fils's
novel, Madame de Lursay is an ingenious seductress who finds it exciting to
initiate young men. But even she cannot overcome the youthful stupidity of
Meilcour, who is incapable of reading her sigas because he is absorbed in his
own thoughts. Later in the story, she does manage to educate him, but in real
life there are many who cannot be educated. They are too literal and
insensitive to the details that contain seductive power. They do not so much
repel as irritate and infuriate you by their constant misinterpretations,
always viewing life from behind screen of their ego and unable to see things as
they really are. Meilcour is so caught up in himself he cannot see that Madame
is expecting him to make the bold move to which she will have to succumb. His
hesitation shows that he is thinking of himself, not of her; that he is
worrying about how he will look, not feeling overwhelmed by her charms. Nothing
could be more anti-seductive. Recognize such types, and if they are past the
young age that would give them an excuse, do not entangle yourself in their
awkwardness-they will infect you with doubt. 4. In the Heian court of
late-tenth-century lapan, the young nobleman Kaoru, purported son of the great
seducer Genji himself, had had nothing but misfortune in love. He had become
infatuated with a young princess, Oigimi, who lived in a dilapidated home in
the countryside, her father having fallen on hard times. Then one day he had an
encounter with Oigimi's sister, Nakanokimi, that convinced him she was the one
he actually loved. Confused, he returned to court, and did not visit the
sisters for some time. Then their father died, followed shortly thereafter by
Oigimi herself. Now Kaoru realized his mistake: he had loved Oigimi all along,
and she had died out of despair that he did not care for her. He would never
meet like again; she was all he could think about. When Nakanokimi, her father
and sister dead, came to live at court, Kaoru had the house where Oigimi and
her family had lived turned into a shrine. One day, Nakanokimi, seeing the
melancholy into which Kaoru had fallen, told him that there was a third sister,
Ukifune, who resembled his beloved Oigimi and lived hidden away in the
countryside. Kaoru came to life-perhaps he had a chance to redeem himself, to
change the past. But how could he meet this woman? There came a time when he
visited the shrine to pay his respects to the departed Oigimi, and heard that
the mystea glimpse of her through the crack in a door. The sight of her took
his breath away; although she was a plain-looking country girl, in Kaoru's eyes
she was the living incarnation of Oigimi. Her voice, meanwhile, was like The
Anti-Seducer • 141 the voice of Nakanokimi, whom he had loved as well. Tears
welled up in his eyes. A few months later Kaoru managed to find the house in
the mountains where Ukifune lived. He visited her there, and she did not
disappoint. "I once had a glimpse of you through a crack in a door,"
he told her, and "you have been very much on my mind ever since."
Then he picked her up in his arms and carried her to a waiting carriage. He was
taking her back to the shrine, and the journey there brought back to him the
image of Oigimi; again his eyes clouded with tears. Looking at Ukifune, he
silently compared her to Oigimi-her clothes were less nice but she had
beautiful hair. When Oigimi was alive, she and Kaoru had played the koto
together, so once at the shrine he had kotos brought out. Ukifune did not play
as well as Oigimi had, and her manners were less refined. Not to worry-he would
give her lessons, change her into a lady. But then, as he had done with Oigimi,
Kaoru returned to court, leaving Ukifune languishing at the shrine. Some time
passed before he visited her again; she had improved, was more beautiful than
before, but he could not stop thinking of Oigimi. Once again he left her,
promising to bring her to court, but more weeks passed, and finallyhereceived
the news that Ukifune had disappeared, last seen heading toward a river. She
had most likely committed suicide. At the funeral ceremony for Ukifune, Kaoru
was wracked with guilt: why had he not come for her earlier? She deserved a
better fate. Kaoru and the others appear in the eleventh-century Japanese novel
The Tale of Genji, by the noblewoman Murasaki Shikibu. The characters are based
on people the author knew, but Kaoru's type appears in every culture and
period: these are men and women who seem to be searching for an ideal partner.
The one they have is never quite right; at first glance a person excites them,
but they soon see faults, and when a new person crosses their path, he or she
looks better and the first person is forgotten. These types often try to work
on the imperfect mortal who has excited them, to improve them culturally and
morally. But this proves extremely unsatisfactory for both parties. The truth
about this type is not that they are searching for an ideal but that they are
hopelessly unhappy with themselves. You may mistake their dissatisfaction for a
perfectionist's high standards, but in point of fact nothing will really
satisfy them, for their unhappiness is deep-rooted. You can recognize them by
their past, which will be littered with short-lived, stormy romances. Also,
they will tend to compare you to others, and to try to remake you. You may not
realize at first what you have gotten into, but people like this will
eventually prove hopelessly anti-seductive because they cannot see your
individual qualities. Cut the romance off before it happens. These types are
closet sadists and will torture you with their unreachable goals. 5. In 1762,
in the city of Turin, Italy, Giovanni Giacomo Casanova made the acquaintance of
one Count A.B., a Milanese gentleman who seemed to like him enormously. The
count had fallen on hard times and Casanova lent him some money. In gratitude,
the count invited Casanova to stay with him and his wife in Milan. His wife, he
said, was from Barcelona, and was admired far and wide for her beauty. He
showed Casanova her letters, which had an intriguing wit; Casanova imagined her
as a prize worth seducing. He went to Milan. Arriving at the house of Count
A.B., Casanova found that the Spanish lady was certainly beautiful, but that
she was also quiet and serious. Something about her bothered him. As he was
unpacking his clothes, the countess saw a stunning red dress, trimmed with
sable, among his belongings. It was a gift, Casanova explained, for any
Milanese lady who won his heart. The following evening at dinner, the countess
was suddenly more friendly, teasing and bantering with Casanova. She described
the dress as a bribe-he would use it to persuade a woman to give in to him. On
the contrary, said Casanova, he only gave gifts afterward, as tokens of his
appreciation. That evening, in a carriage on the way back from the opera, she
asked him if a wealthy friend of hers could buy the dress, and when he said no,
she was clearly vexed. Sensing her game, Casanova offered to give her the sable
dress if she was kind to him. This only made her angry, and they quarreled.
Finally Casanova had had enough of the countess's moods: he sold the dress for
15,000 francs to her wealthy friend, who in turn gave it to her, as she had
planned all along. But to prove his lack of interest in money, Casanova told
the countess he would give her the 15,000 francs, no strings attached.
"You are a very bad man," she said, "but you can stay, you amuse
me." She resumed her coquettish manner, but Casanova was not fooled.
"It is not my fault, madame, if your charms have so little power over
me," he told her. "Here are 15,000 francs to console you." He
laid the money on a table and walked out, leaving the countess fuming and
vowing revenge. When Casanova first met the Spanish lady, two things about her
repelled him. First, her pride: rather than engaging in the give-and-take of
seduction, she demanded a man's subjugation. Pride can reflect self-assurance,
signaling that you will not abase yourself before others. Just as often,
though, it stems from an inferiority complex, which demands that others abase
themselves before you. Seduction requires an openness to the other person, a
willingness to bend and adapt. Excessive pride, without anything to justify it,
is highly anti-seductive. The second quality that disgusted Casanova was the
countess's greed: her coquettish little games were designed only to get the
dress-she had no interest in romance. For Casanova, seduction was a
lighthearted game that people played for their mutual amusement. In his scheme
of things, it was fine if a woman wanted money and gifts as well; he could
understand that desire, and he was a generous man. But he also felt that this
was a desire a The Anti-Seducer • 143 woman should disguise-she should create
the impression that what she was after was pleasure. The person who is
obviously angling for money or other material reward can only repel. If that is
your intention, if you are looking for something other than pleasure-for money,
for power-never show it. The suspicion of an ulterior motive is anti-seductive.
Never let anything break the illusion. 6. In 1868, Queen Victoria of England
hosted her first private meeting with the country's new prime minister, William
Gladstone. She had met him before, and knew his reputation as a moral
absolutist, but this was to be a ceremony, an exchange of pleasantries.
Gladstone, however, had no patience for such things. At that first meeting he
explained to the queen his theory of royalty: the queen, he believed, had to
play an exemplary role in England-a role she had lately failed to live up to,
for she was overly private. This lecture set a bad tone for the future, and
things only got worse: soon Victoria was receiving letters from Gladstone,
addressing the subject in even greater depth. Half of them she never bothered
to read, and soon she was doing everything she could to avoid contact with the
leader of her government; if she had to see him, she made the meeting as brief
as possible. To that end, she never allowed him to sit down in her presence,
hoping that a man his age would soon tire and leave. For once he got going on a
subject dear to his heart, he did not notice your look of disinterest or the
tears in your eyes from yawning. His memoranda on even the simplest of issues
would have to be translated into plain English for her by a member of her
staff. Worst of all, Gladstone argued with her, and his arguments had a way of
making her feel stupid. She soon learned to nod her head and appear to agree
with whatever abstract point he was trying to make. In a letter to her
secretary, referringtoherselfin the third person, she wrote, "She always
felt in [Gladstone's] manner an overbearing obstinacy and imperiousness . . .
which she never experienced from anyone else, and which she found most
disagreeable." Over the years, these feelings hardened into an unwaning hatred.
As the head of the Liberal Party, Gladstone had a nemesis, Benjamin Disraeli,
the head of the Conservative Party. He considered Disraeli amoral, a devilish
Jew. At one session of Parliament, Gladstone tore into his rival, scoring point
after point as he described where his opponents policies would lead. Growing
angry as he spoke (as usually happened when he talked of Disraeli), he pounded
the speaker's table with such force that pens and papers went flying. Through
all of this Disraeli seemed half-asleep. When Gladstone had finished, he opened
his eyes, rose to his feet, and calmly walked up to the table. "The right
honorable gentleman," he said, "has spoken with much passion, much
eloquence, and much- ahem - violence." Then, after a drawn-out pause, he
continued, "But the damage can be repaired"-and he proceeded to
gather up everything that had fallen from the table and put them back in place.
The speech that followed was all the more masterful for its calm and ironic contrast
to Gladstone's. The members of Parliament were spellbound, andallof them agreed
he had won the day. If Disraeli was the consummate social seducer and charmer,
Gladstone was the Anti-Seducer. Of course he had supporters, mostly among the
more puritanical elements of society-he twice defeated Disraeli in a general
election. But he found it hard to broaden his appeal beyond the circle of
believers. Women in particular found him insufferable. Of course they had no
vote at the time, so they were little political liability; but Gladstone had no
patience for a feminine point of view. A woman, he felt, had to learn to see
things as a man did, and it was his purpose in life to educate those he felt
were irrational or abandoned by God. It did not take long for Gladstone to wear
on anyone's nerves. That is the nature of people who are convinced of some
truth, but have no patience for a different perspective or for dealing with
someone else's psychology. These types are bullies, and in the short term they
often get their way, particularly among the less aggressive. But they stir up a
lot of resentment and unspoken antipathy, which eventually trips them up.
People see through their righteous moral stance, which is most often a cover
for a power play-morality is a form of power. A seducer never seeks to persuade
directly, never parades his or her morality,
neverlecturesorimposes.Everythingissubtle,psychological,andindirect.Symbol: The
Crab. In a harsh world, the crab survives by its hardened shell, by the threat
of its pincers, and by burrowing into the sand. No one dares get too close. But
the Crab cannot surprise its enemy and has little mobility. Its defensive
strength is its supreme limitation. Uses of Anti-Seduction T he best way to
avoid entanglements with Anti-Seducers is to recognize them right away and give
them a wide berth, but they often deceive us. Involvements with these types are
painful, and are hard to disengage from, because the more emotional response
you show, the more engaged you seem to be. Do not get angry-that may only encourage
them or exacerbate their anti-seductive tendencies. Instead, act distant and
indifferent, pay no attention to them, make them feel how little they matter to
you. The best antidote to an Anti-Seducer is often to be anti-seductive
yourself. Cleopatra had a devastating effect on every man who crossed her path.
Octavius-the future Emperor Augustus, and the man who would defeat and destroy
Cleopatra's lover Mark Antony-was well aware of her power, and defended himself
against it by being always extremely amiable with her, courteous to the
extreme, but never showing the slightest emotion, whether of interest or
dislike. In other words, he treated her as if she were any other woman. Facing
this front, she could not sink her hooks into him. Octavius made anti-seduction
his defense against the most irresistible woman in history. Remember: seduction
is a game of attention, of slowly filling the other person's mind with your
presence. Distance and inattention will create the opposite effect, and can be
used as a tactic when the need arises. Finally, if you really want to
"anti-seduce," simply feign the qualities listed at the beginning of
the chapter. Nag; talk a lot, particularly about yourself; dress against the
other person's tastes; pay no attention to detail; suffocate, and so on. A word
of warning: with the arguing type, the Windbag, never talk back too much. Words
will only fan the flames. Adopt the Queen Victoria strategy: nod, seem to
agree, then find an excuse to cut the conversation short. This is the only defense.
the seducer's Victims- The Eighteen Types The people around you are all
potential victims of a seduction, but first you must know what type of victim
you are dealing with. Victims are categorized by what they feel they are
missing in life - adventure, attention, romance, a naughty experience, mental
or physical stimulation, etc. Once you identify their type, you have the
necessary ingredients for a seduction: you will be the one to give them what
they lack and cannot get on their own. In studying potential victims, learn to
see the reality behind the appearance. A timid person may yearn to play the
star; a prude may long for a transgressive thrill. Never try to seduce your own
type. ooo o o o Victim Theory N obody in this world feels whole and complete.
We all sense some gap in our character, something we need or want but cannot
get on our own. When we fall in love, it is often with someone who seems to
fill that gap. The process is usually unconscious and depends on luck: we wait
for the right person to cross our path, and when we fall for them we hope they
return our love. But the seducer does not leave such things to chance. Look at
the people around you. Forget their social exterior, their obvious character
traits; look behind all of that, focusing on the gaps, the missing pieces in
their psyche. That is the raw material of any seduction. Pay close attention to
their clothes, their gestures, their offhand comments, the things in their
house, certain looks in their eyes; get them to talk about their past,
particularly past romances. And slowly the outline of those missing pieces will
come into view. Understand: people are constantly giving out signals as to what
they lack. They long for completeness, whether the illusion of it or the
reality, and if it has to come from another person, that person has tremendous
power over them. We may call them victims of a seduction, but they are almost
always willing victims. This chapter outlines the eighteen types of victims,
each one of which has a dominant lack. Although your target may well reveal the
qualities of more than one type, there is usually a common need that ties them
together. Perhaps you see someone as both a New Prude and a Crushed Star, but
what is common to both is a feeling of repression, and therefore a desire to be
naughty, along with a fear of not being able or daring enough. In identifying
your victim's type, be careful to not be taken in by outward appearances. Both
deliberately and unconsciously, we often develop a social exterior designed specifically
to disguise our weaknesses and lacks. For instance, you may think you are
dealing with someone who is tough and cynical, without realizing that deep
inside they have a soft sentimental core. They secretly pine for romance. And
unless you identify their type and the emotions beneath their toughness, you
lose the chance to truly seduce them. Most important: expunge the nasty habit
of thinking that other people have the same lacks you do. You may crave comfort
and security, but in giving comfort and security to someone else, on the
assumption they must want them as well, you are more likely smothering and
pushing them away. Never try to seduce someone who is of your own type.Youwill
be like two puzzles missing the same parts. 149 150 The Eighteen Types The
Reformed Rake or Siren. People of this type were once happy-go- lucky seducers
who had their way with the opposite sex. But the day came when they were forced
to give this up-someone corraled them into a relationship, they were
encountering too much social hostility, they were getting older and decided to
settle down. Whatever the reason, you can be sure they feel some resentment and
a sense of loss, as if a limb were missing. We are always trying to recapture
pleasures we experienced in the past, but the temptation is particularly great
for the Reformed Rake or Siren because the pleasures they found in seduction
were intense. These types are ripe for the picking: all that is required is
that you cross their path and offer them the opportunity to resume their rakish
or siren ways. Their blood will stir and the call of their youth will overwhelm
them. It is critical, though, to give these types the illusion that they are
the ones doing the seducing. With the Reformed Rake, you must spark his
interest indirectly, then let him burn and glow with desire. With the Reformed
Siren, you want to give her the impression that she still has the irresistible
power to draw a man in and make him give up everything for her. Remember that
what you are offering these types is not another relationship, another
constriction, but rather the chance to escape the corral and have some ran. Do
not be put off if they are in a relationship; a preexisting commitment is often
the perfect foil. If hooking them into a relationship is what you want, hide it
as best you can and realize it may not be possible. The Rake or Siren is
unfaithful by nature; your ability to spark the old feeling gives you power,
but then you will have to live with the consequences of their feckless ways. The
Disappointed Dreamer. As children, these types probably spent a lot of time
alone. To entertain themselves they developed a powerful fantasy life, fed by
books and films and other kinds of popular culture. And as they get older, it
becomes increasingly difficult to reconcile their fantasy life with reality,
and so they are often disappointed by what they get. This is particularly true
in relationships. They have been dreaming of romantic heroes, of danger and
excitement, but what they have is lovers with human frailties, the petty
weaknesses of everyday life. As the years pass, they may force themselves to
compromise, because otherwise they would have to spend their lives alone; but
beneath the surface they are bitter and still hungering for something grand and
romantic. You can recognize this type by the books they read and
filmstheygoto,theway their ears prick up when told of the real-life adventures
some people manage to live out. In their clothes and home furnishings, a taste
for exuberant romance or drama will peek through. They are often trapped in
drab relationships, and little comments here and there will reveal their
disappointment and inner tension. The Seducer's Victims-The Eighteen Types
These types make for excellent and satisfying victims. First they usually have
a great deal of pent-up passion and energy, which you can release and focus on
yourself. They also have great imaginations and will respond to anything
vaguely mysterious or romantic that you offer them. All you need do is disguise
some of your less than exalted qualities and give them a part of their dream.
This could be the chance to live out their adventures or be courted by a
chivalrous soul. If you give them a part of what they want they will imagine
the rest. At all cost, do not let reality break the illusion you are creating.
One moment of pettiness and they will be gone, more bitterly disappointed than
ever. The Pampered Royal. These people were the classic spoiled children. All
of their wants and desires were met by an adoring parent-endless
entertainments, a parade of toys, whatever kept them happy for a day or two.
Where many children learn to entertain themselves, inventing games and finding
friends. Pampered Royals are taught that others will do the entertaining for
them. Being spoiled, they get lazy, and as they get older and the parent is no
longer there to pamper them, they tend to feel quite bored and restless. Their
solution is to find pleasure in variety, to move quickly from person to person,
job to job, or place to place before boredom sets in. They do not settle into
relationships well because habit and routine of some kind are inevitable in
such affairs. But their ceaseless search for variety is tiring for them and
comes with a price: work problems, strings of unsatisfying romances, friends
scattered across the globe. Do not mistake their restlessness and infidelity
for reality-what the Pampered Prince or Princess is really looking for is one
person, that parental figure, who will give them the spoiling they crave. To seduce
this type, be ready to provide a lot of distraction-new places to visit, novel
experiences, color, spectacle. You will have to maintain an air of mystery,
continually surprising your target with a new side to your character. Variety
is the key. Once Pampered Royals are hooked, things get easier for they will
quickly grow dependent on you and you can put out less effort. Unless their
childhood pampering has made them too and lazy, these types make excellent
victims-they will beasloyal to you as they once were to mommy or daddy. But you
will have to do much of the work. If you are after a long relationship,
disguise it. Offer long-term security to a Pampered Royal and you will induce a
panicked flight. Recognize these types by the turmoil in their past-job
changes, travel, short-term relationships-and by the air of aristocracy, no
matter their social class, that comes from once being treated like royalty. The
New Prude. Sexual prudery still exists, but it is less common than it was.
Prudery, however, is neverjust about sex; a prude is someone who is excessively
concerned with appearances, with what society considers ap- propriate and
acceptable behavior. Prudes rigorously stay within the boundaries of
correctness because more than anything they fear society's judgment. Seen in
this light, prudery is just as prevalent as it always was. The New Prude is
excessively concerned with standards of goodness, fairness, political
sensitivity, tastefulness, etc. What marks the New Prude, though, as well as
the old one, is that deep down they are actually excited and intrigued by
guilty, transgressive pleasures. Frightened by this attraction, they run in the
opposite direction and become the most correct of all. They tend to wear drab
colors; they certainly never take fashion risks. They can be very judgmental
and critical of people who do take risks and are less correct. They are also
addicted to routine, which gives them a way to tamp down their inner turmoil.
New Prudes are secretly oppressed by their correctness and long to transgress.
Just as sexual prudes make prime targets for a Rake or Siren, the New Prude
will often be most tempted by someone with a dangerous or naughty side. If you
desire a New Prude, do not be taken in by theirjudg- ments of you or their
criticisms. That is only a sign of how deeply you fascinate them; you are on
their mind. You can often draw a New Prude into a seduction, in fact, by giving
them the chance to criticize you or even try to reform you. Take nothing of
what they say to heart, of course, but now you have the perfect excuse to spend
time with them-and New Prudes can be seduced simply through being in contact
with you. These types actually make excellent and rewarding victims. Once you
open them up and get them to let go of their correctness, they are flooded with
feelings and energies. They may even overwhelm you. Perhaps they are in a
relationship with someone as drab as they themselves seem to be-do not be put
off. They are simply asleep, waiting to be awakened. The Crushed Star. We all want
attention, we all want to shine, but with most of us these desires are fleeting
and easily quieted.Theproblemwith Crushed Stars is that at one point in their
lives they did find themselves the center of attention-perhaps they were
beautiful, charming and effervescent, perhaps they were athletes, or had some
other talent-but those days are gone. They may seem to have accepted this, but
the memory of having once shone is hard to get over. In general, the appearance
of wanting attention, of trying to stand out, is not seen too kindly in polite
society or in the workplace. So to get along. Crushed Stars learn to tamp down
their desires; but failing to get the attention they feel they deserve, they
also become resentful. You can recognize Crushed Stars by certain unguarded
moments; they suddenly receive some attention in a social setting, and it makes
them glow; they mention their glory days, and there is a little glint in the
eye; a little wine in the system, and they become effervescent. Seducing this type
is simple: just make them the center of attention. When you are with them, act
as if they were stars and you were basking in their glow. Get them to talk,
particularly about themselves. In social situations, mute your own colors and
let them look funny and radiant by comparison. In general, play the Charmer.
The reward of seducing Crushed Stars is that you stir up powerful emotions.
They will feel intensely grateful to you for letting them shine. To whatever
extent they had felt crushed and bottled up, the easing of that pain releases
intensity and passion, all directed at you. They will fall madly in love. If
you yourself have any star or dandy tendencies it is wise to avoid such
victims. Sooner or later those tendencies will come out, and the competition
between you will be ugly. The Novice. What separates Novices from ordinary
innocent young people is that they are fatally curious. They have little or no
experience of the world, but have been exposed to it secondhand-in newspapers,
films, books. Finding their innocence a burden, they long to be initiated into
the ways of the world. Everyone sees them as so sweet and innocent, but they
know this isn't so-they cannot be as angelic as people think them. Seducing a
Novice is easy. To do it well, however, requires a bit of art. Novices are
interested in people with experience, particularly people with a touch of
corruption and evil. Make that touch too strong, though, and it will intimidate
and frighten them. What works best with a Novice is a mix of qualities. You are
somewhat childlike yourself, with a playful spirit. At the same time, it is
clear that you have hidden depths, even sinister ones. (This was the secret of
Lord Byron's success with so many innocent women.) You are initiating your
Novices not just sexually but experien- tially,exposingthem to new ideas,
taking them to new places, new worlds both literal and metaphoric. Do not make
your seduction ugly or seedy- everything must be romantic, even including the
evil and dark side of life. Young people have their ideals; it is best to
initiate them with an aesthetic touch. Seductive language works wonders on
Novices, as does attention to detail. Spectacles and colorful events appeal to
their sensitive senses. They are easily misled by these tactics, because they
lack the experience to see through them. Sometimes Novices are a little older
and have been at least somewhat educated in the ways of the world. Yet they put
on a show of innocence, for they see the power it has over older people. These
are coy Novices, aware of the game they are playing-but Novices they remain.
They may be less easily misled than purer Novices, but the way to seduce them
is pretty much the same-mix innocence and corruption and you will fascinate
them. The Conqueror. These types have an unusual amount of energy, which they
find difficult to control. They are always on the prowl for people to conquer,
obstacles to surmount. You will not always recognize Conquerors by their
exterior-they can seem a little shy in social situations and can have a degree
of reserve. Look not at their words or appearance but at their actions, in work
and inrelationships. They love power, and by hook or by crook they get it.
Conquerors tend to be emotional, but their emotion only comes out in outbursts,
when pushed. In matters of romance, the worst thing you can do with them is lie
down and make yourself easy prey; they may take advantage of your weakness, but
they will quickly discard you and leave you the worse for wear. You want to
give Conquerors a chance to be aggressive, to overcome some resistance or
obstacle, before letting them think they have overwhelmed you. You want to give
them a good chase. Being a little difficult or moody, using coquetry, will
often do the trick. Do not be intimidated by their aggressiveness and
energy-that is precisely what you can turn to your advantage. To break them in,
keep them charging back and forth like a bull. Eventually they will grow weak
and dependent, as Napoleon became the slave ofJosephine. The Conqueror is generally
male but there are plenty of female Conquerors out there-Lou Andreas-Salome and
Natalie Barney are famous ones. Female Conquerors will succumb to coquetry,
though, just as the male ones will. The Exotic Fetishist. Most of us are
excited and intrigued by the exotic. What separates Exotic Fetishists from the
rest of us is the degree of this interest, which seems to govern all their
choices in life. Intruththeyfeelempty inside and have a strong dose of
self-loathing. They do not like wherever it is they come from, their social
class (usually middle or upper), and their culture because they do not like
themselves. These types are easy to recognize. They like to travel; their
houses are filled with objets from faraway places; they fetishize the music or
art of this or that foreign culture. They often have a strong rebellious
streak. Clearly the way to seduce them is to position yourself as exotic-if you
do not at least appear to come from a different background or race, or to have
some alien aura, you should not even bother. But it is always possible to play
up what makes you exotic, to make it a kind of theater for their amusement.
Your clothes, the things you talk about, the places you take them, make a show
of your difference. Exaggerate a little and they will imagine the rest, because
such types tend to be self-deluders. Exotic Fetishists, however, do not make
particularly good victims. Whatever exoticism you have will soon seem banal to
them, and they will want something else. It will be a struggle to hold their
interest. Their underlying insecurity will also keep you on edge. One variation
on this type is the man or woman who is trapped in a stultifying relationship,
a banal occupation, a dead-end town. It is circumstance, as opposed topersonal
neurosis, that makes such people fetishize the exotic; and these Exotic
Fetishists are better victims than the self-loathing kind, because you can
offer them a temporary escape from whatever oppresses them. Nothing, however,
will offer true Exotic Fetishists escape from themselves. The Drama Queen.
There are people who cannot do without some constant drama in their lives-it is
their way of deflecting boredom. The greatest mistake you can make in seducing
these Drama Queens is to come offering stability and security. That will only
make them run for the hills. Most often. Drama Queens (and there are plenty of
men in this category) enjoy playing the victim. They want something to complain
about, they want pain. Pain is a source of pleasure for them. With this type,
you have to be willing and able to give them the mental rough treatment they
desire. That is the only way to seduce them in a deep manner. The moment you
turn too nice, they will find some reason to quarrel or get rid of you. You
will recognize Drama Queens by the number of people who have hurt them, the
tragedies and traumas that have befallen them. At the extreme, they can be
hopelessly selfish and anti-seductive, but most of them are relatively harmless
and will make fine victims if you can live with the sturm und
drang.Ifforsomereasonyouwantsomethinglongterm with this type, you will
constantly have to inject drama into your relationship. For some this can be an
exciting challenge and a source for constantly renewing the relationship.
Generally, however, you should see an involvement with a Drama Queen as
something fleeting and a way to bring a little drama into your own life. The
Professor. These types cannot get out of the trap of analyzing and criticizing
everything that crosses their path. Their minds are overdeveloped and
overstimulated. Even when they talk about love or sex, it is with great thought
and analysis. Having developed their minds at the expense of their bodies, many
of them feel physically inferior and compensate by lording their mental superiority
over others. Their conversation is often wry or ironic-you never quite know
what they are saying, but you sense them looking down on you. They would like
to escape their mental prisons, they would like pure physicality, without any
analysis, but they cannot get there on their own. Professor types sometimes
engage in relationships with other professor types, or with people they can
treat as inferiors. But deep down they long to be overwhelmed by someone with
physical presence-a Rake or a Siren, for instance. Professors can make
excellent
victims,forunderneaththeirintellectualstrengthliegnawinginsecurities.MakethemfeellikeDon
Juans or Sirens, to even the slightest degree, and they are your slaves. Many
of them have a masochistic streak that will come out once you stir their
dormant senses. You are offering an escape from the mind, so make it as
complete as possible: if you have intellectual tendencies yourself, hide them.
They will only 156stir your target's competitive juices and get their minds
turning. Let your Professors keep their sense of mental superiority; let
themjudge you. You will know what they will try to hide: that you are the one
in control, for you are giving them what no one else can give them-physical
stimulation. The Beauty. From early on in life, the Beauty is gazed at by
others. Their desire to look at her is the source of her power, but also the
source of much unhappiness: she constantly worries that her powers are waning,
that she is no longer attracting attention. If she is honest with herself, she
also senses that being worshiped only for one's appearance is monotonous and
unsatisfying-and lonely. Many men are intimidated by beauty and prefer to
worship it from afar; others are drawn in, but not for the purpose of
conversation. The Beauty suffers from isolation. Because she has so many lacks,
the Beauty is relatively easy to seduce,andifdoneright,youwill have won not
only a much prized catch but someone who will grow dependent on what you
provide. Most important in this seduction is to validate those parts of the
Beauty that no one else appreciates-her intelligence (generally higher than
people imagine), her skills, her character. Of course you must worship her
body-you cannot stir up any insecurities in the one area in which she knows her
strength, and \the strength on which she most depends-but you also must worship
her mind and soul. Intellectual stimulation will work well on the Beauty,
distracting her from her doubts and insecurities, and making it seem that you
value that side of her personality. Because the Beauty is always being looked
at, she tends to be passive. Beneath her passivity, though, there often lies
frustration: the Beauty would love to be more active and to actually do some
chasing of her own. A little coquettishness can work well here: at some point
in all your worshiping, you might go a little cold, inviting her to come after
you. Train her to be more active and you will have an excellent victim. The
only downside is that her many insecurities require constant attention and
care. The Aging Baby. Some people refuse to grow up. Perhaps they are afraid of
death or of growing old; perhaps they are passionately attached to the life
they led as children. Disliking responsibility, they struggle to turn
everything into play and recreation. In their twenties they can be charming, in
their thirties interesting, but by the time they reach their forties they are
beginning to wear thin. Contrary to what you might imagine, one Aging Baby does
not want to be involved with another Aging Baby, even though the combination
might seem to increase the chances for play and frivolity. The Aging Baby does
not want competition, but an adult figure. If you desire to seduce this type,
you must be prepared to be the responsible, staid one. That may be a strange
way of seducing, but in this case it works. You should appear to like the Aging
Baby's youthful spirit (it helps if you actually do), can engage with it, but
you remain the indulgent adult. By being responsible you free the Baby to play.
Act the loving adult to the hilt, neverjudging or criticizing their behavior,
and a strong attachment will form. Aging Babies can be amusing for a while,
but, like all children, they are often potently narcissistic. This limits the
pleasure you can have with them. You should see them as short-term amusements
or temporary outlets for your frustrated parental instincts. The Rescuer. We
are often drawn to people who seem vulnerable or weak-their sadness or
depression can actually be quite seductive. There are people, however, whotake
this much further, who seem to be attracted only to people with problems. This
may seem noble, but Rescuers usually have complicated motives: they often have
sensitive natures and truly want to help. At the same time, solving people's problems
gives them a kind of power they relish-it makes them feel superior and in
control. It is also the perfect way to distract them from their own problems.
You will recognize these types by their empathy-they listen well and try to get
you to open up and talk. You will also notice they have histories of
relationships with dependent and troubled people. Rescuers can make excellent
victims, particularly if you enjoy chivalrous or maternal attention. If you are
a woman, play the damsel in distress, giving a man the chance so many men long
for-to act the knight. If you are a man, play the boy who cannot deal with this
harsh world; a female Rescuer will envelop you in maternal attention, gaining
for herself the added satisfaction of feeling more powerful and in control than
a man. An air of sadness will draw either gender in. Exaggerate your
weaknesses, but not through overt words or gestures-let them sense that you
have had too little love, that you have had a string of bad relationships, that
you have gotten a raw deal in life. Having lured your Rescuer in with the
chance to help you, you can then stokethe relationship's fires with a steady
supply of needs and vulnerabilities. You can also invite moral rescue: you are
bad. You have done bad things. You need a stem yet loving hand. In this case
the Rescuer gets to feel morally superior, but also the vicarious thrill of
involvement with someone naughty. The Roue. These types have lived the good
life and experienced many pleasures. They probably have, or once had, a good
deal of money to finance their hedonistic lives. On the outside they tend to
seem cynical and jaded, but their worldliness often hides a sentimentality that
they have stmggled to repress. Roues are consummate seducers, but there is one
type that can easily seduce them-the young and the innocent. As they get 158
older, they hanker after their lost youth; missing their long-lost innocence,
they begin to covet it in others. If you should want to seduce them, you will
probably have to be somewhat young and to have retained at least the appearance
of innocence. It is easy to play this up-make a show of how little experience
you have in the world, how you still see things as a child. It is also good to
seem to resist their advances: Roues will think it lively and exciting to chase
you. You can even seem to dislike or distrust them-that will really spur them
on. By being the one who resists, you control the dynamic. And sinceyou have
the youth that they are missing, you can maintain the upper hand and make them
fall deeply in love. They will often be susceptible to such a fall, because
they have tamped down their own romantic tendencies for so long that when it
bursts forth, they lose control. Never give in too early, and never let your
guard down-such types can be dangerous. The Idol Worshiper. Everyone feels an
inner lack, but Idol Worshipers have a bigger emptiness than most people. They
cannot be satisfied with themselves, so they search the world for something to
worship, something to fill their inner void. This often assumes the form of a
great interest in matters or in some worthwhile cause; by focusing on something
supposedly elevated, they distract themselves from their own void, from what
they dislike about themselves. Idol Worshipers are easy to spot-they are the
ones pouring their energies into some cause or religion. They often move around
over the years, leaving one cult for another. The way to seduce these types is
to simply become their object of worship, to take the place of the cause or religion
to which they are so dedicated. At first you may have to seem to share their
spiritual interest, joining them in their worship, or perhaps exposing them to
a new cause; eventually you will displace it. With this type you have to
hideyourflaws, or at least to give them a saintly sheen. Be banal and Idol
Worshipers will pass you by. But mirror the qualities they aspire to have for
themselves and they will slowly transfer their adoration to you. Keep
everything on an elevated plane-let romance and religion flow into one. Keep
two things in mind when seducing this type. First, they tend to have overactive
minds, which can make them quite suspicious. Because they often lack physical
stimulation, and because physical stimulation will distract them, give them some:
a mountain trek, a boat trip, or sex will do the trick. But this takes a lot of
work, for their minds are always ticking. Second, they often suffer from low
self-esteem. Do not try to raise it; they will see through you, and your
efforts at praising them will clash with their own self-image. They are to
worship you; you are not to worship them. Idol Worshipers make perfectly
adequate victims in the short term, but their endless need to search will
eventually lead them to look for something new to adore. The Seducer's
Victims-The Eighteen Types • 159 The Sensualist. What marks these types is not
their love of pleasure but their overactive senses. Sometimes they show this
quality in their appearance-their interest in fashion, color, style. But
sometimes it is more subtle: because they are so sensitive, they areoften quite
shy, and they will shrink from standing out or being flamboyant. You will
recognize them by how responsive they are to their environment, how they cannot
stand a room without sunlight, are depressed by certain colors, or excited by
certain smells. They happen to live in a culture that deempha- sizes sensual
experience (except perhaps for the sense of sight). And so what the Sensualist
lacks is precisely enough sensual experiences to appreciate and relish. The key
to seducing them is to aim for their senses, to take them to beautiful places,
pay attention to detail, envelop them in spectacle, and of course use plenty of
physical lures. Sensualists, like animals, can be baited with colors and
smells. Appeal to as many senses as possible, keeping your targets distracted
and weak. Seductions of Sensualists are often easy and quick, and you can use
the same tactics again and again to keep them interested, although it is wise
to vary your sensual appeals somewhat, in kind if not in quality. That is how
Cleopatra worked on Mark Antony, an inveterate Sensualist. These types make
superb victims because they are relatively docile if you give them what they
want. The Lonely Leader. Powerful people are not necessarily different from
everyone else, but they are treated differently, and this has a big effect on
their personalities. Everyone around them tends to be fawning and courtierlike,
to have an angle, to want something from them. This makes them suspicious and
distrustful, and a little hard around the edges, but do not mistake the
appearance for the reality: Lonely Leaders long to be seduced, to have someone
break through their isolation and overwhelm them. The problem is that most
people are too intimidated to try, or use the kind of tactics-flattery,
charm-that they see through and despise. To seduce such types, it is better to
act like their equal or even their superior- the kind of treatment they never
get. If you are blunt with them you will seem genuine, and they will be
touched-you care enough to be honest, even perhaps at some risk. (Being blunt
with the powerful can be dangerous.) Lonely Leaders can be made emotional by
inflicting some pain, followed by tenderness. This is one of the hardest types
to seduce, not only because they are suspicious but because their minds are
burdened with cares and responsi. They have less mental space for a seduction.
You will have to be patient and clever, slowly filling their minds with
thoughts of you. Succeed, though, and you can gain great power in turn, for in
their loneliness they will come to depend on you. The Floating Gender. All of
us have a mix of the masculine and the in our characters, but most of us learn
to develop and exhibit the socially acceptable side while repressing the other.
People of the Floating Gender type feel that the separation of the sexes into
such distinct genders is a burden. They are sometimes thought to be repressed
or latent homosexuals, but this is a misunderstanding: they may well be
heterosexual but their masculine and feminine sides are in flux, and because
this may discomfit others if they show it, they learn to repress it, perhaps by
going to one extreme. They would actually love to be able to play with their
gender, to give full expression to both sides. Many people fall into this type
without its being obvious: a woman may have a masculine energy, a man a
developed aesthetic side. Do not look for obvious signs, because these types
often go underground, keeping it under wraps. This makes them vulnerable to a
powerful seduction. What Floating Gender types are really looking for is
another person of uncertain gender, their counterpart from the opposite sex.
Show them that in your presence and they can relax, express the repressed side
of their character. If you have such proclivities, this is the one instance
where it would be best to seduce the same type of the opposite sex. Each person
will stir up repressed desires in the other and will suddenly have license to
explore all kinds of gender combinations, without fear of judgment. If you are
not of the Floating Gender, leave this type alone. You will only inhibit them
and create more discomfort. eductive process M ost of us understand that
certain actions on our part will have apleasing and seductive effect on the
person we would like to seduce. The problem is that we are generally too
self-absorbed: We think more about what we want from others than what they
could want from us. We may occasionally do something that is seductive, but
often we follow this up a with a selfish or aggressive action (we are in a
hurry to get what we want); or, unaware of what we are doing, we show a side of
ourselves that is petty and banal, deflating any illusions or fantasies a
person might have about us. Our attempts at seduction usually do not last long
enough to create much of an effect. You will not seduce anyone by simply
depending on your engaging personality, or by occasionally doing something
noble or alluring. Seduction is a process that occurs over time-the longer you
take and the slower you go, the deeper you will penetrate into the mind of your
victim. It is an art that requires patience, focus, and strategic thinking. You
need to always be one step ahead of your victim, throwing dust in their eyes,
casting a spell, keeping them off balance. The twenty-four chapters in this
section will arm you with a series of tactics that will help you get out of
yourself and into the mind of your victim, so that you can play it like an
instrument. The chapters are placed in a loose order, going from the initial
contact with your victim to the successful conclusion. This order is based on
certain timeless laws of human psychology. Because people's thoughts tend to
revolve around their daily concerns and insecurities, you cannot proceed with a
seduction until you slowly put their anxieties to sleep and fill their
distracted minds with thoughts of you. The opening chapters will help you
accomplish this. There is a natural tendency in relationships for people to become
so familiar with one another that boredom and stagnation set in. Mystery is the
lifeblood of seduction and to maintain it you have to constantly surprise your
victims, stir things up, even shock them. A seduction should never settle into
a comfortable routine. The middle and later chapters will instruct you in the
art of alternating hope and despair, pleasure and pain, until your victims
weaken and succumb. In each instance, one tactic is setting up the next one,
allowing you to push it further with something bolder and more violent. A
seducer cannot be timid or merciful. To help you move the seduction along, the
chapters are arranged in 163 164 • The Art of Seduction four phases, each phase
with a particular goal to aim for: getting the victim to think of you; gaining
access to their emotions by creating moments of pleasure and confusion; going
deeper by working on their unconscious, stirring up repressed desires; and
finally, inducing physical surrender. (The are clearly marked and explained
with a short introduction.) By following these phases you will work more
effectively on your victim's mind and create the slow and hypnotic pace of a
ritual. In fact, the seductive process may be thought of as a kind of
initiation ritual, in which you are uprooting people from their habits, giving
them novel experiences, putting them through tests, before initiating them into
a new life. It is best to read all of the chapters and gain as much knowledge
as possible. When it comes time to apply these tactics, you will want to pick
and choose which ones are appropriate for your particular victim; sometimes
only a few are sufficient, depending on the level of resistance you meet and
the complexity of your victim's problems. These tactics are equally applicable
to social and political seductions, minus the sexual component in Phase Four.
At all cost, resist the temptation to hurry to the climax of your seduction, or
to improvise. You are not being seductive but selfish. Everything in daily life
is hurried and improvised, and you need to offer something different. By taking
your time and respecting the seductive process you will not only break down
your victim's resistance, you will make them fall in love. Phase One Separation
- Stirring Interest and Desire Your victims live in their own worlds, their
minds occupied with anxieties and daily concerns. Your goal in this initial
phase is to slowly separate themfrom that closed world and fill their minds
with thoughts of you. Once you have decided whom to seduce (1: Choose the right
victim), your first task is to get your victims' attention, to stir interest in
you. For those who might be more resistant or difficult, you should try a
slower and more insidious approach, first winning their friendship (2: Create a
false sense of security-approach indirectly); for those who are bored and less
difficult to reach, a more dramatic approach will work, either fascinating them
with a mysterious presence (3; Send mixed signals) or seeming to be someone who
is coveted and fought over by others (4: Appear to be an object of desire).
Once the victim is properly intrigued, you need to transform their interest
into something stronger - desire. Desire is generally preceded by feelings of
emptiness, of something missing inside that needsfulfillment. You must
deliberately instill suchfeelings, make your victims aware of the adventure and
romance that are lacking in their lives (5: Create a need-stir anxiety and
discontent). If they see you as the one to fill their emptiness, interest will
blossom into desire. The desire should be stoked by subtly planting ideas in
their minds, hints of the seductive pleasures that await them (6: Master the
art of insinuation). Mirroring your victims' values, indulging them in their
wants and moods will charm and delight them (7: Enter their spirit). Without
realizing how it has happened, more and more of their thoughts now revolve
around you. The time has come for something stronger. Lure them with an
irresistible pleasure or adventure (8: Create temptation) and they will follow
your lead. 1 Choose the Right Victim Everything depends on the target of your
seduction. Study your prey thoroughly, and choose only those who will prove
susceptible to your charms. The right victims are those for whom you can fill a
void, who see in you something exotic. They are often isolated or at least
somewhat unhappy (perhaps because of recent adverse circumstances), or can
easily be made so-for the completely contented person is almost impossible to
seduce. The perfect victim has some natural quality that attracts you. The
strong emotions this quality inspires will help make your seductive maneuvers
seem more natural and dynamic. The perfect victim allows for the perfectchase.
Preparing for the Hunt T he young Vicomte de Valmont was a notorious libertine
in the Paris of the 1770s, the ruin of many a young girl and the ingenious
seducer of the wives of illustrious aristocrats. But after a while the
repetitiveness of it all began to bore him; his successes came too easily So
one year, during the sweltering, slow month of August, he decided to take a
break from Paris and visit his aunt at her chateau in the provinces. Life there
was not what he was used to-there were country walks, chats with the local
vicar, card games. His city friends, particularly his fellow libertine and
confidante the Marquise de Merteuil, expected him to hurry back. There were
other guests at the chateau, however, including the Presi- dente de Tourvel, a
twenty-two-year-old woman whose husband was temporarily absent, having work to
do elsewhere. The Presidente had been languishing at the chateau, waiting for
him to join her. Valmont had met her before; she was certainly beautiful, but
had a reputation as a prude who was extremely devoted to her husband. She was
not a court lady; her taste in clothing was atrocious (she always covered her
neck with ghastly frills) and her conversation lacked wit. For some reason,
however, far from Paris, Valmont began to see these traits in a new light. He
followed her to the where she went every morning to pray. He caught glimpses of
her at dinner, or playing cards. Unlike the ladies of Paris, she seemed unaware
of her charms; this excited him. Because of the heat, she wore a simple linen
dress, which revealed her figure. A piece of muslin covered her breasts,
letting him more than imagine them. Her hair, unfashionable in its slight
disorder, conjured the bedroom. And her face-he had never noticed how
expressive it was. Her features lit up when she gave alms to a beggar; she
blushed at the slightest praise. She was so natural and unself-conscious. And
when she talked of her husband, or religious matters, he could sense the depth
of her feelings. If such a passionate nature were ever detoured into a love
affair. . . . Valmont extended his stay at the chateau, much to the delight of
his aunt, who could not have guessed at the reason. And he wrote to the
Marquise de Merteuil, explaining his new ambition: to seduce Madame de Tourvel.
The Marquise was incredulous. He wanted to seduce this prude? If he succeeded,
how little pleasure she would give him, and if he failed, what a disgrace-the
great libertine unable to seduce a wife whose husband was far away! She wrote a
sarcastic letter, which only inflamed Valmont fur- The ninth • Have I become
blind? Has the inner eye of the soul lost its power? 1 have seen her, but it is
as if I had seen a heavenly revelation -so completely has her image vanished
again for me. In vain do I summon all the of my soul in order to conjure up
this image. If I ever see her again, I shall be able to recognize her
instantly, even though she stands among a hundred others. Now she has fled, and
the eye of my soul tries in vain to overtake her with its longing. I was
walking along Langelinie, seemingly nonchalantly and without paying attention
to my surroundings, although my reconnoitering glance leftnothing
unobserved-and then my eyesfell upon her. My eyes fixed unswervingly upon her.
They no longer obeyed their master's will; it was impossiblefor me to shift my
gaze and thus overlook the object I wanted to see-I did not look, I stared. As
a fencerfreezes in his lunge, so my eyes were fixed, petrified in the direction
initially taken. It was impossible to look down, impossible to withdraw my
glance, impossible to see, because I saw far too much. The only thing I have
retained is that she had on a green cloak, that is all-one could call it
capturing the cloud instead of Juno; she has escaped me . . .and left only her
cloak behind. . . . The girl made an impression on me. • The sixteenth • ... I
feel no impatience, for she must live here in the city, and at this moment that
is enough for me. This possibility is the condition for the
properappearanceofher image - everything will be enjoyed in slow drafts.
..." The nineteenth • Cordelia, then, is her name! Cordelia! It is a
beautiful name, and that, too, is important, since it can be very disturbing to
have to name an ugly name together with the most tender adjectives.
KIERKEGAARD, THE SEDUCER'S DIARY. TRANSLATED BY HOWARD V. HONG AND EDNA H. HONG
Love as understood by Don Juan is a feeling akin to a taste for hunting. It is
cravingfor an activity which needs an incessant of stimuli to challenge skill.
-STENDHAL, LOVE. SALE It is not the quality of the desired object that gives us
pleasure, but rather the energy of our appetites. -CHARLES BAUDELAIRE, THE END
OF DON JUANther. The conquest of this notoriously virtuous woman would prove
his greatest seduction. His reputation would only be enhanced. There was an
obstacle, though, that seemed to make success almost impossible: everyone knew
Valmonfs reputation, including the Presidente. She knew how dangerous it was to
ever be alone with him, how people would talk about the least association with
him. Valmont did everything to belie his reputation, even going so far as to
attend church services and seem repentant of his ways. The Presidente noticed,
but still kept her distance. The challenge she presented to Valmont was
irresistible, but could he meet it? Valmont decided to test the waters. One day
he arranged a little walk with the Presidente and his aunt. He chose a
delightful path that they had never taken before, but at a certain point they
reached a little ditch, unsuitable for a lady to cross on her own. And yet,
Valmont said, the rest of the walk was too nice for them to turn back, and he
gallantly picked up his aunt in his arms and carried her across the ditch,
making the Presidente laugh uproariously. But then it was her turn, and Valmont
purposefully her up a little awkwardly, so that she caught at his arms, and
while he was holding her against him he could feel her heart beating faster,
and her blush. His aunt saw this too, and cried out, "The child is
afraid!" But Valmont sensed otherwise. Now he knew that the challenge
could be met, that the Presidente could be won. The seduction could proceed.
Interpretation. Valmont, the Presidente de Tourvel, and the Marquise de
Merteuil are all characters in the eighteenth-century French novel Dangerous
Liaisons, by Choderlos de Laclos. (The character of Valmont was inspired by
several real-life libertines of the time, most prominent of all the Duke de
Richelieu.) In the story, Valmont worries that his seductions have become
mechanical; he makes a move, and the woman almost always responds the same way.
But no two seductions should be the same-a different target should change the
whole dynamic. Valmonfs problem is that he is always seducing the same type-the
wrong type. He realizes this when he meets Madame de Tourvel. It is not because
her husband is a count that he decides to seduce her, or because she is
stylishly dressed, or is desired by other men-the usual reasons. He chooses her
because, in her unconscious way, she has already seduced him. A bare arm, an
unrehearsed laugh, a playful manner-all these have captured his attention,
because none of them is contrived. Once he falls under her spell, the strength
of his desire will make his subsequent maneuvers seem less calculated; he is
apparently unable to help himself. And his strong emotions will slowly infect
her. Beyond the effect the Presidente has on Valmont, she has other traits that
make her the perfect victim. She is bored, which draws her toward adventure.
She is naive, and unable to see through his tricks. Finally, the Achilles'
heel; she believes herself immune to seduction. Almost all of us Choose the
Right Victim • 171 are vulnerable to the attractions of other people, and we
take precautions against unwanted lapses. Madame de Tourvel takes none. Once
Valmont has tested her at the ditch, and has seen she is physically vulnerable,
he knows that eventually she will fall. Life is short, and should not be wasted
pursuing and seducing the wrong people. The choice of target is critical; it is
the set up of the seduction and it will determine everything else that follows.
The perfect victim does not have certain facial features, or the same taste in
music, or similar goals in life. That is how a banal seducer chooses his or her
targets. The perfect victim is the person who stirs you in a way that cannot be
explained in words, whose effect on you has nothing to do with
superficialities. He or she often has a quality that you yourself lack, and may
even secretly envy- the Presidente, for example, has an innocence that Valmont
long ago lost or never had. There should be a little bit of tension-the victim
may fear you a little, even slightly dislike you. Such tension is full of
erotic potential and will make the seduction much livelier. Be more creative in
choosing your prey and you will be rewarded with a more exciting seduction. Of
course, it means nothing if the potential victim is not open to your influence.
Test the person first. Once you feel that he or she is also vulnerable to you
then the hunting can begin. It is a stroke of good fortune to find one who is
worth seducing. . . . Most people rush ahead, become engaged or do other stupid
things, and ina turn of the hand everything is over, and they know neither what
they have won nor what they have lost. KIERKEGAARD Keys to Seduction T
hroughout life we find ourselves having to persuade people-to seduce them. Some
will be relatively open to our influence, if only in subtle ways, while others
seem impervious to our charms. Perhaps we find this a mystery beyond our
control, but that is an ineffective way of dealing with life. Seducers, whether
sexual or social, prefer to pick the odds. As often as possible they go toward
people who betray some vulnerability to them, and avoid the ones who cannot be
moved. To leave people who are inaccessible to you alone is a wise path; you
cannot seduce everyone. On the other hand, you must actively hunt out the prey
that responds the right way. This will make your seductions that much more
pleasurable and satisfying. How do you recognize your victims? By the way they
respond to you. You should not pay so much attention to their conscious
responses-a person who is obviously trying to please or charm you is probably
playing to your vanity, and wants something from you. Instead, pay greater
attention to those responses outside conscious control-a blush, an involuntary
mir- The daughter of desire should strive to have the following lovers in their
turn, as being mutuallyrestful to her: a boy who has been loosed too soon from
the authority and counsel of his father, an author enjoying office with a
rather simple-minded prince, a merchant's son whose pride is in rivaling other
lovers, an ascetic who is the slave of love in secret, a king's son whose
follies are boundless and who has a tastefor rascals, the countrified son of some
village Brahman, a married woman's lover, a singer who has just pocketed a very
large sum of money, the master of a caravan but recently come in. . . .These
brief instructions admit of infinitely varied interpretation, dear child,
according to the circumstance; and it requires intelligence, insight and
reflection to make the best of each particular case. -EASTERN LOVE, VOLUME II:
THE HARLOT'S BREVIARY OF KSHEMENDRA, MATHERS The women who can be easily won
over to congress: ... a woman who looks sideways at you; ... a woman who hates
her husband, or who is hated by him; ... a woman who has not had any children;
... a woman who is very fond of society; a woman who is apparently very
affectionate toward her husband; the wife of an actor; a widow; ... a woman fond
of enjoyments; ... a vain woman; a woman whose husband is inferior to her in
rank or ability; a woman who is proud of her skill in the arts; ... a woman who
is slighted by her husband without any cause; ... a woman whose husband is
devoted to travelling; the wife of a jeweler; a jealous woman; a covetous
woman. -THE HINDI: ART OF LOVE. EDITED BY EDWARD WINDSOR Leisure stimulates
love, leisure watches the lovelorn, \ Leisure's the cause and sustenance of
this sweet \ Evil. Eliminate leisure, and Cupid's bow is broken, \ His torches
lie lightless, scorned. \ As a plane-tree rejoices in wine, as a poplar in
water, \As a marsh-reed in swampy ground, so Venus loves \ Leisure. . . . \ Why
do you think Aegisthus \ Became an adulterer? Easy: he was idle-and bored. \
Everyone else was away at Troy on a lengthy \ Campaign: all Greece had shipped
\ Its contingent across. Suppose he hankered for warfare? Argos \ Had no wars
to offer. Suppose he fancied the courts? \ Argos lacked litigation. Love was
better than doing nothing. \ That's how Cupid slips in; that's how he stays. -
ON ID, CURES FOR LOVE. The Chinese have a proverb: "When Yang is in the
ascendant, Yin is bom," which means, translated into our language, that
when a man has devoted the better of his life to the ordinary business of
living, the Yin, raring of some gesture of yours, an unusual shyness, even
perhaps a flash of anger or resentment. All of these show that you arehaving an
effect on a person who is open to your influence. Like Valmont, you can also
recognize the right targets by the effect they are having on you. Perhaps they
make you uneasy-perhaps they correspond to a deep-rooted childhood ideal, or
represent some kind of personal taboo that excites you, or suggest the person
you imagine you would be if you were the opposite sex. When a person has such a
deep effect on you, it transforms all of your subsequent maneuvers. Your face
and gestures become more animated. You have more energy; when victims resist
you (as a good victim should) you in turn will be more creative, more motivated
to overcome their resistance. The seduction will move forward like a good play.
Your strong desire will infect the target and give them the dangerous sensation
that they have a power over you. Of course, you are the one ultimately in
control since you are making your victims emotional at the right moments,
leading them back and forth. Good seducers choose targets that inspire them but
they know how and when to restrain themselves. Never rush into the waiting arms
of the first person who seems to like you. That is not seduction but
insecurity. The need that draws you will make for a low-level attachment, and
interest on both sides will sag. Look at the types you have not considered
before-that is where you will find challenge and adventure. Experienced hunters
do not choose their prey by how easily it is caught; they want the thrill of
the chase, a life-and-death struggle-the fiercer the better. Although the
victim who is perfect for you depends on you, certain types lend themselves to
a more satisfying seduction. Casanova liked young women who were unhappy, or
had suffered a recent misfortune. Such women appealed to his desire to play the
savior, but it also responded to necessity: happy people are much harder to
seduce. Their contentment makes them inaccessible. It is always easier to fish
in troubled waters. Also, an air of sadness is itself quite seductive-Genji,
the hero of the Japanese novel The Tale of Genji, could not resist a woman with
a melancholic air. In Kierkegaard's book The Seducer's Diary, the narrator,
Johannes, has one main requirement in his victim: she must have imagination.
That is why he chooses a woman who lives in a fantasy world, a woman who will
envelop his every gesture in poetry, imagining far more than is there. Just as
it is hard to seduce a person who is happy, it is hard to seduce a person who
has no imagination. For women, the manly man is often the perfect victim. Mark
Antony was of this type-he loved pleasure, was quite emotional, and when it
came to women, found it hard to think straight. He was easy for Cleopatra to
manipulate. Once she gained a hold on his emotions, she kept him permanently on
a string. A woman should never be put off by a man who seems overly aggressive.
He is often the perfect victim. It is easy, with a few coquettish tricks, to
turn that aggression around and make him your slave. Such men actually enjoy
being made to chase after a woman. Choose the Right Victim • 173 Be careful
with appearances. The person who seems volcanically passionate is often hiding
insecurity and self-involvement. This was what most men failed to perceive in
the nineteenth-century courtesan Lola Montez. She seemed so dramatic, so
exciting. In fact, she was a troubled, self- obsessed woman, but by the time
men discovered this it was too late-they had become involved with her and could
not extricate themselves without months of drama and torture. People who are
outwardly distant or shy are often better targets than extroverts. They are
dying to be drawn out, and still waters run deep. People with a lot of time on
their hands are extremely susceptible to seduction. They have mental space for
you to fill. Tullia d'Aragona, the infamous sixteenth-century Italian
courtesan, preferred young men as her victims; besides the physical reason for
such a preference, they were more idle than working men with careers, and therefore
more defenseless against an ingenious seductress. On the other hand, you should
generally avoid people who are preoccupied with business or work-seduction
demands attention, and busy people have too little space in their minds for you
to occupy. According to Freud, seduction begins early in life, in our
relationship with our parents. They seduce us physically, both with bodily
contact and by satisfying desires such as hunger, and we in turn try to seduce
them into paying us attention. We are creatures by nature vulnerable to
seduction throughout our lives. We all want to be seduced; we yearn to be drawn
out of ourselves, out of our routines and into the drama of eros. And what
draws us more than anything is the feeling that someone has something we don't,
a quality we desire. Your perfect victims are often people who think you have
something they don't, and who will be enchanted to have it provided for them.
Such victims may have a temperament quite the opposite of yours, and this
difference will create an exciting tension. When Jiang Qing, later known as
Madame Mao, first met Mao Tse- tung in 1937 in his mountain retreat in western
China, she could sense how desperate he was for a bit of color and spice in his
life: all the camp's women dressedlikethemen,andabjuredanyfemininefinery. Jiang
had been anactress in Shanghai, and was anything but austere. She supplied what
he lacked, and she also gave him the added thrill of being able to educate her
in communism, appealing to his Pygmalion complex-the desire to dominate,
control, and remake a person. In fact it was Jiang Qing who controlled her
future husband. The greatest lack of all is excitement and adventure, which is
precisely what seduction offers. In 1964, the Chinese actor Shi Pei Pu, a man
who had gained fame as a female impersonator, met Bernard Bouriscout, a young
diplomat assigned to the French embassy in China. Bouriscout had come to China
looking for adventure, and was disappointed to have little contact with Chinese
people. Pretending to be a woman who, when still a child, had been forced to
live as a boy-supposedly the family already had too many daughters-Shi Pei Pu
used the young Frenchman's boredom and or emotional side of his nature, rises
to the surface and demands its rights. When such a period occurs, all that
which has formerly seemed important loses its significance. The will-of-
the-wisp of illusion leads the man hither and thither, taking him on strange
and complicated deviations from his former path in life. Ming Huang, the
"Bright Emperor" of the Tang dynasty, was an example of the profound
truth of this theory. From the moment he saw Yang Kuei-fei bathing in the lake
near his palace in the Li mountains, he was destined to sit at her feet,
leamingfrom her the emotional mysteries of what the Chinese call Yin. -ELOISE
TALCOTT HIBBERT, EMBROIDERED GAUZE: PORTRAITS OF FAMOUS LADIES discontent to
manipulate him. Inventing a story of the deceptions he had had to go through,
he slowly drew Bouriscout into an affair that would last many years.
(Bouriscout had had previous homosexual encounters, but considered himself
heterosexual.) Eventually the diplomat was led into spying for the Chinese. All
the while, he believed Shi Pei Pu was a woman-his for adventure had made him
that vulnerable. Repressed types are perfect victims for a deep seduction.
People who repress the appetite for pleasure make ripe victims, particularly
later in their lives. The eighth-century Chinese Emperor Ming Huang spent much
of his reign trying to rid his court of its costly addiction to luxuries, and
was himself a model of austerity and virtue. But the moment he saw the
concubine Yang Kuei-fei bathing in a palace lake, everything changed. The most
charming woman in the realm, she was the mistress of his son. Exerting his
power, the emperor won her away-only to become her abject slave. The choice of
the right victim is equally important in politics. Mass seducers such as
Napoleon or John F. Kennedy offer their public just what it lacks. When
Napoleon came to power, the French people's sense of pride was beaten down by
the bloody aftermath of the French Revolution. He offered them glory and
conquest. Kennedy recognized that Americans were bored with the stultifying
comfort of the Eisenhower years; he gave them adventure and risk. More
important, he tailored his appeal to the group most vulnerable to it: the
younger generation. Successful politicians know that not everyone will be
susceptible to their charm, but if they can find a group of believers with a
need to be filled, they have supporters who will stand by them no matter what.
Symbol: Big Game. Lions are dangerous-to hunt them is to know the thrill of
risk. Leopards are clever and swift, offering the excitement of a difficult
chase. Never rush into the hunt. Know your prey and choose it carefully. Do not
waste time with small game-the rabbits that back into snares, the mink that
walk into a scented trap. Challenge is pleasure. Choose the Right Victim • 175
Reversal T here is no possible reversal. There is nothing to be gained from
trying to seduce the person who is closed to you, or who cannot provide the
pleasure and chase that you need. 2. Create a False Sense of Security- Approach
Indirectly. Ifyouaretoo rect early on, you risk stirring up a resistance that
will never be lowered. At first there must be nothing of the seducer in your
manner. The seduction should begin at an angle, indirectly, so that the target
only gradually becomes aware of you. Haunt the periphery of your target 's
life-approach through a third party, or seem to cultivate a relatively neutral
relationship, moving gradually from friend to lover. Arrange an occasional
"chance" encounter, as if you and your target were destined to become
acquainted-nothing is more seductive than a sense of destiny. Lull the target
into feeling secure, then strike. Friend to Lover. A nne Marie Louis d'Orleans,
the Duchess de Montpensier, known in seventeenth-century France as La Grande
Mademoiselle, had never known love in her life. Her mother had died when she
was young; her father remarried and ignored her. She came from one of Europe's
most illustrious families: her grandfather had been King Henry IV; the future King
Louis XIV was her cousin. When she was young, matches had been proposed between
her and the widowed king of Spain, the son of the Holy Roman emperor, and even
cousin Louis himself, among many others. But all of these matches were designed
for political purposes, or because of her family's enormous wealth. No one
bothered to woo her; she rarely evenmet her suitors. To make matters worse, the
Grande Mademoiselle was an idealist who believed in the old-fashioned values of
chivalry: courage, honesty, virtue. She loathed the schemers whose motives in
courting her were dubious at best. Whom could she trust? One by one she found a
reason to spurn them. Spinsterhood seemed to be her fate. In April of 1669, the
Grande Mademoiselle, then forty-two, met one of the strangest men in the court:
the Marquis Antonin Peguilin, later known as the Duke de Lauzun. A favorite of
Louis XIV's, the thirty-six- year-old Marquis was a brave soldier with an acid
wit. He was also an incurable Don Juan. Although he was short, and certainly
not handsome, his impudent manners and his military exploits made him
irresistible to women. The Grande Mademoiselle had noticed him some years
before, admiring his elegance and boldness. But it was only this time, in 1669,
that she had a real conversation with him, if a short one, and although she
knew of his lady-killer reputation, she found him charming. A few days later
they ran into each other again; this time the conversation was longer, and
Lauzun proved more intelligent than she had imagined-they talked of the
playwright Corneille (her favorite), of heroism, and of other elevated topics.
Now their encounters became more frequent. They had become friends. Anne Marie
noted in her diary that her conversations with Lauzun, when they occurred, were
the highlight of her day; when he was not at court, she felt his absence.
Surely her encounters with him came frequently enough that they could not be
accidental on his part, but he always seemed surprised to see her. At the same
time, she recorded feeling uneasy- strange emotions were stealing up on her,
she did not know why. Many women adore the elusive, \ Hate overeagerness. So,
play hard to get, \ Stop boredom developing. And don't let your entreaties \
Sound too confident of possession. Insinuate sex \ Camouflaged as friendship.
I've seen ultrastubborn creatures \ Fooled by this gambit, the switch from
companion to stud. -OVID, THEART OF LOVE, GREEN On the street, I do not stop
her, or I exchange a greeting with her but never come close, but always strive
for distance. Presumably our repeated encounters are clearly noticeable to her;
presumably she does perceive that on her horizon a new planet has loomed, which
in its course has encroached disturbingly upon hers in a curiously undisturbing
way, but she has no inkling of the law underlying this movement. . . . Before I
begin my attack, I must first become acquainted with her and her whole mental
state. KIERKEGAARD, THE SEDUCER'S DIARY. HONG AND EDNA H. HONG No sooner had he
spoken than the bullocks, driven from their mountain pastures, were on their
way to the beach, as Jove had directed; they were making for the sands where
the daughter [Europa] of the great king used to play with the young girls of
Tyre, who were her companions. Abandoning the dignity of his scepter, the
father and ruler of the gods, whose hand wields the flaming threeforked bolt,
whose nod shakes the universe, adopted the guise of a bull; and, mingling with
the other bullocks, joined in the lowing and ambled in the tender grass, a fair
sight to sec. His hide was white as untrodden snow, snow not yet melted by the
rainy South wind. The muscles stood out on his neck, and deep folds of skin
hung along his flanks. His horns were small, it is true, but so beautifully
made that you would swear they were the work of an artist, more polished and
shining than any jewel. There was no menace in the set of his head or in his
eyes; he looked completely placid. • Agenor's daughter [Europa ] was filled
with admiration for one so handsome and so friendly. But, gentle though he
seemed, she was afraid at first to touch him; then she went closer, and held
out flowers to his shining lips. The lover was delighted Time passed, and the
Grande Mademoiselle was to leave Paris for a week or two. Now Lauzun approached
her without warning and made an emotional plea to be considered her confidante,
the great friend who would execute any commission she needed done while she was
away. He was poetic and chivalrous, but what did he really mean? In her diary,
Anne Marie finally confronted the emotions that had been stirring in her since
their first conversation: "I told myself, these are not vague musings;
there must be an object to all of these feelings, and I could not imagine who
it was. . . . Finally, after troubling myself with this for several days, I
realized that it was M. de Lauzun whom I loved, it was he who had somehow
slipped into my heart and captured it." Made aware of the source of her
feelings, the Grande Mademoiselle became more direct. If Lauzun was to be her
confidante, she could talk to him of marriage, of the matches that were still
being offered to her. The topic might give him a chance to express his
feelings; perhaps he might show jealousy. Unfortunately Lauzun did not seem to
take the hint. Instead, he asked her why she was thinking of marriage at
all-she seemed so happy. Besides, who could possibly be worthy of her? This
went on for weeks. She could pry nothing personal out of him. In a way, she
understood-there were the differences in rank (she was far above him) and age
(she was six years older). Then, a few months later, the wife of the king's
brother died, and King Louis suggested to the Grande Mademoiselle that she
replace his late sister-in-law-that is, that she marry his brother. Anne Marie
was disgusted; clearly the brother was trying to get his hands on her fortune.
She asked Lauzun his opinion. As the king's loyal servants, he replied, they
must obey the royal wish. His answer did not please her, and to make things
worse, he stopped visiting her, as if it were no longer proper for them to be
friends. This was the last straw. The Grande Mademoiselle told the king she
would not marry his brother, and that was that. Now Anne Marie met with Lauzun,
and told him she would write on a piece of paper the name of the man she had
wanted to marry all along. He was to put the paper under his pillow and read it
the next morning. When he did, he found the words "C'est vous "-It is
you. Seeing the Grande Mademoiselle the following evening, Lauzun said she must
have been joking; she would make him the laughing stock of the court. She
insisted that she was serious. He seemed shocked, surprised-but not as
surprised as the rest of the court was a few weeks later, when an engagement
was announced between this relatively low-ranking Don Juan and the
second-highest-ranking lady in France, a woman known for both her virtue and
her skill at defending it. Interpretation. The Duke de Lauzun was one of the
greatest seducers in history, and his slow and steady seduction of the Grande
Mademoiselle was his masterpiece. His method was simple: indirection. Sensing
her interest in him in that first conversation, he decided to beguile her with
friendship. Create a False Sense of Security-Approach Indirectly He would
become her most devoted friend. At first this was charming; a man was taking
the time to talk to her, of poetry, history, the deeds of war-her favorite
subjects. She slowly began to confide in him. Then, almost without her
realizing it, her feelings shifted: the consummate ladies' man was only
interested in friendship? He was not attracted to her as a ? Such thoughts made
her aware that she had fallen in love with him. This, in part, was what
eventually made her turn down the match the king's brother-a decision cleverly and
indirectly provoked by Lauzun himself, when he stopped visiting her. And how
could he be after money or position, or sex, when he had never made any kind of
move? No, the brilliance of Lauzun's seduction was that the Grande Mademoiselle
it was she who was making all the moves. Once you have chosen the right victim,
you must get his or her attention and stir desire. To move from friendship to
love can win success without calling attention to itself as a maneuver. First,
your friendly conversations with your targets will bring you valuable
information about their characters, their tastes, their weaknesses, the
childhood yearnings that govern their adult behavior. (Lauzun, for example,
could adapt cleverly to Anne Marie's tastes once he had studied her close up.)
Second, by spending time with your targets you can make them comfortable with
you. Believing you are interested only in their thoughts, in their company,
they will lower their resistance, dissipating the usual tension between the
sexes. Now they are vulnerable, for your friendship with them has opened the
golden gate to their body: their mind. At this point any offhand comment, any
slight physical contact, will spark a different thought, which will catch them
offguard: perhaps there could be something else between you. Once that feeling
has stirred, they will wonder why you haven't made a move, and will take the
initiative themselves, enjoying the illusion that they are in control. There is
nothing more effective in seduction than making the seduced think that they are
the ones doing the seducing. I do not approach her, 1 merely skirt the
periphery of her existence. . . . This is the first web into which she must
bespun. KIERKEGAARD Key to Seduction W hat you are after as a seducer is the
ability to move people in the direction you want them to go. But the game is
perilous; the moment they suspect they are acting under your influence, they
will become resentful. We are creatures who cannot stand feeling that we are
obeying someone else's will. Should your targets catch on, sooner or later they
will turn against you. But what if you can make them do what you want them to
without their realizing it? What if they think they are in control? That is
and, until he could achieve h is hoped-for pleasure, kissed her hands. He could
scarcely wait for the rest, only with great difficulty did he restrain himself
• Now he frolicked and played on the green turf now lay down, all snowy white
on the yellow sand. Gradually the princess lost herfear, and with her innocent hands
she stroked his breast when he offered itfor her caress, and hung fresh
garlands on his horns: till finally she even ventured to mount the bull, little
knowing on whose back she was resting. Then the god drew away from the shore by
easy stages, first planting the hooves that were part of his disguise in the
surf at the water's edge, and then proceeding farther out to sea, till he bore
his booty away over the wide stretches of mid ocean. - OVID, METAMORPHOSES,
INNES These few reflections lead us to the understanding that, since in
attempting a seduction it is up to the man to make the first steps, for the
seducer, to seduce is nothing more than reducing the distance, in this case
that of the difference between the sexes and that, in order to accomplish this,
it is necessary to feminize himself or at least identify himself with the
object of his seduction. ... As Alain Roger writes: "If there is a
seduction, it is the seducer who is first lead astray, in the sense that he
abdicates his own sex. Seduction undoubtedly aims at sexual consummation, but
it only gets there in creating a kind 182 of simulacra of Gomorra. The seducer
is nothing more than a lesbian." MONNEYRON, S EDUIRE: L'lMAGINAIRE DE LA
SEDUCTION DE DON GIOVANNI A MICK JAGGER As he [Jupiter ] was hurrying busily to
and fro, he stopped short at the sight of an Arcadian maiden. The fire of
passion kindled the very marrow of his bones. This girl was not one who spent
her time in spinning soft fibers of wool, or in arranging her hair in different
styles. She was one of Diana's warriors, wearing her tunic pinned together with
a brooch, her tresses carelessly caught back by a white ribbon, and carrying in
her hand a light javelin or her bow. The sun on high had passed its zenith,
whenshe entered a grove whose trees had neverfelt the axe. Here she took her
quiver from her shoulders, unstrung her pliant bow, lay down on the turf,
resting her head on her painted quiver. When Jupiter saw her thus, tired and
unprotected, he said: "Here is a secret of which my wife will know
nothing; or if she does get to know of it, it will be worth her
reproaches!" • Without wasting time he assumed the appearance and the
dress of Diana, and spoke to the girl. 'Dearest of all my companions," he
said, "where have you been hunting? On what mountain ridges?" She
raised herself from the grass: "Greeting, divine mistress," she
cried, "greater in my sight than the power of indirection and no seducer
can work his or her magic without it. The first move to master is simple: once
you have chosen the right person, you must make the target come to you. If, in
the opening stages, you can make your targets think that they are the ones
making the first approach, you have won the game. There will be no resentment,
no perverse counterreaction, no paranoia. To make them come to you requires
giving them space. This can be accomplished in several ways. You can haunt the
periphery of their existence, letting them notice you in different places but
never approaching them. You will get their attention this way, and if they want
to bridge the gap, they will have to come to you. You can befriend them, as
Lauzun did the Grande Mademoiselle, moving steadily closer while always
maintaining the distance appropriate for friends of the opposite sex. You can
also play cat and mouse with them, first seeming interested, then stepping
back- actively luring them to follow you into your web. Whatever you do, and
whatever kind of seduction you are practicing, you must at all cost avoid the
natural tendency to crowd your targets. Do not make the mistake of thinking
they will lose interest unless you apply pressure, or that they will enjoy a
flood of attention. Too much attention early on will actually just suggest
insecurity, and raise doubts as to your motives. Worst of all, it gives your
targets no room for imagination. Take a step back; let the thoughts you are
provoking come to them as if they were their own. This is doubly important if
you are dealing with someone who has a deep effect on you. We can never really
understand the opposite sex. They are always mysterious to us, and it is this
mystery that provides the tension so delightful in seduction; but it is also a
source of unease. Freud famously wondered what women really wanted; even to
this most insightful of psychological thinkers, the opposite sex was a foreign
land. For both men and women, there are deep-rooted feelings of fear and
anxiety in relation to the opposite sex. In the initial stages of a seduction,
then, you must find ways to calm any sense of mistrust that the other person
may experience. (A sense of danger and fear can heighten the seduction later
on, but if you stir such emotions in the first stages, you will more likely
scare the target away.) Establish a neutral distance, seem harmless, and you give
yourself room to move. Casanova cultivated a slight femininity in his
character-an interest in clothes, theater, domestic matters-that young girls
found comforting. The Renaissance courtesan Tullia d'Aragona, developing
friendships with the great thinkers and poets of her time, talked of literature
and philosophy- anything but the boudoir (and anything but the money that was
also her goal). Johannes, the narrator of Soren Kierkegaard's The Seducer's
Diary, follows, his target, Cordelia, from a distance; when their paths cross,
he is polite and apparently shy. As Cordelia gets to know him, he doesn't
frighten her. In fact he is so innocuous she begins to wish he were less so.
Duke Ellington, the great jazz artist and a consummate seducer, would Create a
False Sense of Security- initially dazzle the ladies with his good looks,
stylish clothing, and charisma. But once he was alone with a woman, he would
take a slight step back, becoming excessively polite, makingonly small talk.
Banal conversation can be a brilliant tactic; it hypnotizes the target. The
dullness of your front gives the subtlest suggestive word, the slightest look,
an amplified power. Never mention love and you make its absence speak
volumes-your victims will wonder why you never discuss your emotions, and as
they have such thoughts, they will go further, imagining what else is going on
in your mind. They will be the ones to bring up the topic of love or affection.
Deliberate dullness has many applications. In psychotherapy, the doctor makes
monosyllabic responses to draw patients in, making them relax and open up. In
international negotiations, Henry Kissinger would lull diplomats with boring
details, then strike with bold demands. Early in a seduction, less-colorful
words are often more effective than vivid ones-the target tunes them out, looks
at your face, begins to imagine, fantasize, fall under your spell. Getting to
your targets through other people is extremely effective; infiltrate their
circle and you are no longer a stranger. Before the seventeenth- century
seducer Count de Grammont made a move, he would befriend his target's
chambermaid, her valet, a friend, even a lover. In this way he could gather
information, finding a way to approach her in an unthreatening manner. He could
also plant ideas, saying thingsthethirdpartywas likely to repeat, things that
would intrigue the lady, particularly when they came from someone she knew.
Ninon de 1'Enclos, the seventeenth-century courtesan and strategist of
seduction, believed that disguising one's intentions was not only a necessity,
it added to the pleasure of the game. A man should never declare his feelings,
she felt, particularly early on. It is irritating and provokes mistrust.
"A woman is much better persuaded that she is loved by what she guesses
than by what she is told," Ninon once remarked. Often a person's haste in
declaring his or her feelings comes from a false desire to please, thinking
this will flatter the other. But the desire to please can annoy and offend.
Children, cats, and coquettes draw us to them by apparently not trying, even by
seeming uninterested. Leam to disguise your feelings and let people figure out
what is happening for themselves. In all arenas of life, you should never give
the impression that you are angling for something-that will raise a resistance
that you will never lower. Leam to approach people from the side. Mute your
colors, blend in, seem unthreatening, and you will have more room to maneuver
later on.The same holds true in politics, where overt ambition often frightens
people. Vladimir Ilyich Lenin at first glance looked like an everyday Russian;
he dressed like a worker, spoke with a peasant accent, had no air of greatness.
This made the public feel comfortable and identify with him. Yet beneath this apparently
bland appearance, of course, was a deeply clever man who was always
maneuvering. By the time people realized this it was too late. -Approach
Indirectly • 183 Jove himself-I care not if he hears me!" Jove laughed to
hear her words. Delighted to be preferred to himself he kissed her-not with the
restraint becoming to a maiden's kisses: and as she began to tell of her
hunting exploits in the forest, he prevented her by his embrace, and betrayed
his real self by a shameful action. So far from complying, she resisted him as
far as a woman could . . . but how could a girl overcome a man, and who could
defeat Jupiter? He had his way, and returned to the upper air. - OVID,
METAMORPHOSES ,INNES I had rather hear my dog bark at a crow than a man swear
he loves me. -BEATRICE, IN WILLIAM SHAKESPEARE, MUCH ADO ABOUT NOTHING I know
of a man whose beloved was completely friendly and at ease with him; but if he
had disclosed by the least gesture that he was in love, the beloved would have
become as remotefrom him as the Pleiades, whose stars hang so high in heaven.
It is a sort of statesmanship that is required in such cases; the party
concerned was enjoying the pleasure of his loved one's company intensely and to
the last degree, but if he had so much as hinted at his inner feelings he would
have attained but a miserable fraction of the beloved's favor, and endured into
the bargain all the arrogance and caprice of which love is Symbol: The Spider's
Web. The spiderfinds an innocuous corner in capable. which to spin its web. The
longer the web takes, the more fabulous HAZM; THE RING OF THE DOVE: A TREATISE
ON THE ART AND PRACTICE OF ARAB LOVE ARBERRY its construction, yetfew really
notice it-its gossamer threads are nearly invisible. The spider has no need to
chaseforfood, or even to move. It quietly sits in the corner, waitingfor its
victims to come to it on their own, and ensnare themselves in the web. Reversal
I n warfare, you need space to align your troops, room to maneuver. The more
space you have, the more intricate your strategy can be. But sometimes it is
better to overwhelm the enemy, giving them no time to think or react. Although
Casanova adapted his strategies to the woman in question, he would often try to
make an immediate impression, stirring her desire at the first encounter.
Perhaps he would perform some gallantry, rescuing a woman in danger; perhaps he
would dress so that his target would notice him in a crowd. In either case,
once he had the woman's attention he would move with lightning speed. A Siren
like Cleopatra tries to have an immediate physical effect on men, giving her
victims no time or space to retreat. She uses the element of surprise. The
first period of your contact with someone can involve a level of desire that
will never be repeated; boldness will carry the day. But these are short
seductions. The Sirens and the Casanovas only get pleasure from the number of
their victims, moving quickly from conquest to conquest, and this can be
tiring. Casanova burned himself out; Sirens, insatiable, are never satisfied.
The indirect, carefully constructed seduction may reduce the number of your
conquests, but more than compensate by their quality. 3 Send Mixed Signals Once
people are aware of your presence, and perhaps vaguely intrigued, you need to
stir their interest before it settles on someone else. What is obvious and
striking may attract their attention atfirst, but that attention is often
short-lived; in the long run, ambiguity is much more potent. Most of us are
much too obvious - instead, be hard to figure out. Send mixed signals: both
tough and tender, both spiritual and earthy, both innocent and cunning. A mix
of qualities suggests depth, which fascinates even as it confuses. An elusive,
enigmatic aura will make people want to know more, drawing them into your
circle. Create such a power by hinting at something contradictory within you.
Good and Bad I n 1806, when Prussia and France were at war, Auguste, the
handsome twenty-four-year-old prince of Prussia and nephew of Frederick the
Great, was captured by Napoleon. Instead of locking him up, Napoleon allowed
him to wander around French territory, keeping a close watch on him through
spies. The prince was devoted to pleasure, and spent his time moving from town
to town, seducing young girls. In 1807 he decided to visit the Chateau de
Coppet, in Switzerland, where lived the great French writer Madame de Stael
Auguste was greeted by his hostess with as much ceremony as she could muster.
After she had introduced him to her other guests, they all retired to a drawing
room, where they talked of Napoleon's war in Spain, the current Paris fashions,
and so on. Suddenly the door opened and another guest entered, a woman who had
somehow stayed in her room during the hubbub of the prince's entrance. It was
the thirty-year-old Madame Recamier, Madame de Stael's closest friend. She
introduced herself to the prince, then quickly retired to her bedroom. Auguste
had known that Madame Recamier was at the chateau. In fact he had heard many
stories about this infamous woman, who, in the years after the French
Revolution, was considered the most beautiful in France. Men had gone wild over
her, particularly at balls when she would take off her evening wrap, revealing
the diaphanous white dresses that she had made famous, and dance with such
abandon. The painters Gerard and David had immortalized her face and fashions,
and even her feet, considered the most beautiful anyone had ever seen; and she
had broken the heart of Lucien Bonaparte, the Emperor Napoleon's brother. Auguste
liked his girls younger than Madame Recamier, and he had come to the chateau to
rest. But those few moments in which she had stolen the scene with her sudden
entrance caught him off guard; she was as beautiful as people had said, but
more striking than her beauty was that look of hers that seemed so sweet,
indeed heavenly, with a hint of sadness in the eyes. The other guests continued
their conversations, but Auguste could only think of Madame Recamier. Over
dinner that evening, he watched her. She did not talk much, and kept her eyes
downward, but once or twice she looked up-directly at the prince. After dinner
the guests assembled in the gallery, and a harp was brought in. To the prince's
delight, Madame Recamier began to play. Reichardt had seen Juliette at another
ball, protesting coyly that she would not dance, and then, after a while,
throwing off her heavy evening gown, to reveal a light dress underneath. On all
sides, there were murmurs and whisperings about her coquetry and affectation.
As ever, she wore white satin, cut very low in the back, revealing her charming
shoulders. The men implored her to dance for them. ... To soft music she
floated into the room in her diaphanous Greek robe. Her head was bound with a
muslin fichu. She bowed timidly to the audience, and then, spinning round
lightly, she shook a transparent scarf with her fingertips, so that in turns it
billowed into the semblance of a drapery, a veil, a cloud. All this with a
strange blend ofprecision and languor. She used her eyes in a subtle
fascinating way - "she danced with her eyes." The women thought that
all that serpentine undulating of the body, all that nonchalant rhythmic
nodding of the head, were sensuous; the men were wafted into a realm of
unearthly bliss. Juliette wan ange fatal, and much more dangerous for looking
like an angel! The music grew fainter. Suddenly, by a deft trick, Juliette's
chestnut hair was loosened andfell in clouds around her. A little out of
breath, she disappeared into her dimly lit boudoir. And there the crowdfollowed
her and beheld her reclining on her daybed in a loose tea-gown, looking
fashionably pale, like Gerard's Psyche, while her maids cooled her brow with
toilet water. -MARGARET TROUNCER, MADAME RECAMIER The idea that two distinct
elements are combined in Mona Lisa's smile is one that has struck several
critics. They accordingly find in the beautiful Florentine's expression the
most perfect representation of the contrasts that dominate the erotic life of
women; the contrast between reserve and seduction, and between the most devoted
tenderness and a sensuality that is ruthlessly demanding - consuming men as if
they were alien beings. -SIGMUND FREUD, LEONARDO DA VINCI AND A MEMORY OF HIS
CHILDHOOD, TYSON [Oscar Wilde's] hands were fat and flabby; his handshake
lacked grip, and at a first encounter one recoiled from its plushy limpness,
but this aversion was soon overcome when he began to talk, for his genuine
kindliness and desire to please made one forget what was unpleasant singing a
love song. And now, suddenly, she changed: there was a roguish look in her eye
as she glanced at him. The angelic voice, the glances, the energy animating her
face, sent his mind reeling. He was confused. When the same thing happened the
next night, the prince decided to extend his stay at the chateau. In the days
that followed, the prince and Madame Recamier took walks together, rowed out on
the lake, and attended dances, where he finally held her in his arms. They
would talk late into the night. But nothing grew clear to him: she would seem
so spiritual, so noble, and then there would be a touch of the hand, a sudden
flirtatious remark. After two weeks at the chateau, the most eligible bachelor
in Europe forgot all his libertine habits and proposed marriage to Madame
Recamier. He would convert to Catholicism, her religion, and she would divorce
her much older husband. (She had told him her marriage had never been
consummated and so the Catholic church could annul it.) She would then come to
live with him in Prussia. Madame promised to do as he wished. The prince
hurried off to Pmssia to seek the approval of his family, and Madame returned
to Paris to secure the required annulment. Auguste flooded her with love
letters, and waited. Time passed; he felt he was going mad. Then, finally, a
letter: she had changed her mind. Some months later, Madame Recamier sent
Auguste a gift: Gerard's famous painting of her reclining on a sofa. The prince
spent hours in front of it, trying to pierce the mystery behind her gaze. He
had joined the company of her conquests-of men like the writer Benjamin
Constant, who said of her, "She was my last love. For the rest of my life
I was like a tree struck bylightning." Interpretation. Madame Recamier's
list of conquests became only more impressive as she grew older: there was
Prince Metternich, the Duke of Wellington, the writers Constant and
Chateaubriand. For all of these men she was an obsession, which only increased
in intensity when they were away from her. The source of her power was twofold.
First, she had an angelic face, which drew men to her. It appealed to paternal
instincts, charming with its innocence. But then there was a second quality
peeking through, in the flirtatious looks, the wild dancing, the sudden
gaiety-all these caught men off guard. Clearly there was more to her than they
had thought, an intriguing complexity. When alone, they would find themselves
pondering these contradictions, as if a poison were coursing through their
blood. Madame Recamier was an enigma, a problem that had to be solved. Whatever
it was that you wanted, whether a coquettish she-devil or an unattainable
goddess, she could seem to be. She surely encouraged this illusion by keeping
her men at a certain distance, so they could never figure her out. And she was
the queen of the calculated effect, like her surprise entrance at the Chateau
de Coppet, which made her the center of attention, if only for a few seconds.
Send Mixed Signals • 189 The seductive process involves filling someone's mind
with your image. Your innocence, or your beauty, or your flirtatiousness can
attract their attention but not their obsession; they will soon move on to the
next striking image. To deepen their interest, you must hint at a complexity
that cannot be grasped in a week or two. You are an elusive mystery, an
irresistible lure, promising great pleasure if only it can be possessed. Once
they begin to fantasize about you, they are on the brink of the slippery slope
of seduction, and will not be able to stop themselves from sliding down.
Artificial and Natural, T he big Broadway hit of 1881 was Gilbert and
Sullivan's operetta Patience, a satire on the bohemian world of aesthetes and
dandies that had become so fashionable in London. To cash in on this vogue, the
operetta's promoters decided to invite one of England's most infamous aesthetes
to America for a lecture tour; Oscar Wilde. Only twenty-seven at the time,
Wilde was more famous for his public persona than for his small body of work.
The American promoters were confident that their public would be fascinated by
this man, whom they imagined as always walking around with a flower in his
hand, but they did not expect it to last; he would do a few lectures, then the
novelty would wear off, and they would ship him home. The money was good and
Wilde accepted. On hisarrival in New York, a customs man asked him whether he
had anything to declare: "I have nothing to declare," he replied,
"except my genius." The invitations poured in-New York society was
curious to meet this oddity. Women found Wilde enchanting, but the newspapers
were less kind; The New York Times called him an "aesthetic sham."
Then, a week after his arrival, he gave his first lecture. The hall was packed;
more than a thousand people came, many of themjust to see what he looked like.
They were not disappointed. Wilde did not carry a flower, and was taller than
they had expected, but he had long flowing hair and wore a green velvet suit
and cravat, as well as knee breeches and silk stockings. Many in the audience
were put off; as they looked up at him from their seats, the combination of his
large size and pretty attire were rather repulsive. Some people openly laughed,
others could not hide their unease. They expected to hate the man. Then he
began to speak. The subject was the "English Renaissance," the
"art for art's sake" movement in late-nineteenth-century England.
Wilde's voice proved hypnotic; he spoke in a kind of meter, mannered and
artificial, and few really understood what he was saying, but the speech was so
witty, and it flowed. His appearance was certainly strange, but overall, no New
Yorker had ever seen or heard such an intriguing man, and the lecture was a
huge success. Even the newspapers warmed up to it. In Boston a few weeks later,
some sixty Harvard boys had prepared an ambush: they would make lun of this
effeminate poet by dressing in knee breeches, carrying flowers, and ap- in his
physical appearance and contact, gave charm to his manners, and grace to his
precision of speech. The first sight of him affected people in various ways.
Some could hardly restrain their laughter, others felt hostile, a few were
afflicted with the "creeps" many were conscious of being uneasy, but
exceptfor a small minority who could never recover from the first sensation of
distaste and so kept out of his way, both sexes found him irresistible, and to
the young men of his time, says W. B. Yeats, he was like a triumphant and
audacious figure from another age. -HESKETH PEARSON, OSCAR WILDE: HIS UFE AND
WIT Once upon a time there was a magnet, and in its close neighborhood lived
some steel filings. One day two or three little filings felt a sudden desire to
go and visit the magnet, and they began to talk of what a pleasant thing it
would be to do. Other filings nearby overheard their conversation, and they,
too, became infected with the same desire. Still others joined them, till at
last all the filings began to discuss the matter, and more and more their vague
desire grew into an impulse. "Why not go today?" said one of them;
but others were of opinion that it would be better to wait until tomorrow.
Meanwhile, without their having noticed it, they had been involuntarily moving
nearer to the magnet, which lay there quite still, apparently taking no heed of
them. And so they went on discussing, all the time insensibly drawing nearer to
their neighbor; and the more they talked, the more they felt the impulse
growing stronger, till the more impatient ones declared that they would go that
day, whatever the rest did. Some were heard to say that it was their duty to
visit the magnet, and they ought to have gone long ago. And, while they talked,
they moved always nearer and nearer, without realizing that they had moved.
Then, at last, the impatient ones prevailed, and, with one irresistible impulse,
the whole body cried out, "There is no use waiting. We will go today. We
will go now. We will go at once." And then in one unanimous mass they
swept along, and in another moment were clingingfast to the magnet on every
side. Then the magnet smiled-for the steel filings had no doubt at all but that
they were paying that visit of their own free will. WILDE, LE GALLIENNE IN
plauding far too loudly at his entrance. Wilde was not the least bit flustered.
The audience laughed hysterically at his improvised comments, and when the boys
heckled him he kept his dignity, betraying no anger at all. Once again, the
contrast between his manner and his physical appearance made him seem rather
extraordinary. Many were deeply impressed, and Wilde was well on his way to becoming
a sensation. The short lecture tour turned into a cross-country affair. In San
Francisco, this visiting lecturer on art and aesthetics proved able to drink
everyone under the table and play poker, which made him the hit of the season.
On his way back from the West Coast, Wilde was to make stops in Colorado, and
was warned that if the pretty-boy poet dared to show up in the mining town of
Leadville, he would be hung from the highest tree. It was an invitation Wilde
could not refuse. Arriving in Leadville, he ignored the hecklers and nasty
looks; he toured the mines, drank and played cards, then lectured on Botticelli
and Cellini in the saloons. Like everyone else, the miners fell under his
spell, even naming a mine after him. One cowboy was heard to say, "That
fellow is some art guy, but he can drink any of us under the table and
afterwards carry us home two at a time." Interpretation. In a fable he
improvised at dinner once, Oscar Wilde talked about some steel filings that had
a sudden desire to visit a nearby magnet. As they talked to each other about
this, they found themselves moving closer to the magnet without realizing how
or why. Finally they were swept in one mass to the magnet's side. "Then
the magnet smiled-for the steel filings had no doubt at all but that they were
paying that visit of their own free will." Such was the effect that Wilde
himself had on everyone around him. HESKETH PEARSON, OSCAR WILDE: HIS UFE AND
WIT Now that the bohort [impromptu joust] was over and the knights were
dispersing and each making his way to where his thoughts inclined him, it
chanced that Rivalin was heading for where lovely Blancheflor was sitting.
Seeing this, he galloped up to her and looking her in the eyes saluted her most
pleasantly. • "God save you, lovely woman!" • "Thank you,"
said the girl, and continued very bashfully, "may God Almighty, who makes
all hearts glad, gladden your heart and mind! And my Wilde's attractiveness was
more than just a by-product of his character, it was quite calculated. An adorer
of paradox, he consciously played up his own weirdness and ambiguity, the
contrast between his mannered appearance and his witty, effortless performance.
Naturally warm and spontaneous, he constructed an image that ran counter to his
nature. People were repelled, confused, intrigued, and finally drawn to this
man who seemed impossible to figure out. Paradox is seductive because it plays
with meaning. We are secretly oppressed by the rationality in our lives, where
everything is meant to mean something; seduction, by contrast, thrives on
ambiguity, on mixed signals, on anything that eludes interpretation. Most
people are painfully obvious. If their character is showy, we may be
momentarily attracted, but the attraction wears off; there is no depth, no contrary
motion, to pull us in. The key to both attracting and holding attention is to
radiate mystery. And no one is naturally mysterious, at least not for long;
mystery is something you have to work at, a ploy on your part, and something
that must be used early on in the seduction. Let one part of your character
show, so everyone notices it. (In the example of Wilde, this was the mannered
affectation con- Send Mixed Signals • 191 veyed by Ms clothes and poses.) But
also send out a mixed signal-some sign that you are not what you seem, a
paradox. Do not worry if this underquality is a negative one, like danger,
cmelty, or amorality; people will be drawn to the enigma anyway, and pure
goodness is rarely seductive. Paradox with him was only truth standing on its head
to attract attention. - LE GALLIENNE, ON HIS FRIEND OSCAR WILDE grateful thanks
to you !- yet notforgetting a bone I have to pick with you." • "Ah,
sweet woman, what have I done?" was courteous Rivalin's reply. • "You
have annoyed me through a friend of mine, the best I ever had. " •
"Good heavens," thought he, "what does this mean? What have I
done to. Keys to Seduction displease her? What does she say I have
done?" and he imagined that N othing can proceed in seduction unless you
can attract and hold your attention, your physical presence becoming a haunting
mental presence. It is actually quite easy to create that first stir-an
alluring style of dress, a suggestive glance, something extreme about you. But
what happens next? Our minds are barraged with images-not just from media but
from the disorder of daily life. And many of these images are quite striking.
You become just one more thing screaming for attention; your attractiveness
will pass unless you spark the more enduring kind of spell that makes people
think of you in your absence. That means engaging their imaginations, making
them think there is more to you than what they see. Once they start
embellishing your image with their fantasies, they are hooked. This must,
however, be done early on, before your targets know too much and their
impressions of you are set. It should occur the moment they lay eyes on you. By
sending mixedsignals in that first encounter, you create a little surprise, a
little tension: you seem to be one thing (innocent, brash, intellectual,
witty), but you also throw them a glimpse of something else (devilish, shy,
spontaneous, sad). Keep things subtle: if the second quality is too strong, you
will seem schizopMenic. But make them wonder why you might be shy or sad
underneath your brash intellectual wit, and you will have their attention. Give
them an ambiguity that lets them see what they want to see, capture their
imagination with little voyeuristic glimpses into your dark soul. The Greek
philosopher Socrates was one of history's greatest seducers; the young men who
followed him as students were not just fascinated by Ms ideas, they fell in
love with him. One such youth was Alcibiades, the unwittingly he must have
injured a kinsman of hers some time at their knightly sports and that was why
she was vexed with him. But no, the friend she referred to was her heart, in
which he made her suffer: that was the friend she spoke of But he knew nothing
of that. • "Lovely woman," he said with all his accustomed charm, "I
do not want you to be angry with me or bear me any ill will. So, if what you
tell me is true, pronounce sentence on me yourself: I will do whatever you
command." • "I do not hate you overmuch for what has happened,"
was the sweet girl's answer, "nor do I love you for it. But to see what
amends you will make for the wrong you have done me, I shall test you another
time." • And so he bowed as if to go, and she, lovely girl, sighed at him
most secretly and said with tender feeling: • "Ah, dear notorious playboy
who became a powerful political figure near the end of the fifth century B.C.
In Plato's Symposium, Alcibiades describes Socrates's seductive powers by
comparing him to the little figures of Silenus that were made back then. In
Greek myth, Silenus was quite ugly, but also a wise prophet. Accordingly the
statues of Silenus were hollow, and when you took them apart, you would find
little figures of gods inside them-the inner truth and beauty under the
unappealing exterior. And so, for Alcibiades, it was the same with Socrates,
who was so ugly as to be repellent but whose face radiated inner beauty and
contentment. The effect was confus- friend, God bless you!" From this time
on the thoughts of each ran on the other. • Rivalin turned away, pondering many
things. He pondered from many sides why Blancheflor should be vexed, and what
lay behind it all. He considered her greeting, her words; he examined her sigh
minutely, herfarewell, he whole behavior. . . But since he was uncertain of her
motive-whether she had acted from enmity orlove-he wavered in perplexity. He
wavered in his thoughts now here, now there. At one moment he was off in one
direction, then suddenly in another, till he had so ensnared himself in the
toils of his own desire that he was powerless to escape . . . • His
entanglement had placed him in a quandary, for he did not know whether she
wished him well or ill; he could not make out whether she loved or hated him.
No hope or despair did he consider which did not forbid him either to advance
or retreat-hope and despair led him to andfro in unresolved dissension. Hope
spoke to him of love, despair of hatred. Because of this discord he could yield
his firm belief neither to hatred nor yet to love. Thus his feelings drifted in
an unsure haven-hope bore him on, despair away. He found no constancy in
either; they agreed neither one way or another. When despair came and told him
that his Blancheflor was his enemy he faltered and sought to escape: but at
once came hope, bringing him her love, and a fond aspiration, and so perforce
he remained. In theface of such discord he did not know where to turn: nowhere
could he go forward. The more he strove to flee, the more firmly love forced
him back. The harder he struggled to escape, love drew him back more firmly.
-STRASSBURG, TRISTAN. HATTOing and attractive. Antiquity's other great seducer,
Cleopatra, also sent out mixed signals: by all accounts physically alluring, in
voice, face, body, and manner, she also had a brilliantly active mind, which
for many writers of the time made her seem somewhat masculine in spirit. These
contrary qualities gave her complexity, and complexity gave her power. To
capture and hold attention, you need to show attributes that go against your
physical appearance, creating depth and mystery. If you have a sweet face and
an innocent air, let out hints of something dark, even vaguely cruel in your
character. It is not advertised in your words, but in your manner. The actor
Errol Flynn had a boyishly angelic face and a slight air of sadness. Beneath this
outward appearance, however, women could sense an underlying cruelty, a
criminal streak, an exciting kind of dangerousness. This play of contrary
qualities attracted obsessive interest. The female equivalent is the type
epitomized by Marilyn Monroe; she had the face and voice of a little girl, but
something sexual and naughty emanated powerfully from her as well. Madame
Recamier did it all with her eyes-the gaze of air angel, suddenly interrupted
by something sensual and flirtatious. Playing with gender roles is a kind of
intriguing paradox that has a long history in seduction. The greatest Don Juans
have had a touch of prettiness and femininity, and the most attractive
courtesans have had a masculine streak. The strategy, though, is only powerful
when the underquality is merely hinted at; if the mix is too obvious or
striking it will seem bizarre or even threatening. The great
seventeenth-century French courtesan Ninon de l'Enclos was decidedly feminine
in appearance, yet everyone who met her was struck by a touch of aggressiveness
and independence in her-but just a touch. The late nineteenth-century Italian
novelist Gabriele d'Annunzio was certainly masculine in his approaches, but
there was a gentleness, a consideration, mixed in, and an interest in feminine
finery The combinations can be juggled every which way: Oscar Wilde was quite
feminine in appearance and manner, but the underlying suggestion that he was
actually quite masculine drew both men and women to him. A potent variation on
this theme is the blending of physical heat and emotional coldness. Dandies
like Beau Brummel and Andy Warhol combine striking physical appearances with a
kind of coldness of manner, a distance from everything and everyone. They are
both enticing and elusive, and people spend lifetimes chasing after such men,
trying to shatter their unattainability. (The power of apparently unattainable
people is devilishly seductive; wewantto be the one to break them down.) They
also wrap themselves in ambiguity and mystery, either talking very little or
talking only of surface matters, hinting at a depth of character you can never
reach. When Marlene Dietrich entered a room, or arrived at a party, all eyes
inevitably turned to her. First there were her startling clothes, chosen to
make heads turn. Then there was her air of nonchalant indifference. Men, and
women too, became obsessed with her, thinking of her long after other memories
of the evening had faded. Remember: that first impression, that Send Mixed
Signals entrance, is critical. To show too much desire for attention is to
signal insecurity, and will often drive people away; play it too cold and
disinterested, on the other hand, and no one will bother coming near. The trick
is to combine the two attitudes at the same moment. It is the essence of .
Perhaps you have a reputation for a particular quality, which immediately comes
to mind when people see you. You will better hold their attention by suggesting
that behind this reputation some other quality lies lurking. No one had a darker,
more sinful reputation than Lord Byron. What drove women wild was that behind
his somewhat cold and disdainful exterior, they could sense that he was
actually quite romantic, even spiritual. Byron played this up with his
melancholic airs and occasional kind deed. Transfixed and confused, many women
thought that they could be the one to lead him back to goodness, to make him a
faithful lover. Once a woman entertained such a thought, she was completely
under his spell. It is not difficult to create such a seductive effect. Should
you be known as eminently rational, say, hint at something irrational.
Johannes, the narrator in Kierkegaard's The Seducer's Diary, first treats the
young Cordelia with businesslike politeness, as his reputation would lead her
to expect. Yet she very soon overhears him making remarks that hint at a wild,
poetic streak in his character; and she is excited and intrigued. These
principles have applications far beyond sexual seduction. To hold the attention
of a broad public, to seduce them into thinking about you, you need to mix your
signals. Display too much of one quality-even if it is a noble one, like
knowledge or efficiency-and people will feel that you lack humanity. We are all
complex and ambiguous, full of contradictory impulses; if you show only one
side, even if it is your good side, you will wear on people's nerves. They will
suspect you are a hypocrite. Mahatma Gandhi, a saintly figure, openly confessed
to feelings of anger and vengefulness. John F. Kennedy, the most seductive American
public figure of modern times, wasawalkingparadox: an East Coast aristocrat
with a love of the common man, an obviously masculine man-a war hero-with a
vulnerability you could sense underneath, an intellectual who loved popular
culture. People were drawn to Kennedy like the steel filings in Wilde's fable.
A bright surface may have a decorative charm, but what draws your eye into a
painting is a depth of field, an inexpressible ambiguity, a surreal complexity.
Symbol: The Theater Curtain. Onstage, the curtain's heavy deep-red folds
attract your eye with their hypnotic surface. But what really fascinates and
draws you in is what you think might be happening behind the curtain-the light
peeking through, the suggestion of a secret, something about to happen. You
feel the thrill of a voyeur about to watch a performance. Reversal T he
complexity you signal to other people will only affect them properly if they
have the capacity to enjoy a mystery. Some people like things simple, and lack
the patience to pursue a person who confuses them. They prefer to be dazzled
and overwhelmed. The great Belle Epoque courtesan known as La Belle Otero would
work a complex magic on artists and political figures who fell for her, but in
dealing with the more uncomplicated, sensual male she would astound them with
spectacle and beauty. When meeting a woman for the first time, Casanova might
dress in the most fantastic outfit, with jewels and brilliant colors to dazzle
the eye; he would use the target's reaction to gauge whether or not she would
demand a more complicated seduction. Some of his victims, particularly young
girls, needed no more than the glittering and spellbinding appearance, which
was really what they wanted, and the seduction would stay on that level.
Everything depends on your target: do not bother creating depth for people who
are insensitive to it, or who may even be put off or disturbed by it. You can
recognize such types by their preference for the simpler pleasures in life,
their lack of patience for a more nuanced story. With them, keep it simple. 4,
Appear to Be an Object of Desire -Create Triangles , Few are drawn to the
person whom others avoid or neglect; people gather around those who have
already attracted interest. We want what other people want. To draw your
victims closer and make them hungry to possess you, you must create an aura of
desirability-of being wanted and courted by many. It will become a point of
vanity for them to be the preferred object of your attention, to win you away
from a crowd of admirers. Manufacture the illusion of popularity by surrounding
yourself with members of the opposite sex – friends, former lovers, present
suitors. Createtriangles that stimulate rivalry and raise your value. Build a
reputation that precedes you: if many have succumbed to your charms, there must
be a reason. Creating Triangles O ne evening in 1882, the thirty-two-year-old
Prussian philosopher Paul Ree, living in Rome at the time, visited the house of
an older woman who ran a salon for writers and artists. Ree noticed a newcomer
there, a twenty-one-year-old Russian girl named Lou von Salome, who had come to
Rome on holiday with her mother. Ree introduced himself and they began a
conversation that lasted well into the night. Her ideas about God and morality
were like his own; she talked with such intensity, yet at the same time her
eyes seemed to flirt with him. Over the next few days Ree and Salome took long
walks through the city. Intrigued by her mind yet confused by the emotions she
aroused, he wanted to spend more time with her. Then, one day, she startled him
with a proposition: she knew he was a close friend of the philosopher Friedrich
Nietzsche, then also visiting Italy. The three of them, she said, should travel
together-no, actually live together, in a kind of philosophers' menage a trois.
A fierce critic of Christian morals, Ree found this idea delightful. He wrote
to his friend about Salome, describing how desperate she was to meet him. After
a few such letters, Nietzsche hurried to Rome. Ree had made this invitation to
please Salome, and to impress her; he also wanted to see if Nietzsche shared
his enthusiasm for the young girl's ideas. But as soon as Nietzsche arrived,
something unpleasant happened; the great philosopher, who had always been a loner,
was obviously smitten with Salome. Instead of the three of them sharing
intellectual conversations together, Nietzsche seemed to be conspiring to get
the girl alone. When Ree caught glimpses of Nietzsche and Salome talking
without including him, he felt shivers of jealousy. Forget about some
philosophers' menage a trois: Salome was his, he had discovered her, and he
would not share her, even with his good friend. Somehow he had to get her
alone. Only then could he woo and win her. Madame Salome had planned to escort
her daughter back to Russia, but Salome wanted to stay in Europe. Ree
intervened, offering to travel with the Salomes to Germany and introduce them
to his own mother, who, he promised, would look after the girl and act as a
chaperone. (Ree knew that his mother would be a lax guardian at best.) Madame
Salome agreed to this proposal, but Nietzsche was harder to shake: he decided
to join them on their northward journey to Ree's home in Prussia. At one point
in the trip, Nietzsche and Salome took a walk by themselves, and Let me tell
you about a gentleman I once knew who, although he was of pleasing appearance
and modest behavior, and also a very capable warrior, was not so outstanding as
regards any of these qualities that there were not to befound many who were his
equal and even better. However, as luck would have it, a certain lady fell very
deeply in love with him. She saw that he felt the same way, and as her love
grew day by day, there not being any way for them to speak to each other, she
revealed her sentiments to another lady, who she hoped would be of service to
her in this affair. Now this lady neither in rank nor beauty was a whit
inferior to the first; and it came about that when she heard the young man
(whom she had never seen) spoken of so affectionately, and came to realize that
the other woman, whom she knew was extremely discreet and intelligent, loved
him beyond words, she straight away began to imagine that he must be the most
handsome, the wisest, the most discreet of men, and, in short, the man most
worthy of her love in all the world. So, never having set eyes on him, shefell
in love with him so passionately that she set out to win him not for herfriend
but for herself And in this she succeeded with little effort, for indeed she
was a woman more to be wooed than to do the wooing. And now listen
tothesplendid sequel: not long afterward it happened that a letter which she
had written to her lover fell into the hands of another woman of comparable
rank, charm, and beauty; and since she, like most women, was curious and eager
to learn secrets, she opened the letter and read it. Realizing that it was
written from the depths of passion, in the most loving and ardent terms, she
was at first moved with compassion, for she knew very wellfrom whom the letter
came and to whom it was addressed; then, however, such was the power of the
words she read, turning them over in her mind and considering what kind of man
it must be who had been able to arouse such great love, she at once began to fall
in love with him herself; and the letter was without doubt far more effective
than if the young man had himself written it to her. And just as it sometimes
happens that the poison preparedfor a prince kills the one who tastes his food,
so that poor woman, in her greediness, drank the love potion prepared for
another. What more is there to say? The affair was no secret, and things so
developed that many other women besides, partly to spite the others and partly
to follow their when they came back, Ree had the feeling that something
physical had happened between them. His blood boiled; Salome was slipping from
his grasp. Finally the groupsplitup, the mother returning to Russia, Nietzsche
to his summer place in Tautenburg, Ree and Salome staying behind at Ree's home.
But Salome did not stay long: she accepted an invitation of Nietzsche's to
visit him, unchaperoned, in Tautenburg. In her absence Ree was consumed with
doubts and anger. He wanted her more than ever, and was prepared to redouble
his efforts. When she finally came back, Ree vented his bitterness, railing
against Nietzsche, criticizing his philosophy, and questioning his motives
toward the girl. But Salome took Nietzsche's side. Ree was in despair; he felt
he had lost her for good. Yet a few days later she surprised him again: she had
decided she wanted to live with him, and with him alone. At last Ree had what
he had wanted, or so he thought. The couple settled in Berlin, where they
rented an apartment together. But now, to Ree's dismay, the old pattern
repeated. They lived together but Salome was courted on all sides by young men.
The darling of Berlin's intellectuals, who admired her independent spirit, her
refusal to compromise, she was constantly surrounded by a harem of men, who
referred to her as "Her Excellency." Once again Ree found himself
competing for her attention. Driven to despair, he left her a few years later,
and eventually committed suicide. In 1911, Sigmund Freud met Salome (now known
as Lou Andreas- Salome) at a conference in Germany. She wanted to devote
herself to the psychoanalytical movement, she said, and Freud found her
enchanting, although, like everyone else, he knew the story of her infamous
affair with Nietzsche (see page 46, "The Dandy"). Salome had no
background in psychoanalysis or in therapy of any kind, but Freud admitted her
into the inner circle of followers who attended his private lectures. Soon
after she joined the circle, one of Freud's most promising and brilliant
students. Dr. Victor Tausk, sixteen years younger than Salome, fell in love
with her. Salome's relationship with Freud had been platonic, but he had grown
extremely fond of her. He was depressed when she missed a lecture, and would
send her notes and flowers. Her involvement in a love affair with Tausk made
him intensely jealous, and he began to compete for her attention. Tausk had
been like a son to him, but the son was threatening to steal the father's
platonic lover. Soon, however, Salome left Tausk. Now her friendship with Freud
was stronger than ever, and so it lasted until her death, in 1937.
Interpretation. Men did not just fall in love with Lou Andreas-Salome; they
were overwhelmed with the desire to possess her, to wrest her away from others,
to be the proud owner of her body and spirit. They rarely saw her alone; she
always in some way surrounded herself with other men. Appear to Be an Object of
Desire-Create Triangles • 199 When she saw that Ree was interested in her, she
mentioned her desire to meet Nietzsche. This inflamed Ree, and made him want to
marry her and to keep him for himself, but she insisted on meeting his friend.
His letters to Nietzsche betrayed his desire for this woman, and this in turn
kindled Nietzsche's own desire for her, even before he had met her. Every time
one of the two men was alone with her, the other was in the background. Then,
later on, most of the men who met her knew of the infamous Nietzsche affair,
and this only increased their desire to possess her, to compete with
Nietzsche's memory. Freud's affection for her, similarly, turned into potent
desire when he had to vie with Tausk for her attention. Salome was intelligent
and attractive enough on her own account; but her constant strategy of imposing
a triangle of relationships on her suitors made her desirability intense. And
while they fought over her, she had the power, being desired by all and subject
to none. Our desire for another person almost always involves social
considerations: we are attracted to those who are attractive to other people.
We want to possess them and steal them away. You can believe all the
sentimentalnonsense you want to about desire, but in the end, much of it has to
do with vanity and greed. Do not whine and moralize about people's selfishness,
but simply use it to your advantage. The illusion that you are desired by
others will make you more attractive to your victims than your beautiful face
or your perfect body. And the most effective way to create that illusion is to
create a triangle: impose another person between you and your victim,and subtly
make your victim aware of how much this other person wants you. The third point
on the triangle does not have to be just one person: surround yourself with
admirers, reveal your past conquests-in other words, envelop yourself in an
aura of desirability. Make your targets compete with your past and your
present. They will long to possess you all to themselves, giving you great
power for as long as you elude their grasp. Fail to make yourself an object of
desire right from the start, and you will end up the sorry slave to the whims
of your lovers-they will abandon you the moment they lose interest. [A person]
will desire any object so long as he is convinced that it is desired by another
person whom he admires. -RENE GIRARD Keys to Seduction W e are social
creatures, and are immensely influenced by the tastes and desires of other
people. Imagine a large social gathering. You see aman alone, whom nobody talks
to for any length of time, and who is wandering around without company; isn't
there a kind of self-fulfilling isolation about him? Why is he alone, why is he
avoided? There has to be a reason. Until someone takes pity on this man and
starts up a conversation example, put every care and effort into winning this
man's love, squabbling over it for a while as boys do for cherries.
CASTIGLIONE, THE BOOK OFTHE COURTIER, BULL Most of the time we prefer one thing
to another because that is what our friends already prefer or because that
object has marked social significance. Adults, when they are hungry, are just
like children in that they seek out thefoods that others take. In their love
affairs, they seek out the man or woman whom others find attractive and abandon
those who are not sought after. When we say of a man or woman that he or she is
desirable, what we really mean is that others desire them. It is not that they
have some particular quality, but because they conform to some currently modish
model. MOSCOVICI, THE AGE OF THE CROWD.A HISTORICAL TREATISE ON MASS PSYCHOL-
OGT, WHITEHOUSE It will be greatly to
your advantage to entertain the lady you would win with an account of the
number of women who are in love with you, and of the decided advances which
they have made to you; for this will not only prove that you are a
greatfavorite with the ladies, and a man of true honor, but it will convince
her that she may have the honor of being enrolled in the same list, and of
being praised in the same way, in the presence of your otherfemale friends.
This will greatly delight her, and you need not be surprised if she testifies
her admiration of your character by throwing her arms around your neck on the
spot. -LOLA MONTEZ, THE ARTS AND SECRETS OF BEAUTY, WITH HINTS TO GENTLEMEN ON
THE ART OF FASCINATING [Rene] Girard's mimetic desire occurs when an individual
subject desires an object because it is desired by another subject, here
designated as the rival: desire is modeled on with him, he will look unwanted
and unwantable. But over there, in another corner, is a woman surrounded by
people. They laugh at her remarks, and as they laugh, others join the group,
attracted by its gaiety. When she moves around, people follow. Her face is
glowing with attention. There has to be a reason. In both cases, of course,
there doesn't actually have to be a reason at all. The neglected man may have
quite charming qualities, supposing you ever talk to him; but most likely you
won't. Desirability is a social illusion. Its source is less what you say or
do, or any kind of boasting or self- advertisement, than the sense that other people
desire you. To turn your targets' interest into something deeper, into desire,
you must make them see you as a person whom others cherish and covet. Desire is
both imitative (we like what others like) and competitive (we want to take away
from others what they have). As children, we wanted to monopolize the attention
of a parent, to draw it away from other siblings. This sense of rivalry
pervades human desire, repeating throughout our lives. Make people compete for
your attention, make them see you as sought after by everyone else. The aura of
desirability will envelop you. the wishes or actions of another. Philippe
Lacoue- Labarthe says that "the basic hypothesis upon which rests Girard's
famous analysis [is that] every desire is the desire of the other (and not
immediately desire of an object), every structure of desire is triangular
(including the other-mediator or model-whose desire desire imitates), every
desire is thus from its inception tapped by hatred and rivalry; in short, the
origin of desire is mimesis - mimeticism-and no desire is ever forged which
does not desire forthwith the death or disappearance of the model or exemplary
character which gave rise to it. MANDRELL, DON JUAN AND THE POINT OF HONOR Your
admirers can be friends or even suitors. Call it the harem effect. Pauline
Bonaparte, sister of Napoleon, raised her value in men's eyes by always having
a group of worshipful men around her at balls and parties. If she went for a
walk, it was never with one man, always with two or three. Perhaps these men
were simply friends, or even just props and hangers-on; the sight of them was
enough to suggest that she was prized and desired, a woman worth fighting over.
Andy Warhol, too, surrounded himself with the most glamorous, interesting
people he could find. To be part of his inner circle meant that you were
desirable as well. By placing himself in the middle but keeping himself aloof
from it all, he made everyone compete for his attention. He stirred people's
desire to possess him by holding back. Practices like these not only stimulate
competitive desires, they take aim at people's prime weakness: their vanity and
self-esteem. We can endure feeling that another person has more talent, or more
money, but the sense that a rival is more desirable than we are-that is
unbearable. In the early eighteenth century, the Duke de Richelieu, a great
rake, managed to seduce a young woman who was rather religious but whose
husband, a dolt, was often away. He then proceeded to seduce her upstairs
neighbor, a young widow. When the two women discovered that he was going from
one to the other in the same night, they confronted him. A lesser man would
have fled, but not the duke; he understood the dynamic of vanity and desire.
Neither woman wanted to feel that he preferred the other. And so he managed to
arrange a little menage a trois, knowing that now they would struggle between
themselves to be the favorite. When people's vanity is at risk, you can make
them do whatever you want. According to Stendhal, if there is a woman you are
interested in, pay attention to her sister. That will stir a triangular desire.
Your reputation-your illustrious past as a seducer-is ait effective way Appear
to Be an Object of Desire-Create Triangles • 201 of creating an aura of desirability.
Women threw themselves at Errol Flynn's feet, not because of his handsome face,
and certainly not because of his acting skills, but because of his reputation.
They knew that other women had found him irresistible. Once he had established
that reputation, he did not have to chase women anymore; they came to him. Men
who believe that a rakish reputation will make women fear or distrust them, and
should be played down, are quite wrong. On the contrary, it makes them more
attractive. The virtuous Duchess de Montpensier, the Grande Mademoiselle of
seventeenth-century France, began by enjoying a friendship with the rake
Lauzun, but a troubling thought soon occurred to her: if a man with Lauzun's
past did not see her as a possible lover, something had to be wrong with her.
This anxiety eventually pushed her into his arms. To be part of a great
seducer's club of conquests can be a matter of vanity and pride. We are happy
to be in such company, to have our name broadcast as this man or woman's lover.
Your own reputation may not be so alluring, but you must find a way to suggest
to your victim that others, many others, have found you desirable. It is
reassuring. There is nothing like a restaurant full of empty tables to persuade
you not to go in. A variation on the triangle strategy is the use of contrasts:
careful exploitation of people who are dull or unattractive may enhance your
desirability by comparison. At a social affair, for instance, make sure that
your target has to chat with the most boring person available. Come to the
rescue and your target will be delighted to see you. In The Seducer's Diary, by
Spren Kierkegaard, Johannes has designs on the innocent young Cordelia. Knowing
that his friend Edward is hopelessly shy and dull, he encourages this man to court
her; a few weeks of Edward's attentions will make her eyes wander in search of
someone else, anyone else, and Johannes will make sure that they settle on him.
Johannes chose to strategize and maneuver, but almost any social environment
will contain contrasts you can make use of almost naturally. The
seventeenth-century English actress Nell Gwyn became the main mistress of King
Charles II because her humor and unaffectedness made her that much more
desirable among the many stiff and pretentious ladies of Charles's court. When
the Shanghai actress Jiang Qing met Mao Zedong, in 1937, she did not have to do
much to seduce him; the other women in his mountain camp in Yenan dressed like
men, and were decidedly unfeminine. The sight alone of Jiang was enough to seduce
Mao, who soon left his wife for her. To make use of contrasts, either develop
and display those attractive attributes (humor, vivacity, and so on) that are
the scarcest in your own social group, or choose a group in which your natural
qualities are rare, and will shine. The use of contrasts has vast political
ramifications, for a political figure must also seduce and seem desirable. Leam
to play up the qualities that your rivals lack. Peter II, czar in
eighteenth-century Russia, was arrogant and irresponsible, so his wife,
Catherine the Great, did all she could to seem modest and dependable. When
Vladimir Lenin returned to Russia in 1917 after Czar Nicholas II had been
deposed, he made a show of decisiveness It's annoying that our new acquaintance
likes the boy. But aren't the best things in life free to all? The sun shines
on everyone. The moon, accompanied by countless stars, leads even the beasts to
pasture. What can you think of lovelier than water? But it flows for the whole
world. Is love alone then something furtive rather than something to be gloried
in? Exactly, that's just it -/ don't want any of the good things of life unless
people are envious of them. -PETRONIUS, THE SATYRICON, SULLIVAN and
discipline-precisely what no other leader had at the time. In the American
presidential race of 1980, the irresoluteness of Jimmy Carter made the
single-mindedness of Ronald Reagan look desirable. Contrasts are eminently
seductive because they do not depend on your own words or self-advertisements.
The public reads them unconsciously, and sees what it wants to see. Finally,
appearing to be desired by others will raise your value, but often how you
carry yourself can influence this as well. Do not let your targets see you so
often; keep your distance, seem unattainable, out of their reach. An object
that is rare and hard to obtain is generally more prized. Symbol: The Trophy.
What makes you want to win the trophy, and to see it as something worth having,
is the sight of the other competitors. Some, out of a spirit of kindness, may
want to reward everyonefor trying, but the Trophy then loses its value. It must
represent not only your victory but everyone else's defeat. Reversal T here is
no reversal. It is essential to appear desirable in the eyes of others. 5.
Create a Need- Stir Anxiety and Discontent. A perfectly satisfied person cannot
be seduced. Tension and disharmony must be instilled in your targets' minds.
Stir within them feelings of discontent, an unhappiness with their
circumstances and with themselves: their life lacks adventure, they have
strayed from the ideals of their youth, they have become boring. Thefeelings of
inadequacy that you create will give you space to insinuate yourself, to make
them see you as the answer to their problems. Pain and anxiety are the proper
precursors to pleasure. Learn to manufacture the need that you can fill.
Opening a Wound. I n the coal-mining town of Eastwood, in central England,
David Herbert Lawrence was considered something of a strange lad. Pale and
delicate, he had no time for games or boyish pursuits, but was interested in
literature; and he preferred the company of girls, who made up most of his
friends. Lawrence often visited the Chambers family, who had been his neighbors
until they moved out of Eastwood to a farm not far away.Heliked to study with
the Chambers sisters, particularly Jessie; she was shy and serious, and getting
her to open up and confide in him was a pleasurable challenge. Jessie grew
quite attached to Lawrence over the years, and they became good friends. One
day in 1906, Lawrence, twenty-one at the time, did not show up at the usual
hour for his study session with Jessie. He finally arrived much later, in a
mood she had never seen before-preoccupied and quiet. Now it was her turn to
make him open up. Linally he talked: he felt she was getting too close to him.
What about her future? Whom would she marry? Certainly not him, he said, for
they were just friends. But it was unfair of him to keep her from seeing
others. They should of course remain friends and have their talks, but maybe
less often. When he finished and left, she felt a strange emptiness. She had
yet to think much about love or marriage. Suddenly she had doubts. What would
her future be? Why wasn't she thinking about it? She felt anxious and upset,
without understanding why. Lawrence continued to visit, but everything had
changed. He criticized her for this and that. She wasn't very physical. What
kind of wife would she make anyway? A man needed more from a woman than just
talk. He likened her to a nun. They began to see each other less often. When,
some time later,Lawrence accepted a teaching position at a school outside
London, she felt part relieved to be rid of him for a while. But when he said
goodbye to her, and intimated that it might be for the last time, she broke
down and cried. Then he started sending her weekly letters. He would write
about girls he was seeing; maybe one of them would be his wife. Linally, at his
behest, she visited him in London. They got along well, as in the old times,
but he continued to badger her about her future, picking at that old wound. At
Christmas he was back in Eastwood, and when he visited her he seemed exultant.
He had decided that it was Jessie he should marry, that he had in fact been attracted
to her all along. They should keep it quiet for a while; although his writing
career was taking off (his first No one can fall in love if he is even
partially satisfied with what he has or who he is. The experience of falling in
love originates in an extreme depression, an inability to find something that
has value in everyday life. The "symptom" of the predisposition to
fall in love is not the conscious desire to do so, the intense desire to enrich
our lives; it is the profound sense of being worthless and of having nothing
that is valuable and the shame of not having it. . . . For this reason, falling
in love occurs more frequently among young people, since they are profoundly
uncertain, unsure of their worth, and often ashamed of themselves. The same
thing applies to people of other ages when they lose something in their lives -
when their youth ends or when they start to grow old. ALBERONI, FALLING IN
LOVE, "What can Love be then?" I said. "A mortal?"
"Far from it." "Well, what?" "As in my previous
examples, he is half-way between mortal and immortal." What sort of being
is he then, Diotima?" "He is a great spirit, Socrates; everything
that is of the nature of a spirit is half-god and halfman." "Who are
his parents?" I asked. "That is rather a long story," she
answered, "but I will tell you. On the day that Aphrodite was born the
gods were feasting, among them Contrivance the son of Invention; and after
dinner, seeing that a party was in progress, Poverty came to beg and stood at
the door. Now Contrivance was drunk with nectar - wine, I may say, had not yet
been discovered-and went out into the garden of Zeus, and was overcome by
sleep. So Poverty, thinking to alleviate her wretched condition by bearing a
child to Contrivance, lay with him and conceived Love. Since Love was begotten
on Aphrodite's birthday, and since he has also an innate passion for the
beautiful, and so for the beauty of Aphrodite herself, hebecame her follower
and servant. Again, having Contrivance for his father and Poverty for his
mother, he bears the following character. He is always poor, and, far from
being sensitive and beautiful, as most people imagine, he is hard and
weather-beaten, shoeless and homeless, always sleeping outfor want of a bed, on
the ground, on doorsteps, and in the street. So far he takes after his mother
and lives in want. But, being also his father's novel was about to be
published), he needed to make more money. Caught off guard by this sudden
announcement, and overwhelmed with happiness, Jessie agreed to everything, and
they became lovers. Soon, however, the familiar pattern repeated: criticisms,
breakups, announcements that he was engaged to another girl. This only deepened
his hold on her. It was not until 1912 that she finally decided never to see
him again, disturbed by his portrayal of her in the autobiographical novel Sons
and Lovers. But Lawrence remained a lifelong obsession for her. In 1913, a
young English woman named Ivy Low, who had read Lawrence's novels, began to
correspond with him, her letters gushing with admiration. By now Lawrence was
married, to a German woman, the Baroness Frieda von Richthofen. To Low's
surprise, though, he invited her to visit him and his wife in Italy. She knew
he wasprobablysomethingof a Don Juan, but was eager to meet him, and accepted
his invitation. Lawrence was not what she had expected: his voice was
high-pitched, his eyes were piercing, and there was something vaguely feminine
about him. Soon they were taking walks together, with Lawrence confiding in
Low. She felt that they were becoming friends, which delighted her. Then
suddenly, just before she was to leave, he launched into a series of criticisms
of her-she was so unspontaneous, so predictable, less human being than robot.
Devastated by this unexpected attack, she nevertheless had to agree- what he
had said was true. What could he have seen in her in the first place? Who was
she anyway? Low left Italy feeling empty-but then Lawrence continued to write
to her, as if nothing had happened. She soon realized that she had fallen
hopelessly in love with him, despite everything he had said to her. Or was it
not despite what he had said, but because of it? In 1914, the writer John
Middleton-Murry received a letter from Lawrence, a good friend of his. In the
letter, out of nowhere, Lawrence criticized Middleton-Murry for being
passionless and not gallant enough with his wife, the novelist Katherine
Mansfield. Middleton-Murry later wrote, "I had never felt for a man before
what his letter made me feel for him. It was a new thing, a unique thing, in my
experience; and it was to rmain unique." He felt that beneath Lawrence's
criticisms lay some weird kind of affection. Whenever he saw Lawrence from then
on, he felt a strange physical attraction that he could not explain. Interpretation.
The number of women, and of men, who fell under Lawrence's spell is astonishing
given how unpleasant he could be. In almost every case the relationship began
in friendship-with frank talks, exchanges of confidences, a spiritual bond.
Then, invariably, he would suddenly turn against them, voicing harsh personal
criticisms. He would know them well by that time, and the criticisms were often
quite accurate, and hit a nerve. This would inevitably trigger confusion in his
victims, and a sense of anxiety, a feeling that something was wrong with them.
Jolted out of their usual sense of normality, they would feel divided inside.
With half of their minds Create a Need-Stir Anxiety and Discontent •they
wondered why he was doing this, and felt he was unfair; with the other half,
they believed it was all true. Then, in those moments of selfdoubt, they would
get a letter or a visit from him in which he was his old charming self. Now
they saw him differently Now they were weak and vulnerable, in need of something;
and he would seem so strong. Now he drew them to him, feelings of friendship
turning into affection and desire. Once they felt uncertain about themselves,
they were susceptible to falling in love. Most of us protect ourselves from the
harshness of life by succumbing to routines and patterns, by closing ourselves
off from others. But underlying these habits is a tremendous sense of
insecurity and defensiveness. We feel we are not really living. The seducer
must pick at this wound and bring these semiconscious thoughts into full
awareness. This was what Lawrence did; his sudden, brutally unexpected jabs
would hit people at their weak spot. Although Lawrence had great success with
his frontal approach, it is often better to stir thoughts of inadequacy and uncertainty
indirectly, by hinting at comparisons to yourself or to others, and by
insinuating somehow that your victims' lives are less grand than they had
imagined. You want them to feel at war with themselves, torn in two directions,
and anxious about it. Anxiety, a feeling of lack and need, is the precursor of
all desire. These jolts in the victim's mind create space for you to insinuate
your poison, the siren call of adventure or fulfillment that will make them
follow you into your web. Without anxiety and a sense of lack there can be no
seduction. son, he schemes to get for himself whatever is beautiful and good;
he is bold andforward and strenuous,always devising tricks like a cunning
huntsman." -PLATO, SYMPOSIUM, We are all like pieces of the coins that
children break in half for keepsakes - making two out of one, like the
flatfish-and each of us is forever seeking the half that will tally with
himself . And so all this to-do is a relic of that original state of ours when
we were whole, and now, when we are longing for and following after that
primeval wholeness, we say we are in love. -ARISTOPHANES'S SPEECH IN PLATO'S
SYMPOSIUM, QUOTED IN MANDRELL, DONJUAN AND THE POINT OF HONOR Desire and love
have for their object things or qualities which a man does not at present
possess but which he lacks. -SOCRATES Don John: Well met, pretty lass! What!
Are there such handsome Creatures as you amongst these Fields, these Trees, and
Rocks? • Charlotta: I Keys to Seduction E veryone wears a mask in society; we
pretend to be more sure of ourselves than we are. We do not want other people
to glimpse that doubting self within us. In truth, our egos and personalities
are much more fragile than they appear to be; they cover up feelings of
confusion and emptiness. As a seducer, you must never mistake a person's
appearance for the reality. People are always susceptible tobeingseduced,
because in fact everyone lacks a sense of completeness, feels something missing
deep inside. Bring their doubts and anxieties to the surface and they can be
led and lured to follow you. No one can see you as someone to follow or fall in
love with unless they first reflect on themselves somehow, and on what they are
missing. Before the seduction proceeds, you must place a mirror in front of them
in am as you see, Sir. • Don John: Are you of this Village? • Charlotta: Yes,
Sir. • Don John: What's your name? • Charlotta: Charlotta, Sir, at your
Service. • Don John: Ah what a fine Person 'tis! What piercing Eyes! •
Charlotta: Sir, you make me ashamed. Don John: Pretty Charlotta, you are not
marry'd, are you? • Charlotta: No, Sir, but I am soon to be, with Pierrot, son
to Goody Simonetta. • Don John: What! Shou'd such a one as you be Wife to
aPeasant! No, no; that's a profanation of so much Beauty. You was not born to
live in a Village. You certainly deserve a better Fortune, and Heaven, which
knows it well, brought me hither on purpose to hinder this Marriage and do
justice to your Charms; for in short, fair Charlotta, 1 love you with all my
Heart, and if you'll consent I'll deliver you from this miserable Place, and
put you in the Condition you deserve. This Love is doubtless sudden, but 'tis
an Effect of your great Beauty. I love you as much in a quarter of an Hour as I
shou'd another in six Months. -MOLIERE, DON JOHN; OR, THE UBERTINE, IN OSCAR MANDEL, ED., THE THEATRE OF DON JUAN
For I stand tonight facing west on what was once the last frontier. From the
lands that stretch three thousand miles behind me, the pioneers of old gave up
their safety, their comfort, and sometimes their lives to build a new world
here in the West. They were not the captives of their own doubts, the prisoners
of their own price tags. Their motto was not "every man for himself--but
"all for the common cause." They were determined to make that new
world strong and free, to overcome its hazards and its hardships, to conquer
the enemies that threatened from without and within. ..." Today some would
say that those struggles are all over-that all the horizons have been explored,
that all the battles have been won, that there is no longer an which they
glimpse that inner emptiness. Made aware of a lack, they now can focus on you
as the person who can fill that empty space. Remember: most of us are lazy. To
relieve our feelings of boredom or inadequacy on our own takes too much effort;
letting someone else do the job is both easier and more exciting. The desire to
have someone fill up our emptinessis the weakness on which all seducers prey.
Make people anxious about the future, make them depressed, make them question
their identity, make them sense the boredom that gnaws at their life. The
ground is prepared. The seeds of seduction can be sown. In Plato's dialogue
Symposium -the West's oldest treatise on love, and a text that has had a determining
influence on our ideas of desire-the courtesan Diotima explains to Socrates the
parentage of Eros, the god of love. Eros's father was Contrivance, or Cunning,
and his mother was Poverty, or Need. Eros takes after his parents: he is
constantly in need, which he is constantly contriving to fill. As the god of
love, he knows that love cannot be induced in another person unless they too
feel need. And that is what his arrows do: piercing people's flesh, they make
them feel a lack, an ache, a hunger. This is the essence of your task as a
seducer. Like Eros, you must create a wound in your victim, aiming at their
soft spot, the chink in their self-esteem. If they are stuck in a rut, make
them feel it more deeply, "innocently" bringing it up and talking
about it. What you want is a wound, an insecurity you can expand a little, an
anxiety that can best be relieved by involvement with another person, namely
you. They must feel the wound before they fall in love. Notice how Lawrence
stirred anxiety, always hitting at his victims' weak spot: for Jessie Chambers,
her physical coldness; for Ivy Low, her lack of spontaneity; for
Middleton-Murry, his lack of gallantry. Cleopatra got Julius Caesar to sleep
with her the first night he met her, but the real seduction, the one that made
him her slave, began later. In their ensuing conversations she talked
repeatedly of Alexander the Great, the hero from whom she was supposedly
descended. No one could compare to him. By implication, Caesar was made to feel
inferior. Understanding that beneath his bravado Caesar was insecure, Cleopatra
awakened in him an anxiety, a hunger to prove his greatness. Once he felt this
way he was easily further seduced. Doubts about his masculinity was his tender
spot. When Caesar was assassinated, Cleopatra turned her sights on Mark Antony,
one of Caesar's successors in the leadership of Rome. Antony loved pleasure and
spectacle, and his tastes were crude. She appeared to him first on her royal
barge, then wined and dined and banqueted him. Everything was geared to suggest
to him the superiority of the Egyptian way of life over the Roman, at least
when it came to pleasure. The Romans were boring and unsophisticated by
comparison. And once Antony was made to feel how much he was missing in spending
his time with his dull soldiers and hismatronly Roman wife, he could be made to
see Cleopatra as the incarnation of all that was exciting. He became her slave.
This is the lure of the exotic. In your role of seducer, try to position
yourself as coming from outside, as a stranger of sorts. You represent change,
difference, a breakup of routines. Make your victims feel that by comparison
their lives are boring and their friends less interesting than they had
thought. Lawrence made his targets feel personally inadequate; if you find it
hard to be so brutal, concentrate on their friends, their circumstances, the
externals of their lives. There are many legends of Don Juan, but they often
describe him seducing a village girl by making her feel that her life is
horribly provincial. He, meanwhile, wears glittering clothes andhas a noble
bearing. Strange and exotic, he is always from somewhere else. First she feels
the boredom of her life, then she sees him as her salvation. Remember: people
prefer to feel that if their life is uninteresting, it not because of
themselves but because of their circumstances, the dull people they know, the
town into which they were born. Once you make them feel the lure of the exotic,
seduction is easy. Another devilishly seductive area to aim at is the victim's
past. To grow old is to renounce or compromise youthful ideals, to become less
spontaneous, less alive in a way. This knowledge lies dormant in all of us. As
a seducer you must bring it to the surface, make it clear how far people have
strayed from their past goals and ideals. You, in turn, present yourself as
representing that ideal, as offering a chance to recapture lost youth through
adventure-through seduction. In her later years. Queen Elizabeth I of England
was known as a rather stern and demanding ruler. She made it a point not to let
her courtiers see anything soft or weak in her. But then Robert Devereux, the
second Earl of Essex, came to court. Much younger than the queen, the dashing
Essex would often chastize her for her sourness. The queen would forgive him-he
was so exuberant and spontaneous, he could not control himself. But his
comments got under her skin; in the presence of Essex she came to remember all
the youthful ideals-spiritedness, feminine charm-that had since vanished from
her life. She also felt a little of that girlish spirit return when she was
around him. He quickly became her favorite, and soon she was in love with him.
Old age is constantly seduced by youth, but first the young people must make it
clear what the older ones are missing, how they have lost their ideals. Only
then will they feel that the presence of the young will let them recapture that
spark, the rebellious spirit that age and society have conspired to repress.
This concept has infinite applications. Corporations and politicians know that
they cannot seduce their public into buying what they want them to buy, or
doing what they want them to do, unless they first awaken a sense of need and
discontent. Make the masses uncertain about their identity and you can help
define it for them. It is as true of groups or nations as it is of individuals:
they cannot be seduced without being made to feel some lack. Part of John F.
Kennedy's election strategy in 1960 was to make Americans unhappy about the
1950s, and how far the country had strayed from its ideals. In talking about
the 1950s, he did not mention the nation's economic stability or its emergence
as a superpower. Instead, he implied that the period was marked by conformity,
a lack of risk and adventure, a loss of our frontier values. To vote for
Kennedy was to embark American frontier. • But I trust that no one in this vast
assemblage will agree with those sentiments. I tell you the New Frontier is
here, whether we seek it or not. ... It would be easier to shrink back from
that frontier, to look to the safe mediocrity of the past, to be lulled by good
intentions and high rhetoric-and those who prefer that course should not cast
their votesfor me, regardless of party. • But I believe that the times demand
invention, innovation, imagination,decision. I am asking each of you to be new
pioneers on that New Frontier. My call is to the young in heart, regardless of
age. -JOHN F. KENNEDY, ACCEPTANCE SPEECH AS THE PRESIDENTIAL NOMINEE OF THE
DEMOCRATIC PARTY, QUOTED IN JOHN HELLMANN, THE KENNEDY OBSESSION: THE AMERICAN
MYTH OF JFK The normal rhythm of life oscillates in general between a mild
satisfaction with oneself and a slight discomfort, originating in the knowledge
of one's personal shortcomings. We should like to be as handsome, young, strong
or clever as other people of our acquaintance. We wish we could achieve as much
as they do, longfor similar advantages, positions, the same or greater success.
To be delighted with oneself is the exception and, often enough, a smoke screen
which we produce for ourselves and of course for others. Somewhere in it is a
lingering feeling of discomfort with ourselves and a slight self-dislike. I
assert that an increase of this spirit of discontent renders a person
especially susceptible to "falling in love." ... In most cases this
attitude of disquiet is unconscious, but in some it reaches the threshold of
awareness in the form of a slight uneasiness, or a stagnant dissatisfaction, or
a realization of being upset without knowing why. -THEODOR REIK, OF LOVE AND
LUSTon a collective adventure, to go back to ideals we had given up. But before
anyone joined his crusade they had to be made aware of how much they had lost,
what was missing. A group, like an individual, can get mired in routine, losing
track of its original goals. Too much prosperity saps it of strength. You can
seduce an entire nation by aiming at its collective insecurity, that latent
sense that not everything is what it seems. Stirring dissatisfaction with the
present and reminding people about the glorious past can unsettle their sense
of identity. Then you can be the one to redefine it-a grand seduction. Symbol:
Cupid's Arrow. What awakens desire in the seduced is not a soft touch or a
pleasant sensation; it is a wound. The arrow creates a pain, an ache, a needfor
relief Before desire there must be pain. Aim the arrow at the victim's weakest
spot, creating a wound that you can open and reopen. Reversal I f you go too
far in lowering the targets' self-esteem they may feel too insecure to enter
into your seduction. Do not be heavy-handed; like Lawrence, always follow up
the wounding attack with a soothing gesture. Otherwise you will simply alienate
them. Charm is often a subtler and more effective route to seduction. The
Victorian Prime Minister Benjamin Disraeli always made people feel better about
themselves. He deferred to them, made them the center of attention, made them
feel witty and vibrant. He was a boon to their vanity, and they grew addicted
to him. This is a kind of diffused seduction, lacking in tension and in the
deep emotions that the sexual variety stirs; it bypasses people's hunger, their
need for some kind of fulfillment. But if you are subtle and clever, it can be
a way of lowering their defenses, creating an unthreatening friendship. Once
they are under your spell in this way, you can then open the wound. Indeed,
after Disraeli had charmed Queen Victoria and established a friendship with
her, he made her feel vaguely inadequate in the establishment of an empire and
the realization of her ideals. Everything depends on the target. People who are
riddled with insecurities may require the gentler variety. Once they feel
comfortable with you, aim your arrows. 6 Master the Art of Insinuation Making
your targetsfeel dissatisfied and in need of your attention is essential, but
if you are too obvious, they will see through you and grow defensive. There is
no known defense, however, against insinuation-the art of planting ideas in
people's minds by dropping elusive hints that take root days later, even
appearing to them as their own idea. Insinuation is the supreme means of
influencing people. Create a sublanguage-bold statements followed by retraction
andapology, ambiguous comments, banal talk combined with alluring glances-that
enters the target's unconscious to convey your real meaning. Make everything
suggestive. Insinuating Desire. One evening in the 1770s, a young man went to
the Paris Opera to meet his lover, the Countess de_. The couple had been fighting,
and he was anxious to see her again. The countess had not arrived yet at her
box, but from an adjacent one a friend of hers, Madame de T_, called out to the
young man to join her, remarking that it was an excellent stroke of luck that
they had met that evening-he must keep her company on a trip she had to take.
The young man wanted urgently to see the countess, but Madame was charming and
insistent and he agreed to go with her. Before he could ask why or where, she
quickly escorted him to her carriage outside, which then sped off. Now the
young man enjoined his hostess to tell him where she was taking him. At first
she just laughed, but finally she told him: to her husband's chateau. The
couple had been estranged, but had decided to reconcile; her husband was a
bore, however, and she felt a charming young man like himself would liven
things up. The young man was intrigued: Madame was an older woman, with a
reputation for being rather formal, though he also knew she had a lover, a
marquis. Why had she chosen him for this excursion? Her story was not quite
credible. Then, as they traveled, she suggested he look out the window at the
passing landscape, as she was doing. He had to lean over toward her to do so,
and just as he did, the carriage jolted. She grabbed his hand and fell into his
arms. She stayed there for a moment, then pulled away from him rather abruptly.
After an awkward silence, she said, "Do you intend to convince me of my
imprudence in your regard?" He protested that the incident had been an
accident and reassured her he would behave himself. In truth, however, having
her in his arms had made him think otherwise. They arrived at the chateau. The
husband came to meet them, and the young man expressed his admiration of the
building: "What you see is nothing," Madame interrupted, "I must
take you to Monsieur's apartment." Before he could ask what she meant, the
subject was quickly changed. The husband was indeed a bore, but he excused
himself after supper. Now Madame and the young man were alone. She invited him
to walk with her in the gardens; it was a splendid evening, and as they walked,
she slipped her arm in his. She was not worried that he would take advantage of
her, she said, because she knew how attached he was to her good friend the countess.
They talked of other things, and then she returned to the topic of As we were
about to enter the chamber, she stopped me. "Remember," she said
gravely, "you are supposed never to have seen, never even suspected, the
sanctuary you're about to enter. All this was like an initiation rite. She led
me by the hand across a small, dark corridor. My heart was pounding as though I
were a young proselyte being put to the test before the celebration oj the
great mysteries. ."But your Countess ..." she said, stopping. I was
about to reply when the doors opened; my answer was interrupted by admiration.
I was astonished, delighted, I no longer know what became of me, and I began in
good faith to believe in magic. ... In truth, I found myself in a vast cage of
mirrors on which images were so artistically painted that they produced the
illusion of all the objects they represented. -VIVANT DENON,"NO
TOMORROW," IN MICHEL FEHER, ED., THE UBERTINE READER A few short years
ago, in our native city, wherefraud and cunning prosper more than love or
loyalty, there was a noblewoman of striking beauty and impeccable breeding, who
was endowed by Nature with as lofty a temperament and shrewd an intellect as
could be found in any other woman of her time. This lady, being of gentle birth
his lover: "Is she making you quite happy? Oh, I fear the contrary, and
this distresses me. . . . Are you not often the victim of her strange
whims?" To the young man's surprise, Madame began to talk of the countess
in a way that made it seem that she had been unfaithful to him (which was
something he had suspected). Madame sighed-she regretted saying such things
about her friend, and asked him to forgive her; then, as if a new thought had
occurred to her, she mentioned a nearby pavilion, a delightful place, full of
pleasant memories. But the shame of it was, it was locked and she had no key.
And yet they found their way to the pavilion, and lo and behold, the door had
been left open. It was dark inside, but the young man could sense that it was a
place for trysts. They entered and sank onto a sofa. and finding herself
married off to a master woollen- draper because he happened to be very rich,
was unable and before he knew what had come over him, he took her in his arms.
Madame seemed to push him away, but then gave in. Finally she came to her
senses: they must return to the house. Had he gone too far? He must to stifle
her heartfelt contempt, for she was firmly of the opinion that no man of low
condition, however wealthy, was deserving of a noble wife. And on discovering
that all he was capable of despite his massive wealth, was distinguishing wool
from cotton, supervising the setting up of a loom, or debating the virtues of a
particular yarn with a spinner-woman, she resolved that as far as it lay within
her power she would have nothing whatsoever to do with his beastly caresses.
Moreover she was determined to seek try to control himself. As they strolled
back to the house, Madame remarked, "What a delicious night we've just
spent." Was she referring to what had happened in the pavilion?
"There is an even more charming room in the chateau," she went on,
"but I can't show you anything," implying he had been too forward.
She had mentioned this room ("Monsieur's apartment") several times
before; he could not imagine what could be so interesting about it, but by now
he was dying to see it and insisted she show it to him. "If you promise to
be good," she replied, her eyes widening. Through the darkness of the
house she led him into the room, which, to his delight, was a kind of temple of
pleasure: there were mirrors on the walls, trompe l'oeil paintings evoking a
forest scene, even a dark grotto, and a garlanded statue of Eros. Overwhelmed
by the mood of the place, the young man quickly resumed what he had started in
the pavilion, and would have lost all track of time if a servant had not rushed
in and warned them that it was getting light outside-Monsieur would soon be up.
her pleasure elsewhere, in the company of one who seemed more worthy of her
affection, and so it was that she fell deeply in love with an extremely
eligible man in his middle thirties. And whenever a day passed without her
having set eyes upon him, she was restless for the whole of the following
night. • However, the gentleman suspected nothing of all this, and took no
notice of her; andfor her part, being very cautious, she would not venture to
declare her love by dispatching a maidservant or writing him They quickly
separated. Later that day, as the young man prepared to leave, his hostess said,
"Goodbye, Monsieur; I owe you so many pleasures; but I have paid you with
a beautiful dream. Now your love summons you to return. . . . Don't give the
Countess cause to quarrel with me." Reflecting on his experience on the
way back, he could not figure out what it meant. He had the vague sensation of
having been used, but the pleasures he remembered outweighed his doubts.
Interpretation. Madame de T_is a character in the eighteenth-century libertine
short story "No Tomorrow," by Vivant Denon. The young man is the
story's narrator. Although fictional, Madame's techniques were clearly based on
those of several well-known libertines of the time, masters of the game of
seduction. And the most dangerous of their weapons was insinuation-the means by
which Madame cast her spell on the young man, making him seem the aggressor,
giving her the night of pleasure she desired. Master the Art of Insinuation •
215 and safeguarding her guiltless reputation, all in one stroke. After all, he
was the one who initiated physical contact, or so it seemed. In truth, she was
the one in control, planting precisely the ideas in his mind that she wanted.
That first physical encounter in the carriage, for instance, that she had set
up by inviting him closer: she later rebuked him for being forward, but what
lingered in his mind was the excitement of the moment. Her talk of the countess
made him confused and guilty; but then she hinted that his lover was
unfaithful, planting a different seed in his mind: anger, and the desire for
revenge. Then she asked him to forget what she had said and forgive her for
saying it, a key insinuating tactic: "I am asking you to forget what I
have said, but I know you cannot; the thought will remain in your mind."
Provoked this way, it was inevitable he would grab her in the pavilion. She
several times mentioned the room in the chateau-of course he insisted on going
there. She enveloped the evening in an air of ambiguity. Even her words
"If you promise to be good" could be read several ways. The young
man's head and heart were inflamed with all of the feelings-discontent,
confusion, desirethat she had indirectly instilled in him. Particularly in the
early phases of a seduction, learn to make everything you say and do a kind of
insinuation. Insinuate doubt with a comment here and there about other people
in the victim's life, making the victim feel vulnerable. Slight physical
contact insinuates desire, as does a fleeting but memorable look, or an
unusually warm tone of voice, both for the briefest of moments. A passing
comment suggests that something about the victim interests you; but keep it
subtle, your words revealing a possibility, creating a doubt. You are planting
seeds that will take root in the weeks to come. When you are not there, your
targets will fantasize about the ideas you have stirred up, and brood upon the
doubts. They are slowly being led into your web, unaware that you are in
control. How can they resist or become defensive if they cannot even see what
is happening? What distinguishes a suggestion from other kinds of psychical
influence, such as a command or the giving of a piece of information or
instruction, is that in the case of a suggestion an idea is aroused in another
person's brain which is not examined in regard to its origin but is accepted
just as though it had arisen spontaneously in that brain. -SIGMUND FREUD Keys
to Seduction Y ou cannot pass through life without in one way or another trying
to persuade people of something. Take the direct route, saying exactly what you
want, and your honesty may make you feel good but you are probably not getting
anywhere. People have their own sets of ideas, which are hardened into stone by
habit; your words, entering their minds, com- a letter, for fear of the dangers
that this might entail. But having perceived that he was on very friendly terms
with a certain priest, a rotund, uncouth, individual who was nevertheless
regarded as an outstandingly able friar on account of his very saintly way of
life, she calculated that this fellow would serve as an ideal go- betweenfor
her and the man she loved. And so, after reflecting on the strategy she would
adopt, she paid a visit, at an appropriate hour of the day, to the church where
he was to befound, and having sought him out, she asked him whether he would
agree to confess her. Since he could tell at a glance that she was a lady of
quality, the friar gladly heard her confession, and when she had got to the end
of it, she continued as follows: • "Father, as I shall explain to you
presently, there is a certain matter about which I am compelled to seek your
advice and assistance. Having already told you my name, I feel sure you will
know my family and my husband. He loves me more dearly than life itself, and
since he is enormously rich, he never has the slightest difficulty or
hesitation in supplying me with every single object for which I display a
yearning. Consequently, my love for him is quite unbounded, and if my mere
thoughts, to say nothing of my actual behavior, were to run contrary to his
wishes and his honor, I would be more deserving of hellfire than the wickedest
woman who ever lived. • "Now, there is a certain person, of respectable
outward appearance, who unless I am mistaken is a close acquaintance of yours.
I really couldn't say what his name is, but he is tall and handsome, his
clothes are brown and elegantly cut, and, possibly because he is unaware of my
resolute nature, he appears to have laid siege to me. He turns up infallibly
whenever I either look out of my window or stand at the front door or leave the
house, and I am surprised, in fact, that he is not here now. Needless to say, I
am very upset about all this, because his sort of conduct frequently gives an
honest woman a bad name, even though she is quite innocent. For the love of God,
therefore, I implore you to speak to him severely and persuade him to refrain
from his importunities. There are plenty of other women who doubtless find this
sort of thing amusing, and who will enjoy being ogled and spied upon by him,
but I personally have no inclination for it whatsoever, and I find
hisbehaviorexceedingly disagreeable." • And having reached the end of her
speech, the lady bowed head as though she were going to burst into tears. • The
reverend friar realized immediately who it was to whom she was referring, and
having warmly commended her purity of mind ... he promised to take all
necessary steps to ensure that the fellow ceased to annoy her. ..."
Shortly afterward, the gentleman in question paid one of his regular visits to
the reverendfriar, and after they had conversed together for a while on general
pete with the thousands of preconceived notions that are already there, and get
nowhere. Besides, people resent your attempt to persuade them, as if they were
incapable of deciding by themselves-as if you knew better. Consider instead the
power of insinuation and suggestion. It requires some patience and art, but the
results are more than worth it. The way insinuation works is simple: disguised
in a banal remark or encounter, a hint is dropped. It is about some emotional
issue-a possible pleasure not yet attained, a lack of excitement in a person's
life. The hint registers in the back of the target's mind, a subtle stab at his
or her insecurities; its source is quickly forgotten. It is too subtle to be
memorable at the time, and later, when it takes root and grows, it seems to
have emerged naturally from the target's own mind, as if it was there all
along. Insinuation lets you bypass people's natural resistance, for they seem
to be listening only to what has originated in themselves. It is a language on
its own, communicating directly with the unconscious. No seducer, no persuader,
can hope to succeed without mastering the language and art of insinuation. A
strange man once arrived at the court of Louis XV. No one knew anything about
him, and his accent and age were unplaceable. He called himself Count
Saint-Germain. He was obviously wealthy; all kinds of gems and diamonds
glittered on his jacket, his sleeves, his shoes, his fingers. He could play the
violin to perfection, paint magnificently. But the most intoxicating thing
about him was his conversation. In truth, the count was the greatest charlatan
of the eighteenth century-a man who had mastered the art of insinuation. As he
spoke, a word here and there would slip out-a vague allusion to the
philosopher's stone, which turned base metal into gold, or to the elixir of
life. He did not say he possessed these things, but he made you associate him
with their powers. Had he simply claimed to have them, no one would have
believed him and people would have turned away. The count might refer to a man
who had died forty years earlier as if he had known him personally; had this
been so, the count would have had to be in his eighties, although he looked to be
in his forties. He mentioned the elixir of life. ... he seems so young. . . .
The key to the count's words was vagueness. He always dropped his hints into a
lively conversation, grace notes in an ongoing melody. Only later would people
reflect on what he had said. After a while, people started to come to him,
inquiring about the philosopher's stone and the elixir of life, not realizing
that it was he who had planted these ideas in their minds. Remember: to sow a
seductive idea you must engage people's imaginations, their fantasies, their
deepest yearnings. What sets the wheels spinning is suggesting things that
people already want to hear-the possibility of pleasure, wealth, health,
adventure. In the end, these good things turn out to be precisely what you seem
to offer them. They will come to you as if on their own, unaware that you
insinuated the idea in their heads. In 1807, Napoleon Bonaparte decided it was
critical for him to win the Russian Czar Alexander I to his side. He wanted two
things out of the Master the Art of Insinuation • 217 czar: a peace treaty in
which they agreed to carve up Europe and the Middle East; and a marriage
alliance, in which he would divorce his wife Josephine and marry into the
czar's family. Instead of proposing these things directly, Napoleon decided to
seduce the czar. Using polite social encounters and friendly conversations as
his battlefields, he went to work. An apparent slip of the tongue revealed that
Josephine could not bear children; Napoleon quickly changed the subject. A
comment here and there seemed to suggest a linking of the destinies of France
and Russia.Just before they were to part one evening, he talked of his desire
for children, sighed sadly, then excused himself for bed, leaving the czar to
sleep on this. He escorted the czar to a play on the themes of glory, honor,
and empire; now, in later conversations, he could disguise his insinuations
under the cover of discussing the play. Within a few weeks, the czar was
speaking to his ministers of a marriage alliance and a treaty with France as if
they were his own ideas. Slips of the tongue, apparently inadvertent
"sleep on it" comments, alluring references, statements for which you
quickly apologize-all of these have immense insinuating power. They get under
people's skin like a poison, and take on a life of their own. The key to
succeeding with your insinuations is to make them when your targets are at
their most relaxed or distracted, so that they are not aware of what is
happening. Polite banter is often the perfect front for this; people are
thinking about what they will say next, or are absorbed in their own thoughts.
Your insinuations will barely register, which is how you want it. In one of his
early campaigns, John F. Kennedy addressed a group of veterans. Kennedy's brave
exploits during World War II-the PT-109 incident had made him a war hero-were
known to all; but in the speech, he talked of the other men on the boat, never
mentioning himself. He knew, however, that what he had done was on everyone's
mind, because in fact he had put it there. Not only did his silence on the
subject make them think of it on their own, it made Kennedy seem humble and
modest, qualities that go well with heroism. In seduction, as the French
courtesan Ninon de 1'Enclos advised, it is better not to talk about your love
for a person. Let your target read it in your manner. Your silence on the
subject will have more insinuating power than if you had addressed it directly.
Not only words insinuate; pay attention to gestures and looks. Madame
Recamier's favorite technique was to keep her words banal and the look in her
eyes enticing. The flow of conversation would keep men from thinking too deeply
about these occasional looks, but they would be haunted by them. Lord Byron had
his famous "underlook": while everyone was discussing some
uninteresting subject, he would seem to hang his head, but then a young woman
(the target) would see him glancing upward at her, his head still tilted. It
was a look that seemed dangerous, challenging, but also ambiguous; many women
were hooked by it. The face speaks its own language. We are used to trying to
read people's faces, which are often better indicators of their feelings than
what they say, which is so easy to control. topics, the friar drew him to one
side and reproached him in a very kindly sort of way for the amorous glances
which, as the lady had given him to understand, he believed him to be casting
in her direction. • Not unnaturally, the gentleman was amazed, for he had never
so much as looked at the lady and it was very seldom that he passed by her
house. The gentleman, being rather more perceptive than the reverendfriar, was
not exactly slow to appreciate the lady's cleverness, and putting on a somewhat
sheepish expression, he promised not to bother her any more. But after leaving
the friar, he made his way toward the house of the lady, who was keeping
continuous vigil at a tiny little window so that she would see him if he
happened to pass by. .. . Andfrom that day forward, proceeding with the maximum
prudence and conveying the impression that he was engaged in some other
business entirely, he became a regular visitor to the neighborhood. BOCCACCIO,
THE DECAMERON.Glances are the heavy artillery of the flirt: everything can be
conveyed in a look, yet that look can always be denied, for it cannot be quoted
word for word. -STENDHAL, QUOTED IN RICHARD DAVENPORT-HINES, ED., VICE: AN
ANTHOLOGY Since people are always reading your looks, use them to transmit the
insinuating signals you choose. Finally, the reason insinuation works so well
is not just that it bypasses people's natural resistance. It is also the
language of pleasure. There is too little mystery in the world; too many people
say exactly what they feel or want. We yearn for something enigmatic, for
something to feed our fantasies. Because of the lack of suggestion and
ambiguity in daily life, the person who uses them suddenly seems to have
something alluring and full of promise. It is a kind of titillating game-what
is this person up to? What does he or she mean? Hints, suggestions, and
insinuations create a seductive atmosphere, signaling that their victim is no
longer involved in the routines of daily life but has entered another realm.
Symbol: The Seed. The soil is carefully prepared. The seeds are planted months
in advance. Once they are in the ground, no one knows what hand threw them
there. They are part of the earth. Disguise your manipulations by planting
seeds that take root on their own. Reversal T he danger in insinuation is that
when you leave things ambiguous your target may misread them. There are
moments, particularly later on in a seduction, when it is best to communicate
your idea directly, particularly once you know the target will welcome it,
Casanova often played things that way. When he could sense that a woman desired
him, and needed little preparation, he would use a direct, sincere, gushing
comment to go straight to her head like a drug and make her fall under his
spell. When the rake and writer Gabriele D'Annunzio met a woman he desired, he
rarely delayed. Flattery flowed from his mouth and pen. He would charm with his
"sincerity" (sincerity can be feigned, and is just one stratagem
among others). This only works, however, when you sense that the target is
easily yours. If not, the defenses and suspicions you raise by direct attack
will make your seduction impossible. When in doubt, indirection is the better
route. 7. Enter Their Spirit. Most people are locked in their own worlds,
making them stubborn and hard to persuade. The way to lure them out of their
shell and set up your seduction is to enter their spirit. Play by their rules,
enjoy what they enjoy, adapt yourself to their moods. In doing so you will
stroke their deep-rooted narcissism and lower their defenses. Hypnotized by the
mirror image you present, they will open up, becoming vulnerable to your subtle
influence. Soon you can shift the dynamic: once you have entered their spirit
you can make them enter yours, at a point when it is too late to turn back. Indulge
your targets' every mood and whim, giving them nothing to react against or
resist. The Indulgent Strategy I n October of 1961, the American journalist
Cindy Adams was granted an exclusive interview with President Sukarno of
Indonesia. It was a remarkable coup, for Adams was a little-known journalist at
the time, while Sukarno was a world figure in the midst of a crisis. A leader
of the fight for Indonesia's independence, he had been the country's president
since 1949, when the Dutch finally gave up the colony. By the early 1960s, his
daring foreign policy had made him hated in the United States, some calling him
the Hitler of Asia. Adams decided that in the interests of a lively interview,
she would not be cowed or overawed by Sukarno, and she began the conversation
by joking with him. To her pleasant surprise, her ice-breaking tactic seemed to
work: Sukarno warmed up to her. He let the interview run well over an hour, and
when it was over he loaded her with gifts. Her success was remarkable enough,
but even more so were the friendly letters she began to receive from Sukarno
after she and her husband had returned to New York. A few years later, he
proposed that she collaborate with him on his autobiography. Adams, who was
used to doing puff pieces on third-rate celebrities, was confused. She knew
Sukarno had a reputation as a devilish Don Juan -le grand seducteur, the French
called him. He had had four wives and hundreds of conquests. He was handsome,
and obviously he was attracted to her, but why choose her for this prestigious
task? Perhaps his libido was too power- fill for him to care about such things.
Nevertheless, it was an offer she could not refuse. In January of 1964, Adams
returned to Indonesia. Her strategy, she had decided, would stay the same: she
would be the brassy, straight-talking lady who had seemed to charm Sukarno
three years earlier. During her first interview with him for the book, she
complained in rather strong terms about the rooms she had been given as
lodgings. As if he were her secretary, she dictated a letter to him, which he
was to sign, detailing the special treatment she was to be given by one and
all. To her amazement, he dutifully copied out the letter, and signed it. Next
on Adams's schedule was a tour of Indonesia to interview people who had known
Sukarno in his youth. So she complained to him about the plane she had to fly
on, which she said was unsafe. "I tell you what, honey," she told
him, "I think you should give me my own plane." "Okay," he
an- You're anxious to keep your mistress? \ Convince her she's knocked you all
of a heap \ With her stunning looks. If it's purple she's wearing, praise
purple; \ When she's in a silk dress, say silk \ Suits her best of all. . .
Admire \ Her singing voice, her gestures as she dances, \ Cry
"Encore!" when she stops. You can even praise \ Her performance in
bed, her talentfor love-making - \ Spell out what turned you on. \ Though she
may show fiercer in action than any Medusa, \ Her lover will always describe
her as kind \ And gentle. But take care not to give yourself away while \
Making such tongue-in- cheek compliments, don't allow \ Your expression to ruin
the message. Art's most effective \ When concealed. Detection discredits you
for good. - OVID, THE ART OF LOVE. The little boy (or girl) seeks to fascinate
his or her parents. In Oriental literature, imitation is reckoned to be one of
the ways of attracting. The Sanskrit texts, for example, give an important part
to the trick of the woman copying the dress, expressions, and speech of her
beloved. This kind of mimetic drama is urged on the woman who, "being
unable to unite with her beloved, imitates him to distract his thoughts."
• The child too, using the devices of imitating attitudes, dress, and so on,
seeks to fascinate, until a magical intention, the father or mother and thus
"distract its thoughts." Identification means that one is abandoning
and not abandoning amorous desires. It is a lure which the child uses to
capture his parents and which, it must be admitted, they fall for. The same is
true for the masses, who imitate their leader, bear his name and repeat his
gestures. They bow to him, but at the same time they are unconsciously baiting
a trap to hold him. Great ceremonies and demonstrations are just as much
occasions when the multitudes charm the swered, apparently somewhat abashed.
One, however, was not enough, she went on; she required several planes, and a
helicopter, and her own personal pilot, a good one. He agreed to everything.
The leader of Indonesia seemed to be not just intimidated by Adams but totally
under her spell. He praised her intelligence and wit. At one point he confided,
"Do you know why I'm doing this biography? . . . Only because of you,
that's why." He paid attention to her clothes, complimenting her outfits,
noticing any change in them. He was more like a fawning suitor than the
"Hitler of Asia." Inevitably, of course, he made passes at her. She
was an attractive woman. First there was the hand on top of her hand, then a
stolen kiss. She spurned him every time,making it clear she was happily
married, but she was worried; if all he had wanted was an affair, the whole
book deal could fall apart. Once again, though, her straightforward strategy
seemed the right one. Surprisingly, he backed down without anger or resentment.
He promised that his affection for her would remain platonic. She had to admit
that he was not at all what she had expected, or what had been described to
her. Perhaps he liked being dominated by a woman. The interviews continued for
several months, and she noticed slight changes in him. She still addressed him
familiarly, spicing the conversation with brazen comments, but now he returned
them, delighting in this kind of saucy banter. He assumed the same lively mood
that she strategically forced on herself. At first he had dressed in military
uniform, or in his Italian suits. Now he dressed casually, even going barefoot,
conforming to the casual style of their relationship. One night he remarked
that he liked the color of her hair. It was Clairol, blue-black, she explained.
He wanted to have the same color; she had to bring him a bottle. She did as he
asked, imagining he was joking, but a few days later he requested her presence
at the palace to dye his hair for him. She did so, and now they had the exact
same hair color. leader as vice versa. The book, Sukarno: An Autobiography as
Told to Cindy Adams, was pub- -MOSCOVICI, THEAGE OF THE CROWD. My sixth
brother, he who had both his lips cut off, Prince of the Faithful, is called
Shakashik. • In his youth he was very poor. One day, as he was fished in 1965.
To American readers' surprise, Sukarno came across as remarkably charming and
lovable, which was indeed how Adams described him to one and all. If anyone
argued, she would say that they did not him the way she did. Sukarno was well
pleased, and had the book distributed far and wide. It helped gain sympathy for
him in Indonesia, where he was now being threatened with a military coup. And
Sukarno was not surprised-he had known all along that Adams would do a far
better job with his memoirs than any "serious" journalist. begging in
the streets of Baghdad, he passed by a splendid mansion, at the gates of which
stood an impressive array of attendants. Upon inquiry my brother was informed Interpretation.
Who was seducing whom? It was Sukarno who was doing the seducing, and his
seduction of Adams followed a classical sequence. First, he chose the right
victim. An experienced journalist would have resisted the lure of a personal
relationship with the subject, and a man would have been less susceptible to
his charm. And so he picked a woman, and Enter Their Spirit • 223 one whose
journalistic experience lay elsewhere. At his first meeting with Adams, he sent
mixed signals: he was friendly to her, but hinted at another kind of interest
as well. Then, having insinuated a doubt in her mind (Perhaps he just wants an
affair?), he proceeded to mirror her. He indulged her every mood, retreating
every time she complained. Indulging a person is a form of entering their
spirit, letting them dominate for the time being. Perhaps Sukarno's passes at
Adams showed his uncontrollable libido at work, or perhaps they were more
cunning. He had a reputation as a Don Juan; failing to make a pass at her would
have hurt her feelings. (Women are often less offended at being found
attractive than one imagines, and Sukarno was clever enough to have given each
of his four wives the impression that she was his favorite.) The pass out of
the way, he moved further into her spirit, taking on her casual air, even
slightly feminizing himself by adopting her hair color. The result was that she
decided he was not what she had expected or feared him to be. He was not in the
least threatening, and after all, she was the one in control. What Adams failed
to realize was that once her defenses were lowered, she was oblivious to how
deeply he had engaged her emotions. She had not charmed him, he had charmed
her. What he wanted all along was what he got: a personal memoir written by a
sympathetic foreigner, who gave the world a rather engaging portrait of a man
of whom many were suspicious. Of all the seductive tactics, entering someone's
spirit is perhaps the most devilish of all. It gives your victims the feeling
that they are seducing you. The fact that you are indulging them, imitating
them, entering their spirit, suggests that you are under their spell. You are
not a dangerous seducer to be wary of, but someone compliant and unthreatening.
The attention you pay to them is intoxicating-since you are mirroring them,
everything they see and hear from you reflects their own ego and tastes. What a
boost to their vanity. All this sets up the seduction, the series of maneuvers
that will turn the dynamic around. Once their defenses are down, they are open to
your subtle influence. Soon you will begin to take over the dance, and without
even noticing the shift, they will find themselves entering your spirit. This
is the endgame. Women are not at their ease except with those who take chances
with them, and enter into their spirit. -NINON DEL'ENCLOS Keys to Seduction O
ne of the great sources of frustration in our lives is other people's
stubbornness. How hard it is to reach them, to make them see thingsour way. We
often have the impression that when they seem to be listening to us, and
apparently agreeing with us, it is all superficial-the moment we are gone, they
revert to their own ideas. We spend our lives butting up that the house
belonged to a member of the wealthy and powerful Barmecide family. Shakashik approached
the doorkeepers and solicited alms. "Go in," they said, "and our
master will give you all that you desire." • My brother entered the lofty
vestibule and proceeded to a spacious, marble-paved hall, hung with tapestry
and overlooking a beautiful garden. He stood bewilderedfor a moment, not
knowing where to turn his steps, and then advanced to the far end of the hall.
There, among the cushions, reclined a handsome old man with a long beard, whom
my brother recognized at once as the master of the house. "What can I do
for you, my friend?" asked the old man, as he rose to welcome my brother.
• When Shakashik replied that he was a hungry beggar, the old man expressed the
deepest compassion and rent his fine robes, crying: "Is it possible that
there should be a man as hungry as yourself in a city where I am living? It is,
indeed, a disgrace that I cannot endure!" Then he comforted my brother,
adding: "I insist that you stay with me and partake of my dinner." •
With this the master of the house clapped his hands and called out to one of
the slaves: "Bring in the basin and ewer." Then he said to my
brother: "Come forward, my friend, and wash your hands." • Shakashik
rose to do so, but saw neither ewer nor basin. He was bewildered to see his
host make gestures as though he were pouring water on his hands from an
invisible vessel and then drying them with an invisible towel. When he
finished, the host called out to his attendants: "Bring in the
table!" • Numerous servants hurried in and out of the hall, as though they
were preparingfor a meal. against people, as if they were stone walls. But
instead of complaining about how misunderstood or ignored you are, why not try
something different: instead of seeing other people as spiteful or indifferent,
instead of trying to figure out why they act the way they do, look at them
through the eyes of the seducer. The way to lure people out of their natural
intractability and self-obsession is to enter their spirit. All of us are
narcissists. When we were children our narcissism was My brother could still
see nothing. Yet his host invited him to sit at the imaginary table, saying,
"Honor me by eating of this meat." • The old man moved his hands
about as though he were touching invisible dishes, and also moved his jaws and
lips as though he were chewing. Then said he to Shakashik: "Eat your fill,
my friend, for you must be famished." • My brother began to move his jaws,
to chew and swallow, as though he were eating, while the old man still coaxed
him, saying: "Eat, my friend, and note the excellence of this bread and
its whiteness. " • "This man," thought Shakashik, "must be
fond of practical jokes. " So he said, "It is, sir, the whitest bread
I have ever seen, and I have never tasted the like in all my life. " •
"This bread," said the host, "was baked by a slave girl whom I
bought for five hundred dinars." Then he called out to one of his slaves:
"Bring in the meat pudding, and let there be plenty of fat in it!" •
... Thereupon the host moved his fingers as though to pick up a morselfrom an
imaginary dish, and popped the invisible delicacy into my brother's mouth. •
The old man continued to enlarge upon the excellences of the various dishes,
while my brother became so ravenously hungry that he would have willingly died
physical: we were interested in our own image, our own body, as if it were a
separate being. As we grow older, our narcissism grows more psychological: we
become absorbed in our own tastes, opinions, experiences. A hard shell forms
around us. Paradoxically, the way to entice people out of this shell is to
become more like them, in fact a kind of mirror image of them. You do not have
to spend days studying their minds; simply conform to their moods, adapt to
their tastes, play along with whatever they send your way. In doing so you will
lower their natural defensiveness. Their sense of self-esteem does not feel
threatened by your strangeness or different habits. People truly love
themselves, but what they love most of all is to see their ideas and tastes
reflected in another person. This validates them. Their habitual insecurity
vanishes. Hypnotized by their mirror image, they relax. Now that their inner
wall has crumbled, you can slowly draw them out, and eventually turn the
dynamic around. Once they are open to you, it becomes easy to infect them with
your own moods and heat. Entering the other person's spirit is a kind of
hypnosis; it is the most insidious and effective form of persuasion known to
man. In the eighteenth-century Chinese novel The Dream of the Red Chamber, all
the young girls in the prosperous house of Chia are in love with the rakish Pao
Yu. He is certainly handsome, but what makes him irresistible is his uncanny
ability to enter a young girl's spirit. Pao Yu has spent his youth around
girls, whose company he has always preferred. As a result, he never comes over
as threatening and aggressive. He is granted entry to girls' rooms, they see
him everywhere, and the more they see him the more they fall under his spell.
It is not that Pao Yu is feminine; he remains a man, but one who can be more or
less masculine as the situation requires. His familiarity with young girls
allows him the flexibility to enter their spirit. This is a great advantage.
The difference between the sexes is what makes love and seduction possible, but
it also involves an element of fear and distrust. A woman may fear male
aggression and violence; a man is often unable to enter a woman's spirit, and
so he remains strange and threatening. The greatest seducers in history, from
Casanova to John F. Kennedy, grew up surrounded by women and had a touch of
femininity themselves. The philosopher Spren Kierkegaard, in his novel The
Seducer's Diary, recommends spending more time with the opposite sex, getting
to know the "enemy" and its weaknesses, so that you can turn this
knowledge to your advantage. Ninon de l'Enclos, one of the greatest
seductresses who ever lived, had definite masculine qualities. She could
impress a man with her intense philosophical keenness, and charm him by seeming
to share his interest in politics and warfare. Many men first formed deep
friendships with her, only to later fall madly in love. The masculine in a
woman is as soothing to men as the feminine in a man is to women. To a man, a
woman's strangeness can create frustration and even hostility. He may be lured
into a sexual encounter, but a longer-lasting spell cannot be created without
an accompanying mental seduction. The key is to enter his spirit. Men are often
seduced by the masculine element in a woman's behavior or character. In the
novel Clarissa (1748) by Samuel Richardson, the young and devout Clarissa
Harlowe is being courted by the notorious rake Lovelace. Clarissa knows
Lovelace's reputation, but for the most part he has not acted as she would
expect: he is polite, seems a little sad and confused. At one point she finds
out that he has done a most noble and charitable deed to a family in distress,
giving the father money, helping the man's daughter get married, giving them
wholesome advice. At last Lovelace confesses to Clarissa what she has
suspected: he wants to repent, to change his ways. His letters to her are
emotional, almost religious in their passion. Perhaps she will be the one to
lead him to righteousness? But of course Lovelace has trapped her: he is using
the seducer's tactic of mirroring her tastes, in this case her spirituality.
Once she lets her guard down, once she believes she can reform him, she is
doomed: now he can slowly insinuate his own spirit into his letters and
encounters with her. Remember: the operative word is "spirit," and
that is often exactly where to take aim. By seeming to mirror someone's
spiritual values you can seem to establish a deep-rooted harmony between the
two of you, which can then be transferred to the physical plane. When Josephine
Baker moved to Paris, in 1925, as part of an all-black revue, her exoticism
made her an overnight sensation. But the French are notoriously fickle, and
Baker sensed that their interest in her would quickly pass to someone else. To
seduce them for good, she entered their spirit. She learned French and began to
sing in it. She started dressing and acting as a stylish French lady, as if to
say that she preferred the French way of life to the American. Countries are
like people: they have vast insecurities, and they feel threatened by other
customs. It is often quite seductive to a people to see an outsider adopting
their ways. Benjamin Disraeli was born and lived all his life in England, but
he was Jewish by birth, and had exotic features; the provincial English
considered him an outsider. Yet he was more English in his manners and tastes
than many an Englishman, and this was part of his charm, which he proved by
becoming the leader of the Conservative Party. Should you be an outsider (as
most of us ultimately are), turn it to advantage: play on your alien nature in
such a way as to show the group how deeply you prefer their tastes and customs
to your own. In 1752, the notorious rake Saltykov determined to be the first
man in the Russian court to seduce the twenty-three-year-old grand duchess, the
future Empress Catherine the Great. He knew that she was lonely; her husband
Peter ignored her, as did many of the other courtiers. And yet the ob- Enter
Their Spirit • 225 for a crust of barley bread. • "Have you ever tasted
anything more delicious," went on the old man, "than the spices in
these dishes?" • "Never, indeed," replied Shakashik. • "Eat
heartily, then," said his host, "and do not be ashamed!" •
"I thank you, sir," answered Shakashik, "but I have already
eaten my fill. " • Presently, however, the old man clapped his hands again
and cried: "Bring in the wine!" "... "Sir," said
Shakashik, "your generosity overwhelms me!" He lifted the invisible
cup to his lips, and made as if to drain it at one gulp. • "Health and joy
to you!" exclaimed the old man, as he pretended to pour himself some wine
and drink it off. He handed another cup to his guest, and they both continued
to act in this fashion until Shakashik, feigning himself drunk, began to roll
his headfrom side to side. Then, taking his bounteous host unawares, he
suddenly raised his arm so high that the white of his armpit could be seen, and
dealt him a blow on the neck which made the hall echo with the sound. And this
he followed by a second blow. • The old man rose in anger and cried: "What
are you doing, vile creature?" • "Sir" replied my brother,
"you have received your humble slave into your house and loaded him with
your generosity; you havefed him with the choicestfood and quenched his thirst
with the most potent wines. Alas, he became drunk, and forgot his manners! But
you are so noble, sir, that you will 226 surely pardon his offence. " •
When he heard these words, the old man burst out laughing and said: "For a
long time I have jested with all types of men, but no one has ever had the
patience or the wit to enter into my humors as you have done. Now, therefore, I
pardon you, and ask you in truth to cat and drink with me, and to he my
companion as long as I live. " • Then the old man ordered his attendants
to serve all the dishes which they had consumed in fancy, and when he and my
brother had eaten their fill they repaired to the drinking chamber, where
beautiful young women sang and made music. The old Barmecide gave Shakashik a
robe of honor and made him his constant companion. - "THE TALE OF
SHAKASHIK, THE BARBER'S SIXTH BROTHER," TALES FROM THE THOUSAND AND ONE
NIGHTS. stacks were immense: she was spied on day and night. Still, Saltykov
managed to befriend the young woman, and to enter herall-too-small circle. He
finally got her alone, and made it clear to her how well he understood her
loneliness, how deeply he disliked her husband, and how much he shared her
interest in the new ideas that were sweeping Europe. Soon he found himself able
to arrange further meetings, where he gave her the impression that when he was
with her, nothing else in the world mattered. Catherine fell deeply in love
with him, and he did in fact become her first lover. Saltykov had entered her
spirit. When you mirror people, you focus intense attention on them. They will
sense the effort you are making, and will find it flattering. Obviously you
have chosen them, separating them out from the rest. There seems to be nothing
else in your life but them-their moods, their tastes, their spirit. The more
you focus on them, the deeper the spell you produce, and the intoxicating
effect you have on their vanity. Many of us have difficulty reconciling the
person we are right now with the person we want to be. We are disappointed that
we have compromised our youthful ideals, and we still imagine ourselves as that
person who had so much promise, but whom circumstances prevented from realizing
it. When you are mirroring someone, do not stop at the person they have become;
enter the spirit of that ideal person they wanted to be. This is how the French
writer Chateaubriand managed to become a great seducer, despite his physical
ugliness. When he was growing up, in the latter eighteenth century, romanticism
was coming into fashion, and many young women felt deeply oppressed by the lack
of romance in their lives. Chateaubriand would reawaken the fantasy they had
had as young girls of being swept off their feet, of fulfilling romantic
ideals. This form of entering another's spirit is perhaps the most effective
kind, because it makes people feel better about themselves. In your presence,
they live the life of the person they had wanted to be-a great lover, a
romantic hero, whatever it is. Discover those crushed ideals and mirror them,
bringing them back to life by reflecting them back to your target. Few can
resist such a lure. Symbol: The Hunter's Mirror. The lark is a savory bird, but
difficult to catch. In the field, the hunter places a mirror on a stand. The
lark lands in front of the glass, steps back and forth, entranced by its own
moving image and by the imitative mating dance it sees performed before its
eyes. Hypnotized, the bird loses all sense of its surroundings, until the
hunter's net traps it against the mirror. Enter Their Spirit • 227 Reversal I n
1897 in Berlin, the poet Rainer Maria Rilke, whose reputation would later
circle the world, met Lou Andreas-Salome, the Russianborn writer and beauty who
was notorious for having broken Nietzsche's heart. She was the darling of
Berlin intellectuals, and although Rilke was twenty-two and she was thirty-six,
he fell head over heels in love with her. He flooded her with love letters,
which showed that he had read all her books and knew her tastes intimately. The
two became friends. Soon she was editing his poetry, and he hung on her every
word. Salome was flattered by Rilke's mirroring of her spirit, enchanted by the
intense attention he paid her and the spiritual communion they began to
develop. She became his lover. But she was worried about his future; it was
difficult to make a living as a poet, and she encouraged him to learn her
native language, Russian, and become a translator. He followed her advice so
avidly that within months he could speak Russian. They visited Russia together,
and Rilke was overwhelmed by what he saw-the peasants, the folk customs, the
art, the architecture. Back in Berlin, he turned his rooms into a kind of
shrine to Russia, and started wearing Russian peasant blouses and peppering his
conversation with Russian phrases. Now the charm of his mirroring soon wore
off. At first Salome had been flattered that he shared her interests so
intensely, but now she saw this as something else: he seemed to have no real
identity. He had become dependent on her for his own self-esteem. It was all so
slavish. In 1899, much to his horror, she broke off the relationship. The
lesson is simple: your entry into a person's spirit must be a tactic, a way to
bring him or her under your spell. You cannot be simply a sponge, soaking up
the other person's moods. Mirror them for too long and they will see through
you and be repelled by you. Beneath the similarity to them that you make them
see, you must have a strong underlying sense of your own identity. When the
time comes, you will want to lead them into your spirit; you cannot live on
their turf. Never take mirroring too far, then. It is only useful in the first
phase of a seduction; at some point the dynamic must be reversed. This desire
for a double of the other sex that resembles us absolutely while still being
other, for a magical creature who is ourself while possessing the advantage,
over all our imaginings, of an autonomous existence. We find traces of it in
even the most banal circumstances of love: in the attraction linked to any change,
any disguise, as in the importance of unison and the repetition of self in the
other. The great, the implacable amorous passions are all linked to thefact
that a being imagines he sees his most secret self spying upon him behind the
curtain of another's eyes. -ROBERT MUSIL, QUOTED IN DENIS DE ROUGEMONT, LOVE
DECLARED Create Temptation Lure the target deep into your seduction by creating
the proper temptation: a glimpse of the pleasures to come. As the serpent
tempted Eve with the promise offorbidden knowledge, you must awaken a desire in
your targets that they cannot control. Find that weakness of theirs, that
fantasy that has yet to be realized, and hint that you can lead them toward it.
It could be wealth, it could be adventure, it could be forbidden and guilty
pleasures; the key is to keep it vague. Dangle the prize before their eyes,
postponing satisfaction, and let their minds do the rest. The future seems ripe
with possibility. Stimulate a curiosity stronger than the doubts and anxieties
that go with it, and they will follow you. The Tantalizing Object S ome time in
the 1880s, a gentleman named Don Juan de Todellas was wandering through a park
in Madrid when he saw a woman in her early twenties getting out of a coach,
followed by a two-year-old child and a nursemaid. The young woman was elegantly
dressed, but what took Don Juan's breath away was her resemblance to a woman he
had known nearly three years before. Surely she could not be the same person.
The woman he had known, Cristeta Moreruela, was a showgirl in a second-rate
theater. She had been an orphan and was quite poor-her circumstances could not
have changed that much. He moved closer: the same beautiful face. And For these
two crimes Tantalus was punished with the ruin of his kingdom and, after his
then he heard her voice. He was so shocked that he had to sit down: it was
dea,h Zeus ' s own hand indeed the same woman. Don Juan was an incorrigible
seducer, whose conquests were innumerable and of every variety. But he
remembered his affair with Cristeta quite clearly, because she had been so
young-the most charming girl he had ever met. He had seen her in the theater,
had courted her assiduously, and had managed to persuade her to take a trip
with him to a seaside town. Although they had separate rooms, nothing could
stop Don Juan: he made up a story about business troubles, gained her sympathy,
and in a tender moment took advantage of her weakness. A few days later he left
her, on the pretext that he had to attend to business. He believed he would
never see her again. Feeling a little guilty-a rare occurrence with him-he sent
her 5,000 pesetas, pretending he would eventually rejoin her. Instead he went
to Paris. He had only recently returned to Madrid. As he sat and remembered all
this, an idea troubled him: the child. with eternal torment in the company of
Ixion,Sisyphus, Tityus, the Danaids, and others. Now he hangs, perennially
consumed by thirst and hunger, from the bough of afruit tree which leans over a
marshy lake. Its waves lap against his waist, and sometimes reach his chin, yet
whenever he bends down to drink, they slip away, and nothing remains but the
black mud at his feet; or, if he ever succeeds in scooping up a handful of
water, it slips through his fingers before he can do Could the boy possibly be
his? If not, she must have married almost immediately after their affair. How
could she do such a thing? She was obviously wealthy now. Who could her husband
be? Did he know her past? Mixed with his confusion was intense desire. She was
so young and beautiful. Why had he given her up so easily? Somehow, even if she
was married, he had to more than wet his cracked lips, leaving him thirstier
than ever. The tree is laden with pears, shining apples, sweet figs, ripe
olives and pomegranates, which get her back. dangle against his shoulders; but
whenever he Don Juan began to frequent the park every day. He saw her a few
more reac hesfor the luscious times; their eyes met, but she pretended not to
notice him. Tracing the fruit, a gust of wind whirls nursemaid during one of
her errands, he struck up a conversation with her, ,hem ol " °f ,us reack
and asked her about her mistress's husband. She told him the man's name -robert
graves, the oreek was Senor Martinez, and that he was away on an extended
business trip; she also told him where Cristeta now lived. Don Juan gave her a
note to give to 231 232 Don Juan: Arminta, listen to the truth--for are not
women friends of truth? I am a nobleman, heir to the ancient family of the
Tenorios, the conquerors of Seville. After the king, my father is the most
powerful and considered man at court. ... By chance I happened on this road and
saw you. Love sometimes behaves in a manner that surprises even himself.
.Arminta: I don't know if what you're saying is truth or lying rhetoric. I am
married to Batricio, everybody knows it. How can the marriage be annulled, even
if he abandons me? • Don Juan: When the marriage is not consummated, whether by
malice or deceit, it can be annulled. Arminta: You are right. But, God help me,
won't you desert me the moment you have separated me from my husband? ..."
Don Juan: Arminta, light of my eyes, tomorrow your beautifulfeet will slip into
her mistress. Then he strolled by Cristeta's house-a beautiful palace. His
worst suspicions were confirmed: she had married for money. Cristeta refused to
see him. He persisted, sending more notes. Finally, to avoid a scene, she
agreed to meet him, just once, in the park. Heprepared for the meeting
carefully: seducing her again would be a delicate operation. But when he saw
her coming toward him, in her beautiful clothes, his emotions, and his lust,
got the better of him. She could only belong to him, never to another man, he
told her. Cristeta took offense at this; obviously her present circumstances
prevented even one more meeting. Still, beneath her coolness he could sense
strong emotions. He begged to see her again, but she left without promising
anything. He sent her more letters, meanwhile wracking his brains trying to
piece it all together: Who was this Senor Martinez? Why would he marry a
showgirl? How could Cristeta be wrested away from him? Finally Cristeta agreed
to meet Don Juan one more time, in the theater, where he dared not risk a
scandal. They took a box, where they could talk. She reassured him the child
was not his. She said he only wanted her now because she belonged to another,
because he could not have her. No, he said, he had changed; he would do
anything to get her back. Disconcertingly, at moments her eyes seemed to be
flirting with him. But then she seemed to be about to cry, and rested her head
on his shoulder-only to get up immediately, as if realizing this was a mistake.
This was their last meeting, she said, and quickly fled. Don Juan was beside
himself. She wasplaying with him; she was a coquette. He had only been claiming
to have changed, but perhaps it was true: no woman had ever treated him this
way before. He would never have allowed it. polished silver slippers with
buttons of the purest gold. And your alabaster throat will be imprisoned in
beautiful necklaces; on your fingers, rings set with amethysts will shine like
stars, andfrom your ears will da ngle orien tal pearls. • Arminta: I am yours.
-TIRSO DE MOLINA, THE PLAYBOY OF SEVILLE.
IN MANDEL, ED., THE THEATRE OF DON JUAN For the next few nights Don Juan
slept poorly. All he could think about was Cristeta. He had nightmares about
killing her husband, about growing old and being alone. It was all too much. He
had to leave town. He sent her a goodbye note, and to his amazement, she
replied: she wanted to see him, she had something to tell him. By now he was
too weak to resist. As she had requested, he met her on a bridge, at night.
This time she made no effort to control herself: yes, she still loved Don Juan,
and was ready to run away with him. But he should come to her house tomorrow,
in broad daylight, and take her away. There could be no secrecy. Beside himself
with joy, Don Juan agreed to her demands. The next day he showed up at her
palace at the appointed hour, and asked for Senora Martinez. There was no one
there by that name, said the woman at the door. Don Juan insisted: her name is
Cristeta. Ah, Cristeta, the woman said: she lives in the back, with the other
tenants. Confused, Don Juan went to Now the serpent was moresubtle than any
other wild creature that the LORD GOD had made. He said to the woman, "Did
God say, 'You shall not cat of the back of the palace. There he thought he saw
her son, playing in the street in dirty clothes. But no, he said to himself, it
must be some other child. He came to Cristeta's door, and instead of her
servant, Cristeta herself opened it. He entered. It was the room of a poor
person. Hanging on improvised racks, however, were Cristeta's elegant clothes.
As if in a dream, he sat down, dumbfounded, and listened as Cristeta revealed
the truth. Create Temptation • 233 She was not married, she had no child.
Months after he had left her, she had realized that she had been the victim of
a consummate seducer. She still loved Don Juan, but she was determined to turn
the tables. Finding out through a mutual friend that he had returned to Madrid,
she took the five thousand pesetas he had sent her and bought expensive
clothes. She borrowed a neighbor's child, asked the neighbor's cousin to play
the child'snursemaid, and rented a coach-all to create an elaborate fantasy
that existed only in his mind. Cristeta did not even have to lie: she never
actually said she was married or had a child. She knew that being unable to
have her would make him want her more than ever. It was the only way to seduce
a man like him. Overwhelmed by the lengths she had gone to, and by the emotions
she had so skillfully stirred in him, Don Juan forgave Cristeta and offered to
marry her. To his surprise, and perhaps to his relief, she politely declined.
The moment they married, she said, his eyes would wander elsewhere. Only if
they stayed as they were could she maintain the upper hand. Don Juan had no
choice but to agree. Interpretation. Cristeta and Don Juan are characters in
the novel Dulce y Sabrosa (Sweet and Savory, 1891), by the Spanish writer
Jacinto Octavio Picon. Most of Picon's work deals with male seducers and their
feminine victims, a subject he studied and knew much about. Abandoned by Don
Juan, and reflecting on his nature, Cristeta decided to kill two birds with one
stone: she would get revenge and get him back. But how could she lure such a
man? The fruit once tasted, he no longer wanted it. What came easily to him, or
fell into his arms, held no allure for him. What would tempt Don Juan into
desiring Cristeta again, into pursuing her, was the sense that she was already
taken, that she was forbidden fruit. That was his weakness-that was why he
pursued virgins and married women, women he was not supposed to have. To a man,
she reasoned, the grass always seems greener somewhere else. She would make
herself that distant, alluring object, just out of reach, tantalizing him,
stirring up emotions he could not control. He knew how charming and desirable
she had once been to him. The idea of possessing her again, and the pleasure he
imagined it would bring, were too much for him: he swallowed the bait.
Temptation is a twofold process. First you are coquettish, flirtatious; you
stimulate a desire by promising pleasure and distraction from daily life. At
the same time, you make it clear to your targets that they cannot have you, at
least not right away. You are establishing a barrier, some kind of tension. In
days gone by such barriers were easy to create, by taking advantage of
preexisting social obstacles-of class, race, marriage, religion. Today the
barriers have to be more psychological: your heart is taken by someone else;
you are really not interested in the target; some secret holds you back; the
timing is bad; you are not good enough for the other person; the other any tree
of the garden'?" And the woman said to the serpent, "We may eat of
the fruit of the trees of the garden; but God said, 'You shall not eat of the
fruit of the tree which is in the midst of the garden, neither shall you touch
it, lest you die.' " But the serpent said to the woman, "You will not
die. For God knows that when you eat of it your eyes will be opened, and you
will be like God, knowing good and evil. " So when the woman saw that the
tree was good for food, and that it was a delight to the eyes, and that the
tree was to be desired to make one wise, she took of its fruit and ate; and she
also gave some to her husband, and he ate. -GENESIS 3:1 , OLD TESTAMENT Thou
strong seducer, Opportunity. -JOHN DRYDEN As he listened, Masetto experienced
such a longing to go and stay with these nuns that his whole body tingled with
excitement, for it was clear from what he had heard that he should be able to
achieve what he had in mind. Realizing, however, that he would get nowhere by
revealing his intentions to Nuto, he replied: • "How right you were to
come away from the [nunnery]! What sort of a life can any man lead when he's
surrounded by a lot of women? He might as well be living with a pack of devils.
Why, six times out oj seven they don't even know their own minds." • But
when they 234 had finished talking, Masetto began to consider what steps he
ought to take so that he could go and stay with them. Knowinghimself to be
perfectly capable of carrying out the duties mentioned by Nuto, he had no
worries about losing the job on that particular score, but he was afraid lest
he should be turned down because of his youth and his unusually attractive
appearance. And so, having rejected a number of other possible expedients, he
eventually thought to himself: "The convent is a long way off, and there's
nobody there who knows me. If I can pretend to be dumb, they'll take me on for
sure." Clinging firmly to this conjecture, he therefore dressed himself in
pauper's rags and slung an ax over his shoulder, and without telling anyone
where he was going, he set outfor the convent. On his arrival, he wandered into
the courtyard, where as luck would have it he came across the steward, and with
the aid ofgestures such as dumb people use, he conveyed the impression that he
was beggingfor something to eat, in return for which he would attend to any
wood-chopping that needed to be done. • The steward gladly provided him with
something to eat, after which he presented him with a pile of logs that Nuto
had been unable to chop. Mow, when the steward had discovered what an excellent
gardener he was, he gestured to Masetto, asking him whether he would like to
stay there, and the latter made signs to indicate that he was willing to do whatever
the steward person is not good enough for you; and so on. Conversely, you can
choose someone who has a built-in barrier: they are taken, they are not meant
to want you. These barriers are more subtle than the social or religious
variety, but they are barriers nevertheless, and the psychology remains the
same. are perversely excited by what they cannot or should not have. Create
this inner conflict-there is excitement and interest, but you are
unavailable-and you will have them grasping like Tantalus for water. And with
Don Juan and Cristeta, the more you make your targets pursue you, the more they
imagine that it is they who are the aggressors. Your seduction is perfectly
disguised. The only way to get rid of temptation is to yield to it. -OSCAR WILDE.
Keys to Seduction M ost of the time, people struggle to maintain security and a
sense of balance in their lives. If they were always uprooting themselves in
pursuit of every new person or fantasy that passed them by, they could not
survive the daily grind. They usually win the struggle, but it does not come
easy. The world is full of temptation. They read about people who have more
than they do, about adventures others are having, about people who have found
wealth and happiness. The security that they strive for, and that they seem to
have in their lives, is actually an illusion. It covers up a constant tension.
As a seducer, you can never mistake people's appearance for reality. You know
that their fight to keep order in their lives is exhausting, and that they are
gnawed by doubts and regrets. It is hard to be good and virtuous, always having
to repress the strongest desires. With that knowledge in mind, seduction is
easier. What people want is not temptation; temptation happens every day. What
people want is to give into temptation, to yield. That is the only way to get
rid of the tension in their lives. It costs much more to resist temptation than
to surrender. Your task, then, is to create a temptation that is stronger than
the daily variety. It has to be focused on them, aimed at them as
individuals-at their weakness. Understand: everyone has a principal weakness,
from which others stem. Find that childhood insecurity, that lack in their
life, and you hold the key to tempting them. Their weakness may be greed,
vanity, boredom, some deeply repressed desire, a hunger for forbidden fruit.
They signal it in little details that elude their conscious control: their
style of clothing, an offhand comment. Their past, and particularly their past
romances, will be littered with clues. Give them a potent temptation, tailored
to their weakness, and you can make the hope of pleasure that you stir in them
figure more prominently than the doubts and anxieties that accompany it. In
1621, King Philip III of Spain desperately wanted to forge an al- Create
Temptation • 235 liance with England by marrying his daughter to the son of the
English king, James I. James seemed open to the idea, but he stalled for time.
Spain's ambassador to the English court, a man called Gondomar, was given the
task of advancing Philip's plan. He set his sights on the king's favorite, the
Duke (former Earl) of Buckingham. Gondomar knew the duke's main weakness:
vanity. Buckingham hungered for the glory and adventure that would add to his
fame; he was bored with his limited tasks, and he pouted and whined about this.
The ambassador first flattered him profusely-the duke was the ablest man in the
country and it was a shame he was given so little to do. Then, he began to
whisper to him of a great adventure. The duke, as Gondomar knew, was in favor
of the match with the Spanish princess, but these damned marriage negotiations
with King James were taking so long, and getting nowhere. What if the duke were
to accompany the king's son, his good friend Prince Charles, to Spain? Of
course, this would have to be done in secret, without guards or escorts, for
the English government and its ministers would never sanction such a trip. But
that would make it all the more dangerous and romantic. Once in Madrid, the
prince could throw himself at Princess Maria's feet, declare his undying love,
and carry her back to England in triumph. What a chivalrous deed it would be
and all for love. The duke would get all the credit and it would make his name
famous for centuries. The duke fell for the idea, and convinced Charles to go
along; after much arguing, they also convinced a reluctant King James. The trip
was a near disaster (Charles would have had to convert to Catholicism to win
Maria), and the marriage never happened, but Gondomar had done his job. He did
not bribe the duke with offers of money or power-he aimed at the childlike part
of him that never grew up. A child has little power to resist. It wants
everything, now, and rarely thinks of the consequences. A child lies lurking in
everyone-a pleasure that was denied them, a desire that was repressed. Hit at
that point, tempt them with the proper toy (adventure, money, fun), and they
will slough off their normal adult reasonableness. Recognize their weakness by
whatever childlike behavior they reveal in daily life-it is the tip of the
iceberg. Napoleon Bonaparte was appointed the supreme general of the French
army in 1796. His commission was to defeat the Austrian forces that had taken
over northern Italy. The obstacles were immense: Napoleon was only twenty-six
at the time; the generals below him were envious of his position and doubtful
of his abilities. His soldiers were tired, underfed, underpaid, and grumpy. How
could he motivate this group to fight the highly experienced Austrian army? As
he prepared to cross the Alps into Italy, Napoleon gave a speech to his troops
that may have been the turning point in his career, and in his life:
"Soldiers, you are half starved and half naked. The government owes you
much, but can do nothing for you. Your patience, your courage, do you honor,
but give you no glory. ... I will lead you into the most fertile plains of the
world. There you will find flourishing cities, teeming provinces. There you
will reap honor, glory, and wealth." The wanted. Now, one day, when
Masetto happened to he taking a rest after a spell of strenuous work, he was
approached by two very young nuns who were out walking in the garden. Since he
gave them the impression that he was asleep, they began to stare at him, and
the bolder of the two said to her companion: • "If I could be sure that
you would keep it a secret, I would tell you about an idea that has often
crossed my mind, and one that might well work out to our mutual benefit."
• "Do tell me," replied the other. "You can be quite certain
that I shan't talk about it to anyone. " • The bold one began to speak
more plainly. • "I wonder," she said, "whether you have ever
considered what a strict life we have to lead, and how the only men who ever
dare setfoot in this place are the steward, who is elderly, and this dumb
gardener of ours. Yet I have often heard it said, by of the ladies who have
come to visit us, that all other pleasures in the are mere trifles by
comparison with the one by a woman when she goes with a man. have thus been
thinking, since I have nobody else to hand, that I would like to discover with
the aid of this dumb fellow whether they are telling the truth. As it happens,
there couldn't be a better man for the , because even if he wanted to let the
cat out of the bag, he wouldn't be to. He wouldn't even know how to explain,
for you can see for yourself what a mentally retarded, dim-witted hulk of a
youth 236 the fellow is. I would be glad to know what you think of the
idea." • "Dear me!" said the other. "Don't you realize that
we have promised God to preserve our virginity?" • "Pah!" she
said. "We are constantly making Him promises that we never keep! What does
it matter if we fail to keep this one? He can always find other girls to
preserve their virginity for Him. " • . . . Before the time came for them
to leave, they had each made repeated trials of dumb fellow's riding ability,
and later on, when they were busily swapping tales about it all, they agreed
that it was every bit as pleasant an experience as they had been led to
believe, indeed more so. Andfrom then on, whenever the opportunity arose, they
whiled away many a pleasant hour in the dumb fellow's arms. • One day, however,
a companion of theirs happened to look out from the window of her cell, saw the
goings-on, and drew the attention of two others what was afoot. Having talked
the matter over between themselves, they at first decided to report the pair to
the abbess. But then they changed their minds, and by common agreement with the
other two, they took up shares in Masetto's holding. And because of various
indiscretions, these five were subsequently joined by the remaining three, one
after the other. • Finally, the abbess, who was still unaware of all this, was
taking a stroll one very hot day in the garden, all by herself when she came
across Masetto stretched out fast asleep in the shade of an almond speech had a
powerful effect. Days later these same soldiers, after a rough climb over the
mountains, gazed down on the Piedmont valley. Napoleon s words echoed in their
ears, and a ragged, grumbling gang became an inspired army that would sweep
across northern Italy in pursuit of the Austrians. Napoleon's use of temptation
had two elements: behind you is a grim past; ahead of you is a future of
wealthand glory, (/you follow me. Integral to the temptation strategy is a
clear demonstration that the target has nothing to lose and everything to gain.
The present offers little hope, the future can be full of pleasure and
excitement. Remember to keep the future gains vague, though, and somewhat out
of reach. Be too specific and you will disappoint; make the promise too close
at hand, and you will not be able to postpone satisfaction long enough to get
what you want. The barriers and tensions in temptation are there to stop people
from giving in too easily and too superficially. You want them to struggle, to
resist, to be anxious. Queen Victoria surely fell in love with her prime
minister, Benjamin Disraeli, but there were barriers of religion (he was a
dark-skinned Jew), class (she, of course, was a queen), social taste (she was a
paragon of virtue, he a notorious dandy). The relationship was never
consummated, but what deliciousness those barriers gave to their daily
encounters, which were full of constant flirtation. Many such social barriers
are gone today, so they have to be manufactured-it is the only way to put spice
into seduction. Taboos of any kind are a source of tension, and they are
psychological now, not religious. You are looking for some repression, some
secret desire that will make your victim squirm uncomfortably if you hit upon
it, but will tempt them all the more. Search in their past; whatever they seem
to fear or flee from might hold the key. It could be a yearning for a mother or
father figure, or a latent homosexual desire. Perhaps you can satisfy that
desire by presenting yourself as a masculine woman or a feminine man. For
others you play the Lolita, or the daddd-someone they are not supposed to have,
the dark side of their personality. Keep the connection vague-you want them to
reach for something elusive, something that comes out of their own mind. In
London in 1769, Casanova met a young woman named Charpillon. She was much
younger than he, as beautiful a woman as he had ever known, and with a
reputation for destroying men. In one of their first encounters she told him
straight out that he would fall for her and she would ruin him. To everyone's
disbelief, Casanova pursued her. In each encounter she hinted she might give
in-perhaps the next time, if he was nice to her. She inflamed his
curiosity-what pleasure she would yield; he would be the first, he would tame
her. "The venom of desire penetrated my whole being so completely,"
he later wrote, "that had she so wished it, she could have despoiled me of
everything I possessed. I would have beggared myself for one little kiss."
This "affair" indeed proved his ruin; she humiliated him. Charpillon
had rightly gauged that Casanova's primary weakness was his Create Temptation •
237 need for conquest, to overcome challenge, to taste what no other man had
tasted. Beneath this was a kind of masochism, a pleasure in the pain a woman
could give him. Playing the impossible woman, enticing and then frustrating
him, she offered the ultimate temptation. What will often do the trick is to
give the target the sense that you are a challenge, a prize to be won. In
possessing you they will get what no other has had. They may even get pain; but
pain is close to pleasure, and offers its own temptations. In the Old Testament
we read that "David arose from his couch and was walking upon the roof of
the king's house . . . [and] he saw from the roof a woman bathing; and the
woman was very beautiful." The woman was Bathsheba. David summoned her,
seduced her (supposedly), then proceeded to get rid of her husband, Uriah, in
battle. In fact, however, it was Bathsheba who had seduced David. She bathed on
her roof at an hour when she knew he would be standing on his balcony. After
tempting a man she knew had a weakness for women, she played the coquette,
forcing him to come after her. This is the opportunity strategy: give someone
weak the chance to have what they lust after by merely placing yourself within
their reach, as if byaccident. Temptation is often a matter of timing, of
crossing the path of the weak at the right moment, giving them the opportunity
to surrender. Bathsheba used her entire body as a lure, but it is often more
effective to use only a part of the body, creating a fetishlike effect. Madame
Re- camier would let you glimpse her body beneath the sheer dresses she wore,
but only briefly, when she took off her overgarment to dance. Men would leave
that evening dreaming of what little they had seen. Empress Josephine made a
point of baring her beautiful arms in public. Give the target only a part of
you to fantasize about, thereby creating a constant temptation in their mind.
Symbol: The Apple in the Garden of Eden. The fruit looks deeply inviting, and
you are not supposed to eat of it; it is forbidden. But that is precisely why
you think of it day and night. You see it but cannot have it. And the only way
to get rid of this temptatree. Too much riding by night had left him with very
little strengthfor the day's labors, and so there he lay, with his clothes
ruffled up in front by the wind, leaving him all exposed. Finding herself
alone, the lady stood with her eyes riveted to this spectacle, and she was
seized by the same craving to which her young charges had already succumbed.
So, having roused Masetto, she led him away to her room, where she kept him for
several days, thus provoking bitter complaints from the nuns over the fact that
the handyman had suspended work in the garden. Before sending him back to his
own quarters, she repeatedly savored the one pleasure for which she had always
reserved her most fierce disapproval, and from then on she demanded regular
supplementary allocations, amounting to considerably more than her fair share.
-BOCCACCIO, THE DECAMERON tion is to
yield and taste the fruit. 238 Reversal T he reverse of temptation is security
or satisfaction, and both are fatal to seduction. If you cannot tempt someone
out of their habitual comfort, you cannot seduce them. If you satisfy the
desire you have awakened, the seduction is over. There is no reversal to
temptation. Although some stages can be passed over, no seduction can proceed
without some form of temptation, so it is always better to plan it carefully,
tailoring it to the weakness and childishness in your particular target. Phase
Two Lead Astray - Creating Pleasure and Confusion Your victims are sufficiently
intrigued and their desire for you is growing, but their attachment is weak and
at any moment they could decide to turn back. The goal in this phase is to lead
your victims so far astray-keeping them emotional and confused, giving them
pleasure but making them want more-that retreat is no longer possible.
Springing on them a pleasant surprise will make them see you as delightfully
unpredictable, but will also keep them off balance (9: Keep them in
suspense-what comes next?). The artful use of soft and pleasant words will
intoxicate them and stimulate fantasies (10: Use the demonic power of words to
sow confusion). Aesthetic touches and pleasant little rituals will titillate their
senses, distract their minds (11: Pay attention to detail). Your greatest
danger in this phase is the mere hint of routine orfamil- iarity. You need to
maintain some mystery, to keep a little distance so that in your absence your
victims become obsessed with you (12: Poeticize your presence). They may
realize they are falling for you, but they must never suspect how much of this
has come from your manipulations. A well-timed display of your weakness, of how
emotional you have become under their influence will help cover your tracks
(13: Disarm through strategic weakness and vulnerability). To excite your
victims and make them highly emotional, you must give them thefeeling that they
are actually living some of the fantasies you have stirred in their imagination
(14: Confuse desire and reality). By giving them only a part of the fantasy,
you will keep them coming backfor more. Focusing your attention on them so that
the rest of the world fades away, even taking them on a trip, will lead them
far astray (15: Isolate your victim). There is no turning back. 9 Keep Them in
Suspense- What Comes Next? The moment people feel they know what to expect from
you, your spell on them is broken. More: you have ceded them power. The only
way to lead the seduced along and keep the upper hand is to create suspense, a
calculated surprise. People love a mystery, and this is the key to luring them
further into your web. Behave in a way that leaves them wondering, What are you
up to? Doing something they do not expectfrom you will give them a delightful
sense of spontaneity-they will not be able tofore- see what comes next. You are
always one step ahead and in control. Give the victim a thrill with a sudden
change of direction.The Calculated Surprise I n 1753, the twenty-eight-old
Giovanni Casanova met a young girlnamed Caterina with whom he fell in love. Her
father knew what kind of man Casanova was, and to prevent some mishap before he
could marry her off, he sent her away to a convent on the Venetian island of
Murano, where she was to remain for four years. Casanova, however, was not one
to be daunted. He smuggled letters to Caterina. He began to attend Mass at the
convent several times a week, catching glimpses of her. The nuns began to talk
among themselves: who was this handsome young man who appeared so often? One
morning, as Casanova, leaving Mass, was about to board a gondola, a servant
girl from the convent passed by and dropped a letter at his feet. Thinking it
might be from Caterina, he picked it up. It was indeed intended for him, but it
was not from Caterina; its author was a nun at the convent, who had noticed him
on his many visits and wanted to make his acquaintance. Was he interested? If
so, he should come to the convent's parlor at a particular time, when the nun
would be receiving a visitor from the outside world, a friend of hers who was a
countess. He could stand at a distance, observe her, and decide whether she was
to his liking. Casanova was most intrigued by the letter: its style was
dignified, but there was something naughty about it as well-particularly from a
nun. He had to find out more. At the appointed day and time, he stood to the
side in the convent parlor and saw an elegantly dressed woman talking with a
nun seated behind a grating. He heard the nun's name mentioned, and was
astonished: it was Mathilde M., a well-known Venetian in her early twenties,
whose decision to enter a convent had surprised the whole city. But what
astonished him most was that beneath her nun's habit, he could see that she was
a beautiful young woman, particularly in her eyes, which were a brilliant blue.
Perhaps she needed a favor done, and intended that he would serve as her
cat's-paw. His curiosity got the better of him. A few days later he returned to
the convent and asked to see her. As he waited for her, his heart was beating a
mile a minute-he did not know what to expect. She finally appeared and sat down
behind the grating. They were alone in the room, and she said that she could
arrange for them to have supper together at a little villa nearby. Casanova was
delighted, but wondered what kind of nun he was dealing with. "And-have
you no lover but me?" he asked. "I have a I count upon taking [the
French people ] by surprise. A bold deed upsets people's equanimity, and they
are dumbfounded by a great novelty. -NAPOLEON BONAPARTE, QUOTED IN EMIL LUDWIG,
NAPOLEON. PAUL The first care of any dandy is to never do what one expects them
to do, to always go beyond. The unexpected can be nothing more than a gesture,
but a gesture that is totally uncommon. Alcibiades cut off the tail of his dog
in order to surprise people. When he saw the looks on his friends as they gazed
upon the mutilated animal, he said: "Ah, that is precisely what I wanted
to happen: as long as the Athenians gossip about this, they will not say
anything worse about me." • Attracting attention is not the only goal of a
dandy, he wants to hold it by unexpected, even ridiculous means. After
Alcibiades, how many apprentice dandies cut off the tails of their dogs! The
243 244 baron of Saint-Cricq, for example, with his ice cream boots: one very
hot day, he ordered at Tortonis two ice creams, the vanilla served in his right
boot, the strawberry in his left boot. . . . The Count Saint-Germain loved to
bring his friends to the theater, in his voluptuous carriage lined in pink
satin and drawn by two black horses with enormous tails; he asked his friends
in that inimitable tone of his: "Which piece of entertainment did you wish
to see? Vaudeville, the Variety show, the Palais- Royal theater? I took the
liberty of purchasing a box for all three of them." Once the choice was
made, with a look of great disdain, he would take the unused tickets, roll them
up, and use them to light his cigar. - MAUD DE BELLEROCHE, DU DANDYAU PLAY-BOY
While Shahzaman sat at one of the windows overlooking the king's garden, he saw
a door open in the palace, through which came twenty slave girls and twenty
negroes. In their midst was his brother's [King Shahriyar's] queen, a woman of
surpassing beauty. They made their waytothe fountain, wherethey all undressed
and sat on the grass. The king's wife then called out: "Come
Mass'ood!" and there promptly came to her a black slave, who mounted her
after smothering her with embraces and kisses. So also did the negroes with the
slave girls, reveling together till the approach of night. And so friend, who is also absolutely my
master," she replied. "It is to him I owe my wealth." She asked
if he had a lover. Yes, he replied. She then said, in a mysterious tone,
"I warn you that if you once allow me to take her place in your heart, no
power on earth can tear me from it." She then gave him the key to the
villa and told him to meet her there in two nights. He kissed her through the
grating and left in a daze. "I passed the next two days in a state of
feverish impatience," he wrote, "which prevented me from sleeping or
eating. Over and above birth, beauty, and wit, my new conquest possessed an
additional charm: she was forbidden fruit. I was about to become a rival of the
Church." He imagined her in her habit, and with her shaven head. He
arrived at the villa at the appointed hour. Mathilde was waiting for him. To
his surprise, she wore an elegant dress, and somehow she had avoided having her
head shaved, for her hair was in a magnificent chignon. Casanova began to kiss
her. She resisted, but only slightly, and then pulled back, saying a meal was
ready for them. Over dinner she filled in a few more of the gaps: her money
allowed her to bribe certain people, so that she could escape from the convent
every so often. She had mentioned Casanova to her friend and master, and he had
approved their liaison. He must be old? Casanova asked. No, she replied, a
glint in her eye, he is in his forties, and quite handsome. After supper, a
bell rang-her signal to hurry back to the convent, or she would be caught. She
changed back into her habit and left. A beautiful vista now seemed to stretch
before Casanova, of months spent in the villa with this delightful creature,
all of it courtesy of the mysterious master who paid for it all. He soon
returned to the convent to arrange the next meeting. They would rendezvous in a
square in Venice, then retire to the villa. At the appointed time and place,
Casanova saw a man approach him. Fearing it was her mysterious friend, or some
other man sent to kill him, he recoiled. The man circled behind him, then came
up close: it was Mathilde, wearing a mask and men's clothes. She laughed at the
fright she had given him. What a devilish nun. He had to admit that dressed as
a man she excited him even more. Casanova began to suspect that all was not as
it seemed. For one, he found a collection of libertine novels and pamphlets in
Mathilde's house. Then she made blasphemous comments, for example about the joy
they would have together during Lent, "mortifying their flesh." Now
she referred to her mysterious friend as her lover. A plan evolved in his mind
to take her away from this man and from the convent, eloping with her and
possessing her himself. A few days later he received a letter from her, in
which she made a confession: during one of their more passionate trysts at the
villa, her lover had hidden in a closet, watching the whole thing. The lover,
she told him, was the French ambassador to Venice, and Casanova had impressed
him. Casanova was not one to be fooled with like this, yet the next day he was
back at the convent, submissively arranging for another tryst. This time she
showed up at the hour they had named, and he embraced her-only to Keep Them in
Suspense-What Comes Next? • 245 find that he was embracing Caterina, dressed up
in Mathilde's clothes. Mathilde had befriended Caterina and learned her story.
Apparently taking pity on her, she had arranged it so that Caterina could leave
the convent for the evening, and meet up with Casanova. Only a few months
before Casanova had been in love with this girl, but he had forgotten about
her. Compared to the ingenious Mathilde, Caterina was a simpering bore. He
could not conceal his disappointment. He burned to see Mathilde. Casanova was
angry at the trick Mathilde had played. But a few days later, when he saw her
again, all was forgiven. As she had predicted during their first interview, her
power over him was complete. He had become her slave, addicted to her whims,
and to the dangerous pleasures she offered. Who knows what rash act he might
have committed on her behalf had their affair not been cut short by
circumstance. Interpretation. Casanova was almost always in control in his
seductions. He was the one who led, taking his victim on a trip to an unknown
destination, luring her into his web. In all of his memoirs the story of
Mathilde is the only seduction in which the tables are happily turned: he is
the seduced, the bewildered victim. What made Casanova Mathilde's slave was the
same tactic he had used on countless girls: the irresistible lure of being led
by another person, the thrill of being surprised, the power of mystery. Each
time he left Mathilde his head was spinning with questions. Her ability to go on
surprising him kept her always in his mind, deepening her spell and blotting
Caterina out. Each surprise was carefully calculated for the effect it would
produce. The first unexpected letter piqued his curiosity, as did that first
sight of her in the waiting room; suddenly seeing her dressed as an elegant
woman stirred intense desire; then seeing her dressed as a man intensified the
excitingly transgressive nature of their liaison. The surprises put him off
balance, yet left him quivering with anticipation of the next one. Even an
unpleasant surprise, such as the encounter with Caterina that Mathilde had set
up, kept him emotional and weak. Meeting the somewhat bland Caterina at that
moment only made him long that much more for Mathilde. In seduction, you need
to create constant tension and suspense, a feeling that with you nothing is
predictable. Do not think of this as a painful challenge. You are creating
drama in real life, so pour your creative energies into it, have some fun.
There are all kinds of calculated surprises you can spring on your
victims-sending a letter from out of the blue, showing up unexpectedly, taking
them to a place they have never been. But best of all are surprises that reveal
something new about your character. This needs to be set up. In those first few
weeks, your targets will tend to make certain snap judgments about you, based
on appearances. Perhaps they see you as a bit shy, practical, puritanical. You
know that this is not the real you, but it is how you act in social situations.
Let them, however, have these impressions, and in fact accentuate them a
little, without overacting: for instance.Shahzamanrelated to [his brother King
Shahriyar] all that he had seen in the king's garden that day. Upon this
Shahriyar announced his intention to set forth on another expedition. The
troops went out of the city with the tents, and King Shahriyar followed them.
And after he had stayed a while in the camp, he gave orders to his slaves that
no one was to be admitted to the king's tent. He then disguised himself and
returned unnoticed to the palace, where his brother was waiting for him. They
both sat at one of the windows overlooking the garden; and when they had been
there a short time, the queen and her women appeared with the black slaves, and
behaved as Shahzaman had described. .As soon as they entered the palace, King
Shahriyar put his wife to death, together with her women and the black slaves.
Thenceforth he made it his custom to take a virgin in marriage to his bed each
night, and kill her the next morning. This he continued to do for three years,
until a clamor rose among the people, some of whom fled the country with their
daughters. • Now the vizier had two daughters. The elder was called Shahrazad,
and the younger Dunyazad. Shahrazad possessed many accomplishments and was
versed in the wisdom of the poets and the legends of ancient kings. • That day
Shahrazad noticed her father's anxiety and asked him what it was that troubled
him. When the vizier told her of his predicament, she said: "Give me in
marriage to 246 this king; either I shall die and be a ransom for the daughters
of Moslems, or live and be the cause of their deliverance." He earnestly
pleaded with her against such a hazard; but Shahrazad was resolved, and would
not yield to her father's entreaties. . . . • So the vizier arrayed his
daughter in bridal garments and decked her with jewels and made ready to
announce Shahrazad's wedding to the king. • Before saying farewell to her
sister, Shahrazad gave her these instructions: "When I am received by the
king, I shall send for you. Then when the king has finished his act with me,
you must say: 'Tell me, my sister, some tale of marvel to beguile the night.'
Then I will tell you a tale which, if Allah wills, shall be the means of our
deliverance. " • The vizier went with his daughter to the king. And when
the king had taken the maiden Shahrazad to his chamber and had lain with her,
she wept and said: "I have a young sister to whom I wish to bid
farewell." • The king sent for Dunyazad. When she arrived, she threw her
arms around her sister's neck, and seated herself by her side. • Then Dunyazad
said to Shahrazad: "Tell us, my sister, a tale of marvel, so that the
night may pass pleasantly." • "Gladly," she answered, "if
the king permits. " • And the king, who was troubled with sleeplessness,
eagerly listened to the tale of Shahrazad: Once upon the time, in the city of
Basrah, there lived a prosperous tailor who was fond of sport and merriment.
..." [Nearly seem a little more reserved than usual. Now you have room to
suddenly surprise them with some bold or poetic or naughty action. Once they
have changed their minds about you, surprise them again, as Mathilde did with
Casanova-first a nun who wants an affair, then a libertine, then a seductress
with a sadistic streak. As they strain to figure you out, they will be thinking
about you all of the time, and will want to know more about you. Their
curiosity will lead them further into your web, until it is too late for them
to turn back. This is always the law for the interesting. . . . If one just
knows how to surprise, one always wins the game. The energy of the person
involved is temporarily suspended; one makes it impossible for her to act.
-S0REN KIERKEGAARD Keys to Seduction A child is usually a willful, stubborn
creature who will deliberately do the opposite of what we ask. But there is one
scenario in which children will happily give up their usual willfulness: when
they are promised a surprise. Perhaps it is a present hidden in a box, a game
with an unforeseeable ending, a journey with an unknown destination, a
suspenseful story with a surprise finish. In those moments when children are
waiting for a surprise, their willpower is suspended. They are in your thrall
for as long as you dangle possibility before them. This childish habit is
buried deep within us, and is the source of an elemental human pleasure: being
led by a person who knows where they are going, and who takes us on a journey.
(Maybe our joy in being carried along involves a buried memory of being
literally carried, by a parent, when we are small.) We get a similar thrill
when we watch a movie or read a thriller: we are in the hands of a director or
author who is leading us along, taking us through twists and turns. We stay in
our seats, we turn the pages, happily enslaved by the suspense. It is the
pleasure a woman has in being led by a confident dancer, letting go of any
defensiveness she may feel and letting another person do the work. Falling in
love involves anticipation; we are about to head off in a new direction, enter
a new life, where everything will be strange. The seduced wants to be led, to
be carried along like a child. If you are predictable, the charm wears off;
everyday life is predictable. In the Arabian Talesfrom the Thousand and One
Nights, each night King Shahriyar takes a virgin as his wife, then kills her
the following morning. One such virgin, Shahrazad, manages to escape this fate
by telling the king a story that can only be completed the following day. She
does this night after night, keeping the king in constant suspense. When one
story finishes, she quickly starts up another. She does this for nearly three
years, until the king finally decides to spare her life. You are like
Shahrazad: with- Keep Them in Suspense-What Comes Next? • 247 out new stories,
without a feeling of anticipation, your seduction will die. Keep stoking the
fires night after night. Your targets must never know what's coming next-what
surprises you have in store for them. As with King Shahriyar, they will be
under your control for as long as you can keep them guessing. In 1765, Casanova
met a young Italian countess named Clementina who lived with her two sisters in
a chateau. Clementina loved to read, and had little interest in the men who
swarmed around her. Casanova added himself to their number, buying her books,
engaging her in literary discussions, but she was no less indifferent to him
than she had been to them. Then one day he invited the entire family on a
little trip. He would not tell them where they were going. They piled into the
carriage, all the way trying to guess their destination. A few hours later they
entered Milan-what joy, the sisters had never been there. Casanova led them to
his apartment, where three dresses had been laid out-the most magnificent
dresses the girls had ever seen. There was one for each of the sisters, he told
them, and the green one was for Clementina. Stunned, she put it on, and her
face lit up. The surprises did not stop-there was a delicious meal, champagne,
games. By the time they returned to the chateau, late in the evening,
Clementina had fallen hopelessly in love with Casanova. The reason was simple:
surprise creates a moment when people's defenses come down and new emotions can
rush in. If the surprise is pleasurable, the seductive poison enters their
veins without their realizing it. Any sudden event has a similar effect,
striking directly at our emotions before we get defensive. Rakes know this
power well. A young married woman in the court of Louis XV, in eighteenth-
century France, noticed a handsome young courtier watching her, first at the
opera, then in church. Making inquiries, she found it was the Due de Richelieu,
the most notorious rake in France. No woman was safe from this man, she was
warned; he was impossible to resist, and she should avoid him at all costs.
Nonsense, she replied, she was happily married. He could not possibly seduce
her. Seeing him again, she laughed at his persistence. He would disguise
himself as a beggar and approach her in the park, or his coach would suddenly
come alongside hers. He was never aggressive, and seemed harmless enough. She
let him talk to her at court; he was charming and witty, and even asked to meet
her husband. The weeks passed, and the woman realized she had made a mistake:
she looked forward to seeing the marquis. She had let down her guard. This had
to stop. Now she started avoiding him, and he seemed to respect her feelings:
he stopped bothering her. Then one day, weeks later, she was at the country
manor of a friend when the marquis suddenly appeared. She blushed, trembled,
walked away, but his unexpected appearance had caught her unawares-it had
pushed her over the edge. A few days later she became another of Richelieu's
victims. Of course he had set the whole thing up, including the supposed
surprise encounter. Not only does suddenness create a seductive jolt, it
conceals manipula- three years pass.] Now during this time Shahrazad had borne
King Shahriyar three sous. On the thousand and first night, when she had ended
the tale of Ma'aruf she rose and kissed the ground before him, saying:
"Great King, for a thousand and one nights I have been recounting to you
the fables of past ages and the legends of ancient kings. May I be so bold as
to crave a favor of your majesty?" • The king replied: "Ask, and it
shall be granted. " • Shahrazad called out to the nurses, saying:
"Bring me my children. " "Behold these three [little boys] whom
Allah has granted to us. For their sake I implore you to spare my life. For if
you destroy the mother of these infants, they will find none among women to
love them as I would." • The king embraced his three sous, and his eyes
filled with tears as he answered: "I swear by Allah, Shahrazad, that you
were already pardoned before the coming of these children. I loved you because
I found you chaste and tender, wise and eloquent. May Allah bless you, and
bless your father and mother, your ancestors, and all your descendants. O,
Shahrazad, this thousand and first night is brighter for us than the day!"
-TALES FROM THE THOUSAND AND ONE NIGHTS. tions. Appear somewhere unexpectedly,
say or do something sudden, and people will not have time to figure out that
your move was calculated. Take them to some new place as if it only just
occurred to you, suddenly reveal some secret. Made emotionally vulnerable, they
will be too bewildered to see through you. Anything that happens suddenly seems
natural, and anything that seems natural has a seductive charm. Only months
after arriving in Paris in 1926, Josephine Baker had completely charmed and
seduced the French public with her wild dancing.But less than a year later she
could feel their interest wane. Since childhood she had hated feeling out of
control of her life. Why be at the mercy of the fickle public? She left Paris
and returned a year later, her manner completely altered-now she played the
part of an elegant Frenchwoman, who happened to be an ingenious dancer and
performer. The French fell in love again; the power was back on her side. If
you are in the public eye, you must learn from this trick of surprise. People
are bored, not only with their own lives but with people who are meant to keep
them from being bored. The minute they feel they can predict your next step,
they will eat you alive. The artist Andy Warhol kept moving from incarnation to
incarnation, and no one could predict the next one-artist, filmmaker, society
man. Always keep a surprise up your sleeve. To keep the public's attention,
keep them guessing. Let the moralists accuse you of insincerity, of having no
core or center. They are actually jealous of the freedom and playfulness you
reveal in your public persona. Finally, you might think it wiser to present
yourself as someone reliable, not given to caprice. If so, you are in fact
merely timid. It takes courage and effort to mount a seduction. Reliability is
fine for drawing people in, but stay reliable and you stay a bore. Dogs are
reliable, a seducer is not. If, on the other hand, you prefer to improvise,
imagining that any kind of planning or calculation is antithetical to the
spirit of surprise, you are making a grave mistake. Constant improvisation
simply means you are lazy, and thinking only about yourself. What often seduces
a person is the feeling that you have expended effort on their behalf. You do
not need to trumpet this too loudly, but make it clear in the gifts you make,
the little journeys you plan, the little teases you lure people with. Little
efforts like these will be more than amply rewarded by the conquest of the
heart and willpower of the seduced. Symbol: The Roller Coaster. The car rises
slowly to the top, then suddenly hurtles you into space, whips you to the side,
throws you upside down, in every possible direction. The riders laugh and scream.
What thrills them is to let go, to grant control to someone else, who propels
them in unexpected directions. What new thrill awaits them around the next
corner ? Keep Them in Suspense-What Comes Next? • 249 Reversal S urprise can be
unsurprising if you keep doing the same thing again and again. Jiang Qing would
try to surprise her husband Mao Zedong with sudden changes of mood, from
harshness to kindness and back. At first he was captivated; he loved the
feeling of never knowing what was coming. But it went on for years, and was
always the same. Soon, Madame Mao's supposedly unpredictable mood swings just
annoyed him. You need to vary the method of your surprises. When Madame de
Pompadour was the lover of the inveterately bored King Louis XV, she made each
surprise different- a new amusement, a new game, a new fashion, a new mood. He
could never predict what would come next, and while he waited for the next
surprise, his willpower was temporarily suspended. No man was ever more of a
slave to a woman than was Louis to Madame de Pompadour. When you change
direction, make the new direction truly new. 10 Use the Demonic Power of Words
to Sow Confusion nis hard to make people listen; they are consumed with their
own thoughts and desires, and have little timefor yours. The trick to making
them listen is to say what they want to hear, to fill their ears with whatever
is pleasant to them. This is the essence of seductive language. Inflame
people's emotions with loaded phrases, flatter them, comfort their insecurities,
envelop them infantasies, sweet words, and promises, and not only will they
listen to you, they will lose their will to resist you. Keep your language
vague, letting them read into it what they want. Use writing to stir
upfantasies and to create an idealized portrait of yourself. Seductive Oratory
O n May 13, 1958, right-wing Frenchmen and their sympathizers in the army
seized control of Algeria, which was then a French colony. They had been afraid
that France's socialist government would grant Algeria its independence. Now,
with Algeria under their control, they threatened to take over all of France.
Civil war seemed imminent. At this dire moment all eyes turned to General
Charles de Gaulle, the World War II hero who had played a crucial role in
liberating France from the Nazis. For the last ten years de Gaulle had stayed
away from politics, disgusted with the infighting among the various parties. He
remained very popular, and was generally seen as the one man who could unite
the country, but he was also a conservative, and the right-wingers felt certain
that if he came to power he would support their cause. Days after the May 13
coup, the French government-the Fourth Republic-collapsed, and the parliament
called on de Gaulle to help form a new government, the Fifth Republic. He asked
for and was granted full powers for four months. On June 4, days after becoming
the head of government, de Gaulle flew to Algeria. The French colonials were
ecstatic. It was their coup that had indirectly brought de Gaulle to power;
surely, they imagined, he was coming to thank them, and to reassure them that
Algeria would remain French. When he arrived in Algiers, thousands of people
filled the city's main plaza. The mood was extremely festive-there were
banners, music, and endless chants of "Algerie jkmgaise," the
French-colonial slogan. Suddenly de Gaulle appeared on a balcony overlooking
the plaza. The crowd went wild. The general, an extremely tall man, raised his
arms above his head, and the chanting doubled in volume. The crowd was begging
him to join in. Instead he lowered his arms until silence fell, then opened
them wide, and slowly intoned, in his deep voice, "Je vous ai compris
"-I have understood you. There was a moment of quiet, and then, as his
words sank in, a deafening roar: he understood them. That was all they needed
to hear. De Gaulle proceeded to talk of the greatness of France. More cheers.
He promised there would be new elections, and "with those elected
representatives we will see how to do the rest." Yes, a new government,
just what the crowd wanted-more cheers. He would "find the place for
Algeria" in the French "ensemble." There must be "total
discipline, without qualification and without conditions"-who could argue
with that? He closed with a loud call: "Vive la Republique! Vive la
France!" the emotional slogan that After Operation Sedition, we are being
treated to Operation Seduction. -MAURICEKRIEGEL- VALRIMONT ON CHARLES DE
GAULLE, SHORTLY AFTER THE GENERAL ASSUMED POWER My mistress staged a lockout.
... \ I went back to verses and compliments, \ My natural weapons. Soft words \
Remove harsh door-chains. There's magic in poetry, its power \ Can pull down
the bloody moon, \ Turn bach the sun, make serpents burst asunder \ Or rivers
flow upstream. \ Doors are no match for such spellbinding, the toughest \ Locks
can be opeu-sesamed by its charms. \ But epic's a dead loss for me. I'll get
nowhere with swift-footed \ Achilles, or with either of Atreus' sons. \ Old
what's- his-name wasting twenty years on war and travel, \ Poor Hector dragged
in the dust - \ No good. But lavish fine words on some young girl's profile \
And sooner or later shell tender herself as the fee, \ An ample reward for
your labors. So farewell, heroic \
Figures of legend-the quid \ Pro quo you offer won't tempt me. A bevy of
beauties \ All swooning over my love-songs - that's what I want. -OVID, THE
AMORES, TRANSLATED BY PETER GREEN When she has received a letter, when its
sweet poison has entered her blood, then a word is sufficient to wake her love
burst forth. . . . My personal presence will prevent ecstasy. If I am present
only in a letter, then she can easily cope with me; to some extent,
shemistakesme for a more universal creature who dwells in her love. Then, too,
in a letter one can more readily havefree rein; in a letter I can throw myself
at herfeet in superb fashion, etc.-something that would easily seem like
nonsense if I did it in person, and the illusion would be lost. . . . • On the
whole, letters are and will continue to be a priceless means of making an
impression on a young girl; the dead letter of writing often has much more
influence than the living word. A letter is a secretive communication; one is
master of the situation, feels no pressure from anyone's actual presence, and I
do believe a young girl would prefer to be alone with her ideal. - S0REN
KIERKEGAARD, THE SEDUCER'S DIARY, TRANSLATED BY HOWARD V. HONG AND EDNA H. HONG
had been the rallying cry in the fight against the Nazis. Everyone shouted it
back. In the next few days de Gaulle made similar speeches around Algeria, to
equally delirious crowds. Only after de Gaulle had returned to France did the
words of his speeches sink in: not once had he promised to keep Algeria French.
In fact he had hinted that he might give the Arabs the vote, and might grant an
amnesty to the Algerian rebels who had been fighting to force the French from
the country. Somehow, in the excitement his words had created, the colonists
had failed to focus on what they had actually meant. De Gaulle had duped them.
And indeed, in the months to come, he worked to grant Algeria its
independence-a task he finally accomplished in 1962. Interpretation. De Gaulle
cared little about an old French colony, and about what it symbolized to some
French people. Nor did he have any sympathy for anyone who fomented civil war.
His one concern was to make France a modern power. And so, when he went to
Algiers, he had a long-term plan: weaken the right-wingers by getting them to
fight among themselves, and work toward Algerian independence. His short-term
goal had to be to defuse the tension and buy himself some time. He would not
lie to the colonials by saying he supported their cause-that would cause
trouble back home. Instead he would beguile them with seductive oratory,
intoxicate them with words. His famous "I have understood you" could
easily have meant, "I understand what a danger you represent." But
ajubi- lant crowd expecting his support read it the way they wanted. To keep
them at a fever pitch, de Gaulle made emotional references-to the French
Resistance during World War II, for example, and to the need for
"discipline," a word with great appeal to right-wingers. He filled
their ears with promises-a new government, a glorious future. He got them to
chant, creating an emotional bond. He spoke with dramatic pitch and quivering
emotion. His words created a kind of delirium. De Gaulle was not trying to
express his feelings or speak the truth; he was trying to produce an effect.
This is the key to seductive oratory. Whether you are talking to a single
individual or to a crowd, try a little experiment: rein in your desire to speak
your mind. Before you open your mouth, ask yourself a question: what can I say
that will have the most pleasant effect on my listeners? Often this entails
flattering their egos, assuaging their insecurities, giving them vague hopes
for the future, sympathizing with their travails ("I have understood
you"). Start off with something pleasant and everything to come will be
easy: people's defenses will go down. They will grow amenable, open to
suggestion. Think of your words as an intoxicating drug that will make people
emotional and confused. Keep your language vague and ambiguous, letting your
listeners fill in the gaps with their fantasies and imaginings. Instead of
tuning you out, getting irritated or defensive, being impatient for you to shut
up, they will be pliant, happy with your sweet-sounding words. Use the Demonic
Power of Words to Sow Confusion • 255 Seductive Writing O ne spring afternoon
in the late 1830s, in a street in Copenhagen, a man named Johannes caught a
glimpse of a beautiful young girl. Self- absorbed yet delightfully innocent,
she fascinated him, and he followed her, from a distance, and found out where
she lived. Over the next few weeks he made inquiries and found out more about
her. Her name was Cordelia Wahl, and she lived with her aunt. The two led a
quiet existence; Cordelia liked to read, and to be alone. Seducing young girls
was Johannes's specialty, but Cordelia would be a catch; she had already turned
down several eligible suitors. Johannes imagined that Cordelia might hunger for
something more out of life, something grand, something resembling the books she
had read and the daydreams that presumably filled her solitude. He arranged an
introduction and began to frequent her house, accompanied by a friend of his
named Edward. This young man had his own thoughts of courting Cordelia, but he
was awkward, and strained to please her. Johannes, on the other hand, virtually
ignored her, instead befriending her aunt. They would talk about the most banal
things-farm life, whatever was in the news. Occasionally Johannes would veer
off into a more philosophical discussion, for he had noticed, out of the corner
of his eye, that on these occasions Cordelia would listen to him closely, while
still pretending to listen to Edward. This went on for several weeks. Johannes
and Cordelia barely spoke, but he could tell that he intrigued her, and that
Edward irritated her to no end. One morning, knowing her aunt was out, he
visited their house. It was the first time he and Cordelia had been alone
together. As dryly and politely as possible, he proceeded to propose to her.
Needless to say she was shocked and flustered. A man who had shown not the
slightest interest in her suddenly wanted to marry her? She was so surprised
that she referred the matter to her aunt, who, as Johannes had expected, gave
her approval. Had Cordelia resisted, her aunt would have respected her wishes;
but she did not. On the outside, everything had changed. The couple were
engaged. Johannes now came to the house alone, sat with Cordelia, held her
hand, talked with her. But inwardly he made sure things were the same. He
remained distant and polite. He would sometimes warm up, particularly when
talking about literature (Cordelia's favorite subject), but at a certain point
he always went back to more mundane matters. He knew this frustrated Cordelia,
who had expected that now he would be different. Yet even when they went out
together, he took her to formal socials arranged for engaged couples. How
conventional! Was this what love and marriage were supposed to be about, these
prematurely aged people talking about houses and their own drab futures?
Cordelia, who was shy at the best of times, asked Johannes to stop dragging her
to these affairs. The battlefield was prepared. Cordelia was confused and
anxious. Let wax pave the way for you, spread out on smooth tablets, \ Let wax
go before as witness to your mind - \ Bring her your flattering words, words
that ape the lover: \ And remember, whoever you are, to throw in some good \
Entreaties. Entreaties are what made Achilles give back \ Hector's Body to
Priam; even an angry god \ Is moved by the voice of prayer. Make promises, what's
the harm in \ Promising? Here's where anyone can play rich.... \ A persuasive
letter's \ The thing to lead off with, explore her mind, \ Reconnoiter the
landscape. A message scratched on an apple \ Betrayed Cydippe: she was snared
by her own words. \ My advice, then, young men of Rome, is to learn the noble \
Advocate's arts-not only to let you defend \ Some trembling client: a woman, no
less than the populace, \ Elite senator, or grave judge, \ Will surrender to
eloquence. Nevertheless, dissemble \ Your powers, avoid long words, \ Don't
look too highbrow. Who but a mindless ninny \ Declaims to his mistress? An
overlettered style \ Repels girls as often as not. Use ordinary language, \
Familiar yet coaxing words -as though \ You were there, in her presence.If she
refuses your letter, \ Sends it back unread, persist. - OVID, THE ART OF LOVE.,
GREEN Therefore, the person who is unable to write letters and notes never
becomes a dangerous seducer. KIERKEGAARD, EITHER/OR. TRANSLATED BY HOWARD V.
HONG AND EDNA H. HONG Standing on a crag of Olympus \ Gold-throned Hera saw her
brother, \ Who was her husband's brother too, \ Busy on the fields of human
glory, \ And her heart sang. Then she saw Zeus \ Sitting on the topmost peak of
Ida \ And was filled with resentment. Cow-eyed Hera \ Mused for a while on how
to trick \ The mind of Zeus Aegis-holder, \ And the plan that seemed best to
her \ Was to make herself up and go to Ida, \ Seduce him, and then shed on his
eyelids \ And cunning mind a sleep gentle and warm. . . . \ When everything was
perfect, she stepped \ Out of her room and called Aphrodite \ And had a word
with her in private: \ "My dear child, will you do something for me, \ I
wonder, or will you refuse, angry because \ I favor the Greeks and you the
Trojans?" \ And Zeus' daughter Aphrodite replied: \ "Goddess revered
as Cronus's daughter, \ Speak your mind. Tell me what you want \And I'll oblige
you if I possibly can." \And Hera, with every intention to deceive: \
"Give me now the Sex and Desire \ You use to subdue immortals and humans.
..." \And Aphrodite, who loved to smile: \ "How could I, or would I,
refuse someone \ Who sleeps in the anus of Then, a few weeks after their
engagement, Johannes sent her a letter. Here he described the state of his
soul, and his certainty that he loved her. He spoke in metaphor, suggesting
that he had been waiting for years, lantern in hand, for Cordelia's appearance;
metaphor melted into reality, back and forth. The style was poetic, the words
glowed with desire, but the whole was delightfully ambiguous-Cordelia could
reread the letter ten times without being sure what it said. The next day
Johannes received a response. The writing was simple and straightforward, but
full of sentiment: his letter had made her so happy, Cordelia wrote, and she
had not imagined this side to his character. He replied by writing that he had
changed. He did not say how or why, but the implication was that it was because
of her. Now his letters came almost daily. They were mostly of the same length,
in a poetic style that had a touch of madness to it, as if he were intoxicated
with love. He talked of Greek myth, comparing Cordelia to a nymph and himself
to a river that fell in love with a maiden. His soul, he said, merely reflected
back her image; she was all he could see or think of. Meanwhile he detected
changes in Cordelia: her letters became more poetic, less restrained. Without
realizing it she repeated his ideas, imitating his style and his imagery as if
they were her own. Also, when they saw each other in person, she was nervous.
He made a point of remaining the same, aloof and regal, but he could tell that
she saw him differently, sensing depths in him that she could not fathom. In
public she hung on his every word. She must have memorized his letters, for she
referred to them constantly in their talks. It was a secret life they shared.
When she held his hand, she did so more tightly than before. Her eyes expressed
an impatience, as if she were hoping that at any moment he would do something bold.
Johannes made his letters shorter but more numerous, sometimes sending several
in one day. The imagery became more physical and more suggestive, the style
more disjointed, as if he could barely organize his thoughts. Sometimes he sent
a note of just a sentence or two. Once, at a party at Cordelia's house, he
dropped such a note into her knitting basket and watched as she ran away to
read it, her face flushed. In her letters he saw signs of emotion and turmoil.
Echoing a sentiment he had hinted at in an earlier letter, she wrote that she
hated the whole engagement business- it was so beneath their love. Everything
was ready. Soon she would be his, the way he wanted it. She would break off the
engagement. A rendezvous in the country would be simple to arrange-in fact she
would be the one to propose it. This would be his most skillful seduction.
Interpretation. Johannes and Cordelia are characters in the loosely
autobiographical novel The Seducer's Diary (1843), by the Danish philosopher
Spren Kierkegaard. Johannes is a most experienced seducer, who specializes in
working on his victim's mind. This is precisely where Cordelia's previous Use
the Demonic Power of Words to Sow Confusion • 257 suitors have failed: they
have begun by imposing themselves, a common mistake. We think that by being
persistent, by overwhelming our targets with romantic attention, we are
convincing them of our affection. Instead we are convincing them of our
impatience and insecurity. Aggressive attention is not flattering because it is
not personalized. It is unbridled libido at work; the target sees through it.
Johannes is too clever to begin so obviously. Instead, he takes a step back,
intriguing Cordelia by acting a little cold, and carefully creating the
impression of a formal, somewhat secretive man. Only then does he surprise her
with his first letter. Obviously there is more to him than she has thought, and
once she has come to believe this, her imagination runs rampant. Now he can
intoxicate her with his letters, creating a presence that haunts her like a
ghost. His words, with their images and poetic references, are constantly in
her mind. And this is the ultimate seduction: to possess her mind before moving
to conquer her body. The story of Johannes shows what a weapon in a seducer's
armory a letter can be. But it is important to learn how to incorporate letters
in seduction. It is best not to begin your correspondence until at least
several weeks after your initial contact. Let your victims get an impression of
you: you seem intriguing, yet you show no particular interest in them. When you
sense that they are thinking about you, that is the time to hit them with your
first letter. Any desire you express for them will come as a surprise; their
vanity will be tickled and they will want more. Now make your letters frequent,
in fact more frequent than your personal appearances. This will give them the
time and space to idealize you, which would be more difficult if you were
always in their face. After they have fallen under your spell, you can always
take a step back, making the letters fewer-let them think you are losing
interest and they will be hungry for more. Design your letters as homages to
your targets. Make everything you write come back to them, as if they were all
you could think about-a delirious effect. Ifyoutell an anecdote, make it
somehow relate to them. Your correspondence is a kind of mirror you are holding
up to them-they get to see themselves reflected through your desire. If for
some reason they do not like you, write to them as if they did. Remember: the
tone of your letters is what will get under their skin. If your language is
elevated, poetic, creative in its praise, it will infect them despite
themselves. Never argue, never defend yourself, never accuse them of being
heartless. That would ruin the spell. A letter can suggest emotion by seeming
disordered, rambling from one subject to another. Clearly it is hard for you to
think; your love has unhinged you. Disordered thoughts are exciting thoughts.
Do not waste time on real information; focus on feelings and sensations, using
expressions that are ripe with connotation. Plant ideas by dropping hints,
writing suggestively without explaining yourself. Never lecture, never seem
intellectual or superior-you will only make yourself pompous, which is deadly.
Far better to speak colloquially, though with a poetic edge to lift the
language above the commonplace. Do not become sentimental-it is tiring, and too
almighty Zeus?" \ And with that she unbound from her breast \ An ornate
sash inlaid with magical charms. \ Sex is in it, and Desire, and seductive \
Sweet Talk, that fools even the wise. Hera was fast approaching Gargarus, \
Ida's highest peak, when Zeus saw her. \ And when he saw her, lust enveloped
him, \ Just as it had the first time they made love, \ Slipping off to bed
behind their parents' backs. \ He stood close to her and said: \ "Hera,
why have you left Olympus? \ And where are your horses and chariot?" \ And
Hera, with every intention to deceive: \ "I'm off to visit the ends of the
earth \ And Father Ocean and Mother Tethys \ Who nursed and doted on me in
their house. And Zeus, clouds scudding about him: \ "You can go there
later just as well. \ Let's get in bed now ami make love. \ No goddess or woman
has ever \ Made me feel so overwhelmed with lust. I've never loved anyone as I
love you now, \ Never been in the grip of desire so sweet. " \ And Hera,
with every intention to deceive: \ "What a thing to say, my awesome lord.
\ The thought of us lying down here on Ida \ Ami making love outdoors in broad
daylight! \ What if one of the Immortals saw us \ Asleep, and went to all the
other gods \Aud told them? I could never get up \ And go back home. It would be
shameful. \ But if you really do want to do this, \ There is the bedroom your
dear son Hephaestus \ Built for you, with good solid doors. Let's go \ There
and lie down, since you're in the mood. And Zeus, who masses the clouds,
replied: \ "Hera, don't worry about any god or man \ Seeing us. I'll
enfold you in a cloud so dense \ And golden not even Helios could spy on us, \
And his light is the sharpest vision there is." -HOMER, THE ILIAD,
TRANSLATED BY STANLEY LOMBARDO ANTONY: Friends, Romans, countrymen, lend me
your ears; \ I come to bury Caesar, not to praise him. \ The evil that men do
lives after them; \ The good is oft interred with their bones. \ So let it be
with Caesar. ... \ I speak not to disprove what Brutus spoke, \ But here I am
to speak what I do know. \ You all did love him once, not without cause. \ What
cause withholds you then to mourn for him? \ O judgment, thou art fled to
brutish beasts, \ And men have lost their reason! Bear with me. \ My heart is
in the coffin there with Caesar, \And I must pause till it come back to me. . .
. \ PLEBEIAN: Poor soul! his eyes are red asfi r e with weeping. \ PLEBEIAN:
There's not a nobler man in Rome than Antony. \ PLEBEIAN: Now mark him. He
begins again to speak. \ ANTONY: But yesterday the word of Caesar might \ Have
stood against the world. Now lies he there, \ And none so poor to do him
reverence. \ O masters! If I were disposed to stir \ Your hearts and minds to
mutiny and rage, \ I should do Brutus wrong, and Cassius wrong, \
Who,youallknow,aredirect. Better to suggest the effect your target has on you than
to gush about how you feel. Stay vague and ambiguous, allowing the reader the
space to imagine and fantasize. The goal of your writing is not to express
yourself but to create emotion in the reader, spreading confusion and desire.
You will know that your letters are having the proper effect when your targets
come to mirror your thoughts, repeating words you wrote, whether in their own
letters or in person. This is the time to move to the more physical and erotic.
Use language that quivers with sexual connotation, or, better still, suggest
sexuality by making your letters shorter, more frequent, and even more
disordered than before. There is nothing more erotic than the short abrupt
note. Your thoughts are unfinished; they can only be completed by the other
person. Sganarelle to Don Juan: Well, what I have to say is ... I don't know
what to say; for you turn things in such a manner with your words, that it
seems that you are right; and yet, the truth of it is, you are not. I had the
finest thoughts in the world, and your words have totally scrambled them up.
-MOLIERE Keys to Seduction W e rarely think before we talk. It is human nature
to say the first thing that comes into our head-and usually what comes first is
something about ourselves. We primarily use words to express our ownfeelings,
ideas, and opinions. (Also to complain and to argue.) This is because we are
generally self-absorbed-the person who interests us most is our own self. To a
certain extent this is inevitable, and through much of our lives there is
nothing much wrong with it; we can function quite well this way. In seduction,
however, it limits our potential. You cannot seduce without an ability to get
outside your own skin and inside another person's, piercing their psychology.
The key to seductive language is not the words you utter, or your seductive
tone of voice; it is a radical shift in perspective and habit. You have to stop
saying the first thing that comes to your mind-you have to control the urge to
prattle and vent your opinions. The key is to see words as a tool not for
communicating true thoughts and feelings but for confusing, delighting, and
intoxicating. The difference between normal language and seductive language is
like the difference between noise and music. Noise is a constant in modern
life, something irritating we tune out if we can. Our normal language is like
noise-people may half-listen to us as we go on about ourselves, butjust as
often their thoughts are a million miles away. Every now and then their ears
prick up when something we say touches on them, but this lasts only until Use
the Demonic Power of Words to SowConfusion • 259 we return to yet another story
about ourselves. As early as childhood we leant to tune out this kind of noise
(particularly when it comes from our parents). Music, on the other hand, is
seductive, and gets under our skin. It is intended for pleasure. A melody or
rhythm stays in our blood for days after we have heard it, altering our moods
and emotions, relaxing or exciting us. To make music instead of noise, you must
say things that please-things that relate to people's lives, that touch their
vanity. If they have many problems, you can produce the same effect by
distracting them, focusing their attention away from themselves by saying
things that are witty and entertaining, or that make the future seem bright and
hopeful. Promises and flattery are music to anyone's ears. This is language
designed to move people and lower their resistance. It is language designed for
them, not directed at them. The Italian writer Gabriele D'Annunzio was
physically unattractive, yet women could not resist him. Even those who knew of
his Don luan reputation and disliked him for it (the actress Eleanora Duse and
the dancer Isadora Duncan, for instance) fell under his spell. The secret was
the flow of words in which he enveloped a woman. His voice was musical, his
language poetic, and most devastating of all, he knew how to flatter. His
flattery was aimed precisely at a woman's weaknesses, the areas where she
needed validation. A woman was beautiful, yet lacked confidence in her own wit
and intelligence? He made sure to say that he was bewitched not by her beauty
but by her mind. He might compare her to a heroine of literature, or to a
chosen mythological figure. Talking to him, her ego would double in size.
Flattery is seductive language in its purest form. Its purpose is not to
express a truth or a real feeling, but only to create an effect on the
recipient. Like D'Annunzio, learn to aim your flattery directly at a person's
insecurities. For instance, if a man is a fine actor and feels confident about
his professional skills, to flatter him about his acting will have little
effect, and may even accomplish the opposite-he could feel that he is above the
need to have his ego stroked, and your flattery will seem to say otherwise. But
let us say that this actor is an amateur musician or painter. He does this work
on his own, without professional support or publicity, and he is well aware
that others make their living at it. Flattery of his artistic pretensions will
go straight to his head and earn you double points. Learn to sniff out the
parts of a person's ego that need validation. Make it a surprise, something no
one else has thought to flatter before-something you can describe as a talent
or positive quality that others have not noticed. Speak with a little tremor,
as if your target's charms had overwhelmed you and made you emotional. Flattery
can be a kind of verbal foreplay. Aphrodite's powers of seduction, which were said
to come from the magnificent girdle she wore, involved a sweetness of
language-a skill with the soft, flattering words that prepare the way for
erotic thoughts. Insecurities and nagging self-doubts have a dampening effect
on the libido. Make your targets feel secure and alluring through your
flattering words and their resistance will melt away. honorable men. \ I will
not do them wrong. . . . \ But here's a parchment with the seal of Caesar. \ I
found it in his closet; 'tis his will. \ Let but the commons hear this
testament, \ Which (pardon me) I do not mean to read, \And they would go and
kiss dead Caesar's wounds \ And dip their napkins in his sacred blood. . . . \
PLEBEIAN: We'll hear the will! Read it, Mark Antony. \ ALL: The will, the will!
We will hear Caesar's will! \ ANTONY: Have patience, gentle friends; I must not
read it. \ It is not meet you know how Caesar loved you. \ You are not wood,
you are not stones, but men; \ And being men, hearing the will of Caesar, \ It
will inflame you, it will make you mad. \ 'Tis good you know not that you are
his heirs; \ For if you should, O, what would come ofit?. . . \ If you have
tears, prepare to shed them now. \ You all do know this mantle. I remember \
The first time ever Caesar put it on. .. . \ Look, in this place ran Cassius'
dagger through. \ See what a rent the envious Casca made. \ Through this the
well- beloved Brutus stabbed; \ And as he plucked his cursed steel away, \ Mark
how the blood of Caesar followed it. . . . \ For Brutus, as you know, was Caesar's
angel. \ Judge, O you gods, how dearly Caesar loved him! \ This was the most
unkindest cut of all; \ For when the noble Caesar saw him stab, \ Ingratitude,
more strong than traitors' arms, \ Quite vanquished him. . . . \ O, now you
weep, and I perceive you feel \ The dint of pity. These are gracious 260 drops.
\ Kind souls, what weep you when you but behold \ Our Caesar's vesture wounded?
Look you here! \ Here is himself, marred as you see until traitors. -WILLIAM
SHAKESPEARE, JULIUS CAESAR Sometimes the most pleasant thing to hear is the
promise of something wonderful, a vague but rosy future that is just around the
corner. President Franklin Delano Roosevelt, in his public speeches, talked
little about specific programs for dealing with the Depression; instead he used
rousing rhetoric to paint a picture of America's glorious future. In the
various legends of Don Juan, the great seducer would immediately focus women's
attention on the future, a fantastic world to which he promised to whisk them
off. Tailor your sweet words to your targets' particular problems and
fantasies. Promise something realizable, something possible, but do not make it
too specific; you are inviting them to dream. If they are mired in dull
routine, talk of adventure, preferably with you. Do not discuss how it will be
accomplished; speak as if it magically already existed, somewhere in the
future. Lift people's thoughts into the clouds and they will relax, their
defenses will come down, and it will be that much easier to maneuver and lead
them astray. Your words become a kind of elevating drug. The most
anti-seductive form of language is argument. How many silent enemies do we
create by arguing? There is a superior way to get people to listen and be
persuaded: humor and a light touch. The nineteenth- century English politician
Benjamin Disraeli was a master at this game. In Parliament, to fail to reply to
an accusation or slanderous comment was a deadly mistake; silence meant the
accuser was right. Yet to respond angrily, to get into an argument, was to look
ugly and defensive. Disraeli used a different tactic: he stayed calm. When the
time came to reply to an attack, he would slowly make his way to the speaker's
table, pause, then utter a humorous or sarcastic retort. Everyone would laugh.
Now that he had warmed people up, he would proceed to refute his enemy, still
mixing in amusing comments; or perhaps he would simply move on to another
subject, as if he were above it all. His humor took out the sting of any attack
on him. Laughter and applause have a domino effect: once your listeners have
laughed, they are more likely to laugh again. In this lighthearted mood they
are also more apt to listen. A subtle touch and a bit of irony give you room to
persuade them, move them to your side, mock your enemies. That is the seductive
form of argument. Shortly after the murder of Julius Caesar, the head of the
band of conspirators who had killed him, Brutus, addressed an angry mob. He
tried to reason with the crowd, explaining that he had wanted to save the Roman
Republic from dictatorship. The people were momentarily convinced- yes, Brutus
seemed a decent man. Then Mark Antony took the stage, and he in turn delivered
a eulogy for Caesar. He seemed overwhelmed with emotion. He talked of his love
for Caesar, and of Caesar's love for the Roman people. He mentioned Caesar's
will; the crowd clamored to hear it, but Antony said no, for if he read it they
would know how deeply Caesar had loved them, and how dastardly this murder was.
The crowd again insisted he read the will; insteadheheld up Caesar's
bloodstained cloak, noting its rents and tears. This was where Brutus had
stabbed the great general, he said; Cassius had stabbed him here. Then finally
he read the will, which Use the Demonic Power of Words to Sow Confusion • 261
told how much wealth Caesar had left to the Roman people. This was the coup de
grace-the crowd turned against the conspirators and went off to lynch them.
Antony was a clever man, who knew how to stir a crowd. According to the Greek
historian Plutarch, "When he saw that his oratory had cast a spell over
the people and that they were deeply stirred by his words, he began to
introduce into his praises [of Caesar] a note of pity and of indignation at
Caesar's fate." Seductive language aims at people's emotions, for
emotional people are easier to deceive. Antony used various devices to stir the
crowd: a tremor in his voice, a distraught and then an angry tone. An emotional
voice has an immediate, contagious effect on the listener. Antony also teased
the crowd with the will, holding off the reading of it to the end, knowing it
would push people over the edge. Holding up the cloak, he made his imagery
visceral. Perhaps you are not trying to whip a crowd into a frenzy; you just
want to bring people over to your side. Choose your strategy and words
carefully. You might think it is better to reason with people, explain your
ideas. But it is hard for an audience to decide whether an argument is
reasonable as they listen to you talk. They have to concentrate and listen
closely, which requires great effort. People are easily distracted by other
stimuli, and if they miss a part of your argument, they will feel confused,
intellectually inferior, and vaguely insecure. It is more persuasive to appeal to
people's hearts than their heads. Everyone shares emotions, and no one feels
inferior to a speaker who stirs up their feelings. The crowd bonds together,
everyone contagiously experiencing the same emotions. Antony talked of Caesar
as if he and the listeners were experiencing the murder from Caesar's point of
view. What could be more provocative? Use such changes of perspective to make
your listeners feel what you are saying. Orchestrate your effects. It is more
effective to move from one emotion to another than to just hit one note. The
contrast between Antony's affection for Caesar and his indignation at the
murderers was much more powerful than if he had stayed with one feeling or the
other. The emotions you are trying to arouse should be strong ones. Do not
speak of friendship and disagreement; speak of love and hate. And it is crucial
to try to feel something of the emotions you are trying to elicit. You
willbemorebelievablethat way. This should not be difficult: imagine the reasons
for loving or hating before you speak. If necessary, think of something from
your past that fills you with rage. Emotions are contagious; it is easier to
make someone cry if you are crying yourself. Make your voice an instrument, and
train it to communicate emotion. Learn to seem sincere. Napoleon studied the
greatest actors of his time, and when he was alone he would practice putting
emotion into his voice. The goal of seductive speech is often to create a kind
of hypnosis: you are distracting people, lowering their defenses, making them
more vulnerable to suggestion. Learn the hypnotist's lessons of repetition and
affirmation, key elements in putting a subject to sleep. Repetition involves
using 262 the same words over and over, preferably a word with emotional
content: "taxes," "liberals," "bigots." The
effect is mesmerizing-ideas can be permanently implanted in people's
unconscious simply by being repeated often enough. Affirmation is simply the
making of strong positive statements, like the hypnotist's commands. Seductive
language should have a kind of boldness, which will cover up a multitude of
sins. Your audience will be so caught up in your bold language that they won't
have time to reflect on whether or not it is true. Never say "I don't
think the other side made awise decision"; say "We deserve
better," or "They have made a mess of things." Affirmative
language is active language, full of verbs, imperatives, and short sentences.
Cut out "I believe," "Perhaps," "In my opinion."
Head straight for the heart. You are learning to speak a different kind of
language. Most people employ symbolic language-their words stand for something
real, the feelings, ideas, and beliefs they really have. Or they stand for
concrete things in the real world. (The origin of the word "symbolic"
lies in a Greek word meaning "to bring things together"-in this case,
a word and something real.) As a seducer you are using the opposite: diabolic
language. Your words do not stand for anything real; their sound, and the
feelings they evoke, are more important than what they are supposed to stand
for. (The word "diabolic" ultimately means to separate, to throw
things apart-here, words and reality.) The more you make people focus on your
sweet-sounding language, and on the illusions and fantasies it conjures, the
more you diminish their contact with reality. You lead them into the clouds,
where it is hard to distinguish truth from untruth, real from unreal. Keep your
words vague and ambiguous, so people are never quite sure what you mean.
Envelop them in demonic, diabolical language and they will notbe able to focus
on your maneuvers, on the possible consequences of your seduction. And the more
they lose themselves in illusion, the easier it will be to lead them astray and
seduce them. Symbol: The Clouds. In the clouds it is hard to see the exact
forms of things. Everything seems vague; the imagination runs wild, seeing
things that are not there. Your words must lift people into the clouds, where
it is easy for them to lose their way. Use the Demonic Power of Words to Sow
Confusion • 263 Reversal D o not confuse flowery language with seduction: in
using flowery language you run the risk of wearing on people's nerves, of
seeming pretentious. Excess verbiage is a sign of selfishness, of your
inability to rein in your natural tendencies. Often with language, less is
more; the elusive, vague, ambiguous phrase leaves the listener more room for
imagination than does a sentence full of bombast and self-indulgence. You must
always think first of your targets, and of what will be pleasant to their ears.
There will be many times when silence is best. What you do not say can be
suggestive and eloquent, making you seem mysterious. In the eleventh-century
Japanese court diary The Pillow Book ofSei Shonagon, the counselor Yoshichika
is intrigued by a lady he sees in a carriage, silent and beautiful. He sends
her a note, and she sends one back; he is the only one to read it, but by his
reaction everyone can tell it is in bad taste, or badly written. It spoils the
effect of her beauty. Shonagon writes, "I have heard people suggest that
no reply at all is better than a bad one." If you are not eloquent, if you
cannot master seductive language, at least learn to curb your tongue-use
silence to cultivate an enigmatic presence. Finally, seduction has a pace and
rhythm. In phase one, you are cautious indirect. It is often best to disguise
your intentions, to put your target at ease with deliberately neutral words.
Your conversation should be harmless, even a bit bland. In this second phase,
you turn more to the attack; this is the time for seductive language. Now when
you envelop them in your seductive words and letters, it comes as a pleasant
surprise. It gives them the immensely pleasing feeling that they are the ones
to suddenly inspire you with such poetry and intoxicating words. 11 Pay
Attention to Detail Lofty words and grand gestures can be suspi: why are you
trying so hard to please? The details of a seduction-the subtle gestures, the
offhand things you do - are often more charming and revealing. You must learn
to distract your victims with a myriad of pleasant little rituals-thoughtful
gifts tailored just for them, clothes and adornments designed to please them,
gestures that show the time and attention you are paying them. All of their
senses are engaged in the details you orchestrate. Create spectacles to dazzle
their eyes; mesmerized by what they see, they will not notice what you are
really up to. Learn to suggest the proper feelings and moods through details.
The Mesmerizing Effect I n December 1898, the wives of the seven major Western
ambassadors to China received a strange invitation: the sixty-three-year-old
Empress Dowager Tzu Hsi was hosting a banquet in their honor in the Forbidden
City in Beijing. The ambassadors themselves had been quite displeased with the
empress dowager, for several reasons. She was a Manchu, a race of northerners
who had conquered China in the early seventeenth century, establishing the
Ching Dynasty and ruling the country for nearly three hundred years. By the
1890s, the Western powers had begun to carve up parts of China, a country they
considered backward. They wanted China to modernize, but the Manchus were
conservative, and resisted all reform. Earlier in 1898, the Chinese Emperor
Kuang Hsu, the empress dowager's twenty-seven-year-old nephew, had actually
begun a series of reforms, with the blessings of the West. Then, one hundred
days into this period of reform, word reached the Western diplomats from the
Forbidden City that the emperor wasquiteill, and that the empress dowager had
taken power. They suspected foul play; the empress had probably acted to stop
the reforms. The emperor was being mistreated, probably poisoned- perhaps he
was already dead. When the seven ambassadors' wives were preparing for their
unusual visit, their husbands warned them: Do not trust the empress dowager. A
wily woman with a cruel streak, she had risen from obscurity to become the
concubine of a previous emperor and had managed over the years to accumulate
great power. Far more than the emperor, she was the most feared person in
China. On the appointed day, the women were borne into the Forbidden City a
procession of sedan chairs carried by court eunuchs in dazzling uniforms. The
women themselves, not to be outdone, wore the latest Western fashions-tight
corsets, long velvet dresses with leg-of-mutton sleeves, billowing petticoats,
tall plumed hats. The residents of the Forbidden City looked at their clothes
in amazement, and particularly at the way their dresses displayed their
prominent bosoms. The wives felt sure they had impressed their hosts. At the
Audience Hall they were greeted by princes and princesses, as well as lower
royalty. The Chinese women were wearing magnificent Manchu costumes with the
traditional high, jewel-encrusted black headdresses; theywerearranged in a
hierarchical order reflected in the color of their dresses, an astounding
rainbow of color. The wives were served tea in the most delicate porcelain
cups, then The barge she sat in, like a burnish'd throne, \Burn'd on the water:
the poop was beaten gold; \ Purple the sails, and so perfumed that \ The winds
were love-sick with them; the oars were silver, \ Which to the tune of flutes
kept stroke, and made \ The water which they beat to follow faster, \ As
amorous of their strokes. For her own person, \ It beggar'd all description:
she did lie \ In her pavilion - cloth-of-gold of tissue - \ O'er picturing that
Venus where we see \ The fancy outwork nature: on each side her \ Stood pretty
dimpled boys, like smiling Cupids, \ With divers-colour'd fans, whose wind did
seem \ To glow the delicate cheeks which they did cool, \ And what they undid
did. . . . \ Her gentlewomen, like the Nereids, \ So many mermaids, tended her
i' the eyes, \ And made their bends adornings: at the helm \ A seeming mermaid
steers: the silken tackle \ Swell with the touches of those flower-soft hands \
That yarely frame the office. From the barge \A strange invisible perfume hits
the sense \ Of the adjacent wharfs. The city cast \ Her people out upon her;
and Antony, \ Enthron'd i' the marketplace, did sit alone, \ Whistling to the
air; which, butfor vacancy, \ Hadgone to gaze on Cleopatra too \ And made a gap
in nature. -WILLIAM SHAKESPEARE, ANTONY AND CLEOPATRA In the palmy days of the
gay quarters at Edo there was a connoisseur of fashion named Sakakura who grew
intimate with the great courtesan Chitose. This woman was much given to
drinking sake; as a side dish she relished the so-called flower crabs, to be
found in the Mogami River in the East, and these she had pickled in salt for
her enjoyment. Knowing this, Sakakura commissioned a painter of the Kano School
to execute her bamboo crest in powdered gold on the tiny shells of these crabs;
he fixed the price of each painted shell at one rectangular piece of gold, and
presented them to Chitose throughout the year, so that she never lacked for
them. -IHARA SAIKAKU, THE LIFE OF AN AMOROUS WOMAN. AND OTHER WRITINGS For such
men as have practised love, have ever held this a sound maxim that there is
naught to be compared with a woman in her clothes. Again when you reflect how a
man doth brave, rumple, squeeze and make light of his lady's finery, and how he
doth were escorted into the presence of the empress dowager. The sight took
their breath away. The empress was seated on the Dragon Throne, which was
studded with jewels. She wore heavily brocaded robes, a magnificent headdress
bearing diamonds, pearls, andjade, and an enormous necklace of perfectly
matched pearls. She was a tiny woman, but on the throne, in that dress, she
seemed a giant. She smiled at the ladies with much warmth and sincerity. To
their relief, seated below her on a smaller throne was her nephew the emperor.
He looked pale, but he greeted them enthusiastically and seemed in good
spirits. Maybe he was indeed simply ill. The empress shook the hand of each of
the women. As she did so, an attendant eunuch handed her a large gold ring set
with a large pearl, which she slipped onto each woman's hand. After this
introduction, the wives were escorted into another room, where they again took
tea, and then were led into a banqueting hall, where the empress now sat on a
chair of yellow satin-yellow being the imperial color. She spoke to them for a
while; she had a beautiful voice. (It was said that her voice could literally
charm birds out of trees.) At the end of the conversation, she took the hand of
each woman again, and with much emotion, told them, "One family-all one
family." The women then saw a performance in the imperial theater. Finally
the empress received them one last time. She apologized for the performance
they had just seen, which was certainly inferior to what they wereusedto in the
West. There was one more round of tea, and this time, as the wife of the
American ambassador reported it, the empress "stepped forward and tipped
each cup of tea to her own lips and took a sip, then lifted the cup on the
other side, to our lips, and said again, 'One family-all one family' " The
women were given more gifts, then were escorted back to their sedan chairs and
borne out of the Forbidden City. The women relayed to their husbands their
earnest belief that they had all been wrong about the empress. The American
ambassador's wife reported, "She was bright and happy and her face glowed
with good will. There was no trace of cruelty to be seen. . . . Her actions
were full of freedom and warmth. [We left] full of admiration for her majesty
and hopes for China." The husbands reported back to their governments: the
emperor was fine, and the empress could be trusted. Interpretation. The foreign
contingent in China had no idea what was really happening in the Forbidden
City. In truth, the emperor had conspired to arrest and possibly murder his
aunt. Discovering the plot, a terrible crime in Confucian terms, she forced him
to sign his own abdication, had him confined, and told the outside world that
he was ill. As part of his punishment, he was to appear at state functions and
act as if nothing had happened. The empress dowager loathed Westerners, whom
she considered barbarians. She disliked the ambassadors' wives, with their ugly
fashions and simpering ways. The banquet was a show, a seduction, to appease
the West- Pay Attention to Detail • 269 ern powers, which had been threatening
invasion if the emperor had been killed. The goal of the seduction was simple:
dazzle the wives with color, spectacle, theater. The empress applied all her
expertise to the task, and she was a genius for detail. She had designed the
spectacles in a rising order- the uniformed eunuchs first, then the Manchu
ladies in their headdresses, and finally the empress herself. It was pure
theater, and it was overwhelming. Then the empress brought the spectacle down a
notch, humanizing it with gifts, warm greetings, the reassuring presence of the
emperor, teas, and entertainments, which were in no way inferior to anything in
the West. She ended the banquet on another high note-the little drama with the
sharing of the teacups, followed by even more magnificent gifts. The women's heads
were spinning when they left. In truth they had never seen such exotic
splendor-and they never understood how carefully its details had been
orchestrated by the empress. Charmed by the spectacle, they transferred their
happy feelings to the empress and gave her their approvalallthatsherequired.The
key to distracting people (seduction is distraction) is to fill their eyes and
ears with details, little rituals, colorful objects. Detail is what makes
things seem real and substantial. A thoughtful gift won't seem to have an
ulterior motive. A ritual full of charming little actions is so enjoyable to
watch. Jewelry, handsome furnishings, touches of color in clothing, dazzle the
eye. It is a childish weakness of ours: we prefer to focus on the pleasant little
details rather than on the larger picture. The more senses you appeal to, the
more mesmerizing the effect. The objects you use in your seduction (gifts,
clothes, etc.) speak their own language, and it is a powerful one. Never ignore
a detail or leave one to chance. Orchestrate them into a spectacle and no one
will notice how manipulative you are being. The Sensuous Effect O ne day a
messenger told Prince Genji-the aging but still consummate seducer in the Heian
court of late-tenth-century Japan-that one of his youthful conquests had
suddenly died, leaving behind an orphan, a young woman named Tamakazura. Genji
was not Tamakazura s father, but he decided to bring her to court and be her
protector anyway. Soon after her arrival, men of the highest rank began to woo
her. Genji had told everyone she was a lost daughter of his; as a result, they
assumed that she was beautiful, for Genji was the handsomest man in the court.
(At the time, men rarely saw a young girl's face before marriage; in theory,
they were allowed to talk to her only if she was on the other side of a
screen.) Genji showered her with attention, helping her sort through all the
love letters she was receiving and advising her on the right match. As
Tamakazura's protector, Genji was able to see her face, and she was indeed
beautiful. He fell in love with her. What a shame, he thought, to give this
lovely creature away to another man. One night, overwhelmed by work ruin and
loss to the grand cloth ofgold and web of silver, to tinsel and silken stuffs, pearls
and precious stones, 'tis plain how his ardour and satisfaction be increased
manifold-far more than with some simple shepherdess or other woman of like
quality, be she as fair as she may. • And why of yore was Venus found so fair
and so desirable, if not that with all her beauty she was always gracefully
attired likewise, and generally scented, that she did ever smell sweet an
hundred paces away? For it hath ever been held of all how that perfumes be a
great incitement to love. • This is the reason why the Empresses and great
dames of Rome did make much usage of these perfumes, as do likewise our great
ladies of France-and above all those of Spain and Italy, which from the oldest
times have been more curious and more exquisite in luxury than Frenchwomen, as
well in perfumes as in costumes and magnificent attire, whereof thefair ones of
France have since borrowed the patterns and copied the dainty workmanship.
Moreover the others, Italian and Spanish, had learned the samefrom old models
and ancient statues of Roman ladies, the which are to be seen among sundry
other antiquities yet extant in Spain and Italy; the which, if any man will
regard them carefully, will befound very perfect in mode of hair-dressing and
fashion of robes, and very meet to incite love. -SEIGNEUR DE BRANTOME, LIVES OF
FAIR & GALLANT LADIES. For years after her entry into the palace, a large
number of court-maidens were especially set aside for preparing Kuei-fei 's
dresses, which were chosen and fashioned according to the flowers of the
season. For instance, for New Year (spring) she had blossoms of apricot, plum
and narcissus; for summer, she adopted the lotus; for autumn, she patterned
them after the peony; for winter, she employed the chrysanthemum. Of jewelry
she was fondest of pearls, and the finest products of the world found their way
into her boudoir and were frequently embroidered on her numerous dresses. •
Kuei- fei was the embodiment of all that was lovely and extravagant.Nowonder
that no king, prince, courtier or humble attendant who ever met her could
resist the allurementof her charms. Besides, she was the most artful of women
and knew how to use her natural gifts to the best purpose. The Emperor Ming
Huang, supreme in the land and with thousands of the most handsome maidens to
choose from, became a complete slave to her magnetic powers . . . spending day
and night in her company and giving up his whole kingdom for her sake. -
SHU-CHIUNG, YANG KUEI- FEI: THE MOST FAMOUS BEAUTY OF CHINA Then [ Pao-yu ]
called Bright Design to him and said to her, "Go and see what [Black Jade
] is doing. If she asks about me, just say that I am quite all her charms, he
held her hand and told her how much she resembled her mother, whom he once had
loved. She trembled-not with excitement, however, but with fear, for although
he was not her father, he was supposed to be her protector, not a suitor. Her
attendants were away and it was a beautiful night. Genji silently threw off his
perfumed robe and pulled her down beside him. She began to cry, and to resist.
Always a gentleman, Genji told her that he would respect her wishes, he would
always care for her, and she had nothing to fear. He then politely excused
himself. Several days later Genji was helping Tamakazura with her
correspondence when he read a love letter from his younger brother. Prince
Hotaru, who numbered among her suitors. In the letter, Hotaru berated
Tamakazura for not letting him get physically close enough to talk to her and
tell her his feelings. Tamakazura had not replied; unused to the manners of the
court, she had felt shy and intimidated. As if to help her, Genji got one of
his servants to write to Hotaru in her name. The letter, written on beautiful
perfumed paper, warmly invited the prince to visit her. Hotaru appeared at the
appointed hour. He smelled a beguiling incense, mysterious and seductive.
(Mixed into this scent was Genji's own perfume.) The prince felt a wave of
excitement. Approaching the screen behind which Tamakazura sat, he confessed
his love for her. Without making a sound, she retreated to another screen,
farther away. Suddenly there was a flash of light, as if a torch had flared up,
and Hotaru saw her profile behind the screen: she was more beautiful than he
had imagined. Two things delighted the prince: the sudden, mysterious flash of
light, and the brief glimpse of his beloved. Now he was truly in love. Hotaru
began to court her assiduously. Meanwhile, feeling reassured that Genji was no
longer chasing her, Tamakazura saw her protector more often. And now she could
not help noticing little details: Genji's robes seemed to glow, in pleasing and
vibrant colors, as if dyed by unworldly hands. Hotaru's robes seemed drab by
comparison. And the perfumes burned into Genji's garments, how intoxicating
they were. No one else bore such a scent. Hotaru's letters were polite and well
written, but the letters Genji sent her were on magnificent paper, perfumed and
dyed, and they quoted lines of poetry, always surprising yet always appropriate
for the occasion. Genji also grew and gathered flowers-wild carnations, for
instance-that he gave as gifts and that seemed to symbolize his unique charm.
One evening Genji proposed to teach Tamakazura how to play the koto. She was
delighted. She loved to read romance novels, and whenever Genji played the
koto, she felt as if she were transported into one of her books. No one played
the instrument better than Genji; she would be honored to leam from him. Now he
saw her often, and the method of his lessons was simple: she would choose a song
for him to play, and then would try to imitate him. After they played, they
would lie down side by side, their heads resting on the koto, staring up at the
moon. Genji would have torches set up in the garden, giving the view the
softest glow. The more Tamakazura saw of the court-of Prince Hotaru, the other
Pay Attention to Detail • 271 suitors, the emperor himself-themore she realized
that none could compare to Genji. He was supposed to be her protector, yes,
that was still true, but was it such a sin to fall in love with him? Confused,
she found herself giving in to the caresses and kisses that he began to
surprise her with, now that she was too weak to resist. Interpretation. Genji
is the protagonist in the eleventh-century novel The Tale of Genji, written by
Murasaki Shikibu, a woman of the Heian court. The character was most likely
inspired by the real-life seducer Fujiwara no Korechika. In his seduction of
Tamakazura, Genji's strategy was simple: he would make her realize indirectly
how charming and irresistible he was by surrounding her with unspoken details.
He also brought her in contact with his brother; comparison with this drab,
stiff figure would make Genji's superiority clear. The night Hotaru first
visited her, Genji set everything up, as if to support Hotaru's seducing-the
mysterious scent, then the flash of light by the screen. (The light came from a
novel effect: earlier in the evening, Genji had collected hundreds of fireflies
in a cloth bag. At the proper moment he let them all go at once.) But when
Tamakazura saw Genji encouraging Hotaru's pursuit of her, her defenses against
her protector relaxed, allowing her senses to be filled by this master of
seductive effects. Genji orchestrated every possible detail-the scented paper,
the colored robes, the lights in the garden, the wild carnations, the apt
poetry, the koto lessons which induced an irresistible feeling of harmony.
Tamakazura found herself dragged into a sensual whirlpool. Bypassing the
shyness and mistrust that words or actions would only have worsened, Genji
surrounded his ward with objects, sights, sounds, and scents that symbolized
the pleasure of his company far more than his actual physical presence would
have-in fact his presence could only have been threatening. He knew that a young
girl's senses are her most vulnerable point. The key to Genji's masterful
orchestration of detail was his attention to the target of his seduction. Like
Genji, you must attune your own senses to your targets, watching them
carefully, adapting to their moods. You sense when they are defensive and
retreat. You also sense when they are giving in, and move forward. In between,
the details you set up-gifts, entertainments, the clothes you wear, the flowers
you choose-are aimed precisely at their tastes and predilections. Genji knew he
was dealing with a young girl who loved romantic novels; his wild flowers, koto
playing, and poetry brought their world to life for her. Attend to your
targets' every move and desire, and reveal your attentiveness in the details
and objects you surround them with, filling their senses with the mood you need
to inspire. They can argue with your words, but not with the effect you have on
their senses. right now. " • "You'll have to think of a better excuse
than that," Bright Design said. "Isn't there anything that you can
send or want to borrow? I don't want to go there and feel like a fool without
anything to say. " • Pao-yu thought for a moment and then took two
handkerchiefs from under his pillow and gave them to the maid, saying,
"Well then, tell her that I sent you with these," • "What a
strange present to send" the maid smiled. "What does she want two old
handkerchiefs for? She will be angry again and say that you are trying to make
fun of her." • "Don't worry" Pao-yu assured her. "She will
understand." • Black Jade had already retired when Bright Design arrived
at the Bamboo Retreat. "What brought you at this hour?" Black Jade
asked. • "[Pao-yu] asked me to bring these handkerchiefs for [Black
Jade]." • For a moment Black Jade was at a loss to see why Pao-yu should
send her such a present at that particular moment. She said, "I suppose
they must be something unusual that somebody gave him. Tell him to keep them
himself or give them to someone who will appreciate them. I have no need of
them." • "They are nothing unusual," Bright Design said.
"Just twoordinaryhandkerchiefs that he happened to have around. "
Black Jade was even more puzzled, and then it suddenly dawned upon her: Pao-yu
knew that she would weep for him and so sent two handkerchiefs of his own. •
"You can leave them, then," she said to Bright Design, who in turn
was272 surprised that Black Jade did not take offense at what seemed to her a
crude joke. • As Black Jade thought over the significance of the handkerchiefs
she was happy and sad by turns: happy because Pao- yu read her innermost
thoughts and sad because she wondered if what was uppermost in her thoughts
would ever befulfdled. Thinking thus to herself of the future and of the past,
she could notfall asleep. Despite Purple Cuckoo's remonstrances, she had her
lamp relit and began to compose a series of quatrains, writing them directly on
the handkerchiefs which Pao-yu had sent. - TSAO HSUEH CHIN, DREAM OF THE RED
CHAMBER , Therefore in my view when the courtier wishes to declare his love he
should do so by his actions rather than by speech, for a man's feelings are
sometimes more clearly revealed by ... a gesture of respect or a certain
shyness than by volumes of words. CASTIGLIONE Keys to Seduction W hen we were children,
our senses were much more active. The colors of a new toy, or a spectacle such
as a circus, held us in thrall; a smell or a sound could fascinate us. In the
games we created, many of them reproducing something in the adult world on a
smaller scale, what pleasure we took in orchestrating every detail. We noticed
everything. As we grow older our senses get dulled. We no longer notice as
much, for we are constantly hurrying to get things done, to move on to the next
task. In seduction, you are always trying to bring the target back to the
golden moments of childhood. A child is less rational, more easily deceived. A
child is also more attuned to the pleasures of the senses. So when your targets
are with you, you must never give them the feeling they normally get in the
real world, where we are all rushed, ruthless, out for ourselves. You need to
deliberately slow things down, and return them to the simpler times of their
youth. The details that you orchestrate-colors, gifts, little ceremonies-are aimed
at their senses, at the childish delight we take in the immediate charms of the
natural world. Their senses filled with delightful things, they grow less
capable of reason and rationality. Pay attention to detail and you will find
yourself assuming a slower pace; your targets will not focus on what you might
be after (sexual favors, power, etc.) because you seem so
considerate,soattentive.In the childish realm of the senses in which you
envelop them, they get a clear sense that you are involving them in something
distinct from the real world-an essential ingredient of seduction. Remember:
the more you get people to focus on the little things, the less they will
notice your larger direction. The seduction will assume the slow, hypnotic pace
of a ritual, in which the details have a heightened importance and the moments
are full of ceremony. In eighth-century China, Emperor Ming Huang caught a
glimpse of a beautiful young woman, combing her hair beside an imperial pool.
Her name was Yang Kuei-fei, and even though she was the concubine of the
emperor's son, he had to have her for himself. Since he was emperor, nobody
could stop him. The emperor was a practical man-he had many concubines, and
they all had their charms, but he had never lost his head over a woman. Yang
Kuei-fei, though, was different. Her body exuded the most wonderful fragrance.
She wore gowns made of the sheerest silk gauze, each embroidered with different
flowers, depending on the season. In walking she seemed to float, her tiny
steps invisible beneath her gown. She Pay Attention to Detail• 273 danced to
perfection, wrote songs in Ms honor that she sang magmficently, had a way of
looking at him that made Ms blood boil with desire.She quickly became Ms
favorite. Yang Kuei-fei drove the emperor to distraction. He built palaces for
her, spent all Ms time with her, satisfied her every whim. Before long Ms
kingdom was bankrupt and ruined. Yang Kuei-fei was an artful seductress who had
a devastating effect on all of the men who crossed her path. There were so many
ways her presence charmed-the scents, the voice, the movements, the witty
conversation, the artful glances, the embroidered gowns. These pleasurable
details turned a mighty king into a distracted baby. Since time immemorial,
women have known that within the most apparently self-possessed man is an
animal whom they can lead by filling Ms senses with the proper physical lures.
The key is to attack on as many fronts as possible. Do not ignore your voice,
your gestures, your walk, your clothes, your glances. Some of the most alluring
women in history have so distracted their victims with sensual detail that the
men fail to notice it is all an illusion. From the 1940s on into the early
1960s, Pamela Churchill Harriman had a series of affairs with some of the most
prominent and wealthy men in the world-Averill Harriman (whom years later she
married), Gianni Agnelli (heir to the Fiat fortune), Baron Elie de Rothschild.
What attracted these men, and kept them in tMall, was not her beauty or her
lineage or her vivacious personality, but her extraordinary attention to
detail. It began with her attentive look as she listened to your every word,
soaking up your tastes. Once she found her way into your home, she would fill
it with your favorite flowers, get your chef to cook that dish you had tasted
only in the finest restaurants. You mentioned an artist you liked? A few days
later that artist would be attending one of your parties. She found the perfect
antiques for you, dressed in the way that most pleased or excited you, and she
did this without your saying a word-she spied, gathered information from third
parties, overheard you talking to someone else. Harriman's attention to detail
had an intoxicating effect on all the men in her life. It had something in common
with the pampering of a mother, there to bring order and comfort into their
lives, attending to their needs. Life is harsh and competitive. Attending to
detail in a way that is soothing to the other person makes them dependent upon
you. The key is probing their needs in a way that is not too obvious, so that
when you make precisely the right gesture, it seems uncanny, as if you had read
their mind. This is another way of returning your targets to childhood, when
all of their needs were met. In the eyes of women all over the world, Rudolph
Valentino reigned as the Great Lover through much of the 1920s. The qualities
behind Ms appeal certainly included Ms handsome, almost pretty face, Ms dancing
skills, the strangely exciting streak of cruelty in Ms manner. But his perhaps
most endearing trait was his time-consuming approach to courtship. His films
would show him seducing a woman slowly, with careful details- sending her
flowers (choosing the variety to match the mood he wanted to 274 The Art of
Seduction induce), taking her hand, lighting her cigarette, escorting her to
romantic places, leading her on the dance floor. These were silent movies, and
his audiences never got to hear him speak-it was all in his gestures. Men came
to hate him, for their wives and girlfriends now expected the slow, careful
Valentino treatment. Valentino had a feminine streak; it was said that he wooed
a woman the way another woman would. But femininity need not figure in this
approach to seduction. In the early 1770s, Prince Gregory Potemkin began an
affair with Empress Catherine the Great of Russia that was to last many years.
Potemkin was a manly man, and not at all handsome. But he managed to win the
empress's heart by the many little things he did, and continued to do long after
the affair had begun. He spoiled her with wonderful gifts, never tired of
writing her long letters, arranged for all kinds of entertainments forher,
composed songs to her beauty. Yet he would appear before her barefoot, hair
uncombed, clothes wrinkled. There was no kind of fussiness in his attention,
which, however, did make it clear he would go to the ends of the earth for her.
A woman's senses are more refined than a man's; to a woman, Yang Kuei-fei's
overt sensual appeal would seem too hurried and direct. What that means,
though, is that all the man really has to do is take it slowly, making
seduction a ritual full of all kinds of little things he has to do for his
target. If he takes his time, he will have her eating out of his hand.
Everything in seduction is a sign, and nothing more so than clothes. It is not
that you have to dress interestingly, elegantly, or provocatively, but that you
have to dress for your target-have to appeal to your target's tastes. When
Cleopatra was seducing Mark Antony, her dress was not brazenly sexual; she
dressed as a Greek goddess, knowing his weakness for such fantasy figures.
Madame de Pompadour, the mistress of King Louis XV, knew the king's weakness,
his chronic boredom; she constantly wore different clothes, changing not only
their color but their style, supplying the king with a constant feast for his
eyes. Pamela Harriman was subdued in the fashions she wore, befitting her role
as a high-society geisha and reflecting the sober tastes of the men she
seduced. Contrast works well here; at work or at home, you might dress
nonchalantly-Marilyn Monroe, for example, wore jeans and a T-shirt at home-but
when you are with the target you wear something elaborate, as if you were
putting on a costume. Your Cinderella transformation will stir excitement, and
the feeling that you have done somethingjust for the person you are with.
Whenever your attention is individualized (you would not dress like that for
anyone else), it is infinitely more seductive. In the 1870s, Queen Victoria found
herself wooed by Benjamin Disraeli, her own prime minister. Disraeli's words
were flattering and his manner insinuating; he also sent her flowers,
valentines, gifts-but not just any flowers or gifts, the kind that most men
would send. The flowers were primroses, symbols of their simple yet beautiful
friendship. From then on, whenever Victoria saw a primrose she thought of
Disraeli. Or he would Pay Attention to Detail • 275 write on a valentine that
he, "no longer in the sunset, but the twilight of his existence, must
encounter a life of anxiety and toil; but this, too, has its romance, when he
remembers that he labors for the most gracious of beings!" Or he might
send her a little box, with no inscription, but with a heart transfixed by an
arrow on one side and the word "Fideliter," or
"Faithfully,"onthe other. Victoria fell in love with Disraeli. A gift
has immense seductive power, but the object itself is less important than the
gesture, and the subtle thought or emotion that it communicates. Perhaps the
choice relates to something from the target's past, or symbolizes something
between you, or merely represents the lengths you will go to to please. It was
not the money Disraeli spent that impressed Victoria, but the time he took to
find the appropriate thing or make the appropriate gesture. Expensive gifts
have no sentiment attached; they may temporarily excite their recipient but
they are quickly forgotten, as a child forgets a new toy. The object that
reflects its giver's attentiveness has a lingering sentimental power, which
resurfaces every time its owner sees it. In 1919, the Italian writer and war
hero Gabriele D'Annunzio managed to put together a band of followers and take
over the town of Fiume, on the Adriatic coast (now part of Slovenia). They
established their own government there, which lasted for over a year.
D'Annunzio initiated a series of public spectacles that were to be immensely
influential on politicians elsewhere. He would address the public from a
balcony overlooking the town's main square, which would be full of colorful
banners, flags, pagan religious symbols, and, at night, torches. The speeches
would be followed by processions. Although D'Annunzio was not at all a Fascist,
what he did in Fiume crucially affected Benito Mussolini, who borrowed his
Roman salutes, his use of symbols, his mode of public address. Spectacles like
these have been used since then by governments everywhere, even democratic
ones. Their overall impression may be grand, but it is the orchestrated details
that make them work-the number of senses they appeal to, the variety of
emotions they stir. You are aiming to distract people, and nothing is more
distracting than a wealth of detail-fireworks, flags, music, uniforms, marching
soldiers, the feel of the crowd packed together. It becomes difficult to think
straight, particularly if the symbols and details stir up patriotic emotions.
Finally, words are important in seduction, and have a great deal of power to
confuse, distract, and boost the vanity of the target. But what is most
seductive in the long run is what you do not say, what you communicate
indirectly. Words come easily, and people distrust them. Anyone can say the
right words; and once they are said, nothing is binding, and they may even be
forgotten altogether. The gesture, the thoughtful gift, the little details seem
much more real and substantial. They are also much more charming than lofty
words about love, precisely because they speak for themselves and let the
seduced read into them more than is there. Never tell someone what you are
feeling; let them guess it in your looks and gestures. That is the more
convincing language. 276 Symbol: The Banquet. A feast has been prepared in your
honor. Everything has been elaborately coordinated-the flowers, the decorations,
the selection of guests, the dancers, the music, the five-course meal, the
endlessly flowing wine. The Banquet loosens your tongue, and also your
inhibitions. Reversal T here is no reversal. Details are essential to any
successful seduction, and cannot be ignored. 12 Poeticize Your Presence
Important things happen when your targets are alone: the slightestfeeling of
relief that you are not there, and it is all over. Familiarity and overexposure
will cause this reaction. Remain elusive, then, so that when you are away, they
will yearn to see you again, and will associate you only with pleasant
thoughts. Occupy their minds by alternating an exciting presence with a cool
distance, exuberant moments followed by calculated absences. Associate yourself
with poetic images and objects, so that when they think ofyou, they begin to
see you through an idealized halo. The more you figure in their minds, the more
they will envelop you in seductive fantasies. Feed these fantasies by subtle
inconsistencies and changes inyour behavior. Poetic Presence/Absence I n 1943,
the Argentine military overthrew the government. A popular forty-eight-year old
colonel, Juan Peron, was named secretary of labor and social affairs. Peron was
a widow who had a fondness for young girls; at the time of his appointment he
was involved with a teenager whom he introduced to one and all as his daughter.
One evening in January of 1944, Peron was seated among the other military
leaders in a Buenos Aires stadium, attending an artists' festival. It was late
and there were some empty seats around him; out of nowhere two beautiful young
actresses asked his permission to sit down. Were they joking? He would be
delighted. He recognized one of the actresses-it was Eva Duarte, a star of
radio soap operas whose photograph was often on the covers of the tabloids. The
other actress was younger and prettier, but Peron could not take his eyes off
Eva, who was talking to another colonel. She was really not his type at all.
She was twenty-four, far too old for his taste; she was dressed rather
garishly; and there was something a little icy in her manner. But she looked at
him occasionally, and her glance excited him. He looked away for a moment, and
the next thing he knew she had changed seats and was sitting next to him. They
started to talk. She hung on his every word. Yes, everything he said was
precisely how she felt-the poor, the workers, they were the future of
Argentina. She had known poverty herself. There were almost tears in her eyes
when she said, at the end of the conversation, "Thank you for
existing." In the next few days, Eva managed to get rid of Peron's
"daughter" and establish herself in his apartment. Everywhere he
turned, there she was, fixing him meals, caring for him when he was ill, advising
him on politics. Why did he let her stay? Usually he would have a fling with a
superficial young girl, then get rid of her when she seemed to be sticking
around too much. But there was nothing superficial about Eva. As time went by
he found himself getting addicted to the feeling she gave him. She was
intensely loyal, mirroring his every idea, puffing him up endlessly. He felt
more masculine in her presence, that was it, and more powerful-she believed he
would make the country's ideal leader, and her belief affected him. She was
like the women in the tango ballads he loved so much-the suffering women of the
streets who became saintly mother figures and looked after their men. Peron saw
her every day, but he never felt he fully knew her; one day her comments were a
little obscene, the next she was He who does not know how to encircle a girl so
that she loses sight of everything he does not want her to see, he who does not
know how to poetize himself into a girl so that it isfrom her that everything
proceeds as he wants it-he is and remains a bungler. To poetize oneself into a
girl is an art. KIERKEGAARD, THE SEDUCER'S DIARY. What else? If she's out,
reclining in her litter, \ Make your approach discreet, \ And-just to fox the
sharp ears of those around you - \ Cleverly riddle each phrase \ With ambiguous
subtleties. If she's taking a leisurely \ Stroll down the colonnade, then you
stroll there too - \ Vary your pace to hers, march ahead, drop behind her, \
Dawdling and brisk by turns. Be bold, \ Dodge in round the columns between you,
brush your person \ Lingeringly past hers. You must never fail \ 279 280 To
attend the theater when she does, gaze at her beauty - \ From the shoulders up
she's time \ Most delectably spent, a feast for adoring glances, \ For the
eloquence of eyebrows, the speaking sign. \ Applaud when some male dancer
struts on as the heroine, \ Cheer for each lover's role. \ When she leaves,
leave too-but sit there as long as she does: \ Waste time at your mistress's
whim. Get her accustomed to you; \ Habit's the key, spare no pains till that's
achieved. \ Let her always see you around, always hear you talking, \ Showher
your face night and day. \ When you're confident you'll be missed, when your
absence \ Seems sure to cause her regret, \ Then give her some respite: a field
improves when fallow, \ Parched soil soaks up the rain. \ Demophoon 's presence
gave Phyllis no more than mild excitement; \ It was his sailing caused arson in
her heart. \ Penelope was racked by crafty Ulysses's absence, \ Protesilaus,
abroad, made Laodameia burn. \ Short partings do best, though: time wears out
affections, \ The absent lovefades, a new one takes its place. \ With Menelaus
away, Helen's disinclination for sleeping \ Alone led her into her guest's \
Warm bed at night. Were you crazy, Menelaus? - OVID, THE ART OF LOVE.
Concerning the Birth of Love • Here is what happens in the soul: • 1.
Admiration. • 2. You think, "Mow delightful it the perfect lady. He had
one worry: she was angling to get married, and he could never marry her-she was
an actress with a dubious past. The other colonels were already scandalized by
his involvement with her. Nevertheless, the affair went on. In 1945, Peron was
dismissed from his post and jailed. The colonels feared his growing popularity
and distrusted the power of his mistress, who seemed to have total influence
over him. It was the first time in almost two years that he was truly alone,
and truly separated from Eva. Suddenly he felt new emotions sweeping over him:
he pinned her photographs all over the wall. Outside, massive strikes were
being organized to protest his imprisonment, but all he could think about was
Eva. She was a saint, a woman of destiny, a heroine. He wrote to her, "It
is only being apart from loved ones that we can measure our affection. From the
day I left you ... I have not been able to calm my sad heart. . . . My immense
solitude is full of your memory." Now he promised to marry her. The
strikes grew in intensity. After eight days, Peron was released from prison; he
promptly married Eva. A few months later he was elected president. As first
lady, Eva attended state functions in her somewhat gaudy dresses andjewelry;
she was seen as a former actress with a large wardrobe. Then, in 1947, she left
for a tour of Europe, and Argentines followed her every move-the ecstatic
crowds that greeted her in Spain, her audience with the pope-and in her absence
their opinion of her changed. How well she represented the Argentine spirit,
its noble simplicity, its flair for drama. When she returned a few weeks later,
they overwhelmed her with attention. Eva too had changed during her trip to
Europe: now her dyed blond hair was pulled into a severe chignon, and she wore
tailored suits. It was a serious look, befitting a woman who was to become the
savior of the poor. Soon her image could be seen everywhere-her initials on the
walls, the sheets, the towels of the hospitals for the poor; her profile on the
jerseys of a soccer team from the poorest part of Argentina, whose club she sponsored;
her giant smiling face covering the sides of buildings. Since finding out
anything personal about her had become impossible, all kinds of elaborate
fantasies began to spring up about her. And when cancer cut her life short, in
1952, at the age of thirty-three (the age of Christ when he died), the country
went into mourning. Millions filed past her embalmed body. She was no longer a
radio actress, a wife, a first lady, but Evita, a saint. Interpretation. Eva
Duarte was an illegitimate child who had grown up in poverty, escaped to Buenos
Aires to become an actress, and been forced to do many tawdry things to survive
and get ahead in the theater world. Her dream was to escape all of the
constraints on her future, for she was intensely ambitious. Peron was the
perfect victim. He imagined himself a great leader, but the reality was that he
was fast becoming a lecherous old man who was too weak to raise himself up. Eva
injected poetry into his Poeticize Your Presence • 281 life. Her language was
florid and theatrical; she surrounded him with attention, indeed to the point
of suffocation, but a woman's dutiful service to a great man was a classic
image, and was celebrated in innumerable tango ballads. Yet she managed to
remain elusive, mysterious, like a movie star you see all the time on the
screen but never really know. And when Peron was finally alone, in prison,
these poetic images and associations burst forth in his mind. He idealized her
madly; as far as he was concerned, she was no longer an actress with a tawdry
past. She seduced an entire nation the same way. The secret was her dramatic
poetic presence, combined with a touch of elusive distance; over time, you
would see whatever you wanted to in her. To this day people fantasize about
what Eva was really like. Familiarity destroys seduction. This rarely happens
early on; there is so much to leam about a new person. But a midpoint may
arrive when the target has begun to idealize and fantasize about you, only to
discover that you are not what he or she thought. It is not a question of being
seen too often, of being too available, as some imagine. In fact, if your
targets see you too rarely, you give them nothing to feed on, and their
attention may be caught by someone else; you have to occupy their mind. It is
more a matter of being too consistent, too obvious, too human and real. Your
targets cannot idealize you if they know too much about you, if they start to
see you as all too human. Not only must you maintain a degree of distance, but
there must be something fantastical and bewitching about you, sparking all
kinds of delightful possibilities in their mind. The possibility Eva held out
was the possibility that she was what in Argentine culture was considered the
ideal woman-devoted, motherly, saintly-but there are any number of poetic
ideals you can try to embody. Chivalry, adventure, romance, and so on, are just
as potent, and if you have a whiff of them about you, you can breathe enough
poetry into the air to fill people's minds with fantasies and dreams. At all
costs, you must embody something, even if it is roguery and evil. Anything to
avoid the taint of familiarity and commonness. What I need is a woman who is
something, anything; either very beautiful or very kind or in the last resort
very wicked; very witty or very stupid, but something. -ALFRED DE MUSSET Keys
to Seduction W e all have a self-image that is more flattering than the truth;
we think of ourselves as more generous, selfless, honest, kindly, intelligent,
or good-looking than in fact we are. It is extremely difficult for us to be
honest with ourselves about our own limitations; we have a desperate need to
idealize ourselves. As the writer Angela Carter remarks, we would rather align
ourselves with angels than with the higher primates from which we are actually
descended. would be to kiss her, to be kissed by her," and so on. .Hope.
You observe her perfections, and it is at this moment that a woman really ought
to surrender, for the utmost physical pleasure. Even the most reserved women
blush to the whites of their eyes at this moment of hope. The passion is so
strong, and the pleasure so sharp, that they betray themselves unmistakably. •
4. Love is born. To love is to enjoy seeing, touching, and sensing with all the
senses, as closely as possible, a lovable object which loves in return. The
first crystallization begins. If you are sure that a woman loves you, it is a
pleasure to endow her with a thousand perfections and to count your blessings
with infinite satisfaction. In the end you overrate wildly, and regard her as
something fallen from Heaven, unknown as yet, but certain to be yours. • Leave
a lover with his thoughts for twenty four hours, and this is what will happen:
• At the salt mines of Salzburg, they throw a leafless wintry bough into one of
the abandoned workings. Two or three months later they haul it out covered with
a shining deposit of crystals. The smallest twig, no bigger than a tom-tit's
claw, is studded with a galaxy of scintillating diamonds. The original branch
is no longer recognizable. • What I have called crystallization is a mental
process which draws from everything that happens new proofs of the perfection
of the loved one. . . . • A man in love sees every perfection in the object of
his love, but his attention is liable to 282 wander after a time because one
gets tired of anything uniform, even perfect happiness. • This is what happens
next to fix the attention: Doubt creeps in. . . . He is met indifference,
coldness, or even anger if he appears confident. . . . The lover begins to be
less sure the good fortune he was grounds for hope to a critical examination. •
He to recoup by indulging in other pleasures but finds them inane. He is seized
the dread of a frightful calamity and now concentrates fully. Thus : The second
, which deposits diamond layers of that "she loves me." • Every few
minutes the night which follows the birth of doubt, the lover has a moment of
dreadful misgiving, and then reassures himself "she loves me"; and
crystallization begins to reveal new charms. Then once again the haggard eye of
doubt pierces him and he This need to idealize extends to our romantic
entanglements, because of ourselves. The choice we make in deciding to become
involved with another person reveals something important and intimate about us:
we seeing ourselves as having fallen for someone whoischeapor tacky or
tasteless, because it reflects badly on who we are. Furthermore, we are often
likely to fall for someone who resembles us in some way. Should that person be
deficient, or worst of all ordinary, then there is something deficient and
ordinary about us. No, at all costs the loved one must be overvalued and
idealized, at least for the sake of our own self-esteem. Besides, in a world
that is harsh and full of disappointment, it is a great pleasure to be able to
fantasize about a person you are involved with. This makes the seducer's task
easy: people are dying to be given the chance to fantasize about you. Do not
spoil this golden opportunity by overexposing yourself, or becoming so familiar
and banal that the target sees you exactly as you are. You do not have to be an
angel, or a paragon of virtue-that would be quite boring. You can be dangerous,
naughty, even somewhat vulgar, depending on the tastes of your victim. But
never be oror limited. In poetry (as opposed to reality), anything is possible.
Soon after we fall under a person's spell, we form an image in our minds of who
they are and what pleasures they might offer. Thinking of them when we are
alone, we tend to make this image more and more idealized. The novelist
Stendhal, in his book On Love, calls this phenomenon
"crystallization," telling the story of how, in Salzburg,Austria,
they used to throw a leafless branch into the abandoned depths of a salt mine
in the middle of winter. When the branch was pulled out months later, it would
be covered with spectacular crystals. That is what happens to a loved one in
minds. stops transfixed. He forgets to draw breath and mutters, "But does
she love me?" Torn between doubt and delight, the poor lover convinces
himself that she could give him such pleasure as he could find nowhere else on
earth. -STENDHAL, LOVE, Falling in love automatically tends toward madness.
Left to itself it goes to utter extremes. This is well known by the "conquistadors
" of both sexes. Once a woman's According to Stendhal, though, there are
two crystallizations. The first happens when we first meet the person. The
second and more important one happens later, when a bit of doubt creeps in-you
desire the other person, but they elude you, you are not sure they are yours.
This bit of doubt is critical-it makes your imagination work double, deepens
the poeticizing process. In the seventeenth century, the great rake the Due de
Lauzun pulled off one of the most spectacular seductions in history-that of the
Mademoiselle, the cousin of King Louis XTV, and the wealthiest and most
powerful woman in France. He tickled her imagination with a few brief
encounters at the court, letting her catch glimpses of his wit, his audacity,
his cool manner. She would begin to think of him when she was alone. Next she
started to bump into him more often at court, and they would have little
conversations or walks. When these meetings were over, she would be left with a
doubt: is he or is he not interested in me? This made her want to see him more,
in order to allay her doubts. She began to idealize him all out of proportion
to the reality, for the duke was an incorrigible scoundrel. Remember: if you
are easily had, you cannot be worth that much. It is Poeticize Your Presence •
283 hard to wax poetic about a person who comes so cheaply. If, after the
initial interest, you make it clear that you cannot be taken for granted, if
you stir a bit of doubt, the target will imagine there is something special,
lofty, and unattainable about you. Your image will crystallize in the other
person's mind. Cleopatra knew that she was really no different from any other
woman, and in fact her face was not particularly beautiful. But she knew that
men have a tendency to overvalue a woman. All that is required is to hint that
there is something different about you, to make them associate you with
something grand or poetic. She made Caesar aware of her connection to the great
kings and queens of Egypt's past; with Antony, she created the fantasy that she
was descended from Aphrodite herself. These men were cavorting not just with a
strong-willed woman but a kind of goddess. Such associations might be difficult
to pull off today, but people still get deep pleasure from associating others
with some kind of childhood fantasy figure. John F. Kennedy presented himself
as a figure of chivalry-noble, brave, charming. Pablo Picasso was not just a
great painter with a thirst for young girls, he was the Minotaur of Greek legend,
or the devilish trickster figure that is so seductive to women. These
associations should not be made too early; they are only powerful once the
target has begun to fall under your spell, and is vulnerable to suggestion. A
man who had just met Cleopatra would have found the Aphrodite association
ludicrous. But a person who is falling in love will believe almost anything.
The trick is to associate your image with something mythic, through the clothes
you wear, the things you say, the places you go. In Marcel Proust's novel
Remembrance of Things Past, the character Swann finds himself gradually seduced
by a woman who is not really his type. He is an aesthete, and loves the finer
things in life. She is of a lower class, less refined, even a little tasteless.
What poeticizes her in his mind is a series of exuberant moments they share
together, moments that from then on he associates with her. One of these is a
concert in a salon that they attend, in which he is intoxicated by a little
melody in a sonata. Whenever he thinks of her, he remembers this little phrase.
Little gifts she has given him, objects she has touched or handled, begin to
assume a life of their own. Any kind of heightened experience, artistic or
spiritual, lingers in the mind much longer than normal experience. You must
find a way to share such moments with your targets-a concert, a play, a
spiritual encounter, whatever it takes-so that they associate something
elevated with you. Shared moments of exuberance have immense seductive pull.
Also, any kind of object can be imbued with poetic resonance and sentimental
associations, as discussed in the last chapter. The gifts you give and other
objects can become imbued with your presence; if they are associated with
pleasant memories, the sight of them keeps you in mind and accelerates the
poeti- cization process. Although it is said that absence makes the heart grow
fonder, an absence too early will prove deadly to the crystallization process.
Like Eva attention is fixed upon a man, it is very easy for him to dominate her
thoughts completely. A simple game of blowing hot and cold, of solicitousness
and disdain, of presence and absence isallthatisrequired. The rhythm of that
techniqueacts upon a woman's attention like a pneumatic machine and ends by emptying
her of all the rest of the world. How well our people put it: "to suck
one's senses"! In fact: one is absorbed-absorbed by an object! Most
"love affairs" are reduced to this mechanical play of the beloved
upon the lover's attention. • The only thing that can save a lover is a violent
shock from the outside, a treatment which is forced upon him. Many think that
absence and long trips are a good cure for lovers. Observe that these are cures
for one's attention. Distance from the beloved starves our attention toward
him; it prevents anything further from rekindling the attention. Journeys, by
physically obliging us to come out of ourselves and resolve hundreds of little
problems, by uprooting us from our habitual setting and forcing hundreds of
unexpected objects upon us, succeed in breaking down the maniac's haven and
opening channels in his sealed consciousness, through which fresh air and
normal perspective enter. - JOS6 ORTEGA Y GASSET, ON LOVE: ASPECTS OF A SINGLE
THEME, Excessive familiarity can destroy
crystallization. A charming girl of sixteen was becoming too fond of ahandsome
young man of the same age, who used to make a practice of passing beneath her
window every evening at nightfall. Her mother invited him to Peron, you must
surround your targets with focused attention, so that in those critical moments
when they are alone, their mind is spinning with a kind of afterglow. Do
everything you can to keep the target thinking about you. Letters, mementos,
gifts, unexpected meetings-all these give you an omnipresence. Everything must
remind them of you. Finally, if your targets should see you as elevated and
poetic, there is much to be gained by making them feel elevated and poeticized
in their turn. The French writer Chateaubriand would make a woman feel like a
spend a week with them in the country. It was a bold remedy, I admit, but the
girl was of a romantic disposition, and the young man a trifle dull; within
three days she despised him. -STENDHAL, LOVE, goddess, she had such a powerful
effect on him. He would send her poems that she supposedly had inspired. To
make Queen Victoria feel as if she were both a seductive woman and a great
leader, Benjamin Disraeli would compare her to mythological figures and great
predecessors, such as Queen Elizabeth I. By idealizing your targets this way,
you will make them idealize you in return, since you must be equally great to
be able to appreciate and see all of their fine qualities. They will also grow
addicted to the elevatedfeeling you give them. Symbol: The Halo.Slowly, when
the target is alone, he or she begins to imagine a kind of faint glow around
your head, formed by all of the possible pleasures you might offer, the
radiance of your charged presence, your noble qualities. The Halo separates
youfrom other people. Do not make it disappear by becoming familiar and
ordinary. Reversal I t might seem that the reverse tactic would be to reveal
everything about yourself, to be completely honest about your faults and
virtues. This kind of sincerity was a quality Lord Byron had-he almost got a
thrill out of disclosing all of his nasty, ugly qualities, even going so far,
later on in his life, as to tell people about his incestuous involvements with
his half sister. This kind of dangerous intimacy can be immensely seductive.
The target will poeticize your vices, and your honesty about them; they will
start to see more than is there. In other words, the idealization process is
unavoidable. The only thing that cannot be idealized is mediocrity, but there
is nothing seductive about mediocrity. There is no possible way to seduce
without creating some kind of fantasy and poeticization. 13 Disarm Through
Strategic Weakness and Vulnerability Too much maneuvering on your part may
raisesuspicion. The best way to cover your tracks is to make the other person
feel superior and stronger. If you seem to be weak, vulnerable, enthralled by
the other person, and unable to control yourself, you will make your actions
look more natural, less calculated. Physical weakness - tears, bashfulness,
paleness-will help create the effect, To further win trust, exchange honesty
for virtue: establish your "sincerity" by confessing some sin on your
part-it doesn't have to be real. Sincerity is more important than goodness.
Play the victim, then transform your target's sympathy into love. The Victim
Strategy T hat sweltering August in the 1770s when the Presidente de Tourvel
was visiting the chateau of her old friend Madame de Rosemonde, leaving her
husband at home, she was expecting to be enjoying the peace and quiet of
country life more or less on her own. But she loved the simple pleasures, and
soon her daily life at the chateau assumed a comfortable pattern-daily Mass,
walks in the country, charitable work in the neighboring villages, card games
in the evening. When Madame de Rosemonde's nephew arrived for a visit, then,
the Presidente felt uncomfortable-but also curious. The nephew, the Vicomte de
Valmont, was the most notorious libertine in Paris. He was certainly handsome,
but he was not what she had expected: he seemedsad, somewhat downtrodden, and
strangest of all, he paid hardly any attention to her. The Presidente was no
coquette; she dressed simply, ignored fashions, and loved her husband. Still,
she was young and beautiful, and was used to fending off men's attentions. In
the back of her mind, she was slightly perturbed that he took so little notice
of her. Then, at Mass one day, she caught a glimpse of Valmont apparently lost
in prayer. The idea dawned on her that he was in the midst of a period of
soul-searching. As soon as word had leaked out that Valmont was at the chateau,
the Presidente had received a letter from a friend warning her against this
dangerous man. But she thought of herself as the last woman in the world to be
vulnerable to him. Besides, he seemed on the verge of repenting his evil past;
perhaps she could help move him in that direction. What a wonderful victory
that would be for God. And so the Presidente took note of Val- mont's comings
and goings, trying to understand what was happening in his head. It was
strange, for instance, that he would often leave in the morning to go hunting,
yet would never return with any game. One day, she decided to have her servant
do a little harmless spying, and she was amazed and delighted to learn that
Valmont had not gone hunting at all; he had visited a local village, where he
had doled out money to a poor family about to be evicted from their home. Yes,
she was right, his passionate soul was moving from sensuality to virtue. How
happy that made her feel. That evening, Valmont and the Presidente found
themselves alone for the first time, and Valmont suddenly burst out with a
startling confession. He was head-over-heels in love with the Presidente, and
with a love he had The weak ones do have a power over us. The clear, forceful
ones I can do without. I am weak and indecisive by nature myself and a woman
who is quiet and withdrawn and follows the wishes of a man even to the point of
letting herself be used has much the greater appeal. A man can shape and mold
her as he wishes, and becomes fonder of her all the while. -MURASAKI SHIKIBU,
THE TALE OF GENJI. Hera, daughter of Cronus and Rhea, having been born on the
island of Samos or, some say, at Argos, was brought up in Arcadia by Temenus,
sou of Pelasgus. The Seasons were her nurses. After banishing theirfather
Cronus, Hera's twin brother Zeus sought her out at Cnossus in Crete or, some
say, on Mount Thornax (now called Cuckoo Mountain) in Argolis, where he courted
her, at first unsuccessfully. She took pity on him only when he adopted the 287
288 disguise of a bedraggled cuckoo and tenderly warmed him in her bosom. There
he at once resumed his true shape and ravished her, so that she was shamed into
marrying him. -ROBERT GRAVES, THE GREEK MYTHS In a strategy (?) of seduction
one draws the other into one's area of weakness, which is also his or her area
of weakness. A calculated weakness, an incalculable weakness: one challenges
the other to be taken i n . . . . • To seduce is to appear weak. To seduce is
to render weak. We seduce with our weakness, never with strong signs or powers.
In seduction we enact this weakness, and this is what gives seduction its
strength. • We seduce with our death, our vulnerability, and with the void that
haunts us. The secret is to know how to play with death in the absence of a
gaze or gesture, in the absence of knowledge or meaning. • Psychoanalysis tells
us to assume our fragility and passivity, but in almost religious terms, turns
them into aform of resignation and acceptance in order to promote a well-
tempered psychic equilibrium. Seduction, by contrast, plays trumph- antty with
weakness, making a game of it, with its own rules. -JEAN BAUDRILLARD, SEDUCTION
never experienced before: her virtue, her goodness, her beauty, her kind ways
had completely overwhelmed him. His generosity to the poor that afternoon had
been for her sake-perhaps inspired by her, perhaps something more sinister: it
had been to impress her. He would never have confessed to this, but finding
himself alone with her, he could not control his emotions. Then he got down on
his knees and begged for her to help him, to guide him in his misery. The
Presidente was caught off guard, and began to cry. Intensely embarrassed, she
ran from the room, and for the next few days pretended to be ill. She did not
know how to react to the letters Valmont now began to send her, begging her to
forgive him. He praised her beautiful face and her beautiful soul, and claimed
she had made him rethink his whole life. These emotional letters produced
disturbing emotions, and Tourvel prided herself on her calmness and prudence.
She knew she should insist that he leave the chateau, and wrote him to that
effect; he reluctantly agreed, but on one condition-that she allow him to write
to her from Paris. She consented, as long as the letters were not offensive.
When he told Madame de Rose- monde that he was leaving, the Presidente felt a
pang of guilt: his hostess and aunt would miss him, and he looked so pale. He
was obviously suffering. Now the letters from Valmont began to arrive, and
Tourvel soon regretted allowing him this liberty. He ignored her request that
heavoid the subject of love-indeed he vowed to love her forever. He rebuked her
for her coldness and insensitivity. He explained his bad path in life-it was
not his fault, he had had no direction, had been led astray by others. Without
her help he would fall back into that world. Do not be cruel, he said, you are
the one who seduced me. I am your slave, the victim of your charms and
goodness; since you are strong, and do not feel as I do, you have nothing to
fear. Indeed the Presidente de Tourvel came to pity Valmont-he seemed so weak,
so out of control. How could she help him? And why was she even thinking of
him, which she now did more and more? She was a happily married woman. No, she
must at least put an end to this tiresome correspondence. No more talk of love,
she wrote, or she would not reply. His letters stopped coming. She felt relief.
Finally some peace and quiet. One evening, however, as she was seated at the
dinner table, she suddenly heard Valmont's voice from behind her, addressing
Madame de Rose- monde. On the spur of the moment, he said, he had decided to
return for a short visit. She felt a shiver up and down her spine, her face
flushed; he approached and sat down beside her. He looked at her, she looked
away, and soon made an excuse to leave the table and go up to her room. But she
could not completely avoid him over the next few days, and she saw that he seemed
paler than ever. He was polite, and a whole day might pass without her seeing
him, but these brief absences had a paradoxical effect: now Tourvel realized
what had happened. She missed him, she wanted to see him. This paragon of
virtue and goodness had somehow fallen in love with an incorrigible rake.
Disgusted with herself and what she had allowed to Disarm Through Strategic
Weakness and Vulnerability • 289 happen, she left the chateau in the middle of
the night, without telling anyone, and headed for Paris, where she planned
somehow to repent this awful sin. Interpretation. The character of Valmont in
Choderlos de Laclos's epistolary novel Dangerous Liaisons is based on several
of the great real-life libertines of eighteenth-century France. Everything Valmont
does is calculated for effect-the ambiguous actions that make Tourvel curious
about him, the act of charity in the village (he knows he is being followed),
the return visit to the chateau, the paleness of his face (he is having an
affair with a girl at the chateau, and their all-night carousals give him a
wasted look). Most devastating of all is his positioning of himself as the weak
one, the seduced, the victim. How can the Presidente imagine he is manipulating
her when everything suggests he is simplyoverwhelmed by her beauty, whether
physical or spiritual? He cannot be a deceiver when he repeatedly makes a point
of confessing the "truth" about himself: he admits that his charity
was questionably motivated, he explains why he has gone astray, he lets her in
on his emotions. (All of this "honesty," of course, is calculated.)
In essence he is like a woman, or at least like a woman of those times-
emotional, unable to control himself, moody, insecure. She is the one who is
cold and cruel, like a man. In positioning himself as Tourvel's victim, Valmont
can not only disguise his manipulations but elicit pity and concern. Playing
the victim, he can stir up the tender emotions produced by a sick child or a
wounded animal. And these emotions are easily channeled into love-as the
Presidente discovers to her dismay. Seduction is a game of reducing suspicion
and resistance. The cleverest way to do this is to make the other person feel
stronger, more in control of things. Suspicion usually comes out of insecurity;
if your targets feel superior and secure in your presence, they are unlikely to
doubt your motives. You are too weak, too emotional, to be up to something.
Take this game as far as it will go. Flaunt your emotions and how deeply they
have affected you. Making people feel the power they have over you is immensely
flattering to them. Confess to something bad, or even to something bad that you
did, or contemplated doing, to them. Honesty is more important than virtue, and
one honest gesture will blind them to many deceitful acts. Create an impression
of weakness-physical, mental, emotional. Strength and confidence can be
frightening. Make your weakness a comfort, and play the victim-of their power
over you, of circumstances, of life in general. This is the best way to cover
your tracks. You know, a man ain't worth a damn if he can't cry at the right
time. -LYNDON BAINES JOHNSON The old American proverb says if you want to con
someone, you must first get him to trust you, or at least feel superior to you
(these two ideas are related), and get him to let down his guard. The proverb
explains a great deal about television commercials. If we assume that people
are not stupid, they must react to TV commercials with a feeling of superiority
that permits them to believe they are in control. As long as this illusion of
volition persists, they would consciously have nothing to fear from the
commercials. People are prone to trust anything over which they believe they
have control. ..." TV commercials appear foolish, clumsy, and ineffectual
on purpose. They are made to appear this way at the conscious level in order to
be consciously ridiculed and rejected. . . . Most ad men will confirm that over
the years the seemingly worst commercials have sold the best. An effective TV
commercial is purposefully designed to insult the viewer's conscious
intelligence, thereby penetrating his defenses. -WILSON BRYAN KEY, SUBLIMINAL
SEDUCTION It takes great art to use bashfulness, but one does achieve a great
deal with it. How often I have used bashfulness to trick a little miss!
Ordinarily, young girls speak very harshly about bashful men, but secretly they
like them. A little bashfulness flatters a teenage girl's vanity, makes her
feel superior; it is her 290 earnest money. When they are lulled to sleep, then
at the very time they believe you are about to perish from bashfulness, you
show them that you are so far from it that you are quite self-reliant.
Bashfulness makes a man lose his masculine significance, and therefore it is a
relatively good means for neutralizing the sex relation. -S0REN KIERKEGAARD,
THE SEDUCER'S DIARY. Yet anotherform of Charity is there, which is oft times
practised towards poor prisoners who are shut up in dungeons and robbed of all
enjoyments with women. On such do the gaolers' wives and women that have charge
over them, or chatelaines who have prisoners of war in their Castle, take pity
and give them share of their love out of very charity and mercifulness. . . . •
Thus do these gaolers' wives, noble chatelaines and others, treat their
prisoners, the which, captive and unhappy though they be, yet cease not for
that to feel the prickings of the flesh, as much as ever they did in their best
days. ...• To confirm what I say, I will instance a tale that Captain Beaulieu,
Captain of the King's Galleys, of whom I have before spoke once and again, did
tell me. He was in the service of the late Grand Prior of France, a member of
the house of Lorraine, who was much attached to him. Going one time to take his
patron on board at Malta in a Keys to Seduction W e all have weaknesses,
vulnerabilities, frailnesses in our mental makeup. Perhaps we are shy or
oversensitive, or need attention- whatever the weakness is, it is something we
cannot control. We may try to compensate for it, or to hide it, but this is
often a mistake: people sense something inauthentic or unnatural. Remember:
what is natural to your character is inherently seductive. A person's
vulnerability, what they seem to be unable to control, is often what is most
seductive about them. People who display no weaknesses, on the other hand,
often elicit envy, fear, and anger-we want to sabotage themjust to bring them
down.Do not struggle against your vulnerabilities, or try to repressthem,butput
them into play. Learn to transform them into power. The game is subtle: if you
wallow in your weakness, overplay your hand, you will be seen as angling for
sympathy, or, worse, as pathetic. No, what works best is to allow people an
occasional glimpse into the soft, frail side of your character, and usually
only after they have known you for a while. That glimpse will humanize you,
lowering their suspicions, and preparing the ground for a deeper attachment.
Normally strong and in control, at moments you let go, give in to your weakness,
let them see it. Valmont used his weakness this way. He had lost his innocence
long ago, and yet, somewhere inside, he regretted it. He was vulnerable to
someone truly innocent. His seduction of the Presidente was successful because
it was not totally an act; there was a genuine weakness on his part, which even
allowed him to cry at times. He let the Presidente see this side to him at key
moments, in order to disarm her. Like Valmont, you can be acting and sincere at
the same time. Suppose you are genuinely shy-at certain moments, give your
shyness a little weight, lay it on a little thick. It should be easy for you to
embellish a quality you already have. After Lord Byron published his first
major poem, in 1812, he became an instant celebrity. Beyond being a talented
writer, he was so handsome, even pretty, and he was as brooding and enigmatic
as the characters he wrote about. Women went wild over Lord Byron. He had an
infamous "underlook," slightly lowering his head and glancing upward
at a woman, making her tremble. But Byron had other qualities: when you first
met him, you could not help noticing his fidgety movements, his ill-fitting
clothes, his strange shyness, and his noticeable limp. This infamous man, who
scorned all conventions and seemed so dangerous, was personally insecure and
vulnerable. In Byron's poem Don Juan, the hero is less a seducer of women than
a man constantly pursued by them. The poem was autobiographical; women wanted
to take care of this somewhat fragile man, who seemed to have little control
over his emotions. More than a century later, John F. Kennedy, as a boy, became
obsessed with Byron, the man he most wanted to emulate. He even tried to borrow
Byron's "underlook." Kennedy himself was a frail youth, with constant
health problems. He was also a little pretty, and friends Disarm Through
Strategic Weakness and Vulnerability • 291 saw something slightly feminine in
him. Kennedy's weaknesses-physical and mental, for he too was insecure, shy,
and oversensitive-were exactly what drew women to him. If Byron and Kennedy had
tried to cover up their vulnerabilities with a masculine swagger they would
have had no seductive charm. Instead, they learned how to subtly display their
weaknesses, letting women sense this soft side to them. There are fears and
insecurities peculiar to each sex; your use of strategic weakness must always
take these differences into account. A woman, for instance, may be attracted by
a man's strength and self-confidence, but too much of it can create fear,
seeming unnatural, even ugly Particularly intimidating is the sense that the
man is cold and unfeeling. She may feel insecure that he is only after sex, and
nothing else. Male seducers long ago learned to become more feminine-to show
their emotions, and to seem interested in their targets' lives. The medieval
troubadours were the first to master this strategy; they wrote poetry in honor
of women, emoted endlessly about their feelings, and spent hours in their
ladies' boudoirs, listening to the women's complaints and soaking up their
spirit. In return for their willingness to play weak, the troubadours earned
the right to love. Little has changed since then. Some of the greatest seducers
in recent history-Gabriele D' Annunzio, Duke Ellington, Errol Flynn-understood
the value of acting slavishly to a woman, like a troubadour on bended knee. The
key is to indulge your softer side while still remaininasmasculineas possible.
This may include an occasional show of bashfulness, which the philosopher Sprcn
Kierkegaard thought an extremely seductive tactic for a man-it gives the woman
a sense of comfort, and even of superiority. Remember, though, to keep
everything in moderation. A glimpse of shyness is sufficient; too much of it
and the target will despair, afraid that she will end up having to do all the
work. man's fears and insecurities often concern his sense of masculinity; he
usually will feel threatened by a woman who is too overtly manipulative, who is
too much in control. The greatest seductresses in history knew how to cover up
their manipulations by playing the little girl in need of masculine protection.
A famous courtesan of ancient China, Su Shou, used to make up her face to look
particularly pale and weak. She would also walk in a way that made her seem
frail. The great nineteenth-century courtesan Pearl would literally dress and
act like a little girl. Marilyn Monroe knew how to give the impression that she
depended on a man's strength to survive. In all of these instances, the women
were the ones in control of the dynamic, boosting a man's sense of masculinity
in order to ultimately enslave him. To make this most effective, a woman should
seem both in need of protection and sexually excitable, giving the man his
ultimate fantasy. The Empress Josephine, wife of Napoleon Bonaparte, won
dominance over her husband early on through a calculated coquetry. Later on,
though, she held on to that power through her constant-and not so innocent-use
of tears. Seeing someone cry usually has an immediate effect on our emo-
frigate, he was taken by the Sicilian galleys, and carried prisoner to the
Castel-a- mare at Palermo, where he was shut up in an exceeding narrow, dark
and wretched dungeon, and very ill entreated by the space of three months. By
good hap the Governor of the Castle, who was a Spaniard, had two very fair
daughters, who hearing him complaining and making moan, did one day ask leave
of theirfather to visit him, for the honor of the good God; and this he did
freely give them permission to do. And seeing the Captain was of a surety a
right gallant gentleman, and as ready- tongued as most, he was able so to
withem over at this, the very first visit, that they did gain their father's
leave for him to quit his wretched dungeon and to be put in a seemly enough
chamber and receive better treatment. Nor was this all, for they did crave and
get permission to come and see him freely every day and converse with him. •
And this didfall out so well that presently both the twain of them were in love
with him, albeit he was not handsome to look upon, and they very fair ladies.
And so, without a thought of the chance of more rigorous imprisonment or even
death, but rather tempted by such opportunities, he did set himself to the
enjoyment of the two girls with good will and hearty appetite. And these
pleasures did continue without any scandal, for so fortunate was he in this
conquest of his for the space of eight whole months, that no scandal did ever
hap all that time, and no ill, 292 inconvenience, nor any surprise or discovery
at all. For indeed the two sisters had so good an understanding between them
and did so generously lend a hand to each other and so obligingly play sentinel
to one another, that no ill hap did ever occur. And he swore to me, being my
very intimate friend as he was, that never in his days of greatest liberty had
he enjoyed so excellent entertainment orfelt keener ardor or better appetitefor
it than in the said prison-which truly was a right good prison for him,
albeitfolk say no prison can be good. And this happy time did continue for the
space of eight months, till the truce was made betwixt the Emperor and Henri
II., King of France, whereby all prisoners did leave their dungeons and were
released. He sware that never was he more grieved than at quitting this good prison
of his, but was exceeding sorry to leave thesefair maids, with whom he was in
such high favor, and who did express all possible regrets at his departing.
-SEIGNEUR DE BRANT6ME, LIVES OF FAIR & GALLANT LADIES. TRANSLATED BY A. R.
ALLINSON tions: we cannot remain neutral. We feel sympathy, and most often will
do anything to stop the tears-including things that we normally would not do.
Weeping is an incredibly potent tactic, but the weeper is not always so
innocent. There is usually something real behind the tears, but there may also
be an element of acting, of playing for effect. (And if the target senses this
the tactic is doomed.) Beyond the emotional impact of tears, there is something
seductive about sadness. We want to comfort the other person, and as Tourvel
discovered, that desire quickly turns into love. Affecting sadness, even crying
sometimes, has great strategic value, even for a man. It is a skill you can
learn. The central character of the eighteenth-century French novel Marianne,
by Marivaux, would think of something sad in her past to make herself cry or
look sad in the present. Use tears sparingly, and save them for the right
moment. Perhaps this might be a time when the target seems suspicious of your
motives, or when you are worrying about having no effect on him or her. Tears
are a sure barometer of how deeply the other person is falling for you. If they
seem annoyed, or resist the bait, your case is probably hopeless. In social and
political situations, seeming too ambitious, or too controlled, will make
people fear you; it is crucial to show your soft side. The display of a single
weakness will hide a multitude of manipulations. Emotion or even tears will
work here too. Most seductive of all is playing the victim. For his first
speech in Parliament, Benjamin Disraeli prepared an elaborate oration, but when
he delivered it the opposition yelled and laughed so loudly that hardly any of
it could be heard. He plowed ahead and gave the whole speech, but by the time
he sat down he felt he had failed miserably. Much to his amazement, his
colleagues told him the speech was a marvelous success. It would have been a
failure if he had complained or given up; but by going ahead as he did, he
positioned himself as the victim of a cruel and unreasonable faction. Almost
everyone sympathized with him now, which would serve him well in the future.
Attacking your mean-spirited opponents can make you seem ugly as well; instead,
soak up their blows, and play the victim. The public will rally to your side,
in an emotional response that will lay the groundwork for a grand political
seduction. Symbol: The Blemish. A beautifulface is a delight to look at, but if
it is too perfect it leaves us cold, and even slightly intimidated. It is the
little mole, the beauty mark, that makes the face human and lovable. So do not
conceal all of your blemishes. You need them to soften your features and elicit
tender feelings. Disarm Through Strategic Weakness and Vulnerability • 293
Reversal T iming is everything in seduction; you should always look for signs
that the target is falling under your spell. A person falling in love tends to
ignore the other person's weaknesses, or to see them as endearing. An
unseduced, rational person, on the other hand, may find bashfulness or emotional
outbursts pathetic. There are also certain weaknesses that have no seductive
value, no matter how in love the target may be. The great seventeenth-century
courtesan Ninon de l'Enclos liked men with a soft side. But sometimes a man
would go too far, complaining that she did not love him enough, that she was
too fickle and independent, that he was beingmistreatedandwronged. For Ninon,
such behavior would break the spell, and she would quickly end the
relationship. Complaining, whining, neediness, and actively appealing for
sympathy will appear to your targets not as charming weaknesses but as
manipulative attempts at a kind of negative power. So when you play the victim,
do it subtly, without overadvertising it. The only weaknesses worth playing up
are the ones that will make you seem lovable. All others should be repressed
and eradicated at all costs. H Confuse Desire and Reality- The Perfect Illusion
To compensate for the difficulties in their lives, people spend a lot of their
time daydreaming, imagining a future full of adventure, success, and romance.
If you can create the illusion that through you they can live out their dreams,
you will have them at your mercy. It is important to start slowly, gaining
their trust, and gradually constructing the fantasy that matches their desires.
Aim at secret wishes that have been thwarted or repressed, stirring up
uncontrollable emotions, clouding their powers of reason. The perfect illusion
is one that does not depart too muchfrom reality, but has a touch of the unreal
to it, like a waking dream, head the seduced to a point of confusion in which
they can no longer tell the difference between illusion and reality. Fantasy in
the Flesh I n 1964, a twenty-year-old Frenchman named Bernard Bouriscout
arrived in Beijing, China, to work as an accountant in the French embassy. His
first weeks there were not what he had expected. Bouriscout had grown up in the
French provinces, dreaming of travel and adventure. When he had been assigned
to come to China, images of the Forbidden City, and of the gambling dens of
Macao, had danced in his mind. But this was Communist China, and contact
between Westerners and Chinese was almost impossible at the time. Bouriscout
had to socialize with the other Europeans stationed in the city, and what a
boring and cliquish lot they were. He grew lonely, regretted taking the
assignment, and began making plans to leave. Then, at a Christmas party that
year, Bouriscout's eyes were drawn to a young Chinese man in a corner of the
room. He had never seen anyone Chinese at any of these affairs. The man was
intriguing: he was slender and and introduced himself. The man, Shi Pei Pu,
proved to be a writer of Chinese-opera librettos who also taught Chinese to
members of the French embassy. Aged twenty-six, he spoke perfect French.
Everything about him fascinated Bouriscout; his voice was like music, soft and
whis- pery, and he left you wanting to know more about him. Bouriscout,
although usually shy, insistedonexchangingtelephone numbers. Perhaps Pei Pu
could be his Chinese tutor. They met a few days later in a restaurant.
Bouriscout was the only Westerner there-at last a taste of something real and
exotic. Pei Pu, it turned out, had been a well-known actor in Chinese operas
and came from a family with connections to the former ruling dynasty. Now he
wrote operas about the workers, but he said this with a look of irony They
began to meet regularly, Pei Pu showing Bouriscout the sights of Beijing.
Bouriscout loved his stories-Pei Pu talked slowly, and every historical detail
seemed to come alive as he spoke, his hands moving to embellish his words.
This, he might say, is where the last Ming emperor hung himself, pointing to
the spot and telling the story at the same time. Or, the cook in the restaurant
we just ate in once served in the palace of the last emperor, and then another
magnificent tale would follow. Pei Pu also talked of life in the Beijing Opera,
where men often played women's parts, and sometimes became famous for it.
Lovers and madmen have such seething brains, \ Such shaping fantasies, that
apprehend \ More than cool reason ever comprehends. SHAKESPEARE, A MIDSUMMER
NIGHT'S DREAM He was not a sex person. He was like . . . somebody who had come
down from the clouds. He was not human. You could notsayhe was a man friend or
a woman friend; he was somebody different anyway. . . . Youfeel he was only a
friend who was coming from another planet and so nice also, so overwhelming and
separated from the life of the ground. -BERNARD BOURISCOUT, IN JOYCE WADLER, LIAISON
Romance had again come her way personified by a handsome young German officer,
Lieutenant Konrad Friedrich, who called upon her at Neuilly to ask her help. He
wanted Pauline [Bonaparte ] to use her 291 298 influence with Napoleon in
connection with providing for the needs of the French troops in the Papal
States. He made an instantaneous impression on the princess, who escorted him
around her garden until they arrived at the rockery. There she stopped and,
looking into the young man's eyes mysteriously, commanded him to return to this
same spot at the same hour next day when she might have some good news for him.
The young officer bowed and took his leave. ... In his memoirs he revealed in
detail what took place after the first meeting with Pauline: • "At the
hour agreed on I again proceeded to Neuilly, made my way to the appointed spot
in the garden and stood waiting at the rockery. I had not been there very long
when a lady made her appearance, greeted me pleasantly and led me through a
side door into the interior oftherockerywhere there were several rooms and
galleries and in one splendid salon a luxurious-looking bath. The adventure was
beginning to strike me as very romantic, almost like a fairy tale, and just as
I was wondering what the outcome might be a woman in a robe of the sheerest
cambric entered by a side door, came up to me, and smilingly asked how I liked
being there. I at once recognized Napoleon's beautiful sister, whose perfect
figure was clearly outlined by every movement of her robe. She held out her
handfor me to kiss and told me to sit down on the couch beside her. On this
occasion I certainly was not the The two men became friends. Chinese contact
with foreigners was restricted, but they managed to find ways to meet. One
evening Bouriscout tagged along when Pei Pu visited the home of a French
official to tutor the children. He listened as Pei Pu told them "The Story
of the Butterfly," a tale from the Chinese opera: a young girl yearns to
attend an imperial school, but girls are not accepted there. She disguises
herself as a boy, passes the exams, and enters the school. A fellow student
falls in love with her, and she is attracted to him, so she tells him that she
is actually a girl. Like most of these tales, the story ends tragically. Pei Pu
told it with unusual emotion; in fact he had played the role of the girl in the
operA few nights later, as they were walking before the gates of the Forbidden
City, Pei Pu returned to "The Story of the Butterfly" "Look at
my hands," he said, "Look at my face. That story of the butterfly, it
is my story too." In his slow, dramatic delivery he explained that his
mother's first two children had been girls. Sons were far more important in
China; if the third child was a girl, the father would have to take a second
wife. The third child came: another girl. But the mother was too frightened to
reveal the truth, and made an agreement with the midwife: they would say that
the child was a boy, and it would be raised as such. This third child was Pei
Pu. Over the years, Pei Pu had had to go to extreme lengths to disguise her
sex. She never used public bathrooms, plucked her hairline to look as if she
were balding, on and on. Bouriscout was enthralled by the story, and also
relieved, for like the boy in the butterfly tale, deep down he felt attracted
to Pei Pu. Now everything made sense-the small hands, the high-pitched voice,
the delicate neck. He had fallen in love with her, and, it seemed, the feelings
were reciprocated. Pei Pu started visiting Bouriscout's apartment, and soon
they were sleeping together. She continued to dress as a man, even in his
apartment, but women in China wore men's clothes anyway, and Pei Pu acted more
like a woman than any oftheChinese women he had seen. In bed, she had a shyness
and a way of directing his hands that was both exciting and feminine. She made
everything romantic and heightened. When he was away from her, her every word
and gesture resonated in his mind. What made the affair all the more exciting
was the fact that they had to keep it secret. In December of 1965, Bouriscout
left Beijing and returned to Paris. He traveled, had other affairs, but his
thoughts kept returning to Pei Pu. The Cultural Revolution broke out in China,
and he lost contact with her. Before he had left, she had told him she was
pregnant with their child. He had no idea whether the baby had been born. His
obsession with her grew too strong, and in 1969 he finagled another government
job in Beijing. Contact with foreigners was now even more discouraged than on
his first visit, but he managed to track Pei Pu down. She told him she had
borne a son, in 1966, but he had looked like Bouriscout, and given the growing
hatred of foreigners in China, and the need to keep the secret of her sex, she
had him sent him away to an isolated region near Russia. It was so cold
there-perhaps he was dead. She showed Bouriscout photographs Confuse Desire and
Reality- of the boy, and he did see some resemblance. Over the next few weeks
they managed to meet here and there, and then Bouriscout had an idea: he
sympathized with the Cultural Revolution, and he wanted to get around the
prohibitions that were preventing him from seeing Pei Pu, so he offered to do
some spying. The offer was passed along to the right people, and soon Bouriscout
was stealing documents for the Communists. The son, named Bertrand, was
recalled to Beijing, and Bouriscout finally met him. Now a threefold adventure
filled Bouriscout's life: the alluring Pei Pu, the thrill of being a spy, and
the illicit child, whom he wanted to bring back to France. In 1972, Bouriscout
left Beijing. Over the next few years he tried repeatedly to get Pei Pu and his
son to France, and a decade later he finally succeeded; the three became a
family In 1983, though, the French authorities grew suspicious of this
relationship between a Foreign Office official and a Chinese man, and with a
little investigating they uncovered Bouriscout's spying. He was arrested, and
soon made a startling confession: the man he was living with was really a woman.
Confused, the French ordered an examination of Pei Pu; as they had thought, he
was very much a man. Bouriscout went to prison. Even after Bouriscout had heard
his former lover's own confession, he was still convinced that Pei Pu was a
woman. Her soft body, their intimate relationship-how could he be wrong?
Onlywhen Pei Pu, imprisoned in the same jail, showed him the incontrovertible
proof of his sex did Bouriscout finally accept it. Interpretation. The moment
Pei Pu met Bouriscout, he realized he had found the perfect victim. Bouriscout
was lonely, bored, desperate. The way he responded to Pei Pu suggested that he
was probably also homosexual, or perhaps bisexual-at least confused.
(Bouriscout in fact had had homosexual encounters as a boy; guilty about them,
he had tried to repress this side of himself.) Pei Pu had played women's parts
before, and was quite good at it; he was slight and effeminate; physically it
was not a stretch. But who would believe such a story, or at least not be
skeptical of it? The critical component of Pei Pu's seduction, in which he
brought the Frenchman's fantasy of adventure to life, was to start slowly and
set up an idea in his victims mind. In his perfect French (which, however, was
full of interesting Chinese expressions), he got Bouriscout used to hearing
stories and tales, some true, some not, but all delivered in that dramatic yet
believable tone. Then he planted the idea of gender impersonation with his
"Story of the Butterfly." By the time he confessed the
"truth" of his gender, Bouriscout was already completely enchanted
with him. Bouriscout warded off all suspicious thoughts because he wanted
tobelieve Pei Pu's story. From there it was easy Pei Pu faked his periods; it
didn't take much money to get hold of a child he could reasonably pass off as
their son. More important, he played the fantasy role to the hilt, remaining
elusive and mysterious (which was what a Westerner would expect from an The
Perfect Illusion • 299 seducer. .After an interval Pauline pulled a hell rope
and ordered the woman who answered to prepare a hath which she asked me to
share. Wearing bathgowns of the finest linen we remained for nearly an hour in
the crystal-clear bluish water. Then we had a grand dinner served in another
room and lingered on together until dusk. When I left I had to promise to
return again soon and I spent many afternoons with the princess in the same
way." BRENT, PAULINE BONAPARTE: A
WOMAN OF AFFAIRS The courtesan is meant to be a half-defined, floating figure
never fixing herself surely in the imagination. She is the memory of an
experience, the point at which a dream is transformed into reality or reality
into a dream. The bright colors fade, her name becomes a mere echo-echo of an
echo, since she has probably adopted it from some ancient predecessor. The idea
of the courtesan is a garden of delights in which the lover walks, smelling
first this flower and then that but neverunderstandingwhence comes the
fragrance that intoxicates him. Why should the courtesan not elude analysis?
She does not want to be recognized for what she is, but rather to be allowed to
be potent and effective. She offers the truth of herself- - or, rather, of the
passions that become directed toward her. And what she gives back is one's self
and an hour of grace in her presence. Love revives 300 when you look at her: is
that not enough? She is the generative force of an illusion, the birth point of
desire, the threshold of contemplation of bodily beauty. -LYNNE LAWNER, LIVES
OF THE COURTESANS: PORTRAITS OF THE RENAISSANCE It was on March 16, the same
day the Duke of Gloucester wrote to Sir William, that Goethe recorded the first
known performance of what were destined to be called Emma's Attitudes. Just
what these were, we shall learn shortly. First, it must be emphasized that the
Attitudes were a show for favored eyes only. • . . . Goethe, disciple of
Winckelmann, was at this date thrilled by the human form, as a contemporary
writes. Here was the ideal spectatorfor the classical drama Emma and Sir William
had wrought in the long winter evenings.Let us take our seats beside Goethe and
settle to watch the show as he describes it. • "Sit William Hamilton . . .
has now, after many years of devotion to the arts and the study of nature,
found the acme of these delights in the person of an English girl of twenty
with a beautifulface and a perfect figure. He has had a Greek costume made for
her which becomes her extremely. Dressed in this, he lets down her hair and,
with a few shawls, gives so much variety to her poses, gestures, expressions,
etc. that the spectator can hardly believe his eyes. He sees what thousands of
artists would have liked to Asian woman) while enveloping his past and indeed
their whole experience in titillating bits of history. As Bouriscout later
explained, "Pei Pu screwed me in the head. ... I was having relations and
in my thoughts, my dreams, I was light-years away from what was true."
Bouriscout thought he was having an exotic adventure, an enduring fantasy of
his. Less consciously, he had an outlet for his repressed homosexuality. Pei Pu
embodied his fantasy, giving it flesh, by working first on his mind. The mind
has two currents: it wants to believe in things that are pleasant to believe
in, yet it has a self-protective need to be suspicious of people. If you start
off too theatrical, trying too hard to create a fantasy, you will feed that
suspicious side of the mind, and once fed, the doubts will not go away.
Instead, you must start slowly, building trust, while perhaps letting people
see a little touch of something strange or exciting about you to tease their
interest. Then you build up your story, like any piece of fiction. You have
established a foundation of trust-now the fantasies and dreams you envelop them
in are suddenly believable. Remember: people want to believe in the
extraordinary; with a little groundwork, a little mental foreplay, they will
fall for your illusion. If anything, err on the side of reality: use real props
(like the child Pei Pu showed Bouriscout) and add thefantastical touches in
your words, or an occasional gesture that gives you a slight unreality. Once
you sense that they are hooked, you can deepen the spell, go further and
further into the fantasy. At that point they will have gone so far into their
own minds that you will no longer have to bother with verisimilitude. Wish
Fulfillment I n 1762, Catherine, wife of Czar Peter III, staged a coup against
her ineffectual husband and proclaimed herself empress of Russia. Over the next
few years Catherine ruled alone, but kept a series of lovers. The Russians
called these men th evremienchiki, "the men of the moment," and in
1774 the man of the moment was Gregory Potemkin, a thirty-five-year-old
lieutenant, ten years younger than Catherine, and a most unlikely candidate for
the role. Potemkin was coarse and not at all handsome (he had lost an eye in an
accident). But he knew how to make Catherine laugh, and he worshiped her so
intensely that she eventually succumbed. He quickly became the love of her life.
Catherine promoted Potemkin higher and higher in the hierarchy, eventually
making him the governor of White Russia, a large southwestern area including
the Ukraine. As governor, Potemkin had to leave St. Petersburg and go to live
in the south. He knew that Catherine could not do without male companionship,
so he took it upon himself to name Catherine's subsequent vremienchiki. She not
only approved of this arrangement, she made it clear that Potemkin would always
remain her favorite. Catherine's dream was to start a war with Turkey,
recapture Constan- Confuse Desire and Reality-The Perfect Illusion • 301
tinople for the Orthodox Church, and drive the Turks out of Europe. She offered
to share this crusade with the young Hapsburg emperor, Joseph II, but Joseph
never quite brought himself to sign the treaty that would unite them in war.
Growing impatient, in 1783 Catherine annexed the Crimea, a southern peninsula
that was mostly populated by Muslim Tartars. She asked Potemkin to do there
what he had already managed to do in the Ukraine- rid the area of bandits,
build roads, modernize the ports, bring prosperity to the poor. Once he had
cleaned it up, the Crimea would make the perfect launching post for the war
against Turkey The Crimea was a backward wasteland, but Potemkin loved the
challenge. Getting to work on a hundred different projects, he grew intoxicated
with visions of the miracles he would perform there. He would establish a
capital on the Dnieper River, Ekaterinoslav ("To the glory of
Catherine"), that would rival St. Petersburg and would house a university
outshining anything in Europe. The countryside would hold endless fields of
corn, orchards with rare fruits from the Orient, silkworm farms, new towns with
bustling marketplaces. On a visit to the empress in 1785, Potemkin talked of
these things as if they already existed, so vivid were his descriptions. The
empress was delighted, but her ministers were skeptical-Potemkin loved to talk.
Ignoring their warnings, in 1787 Catherine arranged for a tour of the area. She
asked Joseph II to join her-he would be so impressed with the modernization of
the Crimea that he would immediately sign on for the war against Turkey.
Potemkin, naturally, was to organize the whole affair. And so, in May of that
year, after the Dnieper had thawed, Catherine prepared for a journey from Kiev,
in the Ukraine, to Sebastopol, in the Crimea. Potemkin arranged for seven
floating palaces to carry Catherine and her retinue down
theriver.Thejourneybegan,andasCatherine,Joseph,and the courtiers looked at the
shores to either side, they saw triumphal arches in front of clean-looking
towns, their walls freshly painted; healthy-looking cattle grazing in the
pastures; streams of marching troops on the roads; buildings going up
everywhere. At dusk they were entertained by bright-costumed peasants, and
smiling girls with flowers in their hair, dancing on the shore. Catherine had
traveled through this area many years before, and the poverty of the peasantry
there had saddened her-she had determined then that she would somehow change
their lot. To see before her eyes the signs of such a transformation
overwhelmed her, and she berated Potemkin's critics: Look at what my favorite
has accomplished, look at these miracles! They anchored at three towns along
the way, staying in each place in a magnificent, newly built palace with
artificial waterfalls in the English-style gardens. On land they moved through
villages with vibrant marketplaces; the peasants were happily at work, building
and repairing. Everywhere they spent the night, some spectacle filled their
eyes-dances, parades, mythological tableaux vivants, artificial volcanoes
illuminating Moorish gardens. Finally, at the end of the trip, in the palace at
Sebastopol, Catherine and express realized before him inmovementsandsurprisingtransformationsstanding,
kneeling, sitting, reclining, serious, sad, playful, ecstatic, contrite,
alluring, threatening, anxious, one pose follows another without a break. She
knows how to arrange the folds of her veil to match each mood, and has a
hundred ways of turning it into a headdress. The old knight idolizes her and
isquite enthusiastic about everything she does. In her he has found all the
antiquities, all the profiles of Sicilian coins, even the Apollo Belvedere.
This much is certain: as a performance it's like nothing you ever saw before in
your life. We have already enjoyed it on two evenings." -FLORA FRASER,
EMMA. LADY HAMILTON For this uncanny is in reality nothing new or alien, but
something which is familiar and old- established in the mind and which has
become alienated from it only through the process of repression. This reference
to the factor of repression enables us, furthermore, to understand Schelling's
definition of the uncanny as something which ought to have remained hidden but
has come to light. .There is one more point of general application which I
should like to add. This is that an uncanny ffkt is often and easily produced
when the distinction between imagination and reality is effaced, as when
something that we have hitherto regarded as imaginary appears before us in
reality, or when a symbol takes over the full functionsof the thing it
symbolizes, and so on. It is this factor which contributes not a little to the
uncanny effect attaching to magical practices. The infantile element in this,
which also dominates the minds of neurotics, is the overaccentuation of
psychical reality in comparison with material Joseph discussed the war with
Turkey. Joseph reiterated his concerns. Suddenly Potemkin interrupted: "I have
100,000 troops waiting for me to say 'Go!' " At that moment the windows of
the palace were flung open, and to the sounds of booming cannons they saw lines
of troops as far as the eye could see, and a fleet of ships filling the harbor.
Awed by the sight, images of Eastern European cities retaken from the Turks
dancing in his mind, Joseph II finally signed the treaty. Catherine was
ecstatic, and her love for Potemkin reached new heights. He had made her dreams
come true. Catherine never suspected that almost everything she had seen was
pure fakery, perhaps the most elaborate illusion ever conjured up by one man.
reality-a feature closely allied to the belief in the omnipotence of thoughts.
FREUD, "THE UNCANNY," IN PSYCHOLOGICAL WRITINGSANDLETTERS
Interpretation. In the four years that he had been governor of the Crimea,
Potemkin had accomplished little, for this backwater would take decades to
improve. But in the few months before Catherine's visit he had done the
following: every building that faced the road or the shore was given a fresh
coat of paint; artificial trees were set up to hide unseemly spots in the view;
broken roofs were repaired with flimsy boards painted to look like tile;
everyone the party would see was instructed to wear their best clothes and look
happy; everyone old and infirm was to stay indoors. Floating in their palaces
down the Dnieper, the imperial entourage saw brand-new villages, but most of
the buildings were only facades. The herds of cattle were shipped from great
distances, and were moved at night to fresh fields along the route. The dancing
peasants were trained for the entertainments; after each one they were loaded
into carts and hurriedly transported to a new downriver location, as were the
marching soldiers who seemed to be everywhere. The gardens of the new palaces
were filled with transplanted trees that died a few days later. The palaces
themselves were quickly and badly built, but were so magnificently furnished
that no one noticed. One fortress along the way had been built of sand, and was
destroyed a little later by a thunderstorm. The cost of this vast illusion had
been enormous, and the war with Turkey would fail, but Potemkin had
accomplished his goal. To the observant, of course, there were signs along the
way that all was not as it seemed, but when the empress herself insisted that
everything was real and glorious, the courtiers could only agree. This was the
essence of the seduction: Catherine had wanted so desperately to be seen as a
loving and progressive ruler, one who would defeat the Turks and liberate
Europe, that when she saw signs of change in the Crimea, her mind filled in the
picture. When our emotions are engaged, we often have trouble seeing things as
they are. Feelings of love cloud our vision, making us color events to coincide
with our desires. To make people believe in the illusions you create, you need
to feed the emotions over which they have least control. Often the best way to
do this is to ascertain their unsatisfied desires, their wishes crying out for
fulfillment. Perhaps they want to see themselves as noble or romantic, but life
has thwarted them. Perhaps they want an adventure. If Confuse Desire and
Reality-The Perfect Illusion something seems to validate this wish, they become
emotional and irrational, almost to the point of hallucination. Remember to
envelop them in your illusion slowly. Potemkin did not start with grand
spectacles, but with simple sights along the way, such as grazing cattle. Then
he brought them on land, heightening the drama, until the calculated climax
when the windows were flung open to reveal a mighty war machine-actually a few
thousand men and boats lined up in such a way as to suggest many more. Like
Potemkin, involve the target in some kind ofjourney, physical or otherwise. The
feeling of a shared adventure is rife with fantasy associations. Make people
feel that they are getting to see and live out something that relates to their
deepest yearnings and they will see happy, prosperous villages where there are
only facades. Here the real journey through Potemkin's fairyland began. It was
like a dream-the waking dream of some magician who had discovered the secret of
materializing his visions. . . . [Catherine] and her companions had left the
world of reality behind. Their talk was of Iphigenia and the ancient gods, and
Catherine felt that she was both Alexander and Cleopatra. - GINA KAUS Keys to
Seduction T he real world can be unforgiving: events occur over which we have
little control, other people ignore our feelings in their quests to get what
they need, time runs out before we accomplish what we had wanted. If we ever
stopped to look at the present and future in a completely objective way, we
would despair. Fortunately we develop the habit of dreaming early on. In this
other, mental world that we inhabit, the future is full of rosy possibilities.
Perhaps tomorrow we will sell that brilliant idea, or meet the person who will
change our lives. Our culture stimulates these fantasies with constant images
and stories of marvelous occurrences and happy romances. The problem is, these
images and fantasies exist only in our minds, or on-screen. They really aren't
enough-we crave the real thing, not this endless daydreaming and titillation.
Your task as a seducer is to bring some flesh and blood into someone's fantasy
life by embodying a fantasy figure, or creating a scenario resembling that
person's dreams. No one can resist the pull of a secret desire that has come to
life before their eyes. You must first choose targets who have some repression
or dream unrealized-always the most likely victims of a seduction. Slowly and
gradually, you will build up the illusion that they are getting to see and feel
and live those dreams of theirs. Once they have this sensation they will lose
contact with reality, and begin to see your fantasy as more real than anything
else. And once they 304 The Art of Seduction lose touch with reality, they are
(to quote Stendhal on Lord Byron's female victims) like roasted larks that fall
into your mouth. Most people have a misconception about illusion. As any
magician knows, it need not be built out of anything grand or theatrical; the
grand and theatrical can in fact be destructive, calling too much attention to
you and your schemes. Instead create the appearance of normality. Once your
targets feel secure-nothing is out of the ordinary-you have room to deceive
them. Pei Pu did not spin the lie about his gender immediately; he took his
time, made Bouriscout come to him. Once Bouriscout had fallen for it, Pei Pu
continued to wear men's clothes. In animating a fantasy, the great mistake is
imagining it must be larger than life. That would border on camp, which is
entertaining but rarely seductive. Instead, what you aim for is what Freud
called the "uncanny," something strange and familiar at the same
time, like a deja vu, or a childhood memory-anything slightly irrational and
dreamlike. The uncanny, the mix of the real and the unreal, has immense power
over our imaginations. The fantasies you bring to life for your targets should
not be bizarre or exceptional; they should be rooted in reality, with a hint of
the strange, the theatrical, the occult (in talk of destiny, for example). You
vaguely remind people of something in their childhood, or a character in a film
or book. Even before Bouriscout heard Pei Pu's story, he had the uncanny
feeling ofsomethingremarkable and fantastical in this normal-looking man. The
secret to creating an uncanny effect is to keep it subtle and suggestive. Emma
Hart came from a prosaic background, her father a country blacksmith in
eighteenth-century England. Emma was beautiful, but had no other talents to her
credit. Yet she rose to become one of the greatest seductresses in history,
seducing first Sir William Hamilton, the English ambassador to the court of
Naples, and then (as Lady Hamilton, Sir William's wife) Vice-Admiral Lord
Nelson. What was strangest when you met her was an uncanny sense that she was a
figure from the past, a woman out of Greek myth or ancient history. Sir William
was a collector of Greek and Roman antiquities; to seduce him, Emma cleverly
made herself resemble a Greek statue, and mythical figures in paintings of the
time. It was not just the way she wore her hair, or dressed, but her poses, the
way she carried herself. It was as if one of the paintings he collected had
come to life. Soon Sir William began to host parties in his home in Naples at
which Emma would wear costumes and pose, re-creating images from mythology and
history. Dozens of men fell in love with her, for she embodied an image from
their childhood, an image of beauty and perfection. The key to this fantasy
creation was some sharedcultural association-mythology, historical seductresses
like Cleopatra. Every culture has a pool of such figures from the distant and
not-so-distant past. You hint at a similarity, in spirit and in appearance-but
you are flesh and blood. What could be more thrilling than the sense of being
in the presence of some fantasy figure going back to your earliest memories?
One night Pauline Bonaparte, the sister of Napoleon, held a gala affair Confuse
Desire and Reality-The Perfect Illusion • 305 in her house. Afterward, a
handsome German officer approached her in the garden and asked for her help in
passing along a request to the emperor. Pauline said she would do her best, and
then, with a rather mysterious look in her eye, asked him to come back to the
same spot the next night. The officer returned, and was greeted by a young
woman who led him to some rooms near the garden and then to a magnificent
salon, complete with an extravagant bath. Moments later, another young woman
entered through a side door, dressed in the sheerest garments. It was Pauline.
Bells were rung, ropes were pulled, and maids appeared, preparing the bath, giving
the officer a dressing gown, then disappearing. The officer later described the
evening as something out of a fairy tale, and he had the feeling that Pauline
was deliberately acting the part of somemythical seductress. Pauline was
beautiful and powerful enough to get almost any man she wanted, and she wasn't
interested simply in luring a man into bed; she wanted to envelop him in
romantic adventure, seduce his mind. Part of the adventure was the feeling that
she was playing a role, and was inviting her target along into this shared
fantasy. Role playing is immensely pleasurable. Its appeal goes back to
childhood, where we first leam the thrill of trying on different parts,
imitating adults or figures out of fiction. As we get older and society fixes a
role on us, a part of us yearns for the playful approach we once had, the masks
we were able to wear. We still want to play that game, to act a different role
in life. Indulge your targets in this wish by first making it clear that you
are playing a role, then inviting them to join you in a shared fantasy. The
more you set things up like a play or a piece of fiction, the better. Notice
how Pauline began the seduction with a mysterious request that the officer
reappear the next night; then a second woman led him into a magical series of
rooms. Pauline herself delayed her entrance, and when she appeared, she did not
mention his business with Napoleon, or anything remotely banal. She had an
ethereal air about her; he was being invited to enter a fairy tale. The evening
was real, but had an uncanny resemblance to an erotic dream. Casanova took role
playing still further. He traveled with an enormous wardrobe and a trunk full
of props, many of them gifts for his targets- fans, jewels, other
accouterments. And some of the things he said and did were borrowed from novels
he had read and stories he had heard. He enveloped women in a romantic
atmosphere that was heightened yet quite real to their senses. Like Casanova,
you must see the world as a kind of theater. Inject a certain lightness into
the roles you are playing; try to create a sense of drama and illusion; confuse
people with the slight unreality of words and gestures inspired by fiction; in
daily life, be the consummate actor. Our culture reveres actors because of
their freedom to play roles. It is something that all of us envy. For years,
the Cardinal de Rohan had been afraid that he had somehow offended his queen,
Marie Antoinette. She would not so much as look at him. Then, in 1784, the
Comtesse de Lamotte-Valois suggested to him that the queen was prepared not
only to change this situation but actually to befriend him. The queen, said
Lamotte-Valois, would indicate this in her next formal reception-she would nod
to him in a particular way. During the reception, Rohan indeed noticed a slight
change in the queen's behavior toward him, and a barelyperceptibleglance at
him. He was oveijoyed. Now the countess suggested they exchange letters, and
Rohan spent days writing and rewriting his first letter to the queen. To his
delight he received one back. Next the queen requested a private interview with
him in the gardens of Versailles. Rohan was beside himself with happiness and
anxiety. At nightfall he met the queen in the gardens, fell to the ground, and
kissed the hem of her dress. "You may hope that the past will be
forgotten," she said. At this moment they heard voices approaching, and
the queen, frightened that someone would see them together, quickly fled with
her servants. But Rohan soon received a request from her, again through the
countess: she desperately wanted to acquire the most beautiful diamond necklace
ever created. She needed a go-between to purchase it for her, since the king
thought it too expensive. She had chosen Rohan for the task. The cardinal was only
too willing; in performing this task he would prove his loyalty, and the queen
would be indebted to him forever. Rohan acquired the necklace. The countess was
to deliver it to the queen. Now Rohan waited for the queen both to thank him
and slowly to pay him back. Yet this never happened. The countess was in fact a
grand swindler; the queen had never nodded to him, he had only imagined it. The
letters he had received from her were forgeries, and not even very good ones.
The woman he had met in the park had been a prostitute paid to dress and act
the part. The necklace was of course real, but once Rohan had paid for it, and
handed it over to the countess, it disappeared. It was broken into parts, which
were hawked all over Europe for enormous amounts. And when Rohan finally
complained to the queen, news of the extravagant purchase spread rapidly. The
public believed Rohan's story-that the queen had indeed bought the necklace,
and was pretending otherwise. This fiction was the first step in the ruin of her
reputation. Everyone has lost something in life, has felt the pangs of
disappointment. The idea that we can get something back, that a mistake can be
righted, is immensely seductive. Under the impression that the queen was
prepared to forgive some mistake he had made, Rohan hallucinated all kinds of
things-nods that did not exist, letters that were the flimsiest of forgeries, a
prostitute who became Marie Antoinette. The mind is infinitely vulnerable to
suggestion, and even more so when strong desires are involved. And nothing is
stronger than the desire to change the past, right a wrong, satisfy a
disappointment. Find these desires in your victims and creating a believable
fantasy will be simple for you: few have the power to see through anillusion
they desperately want to believe in. Confuse Desire and Reality-The Perfect
Illusion • 307 Symbol: Shangri-La. Everyone has a vision in their mind of a
perfect place where people are kind and noble, where their dreams can be
realized and their wishes fulfilled, where life isfull of adventure and
romance. Lead the target on a journey there, give them a glimpse of
Shangri- La through the mists on the mountain, and they willfall in love.
Reversal T here is no reversal to this chapter. No seduction can proceed without
creating illusion, the sense of a world that is real but separate from reality.
15 Isolate the Victim An isolated person is weak. By slowly isolating your
victims, you make them more vulnerable to your influence. Their isolation may
be psychological: by filling their field of vision through the pleasurable
attention you pay them, you crowd out everything else in their mind. They see
and think only of you. The isolation may also be physical: you take them away
from their normal milieu, friends, family, home. Give them the sense of being
marginalized, in limbo-they are leaving one world behind and entering another.
Once isolated like this, they have no outside support, and in their confusion
they are easily led astray. Lure the seduced into your lair, where nothing is
familiar. Isolation-the Exotic Effect I n the early fifth century B.C., Fu
Chai, the Chinese king of Wu, defeated his great enemy, Kou Chien, the king of
Yueh, in a series of battles. Kou Chien was captured and forced to serve as a
groom in Fu Chai's stables. He was finally allowed to return home, but every
year he had to pay a large tribute of money and gifts to Fu Chai. Over the
years, this tribute added up, so that the kingdom of Wu prospered and Fu Chai
grew wealthy One year Kou Chien sent a delegation to Fu Chai: they wanted to
know if he would accept a gift of two beautiful maidens as part of the tribute.
Fu Chai was curious, and accepted the offer. The women arrived a few days
later, amid much anticipation, and the king received them in his palace. The
two approached the throne-their hair was magnificendy coiffured, in what was
called "the cloud-cluster" style, ornamented with pearl ornaments and
kingfisher feathers. As they walked, jade pendants hanging from their girdles
made the most delicate sound. The air was full of some delightful perfume. The
king was extremely pleased. The beauty of one of the girls far surpassed that
of the other; her name was Hsi Shih. She looked him in the eye without a hint
of shyness; in fact she was confident and coquettish, something he was not used
to seeing in such a young girl. Fu Chai called for festivities to
commemoratetheoccasion. The halls of the palace filled with revelers; inflamed
with wine, Hsi Shih danced before the king. She sang, and her voice was beautiful.
Reclining on a couch of white jade, she looked like a goddess. The king could
not leave her side. The next day he followed her everywhere. To his
astonishment, she was witty, sharp, and knowledgeable, and could quote the
classics better than he could. When he had to leave her to deal with royal
affairs, his mind was full of her image. Soon he brought her with him to his
councils, asking her advice on important matters. She told him to listen less
to his ministers; he was wiser than they were, his judgment superior. Hsi
Shill's power grew daily. Yet she was not easy to please; if the king failed to
grant some wish of hers, tears would fill her eyes, his heart would melt, and
he would yield. One day she begged him to build her a palace outside the
capital. Of course, he obliged her. And when he visited the palace, he was
astounded at its magnificence, even though he had paid the bills: Hsi Shih had
filled it with the most extravagant furnishings. The grounds contained an
artificial lake with marble bridges crossing over it. Fu Chai spent more and
more time here, sitting by a pool and watching Hsi In the state of Wu great
preparations had been made for the reception of the two beauties. The king
received them in audience surrounded by his ministers and all his court. As
they approached him the jade pendants attached to their girdles made a musical
sound and the air was fragrant with the scent of their gowns. Pearl ornaments
and kingfisher feathers adorned their hair. • Fu Chai, the king of Wu, looked
into the lovely eyes of Hsi Shih (495-472 B.C.) and forgot his people and his
state. Now she did not turn away and blush as she had done three
yearspreviously beside the little brook. She was complete mistress of the art
of seduction and she knew how to encourage the king to look again. Fu Chai
hardly noticed the second girl, whose quiet charms did not attract him. He had
eyes only for Hsi Shih, and before the audience was over those at court
realized that the girl would be a force to be reckoned with and that she would
be able to influence the king either for good or ill. ..." Amidst the
revelers in the halls of Wu, Hsi Shih wove her net offascination about the
heart of the susceptible monarch. . . . "Inflamed by wine, she now begins
to sing / The songs of Wu to please the fatuous king; / And in the dance of Tsu
she subtly blends /All rhythmic movements to her sensuous ends." . . . But
she could do more than sing and dance to amuse the king. She had wit, and her
grasp of politics astonished him. When there was anything she wanted she could
shed tears which so moved her lover's heart that he could refuse her nothing.
For she was, as Fan Li had said, the one and only, the incomparable Hsi Shih,
whose magnetic personality attracted everyone, many even against their own
will. Embroidered Shih comb her hair, using the pool as a mirror. He would
watch her playing with her birds, in their jeweled cages, or simply walking
through the palace, for she moved like a willow in the breeze. The months went
by; he stayed in the palace. He missed councils, ignored his family and
friends, neglected his public functions. He lost track of time. When a
delegation came to talk to him of urgent matters, he was too distracted to
listen. If anything but Hsi Shih took up his time, he worried unbearably that
she would be angry. Finally word reached him of a growing crisis: the fortune
he had spent on the palace had bankrupted the treasury, and the people were
discontented. He returned to the capital, but it was too late: an army from the
kingdom of Yueh had invaded Wu, and had reached the capital. All was lost. Fu
Chai had no time to rejoin his beloved Hsi Shih. Instead of letting himself be
captured by the king of Yueh, the man who had once served in his stables, he
committed suicide. Little did he know that Kou Chien had plotted this invasion
for years, and that Hsi Shift's elaborate seduction was the main part of his
plan. Interpretation. Kou Chien wanted to make sure that his invasion of Wu
would not fail. His enemy was not Fu Chai's armies, or his wealth and his
resources, but his mind. If he could be deeply distracted, his mind filled with
something other than affairs of state, he would fall like ripe fruit. Kou Chien
found the most beautiful maiden in his realm. For three silk curtains encrusted
with coral and gems, scented furniture and screens inlaid with jade and
mother-of- pearl were among the luxuries which surrounded the favorite. . . .
On one of the hills near the palace there was a celebrated pool of clear water
which has been known ever since as the pool of the king of Wu. Here, to amuse
her lover, Hsi Shih would make her toilet, using the pool as a mirror while the
infatuated king combed her hair. HIBBERT, EMBROIDERED GAUZE: PORTRAITS OR
FAMOUS CHINESE LADIES years he had her trained in all of the arts-not just
singing, dancing, and calligraphy, but how to dress, how to talk, how to play
the coquette. And it worked: Hsi Shih did not allow Fu Chai a moment's rest.
Everything about her was exotic and unfamiliar. The more attention he paid to
her hair, her moods, her glances, the way she moved, the less he thought about
diplomacy and war. Hewas driven to distraction. All of us today are kings
protecting the tiny realm of our own lives, weighed down by all kinds of
responsibilities, surrounded by ministers and advisers. A wall forms around
us-we are immune to the influence of other people, because we are so
preoccupied. Like Hsi Shih, then, you must lure your targets away, gently,
slowly, from the affairs that fill their mind. And what will best lure them
from their castles is the whiff of the exotic. Offer something unfamiliar that
will fascinate them and hold their attention. Be different in your manners and
appearance, and slowly envelop them in this different world of yours. Keep your
targets off balance with coquettish changes of mood. Do not worry that the
disruption you represent is making them emotional-that is a sign of their
growing weakness. Most people are ambivalent: on the one hand they feel
comforted by their habits and duties, on the other they are bored, and ripe for
anything that seems exotic, that seems to come from somewhere else. They may
struggle or have doubts, but exotic pleasures are irresistible. The more you
can get them Isolate the Victim • 313 into your world, the weaker they become.
As with the king of Wu, by the time they realize what has happened, it is too
late. Isolation-The "Only You" Effect I n 1948, the
twenty-nine-year-old actress Rita Hayworth, known as Hollywood's Love Goddess,
was at a low point in her life. Her marriage to Orson Welles was breaking up,
her mother had died, and her career seemed stalled. That summer she headed for
Europe. Welles was in Italy at the time, and in the back of her mind she was
dreaming of a reconciliation. Rita stopped first at the French Riviera.
Invitations poured in, particularly from wealthy men, for at the time she was
considered the most beautiful woman in the world. Aristotle Onassis and the
Shah of Iran telephoned her almost daily, begging for a date. She turned them
all down. A few days after her arrival, though, she received an invitation from
Elsa Maxwell, the society hostess, who was giving a little party in Cannes.
Rita balked but Maxwell insisted, telling her to buy a new dress, show up a
little late, and make a grand entrance. Rita played along, and arrived at the
party wearing a white Grecian gown, her red hair falling over her bare
shoulders. She was greeted by a reaction she had grown used to: all
conversation stopped as both men and women turned in their chairs, the men
gazing in amazement, the women jealous. A man hurried to her side and escorted
her to her table. It was thirty-seven-year-old Prince Aly Khan, the son of the
Aga Khan III, who was the worldwide leader of the Islamic Ismaili sect andone
of the richest men in the world. Rita had been warned about Aly Khan, a
notorious rake. To her dismay, they were seated next to each other, and he
never left her side. He asked her a million questions-about Hollywood, her
interests, on and on. She began to relax a little and open up. There were other
beautiful women there, princesses, actresses, but Aly Khan ignored them all,
acting as if Rita were the only woman there. He led her onto the dance floor,
and though he was an expert dancer, she felt uncomfortable-he held her a little
too close. Still, when he offered to drive her back to her hotel, she agreed.
They sped along the Grande Corniche; it was a beautiful night. For one evening
she had managed to forget her many problems, and she was grateful, but she was
still in love with Welles, and an affair with a rake like Aly Khan was not what
she needed. Aly Khan had to fly off on business for a few days; he begged her
to stay at the Riviera until he got back. While he was away, he telephoned
constantly. Every morning a giant bouquet of flowers arrived. On the telephone
he seemed particularly annoyed that the Shah of Iran was trying hard to see
her, and he made her promise to break the date to which she had finally agreed.
During this time, a gypsy fortune-teller visited the hotel, and Rita agreed to
have her fortune read. "Youareaboutto embark on the In Cairo Aly bumped
into [the singer ] Juliette Greco again. He asked her to dance. • "You
have too bad a reputation," she replied. "We're going to sit very
much apart. " • "What are you doing tomorrow?" he insisted. •
"Tomorrow I take a plane to Beirut." • When she boarded the plane,
Aly was already on it, grinning at her surprise. . . . • Dressed in tight black
leather slacks and a black sweater [Greco] stretched languorously in an
armchair of her Paris house and observed: • "They say I am a dangerous
woman. Well, Aly was a dangerous man. He was charming in a very special way.
There is a kind of man who is very clever with women. He takes you out to a
restaurant and if the most beautiful woman comes in, he doesn't look at her. He
makes youfeel you are a queen. Of course, I understood it. I didn't believe it.
I would laugh and point out the beautiful woman. But that is me. . . . Most
women are made very happy by that kind of attention. It's pure vanity. She
thinks, 'I'll be the one and the others will leave.' • "... With Aly, how
the woman felt was most important. . . . He was a great charmer, a great
seducer. He made you feel fine and that everything was easy. No problems.
Nothing to worry about. Or regret. It was always, 'What can I do for you? What
do you need?' Airplane tickets, cars, boats; you felt you were on a pink
cloud." -LEONARD SLATER, ALY: A BIOGRAPHY 314 ANNE: Didst thou not kill
this king [Henry VI]? \ RICHARD: I grant ye. . . . \ ANNE: And thou unfit for
any place, but hell. \ RICHARD: Yes, one place else, if you will hear me name
it. \ ANNE: Some dungeon. \ RICHARD: Your bedchamber, \ ANNE: III rest betide
the chamber where thou liest! \ RICHARD: So will it, madam, till I lie with
you. . . . But gentle Lady Anne . . . \ Is not the causer of the timeless
deaths \ Of these Plantagenets, Henry and Edward, \ As blameful as the
executioner? \ ANNE: Thou wast the cause and most accursed effect. \ RICHARD:
Your beauty was the cause of that effect - \ Your beauty, that did haunt me in
my sleep \ To undertake the death of all the world, \ So I might live one hour
in your sweet bosom. -WILLIAM SHAKESPEARE, THE TRAGEDY OF KING RICHARD III My
child, my sister, dream \ How sweet all things would seem \ Were we in that
kind land to live together, \And there love slow and long, \ There love and die
among \ Those scenes that image you, that sumptuous weather. \ Drowned suns
that glimmer there \ Through cloud-dishevelled air \ Move me with such a
mystery as appears \ Within those other skies \ Of your treacherous eyes \ When
I behold them shining through their tears. \ There, there is nothing else but
grace and measure, \ Richness, quietness, and pleasure. . . . \ See, greatest
romance of your life," the gypsy told her. "He is somebody you
already know. . . . You must relent and give in to him totally. Only if you do
that will you find happiness at long last." Not knowing who this man could
be, Rita, who had a weakness for the occult, decided to extend her stay. Aly
Khan came back; he told her that his chateau overlooking the Mediterranean was
the perfect place to escape from the press and forget her troubles, and that he
would behave himself. She relented. Life in the chateau was like a fairy tale;
wherever she turned, his Indian helpers were there to attend to her every wish.
At night he would take her into his enormous ballroom, where they would dance
all by themselves. Could this be the man the fortune-teller meant? Aly Khan invited
his friends over to meet her. Among this strange company she felt alone again,
and depressed; she decided to leave the chateau. Just then, as if he had read
her thoughts, Aly Khan whisked her off to Spain, the country that fascinated
her most. The press caught on to the affair, and began to hound them in Spain:
Rita had had a daughter with Welles-was this any way for a mother to act? Aly
Khan's reputation did not help, but he stood by her, shielding her from the
press as best he could. Now she was more alone than ever, and more dependent on
him. Near the end of the trip, Aly Khan proposed to Rita. She turned him down;
she did not think he was the kind of man you married. He followed her to
Hollywood, where her former friends were less friendly than before. Thank God
she had Aly Khan to help her. A year later she finally succumbed, abandoning
her career, moving to Aly Khan's chateau, and marrying him. Interpretation. Aly
Khan, like a lot of men, fell in love with Rita Hayworth the moment he saw the
film Gilda, in 1948. He made up his mind that he would seduce her somehow. The
moment he heard she was coming to the Riviera, he got his friend Elsa Maxwell
to lure her to the party and seat her next to him. He knew about the breakup of
her marriage, and how vulnerable she was. His strategy was to block out
everything else in her world-problems, other men, suspicion of him and his
motives, etc. His campaign began with the display of an intense interest in her
life- constant phone calls, flowers, gifts, all to keep him in her mind. He set
up the fortune-teller to plant the seed. When she began to fall for him, he
introduced her to his friends, knowing she would feel alienated among them, and
therefore dependent on him. Her dependence was heightened by the trip to Spain,
where she was on unfamiliar territory, besieged by reporters, and forced to
cling to him for help. He slowly came to dominate her thoughts. Everywhere she
turned, there he was. Finally she succumbed, out of weakness and the boost to
her vanity that his attention represented. Under his spell, she forgot about
his horrid reputation, relinquishing the suspicions that were the only thing
protecting her from him. It was not Aly Khan's wealth or looks that made him a
great seducer. Isolate the Victim • 315 He was not in fact very handsome, and
his wealth was more than offset by his bad reputation. His success was
strategic: he isolated his victims, working so slowly and subtly that they did
not notice it. The intensity of his attention made a woman feel that in his
eyes, at that moment, she was the only woman in the world. This isolation was
experienced as pleasure; the woman did not notice her growing dependence, how
the way he filled up her mind with his attention slowly isolated her from her
friends and her milieu. Her natural suspicions of the man were drowned out by
his intoxicating effect on her ego. Aly Khan almost always capped off his
seductions by taking the woman to some enchanted place on the globe-a place
that he knew well, but where the woman felt lost. Do not give your targets the
time or space to worry about, suspect, or resist you. Flood them with the kind
of attention that crowds out all other thoughts, concerns, and problems.
Remember-people secretly yearn to be led astray by someone who knows where they
are going. It can be a pleasure to let go, and even to feel isolated and weak,
if the seduction is done slowly and gracefully. Put them in a spot where they
have no place to go, and they will die before fleeing. shelteredfrom the swells
\ There in the still canals \ Those drowsy ships that dream of sailingforth; \
It is to satisfy \ Your least desire, they ply \ Hither through all the waters
of the earth. \ The sun at close of day \ Clothes the fields of hay, \ Then the
canals, at last the town entire \ In hyacinth and gold: \ Slowly the land is
rolled \ Sleepward under a sea of gentle fire. \ There, there is nothing else
but grace and measure, \ Richness, quietness, and pleasure. -CHARLES
BAUDELAIRE, "INVITATION TO THEVOYAGE," THE FLOWERS OF EVIL, Keys to
Seduction T he people around you may seem strong, and more or less in control
of their lives, but that is merely a facade. Underneath, people are more
brittle than they let on. What lets them seem strong is the series of nests and
safety nets they envelop themselves in-their friends, their families, their
daily routines, which give them a feeling of continuity, safety, and control.
Suddenly pull the rug out from under them, drop them alone into some foreign
place where the familiar signposts are gone or scrambled, and you will see a
very different person. A target who is strong and settled is hard to seduce.
But even the strongest people canbe made vulnerable if you can isolate them
from their nests and safety nets. Block out their friends and family with your
constant presence, alienate them from the world they are used to, and take them
to places they do not know. Get them to spend time in your environment.
Deliberately disturb their habits, get them to do things they have never done.
They will grow emotional, making it easier to lead them astray. Disguise all
this in the form of a pleasurable experience, and your targets will wake up one
day distanced from everything that normally comforts them. Then they will turn
to you for help, like a child crying out for its mother when the lights are
turned out. In seduction, as in warfare, the isolated target is weak and
vulnerable. In Samuel Richardson's Clarissa, written in 1748, the rake Lovelace
is The Art of Seduction attempting to seduce the novel's beautiful heroine.
Clarissa is young, virtuous, and very much protected by her family. But
Lovelace is a conniving seducer. First he courts Clarissa's sister, Arabella. A
match between them seems likely. Then he suddenly switches attention to
Clarissa, playing on sibling rivalry to make Arabella furious. Their brother,
James, is angered by Lovelace's change in sentiments; he fights with Lovelace
and is wounded. The whole family is in an uproar, united against Lovelace, who,
however, manages to smuggle letters to Clarissa, and to visit her when she is
at the house of a friend. The family finds out, and accuses her of disloyalty.
Clarissa is innocent; she has not encouraged Lovelace's letters or visits. But
now her parents are determined to marry her off, to a rich older man. Alone in
the world, about to be married to a man she finds repulsive, she turns to
Lovelace as the only one who can save her from this mess. Eventually he rescues
her by getting her to London, where she can escape this dreaded marriage, but
where she is also hopelessly isolated. In these circumstances her feelings
toward him soften. All of this has been masterfully orchestrated by Lovelace
himself-the turmoil within the family, Clarissa's eventual alienation from
them, the whole scenario. Your worst enemies in a seduction are often your
targets' family and friends. They are outside your circle and immune to your
charms; they may provide a voice of reason to the seduced. You must work
silently and subtly to alienate the target from them. Insinuate that they are
jealous of your target's good fortune in finding you, or that they are parental
figures who have lost a taste for adventure. The latter argument is extremely
effective with young people, whose identities are in flux and who are more than
ready to rebel against any authority figure,particularly their parents. You
represent excitement and life; the friends and parents represent habit and
boredom. In Shakespeare's The Tragedy of King Richard III , Richard, when still
the Duke of Gloucester, has murdered King Henry VI and his son. Prince Edward.
Shortly thereafter he accosts Lady Anne, Prince Edward's widow, who knows what
he has done to the two men closest to her, and who hates him as much as a woman
can hate. Yet Richard attempts to seduce her. His method is simple: he tells
her that what he did, he did because of his love for her. He wanted there to be
no one in her life but him. His feelings were so strong he was driven to
murder. Of course Lady Anne not only resists this line of reasoning, she abhors
him. But he persists. Anne is at a moment of extreme vulnerability-alone in the
world, with no one to support her, at the height of grief. Incredibly, his
words begin to have an effect. Murder is not a seductive tactic, but the
seducer does enact a kind of killing-a psychological one. Our past attachments
are a barrier to the present. Even people we have left behind can continue to
have a hold on us. As a seducer you will be held up to the past, compared to
previous suitors, perhaps found inferior. Do not let it get to that point.
Crowd out the past with your attentions in the present. If necessary, find
waysto disparage their previous lovers-subtly or not so subtly, depending on
the situation. Even go so far as to open old wounds, making them feel old pain
and seeing by con- Isolate the Victim trast how much better the present is. The
more you can isolate them from their past, the deeper they will sink with you
into the present. The principle of isolation can be taken literally by whisking
the target off to ait exotic locale. This was Aly Khan's method; a secluded
island worked best, and indeed islands, cut off from the rest of the world,
have always been associated with the pursuit of sensual pleasures. The Roman
Emperor Tiberius descended into debauchery once he made his home on the island
of Capri. The danger of travel is that your targets are intimately exposed to
you-it is hard to maintain an air of mystery. But if you take them to a place
alluring enough to distract them, you will prevent them from focusing on
anything banal in your character. Cleopatra lured Julius Caesar into taking a
voyage down the Nile. Moving deeper into Egypt, he was further isolated from
Rome, and Cleopatra was all the more seductive. The early-twentieth-century lesbian
seductress Natalie Barney had an on- again-off-again affair with the poet Renee
Vivien; to regain her affections, she took Renee on a trip to the island of
Lesbos, a place Natalie had visited many times. In doing so she not only
isolated Renee but disarmed and distracted her with the associations of the
place, the home of the legendary lesbian poet Sappho. Vivien even began to
imagine that Natalie was Sappho herself. Do not take the target just anywhere;
pick the place that will have the most effective associations. The seductive
power of isolation goes beyond the sexual realm. When new adherents joined
Mahatma Gandhi's circle of devoted followers, they were encouraged to cut off
their ties with the past-with their family and friends. This kind of renunciation
has been a requirement of many religious sects over the centuries. People who
isolate themselves in this way are much more vulnerable to influence and
persuasion. A charismatic politician feeds off and even encourages people's
feelings of alienation. John F. Kennedy did this to great effect when he subtly
disparaged the Eisenhower years; the comfort of the 1950s, he implied,
compromised American ideals. He invited Americans to join him in a new life, on
a "New Frontier," full of danger and excitement. It was an extremely
seductive lure, particularly for the young, who were Kennedy's most
enthusiastic supporters. Finally, at some point in the seduction there must be
a hint of danger in the mix. Your targets should feel that they are gaining a
greatadventure in following you, but are also losing something-a part of their
past, their cherished comfort. Actively encourage these ambivalent feelings. An
element of fear is the proper spice; although too much fear is debilitating, in
small doses it makes us feel alive. Like diving out of an airplane, it is
exciting, a thrill, at the same time that it is a little frightening. And the
only person there to break the fall, or catch them, is you. Symbol: The Pied
Piper. A jolly fellow in his red and yellow cloak, he lures the childrenfrom
their homes with the delightful sounds of his flute. Enchanted, they do not
notice how far they are walking, how they are leaving their families behind.
They do not even notice the cave he eventually leads them into, and which closes
upon them forever. Reversal T he risks of this strategy are simple: isolate
someone too quickly and you will induce a sense of panic that may end up in the
target's taking flight. The isolation you bring must be gradual, and disguised
as pleasure- the pleasure of knowing you, leaving the world behind. In any
case, some people are too fragile to be cut off from their base of support. The
great modern courtesan Pamela Harriman had a solution to this problem: she
isolated her victims from their families, their former or present wives, and in
place of those old connections she quickly set up new comforts for her lovers.
She overwhelmed them with attention, attending to their every need. In the case
of Averill Harriman, the billionaire who eventually married her, she literally
established a new home for him, one that had no associations with the past and
was full of the pleasures of the present. It is unwise to keep the seduced
dangling in midair for too long, with nothing familiar or comforting in sight.
Instead, replace the familiar things you have cut them off from with a new
home, a new series of comforts. Phase Three ThePrecipice - Deepening the Effect
Through Extreme Measures The goal in this phase is to make everything
deeper-the effect you have on their mind, feelings of love and attachment,
tension within your victims. With your hooks deep into them, you can then push
them back andforth, between hope and despair, until they weaken and snap.
Showing how far you are willing to go for your victims, doing some noble or
chivalrous deed (16: Prove yourself) will create a powerful jolt, spark an
intensely positive reaction. Everyone has scars, repressed desires, and
unfinished business from childhood. Bring these desires and wounds to the
surface, make your victims feel they are getting what they never got as a child
and you will penetrate deep into their psyche, stir uncontrollable emotions
(17: Effect a regression).Now you can take your victims past their limits,
getting them to act out their dark sides, adding a sense of danger to your
seduction (18: Stir up the transgressive and taboo). You need to deepen the
spell, and nothing will more confuse and enchant your victims than giving your
seduction a spiritual veneer. It is not lust that motivates you, but destiny,
divine thoughts and everything elevated (19: Use spiritual lures). The erotic
lurks beneath the spiritual. Now your victims have been properly set up. By
deliberately hurting them, instilling fears and anxieties, you will lead them
to the edge of the precipicefrom which it will be easy to push and make them
fall (20: Mix pleasure with pain). They feel great tension and are yearning for
relief. i6 Prove Yourself Most people want to be seduced. If they resist your
efforts, it is probably because you have not gone far enough to allay their
doubts-about your motives, the depth of your feelings, and so on. One
well-timed action that shows how far you are willing to go to win them over
will dispel their doubts. Do not worry about looking foolish or making a mistake-any
kind of deed that is self-sacrificing and for your targets' sake will so
overwhelm their emotions, they won't notice anything else. Never appear
discouraged by people 's resistance, or complain. Instead, meet the challenge
by doing something extreme or chivalrous. Conversely, spur others to prove
themselves by making yourself hard to reach, unattainable, worth fighting over.
Seductive Evidence A nyone can talk big, say lofty things about their feelings,
insist on how much they care for us, and also for all oppressed peoples in the
far reaches of the planet. But if they never behave in a way that will back up
their words, we begin to doubt their sincerity-perhaps we are dealing with a
charlatan, or a hypocrite or a coward. Flattery and fine words can only go so
far. A time will eventually arrive when you will have to show your victim some
evidence, to match your words with deeds. This kind of evidence has two
functions. First, it allays any lingering doubts about you. Second, an action
that reveals some positive quality in you is immensely seductive in and of
itself. Brave or selfless deeds create a powerful and positive emotional
reaction. Don't worry, your deeds do not have to be so brave and selfless that
you lose everything in the process. The appearance alone of nobility will often
suffice. In fact, in a world where people overanalyze and talk too much, any
kind of action has a bracing, seductive effect. It is normal in the course of a
seduction to encounter resistance. The more obstacles you overcome, of course,
the greater the pleasure that awaits you, but many a seduction fails because
the seducer does not correctly read the resistances of the target. More often
than not, you give up too easily. First, understand a primary law of seduction:
resistance is a sign that the other person's emotions are engaged in the
process. The only person you cannot seduce is somebody distant and cold.
Resistance is emotional, and can be transformed into its opposite, much as, in
jujitsu, the physical resistance of an opponent can be used to make him fall.
If people resist you because they don't trust you, an apparently selfless deed,
showing how far you are willing to go to prove yourself, is a powerful remedy.
If they resist because they are virtuous, or because they are loyal to someone
else, all the better-virtue and repressed desire are easily overcome by action.
As the great seductress Natalie Barney once wrote, "Most virtue is a
demand for greater seduction." There are two ways to prove yourself. First,
the spontaneous action: a situation arises in which the target needs help, a
problem needs solving, or, simply, he or she needs a favor. You cannot foresee
these situations, but you must be ready for them, for they can spring up at any
time. Impress the target by going further than really necessary-sacrificing
more money, more time, more effort than they had expected. Your target will
often use these Loveisa species of warfare. Slack troopers, go elsewhere! It
takes more than cowards to guard \ These standards. Night- duty in winter,
long-route marches, every \ Hardship, all forms of suffering: these await \ The
recruit who expects a soft option. You'll often be out in \ Cloudbursts, and
bivouac on the bare \ Ground. . . . Is lasting \ Love your ambition? Then put
away all pride. \ The simple, straightforward way in may be denied you, \ Doors
bolted, shut in your face - \ So be ready to slip down from the roof through a
lightwell, \ Or sneak in by an upper-floor window. She'll be glad \ To know you
're risking your neck, andfor her sake: that will offer \ Any mistress sure
proof of your love. - OVID, THE ART OF LOVE.
The man says: " . . .A fruit picked from one's own orchard ought to
taste sweeter than one obtained from a stranger's tree, and what has been
attained by greater effort is cherished more dearly than what is gained with
little trouble. As the proverb says: 'Prizes great cannot be won unless some
heavy labor's done. The woman says: "If no great prizes can be won unless
some heavy labor's done, you must suffer the exhaustion of many toils to be
able to attain thefavors you seek, since what you ask for is a greater prize.
" • The man says: "I give you all the thanks that I can express for
sosagely promising me your love when I have performed great toils. Godforbid
that I or any other could win the love of so worthy a woman without first
attaining it by many labors." -ANDREAS CAPELLANUS ON LOVE. One day,
[Saint-Preuil] pleaded more than usual that [Madame de la Maisonfort ] grant
him the ultimate favors a woman could offer, and he went beyond just words in
his pleading. Madame, saying he had gone way too far, ordered him to never ever
appear before her again. He left her room. Only an hour later, the lady was
taking her customary walk along one of those beautiful canals at Bagnolet, when
Saint-Preuil leapt outfrom behind a hedge, totally naked, and standing before
his mistress in this state, he cried out, "For the last time, Madame -
Goodbye!" Thereupon, he threw himself into the canal, head first. The
lady, terrified by such a sight, moments, or even manufacture them, as a kind
of test: will you retreat? Or will you rise to the occasion? You cannot
hesitate or flinch, even for a moment, or all is lost. If necessary, make the
deed seem to have cost you more than it has, never with words, but
indirectly-exhausted looks, reports spread through a third party, whatever it
takes. The second way to prove yourself is the brave deed that you plan and
execute in advance, on your own and at the right moment-preferably some way
into the seduction, when any doubts the victim still has about you are more
dangerous than earlier on. Choose a dramatic, difficult action that reveals the
painful time and effort involved. Danger can be extremely seductive. Cleverly
lead your victim into a crisis, a moment of danger, or indirectly put them in
an uncomfortable position, and you can play the rescuer, the gallant knight.
The powerful feelings and emotions this elicits can easily be redirected into
love. Some Examples 1 . In France in the 1640s, Marion de l'Orme was the
courtesan men lusted after the most. Renowned for her beauty, she had been the
mistress of Cardinal Richelieu, among other notable political and military
figures. To win her bed was a sign of achievement. For weeks the rake Count
Grammont had wooed de l'Orme, and finally she had given him an appointment for
a particular evening. The count prepared himself for a delightful encounter, but
on the day of the appointment he received a letter from her in which she
expressed, in polite and tender terms, her terrible regrets-she had the most
awful headache, and would have to stay in bed that evening. Their appointment
would have to be postponed. The count felt certain he was being pushed to the
side for someone else, for de l'Orme was as capricious as she was beautiful.
Grammont did not hesitate. At nightfall he rode to the Marais, where de l'Orme
lived, and scouted the area. In a square near her home he spotted a man
approaching on foot. Recognizing the Due de Brissac, he immediately knew that
this man was to supplant him in the courtesan's bed. Brissac seemed unhappy to
see the count, and so Grammont approached him hurriedly and said, "Brissac,
my friend, you must do me a service of the greatest importance: I have an
appointment, for the first time, with a girl who lives near this place; and as
this visit is only to concert measures, I shall make but a very short stay. Be
so kind as to lend me your cloak, and walk my horse a little, until I return;
but above all, do not go far from this place." Without waiting for an
answer, Grammont took the duke's cloak and handed him the bridle of his horse.
Looking back, he saw that Brissac was watching him, so he pretended to enter a
house, slipped out through the back, circled around, and reached de l'Orme's
house without being seen. Prove Yourself • 325 Grammont knocked at the door,
and a servant, mistaking him for the duke, let him in. He headed straight for
the lady's chamber, where he found her lying on a couch, in a sheer gown. He
threw off Brissac's cloak and she gasped in fright. "What is the matter,
my fair one?" he asked. "Your headache, to all appearance, is
gone?" She seemed put out, exclaimed she still had the headache, and
insisted that he leave. It was up to her, she said, to make or break
appointments. "Madam," Grammont said calmly, "I know what
perplexes you: you are afraid lest Brissac should meet me here; but you may
make yourself easy on that account." He then opened the window and
revealed Brissac out in the square, dutifully walking back and forth with a
horse, like a common stable boy. He looked ridiculous; de l'Orme burst out
laughing, threw her arms around the count, and exclaimed, "My dear
Chevalier, I can hold out no longer; you are too amiable and too eccentric not
to be pardoned." He told her the whole story, and she promised that the
duke could exercise horses all night, but she would not let him in. They made
an appointment for the following evening. Outside, the count returned the
cloak, apologized for taking so long, and thanked the duke. Brissac was most
gracious, even holding Grammont's horse for him to mount, and waving goodbye as
he rode off. Interpretation. Count Grammont knew that most would-be seducers
give up too easily, mistaking capriciousness or apparent coolness as a sign of
a genuine lack of interest. In fact it can mean many things: perhaps the person
is testing you, wondering if you are really serious. Prickly behavior is
exactly this kind of test-if you give up at the first sign of difficulty, you
obviously do not want them that much. Or it could be that they themselves are
uncertain about you, or are trying to choose between you and someone else. In
any event, it is absurd to give up. One incontrovertible demonstration of how
far you are willing to go will overwhelm all doubts. It will also defeat your
rivals, since most people are timid, worried about making fools of themselves,
and so rarely risk anything. When dealing with difficult or resistant targets,
it is usually best to improvise, the way Grammont did. If your action seems
sudden and a surprise, it will make them more emotional, loosen them up. A
little roundabout accumulation of information-a little spying-is always a good
idea. Most important is the spirit in which you enact your proof. If you are
lighthearted and playful, if you make the target laugh, proving yourself and
amusing them at the same time, it won't matter if you mess up, or if they see
you have employed a little trickery. They will give in to the pleasant mood you
have created. Notice that the count never whined or grew angry or defensive.
All he had to do was pull back the curtain and reveal the duke walking his
horse, melting de l'Orme's resistance with laughter. In one well-executed act,
he showed whathe would do for a night of her favors. began to cry and to run in
the direction of her house, where upon arriving, she fainted. As soon as she
could speak, she ordered that someone go and see what had happened to
Saint-Preuil, who in truth had not stayed very long in the canal, and having
quickly put his clothes back on, hurried to Paris where he hid himselffor
several days. Meanwhile, the rumor spread that he had died. Madame de la
Maisnnfort was deeply moved by the extreme measures he had adopted to prove his
sentiments. This act of his appeared to her to be a sign of an extraordinary
love; and having perhaps noticed some charms in his naked presence that she had
not seen fully clothed, she deeply regretted her cruelty, and publicly stated
her feeling of loss. Word of this reached Saint-Preuil, and he immediately
resurrected himself and did not lose time in taking advantage of such
afavorable feeling in his mistress. - COUNT BUSSY-RABUTIN, HISTOIRES AMOUREUSES
DES GAULES To become a lady's vassal . . . the troubadour was expected to pass
through four stages, i.e.: aspirant, supplicant, postulant, and lover. When he
had attained the last stage of amorous initiation he made a vow of fidelity and
this homage was sealed by a kiss. • In this idealistic form of courtly love
reservedfor the aristocratic elite of chivalry, the phenomenon of love was
considered to be a state of grace, while the initiation that followed, and the
final sealing of the pact-or equivalent of the knightly accolade - were linked
with the rest of a nobleman's training and valorous exploits. The hallmarks of
a true lover and of a perfect knight were almost identical. The lover was bound
to serve and obey his lady as a knight served his lord. In both cases the
pledge was of a sacred nature. - NINA EPTON, LOVE AND THE FRENCH one of the
goodly towns of the kingdomof France there dwelt a nobleman of good birth, who
attended the schools that he might learn how virtue and honor are to be acquired
among virtuous men. But although he was so accomplished that at the age of
seventeen or eighteen years he was, as it were, both precept and example to
others, Love failed not to add his lesson to the rest; and, that he might be
the better harkened to and received, concealed himself in the face and the eyes
of the fairest lady in the whole country round, who had come to the city in
order to advance a suit-at- law. But before Love sought to vanquish the
gentleman by means of this lady's beauty, he had first won her heart by letting
her see the perfections of this young lord; for in good looks, grace, sense and
excellence of speech he was surpassed by none. • You, who know what speedy way
is made by the fire of love when once it fastens on the heart andfancy, will 2.
Pauline Bonaparte, the sister of Napoleon, had so many affairs with different
men over the years that doctors were afraid for her health. She could not stay
with one man for more than a few weeks; novelty was her only pleasure. After
Napoleon married her off to Prince Camillo Borghese, in 1803, her affairs only
multiplied. And so, when she met the dashing Major Jules de Canouville, in
1810, everyone assumed the affair would last no longer than the others. Of
course the major was a decorated soldier, well educated, an accomplished
dancer, and one of the most handsome men in the army. But Pauline, thirty years
old at the time, had had affairs with dozens of men who could have matched that
resume. A few days after the affair began, the imperial dentist arrived chez
Pauline. A toothache had been causing her sleepless nights, and the dentist saw
he would have to pull out the bad tooth right then and there. No painkillers
were used at the time, and as the man began to take out his various
instruments, Pauline grew terrified. Despite the pain of the tooth, she changed
her mind and refused to have it pulled. Major Canouville was lounging on a
couch in a silken robe. Taking all this in, he tried to encourage her to have
it done: "A moment or two of pain and it's over forever. ... A child could
go through with it and not utter a sound." "I'd like to see you do
it," she said. Canouville got up, went over to the dentist, chose a tooth
in the back of his own mouth, and ordered that it be pulled. A perfectly good tooth
was extracted, and Canouville barely batted an eyelash. After this, not only
did Pauline let the dentist do his job, her opinion of Canouville changed; no
man had ever done anything like this for her before. The affair had been going
to last but a few weeks; now it stretched on. Napoleon was not pleased. Pauline
was a married woman; short affairs were allowed, but a deep attachment was
embarrassing. He sent Canouville to Spain, to deliver a message to a general
there. The mission would take weeks, and in the meantime Pauline would find
someone else. Canouville, though, was not your average lover. Riding day and
night, without stopping to eat or sleep, he arrived in Salamanca within a few
days. There he found that he could proceed no farther, since communications had
been cut off, and so, without waiting for further orders, he rode back to
Paris, without an escort, through enemy territory. He could meet with Pauline
only briefly; Napoleon sent him right back to Spain. It was months before he
was finally allowed to return, but when he did, Pauline immediately resumed her
affair with him-an unheard-of act of loyalty on her part. This time Napoleon
sent Canouville to Germany and finally to Russia, where he died bravely in
battle in 1812. He was the only lover Pauline ever waited for, and the only one
she ever mourned. Interpretation. In seduction, the time often comes when the
target has begun to fall for you, but suddenly pulls back. Your motives have
begun toseem dubious-perhaps all you are after is sexual favors, or power, or
money. Most people are insecure and doubts like these can ruin the seductive
illusion. In the case of Pauline Bonaparte, she was quite accustomed to using
men for pleasure, and she knew perfectly well that she was being used in turn. She
was totally cynical. But people often use cynicism to cover up insecurity.
Pauline's secret anxiety was that none of her lovers had ever really loved
her-that all of them to a man had really just wanted sex or political favors
from her. When Canouville showed, through concrete actions, the sacrifices he
would make for her-his tooth, his career, his life- he transformed a deeply
selfish woman into a devoted lover. Not that her response was completely
unselfish: his deeds were a boost to her vanity. If she could inspire these
actions from him, she must be worth it. But if he was going to appeal to the
noble sede of her nature, she had to rise to that level as well, and prove
herself by remaining loyal to him. Making your deed as dashing and chivalrous
as possible will elevate the seduction to a new level, stir up deep emotions,
and conceal any ulterior motives you may have. The sacrifices you are making
must be visible; talking about them, or explaining what they have cost you,
will seem like bragging. Lose sleep, fall ill, lose valuable time, put your
career on the line, spend more money than you can afford. You can exaggerate
all this for effect, but don't get caught boasting about it or feeling sorry
for yourself: cause yourself pain and let them see it. Since almost everyone
else in the world seems to have an angle, your noble and selfless deed will be
irresistible. Throughout the 1890s and into the early twentieth century,
Gabriele D'Annunzio was considered one of Italy's premier novelists and
playwrights. Yet many Italians could not stand the man. His writing was florid,
and in person he seemed full of himself, overdramatic-riding horses naked on
the beach, pretending to be a Renaissance man, and more of the kind. His novels
were often about war, and about the glory of facing and defeating death-an
entertaining subject for someone who had never actually done so. And so, at the
start of World War I, no one was surprised that D'Annunzio led the call for
Italy to side with the Allies and enter the fiay. Everywhere you turned, there
he was, giving a speech in favor of war- a campaign that succeeded in 1915,
when Italy finally declared war on Germany and Austria. D'Annunzio's role so
far had been completely predictable. But what did surprise the Italian public
was what this fifty-two- year-old man did next: he joined the army. He had
never served in the military, boats made him seasick, but he could not be
dissuaded. Eventually the authorities gave him a post in a cavalry division,
hoping to keep him out of combat. Italy had little experience in war, and its
military was somewhat chaotic. The generals somehow lost track of
D'Annunzio-who, in any readily imagine that between two subjects so perfect as
these it knew little pause until it had them at its will, and had so filled
them with its clear light, that thought, wish, and speech were all aflame with
it. Youth, begetting fear in the young lord, led him to urge his suit with all
the gentleness imaginable; but she, being conquered by love, had no need
offorce to win her. Nevertheless, shame, which tarries with ladies as long as
it can, for some time restrained her from declaring her mind. But at last the
heart's fortress, which is honor's abode, was shattered in such sort that the
poor lady consented to that which she had never been minded to refuse. • In
order, however, to make trial of her lover's patience, constancy, and love, she
granted him what he sought on a very hard condition, assuring him that if he
fulfilled it she would love him perfectly forever; whereas, if he failed in it,
he would certainly never win her as long as he lived. And the condition was
this: she would be willing to talk with him, both being in bed together, clad
in their linen only, but he was to ask nothinginore from her than words and kisses.
• He, thinking there was no joy to be compared to that which she promised him,
agreed to the proposal, and that evening the promise was kept; in such wise
that, despite all the caresses she bestowed on him and the temptations that
beset him, he would not break his oath. And albeit his torment seemed to him no
less than that of Purgatory, yet was his love so great and his hope so strong,
sure as he felt of the ceaseless continuance of the love he had thus painfully
won, that he preserved his patience and rose from beside her without having
done anything contrary to her expressed wish. • The lady was, I think, more
astonished than pleased by such virtue; and giving no heed to the honor,
patience, and faithfulness her lover had shown in the keeping of his oath, she
forthwith suspected that his love was not so great as she had thought, or else
that he had found her less pleasing than he had expected. • She therefore
resolved, before keeping her promise, to make afurther trial of the love he
bore her; and to this end she begged him to talk to a girl in her service, who
was younger than herself and very beautiful, bidding him make love speeches to
her, so that those who saw him come so often to the house might think that it
was for the sake of this damsel and not of herself • The young lord,feeling
sure that his own love was returned in equal measure, was wholly obedient to
her commands, and for love of her compelled himself to make love to the girl;
and she, finding him so handsome and well-spoken, believed his lies more than
other truth, and loved him as much as though she herself were greatly loved by
him. • The mistress finding that matters were thus well advanced, albeit the
young lord did not cease to claim her promise, granted him permission to come
and see her at one hour after midnight, saying that after case, had decided to
leave his cavalry division and form units of his own. (He was an artist, after
all, and could not be subjected to army discipline.) Calling himself
Commandante, he overcame his habitual seasickness and directed a series of
daring raids, leading groups of motorboats in the middle of the night into
Austrian harbors and firing torpedoes at anchored ships. He also learned how to
fly, and began to lead dangerous sorties. In August of 1915, he flew over the
city of Trieste, then in enemy hands, and dropped Italian flags and thousands
of pamphlets containing a message of hope, written in his inimitable style:
"The end of your martyrdom is at hand! The dawn of your joy is imminent.
From the heights of heaven, on the wings of Italy, I throw you this pledge,
this message from my heart." He flew at altitudes unheard of at the time,
and through thick enemy fire. The Austrians put a price on his head. On a
mission in 1916, D'Annunzio fell against his machine gun, permanently injuring
one eye and seriously damaging the other. Told his flying days were over, he
convalesced in his home in Venice. At the time, the most beautiful and
fashionable woman in Italy was generally considered to be the Countess Morosini,
former mistress of the German Kaiser. Her palace was on the Grand Canal,
opposite the home of D'Annunzio. Now she found herself besieged by letters and
poems from the writer-soldier, mixing details of his flying exploits with
declarations of his love. In the middle of air raids on Venice, he would cross
the canal, barely able to see out of one eye, to deliver his latest poem.
D'Annunzio was much beneath Morosini's station, a mere writer, but his
willingness to brave anything on her behalf won her over. The fact that his
reckless behavior could get him killed any day only hastened the seduction.
D'Annunzio ignored the doctors' advice and returned to flying, leading even
more daring raids than before. By the end of the war, he was Italy's most
decorated hero. Now, wherever in the nation he appeared, the public filled the
piazzas to hear his speeches. After the war, he led a march on Fiume, on the
Adriatic coast. In the negotiations to settle the war, Italians believed they
should have been awarded this city, but the Allies had not agreed. D'Annunzio's
forces took over the city and the poet became a leader, ruling Fiume for more
than a year as an autonomous republic. By then, everyone had forgotten about
his less-than-glorious past as a decadent writer. Now he could do no wrong.
Interpretation. The appeal of seduction is that of being separated from our
normal routines, experiencing the thrill of the unknown. Death is the ultimate
unknown. In periods of chaos, confusion, and death-the plagues that swept Europe
in the Middle Ages, the Terror of the French Revolution, the air raids on
London during World War II-people often let go of their usual caution and do
things they never would otherwise. They experience a kind of delirium. There is
something immensely seductive about danger, about heading into the unknown.
Show that you have a reckless streak and a daring nature, that you lack the
usual fear of death, and you are instantly fascinating to the bulk of humanity.
What you are proving in this instance is not how you feel toward another person
but something about yourself: you are willing to go out on a limb. You are not
just another talker and braggart. It is a recipe for instant charisma. Any
political figure-Churchill, de Gaulle, Kennedy-whohas proven himself on the
battlefield has an unmatchable appeal. Many had thought of D'Annunzio as a
foppish womanizer; his experience in the war gave him a heroic sheen, a
Napoleonic aura. In fact he had always been an effective seducer, but now he
was even more devilishly appealing. You do not necessarily have to risk death,
but putting yourself in its vicinity will give you a seductive charge. (It is
often best to do this some way into the seduction, making it come as a pleasant
surprise.) You are willing to enter the unknown. No one is more seductive than
the person who has had a brush with death. People will be drawn to you; perhaps
they are hoping that some of your adventurous spirit will rub off on them. 4.
According to one version of the Arthurian legend, the great knight Sir Lancelot
once caught a glimpse of Queen Guinevere, King Arthur's wife, and that glimpse
was enough-he fell madly in love. And so when word reached him that Queen
Guinevere had been kidnapped by an evil knight, Lancelot did not hesitate-he
forgot his other chivalrous tasks and hurried in pursuit. His horse collapsed
from the chase, so he continued on foot. Finally it seemed that he was close,
but he was exhausted and could go no farther. A horse-driven cart passed by;
the cart was filled with loathsome- looking men shackled together. In those
days it was the tradition to place criminals-murderers, traitors, cowards,
thieves-in such a cart, which then passed through every street in town so that
people could see it. Once you had ridden in the cart, you lost all feudal
rights for the rest of your life. The cart was such a dreadful symbol that
seeing an empty one made you shiver and give the sign of the cross. Even so.
Sir Lancelot accosted the cart's driver, a dwarf: "In the name of God,
tell me if you've seen my lady the queen pass by this way?" "If you
want to get into this cart I'm driving," said the dwarf, "by tomorrow
you'll know what has become of the queen." Then he drove the cart onward.
Lancelot hesitated for but two of the horse's steps, then ran after it and
climbed in. Wherever the cart went, townspeople heckled it. They were most
curious about the knight among the passengers. What was his crime? How will he
be put to death-flayed? Drowned? Burned upon a fire of thorns? Finally the
dwarf let him get out, without a word as to the whereabouts of the queen. To
make matters worse, no one now would go near or talk to Lancelot, for he had
been in the cart. He kept on chasing the queen, and all along the way he was
cursed at, spat upon, challenged by other knights. He having so fully tested
the love and obedience he had shown towards her, it was but just that heshould
be rewardedfor his long patience. Of the lover's joy on hearing this you need
have no doubt, and he failed not to arrive at the appointed time. • But the
lady, still wishing to try the strength of his love, had said to her beautiful
damsel-"I am well aware of the love a certain nobleman bears to you, and I
think you are no less in love with him; and I feel so much pity for you both, that
I have resolved to afford you time and place that you may converse together at
your ease." • The damsel was so enchanted that she could not conceal her
longings, but answered that she would notfail to be present. • In obedience,
therefore, to her mistress's counsel and command, she undressed herself and lay
down on a handsome bed, in a room the door of which the lady left half open,
whilst within she set a light so that the maiden's beauty might be clearly
seen. Then she herself pretended to go away, but hid herself near to the bed so
carefully that she could not be seen. • Her poor lover, thinking to find her
according to her promise, failed not to enter the room as softly as he could,
at the appointed hour; and after he had shut the door and put off his garments
and fur shoes, he got into the bed, where he looked to find what he desired.
But no sooner did he put out his arms to embrace her whom he believed to be his
mistress, than the poor girl, believing him entirely her own, had her arms
round his neck, speaking to him the while in such loving words and with so
beautiful a countenance, that there is not a hermit so holy but he would have
forgotten his beads for love of her. • But when the gentleman recognized her
with both eye and ear, and found he was not with her for whose sake he had so
greatly suffered, the love that had made him get so quickly into the bed, made
him risefrom it still more quickly. And in anger equally with mistress and
damsel, he said - "Neither yourfolly nor the malice of her who put you
there can make me other than I am. But do you try to be an honest woman, for
you shall never lose that good name through me. " • So saying he rushed
out of the room in the greatest wrath imaginable, and it was long before he
returned to see his mistress. However love, which is never without hope,
assured him that the greater and more manifest his constancy was proved to be
by all these trials, the longer and more delightful would be his bliss. • The
lady, who had seen and heard all that passed, was so delighted and amazed at
beholding the depth and constancy of his love, that she was impatient to sec
him again in order to ask h is fo rgiven ess for the sorrow that she had caused
him to endure. And as soon as she could meet with him, she failed not to address
him in such excellent and pleasant words, that he not only forgot all his
troubles but even deemed them very fortunate, seeing that their issue was to
the glory of his constancy and the perfect had disgraced knighthood by riding
in the cart. But no one could stop him or slow him down, and finally he
discovered that the queen's kidnapper was the wicked Meleagant. He caught up
with Meleagant and the two fought a duel. Still weak from the chase, Lancelot
seemed to be near defeat, but when word reached him that the queen was watching
the battle, he recovered his strength and was on the verge of killing Meleagant
when a truce was called. Guinevere was handed over to him. Lancelot could
hardly contain his joy at the thought of finally being in his lady's presence.
But to his shock, she seemed angry, and would not look at her rescuer. She told
Meleagant's father, "Sire, in truth he has wasted his efforts. I shall
always deny that I feel any gratitude toward him." Lancelot was mortified
but he did not complain. Much later, after undergoing innumerable further
trials, she finally relented and they became lovers. One day he asked her: when
she had been abducted by Meleagant, had she heard the story of the cart, and
how he had disgraced knighthood? Was that why she had treated him so coldly
that day? The queen replied, "By delaying for two stepsyou showed your
unwillingness to climb into it. That, to tell the truth, is why I didn't wish
to see you or speak with you." Interpretation. The opportunity to do your
selfless deed often comes upon you suddenly. You have to show your worth in an
instant, right there on the spot. It could be a rescue situation, a gift you
could make or a favor you could do, a sudden request to drop everything and
come to their aid. What matters most is not whether you act rashly, make a
mistake, and do something foolish, but that you seem to act on their behalf
without thought for yourself or the consequences. At moments like these,
hesitation, even for a few seconds, can ruin all the hard work of your
seduction, revealing you as self-absorbed, unchival- rous, and cowardly. This,
at any rate, is the moral of Chretien de Troyes's twelfth-century version of
the story of Lancelot. Remember: not only what you do matters, but how you do
it. If you are naturally self-absorbed, learn to disguise it. React as
spontaneously as possible, exaggerating the effect by seeming flustered,
overexcited, even foolish-love has driven you to that point. If you have to
jump into the cart for Guinevere's sake, make sure she sees that you do it
without the slightest hesitation. 5. In Rome sometime around 1531, word spread
of a sensational young woman named Tullia d'Aragona. Bythe standards of the
period, Tullia was not a classic beauty; she was tall and thin, at a time when
the plump and voluptuous woman was considered the ideal. And she lacked the
cloying, giggling manner of most young girls who wanted masculine attention.
No, her quality was nobler. Her Latin was perfect, she could discuss the latest
literature, she played the lute and sang. In other words, she was a novelty,
and since that was all most men were looking for, they began to visit her in
Prove Yourself • 331 great numbers. She had a lover, a diplomat, and the
thought that one man had won her physical favors drove them all mad. Her male
visitors began to compete for her attention, writing poems in her honor, vying
to become her favorite. None of them succeeded, but they kept on trying. Of
course there were some who were offended by her, stating publicly that she was
no more than a high-class whore. They repeated the rumor (perhaps true) that
she had made older men dance while she played the lute, and if their dancing
pleased her, they could hold her in their arms. To Tullia's faithful followers,
all of noble birth, this was slander. They wrote a document that was
distributed far and wide: "Our honored mistress, the well-born and
honorable lady Tullia d'Aragona, doth surpass all ladies of the past, present,
or future by herdazzlingqualities. Anyone who refuses to conform to this
statement is hereby charged to enter the lists with one of the undersigned
knights, who will convince him in the customary manner." Tullia left Rome
in 1535, going first to Venice, where the poet Tasso became her lover, and
eventually to Ferrara, which was then perhaps the most civilized court in
Italy. And what a sensation she caused there. Her voice, her singing, even her
poems were praised far and wide. She opened a literary academy devoted to ideas
of freethinking. She called herself a muse and, as in Rome, a group of young
men collected around her. They would follow her around the city, carving her
name in trees, writing sonnets in her honor, and singing them to anyone who
would listen. One young nobleman was driven to distraction by this cult of
adoration: it seemed that everyone loved Tullia but no one received her love in
return. Determined to steal her away and marry her, this young man tricked her
into allowing him to visit her at night. He proclaimed his undying devotion,
showered her with jewels and presents, and asked for her hand. She refused. He
pulled out a knife, she still refused, and so he stabbed himself. He lived, but
now Tullia's reputation was even greater than before: not even money could buy
her favors, or so it seemed. As the years went by and her beauty faded, some
poet or intellectual would always come to her defense and protect her. Few of
them ever pondered the reality: that Tullia was indeed a courtesan, one of the
most popular and well paid in the profession. Interpretation. All of us have
defects of some sort. Some of these we are born with, and cannot help. Tullia
had many such defects. Physically she was not the Renaissance ideal. Also, her
mother had been a courtesan, and she was illegitimate. Yet the men who fell
under her spell did not care. They were too distracted by her image-the image
of an elevated woman, a woman you would have to fight over to win. Her pose
came straight out of the Middle Ages, the days of knights and troubadours.
Then, a woman, most often married, was able to control the power dynamic
between the sexes by withholding her favors until the knight somehow proved his
worth assurance of his love, the fruit of which he enjoyed from that time as
fully as he could desire. - QUEEN MARGARET OF NAVARRE, THE HEPTAMERON. QUOTED
IN THE VICE ANTHOLOGY , DAVENPORT-HINES A soldier lays siege to cities, a lover
to girls' houses, \ The one assaults city gates, the other front doors. \ Love,
like war, is a toss-up. The defeated can recover, \ While some you might think
invincible collapse; \ So ifyou've got love written off as an easy option \
You'd better think twice. Love calls \ For guts and initiative. Great Achilles
sulks for Briseis - \ Quick, Trojans, smash through the Argive wall! \ Hector
went into battle from Andromache's embraces \ Helmeted by his wife. \ Agamemnon
himself, the Supremo, was struck into raptures \ At the sight of Cassandra's
tumbled hair; \ Even Mars was caught on the job, felt the blacksmith's meshes -
\ Heaven's best scandal in years. Then take \ My own case. I was idle, born to
leisure en deshabille, \ Mind softened by lazy scribbling in the shade. \ But
love for a pretty girl soon drove the sluggard \ To action, made him join up.
\And just look at me now-fighting fit, dead keen on night exercises: \ If you
want a cure for slackness, fall in love! - OVID, THE AMORES. and the sincerity
of his sentiments. He could be sent on a quest, or made to live among lepers,
or compete in a possibly fatal joust for her honor. And this he had to do
without complaint. Although the days of the troubadour are long gone, the
pattern remains: a man actually loves to be able to prove himself, to be
challenged, to compete, to undergo tests and trials and emerge victorious. He
has a masochistic streak; a part of him loves pain. And strangely enough, the
more a woman asks for, theworthier she seems. A woman who is easy to get cannot
be worth much. Make people compete for your attention, make them prove
themselves in some way, and you will find them rising to the challenge. The
heat of seduction is raised by such challenges-show me that you really love me.
When one person (of either sex) rises to the occasion, often the other person
is now expected to do the same, and the seduction heightens. By making people
prove themselves, too, you raise your value and cover up your defects. Your
targets are too busy trying to prove themselves to notice your blemishes and
faults. Symbol: The Tournament. On the field, with its bright pennants and
caparisoned horses, the lady looks on as knights fight for her hand. She has
heard them declare love on bended knee, their endless songs and pretty
promises. They are all good at such things. But then the trumpet sounds and the
combat begins. In the tournament there can be no faking or hesitation. The
knight she chooses must have blood on hisface, and afew broken limbs. Reversal
W hen trying to prove that you are worthy of your target, remember that every
target sees things differently. A show of physical prowess not impress someone
who does not value physical prowess; it will just that you are after attention,
flaunting yourself. Seducers must adapt way of proving themselves to the doubts
and weaknesses of the seduced. For some, fine words are better proofs than
daredevil deeds, particularly if they are written down. With these people show
your sentiments in a letter-a different kind of physical proof, and one with
more poetic appeal than some showy bit of action. Know your target well, and
aim your seductive evidence at the source of their doubts or resistance. 17
Effect a Regression People who have experienced a certain kind of in the past
will try to repeat or relive are usually thosefrom earliest childhood, and are
often unassociated with a parental figure. Bring your tartheir emotional
response, they willfall in love with you. Alternatively, you too can regress,
letting them play the role of the protecting, nursing parent. In either case
you are offering the ultimate fantasy: the chance to have an intimate relawith
mommy or daddy, son or daughter. A s adults we tend to overvalue our childhood.
In their dependency and powerlessness, children genuinely suffer, yet when we
get older we conveniently forget about that and sentimentalize the supposed
paradise we have left behind. We forget the pain and remember only the
pleasure. ? Because the responsibilities of adult life are a burden so
oppressive at times that we secretly yearn for the dependency of childhood, for
that perwho looked after our every need, assumed our cares and worries. This
being dependent on the parent is charged with sexual undertones. Give and they
will project all kinds of fantasies onto you, including feelings of or sexual
attraction that they will attribute to something else. We won't admit it, but
we long to regress, to shed our adult exterior and vent childish emotions that
linger beneath the surface. in his career, Sigmund Freud confronted a strange
problem: many of his female patients were falling in love with him. He thought
he knew what was happening: encouraged by Freud, the patient would delve into
would talk about her relationship with her father, her earliest experiprocess
would stir up powerful emotions and memories. In a way, she be transported back
into her childhood. Intensifying this effect was the fact that Freud himself
said little and made himself a little cold and dis, although he seemed to be
caring-in other words, quite like the traditional father figure. Meanwhile the
patient was lying on a couch, in a helpless or passive position, so that the situation
duplicated the roles of parent and child. Eventually she would begin to direct
some of the confused emotions she was dealing with toward Freud himself.
Unaware of what was happening, she would relate to him as to her father. She
would regress and in love. Freud called this phenomenon
"transference," and it would become an active part of his therapy. By
getting patients to transfer some of their repressed feelings onto the
therapist, he would bring their problems into the open, where they could be
dealt with on a conscious level. The transference effect was so potent, though,
that Freud was often unable to move his patients past their infatuation. In
fact transference is a powerful way of creating an emotional attachment-the
goal of any seduc- [In Japan,] much in the traditional way of childrearing
seems to foster passive dependence. The child is rarely left alone, day or
night, for it usually sleeps with the mother. it goes out the child is not
pushed ahead in a pram, to face the world alone, but is tightly bound to the
mother's back in a snug cocoon. When the mother bows, the child does too, so
the social graces are acquired automatically while feeling the mother's
heartbeat. Thus emotional security tends to depend
almostentirelyonthephysicalpresence of the mother. "... Children learn
that a show of passive dependence is the best way to getfavors as well as
affection. There is a verb for this in Japanese: amaeru, translated in the
dictionary as "to presume upon another's love; to play the baby."
According to the psychiatrist Doi Takeo this is the main key to understanding
the Japanese personality. It goes on in adult life too: juniors do it to
seniors in companies, or any other group, women do it to men, men do it to
their mothers, and sometimes wives. A magazine called Young Lady featured an
article (January 1982) on "how to make ourselves beautiful." How, in
other , to attract men. An American or European magazine would then go on to
tell the reader how to be sexually desirable, no doubt suggesting various
puff's, creams, and sprays. Not so with Young Lady. "The most attractive
," it informs us, "are women full of maternal love. Women maternal
love are the types men never want to marry. One has to look at men through the
of a mother. " - IAN BURUMA, BEHIND THE : ON SEXUAL DEMONS. SACRED
MOTHERS. . GANGSTERS, DRIFTERS AND OTHER JAPANESE CULTURAL HEROES I have
stressed the fact that substitute for the ideal ego. Two people who love each
other are interchanging ego-ideals. That they love the ideal of themselves in
the otherone.There would be no love on earth if this phantom were not there.
Wefall in love because we cannot attain the image that is our better self and
the best of our self From this concept it is obvious that love itself is only
possible on a certain cultural level or after a certain phase in the
development of the personality has been reached. The creation of an ego-ideal
itself marks human progress. When are entirely satisfied tion. The method has
infinite applications outside psychoanalysis. To pracit in real life, you need
to play the therapist, encouraging people to talk memories are so vivid and
emotional that a part of us regresses just in talking about our early years.
Also, in the course of talking, little secrets slip out: we reveal all kinds of
valuable information about our weaknesses and our mental makeup, information
you must attend to and remember. Do not take your targets' words at face value;
they will often sugarcoat or overdramatize events in childhood. But pay
attention to their tone of voice, to any nervous tics as they talk, and
particularly to anything they do not want talk about, anything they deny or
that makes them emotional. Many statefor instance, you can be sure that they
are hiding a lot of disappointment- that they actually loved their father only
too much, and perhaps never quite what they wanted from him. Listen closely for
recurring themes and stories. Most important, learn to analyze emotional
responses and see what lies behind them. While they talk, maintain the therapist's
pose-attentive but quiet, making occasional, nonjudgmental comments. Be caring
yet distant- somewhat blank, in fact-and they will begin to transfer emotions
and project fantasies onto you. With the information you have gathered about
their childhood, and the trusting bond you have forged, you can now begin to
effect the regression. Perhaps you have uncovered a powerful attachment to a
parent, a sibling, a teacher, or any early infatuation, a person who casts a
shadow over their present lives. Knowing what it was about this person that
affected them so powerfully, you can now take over that role. Or perhaps you
have learned of an immense gap in their childhood-a neglectful father, for
instance. You act like that parent now, but you replace the original neglect
with the attention and affection that the real parent never supplied. Everyone
has unfinished business from childhood-disappointments, lacks, painful
memories. Finish what is unfinished. Discover what your target never got and
you have the ingredients for a deep-rooted seduction. The key is not just to
talk about memories-that is weak. What you want is to get peopletoactoutintheir
present old issues from their past, without their being aware of what is
happening. The regressions you can effect fall into four main types. The
Infantile Regression. The first bond-the bond between a mother and her
infant-is the most powerful one. Unlike other animals, human babies have a long
period of helplessness during which they are dependent on their mother, creating
an attachment that influences the rest of their lives. The key to effecting
this regression is to reproduce the sense of unconditional love a mother has
for her child. Never judge your targets-let them do whatever they want,
including behaving badly; at the same time surthem with loving attention,
smother them with comfort. A part of Effect a Regression • 331 them will
regress to those earliest years when their mother took care of everything and
rarely left them alone. This works on almost everyone, for unconditional love
is the rarest and most treasured form. You do not even have to tailor your
behavior to anything specific in their childhood; most of us have experienced
this kind of attention. Meanwhile, create atmospheres that reinforce the
feeling you are generating-warm environments, playful activities, bright, happy
colors. with their actual selves, love is impossible. • The of the ego-ideal to
a person is the most characteristic trait of love. -THEODOR REIK, OF LOVE AND
LUST The Oedipal Regression. After the bond between mother and child the
oedipal triangle of mother, father, and child. This triangle forms during the
period of the child's earliest erotic fantasies. A boy wants his mother to
himself, a girl does the same with her father, but they never quite have it
that way, for a parent will always have competing connections a spouse or to
other adults. Unconditional love has gone; now, inevitably, the parent must
sometimes deny what the child desires. Transport your victims back to this
period. Play a parental role, be loving, but also sometimes scold and instill
some discipline. Children actually love a little -it makes them feel that the
adult cares about them. And adult children too will be thrilled if you mix your
tenderness with a little toughness and punishment. Unlike infantile regression,
oedipal regression must be tailored to your target. It depends on the
information you have gathered. Without knowing enough, you might treat a person
like a child, scolding them now and then, only to discover that you are
stirring up ugly memories-they had too with the regression until you have
learned everything you can about their -what they had too much of, what they
lacked, and so on. If the target was strongly attached to a parent, but that
attachment was parnegative, the oedipal regression strategy can still be quite
effective. We always feel ambivalent toward a parent; even as we love them, we
resent having had to depend on them. Don't worry about stirring up these am,
which don't keep us from being tied to our parents. Remember include an erotic
component in your parental behavior. Now your tarare not only getting their
mother or father all to themselves, they are something more, something
previously forbidden but now allowed. gave [S ylphide] the eyes of one girl in
the village, fresh complexion of another. The portraits of great ladies of the
time of Francis 1, Henry IV, and XIV, hanging in our room, lent me
otherfeatures, and I even beauties from the pictures of the Madonna in
churches. This magic invisibly everywhere, I with her as if changed her
appearance according to the degree of without a veil, Diana rose, Thalia in a
laughing mask, Hebe with the goblet of youth-or she became a delusion lasted
two whole years, in the course of which my soul attained the highest peak of
exaltation. -CHATEAUBRIAND, MEMOIRS QUOTED IN FRIEDRICH SIEBURG, CHATEAUBRIAND.
The Ego Ideal Regression. As children, we often form an ideal figure out of our
dreams and ambitions. First, that ideal figure is the person we want to be. We
imagine ourselves as brave adventurers, romantic figures. Then, in our
adolescence, we turn our attention to others, often projecting our ideals onto
them. The first boy or girl we fall in love with may seem to have the ideal
qualities we wanted for ourselves, or else may make us feel that we can play
that ideal role in relation to them. Most of us carry these ideals around with
us, buried just below the surface. We are secretly disappointed in how much we
have had to compromise, how far below the ideal we have fallen as we have
gotten older. Make your targets feel they are living out this youthful ideal,
and coming closer to being the person they wanted to be, and you will effect a
different kind of regression, creating a feeling reminiscent of adolescence.
The relationship between you and the seduced is in this instance more equal
than in the previous kinds of regressions-more like the affection between
siblings. In fact the ideal is often modeled on a brother or sister. To create
this effect, strive to reprothe intense, innocent mood of a youthful
infatuation. The Reverse Parental Regression. Here you are the one to regress:
you deliberately play the role of the cute, adorable, yet also sexually charged
child. Older people always find younger people incredibly seductive. In the
presence of youth, they feel a little of their own youth return; but they are
in fact older, and mixed into the invigoration they feel in young people's
company is the pleasure of playing the mother or father to them. If a child has
erotic feelings toward a parent, feelings that are quickly repressed, the
parent must deal with the same problem in reverse. Assume the role of the child
in relation to your targets, however, and they get to act out some of those
repressed erotic sentiments. The strategy may seem to call for a difference in
age, but this is actually not critical. Marilyn Monroe's exaggerated
little-girl qualities worked just fine on men her age. Emphasizing a weakness
or vulnerability on your part will give the target a chance to play the
protector. Some Examples 1. The parents of Victor Hugo separated shortly after
the novelist was born, in 1802. Hugo's mother, Sophie, had been carrying on an
affair with her husband's superior officer, a general. She took the three Hugo
boys away from their father and went off to Paris to raise them on her own. the
boys led a tumultuous life, featuring bouts of poverty, frequent moves, and
their mother's continued affair with the general. Of all the boys, Victor was
the most attached to his mother, adopting all her ideas and pet peeves,
particularly her hatred of his father. But with all the turmoil in his
childhood he never felt he got enough love andattention from the mother he
adored. When she died, in 1821, poor and debt-ridden, he was devastated. The
following year Hugo married his childhood sweetheart, Adele, who physically
resembled his mother. It was a happy marriage for a while, but soon Adele came
to resemble his mother in more ways than one: in 1832, he discovered that she was
having an affair with the French literary critic Sainte-Beuve, who also
happened to be Hugo's best friend at the Effect Regression • 339 time. Hugo was
a celebrated writer by now, but he was not the calculating type. He generally
wore his heart on his sleeve. Yet he could not confide in anyone about Adele's
affair; it was too humiliating. His only solution was to have affairs of his
own, with actresses, courtesans, married women. Hugo had a prodigious appetite,
sometimes visiting three different women in the same day. Near the end of 1832,
production began on one of Hugo's plays, and he was to supervise the casting. A
twenty-six-year-old actress named Juliette Drouet auditioned for one of the
smaller roles. Normally quite adroit with the ladies, Hugo found himself
stuttering in Juliette's presence. She was quite simply the most beautiful
woman he had ever seen, and this and her composed manner intimidated him.
Naturally, Juliette won the part. He found himself thinking about her all the
time. She always seemed to be surrounded by a group of adoring men. Clearly she
was not interested in him, or so he thought. One evening, though, after a
performance of the play, he followed her home, to find that she was neither
angry nor surprised- indeed she invited him up to her apartment. He spent the
night, and soon he was spending almost every night there. Hugo was happy again.
To his delight, Juliette quit her career in the theater, dropped her former
friends, and learned to cook. She had loved fancy clothes and social affairs;
now she became Hugo's secretary, rarely leaving the apartment in which he had
established her and seeming to live only for his visits. After a while,
however, Hugo returned to his old ways and started to have little affairs on
the side. She did not complain-as long as she remained the one woman he kept
returning to. And Hugo had in fact grown quite dependent on her. In 1843,
Hugo's beloved daughter died in an accident and he sank into a depression. The
only way he knew to get over his grief was to have an afwith someone new. And
so, shortly thereafter, he fell in love with a young married aristocrat named
Leonie d'Aunet. He began to see Juliette less and less. A few years later,
Leonie, feeling certain she was the preferred one, gave him an ultimatum: stop
seeing Juliette altogether, or it wasover. Hugo refused. Instead he decided to
stage a contest: he would continue to see both women, and in a few months his
heart would tell him which one he preferred. Leonie was furious, but she had no
choice. Her affair with Hugo had already ruined her marriage and her standing
in society; she was dependent on him. Anyway, how could she lose-she was in the
prime of life, whereas Juliette had gray hair by now. So she pretended to go
along with this contest, but as time went on, she grew increasingly resentful
about it, and complained. Juliette, on the other hand, behaved as if nothing
had changed. Whenever he visited, she treated him as she always had, dropping
everything to comfort and mother him. The contest lasted several years. In
1851, Hugo was in trouble with Louis-Napoleon, the cousin of Napoleon Bonaparte
and now the president of France. Hugo had attacked his dictatorial tendencies
in the press, bitterly and perhaps recklessly, for Louis-Napoleon was a vengeful
man. Fearing for the writer's life, Juliette managed to hide him in a friend's
house and arranged for a false passport, a disguise, and safe passage to
Brussels. Everything went according to plan; Juliette joined him a few days
later, carrying his most valuable possessions. Clearly her heroic actions had
won the contest for her. And yet, after the novelty of Hugo's new life wore
off, his affairs resumed. Finally, fearing for his health, and worried that she
could no longer compete with yet another twenty-year-old coquette, Juliette
made a calm but stern demand: no more women or she was leaving him. Taken
completely by surprise, yet certain that she meant every word, Hugo broke down
and sobbed. An old man by now, he got down on his knees and , on the Bible and
then on a copy of his famous novel Les Miserables, he would stray no more.
Until Juliette's death, in 1883, her spell over him was complete.
Interpretation. Hugo's love life was determined by his relationship with his
mother. He never felt she had loved him enough. Almost all the women he had
affairs with bore a physical resemblance to her; somehow he would make up for
her lack of love for him by sheer volume. When Juliette met , she could not
have known all this, but she must have sensed two things: he was extremely
disappointed in his wife, and he had never really up. His emotional outbursts
and his need for attention made him a little boy than a man. She would gain
ascendancy over him for the of his life by supplying the one thing he had never
had: complete, unmother-love. Juliette never judged Hugo, or criticized him for
his naughty ways. She lavished him with attention; visiting her was like
returning to thewomb. In her presence, in fact, he was more a little boy than
ever. How could he refuse her a favor or ever leave her? And when she finally
threatened to leave him, he was reduced to the state of a wailing infant crying
for his mother. In the end she had total power over him. Unconditional love is
rare and hard to find, yet it is what we all crave, since we either experienced
it once or wish we had. You do not have to go as far as
Juliette Drouet; the mere hint of devoted attention, of accepting your lovers
for who they are, of meeting their needs, will place them in an infantile
position. A sense of dependency may frighten them a little, and they may feel
an undercurrent of ambivalence, a need to assert themselves periodically, as
Hugo did through his affairs. But their ties to you will be strong and they
will keep coming back for more, bound by the illusion that they are recapturing
the mother-love they had seemingly lost forever, or never had. 2. Around the
turn of the twentieth century. Professor Mut, a schoolmaster at a college for
young men in a small German town, began to de- Effect Regression velop a keen
hatred of his students. Mut was in his late fifties, and had worked at the same
school for many years. He taught Greek and Latin and was a distinguished
classical scholar. He had always felt a need to impose discipline, but now it
was getting ugly: the students were simply not interested in Homer anymore.
They listened to bad music and only liked modern literature. Although they were
rebellious, Mut considered them soft and undisciplined. He wanted to teach them
a lesson and make their lives miserable; his usual way of dealing with their
bouts of rowdiness was sheer bullying, and most often it worked. One day a
student Mut loathed-a haughty, well-dressed young man named Lohmann-stood up in
class and said, "I can't go on working in this room. Professor. There is
such a smell of mud." Mud was the boys' nickname for Professor Mut. The
professor seized Lohmann by the arm, twisted it hard, then banished him from
the room. He later noticed that Lohmann had left his exercise book behind, and
thumbing through it he saw a paragraph about an actress named Rosa Frohlich. A
plot hatched in Mut's mind: he would catch Lohmann cavorting with this actress,
no doubt a woman of ill repute, and would get the boy kicked out of school.
First he had to find out where she performed. He searched high and low, finally
finding her name up outside a club called the Blue Angel. He went in. It was a
smoke-filled place, full of the working-class types he looked down on. Rosa was
onstage. She was singing a song; the way she looked everyone in the audience in
the eye was rather brazen, but for some reason Mut found this disarming. He
relaxed a little, had some wine. After her performance he made his way to her
dressing room, determined to grill her about Lohmann. Once there he felt
strangely uncomfortable, but he gathered up his courage, accused her of leading
schoolboys astray, and threatened to get the police to close the place down.
Rosa, however, was not intimidated. She turned all of Mut's sentences around:
perhaps he was the one leading boys astray. Her tone was cajoling and teasing.
Yes, Lohmann had bought her flowers and champagne-so what? No one had ever
talked to Mut this way before; his authoritative tone usually made people give
way. He should have felt offended: she was low class and a woman, and he was a
schoolmaster, but she was talking to him as if they were equals. Instead,
however, he neither got angry nor left-something compelled him to stay. Now she
was silent. She picked up a stocking and started to darn it, ignoring him; his
eyes followed her every move, particularly the way she rubbed her bare knee.
Finally he brought up Lohmann again, and the police. "You've no idea what
this life's like," she said. "Everyone who comes here thinks he's the
only pebble on the beach. If you don't give them what they want they threaten
you with the police!" "I certainly regret having hurt a lady's
feelings," he replied sheepishly. As she got up from her chair, their
knees rubbed, and he felt a shiver up his spine. Now she was nice to him again,
and poured him some more wine. She invited him to come back, then left abruptly
to perform another number. The Art of Seduction The next day he kept thinking
about her words, her looks. Thinking about her while he was teaching gave him a
kind of naughty thrill. That night he went back to the club, still determined
to catch Lohmann in the act, and once again found himself in Rosa's dressing
room, drinking wine and becoming strangely passive. She asked him to help her
get dressed; that seemed quite an honor and he obliged her. Helping her with
her corset and her makeup, he forgot about Lohmann. He felt he was being
initiated into some new world. She pinched his cheeks and stroked his chin, and
occasionally let him glimpse her bare leg as she rolled up a stocking. Now
Professor Mut showed up night after night, helping her dress, watching her
perform, all with a strange kind of pride. He was there so often that Lohmann
and his friends no longer showed up. He had taken their place-he was the one to
bring her flowers, pay for her champagne, the one to serve her. Yes, an old man
like himself had bested the youthful Lohmann, who thought himself so suave! He
liked it when she stroked his chin, complimented him for doing things right,
but he felt even more excited when she rebuked him, throwing a powder puff in
his face or pushing him off a chair. It meant she liked him. And so, gradually,
he began to pay for all her caprices. It cost him a pretty penny but kept her
away from other men. Eventually he proposed to her. They married, and scandal
ensued: he lost hisjob, and soon all his money; finally he landed in prison. To
the very end, however, he could never get angry with Rosa. Instead he felt
guilty: he had never done enough for her. Interpretation. Professor Mut and
Rosa Frohlich are characters in the novel The Blue Angel, written by Heinrich
Mann in 1905, and later made into a film starring Marlene Dietrich. Rosa's
seduction of Mut follows the classic oedipal regression pattern. First, the
woman treats the man the way a mother would treat a little boy. She scolds him,
but the scolding is not threatening; it is tender, and has a teasing edge. Like
a mother, she knows she is dealing with someone weak, who cannot help his
naughty behavior. She mixes plenty of praise and approval in with her taunts.
Once the man begins to regress, she adds physical excitement-some bodily
contact to excite him, subtle sexual overtones. As a reward for his regression,
the man may get the thrill of finally sleeping with his mother. But there is
always an element of competition, which the mother figure must heighten. The
man gets to possess her all on his own, something he could not do with father
in the way, but he first has to win her away from others. The key to this kind of
regression is to see and treat your targets as children. Nothing about them
intimidates you, no matter how much authority or social standing they have.
Your manner makes it clear that you feel you are the stronger party. To
accomplish this it may be helpful to imagine or them as the children they once
were; suddenly, powerful people do not seem so powerful and threatening when
you regress them in your imagination. Keep in mind that certain types are more
vulnerable to an Effect Regression • 343 regression. Look for those who, like
Professor Mut, seem outwardly most adult-straitlaced, serious, a little full of
themselves. They are struggling to repress their regressive tendencies,
overcompensating for their weaknesses. Often those who seem the most in command
of themselves are the ripest for regression. In fact they are secretly longing
for it, because their power, position, and responsibilities are more a burden
than a pleasure. 3. Born in 1768, the French writer Francois Rene de
Chateaubriand grew in a medieval castle in Brittany. The castle wascold and
gloomy, as if inhabited by the ghosts of its past. The family lived there in
semiseclusion. Chateaubriand spent much of his time with his sister Lucile, and
his attachment to her was strong enough that rumors of incest made the rounds.
But when he was around fifteen, a new woman named Sylphide entered his -a woman
he created in his imagination, a composite of all the heroines, goddesses, and
courtesans he had read about in books. He was constantly seeing her features in
his mind, and hearing her voice. Soon she was taking walks with him, carrying
on conversations. He imagined her innocent and exalted, yet they would
sometimes do things that were not so innocent. He carried on this relationship
for two whole years, until finally he left for Paris, and replaced Sylphide
with women of flesh and blood. The French public, weary after the terrors of
the 1790s, greeted Chateaubriand's first books enthusiastically, sensing a new
spirit in them. His novels were full of windswept castles, brooding heroes, and
passionate heroines. Romanticism was in the air. Chateaubriand himself
resembled the characters in his novels, and despite his rather unattractive
appearance, women went wild over him-with him, they could escape their boring
marriages and live out the kind of turbulent romance he wrote about.
Chateaubriand's nickname was the Enchanter, and although he was married, and an
ardent Catholic, the number of his affairs increased with the years. But he had
a restless nature-he traveled to the Middle East, to the United States, all
over Europe. He could not find what he was looking for anywhere, and not the
right woman either: after the novelty of an affair wore off, he would leave. By
1807 he had had so many affairs, and still felt so unsatisfied, that he decided
to retire to his country estate, called Vallee aux Loups. He filled the place
with trees from all over the world, transforming the grounds into something out
of one of his novels. There he began to write the memoirs that he envisioned
would be his masterpiece. By 1817, however, Chateaubriand's life had fallen
apart. Money problems had forced him to sell Vallee aux Loups. Almost fifty, he
suddenly felt old, his inspiration dried up. That year he visited the writer Madame
de Stael, who had been ill and was now close to death. He spent several days at
her bedside, along with her closest friend, Juliette Recamier. Madame Re-
camier's affairs were infamous. She was married to a much older man, but they
had not lived together for some time; she had broken the hearts of the most
illustrious men in Europe, including Prince Metternich, the Duke of 344 The Art
of Seduction Wellington, and the writer Benjamin Constant. It had also been
rumored that despite all her flirtations she was still a virgin. She was now
almost forty, but she was the type of woman who seems youthful at any age.
Drawn together by their grief over de Stael's death, she and Chateaubriand
became friends. She listened so attentively to him, adopting his moods and
echoing his sentiments, that he felt that he had at last met a woman who
understood him. There was also something rather ethereal about Madame Recamier.
Her walk, her voice, her eyes-more than one man had compared her to some
unearthly angel. Chateaubriand soon burned with the desire to possess her
physically. The year after their friendship began, she had a surprise for him:
she had convinced a friend to purchase Vallee aux Loups. The friend was away
for a few weeks, and she invited Chateaubriand to spend some time with her at
his former estate. He happily accepted. He showed her around, explaining what
each little patch of ground had meant to him, the memories the place conjured
up. He felt youthful feelings welling up inside him, feelings he had forgotten about.
He delved further into the past, describing events in his childhood. At
moments, walking with Madame Recamier and looking into those kind eyes, he felt
a shiver of recognition, but he could not quite identify it. All he knew was
that he had to go back to the memoirs that he had laid aside. "I intendto
employ the little time that is left to me in describing my youth," he
said, "so long as its essence remains palpable to me." It seemed that
Madame Recamier returned Chateaubriand's love, but as usual she struggled to
keep it a spiritual affair. The Enchanter, however, deserved his nickname. His
poetry, his air of melancholy, and his persistence finally won the day and she
succumbed, perhaps for the first time in her life. Now, as lovers, they were
inseparable. But as always with Chateaubriand, over time one woman was not
enough. The restless spirit returned. He began to have affairs again. Soon he
and Recamier stopped seeing each other. In 1832, Chateaubriand was traveling
through Switzerland. Once again his life had taken a downward turn; only this
time he truly was old, in body and spirit. In the Alps, strange thoughts of his
youth began to assail him, memories of the castle in Brittany. Word reached him
that Madame Recamier was in the area. He had not seen her in years, and he
hurried to the inn where she was staying. She was as kind to him as ever;
during the day they took walks together, and at night they stayed up late,
talking. One day, Chateaubriand told Recamier he had finally decided to finish
his memoirs. And he had a confession to make: he told her the story of
Sylphide, his imaginary lover when he was growing up.He had once hoped to meet
a Sylphide in real life, but the women he had known had paled in comparison.
Over the years he had forgotten about his imaginary lover, but now he was an
old man, and he not only thought of her again, he could see her face and hear
her voice. And with those memories he realized that he had in fact met Sylphide
in real life-it was Madame Re- Effect Regression • 345 camier. The face and
voice were close. More important, there was the calm spirit, the innocent,
virginal quality. Reading to her the prayer to Sylphide he had just written, he
told her he wanted to be young again, and seeing her had brought his youth back
to him. Reconciled with Madame Re- camier, he began to work again on the
memoirs, which were eventually published under the title Memoirsfrom Beyond the
Grave. Most critics agreed that the book was his masterpiece. The memoirs were
dedicated to Madame Recamier, to whom he remained devoted until his death, in
1848. Interpretation. All of us carry within us an image of an ideal type of
person whom we yearn to meet and love. Most often the type is a composite made
up of bits and pieces of different people from our youth, and even of
characters in books and movies. People who influenced us inordinately-a teacher
for instance-may also figure. The traits have nothing to do with superficial
interests. Rather, they are unconscious, hard to verbalize. We searched hardest
for this ideal type in our adolescence, when we were more idealistic. Often our
first loves have more of these traits than our subsequent affairs. For
Chateaubriand, living with his family in their secluded castle, his first love
was his sister Lucile, whom he adored and idealized. But since love with her
was impossible, he created a figure out of his imagination who had all her
positive attributes-nobility of spirit, innocence, courage. Madame Recamier
could not have known about Chateaubriand's ideal , but she did know something
about him, well before she ever met him. She had read all of his books, and his
characters were highly autobiographical. She knew of his obsession with his
lost youth; and everyone knew of his endless and unsatisfying affairs with
women, his hyperrestless spirit. Madame Recamier knew how to mirror people,
entering their spirit, and one of her first acts was to take Chateaubriand to
Vallee aux Loups, where he felt he had left part of his youth. Alive with
memories, he regressed further into his childhood, to the days in the castle.
She actively encouraged this. Most important, she embodied a spirit that came
naturally to her, but that matched his youthfulideal; innocent, noble, kind.
(The fact that so many men fell in love with her suggests that many men had the
same ideals.) Madame Recamier was Lucile/Sylphide. It took him years to realize
it, but when he did, her spell over him was complete. It is nearly impossible
to embody someone's ideal completely. But if you come close enough, if you
evoke some of that ideal spirit, you can lead that person into a deep
seduction. To effect this regression you must play the role of the therapist.
Get your targets to open up about their past, particularly their former loves
and most particularly their first love. Pay attento any expressions of
disappointment, how this or that person did not give them what they wanted.
Take them to places that evoke their youth. In this regression you are creating
not so much a relationship of depen- 346 • The Art of Seduction dency and
immaturity but rather the adolescent spirit of a first love. There is a touch
of innocence to the relationship. So much of adult life involves compromise,
conniving, and a certain toughness. Create the ideal atmosphere by keeping such
things out, drawing the other person into a kind of mutual weakness, conjuring
a second virginity. There should be a dreamlike quality to the affair, as if
the target were reliving that first love but could not quite believe it. Let
all of this unfoldslowly,each encounter revealing more ideal qualities. The
sense of reliving a past pleasure is simply impossible to resist. . Some time
in the summer of 1614, several members of England's upper , including the
Archbishop of Canterbury, met to decide what to about the Earl of Somerset, the
favorite of King James I, who was forty-eight at the time. After eight years as
the favorite, the young earl had accumulated such power and wealth, and so many
titles, that nothing was left for anyone else. But how to get rid of this
powerful man? For the time A few weeks later the king was inspecting the royal
stables when he year-old George Villiers, a member of the lower nobility. The
courtiers who accompanied the king that day watched the king's eyes following
Villiers, and saw with what interest he asked about this young man. Indeed an
angel and a charmingly childish manner. When news of the king's intersupplant
the dreaded favorite. Left to nature, though, the seduction would never happen.
They had to help it along. So, without telling Villiers of their plan, they
befriended him. James was the son of Mary Queen of Scots. His childhood had
been a nightmare: his father, his mother's favorite, and his own regents had
been murdered; his mother had first been exiled, later executed. When James was
young, to escape suspicion he played the part of a fool. He hated the sight of
a sword and could not stand the slightest sign of argument. surrounded himself
with bright, happy young men, and seemed king was inconsolable. He needed
distraction and good cheer, and his faon Villiers, under the guise of trying to
help him advance within the court. They supplied him with a magnificent
wardrobe, jewels, a glittering carriage, the kind of things the king noticed.
They worked on his riding. Effect Regression • 347 fencing, tennis, dancing, Ms
skills with birds and dogs. He was instructed in conspirators managed to get
him appointed the royal cup-bearer; every night he poured out the king's wine,
so that the king could see him up close. After a few weeks, the king was in
love. The boy seemed to crave attention and tenderness, exactly what he yearned
to offer. How wonderful it be to mold and educate him. And what a perfect
figure he had! The conspirators convinced Villiers to break off his engagement
to a young lady; the king was single-minded in Ms affections, and could not
competition. Soon James wanted to be around Villiers all the time, spirit. The
king appointed Villiers gentleman of the bedchamber, making it for them to be
alone together. What particularly charmed James was that Villiers never asked
for anything, which made it all the more deto spoil him. By 1616, Villiers had
completely supplanted the former favorite. He . To the conspirators' dismay,
however, he quickly accumulated even him sweetheart in public, fix his
doublets, comb his hair. James zealously his favorite, anxious to preserve the
young man's innocence. He tended to the youth's every whim, in effect became
his slave. In fact the tered the room, he started to act like a child. The two
were inseparable until the king's death, in 1625. Interpretation. We are most
definitely stamped forever by our parents, in and seduced by the child. They
may play the role of the protector, but in the process they absorb the child's
spirit and energy, relive a part of their own childhood. And just as the child
struggles against sexual feelings toward the parent, the parent must repress
comparable erotic feelings that beneath the tenderness they feel. The best and
most insidious way to seduce people is often to position yourself as the child.
Imagining themstronger, more in control, they will be lured into your web. They
will they have nothing to fear. Emphasize your immaturity, your weakness, and
you let them indulge in fantasies of protecting and parenting you-a desire as
people get older. What they do not realize is that you are getting under their
skin, insinuating yourself-it is the child who is conthe adult. Your innocence
makes them want to protect you, but it is also sexually charged. Innocence is
highly seductive; some people even long play the corrupter of innocence. Stir
up their latent sexual feelings and you can lead them astray with the hope of
fulfilling a strong yet repressed gin to regress as well, infected by your
childish, playful spirit. Most of this came naturally to Villiers, but you will
probably have to use some calculation. Fortunately, all of us have strong
childish tendencies within us that are easy to access and exaggerate. Make your
gestures seem spontaneous and unplanned. Any sexual element of your behavior
should seem innocent, unconscious. Like Villiers, don't push for favors.
Parents prefer to spoil children who don't ask for things but invite them in
their manner. Seeming nonjudgmental and uncritical of those around you will
make everything you do seem more natural and naive. Have a happy, cheerful
demeanor, but with a playful edge. Emphasize any weaknesses you might have,
things you cannot control. Remember: most of us remember our early years
fondly, but often, paradoxically, the people with the strongest attachment to
those times are the ones who had the most difficult childhoods. Actually,
circumstances kept them from getting to be children, so they never really grew
up, and they long for the paradise they never got to experience. James I falls
into this category. These types are ripe targets for a reverse regression.
Symbol: The Bed. Lying alone in bed, the child feels unprotected, afraid, and
needy. In a nearby room, there is the parent's bed. It is large and forbidding,
site of things you are not supposed to know about. Give the seduced both
feelings-helplessness and transgression-as you lay them into bed and put them
to sleep. Reversal T o reverse the strategies of regression, the parties to a
seduction would have to remain adults during the process. This is not only
rare, it is not very pleasurable. Seduction means realizing certain fantasies.
Being a mture and responsible adult is not a fantasy, it is a duty.
Furthermore, a person who remains an adult in relation to you is harder to
seduce. In all kinds of seduction-political, media, personal-the target must
regress. The only danger is that the child, wearying of dependence, turns
against the parent and rebels. You must be prepared for this, and unlike a
parent, never take it personally. i8 Stir Up the Transgressive and Taboo There
are always social limits on what one can do. of these, the most elemental
taboos, go back centuries; others are more superficial, simply defining polite
and acceptable behavior. Making your targets feel that you are leading them
past either kind of limit is immensely seductive. People yearn to explore their
dark side. Not everything in romantic love is supposed to be tender and soft;
hint that you have a cruel, even sadistic streak. the desire to transgress
draws your targets to you, it will be hardfor them to stop. Take themfurther
than they imagined-the shared feeling of guilt and complicity will create a
powerful bond.The Lost Self I n March of 1812,the twenty-four-year-old George
Gordon Byron published the first cantos of his poem Childe Harold. The poem was
filled with familiar gothic imagery-a dilapidated abbey, debauchery, travels to
the mysterious East-but what made it different was that the hero of the poem
was also its villain: Harold was a man who led a life of vice, disdaining
society's conventions yet somehow going unpunished. Also, the poem was not set
in some faraway land but in present-day England. Childe Harold created an
instant stir, becoming the talk of London. The first printing quickly sold out.
Within days a rumor made the rounds: the poem, about a debauched young
nobleman, was in fact autobiographical. Now the cream of society clamored to
meet Lord Byron, and many of them left their calling cards at his London residence.
Soon he was showing up at their homes. Strangely enough, he exceeded their
expectations. He was devilishly handsome, with curling hair and the face of an
angel. His black attire set off his pale complexion. He did not talk much,
which made an impression of itself, and when he did, his voice was low and
hypnotic and his tone a little disdainful. He had a limp (he was born with a
clubfoot), so when an orchestra struck up a waltz (the dance craze of 1812), he
would stand to the side, a faraway look in his eye. The ladieswent wild over
Byron. Upon meeting him. Lady Roseberry felt her heart beating so violently (a
mix of fear and excitement) that she had to walk away. Women fought to be
seated next to him, to win his attention, to be seduced by him. Was it true
that he was guilty of a secret sin, like the hero of his poem? Lady Caroline
Lamb-wife of William Lamb, son of Lord and Lady Melbourne-was a glittering
young woman on the social scene, but deep inside she was unhappy. As a young
girl she had dreamt of adventure, romance, travel. Now she was expected to play
the role of the polite young wife, and it did not suit her. Lady Caroline was
one of the first to read Childe Harold, and something more than its novelty
stirred her. When she saw Lord Byron at a dinner party, surrounded by women,
she looked at his face, then walked away; that night she wrote of him in her
journal, "Mad, bad, and dangerous to know." She added, "That
beautiful pale face is my fate." The next day, to Lady Caroline's
surprise. Lord Byron called on her. Evidently he had seen her walking away from
him, and her shyness had intrigued him-he disliked the aggressive women who
were constantly at his It is a matter of a certain hind of feeling: that of
being overwhelmed. There are many who have a great fear of bring overwhelmed by
someone; for example, someonewhomakes them laugh against their will, or tickles
them to death, or, worse, tells them things that they sense to be accurate but
which they do not quite understand, things that go beyond their prejudices and
received wisdom, In other words, they do not want to be seduced, since
seduction means confronting people with their limits, limits that are supposed
to be set and stable but that the seducer suddenly causes to . Seduction is the
desire of being overwhelmed, taken beyond. SIBONY, L'AMOUR INCONSCIENT Just
lately I saw a tight- reined stallion \ Get the bit in his teeth and bolt \
Like lightning-yet the minute hefelt the reins slacken, \ Drop loose on his
flying mane, \ He stopped dead. We eternally chafe at restrictions, covet \
Whatever's forbidden. (Look how a sick man who's told \ No immersion hangs
round the bathhouse.) \ . . . Desire \ Mounts for what's kept out of reach. A
thief s attracted \ By burglar-proof premises. How often will love \ Thrive on
a rival's approval? It's not your wife's beauty, but your own \ Passion for her
that gets -she must \ Have something, just to have hooked you. A girl locked up
by her \ Husband's not chaste but pursued, her fear's \ A bigger draw than her
figure. Illicit passion - like it \ Or not-is sweeter. It only turns me on \
When the girl says, "I'm frightened." - OVID, THE AMORES, It is often
not possible for [women] later on to undo the connection thus formed in their
minds between sensual activities and something forbidden, and they turn out to
be psychically impotent, i.e. frigid, when at last such activities do become
permissible. This is the source of the desire in so many women to keep even
legitimate relations secret for a time; and of the appearance of the capacity
for normal sensation in others as soon as the condition of prohibition is
restored by a secret intrigue-untrue to the husband, they can keep a second
order offaith with the lover. • In my opinion the necessary condition of
forbiddenness in the erotic life of women holds the same place as the man's
heels, as it seemed he disdained everything, including his success. Soon he was
visiting Lady Caroline daily. He lingered in her boudoir, played with her
children, helped her choose her dress for the day. She pressed him to talk of
his life: he described his brutal father, the untimely deaths that seemed to be
a family curse, the crumbling abbey he had inherited, his adventures in Turkey
and Greece. His life was indeed as gothic as that of Childe Harold. Within days
the two became lovers. Now, though, the tables turned: Lady Caroline pursued
Byron with unladylike aggression. She dressed as a page and sneakedinto hiscarriage,wrotehimextravagantly
emotional letters, flaunted the affair. At last, a chance to play the grand
romantic role of her girlhood fantasies. Byron began to turn against her. He
already loved to shock; now he confessed to her the nature of the secret sin he
had alluded to in Childe Harold -his homosexual affairs during his travels. He
made cruel remarks, grew indifferent. But this only seemed to push her further.
She sent him the customary lock of hair, but from her pubis; she followed him
in the street, made public scenes-finally her family sent her abroad to avoid
further scandal. After Byron made it clear the affair was over, she descended
into a madness that would last several years. In 1813, an old friend of
Byron's, James Webster, invited the poet to stay at his country estate. Webster
had a young and beautiful wife. Lady Frances, and he knew Byron's reputation as
a seducer, but his wife was quiet and chaste-surely she would resist the
temptation of a man such as Byron. To Webster's relief, Byron barely spoke to
Frances, who seemed equally uninterested in him. Yet several days into Byron's
stay, she contrived to be alone with him in the billiards room, where she asked
him a question: how could a woman who liked a man inform him of it when he did
not perceive it? Byron scribbled a racy reply on a piece of paper, which made her
blush as she read it. Soon thereafter he invited the couple to stay with him at
his infamous abbey. There, the prim and proper Lady Frances saw him drink wine
from a human skull. They stayed up late in one of the abbey's secret chambers,
reading poetry and kissing. With Byron, it seemed. Lady Frances was only too
eager to explore adultery. That same year. Lord Byron's half sister Augusta
arrived in London to get away from her husband, who was having money troubles.
Byron had not seen Augusta for some time. The two were physically similar-the
same face, the same mannerisms; she was Lord Byron as a woman. And his behavior
toward her was more than brotherly. He took her to the theater, to dances,
received her at home, treating her with an intimate spirit that Augusta soon
returned. Indeed the kind and tender attention that Byron showered on her soon
became physical. Augusta was a devoted wife with three children, yet she
yielded to her half brother's advances. How could she help herself? He stirred
up a strange passion in her, a stronger passion than she felt for any other
man, including her husband. For Byron, his relationship with Augusta was the
ultimate and crowning sin of his career. And soon he was writing to his
friends, openly Stir Up the Transgressive and Taboo • 353 confessing it. Indeed
he delighted in their shocked responses, andhislong narrative poem. The Bride
ofAbydos, takes brother-sister incest as its theme. Rumors began to spread of
Byron's relations with Augusta, who was now pregnant with his child. Polite
society shunned him-but women were more drawn to him than before, and his books
were more popular than ever. Annabella Milbanke, Lady Caroline Lamb's cousin,
had met Byron in those first months of 1812 when he was the toast of London.
Annabella was sober and down to earth, and her interests were science and
religion. But there was something about Byron that attracted her. And the
feeling seemed to be returned: not only did the two become friends, to her
bewilderment he showed another kind of interest in her, even at one point
proposing marriage. This was in the midst of the scandal over Byron and
Caroline Lamb, and Annabella did not take the proposal seriously. Over the next
few months she followed his career from a distance, and heard the rumors of
incest. Yet in 1813, she wrote her aunt, "I consider his acquaintance as
so desirable that I would incur the risk of being called a Flirt for the sake
of enjoying it." Reading his new poems, she wrote that his
"description of Love almost makes me in love." She was developing an
obsession with Byron, of which word soon reached him. They renewed their
friendship, and in 1814 he proposed again; this time she accepted. Byron was a
fallen angel and she would be the one to reform him. It did not turn out that
way. Byron had hoped that married life would calm him down, but after the
ceremony he realized it was a mistake. He told Annabella, "Now you will
find that you have married a devil." Within a few years the marriage fell
apart. In 1816, Byron left England, never to return. He traveled through Italy
for a while; everyone knew his story-the affairs, the incest, the cruelty to
his lovers. But wherever he went, Italian women, particularly married
noblewomen, pursued him, making it clear in their own way how prepared they
were to be the next Byronic victim. In truth, the women had become the
aggressors. As Byron told the poet Shelley, "No one has been more carried
off than poor dear me-I've been ravished more often than anyone since the
Trojan war." Interpretation. Women of Byron's time were longing to play a
different role than society allowed them. They were supposed to be the decent,
moralizing force in culture; only men had outlets for their darker impulses.
Underlying the social restrictions on women, perhaps, was a fear of the more
amoral and unbridled part of the female psyche. Feeling repressed and restless,
women of the time devoured gothic novels and romances, stories in which
womenwere adventurous, and had the same capacity for good and evil as men. Books
like these helped to trigger a revolt, with women like Lady Caroline playing
out a little of the fantasy life they had had in their girlhood, where it had
to some extent been permit- need to lower his sexual object. . . . Women
belonging to the higher levels of civilization do not usually transgress the
prohibition against sexual activities during the period of waiting, and thus
they acquire this close association between the forbidden and the sexual. . . .
• The injurious results of the deprivation of sexual enjoyment at the beginning
manifest themselves in lack offull satisfaction when sexual desire is later
given free rein in marriage. But, on the other hand, unrestrained sexual
liberty from the beginning leads to no better result. It is easy to show that
the value the mind sets on erotic needs instantly sinks as soon as satisfaction
becomes readily obtainable. Some obstacle is necessary to swell the tide of the
libido to its height; and at all periods of , wherever natural barriers in the
way of satisfaction have not sufficed, mankind has erected conventional ones in
to be able to enjoy . This is true both of individuals and of nations. In times
during which no obstacles to sexual existed, such as, maybe, during the decline
of the civilizations of antiquity, love became worthless, lifebecameempty, and
strong reaction- formations were necessary before the indispensable emotional
value of love could be recovered. FREUD,
"CONTRIBUTIONS TO THE PSYCHOLOGY OF LOVE," SEXUALITY AND THE
PSYCHOLOGY OF LOVE This is how Monsieur Maudair analyzed men's toward
prostitutes: Neither the love of a passionate but well- brought-up mistress,
nor his marriage to a woman he respects, can replace the prostitute for the
animal in those moments when he covets the pleasure of himself without his
social prestige. can replace this bizarre and powerful of being able to parody
without any fear of revolt against organized society, his organized, educated
self and especially his Mauclair hears the call of Devil in this dark poetized by
prostitute represents the us to put aside our ." LOVE AND THE FRENCH
brought them joy; spoil their game, he only them the more passionate about it,
God . ... so it was with Tristan and Isolde. As soon as they wereforbidden
their desires, and prevented from enjoying one another by spies and guards,
they began to suffer intensely. Desire now seriously tormented them by its
magic, many times worse than before; their need for one another was more ted.
Byron arrived on the scene at the right time. He became the lightning rod for
women's unexpressed desires; with him they could go beyond the limits society
had imposed. For some the lure was adultery, for others it was romantic
rebellion, or a chance to become irrational and uncivilized. (The desire to
reform him merely covered up the truth-the desire to be overwhelmed by him.) In
all cases it was the lure of the forbidden, which in this case was more than
merely a superficial temptation: once you became involved with Lord Byron, he
took you further than you had imagined or wanted, since he recognized no
limits. Women did notjust fall in love with him, they let him turn their lives
upside down, even ruin them. They preferred that fate to the safe confines of
marriage. In some ways, the situation of women in the early nineteenth century
has become generalized in the early twenty-first. The outlets for male bad
behavior-war, dirty politics, the institution of mistresses and courtesans-
have faded away; today, notjust women but men are supposed to be
eminentlycivilizedandreasonable.Andmany have a hard time living up to this. As
children we are able to vent the darker side of our characters, a side that all
of us have. But under pressure from society (at first in the form of our
parents), we slowly repress the naughty, rebellious, perverse streaks in our
characters. To get along, we leam to repress our dark sides, which become a
kind of lost self, a part of our psyche buried beneath our polite appearance.
As adults, we secretly want to recapture that lost self-the more adventurous,
less respectful, childhood part of us. We are drawn to those who live out their
lost selves as adults, even if it involves some evil or destruction. Like
Byron, you can become the lightning rod for such desires. You must leam,
however, to keep this potential under control, and to use it strategically. As
the aura of the forbidden around you is drawing targets into your web, do not
overplay your dangerousness, or they will be frightened away. Once you feel
them falling under your spell, you have freer rein. If they begin to imitate
you, as Lady Caroline imitated Byron, then take it -mix in some cruelty,
involve them in sin, crime, taboo activity, whatever it takes. Unleash the lost
self within them; the more they act it out, the deeper your hold over them.
Going halfway will break the spell and create self-consciousness. Take it as
far as you can. Baseness attracts everybody. -JOHANN WOLFGANG GOETHE Keys to
Seduction S ociety and culture are based on limits-this kind of behavior is
acceptable, that is not. The limits are fluid and change with time, but there
are always limits. The alternative is anarchy, the lawlessness of nature, which
we dread. But we are strange animals: the moment any kind of limit is im- Stir
Up the Transgressive and Taboo • 355 posed, physically or psychologically, we
are instantly curious. A part of us wants to go beyond that limit, to explore
what is forbidden. If, as children, we are told not to go past a certain point
in the woods, that is precisely where we want to go. But we grow older, and
become polite and deferential; more and more boundaries encumber our lives. Do
not confuse politeness with happiness, however. It covers up frustration,
unwanted compromise. How can we explore the shadow side of our personality
without incurring punishment or ostracism? It seeps out in our dreams. We
sometimes wake up with a sense of guilt at the murder, incest, adultery, and
mayhem that goes on in our dreams, until we realize no one needs to know about
it but ourselves. But give a person the sense that with you they will have a
chance to explore the outer reaches of acceptable, polite behavior, that with
you they can vent some of their closeted personality, and you create the
ingredients for a deep and powerful seduction. You will have to go beyond the
point of merely teasing them with an elusive fantasy. The shock and seductive
power will come from the reality of what you are offering them. Like Byron, at
a certain point you can even press it further than they may want to go. If they
have followed you merely out of curiosity, they may feel some fear and
hesitation, but once they are hooked, they will fond you hard to resist, for it
is hard to return to a limit once you have transgressed and gone past it. The
human cries out for more, and does not know when to stop. You will determine
for them when it is time to stop. The moment people feel that something is
prohibited, a part of them will want it. That is what makes a married man or
woman such a delicious target-the more someone is prohibited, the greater the
desire. George Vil- , the Earl of Buckingham, was the favorite first of King
James I, then of James's son. King Charles I. Nothing was ever denied him. In
1625, on a visit to France, he met the beautiful Queen Anne and fell hopelessly
in love. What could be more impossible, more out of reach, than the queen of a
rival power? He could have had almost any other woman, but the prohibited
nature of the queen completely enflamed him, until he embarrassed himself
andhiscountry by trying to kiss her in public. Since what is forbidden is
desired, somehow you must make yourself seem forbidden. The most blatant way to
do this is to engage in behavior that gives you a dark and forbidden aura.
Theoretically you are someone to avoid; in fact you are too seductive to
resist. That was the allure of the actor Errol Flynn, who, like Byron, often
found himself the pursued rather than pursuer. Flynn was devilishly handsome,
but he also had something else: a definite criminal streak. In his wild youth
he engaged in all kinds of activities. In the 1950s he was charged with rape, a
permanent stain on his reputation even though he was acquitted; but his
popularity among women only increased. Play up your dark side and you will have
a similar effect. For your targets to be involved with you means going beyond
their limits, doing something naughty and unacceptable-to society, to their
peers. For many that is reason to bite the bait. painful and urgent than it had
ever been. • . . . just because they are forbidden, which they would certainly
not do if they were not forbidden. . . . Our Lord God gave Eve the freedom to
do what she would with all the fruits, flowers, and plants there were in
Paradise, except for only one, which he forbade her to touch on pain of death.
She look the fruit and broke God's . . . but it is my firm belief now that Eve
would never have done this, if she had not been forbidden to. STRASSBURG,
TRISTAN UND ISOLDE. QUOTED IN ANDREA HOPKINS, THE BOOK OF COURTLY LOVE One of
Monsieur Leopold Stern's friends rented a bachelor's pied-a-terre where he
received his wife as a mistress, served her with port and petits-fours and
"experienced all the tingling excitement of adultery." He told Stern
that it was a delightful sensation to cuckold himself. -NINAEPTON, LOVE AND THE
FRENCH The Art of Seduction In Junichiro Tanazaki's 1928 novel Quicksand,
Sonoko Kakiuchi, the wife of a respectable lawyer, is bored and decides to take
art classes to wile away the time. There, she finds herself fascinated with a
fellow female student, the beautiful Mitsuko, who befriends her, then seduces
her. Kakiuchi is forced to tell endless lies to her husband about her
involvement with and their frequent trysts. Mitsuko slowly involves her in all
kinds of nefarious activities, including a love triangle with a bizarre young
man. Each time Kakiuchi is made to explore some forbidden pleasure, Mitsuko
challenges her to go further and further. Kakiuchi hesitates, feels remorse-
she knows she is in the clutches of a devilish young seductress who has played
on her boredom to lead her astray. But in the end, she cannot help following
Mitsuko's lead-each transgressive act makes her want more. Once your targets
are drawn by the lure of the forbidden, dare them to match you in transgressive
behavior. Any kind of challenge is seductive. Take it slowly heightening the
challenge only after they show signs of yielding to you. Once they are under
your spell, they may not even notice how far out on a limb you have taken them.
The great eighteenth-century rake Due de Richelieu had a prediliction for young
girls and he would often heighten the seduction by enveloping them in
transgressive behavior, to which the young are particularly susceptible. For
instance, he would find a way into the young girl's house and lure her into her
bed; the parents would be just down the hall, adding the proper spice.
Sometimes he would act as if they were about to be discov, the momentary fright
sharpening the overall thrill. In all cases, he would try to turn the young girl
against her parents, ridiculing their religious zeal or prudery or pious
behavior. The duke's stategy was to attack the values that his targets held
dearest-precisely the values that represent a limit. In a young person, family
ties, religious ties, and the like are useful to the seducer; young people
barely need a reason to rebel against them. The , though, can be applied to a
person of any age: for every deeply held value there is a shadow side, a doubt,
a desire to explore what those values forbid. hi Renaissance Italy, a
prostitute would dress as a lady and go to church. Nothing was more exciting to
a man than to exchange glances with a woman whom he knew to be a whore as he
was surrounded by his wife, family, peers, and church officials. Every religion
or value system creates a dark side, the shadow realm of everything it
prohibits. Tease your targets, get them to flirt with whatever transgresses
their family values, which are often emotional yet superficial, since they are
imposed front the outside. One of the most seductive men of the twentieth
century, Rudolph Valentino, was known as the Sex Menace. His appeal for women
was twofold; he could be tender and attentive, but he also hinted of cmelty. At
any moment he could become dangerously bold, perhaps even a little violent. The
studios played up this double image as much as possible-when it was reported
that he had been abusive to his wife, for example, they ex- Stir Up the
Transgressive and Tabooploited the story. A mix of the masculine and the feminine,
the violent and the tender, will always seem transgressive and appealing. Love
is supposed to be tender and delicate, but in fact it can release violent and
destructive emotions; and the possible violence of love, the way it breaks down
our normal reasonableness, is just what attracts us. Approach romance's violent
side by mixing a cruel streak into your tender attentions, particularly in the
latter stages of the seduction, when the target is in your clutches. The Lola
Montez was known to turn to violence, using a whip now and then, and Lou
Andreas-Salome could be exceptionally cruel to her men, playing coquettish
games, turning alternately icy and demanding. Her cruelty only kept her targets
coming back for more. A masochistic involvecan represent a great transgressive
release. The more illicit your seduction feels, the more powerful its effect.
Give your targets the feeling that they are committing a kind of crime, a deed
whose guilt they share with you. Create public moments in which the two of you
know something that those around you do not. It could be phrases and looks that
only you recognize, a secret. Byron's seductive appeal to Lady Frances was
connected to the nearness of her husband-in his company, for example, she had a
love letter of Byron's hidden in her bosom. Johannes, the protagonist of Spren
Kierkegaard's The Seducer's Diary, sent a message to his target, the young
Cordelia, in the middle of a dinner party they were both attending; she could
not reveal to the other guests that it was from him, for then she wouldhaveto
do some explaining. He might also say something in public that would have a
special meaning for her, since it referred to something in one of his letters.
All of this added spice to the affair by giving it a feeling of a shared
secret, even a guilty crime. It is critical to play on tensions like these in
public, creating a sense of complicand collusion against the world. In the
Tristan and Isolde legend, the famous lovers reach the heights of and
exhilaration exactly because of the taboos they break. Isolde is engaged to
King Mark; she will soon be a married woman. Tristan is a loyal subject and
warrior in the service of King Mark, who is his father's age. The whole affair
has a feeling of stealing away the bride from the father. Epitomizing the
concept of love in the Western world, the legend has had immense influence over
the ages, and a crucial part of it is the idea that without obstacles, without
a feeling of transgression, love is weak and flavorless. People may be straining
to remove restrictions on private behavior, to make everything freer, in the
world today, but that only makes seduction more difficult and less exciting. Do
what you can to reintroduce a feeling of transgression and crime, even if it is
only psychological or illusory. There must be obstacles to overcome, social
norms to flout, laws to break, before the seduction can be consummated. It
might seem that a permissive society imposes few limits; find some. There will
always be limits, sacred cows, behavioral standards-endless ammunition for
stirring up the transgressive and taboo. Symbol: The Forest. The children are
told not to go into the forest that lies just beyond the safe confines of their
home. There is no law there, only wilderness, wild animals, and . But the
chance to explore, the alluring darkness, and the fact that it is prohibited
are impossible to resist. And once inside, they want to go farther andfarther.
Reversal T he reversal of stirring up taboos would be to stay within the limits
of acceptable behavior. That would make for a very tepid seduction. Which is
not to say that only evil or wild behavior is seductive; goodness, kindness,
and an aura of spirituality can be tremendously attractive, they are rare
qualities. But notice that the game is the same. A person who is kind or good
or spiritual within the limits that society prescribes has weak appeal. It is
those who go to the extreme-the Gandhis, the Krish- namurtis-who seduce us.
They do not merely expound a spiritual life, they do away with all personal
material comfort to live out their ascetic ideals. They too go beyond the
limits, transgressing acceptable behavior, because societies would find it hard
to function if everyone wenttosuchlengths.Inseduction, there is absolutely no
power in respecting boundaries and limits. IQ Use Spiritual Lures Everyone has
doubts and insecurities-about their body, their self-worth, their sexuality. If
your seduction appeals exclusively to the , you will stir up these doubts and
make your targets self-conscious. Instead, lure out of their insecurities by
making them focus on something sublime and spiritual: a religious experience, a
lofty work of art, the occult. Play up your divine qualities; affect an air of
discontent with things; speak of the stars, destiny, the hidden threads that
unite you and the object of the seduction. Lost in a spiritual mist, the target
will feel light and uninhibited. Deepen the effect of your seduction by making
its sexual culmination seem like the spiritual union of two souls. Object of
Worship L iane de Pougy was the reigning courtesan of 1890s Paris. Slender and
androgynous, she was a novelty, and the wealthiest men in Europe vied to
possess her. By late in the decade, however, she had grown tired of it all.
"What a sterile life," she wrote a friend. "Always the same
routine: the Bois, the races, fittings; and to end an insipid day:
dinner!" What wearied the most was the constant attention of her male
admirers, who sought to monopolize her physical charms. One spring day in 1899,
Liane was riding in an open carriage through the Bois de Boulogne. As usual,
men tipped their hats at her as she passed by. But one of these admirers caught
her by surprise: a young woman with blond hair, who gave her an intense,
worshipful stare. Liane smiled at woman, who smiled and bowed in return. A few
days later Liane began to receive cards and flowers from a
twenty-three-year-old American named Natalie Barney, who identified herself as
the blond admirer in the Bois de Boulogne, and asked for a ren. Liane invited
Natalie to visit, but to amuse herself she decided to play a little joke: a
friend would take her place, lounging on her bed in the dark boudoir, while
Liane would hide behind a screen. Natalie arrived at bouquet of flowers.
Kneeling before the bed, she began to praise the courtesan, comparing her to a
Era Angelico painting. All too soon, she someone laugh-and standing up she
realized the joke that had been played on her. She blushed and made for the
door. When Liane hurried "Come back tomorrow morning. I'll be alone."
The young American showed up the next day, wearing the same outfit. was witty
and spirited; Liane relaxed in her presence, and invited her to stay for the
courtesan's morning ritual-the elaborate makeup, clothes, and beautiful woman
she had ever seen. Playing the part of the page, she followed Liane to the
carriage, opened the door for her with a bow, and accompanied her on her
habitual ride through the Bois de Boulogne. Once inside the park, Natalie knelt
on the floor, out of sight of the passing gentlemen who tipped their hats to
Liane. She recited poems she had writ- Ah! always to be able to freely love the
one whom one loves! To spend my life at yourfeet like our last days together.
To protect only one to throw you on this bed of moss. . . . We'll find each
other again falls, we'll go deep in the to lose the paths island of describe
for you those delicate female couples, and far from the cities and the , we'll
forget everything but the Ethics of Beauty. BARNEY, LETTER TO LIANE DE POUGY,QUOTED
IN CHALON, PORTRAIT OF A NATALIE BARNEY,
Natalie, who used to ravage the land of love. by husbands since no one
could resist her could see how women abandon their potions. Natalie preferred
writing poems; she always knew how to blend the physical and the spiritual.
CHALON, PORTRAIT OF NATAUE BARNEY. town of Gafsa, in Barbary, very rich man who
had daughter called Alibech. She was not in Liane's honor, and she told the
courtesan she considered it a mission That evening Natalie took her to the theater
to see Sarah Bernhardt with Hamlet-his hunger for the sublime, his hatred of
tyranny-which, for her, was the tyranny of men over women. Over the next few
days Liane received a steady flow of flowers from Natalie, and telegrams with
little poems in her honor. Slowly the worshipful words and looks became more
physical, with the occasional touch, then a caress, even a kiss-and a Mss felt
different from any in Liane's experience. One morning, with Natalie in
attendance, Liane prepared to take a bath. As she slipped out Natalie to throw
off her clothes andjoin her. Within a few days, all Paris knew that Liane de
Pougy had a new lover: Natalie Barney. made no effort to disguise her new
affair, publishing a novel, had an affair with a woman before, and she described
her involvement with were many one day, having on the Christian faith and the
one of them for his opinion her by saying the ones who served put the greatest
distance themselves and the case of people who remoter parts of the . • She
said no about it to anyone, next morning, being a offourteen or alone, in
secret, and A few days later, hunger, she arrived in the of the wilderness,
long life, she remembered the affair as by far her most intense. her. Renee was
obsessed with death; she also felt there was something wrong with her,
experiencing moments of intense self-loathing. In 1900, Renee met Natalie at
the theater. Something about the American's kind eyes melted Renee's normal
reserve, and she began sending poems to Natalie, who responded with poems of
her own. They soon became friends. confessed that she had had an intense
friendship with another woman, but that it remained platonic-the thought of
physical involverepulsed her. Natalie told her about the ancient Greek poet
Sappho, who celebrated love between women as the only love that is innocent and
apartment, which she had transformed into a kind of chapel. The room filled
with candles and with white lilies, the flowers she associated with Natalie.
That night the two women became lovers. They soon moved in together, but when
Renee realized that Natalie could not be faithful to her, her love turned into
hatred. She broke off the relationship, moved out, and vowed to never see her
again. the next few months Natalie sent her letters and poems, and do with her.
One evening at the opera, though, Natalie sat down beside for the past, and
also a simple request: the two women should go on a pilgrimage to the Greek
island of Lesbos, Sappho's home. Only there could they purify themselves and
their relationship. Renee could not resist. Use Spiritual Lures • 36 3 Renee
wrote her, "My blond Siren, I don't want you to become like those who
dwell on earth. ... I want you tostayyourself,forthisis the way you cast your
spell over me." Their affair lasted until Renee's death, in 1909.
Interpretation. Liane de Pougy and Renee Vivien both suffered a similar
oppression: they were self-absorbed, hyperaware of themselves. The source of
this habit in Liane was men's constant attention to her body. She could never escape
their looks, which plagued her with a feeling of heaviness. Renee, meanwhile,
thought too much about her own problems- her repression of her lesbianism, her
mortality. She felt consumed with self-hatred. Natalie Barney, on the other
hand, was buoyant, lighthearted, absorbed in the world around her. Her
seductions-and by the end of her life they numbered well into the hundreds-all
had a similar quality: she took the victim outside herself, directing her
attention toward beauty, poetry, the innocence of Sapphic love. She invited her
women to participate in a kind of cult in which they would worship these
sublimities. To heighten the cultlike feeling, she involved them in little
rituals: they would call each other by new names, send each other poems in
daily telegrams, wear costumes, women would start to direct some of the
worshipful feelings they were extoward Natalie, who seemed as lofty and
beautiful as the things she held up to be adored; and, pleasantly diverted into
this spiritualized , they wouldalsoloseanyheavinessthey had felt about their
bodies, their selves, their identities. Their repression of their sexuality
would melt away. By the time Natalie kissed or caressed them, it would feel
like something innocent, pure, as if they had returned to the Garden of Eden
before the fall. Religion is the great balm of existence because it takes us
outside ourselves, connects us to something larger. As we contemplate the
object of worship (God, nature), our burdens are lifted away. It is wonderful
to feel raised up from the earth, to experience that kind of lightness. No
matter how progressive the times, many of us feel uncomfortable with our
bodies, our animal drives. A seducer who focuses too much attention on the
physical will stir up self-consciousness, and a residue of disgust. So focus
attention on something else. Invite the other person to worship something
beautiful in the world. It could be nature, a work of art, even God (or
gods-paganism never goes out of fashion); people are dying to believe in
something. Add some rituals. If you can make yourself seem to resemble the
thing you are worshiping-you are natural, aesthetic, noble, and sublime-your
targets will transfer their worship to you. Religion and where, catching sight
of a hut in the distance, she stumbled toward it, and in the doorway she found
a holy man, who was astonished to see her in those parts and asked her what she
was doing there. She told him that she had been inspired by God, and that she
was trying, not only to serve Him, but also to find someone who could teach her
how she should go about it. • On observing how young and exceedingly pretty she
was, the good man was afraid to take her under his wing lest the devil should
catch him unawares. So he praised her for her good intentions, and having given
her a quantity of herb roots, wild apples, and dates to eat, and some water to
drink, he said to : • "My daughter, not- very far from here there is a
holy man who is much more capable than I of teaching you what you want to know.
Go along to him." And he sent her upon her way. • When she came to this
second man, she was told precisely the same thing, and so she went on until she
arrived at the cell of a young hermit, a very devout and fellow called Rustico,
to whom she put the same inquiry as she had addressed to the others. Being
anxious to prove to himself that he possessed a of iron, he did not, like the
others, send her or direct her elsewhere, but kept her corner of which, when
descended, he prepared a makeshift bed out of palm leaves, upon which he invited
her to lie down and rest. • Once he had taken this step, very little time
elapsed before temptation went to war against his willpower, and after the
first few assaults, finding himself outmaneuvered on all fronts, he laid down
his arms and surrendered. Casting aside pious thoughts, prayers, and
penitential exercises, he began to concentrate his youth and beauty of the
girl, and to devise suitable and meansfor her in such a fashion that she should
not think it lewd of him to make the sort of proposal he had in mind. By
certain questions to , he soon discovered that she had never been with the
opposite and was every hit as innocent as she seemed; and he therefore thought
of her, with the pretext of . He began by delivering a long speech in which he
showed her how powerful an enemy the devil was to the Lord God, and followed
this up by appreciated consisted in putting the devil back in Hell, to which
the had consigned The girl asked him how was done, and Rustico replied: •
"You will soon whatever you see me doing saying, he began to divest of the
few clothes himself completely naked. The girl followed his example, and he
sank to his knees as though he spirituality are full of sexual undertones that
can be brought to the surface once you have made your targets lose their
self-awareness. From spiritual ecstasy to sexual ecstasy is but one small step.
Come back to take me, quickly, and lead me far away. Purify me with a great
fire of divine love, none of the animal kind. You are all soul when you want to
be, when you feel it, take me far away from my body. -LIANE DE POUGY Keys to
Seduction R eligion is the most seductive system that mankind has created.
Death is our greatest fear, and religion offers us the illusion that we are
immortal, that something about us will live on. The idea that we are an
infinitesimal part of a vast and indifferent universe is terrifying; religion
humanizes this universe, makes us feel important and loved. We are not animals
governed by uncontrollable drives, animals that die for no apparent reason, but
creatures made in the image of a supreme being. We too can be sublime,
rational, and good. Anything that feeds a desire or a wished-for illusion is
seductive, and nothing can match religion in this arena. Pleasure is the bait
that you use to lure a person into your web. But no matter how clever a seducer
you are, in the back of your targets' mind they are aware of the endgame, the
physical conclusion toward which you are heading. You may think your target is
unrepressed and hungry for pleasure, but almost all of us are plagued by an
underlying unease with our animal nature. Unless you deal with this unease,
your seduction, even when successful in the short term, will be superficial and
temporary. Instead, like Natalie Barney, try to capture your target's soul, to
build the foundation of a deepand lasting seduction. Lure the victim deep into
your web with spirituality, making physical pleasure seem sublime and
transcendent. Spirituality will disguise your manipulations, suggesting that your
relationship is timeless, and creating a space for ecstasy in the victim's
mind. Remember that seduction is a mental process, and nothing is more mentally
intoxicating than religion, spirituality, and the occult. In Gustave Flaubert's
novel Madame Bo\ury, Rodolphe Boulanger visits the country doctor Bovary and
finds himself interested in the doctor's beautiful wife, Emma. Boulanger was
brutal and shrewd. He was something of a connoisseur: there had been many women
in his life." He senses that Emma is bored. A few weeks later he manages
to run into her at a county fair, where he gets her alone. He affects an air of
sadness and gloom; "Many's the time I've passed a cemetery in the
moonlight and asked myself if I wouldn't be better off lying there with the
rest. ..." He mentions his bad reputation; he deserves it, he says, but is
it his fault? "Do you really not know that there exist souls that are
ceaselessly in torment?" Sev- Use Spiritual Lures • 365 eral times he
takes Emma's hand, but she politely withdraws it. He talks of love, the
magnetic force that draws two people together. Perhaps it has roots in some
earlier existence, some previous incarnation of their souls. "Take us, for
example. Why should we have met? How did it happen? It can only be that
something in our particular inclinations made us come closer and closer across
the distance that separated us, the way two rivers flow together." He
takes her hand again and this time she lets him hold it. After the fair, he
avoids her for a few weeks, then suddenly shows up, claiming that he tried to
stay away but that fate, destiny, has pulled him back. He takes Emma riding.
When he finally makes his move, in the woods, she seems frightened and rejects
his advances. "You must have some mistaken idea," he protests.
"I have you in my heart like a Madonna on a pedestal. ... I beseech you:
be my friend, my sister, my angel!" Under the spell of his words, she lets
him hold her and lead her deeper into the woods, where she succumbs. Rodolphe's
strategy is threefold. First he talks of sadness, melancholy, discontent, talk
that makes him seem nobler than other people,as if life's common material
pursuits could not satisfy him. Next he talks of destiny, the magnetic
attraction of two souls. This makes his interest in Emma seem not so much a
momentary impulse as something timeless, linked to the movement of the stars.
Finally he talks of angels, the elevated and the sublime. By placing everything
on the spiritual plane, he distracts Emma from the physical, makes her feel giddy,
and packs a seduction that could have taken months into a matter of a few
encounters. The references Rodolphe uses might seem cliched by today's
standards, but the strategy itself will never grow old. Simply adapt it to the
occult fads of the day. Affect a spiritual air by displaying a discontent with
the banalities of life. It is not money or sex or success that moves you; your
drives are never so base. No, something much deeper motivates you. Whatever
this is, keep it vague, letting the target imagine your hidden depths. The
stars, astrology, fate, are always appealing; create the sense that destiny has
brought you and your target together. That will make your seduction feel more
natural. In a world where too much is controlled and manufactured, the sense
that fate, necessity, or some higher power is guiding your relationship is
doubly seductive. If you want to weave religious motifs into your seduction, it
is always bestto choose some distant, exotic religion with a slightly pagan
air. It is easy to move from pagan spirituality to pagan earthiness. Timing
counts: once you have stirred your targets' souls, move quickly to the
physical, making sexuality seem merely an extension of the spiritual vibrations
you are experiencing. In other words, employ the spiritual strategy as close to
thetime for your bold move as possible. The spiritual is not exclusively the
religious or the occult. It is anything that will add a sublime, timeless
quality to your seduction. In the modern world, culture and art have in some
ways taken the place of religion. There are two ways to use art in your
seduction: first, create it yourself, in the target's honor. Natalie Barney
wrote poems, and barraged her targets with were about to pray, getting her to
kneel directly opposite. • In this posture, the girl's beauty was displayed to
Rustico in all its glory, and his longings blazed more fiercely than ever,
bringing about the resurrection of the flesh. Alibech stared at this in
amazement and said: • "Rustico, what is that I see sticking out in front
of you, which I do not possess?" • "Oh, my daughter," said
Rustico, "this is the devil I was telling you about. Do you see what he's
doing? He's hurting me so much that I can hardly endure it. " • "Oh,
praise be to God," said the girl, "I can see I am better off than you
are, for I have no such devil to contend with." • "You're right
there;" said Rustico. "But you have something else instead, that I
haven't." • "Oh?" said Alibech. "And what's ?" •
"You have Hell," said Rustico. "And I believe that God has sent
you he re for the salvation of my soul, because if this devil continues to
plague the life out of me, and if you are prepared to take sufficient pity upon
me to let me put him back into Hell, you will be giving me marvelous relief, as
well as rendering incalculable service and pleasure to God, which is what you
say you came here for in the first place." • "Oh, Father,"
replied the girl in all innocence, "if I really do have Hell, let's do as
you suggest just as soon as you are ready." • "God bless you, my
daughter," said Rustico. "Let's go and put him back, and then perhaps
he'll leave me alone. " • At which point he conveyed the girl to one of
their beds, where he instructed her in the art of incarcerating that accursed
fiend. • Never having put a single devil into Hell before, the girl found the
first experience a little painful, and she said to : • "This devil must
certainly be a bad lot, Father, and a true enemy of God, for as well as
mankind, he even hurts Hell when he's driven back inside it. " •
"Daughter," said Rustico, it will not always be like that." And
in order to ensure that it wouldn't, before movingfrom the bed they put him
back half a dozen times, curbing his arrogance to such good effect that he was
positively glad to keep stillfor the rest of the day. • During the nextfew
days, however, the devil's pride frequently reared its head again, and the
girl, ever ready to obey the call to duty and bringhim under control, happened
to develop a taste for the sport, and began saying to Rustico: • "I can
certainly see what those worthy men in Gafsa meant when they said that serving
God was so . I don't honestly recall ever having done anything that gave me so
much pleasure and satisfaction as I get from putting the devil back in Hell. To
my way of thinking, anyone who devotes his energies to but the service of God
is a complete blockhead." • . . . And so, young ladies, if you stand in
need of God's grace, see them. Half of Picasso's appeal to many women was the
hope that he would immortalize them in his paintings-for Ars longa, vita brevis
(Art is long, life is short), as they used to say in Rome. Even if your love is
a passing fancy, by capturing it in a work of art you give it a seductive
illusion of eternity. The second way to use art is to make it ennoble the
affair, giving your seduction an elevated edge. Natalie Barney took her targets
to the theater, to the opera, to museums, to places full of history and
atmosphere. In such your souls can vibrate to the same spiritual wavelength. Of
course you should avoid works of art that are earthy or vulgar, calling
attention to your intentions. The play, movie, or book can be contemporary,
even a little raw, as long as it contains a noble message and is tied to
somejust cause. Even a political movement can be spiritually uplifting.
Remember to tailor your spiritual lures to the target. If the target is earthy
and cynical, paganism or art will be more productive than the occult or
religious piety. The Russian mystic Rasputin was revered for his saintliness
and his healing powers. Women in particular were fascinated with Rasputin and
would visit him in his St. Petersburg apartment for spiritual guidance. He
would talk to them of the simple goodness of the Russian peasantry, God's
forgiveness, and other lofty matters. But after a few minutes of this, he would
inject a comment or two that were of a much different nature- something about
the woman's beauty, her lips that were so inviting, the desires she could
inspire in a man. He would talk of different kinds of love-love of God, love
between friends, love between a man and a woman-but mix them all up as if they
were one. Then as he returned to discussing spiritual matters, he would
suddenly take the woman's hand, or whisper into her ear. All this would have
ait intoxicating effectwomenwouldfindthemselves dragged into a kind of
maelstrom, both spiritually uplifted and sexually excited. Hundreds of women
succumbed during these spiritual visits, for he would also tell them that they
could not repent until they had sinned, and who better to sin with than
Rasputin. Rasputin understood the intimate connection between the sexual and
the spiritual. Spirituality, the love of God, is a sublimated version of sexual
love. The language of the religious mystics of the Middle Ages is full oferotic
images; the contemplation of God and of the sublime can offer a kind of mental
orgasm. There is no more seductive brew than the combination of the spiritual
and the sexual, the high and the low. When you talk of spiritual matters, then,
let your looks and physical presence hint of sexuality at the same time. Make
the harmony of the universe and union with God seem to confuse with physical
harmony and the union between two people. If you can make the endgame of your
seduction appear as a spiritual experience, you will heighten the physical
pleasure and create a seduction with a deep and lasting effect. Use Spiritual
Lures • 367 Symbol: The Stars in the sky. Objects of worship for centuries, and
symbols of the sublime and divine. In contemplating them, we are momentarily
distractedfrom everything mundane and mortal. Wefeel lightness. Lift your
targets' minds up to the stars and they will not notice what is happening here
on earth. that you learn to put the devil back in Hell, for it is greatly to
His liking and pleasurable to the parties concerned, and a great deal of good
can arise and flow in the process. -BOCCACCIO, THE DECAMERON, Reversal L etting
your targets feel that your affection is neither temporary nor superficial will
often make them fall deeper under your spell. In some, though, it can arouse an
anxiety: the fear of commitment, of a claustrophobic relationship with no
exits. Never let your spiritual lures seem to be leading in that direction,
then. To focus attention on the distant future may implicitly constrict their
freedom; you should be seducing them, not offering to marry them. What you want
is to make them lose themselves in the moment, experiencing the timeless depth
of your feelings in the present tense. Religious ecstasy is about intensity,
not temporal extensity. Giovanni Casanova used many spiritual lures in his
seductions-the occult, anything that would inspire lofty sentiments. For the
time that he was involved with a woman, she would feel that he would do
anything for her, that he was not just using her only to abandon her. But she
also knew that when it became convenient to end the affair, hewouldcry, give
her a magnificent gift, then quietly leave. This was just what many young women
wanted-a temporary diversion from marriage or an oppressive family. Sometimes
pleasure is best when we know it is fleeting. 20 Mix Pleasure with Pain The
greatest mistake in seduction is being too nice. At first, perhaps, your
kindness is charming, but it soon grows monotonous; you are trying too hard to
please, and seem insecure. Instead of overwhelming your targets with niceness,
try inflicting some pain. Lure them in with focused attention, then change
direction, appearing suddenly uninterested. Make them feel guilty and insecure.
Even instigate a breakup, subjecting them to an emptiness and pain that will
give you room to maneuver-now a rapprochement, an apology, a return to your
earlier kindness, will turn them weak at the knees. The lower the lows you
create, the greater the highs. To heighten the erotic charge, create the
excitement offear. The Emotional Roller Coaster O ne hot summer afternoon in
1894, Don Mateo Diaz, a thirty-eight- year-old resident of Seville, decided to
visit a local tobacco factory Because of his connections Don Mateo was allowed
to tour the place, but his interest was not in the business side. Don Mateo
liked young girls, and hundreds of them worked in the factory. Just as he had
expected, that day manyofthem were in a state of near undress because of the
heat-it was quite a spectacle. He enjoyed the sights for a while, but the noise
and the temperature soon got to him. As he was heading for the door, though, a
worker of no more than sixteen called out to him: "Caballero, if you will
give me a penny I will sing you a little song." The girl's name was
Conchita Perez, and she looked young and innocent, in fact beautiful, with a
sparkle in her eye that suggested a taste for adventure. The perfect prey. He
listened to her song (which seemed vaguely suggestive), tossed her a coin that
was equal to a month's salary, tipped his hat, then left. It was never good to
come on too strong too early. As he walked along the street, he plotted how he
would lure her into an affair. Suddenly he felt a hand on his arm and he turned
to see her walking alongside him. It was too hot to work-would he be a
gentleman and escort her home? Of course. Do you have a lover? he asked her.
No, she said, "I am mozita" -pure, a virgin. Conchita lived with her
mother in a rundown part of town. Don Mateo exchanged pleasantries, slipped the
mother some money (he knew from experience how important it was to keep the
mother happy), then left. He considered waiting a few days, but he was
impatient, and returned the following morning. The mother was out. He
andConchita resumed their playful banter from the day before, and to his
surprise she suddenly sat in his lap, put her arms around him, and kissed him.
His strategy flying out the window, he took hold of her and returned the kiss.
She immediately jumped up, her eyes flashing with anger: you are trifling with
me, she said, using me for a quick thrill. Don Mateo denied having any such
intentions, and apologized for going too far. When he left, he felt confused:
she had started it all; why should he feel guilty? And yet he did. Young girls
can be so unpredictable; it is best to break them in slowly Over the next few
days Don Mateo was the perfect gentleman. He visited every day, showered mother
and daughter with gifts, made no advances-at least not at first. The damned
girl had become so familiar The more one pleases generally, the less one
pleases profoundly. -STENDHAL, LOVE, You should mix in the odd rebuff \ With
your cheerful fun. Shut him out of the house, let him wait there \ Cursing that
locked front door, let him plead \ And threaten all he's a mind to. Sweetness
cloys the palate, \ Bitter juice is a freshener. Often a small skiff \ Is sunk
by favoring winds: it's their husbands' access to them, \ At will, that
deprives so many wives of love. \ Let her put in a door, with a hard-faced
porter to tell him \ "Keep out," and he'll soon be touched with
desire \ Through frustration. Put down your blunt foils, fight with sharpened
weapons \ (I don't doubt that my own shafts \ Will be turned against me). When
a new-captured lover \ Is stumbling into the toils, then let him believe \ He
alone has rights to your bed-but later, make him 371 372 conscious \ Of rivals,
of shared delights. Neglect \ These devices-his ardor will wane. A racehorse
runs most strongly \ When the field's ahead, to be paced \ And passed. So the
dying embers of passion can be fanned to \ Fresh flame by some outrage-I can
only love, \ Myself, I confess it, when wronged. But don't let the cause of\
Pain be too obvious: let a lover suspect \ More than he knows. Invent a slave
who watches your every \ Movement, make clear with him that she would dress in
front of him, or greet him in her nightgown. These glimpses of her body drove
him crazy, and he would sometimes try to steal a kiss or caress, only to have
her push him away and scold him. Weeks went by; clearly he had shown that his
was not a passing fancy. of the endless courtship, he took Conchita's mother
aside one day and proposed that he set the girl up in a house of her own. He would
treat her like a queen; she would have everything she wanted. (So, of course,
would her mother.) Surely his proposal would satisfy the two women-but the next
day, a note came from Conchita, expressing not gratitude but recrimination: he
was trying to buy her love. "You shall never see me again," she
concluded. He hurried to the house only to discover that the women had moved
out that very morning, without leaving word where they were going. Don Mateo
felt terrible. Yes, he had acted like a boor. Next time he what a jealous
martinet \ That man of yours is - such things will excite him. Pleasure \ Too
safely enjoyed lacks zest. You want to be free \ As Thais? Act scared. Though
the door's quite safe, let him in by \ The window. Look nervous. Have a smart \
Maid rush in, scream "We're caught!" while you bundle the quaking \
Youth out of sight. But be sure \ To offset his fright with some moments of
carefree pleasure - \ Or he'll think a night with you isn't worth the risk. -
OVID. THE ART OF LOVE "Certainly," I said, "I have often told
you that pain holds a peculiar attraction for me, and that nothing kindles my
passion quite so much as tyranny cruelty and above all unfaithfulness in a
beautiful woman." -LEOPOLD VON SACHER- MASOCH, VENUS IN FURS, wait months,
or years if need be, before being so bold. Soon, however, another thought
assailedhim:he would never see Conchita again. Only then did he realize how
much he loved her. The winter passed, the worst of Mateo's life. One spring day
he was walking down the street when he heard someone calling his name. He
looked up: Conchita was standing in an open window, beaming with excitement.
She bent down toward him and he kissed her hand, beside himself with joy. Why
had she disappeared so suddenly? It was all going too quickly, she said. She
had been afraid-of his intentions, and of her own feelings. But seeing him
again, she was certain that she loved him. Yes, she was ready to be his
mistress. She would prove it, she would come to him. Being apart had changed
them both, he thought. A few nights later, as promised, she appeared at his
house. They kissed and began to undress. He wanted to savor every minute, to
take it slowly, but he felt like a caged bull finally set free. He followed her
into bed, his hands all over her. He started to take off her underwear but it
was laced up in some complicated way. Eventually he had to sit up and take a
look: she was wearing some elaborate canvas contraption, of a kind he had never
seen. No matter how hard he tugged and pulled, it would not come off. He felt
like hitting Conchita, he was so distraught, but instead he started to cry. She
explained: she wanted to do everything with him, yet to remain a mozita. This
was her protection. Exasperated, he sent her home. Over the next few weeks, Don
Mateo began to reassess his opinion of Conchita. He saw her flirting with other
men, and dancing a suggestive flamenco in a bar: she was not a mozita, he
decided, she was playing him for money. And yet he could not leave her. Another
man would take his place-an unbearable thought. She would invite him to spend
the night in jier bed, as long as he promised not to force himself on her; and
then, as if to torture him beyond reason, she would get into bed naked
(supposedly because of the heat). All this he put up with on the grounds that
no other man had such privileges. But one night, pushed to the limits of
frustration, he exploded with anger, and issued an ultimatum: either give me
what I Mix Pleasure with Pain • 373 want or you will never see me again.
Suddenly Conchita started to cry. He had never seen her cry, and it moved him.
She too was tired of all this, she said, her voice trembling; if it was not too
late, she was ready to accept the proposal she had once turned down. Set her up
in a house, and he would see what a devoted mistress she would be. Don Mateo
wasted no time. He bought her a villa, gave her plenty of money to decorate it.
After eight days the house was ready. She would receivehim there at midnight.
What joys awaited him. Don Mateo showed up at the appointed hour. The barred
door to the courtyard was closed. He rang the bell. She came to the other side
of the door. "Kiss my hands," she said through the bars. "Now
Mss the hem of my skirt, and the tip of my foot in its slipper." He did as
she requested. "That is good," she said. "Now you may go."
His shocked expression just made her laugh. She ridiculed him, then made a
confession: she was repulsed by him. Now that she had a villa in her name, she
was free of him at last. She called out, and a young man appeared from the
shadows of the courtyard. As Don Mateo watched, too stunned to move, they began
to make love on the floor, right before his eyes. The next morning Conchita
appeared at Don Mateo's house, supposedly to see if he had committed suicide.
To her surprise, he hadn't-in fact he slapped her so hard she fell to the
ground. "Conchita," he said, "you have made me suffer beyond all
human strength. You have invented moral tortures to try them on the only man
who loved you passionately. I now declare that I am going to possess you by
force." Conchita screamed she would never be his, but he hit her again and
again. Finally, moved by her tears, he stopped. Now she looked up at him
lovingly. Forget the past, she said, forget all that I have done. Now that he
hit her, now that she could see his pain, she felt certain he truly loved her.
She was still a mozita -the affair with the young man the night before had been
only for show, ending as soon as he had left-and she still belonged to him.
"You are not going to take me by force. I await you in my arms."
Finally she was sincere. To his supreme delight, he discovered that she was
indeed still a virgin. Interpretation. Don Mateo and Conchita Perez are
characters in the 1896 novella Woman and Puppet, by Pierre Louys. Based on a
true story-the "Miss Charpillon" episode in Casanova's Memoirs -the
novella has served as the basis for two films: Josef von Sternberg's Devil Is a
Woman, with Marlene Dietrich, and Luis Bunuel's That Obscure Object of Desire.
In Louys's story, Conchita takes a proud and aggressive older man and in the
space of a few months turns him into an abject slave. Her method is simple: she
stimulates as many emotions as possible, including heavy doses of pain. She
excites his lust, then makes him feel base for taking advantage of her. She
gets him to play the protector, then makes him feel guilty for trying to buy
her. Her sudden disappearance anguishes him-he has lost her-so that when she
reappears (never by accident) he feels intense joy; which, however, she
Oderint, dum metuant [Let them hate me so long as they fear me], as if only
fear and hate belong together, whereas fear and love have nothing to do with
each other, as if it were notfear that makes love interesting. With what kind
of love do we embrace nature? Is there not a secretive anxiety and horror in
it, because its beautiful harmony works its way out of lawlessness and wild
confusion, its security out of perfidy? But precisely anxiety captivates the
most. So also with love, if it is to he interesting. Behind it ought to brood
the deep, anxious night from which springs the flower of love. -S0REN
KIERKEGAARD, THE SEDUCER'S DIARY, The lovely marble creature coughed and
rearranged the sable around her shoulders. • "Thank you for the lesson in
classics," I replied, "but I cannot deny that in your peaceful and
sunny world just as in our misty climate man and woman are natural enemies.
Love may unite them briefly to form one mind, one heart, one will, but all too
soon they are torn asunder. And you know better than I: either one of them must
the other to his will, or else he must let himself be trampled underfoot.
" • "Under the woman's foot, of course," said Lady Venus
impertinently. "And that you know better than I." • "Of course,
that is why I have no illusions." • "In other words you are now my
slavewithout illusions, and I shall 374 trample you mercilessly. " •
"Madam!" • "You do not know me yet. I admit that am cruel-since
the word gives you so much -but am I not entitled to be so? It is man desires,
woman who is desired; this is woman's advantage, but it is a decisive one. By
making man so vulnerable to passion, nature has placed him at woman's mercy,
and who has not the sense to treat him like a humble subject, a slave, a plaything,
and finally to betray him with a laugh - well, she is a woman of little
wisdom." • "My dear, your principles ..." I protested. •
"Are founded on the experience of a thousand years," she replied
mischievously, running her white fingers through the darkfur. "The more
submissive woman is, the more readily man recovers his self-possession and
becomes domineering; but the more cruel and faithless she is, the more she
ill-treats him, the more wantonly she toys with him and the harsher she is, the
more she quickens his desire and secures his love and admiration. It has always
been so, from the time of Helen and Delilah all the way to Catherine the Great
and Lola Montez. " -LEOPOLD VON SACHER- MASOCH, VENUS IN FURS. In essence,
the domain of eroticism is the domain of violence, of violation. . . . The
whole business of eroticism is to strike to the inmost core of the living
being, so that the heart stands still. . . . The quickly turns back into tears.
Jealousy and humiliation then precede the final moment when she gives him her
virginity. (Even after this, according to the story, she finds ways to continue
to torment him.) Each low she inspires-guilt, despair, jealousy,
emptiness-creates the space for a more intense high. He becomes an addict,
hooked on the alternation of charge and withdrawal. Your seduction should never
follow a simple course upward toward pleasure and harmony. The climax will come
too soon, and the pleasure will be weak. What makes us intensely appreciate
something is previous suffering. A brush with death makes us fall in love with
life; a longjourney makes a return home that much more pleasurable. Your task
is to create moments of sadness, despair, and anguish, to create the tension
that allows for a great release. Do not worry about making people angry; anger
is a sure sign that you have your hooks in them. Nor should you be afraid that
if you make yourself difficult people will flee-we only abandon those who bore
us. The ride on which you take your victims can be tortuous but never dull. At
all costs, keep your targets emotional and on edge. Create enough highs and
lows and you will wear away the last vestiges of their willpower. Harshness
andKindness I n 1972, Henry Kissinger, then President Richard Nixon's assistant
for national security affairs, received a request for an interview from the
famous Italian journalist Oriana Fallaci. Kissinger rarely gave interviews; he
had no control over the final product, and he was a man who needed to be in
control. But he had read Fallaci's interview with a North Vietnamese general,
and it had been instructive. She was extremely well informed on the Vietnam
War; perhaps he could gather some information of his own, pick her brain. He
decided to ask for a preinterview, a preliminary meeting. He would grill her on
different subjects; if she passed the test, he would grant her an interview
proper. They met, and he was impressed; she was extremely intelligent-and
tough. It would be an enjoyable challenge to outwit her and prove that he was
tougher. He agreed to a short interview a few days later. To Kissinger's
annoyance, Fallaci began the interview by asking him whether he was
disappointed by the slow pace of the peace negotiations with North Vietnam. He
would not discuss the negotiations-he had made that clear in the preinterview.
Yet she continued the same line of questioning. He grew a little angry
"That's enough," he said. "I don't want to talk any more about
Vietnam." Although she didn't immediately abandon the subject, her
questions became gentler: what were his personal feelings toward the leaders of
South and North Vietnam? Still, he ducked: "I'm not the kind of person to
be swayed by emotion. Emotions serve no purpose." She moved to grander
philosophical issues-war, peace. She Mix Pleasure with Pain • 375 praised him
for his role in the rapprochement with China. Without realizing it, Kissinger
began to open up. He talked of the pain he felt in dealing with Vietnam, the
pleasures of wielding power. Then suddenly the harsher questions returned-was
he simply Nixon's lackey, as many suspected? Up and down she went, alternately
baiting and flattering him. His goal had been to pump her for information while
revealing nothing about himself; by the end, though, she had given him nothing,
while he had revealed a range of embarrassing opinions-his view of women as
playthings, for instance, and his belief that he was popular with the public
because people saw him as a kind of lonesome cowboy, the hero who cleans things
up by himself. When the interview was published, Nixon, Kissinger's boss, was
livid about it. In 1973, the Shah of Iran, Mohammed Riza Pahlavi, granted
Fallaci an interview. He knew how to handle the press-be noncommittal, speak in
generalities, seem firm, yet polite. This approach had worked a thousand times
before. Fallaci beganthe interview on a personal level, asking how it felt to
be a king, to be the target of assassination attempts, and why the shah always
seemed so sad. He talked of the burdens of his position, the pain and
loneliness he felt. It seemed a release of sorts to talk about his professional
problems. As he talked, Fallaci said little, her silence goading him on. Then
she suddenly changed the subject: he was having difficulties with his second
wife. Surely that must hurt him? This was a sore spot, and Pahlavi got angry.
He tried to change the subject, but she kept returning to it. Why waste time
talking about wives and women, he said. He then went so far as to criticize
women in general-their lack of creativity, their cruelty. Fallaci kept at him;
he had dictatorial tendencies and his country lacked basic freedoms. Fallaci's
own books were on his government's blacklist. Hearing this, the shah seemed
somewhat taken aback-perhaps he was dealing with a subversive writer. But then
she softened her tone again, asked him about his many achievements. The pattern
repeated: the moment he relaxed, she blindsided him with a sharp question; when
he grew bitter, she lightened the mood. Like Kissinger, he found himself
opening up despite himself and mentioning things he would later regret, such as
his intention to raise the price of oil. Slowly he fell under her spell, even
began to flirt with her. "Even if you're on the blacklist of my
authorities," he said at the end of the interview, "I'll put you on
the white list of my heart." Interpretation. Most of Fallaci's interviews
were with powerful leaders, men and women with an overwhelming need to control
the situation, to avoid revealing anything embarrassing. This put her and her
subjects in conflict, since getting them to open up-grow emotional, give up
control- was exactly what she wanted. The classic seductive approach of charm
and flattery would get her nowhere with these people; they would see right
through it. Instead, Fallaci preyed on their emotions, alternating harshness
and kindness. She would ask a cruel question that touched on the deepest whole
business of eroticism is to destroy the self-contained character of the
participators as they are in their normal lives. . . . We ought never toforget
that in spite of the bliss love promises its first effect is one of turmoil and
distress. Passion fulfdled itself provokes such violent agitation that the
happiness involved, before being a happiness to be enjoyed, is so great as to
be more like its opposite, suffering. . . . The likelihood of suffering is all
the greater since suffering alone reveals the total significance of the beloved
object. -GEORGES BATAILLE, EROTISM: DEATH AND SENSUALITY. Always a little doubt
to set at rest - that's what keeps one craving in passionate love. Because the
keenest misgivings are always there, its pleasures never become tedious. •
Saint- Simon, the only historian France has ever possessed, says: "After
many passing fancies the Duchesse de Berry had fallen deeply in love with Riom,
a junior member of the d Aydie family, the son of one of Madame de Biron's
sisters. He had neither looks nor brains; he was fat, short, chubby-cheeked,
pale, and had such a crop of pimples that he seemed one large abscess; he had
beautiful teeth, but not the least idea that he was going to inspire a passion
which quickly got out of control, a passion which lasted a lifetime,
notwithstanding a number of subsidiary flirtations and affairs. . . . • He
would 376 excite but not requite the desire of the princess; he delighted in
making her jealous, or pretending to be jealous himself. He would often drive
her to tears. Gradually heforced her into the position of doing nothing without
his leave, even trifles of no importance. Sometimes, when she was ready to go
to the Opera, he insisted that she stay at home; and sometimes he made her go
there against her will. He obliged her to grant favours to ladies she did not
like or of whom she was jealous. She was not evenfree to dress as she chose; he
would amuse himself by making her change her coiffure or her dress at the last
minute; he did this so often and so publicly that she became accustomed to take
his orders in the evening for what she would do and wear the following day;
then the next day he would alter everything, and the princess would cry all the
more. In the end she took to sending him messages by trusted footmen, for from
the first he had taken up residence in Luxembourg; messages which continued
throughout her toilette, to know what ribbons she would wear, what gown and
other ornaments; almost invariably he made her wear something she did not wish
to. When she occasionally dared to do anything, however small, without his
leave, he treated her like a servant, and she was in tears for several days. •
. . . Before assembled company he would give her such brusque replies that
everyone lowered their eyes, and the Duchess would blush, though her passion
insecurities of the subject, who would get emotional and defensive; deep down,
though, something else would stir inside them-the desire to prove to Fallaci
that they did not deserve her implicit criticisms. Unconsciously they wanted to
please her, to make her like them. When she then shifted tone, indirectly
praising them, they felt they were winning her over and were encouraged to open
up. Without realizing it, they would give freer rein to their emotions. hi
social situations we all wear masks, and keep our defenses up. It is
embarrassing, after all, to reveal one's true feelings. As a seducer you must
find a way to lower these resistances. The Charmer's approach of flattery and
attention can be effective here, particularly with the insecure, but it can
take months of work, and can also backfire. To get a quicker result, and to
break down more inaccessible people, it is often better to alternate harshness
and kindness. By being harsh you create inner tensions-your targets may be
upset with you, but they are also asking themselves questions. What have they
done to earn your dislike? When you then are kind, they feel relieved, but also
concerned that at any moment they might somehow displease you again. Make use
of this pattern to keep them in suspense- dreading your harshness and keen to
keep you kind. Your kindness and harshness should be subtle; indirect digs and
compliments are best. Play the psychoanalyst: make cutting comments concerning
their unconscious motives (you are only being truthful), then sit back and
listen. Your silence will goad them into embarrassing admissions. Leaven your
judgments with occasional praise and they will strive to please you, like dogs.
Love is a costlyflower,but one must have the desire to pluck it from the edge
of a precipice. -STENDHAL Keys to Seduction A lmost everyone is more or less
polite. We learn early on not to tell people what we really think of them; we
smile at their jokes, act interested in their stories and problems. It is the
only way to live with them. Eventually this becomes a habit; we are nice, even
when it isn't really necessary. We try to please other people, to not step on
their toes, to avoid disagreements and conflict. Niceness in seduction,
however, though it may at first draw someone to you (it is soothing and
comforting), soon loses all effect. Being too nice can literally push the
target away from you. Erotic feeling depends on the creation of tension.
Without tension, without anxiety and suspense, there can be no feeling of
release, of true pleasure and joy It is your task to create that tension in the
target, to stimulate feelings of anxiety, to lead them to and fro, so that the
culmination of the seduction has real weight and intensity. So rid yourself of
your nasty habit of avoiding conflict, which is in any Mix Pleasure with Pain •
377 case unnatural. You are most often nice not out of your own inner goodness
but out of fear of displeasing, out of insecurity. Go beyond that fear and you
suddenly have options-the freedom to create pain, then magically dissolve it.
Your seductive powers will increase tenfold. People will be less upset by your
hurtful actions than you might imagine. In the world today, we often feel
starved for experience. We crave emotion, even if it is negative. The pain you
cause your targets, then, is bracing-it makes them feel more alive. They have
something to complain about, they get to play the victim. As a result, once you
have turned the pain into pleasure they will readily forgive you. Stir up their
jealousy, make them feel insecure, and the validation you later give their ego
by preferring them over their rivals is doubly delightful. Remember: you have
more to fear by boring your targets than by shaking them up. Wounding people
binds them to you more deeply than kindness. Create tension so you can release
it. If you need inspiration, find the part of the target that most irritates
you and use it as a springboard for some therapeutic conflict. The more real
your cruelty, the more effective it is. In 1818, the French writer Stendhal,
then living in Milan, met the Countess Metilda Viscontini. For him, it was love
at first sight. She was a proud, somewhat difficult woman, and she intimidated
Stendhal, who was terribly afraid of displeasing her with a stupid comment or
undignified act. Finally, unable to take it any longer, he one day took her
hand and confessed his love. Horrified, the countesstoldhim to leave and never
come back. for him was in no way curtailed." • For the princess, Riom was
a sovereign remedy against boredom. -STENDHAL, LOVE, Stendhal flooded
Viscontini with letters, begging her to forgive him. At last, she relented: she
would see him again, but under one condition-he could visit only once every two
weeks, for no more than an hour, and only in the presence of company. Stendhal
agreed; he had no choice. He now lived for those short fortnightly visits,
which became occasions of intense anxiety and fear, since he was never quite
sure whether she would change her mind and banish him forever. This went on for
over two years, during which the countess never showed him the slightest sign
of favor. Stendhal never found out why she had insisted on this
arrangement-perhaps she wanted to toy with him or keep him at a distance. All
he knew was that his love for her only grew stronger, became unbearably
intense, until finally he had to leave Milan. To get over this sad affair,
Stendhal wrote his famous book On Love, in which he described the effect of
fear on desire. First, if you fear the loved one, you can never get too close
or familiar with him or her. The beloved then retains an element of mystery,
which only intensifies your love. Second, there is something bracing about
fear. It makes you vibrate with sensation, heightens your awareness, is
intensely erotic. According to Stendhal, the closer the loved one brings you to
the edge of the precipice, to the feeling that they could abandon you, the
dizzier and more lost you will become. Falling in love means literally
falling-losing control, a mix of fear and excitement. Apply this wisdom in
reverse: never let your targets get too comfortable 378 The Art of Seduction
with you. They need to feel fear and anxiety. Show them some coldness, a flash
of anger they did not expect. Be irrational if necessary. There is always the
trump card: a breakup. Let them feel they have lost you forever, make them fear
that they have lost the power to charm you. Let these feelings sit with them
for a while, then pull them back from the precipice. The reconciliation will be
intense. In 33 B.C., Mark Antony heard a rumor that Cleopatra, his lover of
several years, had decided to seduce his rival, Octavius, and that she was
planning to poison Antony. Cleopatra had poisoned people before; in fact she
was an expert in the art. Antony grew paranoid, and finally one day confronted
her. Cleopatra did not protest her innocence. Yes, that was true, it was quite
within her power to poison Antony at any moment; there were no precautions he
could take. Only theloveshe felt for him could protect him. To demonstrate, she
took some flowers and dropped them into his wine. Antony hesitated, then raised
the cup to his lips; Cleopatra grabbed his arm and stopped him. She had a
prisoner brought in to drink the wine, and the prisoner promptly dropped dead.
Falling at Cleopatra's feet, Antony professed that he loved her now more than
ever. He did not speak out of cowardice; there was no man braver than he, and
if Cleopatra could have poisoned him, he for his part could have left her and
gone back to Rome. No, what pushed him over the edge was the feeling that she
had control over his emotions, over life and death. He was her slave. Her
demonstration of her power over him was not only effective but erotic. Like
Antony, many of us have masochistic yearnings without realizing it. It takes
someone to inflict some pain on us for these deeply repressed desires to come
to the surface. You must learn to recognize the types of hidden masochists out
there, for each one enjoys a particular kind of pain. For instance, there are
people who feel that they deserve nothing good in life, and who, unable to deal
with success, sabotage themselves constantly. Be nice to them, admit that you
admire them, and they are uncomfortable, since they feel that they cannot
possibly match up to the ideal figure you have clearlyimagined them to be. Such
self-saboteurs do better with a little punishment; scold them, make them aware
of their inadequacies. They feel they deserve such criticism and when it comes
it is with a sense of relief. It is also easy to make them feel guilty, a
feeling that deep down they enjoy. Other people experience the responsibilities
and duties of modern life as such a heavy burden, they long to give it all up.
These people are often looking for someone or something to worship-a cause, a
religion, a guru. Make them worship you. And then there are those who want to
play the martyr. Recognize them by the joy they take in complaining, in feeling
righteous and wronged; then give them a reason to complain. Remember;
appearances deceive. Often the strongest-looking people-the Kissingers and Don
Mateos-may secretly want to be punished. In any event, follow up pain with
pleasure and you will create a state of dependency that will last for a long
time. Mix Pleasure with Pain Symbol: The Precipice. At the edge of a cliff,
people often feel lightheaded, both fearful and dizzy. For a moment they can
imagine themselves falling headlong. At the same time, a part of them is
tempted. Lead your targets as close to the edge as possible, then pull them
back. No thrill without fear. Reversal P eople who have recently experienced a
lot of pain or a loss will flee if you try to inflict more on them. They have
enough in their lives already. Far better to surround these types with
pleasure-that will put them under your spell. The technique of inflicting pain
works best on those who have it easy, who have power and few problems. People
with comfortable lives may also feel a gnawing sense of guilt, as if they had
gotten away with something. They may not consciously know it, but secretly they
long for some punishment, a good mental thrashing, something that will bring
them back down to earth. Also, remember to not use the pleasure-through-pain
tactic too early on. Some of the greatest seducers in history-Byron, Jiang Qing
(Madame Mao), Picasso-had a sadistic streak, an ability to inflict mental
torture. If their victims had known in advance what they were getting
themselves into, they would have run for the hills. In truth, most of these
seducers lured their targets into their webs by appearing to be paragons of
sweetness and affection. Even Byron seemed like an angel when he first met a
woman, so that she tended to doubt his devilish reputation-a seductive doubt,
for it allowed her to think of herself as the only one who really understood
him. His cruelty would come out later on, but by then it would be too late. The
victim's emotions were engaged,andhisharshnesswouldonlyintensify her feelings.
In the beginning, then, wear the mask of a lamb, making pleasure and
attentiveness your bait. First get under their skin, then lead them on a wild
ride. 379 Phase Four Moving Infor the Kill confused and stirred them up-the
emotional seduction. Now the time has comefor hand-to-hand combat-the physical
seduction. At this point, your victims are weak and ripe with desire: by show-,
ing a little coldness or uninterest, you will spark panic-they will come after
you with impatience and erotic energy (21: Give them to fall-the pursuer is
pursued). To bring them to a boil, you need to put their minds to sleep and
heat up their senses. It is best to lure them into lust by sending certain
loaded signals that will get under their skin and spread sexual desire like a
poison (22: Use physical lures). The moment to strike and move infor the kill
is when your victim is brimming with desire, but not consciously expecting the
climax to come (23: Master the art of the bold move). Once the seduction is
over, there is the danger that disenchantment will set in and ruin all your
hard work (24: Beware the aftereffects). If you are after a relationship, then
you must constantly re-seduce the victim, creating tension and releasing it. If
your victim is to be sacrificed, then it must be done swiftly and cleanly,
leaving you free (physicallyandpsychologically)tomoveontothenext victim. Then
the game begins all over. 21 Give Them Space to Fall- The Pursuer Is Pursued If
your targets become too used to you as the aggressor, they will give less of
their own energy, and the tension will slacken. You need to wake them up, turn
the tables. Once they are under your spell, take a step back and they will
start to come after you. Begin with a touch of aloofness, an unexpected
nonappearance, a hint that you are growing bored. Stir the pot by seeming
interested in someone else. Make none of this explicit; let them only sense it
and their imagination will do the rest, creating the doubt you desire. Soon
they will want to possess you physically, and restraint will go out the window.
The goal is to have them fall into your arms of their own will. Create the
illusion that the seducer is being seduced. Seductive Gravity I n the early 1840s,
the center of attention in the French art world was a young woman named
Apollonie Sabatier. She was so much the natural beauty that sculptors and
painters vied to immortalize her in their works, and she was also charming,
easy to talk to, and seductively self-sufficient- men were drawn to her. Her
Paris apartment became a gathering spot for writers and artists, and soon
Madame Sabatier-as she came to be known, although she was not married-was
hosting one of the most important literary salons in France. Writers such as
Gustave Flaubert, the elder Alexandre Dumas, and Theophile Gautier were among
her regular guests. Near the end of 1852, when she was thirty, Madame Sabatier
received an anonymous letter. The writer confessed that he loved her deeply.
Worried that she would find his sentiments ridiculous, he would not reveal his
name; yet he had to let her know that he adored her. Sabatier was used to such
attentions-one man after another had fallen in love with her-but this letter
was different: in this man she seemed to have inspired a quasireligious ardor.
The letter, written in a disguised handwriting, contained a poem dedicated to
her; titled "To One Who Is Too Gay," it began by praising her beauty,
yet ended with the lines And so, one night. I'd like to sneak. When darkness
tolls the hour of pleasure,A craven thief, toward the treasure Which is your
person, plump and sleek. . . . And, most vertiginous delight! Into those lips,
so freshly striking And daily lovelier to my liking- Infuse the venom of my
spite. Mixed in with her admirer's adoration, clearly, was a strange kind of
lust, with a touch of cruelty to it. The poem both intrigued and disturbed
her-and she had no idea who had written it. A few weeks later another letter
arrived. As before, the writer enveloped Sabatier in cultlike worship, mixing
the physical and the spiritual. And as before, there was a poem, "All in
One," in which he wrote. Omissions, denials, deflections, deceptions,
diversions, and humility - all aimed at provoking this second state, the secret
of true seduction. Vulgar seduction might proceed by persistence, but true
seduction proceeds by absence. . . . It is like fencing: one needs a field for
the feint. Throughout this period, the seducer [Johannes], far from seeking to
close in on her, seeks to maintain his distance by various ploys: he does not
speak directly to her but only to her aunt, and then about trivial or stupid
subjects; he neutralizes everything by irony and feigned pedanticism; hefails
to respond to any feminine or erotic movement, and even finds her a sitcom
suitor to disenchant and deceive her, to the point where she herself takes the
initiative and breaks off her engagement, thus completing the seduction and
creating the ideal situation for her total abandon. -JEAN BAUDRILLARD,
SEDUCTION, The rumor spread everywhere. It was even told to the queen [
Guinevere ], who was seated at dinner. She nearly killed herself when she heard
the perfidious rumor of Lancelot's death. She thought it was true and was so
greatly perturbed that she was scarcelyabletospeak..She arose at once from the
table, and was able to give vent to her grief without being noticed or
overheard. She was so crazed with the thought of killing herself that she
repeatedly grabbed at her throat. Yet first she confessed in conscience,
repented and asked God's pardon; she accused herself of having sinned against
the one she knew had always been hers, and who would still be, were he alive.
She counted all of the unkindnesses and recalled each individual unkindness;
she noted every one, and repeated often: "Oh misery! What was I thinking,
when my lover came before me and I did not deign to welcome him, nor even care
to listen! Was I not a fool to refuse to speak or even look at him? A fool? No,
so help me God, I was cruel and deceitful! ... 7 believe that it was I alone
who struck him that mortal blow. When he came happily before me expecting me to
receive him joyfully and I shunned him and would never even look at him, was
this not a mortal blow? At that moment, when I refused to speak, I believe I
severed both his heart and his life. Those two blows killed him, I think, and
not any hired killers. • "Ah God! Will I be forgiven this murder, this
sin? Never! All the rivers No single beauty is the best. Since she is all one
flower divine_ O mystic metamorphosis! My senses into one sense flow- Her voice
makesperfume when she speaks. Her breath is music faint and low! Clearly the
author was haunted by Sabatier's presence, and thought of her constantly-but
now she began to be haunted by him, thinking of him night and day, and
wondering who he was. His subsequent letters only deepened the spell. It was
flattering to hear that he was enchanted by more than her beauty, yet also
flattering to know that he was not immune to her physical charms. One day an
idea occurred to Madame Sabatier as to who the writer might be: a young poet
who had frequented her salon for several years, Charles Baudelaire. He seemed
shy, in fact had hardly spoken to her, but she had read some of his poetry, and
although the poems in the letters were more polished, the style was similar. At
her apartment Baudelaire would always sit politely in a corner, but now that
she thought of it, he would smile at her strangely, nervously. It was the look
of a young man in love. Now when he visited she watched him carefully, and the
more she watched, the surer she was that he was the writer, but she never
confirmed her intuition, because she did not want to confront him-he might be
shy, but he was a man, and at some point he would have to come to her. And she
felt certain that he would. Then, suddenly the letters stopped coming-and
Madame Sabatier could not understandwhy, since the last one had been even more
adoring than all of the others before. Several years went by, in which she
often thought of her anonymous admirer's letters, but they were never renewed.
In 1857, however, Baudelaire published a book of poetry. The Flowers of Evil,
and Madame Sabatier recognized several of the verses-they were the ones he had
written for her. Now they were out in the open for everyone to see. A little
while later the poet sent her a gift: a specially bound copy of the book, and a
letter, this time signed with his name. Yes, he wrote, he was the anonymous
writer-would she forgive him for being so mysterious in the past? Furthermore,
his feelings for her were as strong as ever: "You didn't think for a
moment that I could have forgotten you? You to me are more than a cherished
image conjured up in dream, you're my superstition . . . my constant companion,
my secret! Farewell, dear Madame. I kiss your hands with profound
devotion." This letter had a stronger effect on Madame Sabatier than the
others had. Perhaps it was his childlike sincerity, and the fact that he had
finally written to her directly; perhaps it was that he loved her but asked
nothing of her, unlike all the other men she knew who at some point had always
turned out to want something. Whatever it was, she had an uncontrollable desire
to see him. The next day she invited him to her apartment, alone. Give Them
Space to Fall-The Pursuer Is Pursued • 387 Baudelaire appeared at the appointed
hour. He sat nervously in his seat, gazing at her with his large eyes, saying
little, and what he did say was formal and polite. He seemed aloof. After he
left a kind of panic seized Madame Sabatier, and the next day she wrote him a
first letter of her own: "Today I'm more calm, and I can feel more clearly
the impression of our Tuesday evening together. I can tell you, without the
danger of your thinking I'm exaggerating, that I'm the happiest woman on the
face of the earth, that I've never felt more truly that I love you, and that
I've never seen you look more beautiful, more adorable, my divine friend!"
Madame Sabatier had never before written such a letter; she had always been the
one who was pursued. Now she had lost her usual self-possession. And it only
got worse: Baudelaire did not answer right away. When she saw him next, he was
colder than before. She had the feeling there was someone else, that his old
mistress, Jeanne Duval, had suddenly reappeared in his life and was pulling him
away from her. One night she turned aggressive, embracing him, trying to kiss
him, but he did not respond, and quickly found an excuse to leave. Why was he
suddenly inaccessible?She began to flood him with letters, begging him to come
to her. Unable to sleep, she would wait all night for him to show up. She had
never experienced such desperation. Somehow she had to seduce him, possess him,
have him all to herself. She tried everything-letters, coquetry, all kinds of
promises- until he finally wrote that he was no longer in love with her and
that was that. and the seas will dry up first! Oh, misery! How it would have
brought me comfort and healing if I had held him in my arms once before he
died. How? Yes, quite naked next to him, in order to enjoy him fully. . When
they came within six or seven leagues of the castle where King Bademagu was
staying, news that was pleasing came to him about Lancelot-news that he was glad
to hear; Lancelot was alive and was returning, hale and hearty. He behaved most
properly in going to inform the queen. "Good sir," she told him,
"I believe it, since you have told me. But were he dead, I assure you that
I could never again be happy." • . . . Now Lancelot had his every wish:
the queen willingly sought his company and affection as he held her in his arms
and Interpretation. Baudelaire was an intellectual seducer. He wanted to
overwhelm Madame Sabatier with words, dominate her thoughts, make her fall in
love with him. Physically, he knew, he could not compete with hermany other
admirers-he was shy, awkward, not particularly handsome. So he resorted to his
one strength, poetry. Haunting her with anonymous letters gave him a perverse
thrill. He had to know she would realize, eventually, that he was her
correspondent-no one else wrote like him-but he wanted her to figure this out
on her own. He stopped writing to her because he had become interested in
someone else, but he knew she would be thinking of him, wondering, perhaps
waiting for him. And when he published his book, he decided to write to her
again, this time directly, stirring up the old venom he had injected in her.
When they were alone, he could see she was waiting for him to do something, to
take hold of her, but he was not that kind of seducer. Besides, it gave him
pleasure to hold himself back, to sense his power over a woman whom so many
desired. By the time she turned physical and aggressive, the seduction was over
for him. He had made her fall in love; that was enough. The devastating effect
of Baudelaire's push-and-pull on Madame Sabatier teaches us a great lesson in
seduction. First, it is always best to keep at some distance from your targets.
You do not have to go as far as remaining anonymous, but you do not want to be
seen too often, or to be seen as she held him in hers. Her love-play seemed so
gentle and good to him, both her kisses and caresses, that in truth the two of
them felt a joy and wonder of which has never been heard or known. But I shall
let it remain a secret for ever, since it should not be written of: the most
delightful and choicest pleasure is that which is hinted at, but never told.
-CHRETIEN DETROYES, ARTHURIAN ROMANCES.
He was sometimes so intellectual that I felt myself annihilated as a
woman; at other times he was so wild and passionate, so desiring, that I almost
trembled 388 before him. At times I was like a stranger to him; at times he
surrendered completely. Then when I threw my arms around him, everything
changed, and I embraced a cloud. -CORDELIA DESCRIBING JOHANNES, IN S0REN
KIERKEGAARD, THE SEDUCER'S DIARY, It is true that we could not love if there
were not some memory in us-to the greatest extent an unconscious memory-that we
were once loved. But neither could we love if this feeling of being loved had
not at some time suffered doubt; if we had always been sure of it. In other
words, love would not be possible without having been loved and then having
missed the certainty of being loved. . . . • The need to be loved is not
elementary. This need is certainly acquiredby experience in later childhood. It
would be better to say: by many experiences or by a repetition of similar ones.
I believe that these experiences are of a negative kind. The child becomes
aware that he is not loved or that his mother's love is not unconditional. The
baby learns that his mother can be dissatisfied with him, that she can withdraw
her affection if he does not behave as she wishes, that she can be angry or
cross. I believe that this experience arousesfeelings of anxiety in the infant.
The possibility of losing his mother'slove certainly strikes the child with a
force which can no more be intrusive. If you are always in their face, always
the aggressor, they will become used to being passive, and the tension in your
seduction will flag. Use letters to make them think about you all the time, to
feed their imagination. Cultivate mystery-stop them from figuring you out.
Baudelaire's letters were delightfully ambiguous, mixing the physical and the
spiritual, teasing Sabatier with theirmultiplicityofpossible interpretations.
Then, at the point when they are ripe with desire and interest, when perhaps
they are expecting you to make a move-as Madame Sabatier expected that day in her
apartment-take a step back. You are unexpectedly distant, friendly but no more
than that-certainly not sexual. Let this sink in for a day or two. Your
withdrawal will trigger anxiety; the only way to relieve this anxiety is to
pursue and possess you. Step back now and you make your targets fall into your
arms like ripe fruit, blind to the force of gravity that is drawing them to
you. The more they participate, the more their willpower is engaged, the deeper
the erotic effect. You have challenged them to use their own seductive powers
on you, and when they respond, the tables will turn and they will pursue you
with desperate energy. / retreat and thereby teach her to be victorious as she
pursues me. 1 continually fall back, and in this backward movement 1 teach her
to know through me all the powers of erotic love, its turbulent thoughts, its
passion, what longing is, and hope, and impatient expectancy. -S0REN
KIERKEGAARD Keys to Seduction S ince humans are naturally obstinate and willful
creatures, and prone to suspicions of people's motives, it is only natural, in
the course of any seduction, that in some ways your target will resist you.
Seductions,then, are rarely easy or without setbacks. But once your victims
overcome some of their doubts, and begin to fall under your spell, they will
reach a point where they start to let go. They may sense that you are leading
them along, but they are enjoying it. No one likes things to be complicated and
difficult, and your target will expect the conclusion to come quickly. That is
the point, however, where you must train yourself to hold back. Deliver the
pleasurable climax they are so greedily awaiting, succumb to the natural
tendency to bring the seduction to a rapid end, and you will have missed an
opportunity to ratchet up the tension, to make the affair more heated. After
all, you don't want a passive little victim to toy with; you want the seduced
to engage their will in all its force, to become active participants in the
seduction. You want them to pursue you, hopelessly ensnaring themselves in your
web in the process. The only way to accomplish this is to take a step back and
make them anxious. You have strategically retreated before (see chapter 12),
but this is dif- Give Them Space to Fall-The Pursuer Is Pursued • 389 ferent.
The target is falling for you now, and your retreat will lead to panicky
thoughts: you are losing interest, it is somehow my fault, perhaps it is
something I have done. Rather than think you are rejecting them on your own,
your targets will want to make this interpretation, since if the cause of the
problem is something they have done, they have the power to win you back by
changing their behavior. If you are simply rejecting them, on the other hand,
they have no control. People always want to preserve hope. Now they will come
to you, turn aggressive, thinking that will do the trick. They will raise the
erotic temperature. Understand: a person's willpower is directly linked to
their libido, their erotic desire. When your victims are passively waiting for
you, their erotic level is low. When they turn pursuer, getting involved in the
process, brimming with tension and anxiety, the temperature is raised. So raise
it as high as you can. When you withdraw, make it subtle; you are instilling
unease. Your coldness or distance should dawn on your targets when they are
alone, in the form of a poisonous doubt creeping into their mind. Their
paranoia will become self-generating. Your subtle step back will make them want
to possess you, so they will willingly advance into your arms without being
pushed. This is different from the strategy in chapter 20, in which you are
inflicting deep wounds, creating a pattern of pain and pleasure. There the goal
is to make your victims weak and dependent, here it is to make them active and
aggressive. Which strategy you prefer to use (the two cannot be combined)
depends on what you want and the proclivities of your victim. In Spren
Kierkegaard's The Seducer's Diary, lohannes aims to seduce the young and
beautiful Cordelia. He begins by being rather intellectual with her, and slowly
intriguing her. Then he sends her letters that are romantic and seductive. Now
her fascination blossoms into love. Although in person he remains a little
distant, she senses in him great depths and is certain that he loves her. Then
one day, while they're talking, Cordelia has a strange sensation: something
about him is different. He seems more interested in ideas than in her. Over the
next few days, this doubt gets stronger-the letters are a little less romantic,
something is missing. Feeling anxious, she slowly turns aggressive, becomes the
pursuer instead of the pursued. The seduction is now much more exciting, at
least for Johannes. Johannes's step back is subtle; he merely gives Cordelia the
impression that his interest is a little less romantic than the day before. He
returns to being the intellectual. This stirs the worrisome thought that her
natural charms and beauty no longer have as much effect on him. She must try
harder, provoke him sexually, prove to herself that she has some power over
him. She is now brimming with erotic desire, brought to that point by
Johannes's subtle withdrawal of affection. Each gender has its own seductive
lures, which come naturally to them. When you seem interested in someone but do
not respond sexually, it is disturbing, and presents a challenge: they will
find a way to seduce you. To produce this effect, first reveal an interest in
your targets, through letters or subtle insinuation. But when you are in their
presence, assume a kind of coped with than an earthquake. . . . • The child who
experiences his mother's dissatisfaction and apparent withdrawal of affection
reacts to this menace at first with fear. He tries to regain what seems lost by
expressing hostility and aggressiveness. The change of its character comes
about only after failure; when the child realizes that the effort is a failure.
And now something very strange takes place, something which isforeign to our
conscious thinking but which is very near to the infantile way. Instead of
grasping the object directly and taking possession of it in an aggressive way,
the child identifies with the object as it was before. The child does the same
that the mother did to him in that happy time which has passed. The process is
very illuminating because it shapes the pattern of love in general. The little
boy thus demonstrates in his own behavior what hewants his mother to do to him,
how she should behave to him. He announces this wish by displaying his
tenderness and affection toward his mother who gave these before to him. It is
an attempt to overcome the despair and sense of loss in taking over the role of
the mother. The boy tries to demonstrate what he wishes by doing it himself:
look, I would like you to act thus toward me, to be thus tender and loving to
me. Of course this attitude is not the result of consideration or reasoned
planning but an emotional process by identification, a natural exchange of
roles with the unconscious aim 390 of seducing the mother into fulfdling his
wish. He demonstrates by his own actions how he wants to be loved. It is a
primitive presentation through reversal, an example of how to do the thing
which he wishes done by her. In this presentation lives the memory of the
attentions, tendernesses, and endearments once received from the mother or
loving persons. OF LOVE AND LUST sexless neutrality. Be friendly, even warm,
but no more. You are pushing them into arming themselves with the seductive
charms that are natural to their sex-exactly what you want. In the latter
stages of the seduction, let your targets feel that you are becoming interested
in another person-this is another form of taking a step back. When Napoleon
Bonaparte first met the young widow Josephine de Beauhamaisin1795, he was
excited by her exotic beauty and the looks she gave him. He began to attend her
weekly soirees and, to his delight, she would ignore the other men and remain
at his side, listening to him so attentively. He found himself falling in love
with Josephine, and had every reason to believe she felt the same. Then, at one
soiree, she was friendly and attentive, as usual-except that she was equally
friendly to another man there, a former aristocrat, like Josephine, the kind of
man that Napoleon could never compete with when it came to manners and wit.
Doubts and jealousies began to stir within. As a military man, he knew the
value of going on the offensive, and after a few weeks of a swift and
aggressive campaign he had her all to himself, eventually marrying her. Of
course Josephine, a clever seductress, had set it all up. She did not say she
was interested in another man, but his mere presence at her house, a look here
and there, subtle gestures, made it seem that way. There is no more powerful
way to hint that you are losing your desire. Make your interest in another too
obvious, though, and it could backfire. This is not the situation in which you
want to seem cruel; doubt and anxiety are the effects you are after. Make your
possible interest in another barely perceptible to the naked eye. Once someone
has fallen for you, any physicalabsence will create unease. You are literally
creating space. The Russian seductress Lou Andreas- Salome had an intense
presence; when a man was with her, he felt her eyes boring into him, and often
became entranced with her coquettish ways and spirit. But then, almost
invariably, something would come up-she would have to leave town for a while,
or would be too busy to see him. It was during her absences that men fell
hopelessly in love with her, and vowed to be more aggressive next time they
were with her. Your absences at this latter point of the seduction should seem
at least somewhat justified. You are insinuating not a blatant brush-off but a
slight doubt: perhaps you could have found some reason to stay, perhaps you are
losing interest, perhaps there is someone else. In your absence, their
appreciation of you will grow. They will forget your faults, forgive your sins.
The moment you return, they will chase after you as you desire. It will be as
if you had come back from the dead. According to the psychologist Theodor Reik,
we learn to love only through rejection. As infants, we are showered with love
by our mother- we know nothing else. But when we get a little older, we begin to
sense that her love is not unconditional. If we do not behave, if we do not
please her, she can withdraw it. The idea that she will withdraw her affection
fills us with anxiety, and, at first, with anger-we will show her, we will
throw Give Them Space to Fall-The Pursuer Is Pursued a tantrum. But that never works, and we
slowly realize that the only way to keep her from rejecting us again is to
imitate her-to be as loving, kind, and affectionate as she is. This will bond
her to us in the deepest way. The pattern is ingrained in us for the rest of
our lives: by experiencing a rejection or a coldness, we learn to court and
pursue, to love. Re-create this primal pattern in your seduction. First, shower
your targets with affection. They will not be sure where this is coming from,
but it is a delightful feeling, and they will never want to lose it. When it
does go away, in your strategic step back, they will have moments of anxiety
and anger, perhaps throwing a tantrum, and then the same childlike reaction:
the only way to win you back, to have you for sure, will be to reverse the
pattern, to imitate you, to be the affectionate, giving one. It is the terror
of rejection that turns the tables. This pattern will often repeat itself
naturally in an affair or relationship. One person goes cold, the other
pursues, then goes cold in turn, making the first person the pursuer, and on
and on. As a seducer, do not leave this to chance. Make it happen. You are
teaching the other person to become a seducer, just as the motherinherown way
taught the child to return her love by turning her back. For your own sake
learn to relish this reversal of roles. Do not merely play at being the
pursued, but enjoy it, give in to it. The pleasure of being pursued by your
victim can often surpass the thrill of the hunt. Symbol: The Pomegranate.
Carefully cultivated and tended, the pomegranate begins to ripen. Do not gather
it too early or force it off the stem-it will be hard and bitter. Let the fruit
grow heavy and full of juice, then stand back - it will fall on its own. That
is when its pulp is most delicious. 392 • The Art of Seduction Reversal T here
are moments when creating space and absence will blow up in your face. An
absence at a critical moment in the seduction can make the target lose interest
in you. It also leaves too much to chance-while you are away, they could find
another person, who will distract their thoughts from you. Cleopatra easily
seduced Mark Antony, but after their first encounters, he returned to Rome.
Cleopatra was mysterious and alluring, but if she let too much time pass, he
would forget her charms. So she let go of her usual coquetry and came after him
when he was on one of his military campaigns. She knew that once he saw her, he
would fall under her spell again and pursue her. Use absence only when you are
sure of the target's affection, and never let it go on too long. It is most
effective later in the seduction. Also, never create too much space-don't write
too rarely, don't act too cold, don't show too much interest in someone else.
That is the strategy of mixing pleasure with pain, detailed in chapter 20, and
will create a dependent victim, or will even make him or her give up
completely. Some people, too, are inveterately passive: they are waiting for
you to make the bold move, and if you don't, they will think you are weak. The
pleasure to be had from such a victim is less than the pleasure you will get
from someone more active. But if you are involved with such a type, do what you
need to if you are to have your way, then end the affair and move on. 22 Use
Physical Lures Targets with active minds are dangerous: if they see through
your manipulations, they may suddenly develop doubts. Put their minds gently to
rest, and waken their dormant senses, by combining a nondefensive attitude with
a charged sexual presence. While your cool, nonchalant air is calming their
minds and lowering their inhibitions, your glances, voice, and bearing-oozing
sex and desire-are getting under their skin, agitating their senses and raising
their temperature. Never force the physical; instead infect your targets with
heat, lure them into lust. Lead them into the moment-an intensified present in
which morality, judgment, and concern for the future all melt away and the body
succumbs to pleasure. Raising the Temperature I n 1889, the top New York
theatrical manager Ernest Jurgens visited France on one of his many scouting
trips. Jurgens was known for his honesty, a rare commodity in the shady
entertainment world, and for his ability to find unusual acts. He had to spend
the night in Marseilles, and while wandering along the quay of the old harbor,
he heard excited catcalls issuing from a working-class cabaret, and decided to
go in. A twenty-one- year-old Spanish dancer named Caroline Otero was
performing, and the minute Jurgens laid eyes on her he was a changed man. Her
appearance was startling-five foot ten, fiery dark eyes, black waist-length
hair, her body corseted into a perfect hourglass figure. But it was the way she
danced that made his heart pound-her whole body alive, writhing like an animal
in heat, as she performed a fandango. Her dancing was hardly professional, but
she enjoyed herself so much and was so unrestrained that none of that mattered.
Jurgens also could not help but notice the men in the cabaret watching her,
their mouths agape. After the show, Jurgens went backstage to introduce
himself. Otero's eyes came alive as he spoke of his job and of New York. He
felt a heat, a twitching, in his body as she looked him up and down. Her voice
was deep and raspy, the tongue constantly in play as she rolled her Rs. Closing
the door, Otero ignored the knocks and pleas of the admirers dying to speak to
her. She said that her way of dancing was natural-her mother was a gypsy. Soon
she asked Jurgens to be her escort that evening, and as he helped her with her
coat, she leaned back toward him slightly, as if she had lost her balance. As
they walked around the city, her arm in his, she would occasionally whisper in
his ear. Jurgens felt his usual reserve melt away. He held her tighter. He was
a family man, had never considered cheating on his wife, but without thinking,
he brought Otero back to his hotel room. She began to take off some of her
clothes-coat, gloves, hat-a perfectly normal thing to do, but the way she did
it made him lose all restraint. The normally timid Jurgens went on the attack.
The next morning Jurgens signed Otero to a lucrative contract-a great risk,
considering that she was an amateur at best. He brought her to Paris and
assigned a top theatrical coach to her. Hurrying back to New York, he fed the
newspapers with reports of this mysterious Spanish beauty poised to conquer the
city. Soon rival papers were claiming she was an Andalusian countess, an
escaped harem girl, the widow of a sheik, on and on. He The year was 1907 and
La Belle \Otero], by then, had been an international figure for over a dozen
years. The story was told by M. Maurice Chevalier. • "I was a young star
about to make my first appearance at the Folies. Otero had been the headliner
there for several weeks and although I knew who she was I had never seen her
before on stage or off • "I was scurrying along, head bent, thinking of
something or other, when I looked up. There was La Belle, in the company of
another woman, walking in my direction. Otero was then nearly forty and I was
not yet out of my teens but - ah!-she was so beautiful! • "She was tall,
darkhaired, with a magnificent body, like the bodies of the women of those
days, not like the lightweight ones of today." • Chevalier smiled. •
"Of course I like modern women, too, but there was something of a fatal
charm about Otero. We three stood there for a moment or two, not saying a word,
I staring at La Belle, not so young as she once was and maybe not so beautiful,
but 395 396 still quite a woman. • "She looked right at me, then turned to
the lady she was with-some friend, I guess-and spoke to her in English, which
she thought I didn't understand. However, I did. • " 'Who's the very
handsome young man?' Otero asked. • "The other one answered, 'He's
Chevalier.' • " 'He has such beautiful eyes' ha Belle said, looking
straight at me, right up and down. • "Then she almost floored me with
herfrankness. • " 7 wonder if he'd like to go to bed with me. I think I'll
ask him!' Only she didn't say it so delicately. She was much cruder and more to
the point. • "It was at this moment I had to make up my mind rather
quickly. La Belle moved toward me. Instead of introducing myself and succumbing
to the consequences, I pretended I didn't understand what she'd said, uttered
some pleasantry in French and moved away to my dressing room. • "I could
see La Belle smile in an odd fashion as I passed her;like a sleek tigress
watching its dinner go away. For a fleeting second I thought she might turn
around and follow me. " • What would Chevalier have done had she pursued
him? His lower lip dropped into that halfpout which is the Frenchman's
exclusive possession. Then he grinned. • "I'd have slowed down and let her
catch up." -ARTHUR H. LEWIS, LA BELLE OTERO made frequent trips to Paris
to be with her, forgetting about his family, lavishing money and gifts on her.
Otero's New York debut, in October of 1890, was an astounding success.
"Otero dances with abandon," read an article in The New York Times.
"Her lithe and supple body looks like that of a serpent writhing in quick,
graceful curves." In a few short weeks she became the toast of New York
society, performing at private parties late into the night. The tycoon William
Vanderbilt courted her with expensive jewels and evenings on his yacht. Other
millionaires vied for her attention. Meanwhile Jurgens was dipping into the
company till to pay for presents for her-he would do anything to keep her, a
task in which he was facing heavy competition. A few months later, after his
embezzling became public, he was a ruined man. He eventually committed suicide.
Otero went back to France, to Paris, and over the next few years rose to become
the most infamous courtesan of the Belle Epoque. Word spread quickly: a night
with La Belle Otero (as she was now known) was more effective than all the
aphrodisiacs in the world. She had a temper, and was demanding, but that was to
be expected. Prince Albert of Monaco, a man who had been plagued by doubts of
his virility, felt like an insatiable tiger after a night with Otero. She
became his mistress. Other royalty followed- Prince Albert of Wales (later King
Edward VII), the Shah of Persia, Grand Duke Nicholas of Russia. Less wealthy
men emptied their bank accounts, and Jurgens was only the first of many whom
Otero drove to suicide. During World War I, a twenty-nine-year-old American
soldier named Frederick, stationed in France, won $37,000 in a four-day crap
game. On his next leave he went to Nice and checked himself into the finest
hotel. On his first night in the hotel restaurant, he recognized Otero sitting
alone at a table. He had seen her perform in Paris ten years before, and had
become obsessed with her. She was now close to fifty, but was more alluring than
ever. He greased some palms and was able to sit at her table. He could hardly
talk: the way her eyes bored into him, a simple readjustment in her chair, her
body brushing up against him as she got up, the way she managed to walk in
front of him and display herself. Later, strolling along a boulevard, they
passed a jewelry store. He went inside, and moments later found himself
plopping down $31,000 for a diamond necklace. For three nights La Belle Otero
was his. Never in his life had he felt so masculine and impetuous. Years later,
he still believed it was well worth the price he had paid. Interpretation.
Although La Belle Otero was beautiful, hundreds of women were more so, or were
more charming and talented. But Otero was constantly on fire. Men could read it
in her eyes, the way her body moved, a dozen other signs. The heat that
radiated out from her came from her own inner desires: she was insatiably
sexual. But she was also a practiced and calculating courtesan, and knew how to
put her sexuality to effect. UsePhysicalLures • 397 Onstage she made every man
in the audience come alive, abandoning herself in dance. In person she was
cooler, or slightly so. A man likes to feel that a woman is enflamed not
because she has an insatiable appetite but because of him; so Otero
personalized her sexuality, using glances, a brushing of skin, a more
languorous tone of voice, a saucy comment, to suggest that the man was heating
her up. In her memoirs she revealed that Prince Albert was a most inept lover.
Yet he believed, along with many other men, that with her he was Hercules
himself. Her sexuality actually originated from her, but she created the
illusion that the man was the aggressor. The key to luring the target into the
final act of your seduction is not to make it obvious, not to announce that you
are ready (to pounce or be pounced upon). Everything should be geared, not to
the conscious mind, but to the senses. You want your target to read cues not
from your words or actions but from your body. You must make your body glow
with desire- for the target. Your desire should be read in your eyes, in a
trembling in your voice, in your reaction when your bodies draw near. You
cannot train your body to act this way, but by choosing a victim (see chapter
1) who has this effect on you, it will all flow naturally. Duringthe seduction,
you will have had to hold yourself back, to intrigue and frustrate the victim.
You will have frustrated yourself in the process, and will already be champing
at the bit. Once you sense that the target has fallen for you and cannot turn
back, let those frustrated desires course through your blood and warm you up.
You do not need to touch your targets, or become physical. As La Belle Otero
understood, sexual desire is contagious. They will catch your heat and glow in
return. Let them make the first move. It will cover your tracks. The second and
third moves are yours. Spell SEX with capital letters when you talk about
Otero. She exuded it. -MAURICE CHEVALIER Lowering Inhibitions O ne day in 1931,
in a village in New Guinea, a young girl named Tu- perselai heard some happy
news: her father, Allaman, who had left some months before to work on a tobacco
plantation, had returned for a visit. Tuperselai ran to greet him. Accompanying
her father was a white man, ait unusual sight in these parts. He was a
twenty-two-year-old Australian from Tasmania, and he was the owner of the
plantation. His name was Errol Flynn. Flynn smiled warmly at Tuperselai,
seeming particularly interested in her bare breasts. (As was the custom in New
Guinea then, she wore only a grass skirt.) He said in pidgin English how
beautiful she was, and kept repeating her name, which he pronounced remarkably
well. He did not say You're anxiously expecting me to escort you \ To parties: here
too solicit my advice. \ Arrive late, when the lamps are lit; make a graceful
entrance - \ Delay enhances charm, delay's a great bawd. \ Plain you may be,
but at night you'll look fine to the tipsy: \ Soft lights and shadows will mask
yourfaults. \ Take your food with dainty fingers: good table manners matter: \
Don't besmear your whole face with a greasy paw. \ Don't cat first at home, and
nibble - but equally, don't indulge your \ Appetite to the full, leave
something in hand. \ If Paris saw Helen stuffing herself to the eyeballs \ He'd
detest her, he'd feel her abduction had been \ A stupid mistake. . . . \ Each
woman should know herself, pick methods \ To suit her body: onefashion . won't
do for all. \ Let the girl with a pretty face lie supine, let the lady \ Who
boasts a good back be viewed \ From behind. Milanion bore Atalanta's legs on \
His shoulders: nice legs should always be used this way \ The petite should
ride a horse (Andromache, Hector's Theban \ Bride, was too tall for these
games: no jockey she); \ If you 're built like afashion model, with a willowy
figure, \ Then kneel on the bed, your neck \ A little arched; the girl who has
perfect legs and bosom \ Should lie sideways on, and make her lover stand. \
Don't blush to unbind your hair like some ecstatic maenad \ And tumble long
tresses about \ Your uncurved throat. - OVID, THE ARTOFLOVE "How do you
attract a man," the Paris correspondent of the Stockholm Aftonbladet asked
La Belle on July 3, 1910. • "Make yourself as feminine as possible; dress
so that the most interesting portions of your anatomy are emphasized; and
subtly allow the gentleman to know you are willing to yield at the proper time.
. . • "The way to hold a man" Otero revealed a little later to a staff
writerfrom the Johannesburg Morning Journal, "is to keep acting as though
every time you meet him you are overcome with fresh enthusiasm and, with barely
restrained eagerness, you await his impetuosity." -ARTHUR H. LEWIS, LA
BELLE OTERO "I missed the mental stimulation when I was younger," he
answered. "But from the time I began to have women, shall we say, on the
assembly-line basis, I discovered that the only thing you need, want, or should
have is the absolutely physical. Simply the physical. No mind at all. A woman's
mind will get in the way." • "Really?" • "For me . . . I am
speaking of myself. I don't speak for male humankind. I am speaking for what
I've discovered or what I need: the body, the face, the physical motion, the
voice, the femaleness, the female presence . . . totally that, nothing else.
That's the best. There's no possessiveness in that." • I watched him
closely. • "I'm serious," he said. "That's my view and feeling.
Just the elementary much else, mind you-he did not speak her language-so she
said goodbye and walked away with her father. But later that day she
discovered, to her dismay, that Mr. Flynn had taken a liking to her and had
purchased her from her father for two pigs, some English coins, and some
seashell money. The family was poor and the father liked the price. Tuperselai
had a boyfriend in the village whom she did not want to leave, but she did not
dare disobey her father, and she left with Mr. Flynn for the tobacco
plantation. On the other hand, she had no intention of being friendly with this
man, from whom she expected the worst kind of treatment. In the first few days,
Tuperselai missed her village terribly, and felt nervous and out of sorts. But
Mr. Flynn was polite, and talked in a soothing voice. She began to relax, and
since he kept his distance, she decided it was safe to approach him. His white
skin was tasty to the mosquitoes, so she began to wash him every night with
scented bush herbs to keep them away. Soon she had a thought: Mr. Flynn was
lonely, and wanted a companion. That was why he had bought her. At night he
usually read; instead, she began to entertain him by singing and dancing.
Sometimes he tried to communicate in words and gestures, struggling inpidgin.
She had no idea what he was trying to say, but he made her laugh. And one day she
did understand something: the word "swim." He was inviting her to go
swimming with him in the Laloki River. She was happy to go along, but the river
was full of crocodiles, so she brought along her spear just in case. At the
sight of the river, Mr. Flynn seemed to come alive-he tore off his clothes and
dove in. She followed and swam after him. He put his arms around her and kissed
her. They drifted downstream, and she clung to him. She had forgotten about the
crocodiles; she had also forgotten about her father, her boyfriend, her
village, and everything else there was to forget. Around a bend of the river,
he picked her up and carried her to a secluded grove near the river's edge. It
all happened rather suddenly, which was fine with Tuperselai. From then on this
was a daily ritual-the river, the grove-until the time came when the tobacco
plantation was no longer doing so well, and Mr. Flynn left New Guinea. One day
some ten years later, a young girl named Blanca Rosa Welter went to a party at
the Ritz Hotel in Mexico City. As she wandered through the bar, looking for her
friends, a tall older man blocked her path and said in a charming accent,
"You must be Blanca Rosa." He did not have to introduce himself-he
was the famous Hollywoodactor Errol Flynn. His face was plastered on posters
everywhere, and he was friends of the party's hosts, the Davises, and had heard
them praise the beauty of Blanca Rosa, who was turning eighteen the following
day. He led her to a table in the corner. His manner was graceful and
confident, and listening to him talk, she forgot about her friends. He spoke of
her beauty, repeated her name, said he could make her a star. Before she knew
what was happening, he had invited her to join him in Acapulco, where he was
vacationing. The Davises, their mutual friends, could come along as chaperones.
That would be wonderful, she said, but her mother would never agree. Don't
worry Use Physical Lures • 399 about that, Flynn replied; and the following day
he showed up at their house with a beautiful gift for Blanca, a ring with her
birthstone. Melting under his charming smile, Blanca's mother agreed to his
plan. Later that day, Blanca found herself on a plane to Acapulco. It was all
like a dream. The Davises, under orders from Blanca's mother, tried not to let
her out of their sight, so Flynn put her on a raft and they drifted out into
the ocean, far from the shore. His flattering words filled her ears, and she
let him hold her hand and Mss her cheek. That night they danced together, and
when the evening was over he escorted hertoherroom and serenaded her with a
song as they finally parted. It was the end of a perfect day. In the middle of
the night, she woke up to hear him calling her name, from her hotel-room
balcony. How had he gotten there? His room was a floor above; he must have
somehow jumped or swung down, a dangerous maneuver. She approached, not at all
afraid, but curious. He pulled her gently into his arms and kissed her. Her
body convulsed; overwhelmed with new sensations, totally at sea, she began to
cry-out of happiness, she said. Flynn comforted her with a kiss and returned to
his room above, in the same inexplicable way he had arrived. Now Blanca was
hopelessly in love with him and would do anything he asked of her. A few weeks
later, in fact, she followed him to Hollywood, where she went on to become a
successful actress, known as Linda Christian. In 1942, an eighteen-year-old
girl named Nora Eddington had a temporary job selling cigarettes at the Los
Angeles County courthouse. The place was a madhouse at the time, teeming with
tabloid journalists: two young girls had charged Errol Flynn with rape. Nora of
course noticed Flynn, a tall, dashing man who occasionally bought cigarettes
from her, but her thoughts were with her boyfriend, a young Marine. A few weeks
later Flynn was acquitted, the trial ended, and the place settleddown. A man
she had met during the trial called her up one day; he was Flynn's right-hand
man, and on Flynn's behalf, he wanted to invite her up to the actor's house on
Mulholland Drive. Nora had no interest in Flynn, and in fact she was a little
afraid of him, but a girlfriend who was dying to meet him talked her into going
and bringing her along. What did she have to lose? Nora agreed to go. On the
day, Flynn's friend showed up and drove them to a splendid house on top of a
hill. When they arrived, Flynn was standing shirtless by his swimming pool. He
came to greet her and her girlfriend, moving so gracefully-like a lithe cat-and
his manner so relaxed, she felt her jitters melt away. He gave them a tour of
the house, which was full of artifacts of his various sea voyages. He talked so
delightfully of his love of adventure that she wished she had had adventures of
her own. He was the perfect gentleman, and even let her talk about her
boyfriend without the slightest sign ofjealousy. Nora had a visit from her
boyfriend the next day. Somehow he didn't seem so interesting anymore; they had
a fight and broke up on the spot. That night, Flynn took her out on the town,
to the famous Mocambo nightclub. He was drinking andjoking, and she fell into
the spirit, and hap- physical female. Nothing more than that. When you get hold
of that-hang on to it, for a short while." -EARL CONRAD, ERROL FLYNN: A
MEMOIR A sweet disorder in the dress \ Kindles in clothes a wantonness: \ A
lawn about the shoulders thrown \ Into a fine distraction: \ An erring lace,
which here and there \ Enthralls the crimson stomacher: \ A cuff neglectful,
and thereby \ Ribbands to flow confusedly: \ A winning wave (deserving note) \
In the tempestuous petticoat: \ A careless shoestring, in whose tie \ I see a
wild civility: \ Do more bewitch me, than when art \ Is too precise in every
part. - ROBERT HERRICK,"DELIGHT IN DISORDER," EROTIC POEMS Satni, the
son of Pharaoh Usimares, saw a very beautiful woman on the plain-stones of the
temple. He called his page, and said, "Go and tell her that I, Pharaoh's
son, shall give her ten pieces of gold to spend an hour with me." "I
am a Pure One, I am not a low person," answers the Lady Thubuit. "If
you wish to have your pleasure with me, you will come to my house at Bubastis.
Everything will be ready there." Satni went to Bubastis by boat. "By
my life," said Thubuit, "come upstairs with me." On the upper
floor, sanded with dust of lapis lazuli and turquoise, Satni saw several beds
covered with royal linen and many gold 400 bowls on a table. "Please take
your meal," said Thubuit."That is not what I have come to do,"
answered Satni, while the slaves put aromatic wood on the fire and scattered
scent about. "Do that for which we have come here," Satni repeated.
"First you will make out a deedfor my maintenance," Thubuit replied,
"and you will establish a dowry for me of all the things and goods which
belong to you, in writing." Satni acquiesced, saying, "Bring me the
scribe of the school." • When he had done what she asked, Thubuit rose and
dressed herself in a robe of fine linen, through which Satni could see all her
limbs. His passion increased, but she said, "If it is true that you desire
to have your pleasure of me, you will make your children subscribe to my deed,
that they may not seek a quarrel with my children." Satni sent for his
children. "If it is true that you desire to have your pleasure of me, you
will cause your children to be killed, that they may not seek a quarrel with my
children." Satni consented again: "Let any crime be done to them
which your heart desires." "Go into that room," said Thubuit;
and while the little corpses were thrown out to the stray dogs and cats, Satni
at last lay on a bed of ivory and ebony, that his love might be rewarded, and
Thubuit lay down at his side. "Then," the texts modestly say,
"magic and the god Amen did much." • The charms of the Divine Women
must have been irresistible, if even "the wisest men" were pily let
him touch her hand. Then suddenly she panicked. "I'm a Catholic and a
virgin," she blurted out, "and some day I'm going to walk down the
church aisle wearing a veil-and if you think you're going to sleep with me,
you're mistaken." Totally calm and unruffled, Flynn said she had nothing
to fear. He simply liked being with her. She relaxed, and politely asked him to
put his hand back. Over the next few weeks she saw him almost every day. She
became his secretary. Soon she was spending weekend nights as his house guest.
He took her on skiing and boating trips. He remained the perfect gentleman, but
when he looked at her or touched her hand, she felt overwhelmed by an
exhilarating sensation, a tingling on her skin that she compared to stepping
into a cold-needle shower on a red-hot day. Soon she was going to church less
often, drifting away from the life she had known. Although outwardly nothing
had changed between them, inwardly all semblance of resistance to him had
melted away. One night, after a party, she succumbed. She and Flynn eventually
engaged in a stormy marriage that lasted seven years. Interpretation. The women
who became involved with Errol Flynn (and by the end of his life they numbered
in the thousands) had every reason in the world to feel suspicious of him: he
was real life's closest thing to a Don Juan. (In fact he had played the
legendary seducer in a film.) He was constantly surrounded by women, who knew
that no involvement with him could last. And then there were the rumors of his
temper, and his love of danger and adventure. No woman had greater reason to
resist him than Nora Eddington: when she met him he stood accused of rape; she
was involved with another man; she was a God-fearing Catholic. Yet she fell
under his spell, just like all the rest. Some seducers-D. H. Lawrence for
-operate mostly on the mind, creating fascination, stirring up the need to
possess them. Flynn operated on the body. His cool, nonchalant manner infected
women, lowering their resistance. This happened almost the minute they met him,
like a drug: he was at ease around women, graceful and confident. They fell
into this spirit, drifting along on a current he created, leaving the world and
its heaviness behind-it was only you and him. Then-perhaps that same day,
perhaps a few weeks later-there would come a touch of his hand, a certain look,
that would make them feel a tingling, a vibration, a dangerously physical
excitement. They would betray that moment in their eyes, a blush, a nervous
laugh, and he would swoop in for the kill. No one moved faster than Errol
Flynn. The greatest obstacle to the physical part of the seduction is the
target's education, the degree to which he or she has been civilized and
socialized. Such education conspires to constrain the body, dull the senses,
fill the mind with doubts and worries. Flynn had the ability to return a woman
to a more natural state, in which desire, pleasure, and sex had nothing
negative attached to them. He lured women into adventure not with arguments but
Use Physical Lures • 401 with an open, unrestrained attitude that infected
their minds. Understand: it all starts from you. When the time comes to make
the seduction physical, train yourself to let go of your own inhibitions, your
doubts, your lingering feelings of guilt and anxiety. Your confidence and ease
will have more power to intoxicate the victim than all the alcohol you could
apply. Exhibit a lightness of spirit-nothing bothers you, nothing daunts you,
you take nothing personally. You are inviting your targets to shed the burdens
of civilization, to follow your lead and drift. Do not talk of work, duty,
marriage, the past or future. Plenty of other people will do that. Instead,
offer the rare thrill of losing oneself in the moment, where the senses come
dive and the mind is left behind. When he kissed me, it evoked a response I had
never known or imagined before, a giddying of all my senses. It was instinctive
joy, against which no warning, reasoning monitor within me availed. It was new
and irresistible and finally overpowering. Seduction-the word implies being
led-and so gently, so tenderly. -LINDA CHRISTIAN Keys to Seduction N ow more
than ever, our minds are in a state of constant distraction, barraged with
endless information, pulled in every direction. Many of us recognize the
problem: articles are written, studies are completed, but they simply become
more information to digest. It is almost impossible to turn off an overactive
mind; the attempt simply triggers more thoughts- an inescapable hall of
mirrors. Perhaps we turn to alcohol, to drugs, to physical activity-anything to
help us slow the mind, be more present in the moment. Our discontent presents
the crafty seducer with infinite opportunity. The waters around you are teeming
with people seeking some kind of release from mental overstimulation. The lure
of unencumbered physical pleasure will make them take your bait, but as you
prowl the waters, understand: the only way to relax a distracted mind is to
make it focus on one thing. A hypnotist asks the patient to focus on a watch
swinging back and forth. Once the patient focuses, the mind relaxes, the senses
awaken, the body becomes prone to all kinds of novel sensations and
suggestions. As a seducer, youare a hypnotist, and what you are making the
target focus on is you. Throughout the seductive process you have been filling
the target's mind. Letters, mementos, shared experiences keep you constantly
present, even when you are not there. Now, as you shift to the physical part of
the seduction, you must see your targets more often. Your attention must become
more intense. Errol Flynn was a master at this game. When he ready to do
anything in their desire to abandon themselves, even for a few moments, to
their trained embraces. -G. R.TABOUIS, THE PRIVATE UFE OF TUTANKHAMEN, What is
the moment, and how do you define it? Because I must say in all good honesty
that I do not understand you. • THE DUKE: A certain disposition of the senses,
as unexpected as it is involuntary, which a woman can conceal, but which,
should it be perceived or sensed by someone who might profit from it, puts her
in the greatest danger of being a little more willing than she thought she ever
should or could be. -CREBILLON FILS, LE HASARD AU COIN DU FEU, QUOTED IN MICHEL
FEHER, ED., THE LIBERTINE READER When, on an autumn evening, with closed eyes,
\ I breathe the warm dark fragrance of your breast, \ Before me blissful shores
unfold, caressed \ By dazzlingfires from blue unchanging skies. \ And there,
upon that calm and drowsing isle, \ Grow luscious fruits amid fantastic trees:
\ There, men are lithe: the women of those seas \ Amaze one with their gaze
that knows no guile. \ Your perfume wafts me thither like a wind: \ I see a
harbor thronged with masts and sails \ Still weary from the tumult of the
gales; \ And 402 THE FLOWERS OF EVIL,
with the sailors' song that honied in on a victim, he dropped everything
else. The woman was made drifts to me \ Are mmgied t0 f ee i everything came second
to her-his career, his friends, every- odors of the tamarind, \ . , , . ... . .
. . . , " , . , thing. Then he would take her on a little trip, preferably
with water and melody, around. Slowly the rest of the world would fade into the
background, and -charles baudelaire, Flynn would take center stage. The more
your targets think of you, the less ¦exotic perfume," they are distracted
by thoughts of work and duty. When the mind focuses tiic flowers or evil. one
jj. and w hen the mind relaxes, all the little paranoid thoughts that we are
prone to-do you really like me, am I intelligent or beautiful enough, what does
the future hold-vanish from the surface. Remember: it all starts with you. Be
undistracted, present in the moment, and the target will follow suit. The
intense gaze of the hypnotist creates a similar reaction in the patient. Once
the target's overactive mind starts to slow down, their senses will come to
life, and your physical lures will have double their power. Now a heated glance
will give them flush. You will have a tendency to employ physical lures that
work primarily on the eyes, the sense we most rely on in our culture. Physical
appearances are critical, but you are after a general agitation of the senses.
La Belle Otero made sure men noticed her breasts, her figure, her perfume, her
walk; no part was allowed to predominate. The senses are interconnected-an
appeal to smell will trigger touch, an appeal to touch will trigger vision:
casual or "accidental" contact-better a brushing of the skin than
something more forceful right now-will create a jolt and activate the eyes.
Subtly modulate the voice, make it slower and deeper. Living senses will crowd
out rational thought. In the eighteenth-century libertine novel The Wayward
Head and Heart, by Crebillon fils, Madame de Lursay is trying to seduce a
younger man, Meilcour. Her weapons are several. One night at a party she is
hosting, she wears a revealing gown; her hair is slightly tousled; she throws
him heated glances; her voice trembles a bit. When they are alone, she
innocently gets him to sit close to her, and talks more slowly; at one point
she starts to cry. Meilcour has many reasons to resist her; he has fallen in
love with a girl his own age, and he has heard rumors about Madame de Lursay
that should make him distrust her. But the clothes, the looks, the perfume, the
voice, the closeness of her body, the tears-it all begins to overwhelm him.
"An indescribable agitation stirred my senses." Meilcour succumbs.
The French libertines of the eighteenth century called this "the
moment." The seducer leads the victim to a point where he or she reveals
involuntary signs of physical excitation that can be read in various symptoms.
Once those signs are detected, the seducer must work quickly, applying pressure
on the target to get lost in the moment-the past, the future, all moral scmples
vanishing in air. Once your victims lose themselves in the moment, it is all
over-their mind, their conscience, no longer holds them back. The body gives in
to pleasure. Madame de Lursay lures Meilcour into the moment by creating a
generalized disorder of the senses, rendering him incapable of thinking
straight. In leading your victims into the moment, remember a few things.
First, Use Physical Lures • 403 a disordered look (Madame de Lursay's tousled
hair, her ruffled dress) has more effect on the senses than a neat appearance.
It suggests the bedroom. Second, be alert to the signs of physical excitation.
Blushing, trembling of the voice, tears, unusually forceful laughter, relaxing
movements of the body (any kind of involuntary mirroring, their gestures
imitating yours), a revealing slip of the tongue-these are signs that the
victim is slipping into the moment and pressure is to be applied. In 1934, a
Chinese football player named Li met a young actress named Lan Ping in
Shanghai. He began to see her often at his matches, cheering him on. They would
meet at public affairs, and he would notice her glancing at him with her
"strange, yearning eyes," then looking away. One evening he found her
seated next to him at a reception. Her leg brushed up against his. They
chatted, and she asked him to see a movie with her at a nearby cinema. Once
they were there, her head found its way onto his shoulder; she whispered into
his ear, something about the film. Later they strolled the streets, and she put
her arm around his waist. She brought him to a restaurant where they drank some
wine. Li took her to his hotel room, and there he found himself overwhelmed by
caresses and sweet words. She gave him no room to retreat, no time to cool
down. Three years later Lan Ping-soon to be renamed Jiang Qing-played a similar
game on Mao Zedong. She was to become Mao's wife-the infamous Madame Mao,
leader of the Gang of Four. Seduction, like warfare, is often a game of
distance and closeness. At first you track your enemy from a distance. Your
main weapons are your eyes, and a mysterious manner. Byron had his famous
underlook, Madame Mao her yearning eyes. The key is to make the look short and
to the point, then look away, like a rapier glancing the flesh. Make your eyes
reveal desire, and keep the rest of the face still. (A smile will spoil the
effect.) Once the victim is heated up, you quickly bridge the distance, turning
to hand- to-hand combat in which you give the enemy no room to withdraw, no
time to think or to consider the position in which you have placed him or her.
To take the element of fear out of this, use flattery, make the target feel
more masculine or feminine, praise their charms. It is their fault that you
have become so physical and aggressive. There is no greater physical lure than
to make the target feel alluring. Remember; the girdle of Aphrodite, which gave
her untold seductive powers, included that of sweet flattery. Shared physical
activity is always an excellent lure. The Russian mystic Rasputin would begin
his seductions with a spiritual lure-the promise of a shared religious
experience. But then his eyes would bore into his target at a party, and
inevitably he would lead her in a dance, which would become more and more
suggestive as he movedcloser to her. Hundreds of women succumbed to this
technique. For Flynn it was swimming or sailing. In such physical activity, the
mind turns off and the body operates according to its own laws. The target's
body will follow your lead, will mirror your moves, as far as you want it to
go. In the moment, all moral considerations fade away, and the body re- turns
to a state of innocence. You can partly create that feeling through a
devil-may-care attitude. You do not worry about the world, or what people think
of you; you do not judge your target in any way. Part of Flynn's appeal was his
total acceptance of a woman. He was not interested in a particular body type, a
woman's race, her level of education, her political beliefs. He was in love
with her feminine presence. He was luring her into an adventure, free of
society's strictures and moral judgments. With him she could act out a
fantasy-which, for many, was the chance to be aggressive or transgressive, to
experience danger. So empty yourself of your tendency to moralize andjudge. You
have lured your targets into a momentary world of pleasure-soft and
accommodating, all rules and taboos thrown out the window. Symbol: The Raft.
Floating out to sea, drifting with the current. Soon the shoreline disappears
from sight, and the two of you are alone. The water invites you to forget all
cares and worries, to submerge yourself. Without anchor or direction, cut off
from the past, you give in to the drifting sensation and slowly lose all restraint.
Reversal S ome people panic when they sense they are falling into the moment.
Often, using spiritual lures will help disguise the increasingly physical
nature of the seduction. That is how the lesbian seductress Natalie Barney
operated. In her heyday, at the turn of the twentieth century, lesbian sex was
immensely transgressive, and women new to it often felt a sense of shame or
dirtiness. Barney led them into the physical, but so enveloped it in poetry and
mysticism that they relaxed and felt purified by the experience. Today, few
people feel repulsed by their sexual nature, but many are uncomfortable with
their bodies. A purely physical approach will frighten and disturb them.
Instead, make it seem a spiritual, mystical union, and they will take less notice
of your physical manipulations. 23 Master the Art of the Bold Move A moment has
arrived: your victim clearly desires you, but is not ready to admit it openly,
let alone act on it. This is the time to throw aside chivalry, kindness, and
coquetry and to overwhelm with a bold move. Don't give the victim time to
consider the consequences; create conflict, stir up tension, so that the bold
move comes as a great release. Showing hesitation or awkwardness means you are
thinking of yourself, as opposed to being overwhelmed by the victim's charms.
Never hold back or meet the target halfway, under the belief that you are being
correct and considerate: you must be seductive now, not political. One person
must go on the offensive, and it is you. The Perfect Climax T hrough a campaign
of deception-the misleading appearance of a transformation into goodness-the
rake Valmont laid siege to the virtuous young Presidente de Tourvel until the
day came when, disturbed by his confession of love for her, she insisted he
leave the chateau where both of them were staying as guests. He complied. From
Paris, however, he flooded her with letters, describing his love for her in the
most intense terms; she begged him to stop, and once again he complied. Then,
several weeks later, he paid a surprise visit to the chateau. In his company
Tourvel was flushed and jumpy, and kept her eyes averted-all signs of his
effect on her. Again she asked him to leave. What have you to fear? he replied,
I have always done what you have asked, I have never forced myself on you. He
kept his distance and she slowly relaxed. She no longer left the room when he
entered, and she could look at him directly. When he offered to accompany her
on a walk, she did not refuse. They were friends, shesaid. She even put her arm
in his as they strolled, a friendly gesture. One rainy day they could not take
their usual walk. He met her in the hallway as she was entering her room; for
the first time, she invited him in. She seemed relaxed, and Valmont sat near
her on a sofa. He talked of his love for her. She gave the faintest protest. He
took her hand; she left it there and leaned against his arm. Her voice
trembled. She looked at him, and he felt his heart flutter-it was a tender,
loving look. She started to speak-"Well! yes, I . . ."-then suddenly
collapsed into his arms, crying. It was a moment of weakness, yet Valmont held
himself back. Her crying became convulsive; she begged him to help her, to
leave the room before something terrible happened. He did so. The following
morning he awoke to some surprising news: in the middle of the night, claiming
she was feeling ill, Tourvel had suddenly left the chateau and returned home.
Valmont did not follow her to Paris. Instead he began staying up late, and
using no powder to hide the peaked looks that soon ensued. He went to the
chapel every day, and dragged himself despondently around the chateau. He knew
that his hostess would be writing to the Presidente, who would hear of his sad
state. Next he wrote to a church father in Paris, and asked him to pass along a
message to Tourvel: he was ready to change his life for good. He wanted one
last meeting, to say goodbye and to return the letters she had written him over
thelastfew months. The father arranged a It afforded, moreover, another
advantage: that of observing at my leisure her charming face, more beautiful
than ever, as it proffered the powerful enticement of tears. My blood was on
fire, and I was so little in control of myself that I was tempted to make the
most of the occasion. • How weak we must be, how strong the dominion of
circumstance, if even I, without a thought for my plans, could risk losing all
the charm of a prolonged struggle, all the fascination of a laboriously
administered defeat, by concluding a premature victory; if distracted by the
most puerile of desires, I could be willing that the conqueror of Madame de
Tourvel should take nothing for the fruit of his labors but the tasteless
distinction of having added one more name to the roll. Ah, let her surrender,
but let her fight! Let her be too weak to prevail but strong enough to resist;
let her savor the knowledge of her weakness at her leisure, but let her be
unwilling to admit defeat. Leave the humble poacher to kill the stag where he
has surprised it in its hiding place; the true hunter will bring it to bay.
-VICOMTE DEVALMONT, IN CHODERLOS DE LACLOS, DANGEROUS LIAISONS. THE LIBERTINE
READER Don't you know that however willing, however eager we are to give
ourselves, we must nevertheless have an excuse? And is there any more
convenient than an appearance of yielding to force? As for me, I shall admit
that one thing that most flatters me is a lively and well-executed attack, when
everything happens in quick but orderly succession; which never puts us in the
painfully embarrassing position of having to cover up some blunder of which, on
the contrary, we ought to be taking advantage; which keeps up an appearance of
taking by storm even that which we are quite prepared to surrender; and
adroitly flatters our two favorite passions-the pride of defense and the
pleasure of defeat. -MARQUISE DE MERTEUIL IN CHODERLOS DE LACLOS, DANGEROUS
LIAISONS. What sensible man will not intersperse his coaxing \ With kisses?
Even if she doesn't kiss back, \ Still force on regardless! She may struggle,
cry "Naughty!" \ Yet she wants to be overcome. Just meeting, and so,
one late afternoon in Paris, Valmont found himself once again alone with
Tourvel, in a room in her house. The Presidente was clearly on edge; she could
not look him in the eye. They exchanged pleasantries, but then Valmont turned
harsh; she had treated him cruelly, had apparently been determined to make him
unhappy. Well, this was the end, they were separating for good, since that was
how she wanted it. Tourvel argued back: she was a married woman, she had no
choice. Valmont softened his tone and apologized: he was unused to having such
strong feelings, he said, and could not control himself. Still, he would never
trouble her again. Then he laid on a table the letters he had come to return.
Tourvel came closer: the sight of her letters, and the memory of all the
turmoil they represented, affected her powerfully. She had thought his decision
to renounce his libertine way of life was voluntary, she said-with a touch of
bitterness in her voice, as if she resented being abandoned. No, it was not
voluntary, he replied, it was because she had spurned him. Then he suddenly
stepped closer and took her in his arms. She did not resist. "Adorable
woman!" he cried. "You have no idea of the love you inspire. You will
never know how I have worshipped you, how much dearer my feelings have been to
me than life! ... May [your days] be blessed with all of the happiness of which
you have deprived me!" Then he let her go and turned to leave. Tourvel
suddenly snapped. "You shall listen to me. I insist," she said, and
grabbed his arm. He turned around and they embraced. This time he waited no
longer, picking her up, carrying her to anottoman, overwhelming her with kisses
and sweet words of the happiness he now felt. Before this sudden flood of
caresses, all her resistance gave way. "From this moment on I am
yours," she said, "and you will hear neither refusals nor regrets
from my lips." Tourvel was true to her word, and Valmont's suspicions were
to prove correct: the pleasures he won from her were far greater than with any
other woman he had seduced. Interpretation. Valmont-a character in Choderlos de
Laclos's eighteenth- century novel Dangerous Liaisons -can sense several things
about the Presidente at first glance. She is timid and nervous. Her husband
almost certainly treats her with respect-probably too much of it. Beneath her
interest in God, religion, and virtue is a passionate woman, vulnerable to the
lure of a romance and to the flattering attention of an ardent suitor. No one,
not even her husband, has given her this feeling, because they have all been so
daunted by her prudish exterior. Valmont begins his seduction, then, by being
indirect. He knows Tourvel is secretly fascinated with his bad reputation. By
acting as if he is contemplating a change in his life, he can make her want to
reform him-a desire that is unconsciously a desire to love him. Once she has
opened up ever so slightly to his influence, he strikes at her vanity: she has
never felt Master the Art of the Bold Move • 409 desired as a woman, and on
some level cannot help but enjoy his love for her. Of course she struggles and
resists, but that is only a sign that her emotions are engaged. (Indifference
is the single most effective deterrent to seduction.) By taking his time, by
making no bold moves even when he has the opportunity for them, he instills in
her a false sense of security and proves himself by being patient. On what he
pretends is his last visit to her, however, he can sense she is ready-weak,
confused, more afraid of losing the addictive feeling of being desired than of
suffering the consequences of adultery. He deliberately makes her emotional,
dramatically displays her letters, creates some tension by playing a game of
push-and-pull, and when she takes his arm, he knows it is the time to strike.
Now he moves quickly, allowing her no time for doubts or second thoughts. But
his move seems to arise out of love, not lust. After so much resistance and
tension, what a pleasure to finally surrender. The climax now comes as a great
release. Never underestimate the role of vanity in love and seduction. If you
seem impatient, champing at the bit for sex, you signal that it is all about
libido, and that it has little to do with the target's own charms. That is why
you must defer the climax. A lengthier courtship will feed the target's vanity,
and will make the effect of your bold move all the more powerful and enduring.
Wait too long, though-showing desire, but then proving too timid to make your
move-and you will stir up a different kind of insecurity: "You found me
desirable, but you are not acting on your desires; maybe you're not so
interested." Doubts like these affront your target's vanity (if you're not
interested, maybe I'm not so interesting), and are fatal in the latter stages
of seduction; awkwardness and misunderstandings will spring up everywhere. Once
you read in your targets' gestures that they are ready and open-a look in the
eye, mirroring behavior, a strange nervousness in your presence-you must go on
the offensive, make them feel that their charms have unhinged you and pushed
you into the bold move. They will then have the ultimate pleasure: physical
surrender and a psychological boost to their vanity. take care \ Not to bruise
her tender lips with such hard-snatched kisses, \ Don't give her a chance to
protest \ You're too rough. Those who grab their kisses, but not whatfollows, \
Deserve to lose all they've gained. How short were you \ Of the ultimate goal
after all your kissing? That was \ Gaucheness, not modesty, I'm afraid . . . -
OVID, THE ART OF LOVE. I have tested all manner of pleasures, and known every
variety of joy; and I have found that neither intimacy with princes, nor wealth
acquired, nor finding after lacking, nor returning after long absence, nor
security after fear and repose in a safe refuge-none of these things so
powerfully affects the soul as union with the beloved, especially if it come
after long denial and continual banishment. For then the flame ofpassion waxes
exceeding hot, and the furnace of yearning blazes up, and the fire of eager
hope rages ever more fiercely. The more timidity a lover shows with us the more
it concerns our pride to goad him on; the more respect he has for our
resistance, the more respect we demand of him. We would willingly say to you
men: "Ah, in pity's name do not suppose us to be so very virtuous; you are
forcing us to have too much of it." -NINON DE L'ENCLOS Keys to Seduction T
hink of seduction as a world you enter, a world that is separate and distinct
from the real world. The rules are different here; what works in daily life can
have the opposite effect in seduction. The real world fea- - THE RING OF THE
DOVE: A TREATISE ON THE ART AND PRACTICE OF LOVE. I knew once two great lords,
brothers, both of them highly bred and highly accomplished gentlemen which did
love two ladies, but the one of these wasof much higher quality and more
account than the other in all respects. Now being entered both into the chamber
of 410 this great lady, who for the time being was keeping her bed, each did
withdraw apart for to entertain his mistress. The one did converse with the
high-born dame with every possible respect and humble salutation and kissing of
hands, with words of honor and stately compliment, without making ever an
attempt to come near and try to force the place. The other brother, without any
ceremony of words or fine phrases, did take his fair one to a recessed window,
and incontinently making free with her (for he was very strong), he did soon
show her 'twas not his way to love a I'espagnole, with eyes and tricks of face
and words, but in the genuine fashion and proper mode every true lover should
desire. Presently having finished his task, he doth quit the chamber; but as he
goes, saith to his brother, loud enough for his lady to hear the words:
"Do you as I have done, brother mine; else you do naught at all. Be you as
brave and hardy as you will elsewhere, yet if you show not your hardihood here
and now, you are disgraced;for here is no place of ceremony and respect, but
one where you do see your lady before you, which doth but wait your
attack." So with this he did leave his brother, which yetfor that while
did refrain him and put it off to another time. Butfor this the lady did by no
means esteem him more highly, whether it was she did put it down to an
overchilliness in love, or a lack of courage, or a defect of bodily vigor.
-SEIGNEUR DE BRANT6ME, LIVES OF FAIR & GALLANT LADIES tures a
democratizing, leveling impulse, in which everything has to seem at least
something like equal. An overt imbalance of power, an overt desire for power,
will stir envy and resentment; we learn to be kind and polite, at least on the
surface. Even those who have power generally try to act humble and modest-they
do not want to offend. In seduction, on the other hand, you can throw all of
that out, revel in your dark side, inflict a little pain-in some ways be more
yourself. Your naturalness in this respect will prove seductive in itself. The
problem is that after years of living in the real world, we lose the ability to
be ourselves. We become timid, humble, overpolite. Your task is to regain some
of your childhood qualities, to root out all this false humility. And the most
important quality to recapture is boldness. No one is born timid; timidity is a
protection we develop. If we never stick our necks out, if we never try, we
will never have to suffer the consequences of failure or success. If we are
kind and unobtrusive, no one will be offended-in fact we will seem saintly and
likable. In truth, timid people are often self-absorbed, obsessed with the way
people see them, and not at all saintly. And humility may have its social uses,
but it is deadly in seduction. You need to be able to play the humble saint at
times; it is a mask you wear. But in seduction, take it off. Boldness is
bracing, erotic, and absolutely necessary to bring the seduction to its
conclusion. Done right, it tells your targets that they have made you lose your
normal restraint, and gives them license to do so as well. People are yearning
to have a chance to play out the repressed sides of their personality. At the
final stage of a seduction, boldness eliminates any awkwardness or doubts. In a
dance, two people cannot lead. One takes over, sweeping the other along.
Seduction is not egalitarian; it is not a harmonic convergence. Holding back at
the end out of fear of offending, or thinking it correct to share the power, is
a recipe for disaster. This is an arena not for politics but for pleasure. It
can be by the man or woman, but a bold move is required. If you are so
concerned about the other person, console yourself with the thought that the
pleasure of the one who surrenders is often greater than that of the aggressor.
As a young man, the actor Errol Flynn was uncontrollably bold. This often got
him into trouble; he became too aggressive around desirable women. Then, while
traveling through the Far East, he became interested in the Asian practice of
tantric sex, in which the male must train himself not to ejaculate, preserving
his potency and heightening both partners' pleasure in the process. Flynn later
applied this principle to his seductions as well, teaching himself to restrain
his natural boldness and delay the end of the seduction as long as possible.
So, while boldness can work wonders, uncontrollable boldness is not seductive
but frightening; you need to be able to turn it on and off at will, know when
to use it. As in Tantrism, you can create more pleasure by delaying the
inevitable. In the 1720s, the Due de Richelieu developed an infatuation with a
certain duchess. The woman was exceptionally beautiful, and was desired by one
and all, but she was far too virtuous to take a lover, although she Master the
Art of the Bold Move • 411 could be quite coquettish. Richelieu bided his time.
He befriended her, charming her with the wit that had made him the favorite of
the ladies. One night a group of such women, including the duchess, decided to
play a practical joke on him, in which he was to be forced naked out of his
room at the palace of Versailles. The joke worked to perfection, the ladies all
got to see him in his native glory, andhada good chuckle watching him run away.
There were many places Richelieu could have hidden; the place he chose was the
duchess's bedroom. Minutes later he watched her enter and undress, and once the
candles were extinguished, he crept into bed with her. She protested, tried to
scream. He covered her mouth with kisses, and she eventually and happily
relented. Richelieu had decided to make his bold move then for several reasons.
First, the duchess had come to like him, and even to harbor a secret desire for
him. She would never act upon it or admit it, but he was certain it existed.
Second, she had seen him naked, and could not help but be impressed. Third, she
would feel a touch of pity for his predicament, and for the joke played on him.
Richelieu, a consummate seducer, would find no more perfect moment. The bold
move should come as a pleasant surprise, but not too much of a surprise. Learn
to read the signs that the target is falling for you. His or her manner toward
you will have changed-it will be more pliant, with more words and gestures
mirroring yours-yet there will still be a touch of nervousness and uncertainty.
Inwardly they have given in to you, but they do not expect a bold move. This is
the time to strike. If you wait too long, to the point where they consciously
desire and expect you to make a move, it loses the piquancy of coming as a surprise.
You want a degree of tension and ambivalence, so that the move represents a
great release. Their surrender will relieve tension like a long-awaited summer
storm. Don't plan your bold move in advance; it cannot seem calculated. Wait
for the opportune moment, as Richelieu did. Be attentive to favorable
circumstances. This will give you room to improvise and go with the moment,
which will heighten the impression you want to create of being suddenly
overwhelmed by desire. If you ever sense that the victim is expecting the bold
move, take a step back, lull them into a false sense of security, then strike.
Sometime in the fifteenth century, the writer Bandello relates, a young
Venetian widow had a sudden lust for a handsome nobleman. She had her father invite
him to their palace to discuss business, but during the meeting the father had
to leave, and she offered to give the young man a tour of the place. His
curiosity was piqued by her bedroom, which she described as the most splendid
room in the palace, but which she also passed by without letting him enter. He
begged to be shown the room, and she granted his wish. He was spellbound: the
velvets, the rare objets, the suggestive paintings, the delicate white candles.
A beguiling scent filled the room. The widow put out all of the candles but
one, then led the man to the bed, which had been heated with a warming pan. He
quickly succumbed to her caresses. Follow the widow's example: your bold move
should have a theatrical quality to it. That will make it memorable, and make
your aggressiveness seem pleasant. A man should proceed to enjoy any woman when
she gives him an opportunity and makes her own love manifest to him by the
following signs: she calls out to a man without first being addressed by him;
she shows herself to him in secret places; she speaks to him tremblingly and
inarticulately; her face blooms with delight and her fingers or toes perspire;
and sometimes she remains with both hands placed on his body as if she had been
surprised by something, or as if overcome withfatigue. • After a woman has
manifested her love to him by outward signs, and by the motions of her body,
the man should make every possible attempt to conquer her. There should be no
indecision or hesitancy: if an opening is found the man should make the most •
of it. The woman, indeed, becomes disgusted with the man if he is timid about
his chances and throws them away. Boldness is the rule, for everything is to be
gained, and nothing lost. - THE ART OF LOVE The Art of Seduction part of the
drama. The theatricality can come from the setting-an exotic or sensual
location. It can also come from your actions. The widow piqued her victim's
curiosity by creating the suspense about her bedroom. An element of
fear-someone might find you, say-will heighten the tension. Remember: you are
creating a moment that must stand out from the sameness of daily life. Keeping
your targets emotional will both weaken them and heighten the drama of the
moment. And the best way to keep them at an emotional pitch is by infecting
them with emotions of your own. When Valmont wanted the Presidents to become
calm, angry, or tender, he showed that emotion first, and she mirrored it.
People are very susceptible to the moods of those around them; this is
particularly acute at the latter stages of a seduction, when resistance is low
and the target has fallen under your spell. At the point of the bold move,
learn to infect your target with whatever emotional mood you require, as
opposed to suggesting the mood with words. You want access to the target's
unconscious, which is best obtained by infecting them with emotions, bypassing
their conscious ability to resist. It may seem expected for the male to make
the bold move, but history is full of successfully bold females. There are two
main forms of feminine boldness. In the first, more traditional form, the
coquettish woman stirs male desire, is completely in control, then at the last
minute, after bringing her victim to a boil, steps back and lets him make the
bold move. She sets it up, then signals with her eyes, her gestures, that she
is ready for him. Courtesans have used this method throughout history; it is
how Cleopatra worked on Antony, how Josephine seduced Napoleon, how La Belle
Otero amassed a fortune during the Belle Epoque. It lets the man maintain his
masculine illusions, although the woman is really the aggressor. The second
form of feminine boldness does not bother with such illusions: the woman simply
takes charge, initiates the first kiss, pounces on her victim. This is how
Marguerite de Valois, Lou Andreas-Salome, and Madame Mao operated, and many men
find it not emasculating at all but very exciting. It all depends on the
insecurities and proclivities of the victim. This kind of feminine boldness has
its allure because it is more rare than the first kind, but then all boldness
is somewhat rare. A bold move will always stand out compared to the usual
treatment afforded by the tepid husband, the timid lover, the hesitant suitor.
That is how you want it. If everyone were bold, boldness would quickly lose its
allure. Master the Art of the Bold Move • 413 Symbol: The Summer Storm. The hot
days follow one another, with no end in sight. The earth is parched and dry.
Then there comes a stillness in the air, thick and oppressive-the calm before
the storm. Suddenly gusts of wind arrive, and flashes of lightning, exciting
and frightening. Allowing no time to react or runfor shelter, the rain comes,
and brings with it a sense of release. At last. Reversal I f two people come together
by mutual consent, that is not a seduction. There is no reversal. 24 Beware the
Aftereffects Danger follows in the aftermath of a successful seduction. After
emotions have reached a pitch, they often swing in the opposite
direction-toward lassitude, distrust, disappointment. Beware of the long,
drawn-out goodbye; insecure, the victim will cling and claw, and both sides
will suffer. If you are to part, make the sacrifice swift and sudden. If
necessary, deliberately break the spell you have created. If you are to stay in
a relationship, beware a flagging of energy, a creeping familiarity that will
spoil the fantasy. If the game is to go on, a second seduction is required.
Never let the other person take you for granted-use absence, create pain and
conflict, to keep the seduced on tenterhooks. Disenchantment S eduction is a
kind of spell, an enchantment. When you seduce, you are not quite your normal
self; your presence is heightened, you are playing more than one role, you
arestrategicallyconcealing your tics and insecurities. You have deliberately
created mystery and suspense to make the victim experience a real-life drama.
Under your spell, the seduced gets to feel transported away from the world of
work and responsibility. You will keep this going for as long as you want or
can, heightening the tension, stirring the emotions, until the time finally
comes to complete the seduction. After that, disenchantment almost inevitably
sets in. The release of tension is followed by a letdown-of excitement, of energy-that
can even materialize as a kind of disgust directed at you by your victim, even
though what is happening is really a natural emotional course. It is as if a
drug were wearing off, allowing the target to see you as you are-and being
disappointed by the flaws that are inevitably there. On your side, you too have
probably tended to idealize your targets somewhat, and once your desire is
satisfied, you may see them as weak. (After all, they have given in to you.)
You too may feel disappointed. Even in the best of circumstances, you are
dealing now with the reality rather than the fantasy, and the flames will
slowly die down-unless you start up a second seduction. You may think that if
the victim is to be sacrificed, none of this matters. But sometimes your effort
to break off the relationship will inadvertently revivethespellfor the other
person, causing him or her to cling to you tenaciously. No, in either
direction-sacrifice, or the integration of the two of you into a couple-you
must take disenchantment into account. There is an art to the post-seduction as
well. Master the following tactics to avoid undesired aftereffects. Fight
against inertia. The sense that you are trying less hard is often enough to
disenchant your victims. Reflecting back on what you did during the seduction,
they will see you as manipulative: you wanted something then, and so you worked
at it, but now you are taking them for granted. After the first seduction is
over, then, show that it isn't really over-that you want to keep proving
yourself, focusing your attention on them, luring them. That is often enough to
keep them enchanted. Fight the tendency to let things settle into comfort and
routine. Stir the pot, even if that means a In a word, woe to the woman of too
monotonous a temperament; her monotony satiates and disgusts. She is always the
same statue, with her a man is always right. She is so good, so gentle, that
she takes away from people the privilege of quarreling with her, and this is
often such a great pleasure! Put in her place a vivacious woman, capricious,
decided, to a certain limit, however, and things assume a different aspect. The
lover will find in the same personthepleasureofvariety. Temper is the salt, the
quality which prevents it front becoming stale. Restlessness, jealousy,
quarrels, making friends again, spitefulness, all are the food of love.
Enchanting variety? . . . Too constant a peace is productive of a deadly ennui.
Uniformity kills love, for as soon as the spirit of method mingles in an affair
of the heart, the passion disappears, languor supervenes, weariness begins to
wear, and disgust ends the chapter. - NINONDEL'ENCLOS, LIFE, LETTERS AND
EPICUREAN PHILOSOPHY OF NINON DE L'ENCLOS Age cannot wither her, nor custom
stale \ Her infinite variety: other women cloy \ The appetites they feed; but
she makes hungry \ Where most she satisfies. SHAKESPEARE, ANTONY AND CLEOPATRA
Cry hurrah, and hurrah again, for a splendid triumph - \ The quarry I sought
has fallen into my toils. . . . \ Why hurry, young man? Your ship's still in
mid-passage, \ And the harbor I seek is far away \ Through my verses, it's
true, you may have acquired a mistress, \ But that's not enough. If my art \
Caught her, my art must keep her. To guard a conquest's \As tricky as making
it. There was luck in the chase, \ But this task will call for skill. If ever I
needed supportfrom \ Venus and Son, and Erato-the Muse \ Erotic by name - it's
now, for my too-ambitious project\Torelatesometechniquesthatmight restrain \
That fickle young globetrotter, Love. . . . \ To be loved you must show
yourself lovable - \ Something good looks alone \ Can never achieve. You may be
handsome as Homer's Nireus, \ Or young Hylas, snatched by those bad \ Naiads;
but all the same, to avoid a surprise desertion \And keep your girl, it's best
you have gifts of mind \ In addition to physical charms. Beauty's fragile, the
passing \ Years diminish its substance, eat it away. \ Violets and bell-mouthed
lilies do not bloomfor ever, \ Hard thorns are all that's left of the blown
rose. \ So with you, my handsome youth: return to inflicting pain and pulling
back. Never rely on your physical charms; even beauty loses its appeal with
repeated exposure. Only strategy and effort will fight off inertia. Maintain
mystery. Familiarity is the death of seduction. If the target knows everything
about you, the relationship gains a level of comfort but loses the elements of
fantasy and anxiety. Without anxiety and a touch of fear, the erotic tension is
dissolved. Remember: reality is not seductive. Keep some dark corners in your
character, flout expectations, use absences to fragment the clinging,
possessive pull that allows familiarity to creep in. Maintain some mystery or
be taken for granted. You will have only yourself to blame for what follows.
Maintain lightness. Seduction is a game, not a matter of life and death. There
will be a tendency in the "post" phase to take things more seriously
and personally, and to whine about behavior that does not please you. Fight
this as much as possible, for it will create exactly the effect you do not
want. You cannot control the other person by nagging and complaining; it will
make them defensive, exacerbating the problem. You will have more control if
you maintain the proper spirit. Your playfulness, the little ruses you employ
to please and delight them, your indulgence of their faults, will make your
victims compliant and easy to handle. Never try to change your victims;
instead, induce them to follow your lead. Avoid the slow burnout. Often, one person
becomes disenchanted but lacks the courage to make the break. Instead, he or
she withdraws inside. As an absence, this psychological step back may
inadvertently reignite the other person's desire, and a frustrating cycle
begins of pursuit and retreat.Everythingunravels, slowly. Once you feel
disenchanted and know it is over, end it quickly, without apology. That would
only insult the other person. A quick separation is often easier to get over-it
is as if you had a problem being faithful, as opposed to your feeling that the
seduced was no longer being desirable. Once you are truly disenchanted, there
is no going back, so don't hang on out of false pity. It is more compassionate
to make a clean break. If that seems inappropriate or too ugly, then deliberately
disenchant the victim with anti-seductive behavior. Examples of Sacrifice and
Integration 1. In the 1770s, the handsome Chevalier de Belleroche began an
affair with an older woman, the Marquise de Merteuil. He saw a lot of her, but
soon she began to pick quarrels with him. Entranced by her unpredictable Beware
the Aftereffects • 419 moods, he worked hard to please her, showering her with
attention and tenderness. Eventually the quarreling stopped, and as the days
went by, de Belleroche felt confident that Merteuil loved him-until one day,
when he came to visit, and found that she was not at home. Her footman greeted
him at the door, and said he would take the chevalier to a secret house of
Merteuil's outside Paris. There the marquise was waiting for him, in a renewed
mood of coquettishness: she acted as if this were theirfirsttryst.Thechevalier
had never seen her so ardent. He left at daybreak more in love than ever, but a
few days later they quarreled again. The marquise seemed cold after that, and
he saw her flirt with another man at a party. He felt horribly jealous, but as
before, his solution was to become more attentive and loving. This, he thought,
was the way to appease a difficult woman. Now Merteuil had to spend a few weeks
at her country home to handle some business there. She invited de Belleroche to
join her for an extended stay, and he happily agreed, remembering the new life
an earlier stay there had brought to their affair. Once again she surprised
him: her affection and desire to please him were rejuvenated. This time,
though, he did not have to leave the next morning. Days went by, and she
refused to entertain any guests. The world would not intrude on them. And this
time there was no coldness or quarreling, only good cheer and love. Yet now de
Belleroche began to grow a little tired of the marquise. He thought of Paris
and the balls he was missing; a week later he cut short his stay on some
business pretext and hurried back to the city. Somehow the marquise did not
seem so charming anymore. Interpretation. The Marquise de Merteuil, a character
in Choderlos de La- clos's novel Dangerous Liaisons, is a practiced seductress
who never lets her affairs drag on too long. De Belleroche is young and
handsome but that is all. As her interest in him wanes, she decides to bring
him to the secret house to try to inject some novelty into the affair. This
works for a while, but it isn't enough. The chevalier must be gotten rid of.
She tries coldness, anger (hoping to start a fight), even a show of interest in
another man. All this only intensifies his attachment. She can'tjust leave
him-he might become vengeful, or try even harder to win her back. The solution:
she deliberately breaks the spell by overwhelming him with attention.
Abandoning the pattern of alternating warmth with coldness, she acts hopelessly
in love. Alone with her day after day, with no space to fantasize, he no longer
sees her as enchanting and breaks off the affair. This was her goal all along.
If a break with the victim is too messy or difficult (or you lack the nerve),
then do the next best thing: deliberately break the spell that ties him or her
to you. Aloofness or anger will only stir the other person s insecurity,
producing a clinging horror. Instead, try suffocating them with love and
attention: be clinging and possessive yourself, moon over the lover's every
action and character trait, create the sense that this monotonous affection
will soon wrinkles will furrow \ Your body; soon, too soon, your hair turn
gray. \ Then build an enduring mind, add that to your beauty: \ It alone will
last till the flames \ Consume you. Keep your wits sharp, explore the liberal
\Arts, win mastery over Greek \ As well as Latin. Ulysses was eloquent, not
handsome - \ Yet he filled sea-goddesses' hearts \ With aching passion. . . . \
Nothing works on a mood like tactful tolerance: harshness \ Provokes hatred,
makes nasty rows. \ We detest the hawk and the wolf, those natural hunters, \
Always preying on timid flocks; \ But the gentle swallow goes safe from man's
snares, we fashion \ Little turreted houses for doves. \ Keep clear of all
quarrels, sharp- tongued recriminations - \ Love's sensitive, needs to be fed \
With gentle words. Leave nagging to wives and husbands, \ Let them, if they
want, think it a natural law, \A permanent state of feud. Wives thrive on
wrangling, \ That's their dowry. A mistress should always hear \ What she wants
to be told. . . . \ Use tender blandishments, language that caresses \ The ear,
make her glad you came. - OVID, THE ART OF LOVE In Paris the band played a
concert at the Palais Chaleux. They played the first half, and then there was
an hour interval - intermission, we call it - during which there was a fabulous
biffet on a great long table laden with delicious foods and cognac, champagne,
wine and that rarity in Paris . . .Scotch. The people, aristocrats and
servants, some on their hands and knees, were busily searching for something on
the floor. A duchess, who was one of the hostesses, had lost one of her larger
diamonds. . . . The duchess finally got bored seeing people looking all over
the floor for the ring. She looked around haughtily, then took Duke by the arm,
saying, "It doesn't mean anything. I can always get diamonds, but how
often can I get a man like Duke Ellington?" • She disappeared with Duke.
The band started the second half by themselves, and eventually Duke smilingly
reappeared to finish the concert. - DON GEORGE, SWEET MAN: THE REAL DUKE
ELLINGTON I do know, however, that men become bigger-hearted and better lovers
once they get the suspicion that their mistresses care less about them. When a
man believes himself to be the one and only lover in a woman's life, he'll
whistle and go his way. • / ought to know; I have followed this profession for
the last twenty years. If you want me to, I will tell you what happened to me a
few years ago. • At that time I had a steady lover, a certain Demophantos, a
usurer living near Poikile. He had never given me more than five drachmas and
he pretended to be my man. But his love was only superficial, Chrysis. He never
sighed, he never shed tears for me and he never spentthenight waiting at go on
forever. No more mystery, no more coquetry, no more retreats--just endless
love. Few can endure such a threat. A few weeks of it and they will be gone. 2.
King Charles II of England was a devoted libertine. He kept a stable of lovers:
there was always a favorite mistress from the aristocracy, and countless other
less important women. He craved variety. One evening in 1668, the king spent an
evening at the theater, where he conceived a sudden desire for a young actress
called Nell Gwyn. She was pretty and innocent looking (only eighteen at the
time), with a girlish glow in her cheeks, but the lines she recited onstage
were so impudent and saucy. Deeply excited, the king decided he had to have
her. After the performance he took her out for a night of drinking and
merriment, then led her to his royal bed. Nell was the daughter of a
fishmonger, and had begun by selling oranges in the theater. She rose to the
status of actress by sleeping with writers and other theater men. She had no
shame about this. (When a footman of hers got into a fight with someone who
said he worked for a whore, she broke it up by saying, "I am a whore. Find
something better to fight about.") Nell's humor and sass amused the king
greatly, but she was lowborn, and an actress, and he could hardly make her a
favorite. After several nights with "pretty, witty Nell," he returned
to his principal mistress, Louise Keroualle, a well-born Frenchwoman. Keroualle
was a clever seductress. She played hard to get, and made it clear she would
not give the king her virginity until he had promised her a title. It was the
kind of chase Charles enjoyed, and he made her the Duchess of Portsmouth. But
soon her greed and difficultness began to wear on his nerves. To divert
himself, he turned back to Nell. Whenever he visited her, he was royally
entertained with food, drink, and her great good humor. The king was bored or
melancholy? She took him drinking or gambling, or out to the country, where she
taught him to fish. She always had a pleasant surprise up her sleeve. What he
loved most of all was her wit, the way she mocked the pretentious Keroualle.
The duchess had the habit of going into mourning whenever a nobleman of another
country died, as if he were a relation. Nell, too, would show up at the palace
on these occasions dressed in black, and would sorrowfully say that she was
mourning for the "Cham of Tartary" or the "Boog of
Oronooko"-grand relatives of her own. To her face, she called the duchess
"Squintabella" and the "Weeping Willow," because of her
simpering manners and melancholic airs. Soon the king was spending more time
with Nell than with the duchess. By the time Keroualle fell out of favor, Nell
had in essence become the king's favorite, which she remained until his death,
in 1685. Interpretation. Nell Gwyn was ambitious. She wanted power and fame,
but in the seventeenth century the only way a woman could get those Beware the
Aftereffects • 421 things was through a man-and who better than the king? But
to get involved with Charles was a dangerous game. A man like him, easily bored
and in need of variety, would use her for a fling, then find someone else.
Nell's strategy for the problem was simple: she let the king have his other
girls, and never complained. Every time he saw her, though, she made sure he
was entertained and diverted. She filled his senses with pleasure, acting as if
his position had nothing to do with her love for him. Variety in women could
wear on the nerves, tiring a busy king. They all made so many demands. If one
woman could provide the same variety (and Nell, as an actress, knew how to play
different roles), she had a big advantage. Nell never asked for money, so
Charles plied her with wealth. She never asked to be the favorite-how could
she? She was a commoner-but he elevated her to the position. Many of your
targets will be like kings and queens, particularly those who are easily bored.
Once the seduction is over they will notonlyhavetrouble idealizing you, they
may also turn to another man or woman whose unfamiliarity seems exciting and
poetic. Needing other people to divert them, they often satisfy this need
through variety. Do not play into the hands of these bored royals by
complaining, becoming self-pitying, or demanding privileges. That would only
further their natural disenchantment once the seduction is over. Instead, make
them see that you are not the person they thought you were. Make it a
delightful game to play new roles, to surprise them, to be an endless source of
entertainment. It is almost impossible to resist a person who provides pleasure
with no strings attached. When they are with you, keep the spirit light and
playful. Play up the parts of your character they find delightful, but never
let them feel they know you too well. In the end you will control the dynamic,
and a haughty king or queen will become your abject slave. my door. One day he
came to see me, knocked at my door, but I did not open it. You see, 1 had the
painter, Callides, in my room; Collides had given me ten drachmas. Demophantos
swore and beat his fists on the door and left cursing me. Several days passed
without my sendingfor him; Callides was still in my house. Thereupon Demophantos,
who was already quite excited, went wild. He broke open my door,wept, pulled me
about, threatened to kill me, tore my tunic, and did everything, in fact, that
a jealous man would do, and finally presented me with six thousand drachmas. In
consideration of this sum, I was his for a period of eight months. His wife
used to say that I had bewitched him with some powder. That bewitching powder,
to be sure, was jealousy. That is why, Chrysis, I advise you to act likewise
with Corgi as. -LUCIAN, DIALOGUES OF THE COURTESANS.When the greatjazz composer
Duke Ellington came to town, he and his band were always a big attraction, but
especially so for the ladies of the area. They came to hear his music, of
course, but once there they were mesmerized by "the Duke" himself.
Onstage, Ellington was relaxed and elegant, and seemed to be having such a good
time. His face was very handsome, and his bedroom eyes were infamous. (He slept
very little, and his eyes had permanent pouches under them.) After the performance,
some woman would inevitably invite him to her table, another would sneak into
his dressing room, yet another would approach him on his way out. Duke made a
point of being accessible, and when he kissed a woman's hand, his eyes and hers
would meet for a moment. Sometimes she would signal an interest in him, and his
glance in return would say he was more than ready. Sometimes his eyes were the
first to speak; few women could resist that look, even the most happily
married. With the night's music still ringing in her ears, the woman would show
up at Ellington's hotel room. He would be dressed in a stylish suit-he "A
wife is someone on whom one gazes all one's life; yet it is just as well if she
be not beautiful"-so spake Jinta of the Gion. IH is may be the flippant
saying of a go-between, but it is not to be dismissed too lightly. . . .
Besides, it is with beautiful women as with beautiful views: if one is forever
looking at them, one soon tires of their charm. This I can judge from my own
experience. One year I went to Matsushima, and, though at first I was moved by
the beauty of the place and clapped my hands with 422 admiration, saying to
myself, "Oh, if only I could bring some poet here to show him this great
wonder!" - yet, after I had been gazing at the scene from morning until
night, the myriad islands began to smell unpleasantly of seaweed, the waves
that beat on Matsuyama Point became obstreperous; before I knew it I had let
all the cherry blossoms at Shiogama scatter; in the morning I overslept and
missed the dawn snow on Mount Kinka; nor was I much impressed by the evening
moon at Nagane or Oshima; and in the end I picked up a few white and
blackpebbles on the cove and became engrossed in a game of Six Musashi with
some children. -IHARA SAIKAKU, THE UFE OF AN AMOROUS WOMAN. Men despise women who love too much and
unwisely. -LUCIAN, DIALOGUES OF THE COURTESANS.
I shall endeavor briefly to outline to you how a love when gained can be
deepened. They say it can be increased in particular by making it an infrequent
and difficult business for lovers to set eyes on each other, for the greater
the difficulty of offering and receiving shared consolations, the greater
become the desirefor, and feeling of love. Love also grows if one of the lovers
shows anger to the other, for a lover is at once sorely afraid that a partner's
loved good clothes-and the room would be full of flowers; there would be a
piano in the corner. He would play some music. His playing, and his elegant,
nonchalant manner, would come across to the woman as pure theater, a pleasant
continuation of the performance she had just witnessed. And when it was over,
and Ellington had to leave town, he would give her a thoughtful gift. He would
make it seem that the only thing taking him away from her was his touring. A
few weeks later, the woman might hear a new Ellington song on the radio, with
lyrics suggesting that she had inspired it. If ever he passed through the area
again, she would find a way to be there, and Ellington would often renew the
affair, if only for a night. Sometime in the 1940s, two young women from
Alabama came to Chicago to attend a debutante ball. Ellington and his band were
the entertainment. He was the women's favorite musician, and after the show,
they asked him for an autograph. He was so charming and engaging that one of
the girls found herself asking what hotel he was staying at. He told them, with
a big grin. The girls switched hotels, and later that day they called up
Ellington and invited him to their room for a drink. He accepted. They wore
beautiful negligees that they had just bought. When Ellington arrived, he acted
completely naturally, as if the warm greeting they gave him were completely
usual. The three of them ended up in the bedroom, when one of the young women
had an idea: her mother adored Ellington. She had to call her now and put
Ellington on the phone. Not at all put out by the suggestion, Ellington played
along. For several minutes he talked to the mother on the telephone, lavishing
her with compliments on the charming daughter she had raised, and telling her
not to worry-he was taking good care of the girl. The daughter got back on the
phone and said, "We're fine because we're withMr.Ellington and he's such a
perfect gentleman." As soon as she hung up, the three of them resumed the
naughtiness they had started. To the two girls, it later seemed an innocent but
unforgettable night of pleasure. Sometimes several of these far-flung
mistresses would show up at the same concert. Ellington would go up and kiss
each of them four times (a habit of his designed for just this dilemma). And
each of the ladies would assume she was the one with whom the kisses really
mattered. Interpretation. Duke Ellington had two passions: music and women. The
two were interrelated. His endless affairs were a constant inspiration for his
music; he also treated them as if they were theater, a work of art in
themselves. When it came time to separate, he always managed it with a
theatrical touch. A clever remark and a gift would make it seem that for him
the affair was hardly over. Song lyrics referring to their night together would
keep up the aesthetic atmosphere long after he had left town. No wonder women
kept coming back for more. This was not a sexual affair, a tawdry one-nighter,
but a heightened moment in the woman's life. And his carefree attitude made it
impossible to feel guilty; thoughts of one's mother or Beware the Aftereffects
• 423 husband would not spoil the illusion. Ellington was never defensive or
apologetic abouthis appetite for women; it was his nature and never the fault
of the woman that he was unfaithful. And if he could not help his desires, how
could she hold him responsible? It was impossible to hold a grudge against such
a man or complain about his behavior. Ellington was an Aesthetic Rake, a type
whose obsession with women can only be satisfied by endless variety. A normal
man's tomcatting will eventually land him in hot water, but the Aesthetic Rake
rarely stirs up ugly emotions. After he seduces a woman, there is neither an
integration nor a sacrifice. He keeps them hanging and hoping. The spell is not
broken thenext day, because the Aesthetic Rake makes the separation a pleasant,
even elegant experience. The spell Ellington cast on a woman never went away.
The lesson is simple; keep the moments after the seduction and the separation
in the same key as before, heightened, aesthetic, and pleasant. If you do not
act guilty for your feckless behavior, it is hard for the other person to feel
angry or resentful. Seduction is a lighthearted game, in which you invest all
of your energy in the moment. The separation should be lighthearted and stylish
as well: it is work, travel, some dreaded responsibility that calls you away.
Create a memorable experience and then move on, and your victim will most
likely remember the delightful seduction, nottheseparation. You will have made
no enemies, and will have a lifelong harem of lovers to whom you can always
return when you feel so inclined. 4 . In 1899, twenty-year-old Baroness Frieda
von Richthofen married an Englishman named Ernest Weekley, a professor at the
University of Nottingham, and soon settled into the role of the professor's
wife. Weekley treated her well, but she grew bored with their quiet life and
his tepid love- making. On trips home to Germany she had a few love affairs,
but this wasn't what she wanted either, and so she returned to being faithful
and caring for their three children. One day in 1912, a former student of
Weekley's, David Herbert Lawrence, paid a visit to the couple's house. A
struggling writer, Lawrence wanted the professor's professional advice. He was
not home yet so Frieda entertained him. She had never met such an intense young
man. He talked of his impoverished youth, his inability to understand women. And
he listened attentively to her own complaints. He even scolded her for the bad
tea she had made him-somehow, even though she was a baroness, this excited her.
Lawrence returned for later visits, but now to see Frieda, not Weekley. One day
he confessed to her that he had fallen deeply in love with her. She admitted to
similar feelings, and proposed they find a trystingspot.InsteadLawrence had a
proposal of his own: Leave your husband tomorrow-leave him for me. What about
the children? Frieda asked. If the children aremore important than our love,
Lawrence replied, then stay with them. But if you don't run away with me within
a few days, you will never see mewrath when roused may harden indefinitely.
Love again experiences increase when genuine jealousy preoccupies one of the
lovers, for jealousy is called the nurturer of love. In fact even if the lover
is oppressed not by genuine jealousy but by base suspicion, love always
increases because of it, and becomes more powerful by its own strength.
-CAPELLANUS ON LOVE You've seen the fire that smolders \ Down to nothing, grows
a crown of pale ash \ Over its hidden embers (yet a sprinkling of sulphur \
Will suffice to rekindle the flame)? \ So with the heart. It grows torpidfrom
lack of worry, \ Needs a sharp stimulus to elicit love. \ Get her anxious about
you, reheat her tepid passions, \ Tell her your guilty secrets, watch her
blanch. \ Thrice fortunate that man, lucky past calculation, \ Who can make
some poor injured girl \ Torture herself over him, lose voice, go pale, pass
out when \ The unwelcome news reaches her. Ah, may I \ Be the one whose hair
she tears out in her fury, the one whose \ Soft cheeks she rips with her nails,
\ Whom she sees, eyes glaring, through a rain of tears; without whom, \ Try as
she will, she cannot live! \ How long (you may ask) should you leave her
lamenting her wrong? A little \ While only, lest rage gather strength \ Through
procrastination. By then you should have her sobbing \ All over your chest,
your arms tight around her neck. \ You want peace? Give her kisses, make love
to the girl while she's crying - \ That's the only way to melt her angry mood.
- OVIDIO, THE ART OF LOVE. again. To
Frieda the choice was horrific. She did not care at all about her husband, but
the children were what she lived for. Even so, a few days later, she succumbed
to Lawrence's proposal. How could she resist a man who was willing to ask for
so much, to take such a gamble? If she refused she would always wonder, for
such a man only passes once through your life. The couple left England and
headed for Germany. Frieda would mention sometimes how much she missed her
children, but Lawrence had no patience with her: You are free to go back to
them at any moment, he would say, but if you stay, don't look back. He took her
on an arduous mountaineering trip in the Alps. A baroness, she had never
experienced such hardship, but Lawrence was firm: if two people are in love,
why should comfort matter? In 1914, Frieda and Lawrence were married, but over
the following years the same pattern repeated. He would scold her for her
laziness, the nostalgia for her children, her abysmal housekeeping. He would
take her on trips around the world, on very little money, never letting her
settle down, although it was her fondest wish. They fought and fought. Once in
New Mexico, in front of friends, he yelled at her, "Take that dirty
cigarette out of your mouth! And stop sticking out that fat belly of
yours!" "You'd better stop that talk or I'll tell about your things,"
she yelled back. (She had learned to give him a taste of his own medicine.)
They both went outside. Their friends watched, worried it might turn violent.
They disappeared from sight only to reappear moments later, arm in arm,
laughing and mooning over one another. That was the most disconcerting thing
about the Lawrences: married for years, they often behaved like infatuated
newlyweds. Interpretation. When Lawrence first met Frieda, he could sense right
away what herweaknesswas: she felt trapped, in a stultifying relationship and a
pampered life. Her husband, like so many husbands, was kind, but never paid
enough attention to her. She craved drama and adventure, but was too lazy to
get it on her own. Drama and adventure were just what Lawrence would provide.
Instead of feeling trapped, she had the freedom to leave him at any moment.
Instead of ignoring her, he criticized her constantly- at least he was paying
attention, never taking her for granted. Instead of comfort and boredom, he
gave her adventure and romance. The fights he picked with ritualistic frequency
also ensured nonstop drama and the space for a powerful reconciliation. He
inspired a touch of fear in her, which kept her off balance, never quite sure
of him. As a result, the relationship never grew stale. It kept renewing
itself. If it is integration you are after, seduction must never stop.
Otherwise boredom will creep in. And the best way to keep the process going is
often to inject intermittent drama. This can be painful-opening old wounds,
stirring up jealousy, withdrawing a little. (Do not confuse this behavior with
nagging or carping criticism-this pain is strategic, designed to break up rigid
patterns.) On the other hand it can also be pleasant: think about Beware the
Aftereffects • 425 proving yourself all over again, paying attention to nice
little details, creating new temptations. In fact you should mix the two
aspects, for too much pain or pleasure will not prove seductive. You are not
repeating the first seduction, for the target has already surrendered. You are
simply supplying little jolts, little wake-up calls that show two things: you
have not stopped trying, and they cannot take you for granted. The little jolt
will stir up the old poison, stoke the embers, bring you temporarily back to
the beginning, when your involvement had a most pleasant freshness and tension.
Remember: comfort and security are the death of seduction. A shared journey
with a little bit of hardship will do more to create a deep bond than will
expensive gifts and luxuries. The young are right to not care about comfort in
matters of love, and when you return to that sentiment, a youthful spark will
reignite. 5. In 1652, the famous French courtesan Ninon de l'Enclos met and
fell in love with the Marquis de Villarceaux. Ninon was a libertine; philosophy
and pleasure were more important to her than love. But the marquis inspired new
sensations: he was so bold, so impetuous, that for once in her life she let
herself lose a little control. The marquis was possessive, a trait she normally
abhorred. But in him it seemed natural, almost charming: he simply could not
help himself. And so Ninon accepted his conditions: there were to be no other
men in her life. For her part she told him that she would accept no money or
gifts from him. This was to be about love, nothing else. She rented a house
opposite his in Paris, and they saw each other daily. One afternoon the marquis
suddenly burst in and accused her of having another lover. His suspicions were
unfounded, his accusations absurd, and she told him so. This did not satisfy
him, and he stormed out. The next day Ninon received news that he had fallen
quite ill. She was deeply concerned. As a desperate recourse, a sign of her
love and submission, she decided to cut off her beautiful long hair, for which
she was famous, and send it to him. The gesture worked, the marquis recovered,
and they resumed their affair still more passionately. Friends and former
lovers complained of her sudden transformation into the devoted woman, but she
did not care- she was happy. Now Ninon suggested that they go away together.
The marquis, a married man, could not take her to his chateau, but a friend
offered his own in the country as a refuge for the lovers. Weeks became months,
and their little stay turned into a prolonged honeymoon. Slowly, though, Ninon
had the feeling that something was wrong: the marquis was acting more like a
husband. Although he was as passionate as before, he seemed so confident, as if
he had certain rights and privileges that no other man could expect. The
possessiveness that once had charmed her began to seem oppressive. Nor did he
stimulate her mind. She could get other men, and equally handsome ones, to
satisfy her physically without all that jealousy. 426 • The Art of Seduction
Once this realization set in, Ninon wasted no time. She told the marquis that
she was returning to Paris, and that it was over for good. He begged and
pleaded his case with much emotion-how could she be so heartless? Although
moved, Ninon was firm. Explanations would only make it worse. She returned to
Paris and resumed the life of a courtesan. Her abrupt departure apparently
shook up the marquis, but apparently not too badly, for a few months later word
reached her that he had fallen in love with another woman. Interpretation. A
woman often spends months pondering the subtle changes in her lover's behavior.
She might complain or grow angry; she might even blame herself. Under the
weight of her complaints, the man may change for a while, but an ugly dynamic
and endless misunderstandings will ensue. What is the point of all of this?
Once you are disenchanted it is really too late. Ninon could have tried to
figure out what had disenchanted her-the good looks that now bored her, the
lack ofmental stimulation, the feeling of being taken for granted. But why
waste time figuring it out? The spell was broken, so she moved on. She did not
bother to explain, to worry about de Villarceaux's feelings, to make it all
soft and easy for him. She simply left. The person who seems so considerate of
the other, who tries to mend things or make excuses, is reallyjust timid. Being
kind in such matters can be rather cruel. The marquis was able to blame
everything on his mistress's heartless, fickle nature. His vanity and pride
intact, he could easily move on to another affair and put her behind him. Not
only does the long, lingering death of a relationship cause your partner
needless pain, it will have long-term consequences for you as well, making you
more skittish in the future, and weighing you down with guilt. Never feel
guilty, even if you were both the seducer and the one who now feels
disenchanted. It is not your fault. Nothing can last forever. You have created
pleasure for your victims, stirring them out of their rut. If you make a clean
quick break, in the long run they will appreciate it. The more you apologize,
the more you insult their pride, stirring up negative feelings that will
reverberate for years. Spare them the disingenuous explanations that only
complicate matters. The victim should be sacrificed, not tortured. 6. After
fifteen years under the rule of Napoleon Bonaparte, the French were exhausted.
Too many wars, too much drama. When Napoleon was defeated in 1814, and was
imprisoned on the island of Elba, the French were more than ready for peace and
quiet. The Bourbons-the royal family deposed by the revolution of 1789-returned
to power. The king was Louis XVIII; he was fat, boring, and pompous, but at
least there would be peace. Then, in February of 1815, news reached France of
Napoleon's dramatic escape from Elba, with seven small ships and a thousand
men. He Beware the Aftereffects • 427 could head for America, start all over,
but instead he was just crazy enough to land at Cannes. What was he thinking? A
thousand men against all the armies of France? He set off toward Grenoble with
his ragtag army. One at least had to admire his courage, his insatiable love of
glory and of France. Then, too, the French peasantry were spellbound at the
sight of their former emperor. This man, after all, had redistributed a great
deal of land to them, which the new king was trying to take back. They swooned
at the sight of his famous eagle standards, revivals of symbols from the
revolution. They left their fields and joined his march. Outside Grenoble, the
first of the troops that the king sent to stop Napoleon caught up with him.
Napoleon dismounted and walked on foot toward them. "Soldiers of the Fifth
Army Corps!" he cried out. "Don't you know me? If there is one among
you who wishes to kill his emperor, let him come forward and do so. Here I
am!" He threw open his gray cloak, inviting them to take aim. There was a
moment of silence, and then, from all sides, cries rang out of "Vive
l'Empereur!" In one stroke, Napoleon's army had doubled in size. The march
continued. More soldiers, remembering the glory he had given them, changed
sides. The city of Lyons fell without a battle. Generals with larger armies
were dispatched to stop him, but the sight of Napoleon at the head of his
troops was an overwhelmingly emotional experience for them, and they switched
allegiance. King Louis fled France, abdicating in the process. On March 20,
Napoleon reentered Paris and returned to the palace he had left only thirteen
months before-all without having had to fire a single shot. The peasantry and
the soldiers had embraced Napoleon, but Parisians were less enthusiastic,
particularly those who had served in his government. They feared the storms he
would bring. Napoleon ruled the country for one hundred days, until the allies
and his enemies from within defeated him. This time he was shipped off to the
remote island of St. Helena, where he was to die. Interpretation. Napoleon
always thought of France, and his army, as a target to be wooed and seduced. As
General de Segur wrote of Napoleon: "In moments of sublime power, he no
longer commands like a man, but seduces like a woman." In the case of his
escape from Elba, he planned a bold, surprising gesture that would titillate a
bored nation. He began his return to France among the people who would be most
receptive to him: the peasantry who had revered him. He revived the symbols-the
revolutionary colors, the eagle standards-that would stir up the old
sentiments. He placed himself at the head of his army, daring his former
soldiers to fire on him. The march on Paris that brought him back to power was
pure theater, calculated for emotional effect every step of the way. What a
contrast this former amour presented to the dolt of a king who now ruled them.
Napoleon's second seduction of France was not a classical seduction, following
the usual steps, but a re-seduction. It was built on old emotions The Art of
Seduction and revived an old love. Once you have seduced a person (or a nation)
there is almost always a lull, a slight letdown, which sometimes leads to a
separation; it is surprisingly easy, though, to re-seduce the same target. The
old feelings never go away, they lie dormant, and in a flash you can take your
target by surprise. It is a rarepleasuretobe able to relive the past, and one's
youth-to feel the old emotions. Like Napoleon, add a dramatic flair to your
re-seduction: revive the old images, the symbols, the expressions that will
stir memory. Like the French, your targets will tend to forget the ugliness of
the separation and will remember only the good things. You should make this
second seduction bold and quick, giving your targets no time to reflect or
wonder. Like Napoleon, play on the contrast to their current lover, making his
or her behavior seem timid and stodgy by comparison. Not everyone will be
receptive to a re-seduction, and some moments will be inappropriate. When
Napoleon came back from Elba, the Parisians were too sophisticated for him, and
could see right through him. Unlike the peasants of the South, they already
knew him well; and his reentry came too soon, they were too worn out by him. If
you want to re-seduce someone, choose one who does not know you so well, whose
memories of you are cleaner, who is less suspicious by nature, and who is dissatisfied
with present circumstances. Also, you might want to let some time pass. Time
will restore your luster and make your faults fade away. Never see a separation
or sacrifice as final. With a little drama and planning, a victim can be
retaken in no time. Symbol: Embers, the remains of the fire on themorning
after. Left to themselves, the embers will slowly die out. Do not leave the
fire to chance and to the elements. To put it out, douse it, suffocate it, give
it nothing to feed on. To bring it back to life, fan it, stoke it, until it
blazes anew. Only your constant attention and vigilance will keep it burning.
Beware the Aftereffects Reversal T o keep a person enchanted, you will have to
re-seduce them constantly. But you can allow a little familiarity to creep in.
The target wants to feel that he or she is getting to know you. Too much
mystery will create doubt. It will also be tiring for you, who will have to
sustain it. The point is not to remain completely unfamiliar but rather, on
occasion, to jolt victims out of their complacency, surprising them as you
surprised them in the past. Do this right and they will have the delightful
feeling that they are constantly getting to know more about you-but never too
much. A Seductive Environment/Seductive Time In seduction, your victims must
slowly come to feel an inner change. Under your influence, they lower their
defenses, feeling free to act differently, to be a different person. Certain
places, environments, and experiences will greatly aid you in your quest to
change and transform the seduced. Spaces with a theatrical, heightened quality
- opulence, glittering surfaces, a playful spirit-create a buoyant, childlike
feeling that make it hard for the victim to think straight. The creation of an
altered sense of time has a similar effect - memorable, dizzying moments that
stand out, a mood of festival and play. You must make your victims feel that
being with you gives them a different experience from being in the real world.
Festival Time and Place C enturies ago, life in most cultures was filled with
work and routine. But at certain moments in the year, this life was interrupted
by festival. During these festivals-saturnalias of ancient Rome, the maypole
festivals of Europe, the great potlatches of the Chinook Indians-work in the
fields or marketplace stopped. The entire tribe or town gathered in a sacred
space set apart for the festival. Temporarily relieved of duty and
responsibility, people were granted license to run amok; they would wear masks
or costumes, which gave them other identities, sometimes those of powerful
figures reenacting the great myths of their culture. The festival was a
tremendous release from the burdens of daily life. It altered people's sense of
time, bringing moments in which they stepped outside of themselves. Time seemed
to stand still. Something like this experience can still be found in the
world's great surviving carnivals. The festival represented a break in a
person's daily life, aradicallydifferent experience from routine. On a more
intimate level, that is how you must envision your seductions. As the process
advances, your targets experience a radical difference from daily life-a
freedom from work or responsibility. Plunged into pleasure and play, they can
act differently, can become someone else, as if they were wearing a mask. The
time you spend with them is devoted to them and nothing else. Instead of the
usual rotation of work and rest, you are giving them grand, dramatic moments
that stand out. You bring them to places unlike the places they see in daily
life- heightened, theatrical places. Physical environment strongly affects
people's moods; a place dedicated to pleasure and play insinuates thoughts of
pleasure and play. When your victims return to their duties and to the real
world, they feel the contrast strongly and they will start to crave that other
place into which you have drawn them. What you are essentially creating is
festival time and place, moments when the real world stops and fantasy takes
over. Our culture no longer supplies such experiences, and people yearn for
them. That is why almost everyone is waiting to be seduced and why they will
fall into your arms if you play this right. The following are key components to
reproducing festival time and place; Create theatrical effects. Theater creates
a sense of a separate, magical world. The actors' makeup, the fake but alluring
sets, the slightly unreal costumes-these heightened visuals, along with the
story of the play, create illusion. To produce this effect in real life, you
must fashion your clothes, makeup, and attitude to have a playful, artificial,
edge-a feeling that you have dressed for the pleasure of your audience. This is
the goddesslike effect of a Marlene Dietrich, or the fascinating effect of a
dandy like Beau Brum- mel. Your encounters with your targets should also have a
sense of drama, achieved through the settings you choose and through your
actions. The target should not know what will happen next. Create suspense
through twists and turns that lead to the happy ending; you are performing.
Whenever your targets meet you, they are returned to this vague feeling of
being in a play. You both have the thrill of wearing masks, of playing a
different role from the one your life has allotted you. Use the visual language
ofpleasure. Certain kinds of visual stimuli signal that you are not in the real
world. You want to avoid images that have depth, which might provoke thought,
or guilt; instead, you should work in environments that are all surface, full
of glittering objects, mirrors, pools of water, a constant play of light. The
sensory overload of these spaces creates an intoxicating, buoyant feeling. The
more artificial, the better. Show your targets a playful world, full of the
sights and sounds that excite the baby or child within them. Luxury-the sense
that money has been spent or even wasted-adds to the feeling that the real
world of duty and morality has been banished. Call it the brothel effect. Keep
it crowded or close. People crowding together raise the psychological
temperature to hothouse levels. Festivals and carnivals depend on the
contagious feeling a crowd creates. Bring your target to such environments
sometimes, to lower their normal defensiveness. Similarly, any kind of
situation that brings people together in a small space for a long period of
time is extremely conducive to seduction. For years, Sigmund Freud had a small,
tight-knit stable of disciples who attended his private lectures and who
engaged in an astonishing number of love affairs. Either lead the seduced into
a crowded, festivallike environment or go trolling for targets in a closed
world. Manufacture mystical effects. Spiritual or mystical effects distract
people's minds from reality, making them feel elevated and euphoric. From here
it is but a small step to physical pleasure. Use whatever props are at hand-
astrology books, angelic imagery, mystical-sounding music from some far- off
culture. The great eighteenth-century Austrian charlatan Franz Mesmer filled
his salons with harp music, the perfume of exotic incense, and a female voice
singing in a distant room. On the walls he put stained glass and mirrors. His
dupes would feel relaxed, uplifted, and as they sat in the room where he used
magnets for their healing powers, they would feel a kind of spiritual tingling
pass from body to body. Anything vaguely mystical helps block out the real
world, and it is easy to move from the spiritual to the sexual. Distort their
sense of time-speed and youth. Festival time has a kind of speed and frenzy
that make people feel more alive. Seduction should make the heart beat faster,
so that the seduced loses track of time passing. Take them to places of
constant activity and movement. Embark with them on some kind of journey
together, distracting their minds with new sights. Youth may fade and
disappear, but seduction brings the feeling of being young, no matter the age
of those involved. And youth is mostly energy. The pace of the seduction must
pick up at a certain moment, creating a whirling effect in the mind. It is no
wonder that Casanova did much of his seducing at balls, or that the waltz was
the preferred tool of many a nineteenth-century rake. Create moments. Everyday
life is a drudgery in which the same actions endlessly repeat. The festival, on
the other hand, we remember as a moment when everything was transformed-when a
little bit of eternity and myth entered our lives. Your seduction must have
such peaks, moments when something dramatic happens and time is experienced
differently. You must give your targets such moments, whether by staging the
seduction in a place-a carnival, a theater-where they naturally occur or by
creating them yourself, with dramatic actions that stir up strong emotions.
Those moments should be pure leisure and pleasure-no thoughts of work or
morality can intrude. Madame de Pompadour, the mistress of King Louis XV, had
to re-seduce her easily bored lover every few months; intensely creative, she
devised parties, balls, games, a little theater at Versailles. The seduced
revels in affairs like this, sensing the effort you have expended to divert and
enchant them. Scenes from Seductive Time and Place 1. Around the year 1710, a
young man whose father was a prosperous wine dealer in Osaka, Japan, found
himself daydreaming more and more. He worked night and day for his father, and
the burden of family life and all of its duties was oppressive. Like every
young man, he had heard of the pleasure districts of the city-the quarters
where the normally strict laws of the shogunate could be violated. It was here
that you would find the ukiyo, the "floating world"
oftransientpleasures, a place where actors and courte-sans ruled. This was what
the young man was daydreaming about. Biding his time, he managed to find an
evening when he could slip out unnoticed. He headed straight for the pleasure
quarters. This was a cluster of buildings-restaurants, exclusive clubs,
teahouses-that stood out from the rest of the city by their magnificence and
color. The moment the young man stepped into it, he knew he was in a different
world. Actors wandered the streets in elaborately dyed kimonos. They had such
manners and attitudes, as if they were still on stage. The streets bustled with
energy; the pace was fast. Bright lanterns stood out against the night, as did
the colorful posters for the nearby kabuki theater. The women had a completely
different air about them. They stared at him brazenly, acting with the freedom
of a man. He caught sight of an onmgata, one of the men who played female roles
in the theater-a man more beautiful than most women he had seen and whom the
passersby treated like royalty. The young man saw other young men like himself
entering a teahouse, so he followed them in. Here the highest class of
courtesans, the great tayus, plied their trade. A few minutes after the young
man sat down, he heard a noise and bustle, and down the stairs came a few of
the tayus, followed by musicians and jesters.The women's eyebrows were shaved,
replaced by a thick black painted line. Their hair was swept up in a perfect
fold, and he had never seen such beautiful kimonos. The tayus seemed to float
across the floor, using different kinds of steps (suggestive, creeping,
cautious, etc.), depending on whom they were approaching and what they wanted
to communicate to him. They ignored the young man; he had no idea how to invite
them over, but he noticed that some of the older men had a way of bantering
with them that was a language all its own. The wine began to flow, music was
played, and finally some lower-level courtesans came in. By then the young
man's tongue was loosened. These courtesans were much friendlier and the young
man began to lose all track of time. Later he managed to stagger home, and only
the next morning did he realize how much money he had spent. If father ever
found out . . . Yet a few weeks later he was back. Like hundreds of such sons
in Japan whose stories filled the literature of the period, he was on the path
toward squandering his father's wealth on the "floating world." Seduction
is another world into which you initiate your victims. Like the ukiyo, it
depends on a strict separation from the day-to-day world. When your victims are
in your presence, the outside world-with its morality, its
codes,itsresponsibilitiesis banished. Anything is allowed, particularly
anything normally repressed. The conversation is lighter and more suggestive.
Clothes and places have a touch of theatricality. The license exists to act
differently, to be someone else, without any heaviness or judging. It is a kind
of concentrated psychological "floating world" that you create for
the others, and it becomes addictive. When they leave you and return to their
routines, they are doubly aware of what they are missing. The moment they crave
the atmosphere you have created, the seduction is complete. As in the floating
world, money is to be wasted. Generosity and luxury go hand in hand with a
seductive environment. 2. It began in the early 1960s: people would come to
Andy Warhol's New York studio, soak up the atmosphere, and stay awhile. Then in
1963, the artist moved into a new Manhattan space and a member of his entourage
covered some of the walls and pillars in tin foil and spray-painted a brick
wall and other things silver. A red quilted couch in the center, some five-
foot-high plastic candy bars, a turntable that glittered with tiny mirrors, and
helium-filled silver pillows that floated in the air completed the set. Now the
L-shaped space became known as The Factory, and a scene began to develop. More
and more people started showing up-why not just leave the door open, Andy
reasoned, and come what may. During the day, while Andy would work on his
paintings and films, people would gather-actors, hustlers, drug dealers, other
artists. And the elevator would keep groaning all night as the beautiful people
began to make the place their home. Here might be Montgomery Clift, nursing a
drink by himself; over there, a beautiful young socialite chatting with a drag
queen and a museum curator. They kept pouring in, all of them young and
glamorously dressed. It was like one of those children's shows on TV, Andy once
said to a friend, where guests keep dropping in on the endless party and
there's always some new bit of entertainment. And that was indeed what it
seemed like-with nothing serious happening, just lots of talk and flirting and
flashbulbs popping and endless posing, as if everyone were in a film. The
museum curator would begin to giggle like a teenager and the socialite would
flounce about like a hooker. By midnight everyone would be packed together. You
could hardly move. The band would arrive, the light show would begin, and it
would all careen in a new direction, wilder and wilder. Somehow the crowd would
disperse at some point, then in the afternoon it would all start up again as
the entourage trickled back. Hardly anyone went to The Factory just once. It is
oppressivealways to have to act the same way, playing the same boring role that
work or duty imposes on you. People yearn for a place or a moment when they can
wear a mask, act differently, be someone else. That is why we glorify actors;
they have the freedom and playfulness in relation to their own ego that we
would love to have. Any environment that offers a chance to play a different
role, to be an actor, is immensely seductive. It can be an environment that you
create, like The Factory. Or a place where you take your target. In such
environments you simply cannot be defensive; the playful atmosphere, the sense
that anything is allowed (except seriousness), dispels any kind of
reactiveness. Being in such a place becomes a drug. To re-create the effect,
remember Warhol's metaphor of the children's TV show. Keep everything light and
playful, full of distractions, noise, color, and a bit of chaos. No weight,
responsibilities, or judgments. A place to lose yourself in. 3. In 1746, a
seventeen-year-old girl named Cristina had come to the city of Venice, Italy,
with her uncle, a priest, in search of a husband. Cristina was from a small
village but had a substantial dowry to offer. The Venetian men who were willing
to marry her, however, did not please her. So after two weeks of futile
searching, she and her uncle prepared to return to their village. Theywere
seated in their gondola, about to leave the city, when Cristina saw an
elegantly dressed young man walking toward them. "There's a handsome
fellow!" she said to her uncle. "I wish he was in the boat with
us." The gentleman could not have heard this, yet he approached, handed
the gondolier some money, and sat down beside Cristina, much to her delight. He
introduced himself as Jacques Casanova. When the priest complimented him on his
friendly manners, Casanova replied, "Perhaps I should not have been so
friendly, my reverend father, if I had not been attracted by the beauty of your
niece." Cristina told him why they had come to Venice and why they were
leaving. Casanova laughed and chided her-a man cannot decide to marry a girl
after seeing her for a few days. He must know more about her character; it
would take at least six months. He himself was looking for a wife, and he
explained to her why he had been as disappointed by the girls he had met as she
had been disappointed by the men. Casanova seemed to have no destination; he
simply accompanied them, entertaining Cristina the whole way with witty
conversation. When the gondola arrived at the edge of Venice, Casanova hired a
carriage to the nearby city of Treviso and invited them to join him. From there
they could catch a chaise to their village. The uncleaccepted, and on the way
to their carriage, Casanova offered his arm to Cristina. What would his
mistress say if she saw them, she asked. "I have no mistress," he
answered, "and I shall never have one again, for I shall never find such a
pretty girl as you-no, not in Venice." His words went to her head, filling
it with all kinds of strange thoughts, and she began to talk and act in a
manner that was new to her, becoming almost brazen. What a pity she could not
stay in Venice for the six months he needed to get to know a girl, she told
Casanova. Without hesitation he offered to pay her expenses in Venice for that
period while he courted her. On the carriage ride she turned this offer over in
her mind, and once in Treviso she got her uncle alone and begged him to return
to the village by himself, then come back for her in a few days. She was in
love with Casanova; she wanted to know him better; he was a perfect gentleman,
who could be trusted. The uncle agreed to do as she wished. The following day
Casanova never left her side. There was not the slightest hint of disagreement
in his nature. They spent the day wandering around the city, shopping and
talking. He took her to a play in the evening and to the casino after that,
supplying her with a domino and a mask. He gave her money to gamble and she
won. By the time the uncle returned to Treviso, she had all but forgotten about
her marriage plans-all she could think of was the six months she would spend
with Casanova. But she returned to her village with her uncle and waited for Casanova
to visit her. He showed up a few weeks later, bringing with him a handsome
young man named Charles. Alone with Cristina, Casanova explained the situation:
Charles was the most eligible bachelor in Venice, a man who would make a much
better husband than he would. Cristina admitted to Casanova that she too had
had her doubts. He was too exciting, had made her think of other things besides
marriage, things she was ashamed of. Perhaps it was for the better. She thanked
him for taking such pains to find her a husband. Over the next few days Charles
courted her, and they were married several weeks later. The fantasy and allure
of Casanova, however, remained in her mind forever. Casanova could not marry-it
was against everything in his nature. But it was also against his nature to
force himself on a young girl. Better to leave her with the perfect fantasy
image than to ruin her life. Besides, he enjoyed the courting and flirting more
than anything else. Casanova supplied a young woman with the ultimate fantasy.
While he was in her orbit he devoted every moment to her. He never mentioned
work, allowing no boring, mundane details to interrupt the fantasy. And he
added great theater. He wore the most spectacular outfits, full of sparkling
jewels. He led her to the most wonderful entertainments-carnivals, masked
balls, the casinos, journeys with no destination. He was the great master at
creating seductive time and environment. Casanova is the model to aspire to.
While in your presence your targets must sense a change. Time has a different
rhythm-they barely notice its passing. They have the feeling that everything is
stopping for them, just as all normal activity comes to a halt at a festival.
The idle pleasures you provide them are contagious-one leads to another and to
another, until it is too late to turn back. The less you seem to be selling
something-including yourself-the better. By being too obvious in your pitch,
you will raise suspicion; you will also bore your audience, an unforgivable
sin. Instead, make your approach soft, seductive, and insidious. Soft: be
indirect. Create news and eventsfor the media to pick up, spreading your name
in a way that seems spontaneous, not hard or calculated. Seductive: keep it
entertaining. Your name and image are bathed in positive associations; you are
selling pleasure and promise. Insidious: aim at the unconscious, using images
that linger in the mind, placing your message in the visuals. Frame what you
are selling as part of a new trend, and it will become one. It is almost
impossible to resist the soft seduction. The Soft Sell S eduction is the
ultimate form of power. Those who give in to it do so willingly and happily.
There is rarely any resentment on their part; they forgive you any kind of
manipulation because you have brought them pleasure, a rare commodity in the
world. With such power at your fingertips, though, why stop at the conquest of
a man or woman? A crowd, an electorate, a nation can be brought under your sway
simply by applying on a mass level the tactics that work so well on an
individual. The only difference is the goal-not sex but influence, a vote,
people's attention-and the degree of tension. When you are after sex, you
deliberately create anxiety, a touch of pain, twists, and turns. Seduction on
the mass level is more diffuse and soft. Creating a constant titillation, you
fascinate the masses with what you are offering. They pay attention to you
because it is pleasant to do so. Let us say your goal is to sell yourself-as a
personality, a trendsetter, a candidate for office. There are two ways to go:
the hard sell (the direct approach) and the soft sell (the indirect approach).
In the hard sell you state your case strongly and directly, explaining why your
talents, your ideas, your political message are superior to anyone else's. You
tout yourachievements, quote statistics, bring in expert opinions, even go so
far as to induce a bit of fear if the audience ignores your message. The
approach is a tad aggressive and might have unwanted consequences: some people
will be offended, resisting your message, even if what you say is true. Others
will feel you are manipulating them-who can trust experts and statistics, and
why are you trying so hard? You will also grate on people's nerves, becoming
unpleasant to listen to. In a world in which you cannot succeed without selling
to large numbers, the direct approach won't take you far. The soft sell, on the
other hand, has the potential to draw in millions because it is entertaining,
gentle on the ears, and can be repeated without irritating people. The
technique was invented by the great charlatans of seventeenth-century Europe.
To peddle their elixirs and alchemic concoctions, they would first put on a
show-clowns, music, vaudeville- type routines-that had nothing to do with what
they were selling. A crowd would form, and as the audience laughed and relaxed,
the charlatan would come onstage and briefly and dramatically discuss the
miraculous effects of the elixir. By honing this technique, the charlatans
discovered that instead of selling a few dozen bottles of the dubious medicine,
they were suddenly selling scores or even hundreds. In thecenturiessince,
publicists, advertisers, political strategists, and others have taken this
method to new heights, but the rudiments of the soft sell remain the same.
First bring pleasure by creating a positive atmosphere around your name or
message. Induce a warm, relaxed feeling. Never seem to be selling
something-that will look manipulative and suspicious. Instead, let
entertainment value and good feelings take center stage, sneaking the sale
through the side door. And in that sale, you do not seem to be selling yourself
or a particular idea or candidate; you are selling a life-style, a good mood, a
sense of adventure, a feeling of hipness, or a neatly packaged rebellion. Here
are some of the key components of the soft sell. Appear as news, never as
publicity. First impressions are critical. If your audience first sees you in
the context of an advertisement or publicity item, you instantly join the mass
of other advertisements screaming for attention-and everyone knows that
advertisements are artful manipulations, a kind of deception. So, for your
first appearance in the public eye, manufacture an event, some kind of
attention-getting situation that the media will "inadvertently" pick
up as if it were news. People pay more attention to what is broadcast as
news-it seems more real. You suddenly stand out from everything else, if only
for a moment-but that moment has more credibility than hours of advertising
time. The key is to orchestrate the details thoroughly, creating a story with
dramatic impact and movement, tension and resolution. The media will cover it
for days. Conceal your real purpose-to sell yourself-at any cost. Stir basic
emotions. Never promote your message through a rational, direct argument. That
will take effort on your audience's part and will not gain its attention. Aim
for the heart, not the head. Design your words and images to stir basic
emotions-lust, patriotism, family values. It is easier to gain and hold
people's attention once you have made them think of their family, their
children, their future. They feel stirred, uplifted. Now you have their
attention and the space to insinuate your true message. Days later the audience
will remember your name, and remembering your name is half the game. Similarly,
find ways to surround yourself with emotional magnets-war heroes, children,
saints, small animals, whatever it takes. Make your appearance bring these
emotionally positive associations to mind, giving you extra presence. Never let
these associations be defined or created for you, and never leave them to
chance. Make the medium the message. Pay more attention to the form of your
message than to the content. Images are more seductive than words, and
visuals-soothing colors, appropriate backdrop, the suggestion of speed or
movement-should actually be your real message. The audience may focus
superficially on the content or moral you are preaching, but they are really
absorbing the visuals, which get under their skin and stay there longer than
any words or preachy pronouncements. Your visuals should have a hypnotic
effect. They should make people feel happy or sad, depending on what you want
to accomplish. And the more they are distracted by visual cues, the harder it
will be for them to think straight or see through your manipulations. Speak the
target's language-be chummy. At all costs, avoid appearing superior to your
audience. Any hint of smugness, the use of complicated words or ideas, quoting
too many statistics-all that is fatal. Instead, make yourself seem equal to
your targets and on intimate terms with them. You understand them, you share
their spirit, their language. If people are cynical about the manipulations of
advertisers and politicians, exploit their cynicism for your own purposes.
Portray yourself as one of the folk, warts and all. Show that you share your
audience's skepticism by revealing the tricks of the trade. Make your publicity
as down-home and minimal as possible, so that your competitors look
sophisticated and snobby in comparison. Your selective honesty and strategic
weakness will get people to trust you. You are the audience's friend, an
intimate. Enter their spirit and they will relax and listen to you. Start a
chain reaction-everyone is doing it. People who seem to be desired by others
are immediately more seductive to their targets. Apply this to the soft
seduction. You need to act as if you have already excited crowds of people;
your behavior will become a self-fulfilling prophecy. Seem to be in the
vanguard of a trend or life-style and the public will lap you up for fear of
being left behind. Spread your image, with a logo, slogans, posters, so that it
appears everywhere. Announce your message as a trend andit will become one. The
goal is to create a kind of viral effect in which more and more people become
infected with the desire to have whatever you are offering. This is the easiest
and most seductive way to sell. Tell people who they are. It is always unwise
to engage an individual or the public in any kind of argument. They will resist
you. Instead of trying to change people's ideas, try to change their identity,
their perception of reality, and you will have far more control of them in the long
run. Tell them who they are, create an image, an identity that they will want
to assume. Make them dissatisfied with their current status. Making them
unhappy with themselves gives you room to suggest a new life-style, a new
identity. Only by listening to you can they find out who they are. At the same
time, you want to change their perception of the world outside them by
controlling what they look at. Use as many media as possible to create a kind
of total environment for their perceptions. Your image should be seen not as an
advertisement but as part of the atmosphere. Some Soft Seductions 1. Andrew
Jackson was a true American hero. In 1814, in the Battle of New Orleans, he led
a ragtag band of American soldiers against a superior English army and won. He
also conquered Indians in Florida. Jackson's army loved him for his
rough-hewnways: he fed on acorns when there was nothing else to eat, he slept
on a hard bed, he drank hard cider, just hke his men. Then, after he lost or
was cheated out of the presidential election of 1824 (in fact he won the
popular vote, but so narrowly that the election was thrown into the House of
Representatives, which chose John Quincy Adams, after much deal making), he
retired to his farm in Tennessee, where he hved the simple hfe, tilling the
soil, reading the Bible, staying far from the corruptions of Washington. Where
Adams had gone to Harvard, played billiards, drunk soda water, and rehshed
European finery, Jackson, hke many Americans of the time, had been raised in a
log cabin. He was an uneducated man, a man of the earth. This, at any rate, was
what Americans read in their newspapers in the months after the controversial
1824 election. Spurred on by these articles, people in taverns and halls across
the country began talking of how the war hero Andrew Jackson had been wronged,
how an insidious aristocratic elite was conspiring to take over the country. So
when Jackson declared that he would run again against Adams in the presidential
election of 1828-but this time as the leader of a new organization, the
Democratic Party-the public was thrilled. Jackson was the first major political
figure to have a nickname. Old Hickory, andsoon Hickory clubs were sprouting up
in America's towns and cities. Their meetings resembled spiritual revivals. The
hot-button issues of the day were discussed (tariffs, the abolition of
slavery), and club members felt certain that Jackson was on their side. It was
hard to know for sure-he was a little vague on the issues-but this election was
about something larger than issues: it was about restoring democracy and
restoring basic American values to the White House. Soon the Hickory clubs were
sponsoring events hke town barbecues, the planting of hickory trees, dances
around a hickory pole. They organized lavish public feasts, always including
large quantities of liquor. In the cities there were parades, and these were
stirring events. They often took place at night so that urbanites would witness
a procession of Jackson supporters holding torches. Others would carry colorful
banners with portraits of Jackson or caricatures of Adams and slogans
ridiculing his decadent ways. And everywhere there was hickory-hickory sticks,
hickory brooms, hickory canes, hickory leaves in people's hats. Men on
horseback would ride through the crowd, spurring people into
"huzzahs!" for Jackson. Others would lead the crowd in songs about
Old Hickory. The Democrats, for the first time in an election, conducted
opinion polls, finding out what the common man thought about the candidates.
These polls were published in the papers, and the overwhelming conclusion was
that Jackson was ahead. Yes, a new movement was sweeping the country. It all
came to a head when Jackson made a personal appearance in New Orleans as part
of a celebration commemorating the battle he had fought so bravely there
fourteen years earlier. This was unprecedented: no presidential candidate had
ever campaigned in person before, and in fact such an appearance would have
been considered improper. But Jackson was a new kind of politician, a true man
of the people. Besides, he insisted that his purpose for the visit was
patriotism, not politics. The spectacle was unforgettable-Jackson entering New
Orleans on a steamboat as the fog lifted, cannon fire ringing out from all
sides, grand speeches, endless feasts, a kind of mass delirium taking over the
city. One man said it was "like a dream. The world has never witnessed so
glorious, so wonderful a celebration-never have gratitude and patriotism so
happily united." This time the will of the people prevailed. Jackson was
elected president. And it was not one region that brought him victory: New
Englanders, Southerners, Westerners, merchants, farmers, and workers were all
infected with the Jackson fever. Interpretation. After the debacle
of1824,Jackson and his supporters were determined to do things differently in
1828. America was becoming more diverse, developing populations of immigrants.
Westerners, urban laborers, and so on. To win a mandate Jackson would have to
overcome new regional and class differences. One of the first and most
important steps his supporters took was to found newspapers all around the
country. While he himself seemed to have retired from public life, these papers
promulgated an image of him as the wronged war hero, the victimized man of the
people. In truth, Jackson was wealthy, as were all of his major backers. He
owned one of the largest plantations in Tennessee, and he owned many slaves. He
drank more fine liquor than hard cider and slept on a soft bed with European
linens. And while he might have been uneducated, he was extremely shrewd, with
a shrewdness built on years of army combat. The image of the man of the earth
disguised all this, and, once it was established, it could be contrasted with
the aristocratic image of Adams. In this way Jackson's strategists covered up
his political inexperience and made the election turn on questions of character
and values. Instead of political issues they raised trivial matters like
drinking habits and church attendance. To keep up the enthusiasm they staged
spectacles that seemed to be spontaneous celebrations but in fact were
carefully choreographed. The support for Jackson seemed to be a movement, as
evidenced (and advanced) by the opinion polls. The event in New Orleans-hardly
nonpolitical, and Louisiana was a swing state-bathed Jackson in an aura of
patriotic, quasireligious grandeur. Society has fractured into smaller and
smaller units. Communities are less cohesive; even individuals feel more inner
conflict. To win an election or to sell anything in large numbers, you have to
paper over these differences somehow-you have to unify the masses. The only way
to accomplish this is to create an inclusive image, one that attracts and
excites people on a basic, almost unconscious level. You are not talking about
the truth, or about reality; you are forging a myth. Myths create
identification. Build a myth about yourself and the common people will identify
with your character, your plight, your aspirations, just as you identify with
theirs. This image should include your flaws, highlight the fact that you are
not the best orator, the most educated man, the smoothest politician. Seeming
human and down to earth disguises the manufactured quality of your image. To
sell this image you need to have the proper vagueness. It is not that you avoid
talk of issues and details-that will make you seem insubstantial-but that all
your talk of issues is framed within the softer context of character, values,
and vision. You want to lower taxes, say, because it will help families-and you
are a family person. You must not only be inspiring but also entertaining-that
is a popular, friendly touch. This strategy will infuriate your opponents, who
will try to unmask you, reveal the truth behind the myth; but that will only
make them seem smug, overserious, defensive, and snobbish. That now becomes
part of their image, and it will help sink them. 2. On Easter Sunday, March 31,
1929, New York churchgoers began to pour onto Fifth Avenue after the morning
service for the annual Easter parade. The streets were blocked off, and as had
been the custom for years, people were wearing their finest outfits, women in
particular showing off the latest in spring fashions. But this year the
promenaders on Fifth Avenue noticed something else. Two young women were coming
down the steps of Saint Thomas's Church. At the bottom they reached into their
purses, took out cigarettes-Lucky Strikes-and lit up. Then they walked down the
avenue with their escorts, laughing and puffing away. A buzz went through the
crowd. Women had only recently begun smoking cigarettes, and it was considered
improper for a lady to be seen smoking in the street. Only a certain kind of
woman would do that. These two, however, were elegant and fashionable. People
watched them intently, and were further astounded several minutes later when
they reached the next church along the avenue. Here two more young
ladies-equally elegant and well bred-left the church, approached the two
holding cigarettes, and, as if suddenly inspired to join them, pulled out Lucky
Strikes of their own and asked for a light. Now the four women were marching
together down the avenue. They were steadily joined by more, and soon ten young
women were holding cigarettes in public, as if nothing were more natural.
Photographers appeared and took pictures of this novel sight. Usually at the
Easter parade, people would have been whispering about a new hat style or the
new spring color. This year everyone was talking about the daring young women
and their cigarettes. The next day, photographs and articles appeared in the
papers about them. A United Press dispatch read, "Just as Miss Federica
Freylinghusen, conspicuous in a tailored outfit of dark grey, pushed her way
thru thejam in front of St. Patrick's, Miss Bertha Hunt and six colleagues
struck another blow in behalf of the liberty of women. Down Fifth Avenue they
strolled, puffing at cigarettes. Miss Hunt issued the following communique from
the smoke-clouded battlefield: 'I hope that we have started something and that
these torches of freedom, with no particular brand favored, will smash the
discriminatory taboo on cigarettes for women and that our sex will go on
breaking down all discriminations.' " The story was picked up by
newspapers around the country, and soon women in other cities began to light up
in the streets. The controversy raged for weeks, some papers decrying this new
habit, others coming to the women's defense. A few months later, though, public
smoking by women had become a socially acceptable practice. Few people bothered
to protest it anymore. Interpretation. In January 1929, several New York
debutantes received the same telegram from a Miss Bertha Hunt: "In the
interests of equality of the sexes ... I and other young women will light
another torch of freedom by smoking cigarettes while strolling on Fifth Avenue
Easter Sunday." The debutantes who ended up participating met beforehand
in the office where Hunt worked as a secretary. They planned what churches to
appear at, how to link up with each other, all the details. Hunt handed out
packs of Lucky Strikes. Everything worked to perfection on the appointed day.
Little did the debutantes know, though, that the whole affair had been
masterminded by a man-Miss Hunt's boss, Edward Bemays, a public relations
adviser to the American Tobacco Company, makers of Lucky Strike. American
Tobacco had been luring women into smoking with all kinds of clever ads, but
the consumption was limited by the fact that smoking in the street was
considered unladylike. The head of American Tobacco had asked Bemays for his
help and Mr. Bemays had obliged him by applying a technique that was to become
his trademark: gain public attention by creating an event that the media would
cover as news. Orchestrate every detail but make them seem spontaneous. As more
people heard of this "event," it would spark imitative behavior-in
this case more women smoking in the streets. Bernays, a nephew of Sigmund Freud
and perhaps the greatest public relations genius of the twentieth century,
understood a fundamental law of any kind of sell. The moment the targets know
you are after something-a vote, a sale-they become resistant. But disguise your
sales pitch as a news event and not only will you bypass their resistance, you
can also create a social trend that does the selling for you. To make this
work, the event you set up must stand out from all the other events that are
covered by the media, yet it cannot stand out too far or it will seem
contrived. In the case of the Easter parade, Bemays (through Bertha Hunt) chose
women who would seem elegant and proper evenwith their cigarettes in their
hands. Yet in breaking a social taboo, and doing so as a group, such women
would create an image so dramatic and startling that the media would be unable
to pass it up. An event that is picked up by the news has the imprimatur of
reality. It is important to give this manufactured event positive associations,
as Bemays did in creating a feeling of rebellion, of women banding together.
Associations that are patriotic, say, or subtly sexual, or spiritual-anything
pleasant and seductive-take on a life of their own. Who can resist? People
essentially persuade themselves to join the crowd without even realizing that a
sale has taken place. The feeling of active participation is vital to
seduction. No one wants to feel left out of a growing movement. 3. In the
presidential campaign of 1984, President Ronald Reagan, running for reelection,
told the public, "It's morning again in America." His presidency, he
claimed, had restored American pride. The recent, successful Olympics in Los
Angeles were symbolic of the country's return to strength and confidence. Who
could possibly want to turn the clock back to 1980, which Reagan's predecessor,
Jimmy Carter, had termed a time of malaise? Reagan's Democratic challenger,
Walter Mondale, thought Americans had had enough of the Reagan soft touch. They
were ready for honesty, and that would be Mondale's appeal. Before a nationwide
television audience, Mondale declared, "Let's tell the truth. Mr. Reagan
will raise taxes, and so will I. He won't tell you. I just did." He
repeated this straightforward approach on numerous occasions. By October his
poll numbers had plunged to all-time lows. The CBS News reporter Lesley Stahl
had been covering the campaign, and as Election Day neared, she had an uneasy
feeling. It wasn't so much that Reagan had focused on emotions and moods rather
than hard issues. It was more that the media was giving him a free ride; he and
his election team, she felt, were playing the press like a fiddle. They always
managed to get him photographed in the perfect setting, looking strong and
presidential. They fed the press snappy headlines along with dramatic footage
of Reagan in action. They were putting on a great show. Stahl decided to
assemble a news piece that would show the public how Reagan used television to
cover up the negative effects of his policies. The piece began with a montage
of images that his team had orchestrated over the years: Reagan relaxing on his
ranch in jeans; standing tall at the Normandy invasion tribute in Lrance;
throwing a football with his Secret Service bodyguards; sitting in an
inner-city classroom. . . . Over these images Stahl asked, "How does
Ronald Reagan use television? Brilliantly. He's been criticized as the rich
man's president, but the TV pictures say it isn't so. At seventy-three, Mr.
Reagan could have an age problem. But the TV pictures say it isn't so.
Americans want to feel proud of their country again, and of their president.
And the TV pictures say you can. The orchestration of television coverage
absorbs the White House. Their goal? To emphasize the president's greatest
asset, which, his aides say, is his personality. They provide pictures of him
looking like a leader. Confident, with his Marlboro man walk." Over images
of Reagan shaking hands with handicapped athletes in wheelchairs and cutting
the ribbon at a new facility for seniors, Stahl continued, "They also aim
to erase the negatives. Mr. Reagan tried to counter the memory of an unpopular
issue with a carefully chosen backdrop that actually contradicts the
president's policy. Look at the handicapped Olympics, or the opening ceremony
of an old-age home. No hint that he tried to cut the budgets for the disabled
and for federally subsidized housing for the elderly." On and on went the
piece, showing the gap between the feelgood images that played on the screen
and the reality of Reagan's actions. "President Reagan," Stahl concluded,
"is accused of running a campaign in which he highlights the images and
hides from the issues. But there's no evidence that the charges will hurt him
because when people see the president on television, he makes them feel good,
about America, about themselves, and about him." Stahl depended on the
good will of the Reagan people in covering the White House, but her piece was
strongly negative, so she braced herself for trouble. Yet a senior White House
official telephoned her that evening: "Great piece," he said.
"What?" asked a stunned Stahl. "Greatpiece," he repeated.
"Did you listen to what I said?" she asked. "Lesley, when you're
showing four and a half minutes of great pictures of Ronald Reagan, no one
listens to what you say. Don't you know that the pictures are overriding your
message because they conflict with your message? The public sees those pictures
and they block your message. They didn't even hear what you said. So, in our
minds, it was a four-and-a-half-minute free ad for the Ronald Reagan campaign
for reelection." Interpretation. Most of the men who worked on
communications for Reagan had a background in marketing. They knew the
importance of telling a story crisply, sharply, and with good visuals. Each
morning they went over what the headline of the day should be, and how they
could shape this into a short visual piece, getting the president into a video
opportunity. They paid detailed attention to the backdrop behind the president
in the Oval Office, to the way the camera framed him when he was with other
world leaders, and to having him filmed in motion, with his confident walk. The
visuals carried the message better than any words could do. As one Reagan
official said, "What are you going to believe, the facts or your
eyes?" Free yourself from the need to communicate in the normal direct
manner and you will present yourself with greater opportunities for the soft
sell. Make the words you say unobtrusive, vague, alluring. And pay much greater
attention to your style, the visuals, the story they tell. Convey a sense of
movement and progress by showing yourself in motion. Express confidence not
through facts and figures but through colors and positive imagery, appealing to
the infant in everyone. Let the media cover you unguided and you are at their
mercy. So turn the dynamic around-the press needs drama and visuals? Provide
them. It is fine to discuss issues or "truth" as long as you package
it entertainingly. Remember: images linger in the mind long after words are
forgotten. Do not preach to the public-that never works. Learn to express your
message through visuals that insinuate positive emotions and happy feelings. 4.
In 1919, the movie press agent Harry Reichenbach was asked to do advance
publicity for a picture called The Virgin ofStamboul. It was the usual romantic
potboiler in an exotic locale, and normally a publicist would mount a campaign
with alluring posters and advertisements. But Harry never operated the usual
way. He had begun his career as a carnival barker, and there the only way to
get the public into your tent was to stand out from the other barkers. So Harry
dug up eight scruffy Turks whom he found living in Manhattan, dressed them up
in costumes (flowing sea-green trousers, gold-crescented turbans) provided by
the movie studio, rehearsed them in every line and gesture, and checked them
into an expensive hotel. Word quickly spread to the newspapers (with a little
help from Harry) that a delegation of Turks had arrived in New York on a secret
diplomatic mission. Reporters converged on the hotel. Since his appearance in
New York was clearly no longer a secret, the head of the mission, "Sheikh
Ali Ben Mohammed," invited them up to his suite. The newspapermen were
impressed by the Turks' colorful outfits, salaams, and rituals. The sheikh then
explained why he had come to New York. A beautiful young woman named Sari,
known as the Virgin of Stamboul, had been betrothed to the sheikh's brother. An
American soldier passing through had fallen in love with herandhad managed to
steal her from her home and take her to America. Her mother had died from
grief. The sheikh had found out she was in New York, and had come to bring her
back. Mesmerized by the sheikh's colorful language and by the romantic tale he
told, the reporters filled the papers with stories of the Virgin of Stamboul
for the next several days. The sheikh was filmed in Central Park and feted by
the cream of New York society. Linally "Sari" was found, and the
press reported the reunion between the sheikh and the hysterical girl (an
actress with an exotic look). Soon after. The Virgin of Stamboul opened in New
York. Its story was much like the "real" events reported in the
papers. Was this a coincidence? A quickly made film version of the true story?
No Appendix B: Soft Seduction: How to Sell Anything to the Masses one seemed to
know, but the public was too curious to care, and The Virgin ofStamboulbroke
box office records.A year later Harry was asked to publicize a film called The
Forbidden Woman. It was one of the worst movies he had ever seen. Theater
owners had no interest in showing it. Harry went to work. For eighteen days
straight he ran an ad in all of the major New York newspapers: WATCH THE SKY ON
THE NIGHT OF FEBRUARY 21ST! IF H IS GREEN-GO THE CAPITOL IF IT ISRED-GO THE
RIVOLI IF IT IS PINK-GO TO THE STRAND IF IT IS BLUE- GO TO THE RIALTO FOR ON
FEBRUARY 21ST THE SKY WILL TELL YOU WHERE THE BEST SHOW IN TOWN CAN BE SEEN!
(The Capitol, the Rivoli, the Strand, and the Rialto were the four big
first-run movie houses on Broadway.) Almost everyone saw the ad and wondered
what this fabulous show was. The owner of the Capitol asked Harry if he knew
anything about it, and Harry let him in on the secret: it was all a publicity
stunt for an unbooked picture. The owner asked to see a screening of The
Forbidden Woman; through most of the film, Harry yakked about the publicity
campaign, distracting the man from the dullness onscreen. The theater owner
decided to show the film for a week, and so, on the evening of February 21, as
a heavy snowstorm blanketed the city and all eyes turned to the sky, giant rays
of light poured out from the tallest buildings-a brilliant show of green. An
enormous crowd flocked to the Capitol theater. Those who did not get in kept
coming back. Somehow, with a packed house and an excited crowd, the film did
not seem quite so bad. The following year Harry was asked to publicize a
gangster picture called Outside the Law. On high-ways across the country he set
up billboards that read, in giant letters, if you dance on Sunday, you are
outside the LAW. On other billboards the word "dance" was replaced by
"play golf' or "play pool" and so on. On a top corner of the
billboards was a shield bearing the initials "PD." The public assumed
this meant "police department" (actually, it stood for Priscilla
Dean, the star of the movie) and that the police, backed by religious
organizations, were prepared to enforce decades-old blue laws prohibiting
"sinful" activities on a Sunday. Suddenly a controversy was sparked.
Theater owners, golfing associations, and dance organizations led a
countercampaign against the blue laws; they put up their own billboards,
exclaiming that if you did those things on Sunday, you were not "OUTSIDE
THE LAW" and issuing a call for Americans to have some fun in their lives.
For weeks the words "Outside the Law" were everywhere seen and
everywhere on people's lips. In the midst of this the film opened-on a
Sunday-in four New York theaters simultaneously, something that had never
happened before. And it ran for months throughout the country, also on Sundays.
It was one of the big hits of the year. Interpretation. Harry Reichenbach,
perhaps the greatest press agent in movie history, never forgot the lessons he
had learned as a barker. The carnival is full of bright lights, color, noise,
and the ebb and flow of the crowd. Such environments have profound effects on
people. A clearheaded person could probably tell that the magic shows are fake,
the fierce animals trained, the dangerous stunts relatively safe. But people
want to be entertained; it is one of their greatest needs. Surrounded by color
and excitement, they suspend their disbelief for a while and imagine that the
magic and danger are real. They are fascinated by what seems to be both fake
and real at the same time. Harry's publicity stunts merely re-created the
carnival on a larger scale. He pulled people in with the lure of colorful
costumes, a great story, irresistible spectacle. He held their attention with
mystery, controversy, whatever it took. Catching a kind of fever, as they would
at the carnival, they flocked without thinking to the films he publicized. The
lines between fiction and reality, news and entertainment are even more blurred
today than in Harry Reichenbach's time. What opportunities that presents for soft
seduction! The media is desperate for events with entertainment value, inherent
drama. Feed that need. The public has a weakness for what seems both realistic
and slightly fantastical-for real events with a cinematic edge. Play to that
weakness. Stage events the way Bemays did, events the media can pick up as
news. But here you are not starting a social trend, you areaftersomething more
short term: to win people's attention, to create a momentary stir, to lure them
into your tent. Make your events and publicity stunts plausible and somewhat
realistic, but make their colors a little brighter than usual, the characters
larger than life, the drama higher. Provide an edge of sex and danger. You are
creating a confluence of real life and fiction-the essence of any seduction. It
is not enough, however, to win people's attention: you need to hold it long
enough to hook them. This can always be done by sparking controversy, the way
Harry liked to stir up debates about morals. While the media argues about the
effect you are having on people's values, it is broadcasting your name
everywhere and inadvertently bestowing upon you the edge that will make you so
attractive to the public. Selected Bibliography Baudrillard, Jean. Seduction.
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Rakes, 423 Aga Khan III, 313 aggressive attention, 257 Aging Babies, 156-57
Agnelli, Gianni, 273 Alberoni, Francesco, 205 Albert, Prince of Monaco, 396,
397 Alcibiades, 46-47, 48, 74-76, 191-92, 243-44 Alexander I, Czar of Russia,
216-17 AlyKhan, Prince, 313-15, 317 American Tobacco Company, 448-50 Amoves, The
(Ovid), 253-54, 331, 351-52 Andreas Capellanus, 134-35, 324, 422-23
Andreas-Salome, Lou, 45-47, 50, 52, 76, 154, 197-99, 227, 357, 390, 412 anger,
8, 9, 69, 76, 374 Anger, Kenneth, 50 Anne of Austria, 355 Anti-Seducers, xxiv,
3-4, 49, 65, 131-45, 155 aggressive attention of, 257 arguing by, 260 brutes,
134, 137-38 bumblers, 135, 138-40 complaining by, 135, 293, 378, 418, 421 crab
as symbol of, 144 defensiveness in, 57 as deliberate disenchantment, 415,
418-20 disengagement from, 145 doormats, 134 examples of, 136-44 excessive
pride in, 142 greed in, 142-43 impatience in, 134, 137-38 inattentiveness of,
136-37, 145 insecurity of, 131, 133, 138, 142 judgmentalism in, 133, 134
moralizers, 134, 143-44 neediness in, 59, 74, 75, 134, 293 perfectionistic
dissatisfaction in, 140-41 reactors, 135 self-absorption in, 75, 131, 133, 137,
138, 140 self-awareness lacked by, 131 self-consciousness of, 135, 138-40
suffocators, 134 tightwads, 134-35 types of, 133-36 ulterior motives in, 142-43
ungenerosity of, 133, 134-35 uses of, 145 vulgarians, 135-36 windbags, 135, 145
Antony and Cleopatra (Shakespeare), 267-68, 418 anxiety and discontent,
inducement of, 203-10, 236, 255, 376-77, 378, 418 Cupid's arrow as symbol of,
210 deceptive appearances and, 207 exotic stranger as, 208-9 lost ideals in,
203, 209-10 missing qualities in, 207, 208-9 personal criticism in, 205-7, 208,
209, 210, 423, 424 by politicians, 209-10 reversal of, 210 strategic withdrawal
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259, 269, 283, 403 Apollo, 55-58 Ardent Rakes, 19-21 arguing, 257, 260, 445
Aristophanes, 47, 207 armed prophets, 118 Arthur, King, 329 Art of Love, The
(Ovid), xx, xxii, xxiv, 81-82, 135-36, 179, 221, 255, 279-80, 323, 371-72, 397,
408-9, 418-19, 423-44 As You Like It (Shakespeare), 50 Index Athene, 9-11
attention, aggressive, 257 attention, focused, 33, 273, 417 of Charmers, 79,
81-82, 86, 87 in mirroring, 226 physical lures and, 401-2 Auguste, Prince of
Prussia, 187-88 authentic animals, charismatic, 104-5 Bacall, Lauren, 14 Baker,
Josephine, 50, 61-63, 66 calculated surprise by, 248 French mirrored by, 225
banal conversation, 183 Bank, The, 58 Barbey dAurevilly, Jules-Amedee, 49
Barney, Natalie, xxiv, xxv, 154, 317, 323 spiritual lures of, 361-63, 364,
365-66, 404 Barrymore, John, 109 Bataille, Georges, 374-75 Bathsheba, xix, 237
, Charles Pierre, 14, 46, 170, 314-15, 354, 401-2 strategic withdrawal by,
385-88 Baudrillard, Jean, xxiii, 9, 126-27, 288,385 , 156 Belleroche, Maud de,
243-44 Bjerre, Poul, 47 Angel, The (Mann), 340-43 Boccaccio, Giovanni, 214-17,
233-37, 362-67 bold moves, 405-13 bracing effect of, 410 , 412 humility vs.,
409-10 indirect approach preceding, 407-9 infecting with emotions in, 412
opportune moment for, 410-1 1 as pleasant surprise, 411 reversal of, 413 signs
of readiness for, 408, 409, 411,412 summer storm as symbol of, 413
theatricality of, 411-12 vanity and, 408-9 , Lucien, 187 , Napoleon, see
Napoleon , Emperor of France Bonaparte, Pauline, 14, 200, 297-99, 304-5, 326-27
Book of Laughter and Forgetting, The (Kundera), 66 Bourdon, David, 33-34 ,
Bernard, 173-74, -300, 304 Brantome, Seigneur de, 139-41, 268-69, 290-92,
409-10 breakups, 369, 378 see also disenchantment Brent, Harrison, 297-99
Brummel, George "Beau," 48-49, 52, 192, 434 , anti-seductive, 134,
137-38 Buckingham, George Villiers, Duke , 66, 235, 346-48, 355 bumblers,
anti-seductive, 135, 138-40 Bunuel, Luis, 373 Butler, Samuel, 81 Byron, George
Gordon, Lord, 26, 70, 153, 304 disarming weaknesses of, 290, 291
"honest" confessions of, 284 taboos transgressed by, 351-54, ,357
Caesar, Julius, xix, 7-8, 12, 13, 208, ,317 calculated absences, 288, 390, 392,
,418 in pain mixed with pleasure, 372, calculated effects, 188, 190, 289 -46 in
re-seduction, 420-21 reversal of, 249 , Emperor of Rome, 136 Camus, Albert, 83
, Jules de, 326-27 Capote, Truman, 71 , Angela, 281 Carter, Jimmy, 202
Casanova, Giovanni Giacomo, xx, xxii, xxiv, 31-33, 36, 128, 373 142-43
mirroring by, 224 mixed signals and, 194 environment and time created by, 435,
438-39 spiritual lures used by, 367 temptation of, 236-37 , Baldassare, 133-34,
197-99,272 Castro, Fidel, 102 Catherine de Medicis, Queen of France, 15
Catherine II "the Great," Empress of Russia, 90-92, 93 provided by,
201 Potemkin and, 274, 300-303 Saltykov and, 37-38, 225-26 Chalon, Jean, 361-62
, Jessie, 205-6, 208 , Charlie, 58-59 charisma, xx, xxi, 95, 97-98, 329 , 3,
95-118, 317 adventurousness of, 101-2 as armed prophets, 118 to, 116-18 dangers
to, 116-18 , 112-14 drama saints, 110-12 fatigue and, 117-18 of, 101 gurus,
109-10 lamp as symbol of, 11 6 magnetism of, 98, 102 miraculous prophets, 102-4
mysteriousness of, 95, 99 Olympian actors, 114-16 piercing gaze of, 95,
100-101, 102, 104 prophetic gifts in, 99, 104 purposefulness of, 98-99 saintliness
of, 99 saviors, 107-9 seductive language of, 99-100, 108, 111, 114, 115-16
self-awareness of, 100 successors of, 118 on television, 114, 115-16
theatricality of, 100 types of, 102-16 uninhibitedness of, 100, 107
vulnerability of, 101 Charles I, King of England, 355 II, King of England, 201,
420-21 Charmers, 3, 79-93, 153, 210, 376 antagonism harmonized by, 82 art of,
81-83 dangers to, 93 deceptive appearances and, 85 of term, 81 ease and comfort
created by, 79, 82, 86-87 examples of, 83-92 86, 87 indulgent attitude of, 79,
85, 418 mirror as symbol of, 92 by, 82 provided by, 82, 85 politicians as, 81,
82, 83-85, 87, -92, 93 by, 83 sexuality and, 81, 87 subtlety of, 81 timing of,
90-91, 92, 93 attitude of, 81 as useful to others, 83, 87 Chateaubriand, Francois
Rene, Vi- comte de, 188, 226, 284, 337 ego ideal regression of, 343-46 Chekhov,
Michael, 10 Chevalier, Maurice, 395-96, 397 Chiang Kai-shek, 88-90 Childe
Harold (Byron), 351,352 China, xix, 15, 76, 88-90, 172-73, 174, 224, 267-69,
291, 297-300, 311-13 chivalry, 36-37, 38, 329-30 Choisy, Abbe de, 47-48
Chretien de Troyes, 329-30, 386-87 Christian, Linda, 398-99, 401 Churchill,
Pamela, see Harriman, Pamela Churchill , Winston, 86, 115, 329 Clarissa
(Richardson), 225, 315-16Claudin, Gustave, 60 ClaudiusI, Emperor of Rome,
136-37 Cleopatra, xix, xx, xxi, xxiv, 7-9, 13, 16, 184, 304, 378, 392, 412
-seduction as defense against, clothing of, 7, 8, 274 descriptions of, 8
insecurity fostered by, 208 isolation created by, 317 mixed signals sent by,
192 mood changes of, 7-8, 9 poeticizing of, 283 sensual appeals of, 159
theatricality of, 7, 8, 9 chosen by, 12, 172 voice of, 1,9, 14 Clift,
Montgomery, 51, 125, 437 clinging behavior, 415, 417, 419-20 Clinton, Bill, 26,
27, 93 clothing, xx, 34, 434, 436 attention to details of, 265, 268, 269, 270,
272, 273, 274 of Dandies, 43, 44, 48-49, 50, 51 of Sirens, 7, 8, 13, 14-15, 274
Cohn, Norman, 103 Cold Coquette, The (Byron), 70 Colette, 48 complaining, 135,
293, 378, 418, 421 confessions, "honest," 284, 285, 287-88, 289 con
men, 66 Conquerors, 153-54 Conrad, Earl, 398-99 Constant, Benjamin, 188, 344
contrasts, 201-2, 270-71, 274, 427, 428, 447 Cooper, Gary, 125 Coquettes, 3,
67-68, 156, 172, 237, 291,412 Cold, 71-73, 77, 78 confusion engendered by, 75
dangers to, 78 excitement engendered by, 75 hatred engendered by, 78 Hot and
Cold, 67, 69-71, 76, 78, 192-93 jealousy incited by, 76-77 keys to, 74-77
narcissism of, 67, 73, 74, 75, 76, 77 politicians as, 77 selective withdrawal
by, 67, 70-71, 73, 74, 75, 76, 77, 78, 390 self-sufficiency of, 67, 71, 73,
74-75, 76, 77 shadow as symbol of, 77 spacecreated by, 73 timing of, 78
Coriolanus (Shakespeare), 107 courtesans, 11-12, 33, 38, 60-61, 75, 86, 192,
194, 291, 299-300, 361-64, 396, 412, 436 courtly love, 36-37, 325-26, 333 Crebillon,
33 Crebillon fils, 138-40, 401 criticism, personal, 205-7, 208, 209, 210, 423,
424 cmelty, 192, 349, 353, 356-57, 377, 379, 385, 390, 426 of Dandies, 43, 44,
45, 46, 47 of Rakes, 26 in transgressing taboos, 349, 352, 353, 356-57 Crushed
Stars, 152-53 Cures for Love (Ovid), 9,172 Dandies, 3, 41-52, 75-76, 83, 153,
192, 434 aesthetic qualities in, 48-50, 51 ambiguity of, 41, 44, 45, 47, 51
bisexual appeal of, 50-51 confusion engendered by, 47 cruelty in, 43, 44, 45,
46, 47 dangerousness of, 43, 44 dangers to, 52 excitement engendered by, 47
Feminine, 43-45 impudence of, 49, 51, 52 keys to, 48-51 Masculine, 45-48 mental
transvestitism of, 50 nonconformity of, 46, 47, 48-49, 51 orchid as symbol of,
51 physical image of, 41, 43, 44, 45, 48-49, 50-51 politicians as, 51 social
seduction by, 48-50 visual style of, 48-49 Dandy, The (Baudelaire), 46
Dangerous Liaisons (Laclos), xxiv, 25, 127, 169-71, 287-89, 407-9, 418-20
dangerousness, 354 of Dandies, 43, 44 of Rakes, 17, 24, 25, 26, 27 of Sirens,
5, 11, 12-13 D'Annunzio, Gabriele, 21-24, 192, 291 death risked by, 327-29
flattery by, 218, 259 march on Fiume led by, 23, 273, 328 public spectacles
given by, 275 Darvas, Lili, 123 d'Aunet, Leonie, 339 David, King, xix, 237
Davis, Ossie, 113 Dean, James, 123, 125, 127, 128 death, risking of, 327-29
Decameron, The (Boccaccio), 214-17, 233-37, 362-67 defensiveness, 57, 83, 207,
21 1,215, 219, 224, 246, 247, 260, 418, 434 de Gaulle, Charles, 99, 100, 101-2,
109, 114-16, 117,329 seductive oratory of, 114, 115, 253-54 "Delight in
Disorder" (Herrick), 399 deliverers, charismatic, 112-14 demonic
performers, charismatic, 106-7 Demonic Rakes, 21-24 Denon, Vivant, 213-15
destiny, sense of, 177, 359, 365 details, attention to, 38, 265-76, 425 banquet
as symbol of, 276 of clothing, 265, 268, 269, 270, 272, 273, 274 gifts in, 265,
268, 269, 274-75, 279 mesmerizing effect of, 265, 267-69 reversal of, 276
sensuous effect of, 265, 269-72 slower pace in, 272, 273-74 of spectacles, 265,
267-69, 275 Devil Is a Woman, The, 373 Dewa, 37 Diderot, Denis, xxiv-xxv
Dietrich, Marlene, 50, 121-23, 127, 128, 129, 130, 192, 342, 373, 434 DiMaggio,
Joe, 11, 13 Dio Cassius, 7 Dionysus, 8 Diotima, 206-7, 208 Disappointed
Dreamers, 150-51 disenchantment, 415-29 clean quick breaks in, 415, 418, 425-26
clinging behavior and, 415, 417, 419-20 deliberate, 415, 418-20 disillusionment
in, 40embers as symbol of, 428 familiarity in, 415, 418, 421 inertia in, 417-18
pleasant separations in, 421-23 seea/sore-seduction Disraeli, Benjamin, 49, 57,
81, 82-85, 93, 143-44, 210, 236 attention to details by, 274-75 humor in
persuasion by, 260 mirroring by, 225 poeticizing by, 284 victim played by, 292
dissatisfaction, perfectionistic, 140-41 Don Juan, legend of, xx, 19-20, 23,
24-25, 155, 170, 207-8, 209, 260, 400 Don Juan (Byron), 290 doormats,
anti-seductive, 134 doubts, 215, 282-83, 321, 323, 324, 383, 389, 390, 393,
409, 410, 429 Drama Queens, 155 drama saints, charismatic, 1 10-12 Dream of The
Red Chamber, The (Tsao Hsueh Chin), 224, 270-72 Drouet, Juliette, 339-40 Dryden,
John, 233 Dulcey Sabrosa (Picon), 231-34 dullness, deliberate, 183 Dumas,
Alexander, 385 Duncan, Isadora, 22, 259 Duse, Eleanor, 22, 259 Eastern Love,
137, 171 Easy Street, 58 Eddington, Nora, 399-400 Edward VII, King of England,
396 ego ideal regression, 337-38, 343-46 Einstein, Albert, 99 Eisenhower,
Dwight D" 124, 174, 317 Eisenstein, Sergei, 59 Either/Or (Kierkegaard),
24, 256 Elizabeth, Empress of Russia, 90, 91 Elizabeth I, Queen of England, 75,
84, 209, 346 Ellington, Duke, xxiv, 182-83, 291, 419-20, 421-23 empathy, 81,
157 environment, seductive, 431-39 Casanova's creation of, 435, 438-39 crowded
conditions in, 434, 437 Japan's ukiyo ("floating world") as, 435-37'
mystical effects in, 434-35 theatricality of, 431, 434-35, 436, 439 visual
stimuli in, 434 Warhol's Factory as, 437-38 envy, 16, 28 Epton, Nina, 326, 354,
355 Eros. 206-7, 208 erotic fatigue, 117-18 Escher, M. C" 128 Essex,
Robert Devereux, Earl of, 209 Euripides, xx Europa, 180-81 Exodus, Book of, 98
Exotic Fetishists, 154-55 "Exotic Perfume" (Baudelaire), 401-2 Eyes
of Youth, 43 Fallaci, Oriana, 374-76 falling in love, xix, xxi, xxii, 9, 36,
39, 44, 45, 46, 50, 76, 97, 134, 149, 164, 205, 246, 377 familiarity, 429 in
disenchantment, 415, 418, 421 poeticizing oneself vs., 277, 281, 282, 284 fear,
412, 418, 424 in pain mixed with pleasure, 369, 377-78, 379 Feminine Dandies,
43-45 Ferenczi, Sandor, 126 festivals, 433, 434, 435 Fetishistic Stars, 121-23
Fiume, march on, 23, 273, 328 flattery, 22, 85, 218, 233, 259, 289, 376, 403 Flaubert,
Gustave, 364-65, 385 Floating Genders, 160 "floating world" (ukiyo),
435-37 Flowers of Evil, The (Baudelaire), 314-15, 386, 401-2 Flynn, Errol,
xxiv, 26, 130, 192, 201, 291,355 physical lures of, 397-402, 403, 404 Tantrism
practiced by, 410 FourHorsemenoftheApocalypse, The, 43 Fraser, Flora, 300-301
French Revolution, 70, 116-17, 174, 187, 328 Freud, Sigmund, 70-71, 173, 182,
188, 449 Andreas-Salome and, 76, 198, 199 on bisexuality, 50 onchildhood as
golden age, 55 disciples of, 76-77, 198, 199, 434 on narcissism, 73, 74 on
sexual taboos, 352-53 on spoiled children, 61 on suggestion, 215 on
transference, 335-36 on the uncanny, 126, 301-2, 304 Friedrich, Konrad, 297-99
Frohlich, Rosa (fict.), 340-43 Fu Chai, King, xix, 15, 311-13 Fujiwara no
Korechika, 48, 65, 271 Fiilop-Miller, Rene, 104-5 Gallese, Duke and Duchess of,
22 Game of Hearts, The: Harriette Wilson's Memoirs (Wilson), 48-49 Gandhi,
Mohandas K" 193, 358 isolation created by, 317 Garbo, Greta, 127 Garden of
Eden, 24, 237 Gautier, Theophile, 49, 385 Genesis, Book of, 232-33 Genji,
Prince (fict.), 63-65, 172, 269-71 George, Don, 419-20 Gerard, Franjois-Pascal,
187, 188 Gilbert and Sullivan, 189 Gilda, 314 Gillot, Henrik, 45 Gilot, I
rancoise, 25 Girard, Rene, 199, 200 Gladstone, William, 85, 93, 143-44
Gleichen-Russwurm, Alexander von, xxi Goethe, Johann Wolfgang, 300-301, 354
golden age, childhood as, 53, 55, 59 Gottfried von Strassburg, 12, 190-92,
354-55 Grammont, Count de, 137-38, 183, 324-25 Grant, Gary, 125, 128, 129
Graves, Robert, 9-11, 55-58, 231. 287-88 Greco, Juliette, 313 greed, 199
anti-seductive, 142-43 Greek Myths. The (Graves), 9-11, 55-58, 231, 287-88
Greenfield, Liah, 102 guilt, sense of, 176, 369, 378, 379, 422-23, 426 in
transgression of taboos, 349, 355,357 Guinevere, Queen, 329-30, 386-87 gurus,
charismatic, 109-10 Gwyn, Nell, 201, 420-21 Hamilton, Lady Emma, 300-301, 304
Hamilton, Sir William, 300-301, 304 hard sell, 443 Harriman, Averell, 85-87,
273, 318 Harriman, Pamela Churchill, 85-87, 273, 274, 318 Hauptmann, Gerhart,
46 Hawthorne, Nathaniel, 74 Hayworth, Rita, 313-15 heat, projected, 393, 395-97
heated glances, 396, 397, 402, 403 Helen of Troy, xix, xx, 11, 13 Hellmann,
John, 124, 209 Hera, 9-11, 256-58, 287-88 Hermaphroditus, 43-45 Hermes
(Mercury), 9-10, 43, 55-58 Herrick, Robert, 399 Hibbert, Eloise Talcott,
172-73, 311-12 Hindu Art of Love, The (Windsor, ed.), 171-72, 411 Homer, 7-8,
11, 12-13, 256-58 "honest" confessions, 284, 285, 287-88, 289 honest
courtesans, 38 Hot and Cold Coquettes, 67, 69-71, 76, 78 Hsi Shi, xix, 15,
311-13 Hugo, Victor, 338-40 Huxley, Aldous, 109 hypnosis, 261-62, 401, 402
Ibarruri, Dolores Gomez (La Pasion- aria), 99-100 Ibn Hazm, 126, 183-84, 409
Ideal Lovers, 3, 29-40 Beauty, 33-35 in courtly love, 36-37 dangers to, 40
effort required of, 33 keys to, 36-39 Madonna/whore as, 38 missing qualities
provided by, 32-33, 34-35, 36, 39 noble qualities evoked by, 35-36, 39 patient
attentiveness of, 38 politicians as, 38-39, 40 portrait painter as symbol of,
39 reputation of, 33, 37-38 Romantic, 31-33 self-sacrifice of, 36-38 subtle
indications observed by, 33, 36 ideals, lost, 39, 203, 208-10, 226, 317 Idol
Worshipers, 158 Idylle Saphique (Pougy), 362 Ihara Saikaku, 268, 421-22 Iliad,
The (Homer), 256-58 illusions, creation of, 82, 295-307, 364 appearance of
normality in, 304 changing the past in, 306 dreams realized through, 303-4 of
gender, 297-300, 304 reversal of, 307 role playing in, 305 Shangri-La as symbol
of, 307 uncanny effects in, 304 wish fulfillment in, 300-303 impatience,
anti-seductive, 134, 137-38 improvisation, 164, 248, 411 in proving oneself,
324-25 imps, 56-57, 59-61, 66 inattentiveness, 136-37, 145 indifference, 409
indirect approach, 177-84, 408-9 bland appearance in, 183 bold moves after,
407-9 deliberate dullness in, 183 disguising one's feelings in, 183 friendship
in, 177, 179-81, 182 illusion of control in, 181-82 neutral distance in, 182-83
reversal of, 184 sexual tension and, 182 spider's web as symbol of, 184 third
parties in, 177, 183 see also soft sell infantile regression, 336-37, 338-40
innocents, 54, 58-59, 66 "In Praise of Makeup" (Baudelaire), 14
insecurities, 48, 71, 74, 76, 77, 87, 154, 155, 156, 163, 172, 173, 182, 193,
207, 210, 289, 291, 359, 369, 377, 412, 419 of Anti-Seducers, 131, 133, 138,
142 of countries, 225 flattery aimed at, 259 insinuation, art of, 127, 211-18,
389, 390 dropping hints in, 211, 216 gesturesand looks in, 211, 217-18
imagination and, 216 passing comments in, 211, 215, 216 pleasure provided by,
218 in politics, 216-17 retraction with apology in, 211, 215,217 reversal of,
218 seed as symbol of, 218 slight physical contact in, 215 slips of the tongue
in, 217 vagueness in, 216 "Invitation to the Voyage" (Baudelaire),
314-15 irrationality, 55, 378 isolation, creation of, 309-18 deceptive appearances
and, 315 exotic effect in, 311-13, 317 from family and friends, 316, 317, 318
hint of danger in, 317 on islands, 317 "only you" effect in, 313-15
from past attachments, 316-17 Pied Piper as symbol of, 318 by politicians, 317
by religious sects, 317 reversal of, 318 Jackson, Andrew, 446-48 Jagger, Mick,
50 James I, King of England, 66, 235, 355 reverse parental regression and,
346-48 Japan, 25, 37, 48, 50 child-rearing practices in, 335-36 ukiyo
("floating world") of, 435-37 see also Tale of Genji, The (Murasaki)
jealousy, 70, 76-77, 248, 390, 421, 423, 424, 425-26 in pain mixed with
pleasure, 372, 373, 374, 377 triangles and, 197-98 Jeffers, Robinson, 109 Joan
of Arc, 102-4 Johnson, Lyndon B., 289 Joseph II, Holy Roman Emperor, 301-2
Josephine, Empress of France, xxiv, 13, 69-71, 74, 154, 217, 412 languorousness
of, 12, 14, 69 selective disclosure by, 15, 237 selective withdrawal by, 70,
78, 390 tears as tactic of, 69, 70, 291-92 Journal of Our Life in the Highlands
(Queen Victoria), 84 judgmentalism, 152, 404 in Anti-Seducers, 133, 134 Julius
Caesar(Shakespeare), 258-60 Jullian, Philippe, 22 Jung, Carl, 76 Jungian
archetypes, 36-37 Jurgens, Ernest, 395-96 Kaus, Gina, 303 Keaton, Buster, 58
Kennedy, John F., xxi, xxiv, 40, 51, 117, 123-26, 127, 128, 130, 224,329 adventurousness
of, 101, 102 disarming weaknesses of, 290-91 insinuation used by, 217 isolation
as technique of, 317 lost ideals and, 39, 208-10, 317 missing qualities offered
by, 174 mixed signals sent by, 193 poeticizing of, 283 Key, Wilson Bryan, 289
Kierkegaard, Spren, xxiv, 24, 31, 169-70, 171, 172, 179-80, 181, 182, 193, 201,
224, 246, 254, 255-57, 279, 289-90, 291, 357, 373, 387-88, 389 King, Martin
Luther, Jr., 113 Kissinger, Henry A., 93, 183, 374-75, 378 knights, 36-37,
329-30, 331-32 Kolowrat, Count Sascha, 122 Kou Chien, King, 15, 311-13 Kriegel,
Maurice, 253 Krishnamurti,Jiddu, 75-76, 109-10, 358 Kuang Hsu, Emperor, 267-69
Kundera, Milan, 66 La Bruyere, Jean de, 49 Laclos, Pierre Choderlos de, xix-xx,
xxiv, 25, 169-71,287-89, 407-9, 418-20 Ladd, Alan, 123 Lake, Veronica, 128
Lamb, Lady Caroline, 351-52, 353, 354 Lamotte-Valois, Comtesse de, 305-6
Lancelot, Sir, 329-30, 386-87 Lang, Lritz, 122 language, seductive, xx, 153,
251-63, 273 affirmation in, 261, 262 ambiguity and vagueness in, 254, 258, 262,
263, 448 arguing vs., 260 boldness in, 262 changes of perspective in, 261 of
Charismatics, 99-100, 108, 111, 114,115-16 clouds as symbol of, 262 diabolic
vs. symbolic, 262 emotion vs. reason in, 260-61 flattery in, 22, 85, 218, 233,
259, 376, 403 flowery language vs., 263 normal language vs., 258-59 oratory,
xx, 22-23, 24, 114, 115, 235-36, 253-54, 258-60, 261, 275 producing an effect
with, 254, 259 promises in, 259, 260 of Rakes, 17, 19, 20, 22-24, 25 repetition
in, 261-62 reversal of, 263 self-absorption vs., 258 silence vs., 263 in soft
sell, 445 strong emotions roused by, 261 seealso writing Lauzun, Antonin
Peguilin, Duke de, xx, 75, 179-81, 201, 282 Lawner, Lynne, 13, 299-300
Lawrence, D. H., 205-7, 208, 209, 210, 400, 423-25 Leadbeater, Charles, 109 Le
Gallienne, Richard, 191 Lemaitre, Jules, 49 Lenin, V. I., 98, 99, 101, 107-9,
183, 201-2 Leonardo da Vinci, 188 Lesbos, island of, 317, 362-63 Lewis, Arthur
H., 395-96, 398 Lincoln, Abraham, 99 Lonely Leaders, 159 lost ideals, 39, 203,
208-10, 226, 317 Louis XIV, King of Prance, 19, 35, 47, 49, 179-81, 282 Louis
XV, King of Prance, 16, 33-35, 36, 127, 216, 247, 249, 274, 435 Louis XVIII,
King of Prance, 426-27 Louys, Pierre, 371-74 Love Happy, 10 lovers' quarrels,
76 Low, Ivy, 206, 208 Lucian, 420-21, 422 Lursay, Madame de (fict.), 138-40
Machiavelli, Niccolo, 118 Madame Bovary (Plaubert),364-65 Madonna/whore, 38
makeup, xix, 8, 9, 10, 13, 434 Making a Living, 58, 59 Malcolm X, 111, 112-14
Malet, Elizabeth, 26 Malraux, Andre, 121 Mandel, Oscar, 23, 208, 232 Mandrell,
James, 200, 207 Mann, Heinnch, 340-43 Mansfield, Katherine, 206 Mao, Madame
(Jiang Qing), 78, 173, 201.249, 379,403,412 Mao Zedong, 77, 78, 88-89, 99, 118,
173.201.249, 403 Margaret of Navarre, Queen, xxi, 326-31 Marguerite de Valois,
14-15, 412 Marianne (Marivaux), 75, 292 Marie Antoinette, Queen of Prance,
305-6 Marivaux, Pierre, 69, 75, 292 Mark Antony, xix, 8, 12, 13, 145, 159,
172,208,258-61,274, 283, 378, 392, 412 Marx, Groucho, 10 Mary, Queen of Scots,
346 Masculine Dandies, 45-48 masochism, 47, 71, 155, 237, 332, 357, 378 mass
seduction, see Charismatics; politicians; soft sell Maurois, Andre, 83 Maxwell,
Elsa, 313, 314 Mayer, J. P, 125 MemoirsfromBeyondthe Grave (Chateaubriand),
337, 345 Menken, Adah Isaacs, 100 mental superiority, sense of, 155-56
Merteuil, Marquise de (fict.), 418-20 Mesmer, Pranz, 434-35 Messalina, 136-37
Metamorphoses (Ovid), 43-45,71 -74, 121-23, 180-81, 182-83 Metternich, Prince
Klemens von, 188, 343 Michels, Roberto, 77 Middle Ages, 103, 328 courtly love
in, 36-37, 325-26, 331 religious mystics of, 366 troubadours of, xx, 36-37,
291, 325,331 Middleton-Murry,John,206, 208 Midgette, Allen, 72 Midsummer
Night's Dream, A (Shakespeare), 297 Milbanke, Annabella, 353 Miller, Arthur,
12, 13 Ming Huang, Emperor, 76, 174, 270, 272-73 miraculous prophets,
charismatic, 102-4 mirroring, 45, 219-27, 279, 403, 411,412 by Charmers, 82
focused attention in, 226 of gender roles, 224-25 hunter's mirror as symbol of,
226 imitation in, 221-22, 223 indulgence in, 219, 223 of lost ideals, 226
narcissism and, 224 by outsiders, 225 reversal of, 227 of spiritual values, 225
in writing, 257 missing qualities, 149, 207, 208-9 and choice of victim, 171,
173-74 Ideal Lovers and, 32-33, 34-35, 36, 39 mixed signals, 185-94, 223
artificial vs. natural, 189-91 cold vs. hot, 192-93; see also Coquettes depth
suggested by, 185, 192 in first impressions, 191, 192-93 gender roles and, 192
gcod vs. bad, 187-89 imagination engaged by, 191 inner vs. outward qualities
in, 192-93 paradox in, 190-91 in politics, 193 reputation and, 193 reversal of,
194 theater curtain as symbol of, 194 Mohammed Riza Pahlavi, Shah of Iran, 313,
375 Moliere, 22, 207-8, 258 Molina, Tirso de, 19-20, 232 moment, the, 423, 435
abandonment to, 21, 25 leading into, 393, 400, 402-4 Mona Lisa (da Vinci), 188
Mondale, Walter, 450 Monneyron, Prederic, 181-82 Monroe, Marilyn, xxiv, 9-11,
12, 13, 14, 16, 101, 125, 130, 192, 274, 291,338 MonsieurBeaucaire, 44 Montez,
Lola, 173, 199-200, 357 Montpensier, Anne Marie Louise d'Orleans, Duchess de, 179-81,
201,282 mood changes, xix, 7-8, 9, 11, 249, 312, 418-19 moralizers,
anti-seductive, 134, 143-44 Morin, Edgar, 121, 124-25 Morosini, Countess, 328
Moscovici, Serge, 83, 199, 221-22 Moses, 98, 113, 114 Much Ado About Nothing
(Shakespeare), 183 Murasaki Shikibu, xxiv, 25, 61, 63-65, 140-41, 269-71, 287
Musil, Robert, 227 Musset, Alfred de, 40, 281 Mussolini, Benito, 102, 275 Mut,
Professor (fict.), 340-43 Mythic Stars, 123-26 Napoleon I, Emperor of France,
xx, 14, 99, 187, 200, 261, 298, 326 calculated surprise by, 243 as Charismatic,
101, 102, 111 Coquette played by, 77 French re-seduced by, 426-28 insinuation
used by, 216-17 Josephine and, 13, 69-71, 74, 78, 154, 217, 291-92, 390, 412
missing qualities offered by, 1 74 Talleyrand and, 38-39 temptations created
by, 235-36 Napoleon III (Louis-Napoleon), Emperor of France, 339-40 narcissism,
41, 45, 50, 82, 157, 219 of Coquettes, 67, 73, 74, 75, 76, 77 mirroring and,
224 Narcissus, 71-74 natural phenomena, 55 Naturals, 3, 53-66 dangers to, 66
disarming weakness of, 53, 56, 59 examples of, 58-65 fantasy world created by,
63 imps, 56-57, 59-61, 66 independence in,61 innocents, 54, 58-59, 66 lamb as
symbol of, 65 naivete of, 58-59 as potentially irritating, 66 psychological
traits of, 55-57 receptiveness of, 57 spoiled children as, 61 sympathy elicited
by, 53, 56, 59, 66 undefensive lovers, 57, 63-65 wonder children, 57, 61-63
youth and, 66 neediness, 59, 74, 75, 87, 134, 293 Nelson, Viscount Horatio, 304
Nero, Emperor of Rome, 50 New Prudes, 151-52 New York Times, 189, 396 Nicholas,
Grand Duke, 396 Nicholas II, Czar of Russia, 105, 107, 201 Nietzsche,
Friedrich, xxii, xxiii, 36 Andreas-Salome and, 45-46, 47, 52, 197-98, 199, 227
Ninon de l'Enclos, xx, 75, 183, 192, 217, 223, 224-25, 293, 409, 417, 425-26
Niou, Prince (fict.), 25 Nisan, 37 Nixon, Richard M., 123-24, 374, 375 "No
Tomorrow" (Denon), 213-15 Novices, 153 Octavia, 8 Octavius, 8, 16, 145,
378 Odyssey, The (Homer), 7-8, 11, 12-13 oedipal regression, 333, 337, 340-43
Olympian actors, charismatic, 114-16 Onassis, Aristotle, 313 On Love
(Stendhal), 58, 170, 280-82, 284, 375-77 opinion, influencing, xx-xxi oratory,
seductive, xx, 22-23, 24, 114, 115, 235-36, 253-54, 258-60, 261, 275 Orleans,
Duchess d', 21 Orleans, Duke d', 19-20 Orlov, Gregory, 90 Orsay, Count d', 49
Ortega y Gasset, Jose, xxii, 282-83 Otero, Caroline "La Belle," 194,
398, 402, 412 heat projected by, 395-97 Overstreet, H. A., 60 Ovid, xx, xxii,
xxiv, 9, 43-45, 71-74, 81-82, 121-23, 135-36, 172, 179, 180-81, 182-83, 221,
253-54,255,279-80,323, 331, 352, 371-72, 397, 408-9, 418-19, 423-24 Pahlavi,
Mohammed Riza, Shah of Iran, 313, 375 pain,mixing pleasure with, 155, 159, 237,
369-79, 389, 391,410, 415, 418, 424-25 anxiety induced by, 376-77, 378 bracing
effect of, 377 breakups in, 369, 378 calculated absences in, 372, 373-74
emotional highs and lows in, 371-74 fear in, 369, 377-78, 379 guilt in, 369
harshness and kindness in, 374-76 jealousy in, 372, 373, 374, 377 masochistic
yearnings for, 47, 71, 155, 237, 332, 357, 378 precipice as symbol of, 379
reversal of, 379 timing of, 379 Pampered Royals, 151, 421 Paris, xix, 13
Judgment of, 9-11 Pasionaria, La (Dolores Gomez Ibar- ruri), 99-100 Patience
(Gilbert and Sullivan), 189 Pawnbroker, The, 58 Pearl, Cora, 59-61, 66, 291
Pearson, Hesketh, 189-90 Peron, Evita, 110-12 poeticizing of, 279-81, 283-84
Peron, Juan, 111, 279-81 persuasion, xx-xxi, 215-16, 317 argument vs. humor in,
260 emotion vs. reason in, 260-61, 444 Peter I "the Great," Czar of
Russia, 99 Peter III, Czar of Russia, 37, 90, 201, 225, 300 Petronius, 50, 201
Philip III, King of Spain, 234-35 physical lures, 393-404 devil-may-care
attitude and, 404 disordered look in, 402-3 flattery and, 403 focused attention
and, 401-2 heated glances in, 396, 397, 402, 403 as leading into the moment, 393,
400, 402-4 lowering inhibitions by, 393, 397-401 mental activity lulled by,
393, 400-401, 402, 403 physical excitation aroused by, 399, 400, 402, 403
projected heat in, 393, 395-97 raft as symbol of, 404 reversal of, 404 sensual
appeal of, 402 shared physical activity in, 398, 400, 403 slight physical
contacts in, 395, 396, 397, 400, 403 Picasso, Pablo, 25, 26, 45, 100, 379 art
as lure of, 366 poeticizing of, 283 Picon, Jacinto Octavio, 231-34 Pillow Book
of Sei Shonagon, The, 31-32,50,65,263 Plato, 74-76, 191, 206-7, 208 Plutarch,
8, 46-47, 261 poeticizing oneself, 277-84 bit of doubt in, 282-83 calculated
absences in, 277, 283-84 familiarity vs., 277, 281, 282, 284 halo as symbol of,
284 idealizing one's targets in, 284 objects in, 283 reversal of, 284 self-image
and, 281-82 shared experiences in, 283 politicians, xx-xxi, 101, 183, 366,
374-76 anxiety and discontent induced by, 209-10 as Charmers, 81, 82, 83-85,
87, 88-92, 93 as Coquettes, 77 as Dandies, 51 disarming weaknesses of, 292 as
Ideal Lovers, 38-39, 40 insinuation used by, 216-17 isolation created by, 317
mixed signals sent by, 193 re-seduction by, 426-28 soft sell by, 446-48, 450-52
triangles created by, 201-2 victims chosen by, 174 war heroes as, 329, 446-48
see also Charismatics; oratory, seductive Pompadour, Jeanne Poisson, Madame de,
16,33-35,36, 127,249, 274, 435 pop art, 71-72, 73 Portsmouth, Louise Keroualle,
Duchess of, 420 post-seduction, see disenchantment; re-seduction Potemkin,
Prince Gregory, 274, 300-303 Pougy,Liane de, 361-62, 363, 364 Presley, Elvis,
28, 44, 50, 105-6, 107 pride, excessive, 142 Private Life of the Marshal Duke
of Richelieu, The, 20-21 Professors, 155-56 prostitutes, 40, 354, 356 Proust,
Marcel, 70, 283 proving oneself, 25, 321-32, 417, 425 apparent suicide in, 324-25
doubts allayed by, 321, 323, 324 improvisation in, 324-25 passing tests in,
326-31 persistence in, 324-25 rescue in, 329-30 resistance and, 321, 323, 324
reversal of, 332 risking death in, 327-29 self-sacrifice in, 326-27, 425
tournament as symbol of, 332 unhesitating action in, 329-30 by war heroes,
327-29 prudery, 151-52 Ptolemy XIV, Pharaoh, 7 Pygmalion, 121-23 Pygmalion
complex, 173 Quicksand (Tanazaki), 356 rakehells, 25 Rakes, 3, 17-28, 49, 130,
152, 247, 315-16 as abandoned to moment, 21, 25 Aesthetic, 423 Ardent, 19-21
convention defied by, 26, 27 cruelty of, 26 dangerousness of, 17, 24, 25, 26,
27 dangers to, 28 Demonic, 21-24 derivation of term, 25 erotic vs. political,
24 extremism of, 26 as female fantasy figure, 17, 20-21, 23, 24-25, 26 fire as
symbol of, 27 keys to, 24-27 masculine envy engendered by, 28 mirroring by,
225-26 obstacles overcome by, 21, 25, 225-26 pleasure offered by, 24, 25, 27
reformation of, 26, 225, 353, 354 Reformed, as victims, 1 50 reputation of,
20-21, 26-27, 28, 200-201 seductive language of, 17, 19, 20, 22-24, 25 voices
of, 22-23 Rank, Otto, 76 Rasputin, Grigori Efimovich, 100-102,104-5 physical
lures of, 403 spiritual lures of, 366, 403 reactors, anti-seductive, 135
Reagan, Ronald, 202 soft sell of, 450-52 Recamier, Madame, 187-89, 192,
217,237,343-46 Ree, Paul, 45-46, 197-98, 199 Reformed Rakes or Sirens, 150
regression, erotic, 333-48 bed as symbol of, 348 ego ideal, 337-38, 343-46
infantile, 336-37, 338-40 oedipal, 333, 337, 340-43 rebellion in, 348 reversal
of, 348 reverse parental, 333, 338, 346-48 therapist role in, 336, 345-46
transference in, 335-36 unconditional love in, 336-37, 340 Reichenbach, Harry,
452-54 Reik, Theodor, 209-10, 336-37, 388-90 reliability, 243 Remarque, Erich
Maria, 121 Remembrance ofThingsPast(Proust), 283 Renaissance, 12, 38, 356
reputation, 46, 193, 223, 314, 379 in creation of triangles, 195, 200-201 of
Ideal Lovers, 33, 37-38 mixed signals and, 193 of Rakes, 20-21, 26-27, 28,
200-201 Rescuers, 157 re-seduction, 415-29, 435 calculated surprises in, 420-21
embers as symbol of, 428 fight against inertia in, 417-18 intermittent drama
in, 423-25 maintaining lightness in, 418, 421, 423 maintaining mystery in, 418
political, 426-28 reversal of, 429 timing of, 428 resistance, xxiii, xxiv, 25,
154, 164, 172, 177, 181, 183, 188, 215, 216, 236, 289, 376, 400, 412, 449 and
proving oneself, 321, 323, 324 to temptations, 236 reverse parental regression,
333, 338, 346-48 Richardson, Samuel, 225, 315-16 Richelieu, Duke de, 19-21, 25,
27, 170, 200, 247, 356, 410 Richthofen, Baroness Frieda von, 206, 423-25 Rilke,
Rainer Maria, 46-47, 227 Ring of the Dove, The: A Treatise on the Art and
Practice of Arab Love (Ibn Hazm), 126, 183-84, 409 Robespierre, Maximilien de,
116-17, 118 Rochester, Earl of, 26 Rohan, Cardinal de, 305-6 Romantic Ideal,
31-33 Romanticism, 226, 343 Roosevelt, Franklin Delano, 86, 98-99, 100, 102,
118 seductive oratory of, 260 Rothschild, Baron Elie de, 273 Roues, 157-58
Sabatier, Apollonie, 385-88 Sacher-Masoch, Leopold von, 372, 373-74 Sackville-West,
Vita, 102 sadness, air of, 69, 76, 157, 172, 192, 292, 364-65 Saint-Amand,
Imbert de, 69 Sainte-Beuve, Charles Augustin, 338-39 Saint-Germain, Count,
127-28, 216, 244 Salome, Lou von, see Andreas- Salome, Lou Saltykov, Sergei,
37-38, 225-26 Sand, George, 40, 49 Sappho, 317, 362-63 Satan, androgyny of, 51
Satyricon(Pe t ro nius),50, 201 saviors, charismatic, 107-9 Savonarola,
Girolamo, 101 Schopenhauer, Arthur, 84 Sedgwick, Edie, 72 seducers, xix-xxv
amorality of, xxiii-xxiv, 21, 47 appearance of, xix, xx, xxii consistency of,
xxii falling in love with, xix, xxi, xxii male, xx other-directedness of,
xxii-xxiii as providers of pleasure, xxiii resistance to, xxiii, xxiv seductive
language of, xx sexual element utilized by, xxii strategic planning of, xx,
xxii, xxiii subtle methods of, xxi surrender to will of, xxi, xxii, xxiv
theatricality of, xx, xxiii warrior's outlook of, xxii Seducer's Diary, The
(Kierkegaard), xxiv, 31, 127, 169-70, 172, 179-80, 182, 193, 201, 224, 254,
255-57, 279, 289-90, 357, 373, 387-88, 389 seduction, derivation of term, xxi
Seduction (Baudrillard), xxiii, 9, 127-28, 288, 385 Sei Shonagon, 31-32, 50,
65, 263 selective disclosure, 14-15, 237 self-absorption, 87, 163, 173, 363,
410 of Anti-Seducers, 131, 133, 137, 138, 140 seductive language vs., 258
self-awareness, 100, 131 self-consciousness, 135, 138-40, 354, 359, 363
self-distance, 122, 130 self-esteem, 75, 79, 81, 158, 200, 208, 210, 224, 227,
282 self-image, 281-82 self-loathing, 154, 362, 363 self-sabotage, 378 self-sacrifice,
36-38, 82, 326-27, 425 self-sufficiency, 67, 71, 73, 74-75, 76, 77 Seneca, 50
Sennett, Mack, 58 Sensualists, 159 Sex Sirens, 9-11 Shahrazad, 245-47
Shakespeare, William, 50, 107, 183, 258-60, 267-68, 314, 316, 418 Shaw, George
Bernard, 126 Sheik, The, 43-44 Shelley, Percy Bysshe, 353 Shi Pei Pu, 173-74,
297-300, 304 Shoulder Anns, 58 Shu-Chiung, 270 Sibony, Daniel, 351 Sieburg,
Friedrich, 337 Silenus, 56, 191 Simone, 23 Sirens, xix, 3, 5-16, 26, 28, 152,
155, 184 adornment of, xix, 7, 8, 13, 14-15, 24, 274 appearance of, 8, 9-10,
13, 23 dangerousness of, 5, 1 1, 12-13 dangers to, 1 6 differentiation of, 12
keys to, 11-15 as male fantasy figure, xx, 5,9, 11, 12 men enslaved by, xix, 8,
12 mood changes of, xix, 7-8, 9, 1 1 movement and demeanor of, 5, 10, 15 in
Odyssey, 7-8, 11, 12-13 pleasure offered by, 11 Reformed, as victims, 150 Sex,
9-11 Spectacular, 7-9 theatricality of, 7, 8, 9 of, 7, 9, 10, 13-14 water as
symbol of, 15 Slater, Leonard, 313 Socrates, 74-76, 191-92, 206-7, 208 soft
sell, 441-54 components of, 444-46 examples of, 446-54 hard sell vs., 443
origin of, 443 Solanas, Valerie, 78 Sons and Lovers (Lawrence), 206 Spanish
Civil War, 99-100 spectacles, 265, 267-69, 275, 301, 447 Spectacular Sirens,
7-9 spirituality, 158 aura of, 38, 98, 358 mirroring of, 225 spiritual lures,
359-67, 403, 404 air of discontent in, 359, 364-65 artistic, 359, 361-62,
365-66 cultic rituals as, 362-63 ennoblement by, 365, 366 in environment,
434-35 lightness induced by, 363 occult fads in, 359, 365 pagan, 362-63, 365
religion in, 359, 363-64 reversal of, 367 sense of destiny in, 177, 359, 365
sexual undertones of, 359, 363-64, 366 stars in the sky as symbol of, 367
timeless relationship suggested by, 364, 365-66, 367 timing and, 365 worshipful
feelings engendered by, 361-64 spoiled children, 61, 151, 348 spontaneity,
sense of, 241 Stael, Madame de, 187-88, 343, 344 Stahl, Lesley, 450-51 Stalin,
Joseph, 88-89, 108 Starkie, Walter, 22-23 Stars, 3, 119-30, 153 cinematic
creation of, 124-25, 127 dangers to, 130 distinctive style of, 119, 122, 123,
125, 127, 128 dreamlike quality of, 1 1 9, 126, 127, 128 ethereality of, 119,
126-27 face of, 122, 123, 127, 128 Fetishistic, 121-23 glimpsed private life
of, 128 identification with, 128-29 idol as symbol of, 129 inner distance of,
123, 125, 129 keys to, 126-29 Mythic, 123-26 as objects, 122, 127-28 obsessive
attention to, 121, 122, 126,130 publicity and, 130 self-distance of, 122, 130
television and, 123-24, 125 Stendhal, 58, 170, 200, 217, 280-82, 284, 304, 371,
375-77 Stewart, Jimmy, 125, 129 "Story of the Butterfly, The," 298,
299 suffocators, anti-seductive, 134 Sukarno, Kusnasosro, 102, 221-23 Sukarno:
AnAutobiography asToldto Cindy Adams { Adams), 222 Sun-tzu, 315 SuShou, 291
suspense, creation of, see calculated surprises suspicion, 289, 290, 441
sympathy, 53, 56, 59, 66, 285, 292, 293 Symposium, The (Plato), 74-76, 191,
206-7, 208 taboos, transgression of, 349-58 cruelty in, 349, 352, 353, 356-57
forest as symbol of, 358 going to extremes in, 349, 355, 358 incest in, 352-53
lost self recaptured by, 35 1-54 prohibited desires in, 352-53, 354-55 reduced
outlets for, 354 reversal of, 358 secret sins in, 351, 352 sense of guilt in,
349, 355, 357 shared complicity in, 349, 352, 357 social limits in, 349,
353-55, 357, 358 value systems in, 349, 356 Tabouis, G. R., 399-401 Tale
ofGenji, The (Murasaki), xxiv, 25, 61, 63-65, 140-41, 172, 269-71, 287 Tales
from the Thousand and One Nights, 222-26, 244-47 466 • Index
Talleyrand-Perigord, Prince Charles de, 38-39 Tanazaki, Junichiro, 356
Tantalus, 231 Tantrism, 410 Tarde, Gustave, 83 Tausk, Victor, 198, 199 tayus,
436 tears, 69, 70, 76, 78, 285, 291-92, 311, 373 television, 114, 115, 123-24,
125, 450-51 temptations, creation of, 229-38, 425 apple in Garden of Eden as
symbol of, 237 barriers established in, 233-34, 236 challenges in, 236-37
deceptive appearances and, 234 forbidden fruit in, 231-34, 237, 244 future
gains in, 235-36 opportunity in, 237 reversal of, 238 selective disclosure in,
14-15, 237 weakness as target in, 229, 234-37 That Obscure Object of Desire,
373 theatricality, xx, xxiii, 267-69, 421-23 of bold movers, 411-12 of
Charismatics, 100 of environment, 431, 433-34, 436, 439 of Sirens, 7, 8, 9
spectacles in, 265, 267-69, 275, 301,447 Theosophical Society, 109 third parties,
273 in indirect approach, 177, 183 see also jealousy; triangles, creation of
Thus Spake Zarathustra (Nietzsche), 46 Tiberius, Emperor of Rome, 317
tightwads, anti-seductive, 134-35 time, altered sense of, 431-39 Casanova's
creation of, 435, 438-39 timidity, 410, 426 timing: of Charmers, 90-91, 92, 93
of Coquettes, 78 dramatic moments in, 435 of pain mixed with pleasure, 379 of
re-seduction, 428 speed and youth in, 435 spiritual lures and, 365 Tito, Josef,
77 Todellas, Don Juan de (fict.), 231-34 Tragedy ofKingRichardlll, The
(Shakespeare), 314, 316 transference, 335-36 triangles, creation of, 195-202
aura of desirability from, 195, 199-201, 202 contrasts in, 201-2 jealousy
engendered by, 197-98 by politicians, 201-2 reputation in, 195, 200-201 reversal
of, 202 rivalry stimulated by, 200 trophy as symbol of, 202 vanity and, 200,
201 Tristan and Isolde, 12, 190-92, 354-55, 357 troubadours, xx, 36-37, 291,
325, 331 Trouncer, Margaret, 187-88 Truman, Harry S., 99, 118, 123, 124, 128
Tsao Hsueh Chin, 270-72 Tsu Hsi, Empress Dowager, 267-69 Tullia d'Aragona, 12,
38, 40, 173, 182, 330-32 Tuperselai, 397-98 ukiyo ("floating world"),
435-37 ulterior motives, 21,142-43 unattainability, apparent, 192, 201, 321
"Uncanny, The" (Freud), 301-2 unconditional love, 336-37, 340
undefensive lovers, 57, 63-65 Valentino, Rudolph, 43-44, 52, 356-57 patient
attentiveness of, 38, 43, 44, 50, 273-74 Valmont, Vicomte de (fict.), 25,
169-71, 287-89, 290, 407-9, 412 Valois, Mademoiselle de, 19-20 Vanderbilt,
William, 396 vanity, 71, 74, 79, 81, 135, 171, 195, 199, 200, 210, 226, 235,
259, 314, 408-9, 426 victims, 147-60 Aging Babies, 156-57 Beauties, 156
Conquerors, 153-54 Crushed Stars, 152-53 Disappointed Dreamers, 150-51 Drama
Queens, 155 Exotic Fetishists, 154-55 Floating Genders, 160 Idol Worshipers,
158 Lonely Leaders, 159 New Prudes, 151-52 Novices, 153 Pampered Royals, 151
Professors, 155-56 Reformed Rakes or Sirens, 150 Rescuers, 157 Roues, 157-58
Sensualists, 159 victims, choice of, 12, 40, 167-75 big game as symbol of, 174
deceptive appearances and, 173 evaluating responses in, 171-72 exciting tension
in, 171, 173 imagination and, 172 leisure time in, 173 manly men as, 12, 172
missing qualities and, 171, 173-74 new types as, 170, 172 one's own type as,
149 personal reactions in, 167, 170, 171, 172, 290, 397 in politics, 174
repressed types as, 173-74 reversal of, 175 unhappiness and, 167, 172
vulnerability in, 170-71 victim strategy, 287-89, 292 Victoria, Queen of
England, 51, 83-85, 143, 145, 210, 236, 274-75, 284 Vietnam War, 374-75
Villarceaux, Marquis de, 425-26 Virgin ofStamboul, The, 452-53 Viscontini,
Countess Metilda, 377 Vivien, Renee, 317, 362-63 voices, 22-23, 34, 115, 259,
261, 268, 297, 351,395 of Sirens, 7, 9, 10, 13-14 Voltaire, 34 von Sternberg,
Josef, 121-22, 373 vulgarians, anti-seductive, 135-36 Wadler, Joyce, 297
Wagner, Richard, 100 war heroes, 327-29, 446-48 Warhol, Andy, 33-34, 49, 52,
71-73, 78, 126, 128, 192 calculated surprise by, 248 Factory as environment of,
437-38 triangles created by, 200 Washington, George, 99 Wayne, John, 51, 125
Wayward Head and Head, The (Crebil- lon fils), 138-40, 402 weaknesses,
disarming, 285-93 blemish as symbol of, 292 gender differences in, 291 genuine,
290 "honest" confessions of, 284, 285, 287-88, 289 of Naturals, 53,
56, 59 occasional glimpses of, 290, 291 pathetic vs., 290, 293 in playing the
victim, 285, 287-89, 292 of politicians, 292 reversal of, 293 shyness as, 285,
290, 291 suspicion reduced by, 289, 290 sympathy evoked by, 285, 292, 293 tears
as, 285, 291-92 of troubadours, 291 Weber, Max, 97-98, 106 Webster, Lady
Frances, 352, 357 Wedekind, Franz, 46 Weekley, Ernest, 423-24 Welles, Orson,
313, 314 Wellington, Arthur Wellesley, Duke of, 188, 343-44 Welter, Blanca
Rosa, see Christian, Linda Whitmer, Peter, 107 Wilde, Oscar, 49, 188, 189-90,
192, 193, 234 Williams, Tennessee, 72 Wilson, Harriette, 48-49 windbags,
anti-seductive, 135, 145 withdrawal, strategic, 383-90, 418, 424
aggressive pursuit motivated by, 387, 389, 390 anxiety induced by, 388-89, 390,
391 doubts created by, 383, 389, 390 infantile experiences re-created by,
388-91 interest in another person as, 383, 387, 390, 392,419; see also
triangles, creation of letter-writing in, 385-86, 387, 388, 389 pomegranate as
symbol of, 391 reversal of, 392 role reversal engendered by, 391 selective, by
Coquettes, 67, 70-71, 73, 74, 75, 76, 77, 78, 390 sexless neutrality in, 389-90
subtlety in, 389 see also calculated absences WomanandPuppet{ Louys), 371-74
wonder children, Woolf, Virginia, 34 World War I, World War II, 86, 100, 114,
115, 217,253, 328 writing, 251, 254, 255-58, 288 guidelines for, 257-58
mirroring in, 257 in strategic withdrawal, 385-86, 387, 388, 389 Yang Kuei-Fei,
76, 174, 270, 272-73, 274 Zeus (Jupiter), xxiii, 9, 57, 58, 182-83, 256-58,
287-88 Zhou Enlai, 88-90, 93 In every corner of the world, on every subject
under the sun. Penguin represents quality and variety-the very best in
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Johannesburg.Giovanni Bottiroli. Keywords: seduzione, amore, desiderio,
desiderio e seduzione; amore: desiderio e seduzione, ars amandi, ovidio, Grice,
Multiplicity of being, aequi-vocality thesis, Pegasus, Bellerofonte,
l’implicatura di Bellerofonte, possibilita, le categorie di Kant, puo essere,
essere, piovera o no – Quine, ontologia – Grice, Pears, Metaphysics.Aristotle,
what is actual is not also possible – the square of modalities – the nature of
metaphysics. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bottiroli” – The Swimming-Pool
Library.
Grice
e Bottoni – fototropismo in cabbages and kings -- de essential corporis humani
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova).
Filosofo italiano. Grice: “Most Englishmen know of Bottoni because he is quoted
by Burton in his “Anatomy of Melancholy,” re the imagination and reason – and
how it affects melancholy.” “I call Bottoni a philosophical biologist –
excretion (why?) – nutrition – surely nutrition – as part of birth – and growth
– are essential requirements for a definition of ‘bios’ or life – and Bottoni
knows that – as a philosopher. He studied philosophy and taught logic, like me.
“De conservanda vita,” is more than a philosophy of life – it’s how the
‘essenza’ del ‘corpore dell’uomo’ is nutrition – and how the spiritus, and not
just the anima, are involved. His model is functionalist, and Aristotelian,
like mine!” – He also provides a philosophy of disease – which should make us
wonder about whether we are endowed with a conceptual analysis of ‘health,’ a
favourite term for Aristotle (‘healthy food,’ ‘healthy man,’ ‘healthy habit’).
Uno dei grandi medici italiani del Rinascimento. La sua formazione avvenne
nella città natale, dove si laureò in medicina e filosofia. Dal 1555 divenne professore nell'Padova, dove
insegnò in successione logica, medicina teorica straordinaria, medicina pratica
e medicina teorica ordinaria. Introdusse l'uso del mercurio nella cura della
sifilide. Fu rivale del medico padovano Ercole Sassonia, di cui tentò
d'impedirne l'insegnamento. I suoi contributi
scientifici più importanti riguardano le funzioni dirette alla conservazione
dell'individuo e della specie, quindi nutrizione, crescita e generazione, che
definì tria suprema naturae munera.
Altre opere: “Della vita” “De vitta” “De vita conservanda, Padova,
Iacobum Bozzam); De morbis mulieribus libri tres, Venezia, Paulum Meietum); Methodi
medicinales duae, Francoforte); De modo discurrendi circa morbos, eosdemque
curandi tractatos, Francoforte). Dizionario biografico degli italiani. Niuerfi corporis nostriesentiatribus
potisfis mum perfici, Au&toreft Hip.Lib.depart:
morbisuulg.contentis,nimirum continentibus nepartes omnes corporis nutriantur; immo
eden dem subftantia panis incanefit. carocanis,fs= cut etiam in homine. Hoc
autem nequaquam contingeret, nifi in u n o ecodem alimentomu mero delitescere
nutrimentum simile omnibus dictispartibus) in diuerfis indiuidui sfpecie differentibus.
Que igitur fit Nostri corporis t singularum partium essentia, ex quibus quotes qualibus
conflatafit, explicareo portet. ) impetum facientibus, Quorum omniumuna o eadem
eft effentia corporeaG substantia; distins guuntur folum prenestenuitaremecrasfstie,
buiufe modi autem efemeia homini non ineftratione qua isiJA8.aph. homo vel
animal aut planta, sed ratione qua mixtum, acproindecuilibetmixtogosina gulis
cius partibus conuenit, ut ob i d Nutritioznis materia necà subftantia incorporea
capienda fit, necà quolibeecorpore; fed folum àmixton Qua ratione fit, ut
nullum c i e m e n t u m ratione: quá fimplex corpus eft, idoneum ad nutris 113 endumefe
posfat, Nihil. niquodeft Complex, aprum Nullú natum est nutrire compositum; praeterea
elementa fimp. Poteft mixtionis perfectione tumpænes corporis effens nutrire. Tiamtum
complexionem.unum quodq;corpus maiorem eu minorem preparationem suscipit cumeafint
corpora, quefummisqualitatibusprae Autrire dita funtLonge diftant,uiapra fine
ad witam Jūscipiendam, fed faliusmixtionis causa, oris, tarinquolibetmixta
difpofitioad aliquodeuis, Solum densuitæ genus, promaiori, etminori ad: Viræ
gradum magis uelminus prestantem, Hon. Quod sanėincaufaeft, uthomoexcellentios remnitegraduimà
deo bonorum omniumlars tiorem, gitore mixtione primooriuntur, paulomaioremaffinia
Alimentatem nobif cum habere videntur. Quandoquis cum nódem ratione qua mixia sumt,
triplicem illum partium mixtú.acceperit.Quia exAuic.senientiadonás uit il le
meliorem temperaturam quam habeant caeteraomnia mundientia,Contra uerúelementa,
quiamixtione adhuccarent, & fummis qualitatibus praedita funt, ideononsolumuita
carent, fed tanquam corpora omnium impera fe&tisfima longa omnium diftant
ab ipsauiça. Qua propter frustra quæriturex huiusmodicor poribusim perfectisfimis&
uitae ineptisaliqua utritionis materia. Quæ uerò exclementorum et apti uir
excellenuitzgradu obtineat parrium numerum obtinebunt, quibus diximus de
fumi constitutam, efseuniuersammixtiefentiam, preterea ex precedente mixtione
aliquam tempera- mixto. Turam consequeasunt, utego mixtionisratione, a
qualitatumprimarumcomoderatione,minus ipfos elementis diftent à corpore nostro;
Hec tamen prima elementorum mixtio adeo inperfecta eft, ut fufficiens minime
fitper nutris tione facienda; Quia hac ratione quodlibet mixtum nutritioni
idoneum forei', &t) uitæ cons feruationi,unde homoæq; nutririposset,ex las
pidibuset metalis ficut ex pane et vino hoc samencum sensui repugnet, neccesario
fequitur, preterpropofitam conuenientiamсex quo libct>mis latam ripaulo
angustior existens, noftræ etiam mixtioamplam aliam requiri,queprio nifiemagispropinqua,hacautem
qualisele debeat, naturae modus mixtionissutricns tise nutritideclarant:Nam
quodnutriturumQuale eft, non folum mixtum utfitoportet,cuiusmos fitaprú
disuntetiamlapidese mettalla,fedtalemnutri miscibilium commensurarionem
haberedebet, qua lisrequiritur, esaptumfitsertiin fubftantiam nutriti, At quod nutriturnon
folum corpus eft, non folum corpus mixtum, uerum etiam uita præditum, ergo quod
est nutriturum, cum n uut pote nia tionis; tritosimileefedebeat,eammixtionem
acmi scibilium mensuram habere opus eft,ut in sub
ftantiamcorporisuertipossit,& iliusuitam conseruare: Cuius mixtionis defe
tu lapides e metalla, ficut ad nullam vitaegradummanife ftumpreparatafuere, itanecuitam
noftramtueri, aliquomodopoterunt, Quandoquidem in sui generatione longe aliam
mixtionis rationem obtinuere,quam Viuentis corporis nutritia cxpos ftulets Alimentum
de fumen. There are various types of tropisms in both cabbages and kings:
photo-tropism, tropism to the touch, geo-tropism, or gravito-tropism,
hydrotropism. Albertini Bottoni. Albertinus Bottonnus. Albertinus Bottoni. Albertino
Bottoni. Keywords: de essentia corporis humani, vita, filosofia della vita,
Grice on body and mind in ‘Personal identity’ – body, corpus Christi – corpus
umano, corpus viris – essential corporis humani, l’essenza del corpo umano,
corpo dell’uomo, corpo virile, corpo animato, corpo, fisica mecanica, moto del
corpo, corpo, animazione, credenza che i vegetali non sono animale per che il
moto non e volontario ma condizionato – fototropismo --. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Bottoni” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Boulagora – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza. According
to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), Boulagora was a Pythagorean, and
the fourth leader of the sect. He succeeded Mnesarco, the son of Pythagora, and
was in turn succeeded by Gartida di Crotona. It was during the leadership of
Boulagora that the Pythagoreans were expelled from Crotona.
Grice e Bouto – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo
italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), he was a
Pythagoean.
Grice
e Bovio – il linguaggio – l’animale parlante – homo symbolicus – un tono, una
figura -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Trani).
Filosofo italiano. Grice: “You’ve got to love Bovio; he has a stamp, I don’t.
My favourite is his piece on ‘linguaggio,’ on the implicature (plural of
implicatura) of the ‘animale parlante’ – ‘un tono, una figura, …’ – But he also
philosophissed fascinatingly on ‘La lotta,’ which is a bit like my model of
conversation as a competitive game.” politico italiano, sistematizzatore
dell'ideologia repubblicana e deputato al Parlamento del Regno d'Italia.
La casa natale di Giovanni Bovio a Trani Giovanni Scipione Bovio nasce a
Trani da Nicola Bovio di Altamura, impiegato, e Chiara Pasquini.
Autodidatta, pubblica Il Verbo Novello, un poema filosofico scritto con
intonazione enfatica. Fra i suoi scritti si ricordano la Filosofia del diritto,
il Sommario della storia del diritto in Italia, il Genio, gli Scritti
filosofici e politici, la Dottrina dei partiti in Europa, i Discorsi. Sotto il
Ministero Minghetti, ottenne il pareggiamento della cattedra di Storia del
Diritto all'Napoli e, consegui la libera docenza in Filosofia del diritto.
Bovio fu anche deputato alla Camera: nel 1876, con il subentrare della Sinistra
costituzionale alla Destra, fu eletto nel collegio di Minervino Murge. Il suo
atteggiamento, diversamente da quello dei suoi compagni che condividevano
l'idea repubblicana, non fu incline all'astensionismo. Nel 1880 Bovio
sposò a Napoli Bianca Nicosia dalla quale ebbe due figli, Corso Bovio, così
chiamato in onore agli italiani di Corsica sottomessi al dominio francese e
Libero Bovio, poeta ed autore dei testi di molte celebri canzoni napoletane.
Libero Bovio, a sua volta, fu il nonno dell'avvocato, giornalista e docente
Libero Corso Bovio. Napoli fu la sua città di adozione, dove morì. La città gli
ha dedicato una piazza, che i napoletani continuano però a chiamare con
l'antico nome di Piazza Borsa. La città di Firenze gli ha dedicato una strada.
La città di Piombino gli ha intitolato la piazza sul mare più grande d'Europa,
Piazza Bovio. La città di Teramo gli ha intitolato un importante viale. La
città di Terni gli ha intitolato un intero quartiere che comprende tutta la
zona est chiamato, appunto, Borgo Bovio. «(Napoli) In questa casa morì
povero e incontaminato Giovanni Bovio che meditando con animo libero l'Infinito
e consacrando le ragioni dei popoli in pagine adamantine ravvivò d'alta luce il
pensiero italico e precorse veggente la nuova età.» (Epigrafe di Mario
Rapisardi) Il pensiero Targa in memoria di Bovio nella piazza di Napoli a lui
dedicata Passo Corese: targa, con testo attribuito a Giovanni Bovio,
dedicata a Garibaldi Giovanni Bovio era sostanzialmente contrario alla
monarchia. Come ideologo repubblicano, Bovio ebbe il motto "definirsi o
sparire": palesò insomma ai repubblicani l'esigenza urgente di
un'impostazione non confusa e non settaria, di una chiara direzione che spinse
poi i repubblicani a definirsi in partito di moderno tenore. Bovio
stabilì per il Partito repubblicano nessi e prospettive nazionali ed
europee. Egli considera la monarchia come l'attuale realtà italiana. Ne
segue che la repubblica è utopia, e Bovio si dichiara utopista. Nel suo
pensiero la monarchia cadrà, proprio quando dovrà risolvere il problema della
libertà. Serve comunque un lungo periodo perché la situazione monarchica si
deteriori. Colma evidentemente di determinismo, la sua filosofia si definiva
come naturalismo matematico. Differentemente dalla teoria socialista,
Bovio riteneva che il nuovo Stato a venire avrebbe avuto una "forma
storica", non potendo dimensionarsi unicamente sulla base di azioni
economiche. Bovio introduceva dunque una concezione formale dello Stato, che si
sforzò di divulgare anche presso i ceti operai. Fu molto considerato
anche a Matera dove non si dimenticava peraltro che nella locale "scuola
detta regia, fondata da Bernardo Tanucci, libero pensatore dei tempi suoi,
quando era libertà contrastare alle pretensioni papali, fu insegnante di
letteratura e di diritto Francesco Bovio, il quale intese queste dottrine nella
libertà e per la libertà. Quell'insegnamento fu seme fecondo, e dalla sua
scuola venne fuori la nobile schiera dei martiri, i cui militi rispondono ai
nomi di Giovanni Firrao, Giambattista Torricelli, Fabio Mazzei, Liborio Cufaro,
Antonio Lena-Santoro, Gennaro Passarelli, Marco Malvinni-Malvezzi". Nel
1904, a circa un anno dalla sua morte, nella "giornata più adatta"
come "il fatidico XX Settembre", gli intellettuali laici materani con
la loro associazione "G.B. Torricelli" tennero una solenne
commemorazione "per pagare un tributo di affetto e di riverenza al Grande,
che ci fu Maestro e ci amò di quell'amore di cui sono capaci soltanto gli
educatori come Lui" dice un oratore. E un secondo aggiunge che "la
titanica figura di quell'illustre profeticamente ci addita il sole
dell'avvenire", per cui il tributo di affetto al suo carattere fiero ed
onesto è tanto più doveroso "in questi tempi borgiani". Un terzo
oratore, rivolgendosi al sindaco Raffaele Sarra, e nel consegnargli la lapide,
lo invita ad additare "quel nome a questi onesti operai per indirizzarli
sulla via della dea ragione, scuotendo così il giogo dell'oscurantismo e della
superstizione, che li avvince e li abbruttisce". Promessa che il sindaco
Raffaele Sarra non esita a fare, ritenendo quel marmo "un severo monito
all'indirizzo di tutti coloro i quali nulla fecero e tuttora nulla fanno per
strappare la nostra plebe dalla miseria, dalla ignoranza, dalla superstizione,
dall'abbruttimento secolare". Per la precisione, la lapide commemorativa,
scoperta quel giorno sulla facciata del palazzo di giustizia, sarà tolta negli
anni '30 per iniziativa della sezione fascista (e gli incauti scalpellatori si
riferiranno nell'operazione). Bovio ebbe comunque anche l'esigenza di
definirsi rispetto agli anarchici. La forma repubblicana, scrisse, è a metà
strada fra la monarchia e l'anarchia, vale a dire fra l'ipertrofia dello Stato
e la sua totale anarchica abolizione. Non a caso, quando l'anarchico Gaetano
Bresci compì l'attentato contro Umberto I, Bovio invitò tutti gli anarchici a
desistere dalla violenza. In sostanza, un'esagerazione utopistica tradotta in
atti sanguinari (l'opera degli anarchici) avrebbe prodotto un rafforzamento
reattivo dell'autorità costituita, allontanando proprio il momento dell'avvento
della repubblica. Troviamo in lui un tentativo di superare l'idealismo della
metafisica idealistica e insieme con essa l'approccio empirico del positivismo.
Fondamentalmente Bovio introdusse in Italia l'eco delle nuove correnti
speculative nella filosofia del diritto. «Giovanni Bovio — cittadino di
spartana austerità — fra il mercimonio affannoso dei politicanti — pensatore
solitario — fra lo strepito di cozzanti dottrine — artefice possente di stile —
fra la pretenziosa nullaggine dei parolai — traversò impavido — le torbide
correnti del secolo — e ne uscì puro a fronte alta — con l'animo illuminato —
dalla fede confortevole — nell'ascensione perpetua del pensiero umano.»
(Epigrafe di Mario Rapisardi) Bovio e la massoneria Bovio fu un membro eminente
della massoneria(raggiunse il 33º ed ultimo grado del Rito scozzese antico ed
accettato), così come lo erano i suoi familiari (suo padre Nicola, suo zio
Scipione e suo nonno Francesco Bovio). Iniziato nella Loggia Caprera di Trani
nel 1863, il 17 giugno del 1865 Giovanni Bovio ne divenne oratore. Su invito
della massoneria milanese, tenne a Milano la commemorazione del centenario
della morte di Voltaire. Nel maggio 1882 fu nominato membro del Grande
Oriente d'Italia, di cui presiedette la Costituente del 1887. Eletto grande
oratore, e restò in carica fino alla Costituente. In Campo dei Fiori a Roma, fu
l'oratore ufficiale per l'inaugurazione del monumento a Giordano Bruno, voluto
dalla massoneria romana ed eseguito da Ettore Ferrari, che sarà gran maestro
del Grande Oriente d'Italia. Gran Maestro della Loggia Napoletana, nel 1896 fu
candidato all'elezione di Gran Maestro nazionale. L'8 giugno 1896, in
un'interpellanza rivolta al presidente del consiglio e ministro dell'interno
marchese di Rudinì a proposito dei provvedimenti che aveva annunciato contro la
massoneria, Bovio disse «La massoneria è un'istituzione universale quanto
l'Umanità ed antica quanto la memoria. Essa ha le sue primavere periodiche,
perché da una parte custodisce le tradizioni ed il rito che la legano ai
secoli, dall'altra si mette all'avanguardia di ogni pensiero e cammina con la
giovinezza del mondo» Il centenario della Rivoluzione di Altamura
Celebrazioni per il primo centenario della Rivoluzione di Altamura (con
Giovanni Bovio) Giovanni Bovio partecipò alle celebrazioni del centenario della
Rivoluzione di Altamura (nell'anno 1899), durante il quale fu eretto un
monumento sulla piazza centrale di Altamura, che ancora oggi è presente e che
fu realizzato da Arnaldo Zocchi. Il padre di Giovanni Bovio, Nicola Bovio, era
di Altamura, così come lo era suo nonno Francesco Bovio, il quale insegnò diritto
presso l'Università degli Studi di Altamura. Nel suo discorso, Giovanni
Bovio esaltò lo spirito degli altamurani e affermò che il concetto di libertà
era stato sempre vivo nei loro cuori. Anche grazie al fervore di idee
dell'antica Altamura, dotti, nobili e plebei altamurani si erano uniti tutti
sotto l'idea di libertà ed erano pronti a sacrificare le loro ricchezze, i loro
titoli e persino la loro vita per la libertà. Antenati e discendenti di
Giovanni Bovio Francesco Maria Bovio )nonno di Giovanni Bovioprofessore di
diritto e lettere presso le Regie Scuole di Matera e l'antica Università degli
Studi di Altamura. Fu anche "giudice interino di pace" e massone
iscritto alla loggia "Oriente di Altamura". Difese inoltre la Repubblica
Napoletana, prendendo parte alla Rivoluzione di Altamura Nicola Boviopadre di
Giovanni Boviocarbonaro (iscritto alla vendita "il Pellicano" di
Trani) Scipione Boviozio di Giovanni Boviocarbonaro (iscritto alla vendita
"il Pellicano" di Trani) Corso Boviofiglio di Giovanni Bovio-
avvocato del foro di Napoli e successivamente docente Diritto Penale Milano
Libero Bovio figlio di Giovanni Boviopoeta e musicista Giovanni Bovio nipote di
Giovanni Bovioavvocato del foro di Milano
Libero Corso Bovio pronipote di Giovanni Bovioavvocato, giornalista e
docente Note Matera contemporaneaCultura
e società, Leonardo Sacco, Basilicata editrice
Alfonso Scirocco, BOVIO, Giovanni, in Dizionario biografico degli italiani, 13, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Gran Loggia. Massoneria e i suoi trecento anni di modernità, una
mostra ricorda i massoni protagonisti del NovecentoGrande Oriente d'ItaliaSito
Ufficiale, su Grande Oriente d'Italia).
Ferdinando Cordova, Massoneria e Politica in Italia, Carte Scoperte,
Milano Biografia di Giovanni Bovio (con video GOI radio), su montesion Vittorio
Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma, Copia archiviata, su comunedipignataro. Morto
l'avvocato Bovio, "principe" della difesa, in La Stampa, Giovanni
Bovio, Teatro morale dogmatico-istorico, dottrinale e predicabile, Roma, nella
stamparia di Giorgio Placho presso a San Marco, Giovanni Bovio, Teatro morale
dogmatico-istorico, dottrinale e predicabile. Tomo secondo, In Roma, per Filippo
Zenobj stampatore, e intagliatore di n.s. Clemente XII, incontro il Seminario
Romano, Repubblicanesimo Partito Repubblicano Italiano Piazza Giovanni Bovio
(Napoli) Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Opere di Giovanni Bovio, su Liber Liber. Opere di Giovanni Bovio, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Giovanni Bovio,. Giovanni Bovio, su storia.camera, Camera dei
deputati. Armando Carlini, BOVIO,
Giovanni, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
giovanni-bovio. Alfonso Scirocco, BOVIO, Giovanni, in Dizionario biografico
degli italiani, 13, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1971.Filosofia Politica Politica Categorie: Deputati della XIII
legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XIV legislatura del Regno
d'ItaliaDeputati della XV legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XVI
legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XVII legislatura del Regno
d'Italia Deputati della XVIII legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XIX
legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XX legislatura del Regno d'Italia Deputati
della XXI legislatura del Regno d'ItaliaFilosofi italiani del XIX
secoloPolitici italiani Professore Trani Napoli Repubblicanesimo Massoni Mazziniani
Politici dell'Estrema sinistra storica Politici del Partito Repubblicano
Italiano Studiosi di diritto penale del XIX secolo. Roma Utopista non è chi
sogna, m a chi pensa, e tanto più profonda è l'Utopia quanto più il pensiero
coglie la relatività dei tempi. Greca è dunque l'origine della utopia é
utopista tipico fu Socrate che osó primo al costume civico contrapporre la
missione individuale:– Io Socrate sono nato a liberamente filosofare e se cento
volte per que sto iofossi morto e rinascessi, tornerei a filosofare. Non pena
dun que mi è dovuta, ma il Pritaneo. Questo tentativo di ribellione
dell'individuo contro il cittadino,del l'individuo che osa pigliarsi un mandato
individuale che non solo valga il mandato civile m a ardisca riformare il
costume, questo è punito e, in quella natura di tempi,era veramente crimine di
Stato.Socrate anch'esso,come atterrito dal colpo ch'ei tira,sente che al
cittadino è dovuta l'espiazione individuale, e rifiuta ausilio, e si
apparecchia all'immolazione di sè non pure perché sente compiuta la sua mis
sione e non gli piace vivere superstite a se medesimo, ma perchè vuole
grecamente spirare:dum patriae legibus obsequimur.Che è quel l'ultimo pensiero
del Gallo,che, rimossoillenzuolodalviso,eivuole sacrificato ad Esculapio? Vuol
finire sul letto del carcere come fosse alle Termopili, e vuol morire con
religione e costume attico come a punizione di alto trascorso individuale.
L'individuo fu Socrate fi losofo; il moribondo è l'atenieserassegnato: ma il piùgrandeèque
sto, che proprio questo ateniese punisce quell'individuo e non gli dà scampo.
Pericle non potè salvare Anassagora; Socrate non vuole sal vare se stesso.
Quando gli Dei patrii percossi dalla riflessione socratica supina rono
sull'Olimpo muto, Epicuro sorridendo gitto sopra di loro un gran panno funereo
e si rallegrò coll'uomo liberato dai divini terrori. Però quel panno che
Epicuro gittava sull'Olimpo copriva tutta la Grecia; giacché quel panno che
soffocava la lotta semi-divina era indizio della missione greca già finita.
Perciò Epicuro la scia i giar dini greci, le dolcezze e i profumi
arcadici, e se ne viene nel Foro romano, e siede e sentenzia e giudica e genera
di sè due uomini diversissimi, Orazio e Lucrezio, o da Orazio poi il tipo di
Munazio Planco e da Lucrezio quello di Papiniano. Sono troppe cose che io dico
insieme, delle quali molte non dette ancora e nondimeno prova bili non pure con
la forma del discorso,ma col testimonio dei fatti, Cicerone, vedendo
Epicuro alle porte di Roma, cerca fulminarlo col medesimo effetto onde Pio IX
fulminava il soldato italiano ve nuto innanzi a porta Pia.Erano saette sine
ictu.Epicuro sorride dei fulmini di Cicerone come di quelli del Giove greco ed
entra in Roma e prende Cicerone per mano e segretamente sel fa suo. Ma, appena
entrato in Roma, Epicuro prende la natura del Giano latino, si fa bifronte, ed
una sua faccia è quella di Orazio, l'altra di Lucrezio. Or come avviene codesto
miracolo? Miracolo no:è la dialet tica del sistema epicureo che ha questi due
lati. L'uno dice cosi: La vita è brede; di là non si continua; dunque godiamola
di pre sente.La morte ci colga quando possiamo gittarle infaccia la scorsa del
pomo della voluttà, tutto premuto. L'altro dice cosi: La vita è breve; di là
non si continua; osiamo dunque eternarla con un'opera degna della immortalità
della fama. Perchè tentare la turpitudine se nel punto di asseguirla la morte
può spegnermi? Ecco le due fronti di Epicuro, che sulla porta di R o m a assume
forma gianesca. L'una è di Orazio: Vitae summa brevis nos detat spem inchoare
longam. Di lá non v'è vita: Non regna vini sortiere talis. La conseguenza ch'ei
porge all'anima tua è sempre una: Carpe diem quam minimum credula postero.
Questa illazione può signifi carsi con un grugnito del porco epicureo. L'altra
è di Lucrezio: Omnia migrant, Omnia commutat natura et dertere cogit. Dalla
quale migrazione eterna dell'essere deriva il summum crede nefas. Importa sol
consegnare integra la lampa della vita alle generazioni sopravvenienti. Da
Orazio nasce Munazio Planco, prima Cesariano, poi Pompeiano, poi repubblicano,
poi di Antonio e di Cleopatra, poi cortigiano di Augusto e sprezzato da tutti:
tipo del galantuomo di Guicciardini; e fini nella sua villa di Tivoli come
Guicciardini nella solitudine di Arcetri. Da Lucrezio nasce il tipo del
giureconsulto, Papiniano, che intese il dritto come bonum aequum, e non volle
in Senato difendere un imperatore fratricida e piuttosto che l'onore volle
lasciare la vita. Morendo,come avea sentenziato,provvide all'immortalità della
fama. Cosi abbiamo dalla medesima scuola il porcus de grege Epicuri, c de
acie Epicuri miles. N è questo doppio tipo fu smarrito nel p e riodo del
risorgimento, quando dopo la scolastica platonica e aristo telica si riaffacció
l'epicureismo: dall'una parte si ebbe il Pontano cantore della voluttà,
dall'altra il Cavalcante cercatore austero, tra i sepolcri, della immortalità
della fama. Da Epicuro il mondo romano prende il senso della positività, ed è
però mondo di prosa non di arte, con missione giuridica, con lingua giuridica,
con monumenti, storia, tradizioni giuridiche. La Grecia ci ha tramandato due
insuperabili documenti, la tragedia epica e la tragedia filosofica, l'Iliade e
il Fedone; Roma il Corpus juris, con due potenti compagni, l'epigrafe e il
responso. Quanto all'epigrafe, specie sintetica di letteratura, nessun altro
popolo nė lingua ha il quarto della maestà e rapidità dell'epigrafe latina, nata
rebus agendis. Onde nazioni nordiche e neolatine e transatlantiche pigliano
ancora, e avverrà per lungo tempo, da Roma antica l'epigrafe e il responso. E
la più bella dell'epigrafi ha contenuto epicurco e giuridico: « Et creditis
esse Deos?» la tomba negata a Catone e a Pompeo è superbamente data ad un mimo!
Se gli Dei sono ingiusti, gli Dei non sono. E le epigrafi più solenni
nascondono certa finezza d'ironia epicurea nel senso giuridico. L'epigrafe
latina è solenne, perché è breve come il responso. Questa rapidità di
percezione è dalla lingua istessa giuridica per eccellenza, imperativa e, se
m'è lecito a dire, dittatoria: onde l'epigrafe è quasi sempre responsiva cioè
di senso giuridico,e il responso è sempre epigrafico. Ed in Roma e possibile il
tipo del giureconsulto, dell'uomo cioè che ha l'intera percezione del dritto, rapidamente
e propriamente la significa e sa comandarla a sè stesso prima che agli altri. È
tipo raro, tutto assorbito dalla meditazione etica, che traduce nella parola e
nel fatto. Roma n'ebbe pochissimi e assai più pochi ne fiorirono in tempi
posteriori. E quando oggi odo chiamare giureconsulti alcuni legisti meno che
mediocri dico che o le parole non s'intendono o sono stravolte dall'adulazione.
Quando la lingua latina canta di amore a me pare, senza esagerazione, udire il
Ciclope favellare a Galatea. Non è qui la sua forza, la sua missione, il suo
contenuto storico. Dica rapidamente il dritto, dica il fatto. Il responso e
l'epigrafe, questo è il gran contenuto della letteratura latina, questo è suo
proprio, è originale, è collatino, oso ied « Quid quid praecifus, esto
brevis, ut cito dicta Percipiant animi) dire: il rimanente é preso di qua o là
e porta il mantello peregrino. Ed ha tre uomini sommi, Lucrezio, Papiniano e
Tacito. Lucrezio non ha cantato un poema, nè si dà al mondo poema didascalico, ma
ha dato l'esposizione epicurea della natura, la cui Venus non viene da Milo ma
dal Foro e può somigliare ad Astrea. Papiniano ha dato il più alto responso,
nel quale è la sintesi della missione latina e lo ha suggellato, come dovea,
con la morte. L'olocausto di Socrate ci mandò la tragedia filosofica che è
greca. L’olocausto di Papiniano citramanda la tragedia giuridica che è latina. Perchè
dopo il Nerone e la Messalina non cantare anche questa che è più solenne? La
storia di Tacito suona sulle rovine imminenti dello stato latino come la serventesi
dell'ultimo degli albigesi. Tacito è fosco come la sera nebbiosadiuna grande
giornata; è riflessivo come chirasenta le rovine; è triste come chi cerca una
virtù ch'ei sa di non trovare. Perciò ei ritrae Tiberio assai meglio che
Tiziano non ritragga Filippo II, ma dove pinge la virtù non è pittore molto
ispirato. E grande col pen nello onde lo Spinelli ritraeva Satana. Ma se gli
dai la tavolozza di Raffaello ei te l’annacqua. Lucrezio, Papiniano e Tacito
sono tre che si somigliano nella forma di concepire e nella rapidità scolpita
della espressione. Tacito, che. segna la decadenza e lavora come il Sisifo di
Lucrezio, qui semper victus tristisque recedit, spesso ti accusa la maniera e
quando è breve, quando è corto; ma è l'ultimo de' grandi romani. Chi cerca la grandezza
del pensiero latino fuori di questi, e vuol trovarlo o nei la menti di
Properzio e di Ovidio, o nel citiso di Virgilio e nelle primavere di Orazio, o
pescarlo nel bicchiere di Catullo, o spiccarlo dagli orli della toga di
Cicerone è come chi cercando l'anima del trecento,invece di volgersi a Dante e a
Boccaccio, la spia negli occhi estatici di Caterina da Siena o nel cipiglio di
Passavanti. In questo teatro giuridico, che è il mondo latino, ilcontenuto
della lotta si trasforma e di semidivino diviene pienamente umano. Qui non han
luogo cause per divinità. Qui Lucrezio può vuotare il Pantheon che accoglie
indifferentemente tutti gl'Iddii per vederli indifferentemente sfatare dal
sistematore della Natura. Lucrezio morrà non per accusa di Melito, di Anito, di
Licone; ma morrá se gli piace, di sua mano, se il destino dell'uomo gli parrà
troppo somigliante a quello di Sisifo. Allora la Venus genutrix gli si muterà
in Venere Libitina, ed egli userà della vita secondo quello che gli parrå suo
diritto. Io non credo all'aconito; credo suicida Lucrezio, e questo suicidio
proprio di forma romana, come quello di Catone, cioè per ius necis etiam
in se. Questa lotta umana, iniziata non compita in Roma, questa che è
tutta e sempre lotta civile dal ritiro della plebe sull'Aventino sino ad
Augusto, qui omnium munia in se trahere coepit; questa epopea tutta latina non
trovabile in Virgilio ma un frammento Ciò significa: Il mondo greco, cominciato
religiosamente, finisce nella irreligione di Epicuro; il mondo romano pieno
della dotta ir religione di Epicuro, finisce nel mistero cristiano. Come sia
avvenuto questo fenomeno chiariremo nella nostra lezione intorno a Cristo.
Questo vien chiaro di presente, che ilcontenuto giuridico in Roma non può
porgersi come ius civile abstractum, ma come primo sentimento di equità, onde
sigenera il Pretore, istituzione profondamente etica, ignota anche questa alla
Grecia, e urbano e peregrino, e il cui fine è sempre l'aequitas, affinchè il summum
ius, non diventasse summa iniuria o summa malitia. Quindi il placito del
giureconsulto nella costituzione delle leggi. In rebus novis constituendis
coidens esse de bet utilitas, ne animus recedat ab eo jure, quod diu AEQUUM
visum est (Fideicom L. IV.). Chiaro è che l'equità costituisca la misura del
dritto; che questa equità lungamente saggiata, traducendosi in dritto, genera
l'utile sincero; e che questo utile debba essere evidente ai popoli nella
costituzione delle leggi. Quindi l'iniquum erat injuria. Quindi l'aequitas appo
i latini non è il concetto volgare che ci viene da Ugone Grozio, è l'assoluta, continua,
ascendente correzione del dritto civile, cioè del dritto greco; e però cosi
coloro che veggono pura medesimezza del dritto greco e romano, quanto quegli
altri che continuano a favoleggiare intorno alla origine greca delle XII tavole
mostrano ignorare la differenza delle due storie, dei due popoli, delle due
lotte, delle due civiltà. E iltesto canta chiaro. Ius praetorium adiuvandi, del
supplendi, vel CORRIGENDI iuris civilis gratia est introductum,propter
utilitatem pubblicam. Che è quel ius civile bisognoso di correzione? È quello
appunto che in Roma patriziato il tribuno per una certa equa partizione
di cose e di ufficii, e genero, ignoto alla Grecia. L'altro tra l'individuo per
una certa equa emancipazione ignoto alla Grecia. dell'individuo il rimanente in
Tacito, ha due periodi principali: l'uno tra plebe e e la comunanza, e genera
Spartaco, Livio e La plebe fu vendicata da Mario e più da Cesare che se
oppresso il tribuno era segno che non v'era più patriziato sovrano ed operoso.
Spartaco, sopraffatto da Crasso e da Pompeo e morto nella pienezza della sua
protesta, trova poco dopo più grande vendicatore, Cristo. comincia
a parere summa injuria, la cui correzione costituisce l'istituto pretorio, che
è tutto romano, il cui programma si assomma nella sentenza. Placuit in omnibus
rebus praecipuam csse iustitiae ac AEQUITATIS quam stricti juris rationem.Quello
stretto dritto è greco, è puramente civile, è quiritario, è aristocratico, e
trasmoda nell'ingiuria, o per violenza o per malizia, aut vi, aut fraude.
Quell'acquitas è la correzione pretoria, è la grandezza dello spirito latino,
che tutto si manifesta e dimora nella giustizia pretoria e urbana e peregrina. E
quell'aequitas deriva dalla lotta umana, cosi della plebe contro il patriziato
come del servo contro il padrone. Il ius civile e il risultamento della lotta
semi-divina. L’aequitas è il prodotto della lotta civile. Quella è greca, questa
è latina. Quella ha il suo fastigio storico da Socrate ad Epicuro, questa da
Mario a Spartaco. Quella è lotta filosofica, questa è giuridica. I canoni di
Epicuro sono l'orazione funebre all'Olimpo e però alla Grecia, la protesta di
Spartaco è il requiem al superbo ciris romanus. Insomma la gloria storica di Roma
non è il dittatore, nè il console, nè il senato, nè il questore, né l'imperatore,
e nemmeno il tribune; è ilPretore. Il suo editto è la sintesi dei responsi; lo
spirito dei responsi è l'equità. L’equità è il prodotto della lotta umana. Questa
lotta è ilcontenuto della civiltà latina. Con questo spirito di equità
torna agevole a Tacito descrivere il tiranno, scolpirlo. Volere parendo di
rifiutare, comandare parendo di subire, far tutto parendo di non fare, questo è
il tipo del tiranno, questo è il Tiberio di Tacito, rispetto al quale gli altri
tiranni venuti di poi sono volgari, ubriachi, troppo scoperti e però troppo
espo sti ad essere tiranneggiati. Tipico è questo Tiberio in Tacito, come Aiace
in Omero, come Ugolino in Dante, come in Otello in Sakespeare, e non patiscono
ritoccamenti di nessuna mano: chi si attenta a ri farli, sotto qualunque altra
forma, disfà. E in Roma fu possibile il ritratto del tiranno, il pittore di
Tiberio, perchè in Roma fu possibile il sentimento dell'equità, non astratto, ma
tradotto in ragione pretoria.Ne Riccardo III, nè Arrigo VIII, nè Filippo II, nè
Alessandro VI o Paolo IV ritrassero Tiberio. Vollero troppo, si chiarirono
troppo, furono troppo tiranneggiati. Ma il tipo, spento individualmente,
risorse collettivamente nella Compagnia di Gesù, che per 333 anni dilargò l'oligarchia
nera sulla terra, parendo di non volere, di non comandare, di non fare. Ma e il
gesuitesimo tiberiano, e il cesarismo gesuitico non possono essere tanto chiusi
che il pensiero e la natura non v'entrino. Fu però equità piena, sincera, spiegata
questa di Roma, siche la si trovi tutta adempita nella ragione pretoria? La
lotta umana di Roma diede per risultamento il dritto umano? In somma il dritto
romano si continua a studiare, a chiosare, ogni giorno in ogni parte civile
della terra, perchè effettualmente è l'ultima parola del dritto? L 'aequitas in
omnibus spectanda, quando non voglia essere un nome ma cosa, non un
presentimento ma una idea, non in somma una esigenza ma un adempimento, bisogna
che si manifesti come connessione ed equazione dei contrarii, ciod del genere
coll'individuo, del cittadino con la persona, affinchè ne risulti l'interezza
dell'uomo. Ora questa equazione torna possibile quando l'individuo si sia affer
nato e contrapposto al cittadino e abbia avuto nella storia tanto va La cosa sta
in questi termini: L'equitàs cientificamente intesa spetta: all'avvenire, che
sarà la sintesi del cittadino coll individuo per costruire tutto l'uomo:
l'equità latinamente intesa fu il transito dal cittadino all'individuo per
costruire l'individuo. Il transito non è la sintesi, è il semplice avviamento
dall'uno al l'altro dei contrarii, dall'azione alla reazione, dal bianco al
nero, m a non è il cenerognolo in cui l'uno e l'altro si fondono. Fu larva
dunque di equità: e non dimento anche come larva quel dritto è rimasto solenne,
tipico nella storia, come presentimento di quello che il dritto è destinato ad
essere. Dunque nella storia il mondo romano è l'esodo, il passaggio dal
cittadino greco all'individuo germanico. E in questo transito dall'uno
all'altro dei contrarii consiste, chi 30 -. ME evoluzione quanta il cittadino se ne prese. Senza
que stazione e reazione, o, come altrove dicono, senza questa tesi e antitesi nessun'armonia
finale e completiva,nessuna sintesi piena e d u revole, Nessun equilibrio, nessuna
equazione in somma è effettualmente possibile: e se l'equità non è questa
equazione, è ancora un sentimento vuoto.Se ne deduce che Roma non poteva ancora
nė ideare nè porgere la vera equità giuridica, perché l'individuo non avea
compiuto la sua reazione storica, non avea dato tutti gl'istituti che dovevano
nascere di sé, dalla sua antitesi o contrapposizione al cittadino. Dove s'era
fatta la storia dell'individuo, l'autobiografia, per ché il Pretore potesse
consapevole contemperare i contrarii, connetterli, equilibrarli? Vedesi dunque
che questa equità è l'avvenire della storia non il passato; spetta alla
giornata travagliosa dei posteri non alla lotta civile di Roma.Or dunque è
stata spuma d'acqua sonante l'equità romana? Troppo sarebbe stato il
rumore! consideri, l'universalità dell'impero latino. Il quale perde la
sua ragione di durare quando Cristo compie l'emancipazione individuale.
Ragioniamo brevemente di Cristo. Abbiamo nel nostro linguaggio certe parole
fulminatorie che vogliono significare una gran fede e tradiscono l'ipocrisia di
chi le dice; vogliono atterrire e producono invece l'impressione comica delle
scomuniche di un certo vescovo provenzale sull'animo di Guglielmo IX, duca di
Aquitania e conte di Poitiers. questa, dopo la rinascenza, dettò a
Galileo la riduzione delle leggi della mente e della natura sulla pietra
Lavagna; anche oggi questa imponeva al Ferrari la riduzione de' periodi storici
nel numero; e sempre questa tornerà dopo le brevi soste o deviazioni del nostro
genio. Anche nella politica noi vogliamo misurato il nostro passo, e perd la
nostra prudenza di governo e di popolo fu compendiata felicemente non nel
cunctari nè nel festinare, ma in quel festina lente, che è la sintesi più
mirabile e perfetta del nostro carattere. Non è già che ad ora destinata non
abbiamo le rivoluzioni noi come gli altri popoli, m a i tremiti e le oscillazioni
non le vogliamo, nè vogliamo rifare il passo. A rovinare i pensatori alquanto
più arditi sino al 1860 avevamo tre terribili parole graduali: protestantismo,
panteismo, materialismo. Oggi sono tre fulmini senza cuspide, e a sprofondare
gli scrittori di parte avversa, abbiamo sostituito a quelle tre altre parole
terrifiche con la stessa sacramentale gradazione: repubblicanismo, socialismo,
internazionalismo. Quelle tre prime parole suonavano una scomunica canonica, le
seconde una scomunica politica. Ma nessun furore biblico traspare dalla faccia
rubiconda di chi fulmina le prime o le seconde. Si voleva sino al 1859 perdere
uno scrittore, un libro, anche un'opera d'arte? Una parola ba stava: è
panteista! Il libro era proibito, l'autore sottoposto ad una o a più delle
sette polizie, e il critico con quella sola parola acquistava autorità e
dispensa da ogni altra confutazione. Oggi no: piùche I beni spirituali della
celeste Gerusalemme si ha paura di perdere le palpabili dolcezze della
Babilonia terrestre, ed a scomunicare un uomo, una dottrina, un pensiero, si
grida la parola socialismo! e la quistione è finita lì, come se tutti oggi, in
un certo senso, non fossimo socialisti, e come se oggi ci fosse al mondo un
uomo, un cane, un rospo, una formica, una molecola dove non sia arrivata a
penetrare la quistione sociale. Io ho udito nella camera un oratore dare del
radicale al ministro più mite e conservatore che, a udire accusa tanto strana,
rise forte e tra se colato, come volesse dire: Io! ... studio le costruzioni
ferroviarie per muovere le vaporiere non gli uomini. Ne rise tutta la Camera. Ma
notò sin dove sale l'ipocrisia del linguaggio. Sono, per contrario, parole
privilegiate estillanti santità queste altre: serietà, galantomismo,
moderazione. Queste parole sono guscio a molte lumache, scudo ad alcuni
faccendieri, e bandiera a non pochi paolotti. La moderazione fu sempre virtù
operosa de'fortissimi, non co stume dei pigri e degli adiposi: conosco in
Italia uomini moderati in tutti I partiti, ma non conosco un partito moderato! Ci
sono poi due parole antitetiche, mi si passi l'aggiunto, nella politica del giorno:
piazza ed impopolarità. La prima di queste due significa l'estremo
dell'avvilimento, l'altra della sublimità. L'equivoco però entra spesso ad
alterarne l'uso corrente e le giuoca secondo i fini di parte. Se la piazza fa
dimostrazioni festive ai sovrani, la chiamano cuore della nazione. Se ragiona e
delibera su’dritti suoi, la chiamano canaglia. Impopolarità poi è parola
stranissima, ma che può sve lare tutto un sistema. Ne' governi rappresentativi
è alta prudenza ilcoraggio dell'impopolarità! E questo governo che e chi vorrà
rappresentare? Sarà rappresentativo dei morti che si lasciano anatomizzare
senza lamento, o dei gnomi che si stanno cheti nel centro della terra? Gli eccessi
ai quali, oggis egnatamente, si lascia andare questo partito, in curante del
popolo quanto sollecito di potere, nuderanno l'essenza delle istituzioni
vacillanti. rappresentativo del popolo o d'una sètta? del popolo o dei fini di
un ambizioso? e quando una Taide, nudandosi dove non conveniva, sfidava il
pudore e lo sdegno di un popolo, mostra il coraggio dell'impopolarità? Eh via!
Anche l'ipocrisia del coraggio ci voleva, e l'impopolarità doveva e s sere lo
scudo d'Achille sul petto di Tersite. Capisco in giorni eccezionali
l'impopolarità d'un sapiente, ma il sistema dell'impopolarità ne governi
rappresentativi è una contraddizione ne’ termini. Continui chi vuole e può
altre osservazioni intorno a parole convenzionali, sulla fraseologia, sul
periodo ferma to innanzi al plauso prestabilito, specialmente in certi giorni,
ma osservi pure che se il linguaggio assai volte è dato a nascondere il
pensiero e ci riesce, non può riuscir mai a nascondere la mente ambigua, l'oscillazione
del convincimento, l'ipocrisia, il carattere. Una più o meno visibile
gonfiezza, un certo tono, una certa struttura e posa, una studiata semplicità, una
bonarietà metodica, una figura, una parola, anche una reticenza ed una linea
aprono, a chi non è volgo, tutto l'intimo dell'ANIMALE PARLANTE. Osservo infine
che se i dialetti talvolta fanno capolino nelle nostre leggi, e specialmente
nelle procedure, egli è segno che le regioni italiane non vogliono essere
compres se e ricordano allo stato nazionale quella parte di autonomia ad essi
dovuta. Non un filologo devevenire a correggere il dialetto nelle leggi, ma I dialetti
si levano a correggere l'accentramento. Come dell'Oriente non si può narrare
una vera storia del pensiero del pensiero come esame di sè e del suo oggetto,
del pensiero come scienza così e per la medesima ragione non si può del
diritto. Il diritto sorge come rivendicazione della persona o individua o
collettiva, e la rivendicazione per virtù del pensiero, cioè del l'esame che
comincia col rifermare la tradizione e finisce col distruggerla. Una vera
storia del diritto anteriore alla storia del pensiero è un sogno, una favola.
Nell'Oriente l'immaginazione e la fantasia tengon luogo del pensiero, e lo
simulano in quanto lo prenunziano l'immaginazione più nella Cina, la fantasia
più nell’India l'immaginazione che riproduce l'unità morta, la fantasia che
variat rem prodigialiter unam (nol so dir meglio); e, mentre prenunziano il
pensiero, non arrivano ancora nemmeno all'arte, nel senso più proprio di questa
parola. Fanno e custodiscono, cristallizzandola, la tradizione; e però sono il
basamento psicologico di tutte le religioni. Il mondo orientale, dunque, è
religioso, semplicemente religioso; è pre i storico, in quanto prenunzia il
pensiero, non lo annunzia; non dà la grande arte che non procede nè dalla
immaginazione monotona nė dalla fantasia irrefrenata. Se in Oriente - 51
Roma je, CO am ia olisi Ca, he l'inno e l'epopea avessero raggiunto quella
eccellenza che vien sognata, si sarebbero per necessità geminate nelle arti
sorelle, rimaste li tra il bizzarro, il deforme, l'industrioso e il fucato. E
lo Stato orientale è veramente Stato quanto quella scienza è scienza, ed arte
quell'arte. La tradizione è indiscutibile, è immobile: l'esame nè la riferma,
nè la modifica, nè la distrugge, nè la integra. Non il popolo, che si disse e
fecesi dire eletto, pose primo il problema antropologico; lo pose l'egizio, e
lo simboleggiò nella Sfinge, problema irresoluto, perchè senza risposta. Il
Greco risponde, primo, a questo perchè. La Sfinge muore innanzi ad Edipo e gli
rinasce dentro. Edipo sparisce nella notte colonea, come Prometeo che con una
favilla rapita al Sole aveva ani mato la statua l'uomo orientale immobile
sconta il fallo nella notte scitica. La favilla doveva esser presa di dentro,
non di fuori. Nosce te ipsum. Tal'è il destarsi del pensiero, tale il
cominciamento della storia, e la protasi è greca. Quindi dalla preistoria, che
è orientale, alla protostoria, che è greca, il passaggio è il problema egizio
posto e non risoluto. L’Oriente è la fanciulezza che ripete, l'Egitto è
l'adolescenza che interroga, la Grecia è la giovinezza che risponde. Cotesto
pensiero consapevole avventa il dilemma: o greco o barbaro. Più che negli altri
antichi questo dilemma è lucido in Aristotile, dove con la disamina tempera
l'arroganza e pondera le costituzioni secondo il carattere de'popoli. Agli
orientali egli da la scaltrezza, non la scienza (disse meglio del Ferrari sin
d'allora), e la viltà che è degli scaltri; nota la selvatichezza ed il coraggio
dei popoli nordici; e il coraggio e la scienza serba agli Elleni. Agli Elleni
il pensiero e gli ardimenti del pensiero. E insieme con questo primo sorgere
del pensiero è storica mente possibile alla Grecia la prima rivendicazione
umana, cioè la prima determinazione giuridica. L'uomo, infatti, nella Grecia
rivendica una parte di sé, quella che è più comune e fa più possibile la
saldezza dello Stato che sorge come organismo politico insieme con la prima
rivendicazione giuridica: l'uomo in Grecia non è più strumento inconscio di un
potere sordo e in discutibile, ma si fa cittadino: e però la prima
determinazione del diritto è puramente civile. Nè più nè altro poteva essere. O
che prevalga l'aristocrazia come a Sparta, o la democrazia come in Atene, o che
un Solone, per equilibrare le due parti, riesca semplicemente a mutare l'oligarchia
eupatrida in oligar chia plutocratica, o che lo Stato si presenti federale come
nella Tessaglia e nella Etolia, o che egemone come nella Laconia e nell'Attica,
il certo è che alla rivendicazione dell'individuo non si arriva neppure come
sentimento e assai meno come concetto. Né la lirica che in fondo è epica
frammentaria sia gueriera come quella di Tirteo, sia molle come quella di
Mimnermo, o sentenziosa con Teognide, o solenne con Simonide, nė il pensiero —
sia il più largo e più trasmesso — come quello di Platone e di Aristotile
superano questa posizione storica. Il pensiero non smentisce il fatto, e
l'etica di Platone e di Aristotile sono a fondo civile. Quando lo stoico,
superando il cittadino, si eleva sino all'u o m o astratto, e l'epicureo
prefigura l'individuo, la Grecia gloriosa, la Grecia del pensiero, della parola
e delle armi, è passata, e noi siamo innanzi ad altro pensiero, ad altra
parola, ad altre armi. Roma è il campo dello stoico e dell'epicureo. Prima di
toccare Roma e seguirla dalla prima alla *terza*, ei mi par di udire chi mi
ripeta che la storia svolta sin qui sia del pensiero piuttosto che del diritto.
Era storia del pensiero e del diritto, non separabili. I giuristi sogliono
occuparsi men che poco de'filosofi, perchè, in generale, poco li conoscono; ma
il naturalismo che vede la storia derivar dal pensiero in quella medesima guisa
e proporzione onde il pensiero deriva dalla natura, non può procedere in altro
modo. E se, giunto al mondo romano, avrò più ad indugiarmi intorno alle
istituzioni e sulle testimonianze che ce le trasmettono,non è già ch'io non
faccia egual conto delle istituzioni e degli scrittori greci, m a perchè
il mio sommario va tutto raccolto da Roma ad oggi.Della Grecia e dell'Oriente
si è detto quanto strettamente occorreva a lumeggiare il mondo latino e ciò che
gli venne appresso. Due cose, belle a sapere, ma non assolutamente richieste
dal sommario, io lascio del tutto: la storia geologica d'Italia e la storia
etnografica. come intui il Leopardi, e gli sterminati periodi tellurici dal
l'èra protozoica all'antropozoica, legga la geologia d'Italia nello Stoppani e
nel Negri, e la misura del tempo nella geologia, nel Cocchi. Anche le terre
d'Italia testimoniano da ogni regione nell'età archeolitica la presenza
de'cavernicoli o, alla greca, trogloditi. Probabilmente &'incavernarono
nelle montagne subalpine ed appenniniche, contro le spaventose vicissitudini dell'epoca
dilu viale, e parlarono quello strano linguaggio che diè loro Pomponio Mela:
strident magis quam loquuntur. Stridono a guisa di pipistrelli, aveva già detto
Erodoto, che dié lor pasto di ser penti e di lucertole. E di questi non abbiamo
a far parola, perchè sono, come si è notato, diis, arte, jure carentes, o,
secondo Virgilio: gens duro robore nata Queis neque mos, neque cultus
erat. fumassero le Alpi e gli Appennini Dove andrei, se volessi rifar la
storia geologica del mio paese, ed a che pro per il corso di questo anno? Chi
voglia, dunque, conoscere l'una dopo l'altra tutte le epoche di questa terra
italica, dall'eocenica alla pliocenica, e sapere perchè un giorno Come or fuman
Vesuvio e Mongibello, Nè mi occorre far la storia etnografica dell'Italia.
Dovrei correr dietro alle tradizioni d'una Italia popolata dalle immigrazioni
de' Tirreni, degl'Iberici e degli Umbri? E poi investigare se i Tirreni ci sien
venuti dalle falde del Tauro, cioè dal m ezzodi dell’Asia minore,e gl'Iberici
dall'Asia centrale, e se gli Umbri, della gran famiglia de' Celti, sian entrati
ad accasarsi nell'Umbria, partendosi tra Vilumbri ed Olumbri? Troppe le
opinioni de' dotti e troppo disparate, più di cento le congetture, 1 non di
poca importanza il dissenso tra Micali e Niebhur, l'uno risalendo agli
autoctoni e l'altro negandoli,e ad un antropologo italiano fu forza conchiudere
essere ancora oscurissima l’etnologia italiana: oscurità, che imponendo
silenzio al Mommsen circa le altre due o tre immigrazioni, fecegli dire degl’umbri
soltanto che la lor memoria giunge a noi come suon di campane di una città
sprofondata nel mare. Questo a me par certo ed indiscutibile, che più genti si
sieno incontrate e mescolate in Italia più che in ogni altro paese di Europa
cosi ne'tempi preistorici come dopo la caduta dell'impero romano, donde poi la
mirabile varietà non solo del genio ma DEL TIPO ITALIANO, e dell'uno perchè
dell'altro. Quella che ne' tempi preistorici fu nella Italia nostra differenza
tipica tra’ crani brachicefali e i dolicocefali, differenza rimasta alquanto
notevole tra il tipo dell’Italia superiore e quello della inferiore, ne’ tempi
storici divenne differenza di genio, di scuole, di sistemi, di governi, di
dialetti, di tendenze, onde l'Italia è, per eccellenza, il paese più vario di
Europa e più aborrente da qualunque forma e successione di governi
accentratori. E questo fondamento naturale del nostro pensiero e della nostra
storia vuol essere considerato non solo secondo la varietà delle genti che qui
s'incontrarono, si urtarono, s'incrociarono e si fusero, ma secondo la non meno
lieve varietà del suolo, del clima, delle acque e de'prodotti. Senza boria
nazionale si può affermare che la nostra unità è la più ricca, perchè risulta
della più disparata e molteplice varietà. Però, come a traverso i tanti
dialetti suona armoniosa e pieghevole ad ogni sentimento la nostra lingua, come
a traverso le tante scuole artistiche e regionali si scorge a prima vista la
precisione e la contemperanza greco-latina della linea italiana, così a
traverso 1, Pe mani TE can lo sperimentalismo dell'Italia
superiore e l'idealismo dell'Italia meridionale si vede la qualità dello
ingegno italiano, che, con temperando la sintesi con l'analisi e il sentimento
coll'esame, non disquilibra le funzioni della psiche, le quali, storicamente,
si vanno a tradurre sempre nella politica del festina lente. Questa unità
ricca, questa unità multiforme costituisce per eccellenza armonico il genio
italiano. E quesť armonia lo fa artista in ogni cosa. E infelicemente riusciamo
in quelle cose, nelle quali non portiamo dell'arte, non portiamo cioè del
nostro genio. Allora per parere tedeschi o inglesi ci facciamo semplicemente
bastardi. Fu detto che il mondo romano così poco artista, cosi strettamente
giuridico e praticamente prosaico, fu non pertanto grandissimo e maestro inimitabile
di grandezza. Ed ora accostiamoci ad osservare se il mondo romano disdica il
carattere del genio italiano. Quando oggi i giuristi e gli storici più pensanti
vogliono trovare un fondamento razionale alle istituzioni ed ai fatti di un
popolo, prima salgono al genio ed al carattere del popolo stesso, in ultimo
alle necessità naturali determinate, cioè al naturale ambiente, in cui sorge e
si svolge la vita di quel dato popolo. Questo processo implica un sistema presupposto
appunto il naturalismo. Donde i fatti e le istituzioni di un popolo? Dal genio
e dal carattere: vuol dire, in fondo, dalpensiero. Donde il genio e il
carattere? Dall'ambiente naturale, di cui primo prodotto è il tipo. E proprio
così move il naturalismo. La natura si svolge e riflette nel pensiero. Il
pensiero si svolge e riflette nella storia. La differenza, nella esposizione, è
questa. Il filosofo move dalla natura e guarda alla storia; lo storiografo move
dal fatto storico e ascende al fatto naturale. Non si è potuto fare altrimenti,
quando si è voluto investi gare la causa dei fatti di Roma nel genio romano, e
di questo genio nell'ambiente naturale di Roma. Anche quando, spostati i
fatti, si riesce a spostare il genio di un popolo, si è costretti a spostare in
ultimo il fondamento naturale. È un errore di fatti, che attesta la verità e la
necessità del metodo.Cosi Mommsen, quando vuol dimostrare che il rapido
crescere di Roma in ricchezza e potenza è dovuto al genio commerciale de’ romani,
ricorre come ad ultima causa, a questo fondamento naturale. Roma è posta sopra
un fiume grande, navigabile e non lontano dal mare. Sbagliata laprima causa –
il genio romano sbaglia la seconda il fondamento naturale, quello che Dante
chiama È costretto, dopo, a sforzare alcuni fatti ed alcuni testi, per
sottometterli alla causa prestabilita. Ma più tardi egli corregge sè stesso,
non rispetto al processo che è vero, si bene rispetto alla più sincera
determinazione de'fatti e delle cause. Egli si accorge che in Roma manca il
primo fatto, una classe di commercianti. Poi, che non poteva essere stato di
commercianti il genio di Roma. In ultimo, che il Tevere, tenuto conto della
sponda etrusca, non poteva avere una grande posizione commerciale. Quando il
processo dello storico non va sino al fondamento naturale, simula le sembianze
storiche, ma rimane metafisico. Si dice, per esempio, per ispiegare alcuni fatti
ed istituzioni, che tale è il genio, tale il grado di coscienza o di pensiero
in questo o quel popolo.Va bene, ma la storia cosi è fatta a mezzo, è fatta con
la sola psiche, con lo spirito astratto, che, evulso dal fondamente naturale,
diventa un fenomeno miracoloso. proprio questo il difetto della cosi detta
scuola storica. Savigny, se voleva fare storia intera, non dovea dire soltanto
che un tale o tal altro dritto è prodotto dalla naturale coscienza giuridica
del popolo; ma dove dimostrare il fondamento naturale di questa naturale
coscienza giuridica. Così non facendo, l'evoluzione rimane astratta, e le parole
coscienza, genio, in - Il fondamento che natura pone. È dole,
carattere diventano altrettante astrazioni, e,a dispetto del l'espressione
naturale coscienza, la dottrina rimane puramente metafisica. Anche Hegel – il
metafisico per antonomasia nire militare il genio di Roma, senti la necessità
di salire sino ad un quasi dato etnografico,e di stimare, secondo le
tradizioni, la prima società romana come una compagnia di ladri. E sopra questo
dato giustifica la colluvies e poi la repentina nobilitas ex virtute di Livio;
e la virtus dalla bravura, non pure personale, ma collettiva, quella appunto
che giustifica le violenze; e dalla violenza la manus, la quale si manifesta
dal matrimonio, in manum conventio, sino alla patria potestas, rispetto alla
quale la schiava condizione del figlio era significata dal mancipium. Quindi, la
durezza della famiglia, dello Stato, delle leggi inRoma; quindi, il cittadino
romano da una parte schiavo, dall'altra despota, perchè della durezza che
soffriva nello stato se ne ripa gaya nella famiglia. E tutta questa durezza
compendiata in un assioma politico di Machiavelli, qui ripetuto da Hegel, cioè
che uno stato formato da sè e adagiato sulla forza conviene che sia sostenuto
con la forza Il corollario poi affatto hegeliano - è che tutto ciò che derivò
da tale origine e da tale stato, non fu un convenio etico e liberale, ma una
posizione forzata di subordinazione. Un carattere romano proprio cosi fatto non
ispiegherebbe, io penso, l'origine, il valore e la diffusione invidiata non
raggiunta del dritto romano nello spazio e nel tempo. Hegel, tenendo conto del
dato naturale, non solo lo limita al puro elemento etnografico, ma impiccolisce
anche questo, e non mostra tener conto del dato geografico, che è più
obbiettivo del primo, e sforza il popolo romano a farsi non solo militare, ma
agricolo. Questa indole agricolo-militare, questa appunto, fa la reli gione romana
cotanto diversa dalla greca, e cosi spiacevole ad Hegel che la chiama la
religione prosastica della limitazione, - per defi della
corrispondenza allo scopo, la religione dell'utile. Ed ecco, troviamo, la
seconda volta, negato il genio artistico a Roma. La prima, perchè è il popolo
del diritto. La seconda perchè è il popolo dell'utile, a cui gli Dei giovano
come i servi o come gli strumenti del campo. Hegel trova che i romani adorano
la dea pace (pax, vacuna) e la sua contraria angeronia; la salute e la peste;
trova che in Roma Giunone non è bianchi-braccia, ma ossipagina, e che Giove è *capitolino*
piuttosto che olimpico. Chiama prosaiche queste divinità, ma nè cerca le
divinità campestri, nè se le spiega, passando dal campo arato allo stato.
Nell'arte - continua Hegel specialmente in Virgilio, creduto il poeta religioso
per eccellenza, la religione è d'imitazione, la quale porta le divinità ex machina,
non con la fantasia e col cuore. I giuochi stessi rimangono qualcosa di
esterno, in quanto il romano è spettatore, non attore, e non ha poeta che di
proposito li celebri: giuochi duri e prosaici come la famiglia, lo stato, la
religione, le leggi. La somma del discorso è E dietro questa somma del discorso
si scorgono le conseguenze, alle quali il filosofo tedesco vuol pervenire: 1°
noi dobbiamo l'origine ed il progresso del diritto positivo all'intelletto non
libero, privo di spirito e di sentimento, proprio del mondo romano; 2o che, se
i romani giunsero a distinguere il diritto dalla morale, ed a liberarlo dalla
variabilità del sentimento, concre co’ romani si ebbe la prosa della
vita, prosa, in ultimo, riflessa sopra Roma proprio dal carattere italico. Che
è l'arte etru egli può conchiudere che sca? Noi troviamo nell'arte etrusca la
massima prosa dello spirito, quanto più perfetta nella tecnica tanto più priva
del l'idealità greca: è la stessa prosa che vediamo nello svolgimento del
diritto romano e della religione romana. Que sto giudizio circa l'arte italica
sarà più tardi esagerato dal Mommsen. tandolo in alcun che di
esterno e di obbiettivo, non arrivarono a conciliarlo con la libertà e con
l'intimo dell'uomo; 3o che però non può essere il dato supremo della sapienza.
Ben'altra parola avrà a dirsi sul diritto, quando si tratterà di connetterlo
con la libertà. Certo, un altro mondo la dirå. E già s'intravvede che questa
gloria il filosofo tedesco vuole serbarla al mondo germanico che succede al
romano. Solo due cose si vedono: che Hegel lavora sopra un dato naturale
incompiuto, e che la parte naturale soppressa è sosti tuita con rapidità magica
dalla costruzione metafisica. Noi osiamo affermare che, se il dato naturale
fosse compiuto cosi dal lato etnografico come dal geografico, il genio ed il carattere
di Roma si mostrerebbero sotto altra forma. E si par rebbe che nè assolutamente
prosaico e tutto pago della esteriorità è il genio italico, nè Roma – la severa
Roma – con la rigidezza della formula giuridica riesce a rinnegare il genio
co [ Egli è davvero cosi? mune. Allora, come oggi, la metafisica mi
pareva vuota, l'avevo definito udenologia, ed il naturalismo mi si presentava
come il successore storico d'ogni metafisica; m a nel farne applicazione, si
volava ancora, ed al volo bastavano poche penne in spazio illimitato, senz'aria
e senza tempo. Oggi non si vola, ma si misura il cammino, e si ha ragione di
dire ai giovani che non facciano sostituzioni estetiche alla storia, le quali
poco servono alla scienza. Espongo, adunque,ciò che intorno al carattere di Roma
pubblicai molti anni addietro, e noto senza indulgenza i miei errori di allora,
perché molti li ripetono e non trovano più scusa. C'è un altro modo, più
metafisico di quello usato da Hegel, di costruire il carattere romano, ed è di
derivarlo non da un mezzo dato naturale, abbandonando l'altro mezzo a
discrezione della metafisica, come vedesi aver fatto il filosofo tedesco, ma di
costruirlo sopra alcuni documenti classici che si prestano alle più contrarie
interpretazioni ed a tutt'i giuochi dell'estetica applicata e della critica
letteraria. Non sarà inutile poiché questo modo, per essere il più comodo, è il
più frequente presentarne un saggio, valevolecome criticasopra me medesimo,
che, nella giovinezza, credei sostituire gli esercizii di estetica alla storia,
ed al naturalismo la subbiettiva critica letteraria. 61 Utopista scrivevo allora-
non è chi sogna, ma chi pensa, e tanto più profonda è l'utopia quanto più
il pensiero coglie la relatività dei tempi. Greca è, dunque, l'origine della
utopia e utopista tipico fu Socrate che osa primo al costume civico con
trapporre alcun che d'individuale: Io Socrate sono nato a liberamente
filosafare, e, se cento volte per questo io fossi morto e rinascessi, tornerei
a filosofare. Non pena dunque mi è do vuta, ma il Pritaneo. Questo tentativo di
ribellione dell'individuo, contro il cittadino, dell'individuo che osa
pigliarsi un mandato individuale che non solo valga il mandato civile, ma
ardisca riformare il costume, questo è punito, e, in quella natura di tempi, era
veramente crimine di Stato. Socrate, anch'esso, come atterrito dal colpo ch'ei
tenta, sente che al cittadino è dovuta l'espiazione individuale, e rifiuta
ausilio, e si apparecchia alla immolazione di sè non pure perchè sente compiuta
la sua missione e non gli piace vivere super stite a sè medesimo, ma perché
vuolegrecamente spirare: Dum patriae legibus obsequimur. Che è quell'ultimo
pensiero del gallo, che, rimosso il lenzuolo dal viso, ei vuole sacrificato ad
Esculapio? Vuol finire sul letto del carcere come fosse ad Anfipoli o a
Potidea, e vuol morire con religione e costume attico, come a punizione di alto
trascorso individuale. L'individuo fu Socrate filosofo; il moribondo è
l'ateniese rassegnato: m a il più grande è questo, che proprio questo ateniese
punisce quell'individuo e non glidà scampo. Pericle non potè salvare
Anassagora; Socrate non vuole salvare se stesso. Come,secondo il mito,la
Sfinge, negata di fuori, rinasce dentro Edipo, cosi, secondo la storia, lo
Stato attico, offeso di fuori, si riafferma dentro di Socrate. O l'esilio di
Colono o la cicuta, è sempre l'immolazione dell'individuo alla comunanza
rappresentata dallo Stato. Quando gli Dei patri i per cossi dalla
riflessione socratica su pinarono nell'Olimpo muto, Epicuro, sorridendo, gitta
sopra di loro un gran panno funereo e si rallegra coll'uomo liberato dai divini
terrori. Diffugiunt animi terrores. Però quel panno che Epicuro gitta
sull'Olimpo, copre tutta la Grecia; giacchè quel panno che soffoca la lotta
semi-divina, era indizio della missione greca già finita. Perciò Epicuro lascia
i giardini greci, le dolcezze e i profumi arcadici, e se ne viene nel foro
romano, e siede e sentenzia e giudica e genera di sè due uomini diversissimi,
Orazio e Lucrezio, e da Orazio poi il tipo di Munazio Planco e da Lucrezio
quello di Papiniano. Sono troppe cose che io dico insieme, delle quali molte
non dette, ma provabili con la forma del discorso e col testimonio dei fatti. Cicerone,
vedendo Epicuro alle porte di Roma, si arma di poma soriane, inserte in forma
di fulmini, e cerca saettarlo con furore iperbolico, proprio nel modo onde il
papato fulmina da Roma la rinascenza. Ma, come la rinascenza, mal grado i
fulmini papali, siaccasava in Roma, invadeva il Vaticano, e faceva poetare e
sermoneggiare i papi con civetteria anacreontica, cosi Epicuro spunta tra due
dita i fulmini di Cicerone, come avea già spuntato quelli del Giove greco, e,
toccata appena la spalla dell'oratore romano, se lo fa suo. Ma, appena entrato
in Roma, Epicuro prende la natura del Giano latino, si fa bifronte, ed una sua
faccia è quella di Orazio, l'altra di Lucrezio.Non èmiracolo, è il sistemaepicureo
che, sotto la dialettica, manifesta queste due fronti. L'una viene a dire cosi:
La vita è breve; di là non si continua; dunque, godiamola di presente. La morte
cicolga, quando possiamo gittarle in faccia la scorza del pomo soave, tutto
premuto. L'altra, cosi: La vita è breve; di là non si continua; osiamo, dunque,
eternarla con un'opera degna della immortalità della fama. Per chè tentare la
gioia stolta, se nel punto di asseguirla la morte può spegnermi? Ecco le due
fronti di Epicuro. L'una di Orazio: Vitae summa brevis nos vetat spem inchoare
longam. Di là non c'è vita: Non regna vini sortiere talis. La conseguenza che
ei porge all'anima tua,è sempre una. Carpe diem quam minimum credula postero.
Illazione esprimibile con un grugnito del porco epicureo. L'altra è di
Lucrezio. Omnia migrant, omnia commutat natura et vertere cogit. Dalla quale
migrazione eterna dell'essere deriva il summum crede nefas. Importa sol
consegnare integra la lampada della vita alle generazioni sopravvenienti: Vitae
lampada tradere. Da Orazio nasce Munazio Planco, prima Cesariano, poi
Pompejano, poi repubblicano, poi di Antonio e di Cleopatra, poi cortigiano di
Augusto e sprezzato da tutti: tipo del galantuomo di Guicciardini; e fini nella
sua villa di Tivoli come Guicciardini, nella solitudine di Arcetri. Da Lucrezio
nasce il tipo del giureconsulto, Papiniano, che intese il diritto come bonum
aequum, e non volle in senato di fendere un imperatore fratricida, e piuttosto
che l'onore volle lasciare la vita. Morendo, come aveva sentenziato, provvide
alla immortalità della fama, et lampada juris tradidit. Da Epicuro il mondo
romano prende il senso della positività, ed è però mondo di prosa, non di arte,
con missione giuridica, con lingua giuridica, con monumenti, storia, tradizioni
giuridiche. La Grecia ci ha tramandato due insuperabili documenti, la tragedia
epica e la tragedia filosofica, l'Iliade e il Fedone; Roma il Corpusjuris, con
due potenti sommarii, l'epigrafe e il responso. Quanto all'epigrafe, specie
suggestiva di letteratura, come direbbesi in Francia, nessun altro popolo nė
lingua ha ilquarto della maestà e rapidità dell'epigrafe latina, nata rebus
agendis: onde nazioni nordiche e neolatine e transatlantiche pigliano ancora, e
avverrà per lungo tempo, da Roma antica l'epigrafe!e il responso. E la più
bella dell'epigrafi ha contenuto epicureo e giuridico: Et creditis esse Deos?
Cosi abbiamo della medesima scuola il porcus de grege Epicuri, e de acie
Epicuri miles. Nè questo doppio tipo fu smarrito nel periodo del risorgimento,
quando dopo la scolastica platonica e aristotelica si riaffaccið l'epicureismo:
dall’una parte si ebbe il Pontano, cantore della voluttà, dall'altra il Cavalcante,
cercatore austero, tra’sepolcri, dell'immortalità della fama. La tomba,
data umile a Catone, negata a Pompeo, ė superbamente elevata ad un mimo! Se gli
Dei sono ingiusti, gli Dei non sono. E le epigrafi più solenni nascondono certa
finezza d'ironia epicurea nel senso giuridico. L'epigrafe latina è solenne,
perché è breve come il responso. Questa rapidità di percezione è dalla lingua
istessa giuridica per eccellenza, imperativa e, se mi è lecito a dire,
dittatoria: onde l'epigrafe è quasi sempre responsiva, cioè di senso giuridico,
e il responso è sempre epigrafico. Ed in Roma fu possibile il tipo del
giureconsulto, dell'uomo cioè che ha intera la percezione del dritto,
rapidamente e pro priamente la significa e sa comandarla a sè stesso prima che
agli altri. È tipo raro, tutto assorbito dalla meditazione etica, che traduce
nella parola e nel fatto. Roma ne ebbe pochissimi che dopo quella Roma furono
comentati, non risatti; e, quando oggi odo chiamare giureconsulti alcuni
legisti che tirano a mestiere il codice, dico che o le parole non s'intendono o
sono stravolte dall'adulazione. Quando la lingua latina canta di amore, a me pare-
libero da preoccupazioni di scuola udire il Ciclope favellare a Galatea. I
romani potean prendere le Sabine meglio con le braccia che col canto: manu, haud
carminibuscaptae. Non ène'carmi la missione di Roma: dica rapidamente il
diritto, dica il fatto; il responso e l'epigrafe, questo è il gran contenuto
della letteratura latina, questo è suo proprio, è originale, è collatino, oso
dire: il rimanente vien di fuori e porta il mantello peregrino. Ed ha tre
uomini massimi, Lucrezio, Papiniano e Tacito. Lucrezio non ha cantato un poema,
nè si dà al mondo poema didascalico, ma ha dato l'esposizione epicurea della
natura, la cui Venus non viene da Milo, ma dal Foro, e può somigliare ad
Astrea. Papiniano ha dato il più alto responso, nel quale è la) Quid quid
praecipiens, esto brevis, ut cito dicta Percipiant animi. 5 UNIVERSITÀ DI
Qurais ROMA CCHIO Lucrezio, Papiniano e Tacito sono tre che si somigliano
nella forma di concepire e nella rapidità scolpita dell'espressione. Tacito,
che segna la decadenza e lavora come il Sisifo di Lucrezio, qui semper victus
tristisque recedit, spesso ti accusa la maniera e quando è breve, quando è
corto; m a è l'ultimo dei grandi romani. Chi cerca la grandezza del pensiero
latino fuori di questi, e vuol trovarlo o nella lirica di Orazio, ambigua,
quanto alla forma, tra Pindaro ed Anacreonte, e ambigua nella sostanza tra lo
stoico e l'epicureo, o trovarlo nell'epica incerta tra Virgilio e Livio, cioè
tra le reminiscenze omeriche e le favole tra dizionali, è come chi, cercando
l'anima del trecento, invece di volgersi a Dante e a Boccaccio, la spia negli
occhi estatici di Caterina da Siena o nel cipiglio di Passavanti. In questo
teatro giuridico, che è il mondo latino, il contenuto della lotta si trasforma
e di semi-divino diviene pienamente umano. Qui non han luogo cause per
divinità. Qui Lucrezio può vuotare il Pantheon che accoglie indifferentemente
tutti gl’Iddii per vederli indifferentemente sfatare dal sistematore della Natura.
Lucrezio morrà non per accusa di Melito, di Anito, di Licone; norrà, se gli
piace, di sua mano, se il destino del l'uomo gli parrà troppo somigliante a
quello di Sisifo. Allora la sintesi della missione latina, e lo ha
suggellato, come dovea, con la morte. L'olocausto di Socrate ci mandò la
tragedia filosofica che è greca; l'olocausto di Papiniano ci tramanda la
tragedia giuridica che è latina. Perchè dopo il Nerone e la Messalina non
tentare anche questa che è più romana? La storia di Ta cito suona sulle rovine
imminenti dello Stato latino come la ser ventese dell'ultimo degli albigesi.
Tacito è fosco come la sera nebbiosa di una splendida giornata; è riflessivo
come chi rasenta le rovine; è triste come chi cerca una virtù che ei sa di non
trovare. Perciò ei ritrae Tiberio assai meglio che Tiziano non ritragga Filippo
II,ma,dove pinge la virtù,non è pittoremolto ispirato. È grande col pennello
onde lo Spinelli ritraeva Satana; m a, se gli dai la tavolozza di Raffaello, ei
te l'annacqua. Venus genctrix gli si muterà in Venere Libitina, ed egli
userà della vita secondo quello che gli parrà suo diritto. Io non credo
all'aconito; credo suicida Lucrezio, e questo suicidio proprio di forma Romana,
come quello di Catone, cioè per jus necis etiam in sc. Questa lotta
umana,iniziata,non compiuta in Roma,questa che è tutta e sempre lotta civile
dal ritiro della plebe sull’Aven tino sino ad Augusto, qui omnium munia in se
trahere coepit; questa epopea lutta latina, più in Livio che in Virgilio, ha
due periodi principali: l'uno'tra plebe e patriziato per una cerla equa
partizione di cose e di ufficii, e generò il tribuno, ignoto alla Grecia;
l'altro tra l'individuo e la comunanza per una certa equa emancipazione
dell'individuo, e generò Spartaco, ignoto alla Grecia. La plebe fu vendicata da
Mario,e più da Cesare,che se op presse il tribuno,era segno che non v'era più
patriziato sovrano ed operoso.Spartaco,sopraffatto da Crasso e da Pompeo e
morto nella pienezza della sua protesta, trovò poco dopo più grande
vendicatore, Cristo. Ciò significa: Il mondo greco, cominciato religiosamente,
fi nisce nellairreligionediEpicuro;ilmondo romano,pienodella dotta irreligione
di Epicuro, finisce nel mistero cristiano. La catastrofe religiosa in Grecia è
spiegabile con la natura del pensiero, che comincia col rifermare le religioni
e finisce col dissolverle; la catastrofe della irreligione in R o m a è spie
gabile con la natura del pensiero istesso, che, se è dommatico, finisce col
divorare se stesso. Chiariremo questo vero, quando saremo innanzi al cristianesimo.
Questo vien chiaro di presente,che il contenuto giuridico in Roma non pud
porgersi come jus civile abstractum, ma come primo sentimento di equità, onde
si genera il Pretore, istitu zione profondamente etica, ignota anche questa
alla Grecia, e urbano e peregrino, e il cui fine è sempre l'aequitas, affinchè
il summum jus non si faccia summa injuria o summa malitia. Quindi,
il placito del giureconsulto nella costituzione delle leggi: In rebus novis
constituendis eviders esse debet utilitas, ne a n i mus recedat ab eo jure,
quod diu AEQUUM visum est (Fideicom. L. IV). Chiaro è che l'equità costituisca
la misura del diritto; che questa equità lungamente saggiata, traducendosi in
diritto, genera l'utile sincero; e che questo utile debba essere evidente ai
popoli nella costituzione delle leggi. Quindi l'iniquum erat injuria. Quindi
l'acquilas appo i latini non è il concetto volgare che ci viene da Ugone Grozio:
è l'assoluta, continua, ascendente correzione del diritto civile, cioè del
diritto greco; e però cosi coloro che veggono pura medesimezza del diritto
greco e ro m a n o, quanto quegli altri che continuano a favoleggiare intorno
alla origine greca delle dodici tavole,mostrano ignorare la diffe renza delle
due storie, dei due popoli, delle due lotte, delle due civiltà. E il testo
canta chiaro: Jus praetorium adiuvandi, vel supplendi, vel CORRIGENDI iuris
civilis gratia est introductum, propter utilitatem publicam... Che è quel ius
civile bisognoso di correzione? È quello appunto che in R o m a comincia a p a
rere s u m m a injuria, la cui correzione costituisce l'istituto p r e
torio,cheètutto romano,ilcuiprogramma siassomma nella sentenza: Placuit in
omnibus rebus praecipuam esse iustitiae ac AEQUITATIS q u a m STRICTI juris
rationem. Quello stretto diritto è greco, è puramente civile, è quiritario, è
aristocratico, e tra smoda nell'ingiuria, o per violenza o per malizia, aut vi,
aut fraude. Quell’aequitas è la correzione pretoria, è la grandezza dello
spirito latino, che tutto si manifesta e dimora nella giu stizia pretoria e
urbana e peregrina. E quell'aequitas deriva
dallalottaumana,cosidellaplebecontroilpatriziatocome del servo contro il
padrone. Il jus civile è il risultamento della lotta semi-divina, l'aequitas è
il prodotto della lotta civile: quella è greca, questaèlatina: quellahailsuofastigiostoricoda
So crate ad Epicuro, questa dalle dodici tavole a Spartaco: quella è lotta
filosofica, questa è giuridica: i canoni di Epicuro sono l'orazione
funebre all'Olimpo e però alla Grecia, la protesta di Spartaco è il vale al
superbo civis romanus.Insomma la gloria storicadiRoma
nonèildittatore,néilconsole,nèilsenato, nè il magister equitum e l'imperatore e
n e m m e n o il tribuno, è il Prelore: il suo editto è la sintesi dei
responsi; lo spirito dei responsi è l'equità; l'equità è il prodotto della
lotta u m a n a; questa lotta è il contenuto della civiltà latina. Hegel che
vede si addentro la cagione della rovina della repubblica romana e con Tacito
giudica vana l’uccisione di Cesare, non vede con pari intensità in quella
repubblica l'istituto pretorio e, sfuggi togli, tien conto solo della ratio
strirti juris. Tutto il diritto r o mano gli si stringe nel summum jus. Non
vide che la lotta umana era ed è l'equilà. Con questo spirito di equità torna
agevole a Tacito descri vere il tiranno, scolpirlo. Volere parendo di
rifiutare, c o m a n dare parendo di obbedire,far tuito parendo di non fure,
questo è il tipo del tiranno, questo è il Tiberio di Tacito, rispetto al quale
gli altri tiranni venuti di poi sono volgari, ubriachi,troppo scoperti e però
troppo esposti al essere tiranneggiati. Tipico é questo Tiberio in Tacito, come
Ettore in Omero, come Ugolino in Dante, come Otello in Sakespeare, e non
patiscono ritocca menti di nessuna mano: chi si attenta a rifarli, solto
qualunque altra forma,disfà. In Grecia fu possibile il sentimento del ti ranno,
in Roma il ritratto tipico,perchè in Roma è delineato il concetto dell'equità.
Tiberio non può esser veduto se non dielro il seggio del Pretore. Nè Riccardo
III, nè Arrigo VIII, nè Fi lippo II, nè Alessandro VI o Paolo IV ritrassero
Tiberio: vollero troppo, si chiarirono troppo, furono troppo tiranneggiati: ma
il tipo, spento individualmente, risorse collettivamente nella C o m pagnia di
Gesù, che per 333 anni dilargò l'oligarchia nera sulla terra, parendo di non
volere, di non comandare, di non fare. Ma e il gesuitismo tiberiano e il
cesarismo gesuitico non pos sono essere tanto chiusi,che ilpensiero e la natura
non v'entrino. Fu però equità piena,sincera, spiegata questa di Roma,si
che la si trovi tulta adempita nella ragione pretoria? La lotta umana di
Roma diede per risultamento il diritto umano? In somma il dirittoromano
sicontinua a studiare,a chiosare, ogni giorno in ogni paese civile, perchè
effettualmente è l'ultima parola del diritto? L'acquilas in omnibus spectanda,
quando non voglia essere un nome,ma cosa, non un concetto,ma un sistema, non in
somma un'esigenza,ma un adempimento,bisogna che simani festi come connessione
ed equazione dei contrarii, cioè del ge nere con l'individuo, del cittadino con
la persona, affinchè ne risulti l'interezza dell'uomo.Ora, questa equazione
torna possi bile,quando l'individuo si sia affermato e contrapposto al citta
dino e abbia avuto nella storia tanto valore e tanta evoluzione quanti il
cittadino se ne prese. Senza quest'azione e reazione, o, come altri dicono,
senza questa tesi e antitesi nessun'ar monia finale e completiva, nessuna sintesi
piena e durevole, nessun equilibrio, nessuna equazione insomma è effettualmente
possibile: e, se l'equità non è questa equazione, è ancora un presentimento Se
ne deduce che Roma non poteva ancora sistemare la vera equità giuridica, perchè
l'individuo non aveva dato tutti gl'istituti che dovevano nascere di se, dalla
sua antitesi o c o n trapposizione al cittadino. Dove s'era fatta la storia
dell'indi viduo, l'autobiografia, perchè ilPretore potesse consapevale con
temperare i contrarii, connetterli, equilibrarli? Vedesi, dunque, che questa
equità è l'avvenire dellastoria,non ilpassato;spetta alla giornata travagliosa
dei posteri, non alla lotta civile di Roma.Or, dunque,è stata spuma d'acqua
sonante l'equità ro mana? Troppo sarebbe stato il rumore ! La cosa sta in
questi termini: L'equità scientificamente in tesa spetta all'avvenire, che sarà
la sintesi del cittadino con l'individuo per costruire tutto l'uomo: l'equità
latinamente intesa fu il transilo dal cittadino all individuo per costruire
l'individuo. Il transito non è la sintesi, è il semplice avviamento dall'uno
all'altro dei contrarii, a traverso i quali si vien costruendo l'uomo chiamato
sintesi dell'universo e non divenuto ancora sintesi di sé medesimo ! Fu larva
dunque di equità: e nondimeno anche come larva quel diritto è rimasto solenne,
tipico nella storia, concetto più che presentimento di quello che il diritto è
destinato ad essere. Dunque,nellastoriailmondo romano èl'esodo,ilpassaggio dal
cittadino greco all'individuo germanico. E in questo transito dall'uno
all'altro dei contrarii consiste, chi consideri, l'universalità dell'impero
latino. Il quale perde la sua ragione di durare, quando Cristo annunzia
l'emancipa zione individuale. Cosi me ladiscorrevo intorno al contenuto storico
ed al carattere di Roma. Alcune delle cose dette, oggi, non ripeterei; m a ne
accetto anche oggi moltissime, principalmente due: che la lotta inRoma èumana e
senza neppur l'ombra del carattere religioso; e che risulta mento precipuo
della lotta umana è l'istituto pretorio. Bastano queste due affermazioni per
determinare tutto il ca rattere della prima Roma, e dal caratlere la sua
missione, la gloria, l'universalità, la decadenza. A queste due affermazioni
manca la giustificanza storica il metodo. Perché in Roma la lotta è del tutto
umana? A questa interrogazione, quando non si voglia dare una ri sposta
astratta, come la darebbe la scuola di Hugo e di Savi gny,cioè tal era la
coscienza o ilgenio di Roma,ci sono due modi di rispondere, l'uno metafisico,
l'altro naturale. Il primo risponde: Alla lotta semidivina dovevo succedere la
lotta umana: la prima, compiuta in Grecia, non si poteva ripetere in Roma. Le
due lotte sono due momenti del pensiero; e però Epicuro passa dalla Grecia a R
o m a. Il secondo dice che questo lavorio del pensiero, affatto in d i sparte
dal fondamento naturale, spiega la storia più che non [Quindi l'evidenza
di lumeggiare la storia col naturalismo che le traccia il metodo. Ora, il
naturalismo storico attraversa tre periodi notevoli: prima è teleologico, poi
empirico, finalmente è scientifico È teleologico, quando presuppone i fini, e i
fini diventano cause, e la natura è in gran faccenda a lavorare i mezzi per
questi fini. In questo primo periodo il naturalismo non si è li berato ancora
dalla metafisica, e, se non è essenzialmente antro pomorfico, è tale
abitualmente. Questo periodo è rappresentato da Herder, il quale è vero che
presume cercare la storia degli uomini nella storia del cielo, della terra e
delle relazioni tra cielo e terra; m a, presupponendo ancora i fini nella
storia dell'uomo e della natura, viene abitual mente a credere divino quel che
dev'essere tutto e semplice mente naturale, e – ciò ch'è ancora più teologico
-- ad esclu dere i popoli fieri e sanguinarii dalla possibilità di adempiere
nella storia un qualche fine provvidenziale. Che cosa sarà per Heder il
cristianesimo? — Il regno della giustizia e della verità ! Ecco la civiltà
tedesca in forma di fine provvidenziale, che non poteva essere adempiuto dal
popolo romano, perché aveva animo tirannico e mani insanguinate.] il genio o il
carattere astratlo, m a in ultimo riesce astratto ed enigmatico anch'esso,
perché il pensiero presuppone qualco saltro, da cui non si può divellere. È
vero che altro è il genio greco, altro il romano; è vero che la lotta fatta in
Grecia non si può rifare a Roma;è vero pure che Epicuro,passando dalla Grecia a
Roma,accenna alla lotta umana che succede alla lotta religiosa: ma non si vede
ancora perchè il pensiero si sia cosi determinato, e piuttosto in Italia che in
Germania, e dell'Italia piuttosto in Roma che nell'Etruria o in altra regione.
Sono, per conseguenza, da tenere in gran conto i momenti del pensiero che nè in
sè nè nella storiasi ripete mai; ma re stano momenti vuoti, astratti ed
inesplicati senza tenere in pri missimo conto il dato naturale.] il genio
giuridico di Roma? e l'universalità del dominio romano? e la successione
storica della civiltà romana alla greca? e l'am biente naturale di R o m a,
rispetto alla terra ed all'aria? Tutto ciò sparisce, e restano un fine
provvidenziale il cristianesimo, e l'odio tedesco contro R o m a, compagnia di
ladri e nel principio e nel mezzo,cosi pel genio naturalista di Herder come per
il genio metafisico di Hegel. Egli è perchè quella natura non è libera ancora
da quella metafisica. È empirico il naturalismo, quando contende ogni investiga
zione intorno agli ultimi fini e alla prima causa, e que'fini e quella causa
respinge da se come contenuto della metafisica e campo Questo periodo è
rappresentato da Comte, il quale respinge l'assoluto con troppo assolute
negazioni,come Stuart Mill negava il sistema, sistemando; e però l'uno si dà a
cercare l'invaria bile attraverso i fenomeni naturali, e l'altro il permanente
attra verso i bisogni umani. Vanno cercando quell'assoluto che hanno
assolutamente negato. Avviene, in questa scuola de'puri senomeni,che le
catastrofi sono sostituite all'evoluzione; che il passato sarebbe assoluta
mente morto, non trasformato; e che, come nell'ordine della successione
filosofica il positivismo annunzia la morte di tutto il contenuto metafisico,
cosi nell'ordine della successione politica ilperiodo
industriale,p.e.,supporrebbeaffattospento ilperiodo legale, come questo supporrebbe
spento del tutto il periodo m i litare.Da che sarebbe indicata la cessazione
del periodo mili tare? Dalla caduta di Roma.Ed ecco che questaRoma,o forza di
ladri o di soldati, non sarebbe stato altro che forza ! E ne il naturalismo
teleologico nė l'empirico arrivano a vedere che in quella R o m a universale la
forza fu universale quanto il diritto. - come reazione mutila il
contenuto scientifico, e non si accorge che quanto sot trae alla scienza tanto
consegna alla religione. sino dal nome metafisica, dell'inconoscibile. In
questo secondo periodo il natura lismo,aborrendo Finalmente il naturalismo
storico esce dallo stato teleologico, dallo stato empirico, e diviene
scientifico sotto queste determi nate condizioni: 1a sottraendo la statica e la
dinamica so ciale all'indeterminato delle analogie e sottomettend le al cal
colo determinato, nel quale sparisce l'uomo individuo e sorge l'uomo medio; 2a
sottraendo il calcolo ai ritmi misteriosi o ca balistici e riducendolo alla
legge di proporzione tra causa ed ef fetto; 3a sottraendo le cause allo
indeterminato del numero e riducendole ad una causa sola, e facendo convergere
tutti gli effetti verso un fine proporzionato alla causa medesima. Allora si
viene a veder chiaro che la statica e la dinamica sociale fanno una fisica
sociale che deriva dalla psico -fisica; che il pensiero si traduce nella storia
con la medesima proporzione, onde procede dalla natura; che il calcolo, al
quale sottostanno le scienze naturali, entra a dominare il mondo della storia;
e che in ultimo l'uomo individuo,il quale sparisce innanzi all'uomo medio, vuol
dire l'arbitrio che sparisce innanzi alla libertà. Più sparisce l'arbitrio come
causa, e più si chiarisce la libertà come fine. A tutto ciò, che è pur grande,
il mondo moderno non può sottrarsi. Ha prodotto tre saggi,che sono saggi
ancora, ma che aspettano con irremovibile certezza la sistemazione scientifica,
e sono la Fisica sociale di Quetelet, la Storia dell'Incivilimento in
Inghilterra di Buckle e i Periodi politiri di Ferrari. Anch'io nel 1872 — nel
Saggio Crilico del Dritto Penale e del Fondamento etico avevo cercato
dimostrare in che ra gione si movono nel tempo storico le istituzioni avverse e
per chè il tempo stesse rispetto alla successione del pensiero come lo spazio
rispetto alla successione de'corpi; m a anche quel mio libro, come porta il
titolo, rimane saggio, ed aspetta la sistema zione scientifica che si determina
co' criterii sopra stabiliti, senza de'quali non è possibile un naturalismo
scientifico. E con questo proposito io mi sento libero da qualunque ar bitrio
individuale, da qualunque monomania di originalità so litaria ed astratta,
perchè da una parte veggo di obbedire alla ragion de'tempi e
dall'altra al genio italiano. Questo genio, o che si manifesti nello sperimentalismo
più cauto del Galileo o nel più libero idealismo di Bruno,ha sempre ultimo
fondo delle cose la natura, fuori della quale nulla vede e nulla spiega. È però
genio matematico per eccellenza, perchè ogni legge natu rale si stringe in
numero. Fu, quindi, possibile nella scuola di Galileo un Vincenzo Viviani che
faceva ciò che appena Leibnitz osava desiderare, sommettere cioè gli atti umani
alla misura, l'etica alla matematica. Risalendo i tempi, incontravasi nella
scuola di Metaponto; discendendo, preoccupava i periodi poli tici di Ferrari.
Se è una sistemazione anche questa, perchè afferma l'evo luzione come processo
dall'omogeneo all'eterogeneo, e non con sidera che l'evoluzione sarebbe
impossibile senza la coesistenza dell'omogeneo con l'eterogeneo? Perchè non
considera se quella che appare coesistenza immediatamente al senso,non si
faccia mediatamente connessione? E, se cotesta connessione è recipro cità,
perchè egli non mi lascia vedere le scienze esatte nelle naturali? Ne
deriverebbe che, esclusa la possibilità di ogni ente metafisico, il suo
positivismo farebbesi naturalismo. E tanto m e glio ! Tutte le perplessità
finirebbero, e non si parlerebbe a n Spencer pose gran cura a distinguere
sė da Comte,ciò che oggi vuol dire positivismo inglese dal francese. Molte sono
le differenze notate dallo Spencer, m a fan capo ad una: che Spencer cre le
necessaria l'analisi psicologica, da Comte giudicata impossibile. E dietro
quest'analisi Spencer perviene a quel s a pere unificalo, sotto il principio
universale della evoluzione, che costituisce la sistemazione del positivismo.
Innanzi all'universalità di queste leggi non vi sono per noi i riserbi, le
oscillazioni dell'inconoscibile e del positivismo in glese; vi sono invece
l'universalità e l'ardimento del naturalismo italiano, del quale cosi, senza
taccia di orgoglio nazionale, ra gionavo nella mia conferenza a Torino: Che
cosa manca? Noi abbiamo affermato l'inconciliabilità tra l'infinità
della natura e il vecchio caput mortuum della teologia.Non possiamo tornare
indietro; e le perplessità del positivismo sono sdegnate dal naturalismo
italiano. La parola stessa positivismo per noi è un equivoco: scientificamente
ci suona semplice reazione alla metafisica, e moralmente dice negazione di ogni
elevato ideale. La parola è sciupata. Il naturalismo dura quanto la natura, ed
è proprio nelle nostre tradizioni, nel nostro indirizzo e nel n o stro genio.
Non temo le conseguenze: la Verità e la Libertà sono, in fondo, una medesima
natura (1). Dietro questi criterii, tenuto conto non di uno o due, m a dei
precipui elementi naturali ch'entrano nella storia primitiva di Roma e che
possono essere determinati come i faltori elemen tari dell'incivilimento
romano, ne risulta che l'indole violenta ed il costume erratico de'primi
congregati devono essere dal vasto campo costretti a farsi agricoli, e che il
prodotto di questi due fattori, la violenza e l'agricoltura,doveva essere il
genio m i litare di R o m a. E militari si annunziano il primo re, le prime
istituzioni,iprimi fatti che aprono lastoria di Roma,come mi litare la postura
della città istessi, ottima delle posizioni stratc giche in tutlo il Lazio.
Or,dato un popolo agricolo e militare,un popolo,cioè,che [Bovio: Il
naturalismo. Torino, Roux e Favale] vora dell'assolutamente inconoscibile,
campo tetro,in cui possono rientrare tutti i vecchi pregiudizi, tutt'i terrori
infantili e tutte le senili speranze sfatate dal naturalismo italiano. Diritto,
ardito, impavido è l'ingegno nostro: è Colombo che, se ha da guardare verso
l'America, non riguarda la Spagna; è Galileo che, se s'in china, non nega il
moto; è Bruno che, se ode la sentenza, non disdice l'infinità della natura; è
Cardano che ha più timore di smentire il proprio oroscopo, che di morire. Cosi
pensa e cosi vuole: italianamente volere è come il supremo fato storico.
stabilisca il mio e il tuo e con la forza faccia rispettare il li
mite,quale sarà la risultante di queste attitudini,quale lamis sione o il
destino di questo popolo? È già evidente: sarà u n popolo giuridico per
eccellenza, il popolo del diritto. Cosi va: la violenza e l'agricoltura fanno
un popolo militare; l'agricoltura e la milizia fanno un popolo giuridico. La
violenza temperata dall'agricoltura diventa milizia, a c u stodia del proprio
campo; la milizia raddolcita dall'agricoltura diventa forza di equità. Cosi si
scoprono i primi naturali fattori del genio romano: non forza contro il diritto
(barbarie); non diritto contro la forza (decadenza ); m a diritto e sorza
(civiltà giuridica ). Non basta dire il m o n d o greco fu della scienza e
dell'arte, ilmondolatinofudeldirittoedelgoverno,ma bisognasapere perchè fu cosi.
Allora occorre vedere non solo la successione cronologica delle idee e delle civiltà,
m a indagare i naturali fattori che dispongono una nazione,piuttosto che
un'altra, ad una deterninata civiltà, e proprio quella e non altra nazione. E
per convincersi che quello fu davvero il genio di Roma e quelli i fattori dello
incivilimento romano,gli studiosi rivolgano a sè m e desimi alcune
domande.Eccole ordinatamente: Qual e fu, in generale, l'indole de’ popoli
italici, e quale tra le genti italiche la postura di Roina? Quali i rapporti
tra gli agricoltori e quale il costume? 4. Perchè fu tenace il costume e lento
in Roma l'accu mularsi della ricchezza? Perchè gl'idillii greci in Roma
diventano georgiche, come le cosmogonie diventano poemi della natura, ed in
qual conto R o m a ebbe gli scrittori de re rustica e le divinità campestri?
6." Qual'è la forina più latina del pensiero latino? È vero, in ultimo,
che quel pensiero e quella forma. Che cosa più occorre, quando questi rapporti
e questo costume si elevano a missione giuridica? sostanza e modo
di un mondo affatto prosaico alito di arte? - non hanno Se ciascuna di queste
domande non avesse in sè molta im portanza, tutte insieme parrebbero da
fanciullo per la loro di sparatezza, mentre, per la loro intima connessione,
posson fare una sola domanda. E l'ordine delle risposte può far bastare una
pagina, dove occorrerebbe un volume. Le genti italiche – per quell'armonia di
facoltà, della quale abbiamo sopra toccato l'origine portano in ogni cosa che
pensano e che fanno,non solo un senso finissimo di arte,m a g giore dove meno
appare,ma quella che chiamano nota giusta ed è espressione di senso pratico,
che, in fondo, è senso poli tico.E dico senso non per traslato nè per uso di
linguaggio co mune,ma proprio nel sensopiùitalianamente scientifico,perchè
intelletto e volontà sono evoluzioni del senso. Quindi sono popoli che hanno
meglio equilibrati gli ordina menti politici, e più disciplinati gli
ordinamenti giuridici e m i litari. R o m a, e per i fattori del suo genio e
perchè posta nel cuore della penisola,veniva naturalmente a concentrare tutto
il genio italico e a dargli quella espansione che può raggiare da una città nel
medesimo tempo giuridica e militare. Il genio di Roma,insomma,traperl'origine e
per la postura è nelle con [Non sarà inutile ricordare ciò che scrissi nel
citato discorso sul naturalism ap.19: Il senso era umiliato e depresso da due presupposti:
che lo avevamo comune con le bestie e coi zoofiti; e che la ragione p o teva
far senza di esso, come l'anima senza del corpo. Presupposti, come è chiaro,
della vecchia psicologia metafisica, esagerati dalla scolastica, raffi nati
dall'idealismo più recente. Il senso che si osserva,e che si sente,si alza,si
riabiliti e testimonia e scrive di sè stesso: Il senso avverte il fatto
naturale, il movimento del fatto e in ogni fatto la coesistenza dei contrarii,
per es., identità e differenza, genere ed individuo, comune e proprio. Il senso
avverte sè,ilmovimento da cui deriva e in cui si deriva,ed in sè la connessione
dei contrarii, per es., infinito e finilo, causa ed effetto, necessità e
libertà. Il senso avrerte la dizioni più naturali per concentrare ed
espandere il genio ita liano. E ne'popoli agricoli, più che
ne'commercianti,sorge schietto il sentimento del diritto e poi dell'equità,
perchè più semplici tra gli agricoltori, che non tra'commercianti,sorgono i
rapporti sociali. E, sorti, trovano subito stabilità nel costume e certezza
nelle forme, come stabile e certa è la terra, sulla quale e per la quale
l'agricoltore vive, come certo e stabile il limite del colto. E da questa
medesima stabilità e certezza, la tenacità del costume e la rigidezza avversa
ai subiti e pericolosi guadagni del commercio. Però in R o m a fu lento
l'accumularsi della ric chezza e ancora più lento il contagio del lusso. Se poi
questi rapporti e questo costume, ne'quali si accentra il genio di tutto un
paese, sono destinati ad elevarsi a missione giuridica, ciò che più occorre per
tradurla in atto cotesta m i s sione segnatamente in mezzo ad un mondo barbaro
è la forza. Perciò una grande missione giuridica, la quale non sia militare nel
medesimo tempo,è un'astrazione da missionarj,come una gloriosa missione
militare che insieme non sia giuridica e non si ordini a qualche alto fine
civile, è un'astrazione da nar ratori ciclici. Il dominio di R o m a è pari
alla forza, e l'uno e l'altra sono pari al concetto ed alla missione giuridica.
Quindi, propria tendenza a trasmutare ilfatto naturale in fatto storico, a insi
nuare nella storia il proprio moto e a determinare il fine del moto sto rico
nell'equilibrio dei contrarii, per es.,persona e Stato, lavoro e pro dotto,
dovere e dritto. Volete questi diversi gradi del sentire chiamarli
senso,intelletto e vo lontà? Ritragga il linguaggio con queste parole questa distinzione
di gradi, ma distinzione di gradi, non separazione di facoltà: distinzione di
gradi nella evoluzione del senso,come ilsenso è dellanatura,non tante ipostasi
di tante facoltà.Come l'evoluzione delle forze chimiche perviene sino al
l'organismo e dell'organismo sino alla vita e della vita sino al senso,così
l'evoluzione del senso sino all'intelletto e alla volontà. Nessuna ragione, m a
il solo pregiudizio può condurci a moltiplicare i principii e le leggi.
col crescere e determinarsi del concetto giuridico si giustifica l'egemonia di
Roma sopra tutto il mondo mediterraneo, e con la coscienza che Roma desta del
medesimo concetto negli altri popoli, si spiega il testamentu di Augusto in
Tacito: Addiderat consilium coercendi intra terminos imperii. Quindi, si spiega
perchè in R o m a,mentre tutto è militare e la procedura giuridica non si
scompagna dalla lancia, tutte le distinzioni civili e politiche sono derivate
dalla terra. È patrizio chi possiede terra ed il segreto de'diritti inerenti al
dominio; sono clienti, colientes,quelli che coltivano il campo del patrizio;
plebei, quelli che coltivano e costumano vivere sul proprio campo; proletarii,
quelli che non hanno campo, fuori del quale non c'è avere. E si ponga mente a
questo, che nel cliente c'è la radice del colono; che ne' rapporti tra cliente
e patrono è adombrata la prima tradizione feudale, che non si è interrotta mai
nella storiadelmondo;cheilclienteècittadino,ma non saclasse di cittadini; e che
in ciò principalmente si distingue dal servo che nè è persona, nè cittadino, nè
fa classe di cittadini. Agraria è principalmente la lotta tra le parti in R o m
a; agraria l'origine del dominio bonitario; agrario il fondamento del censo;
agrarie le leggi provocatrici de'più grandi dissidii e di radicali riforme
negli ordinamenti politici e civili di R o m a. L'evoluzione dello spirito
romano porta sempre questa impronta del principale fattore del suo genio. Tra
la legge licinia e la legge sempronia c'era sempre sull'agro pubblico tesa una
corda, che, tocca, consuonava con l'animo romano. Campestri da Saturno al Dio
Termine sono le deità indigene diRoma;ilcampoaratoèara;proarispugnare inanticoè
difendere il campo; e da un fanciullo uscito dall'aratro impara rono l'arte
degli aruspici, di gran momento nel cominciare le imprese civili e
militari.Censorino scrive$ 4:Nec non in agro Tarquiniensi puer dicitur exar
atus, nomine Tages, qui disci plinam cecinerit extispicii.– Anche negati gli
aborigeni,restano gl’Iddii autoctoni che si piacevano di riti e canti campestri
e 6 – G. B Vic. Disegno di una Storia del Diritto,ecc.,ecc. da'campi
mandaron voce ad Ercole di preferire le offerte di lampade accese ai sacrifizj
umani. Gli Dei che dal primo anno urbe condita sino alla prima dittatura
perpetua entrano in R o m a insieme co'popoli vinti, sono costretti ad entrare
anch'essi in servigio del vincitore, dal quale assumono forma e costume. La
Giunone di Grecia non è quella de'Latini,nè il Giove di Atene è quello di Roma.
Quando non più assumono il costume del vincitore, non sono più adorati. Ma nė
per numi peregrini nè indigeni c'è mai guerra tra i popoli latini, né dissidio
civile, nè giudizio per divinità. L'aco nito di Lucrezio - se mai fu provato -
non somiglia alla cicuta di Socrate: non ci fu accusa, da che i dotti di R o m
a sentirono che il poema della natura era l'espressione più vera del senti
mento contemporaneo. In Roma gli Dei sono piuttosto per l'uomo,che l'uomo per
gli Dei, i quali più si allontanano come più si determina il sentimento del
diritto, che ha dato alla lotta romana principalmente l'impronta agraria. — E
l'ager romanus da prima determina le tribù, le quali sono non solo personali, m
a locali secondo la partizione dell'agro. Nell'arte non si smentisce questo
elemento precipuo del genio romano, anzi vi si determina e spiega. Se l'idillio
greco entra in R o m a, si fa georgica, le quali Di patrii, Indigetes det tano
ad alto fine: Quid faciat laetas segetes, quo sidere terram Vertere, ulnisque
adjungere vites Conveniat. Aureus hanc vitam in terris Saturnus agebat.
Ma,seèvero,comesentiHegel, chegliDeidiVirgilio ven gon giù dalla macchina, in
queste georgiche la macchina è più visibile: mostrano abbastanza che vengono
dopo il poema della natura, e che secondo leggi schiettamente naturali la terra
vuol essere pulsata. E l'arte romana non ha nulla di più perfetto di
83 questo poema della natura e di questa applicazione che delle leggi
naturali si fa nelle georgiche, poema agrario. Celebrati, dopo questi, sono
scriptores rei rusticae et Gromatici veteres, per la tradizionale venerazione
della coltivazione e della misura dell'agro: tra'primi M. Porcio Catone,
Varrone e Colunella; tra'secondi Sesto Giulio Frontino, Aggeno Urbico, Igino.
Humana ante oculos foede cum vitajaceret In terris oppressa gravi sub
relligione Primum Grajus homo mortaleis tollere contra Est oculos
ausus,primusque obsistere contra (2). Ed è chiaro:sarà questo in Roma il
contenuto filosofico:lo stoicismo non sarà che di reminiscenze, e l'eclettismo,
di s c m plice erudizione. Quinto Sestio,stoico più che eclettico, non saprà
parlare di Giove che con un motto sarcastico, tramanda toci da Seneca: Iovem
plus non posse, quam bonum virum; a Cicerone, eclettico più che stoico, morto
otto anni dopo L u crezio, non saprà ammettere l'esistenza degli Dei che in via
di sempliceopinione:Deosessenaturaopinamur.E idottisinno quanto questo
opinatore magno, come Cicerone chiama sè stesso, confidi nelle sue opinioni
teoretiche e teologiche. Intravedesi E la filosofia? Dove sviluppato è il
sentimento del diritto, e per questo appunto la lotta si fa tutta umana e
principalmente agraria, gli Dei, a breve andare,si allontanano dalla scena.Epi
curo occupa Roma è il suo campo naturale e Amafinio pubblicamente lo insegna in
buona prosa latina come Lucrezio lo espone in versi mormorati a lui dalla
natura ch'ei canta: Perchè? (1)Lib.3. Te sequor, o Graiae gentis decus, inque
tuis nunc Fixa pedum pono pressis vestigia signis (1): (2)Lib.1. che la
macchina teurgica non manca a Cicerone che prelude ai politici di razza latina,
invocando gli Dei piuttosto a rincalzo dello Stato che a fondamento di
religione. Ma sopra tutt'i poemi e tutte le prose latine l'epigrafe mi parve
sempre la più latina forma del pensiero latino. Versi e prose se ne scrivono in
ogni lingua, più o meno classica,e morta e viva; ma l'epigrafe, che non è nè
prosa nè verso, non mi parve mai vera in altra forma fuor della latina. N'è
prova il fatto costante: sempre che si voglia far vivo un pensiero sopra una
pietra e quasi comandarlo alla memoria degli uomini,lo si fa latinamente. E,perchè
il pensiero trovi equazione con la forma, bisogna che abbia alcun che di
universale e d'importanza umana: una epigrase latina, oggi, sulla tomba di una
giovinetta, di un fanciullo, di un uomo oscuro, accusa gli eleganti ozii di un
pe dante, anche quando egli riesca alla pietosa eleganza di Antonio Epicuro,
che gemeva in latino del cinquecento, e in dotte a n titesi, la sostituzione
della morte alle nozze. Nam tibidumque virum, tedas, thalamumque parabam,
Funera et inferias anxius ecce paro. Anche il nostro Settembrini, che avea
gusto finissimo del bello, si lasciò ingannare dalsingultoin antitesieleganti, e
non seppe distinguere tra l'epigrafe dotta e l'epigrafe latina. È vano sfatare
l'epigrafe: sempre che si voglia dire con ef ficace brevità un pensiero
universale o un fatto d'importanza universale, si dirà epigraficamente e
latinamente.In altra forma e lingua apparirà lo sforzo, anche coperto dalla
maestria del Giordani che sopra Colombo e Machiavelli scrisse le epigrafi meno
incomportevoli. Noterò breve la ragione di questo fenomeno letterario. Quando
si dice la lingua latina, imperatoria, ellittica, essere percið epigrafica, il
discorso rimane all'esterno; e però viene a dire che la lingua latina è
epigrafica, perchè è.– L'intimo è che il pensiero latino —
giuridico. Si dirà, per afferrare transiti dove sfuggono, che l'epigrafe è il
passaggio dal verso alla prosa,dalla fantasia alla riflessione, e tiene però
dell'una e dell'altra. No: l'epigrafe esprime il sommo della riflessione,
perchè determina ciò che in una gene razione c'è di più universale, o come
pensiero o come sentimento, e lo stringe sotto non il numero de' piedi o delle
sillab e, ma delle parole,ed ha però forma egualmente discosta dal metro
poetico e dalla licenza prosastica. Chi consideri come l'universalità del
dirittosi determina nella precisione massima della parola, scopre subito
l'equazione tra il responso e l'epigrafe, e conchiude senza peritanza, che, ri
spetto al genio romano, sono di eguale importanza il corpus iuris e il corpus
inscriptionum latinarum. Tutte le regole di Morcelli de stylo inscriptionum
fanno la rettorica epigrafica, la più fatua melensaggine letteraria. Al g e
suita mancava il pensiero. Intanto questa indole epigrafica di Roma, che
riappare da ogni carta e da ogni pietra,in ogni parola e in ogni lettera
latina, questa appunto per la sua espressione nuda e severa ha fatto dire che
il genio di R o m a non ha nulla di artistico. Quel che di fluido e più
abbondante s'incontra nella letteratura latina, è greco. Per gli odiatori del
nome romano, Roma è la città della forza; per i più benevoli, è la città del di
ritto; per gli uni e per gli altri il genio romano è meno estetico del cinese.
Conchiudiamo questo capitolo, esaminando questa affermazione. Che il mondo
romano sia stato poetico davvero, come fu la Grecia, e come la nostra
rinascenza greco-latina da Dante in poi, non si può dire, si perchè nell'arte
di R o m a non troviamo l'individuazione de'caratteri poetici, e si perchè il
canto vera è universale, imperatorio, categorico. Per cosa ingiusta e con
parole indecise non c'è forza di comando.Perciò ripeto che inRoma ilresponso è
epigrafico, l'epigrafe è responsivamente poetico non si leva mai solo in un
popolo, ma in un periodo in cui gli vengono successivamente compagne le altre
arti: la pittura, la scultura, la musica, l'architettura.Non c'èragione,
perchè, una volta accesa la fantasia di un popolo, si debba tutta e solamente
stringere ne'metri poetici e non cercarsi il ritmo nelle altri arti: c'è invece
la ragione contraria, che, nato il canto, si presentano l'una dopo l'altra
tutte le altre forme della individuazione poeticil. I caratteri poetici migrano
per le diverse forme dell'arte, finchè si adagino nella forma più propria,
dalla quale sdegnano essere rimossi. Così il Giove di Omero passa in Fidia,e
ilgiudizio di Dante in Michelangiolo. Ma,se ilmondo romano non è poetico, nel
senso estetico della parola, è nondi meno artistico in grado inimitabile,
perché non neglige la forma dietro la ricerca di un contenuto informe, ma la
cerca in equa zione perfetta col contenuto, anzi dal contenuto si studia deri
varla, perchè sente che un pensiero che si deterinina, facendosi, si crea
determinatamente la sua forma. Il contenuto, la sostanza propria del pensiero
latino è il diritto, il quale in Roma si connatura con la forma romana, come il
Giove greco con la forma greca. La parola del giure consulto latino scolpisce
come la subbia di Fidia. Come da quella subbia esce il sopracciglio cuncta
movens, cosi da quella parola erompe l'imperativo giuridico. Or, questa
perfetta equazione tra pensiero e forma, tra l'im perativo giuridico e il
grammaticale, tra l'imperio concitato e la forma ellittica, quasi tronca, onde
Leibnitz, dopo gli assiomi de'geometri, niente vede più certo de' responsi
latini, questa appunto è intensamente artistica. Il giureconsulto non è il
poeta, è l'artista del diritto. 86 E per provare col fatto, io ben
ricordo che la lex XII T a bularum fu chiamata carmen necessarium, e, cresciuta
l'equità, -orrendocarme;chequesto carme fugiudicato un severopoema, ricco
d'immaginazione e a desinenze quasi ritmiche; che fu salto imparare a coro
da'fanciulli; che Cicerone ne parla con quell'entusiasmo (1),onde
iGreci ricordavano l'Iliade; che i R o mani derivavano più onore dalle XII
tavole,che non dalle guerre puniche; m a so pure che la voce carmen presso i
latini ha si gnificato assai più largo che poesis, e mi baderò dal definire
poema di qualsivoglia natura il carmen necessarium. Ma ag giungo subito che in
queste medesime tavole si manifesta il genio artistico del legislatore romano,
per una mirabile equa zione tra contenuto e forma, la quale ferma e stabilisce
quelle tavole come tipo di tutta la legislazione romana, e le fa perenni nel
culto di quel popolo togato e armato. Al primo sguardo sulla tavola prima si
legge: SI IN IUS VOCAT,NI IT,ANTESTETOR;IGITUR EM CAPITO. Non un articolo, nè
un pronome in caso reito; due impera tivi in cadenza, e tra'due, come a
temperarne la durezza,l'igi tur, che presume parere la razionalità ed è la
semplicità pri mitiva della legge.Ogni legge scritta è igilur in sè medesima, è
il corollario particolareggiato di un principio generale e di una applicazione
sottintesi; e però l'igitur espresso non è trovabile fuor della semplicità
infantile della legge. Basta averlo trovato in prima, e non pare che vi
s'incontri due volte.Hegel direbbe che questa procedura non solo insita nella
legge m a soverchiante, ed a cadenze d'imperativi della specie di capito,
ricorda troppo la manus.Due cose sono da rispondere:l’una,che laprocedura molta
e stabile, diffusa in tutte la dodici tavole, anche nelle due ultime che
Cicerone chiama inique (duadus tabulis iniquarum [Per Livio è fonte; per Tacito
è fine; per entrambi è corpo del diritto: quindi, fons publici privatique juris
in Livio; finis aequi juris in Tacito;corpus omnis romani juris ne'due storici
e ne'giureconsulti. Ma più se n'esalta Cicerone nel De Oratore: Fremant omnes
licet, dicam quod sentio.E dirà,giurando per Ercole,che ilsolo libretto delle
dodici tavole per peso di autorità e di utilità avanza di assai le biblioteche
di tutt'ifilosofi.Questo unus libellus era l'Iliade de'Romani. 87 legum
additis), svelano l'indole di un popolo agricolo; l'altra, che tutta questa
procedura primitiva, che è o la forza o simbo leggiata dalla forza, in R o m a è
sempre in servigio di un diritto che determina un rapporto tra gli ordini
noverati sopra, o tra due del medesimo ordine rispetto ad una medesima cosa.
REM UBI PAGUNT,ORATO, Qui, nelle dodici tavole, é evidente, è propria, sto per
dire, è bella: certo, come legge, questa evidenza epigrafica non è solo il
sommo della brevità, ma dell'arte. Fuori della legge, in Tacito, assai volte la
brevità perde l'evidenza e diventa cortezza, l'arte si svela e si fa sforzo, e
l'oscurità della frase indica l'o scurità de' tempi e l'animo oscuro di chi si
trova solo in mezzo a que' tempi. Bella ancora nelle XII Tavole la seguente
procedura che sta bilisce equazione tra l'esrcizio della legge e del Sole: SOL
OCCASUS SUPREMA TEMPESTAS ESTO. Tutt'i verbi trovansi all'imperativo, e
l'imperativo nel rit mo,ma più di frequente questo verbo essere, come se
l'essere in Roma questo dovesse significare principalmente: l'impera tivo
giuridico. Parrebbe ai meno accorti soverchia la parola rem innanzi a pagunt:
la levino e sarà come levata la parola inducias innanzi al pepigit di Livio. Le
parole in quelle tavole sono numerate 88 Notinsi intanto l'evidenza nella
brevità epigrafica, la rapidità del comando, la risolutezza della procedura.
Non si saprebbe quale parola o monosillabo levare od aggiungere. È il getto di
un pensiero giuridico, nato insieme diritto e procedura, impera tivo nella
essenza e nel modo,ritmico senza esser verso, arti stico senza nulla di
poetico. Notisi in questa ilmaximum della breviloquenza: si come nelle
epigrafi, e risermano, con l'esempio, la dottrina espo sta intorno al genio di
Roma. L'arte della legge,propria dello spirito romano, si annun zia sin da
queste dodici tavole; e i primi ed i,secondi decem viri furono artisti. Coloro
che anche in queste dodici tavole vollero vedere Atene, ed una legazione uscita
romana e tornata attica, ed Ermodoro esule d'Efeso primo glossatore, e dietro
le dodici tavole la statua di Ermodoro, furono confutati da Vico, e la
confutazione fu di quelle che non ammettono replica. Non solo nella essenza
delle dodici tavole c'è lo spirito originario di Roma,ma c'è ilgetto del
pensieronellaforma.Le dodicitavole in greco suonano come l'Iliade in latino:chi
sotto la forma indi gena non sente il pensiero esotico, è sordo ad ogni
risposta di Cirra. Le dodici tavole,come forma,svelano ilgenio diRoma,mi rabile
nella concezione ed espressione della legge, mirabile per quella equazione in
che dimora l'arte di una qualunque disci plina; come fine, svelano un'altra
equazione che è tutto il dise gno di un popolo giuridico:summis infimisque iura
aequare; come origine, svelano la prima equità nella notizia del diritto, la
promulgatio. La promulgatio accenna il transito dal s u m m u n ius all'ae quum
bonum in un popolo che ha congenito il sentimento del diritto e lo sente e lo
celebra come sua missione. Il Tribuno, provocando la promulgalio, astringerà il
diritto consuetudinario e il quiritario a fissarsi sulle tavole; il Pretore,
secondo i casi particolari, tradurrà il diritto scritto nell’equità
naturale;ilGiureconsultotradurrà l'equità nelle regole uni versali di ragione.
Il Tribuno sorge una generazione dopo ilregifugium ed una generazione prima
delle dodici tavole: e, sorto tra queste due generazioni, significa, con la sua
presenza, che, mutala forma di governo, si è mutato lo spirito di una nazione.
Il Pretore, non quello semplicemente da prae ire, m a quello appellato
urbanus, Considerata l'origine del Tribuno, e i due primi, Giunio Bruto
(forse nipote del primo) e Sicinio Belluto, tra patriziato e plebe; considerati
nel Tribuno il vus auxilii, il ius interces sionis e il veto; considerata
l'inviolabilità, ond’ era sacra la per sona del Tribuno, ed il violatore era
caput Jovi sacrum; fu detto che il Tribuno è un tipo affatio italico, e del
tutto italica l'istituzione del Tribunato. Doveva dirsi invece che il Tribuno,
il Pretore ed il Giureconsulto sono tre grandi momenti dell'equità romana; e
tre risultamenti memorabili della lotta umana ed agraria tra patrizio e plebe
sono la promulgatio, l'editto ed il responso. E qui due considerazioni: la
prima, come risultamento della lotta romana sono il Tribuno, il Pretore ed il
Giureconsulto, tali hanno ad essere le dodici tavole, e tutte le leggi che da
quelle promanano; l'altra, che chi credesse ancora tutto e solo della forza
questo mondo di Roma, dovrebbe correggersi innanzi al Tribunato, al Pretorio ed
al responso. In R o m a, desto il sentimento dell'equità, fondamento p e renne
della lotta umana che si agita in tutti i tempi di Roma, si desta insieme
l'accorgimento politico, onde il patriziato cerca prevenire gli strappi e
capitanare le riforme che non può nè respingere nè fermare:quindi, è possibile
vedere da una parte la lotta agraria, le guerre servili, la guerra sociale e la
guerra gladiatoria, dall'altra Spurio Cassio, patrizio, giustificare col suo
sangue la prima legge agraria, F. Camillo, patrizio, giustificare l'equità
pubblica, presentandosi primo pretore accanto al tempio votato alla Concordia, Emilio
Papiniano, patrizio, portare il re quod in urbe ius redderet,venne tre
generazioni dopo la pro mulgazione delle dodici tavole, perchè dopo tre strappi
fu m e stieri di chi piegasse la legge scritta verso la naturale equità. Il
Giureconsulto accompagna tutti i tempi del diritto, m a domina l'imperatore e
lo Stato, il mondo di allora e i secoli posteriori, quando libera l'equità
dallo editto e la incarna in pronunziati universali.Quindi,più
dileguasiilTribuno,più scende ilPretore, e più grandeggia il
Giureconsulto. Sempre che gli uomini pronunzieranno questa parola «
EQUITÀ », la quale, in fondo, è libertà, ed è l'alto fine della storia, si
ripresenteranno alla memoria di tutti il Tribuno, il Pretore, il Giureconsulto,
il primo a promuoverla, il secondo a specifi carla, il terzo ad
universaleggiarla. (1) Mi occorse nel 1881 rispondere ad alcune parole del
Cancelliere del l'Impero tedesco ripetute nel Senato italiano, e pubblicai subitamente
le parole che seguono per provare che non si hanno a chiamare concessioni
quelli che nella storia sono strappi. Riconosco, nella calma dello scrittojo,
la concitazione di alcune frasi che potrebbero alterare il senso positivo
dellastoria,ma ilfondo rimane vero,epiùveroancora,chelapoliticafine dell'antico
Senato oggi non può trovare imitatori nè in Germania, nè in Italia,nè in
Francia.Ecco,intanto,le parole di allora: Giova ripetere il senso delle parole
di Bismarck, ripetuto già nel Senato italiano, per mettere sotto gli occhi del
principe tedesco e de' senatori italiani alcune verità storiche, alcune leggi e
certi nomi che non dovreb bero essere mai dimenticati da'prudenti che presumono
condurre gli Stati, lontani dai partiti estremi, e li trascinano fuori delle
leggi storiche. Il Cancelliere ha detto: Da venti anni alla sommità dello
Stato, ho potuto osservare che gli Stati,passando di una in altra concessione,
pas sano dalla forma monarchica alla repubblicana. Il Senato ha detto: Le
troppe concessioni al diritto di suffragio conducono al Senato elettivo. L'uno
preoccupavasi della corona, gli altri della propria istituzione. Hanno ragione
e torto. Ragione,perchè,passando di diritto in diritto,si perviene fatalmente
alla sovranità nazionale senza delegazione, e a tutti gli ufficii per elezione.
Torto,perchè non sono concessioni glistrappi.– Idirittifuronostrappati sempre
dai popoli agli Stati, dalla scienza alla storia, non concessi mai. Si può dire
al pensiero: « non conchiudere »,se la premessa è posta? Si può dire alla
storia:« non gravitare »,se l'impulso è dato? Idivieti dello Stato non
fermeranno la storia, come i divieti del sacerdozio non fermarono ilpensiero.
Vo'mettere sotto gli occhi del cancelliere tedesco edeisenatoriitaliani quattro
secoli di storia dell'antico senato romano, cioè la rapida succes sione
democratica di quattordici generazioni, dal 260 di Roma al 684, af 91.
sponso sopra l'imperatore Caracalla e per il responso lasciare la vita, come già
Spuso Carisio per la legge agraria sulla rupe Tarpea. I Tribuni, i Pretorie i
Giureconsulti, venuti dopo di quelli, arrivarono in ritardo, perchè altro ai
tempi nostri è il contenuto dell'equità, altro il metodo, altri ne sono i rap
presentanti. Ora questo è chiaro: mentre da Papirio a Papiniano si svolge il
tipo del giureconsulto,non appariscono in Roma scrittori po litici. In Tacito
comincia, declinando lo Stato, ad apparire la finchè si accorgano che gli
strappi non sono concessioni e che la gravita zione storica è continua. Sino
all'anno 260 di R o m a che è la plebe rispetto al patriziato? II senato, le
cariche religiose e civili, il comando degli eserciti, il dominio ne' comizii
curiati e centuriati, tutto è dei patrizii. Il plebeo che non può campar la
vita dal ricolto o col magro bottino,è destinato a diventar d e bitore del
patrizio, ad essergli venduto per aes et libram, a farglişi nexus o addictus.
Ciònonèlungamentecomportevole. Iplebeisiritiranoinarmisul l'Aventino e
ottengono due magistrati proprii, i tribuni. Iltribuno nacque come
re:sacroecoldrittodiveto.Ilvetofu tri bunizio e destinato a farsi regio, perchè
allora doveva essere limite all'ari stocrazia, oggi alla democrazia.
L'attentato alla vita del tribuno era cri mine capitale.La formula è in
Livio:Caput Jovi sacrum. Il veto e l'inviolabilità del tribuno furono
concessioni? I costretti vol lero parere e chiamarsi provvidenti. Una
generazione appresso (anno 292 diRoma)laplebefaintendereche non vale un
magistrato proprio senza una legge comune e spiegata.Quindi, la mezza
generazione che corre dal 292 al 303,è occupata da due decem virati, destinati
alla compilazione delle dodici tavole, ispirate alla triplice
necessità:promulgatio;libertasaequanda;provocatio ad popolum.Ecco, la legge è
scritta, è promulgata, non è più un segreto patrizio che erompe, come
responso,dall'atrium,è aperta la viadelpontificatomassimo ad un plebeo,a
Tiberio Coruncanio. Fu concessione? Tacito accenna neque decemviralis potestas
ultra biennium,e Livio spiega quanta plebe in armi è dietro Virginio e quanta
se ne accampa sul monte Sacro. L’impulso è dato, la gravitazione è in ragion
diretta della massa. Nel medesimo anno 305, in che precipita il decemvirato, la
tegge delle dodici Fu concessione o strappo? 92 93 politica;
m a lo storico prevale anche in Tacito, perchè siamo ancora discosti dalla
catastrofe. tavole è sorpassata dalla legge Valeria Orazia.
Iplebisciti,proclamati ob bligatori per tutti,obbligano ilSenato.La formula è
in Livio: Ut,quod tributim plebesjussisset,populum teneret. La conseguenza è
immediata: una plebe legislatrice può imparentare col patriziato. Ed ecco
Canulejo tribuno, quattro anni dopo,nel 309 di Roma, sorpassa la seconda volta
le dodici tavole,spezza iriparitralecaste,pro clama il connubium patrum et
plebis, incrocia, confonde, mescola i ceti. Concessione niente,fu sedizione
audace e flagrante: seditiomatrimo niorum dignitate, ut plebei cum patriciis
jungerentur. Lo strappo è net tamente stabilito nel primo Libro di Floro:
Tumultus in monte Janiculo, duce Canulejo tribuno plebis, exarsit. Il senato
non voleva, m a la plebe exarsit. Potrà, or dunque, il plebeo salire anche al
consolato? Potrà sentirsi il rumore de'fasci in casa plebea? Si chiamino pure
tribuni militari,ma la dignità consolare è divisa.Tacito scrive:Neque
tribunorum militum jus consulare diu valuit;perchè,dopo
unalottaquarantenne,ladignitàcon solare,ripreso il vecchio nome,non si limita
ai vecchi uomini. Fattasi l'eguaglianza negli onori, è tempo che si proclami l'aequanda
libertas, l'eguaglianza anche innanzi al diritto punitivo. Ed ecco,due anni
dopo l'istituzione del tribunato militare, nell'anno di Roma 311,nasce il
Censore che può notare d'infamia il plebeo e il senatore, il console ed il
cavaliere, l'uom privato e il magistrato pubblico. La formula di codesta parità
leggesi in Ascanio, Divinatio in Caecilium. « Hi prorsus cives sicnotabant,ut
qui Senator esset,ejiceretursenatu;quiequesromanus, equum publicum perderet;
qui plebeius, in tabulas Ceritum referretur et aerarius fieret ». Livio
ammonisce nel libro sesto che non ci furono concessioni. Dopo le discordiae
sedatae per dictatorem ci dice CONCESSUM ab nobilitate plebi de consule plebeio
! R o m a, che, dilargando il diritto, democratizza la repubblica e sale verso
l'aequanda libertas,èinexpugnabile;Roma,chenellospaziodidue ge - E si
vien chiarendo insieme al disegno di questo libro, che, cioè, mentre grandeggia
lo Stato romano, e come re publica e come impero, fiorisce il giureconsulto; e
più il dominio si dilarga, più si fa universale l'intelletto del giu
reconsulto, e più n’esce universale il responso, dal patrizio al
plebeo, all'italiano, all'uomo. È vano cercare lo scrittore politico in questi
secoli di grandezze e di gloria: il politico non sarà mai contemporaneo del
giureconsulto. Mentre la gran politica sarà nel patriziato e sarà pratica di
governo, non sarà scritta. Disfatti gli Stati italiani e nata, di contro ai
grandi stati e u ropei che si formavano,l'esigenza di uno Stato stabile, quale
nerazioni, dal 200 al 311, ha posto di contro al patriziato il tribuno, la
legge decem virale, la legge Valeria Orazia, la legge Canuleja, i tribuni
militari ed i censori, non può, nelle due generazioni dopo l'istituzione
censoria, nel 354, essere distrutta da'Galli Senoni; ma, uccisa nelle vie, esce
rinata dal Campidoglio. Senno patrizio e valore plebeo, concordi, la rifeceru.
Usciti dal Campidoglio, per comun valore, occorre che l'aequanda liberta sabbia
la sua norma certa, temperatrice del certo jus summum, sta bilita nelle dodici
tavole. Ed a tale uopo, una generazione appresso (387), sorge, come speciale
magistratura, il pretore che col quadruplice editto piega, corregge e integra
il diritto stretto nella giustizia pretoria. M a Roma,un secolo appresso,è già
capitale d'Italia,ed un secolo in punto appresso (488) accanto al pretore
urbano viene a sedere il pretore pere grino: due alte magistrature che si
suppliscono a vicenda e che di patri zie si fanno popolane non per concessioni,
ma per terribili strappi ehe dentro sono discordie civili, e fuori la guerra
sociale, onde Italia, a conto di Vellejo Patercolo, vide sopra campi italiani,
in meno di un anno,uccisi più di trecento mila italiani che seppero,morendo,
tramandare ai super stiti il dominium ex jure Quiritium. Perchè, dunque,
codesto dritto quiritario di patrizio divenisse popolare, e di romano divenisse
italico, quante grazie, quante concessioni di patrizii
sceserospontaneesullapleberomanaesu'popoliitalici?– Ricordisipiut tosto la
storia della Lex Plautia (De civitate), e lascino stare le conces sioni e le
grazie. E quando,superate le discordie civili e la guerra sociale, noi ci tro
viamo tra le armi di Mario e di Silla e vediamo Montesquieu torcere lo sguardo
da queste ire implacabili tra due titani, dobbiamo noi imitare la pietà che
inspirava lo Spirito delle leggi? La critica storica è crudele:passa
tra'cadaveri romani e vuol sapere perchè Silla fu'na di sangue latino. Silla
preoccupa il ten'ativo di Giuliano che si fosse, in Italia, sorgono ed
eccellono, sopra tutti gli altri, gli scrittori politici. Allora il diritto non
istà da sè, m a cade in servigio delle due tristi necessità che hanno a fare lo
Stato: la forza e la frode. I glossatori abbondano, ma il giureconsulto non
verrà cortemporaneo degli scrittori politici.E più gli Stati rovinano, e più la
politica si rifugia ne' libri. l'apostata: l'uno vuol rifare l'aureola attorno
al vecchio senato, come l'altro intorno ai crani de'vecchi Dei. Ma,come
Giuliano, dopo aver cac ciato dalla sua sede S. Attanasio e altri vescovi, non
rialzò l'Olimpo, così Silla,dopo avere abbattuto la plebe, compressi i tribuni,
abbassati i cava lieri e disciolte le assemblee tribute, non potè rialzare il
vecchio senato. Perciò, dopo cinque anni, abbandono la dittatura, cioè
abbandonò Roma alle leggi storiche. Tal significato ha l'abdicazione di Silla,
e tale a m m o nimento ne deriva al Senato, che nè per colpi di Stato, nè per
reazioni si rifà l'antico potere. E pure la generazione che ha combattuto la
guerra sociale, nella quale fu stabilito il dirittoitalico, la guerra civile
non riuscita a rialzare il vec chio senato, è destinata a combattere due guerre
servili e la guerra gla diatoria, ordinata in apparenza a rialzare l'antico
patriziato sul cadavere di Spartaco. M a si guardi che, se la guerra sociale è
per il diritto italico, la guerra servile, che chiude il lavoro della medesima
generazione, è pel jus humanım: si guardi Spartaco morire combattendo, senza
domandare quar tiere o tregua: si pensi s'ei non aspetti qualcuno dietro di
lui, e se egli non senta che il vecchio patriziato non si rialzerà sul suo
cadavere. Il senato non concede mai nulla e non riesce mai ad arrestare la
democrazia; lo strappo rende popolare quel ch' era diritto patrizio, italico il
dirittoromano,umano ildirittoitalico.Ilsenatochehacredutodivincere la guerra
servile, è già servo: At Romae ruere in servitium consules,
patres,equites! - Siamo innanzi ad un mondo nuovo e senza nessuna
concessione del Senato ! Bene o male? Rispondo che fu quel che doveva essere.
Inevitabile era il cammino della plebe sino alla proclamazione, in Roma,
dell'equità umana che doveva dalle nazioni vinte esseretoltacontroRoma
vincitrice. Io doveva dimostrare che tutto fu preso e niente concesso e che la
grande politica del patriziato romano non consisteva soltanto nel cedere,
sembrando concedere, ma nel preoccupare quel ch'era inevitabile nello
svolgimento dell'equità: onde leggi democratiche si trovano più volte sotto
l'auspicio di uomini consolari e di nomi patrizii. Quando lo Stato è in
sul ricomporsi, e la rinascenza ita liana, che in parte ha fatto e in parte
prepara le tre grandi ri voluzioni europee la germanica, l'inglese e la
francese volge al suo compimento,allora abbiamo la sintesi degli accor gimenti
co' responsi, della politica col diritto, e sorgono i giure consulti politici
che sono filosofi della storia. Il giureconsulto è il tipo latino, il politico
è u o m o della rina scenza, il giureconsulto politico è uomo moderno. Il primo
è la pura esigenza dell’equità,m a dell'equità astratta, perchè il mondo romano
era transito dal civismo ellenico all'in dividualismo germanico, e non riusciva
a contemperare i due termini, perché il transito non è la sintesi. Il secondo
simula il diritto, in cui traveste la forza e la fede, perchè meglio che a far
l'uomo mira a rifare lo Stato. Il terzo che vien dopo l'evoluzione intera del
civismo e dell'individualismo, riesce a contemperare i due termini e,rispetto
ai mezzi,a comporre la politica col diritto, secondo la misura dei tempi e dei
luoghi. Questo sentimento dell'equità,che,diffuso da Roma nel mondo faceva la
grandezza di Roma e poi la rovina, questo medesimo ricostruivala centro del
cristianesimo che era una nuova esi genza dell'equità, cioè non tra' cittadini
e tra le nazioni, m a tra gl'individui. Perciò il mondo germanico potė
diffondere il cristianesimo, non accentrarlo. E, quando il concetto dell'equità
avrà superato anche il cri stianesimo, Roma proclamerà la laicità dello Stato.
Ora seguiamo il genio di Rom a attraverso i periodi dei giu reconsulti.
Ferrari vide che il progresso umano è una risul tante del corso e ricorso,
della rivoluzione e reazione, e che questa risultante è significata nella
storia dalla soluzione. La rivoluzione e la reazione hanno per premessa la
preparazione e per corollario la soluzione. Questo è il circolo sillogistico di
Ferrari.– Ma nè questi circoli si concatenano, nè ci lasciano vedere dove
vanno, nè l'autore vuole che si guardi fuori e so pra il circolo, dentro il
quale l'uomo fatalmente si trova. I cir coli di Ferrari, salvo il criterio
della misura, del quale si ha da tenere gran conto, ci lasciano poi innanzi al
destino u m a no ciechi,come i circoli di Machiavelli. Vico, denominando le
epoche e connettendone la successione, ci promette più larga notizia del nostro
cammino, e poi riesce a chiudersi egli stes so dentro i circoli suoi. Ad ogni
modo, noverando i periodi del diritto romano,è im possibile dimenticare Vico
che non può oggi, come allora, vivere straniero e sconosciuto nella sua patria.
Nessun genio compendio più dolorosamente la sua storia. Tutti oggi ripetia m o
a coro gli errori di Vico, e ci pare grandezza perdonargli la sua teologia e le
applicazioni storiche troppo ristretle al mondo romano, e non vogliamo sapere
che la teologia di Vico è quasi di continuo una naturale teologia del genere
umano,la quale va a confondersi con l'antropologia, e che il mondo
romano,apparso universale,potė parere nel tempo un disegno reale di una storia
universale eterna. Io non so se sia più n a turale la teologia di Vico o più
teologica la natura di Herder m a vedo chiaro che, se Herder entra innanzi a
Vico nell'esi genza del naturalismo storico come metodo, resta assai indie tro
rispetto al contenuto. In Vico c'è più sostanza scientifica, perchè i
presupposti teologici e metafisici sono in ciascun libro della scienza nuova
superati dal naturalismo italiano che, oc cupando la filosofia della storia, fa
Vico l'ultimo titano della rinascenza. Vico celebra la teologia ed è fatto
naturalista dal genio italiano;Herder invoca la natura ed è fatto metafisico
dal genio tedesco. Tengasicontodiquesteavvertenze:cheVico,ponendo Ba cone
accanto a Platone ed a Tacito, poneva l'induzione sul contenuto classico; che
l'induzione, prima di apparire teorica in Bacone, era stata teorica e prutica
in Galileo e nella sua scuola;che venir dopo Galileo e Bruno in Italia
significava portare nella storia le leggi della natura, come aveva tentato la
medesima scuola di Galileo; e che in questo compito doveva concludersi lo
spirito della rinascenza. Perciò, sebbene Vico una volta appena tocchi di
campagne, di cielo, di acque, di zone e di mutua influenza di nazioni, pure
mette di natura nel suo li bro quanta ce n'è nell'uomo, dal senso
all'intelletto, guardando in Lucrezio e presentendo Darwin.– Non c'è,dunque,da
per donargli la teologia, m a da intendere pensatamente che cosa sono in lui la
teologia naturale e la teologia civile. Queste due parole sono reminicenze
della scuola privata; ma il contenuto messovi dal Vico è della scuola italiana.
Quanto all'applicazione, Vico e Ferrari furono tirati ad o p postissimi errori,
l'uno dal difetto dell'erudizione contempo ranea, l'altro dalla mancanza di
sistema. Vico neglesse i p o poli storici o li trasse tutti dentro R o m a,
Ferrari portò i suoi periodi anche ai popoli estrastorici, dove cioè manca la
vita e l'intelletto della storia. Vico noverð tre epoche del diritto e
della procedura e, tro vatele in R o m a, conchiuse averle trovate in tutte le
nazioni. Nella prima epoca il diritto è divino e tutto involuto nella ra gione
degli auspicii,che presso i popoli gentili tien lungo del la rivelazione, onde
Iddio privilegið prima gli Ebrei e poi i cri stiani. Nella seconda epoca il
diritto è nell'equità civile che è ragion di Stato, della quale il Senato
romano fu custode sa piente e geloso. Nella terza il diritto è nell'equità
naturale che è ragion comune, esercitata dalle repubbliche popolari e dalle
monarchie umane. A questi periodi del diritto rispondono altrettanti della pro
cedura. La quale, mentre il diritto è divino,“si esercita, Dio auspice e
testimone, ne' giudizii divini. Quando il diritto è p o litico, la procedura è
nella scrupolosa esattezza delle formole e delle parole giudiziarie e
contrattuali, talchè il diritto paia più nelle parole,che negli
uomini.Quando,in ultimo,ildiritto viene a combaciare con l'equità naturale, la
procedura diviene una logica tutta'intesa al vero de' fatti, governata
dall'intel letto e interpretata dall'equanimità.Quindi,icorpi jeratici go
vernano prima, poi gli eroici, in ultimo gli uomini modesti ed equanimi. Vico
trova questa successione di epoche nella natura u m a na, poi in Roma, poi,
perchè nella natura dell'uomo e nella storia di Roma,nel mondo. R o m a,
l'urbs, la città per eccellenza, la città universale, gli è sostrato al disegno
di una storia universale. Ma,sollevata a questo vertice di universalità,
avviene che prima perde R o m a 'la sua particolare fisonomia in quella delle
altre nazioni, poi le altre, e senza serbarne traccia,la perdono in Roma.Non ci
si lascia scorgere e neppure intravedere la ragione, onde certe leggi, certi
istituti, e magistrati, e carattere ed imprese, furono romani, affatto romani,
non trovabili fuori e dopo R o m a, ne perchè certi altri uomini e fatti e
leggi non sono trovabili in Roma. È conseguenza di una filosofia della storia,
fondata sulla troppo comune natura delle nazioni, nella quale spariscono
le differenze. Perché il tribuno, perchè il pretore e il giureconsulto v e g
gonsi in Roma e non fuori,perchè nascono dalla lotta romana e non dalla greca e
dalla germanica, perché il responso come ufficio, come valore e forma, permane
latino e non è mai supe rato nè imitato, tutto questo che importa sapere, non
vi si dice da Vico. Non vi poteva esser detlo, perchè Vico investiga la comune
natura delle nazioni e non le differenze, e la investiga nella mente che è
comune,non nel dato etnografico e geogra fico che, modificandola, spiega le
leggi della successione e della varietà. Se vogliamo,dunque,le epoche storiche
del diritto romano, del romano e non di altro, bisogna cercarle nella propria
sto ria di Roma, espressione del genio romano. Non è facile l'esatta partizione
de' periodi del diritto ro mano; non è facile almeno rispetto a tutte le sue
parti:perchè,se il diritto pubblico si muove insieme con lo Stato e si trasmuta
secondo le tre epoche apparenti della costituzione politica di R o m a, non si
può dire il medesimo del diritto privato,di cui le divisioni meno apparenti
sembrano assai più lente, più consentanee ad una legge continua di evoluzione.
Nondimeno abbiamo susficienti criterii per ridurre a tre clas si gli storici
che espongono i periodi principali del diritto r o mano. Gli storici che,
secondo una dottrina di Vico, dividono le età di un popolo come quelle di un
uomo, accettano una divisione fatta con lieve differenza - da Gibbon e da Hugo.
Allora la storia del diritto romano vien divisa secondo i periodi d'infanzia,
di giovinezza, di virilità e di vecchiezza. Gli storici che considerano il
diritto come una funzione dello Stato e veg gono il diritto privato procedere
dal diritto pubblico, dividono i periodi del dritto secondo i momenti della
costituzione politica diRoma.Allora,lastoriadeldirittoromano nella monarchia,
nella repubblica e nell'impero. Questa divisione pare accettata 100
dall'Ortolan che presume derivare la storia del diritto romano dalla
storia del popolo.In ultimo, gli storici che studiano lo svolgimento del
diritto romano nella missione peculiare che il diritto ha potuto avere nel
mondo e nel genio di Roma, divi dono i periodi del diritto secondo i momenti
dell'equità. Allora il primo periodo lo dicono conchiuso dalla venuta del
pretore urbano, il secondo da Augusto, il terzo da Costantino. Questa
partizione, posta da Hulzio, è di molto valore in sé, m i viziata
nell'applicazione dall'autore istesso per difetto di filosofia e di critica
storica. Non mancano alcune divisioni fatte secondo le condizioni e conomiche e
morali di Roma,ma di lieve conto, perchè sono le più incerle ed arbitrarie. È
nostro compito – confutate che avremo le due prime divisioni – recare a
perfezione la terza. La prima divisione de' periodi pecca di troppa generalità.
Anche ammesso che la vita dell'uomo sia divisibile in quattro periodi isocroni
e che tutti e quattro col medesimɔ isocroni smo siano applicabili alla storia,
n'uscirà sempre una curva comune a tutte le nazioni, nella quale non appare il
profilo di ciascuna.Nè questa curva lascia scurgere il transito dall'un
all'altro periodo. Se le date che hanno da fissare questi pis saggi non sono
determinabili con esattezza nell'in lividuo, chi potrà affermare con certezza,
qui finisce l'adolescenza di un p o polo e comincia la giovinezza? Quindi,
vengon fuori quelle di visioni arbitrarie, nate piuttosto a comodo di una
scuola o di una cronologia convenzionale, che delle intenzioni effettive della
storia.Ecco, infatti,come procede questa scuola dell'isocronismo, che porta
nella storia romana l'età dell'uom).Prende tredici secoli in Roma, dalla
fondazione a Giustiniano, e li rompe in quattro parti quasi uguali, di trecento
in trecento anni, e denomina ciascuna parte da una delle quattro età dell'uom
). L'infanzia del diritto romano dura dalla fondazione di Roma alle dodici
tavole; la giovinezza, dalle dodici tavole a Cesare; la virilità,dia Cesare ad
Alessandro Severo;la vecchiezza, da Alessandro Severo a
Giustiniano. L'infanzia sarebbe la monarchia, i primi consoli e iprimitribuni; lagiovinezza,
tuttala repubblica, dalla promul gatio sino alla riapparizione di quella che
Livio chiama Vetus Regia Lex simul cumur tenata; la virilità e la vecchiezza sa
re h bero tutto l'Impero,da cotesta tanto contrastata Regia Lex sino al Codex
Iustinianeus. M a ciascun vede che i transiti sono estrin seci ed arbitrarii, e
non lascian vedere le necessità intime che governano la successione
de'periodi.Nė appare perchè invano Giustiniano si sforza, con cinque tentativi,
di stringere il cristia nesimo sotto le leggi romane spirito nuovo in vecchia
cor teccia – nè come il Cristianesimo si vien costruendo la sua più naturale
espressione giuridica nelle leggi germaniche e nel gius canonico. La divisione
pui de'periodi giuridici, fatta sulla successione della costituzione politica,è
fatta davvero grossamente, e non ci lascia vedere né i momenti principali della
repubblica, nè i pe riodi che si succedono nell'istesso impero. È certo che,
mutata la costituzione politica,non è soltanto mutata la forma di go verno,ma
dev'essersimutatoinsiemeilcontenutodeldiritto pubblico, e, conseguentemente,
del privato, sebbene la conse guenza non si mostri immediatamente; m a nessuno
può affer mare che cotesti trasmutamenti non avvengano durante appa rentemente
una medesima forma politica.Se l'epoca di Alessandro Severo può dividere in due
periodi l'impero, perché la legge Publilia che dichiara popolare la repubblica,
e la legge Petelia che libera la plebe dal diritto feudale rustico del carcere
privato, non varranno, secondo la mente di Vico, a designare tanta di stanza
tra repubblica e re ubblica, quanta forse non se ne trova tra Tarquinio e Bruto?
Ma si faccia questa considerazione che è la più intensa e la meglio
dichiarativa, nella storia, della successione de'fenomeni civili e
politici.Nell'ordine ideale ed effettuale delle cose umane, la successione
de'periodi politici determina e spiega la succes sicne de'periodi giuridici, o,
per contrario, la successione dei periodi del diritto dichiara e prestabilisce
la successione de'pe riodi politici? L'homessa intera la forma della domanda,perchè
la risposta erompa da sè. Sebbene nella storia il diritto e la politica, la
ragione del l'uomo e la ragion di Stato, si presentino come due concetti, due
forze, e - mi sia lecito a dire – due istituti avversi, e la politica sembri
nata per comprimere il diritto, ed il diritto per urtare e trascendere gli
ordinamenti politici, pure, in fondo ed in ultimo, la forma dello Stato finisce
per dischiudersi alla nuova esigenza del diritto. Così sempre: se un nuovo
bisogno vien determinando una nuova idea del diritto, già si sente per l'aria
il fremito di una rivoluzione; e se uno Stato nuovo sorge ad occupare questa
nuova concezione giuridica, appena nato, già tende a cristallizzarla ed a
mozzarne le illazioni. Tutto ciò può esser vero; m a pur si vede e s'intende
che la nuova forma di Stato, quale che sia, s'è venuta organando intorno a quel
nuovo concetto del diritto. Per non far, dunque, irrazionali ed astrologici i
mutamenti politici, noi dobbiamo affermare che l'ordine naturale delle cose
c'impone di non derivare dalle forme successive dello Stato i periodi del
diritto, m a dall'evolu zione della coscienza giuridica i periodi politici.
Perciò scrissi e ripeto che ne'periodi politici del Ferrari ammiro la genialità
del pensiero e i germi dischiusi del natura lismo italiano; ma sono periodi,ai
quali mancano le premesse. Si potrebbe rispondere che per queste ragioni
appunto i mutamenti politici andrebbero intesi come segni esteriori e certi dei
periodi del diritto. No - ripeto per due chiare ragioni: l'una, che per questa
via si viene a rendere equivoco il pro cesso della storia, potendosi assai
facilmente scambiare le cause con gli effetti, e scambiare il diritto che
promuove il muta mento politico, con la legge che ne consegue; e l'altra, che
verrebbero a mancare i criterii per distinguere i veri dagli a p parenti
mutamenti politici e le rivoluzioni politiche dalle sor prese settarie e
da'tumulli più o meno rumorosi e vuoti. Un mutamento politico è reale e
durevole, se determinato da una nuova concezione giuridica;e,quando
no,sidilegua,lasciando tracce di sangue, non d'istituzioni. Occorre,dunque,come
si è detto,seguire lo svolgimento del diritto romano nella missione peculiare
che il diritto ha potuto avere nel mondo e nel genio di Roma,e però dividere i
pe riodi del diritto secondo i momenti dell'equità, onde procedono le
successive forme della costituzione politica di Roma. Facciamo parlare i fatti.
Perchè in Roma si passa dalla m o narchia alla repubblica e poi all'impero? Se
rispondesi che Tarquinio potè estinguere il potere regio come Cesare rifarlo,
si viene a conchiudere che l'origine e la rovina delle istituzioni sono in
balia di un uomo. Una storia cosi fatta non c'è, nè c'è oggi chi torni a
narrarla. Se Tarquinio potè finire il regno, perché l'impero non cessó in
Domiziano, quando praecipua miseriarum pars erat videri et adspici? Altro,
dunque, che la ferocia e la clemenza di un principe, di un sacerdote, di un
capitano occorre per determi nare e spiegare la vita o la morte delle
istituzioni politiche. Lasciamo a Voltaire la facilità di dimenticare le
premesse del suo saggio su'costumi e sullo spirito delle nazioni, per affer
mare che il delirio di un Cucupietre potè iniziare il periodo delle crociate, e
gl'insidiosi interessi di monaci il periodo della riforma. Quanto a Roma,il
vero si è che la reazione di Tar quinio mal poteva resistere ad una nuova
esigenza giuridica, adombrata già dalla favola, che i Commentarii di Servio
Tullio erano destinati a passare nelle mani di Giunio Bruto. Questo mito
de'Commentarii era tutta una tradizione che diceva tra gli scritti di Servio
Tullio essersi trovato nientemeno tutto intero il disegno di una costituzione
repubblicana; che questo non era soltanto un disegno,ma un proposito di Servio;
che questo proposito appunto gli era costata la vita; e che non dimeno disegno
e proposito erano passati da Servio Tullio a Giunio Bruto. C'è, a primo
intuito, qualche cosa in questa tradizione, la quale è assai più scientifica,
che non una repubblica esplosa dalla superbia di Tarquinio, dalla fatuità di
Bruto e dal cada vere di Lucrezia. La tradizione si fonda sopra questi dati di
fatto: che la prima monarchia di Roma non somiglia a nessun'altra delle monar
chie antiche e moderne,ed è,conforme al genio di Roma,una istituzione
giuridico-militare; che, secondo questo carattere ori ginario e primordiale di
R o m a, il diritto è una continua ten denza verso il suo natural fine che è
l'equità; e che però i periodi nella evoluzione dell'equità devono essere i
periodi sto rici del diritto romano. Ora,se il diritto inRoma sorge come
istinto o genio di tutti da una parte, e dall'altra come sapienza privilegiata
di un or dine, di quello cioè che si reputa destinato a conoscere e cu stodire
le leggi, quale potrà essere il vero primo momento del l'equità? Suttrarre la
legge al mistero, sottrarre la sapienza al privilegio, far la legge nota a
tutti: promulgatio. Questa esi genza come diritto crea la repubblica; come
legge, succede al decemvirato. Quindi, il primo momento dell'equità è l'equità
formale, la promulgalio, ma necessaria, perchè dalla forma si passi alla
sostanza. L'ignoto sfugge all’equità. E questa necessità sa liente a traverso
il periodo regio spiega la tradizione de' C o m mentarii di Servio, la reazione
del Superbo, la fine della m o narchia sotto questa reazione, l'avvenimento
della repubblica col disegno di Servio passato a Bruto, e primo prodotto della
repubblica il Tribuno che a sua volta produce la promulgatio. In fatti, quanto
tempo corre dal regifugium alla promulgatio? Ben sessant'anni vi corrono, e tra
queste due generazioni sorge in mezzo il tribuno. Accanto al cadavere di Gneo
Genunzio sono possibili le rogazioni di Publilio Valerone, di Terentillo Arsa,
di Siccio Dentato, sino alla istituzione de'Decemviri le gibus
scribundis.Olitiche er io udo del gurt zione is ienterne cara 6; di Sem o chen
Tulli e Quando si domanda che è la legge scritta e promulgata, si
risponde che è l'eguale notizia della legge. E codesta egualità è l'equità
prima e rudimentale, è il primo aequum bonum, ė la prima aequitas spectanda, è
la prima libertas aequanda, è il primo poter dire formalmente summis infinisque
jura aequare. Formalmente ancora,anzi appena,ma quanto costa questa prima
equità,senza della quale nessun'altra sarà possibile,quante secessioni della
plebe, ed un tribuno ucciso malgrado il caput Jovi sacrum intimato
all'uccisore, e finalmente la figura tipica di Cincinnato, intervenuto ad
equilibrare le parti nella lotta d e cennale tra l'istituzione del Decemvirato
e la promulgazione delle prime dieci tavole ! La promulgazione, primo grado
dell'equità formale, appunto perchè tale, può far tanta ingiuria al fine ed
alla natura del l'equità, da rilevare la contraddizione nella parola istessa. A
l lora il patriziato può inventare una parola nuova, inciderla in una colonna,
e la colonna alzare nell'area, dov'erano le case distrutte di un plebeo
ucciso.AEQUIMELIUM:ecco la nuova pa rola che annunzia in tuono di sfida la
contraddizione tra il fatto e la forma. Questa contraddizione dichiarata tra la
legge nota a tutti e favorevole a pochi, questa spinge al secondo momento
dell'e quità formale, all'eguaglianza di tutti innanzi alla legge. Questa
seconda equità sforza a tenere equilibrato conto delle condi zioni o
circostanze che accompagnano i fatti e le persone, gli effetti e le intenzioni,
affinchè la parità innanzi alla legge sia reale. Ecco il Pretore. L'editto
prelorio è da prima l'equità ne'casi particolari, è, ciò che dev'essere
l'eguaglianza innanzi alla legge, l'equità particolareggiata. Forse
l'avvenimento del Pretore è un fenomeno puramente giuridico o giudiziario in
disparte dalla vita politica di R o m a? È il prodotto della più
travagliosa politica, determinata dalla più grande evoluzione giuridica della
coscienza romana. II Pretore sorge,quando ai Decemviri legibus scribundis sono
succeduti i Decemviri sacris faciundis, cioè quando il diritto augu rale è
passato dal patriviato alla plebe,quando ai tribuni con solari patrizii si
contrappongono le rogazioni licinie, quando la plebe sale ad occupare il
consolalo, la dittatura, il diritto cen sorio ed ogni magistratura curule,
quando le ragioni pubļilie ci avvisano che la republlica di aristocratica è
fatta democratica: eguaglianza di tutti innanzi alla legge. Costituitosi
l'istituto pretorio, si risolve un gran problema sociale e s'inizia un nuovo
periodo politico. Il problema sociale, risolutosi nella quarta secessione della
plebe e per la dittatura di Valerio Corvo, è la liquidazione dei debiti e la
divisione dell'agro pubblico. Il pericdo politico che s'inizia,è l'unificazione
d'Italia. Il periodo unitario è annun ziato dalla prima guerra sannitica. Tra
l'unificazione d'Italia e l'unificazione di tutti sudditi dell'impero
fioriscono tutt'i grandi giureconsulti, onde si onora e perpetua la sapienza
latina, Elio,Catone, Scevola, Servio Sul picio,Labeone, Sabino, Giuliano, Gajo,
Papiniano, Paolo, Ulpiano, Perciò, quando Vico avvisa che con la legge
Publilia e con la Petelia tra gli anni 416 e 419 di R o m a si passa dalla
libertà signorile istituita da Giunio Bruto alla repubblica popolare,ebbe
presente Livio: Quum tamen per dictatorem datae discordiae sunt, concessumque
ab nobilitate plebi de con sule plebeio, a plebe nobilitati de proetore uno,
qui jus in urbe diceret, ex Patrilus creando.- Ed ecco l'origine politica del
pretore, la quale dichiara questo processo della storia romana: 1° esigenza
giuridica rogazioni licinie; 2° mutamento poli tico repubblica popolare; 3°
legge conditionibus se Se questo non fosse stato il processo della storia, e la
legge non indicasse il mutamento politico, e questo non indicasse un periodo
compiuto della coscienza giuridica, si continuerebbe a costruire una storia
romana su'fasti femminei, e si direbbe che con Lucrezia cadde la monarchia, con
Virginia il Decemvirato, e con una Fabia la repubblica signorile. editto
pretorio. Sopra ogni altro è celebrato il responso di Papiniano,perchè più
universale, e la cui ultima parola coincide con l'imperiale costituzione della
cittadinanza universale. Il responso di Papirio, venuto prima del periodo
unitario, e quelli di Ermogene, di Gregorio, di Triboniano e di Teofilo,
arrivati con la decadenza, non ritraggono l'ufficio dell'equità romana. Ma
codesta equità che di formale tende a farsi sostanziale, e da Roma si espande
per l'Italia e dall'Italia nel mondo, è veramente l'equità u m ina? ha assunto
l'ultima espressione nel responso di Papiniano? percið vive ancora, interrogata
e cele brata in tutti gli Atenei del mondo? il mondo, insomma,studia il diritto
romano),perchè fu davvero umano? S Modestino. Più si dilata
l'unificazione e più universaleggia il responso; e, come più il responso si fa
universale, più ancora l'equità penetra dalla forma nel contenuto. A noi
conviene esaminare partitamente i tre grandi periodi dell'equità in Roma. N e
rimarrà illustrata la storia della nostra antica grandezza. A m e par di
avere con sufficiente chiarezza fermata questa legge storica: che nella
successione delle cose civili il m u t a mento politico framezza tra una nuova
esigenza giuridica e la legge scritta. A coloro che hanno paura di ogni
formola, cre dendola una minaccia metafisica o una nuova invasione scola stica,
e non sanno che le formole sono o definizioni genetiche o espressione di leggi
naturali, traduco questa legge storica in queste espressioni più analitiche:
prima si determina un nuovo bisogno ed una nuova coscienza giuridica; poi Se
cosi non procedessero le cose civili, mancherebbe l'ar tefice della nuova
legge, mancherebbe la causa de'mutamenti politici. Non parlo delle congiure,
delle sėtte, de'regicidii e di altre cause apparenti de'mutamenti politici per
non creare a me stesso objezioni puerili a pretesto di analisi lunghe e volgari:
tutti sanno che non c'è effettuale mutamento politico,se in fondo non ci sia
una grande e maturata esigenza giuridica, la dichia razione di qualche diritto
comune lungamente contrastato: m a non tutti sanno se ogni nuova esigenza
giuridica basti a cagio nare un mutamento politico.] stenze più o meno
travagliose - un mutamento dopo resi politico;in ul timo, fica e sancisce dal
nuovo potere costituito la nuova esigenza promana giuridica la legge. che
speci causa di mutamento politico ogni dichiarazione di diritto,
che implica una diminuzione di privilegio nell'ordine domi nante. Cotesta
dichiarazione ordinata a diminuzione di preminenze implica sempre,più o meno,
un summis infimisque jura ae qu ire.Ogni periodo dell'equità, dunque, annunzia
un nuovo pe riodo politico. Sono evidenti le due illazioni: non sono mutamenti
politici quelli non giustificati da una nuova dichiarazione di diritti; non
SONO mutamenti durevoli quelli non prodotti da larga e co sciente dichiarazione
di diritti. Quindi, vi può essere molto sangue civile senza rivoluzione, ed una
grande rivoluzione incruenta. N'emerge evidente non potersi fare la storia
giuridica di un popolo senza la storia della costituzione politica: i periodi
sono gli stessi: le fasi della causa si riscontrano nell'effetto. Nel
momento,in che si passa dalla convivenza gentilizia alla costituzione politica,
in R o m a comincia lo Stato: il m e m b r o della convivenza era gentilis, il
membro della costituzione era civis. Le genti erano Ramnes, Tities, Luceres,
Albani, Sabini, R o mulei; la loro unità civile e militare fece lo Stato.
Secondo più o meno si partecipava della costituzione politica, si era più o
meno cittadino: civis optimo vel non optimo jure; e l'unità fra tutti era
personificata dal re, il quale, come ho detto, era unità giuridico-militare.
Come istituzione giuridica, raccoglieva in sè il potere legislativo e
giudiziario;come istitu zione militare, movea l'esercito e gli agenti
esecutivi. Dissi ancora che non somiglia a nessun altro re antico e m o derno:
non era assoluto, perchè la sovranità era nel popolo;ne costituzionale, perché
il suo imperium era temperato dal genio giuridico di Roma e dagli ordinamenti
patrizii, non da un co stituito potere rappresentativo. Se la sovranità
era nel popolo, l'imperium non si poteva esercitare dal re senza una legge
curiata de imperio, una specie di delegazione di sovranità.Mommsen
non crede a questa legge primitiva de imperio e la dice trasportata per errore
dalla ele zione consolare a quella de're. Ho ragione di credere piuttosto a
Livio ed a Cicerone, i quali la deducono dall'istessa natura del potere regio,
dall'essenza dello imperium. Non è lecito dubitare delle tradizioni del giure
pubblico, del quale le for mole si trasmettono letteralmente. Rottosi il potere
regio, l'imperium e conseguentemente la lex de impario, intesa come
investitura, di perpetui divennero annui, cioè passarono dai re ai consoli, che
Cicerone chiama potestas annua jure regia. Le altre magistrature ordinarie che
sorgeranno più tardi, come la censura, l'edilità curule, la pre tura, la
questura, saranno diramazioni del consolato. A voler secondare le tradizioni,
niente è più difficile di co testo passaggio dalla monarchia al consolato.
Secondo Tacito il transito sarebbe stato determinato dalla libertà,cioè dal
proposito di più liberi ordinamenti. LIBERTATEM et consulatum L. Brulus
instituit. Vico non consente, perché la repubblica sopravvenuta fu più
signorile del principato,fu rivolta di patrizii che consen tirono a Bruto
l'istituzione del consolato, non della libertà. C'è più di ragione in Tacito,
perché il passaggio dal principato alla repubblica fu una evoluzione della
legge curiata de imperio, la quale implicava la temporaneità e la
responsabilità del potere. E questi due fattori che la tradizione doveva avere
allogato nei Commentarii di Servio Tullio,passarono al primo Bruto.Non è di
picciol valore la parola annua nella definizione data da Ci cerone alla potestà
consolare, e, come più diminuisce la durata dell'imperium, più cresce la
responsabilità. I re potevano allora, come oggi, rispondere innanzi alle
rivoluzioni ed alla guerra; i consoli, compiuto l'anno, erano esposti, non rei
gerundae caussa sed rei gestae, alle accuse de'loro concittadini. E mi piace di
risermare contro M o m m s e n che non la lex de imperio è una evoluzione della
repubblica, ma la repubblica è una evo luzione della lex dc imperio. E sotto
questo rispetto si può ri petere con Tacito: Libertatem et
consulatum L. Brutus in stituit; s'egli è vero che la temporaneità e la
responsabilità dell'imperium sono i primi fattori della libertà politica.
Quando affermo che l'evoluzione della lex curiata de i m perio mena dalla
monarchia alla tepubblica, io rifermo questo alto principio, che i rivolgimenti
politici sono prima periodi nella evoluzione del diritto. Senza questo
processo, tanto è razionale spiegare l'origine della repubblica romana con una
insurrezione di patrizii, intesi a sostituire l'aristocrazia al
monarcato,quanto era possibile alla congiura de'Baroni rovesciare nel reame di
Napoli il principato, per ricostruire,con prelesto popolare, tutt'i vecchi
ordini feudali. Bisogna quindi rifermare che,come Tacito, usando la parola
libertà nel senso spiegato sopra, ha ragione contro Vico, cosi Livio, riserendo
a tutte le otto generazioni passate attraverso i sette re la lex de imperio,ha
pienamente ragione contro M o m m Se si sposta o si tronca questa tradizione,
l'avvenimento della repubblica esplode, non si spiega. Non è facile spostare
certe tradizioni nè confutare alcune parole dei classici. Caduto il monarcato,
contro la mutabilità delle magistrature e l'incertezza delle deliberazioni
popolari rimase, sola istituzione stabile, il senato, già corpo consultivo,
durante il principato, e, nella repubblica, istituto legislativo, politico ed
amministrativo. Il potere amministrativo gli apparteneva intero, cosi sull'agro
pubblico come rispetto ai fondi del pubblico tesoro. Intero gli [Livio e
Dionigi d'Alicarnasso ci tramandano quasi l'identica tradi zione della legge
regia. Cicerone ne'libri della Repubblica cura di ripe tere per ogni elezione
di re le parole dette per l'elezione di Numa Pompilio: Quamquam populus
curiatis cum comitiis regem esse jusserat, tamen ipse de suo imperio curiatam
legem tulit. La costanza delle pa role di Cicerone indica due cose: la tenacità
delle formole del diritto p u b blico e idocumenti pubblici,ai quali Cicerone
aveva dovuto attingere.Ed io,considerando la legge curiata come il fondamento
di tutto ildiritto pubblico romano, non solo stimo il passaggio dalla monarchia
alla repubblica essere stata una evoluzione di questa legge,ma stimo una
evoluzione della - sen. apparteneva il governo della politica
estera, per due ragioni: per la competenza e per il carattere militare dello
Stato romano. È vero che tutti gli Stati sono gelosi e, quando possono, inva
denti,e gli Stati antichi più de'moderni; ma sopra tutti gli antichi e moderni,lo
Stato romano,al quale peregrinus erat hostis, e pax erat pactum, quasi stato di
tregua, non di natura. Quanto alla politica interna ed al potere legislativo,
il S e nato li aveva, partecipe il popolo convocato in comizii, i quali erano
istituzioni giuridico-militari: giuridiche per il fine, mili tari nella forma.
Militarmente il popolo interveniva, quasi exer citus urbanus, e militarmente
non discuteva, m a rispondeva seccamente il suo uti rogas o antiquo. E bene, fu
quest'assenza di discussione dall'assemblee p o polari la grande politica e la
gran forza di Roma, fu il segreto della rapidità nelle deliberazioni,
nell'esecuzione, e, assai volte, il segreto delle vittorie. Si o No. Ferrari,
ricordando dall'Amlet che la discussione tronca il nerbo all'azione, vede
l'inferiorità delle repubbliche quanto alla rapidità dell'azione; m a non vide
di quanto la repubblica romana avanzava per senno politico le repubbliche
elleniche, e per subitezza d'azione tutti gli Stati moderni, compresa
l'Inghilterra. Devo ricordare che questo carattere militare che Roma manifesta
sinanco ne'comizii, questo exercitus urbanus,che ricorda l'exercitus castris,
non si dissocia mai dal genio giuridico di questo popolo agricoltore. Mai da'
Romani fu fatta guerra per medesima iltransito dallarepubblica signorilealla
popolare,edallare pubblica all'impero, quando,per nuove necessità,
l'investitura de'poteri passò dalle magistrature temporanee all'imperatore. Nè
dalla filosofia della storia né da'fonti mi risulta ragione alcuna, per la quale
Mommsen possa affermare che la lex de imperio sia narrazione inventata evidente
mente dagli insegnanti di diritto pubblico ai tempi della repubblica per loro
fini. Per quali fini? Vedo invece che l'eridenza appunto manca alla sua
affermazione,e che,facendo riposare egli stesso lalegge curiatasopra con
suetudine antichissima,risale con Livio,con Dionigi d'Alicarnasso e col suo
ingiustamente deriso Cicerone,sino ai tempi della prima monarchia romana) aggressione,
more latronum; mai guerra non dichiarata o per cause ingiuste, bellum iniquum:
volevano iustum, purumque duellum; e con l'intervento de custodi della fede
pubblica che erano i feciali, volevano pium bellum. Popolo belligero questo di
Roma, perchè una missione giuridica non fu compita mai co'sermoni,ma che per
questo appunto conobbe ed osservò il diritto delle genti più che gli altri
Stati meno bellicosi,special mente con l'osservanza massima del rispetto agli
ambasciatori. Tutte le formule per la dichiarazione di guerra ci sono di
stesamente tramandate da Livio. Coloniale,quello de'cittadini romani
trapiantati in citta vinta. Cosi lo Stato romano, primo efficace colonizzatore
del mondo, asseguiva due fini: dava stabilità alla conquista e sgravavasi, in
parte, del proletariato urbano. I coloni conservavano la piena cittadinanza cum
suffragio et iure honorum. Municipale era il diritto civile di un comune non
conqui stato,ma ridotto ad obbedienzaversoRoma,conqualcheobbligo (munus), come
o di servizio militare o d'imposizione tributaria o dell'uno e dell'altra.
Municipes erant cives romani sine suf fragio et iure honorum. Provinciale era
proprio il diritto che avanzava ai vinti.Non più civis né la quasi effigies
populi romani, dove troviamo un populus stipendiarius, un popolo cioè senza
cittadinanza, senza territorio proprio,e spesso senza il commercium.Che
è,dunque, che può essere avanzato ai vinti? Non più di quel che si trova o
nella clemenza o nell'ira o nella convenienza del vincitore. E la convenienza,
sotto specie di magnanimità, prevaleva nel decreto del magistrato delegato ad
ordinare la provincia. D u r a mente Gaio: Quasi quaedam praedia populi romani
sunt vecti galia nostra atque provinciae. Il Mommsen segue Festo non Niebuhr
nell'etimologia della parola provincia, da vincere, sia ) 11'1 Con la
guerra il diritto romano dilargavasi, e risultanze di verse della guerra erano
le tre forme che, uscito di Roma, il diritto assumeva: coloniale, municipale,
provinciale. poi che pro significhi il procedere de'due eserciti
consolari, come piace a Mommsen, sia che ante,come piacque a Festo. Il certo è
che dalla diversa vittoria si traggono le distinzioni ve dute da Cicerone tra
la Sicilia e le altre provincie. M a per giungere a lutte queste diverse
gradazioni del dritto, suori di Roma,le quali sono effetti diversi della
guerra, bi sogna aver superato il periodo della repubblica aristocratica,di
quella immediatamente succeduta al regno, quando i patrizii avevano tre mezzi
per deludere é menomare della plebe, ed essere entrati nel periodo della
repubblica p o polare, quando, meglio equilibrate le parti, comincia l'epoca
dell'unificazione italica. I mezzi de'patrižii erano la convocatio,
l'auctoritas patrum e l’ius augurale. I patrizii potevano convocare le
assemblee e cancellare, per vizio formale, le deliberazioni popolari; e,
quando, convocata l'assemblea, il voto accennava ad un certo indirizzo,
potevano troncarlo, spingendo l'augure - a sciogliere il comizio con l a
formola: A l i o d i e: a tempo senza misura! I m porta ricordare le parole di
Cicerone, DE DIVINATIONE: Fulmen sinistrum, auspicium optimum habemus ad omnes
res, praeter quam ad comitia: quod quidem institutum reipublicae causa est, ut
comitiorum, vel in judiciis populi, vel in iure legum, vel in creandis
magistratibus, principes civitatis essent interpretes. Ecco, dunque,
gl'interpreti de'comizii,principes civitatis; ed anche il fulmen sinistrum per
frustrare il voto diveniva infau stum omen ! La formola,dunque, di Cicerone in
DE LEGIBUS: Potestas in populo, auctoritas in Senatu sit, traducevasi una
potestà senza potere. Occorrerà, dunque, qualche cosa, perchè questa potestà
sia potere: occorrerà che trovi in sè l'autorità sua. Allora è necessario che
il popolo abbia certa notizia della procedura, abbia certezza delle leggi, e
che l'ignoto della legge le deliberazioni 115 ufficio patrizio
116 non sirisolva nell'arbitrio de'principescivitatis.Ed ecco la ne
cessità della promulgatio, la quale non significa tanto notizia quanto certezza
delle leggi. Non istiamo a ripetere quanta lotta costasse la promulgatio,
perchè le parole di Livio e di Cicerone non superano il vero, quando affermano
che prima della pubblicazione delle dodici tavole il diritto civile era riposto
ne'penetrali de'pontefici: re positum in penetralibus pontificum; m a lo
superano, quando si tirano sino ai tempi posteriori alle dodici tavole. Certo
che lotta fiera si dovette combattere per sottrarre il diritto ai penetrali
de'pontefici, cioè all'ordine, cui i pontefici appartenevano, il quale a sua
posta governava i comizii con la convocazione, con l'autorità e col diritto
sacro. M a senza bisogno di gran lotta venne la pubblicazione delle formole
procedurali, fatta da Gneo Flavio un secolo e mezzo dopo le dodici tavole,
pubblicazione intesa sotto il nome di ius civile Flavianum, con la quale la
plebe liberavasi dal bisogno di ricorrere e consultare i ponte fici. Se le
formole comprensive non saranno mai oziose, si può dire cosi: le dodici tavole
democratizzano la notizia del diritto; l’ius civile Flavianum laicizza la
procedura e la giuri sprudenza. Doveva costar lotta la premessa, con la quale
apri vasi un periodo storico, non la conclusione, con la quale chiu
devasi. 1 Considerando il significato della promulgazione, io non posso
credere agli scrittori che con beata semplicità stimano poco de mocratico e
niente normale l'ufficio del tribuno in Roma. A f fermo invece che le dodici
tavole non si sarebbero potute mai promulgare senza gran lotta contro il
patriziato, cui giovava il mistero delle leggi e segnatamente della procedura,
senza della quale le leggi non si muovono; che questa promulgazione fu
strappata in nome della prima equità,della prima aequanda li bertas, almeno
circa la notizia e certezza delle leggi; e che questa prima equità sarebbe
stata ineffabile ed inconseguibile senza la persona sacra del tribuno. Il
tribuno è il risultamento più normale,più naturale della prima lotta tra
il patriziato e la plebe; e non solo senza il tribuno non s'intenderebbe la p r
o mulgatio, ma questa appunto compendia e spiega la più diretta missione
dell'ufficio tribunizio: onde il popolo per conseguirla sospende nel decennio
decemvirale sinanco la provocatio ad populum. Ora, quel che resta a sapere
circa il valore della promulga zione, si è se quiesta prima equità consista
soltanto nella eguale notizia della legge o, insieme, nella sostanza della
legge istessa. (1) Bovio: Saggio critico del diritto penale e del nuovo
fondamento etico. Napoli. Vedi ancora Corso di Scienza del Diritto. Napoli. Scritti
filosofici e politici, Napoli. Cicerone, incerto sempre tra l'aristocrazia e la
democrazia, ma,come tutte le tempre deboli e gli opinatori saliti in fama,
piuttosto blanditore del patriziato, ecco ciò che fa dire contro il tribunato
nel DE LEG.: N a m mihi quidem pestifera videtur (la potestà de'tribuni),
quippe quae in Un occhio alle dodici tavole chiarirà col fatto questo
primo assioma di legislazione positiva: che, quanto più lato in uno statuto od
in un codice è il diritto penale, tanto più stretta è l'equità civile. E questo
spiega da una parte la voce continua dell'equità: Summum jussummainjuria; edall'altra,questa
legge storica d'ogni legislazione positiva: il dritto penale e l'e quilà civile
movonsi nella storia in ragione inversa (1). Credo avere largamente dimostrato
in queste opere,che,quando si vo glia tener giusto conto de'fenomeni storici e
considerare il valore degli istituti lungamente durati, convien dire che,come
il naturale risultato della lotta tra la monarchia ed il popolo fu il
consolato, cioè la regia potestà annua e responsabile, così il risultato
naturale della lotta tra patriziato e plebe fu il tribunato, per la certezza
de'diritti della plebe.Non solo nulla di anormale troviamo nell'istituzione
tribunizia, la quale non fu mai un ba stone ferreo tra le ruote dello Stato
romano,ma, fattasi popolare la re pubblica, tutte le magistrature troviamo come
una evoluzione della potestà tribunizia. Gl'imperatori dovettero entrare in
questa forma. Tacito pre senta Augusto consulem se ferens et ad tuendam plebem
TRIBUNITIO IURE contentum, e il primo editto di Tiberio tribunitiae potestatis
praescri ptione. Esaminiamo. Cicerone vede il Libellus XII
Tabularum superare le biblioteche di tutt'i filosofi per due ragioni: aucto
ritatis pondere et utilitatis ubertate. Cosi, nel De Oratore. Nei libri della
Repubblica l'entusiasmo sbolle, ed ei condanna gli ultimi decemviri: qui,
duabus tabulis iniquarum legum additis, quibus, etiam quae disjunctis populis
tribui solent, connubia, haec illi ut ne plebei cum patricibus essent
inhumanissima lege sanxerunt. Ma è questa la sola ineguaglianza, onde Cicerone,
ammiratore delle tradizioni, si lasci trasportare sino alla parola
inumanissima? Furono più inumani,più patrizii, più aristocra tici i secondi
decemviri legibus scribundis dei primi? Quando nella III Tavola leggiamo contro
il debitore: Tertiis nundinis partis secanto; si plus minusve secuerint, ne
fraude eslo; noi non dobbiamo commentare col relore Quintiliano che alcune cose
illaudabili per natura siano permesse dal diritto, m a dobbiamo fingere di
ricorrere ad una certa sapienza crudel srditione et ad seditionem nata sit:
cujus primum ortum si recordari columus,inter arma civium etoccupatis
etobsessisurbislocis,procrea tum videmus.Deinde quum esset cito letatus,
tanquam ex XII Tabulis insigni ad deformitatem puer, brevi tempore ręcreatus,
multoque toe trior etfedior natus est.IlTribunato,dunque,è venuto fuori come
bam bino mostruoso e deforme! Ma come avviene che si svolge per tre secoli
almeno di vita eroica? e v’ha nella storia un provvisorio di tre secoli? E nato
ad seditionem o contra vim auxilium? Si può perdonare a Cicerone d'avere
ignorato, allora, che tutt'i diritti nascono in seditione, m a non si può
ignorare oggi che senza i tribuni nè icomizii tributi sarebbero mai nati, nè
plebisciti si sarebbero mai fatti, né i plebis scita avrebbero in s e guito
acquistato valore di populi scita, nè la promulgatio sarebbe mai avvenuta,nè
mai pubblicate quelle tanto celebrate XII Tarole, delle quali tanto ammiratore
si professa egli proprio,Cicerone,nè la repub blica di signorile sarebbe
passata a popolare,nè,in ultimo,egli,Cicerone, sarebbe mai stato console, o,
eletto, si sarebbe davvero detto di lui quello che in miglior senso diceva M.
Catone: Dii boni, quam ridiculum con su lim habemus ! Seneca ci dice che ai
tempi di Tito Livio disputavasi se fosse stato meglio per la repubblica che
Cesare fosse nato,o no.Era meglio
investigare,iodico,sesenzailtribunovisarebbemaistatarepubblica) mente pietosa
escogitata da Aulo Gellio, che cioè gl'infelici sian fatti salvi dall'istessa
enormità della pena: Eo consilio tanta i m manilas poenae denuntiata est, ne ad
eam unquam perveni retur. La quale sentenza, divulgata ne'tempi dell'autore
delle notti attiche, è respinta erroneamente sino ai tempi abbastanza reali del
primo decemvirato: reali nel senso, che le leggi erano scritte per esser fatte.
Se la carità del tempo ha voluto portar via dalla Tavola IV de jure patrio le
disposizioni durissime circa la patria potestà sconfinata, resta la traduzione
di Dionigi d'Alicarnasso che la riassumecosi: Siveeum (filium)incarcerem conjicere,sivefla
gris caedere, sive vinctum ad rusticum opus detinere, sive occi dere vellet.
Papiniano riassume in tre parole: Vitae necisque potestas. Forse sino alla
virilità del figlio? Toto vitae tempore licet filius jam rempublicam
administraret et inter s u m m o s magistratus censeretur, et propter suum
studium in rempubli cam laudaretur. E si dà cura Dionigi di farci sapere che i
D e cemviri non ebbero a portarla di fuori, come si favoleggiava, questa legge,
m a a dedurla da quella che Papiniano chiamava lex regia, farla quarta delle
dodici e metterla nel foro: Sublato
regno,decemviriintercaeterasretulerunt,extatqueinXII Ta bularum, ut vocant,
quarta, quas tunc in foro posuere. Ciò che resta di questa tavola, è il più
umano, in che modo cioè si possa affermare:Filiusapatreliberesto;ma ciòcheil
tempo ha cancellato, non è tale da giustificare tutto lo sdegno di Cicerone
contro soltanto le ultime due delle dodici. E che si deve dire, rispetto
all'eguaglianza, quando si passa alla tavola V, per considerare la condizione
delle donne, eccet tuate le Vestali? Anche qui il tempo ha passato la spugna,ma
restano le istituzioni di Gaio per darci notizia di quel che manca: Veteres
voluerunt feminas, etiamsi perfectae aetatis sint, prop ter animi levitatem in
tutela esse... Loquimur autem, exceptis virginibus vestalibus, itaque etiam
lege XII. Tabularum cau tum est. Quando vuolsi davvero spiare dove
un corpo privilegiato, predominante e nel medesimo tempo minacciato, studia
l'alto riparo, si dà uno sguardo alla legislazione penale. L'abbon danza,la
ferocia delle pene, la rapidità della procedura penale, compensano la parvità
della ragion civile. Una tavola delle d o dici,l'ottava, de delictis, ci fa
intendere che i decemviri,già scelti nell'ordine de'senatori,nè tra gli Dei
indigeni nè tra'pe regrini accolgono la Dea Clemenza. Cicerone mostra consolar
sene, assermando, ne'libri della Repubblici, che per pochi m a leficii le XII
Tavole stabilirono la pena capitale. Il vero si è che, oltre il taglione,
comune già a quasi tutte le legislazioni penali primitive, e le verghe che scendono
ad illividire anche l'impu bere, la morte vi spesseggia, tanto che, traboccata
dalla tavola ottava, entra ad occupare due disposizioni della nona, la quale
tratta non più di reati e pene, ma de jure publico. 120 Si noti, a questo
proposito, che l'assenza della morte dalla tavola X (dejure sacro) ricorda che
la religione in Roma, se condo il carattere italico,non è l'elemento
predominante, e che, come ho notato sopra,in Roma piuttosto gli Dei
intervengono in servigio dell'uomo, che l'uomo degli Dei. E il rapido decre
scere della giurisdizione pontificale ne'giudizii penali riserma questo
concetto. Non è già che io tenga poco conto delle testi monianze di Dione, di
Livio e di Tacito rispetto all’espiazione religiosa; ma voglio dire che
nell'intervento del principio sa crale in tutte le legislazioni penali
primitive è notevole questa differenza, che, dove presso gli altri popoli entra
come conte nuto,in Roma interviene piuttosto come forma; altrove cioè gli
offesi possono essere gli Dei che costituiscono espiatrice la pena, e in Roma
l'elemento sacrale serve a rendere più temibile la pena, senza nè sospendere la
provocatio ad populum, nè sot trarre ai comizii centuriati il diritto di
sentenziare negli affari capitali per un cittadino romano. Cicerone ricorda nel
De le gibus che le dodici tavole vietano di deliberare di cosa capitale fuori
del comizio massimo: De capite civis rogari, nisimaximo comitiatu,
vetat.-- Non dimentico nemmeno l'etimologia sacra delle parole supplicium e
castigatio; m a ricordo che Festo c o n corda con Cicerone, affermando: At homo
sacer is est quem POPULUS indicavit ob maleficium. E quel populus chiarisce la
molta differenza dal diritto germanico, secondo il quale la di vinità
direttamente offesa chiede espiazione diretta per mezzo dei suoi sacerdoti.
Avverrà subito, ed anche in seditione, che dall'una egua glianza si tenti
passare all'altra, dalla formale alla sostanziale, dalla eguale certezza della
legge,alla certezza della legge eguale, e che appunto il matrimonio sarà l'argomento
del transito, perchè contro i corollarii, cioè contro gli effetti visibili, c o
m i n ciano le sedizioni popolari; m a questa sedizione appunto, questa prima
sedizione contro le dodici tavole, doveva avvertire Cice rone che quel divieto
di certo connubio era il corollario, cioè 121 Tolto l'elemento sacro,
resta abbastanza di asprezza penale per fare intendere quanto poco spazio resti
alla ragione civile, la quale non può durare in tanta ineguaglianza, se non
mante nendo la distanza tra' due ordini. Quindi, l’undecima tavola che vieta il
matrimonio tra'patrizi e plebei, è l'espresso corollario delle dieci prime, è
l'opera, onde i secondi decemviri compiono quella de'prini, è la lontananza
custode dell'ineguaglianza. Come il senatore veneto non arrivava a comprendere
il con nubio tra il moro Otello e la bianchissima Desdemona, cosi il senato
romano non l'avrebbe compreso tra patrizii e plebei, due ordini lontani quanto
due razze.La pari certezza della legge si,non la parità di diritti nelle leggi.
Or,di che si sdegna Ci cerone? Che il matrimonio, permesso d'ordinario anche
co'po poli stranieri, sia interdetto fra'plebei ed i patrizii con inuma nissima
legge. È sdegno rettorico, è, almeno, poco logico, è troppo postumo, troppo
gelido: egli aveva troppo ammirato le premesse. Le dodici tavole son fatte,
perchè tutti abbiano l'e guale certezza della legge (e fu vittoria della
plebe), e tutti la certezza della legge ineguale (e fu vittoria del
patriziato). che quella lontananza tra gli ordini era designata a
custodire l'ineguaglianza tra'sommi e gl'infimi. È da esaminare, in fatti,
donde comincia la reazione della plebe contro le dodici tavole, affinchè
l'equità cominci a p e n e trare nel contenuto della legge. Non si deve credere
che co minci con la legge Valeria Orazia De plebiscitis due anni dopo la
promulgazione delle dodici tavole, per le seguenti ragioni: 1o perchè questa
legge è la semplice soluzione di un diritto con troverso circa il valore
de'plebisciti, non è l'affermazione di un diritto nuovo e contrastato; 22 che
il plebiscito, anche fattosi obbligatorio per tutto il popolo, non si sottrae
all'auctoritas patrum per l'esecuzione; 3a che non per questa legge arse la
terza sedizione, di cui parla Floro, nè avvenne la secessione sul
Gianicolo,della quale parla Plinio; 4a che questa legge non si intitola da
tribuni, ma da consoli. Livio dice che si venne a questa soluzione, « ut quod
tributim plebes jussisset, populum teneret », 0, per dirla con Plinio, « ut
quod plebs jussisset, omnes Quirites teneret », perchè prima cið era in
controverso iure. Ma quando fu che la plebe arse in vera sedizione sul Gia
nicolo? quale e perchè una terza sedizione, dopo le due, l'una sul monte Sacro
e l'altra sull'Aventino? e perchè contro le d o dici tavole, se tanto le aveva
volute, e se la promulgazione di queste era stato il massimo ufficio
tribunizio, e sei anni appena e non interi dopo la promulgazione? Ed, ecco, qui
appare il nome di un tribuno, Caio Caruleio, una rogazione vivamente
contrastata ed una sedizione vera di plebe che assale la legge nelle
conseguenze ed osa divorar la distanza tra sé ed i patrizii per appianare
l'ineguaglianza. La ribellione contro le dodici tavole comincia contro l'ultimo
co rollario: la plebe non sillogizza invidiosi veri intorno alle cause, assale
l'effetto. Rotto il primo, tira sulle cause. E quella gene razione che spezza
il primo effetto, è destinata ad atterrare tutta l'istituzione. Tal è il
significato della Legge Canuleia De connubio patrum et plebis. Fatta la
breccia, esaminiamo che cosa in trent'anni resta di tutto l'edificio delle
dodici tavole. Per la generazione che succede, si troverà che la cosa men
necessaria è il carmen necessarium.Averlo fatto imparare e cantare a coro da
fanciulli non vuol già dire che il carme dell'ira non suonerà più alto da coro
di uomini armati. La prima sedizione è contro il supremo corollario delle d o
dici tavole, contro il divieto di matrimonio fra patrizii e plebei; l'ultima
sedizione di questa medesima generazione è contro il console patrizio, vietante
la divisione dell'agro pubblico tra i plebei, i quali per questa via si
liberavano di fatto dalla terza delle dodici tavole, dalla più aristocratica,
da quella appunto che, secondo Vico, doveva sancire il diritto feudale rustico
del carcere privato, che i patrizii avevano sopra i plebei debitori. E, sebbene
il Console fosse vincitore o stesse sopra il terreno vinto, pur vide i Tribuni
prevalere ed i lieti onori trionfali tor nargli ne'tristi lutti dell'esilio.
Poche considerazioni storiche varranno a lumeggiare i fatti esposli in questo
capitolo. 1. La legge agraria, reclamata e non potuta attuare dal l'anno 268 di
Roma sino all'anno 299, cioè reclamata e non potuta attuare da tutta la
generazione che precede alla promul gazione delle dodici tavole, é e doveva
essere la conclusione pratica della generazione che succede alle dodici tavole.
Ciò che erasi cominciato nel sangue patrizio di Spurio Cassio,dove vasi
compiere con l'esilio di Furio Camillo, patrizio vincitore. 2. Questa
generazione succeduta alla promulgazione delle dodici tavole, cominciando la
lotta contro la legge sul matri monio e conchiudendola con la divisione
dell'agro pubblico sopra il territorio de'Vejenti, volle togliere la distanza
tra gli ordini per giungere all'eguaglianza degli ordini. Potè essere detto,
con sentimento del vero, che la divisione dell'agro accen nava finita la
divisione de'ceti. 3. Questa divisione dell'agro dopo la comunanza de'm a
trimonii, per l'eguaglianza degli ordini, dice che l'equità non è più
nella sola notizia della legge, m a dentro la legge. L'anno 363 di Roma
annunzia che le XII tavole, benefiche quanto alla conseguita promulgazione,
sono state superate nel conte nuto: annunzia che l'equità è passata dalla forma
nella sostanza. Dietro il Tribuno verrà il Pretore, e già Caio Canuleio chiama
il figlio di Furio Camillo. Se è vero che la lotta per l'esistenza, la quale è
di tutti gli animali, si faccia lotta per il diritto per diventare u m a n a, è
vero pure che in nessun luogo questa lotta ebbe una espres sione più pura,cioè
più umana,che in Roma,ed in nessun tempo quanto nella generazione che succede
alla promulgazione delle dodici tavole. Posso dire che gli ottant'anni che
corrono tra il tribuno Caio Canuleio ed il primo pretore, figlio del già
espulso patrizio Furio Camillo,comprendono la più alta espres sione della lotta
per il diritto. Si può dire che dentro questo periodo si raccolgono le premesse
eterne della lotta umana. Dico la più pura espressione, non per enfasi, ma
perchè questa lotla si fa tra uomo ed uomo, tra ordine ed ordine di cittadini
per la parità civile, politica e sociale, senza intervento di Numi, senza
pretesti religiosi, senza fini sovraumani.E, se in questo tempo la plebe,
strappando il diritto augurale, fa n a scere i Decemviri sacris faciundis, non
è già per propiziarsi i Numi o per un fine direttamente religioso, ma per un
fine assolutamente ed umanamente giuridico. Questa è la grandezza di Roma, ed
il segreto dello studio non solo continuo, m a crescente, intorno all'indole
tipica del diritto romano. Compiamo questo esame con la ricerca dello istituto
pre torio e del responso. Nella suc cessione delle cose civili il
mutamento politico framezza tra una nuova esigenza giuridica e la legge
scritta. Ho dimostrato, infatti, che,quando l'equità s'impone come eguale
certezzadella legge,iltribunato diventa magistratura tipica; e,quando l'equità
s'impone come uguaglianza nella legge, la repubblica signorile si fa popolare.
Non solo tutte le magistrature si aprono alla plebe, m a alcune restano
esclusivamente plebee. Non si deve ricorrere, per vederne la formazione, ai m o
menti astratti del pensiero, cioè ad una successione puramente logica d'idee, m
a al pensiero determinato dal bisogno, cioè dalla natura,considerata sotto il
doppio rispetto, nella compagine della persona e nello ambiente. Cotesto è il
naturalismo storico. Il bisogno insoddisfatto ed assolutamente insuperabile per
le condizioni della natura circostante non lascia sprigionare il pensiero nè
iniziare civiltà veruna. Un bisogno superato, per condizioni benigne dello
ambiente, libera il pensiero, ond'esce la prima favilla di una civiltà e di una
storia. Insieme col pensiero sorgono alcune pretensioni, cioè una certa
coscienza giuridica, proporzionata a quel bisogno, e, poco Ora, ci
sarebbe impossibile aprire questo capitolo e proce dere innanzi senza
investigare come e perchè si formi una nuova esigenza giuridica. dopo, una
determinata forma politica, proporzionata a quell'esi genza giuridica.
Mutato,crescendo,ilbisogno,si dilatailpen siero, si evolve la coscienza
giuridica, si muta la forma politica, si cangia la legislazione del giure
pubblico e privato e delle rispettive procedure. Se il pensiero cresciuto
levasi a superare di tanto il bisogno naturale, quanto il bisogno ha superato i
mezzi e l'ambiente, allora non c'è da aspettare,nè altra forma politica, nè
altra le gislazione che duri: si aspetta la rovina che seppellisce una civiltà
finita, per dare origine ad una civiltà nuova che equilibri le funzioni della
vita,instaurando la proporzione tra il pensiero ed il bisogno, tra il bisogno e
l'ambiente. Ora, è forse un annunzio di rovina la sentenza di Plinio:
Latifundia perdidere Italiam,jam vero etprovincias? Asseguita la divisione
dell'agro pubblico, con la quale si chiude il periodo della forte generazione
che succede alla pro mulgazione delle dodici tavole,abolita di fatto la tavola
III delle dodici (1), depositaria della preminenza di un ordine di cittadini
sull'altro, si vede nascere un gran numero di piccoli proprie tarii che
comincia a formare come uno stato medio in Roma, il quale meglio de'due estremi
traduce in atto il genio agrario di Roma,e,mentre da una parte serba integro il
maschio co stume antico e militare, dall'altra annunzia che l'equità ha fatto
gran cammino: dalla forma è passata nella sostanza delle leggi. Abolita di
fatto la terza delle dodici tavole, le altre undici stanno ritte come mummie
che più tardi arriveranno dall'Egitto, documenti di una civiltà sepolta. Il
carmen necessa rium si canterà come memoria di popolo legislatore che ha
bisogno di ricordarsi per innovarsi. Per estimare quanta parte di vero si
contenga nell'annunzio di rovina,che ci viene da Plinio,bisogna avere in vista
il ca rattere di proprietà in Roma. Dico tirsa o quarta ecc., per seguire
l'ordine più accettato. dilui. No:lalottatramonarchiaepatriziato prima, e
poi, continua, tra patriziato e plebe, è possibile in Roma, in quanto qui più
che prima e fuori è spiccato il sentimento personale: sentimento proprio, più
che ad altri, ad un popolo agricoltore e militare, il cui genio sarà giu
ridico. Chi coltiva il campo specialmente nel modo in tensivo dei primi nostri
e lo disende, sente insieme più intenso il sentimento del mio e del luo, e, per
conseguenza, dell'io e del tu. Intenso è, dunque, nel cittadino romano il
sentimento della proprietà personale, quanto illimitato il sentimento di
disporne: e l'uno e l'altro contenderanno allo Stato romano la facoltà di
un'imposta fondiaria. Nė ci fu contesa: lo Stato non osò esco gitarla: vi si
sarebbe ribellato ilgenio agrario di Roma.Quando dicesi mancipium, si accenna
all'origine romana dellaproprietà; quando mancipatio, alla libera trasmissione;
quando dominium ex jure Quiritum, all'effetto dell'uno e dell'altra; e quando
res mancipi e nec mancipi, si accenna non solo ad una divisione tra le cose,ma
alla prima possibilità di una possessione boni taria accanto al dominio
quiritario. Troviamo, in fatti, un limite nelle dodici tavole alla facoltà di
possedere e di disporre? Rispetto alla prima, non altro limite che quello di
vicinanza, donde quelle servitù o recipro canza di oneri, che sono strettamente
in rerum natura. La ta vola VII è mirabilmente sottile nel determinare i modi,aflinchè
il dominium ex jure Quiritum non ne resti di troppo m e n o mato: neppure le
chiama servitù; m a le fa passare sotto il ti tolo de jure aedium et agrorum. E
rispetta tanto la pietra ter minale, segno di proprietà sovrana, che, per
entrare nel campo vicino a cogliere un frutto caduto dal proprio albero, ha
avuto Bisogna,innanzi tutto,smettere ilpregiudizio,cheloStato di R o m a
ripeta lo Stato greco o di nazioni incivili, durante la civiltà romana: bisogna
rimuovere quest'affermazione di Hegel, che cioè il padre sfogava sulla famiglia
quella durezza che lo Stato sopra gran bisogno di dirlo: Ut glandem
in alienum fundum proci dentem liceret colligere. Cosi fatto dominio, perchè
del tutto quiritario rispetto al l'origine ed al genio, sarà tale anche
rispetto all'estensione ed alvalore:ilforestiero non lo acquisterà innessun
modo,nė per mancipazione, nè per usucapione, nè per cessione innanzi al
magistrato (injure cessio), nè in maniera quale altra si vo glia. – Tal è il
significato vero ed intero di quella legge della Tavola VI (altri impropriamente
dicono della III): ADVERSUS HOSTEM AETERNA AUCTORITAS. E tutto questo è cosi
assolutamente romano, che,per farlo greco più o meno,si ricorrerà invano a
Solone. Sciendum est, in actione finium regundorum illud observandum esse,quod
ail exemplum quodammodo ejus legis scriptum est, quam Athenis Solonem dicitur
tulisse. Un quodammodo non basta a tramutare la leggenda in istoria. Rispetto
poi alla facoltà di disporre, non altro limite in tutto questo periodo
primitivo che quello della parola pro nunziata. QUUM NEXUM FACIET MAMCIPIUMQUE,
UTI LINGUA NUN CUPASSIT, ITA JUS ESTO. Ne,quanto al testatore,sopravvengono
limiti maggiori: UTI LEGASSIT SUPER PECUNIA TUTELAVE SUAE REI, ITA JUS ESTO. È
facoltà sovrana di cittadino sovrano, di chi possiede ed esercita la lex
curiata de imperio. Quando più tardi verrà una legge Cincia de donis et m u n e
ribus ad annunziarci la necessità di un limite alla facoltà di di sporre,
Questo che ho detto, non mi consente di accostarmi, come fa Mommsen,a Niebuhr
che vuole introdurre qualcosa di do rico e forse di germanico,cioè di
comune,nell'indole della pro prietà prediale romana,la quale fu affatto
personale. Quanto alla mancata persona del figlio, non fu senza senti mento del
vero averla spiegata e per la manus 1 128 è segno che la proprietà è
mutata, è mutato con essa il diritto di proprietà, e che in un altro periodo è
entrata la storia di Roma. espressione del carattere militare la
quale il marito aveva sopra la m o glie, e per l'istinto di padronanza che il
civis optimo jure sen tiva sopra ogni suo prodotto, compreso il figlio. Non si
dura fatica a vedere che la patria potestà nel civis sorge, si deter mina e si
svolge piuttosto come un sentimento di proprietà, che di carità. Erano già, sin
da prima, due modi di possedere separabili, perché, dove mancava la possibilità
della patria p o testas, mancava il dominio ottimo; e l'uno e l'altro comprende
vano facoltà illimitata di disporre. Non parmi aver dimenticato gli argomenti
addotti da Ihering contro l'analogia veduta tra il dominio oltimo e la patria p
o testà. Io vado oltre la semplire analogia, trovo poco calzanti le
osservazioni di Ihering,e domando,poichè grave è la quistione, le seguenti cose:
1.9 Fuori del sentimento o, a dir chiaro, fuori del concetto di padronanza sul
prodotto, secondo il dominio ottimo, dove si andrebbe a trovare la ragione
storica, efficiente, della patria potestà,cosi illimitata,cosi personale,cosi
aristocratica in Roma? La si presenterebbe come una esplosione inesplicabile,
della quale poi si andrebbero a cavillare le origini dentro qualche piccolo
istituto tra lo storico ed il mitico e non rispondente alla grande importanza
dello effetto. Le azioni per rivendicare un figlio sottostanno alla procedura
delle azioni reali? Non è il giuoco della dialettica giuridica,che modella le
azioni di famiglia sulle actiones in rem: è invece la costituzione della
famiglia, che crea cotesta proce dura. Ogni procedura è tale, in quanto procede
da un diritto e per un diritto. È un errore ricorrere ai limiti escogitati
intorno alla patria potestà per separarla, o distinguerla almeno, dal dominio,
perchè anche intorno al dominio furono escogitati alcuni limiti e ne'tempi più
rigidi della patria potestà. Il figlio istesso poteva provocare l'interdizione
pretoria contro il padre che dava fondo alla cosa domestica: Moribus per
praetorem interdicitur. 9- G.Bovio.DisegnodiunastoriadelDiritto,ecc.,ecc.
in Ecco,nel medesimo tempo,un limite alla potestà ed al do minio; m a non
crea differenza. 4. Ed è un errore ricorrere al peculio, acquistabile dal
figlio, per crearla una differenza tra potestà patria e dominio, perchè il
peculio non arriva a distinguere, rispetto al potere paterno,illfigliodal
servo.Tre cose,circailpeculio,dicechiaro Varrone: chi può possedere il peculio
(i minori ed i servi); chilopuòpermettere(ilpadre edilpadrone);echeèilpe culio
la pecudibus dictum). Se un istituto c'è, in cui il pater ed il dominus si
presentano proprio sotto il medesimo aspetto è appunto il peculio; e, se un
luogo che possa riconfermarcelo, è questo di Varrone. 5. Gli è vero, in ultimo,
che, quanto al modo testamen tario di disporre, si vedono in fascio figli,
servi e cose? Nella Tavola V si legge: Uli legassit super pecunia tutelave suae
rei, ita jus esto. Occorrono davvero tempi umani per tradurre u m a namente:
sulla tutela de'suoi.Ma legassit implica dominio ed ordine; super spiega l'obbietto;
suae rei dice in che rapporto si trovavano i suoi verso il testatore. Non
ignoro che questo modo d'intendere la patriapotestà ha messo in mala vista il
mondo romano innanzi agl'intelletti miti e pietosi. Ma questi hanno a
considerare che una civiltà vuol essere giudicata da'suoi effetti; che il
sentimento giuri dico, diffuso da Roma nel mondo, deriva dal sentimento perso
nale più forte in Roma che in Grecia ed assai più che in oriente; e che da
questo virile sentimento personale derivano le lotte intestine di Roma, la
proprietà romana e la potestà patria. Vico crede ripetuta questa eroica
barbarie nel diritto feudale, e ripetuta la distinzione tra dominio quiritario
e bonitario nella differenza tra il dominio diretto e l'enfiteusi, le mancipazioni
nelle solennità del diritto feudale, e le stipulazioni nelle investi ture, come
aveva veduto ripetersi le adunanze aristocratiche dei Quiriti nelle corti
armate e ne'parlamenti, che nella rinnovata barbarie decisero de'nobili e delle
loro successioni. Vedremo che nè i tempi ricorrono, nè le analogie sono
fon damento di ricorsi, né il tribuno, il pretore e il giureconsulto si sono
ripresentati alla storia. Diciamo di presente soltanto questo, che, quando in
Roma si giunse a poter dire: « Patria potestas magis in charitate quam in
atrocitate consistere debet » è segno che il dominio quiritario è mutato. Ed è
un gran cri terio di medesimezza tra'due istituti - il dominio ottimo e la
potestà patria - l'isocronismo delle loro fasi neil'evoluzione. Chi mettesse
occhio a cotesto,smetterebbe dal cercare differenze sottili che non arrivano a
distruggere il fondo comune. La generazione
cheabolivalatavolaterza,determinanteildo minio ottimo, segnatamente nel
creditore, aboliva di fatto anche la quarta, scemando il soverchio della patria
potestà. Può af fermarsi, senza alterare la storia, che dal giorno,in cui la
Legge Petillia Papiria de nexis, secondando i tribuni Sestio e Licenio, disse
inumano e proibì che i debitori potessero darsi per acs et libram in servitù al
creditore, e al dominio ottimo fece un grande strappo, sottraendo la servitù
de'nexi, da quel giorno cominciò ad attenuarsi sopra i figli la potestà patria,
crudele assai volte quanto quella de'creditori e de'padroni,per l'eterna
ragione espressa in ferrea forma dall'Alfieri: « Poter mal far grand'è al mal
fare invito. » Cosi potevano e facevano il padrone,ilcreditore, il padre, sul
medesimo fondamento del dominio ottimo. Seneca, tratlando della clemenza,
accusava Erixo che, senza convocare un consilium, aveva incrudelito nel figlio,
sollevando lo sdegno del popolo che voleva esercitare contro lo snaturato le
stesse forme sommarie che quegli aveva contro il figlio. Ma questa collera di
popolo, della quale parla Seneca, non è una esplosione, è figlia del maturo
sentimento dell'equità e risale sino a que'tempi della repubblica, ne'quali un
malvagio credi tore, L. Papirio, sfogando la sua crudeltà ne'debitori,
provocava una sedizione popolare, un'altra collera, onde nacque la legge
de nexis, che, già svelando la presenza del pretore, chiarisce l'equità
essere passata dalla forma nel contenuto della legge. Tito Livio, in fatti,
ricorda la Legge Petillia Papiria come coro namento della generazione, nella
quale è apparso il pretore. Eo anno plebi romanae, velut aliud initium
libertatis factum est, quod necli desierunt. Mutatum autem jus ob unius
foeneratoris simul libidinem, simul crudelitatem insignem. Tre osservazioni
facciano i pensatori intorno a questo luogo di Livio. La prima, che quell'aliud
inilium libertatis si ha da tradurre un nuovo momento dell'equità, cioè
l'equilà passata dalla forma della legge nella sostanza. La seconda, la causa o
c casionale, la crudeltà falla libidine, che chiarisce e documenta la sentenza
di Alfieri. L a terza, nel quale si compie appunto la generazione che tra le
ire civili vide appa rire, componitore equo, il pretore. Assai prima che
Alessandro Severo obbligasse un padre ad accusare il figlio ai giudici
ordinarii, assai prima dico, proprio nel miglior fiorire della repubblica, scaduto,
innanzi a questo aliud initium
libertatis,ildirittoquiritario,furonorallorzatiquei consigli domestici che
frenarono l'arbitrio paterno. Nella generazione,in cui apparisce
ilpretore,segnacolo del l'equità nella legge, cioè dell’aliud initium libertatis,
la ditta tura può essere plebea, assolutamente plebeo uno de'censori, i
plebisciti, che avevano conseguito già università di leggi, si li berano
dall’auctoritas patrum, si pubblicano i fasti e si pubbli cano le azioni della
legge, e, pubblicati i fasti, un plebeo può E intorno al medesimo tempo
era cominciata a prevalere la sentenza di Cicerone, negli Ufficii, circa le
tutele, le quali non volevano essere considerate tanto come un diritto privato
ed una quasi surrogazione della potestà patria,che le imponeva incondi
zionatamente,quantocome un beneficousfiziosociale,ad utilitatem corum qui
commissi sunt, non ad eorum quibus commissa est. E di quest'ordine delle date è
da tenere gran conto per la giusta valutazione delle istituzioni. salire
al pontificato massimo. Cajo Marzio Rutiliano e Tiberio Coruncanio sono due
nomi plebei che significano adempita l'equità civile e politica nella legge:il
primo plebeo dittatore ed il primo plebeo pontefice massimo. Fermiamoci, per
fare poche osservazioni. Che significa nell'anno 458 di Roma,ottoanni dopo la
pub blicazione de'sasti e delle azioni di legge, trent'anni in punto dopo la
Legge Petillia Papiria de nexis, e due generazioni dopo l'apparizione del
pretore, che signisica, domando, nell'anno 458 la Legge Ortensia De
plebiscilis, quando, prima e dopo del pre tore,c'erano già state la Legge
Valeria-Orazia De plebiscitis e la Legge Publilia, quella ·appunto che, secondo
Vico, dichiarò popolare la repubblica romana? Quando vediamo Livio, Plinio ed
Aulo Gellio ripetersi intorno a questa legge de'plebi scili,e ripresentarla,
riproducendo le meilesime formole,noi vo gliamo sapere se occorrevano tre
leggi, o una medesima legge in tre tempi diversi,per far entrare i plebisciti
tra le sorgenti di diritto pubblico e privato. M 'ė parso di vedere la critica
storica imbarazzata e quasi sospettare della sincerità delle formole tra
mandateci dagli scrittori citati sopra. Or bene,a me par chiaro che le tre
leggi de plebiscilis in tre tempi, che abbracciano un secolo e mezzo, cio è
dalla prim a i m mediata reazione contro le dodici tavole, e direttamente
contro la nona, sino alla dichiarazione ellettuale della repubblica popo lare,
non si ripetono,perchè in nessuna istoria si trovano nè sono possibili coteste
ripetizioni, m a sono tre momenti progressivi del l'equità nel medesimo
obbietto, cioè nei plebisciti, ordinati a d e mocratizzarela repubblica. Con la
prima, cio è con la Valeria – Orazia, si viene a dar valore di universalità ai
plebisciti, secondo le tre formole con sone, l'una di Livio: Ut quod tributim
plebes jussisset, populum teneret; l'altra di Plinio: Ut quod ea jussisset,
omnes Quiriles teneret; e l'altra di Aulo Gellio: Ut eo jure,quod plebes
statuis set, omnes Quirites tenerentur. Con la seconda, che è la Legge
Publilia, che altri mettono sollo la data del 415, altri del 416, alcuni sotto
il nome di C. Publilio Filone, tribuno della plebe altri di Q. Publilio Filone,
dittatore (Vico lenne giustamente io credo pel dittatore), vennesi a fare non
solo obbligatoria, ma presta bilita l'auctorilas patrum per tutti i progetti di
legge sottomessi ai comizii centuriati. Tito Livio scrive: Ut legum quae
comitiis centuriatis forrentur, ante inilum suffragium, Patres auctores
ficrent.Ed,ecco,quell'ante initum suffragium siela l'arclorilas di un caput
mortuum, sopra il quale Silla vorrà invano alitare la vita. Con la terza, che è
la Legge Ortensia (458, che Plinio dice essere stata di Q Hortensius dictator,
l'auctoritas è troncata di netto. La formola che abbiamo già detta di Cicerone:
« Potestas in populo, auctoritas in Senatu sit », è già superata. La potestà
trova in sè l'autorità, e la Legge Ortensia è l'espressione radicale della
repubblica popolare.Mi sia lecito dire che la suprema equilii è questa
equazione tra la potestas e l'auctoritas. Mi è parso necessario notare che
l'universalilà de'plebiscili, l'obbligatorietà prestalilita dell'autorizzazione
e, in ultimo, l'a bolizione dell'autorità estrinseca sono non ripetizioni di
una m e desima legge, m a tre leggi plebiscitarie che dinotano dalle dodici
tavole sino alla Legge Ortensia tre gra di progressivi dell'equità nella
legge,tre momenti notevoli, onde la repubblica si democratizza. Chiariamolo
anche meglio con una breve considerazione circa la pubblicazione de'fasti. La
plebe un secolo quasi dopo i Decem virilegibus scrilun dis(292)consegui
iDecemvirisacrisfaciundis(386),edunaltro mezzo secolo dopo, democratizzata
civilmenie e politica mente la repubblica, riusci a democratizzarla anche
religiosa mente, occupando le dignità sacerdotali, sicchè di otto nel col legio
de'pontefici ne prese quattro, e cinque de'nove nel col legio degli auguri. È
segno che il giureconsulto è uscito dal l'atrium, che il suo responso non è più
un oracolo, che i fasti sono pubblicali, e che la procedura, nella quale il
diritto si ha per il 416 e da muovere, non è più un segreto
di parte, ma è promulgata come il diritto istesso. L'ius Flavianum (450) ha
questo grande significato: non vi sono piu misteri. E questa espressione tra
dotta dalla lingua religiosa nella lingua politica significa: non vi sono più
privilegi. Questa promulgazione de'fasti, de’misteri giudiziarii e delle
formole sacramentali per via di semplice evoluzione,senza urti, senza
rogazioni, nè sedizioni, nè secessioni,parve alla plebe ro mana un si grande
miracolo, che volle, dentro i tempi storici, creare una favola plebea e
contrapporla ad una favola patrizia, cominciata a diffondersi in questi tempi.
La favola patrizia era quella di Furio Camillo,scoppiato ful mineo sulla bilancia
del Gallo, ed acclamato secondo fondatore di Roma.Cosi potè dirsi,un patrizio,
Giunio Bruto, fondò la repubblica; un patrizio, Furio Camillo, la salvò. La
favola ple bea fu quella del liberto Gneo Flavio che ruba il mistero della
procedura al giureconsulto patrizio Appio Claudio Cieco e butta in pubblico i
fasti e le formule sacramentali. Certo, Polibio e Diodoro Siculo non parlano
del miracolo di Furio Camillo, e il loro silenzio è troppo tardi interrotto
dalla narrazione drammatica di Tito Livio. E, per simile, molte erano ai tempi
di Cicerone le controversie circa l'origine della pro mulgazione laviana, nè
Cicerone osa spiegarsela. Ma ben si vede in quel liberto, profanatore del
mistero, la plebe fatta libera, ed in quell’Appio Claudio Cieco il patriziato
ignaro dei tempi. In Gneo Flavio,di liberto,creato tribuno, senatore ed in magi
stratura curule, è passato l'occhio mancato ad Appio Claudio. Que'che,
tormentando anche le parole,mettono in forse tante
narrazionidellastoriadiRoma,daRomolo aVirxinia,perché non hanno osato portare
la critica storica dove più occorreva, sull'origine dell'ius Flavianum? Altri,
per fare più credibile il racconto, dissero che Appio Claudio della famiglia
claudia, stata sempre nemica alla plebe, e punito di cecità da’Numi in età
adulta per non si sa quale colpa, si fece lui proprio ispi E, dopo queste brevi
considerazioni, possiamo spiegarci intero l'ufficio del pretore. Tra le
sorgenti del diritto pubblico e privato sono entrati i plebisciti.Sublata
auctorilatepatrum,larepubblicaèdemocra tizzata del tutto. Le leggi son,ma chi
pon mano ad esse? Il Magistrato. Farle è del Senato, della plebe, del popolo;
dirle è del magistrato. Altro è ius condere, altro è ius dicere: due funzioni
distinte e connesse. Condere è la parola potesta tiva del legislatore; diccre è
la parola sacramentale del magistrato. Dicere è la parola generale
dell'applicazione della legge: i modi sono ius dicere, cdicere, aldicere,
interdicere. Il derivato è edictum.L'edictum è la viva vox juris civilis.
Questo è saputo, e con questo, che, quando si pronunzia la parola edictum
assolutamente,ilpensiero non ricorre nè all'edic tum aedilitium, nè all'edictum
provinciale, nè alle forme più o meno secondarie di edicta
perpetua,repentina,tralatitia,ma ri corre direttamente all'cdictum praetoris.
Non è cecità nè arbi bitrio del pensiero moderno, è perchè cosi, prima di noi,
inte sero e dovevano intendere gli antichi. Quando Papiniano parla del diritto
onorario, lo dice cosi nominato ad onore del pretore; quando Gaio parla
dell'editto che emenda le iniquità del diritto, si riserisce all'editto del
prelore; ed al pretore si riserisce A s c o nio, quando accenna la ragione
dell'editto perpetuo; e del pre tore si duole Cicerone, quando vede l'editto
superare le dodici tavole.La ragione storica è questa:la presenza del pretore
si gnifica che le due parti avverse, nelle quali era divisa R o m a, si sono equilibrate;
il suo editto, in quanto spiccatamente porta ratore a Gneo Flavio, plebeo e
figlio di un liberto, della novità benefica che è l'ius Flavianum, onde i
pontefici furono obbligati a far pubblico il calendario. La versione pare più
mitica del mito. questa impronta di equilibrio, suona l'equità passata
nella legge, l'aliud initium libertatis, la repubblica signorile fatta
popolare; il suo editto è, perciò, la voce viva dell’ius civile, rimasto voce
morta; e però entra innanzi alle dodici tavole che in vano Cice rone lamenta
neglette. Questo aliud initium libertatis è a b b a stanza commentato dalla
definizione che del diritto pretorio ci manda
Papiniano,ilgiureconsultomassimo:Juspraetoriumest, quod praetores
introduxerunt, adiuvandi, vel supplendi, vel cor rigendi juris civilis gratia,
propter utilitatem publicam, quod et honorarium dicitur, ad honorem praetorum
sic nominatum. Se temesi che questa correzione pretoria sul diritto civile
possa tornare precaria ed incerta, la Legge Cornelia provvede a sostituire
l'editto perpetuo al repentino: Ut praetores ex edictis suis perpetuis jus
dicerent.Se Cicerone duolsi del vedere torpide le dodici tavole innanzi
all'editto, e se teme le sedizioni tribu nicie, dica se abbia trovato, il
temperare il s u m m u m jus, altro mezzo evolutivo suori dell'edillo pretorio.
Il summum jus a lui era summa injuria, a Terenzio summa malilia, a Gaio iniqui
tates juris. Chi tempera quell'ingiuria, corregge quella malizia, e
all'iniquilà sostituisce l'equilà? La risposta è di Gaio: Haec juris
iniquitates edicto praetoris emendatae sunt. Si dorrà forse anche di questo
Cicerone, di vedere il m a g i strato sostituito al legislatore, la sentenza
alla legge, la persona allo Stato. E davvero il caso parrebbe strano, se non
fosse spie gabile in questo modo:che il pretore significa l'unità della legge,
dove il legislatore era stato duplice — patriziato e plebe; e si gnifica
l'equilà ristretta ai casi particolari, senza forma impera tiva, la quale è
tutta del legislatore. Dove compiuto è il periodo dell'equilibrio delle parti,
e co mincia il periodo unitario di R o m a nella politica, ivi è segno essere
cominciato il periodo unitario del diritto nel pretore. Ne procede questa
definizione dell'editlo pretorio, la quale compie,non nega la definizione di
Papiniano: L'editio pretorio è l'equilà ne'casi particolari, cioè volta per
volta ed anno per anno, ed indica affermato l'equilibrio delle parli in R
o m a, e co minciato il periodo unitario nel diritto e nella politica. La
gloria del tribuno è di aver provocato la promulgazione delle dodici tavole;
del pretore, averle superate con l'editto. La promulgatio chiarisce e denuda la
repubblica aristocratica; S'ignorano davvero due cose: in che tempo la Legge
Aebutia abolisse le legis actiones, e sino a che punto. La disputa è in decisa.
Io credo che la legge Aebutia sia apparsa tra l'uno e l'altro pretore, l'urbano
ed il peregrino, e che abbia abolito gran parte delle legis actiones, quando
già alla procedura del vecchio diritto l'editto pretorio aveva contrapposto una
procedura con suetudinaria. Composto, nella persona del pretore, il dualismo, e
c o m p i u t a, nella significazione dell'editto, l'unificazione giuridica,
comincia l'unificazione politica nella generazione immediatamente succe duta al
pretore. Il pretore appare tra il 387 ed 88; tra il 411 e 13 compiesi la prima
guerra per l'unificazione politica. Questa unificazione politica ha due
periodi: 1° l'unificazione d'Italia;2° l'unificazionedelmondo
mediterraneo.Ilsecolo quarto di R o m a abbraccia il periodo della unificazione
giuridica, e si conchiude col pretore; il secolo quinto abbraccia il p e riodo
della dictum la demolisce e l'annunzia democratica. l'e Sono da fare due
considerazioni. L'una,che gli editti, non essendo espressione di facoltà
legislativa,non portano forma i m perativa, e non possono averla ne rispetto
all'origine che è giu risdizionale, nè rispetto all'obbietto che non è
universale. In tutta la forma dell'editto appare la faccia benevola
dell'interprete, non la severa del legislatore. L'altra è che l'editto, per
suggel lare l'equità, deve aver superato non solo il vecchio diritto civile, ma
la vecchia procedura:e però,se da una parte si lascia in dietro le dodici
tavole e le iniquitates juris, dall'altra supera r a pidamente le legis
actiones, cioè quella vecchia e aristocratica procedura,dentro la quale si
muovevano iprivilegiati della re pubblica signorile. unificazione
politica, e si conchiude col giureconsulto. Tra l'uno e l'altro periodo della
unificazione politica, cioè tra quello della unificazione ilalica e l'altro
dell'unificazione della civiltà m e d i terranea, appare il pretore peregrino,
che è l'apparizione del diritto delle genti, il quale viene a fare umana
l'equita latina. Il periodo dell'unificazione italica abbraccia le tre guerre
sannitiche. E nel'a generazione immediatamente succeduta comincia il periodo
per l'uni ficazione del mondo mediterraneo, che abbraccia le tre guerre
puniche. Il disegno e l'effetto delle tre puniche non furono la semplice indipendenza
dell'Italia.Come dopo le sunnitiche a Roma fu facile la guerra tarantina, nella
quale meglio che il ferro occorse l'oro per occupare la città da Milone
messa all'incanto, e farsi signora della regione che dalla Macra e dal Rubicone
va sino al capo Spartivento ed alla punta di Leuca, cosi dopo le puniche le fu
facile la guerra corintiaca,onde si annesse l'Acacia ed alla civiltà ellenica
sostitui definitivamente la latina. T:11 era l'effetto, perchè tale il disegno.
Mommsen ammira come gran falto nazionale de'Romani la costruzione della flotta,
ed io ripeto che quella impresa fu più che nazionale, più che italiana, e fu il
disegno del gran duello per l'egemonia sul mondo mediterraneo. Come le guerre
san nitiche significavano che l'unità d'Italia spettava od ai Romani od ai
Sanniti, cosi le guerre puniche significavano che l'unità del mondo
mediterraneo speltava o ai Romani od ai Carta ginesi. Fu crudeltà, ma fu
politica. Delenda Carthago è la conse guenza di un dilemma: la metropoli del
mondo mediterraneo o Roma o Carlagine. E Roma vinse,non perchè Marco Porcio
Ca È discutibile se sieno più feroci le guerre per l'indipendenza o
quelle per l'egemonia. Queste io credo: perchè alle prime b a sta disarmare il
nemico; alle seconde occorre sterminarlo: D e lenda Carthago ! 140
tone fu inesorabile e l’Affricano secondo più crudele del primo, m a perchè R o
m a aveva un ideale, una missione ed un convin cimento che mancavano a
Cartagine. Questa non è la metafisica della storia circa la predestina zione
de'sini, è la rislessione storica sugli effetti determinati. Roma vinse, e con
essa il Diritto romano che si farà umano,
salendo,frapoco,dall'edittoalresponso;ma con Cartagine,se fosse stata
vincitrice, non si sa quale alto fine civile sarebbe slalo vittorioso. Non è
già che il popolo romano vinse, perchè aveva e sentiva astrattamente la
missione giuridica; ma aveva questa missione, perché sin da principio il suo
genio si era d e terminato di agricoltori e militari. E che si fosse cosi m a n
t e nuto sino alla guerra corintiaca – malgrado la casa di Emiliano già aperta
a Polibio, a Plauto, a Terenzio ed a Pacuvio si chiarisce dall'ordine espresso
dal console Lucio Mummi o ai romani deputati a portare a Roma da Corinto le
meraviglie del Il pretore urbano prenunzia il periodo unitario. Espressione di
cotesto periodo sono due grandi istituti della vita romana: il prelore
peregrino ed il giureconsulto. Chiamo istituto, piullosto che ufficio,quello
del giureconsulto per ragioni che si parranno (Giunti al respɔnso, non possiamo
trovara nulla di più alto e di più comprensivo nella storia del diritto romano.
Stimiamo utile far conoscere ai giovani studiosi come si scriveva la storia del
diritto romano ai tempi di Pompinio, mettendo in questa nota sotto il oroocchi
il frammento che togliamo dal primo libro del Digesto, e lasciando a loro la
cura di correg gere le inesattezze che troveranno non solo rispetto ad alcuni
fatti e nomi, m a alla cronologia ed ai criterii. Utile e non difficile lavoro,
per la cura che abbiamo posta nello accennare le date principali ed i criterii
storici che governano gl'istituti giuridici di maggiore importanza. Grozio
discute assainelleVitaejurisconsultorumde'duePomponii.Zimmern- trattando
l'arte greca. tra poco. Il pretore peregrino è l'espressione viva e concreta
dell'uni ficazione italica; il giureconsulto; della unificazione del mondo
mediterraneo (1) Il pretore peregrino compie il pretore urbano, in
quanto di larga l’equità, senza dilungarsi da’casi particolari; ma, en e non
dalle Variae lectiones. Ecco Pomponio: Necessario ci pare il mostrar l'origine
propria e il procedimento del diritto. Al principio della nostra città il
popolo cominciò ad operare senza legge certa, senza stabile diritto, e tutto
reggevasi per mano dei re. In appresso, cresciuta in qualche modo la
città,clicesi lo stesso Romolo dividesse il popolo in trenta parti, che chiamò
curie, perciocchè a sen tenza di queste parti disimpegnava allora le cure del
governo. Ond'è che ed egli ed i seguenti re proposero al popolo alcune leggi
curiate, le quali tutte trovansi scritte nel libro di Sesto Papirio che fu uno
dei principali personaggi a'tempi del Superbo, figlio di Demarato da
Corinto.Questo libro è intitolato diritto civile Papiriano, non perchè Papirio
v'abbia aggiunto alcun che di suo,ma perchè egli raduno in uno le leggi
promulgate sen z'ordine. Cacciati quindi i re per legge tribunizia, tutte
quelle leggi andarono in disuso, e il popolo romano cominciò di nuovo a
reggersi con diritto in certo, e più dietro la consuetudine che secondo alcuna
legge emanata; e così continuò per circa venti anni. Dopo le
sannitiche,unitasi a Roma l'Italia,ilgenio dell'urbs si senti tocco, e però
modificato,da due correnti nuove: il c o m mercio e la presenza degli
stranieri. La rustica Dea Pales, in dividuazione mitica del genio originario di
Roma, sentivasi mutar costume, e tollerava, con la presenza degli stranieri,
que'commerci che erano parsi spregevoli al primitivo genio agricolo e militare
di Roma. In nome di questa tolleranza un secolo ed alquanti anni (307) dopo il
pretore urbano sorse il pretore peregrino, qui inter cives et peregrinos,
plerumque inter peregrinos jus dicebat. L'equità estendevasi a quelli che prima
del periodo unitario erano designati con tre nomi: hostes,pere grini, barbari.
del diritto privato romano tiene pe'due. Puchta nel ('orso delle Isti tuzioni–
tieneperunsolo.Unasolacosaècerta,cheilframmentoche noi riportiamo, è
dall'Enchiridion non ricordato dall'indice fiorentino tralo per
tolleranza, gli sottosta, se non in grado di ufficio, in dignità; nè metterà
fuori un editto che contraddica a quello pubblicato dal pretore urbano; nė tra
gli antichi troverà chi voglia commentare il suo editto, privo di originalità.
I giure consulti che vennero di poi, mentre inducevano la regola uni
versaledidirittodall'edittodelpretoreurbano,non commen tarono mai l'editto del
pretore peregrino. Anche io credo che il commentario di Labeone non resista
alla critica. Giunto a questo fastigio del diritto romano, dove col pretore
peregrino par nato l’jus gentium, e col responso l'equità ro mana sale a
diritto umano, mi occorre vedere onde la deca denza imputatada Plinio ai
latifondi, e come il giureconsulto, nel vero senso della parola, possa trovarsi
coevo con la rovina della repubblica e compagno della corruzione imperiale.
Onde ciò non avesse a durare più a lungo, piacque allora che fossero nominati
per pubblica autoritàdieci,iqualitogliesseroleleggidallegreche società, e la
città munissero di leggi. Incise su tavole d'avorio,le esposero sui rostri,
affinché si potessero le leggi meglio imparare; e fu loro dato in quell'anno il
diritto massimo nella città,di correggere,se facesse bi sogno,e d'interpretare
le leggi,nè vera appello da loro come dagli altri magistrati. Essi medesimi
avvertirono mancar qualche cosa a quelle prime leggi, perciò l'anno seguente viaggiunsero
altreduetavole, ecosìper l'accidente del numero furono chiamate leggi delle XII
Tavole.Narrano alcuni che la composizione di esse fosse stata proposta ai
decemviri da un certo Ermodoro da Efeso, esule in Italia. Promulgate queste
leggi,avvenne,come naturalmente suole,che per l'interpretazione si desiderasse
l'autorità dei prudenti e la necessaria d i sputazione del Foro; questa
disputazione e questo diritto ordinato dai prudenti, senza che venisse scritto,
non ha nome in alcuna parte propria, come vengono distinte tutte le altre con
proprio nome,ma chiamasi con titolo generale diritto civile. Quindi,dietro
queste leggi,quasi contemporaneamente furono composte le azioni, colle quali
gli uomini agitassero i litigi nati tra loro;le quali a zioni,affinchè il
popolo non le facesse a capriccio, vollero che fossero sta bili e legali;
equesta parte del diritto chiamasi azione di legge,cioè le gittima. E così
quasi in un tempo medesimo nacquero questi tre diritti, delle XII Tavole,da
cui scaturi ildiritto civile,e quindi leazioni.Siperò l'interpretazione delle
leggi,si le azioni spettavano al collegio dei ponte fici,dai quali ogni anno
sceglievasi chi dovesse soprantendere ai privati, e per circa cento anni il
popolo segui quest' uso. In appresso, avendo Appio Claudio proposto e ridotto a
forma queste azioni, Gneo Flavio, suo scrivano e figlio di un liberto,
sottratto gli il libro, lo fece di ragione del popolo; il quale servigio fu al
popolo tanto grato, che elesse lui tribuno della plebe e senatore ed edile
curule. Questo libro contenente le azioni chiamasi diritto Flaviano, siccome
quell'altro d i ritto Papiriano; ma neppur Gneo Flavio aggiunse alcun che al suo
li bro. Cresciuta la città e mancando alcune specie di azioni, Sesto Elio non
molto dopo ne istituì altre, e pubblicò il libro che chiamasi diritto Eliano.
Quindi,essendovi nella città la legge delle XII Tavole e ildirittocivile e le
azioni di legge, accadde che, venuta la plebe a discordia coi padri e
separatasene, istituì le leggi che chiamansi plebisciti, cioè decreti della
plebe. Non guari dopo, richiamata la plebe, perchè frequenti discordie n a
scevano intorno a questi plebisciti, per la legge Ortensia fu stabilito che
avessero anche quelli per leggi; e cosi avvenne che i plebisciti e le leggi
differissero pel modo di farle,ma ne fosse eguale l'autorità.
Quindi,perchélaplebeaccordavasi difficilmente,emoltopiùdifficil mente il popolo
in si grande moltitudine di persone,fu d'uopo che si affi dasse al senato la
cura della repubblica. Così cominciò ad intromettersi il senato, ed osservavasi
tutto quello ch'esso avesse decretato, e questo di ritto fu detto
senatoconsulto. A quei tempi anche iMagistrati proferivanogiudizi;ed,affinchéicit
tadini sapessero qual giudizio intorno ad ogni cosa si proferirebbe e se ne
premunissero, pubblicavano gli editti che costituirono il diritto onorario,
così detto perchè veniva dall'onore, cioè dalla carica di pretore. Da ultimo,
siccome pareva che l'autorità di far leggi fosse, per natu rale effetto delle
cose,passata al minor numero,un po'per voltaavvenne che fu necessario che un
solo provvedesse alla repubblica; poichè il senato non poteva del pari
amministrar bene tutte le provincie. Stabilito quindi il principe, gli fu dato
il diritto, che si avesse per rato checchè egli d e terminasse. Così nella
nostra città o si giudica pel diritto, cioè secondo la legge; o v'è diritto
civile, che consiste solo nell'interpretazione dei prudenti,non iscritta; le
azioni di legge,che contengono le forme da usare; i plebisciti, che furono
emanati senza l'autorità dei padri; gli editti dei magistrati, donde nasce il
diritto onorario; i senatoconsulti, che emanano dal solo senato
costituente senza legge; e le costituzioni del principe, quello cioè che il
principe determinò si osservi come legge. Conosciuta l'origine e il
procedimento del diritto,conseguita che discor riamo i nomi e l'origine dei
magistrati, perchè, come abbiam mostrato,da quelli che presiedono a far leggi,
acquistano gli effetti. Imperocchè, che varrebbe essere nella città, se non vi
fosse quegli che potesse far leggi? Dopo ciò parleremo degli autori che si
succedettero l'un l'altro, giacchè il diritto non può sussistere senza che
siavi qualche giurisperito,dal quale esser possa mano mano migliorato. Quanto
ai magistrati, nei primordi della nostra città i re ebbero tutto il potere. I
tribuni dei celeri comandavano ai cavalieri, ed occupavano quasi ilsecondo
posto dopo ire;del qual numero fuGiunioBruto,autore del discacciamento dei re.
Espulsi i re, furono stabiliti due consoli, ai quali per legge fu concesso il
supremo diritto: così chiamati, perchè bene provvedevano (consulebant) alla
repubblica. Onde pero non si arrogassero regio potere in tutto,fu per legge
stabilito che vi fosse appello da loro, nè potessero punire verun cit tadino
romano senza il consenso del popolo: a loro fu soltanto concesso di obbligare e
di far mettere nelle pubbliche prigioni. In appresso, dovendosi rinnovare il
censo che da ogni tempo non erası fatto, nè bastando i consoli a questo
incarico, furono stabiliti i censori. Aumentando il popolo, e nascendo
frequenti guerre, delle quali alcune assai gravi, mosse dai confinanti, piacque
di eleggere,ogni qualvolta il bi sogno richiedesse, un magistrato con potere
maggiore; furono per tanto istituiti i dittatori, dai quali nessuno poteva
appellarsi, e che avevano a n che podestà di vita e di morte.Questo magistrato,
perchè aveva un po tere sommo,non poteva durare più di sei mesi. A questi
dittatori aggiungevansi i maestri, vale a dire comandanti dei cavalieri, nella
stessa guisa che ai re i tribuni dei celeri, la quale carica equivaleva presso
a poco a quella dei prefetti del pretorio: m a i magistrati erano tenuti per
legittimi. Quando poi, circa diciassette anni dopo la cacciata dei re, la plebe
si separò dai padri, crearonsi sul monte sacro i tribuni, ch'erano magistrati
plebei,e fu loro dato tal nome,perchè una volta ilpopolo era diviso in tre
parti, e da ciascuna se ne sceglieva uno, o perchè venivano nominati per suffragio
della tribù. E parimenti, affinchè fosse chi soprantendesse agli edifizii, nei
quali riferiva tutti decreti la plebe,deputarono a ciò due della plebe, che fu
rono chiamati edili. Avendo poi l'erario del popolo cominciato ad esser
pingue,furono nominati i questori che ne avessero cura; cosi detti, perché
dovevano esigere (quaerere o inquirere) e tenere conto del danaro. E perché,
secondo abbiamo detto, non era concesso ai consoli pronun ciare sentenza di
morte contro un individuo romano senza permissione del popolo,furono dal popolo
nominati iquestori del parricidio,che giudi cassero i delitti capitali: di essi
fa menzione anche la legge delle XII Tavole. Ed,essendo piaciuto che si
facessero ancora altre leggi, fu proposto al popolo che tutti i magistrati si
dimettessero, e furono nominati i decem viri per un anno. Questi si prorogarono
la carica e si condussero ingiu stamente,nèvolevanoristabiliredinuovo
imagistrati,peroccupareglino e il lor partito il potere; e colla lunga e
crudele dominazione loro con dussero le cose a tale, che l'esercito si ribello
alla repubblica. Dicesi che capo di questa ribellione sia stato un certo
Virginio.Questi vide che Appio Claudio, contro il diritto ch'egli stesso dal
diritto antico aveva inserito nelle XII Tavole, gli aveva tolto il possesso
della propria figlia, e giudi cato in favore di colui che, subornato dallo
stesso Appio,laripeteva come sua schiava, perchè, acciecato dall'anjore per la
fanciulla, non aveva più guardato a diritto o a torto, sdegnato che gli fosse
tolto il diritto anti chissimo sulla persona della figlia, a somiglianza di
quel Bruto primo con sole, che aveva dichiarato libera la persona di Vindice
schiavo dei Vitellj, per aver rivelata la congiura; e, riputando la castità
della figlia essere da preferire alla vita, tolto un coltello dalla bottega di
un macellajo, u c cise la figlia per sottrarla colla morte al disonore dello
stupro; e tosto, grondante ancora del sangue della figlia, corse tra'suoi
compagni d'arme. I quali tutti dall'Algido, dove le legioni trovavansi a
cainpo, abbandonati i capi, trasferirono le bandiere sull'Aventino, e là pure
si condusse tutta la plebe della città. Allora altri dei decemviri furono
uccisi in prigione, altri cacciati in esilio, e fu ristabilito nella repubblica
l'ordine di prima. Alcuni anni dopo la pubblicazione delle XII Tavole, la plebe
venne a contesa coi padri, volendo che i consoli si eleggessero anche dal suo
corpo; al che opponendosi i padri, avvenne che si creassero, parte dalla plebe,
parte dai padri, i tribuni militari con podestà consolare, i quali varia rono
di numero,poichè furono ora venti,ora più,non mai meno. Essendosi quindi
convenuto di creare i consoli anche dalla plebe, si cominciò ad eleggerli dai
due corpi. Afinchè però ipadri avessero qualche cosa più della plebe, piacque
allora che si eleggessero dal loro ordine due edili curuli. E,perchè i consoli
erano occupati dalle guerre coi vicini, nè vi aveva chi nella città potesse
amministrar la giustizia,si creò un pretore,chia mato urbano,perchè amministrava
la giustizia nella città. G. Bovio.Disegno di una Storia del Diritto, ecc., ecc. Dopo
alcuni anni, non bastando quel pretore, perchè accorreva nella città
moltitudine di forestieri,fu creato un altropretore,dettoperegrino, perchè per
lo più rendeva giustizia ai forestieri (peregrini). Poi,essendo necessario un
magistrato che presiedesse ai pubblici in canti, furono stabiliti i decemviri
per giudicare le liti. A quel tempo furono pure nominati quattro soprantendenti
alle strade, i triumviri monetali che vegliavano alla fabbricazione delle
monete di rame,d'argento e d'oro,ed itriumviri capitali che custodivano le pri
gioni, si che,quando dovevasi punire, facevasi col loro intervento. E,perchè
nelle ore vespertine i magistrati non avevano obbligo di tro varsi in officio,
furono istituiti i quinqueviri di qua e di là dal Tevere, che ne facessero le
veci. Conquistata poi la Sardegna, quindi la Sicilia,la Spagna e la provincia
Narbonese, furono creati tanti pretori quante nuove provincie, i quali so
prantendessero parte alle cose urbane, parte alle provinciali. Quindi Cor nelio
Silla istitui i processi pubblici, come di falso,di parricidio,dei sicarj, ed
aggiunse quattro pretori. In appresso Cajo Giulio Cesare istituì due pretori e
due edili, detti cereali da Cerere, perchè soprantendevano ai grani. Così si
ebbero dodici pretori e sei edili. Poi il divo Augusto portò a sedici il numero
dei pretori, ai quali il divo Claudio altri due ne aggiunse, che giudicassero
intorno ai fedecommessi;ildivo Tito ne soppresse uno,e il divo Nerva ve lo
aggiunse; essi giudicavano le liti fra il fisco e i privati. Per modo che
diciotto pretori amministravano la giustizia della città. Tutto ciò si osserva,
quando i magistrati sono nella città; quando poi ne partono, si lascia uno che
solo rende giustizia e chiamasi prefetto alla città, il quale una volta si
nominava all'occorrenza, dopo fu stabile per le ferie latine,ed eleggesi ogni
anno.Ilprefetto dell'annona e dei vigili,cioè delle guardie notturne, non sono
propriamente magistrati, m a furono stabi liti straordinariamente per comodo:
quelli però che abbiamo detto nomi narsi di qua dal Tevere,per decreto del
senato venivano poi creati edili. Dunque,fra tutti, dieci tribuni della plebe,
due consoli, diciotto pretori, sei edili nella città amministravano il diritto.
Moltissimi e chiarissimi personaggi professavano la scienza del dritto civile,
m a ora ci basta parlare di quelli che in maggiore stima furono presso il
popolo romano, affinchè apparisca da chi e quali leggi ebbero origine e ne
furono tramandate.E prima di Tiberio Coruncanio non ricordasi alcuno che
pubblicamente professasse questa scienza; tutti gli altri fino allora a v e
vano creduto di tenere occulto il diritto civile,o soltanto si prestavano a chi
li consultava, piuttosto che a chi volesse imparare. Tra i primi periti del
diritto fu poi Publio Papirio, che radund in uno le leggi dei re. Dopo
questo, Appio Claudio, uno dei decemviri, il cui senno molto valse nel comporre
le XII Tavole.Appresso viene altro Appio Claudio che ebbe grandissima scienza
in questa parte, e fu detto centimano. Fece egli costruire la via Appia, derivò
l'acqua Claudia, e persuase di non ricevere Pirro nella città. Si disse aver
egli pel primo scritto le azioni in torno alle usurpazioni, il qual libro però
non esiste. Sembra che il m e d e simo Appio Claudio abbia inventato la lettera
R, onde si disse Valerj in vece di Valesj,e Furj invece di Fusj. Dopo questi,
di grandissima scienza fu Sempronio che ilpopolo romano chiamò coçov
(sapiente), nome che a nessun altro fu dato nè prima nè dopo ali lai.Ma vi fu
anche Cajo Scipione Nasica che dal senato fu chiamato ottimo, al quale fu anche
data del pubblico una casa sulla via Sacra, onde più facilmente si potesse
andare a consultarlo. Appresso fu Quinto Fabio che, mandato ambasciatore ai
Cartaginesi, essendogli poste innanzi due
schede,unaperlapace,l'altraperlaguerra,econcesso a luil'arbitrio di portare a
Roma qual delle due gli piacesse, le prese ambedue, e disse dovere i
Cartaginesi chiedere e ricevere qual più volessero. Fu,dopo questi,Tiberio
Coruncanio chepelprimo,come dissi,cominciò a professare il diritto: di
lui,sebbene non restò veruno scritto, si ricordano molte e memorabili risposte.
Quindi Sesto Elio col fratello Publio Attilo ebbero grandissima scienza nel
professare ildiritto,e furono anche consoli. Sesto Elio è lodato anche da
Ennio, e di lui esiste un libro intitolato Tria partita, che contiene i primi
elementi della scienza del diritto:gli fu dato quel nome, perchè,proposta la
legge delle XII Tavole, vi soggiunse l'inter pretazione, e quindi vi unì
l'azione di legge. Dicesi esserci di lui tre altri libri che alcuni però gli
negano.Le pedate di questo calcò Marco Catone, capo della famiglia Porcia, del
quale sussistono alcuni libri, m a più ancora di suo figlio; da questi vennero
tutti gli altri. Tennero dietro a questi Publio Rutilio Rufo che fu console in
Roma e proconsole nell'Asia; Paolo Virginio e Quinto Tuberone,ilprimo stoico e
discepolo di Panezio che fu anche console. Di quel tempo e pure SESTO POMPEO, zio
di Gneo Pompeo, e Celio Antipatro che scrisse storie, ma at tese più
all'eloquenza, che alla scienza del diritto. Lucio Crasso, fratello di Publio
Muzio,e chiamato anche Muciano,da Cicerone è detto ilpiù facondo dei
giureconsulti. Quinto Muzio, figlio di Publio e pontefice massimo, ordind pel
primo il diritto civile, raccogliendolo in diciotto libri. In appresso
Publio Muzio, Bruto e Manilio fondarono il diritto civile: Muzio lascio dieci
libri, Bruto sette, Manilio tre; e di Manilio sussistono a monumento alcuni
volumi scritti, Bruto fu pretore, gli altri due consoli, e Publio Muzio anche
pontefice massimo. Muzio ebbe più discepoli, tra i quali maggior
fama acquistarono Gallo Aquilio, Balbo Lucilio, Sesto Papirio e Cajo Giuvenzio:
Servio dice che Gallo ebbe grande autorità presso il popolo. Di tutti questi si
conserva memoria,perchè Servio Sulpizio pose nei suoi libri iloro nomi: ma non
restano loro scritti che tutti desiderino ed abbiano tra le mani: pure Servio
compi i libri suoi, dai quali si ha memoria dei predetti. Servio che nel
perorare le cause occupò il primo posto dopo Marco Tullio, si dice essere una
volta andato a consultare Quinto Muzio intorno ad un affare d'un suo amico; e,
non avendo compreso quello che Muzio rispondeva intorno al diritto,gliripeté
ladimanda;ma,non avendo meglio compreso la risposta,Muzio lo rimproverò,dicendo
esser vergogna che un patrizio e nobile, che perorava cause, ignorasse il
diritto che pure avea sempre tra le mani. Tocco da questo affronto, Servio si
applicó al diritto civile, e fu discepolo a molti di quelli che abbiamo
nominati: Balbo Lucilio gli diede i primi rudimenti, e lo perfeziono Gallo
Aquilio da Cercina, onde di lui abbiamo molti scritti in Cercina. Morto in
un'ambasceria, il popolo romano gli eresse una statua che tuttora si vedle sui
rostri di Augusto: lasciò forse centottanta libri, assai dei quali restano
ancora. Da questomoltissimiimpararono;quelliperòchelasciaronolibri,sono Alfeno
Varo, Caio Aulo Otilio, Tito Cesio, Antidio Tucca, Anfidio Namusa, Flavio
Prisco, Cajo Atejo, Placurio Labeone Antistio, padre dell'altro L a beone
Antistio, Cinna e Publio Gellio. Di questi dieci, otto scrissero libri, che da
Anfidio Namusa furon tutti ordinati in cenquaranta libri,ed acqui starono
grande celebrità Alteno Varo ed Aulo Otilio,dei quali il primo di ventò anche
console, il secondo cavaliere soltanto. Fu questi amicissimo di Cesare, e
lasciò molti libri che trattavano ogni parte del diritto civile, scrisse anche
pel primo intorno alle leggi della vigesima ed alla giurisdi zione. Il medesimo
pel primo commentò con grande diligenza l'Editto del pretore, mentre pria di
lui Servio avea intorno a quello scritto soltanto due libri brevissimi, diretti
a Bruto. Di quel tempo furono anche Trebezio, discepolo di Cornelio Massimo,
Aulo Cascellio, Quinto Muzio, discepolo di Volusio che ad onore di quello lascia
per testamento erede il suo nipote Publio Muzio. E questore, n è a c cettar
volle onori maggiori, sebbene Augusto gli offerisse anche il conso lato. Di
questi dicesi che Trebezio su più istrutto di Cascellio, e questi più eloquente
del primo; di ambidue più dotto fu Otilio.Di Cascellio non resta che un libro
solo di bei motti;molti di Trebezio,ma poco ricercati. Quindi v’ebbe Tuberone
discepolo di Ofilio, patrizio, che dal trattar le cause passo ad esercitare il
diritto civile, specialmente dopo ch'ebbe ac cusato Quinto Ligario senza poter
ottenere da Caio Cesare che fosse con 148 dannato.Questo
Ligario, mentre comandava nelle spiagge d'Africa, non vi lasciò approdare
Tuberone malato, nè prender acqua: di ciò accusato, fu difeso da Cicerone, del
quale esiste la bellissima orazione intitolata A f a vore di Quinto Ligario.
Tuberone fu dottissimo nel diritto pubblico e pri vato, e lasciò molti libri
intorno all'uno e all'altro; affetto per altro lo scrivere antiquato, e perció
i suoi libri piacciono poco. Seguono Atejo Capitone, discepolo di Ofilio, ed
Antistio Labeone che tutti questi udi,ma fu istruito da Trebazio.Atejo fu
console: e Labeone, offerendogli Augusto il consolato per sostituzione, non
volle accettar l'o nore, per non interrompere i suoi studi, giacchè avea cosi
ripartito l'in teroanno,chestavaseimesiinRoma coglistudiosi,glialtriseisene
ritirava per attendere a scriver libri, e lasciò quaranta volumi, molti dei
quali corrono per le mani di tutti. Costoro formarono quasi due sette o p poste:
poichè Capitone seguiva il vecchio che gli era stato insegnato; L a beone, per
natura dell'ingegno suo e per fiducia di sapere, poichè avea atteso anche agli
altri rami della sapienza, intraprese d'innovare moltis sime cose.E così a
Capitone succedette Massimo Sabino,a Labeone Nerva, i quali due accrebbero
quella divisione. Nerva fu amicissimo di Cesare; Massimo fu cavaliere, e pel
primo diede risposte in pubblico, secondo gli fu concesso da Tiberio Cesare. M
a, come tutti sanno,prima di Augusto non dai principi concedevasi il diritto di
dar risposte in pubblico, ma chiunque confidava negli studi fatti, ri spondeva
a quanti lo consultavano. Nè però davansi queste risposte in iscritto,ma
perlopiùlescrivevanoigiudicistessi,oleattestavanoquelli che gli avevano
consultati. Il divo Augusto pel primo, onde in maggiore stima venisse
ildiritto,ordinò che si dimandasse per l'innanzi,come pri vilegio, di poter
dare risposte in pubblico. Poscia Adriano,principe ottimo, avendogli alcuni,
ch'erano stati pretori, domandato di poter essere consul
tatiinpubblico,cosilororescrisse: Nonvolersiciòdimandare,ma fare; consolarsi,se
vi avesse qualcuno che,in se confidando, si apprestasse a ri spondere al
popolo. Da Tiberio Cesare, adunque, fu concesso a Sabino che rispondesse al
popolo. Questi entrò nell'ordine equestre nella avanzata età di quasi
quarantacinque anni; ebbe scarse sostanze, ma fu molto aiutato da'suoi
ascoltatori. Gli successe Cajo Cassio Longino, la cui madre era figlia di
Tuberone o nipote di Servio Sulpizio, perciò egli chiama Sulpizio suo proavo.
Fu console con Quartino al tempo di Tiberio,e godette grande stima nella città,
fintanto che Cesare non lo caccio. Andò quindi in Sar degna, e, richiamato da
Vespasiano, mori in Roma.A Nerva succedette Proculo.Diquei tempi fuancheNervafiglio,edun
altroLongino,cava liere, che poi sali fino alla pretura. M a autorità maggiore
ebbe Proculo e i seguaci delle due sette di Capitone e di Labeone; presero
allora il nome di Cassiani e di Proculiani. A Cassio succedette Celio Sabino
che molto potè ai tempi di Vespasiano;a Proculo,Pegaso che sotto lo stesso impe
radore fu prefetto della città;a Celio Sabino,Prisco Giavoleno;a Pegaso,
Celso;a Celso padre,Celso figlio e Prisco Nerazio,iquali furono ambidue
consoli, anche Celso due volte;a Giavoleno finalmente succedettero Aburno
Valente, Tusciano e Salvio Giuliano. Il periodo unitario, per non rovinare
nello accentramento, è equilibrato da quattro contraccolpi che sono le due
guerre ser vili, la guerra sociale, la guerra civile e la guerra gladiatoria.
Il Pretore ha annunziato una parola solenne nel diritto: l'e+ quità. La parola
equità non è in Roma una legislazione, è una correzione, m a intanto col
pretore è giunta al suo secondo periodo, è passata cioè dalla eguale notizia
della legge dentro la legge istessa. Dove il legislatore era stato duplice, ed
in dis sidio continuo, l'equità non poteva entrare che come correzione e in
forma di casi particolari. L'equitå vorrà dire, di certo, che la repubblica
signorile è fatta popolare; che i peblisciti contrappesano i senato -consulti;
che le grandi differenze si livellano; m a dice qualcosaltro: l’e quità è una
certa unità giuridica che preannunzia l'unità po litica. Ho designato i due
grandi periodi dell'unità politica:l'unità italica; l'unità della civiltà
mediterranea. Le sannitiche ele pu niche determinano specialmente questi due
periodi. Che cosa furono le due
guerre servili e la guerra gladiato ria, quale valore e significanza ebbero, e
furono guerre davvero, o un impeto disperato senza eco e senza effetto? Gli
storici an tichi non danno ó fingono non dare molta importanza alle due guerre
servili, con le quali si apre e chiude la generazione che 1. 152 va
dal 619 al 651. L'alto rumore di ciò che gli storici latini chiamarono
Graccanae, e poi della guerra giugurtina, e poi della invasione dei Teutoni e
dei Cimbri, gli uni sterminati da Mario nella Gallia transalpina, gli altri
nella cisalpina, e poi della guerra sociale, e,immediatamente dopo,della prima
guerra civile tra Mario e Silla, occasionata da Mitridate VII,tutto questo che
non è poco rumore insieme con la politica sprezzante verso i servi, non arriva
a spegnere il furore nè a soffocare il grido de' servi, che, levatisi a guerra
vera contro i padroni, si batterono, vinsero, e poi caddero uccisi piuttosto
che sconfitti. Strana guerra, m a spiegabile in Roma e dopo il pretore e nella
repubblica popolare. La voce dell’equità pretoria, l'aliud initium libertatis,
che equilibra patrizii e plebei, l'imperio consolare coll'ausilio tri bunizio,
creditori e debitori, padri e figli, romano e peregrino, quella arriva tra
servi e padroni. I servi cominciano a voler essere considerati non romana
mente, perché non sono e non si sentono di Roma,ma umana mente,da che sono
venuti a Roma da ogni parte dell'umanità, ed hanno veduto in Roma la lotta per
l'equità. Hanno veduto e saputo che i diritti si strappano, e la solle vazione
comincia dalla Sicilia, dove maggiore era il numero dei servi condannati alla
coltivazione de'latifondi. Primo ucciso Da mofilo,proprietario di latifondi, in
Enna,oggi Castrogiovanni; poi, disfatti quattro eserciti romani; in ultimo,
de'settantamila servi cinquantamila uccisi in guerra, ventimila in croce. Nella
seconda servile il moto fu più ampio: non si sol levarono i servi soltanto, m a
insieme gli oppressi peggio che servi: proletarii e diseredati. I servi
superstiti alla guerra si scan narono tra loro. Simile guerra non si era veduta
mai, e la lotta per l'equità facevala possibile a Roma.Ed alle servili somiglia
la guerra gla diatoria che può anche passare come terza delle servili, e della
quale gli storici del diritto costumano non toccar motto. Eglino Gli
storici romani lodano Spartaco a denti stretti, chiamano guerra appena le due
servili e la gladiatoria, e non si accor gono che sono le prime guerre,dopo le
quali la sconfitta è toc cata ai vincitori. Da Euno a Spartacoilgridoè
uno,quellodellavecchiaplebe romana: libertas aequanda;summis infinisque jura
aequare.Cið che rispetto a quella plebe sediziosa erano stati i Gnei Genunzio
ed i Publilii Volerone, surono,rispetto ai servi ribelli,ilsiro Euno e il trace
Spartaco: gli uni tribuni della plebe romana, gli altri tibuni dell'umanità
servile: quelli per giungere all'equità latina,questi all’equità umana. Senza
queste prime considerazioni non sarebbe intesa l'uni versalità del responso.
Mentre si acqueta la seconda guerra servile, divampa la guerra sociale,col
proposito di conseguire non l'equità umana, ma l'equità romana e con effetto
immediato. La guerra sociale durd men di due anni, rapida e violenta, se a
conto di Vellejo Patercolo costo all'Italia più di trecentomila uccisi. E fu
detta sociale non già nel senso moderno della parola,ma perchè mossa contro R o
m a da’socii italiani, reclamanti parità di diritti politici e civili
co’romani, dopo aver falio insieme con quelli la potenza diRoma.L'aspettazione
c !epromesse eranostatelunghe;iltri huno Livio Druso che ricordavale, mettendo
in una tre rogazio ni, fu morto prima de'Comizii;e con quella morte fu inteso
che i diritti, data l'ora, si strappano, non s'impetrano. non sanno che
possono a lor grado diminuire i nomi di Euno, di Cleone, di Trifone e di
Atenione,condottieri di servi,ma per nessuna via giungeranno a diminuire il
nome di Spartaco che all'altezza del proposito univa l'arte dei mezzi. Spartaco
intese l'ora e il luogo,cioè quando doveva dare il segnale della rivolta e come
uscir d'Italia; intese ancora come gli restava a cadere, quando l'Italia gli si
era fatta terra fatale. -- I seimila gladiatori, lungo la via Appia, appesi
alle croci,come già i ventimila servi, dicono uno sterminio, non una
sconfitta. Di quindi la confederazione repubblicana, della quale i socii
elessero centro Corfinium, cui posero nome Italica per signifi care il
carattere nazionale della confederazione e della lotta. I centomila combattenti
de'confederati si elessero duce Pompedio Silone, nome di un sannita,che ai
popoli italici dev'esser sacro quanto il tribuno alla plebe romana, quanto
Spartaco ai servi di ogni paese. Fu morto anche lui, uccisi i suoi,dopo la
rovina di quattro eserciti romani,ma questa volta chiaramente i più scon fitti
furono i vincitori. La guerra fu cominciata e mentre durava, il diritto italico
cominciava a farsi romano con la lex
Julia,e,finitalaguerra,tuttal'Italiaacquistava idiritti di cittadinanza romana
con la lex Plautia. Ecco l'evoluzione di questi diritti di cittadinanza
derivati dalla guerra sociale: 1a gl'Italiani furono, per l'esercizio del
suffragio, classificati in otto tribù nuove,aggiunte alle trentacinque pree
sistenti; sicché tutta l'Italia venne a conseguire otto voci,quando Roma ne
aveva trentacinque:sproporzione subito corretta, per chè gl’Italiani riuscirono
in breve tempo a farsi distribuire pro porzionalmente nelle trentacinque tribů
romane; 2° il suolo italico è distinto dal suolo provinciale, è equiparato
all’ager r o m a nus e liberato dal vectigal.L'italiano ha guadagnato
ildominium ex jure Quiritium. Dopo la guerra sociale il diritto romano ė
diritto italiano.Tra il romano e l'italiano sparisce il pretore peregrino. Non
si ripeta questo errore,che le guerre servili furono ster minio senza essetto,
e che feconda fu la guerra sociale. Dicasi invece che gli effetti delle guerre
servili sono immediatamente invisibili e saranno più tardi raccolti dal
filosofo e confidati al l'ideale di un jus hominum, mentre immediati sono gli
effetti della guerra sociale, immediatamente saranno raccolti dal pre tore e
dal giureconsulto, e passeranno nella costituzione politica
diRoma.IlgeniomilitarediRoma potevaabbandonareiservi su'colti, m a non poteva
espandersi senza de’socii. Interpretiamo la prima guerra civile.Da questa
Montesquieu torse gli occhi, e dentro questa bisogna ficcarli, per
intendere la decadenza. L'Italia ha conseguito lacittadinanza romana,quando in
Roma la cittadinanza ha perduto d'intensità quel che ha guadagnato di
estensione. L'Italia, contro la vittoria di Silla, ultimo vindice della ragione
quiritaria, ha afferrato il dominio ex jure Quiritium; m a i Quiriti dove sono?
Dove i patrizii ed i plebei? Se tra l'i taliano ed il romano è sparito il
pretore peregrino, si può dire che il pretore urbano duri per sentenziare tra
il patrizio ed il plebeo? La guerra civile è una funesta rivelazione, non per
le proscrizioni, ma pel sinistro lume sparso sulla rovina morale de'romani. Con
la guerra civile si apre la reazione de'grandi de litti contro le tradizioni
dell'eroismo civile. Accenniamo, non possiamo narrare Quelle facce sinistra
mente predesignate di Mario e di Silla rivelano due diversi tipi di
sanguinarii, vuoti d'ideali. Mario agitavasi in nome di una plebe ch'ei non
ama, perchè non trova;Silla reagisce in nome di un patriziato ch'egli, quando
non può rialzare,disprez za.Sapevano guerra e movere legioni agguerrite; ma
caddero sopra sė medlesimi, senza lasciar traccia, perchè vissuti senza
disegno. Mario finisce, non ricordando la plebe, m a sforzandosi dimenticare sė;
Silla, ricordando sè solo, e buttando la ditta tura che sforzavalo a ricordarsi
d'altrui. Grande fu lo stupore del gran rifiuto non per viltà,ma per disprezzo:
Silla non aveva potuto rizzare il vecchio patriziato, come Giuliano non evocare
gli Dei morti. Nulla dicono intanto quei funerali di Silla,e due mila corone
d'oro intorno all'arca marmorea, e lo scorruccio d'un anno alle matrone? Dicono
una sola cosa:che la repub blica è finita, e che R o m a aspetta il principe
col motto di Asinio Gallo in Tacito: U n u m esse reipublicae corpus, atque
unius animo regendum. L'assenza delle due parti che han fatto l'alto dissidio
di R o m a, delle parti che han combattuto la lotta pel diritto, composta nel
l'equità, l'assenza di quella plebe indomita e gelosa della sua maestà, e
di quel patriziato che, quando non arriva a giustificare la preminenza con
diversioni eroiche, tramuta in concessioni gli strappi, è accusata in Roma da
due fattiirrefragabili: dalla uni versale viltà che accompagnò le proscrizioni
sillane, e dal soli loquio infecondo dell'ultimo Gracco,al quale,moriente,addicevasi
meglio il motto di Bruto minore. E,dato il significato delle guerre
servili,della gladiatoria,della sociale e della civile,è tempo di spiegarsi
l'assenza delle antiche parti, la quale lascia intravveder l'Impero. La
devastazione bellica, segnatamente dopo laseconda punica, e l'importazione
commerciale sono le due cause precipue,onde i piccioli fondi cominciano a
sparire per formare i latifondi,e però cominciano a spostarsi le parti,
sostituendo alla questione poli tica la sociale: dov'erano patrizii e plebei
cominciasi a vedere ricchi e poveri. Quindi, il potere pe’ricchi,le
frumentationes pe' poveri, l'agricoltura pe’servi.Quindi,mentre da Silla a
Pompeo la facoltà de'giudizii ballottavasi da’senatori a'cavalieri e viceversa,
l'ordine giudiziario corrompevasi, di giuridico facendosi politico, e, più che
politico, personale. Quindi,mentre i Gracchi e Mario cer:ano invano la vecchia
plebe, da che la nuova, secondo Sal lustio, privatis atque publicis
largilionibus excita, urbanum otium ingrato labori praetulerat, Silla cerca
invano il vecchio patriziato,corrotto da'nuovi cavalieri,tra'qualisiviene a
reclutare la mala genia de'publicani. Mentre si fa la romanizzazione del (Alcuni,per
trovare qualche cosa di liberale intorno a questo tempo di Roma,hanno avuto
ricorso persino alla congiura di Catilina,celebrando quest'uomo con inni assai
postumi ed assai brevi, e allogandolo quasi tra il socialista e il nichilista
de' nostri tempi. Mala storia non patisce queste violenze e sfata questi
travestimenti insignificanti. Catilina è rientrato s u bito nel posto
destinatogli dalla storia, a documentare due cose: la degra dazione del
patriziato e la reazione dei grandi misfatti contro le tradi zioni dell'eroismo
civile. Ciò ch'egli non poteva trarre dal valore militare, splendido in Mario e
Silla, voleva dalla congiura.E la degradazione morale fu chiarita dalla guerra
combattuta in quel di Pistoia, dove l'esercito m a n dato contro Catilina era
condotto da un complice nella congiura ! mondo, il genio di Roma si
sposta:l'agricoltura ch'era romana, diventa servile; ed il commercio che non
era romano, diventa cavalleresco. Costituiti ilatifondi, l'agricoltura, per
necessità, diventa ser vile e produce meno, giusta la ragione di Plinio: Coli
rura ab ergassulis pessimum est, ut quidquid agitur a desperantibus. Il
commercio diventa deʼricchi, e però assume le forme peggiori, quelle della
soperchianza senza lavoro:le societates publicanorum corrompono leggi,
megistrature, popolo. E da qui, secondo Ta cito, anche le provincie
presentivano Augusto: Suspecto senatus populique imperio,ob certamina potentium
et avaritiam magi stratum: invalido legum auxilio, quae vi, ambitu, postremo pe
cunia turbabantur. Spariti i piccoli possidenti agricoltori, dopo tante lotte
per le leggi agrarie i discendenti della plebe si trovavano più poveri di prima,
m a tristamente paghi di questa povertà, alimentata prima dalle frumentationes,
e poi da'congiaria. Alla plebe plebiscitaria era succeduta la plebs
frumentaria. È certamente una costituzione politica che si sfascia, quella
caduta tra due classi estreme (ric chissimi e proletarii), non equilibrate da
quell'ordine intermedio che è diffusivo di sua natura, e per creare il quale
Roma aveva combattuto tante lotte agrarie. Basti, per ispiegarsi molto,voler
sapere la popolazione d'Italia verso il tempo delle guerre servili. Eccola:
quattordici milioni quasi i servi; quasi sette milioni i liberi, e di questi
almeno sei milioni i proletarii. Era naturale:una ricchezza di cinque milioni
di denari era povertà; e per esse ricco bisognava con Crasso, co'liberti
Lentulo e Narcisso, ed anche con lo stoico Seneca,sa lire a più centinaja di
milioni ! Conchiudiamo:dove c'è questa ricchezza di centinaja di milioni, ci
dev'essere a fianco un vasto proletariato; e dov'è finita la plebe romana, è
finito il patriziato. Non c'è più plebe,da che è frumentaria,non più patriziato
da che è pubblicano,non c'è senatus popolusque nè populus plebs
que romana: c'è un volgo immenso o mobile o profano, volgo sempre, diviso tra
ricchi e poveri. E contro questo volgo si av ventano implacabili i classici,
tante volte volgo anch'essi, da che furono corrotti gliscente adulatione. Gli
Augusti ed i loro m i n i stri -- Mecenati o Sejani che sieno sono divi non
solo per i bramosi di pane e giuochi, non solo per i liberti imperanti e per
gli stoici traricchiti, ma per gli scrittori che più simulano sdegno contro
l'adulazione pubblica, quanto meno la possono su perare ne'loro versi e prose.
Nė in tanto scadimento dell'anima civitatis resta la religione come
supplementum civitatis defectui. Il mondo romano ha avuto più o meno di
superstizione, e forse molta,ma religione sempre poca. Assai prima che Lucrezio
derivasse nella cosmologia latina l'atomismo epicureo e creasse un poema ateo
senza riscontro il poema dei dotti romani assai prima Lucio Azzio,il primo
tragico nato in R o m a, faceva rappresentare pubblicamente sue tragedie poco
riverenti agl’Iddii patrii. Nè di questa irriverenza gli faceva rimprovero il
vecchio Pacuvio, ma della durezza de' versi, onde per contrario Azzio lodavasi,
perchè quella durezza faceva riscontro alla fierezza delle sentenze.E iversi
atei e duri del poeta tragico, attraversando i secoli più molli, erano letti e
recitati al tempo di Lucrezio, di Silla e di Cicerone. A questi piaceva udire
una voce antica, quasi divinatrice, di poeta: Neque profecto Deùm summus rex
omnibus curat. Cosi trovasi da secoli apparecchiato l'ambiente ad Epicuro, ad
Amafinio che lo esporrà in prosa, ed a Lucrezio, in versi. E, quando lo
stoicismo con simulato sopracciglio verrà a velare la dottrina epicurea, Seneca
ripeterà con gonfiezza stoica sen tenze lucreziane: Mors est non esse. Hoc
eritpost me quod ante fuit. Ed altrove: Cogita illa quae nobis inferos faciunt
terribi les, fabulam esse: nullas imminere mortuis tenebras, nec flu mina
flagrantiaigne,necoblivionisamnem,nectribunalia.Lu serunt ista poetae, et vanis
nos agitavere terroribus. 158 Jam jam neque Dii regunt, Questo
spiega come, mentre agli auguri è possibile sorridere guardandosi l'un l'altro,
a Catilina è lecito patteggiare co' con giurati sino gli ufficii ed i gradi
sacerdotali, dopo avere, impu nito, stuprato una vestale ! Spiega perchè, in
questa decadenza, ai vincitori di Annibale sia fatto difficile vincere un Giugurta
che sin da Numanzia aveva imparato a chiamare vendereccia R o m a, ed era
incatenato da un peggiore di lui, Mario; come a narrare un Catilina occorreva
un più tristo, Sallustio.— Spiega anche più: dove la religione dechinava senza
esservi stata mai gran fede, e però nessuna lotta religiosa, era imminente, non
che possibile, una religione nuova: i primi cristiani sarebbero stati
perseguitati come rei di Stato,non come religiosi.Sarebbero stati mai, come
religiosi, puniti dai ricordatori di Lucio Azzio, dagli uditori di Amafinio,
dagli ammiratori di Lucrezio e dai ripeti tori di Quinto Sestio? Dov'erano
stati condannati e sbandeggiati gli Dei pel solo sacrifizio
d'Ifigenia,sarebbero stati glorificati nel sangue di migliaia di cristiani? Questo è scadimento, perchè, mentre da una
parte si fa la romanizzazione, come la dicono, del mondo, dall'altra si fa la
degradazione di Roma.Dovrebbe parere che, mentre l'umanità siromanizzava,per
contraccolposiumanizzasseRoma:ma non si può dire cosi, perchè Roma portava al
mondo il diritto, e il Deducta est,non ut,solemni more sacrorum Perfecto,posset
claro comitari Hymenaeo: Sed casta inceste nubendi tempore in ipso Hostia
concideret mactatu moesta parentis, Eritus ut classi felix, faustusque daretur.
Tantum relligio potuit suadere malorum. Empio è detto da Vico questo
epifonema,piaciuto ai vecchi romani che in forma induttiva trovavano raccolto
in esso un sentimento comune,e giudicavano, secondo equità, più empio il rito
che l'epifonema. E pel m e desimo sentimento dell'equità,più intenso del
sentimento religioso,riscon trata la sepoltura di Pompeo e di Catone con quella
di un mimo,poterono domandare: Et creditis esse Deos? (1) N a m sublata
virum manibus tremebundaque ad aras mondo portava a Roma le spoglie
che facerano il lusso, come il lusso faceva la barbarie raffinata che è la
decadenza. Quale umanesimo potevan portare a Roma la Grecia disfatta e le pro
vincie barbare? La romanizzazione si fa più rapidamente nelle provincie bar
bare, che non dov'è la civiltà disfatta: prima si romanizzano la Spagna, le
Gallie, le provincie britanniche e le danubiane, e dopo le greche e le fenicie
che a R o m a contrappongono quale le tradizioni e quale la prosunzione. La
Grecia riesce a insinuare la lingua di Omero e di Platone sin nelle ordinanze e
ne'giudizii de'magistrati romani: ma la lingua del diritto finisce col vincere
quella della poesia e della metafisica ed a portare tra il portico ed il liceo,
contro le pe tulanti proteste de'retori, la scuola del giureconsulto.Allora è
che il romano, mentre deplora la decadenza interna, glorifica in ogni forma la
sua vittoria giuridica sopra il mondo. Allora Virgilio dice al greco superbo: T
u parla e scolpisci meglio; noi domineremo te e il mondo con le leggi, perdonando
ai vinti e vincendo i superbi (1). Allora è che Plinio dice che l'Italia,
romanizzando il mondo,ha dato l'umanità all'uomo ed una pa tria sola a tutte le
genti: Colloquia et umanitatem homini daret, breviter una cunctarum gentium in
toto orbe patria fieret. E sotto questo rispetto fu possibile un cosmopolitismo
più pratico di quello degli stoici, in quanto non negava le nazioni,ma dava
loro unità e colloquio da Roma:concetto raccolto da un impe ratore in questa
sentenza: Patria mei, Antonini, Roma: hominis, mundus. Ciò è vero ed è grande:
ma che portavano a Roma que're Excudent
alii (e sono i Greci) spirantia mollius aera. Credo equidem, vivos ducent de
marmore vultus. Orabunt causas melius, coelique meatus Describent radio, et
surgentia sidera dicent. Tu regere imperio populos, Romane, memento: Hae tibi
erunt artes...incatenati, que'servi, que’gladiatori, que'retori e mercanti?
Come uomini gonfiavano la superbia del vincitore, come vinti lo corrompevano.
Ma non bastava ad umanizzare vincitori e vinti il Diritto che era nella
missione di Roma e da Roma dettato al mondo? Certo, bastava, se il diritto
romano fosse stato tutto il diritto umano,tutto,come oggi lo intendiamo,come
oggi la scienza e la storia ce lo han fatto. M a non dobbiamo preoccuparle
questa scienza e questa storia:dobbiamo vedere come in mezzo a que sta decadenza
che abbiamo descritto, sorge e grandeggia il giu reconsulto. Il giureconsulto è
l'espressione più elevata e più certa di questa romanizzazione del mondo. Più
si dilarga la forza uni taria di Roma, e più il responso del giureconsulto
universaleg gia. Il responso vero, quello che diverrà fondamento d'istitu zione
e di legislazione nel medesimo tempo,spazia tradue leggi de civitate, cioè
dalla cittadinanza italica sino alla cittadinanza universale.Che importa che
Roma corrompa sė,romanizzando il mondo? Certo è che Roma non poteva fare
l'unità delle genti senza disfarsi, e che questa unità doveva avere la sua
espres sione giuridica. Ecco il giureconsulto. Dove la legge de civitate assume
l'espressione più ampia e tocca il fastigio, ivi sorge il giureconsulto massimo
che dà il più universale responso, il più umano,e rifiuta la vita per la
santità del medesimo. Fa gene rosamente per il responso ciò che Catone uticense
ostinatamente per la repubblica. Né le dodici tavole vecchio diritto
aristocratico,nè le ro gazioni tribunizie vindici della ragione plebea, nè
l'editto pretorio espressione limitata dell’equità, potevano esprimere Ja
missione giuridica di Roma nell'unità del mondo. Tribuno e Pretore erano romani;
il Giureconsulto romanizza. Romanizza in tre periodi e modi: 1° elevando
l'equità partico lare ad equità civile; 2° l’equità romana ad equità italica;
3o l'e quità italicaad equità umana.Ilresponsouniversaleggial'editto. Disegno
di una Storia del Diritto,ecc.,ecc. L'editto ha sempre qualcosa di
particolare rispetto all'obbietto, alle persone, al tempo, alla forma. Di
repentino farsi perpetuo non significa farsi universale: solo comprenderà
quanti casi con simili entreranno nel giro di un anno. Certo, chi legge che l'e
ditto pretorio è fatto jurisdictionis perpetuae causa, non prout res incidit,
può credere che quella perpetuità sia universalità; è invece la perpetuità
della giurisdizione pretoria, la durata di un anno.Perciò non ismette la forma
individuale, non assegue mai nè l'universalità teoretica delle formole
razionali, nė l'im perativo impersonale delle dodici tavole. Tutti gli editti
pretorii che oggi leggiamo,come de jurisdic tione, de pactis, de in jus
vocando, de edendo, de postulando, de iis qui notantur infamia, de
procuratoribus, de negotiis gestis, de in integrum restitutionibus, de nautis,
cauponibus et stabu lariis recepta ut restituant,dejurejurando voluntario, de
publi ciana in rem actione, de servo corrupto, de aleatoribus, de his qui
effuderint vel dejecerint, tutti hanno la forma individuale, espressa in ultimo
dalle parole jubebo, servabo, dabo, cogam, animdvertam e simili, o anche
dall'espressione più individuale permissu meo, come in questa de in jus vocando:–
Parentum, patronum,patronam, liberos,parentes patroni,patronae, in jus sine
permissu meo ne quis vocel. E non solo l'edittodel pretore,ma anche
l'aedilitium edictum, ma col dabimus, tenuto conto che due erano gli edili
curuli o maggiori, come già due gli aediles plebeii. Ex his enim cau
sis,judicium DABIMUS.Hoc amplius, si quis adversus ea sciens dolo malo
vendidisse dicetur, judicium dabimus. Non è già che qualche volta non
s'incontri la formola più generale, ma o come dichiarazioni o come illazioni
della for mola singolare che distingue propriamente l'espressione giuri
sdizionale dalla legislativa.Per l'utilità di queste notizie ho riportato in
nota il frammento di Pomponio. Ora veniamo alla sostanza. Come fa
il pretore ad insinuare l'equità nell'editto senza aperta violazione del s u m
m u m jus? Che sarà questa gratia corrigendi juris civilis, per non essere
negazione del diritto civile e sostituzione dell'arbitrio indivi duale? Sarà,
più che di frequente, una finzione pretoria che verrà ad alterare il fatto per
serbare inalterato il diritto, e a p punto questa finzione di fatto correggerà
la iniquità di diritto. Cosi il pretore fingerà pazzo il savio, vivo il morto,
morto il vivo, e per processo di finzioni insinuerà da presso ai c o n tratti
ed ai delitti i quasi-contratti ed i quasi-delitti. Que'quasi che degradano
all'indefinito, sono indici dell'alterazione di fatto. La necessità che sia
corretta questa contraddizione che con trappone la fictio facti all'iniquitas
juris, indica la necesstà di un istituto che superi l'editto pretorio.
Nell'editto l'equità pre domina,ma particolare,intrusa sotto la finzione di
fatto con trapposta all'iniquità di diritto. Che è la finzione di fatto? È il
prodotto di un mutato criterio di diritto, è la protesta del fatto contro il
vecchio diritto, è l'impotenza del vecchio diritto a c o n tenere il nuovo
fatto e la nuova vita. Quindi, la necessità che il diritto si alzi a quel
criterio presupposto dalla finzione di fatto.Questo criterio liberato dalla
condizione di semplice pre supposto, questo criterio espresso e messo in grado
non di torcere il fatto, ma di contenerlo tutto, di contenerlo come è nella
storia e nel costume, costituisce il responso del Giurecon sulto. L'editto è
costretto a torcere il fatto; il responso univer saleggia il criterio inventivo
che simula e dissimula il fatto. E con questo l'iniquità di diritto cade non
per finzione, m a per natural ragione. Il responso corregge la correzione del
diritto, erchè il diritto dev'essere il supremo correttore della vita so ciale.
Per via di questa finzione di fatto il mondo non si sarebbe mai romanizzato,non
l'avrebbe intesa nè imitata; ma per via del responso il mondo non si sente
debellato, ma vinto vinto, perche issimilato. A questa universalità non si
può giungere se non per la via delle definizioni, natefatte per
universaleggiare, e per la via del metodo scientifico che mena alle definizioni
reali e razionali. E del metodo vien dato merito a Servio Sulpizio; delle
definizioni a Quinto Scevola. I quali due sono giuristi e letterati per asse
guire quel romano nihil tam proprim legis quam claritas:lode data da Cicerone
sopra ogni altro allo Scevola, perchè adjunxit eliam el literarum scientiam.
Con che si dice che la letteratura, la quale per altri è ornamento e pura
erudizione, pel giurecon sulto è scienza. E, giacchè questa scienza e come
metodo e come arte qui comincia, ho potuto affermare che il Giureconsulto
grandeggia tra le due leggi de civitate, cioè dalla cittadinanza italica sino
alla cittadinanza universale, dal 664 al 964 — tre secoli — dalla lex Julia
sino ai libri quaestionum, responsorum et definitionum di Emilio Papiniano. E
cosi sorge e cosi vien su e sale ampio il responso. Come Aulo Cascellio non
volle mai deviare il responso da'fini dell'editto ed adattarlo sopra įli ordini
emessi da’triumviri, affermando alto che la vittoria non giustificata non è
titolo di comando; cosi P a piniano volle piuttosto perdere la vita, che
giustificare il fratrici dio commesso dall'imperatore, e adattare ilresponso a
difesa del l'assassinio (1) Tale il tipo del giureconsulto. Entriamo a
considerare il responso prima nella forma e poi nella sostanza. Venendo il
giureconsulto con definizioni e metodo a liberare dalla condizione di
presupposto il criterio che regola le finzioni di fatto contro le iniquità di
diritto, egli universaleggia, innanzi tutto, l'equità, derivandola da una legge
universale, superiore (1) So che gli storici contemporanei contestano la verità
di questo fatto; m a ricordo che scrivevano sotto gli sguardi imperiali, e non
sanno addurre altra ragione veruna della morte di Papiniano per ordine di
Caracalla,se condo Dione Cassio ed Aurelio Victor. 104 alle
dodici tavole, superiore all'editto del pretore ed a tutti i s e coli della
letteratura e delle tradizioni giuridiche, e la chiama, con Cicerone, lex nata
ante saecula, comunis hominibus et Diis, quibus universus hic mundus quasi una
civitas existimanda. È, dunque, una regola di ragione, alla quale uomini e Dei
non possono sottrarsi e per la quale il mondo è come una città sola.Il concetto
pare stoico, m a risale i tempi sino alle tradizioni itali che,nelle quali è
detto:Idem est ralioni parere ac Deo.La ra gione comincia a prendere il luogo
del vecchio Fato che dalle spalle passa di fronte a Giove. E da codesta
universalità della regola razionale derivasi la definizione della
giurisprudenza: Notitia rerum divinarum atque humanarum, justi atque injusti
scientia, ars boni et aequi. E di qui le tre regole comuni,secondo le quali le
leggi hanno a farsi, ad interpretarsi, ad applicarsi: honeste vivere, neminem
laelere,suum unicuique tribuere. Quanto alla forma, il giureconsulto non fa
opera scolastica, non largheggia nelle definizioni: postane una in principio,
piut tosto genetica che nominale, tira giù rapido alle applicazioni più pratiche,
più vicine all'uso. - Movendosi rapido, usa termini tecnici ed evidenti, non
moltiplica definizioni. Questo fine pratico ed immediato gli sta sempre
innanzi,e fa il suo valore filosofico e letterario. Perciò, in mezzo alle
antitesi ed alle gonfiezze della decadenza, il giureconsulto rimane artefice di
stile e di lingua, epigrafico come ilgenio romano, e come abbiamo veduto
Galileo e la sua scuola scientifica sottrarre il genio italiano agli artificii
letterari del seicento. Quando il giureconsulto divaga dalla definizione
fondamen tale e dal rapido processo dialettico, per qualcuna di quelle logofobie
che sono imposte dal tempo, egli non cade nella reli gione, m a in qualche
superstizione raccolta dalle tradizioni ita liche piuttosto che da altra parte.
Paolo nelle senlenze stima p e r fetto il feto venuto fuori di sette mesi,
secondo la ragione de'n u meri di Pitagora, dimenticando che perfettissimo a
Pitagora era il nove, quadrato di tre. E, mentre il giureconsulto
ragionava con proprietà e rapidità matematica,cercando un contenuto quasi
matematico all'equità, pure secondo il costume latino sapeva cosi poco di
geometria da supporre la superficie del trian golo equilatero'eguale alla metà
del quadrato eretto sopra uno de'suoi lati. E ciò che appunto di più notevole
trovasi nella forma del giureconsulto, non è l'imperativo inflessibile delle dodici
tavole, nè il futuro personale dell'editto,ma l'espressione universale de
rivata dall'equo buono, inteso come equità civile piuttosto che penale,e più
umana che romana. E questa universalità sciolta dalle finzioni e
definizioni,rapida, evidente, immediatamente applicabile, sa epigrafico il
responso più che l'editto,più che le formole delle rogazioni tribunizie, e
quanto le dodici tavole che restano sempre tipo formale delle leggi
romane.Porciò l'epigrafe monumentale al Rubicone - già confine di R o m a fu,
sebbene oggi se ne contesti l'autenticità, detta una volta - ore digna
jurisconsulti. Rispetto alla sostanza, il responso è da considerare nell'ori
gine, nelle scuole e nella conchiusione. Il primo periodo del responso è un
semplice astiarre e ge neralizzare lo spirito degli editti pretorii,
ordinandoli e colle gandoli. Anche questa opera si giova del metodo scientifico
e della definizione, e però nasce con Aulo Ofilio che si assimila, JUSSU
MANDATUVE POPULI ROMANI Cos.IMP.TRIB.MILES TIRO COM MILITO ARMATE QUISQUIS ES
MANIPULARIE CENTURIO TURMARIE LEGIONARIE HIC SISTITO VEXILLUM SINITO ARMA
DEPONITO NEC CITRA HUNC AMNEM RUBI CONEM SIGNA DUCTUM EXERCITUM COMMEATUMVE
TRADUCITO SI QUIS HUJUSVE JUSSIONIS ERGA ADVERSUS. PRÆCEPTA JERIT FECERITQUE
ADJUDICATUS ESTO HOSTIS POPULI ROMANI AC SI CONTRA PATRIAM ARMA TULERIT
PENATESQUE SACRIS PENETRALIBUS ASPORTAVERIT. S. P. Q. R. ULTRA HOS FINES ARMA
AC SIGNA PROFERRE LICEAT NEMINI. Epigrafe legislativa, documento della
missione latina. per ordinare gli editti, l'opera di Servio Sulpizio e di
Quinto Scevola: nasce ai tempi di Cicerone, nella generazione istessa della Lex
Plautia de Civitate, con Aulo Ofilio Caesari familia rissimus, qui edictum
praetoris primus diligentur composuit), e si chiude con Salvio Giuliano, legum
et edicti perpetui subtilis simus conditor, il quale per disegno di Adriano
stabilisce nel vero senso l'editto perpetuo, al quale i magistrati conforme
ranno le loro disposizioni. Il responso assorbe il diritto onorario e lo supera.
Il secondo periodo determina il metodo nel processo d'astra zione,lascia
l'editto, e costituisce la scienza,creando due scuole nel vero senso della
parola, e cosi chiamate dagli antichi:la scuola deSabiniani,che ebbe duce
Attejo Capitone,ela scuola de'Pro culejani, derivata da Antistio Labeone. È
vano dissimulare la dif ferenza: c'è nella qualità dell'ingegno e del carattere
de'due m a e stri, nel contenuto de'responsi e nel conato posteriore di c o m
perre le lue dottrine e le due scuole. In Labeone è più evidente l'indirizzo
filosofico, in Capitone il metodo storico: non già che l'uno non tenga conto
della storia e l'altro della filosofia, e che l'uno e l'altro non abbiano
innanzi un fine immediatamente pratico: ma nell'uno prevalgono la de finizione
e il discorso, nell'altro la tradizione. Sesto Pomponio nel frammento, da noi
recato in nota,della sua storia del Diritto (De origine jurisetomnium
magistratuumetsuccessionepruden tium ) dice de'due: Antistius Labeo, ingenii
qualitate et fiducia doctrinae, qui et in caeteris sapientiae partibus operam
dederat, plurima innovare studuit: Atejus Capito in his quae et tradita erant,
perseverabat. Il terzo periodo raccoglie le due scuole non in un eclettismo di
Miscelliones, sognato da Cujacio, ma nella sintesi di Papi (1)Va inteso che le controversie
storiche saranno da me discusse, quando potro liberare la storia del diritto
dalla strettezza presente e confidarla a tutta l'espansione del pensiero. È
chiaro qui che la perpetuità in senso di universalità viene dal
giureconsulto,non dal pretore.niano che nel responso raccoglie con mirabile
armonia il dop pio indirizzo, e ispira nella legge ciò ch'è sacro nella ragione
e nella storia. Oltre quest'altezza il diritto romano non poteva salire.
L'impero aiuta l'ufficio del giureconsulto per queste ragioni: gl'imperatori
odiavano il vecchio diritto aristocratico che aveva armato la mano di Bruto e
di Cassio e non dimenticava privilegi impossibili innanzi
all'imperatore:astiavano il diritto onorario,di origine aristocratica, e
gareggiante con la potestà del principe nell'emissione dell'editto: e, scaduta
la tribuna, vedevano volen tieri all'eloquenza giuridica succedere
l'investigazione giuridica, all'oratore il giureconsulto. Potei,dunque,scrivere
che,come iltribuno impiccioliva innanzi al pretore, così il pretore innanzi al
giureconsulto. La promul gazione avvia all'editto, l'editto al responso. Il
principio della reciprocita conversazionale. lavoro o, come dicono, la
specifi cazione; nė deve, sino a quando è semplice uso, alterare la forma in
che si presenta la cosa. L'uso prepara la proprietà, il frutto la
determina.- Ciò torna a significare che il prodotto è del produttore, solo
proprietario dell'o pera sua.- In queste poche parole è tutta la
dimostrazione.- Ma non vediamo, si dice,assai volte che la proprietà è di
uno,ilfrutto di un altro? Vediamo anche peggio: vediaino la successione, la
donazione, la prodigalità, l'avarizia, l'usura; m a quello che fu ed è
la proprietà non è quello che può e deve rimanere. L'usufrutto si
presenta come risultamento d'illimitato dominio e nega nel mondo economico il
principio di causalità.Il prodotto essere del produttore vuol dire che il
frutto determina la proprietà. Il frutto la determina, il contratto l'esplica.
Anche l'animale è produttore, può sopra le cose avere uso e frutto, m a il
contratto è dell'uomo, perchè ei solo è onnimodo ed ha biso gno di tutti
imezzi.— Perciò Dante partecipa all'agricoltore la gen tilezza di Francesca,la
fierezza di Farinata,l'austerità di Catone, la salvazione di Manfredi, la
misura della giustizia nell'universo; l'agricoltore partecipa a Dante la misura
del frumento. Senza quella partecipazione superiore, l'agricoltore è animale;
senza la parteci pazione frumentaria Dante è cadavere o inetto. Dirà che sa di
sale ilpane altrui,ma lo mangerà,equel cibo glisitramuterà incanto. Questa è la
circolazione della vita.- In somma ilprodotto è del pro duttore; il contratto
lo fa sociale: il prodotto è individuale; il con tratto lo fa umano. L'umanità
è socialità, e questa è contrattualità. È il solo punto di vista da cui il
filosofo deve considerare il con tratto. L'umanità è socialità,perchè
l'assoluto monos non sarà mai l'uomo non salirà mai all'universalità della
ragione, m a rimarrà chiuso nel l'egoismo,che più trasmoda e più
imbestialisce.La ragione,essendo dialettica, non può attuarsi nell'io e nel tu,
m a nel noi. È dunque intrinsecamente sociale.La società dunque non è
convenzione, ma natura. Non si nega già che l'uomo sia passato dallo stato
troglo ditico al sociale; ci passo di certo, e al passaggio fu aiutato da ter
ribili esplosioni della natura esteriore:ma ilprimo e poi non toglie
naturalezza alle cose. Il volgo crede che le cose più naturali sono le
primitive e sino ad un punto a questo pregiudizio si accomoda l'istesso
linguaggio hegeliano:ma da un punto più sicuro si deve dire che le cose
asseguono la loro sincera natura nel fastigio non inprincipio.Dico che l'uomo è
naturalmente uomo,è tale secondo la natura sua,quando ragiona,non quando
vagisce;ma la ragione Abbiamo varietà di vocazione, di lavoro, di
produttori, di pro dotti, dunque di proprietà. Quindi proprietà agronomica,
industriale, artistica, letteraria: non di ciascuno,m a necessarie tutte a
ciascuno, perchè tuttefanno ilcumulo dei mezzi necessarii al fine umano. Come
dunque passano da produttore a produttore e fanno la comu nità della vita, la
totalità dell'uomo? - Mediante il contratto, che però è definito l'esplicatore
della proprietà. è il fastigio dell'individuo umano e della storia,
è la sui-aequatio, non il saluto di chi arriva.La naturalezza vera di una cosa
è dun que l'equazione della cosa con sè medesima,cioè del soggetto con la
propria essenza. Però l'uomo non è il troglodita, m a il cittadino e non
l'esclusivo cittadino ma l'io-civile,il noi. -La società dun que non è da
convenzione m a da natura: l'umanità è socialità. Ogni istante della vostra
esistenza civile implica un concorso di volontà,un consensus,in somma un
contratto espresso o tacito. Lo stare qui ad udirmi, il rientrare nelle vostre
case, il cibo, il riposo sono atti della vita che implicano un consenso,un
concorso di volontà, un esplicito o implicito contratto. E considerando che la
socialità è contrattualità hanno distinto il contratto in pubblico e privato, e
patto pubblico fondamentale hanno chiamato quello che då forma allo Stato.Forse
non sarà veramente pubblico questo patto fondamentale, m a hanno avuto bisogno
di crederlo e chiamarlo tale. Che cosa manca alla sincera pubblicità del patto
fondamentale? Manca la natura della società presente, la quale, non uscita
dallo individualismo, rende unilaterale e pero artifiziale la più parte dei
contratti che oggi si fanno.La soperchianza dell'individuo sulla col. lettività
si traduce nella soperchianza del più forte dei contraenti. Quando ilbisognoso
corre all'abbiente sa di subire tutte le condizioni imposte dal capitale, il
dieci, il trenta, il cento per cento, la tarda mercede e macra,i fastidii, il
oa e torna che è furto di tempo,ed altro.Nondimeno corre,torna,incalzato dal
carpe diem,avvenga pure che il di appresso debba essere sospeso all'albero
infelice.La prudenza gli dice che domani il capitalista lo spellera; il bisogno
lo persuade a risolvere l'oscurissimo problema dell'oggi.Il bisogno immediato
vince dove affatto precaria è la condizione della vita e il domani si porge
ignoto.Quindi quella forma di contratti che vogliono avere tutta la sembianza
di bilaterali, dialettici, umani, m a in sostanza sono unilaterali e
soverchiatori in maniera blanda e insi diosa. Questi contratti hanno un consenso
apparente, un dissenso In che consiste questa socialità?- In uno scambio
perenne, con tinuo di mezzi con libera necessità cioè in una volontaria permuta
zione continua.Questa volontaria permutazione è il contratto. Dunque l'umanità
è socialità; questa è contrattualità. Il corollario è questo: qual'è in un
tempo la forma della società tal'è del con tratto. Oggi la società è
malthusiana, nel senso detto sopra; m a l thusiano è il contratto.- Valgano i
fatti a dichiarare questa dottrina.
Nessun Codice scritto può far riparo a questi contratti simulati,
unilaterali, e di mala fede, a questi bugiardi consensi di uomini che
profondamente dissentono anche quando mostrano di consentire, a queste
soperchierie distillate dalle procedure e da quel summum ius che fu sempre
summa malitia.Infatti che riparo metterebbero i Codici?-Multe,carceri,sanzione
di nullità,questi sarebbero isommi ripari; e varrebbero ad addoppiare la
simulazione del contratti,o ad ammortire il capitale, a fermare la circolazione
economica cioè alla stasi sociale. Altri ripari occorrono, e di questa forma
unilaterale saranno i contratti sino a quando la forma sociale non sia mutata e
il lavoratore, mediante il lavoro associato, non entri nella possi bilità di
far la concorrenza al capitalista.Malthusiana è la società, tale dev'essere il
contratto; il capitale costituisce la plutocrazia, il contratto la
subisce;l'individualismo nummulario si oppone alla ve nuta
dell'uomo,ilcontratto dev'essere unilaterale,una contraddizione ne’ termini. Non
i Codici debbono integrare il contratto, ma la società dev'essere rimutata dal
fondo. Non co'Codici direttamente lo Stato presente può integrare il con
tratto:ogni suo intervento sarebbe malefico;ma dovrebbe,pare,per mettere al
lavoro di associarsi. Mostra di farlo, m a la sua natura nol consente: dall'una
parte permette le associazioni,dall'altra crea tanti intoppi di leggi e
balzelli e contatori e pesatori e pretesti di ordine pubblico che il lavoro
rimane estenuato e impotente di qualunque ris par mio. Par facile il dire:
risparmiate l'obolo; ma è difficile risparmiarlo dalla fame. Cosi il lavoro non
potendosi capita lizzare,non può creare la concorrenza al capitale.Quindi la
rivolu zione economica non è possibile senza la rivoluzione politica,e que sta,
alla sua volta, non asseguirà il suo fine, che è la libertà, se non compita la
rivoluzione economica che equilibra la proprietà. Il capitalista e l'operaio
sono nemici; il contratto tra loro non può essere che una simulazione; la sola
guerra è possibile. Lo Stato presente ad evitare la guerra permette
l'associazione e ne soffoca l'effetto; impotente alle riforme civili promettele
riforme penali, scherno a bastanza scoperto e deriso. Se manderanno via il
boia, diceva Langassieres, ho ancora il mio rasoio,ho la mano ben ferma, e la
volontà è lapadronanzadime. Ho ildisprezzodituttoquelloche mi circonda.Ho
capito il significato delle parole Dio, ordine, stato, reale, e per
questo appunto sono unilaterali, e sono nondimeno la massima parte dei
contratti odierni,perché questa è la forma della società,è malthusiana, pontefice
e re ilcapitale. e Codice: parole belle per chi se ne ha da servire. A te!- Or
che ti han fatto grazia della vita,tagliati tranquillamente le canne e di
mostra anco una volta che l'uomo è il solo animale che ha piena si gnoria di
sé. O suicida o rivoluzionario, questo è il solo dilemma che lo Stato presente
mette innanzi all'operaio. Il suicidio,per esteso che sia,non può assumere che
forma ec cezionale;e però la sola rivoluzione oggi si porge come norma. E sarà
politica e sociale insieme, perché sono momenti inseparabili. Pervenuto a
queste necessità, mi fermo un istante e odo le parole che mi si dicono
attorno:-Scrioi un corso di Scienza del Dritto o fai dellapolitica? Rispondo
che obbedisco alla necessità, la quale non può separare la scienza del Dritto
dalla Filosofia della storia, che additando il cammino, dice che i popoli
perverranno dove gli Stati non vogliono. Il tempo verrà testimone non lontano
delle mie conclusioni. Questa è la sola conseguenza possibile a cui poteva
condurmi la teorica della proprietà. Ora entriamo a ragionare dell'individuo
umano considerate come autonomo. Anatomici. Cripturus ego de Capite, composito hominis principali,cui merito reliqua corporis
membra universa obtemperant, & subduntur, friteor luf scientia mihi vela non elle, adlulcandum immenlumhoc pelagus doctrinarum,
quas de cognitione interiorum tot Authores copiofelparferunt, &
effuderunt. Nimium elevatus mons eft, ad quem pertingere pes debilitatus nequit:
nec volucrium in paluftribus locis immorandum alar volatum
aquilarum audacium & generofarum exuperare poliunt: luffecerit mihi fi procul Carlum hoc contemplates
fuero, li radices montis hujus circumire,
fi fragili fcapha maris hujus immenii rivos aliquos mihi findere licuerit:
ut ne videlicet in hoc volatu cum Je aro fubmergi,
in hac viiione cum Philippo excarcari &
de Ipeciolis hujus montis ruinis cum Polidamente opprimi mihi contingat. De olle nil referam,
licut &c pauca de ollibus in sequenti Anatomia tradaturus
fum, tanquam iis, qua: nec dodrinas
hieroglyphicas, nec lymbolicas, Emblemadcas,
Proverbiales, nec hiftorias, nec ritus,
obfervationes, confuetudines, nec alia admittunt
(II inde Anatomicas, & myfticas detraxeris)
de quibus non folum, fed & de univerhtate
partium humanarum ratiocinari conftitui. Difcurrant
prolibitu luo Audiores de olle cranii, &
commilluris ejus, cur compofido ejus & cralla
& rara fit: & ut totius fit corporis
quali caminus aliquis, de duplici tubulato
Cranii, ulum praefatarum commillurarum, Lambdoides, reda; fagittalis, &
coronalis exponant: discooperiant frontilpicium cum Occipite,
denudent Calvariam totam, ut vilui reprxfentent
quae Com- milliira: verte lint, qua: impropria :
cur ha in modum fquammarum lint : recenfeant
& explicent ufum primum, & fecundum:
numerent in ordine unumquodque olTium cranii,
delcribendo ad punctum ulque, figuram illorum,
& fubftantiam, &foflas, & foramina, & Imus;
examinent cujusque horum feparatim, & formas, &
litus, & ellentias, & difpolitiones ollium,
Occipitis <k Sincipitis, & temporum:
horiun dilparitatem, inaqualitatem, limilitudinem,
proportiones, & qualitates:
examinent porro horum eminentias &procel!us,
notent inter calvariam & maxillas diftantiam: ubi os Iphenoides litum fit,
& cum occipite connedatur, & pofthac prolixa ftrudura fua ollibus
temporum conjungatur, quod habitu
&: conliftentia sua totum inaqualeeft.
Dicant quod eorum quadam poros fuos habeant, a
Galeno Scarlattmi Hominis Synbolki
Hm. I. oblervatos, per quos propagines nervorum &
arteriarum ferantur; Del Cendant hinc ad os Ethmoides,
idque exponant perforatum,
non fecus ac cribrum,
ejusdemque rationem adducant; cur proinde ex parte una lit tanquam chrifta galli gallinacei,
ex altent rarum, laxatum, fungofum, fpongiofum,
in modum pumicis,
quod cavitatem liarium adimplet, undeattrahantur
odores, quod loco fuo memorabitur: Denique perfcrutentur
ii Cranium figuTam det cerebro aut cerebrum Cranio;
hasaliasqueqUxftiones, non mediocres,
has indagines, has facultates,
in quibus tam pratenti quam prxfentis Esculi celeberrima ingenia
deiudarunt, interim pretereo, tanquam partes inanimas privatas rationali anima,
& ad conlide- randa pretiola earum
contenta accingor. Fadurus niliilominus idiplum
cum omi brevitate pollibili, imitando viam &
methodum Andrex Laurentii Inclyti Viri, qui nomen
liiumper Illuftriores Mundi fcholas iniignivit,
qui ampliari , & dilatari Lauros suas in quadam prima Regiarum totius Univerlitatis fecit,
Francix nimirum, ubi inter lilia copiosius viridefcere edodus est,
& famam suam, dc xftimationem, & authoritatem adaugens ,
utpote qui eoufque clarus lit, brevis,
fuccofus, exadus, ut nulla fit nec minutiflima
partium, nullus ibi mufculus, fibra nulla,
quantumvis abditillima, & remotiflima,
quam non in lucem produxerit. Hic metam, normam,
& lumen lcriptioni mea: fugge Iturus erit. Hic
ergo cum tanto authore Os Cranii apertum intueor,
ubi dux le mihi membrana offerunt ab Arabibus
antiquitus pia: Matres appellata: qua: videlicet non lecus ac fideles genitrices tenerrimum cerebrum,
aliaque his contigua tanquam filios cum cautela
& fedulitate magna compleduntur & tuentur. De his refert Hippocrates,
eas temporis fuccellii converti in tunicas, earumque difcrepantiam, in tenuiori et craifiori elle materia:
continent ha: & fubtus & supra, cerebrum:
quarum exterior dura eft, cralla,
& cuticularis, correlpondens figura fua, &
magnitudine proportioni Ollis Calvaria::
dum cranium nec linum, nec cavitatem habet, qux
hac ipla non repleantur; Infuprema regione
dura: Meningis nomen habet, qua; durities
correfpondet pleura:, & peritoneo: in regionibus
vitalibus, & naturalibus, ex omni parte
Duplex eft, unde & Moderni unam earum
internam ftabiliunt, candidam, & humore aqueo
alperfam, qua; tunicam tenuem relpicit,
alteram externam Olli Calvaria: contiguam.
Verfatillimus Laurentius non nili unam solam agnofdt,
& ait, duram
hanc Meningem firmiter adhxrere bali Calvarix,
de superiori nihilominus parte Cranii
eatenus latam, quate-A nus dilatando, vel
conftringendo cerebro necelle est, colligatur
autem Cranio, mediantibus villis,
qui per commilluras creicendo, ipsum propemodum
pericranium conftituunt: conneclitiir membrana:
tenui mediantibus venis, quarum
opera cerebrum firmum redditur.
Hac membrana multis foraminibus per via
eft, per qua fe nervi, arteria & vena: tanquam
per infundibulum fuum in medullam dorlalem
effundunt: In lummitate capitis reduplicatur,& dextram
a fmiftra cerebri parte difcriminat nec tamen
ad bafin pertingit, fed ad cerebi
medium usque, ubi duplicatione liia falcem
mellorum reprefentat, unde &c a peritis Anatomicis
tali nomine appellari confuevit, In
pofteriori vero parte quadruplex eft,& illic
cerebrum a cerebello, non totum fed ex
parte diftinguit. Inter has plicaturas &
duplicitates quatuor (inus confpicui reperiuntur
qui tanquam abundantes rivi, & valoram majorum
vicarii undequaque per fubftantiam cerebri
lan- guinem diffundunt. Intrant in
hos iinus vente interna: jugulares: cumque
cerebrum amplidimum fit, nec trunci venarum
ad illud usque pertingere poflint, hos
Rivos natura fabricavi r, tanquam aquadudtus,
in quos vente copioflflimum fanguinemeffundant, ad nutrimentum cerebri,
dc generationem spirituum
animalium. Horum finuum primi duo laterales funt,
& eorum exitus primus grande foramen,
vicinum occipiti, format; per quod
jugulares vente ingrediuntur , qua: ad principium Sutura:
Lambdoidis terminantur, ubi utrteque uniuntur. Nafcitur de his frnus tertius,
qui per longitudinem commillura fagittalis
difcurrens, ad olfa narium conducitur: de
his vero vagando multa: venula: ex omni
parte per membranam tenuem dilperla
procedunt: extenditur fmus hic ad
extremitatem frontis,unde no immerito docet
Hippocrates, percullafronte,
caput univerlum inflammari. Quartus finus cteteris brevior
inter cerebrum, & cerebellum vadens, in extremitatibus convexis cerebri terminatur,
nates cerebri ab Anatomicis appellata:
harum ufus admirabilis eft, ficut & venarum ab eo linu,t
anquam a perenni fonte,divaricatio. In aliis
corporis partibus vena in tantum arteriis
vicina funt,ut le invicem tangant, &
vena arterias libi fociasfemper habent:
in cerebro autem, varia &
diilimilis hac diftributio est, dum orificia
venarum deorfum verfa funt, arteriarum vero
furfum fp edant. Irrigant laudabili fucco
cerebrum vena, arteria vero Ipiritum continent,qui
per levitatem luam facile afcendit:
Cum ergo vena orificia fua deorlum
Ipedantia habeant, primo illis afcendendum erat,
quod nec per cutem externam poterant,
nec per ofla, nec per medullam
interiorem cerebri, itaque id fit per
duplicaturam dura meningis. Multiplex ufus est
Membrana dura: primus eft cooperire cerebrum, dc
medullam Ipinalem, atque eandem contra injurias
quasvis tueri: fecundus eft, difterminare cerebrum
in latus dextrum, & finiftrum, in anticum d:
pollicum: Tertius ad recipiendum venas omnes,
qua calvariam nutriunt, fitque tanquam
caldarium cerebro, &c membrana tenui, qua
continet: de qua etiam partes fanguinem
fuum pro necessitate recipiunt. Detrada
nihilominus & rupta membrana crafla, confpicuam fe &
vilibilem reddit Pia mater, propter tenuitatem &
mollitiem luam fic nominata:
qua talem feu compofitionem habet,
ut in omnem cerebri linum fe iniinuare facile polTit,
ita ut per gravitatem fuam onerofa
cerebro non ht,iimul ut per totum
corpus illius portare vafa poflit, ideo
& Secundina nomenclaturam adepta eft.
Hac proprium velum, &c operimentum eft cerebri,
quippe qua non folum fuperficiem externam
operit, led ultra tendit, inque occulta penetralia 8c recellus ingreditur: extendit
fe, dc prolongat in ventriculos usque, nona parte luperiori, ut vulgus opinatur,
led inferiori: in his partibus afcendit, ubi velut catinum quoddam eft,
per quam portantur arteria quadam exigua de iis venis qua carotides,
& cervicales nominantur per latera fphenoidis.
Admirabilis hic providentia natura eft
in harum membranarum fitu,iicut cnimCreator,focum
tenuif- limum, leviflimum & ratiflimum feparavit a
terra, craila,denfa, gravillima, & opaca, idqueper aeris Ipatia,
& aquarum divortium: ita &c Natura imitatrix &
amula divinorum operum, duriflimam calvariam a mollilHmo cerebro per interpolitionem gemina membrana diftinxit:
quam triftis, quam injucunda hiturafuilletvita noftra, fi tenera d: durafe invicem lemperline medio ollo colliderent, &
concuterent? Hac porro meninge pia
remota. Cerebrum iplum prodit. Hoc illud
eft, quod jundum cordi ellentiam homini
miniftrat, de quo videhcet formatur ratio, in-telligentia
& ratiocinatio, unde formantur nutrimenta &
ipirituum univerlorum generatio: animalium prafertim: a quo,
& per quod formatum caput eft,
contentum continente luo multo nobilius, quamvis
& hoc quaquaverlum Ipedabile fit, cum
caput in omni natione terrarum tanquam
lacrum aliquid fem- per lit in
veneratione fua habitum,&obfervatum, per quod
y£gyptii Sacerdotes jurabant : quodlecum radios
majeftatis portat, in quo etiam Iplendores
divi- ni perlucent, tanquam opus, de
lublime artificium altimmi Del Hac
pars excelfior cateris, de vicinior ccelo
eft: hac fidilhma petra fenfiium eft : altiffimum
mentis culmen: hac Regimen de gubernaculum
totius ob- tinet :
cerebrum non tantum fedes eft lenluum de motuum: fed
Artifex vaftiflimam molem membrorum dirigens, licut
de pratumida corpora nervorum, id que per flbras,
non fecus ac per mulculos, ad eorum, qui
conftrudionem iftam diligentius, defolertius
perveftigaverint,ftuporem de miraculum: Hoc
domicilium fapientia eft, de memoria, de
ju- dicii: audacis natura prodigium. Hoc in
formam orbicularem compohtum eft, tum
ut capacitas ei major ellet, tum ut
fecurius adverlitad omni, quacunq-, eventura fit,obliftere
valeat, nec quovis modo ab eadem oflenfionem
ullam patiatur. Accedat ad hac, quod
huic parti propemodum divina, figura quoque omnium
perfedtillima, nonpromilcua conveniebat: cujus
praterea magnitudo, quod vis animalium caterorum cerebrum
facile vincit: ita quidem ut hominis unius
cerebrum duorum boum cerebro aquivaleat, de
mole, de quantitate. Hoc ita per ingeniofam
natura providentiam dilpofitum fuit ad
varietatem fundtionum animalium exercendam, imo
perfedtio- nandam. Sentiunt quidem de
bruta, fed eorum len- ius totus in
gratiam eft appetitus animalis : qua etiam
naturali quadam intelligentia condudla , a noxiis
ab- horrefeunt, de per inlitam inclinationem
ad libi profutura feruntur Subftantia
cerebri mollis eft, candida, de medullaris, de
purillima leminis de Ipirituum portione
fabricata, ita libimetiph propria, ut in
compolito alio nunquam eadem ipfa inveniatur :
nec enim medulla qua in cateris ollium
cavernis eft , 'huic par eft, illa enim non
colliquatur, nec vero inedia, aut febrili calore
diminuitur: continetur autem calvaria fua, ut
cranium nutriat: cranium nutritur, ut continere
medullam hanc poflit. Ait Galenus fluidam
efle me- dullam oflium, fimilemque pinguedini,
nec tunica coopertam, nec interfecatam arteriis, aut venis,
nec participationem ullam habere cum mufculis, aut
nervis, prout facit medulla cerebri, qua glutinofa
magis quam pinguis eft: quam Hippocrates
idcirco partem glandulofam appellavit, cum iit candida,
& friabilis. Hac capiti has commoditates
lubminiftrat. Sedet in fimilitudinem ventofa,
atque ideo inferiorum partium refpirationes omnes abiorbet,
quarum exhalationibus li calvaria ofcitationefua,
ut ita dixerim, meatum non daret, &
niii tantisper hiatu Quare fubfe quod;un
aperiret, nimio fe calore cerebrum
reple-ftantia cere- ret. Subftantiacerebri mollis
eft, tum ut tanto facibri mollis lius
imaginationes rerum vifarum fe imprimant, tum
fit. ut nervi tanto tractabiliores iint,tum
denique ut ponderosa duritie fua non gravet.
Candida eft, quia {permatica: idque ratione
finis, ut videlicet animales fpirituslimpidiflimifint,
&: non obfcuri, veltenebrofl: quales
melancholicorum funt. De hac etiam
medullari fubftantia, temperamen- tum frigidum &
humidum colligitur: his qualitati- bus excedit,
ne forte cogitationum continuatione fuccendatur,
cum fit pars hominis liifce fundionibus
deftinata j tum vero
etiam quod fpiritus animales facillime diflipari
& evanefeere pollent. In cerebro calido,
motus furibundi eflent,&: temerarii, &
delirantes ienfationes, ficut phreneticorum funt. Jungantur
his fomnia inquieta, qua: li modum
fuum teneant, facultatibus animalibus quietem
indulgent: & qiue-fi calidum cerebrum ellet,
de limpiditate fua defcifcerent, cum Ut
proprium caloris, fuble vare & perturbare
rerum comequentia. Cerebro re- Cognovit
Peripateticus officium principale in ceffigeratur
rebro,nempe ut inde cor refrigeretur: Galenus
nihil- cor. ominus ad hunc folum
uliim confti tutum elle intelligi 8.
de u fu par- nonvult, quin potius ut
facultatibus fenfuum &ho- tium. rum
principiorum exitum pradoeat: tum ut generationi
Spirituum animalium inferviat. Motus ce-
Habet motum fuum non animalem , autvolunta-
rebri. rium , nec violentum, fed naturalem, &
hic proprius & peculiaris eft generationi
Ipirituum animalium, temperamento, & purgamento
aliarum praeterea rerum,non fecus ac
arteriarum. A femetipfo fe dila- tat &
contrahit: in diaftole fua cum admirabili
plica- tura fpiritum & aerem narium trahit:
in fyftole, interiores finus contrahit, & profundit fpiritum animalemin ventriculos fuperiores,in
tertium, & quartum, ficut & fenfum
in organa.
Sentit cerebrum, cum fit fenfuum author,
iplum tamen fine lenfli eft, cdm communis fensus fedes fit,
omnium enim horum Ju- dex eft: ficut
ergo nec audit,nec videt,
fic nec tadum ad fenfibilia fentienda poflidet. Strudura Quemadmodum praecipuum membrum hoc dicerebri.
verfarum facultatum matricium fenfificarum faber
eft, ita & mirabiliter cum di verfarum
partium ftru- 8.C.9. de ufu (ftura
fabricatum eft. Preefatas partes copiofiflime
Anatom defcripferuntjprimum Galenus, tum &
Velalius exana om. 7. obfervator : didas
partes cum claritate limpidiflima exponit
audior meus: qua: lingula a me (qui
brevitati, quantu poflibile eft, confulo) an
exade reprefentan polfint, nescio. Dicam
inprimisomnem eam partem , qua a nobis calvaria
nominatur , cere- brum appellari folitum efle :
duo ejus extrema funt, anterius nimirum, &
pofterius: quorum illud primum retinet totius nomenclaturam,
pars pofterior cerebellum appellatur: ha autem partes
invicem di- viduntur de medulla quadam crafla,
per duplicatu- ram quandam, non ex omni
parte tamen, fed ex fupe- ScarUttini
Hominis Symboliii Tom. I demotu mufe.
libello de glandtdii. riori folum,
namqj in media & inferiori unum alteri
vicinum & contiguum eft. Rurfum anterius
cerebrum mediante proprio diaphragmate in dextram
& liniftram partem deferibitur, intercedit autem
portio quadam dura meningis, qua a figura
fua,prout memoratum eft, falx nominatur : idque
ob faciliorem motum, & levitatem, & nutritionem
medulla interioris.Hujus fuperficies exterior fubcinericia
potius,quam candida apparet, multos habens
anfradus 6c circumvolutiones, quarum non pauca
fubftantia ipfam cerebri introgrediuntur &pe-
netrant,unde & fubftantia talis varicofa
nominata eft. Ridendi funt, qui
cumEraliftrato hos linus formatos idcirco
credunt, ut per eos intelligenda formetur,
quia tali modo 8c ipfi afini (ait
Laurentius) intelligerent utique. V ult hic cum
Galeno, tali ratione cum tot meandris , &
intorfionibus cerebrum formatum elle, ut habere
nutrimentum fuum, & fuftinere tot varia
ad fe fpedantia poflit : cum enim illic
moles ejus vaftiflimafit, qu'i heri poteft, ut
vena & arteria , qua per fuperficiem lolam
difcurrunt,fufticientes fint , ad nativum calorem
illi fubminiftrandum ? Quidam arbitrantur hos
gyros fabricatos efle , propter le vitantem,
ut nimirum tanto promptius moveri poflit :
alii rurfum ut medulla ejus tanto
tortior & robuftior fit, ita ut molle
humidumque, ab hac & illa parte difeurrerec:
dixerunt nonnulli idcirco fadum,ut fpiritus
& fanguis levamentum fuum habere, 8c
recreari pofllnt, ne videlicet didam
cerebrum in diaftole fiia, tempore plenilunii
exceflivo calore fuftbcetur. Concludunt alii
propterea factum, ne continuo motu fuo vafa
disrumpantur aut relaxentur. Qui, prout
debet,extemam hanc fuperficiem con- templatus fuerit,
fiquidem duobus tribusve digitis hecc
medulla cerebri in profundum fecata fuerit,con-
tinuopars altera candida, & durior, cum
venulis qui- busdam, &: arteriis parvis,
qua: aciem oculorum prope fubterfugiunt, apparent:
connexam habet membranam quandam tenuem, qua:
corpus callofum appellatur, hujus interventu ea:
partes, quee prius difere- tee fuerant, in
dextra, & finiftra continuantur. Eft
corpus callofum hocinipfopropemodum cerebri medio
(hocque inter fupremum &c imum intel-
ligendumeft) apparet autem duobus ventriculis
cavatum, dextr o, inquam, & finiftro. Hi
primi finus cerebri funt, qui a Galeno
anteriores nominantur j melius a nobis fiiperiores
dicantur, figura ampliilimi, fi- cut & litu , &
magnitudine & ufu, reliquis omnino fimiles,
portant figuram lemicirculi, aut falcis,
aut Lu- nee falcata: : in medio cerebri
lituantur , eodem enim intervallo a ffonte,quanto
ab occipitio diftant, tanto a bafe, quanto a
fummitate: propter quod non rede anteriores dicuntur:
fed potius primi vel fiiperiores dicendi
funt. Magnitudinem ^qui valentem habent,
cum fecundum proportionem aliarum partium
am- phslimi 1 int : nam tales efle oportet,
ut fpiritum cras- liorem continere valeant.
Duo funt, ut impedito altero, hce fundiones
intercepta: non lint,alterque alterius vicem
fiippleat. Multiplex horum vaforum, vel
ventriculorum ufus eft: inprimis ad
preeparationem Ipirituum animaliuin, unde 8c
inchoatio fpiritus appellantur: deinceps ad
infpirationem & relpirationem cerebri: tertio
ad recipiendum, 8c attrahendum odorem. Sunt
illic qual 1 labyrinthi quidam exigui, qui
per particulam unam membranee tenuis , quee
afeendit, difeurrunt: in quorum medio fpiritus
animalis coquitur, attenuatur, & preeparatur: duo
illic procefliis , vel tubercula protenduntur
fimillima papillis mamillarum, parti inferiori
horum A 2 finuum Inii teli».
limium, aut vero oflibus nari um propinqua,
in modum cribri perforata, cooperta membrai
ia tenui, qux tamen inter nervos non
numerantur, cum de cranio non cadant.
Per hic ad cerebrum aer portatur, &
ad idipfiimfpecies odorum conducuntur: unde
8c organa odoratus nominantur: id quod
Hippocrates di- xit : Olfacit cerebrum h umidum
exiftens aridorum odorem, u?ia cum aei e
per corpufcula ipfum trahens. Diftinguit hos
fuperiores ventriculos, certa qui- dam cerebri
particula, quileptum lucidum, aut petra
(pecularis nominatur. Sub hoc illud eft,
quod Arandus a figura vermiculari, & bombicina
nominavit. Tertio loco
(e corpus calloium offert, compofitum per
modum cameror vel fornicis, idcirco &
camerale didtum, quali tribus quibusdam
columnis fiiftenta- tum &c eredhim :
reprarfentat autem compofitione fua figuram
triangularem, conftantem lateribus inaequa- libus, a
parte poft eriori quali duplici arcu,
ab anteriori uno (olo. Ulus corporis hujus,
idem qui in fabricis fornicum vel archi
trabium eft, quod &teftudo nominatur,
qui licut alter Atlas ampliliimam mo- lem
cerebri totius luftentat , ne ventriculum tertium
comprimat. Apparet lub camerato hoc, finus
tertius, qui aliud non eft, quam cavitas communis
( &c concurliis duo,
qui le in cavitate pridida explicant) qui cum
humillima fedefiia quodammodo cedit. Hiclinus
a Galeno ventriculus medius appellatur, vel
quod intra duos fuperiores, & quartum
inferiorem litus eft, vel quod quali centrum
cerebri occupet , dum tantundcm diftat ab
occipite, quantum ab olle frontis. In eo
obfervantur meatus vel canales duo,
quorum unus ad balem cerebri delcendit,
alter in quartum linum dirigitur: unus eorum
&c ftatu, & politione humiliori ultra tendit,
in cujus extremitate oftium quoddam parvum eft
membrani tenuis, primum quidem dilatatum, &:
apertum, pofthic anguftius in fimilitudinem
infundibuli, unde &: nomen illius, licut
& catini mutuatur; perhoc tanquam per manicam Hippocratis,
percolatur pituita cerebri. Sub hoc catino
extenditur glandula pituitaria di- <fta , qui
tanquam lpongia, aut caro vaporo! a, & bibula,
attrahit, imbibit excrementa (uperffua cerebri,
Sc ea lenlim per cunei foramen diftillat. Apparent
hic a lateribus plexus duo, qui a Galeno
rete nominantur: T res hi particuli, nempe
Infimdibulum, glans pituitaria, & rete
monftran non poliunt, nili detradfa,
nudata, Sc levata medulla cerebri uni
veri a. Meatus alter aut canalis
ventriculi tertii, amplior primo ad quartum
linum dirigitur, de hocq; ad illum
via eft, in qua particuli quidam exigui
le offerunt, & primum quidem gl andul a
turbinati figun, non dill imilisnuci pineali;
dicunt eam pro fundamento, & firmamento venis dle, &
arteriis in cerebro fparlis, licut & aliis
glandulis puris, ut libera via pateat omni
ani- mali Ipiritui, ad tertium & quartum
ventriculum. A tergo canarii corpulcula
quidam rotunda funt, & duriora, qui quali
nates formant, fub quibus tu- bercula
quidam apparent,per modum teftiiun: quorum ulus eft,
ut canalem forment, qui de tertio ad
quartum ventriculum defeendat, &
(ut dici folet) (alvum condudtiim Ipiritui
animali pribeat. Denique (mus quartus occurrit,
communis cerebello, & medulli ipinali: minimus
omnium parvitate fua, led folidior citeris; Hic a
principio luo dilatatus, fenfimreftringitur, donec
in acumen terminetur, in modum pennilcriptorii,
unde &c hoc nomine a verfatiflimis Anatomicis
appellatur, inter quos Hierophylus
eft. Errant autem qui opinantur, membranam
elle tenuem & plenam rugis : necellanum autem
erat hunc in dilatatione cerebri
diftendi,& in ejusdem contractione
complicari. Brevis & fuccida eft hic
deferiptio cerebri anterioris, <k partium
ejus. Succedit huic cerebrum pofterius,
appellatum Cerebellum, quod a natura ad beneficium,
& levamentum prioris formatum videtur: idque
ut fpiritus animalis de finubus cerebri
tranlinillus, hujus opeconlervetur, aptetur , & ad
medullam fpinalem ablegetur. Figura ftu largius
eft, quam longum fit aut pro- fundum,
exprimens formam fphiri, vel globi com-
prelli, 8c dilatati : quod iplum quoque
membrana tenui & dura opertum eft, non ex
omni parte nihil- ominus: ab inferiori
parte enim viciniori cerebro contiguum eft ,
& color ejusftibcinericius, fubftantii
craflioris & durioris anfraCtiis ejus exteriores
lunt, 8c ad ulteriorem
ufque medullam pertingunt:
decuplo minus eft cerebro. In illa parte calvarii litum eft, qui duabus foflis occipitis circumi
cribitur: totum ex quatuor partibus formatur, quarum dui laterales funt,
& quali binos globos libi invicem oppolitos conftituunt;
dui reliqui in medio confiftunt, & quali procellus
quidam lunt, qui vermium figuram relerunt,
undeSc processus vermiformes vocantur: quarum
unus anterior, meatum apertum tenet de
tertio ad quartum linum: alter ad
partem poileriorem medulli Ipinali incumbit, &
ad quartum linum refledtitur,
qucn> apertum ad motus necessarios tenet.
Interim de substantia unius alteriufque cerebri tanquam
de radicibus luis propriis egredinir ramus,
lpmahs, inquam, medulla, a quibuldam cerebrum
longum appellata. Spiritus Sanctus in
Eccleliafte, cum eleganti, quamvis oblcura
allegoria hanc medullam funem argenteum nominat ,
lic & receptaculum ejus fiftula lacra
dicitur: appendix autem & vicaria cerebri
reputatur: nec enim hujus dignitas &
officium inferiora funt dignitati cerebri,
lic nimirum hujus & illius natura fe
providam confervatricem pribet: & quemadmodum
cerebrum ollibus calvarii munitum, &
circumvallatum, duabufq; tunicis opertumeft. lic
altera, circumdata eft & munita vertebris
luis, tanquam lepimento
fuo, tecta etiam dura & c tenui meninge,
diuturnam opprelflonem non
fhflert. Sed veteres opinati funt integra
defludtione quadam, aut vero etiam luxatione
lola vertebrarum liibitaneam evenire polle
mortem. Necellaria fuit creatio hujus:
line concurfii etenim ejus per univerfum corpus derivari nervi non poterant:
priierrim qui lexti conjugationis eft,
tam minutus, ut ad plantas ulque prolongari non potuillet:nec vero etiam prididti nervi vaftillimam membrorum molem commovere.
Idcirco altiilimus Deus medullam creavit, cui fecunditatem
generandi nervos contribuit. Nafcitur hic de utroque cerebro, non de inferiore aut cerebello lolo (prout minus experti judicant) cum mediante illo,
tanquam de communi officina
& aquidudtu fpiritus animales diffundere le in nervos debeant,
tanquam in rivos, atque inde in totum corpus
defeendere: qui fpiritus perfectionem fuam in
limibus cerebri nacifcuntur. Conveniens itaque
erat locare 8c ftabilire principium illius
prope illorum Ipi- rituum officinam : qui
etiam in tertio & quarto ventriculo continentur:
&: hi punllimi lunt, omnimodo ab
omni impuritate delicati, 6c
mundi. Spinalis
medulla ergo de quatuor quali magnis
formatur radicibus, quarum dui majores de
una alteraque cerebri parte nalcuntur:
alteri dui minores de cerebello. De
his quatuor limul jundtis medulli (pinalis
corpus compingitur. De hoc autem deinceps
quali infiniti quidam iurculi oriuntur, &in
plures ramos fru&ificant, qui in partes
corporis uni- verfas propagantur: de qui a
veteribus Anatomicis olim in varias
conjugationes diftindd fuerunt. De Modernis
noitris lic medulla hxc dividitur :
pars ejus, inquiunt, calvaris includitur, &
illic obfe- ratur, altera foris eft. De
illa qus ab intro eft, le- ptem
nervorum paria nafcuntur : hinc proceilus ma-
millares lunt, & principalia odoratus organa.
Altera medulla: pars, inunita de circumvallata vertebris,
motum lyftolcs, autdiaftoles non habet , ut
nimirum fiibftanda fe cerebri includeret
olfibus, qus motum habent : unde hic apparebit,
qualiter nervi per brachia , per femora ,
perque alias principales partes , &
inferiores divaricentur. Hic caudex, aut
ramus cerebri coopertus membrana tenui , aliquantum
diftat a dura: per teneram autem venuls qusdam
diicurrunt , de arteris minuta:, diveriimode
implicats, qus medullam nutriunt, de per
eandem vitales fpiricus diffundunt.
Egreditur medulla hsc per foramen amplum ,
de rotundum e calvaria: primum amplillima , de
cral- fiiTima, qus paulatiin attenuatur, dum de substantia
ejus deperit aliquid, nil tamen de corporea
mole, quam ubique eandem retinet : pertingens
denique ad dorli finem in varios
ramos coni umitur, qui omnino caudam equi
figurant: atque hic terminum tuum confequitur.
Quaii- infinitus nervorum numerus eft,
qui ab eadem derivantur: hi vero, dum
illi, qui quali infiniti lunt, egrediuntur,
le uniendo tanquam corpus unum formant;
volueruntque Anatomici tot nervorum elle
paria, quot lunt vertebrarum foramina.
Omnis interim nervus a principio ortus lui
multas habet fibras conflatas, dc produdtas
de lubftantia medullari, de membrana tenui: dc
hs fibrs defeendendo paulatiin de medulla
leparantur, dc dum foraminibus vertebrarum appropiant,
cralla quadam membrana, tanquam tunica
mduuntur,dc in unum le reducendo nervum
conftituunt, qui dum per foramen fuum
egrefliiseft, in iisdem foribus rurfiim
divellitur. Interim quanto longius
1'pinalis medulla defeen- dit, tanto altius
nervorum fibrs nalcuntur, dc longinqua habent
principia: licut nervi dorfales, delumbares, fi
attentius obiervati fiierint , de cervicali medulla
delcendunt.
Ab initio lumborum ufique ad extremum Ollis Sacri multi funiculi cralliores
inveni- untur, qui tamen invicem uniuntur,
ea ratione, qua pori vertebrarum,
ut dum in anteriora, dc pofteriora {pinalis
medulla incurvatur, non nimium violenter agitata,
aut premeretur, aut rumperetur, necellarium
itaque erat eam in inftrumenta capillaria
terminari. De his autem haefenus rationatumlit :
quandoquidem definire fingula cum circumftantiis
dc conditio- nibus fuis , idem eilet, ac
munerare velle arenas maris , dc ftellas
firmamenti. Cum autem calamus mihi
fit in prsdi&is dc brevis, dc
imperfectus ( prsfertim quod hsc profeilionismes
nonllnt, qua mihi cura animarum non
cor- porum incumbit ) multo potius talem illum
elle conconfiteor, in difeutiendis qusftionibus
illis arduis Galeniftarum , contra Peripateticos, Hippocratis
, Avicenns, Ralis, dc intra modernos
Velalii : videli- cet an cerebrum principium lit
facultatum : quomodo facultas fenfitiva duplex fit, interna,
dc externa: qua ratione fiant imaginatio ,
dc intelligentia: de quali temperie cerebri,
fedes memoris fiat: de loco majori,
dc litu principali anims rationalis : cum
Hie- rophylus eam in vale cerebri collocet
, Xenocratres in vertice capitis, Eraliftratus in
membranis cerebri, Empedocles, Epicurei, dc Aigyptii
in thorace pedfoScarlattim Homini Sjmbohci Eom.
I. ris, Morchius in univerfo
corpore, Heraclitus in agi- tatione extrinleca ,
Herodotus inauditu , Blemor Arabicus , dc Sinenfis
Medicus Cyprius in oculis, Strato
Phylicus in fuperciliis , Peripatetici dc Stoici
facultatem hanc omnem in corde collocent.
Con- cludam ego cum Vetulo famofo Coi: Cerebro ,
ait, intclhgimns , deliramu, in f animus , cum
aut calidius fuerit , aut fjcc.us , aut frigidius, idipfinn
dc Galenus ientit. Hifce auream Philonis
lentendam adjungo, Je f fi qui ait:
ubicunque fate/litium regium eft , & Rex a
fe£Hs. jute ihtio (liparas fidem habet •
fed totum anima fiatellitium , finf/mm quippe
organa in capite fit a funt, bi ergo
fedes an ima praepua. Nec vero
etiam mentis oculum ulque adeo p er- ipi
cacem elle reor, ut adimam omnes
ledes, dc relidendas facultatum dignolcere valeat:
id folum referam quod Galenus Ientit , qui
arbitratur, earum Ut Placitis, omnium originem
in cerebro elle, non in csteris organis,
prout facultas motus eft, dc (enfiis.
Arabum univerla Schola harum diverfas
manfiones partita eft in cerebro , dc
cuique facultatum fuam propriam fe- dem dejlinavit:
idipfiim etiam Avicenna dc Averroes
voluerunt. Ha: opiniones validioribus argumentis
ftabiliri pollent: fed iis ea remitto,
qui hxc tufius aut tractare,
aut indagare ftudendo latagunt. Porro nec
modica nec brevis quxftio eft, fi
nimirum facul- Fen-1 tates praecipua: a temperie
cerebri dependeant, aut de conformatione ejus:
hoceft,utrutn actiones fimiticfi ltfi de
lares lint , aut organica-. Obfcurillima quaftio,
in memoria. qua fe plura etiam
illuminata ingenia intricarunt. Ad hanc
nihilominus obfcuritatem magnam attulit elu-
cidadonem Plato, tum cum nos monet : Non
retlc inTheeteto: f habet anima, in denfo , aut
lutulento , molh nimis , aut duro cerebro :
molle enim celeres quidem ad perci- piendum
efficit , fed eosdem oblivio fos-^ durum dau
me- mores, fed ineptos ad percipiendum efficit :
denfium fi- mulacraobficur a continet. Et
Galenus: Melius foret 8 • Ue ufh par-
exifiimare Imellettum fiequi non
varietatem compof- “Hm tioni , fed corporis , quod
cogitat , laudabilem tempe- riem j neque enim
perfeEHo intellcchts quantitati (pi- r it
ustam artribuendaeft, quam qualitati. Unde ad
fuperiora qux aprxfads allata funt , concludit
Lau- 7fi- rentius. Ex hi* fiatis
parere arbitrantur quid.am fiacultates Anima
non a conformatione , fed k temperie cerebri
exerceri. De ufii cerebri Ariftoteles
fentit, idipfiim folhm ad refrigerandum cor
formatum elle, itaque compo- fitionem ejus
humidam elle dc frigidam: quam len- tendam
Galenus refutat. Cum cerebrum, inquit, Ue
h[h paraffu, quovis ambiente aere, etiam
aftivo calidum fi;} u“m- quomodo
refrigerabit cor ? an non ab aeri*
infpiratu hauritur? temperabitur potu ?f dicam
Peripatetici non fufficere aerem externum
refrigerando cordi , fed requiri aliquod vifcu*
internum : hoc eis obtrudam, cerebrum longi
(fimo intervallo a corde diffitum efie, CE
ofiibus calvaria undique obvallatum : debuiffet, msher-
cule, aut in thorace locari cerebrum , aut
faltem inter - jeEia, cervice oblongiore
non diftingui. Hxc Quxftio non de
limplici penna: tradbu eft, dum per has
undas experriffima edam navigia naufragarunt:
cumque fe in portum evadere polle
delperarent, prout non ra- ro accidit iis,
qui margaritas pileantur, cellare ab indagando
coacfti fiint: unde dc ego, dum tales
video illuc non potuille piertingere , iter
tam laboriolum, de prxdicftasfyrtes evito: videlicet
qualis fit fpintuum natura, modus , dc locus
generationis: erronea de hoc opinio Argenterii ,
admirabiliter a ailigcn- tilTimo Authore meo
confutata : utrum prarte- rea fe cerebrum moveat
violenter, dc vigore connaturali, aut vero per
motum arteriarum : A 3 ardua, longa, &
difficilis omnino quxftio , fi ulla alia,
an nimirum (entiat cerebrum , & quomodo: in
quo loco rurfiim diverlx fimt Galeni,
Hippocratis, tk Peripatetici lentenda'. Prxtereo hatce
do&rinas, tum quod obfcura fiint & difficiles,
tum quod non tam ad Anatomicum ha
fpedent, quantum illa qua fuperius jam
relata, & adhuc referenda fiint, podus ad
philosophiam naturalem pertinent. Quapropter
in ulrimo loco fe mihi offert
dequalitadbus licut & de cerebri temperamenco
ratiocinatio: ubi denuo nonpauca’ fimt a multis
partibus introdudfre opiniones, quas egotame
qua polium brevitate perftringam.Conlentiuntinterimhic
& Peripatetici, & Medici, cerebrum in
qualitatibus luis activis frigidum elle, in
pafiivis humidum: dillentiunt nihilo- Departibiu
minus Medici ab eo, quod Peripateticus retulit,
dum Animal. c. 7. cerebrum frigidum idcirco
ftatuit, ut refrigerando J. cordi
ferviret:Medici non minus calidum volunudum
illud Galenus quovis atitivo acre
calidius elle docuit. Sunt nonnulli, qui
Galenum, & Ariftotelem conciliant, duplex temperamentum
cerebri admittendo, infitum imum, alterum
influens. Frigidilfima eft compolitio medullaris
fubftantia: illius, led de influente lubftantia
calefitjdum circumdatum & perfufum eft a
Ipiritibus multis, multisquc Arteriolis interceptum.
Si innatam temperiem ejus intuemur eadem
eft, qua: fpinalis medulla? dum filbftantiam
cum eadem communem habet: li ad temperiem
influentem refledimusjunum altero calidius
dicitur,idque ob arteria- rum copiam,qua: fe
vaporofis filis & fumidis exhalationibus lublevant.
Quidam fiiftinent cerebrum ablolute, (impliciter
calidum elle , led iola comparatione frigidum :
<$c C. y.lib.ix. Galenus: Cerebrum quamvis
calidum, frigi dijfimo de Tetnper. corde e/l frigidius:
propter quod Hippocrates fedem fertincntibtu.
j]jucj frigoris appellat : hanc tamen Laurentius
non approbat, dicendo: liquidem illud frigidius
eft cute, qua: videlicet extremitatum
medietatem tenet, potius frigidum quam
calidum elle debebit: illud vero cute i'Je
tempera frigidius elle Galenus docet.
Contra quidam argument.c.y. mentantur, qui
dicunt, nudato cerebro , continuo ab aere
refrigerari, quod ab ambiente non evenit.
Rc- fpondetur alterari cerebrum , dum aeris
alluetum non eft, prout cutis: fic
Sedentes, non allueti aeris conti- nuo ab ipfo
lividi fiunt, ipfinn etiam cerebrum calidius
cute, dum calvaria cooperitur, de arteria
etiam & membrana multos plexus habet.
Concluditur ex his: Cerebrum de temperie
1'ua innata frigidius elle, & de temperie
influente, calidius : atque ejusmodi illud elle
oportuit, ne portio dedicata continuis
medirationibus accenderetur, ne evanefcerent fpiritus
animales, qui tenuifrimi funt , ne motus temerarii
essent, & fentationes delira;, quales
phreneticorum funt. Adverfarii hic novis
argumentis inlurgunt, dum ajunt: fi temperamenti
frigidi eft cerebrum , qua ratione fpiritus
animales progignit, &c vitales attenuat,
qui effectus vehementimmi caloris fimt? Relpondetur
attenuari (piritumin plexibus parvarum arteria-
rum, in illis viarum anguftiis: non minus
etiam fpiritum animalem fieri, non tam
per manifeftam qualitatem, quam per infitam
quandam & abditam proprietatem: cum enim
fpiritus cordis, quamvis calidiflimi, crafiiores
fiant, quam illi cerebri, qui frigidiflimi
fimt, evenit hoc imbecillitate caloris
agentis , fed de dilpoljtione materis
patientis generat cor fpiritus vitales de
(anguine per venam cavam porrato. Fabricat
animales lpiritus cerebrum de spiritu vitali tenuillimo,
ita &: calor modicus alimentum debile
concoquit, validus id quoderaffius eft.
Sit itaque in adtiva quantitate fua
frigidiflimum cerebrum, in pafiivis non
eft qui ambigat illud humi- dum elle,
non minus & inlitafua, influenteque temperatura.
Cum hac videlicet temperie creatum a
Natura eft, propter perfectionem qualitatis
fenfibilis, fenfatio autem ha’C a paflione fit ,
& id quod humi- dum eft, facilius lpe&ra
& imagines recipit: pari ratione ad ortum
& propagationem nervorum, qui fi de duriori
fiubftantia eflent, xgrius utique dederentur, tum
proinde ne duritie fua & pondere
aggravarent: denique ne membrum illud ad
perpetuum motum, fenfationes, & cogitationes
deftinatum in flammaretur: Sic
enimvero qualitate qualitati unita cerebrum humidum potius quam frigidum
eft, & inter partes humidas tertium ordinem, &
inter frigidas quali
poftremum obtinet. Occurrit hic alia infuper non modica,
& necellaria admodum quceftio, quanta lmt
&£ qualia cerebri excrementa,
per quos etiam canales & condudus expurgetur. Cerebrum ergo cum temperamenti medullaris,
frigidi fit , & humidi,
nutritum fanguine pituitofo, per virtutem libi innatam,
& natura: fua: propriam de superfluitatibus
alimentorum copiam grandem excrementorum generat:
fed cum (it totius corporis caminus,
in limilitudinem cucurbita: parvae, autcujusdam ventofie,
cujus figura ab amplitudine in anguftum
aut acutum terminatur, iniidet trunco corporis,
&d partibus infer ioribus,omnium generum
refpirationes attrahit &: abforbet j tefte
Hippocrate. Inde dubitandum non eft,
quin vaporibus his im- Libella de pletum,
&fine intermifiione imbutum, & quali in-
gUndulu. ebriatum , in (emet multa fiiperflua
& (iiperabun- dantia contineat, ita quidem,
ut cum humidum fit, &J frigidum,
ratione mamfeftifiimi fitus , excrementis multis ,
&. materia crafliori abundet. Ha:c autem
, fi Hippocrati & Galeno fides habetur,
duorum gene- rum eft: altera enim
tenuis,altera crallaeft: quarum illa vapori , aut
fuligini non dispar, per condudus infenlibiles
transpirat: altera autem per meatus con-
fpicuos, & ex inferiori parte apertos
purgatur.llcut il- lafiiperior per partem fuperiorem.
Excremento tenui & vaporofo redundat
cerebrum ratione (ituationisjhalitus enim
adfpartem lupcriorem alcendunt, & vafa in
capite terminantur.in partes vero inferiores
quod craflum eft propter frigidam &
humidam temperiem facilius delcendit, unde plus
reliquis vifceribus omnibus hoc humore
abundat. Hujus excrementi eradi pars
pituitofa, aquea, de ferofaeft, pars biliofa ,
pars melancholica: quorum illud quod aqueum
eft,de reliquiis fanguims pituicoli & crudio-
ris producitur : biliofiim vero de portione
melancholica, terrena, allata, &c torrida, propter
caloris excesum, portio videUcet alimenti illius,
propter quod& facile amarefeit.
Arbitratur Argenterius aqueum illum &
muco- fum humorem qui per nares &
palatum (eparatur & emungitur, proprium cerebri
excrementum non e(- fe : cum multi
nec fpuant,nec emungant hanc pituitam: led
humorem quendam elle generatum in hepate, miftum
(anguine in venis detento, qui generatio- nem
luam in cerebronon habeat, led illuc
portari, quando per imbecillitatem facultatis
concodr icis,aut vero per intemperiem
frigidam aflimilari cerebro ne- queat , ita
vero tanquam luperfluum per nares & palatum
emitti. Hoc li verum eft, ad quem
ufiim in (ede (phenoidis extenditur
glandula carnis poro(ae,& bibulx,prout didtum
eft? hxc ergo ad hoc deftinata non
eft, ut hanc eluviem recipiat, &
expurget ? fi humor hic pituitolus in
cerebro male temperato ge- neratur , quis
glandula: ufus erit, qux in cerebro quamvis
temperato repetitur ? Natura fagax Sc
Libello de llandulu. C. i;. Anis
parva. C. 2- lib. 2. de locis
ctffe- clis Aphor. 2 Seft.i. c. prudens
nil fruftra operatur : quod fi vero
dodbrina Argentarii valida eft, fupervacaneum
erit infundi- bulum, & glandula pituitaria:
praeter harc prafatus author inquit, bene
temperatos nunquam pituitam hanc iputo ejicere,
contrarium tenet Galenus, ita- que excrementa
pituitofa & mucola propria fimt cerebri, &
proprios canales fuos habent, ad hoc
fabricatos, ut inde expurgentur. His
ftabilitis Sc in ordinem redadtis,
fupereft, qui- bus itineribus hac expurgatio
fiat , difcutere. Excrementum quod tenue eft,
&fuliginofum, cum ex fui levitate fupcriora
petat, per Meningem evaporatur, per cranium
deinceps, & per cutem, idque infenlibili tranlpiratione,
dum corpus humanum per modum (pongix,
foramina multa in fe continet. Inde eft ,
quod cum per olla penetrare hac
fuligo nequeat, provida natura commifluras in
cranio, plurelque cavitates ejus diftinxit, &
collocavit. Excrementa vero crafliora , cum
ex fui dilpofitione naturali ad partes
inferiores ferantur, canales ha- bent confpicuos,
nondum a Medicis ftabilitos. Hippocrates leptem
condudhis agnofcit, per quos de cerebro humor
hic defiuat, per aures nimirum, per nares,
per oculos, per palatum, per partes
guttura- les, per gulam , per venas , &
medullam lpinalem in languine. Galenus
eorum quatuor aflignat, hoc eft: palatum, nares,
aures, & oculos: idiplum etiam alibi fentit,
<Sc confirmat: quamvis in Commentariis non
nili nares, &c palatum enumeret, dum
ait: declives cerebri meauts tum per palatum
in os, tv,m per corpus narium ,
conjpicuis ac magnis orificiis craffa cruciam
excrementa. In primo lymptomatum lolum
ad id vult idonem elle palatum, dum
opportune concoquitur, &: nares pro odoribus
folis compofita fint, &: pro
refpiratione lic in variis locis diverfimode
hic Medicorum Antelignanus dilcurrit. Hinc
eft, quod do&iflimus Audior meus,
adeoncilanda loca tam diverla , primo fui
intuitu libi admodum diilentientia , per varios
condudtus varia cerebri exprementa, pkuitofi
nimirum, biliofa , & me- lancholica expurgari credit:
Horum condudtuum alios natura: ordinarios
elle, multiim familiares , & confuetos : alios
extraordinarios, nec ulque adeo congruos.
Ordinarii ad expurgandam pituitam dedicati
lunt, ut palatum, & nares plus tamen
illud, quam ha: , cum potiflimum pro
odoratu fabrefabta lint. Ipfa adeo Anatomia docet,
condu&um vifibilem , & conlpicuum de
tertio cerebri iinu formari , qui ad an-
teriorem ejusdem balem extendatur , in cujus
extremitate tenuis quadam membrana: particula,
primum larga, & patula, deinceps anguftior,
& ftndior appareat, per modum infundibuli ,
quodienfim in pa- latum, & in os deftillat:
& hic eft, ubitanquam per Hippocratis
manicam (prout alibi relatum eft) hu- mor percolatur,
& a glandula pituitaria pofthac re- cipitur.
Quod fi fuperiores cerebri ventriculi quandoque
abundent, & eluviem mucofam diftillent,hanc
per tubercula fim illima papillis & per
os Ethmoides vel cribriforme emittunt: ex
hinc fubtus materis bi- liofs continuo
per nares expurgantur. Quidam fic
philofophantur materias hafce bilio- fas ad
aures rejici , ut earum olla calore &c
ficcitate fiia defendant : pituitofas vero per
os &r nares evacuari , ut videlicet hi
meams aperti humiditate pradidta a ficcitate
prohibeantur. Hi canales ordinarii lunt,
per quos confiieto natura: ordine cerebrum
purga- tur. Illic rurftim alii lunt,
extraordinarii, per quos cerebrum, humorum copia
pragravatum fe nonnun- quam exonerat. Sunt
autem oculi , Medulla fpinalis, & Nervi , unde
paralylis oritur : quandoque & per 1
venas, &per arterias id contingit , dum
humorum decubitus in parotides contrahitur. Hac
autem excrementa particularia cerebri non fimt,
hoc eft, me- dullaris fubftantia, aut de
ventriculis ejusdem, fed potius de his vafis,
de venis & arteriis videlicet, ex quibus
tumores glandularum, opthalmiae, 3c aurium
inflammationes lequuntur. Hac excrementa
interim cerebri temperati , iii fubftantia lua
nihilominus, & quantitate qualitate intemperata
fimt. Tempora quo excernuntur fluida
funtlubftantiafua, qua: non nimium cralla eft,
nec humida : taliter in quantitate lua funt,
nec enim copia abundanti luxuriant: in qualitate
vero nec acrk lunt, necfidla: prafertim
fi fuccefiu temporis a facultate lua concoquantur,
Sc feparentur. Reftat breviter videre
per quos condtidus excrementa quarti imus , &
de cerebello purgentur. Non abs re
erit nolle , hac excrementa pauca admodum
elle, tam propter cerebelli duritiem , quam quod
hu- jus iinus tenuilfimi fpiritus lint,
&c finceri, jam omni- modo expurgati, ita
ut id quod illic facile colligitur,
facile etiam dilTipetur: id quod in cerebro
non eve- nit, cumlithumidum, continens
fuperfluitates nori modicas, atque ideo copiofa
expurgatione necelle habet. Grandis,
laboriofa, 8c non minus fuperioribus dif-
ficilis indagatio eft, nolle numerum, ufiim, 8c
praftantiam ventriculorum cerebri. Ego vero
intuens meoccurfum difcuilionishujus declinare
hon polle: ut inde aliquid etiam adducam,
cum Authore meo, dicendum qualiter
ventriculos quatuor Galenus fta- biliat,
fuperiores duos , quos anteriores vocat, unum
in medio, quem communem nominat, ultimum
deinceps, qui cavitas eft. Avicenna non
nili tres aflignat : iupremum, medium ,
depoftremum. Verum qui- dem eft fub titulo
unius priores duos ab eo mtelligi,
cum unius adeo figura: lint, 8c fitus,
& magnitudinis, & ftrudtura. Verlatiflimus
alioqui Velalius repre- hendit in hoc loco
Galenum de ufu ventriculorum fuperiorum, idcirco
quod hosfinus organa odoratus elle voluit ,
&c eofdem etiam pituitam in os
cribriforme percolare. Author meus in defenfam
Galeni ait , Imus anteriores in tantum
organa odoratus ap- pellari, quod ad eos
odores ferantur, de quibus eli- gunt, rejiciunt,
vel judicant, nec tamen propterea obftare
quicquam, quin fi cerebrum eluvie mucofa
refertum fit, in eos finusle fundat:
cum pituita non raro quoquo verfum in
cerebri corpus fe difpergat, prout fape
in Apoplexia contingit, le diffundendo in
nervos, &c in lpinalem medullam :
unde paralylis. Argumentantur in contrarium
alii, dicendo: extingui utique odoratus
lenium, fi per hunc pituitola tranfcolatur
materia, prout experientia docet. Re-
Ipondetur ad hac, hoc de fluxione
continua & magna humorum abundantia provenire,
qui tum obftrudti- onum in proceflibus
caufafunt: non fecus ac in perpetua
occlufione pororum qui in offibus fimt.
Quidam Modernorum fuftinent anteriores ventriculos
non ad praparandos fpiritus fadtos elle,
cum fint excrementorum receptacula, ipiritumvero
animalem cavitate fenfibili non indigere.
His Galenus refpondet, ventriculos fuperiores
ad purgationem Ipiritu- umminifterium fuum
exhibere, & ad expurgatio- nem materia: fuperflua.
Ita per Ethmoidem odores afeendunt, &
non minus fuperflua evacuantur. Sic emmvero
de excrementis cerebri dicendum , qua per
palatum & nares Ime intermiflione
excernuntur, quod nullum omnino nocumentum
nec odoratui, nec guftui adierant,
fiquidem ciun moderamine defluxerint. Quod
priftantiam & dignitatem horum ventricu- lorum, quifuperiores
funt, attinet, ambigendum non eft;
quin citeris ex omni ratione poftponendi lint, non quod citeri
principalis facultatum ledes lint,
fedquodin iis generatio (pirimum animalium fiat. C.3./.7. Totum
hoc Galenus doce. Cum
interim quatuor ventriculi fint, quiritar quis
eorum potior Iit, & nobilior:
vult Galenus Imus luperiores citeris
elle ignobiliores, idque exemplo adolelcentis
cujusdam demonftrat, qui Joniiin Civitate
Smymenfi recepto vulnere in his linubus
fiiperioribus, vita? &: ianitati reftitutus
eft. Non cum tanta elevatione loquitur
de his citatus Galenus dum de tertio
& quarto trade ufu par- &ac.
inquintoenim capite ad tertium de locis
ajfefUs Uum primatum pofteriori donat : hic verba
ejus funt: Spiaep aatu. rptlts animalis in
cerebri ventriculis, maxime in pofteriori
continetur: quamvis non contemnendus fit medius.
Ipfe etiam Hippocrates: poftremi quidem
ventriculi vulneratio maxime omnium animal
Lcdit, fecundo loco medii , minima ex
anterioribus utrisque noxa contrahitur. Hoc
id.em quod feStiones, collifones quoque faciunt.
His omnibus ratio (iiffragatur, dum
ventriculi ignobiliores apparent, qui majorem
habent amplitudinem, Quartus Imus omniii
anguflillimus eft,& mi- nimus,
Ipiritumque animalem lmcerum, delicatum,
Sc omnimodo expurgatum continet. Reliqui duo
pra?parando folum Ipiritui ferviunt: itaque
omnium nobilillimus eft quem dixi. Videtur
Galenus his contrarium lentire, illic ubi 5
.delocuaffe ait: Si aliquando tota anterior
cerebri pars afficiatur, Ftu C 2. cM'
ca qua funt circa fupremum ventrem
(liipremum au- ue locis C.
1, tem eo Joco medium intelligit, nelcio
ob quam ratio- nem) ei conflit ire
neceffie efl difeurfivas omnes ailio- nes
vitiari. Si difcurlus in medio finu,
ergo nobilior. Hic ergo prirogativam linui
tertio allignare videtur. Sic in capite
ultimo fabulam Vulcani exponens, cmn caput
Jovis bipenni conquallallet, eum inde Minervam
Deam Sapientia? traxille ait: per quod videtur non minus ventriculo tertio prirogativam hanc donare. Hanc dignitatem ftni&ura memorati
ventriculi admirabilis indicat, dum vulnera occipitis minus
periculola funt, quam qui in fyncipite hunt:
ita (enti tHippocrates: Pluresex his, qui
pofteriori capitis parte funt vulnerati,
mortem effugiunt, quam qui anteriore.
Conciliabitur itaque Galenus, li dixerimus:
quod dum linum quartum priftantiorem elle
inquit , Sc digniorem , hoc eum luo
arbitratu dicere, dum autem de tertio
ratiocinatur , eum lentendas aliorum fequi, &
in particulari Nicrophyli, prifertimqued
facultatibus pricipuis fuas fedes proprias
non ad- Icriplit liciit alibi memoratum
eft. In vulneribus occipitii raro admodum
ventriculus quartus offenditur, dum carojiicut Sc
cralfities , Sc durities ollis ve hementer
refiftunt : fed in lyncipite, hoc eft in
ven- triculo tertio olla tenuiora lunt: Hinc
Author meus ait: non erralle Galenum in
hiftoria prifente cerebri totius, nili in
mirabilibus ejusdem plexibus. Hoc os in
homine usque adeo breve & parvum eft,
ut pene oculorum aciem effugiat. Hunc
plexum coronalemqui in ventriculis Cerebri
luperior eft, cum Mo- dernis quampluribus
Rete mirabile nominat; dum ineo Spiritus
vitalis attenuatur, & animalis certum quoddam
rudimentum Sc praeceptum coiifequitur. Ex
tot igitur operationibus, qui de interioribus
Capitis proveniunt, nobile, lingulare, Sc
elevatum hoc Compofitum , plus adeo quam
quodvis aliud in humano corpore dicendum
eft: Altillima rupes, in qua pricipua vicini
civitatis conftrudba lunt propugnacula : nili
malumus cum majori proprietate illud nominare,
Metropolim famofam fubje&arum libi Regionum :
vel Primum Mobile, fub quo reliqui fphiri
inferiores moveantur, vel luminofum Solem,
qui partes omnes, tam vicinas, quam
longe diflitas, illuminet Sc perluftret vel Officinam ubi
pungenriflima tela, aaitiflimarum cogitationum
fa- bricentur: vel Ditifiimum Aerarium , de quo
tot po- tentiarum Sc effedtuum thefauri
depromantur, vel Compendium, in quo Univerfitatis
totius negotia reftringannir, & epilogentur. Vel
fontem peren- nem de quo copiofimmi rivi
profluant, ad inundanda Sc fcecundanda prata
membrorum tam qui pro- piora , quam qui longius
collocata funt j Vel Principem abiolutum,qui de
partibus libi fubditis homagi- um
fidelitatis exigat, Caput, inquam, quod
jure merito Principium,Dominatorem, Patronum,
Ante- fignanum,Ducem,& Magiftram dixeris
omnium eorum,qui humano corpore continentur:
Mundus eft, propter quem Mundus creatus
eft. Sc quidquid in his lphiris
mortalibus Sc immortalibus concluditur: vivum
fimulacrum, Sc Imago Altisfimi, qui in hac
prodigium admirabile Omnipotentiae fui manifefta-
re voluit. Sed li tot,tamque
inexplicabiles dotes in hoc con- tento
includuntur: fi divina manus in interioribus
tot mirabilia Sc ftupenda operata eft, unde
ad dignitatem tantam profecit, nondisfimili gloria
fcintilla- re. Video Continens, hoc eft
Faciem, illam dico, in quam Creator Deus ,
fpiravit fpiraculum vita, & fattus efl
Homo in animam vi ventem. Facies qui
tali nomine infignita eft, quod univerfa
operetur Sc faciat, prout j arn fupra
determinatum eft
Facies fine qua imperfefta,in anima
line vitalitate, fine fpiritu reliqua membra poftrata
jacerent: line qua tanqua truncus monftruofiis, inutilis, &
abominabilLS, reliquu corpus omne decumberet; Facies
qui imprimit, & ex- primit objecta tam interna,
quam externa, per quam Homo ab
Irrationalibus diftingiiitur : qui fola radium
circumfert Majeftatis, typum Sc copiam Originalis
illius fupremi,quod beatitudinis noftn obje-
dum in coelis eft: perquam folam
cogitata interna producuntur: lola pulchritudo,
Sc complementum corpons,per quam folam, &
non per aliud, liti, triftes, fupplices,
eredi, aut fubmiffi fumus: Hic prima
eft quiplacet,qui attrahit, qui commovet,qui am-
pleditur,qui repudiat. Indicat hic fexum, itatem, decorem,
Sc ftirpem: in qua manifeftiflima mortis Sc
vici indicia defignantur. Jam vero
quod partes ejus Anatomicas concernit, dehisintradatu
de maxillis abunde ratiocinabimur. Supereft hic
videre paucis,ad Encomium potius, quam Anatomicam
ejusdem expolitionem, cur in eadem Facie
omnes adeo lenius collocati, cur eorum
quinque lint, Sc non plures: de
quibus illud inpvimis dicendum eft, quod
cum anima Hominis for- marum 01 nnium
prima fit , quotquot earum fub concavo Luni
reperiuntur, eaquenobiliifima, quantumvis individa, polita in
hoc Corporis Ergaftulo, eam nihilominus
fine fenfuum adjumento inteliigere non
polle. Cum his ratiocinatur, difeurrit, Sc lpeculatur:
inter phantafmata Sc opiniones verfatur:
unde non immerito Philosophus dixit; Nihil
eft m IntelleSiu, quin prius fuerit in sensu.
Cum igitur Caput fedes iit facultatum
animalium, tum vero etiam domiciliumRationis,
congruum erat ut lenfus omnes velut
fatellitium libi fubditum, Sc tanquam aulifui
miniftros principales imperio fuo obtemperantes, &
in Regia cerebri libi allidentes haberet.
Senilium vera numerus quinarius eft, qui
numero Facies comparata ftellis.
3. de Anima. Td&llS &
guftus iimpliciter necellarii ad Vitam.
humero aliorum tot fimplicium inmiindo
corporum correfpondet, carli, videlicet, &:
quatuor Elementorum. Potentia villis juxta
Platonicos elemento ftellari correlpondet, qute
ftellte non minus oculi calorum nominantur:
hx inquam facula: quarum objectum corpus
Iplendidun) &c flammigerumeft, quamvis non
urens. Odoratus objedaim igneum eft, omnia
Equidem aromata calida funt: Auditus quidquid
aereum eft, Guftus compolita aquea, Tadhis
terrena. In univerfitate aurem quidquid
continetur, in quinque objedadiftingui poterit, in
colores, in fonos, odores, sapores. &
qualitates omnes tradabiles tam primarias,
quam le- cundarias. Arrogant autem libi
quod Peripateticus dixit: Media quibus fent
imus quinque tantum modis alterari possunt.
Inde profequitur : Medium cfle fenlum vel
internum, vel externum: Externum aerem, vel aquam
; Internum membranam & carnem: quorum illa
pruna alterentur rebus externis, vcluti iis qua:
luminofa funt, tunc enimvero objeda funt
visus ; aut vero iis qua: rara funt, Sc
mobilia, & tunc auditui ferviunt: aut
vero iis qua: humiditatem cum decitate
permifccnt, 6c ad odoratum pertinent ,
fubjiciendo libi carnem, & membranam ; aut
vero temperiem qualitatum primariarum
fequuntur.autmixtionem licci,& humidi: & tali
modo illa quidem objeda tadus dicuntur,
ha:c objeda guftus. Denique quinque folx
fenfationes funt: tot enim earum neceflariaPerant
, non plures: alise quidem fimpliciter &
abfolute, alia: ad jucunditatem Se dulcedinem
vita: abfolute neceflarii funt tadus, 5c guftus:
Tudus fundamentum animalitatis eft (ita fentit philosophus
) guftus viciffim fundamentum eft nutritionis. linequa
abfolute vivere nemo mortalium poteft: Vifus, Odoratus,
Sc Auditus idcirco data ftint, ut
vitam beatiorem, & magis tranquillam
degeremus. Hi ergo quinque, ut ita
dixerim, Favoriti funt magna: illius Reginas,
anima nimirum; inter quos vifus/apicntium omnium
judiao, propter eximias ejusdem utilitates &
commoda, priorem fibi locum &
prorogativam vendicat. Proflantiam illius &dignitatem
quatuor res potilumumindicant.Primum varietas
rerum, qua: repraftentantur: tum deinde modus
aftionis inter omnes alias nobihftlmus: pon o
convenientia Sc proprietas cujusq;
objecti particularis, quo quafi lux divina
adionum omnium eft: denique horum omnium
certitudo. Omnium rerum vifibilium
differentias vifus dcmonftrat, cum omne
propemodum objedum coloratum fit , & visibile:
hinc oculus, prseteripfum objedum multa fibi
infuperad- Dicnicas & fcifcit, hoc eft,
figuram, magnitudinem, numerum, motum, nnb,unri,
ftaium, fitum, Se diftantiam: unde apnffimus
dicitur ad inventionem difciplinarum. Intelledus
ideas recipit , ab omni imperfedione materia: omnino
liberas j oculos itidem species incorporeas, qua:
per barbarifmum Intentionales vocan- tur-
Intelledus uno eodemque tempore binas res
invicem contrarias comprehendit, tum potiftimum,
cuma falfo verum difeernit. sic potentia visus inter nigrum
Sc album diju- dicat. Intel. edus liberum
mentis luae vigorem Se fortitudi- nem confervat,
ita ut nulla ei vis hanc libertatem
adimat: eandem quoque oculus praefefertin
videndo, qui hbertns nihilominus exteris fenfibus
negata eft: nares enim, & aures nunquam
non aperra: funt, nec aliter poflunt; non
fic oculi qui ad libitum clauduntur,
Scaperiuntur (ficut in eorum anatomiadicendum
eft) in nollro fiquidem beneplacito eft,
videre, vel non videre.Nobiliffimum denique objedum
ocu-lorum eft, lux nimirum, prxftantiflJma,
communiffima, & notiflima qualitatum omnium ;
Hac ratione motus Theopbraftus formam
hominis ex vifu definiri ajebat:
Anaxagotas ad hoc dixit natum hominem, ut
videat. Multo plura his in Anatomia
particulari oculorum dicentur. Debilem nihilominus
in his &
imperfedam perfpicacita» tem meam recognofco,
unde ne a tanta luce cxcaccari mihi
contingat, ab ulteriori Capitis indagme me
retraho, qui opti menovi cum aquilis nec
noduas nec talpas proportionem ullam habere.
Tu qui magis oculatus es, conjice
vifium tuum in Anatomicorum lucem,
qui tibi ledionibus difertioribus, &
clarioribus in hilce fibras profundius
abllrufas, Sercpofi- tas uuein, ego interim
accingor ad contemplanda )^!d^m“UtmJicMet
^“tumrupra torehdum nobis promptilTimani)
cumabomni tuIt) symbol nos divina tutela
vigilet (tumpnefertim ad fucSenrlmim Hominis
Sjmboltoi Tom, I. ' ; T - '-uiiidu
U1I1IUI1U- mano auxilio deftituti fumus,
lupra id quod antiquitus Marco Valerio
Corvino accidit,
cum in lingulari certamine cum hofte
confligeret: caput armatum callide depinxit, cui corvus
infidebat, adjungendo Epigraphen:
Infperatum auxilium. Generofus miles,
fk intrepidus dimicabat viriliter, fed fortafte fuperams ellet,
nili corvus inopino adventu , & rostro, &
unguibus adverlarium laedendo perterruillet, ut
tandem luccubuerit. Hoc divinum liiblidium
a S. Auguftino firnra id quod in
nuptiis Cana: Galilaee hb.i.adverf, facftum
eft, inhnuatur, dum redemptor nofter divi-
H&res. mfTimce matris lua: precibus
qua? commenfalium curam agebat ( vinum, inquit ,
non habent) annuit, vocans eam mulierem: &
quia in hydriis reliduum aliquid
remanferat, evacuantur vafa, &c rurfum aqua
adimplentur, exhinc admirabilis illa & prodigiofa
Argumen- cranfmutatio apparuit. Ha:c autem
ejus propria funt verba: Propter hoc
properante Maria ad admirabile tum oppor-
vini signum, ante tempus nolente participare
comtunum. pe.ndii poculum, repellit dicens: Nondum
venit hora mea: expeSlans eam, qua a
patre fuit in opportunum auxilium
pracognita. Fortificabat his le fuosque Philo
Hebraus: bono , inquit, animo eflote fratres,
ubi enim humanum cejfat auxilium, divina
non deflituemur ope: neminem dereliquit Deus.
Elevatif- fimaMusafuaJoannesCiampolusin amaritudine
liniftne fortuna; folabatur animam suam,in
paraphrafi super pfalmum: Jf)ui habitat: de verfu
illo : quoniam in me fperavit liberabo eumfic
feriptum relinquens: Fiduccia confolata fo
pur fon certo, Se la Reggia m e
chiufa, Che fla tra facre mura
il Cielo aperto E che far fordo a i
voti il Ciel non s’ufa. it
pede pauperum tabernas, regumque turres : alius i
eodem fenfu fcripfit: zJMors nullo varcit
honori: sntentia qua: limiliter a philolopho
Pnoclide consirabatur dum ajebat: Communis omnes
locus mait ,tum pauperes tum Reges. Si quis le fortuna:
totum dedicaflet, Iperans ab eaem Ubi bonum
omne eventurum , lic ab authore uodam
reprelentabatur: Juvenem figurabat, refcilim caput fuum
fortuna: immolantem: hxc vero Fortuna in
- iolefeentis collo Leonis caput inferebat,
tum etiam conftans. iputferpentis, Sc
monftruoli praeterea animalis cu isdain i
mentem fuam his verbis,exponens: Bellua t,ccec 'e
Jiat uit, qui credit fe forti. Heec quatuor
Ca- ita in quatuor cyathis a Plutarcho
exprella funt: 'ortuna, inquit, nobis
cyathos exjiccantibus prabet : De tranquilf unum
bonum infundat, tria mala minijlrat. Hi s ta(e
amm&. iblcripfit Quintilianus cum ait: Cum
fortuna ruere Decia. 4. ementia eft.
Et Seneca : Suis contenta viribus in enit
pericula fine Authore Nullum tempus ei
ccrtm ef: in ipfs voluptatibus caufe
doloris oriuntur. nevitabilis Idem Paradinus ,
manum armatam fica reprefen- ra Dei. tat,
quajamjam caput quoddam perculliira eft:
inferipiit autem hanc fententiam : Fcl in
ara. volens indicare, vinditftam divinam ubivis
locorum paratam ad caftigandos protervos
efie, ubivis etiam locorum, quantumvis
privilegiatalint, crimina fontium punienda. Id
quod inter alios filio Francifci Sforza:,
nomine Galeazzo contigit, qui etiam ante ipfam
aram facram ab Andrea Lampuniano
interfe&us eft. Hanc inamilTibilem vindittam
verebatur propheta Regius, duminquiebat: 6)uo
ibo djpiritu tuo,& quod facie tua
fugiam ? Si ajcendero in c&lum tu
illic es, & ea qua: fequuntur. Magifter
ille morum Gabriel Si- meon volens inferre
fublimitates Regales, & eminentias per mortem
adaquari vilitati plebejorum (unde & purpura
Agefilai cum cineribus Ergafti Paftoris in
^/Iors o- una eadem lociatur) Calvariam hominis
figuravit nnia ada:- inter fceptrum , &
Ligonem politam cum hac declaratione : Mors
fceptra ligonibus aquat:
quod omne iorat,i.Car- ab Horatio
mutuatus eft, qui ait: Mors aquo pul-
Sinceritas cordis. Apud Diogen
U-7- Inion, depetit. Confu- tat. Satira
17. Concordia quam Iit utilis.
Mors& memoria ejusdem. 12. Mor.
De vita Re- fur. Lib. 4.
Hexa- emeron. Redtitudo & Sinceritas.
Sinceritas &c redbitudo animi
potiffimum ex tran- quilitate, & hilaritate
vultus cbgnofcitur. Qua de caulajoannes
Ferrus faciem repra? lentavit ridentem & venuftam,absqiie
omni ruga, ligni ficarionem . apponens eum
hac Epigraphe: Raro fallit. Hoc ipium
Cleantes indicare voluit, dum ait: Ex
Jpccie comprehenduntur mores. Et Euripides :
Ad yultum boni viri ajpicere dulce est.
Et Tullius : Inultus, ac frons animi efl
anna , qua fignificant vo- luptatem abditam,
& occultam. Quamvis Juve- halis nos
aliter doceat : Fronti nulla pdes , inquit.
Utique enim verificatur non raro : in
vultu rolas apparere, tegi fpinas in corde.
Arma gentilia & antiqua excellentiUima?
Domus Trivultii, quae e tribus vultibus
compotita lunt, indicando quantum ad felicitatem vitae,
&c ad omnem inimicam poteftatem
profligandam valeat concor- dia,anfam dederunt
Antonio Trivultio , qui Atavus fuit Magni
illius Joannis Jacobi , ut in vexillis
militaribus tres lacies has repraefentarct : adjundbo
lem- mate : Mens unica. Et ha?ceft laurea
illa tantopere celebratae lentendae Saluftianae:
Concord a res parva crefcunt, difcordia ruunt.
Zelantiflinms Calliodorus inter liios vel
minimum indignationis fu- furnun ferre non
poterat, unde &: cuique iuorumajebat ; Summopere
jurgia fuge, nam contra parem contendere
anceps eft , cum Juperiore fur tofum >
cum inferiore fordidum, maxime autem contra
fatuum contentionem inire. Sancbus Gregorius
Papa omne tanquam fordidum explodebat, quodcunque
manu datur, vel recipitur, ubi cor
maculatum efl: rixis 8c dillenlionibus : Munus,
inquit, non recipiatur, nifi prius difcordia
repellatur ab animo. Vere illud Davidicum
experimento certiflimum efl: Ecce quam bonum, &
ejuam jucundum habitare fratres in unum.
Hoc ipfumS. Auguftinus innuit, qui tam
fratribus Religiolis regulas, quam & univer-
fo Mundo praefcripl it , dum ait: Lites nullas
habea-tis , aut quam celerrime finiatis , ne
ira crefcat in odium , & trabem faciat
de f e flue a. POtentillimum ffjrnum
ad retinendum hominem a fofla praecipitii , &
peccati ruina, memoria efl folia? lepulchralis.
Veritas non folum quotidie in roflris
iacris declamata , fed a Reufnero quoque
intelletfla , qui depingi puerum fecit, incumbentem
cranio humano: adjungendo 1'ignificationem cum
hac Epigraphe : rive memor Lethi. In
eundem lenium verba S. Gregorii incidunt ,
ubi inquit : Jfifuiconfiderat cjualis erit
in morte, femper pavidus erit in
operatione. atejueinde in oculis fui Conditoris
vivit. Magnus ille Mediolanenfis Ecclelia? Archi-Epifcopus
S. Ambrolius iic illud exprellit: Mors pro
remedio nobis data efl. Si primi
noftri parentes divinum illud vetitum
obfervaiient : quacunque ho- ra comedentis, morte moriemini,
lucceilores luosin tantum mileriarum barathrum
non praecipicalfent : fed tentatorlpirituscumluo:
nequaquam moriemini, promittens ejus vitam,
ad excidium conduxit, ex quo proinde
origo decidii fubfecuta efl : iic Balili- '
us Seleucienlis meditatur : ^fljuarcns Sathan Protoplaflorum
perniciem , conatur ab eis memoriam mor-
tis eripere, nequaquam, inquit, moriemini. JUxta commune Axioma
: Cum caput dolet, c at er a membra
languent, quod quidam fapienter dixit : Et
ego convenienter dico Iic mentem huma- nam
elle oportere : defaecatam nimirum, & ab omni
tenebrofo vapore partialitatis, Sc proprii
commodi 1'eparatam, utfane & prudenter
a&iones inferiores gubernare & dirigere pollic
: liciit caput cfrm fanum efl, & purgatum,
vitalitatem aqualiter in reliqua membra
partitur ; hoc ipium Plutarchus intendit,
cum ait : Mens cernit , mens audit , reliqua fur
da , De Alexand cacaque fiunt, & rationis indigo,
Pulcherrimum, fortitudine. arbitratu meo , quamvis
compendiofum id , quod Euripides affert , dum
Helenam formbflUimam de- feriberet : Mens optima
vates efl, ac bonum confi- In Helenk lium:
Hoc idem encomio lingulari Seneca depraedi-
cavit , dum ait : Cogita in te pr ater
animum nihil effi mirabile, cui magno nihil
efi magnum. Caput jure merito Caminus
totius corporis appellandiun eft,ad quod
exhalationes omnes , & flumina
commeftibiliumalcendunt: dumque his prater mo-
dum gravatur, recidunt cum damno, & totius corporis
incommodo. Quis non ex hoc dignitatem Per-
RedbaPrin- fona? Principis figuratam videat,
qui per modum cacipis operapicis tanquam
verus caminus, quidquid exhalatiotionis de fuorum
fubdicorum motu extollitur , in le re- cipit ?
Jam vero li Princeps male ordinatus eft ,
nimi- isque fumis & caliginibus repletus, non
nili popularis perturbatio in membris ejus , in
flatu, & corpore po- litico expedfcanda eft.
Inculcat Socrates hoc Principi luo, ut
mentem ab omni fecum illuVie puram teneat,
dum ait : jrcrifjimos ejfe honores Princeps
exide Principe, firmet, non qui in
propatulo cum timore fiunt, fed quando fubditi
apsid fe fioli mentern principis potius ,
quam fortunam admirantur. Et magnus
Pythagoras pra?- ex Lzertto. videns nocumenta,
quae ex hac vaporum attradbione lecutura
ellent, hcfcriplit : Princeps non ideo crea- tus
efl, ut Iader ct , fed ut juvaret. Ut ha?c
flumina reprimeret, Claudianus Honorium luumlic
horta- batur : t Tunc omnia ‘fur a tenebis,
Cum poter is Rex effc tui
proclivior ufus -7 In pejora datur,
fundet q3 licentia luxum, Sed
comprime motus. Polb Cordis generationem ,
prout univerfa Medicorum lchola docet, in
capite cerebrum generatur, quod ex lui
natura frigidum &: humidum
excellivo cordis calori opponitur. Proferam ego
id, quod jam Protedbio ante me alius,
intelligens nimirum in hoc loco Mariam Virginem
gloriolimmam, qua? in myftico Eccleiia? ginis.
Corpore, poftChriftum, quem in corde figuramus,
primum libi locum vendicat : ha?c enim
ardores cordis in juftiriaa?ftuantes contemperat.
Conflagrare magnitudine criminum luorum jam
Mundum opor- tuerat : hoc exprellit S, Anteimus :
Dudum calum Sehm. de N*- Cf terra
rui flent, nifi Maria precibus fuflvntaffer. tlv-
Quod S. Bernardus mellifluus Iic expofuit :
ut fiole Serm. dt Af- fiblato nihil
luce fc it, fic fublata Maria, nihil d
mfijfima tenebra relinquuntur: S. Auguftinus cum
dulciloquio luo hunc lenium ita dedit :
Autlnx peccati Eva , Auttrix meriti
Maria Eva occidendo obfuit, Maria vivificando
pro fuit, illa percufiit, ifia fianaviti
De humiditate cerebri canities nafeitur:
hxcvero Pietas elee- Sapientum judicio
prudentiam indicat, juxta oracumofyna, tilum divinum:
Cani fiunt fenfus hominis : de calore
mor. calvities oritur : Symbolum illud eft
, prout fuo loco demonftrabitur, Eleemolynar:
unde optimum eri:, ut homo ad hanc
partem refledbendo, in frigiditate ‘Timorem
Domini contempletur, in humidirate Pie- tatem.
His virtutibus armatur homo rationalis, canquam
telo pungenti flimo, cum quo & tempus,
& oblivionem, tk. peccatum ferit. Hoc
omne de ra- 8 1 rioiie. In Hermath.
Imperium. Cuftodia. C.7. Divina
myiteria. Tfal. i$o. Chriftus.
adColojf, i. Serm. de Elia, E/>.
f 8. in Mxtth. c . 40. Super
Mare. 6 r- Pf- 59- Fervor devotionis.
Cap. II. Defomn. Nabuih. de pro
fagu. 1 3 y cif- 4S 7. Errores.
-JK Triftitia.t: r • ii
SuperFf. 18. A Suggeftio- rione
provenic 5 qua: ecerebro elicitur, <*c
in eodem fundatur, unde <Sc Ingenium
derivatur. T otun 1 il- lud Phoclides Philofophus
explicuit. Ratio, inquit, hominis telam eft
acutius ferro. Diligens obfervator Goropius
feriptum reliquit, in primitiva lingua
pronuntiationem, &c denominationem Capitis Ionum
cdidille fimilem hui c: Heet, quod
imperium , 8c dominationem indicat: idque
non immerito, dum caput exteras corporis
partes gubernat, & ditioni fuce
iubjicit,prout opportunitas, &
necdfitas exigit in unoquoque fuorum fenfuum
(e exercens. Prxtcrea caput quoque cum
hoc Nomi- ne Huet exprellum fuit, quod
Tutela, & Cuftodia interpretatur, non abs re,
dum fine illius fablidio, extera membra non
fecus ac militaris phalanx interrup- to
ordine hac illacque palantes habens milites
, line Duce, rnani feftum incurrit periculum. Cum
tot ergo tantisque praerogativis decoramm fit, mirandum
noneft, iihoc Nomen Altillimo Deo
adferibitur, prout legitur in Daniele, qui
fub figura capitum divinam texit ellentiam ,
nec ea videre dete- da diledus
Apoftolus potuit, per hoc significans quantum
inacceffibilis lit vel minima cognitio my-
fteriorum ejus, qua tantopere elevatafunt.
Hoc inferre propheta Regius voluit, dum ait: Obumbrafti caput ejus in die belli:
alludens myfterium paffionis, quod omnem intelledum humanum transfeendit. Infcripturis lacris per nomen Caput Chriftus Redemptor
nofter lapius
fignificatur. Paulus hoc inquit:Primum noftrum Caput eft Chriftus,
nos que membra de membro: Sic Eucherius
Se Ambrofius, prout S. Bernardus
fentit,divinam ellentiam indicant. Vult S. Auguftinus,
cum Maria Magdalena caput Chrifti lnimgere,
idem elle, ac eum cum frudu bona
operationis laudare. Origines conliderando
Joannem Baptiftam decapitatum , vult in
metaphora Chriftum intelligi a Judaifino
derelidum, & a lege Judaeorum fublatum.
Hieronymus Sc Hilarius id- ipfum referunt
ad Judaeos gloriantes & praetendentes
Chriftum a Prophetis feparatum : fuperhxc, gloriam
Legis ab iisdem levatam elle. Caput
aureum in Sa- cro Cantico memoratum , juxta
Richardum de S. Victore , perfedum flatum
charitatis, intentionem devotam, &: fervidum
Cadi defiderium indicat. Supra id, quod in
Levitico ordinatum eft. Caput Sa- cerdotis
non radendum, Philo Hebraeus in lxcu la- res
illos invehimr, qui le negotiis ingerere
ecclelia- ftricis non erubefcunL Id quod
in Geneli de capite Jacob feriptum
reperitur, quod lapidibus capite luo
dormituras incubuerit,lubjungit Beda, intelligi polle
hic principatum Chriltianilmi hmdatum &
ftabili- tumfupra Petram Chriftum, cum &
ipfe Apoftolus dicat: Petra autem erat Chriftus.
De Capitibus decalvatis filiarum Sion,
quorum mentio fit in Ifaia, Jeremia &
Ezechiele, Sancti Hilarius & Ambrofius errores
Oratorum Sc Rabularum intelligunt, quorum
infidelis dicacitas decalvatur , 6c denudatur , nihil
habens de ornamentis Chriftianx veritatis &
eloquentia?. Per caput opertum, licut in
locis pluribus Regum, Efther &:Job legitur,
Lirantis fraudulentiam intelligit, & dolum larvatum,
quandoque velo pietatis religionis involutum.
Magnus Mediolanenfis Eccleliae Archi - Epilcopus
Ambrofius, de intrepiditate animi, qua mulier
illa Apocalyptica continuit caput ferpentis ,
hanc mora- litatem eruit, dum ait:
lic omnino caput nafcentis fuggeftionis
conterendum elle, ne in cor noftrum
ulterius ferpendo irrepat. Applauferunt Auguftinus
& Gregorius adioni Davidis , dum jadandam
illam Goliathgigands truncato capite repreilit,
ubi dicunt: intelligi polle per
Goliath Luciferum, cui caput abi a- S. Pfal.
1 r, j. tum eft, ut Chriftus effet
caput gentium. Sed ne ultra de
i.Reg.). ariditate rivorum meorum guttas
quasdam diftillem, fufticit in materiis
hisce me de plurimis, qua? dici pof-
lent,dixille pauca:Liberum relinquens Ledon fedul reftinguere
fitim luam, h lic placuerit,in amoeniffimis
verfionum facrarum, &c Glollatorum fontibus, de
quibus fine intermillione dodrinae perennes
icatu- riunt. PRoverbia originem fuam vel ab
experientia, vel ab ufu, vel etiam abufii,
aut de partibus aut de proprietatibus humanis, vel
de didis lapientibus aut vulgaribus traxerunt.
Caput fcabere, ab inferiori- Cogitabunbus multis
ad eos refertur, qui fixam mentem,
muldus. tumquein cogitationibus filis abforpeam
tenent: per quod tanquam per clari flimum
radium oculus mentis illuftratur, ut homo
videre bonum fuum poffit , & malum
evitare. Inter alios id Quintilianus
innuit: Cogitatio , inquit , paucis admodum horis
c au fas etiam magnas complectitur. Et
Marcus T ullius : In omni- bus negotiis, priusquam
aggrediar c , adhibenda eft p re- paratio
diligens. Et Euripides : Et qua longe abfunt,
£r qua prope funt,confderari debent.
Optimum documentum ad monendum, & corridendum
Amicum cum trito illo adagio infinuatum
fuit: Capite admoto: hoc eft, 111 ablentia
Arbitram, Judicum,&extrapublicum,iinbcum iuavitace
verborum, fine omni afperitate. Juxta divinum
ma- gifterium: St peccaverit in te frater
tuus, corripe eum inter te, & ipfum folum.
Quae veritas & gentili- bus non ignota fuit,
inter alios Euripides ait: Amor simpliciter
objurgans magis premit. Propter quod
Diogenes canis appellatus eft, qui cum
nimia libertate edam in publico importuna
reprehenfione mordebat. Pro verborum dulci
moderamine falu- berrima dodrina Chryfoftomi eft
: Circa vitam tu- am eft 0, aufterus, circa
alienam benignus : audiant te homines parva
mandantem , & gravia facientem. Venufta
ficies,& alpedus comis , cui nihilominus
didamen rationis delit , & qui judicio
privatus fit, hoc dicio figurabatur: Caput
vacuum cerebro. Et hxc eft Alfopicae
vulpis fignificatio, qux ftatuarii of- ficinam
ingrefla, atque illic formatum caput inveniens,
fed vacuum videns , a fe projecit, dicendo:
O quale caput: fed cerebrum nen habet.
His obje- dis, eorumque blandimentis
fallacibus fidem non habere admonet
Lucilium fuum Seneca : Erras , Inquit , fi i
florum, qui tibi occurrunt vultibus credis:
hominis effigies habent, mores autem ferarum.
Quafi diceret; Attende tibi, ferpens enim in
viridi prato abfeonditur, illic podllimum, ubi te
amoenitas flo- rum arridebit. Quis credidillet
unquam Alcibiadem fub cxlefti vultus
decore, nutriville mores inferni? Amarus
pavonum cibus eft, cum cantus nihilominus
viventium fit faftus,& decor. Per
Nutrices, qua? quandoque cunas in caput le-
vant , ubi infantulus quiefeit, tk. de
loco in locum transferunt, inferre
Plato voluit, cum quanto affectu amicus
amici fui commodis, <3c utilitatibus fervire
debeat: unde & vulgare illud axioma ortum
eft: Capite ge flare, hoc eft: omnem
ad id cogitatum fuum applicare. Exadiflimum prxeeptum
divinus Ariftoteles nos docet: didamque
legem cum omni perfectione obfervare vult:
Amicus fc debet habere ad amicum
tanquam ad feipfum, quia amicus efialter
ipfe. Et S. Auguftinus,
amicum dimidium amms> O' medicamentum
vita appellabat.
Gerion olim, live propter compofitionem infoli-
lib. 10. /»Hippol. Corredio remoca, privata. apud?
latorum de Amic. Adulator. Facies ab
opere diver- la. Ep. 2®3- Cap.
10 de Republ. Vera ami- citia.
4. Et hic. 3Confejf. Lib.
6. de Cht. Dei. Diftradfcio in
negotiis. In Pfal. 8. Sur. in
Vit. 23. April. Difficultas negotio-
rum. 3. Metamorph, Cognitio
matura. Ethicorum. Vt ira lib.
u, Sententia pedaria. tam
membrorum, infpecie trium corporum figura- batur,
five id fadhim alia decaufa, ut
videlicet hominem pluribus negotiis diitradhim
repraTentarent , occafionem autem proverbio dedit:
Ertium caput. Similitudine infper a bajulis
fumpta, qui fiepius onera fua ab
humeris ad caput transferunt. Vitium hoc
evagationis tantundempemiciofumeft , quantum e it
utilis recolledtio, &. tot curarum depolitio.
S. Au- guifinus commentando lupra verfum
pfalmi: niam tu Domine fu avts ac
mitis , ita eum dilucidat : Nil (lultius ,
quam fi feipfum quisquam [educat: attendat ergo, &
videat quanta , & qualia aguntur. Conlimilis
huic aphonlmus est: Age quod agis.
Inimicus nofter communis , ut nos a redo
virtutis tramite aberrare faciat, non aliis
potentioribus armis contra nos militat,
quam diftradione mentis. Dixit hoc B.
Aigydius in vita S. Francifci: Ditem oranti
intendit cUmon , tanquam animatus prado. Ad
indicandum hominem fic negociis fuis implicitum ,
& immerfum , ut non nili argre le inde
eripere & extricare poiTit, ita ut in
Labyrintho D.edaleo, vel in Ergallulo , vel
in compedibus cC manicis fe elle
credat, fuerunt qui adagium illud effinxerunt :
nec caput, nec pedes. Innuentes usque adeo
negocium hoc intricatum elle, ut principio
& fine careat. Non eft vermis tantopere
mordax ad confumenda &c rodenda corpora,
quantum animabus alfligendis, &c mortificandis
ejusmodi iunt intricata negocia: Ita fentit Ovidius
: Attenuant vigiles corpus m' fer ab
ile cura. Ad hos laqueos dillolvendos
, & tales occupatio- nes allumendas , quibus
fuccefius non difficilis fit, hoc confilium
Ariftoteles fuggerit : ln negotiis oportet unum
negociari ad unum opus , quia melior eft
cura intenta in unum , quam circa plura.
Perfedfa rei cujusdam notitia fic
exprimebatur olim : a capite usque ad calcem:
quod his quoque ver- bis dici poterit: d
capite ad pedes, ab ingreftu ad coronidem, a
vertice ad talos. Quemadmodum autem, prout
lupra relatum eft, negotiorum incompolita turba',
in ns, qui veram eorum praxin
ignorant, per- turbationem animi adducit, ita &
matura prcemedi- tatio tantundem expeditum
iter habet ad eadem feliciter terminanda,
&infecuritatem collocanda, ex quibus optimum
judicium, & rerum quantumvis involutarum
diferiminatio oritur. Magnus Peripa- teticus
nofter fic ait: unusquisque bene judicat,
quod cognofcit. In eundem fenfum Seneca,
iracundum hominem vult prius de re quaque
diligenter inquirere, qum in iram erumpat :
totum infpice mentis tua ady- tum : etiamfi
nihil mali falli poffit face fe. Et
Quintilianus: Nofcat fe quisque non tam ex
communibus praceptis, quam ex natura fua
capiat confilium for- manda aIHoms.
Stupiditas qmedam, aut mentis infenfata
durities, de ignorantia cralla exordium
fuumfumens, in iis, qui pro cujusque
ratiocinantis arbitrio & voluntate, vituperium &
laudem fine diferimine cuique rei attribuunt,
hoc adagio figurabatur : Caput fine lingua.
Hoc idem Sententia Pedana infinuatur, qua
olim Senatores determinationes fuas, pedelignificabant,
Sc concludebant : unde Sc Senatores pedarii
appellati funt,qui lapiendorum fe judicio
conformabant. Talis erat Marci Tullii
filius, qui nunquam os fuurn aperi- re
ad fententiam dandam, vel mutire noverat,
procul degenerando ab intelligentia patris
fui. Horum calamitatem deplorabat Demofthenes,
illic nimirum in Olyntho, ubi in
ejusmodi plures invehens, declamabat : Homines focor
des prafentia negligunt, futura bene fuccejfura
putant. His adjungatur illud J uvenalis.
Inguinis capitis, qua Jint difcrimina
nefeit. Quod idem eft, ac fi dixerim:
nefeire eum inter turpe & honeftum, inter
nigrum & album diferimen. Similium
converfationem hominum ne in fomnio quidem,
ne dixerim in scholis suis Plato perferre
po-de Scienti/ii terat, quos tanquam
infideles rejiciebat: Nfaenti quid laudet, aut
quid vituperet, non eft adbibenda fides. De
merda Adienad,qu:e lapientia & fobrietate
inftiu- dta erat, contra eos qui his
finibus non tenebantur, fed de vitio
nefando ebrietatis facrificabant, mufto domiti,
Proverbium illud vibratum fuit: Capita qua-
tuor habens: utpote quibus unicum objedtum , in
varia multiplicatum apparet. Nec mirum eos
canta videre, qui tot vitis oculos
epotarunt: Hi fumo vini vaporolo tantopere
lui compotes non funt, ut nil eis
fubfiftere, fed eunda vacillare videantur.
Enormitatem vitii hujus aureum Chryfoftomios
fic super Gtn. deteftabatur: Ebrietas exc&cat
fenfus voluntarius hom 29. efl damon:
Ebriofo Afinus melior : Ebrietas qua- SuPer
Mntth„ dam Ira, Mater eft Scortationis j
tene pe flas tam in ^om' <‘9'
animo, quam in corpore. Natus eft inter
fulmina Xom 1°™' Bacchus ( fic fabula;
tradunt) hac prudenti mydiologia docendo, de
abundantia vini fulgura procedere, qua;
facile eidem deditos in cineres
redigant. T Am a Primordio Mundi
Hieroglyphica nata funt, in j ea videlicet
hominum tetate, qus adhuc balluciens 'dici
poterat, nondum habens characteres alios,
qui- bus mentem fuam, aut fenilium animi
exprimeret : itaque neceflarium eis erat,
communibus inltrumen- tis, & rebus ad ufum,
& utilitatem hominum fadis cogitata fua
exponere. Inter alias autem harum inventionum
maxime ferax, populatiflima ./Egyptio- rum Regio
fuit, ubi in parietibus interiora animi
prodebant. Ha vero obiervationes d viris
fapienti- bus, tanquam myfterio plens
colleds funt, quas ego quoque prout rerum
materies aut occafio exegerit , in medium
adducam, ut figuratus homo meus ex omni
adeo parte obfervata utilitate, curioforum
oculis le- gendus proponatur. Igitur per
Caput judicioli progenitores noftri tx
Valeriano principium cujusque rei fignificabant,
prout Caput de Capite. verum hominis
principium eft. Sic Varro docet: Bonum
Caput corporis eft initium, eo quod ab
ipfo capiant princi- principium fenjiis , &
nervi. Sic adagium fonat : pium. pifcem d
capite primum putere. Caput itaque bene
collocatum, bonam membrorum conftitutionem, &
complexionem denotat j fic prout qusque res
bo- num habet principium, ita finem quoque
ilium feli- cius confequitur : Dimidium finis,
qui bene ccepit habet. Sic Mula
poeta; Venulini fonat. Quam id ftudiosc
obfervandum , & ledulo huic invigilandum fit,
Peripateticus innuit: Principium quantitate eft
Eltnch. 2. minimum, pote flate maximum , D hoc
invento facile eft augere. Volebat Tullius
initia a fuperis fumenda Uh, 2. de legib .
elle: A Diis inquit immortalibus funt nobis
capienda initia. Per Caput itidem res
principalis figurabatur : Res princi- unde Marcus
Tullius ad Appium icribendo, fic ajc-
palis, bat: An tibi obviam non prodirem f
Primum Appio Claudio , demde Imperatori, deinde
more majorum j deinde {quod Caput
eft) amico ? Omne fibri principium Caput
vocatur, fic nomen illud Berelith in
feri- pturis idem eft, quod vulgariter Caput,
aut vero in principio. Quidam facrorum interpretum
per no- Divina men Capitis
filium Dei intellexerunt, quandoqui- principia dem per verbum
ejus diviniffimiam mundus
produ- incompteduseft. Et Adamantius, per Seraphim,
qui binis heniibil ia, alis Caput Dei
velabant, incompreheniibilia eilc m- B 3
quit, Divina ientia. Religio. hb. 1 Parvus mundus. Itb. 4. Caput fup altare. ef_ inquit,
nec detegi polle divina principia. £t cum Iit ellentiadivina omnium rerum tam carieftinm, quam terreftrium perfedillima, iic ab Eucherio nomine capitis
appellatur. Quod tantopere interTgyptios
v?nerationem tk reverentiam auxit (juxta id
quod Hieronymus refert) ut injuriam
Divinitati crederent fieri, liquidem qualecunque
caput aut male cibatum, aut male
tra&atumfuillet, mortuum uque ac vivum.
Usque adeo Religio ab iis, qui non
nili in oblcuro eam noverant, oblervata fuit:
fecundum quod Plinius lenior fcriplit : Religione
vita confiat: & in eundem fenfum Livius : Omnia
projpera fequentibus Deos eveniunt, adverfa
(pernentibus. Schola Platonica nobis feripto
reliquit. Caput noftrum ad fimilitudinem Mundi
compolitum elle, atq, idcirco Microcofmum
appellatum. Quis vero eft, qui hoc
non fateatur ? dum illic ik imprelliones,
&c Planetae, &tot negotia exercentur,
& generantur? Illic anima? noftru, tanquam Ipiritiu
informanti,duos dederunt circuitus : atque ideo
membrum hoc partem divmillimam,& principium reliquarum partium appellarunt,
utpote qua? huic in iervitium data?
lunt. Et quemadmodum Deus iple per
potentiam fuam, & prulentiam mundum replet
univerlum, ita & deli- ciae illius Tunc
converlari in orbe terrarum, prout liber
fapientix teftificatur. Quantumvis autem huc
probatione non indigeant, atidiatur nihilominus
inter tantos Manlius: An dubiam cjl
habifare Deum fub pectore noflro? In
ccelumcjuc redire animam . c.-doque venire? ia
Adhanccapitis lublimemdignitatfem magnam authoritatem
tribuit Helichius Hierofolymitanus: ob- Dignitas
terrena. Principi reverentia debetur.
I/Mi fervans ritum facrum, in lege
veteri celebrem, per quem caput vidtimu lupra
altare collocabatur, nobilius corde uftimatum,
cor enimirafeibilis, &con- cupifcibilis
fons eft , itaque non immerito fe caput
a corde feparavit: pofthuc iubjungit: Non
decet au- tem mentem folum dtvidi, Jcd efl
e velati vinculum, quod ajfeSlus nojlros ad
fanam rat ionem adjungat, at fe
devinciat. Dum de culefli ad
principatum terreftrem defeenditur, hunc Aigyptii
adumbrare volendo, caput proponebant vel fiilcia
regia vel diademate, vel camauro cindtum:
Porro Artemidori fequaces, 8c fodales,
quamvis vana luperltirione, liquidem ejusmodi
caput in lomno cuidam appareret, futurum
Dominium 8c Principatum portendere crediderunt.
Cum quanta igitur reverentia caput noftrum
conli- derandum & honorandum eft, cum tanta
quoque revereri, metuere, &: honorare Principes
oportet, tanquameosqui luminaria lunt mundi:
lucerna? politu lupra candelabrum, civitates fandu
fupra montes collocata?. Imo & ipla
omnipotentia divina Principibus prophetas fuos
viros lapientillimos able- gavit, iisdemqueiplis,
per figuras & unigmata locuta eft.
Curtius etiam, qui tanta de principatu fcriplit
, hoc pruceptum dedit : 0 '0 [equio mitigantur
imperia. Longe quidem a proportione Architebtonica,
vicinam nihilominus in contemplatione, a cceleftibus rebus
dependentiam rerum terrenarum elle, ut an-
tiqui ob oculos ponerent. Imaginem Serapidis Dei
repra?fentarunt, per quam moles mundi
intelligeba- tur, led qua? loco capitis
ingentem ca?lo vaftitatem portabat. In
gratiam quoque Nicocreontis, Regis Cypri
fequentes verius addiderunt: Sum Deus,
ut difeas , talis , qualem ipfe docebo.
Colefiis Mundus Caput efl, Mare venter
opacum, Terra pedes, aures ver famur m
athere fummo, Lux oculi, quam Solis habet jplendentis Imago, Hinc Palladem de Capite Jovis prodeuntem de Contemculo defcendille fibulati lunt: prudenter nos inftrupiatio
Para- 'ehdo, cogitationes noftras ad culum
lemper dire- d]ji. ttas elle oportere,
ficut diredum eft caput noftrum. Ad
hoc S. Ignarius Loyola refpiciens
exclamabat : G)uhm fordei mihi tellus,
dum c silum afl>icio ! & S. Zenon
Epifcopus Veronenlis: Jjhiamdiu , inquit, Ser. de Manytethrum
umbra profumunt , quamdiu fumofarum fib. urbium
nos carcer includit? Et S. Cyprianus ?
fefiinemus ingredi in illam beatam requiem.
Aliaque iniuper centum millia fidelium.
Propter quod & infideles, illi
fiimptuofiflimis delubris prufati Serapidis imaginem
decorarunt: Et in Alexandriavi- lum fuit
ejusdem limulacrum tam procera? magnitu- dinis,
ut ambabus manibus duos ponderofos luftine-
ret parietes de ligno & metallo conftrudos
: 'Ut ni- hil non complecteretur-, lubj unxit
Valerianus, quod terra vel proferat, vel
intra vifcera abditum occultavit. Adus
naturalis, quo quisque mortalium, dum ei
Salus vita?, periculum ludionis imminet, objeda
manu caput tuetur, a celebrioribus, tSc
notioribus terra? Natio- nibus pro Hieroglyphico
receptus fuit: unde & Aigiptiis lolemne
erat in quocunque ludu vel inopino cafule
capiti devovere, per illud jurare,eidemq-, fe
commendare. Hinc Tiberius Gracchus olim fa-
lutem populo devovere volens, hoc fidiilimo
figno in Capitolio comparuit. Sic
Ariftophanes ab Anacarnanis poftulabat: Etfi
jufla non profatus fuero, manu fupra
caput impofita, quaque univerfus approbet populus.
Ipfa adeo portenta ca?li his fuffragari
videntut ; quandoquidem Ca?faris ftatua? in
templo omnes fulmine de culo milio in
caput percullu, pru- fagium deftrudionis Sc
ruina? principatus hujus fue- runt qua?
etiam poft Neronis mortem evenit.
Usque adeo Romani olim prudentillimum
Ale- xandri Severi & Antonini pii filii ejus
regimen acceptum & gratum habuerunt, utfimulacra
tk piduras cum bino capite, fimul invicem
jundorepru- fentaverint. Huc in annulis, tk
monilibus porta- Profperita' bantur, huc auro
<Sc argento imprimebantur : pro- Imperii.
utGruci & Macedones in figura Alexandri
fecerunt: ita ut matronu illuftres pro
ornamento, & mundo muliebri his figuris, tk
monilibus uterentur. Huc fuperftitio a Chryloftomo
Magno reprobatur , inve- hente in illam cum
prophetico dicSto: Mendaces filii hominum in
flateris. Huc bina capita dixerim ego
elle oportere, providentiam in bono, 8c
prucautio- neminmalo, cum axiomate philofophiu
naturalis: Bonum ex integra caufa,
malum ex quocunque de- fieflu. Diodorus
volens Mufarum lignificare impullum, quu
videlicet cum fuavi quadam violentia.ad fe
pQ^t2.> Genium attrahunt, Caput Fuminu
reprufentavit , quu capillos in fronte contortos
, vel involutos, aut quali per humeros
expanfos monftrabat. De his Sulmoneniisajebat :
Efl Deus m nobis, agitante calefcimus illo:
Sedibus othereis (pintus ille venit.
Et elevarilllma pcnnaCommendatorisT efti
fic exprimebat : A me di quei lumi
IA Infiuen ce cor te fi Genii
inflillaro a Cafle mufeamico: Si lungo i
duo gr an fiumi Aufido , & Imeno apprefi
Urattar con ‘Tofe a man plettro pudico ,
Tungi da rei co (lumi Folfi il
pie vergognofo, &dove fiorfi Reqnar
virtude , m amor. sto jo cor fi,
Inulrimis, vel primis Corinthi viciniis
inveniebatur olim Liba.de Con- scierat.
ad Eugentum Obftinatio in peccato, absque pavore
peccati. Occultare
[e ad ailalcum inimici. In Ef. \n
hifloria S axonum. Sui ipfius cuftodia.
In quodam Serm. De arte amandi.
olim caput mulieris usque adeo
deforme , & horridum, utipfe terror, fi ad
fui expreffionem, fimula- chrum ei vel
imago eligenda fuillet, invenire aliud
monftruofius illo non potuillet. Paufanias
vir literatus, & Legislator ibidem nominatifllmus
legem pro- mulgavit, per figuram hanc,
intelligi oportere ima- ginem, terroris. Quidam
illud imaginem eile Ca- pitis Medufe
voluerunt, Domitianus ex hinc volens
quandoque iis, qui fe non alio oculo,
quam exterioris apparentia: intuebantur, terrorem
incutere, &fe formidabilem reddere , caput
hoc in pedore porta- bat. Hoc eorum
obverfandum ellet oculis, qui dum male
operantur, divinam juftitiam poli tergum fil- um
collocant. Sed nimium, pro dolor ! verificatur
illud, quodS.Bemardus ait : Cor durum eft,
quod nec compunctione Jcinditur, nec ' pietate mollitur
, nec movetur precibus, nec minis cedit,
exemplis non inducitur, beneficiis induratur, flagellis
non eruditur, & ut in brevi cunCti
horribilis mali mala compleCtar, ipfumefl
quod nec Deum timet, nec homines reveretur.
Obfervarunt Aftronomi intra decem gradus
Scor- pionis afcendentis fupra Horizontem Caput
quoddam omnino deforme, & cum prominendis
fiuis tortuosum, fiipcr hac cavitates usque
adeo male compositas &inamvenas, ut, fi
fieri pollet, hac portentosa deformitas ipfi
adeo cceIo terrorem incuteret. Confiderando
peffimam figni hujus qualitatem, & afpedum
ejus horrificum, dixerunt profati Astronomi,
ab hoc inftrudionem moralem nos deducere polle,
ut nimirum noverimus ab allaltu inimicorum pra:cavere, qui non fecus ac lignum illud in medio blanditiarum, &
amplexuum, eludunt, decipiunt, & opprimunt.
Pra:ceptum politicum eft Principi contra hujusmodi
occultos hoftes, non minus, quam contra
inimicos exercitus praemunitum elle oportere,
fi vel minimum prudentis fenfum
pofiideat. Chrytostomus etiam minimos horum
adverlariorum obfervare moms, eloquentia fiua
docet: ubi tam in campo verfare gladium,
quam in templo pastorali pedum polle
videtur. Nihil, inquit, perniciofius est, quam
hoftem , quamvis imbecillum con- temnere. Et
Vegetius nos inftruit: quod adverfaruts
reconciliatus etiam vehementer cavendus fit.
Universum hoc etiam de invifibili inimico
intelligi poterit, qui, juxta Apoftolum, tanquam
Leo vorax, circuit quarens , quem devoret.
Cum per natura: legem, ad lui
tutelam quisque fe pradervare, & defendere poflit,
idipfiun Aigyptii indicarunt, cum bina aut
depi&a aut fculpta capita expofuerunt, virile
alterum, quod introrfiun lpedlabat, alterum
muliebre, quod circa exteriora objefta
pupillam oculorum circumgyrabat.
Horus Appollo figuras & significationes confimiles,
usque adeo perfpicuas elle dixit, ut
ulteriori expofitione, aut externa inferiptione
non indigeant. His imagi- nibus, cum
fuperftitiofa, dixerim. Religione, prophani idolorum
cultores Diis infernalibus defun- ctorum animas
commendabant, adjundtis literis duabus D. &
M. Si cum hac cautela incederent hi ,
qui paffionibus filis in tranfverfum rapiuntur ,
& fe- ducuntur , non tam incaute fspius
aperto pedore in telahoftium, in globos
lediales, in gladios & in- fidias
incurrerent. Per commune proverbium S.
Bernardus nos, quantum dodtrina hsc cuique
ho- minum proficua lit, inftruit dum ait: Solet
dici, bonum cafiellum cuftodit, qui feipfum
fervat, & ob- fervat. Dumque nos amare
docet Ponti Incola, fic ait: Non
minus eft JAirtus, quam quarere, parta
tueri: Cafus ineft illic: hic erit
Artis opus. Corroborat qua: di&a funt
Hieroglyphicum pru- dentis , quod a fapientibus
Romanis in fimulacro Jani bicipitis
figuratum fuit : cujus finis erat ut re-
Janus, prsfentaretur memoriam fidelem confer
vandam prsteritorum , & futurorum eventum cum
fagacitate prsvidendum. Unde juftiflima eft,
& nonabs Prudentia» re , de eodem fubjeCto
Perfii exclamatio : O Janae d tergo quem
nulla ciconia pinxit. Inde templum
quod Antevorta, & Poftevorta appel- latum, 8c
a Romanis cum fingulari judicio apertum
fuit. Sed de his figuris maturius in
fecunda parte in- tegri hominis ratiocinabimur :
quod prsfens attinet adhuc illud referendum
eft, quod Demofthenes in Apudstobt* Olyntho ait :
Non tam videndum quid in pr&fentia
umblandiatur , quam quid deinceps fit e re
futurum. Et Plutarchus: Prudentia non corporum
fed rerum eft injpeElio. Sed hic
le&orem meum primitus ad vivum fontem
Ediics Ariftotelics tranftmitto: imo vero advenas
perennes gloriolillimi DoCtoris Ange- lici Divi
Thoms de Aquino denique ad id quodcun-
que pofteritati imprellum, 8c latiori deferiptione dif-
fufiim reliquit Comes Emanuel Thefaurus in
Plfilo- fophia lua morali. Porro ut
antiquitus, in uno fimul omne tempus
TemporsU colligatum reprslentarent, prsteritum,
prsfens, & futurum, inunobufto terna
capita figurarunt. Sic Hefiodi interpres
ratiocinatur. Inventio hsc, prout refert
Paufanias, Alcamenis eft: Et de Luna Virgilius:
Luna, Tergeminamque Hecatera, & l^irginis ora
Diana. Uthsc tempora fedulo dilpiciamus,
&prsvidea- mus. Sapiens nos exhortamr
dicendo : Omnia tem- pus habent: Et hinc:
Tempus plantandi, & tempus evellendi quod
plantatum eft. Hic Cardo major eft,
ut in Mundo vivere bene noverimus: Tempori
par- cere, id eft, opportunitatis locum
expeClare, optimi, & prudentis eft, fic
Marcus Tullius inquit. Et Ovid. Dum
licet , & flant venti navis eat. Sic
vulgo dicitur: Dum ferrum candet, cudendum eft.
Sed nimium vera funt qus S. Bernardus
inquit : N ihil pretio fi us tempore, fed heu!
nihil vilius hodie invenitur QUamvis jam &
vulgo notiffimuin fit , nihil- ominus ego , ne
ab ordine mihi pnelcripto, in Principio
Oftentuum & Prodigiorum difcedam, non polium
quin illud tantopere decantatum commemo- rem ,
de quo inprimis mencionem Plinius habet:
vi- lib. 28. c. 2, delicet tum
cum prima Romane Urbis fundamenta Fundamen-
jacerentur, in ruinis hifce profundis
inventum fuille taRomat. caput, recenti
fanguine tindhim, conlperfum , & quali
diftillans, itauta bullo noviter avulfmn
credi potuerit : quod futura: felicitatis huic
urbi omen fuerit, pra-iagiens eam non
tantum Romani Imperii, sed totius iniuper
orbis Caput futuram. Sic enimvero pluries,
qiue nobis contigille fortuito cafii videri
pollimc, divina pratordinatione diriguntur, ut Mundus
his moneatur, & in futurum fibiprofpiciat
Variis adeo Altillimus uti mediis
confuevit, quibus hominem adfevocet. Non
cafu quodam, fed ad inftrudlio- Vocativo
nem & difciplinam converfionis olim in
afigypto divina, plaga; Pharaonis contigerunt:
in Rubo flamma. Columna nubis, &
ignis. Virga prodigiofa, manus repente leprofe.
Mons fumigans, & horum fimilia. Sed
cum ejusmodi portentis non corrigerentur,
ecce illud Salomonis experientia comprobatum
elt: Uiro Proverb.c.19, qui corripientem
dura cervice contemnit, repentinus ei fuperveniet
interitus, & eum fan itas non sequetur.
Propter quo fagacitate opus eft, ut hac
prasfa- giapoffint intelligi: ficut nec
illud Amalecits fortuitum fuit, cum fceptrum , Sc
Regalem Saulis paludem Regi
Prafagia. lib. x. Hift, Caput
in tempeftate delapfum. Mutatio
Regiminis. E[>. ad Bovil- lum.
Unde monstra. 1 6 Regi David,
tum quidem adhuc Duci turma: militaris, ad pedes projecit,
iedhic rurium Lectorem meum, li de hac materia eivifimi fuerit ampliora nolle, ad Davidem meum mu ficum armatum
ablego. Bugattus fcripto reliquit: ante
mortem Barnaba Viicontis, qua: paucis
pcfthac fubfecutaeft: in palatio ejusdem
incendium occepille, atque in- ter atra flammarum
volumina comoaruilie Caput. quod ipiiun quoque
ardere vilum lit , idque multo temporis
(patio non dilparuille. Sic Anno Domini
noltri millelimo quingentefimo qua- dragelimo
quinto, tum cum Henricus Dux Brun-
Ivicenlis cum Duce Saxonico belligeraret , in
civitate Argelia exotica* magnitudinis grando
delap- Li eit , inter hos autem glaciales
globos, caput quoddam reterens imaginem Saxonici
Ducis inven- tum eft , a quo poftea
Brunluicum m'bs & Regio debellata fuit.
Seducftor lpiritus, ut animos ad cultum lui
quamtumvis prophanum alliceret , de- cidentibus
calo laxis , jumentis humana voce
loquentibus , cumque aliis diverlorum generum monltris,
porro in victimis luis, quas quan- doque
omnino inter manus Sacrificantium disparentes
reprafentabat, non lolum militares viros , fed
ipfas adeo matronas ad lacrificia, ad
Lupercalia, ad Ledlifternia, ad Saturnalia, 8c ad
innumeros ejusmodi ritus gentiles currere ,
Sc properare fecit. Unde & in pluribus
locis Livius refert, quod majoribus hoftiis
placata ftnt Numina . De tonitru autem 8c
fulminibus , qua quali quotidiano even- tu
decidebant Poeta inquit : Difc it cjuftitiam
moniti, & non temnere divos. lpia quoque
omnipotentia Divina, quamvis inter candelabra
aurea, lacerdotali indumento vel podere veftita, in
labiis Iliis nihilominus gladium utraque
parte acutum portat : & hic ille ei! de
quo propheta meminit : Si acuero ut fulgur
gluti, um meum, oS arripuerit judicium manus
mea. Utque hunc gladium metuamus Regius
Propheta inquit : Nift converf fueritis gladium
fuum vibra- vit , arcum tetendit , & paravit.
Felix qui ex ejusmodi magifterio novit
emolumentum fuum capere. Dum Galba
Provinciam Tarraconenfem introi- ret , & in
vicinia publici fani caput infantis immo-
laret, idipfum continuo Sc ex improvifo in
leni- lem canitiem transmutatum fuit ,
cum infolito circumdantium ftupore , unde dc
Harufpices de hoc lplo prafagierunt, futuram
propediem ftatus & regiminis mutationem; id
quod etiam fuble- cutum efl. Non
minus prodigiofiim fuit Caput ihud, quod
pontificia tiara redimitum compamit non
modico tempore in acre , circa annum Chri-
(fi quingentelimum odavum. Relationes Craco- v
lenies recenfent. in Sarmatia Anno Domini
mil- lelimo fexcentelimo vicelimo tertio e
flumine Villu- la c aquile pilcatores pileem
humano capite lpedta- bilem. Sagaciflima
inventio, qua: de manu ingeniofif- lima
Creatoris procedit ! verum enim eft, quod
poeta inquit : l^uait m humanis divina
potentia rebus. Sic deledatur Deus
operibus fuis nobiliflimis, &: pulcherrimis,
contraria omnino producere. Eve- niunt monftra
vel excellii, vel defeclu natura: : dum
vel nimium eft quod operatur , vel dum
in toto, aut parte quadam totius deficit j
hinc eadem pulchritudo, juxta fententiam
ejus, qui Amator Lama: fuit, eo quod
videatur terminos concinnitatis excedere ,
intuendo & membrorum proportionem monftruola
appellata fuit. Oh delle Donne altero, e
raro moftro ! Hinc cum in domum
Xandii introduceretur > atque in
ingrellu luo dElopus, hic Carbo animatus, e
Phrygia usque adeo difformis , <Sc tam
prodigio- (z turpitudinis appareret, univerfa
familia conturbata obftupuit , da materfamilias
ingenti vocife- ratione virum liium inclamat: Unde
hoc mihi monftrum attulifii? Monftruolum
appellari con- fueverat ingeniiun D. Thoma:
Aquinatis , tanquam quod communes intelligentia
humana limites tranli- ret , & omnino etiam
optimis praftaret: vera aquila , qua fixis
oculorum pupillis intendere poterat in lolem
illum , quem tam condigne porta- bat in peclore. Nero
monftrum crudelitatis nominatus fuit. Hoc etiam
nomine transmutationes vel Metamorphoies
nominantur : unde Ovidius de fororibus
Phaetontis in populos arbores transmutatis inquit
: Affuit huic monftro proles fthenclcta
Cygnus . Sic Gygantes , & Pygmati , fic
qua pracocia & pramatura linit in homine,
vel mixtis, vel animalibus, vel plantis, vel
petris, vel in lignis, quidquid aut excedit,
aut deficit in communi natura curfii , monftrum ,
aut monftruofum dicitur: Lac praterea
nomina fortiens : Oftentum, Portentum, Prodigium, Miraculum.
Inde iis inharendo, &c concludendo qua
lupra jam relata funt, pro coronide
hujus capitis vel capituli referam id
quod Ilidorus fcripfit : Monftrum ita nuncupatur,
Lj^ 2> or^ quia aliquid futurum
monftrando homines moneat \ quapropter
nonnulli hac ratione dubii monftrum qua-
Ji moneflrum appellarunt, vel quia monendo
aliquod myfterium diviru ultionis pr.tmonftret ,
vel quia ali- quid ftngulare a ftngulis obfervetur,
& propter ad- mirationem digito monftretur.
Ipfa adeo Iris in pulchritudine fua
prodigiofa nos exhortatur ut Factori fuo
debitas referre gratias de tot benefadtis
erga nos non definamus: quod fi minus
fa&um fuerit, intuendo eam ut arcum
incurvatam, utique de irafeente Deo habemus ,
quod vereamur, cui nunquam deerunt fagitta,
ad feriendos impios, qui vitam luam
male degunt. A. PAgani olim
barbaro omnino , fuperftitiofb,\ imo <k
nefando ritu Larunda Dea , vel Ma- nia ,
qua Deos Lares genuit, humanum Caput litarunt ,
opinati hoc lacrificio nefando penates fuos
ab omni invaiione hoftili fecuros fore :
qua impietas e medio fublata , dc penitus a
Junio Bru- to Conlule abolita fuit , qui
ftatuit ut in vicem Capitum humanorum
capita papaverum immola- rentur & dedicarentur.
Hoc cruentum nihilominus idololatraram
facrificium mftru&ionem prafefert maxime
utilem & moralem patribus familias &:
qui- buscunque aliis, quibus domus cura
concredita eft, ut videlicet fe laribus
fuis dedicent, mentem fuam dc cogitata
fua ad domefticorum & domus totius adifi-
cationem & gubernaculum dirigant-fui &:
fuorum in- defeflam follicitudinem
gerant,expenlas cum receptibus fuis ponderando :
tantopere morigerati, & disciplinatifint, ut
nemo habeat, quod de prapofte- ro agendi
modo conqueratur. Ad hunc fcopum collimant
Doftrina Peripatetici noftri , in Ethica: ubi
ceconomica , herilis , familiaris, & monaatica vita
&: regimen defcnbuntur. Imo & Apoftolus
Pau- Regimen domus. Epift. ad
Tim. c.j. jipud.Phaar. Memoria
mortis in Conviviis. 24. 12.
Moral Fortitudo contra ad- verlitates,
& passiones. 6. JEneid. De
irae. 3. Paulus definiens Epilcopi
boni munera , inter alias virtutes eidem
necellarias requirit : ut fu a domui bene
prapofitus Jit, jufta illatione inferendo, fi
quis autem domui fu a praejfe nefeit,
quomodo Ecclefut Dei diligentiam habebit? Sic
Prienenfis Bias inquit: Optima illa domus
efi, in qua talem fe proflat Dominiis,
qualem foris leges cogunt. Et Cleobolus
apud Diogenem: Priusquam domo quis exeat,
quid altu- rus jit apud fe perrrafiet :
rurfus cum redierit, quid egerit recogitet. Et
Pythocles: Oprime conjiituta domus , in qua
fuperfuum nihil abundet, & necessarium nihil
defit. In more politum Celti'
antiquitus barbara gens habuit,
de hoftium occiforum corporibus amputare capita,
atque eadem evacuata, Sc exiccata, tum
deinde auro tedla in conviviis Sc
folennitatibus proponere, iisdenique pro poculis, dc
patinis uti. Si tantundem, quantum cum
luorum hoftium calvariis agebant hi barbari,
Chriitiani quoque inuni- verlum mortuorum
fuorum capita in conviviis exponerent, fi,
inquam in his lautis epularum lolem-
nitatibus defiindtorum memoria Eepius revivifeeret,
& tanquam Ipeculum convivantium oculis proponeretur,
fortallis eorum menfie frugalius plandtu ,
quam ebrietate aliisque iniuper indecentiis,
rixis , dilcordiis , &: perturbationibus
inordinatis, qui ex ebrietatis vitio derivant
replerentur. Sic Moraliita eos, qui talibus
menfis absque omni metu allident ,
cum lient in ipfo limine lepulchri, vellicat
? Jfuia incertum e[t, quo loco te mors
ex- pellet , tu omni loco illam expctla.
Et Gregorius : confiderat quali s erit in
morte , femper pavidus erit in operatione.
Arieti , utpote primo Zodiaci figno, Sc
quod ejusdem caput lit , &: omnem in
eo potentiam , for- titudinem, &: vigorem pollideat
, antiquiores Astronomi Caput amgnarunt , dicendo: Eos
qui lub hac conftiturione in trino, aut
lextili nati fuerint, optime lituatum caput ,
bene fanum, fine doloribus, line fluxionibus
habituros. Sed ego potius hoc Caput
optime flabilitum dixerim, quod plenum
generofitate, & virili fortitudine , finiltris tortum
calibus, vel palfionum violentiis contrallare
nove- rit. Obdurandum adverfus urgentia, in luis
Emblematibus exclamat moraliflimus Alciatus. Dicebat
Diogenes ad magiftrum Ilium fe percutientem:
Non tantum tibi virium erit ad me
ferien- dum, quantum roboris ell dorfo me6
ad fuftinen- dum. Et hoc ell illud
unde Aineam fuum animabat Sibylla apud
Mantuanum. Du ne cede malis , fed
contra audent ior ito. Quod vero attinet
palfionum vidtoriam , & clavi Herculis , & fcuta
Atlantis , & igides Palladis, Ancilia Numi ,
ipecula Ubaldi , annuli Melilfi , convenientes ad
hoc allegorii funt. De his etiam
Bernardus ait : Major ejt viEloria hominum, quam
Angelorum : Angeli fine carne vivunt homines
in carne triumphant. Portentolum erat videre
Senecam ( prout ipfe de feiplo refert,
dum de viifroria fenfus, & de hominis
irafeibili loquitur) fufpenfa in acre manu,
qui flagellum tenebat, cailigaturumfervum immorigerum,
dumque in hoc a£tu deprehenliis, interrogaretur,
quid hoc rei? relpondit : Exigo poenas ab
Iracundo. Ut intentiones, & affedus, & palfiones humani
exprimerentur, a fapientibus llatuarum, 8c
Scarlattini Hominis Symbolici 'Tom. I.
fimulacrorum ullis, una cum variis corporis
& membrorum dilpolitionibus inventus fuit ,
quibus vel ftuporem, Vel confidentiam , vel
amorem , vel odium, aliasque in homine
pndominantes qualitates figurabant. Statuariorum , &
fymbolici artis peritorum hic gloria eil ,
e pidlis telis fuis, & lapidibus Iculptis
etiam line voce humana loqui potu-
ille. Cum ergo affedlus, & commotiones animi
ad hominem fpe&ent, non fine lingulari
defedtu, 8c imperfectione propoliti operis hujus
foret, de his nil meminiile, fed cum filentio
priteriille. Ut cum facilitate &
delectatione duarum nobis Dolor li-
humanarum qualitatum notitia daretur , quarum
ncia ima non nego, media ell , odiofa, 8c noxia,
duo Capita Joannes Baptilla Porta, nobis
videnda demlibr.de dit, quorum alterum
fixis oculis , & melancholico Fort. lit.
notis. intuitu terram Ipedlabat, alterum hilare
& jucundum cilos intuebatur : in horum uno
dejectionem animi notabat, tum cum curarum
ahxietate deprimitur , & languentibus oculis in
terram fixus, fe in hafce tenebras
praecipitare velle,
alterum ad tranquillitatem illam gloriae alpirare de approximare videtur,
quae ell finis & meta humanae vita: iloltra?
In altero horum Synterefis culpae
recognofcitur, qua: Synterefis tanq lam
gladius fupra caput Demadis Rei fufpenfa
in Innocen» rr. initatur: alterum per modum
Apodis ultra nubes tia. le volam fuo
levans , inferiptionem illam judiciosam confecumm
ell: Defpicir ima. Alterum non fine ratione
dici poterit Cain aliquis fratricida , im-
pius, perfri&ae frontis , & inhumanus, alter
econ- tra manfuetus Abel , plenus tranquilitate , &
amoe- nitate vultus. Hic velut Democritus femper
ridens, prout eum Poeta loquentem
introducit: E vanita, 0 Mortali Brufin,
Delie miferie voflre, Dalle affhte
pupille Con infimo dolor gron dare il
pianto » Alter velut Heraclitus femper
plorans, in antro Trophonii fepultus, quem
nec menfa: Luculli, nec Panchaia: amoenitas ,
nec Tempe confolari potient. De uno
eorum ajebat Marcus Tullius: Ego femper hac
opinione trattus fui , ut eum , qui nihil
commfi- Jn rit , fibi nullam poenam timere exiflimdrim
: de Al- tero fapiens ait : fugit impius
nemine perfequente : Quibus S. Bernardus
adjungit : Infernus quidam , prov lg & carcer an
ima efi,
rea confici entia. Serm. di Porro ad eorum frangendam &: terrendam impieaijjumpt. tatem,
qui non verentur detecto sarcophago, & lapide lepulchrali amoto,
defunCtorum famam sub terra dilacerare, inlculpi talibus faxis
MeduEe caput iacobon in antiqui voluerunt,
cujus capilli degenerabant in co- Apo/og
de lubros. Prudens enim vero inventum,
ex eo quod Z’"* i*”* infamis
carnificina eil fevire in corpora mortuo-
^on mur' rum, quorum anima: quotidianum
implorare fubti- murandum dium non ceilant.
Cum Larvis non luttandum, m°rtuiSi» ait
Moralilla Alciatus. Viliffimum pecus leporum
ell, qui pedes Leoni mortuo vellicant , fic
recenlet Homerus: Non fianttum efl viris
interfettis infui- tare. Ad hujus vitii
deformitatem luculentius de- monftrandam ,
ejusmodi homines Plato canibus aquiparat,
quijatfrum in fe lapidem mordent, cujus
hxc verba funt : JJ)uid putas eos, qui
ita fe gerunt, tib. $. de differre a
canibus , in jacio s lapides fivienribus , eo Repub.
qui jecerit pratermiffo ? Intellexit
ManaflesRex , cur fibi videntium no- men
propheta* adlcifcant : Hic enim Ifaiam prophetam c
medio fuflulit , confcindens vivi corpus ferra,
C & CAPUT. 18 &
pofthac fe in forma quinque capitum depingi
, & fculpi fecit : ftulte ratus, /e
totum Mentem eile , non pravifo pracipitio fuo ,
& infelici/lima morte, & condemnatione fua.
Solet hoc evenire temerarie pra/umentibus , qui
cum fe omnia nolle arbitran- tur , nil
omnino norunt. Id palam exprellerunt My-
thoiogi in fabulis Icari, & Phaetontis.
Etiam infima fortis hominum hac fententia e
11 : eos qui alta con- templantur, cadere.
Inaqualitatem tam Archite&onicam, quam moralem
6c numericam inter ho- mines fuftulit S.
Auguftinus his verbis pulcherrimis : De Civit .
Dei Jatlantiam tolLu, CA erimus pares. Hugo
Cardina- eap. a. jis ejusmodi progeniem
hominum fequentibus ver- Lib. de Ani.
gls explodit : lnfipcns , quid tibi prodejl
vana gloria memoria, fi ubi es, torqueris ,
ubi non es, latu daris ? In
gratiam vulgi (quamvis id a multo tempore
jam periti viri , 6c fapientes noverint)
id quod fe- Caput Adit- quitur apponam:
nempe Calvaria montem ( lic tm m monte
Nauclerus opinatur) idcirco appellatum eile,
quod Calvar i a. in ea folia, m quam
crux Chrifti collocata, & in qua cruce
Redemptor mundi affixus fuit , calvaria vel
caput hominis inventum fuerit , idque volunt
protoparentis noftri Adam fuille. Voluit
per hoc lapientia divina & infallibilis
indicare, quod illic ubi caput hoc
condemnationis noftra origo fuit, ibi per
merita tam excelli sacrificii pofteritati
falus exoriretur; & ubi per lignum mors
vidtorio/a in- travit, per lignum delfrueretur.
De primo S. Pau- Vita $C Sa-
lus inquit: Aicut m Adam omnes moriuntur, ita
his per & inChriflo vivificabuntur: De
lecundo ficEccle- Chriftura. /ia canit : qui
in ligno vincebat, in ligno quoque vin- 1«
Cor. 15. ceretur: quod myfterium prafatus Apostolus
Paulus optime concludit: fattus cjl primus hamo
Adam in animam viventem , noviffimus Adam m
fpiritum vivificantem. Et paulo infra: Primus homo
de terra terrenus, fecundus homo de
calo caleflis. Supra quod Super hunc
j]lc{oms ClarusUt cum audimus Adam illum
prio- rem factum m animam viventem, id eft , ut
ft cor- pus animale, quod nunc circumferimus ,
confdere- muspoferiorem Adam pr&flantiora
allaturum , qua fprritus appellatione vocanda
fint. TTEroicus non minus, quam utilis &
decorofus JL Jl lemper a: Hamatus fuit
ullis humanas partesdno- netis imprimendi , ut
per orbem univerfum magna- nima gefta, heroica-
adtiohes tran/currerent, & aternitatem quondam confequerentur:
ftimulus proinde generoiis pedtoribus daretur
ejuscemodi illuftribus fadtis,
unde fama nominis nunquam intermoritura nalcatur, devovere animum. Pracipue
tamen hac gloriola memoria Principibus
refervata eft. Sic videlicet excellentia
figurati magnificatur, in hujusmodi fymbolis
virms fimul & adtio con- nectuntur,
ejus, qui in uuoque horum vel tanquam
literatus, vel tanquam Heros de/udavit. In
mone- Clementia C;1 quadam area Caput
Julii Calaris corona civica Principis,
decoratum cernitur, quod clementiam ejus
figurat: Principibus enim quam maxime
convenit tales erga cives fiios fe
exhibere. Hanc clementiam , tan- quam
praclari/Iimam Principum dotem iisdem Vopifcus
allignavit : Prima, inquit. Dos Impera- torum Clementia.
Et Diogenes lcriptum reliquit: Contubernales
juflitia fient pietas , cP clementia. His
potilfima olim /acrificia Athenis ,
in altari eisdem deftinato, mactabantur. In
quibusdam praterea nummis humanum ca- put
monftrabatur lauro redimitum , quod pharetram, aut
telum in occipitio luo portabat, fronte
ftellam contingens. Per hac intelligi
conferva- Pier, lib.z 3. toris Apollinis
beneficium influxum volebant, Hieroglyph. (prout
Valerianus fentit) ftella autem virtutem radiorum
ejus denotabat. Porro 6c caput aliud spedabatur
pelle caprina coopertum , habens in faucibus luis
fulmen , & in occipite arcum: ex altera Vigilantia,
moneta facie imago Pega/i apparebat , &
fagitta alata : qua fimulacra mentibus hominum
repra- fentabant , non folum Principis , fed
omnium eti- am eorum, qui regimini populorum
praftituti funt, in rebus agendis , & ad
fublevandos fubditos inde- feflam celeritatem
,& promptitudinem. Septem petra quas
Alti/fimus Zacharia Pj;opheta monftravit , feptem
principams figurabant: ha infuper /eptem oculis
dotata erant, licut & virga quajeremia
propheta monftrata ftiit. Non usque adeo
in exercitiis navigationis fua intentus
eile potuit Palinurus, tum cum infortunia
calamitofa temporis imminerent, ut non in
unico oculi nidhi in naufra- gium inopinum
incurreret , qui tamen juxta Vir- gilium :
.... Clavumque adfxus, &hstrus Nunquam
amittebat, oculosque fub aflra tenebat.
Docti/Iimus Erizzus oblervav it in monetis
Antonini Pii caput matrona plenum
majeflatis idque coronatum, qua corona c multis
turribus compofita erat , in limilitudinem
Dea Opis, quam fibula docent. Laodicea, Hac
figura fortitudo , &: propugnacula Laodicea
civi&tis reprafentabanmr, qua tot annis
impavide hoftibus fuis reftitit. Ex altera
parte caput hominis erat , quod in occipite
caduceum Mercurii monftra- bat, per qua
promptitudinem obedientia fua, tum & pacem, &
erga principem fuum fubmilfionem denotabat.
Talem eile oportet Vafallum , juxta mentem
Pythagora: Subditi non tantum morigeri Principes,
fnr, fed amahtes etiam fuorum magiflratuum.
Hac &c fubditi. in fe invicem
correlativa fiunt patris ad filium , imo
capitis ad membra: atque idcirco ( prout
Ca/Iio- dojrus meminit) Membrum fcqui debet
caput. Caput arietinis cornibus inligne ,
per supra memoratum observatorem Jovis lignum erat apud Amonitas Gentem ferocem:
cum aries apud veteres inflrumenmm bellicum
, &c fortitudinis lymbolum Cornua infuerit.
Imo vero cornu infigne honoris erat : non
/igne ho- uno id loco Propheta Regius
inquit: Exaltabuntur noris. cornua fttfii.
Exaltetur Deus cornu falutis mea. Sic
cum fabula referunt Jovem Nutricis Amalthaa
Abundan- Comucopia, omnigenis bonis adimplefle,
Mytho-tiadeUr- logis campus apertus eft dicendi :
abundantiam pro- bium forti- venire ,
liquidem civitates , & regionum limites
ficatione cum fumma vigilantia muniantur, &:
cuftodiantur. provenit. Hoc ipfum per
Numina tutelaria intelligitur. Natui. Co- Caput
hominis venuftum , & juvenile, mediam Mytkol, inter
virihtatem & adolelcentiam praieferens atatem,
lnnumifinate exprelliim, idque corona cin- 6him, unde
ramus lauri egrediebatur, Solem denotabat, qui
folus inter planetas coronam portat,cui
etiam Laurus dedicata eft,quod in amoribus
Daphnes, qua in Laurum converiaefl:,veteres
indicare voluerunt. Idem ipfe Sol per
caput radiatum in medio templi quadrati
exprimebatur, quali lucidillimum fimulacrum hoc,
per mundi ambitum idcirco volvatur, ut in gratiarum adtionem fibi debitam,
facrificia ab homi- nibus, per hoc mundi
templum ornati/limum exigat. Eadem imago
Solis per faciem juvenilem, cui nulla
in mento barba erat, figurabatur, tum vero
etiam De Sole Hiercglyph. Gratiarum
actio. Philip, i. Victoria
pbtenta. Hie- rogi- Roma Caput
Mundi. Lib. Hieroglyp. Saturnus
Agricultura; Inventor. Lib. 1. num. cap.
Bonum Sc malum. Lex contra
Adulteros. fparfos habens capillos, duos
ab auribus fiiis ferpen- tes pendulos
reprafentans, prout jam memoratus Audior annotavit:
exponens nil elle in terrarum orbe
tam remotum, quo radii folis, (quos
difperfi cri- nes referunt ) non pertingant: Sc
quia Sol artatis de- trimentum &:
caducitatem nullam novit, Adole-fceiltulum eum, &
imberbem elle voluerunt. Refert itidem
Valerianus vidifle fe in numilmate, veteri
fculptam faciem, coronatam radiis, balatam infuper
manum, qua; in acrem levabatur , in- dicans
prima orientis folis itinera. Tanta erat
huic Datori luminum Sc obfervacio , Sc
miniftratio , Sc adoratio. Interim gratiarum adtio,
fpeciofiflfma Sc acceptiflima eft monetarum
omnium , qua donari poilimt ; atque ideo Marcus
Tullius ajebat: Cui gratia referri non
potefl, quanta debetur, habenda tamen efl quantam
maximam animi nojlri capere pofjint.
Quandoque Capita monetis imprefia, cafus
militares cum felici fuccellu terminatos
figurabant. Sic in numismate quodam Imago
Claudii Calaris, juxta mentem prafati Erizzi ,
vidloriam illam quam Romani adverfus
Barbaros impetrarunt, ligni ficavit. Ad victoriam
hanc exprimendam, Valerianus vir do&ffifiiuus,
caput mulieris alatum, cum capillitio
retorto demonftrabat, allerens fe id- ipfum
in quam plurimis monetarum infculptmn obfervafle.
In his ipiis idem Caput muliebre, fed
coopertum callide apparebat: de quo non
pauci dixerunt, eiie illud effigiem vel
imaginem Urbis Roma, qua; virtute armorum
Iliorum Caput Orbis effecta elt: ex altera
parte vultum ilium infculplit Julius Cadar,
fed in figura Martis: alludere volens,
debere originem luam Romanos huic numini
belligero. Quidam etiam non irrita cogitatione
prafagierimt , Romam Caput fidei Chriftiana
futuram, ubi Caput Apoffolorum Petrus
primariam pontificiam ledem luam collocavit, ubi
hac eadem fides gigantea , Sc gloriola
membra fua extendit, Sc non lecus ac
Davidica illa vitis , potius quam illa
fabu- lofa Aftyagis a mari usque ad
mare extendit propagines fitas : atque adeo
Petrus Petra nominatus., eft, immobile Capitolii
faxum relpiciente Redemptore noftro.
Inventa lunt moneta; quadam, qua; ex
una parte duplicem faciem in cervice
una inonft rabant : dum ex altera figura
navis cerneretut. lineas Vicus di- ligens
horum infignium obfervator , per binam faciem
hanc, honores, & facrificia dedicata Saturno
vult intelligi, qui videlicet mortalibus ufum
tam agricultura, quam plantandi, putandi, Sc.
conlervandi vices edocuit. Rurluin alii per
hoc intelligi volunt lapientem Legislatorem, ante cujus
confpedfcum ftare, inquiunt, oportet faciem
boni Sc mali, ad reprimenda damna unius,
Sc. ad commoda alterius procuranda. Commentati
funt alii per hoc utriusque fortuna; , tam
profpera , quam adver- fantis tanquam fluminis
decurfum figurari , ut quisque noverit , tam
per citatos vortices, quam per placatas
undas felici navigatione ad portum fu-
nm appellere. De Tenedo Nummus comparuit,
qui ex uno latere duo capita monftravit,
ex altero lecurim, cum hac circulari
inlcriptione: fccuns Tenedia: explicatio lemmatis hujus,
vel proverbii inde derivavit. Rex Provincia;
illius ieveriffimis legibus, Sc poena capitis
mul&abat adulteros, fadum eft: autem ut
genuinus ejusdem filius hujus criminis reus
deprehenderetur: quidquid pro eo plebs intercede-ret,
ut in Yiiceiubusiuis propriis poenam hanc
moderari dignaretur, inflexibilis ad hac pater, coram
omnium oculis palam eum pledti capite
imperavit : Sc ut hac adtio
leveritatis retinaculum ellet e ftr cena- ta;
liventia: in populo, prafatas monetas elaborari
juflit , cum pramemorata inferiptione: Verum enim est,
quod literatiflimus Vir Camerarius ait:
Lib. j. amor urit adulte f Relliquias
Domina, relliquiasque domus. Et juxta lententi
am Ambrolii: Adulterium natura Lib. r. de
injuria efl : Hoc enim etiam feris , ac
barbaris dete Abram, flabile. Huic legi
fimilis illa fuit, quam Seleucus promulgavit:
ut adulteris excavarentur oculi: deprehenditur
filius ejus, ne utrumque oculum amitteret,
Pater pro filio unum perdere maluit.
C^Uin quanta devotione proftratum humi non
j oporteret efle hominem, ad referendas Creatori
luo grates, qui non folum ei divinum
Ipiritum fuum inlpiravit, dum animam dedit,
non folum eum de peccati iervitute,
fundendo fanguinem luum, redemit: propter quem
folum cadi fabricati funt, qui in
hunc mundum tot bonorum feracem locatus ,
di- vitiis elementorum gaudet , equorum qualitatibus
Oompolitus eft : in hunc mundum, inquam, in
tot mixtis ftecundilm: prater hac nihilominus
etiam in herbis, in arboribus, in
frudribus , in foliis , Sc in Eloquentia
floribus, quali in tot voluminibus conftitutionem
Arboriinu humanam , conditionem fuam , Sc llatiim ,
Sc asiones, demotus,
Sc imaginem fuam cognoffiit. Propter quod Sc fagacillimi
indagatores, medicinas,
ad reprimenda mala fua, congrua invenerunt. Ditiffi- ma Natura,
Sc provida omnino, qua signatufis etiam externis eos,
qui horum scientiam habent admonet, ut in
tempore luo Alexipharmaca Sc Reper- culliva
remedia adhibere malis fuis non negligant,
quibus utique propter Protoplafti peccamm
lat abimdanter lubjicimur. Quot folia, tot
lingua filfit, qua cum eloquentia non
verborum fed fidiorum, nobis utile noftruminfinuant,
imo bonum noftrum, felicitatem , Sc commoda
noftra, Sc experientia nos docent,
le oratores elle non verbis, fed fadlis
fce- cundos. Benefica Creatoris nollri manus,
cuique plantarum, Sc herbarum virtutem luam
indidit : Sc in ipfo cortice lignatura fua
nobis. exprellit ea, qua fub eodem continentur.
Dixerim ergo ftudium hoc non minus
cateris inperfedlo. .Botanico utiiitafcc plenum
elle, ut videlicet in cognitione lignaturarum, de
quibus didtumeft, virtutes herbarum nolle elaboret,
Sc ab externis adinterna penetrare fatagat.
Hic ergo, ubi de Capite n-y hi
fermo eft, de harum virtutum nonnullis
mccindtam mentionem fadluriis fum: ut
videlicet nec Ledlori meo, nec libro copia
rerum earum defit, quasliic deducere prafiunpfi.
Primum libi locum vendicat Nux juxta
eorum, qui maxime fenfati funt , opinionem.
Nux arbor fortuna eft, qua quandoque
inveteratum illiud axioma falfiim reddit: Nux cjuafi
nex, & nux a riotendo: utpote qua cortice
fiio utilitatem fuam adfert. Hac
integram humani capitis figuram hareditavit.
In exteriori Sc herbofo nucis cortice, tota
pericranii jqux f]crha forma apparet; in
cortice duro, parte videlicet ejuscura dem
folidiore cranium figuramr. In pellicula
irtte- qs riore qua nucleum ambit,
quis non meningem, aut piam matrem ut
cum vulgo loquar, circumdantem cerebrum,
quod in nucleo repraffentatur, cognofcat?
Non igitur mirum, fi decodlio corticis, aut
externi involucri aptiffima tingendis capillis
eft. Et quod his potius eft, lal inde
extra&us potentiffimum remedium eft, pro pericranii
vulneribus. C 2r Prouti etiam Phylici docent,
fiquideni nucleus contulus fuerit, Sc pulfui
applicitus, Alexipharmacum elle adverlum venena, &
cephalalgiis mederi. Nux Indica etiam cum magnitudine
fua limilitudi- nem capitis refert, atque
ipiiim pene caput adaquat, unde edam
fi oleum ex eadem extraxeris , corrigendis
capiris vitiis Sc defedibus ,
potens medicina eft. Flos pceonia:
colledhis, Sc intra folia ejusdem admo- dum
grandia reftrichis, non folum prolatam jfimili-
tudinem gerit, fed etiam in hilaris luis ,
nili melius dixerim juncturis , qua; eundem
reftringunt , vera quxdam effigies Commiilurarum
Lambdoidum, Sc redarum, velfagittalium reprxfentatur:
Hinc etiam pro infirmitatibus cerebri, &
radices e jus, & femina, & flores, 8c
folia cum utilitate adhibentur. Serpit Sc
in altum levatur Betonica, Sc Stoechades,
quali cum rotunditate foliorum, & floris:
diceres per Iulum quendam imitari velle
figuram fupra memoratam : unde nec a
medicamentis excluduntur , qua caput concernunt.
Capitatum papaver, tum & poma Cydonea, ficut
Sc cucurbita Sc melopepones eandem portare
videntur capitis imaginem : unde Sc a Medicorum
Schola, inter prxfervativa, Sc lenientia
adhibentur, ad capitis dolores mitigandos. Inter
alias Anrirrhinonfylveftre, <Sc quod flore
fuo, Sc femine calvariam humanam prxfefert,
prxftantiffimum propulfandis capitis doloribus
medicamen elle com- pertum eft. Sic verum
illud , quod cenfet Ofvaldus Crollius, Magnam
illam Matrem Naturam, lemper ad fer virium
noftrum applicatam, lemper beneficam ignaturii
elle. Omne , quod occultum ejl , inquit, & intnnfe
- u. cum , fert illius extrinficam figuram,
tam in finfibi- libus quam infenfibihbus
creaturis : tacentibus nobis loquitur vel uti quibusdam
natura , ac ingenium cuj us- que & mores
revelat. Quas igitur gratiarum adiones, quam
gratimdinem referet homo huic dextera: Dei
altiflimx, qua terram dedit filiis hominum, prout
Regius pfalmifta canit? SUblimillimus, utililTimus, Sc
generofiffimus fcopus, ad quem mortalium
genus in omni tempore £c in omni acate
potiflimiim colliniavit Religio Religio in est.
Sapienter enim de calo eunda nobis
provenire quanta apud le ftatuerunt, propter
quod Sc voca diis fuis vo-
arftimatio-verunt, vidimas immolarunt, Sc facrificia
obtulene fit habiriint. In iplis adeo
primordiis feculi hoc Reges Phari ta.
demonftrarunt, qui pyramidibus eredis, in quibus
Hieroglyphica fculpta erant, numinibus fuis
memoriam beneficiorum acceptorum infcriplerunt :
Sc quamvis illis fupremi Entis, hoc eft
DEI, notitia nul- la eilet , in immolandis
nihilominus vidimis fuis veraci pietate
quadam non caruerunt , Sc compoli- tione precum
fuarum uli funt. Elevatillima hxc virtus
eft, fienim a fine fuo fpecificantur adiones
no- ftrx, hxc pro fcopofuo cultum
habet alti/limi Dei : Etich. 4 Magnifica fiunt ,
ficut & honorabiles ,
qua deorum caufia fiunt dedicationes, feribebat Philosophus. De honore illis debito,
ipfam pene elevatiflimam sapientiam xmulando, dodilnmc scripferunt,
non inter ultimos, sed primos numerandi
philofophi, Linus, Orpheus, Tales , Mufxus , quos
Zoroafter ftella- rum omnium indagator
inter Deos adorabiles annumeravit. Ve lfid
e & Sic Aigyptii, prout Plutarchus Sc
Diodorus voojuule. lLlnt , res eximias, Sc
negocia ponderis magni, monumenta templorum ,
icripturarum interpretatio- nes, prxmia, Sc muldas,
adferibi facerdotibus, per eosdem gubernari ,
tradari, dividi, & concludi voluerunt: Denique,
prout M. Tullius inquit , omnes 6. Aci . in
religione moventur , & deos patrios, quos a
majori- Verrem, bus acceperunt, colendos fibi
diligenter, & retinendos arbitrantur. Unde Sc ego
in horum confidera- tione, opus hoc meum,
Sc obtufum, Sc lumine fuo deftitutum
arbitrarer, nifi de facriflciis quoque, Sc dedicationibus, (quamvis eorum milii pauca admodum
occurrant) nonnihil etiam afferam, de iis videlicet, qua: pro cultu numinum de partibus humani corporis fada funt. Jovi itaque,
tanquam Cadorum Capiti, quidam Caput de-
antiquitus Caput obtulerunt: arbitrantes, quod
ficut dicatum fub illo (de quo
Lucretius inquit : fupner efi quod- Jovi.
cumque vides, quocunque moveris) extera Deorum turba
verfatur , fica Capite extera quoque membra
dependere: opinio , quam ita fixam elle oportet
in iis, qui Deum adorant, ficut ei
lubftantialeeft, rationalem elle. Jjfua Dii vocant,
eundem, lic vociferantur non Chriftianorum, fed
paganorum lcholx. Ita vero Sc verba
Senecx in hunc lenium mordacia Sc
pungentia funt, qux prxterire nequeo, dum
de penna gentili volatum Chriftiani adverto.
Prope Deus efi: tecum efi, intus efi
: Ita dico Lucili : fiacer inter nos Seneca
ad fur itus fidet, bonorum , malorumque
nofborum ob- Lucilium, fervat or , & cufios : hic
prout a nobis tr ablatus efi, ita nos
ipfie trabi at. Bonus vero vir fine
Deo nemo efi. Quidam intuendo in
circulum folis, dum nubibus fuis cindtus,
fele hominum afpedui videndum prx- bet, Sc
in eodem fimilitudinem capiris figurantes (a
quo etiam , tanquam a capite, fonte, Sc origine
Caput dequadam omne bonum noftrum derivare
non cellet) dicatum habere eum itidem
in generatione hominum partem Soli,
principalem, juxta illud: Sol & homo
generant homi- nem: illi vota fua folverunt ,
Sc prxfatam majorem partem caput nimirum
fub dominio ipfius colloca- runt. Quanto potius
igitur, Sc quanto utilius Anima Chriftiana
fe Redemptori fuo devovet: qui Solem
Chriftus fiuum oriri facit fuper bonos
& malos: prout inquit Sol. Apoftolus? Hic
verus foleft, de quo propheta Ma-
Malachias. lachias inquit: Orietur vobis
timentibus nomen meum Sol juJhtia: Atque idcirco
huic fupremo foli noftro plus quam Achxi,
plus quam habitatores Heliopo- leos, plus
quam Arcades (de quibus Pomponius, Sc
Melas, Sc Suidas, Lactantius , & Macrobius
Sc alii meminerunt) oportet ut Chriftiani
laetificemus, dedicemus non tantum caput, fed Sc
corda noftra. In hunc modum Gloriofiflimus
inter Sandos Antonius S. Antonius Patavienfis
feripto reliquit : Sol eft Chriftus, qui
In- Patavienfis. cem inhabitat inacccjfibilem:
cujus claritas omnium Sanbtorum radiolos,
fi ei comparentur , obfufiat, & In Apocal.
denigrat, fifihua non eft Sanblus, ut efi
Dominus. Confiderando virtutem Sc potentiam
Arietis, quippe qux in ejusdem capite lita
eft ; (Etenim fi hanc partem exceperis, non
habet unde le defendat, vel offendere pollit)
Cum prxterea lignorum Zodiaci Caput caput
lit : ubi fol , pro communi Mathematicorum
arietis. Sc Aftronomorum lententia, curfum
anni novi orditur: fapienter ftatuerunt hunc
parti illi hominum , capiti nimirum
patrocinari. Propter quod fub fe- lici
hujus conftel latione natos , immunes a fluxionibus,
abfceflibus, catharris, epilepfiis, &
horum limilibus futuros ominantur: ficut contrarium
evenire iis, qui eam male pofitam Sc
fituatam, fub orientis porta invenerint. Hic
ego dixerim imitandum Refiften- nobis hoc
animal elle, ut videlicet opprefllonibus,
Sc dum Infor- infortuniis fortiter
refiftamus. Melius enim Nau- mnils
cleri peritia patet, ubi fludus, Sc ferocitas
tempestatis defxviunt. Spetlaculum fove dignum, in Seneca,
quit Seneca, videre hominem in affiibhonibus
pofi- tum. Reftitit magnanimi ter his
fortunx liniftrx cafibus Propheta Regius,
dum inquiebat: Impulfus, everfus fum ut
caderem: Dominus autem fufcepit me. Memoriam
immortalem nominis lui pofteritatitransmii erunt,
ambuftamanu, Scavola , Cocles fupra pontem ,
Curtius in voragine, Gracchi, Meffalla, 8c
Corvini ciun hoftibus conflictati : & Ana- xarcus,
contufus & contritus ab Anacreonte Tyranno ,
tum cum ajebat: tundite Anaxarcum Ji- dera
celfa petit. Bonum e it limilem eile Lima,
de qua fcriptum : Oppojita Clarior : aut
vero flumini, de quo illud refertur :
Quanto pia fi rattien, vie pias smgroffa.
Ita lilium inter Ipinas: magis redolet : & rofa
odorem fuum fpargir: Oppojitis fra- grant ior.
Non minus quoque Palma de leipfa
loquens introducitur: adverfum pondera furgo.
Sub lus oppreflionibus vegetiores &
firmiores in perlecutione Algyptiaca apparebant
Hebrai : unde in fcripturis divinis relatum eit :
Quanto opprimebat eos, tanto magis multiplicabantur
, & crefcebant. Ita Seneca in Hercule luo
furente ait: Seneca. HuSjepuam
flygias fertur ad undas Inclita
virtus. yiv ite fortes. Hac JLethaos fitva
per amnes
Hos Fata trahent. Sed cum fummas Exiget auras confumpta dies, Iter ad superos
gloria pandet. confcendendum decorofum gloria clivum
, & vidorem fele demonftrandum, & ad jubilandum in excellis honorum faftigiis, in quibus (olis
aeternitatem jfiuna adipilcitur homo, feverifSmi
Hiftoria. Duces fuerunt femper viri
illuftres heroicis adionibus fuis inclyti,
qui virtutiun, & meritorum fiuorum alis innixi,
illuc nobis iter ftraverunt, & callasapplanarunt:
Qui plus quam Atlantis fcutum,de nebulosis ignorantias
tenebris nos expediendo,
iicut Dii Terminii in triviis difficillimarum ambagum redtum nobis tramitem demonftrarant. Fuerunt hi veraces
Ariadnae,
qui Theleis in labyrintho dubiofo difficultatum intricatis felicem exitum edocuerunt. Hoc ipfiim Imperator Leo,
tanquam feveriflimum praJlpud BeiercePami dedit
filio fuo. Eu
per hiflorias veteres ire ne linch. Iit, h. recufa ibi reperies [me labore,
qua alii cum labore Utftor. collegerunt. Magna utilitas, magna securitas, nolle viam ingredi,
cujus terminus gloriofus iit, qua nullis
fit prasdonibus infefta, nullis occupata monftris, non anceps,
non periculofa, fed direda, amoenitate,
& fecuritate plena. Inter Heroes
fiapientiffimi, dum non ignorarent, non
minus Mundo proflituras eilhiftorias, quam
ipfa armorum gefta, e Belliducibus fadi Hiftoriographi,
depolito gladio, pennam arripuerunt , &
chartas atramento tinxerunt : atque illic certo
quo- dam modo torrentibus fanguinis inundare
campos fecerunt. Sic vidorias Luas
defcripferunt Moyies, Jofue, Gedeon, Neemias,
David, Salomon, Job. Ipfa adeo divina
omnipotentia in habitu feriba appa- ruiile
videtur, tum, cum eum Ezechiel propheta libi
Deus in ha- vifumeileteftatuseft: Ve[ itum lineis
, & atramen- bitu feriba. tanum ad renes
ejus. T entet quantum volet nos in
pulverem redigere edax rerum tempus ,
coniumat ipia marmora, &c celiiffimas
rupes cum profundiili- mis vallibus adasquet,
& in nihilum deducat: Hifto- ria nihilominus
has moles renovatura eft, 8c rurfum
humi ftrata fublimabit : redintegrabit in
memoriis geftorum hominem,quamvis jam corruptum,
quamvis corrofiim, abolitum. Idcirco Sc ego
nonpof- fum quin hic reiterem verba
Tullii, jam alibi memo- Ve Orat. rata :
nimirum quod : Hiflona ej} tejlis temporum,
lux veritatis, vita memoria , magiflra vita.
Hoc ipfiim ego mecum ponderans, ubicunque
ratio po- ftulaverit , tam in partium hominis ,
quam in to- tius delcriptione capitulum fadurus
fiuin proprium: non tamen eousque in longum
evagabor, ut qua: po- tiorafimt lilentio
pratereantun Fuit inter Scythas olim
gens, qua’ ficut a communi Caput lon-
hominum genere & climate fuo , & vivendi
medio gum. do, «Sc moribus diftabat,ita & fingulare deledamen-
tum habebat , ipfa quoque membrorum conftituti-
one & figura corporis dilcrepare. C)b
quod etiam ciun inter eos infans natus
eiiet, prehendebat utraq-, manu nutrix
tenelli caput , idque fortiter premen- do
in longitudinem ludum figurabat; ik ne in
pristinum ftatum luiun feniim dehiberetur ,
ik rurium fe contraheret , linteaminibus , &
falcibus 111 eadem forma conftridum confervabat.
Hic ufus Hipp.de Aert pofthac,
&hoc artificium, beneficio temporum, &c
Au.toc. statum in naturam degeneravit: ex
hinc proverbium quoddam exortum eft, ut
liquando in ejusmodi formato oblongo capite
compareret homo, continuo reperiebantur qui dicerent:
oportet hunc Ma- crocephalum Scytham efle.
Sic enim vero apud hanc gentem, qui
produceret, prolongaretque frontem luam, &
majoris animi , &|generoiioris, tum etiam majoris
virtutis credebatur. Subjungit igitur Au-
thor ille: Hunc non tam Longis amplius
capitibus najcuntur , quemadmodum prius, lege per
incuriam hominum non amplius durante.
Pericles grandis ille Orator, &. Miles,
qui virtute armorum fiiorum , 8c literarum,
tam vicinas quam longe dillitas iibi
lubjugavit provincias: qui vibrante gladio luo
ejaculari fulmina videbatur, fed non minus
etiam perorando, fulgur jaciebat ex oculis.
De hoc memoria eft , eum usqueadeo
oblongum habuilie caput, ut intuitu reliquarum
corporis par- tium lymmetriam omnes excederet,
8c deformita- tatem incurreret : unde etiam
fadhim , ut ubicunque ftatua ejus eredfca ellent
, aut pileo quodam, aut callida: tedta
viderentur , ne vitium illud capitis ( lic
ajunt ) fpedtantium oculis patefeeret. Hac igitur
corporis torma , otiolis Sc malevolis garrien- di
caulam luggellit: unde 6c Poeta’ Athenienfes,
& reliqui contra eum liniftre aftedti,
propter eandem Plutarch, in capitis
amplitudinem per detradbionem latyricam Pertch
eum Schinocephalmn appellabant. T eleclides item
faceta quadam ironia illudendo ei (in
quo nihilomi- nus a vero non aberrabat) eum
capite gravatum le- dere dixit, cum
tot negotiis pra’gravatum lupporta- re v ix
pollet. Detradbor ille interim hoc alio
reberei is, eum 111 opem confilii,& parcum
lagacitate intelligi voluit. Sic enimvero
in omni atate critica vafrities fagit-
tas fuas vibravit: in hoc loco autem
pro fcopo fuo fi. Detradtio. bi
elegit virum inter heroes , non tantum fui
, led & fecuiorum praueritoruin , aque ac
venturorum pralbantillimum. Videant igitur, qui
regimini Reipublica praiunt cum quanta libi
cautela agen- dum lit , ii ik vitia
corporis ik natura iri cenfuram cadunt ,
ubi nullum nec meritum nec demeri- tum eft:
quid cum iis luturum erit , qui aut
fpon- Cautela tanea mente , aut incuria quadam ,
in damnum ple- pro mini- bis peccaverint?
Lucerna, qua: ad illuftrandum ex- ftris
pubi polita lunt , ventorum datu agitantur:
iple adeo cis. loiincurfu oblervatores
habet j Phenomena, qua vitia natura lunt,
curiolius examinantur. Quin &c arundines
Midam habere aures afininas loquuntur.
Progreditur hac cenluracnuca adcolum usque,
& ad iputa decrepitarum vetularum,
dum fila lua de fuio trahunt. Sonat
fchola Magni Stagyrita, quod : C 3 parvus
error m principi eribus c(l prafentia mala
in lingua habere, Jnfita ob-
Thcatr. viu hum. fit maximus.
leilatio mulio lic de cythara fua
nos Euripides docet. Non eft aura
peftiientior alia, qua’ totius amicitia campum
infectat, & venuftiffimos Ipei flores marcidos
reddit, pro- Vuguftinus ait. Detratlio e(l
venenum ami- DicebatTeleclides memoratus decitato
Heroe: de hoc capite cndcc ahno, hoc cft
fefquipedali, magnum oriturum efle tumultum.
Refert Suidas de Philocle, Nepote
vEfchyli (hic autem nefcio, ii textus mendofus
non eft. humicum ponens, pro Comico) qui
caput oblongum habebat, Caput upu- &
criftauum infimilitudinem upupa: unde Halmion,
uaii falinator, vel acrimonia diCtus fuit:
deduCta 'talle comparatione & Metaphora ab
ave illa foli- taria& foetente. Annales
Sarracenorum recenlent, Mahomethum Legiflatorem, &
primum Turearum Imperatorem, Caput habui Ile enormiter magnum,
& faciem intermixtam colore rufo, & albo. Indecens tinCtura,
ubi anima tantopere nigra erat,
qua: tot animarum ruina & jam antehac
fuit, &eft hodie- dum, Sc deinceps
futura erit: & in hoc cranio tam
fpatiolo, tanquam in aula vacua liberum
fuit fpiritui rebelli pro voluntate fua
incedere quippe qui illic habitaculum fuum
fixerat: poterat illic pro libitu luo
extendere figuras, & formas iiiiquilTimarum
legum luarum, quas ad Catholica: veritatis
exterminium ex- cudere, & promulgare aulus
eft. Verus Goliath corde non corpore,
qui ab innocentc paftorculo humi proftratus
eft. Ubi virtus AlciHimi opifex eft, illic
c formicibus prodeunt veri Myrmidones, qui
me- tuendos alioquin orbis domitores defedelua
deturbare norunt. Berlinchius vir doCtiffimus
refert: non paucis abhinc annis in Belgia:
urbibus , oftentui publico cir- cumlatum fuille infantem ,
gracili omnino, & fubtiliffimo corpore, led
capite usque adeo infigniter ma- gno , ut
amplitudinem vafis, ad menfuram modii usque
capacis, ada:quaret , vix puer ille aratis
fute annum unum expleverat. Illud
ipfum caput ad fimilitudinem fluxus &
refluxusm aris, jam intumefee-bat, jam rurfus
comprimebatur: dum ab intro fub- tus
membranas humor aqueus dii currere,
inflari, 8c elevari videbatur. Monftmm
prodigiofum: Cc quia a coniueto natura:
curfu exorbitavit, in detecftu luo Spes vana,
propediem collapfum eft. Sic & vitam
ephemerem habent fpes capitis noftri, quae
inconftanti viciffitudine, non fecus ac
decrefcens acfuccrelcens Oceanus, periodis luis nunc
extollitur, nunc procidit. Alludebat adipes
Capitis noftri eloquentiillma mula Commendatoris
Teftii: VagaSoondo p en f iero Dove v.u,
Cr d’onde torni, e
che pretendi? ui fu tale leggiero Ora parti,
ora torni, orpoggi, or fcendi: Et
nel tuo moto c terno Sei lijjion dc
tamorofo inferno. Sic illud velificatur,
quod: Spes temeraria ple- rumejue homines
fallit. Sicut Euripides ajebat. Pindarus
vigilantium fomma ha:c nominabat. Etiam
vicinus eft naufragio, qui navem luam
ad Caput bona fpei dirigit. Non
minus curiofa, quam faceta erat inter
antiquos conliietudo, qua Athenienllum quaque domus
utebatur : qua: de Gimcia etiam fuccellu
tempor um Romam usque migravit: videlicet
tum cum ad patronos fuos primum
ingrederentur mancipia, ierv itura. Ut enim
eos vel ad servitutem animarent, vellit,
orumone- fubjedtionis, & onerum qua: portanda
ellent, memiraium. mllent,eorum capicadiverli
generis & farmentis , & Apud Stobe-
um ibi. Caput fer- fruCtibus , Sc
nucibus , & beta , &c caftaneis, & leguminibus
aliisque inluper rebus onerabant: quos cum
poftea lic oneratos per univerfam domum
traduxif- lent, Ik in cubile eorum
pervenillent, onus illud in pavimentum cadere
linebant, idque catachyfmum nominabant, hoc
eft effufionem, profimdendo id quod in
capite gellerant; hocque illis poftea pro
mercede erat,quamdiu in eadem domo
morabantur. Un- de Demas cum Siro luo rurliim
reconciliatus illic in Terentio ajebat.
Huc ad me Sire, ut tibi caput
demulceam: Perfundere unguento frudi ib
m. Hxc ceremc^ia pro ligno
abundantia: annualis ha- bebatur. Hujus
conluetudinis Theopompus taliter Qe[ c.c.c,,
meminit: Verlificatores, vel poeta: pra’miabantur, antiq,
leclion. imo vero delibuti &c uncti
unguentis variis: lic &c ex Suida.
matrona: civitatis Segefta:, tum cum Diana:
flmula- chrum pro more portaretur, redimire
caput iuum co- rona de diveriis floribus
contexta, variisque un- Cicero in Ar- guentis
delibuta confue verant, atque ita exornatae
virone- cos & compita transibant, idolum
fuum profequen- tes. Hinc Themiftii pater
ut Epicurum, quamvis falso, percelleret , inculans
eum lenluali voluptati datum efle (
de quo ne fomniare quidem ei in mentem
venit, qui voluptatem nullam ftabilemnili
in- telleCfus, & animi agnovit ) vas ei
unguentarium lupra caput effudit, fragranda
odoris eum tingens: volens per h.ec
mollitiem ejus vellicare, qui tamen lemper
durum ik inflexibilem, adverfus delectamenta
fenluum fe praebuit. De hoc ulu
fortalle Novendiales ceremonia deri- vata: lunt ,
in quibus , prout Athenaeus reccnlet ex
Gellio, novem continuatis diebus , patresfamilias
fttccindti mantilibus , manicisque replicatis, accum- bere
fervos fuos facieb.int , illisque fervidum
pra:be- bant , illorum fe imperio iubjicientes.
Quid plura ? Pes Pra Spes prtemii
vigorofillimum calcar eft ad quod vis
mn* lub jugale ammafetiam tardillimum incitandum.
Id quod ipfe quoque Altiflimus iape
in ele&is luis prae- fluit, dum iis
gloria fua portas referavit: prout patriarcha
Jacob, &c Stephano contigit. Pro- pheta regius
vir optimus,per hoc le lingulariter ad bene
operandum pelleCtum elle fatetur: Inclrnavicor meum
ad faciendas juftific at iones tuas
propter retribu- tionem. Veritatem hanc inter
alios Marcus T ullius agnovit, dum ajebat:
Ncc domus, nec refp. fare De natura
poffunt, fi in ea nec rette fadtis pramia
extent ulla, nec ^>eorum. fupplicia
peccatis. Nec tantum in uis fatyris
Juvena- lis ablorptus fuit, ut non renumerationi
locum luum tribueret. enim, inquit,
virtutem am- Satyr. io plettitur, ipfa
pr&mia fi tollas? Non veretur carduelis
quamvis fubtilillimo pede luo hirfutas
cardui fpinas calcare tk premere, cum
Iperet ex ejusdem femine le cibandum.
Exponebant fe olim durilHmis &
periculofilE- mis confliCtibus viri bellatores,
dum ob oculos libi ponerent , ftmplices lauros ,
& quercuum frondes: certam enim nominis
lui libi immortalitatem ex vi- ridantibus his, &
perennibus foliis Ipondebant. Incertis fluCtibus maris,
Sc infeftationibus piratarum fe committit
de litore luo procul navigans ratis,quia
portum fuum libi promittit. Cum fudore
vultus lui, infatigabilis arator glebas kindit,
eo quod in tempore fascundam meilem libi de labore liio futuram
augurat: denique lic ait Ponti infelix in-
P Trt' cola; ftdus Eleg. ij. Non
parvas animo dat gloria vires: Et
facunda facit pcdlora laudis Nmor.
Hac fpealleCtus Pallas Spartanus (referente Pau-
In pbocitu, fima) ferociter dimicabat, ik
jam corde fixum tenebat, Tarentum urbem tum
quidem ditiilimam, omnique genere abundantia, ii
ullla alia illuftrem expugnare: fed fpe fua
delufus e fi;, dum non minori valore &
animoiitate exercitus ejus a loci incolis
Civitas au- propulfatus & proftratus eft.
Hic aliquando mcefti- gurio capta, da &
dolore plenus, mfmus uxoris fuce (cui
nomen dEthra) caput inclinaverat , quod illa
pedhne mun- dabat, tum cum ille amarillime
fleret, memoria repetens qure perdidillet: junxit
illa lacrymas fuas, quas calidas
deftillabat incumbentis caput. Tumenim- vero
in memoriam ei rediit, quod ab
oraculo quon- dam audierat, futurum ut
civitatis & campefttium, potiretur, fiqtiidem
ei ab Afthra iiiper caput pluvia decidiilet
: fufcepit augurium , colledisque rurfiim ordinibus ,
nova vi aggreifus, & extrema aufus, muros
& urbem usque adeo in anguftias compulit ,
ut paucis eam diebus ditioni fuce
liibjecerit. O fi Chriftiani noftri & mentem
, & aures ad ora- culum fuurn adverterent,
dum ad corda eorum pul- fat,
plantarent utique vidoriofum vexillum fuurn
in civitate illa fanda, quce utique
dc ipfa vim patitur, Infpirado quam
violenti rapiunt. Hoc pundum tale eft,
divina. ut concionem integram mereretur : fed cum
id jam inldtuu mei non fit, nec hic
fitfeopus meus preeeipuus, ad paucas
admodum, & fuccindas me reflexi- ones
reftringo. Idfolum referam, quod de
Diledo in Cantico Canticorum recenfetur, qui
ad portam anima; fanda; pullando ftabat,
dum illa pigritando veftimenta fua inquirebat;
cum vera jam compofita eflet, prompta
voluntate exiit, fed: ille declinaverat.
Ruina totius Hierofolyma;
qua: Salvatori noftro lacrymas extorlit,
aliunde non contigit, teftante ipfo
Redemptore, quam: quod non cognoverit
tempus vifitatioms fua. Homo nonnunquam
iplis infenlibilibus rebus infenlibilior eft. De
rofa feribitur: Dejlafi a/lojpuntar dei, primo raggio:
hoc eft: ad primum Solis radium excitatur: &
Claudianus de magnete Claud.: Arcanis trahi
tur pemma de conjuge nodis. De
magnete. Ad primum Auftri flatum Laurus
germinat: ipfa aftra influentiis filis loquuntur.
Unde laudabiliter ab homine fieret, fi
quandoque internis commotionibus, quibus ad bonum
incitatur , locum daret : haenim f unt illa
memorata pluvia y£thra. Loque- batui ut
Poeta, nihilominus ut Chriftianus Com- mendator
Teftius , quando Matdiaiun Sacchettum fic affari
voluit: puelle, Matteo, che miri
Entro al opaco velo Dela notte
brillar faci fuper ne, E che in perpetui
giri Parte fiampan nel Cielo Con lumino
fo pie flrade et er ne. Parte a
lialtri Zaffiri Del firmamento immobilmente
inferte, Han piuflabde ardor ,fedi piu
certe: Otiofe pitture , Stampe in
utili d’oro Non fion, qual fe le
crede il volgo in fano, Piove
da raggi loro Jfhtagiu. t ’ lnfluffi
omnipotente mano. Denique quam bonum eft
imitari exemplum Apoftolorum Andrea & Petri,
qui unica hac Redempto- ris & fimplici
voce : Venite pofi me, factam vos fieri
pifcatores hominum, relittis retibus fecmi fiunt
Do- S. Grego- minum. Supra quod S.
Gregorius inquit : nulla eum rius. fecijfe
miracula viderant, nihil abeo de pr&mio
at er na. retributionis audierant, &
tamen ad unum Domini praceptum fecuti
fiunt eum. 2? Salutatio vita'
civilis &r politica fundamentum eft:
hac omnium negotiorum, hac commerciorum &
tractatuum pofta eft. Hac vitam focialem
mfti - tuit, &ioiidat. Cum hoc
ligno cor loquitur, ajquc facunde, ac
maxime elaborata eloquentia. Hac tam
faciliorum praeteritorum, quam modernorum con-
fuetudo eft : unde & ad omnem occurliim ,
& caput fuurn difeoopenebant , & levabant.
Quidam na- Salutatio nu, quidam nutu
le explicabant: potillima tamen deteblo ca-
pars detecto capite : per quod iecreta
iuciina Iliorum pire, cordium fe palam
facere credebaut; lic nos Varro f apud
Plinium docet. Quandoque edam id fanitads
lib. zS.eo(.6. intuitu liebat. Multi enim
in juvenili atate adliuc vegeta , detedlum
caput contra frigus , & calorem, conducere
ianirati arbitrabantur: Ego idiplum Me- dicorum
fcllola dilcutiendum relinquo. DeAigypdis refernir,
eos femper nudato inceffille capite,"
& robulboris lanitatis fuilie,cum c contra
Periiani operto capite femper imbecilliores, &
infirmiores corpore viliiint. Illud certum eft
de Hannibale, & de Julio Caelare
lingulariter id recenferi, ut aliorum He-
Imperato- roum non meminerim ( quod
infatigabiles ad ardo- res& Belli-
resiolis, adventos, ad grandines, ad gelu,
ad plu- ducescapite vias, ad omnem temporis
injuriam invidi detecto femper de- femper
capite in militaribus expeditionibus luis
com- cedo, paruerint : demonftrando, fe line caffide
ferreum caput, de adamantinum in caftris
filis Sc inter arma animum geftare.
De Mallmiila Numidarum Rege, qui Romano-
Geniat. dit- rum potentiam fregit, &ad praicipitium
ruina: fua: ruml-7-‘-i9- pene propulilfet;
recenfet Alexander, nec eumaftu, nec
frigoribus, nec temporum vicifimidine, ncc cali
inclementia adduci unquam potuille, ut
caput fuurn operiret. Idem de Adriano
refernir, & Severo, prin- cipibus tanti vigoris,
ut in graviffimis hyemis cem-peftatibus
nunquam caput vel pileo, vel alio tegumento
operuerint. Sed quodialtutationem attinet,
recenfet Egnatius , Petrum Laurentii Celfi,
Ducis lib. 9. t.,2. Veneti Pacrem eousque obftinatum fiiiife,
ut nunquam perfuaderi
potuerit adoccurfumfilii fui difeo- operire caput filum:
unde ut hic errorpublicus tollerenir, crucem auream in capitis fui tegmine affigi juilit, ut Patri occafio ellct,
fe detegendi occurrente filio Duce,
refpiciendo ad lignum hoc redemptionis
noftra. Icaque omnino utihilimafalutatio eft,
& ne cellaria, quippe qua confervat ,
imo & inftituit, familiaritates, amicitias, societates,
affinitates, contubernia: efficitque ut homo per
hac ad cognitionem, & confortium lui
fimilis perducatur. S. Paulus eos C«f.
12. Romanos, qui nunc in arte
magiftri felit, de hoc vehementer admonitos
elle volui edum ait: 'honore invicem f revomentes:
fillicimdine non pigri. Bonum enim elfe
cenfiiit, imo&adfalutem animarum proficuum, per
hujusmodi reverentiam inclinationem animi
benevolam demonftrare adverfus proximum fuurn ;
procul ab afpericate & duritie morum, &
(re- fluum, qua quandoque rixarum, &
querelarum incentivum elfe folent. A
Philofophis moralibus hac reciproca reverentia
definitur: quod iit: honor exhibitus m teflimonium
virtutis. Et Aqui- a. ?«. j,. neniis
inquit: Revererieft adhss timoris, & ut
debetur Deo, eft ailm Utris. Ipla adeo
irrationabilia ani- mantia hujus rei nobis
prabent exemplum. Admi- rabile in hoc
examen apum eft: de quibus libri me-
morant, quod in venefatione &fubmiifione et»a
Duces luos le emutemur obfecjniis: quod cum
illo fuperiori convenit: honore provenientes.
Eximia eft Elephanti proprietas, qui ad
primum Luna ortum fe tanquam luminis
hujus Adorator pro- fternic. In
petit. Conful. Loriacio vana , ut non
dixerim, temeritas eft, JTsquiparanda iis, qua maxime
vetantur, de exterioribus lignis hominis, interna
ejus penetrare velle. Qui id pnefumpferit, ad
hoc le praeparet, ut in Veliivii
luminolis vorticibus mortem nancifcatur : &
naufragus in abylium maris demergatur &
rurium dictum illud redintegret: O Jbtffe tu
me cape, cjuia teipfum non capio.
Sapientia Salomonis infinuat: Sicut aqua profuud.t,
Jic cogitationes in corde viri. Quis
eft qui fundum fluminis non tranfuaderefo-
lum, led& prolpicere poflit, cum turbidum
eft, Sc inundatione intumefcens? Quis credidillct in corporetam exiguo Alexandri Magni domicilium suum collocasse
animum, qui capacitate sua mimdum univerfiim poffidaret? Subinluliis
et turpibus membris Faunorum Sc Sylvanorum, prarftantillimx quandoque
virtutum Idea: deprehenfiefunt, Sc cultum
venerationis debita: obtinuerunt? Quoties fub cadefti
forma corporis infernale monftrum vitiorum
latuit? Fatui lunt, qui de cortice externo
le profunda qua- litatum internarum rimari
polle gloriantur. Siquidem ars talis dari
pollet, fruftra Momus in pedbori- bus
hominum feneftrellam deiideraflet, ut& cogitata
Sc corda hominum videri pollent. Hinc Sc
Trina illa, Cv Sextilia ab Aftronomis
pra: lignata, fiepius in momento temporis
in quadratum, Sc oppolitiones noti vas
convertuntur. Cum eadem facilitate, qua le
ludum cadum in obnubilum commutat, etiam
mens hominum involvitur, Sc obnubilatur. Magna
voce nos Apoftolus Joannes exhortatur, ejusmodi ligna corporis forinlecus Ipe&abilia ad formandas genituras limiles non trahere,
nec prafcriptiones inde, aut allerta producere: Molite, inquit,
judicare Jecundum faciem, fedjuflum judicium
judicate. Ha’c mihi adverlum eos Icribere occurrerunt,
qui per Phylionomias Sc fomnia ratiocinari
pradumunt de internis hominum, atque inde lignificata quadam bene lolidata deducere. Negari interim nequit,
accidentali quadam dilpolitione de ftatu, infirmitate,
vel fanitate
hominis indicia fumi polle. Fultus ac frons,
amm&janua, ejUA fignipcat voluntatem abditam. lic Marcus Tullius
icr ipto reliquit. Motus enim Ira, Sc
limi lia externa qua accidunt, antequam
loris promineant, prius fedem fixerant in corde. Dabimus
itaque ligna phy lionomica. Sc lomniorum, qua Sc
ante me ab aliis annotata &
figurata lunt. Dixerunt itaque, qui
antiquitus jam talibus cor- poris indiciis
le applicarunt: Caput grande , excedens cateram
membrorum proportionem, indicare hominem pigrum , &
mente ftupidum: licut Sc exi- guum nimis oc
gracile fatuitatem Sc ftultitiam notare: idquenon
Imeratione, illic enim vapores nimii levantur i
hic vero exiguitas Organi, Sc Receptaculi,
nutrimentum debitum impedit, ut cognitionis
perfectionem maturare non queat. Scriplerunt
quidam, fi vertex capitis promineat, ita ut
in limilitudinem pini terminari videatur,
taliter natum, inverecundum fine fra:no, &:
Ime pudore palfionum fiiarum futu- rum
elle: &
ut verum fateamur cum ibidem magna fiat Ipirituum attradtio, qui in lummitate
illa nimium acuta reftringuntur, & uniuntur,
fieri non poteft, ut temeritatem, &
inconlideratam proterviam non eliciant.
Caput crafliim, Sc in
fuperficie fua planum, &: adaequatum, omnem morum pravitatem Sc licentiam portendit:
tanquam illic in Ipatiofo campo,
audacia. arrogantia, Sc affedtuum inaequalitas vagari,
Sc dilatari liberius pofiint.
Concavum in anteriore parte fraudulentiam, dolum ,
tSc effrontem excandelcentiam notat.
Dixerim id rationem quandam habere phylicam:Ira enim in hoc ventriculo comprefla, sicut ignis fubtus terram,
aut in tormento bellico conclusus, quanto plus obstaculi invenit, tanto vehementius
exploditur, & viam sibi aperit, feriendo. Caput bonam humorum temperiem Sc constitutionem indicans tale est:
proportionatum videlicet cum reliquo corpore:quamvis lint,qui afferant,
fi in longum protendatur,
maturitatem Sc prudentiam designare. Talis erat Pericles,homo sagacissimus: tales etScytha:,
Sc Parthi, prout supra memoratum est. Hac sunt qua cum vanitate observantur in homine,
cum experientia quotidiana in contrarium militet:
cogitta enim mortalium, non fecus
ac Maris unda sunt, inquit Gregorius,
quarum nec origo, Morat. nec medium, nec finis reperitur. Mare mens hominis,
(jf cjuafi fiuclus maris cogitationes metitis: jungatur his educatio,
qua plerumque ordinem natura interturbat. &
pervertit:
adjungantur Sc fines, qui adtiones hominum fpecificant,Sc tanquam fcopi funt, ad quos humana’
cogitationes colliniant : quamvis Ovidius dicat:
Heu cjtiam difficile e jl crimen
non 2. Metam, prodere vultu! In vultu enim &
ego non negaverim
Bonus Sc tanquam in Tribunali accufationes Synterefeos appa- malus ex rere :unde Sc Cleanthes illic apud Diogenem ait: vultuco- Ex specie comprehenduntur mores. gnofcun- Quod iomnia attinet, cum quanta de his vanitate
cor. Cardanus in Interpretationibus luis Icripfit, tantum- Cleanthes, dem averitate nullatenus aberravit,cum ait, eos qui alioquin fomniandi conluetudinem non habent, liquidem repente fomniare coeperint, aut morti, aut faltem longiturna: infirmitati vicinos elle. Id reor fenfit,
ob abundantiam humorum, qui heterogenei aut
mconcodti, in tali corpore detinentur,
fomnia- runt itaque, aut in vanum
oblervarunt, qui dicunt: fomniare de capite,
Principatus eventuri indicium Caput vielle,
autDominii, Honoris, Ingenii, Gubernaculi, {Q1T1
per & Regiminis domeftici. Huic fententia:
Sc ego fub- {omnium fcriplerim: liquidem per
harc dici volunt: omnes hos inchoans
Principatus, dcCelfitudines terreftres oriri Sc
evane- Pnncipa- fcere ut fomnium,
velphantalma. Dixit hoc Pfal- CUm. mifta
Regius: Dormierunt fomnumfuum, & nihil invenerunt
omnes viri divitiarum in manibus fisis.
pfal. 72. Et paulo infra de eadem
materia: Felut fomnium ibidem. Domine in
civitate tua imaginem illorum ad nihilum
redioes. De hac negociorum turba, de his
dignitatum humanarum faftigiis, de hoc ambitu
gloria:, qui termi- num non invenit, S.
Balilius Seleucienlis Epifcopus fic inquit:
Mox una febris , aut certe pleuritis abrc-
lib. 4 Hexaeptum hunc e medio hominum coetu
rapuit, & fiplcn dor meron. ille majcflatis et gloria,
ad mfomnii fimilitudinem momento dijp aruit.
Et S. Chryloftomus. Fabula qu&-
Ex Patre damefi vitanofira. In scena aulao
fublato variet a- Marttneng. tes dijfolvuntur,
& omnia corufcante luce avolant p0fJilm fomnia.
Interrogatus Diogenes tum, cum in agone
piumrchus ' vita: fus conftitutus ellet ,
Sc quafi fomnoientus in- in Con/olati-
dormifceret, a Medico luo, qualiter haberet,
relpon- oneadApol- dit : Nullam fentio molefiiam,
nam frater fororem ^on' anticipat,
forantis mortem: Recordor Sc me quoque in
flerenti adhuc a:tate mea fic cecinille :
Vita noftra fomniis eft. Giaccion
Debe, Mumantio, Ilio, e fagunto, E le moli
cti alz.o Memfi fuperba: Fatte
fpoglie dei tempo , or copre I Erba Nea
le grandez.z.e lor refla un fol
punto. Quanta: uti- litatis lint charade rum
notce. C. 2f Tai di chi dorme a
/e pupille apunto II finno lufinghier pompe
riferba: Ma tolto at dolce Lnganno,
oh come acerba Sparvela gloria, arido i honor
confunto! Dorme il regnante, e d’ alta vite
mtanto Dn ramo a quel potente il
crin circonda, Che pia alfigho portende
augufio il manto. Si dei fafto
mondan fotto ala fronda Chi fi adagia
, rvmira il legno{ oh quanto Di morte
alfine al A quilon fis fronda. C. INgeniosissima (fi ulla unquam inter homines fadta
est) inventio charaderum fuit, tam necessaria (ut reliquorum non meminerim)
potidimum Principibus, utpote quibus negotiorum
iumma &c ellentia conficitur literis : dum
ubi fua interdie
viderint, celant qua: volunt, promilcuam plebem rurfiim
autem quibus volunt, eadem propalant. His nil
tam pernitiofum est, quam ii de pedore fuo iacrato exeuntes
, prophana* plebi fe divulgaverint , atque
ita ie malevolorum oculis expofuerint,
fapientillinia, inquam,inventio, manifeftare feipfum,
nec ta- men cognofci,
iicut Ulylles nube tedus. Sic sapienter Demaratus cum Lacedamoniis ulus est. Senatus
Spartiatarum cum Belliducibus fuis, Hiftieus cum mancipiis, Bedacum Principibus, Trithemius cum focis aereis:
Harpago in ventre timidi leporis coni
ilia magnanimitatis abicondit. Denique his
ad compoi itionem Veteris Teftamenti , per
quod no- vum figuraretur, ipie altiffimus uti
voluit. His a me rite ponderatis ,
qui univeriitatis utilitati servire intendo, 8c qui a
Phyfionomicis inftrudus sum, & praeleram ab ingenioiiilimo viro Joanne Baptista Porta,
qualiter fagaces quidam &c acuti, fe
in variis corporis membris contingendo
majores & principaliores Alphabeti literas
exprellerint: unde etiam qua: volebant integra
dida concinnare poterant,
atque ita hac quahmuta eloquentia invicem fabulabantur:Ego, inquam,non ad horum intelligentiam,
sed qualiter antiqui notas fuas defignaverint, expoliturus fum:
ne liquando in lapidis cujusdam aut monumenti inferiptionem quis inciderit, nec propter fenfuscombinationem, Sc interpretationem, prima fronte involutam &confidam fe expedire pol- fit, vehementius in duritiem obfcuritatis offendat, quam in laxum ipfum. Propterquod,cum contingendoCaput C. literam lignificare voluerint: Quidha’clitera fola, quid conj unda cum aliis indicaverit,
paucis expediam. C. itaque folum line
copula alterius liter# lequentia verba denotat:
Comitia, centum, Cajus, caufa, condemno. CA. AM.
Caufa amabilis. C. B. Civis bonus: Civis
Corynthius. C. C. Calumnia caufa. C.
C. E. Caufa conventa efl. CC. Circum.
CCC. DE. Tercentu, Duplex, CCC. Tp. Tercentum
Terra pedes. C. C. F. Cajus, Caji
filius. CS. Caufa. CA,velCAM. Camillus. CAE.
Cafar. CJE. AJA. GG. Cafdrea Augufla. CAR.
COfV. Carijfima Configi. CARIS. Cariffimus. CB.
Commune bonum , Civis bonus. CC. Ducenti. CCER.
Caufam claram Regi. CR. Con- trarius. CC.
confilium capit : Cefft calumnia: Cau- fa contractus.
CS. Cujus. CDC. Quadringenta condemnatur. C D.
Condignum : Quadrirtgentum. CEL. Celeres. CEN
PE. vel CEAfS. PP. . Cen for
perpetuus. CEN. A. Cen foris arbitratu. C.
E. N. T. Centuria : Centurio. C. E.
N. T. JA. Centuriones. C.F. Cajiflms. C F
R. Caufa filice Regis. C H. - Cufios
hortorum : Cufios Haredum. C M. Centum
Scarlattim Hominis Symuolici Tom. I.
millia. C I C. Cicero C. I. C. Cajus
f alius Cafar. C. T. IN. Cubitos tres
invenies. C f. vel C. 1. P. P .
Cippius feu terminus, ut, ad tertium Cippium ,
feu lapidem. CIJA. Civitas, Civis. C 1 N-
Caufa fuffctta. cc.c CCI. P. Cubitos
duos invenies plumbum. C.C.Caju Claudius. C
E. JA.Clariffmus JAir. CE. F. Clariffima
foemina vel familia. CE. Claudius. C.E.D.B. E.
Caufam Eaudabilem. C. E. CajiEibertus , vel
Eiberorum. CEBCE. Con liber u Clarijfima. C. MAR.
P. Caput margine pleno C.M.Comus. CME.
Centum millia. CMS. Comis. CM. Civis
malus. CM. vel CA. M. Caufa mortis.
COM. Comitia. CMS. Caufa malt fui. CME.
Crementum multum. CME. XII. Came- los
duodecim. CN. Cneus. C. N. Caj/ss
nofler. CN.E. Cnei Eibertus.CO. Conjugi.C.O.
Civit as omnis: Controverfa. COM. OB.
Comitia obdurata. CON. Con- futaris. CON.
SEN. E. OR. P. QfR. Conjenfu Senatus ,
equeflris ordinis , populique Komani. CONS. vel
CS. Confit liari us. COE. vel CE. Colonia :
Coloni . COEE. Collega : Collegia. COE. Collega :
Colonia: Columen. COEE.FABR. Collpoium Fabrum.
C.O. H. Cohors. CONjV.Conjunxit. CONfJA. O.Conju-
gi obfequentiffmx. C 0 Nf~U G. M. Conjugii
Mercurii CONX. Conjux.CONEIB. Conlibertus: Con
liberta. CONTUB. Contubernalis. COR. Cornelius.
COR. Corpus. CORN. R.F. Cornelia Regis
filia. CORN. A VRS. Coronas aure as. COS.
Con fui. COS.QffAR, vel IIII.
Conful quarto. COSS. DESSIG. Confules defignati. CSS. Confulis.
Confularis. COS. DES. Conful Dcfignarus.
CP. Civis Publicus, C. P. Caffa
publica. CPS. Capfa.CP .Caufa petitionis: Caufa pofuit. CPRSS, Cupreffi. C.
R. Civis Romanus . CR. Creticus : Crifpus : Contraibas. C. R. C. Cujus
Rei Caufa. C. R. C. P. Cujus
rei caufapromifit. CS. Communis. CS. A.
Cafiar Auguftus. CS. IP. Cafat Imperator,
C. S. S. Cum fuis fervis. C. S.
FE. Cum fuis filiis. C. S. H.
Cum fuis Heredibus. C. S. P. E. Cum
fua pecunia efl. CTS. Controverfia. CT.
V. O. A. B. Civitas vita omnia
aufert bona. C. JA. Centum viri : Clariffimus vir:
Cafii Virginum. CIJA. Civis: Civitas.
Civitas, CEE. Cultores, CVR. Curionum:
Curiarum. Cur for. C. X. IN. AR.
Cubitos decem ihvenies argentum. C.XX.1N.
ADR. M. Cubitos viginti invenies aurum
mirabile. Quot myfteria di- fcooperit, quot
thelauros effodit, qua abfeondita revelata
h#c admirabilis charaderum inventio, quorum indagatio nec pauca eft,
nec brevis, nec expedita? Scio apud Authores antiquos, te his plura inventurum
esse. Nihilominus haec qua: pradento,parca non sunt,
quippe qua: plurium Authorum leduram, & fatigationem tibi in compendium redigunt. Sequuntur. In materia Adjundorum vel Epithetorum,
documenta multa 8c prafferiptiones, per occasionem partium, 6c membrorum humanorum tibi occurrent, ex quibus facile videre tibi liceat, quam neceilana lint,
quanerque virtutis pradata Epitheta, tam in Necessitas, arte poetica, quam oratoria:
cum ex his de cor, & pulufus et qua duritudo omnis formetur. Epithetum enim est, quod litates Epi- propritates significat,
interiora exponit. Illud denithetorum» que est,
quod unit, dividit, separat, incorporat, declarat, et implet
didionem, et periodum omnem. In Hypotypofi potillimum, aut deferiptionibus,
pars eilentialis nominari poterit: per hanc enim objeda quali ante oculos statuuntur. Epithetum est,
quod qualitates, conditiones, etc eiientias rerum reprarientat. Sicut in Terentio, quem citat famosissimus Co. Emanuel Thesaurus (cujus diffuliori ledtura: te remitto) qui Phormionem introducit haec dicentem:Nonno- vi
hominem: cui Pamphilius respondet; Faciam ut nofcas: Magnus,
rubicundus,cnjpus, craffus, eafus. Qua- circumflantia:, in deferiptionibus evidentiamadjungunt objedtis,dulcedinem orationi, cognitionem partis de toto. Ut ergo hunc Tractatum tam copiosum cum omnibus circumstantiis fuis, &per atteflationem autliorum maxime illustrium concludam,primus mihi obviam procedit Martinus Capella qui caput rutilans
apellat. Jffuod rutilum circum caput gejlabat. Pontanus illud Auricomum vocat:
Praradiat caput Auricomum, rofeusque per auras,
it decor. Strozzius illud honestum appellat: At procera caput cervix fu Ic ibat honestum. Tibullus nitidum: Nec nitidum tarda compferit arte caput. Purum Ovidius:
Eonga probat facies capitis difcrimma puri. Flavum Virgilius: Summa flavum caput extulit unda. Ro- (eum Textor:Et rofeumpubens oculis,
herba caput. Venale
Juvenalis. Et prabere caput domine venale fub hafla. Idem ipse vacuum appellat:
Nacuumque cerebro jam pridem caput. Invilum denuo Ovidius. Protinus invisum nec petet ajlra caput. Indeploratum
idem. Indeploratum Procere caput. Horatius illud perfidum vocat. Obligafli
persdum votis caput. Ab eodem inlanabile vocatur. Si tribus Antyciris caput infanabile nunquam Eon
fori Eyctno commiferit. Laurigerum a Politiano: Eaungerum morti subjicere caput. Manto impavidum vocat. Impavidum-
r que ultro caput ad tormenta
reportat. Ruinofiun ab eadem nominatur: Fecla
rumorum caput inclinare videbat. Ab
eadem funeftum: Funcflum dirumque caput. Adhuc
ab eadem implume: Implume caput Grande a Prudentio: Grande per infirmos caput excifur a
miniflros. Eximium ab eodem: Servajfet caput eximium,
sub Ime, beatum. Hostile a Statio. Spetlat atrox,
hoslile caput. Furiale ab eodem. Obnubit furiale caput. Ab eodem adhuc venerabile. Meritaque caput venerabile quercu. Si heee tibi forte non luffecerint,
copiosius Authores evolvere placeat, ex quibus tibi major fuppellex luppeditabitur. Solet Convivalis
Menla, pofl cibos, necessarios, et madteas fuccoias,
ut commenfialium palatus indulcoretur, inter bellaria, laporolissimos, et
exquifitilfimos fiudeus proponere. Ego itaque
pariter in hocTradtatu meo, in hac menla,
non Lotophago- rum, autLa-ftrygonum,
quamvis humanis membris inftrudta, in apparatu bellariorum,
fi non prout oportet, laltemin ellentia, hoc est, ad manum fiem-per habens Authores quibufeum loquor,
tibi satisfacere fatagam. Et hi ipli Coci Atheniensies fiunt, quos omni scientia ad certum quendam terminum inftrudtos volunt,
li fides habenda Magno Maficardio,
qui Authores nominat, Athenaeum & Plutarchum. Itaque ut ego te non fine frudlu quodam dimittam,
in cujusque Tradatus fine pro conclusione tibi Oden quandam poeticam offeram, qua: fi aliunde,
& non de calamo meo prodierit, ficio te fipiritum aut dulcedinem in ea desideraturum non elle. Sed fi paupercula Mula mea tibi donum hoc dedent,
precabor te, ut cum eam incultam, &
infiulfiam adverteris, infirmitati compatiaris: siquidem etiam in habitu quandoque veteri,
aut nimium prolixo, aut in lacerna vili comparuerit,
nolfie oportet me Protheum non elle, qui versicolorem me pnebeam, fiemper idem lum. Nec in diebus meis histrionem unquam
egille memini, ut quotidie glorier, me indumenta mea,
& personam tranfimutare. Invidus fium iis,
qui imitantur funambulones,
tam perite fiupra funes choreas ducentes. In tanta autem vivacitate, cogitationum in tot quorundam conceptibus,
& influentiis, quisque quantum potest, bilancem in a:
quipondio teneat: li autem in unam vel alteram partem inclinaverit,
videat ne impingat, &c Ce contubernalium rifioni exponat. Non ignoro &
hic ollam mihi fiat bullientem non efle. Ad omnem nihilominus greflum pedum meorum intentus fium, ne forte procidam, cum noverim in terram hic cecidille,
mortaleelle, sicut jam videre licuit. Libet mihi pedibus potius incedere, quam equo effreni, aut refradario me committere:
qui me de lella excutiat, cum ficiam Hippogryphos Atlantis,
et Chymreras Bellerophontis fabulofas elle. Pauci &
rari fiunt, qui fiupra dorfium Pegafi
fialtare noverint: & fiquidem ille cum ungvulafiua effodere Caffalium fontem potuit, quem lateat cuique fialtem licitum elle fontem hunc attingere?
Hic cum perennis fit, pauperi irque jc diviti potum minillrat: qui etiam diun equi ungvula tactus Fuerit, tam pauca, quam multa luggerit:
tam cui datum eft
fiolis ungvulis intralle, quam totum fie immerfille. Fateor parfimoniam pedis mei,
qui non nili intingere ungues potuit. Id totum retuli, ut benigne
ledor occafio tibi detur, qua mihi compati
velis, fiquidem ubi de deliciolis Pindi convallibus meliores irudus non attulero, quam quos tibi in hoc loco obtulille me vides: Argumentum tale etl. Laus Capitis. Supra sententiam Philonis,
ubi ait: Ubicunque fate/litium Regium efl, ibi Rex
fatellitio Jhpatus fedem habet. Sed totum anima fatcllitium,
sensuum nempe organa in capite sta funt. Del medemo suo Autore eccelsa Imago, A
cui pur volle il Creator Sovrano, Ne lia gr and opra efercitar la mano, Se flejfo in lei d'effgiarfi vago. Sfavilli il Sole, e
folgoreggi il Fago, Futto e creato al beneficio humano: Infufe l’Alma in lui:
celefle arcano: Onde foffe di glorie altero, e
pago. Come qualos di chi mirar s’avenne Sotto
al suo Redi purpurati Eroi, Glorioso Senato in Di folenne, In fmil guisa a
miniflri fuo i Principi numerar subditi
ottenti
e, Se potenz.e vitali il capo in noi. Giovanni
Bovio. Keywords: implicature di ‘animale parlante’, ‘un tono, una figura’ –
homo symbolicus, Aristotele, Grice – i gesti e suoni degli animali sono signi –
i suoni e i gesti dell’uomo sono simbolo. Non e manifestazione – delo – chiaro
– la manifestazione o rivelazione appertiene all’animale – nell’uomo il simbolo
e arbitrario, e ‘ad placitum.’ NB Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bovio” – The
Swimming-Pool Library.
Grice
e Bozzelli – L’implicatura di Lucano – su Catone il Giovane – Catone in Utica
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Manfredonia). Filosofo italiano. Grice: cf. tragic dialogue
– Oreste a Pilade – and Enea’s Niso e Eurialo’ – Grice: “Not to mention the
rape of Lucrezia, and Romolo killing Remo, and the rest of it.” -- Grice:
“You’ve got to love Bozzelli; at Oxford, it would be difficult to find an
English philosopher interested in English tragedy, but Bozzelli’s expertise is
‘tragedia romana’ – Ercole and the rest! Philosophically, Bozzelli speaks
indeed alla Aristotle of the tragic – alla Nietzsche, too – since ‘lo tragico’
is possibly a philosophical category – On top,
if I have been called a mimetist, so is Bozzelli – ‘lo tragico’ becomes
an adjective, and qualifying ‘imitation’ – Aristotle’s principle for mimesis
and tragedy as meant for catharsis – with Bozzelli, it is ‘imitazione tragica.’
He wisely skips (almost) the Middle Ages and reviews ‘tragedia romana’ and how
it becomes ‘tragedia italiana’!” Noto per essere stato l'estensore della
Costituzione del Regno delle Due Sicilie. Dopo le scuole secondarie dagli
Scolopi, Studia a Napoli. Laureatosi, entra nell'amministrazione statale: uditore
giudiziario presso il Consiglio di Stato. Entra nella sopraintendenza della
Salute, dapprima come ispettore generale e poi come segretario. Nello stesso
tempo si dedica all'attività metafisica. Pubblica "Poesie varie" una
antologia di versi scritti secondo il gusto del XVIII secolo. Di sentimenti
liberali, prese parte ai moti costituzionali che gli costarono dapprima la
prigione e successivamente un esilio che trascorse in Francia. Durante l'esilio
espose in numerosi saggi le sue concezioni politiche di liberale moderato,
fautore di una monarchia costituzionale e avverso al programma
democratico-radicale. Scrisse inoltre saggi filosofici di etica e di estetica.
Rientra in patria. La fama di grande cultura e di integrità morale acquistata
durante l'esilio, lo garante un grande prestigio all'interno del partito
liberale delle Due Sicilie. La sua popolarità divenne ancora più grande dopo un
nuovo periodo di prigionia assieme a Carlo Poerio e a Mariano d'Ayala.
Pertanto, dopo l'inizio dell'insurrezione siciliana e incaricato dal presidente
Serracapriola di preparare il decreto reale che fissa i principi
costituzionali. Nominato ministro degli Interni, in sostituzione di Cianciulli,
con l'incarico di stendere il testo della Costituzione. Dapprima
fautore, con Poerio ed Ayala, dell'idea di ripristinare la Costituzione
napoletana. Tuttavia, poco dopo si convinse della necessità di stendere carta
costituzionale completamente nuova, un compito che porta a termine da solo e in
soli dieci giorni. La costituzione delle Due Sicilie approntata da lui e
composta di 89 articoli. Rcalca di fatto sia la Costituzione francese (eccetto
nei punti in cui si trattavano le autonomie locali) che la Costituzione belga.
La sua Costituzione venne tuttavia criticata immediatamente dai democratici
perché non offer sufficienti garanzie di libertà ai cittadini, limita i diritti
elettorali su base censuale e lascia al Re ampi poteri discrezionali. Venne
escluso dal governo costituzionale di Troya per divergenze sulla politica
estera (e contrario alla guerra contro l'Austria). Partecipa invece, come
ministro degli Interni e dell'Istruzione Pubblica, al governo Spinelli
costituito dopo il colpo di mano di Ferdinando II. Sebbene il suo'intento e
quello di mitigare la reazione regia e affrettare il ritorno alla legalità,
venne accomunato dall'opinione pubblica nel discredito del governo delle Due
Sicilie, nonostante fosse sostituito agli Interni con Vignali per ordine dello
stesso Ferdinando II. Si ritira a vita privata avendo come unica fonte di
reddito la pensione maturata per essere stato consigliere di stato. Con la
conquista del Regno delle Due Sicilie il nuovo Regno d'Italia gli revoca anche
questa. Supremo Magistrato e Soprintendenza Generale di Salute delle Due
Sicilie, Giornale di tutti gli atti, discussioni e determinazioni della
Sopraintendenza Generale e Supremo Magistrato di Sanità del Regno di Napoli. In
occasione del morbo contagioso sviluppato nella città di Nola. Napoli: nella
Stamperia Reale. Poesie varie. Napoli: da' torchi di Giovanni de Bonis. La
strega di Manfredonia. Napoli: Guida. Della imitazione tragica presso gli
antichi e presso i moderni: ricerche del cavalier Bozzelli. Lugano: Ruggia. Dizionario
biografico degli italiani. Per quanto voglia rifrugarsi attentamente
negli annali della filosofia romana, risalendo fino all'epoca in cui la
conquista della Macedonia menò con altri a Roma Panezio, e per mezzo di essi
fe’scintillare i primi raggi di una positiva coltura filosofica tra quei feroci
repubblicani, è difficil cosa il concepire quali sono ivi le origini, quali
segnatamente i progressi del concetto del tragico. – CATONE UTICENSE: tragedia?
TRAGEDIA PRETESTA – INCORONAZIONE DI POPPEA? LA MORTE DI DIDONE? IL FRATRICIDIO
DI REMO? GL’ORAZI E I CURIAZI – MARCO – COROLIANO? L’ASSASSINIO DI GIULIO
CESARE? Non possiamo di rettamente giudicarne da ciò che tentarono in questo
genere Andronico e Gnevio, Ennio e Pacuvio, i quali precedettero il principato
di Ottaviano; perchè le loro opere non sono giunte insino a noi. Lo stesso è a
dirsi relativamente a quelle che furono scritte alquanto più tardi, quali, a
cagion d'esem pio, furono la Medea di Ovidio e il Tieste di Vario, con altre
molte che le ingiurie de' tempi ci hanno ugualmente involate. Questo fatto
notabile ci vien però attestato da Orazio, che alla sua età la moltitudine
interrompea spesso ne' teatri la rappresentazione di una favola tragica, per
chiedere che se le desse invece a spettacolo un combattimento di fiere o una
pugna di accoltellanti: ond' egli stimava che ciò scoraggiasse o distraesse i
poeti dall'intraprendere quella carriera. Ecco i suoi versi all'uopo: Saepe
etiam audacem fugat hoc terretque poetam, Quod numero plures, virtute et honore
minores, Indocti, stolidique, et depugnare parali, Si discordet eques, medio
inter carmina poscunt Aut ursum, aut pugiles: his nam plebecula gaudet. Il
fatto dee tenersi per innegabile. Orazio lo afferma sto ricamente; nè può
supporsi ch' ei si piacesse di mentire in faccia a ' suoi proprii contemporanei,
ed allo stesso Augusto, a cui quei versi erano indirizzati. Ci vorrà intanto
esser per messo di non consentir di leggieri nella induzione ch'egli ne cava,
dando quel disordine, vergognoso invero a un popolo incivilito, a motivo di
scoraggiamento ne' poeti. È certo che una simile plebecula esisteva pur essa in
Atene, quando la tragedia vi nacque; e, gridando d 'impazienza che tal novità
non avea niente a fare con Bacco, ella ben avrebbe gradito di veder piuttosto
satiri, col volto intriso di feccia di vino, avanzarsi giocondi sopra ornate
carrette per divertirla con racconti osceni e con ditirambi da ebbri. Non però
Eschilo ne fu smagato. Forte del sentimento ardito che lo ispirava, e della
profonda conoscenza che acquistato avea del cuore umano, ei seppe con la
occulta seduzione operata da' suoi prodigiosi dipinti, innalzare il popolo
insino a lui; e riem piendolo di maraviglia e di stupore, obbligarlo ad
accoglier le sue opere co ' più straordinarii applausi, per cosi produrre una
rivoluzione istantanea nella maniera di sentire, non già guasta, ma non ancora
educata, del pubblico, in fatto di tragedia. E un simil fenomeno fu osservato
poco tempo dopo, rela tivamente alla commedia greca. Il basso popolo, avvezzo a
udir sulla scena il licenzioso linguaggio Aristofane, e a vedervi rappresentate
sconce o grossolane situazioni, benchè sempre condite di un lepore comico
ammirabile, mal sofferse che Cratino, cangiando sistema per la ingiunzione
delle nuove leggi che miravano a reprimere quello scandalo, gli offrisse a
spettacolo più decenti orditi; e un giorno andò fino a scacciarlo dal teatro
con tutta la comitiva de' suoi attori. Chi non lancerebbe a piena mano i
motteggi e il disprezzo su tanta corruzione di gusto e di costumi? E questo
esempio frattanto non valse a scoraggiar Menandro, il quale, creando la nuova
commedia, la depurò delle antiche sozzure, e ne fu coperto di lodi. Il popolo
adunque s'increbbe non del decoro dell'azione, perchè lo applaudiva in Menandro,
bensi del poco senno e della insipidezza onde Cratino, che era un me
diocrissimo poeta, si avvisò di adombrargliela: ed era natu rale, se non
lodevole, ch' ei preferisse le lascivie che gli te neano sveglio ed ilare il
sentimento, ad una decenza freddis sima che lo facea sbadigliar di noia. Or fu
il citato disordine che impedi ad un Eschilo di apparire, o non piuttosto la
man canza di un Eschilo che suscitò un tal disordine in Roma? Questo problema
non è sfuggito' a' critici moderni: e, benchè tutti lo abbiano riguardato da un
solo aspetto, e non forse il più sicuro, ciascuno ha pur tentato di scioglierlo
a suo modo. Interpretando a capriccio, ed oltre misura esten dendo il frizzo di
Orazio, alcuni hanno attribuito quella penu ria di tragici presso i Latini alla
grande ignoranza del popolo, il quale, avviluppato nelle sole abitudini di una
vita pratica e materiale, non offria stabil presa a' poeti da esaltarlo ad alti
concepimenti con lo spettacolo di azioni drammatiche. Altri ha soggiunto che
ciò inoltre derivasse dall'affluenza de' tanti stranieri ammessi a cittadinanza,
i quali aveano tras formata la città di Roma in un miscuglio informe di nazioni
senza omogeneità nelle maniere di credere, di vivere e di sentire. I più arditi
alfine, risalendo a cagioni ancor più uni versali, han pensato spiegar l'enigma
con la mancanza presso che ivi assoluta di tradizioni eroiche, di abbaglianti
remini scenze, di antichità remote, le quali, ricongiungendo l'ori gine delle
umane razze a quella delle razze celesti, furono si feconde di nazionale
orgoglio e di spontanee ispirazioni presso i popoli della Grecia. Esaminiamo in
breve ciò che può es servi di falso e di vero in queste diverse ipotesi.
Innanzi tutto, allor che gli eruditi con si franco animo attribuiscono il
difetto di tragici ne' Latini alla grande igno ranza del popolo, par ch' essi
non abbiano presente di quella storia se non lo splendido periodo in cui le
vacche di Evan dro ivano mugghiando non custodite per le strade ancor de serte
di Roma. Se non che la curiosità dell'osservatore non è suscitata che dal
vedere quel difetto continuarsi nel cosi detto secolo di Augusto, il quale
vantò storici ed oratori e naturalisti e filosofi e giureconsulti di tanta
eccellenza; e pro dusse in breve spazio di anni nobili poesie di ogni genere,
se non di conio eccelsamente originale, ritemprate almeno con felicità
portentosa e con mirabile forza d'immaginazione. Quando dunque con la parola
popolo non voglia significarsi una frazione infinitesima della società, quella
pretesa igno ranza in tanto apogeo di coltura intellettuale rimane incom
prensibile, come l'idea di un vasto incendio che si súpponga scoppiato senza
materie combustibili atte a servirgli di ali mento. Ed a chi volesse limitar
l'accusa ad un solo oggetto, domanderei, onde tanta cecità in quel popolo per
la ' sola poesia tragica, in mezzo a tanto e si dilicato senso di ammi razione
per tutte le altre arti gentili? Noi ignoriamo alle opere drammatiche di qual
poetonzolo il popolo impaziente facesse l ' oltraggio di cui parla Orazio. Quel
si discordet eques, che questi non obblia d'indicarne a motivo, può
interpretarsi in tante maniere !.... È certo non esservi memoria che ivi fosse
interrotta del pari la rappresen tazione delle commedie di Plauto e di Terenzio:
ed è sopra tutto nota la lusinghiera accoglienza che il primo eccitava sempre
da parte degli spettatori. Taluno ha preteso che ciò dipendesse dalle troppo
libere immagini onde talvolta questo comico solea rifiorire il suo dialogo: ma,
non essendo questa libertà da imputarsi al nodo de ' suoi orditi, è poco
presumi bile ch'ei fosse unicamente applaudito per l'espressione licen ziosa
degli ornati. Senza che il divulgato aneddoto, che un fre mito di assenso e di
approvazione universale si levò un giorno nel pubblico, udendo dire a un personaggio
teatrale, Homo sum, nihil humani a me alienum puto, prova interamente il
contrario: anzi ci dà a divedere di qual gusto squisito e di qual diritto senso
morale fossero allora dotate le genti latine; poiché quel motto, riunendo in sė
poetica bellezza a filosofica verità, par dettato alle muse latine nella santa
scuola di Ari stide e di Focione. In quanto al concorso degli stranieri ammessi
a cittadi nanza, per effetto del quale si è voluto far di Roma una Ba bele, in
cui per la diversità de' linguaggi l'uno per poco non intendea più l'altro, mi
sia permesso di riguardarlo come una esagerazione di dati e di conseguenze
ugualmente privi di rea lità. Allor che il dritto di cittadini romani
concedevasi a in tere popolazioni, come avvenne a molte del Lazio e prima e
dopo lo stabilimento della repubblica, queste non trasmi gravano subito, a
guisa di mulacchie, per andarsi ad attendare nel recinto de'sette colli: e
allor che si conferiva quel dritto a semplici individui, eran questi
ordinariamente principi e magnati che il senato volea rendere a sè benevoli,
soffre gando loro quel titolo reputato, come avvenne a tanti celebri Germani,
Celti ed Iberi, i quali essi stessi non sempre lascia vano le loro patrie per
dimorare stabilmente in Roma. Nella sola classe de servi, il numero degli
stranieri era immenso per l'abuso delle conquiste: ma nè il teatro era
instituito pe’servi o frequentato da servi, nè la potenza de liberti usciti del
loro seno, che infestarono Roma delle loro turpitudini, appartiene al secolo di
cui qui si tratta. Una massa di veraci e purissime antiche razze romane
esisteva dunque in quel centro di universal dominio, a cui i tragici poteano
indiriz zarsi con buon successo: e l'osservazione che siegue ne dará
evidentemente la prova. I latini scrittori non ebbero tutti la culla alle falde
del Tarpeo; ne vennero dalle diverse regioni d'Italia, e sin dal l'Asia,
dall'Africa dalla Spagna: ' e non dettavano al certo le loro opere ne' dialetti
municipali o nelle straniere favelle 1 CICERONE, Vitruvio, Orazio, Ovidio
nacquero in quel che oggi chiamasi regno di Napoli: Catullo, Livio, Cornelio Gallo,
Virgilio, in quel che oggi chia masi regno Lombardo - Veneto: Plauto e
Properzio nacquero nell'Umbria, Sal Justio ne' Sabini, Tacito in Terni, l'ersio
in Volterra, Plinio il giovinc in Como: Fedro fu trace, Terenzio cartaginese; e
più tardi Columella, Seneca, Marziale, Lucano, furono spagnuoli, ec., ch'essi
erano stati avvezzi a balbettar nell'infanzia, ma in quella lingua nobile,
purgata, numerosa, che, parlata gene ralmente in Roma, ogni di s’illeggiadriva
e si magnificava nelle strepitose discussioni del fòro e della tribuna. Or come
spiegar questo fenomeno allor che si niega ivi l'esistenza di un fondo, e di un
fondo estesissimo di ingenua romana gente, la quale avesse quella rigorosa
omogeneità nelle maniere di credere, di vivere e di sentire, senza cui una
lingua nè sì forma, nè s'ingrandisce, nè si conserva? Era dunque per incantar
le orecchie de' non Latini, che quegli scrittori avean cura di esprimersi nel
più gentile latino idioma? era con la grammatica scarmigliata e con la mozza
fraseologia de' Germani, de' Celti, degl'Iberi e de' Britanni di quella età,
che si giudicavano meritevoli di elogio le tante sublimi opere di poesia, di
storia e di eloquenza che videro ivi la luce? E può mai supporsi composta
d'ignoranti o barbari quella folla di popolo che, siccome Tacito narra, uditi
un giorno in teatro alcuni versi di Virgilio, tutta si levò in piedi con
entusiasmo spontaneo, e fecegli riverenza come se fosse stato Augusto? Ne’
teatri di Roma erano stabiliti seggi distinti pe'con soli, pe’ senatori, pe'
pontefici, pe' tribuni, pe' magistrati d'ogni ordine e d'ogni specie, e fin
anche per le vestali; chè sotto il principato di Tiberio troviamo un decreto
del senato, con cui si conferisce a Livia il privilegio di seder tra le vestali
negli spettacoli. E dee dirsi che i vecchi sopra tutto li fre quentassero;
essendo ivi legge antica, la quale obbligava i giovani, ovunque nelle sale
degli spettacoli un vecchio si pre sentasse, a levarsi immediatamente in piedi,
e cedergli il luogu per venerazione. Di questa massa principalmente for mavasi
colà dunque il pubblico de' teatri: ed a questa massa dovea senza fallo aver
Terenzio la mente, allor che asseriva non esser altro lo scopo di un poeta
drammatico, se non quello di far gradire al popolo spettatore le favole ch'egli
or diva; onde esclamò nel prologo dell’Andriana: Poeta cum primum animum ad
scribendum appulit, Id sibi negoti credidit solum dari Populo ut placerent quas
fecisset fabulas. Or io ripeto: era per lusingare un popolo di barbari e d'igno
ranti che quel Cartaginese mettea tanto studio nel portar la favella de’ Latini
al sommo della grazia e dell'eleganza, era per lusingar barbari ed ignoranti
che Lelio e Scipione, rino mati a quei giorni per saviezza, per virtù e per
credito, con fortavano questo poeta de' loro benevoli aiuti e de’ loro illu
minati consigli? È fuor di dubbio finalmente che ad attingere svariate ma terie
di rappresentazioni tragiche i Romani ebbero anch'essi dovizia di memorie
nazionali ed eroiche; ove guerre di pas sioni, assedi di città, imprese di
vendetta, mutamenti di sta ti, ratti di donne, e fratricidi e commozioni e
rovesci e ma raviglie di ogni specie si succedono e si confondono ad im prontar
di poetica grandezza le più lontane origini di quel popolo. Nè al mio soggetto
fa ostacolo che quelle famose tra dizioni siensi trovate spoglie di storica
certezza dalla nuova scuola in questo genere, che, aperta dal Vico in Italia, ė
stata poi continuata dagli Alemanni. Verità o favole, storie positive o
allegorie inventate per vaghezza di portenti, basta per me il sapere che eran
generalmente divolgate e facean parte delle credenze pubbliche de' Romani a'
tempi della loro intellettuale coltura. Per quanto infatti si tenga oggi per as
surda la venuta di Enea in Italia, è pur vero nondimeno, e Tacito non isdegna
di attestarlo gravemente, che la famiglia de' Giuli, perché supposta discendere
da quel Troiano, si ri guardava di buona fede come del sangue di Venere. Le
menti anzi con tal fervore si pascevano di siffatte finzioni, che dopo averle
vagheggiate in quei vecchi canti rozzissimi che ne ser barono da prima le
oscure reminiscenze, le videro un giorno con applauso universale rinfrescate di
si egregi colori ne' qua dri dell’Eneide, la quale può da questo lato
considerarsi co me un vasto tesoro delle più remote antichità latine. E se non
vi ebbe tra’ Romani quella profusione di celesti discendenze onde i Greci avean
abbellite le origini delle loro più insigni razze principesche, pur nondimeno
una illusione prestigiosa, capace ivi d'imprimere forte movimento a tutte le
facoltà poetiche, preoccupava tenacemente gli spiriti. E fondavasi
nell'immagine di Roma, per memorandi oracoli riguardata come potenza eterna,
invincibile, dominatrice; in nanzi a cui tutti i popoli della terra doveano
tardi o presto piegar la fronte sommessi; che i numi stessi del cielo non
aveano forza di abbattere; che la religion civile avea riposta finalmente a
simbolo d'immensità fra le tenebre misteriose onde nell’Olimpo era inviluppato
lo stesso Destino. Sicché ad un Romano bastava il tenersi parte integrale di
questa città per credersi di discendenza più che celeste, e trovar
nell'esaltazione di cosi nobile sentimento l'alito animatore di tutte le grandi
imprese nelle arti della pace, come in quelle della guerra. E a far della
tragedia una creazione indigena, oltre all'abbondanza delle loro nazionali
antichissime vicen de, oltre a quel fermento di orgoglio che l'immagine di Roma
suscitava in tutti, i Romani ebbero il medesimo o pri mitivo impulso che per
facili associazioni d'idee la fe ’ nascere dalle feste di BACCO ne' Greci;
avendo pur essi posseduto in certa guisa i loro Epigeni e i loro Tespi negli
autori di quelle rinomate favole Atellane, che veniano rappresentate sopra
palchi ambulanti nelle pubbliche solennità. Rimosse adunque come false o mal
distinte le spiegazioni addotte sinora intorno all'oggetto che ci occupa, e
sino a quando da’ricercatori dell'antichità non ne sieno poste innanzi delle
meglio fondate, a me non resta che di attenermi al nudo fatto, quello cioè che
grandi e veri tragedi mancarono assolu tamente a Roma per trasportar l' animo
anche de' più ritrosi nella sublimità di questo genere di produzioni; e non
conve nir quindi trattar con troppo di asprezza il popolo che osò far sene
beffe. Nè poi questo fatto è realmente unico: chè lo veggiamo più volte
ripetuto nella storia delle lettere moder ne. Or domando: trovandoci
spiacevolmente arrestati dalla penuria di siffatte opere presso i Romani della
età di OTTAVIANO, scenderemo noi ad attinger ivi contezza di quest'arte dal
solo teatro di Seneca, apparso in tempi ne'quali, non che annien tata ogni
reliquia dell'antica virtù, libertà ed altezza di so ciali condizioni, la
stessa lingua che risonò con si dolce fre mito ne’versi di Catullo e di Orazio,
di Lucrezio e di Virgilio, cra caduta quasi che pienamente nel fango? In verità,
se per avventura il popolo romano potesse risorgere alcun poco da quel sepolcro
che si erge smisurato al par di lui nella immensità de' secoli, e ricollocarsi
gigante qual era nel periodo della sua letteraria grandezza, non so se oserebbe
assumer senz' onta titoli di gloria per l'arte tragica, indicando unicamente
codesto suo retore famoso, che rubò non saprei donde la maschera di Melpomene
per introdursi sconosciuto nella schiera degli eminenti e benemeriti cultori di
lei. Eppure, avendo egli acquistata una celebrità che nel suo genere
assomigliasi di molto a quella di Erostrato, non è più concesso a' di nostri di
tacerne, senza destar maraviglia ne' più timorati. Ognun rammenta che il
Corneille, il Racine e l'Alfieri, benchè, grazie alla dirittura delle loro
menti, uscissero incontaminati dalla compagnia di questo autore, non però
sdegnarono di corteggiarlo: ognun rammenta che fra quei veterani
dell'erudizione classica, i quali dal decimoquinto secolo in poi attesero con
si lunghe vigilie a impinguar di chiose, di comenti e di elucubrazioni d'ogni
specie tutte le opere de' Latini, i più valenti si fecero suoi campioni. Ma vi
è alcun lume a trarre dall'autorità di questi ultimi, quando noi li veggiamo
per troppa carità di patrocinio avvolgere i loro panegirici in mille ampollose
stranezze, e storti giudizi; e contraddizioni evidentissime? Eccone in breve
alcun passeg giero esempio. Giulio Cesare Scaligero sostiene che le tragedie di
Se neca non sono per maestå in nulla inferiori a quelle di tutti i Greci, e che
anzi per ornamenti e per grazia superano di molto le tragedie di Euripide.
Questa bestemmia, uscita francamente dal labbro autorevole del patriarca de'
dotti, non fu combattuta nel suo general dettato: ma i confratelli di lui della
medesima scuola non si peritarono d'indebolir la, accapigliandosi bizzarramente
fra loro per emendarla ne' particolari. Non si può senza rimanere attoniti
percorrere quel che ne scrissero a vicenda Giusto Lipsio, Daniele Einsio,
Giuseppe Scaligero, ed altri moltissimi che sarebbe infinito il citare. Uno
trova la Tebaide si bella da crederla degna del secolo di Augusto; l'altro
prendendo scandalo di questo giu dizio, la estima indegna della stessa penna di
Seneca. Questi antepone la Troade a quanto sul medesimo argomento ci ha uno, di
più alto fra i Greci; quegli la dichiara bruscamente opera di un poeta da
bettola. Qui si esalta come magnifica l' Ottavia; lå si deprime come la più vil
cosa della terra. E avvisi di tal sorta, non pur diversi, ma del tutto opposti
fra loro, baste rebbero da sè soli a spandere il discredito su quel teatro: pe
rocchè il bello è come il vero; e la natura doto gli uo mini, con più o meno di
piezza, ma indistintamente tutti, della facoltà di scernerlo dovunque splende:
sì che dissen sioni cosi risaltanti non possono altrimenti spiegarsi, che at
tribuendole tutte a un inesplicabile delirio. Noi non vorremo a ogni modo,
usando di un metodo che il buon senso condanna, nè accoglier cieche prevenzioni
con tra il teatro di Seneca, sol perchè i giudizi che se ne fecero da molti
sono fra loro contradittorii; nè cercar troppo innanzi ne'motivi da cui que'
giudizi medesimi derivarono in tempi ne' quali era vastissima l'erudizione, ma
non ancor nata la critica. Astretti a parlarne un po' minutamente, non foss'
altro per indicarlo a' giovani poeti come uno scoglio fu nesto, a cui senza
pericolo di naufragio non è lor permesso di avvicinarsi, il nostro cammino
intorno a questo autore sarà più spedito e più breve. Indagheremo da prima di
qual tempra fossero le potenze costitutive del suo ingegno, le tendenze morali
che il dominavano da presso, le filosofiche dottrine ond’ era inflessibilmente
preoccupato, e qual necessaria in fluenza esercitassero le particolari
circostanze del secolo in cui visse, a rafforzare ed estendere queste
predisposizioni del suo essere. Scendendo in seguito all'esame imparziale de'
fatti, ci avverrà forse di scoprire ch ' ei fu il discepolo ingegnoso nelle cui
mani ebbero sviluppo ed incremento i germi delle innovazioni di cuiEuripide fu
l'inventore; e ch'egli pervenne ad esagerarle ne' più strani modi, a crearne
delle più mo struose ed ardite, ed a svolger cosi l'attenzione pubblica dalle
originarie bellezze ond'Eschilo e Sofocle aveano rivestito que sto ramo
dell'arte. In assai fresca età SENECA era stato condotto di Cordova sua patria
nella capitale del mondo; e correano forse gli ultimi anni del regno di
Augusto. Vi fece i suoi studii sotto la dire zione di quei celebrati retori e
filosofi, i quali prendeanvanto d'insegnare a'loro allievi tutte le scienze
umane e di vine: concutiebant foecunda pectora, ut inde omnigenas cogitationes
exprimerent. Dotato di uno spirito severo, vi goroso, penetrante, abbracciò le
dottrine della setta stoica che ancor predominava in Roma; dedicossi alla
carriera del fòro, ove acquistò riputazione di felice oratore, e mancò poco che
un tal successo non gli riuscisse funesto, perchè suscitò le gelosie del
frenetico Caligola. Fu avido di gloria e di sape re; ma e altresì di onori e di
ricchezze; e a procacciarsi que st' ultimo intento gli era mestieri di un
mecenate. Ne trovo uno efficacissimo in Domizio Enobarbo, rinomato a quei tempi
per credito e per potenza, perchè del sangue de' Cesari: ed è fama che Seneca
gli pervertisse la moglie, quasi a dargli un pronto attestato di riconoscenza
per la protezione ottenutane. Se non che la nerezza di questo attentato pare
attenuarsi nel rammentare che quella moglie fu Agrippina, il cui nome non venne
mai registrato per avventura nel novero delle vestali: tal che non può
determinarsi con sicurezza s'ei fosse il sedut tore o il sedotto. Ne’primi anni
dell'impero di Claudio, accusato da Messalina di aperta complicità nelle
turpitudini di Giulia, nipote di quel principe, fu esiliato duramente in
Corsica, fosse vera o non vera la sua colpa. Ivi compose il suo libro de
Consolatione, in cui adulò bassamente l'imperadore, e lo indirizzò a un costui
favorito liberto, perchè quei servili omaggi non si restassero ignorati e senza
effetto: il che non impedi che più tardi, non avendo più cagioni da temerne,
gli scrivesse contro una velenosissima satira. Non si potrebbe definir net
tamente s'ei mentisse innanzi alla sua coscienza quando pro fuse le lusinghe o
quando scagliò le ingiurie: è certo che, toccando in cosi brusca guisa i due
opposti estremi, non mo strò di avere un culto troppo edificante per
gl'interessi della virtù e della verità. Intanto Agrippina avea lanciato l'inco
modo marito nella eternità; e, divenuta sposa di Claudio suo zio, dopo l '
uccisione di Messalina, sua prima cura fu di ri chiamar Seneca dall'esilio.
Reduce in Roma, ei fu accolto festosamente in corte, decorato delle insegne
pretorie, e dato a precetlor di Nerone, il quale tenne a fortuna il poter
apprendere da tanto maestro le scienze morali, le lettere genti li, e l'arte di
regnare, a cui Agrippina sua madre occulta mente lo destinava. " Ignoro
quai progressi facesse quel giovinetto eroe nella pratica della virtù: so che
non ne fece molti nelle lettere, perchè fu pessimo poeta e scrittor da nulla: e
si segnalò solo nella perizia del canto e della musica, che non gli furono cer
tamente insegnati da Seneca. Quindi è che, proclamato impe radore ad esclusione
di Britannico, più prossimo erede del trono, bisognò a Seneca dettargli le
orazioni, le lettere, i re scritti da recitarsi o da inviarsi al senato: e
divenne questa per lui una nuova sorgente di gloria, essendosi divulgato in
Roma che que' lavori eran suoi, e che Nerone parlava imboc cato. La voluttà che
egli traea da questo genere di distrazioni intellettuali, si trasformò subito
per esso in cosi dolce abitu dine, che, avendo quel pietoso principe ucciso
prima il fra tello e poi la madre, ei non seppe resistere al solletico di scri
verne le apologie da comunicarsi a’ Padri, in nome di lui: e non già ch'egli
approvasse quei misfatti, ciò disdicendosi a filosofo; ma per non defraudar
forse il popolo romano di una elegante perorazione in favor del fratricidio e
del matricidio. Si può comprendere quanto ei si rendesse caro al suo augusto
allievo per cotai servigietti, a ' quali aggiugnevansi quelli di essergli
sempre intimo consigliere nelle alte cure dello stato, e talvolta per
indulgenza verso la troppo fragile gioventù, anche mezzano in qualche intrigo
d'amore con le sue liberte. Fu quindi colmato di ricchezze, che Tacito porta
fino a trenta milioni di sesterzii; si fabbricò magnifiche abita zioni in villa
ed in città; tolse in isposa la bella Paolina; e cercò di obbliare
nell'opulenza i dispiaceri che gli cagiona vano i piccoli traviamenti a cui
Nerone lasciava di tanto in tanto trasportarsi per eccesso di zelo in vantaggio
del buon 1 Fu alla morte di Claudio, che Seneca, immemore de' mendicati favori,
onde questi lo avea ricolmo, gli detto contra, sotto il titolo di
Apocolokintosis, la satira di cui è detto pocanzi. Fa meraviglia che Agrippina
potesse in questo li bello veder con tanta indifferenza smascherate le brutture
di una Corte, di cui essa era l'arbitra. Ma vi si parlava della grand'anima di
Nerone, il quale dovea succedere al defunto principe, come il più degno: e ciò
spiega tutto l'enigma.ordine; traviamenti che Seneca vedea col medesimo occhio
del suo collega Burro, morens et laudans. Non per ciò i suoi principii stoici
cambiarono d'indole; anzi si tennero sempre incontaminati. Nuotando nelle
ricchezze, scrivea su di una tavola d'oro con uno stiletto di diamante massime
nobilissime in lode della innocente povertà: e, ritraendosi dalle stanze di
Nerone, opere della più pura morale sgorgavano dalla sua intelligenza ad
esaltare i preyi- della virtù e dannare il vizio all'obbrobrio de'secoli. Ma
era Seneca veramente stoico? Intendiamoci. La filo sofia stoica fu coltivata in
Atene nella sua parte teorica e nella sua parte pratica. Que' savi che la
professavano, aspirando a un cotal sommo bene di cui si erano formata un'idea
miste riosa, spregiavano gli onori, le ricchezze, le delizie della vi ta, e
viveano intemerati e paghi solo di quell'interno con tento che vien luminoso e
spontaneo da una coscienza in pace con sè medesima. Da gran tempo era stata
introdotta in Ro ma; e, per analogia di abitudini austere, vi fiori pura e
splendida fino alla morte dell'ultimo Romano, il quale bestem miando la virtù
per impeto d'indignazione, parve segnar quasi direi il cominciamento alla
decadenza di quelle famose dottrine. La filosofia pratica di Epicuro, se non
pur forse quella di Aristippo, sottentrava destramente a tenere il cam po: e ad
assicurarle il trionfo concorreano tutte le volontà, quantunque per diversi
motivi: chè quell' efferato Governo aveva interesse di evirar tutti gli animi
con la corruzione, per comprimere gradatamente le forze politiche dello stato,
e cosi dar base alla concentrazione di un poter unico ed assoluto: ed il popolo
avea bisogno di sommergersi in tutta l'ebbrezza de' piaceri sensuali per non
sentir l ' acerbo contrasto fra una servitù divenuta inevitabile, e una libertà,
che, di fresco spenta, non erasi ancor tutta obbliata. Per quanto però la
depravazione de' costumi fosse gene rale e progressiva, le rimembranze della
filosofia stoica non erano poi del tutto cancellate: ne restavano ancora le
teorie astratte, i pomposi dettati e l’esteriore affettazione de’modi: e quei
ne faceva più solenne apparato che più tendeva precipito samente a seppellirsi
in tutte le iniquità della vita domestica e sociale. Pur nondimeno, quando
sotto i successori di Augu sto le persecuzioni inferocivano, e Roma erasi
trasformata in un miserando teatro di stragi e di rapine, lo stoicismo parve
risorgere a metter vigore negli animi per un solo oggetto..... il disprezzo
della morte. Il suicidio, quest'atto si altamente riprovato dalle più sante
leggi della natura e della religione, rivesti la falsa maschera di una virtù,
che per nuove malva gità di tempi fu abbracciata da moltissimi. Da prima fu
ispi rato da tenerezza paterna. Le condanne per imputazioni poli tiche
importavano la confisca de’ beni a vantaggio de’delatori: ma il senato pendeva
per la regola che un individuo non per desse il suo patrimonio, quando
preveniva la condanna con morte volontaria: si che, appena un Romano sentivasi
accu sato, si affrettava subito ad uccidersi, per non gittare i suoi figliuoli
nella miseria. E non vi era da nutrire speranze illu sorie; perché la semplice
accusa era in quei tempi una sen tenza di morte. Tiberio contraddisse; dimostrò
al senato esser quella una regola scandalosa ed assurda; sarebbe mancato co'
premii il coraggio a' sostegni dello stato; e intendea con questo nome indicar
le spie e i delatori. Questa prima cagione di strutta, non però i suicidi
diminuirono in numero ed in fero cia: restava un altro non men potente motivo a
renderli po polari ed onorati: quello cioè di sottrarsi all'infamia di cadere
sotto la scure del carnefice. Accesi da questo sentimento che rammentava i
bei giorni della romana fierezza, vedeansi uo mini, rotti ad ogni perversità,
morir da forti dopo esser vi vuti da vili. Le storie latine son piene di
siffatte risoluzioni che imprimono un particolar carattere di sopraumana
costanza a quei popoli, e di cui non vi ha che pochissimi esempi presso gli
altri popoli dell'antichità, anche de'più famosi e magna nimi. Erano anime
maschie, gigantesche nelle virtù come ne' delitti, che riunivano in sè tutti i
contrari: nobili pre cetti, azioni scelleratissime, vite degradate, morti
eroiche e generose. Seneca fu stoico in questo senso, perchè in que sto solo
senso lo furono tutti i suoi contemporanei. Or cer chiamo di ritornare al nostro
proposito con un'altra general considerazione, che metterå suggello a tutte le
precedenti. ne, La fantasia non può supporsi disgiunta dagli affetti, dalle
opinioni, dalle abitudini dell'uomo: chè anzi questa facoltà non sembra
attinger vita se non dal concorso di tutti i feno meni sensitivi, i quali
agiscono in essa per conferirle tempra e serbianze analoghe, e su i quali essa
reagisce dal suo canto ad estenderne e rafforzarne l'indole: si che,
immedesimati in un sol tutto indivisibile, rivestono in comune caratteri, at
titudini e colori identici. Un essere morale non si forma inol tre da sè solo e
indipendentemente dagli altri esseri di simil natura che lo circondano.
Rarissimi sono i casi, ove pur ve ne abbia di positivi a citarne, in cui un
uomo, ergendosi come gigante isolato sulla terra, ben altro che ricevere la
menoma impronta dalle condizioni de' suoi tempi, sembra de stinato a comunicar
loro le sue proprie fattezze, e a divenirne a un tratto l'arbitro e il modello.
Nelle ordinarie occorrenze della vita, l'uomo, considerato sotto tal rispetto,
può dirsi come il lento prodotto dell'azion progressiva che in esso eser cita
il secolo in cui si trova; onde, ritrattane in sé l'immagi ei lo rappresenta al
vivo nelle sue moltiplici maniere di vivere e di sentire. Seneca, non ostante
il suo fortissimo e riflessivo inge gno, era precisamente di questa tempra; e
non avea in se nulla di straordinario che lo rendesse capace di luttar con le
circostanze per imprimer loro una direzione più alta. Mancava sopra tutto di
quel carattere d'indipendenza che la storia ci mostra come dote inerente a
tutti i grandi poeti. La condotta che ei tenne con Claudio lo prova; e in
quella cheadottò con Nerone, vi è peggio. Non arrossendo in prima di asserire
che Nerone col suo regno lietissimo avea fatto obbliar quello di Augusto, andò
poi sino a chiamarlo amantissimo della veri tà, modello d'innocenza, benevolo e
clemente a'suoi stessi nemici: e non seppe scuotere la polvere de' suoi piedi,
e ri trarsi da quella fogna di nequizie, se non quando la morte violenta di
Burro gli fe' prevedere la sua, e sentir la neces sità insuperabile di
rassegnarvisi. Quindi la sua fantasia, svi luppata e quasi direi nutrita in
mezzo a tante nefandigie, non poteva esser troppo abile a sfangarsene per
trasportarsi in altri elementi, e vagheggiarvi la creazione dal suo lato pill
splendido. Egli stesso par che fosse ingegnoso a spezzarne le ali con quella
sua trista inclinazione ad ammassar tesori: per chè lo veggiamo accusato in
Tacito di rapace, e in Dione di prestatore ad usura. E se queste imputazioni
son false, con vien dire almeno che il suo procedere fosse tale da dar facile
presa a simili calunnie. Basterà dunque collocarlo nella sua propria sfera per
riassumere in brevi detti quali esser potessero le disposizioni del suo spirito
nell ' intraprendere la carriera tragica. Vide i principati di Tiberio, di
Caligola, di Claudio e di Nerone: e questo nobile quadrumvirato non era
certamente fatto per ispi rargli nozioni troppo rallegranti sulla dignità della
natura umana. Ovunque ei volgesse lo sguardo, non iscopriva che orrori; e
profondo indagatore qual erasi delle più occulte pas sioni del cuore, non
ravvisava intorno a sè che depravazione di sentimenti, sete d'oro e di dominio,
tendenze alla ven detta ed alle stragi, tanto da non poter egli rappresentarsi
l'uman genere, se non come una congrega di mostri, bale strati sulla terra dal
genio del male, perchè vi si divorassero a vicenda. Preoccupato quindi come
attore e come spettatore più nella conoscenza degli uomini che in quella
dell'uomo, egli dovea per necessità sentirsi tratto a rigettare in un mondo
d'illusione ogni specie d'infortunio, che, derivante da for tuiti casi, potesse
rannodarsi poeticamente alla segreta in fluenza di una fatalità invisibile: e a
non veder quaggiù di positivo e di reale se non delitti e virtù in contrasto,
carne fici e vittime in azione, e sempre il più debole schiacciato con perfidia
o con violenza dal più forte. Non altrove in fatti che su queste basi egli
attese ad innalzare il suo tra gico edifizio. Determinata cosi l'idea fondamentale
che dovea servir di unico anello agli orditi, era geometricamente inevitabile
che a riempirli con analoga successione di parti, gli fosse pria d'ogni altro
mestieri di spingere ancor più oltre il sistema di conferire intensità
concentrata alle situazioni, a' caratteri ed agli affetti, onde in tal guisa
tutto concorresse ad isolar le im magini per rappresentarle ne' loro nudi e più
rilevati contor ni. Quindi nelle sue sceniche figure vi ha sempre, se cosi è
permesso di esprimersi, un esagerato lusso di anatomia, ed una secchezza di
commessure che colpisce e non incanta: nulla è in esse tracciato sopra linee
ondeggianti, ove l'occhio possa riposarsi con equabile digradazione di
movimenti; nulla è la sciato ad arte nelle ombre da esser supplito dalla
fantasia dello spettatore. La materia de' suoi componimenti, definita per ciò
appunto sin da' suoi primi sviluppi con metriche dimensioni, e le più volte
attinta più da' tesori della scienza che da quelli della poesia, non poteva
allora che rivestire forme rigide, scarne e prive di calore e di vita; perché
non si riferiva ad alcuna flessibile immagine che dominasse da lunge a spander
vaghezza ed armonia di variati colori ne' suoi dipinti. E ciò spiega nettamente
il biasimevole abuso che ei fe'de' monologhi, in cui talvolta si avviene a
comprender l'esposizione intera di una tragedia. Il monologo è certamente in
natura. Quando le passioni fermentano, l'uomo si piace a disvelare a sè stesso
i sentimenti da cui la sua anima è coster nata; e riesce così a comprimerne o a
rinfiammarne l'impe to, secondo che la ragione esercita in esso un impero più
forte o più debole. Ma questa rivelazione ha pur essa le sue leggi rigorose ed
inviolabili. Perché abbia luogo, bisogna che in quel momento gli affetti si
trovino in un certo stato di equi librio e di moderato temperamento che loro
permetta di rive stir forme possibili di linguaggio. Per l'opposto, le passioni
attualmente in tumulto sono mute; perchè aggorgandosi con veemenza per le vie
dell'anima, la rendono incapace di espan dersi di fuori e di manifestarsi con altra
eloquenza che con quella di un convulsivo silenzio: sopra tutto quando esse son
prossime a risolversi in atti esterni, perchè allora si opera e non si parla; e
l'azione scoppia in tanto più spaventevole, in quanto fu meno preceduta da
quella loquacità importuna che l'annunzia più romorosa che devastatrice. È sol
quando mo strasi grave di calma passeggiera e bugiarda, che la tempe sta
minaccia una più desolante rovina. A ciò si aggiunge che la rivelazione degl '
interni affetti è propria dell'infelice e non del colpevole: poichè il primo,
as sorto ne’dolori che gli vengono da vicissitudini accidentali ed estranee,
sembra ne' suoi solitari lamenti voler interrogare Dio e l'universo intorno
alla cagione de' suoi infortuni; dove il secondo, il quale opera per impulsioni
di volontà consapevo le, apprestasi a compiere il meditato delitto, ma
rifuggendo sempre dal trovarsi troppo in presenza del suo delitto; altri menti
se gli solleverebbe la coscienza, e le più volte sarebbe distolto dall'iniquo
disegno diconsumarlo. Quindi avviene che in questo ultimo caso il personaggio è
tratto sovente a discor rere con sè stesso, non di affezioni, ma di avvenimenti:
e questo in poesia drammatica è un assurdo; perchè gli avve nimenti sono di
loro essenza inalterabili, e, considerati nu damente in sè medesimi, non
ribollono mai nell'anima a segno da indurci a rivelarli partitamente a noi
stessi per alleviarne il peso. Or si osservino da presso i monologhi di SENECA:
sono spessissimo declamazioni fuori natura, det tati da intemperanza
prosuntuosa di far pompa di parole, o di narrar fatti che il poeta non sa
rinvenir mezzi migliori da comunicare al pubblico; e agghiacciano la immagina
zione, perchè interamente privi di convenienza e di verità poetica. Si
richiedea l'occhio penetrante di Aristotile per disco prire che in Euripide i
cori deviavano talvolta dalla loro bel lissima ed originaria istituzione; ma
non vuolsi tanto corredo di sagacità per discernere ne' cori di Seneca un
simile difetto; perchè vi è portato sconciamente all'estremo, e snatura l'in
dole di questa preziosa macchina teatrale per cosi ridurla scientemente ad un
vano frastuono di cantici estranei all'azione rappresentata. Sono ivi
d'ordinario introdotti a tener veci di sinfonie per indicare i trapassi da un atto
all'altro; e quindi senza alcun legittimo scopo in quanto al fondo dell'arte;
se già non fosse per dar pretesti all'autore di sfoggiar la sua abilità nella
lirica. Nè vorrò qui ripetere a lungo quanto dissi nel precedente capitolo
intorno alle cagioni che spogliarono il coro tragico, si efficace ne' due primi
Greci, di ogni specie di drammatico prestigio. Basti aver sempre innanzi agli
occhi, che questo era un danno inevitabile per qualunque poeta, il quale, pari
al tragico latino, tendesse unicamente verso un genere di immagini esclusivo di
ogni conforto di pompa e di espansione. Non potendo io cessar mai d'insistere
sopra un oggetto che reputo importantissimo, mi sia dato di riassumerne per
un'ultima volta il senso. Lo spettacolo delle sventure, dipendenti da' casi
della vi ta, eccita, per l'infelice che ne soffre, una serie di compas
sionevoli simpatie, le quali si prolungano di là da' recinti del teatro, e si
risvegliano con forza tutte le volte che noi ci fer miamo a riflettere sul
nulla della condizione umana: per con seguenza i cori riescono splendidissimi
ed utili a preparare, ad accendere ed a protrarre quelle tumultuose affezioni
che il poeta seppe far nascere in altri. Per l'opposto, lo spetta colo della
distruzione del più debole derivata dalla malvagità del più forte, eccita meno
simpatie di pietà per l'oppresso, che sentimenti di abbominio per l'oppressore:
e queste non son durevoli, perchè richiamano a non so quale immagine di
desolante necessità, la quale concentra l'anima in sè stessa, e non lascia
luogo alla fantasia di svagare in alcuna idea di possibilità che la vittima
avesse potuto sfuggire al carnefice: quindi allora non vi è alcun partito a
trarre dall'intervento de' cori; perchè le passioni odiose non han nulla di
effusivo da esigere imperiosamente che si dispongano personaggi in termedi per
farle passar con rapidità e veemenza nell'animo degli spettatori. Non vi ha
dubbio esser questi propriamente difetti che appartengono alla sola esecuzione:
ma io non mi sono tratte nuto alquanto ad indicarli, se non perchè li veggo
suggeriti dalla stessa particolare idea che l'autore si elesse a guida, ed a
cui si ricongiungono strettamente come necessari effetti di una cagione aperta
ed immutabile. E non da altro fonte derivò pure quello smisurato lusso di motti,
di sentenze e di arguzie, di cui Seneca si piacque d'ingemmare con tanta pro
fusione le sue tragedie, le quali da questo aspetto rassomi gliano ad una
collezione di aforismi spessissimo empi e sto machevoli. L'asprezza delle
situazioni si presta difficilmente ad una calda ed espansiva magniloquenza; e
sembra esigere di siffatti modi saltellanti di linguaggio, che dieno scolpiti
ri salti ad attitudini si rigorosamente stentate. Nè gli era biso gno di molta
tensione di spirito per rinvenirne in abbondan za: bastava frequentar, come lui,
le anticamere de'potenti, per ammassarne de' più spaventevoli, si veramente che
ne' suoi personaggi vien rappresentata piuttosto la natura de' Latini de' suoi
tempi, che la natura umana in generale: e in cotal guisa perdė fin anche il
merito della invenzione. Procuriamo di somministrarne in breve una prova. Quel
suo celebre si recusares, darem, dato in risposta da un principe malvagio a chi
gli chiedea la morte per uscir di tormenti, non è in sostanza che il feroce
motto di Tiberio, il quale osò dir freddamente a coloro che gli domandavano in
grazia di far perire un Romano ch'ei perseguitava: Adagio; non l'ho ancor
perdonato. Quel detto del suo Atreo: Mise rum videre volo, sed dum fit miser,
appartiene di diritto a Caligola, il quale prendea diletto ad assister
personalmente alla tortura delle sue vittime, per pascere i suoi sguardi nel
veder messe in pezzi le loro membra: e sdegnavasi contra i car nefici che non
erano abbastanza lenti nella esecuzione de' loro nefandi incarichi: e Seneca
dovè udirlo più volte dallo stesso Nerone, il quale non ordinava l ' assassinio
di un infelice, se non dicendo à' suoi satelliti: Fategli sentir la morte; tal
che nella congiura di Pisone un suo sgherro si vantò di aver tronca la testa di
un cospiratore con un colpo e mezzo. Quell'ini quo tratto della sua Medea,
Perfectum est scelus — vindicta nondum, era l'espressione favorita di tutti
mostri che da Silla in poi aveano insanguinato Roma. Se si confrontassero
alfine le sentenze di Seneca con quelle qua e là rapportate da Tacito e da
Svetonio, si troverebbe ch'esse in gran parte sono di origine storica, più che
formate dalla sola riflessione del tragico. Nė la ricca merce che in questo
genere gli offrivano i suoi contemporanei, gli era pur sufficiente: spigolava
ne' Greci at tentissimo; e dovunque scorgea una massima atroce, era in gegnoso
ad annerirla più oltre per appropriarsela. Euripide, a cagion di esempio, fe’
dire ad Eteocle nelle Fenisse, che se per possedere un trono bisognava violar
la giustizia, era pur bello il divenire ingiusto: massima che il buon Cicerone
dolevasi di udir sempre ripetere da Cesare, come se Cesare avesse potuto aver
massime di diversa specie. Ma Seneca la trovò gretta e leggiera: una semplice
violazione della giustizia avea per lui certo che di vago e d'indeterminato che
non rilevava troppo l'orrore della immagine: gli bisognò quindi ritoccarla per
darle maggior precisione; e fe' dire più netta mente a Polinice: Pro regno
velim patriam, penates, coniu gem flammis dare. Per la patria e i penati
s'intende; rap presentano il capro espiatore di tutte le colpe d'Israele: ma
quella povera Argia che gli avea somministrato un esercito floridissimo,
avrebbe mai potuto credere che il tenero marito fosse disposto in ricompensa a
gittarla tutta vivente nelle fiamme per ottenere un trono? Non per ciò Seneca
mancò sempre di altissimi dettati. Quel Siste ne in matrem incidas, profferito
dal cieco Edipo, allor che dopo la morte di Giocasta ei brancolando cercava una
via per uscir di quella reggia contaminata, esprime un terror profondo di cui è
difficile immaginar l'eguale. Si è tanto ammirato quel Medea superest, imitato
in seguito con tanta felicità dal Corneille: ma ne' frammenti che di lui ci ri
mangono delle Fenisse, vi è un tratto di simil natura che a me sembra non meno
poetico ed eloquente. Antigone, per metter calma nell' esule padre, gli dice
affannosa: nell' uni verso intero che più ti rimane a fuggire? Me stesso,
risponde Edipo con fremito disperato. Ed è immagine bellis sima, perchè disvela
come lampo tutta la tremenda condizione di quell' infelice famoso. Nella stessa
tragedia, Edipo, volendo nell'eccesso del suo delirio uccidersi, sollecita
Antigone a porgergli il ferro col quale ei versò il sangue paterno; ed ac
cortosi del silenzio di lei, esclama con impeto: hai tu quel ferro, o i miei
figli lo han conservato per essi con la mia corona? E questa terribile e
veramente tragica idea riceve lume dagli amari motteggi, ond' ei riversa le sue
imprecazioni sugli empi fratelli, che, dopo averlo bandito del regno, sel
contendeano fra loro con le armi: Me nunc sequuntur: laudo et agnosco
lubens..... Exbortor aliquid ut patre hoc dignum gerant..... Agite, o propago
clara; generosam indolem Probate factis..... Frater in fratrem ruat.... Ciò
prova senza equivoci che, almeno nel linguaggio, Seneca non mancò al certo di
bei momenti di forza. Ma che va le? È forza d'un ingegno fantastico ed
intemperante, che non conosce modi, non ammette leggi, e confonde spesso il su
blime con lo strano. Perocchè talora, imbattendosi in un alto concepimento, non
gli giova esprimerlo d'un sol tratto; ei vi ritorna le mille volte, lo stempera
in mille diverse guise, ne amplifica le forme con mille ricercati contorni, ed
an nientando gli effetti di prima impressione, produce sazietà e disgusto: tal
altra, per troppa smania di dire e di ripetere e di girar lungamente intorno ad
un medesimo dettato, inciampa senza far colpo, e va sino a render puerili e
ridicoli i più tra gici caratteri; perchè le immagini di spavento ch' ei cerca
di eccitare, si risolvono allora prestamente in concetti ed in arguzie di
spirito, e da'concetti e dalle arguzie si passa a poco a poco a vere scene di
farsa. Nè vi ha uopo d'indagarne al trove la cagione che in quella perenne
boria di mostrarsi nuovo ad ogni costo, e di prender dagli aridi campi di una
prevenuta intelligenza quel che non sa troppo facilmente rin venire ne' regni
fertilissimi di una spontanea immaginazione. Siemi concesso di trarne un solo
esempio dalle medesime Fenisse. Edipo annunzia di voler morire; ma non per le
ragioni che altri per avventura supporrebbe: ama le tenebre, e desi dera
procurarsene di foltissime nella notte del sepolcro, per chè quelle della sua
cecità non gli sono abbastanza profonde. Antigone piange in udir questa
risoluzione; non si costerni dunque l'amata figlia; non più si muoia; eidecide
di piantarsi ritto sul pendio di una rupe a proporre indovinelli a’ viandanti.
A questo nuovo disegno le lacrime di Antigone si aumenta no, perchè vede allora
nel padre, non più indizi di cordoglio, ma di demenza; si consoli dunque la
infelice, non si rinnovi la storia della sfinge. Si crederà forse ch'egli le
promet tesse di sopportar con dignità e rassegnazione la sua sventu ra? No: per
render la calma a quella sconsolata donzella, e darle ampio attestato della sua
riconoscenza, ei le offre di volere a un cenno di lei traversare a nuoto l’Egeo,
e andare a raccogliere nella sua bocca tutte le fiamme dell'Etna. Hic OEdipus
ægæa tranabit freta, Jubente te; flammasque, quas siculo vomit De monte tellus
igneos volvens globos, Excipiet ore. Or non doveva essere per Antigone un gran
principio di con forto, udendo il cieco padre che per diminuire le angustie di
lei vuol mostrarle di possedere il coraggio di Leandro e i pol moni di Encelado?
Seneca finalmente sentiva in astratto, che non è poesia dove non è pompa
d'immagini; e che la stessa semplicità, piuttosto che nuocere alla pompa,
concorre a renderla più splendida e più evidente. Se non che obbliava che
questo in dispensabile pregio di esecuzione prende la sua prima radice
nell'indole stessa del soggetto, il quale spontaneamente la produce, come fiore
ingenerato dal successivo sviluppo del germe che ne contiene in sè le forme
vaghissime, benchè in visibili all'occhio nudo: ond'è che dove il soggetto non
ne somministri gli elementi, il poeta si studia invano di crearla per sua sola
opera dal nulla; specialmente allor che le dispo sizioni del suo animo lo
traggono ad abbandonar le illusioni della fantasia per tutto concentrarlo nella
sollecitudine di sfog giar dottrine e di annerir la natura. La sua infatti
riesce sem pre pompa di esteriore apparenza, 0, per dir meglio, pompa
sovrapposta e forzata, che, non ricongiungendosi per alcun legame al fondo
dell'idea, degenera sovente in apertissima stravaganza, e vien come clamide
imperiale, che, gittata sulle spalle di un satiro, contribuisce meno ad
abbellirlo, che a farne risaltar più oltre la villana difformità. Ne addurremo
più giù gli argomenti di fatto incontrastabili. Ei tolse tutti i soggetti delle
sue tragedie dalla mitologia greca; nè l'Ottavia fa eccezione, perchè ormai gli
eruditi convengono non esser sua. A raggiugner però quelle situa zioni
richiedeasi il volo dell'aquila; ed il tragico latino avea per avventura un
manto di piombo ancor più grave di quelli che Dante pone addosso a una schiera
di dannati. Per valu tarne il merito in complesso, giovi poter distinguere
anche in lui tre diverse maniere di concepire e di dipingere i suoi qua dri.
Allor che il soggetto era di tal condizione fitta ed invariabile ch'egli non
potea da verun canto cangiarne l'idea pri mitiva, s' industriava di farne
un'amplificazione da collegio, e di acquistare in una specie di morbosa
gonfiezza quel che dovea necessariamente perdere in forza ed in elevazione: e
fu questo particolarmente il caso dell'Edipo. Quando alcuna materia se gli
offriva da esagerare a suo modo l'immagine del delitto, ei sentivasi nel suo
vero elemento a dar libero corso alle sue predilette tendenze: e ne diè prova
nel trattar la Me dlea. Piacendosi alfine di spingere all'estremo la dipintura
delle atrocità meditate, riprodusse il Tieste, quasi a chiuder la strada che
altri confidasse di sorpassarlo in questo mo struoso genere. L'esame analitico
di queste tre sole fra le sue tragedie giustificherà quanto finora si è detto
intorno alla in trinseca tempra di questo autore. Edipo. Se un contagio
sterminatore non si fosse ma nifestato in Tebe, che obbligo di ricorrere agli
oracoli per ap prendere i mezzi di porvi un termine, i casi di Edipo non si
sarebbero mai scoperti. Quindi Sofocle, nella magnifica espo sizione della sua
tragedia su questo soggetto, parla di quel flagello, ma in poche linee: il
sacerdote non ne fa menzione al re che a solo fine di spiegargli il motivo per
cui tutto il popolo è accorso in atto supplice a implorare i consigli e l'aiuto
del savissimo de'principi. Seneca per l'opposto, ob bliando esser quello un
incidente su cui non bisognava molto fermarsi, giudicò necessario d'impiegar
tutto il primo atto del suo tessuto a una minuta descrizione della peste onde
la città è tribolata. Edipo, dopo aver accennata la maledizione che pesa sul
suo capo di divenir parricida e incestuoso, senza che alcun ordine d'idee ancor
lo esigesse, togliesi di raccon tare a Giocasta, che dovea pur supporsene
istruita, i feno meni meteorologici onde quella calamità pubblica era disgra
ziatamente accompagnata: calori eccessivi, calme soffocanti, torrenti
disseccati, campagne isterilite, tenebre profondissi e in mezzo a questo
disordine degli elementi, prodigi straordinari, apparizioni di ombre, spiriti
ululanti la notte sull'alto de' tempii, e simiglianti. Usciti appena di questa
prolusione di fisica sperimentale, l'autore ci introduce in una sala di clinica,
menando il coro con una descrizione patologica della peste a fare una mala
giunta a quella di cui ci gra tificò Edipo. Gli spasimi, le convulsioni, le
febbri, l'abbatti mento delle forze, i gavoccioli, e fin la tosse che affligge
gl' infermi, somministrano materie al suo canto: nė vi man cano pure i portenti:
perchè le fontane versano sangue invece di acqua, forse per alcuna chimica
trasformazione operata dagl'influssi del pestifero contagio. Creonte, che era
stato inviato a consultar l'oracolo, giu gne al secondo atto per dire al re,
che, a cessar que’mali, era volontà de’numi che l' uccisore di Laio fosse
punito: nė tras cura di narrare a lungo le difficoltà incontrate dalla Pitia
per destar lo spirito profetico nel suo seno e dare i responsi analoghi alle
domande. Mentre il re lancia, come in Sofocle, le sue tremende imprecazioni
contra il colpevole, il cieco Tire sia, seguito dalla sua figliuola Manto, che
gli serve di scorta, vien sulla scena, non si sa da chi chiamato, traendosi
dietro altri ministri di tempii con un toro e una giovenca per fare un
sacrifizio nella reggia: e richiesto del nome dell'omi cida, protesta di non
saperlo; ma i numi glielo rivelerebbero mediante quell'olocausto. La cerimonia
è immediatamente disposta; e le particolarità che l'accompagnano, benchè visi
bili a tutti, pur vi sono minutamente notate per mezzo di lungo dialogo tra
l'indovino e la figlia, pieno di mistiche al lusioni a' futuri casi di Edipo e
di Giocasta, e fin di Eteocle e Polinice, che son personaggi estranei
all'azione. La fiamma del rogo scintilla de' più variati colori, ed è solcata
di strisce sanguinose ed insolite, si divide in due da sè stessa, ed oltre ogni
espettazione si spegne prima che le manchi l'alimento. Il vino offerto in
libazione si cangia in lurido sangue, e globi di fumo si spiccano dall'altare e
van rotando intorno al dia dema del re. La giovenca cade al primo colpo della
scure; ma il toro spaventato sembra fuggir la luce del sole; e men tre stenta a
morire, il sangue che gli sgorga dalle ferite, spandesi a coprirgli gli occhi e
la fronte. Le viscere sono aperte alle vittime per leggervi il gran segreto: ma
nulla vi si scorge al suo luogo, cuore, fegato, polmoni, tutto è in dis ordine:
le leggi della natura vi appariscono violate: la gio venca inoltre ha concepito,
e il frutto che porta nel ventre, é extrauterino; fenomeno di cui Manto pare
istruita più che a vergine si convenisse. Compiuta però questa dimostrazione
anatomica, il re crede invano aver tocca la meta de' suoi desiderii con la sco
perta del reo; quel romoroso apparato di strane investiga zioni fu opera
perduta: Tiresia dichiara esser tuttavia al buio della verità, e quindi
bisognargli evocar da' regni della morte l'ombra stessa di Laio che gliela
riveli. Ei parte infatti per adempiere in luoghi solitari questa specie
d'incanto magico: e Creonte, che con altri fu deputato ad assistervi, ritorna
ed apre il terzo atto col racconto di tutto ciò che quivi era avve nuto. Poco
lungi da Tebe è una selvaggia boscaglia: ei ne descrive la posizione, gli
alberi, le acque, e fino i venti che vi dominano. Tiresia ordina che vi si
scavi un ampio fosso, che vi s'innalzi sopra un rogo, e vi si gittino molti
animali in sacrifizio con le consuete libazioni di vino e di latte, men tr'
egli intonando lugubri carmi con voce minacciosa, invoca gli spiriti ad uscir
fuori dell'Erebo. Si odono allora urlare i cani di Ecate; la terra trema; e
sprofondandosi apre le vora gini dell'abisso, in fondo al quale si veggono le
pallide divi nità infernali passeggiar confuse con le ombre; e con esse le
Furie armate di serpi, i fratelli nati da' denti del dragone di Dirce, la
Sfinge che fu flagello di Tebe, e tutti i mostri spa ventevoli che abitano quel
nero soggiorno. A cosi tetro spet tacolo gli astanti sono inorriditi: ma
Tiresia, intrepido sem pre, invoca con maggior forza gli spettri, che a torme
innu merevoli arrivano volando sulla terra, e si spandono con fre mito, lungo
la selva. Ne sono indicati i nomi come in una rassegna di eserciti: e lo
spettro di Laio, che sfigurato dalle ferite è l'ultimo ad apparire, annunzia
infine con voce tre menda, che a rimuovere i disastri di Tebe, doveasi
cacciarne Edipo, ad espiazione di aver egli ucciso il padre, e di essersi
congiunto in matrimonio con la madre. Udita la narrazione di tanto prodigio, il
re costernato esclama esser falsa l'accusa, perchè suo padre Polibo ancor vive,
ed egli è lontano dalla sua madre Merope. Quindi sospetta che sia quella una
calunnia di Tiresia per torgli lo scettro e darlo a Creonte, cui altresi ca
rica di rimproveri e minaccia di morte. Si osservi di passaggio che questo
sospetto è ragionato in Sofocle, perchè l'accusa vien dal labbro di un uomo
qual è Tiresia: ma in Seneca è stolto, perchè quella rivelazione è fatta
dall'ombra stessa di Laio che tutti hanno udita. Intanto Edipo, compreso di
cruccio e di terrore, ricomparisce al quarto atto con Giocasta; e chiesti nuovi
schiarimenti sulle circostanze della morte di Laio, sovviengli di aver egli
ucciso un uomo pria di condursi a Tebe; e mentre alle risposte di lei i suoi
timori si accrescono, un vecchio pastore corintio sopraggiugne a dirgli che
Polibo avea cessato di vivere, e ch'egli era invitato ad occuparne il trono. A
questo annunzio ei si piace che l'oracolo da cui fu minacciato di divenir parri
cida, siesi pienamente smentito; ma, temendo egli tuttavia l'incesto, il
vecchio lo affida, svelandogli che Merope non era sua madre, e ch'ei,
ricevutolo bambino da un pastore di Tebe, lo fe ’ adottare in quella corte.
Quest'ultimo è appellato per dichiarar la nascita di Edipo, e tutto alfine si
scopre come in Sofocle. Al quinto atto un messo accorre a narrare che il re,
dopo aver percorso da furioso la reggia, avea risoluto in prima di uccidersi:
ma poi, avendo meglio e più filosoficamente pe sate le cose, erasi contentato
di strapparsi gli occhi; e che, fatto cieco, ancor levava in alto la testa per
assicurarsi s' ei lo fosse interamente, stracciando una per una le fibre che
nelle cavità nude gli rimaneano, per impedir forse che qual che filamento
muscolare non si trasformasse in nervo ottico a dar passagio alla luce. Edipo
stesso apparisce in questo de plorabile stato; e Giocasta gli è a fianco per
convincerlo che i suoi delitti erano sola opra del fato: se non che alle voci
di lui, che inorridito cerca di allontanarla da sè, delibera an ch'essa di
morire. In qual parte del corpo le conviene intanto ferirsi? Quistione
essenziale in tanta circostanza; ond' ella la esamina con logica rigorosa, e si
colpisce al ventre, che die ricetto a un figlio divenutole marito. A questo
nuovo accidente Edipo riconosce sè stesso doppiamente parricida, avendo la sua
disgrazia provocata la morte anche della ma Nell'Ercole all Eta di Seneca,
Deianira propone presso a poco a sè stessa le medesime quistioni prima di
uccidersi dre: e disperato abbandona la patria, invocando tutti i mali di Tebe
a seguirlo nel suo esilio. Se per una di quelle insensate pratiche, usate nelle
vec chie scuole di rettorica, un giovine studente fosse stato inca ricato dal
suo maestro di fare un'amplificazione a sua guisa della greca tragedia di Edipo,
io non credo che il mal senso delle descrizioni estranee all’azion fondamentale
avesse po tuto esser spinto più oltre. Era serbato a Seneca il sommini strar
compiuti modelli di siffatta specie di mostruosità: nė chiunque ha fior di
gusto e di senno esigerà che io m'impacci a provargli un difetto sì aperto con
appositi commentari; ba stando la nuda esposizione dell'ordito a convincerne
senza più anche i meno veggenti. Un critico francese ha cercato di giu
stificarne l'autore, allegando che quelle opere teatrali non erano destinate
alla rappresentazione; e che in conseguenza il lusso delle descrizioni
eterogenee avea per iscopo di ren derne meno inefficace la lettura in alcun
privato crocchio di conoscitori, ove soleano venir declamate. Se non che la tra
gedia è un particolar genere di poesia che ha le sue leggi sta bili e
determinate: e non mi consente la ragione che queste leggi nella tragedia letta,
possano esser diverse da quelle re putate indispensabili nella tragedia
rappresentata. Quando uno e fisso è il genere, non può esso andar soggetto a
variazioni pel vario ed accidental modo di darne conoscenza altrui. Se il poeta
estimava che le ampollose descrizioni, bene o mal coerenti a un tragico tessuto,
fosser le sole che avesser potuto fare impressione in un'adunanza di ascoltanti
oziosi, potea comporne a suo bell'agio distaccate con titoli convenienti, senza
contaminarne un'arte che non è fatta per accoglierle. Sarebbe cosi divenuto il
precursore di Stazio, lasciando una collezione di Sylvæ, più o meno
sopportabili, in luogo di scene tragiche meravigliosamente insopportabili.
Medea. Sin dalle prime scene, sentendosi tradita e derelitta, Medea non respira
che sangue ed eccidii: ma gli eccidii e il sangue non le sembrano ancora se non
leggeris simo alimento al suo animo inferocito. Vorrebbe ritrovare un' atrocità
nuova, sconosciuta, straordinaria, che facesse parlar di lei nella più lontana
posterità. Nel vederla si libera ne' suoi spaventevoli disegni, la nutrice, che
l'è da presso, non sa immaginare altre vie a calmarla, se non rammentan dole
che per menar tutto a termine sicuro ella dee nasconder la sua collera;
perocchè, ove questa si mostri di fuori troppo apertamente, ricade le più volte
sopra colui che ne e animato, e distrugge i mezzi della vendetta. Massima
infernale, ma vera; e posta leggiadramente in pratica da tutti i contempo ranei
di Seneca. Il re intanto, che teme le arti e le insidie della irritata maga,
vien cruccioso ad ordinarle di sgombrar subito da' suoi stati. Indarno ella fa
lungo racconto di tutto il passato per mettere in risalto la iniqua condotta di
Giasone e la ricompensa infame onde l'ingrato la rimerita de' tanti be nefizii
ricevuti; indarno cerca di muovere in quel principe tutt' i sentimenti capaci
di piegarlo a rivocare quella dura ri soluzione; questi si rimane inflessibile;
e nel ritrarsi dalla scena consente solo a permettere, com' ella ferventemente
chiede, che almeno i due suoi figliuoli continuino a dimorar ivi col padre, e
che diesi a lei un giorno di tempo per ab bracciarli, e disporsi ad abbandonar
per sempre quelle re gioni: favore di cui ella gode nel suo segreto, giudicando
bastarle quello spazio a poter tutta rfversar la sua ira contro i suoi
implacabili persecutori. Giasone offresi allora con bizzarro monologo a far com
prendere che il re minaccia morte a lui ed a' suoi figli, ov'ei nieghi
d'impalmar Creusa: nė vi ha cenno che in parte spie ghi o giustifichi questo
mezzo speditissimo di concludere un matrimonio; se già qualche maligno spirito
non voglia sup porre che Creusa fosse incinta, onde, a salvarle la fama, si
obbligasse il profugo seduttore a scegliere fra il talamo nu ziale e la scure.
Medea, che di lui si accorge, gli va incontro scoppiante rabbia e dolore. A'
veementi rimproveri di lei egli dice che il re l'avrebbe fatta perire, s' ei
non lo avesse in dotto a contentarsi di scacciarla solamente dal regno: la
solle cita quindi a sottrarsi tusto allo sdegno di chi ha il potere di
opprimerla. A fin di scoprire il lato debole del cuore di lui, ella finge di
cedere, ed implora che non le sia vietato di menar seco que’ medesimi figliuoli
che pocanzi pregava il re a lasciare in cura del padre; e compiacendosi
nell'udire esser sulla scena, per lui impossibile di staccarsi da quei
fanciulli, si restringe a chiedergli di poter dar loro l'ultimo addio; grazia
che il re le avea di già conceduta. Rimasta sola, medita il disegno di disfarsi
della rivale, inviandole in dono una veste avvelenata; e corre a farne
confidenza alla sua nutrice. Questa rivien e narra i prodigi operati da Medea
per compiere il suo funesto disegno. Con le sue arti magiche avea nelle sue
stanze attirati il dragone della Colchide, l'idra uccisa da Ercole, e i più
mostruosi rettili della terra; e ne' loro veleni, misti a sangue di uccelli
impuri ed a fiamme divoratrici, avea confuso i succhi di quante erbe narcotiche
allignano sulla faccia del globo. Dopo questa relazione, che è lunga e minuta
più che non bisognerebbe a descrivere anche il laboratorio di un farmacista, la
maga ella stessa riapparisce; e invocando Ecate con orribili scongiuramenti a
discendere dal cielo per assisterla, si ferisce al braccio per far del suo
sangue una libazione alla Dea. Terminato cosi l'incantesimo con un sa lasso,
intinge in quel liquore la veste già preparata, e manda i figliuoli a farne
presente a Creusa. L'effetto è subito prodotto. Un messo viene a raccontar
distintamente che l'incendio si è manifestato nella reggia al solo contatto di
quel dono fatale, e che il re e la figliuola vi sono rimasti amendue spenti.
Medea, che in udir tale annun zio gioisce di aver colto il primo frutto delle
sue trame, si dispone a coronar l'opera, uccidendo i figli, per cosi vendi
carsi delle perfidie del marito. Questi era corso con gente d'arme a
sorprenderla: ma ella erasi rifuggita co ' due fan ciulli e la nutrice
sull'alto della casa. Di là parlando a sè stessa intorno a quel che le conviene
di fare, dice che il de litto è compiuto, ma non ancor la vendetta; trucida
furi bonda uno di quei disgraziati, e ne gitta il cadavere sangui noso a
Giasone che dal basso la mira imprecando e fre mendo: e mentr' egli la
scongiura inorridito a conservare almen l'altro in vita, ella lo trafigge sotto
i proprii occhi; e chiamandosi dolente di non averne avuti che due soli ad
immolare, vuol cercar nel suo seno se vi sia il germe di qualche altro
figliuolo per istrapparselo a brani dal fondo delle viscere. Innalzandosi
alline sul suo carro magico, Ricevi, dice al marito insultando, ricevi i tuoi
nati; io mi slancio al di sopra delle nuvole. Si, quei le risponde, assorto nel
raccapriccio e nella disperazione; và per gli alti spazii dell' acre ad
attestare all' universo che non esiste al cun Dio: Per alta vade spatia sublimi
ætheris Testare nullos esse, qua veheris, deos. Tratto divino !.... esclamava
un critico: veramente, ripigliava un altro scherzando sulle parole, non vi è
nulla che sia men divino ! Sull'indole di questa ributtante favola drammatica
dissi altrove abbastanza: e qual pessimo governo Seneca ne facesse ad ancor più
oltre annerirla ed a gonfiarla di vento, ciascuno può giudicarne da se
medesimo. Non è intanto superfluo il notare una circostanza che sembra sfuggita
costantemente a' dotti illustratori di questo tragico antico. Orazio inculcava
severamente a ' poeti di non mai dare a spettacolo una Medea che trucida i
figli al cospetto del popolo; poichè un simile atto da far fremere sterilmente
la natura, dee riuscir più or rendo che tremendo per chiunque non abbia
rinunziato ad ogni sentimento di umanità. Che Seneca infrangesse un cosi savio
precetto, chi ben conosce la tempra della sua fantasia ne comprenderà
facilmente i motivi. Ma donde Orazio lo trasse? Questo fu per me sempre un
enigma. Un precetto che vieta una difformità in poesia, è come una legge che
vieta un delitto in politica: suppongono amendue che un dis ordine abbia
esistito per lo passato, e mirano ad imporre un freno affinché non si riproduca
nell'avvenire: e non vi ha esempio in cui la giurisprudenza civile fulmini
un'azione che non ha mai avuto luogo nella condotta degli uomini, come non vi
ha esempio in cui la critica letteraria basimi un difetto di gusto del quale
non vi è traccia nella storia delle arti. L'in duzione a trarsi da questo
principio è semplicissima. Orazio non potea certamente aver letta la sconcezza,
ch' ei riprova con si grave dettato intorno a Medea, nè in Euripide il quale
avea saputo evitarla, nè in Seneca il quale fioriva quando egli era già spento.
In conseguenza è a dirsi, ch ' ei la scor caso, gesse in qualcuno de' poeti
latini suoi predecessori o contem poranei, le cui opere sono a noi sconosciute.
E in questo che io lascio agli eruditi di verificare, non possiamo nel
precettor di Nerone ravvisar nè anche l'esistenza di una facoltà,
disgraziatamente assai comune; quella cioè di saper ritrovare da sè stesso una
turpitudine. La predilezione de' Latini per la favola di Medea costi tuisce
inoltre un fenomeno che merita ugualmente di esser notato. In Grecia non
imprese a trattarla che il solo Euri pide; e dopo di lui una tragedia sopra il
medesimo soggetto, che non è pervenuta alla posterità, fu scritta da un tal Neo
frone, di cui non ho mai saputo novella. In Francia non è da citarsi che la
Medea del Corneille; poichè i tentativi di Pe louse, di Longepierre e di
Clement sono ormai obbliati. Nella sola polvere degli archivii se ne additano
due in Italia, una del Torelli, l ' altra del Gozzi: e parlo fino al 1820;
perchè, se altre ne sieno apparse dopo, lo ignoro, e non ho mai cu rato
d'informarmene. Non ne apparvero, a quanto io creda, fra gli Alemanni e fra gli
Spagnuoli; e può dirsi nè anche fra gl' Inglesi; poichè quella del Glower non è
calcata sulle memorie antiche. Questo poeta, in ciò di squisito senso, benchè
non di alta sfera nel resto, osò con fermo proposito guastar piuttosto la
tradizione ricevuta, che denigrare con una esagerazione si assurda il prezioso
carattere di madre: ei suppose che Medea uccidesse i figli in un eccesso di
frene tico delirio che le impediva di riconoscerli. E ritornata in sė stessa,
la dipinse preda alla disperazione per l'involontario attentato, anzi che lieta
e trionfante di aver dato opera a una vendetta che innanzi ad ogni essere ben
costituito dalla na tura dovea necessariamente colpir di preferenza il di lei
pro prio cuore. In Roma per l'opposto par che non vi fosse poeta tragico il
quale non avesse tentata una Medea. Vi si segnalarono Ennio, Pacuvio, Accio,
Ovidio, Seneca, Materno ed altri: e Tertulliano parla di un Osidio Geta, che
nel primo secolo dell'era cristiana compose tutta di versi di Virgilio una
nuova Medea, di cui lo Scriverio si è dato l'inutile pena di raccogliere alcuni
frammenti. Con queste tendenze di ferocia ne' drammatici latini, vi è poi tanto
a stupire che ivi la sana tragedia non mai prosperasse con la dignità richiesta?
Tieste. La scena è nella reggia di Micene; e l'azione si apre con l'Ombra di
Tantalo, la quale, tratta sulla terra da una delle Furie infernali, è da essa
spinta a metter odio e furore nell'animo de'due fratelli Tieste ed Atreo, suoi
discen denti, onde seguano fra loro i più orribili misfatti. Al solo aggirarsi
dello spettro in quelle mura fatali, Atreo, che vi tenea scettro, è subitamente
invaso da fieri desiderii di ven detta contra Tieste, che gli ebbe un tempo
pervertita la sposa ed involate le ricchezze, e che állor viveasi profugo in
terre straniere nella più estrema miseria. Memore de' torti rice vuti, ei non
più spira che minacce di esterminio: e trattiensi a parlar con uno schiavo suo
conſidente intorno al modo più sicuro da immolar l'abborrito fratello all'ira
che lo investe. Il ferro per lui è arma di tiranni volgari: ei vuol supplizii e
non morte; poichè nel suo regno la morte debb' esser consi derata come una
grazia. Meditando un eccesso che possa spa ventar gli uomini e la natura, ei
risolve di richiamar Tieste dall'esilio con finte proteste di pace e di obblio
del passato; ed attiratolo cosi nella reggia, trucidargli a tradimento i figli,
e preparargliene pasto neſando in una cena notturna. Ei va gheggia lungamente
il suo infernale disegno; e già ordina i mezzi da eseguirlo. Tieste,
sollecitato da iniqui messaggi, cade nella rete insidiosa; e, costretto
dall'indigenza, presen tasi con tre suoi figli in Micene, non senza terribili
presenti menti di ciò che possa ivi essergli ordito di atroce. Atreo, che ne è
subito avvertito, affrettasi ad incontrarli ebbro di esultanza nella certezza
di aver finalmente le vittime fra i suoi artigli; e coprendo il suo empio
pensiero, avanzasi con benevolo sembiante ad abbracciar Tieste ed a chiedergli
il bacio fraterno. A udirlo, era quello per lui un vero momento di felicità;
onde bisognava deporre gli antichi rancori, e non più ascoltar che la voce
della pietà, della concordia e del sangue. Tieste si precipita a' suoi piedi,
implora il suo per dono, e tra le lagrime della tenerezza e del pentimento lo
prega di accogliere sotto la sua mano protettrice quegl' inno centi giovinetti.
Da prima ei ricusa di accettar la metà del regno che il re gli offre con
simulati affetti: si terrebbe felice di vivere suo suddito, e di poter espiare
i suoi falli co' suoi fedeli servigi: ma cede alfine alle iterate insistenze
del per fido Atreo, il quale, invitandolo a cingere sul suo capo vene rando il
diadema reale, annunzia con espressioni di doppio senso che, a suggellar la
pace tra loro, ei va intanto a disporre un sagrifizio. Questo inviluppo in sè
occupa i tre primi atti della tragedia. Al quarto un messo appare sbigottito, e
con le più rac capriccianti particolarità narra il già consumato eccidio al
coro. Innanzi tutto ei descrive la parte remota del palazzo ove so leano
soggiornare i principi di quella contrada, ed a lungo enumera gli straordinari
ed incredibili portenti di cui quel sito sembra essere il magico ricettacolo.
Ivi Atreo erasi con dotto in segreto con suoi fidati sgherri, trascinandosi
dietro i figliuoli del fratello, ch'egli stesso avea già carichi di catene, ed
a foggia di vittime inghirlandati di fiori e di bende. Or rendi altari vengono
al momento eretti, arde l'incenso, le libazioni versate spumeggiano, la scure
tocca il capo di que' mi seri, e tutte le formalità di un ordinario sacrifizio
son diligen temente osservate. A tal sacrilego apparato, ed a'cupi urli di
Atreo, che pronunciando funebri preghiere intuona l'inno della morte, la vicina
selva trema: la reggia sembra crollar dalle fondamenta, il vino effuso cangiasi
tosto in sangue, il dia dema cade tre volte dal fronte del re, il quale pari a
fame lica tigre avventasi su i tre indifesi nipoti, e l'un dopo l'altro
trafiggendoli, spande il terrore ne' circostanti satelliti. Ciò compiuto, egli
strappa loro le viscere per leggervi entro i presagi del destino; mette
finalmente in pezzi le loro membra ancor palpitanti, ne prepara col fuoco
l'infame cena, e la fa recare a Tieste, che ignaro degli eventi, lo attendea
nelle sale dell'ordinario convito: e cosi quel padre infelice, che in abito
festivo crede per la prima volta gustar la voluttà della con cordia con lo
snaturato fratello, divora le carni de' propri figliuoli. A questa immonda
narrazione, che può star leggia dramente a fianco delle additate nelle due
precedenti trage die, il coro prorompe in esclamazioni analoghe allo spavento
di cui si trova compreso. Il quinto atto ci rappresenta il ritorno di Atreo, il
quale, dopo aver pasciuto i suoi sguardi in quella mensa infernale, vien fuori
gridando con frenetica ed orribile compiacenza: Æqualis astris gradior, et
cunctos super Altum superbo vertice attingens polum, Nunc decora regni teneo,
nunc solium patris. Dimitto superos: summa votorum attigi. e Ma il fatto atroce
non ancora lo appaga: gli bisogna compiere il lutto di un padre, rivelandogli
il tremendo mistero, a fin di saziarsi di vendetta in veder gl' impeti del suo
disperato dolore. All'appressarsi quivi di Tieste, ei da prima si cela per
udirne il solitario linguaggio: indi si mostra; ed invi tando il fratello a
finir seco di celebrar quel giorno di letizia, gli offre una tazza di vino in
cui è misto il sangue de' prin cipi uccisi. Questi, contento in parte della
riacquistata pace, e in parte agitato da oscuri perturbamenti di animo, chiede
affannoso che gli sia concesso di porre il colmo al suo giubilo abbracciando i
figliuoli. Atreo lo tien sospeso con espressioni equivoche, e lo sollecita
sempre più a bere in quella tazza: se non che a quel misero, nel riceverla,
sembra veder fuggire il sole, scuotersi la terra, sconvolgersi gli elementi; e
rinno vando le istanze di rivedere i figliuoli, il mostro si scopre, glie ne
gitta a ' piedi le teste sanguinose, dicendo: gnatos ecquid agnoscis tuos? Qui
Seneca ritrova uno di quei felici motti, per la cui vibrata energia è solamente
notabile: peroc chè Tieste ansante a cosi nero attentato, non richiama in se
gli accenti smarriti, se non per esclamare, agnosco fra trem !.... e cade in
delirio smanioso. Credendoli solamente uccisi, ei domanda con fremito di
poterne almeno seppellire i cadaveri; allor che l'empio gli svela ch ' ei li
avea già divo rati, e gli narra tutto lo scempio che si era studiato di farne.
Le furie di Tieste e le insultanti risposte di Atreo, che gode a quello
spettacolo di orrore, chiudono la scena. Vi ha certa memoria che una tragedia
di Tieste fosse anche stata scritta da Euripide, la quale va fra le tante di
quel teatro che si sono sventuratamente perdute: e Seneca forse l'ebbe
sott'occhio, ad attingerne per lui, non foss' altro, la stomachevole idea.
Quali forme particolari di dramma tica esecuzione il Greco poi avesse adottate
con destrezza per temperar l'orribile del soggetto fondamentale, non vi ha sto
rico indizio da poterne rettamente decidere. Altrove si è però notato, che non
ostanti le tendenze di quel poeta per la di pintura degli eccessi dolosamente
criminosi, tendenze che fra le sue mani pervertirono si bruttamente l'arte, il
popolo di Atene gli era pur tuttavia di costante freno a non lasciarsi
precipitare in troppo aperte mostruosità; ed ei più volte ne avea fatto a suo
danno e scorno il crudele esperimento. Può in conseguenza tenersi ch' ei
procurasse di velare in gran parte le incredibili atrocità onde le vecchie
tradizioni aveano corredato a' posteri quel famoso avvenimento de' tempi eroici
della Grecia; e che Seneca s ' industriasse al suo solito di anne rirlo oltre
misura, frastagliandolo a modo proprio con quella sua fantasia pregna dello
spettacolo reale di tutte le più turpi enormezze. Alcuni han creduto infatti,
che la descrizione di quella parte della reggia di Micene ove si finge che
Atreo spegnesse i nipoti, fosse fedelmente ritratta da quella parte del palazzo
de' Cesari in Roma, che Nerone avea destinata alle sue laide passioni e
crudeltà segrete. È possibile ancora che Seneca traesse altre ispirazioni alla
sua opera dalla tra gedia latina, che, siccome Ovidio narra, Vario e Gracco com
posero insieme su i casi di Tieste, e che probabilmente è la stessa in seguito
divulgata sotto il solo nome di Vario, di cui la storia di quel secolo ci ha
serbata rimembranza. A ogni modo, il fatto vero o non vero su cui si fonda
questo tragico lavoro, non meritava esser cosi rilevato in tutta l'asprezza
delle sue giunture e l'abbominevole nudità delle sue forme, che in un secolo in
cui i più esecrandi at tentati e le più truci e inudite vendette facean parte
integra e special delizia della vita pubblica e privata di ogni uomo. Col
sicuro presentimento che a' suoi contemporanei non ne sarebbe incresciuta la
dipintnra, Seneca lo tratto senza velo: e i suoi sforzi nel dare alcun
contrasto di luce a quelle tene bre infernali, restarono inefficaci. I tre
giovinetti sacrificati all'ira dello scettrato cannibale di Micene, non muovono
che una pietà volgare e ſuggevole, poiché cadono pari a mutoli agnelli che il
famelico lupo divora mugolando nelle sue grotte di sangue. Nè alcuna di più
eminente ne muove pure lo sten tato ritorno di Tieste sulle vie della virtù e
della giustizia, si perchè un tal ritorno può sospettarsi dettato dalla
pienezza delle sue miserie, e si perchè il suo violento e consumato in cesto
con la sposa del germano, è un fatto di sua essenza ir reparabile, e non si
cancella o ripurga per pentimenti per lacrime. L'orror cupo e nefando che spira
il carattere di Atreo, è l'unico affetto che domina e inviluppa ferocemente
l'azione: se non che, soffocando a un tratto tutte le potenze dell'anima, le
addormenta in uno stupor convulsivo, che di strugge ogni vitalità di sentimento
negli spettatori, ed abban dona il personaggio alla sola compagnia di sè
medesimo. E conviene saper grado all'autore di aver nell'ordito messa giù ogni
maschera d'ipocrisia. Conscio che il suo Atreo è un mo stro fuor di natura, ei
lo allontana diligentemente da ogni specie di contatto con la natura. In lui,
niuno di quei palpiti precursori che si associano al concepimento di un grave e
spaventevole delitto; niuno di quei terrori salutari che arre stano
involontariamente la mano armata di un pugnale omi cida; niuno di quei rimorsi
che la rea coscienza genera a un tempo e ritorce contro a sè stessa innanzi
allo spettacolo di una già eseguita scelleratezza. A che infatti porre in
mostra gli ordinari fenomeni del cuore umano per attaccarli a un essere al cui
tipo la tempra dell'umanità rimansi compiuta mente estranea? Ma usciamo alfine
di questo pattume: i comentari sono superflui dove i fatti parlano da sè in
guisa, che ad ogni uomo di mente sana e di cuor non guasto è facil cosa il valu
tarli. Ne mi rimane intorno a questo autore se non a preve nir brevemente
qualche obbiezione che molti per avventura saran tentati di oppormi. Alcuni,
per esempio, col bel romanzo del Diderot alla mano, diranno che io in questo
esame ho troppo annerito il carattere morale di Seneca; ed a costoro, senza
inutili contese, lascio piena libertà di alimentare la loro passione pe'
romanzi, e di farsene un idolo: l’umana viltà sovente ha deificato tanti
mostri, che aggiugnervi anche quello il quale, giusta la grave testimonianza di
un Tacito, diede apertamente opera, se non a concepire, a consumare almeno un
matricidio, non dee poter cagionare alcun nuovo scan dalo. Altri, con
l'autorità di Marziale e di Sidonio Apolli nare, diranno, dall'altro canto, che
vi ebbero tre fratelli conosciuti sotto il nome di Seneca; e che il teatro
venne ascritto sempre, non al primo che fu precettore di Nerone, ma bensì ad
Annio Novato, ch'era il secondo. Potrei rispon dere che uomini dottissimi in
fatto di latina erudizione, quali sono un Giusto Lipsio, Erasmo, Einsio, i due
Scaligeri, ed altri non pochi, attribuirono al filosofo gran parte di quelle
trage die, senza lasciarsi punto illudere dalla circostanza ch'esse fos sero
state pubblicate col nome del fratello: e ch'egli real mente vi abbia
cooperato, lo attesta Quintiliano, il quale net tamente lo addita come autore
della Medea. Potrei soggiu gnere che, ove quelle tragedie si paragonino
attentamente con le prose del filosofo, basta la più leggera critica per rav
visar nelle une e nelle altre le medesime tendenze di spirito, le medesime
pretensioni di dottrina, spesso il medesimo fondo di pensieri, più spesso
ancora le medesime stentate forme di lingua e di stile. Se non che tutte queste
discettazioni erudite sono di niuna importanza per me. Quando anche mi si
dimostri con matematica evidenza che le persone eran diverse, niuno potrà
luminosamente provarmi che la tempra delle anime non fosse la stessa. Nelle mie
investigazioni è stato in me principal di segno di apprendermi, non
all'individuo materiale, che in teressa la storia degli uomini più che la.critica
de' tempi, ma bensì all' individuo astratto, che vien come lucido specchio in
cui fedelmente si riflettono le sembianze di un secolo con tutte le
caratteristiche impronte, e tenaci abitudini, e maniere sue proprie di sentire,
di pensare e di vivere. Se infatti biz zarria taluno volesse attribuir quel
teatro ad altro poeta con temporaneo, a Lucano, per esempio, ch'era figlio del
terzo fratello di Seneca il filosofo, cangerebbe egli mai lo stato della
quistione? Il famoso cantore della Farsalia non fe' onta all' egregio zio:
prese parte attiva in una congiura celebre, che mise Roma tutta in commozione;
e, scoperto appena, tentò fuggir morte, denunziando vilmente i suoi complici,
tra per i quali era sua madre: condannato indi a perire, perchè non era facile
il placar Nerone per simil genere di meriti, affetto eroica fermezza; e
ne’momenti supremi declamò versi allu sivi al suo stato; e del sangue che gli
usciva dalle segate vene fe ' generosa libazione a Giove liberatore. A che
andar più oltre mendicando prove, fatti e ravvicinamenti? Eran tutti cosi: ed
il mio scopo essenziale si fu di chiarire, che ingegni educati disgraziatamente
in mezzo a realità prosaiche e ributtanti, non poteano produrre che opere
drammatiche ributtanti e prosaiche. Le ingenue ispirazioni della natura esigono
am piezza di spazii congiunta a splendore di analoghe circostan ze; e le grandi
fantasie non si sviluppano al certo nelle piazze de' patiboli. La morale di questa filosofia fu scritta da un altro napole tano
esiliato per i moti politici del 1820 21; che merita anche lui almeno un breve
ricordo in questa storia: Francesco Paolo Bozzelli. La sua vita ha molti punti
di contatto con quella dello scrittore del quale abbiamo ora finito di parlare;
e meriterebbe uno studio speciale. Il Bozzelli nacque in Manfredonia il 22
aprile 1786 (1).A venti anni era a Napoli a studiar leggi sotto Michele
Terracina e Ni cola Valletta. Si laureò avvocato; ma presto abbandonò la car
riera forense, essendo stato nominato per concorso U d i tore del Consiglio di
Stato. Nel 1815 fu ispettore generale della Sopraintendenza generale di salute;
e l'anno seguente per lo zelo e l'operosità dimostrata in occasione della peste
di Noia, pro mosso Segretario generale della stessa Sopraintendenza e nominato
cavaliere. Nel 1820 presentato dal Parlamento in una terna per Consigliere di
Stato; ed ebbe infatti questo alto ufficio nel di cembre di quell'anno (2).Nel
successivo fu nominato Commissa rio civile per l'approvvigionamento delle
truppe in Abruzzo. Ma, caduta la libertà, dovette anch'egli cadere; e fu
imprigionato, quindi proscritto. Nel giugno 1822 si rifugiava a Parigi; donde
passò nel '26 a Londra, per tornarvi. E a Parigi quindi (1) Traggo le notizie
biografiche di lui da un clogio funebre, scritto su informazioni
fornitedalnipoteomonimo del Bozzelli:Sulferetrodelcav.F. P.Bozzelli,paroledette
il 27 febbraio 1861 nella Congrega dei ss. Anna e Luca dei professori di belle
arti, dal l'architetto CAMILLO CASAZZA. Napoli,Cons,;opuscolo di 8
pp.in-4.°posseduto dalla Società napoletana di Storia patria. (2)Diluinon
sidicenullanell'opuscolo,delrestopertantirispettideficientissimo, di VINCENZO FONTANAROSA,
IParlam.nas.napol. perglianni1820e1821,mem.edoc., Roma,Soc.D. Alighieri,837;
nel qual anno gli fu dato finalmente di ri tornare a Napoli.Dove riprese la
carriera forense,e rimase tutto il resto di sua vita. Per sospetto di
cospirazione, e arrestato e tradotto nel forte di S. Eramo; ma riottenne subito
la libertà, anzi acquisto la fiducia di Ferdinando II. Il quale lo n o mino
socio ordinario della R. Accademia delle scienze morali e più tardi Presidente
perpetuo dell'intera Società Borbonica,ora Reale; e nel 1848 lo chiamò a far
parte del Ministero, come ministro del l'interno. E d egli redasse lo statuto.
Si ritirò nell'aprile e fu n o minato un'altra volta Consigliere di Stato.Ma
nel maggio tornò al potere e condusse la reazione che seguì all'infausto 15 di
quel mese. E ministro resto, da ultimo col portafogli dell'Istruzione, fino
all'agosto 1849. Quindi si ritrasse a vita privata,in una villa della collina
di Posillipo,dove fini isuoi giorni il2 febbraio 1864. 2. Come scrittore è
particolarmente noto per le sue ricerche Della imitazione tragica presso gli
antichi e i moderni (1), dove in tese a combattere la tesi difesa dallo
Schlegel nel suo Corso di lette ratura drammatica.Ma eglifuanche poeta non
mediocre(2),eau tore di parecchie altre soritture di estetica; fra le quali
meritano speciale menzione le seguenti: De l'esprit de la comédie et de l'in
suffisance du ridicule pour corriger les travers et les caractères, p u b
blicata in francese a Parigi nel 1832; Cenni estetici sulle origini e le
vicende della poesia ebraica (3), nonchè due memorie lette al l'Accademia di
Napoli: Cenni cstetici sulle origini e le doti del teatro indiano; In quale dei
cinque sensi a noi conosciuti è da scorgere il proprio ed efficace organo della
bellezza. Il solo titolo di questa memoria basta, mi pare,a farci intendere che
razza di estetica fosse quella del Bozzelli. Nel 1838 annunziava un trat tato
di estetica, pubblicandone l'introduzione in una rivista(1); (1) La 1.a ediz,
fu fatta a Lugano nel 1838 in 2 voll. L'edizione corrente è quella
delLeMonnier. Mafral'anael'altracen' èunasecondacorretta e daccresciuta di un
capitolo sul teatro, Napoli, Vaglio, in quella Biblioteca italiana pubblicata
per cura di B. Fabbrica tore,che accolso anche la Storia generale della poesia
del Rosenkranz, tradotta dal De Sanctis (1853-54). E l'editore annunziava che
all'Imitazione avrebbe fatto seguire altri 2 voll.contenenti scritti del tutto
inediti del Bozzelli. Sull'Imitazione, v.ULLOA,op.cit., II,330.
(2)VedilesuoPoesievarie,Napoli,DeBonis,1815;e intornoadesse ULLOA,I,244, e
l'articolo di V. IMBRIANI nel Giorn,napol.della domenica,1882,an.I,n.20.
(3) Milano, 1842. (1) Vodi il suo art. Filosofia dell'estetica nel Progresso ma
disgraziatamente il manoscritto gli fu involato, come ci dice un biografo,
nella prigione di S. Eramo. Anonimo uscì nel 1826 un suo Esquisse politique sur
l'action des forces sociales dans les différentes espèces de gouvernement, che
egli aveva mandato m a noscritto da Londra a un suo amico di Brusselle, e fu da
questo pubblicato a sua insaputa. Fu lodato dal Tracy e il n o m e dell'autore
scoperto in una recensione che ne fece con lode il Daunou nel Journal des
Savans; onde valse a prolungare l'esilio del Boz zelli, non potendo le idee liberali
sostenute in quel libro essere approvate dal governo di Napoli. E molti brevi
scritti inseri in riviste straniere, durante l'esilio,e negli Atti
dell'Accademia a Napoli, che non giova qui ricordare (1); essendoci qui
proposti soltanto di dare una notizia d'una sua più notevole opera: Essais sur
les rapports primitifs qui lient ensemble la philosophie et la morale,stampata
a Parigi nel 1825,eristampata nel 1830 col ti tolo più breve De l'union de la
philosophie avec la morale (2); la quale rappresenta davvero un tentativo
storicamente considerevole. 3. Il Bozzelli si prefigge in essa lo scopo di dare
alla scienza della morale quell'ordine rigoroso, quell'unità sistematica, che
erano stati raggiunti, secondo lui,dalla filosofia speculativa dopo Bacone,
ossia da quando essa cominciò a fondarsi sull'esperienza: di fare perciò della
morale, che si trattava ancora sotto la forma vaga d'una raccolta di
osservazioni staccate, una vera scienza filosofica. Perchè, egli dice,« la
philosophie n'est pas seulement (1) Una sessantina di saggi dice il Casazza,
che ne dovette avere innanzi l'elenco. Ma noi non no conosciamo cho pochi: e
menzioneremo solo il Disegno di una storia delle scienze fllosofiche in Italia
dal risorgimento delle lettere sin oggi (ostr. dagli Atti dell'Ac cademia di
sc.mor.e pol.di Napoli); dove sono alcune considerazioni superfi ciali intorno
alle tendenze spiccatamente filosofiche delle menti del mezzogiorno d'Italia e
a quel giusto mezzo che,quasi per il loro vivo senso artistico, gli Italiani in
generale avrebbero, secondo l'A., mantenuto tra le dottrine estreme del
materialismo e dello spi ritualismo astratto. Noi non conosciamo che questa
2." odiz. di Paris, Grimbert et Dorez. Anche in questa ediz.,del resto,il
titolo ripetuto dopo un Discours prélimi naire è Essais sur les rapports ecc.E
a quest'edizione si riferiscono le nostre citazioni.Il PICAVET
(Lesidéologues,Paris,Alcan), dandouna brevissimanotiziadellibro, che
citaEssaisecc.,dà la data del 1828. Ma dev'essere una svista.La data del 1825 è
data dal Casazza e dal cenno che sul Bozzelli si trova nella Grande
encyclopédie. Sul libro, si cita una recensione del Lanjuinais nella Revue
encyclopédique, vol.26.o Il Casazza infine nel 1864 diceva che il nipoto
omonimo già ricordato « con rispettosa ossequenza al nomo dello zio,or ora
porrà allo stampe la traduzione dell'opera Saggio sui
rapporti,ecc.>, la clef de la morale,elle en est l'essence même ».Non
disconosco che importanti concezioni rigorose della morale c'erano già state in
Germania après les ramifications de la doctrine de Kant (1). M a non erano che
concezioni di unitari, com'egli chiama gl'idealisti; di unitari o teisti, o
assoluti. E ormai è chiaro di quale filosofia l'autore intendesse parlare,
volendo filosofica la morale. Egli insomma voleva per questa qualche cosa che
potesse paragonarsi agli scritti concernenti la teorica della conoscenza
(philosophie egli dice) di Locke, di Condillac, di Destutt de Tra cy: « ces
trois écrivains qui semblent se succéder exprès pour ajouter l'un à l'autre,
pour serrer de plus en plus l'analyse et l'enchaînement des faits, pour que
l'erreur echappée à la pour suite de l'un soit atteinte par l'autre jusque dans
ses derniers retranchemens; ces penseurs enfin qui brillent comme trois points
lumineux dans l'histoire de l'esprit humain, et qui éclairent la route de la
vérité,pour empêcher que personne ne puisse plus s'égarer dans le vague des
hypothèses »(2). 4. Le azioni umane, la cui direzione costituisce l'oggetto
della morale, non sono apprezzabili se non a patto che si riferiscano alle
affezioni che le determinano. La scienza della morale, per tanto, si fonda
sulla conoscenza delle cause per cui tali affezioni si generano, si succedono,
si coordinano: si fonda, oggi si direbbe, sulla psicologia. E come il principio
d'ogni fatto spirituale è nella sensazione, bisogna cominciare da questa. La
sensazione è un fenomeno del nostro essere,che avviene internamente,dentro di
noi(3);questa è una verità intuitiva,at testataci dalla coscienza. Il numero
delle sensazioni è infinito; ma esse entrano fra di loro in certi rapporti; il
che non sarebbe possibile senza un sostegno, un centro, un principio generale e
permanente di tutte queste affezioni.È un'induzione questa asso lutamente necessaria,
perchè unica. Noi non conosciamo diret tamente questo qualche cosa che è la
base delle sensazioni; m a lo scopriamo per i suoi effetti, come la prima
condizione di essi, come una potenza particolare,che sipotrà indifferentemente
chia mare essere senziente, anima, spirito, intelligenza, sensibilità. (1)Ma
non pare conoscesse le opero oticho di Kant o de'suoi epigoni.Di Kant cita solo
le Considerazioni sul sentimento del bello e del sublime;e,salvo errore,nella
tradu zionefrancesedolKoratry.L'accennochesifaap.464eseg.allamorale
disinteressata di Kant non prova una cognizione diretta delle opere
kantiane. Ma la sensazione rappresenta
'sempre qualche cosa di estra neo all'essere che sente: non si potrebbe
concepire in noi la pre senza d'una sensazione, spogliata da ogni rapporto con
oggetti dif ferenti da noi.Sicchè bisogna convenire,che vi sono realmente causc
esteriori che noi conosciamo soltanto dai loro effetti su noi, e che sono la seconda
condizione, non meno indispensabile della prima, per lo sviluppo della
sensazione: e il loro insieme si dirà natura, mondo, universo, o, più
semplicemente, esistenze che ci sono estranee. Per ammettere queste esistenze
l'argomento più luminoso, se condo il Bozzelli, è che quando mancano certe date
sensazioni, non accade mai d'imbattersi negli oggetti che possono produr le(1).Ognun
vede che l'argomento è molto debole, per non dir nullo: ma infine « tous ceux
qui se tiennent dans les bornes d'une espèce de doctrine pratique et de simple
sens c o m m u n, en sont pleinement d'accord ». E questo è verissimo.
Contentiamoci, ad ogni modo, per la scienza dell'anima e dell'universo,diqueste
semplici verità d'induzione:erinunziamo alle ricerche metafisiche sull'essenza
dell'anima e sul principio generatore dell'universo. L'impossibilità d'una
soluzione scienti fica dei problemi metafisici è dimostrata dal fatto che non
ci sono due pensatori che abbiano dato una stessa soluzione: quot capita
totsententiae.Se oggi,diceilBozzelli,sisaqualchecosadichiaro in questa materia,
si deve piuttosto ai lumi della religione po sitiva che ha tagliato i nodi con
la sua autorità. La sensazione non importa semplicemente la rappresentazione di
cause esterne,l'appercezione delle qualità dell'oggetto, ma an che una
immancabile alternativa di dolore o di piacere. Una sen sazione che non
s'accompagni con un'emozione gradevole o in cresciosa,è un'astrazione senza
realtà. La sensazione è tutta la sensazione: ossia fatto rappresentativo
oggettivo e fatto emotive. Del resto, Bozzolli ammette la oggettività della
cosa, ma non ammette quella dello qualità: « Dans la réalité, une sensation ne
représonte rien en elle-même, parce qu'ellen'estriendesemblableàl'objetquilaproduit
-- chia come fisica; e i positivisti d'oggi e gli altri agnostici non hanno
nessuna la nuova conclusione È la vec de 'critici negativi di ogni m e t a
della sottomissione rità religiosa. È la conseguenza ragione di scandalizzarsi
forze della ragione. del Bozzelli logica e fatale all'auto della sfiducia
nellesoggettivo. Donde la vera classificazione delle facoltà dell'anima
inintuitiveeattive;leunestrumento dellaconoscenza,lealtre dell'azione.Le forme
rappresentative sono icaratterifilosoficidella sensazione; i fenomeni di
piacere e di dolore, i caratteri morali. Il piacere e il dolore ci sono noti
immediatamente, perchè li proviamo: m a la ragione del loro accadere è
impenetrabile. In compenso,la loro conoscenza è nettae distintaper modo che a
nessuno è possibile confondere l'uno con l'altro; anzi ognuno sente il piacere
come un'affezione di natura diametralmente op posta al dolore. Ora, l'idea di
sensazione è inseparabile da quella di m o vimento. Già essa, consistendo in
fondo in un cangiamento di stato, ossia in un passaggio da uno stato ad un
altro, non può avvenire senza movimento ! Ma essa stessa poi genera un m o
vimento; e come essa ha un doppio carattere morale, secondo che è piacevole o
dolorosa,è chiaro che determinerà una doppia specie di movimenti. Quei fenomeni
esteriori e visibili che si osservano nell'uomo investito dalla gioia o dalla
tristezza, non sono che una conseguenza organica d'un primo movimento che si
determina per tali sentimenti nell'anima. E per analogia con i movimenti che si
vedono nel corpo, noi possiamo dire,che ilm o vimento correlativo dell'anima
ora è espansivo,ora è coercitivo: espansivo quando si tratta di piacere,
coercitivo quando sitratta di dolore. Bozzelli combatte la vecchia dottrina
edonistica epicu rea, rinnovata nel sec. XVIII da Pietro Verri nel suo Discorso
sull'indole del piacere e del dolore, che il piacere con sista nella cessazione
del dolore.Che significa che ildolore cessa? Il dolore,come il piacere,è un
carattere della sensazione: sicchè può cessare se cessa la sensazione dolorosa.
E se cessa la sen sazione, non può esserci nè anche il piacere; perchè anche il
piacere è carattere della sensazione, e non può esser prodotto da niente. E poi:
contro la dottrina del Verri sta l'esperienza comune degli oggetti, parte noti
come causa diretta di sensa (1) Ecco perchè e in che senso il Bozzelli
distingue la scienza della morale dalla filosofia. (2)Vedi LOSACCO, Le dottrine
edonistiche italiane del sec.XVIII, Napoli, Atti della R. Acc. di Sc. mor. e
pol. di Napoli, dove appunto sarebbe stato opportuno ricordare le osservazioni
fatte al Verri dal Bozzelli (Essai premier,chap.VI). zioni
gradevoli, e parte, di sensazioni dolorose: gli uni e gli altri come forniti di
caratteri dipendenti dalle loro qualità par ticolari ed intrinseche. Se il
piacere fosse generato dalla cessa zione del dolore, delle due l'una: si
dovrebbe ammettere cioè, o che in natura non esistono oggetti piacevoli di
nessuna specie, e che tutto l'universo non è che una causa unica e continua di
dolore; o che, se alcun oggetto piacevole esiste, esso dev'essere considerato
come una creazione inutile o come un'aberrazione e una mostruosità fuori
dell'ordine normale delle cose. E in verità non si può concepire niente di più
strano e di più assurdo.Certo, bisogna riconoscere che il piacere attinge un
maggior o minor grado d'intensità secondo che succeda a un dolore più o meno
vivo,o più o meno rapidamente cessato. Ma il piacere è uno stato positivo, come
il dolore. Nè vale ricorrere come fa il Verri a quei dolori oscuri, equi voci,
quasi inconsci, che egli dice dolori innominati, per ren der ragione di quei
piaceri che l'esperienza non ci mostra come successivi a un dolore.
L'affermazione di siffatti dolori è asserzione vaga,diceilBozzelli,epocodegna
dellaseverità dell'analisi: contraddetta dal fatto delle serie di sensazioni
associate, tutte piacevoli. Ma torniamo ai gradi dello sviluppo dell'anima. Il
primo è dunque quello attestatoci dal sentire:ossia l'attitudine dell’a nima a
sentire, o sensibilità propriamente detta. Questa facoltà, come ogni altra, è
attiva, checchè ne dica il Laromiguière. In fatti, dire facoltà passiva è una
contradictio in adiecto: perchè fa coltà viene da facere, sinonimo di agere; ed
è perciò lo stesso che attività. La sensibilità si dice passiva, perchè le
sensazioni sono necessarie e come imposte: non essendo in poter nostro di evi
tare l'eccitamento degli stimoli esterni, nè, una volta eccitati, di non
provarne le impressioni sensibili. M a il senso non è semplice recettività; ei
non ha niente di simile a un corpo fisico in riposo che riceva un urto
meccanico da un altro corpo che è in m o v i mento. L'anima nell'atto che
riceve quel dato stimolo, risponde all'impressione esterna, facendo nascere la
sensazione, cioè « (1) Il Bozzolli ha ragione di notare al Verri che oltre e
meglio di Platone, Montai gne, Cardano e Magalotti, avrebbe potuto citare tra
coloro che avevano sostenuto la sua dottrina, Epicuro: pel quale il vero
piacere era appunto oneExipeous Tavtos toj a d yoovtos
(DIOG.L.,X,139).Vediunmio articolonellarivistaLa Criticadir.daB.CROCE,In questa
facoltà del senso tutte le altre trovano il prin
cipiodellorosvolgimento.Datoilcarattereespansivo delpiacere, bisogna ammettere
nell'anima una specie di attività differente da quella del senso. L'essere
senziente pel piacere « ne sent pas simplement; il s'élance dans sa propre
modification, et s'efforce à tout prix de s'y attacher ». C'è qui uno
sdoppiamento d'atti vità:un'attivitàsente,eun'altrasisforzadiconservareuno
stato.. L’una e l'altra sono facoltà elementari;e la seconda dicesi volontà. Di
qui si vede che lo sviluppo della volontà comincia dalla prima sensazione
piacevole; poichè il dolore è coercitivo. M a il dolore ha un'altra funzione
(2). Il piacere sviluppa la doppia attività dell'anima sensitivo -v o litiva;
il dolore la sola attività sensitiva. Sicchè ilsuccedere del dolore al piacere
non può riuscire indifferente all'anima; la quale non può non raffrontare i due
stati, e sentire la loro diversità. Ora, sentire questa disparità tra isuoi
modi di essere,non è sen tire gli stessi modi di essere separatamente, e
ciascuno per sè. Questo nuovo sentire è quindi l'effetto d'una terza facoltà,
ele mentare anch'essa, dell'anima;è ciò che dicesi propriamente un giudizio.
14. Queste del senso, del volere e del giudizio sono le tre fa
coltàprimitivedellospirito;leleggi,perdirlaconDugald Ste art, della nostra
costituzione mentale. Esse non sono distinte per modo che ciascuna di esse
sorga a misura che condizioni particolari del suo sviluppo vengano
sucessivamente a verificarsi; perchè l'essere sensitivo è uno; e fin dalla sua
prima risposta aglistimoliesterni,eglisielevaintuttalapienezzadellesue potenze,
come me che sente, me che vuole, e me che giudica. Pure, come l'esperienza
umana non si occupa affatto delle esistenze in quanto indipendenti da ogni
rapporto con noi (non le afferma, nè nega), cosi per la nostra esperienza non
importa che le fa coltà primitive dell'anima siano tutte e tre originarie: essa
non fenomeno sui generis, che si riferisce all'oggetto esterno, senza
però rassomigliargli e senz'aver nulla di comune con esso » (1).Il
cheèattivitàenonpassività.– Sicchéquest'argomentodelLa romiguière per togliere
la sensazione dal seggio in cui il sensi smo, fino a quella che il Picavet
chiama la seconda generazione di ideologi, l'aveva collocata, come fonte e base
di ogni prodotto dello spirito, non ha alcun valore.) tien conto nel me che
sente,del me che vuole,nè del me che giu dica:questi me non ancora sirivelano;
sono,ma per noi come non fossero. Per tenerne conto,sì da non ammettere nessuna
gra duazione,nessuno sviluppo nella formazione dell'anima, la filoso fia dovrebbe
spingere l'analisi al di là di ciò che si è manifestato allanostraanimainun
modopositivoereale. Insomma, Bozzelli afferma, come sa e come può,la necessità
razionale di conci-. liare il concetto dell’a-priori dell'anima col concetto
dello sviluppo di essa. In questo sviluppo la volontà ha una parte importantis
sima,come s’è visto. Senza la volontà l'anima non potrebbe che sentire, e non
si eleverebbe mai all'altezza del giudizio. E poichè volontà senza piacere è
impossibile, il piacere è il cardine e il centro della vita dello spirito. Esso
è l'unico motivo del volere: e il Bozzelli non accetta nulla della dottrina del
Locke che il volere sia determinato da un'inquietudine attuale. Il dolore non
cimuove,macimortifica. Il dolore ci muove quandofuoridi noi ci sia qualche cosa
di piacevole il cui acquisto ci prometta un sollievo. Ma allora non è
propriamente il dolore il vero motivo, anzi quella sensazione piacevole che
l'oggetto esterno ci fa pregustare. Il dolore come tale è assolutamente quietivo:
nessuno può volervisi sottrarre senza l'esperienza d'uno stato diverso, che
sarà quindi il reale motivo del voler suo. Non ci sono desiderii vaghi di
liberarsi da dolori attuali senza saper nulla dello stato in cui si
cangerebbero. Si ha sempre un'idea dello stato diverso che si desidera.
Condillac disse bene (3): « Les besoin ne trouble notre repos, ou ne produit
l'inquiétude, que parce qu'il déter mine les facultés du corps et de l'âme sur
les objets, dont la privation nous fait souffrir. Nous nous retraçons le
plaisir qu'ils nous ont fait: la réflexion nous fait juger de celui qu'ils
peuvent nous faire encore; l'imagination l'esagere; et, pour jouir, nous nous
donnons tous les mouvemens dont nous sommes capables. Toutes nos facultés se
dirigent donc sur les objets dont nous sentons le besoin ». Or questo,osserva
il Bozzelli, non è che un commento di Locke; il quale, indicando il dolore come
causa delle nostre determinazioni,esige che v’abbia nello stesso teinpo fuori
di noi quel tale oggetto piacevole che ci promette un sol lievo. Ma in questo
modo è un aperto tradirsi, è ammettere di fatto ciò che con tanta fatica
si combatte in teoria. Si, è « pour jouir, come dice Condillac, que nous nous
donnons tous les m o u vemens dont nous sommes capables ». Il vero motivo
dunque delle determinazioni volitive è quel l'oggetto volibile posto fuori di
noi,di cui parla lo stesso Locke. Ma come s'ha da intendere questo fuori di noi?
Non certo nel senso spaziale: perchè in questo senso l'oggetto resta sempre
fuori del soggetto che lo sente. Qui si tratta invece di posizione nel tempo;
vale a dire, l'oggetto è fuori di noi in quanto non è ancora, può in avvenire
esser posseduto da noi: in quanto rispetto a noi è un oggetto futuro, laddove
l'oggetto goduto può dirsi presente e attuale. Di qui il principio, su cui il
Bozzelli insiste a lungo e difende da ogni possibile obbiezione, che il motivo
di tutte le azioni umane sia la sensazione piacevole dell'avvenire. Or donde,
dato un unico motivo possibile, tanta varietà nelle azioni umane? Egli è che
l'anima, a cominciare dalla sensa zione,non è,come fu già osservato,uno
strumento passivo.Un'af fezione poi, com'è data dalla sensazione, non resta
immobile e inerte nell'anima,che la elabora e la spiritualizza, decomponen done
gli elementi costitutivi (un oggetto nelle sue varie qualità di cui non è che
l'insieme) per distinguere questi l'uno dall'altro, e d'ognuno farne un centro
d'associazione d'altre affezioni o m o genee che concorrono a fissarvisi.
Quindi un intreccio di vincoli per cui le rappresentazioni sono fra di loro
legate; e quindi una maggiore o minor forza in ognuna a seconda del più o meno
stretto collegamentocon altre;ecorrelativamente,una maggioreominor facilità in
ciascuna di esser ricordata e come d'esser proiettata pel futuro.Ora questa
forza intrinseca dell'anima,elaboratrice dei materiali dell'esperienza
sensibile,non pervenendo a uno stesso grado in tutti gl'individui e in tutte le
età, è chiaro che confe rirà un contenuto diverso al motivo del volere,e
produrrà quindi la varietà delle azioni. Insomma, essendo identica in tutti la
natura dell'anima e identici gli organi esterni che le porgono alimento, si
genera ne'diversi individui un diverso contenuto psi cologico, da cui dipendono
le determinazioni del motivo in so unico dell'umano volere. « Certo,dice con
enfasi ilBozzelli,quell'inflessibile Bruto che condanna a morte i suoi figli, e
che con occhio fermo assiste all'ese cuzione della sua terribile sentenza,sarà
un essere inconcepibile ma (1) Essai troisième, chap. I e II.
fuori del primitivo concetto della grandezza romana. Egli si slan cia
attraverso la notte dell'avvenire, e vede per quell'esempio di giustizia
spiegarsi sotto isuoi occhi,in una successione magnifica, cinque secoli di
gloria e di prosperità; vede la nazione più colos sale uscirne tutta intera e
coprire della sua potenza la faccia della terra; e concezioni che spaventano le
anime comuni, rien trano per le anime straordinarie nei rapporti immutabili del
l'esistenza dell'universo ». Il principio delle azioni umane, dunque, è la
sensazione piacevole di un oggetto futuro: o con termine più semplice, il
piacere. E la storia ce ne fornisce una conferma evidente. L'ori gine della
società non è che l'effetto di tale principio. Esso conduce il selvaggio dalla
caccia alla pastorizia, quando l'esperienza gl'insegni che le intemperie o le
malattie potranno impedirgli un giorno di procacciarsi la preda necessaria al
vitto: ed egli provvede all'avvenire impadronendosi, quando può, di gran numero
di animali pacifici, per esempio di cervi, e li conserva vivi, per potersene
nutrire al bisogno. Esso fa sorgere accanto alla pastorizia l'agricoltura,
quando l'uomo conducendo gli a r menti alla pastura, acquistata la conoscenza
degli alberi e delle piante, comincia a sperimentarne l'uso, e a poco a poco a
calco larne ivantaggi che ne può ricavare con la coltivazione.Esso mena il
pastore e l'agricoltore a scambiarsi i prodotti superflui della loro diversa
operosità,segnando quindi la data della più potente rivo luzione nell'insieme
dei loro bisogni e delle loro facoltà. Quindi, dividendosi sempre più il lavoro
e moltiplicandosi gli scambii, sempre quell'identico motivo aduna insieme ad
abitare in un sol luogo consumatori e produttori, e crea le città. Poscia perfe
ziona le arti, regola le industrie, e fa nascere perfino le scienze. È questa
la molla segreta di tutto l'umano progresso. 18. E che è la proprietà se non un
sostegno dell'avvenire? E a che si ricerca e si stabilisce, se non per
assicurarsi il piacere futuro? La proprietà è necessaria appunto perchè è
necessario cotesto sostegno dell'avvenire. E coloro che declamano contro la
proprietà, esaltando la comunanza dei beni, non sanno che si di cono, e si
stenta a credere che parlino in buona fede (2). E che? La comunanza dei beni
esclude forse la proprietà?Una massa di mezzi di sussistenza appartenente a una
colonia intera senza appartenere agl'individui che la compongono,è
inconcepibile.La proprietà individuale ci sarà sempre, sebbene ridotta al
libero uso che ciascuno può fare dei beni comuni; perchè in quest'uso è
assicurato appunto a ciascuno il sostegno dell'avvenire; che è la vera sostanza
del concetto di proprietà. Ma cogliendo il frutto, non s'è padroni di tagliare
l'albero che lo produce. Ma l'albero non è per ciò sempre una proprietà,alla
quale ognuno ha diritto di ricorrere, quando vuol soddisfare la fame? M a
questo diritto appartiene egualmente a tutti gl'individui della colonia. Ma da
quando in qua la solidarietà del possesso ha distrutto il diritto di proprietà,
che ciascun solidale ha sullo stesso fondo? E tanto è vero questo modo di
vedere che,quando questa massa di beni comuni cessi, per dissensi o
usurpazioni, di soddisfare ai bisogni di tutti gli individui della comunanza,
cessa anche di essere una proprietà, pel solo fatto che nessuno più vi
riconosce l'appoggio del suo avvenire;e allora ognuno per sussistere fa
assegnamento sul suo lavoro personale, e si crea una proprietà a sè, di cui gli
altri non partecipano punto il godi mento. Declamare, dunque, conchiude il
nostro scrittore, contro la proprietà è pigliarsela colle affezioni costitutive
del n o stro essere. Pretendere la proprietà con la comunanza dei beni, è
giuocar di parole, é appigliarsi a una differenza, che rispetto alla nostra
natura sensitiva è nulla. E che è la legge se non una garenzia dell'avvenire?
Tutte le definizioni diverse date da Cicerone, da Montesquieu, da G r o zio,da
Rousseau contengono forse ciascuna una verità,ma par ziale e incompleta. La
legge non è una semplice volontà, nè un pensiero generale, nè un'astrazione
filosofica: ma « una potenza sempre attuale, sempre formidabile,che nasce dal
bisogno di con servare inviolabili le affezioni più generose dell'anima. La pro
prietà basterebbe come sostegno dell'avvenire;ma questo soste gno è ad ora ad
ora scosso dalla violenza e della mala fede, con tro le quali urge appunto la
garanzia delle leggi. Certo la legge provvede a un vizio della convivenza
civile; e Tacito ha ragione: corruptissima republica,plurimae leges! 20. E se
si riflette, la stessa religione rispecchia quel fonda mentale motivo di tutte
le umane produzioni. Non è religione quella del selvaggio, che, atterrito dal
rimbombo del tuono nel mezzo della tempesta,si prosterna innanzi al corruccio
d'un Dio che ei si rappresenta posto sulla cima delle nubi; o del
selvaggio che all'apparire del sole vedendo sorridere la natura, adora in
ginocchio l'astro luminoso, ond'egli fa la dimora sacra d'un Dio benefattore:
perchè il vero sentimento religioso è ben altrimenti profondo. Religioso è
l'uomo la cui anima si espande a tutto ciò che v'è di più tenero e di più
simpatico nei rapporti della natura vivente, e sdegnando fieramente i limiti
d'una tomba fredda e silenziosa, innalza le sue più nobili aspirazioni oltre il
confine del tempo e dello spazio: l'uomo virtuoso che l'ingiustizia dei suoi
simili ha gettato nelle tribolazioni dellavita,eche,non vedendo se non nella
morte il termine delle proprie miserie,apre l'anima alle illusioni lusinghiere
d’un'altra vita imperitura,e sospira la calma che si ripromette di
trovarvi.Negli uomini diquesta tem pra conchiude il Bozzelli s'eleva il
santuario della reli gione, dond'essa apparisce raggiante delle speranze più
consola trici. La religione nasce pertanto come l'infinito dell'avvenire(1).
Disse lo Shaftesbury, che il primo ateo dovette essere certamente un uomo
triste e malinconico. Il contrario anzi è vero, secondo il nostro romantico
scrittore. Le reveries seducenti della tristezza malinconica fecero nascere la
religione; e l'ateo è un 21. Tutta l'umanità dell'uomo,dunque,cidice,che ogni
deter minazione dello spirito procede dal bisogno d'un piacevole avve nire. E
in questo bisogno perciò occorre cercare il reale fonda mento di quel fatto
umano,che è a sua volta la morale. L'etica del Bozzelli è,come ognun
vede,schiettamente edo nistica. E come ogni edonista, il Bozzelli concepisce la
morale come un fatto naturale,ed è risoluto avversario del concetto normativo
di essa. « L'homme, egli dice, ne doit être que ce qu'il est: la règle de sa
conduite ne répose que sur les lois de sa constitution fondamentale... Dire que
l'homme doit être par choix une cose tout-à-fait différente,de ce qu'il est par
essence, c'estprétendrequ'unarbrefaitpour produiredespommes,pro duise des poulets
ou des poissons » (3). E direbbe invero benissimo se questa concezione
realistica della morale egli non riattaccasse alla veduta metafisica dell'antico
edo nista,che honeste vivere est secundum naturam vivere; e se ricer cui
cuore freddo e gretto è incapace di allargarsi deliziose d'un'anima alle
espansioni tenera e gentile. La réligion et l'irréligion ne constituent en
dernière analyse qu'une simple sibilité (2) question de sen essere il cando
nell'uomo stessoilfondamento effettivo dellamoralità,egli non si mettesse
innanzi l'uomo nella sua nudità primitiva (1). L'uomo ancor nudo, il bestione
di cui parla G. B. Vico, non ha ancora moralità, è ancora natura: e bisogna
aspettare, per dir così, che si vesta, perchè diventi quell'essere nella cui
costituzione una concezione realistica della morale possa trovare il fondamento
di fatto di questa.Ad ogni modo,vediamo come quest'uomo ancor nudo acquisti col
solo motivo del piacere la moralità, secondo il Bozzelli. 22. La morale non è
che una continuazione, o, se si vuole, un'applicazione dell'analisi fin qui
fatta delle forze operanti nello spirito(2),Si rifletta. Se tutti gli oggetti
circostanti fossero uni formemente piacevoli,per obbedire alla propria natura,
ed essere quindi completamente felice, l'uomo non dovrebbe che abbando narsi
agl'impulsi della sua volontà spontanea. Ma, pur troppo, questa età dell'oro
non è che nell'immaginazione di Esiodo e de gli altri poeti antichi che la
descrissero. Purtroppo, le cose e gli stati sono ora piacevoli e ora dolorosi;
e l'uomo, che non ab bia accumulato una sufficiente esperienza, spesse volte
s'inganna: crede di seguire il piacere, e si trova innanzi il dolore: e p r o
cede sempre nella vita come naviglio in mezzo all'Oceano,ora favorito dal bel
tempo, ora sbattuto dalla tempesta. Ma i disinganni e i dolori lo rendono
riflessivo, distruggono in lui quel naturale abbandono agl’impulsi ciechi del
volere; lo rendono sempre più prudente, e più difficile nelle determinazioni
future. Gli farebbero contrarre l'abito della perplessità e della
irresoluzione, se non soccorresse il giudizio,che solo ha il po tere di leggere
nell'avvenire fondandosi sul passato,ed è in grado perciò di fornire una
garanzia all'anima che vuole, mostrandole il bene verace, incoraggiandola,
rassicurandola. Il giudizio, ricercando sempre i rapporti del mondo esterno con
l'uomo a fine di garentire il volere per il futuro, accumula via via un gran
tesoro di fatti positivi; che non restano patri monio esclusivo dell'individuo
che ne fa esperienza,ma si comu nicano nelle famiglie, e si ereditano di
generazione in genera zione; moltiplicandosi col tempo per l'esperienza degli
altri in dividui;permodo cheinfinel'uomositrovariccodituttiimezzi che occorrono
ai suoi vasti bisogni (3). (1) « L'analyse de la pensée a dissipé les romans,a
désenchanté les osprits,a montré l'homme dans sa nudité primitive >Se non
che questo fardello di esperienza che cresce sempre, non può crescere
indefinitamente: perchè finisce con essere in sopportabile alla memoria. E che
avviene? Una parte di esso va lentamente perdendosi nell'oblio.È vero che
intanto nuove espe rienze aggiunge di proprio l'individuo; m a è tutto un
versar acqua nella botte delle Danaidi.almeno sarebbe,se In queste massime, in
questi apoftegmi, in tutte queste gene ralizzazioni è la morale, una morale
pratica, che diventa scienti fica quando tutti i precetti, tutte le massime
sono coordinate e messe d'accordo tra loro,ridotte a sistema e subordinate a
un'idea unica e centrale. La morale, insomma, si riduce a una precet
tisticadiprudenza;ogni imperativo,potremmo direcon Kant,è ipotetico. 23. Come
accade che la morale apparisca qualche cosa di di verso? 11 Bozzelli spiega
anche la psicogenia del concetto corrente della morale, come di un insieme di
obblighi superiori, imposti alla nostra natura sensibile e non derivati affatto
da questa. Una volta formate le massime generali, è naturale che, invece di fare
ai figli delle lezioni pratiche richiamando o narrando tutte le singole
esperienze, si preferisca d'imprimere nella loro m e m o ria quelle regole
determinate che essi potranno poi applicare nel loro interesse secondo i casi
della vita; giacchè in tal modo siri sparmierà tempo e fatica,e sarà tanto di
guadagnato per l'inse gnamento che si vuol dare. M a come fare accettare tali
regole ai figli? La loro vera giustificazione sta nell'insieme dei casi par
ticolari, da cui sono estratte. E rifare la storia di quei casi è impossibile;
tanto varrebbe continuare nel vecchio sistema, e la sciar da banda le regole.
Si pensa ad imporle incutendo per esse un rispetto stabile e profondo, col dare
ai fanciulli un'idea m i steriosa della loro natura ed origine. Non si presenta
la verità tutta nuda: si crede anzi di ren 186 CAPITOLO V tervenisse di
genio, che, fatta una cernita non in l'opera degli uomini dotati d'una gran
mobilità sieme tutti i catenano e fondono masse di quelle esperienze simili e
quindi generalizzando con finezza e profondità carico di fatti individuali, in
caratteri coloriti e sfumati casi particolari intere di tali esperienze, e le
rendono al pubblico cui originariamente mero di parole partenevano,secondo
lafineosservazione in piccol n u ap del La Bruyère, coniate, chiare e precise,
in apoftegmi per dir cosi, in massime ed eleganti, in pensieri ingegnosi
semplici: con cui si sostituisce e minuziosi. da tutti il pesante e forza,
messi in, in derla più bella vestendola e abbigliandola in costume
da teatro.Si dice che quelle regole hanno un'origine soprannaturale, che sono
innate in noi; che ognuno le porta impresse nel cuore. E vera mente come figure
rettoriche queste espressioni, dice il Bozzelli, potrebbero correre. Si può
dire, infatti, che Dio ci abbia dato queste regole nel senso che egli ci ha
fornito i mezzi di scoprirle e constatarle; si può dire che siano innate in
noi, nel senso che noi siamo dotati delle facoltà adatte a farcele scoprire
(1). M a così potrebbe dirsi egualmente,che Dio ci ha comunicate le leggi del
moto,e che esse sono impresse nelnostrocuore,per ciò solo che ci ha così fatti
da apprenderle mercè l'esperienza e la rifles sione. 24. Non già che le leggi
morali sieno convenzionali e arbi trarie. Esse sono fisse e invariabili
nell'ordine eterno delle cose; dipendono dalla nostra natura sensibile; come le
leggi fisiche ap partengono intrinsecamente ai corpi.Noi non possiamo
cangiarle, nè sottrarci ad esse. Ma l'origine loro nel nostro spirito non è
differente in nulla dall'origine dei concetti che pure abbiamo delle leggi
fisiche. Certo, nel mondo fisico, sarebbe meglio limitarsi a insegnare a un
contadino come, coltivando e curando erbe ed alberi sel vatici,i nostri padri
pervennero col lavoro a sostituire alla fine, per la nutrizione, frutti più
dolci e più succulenti alle ghiande e alle radici. Ma in pratica,è indifferente
che gli si dica al con trario,che tutto si deve al solo dono degli Dei; e che a
Minerva dobbiamo l'ulivo, a Cerere le biade e a Bacco la vite.Il sistema è
diventato falso,perchè si è esagerato; e a forza di voler cavare tutto dai
cieli,s'è finito col farne scendere perfino il delitto e la corruzione. M a
oggimai, pare al Bozzelli che meglio si farebbe dicendo il vero ai giovani;
mostrando loro come quelle regole di morale che, si additano ad essi, non sono
altro che la quintessenza del l'umana esperienza accumulata a prezzo di
infiniti dolori; e che seguirle è fare il proprio interesse, perchè esse
insegnano i mezzi di sfuggire al dolore. La morale del Bozzelli è per questo
essenzialmente intellet tualistica come quella di Socrate. Esser virtuoso è
sapere: sa (2) Ma la fonte diretta è HELVELTIUS; il quale già aveva detto che
bisogna « décou vrir aux nations les vrais principes de la morale; leur
apprendre qu'insensiblement en (1) Pag. 320. per veramente. E
come Hobbes scrisse un libro De computatione seu logica, bisognerebbe scriverne
un altro: De computatione seu ethica: perchè non si tratta anche in morale che
di un calcolo. Ma a questo punto il Bozzelli prevede un'obbiezione: la vostra
morale è impossibile, perchè, incatenando la volontà al piacere, voi avete
distrutta la libertà che è la condizione sine qua non della morale.
Intendiamoci: bisogna distinguere libertà da libertà. Io ammetto, egli dice
accordandosi pienamente col Bor relli,lalibertà,ma
comepotenzad'agiresecondoledeterminazioni (lella volontà, senza che alcuna
forza estranea Questa libertà d'agire esiste, ed è assoluta; perchè non vi sono
ostacoli estranei di nessuna natura che le si possano opporre.Non ve ne sono
fisici; perchè, p.es.,l'impossibilità di saltare un fiume dipende dalla limitazione
naturale delle nostre facoltà muscolari, ossia da condizioni del nostro essere.
Non ve ne sono morali, a maggior ragione: perchè il non poter derubare, il non
poter as sassinare la gente, è un ostacolo alla determinazione del volere, più che
all'azione; del volere, che trova il proprio interess e n e l n o n
determinarsi mai per ciò che può distruggere la sua felicità.Non ve ne
sono,infine,sociali;perchè lostato sociale,checchè ne dica Rousseau, non
importa la menoma limitazione della libertà natu rale; perchè chi consideri le
leggi civili secondo il fine per cui sono istituite, esse non possono che
essere d'accordo coi motivi della volontà di tutti gl'individui per le quali
sono dettate. E se in pratica, scrive il liberale del '20, si osserva il contrario,
la colpa non è del principio:ora si parla della società, non delle società (2)
26. Qui il Nostro ha un'osservazione preziosa, che avrebbe vivificata tutta la
sua etica, se egli se ne fosse ricordato a tempo, e che ci fa desiderare il suo
Esquisse politique, che non ci è riu scito di vedere.Il concetto dello stato di
natura in cui ogni uomo èlupoall'altrouomo,parealBozzelliun romanaffreur;esime
raviglia che sia mai potuto entrare nella testa di un essere ragio traînées
vers le bonheur apparent ou réel la douleur et le plaisir sont les seuls
moteurs do l'univers moral; et quo lo sentiment de l'amour de soi est la seule
base sur laquelle on puissojeterlesfondementsd'une moraleutile»(Del'esprit).An
che per Helveltius la virtù era un calcolo, e il vizio un effetto
dell'ignoranza. Senza opponga ostacoli. questa libertà la felicitàsarebbe
impossibile; e sarebbe quindi anche impossibile la morale) nevole. Il vero
stato di natura, egli dice, non è che lo stato so ciale: e ciò è così semplice,
cosi chiaro, così intuitivo che non è mestieri dimostrarlo(1).Ma l'osservazione
è quasi guastata dal commento:che sarebbe stata un'inconseguenza quella della
natura di aver fatto l'uomo per la felicità e per la società che ne è la
condizione fondamentale, e avergli conferito insieme tali diritti (ipretesi
dirittidinatura,abbandonati,secondo Rousseau,perla sicurezza di altri diritti
acquistata con lo stato sociale) da esser egli obbligato a disfarsene tosto per
compiere il suo vero destino. Tutte le limitazioni, insomma, sono limitazioni
del volere, o del corpo stesso dell'agente: non sono mai estranee ad esso; e.
non si può dire mai, quindi, che importino una restrizione della libertà di
agire. Quanto questo agente, considerato non solo come volere,ma anche come
organismo corporeo,sappia di crudo m a terialismo, non occorre spiegare. Era la
tendenza intrinseca di tutto il pensiero bozzelliano, che dalla sola
sensibilità si proponeva di cavare anche ciò che ha natura essenzialmente
superiore. Dunque, libertà di agire, si: ma se si pretende anche li bertà di
volere, il Nostro non dubita di affermare che un tal concetto è parto
d'immaginazione indelirio. La libertà presup poneilvolere;enonpuòquindi
esserpresuppostadaessa,perchè, per esser libero, bisogna prima volere; laddove
la libertà del volere importerebbe che si fosse liberi prima di volere. L'argo
mentazione qui è evidentemente viziosa, avvolgendosi in un cir colo: giacchè si
vuol dimostrare che l'unica libertà è quella di agire, e contro quella di
volere si toglie una ragione dalla li bertà di agire. Giacchè solo rispetto
all'agire la volontà precede la libertà. 28. Ma il Bozzelli domanda che
significhi la frase libertà di vo lere. Se si crede, egli dice, che si possa
volere senza motivi, ciò è assurdo. Si vuole perchè si sente;mancando la
sensazione pia cevole, la facoltà di volere resta inattiva, demeure en silence.Non
si può volere, senza voler qualche cosa, senza un fine: voler nulla è non
volere. E non è possibile nessuna distinzione tra fine e motivo. Se poi
s'intendesse per volere libero un volere non impedito da ostacoli, non si
direbbe nulla di positivo; perchè gli ostacoli possono opporsi ai movimenti
comandati dal volere, non al volere. Il volere è come il pensiero: nessuno e
nulla può comprimere la libertà del pensiero in se stesso, che non è
suscettibile di nessuna opposizione diretta.Impedire si può la mani festazione
del pensiero, con la parola o con gli atti. Il concetto d'una possibile
determinazione contraria a quella effettivamente datasi, è assolutamente
arbitrario: perchè la v o lontà indipendente dalle sue reali ed effettive
determinazioni, qual'è quella cui tale possibilità si riferisce,è un'astrazione
senza nessun fondamento di realtà. La volontà è volta per volta determinata in
maniera neces saria. « L'uomo non può volere che il piacere: non è padrone di
volere il dolore, perchè dolore e volontà s'escludono a vicenda. Questa
risposta è perentoria »(1). 29. Questa necessità del volere però, lungi dal
contrastare la morale, è la sola che possa salvarla. Data la libertà del
volere, ogniideadimoralesarebbeannientata(2).E laragioneèovvia. Questa libertà
importa che la volontà sia indifferente al piacere e al dolore; epperò, che
quelli che si dicono oggetti piacevoli, e quelli che si dicono oggetti dolorosi
producano di fatto impres sioni analoghe. In verità, non si potrebbe volere il
dolore senza ammettere insieme che questo possa produrre sull'anima un'im
pressione simile a quella prodotta dal piacere. M a questo sarebbe distruggere
ogni differenza, e quindi ogni distinzione di male e di bene, e ogni ragione di
merito o di demerito delle nostre azioni, ogni fondamento insomma della
morale.Importerebbe inoltre, con la possibilità di scegliere il male, una certa
relazione invariabile tra i bisogni umani ed il male, come ve n'ha di certo tra
i bi sogni e il bene: onde non sarebbe una colpa l'abbandonarsi al male. Ne
inganni il fatto che, malgrado la ripugnanza naturale,il vo lere si determini
talvolta pel male; ciò accade perchè il male si presenta allora sotto
l'apparenza di bene, e il dolore riveste non di rado a'nostri occhi le forme
seducenti del piacere. La stessa morte al suicida stanco di soffrire apparisce
come una liberazione o un sollievo,e perciò appunto un
piacere.Rousseau,ostinato libe rista, in un momento di felice ispirazione esce
in un'affermazione importantissima e tanto più preziosa, in quanto è fatta da
lui: « Non, egli dice,je ne suis pas libre de ne pas vouloir mon propre bien,je
ne suis pas libre de vouloir mon mal: mais la liberté con siste en cela même
que je ne puis vouloir que ce qui m'est con venable,ou que j'estime
tel.S'ensuit-ilque je ne suis pas mon maître,parce que je ne suis pas le
maître d'être un autre que moi?» Ora,sipuòmodificareilpuntodivista:maquestoè
verissimo: che libertà vuol dire e deve voler dire esser se stesso, non già
poter esser altro che sè. Bozzelli insiste molto nel combattere tutte le
astrazioni, tutte le creazioni,come direbbe Hegel, dell'intelletto astratto nel
campo dell'etica. Perciò egli richiama l'attenzione sul parallelo sviluppo dei
bisogni e delle conoscenze umane corrispettive, per cui è possibile che i
bisogni sieno soddisfatti, attraverso i secoli. I bisogni crescono sempre e si
complicano; crescono e s'affinano insieme le conoscenze relative; anzi il
desiderio di nuovi piaceri stimola a nuove conoscenze, e le nuove conoscenze
suscitano e creano nuovi desiderii e nuovi bisogni. I bisogni sono oggi infi
nitamente di più e maggiori che una volta; e la loro soddisfazione è certamente
più difficile; e quindi più difficile la felicità. La vita d'una volta era un
navigare su un lago tranquillo,donde si discopra con uno sguardo la ridente e
pittoresca riviera; la vita d'oggi è un traversare un oceano tempestoso e pieno
di scogli,i cui confini si confondano con l'immensità dello spazio. Ma non
pertanto quei moralisti che, per assicurare agli uomini la felicità, vorrebbero
farli risalire, a ritroso degli anni, verso lo stato di semplicità primitiva in
cui li pose la natura, rassomigliano al medico che chiamato a curare
un'indisposizione, visto che è s e m plice effetto di vecchiaia, imputasse al
malato la decadenza da quella prima età in cui questi mali sono ignoti,e gli
consigliasse per tutto rimedio di tornare agli anni fiorenti della giovinezza.
V’ha una successione di età come per l'uomo fisico così pel morale;come per
l'individuo, così per l'umanità.L'uomo col suc cedersi dei secoli passa di
condizione in condizione, si trasforma naturalmente; e tornare indietro è
impossibile; concepire il ritorno è sogno seducente dell'uomo dabbene, che
crede possibile tutto ciò che l'immaginazione gli presenta come desiderabile. Nello
stesso errore cadono stoici ed epicurei,dimezzando l'uomo e creando un essere
fittizio non corrispondente punto alla realtà. Gli uni credono di poter
assicurare la felicità all'uomo, spogliandolo di tutti i bisogni, e facendolo
impassibile a tutti i piaceri, intento unicamente a non so quale virtù
selvaggia, posta non come d'ordinario in un luogo alto e difficile,ma
addirittura in una regione eterea al di là della na ra umana, e appena
accessibile agli slanci d'una immaginazione ardita e malinconica. Gli altri
vorrebbero sottrarre anch'essi l'uomo alla inquietudine dei bisogni
suggerendogli il carpe diem, il partito di appigliarsi ai piaceri più prossimi
per procurarsi la voluttà del corpo e l'in dolenza dell'anima.I Cinici e i
Cirenaici,precorrendo queste dot trine, le avevano di già screditate
esagerandole. L'uomo di Z e none è un'astrazione; perchè l'uomo come essere
sensibile non esiste che pel mondo esterno, al quale deve lo sviluppo della sua
sensibilità; e non può chiudersi in se stesso e rinunciare a tutte
lesensazioni,come dovrebbe,persottrarsiatuttiibisogni.L'uomo segregato
dall'universo e divenuto come una statua, è l'uomo sna turato, l'uomo
distrutto. Così l'uomo di Epicuro, che rinunzia alle più alte soddisfazioni per
pascersi dei piaceri più facili, con trasta con ogni idea di progresso, di
attività umana: è mezzo uomo ancheesso;èsimileall'aquila,che,dotatadialiper
slan ciarsi verso la luce fiammeggiante del sole, preferisse di sbaraz zarsene
per somigliare ad un rettile. M a già queste opposte dottrine ci dicono che
oggetto unico della morale è per tutti il piacere; principio unico da cui
partono e a cui tendono tutte le azioni umane. La virtù selvaggia degli stoici
non è che il pegno simulato d'un piacere infinito; « e il torto di Epicuro non
è.di aver fondato la morale sulla voluttà, per chè la voluttà è certo il
sinonimo del piacere; ma di averne pro stituito l'idea,e tagliato lepiù
splendide ramificazioni »(3).Lo si combatte grossolanamente, laddove si tratta
di rifiutare il senso stretto che egli vi lega: perchè infine la pratica della
virtù è essa stessa una voluttà (4); e come dice con molto acume M o n taigne:
pour être plus gaillarde, nerveuse,virile, robuste,elle n'en est que plus
sérieusement voluptueuse. L'uomo,insomma, è tutto l'uomo,e il piacere, motivo
delle sue azioni, non esclude nessuna forma di piacere. 33. Di qui è chiaro che
tante saranno le forme di piaceri, quante sono le attività o gli stati
dell'uomo; perchè altrettanti saranno i suoi bisogni. Il Bozzelli distingue
nell'uomo la sua esi stenza animale e la sua esistenza sociale: le due
condizioni, egli (2) Non occorre qui notare la inesattezza storica di questa
interpretazione del pensiero di Epicuro.E già nell'inesattezza il Bozzelli è in
buona compagnia;perchè anche Kant pensava lo stesso) dice, che lo comprendono e
costituiscono tutto intero (1). Quindi i piaceri sono classificabili in piaceri
animali e piaceri sociali.La de duzione degli uni risulta dal già detto. Donde
gli altri? Anche il Bozzelli accetta la teoria della simpatia morale:il piacere
degli al tri è nostro piacere,per l'identità di natura tra noi e i nostri si
mili (2). M a questi piaceri animali e sociali sono in relazione fra loro.
Quali naturalmente prevalgono? E qui il Bozzelli rifà la solita critica dei
piaceri egoistici,animali. Questi piaceri si riferi scono ai bisogni fisici,
che non hanno nessuna latitudine, nè spa ziale nè temporale. Le condizioni
della materia ne fissano i limiti. Portano sempre con sè sazietà e disgusto.Il
godimento ne dissipa tutta l'attrattiva.Non hanno successione,nè continuità:si
gene rano e svaniscono come fenomeni effimeri e staccati. Nascono col bisogno,
e finiscono col bisogno:saziata la fame, la vista sola dei resti del pasto è importuna
e sgradevole.Il letto, sollievo all'uomo stanco,diviene tormentoso a chi vi
debba restare a lungo senza interruzione. Il fasto viene a noia, e dopo averne
lungamente goduto,si cerca la campagna e idisagi.Questi piaceri insomma sono,
per dirla con Plutarco (3),come aurette di venti graziosi che spirano le une su
una estremità, le altre sull'altra estremità del corpo, e passano e svaniscono
incontanente: così breve ne è la durata; simili alle stelle che si vedono la
notte cadere dal cielo, o traversarlo da un punto all'altro, essi si accendono
e si spengono sulla nostra carne in un istante. Dipingete un quadro con le
tinte contrarie; e avrete la rap presentazione dei piaceri sociali.Di qui
ilmaggior pregio (edoni stico, s'intende) e la naturale prevalenza dei piaceri
sociali sugli (2) Nell'espressione di piaceri sociali, questa designazione ha
però un senso molto largo: altri direbbe sentimenti spirituali. L'autore
infatti li contrappone ai piaceri animali, dicendo questi jouissances directes
du corps, e quelli jouissances directes de l'ame. Gli o g getti dei primi «
consistent dans tout ce qui & rapport à l'entretien matériel de la vie et
auxagrémensimmédiatsdessons»; glioggettideglialtriconsistonoinvecein«toutce qui
a rapport à cette correspondanco, harmonique des sensibilités, en vertu de
laquelle noussympathisonsavec les jouissances aussi bien qu'avec les sauffrances
de nos semblables; etnousnous tentons poussésàaugmenter lesunes, àsoulagerlesautres,ànousréjouir
du bonheur,à nous afsiger du malheur de notre prochain ». Il quale, come il Nostro, non s'accorge
combattendo L’ORTO, che ancheL’ORTO cosi critica i piaceri sensuali. Vedi
l'opuscolo di Plutarco, (he non si potrebbe ri vere felicemente secondo la
dotlrina di Epicuro.)animali. Di qui la superiorità della morale sopra le
fisiche incli nazioni ad essa contrarie. 34. Tutti i piaceri sociali si
risolvono in quelli della giustizia e della beneficenza. La giustizia è il
riconoscimento della invio labilità della proprietà, di cui s'è già parlato. La
beneficenza è la sodddisfazione degli altrui bisogni, sentiti come nostri per
effetto della simpatia. I due fatti si suppongono e quindi s'in tegrano a
vicenda. La beneficenza è una conseguenza della giu stizia; che ha luogo quando
uno o più individui dell'aggregato sociale a cui apparteniamo, non abbiano quel
sostegno dell'avve nire, che è la proprietà. E del pari la giustizia è una
conseguenza della beneficenza, poichè se siamo benèfici per non soffrire con
altri, non possiamo violare quella giustizia che è la condizione della
proprietà. Questi due fatti sono la base della società,di ogni ocietà, vuoi
domestica,vuoi civile,vuoi politica: sono la pratica della virtù. 35. Ma che è
propriamente virtù, e che è vizio? Il Bozzelli richiama un principio notissismo
di psicologia: che l'abitudine at tenua la coscienza e quindi il grado di
piacere e di dolore pro dottoci dalle impressioni; e osserva che non si può
perciò fuggire il dolore abbandonandosi al piacere, se non si vuol fare come il
medico che per guarire la malattia uccide l'ammalato. Bisogna lottare contro il
dolore, per disarmarne la violenza, acquistando l'abito di soffrirlo, e quindi
affrontando il dolore, anzi che vol gergli le spalle o accasciarsi sotto il suo
peso: m a occorre i n sieme lottare contro i piaceri per impedire che
l'abitudine di g o derne non ne distrugga ilbeneficio,usandone quindi con
prudente moderazione. Epperò occorre dare all'anima tal forza di carattere che
le permetta di padroneggiare la tempesta delle passioni. E quella tempra
acquisita, che rende l'anima capace di soggiogare con successo tutti i dolori,
e restare ferma contro le seduzioni dei piaceri che tentano di snervarla, è
quel che il Bozzelli dice propriamente virtù; e il contrario,vizio(1).Insomma,
la virtù è l'arte di godere. Fermezza nei dolori,moderazione nei piaceri, sono
i suoi caratteri; come debolezza nei dolori, intemperanza nei piaceri,sono i
caratteri del vizio (2). Quindi il grande uffizio della pedagogia: che imprima
alla fibra animale, quand'è ancor tenera e flessibile, e all'anima, quand'è
ancor nuova e accessibile a tutte) le affezioni, una serie di abitudini che le
rendano atte a quella fermezza e moderazione,che crea insomma la virtù(1). 36.
La quale, secondo il Bozzelli, è unica e indivisibile, se si distingue dagli
atti virtuosi,in cui può manifestarsi.Per la povertà naturale del linguaggio o
pel desiderio di nobilitare cose ordinarie e comuni,si decora sovente del nome
di virtù ogni qualità ac quisita a forza di fatica e di studi e perfezionata
dall'abitudine di un lavoro continuo e ostinato. E in questo senso,per esempio,
in Italia si dice che un pittore,un musico,un ricamatore, un fa legname e
perfino un muratore ha della virtù; e qualche volta si aggiunge, ed è
un'espressione più felice, che ha questa virtù nelle mani. M a tale virtù non
si può confondere con la virtù morale: la quale non è indirizzata*a vincere
ostacoli che si oppongano alle mani: ma è solamente quell'energia abituale
dell'anima che signoreggia dolori e piaceri, schermendosi dai primi per non re
starne vittima, e tenendosi lontana dai secondi per serbarne la freschezza.
Ogni altra accezione del termine virtù è falsa, o equi voca,od esagerata(2).
37. Queste le linee principali della concezione etica bozzel liana: alla quale
non si possono per certo negare ipregi della coe renza, del rigore e dell'acume
filosofico. È vero che l'originalità si riduce a ben poco, quando si pensi alla
dottrina di Adamo Smith (Teoria di sentimenti morali, 1759) e a quella di
Helvetius (Trattato dello spirito, 1758): delle quali è come una
contaminazione. Dal l'una è tolta di peso la teorica della simpatia; dall'altra
il pretto edonismo e lo spiccato intellettualismo: e questi tre sono i tre ele
menti principali e costitutivi dell'etica che abbiamo esposta.Ma è innegabile
tuttavia,che il Bozzelli ha saputo fondere insieme que sti elementi e
imprimervi uno stampo proprio, formandone un si stema ben organato e compiuto:
tale che la letteratura contempo ranea francese e italiana non ha nulla da
mettervi accanto.Con ciò, s'intende, non si dice che è tutto vero quello che il
Bozzelli crede tale.Ma farne la critica sarebbe inutile ormai che quella po
sizione è di lungo tratto oltrepassata. Era stata,anzi,oltrepassata prima che
il Bozzelli pensasse a scrivere: ma in una parte della storia delle idee, che
non entrò nella sua cultura di ideologo. (1) È noto quale importante parte
all'educazione attribuisce l'Helvetius.Cfr.A Piazzi, Helvetius nel Dizionario
illustr, di pedagogia dei proff. Martinazzoli e Credaro; e l'arti colo dello
stesso, Le idee filosofiche e pedagogiche di U. Adr. Helvetius, nella Rivista
di filosofia scientifica del 1889. The grand exception to this generally bleak
depiction of characters is Cato, who stands as a Stoic ideal in the face of a
world gone mad (he alone, for example, refuses to consult oracles to know the
future). Pompey also seems transformed after Pharsalus, becoming a kind of
stoic martyr; calm in the face of certain death upon arrival in Egypt, he
receives virtual canonization from Lucan at the start of book IX. This
elevation of Stoic and Republican principles is in sharp contrast to the
ambitious and imperial Caesar, who becomes an even greater monster after the
decisive battle. Even though Caesar wins in the end, Lucan makes his sentiments
known in the famous line Victrix causa deis placuit sed Victa Catoni –
"The victorious cause pleased the gods, but the vanquished [cause] pleased
Cato."CATO A TRAGEDY BY MR. ADDISON. IL CATONE TRAGEDIA
DEL SIGNORE ADDISON.Addison. Salvini CATONE: TRAGEDIA ADDISON.
CATONE TRAGEDIA. ADDISON. SALVINI. FIRENZE, Neftenus . Con \UM
Stftr. A iattanza di Battiano Scaletti. Catoni autem quum
ìncredibilem trihuijjet Na* tura gravitatevi , eamque ipfe perpetua
con* [tanna roboravìjjet , femperquc in propth Jtto fufceptoqut
confili* permanfijfet , tnoriutidum potim , quam tyranni vultus
afpiciendui fuit. Cic.de Officlib. x.cap.jn ALL' ILLUSTRISSIMO
SIGNORE &c. Enrico Mylord Colerane. iBajtrifàm
Signore E molte bbbligazioni , che io protetto alla gentilez-
za di VS. Illuftriflìma , e la fperienza avuta da' primi Letterati di
emetta Città del fuo profondo fapere , già predicato dalla Fama , ed
ammirato da i etti elfi per mezzo della fua dotta con-
venzione, mi fpirano un umile ar- dire di dedicarle la celebre
Tradu- zione della infìgne Inglefe Tragedia del Catone , che addio
efee di nuo- vo col fuo fteflò Originale alla luce ; ficuro che
Ella 1' accetterà di buon animo, come fuole , eftimatore giu-
ftiifimo , doverofamente incontrare tutte le buone e belle opere degl'
in- gegni più follevati , e come prove- niente da chi fi pregia d*
effere Di VS. Illuftrifsima Ewotiffino e Obbligai iffmo
Servitù?* Baftiano Scaletti . La presente Tragedia del Catone
, parto felici/fimo del nobile fpirito delSig. Ad- m V
di fon, efendo per comune eftimazione de* dotti de IT Inglefe Idioma , sì
per la fublimita àe % concetti , che per la finiffima leggiadrìa
del- lo ftile, uno de' più rari poetici componimenti, che in fimil
genere abbia mai riportato il gra- dimento e l’applauso universale ; non
e maraviglia , che f ralle Nazioni più eulte ella abbia incontrato il
genio di alcuni ingegni più folle- vati y i quali di buona voglia abbiano
impiega- to tutte le forze del loro talento per trafportarla
ciafeuno nel proprio nativo linguaggio. llSig.Hul- Un , per foddisfare al
dejiderio impaziente del Pubblico, che bramava di vederla renduta
più univerfale per mezzo di una traduzione Fran- zefe , s' impegno
a intraprenderla in ver fi ; ma non ebbe terminata la prima Scena dell'
ÌAtto primo , che modeflamente fe ne ritiro , allegan- do per fua
difefa , che egli non fi ftntiva di forze cosi gagliarde per profeguire una
fatica così nfpra e [pino fa. Ed in fatti, come offerva
giudiziofamente il Sig. Boyer , il quale , tutta in- ! fera in profa la
traduffe „ può il Traduttore 1 „ f* ^ro/à girel* , r he ha detto il
„ Sig. Addi fon ; ma non può dirlo in verji , e spezialmente in lingua
Franzefe, ove necef- „ fastamente fa di meflieri il mutare, iltroncare, e
t aggiugnere. La lingua Inglese, come egli dice , Nativo effondo di Francia ,
emula della Greca e della Latina , non foffre qualunque benché
minima fuggezione, nata per se medesima fertile, calzarne, ed efprimentifftma
nel colorire i caratteri di quei foggetti , de' quali ella prende ad
efprimere i fentimenti ; laddove per lo contrario la lingua Franzefe ,
raffinata continuamente da nuove regole , e da nuovi coflumignon ammettendo
alcuna di quelle temerità, giuflamente chiamate felici, reputa come
difet* ti le vive immagini delle efpreffioni , e fe figure un poco
gagliarde e fublimi fono appreffo di queU la Nazione in iftima di
ftravaganze e d’errori. Oltre di che il numero e P armonia , per cui
leggiadramente rifuonano gP Inglefi poetici componimenti , non poffono così di
leggieri efere trasportati nel ver/o Franzefe , a cagione della fchiavitù della
rima , da cui non mai fi fan potuti liberar qué* Poeti : e di quel gran
verfo di dodici e di più /illabe % che chiamano Alefandrino: il qual
verfo conviene, particolarmente alla Tragedia sì poco % quanto poco fe le
conviene P Efa- metro , cui Ariftotile in qucfto genere di Poefia
fortemente condanna* Ufano gP Inglefi una spezie di verfi, appellati verfi
bianchi , cioè puri e netti di rima , i quali coflando di cinque piedi
, corrijpondono appunto al verfo Jambico degli Antichi y che
fecondo Ariffotile fembra e fere fia- to dettato dalla natura medefima
per frammi- fchiarfi più facilmente nella conv erf azione y e nel
ragionamento famigliare , che ì il proprio ca- rattere del Dialogo, in
cui fi rapprefentano le Tragedie . Così privo del forte foffegno e
della tfprejftone e del verso > difperando il SigMuUin di poter
venire felicemente a capo nella intra- prefa verfione , lafcio Ubero il
campo ad altro fpirito 9 o più ardito o più attivo del fm > cui
più agevolmente potejfe fot tire quefta nobile impre- fa .
Frattanto pero > perche il Tubblico non re- ftajfe a fatto privo della
lettura di qucfto inge- gnofiffimo componimento , il fiprannominato
Sig. Boyer fi contento di pubblicare la fua verfione in
Digit in profa , impreffa /> anno 1 7 1 3 .
10 Londra per Air. Giacomo Toh fon : della quale , quantunque
fedele , perocché priva della fua naturale armo- nio/a bellezza ,
poffiamo dir giallamente , cta e/- /# è mancante del fuo più chiaro
fpleudore . Quefle d'ufi citila pero di non esprimere felice-
mente i [entimemi più vivaci e gagliardi degli fr ameri liuguàggi , in
qualunque maniera fi fie- no rapprefentati , non le pruova certamente
il no (irò Tofcano Idioma , // quale > giù a la f rafie del
noftro celebraùjftmo Carlo Dati di dolcezza e di eleganza non cede al ftcuro ad
alcuna delle lingue vive , e colle morte più cele- „ tri contende di
parità , e forfè afpira alla 5 > maggioranza : fe pure non vogliamo
dire af- filatamente col Cavaliere Lionardo Salvi ati$ che ficcome
la lingua Latina ha dolcezza minore , che la Greca non ha ; così nella nojlra ,
non ritrovando fi quella pronunzia difficultofa efpiacevole, che nella
Greca fi trova, accagionatagli dagli accoppiamenti multiplici delle
confonanti , j quali comunemente rendono a/prezza ; n£ no* Siri
vocaboli , come in quella addiviene , quefta durezza non e che rade volte
0 non mai . Ala non efendo, queffo. luogo qppropofito per
difcorrere difufamente delle lodi del noftro volgare Idioma , e
particolarmente per effere (lata que- fi a materia trattata con tanta
aggiuflatezza , con tanto gufto e di fornimento non folo dà* fo- pr
-accennati chiarirmi autori , ma inoltre cora dal Varchi , dal Bu orti
watt ci , e da altri, che niente più ; mi riftrignerò a dir
brevemente quanto appartiene a quefla prefente Tragedia: cui fe non
ha goduto la bella forte di e fere (la- ta trapiantata felicemente nel?
Idioma Franze- fe> renduto per altro oramai qua fi che neceffa-
rio air wtiverfale letteratura ; la ha ben ritro- vata nel no Uro
linguaggio per la fu a maravi- glia efpreffione y fecondità , e dolcezza.
Vin* figne w flro e non mai abbaflanza lodato Salvini , quegli
„ che d' alto fapere il petto pregno „ Scorre a fua voglia il
dotto e bel paefe „ Dell' alma Grecia , e cui fon lievi imprefe
^Spogliarla d' ogni fuo più caro pegno; ( come di lui con aurea Tofana
eloquenza can- to P inclito Segretario della Reale %A ce ad ernia
di Frància , P cibate Regnier Des-31arais , ) tratto dalla fama di queflo
nobiHfimo componi- vi eutO) e dejiderofo di contemplarne neff
Origi+ 1 t naie naie le fue rare bel Uzze , (limo lene
rivoltare tutto il fuo (ìndio a riajjumere P Inglefe Idioma, da
e/lo può a quel tempo traforato : lo che nel breve giro di foli due mefi
, non tanto per la fua pertinace fatica , quanto per lo metodo eti-
mologico , fuo famigli ariffimo e quaft che natura* le , in tal maniera
gli venne fatto , che franca* mente P attività penetrandone , poti con
mae* jlofa franchezza tutte le difficuìta fuperare , che nel
tradurre queir Opera altrui fi erano at* tr aver fate . Vedeva egli ,
come pratichi/fimo del tradurre [ avendo arricchito delle fue
{limati^ lifjime traduzioni la noSlra favella di tutte le foavi ,
leggiadre , fièli mi, ed eleganti maniere, che negli immenfi tefori de'
Greci Toeti fi /la- vano chiufe , e per così dire nafcofe] quanto a
tal fatto ella fia capaci fflma ; maneggevole per fe medefima e fendo , e
atta qual molle cera a rapprefentar fedelmente i concetti , le parole,
e le ftefe efprefioni ; anzi , ciò che ì più malagevole , Paria ftejfa ,
il colore , e 7 carattere di tutte quelle fembianze , che dagli Autori,
che fi prendono a tradurre , furono impreffe nette loro
compofizioni . Contribuigli a queflo inoltre non poco la finora dolcezza
del noftro maggior verfi Tofcanó, il quale , oltre al non ejfere in
fimi- li componimenti inceppato , per così dire , e riftretto dalP
orpellato vincolo delle rime , rifpon- de il più delle volte in certo
modo per la fua mi fura a una fpezie degli Jambici degli Anti- chi
, i quali , come fi e detto di [opra , /limati furono tanto proprj della
Dramatica , che di niuno altro mai non fi fervirono più facilmente
tutti gli antichi Greci t Latini Poeti . Impe- gnatoli adunque il no/Ir o
Salvini nella verfione di quefta eccellente Tragedia : e sì per la
pafto- ftta della lingua y da effo tante volte in fimili
congiunture fperimentata : e sì pel maeflofo con- certo de % ver fi , in
cui la traduceva , a lei pro- priijfimi , quanto altri mai , felicemente
venuto- ne a capo , vemie nelle mani degli Accademici Compatiti
della Citta di Livorno, da' quali nel Carnovale recitata con bella
maniera , e con maeflofo apparato ; per la viva- ce efprejfione , e per
la fedeltà fmcerijftma fu tanto ammirata da i Sig. Inglefi dimoranti
in quel Torto , che (limolarono il medeftmo a per- metterne la
pubblicazione , fuc ceduta /' anno ap- preso in Firenze per mezzo delle
Stampe de 9 Guidacci e Franchi , con applaufo univerfale de*
t * gli 3( sii )fr £/' Intendenti deW uno
e dell' altro linguaggio , mot* //* atteflano i Sig. Giornalifti di
Venezia nel loro Tomo XXll.pag.^/^. Ma per non de* rogare alP
ingenua modeflia del no/Iro chiarij/t- ino Traduttore non ini pare fuor
di propofito il ripetere in queflo luogo , e colle fue flejje parole
, /' obbligazioni che egli profeta ad alcuni nobili /piriti Inglefi
, che non poco gli conferirono a perfezionare quefta verfione ; primizia
, come egli la chiama , del fuo fiudio in queW Idioma : „ E perche
( dice egli nella Prefazione al Lettore » appo Sia alla prima edizione )
fecondo il famo- „ fo detto di Plinio eft plenum ingenui pudo- „
ris , fateri per quos profeceris ; non debbo „ non confeflare, molto
dovere al già Inviato J9 noftro d Inghilterra , genero fo ed ornato
Ca- yy valsere y Sig. Giovanni Moles-Worth , fitto i „ cui aufpicj
quefta mia traduzione nacque , e „ al dotto Sigi Lochart , ambedue delle
finezze „ della noftra Lingua intendentifsimi . Da quefta Verfione
ne efcì toffo in Venezia un altra , ftampata peH Coletti , della
quale non fa di meftieri il parlarne , per effere in efta in più parti
travi fata la prima , troncando mol- to del r e cit amento , sì per
fervire, come dice il fuo Imprefario , al gufto moderno del Teatro Ita-
li ano , ricucendola a foli tre Atti ; dovecch},come fono tutte le
antiche , ella è compofla di cinque : sì ancora per lo continuo
fnervamcnto della for- za e della energia , cagionatole dalla
mutazione delle parole e de' ver fi , folo per piacere all'
orecchio del comun Topolo , che pago e contento di quel femplice
titillamento e prurito , non pe- netra addentro nel midollo e nella
foftanza del- la materia . Ma per ritornare alla nojlra , appena
ella fu e f cita felicemente alla luce, che divenuta ra- rifjìma
non fu poffibile ritrovarne ne pure m filo efemplare per foddisfare alle
continue in- ftanze , che giornalmente da tutte le parti ne erano
fatte ; onde conofcendo io da gran tempo quanto gli amatori delle lettere
fojjero defide- rofi di vederne una nuova impresone , final- mente
mi fon rifoluto di farla comparire di nuo- vo alla luce , arricchita
dello (lejfo fuo Originale lnglefe. Ne perocché fieno molti filmi quegli,
che alla cognizione di quel nobil linguaggio non fi fono per anco
affacciati , giudico io , che fia per efjere alt univerfale
difaggradevole quei/o mio penfamento , potendolo almeno ciafcuno
riputar- *3( xiv )fr /<? utili fsimo a chi di
ejjo procura adornar fene, mentre , m/ /» giw occhi può contemplare
come le maeflofe maniere dell' uno e delP altro linguaggio
maraviglio/amente fi corrifpondano : lo che certamente fenza il
con- fronto o fenza l } oftinata fatica di uno Studio indefejlo non
fi può confeguire giammai . Per lo che fe quefta intr apre fa riftampa
farà accolta benignamente dagli amatori delle lettere y ficco- me
io lo fpero , mi darà animo a dar fuori al* tre cofe di ftmil genere ,
dallo (lefjo celebre Tra- duttore [ cui altro non e a cuore che il
giovare e il far cortefia a que* nobili ingegni , che fi ftu- diano
di apprender le lingue , e trame da ejfe il meglio ed il fiore per
arricchirne la propria ] lavorate dico da ejfo con non minor fedeltà e
fe* licita di quefta pr e finte , e le quali per anco non
fono alla luce . ATTORI Del Dramma. CATONE.
LUCIO Senatore . SEMPRONIO Senatore. GIUBA Principe di Numidia
. SIFACE Generale de' Numidi. PORZIO ) r . ,. ~ . MARCO ) Fl
g lluoh dl Catone • DECIO Ambafciator di Cefare. MARZIA
Figliuola di Catone. LUCIA Figliuola di Lucio. Ammutinati, e
Guardie. La Scena fi rapprefenta in una gran Sala nel Palazzo del
Governatore di Urica . <3( * )8» p5 0 u>/7^ the
So»l by tender Strokes of Arp y fig| f;i r*//S? /Zrr G*///**, W /<?
mendthe Heart > 7o Mankindtn cotifctous Virtue bold , Liwe oer
eacb Scene , and Be isohat tbey he bold: Tot thts the Tragic>Mnfe
firfi trod the Stage , Commanding Tears to Jlream thro euery Age ;
Tyrants no more the ir Savage Nature kept , And Foes to V trtue monderà
how tbey ivcft . Our Atttbor shunt by *vulgjtr Springs to mwc The
Heros Glory, or the Virgin s Love; In ptytng Love ive but our JVeaknefs
show , And -wild Ambttton isoell deferves tts ÌVoe . Here Tears
shall flo-w from a more genrons Caufe y Sucb Tears as Tatrtots shed f or
dying Lawsi He bidsyour Breafts witb Ancient Ardor rife >
And Del Sig. POPE Alma fvegliar con madri tocchi
d'arte, Erger Jo fpirto, ed emendare il cuore, Far l'uomo in fua
virtù franco ed ardito , Ch'ogni feena fi a norma di Aia vita , E
s' ingegni effer ciò eh' ivi fi mira ì Qucfto, quando da prima entrò in
Teatro, Fu di Tragica Mufa il fin fublime ; Per quefto comandò, che
in ciafeun tempo Le lagrime a diluvj ne correderò . I Tiranni, non
più fieri e felvaggi : E ; nimici a virtù ftupiano, come Contra lor
voglia disfaceanfi in pianto. Sdegna V Autor per volgar modi muovere
Nelle femmine amor, gloria negli uomini. In donare all'amor la pietà
nottra , Non facciam che moftrar noftra fiacchezza : E fiera
ambizion metta fuoi guai . Da più nobil cagion qui feorreranno Le
lagrime: tai lagrime, quai fpargono Di Patria amanti fu fpiranti
leggi. Rcfpirin voftri petti antico ardore « Ai E flit
And calli forth Roman Drops from Brtthb Eyet . Vtrtue conferà in human
Sbape be drawt , What Plato Tbougbt, and GodMe Caio Wat : No common
Objetl to your Sigbt dtfplayt , Bnt wbat wttb Pleafure Heavn tt felf
furueys > A brame Man ftrttggling tn the Stormi of Fate y And
greatly falltng wttb a falli ng State ! li bile Caio giva bit little
Settate Laws , IVbat Bojom beati not in bis Country i Caufe ? li bo
feet btm aft , bnt crrviet enjry Deed t Wbobeart bim groan y and doei not
witb to bleedt E*vn when proud Cafar 'midft triumpbal Cari , The
Spaili of Nat ioni , and the Pomp of Wars , . Ignobly Vain , and
impotently Great , Òbowd Rome ber Cato t Figure drawn in State 5 Ai
ber dead Fatbert revrend Image paft y The Pomp wat darkend, and tbe Day
oercaft , The Trinmpb ceatd Teart gmb % d from enfry Eye ;
Tbe M r orl£t great Viclor paft unbeeded by ; Her Latt good Man de]
e eie d Rome adord , And bonottrd C&fart Ufi tban Catat Sword,
Britaìnt attend : Be Wortb Itke tbif approdi d , And ibow yon bave
tbe Virine to be mcwd. Wttb bonejl Scorn the firft favi d Cato
miewi Rome £ ftillln Roman pianto occhi
Britanni. In forma umana è qui Virtù ritratta : Quel che Platon
pensò, fu il divin Cato. Non oggetto comun fi fpiega in vifta ; Ma
ciò che il Gel con fuo piacer rimira . Un uom prode, che lotta del
dettino Traile temperie, c grandemente cade Mifto a ruine di cadente
Stato. Mentre dà leggi al fuo picciol Senato Catone , e qual mai
fcn non batte allora Nella gran caufa della Patria fua ? Chi oprar
lo mira, e non invidia l'opra? Chi miralo fpirar, nè morir brama ?
Pure allora , che Cefarc fuperbo Tra i carri trionfali, e tra le
fpoglie Delle nazioni, e pompa della guerra , Ignobil vano , e
fattamente grande Moftrò a Roma del fuo Caton V imago j Del Padre
fuo la reverenda imago, Mentre ch'ella pattava, era feurata La
pompa , e'1 dì rannuvolato, e bruno: Il Trionfo ceflava :da
ciafeuno Occhio fcn gian le lagrime fgorgando; Ed il sì grande
Vincitor del Mondo Pattava fenza pur etter guardato : L* ultimo fuo
prod' uom Roma adorava Abbattuta , dolente , e più la fpada Di
Caton , che di Cefare onorava . Britanni, a un merto tal donate
plaufo, E moftratevi d'efferne commoffi, Se tanto di valore ancor
ci retta . Con bello sdegno il primo Cato vide
ìearning Arti from G ree ce , wbom $he fubdnd Our Scene
frecarionfly fubjtfts too lovg On Frencb Transattoti y and Italtan Song
. Dare to bave Senfe your fehes', AJfert tbe Stage \ Be jnttly
ivartrìd isottb your ow» Native Kage . Sue b Plays alone sbonld pleafe a
Brtttsb Ear , As Catos felf bad not dtjdaind to bear .
CATO Roma da Grecia vinca apparar l'Arti. Troppo lunga ftagion
la noftra Scena Di Francia da i teatri, e dell 1 Italia Ha
mendicato V umil fuo foftegno . Voftre forze provate, ed al Teatro
Voftro la fua ragion ne richiamate. Accefi fiate del nativo foco. A
Britannico orecchio , folo quelle Opre deggion piacere, che Io
(ledo Catone d'afcolcar non sdegnerebbe. AT.
«3C 8 )S» Portius, Marcus. He Dawn isover-cafl
5 tbe Mornìng ìovSrs\ And bcavily in Clouds brings on tbe Day Tbe
grcatjb* import ant Day\big r witb tbe Fate Of tato and of Rome. — Our
Fatbefs Deatb Wouldfill tip ali tbe Gtuìt ofCivil ÌVar , And clofe
tbe Scene of Flood . Already C&far Has ravaged more tban balf ebe
Globe 9 and fees Mankind grown tbin by bit definiti tue Sbordi
Sbottld he go furtber > Humbcrs isoould be wanting To form new Battelt
, and fupport bis Crimet . Te Gods , wbat Hawock does Ambition make
Among your Works ! Marc. Tby fteddyTemper, Portiate Can look
on Guilt , Rebellion, Fraud, and Gufar , In tbe cairn Ligbts of mild
Fbìlofopby ; Tm tortured^ e<vn to Madnefs , we* I tb/nk On tbe
prottd Vtchr : evry i Porzio, e Marco.
Scura è V Alba , ed il mattino è fofco , E lento in nubi
fuor fen* efce il giorno , Il grande e forte dì , pregno del Fato
Di Cato e Roma ; la morte del noftro Padre, la reità della civile
Guerra ornai tutta porteria al colmo , E chiuderla la fanguinofa fcena
. Già Cefar più della metà del Mondo Ha faccheggiato : e fcorge Y
uman genere Scemato dalla Tua micidial fpada . S'egli oltre andafsc
, mancheria alle nuove Battaglie gente a (ottener Tue colpe. Dei !
qual ruina Ambizion cagiona Tra le voftre opre ! Marc. Porzio , la
tua fredda Immobi! tempra a rimirar pur vale Retà ,
Ribellione, Frode, e Cefare Di mite fapienza a queto lume? Crucciato
io fon , e mi fmarrifeo , quando Io penfo a quel fuperbo vincitore.
B To- «K io )* ti) ry ttme bis named
Thci*falìa rifcs to my Vttw — / fee Tb Infnlting Tyrant frane tng oer the
Fìelà Stro isSJ-wttb Romcs Cttt^ens , anddrencb'dinSlangbter, Hts
Horfe's Hoofs wet wtth Vatrtctan Blood. Oh Fortms , // (bere not fome
cbofen Curfe y Some btdden Tbunder in the Stores of Heaifit) lied
isotib uncommon Wratb , to blaft tbe Man Wbo o-wcs bis Greatncfs to bis
Country s Rum ? Por. Beli eie me , Marcus , '/// an tmplous
Greatnefs , And mtxt vjttb too mucb Horrour to be enmyd : How does
tbe Lufire of our Fatbers Atltons , Jbwgb tbe dark Cloud of Ills tbat
coDer htm , Break out , and bum witb more triumfbant Brigbtnefs I
His Suff nngs fbtne y and fpread a Glory round htm > Greatìy unfortunate
, he figbts the Caufe Of Honour , Virine , Liberty , and Rome . Hts
S-word nc"er fili but oh tbeGutlty Head} Oppreffton , Tyranny , and
Fowr tifar fi , Draw ali tbe Vengeanee of bis Àrm mponem .
Marc. Wbo kn<rws not tbis ? Bue wbat can Cato do Agatnfl a
World, a bafe degenerate World , Tbat coarti tbe Toke , and bows tbe Neek
to Cafar t Peni up in Ut tea be mainly forms A foor Epitome of
Roman Greatnefs , . And , eowerd wttb Numidìan Guardi , diretti A
fiable Army, and an emfty Senatc , Remnants <(».»>
* Tofto che *J nome luo gìugne al mio orecchio 3
Farfalla al'a mia villa fi prcfenta : Veggio calcar V
infultator tiranno II laitricato campo di Romani Cadaveri
, e inzuppato in civil ftrage, E di fangue patrizio bagnate
Degli orgogliofi fuoi cavalli V unghie. Scelta maledizion non
avvi, o Porzio, Nelle armerie del CicI fulmin riporto
Di non comune ira di Dio vermiglio , Ad abbattere, a
ilruggere queir uomo, Che della Patria fua lui le ruine, Erge
( oh beati Iddii ! ) la fua grandezza? Por£ Certo , Marco , eh' è
quefta empia grandezza, E ha troppo ortor per effere invidiata.
Quanto del noftro Padre i fatti illuftri , De i mali , che *J circondan ,
tra le nubi, Spuntan brillanti di più chiara luce/ Di gloria 1*
incorona il Tuo (offrire . Sfortunato, maggior di fua feiagura, Ei
combatte collante per la caufa D 1 Onor, Virtute , Libertate , e
Roma. Sovra rea teda foi cadde fua fpada: L* oppreffion , la
tirannia fol traforo Sopra lor , del fuo braccio la vendetta .
Marc. E chi noi *i fa ? ma che può far Catone Contr' ad un Mondo,
un vile e guado Mondo , Che a Cefar piega il collo , e corre al
giogo? Di Romana grandezza ei forma indarno Pover compendio in
Urica rifpinto: E da guardie Numidiche attorniato Una ficvol Armata
, ed un Senato B 2 Voto Remnants of mìgbty
Battei: fongbt tn matti . By Heavns , /ivi Virtues ,jo/nd witb fucb
Sttccefs } Diflratl wy very Soul : Our Fatber s Fontine Wond almoft
tempt ut to renounce bis Frecepts. Por. Remember -wbat our Fatber
oft bas told us : Tbe Ways of Heavn are dark and intricate ^ Fu^led
in Ma^es , and perplext ivttb Errors Our Under si andtv.g traces 'em in wain
y Lofi and brwtlderd in tbe fruttlefs Searcb 5 Nor fees ikutb bow
mucb Art tbe Wtnitngs run , Nor wbere tbe reguìar Confufion ends .
Marc. Tbefe are Suggeftions of a Mind at Eafe: Ob r erti us , dtdft
tbott tafle b«t balf tbe Griefs Tbat wrtng wy Soul , tbou coudfl not talk
tbus coldly . Fajjìon unpttyd , and fuccefslefs Love , Flant Dagpers
tn my Heart , and aggravate My otber Grtefs . Were but wy Lucia hnd!
— Por. Tbou feeft not tbat tby Brotber is tby Rivai:
Bnt I wufl bidè ìt .for I know tby Tewper . [ afide Novj , Marcus y
»0u>, tby Vtrtues on tbe Froof: Fut fortb tby tttwofl Strengtb ,
>work evry Nerve , And cali up ali thy Fatber tn tby Soul: To
quell tbe Tyrant Love , and guard tby Heart On tbts iveak Side , nvbere
moft our Nature fails , Would he a Conqucft isoortby Catos Son .
Marc. Fort ìris , tbe Council wbicb I cannot taie y Ioftead of
beali ng , but npbraids wy Weaknefs . Btd me for Honour pi unge into a
iVar Of tbtchft Foety and *3( '3 )S»
Voto dirige , riraafuglio e avanzo D'afpre battaglie combattute
invano. Oh Ciel ! tali virtù con tai fucceflì Confondon
V Alma : la maligna forte Del noftro Padre , a' begli fuoi
precetti Quafi di rinunziarci tenterebbe. For%. Del noftro
Padre ti rammenta quello Ch' ei ci dicea fovente: che del
Cielo Sono feure le vie, ed intrigate: Noftro
intelletto le rintraccia indarno, Perfo e fmarrito nella vana
inchiefta . Nè vede con quant'arte i giri vanno, Nè
dell* ordin confufo il termin feorge . Marc. Pender fon quefti d' oziofa
mente . Porzio, fe la metà guftato avefli Di quei
dolor, che V alma mi trafiggono, Freddamente così non parlerefti
. Paftìon non compatita, amor fgradito PafTanmi il
cuore, e gli altri duoli aggravano . Oh fe a me fuffe Lucia pietofa
! Tor%. Non vede che '1 fratello è fuo rivale : Uopo è eh' io
il celi : il genio tuo conofeo . a parte Or, Marco, ora al cimento
è tua virtude. Prova tutta tua forza , opra ogn' ingegno ,
Spira nell* alma tua tutto il tuo Padre . Vincer Y amor
tiranno, e *1 cuor guardare Da quella debol parte , ov* uom più
manca , Conquida fia da figlio di Catone . Marc. Porzio , il
configlio , eh' io prender non poffò , Non fana , nò , rinfaccia
mia fiacchezza . Fa che Y onor comandi di cacciarmi In
guerra tra foltiflìmi nemici, E cor- W r*/& ou
certa/ n Dcatb } Then fbalt tbou fee that Marcus is not JIo jj To
follali) Glory f and confefs bts Fathcr . Love is not to he reafond down
y or lofi In htpb Amhttton , and a Tbtrfl of Greatnefs > 'Tss
ficond Ltfc , tt grows into the Soni , Warms evry Vein y and beati in
evry Fulfe y I feel it bere : My Refolutton meltt — Por.
Beboldyoung ]uba , the Numidi an Vrinceì Wtth bow mucb Care be forni s
bimfelf to Glory , And breaks the Fiercenefs of bts Native Temper
To copy out our Fatber s brigbt Examplt . He loves our Stfter Marcia ,
greatly lovet ber , Hts Eyes , bis Looks , bis Acltons ali betray it
: But fidi the fmotherd Fondnefs burns wttbtn bìm y When moti tt
fwells and lahours for a Veni , The Senfe of Honour and Dejire of
Fame Drive the big FaJJìcn back into htt Heart , Wbat ì fball an
Afrtcan , fiali Jubas Ueir Eeproacbgreat CatosSon, and fbo-jj the
World A Virttte voantivg in a Roman Sotti f Ma re. Fortius ,
no more ìyonr Words leave Stings befana* em. lVben-e % rc did Juba , or
dtd Fort in s , fhow A V ir tue that bat caji me at a Dtftance ,
And tbrown me out in the Furfnitt of Honoar ì Por. Marcus , I know
tby generous Temper weli ; Fling but tV Appe arance of Dtfbonour on it
, Itftrait takes Fire , and mounts iato a Bla^e. Marc. A
Brothers Suff rtngs clatm a Brothers Fity . Por.
jitized E correr frettolofo a certa morte y
Vedrefti alior , che Marco non è pigro A feguir gloria, ed a ritrar dal
Padre. Amor non cede , nè a ragion , nè ad aita Ambizion , nè a
fete di grandezza . Alma novella egli è della ftefs* Alma : Scalda
ogni vena , e batte in ciafcun pollo. II Tento io qui : disfatto è il mio
coraggio . for^. Mira il Giovine Giuba, di Numiviia Il
Principe, con quanta cura ci forma Se medefmoalla gloria, e la
natia Fierezza frena, a far vedere in lui Del noftro Padre il vivo
illuftre efempio. La noftra fuora Marzia egli ama , e molto L* ama
: il dicon fuoi fguardi, atti, e fembianti j Ma chiufo il fuoco pur gli
arde nel petto. Quand* ei più crefce , ed a sfogarfi a (pira ,
Sentimento d' onor, defio di fama Spingon la fiamma a ritornare al
cuore. Che! un Affricano, ed un di Giuba erede Rinfaccerà del gran
Catone al figlio, E potrà al Mondo tutto ancor moftrare Una Virtù,
che in cuor Romano manca ? Marc. Porzio , non più : voflre parole
lafciano Puntura dietro a lor : quando mai Giuba , O Porzio ancor ,
mi trapaflaro tanto Nella virtudc , e dell' onor nel corfo ?
Tor^ Marco, la gencrofa indole tua Io ben ravvifo> che fe pur sù
quella , Di difonor la minima favilla Cada, ella prende fuoco , e
forge in fiamma . Marc. Vuol fraterno foffrir pietà fraterna.
Por^. Il Digitized by Google <8(
><* )& Por. Hfdi; n faows I psty tbee : Beboìd my
Eyes ESn wbilfl I (peak Do t bey not faim in Te ars ?
Il ere bttt my Heart as naked to thy Vieiv y Marcus isùonld fee it
bleed in bis Babai f . Marc. Why tbendcft treat me uriti Rcbukes,
inftead Of k/ud condoliti^ Cares and friendly Sorrow ? Por. 0
Marcus , did I know tbe ÌVay so e afe Tby troubled Heart , and mitigate
thy Tatns , Marcus y belic<ve me 7 / couìd die to do it .
Marc. Tbou beft of Brothers, and tbou befl of Fiìends ! Pardon a
weak diftemperd Soul , tbat fwells JVitb fudden Gufls , and finis as foon
in Cahns , Tbe Sport of Paffions But Sempronitts comes :
He muli not find tbts Softnefs bangi ug on me . Sempronius folus. COnfpiracies no
fooner fboud b: forni d Tban executed . JVbat means Portius bere ì
I IHe not tbat cold Toutb. I muft dtjìemble , And [peak a Language
foreign to my Heart . Sempronins, Portius. Semp. Good
Morroiu Porttus ! Ut us once embrace , Once more embrace ; "ubtlfl
yet we botb are free. To Morrou) fboud noe tbus exprefs our Fr/endfbip
, Eacb mtght recede a Slave into bis Arms : Tbis Sun perbaps , tbts
Morntng Suns tbe lafl Tbat ere f ball rife on Roman Liberty .
Por. My Fasber bas tbts Morntng calN togetber To
Digitized by Google Por^. II Gel lo si', s' io n 1 ho
pietade. Mira Or gli occhi miei: non nuotan' effi in pianto? Ah fe
il mio cuor nudo a tua vifta fufle, Marco il vedria in fua metà
piagato. Marc. Or perchè sì trattarmi con rimprocci, Di
blande cure , e duol compagno in vece ? Tor%. O Marco , s' io
poteffi V affannato Tuo cuor calmare, et addolcir le pene, Marco,
credilo a me , per ciò morrei. Marc. Ottimo tu fratello, ottimo
amico! A un turbato perdona e fiacco cuore , Tofto gonfio in
tempefta, e tofto in calma , Delle paflìoni fcherzo ... Ah ! vien
Sempronio : Che in quefto mal decoro ei non mi nuove .
parte. Sempronio folo* Scmpr. Z*^ Ongiure non più tofto handa
formarO, 1 Che efeguirfi. Che vuol mai qui Porzio ? Di quello
giovan la flemma m' è noja . Diflìmular m' è d' uopo , e ragionare
In (tran linguaggio , e dal mio cuor diverfo . Sempronio y e Forato
. Sempr. Buon giorno , caro Porzio : ora abbracciamoci : Un' altra
volta ancor, mentre fiam liberi: Forfè avrfa , fe doman noi ci
abbracciaffimo, Uno fchiavo ciafeun tra le fue braccia . Qyeft'
Alba forfè, e quefto Sol fia il fezzo , Che forgerà fu libertà Romana .
Tor^ In q 11 ^* hi* povera mio Padre C Que- To
poor Hall bit little Roman Settate , ( T£f Lcanings of Pharfalta )
to confale Ifyet he can oppofa the migbty Torrent Tbat
bear s down Rome, and ali ber Gods, ècfore />, Or muti at
lengthgvvc up the World to Cafar. Sempr. Noi ali the Pomp and
Majefly of Rome Can rat fa ber Senate more tban Catos f re fame %
Hit Vtrtues render our Affcmbly awful , Tbey ftrike ntsth fometbmg Itke
religioni Fear And make enfn Cafar trcmble at the Head OfArmies fin
fa d witb Conqaeft : 0 my Portiti, Could I but cali tbat ivondrous Man my
Fatber y Woùd but t'by Sifter Marcia he propitiont To tby Friend /
Vowt : I migbt he blefad indeedi Por. Alas ! Sempronio , woud/i
tbou talk of home To Marcia , wbitti ber Fatbert Lifes in Danger ?
Tbou migbift at ivell court the pale trembling Veftal , Wben fbe beboldt
the boly Fiume expiring . Sempr. The more Ifae the Wonders ofthy
Race The more Tm charm d . Tbou maft takcòeed y my Portimi
Tbe World bai ali its Eyet on Catos Som. Tby Fatbert Merit fan tbe* up to
View , And fbowt tbee in tbe f aere ft poi ut of Ltgbt , To make
tby Virenti ir tby Fomiti confatemi . Por. Welldoft tbou feem to
check my Lìngring bere On tbit importuni Hour FU Jlruit avuay
, And -nobile tbe Fatbert of the Semate meet
In Quefta mattina il picciol fuo Senato [ Avanzi di Farfalia ]
adunar vuole , A confuicar fe ancora ei puote opporfi Al torrente ,
che in giù precipitofo Roma porta e i fuoi Dei : o pure al fine
Cedere il Mondo a Cefare . Sempr. Di Cato La prefenza fol può Roman
Senato Erger non men , che maeftà di Roma . Noltra affemblea fan
reverenda Tue Virtudi, e infpiran un devoto orrore. E fanno ancora
Cefare tremare Alla tefta d' altiere vincitrici Armate: Porzio mio,
oh s' io potetti Padre appellar qucnV uom maravigliofo , E propizia
la tua Sorella Marzia A i voti fu (Te dell* amico tuo ; Veracemente
io mi faria beato . ?or£. Ah Sempronio , vuoi tu parlar d'
amore A Marzia , or che la vita di fuo Padre Sta in periglio ? tu
puoi carezzar anco Una Veftale pallida tremante, Che già miri
fpirar la fanta fiamma . Semfr. Quanto le meraviglie di tua
ftirpe 10 feorgo , tanto più ne fon rapito . Prenditi guardia
, Porzio : il Mondo tutto Tien gli occhi fuoi fui figlio di Catone.
11 merito paterno ponti in vifta , E ti moftra di luce al più
bel punto, A far più chiari tuoi vizj o virtudi . Por%. Incolpi con
ragion la mia lentezza Su queft* ora importante ... Or ora io parto
: E mentre i Padri del Senato fono Ci In clofe Belate , to
iveigb tV Eventi ofJFar, TU ammcte the Soldtcrs drooptng Courage,
Wttb Lowe of Freedom, and Contempt of Life. TU tbunder tn thetr Ears
their Country s Caufe ? And try to rouje up ali tbais "Roman tn *cm
. not tu Mori ah to command Succefs , But veli do more y
Scmprontus noe II deferve it . [ Exit • Sempronius folus .
Cnrfe on the Stripling ! bow be Ape's bis Sire ? Rmbitioufly
fententious ! — But I wonder Old Sypbax comes not j bis Numidtan
Genius Is weli dtfpofed to Mtftbtef, were be prompt And eager on it
> but be muft be fpurrd , And ciìry Moment qutckr.ed to the Courfe
. Cato bas ufed me 111 : He bas refufed Hts Daugbter Marcia to my
ardent Vorws. Befides , bis baffled Arms and rutned Caufe Are Barrs
to my Ambition. Cafars Favour, Tbat fboisSrs down Greatneff on bis
Friends , wsll raife me To Kome's firft Honours . If 1 give up
Cato, I clatm in my Reward bis Captine Daugbter . Bnt Sypbax comes
! Syphax, Sempronius. Syph.
— Q Empronius , ali it ready , O l v w founded my Numidi ans , Man
ly Man , Ami Digitized by Google
In ferrato contratto a bilanciare Gli eventi della guerra j V
abbattuto E fcorrente coraggio de* foldati Ergerò coir amor di
lìbertade , Col difprezzo di vita : al loro orecchio Intonerò
lacaufa della Patria , Ciò eh 1 è Romano in lor , dettar tentando .
Non è dell* uomo i) comandar fortuna 3 Ma quel eh* è più, Sempronio, è il
meritarlo, parte Sempronio filo . Maledetto Garzon ! come fuo
Padre Contraf fa egli , c 'I fentenziofo affetta ! Stupifco ,
che Siface ancor non viene . Il fuo genio Numidico è ben atto Alla
cattività; fufs* egli pronto; Ma d' uopo a ogni momento egli ha dì fprone
. Meco non ben Caton s* è diportato. Rifiutato ha la fua figliuola
Marzia A gli ardenti miei voti : in oltre V armi Sue abbattute e
rumata caufa Oftacol ranno all' ambizione mia . Il favore di Cefare
, ed il fuo Piover grandezza fu gli amici fuoi Alzerà me di Roma a
i primi onori. S* io tradifeo Caton , la figlia fua Sarà mio
premio. Ma Siface viene. SCENA Ut Siface , e
Sempronio* Sif. Q Empronio , tutto è prefto : ho io tentati O
Tutti i Numidi miei ad uno ad uno : In And fini
Vw ripe for a Remoli : Tbcy ali Complatn aloud of Catos Dtfcipltne
, And watt but the Communi to clange their Majler .
Sempr. Believe me , Sypbax , tberes no Time to wafie $ £<v'«
wbilfi uh* [peak , wr Conqneror comes on y And gatbers Ground upon us
evry Moment . Alasi tbou knowft not Csfars attive Soni y Wttb r
what 0 dreadful Courfe he rufbes on From IVar to War : In vatn has Nasute
forni à Mounsains and Oceans to oppofe bis Pajfage ; He Bornia^ s
oer ali , vittortous in bis March , Tbe Alpes and Pyreneans feuk before
bim ; Tbrottgb JVindSyand IVaves , and Ssorms y be works bis way,
Impattentfor tbe Battei: One Day more Wtllfet tbe Vtttor tbnndring at our
Gates. But teli me y ba/ì tbou yet draivn oer young Juba ? Tbat
jltll ivoui recommend tbee more to C&far y And challenge bette? Terms
— • Siph. Alas ! bes loft , He"s loft , Sempronius
; ali bis Tbougbts are full Of Catos Vtrtues But TU try once
more ( For e<vry Inflant l expeil bim bere ) Ifyet I can
fubdste tbofe ftubborn Principici Of Faitb , of Honour , and I know not
isobat , Tbat bave corrupted bis Numtdiau Temper , And ftruck tb*
Infetti on into ali bis Sotti. Sempr. Be fure to prefs upon bim
evry Motive. Juhas Surrender , finse bis Fatbcrs Deatb , IVould
give up Afrtck into Csfars Hands , Ani In
punto ci fono già d ammutinarti . Dell* auftera di Caco difciplina
Fan tutti alti lamenti : ed a cambiare Padron , non altro attendono , che
il cenno. Scmpr. Siface, tempo quì non è da perdere. Mentre
eh* uom parla > il vincitor s* accoda , £ campo fopra noi prende a
momenti . L* attività di Celar non conofe? , Che con tremendo corfo
Io precipita Di guerra in guerra : invan formò natura Montagne e
mari a opporli a fuo paffaggio : Ei formonca in Tua marcia, e varca
tutto; SpiananG avanti a lui Pirene ed Alpi : Per entro a i venti ,
e V onde , e le tempefte La via fi fa bramofo di battaglia . Un
giorno più , porrallo a noftre porte. Ma dimmi; hai guadagnato il giovin
Giuba? A Cefar ciò si ti farà più grato , E ti farà più
vantaggiofo. Stf. Ohimè ! E* perduto, Sempronio, egli è perduto.
Son tutti i fuoi pender delle virtuti Pieni di Caro ... Ma io vo
provare Anco una volta [ perciocch' io V attendo Qui a momenti ] s'
ancor vincer poffo Quelle m aflìme dure ed infleflibili Di fe , d*
onore , e di non so qu ai cofe , Che r indole Numidica hangli guada
, E tutta 1* alma fua tinta ed infetta. Scmpr. Imprimigli ben
ben ciafeun motivo . Se Giuba fi rcndeffe, poicrf è morto Il Padre
fuo ; darebbe nelle mani A Cefar Y Affrica, c farebbel Sire
Della Digitized by Google And mah
btm Lord of balf tbe buruing Zone . Syph. Bup is it trae,
Sempronius , tbat your Settate Is calfd togetber ? Gods ! Tbou musi b'e
cauttous ! Cato bas piercing Eyes, andivill dtfcern Oitr Brands ,
unles (bey re cover d tbtck isoitb Art . Scmpr. Let me alone , good
Sypbax , TU conceal My Tbougbts in Fajjton ( *$$$ tbefureft *way >
) TU bello w cut for Rome and f or my Country , And moutb at Cafar
ttll I fbake tbe Settate . Tour cold Hypocrtjjc's a ti ale Dewice y
A wotm out Trick: Wonldsl tbou betbougbt in Farne ftì Cloatb tbyfetgnd
Zeal in Rage, in Ftre , in Fury ! Syph. In trotb y tbotirt ablc to
inftrutl Grey bairs , And teacb tbe wily African Deceit !
Scmpr Once more , Le fare to try tby Skill on Jnba. Mean *wbi!e FU
baslcn to my Roman Soldiers , Infame tbe Muttny , and under band
BlocJ »p tbeir Dijcontentt , tilt tbey break out Unlocìid for , and dtf
ebarge tbemfehes on Cato . Remembcr, Sypbax , we muft work in Hafle
: O thrà wbat anxious Moment s pafs betwen Tbe Btrtb of Flots 3 and
tbeir laft fatai Periods . Obi *tts a dreadful Internai of Time,
Ftltd up isottb Horror ali , and big witb Deatb ! Deftrutlton bangs on
c*vry Word we fpeak , On evry Tbougbt , *till tbe concludi ng
Stroke Determtncs ali , and clofes our Dcfign . ( Exit •
Syphaxfolus TU try ifyst I can reduce to Reafon
Thit Digitized by Google «3(
Della metà dell'infocata Zona. Stf. E' egli ver, Sempronio, che 'J
Senato Vollro s* adunerà ? Sii ben guardingo : Cato ha
occhi sì acuti e penetranti, Ch' egli fi accorgerà di noli re frodi
, Se ben non fi ricuoprono con arte. Sempr. Lafciami far ,
Siface : afeonder voglio Dentro la paffione i miei penfieri .
Quefla è la via la più ficura : io voglio Aito gridar per
Roma e per mia Patria Contra Cefar , Anch' io fcuota il Senato
. Le fredde ipocrifie fon moda antica , E ufato giuoco
. Eflfer tu vuoi creduto Sincero ? vedi il fimulato zelo
E di rabbia, e di fuoco, e di furore. Stf Inver tu puoi infimi r
vecchi anco fcaltri, E infegnar frode all'Affocano ifteffo .
Sempr, A Giuba guadagnar tue arti impiega , Mentre al Romano efercito
m' affretto A incoraggiar gli ammutinati , e loro Odii
infiammar , foffiando fottomano , Finché impenfati rompan fopra
Cato , Vuolfi , Siface, qui celeritade. Quanto
angofeiofi padano i momenti Fra '1 nafeer di Congiure , e '1 fin
fatale ! Oh qua 1 dubbio intervallo, afpro, e tremendo,
Colmo tutto d' orror , pregno di morte ! Da ogni voce pende
la ruina , Da ogni penfier , finché P ultimo colpo
Termine ponga a perigliofa imprefa . farte . Siface foìo
. Tentar vo* , s' anco pofso alla ragione D Rad-
Digitized by Google TWj beadìlrong Youtb,
andmake bìm fpurn at Cato. Tbe Ttme a Jbort , Csfar comes rufbtng on ut —
— Bnt boldl young Julafeet me y and approdi bes . SCENE
IV. » > Juba, Syphax . Jub. O Tpbax , /
joy to meet tbee thus alone . O ì ha*V* objemed of late tby Looks
are falYn y Cfcrcaft "ysottb gloomy Cares 5 and Dtfcontent
> 77>f » /f // wrf , Sypbax , / coniare tbee , w , Wbat are
tbe T bonghi tbat hit tby Brow in Frownt y And turn tbtne Eye tbus coldly
on tby Prènce ? Syph. Tèi not my Talent to conceal my Tbougbtt
, • Nor carry Smtlet and Sun-fbtne in my Face , Wben
Dtfcontent fits beany at my He art . I baue not yet fo mucb the Roman in
me . Jub. Wby doji tbou caft ont facb ungenrout Termi Againft
tbe Lordi and Swreigm of tbe World ? Doft tbou not fee Mankind fall down
he f or e W, And <rwn tbe Force of tbetr Superior Vtrtue t li
tbere a Nation in tbe Wtldi of Africk , Amtdft our barren Rocki and
burning Sandi , Tbat doet not tremile at tbe Roman Name ì Syph.
Codi l uberei tbe Wortb tbat feti tbit People tip Aboi)e your own
Numtdidt tawny Som ! Do tbey noitb tottgber Sinewi bend tbe Bow ?
Orfltei tbe Jarveltn fwtfter to iti Mark , Larvici) d from tbe Vsgour of
a Roman Arm ? W ho Itke our atl/ve African infiruiìt
Tbe Digitized by Google Raddurrc
quello giovane ottinato, E fargli in fine difpregiar Catone. 11
tempo è breve : Celare ne viene . Ma ferma! Ecco Giuba. Egli
s'accoda. Giuba, e Siface. Giti. Q Iface , io godo d'
incontrarti folo . O Toflervai poco fa turbato in vifta , Di
nuvolofe cure ofcuro il volto . Dimmi, Siface, io ti fcongiuro,
dimmi, Quai penfier ti contristano la fronte, E gir fan freddo fui
tuo Prence il guardo ? Sif. Non fon atto a celare i miei pontieri
. Non può fplendere il rifo in mio fembiante , Quando affifo è nel
cuor grave fconforto : Non ho ancor tanto del Romano apprefo.
Gtub. Perchè cai voci ingiuriofe vibri Contra i Sovrani Signori del
Mondo? L'uman gener non vedi avanti a loro Proftrato confettar
l'alto valore ? Evvi Nazione infra i deferri d'Affrica, Fra no fi
re rupi ignude e a r ficee arene, Che non paventi e tremi a) Roman
nome? Sif. O Dei ! qual meno è quel , che quello popolo
Solleva fopra i figli di Numidia? Con maggior forza tendon eflì
Parco, O vola più velocemente al fegno Dardo lanciato da Romano
braccio? Chi come l'agile Affricano , forma «8( )fr
B T£<? fiery Stecdy and tratnt bim to bit Hand ? Or guide
s in Troops $V embattled Elepbant , Loaden ujitb IVar ? Tbefe, tbefe are
Arts , my Pance, In nsAich your Zama does not ftoop to Rome .
Jub. Tbeje ali are Vtrtues of a meaner Rank , Ftrfstttons tbat are
flaced tn Bones and Nerva . A Roman Soni ts bent on bigbet Vtews :
To avi li ^e tbe rude unpoltfb % d World , Ani lay it under tbe Reftratnt
of Laws j To make Man mtld andfoctable to Mani To cultivate tbe
wild licenttous Savage Witb Wtfdom , Dtjapltne , and ItVral Artt ;
TV Embelltfiments of Ltfe : Virtuet Uìe tbefe Make Human Nature fbtne ,
reform tbe So*l y And break our fierce Barbarìans tnto Men .
Syph.Patieuce ktndHeavml—Excufe an old Mans wamtb JVbat are tbefe
-wond* rous civili ^ing Artt , Tbts Roman Poltfb , and tbis fmootb
Behaviour , Tbat render Man tbus tratlable and tame t Are tbey not
only to dtfgmfe our Pafftons , To fet our Looks at vartance vottb ottr
Thougbtt , To deck tbe Starts and Salita of tbe Sotti , And break
off ali itt Commerce wttb tbe Tongue ; In fhort , to ebange ut into otber
Creatura Tbau isohat our Nature and tbe Gods dejignd ut ì
Jub. To Vtrtke tbee Dumb: Turn up tby Eya to£atoì Tbere mayft thott
fee to ivbat a Godltke Heigbt Tbe Roman Vtrtues lift up mortai Man
. Wbile good , and jufi , and anxious for bis Frìends y He % s
fttll feverely bent agatnft bimfelf ; Renouncing Sleepb, and Refi ,
and Food, and Eafe , He Digitized by
Google *3( >9 )» Il feroce deftriero, e Jo maneggia
? Chi meglio in truppe guida gli Elefanti A ramaelt
rati, carichi di guerra? Quefte fon, Prence mio, quelle fon
Farti, Per cui non cede Zama vofìra a Roma . Gtnb. Arti
d'inferior ordine fon quefte , Forza e perfezion d' o da e di nervi
. Più alto mira un'anima Romana ; A formar rozzo e mal polito Mondo
, E fottoporlo al freno delle leggi, E render l'uomo all'uom mite
ed amico; Con fenno e difciplina e nobili arti Domefticar felvaggi,
e ornar la vita. Tali arti fplender fan natura umana , Riforman
l'alma, e i barbari fann' uomini. S/f. O Cieli , fofferenza / d' un
uom vecchio Sia feufato il calor: quali fon quefte Mirabili arti, e
Romana vernice, E pulito contegno, che cotanto Fan domeftico
l'uomo, e civilizzalo? Buone non fon , che a mafeherar gli affetti,
E dal volto feordar fare i penfieri, E frenar la natia voga dell'alma
, E romper Aio commercio colla lingua, E in altre creature
trasformarci Contra il difegno di Natura e Dio. Ciuk Perchè
tu taccia , volgi gli occhi a Cato. In lui rimira , quanto predo a
Dio Virtù Romana innalza un uom mortale. Per gli amici follecito ,
indulgente, A fe fteftb fevero , il fonno niega , Il ripofo, ed il
comodo , ed il Col- He ftriues witb TbnJI
and Hungcr , Toil and Heat ; And wb:n bts Fortune fets before btm ali
• Tbe Bomps and Bleafures tbat bis Sortì can wifb y Hts rtgtd
Vtrtne wtll accept of none. Syph. Bcltcvc ine , Prtnce , theres not
an Afri can Tbat tra'verfes our wafi Numtdtan Dejarts In qtteft of
Prey , and Iwes upon bis Bow , Brtt better praclifes tbefe boafted
Virtues. Coarje are bts Meals , tbe Fortune of tbe Cbafe , Amtdft
tbe rttnmng Stream be Jlakes bts Tbtrfl , ToiFs ali tbe Day , and at tb'
approacb of Ntgbt On tbe firft friendly Bank be tbrows btm down ,
Or rejìs bts Head upon a Boti "ttll Morn : Tben rifes frefb ,
pttrfues bis wonted Game , And tf tbe followtng Day be chance to
fini A fiew Repafl y or an untafled Sprtng y Bleffes bts Start y
and tbtnks tt Luxury . Jub. Tby Prejudices , Sypbax, wont dtf
certi Wbat Vtrtues growfrom Ignorance and Cboice y Nor bow tbe Hero
dtffers from tbe Brute . But gtant tbat Otbers coti d witb equal
Glcry Look do cjn on Pleafuret and tbe Batts of Senfe 5 IV bere
fiali we find tbe Man tbat bears Affiitlion , Great and Majefttck in bts
Griefs , ìtke Cato ? Heaiins y wttbwbat Strengtb , wbat Steadtnefs
ofMind, He Triumpbs in tbe mtdft of ali bts Sujferings ì How does
be rife againll a Load of Woes , And tbank tbe Gods tbat tbrow tbe
IVetgbt upon btm \ Syph. T## Bnde y tank Bride y and Havgbttnefs of
Soul ; / tbink Colla fete combatte, e
colla famcj Collo ftento, col caldo : e quando ancora Tutte le
pompe ed i piacer del Mondo A contentargli l'alma s' offerì fsero ,
Sua rigida virtù rigctterebbegli. S/f. Credimi, Prence: non ci è
Affricano, Che varchi noftre vafte erme contrade Di preda a
inchieda, e di fuo arco viva, Che tai virtù meglio non metta in opra
. Rozzo mangiar ciò che gii da la caccia : Nel corrente rufcel
traflì la fete; Tutto il dì (tenta , e quando vien la notte Gettali
filila prima amica ripa, O fopra rupe la fua tetta pofa Infino a
giorno. Pofcia frefeo ci forge A profeguir fuo giuoco: e fe'l
vegnente Giorno accade eh' ci trovi un nuovo pafto , O fcaturire un
non guftaro fonte, Dio benedice , e crede effer ciò ludo .
Ginb. La tua prevenzion quelle virtudi Da non faper prodotte, da
queir altre, Che figlie fon d' elezione umana , Nè dal bruto
diftinguer fa l'eroe. Ma porto che con egual gloria fprezzi Altri i
piaceri e il lufinghevol fenfo , Dove fi troverà mai un Catone Nel
fuo dolore maeftofo e grande ? Dei ! con qual fermo e valorofo
cuore Nel mezzo a i fuoi fofFriri egli trionfa, Sotto T incarco de*
fuoi guai s' innalza , £ di quel pefo ne ringrazia i Numi /
Sif. Orgoglio è quefto, e Romana alterigia , / ri/ffl
the Romani cali tt Storci/m . Had aot your Royal Fatber tbougbt fi
b/ghty Of Roman Virtù* y and of Catos Caufe y He had
not fui In by a Slave'; Hand inglorious : Nor would bis slangbterd
Army now baue lain On Africk's Sands , dtsfigurd iutth their Wounds
, To gorge the IFohes and Vttltures of Numtdta . Jub.
IV by doft tboa cali my Sorrows np afrejb ? My Fatber s Name brtngs Tears
into my Eyes . Syph. Oh , tbat youd profit by your Fatber s tilt
! Jub. JVbat ivortd(i tbou baie me do ? Syph. Abandon
tato . Jub. Sypbax , / fiori d be more tban twice art Orpban Byfucb
a Lofi . Syph. Ay , tbere's the Tie tbat binds you !
Toh long to cali bim Fatber . Marctas Cbarms Work in your He art
unfeen y and pie ad f or Cato . No 'wonderyou are deafto ali I Jay
. Jub. Sypbax ,your Zeal becomes importunate ; httherto
permitted it to rame , And talk at large 5 but learn to keep it in
, Leaft tt fio» Id take more Freedom tban VII gfae it. Syph.
Sir , your great Fatber newer ujed me tbus . Alas , he s Dead ì But
canyou eer forget The tender Sorrows , and the Pangs of Nature 3 The
foud Embraces , and repeated Blvjjìngs , Wbtch you dreisofrom bim in your
laìt Fareivel ? Sttll muft I chertfb the dear fad Remembrance , At
once to torture and to plcafe my Seul . Tic Chiamata
da lor, credo,- Stoicifmo. Non avtfle il reale padre voftro
Tanto avuto concetto del Romano Valore, e della caufa di
Catone; Non faria fenz'onor così caduto Per man
fervile: nè Tarmata Tua Sconfitta giacerla fu gli arenofì
Campi d'Affrica, caica di ferite A ingraffar gli avoltoi
della Numidia . Giub. Perchè vuoi rinnovar mio cruccio atroce?
Chiamami al pianto di mio padre il nome. Sif. Oh profittale delle
fue fciagure / Gtub. Che vuoi eh' io faccia? S$f. Abbandonar
Catone. Giub. Orfano mi farei più di due volte. Sif. Oh, il vincolo
è quefto che vi lega ! D l'aerare di chiamarlo padre.
Di Marzia i vezzi opran fui voftro cuore * Quelli fon gli
avvocati di Catone, E a tutto quel ch'io dico vi fan fordo.
Giub. Siface , voftro zelo efee importuno. Fin qui di vaneggiare io
t' ho permeffo , E parlar largo; ora a frenarlo impara,
Nè voler franco effer più eh* io non voglio. Sif. Sir; non sì meco
usò voftro gran padre. Laflb/ egli è morto: ed obbliar potete
I teneri dolori, e le trafitte Di natura , ed i cari
abbracciamenti Le replicate benedizioni , Ch'egli vi
diede nelf cftremo addio ? E' d' uopo eh* f accarezzi la
foave Trifta rammemoranza , onde ne fente Tormento in
uno, e compiacenza l'alma. E II . «J(34)ì»> Tbe good
old King , at parting , wrung my Hand 9 ( Hts Eyes brim-full of
Tears ) tbeu figbtng cryd , Prttbce be careful of my Som ! hts
Grtcf Swelfd uf fo htgb be coudnot utter more. Jub.
Alas , tby Story mclss away my Soni . Tbat beft of Fatbers ! Ixrw /ball I
dtfebarge Tbe G rat nude and Duty , nsJbteb 1 o*we bim !
Syph. By ìaytng up bts Counctìs tn your He art . Jub. Hts
Counctìs bade me yteld to tby Dtretltons ; Tben , Sypbax , cbtde me tu
jevercjl Terms , Vcnt ali tby Pajfton , and III fland tts fbock ,
Cairn and unruffled as a Summer-Sea , IV ben not a Breatb of IVtnd fltes
oer its Sur face . Syph. Alas , my Prtnce , ld guide you to your
Safety . Jub. I do beitele tbou ivoud/i i but teli me bovu ?
Syph, Flyfrom tbe Fate tbat follorws Cdjars Foes . Jub. My
Fatber feornd to dot . Syph. And tberefore dyd. Jub.
Better to die ten tboufand tboufattd Deatbs y Tban isoound my Honour
. Syph. Ratber fay your Lame. Jub. Sypbax y l ite
promtsd to preferve my Temper . Wby wilt tbon urge me to confefs a Fiume
y 1 long bave fitfled , and woud fatn conce al ? Syph.
Beitele me , Prtnce > 'tts bard to conquer Love y But eafie to drvert
and break tts Force : Abjence mtgbt cure tt , or a fecond Mtflrefs
Ltpbt up anotber Flame , and fut out tbts . Tbe glowsng Dames of Zamds
Royal Court Have Faces flu[bt -witb more exalted Cbarms . Tbe Sun ,
tbat rolls bis Cbariot oer tbeir Headt , Works up more Ftre ani Colour tn
tbetr Cbcckt : Were Digitized by Google
Il buon vecchio al partir la man mi ftrinfe [ Gli occhi
pieni di pianto ] c fofpirando Di ile ; Deh cura abbi del mio figliuolo
. E '1 gonfiato dolor così fe crollo, Ch* egli più non poteo formar
parola. Gtub. Latto ! il racconto tuo mi ft r ugge 1* Alma .
Ottimo Padre / come potre* io Adempir verfo lui i miei doveri ?
Sif. Gli avvifi fuoi nel voftro cuor ferbaee. Gtub. Quefti
tur di feguir gì* indrizzi tuoi. Co' termin più feveri adunque
bravami, Siface : sfoga pur tutto il tuo sdegno ; AH' impeto di lui
ftarommi quieto £ tranquillo , qual mar di (late , in calma \
Quando nè pure un venticcl 1* increfpa. Sif. Prence, mia mira è fol
voftra falvezza . Gtub. C redolo j ma qual via ad effer falvo
? Stf. De i nemici di Cefar fuggi il fato . Gtub. Mio
Padre ciò sdegnò . Stf. Perciò morio . Gtub. Mille volte morrei ,
che fare oltraggio Al mi* onor . Stf. Dite pure , al voftro amore
. Gtub. Data ho parola già di (tarmi quieto. Perchè forzarmi
a palefar la fiamma Chiufa tenuta, e eh* io pur vo* celare?
Stf. Prence, amor fuperare è forte cofa; Ma romperlo è leggiera, e
divertirlo. Lontananza lo farà , od altro amore Accende un* altra
fiamma , e eftingue quella. Le Dame alla Real Corte di Zama
Splendono accefe d* un più bel vermiglio . Il Sol , che fu (or tette il
cocchio gira , Le guance tinge in più vivace fuoco. E 2 Quc-
Were yon ivìtb tbefe , my Prtnce ,youd foonforget The pale
unripend Beauttes of the Nortb . Jub. Tts not a Sett of Fatture: ,
or Compie xio» y The Ttnfiure of a Sktn , tbat I admire . Beauty
[oon grows famtltar to the Louer , Fades in h/s Eye y and palls upon the
Senfe . The nìtrtuous Marcia towrs abo*ve ber Sex : True y [he is
fair , [ Ob 3 bow dtutnely fair ì ] But ftìll the ìcvely Matd improbe s
ber Charmi Wilb inward Greatnefs , «naffctled Wtfdom , And Santltty
of Manners . Catos Soul Shtnes out tn enery tbtng (he atls or fpeakf
, Wbtle isoinning Mtldnefs and attrattive Smilcs Dwell in ber Lookf
, and -with becoming Grace Soften the Rigour of ber Fatbers Vtrtues
. Syph. How does yottr Tongtte gro-w u)anton in ber Praife §
Bnt on my Knees I begyoa isooud confider — — Enter Marcia , and
Lucia . Jub. Bah ! Sypbax 5 f/V not fbe ! — - Sbe mowes tbis Way
; And njttb ber Lucia , Lucius s fair Daughter , My Heart beats tbick
• I prttbee Sypbax lea<ve me . Syph. Ten tboufand Cttrfes f
alien on % em botb ! Mow wtll tbts W 'iman VMtb a fingle dance
UadOy wbat fw been laVrtng ali tbis wbile . [ Exit <
Jub», Digitized by Google Quefte, fe con
lor fofte , o Prence mio , Farebbonvi obbJiar quelle del
Norte Beltà pallide, acerbe, ed immature. Gtfib. Fattezze o
colorito io non ammiro . Saziati tofto di beltà 1* amante :
Appaffita ed intipida gli viene. La cada Marzia il fedo Aio
far monta: E' bella pur , divinamente bella ; Ma V
interna grandezza , e fchietto fenno , Santi coftumi crefcono i
fuoi vezzi. Spicca Catone in fue parole ed atti ,
Mentre dolci attrattive , e dolce rifo Albergan n»l Tuo volto
, ed avvenenti Grazie ammollifcono il rigor paterno. S/f.
Come facil ti (doglie voftra lingua Nelle fue lodi ! Ma protrato a
i voftri Piedi vi priego , che contideriate . . . Entra
Marcia , e Lucia. « Cinb. Siface, oh ! non è lei ? ella
quà viene Colla bella di Lucio figliuola . Palpita
forte il cor : Siface , lafciami . Stf Mille maJedizion vengano loro
! Disfarà tutto quel che ho fabbricato Con una fola occhiata
or quefta femmina, fatte SCE- Digitized
by Google *8( 3 8 » Juba, Marcia,
Lucia. Jub. T T AH cbarming Maid y bow does tby Beantby Jmootb X~\
The Face of IV ar , and make ev'n Horror fmtle ! At Sigbt of tbee my He
art jbakes off iu Sorro-wt 3 Ifeel a Daw» of Joy break tn npon me y
And f or a nobile forget tb % Approacb ofCtfar . Ma r. Ifioud be
grteiid ,young Prime y to tbtnk my Prefence Unbent your Tbougbtt y and
(lackend Vw to Armt y Wbtle y warm wttb Slaugbter , onr uttloriont Fot
, Tbreatens aloud , and calls you to tbe Fteld . Jub. 0
Marcia , let me bope tby kind Concerni Andgentle fVifbes follow me to
Battei! The Tbougbt *wtll gìwe new Vigonr to my Arm y Add Strengtb
and Weigbt to my defcendtng S-word y And drive it in a Tempeft on tbe
Foe. Marc. My Prayers and IVtflet alwayt fiali attend Tbe
Friends of Rome , tbe glorious Caufe of Vtrtue , And Men appronjd of by
tbe Gods and Cato . Jub. Tbat Juba may deferte tby piont
Caret, Mgare for c<vcr on tby Godltke Fatber , Tranfplanttng y
one by one , into my Life Hit brigbt Perfecliont , Vi// / flint like bim
. Marc. My Fatber ne<ver at a Ttme like tbit Woud
lai o*t bts grcat Sotti in Wordt , and wafie Sncb
Giuba , Marcia , * Iw/*. G/'^Z-. T 7 Ergin leggiadra , oh
come tua beltade V La faccia della guerra ammorbidifee , E lieto
rende ancor 1' ifteflo orrore ! Dal mio cuore il dolor fugge a tua
villa; Spuntar fento novella alba di gioja , E Ccfare vicino
intanto obblio . Mar%. M' increfeeria il penfar, giovane
Prence, Che de i voftri penfier Rendette 1* arco La mia prefenza, c
gli impigrire air armi; Mente caldo di ftrage il Vincitore Alto minaccia
, e sì t* afpetta al campo. Gtub. O Marzia lafcia , eh* io fperi ,
che tue Cure cortefi , e generofe brame M* accompagnino franco alla
battaglia. Quefto pcnfier , nuovo daranne al braccio Vigore e forza
, e pefo al mio fendente , Che cadrà fui nimico in gran tempefta.
Mar%. Miei prieghi e voti gli amici di Roma Seguiran tempre, di
virtù la caufa , E i pregiati da i Dei e da Catone . Gtub.
Per meritar le tue pietofe cure, Sempre fido darà Giuba in tuo Padre
, Le iltuftri doti fue ad una ad una Trapiantando in fe fteffo,
finché giunga A fimile fplcndor. Mar^, Mio Padre mai Non avrebbe in
un tempo come quello , Logorato il fuo fpirito in parole,
Sucb precious Moment* . Jub. Tby Rtprocfs are imfi s
T/tf* wrtuous Matd > *o «yi Troops , «^«(/ /ir* ffo/r
langutd Souls witb Catos Vtrtue ; If e' re I Uad tbem io the Fteld y wben
ali The lì ar Jball ftanà ranged m tts juft Array , And dreadful
Fomp : 1 ben wtll I tbtnk on ti: se l 0 lowely Matd , Tben wtll I
tbtnk on Tbee ! And , in tbe Jbock of cbarging Hcfts , remember
U'bat glonous Deeds fboud grate tbe man, wbo bopes Ter Marcia s Leve
. Lue. Marcia , you re too federe : Hgvd ccud you cbide
te young goodnatured Prince, And drt*vc htm f rem you witb fo ftern an
Air , A Prtnce tbat Icves and dotet on you to Deatb ? Mar.
T/x tberefore , Lucia , tbat 1 cbtde htm front me Hit Air , bts Voice ,
bis Locks y and bonetl Sotti Speak ali fo mwingly in bis Bebalf,
1 dare not truft my felfto bear btm talk . Lue. IV ly ivi II you
fighi agatnft fo fweet a Paffton y And fi rei yeur Heart to fucb a
World of Cbarms ? Mar. Hciv , Lucìa , ivoudft tbou baie me fink
away In fleajing Drcams , and lofe my felf in Leve y Wen enìry
moment Catos Ltfes at Stake ? Cafar comes arnid witb Terror and
E^venge, And atms bts Tbunder at my Fatbers Head : Sboud not tbe
fad Occafion fwallow up My otber Cares , and draw tbem ali tnto it
? Lue. Wby baie not I tbts Conftancy ofMtnd y
Wbo Nè tanti cari momenti perduto. Giub. Sono
giudi i rimproveri, Donzella Valorofa : nV invio alle mie
truppe Col valor di Catone a infiammar V alme. Se mai
ai campo condurrolle , quando La battaglia fchierata fi
preferiti In fiera pompa ; in te terrò il penfiero,
Vaga Donzella , in te terrò il penfiero: £ nel più forte
della dura zuffa Sovverrommi, quai fatti gloriofi Un amante
fregiar deggian , che afpira AH* amore di Marzia. fané Lue.
Sete,o Marzia , Troppo fevera. Come il cuor fofTrio Di
fgridar così buon giovine Prence, E fcacciarlo con aria così
torva, Prence, che v' ama più della fua vita ? Marifr Per
quello, Lucia, da me lo difeaccio. L' aria, la voce, il guardo , il
gentil core Parlan per lui con tal podente incanto ,
Che d' udirlo parlare io pur non ofo. Lue. Perchè combattere un fi
dolce affetto? Perchè indurare a tanti vezzi il core ? Mar^
Come mai , Lucia , vuoi eh* io mi disfaccia In piacevoli fogni e in
folli amori, Orche in cimento èognor vita di Cato? Vien
di vendetta e di terrore armato Cefare , e di Caton mira alla
teda II fulmin fuo : la trifta congiuntura Impiega
tutti quanti i miei penfieri, E sì gli unifee e rinconcentra in
ella. tue. Se tanti ho io così gravofi affanni , F
P<r- <3( 4» )& Wio * fu mavy Grufi to
try its Torce ? Sure y Nature fot md me of ber fof tifi Mould
y Enfeebled ali my Sotti uoitb tender Paffions y And funi me evn
below my own vjeak Sex : Pity and Love , by turns , opprefs my Heart
. Mar. Lucia , d sburtben ali tby Cares on me. And let me [bare tby
ma Vi re tir ed Diftrefs ; Teli me ix'bo raifes up tbis Confiicl in tbee
? Lue. / need not blufb to nawe tbem , isjben I teli tbee T
bey re Marcia s Brotbers , and tbe Sons of Cato . Mar. Tbty betb bebold
tbee ^ub tbeir Sifters Eyes : And often bave reveal d tbeir Vajfion to
me. But teli me , u bofe Addreft thott f amour ft mofl ? Hong to
btow , and jet I àrtad to bear it . Lue. ì'/bicb is it Alarci a ^ijòesfor
? Mar. For nei t ber — And y et f or botb — Tbe Tcutbs bave
equal Sbare In Marcias Vifbes , and divide tbeir Sifleri But teli
meikb'ub of tbtm is Lucia s Cboicet Lue. Marcia, tbey lotb are bipb in my
Efleem, But in my Love — li'by wilt tbou make menante hìm ?
Tbou intrisi ft it it a blid andfoolfb Paffion y Pleasd at.d difgpfted
v'itb it knemos not vubat . Mar. O Lucia , I m ferplex % d 9 O teli me
vobtcb I mufl bereafter cali my bafpy Brotber ? Lue. Suppofe
'twere Portins 3 coudyou blame my Cboicet O Tortimi , tbou bafì fioln
a^ay my Soul ! IV'ith vi bat a gractfid Tender ne fs be loves ! And
breatUs tbe foftefi , tbe fincerefl Voisos ì Complacency , and Trutb ,
and manly Sweetneft Dj.)fll ever on bis Tofane , and fmootb bis
TbotfghtS. Marctts is ovtr-warm > Ih fond Compiami
Have Digitized by Google Perchè una
tal fermezza non m' è data ? Fcmmi natura di più molle parta
, Co' più teneri affetti infievoiimmi , £ caricò Copra
il mio debol fedo: Pietà e Amor dittringommi a vicenda. Mar%.
Lucia, le cure tue fopra me pofa; Mettimi a parte de* tuoi cupi
affanni . Dimmi, chi detta in te quello conflitto? Lue. Non
ho da aver rollar di nominare I tuoi fratelli, e figli di
Catone. Mar%- Coli' occhio di lor fuora ambi ti mirano, E il
loro amor fovente hanmi fvelato . Ma dimmi, qual de i due più
favorifei? Bramo faperlo, c pur temo d* udirlo. Lue. Qual 1 è
quegli , che Marzia brameria ? Mar^. Niun de due, - e forfè anco amenduni
- Di Marzia nelle brame hanno egual parte I giovani , e
dividon la forella. Ma dimmi: Lucia qua* di loro elegge? Lue.
Marzia, ambo fon nella mia (lima grandi, Ma nel mi* amor . . . perchè
vuoi tu eh' io '1 nomini Ben tu fai , come è cieco amore e folle ,
II qual , ne fa perchè, vuole e difvuole . Mar%. Lucia , io fon
perplcffa . O dimmi , quale Appellar deggia il mio fratel
felice. Lue. Se foffe Porzio , me 'n da re (le biafmo ? O Porzio ,
m* hai involata Y alma mia . Con qual leggiadra tenerezza egli ama
! Spira i difii più fchictti , e più gentili . Verità , cortetla ,
mafehia dolcezza Pulifcon le parole ed i penfieri . Fervido è Marco
, e impetuofi troppo F 2 Sono *3( 44 )fr
/firw mncb Farr.ejìnefs and PcJJton in tbem\ 1 bcur bim ivitb a
/cerei kind of Dread y And tremile at bis Vebemence of Temper
Mar. Alas poor Tontb ! low cari fi tbou tbrow bim front the ?
Li: :ìa , tbou knormB not balf tbe Love be bears tbee\ H
benecr be jpeaks of ti ce , bis Hearfs in Flames, lls fendi ottt
ali bis Soul in ewry Word , , 'mi tbixks , and talks , and looks
like one tranfportcd. Vnbappy Tontb! boiu v/ill thy CoUnefs
raife . i Francesco
Paolo Bozzelli. Keywords: il tragico, il tragico latino, l’implicatura di
Lucano, l’edonismo di Bozzelli, capitol su Bozzelli nella storia della
filosofia italiana di Gentile – edonismo, morale, etica – costituzione
napoletana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bozzelli” – The Swimming-Pool
Library.
Grice
e Bozzetti – bruno contro I matematici -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Borgoratto Alessandrino). Filosofo italiano. Grice: “If
Strawson is a Griceian, Bozzetti is a Rosminian – he philosophised on substance
(‘il concetto di sostanza’ from the point of view of ‘gnoseologia,’ and also on
‘dialogue,’ and ‘piety,’ – he also speaks, like I do, of construction, and
reconstruction, and indeed, ‘metaphysical reconstruction,’ one of my routines!”
– “My favourite has to be his philosophy of dialogue.” -- Figlio di Romeo (uno
dei Mille di Garibaldi, divenne colonnello e poi generale dell’Esercito
Italiano) e da Edvige Griziotti De Gianani. I genitori erano originari dalla
provincia di Cremona. Tutta la famiglia Bozzetti si sposta a Trapani, poi a
Napoli, a Reggio Calabria, ad Ancona, a Genova e infine a Torino, seguendo le
destinazioni del capofamiglia. Scrive delicate poesie, indirizzate ai suoi familiari.
Si laurea a Torino. Entra nell’ordine dei Rosminiani. Novizio al Convento
rosminiano del Sacro Monte Calvario di Domodossola (dove una sala è oggi a lui
dedicata) e ordinato sacerdote. Si laurea a Roma. Insegna a Domodossola. Nominato
Superiore Provinciale dei Collegi rosminiani e a Roma. Eletto Preposito
Generale, cioè VII successore di Antonio Rosmini. Insegna a Roma. Sostenne e
spiegò le tesi di Rosmini, in particolare quelle esposte nella Filosofia del
diritto. Sacro Monte Calvario di
Domodossola, Via Crucis. La persona è soggetto di diritto, cioè cerca
liberamente la verità e aderisce liberamente alla legge morale, su cui forma la
propria coscienza e la consapevolezza di avere una destinazione o metier.
Gl’Agiati pubblicano questo sintetico profilo di lui. Attratto dalla filosofia
rosminiana che fa della “persona” il diritto sussistente ed il fondamento dello
stato italiano, ripropose la metafisica del filosofo roveretano quale unica
speculazione che sapesse inquadrare il problema dell'essere personale in un'organicità
ontologica più comprensiva (il vivente). Filosofo costruttivo, capace di far
convergere molteplicità ed unità, frammentarismo e organicità. Lettera di
Rosmini, Risposta al prof. Sciacca, Domodossola, C. Antonioli. Centro di studi
filosofici di Gallarate. Dizionario biografico degli italiani. Nacque
a Borgoratto (Alessandria) il 19 sett. 1878 da Romeo, prima garibaldino poi
ufficiale dell'esercito regolare, e da Edvige Gianani. Il B. compì gli studi
seguendo il padre nelle diverse residenze di Trapani, Napoli, Reggio Calabria,
Ancona, Genova, Torino. In quest'ultima città conseguì la laurea in
giurisprudenza, rivolgendo però maggiore interesse alla filosofia, in
particolare al pensiero di Rosmini ("Fu una liberazione quando trovai
nella Filosofia del diritto di Rosmini che la persona umana è il diritto
sussistente. Notiamo bene: la persona non solo ha dei diritti ma essa è il
diritto": Il valore della persona, in Opere, III, p. 2924). Apparve dunque
fondamentale al B. il concetto di persona come diritto sussistente, che gli
rivelò il proprio esistere "come soggetto di tre esigenze fondamentali,
inviolabili e inalienabili: la ricerca e il possesso della Verità, la libera
adesione alla Legge morale con la conseguente formazione della coscienza, la
consapevolezza di una destinazione eterna, oltre questa vita mortale"
(ibid., pp. 2924 s.). Dopo la laurea, entrò all'Istituto della Carità; fu
novizio al Calvario di Domodossola nel 1900 e nel 1906 fu ordinato sacerdote.
Nel 1908 si laureò in filosofia; nel 1909in lettere all'università di Roma.
Incominciò quindi la sua esperienza educativa come insegnante di filosofia, di
letteratura italiana, di teologia nelle scuole dell'Istituto della Carità. Fu
superiore dei collegi rosminiani; nel 1929 fu superiore provinciale, e infine
superiore generale dell'istituto intero dal 1935 fino alla morte. Nel
1908 il B. pubblicò a Roma Il concetto di sostanza e la sua attuazione nel
reale. Saggio di ontologia e metafisica. Del 1909 è il volume su Antonio
Rosmini nell'aspetto estetico e letterario, Roma, che tratta della formazione e
delle qualità dello stile di Rosmini e del suo merito come scrittore, e
illustra la sua teoria estetica. Al 1917 appartiene il saggio Rosmini nell'"Ultima
Critica" di Ausonio Franchi, Firenze. Negli anni 1923-26 il B. pubblicò La
vita di Antonio Rosmini (Opere, I, pp. 305-373). Dopo una serie di scritti
minori (Tra noi e Dio, Domodossola 1935; Nella Chiesa di Cristo, ibid. 1939;
Lineamenti di pietà rosminiana, ibid. 1940), pubblicò nel 1940 a Milano gli
Sviluppi del pensiero rosminiano nella "Teosofia"(Opere, III, pp.
2795-2843). In questo saggio il B. affrontava il problema dell'"ente
nella sua totalità". Per Rosmini tutto il sistema del sapere umano ha tre
principî: l'idea, l'anima, l'ente. La filosofia deve cominciare dal principio
ideale, quindi procedere allo studio del principio subiettivo intelligente. Ma
per raggiungere il suo compimento la filosofia deve studiare "ciò che è
primo nell'ordine assoluto degli oggetti conoscibili, per sé, ossia l'ente …
Così si arriva all'Ontologia". Il primo ontologico è chiamato da Rosmini
"essenza dell'essere". Questa, una in se stessa, si trova determinata
in una pluralità di forme: ideale, reale, morale. La conciliazione razionale
dell'unità dell'essere e della molteplicità degli enti si ha "nella natura
dell'essenza dell'essere, cioè nella sua virtualità"(ibid., p. 2828). Il
reale, secondo il B., come già per Rosmini, è sentimento e ha origine per
creazione. Il B. si richiama a questo punto alla dottrina rosminiana del
sentimento fondamentale, che non è soltanto il sentimento fondamentale
corporeo, ma è "la realtà dell'atto con cui noi ci sentiamo come esseri
viventi, di una vita che è al tempo stesso spirituale e sensitivo-corporea"
(ibid., p. 2837). Nel 1943 fu pubblicato a Roma Il problema ontologico
nella filosofia rosminiana, che comprende il corso di filosofia teoretica
tenuto dal B. nell'università di Roma, dove egli era stato nominato nel 1942
libero docente di filosofia per alti meriti culturali. Al 1945-46
appartiene La persona umana, corso di lezioni di filosofia morale tenuto
all'università di Roma in quell'anno accademico (Opere, I, pp.
1109-1189). Il problema della persona era stato, come si è visto, il
problema che aveva costituito il punto di partenza intellettuale del Bozzetti.
Da questo problema iniziale, da cui era partito, il B. percorse la
"traiettoria ontologica". Dalla persona all'essere ideale,
dall'essere ideale a Dio da una parte e alle tre forme dell'essere dall'altra
con tutte le principali implicanze. La "traiettoria sociale", che è
l'altra traiettoria secondo cui si sviluppò il pensiero del B. sulle tracce
della dottrina rosminiana, tornava a implicare il problema della persona, riconosciuta
quale realtà che, per la presenza del divino, deve essere sempre tenuta
presente non come ragione di mezzo, ma come avente ragione di fine. Tutti i
possibili rapporti tra gli uomini - politico, giuridico, economico, affettivo -
debbono fondarsi su questa concezione della persona. Il B. morì a Roma il
27 maggio 1956. Gli scritti del B. sono stati raccolti in G. B., Opere
complete, a cura di M. F. Sciacca, 3 voll., Milano 1966. Fonti eBibl.: G.
Esposito, Il "gran rifiuto" di Rosmini, I, Rosmini e il 1848, in Riv.
rosminiana, replica di G. B. ibid., pp. 219-223); Id., Il "gran
rifiuto" di Rosmini, III, Replica al B.,ibid., XXVIII (1934), 2, pp.
127-132 (replica di G. B., ibid., pp. 132-135); M. F. Sciacca, Rosmini e noi.
Lettera al p. G. B.,ibid., XXXVIII (1944), 1-2, pp. 2-13; Id., Il sec. XX,
Milano Morando, Ricordando un educatore-filosofo: il p. G. B., in Rivista
rosminiana, L (1956), 3, pp. 161-174; C. Riva, P. G. B. Il pensatore e il
sacerdote, in Atti della Accademia roveretana degli Agiati, P. G. B., in Giornale
di metafisica, XII (1957), 3, pp. 183-199; Id., La "persona" nel
pensiero di padre B., in Iustitia, Ricordando p. G. B., Domodossola 1957;
Enciclopedia filos., I, pp. 788 s. G. Bozzetti. Un giudizio di Siro Contri
sulla filosofia neoscolastica”. Ilia ed Alberto” di Angelo Gatti.. Matematismo”
in Rosmini? Rosmini-Serbati A.”, voce dell’Enciclopedia Cattolica, vol. X,
Città del Vaticano, Ente per l’E.C. e per il libro cattolico. A distanza di un
secolo, Una recente critica del “Nuovo Saggio” da parte di G. Zamboni. A
proposito di idealismo, La “realtà assoluta”. A. Rosmini e Roma, Roma, Istituto
di Studi Romani. Ai margini di un Congresso. Affermazioni e tendenze. Amore e
matrimonio. Angelina Lanz. Antonio Rosmini e l’ora presente. Camillo
Viglino. Cenni biografici di A. Rosmini nel I volume dell’Edizione Nazionale.
Che cos’è l’arte? Che cos’è l’Istituto della Carità. Che cos’è la materia?
L’indagine filosofica. Che cos’è la natura? Parla il filosofo. Cino. Croce,
Gentile e la filosofia dell’arte. D. Luigi Gentili (rec. R. Bessero Belti). Del
rosminianismo di Manzoni. Fantasma e idea nella percezione ci sono. Fantasma e
idea sono scoperti dalla riflessione nella percezione. Foscolo. Gesuitismo.
Giuseppe Morando. Gregorio XVI e Rosmini, in Gregorio XVI, vol. I, a cura dei
Camaldolesi di S. Gregorio al Celio, Roma. Il “caso dell’Oregon” e il Tribunale
politico di Rosmini. Il “gran rifiuto” di Rosmini, La vera ragione del rifiuto,
Il capitano Giuseppe Pagani. Il fallimento della vita. Il IX Congresso
nazionale di Filosofia. Il Papa e d’Annunzio. Il principio unitario della
filosofia rosminiana, in “Giornale di Metafisica” Il valore della persona. Il
valore delle cose terrene. Intorno a Manzoni, La seconda moglie - Ancora sul
rosminianismo di Manzoni - Manzoni e il Giansenismo. L’atteggiamento religioso
dell’ottocento. L’economia nel sintetismo e nell’equilibrio di tutte le forze
politiche e sociali. L’eredità del liberalismo nella mentalità contemporanea.
L’Ermengarda di Manzoni. L’etica del Rosmini e il Prof. Zamboni. L’opera d’arte
e le tre forme dell’essere. L’ossessione del sesso. La “costante” nelle
variazioni della filosofia. La “ragione”, atto costitutivo dell’uomo. La
“religione della libertà”. La “vitalità” della logica di Rosmini. La concezione
rosminiana dell’essere. La marchesa di Canossa e A. Rosmini. La moda e il
pudore. La nostra realtà e l’altra vita. La pedagogia di A. Rosmini. La persona
umana, Domodossola-Milano, Sodalitas. La Vita di Antonio Rosmini, 1. La
giovinezza. Nel silenzio. La vocazione. In montibus sanctis. Laicismo. Le
“difficoltà” dell’essere ideale, Una tentata difesa. Le tre ascensioni
spirituali di Rosmini. Leggende che si perpetuano. Lo Stato e la
religione. Lorenzo Michelangelo Billia. Natura e soprannatura in rapporto alla
realtà storica. Opinioni sul sistema di gnoseologia e di morale di G. Zamboni,
Astrazione, analisi, trasparenza, 1931, I, 29-34. Papini nel suo “S. Agostino”.
Per finire. Perché Rosmini non è filosofo cattolico? Perorazione. Quando si
parla di essere, Realtà e trascendenza nel progresso del diritto. Replica a B.
C. Replica al Bonafede, Riassumendo le nostre discussioni gnoseologiche.
Ricordando Giuseppe Capograssi. Risposta al prof. Sciacca. Risposta alla
lettera al Direttore. Rosmini e Hegel. Rosmini e i Gesuiti in un recente
articolo della Civiltà Cattolica, La ricerca storica. Rosmini e i Gesuiti in
una biografia di P. Roothaan. Rosmini e i Rosminiani nell’Enciclopedia
Treccani. Rosmini e Kant, Il “superamento” di Rosmini. Rosmini e l’Università,
Rosmini e Michaelstaedter, A proposito di un libro di G. Chiavacci. Rosmini e
S. Tommaso non possono andare d’accordo? – Interesse scientifico e interesse
pratico - Ortodossia e metodo. Rosmini in un dizionario del Risorgimento
italiano. Rosmini monofisita? Rosmini nel diario di Margherita di
Collegno, Rosmini nell’“Ultima critica” di Ausonio Franchi.S. Francesco
d’Assisi, Bozzetti G., San Tommaso e il Rosmini, in “Coscienza”. Sempre sulla
confusione fra idea dell’essere e idea dell’ente, Per fatto personale. Sopra una
cortese discussione Zamboni-Chiarelli. Stato e Chiesa secondo C. A. Jemolo. Sul
Filottete di Sofocle. Sul problema del male, la volontà e il male. Sul
rosminianismo del Manzoni, L’innatismo nel dialogo
“Dell’invenzione”,Sull’astrazione dell’Idea dal Reale. Sull’infinità dello
spazio, il punto di vista è uno solo. Sull’ontologismo. Sulla moralità di
Machiavelli. Sulla natura della conoscenza, Risposta a G. Rossi. Tolstoi.
Umiltà del critico. Un libro significativo: Il Rosmini di B. Brunello. Un
recente giudizio sulle “Cinque Piaghe” in Germania. Rosmini: l’asceta, il
filosofo, l’uomo, l’amico, Roma, Studium.
GIORDANO BRUNO, PARIS: PATER "Jetzo, da ich
ausgewachsen, Viel gelesen, viel gereist, Schwillt
mein Herz, und ganz von Herzen, Glaub' ich an den Heilgen Geist." --
Heine+ . It was on the afternoon of the Feast of Pentecost that news of
the death of Charles the Ninth went abroad promptly. To his successor the
day became a sweet one, to be noted unmistakably by various pious and other
observances; and it was on a Whit-Sunday afternoon that curious Parisians had
the opportunity of listening to one who, as if with some intentional new
version of the sacred event then commemorated, had a great deal to say
concerning the Spirit; above all, of the freedom, the independence of its
operation. The speaker, though understood to be a brother of the Order of
St. Dominic, had not been present at the mass--the usual university mass, De
Spiritu Sancto, said to-day according to the natural course of the season in
the chapel of the Sorbonne, by the Italian Bishop of Paris. It was the reign of
the Italians just then, a doubly refined, somewhat morbid, somewhat
ash-coloured, Italy in France, more Italian still. Men of Italian birth,
"to the great suspicion of simple people," swarmed in Paris, already
"flightier, less constant, than the girouettes on its steeples," and
it was love for Italian fashions that had brought king and courtiers here
to-day, with great eclat, as they said, frizzed and starched, in the beautiful,
minutely considered dress of the moment, pressing the university into a perhaps
not unmerited background; for the promised speaker, about whom tongues had been
busy, not only in the Latin quarter, had come from Italy. In an age in
which all things about which Parisians much cared must be Italian there might
be a hearing for Italian philosophy. Courtiers at least would understand
Italian, and this speaker was rumoured to possess in perfection all the curious
arts of his native language. And of all the kingly qualities of Henry's
youth, the single one that had held by him was that gift of eloquence, which he
was able also to value in others--inherited perhaps; for in all the
contemporary and subsequent historic gossip about his mother, the two things
certain are, that the hands credited with so much mysterious ill-doing were
fine ones, and that she was an admirable speaker. Bruno himself tells us,
long after he had withdrawn himself from it, that the monastic life promotes
the freedom of the intellect by its silence and self-concentration. The
prospect of such freedom sufficiently explains why a young man who, however
well found in worldly and personal advantages, was conscious above all of great
intellectual possessions, and of fastidious spirit also, with a remarkable
distaste for the vulgar, should have espoused poverty, chastity, obedience, in
a Dominican cloister. What liberty of mind may really come to in such
places, what daring new departures it may suggest to the strictly monastic
temper, is exemplified by the dubious and dangerous mysticism of men like John
of Parma and Joachim of Flora, reputed author of the new "Everlasting
Gospel," strange dreamers, in a world of sanctified rhetoric, of that
later dispensation of the spirit, in which all law must have passed away; or
again by a recognised tendency in the great rival Order of St. Francis, in the
so-called "spiritual" Franciscans, to understand the dogmatic words
of faith with a difference. The three convents in which Bruno lived
successively, at Naples, at Citta di Campagna, and finally the Minerva at Rome,
developed freely, we may suppose, all the mystic qualities of a genius in
which, from the first, a heady southern imagination took the lead. But it
was from beyond conventional bounds he would look for the sustenance, the fuel,
of an ardour born or bred within them. Amid such artificial religious
stillness the air itself becomes generous in undertones. The vain young monk
(vain of course!) would feed his vanity by puzzling the good, sleepy heads of the
average sons of Dominic with his neology, putting new wine into old bottles,
teaching them their own business--the new, higher, truer sense of the most
familiar terms, the chapters they read, the hymns they sang, above all, as it
happened, every word that referred to the Spirit, the reign of the Spirit, its
excellent freedom. He would soon pass beyond the utmost limits of his
brethren's sympathy, beyond the largest and freest interpretation those words
would bear, to thoughts and words on an altogether different plane, of which
the full scope was only to be felt in certain old pagan writers, though
approached, perhaps, at first, as having a kind of natural, preparatory kinship
with Scripture itself. The Dominicans would seem to have had well- stocked,
liberally-selected, libraries; and this curious youth, in that age of restored
letters, read eagerly, easily, and very soon came to the kernel of a difficult
old author--Plotinus or Plato; to the purpose of thinkers older still,
surviving by glimpses only in the books of others--Empedocles, Pythagoras, who
had enjoyed the original divine sense of things, above all, Parmenides, that
most ancient assertor of God's identity with the world. The affinities,
the unity, of the visible and the invisible, of earth and heaven, of all things
whatever, with each other, through the consciousness, the person, of God the
Spirit, who was at every moment of infinite time, in every atom of matter, at
every [236] point of infinite space, ay! was everything in turn: that doctrine--l'antica
filosofia Italiana-- was in all its vigour there, a hardy growth out of the
very heart of nature, interpreting itself to congenial minds with all the
fulness of primitive utterance. A big thought! yet suggesting, perhaps,
from the first, in still, small, immediately practical, voice, some possible
modification of, a freer way of taking, certain moral precepts: say! a
primitive morality, congruous with those larger primitive ideas, the larger
survey, the earlier, more liberal air. Returning to this ancient
"pantheism," after so long a reign of a seemingly opposite faith,
Bruno unfalteringly asserts "the vision of all things in God" to be
the aim of all metaphysical speculation, as of all inquiry into nature: the
Spirit of God, in countless variety of forms, neither above, nor, in any way,
without, but intimately within, all things--really present, with equal
integrity, in the sunbeam ninety millions of miles long, and the wandering drop
of water as it evaporates therein. The divine consciousness would have
the same relation to the production of things, as the human intelligence to the
production of true thoughts concerning them. Nay! those thoughts are themselves
God in man: a loan, there, too, of his assisting Spirit, who, in truth, creates
all things in and by his own contemplation of them. For Him, as for man
in proportion as man thinks truly, thought and, being are identical, and things
existent only in so far as they are known. Delighting in itself, in the
sense of its own energy, this sleepless, capacious, fiery intelligence, evokes
all the orders of nature, all the revolutions of history, cycle upon cycle, in
ever new types. And God the Spirit, the soul of the world, being really
identical with his own soul, Bruno, as the universe shapes itself to his
reason, his imagination, ever more and more articulately, shares also the
divine joy in that process of the formation of true ideas, which is really
parallel to the process of creation, to the evolution of things. In a
certain mystic sense, which some in every age of the world have understood, he,
too, is creator, himself actually a participator in the creative function. And
by such a philosophy, he assures us, it was his experience that the soul is
greatly expanded: con questa filosofia l'anima, mi s'aggrandisce: mi se
magnifica l'intelletto! For, with characteristic largeness of mind, Bruno
accepted this theory in the whole range of its consequences. Its more
immediate corollary was the famous axiom of "indifference," of
"the coincidence of contraries." To the eye of God, to the
philosophic vision through which God sees in man, nothing is really alien from
Him. The differences of things, and above all, those distinctions which
schoolmen and priests, old or new, Roman or Reformed, had invented for
themselves, would be lost in the length and breadth of the philosophic survey;
nothing, in itself, either great or small; and matter, certainly, in all its
various forms, not evil but divine. Could one choose or reject this or
that? If God the Spirit had made, nay! was, all things indifferently, then,
matter and spirit, the spirit and the flesh, heaven and earth, freedom and
necessity, the first and the last, good and evil, would be superficial rather
than substantial differences. Only, were joy and sorrow also to be added
to the list of phenomena really coincident or indifferent, as some intellectual
kinsmen of Bruno have claimed they should? The Dominican brother was at
no distant day to break far enough away from the election, the seeming "vocation"
of his youth, yet would remain always, and under all circumstances,
unmistakably a monk in some predominant qualities of temper. At first it
only by way of thought that he asserted his liberty--delightful, late-found
privilege!--traversing, in mental journeys, that spacious circuit, as it broke
away before him at every moment into ever-new horizons. Kindling thought and
imagination at once, the prospect draws from him cries of joy, a kind of
religious joy, as in some new "canticle of the creatures," a new
monkish hymnal or antiphonary. "Nature" becomes for him a
sacred term. "Conform thyself to Nature"--with what sincerity,
what enthusiasm, what religious fervour, he enounces the precept to others, to
himself! Recovering. as he fancies, a certain primeval sense of
Deity broadcast on things, in which Pythagoras and other inspired theorists of
early Greece had abounded, in his hands philosophy becomes a poem, a sacred
poem, as it had been with them. That Bruno himself, in "the
enthusiasm of the idea," drew from his axiom of the "indifference of
contraries" the practical consequence which is in very deed latent there,
that he was ready to sacrifice to the antinomianism, which is certainly a part
of its rigid logic, the purities of his youth for instance, there is no
proof. The service, the sacrifice, he is ready to bring to the great
light that has dawned for him, which occupies his entire conscience with the
sense of his responsibilities to it, is that of days and nights spent in eager
study, of a plenary, disinterested utterance of the thoughts that arise in him,
at any hazard, at the price, say! of martyrdom. The work of the divine
Spirit, as he conceives it, exalts, inebriates him, till the scientific
apprehension seems to take the place of prayer, sacrifice, communion. It
would be a mistake, he holds, to attribute to the human soul capacities merely
passive or receptive. She, too, possesses, not less than the soul of the
world, initiatory power, responding with the free gift of a light and heat that
seem her own. Yet a nature so opulently endowed can hardly have been
lacking in purely physical ardours. His pantheistic belief that the
Spirit of God was in all things, was not inconsistent with, might encourage, a
keen and restless eye for the dramatic details of life and character for
humanity in all its visible attractiveness, since there, too, in [238] truth,
divinity lurks. From those first fair days of early Greek speculation,
love had occupied a large place in the conception of philosophy; and in after
days Bruno was fond of developing, like Plato, like the Christian platonist,
combining something of the peculiar temper of each, the analogy between
intellectual enthusiasm and the flights of physical love, with an animation
which shows clearly enough the reality of his experience in the latter.
The Eroici Furori, his book of books, dedicated to Philip Sidney, who would be
no stranger to such thoughts, presents a singular blending of verse and prose,
after the manner of Dante's Vita Nuova. The supervening philosophic
comment re-considers those earlier physical impulses which had prompted the
sonnet in voluble Italian, entirely to the advantage of their abstract,
incorporeal equivalents. Yet if it is after all but a prose comment, it betrays
no lack of the natural stuff out of which such mystic transferences must be
made. That there is no single name of preference, no Beatrice or Laura, by no
means proves the young man's earlier desires merely "Platonic;" and
if the colours of love inevitably lose a little of their force and propriety by
such deflection, the intellectual purpose as certainly finds its opportunity
thereby, in the matter of borrowed fire and wings. A kind of old,
scholastic pedantry creeping back over the ardent youth who had thrown it off
so defiantly (as if Love himself went in for a degree at the University) Bruno
developes, under the mask of amorous verse, all the various stages of
abstraction, by which, as the last step of a long ladder, the mind attains
actual "union." For, as with the purely religious mystics,
union, the mystic union of souls with each other and their Lord, nothing less
than union between the contemplator and the contemplated--the reality, or the
sense, or at least the name of it-- was always at hand. Whence that
instinctive tendency, if not from the Creator of things himself, who has
doubtless prompted it in the physical universe, as in man? How familiar
the thought that the whole creation longs for God, the soul as the hart for the
water- brooks! To unite oneself to the infinite by breadth and lucidity
of intellect, to enter, by that admirable faculty, into eternal life-- this was
the true vocation of the spouse, of the rightly amorous soul--"a filosofia
e necessario amore." There would be degrees of progress therein, as
of course also of relapse: joys and sorrows, therefore. And, in
interpreting these, the philosopher, whose intellectual ardours have superseded
religion and love, is still a lover and a monk. All the influences of the
convent, the heady, sweet incense, the pleading sounds, the sophisticated light
and air, the exaggerated humour of gothic carvers, the thick stratum of pagan
sentiment beneath ("Santa Maria sopra Minerva!") are indelible in
him. Tears, sympathies, tender inspirations, attraction, repulsion,
dryness, zeal, desire, recollection: he finds a place for them all: knows them
all [239] well in their unaffected simplicity, while he seeks the secret and
secondary, or, as he fancies, the primary, form and purport of each. A
light on actual life, or mere barren scholastic subtlety, never before had the
pantheistic doctrine been developed with such completeness, never before
connected with so large a sense of nature, so large a promise of the knowledge
of it as it really is. The eyes that had not been wanting to visible
humanity turned with equal liveliness on the natural world in that region of
his birth, where all its force and colour is twofold. Nature is not only
a thought in the divine mind; it is also the perpetual energy of that mind,
which, ever identical with itself, puts forth and absorbs in turn all the
successive forms of life, of thought, of language even. But what seemed
like striking transformations of matter were in truth only a chapter, a clause,
in the great volume of the transformations of the Spirit. To that mystic
recognition that all is divine had succeeded a realisation of the largeness of
the field of concrete knowledge, the infinite extent of all there was actually
to know. Winged, fortified, by this central philosophic faith, the
student proceeds to the reading of nature, led on from point to point by
manifold lights, which will surely strike on him, by the way, from the
intelligence in it, speaking directly, sympathetically, to the intelligence in
him. The earth's wonderful animation, as divined by one who anticipates by a
whole generation the "philosophy of experience:" in that, the bold,
flighty, pantheistic speculation became tangible matter of fact. Here was the
needful book for man to read, the full revelation, the detailed story of that
one universal mind, struggling, emerging, through shadow, substance, manifest
spirit, in various orders of being--the veritable history of God. And
nature, together with the true pedigree and evolution of man also, his gradual
issue from it, was still all to learn. The delightful tangle of things!
it would be the delightful task of man's thoughts to disentangle that.
Already Bruno had measured the space which Bacon would fill, with room perhaps
for Darwin also. That Deity is everywhere, like all such abstract
propositions, is a two-edged force, depending for its practical effect on the
mind which admits it, on the peculiar perspective of that mind. To Dutch
Spinosa, in the next century, faint, consumptive, with a hold on external
things naturally faint, the theorem that God was in all things whatever,
annihilating, their differences suggested a somewhat chilly withdrawal from the
contact of all alike. In Bruno, eager and impassioned, an Italian of the
Italians, it awoke a constant, inextinguishable appetite for every form of
experience--a fear, as of the one sin possible, of limiting, for oneself or
another, that great stream flowing for thirsty souls, that wide pasture set
ready for the hungry heart. Considered from the point of view of a minute
observation of nature, the Infinite might figure as "the infinitely
little;" no blade [240] of grass being like another, as there was no limit
to the complexities of an atom of earth, cell, sphere, within sphere. But
the earth itself, hitherto seemingly the privileged centre of a very limited
universe, was, after all, itself but an atom in an infinite world of starry
space, then lately displayed to the ingenuous intelligence, which the telescope
was one day to verify to bodily eyes. For if Bruno must needs look
forward to the future, to Bacon, for adequate knowledge of the earth--the
infinitely little; he looked back, gratefully, to another daring mind, which
had already put the earth into its modest place, and opened the full view of
the heavens. If God is eternal, then, the universe is infinite and worlds
innumerable. Yes! one might well have supposed what reason now
demonstrated, indicating those endless spaces which sidereal science would
gradually occupy, an echo of the creative word of God himself, "Qui
innumero numero innumerorum nomina dicit." That the stars are suns:
that the earth is in motion: that the earth is of like stuff with the stars:
now the familiar knowledge of children, dawning on Bruno as calm assurance of
reason on appeal from the prejudice of the eye, brought to him an inexpressibly
exhilarating sense of enlargement of the intellectual, nay! the physical
atmosphere. And his consciousness of unfailing unity and order did not
desert him in that larger survey, making the utmost one could ever know of the
earth seem but a very little chapter in that endless history of God the Spirit,
rejoicing so greatly in the admirable spectacle that it never ceases to evolve
from matter new conditions. The immovable earth beneath one's feet! one
almost felt the movement, the respiration of God in it. And yet how
greatly even the physical eye, the sensible imagination (so to term it) was
flattered by the theorem. What joy in that motion, the prospect, the music,
the music of the spheres !--he could listen to it in a perfection such as had
never been conceded to Plato, to Pythagoras even.
"Veni, Creator Spiritus, Mentes tuorum visita, Imple
superna gratia, Quae tu creasti pectora!" Yes! the grand old
Christian hymns, perhaps the grandest of them, seemed to blend themselves in
the chorus, to deepen immeasurably under this new intention. It is not
always, or often, that men's abstract ideas penetrate the temperament, touch
the animal spirits, affect conduct. It was what they did with
Bruno. The ghastly spectacle of the endless material universe, infinite
dust, in truth, starry as it may look to our terrestrial eyes--that prospect
from which Pascal's faithful soul recoiled so painfully--induced in Bruno only
the delightful consciousness of an ever-widening kinship [241] and sympathy,
since every one of those infinite worlds must have its sympathetic
inhabitants. Scruples of conscience, if he felt such, might well be
pushed aside for the "excellency" of such knowledge as this. To
shut the eyes, whether of the body or the mind, would be a kind of dark
ingratitude; the one sin, to believe directly or indirectly in any absolutely
dead matter anywhere, because involving denial of the indwelling spirit.
A free spirit, certainly, as of old! Through all his pantheistic flights,
from horizon to horizon, it was still the thought of liberty that presented
itself to the infinite relish of this "prodigal son" of
Dominic. God the Spirit had made all things indifferently, with a
largeness, a beneficence, impiously belied by any theory of restrictions,
distinctions, absolute limitations. Touch, see, listen, eat freely of all
the trees of the garden of Paradise with the voice of the Lord God literally everywhere:
here was the final counsel of perfection. The world was even larger than
youthful appetite, youthful capacity. Let theologian and every other
theorist beware how he narrowed either. The plurality of worlds! how petty in
comparison seemed the sins, to purge which was the chief motive for coming to
places like this convent, whence Bruno, with vows broken, or obsolete for him,
presently departed. A sonnet, expressive of the joy with which he
returned to so much more than the liberty of ordinary men, does not suggest
that he was driven from it. Though he must have seemed to those who
surely had loved so lovable a creature there to be departing, like the prodigal
of the Gospel, into the furthest of possible far countries, there is no proof
of harsh treatment, or even of an effort to detain him. It happens, of
course most naturally, that those who undergo the shock of spiritual or
intellectual change sometimes fail to recognise their debt to the deserted
cause: how much of the heroism, or other high quality, of their rejection has
really been the growth of what they reject? Bruno, the escaped monk, is
still a monk: his philosophy, impious as it might seem to some, a new
religion. He came forth well fitted by conventual influences to play upon
men as he was played upon. A challenge, a war-cry, an alarum; everywhere
he seemed to be the creature of some subtly materialized spiritual force, like
that of the old Greek prophets, like the primitive "enthusiasm" he
was inclined to set so high, or impulsive Pentecostal fire. His hunger to
know, fed at first dreamily enough within the convent walls as he wandered over
space and time an indefatigable reader of books, would be fed physically now by
ear and eye, by large matter-of-fact experience, as he journeys from university
to university; yet still, less as a teacher than a courtier, a citizen of the
world, a knight-errant of intellectual light. The philosophic need to try
all things had given reasonable justification to the stirring desire for travel
common to youth, in which, if in nothing else, that whole age of the [242]
later Renaissance was invincibly young. The theoretic recognition of that
mobile spirit of the world, ever renewing its youth, became, sympathetically,
the motive of a life as mobile, as ardent, as itself; of a continual journey,
the venture and stimulus of which would be the occasion of ever new
discoveries, of renewed conviction. The unity, the spiritual unity, of
the world :--that must involve the alliance, the congruity, of all things with
each other, great reinforcement of sympathy, of the teacher's personality with
the doctrine he had to deliver, the spirit of that doctrine with the fashion of
his utterance. In his own case, certainly, as Bruno confronted his
audience at Paris, himself, his theme, his language, were the fuel of one clear
spiritual flame, which soon had hold of his audience also; alien, strangely
alien, as it might seem from the speaker. It was intimate discourse, in
magnetic touch with every one present, with his special point of impressibility;
the sort of speech which, consolidated into literary form as a book, would be a
dialogue according to the true Attic genius, full of those diversions, passing
irritations, unlooked-for appeals, in which a solicitous missionary finds his
largest range of opportunity, and takes even dull wits unaware. In Bruno,
that abstract theory of the perpetual motion of the world was a visible person
talking with you. And as the runaway Dominican was still in temper a
monk, so he presented himself in the comely Dominican habit. The eyes
which in their last sad protest against stupidity would mistake, or miss
altogether, the image of the Crucified, were to-day, for the most part, kindly
observant eyes, registering every detail of that singular company, all the
physiognomic lights which come by the way on people, and, through them, on
things, the "shadows of ideas" in men's faces (De Umbris Idearum was
the title of his discourse), himself pleasantly animated by them, in
turn. There was "heroic gaiety" there; only, as usual with
gaiety, the passage of a peevish cloud seemed all the chillier. Lit up,
in the agitation of speaking, by many a harsh or scornful beam, yet always
sinking, in moments of repose, to an expression of high-bred melancholy, it was
a face that looked, after all, made for suffering--already half pleading, half
defiant--as of a creature you could hurt, but to the last never shake a hair's
breadth from its estimate of yourself. Like nature, like nature in that
country of his birth, the Nolan, as he delighted to proclaim himself, loved so
well that, born wanderer as he was, he must perforce return thither sooner or
later, at the risk of life, he gave plenis manibus, but without selection, and,
with all his contempt for the "asinine" vulgar, was not fastidious.
His rank, unweeded eloquence, abounding in a play of words, rabbinic
allegories, verses defiant of prosody, in the kind of erudition he professed to
despise, with a shameless image here or there, product not of formal method,
but of Neapolitan improvisation, was akin to [243] the heady wine, the sweet,
coarse odours, of that fiery, volcanic soil, fertile in the irregularities
which manifest power. Helping himself indifferently to all religions for
rhetoric illustration, his preference was still for that of the soil, the old
pagan one, the primitive Italian gods, whose names and legends haunt his
speech, as they do the carved and pictorial work of the age, according to the
fashion of that ornamental paganism which the Renaissance indulged. To
excite, to surprise, to move men's minds, as the volcanic earth is moved, as if
in travail, and, according to the Socratic fancy, bring them to the birth, was
the true function of the teacher, however unusual it might seem in an ancient
university. Fantastic, from first to last that was the descriptive epithet; and
the very word, carrying us to Shakespeare, reminds one how characteristic of
the age such habit was, and that it was pre- eminently due to Italy. A
bookman, yet with so vivid a hold on people and things, the traits and tricks
of the audience seemed to revive in him, to strike from his memory all the
graphic resources of his old readings. He seemed to promise some greater
matter than was then actually exposed; himself to enjoy the fulness of a great
outlook, the vague suggestion of which did but sustain the curiosity of the
listeners. And still, in hearing him speak you seemed to see that subtle
spiritual fire to which he testified kindling from word to word. What
Parisians then heard was, in truth, the first fervid expression of all those
contending apprehensions, out of which his written works would afterwards be
compacted, with much loss of heat in the process. Satiric or hybrid
growths, things due to hybris,+ insolence, insult, all that those fabled satyrs
embodied--the volcanic South is kindly prolific of this, and Bruno abounded in
mockeries: it was by way of protest. So much of a Platonist, for Plato's
genial humour he had nevertheless substituted the harsh laughter of Aristophanes.
Paris, teeming, beneath a very courtly exterior, with mordent words, in
unabashed criticism of all real or suspected evil, provoked his utmost powers
of scorn for the "triumphant beast," the "constellation of the
Ass," shining even there, amid the university folk, those intellectual
bankrupts of the Latin Quarter, who had so long passed between them gravely a
worthless "parchment and paper" currency. In truth, Aristotle,
as the supplanter of Plato, was still in possession, pretending to determine
heaven and earth by precedent, hiding the proper nature of things from the eyes
of men. Habit--the last word of his practical philosophy--indolent habit!
what would this mean in the intellectual life, but just that sort of dead
judgments which are most opposed to the essential freedom and quickness of the
Spirit, because the mind, the eye, were no longer really at work in them?
To Bruno, a true son of the Renaissance, in the light of those large, antique,
pagan ideas, the difference between Rome and the Reform would figure, of
course, as but an insignificant variation upon [244] some deeper, more radical
antagonism between two tendencies of men's minds. But what about an
antagonism deeper still? between Christ and the world, say! Christ and
the flesh?--that so very ancient antagonism between good and evil? Was
there any place for imperfection in a world wherein the minutest atom, the
lightest thought, could not escape from God's presence? Who should note
the crime, the sin, the mistake, in the operation of that eternal spirit, which
could have made no misshapen births? In proportion as man raised himself
to the ampler survey of the divine work around him, just in that proportion did
the very notion of evil disappear. There were no weeds, no
"tares," in the endless field. The truly illuminated mind,
discerning spiritually, might do what it would. Even under the shadow of
monastic walls, that had ever been the precept, which the larger theory of
"inspiration" had bequeathed to practice. "Of all the
trees of the garden thou mayst freely eat! If you take up any deadly
thing, it shall not hurt you! And I think that I, too, have the spirit of
God." Bruno, the citizen of the world, Bruno at Paris, was careful
to warn off the vulgar from applying the decisions of philosophy beyond its
proper speculative limits. But a kind of secresy, an ambiguous
atmosphere, encompassed, from the first, alike the speaker and the doctrine;
and in that world of fluctuating and ambiguous characters, the alerter mind certainly,
pondering on this novel reign of the spirit--what it might actually be--would
hardly fail to find in Bruno's theories a method of turning poison into food,
to live and thrive thereon; an art, surely, no less opportune in the Paris of
that hour, intellectually or morally, than had it related to physical
poisons. If Bruno himself was cautious not to suggest the ethic or
practical equivalent to his theoretic positions, there was that in his very
manner of speech, in his rank, unweeded eloquence, which seemed naturally to
discourage any effort at selection, any sense of fine difference, of nuances or
proportion, in things. The loose sympathies of his genius were allied to
nature, nursing, with equable maternity of soul, good, bad, and indifferent,
rather than to art, distinguishing, rejecting, refining. Commission and
omission; sins of the former surely had the preference. And how would
Paolo and Francesca have read the lesson? How would this Henry the Third,
and Margaret of the "Memoirs," and other susceptible persona then present,
read it, especially if the opposition between practical good and evil traversed
another distinction, to the "opposed points," the "fenced
opposites" of which many, certainly, then present, in that Paris of the
last of the Valois, could never by any possibility become
"indifferent," between the precious and the base,
aesthetically--between what was right and wrong, as matter of art? The
Fortnightly Review. Gaston de Latour. rom Heine's Aus der Harzreise,
"Bergidylle 2": "Tannenbaum, mit grunen Fingern," Stanza
10. 243. +E-text editor's transliteration: hybris. Liddell and
Scott definition: "wanton violence, arising from the pride of strength,
passion, etc."Giuseppe Bozzetti. Keywords:
matematismo, monofisismo, interpersonale, implicatura interpersonale, il
dialogo, fine razionale, la ragione come atto costitutivo dell’uomo, persona,
uomo. Uomini, bruno contro I matematici. Morale, il problema del male,
ill-will, liberta, legge morale, kant, Rosmini non e cattolico. Refs.: Luigi
Speranza, “Bozzetti e Grice” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Branciforte – i giochi olimpici – filosofia
italiana – Luigi Speranza (San Vito dei
Normanni). Filosofo italiano. Grice: “You’ve got to love Branciforte: my
favourite is his philosophy of what he calls ‘il messaggio,’ – I do use the
term when I speak of a transmitter, and an addressee, etc. – the fact that he
was born where Ikkos was born help, since one would need to recover Ikkos’s
message! Branciforte sees philosophy as a pilgrimage of love – ‘il peregrine
dell’amore’ with his ‘canzionere’ and surely the song needs an addressee!”. trabia: Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto (n.
San Vito dei Normanni), filosofo. Esponente della nobile famiglia siciliana dei
Lanza di Trabia. Il suo vero nome è infatti Giuseppe Giovanni Luigi Enrico
Lanza di Trabia-Branciforte. La sua personalità eccezionale riunisce
caratteristiche disparate: filosofo con una forte vena mistica, ma anche
patriarca fondatore di comunità rurali e attivista nonviolento contro la guerra
d'Algeria o gli armamenti nucleari. Trabia nacque in un piccolo
paese salentino, San Vito dei Normanni, nella masseria "Specchia di
Mare", da famiglia antica ed illustre: il padre, Luigi Giuseppe, nato a
Ginevra il 18 novembre 1857, dottore in giurisprudenza e titolare di un'azienda
agricola-vitivinicola era figlio illegittimo del principe siciliano Giuseppe III
Lanza di Trabia (1833-1868) e la madre, belga, era la marchesa Anna Maria
Enrichetta Nauts, nata ad Anversa il I luglio 1874. Giuseppe Giovanni aveva due
fratelli: Lorenzo Ercole, e Angelo Carlo, cittadino americano nel 1939 (nel
1943 partecipò allo sbarco in Sicilia). Lanza studiò al liceo Condorcet a
Parigi, poi filosofia a Firenze e Pisa, dove fu allievo di Armando
Carlini. «La guerra di Abissinia già iniziava ed il mio rifiuto a
parteciparvi era la cosa più evidente. E poi questa guerra non era che
l’inizio: in seguito forse sarei stato ad uccidere inglesi, tedeschi e un
giorno avrei avuto dinanzi alla mia baionetta Rainer Maria Rilke. No, la mia
risposta era no. “Ma che cosa è che rende la guerra inevitabile?”, mi
domandavo. Benché giovane avevo capito la puerilità delle risposte ordinarie,
quelle che si rifanno alla nostra cattiveria, al nostro odio e al pregiudizio.
Sapevo che la guerra non aveva a che fare con tutto ciò. “Certo, una dottrina
esiste per opporsi alla guerra e la vedo nel Vangelo”, dicevo, “ma com’è che i
cristiani non la vedono? Manca quindi un metodo, un metodo per difendersi senza
offendere. Un modo nuovo, diverso, umano di risolvere i conflitti umani”. Solo
in Gandhi vedevo colui che avrebbe potuto darmi una risposta ed il
metodo.» (Pagni R., Ultimi dialoghi con Lanza del Vasto, p.50-51) Così
Lanza del Vasto ricorda la sua decisione di partire per l'India,
autofinanziandosi con la vendita a un'amica facoltosa del manoscritto della sua
prima opera, Giuda. Lanza non partiva alla ricerca di spiritualità, tanto più
che la conversione al cristianesimo gli impegnava pienamente l'animo: «Ma
mi ero, non senza pena, convertito alla mia propria religione, e avevo il mio
da fare per meditare le Scritture ed applicarne i comandamenti. E se mi si
chiedeva “siete cristiano?”, rispondevo: “Sarebbe ben prezioso dire di sì.
Tento di esserlo".» (L’Arca aveva una vigna per vela, p.11). In
India, Lanza conobbe il Mahatma Gandhi, con il quale stette qualche mese, per
poi recarsi in Himalaya. Durante il viaggio «conobbi le inquietudini sociali
dell'India ed il suo metodo di liberazione, la non violenza, che era molto
contraria al mio carattere (come del resto credo sia contraria al carattere di
tutti). Nessuno è non violento per natura: siamo violenti e non proviamo
vergogna a dirlo, anzi lo diciamo con un certo orgoglio. Ma ciò che non diciamo
è che la vigliaccheria e la violenza fanno la forza delle nazioni e degli
eserciti e la non violenza consiste nel superare questi due grandi motivi della
storia umana». In India trova «un'umanità simile alla nostra quanto opposta:
qualche cosa come un altro sesso.l ritorno in Europa Lo scrittore e
studioso in una delle sue comunità rurali (l'ultimo a destra) Tornato
dall'India dopo ulteriori peregrinazioni in Terra Santa, Lanza comprende che la
sua vocazione è di fondare una comunità rurale nonviolenta, sul modello del
gandhiano ashram, la comunità autarchica ed egualitaria che per il Mahatma
doveva essere la cellula della società. Gli ci volle del tempo prima di
riuscire a concretizzarla attraverso la fondazione della comunità dell'Arca,
che avvenne il 26 gennaio 1944. Tra le poche persone a cui gli riesce di
esporre il suo progetto c'è Simone Weil, che incontra a Marsiglia. Nonostante
il suo pacifismo, la Weil non nutriva molta fiducia nella nonviolenza
gandhiana. Lanza gliene parlò e lei sembrò comprendere meglio. Poi parlarono
della visione dell'Arca, che allora non si chiamava ancora così, ed era la
prima volta che Lanza ne parlava con qualcuno: «Lei capì subito! “È un diamante
bellissimo”, disse. “Sì,” risposi “è vero. Ha solo un minuscolo difetto: che
non esiste”. E lei: “Ma esisterà, esisterà, perché Dio lo
vuole"."Simone aveva ragione. L'ultima sede della comunità fu la
Borie Noble, con circa centocinquanta persone che vivono nel modo più frugale e
gioiosamente comunitario. Il nome venne quando si cominciò a parlare di
“lanzismo”: «Si cominciava a parlare di Lanzisti e Lanzismo, cosa che mi fece
rizzare il pelo. “Amici miei”, annunciai, “noi ci chiameremo l'Arca, quella di
Noè beninteso. E noi gli animali dell'Arca.». Negli anni successivi
numerosissime iniziative nonviolente videro protagonista Lanza e i suoi
compagni, che seppero attirare l'attenzione dell'opinione pubblica francese e
non solo. La prima azione pubblica nonviolenta è del 1957, contro le torture e
i massacri compiuti dai francesi in Algeria, e si svolge a Clichy in una casa
dove aveva vissuto San Vincenzo de Paoli. L'azione fu guardata con relativo
favore dalla stampa, e giunse la solidarietà di personalità come Mauriac o l'Abbé
Pierre. Poi vennero le lotte contro il nucleare, la prima delle quali nel 1958:
Lanza con i suoi compagni penetrano nel cancello di una centrale
elettronucleare e vengono poi trascinati via dai poliziotti. Poi ancora la
campagna contro i “campi di assegnazione per residenza”, sorta di campi di
concentramento per gli algerini “sospetti”, e quella in favore degli obiettori
di coscienza. Durante la Quaresima del 1963, tra due sessioni del Concilio
Vaticano II Lanza fece un digiuno di quaranta giorni compiuto nell'attesa di
una parola forte sulla pace da parte della Chiesa. Poco dopo il trentesimo
giorno, il Segretario di Stato consegnò a Chanterelle, la moglie di Lanza, il
testo dell'enciclica Pacem in Terris: «Dentro ci sono cose che non sono mai
state dette, pagine che potrebbero essere firmate da suo marito!». Opere:
Le pèlerinage aux sources, Denoël, Parigi, traduzione italiana: Pellegrinaggio
alle sorgenti, Jaca Book, Milano; Approches de la vie intérieure, Denoël,
Parigi; traduzione italiana: Introduzione alla vita interiore, Jaca Book,
Milano 1989; Technique de la non-violence, Denoël, Parigi 1965; traduzione
italiana: Che cos'è la non violenza, Jaca Book, Milano 1979; Il canzoniere del
peregrin d'amore, Jaca Book, Milano 1980; Vinôbâ, ou le nouveau pèlerinage,
Denoël, Parigi 1954; traduzione italiana: Vinoba, o il nuovo pellegrinaggio,
Jaca Book, Milano 1980; L'Arche avait pour voilure une vigne, Denoël, Parigi
1978; traduzione italiana: L'Arca aveva una vigna per vela, Jaca Book, Milano
1980; Pour éviter la fin du monde, Rocher, Parigi; traduzione italiana: Per
evitare la fine del mondo, Jaca Book, Milano 1991; Principes et préceptes du
retour à l'évidence, Denoël, Parigi 1945; traduzione italiana: Principi e
precetti del ritorno all'evidenza, Gribaudi, Torino 1988; Préface au Message
Retrouvé de Louis Cattiaux, Denoël, Parigi 1956; traduzione italiana: Il
Messaggio Ritrovato, Mediterranee, Roma 2002. Note Pagni, cit.51
Lanza del Vasto, Pellegrinaggio alle sorgenti82 Gabriella Fiori, Lanza del Vasto e Simone
Weil, Prospettiva Persona n°
86/,//prospettivapersona/editoriale/86/lanza_weil.pdf Pagni, cit., p.58-59 L'Arca aveva una vigna per vela48 ivi99
Jacques Madaule, Chi è Lanza del Vasto Arnaud de Mareuil, Lanza del
Vasto (Seghers, 1965) René Doumerc, Dialoghi con Lanza del Vasto (Albin Michel)
Claude-Henri Roquet, Les Facettes du cristal (Conversazioni con Lanza del
Vasto, Parigi 1981) Arnaud de Mareuil, Lanza del Vasto, sa vie, son oeuvre, son
message (Saint-Jean-de-Braye 1998) Anne Fougère, Claude-Henri Rocquet: Lanza
del Vasto. Pellegrino della nonviolenza, patriarca, poeta, (Paoline, Milano
2006) Antonino Drago, Paolo Trianni, La filosofia di Lanza del Vasto (Jaka
Book, Milano 2008) Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource
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Vasto L'Arche de Lanza del Vasto (sito
principale), su arche-nonviolence.eu. Comunità di St Antoine, su arche-de-st-antoine.com.
Comunità dell'Arca in Italia, su xoomer.virgilio. Provincia di Brindisi su
Lanza del Vasto. Lanza del Vasto & Ramon Llull. Biografie
Biografie Letteratura Letteratura
Filosofo del XX secoloPoeti italiani del XX secoloScrittori italiani Professore1901
1981 29 settembre 5 gennaio San Vito dei NormanniNonviolenzaLanza. vasto: essential Italian philosopherBranciforte:
Giuseppe Giovanni Luigi Enrico Lanza di Trabia-Branciforte -- Vasto: Essential
Italian philosopher. Grice: “Note that he is Lanza del Vasto, but if he wants
to keep the Vasto, under Vasto he goes! Even though Lanza is the aristocratic
bit to it!” Lanza del Vasto Giuseppe
Giovanni Lanza del Vasto Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto (San Vito dei
Normanni, 29 settembre 1901Elche de la Sierra, 5 gennaio 1981) filosofo, poeta
e scrittore italiano. Esponente della nobile famiglia siciliana dei Lanza di
Trabia. Il suo vero nome è infatti Giuseppe Giovanni Luigi Enrico Lanza di
Trabia-Branciforte. La sua personalità eccezionale riunisce caratteristiche
disparate: poeta, scrittore, filosofo, pensatore religioso con una forte vena
mistica, ma anche patriarca fondatore di comunità rurali sul modello di quelle
gandhiane e attivista nonviolento contro la guerra d'Algeria o gli armamenti
nucleari. Nacque in un piccolo paese
salentino, San Vito dei Normanni, nella masseria "Specchia di Mare",
da famiglia antica ed illustre: il padre, Luigi Giuseppe, nato a Ginevra il 18
novembre 1857, dottore in giurisprudenza e titolare di un'azienda agricola-vitivinicola
era figlio illegittimo del principe siciliano Giuseppe III Lanza di Trabia
(1833-1868) e la madre, belga, era la marchesa Anna Maria Enrichetta Nauts,
nata ad Anversa il I luglio 1874. Giuseppe Giovanni aveva due fratelli: Lorenzo
Ercole, nato nel 1903, morto a Rapallo nel 1958 e Angelo Carlo, nato nel 1904,
cittadino americano nel 1939 (nel 1943 partecipò allo sbarco in Sicilia). Lanza
studiò al liceo Condorcet a Parigi, poi filosofia a Firenze e Pisa, dove fu
allievo di Armando Carlini. «La guerra
di Abissinia già iniziava ed il mio rifiuto a parteciparvi era la cosa più
evidente. E poi questa guerra non era che l’inizio: in seguito forse sarei
stato ad uccidere inglesi, tedeschi e un giorno avrei avuto dinanzi alla mia
baionetta Rainer Maria Rilke. No, la mia risposta era no. “Ma che cosa è che
rende la guerra inevitabile?”, mi domandavo. Benché giovane avevo capito la
puerilità delle risposte ordinarie, quelle che si rifanno alla nostra
cattiveria, al nostro odio e al pregiudizio. Sapevo che la guerra non aveva a
che fare con tutto ciò. “Certo, una dottrina esiste per opporsi alla guerra e
la vedo nel Vangelo”, dicevo, “ma com’è che i cristiani non la vedono? Manca
quindi un metodo, un metodo per difendersi senza offendere. Un modo nuovo,
diverso, umano di risolvere i conflitti umani”. Solo in Gandhi vedevo colui che
avrebbe potuto darmi una risposta ed il metodo.» (Pagni R., Ultimi dialoghi con Lanza del
Vasto, p.50-51) Così Lanza del Vasto ricorda la sua decisione di partire per
l'India nell'autunno del 1936, autofinanziandosi con la vendita a un'amica
facoltosa del manoscritto della sua prima opera, Giuda. Lanza non partiva alla
ricerca di spiritualità, tanto più che la conversione al cristianesimo gli
impegnava pienamente l'animo: «Ma mi
ero, non senza pena, convertito alla mia propria religione, e avevo il mio da
fare per meditare le Scritture ed applicarne i comandamenti. E se mi si
chiedeva “siete cristiano?”, rispondevo: “Sarebbe ben prezioso dire di sì.
Tento di esserlo".» (L’Arca aveva
una vigna per vela, p.11) L'incontro con Gandhi In India, Lanza conobbe il
Mahatma Gandhi, con il quale stette qualche mese, per poi recarsi in Himalaya.
Durante il viaggio «conobbi le inquietudini sociali dell'India ed il suo metodo
di liberazione, la non violenza, che era molto contraria al mio carattere (come
del resto credo sia contraria al carattere di tutti). Nessuno è non violento
per natura: siamo violenti e non proviamo vergogna a dirlo, anzi lo diciamo con
un certo orgoglio. Ma ciò che non diciamo è che la vigliaccheria e la violenza
fanno la forza delle nazioni e degli eserciti e la non violenza consiste nel
superare questi due grandi motivi della storia umana». In India trova
«un'umanità simile alla nostra quanto opposta: qualche cosa come un altro
sesso». Il ritorno in Europa Lo scrittore e studioso in una delle sue
comunità rurali (l'ultimo a destra) Tornato dall'India dopo ulteriori
peregrinazioni in Terra Santa, Lanza comprende che la sua vocazione è di
fondare una comunità rurale nonviolenta, sul modello del gandhiano ashram, la
comunità autarchica ed egualitaria che per il Mahatma doveva essere la cellula
della società. Gli ci volle del tempo prima di riuscire a concretizzarla
attraverso la fondazione della comunità dell'Arca, che avvenne il 26 gennaio
1944. Tra le poche persone a cui gli riesce di esporre il suo progetto c'è
Simone Weil, che incontra a Marsiglia, nel 1941. Nonostante il suo pacifismo,
la Weil non nutriva molta fiducia nella nonviolenza gandhiana. Lanza gliene
parlò e lei sembrò comprendere meglio. Poi parlarono della visione dell'Arca,
che allora non si chiamava ancora così, ed era la prima volta che Lanza ne
parlava con qualcuno: «Lei capì subito! “È un diamante bellissimo”, disse.
“Sì,” risposi “è vero. Ha solo un minuscolo difetto: che non esiste”. E lei:
“Ma esisterà, esisterà, perché Dio lo vuole”». Simone aveva ragione. L'ultima
sede della comunità fu la Borie Noble, con circa centocinquanta persone che
vivono nel modo più frugale e gioiosamente comunitario. Il nome venne quando si
cominciò a parlare di “lanzismo”: «Si cominciava a parlare di Lanzisti e
Lanzismo, cosa che mi fece rizzare il pelo. “Amici miei”, annunciai, “noi ci
chiameremo l'Arca, quella di Noè beninteso. E noi gli animali dell'Arca.». Negli anni successivi numerosissime
iniziative nonviolente videro protagonista Lanza e i suoi compagni, che seppero
attirare l'attenzione dell'opinione pubblica francese e non solo. La prima
azione pubblica nonviolenta è del 1957, contro le torture e i massacri compiuti
dai francesi in Algeria, e si svolge a Clichy in una casa dove aveva vissuto
San Vincenzo de Paoli. L'azione fu guardata con relativo favore dalla stampa, e
giunse la solidarietà di personalità come Mauriac o l'Abbé Pierre. Poi vennero
le lotte contro il nucleare, la prima delle quali nel 1958: Lanza con i suoi
compagni penetrano nel cancello di una centrale elettronucleare e vengono poi
trascinati via dai poliziotti. Poi ancora la campagna contro i “campi di
assegnazione per residenza”, sorta di campi di concentramento per gli algerini
“sospetti”, e quella in favore degli obiettori di coscienza. Durante la
Quaresima del 1963, tra due sessioni del Concilio Vaticano II Lanza fece un
digiuno di quaranta giorni compiuto nell'attesa di una parola forte sulla pace
da parte della Chiesa. Poco dopo il trentesimo giorno, il Segretario di Stato
consegnò a Chanterelle, la moglie di Lanza, il testo dell'enciclica Pacem in
Terris: «Dentro ci sono cose che non sono mai state dette, pagine che
potrebbero essere firmate da suo marito!».
Opere Le pèlerinage aux sources, Denoël, Parigi 1943, traduzione
italiana: Pellegrinaggio alle sorgenti, Jaca Book, Milano 1991; Approches de la
vie intérieure, Denoël, Parigi 1962; traduzione italiana: Introduzione alla
vita interiore, Jaca Book, Milano 1989; Technique de la non-violence, Denoël,
Parigi 1965; traduzione italiana: Che cos'è la non violenza, Jaca Book, Milano
1979; Il canzoniere del peregrin d'amore, Jaca Book, Milano 1980; Vinôbâ, ou le
nouveau pèlerinage, Denoël, Parigi 1954; traduzione italiana: Vinoba, o il
nuovo pellegrinaggio, Jaca Book, Milano 1980; L'Arche avait pour voilure une
vigne, Denoël, Parigi 1978; traduzione italiana: L'Arca aveva una vigna per
vela, Jaca Book, Milano 1980; Pour éviter la fin du monde, Rocher, Parigi 1971;
traduzione italiana: Per evitare la fine del mondo, Jaca Book, Milano 1991;
Principes et préceptes du retour à l'évidence, Denoël, Parigi 1945; traduzione
italiana: Principi e precetti del ritorno all'evidenza, Gribaudi, Torino 1988;
Préface au Message Retrouvé de Louis Cattiaux, Denoël, Parigi 1956; traduzione
italiana: Il Messaggio Ritrovato, Mediterranee, Roma 2002. Note Pagni, cit.51
Lanza del Vasto, Pellegrinaggio alle sorgenti82 Gabriella Fiori, Lanza del Vasto e Simone Weil,
Prospettiva Persona n°
86/,//prospettivapersona/editoriale/86/lanza_weil.pdf Pagni, cit., p.58-59 L'Arca aveva una vigna per vela48 ivi99
Jacques Madaule, Chi è Lanza del Vasto Arnaud de Mareuil, Lanza del
Vasto (Seghers, 1965) René Doumerc, Dialoghi con Lanza del Vasto (Albin Michel)
Claude-Henri Roquet, Les Facettes du cristal (Conversazioni con Lanza del
Vasto, Parigi 1981) Arnaud de Mareuil, Lanza del Vasto, sa vie, son oeuvre, son
message (Saint-Jean-de-Braye 1998) Anne Fougère, Claude-Henri Rocquet: Lanza
del Vasto. Pellegrino della nonviolenza, patriarca, poeta, (Paoline, Milano
2006) Antonino Drago, Paolo Trianni, La filosofia di Lanza del Vasto (Jaka
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Biografie Biografie Letteratura Letteratura Filosofo del XX secoloPoeti
italiani del XX secoloScrittori italiani Professore1901 1981 29 settembre 5
gennaio San Vito dei NormanniNonviolenzaLanza. -- Giuseppe
Giovanni Luigi Enrico Lanza di Trabia-Branciforte. A • imm.
Prf/^ro .-fcàfZle ^ f.tt. di F -Bei'fy/'J-i' Airy'rvKAT^.wj
jyj^ix.ù *^h:e7J'Atv attLiAI^d DEI ©iierosiHìi
©iLHMiPKsir DELLA GRECIA E DEI CIRCEINSI UN ROMA DELLE
CORSE DI BIGHE E DE’ FANTINI A CAVALLO ED A PIEDI IN PADOVA e
nell’ Anfiteatro dell’Arena in Milano dal 1807 ® 1834
coi Nomi e Cognomi del Proprietarj dei Cavalli e di quelli dei
Yincitori stati premiati nei diversi Spettacoli M'J.
G- A SPESE DELL’AUTORE Edizione posta sotto la Salvaguardia
delle Leggi. Miiako. Dalla Tipografìa Visa]^ DEI
(gailXgSìl I GiuocHl più famosi della Grecia furono
gli Olim- pici. Essi instituiti furono non solamente per avvezzare
la gioventù agli esercizj del corpo, e per celebrare in un determinato
tempo la memoria de’più grandi avve- nimenti; ma eziandio per onorare gli
Dei. Distinte ve- nivano cinque maniere differenti di esercitarsi oltre
quella del canto, e della musica; vale a dire il Corso che si fece
in prima a piedi, e poscia sopra de’coccbi; il Salto; il Disco; la Lotta;
finalmente il Cesto o sia la Scherma a colpi di pugni. I
giuochi Olimpici, così chiamati dalla città di Olim- pia, celebravansi
ogni cinque anni; il che nascer poi fece il costume di contare per via di
Olimpiadi. Essi cominciavano con un solenne sacrificio, e solevasi
quivi accorrere da tutte le parti della Grecia: i vincitori erano
pubblicati ad alta voce da un Araldo, e lodati con dei cantici di
vittoria; e si soleva ancora cinger la tevta del medesimi con una corona
trionfale. Ogni città, a cui appartenevano, faceva a’ medesimi de’ricchi
doni, e man- tenuti erano per tutto il rimanente della vita a
pubbli- che spese. Il jiriraoj che riportò il premio uel
corso a piedi chiamavasi Corebo, nativo di Elide.. Cinisca figliuola
del re Archidamo fu la prima del suo sesso, che guadagnò il premio
nel corso de’cocchi, ciocché avvenne nella sesia Olimpiade; così pure
altre femmine ebbero parte in questi giuochi. Cleostene
Epidanio riportò il premio del corso a ca- vallo.
Polidamante, figlio di Nicia, aveva una statura gigan- tesca, ed
una forza, un coraggio ed una destrezza stra- ordinaria. Essendo ancor
giovane assaltò sul monte Olimpo un gran leone, il quale desolava il
paese, e l’uccise. Esso ancora fermava con una sola mano un
cocchio tirato da quattro cavalli; quindi Dario figlio di Arta-
serse curioso di esser testimonio della sua forza, gli pose sul capo tre
de’ più forti delle sue guardie, ed egli li uccise tutti con un colpo di
pugno. Milone Crotoniala il più robusto, e nerboruto di tutti
gli atleti si mise un giorno ne’ giuochi Olimpici un toro di due anni
sopra le spalle, e portollo correndo sino all’estremità dello steccato
senza prender fiato, di poi l’uccise con un colpo di pugno.
Teagene Tasiese è commendabile per la sua destrezza, per la sua
agilità, e pel gran numero di corone dal rnedesimo riportale in diversi
torneamenti, che si fanno ascendere a quattrocento. 1
vincitori di questi giuochi onorare solevansi con delle corone; la più
antica che data venne ai medesimi era di Ulivo; e poscia date ne furono
di Gramigna, di Salcio, di Lauro, di Mirto, di Quercia, di Palma e
di Appio. Gli atleti vincitori incominciarono a far innal- zare le
loro statue, che furono dai medesimi dedicate agli Dei; quindi ancora
scolpiti venivano i loro nomi sopra alcune colonne, poste nella pubblica
piazza. Il concorso a questi giuochi era si grande, che solamente i
principali personaggi delle città Greche vi potevano aver luogo, e si
celebravano con molta pompa e ma- gnificenza. DEI
m ^^oma E DEL CIRCO MASSIMO Cm legge la storia de’principj
<31 Roma, avrà osser- vato, che questa singolare città prese ne’suoi
primordj il governo, le leggi, la magistratura, la religione, i
riti e le arti dagli Etruschi popoli circonvicini. Di tre
specie erano i giuochi: i primi erano sce- nici, o teatrali e
consistevano, come oggi, a rappre- sentare sul teatro commedie, canti,
suoni, balli, e tutti questi alla foggia toscana. Anfiteatrali erano i
secondi; e si riducevano a combattimenti gladiatori tra uomini ed
uomini, o tra uomini e fiei’e. I giuochi Circensi formavano la terza
specie; ed erano, come dice Tertul- liano, nel loro apparato i più
ricchi, ed i più pomposi. Consistevano essi in corse di uomini a
piedi ed a cavallo precedute da varj sagrifizi: concorreva a questo
brillante spettacolo tutto il popolo romano, e special- niente la più
elegante gioventù e le più belle fanciulle, le quali in lunghi stuoli
andavano parte per vedere, e parte per esser vedute. 11 primo
Circo chiuso che si ediGcasse in Roma, fu opera di Tarquinio Prisco
principe appassionato per le grandi costruzioni. Esso edificio fu
chiamato Circo Massimo, il quale poscia più non bastò alla cresciuta
popolazione di Roma. Giulio Cesare credette dover dedicare al
popolo ro- mano ed alla religione, di cui era divenuto capo, un
altro ijii’co proporzionalo al bisogno; ma in vece di farlo nuovo,
pensò meglio di accrescere quello eretto da Tarquinio. Augusto suo
successore rifabbricò questo Circo, ornan- dolo di marmi in occasione,
che andava abbellendo la sua capitale. Dionigi d’Alicarnasso
narra che ai suoi tempi il Circo Massimo era circondato da gran
porticato, avente molte scale artificiosamente distribuite a libero passo
di quelli che entravano ed uscivano: esso conteneva duecento ses-
santa mila spettatori. Tanta magnificenza non bastò ai successori
d’Augusto; perchè Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone vi fecero an-
ch’essi varj accrescimenti. Quegli però, che più d’ogni altro lo
accrebbe, fu Tra- jano, perchè a’suoi tempi la popolazione di Roma
era giunta forse al massimo suo aumento. 1 Romani erano cosi
amanti di queste solennità, che non domandavano al Principe, altro che
abbondanza di pane, e frequenza di giuochi Circensi. Questi
gran giuochi Circensi consistevano poi in una solenne processione
terminata da varj pubblici sacrifizi, che si facevano sulla spina del
Circo; e in una corsa di cento Righe tirate a quattro cavalli di fronte,
e di una numerosa corsa di fantini a cavallo ed a piedi.
Queste cento Bighe erano divise in quattro fazioni, distinte dai
colori, coi quali erano dipinte. V’ erano le bianche, le rosse, le
prasiue, o sia verde chiaro e le ve- nete, o sia ceruleo marino; in modo,
che ve n^erano ven- ticinque per ciascun colore. Ogni Biga
portava un nome, e quello probabilmente del suo agitatore.
Finite le corse de’carri, gli agitatori scendevano nel- l’arena, e
correvano a piedi a gara. Dopo la corsa venivano gli atleti e i
lottatori, i quali facevano anch’ essi i loro esercizj, e con ciò
finivasi la giornata. Questi differenti esercizj erano
interrotti da pubblici elogi che recitavansi in lode dei vincitori, e
dalle di- stribuzioni, che ad essi faceansi delle corone e
de’premi. Ecco dato un cenno o un’ idea dei Giuochi Circensi.
VENEZIA COME LA GRECIA E ROMA aveva aneli’ essa i suoi
Spettacoli Consistevano questi in Regate o corse lungo il
Ca- nalazzo che divide in due parti \^enezla, e in caccle di tori
con cani, nelle forze erculee divise in due fazioni di così detti
Nicolottl e Castellani, e in voli dal campanile di san Marco alla riva
della Piazzetta. Furono sempre soggetto di universale ammirazione
la Venezia questi spettacoli, massimamente quello della così detta
regata. Si dava principio allo spettacolo con un fresco, vale
a dire con una corsa di tutte le barche fornite riccamente in
diversi costumi, oltre le Bissone a otto remi, 3Ialgarolte a sei remi e
Peote, barche tutte di una diversa costru- zione: v’ erano quelle, che
rappresentavano le quattro parti del mondo, le quattro stagioni
dell’anno, i quat- tro elementi, non che quelle rappresentanti la Forza,
la Temperanza e la Giustizia. Terminato il corso delle barche
simboleggiate, avevano luogo le così dette regate, la prima delle quali
era di dodici battelletti a un remo, e dodici a due remi, e quella
delle gondole a un remo, e a due remi nel me- desimo
numero. Prendevano il corso dalla Motta di sant’ Antonio; schierate
partita per partita avanti un cordino, davano la mossa con uno sbaro di
raortaletto; percorrevano tutto il Canalazzo sino alla volta del palo
collocato al Corpus Domini, girato questo giungevano alla meta, in
volta del canale a casa del Nob. sig. Foscari, ove era costruita
una macchina a guisa di pulvinare, e dal giudici ri- cevevano i premi
destinati ai vincitori. La lunghezza del Canalazzo rappresentava un
ma- gnifico Anfiteatro: tutti i maestosi palazzi basati anche ih
parte sul legno d’india erano addobbati di ricchissime tappezzerie
orientali, e chiudeva lo spettacolo una mar- cia trionfale di tutte le
suddette barche. BELLE CORSE AL PRATO DELLA
VALLE m ^ac/o ova Sua
Eccellenza proveditore Andrea Metnó ei’esse il gran Prato della Valle in ampio
Circo Olimpico, adorno di statue rappresentanti uomini illusti'i, di
obelischi, e di vasi etruschi, per far le corse particolari delle bighe,
dei fantini a cavallo, dei barberi e dei fantini a piedi. Era
costume in tutte le città dello Stato Veneto di dare corse di cavalli e
di uomini a piedi. Ambivano i nobili veneti d’avere al loro
Servizio i cosi detti Lacchè o Volanti, che correvano a piedi in
tutte quelle corse che si facevano nello Stato, e queste erano
frequentij difatto questi Volanti a piedi correvano da Mestre a Padova in
due ore (spazio di venti miglia italiane.) Le solenni corse
erano di miglia dieci, tra andata e ritorno, e chi non correva questo
spazio meno di un’ora non prendeva premio. Detti premi erano cinque con
le loro bandiere, la prima rossa, la seconda celeste, la terza
verde, la quarta gialla, e la quinta bianca. Tutti quelli che si
distinsero in queste gare sono i seguenti: IO
Nelle Corse parziali dei Lacchè: Picino Angelo. Fineo
Antonio. Sellila Giuseppe. Badia Antonio.
Palermo Mariano. Peverin Donienieo. Bernardinelli
Antonio. Martello Carlo. Costa Paolo. Baggio
Pietro. Seresa Paolo. Morte Antonio.
Nardini Giuseppe. Schincaglia Gio. Battista. Nardini
Nicola. Giustiniani Paolo. Nelle corse parz
Il N. Alessandro Pepoli. Il N. Giacomo Savorgnani. Il N.
Siraone Contarini. 11 N. Lodovico Priuli. Bologna Gio.
Battista, Meneghini Antonio. Bettini Gio. Battista. Rabaldi
Giovanni. Contenti Angelo. Menegazzi Gio. Battista Poiana Gio.
Battista. Petito Pietro. Coradi Girolamo. Bologna
Santo. Picino Francesco. Faina Paolo.
Bianchini Giuseppe. Strajoto Domenico. Coppa Girolamo.
li delle Bighe: Il N. Agostino Nani. Il N.
Antonio Riva, Il N. Zaneto Morosini: ed altri.
J DELLA COSTRUZIONE DEL CIRCO O ARENA IN
MILANO af/fa 3^ùa/z/ta c/ Nell^anno 1806, a spese
della comune di Milano fu eretto il gran Circo sulle tracce degli antichi
Circhi di Roma, dietro disegno dell’egregio signor cavaliere Luigi
Canonica regio architetto^ il suo giro esterno è di braccia milanesi i4oo
circa^ la sua lunghezza interna dalle car- ceri alla porta trionfale
braccia 4oo; la sua larghezza dal pulvinare alla porta mortoria braccia
aSo. (0 Nell’interno del pulvinare il cornicione è fregiato
di un basso rilievo a chiaroscuro rappresentante la gran pompa
Circense degli antichi Romani, dipinta dall’esimio signor Monticelli
Angelo. Dice Dionigi, ed anche Ovidio, che avanti di comin-
ciare i giuochi Circensi, la pompa, o sia processione, scendeva dal
Campidoglio, e pel foro romano s’incammi- nava in bell’ordine verso il
circo Massimo; la galleria interna di ordine Corinto, ornata di otto
colonne di gra- nito lombardo, come pure tutti i gradi, e scalari,
che discende al podio; e ciò è quanto viene rappresentato nel suddetto
fregio. La porta trionfale è di ordine dorico di granito; il
timpano sopra il cornicione rappresenta la Fama in basso rilievo, che
distribuisce le corone al vincitori. Le car- [Il braccio di Milano
corrisponde a metri lineari Oj5g centimetri. 12
— deri, della lunghezza di braccia loo in Uno colla terrazza
sopra le medesime, e le torri deU’oppldo costituiscono un imponente
fabbricato tutto di pietra viva. Nel giorno 17 dicembre 1807,
nell’AnGteatro dell’ A- rena in Milano, ebbe luogo il famoso spettacolo,
non più vedutosi in questa Capitale, della Naumachia, o re- gata di
barche. Per l’esecuzione di detto spettacolo, si fecero
traspor- tare una quantità di barche di varie dimensioni, pren-
dendole nei laghi vicini, e facendo venire molti barca- iuoli abitanti i
paesi lungo il lago di Como — Dato il segnale, si distaccarono dal luogo
delle carceri sei barche, ciascuna portando seco quattro barcaiuoli, i
quali fecero la loro corsa col compire tre giri intorno alla Arena.
Successivamente compirono i loro girl altre dodici bar- che a sei a sei,
come si disse delle prime. Le prime due di ciascuna coppia, che prime
poterono arrivare alla meta, dovettero di nuovo cimentarsi nella quarta
corsa per la decisione del premi, e rimasero vincitori gl’ in-
frascritti: e)Loiue 6 ©o^w/oiufi Set
Sverni a 111 cilowtiita ulaX'C'
IH Andrea Gregol . , I. 4oo Antonio
Bianchi. . . II. 3oo 1 Fortunato Prada . .
. III. 200 i La Lira Laliana equivale ad
Aiistr. r. l4- — i3 — ’ Nel giorno i Marzo
1808 si tenne neirAnfi teatro deU TArena in Milano lo spettacolo di
bighe, e fantini a piedi ed a cavallo. In detto giorno si diede lo
spetta- colo suddetto, essendosi prima esperlmentati gl’individui ed
i cavalli, e riconosciuti aventi ciascuno le condizioni necessarie
prescritte dai politici regolamenti. In detta giornata i vincitori
furono i seguenti. Slfooute e Co^H-owt'e' ìit,
Sei. ©O/caffi cKjoiM'e' 6' ©«^M'ome e> ilei, (
3 ^ aiitim/ IH/ cHoin-m'OiitoMt'e t)eC
^teiuio la §c. CO RSO DELLE BIGHE.
Vignoni Gio. . Cardinali Gio. B.“ I. 3
oo Della Tela Gaet. Barzaghi Luigi
li. 200 Roelli Ambrogio Radaelli
Pietro IH. 100 CORS.A DEI FANTINI A
CAVALLO. Bottini Baldassare Porlesi Angelo
I. 200 Ghezzi Antonio Daniri Paolo
. II. 100 CORSA DEI
FANTINI A PIED I. Coppa Girolamo
I. i 5 o «5 Feroldi Gio. Fr.
II. 75 Scorpioni Gaet. III.
5 o 1 Lo Scudo di ItJilano equivale ad Auslr. L.
5 . 29. 1 Nel giorno i6 Agosto 1 8 io si diede nell’Arena di
Mi- lano un eguale spettacolo tenutosi nel i Marzo 1808, cioè,
corse di bighe e fantini a piedi ed a cavallo. Quelli che fortunati
ottennero in quel giorno il premio furono i seguenti descritti
nell’infrascitta tabella: Dii/ 5*t(5pueba^ Dei/
GnvaKl cTCjouve 6 Go^itoiue De^fi/ cHau-w^o., e/ Dei/ ^
aw.kwi; j ^MlM/td 111 / Qiaiòi JWuw/Ou/tocw/e
De6 $reiui/0 IH/ cltaE. CORSO DELLE Bl
GHE. Fontana Gio. Batt. Cardinali Gio, B.“
I. aooo Caprara S. E. Carlo Vimercati
Carlo II. 0 0 Sevolini
Antonio Trabattoni Paolo III. 1000
CORSA D EI FANTINI A CAVALLO. Saul
Conte Àlorio Porlesi Luigi . . I.
i5oo Besozzi Filippo . Bucchetti Luigi.
IL 1000 CORSA DEI FANTINI
A PIED r. Testoni Antonio I.
1000 Coppa Girolamo II. 5oo
Feroldi Gio. Fr. III. 3oo — i5 —
NeU’Anfiteatro dell’Arena in Milano si tenne pubblico divertimento
della regata eseguita con barche fatte tra- sportare dai vicini laghi, e
con barcaiuoli abitanti i paesi lungo i detti laghi. Detto
spettacolo ebbe luogo nel giorno i Giugno i8ri colla distribuzione dei
seguenti premi consegnati ai sin- goli vincitori della medesima regata.
Storne e Go^uoitt/e Jet c/lomiuoM/tooiC'e
Se-K ^teutio 11* Garavaglia Paolo . .
I. 4oo Baroni Antonio . . . II.
000 Bianchi Agostino . Nel giorno i agosto i8ii sì tenne
nell’Arena di Mi- lano uno spettacolo di corse di bighe, e fantini a
piedi ed a cavallo, colla distribuzione dei sottonotati premi dati
ai singoli vincitori come appare dall’unita tabella. dei/
Oa.vafCv Slboni/e 6 Go^it/oiwe cibu&'.^ix, e
dei. lU/ Qtxóói/ lHoUMM/OW/toWe deC
11* 5taK. CORSO DELLE BIGHE, Vignoni Carlo
. Cardinali Gio. B. I. 2000
Galli Giuseppe. Barzaghi Luigi . II.
i5oo Della Tela Gio.B. Vimercali Carlo
III. 1000 CORSA DEI FANTINI A
CANAI LO, Labedojers Charles Pier
Giuseppe . I. i5oo Alari conle Saule
Rossi Ferdinando II. 1000 CORSA
DEI FANTINI A PIEDI. Mandelli Giuseppe
I. 1000 Tesloni Antonio II.
5oo Coppa Girolamo III. 3oo
17 — In Milano fuori di porta Orieulale nel giorno 17
ago- sto 1812, si tennero le corse di fantini a piedi ed a
cavallo. Detto spettacolo ebbe il suo principio al ponte di
Porta Orientale, ed aglrandosi 1 fantini intorno all’ al- bergo, detto di
Loreto nuovo, ritornarono essi sullo stesso ponte a ricevere gli
stabiliti premi ai singoli vincitori come dall’unita tabella:
afLoiiKe e Q/o^woiwe Jet $^capi/i,eta»j Jo)
Oo/vix^G, Dii/ ^OÀAhwV ^ veruno
IU> oRoiinM'outow/e ut ^taP, CORSA
DEI FANTINI A CAVALLO. Saul Conte Alario
Botta Angelo .Caprini Giovanni Comolli Luigi .
IL 1000 Cordini Agostino Domiri Paol9
. ICORSA DEI FANTINI A PIEDI.
Coppa Girolamo I. 1000 Testoni
Antonio II. 600 Poutigia Frane.”
III. 3oo 2 — i8 —
Avendo il Consiglio Comunale della regia città di Mi- lano
deliberato di festeggiare con pubbliche dimostra-^ zlonl di esultanza il
fausto arrivo in Milano di S. A. l’Arciduca Giovanni. La
Commissione delegata del predetto Consiglio de- duce a notizia, che tra
gli spettacoli 'pubblici divisati nel giorno i8 maggio i8i5, si faranno
le Corse dello bighe e de’fautini a cavallo, e dei fantini a piedi.
3«/ De» (3Li5iti6 e ©o^Moitve De^^ii
cAsirt'iga e Da ^ antiiu/ ^teu*wj
ciloii*iuoitbotx« 2ycc&. DÌI. CO
RSO DELLE BIGHE. Giovanni Galli . Gio. Cardinali
. I. 100 Giovanni Galli .
Giacomo Gallarati Carlo 'Vimercali /
Pietro Redaelli II. 8o , detto
Cadetto in. 6o CORSA BEI FANTINI A
CAVALLO. Giuseppe Bordoni GiovanniBelloni
I. 8o Gaetano Turcotii l
Giuseppe Bordoni Ferdin. Bergomi II.
6o Giuseppe Picozzi III. So
CORSA DEI FANTINI A PIE! H.
Giuseppe Maodelli I. 5o Frane.
Pontigia Antonio Testoni III. 3o
Uno Zecchino corrisponde ad Auslr. L. i3. 6o. i >9
Spettacoli Circenai diretti da Girolamo Coppa da eseguirsi La Russia ha le sue slitte, la Scozia le sue
caccie, l’Inghilterra le sue corse, la Spagna le sue giostre dei
tori. La musica, il ballo, la corsa, le militari evoluzio- ni, le sceniche
rappresentazioni sono spettacoli de’quali anche a’giorni nostra ogni
popolo si diletta, e che pa- gano varii ed importanti tributi all’utilità
pubblica. il sistema degli antichi spettacoli ci dimostra i
sommi vantaggi che se ne possono ritrarre. Il vigore de’ corpi, che
ha tanta influenza in quello dell’anima, la destrezza, l’agilità, la
forza ed il coraggio, non erano i soli beni che col piacere combinavano
negli esercizii della greca e della romana palestra, e negli spettacoli
a’qnali que- sti servivano. Veniva co’ medesimi mirabilmente
alimen- tata, estesa, invigorita la passione della gloria. In essi
comparivano i più distinti personaggi^ Socrate si faceva un dovere
d’intervenire, Alcibiade riportò tre premi, e Catone si disponeva nella
sua gioventù a divenire quel che fu nella sua vecchiezza. Le
corone d’ulivo, di lauro , di appio verde o secco che si davano ai
vincitori de’diversi giuochi in Grecia, i premj presso a poco simili che
si davano per Io stesso merito in Roma, preparavano quelli che si
ottenevano quindi dalla virtù e dai talenti del magistrato e del
guerriero nel foro e nel campo; nella palestra e nel circo gli esercizii
erano diversi, ma lo scopo era sempre un solo, quello di alimentare cioè
la passione della gloria. Ma i costumi nostri son diversi da quelli
de’Greci e de- gli antichi Romani, e le nostre leggi non hanno uopo
di un tal mezzo per estendere questa utilissima passione. Si può dire per
altro che noi pure potremmo ritrarre dei rilevanti vantaggi da questi
spettacoli se venissero nella patria nostra adottati, purché si avesse
cura di pre- venire gl’incovenieuti che s’introdussero in quelli
de’Ro- ^ni, si modificasse l’antica pakstra, e se ne proscrivesse ^
ferocia e l’indecenza. Somministrando con essi de’piaceri utili agli
uomini, s’impedirebbe che da loro medesimi se ne formassero
de'perniciosi. Quell’ istinto che conduce i giovani all’ azione ed
al placei’e potrebbe in questi spettacoli servir di mezzo per
abituarli all’ordine, alla tolleranza della fatica, al vigore del corpo,
all’energia dello spirito e per garantirli dal- Tozio sempre seguito’
dalla noia, dalla frivolezza e dal vizio. Con ({ueste idee
Coppa Girolamo e compagni pensa- rono d’introdurre in questa Capitale
alcuni spettacoli, ch’essi denominano Circensi dal circo od anfiteatro
si- tuato sulla piazza d’armi di questa Città, luogo dove in-
tendono di darli, e a questo oggetto implorarono ed ottennero la
necessaria permissione dall’Imperiale Regio Governo di Milano.
Una corsa di dieciotto fantini a piedi, vestili alla Romana che
sortiranno dalle Carceri, e gireranno in- torno alla spina, faranno otto
corse complete sino alla meta, i primi tre vincitori otterranno
Il primo . . italiane lir. 3 oo 11 secondo « 200
li terzo . . . . . . » 100 Questa verrà seguita da altra
corsa di dodici fautini a cavallo che sortendo dalle carceri, faranno
quattro corse complete sino alla meta Al primo . . . italiane
lir, 5 oo Al secondo « 3 oo Al terzo 30 0
Immediatamente alle accennate corse succederà quella di sei bighe, le
quali sortiranno parimenti dalle carceri e faranno quattro corse complete
sino alla meta La prima . . . italiane lir. 700 La
seconda * >» 4 ®® L.i ter/.a » Lo spettacolo sarà chiuso con una
marcia trionfale e pompa Circense composta di quattrocento individui
ve- stiti tutti alla Romana. I. Il Prefetto dei giuochi in cocchio
a quattro cavalli di fronte. II. Banda militai^. III. Insegne e trofei,
varj genj, carro per le vestali ti- rato da otto buoi di fronte. IV.
Centuria o compagnia di 100 militari alla Romana. V. Tutti i fantini a
piedi ed a cavallo e gli auriga vincitori e pi’emiati in carro
trionfale tirato da quattro buoi di fronte. VI. Banda militare. VII.
Altra compagnia di loo militari alla Ro- mana non che tutti i perdenti
delle corse che chiudono la pompa Circense. Colti e generosi
Milanesi! la suddetta società assumo questa utile e dispendiosa impresa
sotto i vostri beni- gni auspicj. Voi che con tanto ardore proteggete
tutte le vantaggiose insti tuzioni, onorerete de’ vostri suffragi
pur questa, che al vantaggio unisce il vostro diletto. La scelta degli
spettacoli sarà regolata dalla condizione de’tempi e del luogo, e dal
gran principio di dare al pubblico un utile trattenimento. Ma
a voi s’ appartiene 1 ’ animarla ed il proteggerla. Incoraggiti da vostri
applausi i valorosi atleti che si presenteranno in questi spettacoli,
nascerà nobil gara tra loro, e siffatti esercizj che da principio
potranno essere oggetto di semplice curiosità, diverranno poscia
mercè il vostro generoso eccitamento un oggetto di pub- blico
interesse. 32 — 1 c}'(3oiwe E 3«.
dei/ 0a(>a£& cT^lWe • 00^U«HM ellotACi^A »
^ autùw $e>eiulo iM aAouuM'OHtlSM.
d.f ^veuM/o IH» ólloE. CO RSA DELLE
BIGHE. Gio. Vignoni . . Gio. Cardinali . I.
700 Girolamo Galli. Girol. Barzaghi
II. 4oo Pietro Rossi . . Pietro
Radaelli CORSA UEl FAlVTmi A CAVALLO. Gius.
Caprini . Fran. Arrigoni I. 5oo
Antonio Villano Gaet. Bazzeri II.
3oo Stefano Bianchi Luigi Lonati . .
III. aoo CORSA DEI FANXmi
A PIEDI. Gius. Mandelli . I.
3(50 Girolamo Coppa II. aoo
Antonio Testoni IH. 100 spettacoli
Circensi diretti da Girolamo Coppa. Mentre si sta preparando un grandioso
spettadolo che deve principalinante corrispondere a quelli che
dagli antichi Romani chiamavansi Gircensijsl è divisato intanto di
dare nel giorno suindicato un trattenimento a questo rispettabile Pubblico,
che* pel suo genere e per il buon ordine ond’esso verrà eseguito riuscirà
di sommo dilello. Consisterà il medesimo in una corsa di dodici
fantini a cavallo nella quale compariranno de’cavalli forestieri,
che sortiranno dalle carceri, faranno sei giri completi per
arrivare alla metà. Indi avrà luogo una porsa di ventiquattro
fantini a piedi che saranno divisi in tre partite, ciascuna delle
quali sarà composta di otto, estratti a sorte. Ognuna di esse deve fare
quattro giri, ed I primi delle singole par- tite che giungeranno alla
mela, dovranno cimentarsi ad un’altra corsa di quattro giri per la
decisione de’prenij. Sortiranno poscia gli altri ventuno fantini, i
quali dovranno fare unitamente quattro giri, ed il primo di loro
che giungerà alla meta avrà il premio. Succederà a queste un’altra
corsa dilettevole eseguila da ventiquattro nani, che a guisa di satiri
degli antichi greci rallegrerà gli spettatori. Questi sortiranno dalle car-
ceri, e faranno un giro completo sino alla meta, i primi tre riporteranno
il premio. Due bande militari delle più melodiose rallegrerà
lo spirito degli spettatori nel tempo che dureranno queste corse.
Lo spettacolo avrà fine con Una marcia trionfale In cui vedrassi un
superbo cocchio, nel quale vi sarà il Prefetto dei giuochi. Terranno
dietro al medesimo i fan- tini a piedi, ed a cavallo, che non ottennero
il premio, e si chiuderà lo spettacolo con un maestoso carro trion-
fale, su cui vi saranno i vincitori accompagnati da numerose comparse,
che colla splendidezza degli abiti loro e colla regolarità de’loro
movimenti renderanno ollre- modo piacevole e dignitosa questa
marcia. Accorrete dunqile, generosi milanesi, che hen degno
farà di voi lo spettacolo che vi si annunzia. Vogliate procurare a
voi stessi un nuovo e grande di- letto, ed all'impresa di questi giuochi
l'onore di aver saputo deliziosamente occupare alcune delle ore da
voi destinate al sollievo dell’animo. cTtoiM'S 8
Go^HOtM'e 3ei/ ^cepueboyc/j SeK Oavo-tCì. e Oo^M'oiue
Dà/ <5 ^ ccMhm Svenino iM. 0fa^Si/
cUsuuu'Ou.tM' e n* CORSA r tEI
FANTINI A CAVAI .LO. Angelo Curii .
Antonio Giulini I. 4oo Carlo
Galimberti Luigi Borsoni . ir. 3oo
Ambrogio Oliva Matteo Sarti .CORSA DEI
FANTINI A PIEI )I. Gius. Borghetli
I. 3oo Carlo Pedrelli . II.
300 Giuseppe Tadei. III. 100
CORSA D EI 21 FANTII VI A PI EDI.
Girolamo Coppa Unico 3òo C
:ORSA DEI NA NI. Pietro Botta detto
Girolamo . Carlo Limonzino detto
Amabile ir. 8o Baldass. Ducbetti
detto Formica in. 6, 1
20 Avendo il Consiglio Comunale deliberato di festeggiare il
fausto avvenimento di S. A. R. il serenissimo arci- duca Ranieri, vice-re
del Regno Lombardo- Veneto; la Commissione delegata del suddetto
Consiglio deduce à pubblica notizia, che tra gli spettacoli divisati nel
i6 giugno 1818, si faranno le corse delle bighe e de’ fan- tini a
cavallo ed a piedi, neU’anfìteatro dell’Arena alla Piazza d’Armi.
f Oo^tt'ouve ìei; ^C'OpMclaty Sei/ Gixvixffi-
10^01116 e Go^M'OIìVI’ oADut-i^a. e Dei»
^veiMio tiK QlaSiii Ili CORSA DELLE
BIGHE. Giuseppe Ant, conte Eallhyany 1
Cardinale Gio. I. too Gio. Fontana .
. Carlo Vimercati II. 80 F ra
nccScoF rigerio Paolo Trabattoni III.
60 CORSA I] • EI FANTINI A
CAVAI .LO. Giosuè Pizzini . Ant.
Marchesi . 1. 8a Gaetano Bordoni
Filip. Ognibenè II. 6a Gaetano
Bordoni Dionigio FiOrentini ICORSA DEI FANTINI
A PIEDI. Gius. Borghetti I. 5
o Carlo Pedrelli . IL 4 o
Giuseppe Tadei III. 3o • a6 —
Ndi 1 8 ottobre 1818 ! fa il seguente avviso. Ridotti a compimento
i difficili apparecchi dello spettacolo annua* ràato col precedente
manifesto del giorno i 5 e vedendo che r attuale stagione favorisce pure
il buon esito del medesirai, ci affrettiamo di prevenire il rispettabile
Pub- blico di questa illustre Metropoli, che oggi giorno die-
ciotto avrà luogo un sorprendente fuoco artificiale com- posto e diretto
da Morengbi Giuseppe. Colte e gentili signore milanesi, l’invito è
a voi prin- cipalmente diretto, perchè se voi onorerete in copioso
numero lo spettacolo che vi si annunzia, esso sarà pure onorato di gran
numero di nomini, solendo questi ac- correre ove vi siano garbate e
virtuose dopne. Gran Carosello o Giostra diretta dal si-
(jnor Capitano I\ antica IJng arese il 22 agosto 1819 .
Questo grandioso spettacolo del Cai’osello fu eseguito alla
presenza dì S. A. I. R, il serenissimo arciduca Ranieri vice-re del Regno
Lombardo-Veneto; il medesimo era composto da quattrocento cavalieri
ungheresi sotto la direzione de’ loro comandanti. L’area dell’anfiteatro
rap- presentava un antico torneo arricchito nel suo quadro- lungo
di colonne, di statue in armatura dei secoli di mezzo, nel centro
torreggiava un magnifico obelisco acforno di ricchissimi trofei militari,
al suono armonioso di quattro bande riunite succederono le gare fra i
ca- valieri giostratori, e queste si combinarono in dilettevoli
contraddanze, evoluzioni militari, in quadri pittoreschi, e chiudeva lo
spettacolo una marcia trionfale. “ — Grandioso
spettacolo di corse di fantini a piedi dirette da Girolamo Coppa, e
mac- china di fuochi artificiali, che avrà luogo. Una banda delle più
melodiose rallegrerà gli spetla- loi’i ^ indi si presenteranno
ventiquattro fantini a piedi i quali eseguiranno una ben ordinala corsa^
che sarà di* visa in tre parli, ciascuna delle quali sarà composta
di otto; ognuna di esse deve fare quattro giri, ed i primi delle
singole parti che giungeranno alla meta^ dovranno rimettersi ad altra
corsa di quattro giri per la decisione de’premi. Sortiranno
poscia gli altri ventuno fantini, i quali do- vranno fare unitamente
quattro giri, ed il primo di loro, che giungerà alla meta, verrà unito ai
primi tre; i quali dovranno di nuovo cimentarsi ad una corsa di altri
quat- tro giri, per la decisione degrinfrascritti premi.
Oo^it;>(ue 3el ^cetili» iit OfoAòt.
ilef ^teuMO ii« tTTClf. Bardelli Carlo . . .
I. 3oo Branca Giuseppe . Tadei Giuseppe . Pedroni
Domenico . . IV. 100 Dopo ciò si
cominceranno le forze ginnastiche dei già rinomali Atleti e mentre che il
Pubblico anderà ap- plaudendo r attività, la destrezza, e la forza degl’
indi- viduati atleti, una granata annuncierà, che nell* Anfi-
teatro evvi un magnifico fuoco artificiale composto « k^lrelto dal
professore di pirotecnica, Giambattista Pio- tiiarla, milanese.
Una maccViina rappresentante la reggia di Minerva, Dea delle
scienze, si troverà innalzata nell’anfiteatro. Gli spettatori potranno
conoscere che il disegno di questa è tolto da uno de’più magnificbi e
grandiosi nell’ordine architettònico, avendo campo di osservarlo
partitamente, trientre si eseguiranno le suddette corse.
Diverse qualità di razzi, granate e bombe in N.° di 4 t) 0 ;
saranno i forieri dell’incendio della macchina. Una galante
girandola, che mostrerà senza interru- zione variate figure e moltipllcl
colori, sarà il primo pezzo de’gluochi fermi. Due grandi
tornei faranno al naturale distinguere il solò e la luna. Due
sorprendènti stelloni contornati da piccole stel- lette tutte illuminate,
giuocheranno unitamente, e for- meranno uii fuoco brlllaote.
Due girandole con specchio d’ illuminazione, forme- ranno un mulino
a vento. Due rosoni in continuo giro, cori specchio a vari
co- lori, si apriranno e si chiuderanno replicatamente. Una
scappata di mille saraSetti, formeranno in aria un bouquet con
batteria. Due casse di 4^0 razzi a batterla regolata, faranno
una continua moschettata. Una sortita di 4^0 palle avvampate;
faranno apparire il chiaror del giorno. La macchina verrà
illiiminata a giorrto, riel ciii mezzo' risplenderà la statua di
Minerva. Ventiquattro fontanonl di un getto tnaraviglloso,
forme- r.nnno un intrecciato giùoco. Un fuoco alla foggia di
un grande Vesuvio, si alzerà nell’aria, con istrepitosa batteria, che
annuncierà il ter- mine dello spettacolo, Colti e generosi
Milanesi, voi che con tanto^ 'ardore proteggete le belle arti, l’artefice
Piomarta, ardisce as- Sicurai vi, che non rimarrete delusi. Nel
giorno i 4 maggio 1820, Giambattista Piomarta professore macchinista di
fuochi artificiali^ che nel giorno vent’otto novembre del decorso anno,
incendiò la mac- china da esso costrutta con pieno aggradimento, ha
di- visato anche 3 richiesta di molte persone che nbn sono allora
Intervenute, di ripetere il disegno della stessa macchina. Due
bande militari annuncieranno il divertimento, che comincerà con una
dilettevole corsa di dodici nani elegantemente vestiti alla spagnupla, i
quali sqrtiranno dalle carceri, e gireranna due volte intorno alTarea
del- Tanfiteatro, ed i primi tre che arriveranno alla meta
otterranno i seguenti prepil, S^ovu/e e/ Dei.
tenui» OflX^^lr II* 3 TCif. Angelo
Roncignolo . Giuseppe Poiani . . IL 80 Ambrogio
Pisina III. 60 La Lira Milanese equivale ad
Auslr. Cent, 87. Spettacolo del professore Giacomo Garnerin,
nel 23 luglio 1820 . Esperienze aereo-fisiche che non ebbero
effetto, per cui fu condannalo il Garnerin a dare un altro spetta-
colo nel mezzo della piazza d'armi gfatis, che venne applaudito dal
pubblico. Grandioso spettacolo diretto da Gerolamo Coppa per il
giorno 6 Agosto 1820 . Uno dei grandi avvenimenti che ci ha
lasciato la storia antica, è certamente la guerra micidiale tra i
Greci ed i Trojani che terminò coll’incendio e distruzione della famosa
città di Priamo, causata dal rapimento della greca Elena fatto da Paride.
Questo punto d’istoria tanto interessante, sebbene involto nelle tenebre
dei se- coli e nel bivio della favola, di cui Omero, e Virgilio ce
ne dipingono maestrevolmente la miseranda catastrofe, è l’interessante
trattenimento che Girolamo Coppa, e Socj si propongono di dare nel
suddetto giorno. Troja cinta dalle sue inespugnabili mura, che
Sarà collocata al sito delle carceri, si vedrà rapidamente ardere
dalle Gamme; le grida, il pianto, la disperazione degli infelici abitanti
confusi collo strepito dell’armi; le mine delle più alte moli, la
desolazione dei vinti e il tripu- dio dei vincitori; la partenza del pio
Enea portando sugli omeri il vecchio suo padre Anchise; una sor-
prendente illuminazione del tèmpio di Minerva col simulacro trasparente
della Dea; un fuoco che a guisa di Vesuvio s’innalzerà nell’aria sarà lo
spettacolo tragico-pan- loraimico-pirotecnico che si presenterà a questo
Pubblico rispettabile. Armata greca, guidata dal duci collegati ti-
rati nelle bighe da quattro cavalli di fronte, trombettieri a cavallo,
sacerdoti, auguri, sacriGcatori, vittime e il gran cavallo nel cui cavo
seno vi si nascondono armi, guer- rieri, attrezzi, macchine di guerra;
armata trojana, coro di donzelle e fanciulle, bande militari, analogo
vestia- rio, popolo, e tutto ciò che forma il maestoso ed im-
ponente corredo di questo grande avvenimento, che verrà «seguilo da
mille, e più individui, non che con quella indispensabile illusione che
ne costituisce il pregio del- l’azione. fiel giorno 3
setUrobro 1820^ a ricbh^ta . generale &l replica il grandioso
spettacolo del famoso incendio e di> sti’Uzione della celebre città di
Troja^ causato dal Ratto d’Elena fatto da Paride. Quindi è
die lo spettacolo verrà eseguito con ujaggior nuineró d’attori^ di
truppe, di bighe, e di tutti quegli importanti accessori che esige la
nobiltà e grandezza deirargomento. Esperienze aereo fisiche
d^eseguirsi soltanto aWaltezza delle piante del professore Già'
corno Gnrnerin di Parigi^ nel giorno 10 settembre 1820 alle ore 6
pomei'idiane. Appoggiato il detto Garnerin ai tratti
d’aggradimento dimostrati al suo spettacolo, che ebbe l’onore di
dare nello scorso agosto sulla grande piazza d’armi, egli si
accinge a darne un altro nuovo, di sommo interesse, e di particolare sua
invenzione. Detto spettacolo consisterà nel combattimento delle
Co- mete preceduto dalla prova del paracadute, eseguita con un
animale vivo, che ritornando a terra, discenderà tranquillamente nella
stessa arena, e da un pallone, col quale il professore, dimostrando la
necessità dell’inven- zione del suo paracadute, farà conoscere appieno le
tern ribili catastrofi succedute a Pilatre-des-Roziers, e mada- ma
Blanchard ed al rinomatissimo italiano Zambeccari p*r mancanza del
paracadute, c darà altre espegenze areo-pirojecniche.La conquista di
Belgrado. Grandioso spet- tacolo per il 17 settembre 1820 . Di-
retto da Girolamo Coppa. , Quel Belgrado, che nella storia della
guerra aveva res i illustri i nomi di Corvino, Huniade, Massimiliano
di Baviera, ed Eugenio di Savoja era finalmente destinato a
coronare la gloria di Loudon. SuU’eseiTipio deir anno scorso
penetrarono anche in quest’anno sul piàncipio di agosto i Turchi nel
Banato dalla parte di Schuponeck, si sparsero per tutta la valle, e
volevano avanzare verso Mahadiaj ma li 28 agosto cac- piolli il generai
Cleirfart intieramente dal territorio Au- striaco. Loudon restituissi 3
Seraelicco, si accorsero or ora chiaramente i Turchi, che si trattava
dall’assedio di Belgrado. Il Bascià fece chiedere istantemente una
tre- gua; Loudon vi condiscese, nello stesso tempo facendo
intendere al Bascià di decidersi se voleva rendere la piazza, ed accettare
la libera sortita. La quale proposta venne ricusata dal Bascià, e s’
incomincia col bombar- damento della fortezza. Al sito delle Carceri
s’innalzerà la fortezza di Belgrado cinta dalle sue inespugnabili mui*a
in istato d’assedio. L’arena del circo rappresenterà un campo di
battaglia, sparso qua e là di tende militari, padiglioni, attrezzi
da guerra, cannoni, mortaj, e di truppe Tedesche ed Un- gheresi. Il
colonnello conte d’ Argentau, parla ai suoi subalterni. Miei signori, noi
siamo stati prescelti dal Maresciallo Loudon, per l’ iutrapresa
dell’attacco della fortezza. Ma tutto dal nostro zelo dipende, spero
quindi che ognuno impiegherà tutte le sue forze per sostenere anche
in quest’occasione l’onore del nome che portiamo, e la gloria che il
nostro Maresciallo si è acquistata. Non vi è bisogno d’ulteriori
esortazioni lusingandomi di po- tere giustamente riporre in loro tutta la
mia fiducia. S’ Incomincia l’ assalto della fórtezza. La
soldatesca, ripartita in quattro colonne, attaccano ad un tempo di-
verse parti. — I volontari precedono ciascuna colon- na, e i granatieri,
che fra questi si trovano, marciano alla testa. Le truppe sono seguite da
trecento lavoratori con fascine, corbelli, sacchi d’arena, ed altri
necessari strumenti per costruire sul momento batterie, ridotti, ed
altre fortificazioni. Si attaccano con coraggio e riso- lutezza} le
paL'zzate vengono superate. Il cannonamento sostiene l’attacco. 1 Turchi
si difendono disperatamente, vengono con impareggiabile valore respinti,
si gettano nella piazza migliaja di palle, granate e bombe, Il
Bascià fa chiedere un abboccamento al Maresciallo per la capitolazione
della fortezza, sortono da Belgrado tre dei più ragguardevoli fra i
Turchi con il loro se- guito, si presentano al padiglione del generale
Loudon. 11 Bascià affetta di essere un Mussulmano estremamente
zelante, riferisce essere dal supremo destino determinata fino
dall’eternità la resa della fortezza; e spiegò quindi il desiderio di
essere condotto colla sua guarnigione a Nissa, ma Loudon sceglie in vece
la fortezza d’Orsova. L’esercito Austriaco prende possesso della fortezza
en- trando trionfalmente con acclamazione di gio|a; al mo- mento
venne basato sulle mura della fortezza un ma- gnifico arco trionfale
guernito di fuochi artificiali; opera del pirotecnico Giovanni Battista
Piomarta. I. Le cannonate secche u mazzo di stelle. II.
Dodici piramidi intrecciate di serpenti. HI. Esplosione di
bombe. IV. Otto circoli di fuoco a colori diversi. Gran
decorazione all^arco trionfale. VI. Esplosione di granate.
VII. Una sfuggita di due mila razzi formeranno in aria un bouquet
al naturale. Vili. Un fuoco alla foggia d*un acceso Vesuvio si
alzerà con strepitosa batteria che annuncierà il termine dello
spettacolo. Prima discesa col Paracadute di madami- gella
Garnerin areoporista, che avrà luogo il 5 maggio 1824, e corse di fantini
a cavallo ed a piedi, eon marcia trionfale, dirette da Girolamo
Coppa. L’apertura delle porte sarà annunciata da alcuni spari
d’artiglieria. Due gran bande di musica militare esegui- ranno dei pezzi
scelti d’armonia durante tutto lo spet- tacolo. Madamigella Garnerin
monterà nell’aerostato per eseguire la sua ascensione, che sarà
immediatamente se- guita dalla sua discesa col paracadute, e sarà
preceduta altresì dall’ascensione di un pesce rombo indicatore
della direzione. Ventiquattro fantini a piedi eseguiranno una
b^n r- dinata corsa, che sarà divisa in tre parti, ciascuna
com- posta di otto fantini, che faranno tre giri, ed i primi delle
singole parti, che giungeranno alla meta, dovranno rimettersi ad altra
corsa di tre giri per la decisione dei premi. Sortiranno poscia altri
ventuno fantini pure a piedi, i quali dovranno fare tre giri, ed il primo
di loro che toccherà la meta, verrà unito a primi tre. 1 quat- tro
fantini che primi furono nell’aringa, dovranno di nuovo cimentarsi ad una
corsa di altri tre giri per la decisione dei controscritti premi.
La corsa dei fantini a cavallo, venne distribuita come segue.
Uodici fantini a cavallo eseguiranno due corse, divisi a sei per sei,
compiendo i tre prefissi giri circo- — 35 — •
lari. I sei fantini a cavallo che nelle suindicate due corse
saranno i primi arrivati alla meta, si disputeranno la palma con altra
corsa, Gssata ugualmente di tre giri, e i tre che rimarranno vincitori
avranno il relativo premio. (0^oiMe & 0o^ao(Me
Sfi/ dei/ Sedine e Oo^itoiue deu ^
(XitUitt/ ^teuMo ('RsuMuoii/tcOc'e de6
^texMMO uv .^. cRou/i. CORSA DEI FANTINI A
CAVALLO. Preda Giuseppe Raja Domenico
I. 3oo Gioja ‘Pietro . . Ferri Luigi
II. 200 Picozzi Giovanni Slopani
Giuseppe III. 100 CORSA DEI
FANTINI A PIEDI. Pozzi Francesco I.
100 Tadei Giuseppe II. 80
Bardelli Carlo . III. 60 Toja
Ambrogio . IV. 4o Seconda discesa col
paracadute di madami- gella Garnerin nel Delta discesa sarà preceduta da
due corse, una di fan- tini a cavallo, la seconda de’barberi, con due
premj in- sieme di lìr. 6oo aust. e bandiere, con estrazione pub-
blica di dodici premi o lotti da lire 5 o a lire 8oo: for- manti insieme
una somma di lire 2600 austriache che andranno a vantaggio degli
spettatori i quali avranno preso dei biglietti d’entrata a questa seconda
esperienza -* 36 — e spettacolo, e detti numeri
corrisponderanno a quelli che saranno estratti a sorte.
Madamigella Garnerin ha fatto stampare 26000 bi- glietti di entrata
alla sua esperienza, i quali biglietti porteranno ciascuno un
numerocorrispondente a quello dei. 26000 biglietti che saranno posti
nelle urne, dalle quali ne verranno estratti dodici, pei dodici prenij
pro- messi. Detto spettacolo sarà diviso cqme segue:
I . Corsa dei fantini a cavallo, i quali dovranno ese- guire tre
corse complete, ed i primi tre che arriveranno alla meta dovranno
cimentarsi in un’altra corsa di tre giri, per disputarsi nuovamente i
premj. II. Corsa dei barberi i quali dovranno eseguire tre
giri dell’arena e i primi due, che ariveranuo alla meta avranno il
premio. III . Seconda corsa dei fantini a cavallo, che
serviranno a determinare Tassegnamento de’premj. iei/
da OavoEfi. ^VOUllO da ^ autiM/ ut/
ilowiuw utoW'e teuMO JIduS CORSA
DEI BARBERI. Preda Giuseppe Gardiaali Nicola I.
II. i5o CORSA DEI FANTINI A CAVALLO.
Angiolini Gius. Laudoni Giosuè Ferrario Frane.
Burella Antonio I. II. 200
i5o Ascensione di madamigella Garnerin, die farà un
giro intorno aU’arena. Poi s’innalzerà ad una considere- vole altezza^
indi farà la sua discesa col paracadute. y. Si darà fine allo
spettacolo con l’ estrazione pub- blica di dodici premi o lotti dalle
lire 5 o fino alle 800. Avendo il Consiglio Comunale della regia
città di Mi- lano deliberato di festeggiare con pubbliche dimostra-
zioni di esultanza il fausto avvenimento della presenza in Milano di S.
M. 1 . R. Paugustissimo Monarca Fran- cesco I, la Congregazione
Municipale e la Commissione delegala del predetto Consiglio deducono a
notizia, che tra gli spettacoli pubblici divisati si faranno le
corse delle bighe e de’fantini a cavallo, e dell’esperienza arco-
statica col paracadute della signora Elisa Garnerin, nel- l’anfiteatro
dell’Arena il giorno 24 maggio 1825. 1 6 t'cu
Dei/ GrtoafCi/ (S^X^oiu/e e Gogii/oiMe
Dcgfi/ e Dei. ^ «uh 111/ ^celiti 0
111/ cHoilMIl/ 0 nt< 3 t */6 DeC ^telino
III XeceS. 3 TL. CORSO DELLE BIGHE. Anglolini
Carlo Trabattoni Paolo I. 100
Fontana Gio. B. Radaelli Santino II.
80 Suddetto .... Cardinali Gio. d. il
Pastirolo CORSA DEI FANTINI A CAVALLO.
Formigini Gius. Giuliani Gius. I.
80 Castellani conte Gaetano . . . Vaisem
Carlo . . II. 60 PezzinI Giosuè
Gioja Domenico III. 5 o Spettacolo
eseguito da Francesco Orlandi nel 5 aprile 1827 .
L’areonauta Francesco Orlandi eseguirà il suo volo areostatico, sempre
che l’ atmosfera si trovi abbastanza tranquilla onde pòssa lo stesso
condurre senza ostacolo il suo naviglio per le difficili ed azzardose vie
dei venti e dimostrare col fatto la verità delle sue teorie.
Aggiungerà la tanto apprezzata corsa de’fantini a ca- vallo vestiti
all’inglese, distribuita come segue; dodici fantini a cavallo eseguiranno
due corse, divisi a sei per sei, facendo i tre prefissi girl intorno
all’arena. I sei fantini a cavallo chd nelle suindicate due
corse saranno arrivali primi alla meta, si disputeranno la palma
con altra corsa, fissata egualmente di tre girl, ed i tre che rimaranno
vincitori avranno il relativo premio. Lo spettacolo sarà reso più
brillante dalla musica eseguita da due bande militari. Dm
QfxvcMi, eJLoiii'e 6 Oo^nom'e- Dei, ^ imtiwi/
^i>edwo ut, Qixiòi Jlowtitwittew'e Def
5*ceiitio 111/ cibitA.' Giuseppe Preda. Brunello
Pietro. I. 4oo Angelo Briani .
Raja Domenico . II. 000 Paolo
Pozzetti , Ferri Luigi . . III. i5o
— Sg — Terza discesa col paracadute delV
aereoporista francese EHisa Garnerin. Questa discesa
preceduta dalla prima ascensione col pallone ritenuto da funi, della sua
giovine allieva Eu- frasia Bernardi che farà il giro dell’anfiteatro.
Detto spettacolo verrà preceduto dalle corse de’fantiiii a piedi ed
a cavallo, e dei barberi, dirette da Girolamo Coppa, secondo il costume
degli antichi Greci e Ro- mani, ed avrà luogo nel i 5 aprile 1827.
Due complete bande militari suoneranno alternativa- mente durante
lo spettacolo. Prima e seconda corsa de’fantini a piedi.
Corsa de’fantini a cavallo. Terza e quarta corsa de’fantiui a
piedi. Corsa de’barberi. Quinta ed ultima corsa
de’fantini a piedi. Marcia trionfale. I . Gran corso di
^musica militare. II. Un cocchio con quattro cavalli di fronte, che
por- terà il Prefetto dei giuochi col suo seguito. IH. La
prima coorte. IV. Otto porta-stendardi e trofei. V.
Seconda coorte armata di brandi e di scudi pe- santi. VI» Un
gran Carro trionfale tirato da otto buoi a quattro a quattro di fronte,
pei vincitori dei giuochi circondato da ventiquattro genj
simboleggiati. VII. Terza coorte armata di giavellotti con
scudi. VHI. Squadrone di tutti i fantini a piedi. IX.
Squadrone di tutti i fantini a cavallo, che chiu- derà la marcia.
• Terminato [l’esperimento, Tareonauta rientrò nel
circo in carrozza scoperta per risalutare il pubblico esultante,
che l’acclamava. Le corse dei fantini a piedi, a cavallo e dei cavalli
sciolti riuscirono animatissime, per cura di — 4 » “
Girolamo Coppa, il quale in tali circostanze è stato sem- pre
chiamato, come quello che per le molte corone rac- colte in simili
solenni disfida, combinava colla pratica e col consiglio la fiducia di
chi si lasciava da esso di- rigere. c)lboiM6 e
Gogmsui/e ut cllotwiM'Outowe CORSA DEI
BARBERI. Gardinali Nicola I. 3oo^
Ralli Giuseppe . II. 200 Ghiggini
Gio. . IH. 100 CORSA DEI FANTINI A.
CAVAL LO. Conte S. Antonio Passi
Gennaro . > I. 5oo Preda Giuseppe
Brunello Pietro. II. 3oo Gardinali
Nicola Merli Giuseppe. III. 200
CORSA DEI FANTINI A PIEI )I.
Rossi Giuseppe. I. 100 Feltrini
Eugenio. . IT. 8o Pozzi Francesco
III. 6o Gozzini Davide. IV. 4o
• f O . » . ’ Straordinario
spettacolo che sarà eseguito dalla eotnpagnia del eavallerizzo Alessan-
dro Guerra Romano^ nelV^ luglio 1S27. La solennità di nn magnifico
torneo alla foggia di quelli ’che ese^uivansi ne^passati tempi, formerà
la. spet- tacolosa festa ^le dal cavallerizzo Alessandro Guerra
verrà esposta al Pubblico* con l’aggiunta di varii eseroizii d’e-
quitazione, corse a cavallo ed a piedi, e colle bighe di- rette da
Girolamo Coppa. Distrihiizipne drllo spellacolò: Al
suono della musica di due corpi di bande mili- tari che alterneranno le
loix) sipfonie si faranno: I. La corsa di veutiqq^ttro fantini a
piedi, divisi in tre schiere di otto per ciascuna, che eseguiranno
tre giri, e i vincitori di ciascuna dovranno cimentarsi in altra
simile corsa per il conseguimento de’rispettivi premi. li. La corsa
dì tre della compagnia Guerra die ese- guiranno ciascuno sopra due
cavalli* gli esercizii, cosi detti giuochi di Troja, effettuando a gran
corsa tre giri dell’Arena, e il primo che giungerà alla meta,
otterrà una bandiem d’onore •guernita in oro. Il premiato fu
Luigi Guillaume. III. La corsa di sei bighe, che gareggieranno a
due a due, facendo parimenti tre giri, ed i vincitori di que- sta
corsa dovranno essi* pure citoentarsi altra volta in egual numero di gh^i
per riportarne il premio. IV. Comincierà il torneo col maestoso
ingresso dei cavalieri giostranti muniti di armatura di ferro e
lan- cia, distinti ciascuno dai colori de’rispettivi abiti e sciar-
pe, ed accompagnati dql loro particolare corteo^ saranno essi* preceduti
dall’araldo e dal corpo dei trombettieri pure a cavallo, ed eseguiranno
il gran torneo* nel cen- tro dell’Arena in apposito steccato; ornato di
trofei ana- loghi allo spettacolo, colle ins’egne dei giostratori.
Dato il segno colle trombe, si cimenteranno i sei cavalieri a due,
e i tre vincitori dovranno rinnovare tra di loro il combattimento, sinché
uno rimanga superiore a tutti — 4 ^ — ^ ptu- aver
toccato colla punta della lancia l’insegila degli avversar]. .V.
Combattimento dei delti tre vincitori tra di loro pei* ottenere il premio
d’unar sciarpa d’onore ricamata e "uernita in oro. O
l Il vincitore della sciarpa fu Alessandro Guerra. VI.
Grande marcia trionfale; si vedranno i trombet- tieri, l’araldo, i
cavalieri giostratorr col rispettivp loro corteggio, le bande militari,
la prima coorte 'armata di scudi e lance, il gran carro trionfale tirató
da buoi,* che porterei donzelle abbigliate alla foggia delle Vestali,
so- stenenti corone di alloro, mirto e quercia pei vincitori;
seguiranno littori e genjianaloghi allo spettacolo, i porta- insegne con
vari trofei, i fantini che avranno eseguita la corsa a piedi e gli auriga
premiati, e finalmente al- tra coorte d’armati che chiuderà la
marcia. iDXjoiM/e » Qo^omie Deu Gapaffi. »
io, ^ CU/IÌÒmì/ • • II* O^aóAi'
cibiMUi'OiitaM 111/ ellou/it. CORSA DELLE
BIGHE. Aless. Guerra . Pifetro Brunello
I. 5oo Leop. Servolini Paolo
Trabaltoni II. 3oo Merliui e Preda
Gaetano Rovelli III. 200 CORSA
DEI FANTim A PIEDI. Giuseppe Rossi
I. 100 ' Eugenio Feltrini IL
8o Ariibr. Turconi .IStraordinario spettacolo che si darà
dalla compagnia del cavallerizzo jdllessandro Guerra nel
giorno 22 luglio 1827 . • Cousistente nelle corse di
dodici giovinetti in un sacco, di dodici nani, esercizj d’equitazione
sopra due destrieri, es’ercizj «seguiti da Faustina Guerra d’anni tre,
giuochi de’Coribanti sopra tre cavalli a dorso iludo, gran torneo
antico, pompa circense, e trionfo del cavallo arabo am- maestrato in
me^zo ad un’ fuoco artificiale; rappresen- tante un maestoso arco
trionfale nel mezzo dell’Alena. Primo straordinario sorprendente
spettacolo aereo di volatili diretto da Gio, ‘Battista Ferrano
modonese^ Le universali acclamazioni che otteiine Gio. Battista Ferrarlo
per questo genere di spettacolo prodotto a Modena, Parma e Torino, si
lusinga anche di meritare l’aggradimento del generoso pubblico
Milanese. I. \d un colpo di pistola uscirà da una cesta uno
stormo di colombi andando in traccia del loro padrone, e dopo voli vaghi,
e non limitati, caleranno ad un suo cenno al suoi piedi. II.
Sortirà un colombo che al preset’tare di una ban- diera calerà presso la
medesima, e vi si fermerà immo- bile girando sopra la bandiera
stessa. Un colombo chiamato il cannoniere, munito di miccia,
dopo varj voli, sparerà un cannone di bella grandezza. in campo un
colombo dello il sallatore, che farà il sallo dei cerchio a volonlà del
suo padrone con varie configurazioni e movimenti. V.
Usciranno un’altra volta tutti insieme i due stormi muniti di arma
arlifiziale, e combatteranno in aria tra di loro a fuoco vivo; e al
comando dei rispettivi coman- danti andranno alle loro posizioni.
VI. Un colombo chiamato Timpetuoso, passerà un cer- chio.
coperto di carta, e lo tornerà a passare dopo di aver rotto la carta
stessa. ^ VII. Una colomba detta la guerriera, volando a
campo aperto in traccia del suo padrone lo rinverrà ad un colpo di
pistola; e nell’atto che bramerà calare presso il medesimo le sarà presentata
altra pistola sulla quale essa «si fermerà immobile mentre sorte il
colpo. Vili. Altra colomba chiamata la cacclalrice, darà com-
pimento alla serie dei giuochi in mezzo di uno stormo; ad un colpo di
fucile si distaccherà dallo stormo e calerà .sopra il fucile medesimo,
dove resterà immobile ad una seconda scarica. Una banda militare
collocata al podio del pulvinare suonerà varj pezzi di musica.
Secondo straordinario spettacolo arco di vo- latili diretto dal
suddetto Ferrarlo^ Le universali generose acclamazioni, che ottenne Gio.
Battista Ferrarlo da questo illuminatissimo pubblico JMilanesp,
presentando nell’ultima scorsa domenica II suo .spettacolo dei colombi e
la generale cortese richiesta, perchè nuovamente lo esponga, sosi de.sse
stale le ben accette ragioni per replicare il suddetto spettacolo,
con l’aggiunta d’una corsa di- fantini a cavallo, distribuita come
sefrne: Dodici fantini a cavallo eseguiranno due corse, tlivisi
a sei per sei, corupieiltìo i tre prefissi giri dell’arena. I sei
fantini a cavallo che nelle suindicate due corse saranno arrivati primi
alla meta, si disputeranno il premio con altra corsa, fissata egualmente
di tre giri, e i tre che rimarranno vincitori avranno il relativo
pre- mio, con bandiera d’onore analoga;' si chiuderà lo spet-
tacolo con un giro de’fantini a cavallo vincitori delle corse, al suono
della banda militare. cSl^oiwe 6 Oogw/oiite Dei
^vo^'uetixtj Dei' SKooiue e Gu^uoiii'e Dir
éf aii'tiu'i • ^vatui} iit
a^iiuMa iitoci'f'/ DeE ^cenilo Jlou/Si
CouteS. Aotonio Fassi Gennaro . r.
3oo Bernareggi Paolo Gioja Angelo . .
II. 200 1 Donato Foglia . Borri
Giuseppe III. TOO Spettacolo maraviglloso
eseguito da Giacomo Gastellier di Parigi, macchinista e com-
positore di fuochi artificiali, nel 26 ago- sto 1827 . Esso
consisterà nella Regala o gara delle gondole, ossia battelli nell’arena
allagata. O Dato il segnale, tre battelli si
slanceranno alla corsa montati ciascuno da quattro gondolieri, e
compieranno due giri deU’arena. Altri sei battelli in due riprese
si contrasteranno la vittoria. I primi tre battelli vincitori in
ciascuna delle tre corse, dovranno cimentarsi ad un’ul- tima cor^a,
perchè vengano contraddistinti dalle diverse qualità
de’premj. ofiooitie e/ Oognoiiie •
cibiMmoivb^e iw cHau-òt. Paolo Podoni, Giovanni
Ricci, Pasquale Mari, Giuseppe Luca I. 800 Nicola
Frizato, Gaspero Plotli, Gio. Drago, Luigi Porlesi . .
IL 600 Angelo Garavaglia, Paolo Domiri,
Gio. Gerosa, Baldassare Ghezzi III. 0
0 Nulla si è omesso, per quanto si è potuto, affinchè
questa parte del divertimento dilettevole riesca ed in- teressante. I
battelli furono sqelti d’ agile forma, vaga- mente ornati e con eleganza
d’addobbi. Esperti, robusti erano i gondolieri, alcuni scelti dai paesi
lungo i nostri laghi, altri ancora fra gli esteri. * Poscia
sorgeranno dall’onde ai lati dell’edifizio due amene isolette, ed in
-mezzo ad entrambe dominerà l’albero così detto della cuccagna.
Otto per ogni albero saranno quelli che si sforzeranno di toccarne
la cima, genei’oso sarà il bottino, e due bande militari li
accompagneranno sui battelli alla ri- spettiva isoletta nell’audata, e
nel ritorno. Nel mezzo dell’arena sarà basato un grandioso,
ed ottangolare edifizio, che porta per titolo; Il gran tempio
della Pace illuminato a gloi’no con lance di variati colori.
I. Si darà principio al fuoco con colpi di cannone, razzi, e
tourbillons. II. Due grandi congegni rappresentanti il sole, la
luna e le stelle del firmamento, che spariranno poscia con
strepitose esplosioni. III. Razzi a doppio volo, e varj altri
bellissimi fuochi. IV. Avventura di don Chisciotte colle ali, un
mulino a vento, e brillanti vedute. Due risplendentissime
bombe a pioggia d’argemo. VI. Sei girandole prenderanno diverse
conformazioni jjer ben venti volte. VII. Nuovissimo
comb£^ltimento di soli, che cesserà coit grandi scoppj. Vili.
Mirabile batteria di candele egiziane. IX. La gran cascata di
Saint-Cloud, presso Parigi, la quale con quattro straordinarie cadute
genererà un pia- cevolissimo mormorio di una cascata d’acqua.
X. Moltiplici fuoclii della più ricercata invenzione. XI. Si
getteranno nell’acqua diversi pezzi di fuoco d’un genere affatto
singolare, i quali sorgeranno di nuovo dall’acqua, ascenderanno nell’aria
e scoppieranno. Lo spettacolo avrà fine con un strepito di colpi
di grandi racchette. Partiranno esse dalle torri sopra le cosi
dette carceri, e‘ in lato opposto della porta trionfale, per cni
incrocicchiandosi, e cadendo nell’onde produrranno un vivissimo
effetto. Spettacolo da eseguirsi da Francesco Orlandi
il lÒ agosto 1828 . f L’areonaula Francesco
Orlandi, Bolognese, spinto da brama soltanto di lasciare anche in questa
insigne Me- tropoli quel nome, che co’suoi esperimenti egli si è
pro- cacciato nelle città, ed in particolare con quello recente-
mente eseguito in Genova alla .presenza di quella sovrana corte, di molti
illustri personaggi, e di una immensa popolazione, ardisce coraggioso di
cimentarsi di nuovo in Milano, colla lusinga di meritarsi anche qui la
sod- disfazione di un Pubblico colto ed illuminato, quindi con
superiore autorizzazione ha 1’ onore di prevenirlo, che nei suddetto
giorno darà nell’anfiteatro dell’Arena, tre spettacoli degni della
pubblica ammirazione. In prima l’Orlandi eseguirà il suo volo
areostatico, facendo conoscere che l’uomo può dominare non solo
sulla terra e sull’acqua, ma ancora nefjli aerei spazj. - 48
- Secondariameule si rappresenterà uno de’più sorpren- denti
fenomeni della natura, quale è il Vesuvio di Na- poli nell’atto di una
delle più forti sue eruzioni. Nulla sarà certo trascurato onde imitare
(per quanto permette Tarte e Tingegno) col fuoco artificiale, questo
orribile fenomeno, imponente spettacolo che richiamerà l’antica
memoria degl’infelici Pompejani. Per terzo cessata l’eruzione,
apparirà improvvisamente un teatro, rappresentante la reggia d’Apollo
tutta traspa- rente, cpn l’anfiteatro ^legantemente illuminato;
spetta- colo per Milano affatto nuovo, eseguito soltanto l’anno
scorso in Firenze nell’occasione della festa Ji san Gio- vanni, e
replicato colà in quest’anno con eguale felice esito. La
regata Feneziana nel 17 agosto 1828 . Fu sempre soggetto di
universale ammirazione in Ve- nezia lo spettacolo della cosi detta
regata, e venne co- stantemente ritenuto che il medesimo effettuare non
si potesse se non in quella sola città. Dipendentemente dalle
verificazioni di fatto già ese- guite, si è ormai conosciuto, che la
Veneta regata può aver luogo eziandio nell’Arena di Milano non solo,
ma più ancora che l’effetto al Pubblico sarà per riuscire di
maggiore interesse attesa la posizione della località. Per render
più interessante il divertimento, la gara avrà luogo fra i più esperti
gondolieri di Venezia, qui appositamente condotti. Vi sarà molta varietà
di gon- dole e battelli secondo il metodo e costume Veneto.
Si vedranno riccamente fornite in seta le così dette Bissone ad
otto remi. Malgarotte a sei remi e Peote, barche tutte di una diversa
costruzione. Due saranno le orchestre, acciò la musica renda
più animato lo spettacolo. Si darà principio con una marcia
maestosa di tulle le barche appositamente trasportate da Venezia, alla
qual|J “ 49 “ seguirà un cosi detto fresco, o corsa di
tutte le ridette barche. Dopo questo, al segnale di una
tromba, avrà luogo la gara de’battelletti ad un remo con premi, cioè
pri- mo e secondo premio; e per ultimo il premio del por- chetto
secondo il costume di Venezia. Seguirà poscia un nuovo fresco, o
corsa di barche, fino a tanto che verrà allestita una seconda gara
di gondolette a due remi, sostenuta da differenti barcaiuoli. In
fine verrà chiuso il divertimento con nuova marcia, dopo della quale il
suono delle trombe, annunzierà il termine dello spettacolo.
c)ei/ llt> Jbiuiii/ijwtat* ^veiwo
IH -^t/e cUsttòt. GONDOLE A DUE RESI!. Musico
Giuseppe, e Celega Giu- seppe I. 8co
Buranello Natale, e Forti Gio- vanni
IL 4oo BATTELLETTI AD UN REMO.
Calderan Andrea . > . . . I. o
o Papassissa Giuseppe . ; . . II.
200 Spettacolo della regala Veneziana eseguitosi nel
24 agosto 1828 . Si darà principio allo spettacolo con una corsa di
tutte le barche di ogni qualità e grandezza, appositamente
trasportate da Venezia riccamente addobbate alla Turca, Spagnuola, Veneta
ec. non che delle gondole, battelli e barche d’ogni forma. 4
— - 5o — Al primo squillo di tromba avrà luogo la gara dei
piccoli battelletti a due remi eseguita da esperti rema- tori di
Venezia. Finita tale corsa ad uu secondo segnale si
slanceranno nell’acqua dodici esperti nuotatori, i due primi vinci-
tori andranno a prendere i loro premi stabiliti. Dopo tal gara vi
sarà quella delle Bissone ad otto remi dei remiganti Comascbi e del Po,
contro i barca- juoli Veneziani. Avendo avuto luogo una scommessa
di trenta pezzi da venti franchi, verranno questi depositati al
momento presso i giudici che ne disporranno a fa- vore del vincitore.
Sarà vincitrice quella delle Bissone che compirà prima il quarto giro
dell’Arena. Le due Parti interessale in questa scommessa, saranno nelle
ri- spettive Bissone, onde animare vieppiù i remiganti da loro
scelti. dboiue o Oo^u'oiMe' ^teirn^o
cRo/mM'oatat»'» BATTELLETTI A DUE RI
EMI. Calderau Andrea e Tasso Va- lentino
I. 800 Friselle Bartolomeo e Bagarolto
Giuseppe II. 4oo Tedesclii
Antonio e Papassissa III. ORI.
Giuseppe N U 0 T A T aoo Clavanzani
Giuseppe .... I. i 5 o Sambo Domenico
..NELLA PRIMA BISSONA L. Vendetta Girolamo,
Celego Giuseppe, Gauasselle Girolamo, Alberante Santo, Musico
Giuseppe, Buranello Natale, Marella Lorenzo, Forti Govanui.
Spettacolo del giorno 19 luglio 1829 . Fra tutti gli
spettacoli, ch’ebbero finora luogo in questo magnifico anfiteatro, i più
aggraditi certamente, ed i più acclamati furono le corse delle bighe,
dei cavalli, e de’fantini a piedi. I Il concorso
straordinario di spettatori, di che in ogni occasione di tali corse
videsi affollato l’anfiteatro, ne fa testimonianza. >
L’anfiteatro, già interamente ristaurato ed abbellito, anche per
cura dell’ iutraprenditore, fu elegantemente disposto per lo spettacolo
succennato. Dall’istante in cui verrà aperto al pubblico
l’anfiteatro sino aH’incominciamento delle corse, e negli
intervalli di queste, due bande militari alterneranno degli scelti
pezzi di musica. Alle ore sei cominceranno le corse col- l’ordine
seguente: I. Corsa di sei fantini a cavallo, che slanciandosi
dalle carceri al primo squillo di tromba prendendo la via di mezzo alle
due spine, indi la destra, percorreranno tre volte l’anfiteatro compiendo
l’ultimo giro d’avanti al pulvinare, ove è stabilito il palio, e si
troveranno i signori delegati; fra i primi tre vincitori avrà poi
luogo una seconda corsa. II. Altra corsa di sei fantini a
cavallo. III. Corsa a piedi, che verrà eseguita da otto
giovani dilettanti, che compiranno tre giri intorno alle spine, ed
ognuno dei tre vincitori riceverà una bandiera d’onore. Ottennero
questo premio: I. Davide Dolnago. II. Giacinto Cipolla.
III. Domenico Comasco. IV. Corsa di sei fantini a cavallo,
vincitori nelle pre- cedenti corse, onde disputarsi i primi premi.
Y. Corsa di sei bighe, che percorreranno esse pure tre volte
l’anfiteatro, compiendo parimenti l’ultimo giro davanti al pulvinare.
vr. Altra corsa (li quattro bighcj 11 vincitore avra una baudiera d’onore
e il premio di Lir. loo. Proprietario Bonella Gennaro.
Aurica Santino Redaelli. VII. Corsa di quindici barberi, che
non ebbe li suo pieno effetto per impreveduto accidente.
Vili. Lo spettacolo verrà chiuso colla marcia trion- fale del
vincitori di cadauna corsa all’intorno dell’anfi- teatro, partendo dalle
carceri precedute delle bande militari. SLoiM/e e
Dei' Gix/va-lh iSffjoute e Gogw/oiite t'enfi/
6 Da/ ouAÌm/ ^ceuM'O lli<
cRoilMUiOM-to» iw/ CORSA DELLE BIGHE.
Giuseppe Preda Paolo Traballoui I.
800 Angelo Radaelli Gaetano Rovelli
II. 600 Carlo Angioliai Luigi
Vimercati III. 4oo CORSA DEI EANTINI
A GAYAL LO. Salvatore Passi .
Salvatore Passi . I. 600 Giuseppe
Merlini Pietro Brunello. II. 0
0 Nicola Sangiorglo Prances. Perrario
III. 3 oo / Spettacolo che si darà
il ZO agosto 1829 . • A tenore del manifesti già pubblicati avrà
luogo il già annunciato spettacolo di corse, aggiuntivi gli altri
divertimenti sotto indicati, il quinto dell’introito netto —
53 — è destinalo a sollievo dì alcune famiglie indigenti.
A.n- che per questo titolo non furono risparmiate spese, onde lo
spettacolo riesca più variato e più accetto. I. Corsa di fantini a
cavallo, i primi quattro, die giun- geranno al palio, dovranno eseguire
una seconda corsa fra di essi per disputarsi i premi. II.
Coi'sa di dodici somarelli montati da gobbi-nani, ciascuno di questi in
diverso abito di carattere carne- valesco, uscendo dalle carceri,
eseguiranno due girl com- piendo Tultlmo davanti al pulvinare.
Il primo del suddetti avrà un premio d’una bandiera ed un
borsellino con denari. III. Seconda corsa dei quattro fantini a
cavallo vin- citori nella prima, per disputarsi i premi. IV.
Corsa di sei bighe che percorreranno tre volte l’anfiteati’O, compiendo
1* ultimo giro davanti al pulvi- nare. — Le prime quattro, che
giungeranno al palio, eseguiranno una seconda corsa per disputarsi 1
premi. V. Seconda corsa delle quattro bighe vincitrici nella
prima corsa, per disputarsi i premi. VI. Corsa de’ barberi, 1 quali
restando chiusa la via di mezzo alle spine, percorreranno tre volte
l’anfiteatro, compiendo l’ultimo giro davanti al pulvinare. VII-
Marcia trionfale dei vincitori, con corredo di due bande militari che
terminerà il giro davanti al pul- vinare. Vili. Nell’atto, in
cui la marcia trionfale compirà il giro, verranno incendiate sei grandi
piramidi, collocate alle estremità e nel mezzo delle spine, e sormontate
da altrettanti gran vasi. Altri quattro gran vasi collocati pure
sulle spine a diversa distanza, e diverse batterle prenderanno fuoco nel
tempo medesimo. L’anfiteatro ri- marrà illuminato da un sorprendente
fuoco del Bengal. L’artista pirotecnico Antonio Zucchi si lusinga
di pre- sentare in questo breve passatempo un lavoro dell’arte
degno dell’ammirazione dei suoi concittadini. Sei/ Dai
OiWafK/ ’òecSv JìoLVU/acc iJiMUMOiAtave
3 , 3 e iex, ^ (xvtùt*/v ecc. "òli
^veuMo COUSA DELLE BIGHE. Preda Giuseppe
Trabattoni Paolo I. Quadr. 7 di
G. Ganavesi Giacomo Rovelli Gaetano
II. 5 Gatti Gaetano . Comisoli Carlo
. III. 4 » Garillio Giuseppe
Pomè Giuseppe IV. 6o lir. A. CORSA
DEI FANTINI A CAVALLO. Passi Salvatore .
Passi Salvatore . I. , Quadr. ^ di
G. Merlin) Gius. . Brunello Pietro
II. 3 », Castellani liorenz. Brelino
Andrea III. Pagani Giovanni Smid Giacomo
. IV. 3o lir. A. CORSA DEI BARBERI.
Castellani Lorenzo Cavalla Inglese I.
2 1/2 Q. Sperati Luigi . . Cavalla Transil-
vana II. 1 1/2 » 1 »,
Nicola Gardinali Cavallo Polacco III.
La Quadrupla di Genova equivale ad Austr.
L. g5. Grandioso spettacolo d’ equitazione eseguito
dalla compagnia del cavallerizzo Luigi Guillaume il 5 ottobre 1829
. I. Coi piacevoli e puerili travagli il piccolo Davidde
Guillaume in aspetto di amorino darà principio al trat- tenimento. Farà
detto fanciullo due volte il giro della vasta Arena sul cavallo in piedi,
ed arditamente mano- vrerà secondo il solito, producendo quella
meraviglia che può destare un adulto coraggio in sì tenera età.
— 55 — II. Nuovo spettacolo presenteranno sedici
individui alti ed in foggia di giganti patagoni dell’America, i
quali correranno due volte d’intorno al grande anfiteatro di-
sputandosi il palio. IH. Tre cavallerizzi (ciascuno in piedi su due
cavalli) rappresentanti gli esercizii, e giuochi detti di Troja.
IV. Il più e più volte applaudito volteggiatore Luigi Guillaume il
figlio, si produrrà ora con sempre maggiore impegno a dar saggi di sua
intrepida perizia, del :nol- tiforme travaglio su tre cavalli a dorso
nudo ed a ra- pidissimo corso. V. Gara a celere corsa di
varii giovanetti artisti, che vestiti in costume inglese percorreranno
per ben tre volte l’arena a cavallo ad uso de’ fantini, ed il primo
percepirà la bandiera d^onore. VI. Ricomparirà il predetto Luigi
Guillaume guidando in piedi quattro cavalli a dorso nudo.
VII. Marcia trionfale dei vincitori, corredata d’armo- niose bande
militari. Vili. Alle spine centrali dell’Arena s’innalzeranno
quat- tro archi trionfali sfavillanti con fuoco d’ artifìcio — Un
giovine in abito d’antico guerriero, montato sopra veloce corridore oserà
lanciarsi con furiosa corsa in mezzo, e fendere replicate volte l’ una
dietro l’ altra le ignee macchine, offrendo all’occhio stupefatto misto
il diletto collo spavento. In questo punto il grande anfiteatro si
troverà all’istante illuminato dal più brillante splendore d’un fuoco del
Bengal. Spettacolo diesi darà il ÌG maggio 1830 dalla
famiglia Uetz. Una parte dei presenti divertimenti, è affatto
nuova per l’anfiteatro. La famiglia Uetz, a cui ne è appoggiato
l’esecuzione, è nella ferma fiducia, che se le particolari sue fatiche
nelle grandi forze d’Alcide, negli equilibri, e nelle piramidi Greche non
riesciranno di sorpresa. come nei molti teatri in cui furono
eseguite; lo saranno a motivo della grandezza del circo. Essi sono divisi
come segue: Da una corsa di fantini a piedi, e cuccagne, e
da un magnifico fuoco d’artificio. I. Due ricche ed eleganti
cuccagne erette nel mezzo dell’arena, ed a conveniente distanza l’una
dall’altra. I contendenti all’acquisto saranno contraddistinti con
segui particolari. IL Equilibri e Piramidi Greche della
numerosa fa- miglia Uetz, eseguite sovra il gran palco
appositamente innalzato nel mezzo del circo. III. Corsa di
dodici fantini a piedi, percorreranno l’arena tre volte, ed i primi che
arriveranno al palio percepiranno la bandiera d’onore. Il
primo. Davide Colnago. Il secondo. Giacinto Colnago. Il
terzo. Eugenio Feltrini. Attitudini e posizioni dell’alcide Francesco
Uetz e di quattro fanciulli sovra un gran carro tirato all’in- giro
dell’arena da quattro cavalli riccamente bardati. V. Grandi forze
d’Alcide sul palco posto come sopra. VI. Marcia dei fantini e di
tutti quelli che compone- vano lo spettacolo accompagnati da due bande
militari. \1I. Gran fuoco artificiale diviso come segue;
Tre grandi girasoli, rappresentanti l’iride al naturale. Gran
fuoco di battaglia con duecento colpi di bomba, ed otto esplosioni di
palle lucenti. Tre sorprendenti cascate di fuoco. Esplosione
di ventiquattro grandi miniere. L’aurora. Magnifica
decorazione rappresentante il tempio della Gioja, con diversi ornamenti
di fuoco, e due iscrizioni trasparenti. Illuminazione
generale di tutto l’anfiteatro con fuochi del Bengal, imitanti lo
splendore del sole. Durante la decorazione succennata verrà innalzata una
grande quan- tità di razzi, e verranno tirati moltissimi colpi di
can- none e di bomba. Spettacolo equestre eseqiiito dalla
coinpafjìiìa dì Alessandro 1850. Guerra.,
nel 5 1 maggio Alessandro Guerra non dimenticò nel
giro di tre anni i pegni gentilissimi di cortese favore accordali agli
spet- tacoli da lui dati nell’estate 1827 in questo stesso anfi-
teatro ed è appunto questo ricordo che lo incoraggia a rinnovare in
questa per lui propizia circostanza altro trattenimento. I .
Corsa di cinque cavalli a dorso nudo, ed a gran carriera del giovinetto
Giorgio Cocchi, il quale montato in piedi sopra due, guiderà gli altri
tre in avanti. II . Corsa dei jokejs inglesi a cavallo con tre
premj. III. Corsa di tre damigelle, percorrendo sul cavallo
che giungerà al palio, otterrà in premio un’elegante sciai
pa. prima Elisa Sciiier. Gara a gran carriera, eseguita fra quattro
gio- vinetti allievi, che dovranno percorrere tre volte
l’arena ad uso de’fanllni. Il primo fra d’essi che arriverà al
palio, avrà in premio trenta fiorini moneta di conven- zione. primo
Giorgio Cocchi. V. Eserclzj delti giuochi di Troja eseguiti da
tre cavallerizzi, in piedi sopra due cavalli contemporanea- mente,
ed a gran carriera percorreranno per tre volte l’ampio circo;
assegnandosi a quello, che arriverà il primo al punto di fermata in
premio una ripetizione d'oro. Il primo Pietro Ghelia.
VI. Il Guerra col mezzo di artisti più scelti di Mi- lano, e di
pirotecnici di Roma si è prefisso di presen- tare uno de più grandi
apparati di fuochi artificiali. Nel mezzo deU’amhuIacro superiore
alle carceri sarà bnsato un grandioso edifizio, che rappresenterà
l*e- slenio di un magnifico tempio di stile greco decorato da otto
colonne con figure e gruppi allusivi a Plutone e Proserpina. Le
sottoposte arcate, pure presenteranno una caverna, dalla quale escirà un
carro ornato da ana- loghi emblemi tirato da quattro cavalli
fiancheggiato da furie che offrirà allo sguardo degli spettatori il
Ratto di Proserpina in mezzo ad una voragine di fuoco. Si
darà principio ai fuochi con un assortimento di razzi con lumi e pioggia
d’oro, ed altri con batteria. Nel centro del circo succederà una
moltiplicità di fuo- chi variati fra loro. Le decorazioni del
tempio, in cima del quale vi sa- ranno Plutone e Proserpina, saranno
illuminati a giorno con lance a diversi colori, candele romane, e pioggia
di fuoco. La caverna sarà pure intrecciata da tourbillons,
can- dele e fuochi in diversi modi, che termineranno con colpi ed
esplosioni. Una moltiplicità di colpi di grandi racchette,
che parteranno delle due torri sopra le carceri, e che incro-
cicchiandosi in aria produrranno un vivissimo effetto. Al termine
dello spettacolo l’anfiteatro presenterà quasi un nuovo emisfero,
restando in un momento illuminato da un sorprendente fuoco di
Bengal. (Sfioom'e e ?ei. Sei/
Owaffi. Sffjome e Go^weiive M Gfoóòi/ l/W.
..^£,6 elio. Sperati Luigi . Brunelli Pietro
I. 3oo Gallarati Giacomo Gaggia
Bortolo ir. 300 Vignati Giovanni
Cozzio Giuseppe irr. 100 Spettacolo
dato dalla compagnia del caval- lerizzo Guerra li 6 giugno 1830 .
Sensibile il rispettoso cavallerizzo Alessandro Guerra ai generosi
pegni di favore continuamente accordati ai suoi esperimenti, nell’ atto
di sortire da questo suolo felice, studiò di dare ad ultimo pegno di
riconoscenza un nuovo straordinario soggetto di trattenimento al
rispettabile Pubblico. I. Corsa di dodici fantini a piedi, i quali
dovranno eseguire tre intieri giri, per l’ effetto che i tre primi,
che perverranno alia meta abbiano poi a cimentarsi in altra corsa.
il. Corsa di fantini a cavallo, i quali dovranno com- pire per tre
volte l’intero giro dell’Arena, ed i primi tre, che arriveranno alla
fermata, dovranno cimentarsi in altra corsa per decidere de’pi'emj.
III. Corsa di cinque cavalli a dorso nudo, ed a gran carriera del
giovinetto Giorgio Cocchi. IV. Corsa di una seconda schiera di altri
dodici fan- tini a piedi. V. Corsa di tre damigelle. La
prima, che giungerà al luogo fissato, otterrà in premio una collana
d’oro che fu Annetta Dcpcy. VI. Gara a gran carriera
sopra piccoli cavalli eseguita tra i quattro giovinetti allievi, il primo
fra d’essi che arriverà al palio, avrà in premio trenta fiorini in C.
M. che fu Gaetano Ciniselli. VII. Corsa di sei fantini
a piedi, che primi giunsero alla meta nelle due corse precedenti, per
determinare l’as- segnamento loro fissato. Vili. Esercizj
detti giuochi di Troia, eseguiti da tre cavallerizzi assegnandosi a
quello, che arriverà alla meta il premio d’una spilla di brillanti
che fu Giorgio Coccia. IX. Giuochi atletici e ginnastici
eseguiti da quaranta lottatori anfiteatrali. Corsa di Ire fantini a
cavallo risultanti i primi nella corsa precedente per determinare fra
loro i premi. XI. Ad oggetto di render più dilettevole il
tratteni- mento il Guerra procurò due artisti funambuli per opera
de’quali averà luogo il Ratto di Proserpina, e con la replica del fuoco
artificiale, che ebbe luogo il 3i mag- gio i83o. SlLoiive 6
Go^woiive Se)/ Sei/ allÓoi4i« 6 Go^twiu/e
dei ^ cmIÙmui ^veimo IM.
clbiuiivoiitei&e IM/ =^. clbu'iit. CORSA DEI
FANTIINI A CAVALLO. De Micheli Gius.
Galimberti Luigi I. 3oo Manini
Francesco Mazzoli Cipriano li. 200
Vignati Giovanni Palmoto Palma . III.
100 CORSA DEI FANTINI A PIEDI.
Colnago Davide I. 100 Tralanzi
Giuseppe IL 8o Madera Giovanni
III. Spettacolo pel 29 giugno 1830 . Lo
spettacolo sarà de’più variati e interessanti. Alle corse delle bighe e
dei cavalli, che fu sempre il diver- timento nell’anfiteatro il più
aggradito ed acclamato, come quello che alletta non solo, ma che desta
entu- siasmo ed ammirazione, chiamando lo spettatore a par- tici
pare dei generosi sforzi della bravura e del coraggio, saranno
frammischiati dei divertimenti puramente car- — 6i —
nevalesclii, trasporlall dal palco e dalla scena per de- stare le
risa. I. Passeggiata mimica in maschera. Il tanto applau-
dito balletto eseguitosi nel p. p. carnevale neU’I. R. Tea- tro
della Scala.' La comitiva si compone di un araldo a cavallo, e
di dodici caricature villereccie a cavallo in diversi brillanti
caratteri, cioè: Paesano Giardiniere Savojardo — Montanaro
Savojardo — Maltese — Rezio — Chinese — Spagnolo — Catala- no —
Samuese — Celtico — Greco — Frascatano — Stentarello.
Quadriglia a piedi. Giove — Giunone — Minerva — Mercurio — Apollo
— Diana — Ercole — Marte — Nettuno — Plutone — Dio Termine —
Diavolo — Bacco — Satiro — Don Chisciotte — Sancio Pancia — Uffiziale
Svizzero — Spa- glinolo — Turco — Gran Gigante — Spaccamondo — Due
Chinesi — Donna in caricatura — sei caricature diverse — sei Arlecchini —
sei Lapouf — Pulcinella Italiano — Pulcinella Francese — Girolamo —
Vecchio Bamboccio — Piccola Vecchia — Balia. II. Schiera di
sei fantini a cavallo. HI. Altra di sei fantini a cavallo, i tre
primi di ca- dauna corsa, che giungeranno al palio dovranno cimen-
tarsi in una terza corsa per disputarsi i premi. IV. Schiera di
dodici piccoli cavalli montati dalle succennate caricature.
V. Schiera de’sei fantini a cavallo vincitori nelle pri- me corse,
per disputarsi i premi. VI. Gran carro elegantemente ornato, tirato
da quat- tro cavalli in ricca bardatura, e preceduto dall’Araldo,
nel detto carro Francesco Uetz eseguirà ai quattro an- goli dell’anfiteatro
le forze d’Alcide, ed i sorprendenti equilibri, nei quali fu altre volte
tanto applaudito. VII. Corsa di sei bighe, le prime quattro a
giungere al palio dovranno eseguire un^altra corsa per disputarsi i
premi. Vili. Gran carro come sopra, su cui dalla famiglia
Uetz saranno eseguite piramidi ed attitudini Greche. iX. Seconda
corsa delle quattro bighe vincitrici nella prima, per disputarsi i
premi. X. Schiera de’sei piccoli cavalli vincitori nella
prima corsa, che ne eseguiranno una seconda per disputarsi i
premi. XI. Marcia trionfale dei vincitori nelle corse sopra i
l’ispettivi cavalli e bighe, aperta dall’ Araldo come sopra. XII.
Gran bouquet di fiori a fuoco d’artificio e bat- teria, lavoro
dell’artista pirotecnico Giuseppe Uetz, al- l’usciU tutte le porte
saranno illuminate. Dei» ^tepwetir^ ì)ct/
iDfooitve e i^owc/i<yt 6 Jet/ <5^
aw.tii*i/ liv 0^41 (J^omnuoM/ltvoe Se?
^teuuo iiv oiWi. CORSA DELLE BIGHE. Preda
Giuseppe Trabattoni Paolo I. 700
Galli Gaetano . Vimercati Luigi II. 5
oo Gattoni Giacinto Comisoli Carlo .
III. 4oo Garillio Giuseppe Pomè
Giuseppe IV. 3 ao CORSA DEI FANTINI A
CAVAL LO. Fassi Salvatore . Smith
Giacomo. I. 400 William Mreglit
William Giansi. II. 3 oo Creizer
Antonio Varesi Gaetano. III. EOO
CORSA DEI PICCOLI CAVALE I.
Piaggio Giuseppe I. 100 Ronchi
Felice . IAgostino Galli . III. 5 o
Grandioso c tutto nuovo spettacolo^ che per opera di Luigi
Henry si eseguirà il 1 agosto 1850 . I. Gran coro pescareccio
alla siciliana composto dal maestro di musica sig. Panizza, diretto dal
sig. Granatelli td eseguito da cinquantadue dei migliori e più
esperti, coristi di questa capitale coll’accompagnamento d’una
numerosa banda militare, composta di novantadue pro- fessori, durante il
quale gli aspiranti ai premj dei dif- ferenti giuochi si presenteranno al
concorso. II. Corsa dei nuotatori, che sarà di tragitto assai
breve, il premio del vincitoi’e sarà di austriache lir. loo.
Premiato Gixisei’pe N., fabbro-ferrajo in S. Celso. III.
Giuochi d’equilibrio, due dei concorrenti, che avi’anuo la destrezza di
stabilirsi i primi in piedi sul palo uno alla destra e l’altro alla
sinistra delle carceri, acquisteranno ciascuno una posata d’argento.
Premiali. Annibale Isman. Antonio Fava. IV. Corsa dei
selvaggi del mare del sud, nelle piroghe delle isole di Sandwich,
scoperte dal capitano Cook, che faranno l’intero giro dell’arena. Il
premio del vincitore sarà di austriache lire lOQ. Premiato.
Giuseppe Arnaboldi. V. Giuoco dei bilancieri, ossia , giostra di
mare sospesa innanzi alla porta libitinaria. Il primo campione, che
avrà rovescialo due de’ suoi avversai] avrà in premio della sua
destrezza, una tazza d’argento. Premiato. Filippo Megname.
\ I. Corsa di due campioni in piedi a fior d’acqua, che partiranno
dalle carceri ed attraverseranno l’arena in tutta la sua lunghezza. Il
vincitore avrà in premio di austriache lire loo. Premiato.
Gaetano Ricco. \ll. Giuoco dei due alberi di Cipresso,
dirimpetto alla porla trionfale, un bicchiere d’argento collocato
alla cima (11 ciascuno del due alberi, sarà 11 premio del
vin- citore. Premiati. Pietro Mur\tori. Domenico
An(;isola. Vili. Giuoco delle corde, come si pratica sui
vascelli d’alto bordo, in facciata al pulvinare. Ciascuno del due
vincitori avrà il premio d’un orinolo d’oro. Premiali. .Antonio
Rossi. Davide Colnago. La Balena escirà da una specie di chiavica
praticata alla porta trionfale, ed attraverserà più volte il
recinto dell’arena coll’andamento suo naturale, e con tutti gli
spontanei suol movimenti, aprendo l’immensa bocca col maneggio della
lingua, girando gli occhi e la testa, versando grandi getti d’acqua dei
vasti spiragli alla sommità del suo capo, e movendo in lutti i versi
la voluminosa sua coda, a segno di dare una precisa idea della
forma e natura di questo gran mostro marino. X. Sarà ripetuto il
gran coro sul cader della notte. XI. Corsa (11 due barche illuminate
l’una di lanterne gialle, l’altra di lanterne rosse. Queste faranno il
giro di tutta l’arena partendo dal pulvinare, e la barca vinci-
trice nella corsa avrà il premio di austriache lire loo. Premiato.
Antonio Gregol. XII. Una generale illuminazione in parte stabile,
in parte galeggiante Quattro fontane di fuoco, lavoro del
signor Uetz, annunzieranno al pubblico il termine dello spettacolo.
Spettacolo che darà Francesco Uetz il 26 settembre 1850 .
Il suddetto si produrrà con corse di fantini a cavallo unitamente
alla compagnia di Syberlus Vansuest, che eseguirà quanto di più difficile
e variato in equestri eser- cizii presenta la scuola del celebre Franconi
di Parigi. I. La picciola milanese, d’anni sette, in abito
d’amore percorrerà due volte l’anfiteatro in piedi sul suo
cavallo. ed eseguendo passi ed attitudini superiori alla sua
età sarà regalata d’una bandiera. II. Corsa di sei fantini a
cavallo, che in abito da mammalucchi, eseguiranno tre giri intorno
all’anfiteatro. III. Corsa di tre cavallerizzi in piedi sopra due
ca- valli. La corsa sarà di due giri. Al vincitore saranno date
aust. lir. loo ed una bandiera il vincitore fu Colombet.
lY. Corsa di altri sei mammalucchi a cavallo, che come i
precedenti, eseguiranno tre giri intorno al circo. V. Corsa a
cavallo di due donne, vestite da Amaz- zoni, ed accompagnate da due
cavallerizzi. Eseguiranno esse tre giri. La vincitrice otterrà una
bandiera d’onore con appesa una ricca sciarpa che fu madama
Bertotto. VI. Corsa dei primi tre mammalucchi vincitori in
cadauna delle precedenti due corse, per disputarsi i premi di N.” 4
doppie di Genova il primo. N.° 3 il secondo. N. 2 il terzo, e zecchini
tre il quartoj i vincitori fu- rono: Proprietarj de’
cavalli. I. Passi Salvatori. IL Ratti Giuseppe. III. Maninj
Francesco IV. Vignati Giovanni. Fantini. I. Smith
Giacomo. II. Cattaneo Luigi. III. Mazzoli Cipriano. IV. Cozzio
Giuseppe. VII. Corsa sopra tre cavalli, eseguita in piedi dal
gio- vinetto Tardini, d’anni dieci, vestito alla Romana, farà due
giri. Avrà egli pure una bandiera d’onore. Vili. La vincitrice
madama percorrerà il circo, se- guita da tutta la comitiva dei vincitori,
portanti cia- scuno la propria bandiera. E per ultimo gran
fuoco variato d’artificio, col quale s’illuminerà il «gran tempio situato
innanzi alla porta principale dell’anfiteatro. Oltre i fuochi del Bengal
vi sarà una continua esplosione di colpi di cannone e di
bombe. 5 Straordinario, equestre, pirotecnico,
areosta^ tico spettacolo che darà la compagnia di Alessandro Guerra
il 5 giugno 1851 . Il suddetto darà equestri esercizi unitameute a
corse di jockeys a cavallo, esperimenti areostatici e fuochi
artiOciali; detto spettacolo sarà diviso come segue: Grand’entrata
di tutti gli artisti della compagnia, che col corredo di due bande
militari eseguiranno il giro di tutto Tanfiteatro. I. Gara a
gran carriera sopra piccoli cavalli eseguita da quattro giovinetti
allievi, che dovranno percorrere per tre volte l’intera Arena ad uso
de’fantini. II primo, che ira d’essi arriverà al palio avrà in premio una
ban- diera e fu Rodolfo Guerra. II. Corsa dei
jockeys inglesi a cavallo, dovranno essi compiere tre giri intorno alla
spina ovale, ed i primi tre, che arriveranno alla meta, dovranno
cimentarsi in un’ altra corsa pure di tre giri per disputarsi i
premi. III. Corsa di quattro madamigelle, che percorreranno
tre volte l’Arena: le prime due, che giungeranno alla meta, dovranno
eseguire altri tre giri per ottenere la bandiera d’onore.
Premiata Elisa Schier. I IV. Verranno innalzati
in aria alcuni palloncini col mezzo del gas idrogene, che non saranno
discari agli spettatori. Corsa di cinque cavalli a dorso nudo, ed a
gran carriera del giovine Giorgio Cocchi, eseguendo tre giri
intorno la spina ovale. VI. Corsa dei tre jockeys a cavallo
risultanti i primi nella corsa precedente per determinare fra loro i
premi, pel primo di ausi. lir. 3oo — pel secondo 2oo — pel terzo lOo,
i vincitori furono; Proprietarj de* cavalli. Sperati
Luigi. Mreght William. Merlo Giuseppe. Jockey s. Brunelli
Pietro. Giansì William. Gambarino Giovanni. Giuochi di Troja di tre
cavallerizzi eseguili in piedi sopra due cavalli, ed a gran carriera
percorreranno tre volte Tampio circo assegnando al primo uUa ban-
diera d’onore. Premiato Bartolomeo Volani. Vili. Altro
esperimento areostatico coll’ascensione d’un pescatore col pesce
rombo. Tenzone dei due artisti sopra tre cavalli a gran corso,
eseguiranno essi tre giri, ed il primo che arriverà al palio otterrà una
bandiera d’onore. Premiato Bartolomeo Volani. Al
termine dello spettacolo l’anfiteatro presenterà quasi un nuovo orizzonte
pel magnifico fuoco d’artificio opera d’un artista romano, restando in un
istante illuminalo da fuochi di Bengal. Equestre spettaeolo
variato cogli Elefanti, La compagnia del cavallerizzo Benedetto
Tourniaire nel 3i luglio i83i, ottenuta la superiore permissione di
fare nel soprannominato giorno un interessantissimo trattenimento in
questo grande anfiteatro, si propone essa di segnare cosi fatta
avventurosa circostanza col- l’offei-ta d’uno spettacolo d’Equitazione
varialo con di- vertimenti, che nulla avranno di comune con quanti
al- tri, se ne sono dati finora. I. Grande entrata di tntti
gli artisti, che col corredo di banda militare, e di trombettieri
militari a cavallo, eseguiranno il giro di tutto l’anfiteatro. Gara
a celere corsa di quattro giovinetti vestiti di jockeys inglesi,
percorreranno tre volte il circo, ed il primo de’quali arrivato al palio
riceverà la bandiera. Il vincitore Nicolò Moro. III.
Corsa di otto contadini i quali correranno tre giri, ed i primi quattro,
che giungeranno alla meta, dovranno nuovamente in un’ altra corsa
disputarsi tre premj. IV. Tenzone di due Greci che sopra due
cavalli a schiena nuda per due giri, eseguiranno nel secondo giro
il salto di due barriere, ed il vincitore avrà una bandiera
d’onore. Il vincitore fu Luigi Tourniaire. V. Esercizi
all’Inglese eseguiti da sei cavallerizzi asse- gnandosi ai primi due, che
arriveranno alla meta due premi; al primo un pajo speroni d’argento, ed
al se- condo un anello d’oro. I vincitori sono: Primo Luigi
Naicase.. Secondo Carlo Reichard. VI. Corsa di quattro damigelle
sul cavallo, col pre- mio d’un braccialetto e un pajo d’orecchini d’oro.
Vin- citrici: Prima Adelaide TourniAire. Seconda Maria
Collet. \II. Corsa di quattro artisti ciascuno in piedi sopra
due cavalli col premio d’un pajo speroni d’argento e d’un anello d’oro.
Vincitori: Primo Francesco Lavelliè. Secondo Luigi
Tourniaire, Vili. Corsa dei primi quattro contadini vincitori,
che nuovamente percorreranno con tre giri l’anfiteatro per
disputarsi 1 premj, pel primo aust. lire 200, secondo i 5 o, terzo 100. Vincitori:
I. Pietro Bianchi, lì. Luigi Cattaneo. 111 . Felice Ronchi.
IX. Ricomparirà Luigi Tourniaire, stando in piedi sopra due cavalli
a dorso nudo manovrando altri quattro cavalli. X. Esercizi
di quattro Cosacchi col premio d’itn oro- logio d'oro, ed uno d’argento.
Vincitori: Primo Francesco Tourniaire. Secondo Carlo
Delneccui. XI. Grande pompa trionfale con due Elefanti magni-
ficamente ornati e montati da madamigella Adelaide Tourniaire, e da
Mattias Steffani. XII. Chiuderà lo spettacolo quattro archi
trionlali illuminati d’un fuoco d’artifizio. Grandioso
spettacolo intitolato Vincendio di Rokeby, pel 22 agosto 1851 .
Sarà costruito in mezzo dell’arena un magnifico ca- stello d’ordine
gotico-inglese, lungo cinquanta braccia, proporzionatamente largo ed
alto, della forma d’un ot- tangono oblungo con quattro torri agli
angoli. La parte principale dello spettacolo consisterà in
una manovra in grande, eseguita nel suddetto castello dive- nuto
preda delle fiamme, da pompieri veterani di questa città, cioè quelli che
hanno servito in questo corpo, sotto ottima direzione, la qual manovra
sola durerà per lo meno un’ora ed un quarto, offrendo ad ogni istante
i più superbi e variati colpi d’occhio, finché le quattro torri ed
altre parti del castello cadranno col fragor del tuono, diffondendo una
luce vivissima, il che unita- mente ad un combattimento al di fuori del
castello, offrirà un colpo d’occhio de’più imponenti che si pos-
sono immaginare. Gl’incidenti dello spettacolo consisteranno in un
bom- bardamento ed espugnazione del castello, in diversi
combattimenti interni ed esterni, marcie ed altre azioni mimiche con
musica scelta espressamente a tal uopo. Agiranno in questo
straordinario spettacolo oltre il corpo suddetto di pompieri un corpo di
castellani, un corpo di banditi, un corpo di truppe regolari con
arti- gìieri condotti da diversi capi, un seguito di
damigelle di Matilde, signora del castello di Rokeby, tutti vestiti
ed armati analogamente. Valentissimi artisti gareggieranno,
affinchè lo spetta- colo sia degno del magnifico anfiteatro, nel quale
viene rappresentato, e possa divertire, e fors’anco sorprendere,
questo coltissimo pubblico e quest’inclita guarnigione sempre giusti nel
pronunciare i loro giudizj. 11 grande spettacolo, che si doveva
dare jeri 22 ago- sto nell’Arena di questa città vi attirò molto
concorso di spettatori. La riuscita non avendo corrisposto
all’aspettazione, il Pubblico manifestò la sua disapprovazione con grida,
e la parte meno educata ridusse in pezzi le sedie e le ta- vole di
cui erano muniti i sedili. La maggior parte però degli spettatori si
disponeva già tranquillamente alla partenza, quando apertesi tutte le
porte per la sortita, una moltitudine del basso popolo si presentò al di
fuori per entrare nell’anfiteatro, dove voleva distruggere per
vendetta il fiuto castello di Rokeby, argomento dello
spettacolo. Le guardie militari essendo accorse per Impedire
que- sto pericoloso accesso della moltitudine tumultuante, ven-
nero investite a colpi di pietre^ per cui alcuni soldati ed impiegati
rimasero feriti. Un distaccamento militare dopo aver resistito per
lungo tempo alla sfrenatezza della plelie, tornati vani i tentativi
per allontanarla, nè potendo più oltre difendersi, inco- minciò
daU’cseguire esplosioni di fucile in aria, per in- cutere timore, ed
infine non avendo ottenuto effètto al- cuno, ed incalzando sempre più la
moltitudine, fece sca- riche a palla. Un individuo venne così
sgraziatamente colpito amorfe, ed altre dieci più o meno gravemente
feriti. La moltitudine allora si disperse, ogni tumulto, che
d’altronde limitossi alla sola località dell’anfiteatro cessò, e questo
disordine non ebbe altre conseguenze sulla tran- quillità pubblica, la
quale era in tutte le altre parti della città nella medesima sera^ come
all’ordinario per- fetta. Spettacolo equestre eseguito da
Alessandro Guerra il 15 giugno 1834 . Consistente nella
corsa delle bìglie — nella corsa dei Jockeys a cavallo — Corsa di Giorgio
Cocchi sopra cin- que cavalli a dorso nudo — Corsa di quattro dami-
gelle vestite alll’Amazzone col premio d’uu’elegante sciarpa che
l’ottenne Leonilda. Carrara. Forze da^Gladlatori sopra
cavalli, eseguiti da Antonio Brand e Gaetano Ciniselli — Esercizi di
Troja, eseguiti da quattro cavallerizzi col premio d’una ripetizione
d’oro ottenuta da Giorgio Cocchi. > Avrà fine
lo spettacolo con un dilettevole fuoco d’ar-^ tificio terminante collo
scoppio d’una batteria. afonie e GogwoiM'6 ?ei.
5'x'Opwe^oW'j Dei Oai’idli' elGoiite 6 Gogirowve'
De^Pi clbiKti^* e 5ocke^A IH/ ailomiMOute^e
De-E ^teiwto iw/ cHauA. CO RSA BELLE BIGHE.
1 Sperati Giuseppe Rovelli Gaetano
I. 5oo Consoni Francesco Yimercati
Luigi \ II. 200 CORSA DEI
JOCR EYS. Guerra Alessandro Ciniselli
Gaetano I. 3oo Suddetto . . .
Volani Bartolomeo II. 200 Spettacolo
equestre del detto Guerra il 22 giugno 1 854 , Consistente
nelle corsa delle bighe — Corsa dei fan- tini a cavallo — Corsa di tre
damigelle sopra due ca- valli pel premio d’tma spilla di diamanti e
corona d’al- loro, la vincitrice fu Leonilda Cariura.
Altra corsa di Giorgio Cocchi dirigendo sette cavalli Esercizi dei
Gladiatori — Corsa di quattro dami- gelle a cavallo col premio d’un
anello vinto da Luigia Letard, Avrà fine lo spettacolo
con un fuoco artificiale, re- stando illuminato l’Anfiteatro da fuochi di
Bengal. eTCtfiue e Oo^u/diue Sei/ dei
Oa(;ixl^ eHaoitie e Oo^uoiu'e e del ^ oaitiiu
^vatMO Uh ’^om/movXaK/e deE ^velino
IH cllou/A. CORSA DELLE BIGHE, Sperati
Giuseppe Rovelli Gaetano I. 5oo
Consoni Francesco Vimercati Luigi II.
CORSA DEI FANTINI A CAVAI LO, De
Micheli Frane. Ciniselli Gaetano I.
aSo Guerra Alessandro Volani Bartolomeo
II. i5o Grisetti Carlo , Cozzi
Giuseppe. III. 100 I t-
re spettacolo Consistentt tini a cavalle
valli pel prei loro, la vinci Altra corsa »— Esercizi
d gelle a cavali Avrà fine ’ stando illumi
(Set ^topwela. deir Qrava^ Sperati Giusef Consoni
Frane CORSi De Micheli Fri Guerra Alessat
Grisetti Carlo. Getty. Keywords: i giochi
olimpici, Ikko, Crotone, Taranto. Branciforte. Refs.: Luigi Speranza,
"Grice e del Vasto," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Grice e Brandalise – il municipio di
Firenze –albero fiorito -- immune, comune – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Pistoia). Filosofo
italiano. Grice: “I would say that Brandalise is a Griceian – his tutees know
it! He has philosophised on keywords: communicazione, l’altro, indeed what he
calls the Kantian transcendental necessity of ‘l’altro,’ and the idea of a
‘collective’ desiderio – or comunita – What is that if not my philosophy of
communication?” Adone Brandalise (Pistoia) è un critico letterario, letterato e
accademico italiano. Si è laureato nel 1972 con Vittore Branca con una tesi dal
titolo L'opera e la critica. Esperimenti critici su testi narrativi italiani,
in cui vengono sperimentati nuovi metodi critici su testi di Alessandro Manzoni
e Carlo Emilio Gadda. Professore di
teoria della letteratura presso l'Padova, la sua attività di ricerca si
caratterizza per il costante intreccio tra riflessione filosofica e
psicoanalitica con l'interpretazione del testo letterario. I luoghi seminali
della sua ricerca vanno individuati nello studio di Spinoza e Plotino, cui si
dedica sin dalla giovinezza, di Hegel e dell'idealismo tedesco, oltre che
nell'approfondimento risalente agli anni Settanta dell'opera di Jacques
Lacan. Promotore di numerose iniziative
scientifiche, tra cui alcuni progetti di didattica e ricerca legati agli studi
interculturali, ha collaborato a riviste quali "Lettere italiane",
"Studi novecenteschi", "Immagine riflessa", "Il
centauro", "Filosofia politica" o "Trickster". Tra i temi che segnano la sua ricerca vanno
senz'altro segnalati alcuni molto ricorrenti: il problema della singolarità, il
rapporto tra mistica ed evento soggettivo, quello tra pensiero filosofico e
azione politica, quello tra poesia e pensiero. Attentissimo cultore della
musica operistica e del cinema, tra gli autori che maggiormente animano la
scena della sua riflessione, affidata soprattutto all'oralità, sono Platone,
Leopardi, Melville, Nietzsche, Shakespeare, Luis de León, Max Ophüls e Orson
Welles. Operaismo Brandalise opera sin dal
1973 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Padova, dove anima e
partecipa a partire dagli anni settanta alla costituzione di numerosi seminari
e momenti di studio, anche in relazione con i dibattiti dell'operaismo. Oltre
all'attività sindacale, in comunicazione con Guido Bianchini (Padova,
19261998), segna questa fase di sua riflessione politica il lavoro svolto
"off air" nella direzione romana di "Il Centauro. Rivista di
Filosofia e teoria politica" (1981-86), nel cui comitato direttivo
operavano anche Nicola Auciello, Adriana Cavarero, Remo Bodei, Massimo
Cacciari, Umberto Curi, Giuseppe Duso, Roberto Esposito, Giacomo Marramao,
Giangiorgio Pasqualotto, Biagio De Giovanni (direttore) e Roberto
Racinaro. Il Centauro, rivista
pubblicata dall'editore Guida, nasce in una fase storica segnata dal caso Moro,
dal compromesso storico, dal teorema Calogero. L'idea dei redattori era di
avviare un laboratorio politico in cui potessero intervenire intellettuali
legati al PCI, anche se in modi spesso prossimi al dissenso. Tuttavia non
compare nelle rievocazioni più recenti degli anni dell'operaismo il nome di
Brandalise, certo per la relativa assenza di suoi interventi scritti, ma anche
per il coagularsi del suo percorso politico negli anni Novanta intorno alla
"nozione sintomatica" di politica invisibile e poi, nel decennio
successivo, di decostituzionalizzazione.
Opere Oltranze. Simboli e concetti in letteratura, Padova, Categorie e
figure. Metafore e scrittura nel pensiero politico, Padova, 2003. con E.
Macola, Psicoanálisis y arte de ingenio: de Cervantes a María Zambrano, Malaga,
Miguel Gomez, 2004 con E. Macola eSanchez Otin, Bestiario lacaniano, Milano,
Bruno Mondadori, 2007. L'immagine del territorio e i processi migratori, in M.
BERTONCIN, A. PASE, Territorialità, Milano, Franco Angeli, 2007. In weiter
Ferne so nah. In margine al sermone Beati Pauperes, in (G. Panno) Il silenzio
degli angeli. Il ritrarsi di Dio nella mistica medievale e nelle riscritture
moderne, Padova, Unipress, 2008,
157–163. Oltre la comparazione. Modi e posizioni del pensiero dopo
l'intercultura, in (G. Pasqualotto), Per una filosofia interculturale, 59–69, Milano, Mimesis, 2008. Introduzione
(con A. Barbieri), in (A. BarbieriMura, G. Panno), Le vie del racconto. Temi
antropologici, nuclei mitici e rielaborazione letteraria nella narrazione
medievale germanica e romanza, Padova, Unipress, 2008, I-XXVIII. Il multilinguismo nella mediazione
(con A. Celli, K. Rhazzali, E. Sartori), in (G. Mantovani) Intercultura e
mediazione, Roma, Carocci, 2008. Postfazione, in C. Tenuta, Dal mio esilio non
sarei mai tornato, io. Profili ebraici tra cultura e letteratura nell'Italia
del Novecento, Roma, Aracne, con N. Fazioni, Cosa cambia con Lacan? Saperi,
pratiche, poteri, in International Journal of Žižek Studies, Dentro il confine,
Milano, Mimesis,. Metodi della
singolarità, Milano, Mimesis,. La
necessità dell'Altro: scritti in onore di Adone Brandalise, Milano, Mimesis,. 978-88-575-6349-7 Dario Gentili, La crisi del politico.
Antologia di "Il Centauro", Guida (2007) Adone Brandalise adonebrandalise: Sito dedicato all'opera e al
pensiero di Adone Brandalise Podcast
degli interventi del Rpf Adone Brandalise
Biografie Letteratura Letteratura Università Università Categorie: Critici letterari
italiani del XX secoloCritici letterari italiani del XXI secoloLetterati
italianiAccademici italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1949 16
giugno Pistoia. Adone Brandalise. camlet bound round the waist
with a girdle, after the ancient fashion, and a mantle lined with
minever, with a hood which they wore over their heads. And the women of
the people were clothed in coarse green cloth of Cambrai, made
after the same fashion. A hundred lire* was an ordinary dower for a
wife. A dower of two or three hundred was in those days considered
enormous. Girls, for the most part had completed their twentieth year
before they were married. Thus rude in dress and customs were the
Florentines of those days ; but they were loyal, and kept good faith,
both among each other and towards the Commonwealth. And with their
poverty and coarse mode of life, they did greater things, and acted more
virtuously, than we do with our greater effeminacy and greater riches.
" Those were the manners of the good old times before
the building of the second walls around the increased city. The
position of these walls, and the amount of space thus added to the city,
are very accurately known. The line taken by the new circuit has been
minutely recorded by Malispini,f Villani, J and Coppo Stefani.§ But it
will be sufficient for our purpose to indicate in a more general manner
the extent of the increase. The old city, wholly confined to
the northern bank of the river, stretched along it from a point near the
present Ponte Santa Trinita, to another a little beyond the building of
the Uffizi. A line drawn northward from the foot of the Ponte Santa
Trinita, to the corner formed by the Via de' Rondi- nelli and the Via de'
Cerretani, and thence turning at a sharp angle westward, proceeding then
in a direct line to the Piazza del Duomo, encircling the Cathedral, and
then turning southwards to rejoin the river by a line nearly
correspond- * The Tuscan lira is now equal to eightpence sterling-.
To find its equivalent value at the time in question it must be
multiplied by from ten to fifteen. \ Chap. lxi. % Book iv.
chap. viii. § Book i. rubr. xxxiv. d 2 ing with
the present Via del Proconsolo, the Piazza di San Firenze, and the Via de
Leoni, would very nearly mark the position of the old wall. The new one,
built in 1078, enclosed an area much more than twice as large as the
old city. This new wall extended along the northern bank of the
river from the present Ponte alle Grazie to the Ponte alia Carraia. A
direct line drawn in north-western direction from the foot of the latter,
to the sharp corner made by the Via delle Cantonelle, behind the Church
of St. Lorenzo, turning at that corner to follow in a south-easterly
direction, and nearly in a straight line, the course of the streets De
Gori, C alder ai, De Pucci, De' Cresci, and St. Egidio, to the corner of
the Via del Fosso, and there again turning to the south-west, and
striking towards the river in a direct line by the streets Del Diluvio
and De Benci, to the foot of the Ponte alle Grazie, would form the new
boundary of the city on the northern bank of the river. But the
suburbs which had been gradually formed on the southern bank, were also
now for the first time brought within the walled city. This new "
Oltrarno" quarter, "beyond the Arno," comprising less than
a quarter of the space now occupied by the city on the southern bank, was
bounded by the river from the Ponte Santa Trinitd, nearly to the
Ponte alle Grazie, and by a line of wall which, starting from the bank at
the spot where the former of these bridges now stands, followed the
entire length of the present Via Maggio, and then turning at an acute
angle back again towards the river, crossed the Piazza de Pitti in
an oblique direction, so as to exclude the ground on which the Pitti
Palace now stands, pursued an irregular course along the foot of the
steep hill, which here leaves but a narrow space between it and the Arno,
till it rejoined that river in the immediate neighbourhood of the Ponte
alle Grazie. It will be seen that this notable enlargement of
the city, while more then doubling its former area, comprised a
space less than a fourth of that contained within the present wall, which
third circuit was, in most respects as it still remains, traced in the
year 1285. Keywords: immune, comune,
rodano, paradosso del reciproco, amare, ligarsi, bestiario griceiano,
bestiarium griceianum, il municipio di Firenze. "To change the image
somewhat, what bothers me about what I am being offered is not that it is bare,
but that it has been systematically and relentlessly undressed. I am also
adversely influenced by a different kind of unattractive feature which some, or
perhaps even all of these bêtes noires seem to possess." Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Brandlise” –
The Swimming-Pool Library.
Grice
e Breccia – la metafisica del dialogo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trento).
Filosofo italiano. Grice: “I like Breccia; he is, like Vitruvio, obsessed with
the male human body – but also about the ‘metafisica del dialogo,’ so we can
call him a Griceian!” -- Breccia nel suo
studio a Roma. Pier Augusto Breccia
(Trento ), filosofo. La pittura di Breccia esplora l’essere umano con un
approccio ermeneutico (nel senso della filosofia ermeneutica moderna di
Jaspers, Heidegger, Gadamer) e si apre su un vasto orizzonte di temi
filosofici. L’opera di Breccia include oli su tela, matite e pasteli su carta,
7 libri e numerosi saggi critici. Breccia ha esposto in personali in Europa e
USA. La famiglia paterna è originaria di Porano, un piccolo paese
dell’Umbria, dove sua madre, Elsa Faini (di Trento), si era trasferita nel
dopoguerra. I genitori di Pier Augusto lavoravano entrambi nel settore
ospedaliero: infermiera la madre e chirurgo il padre Angelo. Quando Pier
Augusto ha cinque anni, la famiglia si trasferisce a Roma, dove Breccia
trascorrerà la maggior parte della sua vita. Il giovane Pier Augusto si iscrive
al “Liceo classico statale Giulio Cesare” di Roma, dove matura un profondo
interesse per gli studi umanistici che lo accompagnerà per il resto della vita.
A 14 anni, scopre la Divina Commedia che studia di sua iniziativa affascinato
dalle allegorie dantesche. Subito dopo, attratto dalla filosofia e dalla
mitologia greca, traduce per l’editore Signorelli l’“Antigone” di Sofocle e il
“Prometeo legato” di Eschilo. Ancora nella fase adolescenziale traduce i
“Dialoghi” di Platone. Completati gli studi liceali, nel 1961 si iscrive
alla facoltà di medicina dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e nel luglio
del 1967 riceve, con il massimo dei voti, la laurea in medicina.
Professione medica Dopo la laurea consegue una specializzandosi in urologia, in
chirurgia generale e successivamente in chirurgia cardiovascolare mentre
comincia a far pratica al Policlinico Agostino Gemelli di Roma. Nel 1969, sposa
Maria Antonietta Vinciguerra, nel ’70 nasce il primo figlio, Claudio e nel '71
la figlia Adriana. Nei primi anni 1970, si trasferisce a Stoccolma, dove lavora
al centro di chirurgia toracica e cardiovascolarere dell'Istituto Karolinska
sotto la supervisione di Viking Björk (inventore della valvola cardiaca
Bjork–Shiley). Tornato all’università Cattolica di Roma e al connesso ospedale
Gemelli, nel 1979 diviene professore associato. Nel corso degli anni 1970,
pratica più di mille interventi a cuore aperto e pubblica circa cinquanta
articoli in riviste mediche. Il punto di svolta: dal bisturi alla matita
È l’estate del 1977 quando Breccia scopre un inaspettato talento per il
disegno, che nei due anni successivi diverrà il suo hobby. Soltanto nel 1979,
dopo la morte di suo padre e a seguito di una profonda crisi esistenziale, il
talento disegnativo trova la sua espressione creativa. La produzione artistica
dei primi due anni e il pensiero filosofico da questa ispirato confluiscno nel
libro "Oltreomega". Nell’agosto del 1983, durante un periodo di
produzione artistica e di mostre in Italia e all’estero (‘'Monologo corale’',
‘'Le forme concrete dell in-esistente’', ‘'La semantica del silenzio’') prende un'aspettativa
dalla professione medica. Nel biennio seguente, lo stile artistico, da lui
definito "ideomorfico", si delinea con maggior chiarezza, così come
il pensiero filosofico, che nell’84 presenta nel libro “L’Eterno Mortale”. Nel
1985 dà le dimissioni dalla professione di chirurgo e nello stesso anno porta
le sue opere a New York, presentandole in due mostre consecutive, alla Gucci
Gallery e all’Arras Gallery. La strada dell’arte, si delinea rapidamente e,
appena date le dimissioni, si trasferisce a New York dove trascorre la maggior
parte del tempo tra il 1985 e il 1996. Durante questo periodo, espone in
diverse città degli Stati Uniti (New York, Columbus, Santa Fe, Miami e
Houston). Sin dall’inizio è estremamente prolifico e l'opera dei primi
dieci anni viene raccolta nel libro “Animus-Anima”, che comprende 500 immagini
di sue opere. Nel 1996, torna stabilmente a Roma ed espone in diverse città
italiane ed europee. Nel ‘96, pubblica "L’altro Libro", contenente
opera del periodo 1991-1999 e nel 1999, scrive “Il linguaggio sospeso
dell’auto-coscienza”. Nel 2002 Breccia presenta novanta opera in un’imponente
personale al museo Vittoriano e nel 2004 pubblica “Introduzione alla pittura
ermeneutica”, il suo manifesto artistico, al quale collabora il filosofo Elio
Matassi. Negli anni seguenti, malgrado le condizioni di salute, è impegnato in
numerose mostre in musei italiani ed europei. Il 17 Novembre, due
settimane dopo la chiusura della sua mostra di Trento, ha un infarto nel suo
studio di Roma, viene portato al Policlinico Gemelli, e lunedì 20 novembre muore all’età di settantaquattro anni.
Ragione e immaginazione: “lo spazio pensante” Lo spazio è l’elemento più
distintivo delle opere di Breccia, che egli stesso definisce “denominatore
comune della pittura ermeneutica[...] principio stesso delle nostre facoltà
intellettive”. Tuttavia, se nello spazio paradossale di Breccia la
ragione si sospende e precipita di continuo, il senso di armonia ed equilibrio,
che caratterizza tutta la sua opera permette all’immaginazione di entrare nello
spazio senza alcun tormento. Forme, colori e luce: dis-oggettivazione
Un'altra caratteristica delle tele di Breccia è la presenza di “oggetti”, in un
equilibrio generato tuttavia da forme e colori piuttosto che da una oggettiva
metrica di spazio. Allo stesso tempo, tali “oggetti”, ridotti a forme/colori
essenziali o addirittura trasformati in spazio stesso o “altro da sé”, sono
privi di una vera oggettività e di conseguenza sono aperti ad essere letti come
linguaggi, segni o, più propriamente nel senso della filosofia ermeneutica di
Karl Jaspers, come “cifre”, cioè “segni” non ancora interpretati. L’uso
della luce e del chiaroscuro è parallelo a quello dello spazio e della
prospettiva nella molteplicità di paradossi. L’assenza di una fonte di
luce all’interno dello spazio pittorico contribuisce a rimuovere contenuti
emozionali. In ultimo, il rapporto luce-spazio-forma crea l'ennesimo
paradosso di Breccia. Se la luce è spesso associata a ciò che è comprensibile
razionalmente (e.g. “luce della ragione”), nelle opere di Breccia tutto appare
al contempo luminoso e misterioso. Pittura ermeneutica Breccia ha usato
il termine “pittura ermeneutica” per descrivere la sua posizione come artista
nel suo Manifesto “Introduzione alla pittura ermeneutica” (2004). Il
presupposto di significabilità della cifra pittorica ermeneutica è la libertà
da canoni, convenzioni, dogmi di spazio e tempo, del qui e dell’ora, che
permette una verifica della significabilità dal di dentro. In tal senso, l’arte
può essere un’esperienza di conoscenza, in quanto “apertura” da “un lato
sull’infinita alterità dell’essere o di Dio, e dall’altro sulla personale
coscienza dell’ ‘Io’.”(Introduzione alla pittura ermeneutica, 2004).
Note Moschini e Zitko, p.37. Zitko,
p.11. Zitko, p.15. Comunicare, n.
82, Università Cattolica del Sacro Cuore,. Unomattina, RAI, Gennaio
2000. Unomattina, Gennaio 2004.
Zitko 12. Moschini e Zitko,
p.38. Steiner 1997. Steiner 1991.
Moschini e Zitko, p.39. Moschini
e Zitko, p.40. P.A. BRECCIA, Introduzione
alla Pittura Ermeneutica, 2004, p.45-46
Vivaldi 1988. Moschini Zitko,
40. Steiner 1988. Moschini e Zitko, 38-43. Moschini e Zitko, 40-42. Moschini, M. e Zitko(), "The educational
path of Ideomorphism. From theory of knowledge to philosophy", Journal of
Philosophy and Culture supplement, XVI-1, laNOTTOLAdiMINERVA Zitko(), "Il
linguaggio della pittura ermeneutica e la Chiffer di Karl Jaspers",
Dipartimento di Letteratura e Filosofia, Universita' di Pisa Steiner, R. (1988)
"Profile: Pier Augusto Breccia", ART TIMES Steiner, R. (1991)
"Critique: Pier Augusto Breccia at Arras Gallery, NYC", ART TIMES
Steiner, R. (1997) "Pier Augusto Breccia: Another Look, NYC", ART
TIMES Matassi, E. (2008) "Sur la peinture Hernéutique: Pier Augusto
Breccia, “le messager d’alterité”.In: Du Nihilism à l’hermenéutique Altri
progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o
altri file su Pier Augusto Breccia Sito
ufficiale, su pieraugustobreccia.com.
libri gratis su itunes The educational path of Ideomorphism La pittura
ermeneutica, su didattic aermeneutica. 1º maggio 26 dicembre ). Pier Augusto Breccia:
biografia, su direnzo. Biografie
Biografie: di biografie Categorie: Pittori italiani del XX
secoloFilosofi italiani del XX secoloSaggisti italiani Professore1943 12 aprile 20 novembre Trento Roma. THE
DIALOGUE The universe of speech is egocentric. At the centre is the
speaker (ego) and the listener is slightly off-centre ( tu ). The
listener becomes a speaker in his turn and the axis of the universe
shifts slightly, but these are the two persons of speech, and all others
are objects to be pointed out. Ego spreads symbols in front of tu , but
tu is the arbiter of intelligibility. If ego makes unintelligible noises
or speaks Greek to the Eskimo tu , there is no communication and
therefore no lan- guage. If ego's symbols are unsatisfactory or
unsatisfactorily arranged, tu demands a new set or a better arrangement.
Since speech is a function of action, tu ' s acts determine the sense
of ego's symbols to the extent that ego must either acquiesce or
come to a new understanding. Soliloquy, meditation, and
‘arranging one’s thoughts’ are imitations of dialogue. They have involved
in past time even movements of lips ; hence the theatrical convention
that the soli- loquy and the read letter can be overheard. But ego does
not speak to ego ; he has far quicker ways of understanding himself.
He soliloquizes before an imaginary tu and he arranges his thoughts
with a view to addressing later some real tu . The dialogue occurs
within a frame of reference provided by circumstances and concerns some
event. Sir A. H. Gardiner 1 de- scribes speech as four-sided, with the
four factors of speaker, 1 A. H. Gardiner, Speech and Language , Oxford,
1932, p. 62. io listener, words, and things. The
things, however, should be those of a given moment, forming an external
and concrete association which we call circumstance. It is better to
think of them as external and concrete, because so they are in all
languages, including savage ones. Two persons may discuss the square root
of minus one in an oubliette at midnight and so reach an extreme of
abstract speech, but the topic is no more than the last of a long series
of abstractions which began with the sum of two flints or cave-bears or
the Circumstances or Context Event or Phenomenon
Impression Expression impression I H like. A square
was once a pattern on the ground. If one says to another ‘the unexamined
life is not worth living’ there has to be a context of ethical discussion
to determine what is ‘life’, ‘worth* or ‘examination*. An insurance agent
might be puzzled by the phrase and emend it to ‘the medically unexamined
life is not worth insuring*. Even so, though more concrete, his language
represents the end of a complex process of civilized abstraction. That
speech should be possible without visible circumstances is a relatively
late development, and is achieved by the creation of contexts. The
con- text of a discourse consists of spoken conventions which enable
us to dispense with visible objects, by siting the discourse well
enough to give the supplementary information that would otherwise
have been derived from circumstance. The language even of
savages contains some abstraction, since they speak of some parts of
circumstance and neglect others. Yet the Australian Arunta cannot count
or distinguish times or identify themselves. Basque host ‘five* probably
means ‘closed fist’, and counting in multiples of twenty (Basque ogei)
was achieved by counting fingers and toes. Getting lost in the higher figures,
it might prove simpler to proceed by subtraction (Lat. 19 undeviginti
, 18 duodeviginti , Finnish 9 yhdeksan, 8 kahdeksan , cf. 1 yksi, 2 kaksi
9 and the Indo-European for 10). Chinese characters are singularly
illuminating concerning the relations between concrete and abs- tract.
‘Benevolence* is ‘man plus two* (a man who thinks of another beside
himself), ‘happiness* is ‘one mouth supported by a field*, ‘peace* is ‘a
woman under a roof* (indoors), ‘home* is ‘a pig under a roof* (food and
shelter), ‘spirit* is the skeleton of a great man, a ‘great* man is one
who has not only legs to obey but arms to en- force, ‘father* is a ‘hand
holding a whip*. These written analyses are, no doubt, scholarly and
sometimes whimsical. It is not exactly in that way that abstractions have
been derived from objects and contexts substituted for circumstance, but
the language of savages is astoundingly concrete and only fully
intelligible when spoken in the presence of the objects of
discourse. Communication lies partly in what we say, partly in the
circum- stances. The latter fill in so much that actual speaking is
elliptical, erratic, incomplete, and imprecise. Even the elliptical words
may be further curtailed by substituting gestures, 1 which refer one
back vaguely to the circumstances. Thus one may overhear: A.
Hullo! How*s tricks? B. So so ; and the boy ? A .
Bursting with energy, thanks. The first is not a question but a
breach of silence, 2 and establishes the conversation on the basis of
casual familiarity. It does not seek or receive an answer, but an opening
is made for A’s principal interest (which is known from the
circumstances), and A , when replying with information, acknowledges the
kindly intention of B. It is possible to say quite intelligibly ‘Old what*s-his-name
is just bringing in the thingummy*, if, at a Burns dinner, Mr. McLeod
is seen piping in the haggis. It is even better to be imprecise, and to
say ‘my heart went pit-a-pat’, ‘the tray came bang, thump, crash
down the stairs’, or ‘whiff, it *s gone*, because, while the
circumstances 1 Gesture-languages seem, however, to be translations
of the spoken word or of set phrases as a whole. The Arunta are said to
have a gesture-language of 250 signs. This seems to be different from the
gestures which refer directly to circum- stance. 2 *To a
natural man, another man’s silence is not a reassuring factor, but, on
the contrary, something alarming and dangerous.* B. Malinowski, Magic ,
Science and Religion , Boston, 1948, p. 248. would explain either
these sentences or explicit statements, these expressions give an
impression of the immediate event, not generalized as one which might
occur elsewhere. This is the basis of the astonishing development of
ideophones in Zulu and other Bantu languages which will be discussed
later. When we ‘speak like a book’ we provide explicit contexts as if
circumstances did not exist visibly to complete our meaning, and this
procedure, neces- sary in writing, is recognized as a defect in
conversation. Grammatical and verbal completeness is thus not
required of the sentence, and there is nothing to be, as older
grammarians said, ‘understood’. It was difficult under the old regime to
say precisely what word or words were to be ‘understood* since the phrase
could be completed in various ways, but older grammarians, obsessed
by literary contexts, did not sufficiently allow for the completion
by environment. R. Lenz 1 gives the following conversation: .
A. Where are you off to, Peter? B. Valparaiso. A
. At once ? B. No. Tomorrow, by the slow train. A What
for? B . A matter of business. A. Something important
? J5. Yes; the sale of my land. A . Have you a buyer in
sight? B . It seems so. A . Well,
congratulations. B. Thanks. This is what the linguist
must accept. He is not at liberty to rewrite the sentences so that each
should have subject, verb, object, and other principal parts. They are
already complete and fully intelli- gible in the circumstances. They are
even intelligible as parts of a context. Circumstance, and context
eliminate uncertainties which theoretically exist. Thus of eighty-four
words in the fourth tone of i in Chinese, 2 only ‘thought, will,
intention* can exist in the vicinity of ‘understand*. The same sound may
mean ‘a mountain in Shan- tung*, ‘dress*, ‘I* (in speaking to rulers);
‘licentious*, and ‘hiccup’, 1 R. Lenz, La Oracion y sus partes ,
Chinese words are quoted according to the transliteration adopted in D.
MacGillivray’s Mandarin-Romanized Dictionary of Chinese , Shanghai, 1925.
It is according to Wade’s system, which has no special advantage beyond
that of a wide diffusion. See also the pocket dictionaries by Goodrich
and Soothill. but none of these are
things one ‘understands*. Actually, by com- bining synonyms (i+-szu l
‘thought, will, intention’) modern Chinese gives the hearer more time to
identify the meaning, but these compounds are readily dissolved when no
ambiguity is possible. The written language provides ninety-two different
signs for i A so that the precise meaning identifies itself, without
dependence on visible circumstances or even on context. By way of
compensation, the old literary style was sparing of doublets or other
helps to understanding. Within the frame of circumstance each
sentence refers to an event or phenomenon as it appears to, and
interests, us at the moment of speaking. We distinguish activities and
states, but the distinction is partly an illusion. ‘Rome is the Eternal
City’ now and as things appear to us, though founded traditionally in 753
b.c., and still not so long-lived as Babylon. Damascus and Jerusalem
are older and still exist, but do not appear to us to have the
enduring quality conferred by the succession of the Papacy to the Caesars.
I am content now, but the phrase does not prevent my being dis- contented
in half an hour ; you are a Grand Duke or a soldier, but a revolution may
cancel all titles or you may be demobilized to- morrow. The event is not
known to us in all its cosmic significance ; we can only speak of what
appears to us (represented by the wavi- ness of the line in the diagram).
Of what appears, we put into words only what momentarily interests us, as
in the celebrated observa- tion: ‘What a lovely day! Let’s go and kill
something.’ We make a mock of the objective statement ‘Queen Anne ’s
dead’ because we are not accustomed to make affirmations without
immediate inter- est ; though historians have devised for such statements
a measure of interest by the postulate that all historical dicta are, in
some way, worth while. Each event is, of course, unique. ‘Bear kills man’
and ‘Man kills bear’ are totally dissimilar events. It is thus not
sur- prising that many languages should have word-sentences which
express each event by a unique construction, and all show a phenomenal
residue (the verb) after analysis has gone so far as to provide names for
the parties, their qualities, and their modes of action and being. The
verb continues to show formidable com- plexities in such a language as
French, though the noun has become almost an invariable unit. The Latin
verb offered a complex para- digm which was simplified by analysis in
primitive Romance, but the Romance languages have used these analytical
simplifications to build new synthetic paradigms. It is clear that the
result is not due to analytical failure, but to an appreciation of the
need to dis- criminate between phenomena. For the s^ke of
simplicity we are considering the first com- munication of a series.
Ego's primary impression of the event may be derived from any of the
senses, though it is most likely to be visual. It will be more
agglomerative than any expression, and probably either total or of
selected parts modified by all their minor characteristics. Infants, like
Humpty-Dumpty, endeavour to speak in a total way, packing their whole
meaning into some such phrase as din-din. One can take din-din as equal
to ‘I am thirsty’ or ‘Why don’t you give me a drink?’ or (in the case I
have in mind) ‘I want more fizzy lemonade’. The situation is
unanalysed and the whole of it is expressed, so far as the infant can, in
two syllables and their accompanying intonations. On the other
hand, the agglomerative type of structure is common in primitive
tongues. The primary impression is thus intrinsically unlike tu's
secondary impression, which depends on the co-ordination of a linear
series of symbols. The older linguists spoke of ‘inner speech-form’
and ‘outer speech-form’ as if these had a one-to-one correspondence,
and it is still deemed legitimate to speak of the mental image of a
speech-sound and its actual enunciation. Whether the mind works in that
way a linguist is hardly qualified to know, since his task begins with
the audible sentence . 1 The disconformity between global impressions and
a linear series of symbols seems to be what convinces so many that their
thoughts are too rich for words. There is an act of translation involved.
Impressions are collected at some point of the brain, co-ordinated, transformed
into orders to the speech organs, transmitted as a series of vibrations,
collected by the ear-drum, and retranslated into meaning. The various
mental movements have been identified to some extent by
physiologists. Ego displays his impression to tu in the form of a
linear symbolic expression. Any symbol that tu accepts is valid for
communication with tu y and any that he rejects is invalid. Ego may offer
any one of many gizon y homoy anthropos , czlowieky mard y ember , mies,
jen y hito t insdn, adamy orang , muntu, oquichtli, runa or tree y zugatz
, arbor y Baum , dendron , derevo y car and so on. The relation between
sound and thing is entirely artificial, and according to the language so
is x See, however, A. H. Gardiner, Speech and Language , 1932, ch.
ii, ‘An Act of Speech*. the convention. Even onomatopoeia is
conventional. The imitations serve, not because they are good, but
because they are conventional. 1 To a Frenchman one offers
subject-verb-object, and to a Turk subject-object-verb ; to a Chinese
attribute-substantive is the same as substantive-attribute to a Siamese
or Malay. Increased stress has the effect in one language that play on
tones has in another. The symbols are just symbols, valid in any agreed
convention, but without conventional agreement, unintelligible.
Expression is a linear succession of sounds, and the sentence is a
complete expression. It is understood, as we have seen, within the frame
of circumstance or context, and we cannot presume that it has any
necessary grammatical form. A sentence need not have a verb ‘expressed or
understood’, though it must have the quality of phenomenality. It need
not be a judgement. Most sentences consist of parts, and this is true
even of polysynthetic word- sentences. The parts are not necessarily
words, for in primitive languages we find embryonic stems which are not
precisely deter- mined for form or meaning, and in synthetic and
agglutinative languages we find affixes which are significant parts of a sentence.
Tu hears the expression and is the arbiter of its intelligibility.
He collects and retranslates the individual syllables as soon as they
begin to be heard, and combines them for meaning. If he cannot achieve a
meaning he asks for further symbols, whether in the same language or in
another. He reacts either by himself becoming a speaker or by performing
some action. But in either reaction it becomes plain that tu’s impression
is not identical with ego’s. Their minds are somehow differently
constituted (symbolized in the diagram by the size of the circles).
Despite all conventional agree- ment, there is no perfect understanding
between ego and tu . What tu understands, more or less in agreement with
ego , are (1) the reference of symbols to things, which is the ‘logical’
or grammatical sense of the sentence, (2) an emotional supercharge
represented by agreed stylistic symbols (which may be zero), and (3),
since tu is also an artist in words, something of the event itself. He
under- stands this in his own fashion. He may, for instance, be
specially susceptible to the word torpedoed as having gone through the
experi- ence or as being endowed with a vivid imagination. In this
third aspect of meaning, however, though it is not expressed in
symbols, 1 e.g. the sound of a shot is in English bang or crack ,
in Spanish pum or pa$ (the latter perhaps more appropriate to the slither
of the bullet as it lands). there is something on which the artist in words
can reckon; a play of mind on mind, through language but above
convention, which is presumably the secret of great poetry and oratory.
There is here an aspect of language which is beyond exact measurement but
can be intuitively felt. The speaker not merely conveys a logical
mean- ing and an emotion to the hearer, but stirs the hearer to a
secondary act of creation. The reactions to great literature are diverse
and some of them stimulate further reactions, so that works as
funda- mental as the Authorized Bible, Hamlet , and the Aeneid
become encrusted with added meanings, and are hard to reduce to
their original intention. Nor is the original intention, say of the
Aeneid , necessarily the highest value of a poem on which the
imagination of a Dante has operated so profoundly. Pier Augusto
Breccia. Keywords: ego tu -- Erstwiile,
Gardiner, ego et tu, la metafisica del dialogo, noi, ovvero, la metafisica
della conversazione, implicatura ermeneutica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Breccia” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Brescia – rarità
vichiane –rarita griceiana -- filosofia italiana – Luigi Speranza
(Trani). Filosofo italiano. Si laurea con lode presso la Facoltà di Lettere e
Filosofia dell'Università degli Studi di Perugia. Inizia la sua docenza come
professore di Storia dell'Arte presso il Liceo Classico Carlo Troya di Andria.
Consegue la cattedra di Latino presso il Liceo Classico Oriani di Corato. Consegue
la cattedra di Lettere e Storia presso l'Istituto Magistrale di Terlizzi. Insegna Latino nel Liceo Nuzzi di Andria. Oottiene il
suo primo incarico da preside a seguito del concorso superato. La prima
presidenza è dunque a Trani presso il Liceo Scientifico Valdemaro Vecchi,
intitolato al Vecchi dietro sua proposta. Presiede il Liceo Monticelli di
Brindisi. Presiede il Liceo Nuzzi di Andria. Presiede il Liceo Classico Carlo
Troya di Andria, esteso anche a Liceo Linguistico e Liceo delle Scienze Sociali
durante la sua direzione in seguito alla partecipazione alla Commissione
Brocca. Membro della Società di Storia Patria per la Puglia. Consegue il
Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Viene
insignito della Medaglia d'Oro del Ministero della Pubblica Istruzione per i
benemeriti della cultura, dell'arte e della ricerca scientifica. Ottiene
l'onorificenza di Cavaliere della Repubblica Italiana. Ottiene il Premio
Pannunzio per la saggistica conferito dal Centro Pannunzio di Torino.
Dopo una lunga e serena vita di studi muore improvvisamente ad Andria. Appresa
la notizia anche il sindaco di Andria Bruno ha espresso il cordoglio personale
e della città alla famiglia. Citando Loris Maria Marchetti su Pannunzio
Magazine: Ispirandosi alla lezione, originalmente aggiornata, di Croce e
di Popper (ai quali ha dedicato importanti studi), elabora un sistema
filosofico in quattro parti (Antropologia, Epistemologia, Cosmologia, Teoria
della Tetrade) dove trovano un punto di incontro storicismo, epistemologia ed
ermeneutica. La sua filosofia investe anche il pensiero politico e
l’àmbito dell’estetica, donde il suo fittissimo esercizio di saggista di
letteratura e arti figurative, interpretate sostanzialmente nel loro risvolto
filosofico-cognitivo. Altre opere: “Il tempo e la libertà”; “Pascal e
l’ermeneutica”; “Croce e il mondo”; “L’oro di Croce, Joyce dopo Joyce, Ipotesi
su Pico, Massa non massa, Radici di libertà, Il vivente originario, Tempo e
idea, I conti con il male, Radici dell’Occidente, Forme della vita e modi della
complessità; saggi su Bassani, Calvino, ecc.
Fedele collaboratore delle iniziative del Centro “Pannunzio”, negli Annali
comparvero suoi saggi su C. L. Ragghianti e su Cervantes in rapporto
all’Ariosto e alla tradizione italiana. Nel pannunziano Magazine pubblica, tra
gli altri, saggi su Torquato Accetto, Max Ascoli, Croce, L. de Bosis, F. De
Sanctis, Freud, Aldous Huxley, Jung, Leonardo da Vinci, Vittorio Mathieu, Moravia,
Pasolini, Solgenitsyn,Vico. Alfredo Parente - L'“opera bella” come impegno
morale, “Rivista di studi crociani”, Giovanni Spadolini - Mazziniani asceti,
“La Stampa”, Francesco Compagna - Editoriale, “Nord e Sud”, Raffaello Franchini
- L'idea di progresso. Teoria e storia, Giannini, Raffaello Franchini, Trittico
crociano, “Il Tempo”, A. Rosario Assunto, Filosofia del giardino e filosofia
nel giardino. Saggi di teoria e storia dell'estetica, Bulzoni, Roma, Rosario Assunto
- recensione di Brescia, “Non fu sì forte il padre”. Letture e interpreti di Croce,
Salentina, Galatina, in “Rassegna di cultura e vita scolastica”, Vittorio Stella
- recensione di Brescia, “Non fu sì forte il padre”. Letture e interpreti di Croce,
Salentina, Galatina, in “Rivista di studi crociani”, Vittorio Stella - Il
giudizio dell'arte. La critica storico-estetica in Croce e nei crociani,
Quodlibet Studio, Macerata, Charles Boulay - Benedetto Croce jusqu' en 1911.
Trente ans de vie intellectuelle, Librairie Droz, Ginevra, Nicola Fiorelli - “La
Follia di New York”, Sviluppi filosofici nella più recente “scuola” crociana,
Schena, Fasano. Vincenzo Terenzio, Natura e spirito nel pensiero di Giuseppe Brescia,
Mario Adda, Bari, Pietro Addante - La “fucina del mondo”. Storicismo
Epistemologia Ermeneutica, Schena, Fasano, Franco Bosio -recensioni di I conti
con il male, Laterza, Bari, ICalvino e Andria, Andria; Tempo e Idee,
Libertates, Milano, Il vivente originario, Libertates, Milano, in “Rivista
Rosminiana”, Franco Bosio - recensione di Le “Guise della prudenza”. Vita e
morte delle nazioni da Vico a noi (Laterza, Bari), “Rivista Rosminiana”, Dario
Antiseri; Croce e l'Anticristo, “Avvenire”, Dario Antiseri, Popper protagonista
del secolo XX, “Biblioteca Austriaca”, Rubbettino, Dario Antiseri - Popper,
Rubbettino, Dario Antiseri, Le ragioni della
libertà, Rubbettino, Antonio Jannazzo - Il liberalismo italiano del Novecento.
Da Giolitti a Malagodi, “Fondazione Luigi Einaudi”, Rubbettino, Beniamino
Vizzini - Per una discussione intorno al problema della libertà. Cenni per un
colloquio di ermeneutica morale con Giuseppe Brescia, Postfazione a Tempo e
Idee.'Sapienza dei secoli' e reinterpretazioni, Libertates, Milano, Beniamino
Vizzini - Vita e dialettica nel pensiero di Giuseppe Brescia e Pavel Florenskj,
“Rivista Rosminiana”, Fulvio Janovitz - Gli studi su Croce, “Nuova Antologia”, Fulvio
Janovitz - Quando Croce dialogava con Dio. Religiosità e cristianesimo di Croce
prima e dopo la lettura dell'epistolario con Maria Curtopassi, “Nuova Antologia”,
Fulvio Janovitz, Il mio Croce. Scritti, Quaderni della “Nuova Antologia”, Firenze, Paolo
Bonetti - Introduzione a Croce, Laterza, Bari 1984. Paolo Bonetti - recensione
di I conti con il male. Ontologia e gnoseologia del male, Giuseppe Laterza, Bari,
in “Nuova Antologia”, Samuele Govoni - Brescia celebra il Bassani amante
dell'arte, “La Nuova Ferrara” - Cultura, Cosimo Ceccuti - La Religione della
Libertà, “Il Resto del Carlino”, Cultura e Società, Il caffè. Nico Aurora - De
Sanctis e l'attualità del 'Discorso di Trani'. La lezione di Brescia a 134 anni
di distanza, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, Stefano Vaccara - Presentazione di
Max Ascoli, il filosofo mondiale della libertà, “La Voce di New York”, Giuseppe
Poli - recensione di Le “Guise della prudenza”. Vita e morte delle nazioni da Vico
a noi, Laterza, Bari, in “Risorgimento e Mezzogiorno”, Domenico Cofano -
recensione di Brescia, Giovanni Bovio. La vita e l'opera, Società di Storia
Patria per la Puglia, Andria, etetedizioni, in “Nuova Antologia”, Giovanni
Bovio, maestro del pensiero, “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È scomparso improvvisamente
il preside Brescia "andriaviva.it", Quirinale.it Quirinale.it – Onorificenze, Loris Maria
Marchetti, Brescia, di Loris Maria Marchetti, su Pannunzio Magazine. Nuovo
lavoro editoriale del prof. Giuseppe Brescia – Società di Storia Patria per la
Puglia, chiamato “Le ‘guise della prudenza’ Vita e morte delle nazioni da Vico
a noi”. Per le edizioni Giuseppe Laterza del libro riportato, la premessa
intitolata “Come fermar il declino delle Nazioni”, Nella “Pratica di questa
Scienza Nuova” del 1725 il Vico, nostro europeo Altvater (come riconobbe
Wolfgang Goethe), assegna alla propria opera un valore “diagnostìco”, dal
momento che permette di riconoscere a quale stadio del suo corso si trovi una
nazione, sia in rapporto alla sua “acmè” sia nella prospettiva dello stadio
successivo di dissoluzione del proprio stato. È a questo punto che “bisogna
lottare per restaurare il senso comune perduto” e riavviare – così- il
“ricorso”.Su questa linea si muove la presente raccolta unitaria, ricomponendo
i saggi “Le ‘guise della prudenza’ Vita e morte delle nazioni da Vico a noi”,
che dà anche ìl titolo all’intiero volume, apparso in “Filosofia e nuovi
sentieri” (ottobre-novembre 2016); “Pico e Vico” (dalla “Rivista Rosminiana”,
CIX/I-II, gennaio-giugno 2015, pp. 135-140); con i percorsi “Teoria dei colori
Alchimia Apocalisse in Newton”, “Le origini dell’Islam la vita di Antonio
Carafa”, e l’11 Settembre 1683”, “Famiglia vita e imprese di Antonio Carafa”,
“La razzia dell’universo”, “Revisioni e conferme delle ‘tesi’ di Henri Pirenne”
e “L’orrore delle razzie s’irradia nel mito”, incentrati sul problema del male
nella storia e il rapporto con il fondamentalismo (preannunciati nelle rubriche
“Ternpo e Libertà” di “traninews-infonews”, e “Noi Credevamo” di Videoandria.
Tale complessa ricerca si inserisce nell’ultima fase del mio pensiero,
caratterizzata dai lavori ermeneutici Il vivente originario e Tempo e Idee.
‘Sapienza dei secoli e reinterpretazioni’ (Libertates Libri, Milano 2013 e 2015
entrambi con prefazione di Franco Bosio); I conti con il male. Ontologia e
gnoseologia del male (Ed. Giuseppe Laterza, Bari 2015) e Italo Calvino e
Andria. Variazioni sul senso del celeste (Matarrese, Andria 2016), arricchiti
spesso di Iconografia e mappe concettuali. L’ultimo attuale saggio “Rarità
vichiane a Trani” riprende i lineamenti della duplice “Lectio Magistralis”,
tenuta nella Biblioteca “Giovanni Bovio” di Trani (19 gennaio e 3 febbraio
2017), per onorare i duecento anni dalla nascita di Francesco De Sanctis, nella
ricorrenza dell’elevato “Discorso di Trani” del 29 gennaio 1883, non ché il
capitolo La Nuova Scienza, dedicato soprattutto a Vico dal critico e maestro
d’Italia civile nella sua Storia della letteratura del 1870, per conto della
Sezione andriese della Società di Storia Patria per la Puglia. Siamo (come
ognun vede), “alle origini della modemità e a “tenuta della civiltà”
umanistica, di cui l’idealismo storicistico rappresenta la nobile (quanto
sofferta) fioritura”. Il lavoro del prof. Brescia è incentrato sul
tragico nella storia (incidente ferroviario di Andria;fondamentalismo; 11
settembre 1683 e biografia di Antonio Carafa, dettata dal Vico; Vico e De
Sanctis a Trani.Giuseppe Brescia. Keywords: rarità vichiane, Croce,
implicatura, Croce inedito. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Brescia” – The
Swimming-Pool Library.
Grice
e Bressani – vo significando – Vendler: have you stopped meaning it yet? -- intorno
alla lingua toscana – filosofia toscana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Treviso). Filosofo. Grice: “Strawson, being boring, likes
Bressani’s arguments – alla Plato and Aristotle, but mainly Aristotle –
againsts what Galileo has the cheek to call ‘filosofare’! – But I prefer
Bressani’s poems, the buccoliche, and especially his lovely treaise ‘discorso in
torno alla lingua,’ his little ethical treatise is charming especially if you
are into what some (not I, certainly) call ‘developmental conversational
pragmatics’!” -- regorio Bressani (Treviso), filosofo. Discorsi sopra le
obbiezioni fatte dal Galileo alla dottrina di Aristotile, Gregorio Bressani
(Treviso) filosofo italiano. Biografia
Si laureò all'Padova nel 1726 interessandosi a letteratura e filosofia. Fu
aiutato da Francesco Algarotti, cui aveva inviato delle proprie opere. Sostenne uno scolasticismo classico in
opposizione alla scienza moderna di Galileo e Newton. Opere Gregorio Bressani, Modo del filosofare
introdotto dal Galilei, ragguagliato al saggio di Platone e di Aristotile, In
Padova, nella Stamperia del Seminario, a Gregorio Bressani, Discorsi sopra le
obbiezioni fatte dal Galileo alla dottrina di Aristotile, In Padova, Angelo
Comino, 1760. 2 luglio. Gregorio
Bressani, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Filosofia Filosofo Professore Treviso. DISCORSO
INTORNO ALLA LINGUA ITALIANA. BRESSANI TRI VIGI AN Oec. R E CI TATO NELLA SAL A
VERDE DI PADO V A IN UN ACCADEMICO ESERCIZIO Ompariſce per la prima volta a
luſtrare la noſtra Miſcellanea il Signar Dottore Gregorio Brefsani, fogo getto
di chiaro nome, e di ornamento e fplendere alla fra Patria, col preſente
Ragionamento ſopra la Lingua Italiana; recitato da lui ultimamentepiù a cagion
di eſercizio, che per altro fine in una Radunanza di Letterati nella Città di
Padova: da i quali avendoſi per noi ſa puto l'approvazione che ebbe, ſperiamo
far coſa grata all'Autore, e inſieme d'al. cun noftro merito, col pubblicarlo;
tan to più, che potrà egli ſervir d'ajuto e di lume a quelli (che molti fono )
'i quali banno biſogno di faggia ſcorta nello ſteam dio, che affettano dell
Italiana favella. -- DISCORSO INTORNO ALLA LINGUA ITALIANA. BRESSANI O Dottor,
e Accademico Ricovrato; Da efo recitato in un'Accademia di eſer. cizio nella
Sala Verde di Padova, nel meſe di Maggio, 1740. A Chiemque fa,Eruditi edotti Ac
cademici, quanto malagevol ſia il rintracciare le cauſe effettrici delle umane
cognizioni, non parrà coſa ſtrana il ſentimento di Platone, ch' el le fieno
provenienti tutte dalla Remi nifcenza. Nè io credo, che attribuis re ſi poſsa
ad altro, fuorchè alla re. miniſcenza il fentire, e l' accorgerſi del Del Sig.
Gregorio Breſſani. 489 9 e 3 dello fpirito, e del vero pregio delle belle Arti.
Imperocchè tale vi ha che nè per tutta l'attenzion ſua, ne per opera degli
altri non arriva giam mai ad intenderlo. E laſciando di far parola di quegli,
che niun dilet ro pigliano, o nella Archittetura, o nella Muſica, che ſono
moltiſſimi rivolgo la conſiderazion mia a colo ro, che pur amano d'eſser tenuti
di ottimo guſto nella noſtra Lingua nulla fi accorgono, nè ſono per ven tura
atti ad accorgerſi, in che ne con fiſta principalmente la venuſtà e la grazia.
Avvegnacchè adunque ciaſcu na Lingua ſenta molto più dell'ideas le, che non
ſente l'Architettura la Muſica, e fia a lato di quelle in termini
incomparabilmente più ange fti riſtretta; non è per tanto che ella non abbia le
ſue verità in riſpetto a que' pochi, a cui è dato d'intendere non ſolamente il
ſignificato delle vo ci; ma la relazione tra loro meglio convenevole. Ora come
io, ſenza più, approvo iVocabolarj, gli avver timenti di Gramatica e le Oſsers
vazioni, che intorno a queſta Lingua XS o § fo 490 Diſcorſo della Lingua
Italiana fonofi facte dalla diligenza d'Uomini valenci; poco avrò che accennare
de' fuoi materiali, ed il mio ragionamen. to ſarà fpezialmente della forma
quanto a me, la migliore, che rice ver ella debba dalla fantaſía, e dal
giudizio degli Scrittori. Ogni Archi tetto adopra i materiale medeſimi, ed
oſserva gli ordini medeſimi della Architettura; e le loro opere ſono tra di sè
varie nella proporzione, e nella leggiadria. Ogni Compofitore di Muſica adopra
le medefime note: 0. gni Scrittore di qualſifia Lingua ado pra le medeſime
parole, e ſegue le regole, che riſpettivamente ſonogli preſcritte dalla ſua
arte. Tuttavia i bei riſultati, che di eſse procedono, fono, ed eſser debbono
tra di sè di. verſi. Ma quanto agevol penſo che mi farebbe il ridire le regole
máte riali, che vi ha, per favellar bene; tanto io temo di non faper altro che
ofcuramente ragionare della varietà, e perfezione di detti riſultati; ficco me
quelli, che appartengono anzi al giudicio de' noftri fenfi, che della no ftra
ragione. Pur nondimeno per le í PO Del Sig. Gregorio Breſami. 491 poche coſe in
genere, che io ſono per accennare, ſpero che il mio ra gionamento fia di
qualche utilità a coloro che non fono eſtremamente otcufi nel capire la
vaghezza della noftra favella; ed a Voi, Signori Accademici forſe non diſcaro
ad udire. ! A noſtra Lingua, ſecondo l'opi nion mia, da altri chiamaſi Ita
liana perchè di tutta Italia' fi fon preſi i vocaboli, donde è compoſta: da
alcuni chiamaGi Volgare, forſe per chè uſata, ed inteſa volgarmente:E da
cercuni chiamaſi Toſcana, o perchè il più de' vocaboli fi fon preſi appun to di
Toſcana, o perchè agli Toſca ni, come a Padri di detta lingua, e come a Tutori
d'orecchio, e di giu, dicio finiffimo, meritamente è conce. duto il diritto di
giudicar della puri tà, e della barbarie di ciaſcun voca bolo. E nel vero ad
evitare la con fufione, che ne addiverrebbe, ſe cia. ſcuno a ſuo talento uſaſse
di nuove voci; egli è del pari laudevole che neceſsario, che v'abbia il ſuo
Tribunale inappellabile, che altri vocaboli diſapprova come anticaglie, altri
non ammette come barbari, ed altri ritie. ne, o adotta come neceſsarj, o leg
giadri. Il che dà a divedere, che la noſtra Lingua è un corpo vivo ſog. getto
ad alterazione, in quella guila che ſono gli altri tutti, o naturali o politici.
E perchè qualſivoglia cor ро dalla ſteſsa ſua naturale alterazio ne è
minacciato di rovina; faggiamen te fanno i Signori Accademici della Cruſca, che
non adottano per Mae ftro di Lingua ogni triſtanzuol di Gra matico, che non
tiene veruno ſtile e che in luogo di vocaboli ufitati, e di proprj, ne adopra
ſpeſso di affet tati, e di rancidi, di groſsolani, o di ſtranieri. Benst a gran
ragione a dottarono, e quando che ſia, ſon cere to che adotteranno i vocaboli
di que? grand’ Uomini, che per la loro viva, ed ordinata fantafia, o
inventarono, o crebbero alcune belle arti, o alcu« ne- ſcienze; e fu di
neceſſità il trovar nuove voci ad eſprimere i loro nuovi concetti. Per altro
qual biſogno, o qual capriccio egli è mai di ufar vo cmano un diſcorſo (Nè io
giày caboli zotici, e duri d'altre provin cie d'Italia, o di accattarne degli
ſtra nieri; quando ne abbiamo in tanta copia di cosi proprj, e di così gentili?
Ma come egli ſta nel volere di Chiun que l'apparare i materiali della noſtra
Lingua; non così puote ciaſcuno, o ſa farne quell'accozzamento, onde ri fulti
un diſcorſo naturale, ed inſie me leggiadro: Nelle ricerche più aftrufe di
qualche verità di Filica non v'ha paragone tra 'l faper indo vinare quale non
fia la cauſa d'un Fea nomeno e l'indovinare quale ella fia. All'iſteſso modo
confiderando io ciò, che ſi voglia per iſcriver bene ed elegantemente, ben
potrei io an noverare millantà difetti, che disfora lafcero indietro di
moſtrare alimeno le fonti principali, donde derivano ): ma non così di leggieri
potrei additare qual fia la grazia, e l'armonia, che lo ren de vago, e lodevole.
Pare io conſi dero, che benehe:la noſtra Lingua; come io difli innanzi, quaſi
altro non fia, che un Mondo ideale; non oſtan te i caratteri del fuo bello,
poſsono ef 494 Diſcorſo della Lingua Italian eſsere in qualche parte
paragonabili con quegli, che riſpettivamente fi rav. vifano nel noſtro Mondo
materiale. E certamente in quella guiſa, che a ciaſcuna parte del noſtro Cielo
riſpon. de la produzione di coſe differentiffie me; forſe per ragioni
ſomiglianti-, à ciaſcun paeſe riſponde un linguaggio tutto proprio, e
differente dagli altri. E non fa forza, che nella noſtra me. defima Italia
chiamaſseſi un tempo panis ciò, che noi al preſente chia miamo pane; poichè non
è ſolamente la varia deſinenza di ſuono, che die ftingua l'una Lingua
dall'altra; ben il modo, con che ſeguendo non ſo quale neceſſità,
fi.concepiſcono le coſe, e fi eſprimono. Onde non è maravi glia, che non ogni
Clima produca in gegni atti ad ogni genere di compo, nimenti. In fatti ſiccome
non è il metro, che diſtingua la poeſia dalla prola; ma il modo diconcepire
diver. ſo; cosi io porto opinione, che alme no in gran parte l'indole, e'l
genio della lingua Latina tuttavia fuffifta nel la noſtra Volgaré. La qual coſa
ſem. bra, che abbiale voluto confermare il divino Dante, laddove, fingendo egli
di parlare con Virgilio, diſse: Tu fe il mio Maeſtro, e il mio Au tore, Tuſe
folo Colui, da cui io tol. Lo bello Stile che mi ha fatto De nore. Vero è che
l' Armonia dello Stile, la qual naſce ſpezialmente dallo traſpo nimento delle
voci, e chiamaſi coſtru zione, a chi paragona lo ſcriver ret torico di Cicerone,
o 'l robufto di Li vio col noſtro parlar familiare non può a meno di non parere
di gran tratto diverfa: ma ella non parrà già tanto, paragonando un componimen.
to de' Latini con un noftro ſopra un fimile ſoggetto, e d'una ſpezie mede fima.
In fine molto meno ne parreb be diverſa, ove à noi foffe dato di faa per
pronunziare le parole de Latini come facevan elli, cioè con quegli ac. centi, è
con quelle delipenze, che per comune opinione noi abbiamo -fiera mente alterati,
o perduti. Ma nos cost 496 Diſcorſo della Lingua Italiana così interviene, ove
noi la predetta armonia paragoniamo con quella di qualche Lingua ſtraniera; o
ci diamo a credere di poter rimeſcolarne i vo caboli, e forme di dire; che
effendo d'un genio differentiffimo; ficcome non ſi appiccano giammai gli
inneſti di quelle piante, che ſono tra di sè diverſe; così ciaſcuna Lingua mal
com pofta tutto ciò, che fenie d'un Clima diverſo. Io dico adunque, che la no
ftra Lingua in ciaſcuna ſua parte dee ſentire, per dir così, della ſua ſpezie,
e della ſua Nazione. Il che riſponde a quel carattere di bellezza, che nel le
coſe create e corporee chiamaſi u. nità; unità però tale, che da eſſa pro viene,
ő piuttoſto in eſſa ſtà racchiu. ſo un altro carattere, che è la varie ttà; la
quale come rendeſi manifeſta negli animali, e nelle piante d'un'in fteila
ſpezie, e d'un iſteffo Clima; così ella dee apparire nello ſtile di cia Icuno
Scrittore d' un'iſteſſa Lingua. Il qual mio ſentimento moſtra in ſem. bianti
d'effer il medeſimo, che quello del celebre Baccone di Verulamio lade dove
tocca della bellezza dello ftile $ 1 dis Del Sig. Gregorio Breſſani. 497
dicendo dover' egli eſſere, rivis didu um fuis, imitans neminem, nemini imi
tabile". Talchè dovendofi pur togliere d'altrui i vocaboli, ed i modi di
di re; conviene anche in ciò imitar la Natura, che non genera coſa, fe non
colla corruzione d'un'altra: Voglio ſignificare, che quanto noi togliamo
d'altrui per formare un diſcorſo, dee talmente tritarfi nel noſtro cervello
innanzi ché noi lo veſtiamo di nuova forma, che al fuo apparire niuno ha da
accorgerſi donde noi l'abbiamo tol to. Ed intorno a ciò comunemente non ſi dà
nel ſegno; perchè altri per travolco giudicio indi ſcoſtaſi, quanto più ſi
affatica di raggiugnerlo. Altri per infingardaggine li ripoſa nel limi tare del
buon ſentiero, ſenza voler cercare più avanti: E finalmente altri è di
ſentimento ottuſo e d'intellis genza aſſai corta a capire la bellezza, e la
fecondità, per dir costi, di quel vero, che egli imprende ad imitare, Se ne
fcoſtano i primi, a' quali per ciocchè troppo ftà a cuore di render fi
ſingolari dagli altri e col penſare e coll' eſprimerſi; mentre ſtudiano di celu
ceffare il vizio della trivialità, offen. dono nel vizio della affettazione, in
comparabilmente più rincreſcevole. La qual'affettazione conſiſte in certe
parole ſquarciate, e lmanioſe, ed in certi accozzamenti di quelle, che vol
garmente ſi chiamano belle fraſi Iono forme di dire, che fanno notabi. le
diſugguaglianza col reſtante del di ſcorſo e pe' quali (che che fi creda no gli
ſciocchi) riſulta un Tutto of tremodo ftentato, e deforme. Elem pio di ciò noi
abbiamo in coloro, che avendo appreſo di molti vocaboli ale la rinfufa e varj
modi di favellare da parecchi Dicitori, e tutti pulitif fimi; per la vanità di
moſtrarlene do viziofi, in qualunque racconto ne in trudono quanti mai poſsono
il più, e mallimamente gli da loro ſtimati me no comuni; tra quali ne intrudono
anche di quegli, che non ſolo male fi convengono colla ſemplicità della Na.
tura; ma talora non ſi convengono colla Verità del loro ſteſso ſentimen to: e
meritamente ripiglia coſtoro il noftro Sovrano Poeta, dicendo: E Del Sig.
Gregorio Breffani. 499 7 1 E quale che a gradin' oltre fo metu te? LC Non vede
pide dall uno all'altre filo. e 3 Per tanto niun' altra venufta, niun' altra
grazia ricever puote un diſcorſo dagli vocaboli o forme di dire, fe non quella,
che deriva dal collocare ciaſcuno al luogo fuo; talmente che appaja eſser i
vocaboli piuttoſto, che abbiano cercato d'elser uſati dove fo. no; che d'eſser
eglino ſtati cercari ftu. diofamente dagli Scrittori. E perchè tanto altri
allontanafi dal vero coll' aggiungervi ciò, che non gli ſi con viene; quanto
altri coll'ommettere di collocarvi ciò, che gli fi conviene; ne ſeguita che un
diſcorſo rieſce diffetiofo sì ad uſare in eſso vocaboli di fover. chio, e fuori
di propofito, che a ri petere alcuni vocaboli, in vece d'ale tri varj, che fi
vorrebbono, ad eſpri mere propriamente i propri concerti dell'animo, ed a
fervare in un ragio namento quella varietà, che richiede fi a formarlo giuſta
l'eſemplare ſoprac. cennato de' corpi Fiſici. Ma che? Se gli Uomini per una
parte fon moſli da certo naturale deſiderio, o da qual ſivoglia altro ſtimolo
di giugnere nel la loro arte alla perfezione poſſibile i ſono all'incontro (laſciando
ſtare gli altri impedimenti, che ſpeſso ſi attra verſano al lor diſegno )
comunemente refpinti dalla fatica, che loro convien durare, prima che ad eſli
venga fatto di apprendere ad eſercitare qualſifia arte con lode. Ne vi ha
alcuna arte per limitata, o facile che ſia ſopra le altre, che pigliandoſi a
gabbo non rieſca imperfetta. Per la qual coſa, l'arte dello ſcriver bene si
nella no ftra, che in ciafcuna altra Lingua, richiede anch'eſsa di molta fatica,
ed induſtria. E vanno fortemente errati la maggior parte de' noftri Scrittori
che da che ſentonſi forniti di alquan ei vocaboli, e modi, onde groſsamer te
eſprimerſi; ed effi eſtimano di la per iſcrivere quanto baſta laudevol mente. E
come fi ſcontrano in uno ſtile un poco colto, che in un certo modo dovrebbe
eſser di rimprovero al loro difetto; dicono coſto che gli è uno 4
DelSig.Gregorio Breſani. 501 uno ſtile che ſente dell'affettato ', ©
dell'antico, „ dandogli a torto biaſmo, e mala voce. E così, diſprezzando efli
animoſamente ciò che per loro poltroneria non hanno appreſo. Ferman fua
opinione Prima che arte, o ragion per lor ſi ſcopra. Che ſe pur vero foſse, che
uſar non non ſi poteſsero altri vocaboli, o mo di di dire, ſe non gli uſati da
coſto. ro; il groſso Vocabolario della noſtra Lingua ridurrebbefi ad un
libriccivolo di quattro carce;. e laddove la noſtra Lingua ora vanta di eſsere
la ricchilli ma di voci, e di maniere leggiadre diverrebbe la più povera e
ſmozzicata di tutte. Oltrechè in proceſso di tem po gli ottimi Scrittori, c
Padri di no Itra Lingua ne diverrebbono molto oſcuri, e direi per poco in
intelligi gibili ". Vuolli per tanto aver pieria conoſcenza sì de'
vocaboli, che delle forme di dire; acciocchè il noſtro iti le abbia la predetta
varietà, e con ef ſo la ſua unità, per cui egli mantien. fi 302 Diſcorſo della
Lingua Italiana fi ſempre fomigliante a ſe ſteſſo, e per cui ſembra quaſi
uſcito di una fo la trafila. E le parole groſsolane ri meſcolate colle gentili,
e le parole adoperate fuor di luogo, o con fazie vole repetizione, o le parole
che non ſono più in uſo; lono come altrettan te ſcabroſità, che gli impediſcono
l' uſcirne. Per notabile che ſia la varie. tà, o differenza tra gli Uomini
nelle parti, che fuori appajono del corpo, non è mai li grande, quanto ella è
nel la capacità, ed aggiuftatezza del loro ſpirito. Per la qual cola io avviſo
di non poter paragonare gli umani inge gni, che a coſe dello ſteſso genere
bensi, ma di ſpezie diverſa. E fiami lecito il paragonargli a varie piante,
alcune delle quali reſtano picciole, perocchè la ſtruttura primordiale de' loro
ftami non comporta che fieno più oltre ſviluppate, ed eſteſe (e Gae lileo
Galilci dimoſtra, che così gli Animali, come le piante, ſe foſsero d'altra
grandezza, che non ſono vorrebbefi che la ſimmetria delle lor parti foſse del
cutto diverſa ) ed al cune altre non ſi eſtendono, come eften Del Sig.Gregorio
Breſſani. 503 eſtender ſi potrebbono per difetto dell' opportuno alimento.
Varia è la eſten, fione, e'l comprendimento de' noſtri ingegni, e varia è la
forte, che gli forniice di ajuti, e di occaſioni fa. vorevoli, onde poſsano
coltivarli. Egli è certo perciò, che quale s'im barazza nel voler' ordire un
ragiona mento, dirò così, di più fila ſopra la comprenſione, o coltura del fuo
in gegno, ovvero contro all'inclinazion lua particolare; il detto ragionamen to
fiaccherà da se medefimo, diffol. vendoli quaſi in brani; ed anche i vocaboli
ftelli, con che vorrà eſpri merlo non avranno nè unità, nè grazia. Nè fi
de'credere che l'Archi tetto, il quale fia buono da fabbrica. re una camera,
fia fempre buono da faper fabbricare un palagio: Nè che un Compoſitore d'una
breve, e fem. plice ſuonata fia fempre buono da con porre una Sinfonia aſſai
lunga con tutte le parti, che in eſſa ſi vou gliono a formare un'armonia perfec
ta: Ne in fine che un Uomo di leto dere, al quale venga fatto di ſaper unire
inſieme una decina di verli > fia per
sé, ſia per queſto buono da fare un Inne go poema; come ſe il palagio, la
Sinfonia, ed il poema altro non foſ. ſero, che un aggregato di più unità minori:
Che nè la Camera, nè la breve Suonata, nè la decina di verfi conſiderate
riſpettivamente nel pala gio, nella Sinfonia, nel poema, non lono già unità, ma
parti. E però non folo deono effer belle ma deono eſſerlo, anche per riſpetto a
tutte le altre parti, che ſono con efle integrali di tutta la fabbrica. Io non
niego di molte opericciuole ef ſere altrettante unità nel loro gene re, come
ſono le grandi; ma molto maggior forza, ed eſtenſione dinge. gno richiedeſi nel
comprendere un Poema (purchè le colę.; che in eſſo fon contenute; nonoſtante
che d'un racconto ſi trayalichi in altro; fien tutte come parti integrali d'una
azion ſola ) nel comprender, difli, un poe ma, che un Sonetto, una lunga Ora
zione, che una picciola riſtoria, ed al fro breve ragionamento: Ed il Boca
caccio medesimo fempre' doviziofiffi. mo che egli è di bei modi di dire, pure
Del Sig.Gregorio Breſani. sos che egli pure ſecondo la varia facilità, e feli
cità, con cui egli concepiva le coſe; vario è il diletto, che egli ne reca ad
eſprimerle. Nel breve racconto di qualche Novella non ha pari a dipi gnerla con
vivi colori, e con genti li, con mirabile naturalezza ė lega giadria; mentre e
pare a me, lia anzi increlcevole che nò nel lun. go racconto del ſuo Filocopo,
e della lua Fiammetta, ed altrove. In ſom. ma colui, che imprende a far coſa
ſopra la forza, e diſpoſizion nacura le del ſuo ſpirito, non potrà giam mai ben
riuſcirne. Certa coſa è che un'attenzione indefeffa a leggere, e conſiderare
parte per parte i gran Maeſtri della noſtra Lingua; ed un ben lungo uſo di
ſcrivere, raffinano aſſai il noſtro giudicio, e perfeziona no il noſtro ſenſo,
ma egli è certo ancora, che il viburno con tutto l' artificio, e la
ſollecitudine degli Agri coltori, non giugnerà mai all' altezza de i Cipreſli,
nè il pioppo farà mai fructo: cioè quale non avrà chiara ap prenſiva, ed eſteſa
a veder per sè ſteſ lo ciò, che ſia d'uopo a formarequel Miſcell.Tom.III, Y la
506 Diſcorſo della Lingue Italiana la maniera di componimento, ch'ei fi
prefigge nell'animo, dalle coſe più materiali in fuori; nè dalla copia ottimi
libri, nè dalla viva voce de'pe ritiMaeſtri, non potrà mai che poco, ed
oſcuramente appararlo. E per que fto appunto che gli Autori cladici del. la
noſtra lingua non tenean biſogno di badare neli eſprimerſi ad altro, che a'
proprj fentimenti dell'animo, a chi guarda ſottilmente, ſono impareggia bili
con coloro che eſſendo ordina. riamente poveriſfimi d'ingegno, ſpen. dono tutto
il loro tempo nell'imitar, gli. Ma comechè gli Uomini ſpeſſo fi Jamentino
quando della lor povertà, quando della poca robuſtezza, o d'al. tro difetto del
corpo, quando della loro mala volontà, o educazione; af ſai di rado, o non mai
fi dolgono di non effer forniti d'ingegno, e di giu. dizio atto a qualſifia
impreſa, non che a faper iſcrivere, e favellare, come ſi conviene. Anzi non
v'ha coſa più na. turale, e comune, ficcome è il vede. re gli inertiſſimi del
Mondo a preſu mer molto di sè, e creder di far gran cole DelSig.Gregorio
Breſani. 507 coſe; quando col loro poco ſenno non fanno altro, che infucidare,
e guaſta re i penſieri, e le maniere di dire che trovano ſparſe qua e là
nell'altrui opere. Ecco per tutto ciò che appreſ ſo alla cognizione, che Uom
dee ave re de'vocaboli, e d'altro; è da vede. re qual grandezza, e qualità di
com ponimento ſia da eſſo, e qual fia la forza del ſuo ſpirito a concepire chia
ramente più coſe, e'l modo, onde più facilmente, e felicemente le concepi. fce;
perchè altri farà eccellente nella poeſia, che non ſarà appena di mez zano
valore nella prota: ſenzachè al tri ſarà grazioſo in un genere di poe fia, che
in un altro genere non ſarà gran coſa piacevole: Altri farà com. mendabile in
un genere di profe; non così in un altro. Ma qualunque ſia il genere de
componimenti, qualunque ne fia la fpezie, qualunque in fine ſia la abilità del
noſtro fpirito a formare più queſto componimento, che quel.; ſi ha ad ogni ora
in ciaſcuna coſa, grande, o picciola che ella fiafi, da aſcoltar la Natura; che
forſe ſotto no. Y 2 me 508 Diſcorſo della Lingua Italiana me di Amoreaccennar
volle in quei verfi il noſtro non mai baftevolmente lodato Poeta:. Io mi ſon un,
che, quan do Amore ſpira, noto; e a quel mo do Ch'ei detta dentro., vo
fignifican do. Ma queſto ſi vuol fare con tal artifi cio; che meglio pud eſſer
inteſo da molti, che eſpreſſo da pochiſſimi. Ed io per certo non ſaprei
comemeglio a parole eſprimerlo. Ben ſo eſſere i più minuti, ed eſatti
raffinamenti, che fanno quel bello, quel raro in ogni coſa, per cui ella ſale
in gran pregio, ed in eſſo dura coſtantemente appo ogni Etade futura. Ma la
maggior par te degli Uomini, che pur ſi chiamano di profondo ſapere, non badano
a dete ti raffinamenti, perchè amano meglio, come dicon efi, di raccozzare
eſprimere rozzamente molte coſe, che poche con leggiadria. Di quegli poi, che
ſi conoſcono, e ſi dilettano de'leg gra. 7 e di Del Sig. Gregorio Bretani. 509
giadri componimenti, altri'l fanno per averlo ſolamente udito, ed appreſo da'
Maeſtri; ed altri 'l fanno maſſimamen te per propria meditazione, e quaſi per
intimo ſenſo. De'primi molti po. trai udire a giudicare rettamente dell' altrui
Opere, ed a ragionare a mara viglia de' precetti dell'arte; non così però ad
eſeguirgli nelle loro. Oltrechè effendo ne'più perfetti Eſemplari di Lingua
quella ſteſſa gradazione di ferie, che ravviſaſi in ciaſcuna ſpezie de' corpi
Filici; coſicchè l'ultimo Icric tore tra gli ottimi venga ad eſsere il primo
tra gli altri inferiori; rare volte avviene, che altri fuorchè i ſecondi, cioè,
gli aventi il ſenſo ac comodato a conoſcere il vero ſpirito d'uno ſtile, che
naſce di una bella fantaſia, correcta bensì, ma non pun to alterata dall'umano
artificio; che ſappiano diſtinguere tra i buoni gli ottimi, e co'migliori
gareggiar di lo de ne' loro componimenti. Benche il Mondo tutto de' Letterati
non ab. bonda, che di ingegni mediocri, o di coltivati mediocremente; come ſi
abbattono a qualche manie. i quali Ý 3. ra 510 Diſcorſo della Lingua Italiana 1
1 1 ra di file, o ſtrabocchevolmente fan taſtico, od in qualunque altro modo
corrotto, e fallo; fannol conoſcere ed isfuggire; per altro facendo un fae fcio,
come ſi dice, di tutti gli altri; hanno la ſtima medeſima di Autori di merito
differentiſlimi. E non ef fendo forſe uſi di meditare ſopra ver runa coſa, per
rinvenire da sè la ve rità; la credenza dell'uno di coſto ro è ſoſtegno, e
ragione baſtante al la credenza dell'altro. In quanto poi a coloro che con
qualche nuovo mo do di ſcrivere, tuttochè privo della venuftà, e della finezza
da me ac cennata, deſtano in altrui ammira zione, e dilecto ye da i più fonte
nuti per valentiffimi Scrittori; non è gran fatto da ſtupirſene, che il giu
dizio della gente groffa, cioè de i più, in ſomiglianti cole è fallaciffimo. E
inveſtigando io la ragione, onde in tervenga, che una ſtampita rechi al la
moltitudine forſe diletto maggio re, che non reca un'armonia aggiu. ſtata; che
un vafto, e bianco pala gio, che piuttoſto dovrebbe dirſi un gran mucchio di
pietre, fia ftimato, ed Del Sig.Gregorio Breſſani. Sil ed ammirato più, che una
picciola caſa fabbricata cơn ottima architet tura; e che finalmente uno ſtile,
ed altra coſa fregolarà piaccia per av ventura più, che non piacciono le coſe
fatte riſpettivamente ſecondo le buone regole dell'arte; avviſai, che ella non
poſſa eſſer alcra, ſe non ſe queſt'una: che concioſiecchè ricevono gli idioti
dentro di sè un'idea di cofa, che non ha nè ordine, nè proporzione, può ſembrar
loro aggiuftara, e gen tile; perciocchè la confiderano in se ſteſſa ſenza
paragonarla colle idee che efli hanno delle coſe veramente efiftenti; e ſenza
paragonarla con que' caratteri di bellezza, che badanie do ſottilmente, fi
ravviſano nelle co ſe tutte, quali elle ſono create e diſpoſte dall' Artefice
fapientiſſimo: i quali caratteri vie più rendonſima nifeſti, e mirabili, quanto
maggiore fi è l'attenzione, e l'intelligenza di chi gli conſidera. Quindi noi
vedrem mo più maniere di ſtile ampolloſo, o d'altra guiſa falſo aver tenuto per
infino a tanto che fonofi dati gli - Uomini a fare il ſopraccennato pa ra 512
Diſcorſo della Lingua Italiana > ragone; che è quanto dire a diſtin. guere
l'ideale, che ha infiniti fimili fuori di se, dal chimerico, che fol tanto
dimora nel noſtro ſregolato giudizio: ed all'incontro lo ſtile che è il vero (vero
io intendo di quella verità, che riſulta dalla con venienza tra l'eſpreſſion
noſtra, e la eſpreſſione la più acconcia, che ima giniamo effer poflibile in
chi favel la, ſecondochè gli detta la Natura ) può eſſere per alcun tempo in
poco pregio, appreſſo coloro, che non fanno altro, che correr dietro a ciò, she
ha faccia di novità, ſenza cere care più oltre. Ma certifſima coſa è, che
opinionum commenta (come di ce Cicerone ) delet dies; nature jue dicia
confirmat. Ed io da capo fran camente attribuiſcoverità anche al modo di
ſcrivere che pazzo è per opinion mia, qual fi crede, che non abbiavi altrove
verità nelle belle are ti; ſalvo che ne' teoremi della Geo mecria, ovvero ne'
calcoli dell'Arit metica: quaſichè innumerabili non foſſero i fenomeni in
Natura (e tuca ti ſenza dubbio ſono nel loro gene i re Del Sig.Gregorio
Breſſani. 513 VO. re aggiuſtatiſſimi ) a' quali non ſi ponno addattare ne'
calcoli, nè figu re geometriche. Ma effendone noi certi altronde dell'armonia e
della verità delle coſe farce dall'arte, gliam noi dire perciò, che fien men
belle, o men vere di quelle, di cui noi conoſciamo in parte, e geome.
tricamente dimoſtriamo l' artificio? Il perchè io dico eſſerci verità in una
Cantica di Dante, eſpreſſa co me ha fatto egli; che ella non ci farebbe
altrimenti, ſe l'argomento ſteſso foſse eſpreſso dall' Uomo più ſcienziato del
Mondo, ma ignudo di vocaboli gentili, e di maniere di dire leggiadre: Che altra
verità contiene in sè una ſteſsa immagine delineata con perfecta ſimmetria, con
atteggia mento naturale, con ombreggiamenti, e colori convenienti; ed altra, ſe
det ta immagine tanto quanto ſi diſcoſta dall'eſemplare di Natura; benchè noi
per quella eſsa la ravvilaflimo egual mente. Ora che altro è il noſtro Icria
vere, e'l noſtro favellare, ſe non che un dipignere le noſtre idee ſopra la
immaginativa di chi ci ſtanno ad udi • re; 514 Diſcorſo della Lingua Italiana
re; onde non dobbiam noi eſser con tenti ſol tanto, che una idea da noi
groſsamente, non ſo ſe io mi debba die re piuttoſto abbozzata, che eſpreſsa,
non venga tolta in iſcambio con un'al tra; ma dobbiamo innoltre porre ogni
ftudio per eccitare in altrui quel vivo ſentimento di quallfia coſa, che ab
biam noi medeſimi, allorchè vivamen te, e chiaramente l'abbiamo apprela. Che
avvegnachè l'arte dello ſcrivere confifta tutta in un aggregato di ſegni, o di
modi, ſcelti, ſe vuoi, ad arbi trio degli Uomini, io tengo non per tanto eſser
detti ſegni quaſi una coſa ſteſsa con ciò, che per eſſi ne viene rape
preſentato; o almeno dover eſser tali, Sì che dalfatto il dir non ſia diverſo
Lungo ſarebbe il diſcender ora á ra. gionar de' particolari, che recano, o
tolgono la leggiadria, e la verità a va rie maniere di componimenti. Ma
ancorachè io nol faccia, il poco, che io ne accennai in comune, ſpero che per
avventura defterà in chi che fia la reminiſcenza di quanto fa di meſtieri ula.
Del Sig.Gregorio Breſſani. 515. uſare a voler iſcrivere con lode; per chè in
fine, ſiccome non da altri, che dal proprio ſentimento ſi può appren dere a
modificar variamente l'armonia della Muſica, nè della Architectura; così non da
altri, che da sè veruno non può apprendere il vero modo di addattare la propria
fantaſia a cutte le occaſioni particolari di aver da eſpri merſi, che ſono
ſenza numero. Poco io diffi eſſere ciò, che mi cadde in animo di accennare
verſo il molto che un eſperto dicitore, quello, che io non ſono, avrebbe faputo
e medi tare, ed eſprimere di attinente a così raſto argomento. Con tutto ciò
ten gol per lufficientiffimo; purchè ſia da tanto di deſtare in eſso voi,
umanil ſimi e ſaggi Accademici, la voſtra cu rioſità ad iſcoprire le mie
fallacie; onde a mio utile proprio, io appren da quanto forſe mi trovi lunge
dal fe gno ' prefiſso; mentre io delidero di guidare altrui pel retro cammino
del la Verità. Keywords: intorno alla lingua
toscana. Refs.: l’implicatura di
Galilei, discorso intorno a nostra lingua – discorso intorno al volgare –
Aligheri – vo significando – “meaning” – I am meaning – Gallileo, forma logica
aristotelica – vo significando -- forma logica galileana – forma logica
platonica – grammatica e geometria – grammatica profonda di Galilei -- Luigi
Speranza, “Grice e Bressani” – The Swimming-Pool Library.
Bria – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According
to Giamblico, a Pythagorean.
Bria – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. According
to Giamblico, a Pythagorean.
Grice e Brotino – Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Brotino
or Brontino of Crotona or Metaponto. The name crops up more than once in
stories about Pythagoras Some say he was his father in law, others his son in
law. He is aldo said to have been a pupil of Acmaeon o Crotone. Clement of
Alexandria says he wrote a book on the nature of the world. It is possible that
a father and son sharing the same name have been confused with each other.
Grice
e Bruni – interpretare – l’interpretazione di Romolo – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Arezzo). Filosofo italiano. Grice:
“Bruni is a philosopher – and a Griceian one at that; he reminds me when
Strawson and I used to give joint seminars on ‘De interpretation;’ our tutees
found it boring but we would say, ‘lay the blame on the Stagirite.” Grice: “Boezio
was possibly wrong in missing the metaphorical impicature of ‘hermeneutic,’ and
give us a rather boring ‘inter-pretatio’ – which is the thing Bruni uses when
dealing with Cicero – Bruni is unaware if what he is doing is ‘interpreting’ or
‘volgarizare,’ i. e. render the thing into the volgare that the volgo may
appreciate! His impicature seems to be: let the classics stay classic!” –Grice:
“But there is a little word that Bruni uses that is crucial, ‘recta’ –
interpretation has to be ‘recta,’ as opposed to incorrect – which leads us to
impilcature – is over-interpretation mis-interpretation? We think it is!” –
“But since an implicaturum is cancellable, we have to be VERY careful here, as
Bruni is – especially when he visited I Tatti!” – Politico, scrittore e umanista italiano di
Toscana, attivo soprattutto a Firenze, della cui Repubblica ricopre la più alta
carica di governo di Cancelliere. Uomo di grande personalità, arguto e forbito
parlatore dotato di grande eloquenza, si insere nella disputa sulla questione
della lingua, discussione apertasi con l'avvento della lingua volgare
all'interno della lingua in uso specie in chiave letteraria a quell'epoca.
Conobbe Filelfo ed ha come maestro Malpaghini. Nei suoi studi riscontra
fenomeni di ‘corruzione’ della lingua latina dall'interno, rilevando ad esempio
in Plauto le forme di assimilazione fonetica“isse” per “ipse”; oppure “colonna”
per “columna”. Teorizza quindi che il latino si fosse evoluto dal proprio
interno, sostenendo l'esistenza di una di-glossia. Oltre al latino antico classico,
aulico, sarebbe esistito un livello inferiore, meno corretto, usato
informalmente nei contesti quotidiani, da cui provengono la lingua romanza o
italiana – toscano, fiorentino. Oppositore di questa teoria e Biondo, il quale
sostiene invece che la causa della “decadenza” o corruzione del latino fosse
stata l'aggressione esterna dei due popoli germanici: gl’ostrogoti e i
longobardi. Gli studi storici hanno mostrato che le due teorie di Biondo e
Bruni non sono effettivamente incompatibili. Il latino si è evoluto per
ragioni, sia “interne” (e. g. le corruzioni di Plauto), sia “esterne” (le
invasion dei barbari ostrogoti e longobardi). Nella prima metà Professoresi
avevano pareri opposti in merito alla dignità del volgare. Filosofi come
Salutati e Valla disprezzano il volgare perché non dotato di norme
grammaticali; Alberti, al contrario, si adopera molto per far riconoscere il
volgare come lingua ricca di dignità nel panorama filosofico. Bruni conceve il
dialogo “Ad Petrum Paulum Histrum”, nel quale dava la parola a due esponenti
dell'umanesimo del periodo: Salutati, appunto, e Niccoli. Il primo assere che
il volgare sarebbe stato degno solo se regolamentato da assiomi precisi, e si
dispiaceva del fatto che Alighieri non avesse scritto la sua Commedia nel ben
più nobile latino. Niccoli propone una visione ancora più radicale, arrivando a
giudicare tre fra i principali filosofi italiani Alighieri, Petrarca e
Boccaccio poco più che degli ignoranti. Niccoli difende questi ultimi,
riconoscendo la grandezza delle loro opere, invece di giudicarli in base alla
lingua che usarono. È celebre una sua epistola in cui delinea princìpi
fondamentali dell'umanesimo. È sepolto nella basilica fiorentina di Santa Croce
in un monumento opera di Rossellino. Altre opere: “De primo bello punico”
(della prima guerra punica);“Vita Ciceronis o Cicero novus” (vita di Cicerone,
ovvero, Cicerone nuovo); “Aristotele, Ethica nicomachaea”; “Oratio in
hypocritas”; Pseudo-Aristotele, “Libri oeconomici”; “Commentarius de bello
punico, adattamento di Polibio”; “De militia”; “Commentarius rerum graecarum”;
“De interpretatione recta” “Aristotele, Politica”; “Commentarius rerum suo
tempore gestarum”; “De bello italico adversus Gothos”; “Historiae Florentini
populi”, Storie del popolo fiorentino (Storia fiorentina) da Acciaiuoli ed uscì
a stampa a Venezia. Vedi alla voce "letteratura umanistica" in
umanesimo, riferimenti in Carlo Dionisotti, «Bruni, Leonardo», in Enciclopedia
Dantesca. Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Cesare Vasoli, BRUNI, Leonardo,
detto Leonardo Aretin, in Dizionario
Biografico degli Italiani, Repertorium Brunianum. Lingua volgare. Questione
della lingua Monumento funebre di Bruni di Rossellino, basilica di Santa Croce,
Firenze. Dizionario biografico degli italiani. Epistole (in latino). Dialogi ad Petrum Paulum
Histrum di Leonardo Bruni - di Carlo Zacco Cancelliere fiorentino.
Leonardo Bruni è originario di Arezzo, ma Arezzo pochi anni dopo la sua
nascita passa sotto il controllo di Firenze, e lo stesso Bruni si può definito
a pieno titolo acquisito da Firenze ed ottenne nel 1415 la cittadinanza di
Firenze. E’ personaggio molto importante dal punto di vista letterario ma ebbe
una funzione importante sotto il profilo amministrativo-civile perché fu uno
dei più importanti cancellieri della repubblica fiorentina, successore, non
immediatamente, a quello che il più noto dei cancellieri del 300: Coluccio
Salutati, una grande figura di intellettuale, che si pose come diretto erede,
insieme con il Boccaccio, del Petrarca. Coluccio Salutati. Coluccio è un
personaggio di questo dialogo. Svolse in Firenze un ruolo molto importante sia
dal punto di vista politico (più politico del Bruni), e dal punto di vista
amministrativo-civile è uno dei più noti e importanti cancellieri di firenze:
le sue missive sia d’ufficio che private sono moltissime, e lasciò una forte
impronta. Un impronta volta a delineare l’ideologia della città di Firenze: la
difesa stessa della libertà fiorentina, per fare solo un esempio fra tutti,
contro la tirannide viscontea. • Gli studi di Greco. Il salutati ebbe anche un
altro importante merito che fu quello di portare a Firenze gli studi di Greco.
Fu per impulso del salutati, anche se non solo suo, che venne a Firenze il
Crisolora: uno dei più importanti dotti bizantini e proprio tramite lui si
instaurò lo studio del greco a Firenze. Intorno al Crisolora si stabilisce un
gruppo di figure, non soltanto fiorentine, poiché dato che il greco si poteva
studiare a Firenze, vennero anche da altri luoghi giovani per imparare il
greco; e tra questi giovani che vennero a Firenze ad imparare il greco ci sta
il dedicatario di questa opera: Pietro Paolo Istriano, che è Pier Paolo
Vergerio, che operava nel contesto carrarese, a Firenze per studiare il greco,
e poi era tornato a Carrara. A sua volta aveva scritto un trattato pedagogico
intitolato “sui nobili costumi”. Trattati pedagogici: altro aspetto
dell’umanesimo, molti scritti sono di carattere pedagogico perché uno degli
aspetti importanti nell’umanesimo è proprio legato alla formazione dei giovani
basata sulle Humanae Litterae. • L’umanesimo fiorentino. Questo è il contesto
culturale entro cui nasce questa operetta, interessante perché mette in evidenza
gli elementi di contrasto tra l’umanesimo inteso come un recupero classicistico
di stretta osservanza e la volontà di coniugare ad un rinnovamento degli studi,
quello che era la tradizione: in modo particolare quella dei tre fiorentini
Dante, Petrarca e Boccaccio. Ripresa del dialogo classico. Questa
operetta non è un trattato: è impostata come una discussione, una disputatio ma
è a sua volta, sviluppando alti elementi, è un altro dei caposaldi di
rifondazione del dialogo in latino: sulla scorta dei classici, più
sistematicamente di quanto non avesse fatto il pur importante esempio
petrarchesco. Disputatio in utramque partem. Questo è un dialogo diegetico, non
mimetico, dunque un dialogo dove la cornice è costantemente presente. E’ un
dialogo costruito in due libri, e la discussione è svoltain utramque partem, da
una parte e dall’altra. C’è un personaggio, un letterato e al tempo stesso un
personaggio di un certo peso a Firenze che si chiamava Niccolò Niccoli, che
sostiene due parti tra loro contrapposte: nel primo libro attacca violentemente
le figure di Dante, Petrarca e Boccaccio, inserendo questo suo discorso in un
attacco relativo alla condizione della cultura contemporanea: quindi
denunciando lo stato di decadenza della cultura contemporanea; nel successivo
libro fa unapalinodia e svolge un discorso opposto: gli elogia di questi tre
personaggi. Problemi di Datazione Problemi. Oltre al fatto del far vedere
che cosa è diventata a questa altezza cronologica la disputatio, ci sono
diversi aspetti in questo che sono interessanti. a) C’è un primo problema
di carattere cronologico, qui ridotta ai minimi termini, in una discussione che
è ancora in corso: è un opera su cui si è discusso e scritto molto, e la cui
datazione è uno degli elementi di discussione. b) Altro elemento di discussione
che è collegato a questo è se questi due libri siano stati
concepitiunitariamente o se il secondo sia stato scritto dopo: cioè se l’autore
avesse cambiato idea rispetto a quello che aveva fatto sostenere al Niccoli e avesse
svolto poi nel secondo libro successivamente una palinodia egli stesso nel
celebrare l’elogio dei tre fiorentini. a) la datazione Termini ante/post
quem. L’opinione più persuasiva a tal proposito è questa. Innanzitutto c’è un
problema di tempo interno: c’è un indicazione precisa dal punto di vista
cronologico, come emerge all’inizio del dialogo; questo dialogo è collocato in
due giorni diversi, uno successivo all’altro, nei giorni di Pasqua dell’anno
1401. Il fatto che come tempo interno sia dato il 1401 non significa che quello
sia il tempo reale di scrittura naturalmente. Comunque, posto che qui venga
messo come data il 1401 è evidente che il Bruni non potè scrivere l’opera prima
del 1401. L’altro termine di riferimento non dopo il quale fu scritta l’opera,
è il 1408 perché in quella data, in una lettera, Bruni stesso direttamente ci
parla di questa sua operetta come già pubblicata (pubblicata ovviamente
equivale a «circolante», almeno tra alcuni dotti). • morte di Salutati. Altro
aspetto da considerare riguarda le figure dei personaggi presenti. Tra queste
figure c’è quella importante, una sorta di Nume tutelare, il personaggio
anziano, l’intellettuale in età avanzata rispetto al gruppo dei giovani (c’è
questa differenza importante che va considerata) che èColuccio Salutati.
Coluccio muore nel 1406. Se noi stiamo a guardare ai dati dell’operetta
possiamo pensare che sia stata scritta quando il Salutati era ancora vivo, se
consideriamo il Salutati personaggio, che ci viene presentato in vita. In
realtà però c’è tutta una serie di elementi che fanno propendere a ritenere che
sia stata scritta, almeno per quello che riguarda il secondo libro, dopo la
morte del Salutati. Perché si attribuiscono al salutati posizioni che
difficilmente il Salutati avrebbe sottoscritto (lo sappiamo da altri dati,
lettere ecc). b) l’unitarietà Unitarietà dell’opera. Altra questione: è
unitaria o no questa operetta? Su questo punto è più difficile rispondere: il
primo libro presuppone indubbiamente un secondo libro che certamente
modificasse l’assetto del primo con il capovolgimento di posizione. Nei termini
della disputatio in utramque partemla tesi più persuasiva è che indubbiamente
sotto questo profilo, quello che è svolto come materia nel secondo libro sia
già dato nel primo come presupposto. Cioè che come testo dal punto di
vistaunitario il bruni avesse pensato all’opera in due libri; certo però è che
ci sono alcune piccole diffrazionidall’uno all’altro. Cambia la casa dove si
svolgono i dialoghi; viene introdotta un’altra figura, cosa possibile anche per
alcuni spunti ciceroniani a dire il vero, ma questo muta alcuni aspetti e
alcune parti dell’impostazione: in altre parole non è da escludere che il
progetto originario, pur prevedendo un secondo libro come è nella logica con
cui è stata scritta l’opera, si sia poi svolto effettivamente in untempo
successivo nel secondo libro. Ciò non toglie che, così come è svolta, l’opera
abbia un assetto contenutistico unitario, anche nell’impianto della disputa in
entrambe le direzioni. Modello ciceroniano Il modello del De Oratore. Uno
degli aspetti più interessanti dal punto di vista letterario riguarda la
consapevolezza da parte del bruni di voler imitare anch’egli Cicerone, non però
il Laelius come aveva fatto il Petrarca, ma una delle opere più imitate da
questo momento in poi in tutto il dialogo umanistico, e cioè il De Oratore. Il
De Oratore è importante in quanto modello per eccellenza del Cortegiano.
Le analogie • impianto realistico. Ci sono delle modificazioni nell’impianto da
parte del bruni rispetto al modello del de oratore: l’aspetto che lega
maggiormente questo testo al De Oratore è l’impianto con una cornice di
carattere realistico: qui abbiamo la Firenze reale di quel tempo, abbiamo
personaggi storicamente individuati, abbiamo una autorità come il Salutati. •
la palinodia. Altro aspetto interessante sul piano dell’impianto: la palinodia,
l’affermare una cosa e il fare il discorso in opposto rispetto a quello che si
è detto nel primo libro è una modalità attuata nel de oratore mediante il
personaggio di Antonio: Antonio sostiene una tesi nel primo libro (nel De
Oratore sono tre) e capovolge la tesi nel secondo: viene mostrato da
Cicerone il modo retorico e le ragioni di questo. E’ stato anche osservato che
si tratta di una palinodia che non nega gli asserti precedenti, però
sicuramente modifica quello che era stato detto nel libro precedente. •
l’ambientazione. Anche la casa come luogo di raccolta, di discussione dei
dialoghi è un elemento ciceroniano; e lo è anche il tempo di festa: qui
siamo a Pasqua. Le differenze • Autore presente / assente. La differenza
che balza più all’occhio è che mentre per Cicerone non c’è la presenza diretta
dell’autore, perché cicerone dice di aver riportato dialoghi e discussioni che
si erano svolti diversi anni prima, e c’è quindi una diffrazione di carattere
temporale, per cui Cicerone afferma di aver riportato la testimonianza di chi
gli aveva raccontato quei dialoghi, qui invece c’è la presenza diretta
dell’auctor e c’è una attualizzazione totale, nel senso che a prescindere dalla
data specifica, siamo all’inizio del 400, e i temi trattati sono altrettanto
attuali e attualizzati. Vediamo solo la prima parte, ma senza leggere la
seconda non si capisce l’effettivo svolgimento del discorso. Alcuni moduli che
vediamo riguardano solo questo dialogo, altri riguardano una modalità che nel
tempo viene ad essere ripresa e si evolve, come vedremo nel Cortegiano, dove
siamo però in un ambiente diverso: questo cittadino, quello di Castiglione,
della corte. Questo è ambiente privato: un gruppo di amici che discutono
tra di loro. Il testo Il dibattito sulle tre glorie fiorentine
Queste discussioni non sono invenzione del Bruni: abbiamo altre tracce e
testimonianze in ambito fiorentino in relazione alle critiche che gruppi di
giovani classicisti di stretta osservanza avevano avanzato criticando
aspramente le cosiddette glorie fiorentine: Dante Petrarca e Boccaccio. Quello
che sta al fondo di questo dialogo è un problema e un tema di discussione
quanto mai attuale nella Firenze del tempo. Se a noi può sembrare strano, visto
che pensando a Dante pensiamo ad un grandissimo poeta e autore, trovare Dante
trattato come un autore di popolo, di farsettai, di pescivendoli eccetera, può
dare adito a qualche stupore. Le stesse accuse sono riferite da altri, non li
introduce solo il bruni: i problemi di cui si discute sono problemi su cui le
discussioni c’erano nella Firenze del tempo. Abbiamo dunque da un lato si
afferma prima questo aspetto destruens e dall’altro lo stesso che dice di
aver parlato di quelle cose per ragioni di carattere retorico e per fare in
modo che fosse proprio Coluccio salutati a fare l’elogio. Quindi li giustifica
come una sorta di esercizio di simulazione retorica. La dedicatoria
L’antico detto. Vediamo i caposaldi di questo discorso. Anche qui abbiamo un
proemio che è una lettera dedicatoria molto breve rivolta al Vergerio. La
lettera si apre con un antico detto di un saggio, e sia apre così a mo’ di
omaggio verso il Vergerio, che con questo detto, attribuito a Francesco il
vecchio da carrara, suo signore, aveva aperto il suo trattato. Questo detto è
relativo alla patria: antico detto di un saggio che l’uomo per essere felice
deve innanzitutto avere una patria illustre e nobile. Elogio di Firenze.
La patria di origine del Bruni non è più Arezzo nelle condizioni in cui era
precedentemente, rovinata e distrutta ormai dai colpi della fortuna. Ha però il
bruni a sua volta l’opportunità di vivere in una città eccellente, quest’opera
è anche una celebrazione della grandezza di Firenze. Il fatto che Firenze sia
una città eccellente è dimostrato facilmente perché lo stesso dedicatario era
stato con lui a Firenze compagno di studi presso il Crisolora: c’è stata dunque
una comunanza di studi, di vita e di affetti. Il dono all’amico lontano.
Una comune abitudine alla conversazione e alla discussione, a dato che l’amico
è lontano, desiderato e rimpianto, così come l’amico lontano desidera e
rimpiange gli amici fiorentini gli manda proprio come memoria ed omaggio (il
Bruni al Vergerio) la testimonianza di una delle discussioni da poco avvenute
tra loro giovani amici e il Salutati, come testimonianza che può
trasmettere le discussioni di una volta allo stesso Vergerio. Anticipa, sui
contenuti, ciò che riguarda la dignità degli argomenti e la dignità degli
uomini. Cita i due protagonisti-antagonisti: Coluccio Salutati e il Niccoli.
L’altra dichiarazione che costantemente viene fatta in trattati di questo
genere è la testimonianza –dedica: dice alla fine di questo proemio: «così io
rimando la disputa trascritta in questo libro in modo che tu, benchè assente,
in qualche modo possa godere di quanto godiamo noi, e nel far questo ho cercato
soprattutto di rendere con la massima fedeltà le due posizioni contrastanti
(originale: morem utriusuqe, il costume di entrambi)» e affida allo stesso
Vergerio il compito di giudicare se ci sia riuscito oppure no. La
psicologia del personaggio. Questo è un altro tratto importante: quello della
delineazione del personaggio: non sono solo voci, con personaggi con una loro
individualità. Essendo un dialogo diegetico questa loro personalità può essere
messa in evidenza per alcuni tratti dalla cornice diegetica, ma soprattutto dal
modo in cui ciascuno si esprime, e quindi da quella sorta di delineazione
psicologica che deriva dal discorso. L’abilità è anche quella di rendere da
parte del bruni l’atteggiamento nel dire dei due, e ne è giudice lo stesso
Vergerio che li conosceva entrambi. La rappresentazione dei personaggi
rappresentano anche dunque una prova distile e di bravura da parte
dell’autore. Noi non abbiamo modo di vederlo nel testo latino, ma quest’opera è
letterariamente significativa anche nel movimento stesso delle voci. Il
primo libro Cornice introduttiva Come viene fatta l’introduzione nel
dialogo diegetico? Innanzitutto c’è la cornice introduttiva, che ci dà delle
indicazioni relative alle circostanze del dialogo, al luogo e ai
personaggi. Bruni e Niccoli vanno a casa di Coluccio. In questa nostra
cornice noi abbiamo che nel tempo delle feste, questi giovani personaggi stanno
andando a casa di Coluccio Salutati, che viene definito «senza dubbio l’uomo
più eminente del tempo nostro per sapere, eloquenza e dirittura morale»:
triplice occorrenza che definisce il carattere del nume tutelare. Viene poi
introdotto un novo personaggio: mentre stanno per andare da Coluccio Salutati
incontrano Roberto De Rossi, il quale a sua volta è definito per ciò che è
proprio del personaggio stesso in relazione agli studi: «uomo dedito agli studi
liberali». Tutti insieme vanno da Coluccio, e De Rossi si unisce a loro.
La critica di Coluccio. Arrivati a Casa di Coluccio c’è un momento di Silenzio:
Coluccio pensa che quei ragazzi gli vogliono dire qualcosa, loro non iniziano
per far cominciare il maestro e quindi viene rappresentata questa pausa: un
elemento di carattere anche realistico. Alla fine Coluccio, dato che nessuno
parla si decide ed interviene nel discorso. Quindi la persona più autorevole
inizia il suo discorso: che inizia nei termini di una conversazione, quello che
può avvenire quando un gruppo di persone si trova in casa di uno che è più
autorevole di loro, e questo comincia a parlare, e di fatto esprime il piacere
di vederli e poi comincia, li loda per la loro passione per gli studi, ma
esprime poi una critica. • importanza della disputatio. Critica relativa al
fatto che hanno trascurato quello che per Coluccio invece è importante: la
disputatio, l’abitudine alla discussione che secondo il Salutati è fondamentale
proprio per affrontare in pieno sottili verità, per poterle sceverare
compiutamente, per mantenere la mente in occupazione, e scambiando discorsi in
comune per fare una gara esercitando il proprio intelletto, al fine di ottenere
la gloria quando si sia superiori nella disputa rispetto agli altri, oppure la
vergogna quando si è battuti; da qui verrebbe uno stimolo allo studio per
imparare di più. Pag. 75, in fondo: «Che cosa può … lo sguardo di tutti».
Attenzione: qui la traduzione dice questione,che potrebbe far pensare alla
quaestio, nel testo latino si dice invece rem, l’oggetto della discussione, è
diverso il senso da dare alla cosa. E’ importante l’esercizio perché se non si
compie, chi è studioso rimane a parlare con sé stesso e con i propri libri, ma
non si mette a gara e non interviene nel colloquio con gli altri uomini, e non
viene ad essere di giovamento, non ottiene i frutti che possono essere dati
dallo scambio argomentato delle discussioni. Rievocazione degli studi a
Bologna. Evoca gli esordi della sua stessa educazione quando era aBologna: dove
aveva avuto un insigne maestro ed aveva appreso l’arte del discutere; poi aveva
avuto modo di cimentarsi ulteriormente in relazione ad un dotto teologo e
sapiente a Firenze, e al tempo stesso dotto in teologia, agostiniano, e insieme
amante dei classici: è Luigi Marsili, che animava un cenacolo presso la chiesa
di Santo Spirito, ed è una figura eminente della Firenze trecentesca, che viene
anche nominato dal Petrarca. • l’elemento cronologico. Ci viene dato attraverso
il Marsili l’elemento cronologico che si diceva all’inizio poiché il Marsili è
indicato come morto sette anni prima: dato che era morto nel 1394, allora 7
anni prima ci porta al 1401. • L’insegnamento del Marsili. Il Marsili aveva
dimostrato a Coluccio, nei tempi posteriori alla giovinezza, quando valesse la
discussione: era un sapiente conoscitore degli studi di teologia, ma anche un
conoscitore degli antichi; tanto profondamente legato alla scrittura degli
antichi da averle assimilate, anche stilisticamente tanto da riprodurne le
movenze. L’esempio che porta il Salutati di Sé e di quanto aveva guadagnato da
queste discussioni è dato per mostrare attraverso la propria persona, quanto
efficacemente egli ritenga sia proprio della discussione, cioè: il frutto delle
sue opere era stato dato secondo il salutati proprio attraverso questa via.
Dunque l’esercizio è fondamentale. Su questo punto si intavola tutta la
discussione che segue. Sintesi • Coluccio Salutati, pur sostenendo di
ammirare gli amici per la loro apssione per gli studi, criticava il fatto che
non si dedicassero, come esercizio non solo opportuno e utile, ma necessario,
la disputazione. • Coluccio aveva portato il proprio esempio sia dalle
indicazioni che aveva ricevuto dalla scuola di grammatica quando era un giovane
studente a bologna, e sia per quello che aveva ricavato dal rapporto
continuo assiduo e importante con il dotto teologo studioso dei classici Luigi
Marsili. • Una indicazione del Marsili ci dà l’indicazione del tempo interno
del dialogo nel 1401. • Il discorso del Salutati si concludeva con una
esortazione ai giovani perché si dedicassero alla disputa e cercassero di dare
maggior frutto ai loro studi. La risposta di Niccolò. Come personaggio
antagonista risponde Niccolò Niccoli: fin dalla presentazione che nella
dedicatoria aveva fatto al Vergerio il Bruni aveva presentato le due figure di
Coluccio e Niccoli proprio in questo senso. In più di un momento pare che
Niccoli dia ragione al Salutati riconoscendo l’importanza della disputa che potrebbe
giovare molto agli studi, e lodando il Salutati per l’efficacia sul piano
dell’eloquenza con cui aveva dimostrato questa tesi; e ricorda a sua volta la
figura del Crisolora, chiamato dallo stesso Salutati nel 1396 e da cui questi
giovani avevano imparato il greco. Il salutati invece aveva preso i primi
rudimenti ma non tanto da essere in grado di fare una traduzione dal greco al
latino. Le colpe della generazione precedente. Pare che Niccoli dia
ragione al salutati, ma non è così: egli giustifica se stesso e i suoi
amici dicendo che se non svolgono quella esercitazione non possono essere
accusati i ragazzi stessi ma devono essere accusati i tempi: c’è qui una
rappresentazione estremamente negativa, che riprende alcuni tratti del Bruni scrittore
già ben presenti nelle opere polemiche di Petrarca, e che per alcuni elementi
emergono anche nel De Vita Solitaria, un attacco da parte del Niccoli molto
duro nei confronti della condizione in cui è ridotta la cultura per colpa delle
generazioni precedenti e che dispersero il grande patrimonio della cultura
antica. Di fatto come sappiamo la concezione stessa del medioevo nasce
polemicamente proprio in contrapposizione con quello che riguarda la volontà da
parte degli uomini umanisti in primo luogo di ritornare alle fonti della vera
sapienza degli antichi superando la decadenza; è una notazione polemica questa
che noi non facciamo nostra, ma che riguarda la cultura del tempo. • Penuria di
libri. Il Niccoli spiega che per poter svolgere una disputatio è indispensabile
padroneggiare bene un argomento, e per fare questo bisogna avere una
grande mole di conoscenze; Niccoli si domanda come si possa acquisire una tale
mole di conoscenze in questi tempi oscuri, con tanta penuria di libri; invita a
considerare poi come erano le discipline umanistiche in passato e come sono
oggi: parte qui una sorta di rassegna che mostra le radici greche della
filosofia, mostra che cosa comportò il passaggio a Roma della filosofia dei
greci e mostra come ai tempi moderni è ridotta la filosofia. Polemica
contro gli aristotelici. Qui il Niccoli si lancia, sulla scorta di
considerazioni già petrarchesche (non qui enunciate come tali, perché non si fa
qui il nome di Petrarca) contro i filosofi e soprattutto contro gli
aristotelici: non contro Aristotele, ma contro gli aristotelici che tutto
basano sull’autorità di un solo filosofo, e tutto basano sul cosiddetto ipse
dixit, essi d’altra parte fanno questo sulla base di un'unica autorità, e non
soltanto mostrano con ciò di non conoscere bene ciò di cui parlano, ma mostrano
una grande arroganza: la dimostrazione della loro arroganza e della difficoltà
nel padroneggiare gli scritti di Aristotele, trova una base polemicamente anche
con riferimento a una polemica che a sua volta contro i retori del suo tempo
aveva fatto cicerone. • la corruzione del latino e dei testi. Poi ritorna
all’oggi e accusa i filosofi aristotelici di parlare di cose che in realtà non
sanno, e come possono saperle? Se questi non solo ignorano il greco, ma
ignorano in gran parte anche il latino? E qui è sotto accusa anche il latino
«pervertito» del medioevo, che non era quello degli umanisti. Addirittura il
Niccoli dice che se tornasse lo stesso Aristotele, non riconoscerebbe neppure
più i suoi testi; sottolinea un aspetto importante da un punto di vista
filologico, cioè il problema della restituzione critica dei testi aristotelici,
il problema cioè di andare a cercare il maggior numero di esemplari dei testi
di Aristotele e il tentativo di restituirli alla loro rispettiva lezione, e
questo poteva essere fatto a partire dal testo greco. La conoscenza del greco
che questo circolo di umanisti possedeva, era in quei tempi appannaggio di quei
pochi che avevano beneficiato, sulla scorta del Crisolora. Altro affondo:
gli occamisti. Dopo questo attacco agli aristotelici passa ad attaccare i
dialettici: anche questa è una polemica già petrarchesca, con i cosiddetti
barbari Britanni, soprattutto dialettici e logici occamisti, seguaci di Occam:
secondo le accuse che venivano fatte essi si occupavano di cose da poco, di
frivolezze, invece che di occuparsi di cose importanti ed eccellenti. Ciò non
vale solo per le due discipline evocate ma dice che potrebbe dirsi lo stesso di
tutte le altre arti: Grammatica, retorica e tutte le altre arti. Non mancano
gli ingegni, ma mancano i mezzi per imparare in questa condizione del sapere.
Non abbiamo né mezzi ne maestri. L’eccezione del Salutati. A questo punto
è chiaro che occorre fare un eccezione, perché sennò nel contesto del discorso
ciò avrebbe significato attaccare lo stesso Salutati; allora il Salutati è
salvato dal Niccoli ed elogiato e rappresenta l’eccezione che conferma la
regola. Perché il Salutati ha potuto far frutto con i suoi studi? In
virtù del suo grande ingegno, quasi divino, che gli ha consentito di fare quel
salto di qualità e quindi di essere l’eccezione alla regola. Ubi sunt.
L’ultima parte del Discorso di Niccoli si imposta su quel modello di elegiaco
tema dell’Ubi Sunt, dove sono mai?, tanto presente in ambito medievale, ma qui
piegato a lamentare la mancanza dei grandi libri dei classici; e fa un elenco
di libri di grandi autori che mancano. Il precetto di Pitagora. Aggiunge poi un
aspetto legato alla necessità del silenzio cui sono costretti, e fa un riferimento
ad un precetto dell’antico filosofi Pitagora: Pitagora aveva invitato i
discepoli, prima di parlare, a meditare e restare in silenzio per cinque anni,
e se i discepoli di Pitagora, che pure avevano tale maestro e tale possibilità
stante la cultura del tempo antico, come potranno questi giovani parlare e
mettersi a disputare? Dice il Niccoli: «noi che non abbiamo né
maestri ne insegnamenti né libri: come possiamo fare questo? Dunque non ti devi
arrabbiare con noi se stiamo zitti e non discutiamo, non è colpa nostra ma dei
tempi». Torna la cornice. A questo punto (pag 91) ritorna la cornice. Al
discorso diretto viene reintrodotta la cornice con una sorta di segno teatrale:
una pausa di silenzio che fa si che ci sia anche uno stacco in relazione alla
voce che ora segue; uno degli aspetti efficaci del dialogo è la messa in
scienza dei personaggi e quindi la rappresentazione delle loro voci. La cornice
interviene diegeticamente introdotta dal narratore-autore, che interrompe il
flusso del discorso, segnando appunto una pausa di silenzio. Disputa
intorno a disputare. Interviene Coluccio rilevando la contraddizione, perché il
Niccoli che aveva sostenuto di non poter parlare e discutere a causa dei tempi,
aveva a sua volta dato unabrillante dimostrazione di essere capace di discutere
con le sue stesse parole. Allora Coluccio cerca dichiudere questo discorso
dicendo: «lasciamo dunque se credete questa disputa che è intorno al
disputare». Gli altri chiedono il confronto. Ma il discorso non può
finire qui e c’è l’intervento di un dialogo a più voci, quindi c’è una
variazione nel modo in cui sono introdotte le voci di dialogo ed efficacemente
dal punto di vista letterario il dialogo viene ad essere animato. • Rossi.
Interviene Roberto De Rossi, che non vuole che la discussione rimanga a metà; •
Coluccio. interviene di nuovo Coluccio che dice per teme di aver destato il
leone dormiente e chiede il parere degli altri: chiede innanzitutto a Roberto
De Rossi se sia d’accordo con lui o con il Niccoli dichiarando che in relazione
a Leonardo, cioè colui che è al tempo stesso personaggio e autore del dialogo,
non ha dubbi perché ritiene che Leonardo sia d’accordo con Niccolò. • Bruni.
Interviene allora con la voce che dice io lo stesso Bruni che chiede di
essere considerato ungiudice: non vuole prendere posizione; fermo restando che
c’è una aggiunta, non priva di una certa ambiguità, perché riconosce che la
causa è in gioco non meno di quella di Niccolò. • Rossi. Interviene infine
Roberto De Rossi che a sua volta dichiara di sospendere il giudizio, e di
sospendere il suo parere finché entrambi non espongono la loro opinione. Dunque
Coluccio adesso deve fare una confutazione di quello che Niccoli ha
detto. La confutazione di Coluccio. Si apre una ulteriore fase del dialogo
nell’ottica di una confutazione fatta da Coluccio in relazione a quello che
Niccoli ha detto. In primo luogo fa notare che è facile confutare che dice che
a causa dei tempi non si può disputare quando egli stesso lo ha dimostrato egli
stesso disputando. C’è anche una schermaglia un poco scherzosa in relazione al
Niccoli. Un altro degli aspetti del dialogo è anche l’introdurre battute per
alleggerire il senso delle discussioni, così come si introduce all’interno del
discorso riferendosi ad un personaggio che inizia a parlare «sorridendo»
ecc, così anche da battute. Viene ad essere interrotto a sua volta il Salutati
da Roberto De Rossi con un'altra obiezione: allora se tu elogi il Niccoli che
ha mostrato di poter disputare, perché dici che ci si debba esercitare? Se
senza esercitarsi il Niccoli c’è riuscito così efficacemente, vuol dire che
l’esercizio non è necessario. Risponde con una contro obiezione il Salutati
dicendo che l’esercizio è fondamentale per poter ottenere un ulteriore
eccellenza: se già ci sono delle buone disposizioni soltanto esercitandosi si
può migliorare. Elogio dell’esercizio. Coluccio si lancia in un elogio
dell’esercizio. Questo esercizio e la disputa sono di nuovo ri-definiti, e
questa definizione è importante: pag. 95, riga 5:«perciò … io chiamo
disputa»: - insisto su questo poiché il modo in cui è definita la disputa
e la discussione delimita i caratteri della discussione stessa, e la distingue
rispetto alla quaestio degli scolastici. Non poi così bui. Il Salutati
ammette che la situazione in cui versano le arti liberali non è la migliore
possibile. Però in relazione all’atteggiamento assolutamente negativo nel
Niccoli tende a minimizzare: sì, un po’ sono decadute, ma non al punto tale che
siano nella condizione che diceva il Niccoli. E se è vero che molti libri
mancano, è ben vero che altri ce ne sono, e comunque le cose che abbiamo le
dobbiamo usare e non le dobbiamo disprezzare. E dunque ribadisce che il Niccoli
sbaglia ad attribuire la colpa ai tempi, perché così non riconosce quello che
deve imputare a sé stesso; cioè si sottrae di fatto quello che sono le sue
responsabilità. Chiarisce anche che il suo intento è quello di porsi in
opposizione a lui, e non di attaccarlo violentemente, cioè non è il suo un
atteggiamento volutamente polemico in termini distruttivi. La illustre
tradizione fiorentina. D’altra parte introduce, ritenendo che questa parte del
discorso possa essere compiuta, un ulteriore passo, che poi scatenerà il resto
della discussione e la reazione del Niccoli: E dice: pag. 97: «come è possibile
che tu venga a dire che in tempi moderni non ci siano possibilità da
parte degli ingegni di fiorire se tu tralasci tre uomini fioriti da questa
nostra città e nei nostri tempi. Dante, Petrarca e Boccaccio, che sono levati
al cielo da così grande universale consenso. C’è un motivo anche di
carattere patriottico. -c’è una specificazione data in relazione a Dante che è
significativa per come volgerà poi il seguito del dialogo, poiché sembra essere
posta una riserva sul fatto che Dante prescelse il volgare, infatti dice «se
Dante avesse usato altro stile (alio genere scribendi) io non mi contenterei di
porlo insieme a quei nostri padri, ma a loro e ai greci stessi io lo
anteporrei»: cioè da un lato c’è una lode del ruolo di Dante, dall’altro una
riserva del modo di scrivere. E dice che quei tre non vanno dimenticati ma
ricordati perché sono il vanto e la gloria della città. Dante. E qui la
voce di Niccoli esplode. In realtà il verbo non è messo, c’è un ellissi, ma il
traduttore lo sottolinea permettere in evidenza l’esplosione polemica del
Niccoli. C’è un vero e proprio grido del Niccoli. (pag. 97) «allora Niccoli
insorse … ignorante d’ogni cosa?» - e qui comincia un atto d’accusa. Che parte
da Dante, che viene accusato di non capire il latini di Virgilio, citando un
passo del XXII del Purgatorio; viene accusato di non aver capito l’età di
catone e di averlo invecchiato rispetto a quello che dice Lucano; viene
accusato di aver preso Cesare che era un tiranno, averlo lodato, ed aver messo
l’uccisore di cesare nella bocca di Lucifero; è accusato anche per la sua
cultura basata sulla scolastica, e per il latino di Dante stesso. E dunque che
cosa deve essere Dante? A chi deve essere lasciato Dante? A quale pubblico?
Pagina 99, in fondo: «per cio … familiare solo a gente simile».
Fiorentini contro Dante. Che a gruppi di classicisti di stretta osservanza
fosse rimproverato un atteggiamento simile lo sappiamo da altre fonti: che
possono anche essere collegate a questo, ma ci sono anche altre fonti
fiorentine che ci trasmettono questo atto d’accusa, mossa a giovani che invece
di guardare alle glorie della patria. Le attaccano. L’accusa è ancora più dura
perché non riguardava solo un giudizio di carattere letterario che attaccava i
numi tutelari della cultura fiorentina e il vanto della cultura fiorentina, ma
perché questi stessi giovani erano accusati di disinteresse nei confronti delle
sorti della patria. Un po’ di tempo prima della scrittura di questi dialoghi,
c’era stato uno scontro violento tra Firenze contro Gian Galeazzo Visconti, e
c’era stato un momento in cui pareva che Firenze dovesse soccombere, solo la
morte di Gian Galeazzo nel 1402 salva Firenze definitivamente, perché gli
ultimi atti di guerra versavano molto negativamente. E si diceva che c’erano
questi gruppi di giovani classicisti che si disinteressavano totalmente, che
non si occupavano delle sorti della patria; e qui viene fatto un collegamento
tra lo spirito civile e le glorie cittadine. Qui il discorso è riportato in termini
letterari, ma c’è sotteso dell’altro. Un riverbero di questo si vede alla fine
del secondo dialogo. Petrarca e Boccaccio. Da dante si passa Petrarca, e
si attacca ciò che Petrarca aveva propagandato a quattro venti in relazione
alla grandezza del suo poema L’Africa in latino, poema non compiuto, e quindi
da questa grande aspettativa, dice Niccoli, (noi diremmo “dalla montagna”) è
saltato fuori «un topolino». Di fronte alle accuse fatte a Dante e Petrarca, è
inutile continuare con Boccaccio, che viene liquidato, poiché se è inferiore ai
primi due, è inutile continuare. D’altra parte non soltanto questi sono da
giudicare nei termini dati, ma ancor più è da giudicare negativamente la loro
singolare arroganza per come si sono dichiarati: letterati, dotti e poeti. La
conclusione liquidatoria del Niccoli, a pag 103, è la seguente: «perciò
Coluccio mio … non hanno sapere alcuno»: una dichiarazione radicale. A questo
punto vediamo come finisce questo primo libro, perché siamo quasi alla fine.
Riprende a parlare Coluccio: c’è un distacco nella cornice nell’atteggiamento
«sorridendo come sua abitudine»: ora teniamo presente che i personaggi
ciceroniani, dei dialoghi ciceroniani, in particolare il De Oratore, quando
prendono la parola, nella cornice diegetica sono mostrati mentre a prendono
«sorridendo». Allora realismo nei confronti del Niccoli: «quanto vorrei.. non
abbia trovato un avversario», e qui cita gliavversari di Virgilio e Terenzio.
Però gli avversari di questi grandi latini del passato erano comunque più sopportabili.
Teniamo presente che questa sembra una nota caratteriale del Niccoli, questa
figura del Niccoli la troviamo al centro di diversi dialoghi di polemiche e
lettere. Ma perché gli avversari erano più sopportabili, perché loro si
opponevano ad una sola persona, e invece il Niccoli si oppone a tutti i suoi
concittadini. Ma il giorno ormai muore, ed occorre differire la risposta, che
necessita molto tempo, data la grandezza dei tre personaggi di cui occorre fare
la lode, per compensare il vituperio di Niccolo. Coluccio rimanderà questa
difesa. E qui Coluccio chiude circolarmente tornando al tema della discussione.
Fine. La conclusione del primo libro Necessità di una lode. Il
primo libro ci dice che l’attacco del Niccoli viene rifiutato in Toto dal nume
tutelare, con le parole del quale si era aperto il dialogo del primo libro, e a
causa del quale si erano svolti questi colloqui. [30:57] Viene rimandato, senza
un’indicazione che dica a quando, viene detto che sarebbe necessario un discorso
non breve e che il tempo lo impedisce. Allora a questo punto, così come è
impostato questo libro, ci fa presupporre che ce ne debba esse un altro che
comporti l’elogio di questi tre, perché rimane in un tempo di attesa. Qui
però c’è un problema relativo al modo di trasmissione dei manoscritti dei
nostri dialoghi in relazione alla fortuna del testo: devo dire che i Dialogi
ebbero una notevolissima fortuna, abbiamo un numero rilevante di manoscritti
però c’è anche un dato che non possiamo eludere: una parte di manoscritti ci
trasmette il primo libro soltanto, quindi sembra di capire che una circolazione
di questo primo libro sia stata precedente o autonoma rispetto alla diffusione
dell’opera completa, cioè dei due libri. Questo non vuol dire che tra il primo
e il secondo ci sia uno iato di composizione, anche se è una delle testi
che sono state avanzate; e non significa soprattutto che il secondo libro sia
una aggiunta esterna, successiva o pensata dopo, perché in realtà la
conclusione stessa del libro anche se non è determinata, è la conclusione che
compare spesso nei dialoghi, anche ciceroniani, quando viene rimandato ad un
successivo giorno. Ma qui non è specificato il quando, questo è vero, quindi
c’è qualche interrogativo che pone la conclusione di questo primo libro.
Il secondo libro Il secondo libro si imposta certamente in un
rapporto che possiamo definire, considerando l’opera nel suo insieme un
rapporto unitario, un rapporto non senza qualche diffrazione: cioè noi ci
aspetteremmo qualcosa d’altro, e cioè che fosse Coluccio a riprendere la lode
dei tre grandi fiorentini, e soprattutto che si riagganciasse a quello che è
stato detto nel primo libro. Invece il modo in cui si riaggancia ha qualche
diffrazione. La cornice Verso casa De Rossi. Il secondo libro del
dialogo dunque si apre il giorno dopo; si ritrovano quelli che si erano uniti
il giorno precedente, ma si aggiunge un altro personaggio. Altro interrogativo:
questo personaggio è Piero di Ser Mini, definito «giovane sveglio e sommamente
facondo». Come ricorda la nota che questo Piero di Ser Mini fu successore del
Salutati nella cancelleria di Firenze. Era rappresentato come personaggio
familiare e vicino a Coluccio, e insieme alla sua comparsa cambia anche la sede
dei personaggi: si ritrovano i personaggi del primo dialogo, tranne Roberto de
Rossi, che vanno appunto a casa di Roberto de Rossi; nel primo il De Rossi si
era aggiunto, ora i tre si aggiungono a lui. • Oltr’Arno. C’è un passaggio
nella dislocazione che non è privo di significato: vanno oltr’Arno, perché
Roberto De Rossi abitava al di là dell’Arno, oltre Palazzo Pitti; interessante
nella dislocazione perché quando finisce il dialogo ritorneranno dall’altra
parte: è come se uscissero dalla città e tornassero in città una volta concluso
l’elogio e restituita per certi versi la pienezza della compartecipazione di
quella che è l’opinione dominante. Ci sono anche connotazioni che rimandano a
luoghi per eccellenza propri di quelli che sono dibattiti di natura filosofica,
anche se questo non è propriamente filosofico: si parla del giardino, del
portico. Lode di Firenze. A questo punto non comincia una discussione
come avevamo visto essere terminata nel secondo libro, ma il nostro discorso
comincia in un altro modo: comincia con una laudatio di Firenze. Bisogna
ricordare brevemente due cose che devono essere tenute presenti per capire
meglio: a) L’encomio di Bruni. il Bruni aveva scritto
presumibilmente tra il 1403 e il 1404, una laudatio, unencomio, uno scritto il
lode di Firenze; particolarmente interessante in relazione alla tradizione
delle lodi alla città perché cambia l’impostazione: si basa sul Panatenaico di
Elio Aristide, cioè viene magnificata Firenze sul modello dell’elogio di Atene,
e l’elogio viene fatto per tutti gli elementi di Firenze, dall’aspetto fisico e
monumentale della città, alle sue istituzioni, alla città come rappresentativa
al massimo grado come figlia e erede di Roma, perché i Romani erano stati
fondatori di Firenze ai tempi della repubblica romana (secondo l’ipotesi avanzata
in quegli ultimi anni), ed era la depositaria e l’erede della libertà
repubblicana; quest’operetta era stata importante, e qui l’elogio in alto stile
viene fatto proprio da Salutati, che fa l’elogio della città dicendo per
esempio quali magnifici palazzi ci sono (e mostra i palazzi appena oltrepassati
per andare da Roberto de Rossi) e dice quanto bene ha fatto Leonardo Bruni a
lodare Firenze e loda a sua volta, lodando Firenze, quella che il Bruni la
fatto della città (esalta la laudatio di Bruni). • l’encomio dell’«encomio».
Quindi che cosa ottiene il bruni come autore in questo modo? Mette
lapropria opera come lodata dallo stesso Salutati. Ci sono anche dei nessi con
alcune altre opere del Salutati stesso. Questo elogio viene completato
dall’intervento di Pietro di Ser Mini e poi di altri e viene a toccare in
questo modo, come se fosse un discorso che si svolge naturalmente, viene a
toccare proprio il tema in oggetto, e cioè l’elogio delle glorie della città,
le glorie letterarie. b) Per capire altri punti facciamo presente che a pagina
107 viene citata un operetta del Salutati, dal Salutati stesso: è un trattato
scritto nel 1400 si intitolava De Tyranno; qui il Salutati aveva difeso la
legittimità del potere di Cesare, e soprattutto aveva difeso Dante per la
posizione assunta nella sua opera. Non è che qui adesso il Salutati faccia una
palinodia di quello che aveva scritto, però qui ne dà una interpretazione un
tantino diversa; e questa è una ragione che ci fa pensare che il Salutati fosse
morto a quell’epoca, perché non avrebbe ma accettato, conoscendo quanto fosse
molto fortemente difensore delle proprie idee e posizioni. Una
diffrazione: il parere di De Rossi. Lasciando stare questo aspetto del
problema, passiamo a parlare dei vanti di Firenze, e Roberto (al quale erano
state ricordate le glorie politiche della propria famiglia in difesa del
partito guelfo) diceva che bisognerebbe svolgere le lodi di questi personaggi,
perché questi tre poeti non sono davvero «la minor parte della nostra gloria». Noi
però ci dobbiamo domandare quale fosse la posizione di Roberto nel libro
precedente: aveva detto di non voler dare giudizi, di aspettare a dare un
parere, mentre qui si dichiara finalmente d’accordo. Allora Coluccio risponde,
ed anche questo ci stupisce in quanto non dice che tale elogio effettivamente
vada fatto, infatti Coluccio dice: «sei nel giusto Roberto, essi sono non solo
la minima parte, ma anzi di gran lunga la fonte maggiore della nostra gloria;
ma che debbo fare ancora, non aprii ieri a sufficienza il mio sentire su quei
tre sommi?» ma in realtà non aveva risposto: aveva solo detto che era contrario
al parere del Niccoli, e che per svolgere l’elogio ci voleva molto tempo:
quindi c’è una vera e propria diffrazione, seppure lieve in questo. Integrazione
della laudatio del Bruni. Teniamo presente che nella laudatio di Firenze il
bruni aveva glissato sulle glorie fiorentine sotto questo aspetto: cioè nella
laudatio non sono citati Dante, Petrarca e Boccaccio; la laudatio si conclude
con il vanto degli egregi fiorentini, ma non ci sono i nomi, è un vanto
generale. Questa parte ora, in un certo senso si riaggancia alla laudatio del
bruni e la completa: in un certo senso questo secondo libro ha indubbiamente
anche questo scopo. Tanto più che il Bruni, quando nelle sue lettere parla di
questo testo, lo definisce «i libri dei nuovi poeti», quindi l’aggancio con la
laudatio indubbiamente amplifica e porta in una direzione questo
discorso. Niccoli Smascherato. Come si può risolvere il problema a questo
punto? Niccoli rimane sulla posizione di prima? No. Vien operata una
definizione in chiave retorica della posizione del Niccoli: di fatto Coluccio
afferma di aver ben capito il giorno prima che il Niccoli aveva fatto questo in
modo artificioso: l’aveva fatto non dicendo quello che pensava lui, ma lo aveva
fatto per provocarlo,perché quello che Niccoli voleva era che lui facesse
l’elogio, ma Salutati non ci era caduto, ed aveva capito bene quali erano idee
di Niccoli, il quale, insieme a Bruni, continua ad insistere che sia lui a fare
l’elogio dei tre Grandi: Salutati dice che farà ben questo, ma solo quando lo
vorrà lui! A questo punto c’è una schermaglia, uno scambio di battute con
effetto teatrale, fino a quando c’è una sorta di rilancio tra le parti: il Salutati
vuole che sia il Bruni a fare l’elogio, mentre Bruni vuole che sia Coluccio, o
quanto meno vuole decidere lui chi debba farlo (e questo è un passo di tipo
meta letterario, in quanto Bruni è anche scrittore!); alla fine Bruni viene
fatto arbitro e decide che sia Niccoli a fare l’elogio: il Niccoli li ha
attaccati, il Niccoli ora li difenda. Allora il Niccoli prende la parola e
ribalta l’accusa che aveva fatto il giorno prima. Il modello di questo è stato
rilevato dagli studiosi nel personaggio di Antonio tra il 1° e il 2° libro del
De Oratore. Come Antonio, anche il Niccoli, pur facendo una confutazione di
quelle accuse, non si adegua totalmente a quello che pensa il Salutati, così
come Antonio, nel 2° libro del De Oratore non diviene totalmente dell’idea dell’altro
nume tutelare: c’è una dialettica interna che rimane. Excusatio.
Innanzitutto il Niccoli si lancia in una ampia excusatio, fin troppo ampia: e
questo potrebbe fare pensare che il Niccoli storico, una qualche responsabilità
in queste accuse ai tre grandi potesse pure averla. Insiste dicendo che gli
altri non poteva assolutamente credere che egli attaccasse veramente i tre
grandi: è noto a tutti l’amore che ha avuto per l’opera di Dante, per la
memoria di Petrarca, per il quale è andato fino a Padova per leggere l’Africa,
l’amore per Boccaccio ecc. afferma di essere consapevole di aver fatto quello
che diceva Coluccio: ha fatto un vituperio dei tre fiorentini solo per
sollecitare Coluccio a fare l’elogio. Dato che a questo punto tocca a lui, è
costretto a farlo, con grande soddisfazione di Coluccio che lo obbliga.
Palinodia, ma non totale. Da pag 113 inizia la palinodia: ciò che rende
grandi Dante, Petrarca e Boccaccio, e risponde alle accuse che egli stesso
aveva fatto prima. Ma c’è una differenza: il Salutati si pone su questa
posizione: il salutati è un innovatore che non rompe con la tradizione, è
l’erede del Petrarca a Firenze, e di Boccaccio. Però il Salutati non vuole
rompere e contrapporsi nello stesso modo in cui altri avevano fatto con la tradizione
precedente; il Niccoli recupera le lodi dei tre, ma alla fine del suo discorso
ritorna a quello che aveva detto prima: come il Salutati è un eccezione al
tempo contemporaneo, così questi tre grandi fiorentini sono delle eccezioni,
perché il loro grandissimo ingegno permise loro di eccellere nonostante la
decadenza degli studi e nonostante la situazione del mondo loro contemporaneo.
Non è quindi propriamente la posizione del salutati, ne una ritrattazione vera
e propria, o una confutazione delle accuse espresse prima. Petrarca
precursore degli umanisti. Ci sono nelle cose dette diverse cose interessanti,
una in particolare riguarda il Petrarca e il riconoscimento della sua funzione
per l’avvio del rinnovamento negli studi umanistici: riconosce l’importanza di
Petrarca come fondatore del movimento umanistico. Il discorso
improvvisato. L’altro aspetto importante per la struttura del dialogo riguarda
la dichiarazione del parlare all’improvviso e senza preparazione: questo dopo
aver fatto la lode di Dante; la caratteristica peculiare del dialogo è che
venga fatto come una conversazione reale: gli argomenti posti in campo, come in
una conversazione e senza un ordine sistematico, senza una preparazione
preordinata: ciò mette in evidenza il carattere di naturalezza e libertà del
discorso, rispetto a quello che sarebbe in termini sistematici e stringenti di
una trattazione filosofica. Questo è un discorso, non un dialogo informa di
trattato. Petrarca e Boccaccio latini. Altro aspetto interessante, per la
posizione dal punto di vista culturale è che, mentre di Dante viene
esaltata la Commedia, per vari motivi, di Petrarca e Boccaccio viene rilevata
soprattutto l’opera latina: di Petrarca in larghissima misura poi, solo poco si
dice della produzione in volgare; di Boccaccio il Decàmeron in quanto tale non
è citato! Sono citate le opere latine: un solo accenno può far pensare al
Decàmeron, ma la centralità è data alla Genealogie. A questo punto, Dopo che
Niccoli ha finito il suo discorso, allora viene pronunciata l’assoluzione del
Niccoli che viene scagionato da quello che aveva fatto il giorno prima:
gli viene data l’assoluzioneperché nella perorazione della causa aveva difeso
le sue ragioni e quindi non è responsabile di nulla. D’altra parte però anche nel
modo in cui viene data questa sorta di assoluzione, la formulazione non è priva
di tratti di ambiguità: perché quello che si dice riguarda non tanto il
discorso del Niccoli, quanto ciò che Niccoli aveva riportato a sé per l’amore
che aveva avuto per questi autori; un margine diambiguità dunque rimane.
In definitiva. Delle Eccezioni. La parte finale del dialogo risolve e conclude
dicendo che da parte del Niccoli si ritiene abbastanza largamente premiato per
tutte le lodi ricevute, e ritorna però ai principi precedenti affermando che è
lontano dal credere di sapere qualcosa, e proprio ritorna circolarmente la sua
tesi fondamentale: «tanto più ciò mi par difficile, tanto più ammiro i
fiorentini in quanto nonostante l’avversità dei tempi, per una loro
sovrabbondanza di ingegno riuscirono ad essere pari o superiori agli antichi»:
delle eccezioni duqnue, illuminanti ma niente altro che delle eccezioni. Il
dialogo si conclude con l’intervento di Roberto e il ritorno al di là di ponte
vecchio. Modelli e fonti La cornice. La cornice di carattere
conviviale è la cornice classicamente ben autorizzata, il Simposioed altro, è
un’altra delle cornici riusate, non frequentemente, nel dialogo
umanistico-rinascimentale. Il fatto che qui sia stato accennato in questa forma
è indizio di una attenzione da parte del Bruni verso questa nuova forma di
dialogo. Abbiamo visto quali fossero i modelli, e in particolare come modello
di dialogo diegetico, cioè narrativo in quanto introdotto da cornice che
continua a ritornare, il De Oratore. D’altra parte anche quando di fatto ci
siano anche altri modi e altre forme come quelle miste date da cornice
introduttiva e poi l’elemento di carattere mimetico, sulla scorta del Laelius
de amicitia o come aveva fatto Petrarca nel Secretum, in relazione al dialogo
umanistico, non per il Bruni, rimane un punto nodale di riferimento; specie in
alcuni tratti che si riprendono e ricompaiono nei dialoghi
quattro-cinquecenteschi: in particolare per il fatto che ci sia una cornice di
carattere realistico (cosa che non c’è nel Secretum); una cornice di carattere
realistico; coordinate spazio temporali che corrispondono ad aspetti di
carattere realistico; e personaggi che appartengono a figure storiche ben
individuate. Altro dato che rimane costante e comune è la rappresentazione
scenica: c’è una dimensione teatrale largamente riconosciuta, rappresentazione
scenica sia in relazione ai personaggi, sia ai personaggi che si alternano nel
dialogo: personaggi che vengono a recitare un ruolo, come vedremo ancora di più
nel Cortegiano. Abbiamo poi visto la dichiarazione di veridicità: l’autore dice
di aver riportato un reale dialogo, e abbiamo visto come si vuole cercare di
rendere evidente al lettore, di mimare l’andamento di una libera conversazione:
una conversazione non preordinata. Il dialogo Diversi usi del
dialogo. Il nostro non è un trattato, ma la forma del dialogo è una di quelle
privilegiate per il trattato quattro-cinquecentesco. Naturalmente le
possibilità insite possono essere diverse: in quanto noi ci possiamo trovare di
fronte ad un trattato in forma di dialogo in cui si voglia veicolare unatesi, e
si individua una strategia comunicativa dialogica che fa capire quale sia la
sua tesi. Ma ci possono essere altre possibilità: ci può essere quella propria
del confronto di opinioni, con un dialogo che si compone via via in una ricerca
che si completa a vicenda, e d’altra parte ci sono anche dialoghi che rimangono
aperti: sono confronti di opinioni che non sono riconducibili in unità, e
quindi la discordia rimane. Il dialogo per sua stessa natura presenta problemi
di carattere interpretativo in quanto ha un margine interno di ambiguità, nel
senso che ci troviamo di fronte ad enunciazioni di posizioni diverse da parte
dei personaggi: dipende molto dalla strategia compositiva, che può indirizzare
il lettore, ma ci possono essere delle voci, delle posizioni dei tratti che
possono sembrare ambivalenti o volutamente lasciate con prospettive diverse da
parte dell’autore, e questo comporta evidentemente dei problemi e difficoltà di
interpretazione. Naturalmente ci sono anche dialoghi dove da questo punto di
vista viene fatto intendere in maniera chiara ed evidente e viene orientata in
maniera che non ci siano dubbi quella che è la prospettiva dell’autore. In
questo è un notissimo l’esempio di Galileo, dove le posizioni sono definite in
modo chiaro, e la posizione di Simplicio è quella di chi enuncia testi che
devono essere confutate. Leonardo Bruno. Leonardo Bruni.
Bruni. Keywords: interpretare, implicatura geometrica, Ethica nicomachaea,
Grice, Hardie. “Ad Petrum Paulum
Histrum”, l’interpretazione di Romolo – l’interpretazione di Remolo – I sei aquile
I duodici aquile– primi I sei corvi – il segnato? Refs. Luigi Speranza, “Grice
e Bruni: implicatura geometrica” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Bruno – L’opera – libretto di -- Atteone
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Nola). Filosofo italiano. Grice:
“Italians should concentrate on the few Italian philosophical dialogues by
Bruno in the vernacular, and leave those in ‘the learned’ for those who cannot
deal with the ‘volgare’!” “My favourite has to be the one on Atteone – which
Bruno describes as the ‘furor’ of a ‘heroe’ – Atteone il cacciatore – but the
one on the Fiume at the Campidoglio is also very good!” -- Giordano Bruno – Grice: “A genius”. La sua filosofia, inquadrabile nel naturalismo
rinascimentale d’amare infinitiamente, fonde le più diverse tradizioni
filosofiche — materialismo antico, galileismo, neoplatonismo, ermetismo,
mnemotecnica -- ma ruota intorno a un'unica idea: l'infinito – “l’immenso” -- inteso
come l'universo infinito, effetto di un Dio infinito, in-figurabile, fatto di
infiniti mondi, da amare infinitamente. Non esistono molti documenti sulla
sua gioventù. È lo stesso filosofo, negli interrogatori cui fu sottoposto
durante il processo che segna gli ultimi
anni della sua vita, a dare le informazioni sui suoi primi anni. Io ho nome
Giordano Filippo della famiglia di Bruni, della città de Nola vicina a Napoli
dodeci miglia, nato ed allevato in quella città, e più precisamente nella
contrada di san Giovanni del Cesco, ai piedi del monte Cicala. Figlio
dell'alfiere Giovanni e di Fraulissa Savolina per quanto ho inteso dalli miei. Il
Mezzogiorno era allora parte del Regno di Napoli. Fu battezzato col nome di
Filippo in onore dell'erede al trono. La sua casa - che non esiste più - era
modesta, ma nel suo “De immense” ricorda con commossa simpatia l'ambiente che
la circondava, l'amenissimo monte Cicala, le rovine del castello del XII
secolo, gli ulivi, in parte gli stessi di oggi, e di fronte, il Vesuvio, che, pensando
che oltre quella montagna non vi fosse più nulla nel mondo, esplora ragazzetto.
Ne trae l'insegnamento di non basarsi esclusivamente sul giudizio dei sensi,
come fa, a suo dire, il grande Aristotele, imparando soprattutto che, al di là
di ogni apparente limite, vi è sempre qualche cosa d'altro. Impara a
leggere e a scrivere da un prete nolano, Giandomenico de Iannello e compì gli
studi di grammatica nella scuola di Aloia. Prosegue gli studi superiori a Napoli,
che era allora nel cortile del convento di san Domenico, per apprendere lettere,
logica e dialettica da Colle e lezioni private di logica da un agostiniano, Vairano.
Il Sarnese, ossia Colle e un aristotelico. Per Colle, solo il concetto conta,
nessuna importanza avendo la forma nella quale il concetto e espresso. Scarse
le notizie su Vairano, del quale Bruno ebbe sempre ammirazione, tanto da farlo
protagonista dei suoi dialoghi cosmologici e da confidare al bibliotecario
Cotin che eglio fu «il principale tutore che abbia avuto in filosofia. Per
delineare la sua prima formazione, basta aggiungere che, introducendo la
spiegazione del nono sigillo nella sua “Explicatio triginta sigillorum”, scrive
di essersi dedicato fin da giovanissimo allo studio dell'arte della memoria,
influenzato probabilmente dalla lettura del trattato Phoenix seu artificiosa
memoria di Tommai. In convento Interno della chiesa di san Domenico
Maggiore a Napoli, dove Bruno seguì il suo noviziato e fu promosso agli ordini
sacri A 14 anni, o 15 incirca rinuncia al nome di Filippo, come imposto dalla
regola domenicana, assume il nome di Giordano, in onore a Giordano di Sassonia,
successore di Domenico, o forse di Giordano Crispo, suo tutore di metafisica, e
prende quindi l'abito di frate domenicano dal priore del convento di san Domenico
Maggiore a Napoli, Pasca. Fnito l'anno della probatione, e admesso da lui medesimo
alla professione», in realtà fu novizio il 15 giugno 1565 e professo il 16
giugno 1566, a diciotto anni. Valutando retrospettivamente, la scelta
d'indossare l'abito domenicano può spiegarsi non già per un interesse alla vita
religiosa o agli studi teologici – che mai ebbe, come affermò anche al processo
- ma per potersi dedicare ai suoi studi prediletti di filosofia con il
vantaggio di godere della condizione di privilegiata sicurezza che
l'appartenenza a quell'ordine potente certamente gli garanta. Che egli
non fosse entrato fra i domenicani per tutelare l'ortodossia della fede
cattolica lo rivelò subito l'episodio – narrato da lui stesso al processo – nel
quale nel convento di san Domenico, butta via le immagini dei santi in suo
possesso, conservando solo il crocefisso e invitando un novizio che legga la
Historia delle sette allegrezze della Madonna a gettar via quel libro, una
modesta operetta devozionale, pubblicata a Firenze, perifrasi di versi in
latino di Chiaravalle, sostituendolo magari con lo studio della Vita de' santi
Padri di Cavalca. Episodio che, pur conosciuto dai superiori, non provoca
sanzioni nei suoi confronti, ma che dimostra come fosse del tutto estraneo alle
tematiche devozionali contro-riformistiche. Chiesa di San Bartolomeo a
Campagna, dove celebra la sua prima messa. E andato a Roma e sia stato
presentato a Pio V e al cardinale Rebiba, al quale avrebbe insegnato qualche
elemento di quell'arte mnemonica che tanta parte avrà nella sua speculazione
filosofica. Fu ordinato suddiacono, diacono, e presbitero, celebrando la sua
prima messa nel convento di san Bartolomeo a Campagna, presso Salerno, a
quell'epoca appartenente ai Grimaldi, principi di Monaco, e si laurea con una
tesi su Aquino e Lombardo. Non bisogna pensare che un convento fosse
esclusivamente un'oasi di pace e di meditazione di spiriti eletti. Nei
confronti dei frati di san Domenico Maggiore furono emesse diciotto sentenze di
condanna per scandali sessuali, furti e perfino omicidi. Non deve pertanto
stupire il disprezzo che ostenta sempre nei confronti dei frati, ai quali
rimprovera in particolare la mancanza di cultura; e non solo, ma, secondo
un'ipotesi di Spampanato comunemente accettata in sede critica, nel protagonista
del suo “Candelaio”, Bonifacio, egli assai probabilmente alluse proprio a un
suo con-fratello, Bonifacio da Napoli, definito nella lettera dedicatoria alla
Signora Morgana B. “candelaio” “in carne ed ossa”, ossia “sodomita”. Tuttavia,
la possibilità di formarsi un'ampia cultura non manca certo nel convento di san
Domenico Maggiore, famoso per la ricchezza della sua biblioteca, anche se, come
negli altri conventi, sono vietati i saggi di Erasmo da Rotterdam che però si procura in parte, leggendoli di nascosto. La
sua esperienza conventuale e in ogni caso decisiva. Vi puo compiere i suoi
studi e formare la sua cultura leggendo di tutto, da Aristotele ad Aquino, da
Gerolamo a Crisostomo, oltre alle opere di Ficino. La sua indipendenza di pensiero
e la sua insofferenza verso l'osservanza dei dogmi si manifestarono inequivocabilmente.
Discutendo di arianesimo con Montalcino, ospite nel convento napoletano,
sostenne che le opinioni di Ario e meno perniciose di quel che si riteneva,
dichiarando che Ario dice che il verbo non era creatore né creatura, ma medio
intra il creatore e la creatura, come il verbo è mezzo intra il dicente
(DICENS, DICTOR, utterer, mittente) ed il detto (il detto, DICTUM, utteratum,
missum) e però essere detto primogenito avanti ogni creatura, non dal quale ma
per il quale è stato creato ogni cosa, non al quale ma per il quale si
refferisce e ritorna ogni cosa all'ultimo fine, che è il Padre, essagerandomi
sopra questo. Per il che fui tolto in suspetto e processato, tra le altre cose,
forsi de questo ancora. E all'inquisitore veneziano espresse il proprio
scetticismo sulla trinità, ammettendo di aver dubitato circa il nome di “persona”
del Figliolo e del Spirito Santo, non intendendo queste due persone distinte
dal Padre, ma considerando il Figlio, neo-platonicamente, l'intelletto e lo spirito,
pitagoricamente, l'amore del padre o l'anima del mondo, non dunque “persone” o
sostanze distinte, ma manifestazioni divine. Denunciato da Agostino al
padre provincial Vita, costui istituì contro di lui un processo per eresia e,
come racconta lui stesso agli inquisitori veneti, dubitando di non esser messo
in preggione, me partto da Napoli ed ando a Roma. Raggiunse Roma, ospite del
convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, il cui procuratore, Lucca,
divenne pochi anni dopo generale dell'Ordine e
censura i saggi di Montaigne. Sono anni di gravi disordini: a Roma
sembra non farsi altro, scrive il cronista Gualtieri, che rubare e ammazzare:
molti gittati in Tevere, né di popolo solamente, ma i monsignori, i figli di
magnati, messi al tormento del fuoco, e nipoti di cardinali sono levati dal
mondo e ne incolpa il debole Gregorio XIII. è accusato di aver ammazzato e gettato
nel fiume un frate: scrive Cotin, fugge da Roma per un omicidio commesso da un
suo frère, per il quale egli è incolpato e in pericolo di vita, sia per le
calunnie dei suoi inquisitori che, ignoranti come sono, non concepiscono la sua
filosofia e lo accusano di eresia. Oltre all'accusa di omicidio, ha infatti
notizia che nel convento napoletano erano stati trovati, tra i suoi saggi,
saggi di Crisostomo e di Gerolamo annotate da Erasmo e che si sta istruendo
contro di lui un processo per eresia. Così abbandona l'abito domenicano,
riassume il nome di Filippo, lascia Roma e fugge in Liguria. Portico del
Palazzo comunale di Noli, dove soggiorna per un breve periodo. Sotto il portico
una lapide ricorda il soggiorno del filosofo: "Giordano Bruno Prima
d'insegnare all'Europa Le leggi dell'ordine universale fu maestro in Noli di
grammatica e cosmografia. è a Genova e scrive che allora, nella chiesa di Santa
Maria di Castello, si adora come reliquia e si fac baciare ai fedeli la coda
dell'asina che portò Gesù a Gerusalemme. Da qui, va poi a Noli, dove insegna
grammatica ai bambini e cosmografia agli adulti. è a Savona, poi a
Torino, che giudica deliciosa città ma, non trovandovi impiego, per via
fluviale s'indirizza a Venezia, dove alloggia in una locanda nella contrada di
Frezzeria, facendovi stampare il suo primo saggio, “De' segni de' tempi”, per
metter insieme un pocco de danari per potermi sustentar; la qual opera feci
veder prima al reverendo padre maestro Fiorenza, domenicano del convento dei
Santi Giovanni e Paolo. Ma a Venezia e in corso un'epidemia di peste che
ha fatto decine di migliaia di vittime, anche illustri, come Tiziano, così va a
Padova dove, dietro consiglio di alcuni domenicani, riprende il saio, quindi se
ne va a Brescia, dove si ferma nel convento domenicano. Qui un monaco, profeta,
gran teologo e poliglotta, sospettato di stregoneria per essersi messo a
profetizzare, viene da lui guarito, ritornando a essere - scrive ironicamente -
il solito asino. IDa Bergamo decide di andare in Francia: passa per Milano e
Torino, ed entra in Savoia passando l'inverno nel convento domenicano di
Chambéry. Successivamente, è a Ginevra,
città dov'è presente una numerosa colonia di italiani riformati. Bruno depone
nuovamente il saio e si veste di cappa, cappello e spada, aderisce al
calvinismo e trova lavoro come correttore di bozze, grazie all'interessamento del
marchese Caracciolo il quale, transfuga dall'Italia vi aveva fondato la comunità evangelica
italiana. S'iscrive allo studio di Ginevra come Filippo Bruno nolano,
professore di teologia sacra. Accusa il professore di filosofia Faye di essere
un cattivo insegnante e definisce pedagoghi i pastori calvinisti. È probabile
che volesse farsi notare, dimostrare l'eccellenza della sua preparazione
filosofica e delle sue capacità didattiche per ottenere un incarico
d'insegnante, costante ambizione di tutta la sua vita. Anche la sua adesione al
calvinismo e mirata a questo scopo. E in realtà indifferente a tutte le
confessioni religiose. Nella misura in cui l'adesione a una religione storica
non pregiudicasse le sue convinzioni filosofiche e la libertà di professarle, sarebbe
stato cattolico in Italia, calvinista in Svizzera, anglicano in Inghilterra e
luterano in Germania. Arrestato per diffamazione, viene processato e scomunicato.
Costretto a ritrattare. Lscia allora Ginevra e si trasferisce brevemente a
Lione per passare a Tolosa, città cattolica, sede di un'importante studio, dove
occupa il posto di lettore, insegnandovi, come Grice, il “De anima”, di Aristotele
e componendo un trattato di arte della memoria: la Clavis magna, che si rifarebbe
all'Ars magna. A Tolosa conosce il filosofo scettico Sanches, che volle
dedicargli il suo libro “Quod nihil scitur”, chiamandolo filosofo acutissimo.
Ma non ricambia la stima, se scrisse di
lui di considerare stupefacente che questo asino si dia il titolo di dottore. A
causa della guerra di religione fra cattolici e ugonotti, lascia Tolosa per
Parigi, dove tiene un corso di lezioni sugli attributi di Dio secondo Aquino. E
in seguito al successo di queste lezioni, come egli stesso racconta agli
inquisitori, acquistai nome tale che il re Enrico terzo mi fece chiamare un
giorno, ricercandomi se la memoria che ho e che professo, e naturale o pur per
arte magica; al qual diedi sodisfazione; e con quello che li dissi e feci
provare a lui medesmo, conosce che non era per arte magica ma per scienzia. E
doppo questo fa stampar un libro de memoria, sotto titolo “De umbris idearum”,
il qual dedica a Sua Maestà; e con questa occasione si fa lettor straordinario
e provvisionato. Appoggiando fattivamente l'operato politico di Enrico III di Valois,
a Parigi sarebbe rimasto poco meno di due anni, occupato nella prestigiosa posizione
di lecteur royal. È a Parigi che dà alle stampe le sue prime opere pervenuteci.
Oltre al “De compendiosa architectura et complemento artis Lullii” vedono la
luce il “De umbris idearum” (“Le ombre delle idee”) e l'Ars memoriae
("L'arte della memoria"), seguiti dal “Cantus Circaeus”, “Il canto di
Circe”, e dalla commedia in volgare
intitolata “Candelaio” (Il sodomita).
Nella suai intenzioni, il saggio di argomento mnemotecnico, è distinto
così in una parte di carattere teorico e in una di carattere pratico. Per
lui l'universo è un corpo unico,
organicamente formato, con un preciso ordine che struttura ogni singola cosa e
la connette con tutte le altre. Fondamento di quest'ordine sono le idee,
principi eterni e immutabili presenti totalmente e simultaneamente nella mente
divina, ma queste idee vengono "ombrate" e si separano nell'atto di
volerle intendere. Nel cosmo ogni singolo ente è dunque imitazione, immagine --
"ombra" -- della realtà ideale che la regge. Rispecchiando in sé
stessa la struttura dell'universo, la mente umana, che ha in sé non le idee ma
le ombre delle idee (Shakespeare, l’ombra dell’ombra), può raggiungere la vera
conoscenza, ossia la idea e il nesso che connetta ogni cosa con ogni altre, al
di là della molteplicità degli elementi particolari e del loro mutare nel
tempo. Si tratta allora di cercare di ottenere un metodo conoscitivo che colga
la complessità del reale, fino alla struttura ideale che sostiene il
tutto. Tale mezzo si fonda sull'arte della memoria, il cui compito è di
evitare la confusione generata dalla molteplicità delle immagini e di
connettere la immagine della cosa con il concetto, rappresentando
simbolicamente tutto il reale. Nel pensiero del filosofo, l'arte della
memoria opera nel medesimo mondo dell’ombre delle idea, presentandosi come emulatrice
della natura. Se dall’idea prende forma la cosa del mondo in quanto la idea
contiene l’immagine di ogni cosa, e ai nostri sensi la cosa si manifestano come
ombra di quella, allora tramite l'immaginazione stessa e possibile ripercorrere
il cammino inverso, risalire cioè dall’ombra alle idea, dall'uomo a Dio: l'arte
della memoria non è più un ausilio della retorica, ma un mezzo per ri-creare il
mondo (cf. Grice metaphysical routine: creation of concept, recreation of
concept, creation of thing). È dunque un processo visionario e non un metodo
razionale quello che propone. A similitudine di ogni altra arte, quella della
memoria ha bisogno di un sostrato (i subiecta), cioè "spazi" dell'immaginazione
atti ad accogliere il simbolo adatti (gl’ “adiecta”) tramite uno strumento
opportuno. Con questi presupposti, lcostruisce un “sistema” (cf. Grice,
Gentzen), che associa a ogni segno una immagine proprie della mitologia, in
modo da rendere possibile la codifica di segno e concetto secondo una
particolare successione di immagini. Il segno puo essere visualizzato su un diagramma
circolare, o "ruote mnemoniche", che girando e innestandosi l'una
dentro l'altra, fornisce un strumento via via più potenti. “Il canto di Circe” è
composta da due dialoghi. Protagonista del primo è la maga Circe che risentita
dal constatare che l’uomo si comporta come un animale inferiore, opera un incantesimo
trasformando l’uomo in bestia, mettendo così in luce la loro autentica natura.
Nel secondo dialogo, dando voce a uno dei due protagonisti, Borista, riprende
l'arte della memoria mostrando come memorizzare il dialogo precedente. Al testo
si fa corrispondere uno scenario che viene via via suddiviso in un maggior
numero di spazi e i vari oggetti lì contenuti sono ogni immagine relativa a
ogni concetto espresso nello scritto. Il Cantus resta dunque un trattato di
mnemotecnica nel quale però il filosofo già lascia intravedere una tematica
morale che e ampiamente riprese in opere successive, soprattutto nello “Spaccio
de la bestia trionfante” e ne “De gli eroici furori”. Ancora pubblica infine il
Candelaio, una commedia in cinque atti in cui alla complessità del linguaggio,
un italiano popolaresco che inserisce termini in latino, toscano e napoletano,
corrisponde l'eccentricità della trama, fondata su tre storie parallele. Esterno
della chiesa di Santa Maria Assunta dei Pignatelli, in Largo Corpo di Napoli,
presso il Seggio del Nilo, dove Bruno ambienta il suo Candelaio. Il nome “Candelaio”
deriva dalla statua del dio Nilo. La commedia è ambientata nella
Napoli-metropoli del secondo Cinquecento, in posti che il filosofo ben conosce
per avervi soggiornato durante il suo noviziato. Il candelaio (sodomita) Bonifacio,
pur sposato con la bella Carubina, corteggia la signora Vittoria ricorrendo a
pratiche magiche. L’avido alchimista Bartolomeo si ostina a voler trasformare i
metalli in oro. Il grammatico Manfurio si esprime in un linguaggio
incomprensibile (deutero-Esperanto). In queste tre storie si inserisce quella
del pittore Gioan Bernardo, voce di lui stesso che con una corte di servi e
malfattori si fa beffe di tutti e conquista Carubina. In questo classico
della letteratura italiana, appare un mondo assurdo, violento e corrotto,
rappresentato con amara comicità, dove gli eventi si succedono in una trasformazione
continua e vivace. La commedia è una feroce condanna della stupidità,
dell'avarizia e della pedanteria. Interessante nell'opera la descrizione
che lui fa di sé stesso. L'autore, si voi lo conoscete, direste ch'ave una
fisionomia smarrita: par che sii in contemplazione delle pene dell'inferno, par
sii stato alla pressa come le barrette: un che ride sol per far come fan gli
altri: per il più lo vedrete fastidito e bizzarro, non si contenta di nulla,
ritroso come un uomo d'ottant'anni, fantastico com'un cane ch'ha ricevute mille
spellicciate, pasciuto di cipolla. Intende venire in Inghilterra il dottor
Giordano Bruno, Nolano, professore di filosofia, la cui religione non posso
approvare. Dalla lettera dell'ambasciatore inglese a Parigi Cobham a Walsingham.
Lascia Parigi e parte per l'Inghilterra dove, a Londra, è ospitato dall'ambasciatore
di Francia Castelnau, che gli affianca il letterato Florio in quanto lui non
conosce l'inglese, accompagnandolo fino al termine del suo soggiorno inglese.
Nelle deposizioni lasciate agli inquisitori veneti egli sorvola sulle
motivazioni di questa partenza, riferendosi genericamente ai disordini là in
corso per questioni religiose. Sulla partenza da Parigi restano però aperte
altre ipotesi: che Bruno fosse partito in missione segreta per conto di Enrico
III; che il clima a Parigi si fosse fatto pericoloso a causa dei suoi
insegnamenti. Bisogna aggiungere anche il fatto che davanti agli inquisitori
veneziani, qualche anno più avanti, esprimer parole di apprezzamento per la
regina d'Inghilterra Elisabetta che egli aveva conosciuto andando spesso a
corte con l'ambasciatore. -- è a Oxford, e alla St. Mary sostenne con uno di
quei professori una disputa pubblica. Tornato a Londra, vi pubblica l'”Ars
reminiscendi”, l' “Explicatio triginta sigillorum” e il “Sigillus sigillorum”
nel quale insere una lettera indirizzata al vice cancelliere di Oxford, scrivendo
che là trovea dispostissimo e prontissimo un uomo col quale saggiare la misura
della propria forza. È una richiesta di poter insegnare nella prestigiosa università.
La proposta viene accolta. Parte per Oxford. Il “Sigillus sigillorum” e
considerato di argomento mnemotecnico. Il sigillus e è una concisa trattazione
teorica nella quale il filosofo introduce tematiche decisive nel suo pensiero,
quali l'unità dei processi cognitivi; l'amore come legame universale; l'unicità
e infinità di una forma universale che si esplica nelle infinite figure della
materia, e il furore nel senso di slancio verso il divino, argomenti che
saranno di lì a poco sviluppati a fondo nei successivi dialoghi italiani. È
presentato inoltre in quest'opera fondamentale un altro dei temi nucleari di
sua filosofia: la magia come guida e strumento di conoscenza e azione,
argomento che egli amplierà nelle cosiddette opere magiche. A Oxford
tiene alcune lezioni sulle teorie copernicane, ma il suo soggiorno presso quella
città dura ben poco. A Oxford non gradirono quelle novità, come testimonia Abbot,
che fu presente alle lezioni di Bruno. Quell'omiciattolo italiano intraprese il
tentativo, tra moltissime altre cose, di far stare in piedi l'opinione di
Copernico, per cui la terra gira e i cieli stanno fermi; mentre in realtà era
la sua testa che girava e il suo cervello che non stava fermo. Le lezioni
furono quindi interrotte, ufficialmente per un'accusa di plagio al “De vita
coelitus comparanda” di Ficino. Sono anni questi difficili e amari per il
filosofo, come traspare dal tono delle introduzioni alle opere immediatamente
successive, i dialoghi londinesi: le polemiche accese e i rifiuti sono vissuti
lui come una persecuzione, ingiusti oltraggi, e certo la fama che già lo aveva
preceduto da Parigi non lo aiuta. Ritornato a Londra, nonostante il clima
avverso, pubblica presso John Charlewood sei saggi fra le più importanti della
sua produzione: sei opere filosofiche in forma dialogica, i cosiddetti
"dialoghi londinesi", o anche "dialoghi italiani", perché
tutti in lingua italiana: “La cena de le ceneri”; “De la causa, principio et
uno”; “De l'infinito, universo e mondi”; “Spaccio de la bestia trionfante”; “Cabala
del cavallo pegaseo con l'aggiunta dell'Asino cillenico”; “De gli eroici
furori”. “La cena de le ceneri” dedicata a Castelnau, presso il quale era
ospite, è divisa in cinque dialoghi, i protagonisti sono quattro e fra questi
Teofilo può considerarsi il portavoce dell'autore. Immagina che il nobile sir
Fulke Greville, il giorno delle ceneri, inviti a cena Teofilo, lui stesso,
Florio, precettore della figlia dell'ambasciatore, un cavaliere e due
accademici luterani di Oxford: i dottori Torquato e Nundinio. Rispondendo alle
domande degli altri protagonisti, Teofilo racconta gli eventi che hanno portato
all'incontro e lo svolgersi della conversazione avvenuta durante la cena,
esponendo così le teorie del nolano. Bruno elogia e difende la teoria di Copernico
contro gli attacchi dei conservatori e contro chi, come Osiander, che aveva
scritto una prefazione denigratoria al De revolutionibus orbium coelestium,
considera solo un'ipotesi ingegnosa quella dell'astronomo. Il mondo di
Copernico, però, era ancora finito e delimitato dalla sfera delle stelle fisse.
Nella Cena, non si limita a sostenere il moto della Terra di seguito alla
confutazione della cosmologia tolemaica; egli presenta altresì un universo
infinito: senza centro né confini. Afferma Teofilo (portavoce dell'autore)
riguardo all'universo che sappiamo certo che essendo effetto e principiato da
una causa infinita e principio infinito, deve secondo la capacità sua corporale
e modo suo essere infinitamente infinito. Non è possibile giamai di trovar
raggione semiprobabile per la quale sia margine di questo universo corporale; e
per conseguenza ancora li astri che nel suo spacio si contengono, siino di
numero finito; et oltre essere naturalmente determinato cento e mezzo di
quello». L'universo, che procede da Dio quale Causa infinita, è infinito a sua
volta e contiene mondi innumerabili. Per Bruno sono principi vani
sostenere l'esistenza del firmamento con le sue stelle fisse, la finitezza
dell'universo e che in questo esista un centro dove ora dovrebbe trovarsi
immobile il Sole come prima vi si immaginava ferma la Terra. Formula esempi che
appaiono ad alcuni autori come antesignani del principio di relatività
galileiana. Seguendo la Docta ignorantia del cardinale e umanista Cusano, sostiene
l'infinità dell'universo in quanto effetto di una causa infinita. -- e
ovviamente consapevole che le Scritture sostengono tutt'altro – finitezza
dell'universo e centralità della Terra – ma, risponde: «Se gli dei si
fossero degnati di insegnarci la teorica delle cose della natura, come ne han
fatto favore di proporci la pratica di cose morali, io più tosto mi accosterei
alla fede de le loro rivelazioni, che muovermi punto della certezza de mie
raggioni e proprii sentimenti. Come occorre distinguere tra dottrine morali e
filosofia naturale, così occorre distinguere tra teologi e filosofi: ai primi
spettano le questioni morali, ai secondi la ricerca della verità. Dunque Bruno
traccia qui un confine abbastanza netto fra opere di filosofia naturale e Sacre
scritture. I cinque dialoghi del De la causa, principio et uno intendono
stabilire i principi della realtà naturale. Lascia da parte l'aspetto teologico
della conoscenza di Dio, del quale, come causa della natura, non possiamo
conoscere nulla attraverso il «lume naturale», perché esso «ascende sopra la
natura» e si può pertanto aspirare a conoscere Dio solo per fede. Ciò che
interessa a Bruno è invece la filosofia e la contemplazione della natura, la
conoscenza della realtà naturale nella quale, come già aveva scritto nel De
umbris, possiamo soltanto cogliere le «ombre», il divino «per modo di vestigio.
La costellazione di Orione Riallacciandosi ad antiche tradizioni di pensiero,
Bruno elabora una concezione animistica della materia, nella quale l'anima del
mondo viene a identificarsi con la sua forma universale, e la cui prima e
principale facoltà è l'intelletto universale. L'intelletto è il «principio
formale costitutivo de l'universo e di ciò che in quello si contiene» e la
forma non è altro che il principio vitale, l'anima delle cose le quali, proprio
perché tutte dotate di anima, non hanno imperfezione. La materia, d'altro
canto, non è in sé stessa indifferenziata, un "nulla", come hanno
sostenuto molti filosofi, una bruta potenza, senza atto e senza perfezione,
come direbbe Aristotele. La materia è allora il secondo principio della
natura, della quale ogni cosa è formata. Essa è «potenza d'esser fatto,
prodotto e creato», aspetto equivalente al principio formale che è potenza
attiva, «potenza di fare, di produrre, di creare» e non può esserci l'un
principio senza l'altro. Ponendosi quindi in contrasto col dualismo
aristotelico, Bruno conclude che principio formale e principio materiale benché
distinti non possono essere ritenuti separati, perché «il tutto secondo la
sostanza è uno». Discendono da queste considerazioni due elementi
fondamentali della filosofia bruniana: uno, tutta la materia è vita e la vita è
nella materia, materia infinita; due, Dio non può essere al di fuori della
materia semplicemente perché non esiste un "esterno" della materia:
Dio è dentro la materia, dentro di noi. Nel “De l'infinito, universo e mondi” riprende
e arricchisce temi già affrontati nei dialoghi precedenti: la necessità di un
accordo tra filosofi e teologi, perché «la fede si richiede per l'istituzione
di rozzi popoli che denno esser governati»; l'infinità dell'universo e
l'esistenza di mondi infiniti; la mancanza di un centro in un universo
infinito, che comporta un'ulteriore conseguenza: la scomparsa dell'antico,
ipotizzato ordine gerarchico, la «vanissima fantasia» che riteneva che al
centro vi fosse il «corpo più denso e crasso» e si ascendesse ai corpi più fini
e divini. La concezione aristotelica è difesa ancora da quei dottori (i
pedanti) che hanno fede nella «fama de gli autori che gli son stati messi nelle
mani», ma i filosofi moderni, che non hanno interesse a dipendere da quello che
dicono gli altri e pensano con la loro testa, si sbarazzano di queste
anticaglie e con passo più sicuro procedono verso la verità. Chiaramente
un universo eterno, infinitamente esteso, composto di un numero infinito di sistemi
solari simili al nostro e sprovvisto di centro sottrae alla Terra, e di
conseguenza all'uomo, quel ruolo privilegiato che Terra e uomo hanno nelle
religioni giudaico-cristiane all'interno del modello della creazione, creazione
che agli occhi del filosofo non ha più senso, perché come già aveva concluso
nei due dialoghi precedenti, l'universo è assimilabile a un organismo vivente,
dove la vita è insita in una materia infinita che perennemente muta. Il
copernicanesimo, per Bruno, rappresenta la "vera" concezione
dell'universo, meglio, l'effettiva descrizione dei moti celesti. Nel Dialogo
primo del De l'infinito, universo e mondi, il nolano spiega che l'universo è
infinito perché tale è la sua Causa che coincide con Dio. Filoteo, portavoce
dell'autore, afferma: «Qual raggione vuole che vogliamo credere che l'agente
che può fare un buono infinito lo fa finito? e se lo fa finito, perché doviamo
noi credere che possa farlo infinito, essendo in lui il possere et il fare
tutto uno? Perché è inmutabile, non ha contingenzia nell'operazione, né nella
efficacia, ma da determinata e certa efficacia depende determinato e certo
effetto inmutabilmente: onde non può essere altro che quello che è; non può
essere tale quale non è; non può posser altro che quel che può; non può voler
altro che quel che vuole; e necessariamente non può far altro che quel che fa:
atteso che l'aver potenza distinta da l'atto conviene solamente a cose
mutabili». Essendo Dio infinitamente potente, dunque, il suo atto esplicativo
deve esserlo altrettanto. In Dio coincidono libertà e necessità, volontà e
potenza (o capacità); di conseguenza, non è credibile che all'atto della
creazione Egli abbia posto un limite a sé stesso. Bisogna tener presente
che Bruno opera una netta distinzione tra l'universo e i mondi. Parlare di un
sistema del mondo non vuol dire, nella sua visione del cosmo, parlare di un
sistema dell'universo. L'astronomia è legittima e possibile come scienza del
mondo che cade nell'ambito della nostra percezione sensibile. Ma, al di là di
esso, si estende un universo infinito che contiene quei "grandi
animali" che chiamiamo astri, che racchiude una pluralità infinita di
mondi. Quell'universo non ha dimensioni né misura, non ha forma né figura. Di
esso, che è insieme uniforme e senza forma, che non è né armonico né ordinato,
non può in alcun modo darsi un sistema». «Quando aviene che un poltrone o
forfante monta ad esser principe o ricco, non è per mia colpa, ma per iniquità
di voi altri che, per esser scarsi del lume e splendor vostro, non lo sforfantaste
o spoltronaste prima, o non lo spoltronate e sforfantate al presente, o almeno
appresso lo vegnate a purgar della forfantesca poltronaria, a fine che un tale
non presieda. Non è errore che sia fatto un prencipe, ma che sia fatto prencipe
un forfante.» (Spaccio de la bestia trionfante, Fortuna (Sofia): dialogo
II, parte II) Opera allegorica, lo Spaccio, costituito da tre dialoghi di
argomento morale, si presta a essere interpretato su diversi livelli, tra i
quali resta fondamentale quello dell'intento polemico di Bruno contro la
Riforma protestante, che agli occhi del nolano rappresenta il punto più basso
di un ciclo di decadenza iniziato col cristianesimo. Decadenza non soltanto
religiosa, ma anche civile e filosofica: se Bruno aveva concluso nei precedenti
dialoghi che la fede è necessaria per il governo dei «rozzi popoli» cercando di
delimitare così i rispettivi campi d'azione di filosofia e religione, qui egli
riapre quel confine. Nella visione di Bruno, il legame fra l'uomo e il
mondo, mondo naturale e mondo civile, è quello fra l'uomo e un Dio che non sta
"nell'alto dei cieli", ma nel mondo, perché la «natura non è altro
che dio nelle cose». Il filosofo, colui che cerca la Verità, deve pertanto
necessariamente operare là dove sono situate le «ombre» del divino. L'uomo non
può fare a meno di interagire con Dio, secondo il linguaggio di una
comunicazione che nel mondo naturale vede l'uomo perseguire la Conoscenza, e
nel mondo civile l'uomo seguire la Legge. Questo legame è proprio quello che
nella storia è stato interrotto, e il mondo tutto è decaduto perché è decaduta
la religione trascinando con sé e la legge e la filosofia, «di sorte che non
siamo più dèi, non siamo più noi. Nello Spaccio, dunque, etica, ontologia e
religione sono strettamente interconnessi. Religione, e questo va evidenziato,
che Bruno intende come religione civile e naturale, e il modello cui egli si
ispira è quello degli antichi Egizi e Romani, che «non adoravano Giove, come
lui fusse la divinità, ma adoravano la divinità come fusse in Giove. Per
ristabilire il legame col divino occorre però che «prima togliamo dalle nostre
spalli la grieve somma d'errori che ne trattiene.» È lo "spaccio",
cioè l'espulsione di ciò che ha deteriorato quel legame: le "bestie
trionfanti". Le bestie trionfanti sono immaginate nelle
costellazioni celesti, rappresentate da animali: occorre
"spacciarle", cioè cacciarle dal cielo in quanto rappresentanti vizi
che è tempo di sostituire con altre virtù: via dunque la Falsità, l'Ipocrisia,
la Malizia, la «stolta fede», la Stupidità, la Fierezza, la Fiacchezza, la
Viltà, l'Ozio, l'Avarizia, l'Invidia, l'Impostura, l'Adulazione e via
elencando. Occorre tornare alla semplicità, alla verità e all'operosità,
ribaltando le concezioni morali che si sono ormai imposte nel mondo, secondo le
quali le opere e gli affetti eroici sono privi di valore, dove credere senza
riflettere è sapienza, dove le imposture umane sono fatte passare per consigli
divini, la perversione della legge naturale è considerata pietà religiosa,
studiare è follia, l'onore è posto nelle ricchezze, la dignità nell'eleganza,
la prudenza nella malizia, l'accortezza nel tradimento, il saper vivere nella
finzione, la giustizia nella tirannia, il giudizio nella violenza.
Responsabile di questa crisi è il cristianesimo: già Paolo aveva operato il
rovesciamento dei valori naturali e ora Lutero, «macchia del mondo», ha chiuso
il ciclo: la ruota della storia, della vicissitudine del mondo, essendo giunta
al suo punto più basso, può operare un nuovo e positivo rovesciamento dei
valori. Nella nuova gerarchia di valori il primo posto spetta alla
Verità, necessaria guida per non errare. A questa segue la Prudenza, la
caratteristica del saggio che, conosciuta la verità, ne trae le conseguenze con
un comportamento adeguato. Al terzo posto Bruno inserisce la Sofia, la ricerca
della verità; quindi segue la Legge, che disciplina il comportamento civile
dell'uomo; infine il Giudizio, inteso come aspetto attuatorio della legge.
Bruno fa quindi discendere la Legge dalla Sapienza, in una visione razionalista
nel cui centro c'è l'uomo che opera cercando la Verità, in netto contrasto col
cristianesimo di Paolo, che vede la legge subordinata alla liberazione dal
peccato, e con la Riforma di Lutero, che vede nella "sola fede" il
faro dell'uomo. Per Bruno la "gloria di Dio" si rovescia così in
«vana gloria» e il patto fra Dio e gli uomini stabilito nel Nuovo Testamento si
rivela «madre di tutte le forfanterie». La religione deve tornare a essere
"religione civile": legame che favorisca la «communione de gli
uomini», la civile conversazione. Altri valori seguono i primi cinque: la
Fortezza (la forza dell'animo), la Diligenza, la Filantropia, la Magnanimità,
la Semplicità, l'Entusiasmo, lo Studio, l'Operosità, eccetera. E allora
vedremo, conclude beffardo Bruno, «quanto siano atti a guadagnarsi un palmo di
terra questi che sono cossí effuse e prodighi a donar regni de' cieli». È
questa evidentemente un'etica che richiama i valori tradizionali
dell'Umanesimo, cui Bruno non ha mai dato molta importanza; ma questo schema
rigido è in realtà la premessa per le indicazioni di comportamento che Bruno
prospetta nell'opera di poco successiva, De gli eroici furori. Cabala del
cavallo pegaseo con l'aggiunta dell'Asino cillenico. «Li nostri divi asini,
privi del proprio sentimento ed affetto vegnono ad intendere non altrimente che
come gli vien soffiato alle orecchie delle rivelazioni o degli dei, o dei
vicarii loro; e per conseguenza a governarsi non secondo altra legge che di
que' medesimi. (Cabala del Cavallo Pegaseo, Saulino: dialogo I) La Cabala del
cavallo pegaseo viene pubblicata insieme a l'Asino cillenico in unico testo. Il
titolo allude a Pegaso, il cavallo alato della mitologia greca nato dal sangue
di Medusa decapitata da Perseo. Al termine delle sue imprese, Pegaso volò nel
cielo trasformandosi in costellazione, una delle 48 elencate da Tolomeo nel suo
Almagesto: la costellazione di Pegaso. "Cabala" si riferisce a una
tradizione mistica originatasi in seno all'ebraismo. Calcografia raffigurante
le stelle della costellazione di Pegaso che delineano la figura del cavallo
mitologico Pegaso L'opera, percorsa da una chiara vena comica, può essere letta
come un divertissement, opera d'intrattenimento senza pretese; oppure
interpretata in chiave allegorica, opera satirica, atto di accusa. Il cavallo
nel cielo sarebbe allora un asino idealizzato, figura celeste che rimanda
all'asinità umana: all'ignoranza, quella dei cabalisti, ma anche quella dei
religiosi in generale. I continui riferimenti ai testi sacri si rivelano
ambigui, perché da un lato suggeriscono interpretazioni, dall'altro confondono
il lettore. Uno dei filoni interpretativi, legato al lavoro critico svolto da
Vincenzo Spampanato, ha individuato nel cristianesimo delle origini e in Paolo
di Tarso il bersaglio polemico di Bruno. De gli eroici furori. De gli eroici
furori. Nei dieci dialoghi che compongono “De gli eroici furori” a Londra, individua
tre specie di passioni umane: quella per la vita speculativa, volta alla
conoscenza; quella per la vita pratica e attiva, e quella per la vita oziosa.
Le due ultime tendenze rivelano una passione di poco valore, un furore bass. Il
desiderio di una vita volta alla contemplazione, cioè alla ricerca della verità,
è invece espressione di un furore eroico, con il quale l'anima, rapita sopra
l'orizzonte de gli affetti naturali vinta da gli alti pensieri, come morta al
corpo, aspira ad alto. Non si giunge a tale effetto con la preghiera, con atteggiamenti
devozionali, con aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani, ma, al
contrario, con il venir al più intimo di sé, considerando che Dio è vicino, con
sé e dentro di sé più ch'egli medesmo esser non si possa, come quello che è
anima delle anime, vita delle vite, essenza de le essenze». Una ricerca che assimila
a una caccia, non la comune caccia ove il cacciatore ricerca e cattura le
prede, ma quella in cui il cacciatore diviene egli stesso preda, come Atteone
che nel mito ripreso da lui, avendo visto la bellezza di Diana, si trasforma in
cervo ed è fatto preda dei cani, i pensieri de cose divine, che lo divorano facendolo
morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de li perturbati sensi, di
sorte che tutto vede come uno, non vede più distinzioni e numeri. La conoscenza
della natura è lo scopo della scienza e quello più alto della nostra vita
stessa, che da questa scelta viene trasformata in un furore eroico assimiliandoci
alla perenne e tormentata vicissitudine in cui si esprime il principio che
anima tutto l'universo. Il filosofo ci dice che per conoscere veramente l'oggetto
della nostra ricerca, Diana ignuda, non dobbiamo essere virtuosi (virtù come
medietà tra gli estremi) ma dobbiamo essere pazzi, furiosi, solo così potremmo
arrivare a capire l'oggetto del nostro studio (Atteone trasformato in cervo). La
ricerca e l'essere fuoriosi, non sono una virtù ma un vizio. Il dialogo è
inoltre un prosimetro, come La vita nuova di Dante, un insieme di prosa e di
poesia (distici, sonetti e una canzone finale). Il precedente periodo oxoniense
inglese è da considerarsi il più creativo di Bruno, periodo nel quale ha
prodotto il maggior numero di opere fino a quando l'ambasciatore Castelnau
essendo richiamato in Francia lo induce a imbarcarsi con lui; ma la nave verrà
assalita dai pirati, che derubano i passeggeri d'ogni avere. A Parigi
Bruno abita vicino al Collège de Cambrai, e ogni tanto va a prendere in prestito
qualche libro nella biblioteca di Saint-Victor, nella collina di
Sainte-Geneviève, il cui bibliotecario, il monaco Cotin, ha l'abitudine di
annotare giornalmente quanto avveniva nella biblioteca. Entrato in qualche
confidenza col filosofo, da lui sappiamo che Bruno stava per pubblicare
un'opera, l'Arbor philosophorum, che non ci è pervenuta, e che aveva lasciato
l'Italia per «evitare le calunnie degli inquisitori, che sono ignoranti e che,
non concependo la sua filosofia, lo accuserebbero di eresia». Il monaco annota
tra l'altro che era ammiratore d’Aquino, che disprezzava le sottigliezze degli
scolastici, dei sacramenti e anche dell'eucaristia, ignote a Pietro e a Paolo, i quali non seppero altro che hoc est
corpus meum. Dice che i torbidi religiosi sarebbero facilmente tolti di mezzo,
se fossero spazzate tali questioni e confida che questa sarà presto la fine
della contesa. L'anno successive pubblica, dedicata a Piero Del Bene, abate di
Belleville e membro della corte francese, la Figuratio Aristotelici physici
auditus, un'esposizione della fisica aristotelica. Conosce il salernitano Mordente, che due anni prima aveva pubblicato
Il Compasso, illustrazione dell'invenzione di un compasso di nuova concezione
e, poiché egli non sa il latino, che ha apprezzato la sua invenzione, pubblica
i “Dialogi duo de Fabricii Mordentis Salernitani prope divina adinventione ad
perfectam cosmimetriae praxim”, dove elogia l'inventore ma gli rimprovera di
non aver compreso tutta la portata della sua invenzione, che dimostrava
l'impossibilità di una divisione infinita delle lunghezze. Offeso da questi
rilievi, il Mordente protestò violentemente, sicché Bruno finì col replicare
con le feroci satire dell'“Idiota triumphans seu de Mordentio inter geometras
Deo dialogus” e del “Dialogus qui de somnii interpretatione seu geometrica
sylva inscribitur. Fa stampare col nome di Hennequin l'opuscolo
antiaristotelico “Centum et viginti articuli de natura et mundo adversus
peripateticos”, partecipando alla successiva pubblica disputa nel Collège de
Cambrai, ribadendo le sue critiche alla filosofia aristotelica. Contro tali
critiche si levò un giovane avvocato parigino, Raoul Callier, che replicò con
violenza chiamando il filosofo Giordano "Bruto". Sembra che
l'intervento del Callier abbia ricevuto l'appoggio di quasi tutti gli
intervenuti e che si sia scatenato un putiferio di fronte al quale il filosofo
preferì, una volta tanto, allontanarsi, ma le reazioni negative provocate dal
suo intervento contro la filosofia aristotelica, allora ancora in grande auge
alla Sorbona, unitamente alla crisi politica e religiosa in corso in Francia e
alla mancanza di appoggi a corte, lo indussero a lasciare nuovamente il suolo
francese. In Germania La Piazza del Mercato di Wittenberg Raggiunta
in giugno la Germania, Bruno soggiorna brevemente a Magonza e a Wiesbaden,
passando poi a Marburg, nella cui Università risulta immatricolato come
Theologiae doctor romanensis. Ma non trovando possibilità di insegnamento,
probabilmente per le sue posizioni antiaristoteliche, s'immatricola a Wittenberg
come Doctor italicus, insegnandovi per due anni, due anni che il filosofo
trascorre in tranquilla operosità. “uomo di nessun nome e autorità fra voi,
sfuggito ai tumulti di Francia, non appoggiato da alcuna raccomandazione
principesca, mi avete ritenuto meritevole di cordialissima accoglienza, mi
avete incluso nell'albo della vostra accademia, mi avete accolto in un consesso
di uomini tanto nobili e dotti, da sembrare ai miei occhi non una scuola
privata o una conventicola esoterica, bensì, come si conviene all'Atene
tedesca, una vera università.» (Dedica del De lampade combinatoria). Pubblica
il De lampade combinatoria lulliana, un commento dell'Ars magna e il “De
progressu et lampade venatoria logicorum”, commento ai Topica di Aristotele. Altri
commenti a opere aristoteliche sono i suoi “Libri physicorum Aristotelis explanati”.
Pubblica ancora, a Wittenberg, il “Camoeracensis Acrotismus”, una riedizione di
“Centum et viginti articuli de natura et mundo adversus peripateticos”. Un suo corso privato sulla Retorica sarà
invece pubblicato col titolo di “Artificium perorandi” (l’arte della
conversazione). Anche le “Animadversiones circa lampadem” e la “Lampas triginta
statuarum” verranno pubblicate. Nel saggio della Yates si fa cenno al fatto che
il Mocenigo aveva riferito all'Inquisizione veneziana l'intenzione di Bruno,
durante il suo periodo tedesco, di creare una nuova setta. Mentre altri
accusatori (il Mocenigo negherà questa affermazione) sostenevano che egli
avrebbe voluto chiamare la nuova setta dei Giordaniti e che essa avrebbe
attirato molto i luterani tedeschi. L'autrice inoltre si pone la domanda se in
questa setta vi fossero stati dei rapporti con i Rosacroce dato che in Germania
emersero all'inizio del XVII secolo presso i circoli luterani. Il nuovo duca
Cristiano I, succeduto al padre morto l'11 febbraio 1586, decide di rovesciare
l'indirizzo degli insegnamenti universitari che privilegiavano le dottrine del
filosofo calvinista Pietro Ramo a svantaggio delle classiche teorie
aristoteliche. Dovette essere questa svolta a spingere Bruno a lasciare Wittenberg,
non senza la lettura di una “Oratio valedictoria”, un saluto che è un
ringraziamento per l'ottima accoglienza della quale era stato
gratificato: «Sebbene fossi di nazione forestiero, esule, fuggiasco,
zimbello della fortuna, piccolo di corpo, scarso di beni, privo di favore,
premuto dall'odio della folla, quindi sprezzabile agli stolti e a quegli
ignobilissimi che non riconoscono nobiltà se non dove splende l'oro, tinnisce
l'argento, e il favore di persone loro simili tripudia e applaude, tuttavia
voi, dottissimi, gravissimi e morigeratissimi senatori, non mi disprezzaste, e
lo studio mio, non del tutto alieno dallo studio di tutti i dotti della vostra
nazione, non lo riprovaste permettendo che fosse violata la libertà filosofica
e macchiato il concetto della vostra insigne umanità.» (citato in Opere
di Giordano Bruno e Tommaso Campanella). Ne fu ricambiato dall'affetto degli
allievi, come Hieronymus Besler e Valtin Havenkenthal, il quale, nel suo
saluto, lo chiama «Essere sublime, oggetto di meraviglia per tutti, dinanzi a
cui stupisce la natura stessa, superata dall'opera sua, fiore d'Ausonia, Titano
della splendida Nola, decoro e delizia dell'uno e l'altro cielo». A Praga
e a Helmstedt I sigilli di Giordano Bruno Amoris I sigilli di
Giordano Bruno sono delle incisioni realizzate dallo stesso e pubblicate
all'interno delle sue opere a partire dal periodo praghese. Esse rappresentano
figure geometriche sovrapposte ma anche veri e propri disegni con presunte
decorazioni e lettere. A parte il titolo dei sigilli non abbiamo alcuna
spiegazione in merito al loro significato o al loro reale utilizzo. Fino a oggi
sono state fatte molto congetture dai vari studiosi senza giungere a nessuna
conclusione definitiva. Giunge a Praga, in quegli anni sede del Sacro
Romano Impero, città dove rimane sei mesi. Qui pubblica, in unico testo, il De
lulliano specierum scrutinio e il De lampade combinatoria Raymundi Lullii,
dedicato all'ambasciatore spagnolo presso la corte imperiale, don Guillem de
Santcliment (il quale vantava Raimondo Lullo fra i suoi antenati), mentre
all'imperatore Rodolfo II, mecenate e appassionato di alchimia e astrologia,
dedica gli Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos
atque philosophos, che trattano di geometria, e nella dedica rileva come per
guarire i mali del mondo sia necessaria la tolleranza, sia in campo
strettamente religioso – «È questa la religione che io osservo, sia per una
convinzione intima sia per la consuetudine vigente nella mia patria e tra la
mia gente: una religione che esclude ogni disputa e non fomenta alcuna
controversia» – sia in quello filosofico, campo che deve rimanere libero da
autorità precostituite e da tradizioni elevate a prescrizioni normative. Quanto
a lui, «alle libere are della filosofia cercai riparo dai flutti fortunosi,
desiderando la sola compagnia di coloro che comandano non di chiudere gli
occhi, ma di aprirli. A me non piace dissimulare la verità che vedo, né ho
timore di professarla apertamente» Ricompensato con trecento talleri
dall'imperatore, in autunno Bruno, che sperava di essere accolto a corte,
decide di lasciare Praga e, dopo una breve tappa a Tubinga, giunge a Helmstedt,
nella cui Università, chiamata Academia Julia, si registra. Una targa
presso il Planetario di Praga ricorda il passaggio del filosofo in quella
città. per la morte del fondatore dell'Accademia, il duca Julius von
Braunschweig, vi legge l'Oratio consolatoria, ove presenta sé stesso come
forestiero ed esule: «spregiai, abbandonai, perdetti la patria, la casa, la
facoltà, gli onori, e ogni altra cosa amabile, appetibile, desiderabile». In
Italia «esposto alla gola e alla voracità del lupo romano, qui libero. Lì
costretto a culto superstizioso e insanissimo, qui esortato a riti riformati.
Lì morto per violenza di tiranni, qui vivo per l'amabilità e la giustizia di un
ottimo principe». Le Muse dovrebbero essere libere per diritto naturale eppure
«sono invece, in Italia e in Spagna, conculcate dai piedi di vili preti, in
Francia patiscono per la guerra civile rischi gravissimi, in Belgio sono
sballottate da frequenti marosi, e in alcune regioni tedesche languono
infelicemente». Poche settimane dopo viene scomunicato dal sovrintendente
della Chiesa luterana della città, il teologo luterano Heinrich Boethius per
motivi non noti: Bruno riesce così a collezionare le scomuniche delle maggiori
confessioni europee, cattolica, calvinista e luterana. Presenta ricorso al
prorettore dell'Accademia, Daniel Hoffmann, contro quello che egli definisce un
abuso – perché «chi ha deciso qualcosa senza ascoltare l'altra parte, anche se
lo ha fatto giustamente, non è stato giusto» – e una vendetta privata. Non
ricevette però risposta, perché sembra che fosse stato lo stesso Hoffmann a
istigare Boethius. Benché scomunicato, poté tuttavia rimanere ancora a
Helmstedt, dove aveva ritrovato Valtin Acidalius Havenkenthal e Hieronymus
Besler, già suo allievo a Wittenberg, che gli fa da copista e vedrà ancora
brevemente in Italia, a Padova. Bruno compone diverse opere sulla magia, tutte pubblicate
postume: il “De magia”; le “Theses de magia”, un compendio del trattato
precedente, il “De magia mathematica”, che presenta come fonti la
Steganographia di Tritemio, il De occulta philosophia di Agrippa e lo
pseudo-Alberto Magno; il “De rerum principiis et elementis et causis” e la “Medicina”,
nella quale presume di aver trovato forme di applicazione della magia nella natura. "Mago"
è un termine che si presta a equivoche interpretazioni, ma che per l'autore,
come egli stesso chiarisce sin dall'ìncipit dell'opera, significa innanzitutto
sapiente: sapienti come per esempio erano i magi dello zoroastrismo o simili
depositari della conoscenza presso altre culture del passato. La magia di cui
Bruno si occupa non è pertanto quella associata alla superstizione o alla
stregoneria, bensì quella che vuole incrementare il sapere e agire
conseguentemente. L'assunto fondamentale da cui il filosofo parte è
l'onnipresenza di un'entità unica, che egli chiama indifferentemente
"spirito divino, cosmico" o "anima del mondo" o anche
"senso interiore", identificabile come quel principio universale che
dà vita, movimento e vicissitudine a ogni cosa o aggregato nell'universo. Il
mago deve tenere presente che come da Dio, attraverso gradi intermedi, tale
spirito si comunica a ogni cosa "animandola", così è altrettanto
possibile tendere a Dio dall'essere animato: questa ascensione dal particolare
a Dio, dal multiforme all'Uno è una possibile definizione della
"magia". Lo spirito divino, che per la sua unicità e infinità
connette ogni cosa a ogni altra, consente parimenti l'azione di un corpo su un
altro. Bruno chiama «vincula» i singoli nessi fra le cose: "vincolo",
"legatura". La magia altro non è che lo studio di questi legami, di
questa infinita trama "multidimensionale" che esiste nell'universo.
Nel corso dell'opera Bruno distingue e spiega differenti tipi di legami –
legami che possono essere utilizzati positivamente o negativamente,
distinguendo così il mago dallo stregone. Esempi di legami sono la fede; i
riti; i caratteri; i sigilli; le legature che vengono dai sensi, come la vista
o l'udito; quelle che vengono dalla fantasia, eccetera.Alla fine di aprile del
1590 Giordano Bruno lascia Helmstedt e in giugno raggiunge Francoforte in
compagnia di Besler, che prosegue verso l'Italia per studiare a Padova. Avrebbe
voluto alloggiare dallo stampatore Wechel, come richiese al Senato di
Francoforte ma la richiesta è respinta e allora Bruno andò ad abitare nel locale
convento dei Carmelitani i quali, per privilegio concesso da Carlo V, non erano
soggetti alla giurisdizione secolare. Vedono la luce tre opere, i
cosiddetti poemi francofortesi, culmine della ricerca filosofica di Bruno: il “De triplici minimo et mensura ad trium
speculativarum scientiarum et multarum activarum artium principia libri V”, in
cui vi sono delle immagini simili alla tabula recta di Tritemio; “De monade,
numero et figura liber consequens quinque”; il “De innumerabilibus, immenso et
infigurabili, seu De universo et mundis libri octo”. De minimo. Chi potrà
ritenere che gli strumenti diano misurazioni esatte dal momento che il fluire
delle cose non mantiene un identico ritmo ed un termine non si mantiene mai
alla stessa distanza dall'altro? Da De minimo, in Opere latine, a cura di Carlo
Monti, POMBA). Nei cinque libri del “De minimo” si distinguono tre tipi di
minimo: il minimo fisico, l'atomo, che è alla base della scienza della fisica;
il minimo geometrico, il punto, che è alla base della geometria, e il minimo
metafisico, o monade, che è alla base della metafisica. Essere minimo significa
essere in-divisibile – e dunque Aristotele erra sostenendo la divisibilità
all'infinito della materia – perché, se così fosse, non raggiungendo mai la
minima quantità di una sostanza, il principio e fondamento di ogni sostanza,
non spiegheremmo più la costituzione, mediante aggregazioni di infiniti atomi,
di mondi infiniti, in un processo di formazione altrettanto infinito. I
composti, infatti, «non rimangono identici neppure per un attimo; ciascuno di
essi, per lo scambio vicendevole degli innumerevoli atomi, si muta
continuamente e ovunque in tutte le parti». La materia, come il filosofo
aveva già espresso nei dialoghi italiani, è in perenne mutazione, e ciò che dà
vita a questo divenire è uno «spirito ordinatore», l'anima del mondo, una
nell'universo infinito. Dunque nel divenire eracliteo dell'universo è situato
l'essere parmenideo, uno ed eterno: materia e anima sono inscindibili, l'anima
non agisce dall'esterno, poiché non c'è un esterno della materia. Ne viene che
nell'atomo, la parte più piccola della materia, anch'esso animato dal medesimo
spirito, il minimo e il massimo coincidono: è la coesistenza dei contrari:
minimo-massimo; atomo-Dio; finito-infinito. Contrariamente agli atomisti, quali
ad esempio Democrito e Leucippo, non ammette l'esistenza del vuoto. Il
cosiddetto vuoto non è che un vocabolo col quale si designa il mezzo che
circonda i corpi naturali. Gli atomi hanno un termine in questo mezzo, nel
senso che essi né si toccano né sono separati. Inoltre distingue fra minimi
assoluti e minimi relativi, e così il minimo di un cerchio è un cerchio; il
minimo di un quadrato è un quadrato, eccetera. I matematici dunque errano nella
loro astrazione, considerando la divisibilità all'infinito degli enti
geometrici. Quella che Bruno espone è, usando con terminologia moderna, una
discretizzazione non solo della materia, ma anche della geometria, una
geometria discreta. Ciò è necessario onde rispettare l'aderenza alla realtà
fisica della descrizione geometrica, indagine in ultima analsi non separabile da
quella metafisica. Nel De monade Bruno si richiama alle tradizioni pitagoriche
attaccando la teoria aristotelica del motore immobile, principio di ogni
movimento: le cose si trasformano per la presenza di principi interni, numerici
e geometrici. De immenso Negli otto libri del De immenso il filosofo
riprende la propria teoria cosmologica, appoggiando la teoria eliocentrica
copernicana ma rifiutando l'esistenza delle sfere cristalline e degli epicicli,
ribadendo la concezione dell'infinità e molteplicità dei mondi. Critica
l'aristotelismo, negando qualunque differenza tra la materia terrestre e
celeste, la circolarità del moto planetario e l'esistenza dell'etere. Il
castello, situato presso Elgg e allora di proprietà di Heinzel von Tägernstein,
l’ospita nel suo breve soggiorno nel cantone di Zurigo. Parte per la Svizzera,
accogliendo l'invito del nobile Heinzel von Tägernstein e del teologo Egli,
entrambi appassionati di alchimia. Così Bruno, per quattro o cinque mesi,
ospite di Heinzel, insegna filosofia presso Zurigo: le sue lezioni, raccolte da
Raphael Egli con il titolo di Summa terminorum metaphysicorum, saranno pubblicate
da costui a Zurigo, e poi, postume, a Marburgo, insieme con la “Praxis
descensus seu applicatio entis”, rimasta incompiuta. La “Summa terminorum
metaphysicorum,” Somma dei termini metafisici, rappresenta un'importante
testimonianza dell'attività di Bruno insegnante. Si tratta di un compendio di
52 termini fra i più frequenti nell'opera di Aristotele che Bruno spiega
riassumendo. Nella “Praxis descensus”, “Prassi del descenso”, il nolano
riprende gli stessi termini (con qualche differenza) questa volta esposti
secondo la propria visione. Il testo consente così di confrontare puntualmente
le differenze fra Aristotele e Bruno. La Praxis è divisa in tre parti, con gli
stessi termini esposti secondo la divisione triadica Dio, intelletto, anima del
mondo. Purtroppo l'ultima parte manca del tutto e anche la rimanente non è completamente
curata. Infatti ritorna a Francoforte per pubblicarvi ancora il De imaginum,
signorum et idearum compositione, dedicato a Hans Heinzel. Ed è questa l'ultima
opera la cui pubblicazione fu curata da Bruno stesso. È probabile che il
filosofo avesse intenzione di tornare a Zurigo, e ciò spiegherebbe anche perché
Egli abbia atteso prima di pubblicare quella parte della Praxis che aveva
trascritto, ma in ogni caso nella città tedesca gli eventi evolveranno ben
diversamente. Francoforte e sede di un'importante fiera del libro, alla quale
partecipavano i librai di tutta Europa. Era stato così che due editori, il
senese Ciotti e il fiammingo Giacomo Brittano, entrambi attivi a Venezia, avevano
conosciuto Bruno almeno stando alla successive dichiarazioni di Ciotti stesso
al Tribunale dell'Inquisizione di Venezia. Il patrizio veneto Mocenigo, che
conosce Ciotti e ha comprato nella sua libreria il “De minimo” del filosofo
nolano, affida al libraio una sua lettera nella quale invitava Bruno a Venezia
affinché gli insegnasse li secreti della memoria e li altri che egli professa,
come si vede in questo suo libro. Appare quantomeno strano il fatto che, dopo
anni di peregrinazioni in Europa decidesse di tornare in Italia sapendo quanto
il rischio di finire sotto le mani dell'inquisizione fosse concreto.
Probabilmente non si considera “anti-cattolico” ma semmai una sorta di
riformatore che spera di avere concrete possibilità di incidere sulla Chiesa.
Oppure il senso di pienezza di sé o della sua "missione" da compiere
altera la reale percezione del pericolo a cui poteva andare incontro. Inoltre,
il clima politico, ossia l'ascesa vittoriosa di Enrico di Navarra sulla Lega
cattolica sembra costituire una valida speranza per l'attuazione delle sue idee
in ambito cattolico. Bruno e a Venezia. Che egli sia tornato in Italia spinto
dall'offerta di Mocenigo non è affatto sicuro, tant'è che passeranno diversi
mesi prima che accetta l'ospitalità del patrizio. Non era certo un uomo a cui
mancavano i mezzi, anzi, egli era considerato omo universale, pieno di ingegno
e ancora nel pieno del suo momento creativo. A Venezia si trattenne solo pochi
giorni per poi recarsi a Padova e incontrare Besler, il suo copista di
Helmstedt. Qui tenne per qualche mese lezioni agli studenti che frequentano
quello studio e spera invano di ottenervi la cattedra di matematica, uno dei
possibili motivi per cui Bruno torna in Italia. Compone le “Praelectiones geometricae”,
l'”Ars deformationum”, il “De vinculis in genere”, e il “De sigillis Hermetis
et Ptolomaei et aliorum”. Con il ritorno di Besler in Germania per motivi
familiari, torna a Venezia e si stabilì in casa del patrizio veneziano, che era
interessato alle arti della memoria e alle discipline magiche. Informa il
Mocenigo di voler tornare a Francoforte per stampare delle sue opere. Questi
pensa che cercas un pretesto per abbandonare le lezioni. Il giorno dopo lo fece
sequestrare in casa dai suoi servitori. Il giorno successivo Mocenigo presenta
all'Inquisizione una denuncia scritta, accusandolo di blasfemia, di disprezzare
le religioni, di non credere nella Trinità divina e nella transustanziazione,
di credere nell'eternità del mondo e nell'esistenza di mondi infiniti, di
praticare arti magiche, di credere nella metempsicosi, di negare la verginità di
Maria e le punizioni divine. Quel giorno stesso, e arrestato e tratto
nelle carceri dell'Inquisizione di Venezia, in san Domenico a Castello. Maiori
forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam” (“Forse tremate
più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell'ascoltarla. Giordano
Bruno rivolto ai giudici dell'Inquisizione. Il processo di Giordano Bruno,
basso-rilievo del basamento della statua in Campo de' Fiori da Ferrari.
Naturalmente sa che la sua vita è in gioco e si difende abilmente dalle accuse
dell'inquisizione veneziana. Nega quanto può, tace, e mente anche, su alcuni
punti delicati della sua dottrina, confidando che gli inquisitori non possano
essere a conoscenza di tutto quanto egli abbia fatto e scritto, e giustifica le
differenze fra le concezioni da lui espresse e i dogmi cattolici con il fatto
che un filosofo, ragionando secondo il lume naturale, può giungere a
conclusioni discordanti con le materie di fede, senza dover per questo essere
considerato un eretico. A ogni buon conto, dopo aver chiesto perdono per gli
errori commessi, si dichiara disposto a ritrattare quanto si trovi in contrasto
con la dottrina della Chiesa. L'Inquisizione romana chiede però la sua
estradizione, che viene concessa, dopo qualche esitazione, dal Senato veneziano.
E rinchiuso nelle carceri romane del Palazzo del Sant'Uffizio. Nuovi testi, per
quanto poco affidabili, essendo tutti imputati di vari reati dalla stessa
Inquisizione, confermano le accuse e ne aggiungono di nuove. E forse torturato,
secondo la decisione della Congregazione, stando all'ipotesi avanzata da Luigi
Firpo e Michele Ciliberto, una circostanza negata invece dallo storico Andrea
Del Col. Non rinnega i fondamenti della sua filosofia. Ribada l'infinità
dell'universo, la molteplicità dei mondi, il moto della terra e la non
generazione delle sostanze. Queste non possono essere altro che quel che sono
state, né saranno altro che quel che sono, né alla loro grandezza o sostanza
s'aggionge mai, o mancarà ponto alcuno, e solamente accade separatione, e
congiuntione, o compositione, o divisione, o translatione da questo luogo a
quell'altro. A questo proposito spiega che il modo e la causa del moto della
terra e della immobilità del firmamento sono da me prodotte con le sue raggioni
et autorità e non pregiudicano all'autorità della divina scrittura. All'obiezione
dell'inquisitore, che gli contesta che nella Bibbia è scritto -- terra stat in
aeternum -- e il sole nasce e tramonta, risponde che vediamo il sole nascere e
tramontare perché la terra se gira circa il proprio centro. Alla contestazione
che la sua posizione contrasta con l'autorità dei Santi Padri, risponde che
quelli sono meno de' filosofi prattichi e meno attenti alle cose della natura.
Il filosofo sostiene che la terra è dotata di un'anima, che le stelle hanno
natura angelica, che l'anima non è forma del corpo, e come unica concessione, è
disposto ad ammettere l'immortalità dell'anima umana. Roma, Piazza di
Campo de' Fiori. E invitato ad abiurare otto proposizioni eretiche, nelle quali
si comprendevano la sua negazione della creazione divina, dell'immortalità
dell'anima, la sua concezione dell'infinità dell'universo e del movimento della
terra, dotata anche di anima, e di concepire gli astri come angeli. La sua
disponibilità ad abiurare, a condizione che le proposizioni siano riconosciute
eretiche non da sempre, ma solo ex nunc, è respinta dalla congregazione dei
cardinali inquisitori, tra i quali Bellarmino. Una successiva applicazione
della tortura, proposta dai consultori della congregazione fu invece respinta
da Clemente VIII. Nell'interrogatorio si dice ancora pronto all'abiura, ma icambia
idea e infine, dopo che il tribunale ha ricevuto una denuncia che accusa Bruno
di aver avuto fama di ateo in Inghilterra e di aver scritto il suo “Spaccio
della bestia trionfante” direttamente contro il papa, rifiuta recisamente ogni
abiura, non avendo, dichiara, nulla di cui doversi pentire. Al cospetto
dei cardinali inquisitori e dei consultori Mandina, Pietrasanta e Millini, è
costretto ad ascoltare in ginocchio la sentenza che lo scaccia dal foro
ecclesiastico e lo consegna al braccio secolare. Terminata la lettura della
sentenza, secondo la testimonianza di choppe, si alza e ai giudici indirizza la
storica frase. Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego
accipiam. Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza
che io nell'ascoltarla. Dopo aver rifiutato i conforti religiosi e il crocefisso,
con la lingua in giova – serrata da una mordacchia perché non possa parlare,
viene condotto in campo de’ fiori, denudato, legato a un palo e arso vivo. Le
sue ceneri sono gettate nel Tevere. Volse il viso pieno di disprezzo
quando ormai morente, venne posta innanzi l'immagine di Cristo crocefisso. Così
muore bruciato miseramente, credo per annunciare negli altri mondi che si è
immaginato in che modo i romani sono soliti trattare gli empi e i blasfemi.
Ecco qui, caro Rittershausen, il modo in cui procediamo contro gli uomini, o
meglio contro i mostri di tal specie. Il suo dio è da un lato trascendente, in
quanto supera ineffabilmente la natura, ma nello stesso tempo è immanente, in
quanto anima del mondo: in questo senso, Dio e Natura sono un'unica realtà da
amare alla follia, in un'inscindibile unità panenteistica di pensiero e
materia, in cui dall'infinità di Dio si evince l'infinità del cosmo, e quindi
la pluralità dei mondi, l'unità della sostanza, l'etica degli "eroici
furori". Questi ipostatizza un Dio-Natura sotto le spoglie dell'Infinito,
essendo l'infinitezza la caratteristica fondamentale del divino. Egli fa dire
nel dialogo De l'infinito, universo e mondi a Filoteo. Io dico Dio tutto
Infinito, perché da sé esclude ogni termine ed ogni suo attributo è uno e
infinito; e dico Dio totalmente infinito, perché lui è in tutto il mondo, ed in
ciascuna sua parte infinitamente e totalmente: al contrario dell'infinità de
l'universo, la quale è totalmente in tutto, e non in queste parti (se pur,
referendosi all'infinito, possono esse chiamate parti) che noi possiamo
comprendere in quello» (Giordano Bruno, De infinito, universo e mondi)
Per queste argomentazioni e per le sue convinzioni sulla Sacra Scrittura, sulla
Trinità e sul Cristianesimo, già scomunicato, fu incarcerato, giudicato eretico
e quindi condannato al rogo dall'Inquisizione della Chiesa cattolica. Fu arso
vivo a piazza Campo de' Fiori il 17 febbraio 1600, durante il pontificato di
Clemente VIII. Ma la sua filosofia sopravvisse alla sua morte, portò
all'abbattimento delle barriere tolemaiche, rivelò un universo molteplice e non
centralizzato e aprì la strada alla Rivoluzione scientifica: per il suo
pensiero Bruno è quindi ritenuto un precursore di alcune idee della cosmologia
moderna, come il multiverse. Per la sua morte, è considerato un martire del libero
pensiero. A distanza di 400 anni,Giovanni Paolo II, tramite una lettera del
segretario di Stato Vaticano Angelo Sodano inviata a un convegno che si svolse
a Napoli, espresse profondo rammarico per la morte atroce di Giordano Bruno,
pur non riabilitandone la dottrina: anche se la morte di Giordano Bruno
"costituisce oggi per la Chiesa un motivo di profondo rammarico",
tuttavia "questo triste episodio della storia cristiana moderna" non
consente la riabilitazione dell'opera del filosofo nolano arso vivo come
eretico, perché "il cammino del suo pensiero lo condusse a scelte
intellettuali che progressivamente si rivelarono, su alcuni punti decisivi,
incompatibili con la dottrina cristiana". D'altronde anche nel saggio
della Yates viene ribadito più volte la completa adesione di Bruno alla
"religione degli egizi" scaturita dal suo sapere ermetico nonché
afferma che "la religione egiziana ermetica è l'unica religione
vera". La ricezione della filosofia di Bruno Il Dizionario di Pierre
Bayle Ritratto di Caspar Schoppe, opera di Peter Paul Rubens Malgrado la
messa all'Indice dei libri di Bruno decretata, questi continuarono a essere
presenti nelle biblioteche europee, anche se rimasero equivoci e incomprensioni
sulle posizioni del filosofo nolano, così come volute mistificazioni sulla sua
figura. Già il cattolico Kaspar Schoppe, ex luterano che assistette alla
pronuncia della sentenza e al rogo di Bruno, pur non condividendo «l'opinione
volgare secondo la quale codesto Bruno fu bruciato perché luterano» finisce con
l'affermare che «Lutero ha insegnato non solo le stesse cose di Bruno, ma altre
ancora più assurde e terribili», mentre il frate minimo Marin Mersenne
individuò nella cosmologia bruniana la negazione della libertà di Dio, oltre
che del libero arbitrio umano. Mentre gli astronomi Brahe e Keplero
criticarono l'ipotesi dell'infinità dell'universo, non presa in considerazione
nemmeno da Galileo, il libertino Gabriel Naudé, nella sua Apologie pour tous
les grands personnages qui ont testé faussement soupçonnez de magie esalta in
Bruno il libero ricercatore delle leggi della natura. Bayle, nel suo
Dizionario, arrivò a dubitare della morte per rogo di Bruno e vide in lui il
precursore di Spinoza e di tutti i moderni panteisti, un monista ateo per il
quale unica realtà è la natura. Gli rispose il teologo deista John Toland, che
conosceva lo Spaccio della bestia trionfante e lodava in Bruno la serietà
scientifica e il coraggio dimostrato nell'aver eliminato dalla speculazione
filosofica ogni riferimento alle religioni positive; segnala lo Spaccio a
Leibniz - che tuttavia considera Bruno un mediocre filosofo - e al de La Croze,
convinto dell'ateismo di Bruno. Con quest'ultimo concorda il Budde, mentre Christoph
August Heumann ritorna erroneamente a ipotizzare un protestantesimo di
Bruno. Con l'Illuminismo, l'interesse e la notorietà di Bruno aumenta. Weidler
conosce il De immenso e lo Spaccio, mentre Jean Sylvain Bailly lo definisce
«ardito e inquieto, amante delle novità e schernitore delle tradizioni», ma gli
rimprovera la sua irreligiosità. In Italiaè molto apprezzato da Barbieri,
autore di una Storia dei matematici e filosofi del Regno di Napoli, dove
afferma che scrisse molte cose sublimi nella Metafisica, e molte vere nella
Fisica e nell'Astronomia e ne fa un precursore della teoria dell'armonia
prestabilita di Leibniz e di tanta parte delle teorie di Cartesio. Il sistema
dei vortici di Cartesio, o quei globuli giranti intorno i loro centri
nell'aere, e tutto il sistema fisico è suo. Il principio di dubitazione
saviamente da Cartesio introdotto nella filosofia a Bruno si deve, e molte
altre cose nella filosofia di Cartesio sono di lui. Questa tesi è negata
da Niceron, per il quale il razionalista Cartesio nulla può aver preso da lui,
irreligioso e ateo come Spinoza, che ha identificato Dio con la natura, è
rimasto legato alla filosofia del Rinascimento credendo ancora nella magia e,
per quanto ingegnoso, è spesso contorto e oscuro. Brucker concorda con l'incompatibilità
di Cartesio con lui, che considera un filosofo molto complesso, posto tra il
monismo spinoziano e il neo-pitagorismo, la cui concezione dell'universo
consisterebbe nella sua creazione per emanazione da un'unica fonte infinita,
dalla quale la natura creata non cesserebbe di dipendere. Fu Diderot a
scrivere per l'Enciclopedia la voce su Bruno, da lui considerato precursore di
Leibniz - nell'armonia prestabilita, nella teoria della monade, nella ragione
sufficiente - e di Spinoza, il quale, come lui, concepisce Dio come essenza
infinita nella quale libertà e necessità coincidono: rispetto a lui pochi
sarebbero i filosofi paragonabili, se l'impeto della sua immaginazione gli
avesse permesso di ordinare le proprie idee, unendole in un ordine sistematico,
ma era nato poeta. Per Diderot, Bruno, che si è sbarazzato della vecchia
filosofia aristotelica, è con Leibniz e Spinoza il fondatore della filosofia
moderna. Jacobi pubblica per la prima volta ampi estratti del “De la
causa, principio et uno” di «questo oscuro filosofo», che sa però dare un disegno
netto e bello del panteismo. Lo spiritualista non condivide certo il panteismo
ateo di lui e Spinoza, di cui ritiene inevitabili le contraddizioni, ma non
manca di riconoscerne la grande importanza nella storia della filosofia. Da
Jacobi Schelling trae spunto per il suo dialogo su lui, al quale riconosce di
aver colto quello che per lui è il fondamento della filosofia: l'unità del
Tutto, l'assoluto hegeliano, nel quale successivamente si conoscono le singole
cose finite. Hegel lo conosce e nelle sue “Lezioni” presenta la sua filosofia
come l'attività dello spirito che assume dis-ordinatamente» tutte le forme,
realizzandosi nella natura infinita. È un gran punto, per cominciare, quello di
pensare l'unità. L’altro punto fu cercare di comprendere l'universo nel suo
svolgimento, nel sistema delle sue determinazioni, mostrando come l'esteriorità
sia segno delle idee. In Italia, è l'hegeliano Spaventa a vedere in lui il
precursore di Spinoza, anche se il filosofo nolano oscilla nello stabilire un
chiaro rapporto fra la natura e Dio, che appare ora identificarsi con la natura
e ora mantenersi come principio sovra-mondano, osservazioni riprese da Fiorentino,
mentre Tocco mostra come egli, pur dissolvendo dio nella natura, non rinuncia a
una valutazione positiva della religione, concepita come utile educatrice dei
popoli. Nel primo decennio del Novecento si completa l'edizione di tutte
le opere e si accelerano gli studi biografici su lui, con particolare riguardo
al processo. Per Gentile, altre a essere un martire della libertà di pensiero,
ha il grande merito di dare un'impronta strettamente razionale alla sua
filosofia, trascurando misticismi medievaleggianti e suggestioni magiche.
Opinione, quest'ultima, discutibile, come recentemente ha inteso mettere in
luce la studiosa inglese Frances Yates, presentando Bruno nelle vesti di un
autentico ermetico. Mentre Badaloni ha rilevato come l'ostracismo
decretato contro lui abbia contribuito a emarginare l'Italia dalle innovative
correnti della grande filosofia del Seicento europeo, fra i maggiori e più
assidui contributi nella definizione della filosofia bruniana si contano
attualmente quelli portati da Aquilecchia e Ciliberto. Monumento a Giordano
Bruno. Medaglia con monumento a Giordano Bruno in Campo de' Fiori a Roma,
incisione di Broggi. La medaglia, di 60 mm, fu donata a personaggi illustri e
comitati vari. Insieme a questa fu coniata un'altra medaglia di 64 mm in
bronzo, abbastanza simile, a scopo commerciale Gli sono stati dedicati il
cratere lunare Bruno e due asteroidi della fascia principale: Giordano e
Cenaceneri. IRapisardi gli dedicò un'epigrafe. All'ipocrisia volpeggiante fra
la scuola e la sagrestia, ai conciliatori della scienza col sillabo, all'imbestiato
borghesume, che tutto falsando e trafficando, d'ogni sacrificio eroico
beatamente sogghigna, le coscienze, cui sorride ancora la fede nel trionfo di
tutte le umane libertà, lanciano oggi ad una voce dalle università italiane una
sfida solenne a gloria della tua virtù, a vendetta del tuo martirio o Giordano
Bruno. Numerose scuole sono state intitolate a Bruno in tutta Italia, in
particolare licei classici: ad esempio ad Arzano, Albenga, Roma, Torino,
Mestre, Budrio e Melzo, mentre a Maddaloni gli sono stati intitolati il
Convitto nazionale e il liceo classico cittadino. In Italia sono numerosi i monumenti
intitolati a Bruno, sono presenti: un monumento in una piazza a Nola, un busto
a Montella, un bassorilievo a Monsampolo del Tronto e un'epigrafe a Teora. Nel
Campo de' Fiori di Roma è presente il più importante monumento a Bruno, eretto
esattamente nel luogo in cui il filosofo fu condannato al rogo. La figura e il
ruolo del mago che Shakespeare presenta con Prospero, ne La tempesta, fosse
influenzata dalla formulazione del ruolo del mago attuata da Bruno. Sempre in
Shakespeare, è ormai dai più accettata l'identificazione del personaggio di “Berowne”
(Browne, Bruno), in “Pene d'amor perdute” con il filosofo italiano,
considerando il parzialmente documentato e più che plausibile incontro tra i
due durante il suo soggiorno inglese.Un riferimento molto più esplicito si
trova in The Tragical History of Doctor Faustus, Marlowe. Il personaggio “Bruno”,
l'antipapa, riassume molte caratteristiche della vicenda del filosofo: «I
cardinali dormienti si affannano / a punire Bruno, che invece è lontano. Vola.
/ Il suo superbo corsiero, vivo come il pensiero, / Già passa le Alpi.»
(Christopher Marlowe, La triste storia del dottor Faust; citato in Jean Rocchi,
Giordano Bruno davanti all'inquisizione, Stampa Alternativa) La stessa vicenda
del Faust marlowiano richiama alla mente la figura del "furioso"
bruniano in De gli eroici furori. Cinema Interpretato da Volonté. Protagonista
nel film di Montaldo Giordano Bruno nel quale è stato interpretato da Volonté.
Compare anche nel film Galileo di Cavani. Negli anni novanta Rai Uno produce un
film documentario curato da Porta su Giordano Bruno. Interpretato da Vita. Nel
film Caravaggio con Alessio Boni c'è una scena in cui è mostrato il rogo di Bruno.
Contrariamente alle fonti che parlano di Bruno con la lingua in giova, il
filosofo appare legato al palo mentre poco prima delle fiamme incita la gente a
non lasciarsi irretire dai falsi maestri. “Candelaio” è al centro della fiction
Il tredicesimo apostolo - Il prescelto trasmessa su Canale 5. Il rapper
Caparezza ha dedicato a lui una mini-storia nel brano "Sono il tuo sogno
eretico", presente in Il sogno eretico: «Infine mi chiamo come il fiume che
battezzò colui nel cui nome fui posto in posti bui,/ mica arredati col feng
shui. Nella cella reietto perché tra fede e intelletto ho scelto il suddetto, Dio
mi ha dato un cervello, se non lo usassi gli mancherei di rispetto. E tutto
crolla come in borsa, la favella nella morsa, la mia pelle è bella arsa. Il
processo? Bella farsa! Adesso mi tocca tappare la bocca nel disincanto lì
fuori, lasciatemi in vita invece di farmi una statua in Campo de' Fiori/Mi
bruci per ciò che predico è una fine che non mi merito, mandi in cenere la
verità perché sono il tuo sogno eretico.» (Caparezza, Sono il tuo sogno
eretico). La metal band californiana Avenged Sevenfold lui ha dedicato il brano
intitolato Roman Sky presente nel nuovo album The Stage. L'album tratta infatti
temi quali l'intelligenza artificiale e l'universo. Sono dedicati al filosofo
anche il brano Anima Mundi di Massimiliano Larocca e l'album Numen Lumen del
gruppo neofolk Hautville, che ha nelle liriche brani diBruno. Altre opere: “De
compendiosa architectura et complemento artis Lullii”; “De umbris idearum”;
“Ars memoriae”; “Cantus Circaeus”; “Candelaio”; “Ars reminiscendi, Triginta
sigilli, Triginta sigillorum explicatio, Sigillus sigillorum”; “Cena de le
Ceneri”; “De la causa, principio et uno”; “De l'infinito, universo e mondi” “Spaccio
della bestia trionfante”; “Il cavallo pegaseo”; “De gli eroici furori”; “Centum
et viginti articuli de natura et mundo adversus peripateticos” – “contro i
peripatetici” -- “Figuratio Aristotelici
physici auditus”; “Dialogi duo de Fabricii Mordentis Salernitani prope divina
adinventione”; “Idiota triumphans”; “De somnii interpretation”; “Mordentius”; “De
Mordentii circino”; “Animadversiones circa lampadem” “animadversions in
lampadem”; “Lampas triginta statuarum” – trenta statue -- (Napoli); “Artificium perorandi”; “De lampade combinatoria”;
“De progressu”; “De lampade venatoria logicorum”; “Libri physicorum Aristotelis
explanati, Napoli); “Camoeracensis Acrotismus seu rationes articulorum
physicorum adversus peripateticos”; “Oratio valedictoria”; “De specierum scrutinio”
De lampade combinatoria”; “Articuli centum et sexaginta adversus huius
tempestatis philosophos”; “Oratio consolatoria”; “De magia (Firenze); “De magia
mathematica (Firenze); “De rerum principiis et elementis et causis” (Firenze);
“Medicina” (Firenze); “Theses de magia” (Firenze); “De innumerabilibus, immenso
et in-figurabili”; “De triplici minimo et mensura”; “De monade, numero et
figura”; “De imaginum, signorum et idearum compositione” (sintassi); “De
vinculis in genere” (Firenze); “Summa terminorum metaphysicorum”; “Accessit
eiusdem Praxis descensus seu applicatio entis”. Bruno nota che quantunque
Averroè fosse arabo e perciò «ignorante di lingua greca, nella dottrina
peripatetica però intese più che qualsivoglia greco che abbiamo letto; e arebbe
più inteso, se non fusse stato così additto al suo nume Aristotele. Sia dai due
volti. Io ho lodato molti eretici ed anco principi eretici; ma non li ho lodati
come eretici, ma solamente per le virtù morali che loro avevano; né li ho mai
lodati come religiosi e pii, né usato simil sorte di voce di religione. Ed in
particulare nel mio libro Della causa, principio ed uno io lodo la Regina de
Inghilterra e la nomino diva, non per attributo di religione, ma per un certo
epiteto che li antichi ancora solevano dare a principi, ed in Inghilterra, dove
allora io mi ritrovava e composi quel libro, se suole dar questo titolo de diva
alla Regina; e tanto più me indussi a nominarla cusì, perché ella me conosceva,
andando io continuamente con l'Ambasciator in corte. E conosco di aver errato
in lodare questa donna, essendo eretica, e massime attribuendoli la voce de
diva. Degno di nota è che Bruno pubblica tutti e sei questi saggi indicando
luoghi di stampa non corrispondenti: Venezia. Che Dio sia nella materia non
implica che possa essere conosciuto. Dio è immanente da un punto di vista
ontologico, mentre è trascendente sul piano gnoseologico. In questo universo
metto una providenzia universal, in virtù della quale ogni cosa vive, vegeta e
si move e sta nella sua perfezione; e la intendo in due maniere, l'una nel modo
con cui è presente l'anima nel corpo, tutta in tutto e tutta in qual si voglia
parte, e questo chiamo natura, ombra e vestigio della divinità; l'altra nel
modo ineffabile col quale Iddio per essenzia, presenzia e potenzia è in tutto e
sopra tutto, non come parte, non come anima, ma in modo inesplicabile. Spaventa
fu convinto assertore del ruolo fondamentale della filosofia italiana nel
panorama della filosofia moderna, e in particolare di Bruno e Campanella. L'asinità. La fortuna di Bruno. Bruno in
Shakespeare e nella cultura inglese. “Il Bruno di Gentile”. L'Asino Cillenico.
Clavis Magna. “Clavis Magna, ovvero, Il
Sigillo dei Sigilli. De signorum compositione. Explicatio. Sigillorum. Sigilli, Sigillus
Sigillorum. Clavis Magna, ovvero, L'arte di inventare. De Compendiosa
Architectura et Complemento Artis. “L'Arte di Comunicare” Artificium
Perorandi”. “Clavis Magna, ovvero, La
logica per immagini”. Il Bruno degli italiani. ‘Bruno’ regia di di Montaldo. Dizionario
biografico degli italiani. CESAR calendaire romaine. Centro di Studi Bruniani. (CA
ui i) e iui Mia ba, VA dai ‘agi LS it Il EGR Ln i
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ia Giordano Bruno DRAMMA MILANO Tipografia
Commercial als dtt , TORIO EMANUELE ,
Carnevale {Resta sapore PERSONAGGI. GIORDANO
BRUNO Sig. G. SALASSA LORENZO figlio naturale di GIORDANO BRUNO,
«dot- tato:da).. .A.D'ANDRADE ROMANO DEI LOMBARDI «+. >
F. MIGLIARA LEANDRO giovine patrizio. S.ra ANGIOLETTI
LAURA figlia di ROMANO. >» A. Busi IL GRANDE INQUISITORE . Sig.
SALVARANI. ROCCO LILLE DAMIANI ANDREA . Ni agN°
UNGUARDIANO) che nonparlano —N. N. UN OsTE .. Ni Ni Giovani
e Nobili Veneziani, Servi di Romano, Gondolieri, Seguaci di Bruno,
Soldati, Inquisitori, Si Servi del S. Uffizio, Frati e Popolo.
L'azione del 1.° e 2.° Atto è in Veni quella del:3.° e 4.° Atto in
Re ber a pieni
Sofee bi; pece SUIT ZIA Fitto Primo PIAZZA
IN VENEZIA. Un’Osteria e alcune seggiole. In fondo un canale praticabile,
che traversa la scena. Sul canale un ponte, che mette in un viottolo,
sull'angolo del quale sorge a destra, un magnifico Palazzo illumiminato a
festa, prospiciente sul Canale. —.Un in- gresso laterale, illuminato da
faci fisse ai muri, con- ducedal viottolo nel Palazzo. La porta
principale verso . il Canale è aperta; durante la scena seguente, visi
ve- dono approdare gondole, dalle quali scendono persone
ragguardevoli, che, ricevute dai servi, entrano nel Palazzo. — Sera.
i SCENA TI, GIOVANI e NOBILI VENEZIANI, parte ‘in abiti
fanta- stici con mezza maschera al volto, e parte in abiti comuni,
vengono da sinistra, traversano il ponte, e dalla strada entrano nel
Palazzo. LEANDRO, ROCCO ed altri Giovani vanno e vengono ferman-
dosi sulla Piazza, cantando e ridendo, Poi LQ- RENZO e LAURA.
Leandro (accompagnandosi colla ghitarra) A te,
Venezia bella, adorata, A te, mia sposa, la
serenata. HEVVPETIAIAMITEREZI LIA VITE RENTAL rara rr
ovinantosinezineneisevazize vecio sinioneee IVTIPRErTA:Itr rara
rirevenaatos aes szereris cva:i0e vice vi’ veve’ ’avurecovio sr 0uIvI vare ri
[tti STA Hocco (Volgendosi all’osteria)
Leandro, scuotiti! Le mura adori?... Vieni ove brillano
Divini amori, Ove donzelle Cotanto belle Potrai mirar.
Coro dei nobili Al convito n’andiam! alla festa!
Leandro Prima di venir alla gran festa Distruggere io vo’
un'idea funesta! Oste, su via porgetemi Vino di Cipro; a questo
petto ardente - - Occorre del più vecchio e più potente.
Vivan le belle Danzanti; volano.... Gli occhi fiammeggiano
Più che le stelle; Ne’ Joro vortici Mi ruban Vanima.... sui
Crudo gioir! Più non mi muovo — Suolo dolcissimo, ir
belt rrrrrr n -___
a-rt-rvreorosoeeriovoe nueva zeranen sonia mise
eeerarmierereriiovnieteacivoteote0ie Nido mio nuovo!
Muoio in tue braccia... Santo delir! | A te, Venezia
bella, adorata, A te, mia sposa, la serenata,
Coro AI Convito! n’andiam alla festa. (S'appressano in una gondola
LAURA e LORENZO) Eaurna Sul mare immenso — più non
impera Nè sulla terra — che la circonda... Venezia, è fango —
la tua bandiera! Lutto e non feste! — Pianga e s’ asconda.
Core (con alto di cu iosità) E un amante e la sua Della Che
passeggiano alla luna; Laura sembra la sua stella, Ma egli fa poca
fortuna. Seguiam tutti i vaghi amanti, E vediam, se pur n’ è
dato, In fra i suoni, i balli e i canti Di trovar
l’innamorato. È Lorenzo di Giordano, Che fuggì dal
sacro tempio ; lì Lorenzo... il vil, l’insano Che ne porge un
triste esempio. Lorenzo (con ira) .
È rivolta a me l’offesa? L’alma freme, batte il core!
- Già suonaron l’ultim’ ore; - E voi tutti io sfiderò.
Laura E rivolta a te I’effesa; rato L’alma freme, batte il
core!... Già suonaron l'ultim’ ore Io con te li sfiderò.
(LORENZO furente si scaglia contro ROCCO, e gli toglie la spada.
Gli altri NOBILI sguainano. le proprie e si schierano în fondo)
SCENA II. Detti, ROMANO dei LOMBARDI entra frettoloso
dalla casa di destra, seguito da servi con torce accese,
Bomano Chi grida? Chi chiama? Qual chiasso villano? Non son
cîttadini, ma plebe briaca ! Lorenzo, tu?... Il ferro in mano hai
snudato?.... Parla! Che avvenne! Sei pazzo ?... Ti placa!...
Laura (atterrita alla vista del padre) Che mai dirà Al
Genitor?... pa Voce non ha, Non ha più cor. Lorenzo
(con timore) Che mai dirò AI Genitor?... Voce non ho,
Non ho più cor. Leandro (con circospezione) Il segno
di croce facciamoci... e andiam via! Quel vecchio è uno sgherro dell’
Inquisizione. Partiamo, fuggiamo... La belva più ria, E un angelo a
petto di questo demòne. Romane (ai Nobili) Non chiedo
ragioni di vostra contesa, Fra tenebre nacque... in tenebre resti;
E calmi la notte col sonno gli. ardori Di giovani folli, di stolti
furori.... Partite! Or è cauto lontani restar. Coro di
Nobili (infimoriti da Romano). Fuggiam dal feroce Vegliardo
Romano : Col fiato ne ammorba Il truce, l’insano; nea
Qui tutto è sospetto.... Amici, fuggìam. 1 NOBILI, it
CORO, LEANDRO e LAURA sì riti- rano pel ponte ed entrano nel Palazzo.
L’OSTE ha chiuso ed è scomparso durante la rissa, ROMANO fa un
cenno ai Servi di allontanarsi. SCENA III. ROMANO e
LORENZO Romano Vengo, tu il sai, da Roma; e il Santo
Re e Pontefice armava il braccio mio. ‘Or sotto il ferreo terribil
manto Della suprema Città di Dio L’ Inquisizione veneta sta;
E a Roma solo ubbidirà. Dell’ eresia le vampe infeste Soffocherò —.
tutte le teste D’ un colpo all’ idra io troncherò.
Lorenzo Fu il Campanella scoperto e preso? Romano
Libero ei 8° agita... Ma il gran sovrano De’ rei, che Italia e il mondo
ha acceso Contro la Chiesa santa, è Giordano.
Presso i suoi complici quì ascoso stà! Lorenzo Odio quel
uomo tanto... tel giuro. Romano Non basta odiarlo:
questo io non curo; Tu quì arrestarlo ora dovrai: (Musica da
ballo neil’interno del Palazzo) In fra le maschere lo
scoprirai, Ed il porrat — nelle mie man. Lorenzo Si
chiede un atto di traditor?... Romano Queste ai novizi prove si
dan. Lorenzo Tradir ricuso; son uom d’onor. Romano (con
sdegno) A me tu, folle, devi?... RANA RARA
pinete Lorenzo Obbedienza ! Homano Ed alia
Chiesa! Trema... . Lorenzo (soffocando il furore) Obbedienza!
Romano Dunque ?... Lorenzo (con sottomissione) Giordano io
scoprirò! Eomano (ricomponendosi) Tuci giovanili e schictti
Modi ti gioveran, se manca il senno Di età maggior, Tuo sguardo onestà;
ispira, K assai tua voce ad ascoltarti attira. Per la grand’ opra
non sarai solo, D’altri miei fidi 1’ aiuto avrai; Pronto a
miei cenni sempre sarai, Uno per ‘tutti sia il mio voler. Lorenzo
(con dolore) L’iniqua trama ahi mi colpisce! La terra,
il cielo pur n’ hanno orror!... Vile è colui, ch’ altri tradisce,
Nè v' ha pietade pel traditor. ERomano (imperioso)
Come voglio, sia fatto. Or d’ altro; è m'’ odi. Dal dì che ardenti
e improvidi Sguardi su Laura hai posti, Travolto dalla subita
Cicca passion tu fosti; N | Una rea febbre 1° agita
Tutte le membra o siolto, E vedo nel tuo volto Il
fuoco del delir. Bada! io ti scruto, o giovine, E leggo il tuo
desire; Guai se tal fiamma ignobile Io non vedrò svanire. Tu
sogni; ma chi vigila l'e per tuo ben consiglia; Dimentica mia
figlia, O trema del tuo ardir. (parte da sinistra
mentre sì volge ancora con fiero sguardo su LORENZO).
Lorenzo (con dolore): SO Solo alfin... solo quì sono...
Piangere, impallidir, tremar t’è dato sa Povero cor! Ma dannate in eterno
ei Son mie lacrime in lor foco d'inferno. Ci i . . 0 cielo, perchè
l’aere Fa A ._ ©. Spargi de’ tuoi profumi? CRT a O terra
perchè il giubilo. SA Delle tue stelle assumi? © nare:
A me negata è l'estasi. da D’ ogni dolcezza umana, No:
ae d'ogni gioia lè vana (ale EZIO Larva, che fugge ognor; TERIOS L’
amor che è riso d’ angioli, 0; Di Nel povero mio cor. i
Strazio divien di dèmone, WA Delirio agitator. pr | Amar non
posso... 0° AARON] eta P, ‘L'odio mi restag» SS CE ao ag Son
stretto a questa to; LR 1 sur aRatalità. EI _: Vò di te vincere.
| Con santo zelo, .. Servir vo’ il Cielo... E questa l’
ultima . «Mia volontà. (parte con fretta per il ponte).
‘ Cala la Vela. arnie, Affo
Secondo onere ge oi SALA NEL PALAZZO LOREDANO
Una splendida sala da Ballo nel Palazzo di Lore- dano a Venezia,
con colonnato per modo che si possa figurare l’accesso in altre sale.
Illuminazione splen- didissima. SCENA L Coro
degl’Invitati ($ acc incanto dell’ebbre sale!
Che ballo immenso! Sarà immortale. Quest’ è la reggia della
letizia; Il, paradiso. d’ ogni. delizia. Deh! non fuggire, tempo;
t’ arresta; Bearsi al lungo delir giocondo Della fatata splendida
festa Tutto in. Venezia vorrebbe il mondo. {Gl’invitati
s'allontanano in varie parti) SCENA ILL GIORDANO
entra con cautela e colla maschera in mano, poi gli amici.
drrezadzanzecezanconca n ionici oc. c0100 dna enricicondiizeotentoro
neo dan'ontooarcrroniòolo /Tasossignorcecanzaraanee Giordano
Quì ognun danza e delira Spensierato e demente. E niun
ragiona, E senno e cuore ha niuno. x tutto quì è in
periglio, ove il Leone Alato di San Marco Prostrato
dalla Santa Inquisizione Ai piè, scordò il ruggito Di
cui tremò per secoli ogni lito (volgendosi in fondo) Ecco
gli amici: ma assai lenti e scarsi. Alcuni dei Primi Luce!
Giordano Giustizia a tutti! E Primi E verità!
Alcuni dei Secondi [venendo oltre) Luce !
Giordano Giustizia a tutti
E Secondi E libertà! Giordano Grazie diletti
! Sian pochi i detti; Molta l’opra. A ingannar V'astuta Corio
Dei biechi Inquisitori Ho scelto queste sale Di Loredano. È pronto
ognuno ? Coro Ognuno! Giordano L’ ardir
pari del vero alla grandezza? Ed uniti? Coro Siam
tuoi, Giordano Bruno! Giordano e Coro Nel popol vero
s’ incominci 1’ opra: S° illumini! Bugiarda è la parola
Di Roma e il suo Re, che Dio si noma, Sull’ alma i Papi vogliono l’
impero Per posseder la terra; E coi libri e col
braccio tt Viva facciasi ovunque eterna
guerra Allo spirito, al verbo, a ogni menzogna, Con che farci suoi
schiavi Roma agogna SCENA III. DETTI e LAURA che
entra anelante dalla sinistra colla maschera in mano. |
Enura Signor, fuggite! Giordano Io? no! non fuggo. Coro
(insospettito) Fuggiamo.... È pazzo! (fuggono da va»ie aio
Giordano (con ira) Vili! Tu hai fede? (a Laura) ERaunna
(sempre ancelante) Gran Dio! In queste sale Circondavi un
estremo ‘ Periglio. Per voi tremo... Fuggite per pietà.
IIIEEZZZERETETTEZIEXIZZELUPPEE PE CETO CE TI CE CES CECI ICI IA CIT
ALIZICI AZIO LETO EI Va besasnza rea dI gra rirvarai tion
Giordano (simulando) Fuggir?... Da chi fuggire? Laura
Da tutti! I delatori, Cui fia virtù tradire, Vi cercano
là fuori... Son mille a me ben noti, Fierissimi e devoti
Al sacro Tribunal. Giordano (sorpreso) Mi
conoscete? Eguana A Padova Vi scorsi il«dì che
ardito Nel fiume vi gettaste, E un fanciullin tornaste Vivo
al materno sen. L’ Inquisizion seguiavi Co’ mille sgherri
suoi Per arrestarvi; e voi Tra il popolo festante Poteste in
un istante Securo allor fuggir. Giordano (simulando la
calma) Bruno era quegli, che allor miraste! Io non lo
sono!... Mal giudicaste, .i Laura (sorpresa)
Credetti... ho divinato! © ; Voi siete il gran filosofo.
Giordano Oh certo s’ è ingannato Il vostro giovin
cor. Laura Perdonate se un lembo alzo del velo, Che a
me vasconde... (solleva: dl velo) Io v' ho scoperto!... siete... Celarvi
non potete... Giordano E chi son io? Laura
Giordano Bruno, cittadin di Nola! SCENA IV.
(Durante quest’ultimo colloquio, LORENZO entra da destra, LEANDRO da
sinistra; si fermano in - fondo, e, non veduti funno alto di
attenzione). “erimmiberarisisaorizeoeee — Mi —
nisi bro aravrariszazazezea ripa paio :
Lorenza ngi Ho. in mani, alfin 1, dai i ‘Ch’ ha Italia
avvelenato; ‘Salvo da Ini mille: anime! a Il mondo mi sia. EH
9 Leandro (4. LormNZO | con simulata ironia) % TAL il
salverài, mia “tnamo, | 79) È quegli'il gran? ; Filosofo) di
Il celebre Giordanb. VESTA Dal Tribunal del Dèmoni Ù
401 1 PR. E O ARNO E ‘J RARE. | Baura (| ‘801 ‘presa vi
ala PISAE) | dia 39 DS IDE Lorenzo! dui GicoL..
(a o pi di te-che mai sarà? F a iI Gietiala
(con dolore) Fui tradito !..-Oh cerudoltà So IV I
Santo phrto) Tana ‘in Cactpnse deg Di palpiti, di
ladina , Tempo,non è, mio cuore; .: . ‘ Salvarlo, fat
Miracoli. DERE eo -0t devo ame l'amore. OL DI
Giordano © La luce tua mi sfolgora,
Fanciulla, nel pensiero; Se il mio profeta! Libero Trionferà
il mio vero. (poi fissando LORENZO) Quel volto! V° è
1’ immagine Impressa di Teresa... Misto è quel volto... e
annunziami La gioia ed il dolor! (Prendendo per mano
LORENZO) Giovane, dimmi: sei tu di Roma? La tua favella mel dice...
Parla! Dimmi: tua madre come sì noma? Teresa forse?
Lorenzo Teresa?... Sì! SCENA V. (In
fondo appare ROMANO con SERVI e SOLDATI poi vengono gl’Invitati).
Giordano L’ inquisizione! Oh quale orror! (a Lorenzo)
E tu con essa? Ah traditor! o Io a te la vita diedi... e la morte -
Tu, iniquo, appresti al Genitor!... A te l’ inferno schiuda le
porte... Sii maledetto, vil delator.
fekresrey=neoan0enencastecpregsoneeaossog@zor—rorerovrseereeeericrone cer
csvpirtetronertpariosonnen contiene nanenene Lorenzo
Tu... padre mio? Che mai feci io!... Padre, perdonami _Se pur
ancora ‘ Merto pietà. GU INVITATI che riappariscono da
destra e sinistra e detti. GI Envitati e Leandro
La festa è orrenda! Fuggiamo tutti; Qual tradimenti! >
> Keco distrutti --- Degl’ innocenti Gli almi
piacer. - HEomano Grazie, o Ciel! Nelle mie
mani Or Giordane io vedo tratto! Roma esulti...! Il suo desìo
Finalmente è soddisfatto. Lerenzo Orrenda infamia! Tu
il. padre mio?... Ah me infelice! Che mai fec? io! Padre,
perdonami... O Ciel, pietà! 2 ERA
EeIOrtitiezast:nuvo cene cen vinariesazyaza cc uPONPPA PESSANO MT RI
Laura (a GIORDANO) Delle amarezze il calice
Berrò con te, Giordano; Già in seno il duolo squarciami
Il core a brano a brano; Peno per te, pel figlio Mio
primo e solo amor. Leandro Oh come ovunque
penetra La santa Inquisizione ! Come sarà terribile La
sua imputazione ! In lui perdiamo un figlio, Che della patria
è onor. Giordano (4 LAURA) Ah no! Laura, non
piangere... Giordano ha l’alma forte ! Pel Vero è pronto a
vincere Il duolo pur di morte! Dio deh! ritorna il figlio
A Laura e al Genitor, Lorenzo Sento nel seno
piovermi D'un aspro duol le stille!... Il padre... oh! il padre
scorgere ab 0); Temon le mie pupille! Com'è
infelice un figlio Ribelle al genitor ! Romano
Entro mi serpe un fremito, Che mi sconvolge il core, Veggendo
quest’ eretico Di scismi banditore, Che, della
Chiesa*figlio, Divenne traditor! Leandro Tu
piangi?... Incauto, a Lui {affida Pel suo perdono; ma l’alma
infida Nel suo rimorso gran pena avrà. Coro (a LORENZO)
Che piangi?... Ognuno vile ti grida; Se’ un traditor; se’ un
parricida! Nè Dio, nè il mondo n’avran pietà. (I SOLDATI
circondano GIORDANO e cala la tela/. IITTTTAAEIAIII RA
CORTI IN ROMA Sala nel palazzo dell’Inquisizione. — In
fondo, nel mezzo della parete una cortina nera che chiudela scena,
— A sinistra una finestra aperta con ferriata. In fondo un tavolo
coperto con un tappeto nero, a cui siedono il grande INQUISITORE e DUE
SCRIVANI; ai lati siedono gl’INQUISITORI, e, di fronte, GIORDANO,
R0- MANO e LORENZO, — Porte a destra e a sinistra. Romano
{> iordano! Voi siete’ D’innanzi ai vostri giudici, al
supremo Tribunal della terra! E qui dovete, Smésso l’antico
stile, Risponder vero, obbediente, umile. “cà ra
G. Inquisitore Vostro nome è Giordan Bruno?
Giordano Di Nola. mrantsiorizea nano (199 AMDI
ATTI ANI ANAZANAZA NZ RATTI TIT IATA TERI ri
prenpanianananananarenaenzana G. Inquisitore Vi
conosciamo! Voi correste in terre D’eretici; lè in Praga, in Francoforte.
‘ E predicaste spesso agl’ infedeli La santissima Chiesa
dileggiando Di Roma, tutti i novator germani Esaltando. D’
Iddio 1’ essenza in false Forme sponeste; come v’ inspirava
Mal talento. D’ Iddio la legge in pubblici E in segreti convegni
commentaste; Le coscienze fùr guaste. Giordano
Mentite! Solo io dissi agli uomini Il mondo ha una
visiera Di antiche, immense tenebre ; Cerchi la luce vera.
Dio vuol che l’uomo spinga L’acuta sua pupilla Fin dove in cielo
brilla L’eterno suo splendor. Coro d’Inquisitori
D’ anime felle Empia utopia! Il tuo, ribelle, Un Dio
non è. Non ha che larve - Tua fantasia; .0 & gi
ver disparve ; “Se in eresia ft fo i AI fuoco, ‘al fuoco: ©
Sia condannato! 1 “REP carcer. poco, s ra ! tal OmpIO, egli
de (Si apre la cortina’ dalla’ quale ‘escono pina DTA io
GRANDE INQUISITORE, quindi ROMANO, poi gli SCRIVANI, ‘gi ISQUISITORI, ed
sea pIoR-SSf DANÒ accompagnato, dalle GUARDIE. : Gala la cortina e
solo LORENZO rimane în ‘scend), SCENA DÒ dt e Laura
01,3 (LAURA entra dalla' sinisird e presi itasi) di LORENZO
| in atto supplichevole). SÉ Roe dia eor ATI v
Rat Laura! moi (HI dÉ tia Koi i È &
Loréiizo i «105 si vo MREPSRI RATA GIL
Lorenzo Di ea DO Ur PA Ale 2 i sd Met: la "I Che
vuoi tut ot Raid) fai I nSetdi o SERRA 2 Senti la ToRe.e.
un uomo Rico tu soi. “ rE: Lorenzo
Tinura! Da me che brami? Sento straziarmi il cuore...
Laura Ah! tu il padre salvar déi, Se una belva ancor non
sei. Lorenzo Tact Laura! Il ver dicesti È
mio padre! Io lo sentìa Quando'.il labbro suo: terribile. Me
colpevole maledia. È mio padre! Ancor lo sento AI perenne! e
fier tormento.‘ ©’ Che m’ opprime e strazia il cor. Laura
| Pietà del misero. Tuo genitor. Lorenzo
L’accento tuo terribile E un dardo al traditor. ebic
Laura Lorenzo. it i #1) Ma shananorazi scenza
sanacenencacaee cena sane
oeanconeesccnionaacea—ea—e@ce0cui0reò’npsQa”ncceinci’’’ ne Agp
ipmpasrssssso— Lorenzo Nol posso! Laura
Va da me lungi, o perfido, Se nieghi al genitor
Salvar la vita. E sorga il dì terribile Che
ognuno, o traditor, Ti nieghi aita. Lorenzo
Taci!.... e che far poss’ io? Laura Aiutarmi a
salvarlo; tu lo puoi! ‘Ei fugga da quell’ orrida Fossa in serena
terra, Ove su lui degli uomini Taccia sì cruda guerra.
Ove un demén carnefice Non trovi nell’ amico, Nel figlio, un
traditor; Ove il sovran suo spirito Onnipotente e pio
Possa inalzarsi libero Di tutti al Padre, a Dio; E
riabbracciar qui un figlio, Che traviò pentito, Stringendolo al suo
cor. . pra, im
masasenananasasesc’poossoncostor09posporooscoesaesose®
Lorenzo Quell’ardire, che in volto a te
brilla, La speranza, la fede m' ispira: E una sacra, divina
favilla Della fiamma, che tarde nel cor. Raura e
Lorenzo (assieme) Con te nutro la credula speme, Che a
giustizia il trionfo sorrida; Siamo uniti per vincere insieme Od
insieme da forti morir. (partono). Muta la scena. — Carcere di GIORDANO
con porte in fondo: dentro vedesi un giaciglio di pietra, una seg-
giola ed un tavolo su cuì arde una lampada. — A sinistra una scala
da cui si accede agli Uftizii del- l’ Inquisizione. Giordane (seduto
sul giaciglio) «Ecco, o Roma, l’eretico In questo
tetro carcere rinchiuso !.... Del sangue suo dissetinsi
I tuoi Inquisitori Ebbri di gioia in lor ciechi furori!
(Gleaso Sul rabido rogo dall’empio innalzato La fiamma
divampa sanguigna e stridente, Ma in mezzo all'incendio securà
possente Del martire invitto la voce s’ udrà. Il rogo non
strugge — la libera idea; Ma, eterna fenice — risorge o sfavilla;
Del vasto creato — nel verbo s'inslilla Te
dense tenebre — del mondo a fugar. In mano ai carnefici — chi, miser, mi
trasse, Tu fosti, mio figlio; — tu sli maledetto ' 9 Ma no
maledirti, + ma no, nol poss’io: La morte è un trionfo — per me, figlio
mio! LORENZO apre con furia la porta del fondo che mette nel
carcere; indi entra anche LAURA. Entrambi «$0NO Raealii in domino nero
come i servi del- V’ Inquisizione. Lorenzo (di piedi
di GIORDANO) Padre mio! Tuo figlio... Giordano Non
sogno! Lorenzo Si, son io, ch’ hai maledetto ; Ma figlio tuo!
Ripeti un altra volta La tua maledizione i Coll’ accento d’ un
padre, ed al mio cuore Più cara suonerà di quel che fora Del
sacerdote la benedizione ; Ah! lasciami morir a pieid tuoi.
TIrCItIVISIÀ poorrcensersantisaazuztt=veSnII=TIERERA TATE conuaca riv ertaziori
(apusa ra rara zar sara ra bist enaneronesane ‘Giordano
Felice è un tal momento! A me t’ adusse Iddio; Ora tu sei
redento! M’ abbraccia, o figlio mio. Lorenzo
Padro' i] mio cuore un balsamo Nella tua voce trova!
Col tuo perdon risorgere Mi sembra a vita nuova.
Laura Redento il figlio, accoglierlo Ben può il paterno
core; Quale inattesa grazia !.., Disparve ogni terrore.
Mutti (inginocchiandosi) Gran Dio, che fra le
angoscie Apri a quest’ alma il riso, E mesci ai loro
spasimi In terra un paradiso. A te, che i santi
vincoli Riannodi di natura, Salga da queste mura
L’ inno de’ nostri cor. Giordano (STO ER Dal fondo del cor
mio 2/0 SARA Grazie a te sien, gran Dio! a Pi E
| re k » à, s ER wr: DETTI, e ROMANO, che presentasi
in cima della >° dente. Fissa collo sguardo
LORENZO, indi scende rapidamente. Lo seguono il GUARDIANO Retles
va x carceri e i SERVI del S. UHEIZIO: - da si ‘Romano <
È Come tu qui?... La figlia ancor Di vedo, ea Oh mio furore ' eco 3 F :
x Laura e Lorenzo 00 o O qual terror! > ua | » Romano
È ‘ Giiordano.. - Questa ou fatale a me una figlia nn
dio Spa ma a te la vita. (LEANDRO, il GUARDIANO delle carceri ei
SERVI. del S. UFFIZIO mascherati ed armati si ap- d
pressano). Lg i VEL 7 Pi AE Li
unisoseorevrespropeosovo ” Romano (a GIORDANO)
Trencar ti voglio, qual vile stelo ; Delle tue carni la terra e il
Cielo Io colle fiamme consolerò. Lorenzo Ed io fidato
m’ ero a tal jena ? Tutto l’inferno qui si scatena, E cielo e terra
han di te orror. Laura e Leandro Sublime martire! La
tua gran vita Tronca in un lampo tra l’infinita Gioia... Qual
strazio sento nel cor! Giordano Del mio carnefice sul volto
scritto Sta col livore il suo delitto; Solo dal Cielo
giustizia avrò. Romano (a° Soldati) Innanzi al Tribunal condotto
sia. Coro (Servi e Soldati) S'innalza un turbine
Di guai novelli. Su de’ fratelli —
Tratti in error. E l’empio eretico < «N° è lavcagionez
9:13 <L Maledizione Sul corruttor! Al rogo ignifico
‘ Condotto Sia. © Chi l’eresia Tra noi portò. . Legge
inviolabile Il turbolento A tal tormento Già condannò.
RIC FROCIO RA ATONTAITA Gran sala nel
Palazzo dell’Inquisizione in Roma... —. Nel fondo una Galleria apertà
sostenuta da colonne, fra ile quali: si, aprono grandi fin:stre che
lasciano tra- vedere le cupole e i colli di Roma. — Porta: a de-
stra e a sinistra. — Nelmazzo un tavolo con quattro candelabri. — Siedono
al tavolo il grande INQUI- SITORE, ROMANO e ) UE SCRIVANI. — DUE
SERVI «ai. lati, quindi gl’ INQUISITORI, i SCENA I.
Coro d'Inquisitori || |) eo nembo dall’aere piove Lupa ' Di
Giordano su:l’empia cervice! "Non v'ha niun che l’appelli
infelice, Non v'ha cor che si muova a pietà. Pronto è il
rogo, la fiamma divampa... E pur essa la vittima è pronta !
AI gran Nome Cristiano quest’onta. Or. dal fuoco purgata sarà.
} Giordano (appressandosi). O sommo Inquisitor! Giunta è
l'estrema Ora, che me a gran prova... al rogo....
appella! G. Inquisitore (alle guardie) Fuor della porta
vigilate ! (le guardie e i servi partono) O
Bruno Di Nola! Quest’ è 1’ ora che vi chiama Alla prova del
fuoco.... a morte.... 0 a vita Lieta d'ogni uom nel mondo! E a voi
concesso Ciò e’ ha nessuno fu giammai; la scelta Fra la vita e la
morte! Scegliete. E in, vostre man la vostra sorte!
Giordano (Mi tentan!) Che si vuol da ms? Parlate. G.
Inquisitore Qui in faccia a tutti, dichiararvi figlio Della
Romana Chiesa ora e in eterno E vi doniam la vita; rimarrete
Prigion; ma al figlio libertà darete! Giordano (Dèmone
tentator!) Nol vò.... nol posso! G. Inquisitore (qa RomaANO)]
Perduto! Udiste ?... La sentenza è data! (Parte coi servi,
Le guardie circondano GIORDANO e partono). i SCENA II.
Romano (in preda a soffocato sdegno). Cieco sirumento io sono
all’empie voglie Di costoro! Ubbidir sempre... e frattanto Spezzare
di mia figlia il vergin core, Serbando la mia vita al lutto e al
pianto! O Laura, tu l’adori D’averno il rio Filosofo, Che con
l'accento magico Tuo cuor conquise già. Or ei morrà sul
rogo!... Ma temo per mia figlia... Dal duol trafitta,
all’empio Vicina ella cadrà!... Senza la figlia, il padre Più
viver non potrà. To l’adoro! In lei Tiposi Ogni speme ed ogni
alta; La mia luce, la mia vita Con la sua si spegnerà. Volgi,
o Dio su me, su lei Un tuo sguardo protettor, E la figlia, che
perdei Deh! ridona al genitor. (ROMANO parte da sinistra e
nell'uscire si. moontra con LAURA).Laura (apprdssandosi ‘a ROMANO)
Ah! padre caro, mi benedici! Quel divin spirto, che t’empie il
core, Io pur lo sento! Odio i nemici Di quel gran ùomo;-che' giùsto
muore... Ma tu, che. il puoi, deh! tu lo salva;; Se Do, «con Lui io
morirò.: (Romano La rea fiamma, che in cor ti VE Per
chi scuote de’ Papi l’impero, Sulla fronte il delitto’ ti Stampa
Che tu svolgi nel cupo pensiero... “Salvo tu vuoi Giordano ?
Iniqua ! Nol sperar... tu Il chiedi > invano. i (parte)
Laura (con disperazione) Più di salvarlo non v' ha speranza!
L’ ala nel tempo batte spietata! . - Ah! la fatale ora 8°
avanza. i Con te Giordano io morirò. ( prende il veleno) A
morte infame traggono. ; L’ apostolo del vero; Ma dal suo rogo.
pallida; | La fiamma sorgerà. Che sovra. il cieco popolo...
La luce porterà; COLERE Nè più potrassi
spegnere Quel fuoco che foriero Sarà di libertà. |
Coro frecta judicate filù hominum Laura Quai voci
ascolto! Lugubre E questo il canto estremo, Ch’ ora al supplizio
adduce- L’ apostolo del Ver. Coro Recta judicate fili
hominum Laura Con te Giordano! Morir voglio! Al gaudio
tuo volar desio. {LORENZO e LEANDRO col corteo funebre s’inol- trano
nella scena. GIORDANO Tifo, le guardie si fa avanti nel mezzo).
Giordano Gran Dio! la vittima. Tu vedi pronta
Il rogo a scendere \a 1 1 Per la tua, fe; CERRI TERA ee
L'ira de’ perfidi, Ovunque. conta, Oggi terribile
Piombò su di me. Coro Etenim in corde iniquilates
operamini; Injustitias manus vestrae concinnant. Lorenzo
Si squarcino le tenebre Or dell’uman pensiero, E torni vivo
a splendere Il sol di verità, Che strugga alla tirannide L’
atroce maestà, E’ incenerisca i fulmini Del mistico nocchiero
Nella futura età.. Giordano e Leandro Da’ rei carnefici Il
rogo ardente Pel nuovo martire E posto là; Ma la
giustizia Di Dio clemente Le braccia schiudere A Lui vorrà.
| (GIORDANO circondato ddlle guardie parte col corteo.)
Leandro, Cero (partendo) In terra injustitias
manus. vestrae concinnant. LORENZO s’appressa a LAURA, che si
troverd, vicina. a ROMANO), i Lorenzo (con
disperazione) O Padre, addio. Per me l’estrema Ora fatale
suonata è già? Guarda tuo figlio, che più non trema Nel
vendicare la verità. A me di Laura l’amor fu tolto : Perchè
un mistero buio sognai... Ah! padre, credilo, tutto: ignorai; Solo
or la luce scorgo del Ver. ER omamno Lorenzo!
Lorenzo [trattosi dall’ abito uu pugnale, si ferisce)
Laura! Laura (riavendosi avvicinasi a LORENZO) Al gaudio Ei vola.
Romane (sorreggendo LORENZO) Serbate a quanti spasimi
E il povero mio cor? o aaravai -ercerecote e
merie—i ve oraconcorsoee «n - peacee -LilsSTFri= pone rete na dor e.
Lorenzo È tardi, o padre, il piangere. Anche Lorenzo...
muor! (gli cadde ai piedi). Romano. Odesi “una campana a lenti
rintocchi; avvicinandosi a LAURA e sorreggendola/ Orribil
pena mi strazia il core... Un disumano fui genitore...! Non v’ha
infelice al par di me! Laura (presso LORENZO) Lieta è
quest’ ora... della mia vita... Bel paradiso la via... m’ addita
Giordano.... Io volo... In ciel. con tel (Da una finestra vedonsi
le fiamme del rogo, ed un urlo di popolo annunzia la fine dello
spettacolo. Cala la tela. Refs.: Luigi Speranza, Bruniana. Filippo
Bruno. Giordano Bruno. Keywords: paganesimo ario, anti-catolecismo,
anti-papismo, filosofia come anti-religione, ragione, non fede, contra la fede,
fede irrazionale – irrazionalismo della religione, irrazionalismo, ario,
ariano, tradizione aria, religione pagana, filosofia e religione nella Roma
antica – irrazionalismo della religione antica romana – carattere metaforico
della religione pagana della Roma antica, ermetismo, composizione dei signi, de
signorum compositione, compositio signorum, asino,asinita, Spaventa, Giudice,
Cacciatore, Gentile, implicatura e ligatura, relativita, infigurabile,
indeterminabile, Grice, indeterminacy, open, implicature, il Bruno di Marlowe;
il Bruni di Shakespeare (Pene d’amore perdute), Grice e Bruno a Oxford. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Bruno” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Bruzi – I geti -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Squillace).
Filosofo italiano. Grice: “Cassiodoro was possibly a genius; I mean, I wrote a
logic, and so did he – but he was ‘consul’ on top! My favourite – and indeed,
the ONLY tract by him I recommend my tutees is his “Dialettica” – Strawson
prefers his “De anima,” but ‘anima’ is a confused notion, for Wittgenstein
and neo-Wittgensteinians alike – no souly ascription without behaviour that
manifests it! – whereas with ‘dialettica’ you are safe enough!” –Grice: “I
should be pointed out that of the three of the trivial arts – ‘dialettica’ is
the only one that deals with my topic, conversation or dia-logue – grammatical
is almost autistic, and rhetoric is for lawyers, i. e. sharks! Only
‘dialettica’ represents why those in the Lit. Hum. programme chose
‘philosophy’!” Grice: “Dialettica INCORPORATES all that grammatical and
rettorica can teach!” -- Cassiodoro Flavio Cassiodoro Gesta
TheodoriciFlaviusMagnus Aurelius Cassiodorus. Cassiodoro, da un manoscritto su
vellum del XII secolo. Magister officiorum del Regno Ostrogoto Durata mandato523533
MonarcaTeodorico il Grande (fino al 30 agosto 526) Atalarico (fino al 533)
PredecessoreSeverino Boezio Prefetto del pretorio d'Italia Durata mandato533533
MonarcaAtalarico SuccessoreVenanzio Opilione Durata mandato535537
MonarcaTeodato (fino all'autunno 536) Vitige (fino al maggio 540)
PredecessoreVenanzio Opilione Successore Fidelio Dati generali
Professionefilosofo Flavio Magno Aurelio Cassiodoro Senatore (latino: Flavius
Magnus Aurelius Cassiodorus Senator.
Visse sotto il regno degli ostrogoti. Percorse un'importante carriera
politica sotto il governo di Teodorico ricoprendo ruoli tanto vicini al
sovrano, da far pensare in passato ad un effettivo contributo diretto al
progetto del re ostrogoto. Successore di Boezio, oltre che consigliere, fu cancelliere
de Teodorico e il compilatore delle sue lettere ufficiali e dei provvedimenti
di legge. Collabora anche con i successori di Teodorico. Al termine della
guerra si stabilì in via definitiva presso Squillace, dove fondò la biblioteca
di Vivario. La fonte principale che ci permette di conoscere la famiglia di
Cassiodoro è data dalla sua più vasta e importante opera, le “Variae”. Nacque
in una delle più stimate famiglie dei Bruzi, facente parte del patriziato.
L'origine del nome è da ricercarsi in un luogo di culto dedicato a Giove. Da
una lettera scritta da Cassiodoro per Teodorico abbiamo notizie sui suoi
genitori, così come su un parente di nome Eliodoro. Dall'antica origine della
famiglia si può comprendere la scelta dei Bruzi come nuova patria, essendo
questa una zona della Magna Grecia. Si hanno notizie inoltre del suo bonno,
definito “vir illustris” e del nonno Senatore. Quest'ultimo fu tribuno sotto
Valentiniano III, e in qualità di ambasciatore conobbe il re degli Unni
Attila. Odoacre e Teodorico ritratti nelle Cronache di Norimberga. Al
padre furono indirizzate alcune lettere delle “Variae”, il che ci offre più
dati su di lui. Ricoprì il ruolo di comes rerum privatarum e successivamente di
comes sacrarum largitionum nel governo di Odoacre. Mantenne la propria
posizione di funzionario d'amministrazione anche sotto Teodorico, tanto da
diventare governatore provinciale. Lo si ritrova governatore della Sicilia, e
dopo essere entrato nelle grazie di Teodorico, governatore della Calabria,
quando si ritirerà alla sua villa. Così come per i suoi familiari,
ricaviamo notizie sulla vita di Cassiodoro solo dalle sue opere. La nascita e
quella indicata dal Tritemio nel suo “De scriptoribus” (Basilea 1494). Il
menologio lo ricorda il 25 settembre. Per quelli che, come Theodor Mommsen, non
ritengono attendibili i dati del Tritemio, le date di nascita e morte di
Cassiodoro rimangono ipotizzate, principalmente grazie a quelle note dei suoi
incarichi amministrativi; nonostante ciò molte cronache tendono a confondere
alcuni dati della vita di Cassiodoro con eventi vissuti dal padre, attribuendo
una grande longevità al letterato di Squillace. Proprio per quanto riguarda
Squillace, non è certo che vi nacque. Molto più probabilmente vi passò
l'infanzia, ricevendo dalla propria famiglia una prima educazione e seguendo
degli studi. Ancora giovane fu avviato dal padre alla carriera pubblica, per la
quale ricopre anzitutto il ruolo di “consiliarius”, per poi diventare quaestor
sacri palatii, forse perché Teodorico apprezza particolarmente un panegirico
che egli aveva composto. Poco tempo dopo ricevette il governatorato di
Lucania e Bruttii, notizia che si può apprendere da una lettera inviata al
cancellarius Vitaliano. Seguendo differenti interpretazioni storiche, questa
congettura è stata però di recente messa in dubbio. Risale la designazione a
console. Nonostante si trattasse ormai di una carica onorifica manteneva una
certa importanza, permettendolo di ricoprire il ruolo di eponimo. Dei anni
successivi non si conosce salvo la pubblicazione della Chronica.
Successivamente, fu nominato magister officiorum del re, succedendo nella
carica a Boezio. Il ruolo e di grande prestigio, e rappresenta con esso il capo
dell'amministrazione pubblica, degli official
e delle scholae palatinae. Alla morte di Teodorico, si apre una complessa fase di successione.
Divenne ministro della la figlia di Teodorico, succedutagli sul trono come
reggente per il figlio Atalarico. Presumibilmente perdette parte della sua
influenza nei primi anni di tali mutamenti politici, ma seppe poi riproporsi e,
con un lettera di Atalarico, guadagna il titolo di Prefetto del pretorio per
l'Italia. Non ricopre questo ruolo politico per molto tempo. Atalarico morì e
ai consueti problemi di successione si aggiunse la malvolenza di Giustiniano
verso gli ostrogoti, insofferenza che culminò poi con la guerra gotica. Resse
nuovamente la prefettura, sotto i re Teodato e Vitige, per poi abbandonare
definitivamente la carriera pubblica. Nelle Variae si possono trovare le ultime
lettere scritte per conto di Vitige, anche se non viene detto nulla sul
concludersi della sua funzione politica né si sa alcunché dei suoi successori.
Di fronte all'avanzata bizantina rimase dapprima in ritiro a Ravenna, luogo che
offriva ancora una certa sicurezza. Ravenna e conquistata dalle truppe
imperiali, e da quel momento si perdono le sue tracce. Le alternative vagliate
sono una permanenza a Squillace, dove però avrebbe avuto scarse possibilità di
movimento, o una permanenza più lunga a Ravenna. Lo si ritrova nel seguito di
papa Vigilio a Costantinopoli, città nella quale potrebbe anche aver
soggiornato, secondo una terza ipotesi, in un periodo precedente alla data
conosciuta. Rientrò nei Bruttii solo dopo la fine della guerra, ritiratosi
definitivamente dalla scena politica, fondò il monastero di Vivario presso
Squillace. Si hanno anche per questa parte della sua vita pochissime
informazioni, non si conoscono quindi le motivazioni che lo portarono alla
creazione di questa comunità monastica né particolari sulla contemporanea
situazione politica della penisola italica; per quanto riguarda la sua
situazione personale, si può ipotizzare che non ebbe eredi diretti. Al Vivarium
trascorse il resto dei suoi anni, dedicandosi allo studio e alla scrittura di
opere filosofiche. Qui istituì uno scriptorium per la raccolta e la copiatura
di manoscritti, che fu il modello a cui successivamente si ispirarono i studii.
Opera, il De ortographia. IL'obiettivo principale del progetto
politico-culturale di Cassiodoro fu quello di accreditare il regno teodericiano
come una restaurazione del Principato, ossia quella forma di governo che aveva
garantito la collaborazione, formalmente quasi paritaria, tra l'imperatore e la
classe senatoria. Questa autorappresentazione del governo goto serviva in primo
luogo come legittimazione del regno nei confronti dell'Impero
costantinopolitano. Sostanzialmente, essendosi conformato il regime ostrogoto
al modello imperiale, il primato dell'imperatore e fondato esclusivamente su un
piano carismatico (pulcherrimum decus). Al tempo stesso, tale imitazione da
parte di Teoderico poneva l'Amalo in una posizione di superiorità nei confronti
degli altri regni barbarici attraverso un principio politico-carismatico,
basato su una gerarchia di due livelli (l'impero e il regno di Teoderico, gli
altri regni), con un vertice binario e leggermente asimmetrico. Tra tutti gli
altri dominantes, Teoderico era il solo che, per volontà divina, aveva saputo
dare al suo regno gli stessi fondamenti etici e legali dell’imperium: il suo
regno era una replica perfetta del modello imitato e a sua volta un
modello.» (Andrea Giardina[43]) La prospettiva di Cassiodoro, infatti,
non è più l'impero universale, bensì quella nazionale dell'Italia
romano-ostrogota, autonoma ed egemone rispetto agli altri regni occidentali,
sebbene siano state avanzate riserve circa la reale ambizione di Teoderico di
assumere l'eredità del decaduto Impero romano d'Occidente. In particolare, il
fondamento dell'ideologia cassiodoriana ruota intorno al concetto di
“civilitas”, che indica tanto il rispetto delle leggi e dei princìpi della
romanità, quanto la convivenza sociale, giuridica ed economica di romani e
stranieri fondata sulle leggi. Secondo Cassiodoro, il regno goto si sarebbe
fatto custode della civilitas, garantendo così la giustizia e la pace sociale
(l’otiosa tranquillitas, cioè l'obiettivo di ogni buon governo), in accordo con
la legge divina e la migliore tradizione imperiale romana. Il richiamo
all'ideologia del Principato da parte di Teoderico e Atalarico si basa, nella
fattispecie, sull'emulazione della figura di Traiano, così come tratteggiata
nel Panegirico di Plinio il Giovane. Con il regno di Teodato, invece, il
principale modello di riferimento fu quello dell'”imperatore-filosofo” -- un
ideale etico-politico ampiamente imbevuto di caratteri neoplatonici. In
seguito, nell'impellenza della guerra greco-gotica, Vitige si distinse per il
recupero di un'ideologia più specificamente germanica, in cui e messi in
risalto le virtù bellica e l'ardore guerriero. San Benedetto da
Norcia. Inoltre esiste la possibilità
che un primo abbozzo di ciò che sarebbe diventato il monastero esistesse già da
tempo, presente nei territori di Squillace da una data sconosciuta e utilizzato
come residenza da Cassiodoro solo al ritorno in patria dopo la guerra gotica.
Ad ogni modo non aiuta nelle varie ipotesi il silenzio delle fonti, poiché le
Variae erano state già pubblicate e nessuna delle opere dell'ormai ex politico
trattò di questa fondazione; nulla si conosce sul parto di questo progetto, né
quando quest'idea fosse stata concepita.[59] Nonostante si intuisca dalle
ultime opere di Cassiodoro un avvicinamento potente alla fede cristiana (si
pensi al De anima e all'Expositio Psalmorum[60]), il monastero di Vivario
nacque con uno scopo differente dal celebre Ora et labora: l'obiettivo
principale del nucleo monastico fu infatti la copiatura, la conservazione,
scrittura e studio dei volumi contenenti testi dei classici e della patristica
occidentale. La caratteristica di Vivarium era quindi la sua forma di
scriptorium, con le annesse problematiche di rifornimento materiali, studio
delle tecniche di scrittura e fatiche economiche. I codici e manoscritti
prodotti nel monastero raggiunsero una certa popolarità e furono molto
richiesti. Le forme entro cui si espresse invece l'organizzazione monastica dal
punto di vista religioso sono ben poco chiare, né aiuta l'assenza di
riferimenti alla vicina esperienza di Benedetto da Norcia; forse Cassiodoro non
ne conobbe neppure l'esistenza, o potrebbe averne parlato in opere non
giunteci. Alcuni storici avanzano l'ipotesi che la Regula magistri, su cui si
basa la Regola benedettina, sia addirittura opera dello stesso Cassiodoro.
Questo presunto rapporto tra i due è però generalmente rigettato dagli
studiosi, anche alla luce di alcune citazioni provenienti dalle Institutiones
che chiariscono le norme monastiche adottate da Vivarium:[64] «Voi tutti
che vivete rinchiusi entro le mura del monastero osservate, pertanto, sia le
regole dei Padri sia gli ordini del vostro superiore e portate a compimento
volentieri i comandi che vi vengono dati per la vostra salvezza... Prima di
tutto accogliete i pellegrini, fate l'elemosina, vestite gli ignudi, spezzate
il pane agli affamati, poiché si può dire veramente consolato colui che consola
i miseri.» (Cassiodoro, Institutiones.[65]) Ritratto del profeta
Esdra nel quale per molto tempo si riconobbe la figura di Cassiodoro, contenuto
nel Codex Amiatinus. Questa citazione mostra come Vivarium seguisse quindi le
più comuni regole monastiche contemporanee, mentre altri passaggi delle
Institutiones ci suggeriscono un ruolo laico per Cassiodoro, forse esterno alla
vita monastica e puramente patronale Il vero centro vitale di Vivarium
era, particolare che segna la differenza con ogni altro centro monastico, la
biblioteca. Cassiodoro distingue inoltre i libri del monastero da quelli
personali, differenza poi scomparsa in un periodo successivo. E la biblioteca,
infatti, come centro di cultura di tutto il monastero, la novità del suo
programma, una biblioteca nata ed accresciuta secondo le intenzioni del
fondatore che dei suoi libri conosceva non solo la sistemazione, perché l'aveva
curata personalmente, ma anche i testi, perché li aveva studiati, annotati,
arricchiti di segni critici, riuniti insieme secondo la materia in essi
trattata e persino abbelliti esteriormente. Il monastero prende nome da una
serie di vivai di pesci fatti preparare dallo stesso Cassiodoro. La loro
presenza rappresentava un forte valore simbolico, legato al concetto di Cristo
come Ichthys. Non lontano dal centro si trovava una zona per anacoreti,
riservata a monaci con pregresse esperienze di vita cenobitica. Vivarium
sorgeva, secondo gli studi ad oggi compiuti, nella contrada San Martino di
Copanello, nei pressi del fiume Alessi. In quella zona fu ritrovato un
sarcofago datato VI secolo, associato a graffiti devozionali e subito
considerato la sepoltura originale di Cassiodoro. Per ciò che riguarda la
ripartizione del lavoro, i monaci inadatti a seguire la biblioteca con annessi
oneri intellettuali sono destilla coltivazioni di orti e campi, mentre i
letterati si occupavano dello studio delle sette arti liberali (dialettica,
retorica, grammatica, musica, geometria, aritmetica, astrologia) questi ultimi
erano divisi in notarii, rilegatori e traduttori. Le opere di carità erano
espressamente raccomandate dal fondatore, e legati a queste fiorivano gli studi
di medicina. Cassiodoro fece preparare tre edizioni differenti della Bibbia e
si occupò di copiature e riscritture di molti altri testi della cristianità,
considerando tutto ciò una vera e propria opera di predicazione. Non mancano
però nella biblioteca di Vivarium i testi profani: tra gli altri furono salvati
grazie all'opera di Cassiodoro le Antiquitates di Flavio Giuseppe e l'Historia
tripartita. Le opere di Cassiodoro del periodo di Teodorico, quelle da noi
conosciute, sono tre: le Laudes, la Chronica e l'Historia Gothorum. Della prima
si sono conservati solo due frammenti, mentre della Gothorum Historia rimane
solo un'epitome a opera dello storico Giordane. La Chronica racconta la saga
dei poteri temporali di tutta la storia, dai sovrani assiri sino ai consoli del
tardo Impero, passando ovviamente per tutta la storia romana. Possediamo un
frammento di un'ulteriore opera, l'Ordo generis Cassiodororum, che ci offre
notizie sulla famiglia dell'autore. Tra la produzione di Cassiodoro occupano un
posto speciale le Variae, raccolta di documenti ufficiali scritti i quali ci
offrono quindi informazioni su differenti periodi della vita dell'autore e
sulla storia dei Goti. A queste si può aggiungere il “De Anima”, opera per la
prima volta lontana da interessi politici e invece basata su temi della
filosofia psicologica. Il terreno religioso è battuto anche dalla successiva
Expositio Psalmorum, commento ai salmi di particolare importanza poiché unico
esempio pervenutoci dal mondo tardo antico. Al periodo di Vivarium appartengono
tra le opere a noi giunte, le Institutiones, le Complexiones in epistolas Beati
Pauli e le Complexiones in epistolas catholicas, le Complexiones actuum
apostolorum et in Apocalypsi e il De ortographia. La prima, senza dubbio
l'opera più importante di Cassiodoro, è datata in un periodo in cui il centro
monastico era sicuramente avviato; rappresenta sostanzialmente una
"guida" per gli studi nel monastero, è ricca di informazioni sulla
vita dei monaci e sulle opere intellettuali da loro compiute. Il De ortographia
sarà la sua ultima opera, scritta attorno ai novant'anni. Uno scritto di
chiari intenti politici è la Chronica, una sorta di storia universale scritta
nel 519 su richiesta per celebrare il consolato di Eutarico Cillica (diviso con
l'Imperatore Giustino), genero di Teodorico e designato al trono. Il sovrano
d'Italia non aveva eredi maschi mentre Eutarico, sposandone la figlia
Amalasunta, era riuscito a donargli un nipote, Atalarico. Alla luce di questa
nuova dinastia, la scelta di offrire il ruolo di console a Eutarico
rappresentava quindi un importante evento politico: si trattava della celebrata
unione tra i romani ed i goti, progetto che poi fallirà tragicamente. L'opera,
che come comprensibile dal titolo ha chiari fini storici, propone una
successione dei grandi poteri politici succedutisi nella storia, passando da
Adamo sino ad approdare al 519 con Eutarico. È basata su numerose fonti che
Cassiodoro spesso cita quali Eusebio, Gerolamo, Livio, Aufidio Basso, Vittorio
Aquitano e Prospero d'Aquitania. Per la trattazione successiva al 496 invece
l'autore è autonomo. L'elemento dell'opera che maggiormente colpisce è il suo
carattere spiccatamente filo-gotico. Cassiodoro arriva a manipolare alcuni
eventi storici o a farne addirittura scomparire altri, al fine di non far
apparire i Goti sotto un'oscura luce. Historia Gothorum Re Davide
vincitore in una miniatura dall'Expositio Psalmorum, presente nell'edizione del
Cassiodoro di Durham. Una delle sue opere più importanti fu il De origine
actibusque Getarum (più noto come Historia Gothorum) in 12 libri, nel quale la
sua ideologia filogotica era tracciata e sviluppata in maniera più
organica.[83] Si considera l'opera contemporanea o poco successiva alla
Chronica, anche se più studiosi tendono a ritenerla più recente, forse composta
tra il 526 e il 533. Certamente la stesura fu caldeggiata da Teoderico, per
essere infine pubblicata sotto Atalarico. Nonostante ciò essa ci è pervenuta
solo nella versione ridotta dello storico Giordane, i Getica. Prima storia
nazionale di un popolo barbarico, la Historia Gothorum era tesa a glorificare
la dinastia degli Amali, la stirpe regnante, attraverso una ricostruzione della
storia dei Goti dalle origini ai tempi presenti. Il tentativo più ardito
dell'opera fucome emerge dal titolo stessol'identificazione dei Goti con i
“geti” -- popolazione già nota a Erodoto e maggiormente conosciuta dal mondo
romano. Il racconto narra eventi storici e come scopo ha inoltre quello di
celebrare l'unione tra goti e romani, qui comprovata dal matrimonio tra il
romano Germano Giustino e l'amala Matasunta. Il fine ultimo dell'opera lo
svelaper bocca di Atalarico Cassiodoro stesso. Questi Cassiodoro ha sottratto i
re dei Goti al lungo oblio in cui li aveva nascosti l'antichità. Questi ha
ridato agli Amali la gloria della loro stirpe, dimostrando chiaramente che noi
siamo stirpe regale da diciassette generazioni. L'origine dei goti egli ha reso
storia romana, quasi raccogliendo in una corona fiori prima sparsi qua e là nel
campo dei libri. Dell’Ordo generis Cassiodororum rimane un solo frammento in
più copie. Il l testo, dalla difficile interpretazione, fu composto negli
anni della carriera pubblica di Cassiodoro ed è dedicato a Rufio Petronio
Nicomaco Cetego. L'opera offre rare notizie sulla famiglia di Cassiodoro, in
particolare sul padre; nelle poche righe centrali vengono nominche Boezio e
Simmaco, il che farebbe pensare ad un qualche grado di parentela tra l'autore e
queste due figure, impossibile attualmente da stabilire. La sua attività di
funzionario al servizio del regno goto è testimoniata dalle Variae, una
raccolta di lettere e documenti, redatti in nome dei sovrani o trasmessi a
firma dell'autore stesso in un arco di tempo che va dall’assunzione della
questura al termine della carica di prefetto al pretorio. Il titolo come
l'autore spiega nella prefazione all'opera è dovuto alla “varietà” degli stili
letterari impiegati nei documenti del corpus, il quale divenne successivamente
un riferimento per lo stile cancelleresco e curiale. Espone nella praefatio
dell'opera il fine di questa raccolta di testi, ovvero la necessità di fornire
nozioni utili a chiunque si dovesse in futuro accostare alla carriera pubblica.
Ulteriore obiettivo dichiarato è quello di far conoscere i propri trascorsi
come membro del ceto dirigente.Le Variae sono assai utili per conoscere le istituzioni,
le condizioni politiche, morali e sociali sia dei Goti sia dei Romani
dell'Italia del tempo.[85] De anima Cominciato poco prima della
conclusione delle Variae, il “De anima” è considerato da Cassiodoro come una
sorta di tredicesimo volume per quest'opera, quasi ne rappresentasse
l'appendice. Affronta temi esterni al mondo della politica, avvicinandosi agli
stessi interessi spirituali che poi toccherà con la Expositio Psalmorum. Il “De
anima” si dipana su dodici questioni, tra le quali l'incorporeità e il destino
dell'anima, legata alla tradizione di Tertulliano, Agostino e Claudiano
Mamerto. Anche per l’Expositio Psalmorum non è possibile dare una datazione
certa, anche perché la sua composizione sembra essere stata portata avanti per
un periodo abbastanza prolungato. Si tratta di un commento completo ai salmi,
unico esemplare rimastoci da tutta la tarda antichità. Per mole è certamente
l'opera maggiore di Cassiodoro, anche se non viene considerata la più matura
tra le sue produzioni. Una più ampia influenza nel Medioevo ebbero le sue
Istituzioni, “Institutiones divinarum et saecularium litterarum”, erudita
introduzione alle sette arti liberali – dialettica, retorica, grammatical –
musica, geomtrica, aritmetica. Progettata dopo che la richiesta di Cassiodoro
per la fondazione di un'studi ricevette una risposta negativa da papa Agapito
I, l'opera visse un lungo periodo di incubazione: basti pensare che al suo
interno cita il De orthographia, ultima opera attestata di Cassiodoro. Il
lavoro su questa enciclopedia si suddivide in varie sezioni: la prima presenta
i vari libri della Bibbia, la storia della Chiesa e degli studi teologici; la
seconda si occupa di quelle arti incluse successivamente nel trivio e
quadrivio, con un occhio rivolto alla cultura pagana e alle norme atte per
trascrivere correttamente gli antichi. Altre opere sono citate direttamente da
Cassiodoro nel De orthographia. Complexiones in Epistolas et Acta apostolorum
et Apocalypsin; si tratta di un commento ad alcuni passi degli Atti degli
Apostoli e dell'Apocalisse di Giovanni Expositio epistolae ad Romanos (Commento
alla lettera dei Romani). Liber memorialis; breve riassunto del contenuto della
Sacra Scrittura. Historia ecclesiastica tripartita, di cui fu autore della sola
prefazione. De orthographia; trattato destinato a fissare norme e regole per la
trascrizione di scritti antichi e moderni. Senator è parte integrante del nome
e non già designazione della carica pubblica (Momigliano, 1978, 494-504; Momigliano, 1980487). Le ipotesi che vogliono Cassiodoro
organizzatore e stratega nascosto dietro Teodorico sono ad oggi considerate
generalmente infondate, superate dalla tradizione che vede Cassiodoro estraneo
alla politica del regno; Cardini, 2009109.
Cardini, 200911; Abbate, Cardini, Momigliano, 1980487. In Siria si trovano attestati i nomi
Κασιόδωρος e Κασσιόδωρος. Cassiodoro, Variae, I, 3. Noto come Mons Cassius, da questo deriva
Kassiodoros, ovvero "Dono del Monte Cassio". Cardini,
200972. Cassiodoro, Variae, I, 4. Cassiodoro, Variae18. Onore guadagnato forse per la difesa della
Calabria dai Vandali di Genserico nel 404.
Michel Rouche, IV- Il grande scontro (375-435), in Attila, I
protagonisti della storia, traduzione di Marianna Matullo, 14, Pioltello (MI), Salerno Editrice,, 87,
2531-5609 (WC ACNP). Cardini, 200974. Tuttavia non si conosce né la data in cui
ricoprì la carica né il nome della provincia. Cardini, 200975. Il nome stesso di Cassiodoro viene riportato
solo nelle lettere dei papi Gelasio, Giovanni II e Vigilio. In Cardini, 2009, 75-76 ci si sofferma su dizionari e prontuari
la cui affidabilità è considerata generalmente affidabile; in particolare si
cita l'opera Lessico classico di Federico Lübker. Cardini, 2009, 75-76; a novant'anni scriverà ad esempio nel
Vivarium un trattato di ortografia. Franceschini, 200830. Cardini,
200976. Cassiodoro, Ordo generis, 27-32; si tratta di una carica pubblica con
funzioni di consigliere. Cassiodoro,
Variae, IX, 24. Cassiodoro, Variae, IX, 39. Cardini. La congettura
si basa su un passo delle Variae, in cui però Cassiodoro non afferma
esplicitamente di essere stato governatore dei Bruzi. Questa ipotesi è stata
rimessa in discussione da Andrea Giardina e Franco Cardini (Giardina, 2006, 23-24;Cardini, Aveva cioè la possibilità di
dare il proprio nome all'anno, unitamente a quello del collega. Cardini,
200978. Cassiodoro, Variae, IX, 24-25.
Ghisalberti, 200238. Ovvero le
segreterie imperiali (officia memoriae, epistularum, libellorum e
admissionum). Si tratta del corpo
militare speciale incaricato di sorvegliare la corte imperiale. Non si è certi se fosse stato nominato
prefetto del pretorio per la prima o seconda volta. Cardini, Cassiodoro,
Variae, X, 33-34. Cassiodoro, Variae,
XII, 16-24. Momigliano, 1978495;
Cardini, 2009, 79-80. Cardini,
2009, 81. Cardini, 2009, Cardini, 2009, 84.
Reydellet, Giardina, 2006,
116-141. Cassiodoro, Variae, I
1,2-3, su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de 1º luglio ).. Giardina, 2006122. Teillet,,
281-303. Dietrich Claude, Universale
und partikulare Züge in der Politik Theoderichs, in «Francia»,Reydellet,
1995292. Wolfram, 1990295. Cassiodoro, Variae, IX 14,8: Gothorum laus
est civilitas custodita., su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de (archiviato dall'url
originale l'8 luglio ).. Cassiodoro,
Variae, II 29,1: regnantis est gloria subiectorum otiosa tranquillitas., su
bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de 13 luglio )..
Cassiodoro, Variae, IV 33, su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de (archiviato
dall'url originale l'11 luglio )..
Reydellet, Anonimo Valesiano, II 60: a Romanis Traianus vel
Valentinianus, quorum tempora sectatus est, appellaretur.. Cassiodoro, Variae, VIII 3,5: Ecce Traiani
vestri clarum saeculis reparamus exemplum., su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de 7
luglio ).. Cassiodoro, Variae, VIII
13,3-5: Non sunt imparia tempora nostra transactis: habemus sequaces aemulosque
priscorum. (...) Redde nunc Plinium et sume Traianum. (...) Bonus princeps ille
est, cui licet pro iustitia loqui, et contra tyrannicae feritatis indicium
audire nolle constituta veterum sanctionum. Renovamus certe dictum illud
celeberrimum Traiani: sume dictationem, si bonus fuero, pro re publica et me,
si malus, pro re publica in me.., su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de (archiviato
dall'url originale l'8 luglio )..
Reydellet, 1981, 248-250. Vitiello, 2006, 111-222.
Reydellet, 1981, 250-253. Vitiello, Cardini, Cassiodoro, Expositio
Psalmorum, praef 1-5. Cardini, Cardini, Pellegrini, 200523. Cardini, 2009, 141-142. Cassiodoro, Istituzioni, I,
XXXII, 1. Cardini, 20092. Cassiodoro, Istituzioni, I, XXIX. Cardini, 2009142. Cassiodoro, Istituzioni, I, IV, 4. Cassiodoro, Istituzioni, I, VIII, 14. Cassiodoro, Istituzioni, I, XXXII, 2. Cassiodoro, Istituzioni, II, II, 10. Questo porta gli studiosi a ipotizzare una
maggior partecipazione di Cassiodoro al progetto. Cassiodoro, Istituzioni34. Cardini, 2009143. Cardini, Cardini, 2009145. Coloro che preparavano i testi per la
trascrizione. Cassiodoro, Istituzioni,
I, XXX, 3. Cassiodoro, Istituzioni, I, VIII, 3.
Cardini, 2009146. Cardini, 2009148. Cardini, 200986. Cardini, Cardini, Cardini, 200992.
Cardini, 200993. Altaner, 1944341. Ceserani, 197976. Cardini, Cardini, 200985. Eutarico morirà infatti nel 522. La cronaca è un genere letterario
caratterizzato dall'esposizione di fatti storici in ordine cronologico. Simonetti, 2006101. Moorhead, Cassiodoro, Variae, IX, 25. De origine actibusque Getarum, in sessanta
capitoli. «La Historia Gothorum occupa
un posto di rilievo nella storia della cultura occidentale perché fu la prima
storia nazionale di un popolo barbarico: in tal senso essa introduce veramente
il medioevo». Simonetti, 2006102.
Simonetti, 2006, 101-102. Germano Giustino faceva parte della Gens
Anicia, mentre Matasunta era nipote di Teodorico. Cardini, 200987. ...originem Gothicam
historiam fecit esse Romanam...
Cassiodoro, Variae, IX, 25, 5. Cardini, 200988. Il frammento è noto anche come Anecdoton
Holderi; edizione critica e traduzione francese in Alain Galonnier,
"Anecdoton Holderi ou Ordo generis Cassiodororum: introduction, édition,
traduction et commentaire", Antiquité tardive, Cardini, Cassiodoro, Variae27. Cassiodoro, Variae, XI, 7. Cardini, Momigliano, Istituzioni delle
lettere sacre e profane. Cardini,
200994. Cardini, 200995. Muse,
Cassiodoro, Istituzioni15. Opere di
Cassiodoro Expositio Psalmorum, M.A. Adriaen, 1958. Le Cronache, Mirko
Rizzotto, Gerenzano, Runde Taarn, 2007. Le Istituzioni, Antonio Caruso, Roma,
Vivere in, 2003. Le Istituzioni, Mauro Donnini, Città Nuova, Ordo generis
Cassiodororum, Lorenzo Viscido, M. D'Auria, Variae (traduzione parziale),
Lorenzo Viscido, Squillace, Pellegrini Editore, 2005. De Orthographia,
Tradizione manoscritta, fortuna, edizione critica Patrizia Stoppacci, Firenze,
Sismel-Edizioni del Galluzzo, (Società
internazionale per lo studio del Medioevo latino). Expositio Psalmorum. Volume
I, Tradizione manoscritta, fortuna, edizione critica Patrizia Stoppacci,
Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo,
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vertigine dei tempi di ieri e oggi, Soveria Mannelli, 1998. Giuseppe Centonze,
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Cassiodorus Jordanes and the History of the Goths: Studies in a Migration Myth,
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Practical Sciences, in: Vivarium in Context, Vicenza, Centre for Medieval
Studies Leonard Boyle, 2008,
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Letteratura Latina dell'Età Imperiale, Milano, BUR); Manlio Simonetti, Romani e
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Carocci. Opere di Cassiodoro, su digilibLT, Università degli Studi del Piemonte
Orientale Amedeo Avogadro. Opere di
Cassiodoro / Cassiodoro (altra versione) / Cassiodoro (altra versione), su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Cassiodoro,. Opere di Cassiodoro, su
Progetto Gutenberg. Cassiodoro, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton
Company. Opere di Cassiodoro nella
Patrologia Latina del Migne Opere di Cassiodoro nella Bibliotheca Augustana, su
hs-augsburg.de. Monvmenta Germaniae Historica, Societas Aperiendis Fontibvs
Rerum Germanicarvm Medii Aevi, Avctorum Antiqvissorum Tomus XII, Berolini apud
Weidmannos 1894: Cassiodori Senatoris Variae, recensvit Theodorvs Mommsen,
accedvnt I. Epistvlae theodericianae variae edidit Th. Mommsen. II. Acta
synhodorvm habitarvm Romae A. edidit Th.
Mommsen. III. Cassiodori orationvm reliqviae edidit Lvd. Travbe. Sito ufficiale
del Premio Cassiodoro, su premiocassiodoro.eu. Aggiornamenti sul sito di
Vivarium (fondazioni monastiche di Cassiodoro), su centreleonardboyle. La
fontana di Cassiodoro, su centreleonardboyle.com). Beatus Cassiodorus e La fama
sanctitatis di Cassiodoro Sulla fama di santità di Cassiodoro nel Medioevo.
Vivarium in Context Archiviato il 4 giugno
in.. Scheda libro con recensioni dei saggi di S.J. Barnish e L. Cracco
Ruggini citati nella. Le dignità de' Consoli e de gl'Imperadori, e i fatti de'
Romani, e dell'accrescimento dell'Imperio, ridotti a compendio da Sesto Ruffo,
e similmente da Cassiodoro, e da M. L. Dolce tradotti & ampliati, appresso
Gabriel Giolito de' Ferrari, Venezia). Storici romani Antica Roma Antica Roma Biografie Biografie Cristianesimo Cristianesimo Letteratura Letteratura Lingua latina Lingua latina Medioevo Medioevo Categorie: Politici romani del VI
secoloLetterati romaniStorici romaniComites rerum privatarumComites sacrarum
largitionumConsoli medievali romaniCorrectores Lucaniae et BruttiorumMagistri
officiorumPrefetti del pretorio d'ItaliaScrittori. Grice: “The English had
taught Italians that it’s not fair to call Cicero an Italian, or Pythagoras,
for that matter, since this all happened before Garibalid! I’m glad the
Italians never learned the lesson!” --
MAGNI AURELII CASSIODORI SENATORIS De Artibus ac Diſciplinis
Liberalium Litterarum, PR Æ FATI O. vism lectioni 33. titulis Prov. 8.28.
Erionum 7. tartiem titke nec men wa/ > nec 716m2To Liberdivina UPERIOR
liber, Domino præſtan- fuam cubitum unum? Item IſaiasPropheta dicit: 16.40.1:.,
S | licet divinarum continet lectionum manu. Rurſus creatura Dei probatur facta
ſub comprebējus. hic triginta tribu's titulis noſcitur pondere;ſicut ait in
Proverbiis Salomon: Ei li. coinprehenſus. Qui numerus ætati Dominice brabat
fontesaquarum; & paulo poft: Quando probatur accommodus, quando mundo
peccatis appendebar fundamenta terra, cum eo eram. mortuo æternam vitam
præſtitit, & præmia cre- Quapropter opere Dei fingularizato, magnifi Hic
liber ſce- dentibus ſine fine concellit. Nunctempus eſt, cæ res neceſſariâ
definitioneconcluſæ ſuntut; fi cularium le- ut aliis ſeptein titulis ſæcularium
lectionum præ- cut eum omnia condidiffe credimus: ita & quem ſentis
libritextuin percurrere debeamus; qui ta- admodun facta ſunt,
aliquatenusdiſcerenus. lis abfolue men calculus per ſeptiinanas fibimet
ſuccedentes Unde datur intelligi mala opera diaboli nec Opera diabolt tur,
& cur in ſe continue revolutus, uſque ad totius orbis pondere, nec menfura,
nec numero cortineri: nec pondere, finem ſemper extenditur. quoniam quicquid
agit iniquitas, juſtitie ſein Defeptenario Sciendum eft plane, quoniam
frequenter quic- per adverſum eſt; ſicut & tertius deciinus Pſalmus
continentur. numero, quid continuam atqueperpetuum Scriptura fan- meminit,
dicens: Contritio, ú infelicitas in viis Pfal. 13.30 quid feript.o. ita
vultintelligi, fub iſto numero comprehendit; corum, á viam pacis non
cognoverunt: non eſt ia Super cum ficut dicit David: Septies in dielaudem
dixitibi; timor Dei anteoculos eorum. Ifaias quoque dicit: intel'iyat. Plal.
118. cùm tamen alibi profiteatur: Benedicam Domi- Dereliquerunt Deuin Sabaoth,
& ambulaverunt 164. numin omni tempore: femper lausejus in ore meo. per
vias diſtortas. Revera mirabilis, & fummè Et Salomon: Sapientia edificavit
fibi domum, ſapiens Deus, qui omnes creaturas ſuas ſingulari excidit columnas
feptem. In Exodo quoque dixit moderatione diſtinxit: ne aliquid eorumfæda
fingulari Doininus ad Moyſen: Facies lucernas ſeptem, & confuſio pollideret.
Unde Pater Auguſtinus in deratione dio Exod.05.37. pones easſuper candelabrum,
ut luceant ex adver- libro 4. de Geneli ad litterain minatifinè difpu-
ftinxerit? Apocal. 1.4. fo. Quem numerum Apocalypfis in diverfis re tavit. bus
omnino commeinorat; qui tamen calculus Modd jamſecundi voluminis intremus
initia, adillud nos æternum tempus trahit,quod non po- quæ paulò diligentiùs
audiamus; * Intentus no- *Hicincipiño teſt habere defectú. Meritò ergo ibi
femper com- bis elt de arte Grammatica, tive Rhetorica, vel MSS. codd.
memoratur, ubi perpetuum tempus oftenditur. de diſciplinis aliqua breviter
velle confcribere; Arithmetita Sic Arithmetica diſciplina dotata eſt, quando
quarum rerum principia neceffe eft nos inchoa dotata,quan rerum Opifex Deus
diſpoſitiones ſuas ſub nume- re; dicenduinque prius eft de arte Grammatica; Dei
ſub nu xi, ponderis, & menfuræ quantitate conſtituits quæ eft videlicet
origo & fundamentuin Libera mern, ponle- ſicut ait Salomon; Omnia in numero,
menfura, lium litterarum. re our menu- c pondere feciſti. Creatura ſiquidem Dei
ſic nu Liber autein dictus eſt à libro, id eſt, arboris Liber unde ra ft24.
micro facta cognoſcitur, quando ipfe in Evange- cortice dempto atque liberato,
ubi ante copiam dictus. Sap. 11. 21. lio ait:Veftri autem & cepilli capitis
omnes nume- chartarum Antiqui carmina deſcribebant. Scire Matth.10 jo ratifunt.
Sic creatura Dei conſtituta eſt in men- autem debemus, ſicut Varro dicit,
utilitatis ali ſura; ficut ipfe in Evangelio teſtatur: Quis an- cujus caufà
omnium artium extitiſie principia. Matth.6.27. tem veftrum cogitans poteft
adjicere ad ftaturam Ars verò dicta eft, quòd nos fuis regulisarctet Unie ars
Plal. 33. 2. Prov. 9. 1, Ca Deus on - nes creatsT45 11. 12. n. do creat1471
dieta. Liberalium Litterarum. 559 rints compoſuit. malis voce. our atque
conſtringat. Alii dicunt à Græcis hoc trà- Finis verò elimatæ locutionis vel
ſcripturæ, in ctum eſſe vocabuluin, amo tús agerős, id eſt, à culpabili placere
peritia. virtute doctrinæ, quam diferti yiri uniuſcujul Sed quamvis Auctores
ſuperioruin temporum QuideGram que bonæ rei ſcienriam vocant. de arte
Grammatica ordine diverſo tractaverint, matica orne tiùs ſcriple Secundò de
arte Rhetorica, quæ propter nito- fuiſque ſæculis honoris decushabuerint,ut
Palæ rem ac copiain eloquentiæ ſuæ, maxiniè in civi- mon, Phocas, Probus; &
Cenſorinus: nobis ta Libus quæſtionibus, neceſſaria niinis, & hono- men
placet in medium Donatum deducere, qui rabilis æſtiinatur. & pueris
ſpecialiter aprus, & tironibus probatur Tertiò de Logica, quæ Dialectica
nuncupa- accomınodus, Cujus gemina coinmenta reliqui-- Gemina com tur. Hæc,
quantùm Magiſtri ſæ. ulares dicunt, mus, ut ſupra quòd ipfe * planus eſt, fiat
clarior menta in ar diſputatdivina UPERIOR liber, Domino præſtan- fuam cubitum
unum? Item IſaiasPropheta dicit: 16.40.1:., S | licet divinarum continet
lectionum manu. Rurſus creatura Dei probatur facta ſub comprebējus. hic
triginta tribu's titulis noſcitur pondere;ſicut ait in Proverbiis Salomon: Ei
li. coinprehenſus. Qui numerus ætati Dominice brabat fontesaquarum; & paulo
poft: Quando probatur accommodus, quando mundo peccatis appendebar fundamenta
terra, cum eo eram. mortuo æternam vitam præſtitit, & præmia cre-
Quapropter opere Dei fingularizato, magnifi Hic liber ſce- dentibus ſine fine
concellit. Nunctempus eſt, cæ res neceſſariâ definitioneconcluſæ ſuntut; fi
cularium le- ut aliis ſeptein titulis ſæcularium lectionum præ- cut eum omnia
condidiffe credimus: ita & quem ſentis libritextuin percurrere debeamus;
qui ta- admodun facta ſunt, aliquatenusdiſcerenus. lis abfolue men calculus per
ſeptiinanas fibimet ſuccedentes Unde datur intelligi mala opera diaboli nec
Opera diabolt tur, & cur in ſe continue revolutus, uſque ad totius orbis
pondere, nec menfura, nec numero cortineri: nec pondere, finem ſemper
extenditur. quoniam quicquid agit iniquitas, juſtitie ſein Defeptenario
Sciendum eft plane, quoniam frequenter quic- per adverſum eſt; ſicut &
tertius deciinus Pſalmus continentur. numero, quid continuam atqueperpetuum
Scriptura fan- meminit, dicens: Contritio, ú infelicitas in viis Pfal. 13.30
quid feript.o. ita vultintelligi, fub iſto numero comprehendit; corum, á viam
pacis non cognoverunt: non eſt ia Super cum ficut dicit David: Septies in
dielaudem dixitibi; timor Dei anteoculos eorum. Ifaias quoque dicit:
intel'iyat. Plal. 118. cùm tamen alibi profiteatur: Benedicam Domi-
Dereliquerunt Deuin Sabaoth, & ambulaverunt 164. numin omni tempore: femper
lausejus in ore meo. per vias diſtortas. Revera mirabilis, & fummè Et
Salomon: Sapientia edificavit fibi domum, ſapiens Deus, qui omnes creaturas
ſuas ſingulari excidit columnas feptem. In Exodo quoque dixit moderatione
diſtinxit: ne aliquid eorumfæda fingulari Doininus ad Moyſen: Facies lucernas
ſeptem, & confuſio pollideret. Unde Pater Auguſtinus in deratione dio
Exod.05.37. pones easſuper candelabrum, ut luceant ex adver- libro 4. de Geneli
ad litterain minatifinè difpu- ftinxerit? Apocal. 1.4. fo. Quem numerum
Apocalypfis in diverfis re tavit. bus omnino commeinorat; qui tamen calculus
Modd jamſecundi voluminis intremus initia, adillud nos æternum tempus
trahit,quod non po- quæ paulò diligentiùs audiamus; * Intentus no- *Hicincipiño
teſt habere defectú. Meritò ergo ibi femper com- bis elt de arte Grammatica,
tive Rhetorica, vel MSS. codd. memoratur, ubi perpetuum tempus oftenditur. de
diſciplinis aliqua breviter velle confcribere; Arithmetita Sic Arithmetica
diſciplina dotata eſt, quando quarum rerum principia neceffe eft nos inchoa
dotata,quan rerum Opifex Deus diſpoſitiones ſuas ſub nume- re; dicenduinque
prius eft de arte Grammatica; Dei ſub nu xi, ponderis, & menfuræ quantitate
conſtituits quæ eft videlicet origo & fundamentuin Libera mern, ponle-
ſicut ait Salomon; Omnia in numero, menfura, lium litterarum. re our menu- c
pondere feciſti. Creatura ſiquidem Dei ſic nu Liber autein dictus eſt à libro,
id eſt, arboris Liber unde ra ft24. micro facta cognoſcitur, quando ipfe in
Evange- cortice dempto atque liberato, ubi ante copiam dictus. Sap. 11. 21. lio
ait:Veftri autem & cepilli capitis omnes nume- chartarum Antiqui carmina
deſcribebant. Scire Matth.10 jo ratifunt. Sic creatura Dei conſtituta eſt in
men- autem debemus, ſicut Varro dicit, utilitatis ali ſura; ficut ipfe in
Evangelio teſtatur: Quis an- cujus caufà omnium artium extitiſie principia.
Matth.6.27. tem veftrum cogitans poteft adjicere ad ftaturam Ars verò dicta eft,
quòd nos fuis regulisarctet Unie ars Plal. 33. 2. Prov. 9. 1, Ca Deus on - nes
creatsT45 11. 12. n. do creat1471 dieta. Liberalium Litterarum.rints compoſuit.
malis voce. our atque conſtringat. Alii dicunt à Græcis hoc trà- Finis verò
elimatæ locutionis vel ſcripturæ, in ctum eſſe vocabuluin, amo tús agerős, id
eſt, à culpabili placere peritia. virtute doctrinæ, quam diferti yiri
uniuſcujul Sed quamvis Auctores ſuperioruin temporum QuideGram que bonæ rei
ſcienriam vocant. de arte Grammatica ordine diverſo tractaverint, matica orne
tiùs ſcriple Secundò de arte Rhetorica, quæ propter nito- fuiſque ſæculis
honoris decushabuerint,ut Palæ rem ac copiain eloquentiæ ſuæ, maxiniè in civi- mon,
Phocas, Probus; & Cenſorinus: nobis ta Libus quæſtionibus, neceſſaria
niinis, & hono- men placet in medium Donatum deducere, qui rabilis
æſtiinatur. & pueris ſpecialiter aprus, & tironibus probatur Tertiò de
Logica, quæ Dialectica nuncupa- accomınodus, Cujus gemina coinmenta reliqui--
Gemina com tur. Hæc, quantùm Magiſtri ſæ. ulares dicunt, mus, u t ſupra
quòd ipfe * planus eſt, fiat clarior menta in ar diſputationibus ſubtiliffimis
ac brevibus vera ſe- dupliciter explanatus. Sed & ſanctum Augufti- tes
Donati queſtrat à fallis. num propterfimplicitatem fratrum breviter in-
Caffiodorus Quarto de Mathematica, quæ quatuor com- ftruendain, aliqua de codem
titulo ſcripſiſſe re- *MS.Sanger. plectitur diſciplinas, id eſt, Arithmeticam,Geo-
perimus, qux vobis le titanda reliquimus: ne Lasinus. metricam, Muſicain, &
Aſtronomnicain. Quain quid rudibus deeſſe videatur, qui ad tantæ ſcien Che
Mathe. Mathematicam Latino ferinone doctrinalem diæ culmina præparantur.
maticado tri poffumus appellare; quo nomine licet omnia doctrinalia dicere
valeamus,quæcumque docent: Donatus igitur in fecundit purte ita diſceptat. hæc
libi tamen commune vocabulum propter ſuam excellentiam propriè vindicavit; ut
Poeta De Voce Articulata. dictus, intclligitur Virgilius: Orator enuntia De
Littera. tus, advertiturCicero; quamvis multi & Poëtæ, De Syllaba.
&Oratores in Latina lingua eſſe doceantur;quod De Pedibus. etiam de Homero,
atque Demoſthene Græcia fa De Accentibus. cunda concelebratı Dc Pofituris, ſeu
Diſtinctionibus. Quid fit Ma Mathematica verò eſt ſcientia, quæ abſtra Et
iterum de Partibus Orationis octo thematica? ctam conſiderat quantitatem.
Abſtracta eniin De Scheinatibus. quantitas dicitur, quam intellectu â materia
fe De Etymologiis. parantes, vel ab aliis accidentibus, folâ ratio De
Orthographia. cinatione tractamus. Sic totius voluminis ordo * Ed. * ado. quaſi
quodam * vade promiffus eſt. Vox articulata, eft aër percuſſus, fenfibilis au-
Quid fit vox Nunc quemadmodum pollicitafunt, per divi- ditu, quantum in ipſo
eſt. articulati. Duplex dif- fiones definitioneſque ſuas, Domino juvante,
Littera, eſt pars ininima vocis articulatæ. Quid Littera. cendi genius.
reddamus: quia duplex quodammodo diſcendi Syllaba, eft comprehenſio litterarum,
vel unius Qwid Syd genus eſt, quando & lincalis deſcriptio imbuit vocalis
enuntiatio, temporum capax. * Ed. pol. diligenter aſpectum, & * per aurium
præparatum Pes; eſt ſyllabarúm & temporum certa dinu- Quid pes. intrat
auditum. Nec illud quoque tacebimus, meratio. quibus auctoribus tain Græcis,
quam Latinis, Accentus, eſt vicio carens vocis artificioſa pro- Quid Accen quæ
dicimus, expoſita claruerunt ut; qui ſtudio- nuntiatio. MSS.Reg. le legere
voluerit, quibuſdam * compendiis in Pofitura, ſive diſtinctio, eſt moderatæ
pronun- Quid pofitu Sang. competentiis. tiationis apta repauſatio. troductus,
lacidiùs Majorum di& ta percipiat, Partes autem orationis ſunt acto, Nomen,
Pronomen, Verbuin, Adverbium, Participium, tionis funs Conjunctio, Præpofitio,
Interjectio. Capitula Libris Nomen, eſt pars orationis cum caſu, corpus Quid
fis non aut rem propriècommuniterve fignificans; pro- men. Caput. I. De
Grammatica: priè, ut Roma, Tiberis: cominuniter, ut urbs, 2. De Rhetorica.
Huvius, 3. De Dialectica; Pronomen, eſt pars orationis, quæ pro nomi- Quid
Pronta 4. De Arithmetica: ne pofita, tantuindem pene ſignificat, perſo S. De
Muſica, namque interdum recipit. 6. De Geometria. Verbum, eſt pars orationis
cum tempore & Quid verbi. 7. De Aſtronomia: perſona fine caſu. Adverbium,
eft pars orationis, quæ adjecta Quid Adverbo, ſignificationem ejus explanat
atque iin- bium. pler; ut, jam faciam, vel non fáciam. Inſtitutio de Arte
Grammatica. Participium, eſt pars orationis, dicta qudd par- Quid Parti tem
capiat nominis, partemque verbi; recipit cipium. Unde Grama maticanomen
GKRammatica à litteris nomen accepit, ficuè enim ànomine genera & cafus, à
verbo tempo vocabuli ipfius derivatus fonus oſtendit; ra & fignificationes,
ab utroque numeros & fi acceperit? quas primus omnium Cadınus ſexdecim
tantum guras. legitur inveniſſe, eaſque Græcis ſtudioſiſſimis Conjunctio, eſt
pars orationis annectens, ordi. Qyid com tradens, reliquas ipſi vivacitate
animi ſuppleve- nanfque ſententiam. junctio. De quarum formulis atque
virtutibus, Præpoſitio, eſt pars orationis, quæ præpofira Quid Præpo Helenus,
atque Priſcianus ſubtiliter Attico ſer- aliis partibus orationis,
fignificationem earum Juio. Quidfit Gra mone locuti ſunt. Grammatica verò, eſt
peritia aut inutat, aut complet, autminuit. * MSS. Au- pulchrè loquendi ex
Poëtis illuſtribus, * Orato Interjectio, eſt pars orationis ſignificans mentis
Quid inter Etoribus, ribuſque collecta. Officium ejus eſt fine vitio affectuin
voce incondità. ječtio. dictionem proſalem metricamque componere: Scheinata,
ſunt transformationes fermonum Quid Sche ba. ra. Partes ora octo. 5 $ 1 men.
runt. marica? mata.Caffiodorus de Inſtitutione Quid Ortha les, vel
fententiaruin, ornatus cauſâ policæ; quæ à dis:interdami, ut folers,iners.
quodam Artigrapho nomine Sacerdote collecta, In plurali quoque, excepto
genitivo & accuſa fiunt numero nonaginta octo: ita tamen, ut qux rivo,
omnibuscalibus ſimiliter declinantur.Nam à Donado inter vitia polita ſunt, in
ipfo numero quædam in uin genitivo, accuſativo in es exeunt, collecta
claudantur. Quod & mihi quoque du- ut Mars, ars: quædam in ium, ut fapiens,
patiens, ruin videtur vitia dicere,quæ auctorum exemplis, & ob hoc
accuſativi eorum in eis excunt. Plera & maxiinè legis divinæ auctoritate
firmantur. que aurein ex his nomina tribus generibus com Hæc Grammaticis Oratoribufque
cominunia munia funt, & in licreram quam habent, neutra funt: quæ tamen in
utraque parte probabiliter in nominativo plurali dant etiam genitivis reli
reperiuntur aptata. quoruin generuin,cum quibus coinmunia funt. Addenduin eſt
etiam de Eryinologiis, & Ortho In T littera, neutra tantùm nomina quædam,
graphia, de quibus alius fcripfiffe certiflimum eſt. pauca finiuntur; ut git,
quod non declinatur; Quid 'Etymo. Etymologia eſt aut vera aut veriſimilis
deinon- ut caput, ſinciput. Quidam cùm lac dicunt, loysa. ftratio, declarans ex
qua origine verba defcen- adjiciunti, propter quod facit lactis: ſed Vir dant.
gilius. Orthographia eſt rectitudo fcribendi nullo er Lac mihi non æſtate novum,
non frigore defit. graphics. rore vitiata, quæ manum componit & linguam.
quippe cùm nulla apud nos nomina in duas mu Hæc breviter dicta fufficiant. tas
exeant, & ideo veteres lacte in nominativo Cæterùm qui ea voluerit lariùs
pleniùſque co dixerant, gnoſceye, cum præfarione ſua codicem legat, X littera
terminat quædam, in quibus omnia quem noſtra curiolitate formavimus, id eſt,
Ar- communia in iuin cxeunt in genitivo plurali; ob tem Donati, cui de
Orthographia librum, & hoc. accuſativo in i & s. Plurima verò genitivo
alium de Etymologiis inferuimus, quartum quo- in u & in, non præcurrente i,
& ob hoc in e & s que de Schematibus Sacerdotis adjunximus;qua-
accuſativo exeunt; nam in reliquis conſentiunt. tenus diligens lector in uno
codice reperire pof- Ut pote cùın ſingulariter omnia nominativa & ſit,
quodarti Gramınaticæ deputatum effe co vocativa habeant genitivum ini & s,
agant da gnoſcit. tivum in i littera: ablativum in e vel i definiant, Nomen da
Sed quia continentia magis artis Grammaticæ adjectáque m accuſativum definiant
impleánt verbum tant dicta eft, curaviinus aliqua denominis verbique que:
pluraliter verò dativum ablativúmque in partes adje regulis pro parte ſubjicere,
quas rectè tantùm bus fyllaba finiunt. muis Ariſtote. Ariſtoteles orationis
partes adferuit. Nam de cæteris, quibus diſident Veteres, qui dam atrocum &
ferocum, qua ratione omnium x DE NOMINIBUS. littera finitorun una ſpecies
videbitur. Huic x litreræ omnes vocales præferuntur; ut capax, fru Nominis
partes ſunt. tex, pernix, atrox, redux. Ex iis nominibus quædam in nominativo
producuntur, quædain Qualitas, mocomm. corripiuntur: quædam conſentiunt in
noininati Comparatio, ouynpisisa vo, in obliquis diſſentiunr. Pax enim, &
rapax, Genus, 2005. item rex & pumex, item nux & lux, etiam pri
Numerus, água uo'so mam poſitionem variant ad nix & nutrix. Item Figura,
oxaudio nox & atrox ſic in prima politioneconſentiunt, Caſus, T @ SIS.
urdiſcrepentper obliquos. Et illud animadvertendum eſt, quædam ex iis x
Pronominis partes: litteram in g, quædam in c per declinationes compellere. Lex
enimlegis, grex gregis facit, Qualitas ut pix picis, nux nucis. Nain in his quæ
non ſunt Genus. monoſyllaba, nunquam non x littera genitivo i Numerus. c
convertitur; ut frutex fruticis, ferox ferocis. Figura. Supellex autem, &
ſenex, & nix, privilegio quo Perſona. dam contra rationem declinantur:
quoniam ſu Caſus. pellex duabus ſyllabis creſcit, quod vetat ratio; & fenex
ut in nominativo itein genitivo diffyllabus G Ræca nomina, quæ apud nos in us;
ut, manet, cùm omnia x litterâ terminata creſcant. vulgus, pelagus,
virus,Lucretiusviri dicit; Et nix nec in cconvertitur, ut pix: nec in gut
quamquam rectiùs inflexum maneat. Secundæ rex: ſed in u conſonans, in vocalem
tranſire non ſpecies funt, quæ per obliquos caſus creſcunt, & poſſit.
genitivo ſingulari in is litteras exeunt; ut, genus, In plurali autem genitivo,
ablativus ſingularis nemus: ex quibus quædam uine mutant; ut olus formas
vertit. Nam in a auto terminatus, in rum oleris, ulcus ulceris: quædam in o, ut
nemus exit; e correpta in um:producta, in rum: iter neinoris, pecus pecoris. In
dubitationem ve- minatus in uin. Dativus & ablativus pluralis a. niunt
fænus & ftercus in e, an in o inutent: in is exeunt & in bus. Quæ
præcepra in ſcholis quoniam quæ in nusſyllabam finiunt, u in e mu- ſunt
tritiora: ſed quotiens in is exeunt, longa tant; ut, vulnus, ſcelus, funus,
& funeratos fyllaba terminantur: quotiesin bus, brevi. De dicimus.
Fænusenim exemplo non debet noce- curlis nominum regulis, æquuin eſt
confequenter re, cùin inter dubia genera ponatur. Item vete- adjicere canones
verborum primæ conjugatio res ſtercoratos agros dicebant, non ſterceratos. nis.
In S littera finita nomina, præcurrentibus n vel r, omnia ſunt uniusgeneris:
nili quæ ante ſe t habent, interdun d recipiunt, ut ſocors ſocor DE De
Grammatica. 561: Tempus zeovc. DE V ER BIS. ſyllaba, manente productione
terminantur; ut Commeo, commea, commeavi: Lanio, lania, Partes verbi funt.
laniavi: Satio, fatia, fatiavi. Eodem modo, codem tempore, fpecie
inchoativa,adjectâ ad im Qualitas, perativum modum in bam fyllaba terininantur;
Conjugatio. ut cominea commeabain, lania laniabam, æſtua Genus. æſtuabain.
Prima conjugatione, codem modo, Numerus. eodem tempore, ſpecie recordativa,
adjectis ad Figura. imperativum modum veram ſyllabis, terminan Tempus. tur
partes: ut Commea commeaveram, lania, la Perfona. 'niaveram, æſtua æſtuaveram.
Priina conjuga tione, codem modo, tempore futuro, adjecta Qualitas Verbi. ad
imperatiuum modun bo fyllaba, terminan rur; ut Cominea commeabo, lania laniabo,
æſtua Modi, # ſtuabo. Indicativi, ogesich. Quæveròindicativo modò, tempore
præſen Imperativi, προσακτική. tì, ad primam perfonam in o littera, nulla alia
Opeativi, ευκτική. præcedente vocali terminantur, ea indicativo Conjunctivi,
útotaxix. modo, tempore præterito, ſpecie abſoluta 80 Infinitivi, atrapéu pet
exacta, quatuor modis proferuntur. Et eſt primus, qui lunilem regulam his babet.
Genus Verbre Qui indicativo modo, tempore præſenti, prima perſona penultiinam
vocalem habet: ut Amo, Adiva, švępyutix.. ama, amavi, amabam, amaveram, amabo,
Pafliva, mee.Jotus amare, Communia, rond. Secundus eft, qui o ini convertit
ultimam in præterito perfecto,penultimam in pluſquàm per fecto e corripit; ut
Adjuvo, adjuvi, adjuveram. Tertius, qui fimilem quidem regulaın habet Præſens,
évesa's. primi modi, ſed detracta a littera deliungit; ut Præteritum; ta
zenauges Seco, ſecavi, ſecaveram, ſecabo, ſecare. Facit Futurun, uitwr. enim
ſpecie abſoluta ſecui, & exacta ſecueram. Imperfcerum, megatinad's. Quartus
eſt, qui per geininationein fyllabae Perfectum, Tee XÉCU. profertur; ut Sto,
ſtá, kteci, fteterain, itabo Pluſquain perfectam, impon TEARO'S. ftare. Huic
ſimile Do, da, dedi, dabáin, dede Infinitum; mogises. ram, dabo, dare, correpta
littera a contra re-, gulain, in eo quod eſt, dabam, dabo, dare. Proferuntur
fecunda conjugationis verba, dente vocali terminantur, vel præcante quæ
indicativo modo, teinpore præſenti, perſo vocali qualibet, formas habet
quatuor. na prima, in eo litteris terminantur; ut Video, Secundæ conjugationis
correpræ verba verba,, for- vides vides; monco monc mones. Secundæ conjugatio
mas habent viginti. Sic quæcumque verba indi- nis verba, indicativomodo,
teinpore præſenti, cativo modo, tempore præfenti, perſona primà, ad ſecundanı
perſonam iu e littera producta,ter in o littera terminantur, forinas habentſex,quæ
ininantur; ut Video, vide; moneo, mone. Se voces forınas habent duas. Quæ nulla
præceden- cundæ conjugationis verba, infinito inodo, ad te vocali in o littera
terminantur, formas habent je & ta ad imperativum modum re fyllaba, manen
duodecim. te productione terminantur; ut Vide, videre; Tertiæ conjugationis
productæ verba, qua mone, monere. Secundæ conjugationis verba, indicativo modo,
tempore præſenti, perſona indicativo modo, tempore præterito, {pecie ab prima
in o littera terminantur, formas habent ſoluta & exacta, ſeptem modis
declinantur; & quinque. Quæcumque autem verba cujuſcum- eft primus, qui
forinain regulæ oſtendit.Nam for que conjugationis indicativo modo, temporė
mahæc eſt;cùm fecundæ conjugationis verbum, præſenti, perfona prima, vel nulla
præc dente indicativomodo,temporepræterito quidem per vocali, vel qualibet alia
præcedente, in o littera fecto, adjecta ad iinpecalivun modum vi fyllaba,
*terminantur, corum declinatio hoc numero for- manente produđione. marum
continetur. De quibus fingulis dicam. Primæ conjugationis verba indicativo
modo, tempore præſenti, perſona prima, aut in o litte: ra nulla alia præcedente
vocali terminantur, ut De Arte Rhetorica., Canto io ut lanio,,. Rrium aliæ
ſuntpofitæ in Artes in tres Primæ conjugationis verba iinperativo modo,
temporepræſenti ad ſecundam perſonain in a lit- lis eſt Aſtrologia: nullum
exigens actum, ſed ipſo duntur. tera producta terminantur;ut amo, ama: canto,
rei, cujus ſtudium habet, intellectu contenta, canta: infinito modo ad
imperatiuum modum, quæ Geargintzün vocatur. Alia in agendo, cujus in in re
fyllaba,manente productione terminantur; hoc finis eſt, ut ipſo actu
perficiatur, nihilque ut aina, amare: canta, cantare. Item prima con- poſt
actum operisrelinquat, quæ peakmix dici jugatio, quæindicativo modo, tempore
præte- tur, qualis ſaltatio eſt.Alia in effectu,quæ operis, rito, ſpecie
abſoluta, adjectâ ad imperatiuun yi quod oculis fubiicitur confummatione,
finein Bbbb V. ib, uclanio,fatio:autuo,uræſtuo,continuo A evognizione
peltimatione rerum,quas partes divina 562 Caffiodorus ea 1 tor. Etanda,
accipiunt, quam nontoxù appellamus, qualis eſt cauſam, locum, tempus,
inftramentum, occa pictura. fionemnarratione delibabiinus. Multæ ſæpe in
Orationis duo Duo funt Genera orationis: altera pespetua, una cauſa ſunt
narrationes. Non femper co ordi fuigenera. quæ Rhetorica dicitur: alteraconciſa,
quæ Dia- ne narrandum, quo res geſta eſt. Enthumous fit tectica; quas quidem
Zeno adeo conjunxit, ut ad augmentum vel invidiæ, vel miſerationis, vel hanc
compreſlæ in pugnum manus, illam expli- in adverfis. Initium narrationis à
perſona fier, & catæ fimilean dixerit. ſi noſtra elt, ornetur: fi aliena,
infametur. Et Initiam di Initia dicendidedit natura: initium artis ob- hæc cum
ſuis accidentibus ponitur. Finis narra cendi dedit fervatio. Homines enim ficur
in Medicina, cum tionis fit, cùın eò perducitur expofitio, unde natura,ini-
viderent alia falubrià, alia inſalubria ex obſerva- quæſtio oriatur. sium artis
ob. tione eoruin effccerunt arrein. feruatio. Facultas orandi confunmatur
naturâ, arte, De Egreſionibus Pacultas orandi tribus exercitatione; cui partein
quartam adjiciunt qui cofummatur. dam imitationem, quam nosarti ſubjicimus.
Egreſſus eſt, vel egrelfio, hoc eſt, méx6a95, Tria debet Tria funt quæ præltare
debet Orator; ut do- cum intermiffà parum re propofitâ, quiddain in præftare
Ora- ceat, moveat, delecter. Hæc enim clarior divi- terſeritur delectationis
utilitatiſve gratiâ. Sed fio eft, quàm eorum qui totum opus:in res, & ir hæ
ſunt plures, quiæ pertotam cauſam varios ex affectus partiuntur, curſus habent;
ut laus hoininum locorumque; Invadendo In fuadendo ac diſſuadendo rrja primùm
fpe- ut defcriptio regionum, expoſitio quarundam fodiſficaden- ctanda ſunt;
quid ſit de quo deliberetur: qui lint rerum geſtarum, vel etiam fabulofarum. do
triape- qui deliberent: quis ſit quifuadeat rem, dequa Sed indignatio,
miſeratio, invidia, convi elintpar. deliberatur.Omnisdeliberatio de dubiis fit.
Par- tium, excuſario, conciliatio, maledictorum re "tes fuadendi. tes
ſuadendi ſunt honeftum, utile, neceſſarium. futatio, & fimilia:omnis
amplificatio, minutio, Quidam, ut Quintilianus, furetor; hoc eſt,pofli- omnis
affectus, genusdeluxuria, de avaritia, re bile, approbat. ligione, officiis
cuin ſuis argumentis ſubjecta ſi milium rerum, quia cohærent, egredi non viden
Ware Procemiam à Græcis dicitur. tur. Areopagitæ damnaverunt puerum, corni cum oculos
eruentem; qui putantur nihil aliud Clarè partem hanc ante ingreffum rei, de qua
judicaffe, quàm id lignum effe pernicioſiflima diccndum fit,oftendunt.Nain
livepropterea quod mentis, multiſque malo futuræ li adoleviſſet. brun cantus
elt, & Citharædi pauca illa, quæ an tequam legitimum certamen inchoent,
emerendi De Credibilibus favoris gratia canunt, Proæmium cognomina runt.
Oratores quoque ea, quæ priuſquam cau Credibilium tria funt genera: ünum
Grmiſti- Tria ſunt ore. fain exordiantur, ad conciliandos libi judicun muni,
quia ferè ſemper accidit; ut, liberos à pa aninospræloquuntur, Procinii
appellationc fi- rentibus amari. gnarunt. Sive quod 40 Græci viam appellant
Alterum velut propenſius, eum qui rectè va id, quod ante ingrekun reiponitur,
fic vocari leat, in craſtinum perventurum. Dikfit Proa- eft inſtituruin. Caufa
Proæmii hæc eſt, ut audiro Tertium tantum non repugnans; ab eo in dong mii
carla. rem, quò fit nobis in cæteris partibusaccommo- furtum factum, qui domui
fuit. datior, præparemus. Id fit tribus modis, li be nevolum, atrencum,
docilemque feceris; & in Argumenta unde ducantur. reliquis partibus haud
minus, præcipuè tamen in initiis neceſſe eſt animos judicum præparare. Ducuntur
argumenta à perſonis, cauſis, tem pore; cujus tres partes ſunt, præcedens,
conjun Quid differt Proæmium ab Epilogo. ctum, inſequens. Si agimus, noſtra
confirmana da ſunt priùs; tum ea, quæ noftris opponuntur, Quidam putarunt quòd
inPræmio præterita, refutanda. Si reſpondemus; ſæpiùs incipiendum in Epilogo
fucura dicantur. Quintilianus autem à refutatione. Locuples & fpeciofa
&imperio co quod in ingreffu parciùs & modeſtiùs præten- ſa vult eſſe
Eloquentia. tanda ſit judicis miſericordia: in Epilogo verò licear toros
effundere affectus, & ficam oratio De Concluſione nem induere perſonis,
& defunctos excitare, & pignora reorum perducere, quæ minus in
Concluſio,quæ peroratio dicitur, duplicem has concluſodomen proæmiis ſunt uſitata.
bet rationem; ponitur enim autin rebus, aut in plicem habet affectibus rerum,
repetitio & congregatio, que rationem. De Narratione. Græcè ávax!IO HAURIS
dicitur, à quibufdam La tinorum renumeratio dicitur, & memoriam au Narratio
aut torà pro nobis eſt, aut cora pro ditoris reficit, & totam ſimul cauſam
ponit an adverſariis, aut mixta ex utriſque. Si erit tota te oculos; ut etiam
ſi per ſingulos minus vale pro nobis, contenti ſimus his tribus partibus, bant,
turbâ moveantur: ita tamen ut breviret uc judex intelligat, meminerit, credat,
nec quic eorum capita curlimque tangantur. Sed tunc fita quan reprehenſione
dignum pPomba. ubi inultæ caufæ, vel quæſtionesinferuntur; nam Notandum, ut
quoties exitus rei ſatis oſtendit fi brevis & fimplex eſt, noneft
neceffaria. priora, debemus hoc eſſe contenti, quò reliqua intelliguntur;
fatius eſt narrationi aliquot fuper De Affectibus: eſſe, quàm deeffe; nain
ſupervacua cum rædio dicuntur: neceſſaria cum periculo ſubtrahuntur. Affectuum
duæ funt ſpecies, quas Græci '90s affectuur Quæ probacione tractaturi ſumus,
perſonain, aj mrásos vocant, hoc eit, quafimores & affe- dua ſung species,
dibilium gito nera. 1 1 De Rhetoricà. 563 Te. ventio. tio. tio. 114. us
concitatos } & Teses quidem affectus con- & quæſtionem.Cauſa eft
res,quæ habet in ſe con citatos: " Jos veròmites atque compofiros; in il-
troverſiam in dicendo politam, perſonarum cer lis vehementesmotus, in his
lenes: & resos qui- tarum interpoſitione: quæſtio autem,eft res, quæ
demimperat, its perſuadet; hi ad perturbatio- habet in ſe controverſiam in
dicendo polítam, nem, illi ad benevolentiam prævalent. Et eſt line certarum
perfonarum interpofitione. Frágos temporale, ndos verò perpetuum; utra que ex
eadem natura: fed illud majus, hoc minus, ut amor esos, charitas » Sus; tados
con citat, isos fedat. Partes Rhetoricæ funt quinque. In adverſos plus valet
invidia,quàm convitium: quia invidia adverſarios, convitiuin nos inviſos
Inventio. facit. Nam ſunt quædam, quæfi ab imprudenti Diſpoſitio. bus excidant,
ſtulta ſant; cum ſimulamus, venuſta Elocurio Orator vitio creduntur. Bonus
altercator vitio iracundiæ ca Meinoria, iracundiæ ca- reat; nullus enim rationi
magis obftat affectus, & Pronuntiatio. reat; & qua- fertextra
cauſamplerumque, & defornia convi tia facere ac mereri cogit, &
nonnunquam in ipſos Inventio eft ex cogitatio rerum verarum aut ve. Quid fitta
judices incitatur; quoniam ſententiæ, verba, fi- riſinilium,quæ cauſam
probabilem reddunt. guræ, coloreſque funt occultiores quæſtiones in Difpofitio
eft rerum inventarun in ordinem Quid Diſposa genio, cura, exercitatione. pulchra
diftributio. Conjectura omnis, aut de re eſt, autde animo. Elocutio eft
idoneoruin verborum ad inventio Onid Eloc14 Utriuſque tria teinpora ſunt,
præteritum, pre- nein accommodata perceptio. ſens, &futuruin. De re &
generales quæſtiones Memoria eſt firma aniini rerum ac verborum funt, &
definitæ; id eft, & quæ non continentur, ad inventionem perceptio. Quid
Memo perſonis, & quæ continentúr. De animo quæri Pronuntiatio eſt ex rerun
& verborum dignita non poteſt, niſi ubi perſona eſt; & de facto, cùm
te, vocis &corporis decora moderatio. Quid Proing nuntiatio. de re agitur,
aut quid factum ſit in dubium venit, aut quid fiat, aut quid futurum ſit, &
reliqua fi De Generibus caufarum. unilia, De Amphibologia. Genera cauſarum
Rhetoricæ ſunt tria princi- General Cares palia. Demonſtrativum, Deliberativum,
Judi- Jarum Rheto Innsetabia Amphibologiæ ſpecies ſunt innumerabiles, ciale:
Ticefunttrica les lient Am. adeò ut Philofophi quidam putent nullum effé
Demonſtrativum & In laude phibologia verbum, quod non plura ſignificet
genera, aut oftentativum species admodum pauca; aut enim vocibus fingulis ac-
Eyxaurasino's In vituperatione cidiper ópw rupaar aut conjunctis per ainbiguani
Emdeuxtixò, conſtructionem, Quando fiat Vitiofa oratio fit, cùm inter duo
nominamè- Deliberativum & ſua In ſuaſione. vitioſa oratio dium verbum
ponitur. forium dicitur De oppofitio Oppoſitiones & fi contrariæ non ſint,
ſed dif- EupBBAEUTIKON In diſſualione niben. fimiles: verumtamen li fuain
figuram ſeryant, ſuntnihilomimus antitheta.. r In accuſatione, & de
Naturalis quæitio eſt, quæ eſt temporalis;fic Judiciale fenſione cut cúm que
ſunt per ordines temporum acta, acercón marrantur. Nunc ad artis Rhetoricæ
diviſiones În præmii penſione, & definitionofque veniamus; quæ ficut
extenſa at negatione que copiofa cft; ita à multis &claris ſcriptoribus
tractata dilatatur, Demonſtrativum genus eſt, cùm aliquid de- Quid fit De
monſtramus, in quo eſt laus & vituperatio,hoc monftrativi Onidfit Rhetorica
eſt, quando per hujuſinodidefcriptionem oſten- genus. dituraliquis, atque
cognoſcirur; ut pſalınús 28. Rhetorica Rhetorica dicitur à copia deductæ
locutio-. & alia vel loca vel pſalmi plurimi,ut:Domine unde dicta. 'nis
influere. Ars autein Rhetorica elt, fi- in calo miſericordia tua, &uſque
adnubesveria cur magiſtri tradunt fæculariuin Litterarum, tas tua. Iuſtitia tua
ficutmontesDei, & reliqua. bene dicendi ſcientia in civilibus quæſtionibus.
Deliberativum genus elt, in quo eſt ſualio de. Quid Delią Quid fit Ora Orator
igitur eſt vir bonus, dicendi peritus, ut diſſualio, hoc eft quid appetere,
quid fugere, berativos. zor, ju offi- dictum eſt in civilibus quæſtionibus.
Oratoris quiddocere, quid prohibere debeamus, citum,erfinis. autem officium
eſt, appolitè dicere ad perſuaden Judiciale genus elt, in quo eſtaccuſatio
& de Quid Fudia ciale. dum. Finis, perſuadere dictione, quatenus rex fenſio,
vel præmii penſio & negatio. ruin & perſonarum conditio videtur
admittere in civilibus quæſtionibus: unde nunc aliqua bre De Statibus. viter
aſſumemus, ut nonnullis partibus indicatis, penè totiusartis ipſius ſumınam
virtutemque in Status Græcè ça'os. Status cauſarum ſunt año Status caufae
telligere debeamus. rationales, aut legales. Status verò dicitur ea bacionales,
rum åut ſuns Civiles quæſtiones ſunt ſecundum Fortuna viles quaftio- tianum
Artigraphum novelluin, quæ in com; a Hæ funt quæſtiones an huic, an cumhoc, an
học Quid fit firas ant legales, nes, & quo modo divi munem animi
conceptionem poffunt cadere; id seinpore, an hac lege,an apud ipſum. Quidquidpræter
van duntur. iſtas quinque partes in oratione dicitur; egreſſio eſt. eſt, quâ
unuſquiſque poteftintelligere, cùm de Hæc nagex aois, quoniam à reco dicendi
itinere defc. æquo quæritur & bono. Dividuntur in cauſam,: &itur
quælibet inſerendo. Bbbb ij Quid fine ci 564 Caffiodorus Quidfit con Um. res,
in qua cauſa conſiſtit. Fit autem ex intentio ne & depulfione, vel
conftitutione. ab alio objicitur, ab adverſario pernegatur, Statum alii vocant
conftitutionem, alii qua 2. Finitivus ſtatus cſt, cùm id quod objicitur,
jocuralis fia. {tionen, alii quod ex quæſtione appareat. non hoc efle
contendimus: fed quid illud lit, ad hibitis definitionibus approbamus. Quid
fam.si Status rationales ſecun Conje & ura. 3. Qualitas eft, cùm qualis res
lit, quæritur; dum generales quæſtio Finis. & quia de vi & genere
negotii controverſia elt, nes ſunt quatuor. Qualitas. conſtitutio generalis
vocatur. Tranſlatio. 1. Conjecturalis ſtatus eft, cùın factum, quod Imprudentia
(Purgatio Caſus. Concellio Juridicialis Abſoluta Aut caufæ, Nixologian Remotio
Aur facti. 3 criminis Negotialis aitam Cui juftè in aliocom generalis Relatio
mittitur, quia & ifle in GegyueTiku priva criminis te fæpius commifin
Αντίγκλημα.. Deprecatio Neceflitas. Qualitas Comparatio Squando melius id
Αντίστασης. factum peragitur. 1 ſunt quinque ! с 12. 1 1 in Pſal. paz. ratio,
Juridicialis eft, in qua æqui &re &ti natura, Questas Ju. ſ
Scriptum& voluntas. riuscialis præmii & pænæ ratio quæritur. Porov ij
dienoido Quid Nego Negotialis eſt, in qua, quid juris ex civili mo Sätus
Legales Leges contrariæ, tizivs. re & æquitate lit, confideratur.
Ambiguitas. Αμφιβολία. Quid Abfo luta. Abſoluta eft, quæ ipfo in ſe continet
juris & Collectio, live Raciocinatio. injuriæ quæſtionem. Συλλογισμός purua
Raid Allium. 'Affumptiva eſt, quæ ipfa exſe nihil dat firmi, Definitio Legalisa.
aut recuſationem foris, aut aliquid defenfionis aſſumit. Scriptum &
voluntas eſt, quando verba ipſa quid.fcripti Quid con Conceſſio eſt, cum reus
non id quod factum eſt, videntur cum ſententia ſcriptoris dillidere. &
voluniss. defendit: fed, ut ignofcatur, poftulat; quod nos Legis contrariæ
ſtatus eſt, quando inter fe duz Quid legis Comment. ad pænitentes* probavimus
pertinere. leges, aut pluresdiſcrepare videntur. contrarieta Remotio criminis
eft, cùm id crimen quod in Ambiguitas eſt, cùm id quod fcriptum eſt, tus,
169.1.09103. ferrur ab fe &ab ſua culpa, vi & poteftate in duas auc
plures res ſignificare videtur. Quid Ambi aligin reus dimovere conatur. guitas.
Collectio Quid Remo, quæ & Ratiocinatio nuncupatur, Quid Colle tio
criminis. Relatio criminis eſt, cùm ideo jure factum di- eſt quando ex eo quod
fcriptum eſt, invenitur, ft:0. Quid Relatio citur, quod aliquis ante injuriam
laceſſierit., Definitio legalis eſt, cum vis verbi quaſi de criminis. erid
Defini Comparatio eft, cùm aliud aliquod alterius finitivâ conſtitutione, in
qua pofita fit, quz- tio legalis. Quil Compa. factum honeſtum aut utile
contenditur, quod, ricur. ut fieret illud quod arguitur, dicitur eſſe com
Status ergo tam rationales quam legales à Statusà qui iniffum. quibuſdam decein
& octo connumerati ſunt. bullam 18. 2 Quid Purga Purgatio cft, cùm factum
quidem conceditur, Cæterum ſecundum Rhetoricos Tullii decem & Tullio verò
bes partenha- fedculparemovetur. Hæc partes habertres,Im- novem inveniuntur,
propterea qudd Tranſlatio- 19.numeran prudentiam, caſum, neceſſitatem.
Impruden- nem interRationales principaliter adfixit ftatus. tia eft, cùin fciſfe
fe aliquid is qui arguitur,negat. Unde feipfum eciam Cicero (ſicut ſuperiùs di
Caſus eſt, cum demonſtratur aliquam fortune &tum eſt ) reprehendens,
Tranſlationem Legalia vim obſtitiffe voluntati. Neceſſitas eſt, cùm vi bus
ftatibus applicavit. quadam reus id quod fecerit, feciſſe ſe dixerit. Quid ft
De precatio. Deprecatio eſt, cùm & peccaffe, & conſultò De
Controverfia. peccaſſe reus conficetur; & tamen, ut ignoſca Quid Trans-
tur,poftulat.Quodgenus perraro poteft accidere. Omnis controverſia, ſicut ait
Cicero, aut fim- Controverfis ex Cicerone lario. 4. Tranſlatio dicitur, cùm
caufa ex eo pendet, plex eſt, aut juncta, aut ex comparatione. triplex eft. cùm
non aut is agere videtur, quem oportet: aut Simplex eſt, quæabſolutam continet
unam Quid fit com non cum eo, quioportet: aut non apud quos, quo quæſtionem,
hoc modo: Corinthiis bellum indi- jeftura fim tempore, qua lege, quo crimine,
qua pæna cenus, án non. plex. oporteat. Tranſlationi adjicitur Conſtitutio,
Juncta, eſt ex pluribus quæſtionibus, in quòd actio tranſlationis
&commutationis indi- plura quæruntur hocpacto:Carthagodiruatur: Quid juncts.
an Carthaginienſibus reddatur, an eocolonia de Ubi adverſariis omnia
conceduntur, & per colas ducatur. lacrymas lupplices defenditur reus. Ex
comparatione, utrum potius, an quod po- Quid ex com paratione, a Et ſi juncta
erit conſiderandum erit, utrum ex plu ribus quæftionibus juncta fit, an ex
aliqua cóparatione. tur. H: gere videtur. 1 De Rhethorica. 565 > Exorarum.
rario, t11.0. tiſſimum quæritur ad hunc modum: utrum exer Exordium, eft oratio
animum auditoris ido Quit fis cituscontra Philippum in Macedoniam mittatur, neè
comparans ad reliquam dictionem. qui ſociis fit auxilio: an teneatur in Italia;
ut Narratio, eft reruin geftarum, aut at geſta- Quid Nar quàmmaximæ contra
Annibalem copiæ fint. rum expoſitio. Partitio eft, quæ fi re &tè habita
fuerit, illu- Quid Per, ftrem &perfpicaam roram efficit orationem.
Confirmatio eft, per quam argumentando no- Qrid Confir Genera cauſarumfunt
quinque. ftræ caufæ fidem, & authoritatem, & firinamen- mario. tum
adjungit oratio. Honeſtum. Reprehenfio eft per quam argumentando ad- Quid Repre
Admirabile. verſariorum confirmatio diluitur, aut elevarur. henfio. Humile.
Concluſio eſt exitus & determinatio totius exid con Anceps. orationis, ubi
interdum & Epilogorum allegatio cnfio. Obſcurum. flebilis adhibetur. Hæc
licer Cicero Latinæ eloquentiæ Lumen Duos libros Quid honefti Honeſtum caufæ
genus eft, cui ſtatim fine ora- eximium, per varia volumina copiosè ninis &
de Rethorica cauſæ genus. tione noftra favet auditoris aniinus. Admirabile
diligenter effuderit, & in arte Rhetorica duobus compoſuit ci Admirabile, à
quo quod eft pre eft alienatus animus eorum, libris videatur amplexus;
quorumCoinmenta à cero, quosM. Victorinus ter opinio- qui audituri ſunt. Mario
Victorino compoſita, in Bibliotheca mea commentatus num hominü Humile eft, quod
negligitur ab auditore ', & vobis reliquiffecognoſcor. eft. conftitutum.
nonmagnopere attendendum videtur. Quintilianus etiain Doctor egregius, qui poſt
Quintiliansis Quid Admi. rabile. Anceps in quo aut judicatio dubia eft, aut
Auvios Tullianos fingulariter valuit implere quæ Doctor egre Quid Humile cauſa
&honeſtatis & turpitudinis particeps, ut docuit, virum bonum dicendi
peritum à priinâ gius in Rhe. Qivid Anceps benevolentiam pariật,
&offenfionem. ætate fuſcipiens, per cunctas artes, ac diſcipli- sorica
doceka Puid'obfcs Obſcurum, in quo aut tardi auditores funt,aut nas nobiliuin
litterarum erudiendum eſſe mon difficilioribus ad cognoſcendum negotiis cauſam
ftravit. Libros autein duos Ciceronis, de arte implicata eft. Rhetorica, &
Quintiliani duodeciin inſtitutio num ! judicavimus eſſe jungendos; ut nec codi
cis'excrefceret magnitudo, & utrique duin ne ceffarii fuerint, parati
feinper occurrant. Partes orationis Rhetoricæ funt fex. Fortunatianum verò
Doctorem novellum, Fortunatik. qui tribusvoluninibus de hac re ſubtiliter minu-
nustria ro Exordium. tèque tractavit; in pugillari codice Rhetorica Narratio.
congruenterquc redegimus; ut &faſtidiuin lecto confecis. Partitio. ri
tollat, &quæ ſuntneceffaria competenter in Confirmatio. ' finuet. Hunc
legat qui brevitatis amator eft, Reprehenfio. nam cum opus ſuum in multos
libros non teten Concluſio, five derit: plurima tamen acutiffimâ ratiocinatione
Peroratio. diſſeruit.Quos codices cum præfatione ſua in uno corpore reperietis
eſſe collectos. da. tim lumina de aptè lorfitan, Rhetorica Argumentatio fit.
Illatio quæ r Propoſitio | Aut per Inductio- ! nem cujusmembra &Affumptio
funt hæc. dicitur. | Concluſio ina tayo Rhetorica Argu mentatio tracta tur.
rEvdúcemus.Talo PEYSúumps, eſt commentum, Convincibili. vel commentio ', hoc
eſt | Oſtentabili. mentis conceptio. 3 Sententiabili. Exemplabili. Txer Suunne,
qui eft imper- iCollectitio. fectus fyllogylinus, atque Rethoricus, ficut
Fortuna tianus dicit, in generibus i explicatur. azódseçu eſt cer ta quædam
argu menti concluſio vel ex confe quentibus, vel repugnantibus. Aut
perRatiocina tionem de Argu mentis, in quo no mine complectun Atodict. tur, quæ
Græci di cunt. Emxelamud too s Emreignus, eft fententia cum fatione, Latinè
dicitur Exe čutio, vel Approbatio, vel Argumentum 11.apemrbiem uc verò, qui eſt
Aut Tripertitus. Rhetoricus & latior fyllogyf: 3 AutQuadripercitus. Aut
quinquepertitus. | mus eft. 566 Caffiodorus Unde Argu titus. ductio. Mem2. cit.
mêtatiodista. Argumentatio dicta eſt quaſi argutæ mentis rici ſyllogiſmi,
latitudinediſtanz& productione oratio. fermonis à dialecticis fyllogiſmis,
propter quod Quidfit Ar Argumentatio eſt enim oratio ipſa, qua inven-
Rhetoribus datur. gumentatio. tum probabiliter exequimur argumentum.
Tripertitus, epichirematicus fyllogiſmus eſt; Quid Triper Quid fit In Inductio
eft oratio,qua rebusnon dubiis capra- qui conſtat inembris tribus: id eft,
propoſitione, mus aſſenſionein ejus, cum quo inſtituta eſt,live aſſumptione,
concluſione. inter Philofophos, ſive interRhetores, five inter Quadripertitus
eſt, qui conſtatmembris qua- Quid Quz Seriocinantes. tuor: propoſitione,
affumptione, & una propo- dripernicus. Quid Probo Propoſitio inductionis
eſt,quæ fimilitudines fitionis live afſuinptionis conjuncta probatione, fitio.
concedendæ rei unius inducit, aut plurimaruin. & conclufione. Quid illatio.
Illatioinductioniseft, quæ & affumptio dicitur, Quinquepertitus eſt,qui
conſtat membris quin- Que de Marine quæ rem dequa contenditur, & cujus
cauſa ſimi- que:id eft,propoſitione,& probatione, aſſum- quepertiim,
litudines adhibitæ ſunt introducit. ptione, & ejus probatione, &
concluſione. Quid con Concluſio inductionis eſt, quæ aut conceſſio. Hunc Cicero
ita facit in arte Rhetorica: Si de clulo. nem illationis confirmat, aut quid ex
ea confi- liberatio & deinonſtratio genera ſunt cauſarum, ciatur, oftendit.
non poffunt rectè partes alicujus generis cauſa Qwid Ratio Ratiocinatio eft
oratio, quâid de quo eft quæ- putari. Eadem enim res, alii genus, alii pars
effc cinatio. ítio comprobamus. poteft: idem genus, & pars effe non poteſt,
vel Quid Enthy Enthymema igitur eſt, quod Latinè interpreta- cætera; quoufque
fyllogiſini hujus meinbra clau cur mentis conceptio, quam imperfectum fyllo-
dantur. Sed videro quantum in aliis partibus giſmum ſolent Artigraphi
nuncupare. Nam in lecter ſuum exercere poſſit ingenium. duabus partibus hæc
argumentiforma conſiſtit: Memoratus aurein Fortunatianus in tertio libro quando
id quod ad fidein pertinet faciendam, meminit de oratoris memoria, de
pronuntiatio utitur fyllogiſmorum lege præterita; ut eſt illud: ne, & voce,
unde tainen Monachus cum aliqua Si tempeſtas vitanda eſt, non eft igitur
navigan- utilitate diſcedit: quando ad ſuas partes non im dum. Exſola enim
propoſitione & conclufione probè videtur attrahere, quod illi ad exercendas
conítat effe perfectum: unde magis oratoribus, controverſias utiliter
aptaverunt. Memoriam { i quàm dialecticis convenire judicatum eſt. De quidem
lectionis divinæ re cognita cautela ſerva dialecticis autem ſyllogiſinisſuo
loco dicemus. bit, cùm in ſupradicto libro ejus vim qualitatém Quid con
Convincibile eft,quod evidenti ratione * con- que cognoverit: artem verò
pronuntiationis in *AIS.convin.vincitur;ſicut fecit Cicero pro Milone. Ejusigi-
divinæ legis effatione concipiet. Vocis autem di tur mortis ſedetis ultores,
cujus vitain, li * pPombais ligentiam in pſalmodiæ decantatione cuſtodiet. * Ed.
poſetis. per vosreſtitui poſſe, noletis. Sic inſtructus in opere ſancto
redditur, quamvis Quid Ofien Oſtentabile eft, quod certa reidemonſtratione
libris ſæcularibus occupetur. rabile. conſtringit; ſic Cicero in Catilinam: Hic
ramen Nunc ad Logicam, quæ & Dialectica dicitur, vivit, imò etiam in
Senatuin venit. ſequenti ordine veniamus, quam quidam diſci Quid Senten
tiabile. Sententiale eft, quod ſententia generalis addi- plinain, quidam artem
appellare maluerunt, di cit; ut apud Terentiun: Obſequium amicos,ve centes:
quando apodicticis,id eſt, probabili ritas odium parit. bus diſputationibus
aliquid diſſerit, diſciplina Quid Exem plabile. Exemplabile elt, quod alicujus
exempli com- debeat nuncupari: quando verò aliquid verilimi M. G. ini.
paratione eventum fimilem comminatur; ſicut le tractat, ut ſunt ſyllogiſini
ſophiſtici, nomen Cicero in Philippicisdicit:Temiror,Antoni,quo- artis
accipiat. Ita utrumque vocabulum pro ar *M.G. per- rum facta * imitere, eoruin
exitus, non * per- gumentionis ſuæ qualitate promeretur. timefcere, horrefcere.
Quid Colle Collectivum eſt, cùm in unum, quæ argumentata funt, colliguntur;
ſicut ait Cicero pro Milo ne: Quem igitur cum gratia noluit, hunc voluit De
Dialectica cuin aliquorum querela, quemjure, quem loco, quem
temporemoneftaulus: hunc injuria,alie- DJalecticam primiPhiloſophi
indi&ionum no cum periculo non dubitavit occidere. runt: non tamch ad artis
redegereperitiam. Poſt Ed. deftris Præterea ſecundum Victorinum Enthymematis
quos Ariſtoteles, ut fuit * diſciplinarum omniun altera eft definitio. Ex fola
propoſitione,ſicutjam diligens inquiſitor, ad regulas quaſdam hujus Ariffoseler
dictum eſt, ita conſtat Enthymema; ut eft illud: doctrinæ argumenta perduxit,
quæ priùs ſub cer- Dialectice Si tempeſtas vitanda eſt, non eſt navigatio
requi- tis præceptionibus non fuerunt. Hic libros fa- argumenta ad regulas
renda. Ex fola aſſumptione s ut eſt illud: Sunt ciens exquiſitos, Græcorum
ſcholam multiplici quafdamper autem qui munduin dicantfine divina adminiſtra-
laude decoravit; quem noftri non perferentes duris. tione diſcurrere. Ex
folaconcluſione; ut eft il- diutiùs alienum, tranſlatum expofitúmque Ro
Dialecticam lud: Vera eſt igitur divina * fententia. Ex pro- manæ eloquentiæ
contulerunt. Dialecticam verò, *MS. fcick poſitione& affumptione; ut eft
illud: Si inimicus &Rhetoricam Varro in nove;n diſciplinarú libris canin
move eſt, occidit. Inimicus autem eſt: & quia illi deelt tali funilitudine
definivit. Dialectica & Rhetori- libris Vaira.conclufio, Enthymnema
vocatur. Sequitur Epi- ca eſt, quod in manu hominis pugnus adſtrictus,
definivit. chirema. & palma diſtenſa: illa brevi oratione argumenta Quid
Epic Epichirema eft, quod fuperiùs diximus, dels concludens, iſta facundiæ
campos copioſo fer chirema. cendens de ratiocinatione latior excurfio Rheto-
mone diſcurrens: illa verba contrahens, ifta di Itendens. & Argumentum eſt
argutæ mentis indicia quod per indagationes probabiles,rei dubiæ
perficitfidem,per Rhetoricaad illa,quæ nititurdocenda, facun- pomaleticom
Dialectica fiquidem ad differendas res acutior: Que fic diffe excmpla
confirmans; ut eft: Noliæinulari in malignan tibus: quoniam tanquain fænum,
&c. dior. Illa ad ſcholas nonnumquam venit, iſta ju. & Rhetori saris.
Zivim. n.19167. & Rhetoria 64m. De Dialectica.. son quenter. girer procedit
in forum: illa requirit rariſſimos & noftræ diſpoſitionis curràtintentio.
Conſue * MSS.fre- ftudiofos, hæc * frequentes populos. Sed priul- tudo iraque
eft doctoribus philoſophiæ, ante quam de fyllogiſmisdicamus, ubi totius Diale-
quam ad Iſagogen veniant exponendam, divis dicæ utilitas &
virtusoſtenditur, oporter de ejus lionem philoſophiše paucis attingere:quam nos
initiis, quaſi quibuſdam elementis, pauca diffe- quoque ſervantes; præſenti
tempore non immer cere; ut ficut eſt à Majoribus diſtinctus ordo, ita ritò
credimus intiinandain, Philofophiæ divifio. In Inſpectivam, TIXMT, hæc
dividitur in In Naturalem. | Doctrinalem, hæc (In Arithmeticam dividitur
Muficam. Geometricain. Divinain. Aftronomicain Diviſt thing Lofophiæ.
Philoſophia divi ditur fecundum Ariftotelem. Moralem. | Sirir. Er Actualeta
Ciſpenſativa, Φρακτικών PorxorowyXXV. hæc dividitur in Civilem. ίπολιτική »
ACETA! oixorouexin. weg.Xti xh. νομοθεπκό., thesxor. Sewertexn.. φυσική.
Definitiò Philos fophiæ. megatoxin. resnio intoxin. 23 Quid 1 3. Dirogoera
oroimene Occs Kated to duratór ávöçóórw. plina quæ curſus cæleftium, fiderumque
figuras homophine en Philoſophia eft divinaruin, humanarùmque re contemplatur
omnes, &habitudines ftellaruni quotuplex. rum, inquantum homini poſſibile
eſt, probabilis circa ſe; & circa terram, indagabili ratione per Ycientia:
Aliter,Philoſophia eſt ars artiuni, & dif- currit. Actualis dicitur, quæ
res propoſitas ope ciplina diſciplinarum.Rucſus, Philoſophia eſtme, rationibus
ſuis explicare contendit. Moralis di ditatio mortis,quod magis convenit
Chriſtianis, citur, per quam mos vivendihoneſtus appetitur; 2.Corint. 16. qui
ſæculi ambitione calcata, converſatione dif- & inſtitura ad virtutem
tendentia præparantur. ciplinabili, fimilitudine futuræ patriæ vivunt;
Diſpenſativa dicitur, domeſticaruin reruin fa Philip. 3. 20. Sícut
dicitApoftolus: In carne enim ambulantes, pienter ordo diſpoſitus. Civilis
dicitur, per quàm non ſecundum carnem militamus; & alibi: Con- totius
civitatis adminiſtrarur utilitas. Philoſo verſatio noftra in calis eft.
Philofophia eſt affimi- phiæ diviſionibus definitionibúſque tractatis, in lari
Deo ſecundum quod poflibile eft homini. quibus generaliter omnia continentur,
nunc ad Inſpectiva dicitur,qua ſupergreſſi vilbilia de di- Porphyrii librum,
qui Iſagoge inſcribitur, acce vinis aliquid & cæleſtibus contemplamur,
eáque damus. mente foluinmodo contuernur, quantum corpo De Iſagoge Porphyrii.
reum ſupergrediuntur aſpectum. Naturalis dici tur,ubiuniuſenjufque rei natura
diſcutitur: quia de Genere. Dávc. nihilcontra'naturain generaturin vita: ſed
unun | de Specie. tidos. quodque hisufibus deputatur, in quibus à Crea- llagoģe
Por de Differentia. Depoeg tore productú eit: nifi fortè cum voluntate divina
phyrii tractat de Proprio. ibor aliquod miraculuin proveniremonſtrerur.Doctii i
de Accidente, συμβεβηκός. *MSS. figni- nalis dicitur ſcientia, quæ abſtractam *
conſiderat ficar. quantitatem. Abſtracta eniin quantitas dicitur, Genus eft ad
fpecies pertinens, quod de diffe- Quid fit Ge quam intellectu àmateria
ſeparantes,vel ab aliis rentibus fpecie, in co quod quid ſit, prædicatur; nun
accidentibus; ut eſt, par, impar: vel alia hujuſce ut animal. Per ſingulas enim
fpecies, id eft, modi in ſola ratiocinatione rractainus. Divinalis hominis,
equi, bovis, & cæterorun,genus anis dicitur, quando aụt ineffabilem naturam
divi- mal prædicarur atque ſignificatur, nam, aut ſpirituales creaturas ex
aliqua parte, Species eſt, quod de pluribus & differentibii's Quid fit Spo
profundifſimâ qualitate differimus. Arithinerican numero, in eo quod quid fit,
prædicatur; nam cies, eſt diſciplina quantitatis numerabilis ſecundum de
Socrate, Platóne, & Cicerone homo prædi ſe. Muſica, eſt diſciplina quæ de
numeris loqui- catur. tur, quiad aliquid ſunt his, qui inveniuntur in
Differentia eſt, quod de plaribus & differen » Quid fit Dif". ſonis.
Geometrica, elt diſciplina magnitudinis tibus ſpecie,in eo quod quale
ſit,prædicatur; ſicuc erensia, immobilis,&formarum. Aftronoinia,eſt diſci-
rationale & inortale,in eoquodquale ſit, dc ho- f mine prædicatur, 568
Caffiodorus € lcens. men. atque bos. Tulum, Quid fit Pro Proprium eſt, quod
unaquæque ſpecies, vel Hoc opus Ariſtotelis intentè legendum eſt, cur Carego
prium. perſona certo additamento infignitur, &ab om- quando ficut dictum
eſt; quicquid hoino loqui- rie Ariftotelis ni communione feparatur. tur, inter
decem ifta Prædicamenta inevitabili, intentè les erid fut Ac. gende. Accidens
eſt, quod accidit & recedit præter ter invenitur: proficit etiam ad libros
intelligen ſubjecti corruptionem: vel ea quæ fic accidunt, dos, qui live
Rhetoribus, fivc Dialecticis appli ut penitus non recedant. Hæc qui pleniùs
noſſe cantur. deliderant, Introductionem legant Porphyrii; * £ d.alicujus
quilicetad utilitatein * alieni operis ſedicatſcri Incipitperi hermenias, id
eft, de inter bere, non tamen ſine propria laude viſus eſt talia pretatione.
dicta futinafle. Sequitur liber peri hermenias ſubtiliſimus rii Categorie
Ariſtotelis. mis, & per varias formas, iterationéfque cautif ſimus, de quo
dictuin eſt: Ariſtoteles, quando Sequuntur Categorix Ariſtotelis, ſive Prædi-
librum peri herinenias ſcriptitabat, calamum in camenta: quibus mirum in modum
per varias fi- mente tingebat. gnificantiasomnis fermo concluſuseſt: quorum De
nomine. organa ſive inftruinenta ſunt tria. De verbo. Inftrumenta Organa vel
inſtrumenta Categoriaruin five In libro peri hermenias; De oratione,
drogoriarum (rent tria, /ci Prædicamentorum funtæquivoca, univoca, de- id eft,
de interpretatio De enunciatione. licet. nominativa. ne, prædictus philofo De
affirmatione. Æquivoca. Æquivoca dicuntur, quorú noinen folùm com- phusdehis
tractat. De negatiore. mune eft, fecundùm nomen verò ſubſtantiæ ratio
Decontradictione, diverſa; ut animal, homo, & quod pingitur. Vniyoca,
Univoca dicuntur, quorum & noinen com Nomen, elt vox fignificativa ſecundùm
placi- quid fitmoi mune eſt, & ſecunduin nomen diſcrepare eadem tum, ſinė
tempore: cujus nulla pars eſt ſignificati ſubſtantiæ ratio non probatur: ut
animal, homo, va ſeparata: utSocrates. Verbum, eſt quod conſignificat tempus:
cujus Quid forver Deuominati Dena ninativa, id eſt, derivativa, dicuntur pars
nihil extra ſignificat, & eſt ſemper eorum bum, quæcuinque ab aliquo ſola
differentia caſus ſe- quæ de altero dïcuntur nota; ut ille cogitat, dil cundum
noinen habent appellationem: ut å putat. grammatica gramınaticus,& à
fortitudine fortis. ' Oratio, eſt vox fignificativa, cujus partium Quid ſit örä
aliquid * feparatim ſignificativum eſt; ut Socrates to Subſtantiaa sola,
diſpucat. * MSS.lepa | Quantitas, mosotas. Enuntiativa otàtio, eſt vox
ſignificativadeeo Quid fit Ad aliquid. ney's Fan quod eft aliquid, vel non eſt;
ut Socrates eſt, So- Enuntiatid. Ariſtotelis Ariſtotelis Catego Qualitas.
TÓTUS. crates non eſt. Categorie riæ, vel Prædicamen- į Facere. FOREV.
Affirinatio, eft enuntiatio alicujas de aliquo: quid fit Af son decem. ra decem
ſunt Pati. PeoMHT. ur Socrates eſt. formatio. Situs. ευρώς. Negatio, eft
alicujus de aliquo negatio: ut So- luid fitNe. Quando. done. crates non eſt.
gatio. Ubi. Contradictio, eſt afficmationis & negationis euid fitcom |
Habere. (xar. oppoſitio: ut, Socrates diſputat, Socrates non diſputát. Subſtantia
elt, quæ propriè, &t principaliter Hæc omnia per librum ſuprà memoratum mi.
Liber Pero Hermenias & maxiinè dicitur; quæ neque de ſubjectopræ- nutiſſimè
diviſa; & ſubdiviſa tractantur, quæ Boetio feprem dicatur, neque in
ſubjecto eſt; ut aliquis homo, breviter intimnaſſe ſuffciat, quando in ipfo
com- libris expoſé vel aliquis equus. Secundæ autem ſubftantiæ di- petens
explanatio reperitur: maximè cùin eum tu. cuntur, in quibus ſpeciebus, illæ quæ
principa- Tex libris àBoëtio viro magnifico conſtet expoſi liter ſubſtantia
primò dicta ſunt, inſunt atque tum, qui vobis inter alios codiceseſtrelictus.
clauduntur; ut in homine, Cicero. Nunc ad fyllogiſticas ſpecies formulaſque vea
Quantitas Quantitas aur diſcreta eſt, & habet partes ab nianus, in quibus
nobilium Philofophorum ju aplex, aiſ alterutrodiſcretas,nec eominunicantes,
ſecun- giter exercetur ingenium, dum aliquem communem terminum, velut nu merus,
& ſerino quiprofertur; aut continua eſt, De Formulis ſyllogifmorum. &
habet partes quæ ſecundum aliquem coinmu* nein terininuin adinvicem
convertuntur; velut (in priina forinula modi no linca, ſuperficies,
corpus,locus, motus,tempus. Forinulæ Categori Ad aliquid verò funt, quæcumque
hoc ipſo coruin, id eſt, Præ-, In ſecunda formula modi Formale ca quod ſunt,
aliorum eſſe dicuntur; velur majus, dicativorum ſyllo quatuor. duplum,habitus,
difpofitio,ſcientia, ſeriſus, gilmorú ſunttres. | In tertia formula modi
politio. i ſex. Qualitas, eſt, fecundum quam aliqui quales dicimur; ut bonus,
malus. Modiformule prime ſunt novem. Facere eſt, ut ſecare, vel urere, id eft,
ali quid operari. Pati eſt, ut ſecari, vel uri. Primus modus eſt, quiconcludit,
id eft, qui Situs, eft, ut ftat, ſeder, jacet. Quando colligit ex univerſalibus
dedicativis, dedicati eft, ut hefterno, vel crás. vum univerſale directum; ut,
omne juſtum ho Ubi eſt: ut in Aſia, in Europa, in Lybia. neſtum, omne honeftum
bonum, omne igitur Habere eft: ut calccatum, velarmatum effe. juſtum bonum.
Secundus ött. tradictio, nos creta, con sinna, vem. tegoricum Syllogiſmorum
funt tres. DeDialectica. 569 * Ed, concler dit. per quæ ſubti Secundus
moduscft, qui * conducit ex univer- rivis particulari & univerfali
dedicatvium parti ſalibus dedicativâ & abdicativâ abdicativum uni- culare
directum: ut quoddam juſtam honeſtum, verſale directum: ut oinnejuſtum honeſtum,
nul- omne juſtum bonum, quoddam igitur honeſtuin lum honeſtum turpe, nullum
igitur juſtum bonum. turpe. Tertius modus eſt, quiconducit ex dedicativis
Tertius modus eſt, qui conducir ex dedicativis univerſali & particulari
dedicativum particulare particulari & univerſali,dedicativum particulare
directum: ut, omne juſtum honeftuin, quod directum: ut quoddam juftum eft
honeſtum,om- dam juſtuin bonum, quoddam igitur honeſtum ne honeftuin utile,
quoddam igirur juftumn utile. bonum. Quartusinodus eſt, qui conducitex
particulari Quartus modus eſt, quiconducit ex univerſa dedicativa,
&univerſali abdicativa, abdicativum libusdedicativa & abdicativa
abdicativum parti particulare directum: ut quoddam juſtum hone- culare directum:
utomne juſtuin honeſtuin, nul Itum, nullum honeftunı turpe, quoddam igitur lum
juſtum malum, quoddam igitur honeſtum juſtum non eft turpe. non eſt malum.
Quintus modus eſt, qui conducit ex univerſa Quintus modus eſt, qui conducit ex
dedicativa libus dedicativisparticulare dedicativum per re- particulari &
abdicativa univerſali abdicativum Mexionem: ut omne juftum honeſtum, omne ho-
particulare directum: ut, quoddam juſtum, ho neftum bonum, quoddam igitur bonum
juſtum. neſtum, omne honeſtum bonum,igitur quoddan Sextus modus eft, qui
conducit ex univerſali honeftum non eft malum. dedicativa, & univerſali
abdicativa, abdicativum Sextus modus eſt, qui conducit ex dedicativa univerſale
per reflexionem: ut omne juſtum ho- univerſali & abdicativa particulari
abdicativum neltuin, nulluin honeſtum turpe, nullum igitur particulare directum:
ut,omnejuſtum honeſtum, turpe juftum. quoddam juſtum non eſt malum, quoddam igi
Septimusmodus eſt,quiconducit ex particulari tur honeſtuin non eſt malum. &
univerſali dedicativis dedicativum particulare Has formulas Categoricorum
ſyllogiſmorum reflexionem: ut quoddamn juftum honeſtum, qui plenè nofſe
deſiderat, librum legat, quiin Liber Apa!e omne honeſtum utile,quoddam igitur
utile juſtú. fcribirur -Peri hermenias Apuleii, & qui inſcribi: Odavus
modus eft, qui conducirex univerfa- lias ſunt tractata, cognoſcet. Nec
faſtidium no- tur Peri her libus abdicativa & dedicativa particulare
abdica- bis verba repetita congeminent; diftin &ta enin, menias, le tivum
per reflexionein: ut nullum turpe hone- atque conſiderata, ad
magnasintelligentiæ vias, gendus. ftum, omnehoneſtum juſtum, quoddamn igitur
præftante Domino,nosutiliter introducent.Nunc juſtum non eft turpe. ad
hypotheticos fyllogiſinos, ordine currente, Nonas modus eit, qui conducit ex
univerſali veniainus abdicativa, &particulari dedicativa abdicativum
particulareper reflexionem:velut nullumturpe Modi Gyllogiſmorim hypotheticorum,qui
fiunt Modifyllogif morum hyposs honeſtun, quoddam honeſtum juſtum, quoda cum
aliqua conjunctione, Jeptem funt. dam igitur juſtum non eſt turpe. funt feptem.
Primus modus eſt, velut: Si dies elt, lucer; eſt Modi formuleſecunda funt
quatuor. autein dies; lucet igitur. Secundusmodus eft ita: ſi dies eſt, lucet,
non Primus modus eſt, qui conducit ex univerſali- lucet; non eft igitur dies.
bus dedicativa & abdicativa abdicativum univer- Tertius modus eſt ita: non
& dies eſt & nonlu fale directum: velutomne juſtum honeſtum,nul- cet,
atqui dies eft, lucèt igitur. lum turpe honeftum,nullum igitur juſtum turpe.
Quartus modus eft ita: aut nox, aut dies eft, at Secundus modus eſt,
quiconducit ex univerſa- qui dieseſt, non igitur nox eſt. libus abdicativa
& dedicativa abdicativum uni Quintus moduseſt ita: aut dies eſt, aut nox,
at-. verſale directuin: velut nullum turpe honeftum, qui nox non eſt, dies
igitur eſt. omne juſtum honeſtum, nullumigitur turpe Sextus inodus eſt ica: non
& dies eſt, & nonlu juftum cet, dies autem eſt, nox igitur non eſt.
Tertius modus eſt, quiconducit ex particulari. Septimus modus eſt ita:non &
djes eft & nox, dedicativa & univerfali abdicativa ab licativum atqui
nox non eſt, dies igitur eſt. particulare directum: veluc quoddam juftum ho
Modos autem hypotheticorum ſyllogiſinorum neſtum, nulluin turpehoneftum,
quoddam igi- fi quis pleniùs noſſe deſiderat, legat librum Marii Marius Vi tur
juſtum non eſt turpe. Victorini, qui inſcribitur de fyllogiſmis hypo-
&torinus librá Quartus r.odus eſt, quiconducit ex particu- thericis.
Sciendum quoque, quoniam Tullius de hypotheti: lari abdicativa & univerfali
dedicativa abdicati- Marcellus Carthaginenſisde categoricis & hy- edidit.
vum particulare directum: velut quoddamn juftum potheticis fyllogiſmis, quodà
diverfis philoſo: TulliusMar non eſt turpe, omne malum turpe, quoddam
phislatiſſimè dictum eft, feptem libris breviter cellus igitur juſtuin non eft
malum, ſubtilitérque tractavit; ita ut priino libro de re: thag. de Syl gula,
ut ipſe dicit, colligentiarum artis Dialecticæ logiſmis Modi formula tertiæfunt
fex. diſputaret; &quod ab Ariſtotele de categoricis compofuit. ſyllogiſmis
multis libris editum eſt, ab ifto fecun Primus modus eſt, qui conducit 'ex
dedicativis do & tertio libro breviter expleretur; quod aut univerfàlibus
dedicativum particulare, tam dire- tem de hypotheticis ſyllogiſmis à Stoicis
innume Etuin, quàm reflexum: ut omne juſtum hone- ris voluminibus tractatum eſt,
ab iſto quarto & ftum, omne juſtum bonum, quoddam igitur ho- quinto libro
colligeretur. In fexto verò de inix neftum bonum vel quoddamn bonum ho- tis
fyllogiſinis, in ſeptimo autem de compoſitis neftuin. diſpucavit; quem codicem
vobis legendum re-, Secundus modus eſt, qui conducit ex dedica- liqui. cccc
theticorum Car Jeprem libros > $ 70 Caffiodorus Quid las Depnilio. 1.1 1
longum viaticum: modò ut laudet, ut adolers De Definitionibus. centia eſt Aos
ætatis. Octava ſpecies definitionis eft, quain Græci Hinc ad pulcherrimas
definitionum ſpecies ac- x7 a paistoin rõ Evertix vocant, Latini per pri Milanius,
quæ tantà dignitate præcellunt, ut pof- vantiam contrarii ejus quod definitur,
dicunt; up ſont dici orationun maxiinuin decus, & quædam bonum eſt, quod
malum noneft: juftuin eſt, quod lumina dictionuin. injuſtum non eft. Et his
fimilia: quod fe ita na Definitio verò, eſt oratio uniuſcujuſque rei turaliter
ligat, ut neceſſariam cognitionem fibi naturam à communione diviſam, propria
ſignifi- unius comprehenſione connectat. Hoc autem catione concludens: hæc
multis modis, præce- genere definitionis uti debemus, cùm contrarium priſque
conficitur. notun eſt; nam certa ex incertis nemo probat. Definitionum prima
eſt óvoradcas, Latinè ſub- Sub qua ſpecie ſunt hæ definitiones. Subſtantia
ftantialis, quæ propriè & verè dicitur definitio; eft, quod neque qualitas
eſt, neque quantitas, ne or eſt, homoanimalrationale mortale, ſenſus dif- que
aliqua accidentia: quo genere definitionis ciplinæque capax;llæc enim definitio
per fpecies Deus definiri poteſt; etenim cùm quid fit Deus, &
differentiasdeſcendens, venit ad proprium, & nullo modo comprehendere
valeamus: ſublatio deſignat plenillimè quid ſit homo. omniuin exiſtentium, quæ
Græci örta appellant, Sccunda eſt ſpecies definitionis, quæ Græcè cognitionem
Dei nobis circumciſa & ablata no ŽVYOMMA TIx ) dicitur, Latinè notio
nuncupatur: tarum rerum cognitione ſupponit; ut li dicamus, quam notionem
communi,non proprio nomine Deus eſt, quod neque corpus eſt, neque ullum
poffumus dicere. Hæc iſto modo ſemper effici- elementum, neque animal, neque
mens, neque cur: Homo eſt, quod rationali conceptione & ſenſus, neque
intellectus, neque aliquid, quod exercitio præeſt animalibus cunctis. Non eniin
ex his capipoteſt; his enim ac talibus ſublatis, dixit, quid eſt homo, ſed quid
agat, quaſi quodam quid fit Deus, non poterit definiri. figno in notitiam
denotato. In iſta enim &in re Nona ſpecies definitionis eſt, quain Græci
liquis notio rei profertur: non ſubſtantialis, ut Kåtalnooi, Latini per quamdam
imaginatio in illa primariaexplanatione declaratur; & quia nem dicunt: ut,
Æneas eſt Veneris & Ănchiſæ illa fubftantialis eſt, definitionum omnium
obti- filius. Hæc ſemper in individuis verſatur, qux ner principatum. Græci
aqua appellant. Idem accidie in eo gene Tertia fpecies definitionis eſt, quæ
Græcè redictionis, ubialiquis pudor aut metus elt no Trolótus dicitur, Latinè
qualitativa. Hæc dicendo minare: ut Cicero, cùm me videlicet ficarii illi quid
quale lit, id quod fit, evidenter oſtendit. deſcribant. Cujus exemplum tale eſt:
homo eft, qui ingenio Decima fpecies definitionis eft, quam Græci valet,
artibus poller, & cognitione rerum: aut as Tót, Latini, veluti, appellant;
ut fi quæ quæ agere debeat eligit:aut animadverſione quod ratur quid ſit
aniinal, refpondearur, homo: inutile fit contemnit; his enim qualitatibus ex
non enim manifeftè dicitur animal folum effe preſſus ac definitus homo eſt.
hominem, cum fint alia innumerabilia: ſed cuin Quarta ſpecies definitionis eſt,
quæ Græcè dicitur homo, veluti ipfum hominem animal de soggapixn, Latinè
deſcriptionalis nuncupatur: fignat: cùm tamen huic nomini multa ſubja quæ
adhibitâ circuitione dictorum factorúmque, ceant. Rem enim quæfitam prædictum
declata rem, quid fit deſcriptione declarat;ut ſi lu- vit exemplum. Hoc eſt
autem proprium defini xuriofum volumus definire, dicimus: Luxurio- tionis, quid
fit illud, quod quæritur, declarare. fus, eſt victus non neceffarii &
fumptuoli & one Undeciina ſpeciesdefinitionis eft, quam Græ rofi
appetens,in deliciis affluens,in libidine pron- ci rece tead the matter, Latini
per iudigentiain ptus; hæc & talia definiunt luxuriofum. Que pleni ex eodem
genere vocant: ut ſi quæratur ſpecies definitionis, oratoribus magis apta eſt,
quid fit triens, refpondeatur, cui dodrans deeft, quàm dialecticis, quia
latitudines habet; hæc ut lit aſlis. fimili modo in bonis rebus ponitur, &
in Duodecima ſpecies definitionis eſt, quam Græ malis. ci, Kata imesvov, Latini
per laudem dicunt; ut Quinta ſpecies definitionis eft, quam Græcè Tullius pro
Cluentio: Lex eſt mens, & animus, AT nikov: Latinè ad verbum dicimus: hæc
vo- & confilium, & fententia civitatis. Et aliter pax cem illam, de qua
requiritur, alio ſermonedeſi- eſt tranquilla libertas. Fit &
pervituperationem, gnat uno ac ſingulari, & quodammodo quid il- quam Græci
tózer vocant: ſervitus eſt poſtre lud ſit in uno verbo pofitum, uno verbo alio
de- mum malorum omnium, non modò bello, ſed clarat; ut conticefcere eſt tacere:
item cùm ter- morte quoque repellenda. minum dicimus finem, aut terras
populatas inter Tertiadecima eſt ſpecies definitionis, quam pretemur effe
vaſtatas. Greci κατ'αναλογίαν,Latini juxta rationem dicunt: Sexta ſpecies
definitionis eſt, quam Græci x fed hoc contingit, cum majoris ire nomine, res
Thu nepoege, per differentiam dicimus; id eft, definitur inferior: ur eſt illud,
homo ininor mun cùm quæritur, quid interſit inter regem & ty- dus. Cicero
hac definitione ſiculus eſt:Edictum, rannum, adjecta differentia quid uterque
fit, de- legem annuam dicunt eſſe. finitur: id eſt, rex eſt modeftus &
temperans, ty Quartadecima eſt ſpecies definitionis, quam rannus verò impius
& immitis. Græci sess, Latini ad aliquid vocant: ur eſt Septima eft fpecies
definitionis, quam Græci illud, pater eft, cui eſt filius:dominus eſt, cui eft
el ustápoegr. Latini per tranſlationein dicunt: fervus: & Cicero in
Rhetoricis, genus eſt, quod ut Cicero in Topicis, Lictus eſt, quà Auctus elu-
plures partes amplectitur: item pars eſt, quod lu dit. Hoc variè tractari
poreſt: modò enim ut beſt generi. moveat, ficut illud, caput eſt arx corporis:
modò Quintadecima eſt ſpecies definitionis, quam ut vituperet, ut illud,
divitiæ ſunt brevis vitæ Græci koste BiTiongear, Latini fecundum rei fa ! De
Dialectica. 571 tionuom. 5 rationem vocant: ut dies eſtrol fuprà terras:nox,
dicativus atque ſubjectus. Terminos autem voco elſolſubterris. Scire autem
debemus prædictas verba &nonina,quibuspropoſitio nectitur;ut niquifuntper
propoſe ſpecies definitionum, Topicis meritò eſſe ſocia- in ea propoſitione qua
dicimus:Homojuſtus eſt: tas, quoniaminter quædam argumenta funtpoſi- hæc duo
nomina, id eſt, homo & juftus, propo tæ, & nonnullis locis
commemoranturin Topi- fitionis partes vocantur. Eoſdem etiam terminos cis. Nunc
ad Topica veniamus, quæ ſunt argu- dicimus: quorum quidem alter ſubjectuseſt,
al mentorum fedes, fontes ſenſuu, origines di- ter verò prædicativus, Subjectus
eſt terminus, &tionum: de quibus breviter aliqua dicenda ſunt, qui minor
eſt: prædicativus verò, qui major: ut ut &dialecticos locos, &
rhetoricos, ſive corum in ea propolitione, qua dicitur, Homo juſtus,
differentias agnofcere debeamus: ac prius dedia- homo quidem minus eſt, quàm
juſtus. Non Iceticis dicendum eft. enim in folo homine juſtitia eſſe poteft,
verùm etiam in corporeis diviníſque ſubſtantiis: atque De Dialecticis locis.
ideo major eſt terminus, juſtus: homo verò, mi nor; quò fit, ut homo quidem
ſubjectus fit ter Quid die Propoſitio, eft oratio verum - falfúmveſignifi-
minus, juſtus verò prædicativus. Propofitio. cans, utſiquis dicat, cælum eſſe
volubile: hæc Quoniam verò hujuſmodi (implices propolis enuntiatio &
proloquiun nuncupatur: quæſtio tiones alterum habentprædicativum terminum, verò
eft, in dubitationem ambiguitatémque ad- alterum verò ſubje& um, à majoris
privilegio par ducta propofitio; utſiqui quærant, an fit cælum tis propoſitio
prædicativa vocata eft.Sæpe autem Quid Concli- volubile. Concluſio, eft
argumentis approbara evenit, ut hi termini ſibimet inveniantur æqua 330.
propoſitio; ut fi quis exaliis rebus probetcælum les, hocinodo, homoriſibilis
eſt; homo namque effe volubile.Enuntiatio quippe live ſui tantum &
riſibilis uterque ſibi æquus eſt terminus. Nam caufa dicitur,five ad alios ad
ferturad probandum, ncque riſibile ultra hominem, nec ultra riſibile propofitio
eft: cùm de ipſa quæritur, quæſtio: homo porrigitur: ſed in luis hoc evenire
neceſſe lipſa eſt approbáta, conclufio. Idem igitur pro- eſt, utſi quidam
inæquales termini ſunt, major politio,quæſtio, & conclufio, fed
differuntinodo, ſemper de ſubjectoprædicetur: fi verò æquales Quid fit Ar
Argumentum eſt oratio rei dubiæ faciens fi= utrique, converſa de fe
prædicatione dicantur. gumentum. dem. Non verò idem eſt argumentum, quod &
Ut verò minor demajore prædicetur, in nulla arguinentatio. Nam vis ſententiæ
ratióque ea, propoſitione contingit. Fieri autein poteft, ut quæ clauditur
oratione, cùm aliquid probatur propoſitionum partes, quas terminos dicimus,
ambiguum, argumentum vocatur: ipfa verò ar- non ſolum in nominibus, verum
etiain in oratio gumenti elocutio, argulhentatio dicitur; quò fit, nibus
inveniamus. Nam ſæpe oratio deoratione ut argumentum quidem mens
argumentationis prædicatur hoc modo: Socrates cum Placone so Git atque
ſententia: argumentatio verò argument diſcipulis de philoſophiæ ratione
pertractat; hæc per orationem explicatio. quippe oratio, quæ eft, Socratesçum
Platone & Quid fit Locus verò eſt argumenti fedes, vel unde ad diſcipulis,
ſubjecta eſt: illa verò, quæ eft, de propoſitain quæſtionein conveniens
trahitur ar- philofophiæ ratione petractat, prædicatur. Rur gumentum. Quæ cùm
ita fint, ſingulorum dili- ſus aliquando nomenſubjectum eſt, oratio præ ='
gentiùs nătura tractanda eſt, eorumque per fpe- dicaruin, hocmodo: Socrates de
philoſophiæ ra-. cies ac membra figuraſque facienda diviſio. cione pertractat;
hic eniin Socrates ſolus ſubje Acpriùsde propoſitione eſt diſſerendum: hanc
ctus eſt:oratio verò, quàm dicimus, de philoſo eſſe diximus orationein,
veritatem, vel menda- phiæratione pertractat,prædicatur.Evenir etiam,
Duæſuntpro- cium continentem. Hujus duæ ſunt ſpecies: una ut fupponatur oratio,
& fimplex vocabulum pofitionum affirmatio, altera verò negatio. Affirmatio
eſt, prædicetur hoc inodo: Similicudo cum ſupernis fpecies ſub,, fi qui ſic
efferat, Caluin volubile eſt:negatio, li diviníſque ſubſtantiis, juſtitia eſt;
hic enim ora quis ita pronuntiet, cælum volubile non eſt. rio per quam
profertur fimilitudo, cum ſupernis alie. Harumverò aliæ ſunt univerſales, aliæ
ſunt par- diviníſque ſubſtantiis fubjicitur:juſtitia verò pre ticulares, aliæ
indefinicæ, aliæ ſingulares. Uni- dicatur. Sed de hujuſmodipropoſitionibusin
his verſales quidem, ut ſi quis ita proponat: Oin- commentariis, quos in Peri
hermenias Ariſtotelis nis homo juftuseft, nullus homo juſtus eft. Par- libros
ſcripſimus, diligentiùs differuimus. ticulares verò, fi quis hoc modo:Quidamn
homo Arguinentum, eft oratio rei dubiæ faciens fi- Quid fit an juftus eft,
quidam homo juſtus non eſt. Inde- dem:hanc femper notiorem quæſtione elſe nez
gumentum, finitæ fic:Homojuſtus eſt, homo juſtusnon eſt. ceſſe eſt. Nain
liignora nobis probantur, argu Singulares verò funt, quæ de individuo aliquid
mentum verò rem dubiam probat: neceffe eft, ut fingularique proponunt:utCato
juſtuseſt, Cato quod ad fidem quæſtionis affertur, fit ipfa notius juſtus non
eft; etenim Cato individuus eſt, ac quæſtione. Argumentorum verò oinnium alia
Multiplicito fingularis. ſuntprobabilia & neceſſaria:alia veròprobabilia
Juris Argan Harum verò alias prædicativas, alias conditio. quidem, ſed non
neceſſaria: alia neceffaria; ſed nales vocainus. Prædicativæ funt, quæ fimpli-
non probabilia:alia nec probabilia, nec neceffaria. Quid forProm citer
proponuntur, id eſt, quibus nulla vis con- Probabile verò eſt, quod
videturvelomnibus, vel bavile Argu ditionis adjungitur: ut fi quis fimpliciter
dicat, pluribus, velfapientibus, & his vel omnibus, vel mensun. Cælum eſſe
volubile. At, li huic conditio copu- pluribus, vel maximè notis, atque
præcipuis, letur, fit ex duabus propoſitionibus una condi- vel unicuique
artifici fecundum propriam facul tionalis, hocmodo: Cælum (irotundum ſit, efle
càtem; ut de medecinamedico, gubernatori de volubile; hîc enim conditio id
efficit, ut ita de- navibus gubernandis: & præterea quod ei vides mum cælum
volubile eſſe intelligatur, ſit ro- tur cuin quo fermo conſeritur, vel ipſi qui
judi tundum. Quoniam igitur aliæ propofitiones præ- cat. In quo nihil artiner
verum falfùmvelit árgưr dicativæ ſunt, aliæ conditionales: prædicativa- mentum,
fi tantùm veriſimilitudinem tenet. rum partes, terminos appellamus. Hi ſunt præ
Neceffariun vero eft, quod ut dicitar, ita eſt, Quidfor Ne cearium. Сccc ij
Locis. quibus multe mentorum genera. 572 Caffiodorus rium. atque aliter eſſe
non poteft: & probabile quidein, fpeciebusutiturargumentis, quæfunt probabi
ac neceflarium eſt; ut hoc ſi quid cuilibet rei ſic le ac neceſſarium,
neceſſariuin ac non probabile. additum, totum majus efficitur. Neque enim Patet
igitur, in quo philoſophus ab oratore, ac quifquam ab hąc propoſitione
diffentiet, & ita ſe dialectico in propria confideratione diſſideat; in
Quid fit le habere neceſſe eſt. Probabilia verò acnon ne- co ſcilicet, quod
illis probabilitatem, huic veri provabile ac ceffaria, quibus facilè quidem
animus acquief- tatem conſtat elle propofitam. Quarta yerò fpe non neceffa- cit,
fed veritatis non tenet firmitatem; ut cies argumenti, quain ne arguinentun
quiden học, ſi mater eſt, diligit. Neceſſaria verò funt, rectè dici
ſupràmonſtravimus, fophiftis Tola eſt Quid fit ne cilarium,ac ac non
probabilia, quæ ita quidein eſſe, ut dicun- attributa. Topicorum verò intentio
eft, verili non probabile tur ſe habere, necefle eft, ſed his facilè non con-
milium argumentorum copiam demonſtrares de ſentit auditor:ut ob objectum
Lunaris corporis, fignatis enim locis,è quibus probabilia arguinen bredamſunt
Solis evenire defectunt. Neque neceſſaria verd ta ducuntur, abundans.&
copiofa neceſſe fiat nec neceffa- peque probabilia funt, quæ neque in opinione
materia differendi. ria,necpro- hominum, neque in veritate confiftunt, ut hoc,
Sed quoniam, ut fuprà dictum eſt, proba babilia habere quæ non perdiderit
cornua Diogenem, bilium argumentorum alia funt neceffaria, quoniam habcatid
quiſque quod non perdiderit; alia non neceſſaria: cùm loci probabilium ar quæ
quidem nec argumenta dici poſſunt: argu- guntentorum dicuntur, evenit, ut
neceſſario mentaenim rei dubiæ faciunt fidem. Ex his au- ruin quoque doceantur,
quo fit, ut oratoribus tem nulla fides eſt, quæ neque in opinione, ne- quidem
ac dialecticis hæc principaliter facultas que in veritate ſunt conſtitutą. Dici
tamen poo parecur, ſecundo verò loco philofophis. Nam teſt, ne illa quidem eſſe
argumenta, quæ cùm fint in quo probabilia quidem omnia conquiruntur, neceffaria,
minimè tamen audientibus appro- dialectici atque oratores javanțur: in quibus
verò bantur. Nam ſi rei dubiæ fit fides, cogendus eft probabilia ac neceffaria
docentur, philoſophic.e animus auditoris, per ea quibus ipſe adquieſcit,
demonſtrationi miniſtratar ubertas. Non modò u concluſioni quoque, quam nondum
probar, igitur dialecticus atqueorator, verùm etiam de poſlit accedere. Quod fi
quæ tantùm neceffaria monſtrator, ac veræ argumentationis effector, (unt, ac
non probabilia, non probat ille qui ju- babetquod ex propoſitislocis libi
poſſit adſuine dicat,eltneceſſe, utneillud quidein probet,quod re. Cùm inter
argumentorum probabilium focos, ex hujuſcemodi ratione conficitur. Itaque
evenit neceſſariorum quoque principia traditio mixta ex hujufmodi
ratiocinatione, ea, quæ tantùm contineat. Illa verò argumenta, quæ neceſſaria
neceffaria ſunt, ac non probabilia, non efle ar- quidein ſunt, ſed non
probabilia; atque illud gumenta. Sed non ita eſt, atque hæc interpreta- ultimum
genus; fcilicet ilec probabile,nec ne tio non rectæ probabilitatis
intelligentiam tenet. ceſſarium,à propofiti operisconſideratione fem Ea funt enimprobabilia,
quibusſponte, atque jundum eſt. Nili quod interdum quidam ſophi ultrò conſenſus
adjungitur; ſcilicet ut moxaudi- ſtici loci exercendi gratia lectoris
abhibentura ta fint, approbentur. Quocirca Topicorum pariterutilitas
intencióque de fint ar Quæ veròneceffariafunt,ac nonprobabilia,aliis patefacta
eft; his enim & dicendi facultas, &in gamenta pro babilia. probabilibus
ac neceſſariis argumentisantea de veſtigatio veritatis augetur.
monſtrátur,cognitáque &credita, ad alterius rei, Nam quid dialecticos atque
Oratores locorum locorum ** de qua dubitatur, fidem trahuntur;ut ſuntfpecu-
juvát agnitio? Orationi per inventionem co micos arque lationes,id
cft,cheoremata, quæ in Geometriacon- piampræftant. Quid verò neceffariorum
doctri- Oratoresmus fiderantut. Nam quæ illic proponuntur, non funt nam locorum
philoſophis tradit? viam quodam- sum juvas. talia, ut in his fponte
animusdiſçentis accedar: modo veritatis illuftrat. Quò magis perveſtis ſed
quoniam demonſtrantur aliis argumentis, illa ganda eft rimandâque ulterius
diſciplina ea, quæ quoque ſçita & cognita ad aliarum fpeculatio- cùm
cognitione percepra uſu atque exer pumargumenta ducuntur.Itaque probabilia non
citatione firmanda. Magnum enim aliquid lo Cunt, ſed ſunt neceſſaria his quidem
auditoribus, corum conſideratio pollicetur, fcilicetinvenien quibus nondum
demonſtrata funt: ad aliud ali- di vias; quod quidem hi, qui ſunt hujus
rationis quid probandum, argumenta effe non poffunt; expertes,ſoliprorſus
ingenio deputantur: neque hi autem qui peioribus rationibus eorum, qui-
intelligunt, quantun hac conſiderationequærat bus non adquieſcebant, fidem
cceperunt, poffunt, cur, quæ in artem redigit vim poteſtatemque na cas quæ non
ambigunt, ad argumentuin vocare. turæ. Sed de his hactenus: nunc de reliquis ex
Sed quia quatuor facultatibus differendi omne plicemus. artificium continetur,
dicendum eſt qux quibus uti noverit argumentis; ut, cui potiſſimum diſci De
Syllogiſmise plinæ locorum atque argjinentorum paritur u Diale &tice, bertas,
evidenterappareat. Quatuorigitur fa Syllogiſmorum verò aliiſuntprædicativi,
qut" Syllogiſmialii Oratori, Phi- cultatibus,earúmque
velutopificibus,differendi categorici vocantur,aliiconditionales,quos hy-
predication Dolopho, so omnis ratio ſubjecta eft, id eſt, dialectico, ora,
potheticos dicimus. Et prædicativiquidem funt, males, com phifte dife
rendiomnis tori, philofopho, ſophiſtæ. Quorum quidem qui ex omnibus
prædicativis propoſitionibus quid fins. ratio fobjekta dialecticus atque orator
in communi argumen- connectuntur sur is, quem exempli gratiafupes, torummateria
verſautur; uterque enim,five ne- riùs adnotavi, omnibus enim propoſitionibus
cellaria, kve minimè, probabilia tamen ſequitur prædicativis
texitur.Hypothetici verò funt,quo Quefit diffe ventia inter argumenta. His
igitur illæ duæ fpecies argu- ium propofitiones conditione nituntur, ut hics
Dialecticum, menti famulantur,quæ funt probabile ac non si dies eft, lux eſt
zett autem dies, lux igitur eſte Oratorent & neceffarium: philoſophus vero
ac demonftrator Propofitia enim prima conditionem tenet hanc, Philoſuphum. de
ſela tantum veritate pertractant: Asque ideo quoniam ita demum lux eft, fi dies
eft. Atque ſive liņt probabilia, five non fint, nihil referi,' idea fyllagiſmus
hic, hypochericus, id eſt condi modo duin ſine peceſlaria: bic quoque his
duabus tiopalis vocatur. Inductio verò eft oratio, per i i Onid fais duftio. De
Dialectica: 573 Tuniwy. $ niio. 0 10 OS 2712 quam fitàparticularibus ad
univerfale progreflio, plumvocamus:quoniam vero non pluresquibus hoc modo: Siin
regendis navibusnan forte, ſed id efficiat colligit partes, ab inductione
diſcedit. arte legitur gubernator: fi regendis equis auriga Ita igitur duæ
quidem ſunt argumentandiſpecies non fortis eventu, ſed commendatione artis ad-
principales: una, quæ dicitur fyllogiſmus, alte ſumitur: fi in adminiftranda
republica non ſorsra que vocaturinductio; ſub his aurem, &veluc principem
facit,ſed peritía moderandi; & fimi- ex his manantia, enthymema atque
exemplum, * Ed. infe- lia, quæ in pluribus conquiruntur, quibus * im- Quæquidem
omnia ex ſyllogiſmo ducuntur, & pertitur: & in omni quoque re, quam
quiſque ex fyllogifino vires accipiunt: live enim ſit enthy regi atque
adminiſtrari gnaviter volet, qui non 'mena, liveinductio, live etiam exemplum,
ex forte accommodat, ſed arte, rectorem, fyllogiſmo quàm maximè fidem capit;
quod in Vides igitur quemadmodum per fingulas res prioribus reſolutoriis, quæ
ab Ariſtotele tranftu currat oratio,ur ad univerſale perveniat.Nam cùm linus,
denonſtratumeft. Quocirca fatis eſt de non forte regi, ſed arte navim, currum,
rempubli- fyllogilino differere, quaſi principali, & cæte cam collegiffet,
quali in cæteris ſeſe quoque ita ras argumentandiſpecies continente. habeat,
quod erat univerſale concluſit: in omni Reſtat nunc quid fit locus, aperiçe.
Locus nam- Quid forlocais bus quoque rebus, non ſorte ductum, fed arte, que eſt,
ut* Marco Tullio placet, argumentifea Dialectico. * MSS.Man præcipuum debere
præponi. Sæpe autem multo, des; cujus definitionis quæ fitvis, paucis abſol rum
collecta particularitas aliud quiddam parti- vam, Argunventi enim fedes partin
maxinia culare demonſtrat; ut fi quis fic dicat: Si neque propoſitio intelligi
poteft, partim propofitionis navibus, ncque curribus, neque agris ſorte præ-
inaximè differentia. Nam cùm fint alize propoli ponuntur; nec rebus quidein
publicis rectores tiones, quæ cùin per ſe notæ lint, cùm nihil ul eſſe ſorte
ducendi funt. Quod argumentationis teriùs habeant, quo demonftrentur, atque hæ
genus maxiinè folet eſſe probabile, etſi non maxinæ & principales vocentur,
funtque aliæ æquam ſyllogyſmi habeat firinitatem. Syllogif- quarum fidem primæ
ac maximæ, fuppleant mus namqueabuniverfalibus ad particularia de-
propofitiones: neceffe eft, ut omnium quæ curret. Eftque in eo, fi veris
propoſitionibus dubitantur, illæ antiquiſſimam teneant pro+ contexatur, firma
atque immutabilis veritas. bationein; quæ ira aliis fidem facere poffunt, Ut
inductio habet quidem maximam probabi- ut ipſis nihil queat notius inveniri.
Nam li litatem, ſed interdum veritate deficitur; ut in argumentum eſt, quod rei
dubiæ faciat fidem, hac: Qui fcir canere, cantor eſt: & qui luctari ídque
notius ac probabilius eſſe oportet, quàm luctaror: quique ædificare, ædificator;
quibus illud quodprobatur: neceſſe eſt, utargumentis multis fimili jatione
collectis, inferri poteſt: omnibus illa maximam fidem tribuant, quæ ita Qui
fcit igitur malum,malus eſt, quod non pro- per ſe nota ſunt, at alienâ
probationenon egeant: cedit;mali quippe notitia deeſſe non poteſt bonoš Sed
hujulinodi propoſitio aliquotiens quidem virtusenim ſeſe diligit, aſpernatúrque
contraria, intra argumenti ambitum continetur: aliquotiens nec vitare vitium
niſi cognitum queat. yerò extra polita, argumenti vires ſupplet ac per His
igitur duobus velut principiis, &generibus fices, Duo funt alii
argumentandi, duo quidem alii deprehenduntur Cinnes igitur loci, id eft;
maximarum diffe, Omnes loci à argumentori argumentationis modi: unusquidem
fyllogiſmo, rentiæ propoſitionum, aut ab his ducantur ne quibus ternii modi,
Enthy alter verò inductioni ſuppoſitus. In quibus qui- ceſſe eſt terminis, qui
in quæſtione ſunt propo memaſciet exemplum, ea dempromptumſit conſiderarequod,
ille quidem fiti, prædicato ſcilicețarquefubjeéto: aut extrin qaid (ma à fyllogiſmo,
ille verò ab indu & ione ducat exor- ſecus adfumantur:auc horum medii acque
inter dium: non tamen,aut hicfyllogiſmum, aut ille utrofque verſentur. Eorun
verò locoruin, qui impleat inductionem; hæc autem ſunt enthyine ab hisducuntur
terininis, de quibus in quæſtione ma, atque exemplum, Euthymema quippe eft
dubitatur, duplex modus eſt: unus quidem ab imperfectus fyllogiſmus, id eſt
oratio, in qua non corum fubftantia, aker verò ab his, quæ eoruin omnibus antea
propoſitionibus conftitutis,inter ſubſtantiam conſequuntur shi verò quià
ſubftária tur feſtinata conclufiosut fi quis ſic dicat: homo funt, inſola
definitione conliſtunt.Definitio enim animal eſt, ſubſtantiaigicur eſt;
præterınjſic eniin ſubſtantiammónftrát; & fubſtaạtiæ integra det alteram
propofitionem, quâ proponitur omne monſtratio, definitio eſt. Sed, id quod
dicimus, aniinal elle fubftantiam. Ergo cùm enthymema patefaciamus exemplis;ut
omnis vel quæftionum, ab univerſalibus ad particularia probanda con- vel
arguinentationum, vel locoruin ratio con tendit, quali ſimile Jyllogiſmo eft.
Quod vero quieſcat. Age enim quæratur; an arkores ani non omnibus, qu:e
conveniunt fyllogiſmo,propor malialint, řátque hujuſmodifyllogiſmus: ani+
ſitionibus utitur, à fyllogiſmi ratione difcet mal eftfubftantia animata
ſenſibilis:non eft arbor dit, atque ideò imperfectus vocatuseft fyllogif-
fubftantia animata fenfibilis; igitur arbor animal mus, non eft. Hic quæſtio de
genere eft; utrùm enim Exemplum quoque inductioni fimili ràtionę arboresfub
aniinaliumgenere panendæ fint,qux & copulatur, & ab ea diſcedit. Eft
enim exem- ritur: locus qui in univerſali propofitione con, plum, quod
perparticulare propoſitum,particu- filtit, huic generis definitio non convenit,
id lare quoddam contendit oſtendere, hoc modo; ejus, cujus ea definitio eft,
fpecies non eſt loci Oportet à Tullio conſule necari Catilinan, cùm fuperioris
differentia: qui locus nihilominus à Scipione Gracchus fueritinteremptus; appro,
nuncupatur à definitione. batum eſt enim Catilinam à Cicerone debere pe Vides
igitur ut çora dubitatio quæftionis fyllo rimi, quod â Scipione Gracehus fuerit
occiſus: giſmi argumentatione* tracta (it per convenien: * Ed.sracht quæ
utraque particularia effe, ac non univerſalià tes & congruas propoſitiones,quæ
vim ſuam ex "4. lingularum deſignat interpoſitio perſonarum prima
&maxima propofitionecuftodiunt; ex ea Quoniamigiturex parte pars approbatur,
quafi {cilicet, quænegat effe fpeciem, cui ñnon conve: inductionis
fimilitudinem tenet id, quodexem- niat generis definitio, Acque ipſa
univerſalis pro nis ducantur: 374 Caſſiodorus ftantia du tem. poſitio à
ſubſtantia tracta eſt unius eorum termi- eſt, hoc modo fæpe quæſtionibus
argumenta ni, qui in quæſtione locati ſunt; ut animalis,id fuppeditat; ut fi
fit quæſtio, an juſtitia utilis fit, eſt, ab ejusdefinitione,quæ eſt ſubſtantia
anima- fit fyllogiſmus: Omnis virtus utilis elt, juſtitia ra ſenſibilis. Igitur
in cæteris quæftionibus ſtri- autem virtus eſt, ergo juſtitia utilis eſt.
Quæſtio ctim ac breviter locorum differentiis coinmemo- de accidenti, id eſt,
an accidat juftitiæ utilitas. fatis, oportet uniuſcujuſque proprietatem vigi-
Locus is, qui in maxima propoſitione conſiſtir. lantis animi alacritate
percipere. Quæ generi adfunt, & fpeciei. Hujus ſuperior Locus ex ſub Hujus
aureinloci, qui ex fuſtſtantia ducitur, locus à toto, id eſt, à genere, virtute
ſcilicet, quæ ftus, duplex duplex modus eſt; partim namquc à definitione,
juſtitiæ genus eſt. Rurſus fit quæſtio, an huma eft. partim à deſcriptione
argumenta ducuntur. næ res providentiâ,regantur. Cùm dicimus, li Differt autem
definitio à deſcriptione, quòd mundus, providentiâ regitur: homines autem Que
fit dif- definitio genus ac differentias affumic: def- pars mundi funt: humanæ
igitur res providen ferentia inter criptio verò ſubjectain intelligentiam -
claudit, tia reguntur. Quæſtio de accidenti, Locus quod defcriptiq quibuſdam
vel accidentibus unam efficientibus toti evenit, id congruit etiam parti.
Supremus proprietatein, vel ſubſtantialibus præter genus locus à toro, id eſt,
ab integro. Quod partibus conveniens aggregatis. Sed definitiones, quæ ab
conftat, id verò eft mundus, qui hominum to accidentibus fiunt, tamen videntur
nullo modo tum eſt. ſubſtantiam demonftrare: tamen quoniam fæpe A partibus
etiain duobus modis argumenta naf- A partibus veræ definitionesita ponuntur,
quæ ſubſtantiam cuntur: aut enim à generis partibus, quæ ſunt, duobus modis
monſtrant: illæ etiam propofitiones,quæ à deſcri- fpecies:aut ab integri, id
eſt, torius; quæ par- azamente ptione fumuntur,à fubftantiæ loco videntur affu-
tes tantum proprio vocabulo nuncupantur. Et Mojcanine. mi. Hujus verò tale fit
exemplum; quæratur de his quidem partibus, quæ ſpecies funt, hoc enim, an
albedo ſubſtantia fit: hic quæritur, an modo fit quæſtio, an virtus mentis benè
conſti albedo ſubftantiæ, velut generi ſupponatur. Di- tutæ fic habitus:
quæſtio de definitione, id eft, cimus igitur: ſubſtantia elt, quod omnibusacci-
an habitus benè conſtitutæmentis,virtutis lit de dentibus poſſit eſſe ſubjectum:
albedo verò nul- finitio. Facieinus itaque ab ſpeciebus argumen dis
accidentibus fubjacet, albedo igitur fubſtan- tationem lic: Si juftitia,
fortitudo, inoderatio, tia non eſt. Locus, id eſt, maxima propoſitio, atque
prudentia, habitus benè conftituræ mentis eadem quæ fuperiùs. Cujus
enimdefinitio vel funt: hæc autem quatuorunivirtuti velut generi deſcriptio
ei,quod dicitur,ſpecies effe non conve- ſubjiciuntur: virtus igitur benè
conſtitutæ men nit, id ejus quod eſſe ſpecies perhibetur, genus tis eſt
habitus. Maxima propoſitio; quod enin noneſt. Deſcriptio verò fubftantiæ
albedini non ſingulis partibus ineſt, id toti inefTe neceffe eft.
convenitalbedo: igitur ſubſtantia non eſt. Argumentum verò à partibus, id eſt,
à generis Locus differentia ſuperior à deſcriptione; quam partibus, quæ ſpecies
nuncupantur; juſtitia enim, duduin locavimus in ratione ſubſtantiæ. Sunt
fortitudo, modeſtia & prudentia, virtutis fpe etiam definitiones, quæ non à
rei ſubſtantia, ſed cies ſunt. à nominis ſignificatione ducuntur, atque itą
rei, Item ab his partibus, quæ integri partes eſſe di de qua quæritur,
applicantur; ut ſi ſît quæicio, cuncur, fit quæſtio, an fit utilismedicina. Hæc
utrumnephiloſophiæ ſtudendum fit, erit argu: in accidentis dubitatione
conftituta eſt. Dicimus mentatio talis: Philofophia ſapientiæ amor eſt, igitur,
ſi depelli morbos, ſalurémque fervari, huic ſtudendum nemo dubitat: Itudendum
igitut mederique vulneribus utile eft: igitur medicina eſt philofophiæ. Hic
enim non definitio rei, ſed eſt utilis. Sæpe autem & una quælibet pars
valer, nominis interpretatio argumentum dedit. Quod ut argumentationis firmitas
conſtet, hoc inodo; etiam Tullius in oſtenſione ejuſdem philofophiæ ut fi de
aliquo dubitetur, an fit liber: ficum vel uſus eſt defenfione, & vocatur
Græcè quidem cenſu, velteſtamento, vel vindictâ manumiſ ovouzOtong, Latinè
autem nominis definitio. fum eſſe monſtremus, liber oſtenſus eſt: atque Hæc de
his quidem argumentis, quæ ex ſubſtan- aliæ partes erantdandæ libertatis. Vel
rurſus, fi cia terminorum in quæſtione politorun fumun- dubitetur, an ſir domus
quod eminus conſpici tur, claris,ut arbitror,patefecimus exemplis: nunc tur:
dicimus quoniam non eſt; nam vel rečtun de his dicendum eſt, qui terminorum
ſubſtana ei, vel parietes, vel fundamenta defunt, ab una tiam conſequuntur.
rurſus parte factum eſt arguinentum. Divifio loco Horum verò multifaria diviſio
eſt; plura enim Oportet autem non folùm in ſubſtantiis, ve Tum qui(ubu funt,
quæ ſingulis ſubſtantiis adhæreſcunt: ab růın etiam in modo, temporibus,
quantitatibus, franciam com his igitur, quæcujuſlibet ſubſtantiam comitan-
torum, partéfque reſpicere. Id enim quod dici fequantur. tur, argumenta duci
folent, aut ex toto, aut ex mus aliquando in teinpore, pars': rurſus li fim
partibus, aut ex caufis, vel efficientibus,vel ma- pliciter aliquid
proponamus,in modo totum eſt: teria, vel fine. Er eſt efficiens quidem cauſa,
li cum adječtione aliqua, pars fit in modo. Item quæ inover atque operatur, ut
aliquid explice- fi omnia dicamusin quantitate, tòrum dicimus: tur: materia
verò, ex qua fit aliquid,vel in quafit: fialiquid quantitatisexcerpimus,
quantitatis po, propter quod fit. Sunt etiam inter eos lo- nimus partem. Eodem
modo &in loco: quod cos, qui ex his ſumuntur, quæ ſubſtantiain con- ubique
eſt, totum eſt: quod alicubi, pars. How ſequuntur, aut ab effectibus, aut à
corruptioni- ruin autem omnium communiter dentur exem bus', aut ab uſibus, aut
præter hos omnes ex pla. A toto ad partem fecundum tempus: fi communiter
accidentibus. Quæ cùm ita fint, Deus ſemper eſt, &nunc eſt. A parte ad
totum cum priùs locum, qui à toto fumitur, inſpicia- ſecundum modum:ſi *anima
aliquo modo niové» * MSS. amie tur, & fimpliciter movetur; movetur autem
cum mal. Totum duobus modis dici folet: aut ut genus, irafcitur;univerſaliter
igitur & fimpliciter mo bus modisdi- aut ut idquod ex pluribus integrum
partibus vetur. Rurfus à toro ad partes in quantitate: fi conſtat. Er illud
quidem quod ut genus, totum finis mus. Totum duo citur. 1 1 De Dialectica. 3
teria, fi jori. TA A. > verus in omnibus Apollo vatės eſt; verum erit
oppoſitis, vel ex tranffuinptione. Et ille quidem Pyrrhum Romanos ſuperare.
Rurſus in loco, fi locus, qui rei judiciuin tenet, hujuſmodi eft; ut Locus à
rei Deus ubique eft, & hîc igitur eſt. id dicamus effe, vel quod omnes
judicant, vel judicio. Locusà came "Sequitur locus, quinuncupaturà cauſis.
Sunt plures, & hivel ſapientes, vel ſecundam unam fis multiplex. verò
plures cauſa, id eft, quæ vel principium quanque artem penitus eruditi.Hujus
exempluin præſtantmotusatque efficiunt: vel ſpecierum for- eft, cælum eſſe
volubile: quòd ita fapientes, atque mas ſubjectæ ſuſcipiunt: vel propter eas
aliquid, in Aſtronoinia do & illimi diſudicaverint. Quæ vel quæ cujuſlibet
forma eſt. ſtio de accidente. Propofitio, quod omnibus,vel Zocus ab effi-
Argumentum igitur ab eficiente cauſa; ut fi pluribus, veldoctis videtur
hominibus,ei contra ciense cauſa. quis juſtitiam naturalemn velit oſtendere,
dicat: dici non poſſe. Locus à rei judicio. congregatio hominum naturalis eſt:
juſtitiam A fimilibus verò hoc modo, fi dubitetur, an verò congregatio hominum
fecit: juſtitia igitur hominis proprium fit eſſe bipedem, dicimus fi naturalis
eſt. Quæſtio de accidente. Maximapro- militer: ineſt equo quadrupes, &
homini bipes; poſitio: quorum effacientescauſæ naturales ſunt, non eft autem
equi quadrupes proprium; non eft apſa quoque ſunt naturalia. Locus ab
efficienti igitur hominis propriuin bipes. Quæſtio de pro bus; quodenim
uniuſcujuſque cauſa eſt,id efficit prio. Maxiina propoſitio. Si quod
limiliterineſt, can rem, cujus caufa eft, non eſt proprium, ne id quidem de quo
quæritur, Locus à ma Rurſus, ſi quis Mauros arima non habere con- eſſe
propriuin poteſt. tendat, dicit idcirco eos minimè armis uti, quia Locus à
fimilibus: hic verò in gemina dividitur. Locus àfomi libus duplex. his ferrum
deſit. Maximapropoſitio, ubi materia Hæc enim fimilitudo, aut in qualitate, aut
in deeſt, & quod ex materia efficitur, defit locus à quantitate conſiſtit:
ſed in quantitate paritas mareria: utrumque verò, ideft, ex efficientibus
nuncupatur, id eſtæqualitas. atque materia,uno nomine à cauſa dicitur. Æquè
Rurfus ab eo quod eſt majus, fi an fit animalis Locais à Ma. enim id quod
efficit, atque id quod operantis definitio, quod ex ſe moveri poffit, dicimus,
actum ſuſcipit, ejus rei, quæ efficitur, cauſæ magis oportet eſſe animalis
definitionem, quòd funt. naturaliter vivat, quàm quòd ex ſemoveri poffit Locais
à fine. Rurſus à fine fit propofitum, an juftitia bona Non eft autem hæc
definitio animalis, quòd natu fit, fiet argumenratio talis. Si beatum eſſe, bo-
raliter vivat: ne hæc quidem, quæ minùs vide num eſt, & juſtitia bona eſt;
hic eſt enim juſtitiæ tur effe definitio, quod ex ſe inoveripoſſit, ani finis,
ut qui ſecundum juſtitiam vivit, ad beati- malis definitio eſſe paranda eſt.
Quæſtio de defi rudinem perducatur. Maxima propoſitio, cujus nitione.
Propoſitio maxima. Si id quod magis finis bonus eft, ipſum quoque bonum eft.
Locus videbitur ineſſe non ineſt, ne illud quidem à fine. quod minus ineffe
videtur, inerit. Locus ab eo Loctus a for Ab eo verò, quæcujuſque forma eſt,ità
non po- quod eſt inajus. tuiſſe volare Dædalum, quoniam nullasnaturalis A
minoribus verò converſo modo. Nam fi eft locus à formæ pennas habuiſſet.Maxima
propoſitio, tan- hominis definitio, animal grellibile bipes: cúm- mori. tìm
quemque poffe, quantùın formapermiſerit. que id bipes videatur effe definitio
hominis mi Locus à forma, nus. quàm animal rationale mortalc; fitque defi Loc
tus ab effe, Ab'effectibus verò, & corruptionibus, &uſibus nitio ea
hominis, quæ dicit animal grellibile bi Etibus, corrm- hoc modo: namn ti bonum
eſt,domus, conſtru- pes, erit definitio hominis, animal rationale - ptionibus,
&io bonum eſt, bonum eſt domus. Rurfus fi mortale. Quæſtio de definitione.
Maxima propo ufibus., maluin eſt, deſtructio domus: bona eſt domus,& ficio:
Si id quod minus videtur ineffe, ineſt: & fi bona eſt domus, mala eſt
deſtructio domus. id quod magis videtur inefle, inerit. Multæ au Item ſi bonum
eſt equitare, bonum eſt equus: & tem diverfitates locorum ſunt, ab eo quod
eſſe fi bonum eſt equus, bonum eſt equitare. Eſt au- magis acminùs, argumenta
miniſtrantium: quos tein primum quidem exemplum à generationi- in expoſitione
Topicorum Ariſtotelis diligentius bus, quodidem ab effectibus vocari poteft.
Sea perſequuti fumus. cunduin à corruptionibus, tertium ab ufibus. Item ex
proportione: ut fi quæràtur, an ſorte Lucus ex pro Omnium autem maximæ
propofitiones: cujus fint legendi in civitatibus magiſtratus, dicamus portione.
effectio bonaeſt, ipfum quoque bonum eſt, & è minimè: quia ne in navibus
quidem gubernator converfo: & cujus corruptio mala eſt, ipſum bo- forte
præficitur: eſt eniin proportio, nain ut fele nuin eſt, & è converſo:
&cujus uſus bonuseſt, habet gubernatorad navem, itamagiſtratus adci ipfum
bonum eft, & è converſo. vitatem. Hic autem locus diftat ab eo, quod ex ſi
Locus à com A coinmuniter autem accidentibus argumenta milibus ducitur. Ibi
enim una res quæ cuilibet muniteracci- funt, quotiens ea ſumuntur accidentia,
quæ re- & alii comparatur: in proporcione verò non eſt linquere ſubjectum,vel
non poffunt, vel non ſo. limilitudo rerum, fed quædam habitudinis coin lent;
utſi quis hoc inodo dicat: ſapiens non pa paratio. Quæſtio de accidenti
proportione.Quod nitebit; pænitentia enim malum factum comita- in
quaquereevenit, id in ejus proportionali eve tur: quod quia in ſapiente non
convenit, ne poe- nire neceſſe eſt. Locus à proportione. nitentia
quidein.Quæſtio de accidentibus.Propo Ex oppoſitis verò multiplexlocus eft.
Quatuor Locus ex op fitio maxima: cui non ineft aliquid,ei neillud qui- enim
libimet opponuntur modis; aut enim ut pofo ismulti dein, quod ejus eſt
conſequens, ineffe poteſt. contraria adverfo ſeſe loco conſtituta refpiciunt:
plex. Locus à coinmuniter accidentibus. aut ut privatio, & habitus: aut
relatio: aut affir De lo cis ex Expeditisigitur locis his, qui ab ipſis
terminis inatio &négatio. Quorum diſcretiones in co li srinfecus. in
propofitfone poſitis, affumuntur: nunc de his bro qui de decem prædicamentis
fcripruscſt,com dicendum eft, qui licet extrinfecuspoſiti, argu- meinoratæ
ſunt; ab his hocmodoargumentanaſ menta tamen quæſtionibusfubminiftrant: hi ve
ro ſunt vel ex rei judicio, vel ex ſimilibus, vel à A contrariis fi quæratur,
an lit virtutis pro- Locus à con majore, vel à minore, velà proportione, velex
prium laudari, dicam minimè: quoniam ne vitii trariis.; D cuntur. 570
Caſſiodorus Jocentu. habits. sione. Locus ex. ne. quidem vituperari. Quæſtio de
proprio. Maxi- ſecundum proprii nominis fimilitudinem corr ma propoſitio:
quoniam contrariis contraria fequuntur. conveniunt. Locus ab oppoſitis, id eft,
ex con Mixti verò loci appellantur: quoniam ſi de ju- Qui mirtilo. ' trario.
ſtitia quæritur, & à caſu, vel à conjugatis argu Locuus à pri Rurſus ſit in
quæſtione pofitum: An ſit pro- menta ducuntui; neque ab ipſa propriè atque
vatione prium oculos habentium videre, dicam miniinè: conjunctè, neque ab his
quæ ſunt extrinſecus eos namque qui vident, aliàs etiam cæcos eſſe polica
videntur trahi, fed ex ipſoruin calibus, id contingit. Nain in quibus eſt
habitus,in eiſdem eſt, quadam ab iplis levi immutatione deductis: poteriteſſe
privatio; & quod eſt proprium, non Jure igitur hi loci medii inter eos, qui
ab iplis, poreſt àſubjecto diſcedere. Etquoniam venien- & eosquiſunt
extrinfecus, collocantur. te cæcitate viſus abfcedit:non effe proprium ocu
Reſtat locus à diviſione, qui tractatur hoc mo- Locus è divi. los habentium
videre convincitur. Quæſtio de de. Omnis diviſio vel negatione fit, vel parti-
fione fisvel proprio. Propofitio, ubi privatio adetle poteft tione; ut ſi quis
ita pronuntiet: omne animal negatione,vel Partitione & habitus, proprium
nonelt. Locus ab oppofi- aut habet pedes, autnon haber. Partitione verò, tis,
ſecunduin habitum ac privationein. velut ſi quis dividat: omnis hoino aut ſanus,
aut Zocus à rela. Rurſus ſit in quxſtione pofitum, an patris fit æger eft. Fit
autem univerfa divifio, vel, ut ge proprium procreatorem eſſe, dicain rectè
videri: neris in ſpecies, vel.totius in partes, vel vocis in quia filii eſt
propriuin procrcatum efle; ut enim proprias ſignificationes, vel accidentis in
ſubje ſeſe habet pater ad filium, ita procreatus ad pro- cta, velſubjecti in
accidentia, vel accidentis in Creatorem. Quæſtio de proprio. Propofitiomaxi-
accidentia. Quorum omnium rationemin meo ma: ad ſe relatorum propria, &
ipſa ad ſe refe- libro diligentius explicavi, quem de diviſione Libram dedi
runtur. Locus à relativis oppofitis. Locus ab af compoſui:atque idcircoad
horuin cognitionem vifione com pour celſis formatione e Item fit in quæſtione
politum, an lit ani- congrua petantur exempla. Fiunt verò argumen - dow
negatione. malis proprium moveri, negem: quia nec tationes per diviſionem, tun
ea ſegregatione, Ed. in ani- inaniinati
quidein eſt proprium non moveri. qux per negationem fit, cum ea quæ per parti
mali. Quæſtio de proprio. Propofitio inaxiina: op- tionem. Sed qui his
diviſionibus utuntur, aut di politorum oppoſitaeſſe propria oportere. Ló-
re& tâ ratiocinatione contendunt: aut in aliquid cus ab ppolitis, ſecundum
affirmationem ac impoſibile atque inconveniens ducunt, atque negationem; moveri
enim & non moveri, ſe- ita id quod reliquerant, rurſus adſumunt. cundum
affirmationem negationémque fibimmer Quæ faciliùs quiſque cognoſcer, li
prioribus opponuntur. Analiticis operam dederit: horum tamen in præ Ex
tranſſumptione verò hoc modo fit: cùm ex fentitalia præftabunt exempla
notitiain. Sit in transJumptio. histerminis in quibus quæſtio conſtituta eft,ad
quæſtionepropoſituin, an ulaorigo fit temporis: aliud quidem notius dubitatio
transfertur; atque quod qui negare volet, id nimirum ratiocinatio ex ejus
probationeea, quse in quæſtione ſunt po- ne firmabit mallo, modo effe ortum:ídque
dire ſita, confirmantur; ut Socrates, cùin quid pof- &tâ ratiocinatione
monftrabit, hocmodo: quo ſet in unoquoque juſtitia, quæreret; omnein niain
mundusærernus eſt (id enim pauliſper ar tractatum ad reipublicæ tranſtulit
inagnitudi- guinenti gratiâ concedatur ) mundus verò fine nem; atque ex co
quodilla efficeret infingulis, tempore effe non potuit, teinpus quoque eſt æter
etiani valere fitinavit. Qui locus à roro forſican num: ſed quod æternum eſt,
carerorigine: tem eſſe videretur: ſed quoniam non inhæret in his, pus igitur
orignem non habet. Atſi per impolli de quibus proponitur terminis, fed extra
poſita bilitatein idem deſideretur oſtendi, dicetur hoc res, hoc tantum
quianotior videtur, affumitur; modo. Sitempus habet origineni,non fuit ſemper
idcirco ex tranſfumptionelocus id convenienti teinpus: fuit igitur, quando non
fuit rempus, ſed vocabulo nuncupatus eft. Fit verò hæc tranſlum- fuiffe
ſignificatio eſt temporis; fuit igitur tein prio &in nomine, quoties ab
obfcuro vocabulo pus, quando non fuittempus: quod fieri non ad notius
transfertur argumentatio, hoc modo; poteft; non igitur eſt ulluin
temporisprincipiuin ut ſi quæratur, an philoſophus invideat, fitque pofitum.
Namque, ut ab ullo principio cæpe ignotum quid philoſophi ſignificet nomen,
dice- rit, inconveniens quiddam atque impoffibile mus ad vocabulum notius
transferentes, non in- contingit fuiſſe teinpus, quando non fuerit videre qui
ſapiens ſit; notius enim eſt fapientis tempus. Reditur igitur ad alterain
partein, vocabuluin, quàm philofophi. Ac de his qui- quod origine careat: fed
hæc quæ ex negatio dem locis qui extrinfecus aſſumuntur, idoncè di- ne diviſio
eſt, cùm per eam quælibet argu ctuin eſt: nunc de mediis diſputabitur. menta
ſumuntur, nequit fieri, ut utrumque fit,, quod affirinatione & negatione
dividi De Mediis. tur: itaque ſublato uno, alterum manet; pofi tóque altero
reliquum tollitur: vocaturque hic à Ex quibus Medii enim loci ſumuntur vel ex
calu, vel ex diviſione locus, medius inter eos qui ab ipfis conjugatis, vel ex
diviſione naſcentes. Caſus duci folent, atque eos qui extrinſecus adſumun
Sumantur. Quid fit eſt alicujus nominis principalis inflexio in adver- tur. Cùm
enim quæritur, an ulla temporis lit bium: uràjuſtitia inflectitur juſtè, cafus
igitur origo, ſumit quidem eſſe originem; & ex eo pet Quid Conju- eſt
juſtitia,id quod dicimus juftè, adverbium. propriamconſequentiam à re ipſa,quæ
quæritur, Conjugata verò dicuntur, qux abeodein diver- htimpoſſibilitatis &
mendacii fyllogiſmus;quo fo modo ducta Auxerunt:ut à juſtitia, juftum; concluſo
reditur ad prius, quod verum eſſe ne hæc igitur inter ſe & cum ipſa
juſtitia conjugara ceſſe eſt; fiquidem ad quod eioppofitum eſt, ad dicuntur, ex
quibus omnibus in promptu lunt impoſſibile aliquid inconvenienſque perducit.
argumenta. Namfi id quod juftum eft, bonum Itaque quoniam ex ipfa re, de qua
quæritur, fieri eſt; & id quod juſtè eſt, benè eſt; & qui juftus
fyllogiſmus folet, & quali ab iplis locus eft du eft, bonus cft, &
juftitia bona eſt; hæc igitur cus: quoniam verò non in eo permanet, fed ad
locis Medii Calus. gaid. politum De Dialectica. 577 BA tis li 1. nd 20 je 18 19
100. TOR: OK parti 17 10.3. pofitam redit, quafi extrinſecus fumitur: idcirco
Quibus ita popofitis inſpiciatRus nunc cos lo: igitur hic à diviſione locus
inter utrumque me cos', quos duduin extrinfecuspronuntiabamus Delocis eta dius collocatur.
affuini; ea enim, quæ extrinſecus affumuntur, frempris,, of Loci ex par Ac verò
hi qui ex partitione funiuntur, multi- non ſunt ita ſeparata atquedisjuncta, ut
non ali nitione fum- plici funt modo. Aliquotiens enim quæ divi quandoquali è
regione quadam, ca quæ quærun qua dintre pri,maisiplici duntur, fimul effe
poffunt; ut fi vocem in figni- tar, afpiciant. Nam & funilitudines &
oppofita frunt modo. ficationes dividamus, oinnes fimul eſſe poſſunt: ad ea lme
dubio referuntur, quibus ſimilia vel op veluti cum dicimus amplector, aut
actionein li polica funt, licet jure atqueordine videantur ex gnificat, aut
paffionem; utrumque finul lignifi trinſecus collocata. Sunt autem hæc,
ſimilitudo, care poteft. Aliquotiens velut in negationis mo- oppoſitio,
magis,ac minus, rei judicium. In ſimi do, quæ dividuntur fimul eſſe non poffunt;
ut litudine enimcum rei fimilitudo, tum propor fanus eſt, aut æger. Fitautein
raciocinatio in tionis ratio continetur. Omnia enim fimilitudi priore quidem
mododivilionis, tum quia omni- nem tenent. bus adeſt quodquæritur, vel non eft:
tum verò Oppolica verò in concrariis, in privationibus; idcirco alicui adeſſe,
vel non adeffe quod aliis ad in relationibus, in negationibus conſtant. Com ſit,
vel minimè. paratio verò majoris ad minus quædam quali ſi Nec in his
explicandis diutiùs laboramus, fi miliuin diffimilitudo eft; rerum enim per fe
finni prioresReſolutorii, vel Topica diligentiùs inge- lium in quantitate
diſcretio majus fecit ac minus, nium le& oris inftruxerint. Nam fi
quæratur, Quod enim omni qualitate, omnique ratione utrum canis fubftantia fit,
atque hæc divifio fiar: disjunctum eſt, id nullo modo poterit compara canis vel
latrabilis animalis eſt velmasinx belluæ, ri. Exrei verò judicio quæ ſunt
argumenta, quaſi vel cæleftis lideris nomen e demonftraretque per teſtinionium
præbent, & ſunt inartificiales loci ſingula & canem latrabilem
fubftantiam eflc,ma- atque omnino disjuncti; nec rem potius, quàm rinam
quoquebelluam, & cælefte fidus ſubſtantiæ opinionem judiciúmque fectantes.
Tranſſum poffe fupponi,nonftravit canem eſſe fubftantiam. ptionis verò locus
nunc quidem in'æqualitate, Acque hic quidem ex ipfis in quæſtione propoſi- nunc
verò in majoris minoriſve.comparatione tis; videbitur argumenta traxiſſe. At in
talibus conſiſtit; aut enim adid quod eſt finile, aut ad id fyllogiſmis, aut
fanus eſt aut æger: ſed fanus eft, quod eſt majus aut minus, fit arguinentorum
raa non eft igitur ager: ſed fanus non eft, rgerigi- fionumque tranſſumptio.
cur eſt; velica: liæger eft, fanus igitur non eſt; Hi verò loci quos mixtos
eſſe prædiximus, aut De locismist velita: fi æger noneft, fanus igitureſt. Ab
his ex caſibus, autex conjugatis, aut ex diviſionenaſ- sis. * M5$. in- quæ
funt* extrinſecusſumptus eſt ſyllogiſmus,id cuntur: in quibus omnibus
conſequentia, & re trinfecu. elt,ab oppoſitis. Idcirco ergo totus hic
àdiviſio- pugnantia cuſtoditur. Sed ea quidem,quæ ex defi ne locus inter
utrofque medius eſſe perhibetur: nitione, vel genere, vel differentia, vel
caufis quia ſi negatione fit conftitutus, aliquo inodo arguinenta ducuntur,
demonftratione maxiinè quidem ex ipfis fumitur, aliquo modo ab exte-
fyllogiſinis vires atque ordinem ſubminiſtrant: tioribus venit. Si verò à
particioneargumenta reliqua verò verifimilibus ex dialecticis. Atque ducuntur;
nunc quidem ab ipfis, nunc verò ab hi loci maximè, qui in corum fubftantia
ſunt, de exterioribus copiam præſtant: quibus in quæſtione dubitatur, ad
prædicativos Etca Græci quidem Themiſtii diligentiſſimi ac fimplices:reliqui verò
ad hypotheticos & con ſcriptoris ac lucidi, & omnia ad facultatem
intel- ditionalesreſpiciuntfyllogiſmos. Partitio locou ligentiæ revocantis,
talis locorum videtur effe Expeditis igitur locis,& diligenter tam defini
partitio. Quæcùm ita fint, breviter mihi loca- tione, quàm exemplorum etiam
luce parefactis, rum divifio coinmemoranda eſt, ut nihil præte- dicendum
videtur, quomodohiloci maximarum rea relictum eſſe monftretur, quod non intra
cam ſint differentiæ propoſitionum, idque brevi; ne probetur effe inclufum. De
quo enim in quali- que enim longå diſputatione res eget. Omnes bet quæſtione
dubitatur, id ita firınabitur argu- enimmaxiinæ propoſaiones,vel definitiones,
in mentis; ut ea vel ex his ipfis fumantur, quæ in eo quòd ſunt maximæ, non
differunt: ſed in ed quæſtione ſunt conſtirura, vel extrinfecus ducan- quòd hæ
quidein à definitione, illæ verò à genere, tur vel quaſi in confinio horum
pofita veſtigen- vel aliæ veniant ab aliis locis, & his jure differre; tur.
Ac præter hanc quidem diviſionein nihil ex- hæque earum differentiæ eſſe
dicuntur. tra inveniri poteſt: ſed ſi ab ipſis fumitur argu mentum, aut ab
ipſoruin neceffe eſt ſubſtantia De Topicis. fumatur, aut ab his quæ ea
conſequuntur, aut abhis quæinſeparabiliter accidunt,veleis adhæ- Topica ſunt
argumentorum ſedes, fontes fen- Quid fire ſubſtantia ſeparari ſejungique fuum,
origines dictionum. Itaque licet definire Topica. vel non poffunt, vel non
folent. Quæ verò ab locum eſſe argumentiſedem: argumentum aucem corum
fubftantiaducuntur, ca aut in deſcriptio- rationem, quæ reidubiæ faciat ħdem.
Et funt ar- Quibus ex aut in definitione ſunt; & præter hæc, à no- gumenta
aut in ipfo negotio, dequo agitur: aut rebus argi minis interpretatione. Quæ
verò eavelur ſub- ducuntur exhis rebus, quæquodanmodoaffectæ menta ernano
ftantias continentia conſequuntur, alia ſunt, vel ſunt ad id,de quo quæritur;
& ex rebus aliis tra ut generis, vel differentiæ, vel integræ formæ,
&tæ nofcuntur: aut certè affumuntur extrinſecus. vel fpecierum,
velpartiumloco circaca, quæ in- Ergo hærentia loca argumentorum in eo ipfone-
Ex locis han quirantur, alliſtunt. Item, vel caufæ, vel fines, gotio
funttria,id eſt, à toto, à partibus, à nota. rentibus & vel effectus, vel corruptiones,
vel uſus,vel quan A toto eft argumentum etiam,cùm definitio ad- ſunt tria.
ticas, vel tempus, vel fubliſtendimodus. Quod hibetur adid, quod quæritur;
ſicut ait Cicero, * Ed. exfc. verò propriè inſeparabile, vel adhærens, acci-
Gloria eſt laus rectè fa &torum, magnorúmque in dens nuncupatur, id in
communiter accidentibus rempublicam fama meritorum: * ecce quia gloria
numerabitur. Et præter hæc quid aliud cuiquam totum eſt, per definitionem
oſtendis, quid lis inelle pollit, non poteft invenici. gloria. Dddd firs 218 -
am Timr. 578 Caffiodorus tredecim. Argumentum à partibus ſic; utputa, ſi oculus
A repugnantibus arguinentum eſt, quando videt, non ideo totuin corpus videt.
illud quod objicitur,aliqua contrarietate deftrui A nota autem fic ducitur
argumentuin, quod tur; ut Cicero dicit:Is igitur non inodò à te per Græcè
Etymologia dicitur: Siconſul eſt,qui con- riculo liberatus, ſed etiam honore
ampliſſimodi ſulit reipublicæ, quid aliud Tullius fecit,cùm ad- tatus, arguitur
domi ſuæ te interficere voluiffe. fecit fupplicio conjuratos? A cauſis
argumentum eſt, quando ex conſuetu Exipfis rebus Gex rebus
Nuncducunturargumenta & ex his rebus, quae dine communi res quæ tractatur,
fieri potuiſſe aliis, e junt quodammodo affectæ ſunr adid, de quo quæri-
convincitur; ut in Terentio: Ego nonnihil veri & ex rebus aliis tra &tæ
nofcuntur: & funt tus ſuin dudum abs te Dave, ne faceres, quod loca
tredecim, id eſt, alia à conjugatis, alia à ge- vulgus fervorum folet, dolis ut
ine deluderes. nere, alia à forma generis, id eft, fpecie, alia à Ab effectibus
ducitur argumentum, cùm ex his Limilitudine, alia à differentia, alia ex
contrario, quæ facta ſunt, aliquid adprobatur; utin Virgi alia à conjunctis,
alia ab antecedentibus, alia à lio: Degeneres animos timor arguit; nam timor
conſequentibus, alia à repugnantibus, alia à cau- eſt caula, ut degener (ic
animus, quod ciinoris fis, alia ab effectibus, alia à comparatione inino-
effectum eſt. rumi, majorum, aut parium. A comparatione argumentuin ducitur,
quando Primò ergo à conjugatis argumentum ducatur. per collationem perfonarum
live caufarum, fen Conjugata dicuntur, cùm declinatur à nomine, tentiæ ratio
confirmatur, & à majori ratione hoe & fit verbun; ut Cicero Verrem
dicit everriſſe modo, ut in Virgilio: Tu potes unanimes arna provinciam: vel
nomen à verbo, cùmlatrocinari rein prælia fratres. Ergo qui hoc in fratribus po
dicitur latro: aut nomen à nomine; ut Terentius: teft, quanto magis in aliis?'A
minorum compa Inceptio eſt amentium, haud amantium, ratione; ſicut Publius
Scipio Pontificem maxi A genere argumentum eſt, quando à re gene- mum Tiberium
Gracchum non mediocriter labe rali ad ſpeciem aliquam deſcendit: ut illud
Virgi- factantem ſtatum reipublicæ privatus interfecit. lii, Varium &
mutabile ſemper fumina: potuit A pariuin comparatione;lic Cicero, in Piſone
&Dido, quod eſt ſpecies, varia & mutabilis nihil intereſſe, utrum ipſe
conſul improbis con eſſe. Velillud Ciceronis, quod fecit argumen- cionibus,
perniciofis legibus rempublicam vexer, tum, deſcendens à genere ad ſpeciem:Nam
cùm an alios vexare pațiatur. omnium provinciarum ſociorúmque rationem
Extrinſecus verò affumentur argumenta hæc, De Argu diligenter habere debeatis,
tuin præcipuè Siciliæ, quæ Græci år give vocant, id eſt, inartificialia, meniis
ex judices. quod teitimonium ab aliqua externa re fumitur frin'ecus afa
fumptis. Aſpecie argumentumducitur, cùmgenerali ad faciendam fidem; &
prius. quæſtioni fidem fpecies facit; ut illud Virgilii: A perſona, utnon
qualifcuinque lit, ſed illa An non fic Phrygius penetrat Lacedæmonapa- quæ
teitimonii pondus habet adfaciendam fi ftor? quia Phrygius paſtorſpecies eſt;
& fi iftud dem, fed & morum probitate debet effe lauda ille unusfecis,
& alii hoc Trojani generaliter fa- bilis. tere poffunt. A natura auctoritas
eſt, quæ maxima virtute A ſimili argumentum eft, quando de rebus conſiſtit;
& à tempore funt, quæ afferant aucto aliquibus fimilia proferuntur; ut
Virgilius. ritatem; ut ſunt ingenium, opes, ætas, fortu Suggere tela inihi, nam
nullum dextera fruftra na, ars, uſus, necellitas, concurſio rerum for Torſerit
in Rutulos, fteterintque in corporc tuicaruin. Grajum A dictis fačtíſque
majorum petitur fides: cùm Iliacis campis. priſcorum dicta factáque memorantur.
A differentia argumentum ducitur, quando Et à tormentis fides probatur, poft
quæ neme per differentiam aliquæ res feparantur; Virgilius: creditur velle
mentiri. Non Diomedis equos, nec curruin cernis Achil lis. De Syllogiſmis. A
contrariis argumentum ſumitur, quando res diſcrepantes fibimet opponuntur; ut
Teren Prima figura modos haber quatuor, qui uni tius: Nam fi illum objurges,
vitæ qui auxilium verfaliter vel particulariter affirmativam vel ne tulit, quid
facies illi qui dederit damnum aut gativam concludent. malum? Secunda item
quatuor modos, qui ab negativa A conjunctis autem fides petitur argumenti;
concludent, five univerſaliter live particulariter. cùm quæ lingula infirma
ſunt, fi conjungantur Tertia figura haber ſex modos, qui affirmative vim
veritatis affumunt; ut, quid accedit ur tenuis vel negativè, ſed particulares
facient copclufio ante fuerit, quid fi ut avarus, quid fi ut audax, nes. quid
fi ut ejus, quiocciſus eſt, inimicus? Singula Ergo primæ figuræ modus primuseſt,
qui con hæc quia non ſufficiunt, idcirco congregata po- ficitur ex duabus
univerſalibus affirmativis, ha nuntur, ut ex multis junctis res aliqua confir-
bens concluſionem univerfaliter affirmativain, hoc modo. Ab antecedentibus
argumentum eft, quando Omne bonumeft amabile. aliqua ex his quæ priùs gefta
funt, comproban Omne juftum eft bonum. tur; ut Cicero pro Milone:Cùm non
dubitaverit Omne igitur juftum eft amabile. aperire quid cogitaverit, vos
poteſtis dubitare Secundus modus figuræ primæ conficitur ex quid fecerit?
præceſſit enim prædictio,ubi eft ar- univerſali abnegativa, & univerfali
affirmativa, gumentum, & fecutuin eſt factum. habens concluſionem
univerſaliter, hoc modo. A confequentibus verò arguinentum eſt, quan Nullus
rifibilis eft irrationalis. do pofitam rem aliquid inevitabiliter conſequi
Omnis homo eft riGbilis. tur; ut fi mulier peperit, cum viro concubuit. Nullus
igitur homo eſt irrationalise. metur. De Dialectica. 579 Tertiusmodusprimæ
figuræ eſt, qui conficitur gationem particularem concludit, hoc modo. ex
univerſali affirinativa, & particulari affirma Quidam homo non eſt albus.
tiva, particularem affirmativam concludens, hoc Omnis homo eft animal. modo.
Quoddam igitur animal non eſt albumi Omne animal movetur. Sextus modus tertiæ
figuræ eſt, qui ex univer Quidam homo eſt animal. ſali negativa, &
particulari affirmativa particula Quidam igitur homo movetur. rem negativam
concludir, hoc modo. Quartusmodusprimæ figuræ eſt, qui confi Nallus homo eft
lapis. citur ex univerſali abnegativa, & particulari affir Quidain homo eſt
albus. mativa, particularem abnegativam concludens, Quoddam igitur album non
eſt lapis. hoc modo. Demonftrati ſunt omnes modi trium figuraru:n Nullum
inſenſibile eſt animatumi categorici fyllogiſmi, licet quidam primæ figuræ
Quidam lapis eft inſenſibilis. aliosquinque modos addiderint. Quidam igitur
lapis non eſt animatus. Secundæ verò figuræprimus inodus eſt, qui ex De
Paralogiſmis. univerſali abnegativa, & univerſali affirmativa Paralogiſmi
verò primäe figuræ ita fiunt,ex prio concludit hoc modo univerſale abnegativum.
ri affirmativa univerſáli, &fecunda negativa uni Nullum maluin eſt bonum.
verfali. Omnis homo eft animal: nullú animal eſt Omne juſtum eſt bonum. lapis:
nullus igitur homo lapis eſt. Et quiamuta Nullum igitur juftum eſt malum. to
termino &univerfale & particulare concludet Secundæ verò figuræ
ſecundus modus eſt, in & negativaļn & affirmativam: ob hoc eſt inutilis
quo ex univerſalipriore affirmativa, & pofteriore approbatus idem
paralogiſmus,quiex duabus ne univerſali abnegativa conficitur univerfalis abne-
gativiş univerſalibus fit hoc, modo. Nullus lapis gativa concluſio, hoc modo.,
animal eft: nullum animal immobile eft: nullus Omne juftum eft æquum. igitur
immobilis eft lapis. Nullum malum eſt æquum, Idem paralogiſmus, qui ex duabus
particulari Nullum igitur malum eſt juſtum. bus affirmativis fit hocmodo:
Quidam equus Tertius ſecundæ figuræ modus, qui ex priore animal eſt: quoddam
animal bipes eſt: quidam univerſali negativa,& pofteriore particulari
affir- igiturequusbipes eſt. Rurſum ex duabus parti inativa, negationem
colligit particularem, hoc cularibus negativis họcmodo: Quidam homo al modo.
bus non eft: quoddam album non movetur: qui Nullus lapis eſt animal. dam igitur
homo non movetur. Quædam ſubſtantia eſt animal. Dein, fi prior affirmativa
particularis, & ſecun Quædá igitur ſubſtantia non eſt lapis. da negativa
particularis fuerit, hoc modo: Qui Quartus moduseſt ſecundæ figuræ, qui ex
affir- dam equus animal eſt: quoddam animal quadru mativa priore univerſali,
& pofteriore particu- pesnon eſt: quidam igitur equus quadrupes non lari
negativa, particularem negationem conclu- elt. dit, hoc modo. Idem,li prior
negativa particularis, ſecunda Omne juſtum eſt rectum. affirmativa fuerit
particularis,hoc modo: Quidam Quidam homo non eft rectus. homo equus non eſt,
quidam equus immobilis Quidam igitur homo non eſt juſtus. eſt; quidam igitur
homo immobilis eſt. Primus modus tertiæ figuræ eſt, qui ex duabus Idem, fi
major propofitio affirmativa fuerit uni univerſalibusaffirmativis, particularem
affirmati- verſalis, & minor propoſitio negativa fuerit par vam concludit:
quia univerſalem affirmativam ticularis, paralogiſmus erit, hoc modo: Omnis
licet in particularem affirmativam converti, hoc homo animal elt, quoddam
animal rationabile modo. non eít, quidam igitur homo rationabilis non eft:
Omnis homo eſt animal. At verò ſi major fuerit propoſitio univerſalis Omnis
homo eſt ſubſtantia. negativa, & minor particularis fuerit negativa;
Quædain igitur ſubſtantia eſt animal. nullus poterit eſſe fyllogiſmus, hocmodo:Nuli
Item ſecundus modus tertiæ figuræ eft, in quo lus lapis animal eſt, quoddam
animal pinnatum ex univerſalinegatione & univerfali affirmacione eft,
nullus igitur lapis pinnatuseſt. fit particularis negativa concluſio. Rurſus,
li primafuerit particularis, ſecunda Nullus hoino eſt equus. verò univerſalis,
& utræque affirmativæ propofi Omnis homo eſt ſubſtantia. tiones, non erit syllogiſmus,
hoc modo: Qui Quædá igitur fubftantia non eft equus. dam lapis corpus eſt, omne
corpus menfurabile Tertius modus člttertiæ figuræ, qui ex particu- eſt, quidam
igitur lapis inenfurabilis eſt. lari & univerſali aftırmativis parcicularem
affir Idem,liprima fuerit particularis propoſitione mativam concludit, hoc
modo. gativa, & fecundauniverſalis negativa, non erit Quidam hoino eſt
albus. fyllogiſmus, hoc modo: Quoddam animal bipes Omnis homo eſt animal. non
eft, nullum bipes hinnibile eſt, quoddam -Quoddam igitur animal eſt album.
igitur animal hinnibile non eſt; Quartus verò modus tertiæ figuræ eft, qui ex
Idem, ſi prior affirmativa particularis, ſecunda univerſali &particulari
affirmativis, particulare negativa univerſalis propolițio fuerit; ſyllogif,
affirmativum concludit, hoc modo. mum non facit; hocmodo: Quidamn lapis inſen
Omnis homo eſt animal. farus eſt, nullum inſenſatuin vivit, quidam igi Quidam
homo eſt albus. tur lapis non vivit. Quoddam igitur album eſt animal. Idem, li
prior negativa particularis propoſitio Quintus verò modus tertiæ figuræ eſt,
qui ex faerit, & fecunda attirnativa univerſalis, para „particulari
negativa, & univerſali affirınativa ne- logiſinus erit, hoc modo: Quoddam
nigrunani. Dddd ij M cha 1 Caffiodorus non cſt. lis eft. anarum non eſt, omne
animatum movetur, quod- Confirmationem, Reprehenſionem, Peroratio dam igitur
nigrum non movetur. Et de finitis nem. Quæ partes inſtrumenta ſunt Rhetoricæ fa
propolitionibus fyllogiſmus non fit, quia parti- cultatis: quoniam Rhetorica in
omnibusſuisſpe culares fimiles ſunt. ciebus ineft, & ſpecies eidem inerunt.
Nec po tiùs inerunt, quàm eiſdem ea, quæ peragunt, ad Omnes propofitiones his
modis conftant. miniſtrabunt. Itaque & inJudiciali genere cau faruin
neceffarius eft ordo Proemii, & Narra Id eſt, Simplices, ita. Contraria.
tionis, atque cæteroru: n; & in Demonſtrativo, Omnis homo juſtuseſt. Nullus
homojuſtus eſt. Deliberativóque neceſſaria ſunt. Opus auté Rhe- o "uis
Rhero Quidam homo juſtus Quidam homo juſtus toricæ facultatis,docere &
movere: quod nihilo- rice of move. eſt. minus iiſdem ferè rex inftrumentis, id
eft oratio- re docere, Contradictoria. nis partibus, adıniniftratur. Partes
autem Rho Omnis homo rationalis Nullus homo rationa- toricæ, quoniam partes
ſunt facultatis, ipfæ quo eſt. que ſunt facultates; quocirca ipfæ quoque ora
Quidam homorationa- Quidam hoino ratio- tionis partibus, quali inſtrumentis
utentur. lis eft. halis non eft. Atque ut his operentur, eiſdem inerunt. Nam Ex
utriſque terminis infinitis. Omnis non in exordiis niſi quinque ſint ſupradictæ
Rhetori homo non rationalis eſt. Nullus non homo non cæ partes; utinveniat,
eloquatur, diſponat, me rationalis eſt. Quidam non hoino non rationa- minerit,
pronuntiet, nihil agit orator. Eoden lis eſt. Quidam non hoino non rationalis
non eſt. quoque modo & reliquæ ferè partes inſtrumenti, Item ex infinito
ſubjecto:Omnis non homo nili habeant omnes Rhetoricæ partes, fruſtra.
Tationalis eft. Nullus non homo rationalis eſt. funt. Hujus autem facultatis
effector, orator eſt: Quidam non homo rationalis eſt. Quidaın non cujus eft
officium dicere appoſitè ad perſuaſio hoino rationalis non cft. nein: finis tum
in ipſo quidem bene dixiſſe, id Item ex infinito prædicato: Omnis homo non eſt,
dixiſſe appolitè ad perſuaſionem: altera rationalis eſt. Nullus hoino non
rationalis eft. verò perſualifie. Neque enim fi qua impediant Quidam homo non
rationalis eſt. Quidam homo oratorem, quominus perfuadear, facto officio, non
rationalis non eſt. finem non elt confequutus:ſed is quidem, qui Item quæ
conveniunt: Omnis homo rationalis officio fuit contiguus & cognatus,
conſequitur, eſt. Nullus hoino non rationaliseſt. Onnis ho- facto officio. Is
verò, qui extrà eſt, ſæpe non mo non rationalis eſt. Nullus homo non ratio-
confequitur: neque tamen Rhetoricam ſuo fine nalis eit. Quidam homorationalis
eſt. Quidam contentam,honore vacuavit.Hæc quidem ita ſunt homo non
rationalisnon eſt. Quidam homo non mixta, ut Rhetorica infit fpeciebus, ſpecies
verò rationalis eft. Quidam homo non rationalis non infint cauſis. eſt.
Cauſarum verò partes ſtatus effe dicuntur: quos Canlari Item. Omne non animal
non homo eſt. Nul- 'etia: aliis nominibus cum conſtitutiones, tum partes flares
dicuntár, lum non animal non homo eſt. Quiddam non quæftiones nominare licet:qui
quidem dividun animal non homo eſt. Quiddam non animalnon tur ita, ut rerum
quoque natura diviſa eſt. Sedà fiones. homo non eſt. principio quæſtionum
differentias ordiamur: Item converfæ ex prædicato infinito. Omne quoniain
Rhetoricæ quæſtiones circunſtanciis non animal homo eſt. Nullum non animal homo
involutæ ſunt omnes, aut in fcripti alicujus con eit. Quoddain non aniinal homo
eſt. Quoddamn troverſia verfantur, aut præter fcriprum ex re ipſa... non animal
hoino non eſt. fumunt contentionis exordium, Item converfæ ex infinitoſubjecto.
Omne ani Et illæ quidem quæſtiones,quæ in ſcripro ſunt, Queflionesia pro quin
mal non homo eſt. Nullum animal non homo quinque inodis fieri poffunt.
Unoquidem, cùng eft. Quiddam animal non homo eſt. Quoddam hic ſcriptoris verba
defendit, & ille ſententiains i polliams. aniinalnonhomo non eft. atque hic
appellatur ſcriptum, & voluntas, Item propoſitiones indefinitæ. Homo juſtus
Alio verò, fi inter fe leges quadain contrarieta eſt. Hoino juſtus non eſt. te
diffentiunt, quarum ex adverſa parte aliæ de Indefinitarum propoſitiones cum
ſubje& o in- fendunt, aliæ faciunt controverſiam; atque hic finito. Non
hono juſtus eſt: Non homo juſtus vocatur ftatus legis contrariæ. non eſt.
Tertio, cùin fcriptum, de quo contenditur, Ex prædicato infinito. Homo juſtus
non eſt. fententiam claudit ambiguam: ambiguitas ex ſuo Homonon juſtus non eft.
nomine nuncupatur. Ex utriſque terminis infinitis. Non homo Quarto verò, cùm in
eo quod ſcriptum eſt,aliud non juſtus eſt. Non homo non juſtus non eſt. non
fcriptum intelligirur; quodquia per ratioci Propoſiriones ſingulares vel
individuæ. Plato nationein & quamdam ſyllogiſmiconſequentiam juſtus eſt.
Plato juſtus non eſt. veſtigatur, ratiocinativus vel fyllogiſmnus di Ex
infinito ſubjecto. Non Plato juſtus eſt. citur. Non Plaro juſtus non eſt.
Quinto, cùm ſermo ſcriptuseſt, cujus non fa Ex infinito prædicato. Plato non
juſtus eſt. cilè vis ac natura clareſcat,niſidefinitione detecta Platonon
juſtus non eſt. lit; hic vocatur finis in ſcripro; quos omnes à ſe Ex utriſque
terminis infinitis. Non Plato non differre, non eſt noſtri, operiſve rhetorici
demon juftus eſt. Non Plato non juſtus non eſt. ftrare. Hæcautem ſpeculanda
doctis, non rudi bus diſcenda proponiinus: quamvis de eorum De locis
Rhetoricis. differentia in Topicorum commentis per tranſi- Quationes Rhetorice
tum differuerimus. Rhetorica oratio habet partes ſex, Procinium, Earum autem
conſtitutionum, quæ præter fcri- prin masina plices, fex. quod Exordiumcft,
Nacrationein, Partitionem, ptum in ipfaruin rerum contentione lunt politæ,
corum dinzi modis fica præter fcri habet partes De Dialectica. 581 1 ses.
riaicialis ita differentiæ ſegregantur,ut rerum quoque ip- lem partem vergant,
defenfionis copiam non mi farum natura divila lit. In oinni enim Rhetorica
niftrant; ex eiſdem enim locis accalatio defenſió. quæſtione dubitatur, an ſit,
quid ſit, quale fit; & que confiftit. propterhæc,an jure, vel more poſſit
exerceri judi Si igitur perſona in judiciam vocatur, neque ciuin. Sed li factum;
velres quæ intenditur ab facta:n, dictúmve ulluin reprehenditur, cauſa eſte
adverſario,negatur, quæſtio eſt utrùm fit ea; quæ non poteſt. Nec verò factum,
dictúinve aliquod conjecturalis conſtirutio nominatur. Quod fi in judicium
proferri poteſt, li perſona non exi factum quidem eſſe conſtiterit,ſed quidnain
ſit id ftet. Itaque in his duobus omnis judiciorum ra quod factum eſt,
ignoretur: quoniam vis ejus tioverſatur, in perfona ſcilicet, atque negotia
definitione monftranda eſt, finitiva dicitur con- Sed, ut dictum eft, perſona
eſt, quæ in judicium ftitutio. Ac fi &effe conftiterit, & de rei
defini- vocatur: negotium, factum, dictúmveperſone, tione conveniat, fed quale
fit inquiratur: tunc propter quod reus ftatuitur. Perſona igitur & ne quia
cui generi ſubjici debet ambigitur, genera- gotiamſuggerere arguinenta non
poſſunt;de ipſis lis qualitas nuncupatur. In hac verò quæſtione enim quæſtio
eſt: de quibus autem dubitatur, ea & qualitatis, & quantitatis, &
compatationis dubitationi fidem facere nequeunt Argumen ratio verſatur. Sed
quoniam de gènere quæſtio tum verò erit ratio rei dubiæfaciens fidem. Fa, eſt,
ſecundum generis formam in plura neceffe ciunt autem negotio fidem ea, quæ ſunt
perſo eſt hujusconſtitutionis membra diſtribui. nis ac negotiis attributa. Ac
fi quando perſona Omniis quito Omnis eniin quæftio generalis, id eſt, cùm de
'negotio faciat fidem,velutſi credatur contra rem ftio generalis in duas difiri
genere, & qualitate,vel quantitatequæritut facti, publicam fenfifle
Catilinam,quoniam perſona bnisur par in duas tribuitur partes. Nam aut in
præcerito eſt vitiorum turpitudine denotata: tunc non iiz quæritur de qualitate
propoſiti, aut in præſenti, eo quod perſona eſt, & in judicium vocatur, fia
aut in futuro. Si in præterito, juridicialis con dem negorio facit, ſed in eo
quod ex attributis Ititutio nuncupatur: fi præſentis vel futuri tem- perſonæ
quandam ſuſcipit qualitatem. Sed ut re poris teneat quæſtionem,negotialis
dicitur. rúin ordo clariùs colliquefcat, de circumſtantiis Quæftio Fun
Juridicialis verò, cujus inquiſitio præteritum arbitror eſſe dicendum. refpicit,
duabuspartibus fegregatur. Aut enim De Circumftantiis. duabus parti. in ipfo
facto vis defenfionis ineft, & abſolurà Circunſtantiæ ſunt, quæ
convenientis fubftan. Detircnm. buslegrégie qualitas nuncupatur: Aut
extrinfecus affumitur, tiam quæſtionisefficiunt. Nifienim fit qui fece Gancias
para & affumptiva dicitur conſtitutio. rit, & quod fecerit, cauſáque
cur fecerit, locus, situr Cicero. Sedhæc in partesquatuor derivatur: aut enim
tempúſque quo fecerit,modus, etiain facultas; conceditur criinen, aur removetur,
aut refertur, que li delint,cauſa non ſtabit. Has igitur circum aur, quod
eſtultimum, comparatur. Conceditur ftantias in geinina Cicero partitur, ut eam
quæ crinen, cùm nulla inducitur facti defenſio, ſed eſt, quis, circumſtantiam
in attributis perſone venia poſtulatur. Id fieri duobus modis poreſt, ponat:
reliquas verò circumſtantias in attributis circumftan fi depreceris, aut
purges. Deprecaris,cùm nihil negotio conititaat. Et primùın quidem ex cir
excufationis attuleris. Purgas, cùım facti culpa cumftantiis, eam quæ eft, quis,
quam perfonæ tia titur, Quispada cicina his adſcribitur'; quibus obliſti
obviarique non attribuit, ſecar in undecim partes. Nomen, ut in undecim poffit,
neque tamen perſona ſint; id enim in Verres, natura ut barbarus, victus
utamicusno- partes. aliam conſtitutionem cadit. Sunt autem hæc, im- biliuin,
perſona ut dives, ſtudium ut Geometra, prudentia, caſus, atque necellitas.
cafus ut exul, affectio ut amans, habitus ut ſa Removeturverd criinen, cùm ab
eo, qui in- piens, conſilium, facta, & orationes. Eáque cellitur,
transfertur in alium. Sed remotio cri- extra illud factum dictúmque ſunt, quæ
nunc minis duobus fieri modis poteft: fi aur cauſa re- in judicium devocantur.
Reliquas verò cir fertur, aut factum. Caufa refertur, cùm aliena cumſtantias,
quæ funt, quid, cur, quando,ubi, poteftare aliquid factum eſſe contenditur:
faćtum quomodo, quibus auxiliis, in attributis negocio verò, cumalius aut
potuiffe, aut debuiffe facere ponit. Quid, &cur, dicenscontinentia cum ipfo
demonſtratur. Atque hæc in his maximè valent, negotio: cur, in cauſa
conſtituens; ea enim cauſa fi ejus nominis in nos intendatur actio, quòd non
eſt uniuſcujuſque fa &ti, propter quam factaeſt * MSS.pottat fecerimus id,
quod * oportuit fieri. Refertur cri Quid verò, ſecat in quatuor partes. În ſum-
Quidfeceria men, cuin jultè in aliquem facinus commiſlum iam tacti, ut parentis
occifio. Exhac maximè quatuorpars * MSS.com- effe * conceditur:quoniam is, in
quem commif- locus fumitur amplificationis ante factum; ut senditat. fum ſit,
injuriofusfæpe fucrit, atque id quod in- concitus rapuit gladium: duon fit;
vehementer tenditur, meruit pati. percuſſit. Poſt factum; in abdita fepelivit.
Quæ Comparatio eft, cùin propter meliorem utilio- omnia cùın lint facta, tamen
quoniain ad geſtum réinve rem factum, quod adverſarius arguit, negotiuin, de
quo quæritur, pertinent, non ſunt commiffum effe defenditur. Atque hæchactenus:
eafacta, quæ in attributis perſonæ numerara nunc de inventione tractandum eft.
ſunt. Illa enim extra negorium, quòd extra poſi ta perſonam informantia fidem
ei negotio præ De Inventione ſtant, de quo verſatur intentio: hæc verò facta,
quæ continentia ſunt cum ipfo negotio,ad ipſuni Etenim priùs quidem Diale &
icos dedimus, negotium; de quo queritur, pertinent. nunc Rhetoricos promimus
locos, quos ex attri Poftreinas verò quatuor circamftantias Cicero In perſona,
butis perſonæ ac negotio venire neceſſeeſt. Per- ponit in geſtione negotii, quæ
eſt ſecunda pars & negotio fona, quæ in judicium vocatur, cujus dictum ali-
attributorum negotiis. Et eam quidem circuin quod factúmve reprehenditur.
Negotium; fa- ſtantiam, quæ eſt quando, dividit in tempus, ut putCie to Cuando,
dia conftitute of. cum dictumveperfonæ, propter quod in judi- modò fecit; &
in occaſionem,ut cunctis dormien- in tempus, so cium vocatur. Itaque in his
duobus omnis lo- tibus. Eam verò circunftantiam quæ eſt ubi, lo- in occafionč..
* MSS.excu- corum ratio conſtituta eſt; quæ enim habent* re. cum dicit; ut in
cubiculo fecir: quomodo verò, ſarionis. prehenſionis occaſionem, eadem nili ad
excuſabi ex circuinftantiis inoduin ur clain fecit: omnis loco. tum ratio >
1 582 Caffiodorus 1 mus. fed de vo 1 quibus auxiliis circumftantiam, facultatem
ap- ita adhærebant, ut ſeparari non poſſint;ut locus, pellat, ut cuin multo
exercitu. Quorum qui- tempus, & cætera, quæ geſtum negotium non dem locorum
& fiex circumſtantia rerum, natu- relinquunt. tulis diſcretio clara eft:nos
tarnen benevolentiùs Hæc verò, quæ ſunt adjuncta negotio, non in faciemus, ſi
uberiores ad ſe ditferentias oſtenda- kærent ipſi negotio, ſed accedunt
circuinitantiis, & tunc demum argumenta præſtant, cùm ad com Nam cùm ex
circumſtantiis alia M. Tullius parationem venerint: ſunant verò argumenta
propofuerit effe continentia cum ipfo negotio: non ex contrarietate, fed ex
contrario;& non alia verò in geſtione negorii, atque in continen- ex
ſimilitudine, ſed ex ſimili, ut appareat ex re tibus cuin ipſo negotiv: illum
adnurneraverit lo- latione ſumi arguinenta in adjunctis negotio; & cum quem
appellavit, duin fit sex ipſa prolatio- ea eſſe adjunéta negotio, quæ funt ad
ipſum, de nis fignificatione idem videtur elle locushic,dum quo agitur,negotium
affccta. fit, cum eo, qui eſt in geſtionenegotii; ſed non Conſecutio verò, quæ
pars quarta eft eorum, ita sft: quia dum fit, illud eft, quod eo tempore quæ
negotiis attributa ſunt, neque in,iplis ſunt açimiſum eſt, dum facinus
perpetratur, ut per- rebus, neque rerum ſubſtantiam relinquunt,ne ouſſit.
Ingetione verò negotii, ca ſunt, quæ & que ex comparatione reperiuntur: ſed
rem geftam ante factum, & dum fit, & poft factum, quod vel antecedunt,
vel etiam conſequuntur. Atque eſtum eſt continent;in omnibus enim tempus, hic
locus extrinſecus eſt. Primum eniin in eo. locus, occafio,modus, facultas
inquiritur, Rur- quæritur id, quod factum eſt, quo nomine ap ſus dum fit,
factuin eft, quod adininiftratur, eft pellari conveniat: in quo non de re,
negotium:qux verò funt in geſtione negotii, non cabulo laboratur. Qui deinde
auctores ejus facti ſunt facta, fed facto adhærent; in illis enim, teni-
&inventores, comprobatores, atque æinuli, id pus, occaſionem, locum, modum,
facultatein, totum ex judicio, & quodam teſtimonio extrin facta eſſe
conſenſerit: fed, ur dictum eſt, qux ſecus políto, ad ſublidium confluit
argumenti. cuilibet facto adhærentia fint, atque in nullo Deinde &quæ ejus
rei ſit ex conſueto pactio, ju modo derelinquant: quia quadam ratione ſubje-
dicium, ſcientia, artificium. Deinde natura cta funt ipſi, quod geſtum eſt,
negotio. ejus, quid evenire vulgò ſoleat: an inſolenter & Item ea quæ funt
in geſtione negotii, finchis, rardhomines id ſuâ auctoritate comprobare, an quæ
funtcontinentia cum ipfoncgotio, eſſe poſ- offendere in his conſueverint;
&cætera quæ fas funt. Poteft eniin & locus, & tempus, &oc- ctum
aliquod fimiliter confeftim, aut intervallo cafio, & modus, & facultas
facti cujuſlibet intel- folent conſequi: quæ neceſſe eſt extrinſecus po ligi,
etiamſi nemo faciat, quod illo loco; vel fita ad opinionein inagis tendere,
quam ad ipfam, temporc, veloccaſione, vel modo, vel facultate rerum naturam.
fieri poſſet. Itaque ea quæfunt in geſtione nego Itaque in hæcquatuor licet
negotiis attributa, tii, line his quæ ſuntcontinentia cum ipfo nego- dividere;
ut fint partim continentia cum ipſo ne tio, effe poffunt. Illa verò line his
eſſe non pof- gotio, quæ facta eſſe ſuperiùs dictum eſt: partim ſunt; facèum
enim præter locum, tempus, occa- in geſtionenegotii, quæ non effe facta, fed
factis fionem, modum, facultatémque efle non pote- adhærentia dudum
monſtravimus: partim adjun rir. Atque hæcfunt, quæ in attribucis perſona eta
negotio; hæc, ut dictum eſt, in relatione ac negotio confiftunt, velut in
Dialecticis locis ponuntur: partim geſtum negotium conſequun ea, quæ in ipfis
cohærent, de quibus quæritur: tur; horum fides extrinſecus fuinitur. Ac de
reliqua verò quæ vel funt adjuncta negotio, vel Rheroricis quidem locis ſatis
dictum. negotium geſtuin conſequuntur, talia ſunt, qua Nunc illud eſt
explicandum, quæ ſit his ſimi-. Quid fat diain Dialecticis locis ca, quæ
ſecundum Themi- litudocum Dialecticis, quæ veròdiverſitas;quod hobertura corean
ſtium quidem partim rei ſubſtantiam conſequun- cùm idoneè, convenientérque
monſtravero,pro- Dialecticisfa tur, partim funt extrinfecus, partim verſantur
poſiti operis explicetur intentio. Primò adeo ut militudo,que in mediis;
ſecundum Ciceronem verò inter affe- in Dialecticis locis, ficut Themiſtio
placet, alii verè diverfi &a numerara ſunt, vel extrinſecus polita."
funt, qui in ipſis hærent, de quibus quæritur: tab. Sunt enim adjuncta negotio
ipfa etiam quæ fi- alii verò affumuntur extrinſecus, alii verò inedii quajiilem
fa dem faciunt quæſtioni, affecta quodammodo ad inter utroſque locati ſunt; ſic
in Rhetoricis quo cinn gafiio. id, de quo quæritur, reſpicientia negotium, de
que locis, alii in perſona atque negotio conſi quo agitur, hoc modo. Nam
circumſtantix ſtunt, de quibus ex adverſa parte certatur: alii feprem quæ in
attributis perſonæ, vel negotio, verò extrinfecus, ut hi qui geſtum negotium
con numeratæ funt, hæc cum cæperintcomparari,& fequuntur: alii verò medii.
quafi in relationem venire, fi quid ad ſe conti Quoruin proximi quidem negotio
funt hi, qui nens referatur, vel ad id quod continet, fit aut ex circumſtantiis:
reliqui in geſtione negotii ſpecies, aut genus: fi id referatur,quod ab eo lon-
conſiderantur. Illi veròqui in adjunctis negotio gillime diſtet, contrariun: at
ſi ad finem ſuum collocantur, ipſi quoque intermedios locos pos atque exitum
referatur, tum eventuscft. liti ſunt: quoniam negotium, de quo agitur, qua
Eodem quoque modo ad majora, & minora, dam affectione refpiciunt. Vel fi
quis ea quidem & paria comparantur. Atque omnino tales loci quæ perſonis
attributa ſunt, vel quæ continentia in his quæ funt ad aliquid conſiderantur.
Namn ſunt cum ipfo negotio, vel in geſtione negotii majus,autminus, alit lunile,
aut æquèmagnum, conſiderantur; his lumilia locis dicat, qui ab ipfis aut
diſparatum, accedunt circumſtantüs, quæ in in Dialectica trahuntur, de quibus
in quæſtionc attributis negotio atque perſonæ numeratæ ſunt; dubitatur.
Conſequentia verò negotio ponat ex ut dum ipfæ circumftantiæ aliis comparantur,
fiat trinſecus. Adjuncta verò inter utrumque conſti ex iis argumentum facti
dictive, quod in judi- tuat. cium trahitur. Diſtat autem à ſuperioribus, quòd
Ciceronis verò diviſioni hoc modo fic fimilis, ſuperiores loci, vel facta
continebant, vel factis Nam ea quæ continentia ſunt cum ipſo negocio, Sunt
adjun Eta ucgorio, ni, 1 De Dialectica. Dialecticus verò non ita velea quæ in
geſtione negotii conſidecantur, in do aliquid ſpecialiter probant, ad Rhetores,
Poë ipſis hærent, de quibus quæritur. Ea verò, quæ tas, Juriſperitóſque
pertinent. Quando verò ge adjuncta ſunt, inter affecta ponuntur. Sed ea quæ
neraliter diſputant,ad Dialecticosattinere manis geitum negotiuin conſequuntur,
extrinfecus feſtum eit. collocata ſunt. Vel Gi quis ea quidem, quæ con Mirabile
planè genusoperis, in unum potuiſſe tinentia ſunt cum ipfonegotio, in ipſis
hærere colligi, quicquid mobilitas ac varietas humanæ arbitretur:affecta verò
effe ea,quæ funt in geſtio- mentis in fenlîbus exquirendis per diverſas cauſas
ne negotii, vel adjuncta negotio: extrinfecus porerat invenire; concludi
liberuin ac volunta verò ea, quæ geftum negotium conſequuntur. riun intellectum.
Nam quocumque ſe verterit, Nam jam illæ perfpicuæ communitates", quod
quaſcumque cogitationes intraverir, in aliquid quidem ipſi penè in utriſque
facultatibus verſan- corum quæ prædicta ſunt, neceſſe eſt ut huma tur loci, ut
genus, ut pars, ut ſimilitudo, ut con- num cadat ingenium. trarium, ut majus,
ac minus. Decommunicati Illud autem competens judicavimus recapitu bus quidem
ſatis dictum. lare breviter, quorum labore in Latinum elo Differentiæ verò illæ
funt, quòd Dialectici quium res iftæ pervenerint; ut nec auctoribus etiam
thelibus apti funt: Rhetorici tantùm ad gloria ſua pereat, & nobis
pleniffimè reiveritas hypotheſes, id eft, quæftiones informatas circum-
innoteſcat. Iſagogen tranſtulitPatriciusBoëtius, ftantiis affumuntur. Nain
ſicut ipfæ facultates à commenta ejus gernina derelinquens. Cate femetipfis
univerſalitate, & particularitate di- gorias idem tranſtulit Patricius
Boëtius, cujus ſtinctæ ſunt: ita earum loci ambitu, & contra commenta
tribus libris ipfe quoque formavit. ctione diſcreti ſunt. Nam Dialecticorum
loco-. Peri herinenias fuprà inemoratus Patricius tran rum major eſt ainbitus;
& quoniam præter cir- ftulit in Latinum: cujus commenta ipſe duplicia
cumſtantias funt quæ fingulares faciunt cauſas, minutillimâ diſputatione
tractavit.Apuleius verò non modò ad theſes utilesſunt, verumetiam ad
Madaurenſis ſyllogiſmos categoricos breviter argumenta, quæ in hypothefibus
polita ſunt, eof- enodavit. Suprà memoratus verò Patricius de que locos qui ex
circumftantiis conſtanc,claudunt fyllogiſmis hypotheticis lucidiflimè
pertractavit. atque ambiunt. Itaque fit; ut ſeinper egeat Rhe- * Topica
Ariftotelis,uno libro Cicero tranſtulit in Hæcdefuitin tor Dialecticis locis?
Dialecticus verò fuis poflit Latinum, cujus commentaprofpe & oratque ama-
MSS. effe contentus. tor Latinorum Patricius Boëtius octo libris expo Semper
eget Rherorenim quoniam cauſas ex circumſtantiis fuit. Nam & prædictus
Boëtius Patricius eadem* Rhetor D4- tractat, ex iifdem circumftantiis argumenta
præ- "Topica Ariſtotelis octo libris in Latinum vertic lecticislocis,
fumit, quæ neceſſe eſt ab univerſalibus, & ſupli- eloquiun. cioribus
confirmari, qui ſunt Dialectici. Diale &ti Confiderandum eft autem, quòd
jam,quia lo cus verò, qui prior eft, polteriore non eget, nifi cus ſe attulit
in Rhetorica parte, libavimus quid aliquando incideritquæftio perfonæ; ut cuin
fit interſit inter artein & diſciplinain, ne ſe diver incidensDialectico ad
probandam fuam theſim, fitasnominun permixta confundat. Interartem Que fa
diften Cáufam circumſtantiis inclufam, tunc demum & diſciplinai Plato,
& Ariſtoteles, opinabiles artem dif Rhetoricis utatur locis. Itaque in
Dialecticis lo- magiftri fæcularium litterarum, hanc differen- ciplinam ſee '
cis (fi ita contingit) à genere argumenta fumun- tiam eſſe voluerunt, dicentes:
Arrem cflc habitu- cundem Plaa tur,id eft, ab ipſa generis natura: fedin Rheto-
dinem operatricem contingentium, quæ fe & Sonem ricis ab eo generequod illi
genus eſt, de quo agi- aliter habere poffunt: Diſciplina verò elt, quæ Vide
prefer tur; nec ànatura generis, ſed à re fcilicet ipſa,quæ de his agit, quæ
aliter evenire non poffunt tionem Nunc ergo ad Mathematicæ veniamus initium.
Sed ut progrediatur ratio, ex eo pendet, quòd natura generis antè præcognita
eſt; ut fi dubite De Mathematica. tur, an fuerit aliquis ebrius, dicitur, fi
tefellere velimus, non fuifle: quoniam in eo nulla luxu- ' Mathematica, quam
Latinè poſſumus dicere luid fitMara ries antecefferit. Idcirco nimirum, quia
cum ku- doctrinalem, ſcientia eſt, qux abſtractam con- in quas para xuries
ebrietaſis quaſi quoddam genus fit, cui fiderat quantirarem. Abſtracta enim
quantitas tes dividalun luxuries nulla fuerit, ne ebrietas quidem fuit:
dicitur, quâ intellectus à materia ſeparátur, vel ſed hoc pender ex altero. Cur
enim fi luxuries ab aliis accidentibus; ut eſt par, impar, vel alia non fuit,
ebrietas eſſe non potuit, ex natura ge- hujuſcemodi, quæ in ſola ratiocinatione
tracta neris demonftratur, quod Dialectica ratio ſub- mus, hæc ita dividitur ”
miniſtrat. Unde enim genus abeft, inde etiain fpecies abelle necefle
eft:quoniam genus fpecics r Arithmeticain, non relinquit. Ec de fimilibus
quidem, & de contràriis, eo Muſicam. Diviſio Matheina dem modo, in quibus
maxima ſimilitudo eft in ticæ in ter Rhetoricos ac Dialecticos locos:
Dialectica Geometriam.. eniin ex ipſis qualitatibus, Rhetorica ex quali 1 tatem
ſuſcipentibus rebus argumentaveſtigat; ut Aſtronomian. Dialecticus ex genere,
id eft, ex ipfa generis na tura: Rhetor ex ea re, quæ genuseft. Dialecti
Arithmetica; eſt diſciplina quantitatis numera Quid fit cus ex ſimilitudine,
Rhetor ex funili, id eft, ex bilis fecuuduin ſe. Aruthinetica. ta re, quæ
fimilitudinem cepit. Eodem modo Mufia eſt diſciplina, quæ de numeris loqui-
QuidMufica. ille ex contrarietate, hic ex contrario. tur, qui ad aliquid ſunt
his, qui inveniuntur in Memoriæ quoque condendum eft, Topica Ora- ſonis.
toribus, Dialecticis, Poëtis, & Juriſperitiscom Gcometria, eſt diſciplina
magnitudinis immo- Quid Geomes muniter quidem argumentapræftare: fed quan-
bilis & fornarum. rentia inter genus eſt, trii 384 Caffiodorus 1 didit.
Inns. Quid fis A. Aſtronomia, eft diſciplina curſus cæleſtiain (i- tergunt,
&ad illam inſpectivain contemplatio fronomia. derum, quæ figuras
conteinplatur omnes, & ha- nem, fi tamen ſanitas mentis arrideat, Domino
bitudines ftellaruin circaſe, & circa terram inda- largiente, perducunt.'
gabili ratione percurrit. Quas ſuo loco paulò la Scire autem debemus Joſephum
Hebræorum Abraham ciùs exponemus, ut commemoratarum rerum doctiſſimum, in libro
primo Antiquitatum, ritu- primim Aris virtus competenter poffit oftendi. Modò
de dif- lo nono dicere,Arichinericain, & Aſtronomiam ihmeticamen
ciplinarumnominedifferainus. Abrahain primùm Ægyptiis tradidiffe; unde ſe
Aftronomien Diſciplina Diſciplinæ ſunt, qux, licut jam di & um eft, mina
ſuſcipientes (utfunt hoinines acerrimi in Ægypainte nunquam nunquam opinionibus
deceptæ fallunt; & ideo genii) cxcoluiffe ſibi reliquas latiùs diſciplinas.
opinionibus cali nomine nuncupantur,quia neceffariò ſuas re- Quasmeritò fan
&i Patres noftei legendas ſtudio deceptæ fal gulas ſervant. Hænec
intentione creſcunt,nec fillinis perſuadent: quoniam ex magna parte per
Iubductione minuuntur, nec aliis varieratibus eas à carnalibus rebus appetitus
noſter abſtrahi permutantur: ſed in vi propria permanentes, re- tur, &
faciunt deſiderare, quæ, præftante Do gulas ſuas inconvertibili firmitate
cuſtodiunt. mino, ſolo poſſumus corde reſpicere. Quocirca Has dum frcquenti
meditatione revoluimus, fen- tempus eſt, ut deeis ſingillatin ac breviter diſſe
Cum noftruin acuunt, limúmque ignorantix de- rere debeamus. De Arithmetica C49
Arith metica inter Scriptores fæculacium litterarum interdiccipli- faru
efleformata;attamennulla corum,prætet Mathemati cas diſcipli metiiam eſſe
volucrunt:propterea quòd Mufica, Credo trahens hoc initium, ut multi philoſo
mis prima ju. & Geometria, &Aſtronomia, quæ fequuntur, photum fecerunt,
ab illa ſententia prophetali, Sam 11. 21. indigent Arithmetica, ut virtutes
ſuas valeant ex- quæ dicit: Omnia Deum menſura, numero, & plicare. Verbi
gratia,ſimplum ad duplum, quod pondere difpofuiſſe habet Muſica, indiget
Arithmetica: Geometria Hæc itaque confiftit ex quantitate diſcreta, čHY Arish
verò, quod habet trigonuin, quadrangulum,vel quæ parit genera numerorum, nullo
fibi com- metice conf his funilia, item indiget Arithmeticas Aſtrono-
munitermino ſociata. V. enim ad x. vi. ad iiii. vii. lidt ex quar mia etiam,
quòd habet in moru liderum nuineros ad iii. per nullam coinmunein terminuin
alteru- titate difcre punctorum, indiget Arithinetica. Arithmetica trâ fibi
focietate nectuntur. Arithmetica vecò di sa. Pithagora verò, urlit, neque
Muſica, neque Geometria, citur, co quòd numeris præeſt Numerus verò, merica
dica Arithmetia neque Aſtronomia egere cognoſcitur. Propterca cft ex inonadibus
multitudo compofita; ut iii. V. tur,& que camlan.c. hisfons, & måter
Arithmetica reperitur; quam X. xx. & cætera. Intentio Arithmeticæ elt doce-
fit ejusinsects diſciplinam Pythagoras fic laudalle * probatur; re nos naturam
abſtracti numeri, & que ei acci- tio. uromnia ſub numero, & menfura à
Deo creata dunt; ut verbi gratia, parilitas, impacilitas, & firatur. fuiſſe
incinoret, dicens: Alia in motu, alia in cætera. Cur Arith vit. * Ed. mon s
Paritei pat. Pariter impat. Impariter par Prima diviſio numera Tvel par, qui
eſt Numerus, qui congre gatio monaduneſt, ľ Primus& ſimplex. vel iinper,
qui eſt. Secundus & compoſitus. Tertius mediocris, quiquodam modo primus,
& incompoſitus, alio verò modo ſecundus, & (compofitus. Quid fit Par
Par numerus eft, qui in duas partes æquales verbi gratia, xxiiii, in bis xii:
xii, in bisyi:ſexo dividi poteft; ut ii. iii. vi.viii. x. & reliqui. in bis
tres, & ampliùs non procedit. Quid impar. Impar numerus eſt, qui in duas
partes æquales Primus & fimplex numerus eft, qui monadi- Quid primit dividi
nullatenus poteft, ut iii. v. vii. viiii. xi.& c cammenſuram ſolam recipere
poteſt; ut verbi & implex reliqui. gratia iii. v. vii. xis xiii. xvii.
& his finilias Quidpariter Pariter par numerus eſt, cujus diviſio in dua
Secundus & compoſitus numerus eft, qui non Quid fecur par bus æqualibus
partibus fieri poteſtuſque ad mo- folùm monadicam menſuram, ſed &arithmeti
doto come nada; ut verbi gratia lxiüi. dividitur in xxxii; cam recipere poteſt;
ut verbi gratia, viiii. xv. xxi. poftmo xxxii, in xvi: & xvi, in viji: viii
in iii:üii, & his ſimilia. in duo: ïi, verò in i. Mediocris numerus eſt,
quiquodam modo fim Quid pariter Pariter impar numerus eſt, qui fimiliter fo-
plex & incompoſitus efle videtur, alio verò ino- cris impar. lummodo in
duas partes dividi poteft æquales; do fecundus & compoſitus, ut verbi
gratia, viiii. utx, in v: xiiii, in vii: xviii, in viiii.& his fi- ad xxv.
dum comparatus fuerit, primus eft & milia. incompoſitus: quia non habet
communem nu Quid impari. Impariter par nuinerus eſt, qui plures diviſio- merum,
niſi ſolum monadicum: ad xv. verò li nes, ſecundùm æqualitatem partium dividere
comparatus fuerit, ſecundus eft & compofitus: poteft, non tamen uſque ad
allem perveniat; ut quoniam ineſt illi communis numerus præter monadi. Quid
Media ter par De Arithmetica. 383 mõnadicum, id eſt, ternarius'numerus, qui no-
fexta pars, duo:quarta pars,tria: tertia pars,iii: vein menſurat terterni,
& xv. ter quini. & duodecima pars unum; qui oinnes aſſumpti fiunt xvi.
Altera divifio, de paribios, do imparibues Indigens nunerus eſt, qui & ipſe
de paribus QuidIndigãs. numeris. deſcendit, quantitatis fuæ ſummain partiuin in
feriorem habet; ut viii. cujus medietas, iiii: [ aut ſuperfluus. quarta pars,
ii: octava pars, i; quæ fimul con gregatæ partes fiunt vii. aut par eſt. <
aut indigens. Perfectus numerus eft, qui taten & ipfe de QuidPerfe Numerus.
paribus deſcendit: is dum par ſit, omnes partes aut impar. į aut perfectus.
Taas ſimul aſſumptas, æquales habet; ut vj. cu jus medietas, tria: tertia pars,
ij: vj. pars únum. Quid Sriper. Superfluus numerus eſt, qui deſcendit de pari-
Qux aſſumptæ partesfaciunt ipſum ſenariumnus fluis. bus, is dum par ſit,
ſuperfluas partes quantitatis merum fuæ habere videtur; ut xii, habetmedietatem
vie. Geti popolazione stanziata nella regione successivamente nota come Dacia
Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento antica
Roma è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di
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blue.svgVoce principale: Storia della Dacia. Geti era il nome che veniva
dato dagli scrittori pre-Romani alla popolazione stanziata nella regione
successivamente nota come Dacia, a centro nord dell'ultimo tratto del Danubio,
dove aveva gli inizi l’antica Bulgaria. I Geti erano parte del gruppo di
genti indoeuropee, forse parte della famiglia tracica; è possibile che fossero
tanto parte del popolo dei Daci o Tracchi, quanto che da questi siano stati a
un certo punto assorbiti. Per gli autori romani i termini Daci e Gaetierano
considerati in genere equivalenti, anche se Seneca indicava Geti come gli
abitanti delle pianure della Valacchia[1], mentre Stazio indicava i Daci come
gli abitanti dei territori montuosi e collinari della Transilvania[2]; inoltre
distinguevano i Tyragetae, Geti stanziati vicino al fiume Nistro. Storia
Modifica Secondo Erodoto, i Geti erano "la più nobile e la più giusta di
tutte le tribù traciche". Quando nel 514 a.C. i Persiani, guidati da Dario
I, attuarono una campagna contro gli Sciti, le varie popolazioni dei Balcani si
arresero al sovrano e lo lasciarono passare sui loro territori; solo i Geti
opposero resistenza. I Geti in seguito furono sconfitti da Alessandro Magno nel
335 a.C. sulle rive del Danubio, nel corso della sua campagna nei Balcani; in
quell'occasione, Alessandro per attraversare il Danubio si servì di zattere e
di piccole imbarcazioni di pescatori, sorprendendo circa 4000 Geti, attaccati
alle spalle, dopo aver attraversato il fiume. Religione Modifica Come ci
tramanda Erodoto, i Geti (alla fine del VI secolo a.C.) credevano
nell'immortalità dell'anima e consideravano la morte un mero cambio di
paese: «Ecco in che consiste la loro fede nell'immortalità. Essi
credono di non morire, e che chi muore vada dal Demone Salmoxis. Alcuni di essi
chiamano questa stessa divinità Gebeleizi. Mandano ogni cinque anni uno di loro
tratto a sorte, come messo a Salmoxis, ogni volta incaricandolo di recargli le
loro richieste. Ed ecco come lo mandano. Alcuni, che hanno quest'incarico, se
ne stanno con tre giavellotti; mentre altri afferrano le mani e i piedi
dell'uomo che inviano, lo fanno ondeggiare, e lo scagliano in alto verso le
punte dei giavellotti. Se viene trafitto e muore, ritengono propizia la
Divinità; e se non muore, la colpa è del messo, che essi dichiarano malvagio.
Gli muovono quest'accusa, e ne mandano un altro, al quale danno, mentre è
ancora in vita, i loro incarichi.» (Erodoto, Storie, IV, 94) Erodoto
aggiunge anche che «Inoltre scagliano, questi stessi Traci, frecce
verso l'alto al cielo, contro il tuono e il fulmine, e minacciano quella
Divinità, perché ritengono che fuori del loro non vi sia alcun altro
Dio.» (Erodoto, Storie, IV, 94) Accanto a Zalmoxis, un ruolo di rilievo
tra le divinità gete era attribuito a Gebeleixis. Il primo sacerdote godeva di
una posizione prominente in quanto rappresentante della divinità suprema,
Zalmoxis, ed era anche il consigliere del re. Giordane nella sua Getica,
attribuiva a Deceneo il titolo di sacerdote capo di Burebista. Modifica ^
Seneca, Phedra, 165-170. ^ Stazio, Silvae, I, 1, 7; III, 3, 169. ^ Giordane,
Getica X, a cura di Mierow. URL consultato il 26 dicembre 2017 (archiviato
dall' url originale il 20 novembre 2009). Voci correlate Modifica Daci
Dacia (regione storica) Traci Altri progetti Modifica Collabora a Wikiquote
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Wikipedia che trattano di Antica Roma Storia della Dacia Daci popolazione
indoeuropea Dacia (regione storica) regione e regno dell'Europa orientale
nel corso dell'antichità classica Wikipedia Il contenuto Then Cyrus, king
of the Persians, after a long interval of almost exactly six hundred and thirty
years (as Pompeius Trogus relates), waged an unsuccessful war against Tomyris,
Queen of the Getae. Elated by his victories in Asia, he strove to conquer the
Getae, whose queen, as I have said, was Tomyris. Though she could have stopped
the approach of Cyrus at the river Araxes, yet she permitted him to cross,
preferring to overcome him in battle rather than to thwart him by advantage of
position. And so she did.As Cyrus approached, fortune at first so favored the
Parthians that they slew the son of Tomyris and most of the army. But when the
battle was renewed, the Getae and their queen defeated, conquered and
overwhelmed the Parthians and took rich plunder from them. There for the first
time the race of the Goths saw silken tents. After achieving this victory and
winning so much booty from her enemies, Queen Tomyris crossed over into that
part of Moesia which is now called Lesser Scythia--a name borrowed from great
Scythia,--and built on the Moesian shore of Pontus the city of Tomi, named
after herself. (63) Afterwards Darius, king of the Persians, the son of
Hystaspes, demanded in marriage the daughter of Antyrus, king of the Goths,
asking for her hand and at the same time making threats in case they did not
fulfil his wish. The Goths spurned this alliance and brought his embassy to
naught. Inflamed with anger because his offer had been rejected, he led an army
of seven hundred thousand armed men against them and sought to avenge his
wounded feelings by inflicting a public injury. Crossing on boats covered with
boards and joined like a bridge almost the whole way from Chalcedon to
Byzantium, he started for Thrace and Moesia. Later he built a bridge over the
Danube in like manner, but he was wearied by two brief months of effort and
lost eight thousand armed men among the Tapae. Then, fearing the bridge over
the Danube would be seized by his foes, he marched back to Thrace in swift
retreat, believing the land of Moesia would not be safe for even a short
sojourn there. After his death, his son Xerxes planned to avenge his father's
wrongs and so proceeded to undertake a war against the Goths with seven hundred
thousand of his own men and three hundred thousand armed auxiliaries, twelve
hundred ships of war and three thousand transports. But he did not venture to
try them in battle, being overawed by their unyielding animosity. So he
returned with his force just as he had come, and without fighting a single
battle. Then Philip, the father of Alexander the Great, made alliance with
the Goths and took to wife Medopa, the daughter of King Gudila, so that he
might render the kingdom of Macedon more secure by the help of this marriage.
It was at this time, as the historian Dio relates, that Philip, suffering from
need of money, determined to lead out his forces and sack Odessus, a city of
Moesia, which was then subject to the Goths by reason of the neighboring city
of Tomi. Thereupon those priests of the Goths that are called the Holy Men
suddenly opened the gates of Odessus and came forth to meet them. They bore
harps and were clad in snowy robes, and chanted in suppliant strains to the
gods of their fathers that they might be propitious and repel the Macedonians.
When the Macedonians saw them coming with such confidence to meet them, they
were astonished and, so to speak, the armed were terrified by the unarmed.
Straightway they broke the line they had formed for battle and not only refrained
from destroying the city, but even gave back those whom they had captured
outside by right of war. Then they made a truce and returned to their own
country. After a long time Sitalces, a famous leader of the Goths,
remembering this treacherous attempt, gathered a hundred and fifty thousand men
and made war upon the Athenians, fighting against Perdiccas, King of Macedon.
This Perdiccas had been left by Alexander as his successor to rule Athens by
hereditary right, when he drank his destruction at Babylon through the
treachery of an attendant. The Goths engaged in a great battle with him and
proved themselves to be the stronger. Thus in return for the wrong which the
Macedonians had long before committed in Moesia, the Goths overran Greece and
laid waste the whole of Macedonia.Cassiodoro. Cassiodoro Bruzi. Bruzi.
Keywords: dialettica, Squillace, i geti e i goti – teodorico, eteodorico, virtu
bellica, ardore guerriero, pagenesimo. Cassiodoro’s surname was Bruzi, from
Brutti – he wrote a story of the Goths, but he mistook them for the Bulgarians
(geti, gotti). Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bruzi” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Buonafede – filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Comacchio). Filosofo italiano. Grice: “You’ve got to love Buonafede; he is all
into the longitudinal unity of philosophy, literally from Remo – he has
chapters on the Ancient Romans, on philosophy from the first monarchy to the
second, a chapter on Cicerone, and one of a lovely phrase, the Roman equivalent
to the century of Pericles, ‘filosofia nel regno di Augusto,’ but also on later
developments of Italian philosophy, even a chapter on Cartesianism in Italy,
and how philosophy on the whole was ‘resurrected’ or ‘revitalised’ in Italy --.
I once joked that philosophers should never give much credit to Wollaston – but
Buonafede totally proves me wrong!” -- Essential
Italian philosopher. Di familia nobile, studia a Bologna e Roma.
Insegna a Napoli. Saggio, “Ritratti poetici, storici e critici di varj uomini
di lettere – Appio Anneo de Faba Cromaziano” (Simone, Napoli) -- opera accolta favorevolmente negli ambienti
culturali napoletani frequentati da Buonafede, nella quale convivono giudizi
critici su alcuni importanti esponenti della filosofia moderna (quali
Machiavelli e Spinoza), con parziali accoglimenti di altri (Cartesio e Locke),
in uno stile composito tra il barocco e l'arcadico. Insegna a Bergamo e
Rimini. Membro nell'Accademia dell'Arcadia, assumendo il nome di Agatopisto
Cromaziano con il quale diede alle stampe numerosi saggi. Insegna a Sulmona. Saggio
“Della restaurazione di ogni filosofia ne’ secoli XVI, XVII e XVIII di
Agatopisto Cromaziano” (Graziosi, Venezia – Societa Tipografica de classici
italiani, Milano) -- particolarmente critica verso la filosofia sensista di
Cartesio e Locke. Baretti: ebbe una violenta polemica con lui. Il “Saggio di
commedie filosofiche”, contenente un testo in endecasillabi, “Il filosofo
fanciullo” che, in uno stile comico, critica celebri filosofi dell'antichità
riportando citazioni fuori dal contesto.Venivano beffeggiati, tra gli altri,
Socrate, Democrito e Anassagora. Il saggio trova qualche apprezzamento. Baretti,
scrittore e critico letterario torinese, in un numero del suo periodico la
Frusta letteraria nel quale era solito firmarsi con lo pseudonimo di Aristarco
Scannabue, espresse giudizi negativi sul Saggio del Buonafede trovandolo irrilevante
e privo di comicità. Punto sul vivo, replica immediatamente con il libello, dai
toni assai aspri, “Il bue pedagogo: novella menippee di Luciano da Fiorenzuola
contro una certa Frusta pseudo-epigrafia di Aristarco Cannabue” (Luca).”. Gli
rispose ancora Baretti con una nutrita serie di articoli, Discorsi fatti
dall'autore della Frusta letteraria al reverendissimo padre don Luciano
Firenzuola da Comacchio autore del Bue pedagogo, pubblicati su diversi numeri
della Frusta. La polemica, una delle più
aspre e celebri delle cronache filosofiche italiane prosigue ancora.Fa pressioni
verso i responsabili della Repubblica di Venezia affinché eliminassero gli
articoli apparsi sulla Frusta e perché Baretti fosse poi espulso dallo Stato
Pontificio quando si trasferì ad Ancona. Il critico non fu lasciato tranquillo neppure
quando fuggì in Inghilterra: l'irriducibile Buonafede lo accua allora di
simpatie verso il protestantesimo. Il giudizio di Croce e piuttosto
negativo, scrisse che la sua filosofia e il risultato di «un ingegno da
predicatore e da predicatore mestierante, che ha un impegno da assolvere, un
sentimento da inculcare, un nemico da abbattere» senza che possano distrarlo
dal suo fine «né la ricerca della verità delle cose né l'ammirazione di quel
che è bello». Più positivo il giudizio di Natali nella voce redatta per l'Enciclopedia
Italiana, lo giudica “uomo d'ingegno acutissimo, filosofo non volgare, spesso
arguto e vivace e dotato di dottrina assai superiore a quella del Baretti. Altre
opere: “Delle conquiste celebri esaminate col naturale diritto delle genti
libri due di Agatopisto Cromaziano” (Riccomini, Lucca, Milano, Fondazione Mansutti);
“Saggio di commedie filosofiche con ampie annotazioni di A. Agatopisto
Cromaziano” (Faenza, pel Benedetti impressor vescovile, e delle insigni
Accademie degl'illustrissimi sigg. Remoti e Filoponi); “Sermone apologetico di
Tito Benvenuto Buonafede per la gioventù italiana contro le accuse contenute in
un libro intitolato Della necessità e verità della religione naturale, e rivelata”
(Benedini, Lucca); “Della malignità istorica: discorsi tre contro Pier
Francesco Le Courayer nuovo interprete della Istoria del Concilio di Trento di
Pietro Soave” (Bologna, per Lelio dalla Volpe impr. dell'Instituto delle
Scienze); “Dell'apparizione di alcune ombre novella letteraria di Tito
Benvenuto Buonafede” (Lucca, appresso Jacopo Giusti nuovo stampatore alla
Colonna del Palio); “Istoria critica e filosofica del suicidio ragionato di
Agatopisto Cromaziano” (Lucca, Stamperia di Vincenzo Giuntini, a spese di
Giovanni Riccomini); “Versi liberi di Agatopisto Cromaziano messi in luce da
Timoleonte Corintio con una epistola della libertà poetica..., Cesena, Società
di Pallade per Gregorio Biasini al Palazzo Dandini); “Della istoria e della
indole di ogni filosofia di Agatopisto Cromaziano” (Lucca, per Giovanni
Riccomini); “Il genio borbonico, versi epici di Agatopisto Cromaziano nelle
nozze auguste delle altezze reali di Ferdinando di Borbone, infante di Spagna e
di Maria Amalia, arciduchessa infanta” (Parma, per Filippo Carmignani,
stampatore per privilegio di sua altezza reale); “Della letteratura comacchiese
lezione parenetica in difesa della patria di Agatopisto Cromaziano giuniore”
(Parma, Bodoni). Opere di Agatopisto Cromaziano” (Napoli, presso Giuseppe Maria
Porcelli). “Epistole tusculane di un solitario ad un uomo di città, Gerapoli); “Storia
critica del moderno diritto di natura e delle genti di Agatopisto Cromaziano,
fa parte della Biblioteca cristiano-filosofica decennio primo, consacrato alla
divinità” (Firenze, nella Stamperia della Carità). Dizionario Biografico degli
Italiani. Soffre di gotta e una caduta in piazza Navona aggrava le sue
condizioni. La storiografia filosofica, Vestigia philosophorum”. Il medioevo e
la storiografia filosofica, Rimini, Maggioli Editore. Fondazione Mansutti,
Quaderni di sicurtà. Documenti di storia dell'assicurazione, M. Bonomelli,
schede bibliografiche di C. Di Battista, note critiche di F. Mansutti. Milano:
Electa. Memorie istoriche di letterati ferraresi, III, Ferrara. Ritratto di Appiano Buonafede.
Assicurazione. Luigi Speranza, "Grice e
Buonafede," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa
Grice, Liguria, Italia. -- I Romani, fin d'allora che hanno le
canne per tetti e un solco in luogo di fosse e di muraglie, esercitano la
divinazione, con la cui guida ordi [Seneca I. c. Plinio Hist. Nat. lib. II, cap.
53. V. Lucrezio lib. V. (3) Macrobio Saturnal. lib. VII, cap. 13. V. Scipione
Maffei ap pressoG. Lampredi l. c. Cassiodoro. lib. III Var. Ep. Museo Etrusco
1. II, tab. 15. narono e nobilitaro noi
rudimenti della loro pira teria. ROMOLO e insieme il fondatore e il primo
augure di Roma. Uomini armati e rubatori conobbero che questa larva di
religione e questa pretesa scienza del futuro puo aver influssi propizi, nelle
loro spedizioni, siccome l'esito comprovo. Ed e veramente cosa ammirabile che
una tanta puerilità, di cui gl’auguri istessi rideano, producesse vantaggi sì
grandi alla fortuna romana. Presero adun que quei primi uomini la disciplina
augurale dagli’etruschi, e non curarono altro. Furon dette as sai novelle della
FILOSOFIA degl’aborigeni, de’ sabini, degl’Ausonj e d’altre genti di quelle
contrade. Ma i critici le numerarono tra le favole. NUMA Pompilio, secondo
regolo di quella feroce masnada, pensa di ammansarla con la religione e con la
pace. Finse colloquj con le Muse, e divulga notturni congressi con la dea
Egeria. Istitue sacerdoti agl’Id dii, e e egli stesso sacerdote. Scolge le
vergini a Vesta, le quali serbasser perpetuo il fuoco nel centro d'un tempio
rotondo. Vieta le immagini delle sostanze divine e i sacrifizi cruenti. Ordina
gli auguri, gl’oracoli, le interpretazioni de' fulmini e di altri prodigj, e le
funebri ceremonie e le placazioni de’ mani. Correno i mesi e l'anno secondo il
corso del sole e della lupa. NUMA scrive libri sacri che furon seppelliti con
lui, e niun potè leggerli. Consacra l'arcano e il silenzio con la istituzione
della dea Tacita. Chiuse il tempio di Giano. Roma guerriera divenne pacifica e
religiosa. In questi regolamenti di Numa sono cercati, e dicono anche ri
trovati gl'indizi di molta filosofia. La finzione de' [Cicer. De Divinatione
lib. I. 2. Cicer. I. c. G. Hornio Hist. Phil. lib. IV, сар. 3. T. Livio lib. I,
cap. 8; lib. XL, cap. 29. Plutarco in Numa] prodigi e de’ secreti colloqui col
cielo, e il silenzio è l'arcano e i sacrifici senza sangue, e le proibizioni di
effigiare il divino, sono sembrate dottrine della setta di CROTONA; e sopra
tutto il fuoco del tempio di Vesta è stato creduto un simbolo del sistema di
questa setta, la quale insegna la stabilità del sole nel centro del nostro
mondo. Il perchè corse già opinione che NUMA e stato discepolo di Pitagora; ma
è stato poi osservato che questo filosofo vivea a CROTONA quando L. Bruto salva
Roma dai tiranni. Onde piuttosto Numa ha dovuto ammaestrare Pitagora. Sebbene
io non credo che un filosofo chiuso tra i monti di Calabria ha mai udito
parlare d'un capo di ladroncelli ristretti fra i monti latini. Newton pensa che
Numa prende il suo sistema celeste dagl’egiziani, osservatori antichissimi
delle stelle. Ma io non so persuadermi che un pover uomo sabino estende il
saper suo fino alla penetrazione degli ardui misteri d’Egitto. Reputo più
verisimile che lo studio de gl’etruschi nelle meraviglie de' fuochi celesti, e
la molto diffusa e popolarevenerazione del fuoco gui dassero Nụma alla
istituzione di questo rito. Mime raviglio io bene come coloro che cercano il panteismo
dappertutto, non hanno trovato nel fuoco centrale di Vesta il simbolo
dell'anima del mondo, e di quelle altre del PORTICO e Spinoziane dottrine che
pure si sforzano di trovare altrove con maggiore difficoltà. Forse si saranno
contenuti da questa imputazione, perchè negl’oracoli e nell’altre divinazioni
di Numa, e nelle mortuali placazioni e cerimonie si conoscono alcuni vestigi
non dispregevoli [1 Plutarco. Livio I. c. Cicer. Tuscul. Disput. lib. I, 16;
IV, 1. V. P. Bayle Dict. art, Pythagoras, e J. Brucker de Phil. Roman. yet. 3 )
De MundiSystemate] d'una libera provvidenza e d'una vera immortalità degl’animi
separati dai corpi. Io ha quasi voglia di aggiunger qui, che per sentenza di
Varrone gl'Iddii de' Romani e de' Latini prima ancora di Numa e di Romolo sono
gl' Iddii di Frigia portati da Enea, quei di Frigia sono i medesimi di
Samotracia tanto famosa per li suoi misteri che sono gli stessi d'Egitto; e siccome
di questi mostreremo con qualche verisimilitudine che nascondeano la unità del
divino e la immortalità degl’animi, così puo dirsi il medesimo della segreta
dottrina del l'antico Lazio e de' primi Romani. Ma oltre le gravi difficoltà
contro la venuta d'Enea in Italia, i.se veri critici potrebbono opprimermi con
altre dubbiezze assai; onde ho deposto il desiderio di proporre le mie
conghielture. Non è però male alcuno averle accennate.Questa è l'immagine della
PICCOLA FILOSOFIA dei primi tempi di Roma, la quale appena apparita per lo
pacifico genio di Numa, e dissipata dagl'ingegni guerrieri de' suoi successori,
e per più secoli e esclusa ed anche abborrita, come nimica dell'austerità e
della fortezza, da quei valorosi uomini che, intenti alla conquista del mondo,
o non hanno ozio di volgersi alla filosofia, o pensano di non averne bisogno, o
dubitarono che puo opporsi a quell'immenso latrocinio. Ritorneremo su questo
argomento, e avremo copiosa materia di ragionare ovę riguarderemo quei tempi di
Roma che dagli storici e dai politici furon detti molli e corrotti, e dagl’amici
della filosofia sono onorati come. mansueti e sapienti. [Macrobio Saturnal. lib.
III, cap. 4; P. Giurieu Hist. Cri tica Dogmat, Par. I] Il genio bellicoso di ROMOLO
ammansato un poco dalla pacifica Egeria, che era il genio di Numa, nella
signoria dei seguenti regoli di Roma torna alla primiera ferocità. Nè
altramenle potea intervenire in una città e in un popolo composto di uomini
violenti e perturbatori, e per delitti e per timor delle pene fuggitivi dalle
lor terre, e riparati nella nascente città come nell'asilo delle scelleraggini;
i quali assuefatti al sangue e alla rapina, se fosser mancate guerre esteriori,
hanno infero cito contro le viscere della lor medesima società. Perchè e
mestieri esercitarli senza riposo in im prese e rubamenti perpetui; e questa
che parve prima necessità, divenne appresso costume, e e l'origine primaria
della grandezza romana. Un popolo cosi funestamente educato non puo esser amico
di alcuna filosofia: e veramente, come alcuna volta si offersero le opportunità
d'introdurla, con molta ruvidezza la impedirono per timore che non ammollisse
l'austerità militare, e non traviasse i cittadini dalla usurpazione del mondo.
Nel [J. Brucker 1. c.] campo d'an uom consolare sono trovati sotterra alcuni
manoscritti di filosofia attribuiti a Numa, e il pretore comando risolutamente
che sono ab bruciati. Un altro pretore per consultazione del senato, e poco
dopo anche i censori dichiarano, non piacere che soggiornassero nella città
certi filosofi, maestri d'un genere di discipline diverse dalla consuetudine e
dal costume de maggiori; per la qual novità i romani in torpidivano. Questo
avvenne nel consolato di C. Fannio Strabone e di M. Valerio Messala; ed è ben
degno di considerazione che quei grand'uomini avean già messa ad effetto gran
parte del lor latrocinio. LA FILOSOFIA e ancora un genere di disciplina
contrario alle loro consuetudini. In quel torno medesimo, e non so bene se poco
prima o poco dopo, accadde una ambasceria ateniese de tre filosofi Carneade,
Diogene e Critolao. Gl’ateniesi avendo saccheggiata Oropo città della Beozia,
furono dai Sicioni con l'autorità de’ romani condannati in CCCCC talenti. Ma
questa multa sembrando soperchia, spedirono a Roma i prefati filosofi per
ottener condizioni più sopportabili. Nella dimora e nella espettazione di
essere ascoltati dal senato, tenneno dotte assemblee nei cospicui luoghi di
Roma, e ostentano dottrina incognita ed eloquenza inaudita alle orecchie romane.
Critolao la usa erudita e rotonda, Diogene modesta e sobria, Carneade violenta
e rapida. Ma comechè ognuno ottenne gran lode, l'accademico sopra tutti
risveglia le meraviglie inu [Plinio lib. III, cap. 12. (2) A Gellio Noc. Att.
lib. XV, cap. 2. (3) Vedi presso P, Bayle (artic. Carneade, not. N ) i litigj
in-. torno a quest'epoca.] -sitate e fino i furori pubblici, massimamente degl’ottimati
, che dimentica de' piaceri e rapita quasi fanatica di questa filosofia. E
convien certo che molto singolar cosa e questa eloquenza di Carneade, mentre e
detto che ora a guisa d'un fiume incitato e rapace sforza e svelle ogni cosa e
seco rapiva l'uditore con grande strepito, e ora dilettando lo imprigiona, e
per una parte manifestamente predando, e per un'altra rubanilo nascostamente, o
con la forza o con la frode vince agl’animi più prepurati a resistere. Ma ciò
che maggiormente rileva, da CICERONE medesimo maestro tanto eccellente di
queste cose, e delto che ha pure desiderato di possedere la divina celerità
d'ingegno e l'incredibil forza di dire e la copia e la varietà di Carneade, il
quale in quelle sue disputazioni niuna sentenza difende che non prova, niuna
oppugna che non mette a compiuta ruina. Consapevole di queste sue viltoriose
veemenze, ardì, stabilita la giustizia in un giorno con molto copiosa orazione,
distruggerla in un altro ALLA PRESENZA DI GALBA E DI CATONE MAGGIORE, in quella
età oratori grandi alla maniera romana. Lattanzio ci serba in poche parole la
sostanza di questa confutazione della giustizia. CARNEADE divide la giustizia
in naturale e civile, e l'una e l'altra mise a niente. La *naturale* è
giustizia, non è prudenza; la civile e prudenza, *non* e giustizia. La prudenza
civile si varia secondo i tempi e i luoghi, e ogni popolo l'attempera a suo
comodo. Questa prudenza è una inclinazione verso l'utilità che la giustizia
della natura infuse in ogni animale, alla quale chi volesse ubbidire
incorrerebbe in mille fro [1 ) Pausania lıb. VII. Plutarco in Catone Majore.A.
Gellio lib.VII, cap. 14. Macrobio Saturnal. lib. I, cap. 5. (2) Numenio presso
Eusebio Praep. Ev. lib. IV, cap. 8. (3) Cicerone De Oratore lib. II, 38; III,
18.] di. Moltissimi esempi dimostrano cosiffalta essere la condizione degl’uomini,
che *volendo* essere giusti, sono imprudenti e stolti. Volendo essere *prudenti*
e avveduti, sono *ingiusti*. Laonde non può concedersi una “giustizia” che è
inseparabile dalla stoltezza. Nel quale proposito trascorse in queste parole
abborrite dai conquistatori. Se i popoli fiorenti per signoria e i Romani
oggimai possessori del mondo *vuoleno* esser *Giusti* restituendo l'altrui, doveno
ritornare alle capanne e giacere nella miseria. CICERONE, che molto medita
queste e più altre difficoltà di Carneade, le trascorre senza risposta. E
altrove avendo statuito una giustizia naturale e un diritto naturale indipendente
dall’istituzioni degl’uomini, prega l'Accademia e Arcesila e Carneade a volersi
tacere, perchè assalendo queste ragioni, indurrebbono grandi ruine; e desidera
ben molto di placar tali uomini, non ardisce rispingerli. Ma CATONE, censore
uom di rigida innocenza e di antichi costumi e di senatoria e militare
austerità, per le quali virtù era già nata e crescea la grandezza di Roma,
udite queste ambigue e scandalose orazioni, e veduti i furori dell’ottimati romani,
e considerate le conseguenze funeste alla fortuna della repubblica, le quali
poteano sorgere da quella molle e licenziosa filosofia, prestamente e
fortemente dimostra nel senato che non e bene sopportare più a lungo nella
città quegl’ambasciatori filosofi che persuadeno quanto loro piacea, e
confondeno il vero col falso, e alienano dalla robusta e antica istituzione
l'ottimati [; 2 (1 ) Lattanzio lib. V, cap. 14, 16. V. P. Bay le I. c. G, H, et
art Porcius, H. (2) Cicerone De Repub. presso S. Agostino De Civ. Dei lib. II,
cap. 21, e Lallanzio I. c. (3 ) Ciceronc De Legib. lib. I.] e quindi e mestieri
conoscere e risolvere di quella legazione, e tosto rimandando gl’ambasciatori
ad istruire i greci, ricondurre l’ottimati romani ad ascoltar come dianzi i
maestrati e la legge. Di questo modo CATONE parla, e gl’ambasciatori sono
congedati. Non è però che questo CATONE e nimico del sapere, mentre è noto per
la istoria ch'egli militando a Taranto ascolta volentieri da certo suo ospite
pitagorico dottrine contrarie alla voluttà, e crebbe nell'amore della frugalità
e della continenza. Indi e interprete della legge, e difensore e accusatore
instancabile del foro, e filosofo di orazioni e di cose rustiche e delle
origini romane, nelle quali opere mostra copia e gravità di dottrina; e, in
breve, tutta la sua vita distribue tra la milizia e tra le leggi e le lettere,
e tra la più austera pratica della virtù e la persecuzione più violenta de vizi.
Onde e detto che le sue guerre perpetue contro i malvagi costumi non sono alla
repubblica meno utili delle vittorie di SCIPIONE contro i nimici. Il perchè non
credo io già che CATONE per odio di Carneade o per altra malevolenza abborrisse
la filosofia relativistica. Ma piuttosto perchè la militare e severa indole di
Roma ne' suoi dì così domanda, e perchè l'esempio di questo relativismo
ammollita e scaduta in mezzo a tanto lusso di filosofia forse lo spaventa. E
siccome CATONE e per natura inclinato all'eccesso de' rigori, parla forse più
for leinente che non sente; e nella guisa che esagerando dicea che le adultere sono
avvelenatrici ile' loro mariti, e che tutti i medici sono da 5. [(1 ) Plinio
lib. VII, cap. 30. Plutarco in Catone. (2) Cicerone de Ci. Or. 17. Tito Livio
lib. XXXIX, 41. C. Nie pote Frag. Vitae Catonis. Plutarco I. c. (3) Seneca Ep.
87: (4 ) Quintiliano lib. V, 11. ] fuggirsi, dacchè aveano giurato di uccidere
tutti i romani. Così per avventura ingrande gl’abborrimenti di tutta la
filosofia, e dice a suo figliuolo: Pensa che io parli da vate: indocile ed
iniquissima è la generazione de' elleni. Quando avverrà che quella gente a noi
dia le sue lettere, saremo tutti corrotti e perduti. Di queste sue
amplificazioni, oltre il suo amore per la disciplina pitagorica, può essere
argomento lo studio che CATONE mette negli scrittori e nelle lettere greche non
solamente piu tarde, quando le medita avidamente, come chi vuole estinguere una
lunga sete, ma nella sua pretura di Sardegna, e ancor prima; poichè, per
testimonianza di Plutarco, CATONE parla agl’ateniesi per un interprete. Potea
parlar greco, se avesse volute. Suoi libri sono ornati e ricchi di opinioni, di
esempi e di istorie fonti, e di sentenze morali. Da questi riscontri io deduco
che CATONE disprezzando i Greci in pubblico e leggendoli in privato, non e
tanto nimico loro quanto ostenta; e che meditando e usando ne' suoi
componimenti opinioni filosofichi, è chiaro che vi sono dunque in Roma i libri di
filosofia, e che non sono incognite le opinioni filosofichi a quella età, e
quindi prima della ambasciata de tre filosofi vi era tra i Romani qualche
tintura di filosofia. Frattanto Furio, Lelio, Scipione e altri di genti
patrizie furon del numero di que' l’ottimati accesi nell'amore delle dottrine filosofiche,
i quali venuti a assunti al comando degl’eserciti che soggiogavan la Grecia,
prese da' greci [(1 ) Plinio lib. XXIX, cap. 1. (2 ) Plinio I. c. Plutarco l.
c. (3) Cicerone De Senectute 1, 8. Val. Massimo lib. VIII, cap. 10. Plutarco I,
c. Aurelio Vittore De Viris Illustr,] e al governo delle provincie conquistate,
hanno agio di veder da vicino e di ascoltare i valenti uomini di temperamento filosofico,
coi quali strinsero dimestichezza, e vollero finanche averli compagni nelle lor
case, nei viaggi enelle medesime spedizioni militari. Cosi leggiamo che SCIPIONE
AFFRICANO vuole aver seco assidua mente in casa e nella milizia insiem con
Polibio, filosofo singolare e grande uomo di Stato e di guerra, anche Panezio
filosofo del Portico. E questi un Rodiano ingenuo e grave, il quale salito ai
primiluoghi del Portico, oltre alcun altro componimento, scrive i libri
lodatissimni degl’uffizi secondo quella disciplina; ma non gli piacque la
divinazione del Portico e l'apatia, e le spine della disputa e l'asprezza delle
parole e l'orror de costum; e più gentilmente e umanamente fiolsofo, non così
legandosi a Zenone e quegl’altri, che non ama anche Aristotele Senocrate e Teofrasto
e Dicearco, e non ammira Platone come divino e sapientissimo e santissimo e
come l'Omero de' filosofi, sebben quella sua or poetica, or ambigua immortalità
degl’animi non gli tornasse a grado. E dunque PANEZIO uno filosofo del PORTICO
modesto e libero e degno della famigliarità di SCIPIONE, il quale erudito in
questa temperata dottrina del PORTICO e mansuetissimo ed umanissimo; e
riparlendo la sua vita tra la milizia e la filosofia, sali per fama di valore e
di lettere fra i massimi amplificatori della gloria di Roma. Ad illustre ed
esimia indole aggiungendo la ragione e la dottrina, e assiduamente conversando
col medesimo Panezio e con Diogene – del PORTICO -- e con altri eruditissimi uomini, sono in
compagnia di Scipione pre [(1 ) Cicerone Acad. Quaest. lib. II, 33; De Fin. lib.
1, 2, et IV, 9,28; De Off. lib. II, 14; III, 2; Tusc. Disp. lib. I, 32; De Div.
lib. I, 3, 7; JI, 42; Or. pro Murena 33; De Or. lib. III; De Nat.: Deor. lib.
I, II. A. Gellio Noc. At. lib. XII, 5. Suida v.Panaetius.] clari e singolari
per modestia e per continenza L. Furio e C. Lelio cognominato Sapiente. Si
accostarono a Panezio e a questi medesimi studi L. Filippo e C. Gallo e P.
Rutilio e M. Scauro e Q. Tuberone e Q. Muzio Scevola, e altri soinmi uomini
nella repubblica, e massimamente i giureconsulti; i quali invitati da lanta
luce di esempi e dalla magnificenza e dal metodo della morale del PORTICO,
pensano che niun'altra potesse congiungersi più co modamente alla giureprudenza
romana. In queste narrazioni è facile a vedersi che la filosofia del PORTICO entra
la prima in Roma con molto nobil fortuna. E quantunque Carneade esulta sopra i
compagni suoi, quando non però si ha a prender partito, quei medesimi che lo
ascoltano con tanto furore, si rivolgeno alla disciplina del PORTICO; la quale
benchè non puo mostrar tra i Romani una successione continua di maestri e
grande strepito di scuole e di libri, mostra iudizi cospicui della riverenza in
cui e tenuta e; tra gli altri il grande Pompeo, che approdato a Rodi vuole
ascoltar Possidonio da Apamea – del Portico di primo nome, che ha cattedra in
quella isola, e recatosi alla sua casa, vietà prima che il littore percotesse
la porta, e per somma testificazione d'onore comando che si abbassassero i
fasci. Indi entrato, vide Possidonio giacere gravemente per dolori in tutta la
persona, e salutatolo con onorifiche parole gli dice, molto molesto.essergli
per quella sua malattia non potere ascoltarlo. Ma tu veramente puoi, risponde
Possidonio, nè io concede mai che il dolore fuccia che [(1 ) Cicerone De Or. II;
De Fin. II; Or. pro Archia. (2) Cicerone Or. pro Murena; De Or. Il; in Bruto 30,
31. V. Vincenzo Gravina De Or. Juris cap. 57, 59; Giovanni Schiltero Manud.
Phil. Moralis ad Jurispr. cap. 1, 3; D. Westphal De Stoa Juriscon. Rom.;
Everardo Ottone De Stoica Juriscons.Philosophia. d 296 ] un tanto uomo sia
venuto indarno a vedermi. E cosi giacendo disputa gravemente e copiosamente,
che niente era buono, salvo l'ONESTO. E intanto ardendo pure come per fiaccole
il dolore, spesso dice. Niente fai, o dolore: sebbene tu sia molesto, io non
confesso mai che tu sia male. Pompeo si congedò richiedendo il filosofo se
niente volesse ordinargli. E Possidonio risponde – “Rem gere praeclare, atque
aliis prestare me mento.” Cicerone poi lo ascoltà come scolare, e M. Marcello
si tenne in grande onore di condurlo a Roma, ove e in altissima estimazione per
li suoi libri della Natura degl'Iddii, degl’uffizi, della divinazione, e per
altrenobili scritture che andarono a male, e poichè e cultor non vulgare
dell'astronomia, ha gran lode nella composizione di quella sua sfera, la quale
in ognuna delle sue conversioni rappresenta nel sole, nella luna e ne' pianeti
quello che si fa in cielo nel giorno e nella notte. Possidonio adunque dopo
Panezio e ornamento grande e propagator sommo della fortuna del Portico tra i
Romani. Altri filosofi di minor nome sostennero la medesima fatica, e
accompagnarono e amınaestrarono altri Romani, che molto si dilettarono di
quella disciplina; e tra questi non è giusto tacere di Q. Lucilio BALBO,
divenuto del Portico eguale ai Greci medesimi, cosicchè Cicerone nei Dialoghi
della Natura degļId dii gli diede a sostenere le parti della teologia del
Portico. Ma niuno tra i Romani, nè forse pure tra i Greci agguaglia la
persuasione, la pratica e la costanza del Portico di CATONE UTICENSE, onde
ottenne da Cice [(1 ) Cicerone Tusc. Disp. lib. II,25.Plinio Juniore Ep.lib.
VI, 30. (2) De Nat. Deor. lib. I, 3. (3) Suida v. Possidonius.Aieveo (lib. XIV)
lo dice famigliare di Scipione domator di Cartagine; ma è anacronismo. (4)
Cicerone De Div.lib.1, 3;De Nat.Deor. lib.1,44;ad Att. XVI, ep. 11; De Off.
lib. I, 45. (5) Cicerone De Nat. Deor. lib. II, 34.] rone il nome di perfetto del Portico, che in
tanti uomini di quel genere ricordati e variamente lodati nelle sue opere non
avea saputo ancora concedere a veruno. E di vero parve che la natura medesima
si dilettasse ad organizzare in quest'uomo uno singolare filosofo del Portico;
perciocchè è fama che fino dalla puerizia con la voce e col volto mostra
ingegno se rio, rigido, intrepido, inflessibile alle lusinghe e alle minacce, e
fin d'allora spirante immobilità nell'amor della patria. Ha famigliari e
maestri Antipatro Tirio e Atenodoro Cordilione, uom solitario e alieno dai
rumori e dalle corti; e dappoi tende sempre dimestichezza con altri filosofi del
Portico, e con la forza della istituzione conferma ed accrebbe la natura già
molto propensa, e non per la disputa, ma per la vita e del Portico. Entrato nei
maestrati della repubblica e negli strepiti del foro e della milizia, usa tal
forma di parlare e di vivere, che le meraviglie sono grandissime di tutti i
Romani, massimamente che di quei di oramai era mutata e corrotta ogni cosa. Con
una voce la cui intensione e forza e inesausta, parla al popolo e al senato non
eleganze e novità, ma ragioni giuste, piane, brevi, severe e degne della
disciplina del Portico e di Catone. Le usanze sue non eran dissimili dalle
parole, e con forti esercitazioni si addestra a sostenere il calore e la neve
col capo ignudo, e a viaggiare a piedi in ogni stagione. Nella guerra civile, in
mezzo alla militare licenza, e temperante, e combatte con fortezza congiunta a
prudenza, e ottenne lodi e onori, che rifiuta. Eletto tribuno de' soldati per
la Macedonia, e simile ai soldati nelle fatiche; ma nella grandezza dell'animo
e nella forza dell'eloquenza e maggiore di tutti i [(1 ) Cicerone Praef. ad
Parad. Strabone lib. VII, XI, XIV.] capitani. Visild l’Asia per conoscer
l'indole di quelle terre e i costumi degli uomini, e per conquistare il
solitario Atenodoro Cordilione, filosofo del Portico, che riputa la più ricca
di tutte le prede. Ritornato a Roma, divide il suo tempo tra Atenodoro e la
repubblica. Non cura di esser questore prima di aver conosciute a fondo tutte
le leggi questorie; e in quel maestrato corrotto pessimamente tante cose muta
per la giustizia e per la salute della repubblica, che nell'amore della
giustizia e della temperanza e tenuto maggiore di tutti i romani. Nel senato e sem
pre il primo a venire e l'ultimo a ritirarsi. Dalla sua solitudine di Lucania,
ove si era raccolto per viver tranquillamente tra i libri e i suoi filosofi,
desidera il tribunato della plebe unicamente per resistere ai magnati
prepotenti, e in questa ardua contenzione dimostra giustizia, fede, candore,
magnanimità; a segno che Cicerone con molta licenza di giuochi agitando la
filosofia del Portico di Catone nella causa di Murena, incorse il biasimo di
rettorica dissolutezza; di che però l'uomo apato non si commosse per niente, e
solamente ammonì un poco il licenzioso giuocatore con quelle brevi ma
significanti parole: Buoni Iddii ! Noi abbiam pure il ridicolo Console; e poi
nella congiurazione Catilinaria vi gilanteinente lo soccorse, come amico di lai
e delle repubblica. Ma si accrebbero fuor d'ogni termine le invidie, le
emulazioni e le violenze de' cittadini potenti, e i consigli di perder la
patria e la libertà preponderarono ad ogni virtù. CATONE resistè for temente; e
mentre altri erano Pompejani e altri Cesariani, Catone persevera ad esser
repubblicano. Si attenne poi a Pompeo come a MALE MINORI, e guer reggid e parla
da grande soldato e da filosofo. Dopo la battaglia farsalica, nella successione
continua delle disgrazie e nella ruina di tutte le cose si ripara ad Utica, dice
ai suoi che provvedessero a sè medesimi con la fuga o con altri consigli, entra
nel bagno, e poi cende lietamente e disputa co' suoi filosofi, e sostenne, il
solo sapiente esser libero. Coricatosi lesse due volte il Fedone, dormi ancora,
e svegliato si uccise. Con molta prolissità si è voluto disputare delle cagioni
del suicidio di Catone; il che secondo il pensier mio si è fatto assai
vanamente. Perocchè dalle cose fin qui raccontate si conosce, senza bisogno di
tante disputazioni, che il nimico alle porte, la dignità e la libertà perduta,
la speranza del fine de' mali presenti e del riposo futuro, e il sistema e il
costume del Portico e romano sono le cagioni palesi di quel suicidio. A queste
cagioni e aggiunta la trasfusione degl’animi nell'anima del mondo, ossia il
divino immerso necessariamente e indivisibilmente nella materia; il che fu
raccolto non solamente dalla indole del sistema del Portico, ma da quelle
parole che Lucanio presta a Catone -- Iupiter est quodcumque vides, quocumque
moveris -- per cui il prode Collin alloga Catone tra i panteisti. Maperchè quel
verso può essere più del poeta che di Catone, e perchè posto ancora che sia di
questi, può aver senso che il divino è presente per tutto, e in fine per chè la
teologia del Portico non è così empia come al cuni immaginarono, secondochè
dianzi abbiam detto, perciò non possiamo acconsentire al panteismo di Catone.
Sebben fosse propizia e luminosa, così come si [(1 ) CiceroneOrat. pro Murena;
Paradox. I. Plularco in M. Ca tone Uticensi. Seneca Ep. 14, 24,95; et De Provid.
(2 ) Lattanzio lib. III, c. 18. Siollio Hist. Ph. mor. Gentil. S 177. J.
Brucker De Phil. Romanor. S XXIII. (3) Phars. lib. IX, 580. (4 ) De la liberté
de penser. G. F. Buddeo De l’Ath. et de la superst. cap. J, S 22. J. Brucker l.
c.] è divisato, la fortuna della scuola del Portico tra i romani; tulta volta
non è da pensarsi che ad altre sette mancassero affatto gli amici; che anzi
alcuni furono che indifferentemente estimaron tutte le scuole, e quelle parti
preser da esse, che più sembraron concordi a certe forme di verità, a cui avean
l'animo assuefatto. Così L. Licinio Lucullo nella Grecia e nell'Asia, mentre
sostenea il peso del governo de' popoli e mentre vincea Tigrane e Mitridate,
coltiva le buone lettere e conversa coi filosofi; e dappoichè ebbe trionfato,
mise a guadagno le ricchezze predate, e dai militari peccati raccolse piaceri e
felicità. Si congedd dai turbamenti della guerra e della repubblica, e tutto ri
volto a pensieri di riposo edificò ville e palagi di meraviglioso lavoro e
d'incredibil magnificenza, e intese a pranzi e a cene e ad ogni guisa di
amenità, di eleganza e di delizia; nelle quali mollezze se tra le acclamazioni
degli uomini dilicati incorse ne' biasimi degli animi austeri, certamente
ottenne l'applauso di tutti, allorchè di tanto ama la filosofia che raccolta a
gran costo insigne copia di libri compose una biblioteca di pubblico uso, e
edifica stanze e portici e scuole, e le dedicò in domicilio delle Muse e della
pace e in ospizio dei greci maestri, che fuggendo i tumulti di guerra si
riparavano a Roma. Per questo egregio uso gli sono quasi perdonate e quasi
rivolte a lode le ruberie della guerra. Egli dissimile da que' signori che
prendono per sè il pensiere di comperare le biblioteche, e lasciano alirui il
pensiere di leggerle, pose gran parte delle sue delizie ne' libri e nelle consuetudini
coi dotti e filosofi uomini, e ascolto ed esa minò ogni genere di filosofia, e
molto ebbe in pregio e in continua familiarità Antioco Ascalonita, uom di
robusto parlare e principe in quei giorni
dell’Accademia, il quale si argomenta a mettere in amicizia con lei i
filosofi del Portico e del Lizio. E a LUCULLO piaceano questi pensieri: onde
Cicerone, amico e lodatore magnifico di lui, nel Dialogo intitolato al suo nome
gl'impone la difesa dell’Accademia. Con questa magnificenza e splendore di
esempj non solo la casa di Lucullo, ma Roma istessa e quasi ripiena di
filosofi, tra i quali altri si attennero al genio riconciliatore di Antioco,
altri spaziarono nella liberlà del relativismo di un ‘schiavo’ come Carneade,
altri si accostarono ad altri maestri, e niuno in tanta copia d'ingegni elevati,
di cui Roma egregiamente fiorisce in quella età, seppe aspirare a nuovi
principati nella filosofia, mentre affettavano pure il principato istesso del
mondo. Molti han fatto le meraviglie come i Romani, così nimici di servitù e
così avidi di signoria, sono poi tanto propensi a servire nella filosofia, in
cui agli eccelsi animi dee parer tanto bello il regnare. Ma non è meraviglia
niuna che uomini intenti perpetuamente ad infinito dominio non avesser ozio di
componer nuovi sistemi, e volendo pure esser filosofi seguisser gl’antichi per
brevità. M. Giunio BRUTO, nato verisimilmente dagli amori furtivi di Servilia e
di Giulio Cesare, che percio molto lo ama e lo dicea figliuol suo, venne a
massimo nome nella istoria di Roma non solamente perchè fu tra i sommi
repubblicani e tra quei fer rei uomini che nè per lusinghe di beni nè per
terrore di mali si piegano, e all' onesto, al giusto e al vero sacrificano la
gratitudine, i benefattori, i consanguinei e sestessi. Ma perchè grandemente ama
la filosofia, e quasi tutti i filosofi nella [(1 ) Cicerone nel lib. II o IV
Acad. Quaest. Lucullus. Plutarco in Lucullo. Svelopio in Julio 83.] sua età
rinomati ascoltò, e tutte le sette conosce, e si attenne poi alla vecchia
Accademia, la mezzana e la nuova non molto approvando, ed e an miratore di
Antioco, e Aristone di lui fratello ha compagno e domestico. Per questi studj
con insigne amore coltivati nella gravità immensa, quasi nella oppressione
continua de' civili e dei militari negozi e delle turbazioni e degli estreini
pericoli, egli adornd la filosofia col sermone latino, talche non rimase a
desiderarsi altro dai Greci; e oltre i componimenti di eloquenza e d'istoria,
scrive i libri della Virtù e degli Uffizi; ed è memoria che desse opera a cose
letterarie fino in mezzo al inaggior émpito di guerra e in quella gran notte
che anda innanzi alla battaglia farsalica. In questa congiunzione de'
gravissimi affari e della filosofia e nel lo studio di tutti i filosofi Bruto
imita Lucill. Ma non vuole già imitarlo nell'abbandonamento della repubblica e
nel termine della dignità e della gloria tra i molli ozj e i senili piaceri;
che anzi amd meglio imitare CATONE UTICENSE, fratello di sua madre, e a
somiglianza di lui filosofò per la vita, ed ha animo grande e libero dalle
cupidigie e dalle vo luttà, e tanto costante ed immobile nella fede e nell'amor
della patria e nella sentenza dell'onesto e del giusto, che per difesa di
questi principj non sentà ribrezzo di mettere il pugnale nelle viscere di Giulio
Cesare suo benefattore e suo padre, e poi nella perdizione della libertà e di
tutte le cose romane metterlo nelle sue viscere istesse. Alcune belle quistioni
sono agitate in questi propositi. E prima [(1) Cicerone De Cl. Oraloribus 97;
Acad. Quaesi. lib. I, 3. Plutarco in Bruto. (2) Cicerone Acad. Quaest. I. c.
(3) Cicerone Tusc. Disp. V, 1; De Fin. lib. III. Seneca Consol. ad Helviam 9, e
Ep. 95. Plutarco I. c. V. gli Storici Romani.] se Bruto malvagiamente fa
cospirando alla morte di Cesare; la quale investigazione richiedendo un
diligente esame dei diritti e dell’obbligazioni di Cesare e di Roma; e una
esatta idea del usurpatore e del tiranno, e dei doveri e de' limiti del
patrizio e del cittadino non può esser nè breve nè affaccevole al nostro
istituto. In secondo luogo, se Bruto puo essere escusato allorchè nella ruina
della buona causa giunto al mal passo di uccidersi con le sue mani, vitupera la
virtù esclamando con gli ultimi fiati: Infélice virtù ! io ti cre dea una
realità e sei un nome. Tu vai schiava della fortuna, che è più forte di te. Bayle
presto a Bruto alcune difese che secondo me non posson molto piacere; e la
difesa migliore è che quelle parole non pajon di Bruto; sì perchè Plutarco,
diligente narratore di tutte le avventure della sua vita, niente racconto di
quella esclamazione, sì perchè non è verisimile che un tanto uomo in così corte
parole dicesse assurdità e contraddizioni; chè tale certamente è negare la
realità alla virtù, e poi affermare che ella è meno forte e che è schiava della
fortuna, il che senza stoltezza non può dirsi di cose che non esistono. In
terzo luogo, e quistione se Bruto avesse a numerarsi tra i filosofi del
Portico. È stato detto che il Portico di Bruto è un sogno. E veramente
risguardando l'auto rità delle parole citate di Cicerone e di Plutarco Bruto abbracciò
l’Accademia; ma siccome dai medesimi filosofi è detto che si dilettò in tutte
le dottrine de' filosofi e ammira Antioco famoso conciliatore del Portico
coll'Accademia e col Lizio [ (1 ) Dione lib. XLVII. Floro lib. IV, cap. 7. (2)
Art. Brutus, C, D. (3 ) Paganido Gaudenzio De Phil. Rom.. 25. J. Brucker l. c.
S XIII.] e perchè d'altronde è noto che parlò e scrisse gli Uffici in istile del
Portico, ed e iinitatore e lodatore di Catone, e lo imita finanche nel suicidio,
che è la più ardua di tutte le imitazioni. Io credo bene che abbracciasse or
l'una, or l'altra sente za, come gli venne a grado, e il Portico forse più
spesso e più fortemente di tutte. VARRONE, a similitudine di Lucullo e di Bruto,
gli studi della filosofia coltiva insieme coi pensieri e con le opere militari
e cittadine. Ma veduto il naufragio della repubblica, e campato per maraviglia
dall'ira di Cesare e dalla proscrizione de' Triumviri, si ripara di buo n'ora,
come in un porto, nell'ozio delle lettere e della filosofia, e tutto intero
s'immerse in questa beata tranquillità. Cosicchè avvennero gli estremi
cangiamenti di Roma e la compiuta ruina della libertà della dominazione
assoluta di OTTAVIANO, ed egli nascosto nella sua biblioteca, e intento a com [(1)
Cicerone ad Att. lib. XII, ep. 46. Seneca ep. 95. Plutarco e i citati dinanzi.
(2) Plutarco in Bruto et in Catone Minore. Val. Massiino l. IV, cap. 6.porre
sempre nuovi libri, che si numerarono fino a qualtrocentonovanta, appena si
avvide di tanti movimenti, e passando la sua vita in ogni maniera di filosofie divenne
il più dotto ed universale uomo, che non i Latini solamente, ma i Greci ancora
avesser mai conosciuto. Ed e detto di lui che innumerabili cose avendo lette, e
meraviglia come gli fosse rimasto ozio di scrivere, e che pure lante cose avea
scritte, quante appena può credersi che alcuno abbia mai lette. Altre lodi si
leggon di lui; e noi ine desimi in questa gran lontananza di età, come vogliamo
esaltare la vastità della sapienza di alcuno, usiam dirlo “un Varrone”. Ma
niuna commendazione agguaglia quella di Cicerone, il quale amico ed ammiratore
essendo del valentuomo, conoscee e aduna le opere di lui in quel magnifico
elogio. I tuoi libri, o Varrone, noiperegrinie vagabondi nella nostra città,
quasi come forestieri, ridussero a casa, perchè alfine potessimo chi e dove
siamo conoscere. Tu la età della patria, tu le descrizioni de tempi, tu i
diritti delle cose sagre e de' sacerdoti, tu la domestica e la bellica
disciplina, tu la sede delle regioni e de' luoghi, tu delle cose umane e delle
divine i nomi, i generi, gli ufficj, le cagioni ci palesasti, e la luce
grandissima spargesti ne' no stri poeti e nelle latine lettere e nelle parole;
e tu istesso un vario poema ed elegante per ogni maniera componesti, e la
filosofia in molti luoghi in cominciasti assai veramente per iscuoterci, mapoco
per ammaestrarci. Nel medesimo dialogo, in cui [(1 ) Cicerone Acad. Quaest. I;
Tusc. Disp. I, e altrove. Se neca Cons. ad Helviam. Arnobio adv. Gentes lib. V.
S. Agostino De Civ. Dei lib. IV et VI, e altri. V. Popeblount Cens. cel. Aut.;
G. A. Fabrizio Bibl. Lat. tom. I. (2) Cicerone Acad. Quaest. lib. III.
BUONAFede. Isi. Fil. Vol. JI. 20] Cicerone loda Lanto nobilmente il suo amico,
gli assegna ancora la difesa dell’Accademia, e lo colloca nelle parti di
Antioco e di Bruto. Ove si vede la falsità o almeno la inesattezza di coloro
che lo misero tra il Portico. Perchè sebbene se condo il sistema di
conciliazione Varrone puo amare inolte dottrine del Portico, ne potea amare
ancora di altre scuole, e non dovea dirsi del Portico assolutamente. Molto meno
e poi da numerarsi tra i dubitatori dell’Accademia sul tenue fondamento d'una
sua satira intitolata le “Eumenidi”, in cui gli uomini erano accusali
d'insensatezza; e su quel l'altra dottrina sua, che niuna stranezza venne mai
nell'animo agl'infermi deliranti, la quale non fosse affermata da qualche filosofo,
il che molte volte suol dirsi anche da uomini che certo non sieguon Carneade e
Pirrone. Ma non e giusto per al cun modo condurlo stoltamente ad accrescere
l'ar mento degl’atei, perchè insegna molte favole es servi nella religione de'
suoi di, che offendeano la dignità e la natura degl'Iddii imınortali. Impe
rocchè egli queste cose insegnando, distinse gl'Id dii in favolosi, civili e
filosofici; e parve bene che contro tutti avesse a ridire, e non senza ragione;
ma pure afferma che i primi erano del teatro, secondi della città, e i terzi
del mondo; e mostrò che disputava contro le favole poetiche, cittadine e
filosofiche, non contro gl'Iddii, e parve che avesse gran voglia di onorare i
filosofici, quando fosser purgati dalle fiuzioni, mentre li disse, i Numi del
mondo. Di que' tanti libri di M. Varrone non ri [(1 ) Cicerone l. c. () L.
Cozzando De Mag. Ant. Phil. I. III. G. A. Fabrizio Bibl. Graec. vol. II. (3)
Uezio De la Forblesse de l'Esprit humain liv. I, ch. 14. (4) S. Agostino De
Civ. Dei (5 ) S. Agostino I. c.] mangono altro che i nomi o alcuni frammenti
delle intichità divine ed umane, e della forma della filosofia, e della lingua latina,
della vita del popolo romano, delle Ebdomade, de' Poeti, e delle Origini
sceniche, e delle Menippee, per le quali fu cognominato Menippeo e cinico
Romano del Cinargo, e delle Cose rustiche, che sole vennero a noi salve dall'
in giuria del tempo. Questi furono i più cospicui Sincretisti romani, ai quali
si potrebbe aggiungere ancor CICERONE, il quale vaga per varie filosofie, e tenta
riconciliazioni di sistemi; ma perchè ama con molta parzialità i metodi dell’Accademia,
lo allogheremo tra que' filosofi romani che si attenneno a certe scuole, e ora
amarono i placiti da CROTONA, ora I LIZIO, ora L’ORTO, ora IL PORTICO, siccome
si è detto, ora altre guise di filosofia. Molta fu veramente la fama della
filosofia di CROTONA; ma fosse colpa sua o d'altrui, sofferse dissipazioni e
disgrazie che la misero ad oscurità. Tutta volta i Romani udirono qualche
novella di Pitagora, al lorchè nella guerra sannitica persuasi dall'oracolo di
Apollo Pizio a dedicare in celebre luogo della città una statua al più forte e
l'altra al più sapiente de Gre ci, l'una innalzarono ad Alcibiade e l'altra a
Pitagora: il che facendo, mostrarono, secondo l'avviso di Plinio, di non sapere
nè la civile nè la filosofica istoria di Grecia. Dopo quella dedicazione non è
meno ria che i Romani tenessero alcun conto di Pitagora, se non quando il
maggior Catone ascolta il Pitago rico Tarantino, e nella medesima età il
Calabrese ENNIO appare alcune dottrine pitagoriche in quella terra ove Pitagora
insegna, e le sparse nel [(1 ) Cicerone Tusc. Disp. l. I. S. Agostino De Civ.
Dei lib. XII, cap. 4, cap (2 ) Plinio lib. XXXIV, cap. 6. ] suo poema, nel
quale ardì sognare che l'anima di Omero era passata in lui. Ma non persuase di
que ste idee nè Catone a cui insegna la filosofia, nè P. Scipione Africano di
cui godè la famigliari tà, nè altri Romani che udirono volentieri i suoi versi
eroici e lo tennero sommo epico senza voler essere pitagorici. Io però vorrei
che meglio si esaminasse se un poeta per alquanti versi che senton di
Pitagorismo possa trasformarsi in filosofo pitagorico. Potrebbe parere che
questa metempsicosi somigliasse quella di Omero in Ennio. P. NIGIDIO Figulo
tuttochè e riputato vicino alla universale dottrina di Varrone, ed e senatore e
pretore e amico intimo e consigliere e compagno nei grand affari di Cicerone,
che molto lo riverì, come acre investigatore de' segreti della patura e uomo
dottissimoe santissimo, e come quello che dopo i nobili Pitagorei polea
rinnovare la lor disciplina quasi estinta, non si sa che persuadesse niuno, e
fu stretto a ridurre la sua grande sapienza fisica e matematica e astrologica
alle indovinazioni de' ladri che talvolta rubavan le borse de' suoi amici, e a
componer gli oroscopj d’OTTAVIANO e del Triumvirato, e a disegnare la rapidità
del cielo con gli avvolgimenti della ruota del vasajo, donde ottenne il so
prannome di “Figulo”. Le quali avventure non so no veramente degne d'un
senatore e d'un pretore pitagorico, ma posson forse mostrare che si pochi [(1 )
Cicerone pro Murena 14; Acad. Quaest. I; De Fin. I, e altrove. Persio Sat. VI.
V. Vossio De Hist. Latinis, e A. Baillet Jugem. (2) Cicerone Fragm. de
Universitate. S. Agostino De Civ. Dei lib. V, cap: 3; Ep. fam. lib. IV, ep. 13.
Plutarco in Cicero ne. A. Gellio, Macrobio Saturn. lib. II, cap. 12; VI, cap,
8. Apulejo in Apolog. Dione lib. XLV. Svetonio in Augusto 94: Lucano Phars. I,
639. V. P. Bayle art. Nigidius. ICO LER] affari di scuola esercitaron questo
Nigidio, ed ebbe tanto vuoto nella vita, che gli storici amici della sua gloria
pensarono bene a riempierlo di favole. Non è questa la prima nè l'ultima
panegirica istoria colpevole di supplementi favolosi. A confermazione della
tenue fortuna di questo filosofo da CROTONA e scritto, che avendo egli composti
i libri degl’animali, de gl’uomini, delle viscere, delle vittime, degl’auguri,
de' venti, della Sfera grecanica, e di altri moltiplici argomenti, per la cui
abbondanza fu quasi eguale a Varrone, ove però le scritture di questo si
divulgarono e si lessero assai, le Nigidiane per la sottigliezza e per la
oscurità giacquero abbandonate; e l'autore poi avendo seguite le parti di
Pompeo, per timore di Cesare muore in esilio volontario. Poco appresso
Anassilao Larisseo professa la setta di CROTONA, ed esplorando i segreti della
natura per la medicina e per uso di certe sue magiche me raviglie, e con le sue
scoperte armirabili venendo in sospetto di magia e forse uccidendo i malati più
che gli altri medici con meno segreti, e d’OTTAVIANO condannato all'esilio. La
filosofia di CROTONA ebbe adunque assai avversa fortuna tra i Romani in questa
età. Il Lizio ottenne qualche migliore, ma non molto illustre accoglienza;
perchè sebbene Catone e Crasso e Pisone e Cicerone istes so non abborissero i
uomini del Lizio, e nelle memorie di questi tempi sieno ricordati con onore
Andronico Rodiano e Demetrio e Alessandro Antiocheno e Stasea Napoletano e
Cratippo Mitileneo maestro del figlio di Cicerone e di altri nobili romani; tuttavolta
per le narrate disgrazie e depravazioni dei libri del Lizio, o per quali In:
TIK ita pi V Ci I Jedi (1 ) Eusebio in Chr. Plinio lib. XIX,cap. 1; XXVIII,
cap. 2; XXXV, cap. 15. Irenco lib. I, cap: 7. Epifanio Haer. 34. V. Vos. sio De
Idol. lib. I, 6; Fabrizio Bibl. Graec. vol. I.] che fossero altre cagioni, il
nome del Lizio fuori di molto pochi era, per testimonianza di Cicerone, ignoto
ai filosofi de' suoi giorni. Ma L’ORTO quantunque spesso ripresi e più spesso
calunniati e singolarmente flagellati da quella sottile eloquenza di Cicerone,
che sapea persuadere finanche il falso quando volea, pure in onta di tanto
travaglio videro assai Romani di nome e di opere illustri non arrossirsi di
essere DALL’ORTO. Lucio della tanto antica e nobile famiglia Torquata, e G. Vellejo
sostenitore delle ragioni dell’ORTO nel dialogo della Natura degli Iddii di
Cicerone, e principe dell’ORTO che allora erano in Roma, e C. Trebazio, como di
somma scienza nel Diritto civile, a cui Cicerone intitola la Topica, e L.
Papirio Peto, egregio oratore e soldalo, e L. Saufeio e T. Albuzio e C.
Amafanio, e più altri numerati da Gassendo, furono nobilissimi DALL’ORTO (2).
Ma C. Cassio e T. Pomponio “Attico” per singolarità di fama e d'ingegno emerge
splendidamente dalla folla degli altri. Il primo e quel prode assassino di
Cesare, che nell'ardor dell' assalto ad uno de' congiurati che dietro a lui si
aslenza dal ferire, dice: Feriscilo anche per mezzo alle mie viscere. Egli
vincitore de' Parti e soldalo di primo valore e sommo DELL’ORTO, parla
secondochè l'émpito militare e le disperazioni della sua scuola lo animavano, e
per gli stessi principj nella perdita della battaglia e della libertà si fa
uccidere, e si uccise egli medesimo con quello stesso pugnale con cui ferito
Cesare, ed e acclamato e pianto come l'ultimo de' Romani. Alcune avventure
filosofiche di que [(i ) Cicerone Topic.Praef. V. P. Bayle art. Cratippus; J.
Bru cker De Phil. Rom. & XXIV, XXV. (2) De Vila et mor. Epicuri lib. II,
cap. 6. (3) Aurelio Vittore De Vir. III. (4 ) Plutarco in Caesare, in M.
Antonio, in Bruto.] st'uomo domandano qualche riflessione. Bruto vide uno
spettro d'inusitata grandezza, e interrogato chi fosse, risponde – “Io sono il
tuo mal genio, o Bruto: tu mi rivedrai a Filippi; ove lo rivide e fu vinto.” Di
questa apparizione Bruto ha discorso con Cassio, il qual dice, non esser
credibile che vi fossero genii, ed esser nostre immaginazioni; e quando pure vi
fossero, nè aver figure di uomini, nè forza che giun ga a noi. Ma sarebbe pur
bene che fossero, aggiun se, acciocchè noi condottieri di bellissimi e
santissimi fatti andassimo forti non solamente per fanti e cavalli e navi, ma
per la protezion degl' Iddii. Bruto si consolo per questo discorso. Ma CASSIO medesimo
ha la sua visione, e parve che consolatore degli altri non sapesse consolare sè
stesso. Nella giornata di Filippi vide Giulio Cesare in sembiante sovrumano e
minaccioso che a tutta briglia venne a combattere contro lui, ed egli
spaventato disse – “Che ci rimane più oltre, se è stato poco averlo ucciso?” --
Di lui è anche raccontato che nel giorno della uccisione di Cesare invoca l'a
nima e l'ajuto del grande Pompeo, e che rivedendo insieme con Bruto le truppe
romane, dice loro: “GlIddii, che prendon cura delle guerre giuste, vi rendan
premio di tanta fede. Noi abbiam prese tutte le giuste misure: il rimanente si
aspetta dalla vostra virtù e dagl Iddii favorevoli. Se essi vorranno, noi vi
ricompenseremo della grand'opera di questa vitloria.” Le siffatte visioni e
preghiere divote non parvero proprie d’un filosofo dell’ORTO, il quale se non
affatto rifiutava i fantasiuni, certo non co noscea gli animi immortali e la
provvidenza de [(1 ) Plutarco in Brulo. (2) Val. Massimo lib. I, сар. ult.' (3
) Plutarco in Caesare et in Bruto. (4) Appiano Aless. Bell. Civ. lib. IV.] gl'Iddii;
onde quelle apparizioni e invocazioni o voglion tenersi per favole del popolo e
degli storici, o per fanatismi di Cassio, il quale agitato dalla grandezza de'
casi lascia trasportarsi nelle idee e nelle parole comuni, e si scorda di
essere DALL’ORTO. Io non dissento da questi pensieri; maquanto agl'Id dii e
alla provvidenza io desidero ehe i miei leggitori si ricordino di quanto abbiam
disputato in questo argomento esaminando la teologia dell’ORTO con quella
diligenza che abbiam saputo maggiore; e non diffido che le preghiere di Cassio
possano porgere alcun nuovo indizio della provvidenza non affatto distrutta nel
sistema dell’ORTO. Tito Pomponio Attico e il più sincero e il più costante
ornamento della scuola dell’ORTO; e se Cassio ed altri con lui troppo
s'immersero nel comore e nel fumo di Roma, e deviano dal piacere e dalla
felicità che sono i fini dell'ORTO, ATTICO fermamente rivolto a queste mire,
già prima nelle turbazioni di Silla si riparò ad Atene, e ascoltando Fedro e
Zenone Sidonio visse tranquillamente negli ozj e negl’orti d'Epicuro, e con la
gravità ed umanità dell'ingegno ottenne tanta benevolenza, che dai Greci ha
statue e dai Romani il bel soprannome di Attico; indi ritornato alla patria, si
allontana dagl’onori offerti e da tutti gli affari civili, e niuna parte
prendendo nelle contese de' potenti, e ser bandosi amico de litiganti, e usando
fede con tutti e liberalità e cortesia, non si sa ben dire se più e amato o
riverito; e vivendo a sè medesimo e non per ostentazione d'ingegno, ma per
governo della vita filosofando, campo dalla proscrizione di tanti cittadini, e
caro ai vincitori menò vita riposata e luminosa; alla quale però nè il suo
genero Agrip [(1 ) P. Bayle art. Cassius Longinus (Cajus) Primo.] pa, nè il
progenero Tiberio, nè il pronipote Druso dieder tanto splendore quanto la
intima amicizia di Cicerone, le cui Lettere e i libri della Vecchiezza e delle
Leggi lo consecrarono alla immortalità. In questa beatitudine di vita e preso
dalla dissenteria e dalla febbre. Ubbidì prima ai medici inutilmente, e poi sperimentata
l'ostinazione del male, alla presenza di alcuni amici suoi, Voi siete buoni
testimonj, disse, della cura e diligenza mia nel difendere in questo tempo la
mia sanità. Io ho dunque soddisfatto al debito mio. Ri mane ora che io provveda
a me stesso. Voglio che voi il sappiate. Imperocchè ho statuito di non volere
più oltre alimentare il mio male; perchè in questi giorni truendo innanzi la
vita col cibo, ho accresciuto i dolori miei senza speranza di sanità. Per la qual
cosa io prima vi domando che il mio consiglio approviate; indi che non vogliate
sforzarvi a dissuadermi. Dette queste cose con tale co stanza di voce e di
vollo che parea non uscisse dalla vita, ma da una casa per passare ad un'altra,
gli amici piansero e pregarono, ed egli le lagrime e le preghiere compresse con
un ferino silenzio. Così avendo digiunato due di, la febbre cessa; inè mutò
proposito per questo, ed essendo a mezza via, non volle tornare indietro e anda
oltre digiu nando, e muore ragionatamente secondo i principi dell’ORTO, e non
già come Cassio impetuosamente e a mal tempo. Questo inumano errore di moda e
di scuola e in Attico error di ragione ee di gran d'uomo. Tito LUCREZIO Caro,
inferiore certo ad Attico e a quegli altri nella dignità della vita, ma nella
poe [(1 ). Cicerone De Fin. e nelle Epistole ad Attico e altrove. C. Ni pote in
Artico. Seneca Ep. 21. (2 ) C. Nipote I. c.] lica gloria de componimenti dell’ORTO
maggiore di quanti fiorirono in quella scuola. Nella elà di Cicerone e di
Attico vide anch'egli Atene, e ascolta Fedro e Zenone e visse negl’Orti d’Epicuro,
e per mostrare a Roma i suoi progressi nella guisa più dilettevole, scrive in
esametri latini sei libri della Natura delle Cose, ne' quali fu delto non
essere meraviglia che profondesse tutte le empietà e le pazzie dell’ORTO,
perciocchè gli avea composti ne' corti intervalli di ragione che gli rimaneano
al quanto liberi dalla frenesia contratta per certa be vanda amorosa. Ma noi
invitiamo ancora qui i leggitori nostri a volersi ridurre a memoria le ragioni
altrove disputate contro i malevoli dell’ORTO, le quali secondo la nostra
estimazione posson molto valere contro gli oppressori di Lucrezio. Non sarebbe
difficile una dissertazione, giacchè le dissertazioni sembrano facilissimi
affari, ove si prova che Lucrezio non e il più pazzo de' poeti, e non sarebbe
difficile un'altra in cui si mostrasse che molti filosofi furon più pazzi di
questo poeta. Ma non so se queste dissertazioni con tutta la bizzarria de'loro
titoli, che sogliono pur essere di qual che raccomandazione, potrebbono riuscir
dileltose a chi le componesse e a chi le ascoltasse. Imperoc chè sarebbe
necessità recitar molti di que' versi dell’ORTO che secondo il ruvido carattere
della scuola non sono i più molli e i più eleganti, e non sono poi tanto chiari
da mettervi fondamento sicuro. Noi adunque, senza pretendere in dissertazioni,
direm così per passaggio,come gli fu dato a colpa di vio lata religione ch'egli
attribuisse alla natura degl'Id dii il godimento di somma pace e la divisione
dai [(1 ) Eusebio in Chr. V. G. A. Fabrizio Bibl. Lat. vol. I; P. Bayle art.
Lucrece.] dolori e dai pericoli nostri, e che insegna non aver essi bisogno di
noi, nè esser presi da benevolenza o da ira; e che giacendo la vita degli
uomini sotto grave religione, la quale dal cielo mostra il capo con orribil
risguardo soprastante ai mortali, un uom greco fu il primo che ardì levar gli
occhi contro di lei e resistere. Lui nè la fama degl'Iddii, nè i fulmini nè i
minacciosi romori del cielo raffrenarono; che anzi l'acre virtù del suo anino
s'irritò, e ruppe le strette porte della natura, e con la vivida forza della
mente vinse e tras corse oltre i confini del mondo, e misurò tutto l'Immenso; e
c'insegnò quello che può nascere e quello che non può, e quali sieno le potestà
e i termini fermi delle cose. Onde la religione a sua vicenda è calpestata dai
nostri piedi, e la vittoria ci aggua glia al Cielo. Ma si è già detto
abbastanza al irove che le divine tranquillità possono avere nel sistema dell’ORTO
sensi non affatto distrutlori di ogni provvidenza; e veranente lasciando pure
stare Deslandes, che fa una pielosa predica a Lucrezio per questo disprezzo suo
della religione, è ben molto che Bayle non abbia saputo ve dere che la
religione, contro cui Lucrezio usa qui tanto disprezzo, non è altro che quella
superstizio ne che insieme con altre scellerate opere insegna ai Greci le
vittime umane; onde egli dopo la descrizione d'Ifigenia all' altare conchiude:
che tanto di mali potè la religione persuadere. Io certo non ar direi affermare
che Lucrezio insegnasse la Provvidenza ove scrisse, una certa forza nascosta
strito lare le cose umane, e sembrare che conculchi e 1 [(1 ) T. Lucrezio De
Rer Nat. lib. I. (2) Deslandes Hist. De la Phil. tom. III. (3) P. Bayle I. c.
E.] prenda in ludibrio i fasci e le scuri; o dove in voca V'enere origine e
regolatrice di tutta la natura, o dove implora l'ajuto della governante Fortuna
nei disordini e nelle ruine del mondo Ma non ardirei pure accusarlo d’ateismo,
e im porgli più errori di quelli che secondo la sentenza nostra abbiamo veduti
nel suo maestro dell’ORTO, di cui fu seguace tanto rigido, che permettendosi il
suicidio in quella filosofia, egli neusò a suo agio, e si uccise di propria
mano. È stata opinione che C. Giulio Cesare, uomo di estraordinaria forza
d'ingegno e di cuore, sebbene potendo ottener' somma gloria dalle lettere e
dalla filosofia, volesse averla piuttosto dalla politica e dalle arme, tuttavia
non isdegnasse alcuna volta di starsi tra i filosofi, e gli piacesse di essere dell’ORTO.
Im perocchè dicono che parlando al senato non dubitò di affermare
ardimentosamente, di là dalla morte non esservi tormento nè gaudio; e non ebbe
poi timore per voglia e comodo suo di tagliar boschi sacri e di seguir le sue
imprese contro gli avvisi de sacerdoti e della religione. Ma a dir vero, que
sti non sono i caratteri propri dell'Orto: e poi si potrebbe dubitare se Cesare
così parlasse al senato, come Sallustio lo fa parlare; e se così ta gliasse gli
alberi sacri, come Lucano con la poetica licenza racconto; e date eziandio per
vere queste leggende, è molto ben noto che anche Cicerone, usando della
rettorica volubilità, predica talvolta pubblicamente la mortalità degli animi
senza essere [(1 ) De Rerum Nat. lib. V, 1225. V. Rondel Vila Epicuri. (2) De
Rer. Nat. lib I; V, 105. (3) V.G.F. Reimanno Hist. Ath. cap. XXXVII, $ 5. (4 )
Sallustio De Bello Catilivario 51. (5) Lucano Phars. lib. III. Svetonio in
Cesare 59, 81.] dell’ORTO, anzi senza recarsi ascrupolo di predicarne la
immortalità in altre pubbliche orazioni, ove il bi sogno della causa lo
domandasse. Così gli oratori romani costumavano, e agli stessi metodi Cesare
ubbidi; e così pur fece nell'affare de'presagi e della religione, mentre se è
scritto che talora trasscura le romane superstizioni, è scritto ancora che
spesse volte le uso, e parve che le avesse per ve re. Molto meno io poi ardirei
imporre a Cesare l'ORTO, perchè fu accusato di osceni amori con Nicomede re di
Bitinia, e perchè molte nobili donne romane e alcune reine corruppe, e perchè e
detto la moglie di tutti i mariti e il marito di tutte le mogli, e perchè
sostenne assai altre infauna zioni di lascivo costume; le quali oltrechè
possono essere alterate dalla malevolenza e dalla effrenatezza popolare di Roma,
che le lodi e i trionfi de gran d'uomini solea contaminare con le satiriche
licenze, non posson poi essere argomenti di doltrine dell’ORTO, giacchè nè l’ORTO
professa questa dis solutezza, nè la corruzion de costumi è buon argomento per
la corruzione delle massime; e siccome non sarebbe buon discorso dai regolati
costumi di Cassio e di Attico didurre che non sono dell’ORTO, così non sarebbe
pure conchiuder che Cesare era per la sregolatezza de'suoi. Piuttosto si
potrebbe raccogliere alcun indizio dell’ORTO dalla replicata avversione che
Cesare mostrò verso i costumi di Catone, contro cui scrive due libri intitolati
gli “Anti-catoni” L’ORTO e il giurato nimico del [(1 ) Cicerone Orat. pro
Cluentio et pro Rabirio. (2) Plutarco e Svetonio in Caesare. Floro lib. IV,
cap. 2. Dione lib. XLII. V. P. Bayle art. César. (3 ) Svetonio in Caesare 49 e
segg. (4 ) Svetonio I. c. Plutarco in Cicerone V. Adriano Baillet Des Satires
personelles,.ou des Anti, Entr. I, S 1. 7 318] PORTICO, e Catone e grande del
Portico. Pare adun que che Cesare non puo prorompere a tanta avversità contro
tutti i costumi di Catone senza essere dell’ORTO. Vaglia questo come può il
meglio. Ma qualunque fosse la setta di Cesare, certamente il solo pensiere di
correggere il calendario Romano disordinato dalla negligenza de' sacerdoti, e
l'Anno “Giuliano”, che Giulio da a tanta parte di mondo, mostrano in lui genio
filosofico e gusto di astronomia. Quella versatile eloquenza di cui gli
avvocati e i pubblici parlatori di Roma usano nella varietà e lalora nella
contraddizione delle cause, e la origine primaria dell' applauso in cui venne
tra i Romani la filosofia dell’Accademia; la quale insegnando a disputare per
tutte le parti, e colorendo di probabilità il pro e il contro, e
somıninistrando argomenti per tutti i casi, e molto opportuna a quella
eloquenza forense che potea dirsi la grande e forse la prima via delle soinme
fortune. Sembra adunque ben detto che la filosofia del PORTICO per la gravità
degli uffizj e de' principj sociali fu tra i Romani la disciplina de' giudici,
de' legislatori e de' giureprudenti; L’ORTO e lo studio quasi domestico e
privato di uomini desiderosi di vivere Jictamente; CROTONE e il LIZIO sono la
cura di pochi; l’Accademia confusa al Portico si riputa degna de' sacerdoti, e
l'accademica e la delizia de causidici e degli oratori; siccome, a dir vero,
pare che fusse pure in altre terre e in altre età, e che sia ancor nella nostra.
È però mestieri avvertire che parlando di accademica filosofia, non vuole
intendersi un pirronismo effrenato, che forse non ebbe esistenza salvo ne'
capricci di uomini esageratori; ma un temperato genere di filosofare per cui si
esa minano i placiti di tutte le scuole, e si sceglie il buono, e si cerca il
vero, e si crede di trovar solo il probabile,e secondo questo si governa la
vita. Cicerone fu il ipaggior lume di questa filosofia tra i Romani; il quale
con la forza d'una singolare eloquenza e con l'abbondanza della dottrina e con
la varietà de' libri così la nobilitò egli solo, che gli altri furon
dimenticati. Ma egli sarà ben tale da po ter valere per tutti. Mentre io ora mi
accosto a que sto sommo maestro del nobil parlare, e vedo che la eccellenza
della sua lode e la grandezza degli ob bligbi nostri domanderebbono eloquenza
pari alla sua, sento vergogna della mia lontananza da quel sublime esemplare, e
volentieri sfuggirei per ros sore il difficile incontro, se la vergogna non
fosse vinta dalla necessità. Cicerone, arpinate, o che suo padre fosse
purgatore di panni e i suoi avi cultori di ceci, o che la sua gente avesse origine dai
che nascesse onorato dagli oracoli e dai prodigj, o all' uso comune nel
silenzio degl' Iddii e nell'ordine della natura, siccome variamente si racconta.
Niente più e niente meno fu il medesimo uomo non molto cospicuo tra i soldati,
non affatto pic ciolo tra i filosofi, grande tra i maestrati e tra i consoli,
massimo tra gli oratori. Nell'adolescenza e appresso nella età anche matura amò
i poeti e scrisse versi, de' quali rimangon frammenti biasi mati più del dovere,
e coltivò le lettere e [(1 ) Plutarco in
Ciceroue. Dione lib. XLVI. V. G. A. Fabrizio Bibl. Lat. vol. II.] la eloquenza.
Cresciuto. si accostó ai filosofi. Ascoltỏ gli Epicurei per disprezzarli allora
e dap poi, senza averli forse intesi. Conversò con IL PORTICO e con IL LIZIO, e
apprese i luoghi e i fonti del disputare, e altre loro dottrine non ab borri:
ma singolarmente coltivo gli Accademici per amore di quella versatile e forense
eloquenza di cui abbiam detto. Su questi fondamenti, con quel buon metodo non
inteso dai nostri pedanti, appog. giò e poi confermò viemaggiormente la sua
arle oratoria. Presa la toga virile si attenne ai giore consulti. Militò un
poco nella guerra Marsi cana, e venuta la pace ritornò molto volentieri alle
lettere. Vive dimesticamente con Diodoro stoi co eruditissimo, frequenta Molone
oratore Rodia no, e Ortensio, che era il primo parlatore di Roma: non trascurò
fino di apprender le più gen tili eleganze del dire da Cornelia, da Lelia e da
altre dame romane, colà imparando eloquenza ove altri ora sogliono
disimpararla: non fu giorno che non usasse nuove diligenze erudite, e non decla
masse e disputasse ora con parole latine, ora con greche. Trasse nel vulgare di
Roma alcune scritture di Protagora e di Senofonte e altre di Platone, e
singolarmente il Timeo, di cui ci rimane una parte, per la quale conosciamo che
Platone po trebbe sopportarsi tradotto da Cicerone, laddove non si può nelle
versioni di altri. Ci rimangono [(1 ) Cicero pro Archia I. Plutarco l. c.
Svetonio de Cl. Ret. 2. Vossio De Poel. Lal. V. Andrea Scollo Cicero a
calumniis vin. dicatus. (2) Cicerone De Off.lib. I, 1; II, 1; Ep. fam. lib.
XIII, ep. I et 16; Paradox. I; De Or. lib. III, 28; Tusc. Disp. lib. II, 2; in
Bruto 90; De Nat. Deor. e altrove. Plutarco I. c. (3 ) Cicerone in alcuni
luoghi citati, e De Fio. lib. V, el De Div. II; e vedi i Frammenti, Plutarco 1.
c. Quintiliano l. 1, 2; III, 1; X, 5. S. Agostino De Civ. Dei lib. V, cap. 8.] pure
alcuni frammenti di sue traduzioni diOmero, le quali non ci nojano come quelle
degl' interpreti nostril. Istruito da tante esercitazioni e animato da questi
presidj, nel suo venticinquesimo anno, che era il seicento settantaunesimo di
Roma (2) non dubitò di mostrarsi nella luce del Foro, e agitd la sua prima
causa, che alcuni dicono esser quella in difesa di Sesto Roscio Amerino, contro
la vo lontà di Silla, e ne uscì vincitore con tanta ammi razione, che niuna
altra causa parve poi superiore al suo patrocinio. Ma poichè Silla raffrenatore
di Mitridate e domatore di Mario era in quei giorni dittatore e quasi signore
assoluto delle vite e delle cose romane, fu voce che Cicerone temendo la ira di
quel fiero autore delle proscrizioni, rifuggisse in Grecia. Altri pensarono che
si desse a viaggiare per ricuperare la sanità afflitta per troppa veemen za
nella declamazione (5). Comunque fosse, visitò Atene e molto usd col famoso
Sincretista Antioco, e visse congiunto a Pomponio Attico con quella amicizia
che durò tra loro fino alla morte. In que sto viaggio verisimilmente fece
iniziarsi nei misteri Eleusini, de' quali così parld come se la loro so stanza
fosse l'unità d'Iddio e la immortalità degli animi (6). Tale fu l'avviso nostro
nella esposizione del sistema arcano d'Egitto, e tale è del dotto Warburton e
del Middleton, il che molto consola [(1 ) Cicerone in alcuni luoghi citati, e
De Fin. I. V, e De Div. II; e vedii Frammenti. Plutarco I. c. Quintiliano I. I,
2; III, 1; X, 5. S. Agostino De Civ. Dei lib. V, cap. 8. (2) V. Middleton Vita
Cicer. lib. I. (3) Cicerone in Bruto 91. Middleton I. c. (4) Plutarco l. c. (5)
Cicerone in Bruto. Cicerone De Nat. Deor. lib. I, 42; De Leg. lib. II, 14;
Tusc. Disp. lib. I, 15. BUONAFEDE. Ist. Filos. Vol. II. 21] le nostre
conghietture. Da Atene navigò nell'A sia, e conversò cogli oratori e coi
filosofi di quelle terre, e sopra tutti con Possidonio; e declamo in greco nel
mezzo a nobil frequenza con tale fecondità, che i greci oratori piansero il
loro destino, per cui non solamente le fortune, ma le arti e le scienze dalla
Grecia trapassavano a Roma. Silla morì, e Cicerone restaurato nella sanità
ritornò alla patria, ove fu prima negletto come un grecolo scolastico; ma poi
eguagliando e spesso vincendo la gloria di Cotta e di Ortensio oratori
lodatissimi di quella età, rimosse Roma dalla sua negligenza, e ottenne
prestamente la questura ed ebbe in sorte la Sicilia, ove avendo ricevuto lodi e
onori inusitati, s'im maginò che tutta Roma fosse piena della sua glo ria.
Masbarcato a Pozzuolo in tempo che grande era il concorso di molti uomini
romani, ebbe il dispetto di vedersi ignoto, e conchiuse adirato che iRomani
aveano le orecchie sorde e gli occhi acuti. Dopo questa mortificazione, grave
di vero in uomo perduto nella fantasia della gloria, egli deliberò di battere
assiduamente il Foro e i pubblici luoghi, e starsi tuttodì presente a quegli
occhi acuti che dif finivano le sorti de' cittadini ambiziosi. Agitò cause
nobilissime, e fu edile, pretore e console non meno per favore degli ottimati,
che per giudizio del Popolo. Egli ricevè la repubblica piena di sollecitudini,e
non vi erano mali che i buoni non temessero e i ribaldi non aspettassero. I
tribuni e Catilina e i suoi compagni teneano consigli di ruina. Ma Cicerone li
compresse e salvò la repubblica [Warburton
Della divina Legazione di Mosè vol. I. Middle ton I. c. (2) Plutarco I. c. (3)
Div. in Verr. I, et lib. II, 2; pro Planco 26. Plutarco i. c. (4) Cicerone in
più luogbi, e Plutarco l. c. (5) Sallustio De Bello Calilinario e gli altri
Storici Romaui.] ze Tire! Per la grandezza dell'opera venne a somma grazia de'
patrizi e del popolo, e fu acclamato padre della patria; e poco appresso vinto
dalla invidia e dalla frode di P. Clodio, fu spinto in esilio, e le sue ville
incendiate e le sue case con ogni sostanza arse e saccheggiate. Andò errando
con animo assai abbat tulo per l'Italia e per la Grecia, nel che mostrd di
essere più oratore che filosofo; finanche richia mato per pubblico consenso, e
restaurati i suoi danni per sentenza del senato, ritornò a Roma, incontrato da
tutte le città, e portato, siccom'e gli raccontò, sulle spalle di tutta
l'Italia. Ebbe in provincia la Cilicia, e parve che volesse eser citar nella
guerra le arti della pace. Ma come si accese la discordia civile, egli seguendo
le parti di Pompeo, e pretendendo in valor militare, dopo la sconfitta
farsalica si pentì d'esser soldato e ricuso di guerreggiare più oltre; cosicchè
il giovin Pom peo sdegnato di quella codardia, lo avrebbe uc ciso se Čatone non
lo campava (2). Venne poi a riconciliazione con Cesare, e nella mutazione della
repubblica, che assai gli gravava nell'animo, si ri volse alle lettere e alla
filosofia, e istruì nobili gio vani romani, e leggendo e scrivendo libri passò
la maggior parte de' suoi giorni nella dolcezza degli studj e nei silenzi della
sua villa Tusculana.Ritorno anche ad Atene per alleggerimento di noja e per la
memoria delle passate esercitazioni. In questo spazio ripudid Terenzia, e mend
in moglie una ricca donzella, e pianse puerilmente la morte di Tullio la, e
ripudid la nuova moglie perchè non volle 702 ber che V. i luoghi di Cicerone
presso Francesco Fabrizio nella Vita di Cicerone. [Plutarco I. c. et in
Caesare. Dione lib. XXXVIII. Vellejo lib. 11. Cicerone Or. pro Domo sua ct post
Rcd. ad Quir, et post Red. ad Sen. e altrove. (2) Plutarco lic. 1 pianger con
lui. elle quali avventure fu accusato di amori sozzi é ridicoli, e di animo
debole per temperamento o per anni (1 ). Con tutti questi do mestici fastidj
avrebbe potuto esser felice, se avesse perseverato nell' amore del letterato
ozio e dellafilosofia. Ma dopo l ' assassinamento di Cesare gli piacque di
rientrare nella tempesta civile, e sebbene non fosse tra i congiurati, si
attenne al loro portito, e M. Antonio già suo pernico irritò mag giormente con
le Filippiche. Dopo varie vicende si compose il Triumvirato, e Cicerone ne fa
la vit tima più sacra e più pianta da Roma, già ridotta a pochi, e da tutta la
posterità. Egli poichè ebbe udita la fama della proscrizione, fuggì prima al
mare e s'imbarcò con venti contrarj, onde presa terra a Circejo, tra molti pensieri
niuno piacendogli quanto la morte, disegno di recarsi a Roma e uccidersi nella
casa istessa di Cesare per versare sopra l'in grato la vendetta del suo sangue.
Indi persuaso da nuovi pensieri navigò ancora e prese pur terra,e nojato del
mare e della vita, lo morrò, disse, in quella patria che spesse volte'ho
conservata; e non morendo pur questa volta, si adagi ) e dormà nella sua villa
Formiana. Mentre i suoi domestici spa ventati dal romor de' soldati lo
guidavano a forza verso il mare, apparvero i carnefici, contro cui i servi si
prepararono a combattere. Cicerone co mandd che stessero: guardò con fermo
occhio gli assassini e singolarmente il lor condottiere Popilio Lena, che reo
di parricidio era stato difeso e salvato da lui: sporse dalla letlica il capo,
e, Fale, [Cicerone Tusc. Disp. lib. I, 1; De Off. lib. II, 1, 2; e in più
Lettere ad Allico e ai suoi amici. Plutarco I. c. V. l'Orazione al tribuita a
Sallustio. — Donato (in VI Eneid. ) accomoda a Cice rone quel verso diVirgilio:
Hic thalamos invasit Natac velitos que hymeneos. V. P. Bayle art. Tullie, 0.
disse, l'opera' vostra, e quello prendelo, di che avete bisogno: l'ingralo
" Popilio con parricidio maggiore del primo gli recise il capo e le mani,
e recò l'iniquo fardello ad Antonio, il quale con gran festa affisse su i
rostri quel capo sublime e onorato e quelle mani benefiche, spettacolo
miserabile e argomento di pianto ai buoni Romani e di trastullo agli schiavi,
ai traditori e ai tiranni (1 ). Nell'anno di Roma settecendecimo e di Cicerone
sessanta qualtresimo avvenne questa tragedia, in cui si vide la morte di
Cicerone e della repubblica. Daquesto tenore distudj e di vita non solamente si
può conoscere che Cicerone era pieno d'un de siderio smoderato di gloria, che
lo rendea forte e magnanimo nella buona sorte e timoroso e pian gente nella
disgrazia (onde Cristina di Svezia, con una regia libertà che sarebbe licenza
in uomini pri vati, usava dire, Cicerone essere il solo poltrone che fosse
capace di grandi cose ); ma si pud an cora scorgere facilmente che il sommo
fine poli tico di Cicerone fu l'acquisto delle maggiori for tune nella
repubblica: che due essendo i mezzi per giungervi, la scienza militare e la
oratoria, e co noscendo egli di valer poco nella prima, comechè molto si
tormentasse per giungervi, si attenne vi gorosamente alla seconda; e che egli
avendo sen tenza, niuno essere oratore perfetto il quale non abbiascienza di
tutte le grandi cose, vago per qua Junque facoltà, e sopra tutto per le
opinioni di ogni filosofia, e tutto questo adunamento di dottrine in dirizzo al
suo desiderio di essere oratore perfet to (2). Questo studio è palese nelle sue
opere, le (1 ) T. Livio Epit. 121. Plutarco in Cicerone et in Antonio. Svetonio
in Augusto. [Vellejo II,8, 65, 66.Dione lib. XLVII. Ap piano lib. IV. Seneca
Súas. I et VI. V. Massiino lib. V, 3. Floro PADOV,6. (2) Cicerone De Or. lib. I,
6; II, 2.] quali a ragionatori severi appariscono più eloquenti che
filosofiche, e mostrano maggior cura del bel dire che del corretto pensare.
Cicerone adunque sempre intento alla eloquenza e sempre caldo d'una
immaginazione vivace e feconda e d'una voglia ine sausta di meraviglie
rettoriche, e sempre frettoloso per la moltitudine dei gra rissimi affari,
trascorse e quasi sfiorò le nozioni filosofiche, e divenne gran dissimo nel
dipingere, nell'adornare e nel persua dere; ma nel vigore del discorso e del
giudizio e nelle sottili distinzioni del vero e del falso parve che le più
volte l'oratore fosse smisuratamente più grande del filosofo. Gli è però vero
che nel silen zio delle lettere forensi e senatorie, e nell'ingenuo ozio in cui
la usurpazione di pochi lasciava i grandi uomini di Roma, Cicerone ottenne
dalla disgrazia questa utilità, che riposatamente e liberamente me dità e
scrisse argomenti filosofici, e massima mente si esercitò nella parte teologica
e morale cui appartengono i libri notissimi della Natura degl'Id dii, della
Divinazione, del Fato, del Sogno di Sci pione, dei Fini, della Vecchiezza,
dell'Amicizia, delle Leggi, degli Uffizj, le Disputazioni Tuscula ne, i
Paradossi Stoici e le Quistioni Accademiche; nelle quali si argomentd
particolarmente a distrug gere i greci sistemi alla maniera di Carneade, e pa
lesò il suo. Coopose ancora l'Ortensio ossia l'Am monizione alla Filosofia, e i
libri della Repubbli ca, che sono perduti (2). Ma per quanto ozio egli avesse e
per quanto meditasse, non seppe mai di vezzarsi dall'esagerato linguaggio
oratorio, e di lui usd pomposamente nella esposizione de sistemi e delle
ragioni filosofiche; e poi vi aggiunse i suoi [Cicerone De Off. lib. II, 1, 2. (2)
Cicerone ne fa memoria, De Fin. I. I; De Div. I. II; Tusc. Disp. lib. III. S.
Agostino De Civ. Dei e Lattanzio in più luoghi.] amori e i suoi odj per certe
scuole, e questi an cora rettoricamente amplifico; e per giunta di am biguità
gli piacquero le platoniche forme de' dialo ghi e le accademiche dispute e le
confutazioni per ogni parte e gl'inclinamenti ora ad un lato, ora ad un altro;
donde risultarono equivoci e dubbj e opi nioni diverse intorno alla filosofia.
Ma noi pensia mo di poter mettere alcun ordine in tanto invi luppo ragionando
di questa guisa. - Non fram mezzo alle pompe eloquenti delle orazioni e alle
asluzie forensi, e non tra le epistole di complimen lig di raccomandazioni, di
condoglienze, di affari, nè tra i parlamenti e i dialoghi di uomini ora epi
curei, ora stoici, ora peripatetici passionati, è da cercarsi la filosofia di
Cicerone, siccome alcuni fe cero e fanno incautamente, ma è giusto rintrac
ciarla in que' luoghi delle sue opere filosofiche ove egli parla in persona e
sentenza sua propria. —Cio statuito, ascoltiamo Cicerone medesimo, il quale
senza equivocazione e mistero alcuno ci racconta ch'egli professa la filosofia
della nuova Accademia; perciocchè a coloro che si meravigliavano come egli
principalmente approvasse quellafilosofia che toglie la luce e quasi sparge una
nottesopra le co se, e protegesse impensatamente una disciplina de serta, egli
risponde: « Non imprendiamo già noi « il patrocinio di cose deserte. Questo
metodo, per « cui si disputa di tutto e non si giudica aperta « mente di
niente, nato da Socrate, ripetuto da « Arcesilao, confermato da Carneade,
invigorì fino u alla nostra età; il qual metodo ascolto essere u ora
abbandonato in Grecia, il che io credo av « venuto non per vizio dell'Accademia,
ma per pi u grizia degli uomini: mentre se gran cosa è ap prendere alcuna
disciplina, quanto è maggiore u apprenderle tutte ! la qual cosa è necessario
che quelli facciano, i quali hanno proposto per la investigazione del vero
disputare contro tutti i « filosofi e a favore di tutti; e questa difficile fa
« coltà non penso io di avere acquistata, solamente u penso di averla seguita.
Nè già noi a questa gui u sa filosofando, riputiamo, niente esser vero, ma
piuttosto al vero essere congiunto il falso con « tanta rassomiglianza, che
manchi il certo criterio « di giudicare e di assentire; dalle quali dottrine
siegue questo precetto, nolto essere il probabi le, il quale benchè non sia
bene compreso, non « pertanto avendo certo uso insigne ed illustre, « dee
governare la vita del savio. E altro ve: « Io vorrei (egli dice ) non a nome di
Attico, di Balbo o di Vellejo, ma a suo, che fosse ben u conosciuta la nostra
sentenza; imperocchè non « siamo noi vagabondi nell'errore, nè manchiamo « di
quello che è da seguirsi; poichè quale sarebbe « la mente e quale la vita,
tolta la regola del di sputare e del vivere? Ma noi, ove gli altri dicono u
alcune cose certe, alcune incerte, dissentendo da essi, altre diciamo
probabili, altre improbabili. « Perchè adunque non potrò attenermi al proba «
bile e riprovare il contrario, e dechinando dalle « arroganti affermazioni,
fuggire la temerità, che « è tanto lontana dalla sapienza? Ma i nostri Ac «
cademici disputano contro ogni sentenza, peroc « chè questo lor probabile non
può risplendere se « non si fa contesa per l' una parte e per l'al « tra (2). »
Oltreacciò egli c’invita a leggere le sue Quistioni Accademiche, ove questi
propositi erano esaminati più diligentemente (3); cosicchè può dirsi che quando
egli ne'suoi Dialoghi disputa [Cicerone DeNat. Deor. lib. I, (3) De Off. lib.
II, 2; Tusc. Disp. I. I,9; Ii, 3; De Div. I. II, 3. (3) Cicerone II. cc. Acad.
Quaest. lib. II, 3. 5.] per le parti accademiche, parla in propria perso na, e
quindi par fuori di ogni dubitazione che egli è nel metodo di quegli Accademici
che ogni cri terio poneano nella probabilità. Di qui s'intende com ' egli ora
si attemperava agli Stoici, ora ai Pla tonici, ora ai Peripatetici, senza
abbandonar l'Ac cademia; perché ove cercava i doveri dell'uomo e le leggi
sociali, trovava maggiore probabilità nelle dottrine del Portico; e dove
investigava i principi delle cose e trattava la psicologia e la teologia,
credea forse trovarla maggiore nel Platonismo e nel Peripato (1 ); e dove di
queste e di altre filo sofie disputava e ne bilanciava le vantate eviden ze,
sospendea il giudizio ed era Accademico; e così pure quando persuadeva il
popolo e il senato, pas sava a grande suo comodo nelle sentenze contra rie, e
non avea ribrezzo alcuno di contraddirsi ac cademicamente. La moda del Foro era
di potere essere Accademico Probabilista, ed egli serviva alla scena, e lo era
con gli altri. Cicerone adunque così disposto tratto di tutte le parti della
filosofia ove più diligentemente, ove meno. E certamente egli coltivò la logica
e la in segnò con gran cura ne' suoi Libri Rettorici, ma a sua maniera, vuol
dire per servigio della eloquen za e del Foro. Parve chepensasse con Socrate non
essere molta la utilità della fisica per la probità e beatitudine della vita. Conobbe
tuttavia i mag giori sistemi antichi, e vide nella rimota vecchiaja della
filosofia certe nozioni che si vantano scopri menti di questi ultimi tempi,
come il moto della terra, gli antipodi, la gravitazione o attrazione uni
versale, che tiene il mondo nell'ordine (3). Ma nella [De Off. lib. I, 2, 3;
Tusc. Disp. lib. 21. (2) De Nat. Deor. lib. 1, 21; Acad.' Quaest. lib. II, 39. (3
) De Nat. Deor. II, 45; Acad. Quaest. II, 38.] naturale teologia e nella morale
pose ogni sua cu ra. « È fermissimo argomento della esistenza d'Id « dio (egli
dice ) che niuna gente sia tanto fiera e « niun uomo tanto crudele, che non
serbi nell' a. w nimo la opinion degl'Iddii;e questo consenso di a tutte le
genti dee riputarsi una legge di patu « ra (1 ). La bellezza del mondo e
l'ordine delle cose « celesti stringe a confessare una prestante ed eter a na
natura, e un fabbricatore e moderatore della « grand' opera (2), il quale è da
immaginarsi come « una mente sciolta e libera e segregata da ogni «
componimento mortale, che tutto sente e muo « ve, ed è fornita di moto
sempiterno (3), e come a un maestro e signore che le celesti e le terrene « ed
umane cose e tutto l'Universo amministra, sen « za la cui provvidenza quale tra
gli uomini sarebbe « pietà, quale santità, qual religione? le quali virtù
tolte, sorgerebbe il disordine e la confusion della u vita, e non rimarrebbe
società alcuna nel genere « umano (4). Io così mi persuado e così sento, che «
tanta essendo la celerità degli animi e tanta la « memoria delle cose passate e
la prudenza delle future, e tante le arti e le scienze e le scoperte, quella
natura che le contiene non può esser mor « tale (5); e semplici essendo gli
animi e senza mi « stura, é movendosi per sè medesimi, nè possono « dividersi e
dissiparsi, nè cessare di moversi; ed « essendo celesti e divini e sempre
desiderosi della - immortalità, non possono essere ingannati dachi « li produsse,
e debbono essere eterni (6). E quindi [Cicerone Tusc. Disp. lib. I, 13; De Nat.
Deor. III, 3. (2) De Div. II,72; Tusc. I, 29. (3) Tusc. Disp. I, 27. (4 ) De
Fin.IV, 5; Acad. Quaest. I, 8; De Nat. Deor. I, 2, 44; I1, 66; III, 36; Fragm.
De Repub. III. (5) De Senectute. (6 ) De Senect. et Tusc. I, 27, 29.] gmni su
stenza 1: anto fra serbi mi Consen ne deres ante de erator& ginarsi az ata
dan ente en (3), es e le to pinista i miniars le quali pfusica ja nelset si
senta je tapis denta 1 comechè Cerbero tricipite e il fremito di Cocito u e il
tragitto di Acheronte sieno favole senili, deb « bon perd rimanere dopo la
morte i premj e le pe. ne, e quelle due socratiche vie per cui gli empj si «
dividono e i buoni si congiungono agl' Iddii (1). ” - Su questi grandi principj
egli collocò l'edifizio del naturale diritto e di tutta la morale; e primie
ramente dalla eterna ragione e volontà' di Dio, e dalla comune ragione degli
uomini, e dalla natura e relazion delle cose dedusse la origine e la realità e
l'autorità e la obbligazion d'un naturale e pub blico diritto. - « La legge (egli
dice ) è un eterno impero che governa l'Universo con la sapienza del comandare
e del proibire, ed è la mente di « Dio che costringe e divieta; e non solamente
è più antica della età de' popoli e delle città, ma eguale a quell' Iddio che
difende e regge i cieli e « le terre. La mente divina non può esser senza ra
gione, nè la ragione divina può esser senza la « forza di fermare le cose
giuste e le ingiuste. Una legge sempiterna fu sempre e una ragione appog u
giata alla natura delle cose; la quale non allora che fu scritta, cominciò ad
esser legge, ma al « lora che nacque, e nacque insieme con la mente divina; il
perchè la legge vera e primaria, idonea á a comandare e a proibire, è la
diritta ragione del « sommo Giove (2); la quale non è legge scritta, « ma nata,
e la quale non abbiamo imparata, non ricevuta, non letta, ma l'abbiamo attinta
dalla « medesima natura e dalla comune intelligenza, per u cui giudichiamo il
diritto e il torto, è l'onesto « e il turpe; imperocchè estimar queste cose
dalla BST PEN ne par 2017 depositse. Em opinione, non dalla natura, è stoltezza
(3). [Tusc. 1,5,6, 21, 30; De Ainic. 4; De Nat. Deor. II, 2. (2) De Leg. II, 4,
5. (3) Pro Milone; De Leg. I, 10, 15. zar. 1,1 Io non posso astenermi dalla
ricordanza di quelle parole memorabili di Cicerone nel terzo libro della
Repubblica, le quali da Lattanzio ci furono conser vate (1 ). — La retta
ragione è certamente la vera legge consentanea alla natura diffusa in tutti, co
« stante, sempiterna, la quale comandando chiama « al dovere, e ci spaventa
dalla frode vielando. « Niente è lecito toglier da lei, niente cangiare, e «
molto meno abborrirla. Nè dal senato, nè dal popolo possiamo essere sciolti da
questa legge, w nè altro dichiaratore o interprete è da cercarsi; « nè altra
legge è ad Atene, altra a Roma, ma ella « sola ed una, sempiterna ed immutabile
governa « in ogni tempo tutte le genti, e uno è il comune « quasi maestro e
comandante di tutti, Iddio. Egli è di questa legge l'inventore, il disputatore,
il pro mulgatore, al quale chi non obbedisce fugge sè « stesso e disprezza la
natura dell'uomo, e per que « sto istesso paga massime pene, quantunque sfugga «
tutti quegli altri eventi che si riputano supplizj." - Oltre questi nobili
conoscimenti della origine, del fondamento, della realità, della forza, della
im mutabilità delle leggi naturali, Cicerone conobbe la utilità della religione
nella società; di che niuno vorrà dubitare (egli dice ) che intenda come sien
molte le cose che si ferman col giuramento, e quan ta salute apportino le
religioni de' patti, e quanti sieno distolti dalla scelleraggine per timore del
di vino supplizio, e quanto sia santa la società di que' citladini che fra loro
interpongon gl'Iddii come giu dici e testimonj (2). Egli conobbe ancora la
sanzio ne ossia la intimazion della pena contro i violatori, senza cui le leggi
non avrebbon forza di obbligare, (1 ) Lallanzio Div. Inst. lib. VII, cap. 8. De
Leg. lib. II, 7.ma diverrebbono avvisi e consigli; e non ebbe so lamente quella
sanzione come una conseguenza aa turale della colpa, ma come una vera
imposizion di castigo, se non in questa, certo nella vita av venire, siccome
già sopra abbiam divisato (1 ). Co nobbe egli non meno quella così semplice e
cosi vera divisione del codice della umanità in doveri verso Dio, verso noi
medesimi e verso la società; e insegnò che la filosofia dono e ritrovamento di
vino ci erudisce nel culto degl'Iddii, e poi nel diritto degli uomini posto
nella società del genere umano: che l'uouo non è nato a sè solo; che anche
parte di lui ne domanda la patria e parte gli amici: che gli uomini sono
prodotti per gli uomini acciocchè si giovino a vicenda; e che debbono ricevendo
e dando permutare gli uffizj, e con le arti, con le le facoltà stringere la
compagnia degli uomini con gli uomini (2). — Questa succinta immagine della
giure prudenza e della morale di Cicerone offre nella sua medesima brevità una
idea molto elevata e molto magnifica e superiore a quante opere di antichi uo
mini giunsero a noi in questo argomento, e forse a quante mai furono composte
prima di lui. Tutta volta non è già vero che la morale Ciceroniana con tenga
una disciplina compiuta, e discenda con per fetto ordine e verità in tutti i
particolari; percioc chè anzi con buon accorgimento fu avvertito essere
diffettuosa in assai parti necessarie, e gli argomenti nella maggior parte
esser trattati leggiermente, e per decisioni assai rigide palesarsi che il
severo giu reprudente non conoscea i verj principj donde po teano di dursi gli
scioglimenti di certi casi (3 ). Ma con tutto ciò neppure è vero che Cicerone
ne' suoi opere, con [Ubner Essai sur l'Hist. du Droit Nat. Par. I, S 12. (2)
Tusc. Dis. 1, 26: De Oll. I, 7. (3) G. Barbeyrac Pret, à Pufendorf.] 0 trattati
di morale fosse un Pirronista, e nelle sue dispute di naturale teologia un
distruttore di tutte le religioni. La primaimputazione assume per fon damento
che Cicerone avendo statuiti i principi della morale, prega l'Accademia di
Arcesila e di Carneade perturbatrice di tutte queste cose a ta cersi, perchè
volendo assalire i principj che sem bran così bene composti, fara troppe ruine,
e desi dera placarla, e non ardisce rimoverla (1 ). La se conda accusazione è
dedotta da quello spirito di dubitazione che domina in tutte le sue opere e sin
golarmente nei libri della Natura degl Iddii, ove mostra gran voglia di
confutare e deridere tutte le antiche dottrine della Divinità, e concede alla
fine tutti i trionfi all'Accademico Cotta. Al che si ag. giunge unagrande
incostanza e può dirsi contrad dizione nell'affare gravissimo della immortalità
de gli animi; perciocchè in molte epistole sue, nelle quali scopertamente
parlava co' suoi amici, o du bita di quella immortalità, o rappresenta la morte
come l'ultimo de' mali e il fine delle sensazioni e di tutte le cose (2). Noi,
per quello che dinanzi si è avvertito, dobbiam consentire che Cicerone fu
Accademico, e non altro conobbe che sole proba bilità; nel che certo errò
gravemente, e grande fra gilità iufuse in tutto il suo sistema teologico e mo
rale: tuttavolta perchè al suo probabile diede la forza e l'autorità che noi
diamo al vero e all' evi dente, riparò un poco il dauno che fin d'allora il
Probabilismo minacciava. Fuori di questo errore, egli molte affermò di quelle
medesime verità che [Ciecrone De Legibus l. 13. V. G. Barbeyrac l. c. (2) Ep.
Fam. lib. V, 16, 21; lib. VI, 3, 4, 21; Ad Attic. IV, 10; e altrove. V. P.
Bayle art. Spinoza, M., e Cont. des Pens.div. 105; A. Collin De la liberté de
penser; G. F. Buddeo De l'Athéisme ch. I, 22.] noi stessi affermiamo, e nel
naturale Diritto molte ne vide di quelle ancora che furon vantate come
scoprimenti del nostro fortunato secolo, di che po tremmo tenere amplissimi
discorsi se qui fosse luo go. Egli veramente sparse assai dubbi e molte risa
sulle teologie antiche, e non era nel torto. Tenne ancora ragionamenti
ipotetici intorno alla immor talità degli animi; e alcuna volta scrivendo a
tali che la negavano, si attemperò alle loro opinioni per consolarli e
persuaderli più speditainente. Per altro, quando fu sciolto da siffatti
riguardi, parlò di que sti argomenti con quella dignità che abbiam rac
contata.Adunque nè Cicerone fu di quegli Ateinè di quei Pirronisti esagerati
che non conoscono Di vinità e moralità nè vera nè probabile. Non si vuol qui
tralasciare che la scuola pirronica o scettica, sia che fosse oscurata dalla
modestia e serietà del l'Accademia, sia che la fama di negligenza, di stra
nezza e di stolidità la mettesse a pubblico disprez zo, non ebbe accoglienza
niuna tra i Romani; di forma che uncerto Enesidemo da Gnosso intorno all'età di
Cicerone avendo tentato in Alessandria di sollevare dalla dimenticanza lo
Scetticismo, e con questo intendimento avendo scritti più libri pirronici, che
intitold a L. Tuberone uoino prima rio tra i Romani, nè gli sforzi dello
scrittore nè l'autorità del Mecenate valsero a far leggere que libri e a
persuadere amore per quella filosofia. Donde si prende un nuovo argomento che
Cicero ne, il quale raccolse tutti gli applausi di Roma, non potè essere
Pirronista. Per questa descrizione della romana filosofia si conosce che tutto
lo splendore di lei si restrinse alla età di Cicerone, e si rinnova. [Menagio
in Laertium lib. IX, 62 e 116. J. Brucker De Phil. Rom. cap. I, S XXVIII.
quella meraviglia come i grandi uomini appariseo no insieme ad un tratto, e poi
sopravviene la bar barie che li prevenne. Prima di quei dotti uomini che
vissero in compagnia di Ciceroneo poco prima, i Romani eran tutt'altro che
filosofi. Dappoi dechino la filosofia, come la eloquenza e la latinità. Noi an
cora siccome abbiam ricevuto, così possiamo tras mettere alla posterità gli
esempi vicini e forse pre senti di queste subite mutazioni. Prima che Cicerone,
compiuta la sua questura partisse dalla Sicilia, aind di conoscere le rarità di
quella isola, e visitò singolarmente Siracusa, città per gloria di armi e
dilettere nobilissima. Quivi presso la porta Agrigentina tra i vepri e gli
spineti vide una colonnetta, nella quale era la figura di una sfera e d'un
cilindro, e per tai segni scoperse quello essere il sepolcro diArchimede, e
mostran dolo ai Siracusani che l'ignoravano, molto si ral legrò che se un uomo
Arpinate non avesse disco perto il monumento di quell' acutissimo cittadino,
essi per avventura sarebbon rimasti al bujo. Da questa narrazione prendiamo
opportunità di ono rare Archimede Siracusano, il quale tuttochè av volto in un
silenzio ingrato degli antichi e dei mo derni scrittori e in una negligenza che
move lo sde gno, anche tra i pochi e dispersi frammenti appa. risce il maggiore
di quanti matematici e meccanici avanzino nelle memorie di tutta l'antichità.
Forse (1 ) Cicerone Tusc. Disp. lib. V, 23.alcuni si meraviglieranno che noi
disordinatamente prendiamo a scrivere di Archimede dopo Cicerone, che fiorì
quasi due secoli dopo di lui. Ma sappiano cotesti autori cronologisti che non
abbiamo finora trovato parte più opportuna ove allogare un uomo che non ebbe
vaghezza di setta alcuna nè greca ne romana, e la ebbe piuttosto di essere
filosofo da sè; e poi sappiano che senza bisogno non vogliamo essere rigoristi
in cronologia, e sappiano in fine che se è pur un errore trasportare la memoria
di Ar chimede a dugento anni dappoi, io credo certo che sia errore molto più
grande trasportarla nel vuoto, siccome gli Stoici della filosofia usaron
finora. Nac que adunque questo divino ingegno, siccome Cice rone (1 ) lo
nomina, intorno all'anno ccccLvII di Roma; e o ch'egli fosse della regia stirpe
di Gerone re di Siracusa (2), o che fosse un umile omuncolo fatto chiaro dalla
verga e dalla polvere, vuol dire dalla geometria (3), o che fosse nudo di
ricchezza e solamente pago di ben intendere i cieli e le ter re (4 ), non
superbo e non depresso per niente di quelle varie fortune, cercò nella sapienza
la nobiltà e la grandezza della sua sorte. Le matematiche pure e le applicate all'utile
della patria e alla felicità della vita furono la sua cura perpetua. Nella mi
sura delle grandezze curvilinee, argomento allora nuovo o poco famigliare agli
anteriori matematici, aperse incognite strade e immaginò metodi fecon di, che
appresso germogliarono ampiamente e fu rono i semi e, per testimonianza di
Giovanni Wal lis, i fondamenti di tutte le invenzioni onde si vanta la nostra
età. Sono già note le sue scoperte nelle [Tusc. Disp. I. (2) Plutarco in
Marcello. (3) CiceroneTusc. Disp. V, 23. (4 ) Silio Italico de Bello Pun. lib.
XIV, ] misure e nelle proporzioni della sfera e del cilin dro, di cui tanto si
compiacque, che volle scolpite nel suo sepolcro quelle due figure come caratteri
di singolar distinzione. Sono ancor note le sue spe culazioni intorno alla
conoide e alla sferoide, e la quadratura della parabola, e le proprietà delle
spi rali; e queste cose, onde si crede che molto si di latassero i confini
dell'antica geoinetria, Archimede Irattò in libri che tuttavia esistono, quali
sono, della Sfera e del Cilindro, della dimensionedel Cir colo, della Conoide e
della Sferoide, del Tetra: 0 nismo, della Parabola, delle Linee spirali, a cui
come opera teoretica si può aggiungere l'Arenario Ossia del Numero delle arene;
nel quale trattato, supponendo ancora che l'Universo ne fosse pieno, calcolo
quel numero contro l'opinione di tali che lo riputavano infinito. Lode eguale e
forse mag giore ottenne Archimede allorchè le astrazioni geo metriche condusse
alla pubblica utilità; e sebbene io non sappia indurmi a credere ch'egli fosse
il creatore della meccanica, mentre studiò pure in Egitto, ove ognun sa che la
meccanica non potea esser negletta; tuttavolta egli fu certamente assai benemerito
di questa facoltà. Nei due celebri suoi libri che tuttavia esistono, l'uno
intitolato degli Equiponderanti, e l'altro dei Galleggianti, ovvero delle cose
che nuotano o che si traggono per li fluidi, egli stabilì i principj statici ed
idrostatici, ai quali dicono che siamo debitori della presenteesten sione de'
nostri scoprimenti; e aggiungono che Ar chimede istesso dando assai
contrassegni di altis sima penetrazione in questo genere di studj, mo [Claudio
Francesco de Chales in Cursu Math. tom. I, de Progressu Maibes.; Giammaria
Mazzucchelli Notizie intorno ad Archimed ”, e Moniucla Ist. delle Malem. lib.
IV. (2) Montucla l. c.] strò che avrebbe potuto pervenire a questa nostra
estensione medesima, se non si fosse rivolto ad al tri pensieri (1 ). Il re
Gerone avendo affidata ad un artefice una massa di oro perchè lavorasse una co
rona dedicata agl' Iddii, venne a sospetto che il buon artefice gli avesse
fatto furto; onde impose ad Archimede che studiasse di conoscere la verità. È
fama che il matematico entrato nel bagno si avvide che quanto del corpo suo
entrava nell'acqua, tanto ne usciva; donde preso lo svoglimento della qui
stione, uscì fuori tutto ignudo e correndo gridava per via expriua evprzo, ho
trovato ho trovato; e se condo questo esperimento immerse la corona in un vaso
pieno di acqua; indi successivamente v'immerse due masse di egual peso, l'una
di oro, l'altra di ar gento, ed esaminò quant'acqua spandessero i tre corpi, e
quindi conobbe quello che investigava(3). Ma questo metodo, quando pur fosse
possibile, non è sembrato, e non è veramente degno della elevazione di
Archimede; nè egli per così poco sa rebbe fuggito via ignudo, nè Gerone avrebbe
det to che dopo così gran prova tutto era da credersi ad Archimede. È dunque
più verisimile e più de gno di lui, che avendo già egli nel suo Trattato de'
Galleggianti stabilito questo principio: i corpi immersi in un fluido vi
perdono tanto del proprio peso, quanto è un volume loro eguale del'fluido; di
qui raccogliesse che l'oro siccome più compatto vi perda meno del suo peso e
l'argento più, e un misto dell'uno e dell'altro in ragione del suo com
ponimento. Bastava dunque pesare nell' aria e nel l'acqua la corona e le due
masse di oro e di ar gento per ferinare quanto ciascuna perdeva del [Montucla
l. c. (2 ) Vitruvio lib. IX, cap. 3.] proprio peso, e dopo questi passi il
problema non avea più difficoltà per un uomo come Archimede. Questo fecondo
principio valse al valentuomo per la scoperta di molte verità idrostatiche, le
quali po trebbono leggersi nel lodato suo libro, se a questi dì non fossero
molto divulgate (1 ). Ben quaranta invenzioni meccaniche si onorano col nome di
Ar chimede (2); ma solamente alcune vanno errando disperse negli scritti di
antichi autori, e non fuor di ragione può credersi che secondo lo stile usitato
molte si abbian volute render mirabili col prestito di un gran nome. Dicono di
Archimede la chioc ciola, strumento ingegnosissimo e utilissimo, per cui usando
la propensione medesima del grave alla caduta si produce la sua elevazione, e
con tale or degno s'innalzano le acque ove bisogna, e si asciu gano le navi e
le terre (3). Sono però alcuni che lo credon più antico di Archimede (4).
L'organo idraulico portò già il nome di Archimede (5); ma questo grato arnese
benchè dia segno di musica perizia, è piuttosto un gioco dilettevole che un ri
trovamento sublime. Laforza infinita e la moltipli cazione delle girelle furono
poste fra le invenzioni di Archimede; ma altri affermano, altri negano,? niuno
ha migliori argomenti. Dammi fuori di qui ove io fermi i piedi, e moverò dal
suo luogo la terra, disse Archimede a Gerone. E veramente ap presso ai suoi
principj si posson in teoria immagi nar macchine le quali rendano idonea una
potenza minima a sollevare un peso inassimo (6 ). Nella pra [Vedi Mazzucchelli
e Montucla II. cc. (2) Parpo lib. VIII. Pr. VI, prop. 10. (3 ) Diodoro lib. I
et V. Ateneo lib. V. (4) V. Catrou e Roville Hist. Rom. tom. VIII. (5)
Tertulliano De Animo. (6) Plutarco in Marcello: Dic ubi consistam; caclum
terramque movebo.] tica Archimedle volle dar segno a Gerone che avreb be saputo
mettere ad effetto le sue promesse, e pri mieramente una grandissima nave tutta
carica, la quale non potea moversi senza molta fatica e as sai numero di
uomini, egli solo qutto e sedente, senza sforzo alcuno e coll' ordinario impulso
della mano aggirando l'ordegno suo, mosse e guidd co me gli piacque; indi per
comandamento del me desimo principe avendo disegnata e messa a per fezione una
molto maggiore e inolto meravigliosa nave, nella quale oltre le parti usitate
in siffatti la. vori, e tutte di estraordinaria sontuosità e grandez za, vi
erano giardini e peschiere e cisterne e acque correnti e sale e bagni e fino
una biblioteca, e poi vi sorgeano olto gran torri armate, e ai loro luo ghi
erano baliste e mani ferrate e altri strumenti da guerra per gli assalti e per
le difese, e di smo derato carico e di molto popolo era grave, Archi mede non
ostante la enormità di tanta mole, che tutti i Siracusani insieme non valsero a
smovere, fece per certo ingegno suo che il solo Gerone la traesse in mare. È
stato detto che questi rac conti ridondino di gran favola, il che pud benesser
vero; ma non penso che vi sia fondamento alcuno di affermarlo. Vedute queste
meravigliose opere il Re Siracusano sapientemente avvisò di esercitare la
stupenda fecondità di questo Genio tutelare di Si racusa, e lo pregò a comporre
ogni genere di mi litari strumenti per riparo del regno e per offesa dell'
inimico. Archimede, buon amico del suo Re e della sua patria, siccome i
sapienti sono o debbono essere, ubbidì volentieri. Questi ritrovamenti bel lici
furono inutili, mentre Gerone visse nella pace e nell'amicizia de' Romani. Ma
lui morto, arse una (1 ) Plutarco in Marcello. Ateneo lib. V. guerra molto
crudele, e Siracusa fu assediata dal console Marco Claudio MARCELLO, nobile
capitano e rinomato per Viridomaro re de' Galli ucciso, e più per Annibale da
lui sconfitto più volte. Egli con oste gravissima e con gran forza di navi e
con macchine e con militari stratagemmi e con la fama di prode e felice soldato
strinse e assalì Siracusa per terra e per mare. In tanta fierezza di arma mento
i Siracusani furono presi da tacita paura e da terrore. Archimede solo non
ismarrì, e vepne con le sue macchine a ricomporre i cuori dissipati de
cittadini, e a sostenere la patria, e a mostrare a Marcello che un filosofo
potea esser maggiore del Re de' Galli e di Annibale, e bilanciarsi con la forza
e con la fortuna istessa di Roma. Per scienza e per avvedutezza di questo uomo
le muraglie di Si racusa erano guernite di copia incredibile di bale stre, di
catapulte e di altri macchinamenti per lan ciar dardi e palle e sassi di ogni
grandezza, e da vi cino e da lontano, secondo tutti i bisogni. Vi erano ordegni
che facendo cadere grossissime travi cari che di pesi immensi sopra le galee e
le navi nimi che, le abissava subitamente nelle acque. Vi erano ancora certe
mani di ferro con le quali si abbran cavano quelle navi e quelle galee e si
levavano per aria, e poi si lasciavancadere tutte subito con som mersione e
ruina, e altre volte si traevano a terra e si aggiravano e si stritolavano
nelle rupi, su cui stavanle mura della città. Dietro queste mura, che in più
luoghi erano pertugiate, stavano scorpioni tesi a cogliere i nemici, che per
isfuggire dai lan ciamenti lontani si avvicinavano, onde non rima nea luogo
sicuro dalle offese; e Marcello colpito da tutti i lati senza saper d'onde e
come, usa va dire: Questo geometra Briareo sorpassa ben molto i Giganti
centimani; tante sono le vibrazioni sue contro di noi. I Romani in terra e in
mare erano anch'essi molto ben provveduti di macchine mi litari, e
singolarmente sopra otto galee levavano certo congegno nominato per
similitudine sambu ca, con cui agguagliavano le mura e poteano in trudersi
nella citlà. Ma il Briareo Siracusano lanciò alcuni sassi gravi oltre a
seicento libbre, e battute quelle sambuche, le rovesciò con grande strepito e
danno (2). In somma un solo vecchio geometra rendè Siracusa invincibile, e
confuse il valore di Roma e il miglior capitano che ella avesse in que' giorni
(3 ). Gli assalitori furono stretti a rimetter molto della loro baldanza e
ridurre ad un lungo blocco quella tanta vivacità di assalti. Appresso non si
parld più di Archimede, e Siracusa fu pre sa, e il suo invito difensore, quasi
dimentico della patria e di sè stesso e ozioso nella pubblica ruina, si fece
ammazzare per fatua ostinazione nel dise gno d' una figura di geometria. Io non
so bene se sia troppa offesa di gravi narratori gettare tra le fa vole queste
sconnessioni attribuite al più connesso uomodel mondo. Forse per liberare
Archimede da cosiffatte inezie e quasi deserzioni nel maggiore bi sogno della
patria, alcuni pensarono di riempiere questo vuoto col meraviglioso racconto
dell'incen dio delle navi di Marcello con gli specchi ustorj. Un medico
riputato grande (4), un istorico medio cre (5) e un picciol poeta (6) furono i
divulgatori di quel famoso incendio. Ma la tenue autorità di cosiffatti uomini
non vale per niente a fronte del [Livio lib. XXIV. Polibio Excerp. lib. VIII,
5. Plutarco ). c. V. il cav. Folard nel suo Commento sopra Polibio. (2) Polibio
e Plutarco II. cc. (3) Cicerone De Fin. V. Livio lib. XXV, 31; e altri. (4 )
Galeno De Teinp lib. III, cap. 2. (5) Zonara tom. I, lib. IX. (6 ) Tzetze Hist.
XXXV, chil. II. sana,] silenzio di Livio, di Polibio e di Plutarco, i quali
diligentemente avendo scritto della guerra siracu non avrebbono mai taciuto
unavvenimento tanto stupendo, e insieme di tanto ammaestramento nell'arte della
guerra, così nel guardarsi da quegli specchi incendiari, come per usarne contro
i nimi ci; e certo io credo che se quel terribil metodo fosse stato veramente
messo ad effetto, non sareb bono mancati imitatori, e l'armata navale di Mar
cello non sarebbe stata la sola incendiata. Noi me. desimi, studiosissimi
quanto altri di spopolare il mondo con le militari invenzioni, non avremmo, io
credo, all'economico e facile artifizio di Archimede anteposti altri
dispendiosi e incomodi metodi. Molti veramente hanno studiato assai nella
catottrica per trovar modo di suscitare quel funesto esperimento, e alcuni son
giunti a provare che certo con un solo specchio di convessità continua o
sferica o parabo lica non era possibile quell' incendio in tanta di stanza, ma
era ben possibile con molti specchi pia ni; e tra altri in questi ultimi giorni
il Buffon com pose uno specchio formato diquattrocento specchi così disposti,
che tutti riflettevano i raggi ad un punto comune; e questo adunamento nella
distanza di centoquaranta piedi liquefaceva il piombo e lo stagno in corto
tempo, e in distanza maggiore in ceneriva il legno, il che parve che mostrasse
pos sibile il metodo di Archimede (1 ): ciò non ostante queste pratiche per
ostacoli non superabili giaccion neglette, e le nostre armate navali si
distruggono a vicenda con altro, che con raggi di sole. Non è le cito partire
dalla istoria di Archimede senza dire alcuna cosa de' suoi studj astronomici, e
di quella [A.Kircker Ars magna lucis et umbrae lib. X, P. III. Buf fon Mém. de
l'Acad. 1948. V. Montucla I. c. t 1] tanto celebre sfera e tanto lodata dai
poeti, dagli oratori, dagli stoici e, ciò che più vale, dai filo sofi. Era
questa una macchina o di rame o di bronzo o di vetro, la quale o a forza di
aria o di acqua, o di ruote e di molle e di pesi o di forza magnetica, o di
altri ingegni movendosi, esprimeva tutti i rivolgimenti e i fenomeni celesti,
senza eccet tuarne finanche i tuoni e i fulmini (2); e secondo alcuni
rappresentava questi movimenti secondo il sistema Copernicano. Le quali cose,
se sono vere, come possono essere, attese le altre grandi opere di quest'uomo,
e massiinamente perchè egli si compiacque assai di questo lavoro e di lui solo
volle lasciar memoria alla posterità con un libro intitolato Spheropeia, che si
è poi smarrito, pos siamo raccogliere con nuovo argomento, se altri pur ne
mancassero, che nelle scienze più utili l'an tichità davvero ne sapea almen
quanto noi(4 ). Mol. te edizioni furono promulgate delle opere di Archi mede, e
illustri uomini o in tutto o in parte le ador narono con somma diligenza, fra i
quali si distin sero assai Gianalfonso Borelli, Giovanni Wallis, Isacco Barow,
Andrea Tacquet e Evangelista Tor ricelli (5 ). Oltre le pubblicate vi è memoria
di al tre scritture di Archimede, che si dicono ascose in qualche biblioteca,
come della Frazione del cir colo, della Prospettiva e degli Elementi di Mate
matica; o perdute affatto, come de' Numeri, della Meccanica, degli Specchi
comburenti, della Nave [Ovidio Fast. II e VI. Claudiano Epigr. Cicerone De Nat.
Deor. II; Tusc. I. Sesto Empirico con. Math. VIII. Lattanzio lib. II, 5. Franc.
Giunio Cath.'Archit. mechan. ec. Cardano, Vos. sio, Kircker, e altri molti. (2)
V. G. Mazzucchelli I. c. (3) Girolamo Cardano De Subtilitate lib. XVII. Pappo
in Prooemi. lib. VIII. (5) v. G.A. Fabrizio Bibl. Graec. vol. II. G.
Mazzucchelli 1. c.] di Gerone, della Archiettura, degli Elementi Co nici, delle
Osservazioni celesti. E nel proposito di questa ultima opera è bene ricordarci
che Ma crobio accenna certo metodo con cui Archimede pensò di avere misurate le
distanze della terra dai pianeti e dalle stelle, e di queste di quelli fra
loro. Ma qual fosse quel metodo non è scritto, che sa rebbe molto grato a
sapersi. — In questa breve, ma non iscorretta nè vana immagine degli studj di
Ar chimede noi vediam un uom serio, che non dise gna sistemi sul vuoto e non fa
calcoli inutili, e non va sempre oltre senza saper dove vada; ma che studia le
forze e gli effetti della natura, e trascura l'ignoto e si ferma sul certo, e
di questo usa per utilità de' suoi cittadini e per accrescimento della pubblica
felicità. Invitiamo a rallegrarsi quei filo sofi e quei matematici che
somiglian questo grande esemplare. E preghiamo a correggersi quegli altri che
pensano sempre e non operan mai, e mentre divagano per sentieri che non
riescono a fine al cuno, e mentre ostentano linguaggi che il più de gli uomini
e talvolta essi medesimi non intendono, non sanno poi levare un peso di
alquante libbre,o tenere un po' d'acqua disordinata senza impoverir le famiglie
e le città, e senza amplificare i mali con la perversità de' rimedj. Dopo la
battaglia di Azzio C. Cesare Ottaviano Augusto divenuto re senza prenderne il
nome, chiuse [Fu stamprlo un libro da Giovanni Gogava degli Specchi Ustorj, da
lui tradotto dall'arabo, e un altro intitolato Lemma ta; ma non sono estimati
degni di Archimede. - Montucla e Mazzucchelli II. cc. il tempio di Giano e arò
la pace e le lettere. La sua età ebbe ed ha tuttavia la lode del più collo e
più letterato tempo di Roma; al qual vanto io so certo che Lucullo e Attico e
Cicerone repugnerebbono, e non so come non repugniamo noi stessi. Impe rocchè
gli è ben vero chenon solamente Roma era già assuefatta alla filosofia e non
potea divezzarsi così d'improvviso, e che Augusto anch'egli secondo la
consuetudine romana fu amico de filosofi ed en trò vincitore in Alessandria
tenendo per la mano il filosofo Areo, per cui amore non distrusse quella città,
e poi ebbe assai caro Atenodoro di Tarso e lo ascolid attentamente (1 ), e
quindi avvenne che la filosofia seguì a coltivarsi nella nuova' dominazione, e
per costume e per desiderio di applauso e per cortigianeria fiorirono a quei di
molti uomini sapienti: tutta volta io non so vedere in quella età i gran
simulacri che si videro nel fine della repub blica, e vedo anzi che come tutti
i costumi ro mani, così anche la filosofia piegò a mollezza, e quindii poeti
assunser la toga filosofica e otten nero gli applausi maggiori, a tal che la
istoria let teraria della età di Augusto sarebbe assai tenue senza questi
poeti, de' quali adunque sarà mestieri scrivere in primo e quasiin unico luogo.
Publio Virgilio Marone, nato nel contado man tovano, con estraordinario ingegno
poetico studiò di piacere ad Augusto e a Roma; e conoscendo che a riuscire nel
suo desiderio era mestieri condire le sue poesie con dottrine filosofiche, così
fece, e salì alla gloria di Bucolico e di Georgico eguale ai Greci, e di Epico
secondo alcuni riguardi mag giore di Omero (2), e quello che è ora nel nostro (1
) Svetonio in Augusto et Claudio. Plutarco in Antonio. Se neca Cons. ad Helviam.
Luciano in Macrob. Zosimo lib. I, cap. 6. (2) A. Baillet Jug. des Scayans t.
IV, des Poét. Lat. proposito,di poeta filosofo. Mainvestigandosi poi di quale
filosofia si dilettasse, insorser varie sen tenze. Alcuni lodissero Epicureo,
perchè ascolto Si rone maestro di quella scuola, e perchè un tratto racconto
che l'orto Cecropio spirante aure soavi di fiorente sapienza lo cingea con la
verde ombra (1); e altrove condusse Sileno briaco a cantare come nel gran vuoto
si adunassero i semi delle terre, dell'aria, del mare e del fuoco (2); e in
altri versi nomninò felice colui che potè conoscere le cagioni delle cose, e
calpestò tutti i timori e il Fato ine sorabile e lo strepito dellavaro
Acheronte (3): nelle quali parole l'Epicureismo parve evidente ad al cuni;
mentre ad altri l'orto Cecropio e il peda gogo di Bacco e i semi nel vuoto
parvero equivoci e scherzi di poesia, e il Fato e l'Acheronte calpe stati e
comuni ad altre filosofie non sembrarono argomenti di Epicureismo; massimamente
perchè nello stesso tenore di canto il poeta disse anche felice colui che
conosce gl’iddii agresti Pane e il vecchio Silvano e le Ninfe sorelle (4), che
di vero non erano cose epicuree. Per queste difficoltà fu soggiunto che
Virgilio potea esser Platonico là dove insegnò il compimentodella età
vaticinata dalla Si billa Cumana, e il grande ordine de' secoli, e i mesi
dell'anno grande di Platone, e il ritorno di Astrea e di Saturno e degli aurei
giorni (5); il quale mescolainento io non credo certo che Platone po tesse mai
riconoscer per suo. Si abbandonò adun [Virgilio Ceiris. Servio in Ecl. VI. P.
Gassendo De vila Epi. curi lib. I, cap. 6. G. A. Fabrizio Bibl. Graec. vol. II,
et Bibl. Lat. lib. I, cap. 4, S 4. (2) Virgilio Ecl.VÍ, 31. (3 ) Georgic. II,
490. (4) Georg. ivi, 493. (5) Ecl. IV, 5. V. Servio in h. I.; Paganino
Gaudenzio De Phil. Rom. cap. 174; J. Brucker De Phil. sub Imp. $ II.] que
questo pensiere, e fu estimato che Virgilio era stoico, perchè narrò che vedute
le ingegnose opere delle api, alcuni aveano detto esservi parte della mente
divina in esse, e Dio scorrere per tutte le terre e per li tratti del mare è
per lo cielo pro fondo, e dar vita a tutti i nascenti, e tutti a lui ritornare
e risolversi in lui, e non esser luogo d morte, e tutti vivere nel numero delle
stelle e nel l'alto cielo (1 ). Ma se Virgilio ci narra che altri di ceano
queste sentenze, non le dicea dunque egli stesso. Anche nel sesto libro della
Eneide, che è il più magnifico e più profondo di tutto il poema, Virgilio
conduce Anchise a filosofare della origine e natura del mondo e degli uomini; e
questa tro jana filosofia senzamolti discernimenti fu messa a conto del poeta.
Uno spirito dice il Trojano, in ternamente alimenta il cielo, le terre, i mari
e la luna e le stelle, e una mente infusa per le mem bra agita tutta la mole, e
al gran corpo si mesce. Quindi scaturiscon tutti i viventi, in cui è ignea
forza e origine celeste, per quanto i nocenti corpi non li ritardano, e le
terrene e mortali membra non gli affievoliscono; onde avviene che desiderano e
temono e godono e si dolgono, e non mirano al l'alto, chiusi datenebre e in
carcere oscuro. Dopo la morte soffrono i supplicj degli antichi peccati: indi
son ricevuti nell'ampio Eliso,finchè per lungo tempo si tolgan le macchie, e
ritorni puro l'etereo senso e il fuoco del semplice spirito. Compiuto il giro
di mille anni, un İddio convocava gli animi in grandeschiera al fiume Leteo,
perchè dimen tiche rivedano il cielo, e comincino a desiderare i ritornamenti
ne' corpi (2). Così parld Anchise, e [Georg. IV, 220. (2) Æneid. lib. VI, 719.]
Virgilio fu accusato di Ateismo stoico da uomini cheinsegnando sempre a non
precipitare i giudi zj, li precipitarono essi medesimimolto più spesso che non
può credersi (1). Ma primieramente l'A teismo stoico è una falsa supposizione,
siccome ab biarno veduto in suo luogo; e poi le parole spirito e mente she è
infusa e che alimenta le cose, e il foco e l'etereo senso sebben possano avere
sentenza stoica, la possono anche avere di altre scuole che fecero uso di
simili formule. Inoltre quelle parole sono miste agli Elisi e al fiume della
Oblivione, e al millesimo Anno, e all'Iddio evocatore degli animi smemorati, ma
immortali a rigore; le quali giunte non sono stoiche per niente. E in fine
siccome Vir gilio apertamente ammonì, le antecedenti parole della Georgica, che
parvero stoiche, essere dial tri; così dovrà dirsi in queste della Eneide,
quando egli ancora non lo dicesse. Ma disse pure che eran di Anchise, il quale
qualunque uomo si fosse, e fosse ancora una favola, certamente non era
Virgilio. Dopo queste considerazioni, io molto mi sdegno che uo mini non
vulgari citino tutto giorno questidue passi come una tessera dell'Ateismo
stoico e dello Spi nozismo, e mi sdegno ancor più che si producano come un
argomento della empietà di Virgilio. Non essendo adunque plausibile questa
attribuzione, fu immaginato da altri che Virgilio amasse il Pitago rismo, e da
altri, che molto sanamente sentisse delle cose divine; il che io non saprei
come potesse pro varsi (2 ). Ma un autor celebre prese a mostrare che lo scopo
di quell' incomparabile sesto libro della (1 ) R. Simon Bibl. crit. P. Bayle
Cont. des Pensécs sur les Co mètes. G.G. Leibnitz Théodicée disc. prél. G.
Gundling. Gun dliogiao. P. XLIV, S 8. J. Brucker L. c. (2) Lattanzio lib.
1.5.R. Cudwort System. intell. cap. IV, S 19; Cap. V, sect. IV, S 29.Eneide era
la dipintura simbolica del sistema de misterj Eleusini e della unità di Dio, e
de' premj e delle pene nella vita avvenire(1).A persuaderci di questo nuovo
pensamento il valente autore con molto studiati riscontri d'antichità e con
bell'appa rato di dottrine incomincia ad insegnarci che la Eneide non è già una
favola inutile da raccontarsi ai fanciulli o da rappresentarsi agli oziosi
nelle lun ghe sere d'inverno, ma è un sistema di politica e di morale e di
legislazione, per cui si vuol dilet tarc e istruire Augusto che è l'Enea e
l'eroe del poema, e insieme tutto il mondo romano, e anche il genere umano
intero. Per la qual cosa il poeta assumendo il carattere di maestro in Etica e
di le gislatore, usa i vaticini e i prodigi per contestazione della Provvidenza,
e introduce ilsuo eroe intento ai sacrifici e agli altari e portatore degl'
Iddii nel Lazio, e pieno di tanta religione, che a taluno, cui piaceva di
averne meno, sembrò che Enea fosse più idoneo a fondareunmonastero,che un regno
(2). L'amicizia, l'umanità e le altre virtù sociali entrano nel sistema di
legislazione, e la Eneide n'è piena. Vi entrano ancora i premj e le pene dopo
la morte, e il poeta ne fa amplissime narrazioni. Orfeo, Er cole,Teseo celebri
legislatori furono iniziati nei mi steri, e le loro iniziazioni si espressero
simbolica mente con le discese loro all'inferno. Cosi Enea le gislatore del
Lazio si fa discendere all' inferno per significare la sua iniziazione negli
arcani Eleusini, ne' quali è noto che Augusto ancora era iniziato. E veramente
è grande la similitudine Ira le ceri monie eleusine ei riti della discesa di
Enea all in ferno. Il Mistagogo o Gerofanta, ora maschio, ora (1 ) Warburlou
Diss. de l'Initiation aux mystères. (2) S. Euremond presso il Warburton.
femmina, era il condottiere de proseliti, e la Si billa è la guida di Enea.
Proserpina era la Deità de' misterj, ed è la reina dell' inferno Virgiliano;
negl'iniziati si volea l'entusiasmo, e in Enea lo vuol la Sibilla. Nel ramo
d'oro sono figurati i rami di mirto dorati, che gl'iniziati portavano e di cui
si tessevan corone. L antro, l'oscurità, le visioni, i mostri, gli ululati, le
formole Procul esto, profa ni, si trovan comuni ai misterj e alla Eneide, come
sono ancora comuni il Purgatorio, il Tartaro e gli Elisi e le esecrazioni
contro gli uccisori di sè me desimi, contro gli Atei e contro altri malvagi. Di
cendo queste ineffabili cose, Virgilio domandaprima la permission degl' Iddii:
E voi, egli dice, Numi dominatori degli animi, e voi tacite Ombre,e tu Caos, e
tu Flegetonte, luoghi ampiamente taciturni per tenebre, concedete ch'io parli
le cose ascoltate, e col favor vostro divulghigli arcani sommersi sotto la
profonda terra e la caliginc (1 ). Questa preghiera dovea ben farsi da chi
sapea gli spaventosi divieti che gl'iniziati sofferivano di non divulgar mai la
tremenda religion dell'arcano. Da quesli, che erano i piccioli misterj, passa
Virgilio ai grandi significati nella beatitudine degli Elisi. Enea si lava con
pura acqua, che era il rito degl' iniziati, allorché dai piccioli erano elevati
ai grandi misterj. Fatta la lu strazione, il pio Trojano e l'antica
sacerdotessa pas sano ai luoghi dell'allegrezza, e alle amene ver dure dei
boschi fortunati e alle sedi beate, ove i campi dal largoaere sono vestiti di
purpureo lilme, e conoscono il loro sole e le loro stelle. I legisla tori, i
buoni cittadini, i sacerdoti casti, gl’inven tori delle arti, e tutti que'
prodi che ricordevoli di sè stessi fecero con le opere egregie che altri si ri (1
) Æncid. VI, 264. cordasser di loro, quivi coronati di candida benda
soggiornano. Queste immagini erano mostrate ne' grandi misteri, come qui negli
Elisi. Adunque le pene e i premj della vita futura erano ! argo inento della
istituzione Eleusinia e del sesto canto di Virgilio. Finalmente la confutazione
del Poli teismo e la unità di Dio era figurata nello spirito interno
alimentatore, e nella mente infusa alle mem bra di tutta la mole, di che i
nostri pii metafisici agguzzaron tanti commenti. Così disse il dotto Inglese, a
cui rendiamo onor grande per la erudi zione e per l'ingegno, e mediocre per la
rigorosa verità. Ma comechè non consentiam seco in tutta la serie de'
confronti, non sappiam discordare che in quel libro diVirgilio e in tutto il
suo poema non sieno palesi gl'insegnamenti delle sociali virtù, de' premj e
delle pene future, e talvolta non apparisca alcun indizio di sublime dottrina
nel sommo argo mento dell' unica Divinità. Ora per la varietà di queste sentenze
intorno alla filosofia di Virgilio, e perchè già sappiamo che i begli spiriti e
gli ora tori di Roma nel torno di questa età trovavano as sai comoda quella
filosofia, nella quale era usanza prendere da tutte le scuole il verisimile e
l'accon cio alle opportunità, e non si metteano a colpa oggi essere Stoici e
domane Epicurei, e talvolta l'uno e l'altro insieme nel medesimo giorno; perciò
noi portiamo sentenza che ancora i poeti (lasciando stare quegli che
strettamente cantarono alcuna par ticolare filosofia, come Lucrezio e forse
Manilio ) usarono le mode istesse de' begli spiriti e degli ora tori; e
servendo alla scena e al gusto dominante e al comodo, e volendo piacere al
genio superficiale di Augusto e della sua corte, filosofarono alla gior [Encid.
VI, 630.] nata e misero nei loro poémi quella filosofia che l'argomento e il
diletto chiedeano, pronti a met terne: un'altra in bisogno diverso. Se noi
vorremo domandare ai nostri poeti, come trattino la filoso fia nei loro
componimenti, risponderanno che gli aspergono di Stoicismo quando parlano ai
nostri Catoni, di Epicureismo quando lusingano i dame rini e le fanciulle, di
Platonismo quando adulano le pinzochere, senza però giurare nelle parole di
quelle scuole, anzi senza aver mai conosciuto a fondo i loro sistemi. A tale
guisa io ho per fermo che poetasse Virgilio, e gli altri poeti della età di
Angusto. Questo genere d' uomini fu sempre uso a fingere molto e a dir quello
che accomoda e piace, piuttosto che quello che sentono. Quanto alla mo rale di
Virgilio, tuttochè sia stata da alcuni solle vata a grandi altezze (1 ), e sia
veramente superiore assai alle dissolutezze degli altri poeti di quella età, si
vede in essa talvolta questo genio di scena e di comodo poetico e di pubblico
diletto. Non dispia ceano a Roma le vittime umane; piaceano assai gli amori, e
sommamente le conquiste e il sangue de' nemici. Quindi egli conduce il suo
eroe, chedicono essere il maestro della morale virgiliana, ad inmo lare i
prigionieri, a sedurre e tradire Didone, ad uccider Turno supplichevole, a
turbare e conqui star le altrui terre; e allorchè prese a lodare M. Clau dio
Marcello figlio di Ottavia sorella di Augusto, tutta quella amplissima
laudazione che fece pian gere il zio e svenire la madre e che arricchì il poe
ta, si rivolse finalmente nella cavalleresca e guer riera virtù (2) a cui non
so se la filosofia non af [Lodovico Tommasini Méthode d'étudier chrétiennem.
les Poéles. R. le Bossu Du Poéme Épique ch. IX. (2 ) Du Hainel Diss. sur les
Poésies de Brebeuf.Jacopo Peletier Ari Puélique V. A. Baillet Jug. des Savans.
Des Poétes Lalios.] fatto cortigiana vorrà senza molte restrizioni con cedere
questo bel nome.Si potrebbono amplificar molto le querele filosofiche; ma in
tanta copia di ornamenti e di lodi è giusto usar moderazione ue? biasimi.
ORAZIO, amico intimo e am miratore di Virgilio, fu non meno di lui ornamento
sommo della età di Augusto. Parve che questi due incomparabili ingegni
dividesser fra loro il regno poetico, e fedelmente si contenessero nei limiti
sta biliti, e l'uno non entrasse mai nella provincia del l'altro. Orazio
adunque ceduta la poesia bucolica, georgica ed epica a Virgilio, assunse la
satirica, la epistolare e la lirica; e cosi' i due amici potendo essere sommi
in tutti questi generi, amarono me glio esserlo in generi diversi senza
emulazione e senza invidia. Questi, che posson dirsi i Duumviri della poesia
latina, ebbero, siccome in parte si è veduto, campi amplissimni ove seminare le
filosofi che doltrine. Ma Orazio, per lo genio spezialmente della satira e
della epistola, gli ebbe anche mag giori, ed egli usò di questo comodo assai
diligen temente per piacere ad Augusto, a Mecenate e a sè stesso, e alla età
sua e alla seguente posterità. Dappriina educato nelle lettere romane, visitare
Atene. Mi avvenne, egli dice, di essere nu drito a Roma, e quiviimparare quanto
nocesse ai Greci l'ira –Achille. La buona Atene mi condusse ad arte migliore, e
a discernere il diritto dal torto, e a cercare il vero nelle selve di Accademo.
Ma i duri tempi mi rimosser dal dolce luogo, e il ca lore della guerra civile
mi spinse a quelle arme che non furono eguali alle forze di Augusto. Umile par
tü da Filippi con le penne recise e privo della casa volle poi (1 ) Encicl. VI.
furono ag e del fondo paterno: l'audace povertà mi strinse a far versi (1 ). E
altrove non ha ribrezzo di raccon tare che nella sconfitta Filippica militando
nelle parti diBruto, fuggi e gettò lo scudo (a). Così mal concio venne a Roma,
e nato ad altro che a spar gere il sangue degli uomini e il suo, divenne poeta,
ed ebbe parte non infima nell' amicizia di Mecenate e di Augusto, dai quali
ottenne soccorsi alla sua povertà. Da queste avventure fu raccolto che Ora zio
erudito nelle selve di Accademo era dunque Ac cademico. Ma questo sembrando
poco, giunte quelle altre parole di Orazio: La sapienza è il principio e il
fonte dello scrivere rettamente, e le carte socratiche possono dimostrarlo (3).
Ove si vede l'amor suo grande alle dubitazioni di So crate, che forse
somigliavano quelle di Arcesila e di Carneade. In una bellissima epistola a
Mecenate, la quale è certo scritta nella vecchia età di Orazió o nella prossima
alla vecchiaja, lo sciolgo per ten po, egli dice, il cavallo che invecchia,
acciò non faccia rider le genti ansando e cadendo nella fine del corso. Depongo
i versi e gli altri sollazzi. Le mie cure e le mie preghiere si rivolgono al
vero e all onesto.Adunoe compongo dottrine per usarle in buon tempo. E perchè
niun mi domandi a quale guida e a quale albergo miattenga, io, non istretto a
giurare nelle parole di alcun maestro, vado ove mi menano i venti. Ora sono
agile e m'immerso negli affari civili,ora custode e seguace rigido della vera
virtù, ora furtivamente scorro ne' precetti di Aristippo, e le cose a me
sottopongo, e non voglio io essere sottoposto alle cose (4). Ove non oscura [Orazio
Epist. I. II, 2. (2 ) Carm. lib. II, Ode VII. (3) De Arte Poet. (4 ) Ep. lib. I,
!. ] diente si vedono i pensamenti d' un uomo che pren de secondo le occasioni
quello che più gli torna a piacere dalle sette diverse. Fu aggiunto ch'egli
acre mente derise gli Stoici in più luoghi (1 ), il che era secondo il costume
accademico; e che secondo il medesimo uso affermò e negò le istesse dottrine
sen za eccezione delle più solenni, come la esistenza degl' Iddii, i prodigj,
le cose del mondo avvenire, la provvidenza, il fine dell' uomo; donde non sola
mente dedussero le idee accademiche di Orazio, ma ancora il suo pirronismo. A
queste osservazioni se vorremo sopraggiungere il genio del secolo e il co. modo
dell'Accadernia, e quel di più che abbiam detto della filosofia di Virgilio,
non sembrerà in giusto consentire alle accademiche propensioni di Orazio; non
mai perd ad un pirronismo esagerato, di cui non possiamo avere alcun fondamento;
anzi lo avremo in opposito guardando a tante risolute sentenze sue, e
all'abborrimento di tutti i più dotti Romani contro quella estremità; e non ha
similitu dine di vero che un uom tanto destro ed elegante volesse esporsi al
disprezzo di tutta Roma senza proposito alcuno. Ma comechè le cose ragionate
fin qui sembrino bene congiunte a verità, alcuni pur sono che vorrebbono Orazio
epicureo (2). Raccolse le altrui ragioni e aggiunse le sue per convincerlo di
Epicureismo teoretico e pratico Francesco Al garotti in un suo Saggio della
vita di quel poeta. Insegna egli adunque che molti sono i luoghi epi curei ne'
versi di Orazio, perciocchè scrisse in una sua satira di certo strano prodigio
che potea ben crederlo un Giudeo circonciso, non egli, perchè avea [Satyr. lib.
I, 3; 11, 3. (2) P. Gassendo De Vita Epicuri lib.II, cap. 6.G.A. Fabrizio Bibl.
Lat. lib. I, cap. 4. Reimanuo Hist. Alh. cap. 37. Stollio Hist. Pbil. mor. Geni.
J. Brucker I. e. S III.] porco del apparato che gl' Iddii menan giorni sicuri e
non mandan gid essi dall'alto tetto del cielo le meravi. glie della natura (1 ).
E in una epistola a Tibullo: Come tu vorrai ridere, guarila me pingue e nitido
gregge epicurco (2). Ma se queste ed al tre parole epicuree vagliono a fare
Orazio epicu reo, varranno adunque le stoiche, le peripatetiche, le socratiche,
le platoniche, lequali sono pur molte ne' suoi versi, a renderlo scolare di
quegli uomini; e queste varietà non potendo comporsi in uno senza che egli
fosse Accademico, o se vogliamo Eclettico a buona maniera, adunque io non so
altro dedurre salvochè quello che dianzi abbiamo riputato simile al vero. Oltre
a questo abbiam poi una molto so lenne abiurazione dell'Epicureismo in una sua
ode, che è di questa sentenza: Già scarso e rado ado rator degl' Iddii, erudito
in sapienza insana errai; ora mi è forza ritornare indietro. Vedo Iddio che gli
umili cangia coi sommi, e attenua il grande, e mette a luce l'oscuro, e gode
toglier l'altezza di colà e qui collocarla (3 ). E abbiano ancora un an
tiepicureismo in quelle sue magnifiche parole: lo non morrò intero, e la
massima parte di me evi terà la morte. La maggior forza però è, siegue a dire
il valente Algarotti, che si vede la conformità grande tra i precetti di
Épicuro e le massime e le pratiche di Orazio. L'uno e l'altro predicarono che
de' pubblici affari non dee inframmettersi il sapien te, che ha da abborrire le
laidezze dei Cinici, efug. gire la povertà e lasciare con qualche opera din
gegno memoria dopo sè, e non farmostra delle cose suc, e dover essere amatore
della campagna, e non [Satyr. lib. 1,5. (2) Epist. lib. I, 4. (3) Od. lib. I,
34. (4) Od. lib. III, 30.1] tenere uguali le peccata, e amare la filosofia, e
non temere la morte e non darsi pensiere della sepol tura (1 ). Ma, secondochè
io estimo, questa forma di argomentazione è cosi burlevole, come sarebbe quell
altra, che Orazio fosse epicureo perchè avea il naso e gli occhi come avea
Epicuro; senza dir poi che questo discorso medesimo potrebbe abu sarsi per
intrudere Orazio in qualunque scuola; per chè nel vero molti altri maestri
erano in Grecia e fuori, che insegnavano doversi fuggire i pubblici affari e le
lordure ciniche e la povertà, e amare la campagna e il piacere e la utilità, e
non brigarsi della morte e del sepolcro. Adunque non pud es ser provato che
Orazio fosse epicureo, perchè disse molte parole o usate dagli Epicurei insieme
con al tri, o anche rigorosamente epicuree, nella guisa che non può provarsi
che fosse stoico o peripatetico, perchè disse molte sentenze prese dal Peripato
é dal Portico; e ritorna quello che di sopra fu detto, questa indifferenza per
tutte le scuole e quest'uso appunto di ogni placito che torni a comodo, pro
vare solamente la filosofia accademica di Orazio. Trar poi le frasi oscene ei
costumi dissoluti di Ora zio a prova di Epicureismo, con pace di chiunque io
dico che questa diduzione non è consentanea al vero sistema epicureo, nè
all'umano. Abbiam già veduto altrove che il legittimo orto epicureo non era
quella terra immonda che alcuni si finsero, e possiamo veder facilmente che,
riunpetto a molte oscenità sentenziose di Orazio, moltissime parole sue sono
gravi, austere e diritte per narrazione dei contraddittori medesimi (2). E
vediamo tutto dì che [Laerzio in Epicuro. Orazio Epist. lib. I, 1, 10, 17; lib.
II, 2. Salyr. lib. II, 4. Od. lib. III, 20, 30, e altrove. (2) F. Algarolii
Saggio sopra Orazio. V. Francesco Blondel Comp.dePindare et d'Horace. L.
Tominasini Mélode d'étudier ec. A. Baillet I. c.] se la depravazione delle
parole e de' costumi fosse argomento di Epicureismo, oggimai sarebbe epicu. rea
tutta la terra. Stabiliamo per compimento di questo esame, che se vorremo da
tutti gli scherzi canori de' poeti raccogliere inconsideratamente i si stemi e
le vite loro, comporremo piuttosto poemi che istorie. Spargiamo dunque fiori,
non spine, so pra il sepolcro del più filosofo di tutti i poeti. P. Ovidio
Nasone Sulmonese fiori alquanti anni dopo Orazio, nella età anch' egli di
Augusto; al quale comunquepotesse piacere per la fecondità e per la vivezza,
dispiacque per la lascivia de' versi, o piuttosto, siccome alcuni pensarono e
come Ovi dio medesimo disse, per aver veduto imprudente mente una certa colpa
che volle tacere, e si para gond ad Atteone che fu preda a' suoi cani, percioc
chè vide senza pensarvi Diana ignuda (1 ); e questa Diana parve a taluno Giulia
sorpresa nelle brac cia di Augusto suo padre (2), e altri indovinarono altri
arcani di oscenità. Ma è molto più giusto ta cere ove tacque Ovidio medesimo,
tuttochè punito ed esigliato alle rive dell'Eusino fosse pienissimo d'i ra, che
fa parlare pur tanto la generazione irrita bile de' poeti. Questo ingegno, nato
per la poesia, amoreggio, e pianse in versi, e fu antiquario, e se gretario
degli eroi e delle eroine anche in versi, e disse le mutazioni delleforme in
nuovi corpi dalla origine del mondo fino a' suoi tempi; e sempre in versi,
perchè s'egli prendea a scriver prose, usci vano versi spontanei suo malgrado.
Nel molto nu mero de' suoi poemi il più reputato per serietà e per certo
condimento filosofico è quello che ha per titolo le Metamorfosi; delle quali
benchè sia stato (1 ) Ovidio De Ponto lib. II, el. IX; lib. III el. III.
Tristium II et lll, e altrove. (2) V. P. Bayle art. Ovide, B, K. detto che
sentono la decadenza della buona Lati nità e preparano il mal gusto che poi
sopravven ne, e mostrano il fasto giovanile (1 ), noi pensiamo di poter dire
che sono certamente menogiovenili delle altre poesie di Ovidio, e ch' egli
medesimo, il qualepotea giudicarne quanto i nostri critici dili cati, le tenne
in gran conto, e poichè l' ebbe com piute, Io, disse, ho tratta a fine un'opera
che nè l'ira di Giove, nè il fuoco, nè il ferro, nè la vo race vecchiaja potrà
abolire. Quel giorno che sul corpo solamente ha diritto, metta amorte quando
vorrà lo spazio diquesta vita incerta. Con la parte migliore di me volerò sopra
le stelle, e il nome no stro sarà indelebile. Dovunque la romanapotenza nelle
terre vinte si estende, sarò letto dalla bocca del popolo; e se niente hanno di
vero i presagi de' vati, viverò per fama nella eternità de' secoli (2). Senza
involgerci ora nell' esame delle virtù poeti che diquesto componimento, o epico
o ciclico ch'ei voglia dirsi, o di una azione o di mille, o contra rio ad Omero
e ad Aristotele, o favorevole ai poe tici libertinaggi, di che gli scrittori
dell'arte sapran no disputare;noi diremo piuttosto della meraviglia grande che
questo poema eccitò con le narrazioni di tanti mutamenti di forme, i quali non
si seppe mai bene che cosa significassero. Chi dicesse che questi sono delirj
d'un poeta infermo per febbre, direbbe forse lo scioglimento più facile della
qui stione, ma non il più verisimile, nè il più cortese alla fama e all'ingegno
di Ovidio. Onde vi ebbe chi disse, sotto quelle metamorfosi ascondersi la serie
Jelle mutazioni della nostra terra, e un certo siste ma di storia naturale (3);
il che parendo poco ido (1 ) V. A. Baillel l. c. (2) Metamorph. lib. XV. (3)
Roberto Stooekio Act. Erud. 1907. G. A. Fabrizio Bibl. Lat. vol. II. neo a
spiegare tutte quelle favole, fu soggiunto che le idee di Pitagora, di
Empedocle e di Eraclito e la mitologia e la opinione corrente a quel tempo sono
le chiavi di quello enimma. Il perspicace War burton immagindche le metamorfosi
sorgono dalla metempsicosi; e che siccome questa è la condotta della
Provvidenza dopo la morte, così quelle lo sono per lo corso della vita: e in
fatti Ovidio dapprima espone le metamorfosi come castighi della scelle raggine,
e poi introduce nell'ultimo libro Pitagora ad insegnare ampiamente la
metempsicosi (1 ). Que sto è il più ragionevole aspetto che possa prestarsi a
quel poema; e se per molte gravi difficoltà non è forse affatto vero,
meriterebbe di essere per la bellezza del pensiere e per onore del nostro poe
ta. Già altrove abbiamo parlato con qualche dili genza della famosa cosmogonia
e teogonia di Ovi dio, e della diversità sua dagli altri sistemi de' poeti
greci, e del Dio anteriore al Caos e agl'Iddii sub alterni, il quale è Uno e
Anonimo nella descri zione Ovidiana. Diciamo ora alcuna cosa del l'accennato
luogo delle Metamorfosi ove Pitagora è introdotto ad insegnare il suo sistema
della me tempsicosi, accompagnato coi pensieri di Eraclito e di Empedocle;
imperocchè ivi è scritto che gli uomini attoniti per la paura della morte
temono Stige e le tenebre, ei nomi vani e gli argomenti de' poeti, e i falsi
pericoli del mondo: che le anime non muojono, ma lasciando la prima sede vivono
e alloggiano in nuove case: che tutto si muta, niente finisce: che lo spirito
erra, e di colà viene qui, e di qui altrove, e occupa tutte le membra, e dalle
fiere trascorre ne' corpi umani, e da questi in quel 6) Warburton Diss. IX. (2)
Metamorp. lib. I. V. il cap. XVII e XVIII di questa Istoria. le, e non si
estingue in tempo veruno: che niente è fermo in tutto il giro, e ogni cosa
scorre a so miglianza di fiume, e ogni vagabonda immagine si forma (1 ).
Chiunque vorrà legger tutta intera que sta prolissa narrazione, potrà conoscere
che qui ve ramente parla Pitagora; ma poi tanto vi parla an cora Empedocle ed
Eraclito, e tanto Ovidio me desimo, che finalmente non s'intende chi parli. A
dunque il nostro poeta non puddirsi professore di niuna di queste sette, e pare
molto più giusto pen sare ch'egli o era Accademico, o niente. La serie di
questi poeti e il genio di Augusto e del secolo appresentano un sistema quasi
generale di filosofia accademica, e perciò non si può ameno di ripren dere la
franchezza del Deslandes e di altri, che senza pensare più oltre affasciano
insieme Augusto, Me cenate, Agrippa, Virgilio, Orazio, Ovidio, Tibul lo,
Properzio, Livio, e tutti gli altri grandi uomini di quella età, e li dicono
Epicurei. Si vorrebbe separare da questa general regola M. Manilio, il quale
intitold ad Augusto un poema delle Cose Astronomiche, e si mostro contrario
agli Epi. curei e favorevole agli Stoici; e, Chi vorrà credere, disse, che il
mondo e tante moli di opere sieno pro dotte da corpuscoli minimi e da cieco
concorso? Una natura potente per tacito animo e un Iddio è infuso nel cielo,
nella terra e nel muré, e go verna la gran mole, e il mondo vive per movimento
d'una ragione, e lo Spirito Uno abita tutte le par ti, e inaffia l’orbita
intera, la quale si volge per Nume divino, ed è Iddio, e non siadunò per
magisterio di fortuna. Per queste e per altre parole [Metamorp. XV. Deslandes
Hist. cril. de la Philos. Gassendo. Manilio Astronom.] di Manilio fu immaginato
ch'egli non era accademico, ma del Portico e panteista e precursore dello
Spinoza. No irichiamiamo a memoria le cose dette qui degli altri poeti del
tempo d’Ottaviano, e più innanzi del Portico, e affermiamo che un verso o due
che involti in dubbi e in equivoci possono sen tir forse un poco del Portico,
non fanno uno perfetto del Portico, e quando pur lo facessero, uno del Portico
non è un panteista nè uno Spinoziano. Se le ingiurie de' secoli, che dispersero
tanta parte della storia di Livio non avessero affatto distrutti i suoi
dialoghi istorici insieme e filosofici, e i suoi libri in cui scrive
espressamente della filosofia, io credo che noi potremmo conoscere la filosofia
della età d’OTTAVIANO molto più chiaramente che per tutte le immagini poetiche,
e inoltre potremmo vedere a quale sistema si attene Ottaviano stesso. Ma non
rimanendo altro di lui che parte della sua storia, i curiosi ingegni hanno
voluto raccoglier da essa un qualche assaggio della sua filosofia; e alcuni lo
hanno dileggiato come un superstizioso narrator di miracoli assurdi e un uom
credulo e popolare. Ma per le clausole filosofiche apposte a molte narra zioni
di prodigi, e per la fede istorica onde ri putò necessario raccontare le
pubbliche opinioni e i casi scritti negli annali e nelle memorie antiche, fu
molto bene difeso. Toland, vaneggiando di volerlo difendere assai meglio, lo
grava della maggior villania; perocchè lo fa tanto poco superstizioso, che lo
trasforma in ateo, e poi lo com [Collin De la liberté de penser. Gio. Toland
Orig. Ju daic G. L. Mosemio ad Cudwort System. int. cap. 4, S 20. J. Brucker 1.
c. S V. (2) SenecaEp.100. G.A.Fabrizio Bibl. Lat. vol. I. )(3) Lipiec 20.Gxva] mendo
come uomo di buon senno e di esquisito giudizio, e come un saggio filosofo e un
ingegno elevato. Queste arditezze furono confutate ampiamente. E noi lasciando
pure da parte molte altre sentenze di Livio, lo confuteremo con una sola, ove
di certi tempi romani disse. Non ancora era venuta la negligenza del divino, che
ora tiene il nostro secolo, nè ognuno a forza ďinterpretazioni si forma como di
giuramenti e leggi, ma piut tosto ai giuramenti e alle leggi si accomodavano i costume.
Queste parole non sono del catechismo degli’atei.
Agatopisto Cromaziano, di Buonafede. Appiano Buonafede. Tito Benvenuto
Buonafede. Keywords: storiografia filosofica, criteria – storia neutral della
filosofia – il primo filosofo romano – in lingua latina – previo all’ambasciata
di Carneade – the patronizing tone of classicist Johnson Murford. Each man is
the architect of his own fortunes – Appio -- -- filosofia antica, filosofia
romana antica. Filosofo: addito a reflessioni generali sulla vita. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Buonafede” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Buonamici – you
scratch my back -- etymologia di muovere -- corpi in movimento – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Firenze).
Filosofo italiano. Grice: There are many Buonamici, so you have to be careful –
this one is a genius – he taught at Pisa, in the M. A. programme, both
Aristotle’s Poetics – imitazione, il tragico, -- and his ‘motus’ – Galileo
happened to be his tutee, and the rest is the leaning tower!” Frequenta lo Studio
di Firenze, dove segue il corso del l'umanista Vettori (si conservano alcune
lettere scambiate tra i due). Filosofo naturale e latinista, si ispira molto agli
antichi testi che commenta (Aristotele, Nicomaco…). Tutore di Galilei a Pisa.
Altre opere: “De Motu libri X, quibus generalia naturalis philosophiae
principia summo studio collecta continentur, necnon universae quaestiones ad
libros de physico auditu, de caelo, de ortu et interitu pertinentes
explicantur, multa item Aristotelis loca explanantur et Graecorum, Averrois,
aliorumque doctorum sententiae ad theses peripateticas diriguntur, apud
Sermartellium (Firenze); Discorsi poetici nella accademia fiorentina in difesa
d'Aristotile. Appresso Giorgio Marescotti (Firenze); “De Alimento libri V, B.
Sermartellium juniorem” (Firenze). Galilei, De motu antiquiora” “Quaestiones de
motu elementorum”. Gentiluomo Fiorentino, e Medico,
Lettore di Filosofia con gran concorso di Scolari nell'Università di Pifa. In
detta Università avendo Giulio de' Libri altro Profesfore tacciato il
Buonamici, come quello che citaffe testi falfi, questi una mentita gli diede;
ed effendo state gettate da alcuno in fua scuola certe cor na, il Buonamici
così diffe: Si vede che costui debbe avere in tafa grande a b éondanza di
questa mercanzia, poichè ne porta qua. Egli v insegnò quaranta tre anni » e
letto aveva due volte tutto San T o m m a f o, e in ultimo gli erano pagate
quattrocento feffanta piastre di provvifione. Il buon gusto nelle belle Lettere
congiunse allo studio delle facoltà più gravi; fu Accademico Fiorenti no (4); e
godette della stima de Granduchi di Toscana, da quali, ficco me
eglisteffoafferma(6), findagiovinettofunodritoeornatodigradiono revoli. Morì ad
Orticaja vicino a Dicomano, ove, ficcome anche alle P a n cole, aveva un Podere;
e lasciò tutto il fuo ad uno Speziale. Fu
recitatadaAttilioCorfiinquellaPievefulCadavereun’Orazionfunera V. II. P. IV. -
Вbble, Poccianti, Catal. Script. Florentin. Salvini, Fasti, Buonamici,
Dife.orf.Poetici,DiscorsoVIII.pag іЯў. annoverò fra i principali Peripatetici
di quello Studio. (7) Salvini, Fasti cit. pag. 355. (3) Poccianti, loc. cit. di
Firenze nel Tom. VI. Par. IV. a car. 55. e fegg. Ove Bianchini, Ragionamenti
intorno a' Granduchi, le, e a’ 27. di Maggio nell' Accademia
Fiorentina altra Orazione funerale venne recitata da Tommafo Palmerini. Di lui
hanno parlato con lode diverfi Scrittori citati dall'Autore delle N o tizie
Letter. ed Istoriche dell'Accademia Fiorentina (9), e dal P. Negri (1o), il
qual ultimo noi fiam di parere che sbaglj, ove fra gli autori che hanno parlato
del Buonamici registra anche il Crescimbeni, il quale non di questo, m a di
Gio. Francesco Buonamici di Prato ha parlato, ficcome nell' articolo
diquest'ultimodiremo:.IlnostroFrancescofcriffediverfeOpere, lequali, febbene da
alcuni fieno d'ofcurità tacciate (11), fanno conofcere il fuo fape re, la fua
fingolare dottrina, e la sua cognizione anche della Lingua Greca. Eccone il
Catalogo: - I. Francifci Bonamici Florentini e primo loco Philosophiam
ordinariam in almo Gymnasio Pifano profitentis De Motu Libri X. quibus
generalia naturalis Philoso phie principia fummo studio collećfa continentur -
Nec non universe Questiones ad Libros de Physico Auditu, de Cælo, de Ortu és Interitu
pertinentes, explican tur. Multa item Aristotelis loca explanantur, či Græcorum
Averrois, aliorumque Dostorum Fententie ad Thefes peripateticas diriguntur ec.
Florentiæ apud Bartho lomeum sermartellium1591.infogl.Fu
affailodatoilmetododiquest'Opera, di cui il Piccolomini era uno de' principali
ammiratori. II. Discorsi Poetici detti nell'Accademia Fiorentina in difesa
d'Aristotile. In Firenze per Giorgio Marescotti, con Dedicatoria a Baccio Valori fegnata dalle
Pancole. In questi Difcorfi, che fono VIII. risponde alle oppofizioni fatte dal
Castelvetro ad Aristotile. III. De alimentis Libri V. ubi multe Medicorum
Tententie delibantur, ở cum Aristotele conferuntur. Complura etiam Problemata
in eodem argumento notantur, ở quibusdamexGræcaLeếtionepriftinusnitorrestituitur.Venetiis,
Florentie apud Bartholomeum Fermartellium Juniorem 16o3. in 4. IV. Una sua
Lezione fatta sopra ilSonetto del Petrarca, che incomincia: Quando 'l Pianeta
che diffingue l'ore, - nell’Accademia Fiorentina sotto il Consolato di Tommaso
d el Nero a fi conserva a penna in Firenze nel Cod. della Libre ria Strozziana. V. Lećiiones
super I. és 11. Meteororum. Queste Lezioni fopra l’argomento delle meteore (cui
affermava il medefimo Buonamici, per testimonianza di Monfig. Sommai, d' aver
per difficilistimo, rispetto alla difesa d' Aristotile che giudicava effere
stato mirabile nelle cofe che appariscono al fenfo »,ma nell’altre affai
ambiguo) efiftevano a penna in Firenze nella Libreria de Si gnori Gaddi fra
Codici mís, paffati, per compera fattane da Francesco I.I m eradore felicemente
regnante, e Granduca di Toscana, nella Laurenziana al Cod. 8o5. num. 2. - VI.
Filippo Valori scrive che lascia delle fue fatiche fopra la Metafifi ca, ed
altro, la quale Metafifica poffeduta da diverfi, ebbe in Roma qualche
difficoltà a stamparsi per alcune cofe Filosofiche stampate anche ne Libri De
motu, ficcome afferma il suddetto Monfig. Sommai. Il Poccianti famen Z1OI) C
(8)CosìaffermailSalvinine Fasticit.acar.355. stentia penna nel Tom. III. delle nostre
Memorie MSS. Non foppiamo Pertanto con qual fondamento Negri acar.835.fia fferma
che al Buonami comancava distin nell’ degli scrittori Fiorent. acar.188. aflerifcache
zione, e chiarezza, e che diventasse fempre più oscuro, in detta Accademia fu Attilio
Corficheinfuamortere- perchè pigliava le fue Lezioni, e le andava ritoccando, e
cita l’Orazione funerale quando il Corfila recitò sulca ripulendo, e comeegliintendeva,
epresupponevailmede davere nella Pieve, ove fu depositato. fimo degli altri, a
poco a poco le ridase inintelligibili, A car.214. febbenefettenel fondamento femprefaldoelefue
Lezio (1o) for.degliScrittoriFiorentini,pag;187. Ol niantichefonolemigliori.
tre gli Scrittori citati dal Negri parla con lode di lui anche Filippo Valori
ne’ Termini di mezzo rilievo ec, a Caľ,
Si vegga Filippo Valori ne” Termini cit. a car. 7. In alcune Memorie scritte
da mano di Monfig. Girola mo Sommaī, ed inferite nelle Schede Magliabechiane
efi Catalog. della Libreria Capponi, Lipenio, Bibl. real. Medica, pag.
i1.Salvini,Fafficit.pag zoz. in foglio volante. (17) Loc. cit (18) oservaz,
fopra i Sigilli antichi (19) Efistono presso di noi nel Tom. III. delle nostre
- Memorie mfs. a car. (zo) Descrizione
della Provincia del Mugello BUONAMICI. zione de commentar. in Logica mở Ethicam
lasciati dal nostro Autore; il Negri accenna un fuo Tractatus Logice esistente
ms. nella Libreria del Palazzo Ducale de' Medici, il quale è indirizzato a
Lelio Torello Giureconful to, e incomincia: Multa profećio, variaque_ec; e
ilchiariffimo Sig. Domeni co Maria Manni (18) fa ricordanza d'una Cronica
fcritta a mano da Francesco Buonamici esistente nella Libreria Gaddi pure in Firenze.
Dalle schede Magliabechiane comunicateci dal chiariffimo Sig. Canonico Angiolo
Maria Bandini apprendiamo ch'era opinione che il Cavaliere Aquilani aveffe
molti Scritti e Opere da stamparfi del nostro Autore. D a ciò che abbiamo fin
qui detto ci fembra di poter afferire che il nostro Autore sia diverso da quel
Dottor Francesco Buonamici il quale ha il suo deposito nella Chiefa del Piviere
di S. Babila detto anche S. Bavello e S. Bambello nella Provincia del Mugello
in Toscana, il quale di tutta la sua eredità lascia che foffe fatto un fondo
per mantenimento a Pisa di tre giovani parte di S. Gaudenzio, e parte di
Dicomano con obbligo di addottorarfi, del quale fa menzione il Dott. Giuseppe
Maria Brocchi(2o), ma senzaaccennarefefiaScrittored'Operaalcuna. V” è stato
anche un Francesco Giuseppe Buonamici, di cui fi ha alle stampe un Elegia, ed
un Epigramma in Lingua Latina per la nascita di Giacomo Augusto Lorenzo
Ferdinando Maria figlio d'Amedeo del Pozzo ec. In Milano. Francesco Buonamici.
Keywords: corpi in movimento, Aristotele, filosofia naturale, Galilei,
razionalismo, aristotelismo pisano, de imitazione – aristotele – poetica –
mimica – de motu – muggerbrydge --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Buonamici” –
The Swimming-Pool Library.
Buonarroti. Grice: “Some call him
Michelangelo, but that’s rude!” -- See
the study of Buonarroti’s Moses by Freud, “filosofia”
Grice e Buonsanti –vector – il vettore -- implicatura di
‘animale’ – ‘non umano’ -- filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Ferrandina). Filosofo italiano. Grice: “I like Buonsanti; Strawson calls him a
veterinarian, but I call him a philosopher,, for surely he is a philosophical
zoologist – he philosoophised, like Aristotle did, on the comparative
physiology and anatomy of ‘human’ and pre-human.!” Esponente di spicco della
storia della medicina veterinaria italiana ed europea è stato una delle figure
più rappresentative della Scuola veterinaria milanese. Diresse l'Enciclopedia medica italiana edita
da Vallardi e La Clinica veterinaria (di cui fu anche fondatore). Altre opere: Dizionario dei termini antichi e
moderni delle scienze mediche e veterinarie Manuale delle malattie delle
articolazioni Trattato di tecnica e terapeutica chirurgica generale e speciale
La medicina Veterinaria all'Estero, organizzazione dell'insegnamento e del
servizio sanitario. Dizionario Biografico degli Italiani. Nicola Lanzillotti
Buonsanti. Keywords: etimologia di ‘veterinario’ -- animale; filosofia e
medicina nella Roma antica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Buonsanti” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Buonsanto – pratico
-- prammatica del discorso – filosofia italiana – Luigi Speranza (San Vito dei
Normanni). Filosofo italiano. Grice: “Buonsanto is a good one – I call him the
Italian Wittgenstein; he talks of a reasoned grammar (grammatical ragionata)
and not of rules but regoletta – and he like Austin speaks of the genius (il
genio) del linguaggio – he speaks of a ‘philosophical approach’ to grammar – of
‘proposizioni’ and the rest – of etimologia, and sintassi, so he is into
implicature!” Filosofo pontaniano
italiano. Nato nella cittadina salentina nell'allora via Vento (oggi via Cesare
Battisti), qui compie i suoi primi studi classici. Fattosi domenicano, non
ancora ventenne, entra nel convento dei Padri predicatori di San Vito dei
Normanni, ove si dedica allo studio della filosofia scolastica. Diventando educatore, si distingue per le sue
idee innovatrici nei metodi didattici, diventando ben presto un vero luminare
del pensiero pedagogico della cittadina. Diventa anche un attivo sostenitore
del movimento repubblicano, e insieme al notaio Carella, porta dalla vicina
Brindisi un albero di naviglio per piantarlo, in segno di libertà, nella piazza
antistante il Castello. Le sue convinzioni, però, lo costringono a fuggire da
San Vito ed egli ripiega prima a Ostuni e poi a Martina Franca, da cui
raggiunge, da ultimo, il convento di San Domenico a Napoli, dove muore. La città natale ha dedicato al suo nome una
scuola media cittadina. Dizionario
Biografico degli Italiani. Altre opere: “Etica iconologica”; “Il sistema metrico”;
“Geografia” “Storia del Regno di Napoli”; “Antologia Latina”; “Sistema d'istruire
i giovanetti”. By planting the tree, Buonsanti meant that he wanted peace.
Etica iconological: children learn by imitating: ‘sistema per educare i
giovinetti” – If we are looking for a typical Latin root for acting (or not
acting,a s in the prototype of the ‘lazy Latin lover’) we should search for the
‘agire’ root, that gives us action. Qua philosophers, we are interested in that
branch of philosophy that deals with action. Which one is it? Cannot be
‘morals’ because ‘ethos’ or mos is costume, rather than action. Analytic
philosophers speak of ‘philosophy of action’ – Grice: “But not I”. Grice: “In
my ‘Actions and Events’ I elaborate on this. I find that the vernacular English
is ‘do’ – and that we need a special interrogative. Socrates in Athens whatted?
He drank hemlock. Quandum – at what time – ubi – at what place, quia – for what
reason (all from Aryan qw- root) are each examples of such an interrogative. Grice:
“Latin is better equipped than English with the range of interrogatives whose
function is to inquire, with respect to any of the ten categories, which item
WITHIN the category would lend its name to achieve the conversion of an open
sentence into the expression of a alethically or practically satisfactory
utterance. Each of these interrogatives
(‘quando’, ubi, quia) have an INDEFINITE counterpart. Corresponding to ‘ubi’ is
‘unum ubi’. Corresponding to quod ‘unum quod’ – and so on. There is the
occasion when the utterer requires not a pro-NOUN, but a pro-VERB, parallel to
the two kinds of a pro-noun (interrogative and indefinite). A pro-verb is used
or serves to make an inquiry about an indefinite reference to one of ten
categories of items which a PREDICATE (P), qua epi-thet, ascribes to a subject
(S), in a way exactly parallel to the familiar range of a pronoun. Just as the
question, ‘WHERE [Ubi] did Socrates drink the hemlock’ is answered by ‘In
Athens’, consider the yes-no
question, ‘Socrates WHATTED in 399?’.
The question might be answered by ‘Yes’ – And given the principle of
conversational helpfulness, if one is in a position to specify what VERB we
would use to express, we do just that. ‘Drank’. And more specifically, ‘Drank
the hemlock.’ And given that Socrates did drink the hemlock in 399 B. C. as the
answer just reminds us, we say: ‘There! I *knew* that Socrates SOME-WHATTED in
399 B. C.” The Romans lacked our ‘do’ – which was a good thing for them, for
they were able to avoid our constant abuse of ‘do’ – the Roman equivalent would
be ‘agire’ --. By way of a periphrasis – by which we can come close to the
roman way. We ask, for example, WHAT did Socrates DO in 399 B.C.?’ In its
capacity as PART (along with ‘what’) of a make-shift pro-VERB, the very English ‘do’ –not a German thing, even! – can
STAND IN FOR (be replaceable by) ANY English VERB – or phrasal verb or verb
phrase (‘put up’) whatsoever. Cf.
pro-verb – do as proverb. They herd cattle, and raise corn, as we used to do. HereVito
Buonsanti. Vito Buonsanto. Keywords: prammatica del discorso, Peirce, icon,
Grice, iconic, iconologia, eicon, icon: Peirce, icon, Grice, iconic,
iconologia, eicon, icon, pratico e
prasso are cognate praktikos dalla radice per -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Buonsanto” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Burgio – the
goths in Italy – Romans contra Goths – la guerra gotica in Italia -- dialettica
ostrogota – filosofia ostrogota – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo
Italiano. Grice: “You gotta love Burgio: my favourite of his philosophical
pieces are his study on the tradition, development and problems of ‘dialettica’
– from Athenian onwards – and his explorations of contractualism, since I’ve
been called one – a contractualist I mean, as so was Grice [G. R. Grice].”
-- Alberto Burgio Deputato della Repubblica
Italiana LegislatureXV Legislatura Gruppo parlamentareRifondazione Comunista
CoalizioneL'Unione CircoscrizioneLombardia 3 Incarichi parlamentari giunta per
il regolamento; XI Commissione (Lavoro pubblico e privato); Commissione
esaminatrice del premio Lucio Colletti dal 28 luglio 2006 Dati generali Partito
politicoPRC Titolo di studioLaurea in lettere e filosofia Professionedocente
universitario Alberto Burgio (Palermo), filosofo.. Nato a Palermo il 13 maggio 1955, dal 1993
insegna Storia della filosofia presso l'Bologna. È stato eletto deputato al
Parlamento della Repubblica alle elezioni politiche del 2006 (XV
legislatura). Si è occupato
prevalentemente di storia della filosofia politica e di filosofia della storia
con studi su Rousseau e l'idealismo classico, la teoria della storia tra Kant e
Marx e il marxismo italiano (Labriola e Gramsci), il razzismo e il nazismo. Altre opere: “Filosofia politica: eguaglianza,
interesse comune, unanimità” (Napoli, Bibliopolis). Rousseau, la politica e la
storia. Tra Montesquieu e Robespierre, Milano, Guerini); “Robespierre” (Napoli,
La Città del Sole); “Italia pre-aria” (Bologna, Clueb); “L'invenzione
dell’ario” Studi su razzismo e revisionismo storico, Roma, manifestolibri);
“Nel nome dell’ario. Il razzismo nella storia d'Italia” (Bologna, Il Mulino); “Modernità
del conflitto. Saggio sulla critica marxiana del socialismo, Roma, DeriveApprodi);
“Struttura e catastrophe” Kant Hegel Marx, Roma, Editori Riuniti); La guerra
dell’ario, Roma, manifestolibri); Gramsci storico. Una lettura dei
"Quaderni del carcere", Roma–Bari, Laterza); “La forza e il diritto.
Sul conflitto tra politica e giustizia” (Roma, DeriveApprodi); Guerra. Scenari
della nuova "grande trasformazione", Roma, DeriveApprodi); “Labriola
nella storia e nella cultura della nuova Italia, a cura di, Macerata, Quodlibet);
Escalation. Anatomia della guerra infinita, (Roma, DeriveApprodi); “Il contrattualismo”
(Napoli, La Scuola di Pitagora); “Dia-lettica, co-loquenza:Tradizioni,
problemi, sviluppi” (Macerata, Quodlibet); “Per Gramsci. Crisi e potenza del moderno,
Roma, DeriveApprodi); “Manifesto per l'università pubblica” (Roma, DeriveApprodi);
“Senza democrazia. Un'analisi della crisi, Roma, DeriveApprodi); “Nonostante
Auschwitz. Il ritorno del razzismo in Europa, Roma, DeriveApprodi); “Rousseau e
gli altri. Teoria e critica della democrazia tra Sette e Novecento, Roma, DeriveApprodi);
“Il razzismo, con Gianluca Gabrielli, Roma, Ediesse); “Identità del male. La
costruzione della violenza perfetta” (Milano, FrancoAngeli); “Gramsci. Il
sistema in movimento, Roma, DeriveApprodi); “Questioni tedesche, a cura di,
Mucchi, Modena, («dianoia»). “Orgoglio e
genocidio. L'etica dello sterminio nella Germania nazista” (Roma, DeriveApprodi);
“Il sogno di una cosa. Per Marx, Roma, DeriveApprodi); “Critica della ragione
razzista, Roma, DeriveApprodi. Any Oxford philosophy tutor who is
accustomed to setting essay topics for his pupils, for which he prescribes
reading which includes both passages from Plato or Aristotle and articles from
current philosophical journals, is only too well aware that there are many
topics which span the centuries; and it is only a little less obvious that
often substantially 66 Paul Grice similar positions are
propounded at vastly differing dates. Those who are in a position to know
assure me that similar correspondences are to some degree detectable across the
barriers which separate one philosophical culture from another, for example
between Western European and Indian philosophy. I GOTI. il l/F) (fa
figlili; WT'I Tr»acjed Lia lirica, in quattro atti
STEFANO INTERDONATO MUSICA DEL MAESTRO Iflfiii
lillff! DA lUPPHftSEINTAHSl AL TEATRO NUOVO DI
PADOVA STAGIONE DI PIERA e MILANO STABILIMENTO
MUSICALE DI F. LUCCA. A Teodorico, fondatore della Signoria dei Goti in
Italia, successe la figlia Amalasunta. Donna di animo virile, di bellezza
non comune, ed amante della romana civiltà, e odiata dai principali signori
goti che ligi alle antiche costumanze vedevano di mal occhio la nuova
regina mostrare clemenza verso i vinti e prediligere usi e costumi
che secondo essi avrebbero finito col corrompere i vincitori degl’Eruli e dei
Romani. Amalasunta , a cui fu tolta la tutela del proprio figlio Alarico che
poi dopo alcuni mesi perde miseramente la vita, credette di rassodare la
propria autorità sposando uno dei più potenti signori della sua Corte a
nome Teodato, ma questi appena salito sul trono si unì ai nemici di lei,
l'accusa di illecite tresche, le tolse ogni autorità e quindi la relega
in un castello sul lago di Perugia dove poi la fece secretamele
uccidere. Così la storia. PERSONAGGI ATTORI. AMALASUNTA,
regina de' Goti SigS Antonietta tfricei Baratiti TEODATO, signore goto ,
suo cugino , . Sig. Francesco Pandolpii SVENO, giovane
patrizio romano Sig. Filippo Patierno ftfcw • LAUSCO, capo de'
guerrieri . Sig. p ao lo Medini SVARANO , altro capo de'
guer- rieri Sig. Luigi Calcaterra GUALTIERO , guerriero goto
, amico di Sveno .... Sig. Luigi Vistarmi
Guerrieri, Araldi, Sacerdoti, Signori goti, Congiurati,
Damigelle della Regina, Uomini e Donne del popolo.
Trombettieri, Paggi. La scena è nei primi tre atti in
Pavia. Nel quarto atto sul lago Trasimeno. Epoca anno
534 dell' era cristiana. Il virgolato si omette.
ATTO PRIMO SCENA PRIMA. Atrio colonnato
nel Castello di Pavia. Ai lati alti e lunghi por- tici che si perdono
nelV oscurità. Un raggio di luna batte sulle mura del Castello che si
vede nel fondo. — Il davanti della scena è interamente immerso nell'
ombra. Molli guerrieri goti dormono sdraiati sul terreno. l«ausco
è in piedi appoggiato ad una colonna, immobile e pensieroso. Dal
fondo s'avanzano cautamente Tediato e Svarano. Teo. (a bassa voce)
Lausco?... Lau. ics.) _ Sì. Teo. Gessò la festa?
Lau. (additando i guerrieri) Guarda... dormono costor.
Sva. Tutto tace. Teo. L'ora è questa Che anelava il mio
furor! Aborrito, disprezzato, Alla terra e al ciel
nemico. Quando l'astro del mio fato Parve a un tratto
impallidir, Sovra il capo d'Alarico Imprecando la sventura
Solitario in queste mura M'affidai nell'avveniri (o Lausco) Tremi
tu?... Lau. Non tremo mai! Teo. Ei mi offese e m'oltraggiò,
lo d'ucciderlo giurai. Sei fedel? Lau. L'ucciderò.
Sva. Quando l'opra tia compita Ci vedrem? Teo.
Del trono al pie. Lau. Tu proteggi la mia vita; Io lo
scettro appresto a te. (entra rapidamente nell'interno del
Castello) Teo. (dopo un istante di silenzio, guardando attorno con
ter- rore e prestando ascolto) Perchè tremo?... nulla
sento... Sva. (a bassa voce) S'ei fallisse il colpo?
Teo. Ah no! (si sente un grido) Sva. Parmi un
grido... Teo. (con ansia terribile) Oh qual tormento!
(grida confuse nelV interno del Castello) Sva. Ah! L'uccise!
Teo. (con gioia feroce) Io regnerò! (partono rapidamente,
mentre i guerrieri destati dalle grida balzano in piedi e afferrano le
loro armi.) Guerrieri, poi Sveno. Alcuni guerrieri
Qual suono!... l'udiste? Altri guerrieri Confuso lamento
Sull'ali del nembo - per l'etra echeggiò. (Sveno si precipita
sulla scena pallido, coi capelli in di- sordine, colla spada
sguainata) Tutti Tu, Sveno? Ove corri? Sve. Tremate! Egli è
spento. Dei regi l'erede trafitto spirò! Tutti Trafitto
Alarico! Alcuni guerrieri All'armi! Altri guerrieri
terrore! Ma parla... rispondi! chi fu l'uccisore? Sve. Della
notte nel silenzio Era immersa la natura...
PRIMO Non s' udia fra queste mura Che del gufo
l'ulular... Quando un grido orrendo, atroce M'empie il core di
spavento... Ah, quel grido ancor lo sento Al mio orecchio
risuonar. Tutti Era il grido della morte Che venia fra queste
porte. Sve. Corro al prence... di sangue cosparso, Un pugnale avea
fitto nel petto!... Non profferse il suo labbro alcun detto... Sol
la mano mi strinse... e spirò! Guerrieri (brandendo ferocemente le
spade) Morte, morte all'indegno uccisore! Si ricerchi... fuggir non
ci può! (entra Teodato e si confonde fra i guerrieri) Sve.
Maledetto il parricida, D'Alarico l' uccisori Di celarsi
invan s'affida, Di sfuggire al mio furor! Tutti All'armi,
guerrieri! s'esplori ogni loco... Già l'alba nel cielo propizia
spuntò. Di ferri recinto -qui tratto fra poco Fra strazii perisca -
chi sangue versò! (partono in varie direzioni, Sveno va per seguirli)
Teoclato e Sveno. Teo. Sveno, t'arresta. Sve. Da
me che vuoi? Teo. Giovane, ascolta; parlar ti vo'. D'ira
sfavillano gli sguardi tuoi Ma in core leggerti ben io lo so.
(con sarcasmo) Tu Romano, tu figlio d'Italia Ch'ora è
serva e che un di fu regina, / Goti 2 Puoi dei Goti
temer la rovina, D'Alarico alla morte tremar? Folle! Invano celare
presumi L'empia gioia che tutto t'invade, Tu che privo di patria e
di numi Qui un asilo venisti a cercar! Svfi. {con alterigia)
E che vuoi dire? Tr0 D'Alarico estinto "' Or chi
sul trono ascenderà, noi sai? D'imbelle donna sulla chioma cinto Il
diadema fatale or tu vedrai. SvE.D'Amalasunta?(co« impeto) Mai più degna
mano Trattò lo scettro!... ^ . Tfo. (sogghignando) Ne più
bella! • v Insano! SvE. Solo ed orfano
reietto Sull'avel del padre estinto, Senza pane, senza tetto,
Io vivea di ceppi avvinto- Quando un angiolo di Dio Quasi in sogno
m'appari... E pietoso al dolor mio I miei ceppi infranse un
di. Or che cinto di perigli Sovra il trono assiso egli e.
Sfido l'uom che mi consigli Di tradire onore e fé! Teo Una minaccia
suonano Questi tuoi detti, o Sveno? So che per me
terribile Odio tu nutri in seno! Sve. Odio?... t'inganni. -
Sprezzo Mi desta un traditor. - Teo. Ne avrai condegno prezzo
(raffrenandosi) Della regina il cor! Sve. Trema... ah trema!
Potrebbe a un mio detto Il tuo capo cadere al mio pie. -Finché l'ira
raffreno nel petto, Va, t'invola lontano da me! Teo. (Egli
l'ama ! Ogni sguardo, ogni detto (da sé) Il suo amore disvela per
lei. Vendicarmi fin d'ora potrei, Ma la sorte matura
non è!) Sve. Altro a dirmi t'avanza? Teo. E l'odio mio
Dunque, $veno, non temi? Sve, Io?... Lo desio! -
(partono da opposti lati) Steca sala nel Castello di Pavia;
in fondo un gran verone dal quale si vede la pianura e in lontananza
l'Appennino; due porte laterali. Amalasunta sola.
Ama. (guardando dal verone) Ecco la luce... Coi suoi raggi il
sole Le tenebre disperde; e tu svanisci Fatai notte che a me
toglievi il figlio, Unica speme del mio core!... Oh, come Sulla
fronte mi pesa questa triste Aurea corona!... [Alcune giovinette
che passano sulla via, cantano in lontananza) Cono esterno (Un giorno in
quest'ora Per via m'incontrò. Spuntava l'aurora Quand' ei mi
baciò. È bello il suo viso, Mi piace il suo cor, Mi piace
quel riso Che parla d'amor!) Ama. (prestando ascolto)
...Air opra usata allegre Quelle fanciulle avviansi cantando.
- Come sfavilla in quelle voci tutto Il contento dell'anima!... Io
qui soffro! Un abisso ritrovo in ogni loco, In ogni sguardo un
tradimento... Ahi lassa! Coro esterno (come sopra) »(Di gemme
e castelli » Se il ciel mi privò, «Degli anni più belli » La
fé mi lasciò. - »E tu, o giovinezza, «Che allieti il
mio cor, «Mi doni l'ebbrezza, • Mi doni l'amor!)
(il canto si perde in lontananza) Ama. Eppure un dì di rosee
Sembianze rivestita Dono del cielo agli uomini Mi si pingea
la vita: - Quando tra feste e gaudii Col nero crin gemmato I
giorni miei trascorrere Potea del padre allato. Or fra le tristi
tenebre Presso all'aitar di Dio Con disperati aneliti La
morte invoco anch'io. «Or che svanir le liete «Larve di pace e
amor, «Or che si pasce l'anima «Di lutto e di dolor!
(parte) SCENA II. Lausco e Svarano entrano
cautamente. Sva. La vedesti? Lau. Piangeva; e quel
pianto Un inferno nel petto mi desta. Sva. E che pensi?
Lau. Che a compier ci resta Di Teodato il volere. - Sva.
Frattanto Simulare ne giova. - Il mistero, Della mente
nasconda il pensiero. - Lau. Per lei scampo più in terra non v'ha;-
S' essa cede, perduta sarà.- 14 ATTO La
gente romana - prostrata ed inulta Che un tempo sui mondo - superba
regnò, Caduta nel fango -ci sprezza, c'insulta, Al giogo ribelle -
piegarsi non può. Ma il ferro del barbaro, Forier di
sventura Al suolo atterrando Di Roma le mura,
L' Italica terra Di sangue inondò! Costei che di sensi
-romani è nutrita Il brando dei padri - vorrebbe spezzar; Clemente
redimer - la schiatta aborrita, Sul trono con essa - chiamarla a
regnar. Ma il ferro del barbaro Ancor non è infranto;
Foriero per gli empii Di lutto e di pianto, Più
splendido al sole S'appresta a brillar! A ina lasunta, Lansco
e Svarano~ Lai. (inchinandosi in umile atteggiamento) Alla
regina messaggier m'invia li consesso dei prenci e dei guerrier.
Ama. Parla, signor. Lau. Nella parola mia De'
tuoi fedeli udrai franco il pensier! Una nemica parricida mano A
noi il re, a te toglieva il figlio. A che celarlo? Il tradimento
insano Cinge il trono di lutto e di periglio. (marcato)
Di questo scettro che ora stringi... puoi L'immane pondo sostener
tu sola? il Ama. Mal t'intendo, guerrier... Da
me che vuoi? Oscura giunge a me la tua parola. Lau. Su quel
trono a te d'accanto Cinga un prence la corona. Se
fìnor la madre ha pianto, La regina or dee regnar. Ama.
(quasi parlando a sé stessa) Dunque, o schiava, tergi il
pianto! Su, di fiori t'incorona! Pronta è 1' ara; non di
pianto, Questa è l'ora d'esultar!... Di mio figlio dal
letto di morte Voi volete condurmi all'aitar? Sceglier
dunque m?è forza un consorte, Queste bende funèree squarciar?
Sva. E possente adorata re ina Sovra i Goti regnar tu potrai;
Poiché salva da certa rovina In tal guisa l'Italia
sarà. Lau. Del sangue dei regi Prescelto dal fato,
Vi ha un prence che al trono Sol puote aspirar. Ama.
Chi è desso? rispondi! Lau. S'appella Teodato. Ama. Teodato
dicesti?... (da sé) (Mi sento mancar!) Lau. Neil' ombra e nel
silenzio, Solo col suo pensiero, Visse del mondo
immemore, Fido alla patria e al re. Non è guerrier, ma
a reggere Il contrastato impero, l fidi tuoi ten
pregano, Devi innalzarlo a te ! Ama. Non fia mai !
Sva. Che parli, o regina? Ama. Io noi deggio. Lau. Da
certa rovina Puoi tu sola la patria salvar! Sva. Bada, o
donna ! Secreta, possente Dei Romani l'astuzia congiura. Se sul
trono regnar vuoi secura, No, mei credi, non devi esitar. Lau. Che
risolvi ? Ama. Noi deggio. Lau. (deposto l'umile
atteggiamento e minaccioso) Al comun voto Amalasunta ceda! -A te
pon mente! Ama. E tanto ardisci ? - Parti ! Lau. Ancor m'udrai !
- Avvi un romano in questa corte: -ha nome Svenoe tu 1'
ami! Ama. (da sé) (Cielo!) Lau. (afferrandola per la mano)
Incauta, trema! Se esiti o nieghi, in questo istesso istante Sarà
Sveno dannato a orrendo scempio. Della morte del figlio a tutti
innanzi 10 qui l'accuserò ! Ama. (con impeto) Menzogna
infame! Egli è innocente... e tu lo sai ' Lau. Che importa
? Sva. Egli è romano. - Qui ciascun 1' aborre. 11
popolo è a noi ligio - e speri invano! Ama. Ahimè!... Sva.
Risolvi. Ama. (dopo un istante d'esitazione) Ebbene...
ei fìa salvato. A me consorte, sarà re Teodato. a 5 Sva.
Dell'impero dei Goti la stella S' oscurava nell' italo cielo. Ma
fra breve più fulgida e bella La vedranno i nemici brillar, E nel fango
dovranno gli ignavi, Sempre schiavi, servire e tremar!
Lau. (Io trionfo! Più fulgida e bella (da sé) La mia
stella risplende nel cielo. La perduta possanza che anelo Sol
Teodato a me puote ridar. E nei fango dovranno gli ignavi, Sempre
schiavi, servire e tremar !) Ama. Ahi, s'oscura, tramonta mia stella (da
sé) Che finora brillò senza velo. Signor, tu che regni nel
cielo 1 miei passi tu devi guidar, E redenti dovranno
gli ignavi , Non più schiavi , al mio nome acclamar !
(alle ultime parole Sveno compare in fondo alla scena. — Lausco e
Svarano escono gettando su Sveno uno sguardo di trionfo)
Aniala«uiita e Sveno. Sve. Grida di gioia risuonar qui
sento. Ama. (Ah, tutto ignora.) [da sé) Sve. Eppure d'
Alarico L' inulta salma nell' ave! non scese. Ama. Chi del figlio
a me parla?... In queste soglie Sanguigna luce spanderan fra breve
A sacrileghe nozze le votive Faci d'Imene. - A che mi guardi ? Il
fato A me 1' impone ; sarà re Teodato. Sve. (arretrando con grido
di dolore) Ah! Ama. Tu piangi? Io asciutto ho il ciglio. Mai
non piange una regina. Della patria nel periglio Ogni affetto tacer
de. Quel poter che mi trascina D'altro amore è in me più
forte, Affrontar saprei la morte... Se la patria il chiede a
me. Sve. »Tu spezzasti mie catene, «Vita, onori a te degg' io.
»Ogni avere ed ogni bene »Che beasse il pensier mio. Tutto è
sciolto. - Un dì saprai Se t'amò quest'infelice, Ma quel giorno, o
traditrice, Io vederlo non potrò. Alla tomba or mi trascina
Questo amor di me più forte, Sotto i colpi della sorte L'alma
affranta si spezzò!... (si ode il suono di una marcia funebre)
Coro esterno (Neil' avello dei padri discendi Dormi in
pace, figliuolo dei re. Prega il ciel che i presagi tremendi Sian
dai Goti sviati per te. La tua vita ha troncato il destino, Sulla
reggia or si libra il dolor. Piombi almeno lo sdegno divino Sovra
il capo all'infame uccisori) Ama. (con voce straziante) Ah...
quelle voci!... Son le preci estreme... Sovra la tomba di mio figlio... Io
manco... (lasciandosi cadere quasi svenuta sopra una sedia) Sve.
(con disperata ironia) In te ritorna... Le funeree faci Alle
tue nozze pronube, domani Risplenderanno !... In te ritorna!
Esulta! CORO esterno (allontanandosi gradatamente) (Nell'avello dei
padri discendi, Dormi in pace, figliuolo dei re. Prega il ciel che
i presagi tremendi Sian dai Goti sviati per te. La tua vita ha
troncato il destino, Sulla reggia or si libra il dolor. Piombi
almeno lo sdegno divino Sovra il capo all' infame uccisori)
Ama. (quasi in delirio) Dove sono ?... Ah, già fissato, Scritto
in cielo è il fato mio! Non dagli uomini , da Dio, La pietà sperar
si de! Sve. Tu dagli uomini, da Dio, Maledetta sei da me!
Una sala nel Castello di Pavia. — Una porta in fondo.
Teodato solo. Teo. E ancor non riede... Inebbriante meta Cui
da tanti anni ascosamente anelo,... Splendida larva di mie notti,
alfine Io ti raggiungo!... Pur mi costi!... A mezzo Volgea la
notte, ed io sognava... ahi, truce Terribil sogno! - Mi cingea la
chioma La corona regale, e sovra il trono D'Amalasunta al fianco io
m'era assiso Al sinistro chiaror delle pallenti Faci di morte... e
innanzi a me sorgea Dell'ucciso Alarico insanguinato L'orrido
spettro, e mi guardava come Quando nei petto il suo pugnai gli
infisse Lausco!... e con la man parea dal soglio Strapparmi a
forza!... ed io tremava. - Oh vile Debolezza dei core!... D'un
delitto A me che monta, se ciascun l'ignora? No, più non tremo. -
Già la notte sparve E con essa svanir fantasmi e larve! Nei cupo
orrore di notte bruna Quando la luce nel ciel fuggì, Fosca sibilla
fin dalla cuna A me lo scettro predisse un dì. E da quel giorno
speme funesta Per anni ed anni rinchiusi in cor; E nel silenzio
d'aspra foresta Solo, spregiato, vissi fìnor. Sangue mi costa quel
serto, è vero: Ma la mia sorte compir si de. Colpe e delitti sprezza
il pensiero Se ad essi è premio poter di re. Se al soglio stendere
la man poss'io Che a me il destino - vaticinò, Sui vinti popoli -
lo scettro mio Dall'Alpi al Brennero - distenderò! SCENA
li. Laureo, £ varano e Teodato. Lau. Possente è
quest'oro che tutto conquide! Teo. Che rechi? Sva. Trionfi ;
- la sorte ci arride. L\u. La credula plebe venduta esultò.
Il trono or t'aspetta. Teo. Calcarlo saprò. Lau. «Ma
pria che tu cinga la chioma del serto, »0 prence, rammenta chi un trono
t'ha offerto. «Dell'opra tremenda qual premio sperai, «Teodato,
scordarlo potresti? Teo. » Giammai. Sva. «Non scordar quella
notte e il pugnale «Che nell'ombra celato ferì. Lau. «Non
scordar che un destino fatale «Nello stesso delitto ci unì.
Teo. Io la mente, le braccia voi siete In quest'opra di sangue e
d'orror; Se compirla, o guerrieri, saprete A voi dono possanza e
tesor! » Cadde Alarico. - Ma quel sangue è poco, «Altri deve saziar
l'ira del seno. Lau. «Altri?... t'intendo. Teo. «Amalasunta e
Sveno... Nella pianura di Pavia, commosse S'adunano le turbe.
- Amalasunta Oggi il serto mi cinge! Sva. «I miei guerrieri
«Io stesso condurrò. l jA u. «Popolo e prenci
»A1 tuo trionfo acclameranno. Sva. Quando L'ora fìa
giunta, la fatale accusa Profferisca il tuo labbro! ^ AU - A noi la
cura Lascia del resto. Teo. La superba donna Ed
il suo drudo, d'uno stesso colpo Atterrati cadranno. - mia
vendetta! Ad essi morte... ^AU. Il soglio a te s'aspetta.
Teo., Lau. e Sva. (a tre) Sol d'Italia, di luce funesta
Splendi in questo bel giorno sereno. L'atra gioia che m'arde nel
seno, La mia sorte rischiara così. Potrò alfine, a me intorno
prostrata, Calpestarti, empia turba di schiavi. Vili e ignavi! Già
l'ora è sonata, Di vendetta già corrono i dì. (partono per opposti
lati) SCENA HI. La gran pianura di Pavia: si scorge a
grande lontananza la città presso a cui scorre il Ticino, e più lontano
ancora la ca- tena degli Appenini. Da un lato s'innalzerà un trono
for- mato di trofei d'armi. Sveno, indi Gualtiero.
GuA.Chi veggio?... Sveno... in questo loco? stolto! Fuggi!
t'invola ai colpi della sorte! Altro scampo non hai... Taci?
Sve. Io t'ascolto. Non ti comprendo. Oua. E che mai
speri? Sve. Morte! Agli infelici altro non resta in
terra. Così tradirmi!... Iniqua donna! TERZO
W Gua. E sei Uomo... e guerriero! Sve. Un dì lo
fui! - M'atterra Or la sventura. - Ahimè!... perchè
vivrei?... (con 'profonda tristezza) Della sua fede immemore
E dell'amor giurato, Essa i legami infrangere Volle del mio
passato. Ma nel troncar quei vincoli Ch'eterni io pur credea,
Senza pietà la rea Anche il mio cor spezzò. Fonte d'amare
lagrime È l'avvenir, lo sento. Verranno per la misera I dì
del pentimento. Ma di quel giorno infausto, Forse lontano ancora
, La sanguinosa aurora, Gualtiero, io non vedrò! [squilli di
trombe; sì comincia a sentire in lontananza il suono di una marcia
trionfale che si va sempre più avvicinando) Gua. Odi? Sve. {con
rabbia) Ei trionfa!... Folgori Non ha per gli empi il cielo!
Or gli omicida ammantansi Della virtù col velo. Gua. Che
parli? Sve. Un fero dubbio Mi tormentava il
petto. Ora in certezza cangiasi L' orribile sospetto. Gua.
Che far vorresti? Sve. Nulla. Io spettator - qui
resto. Gua. Ti uccidi! Sve. Il voto è questo Più
ardente del mio cor! Al suono di marcia trionfale si avanzano i guerrieri,
i principi, i sacerdoti, i congiurati, il popolo. — Indi preceduti da
una schiera di guardie Amalasunta e Teodato rivestiti delle insegne
reali; poi Lausco, Starano ed altri guer- rieri. Sveno e Gualtiero si
confondono tra la folla; il popolo manda grida festive. Coro
generale Giunta è l'ora - dei Goti la stella S'oscurava
nell'italo cielo; Ma fra breve più fulgida e bella La
vedranno i nemici brillar. E nel fango dovranno gli ignavi
Sempre schiavi - servire e tremar! Lau., Sva. e Congiurati (a bassa
voce tra di loro) (Nel silenzio, nell'ombra celati Già a
piombare la folgore è presta... Dee quel serto di luce
funesta Di Teodalo sul capo brillar. Pronti all'opra;
già l'ora è suonata; Gli empi schiavi dovranno tremar!) Ama.
(dal trono) Popolo e prenci, udite il mio pensiero Or
tutti voi che a me giuraste fé, Del mio talamo a parte e
dell'impero Ognun saluti in Teodato il Re! Tutti Viva, viva
Teodato! Rintroni Tutta Italia di canti e di suoni; E
dei Rardi l'accento ispirato Dica al mondo i dettami del
fato! Teo. (in piedi sul trono) Su, mescete in colmi
nappi! La mia gioia ognun divida. Ogni volto qui
sorrida Del contento del suo re! Lau. Sva. e Coro Su,
libiamo e repente rintroni Tutta Italia di canti e di suoni ; E dei
Bardi l'accento ispirato Narri al mondo i dettami del fato! Sve.
(slanciandosi di mezzo alle turbe Or tutti ascoltatemi: Vo' bevere
anch'io! Le tazze spumeggiano, Esulta il cor mio. Qui dove è
sepolta La salma tradita, Unirò, i sacrileghi, La morte alla
vita!... Ama. Sciagurato! Teo. Quai detti! Che sento!
Tutti Vanne, fuggi: raffrena il tuo accento! Sve. Di cantici e
suoni (con impeto) Rintroni la reggia, Il vin che
rosseggia È sangue d'un re! Su, datemi un calice, Lo vuole il
destino; Al prence assassino (additando Teodato) Bevete con
me!... Teo. (alzandosi furibondo) Ah... è troppo! -
Guerrieri! Addotto in ceppi Ei venga, e tosto sia dannato a morte!
Ama. (gettandosi ai piedi di Teodato) Deh, pietade, pietà della sua
sorte! Ei delira, infelice. Guerrieri e Popolo A morte! A
morte! Teo. (con voce terribile respingendo Amalasunta) Per lui
preghi? Invan lo speri. Temi or tu lo sdegno mio. Tutti io leggo i
tuoi pensieri, E tuo sposo e re son io! (* guerrieri si slanciano
contro Sveno) Ama. Deh, fermate, o ciel!... Teo.
Popolo! Sve. indegno! Teo. L'ultima ora per gli empi
suonò! donna, io t'accuso! (ad Amalasunta) (al popolo)
Per sete di regno Del sangue del figlio costei si macchiò ! Ama. cielo,
e tu il soffri!? Lau., Sva. e Congiurati (tumultuando)
Discenda dal trono! Di cingere il serto più degna non è! Sve.
Ah, l'empio trionfa! Tutti Non speri perdono! Discenda dal
trono! Congiurati Teodato fia re! Ama. (strappandosi la
corona e calpestandola) M'uccidete! il patibolo è presto. Ecco il serto...
ai miei pie lo calpesto! Ma tu, vile che esulti, paventa! Già la
folgore piomba su te! Sve. Sì, m'uccidi ! Ma larva cruenta (a
Teodato) Me nei sogni, alle veglie vedrai! Sì, m'uccidi, ma ovunqne
ne andrai Ombra irata verronne con te! Teo., Lau., Sva., Congiurati
e Coro Traditori, tremate! Egual sorte Vi riserba al
supplizio, alla morte! Empii entrambi! Tremendo, funesto, Vi
colpisce lo sdegno del re! (Amalasunta e Sveno sono trascinati dai
guerrieri, mentre il popolo ed i Congiurati acclamano Teodato.)
Sala semidiroccata di un castello sul lago Trasimeno. In fondo a destra
una scalinata conduce alla terrazza di una vecchia torre da cui traspare
un lembo di cielo, solcato da neri nu- voloni. - A sinistra pure sul
fondo due porte le quali apren- dosi lasciano vedere il lago. - È notte
tempestosa. Una lam- pada rischiara debolmente la scena.
Amalasunta seduta, immersa in un cupo silenzio: alcune Damigelle le
stanno intorno. Dam. (parlando fra loro) Oh, come rugge
la tempesta!... Udite?... Con sinistro fragor, del lago i flutti
Solleva il vento sibilando, e l'etra La folgore rischiara... Ama.
Ahi... triste idea!... Dam. Favella seco stessa... Ah, la
ragione L'infelice smarriva, il dì fatale Che qui all' esiglio la
dannar. Ama. Lo sento... Me chiama il figlio... e, nel
lenzuol funebre Avvolto, un uomo gli è d'accanto..: oh il veggio!
Sveno... Sveno tu sei!... Che parli?... E puoi Maledirmi così?... Ah no,
non fìa!... Troppo il vivere è grave all'alma mia!... Dam. Geme e
soffre... l'atroce sventura [fra loro) Di sua mente il sereno
offuscò. Così buona, sì candida e pura Già tremendi dolori provò,
(le Dam. partono) Ama. (inginocchiandosi) Signor, che col
sangue hai redento Dei mortali feroci il destino, D'una misera
ascolta il lamento, Su lei volgi lo sguardo divino.
Figlio, amici, corona perdei!... Deh, mi togli, o Signor, questa
vita. Tu che padre pei miseri sei, Deh, perdona alla donna
tradita! (si sente un fragore d'armi che va sempre -più avvicinandosi)
SGENA II. Sveno seguito da alcuni guerrieri romani ed
Amalasuitta. SvE. (accorrendo ad Amalasunta) Ti riveggo... oh
gioia! Ama. (indietreggiando con terrore) Ognora La sua larva appar
così!... Sve. Di salvarti è tempo ancora... Per salvarti io
venni qui! Oh quante montagne stanotte ho varcato, Per aspri
sentieri, dei lampi al chiarori »Tra gli ermi dirupi la mano del
fato »I passi guidava del mio corridori Coll'oro corruppi gli
sgherri inumani; Dell'empio i disegni svelarono a me... Fra poco a
svenarti verranno gli insani... Qui corsi a salvarti o morire con
te. Ama. Deh, taci!... vaneggi... che parli di morte? Quest'
oggi serena ci arride la sorte. Sve. (con affetto e rapidamente)
Vieni... fuggiam! Propizia É la tempesta a noi. Vieni... i
miei fidi attendono, Salvare ancor ti puoi! In altre terre
profughi Scampo securo avremo. Là, ignoti al cielo e agli
uomini, Vivere ancor potremo! (dal fondo entra Gualtiero)
Ama. (sempre delirando e sorridente) Taci... che l'onda
aspetta... Azzurro è il ciel sereno... Sull'agile barchetta,
Vieni, ci culli il mar' Vedi, soave e placido Tramonta il
sole, o Sveno... Della mia vita il tramite Voglio così
troncar! Sve. (disperatamente) Infelice!... non m'ode... o
sventura! Ah, ritorna in te stessa!... Gua. (che in quel frattempo
avrà spiato dalla porta in capo allo scalone, accorrendo
rapidamente) V affretta! Già d'armati risuona il
fragor! Sve. (tentando trascinare Àmalasunta) Vieni... ah
vieni! Ama. (abbandonandosi sulla sedia) La lieve
barchetta... Sovra il mare ci culli... Gua. Oh terror!
Sve. A forza si tragga!... Alcuni Romani (accorrendo da una porta
laterale) È tardi! t'arresta! Già cinto è il castello. Sve.
La morte ci resta! Coro di Goti (interno) S'atterrin le
porte! Gua. Più speme non v'è! Sve. (sguainando la
spada) Guerrieri, a pugnare venite con me! {Sveno getta un
ultimo sguardo sopra Àmalasunta quasi assopita, e parte con Gualtiero ed
i guerrieri) Si ode il lontano cozzo delle armi ed il fragore della
pugna. Damigelle accorrendo atterrite. Dam. Regina, regina.
Deh, sorgi... ti desta; Non odi dell'armi la furia funesta?
Ama. Voi piangete?... sul mio ciglio Ora il pianto inaridì...
(t7 rumore si va sempre più avvicinando) Non sapete?... Aveva un
figlio... Era bello... eppur morì!.., (molti romani attraversano la
scena fuggendo nella mas- sima confusione e gridando) Guerrieri
romani Fuggite! I nemici già infranser le porte!... Fuggite!
v' attende terribile morte. (partono; le donne fuggono anch'esse; la
scena resta deserta) Ama. (sempre immobile e sorridente)
Dalla madre l'han diviso; Poca terra il ricoprì. E la
madre dell' ucciso Più non piange da quel dì!... (il fragore della
mischia è al colmo. Sveno mortalmente ferito si precipita sulla scena, e
va a cadere ai piedi di Amalasunta. — Sul limitare della porta in
fondo compare Teodato colla spada sguainata, seguito da Lausco e
Svarano.) Amalasunta, Sveno» Teodato, Lausco, Svarano. La
scena è rischiarata dai lampi. Ama. (nel vedere Sveno moribondo,
quasi destandosi da un sogno) Tu Sveno!... che miro?... Sve.
(con voce morente) Salvarti... voli' io... L'estremo sospiro... tu
accogli... del cor... Ama. (alzando le mani al cielo
disperatamente) morte, a che tardi? Teo. (con feroce ironia,
avanzandosi) Fia pago il desio!... La morte che chiedi, io
t'arreco! Sve. (tentando sollevarsi) Oh furor ! Teo. Col tuo
drudo ai danni miei Qui tessevi inganni ancora. In mia possa alfine
or sei... Di tua morte è giunta l'ora!... (sguainando il
pugnale) Questo ferro, ah tu noi sai, Il tuo figlio uccise un
dì! [Sveno con supremo sforzo a/ferrando la spada si solleva per
slanciarsi su Teodalo, ma fatti alcuni passi ricade al suolo e muore, -
La tempesta rumoreggia colla mas- sima violenza) TEp. {gettando il
suo pugnale ai piedi di Amalasunta) Or lo prendi. - A te il serbai,
Or che il fato si compi ! Ama. (afferrando il pugnale e sollevandosi in
tuono profetico e solenne) Godi!... ma ascoltami:
Vicina a morte, Io la tua sorte Predico a le! Ancora un
anno... Poscia al cospetto Del cielo - giudice T aspetto - o
Re! (si uccide e va a cadere presso il cadavere di Sveno.) Lau.,
Sva. Un anno! Teo. (tremante) I delitti han forse un
confine Che il piede dell'uomo varcare non può?... Guerrieri
Goti (prorompendo sulla scena con faci ed armi insanguinate) Del
sangue degli empi-rosseggian le sale; Già cadder svenali -dal nostro
pugnale, E il popol di schiavi - che Italia rinserra Fra i re della
terra - Teodato acclamò! Alberto Burgio. Keywords: dialettica ostrogota,
filosofia ostrogota, filosofia aria, filosofia occidentale – Grice: the east
and west --. “Those in a position to know” ostrogoto, longobardo, ario, ariano,
mistica, scuola di mistica, lingua, religione, l’italia longobarda, l’italia
ostrogota -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Burgio” – The Swimming-Pool Library.
Burtiglione.
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